La battaglia di Benevento: Storia del secolo XIII

By Francesco Domenico Guerrazzi

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Title: La battaglia di Benevento
       Storia del secolo XIII

Author: Francesco Domenico Guerrazzi

Release Date: August 10, 2006 [EBook #19024]

Language: Italian


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    LA

    BATTAGLIA DI BENEVENTO

    Storia del secolo XIII

    SCRITTA

    DA F.-D. GUERRAZZI.

    Edizione nuovamente rivista e corretta dall'Autore


                ....... Io son Manfredi
                Nepote di Gostanza imperatrice

                                    DANTE



    FIRENZE

    FELICE LE MONNIER


    1852


    L'Editore intende valersi dei diritti accordati dalle Leggi
    sulla Proprietà letteraria.






Non avrei tanto tardato a dar luogo nella _Biblioteca nazionale_ a
questa opera di F.-D. Guerrazzi, s'egli avesse avuto prima d'oggi
facoltà di cedermene il diritto. L'indugio però fu largamente
compensato dalle cure poste ora dall'Autore intorno a questa Opera
della sua giovinezza, che nell'angustie del carcere (com'egli stesso
dicevami) _rilesse con inesprimibile amore, volgendo omai il
trentanovesimo mese della sua prigionia_.

F. LE MONNIER.

_Giugno_ 1852.




AL BENEVOLO LETTORE.


Quando Omobuono Martini milanese riprodusse co' suoi tipi la
_Battaglia di Benevento_, a me piacque preporle un _Discorso_ intorno
alle ragioni della Letteratura moderna in Italia, e il Libro e il
Discorso dedicai alla egregia donna Signora Angelica Bartolomei nata
Palli. Comparendo adesso questa opera nuovamente alla luce per le
stampe di Felice Le Monnier senza Discorso e senza Dedica, parmi cosa
dicevole manifestarne la causa, onde uom non creda, che per
sopraggiunto pentimento io gli abbia voluti omettere. Per certo, come
la fama della illustre donna per la mia Dedica non aumentò, così
nemmeno, per sopprimerla ch'io mi facessi, punto diminuirebbe:
tuttavolta, tôrre quello che una volta si diè, e sia pure povera
cosa, non sembra onesto; ed a me poi recherebbe gravezza grandissima,
ove altri pensasse alterata verso Lei la mente, che un dì mi
persuase a renderle, giusta le forze mie, quel tributo di onore. Anzi,
poichè per questa guisa mi viene schiusa la via di favellare delle
Dediche preposte alle altre opere mie, mi par bene valermi del destro
per tenere proposito di tutte con brevissime parole.

A Niccolò Puccini io dedicava la _Veronica Cybo_ in pegno di antica
amicizia, ed ebbi sempre in pensiero intitolare al suo nome opera di
maggiore momento, ch'Egli lo meritava pur troppo; ma mi mancò il
tempo, e forse me ne sarebbe mancato anche lo ingegno. Di questo mio
difetto mi consola ampiamente conoscere come Egli abbia saputo, troppo
meglio che non saprebbero fare opere d'inchiostro, raccomandare la
propria fama ai posteri, dando, se non unico, radissimo esempio del
modo col quale hassi ad amare il Popolo di vero amore: avvegnadiochè
di due cose abbisogni principalmente il Popolo, di esempii buoni, e
d'insegnamento, che di parole ormai che cosa farsi non sa, tante ne
furono sprecate, quasi tutte invano; talune poi, peggio che invano. Di
questa verità udii sovente porgere testimonianza allo stesso
Puccini, il quale con quel suo vispo linguaggio soleva dire, che i
fatti erano maschi, e le parole femmine. Intitolando a lui il mio
Libro, io volli pertanto rendere omaggio al savio cultore della
carità verso il prossimo, ed allo amatore della Patria zelantissimo;
onde fra le amarezze, di cui non è penuria nel turpe carcere, acerba
mi percosse quella di non potere, come avrei voluto, dettare del morto
amico sincerissima qual Ei non temeva, e quale a me non sarebbe
riuscito concepire diversa, la Orazione funeraria. Ma poichè farlo
liberamente mi era conteso, mi parve degno tacere; e così, ne vado
persuaso, sembrerà anche allo spirito di Lui, se pure lo toccano le
miserie alle quali noi siamo, infelicissimi, rimasti.

E tanto più duolmene, in quanto che a veruno poteva per avventura
riuscire quanto a me di palesare al mondo il cuore ch'Egli ebbe, e
certo poi a nessuno più che a me ne correva obbligo religiosissimo.
Talora vagando insieme con Lui pei silenzi della notte nelle sue sale
solitarie, a parte a parte mi apriva gli affanni che contristarono la
sua infanzia, e le angoscie pungenti che gli derivarono dalla
infermità miserabile di cui pure la Natura non lo aveva
percosso.... e spettacolo veramente portentoso era e lacrimevole a un
punto contemplare come tanta copia di amaritudine non fosse bastata a
corrompere le acque dolcissime della sua esistenza, nè il rigido
alito della tristezza a spegnere la sua fede;--le lotte, le cadute, il
rilevarsi più gagliardo, e il proponimento osservato fino al
termine della vita di adottare per figliuolo il Popolo intero,
dacchè le gioie di marito e di padre Ei si vietava; contemplare
insomma quello affannarsi indefesso a mescere intera la sua grande
anima nell'anima del Popolo, onde ei se ne avvantaggiasse. E se ne
avvantaggerà, però che il Popolo abbia viscere di gratitudine, e
se mai avvenga che traviato o corrotto da consigli pessimi prorompa in
offese a danno dei suoi benefattori, presto si pente, e piange, e
adora mutate in oggetto di culto le vittime del suo furore:--altri non
si pente mai, nè piange.

La morte, che immatura colpì quel caro capo, se non prodotta, fu
per lo meno assai accelerata dalla sventura sopraggiuntagli per
cagione mia, e fu questa. Apprendendo quel gentile con inestimabile
fastidio, come gli Accusatori miei si fossero prevalsi a danno mio di
certe sue lettere a me dirette nella festosa giocondità del suo
spirito, non mise tempo fra mezzo a scendere giù dal Castello della
Cavinana dov'erasi ridotto a circondarsi di ombre e di memorie, per
cercare fra le sue carte le lettere che io con gravità di consiglio
gli era venuto rispondendo, e quante gliene capitarono a mano tante me
ne mandò: compito l'ufficio, nel tornarsene alla stanza del
Castello infelice, i cavalli aombrando su di una erta diruparono con
la carrozza a precipizio dentro un burrone: comecchè Ei restasse
semivivo sul colpo, pure si rilevò, porgendogli anche cotesto
infortunio argomento per manifestare lo amore suo verso il Popolo, il
quale con ogni maniera di pietoso aiuto lo sovvenne; ma da quel giorno
in poi Egli non ebbe più bene, e conobbe soprastargli il fato
supremo, nè punto gliene dolse, anzi desiderò essere morto
quattro anni avanti.... E adesso siamo pochi, chi per un verso, chi
per un altro, che come Lui non desideriamo; e dei superstiti, beati
quelli cui verrà concesso morire senza rimorso, e senza
vergogna....

L'antivigilia della sua morte, rinvenuto da lungo svenimento, quel
gentile spirito ricordò di me, e commise al Medico, che in nome di
Lui mi scrivesse, e mi offerisse quelle consolazioni le quali tornano
grate sempre, da chiunque si muovano; se poi da amico, gratissime.
Ricevuta appena la lettera, non mi trattenni un momento per rispondere
come la stupenda cortesia dell'atto persuadeva... e non pertanto,
ahimè! egli era tardi, imperciocchè io scrivessi ad un cadavere....

A Giovambatista Niccolini io dedicai il volume degli _Scritti varii_,
e nel dedicarglielo lo salutai la migliore coscienza d'Italia; e tale
fu, e tale si rimase, e si manterrà certamente, avvegnadio se da un
lato quotidiani esempii c'insegnino come uom non possa celebrarsi
incontaminato prima dei suoi funerali, dall'altro piaccia e giovi
credere quanto sentenziò Sofocle nel _Filottete_,--che i cuori
grandi non può fare a meno, che non sieno anche buoni;--e di vero,
se lo inclito concittadino nostro sia più grande o più buono tu
pendi incerto, comecchè grandissimo e buonissimo il mondo lo veneri
meritamente. Cotesto suo intelletto pacato, senza ira come senza
sdegno, dalla sapienza dei tempi ricavò la dottrina che tenace
professa, onde non è da dirsi quanto rimanesse sbigottito sì,
non iscosso, dal fragore di eventi che parvero prima, e poi
sperimentammo mostruosi: molti ancora dei suoi amici vecchi a Lui
oggimai declinante nella bene adoperata vita andavano susurrando
dentro le orecchie: «Tu hai sbagliato....» Allora l'austero
vecchio tacque crollando il capo, e tenne per fermo, e tenne bene, che
co' morti di Santa Croce non si sbaglia, e lasciò dire i vivi.

Amareggiato nella mente quando i casi parevano dargli torto, Egli si
sentì ferito nel cuore allorchè tornarono a dargli ragione;
però non pose giù sul pavimento l'animo invitto, e, richiamate
le ispirazioni antiche, diè opera a tale impresa (se la fama porge
il vero) che gli uomini vedranno maravigliando, conciossiachè
vivano, ma rari, intelletti nel mondo, che non conoscono tramonto; e
Niccolini è tra questi.

Non senza supremo consiglio la Provvidenza ordinò, che in questi
luoghi vivesse Vittorio Alfieri, ed ora viva Giovambatista Niccolini,
ponendo in certa guisa più gagliardi i puntelli là dove è
minacciata la mina maggiore; e se costoro non erano, chi sa fin dove
il Popolo nostro si sarebbe sprofondato nell'abiezione, che il tempo
vile appella civiltà!

Dura pertanto questa Dedica, e la ragione della Dedica; e con essa
dura il rammarico di avere presentato così povera offerta al genio
tutelare della dignità toscana.

Ad Angelica Bartolomei nata Palli intitolai la _Battaglia di
Benevento_. Nacque Ella in Livorno di greca stirpe, e giovanissima
ancora, tanto le vennero a grado le greche e le italiane lettere, che
potè leggere l'originale greco di Omero in quella età in cui,
troppo più che non vorremmo, fanciulle italiane appena appena sanno
compitare un libro nel paterno idioma. Di forti sensi dotata, la
giovanetta fu udita improvvisare tragedie, di cui talune vanno attorno
stampate, onde per giudicio universale Lei reputarono piuttosto
maravigliosa, che rara. Posato alquanto quel ribollimento dello
spirito, Ella ebbe in pregio più riposati studii, ed in questi
perseverò con tale costanza, che io stesso ve la vidi versare
quotidianamente per parecchie ore, sia in città, sia in campagna,
nè mai le uscì dal labbro detto, o dalla penna scritto, che non
promovesse il culto di quanto veneriamo quaggiù per decoro, per
gentile, per buono, e per bello.

Delle opere di Lei piacemi rammentarne sol due: l'_Alessio_, ch'ella
dettò per sovvenire alla Grecia pericolante nelle fiere fortune
della guerra turchesca, e il Libro non ha guari stampato a Torino per
sovvenire alle fortune pencolate della Italia, non senza speranza
però di possibile riscossa; conciossiachè come Patria Ella
amasse Italia e Grecia; questa, perchè vi nacquero i suoi; quella,
perchè a Lei diede vita: e certo Ella non poteva sortire dai cieli
Patrie che più fossero degne di amore, nè più sventurate.

Consiglio non solamente buono, ma caritatevole altresì io per me
non dubito dichiarare quello, che indusse la onoranda Signora a
comporre l'ultimo Libro intorno ai costumi delle donne; avvegnadio far
pressa che leggi mutinsi e stato, è nulla, se prima il costume non
mutisi; e grande cosa paia questa, che mentre tutti si affannano a
tutto mutare per di fuori, nessuno attenda a mutar niente in sè
stesso; e pure bisogna o cominciare di qui, o rassegnarci a restar
come stiamo.

Però, quantunque appaiano degnissimi di lode i meriti letterarii
della illustre donna, io mi trovai disposto a farle onore non tanto
per questi, quanto assai più per le doti morali, che la rendono
spettabile: di vero in Lei conobbi strette con fraterno abbracciamento
la pietà profonda pei parenti, la indole buona con tutti, voglie
pronte a soccorrere i travagliati dalla fortuna, e sensi virili, e
amor di Patria antico.

Non è mio istituto raccontare partitamente le virtù di Lei,
molto più che la sua modestia potrebbe richiamarsene; nondimeno
parlerò di alcune, perchè più che di lode a Lei tornano di
esempio o rimproccio alla viltà che ci affoga. Quando prima arrise
speranza di fati men tristi alle fortune afflitte della Patria, Ella
non distolse già il marito dal proposito di accorrere su le pianure
lombarde a combattere quella guerra, che allora senza eccezione da
tutti celebravasi santa, e più da quelli, che, valicato ormai il
confine ultimo della umana turpitudine, più la vilipendono adesso.
Infamia di secolo, che vince in abbiettezza il paragone di ogni più
vile metallo!--Certo a Giovampaolo Bartolomei non faceva punto
mestieri incitamenti: tuttavolta glieli diè la consorte, diversa in
questo dall'antica Andromaca e più animosa di lei; nè si
ristette qui, che tolto seco l'unico e dilettissimo figlio, lasciando
le morbidezze di vivere opulento, si condusse a perigliare su le orme
del marito, affinchè il figliuol suo si educasse di vista nei
paterni esempii ad operare fortemente per la Patria. E quando per
disposizione dei cieli, o come credo piuttosto per punta virtù
nostra, le italiane sorti di liete mutaronsi in lacrimevoli, la
egregia donna non disperò, bensì cheta cheta, senza iattanza,
condusse il figlio in Piemonte, e quivi lo arruolò semplice soldato
nello esercito che unico drappella adesso la insegna italiana.
Stanziata a Torino, Ella si mostra cortese di consiglio e di aiuto a
quanti giovani toscani, e non sono pochi, si avviarono colà pel
medesimo scopo; onde a molti di loro lontani dalle paterne case non
sembra avere lontana la madre, che lo affetto in Lei per espandersi
che faccia non menoma di calore e di luce. Quindi invece di scemare
crebbero le ragioni di usarle ogni debito ossequio, e se qui non
occorrono riprodotti il Discorso e la Dedica al suo nome, ciò
vuolsi attribuire al trovarsi già stampati nel volume degli
_Scritti varii_, ch'è parte della collezione della _Biblioteca
nazionale_ del Le Monnier; per la quale cosa parve superfluo
ristamparli, molto più, che la esperienza dimostra, come coloro che
acquistarono qualche volume separato di questa _Biblioteca_, di rado
avviene che non si studino completarne la collezione, invaghiti dalla
eleganza dei tipi, dalla correzione diligente, e dal pregio non grave.

Èmmi confessarlo amaro, tuttavia non negherò essere rimasta per
alcun tempo offuscata l'amicizia che mi stringeva con la onorevole
famiglia Bartolomei; la mutua stima non già, e di questo io mi ebbi
nobilissime prove, fra le quali ricorderò perpetuamente con animo
commosso quella di tutelare con paterna cura il sangue mio in tempi
calamitosi, e nell'ospizio cortese con tanto solenne diligenza
custodirlo, che, se fosse stato proprio, eguale avrebbe potuto essere,
difficilmente maggiore. Narra Plutarco nella vita di Demostene, come
trovandosi questo oratore costretto ad esulare di Patria, arrivato che
fu non molte miglia discosto dalla città, sentisse alcuni cittadini
dei suoi avversarii, che lo inseguivano, dai quali egli s'ingegnava a
tutta possa cansarsi; ma essi il chiamarono, e profferendogli i
sussidii che seco loro portavano, lo confortarono a starsi di buono
animo, e a sopportare pazientemente la presente disavventura. Per la
qual cosa Demostene si mise a piangere: «E come potrò» egli
disse «allontanarmi pazientemente da una città dove i miei
nemici sono tali, quali in un'altra si troverebbero appena gli
amici?» Onde io, che sento la fortuna apparecchiarsi a darmi colpo
uguale, nel presagio mi attristo, e vado meco stesso ripetendo le
parole di Demostene. Una gente crudele ha preso a versare vituperio su
la mia terra, e a torto. Dio la perdoni! Per ora a me non si addice
pronunziare che una sola sentenza, ed è questa, che se vivo non
potrò, morto almeno mi fie grato trovarvi la pace che desidero.
Ordinariamente cessano gli odii sopra la sacra soglia della morte, e
spesso convertonsi in fervidi amori ed in cocenti rimpianti: che anche
di me abbia a succedere questo io spero, ed in tale speranza mi
acquieto.

Lo _Assedio di Firenze_ dedicai a persona anonima, e così rimanga:
questo è un segreto fra un sepolcro e me, nè a me giova levare
il sigillo della morte.

La _Isabella Orsini_ dedicai a Gino Capponi.

La _Battaglia di Benevento_ incontrò fortuna oltre il merito: di
questa può dirsi, che fu quasi il Beniamino della critica, e fino
ad oggi essa ebbe l'onore di ben quattordici edizioni: però in
siffatta specie di trionfo letterario, nei tempi novissimi si levarono
parole acerbe, come anche in Roma accadeva in ogni trionfo. Non avendo
mai speso inchiostro a difendere il pregio degli scritti miei, non mi
prende vaghezza d'incominciare a farlo adesso: dello ingegno giudichi
ognuno come gli piace, dell'onor mio come deve. Tuttavolta se
m'interdico dir bene dei miei scritti, prego licenza per dirne alcun
poco di male. Rileggendo adesso la _Battaglia di Benevento_, parmi
libro ardentissimo e non di bella fiamma: vi traspira dentro certo
sgomento per nulla naturale alla età in cui lo dettai, che fu il
mio ventunesimo anno, e un alito di dubbio, che appena si perdona agli
uomini i quali sviati dalle decezioni si sentono sazii di vita: fra
tutti i tristi peccati, pessimo. Di ciò ne incolpo tre cose
principalmente: i molti guai, che me fino dai primi anni inasprirono,
e la pazienza corta a sopportarli; la condizione dei tempi, che parve
agli inesperti irrimediabile; e il culto che professavo e professo
ancora a Giorgio Byron. Ma se questo basta alla scusa, non giova alla
lode, conciossiachè l'uomo deva tenere in sè la sua tristezza, e
non ispanderla a sgomentare l'anima altrui; abbia virtù di
adoperare egli vivo la carità della quale io rinvenni cortese un
morto. Nel Cimiterio inglese dentro le mura di Livorno, occorre una
lapide dove si legge incisa la iscrizione che parla così. «Morii
di tristezza¹ sul fiore degli anni: passeggiero, leggi il mio nome,
e affrettati ad allontanarti, per sospetto che il vento ti soffii
addosso parte della mia polvere, e ti attacchi il male crudele che mi
condusse a morte.»

  ¹ Umor nero.

Rispetto alle condizioni dei tempi, la esperienza dimostra unicamente
vero il consiglio che dava Focione al suo giovane amico: «Non è
lecito, o Nicocle, disperare giammai della salute della Patria.» Ma
la esperienza, anche per coloro a cui frutta, è pianta tarda.
Rispetto al Byron poi, giova rammentare che nè sconforti, nè
dubbii, lo trattennero di dare vita e sostanze per la causa di Cristo
e della Libertà.

Certo, lo scopo della _Battaglia di Benevento_ fu quello, che altrove
annunciai, compreso nel detto dello Alfieri:

    «...... oh! ben provvide il cielo,
    Che uom per delitti mai lieto non sia.»

Tuttavolta di leggieri confesso, che il modo col quale apparisce
dettato il Libro, toglie non poco alla efficacia del fine proposto.

Questa edizione comparisce notabilmente emendata, e nello stile
corretta, non però mutata: avvegnachè per volgere degli anni o
in meglio o in peggio lo stile muti, e i rattoppi stridano con la
stoffa, come i ritocchi a secco sopra gli affreschi: nonostante
questo, per varianti, emende e correzioni, la edizione Le Monnier è
l'unica che io ritenga normale della _Battaglia di Benevento_.

Vivi felice.

_Dal Carcere delle Murate, questo dì 4 giugno 1852_.

                              F.-D. GUERRAZZI.





LA BATTAGLIA DI BENEVENTO.




CAPITOLO PRIMO.

FURORE.

                Gli occhi infiammati, e pregni
                Di lagrimevol riso;
                Roca sonar la voce, e le parole
                Con subiti sospiri;
                Stare inquïeto, andare
                Frettoloso, e voltarsi
                Spesso, quasi altri il chiami.
                Son certissimo segno
                Di un antico furore.
                                CANACE, _tragedia antica_


È mai vissuta creatura umana, che sollevando le pupille al cielo
d'Italia abbia negato esser questo il più puro sereno che mai
rallegrasse il sorriso di Dio?--È mai vissuta creatura umana, che
sollevando le pupille al cielo d'Italia allorchè il figlio
primogenito della Natura lo veste della pompa dei suoi raggi non abbia
sentito suscitarsi la mente pei grandi che non sono più, di cui il
nome è rimasto nell'anima come armonia di arpa che cessò di
esser tocca?--Quali braccia non si prostesero a quell'astro di vita,
mentre abbandonando alla notte il dominio del cielo, dai confini
dell'oceano lo saluta con gli ultimi raggi, e non implorarono che
rimanesse nella sua celeste dimora?--Ma s'egli partì con la sera
tornò col mattino, e vide i secoli dileguarsi nella eternità, le
generazioni incalzarsi nella tomba, e la vicenda infinita delle
virtù e dei delitti. Breve fu la sua luce sopra l'onore d'Italia;
lunga sul dolore, e su l'onta. Ahimè! io non avrei creduto giammai
che i popoli potessero morire della morte degl'individui.--E su quale
occhio non ispunta la lacrima, allorchè la mesta luco della luna e
delle stelle sogguarda dall'alto i campi silenziosi della terra? Voce
di celeste armonia suona dal rotearsi delle stelle pel cielo, voce di
sempiterno canto: e quantunque per troppa distanza non percuota
l'orecchio del figlio della terra, pure gl'ispira un senso secreto,
una invincibile pietà, che destandogli nell'anima le rimembranze
tristamente soavi lo sforza al pianto.¹ Bello sei, o cielo
d'Italia, sia che la notte od il giorno ti allegri, e veramente opera
divina. Quando la Italia sedeva regina del mondo, tu l'eri convenevole
padiglione; ma ora..... i valorosi sono morti, i monumenti dispersi,
la fama stessa dileguata..... e perchè, o cielo, a tua posta non
muti?--Il manto funerale della bellezza non è oscuro; la gente lo
sceglie di lieto colore, l'orna co' fiori della gioia, e tenta
ingannarsi sopra una vita che non è più: onde i sospiri, e gli
addii, che le si fanno al suo discendere nella fossa, non sono come a
persona morta, ma come a tale che deve lungo tempo starsi lontana da
noi. L'eterna sapienza che governa il creato concesse questo bel cielo
alla Italia, onde le fosse splendido testimonio nei suoi giorni di
gloria, e conforto in quelli più lunghi della sventura. Egli solo
è rimasto, perchè l'ira degli uomini non ce lo ha potuto
rapire....

  ¹ Questa è opinione di Pitagora

E la terra!--Ogni zolla contiene la cenere del cuore di un eroe. I
nostri passi sono su la polvere dei grandi... i passi di noi più
meritevoli di andare sepolti sotto la polvere! Solo lo straniero
conosce le nostre storie, e pieno di reverenza teme ad ogni orma che
muove si sollevi dalla terra una voce che gridi: _codardo, perchè
calpesti un valoroso_? Va pur franco, straniero, chè ogni avanzo di
vita sia bene spento sul limitare della morte, nè questi tramonti
conoscano crepuscolo; nè dai sepolcri esca grido di trapassato,
dove non ve lo ponga il valore, o la pietà dei viventi. Agli
avviliti le tombe offrono la stanza del cadavere sformato, piuttosto
che l'altare dei magnanimi sensi; la mente trascorre al lezzo,
piuttostochè alla gloria: e noi siamo da gran tempo tali, che non
osiamo popolare gli avelli co' sublimi fantasmi della grandezza. A che
mai sorgerebbero le forme venerate dei padri? Forse a vedere di qual
condanna vada fulminata la loro schiatta infelice? Forse a conoscere
che non vive cuore italiano che palpiti per le glorie italiane?
Risparmiatevi, o padri, questo amaro cordoglio: risparmiateci, o
padri, la rampogna delle vostre sembianze: la morte stia convenevole
spazio tra noi.--Possano questi secoli non essere rammentati nella
Storia! Possano i posteri lasciarci il retaggio che solo aneliamo....
l'oblio!

Per cui sono quei frutti? La terra non cura saperlo: ella li presenta
liberale a chiunque stende la mano per raccoglierli. Una spada di
fuoco fu posta a guardia dell'Eden, e i padri peccatori ed i figli
innocenti ne perderono la speranza della vista.... Se in voi non rugge
ardimento di battaglia.... maledetto colui che manderà il gemito
della viltà.... abbiatevi almeno quello che può avere di grande
il vituperio.... soffrite muti.

Io racconto una storia di delitti, delitti atroci e crudeli, quali
uomini scellerati, che hanno in odio il Creatore e la creatura,
possono commettere: quali appena si stimerebbe che vi fosse orecchio
da intenderli, non che anima da divisarli, e braccio da eseguirli.
Nè alcuno mi accusi ch'io mi proponga atterrire anzichè
ammaestrare la gente. Lieve cosa è il detto, ma la parola della
sapienza non vola sovente dal labbro degli uomini. Mediti prima chi
tale avvisa accusarmi su le vicende dei secoli; mediti sopra il cuore
degli uomini, e veda la storia dei generosi esser fatta pei generosi.
Di niun sorriso va lieto l'aspetto della virtù; suo solo compenso
la gloria:--altissimo e primo veramente tra i conforti concessi alla
decaduta schiatta di Adamo! ma altissimo e primo pei cuori gentili che
sanno amarla, vivere per essa, e per essa morire. Laddove il vizio
abbia inaridito le menti, e le anime languiscano appassite dalla
costumanza del male, che sono essi mai i fantasmi della gloria? Nomi
di scherno, soggetti di riso. Più veemente forza si vuole che non
è la voce della virtù. Lo aspetto delle rovine del misfatto
può commuovere quegli spiriti, o nessuna altra cosa lo può. La
sola voce tremenda dell'Arcangelo spezza le lapide, e suscita i
trapassati dal letargo della morte....

È l'ultimo grado del crepuscolo; un raggio mestissimo si diffonde
lungo i lidi fiorenti di Napoli. Le vette dei monti Tifata, Vesuvio, e
degli Appennini che lo ricingono da un lato, ardono di luce vermiglia,
che a mano a mano degradando nelle montagne più lontane si smarrisce
nel buio della notte sorvegnente, come il tempo si confonde nella
eternità. Soave spira il venticello della sera, che ora sommuove a
fior di ala la marina, ora lambisce l'alito odoroso del melarancio,
dell'aloè, e di ogni più doviziosa pianta dell'orientale
vegetazione, che allegra le coste di Posilipo e di Mergellina, e quasi
per vaghezza ne circonda il passeggero, e lo sospinge al cielo come un
tributo che offre la terra al suo Creatore. Dolce suona il canto della
sera col quale il vassallo si annunzia da lontano alla sua famiglia.
Dolce s'inalza l'inno del saluto che il pescatore volge alla luna
sorgente dai monti opposti, mentre co' remi percuote a misura le onde
del golfo di Napoli. Bella è la tua terra, o infelice contrada,
bella quanto il paradiso terrestre nei primi giorni della creazione!

Ma sotto una volta del castello capuano, splendida dimora del Re
Manfredi, che mena ai giardini reali, un giovane insensibile a tanta
magnificenza della Natura traccia sopra la sabbia disordinati segni
con la punta della spada. Bello e maestoso si presenta allo aspetto: i
biondissimi capelli divisi in mezzo alla fronte gli pendono giù per
le spalle; il volto per ogni parte leggiadro; ma i suoi grandi occhi
azzurri spesso si avvolgono ferocemente sotto le ciglia abbassate,
spesso si fissano immobili, e in diversa direzione, per la
intensità del pensiero, come se osservassero alcuna cosa al di
là di questo mondo. Sopra la sua fronte sta un segno che non vide
mai la fronte della giovinezza. Qual cosa può avere impresso questo
marchio inamabile degli anni su la testa di colui che ne vide
trascorrere venti soltanto? L'amarezza dell'anima numera gli anni nel
volto del travagliato, e quel segno sta sopra il suo capo come la
corona del dolore.

Sciagurato! Non carezza materna acquietò mai il suo pianto; non
bacio di padre lo rallegrò nei giorni della infanzia; egli non
conobbe padre, nè madre. Sta nella vita come pianta nel
deserto.--Ricerca la sua memoria, e trova in quella la solitudine
dell'intelletto: solo lontano lontano alcune rimembranze di sangue....
ma confuse, ma oscure per modo, che invano si sforza richiamarle
più specialmente al pensiero. La sua anima arde quanto il sole
sotto il quale egli nacque; la sua nascita lo affanna: un senso
segreto di grandezza lo travaglia; anela una cosa che neppure egli
conosce; vorrebbe con uno sguardo penetrare nei misteri della
creazione, vorrebbe con un moto dominare i popoli della terra,
vorrebbe essere un Dio con gli attributi dell'uomo, o un uomo con la
scienza e la folgore di Dio. Ma l'alta fantasia, considerando il suo
misero stato, sviene nello ardore della immagine; il suo cuore allora
geme straziato dall'angoscia, sente tutto il tormento del delirio
dell'ambizione. Forse questo fuoco avrebbe da gran tempo consumato la
sorgente della vita, dove una forma di celesti sembianze non gli
sorgesse nell'anima, e ne acquietasse alcuna volta le tempeste. Certo,
quello è un amore disperato; e ben degno di lui. Il solo pensiero,
se gli uomini potessero conoscere il pensiero, sarebbe punito. Uno
scudiero osa sollevare lo sguardo alla figlia de' Re? Quali sono le
sue speranze? Confida che la vergine del sangue svevo piegherà il
cuore fino a lui? Conosce i pericoli, pensa ai tormenti che sono per
occorrergli? Egli ama, e disperatamente ama.

Ma i suoi sguardi da lungo tempo insensibili a quanto di più
solenne gli profferiva la Natura, si affissano a un tratto su la
magione del figlio di Federigo. Il castello capuano sembrava veramente
dimora da Re: ma se per la mole appariva quale la creatura memore
esser parte del Creatore può immaginare, per la sua fortezza era
pur quale il tiranno nell'agonia della paura può eleggere:
conciossiachè Guglielmo _il Tristo_ della stirpe normanna a difesa
della propria vita lo fabbricasse. Mura grossissime, frequenti
torrioni, cavalieri, baloardi, e tutti gli accorgimenti che l'arte nel
dodicesimo secolo consigliava, erano stati adoperati per sicurare il
tiranno tremante: ma invano!--dove la vendetta degli uomini manchi,
veglia il giudizio di Dio: egli moriva, e non di ferro: ma la sua
stirpe fu spenta; il trono fondato dal valore di Roberto Guiscardo, e
dal Conte Ruggiero, cadde sotto la eterna giustizia, che i delitti di
Guglielmo I fece scontare allo sventurato Guglielmo figlio di Tancredi
Conte di Lecce.

Federigo II volle rendere più lieto il castello, allorchè,
condusse, a Napoli Niccola Pisano, il più grande artefice del suo
secolo, e gli commise la cura di adornarlo. Ma il genio dell'architetto
piegò suo malgrado alla vista dello edifizio che migliorava, e i
suoi trovati non fecero che aumentarne l'orrore.--Così l'armonico
Trovatore se nel silenzio della notte si avvisa cantare la canzone
giocosa, gli sfuggono suo malgrado mestissime note, e finisce con la
ballata del dolore.

La luna, che tutta lieta di trascorrere i cieli, non cura se in terra
sia maladetto o benedetto il suo raggio, e lo diffonde sul volto
dell'amante che accelera col desio l'ora del colloquio di amore, e sul
volto del sicario che si slancia dalla tenebra, stende il colpo, e
ritorna nella tenebra, manda la sua luce sul castello capuano. Le
parti illuminate di questo edifizio sembrano anche più grandi pel
contrasto delle ombre in cui le altre parti sono sepolte. Alcuni
torrioni paiono non aver fondamento sulla terra, e starsi così
sospesi per l'aria; altri mezzo rovinati; e presentano alla fantasia
uno di quei castelli che i romanzieri descrivono nelle loro leggende:
dove gli spiriti maligni si ragunano a celebrare il nefando _sabbato_
e a inebbriarsi di sangue. La calda immaginazione dell'osservatore
può vedere avvolgersi per quelle rovine lo spettro di Guglielmo _il
Malvagio_ condannato a visitare la casa da lui eretta, abitata da
stirpe non sua; e può sentire il singulto dell'ira, o della
coscienza, ch'ei manda nella disperazione dell'anima.

Tale era lo edifizio che il giovane considerava. Poichè l'ebbe con
lentissimi sguardi e più volte misurato, scosse la testa, e
parlò: «L'opera della tirannide è grande quanto l'opera della
generosità.... La paura ha dato il suo sublime, come lo ha dato la
pompa.... il buono e il tristo produssero parimente le maraviglie del
volgo, che sono la compassione della debolezza umana per coloro che
han cuore.--Santa Maria! Che cosa egli è mai questo castello? Che i
tesori che trovò Manfredi in Luceria? Che la potenza di Federigo
Barbarossa, e di Federigo II? Essi non poterono conquistare la Italia:
quegli fu arrestato da mura di creta e di paglia; questi disfatto da
gente, dalla quale si allontanava per non vedere la morte.¹ E poi
che sarebbe l'impero d'Italia, quello del mondo? Potresti essere il
più grande di tutti i mortali, ma pur sempre mortale; il più
forte tra gli uomini:--ma chi vanta nel braccio la forza del turbine?
Il più sapiente dei figli della terra:--ma chi ha lo intelleto dei
figli del cielo? Pure l'anima mia potrebbe questo sentimento che mi
travaglia la vita obliare o almeno lenire, dove potessi posare la
testa sul seno.... di cui? Non l'ho io nominata? Non sono i passi di
uomo questi che si allontanano?--No... tutto è tranquillo. Fino
tremare di nominarla! O capuano! io sarei contento delle tue mura; o
soglio del mio Re, comunque angusto, mi giungeresti ben grato, dove io
mi vi potessi sedere con quella che ho fatto donna dei miei pensieri?
Io ho amato sempre il trono perchè mi sento nato per quello: ora
poi questo desiderio è diventato furore, perchè in altro modo
che sul trono non si può vivere con lei.... nè, se si potesse,
il vorrei.... Ma io sono un oscuro.... nudrito per pietà in casa
non mia, costretto a servire con mente da dominare.... non conosco
padre nè madre.... e devo tremare di conoscerli, perchè forse il
mio nascimento va macchiato con nota d'infamia.»

  ¹ Il Barbarossa nel 1175 fu costretto a levare l'assedio
    d'Alessandria detta _della Paglia_ per la ragione
    esposta. L'esercito di Federigo fu disfatto nel 1248 dai
    Parmigiani, mentre egli sicuro del conquisto di Parma si
    allontanava dal campo per sollazzarsi alla caccia del
    falcone.--Vedremo in seguito questi fatti.

E qui tacque: un pallore mortale gli si diffuse pel volto: stette
immobile con intentissimi sguardi, e con la bocca mezza aperta, come
il tormentato dalla sete; giù per le guancie gli trascorrevano
grosse stille di sudore che gli scaturivano frequenti dalla fronte,
quasi spremute dal cervello compresso dall'angustia. Dopo alcun poco
il sangue tornò impetuoso per modo a infiammargli la faccia, che le
vene inturgidite e i muscoli dilatati pareano doversi spezzare alla
violenza del moto: allora tutto il suo corpo si agitò convulso, e
si pose ambe le mani sul capo quasi per impedire che si rompesse.
Stato tanto miserabile non poteva prolungarsi più oltre, ed egli
cadde gemendo sopra un sedile di pietra.

«Oh questo non può durare,» dopo lunga ora riprendeva in fievole
accento «non può durare, nè durerà.--Poichè la morte è certa,
proviamo morire con ardimento, e sveliamoci.--Con ardimento! Ma questo
potrebbe fruttare l'onta del rifiuto; e mentre stimava morire da
generoso, sarò sprezzato dall'orgoglio, e forse vilipeso come
stolto. Santa Maria! Che vita è questa dove la pratica di una
virtù partorisce il frutto del delitto, e la pratica del delitto la
mercede della virtù? Chi è il sapiente che ne ammaestra a
distinguere l'uno dall'altra? Chi quegli che ne insegna in che cosa
consistano? Il delitto di questo secolo stimarono e stimeranno il
delitto dei secoli futuri? Virtù che mi nuoce è sempre virtù?
Devo praticarla a mio danno? Dove ha scritto la natura le sue
leggi?--Nel cuore? Io sovrappongo la mano al cuore, ma egli palpita al
sussulto delle passioni.--Che serve meditare su la ragione della
necessità? Meglio vale subirla con le mani incrociate sul petto, e
starci a vedere che cosa ne viene. Così farò.

--Dunque sono io tanto sventurato? La mia memoria non può ricordare
nulla che giovi a blandire con le illusioni un'anima lacerata da tante
angoscie reali?--Oh! bello lusinga il regno delle immagini, ma il
loro fascino è come quello del serpente; questo finì col
peccato, quelle finiscono coll'inaridire la mente che a loro si
abbandona.--Pure il giorno che il suo genitore assunse la corona de'
Re, ella lasciava cadere ai miei piedi la _grimpa_ che le cingeva la
persona: io la raccolsi.... e meco trionfò nel torneo.... ed ora mi
posa sul cuore, e sarà la compagna della mia vita, e mi coprirà
la faccia nella fossa.--E il giorno del torneo? O sola luce dei miei
anni passati! Oscuro donzello, ricoperto di maglia, coi colori della
figlia di Manfredi, mi confusi tra i superbi Baroni e capitani famosi,
ed osai giovinetto giostrare di lancia co' maestri dell'arte, con
cavalieri incliti per mille prove, e vinsi. Rimaneva il prode Conte
Giordano di Angalone: ci affrontammo; ei cadde rovesciato sopra la
polvere. Egli ne dette la colpa alla cinghia della sella, e sarà,
ma cadde.--Io mi nascosi, egli ebbe il premio della giostra,
dacchè il vero vincitore non si presentava; nè io lo invidiai,
chè mi parea avere più alto premio conseguito che il suo non
era,--l'amore della figlia del Re.--E il giorno veniente? Oh! non
dimenticherò mai il giorno dodicesimo di agosto. Io le guidai il
bianco palafreno:--ella in salendo pose la sua nella mia mano.... e
tremò.... ed io pure tremai, ed arrossii.--Ma ed ella arrossì?
Io non osai sollevare gli sguardi. Oh! quella fu gioia, e.... forse
fallace. Chi sa che il velo non cadesse per caso? Chi mi assicura che
il suo tremore non venisse da pericolo di caduta? o piuttosto da
sdegno del mio tanto ardimento? Il sangue svevo ribolle superbo: ma se
orgoglio facesse lignaggio, io pure mi sentirei sangue di Federigo.--E
quando ella inchinandosi dalla sua altezza m'interrogasse: chi
sei?--Chi sono?--Uno ignoto a me stesso, e ad altrui; un respinto per
la colpa materna dal seno dello stesso genitore, un monumento vivente
del peccato, una onta a me, una vergogna ai miei. O chiunque voi siate
che mi donaste una vita che non avrei accettata giammai, dove si
potesse rifiutare di nascere, grandi devono essere stati i vostri
peccati, perchè atroce è la pena che ne porto!»

Così parlava il travagliato, alternando la vicenda del dolore e
della gioia, allorchè la natura lo sovvenne con la stanchezza, e il
bisogno del riposo lo costrinse a sedersi. Le sue labbra presero ad
articolare le note di una mesta ballata, e la mente seguace
dell'armonia si deliziò nei concenti divini, nati e custoditi sotto
il cielo d'Italia.--All'anima confortata si affacciò quindi il
suono delle imprese guerresche: egli lo cominciava leggero leggero: a
mano a mano cresceva; finalmente si sollevò al punto, in che si ode
quando il nemico si riversa sull'inimico. Allora trascorse nei giorni
della gloria, sentì l'alito della fama, sorse, tolse la spada, e
nobilmente avvolto nel mantello camminò nell'orgoglio della mente
sollevata fino al pensiero dell'Onnipotente Distruggitore.




CAPITOLO SECONDO

AMORE.

                                 Pargoletta ella era
                Tutta sorriso, tutta gioia: ai fiori
                Parea in mezzo volar nel più felice
                Sentiero della vita.--Ecco ad un tratto
                Di tanta gioia estinto il raggio, estinto
                Al primo assalto del dolor.
                               FRANCESCA DA RIMINI, _tragedia_.


Perchè una tomba prodigio di marmi peregrini e dell'arte copre le
ceneri di tale, che non si conosce essere stato vivo, tranne pel
monumento della sua morte?--Perchè forme celesti, dilicati
contorni, leggerezza di leggiadrissimo corpo, vestono l'anima della
femmina? Perchè ci dierono un cuore che balza a quelle sembianze,
una fibra che si raccapriccia a questo bellissimo spettacolo della
creazione? Nessuno animale ha potuto contribuire a formare il corpo
della femmina. I colori dell'uccello di paradiso, della farfalla di
Casimira, non possono paragonarsi ai divini che imporporano le guancie
della bellezza. La gazzella non ha l'occhio della donna: le pietre
preziose non brillano di quella luce; e i poeti, per assomigliarli a
qualche cosa di convenevole, hanno dovuto ricorrere al firmamento. Ma
nessun rettile, quantunque schifoso, fu eccettuato dal somministrare
parte nella composizione dell'anima che agita i moti delle sue membra;
nessuno, meno lo scorpione, che circondato dal fuoco volge in sè
stesso il dardo velenoso, e generosamente si uccide. Tu sei bella, o
creatura, ma la tua bellezza porta una impronta tenebrosa; tu nasci
figlia di un sublime pensiero, ma come Lucifero decadesti; i tuoi
raggi come quelli del sole che tramonta feriscono, non consolano la
vista; la tua bellezza è il nostro tormento. Ma andiamo affannosi
in traccia di quella innocenza che Eva lasciava nell'Eden, e questo
è il più fiero travaglio del cuor nostro. Ma il tuo cuore
ugualmente fu condannato a spezzarsi per la nostra incostanza. Forse
tu dovresti essere maladetta, perchè la prima a peccare; ma il
serpente abita nelle tue fibre dilicate: la curiosità genera la
sapienza, in te partoriva la colpa.--Tu schiudesti la via dei delitti,
noi vi ti abbiamo superato.... Oh, figli della polvere, non vi
maladite, ma abbiate misericordia tra voi!

Nelle sale del castello capuano vive una creatura divina nelle forme,
divina nell'anima. Ella teneva la faccia adagiata sopra un origliere,
e gli sguardi dimessi: una bellezza maestosa compariva per tutto il
suo aspetto. Molte damigelle le stavano attorno, e tacite tacite
facevano voto che sollevasse gli sguardi, i quali, sollevati, non
potevano sostenere; perchè siffatta luce ne usciva, che svelava
un'anima, la quale non si sarebbe mai creduto avessero potuto reggere
quelle sue membra dilicate. Ella era leggiadra quanto la madre degli
uomini, che il divino Ghiberti effigiava sorgente dalla carne di
Adamo, e sorretta dagli Angioli a riporre in pegno di amore la sua
mano nella mano di Dio. Certo ella non pareva figlia di nozze mortali:
forse i connubii dei figli di Dio, allorchè sentirono amore per le
belle figlio di Caino, l'avrebbero potuta generare, ma lo spirito
dell'Eterno non benedisse quei maritaggi, perchè esse nacquero nel
peccato, onde ne vennero i Giganti e Nembrod il feroce cacciatore al
cospetto di Dio.

Invano cercheremmo voci nelle favelle della terra che valessero a
ritrarre quella immagine di beltà: e sarebbe più facile
suscitare la luce dalle tenebre, e dare anima ai figli d'Italia......

Dopo lungo tempo si levò dal suo seggio, e si fece verso il
balcone: era il suo passo leggero, come vento che folleggi tra le
rose, o come incenso che s'innalzi alla Divinità: l'onda delle
vesti ventilando spargeva odorosa fragranza: non mesta, nè lieta;
ma nella calma solenne della considerazione, allorchè il lampo del
pensiero balena su gli avvenimenti dei secoli, allorchè l'orecchio
del divino intelletto intende l'arcana armonia del creato, e il suo
occhio finge nel cielo i figli della sublime immaginazione.

Fattasi al balcone, soprastette a considerare il firmamento, e
sospirò; quindi rivolta alla damigella che le stava al fianco fece
suonare una voce, quale certamente si diffonde quella di _Eloa_,
l'angiolo che canta lo inno dei cieli innanzi al trono di Jehova.¹

  ¹ Klopstock, _Messiade_

«Vedi, Gismonda, come esulta il firmamento! Anche quando la
religione non ce lo avesse insegnato, la mente nostra lo terrebbe per
la dimora di Dio.--Oh! piacesse a lui chiamarmi presto alla sua
pace!»

«Nobile Yole, il Signore è sapiente in ogni opera sua; egli solo
conosce il bene e il male; noi dobbiamo aspettare adorando i decreti
della sua giustizia.»

«Guardimi il cielo dal mormorare contro il mio Creatore, ma i voti
dell'afflitta non possono giungere disgrati innanzi al suo trono.»

«Mia dolce donna, sta a voi innalzare a Dio i voti degli afflitti?
A voi figlia del Re Manfredi, sorella della Regina di Arragona, nepote
dei Federighi? A voi sangue della casa di Svevia, posta dalla fortuna
nel più alto grado che mente mortale possa desiderare? La vostra
vita si sprolunga innanzi a voi come sentiero di fiori; i vostri
giorni numera il piacere: voi desio di ogni prode cavaliere; voi
sospiro di ogni Trovatore, voi amore di tutti, non avete a temere le
sciagure che travagliano la più parte della schiatta di Adamo.»

«Pure io sono tale che ormai più nulla mi resta a temere
fuorchè l'ira di Dio.»

«E l'ira sua non verrà; ch'ei tempra i rigori del freddo
all'agnello tosato, e versa il balsamo su le piaghe del doloroso.»

«Gismonda, la nostra casa venne respinta dalla comunione dei fedeli
fin dal Concilio di Lione, dove, malgrado la difesa di Taddeo da
Suessa, Innocenzo scomunicò Federigo. Certo, noi non patiamo
difetto degli ufficii della Chiesa, ma Papa Clemente ha tolto appunto
motivo da questo per confermare l'anatema contro di noi. Egli ha
sciolto i vassalli dal sacramento di fedeltà, e senza questo già
troppi ne circondavano traditori: egli cerca pel mondo un nemico del
sangue nostro, e senza questo erano assai coloro che anelano un trono.
La fortuna non ha concesso che Riccardo di Cornovaglia accettasse la
nostra corona offertagli da tale che non sa acquistarla per sè e la
dona altrui; nè che Edmondo d'Inghilterra abbia potuto muovere le
armi contro di noi; ma al nemico vigilante di rado il tempo non porge
la occasione, e Clemente è tale uomo da non lasciarla fuggire.»

«Figlia di Manfredi, il nemico non ha mai vedute le spalle del
vostro genitore: se non avremo la pace, avremo la vittoria.»

«_Amen_, Gismonda, _amen_. Ma vedi quella cometa lassù
nell'orizzonte, che sorgendo da oriente percorre il cielo verso
occidente, e si ferma sopra di noi?¹ Hai tu inteso quello che ne
dicono gli astrologhi? Ella è certo segno di morte di Re, e di
tramutamento d'Imperii. Io stimo non vivere persona al mondo che
sappia sostenere la sciagura senza gemere, quanto la figlia di
Manfredi:--ma la sciagura, comunque tu la sopporti, è pur sempre
sciagura.»

  ¹ Questa cometa apparve nell'agosto del 1264 e si fece vedere fino a
    novembre. Al momento in cui poniamo questa scena ella era
    scomparsa, perchè cessò di farsi vedere la notte appunto
    nella quale morì Urbano IV; ma farla rimanere sull'orizzonte
    qualche mese di più non è cosa che meriti osservazione.

«Nè io vo' porre in dubbio la influenza delle stelle: ma per gli
effetti comparsi fino ad ora sopra la terra, parmi che ne possiate
andare piuttosto lieta che mesta. La cometa apparve di agosto, e
Urbano IV moriva di novembre.»

«Ma la cometa non per anche scomparve. Credilo, Gismonda; un gran
Re deve morire, e Carlo d'Angiò è Conte di Provenza soltanto.»

«Ed egli sarà Re prima di entrare nel Regno. La sua strada non
dove essere per Roma? Quivi riceverà certamente la corona, e la
benedizione; e possa questa giovare alla sua anima, come quella non
fregerà mai la sua fronte.»

«Oh!--se i Baroni del Regno fossero fedeli come sono potenti, la
corona di Manfredi non circonderebbe mai le tempie di Carlo:--ma qui i
traditori vivono infiniti, e più che di altrove sembrano pianta
naturale a questa terra, e a questo cielo. Molti i nemici di mio
padre, che egli nel percorrere la via del trono vinse, e perdonò:
ma il perdono non sana la piaga dell'orgoglio ferito, nè toglie
l'odio, perocchè non v'abbia cosa al mondo che tanto avvilisca
quanto il perdono del nemico; e questi al primo grido di ribellione
vedrai riparare allo stendardo dei gigli, e combattere con quel furore
che solo possono dare i rimorsi del tradimento. Pure non questi soli
si scuopriranno nemici: vi sono uomini pei quali l'altrui felicità
è una spina: sempre tristi per la invidia che li tribola, guai se
osi manifestare il sorriso della tua gioia innanzi il cospetto loro!
essi ti notano, t'inseguono, nè ti lasciano mai, finchè con
molti anni di ambascia tu non abbia scontata la gioia di un
momento.--Il pianto è la loro armonia, l'urlo della disperazione il
diletto; e il cuor loro non sussulta tranne alla vista delle rovine. E
gli amici?... Essi son molti nel tempo felice: nè in ciò io
accuso gli uomini, no; la natura ha posto nel nostro cuore una voce
che grida: _sii felice solo_: nè io già gli maledico come
spietati; poichè sia bello salvare l'amico, ma dove non tel
concedano i casi tu non devi amare l'amico più di quello che ami te
stesso. E tu, mia diletta Gismonda, che meco fosti nutrita e
cresciuta, e che un vincolo di scambievole amore unisce meco in
fraterna corrispondenza, tu stessa a cui adesso sembrano nulla il
disagio, il vituperio, e la morte, rispetto al dovermi abbandonare per
sempre, tu pure un giorno mi dimenticherai.»

Gismonda vinta dal dolore non rispose; chinò la testa, e grosse
lacrime le ricorsero agli occhi: gli socchiuse l'affettuosa per
nasconderle alla vista di Yole, ma la passione nol sofferse: tornò
a sollevarli verso la sua donna; e non vedendola commossa, la piena
del cuore gittato ogni freno proruppe. Un singhiozzare frequente
dimostrava quanto grande fosse stata la offesa per la gentil
damigella.

Yole la sogguardò, e soggiunse: «Ella è così.... l'uomo
s'offende al detto di quello che deve praticare col fatto. Un senso
arcano e generoso, cui non sappiamo da qual parte ci venga, ne
ammaestra che partecipare lo infortunio con l'amico è bene, ma la
natura nol consente, chè non ne ha conformati in guisa, che il
nostro più fiero nemico sia il patimento, e più possano in noi
gli strazii dell'angoscia, che non le lusinghe dell'amore.... Ella
è così; nè io voglio accusartene, o mia dolce Gismonda; il
fallo proviene da più alta cosa che non sei tu. Chi è che osi
contrastare al grido della natura? Noi non siamo da tanto, nè io
vorrei da te più di quello che puoi darmi. Gismonda, mia cara
Gismonda! se alcuna cosa ti ho mai fatto di grato; se la mia memoria
sarà tale che possa dilettare la tua mente, io ti prego, che quando
in questo stesso castello la voce del nuovo signore ti chiamerà a
stare appresso alla sua consorte, od alla figlia (poichè tu sei il
più nobil sangue del Regno), se mai avvenga che acciecate dalla
vittoria rigettino le preghiere degl'infelici, e dall'altezza in che
le pose la fortuna schivino chinarsi al gemito che si solleva dalla
polvere, rammenti a costoro ch'esse pure sono di polvere.--mutabile
cosa essere la fortuna:--e poi soggiungi: era il sangue di Svevia
quanto quello di Francia famoso: era la figlia di Manfredi anch'essa
illustre, e pure il Trovatore e il Menestrello non avevano canzoni che
tanto la dilettassero, quanto le parole interrotte e le lagrime
dell'infelice confortato. E se il mio nome varrà a vincere
l'orgoglio dei cuori, e dalla via della superbia dirizzare le
avventurose sul sentiero del paradiso, sarà questo il gaudio più
profondo che giunga all'anima mia, dovunque piaccia al mio Creatore
collocarla. E dove mai la nobile consorte o la figlia del Conte
avessero cuore che palpita alle miserie dell'umanità, e
sorridessero del mio sorriso, allora amale, Gismonda, amale come mi
amasti: non turbarle giammai col racconto delle mie triste vicende,
nè col mio nome sminuire una gioia che il Signore non mi ha voluto
concedere, e che a loro, siccome più meritevoli, ha compartita. Ma
quando lontana da tutti, ridotta nella tua segreta cameretta, potrai
liberamente trattenerti nella memoria degli anni che furono, oh!
allora, mia cara Gismonda, allora donami un sospiro.... un
pensiero.... una lagrima.... Certo io conoscerò quella lagrima, e
con una lagrima ti risponderò.»

Qui si rimase la bella addolorata: e mestamente volgendo gli sguardi,
vide tutte le suo damigelle confuse di vergogna, e la gentile Gismonda
in tale stato da non potere più intendere tanto disperate parole.
Tacque: un lungo silenzio si sparse per la sala: i doppieri mandarono
una pallida luce su quelle donzelle atteggiate in sembianza di
pianto.--Pareano statue d'illustre artefice destinate ad ornare le
tombe dei potenti.

Yole, poichè lungamente stette pensosa, si scosse a un tratto,
corse, si recò in braccio Gismonda, e con amore materno la
confortava, o col suo proprio lino le sue lagrime asciugava: quindi
con piacevole voce riprese:

«Oh! non piangere, Gismonda, non piangere. Malaugurata colei che
sforza al pianto la faccia della bellezza!--Santa Vergine! la mia
miseria soverchia l'anima mia, e mi conviene trasfonderla in
altrui.--Madre degli afflitti! già troppe mi trafiggono
amarezze,--bastino. Io sono innocente; ma s'è destinato ch'io beva
il calice delle pene, non consumi meco i giorni della sua gioventù
questa cara donzella.--Sia la mia causa separata dalla sua: io sola
soffrirò per lei, pei miei parenti, per tutti.»

Gismonda si rimase dal piangere, e chiamando su i labbri il sorriso,
comunque una lagrima le tremolasse tuttavia tra le lunghe palpebre,
corrispose allo abbracciamento della nobile Yole, e in atto soave le
disse:

«Voi non mi affliggete, nè potete affliggere nessuno, voi solo
mia gioia, unica e diletta amica mia, quando anche la sorte avesse
posto tra noi lo spazio che passa tra vassallo e il barone, le anime
nostre avrebbero sentito lo scambievole desiderio. Comunque pensiate
di me, io vi amo, Yole, vi amo, quanto si può amare cosa terrena
dopo Dio, e i suoi Santi. Ma per quanto amore portate alla gran Donna
del cielo, calmate quel vostro disperato dolore.... Oh! se sapeste
quale affanno mi travaglia qui dentro» ed accennava il seno «nel
vedere a poco a poco inaridire la fonte della vostra vita, il fiore
della vostra giovanezza appassire, e le floride guancie impallidire, e
quei begli occhi oscurarsi.... certo, benigna come siete, vi
provereste a non apportarmi tanto sconforto. Oh! il vostro dolore,
concedete che ve lo dica Gismonda, non muove cosa che si tema,
bensì cosa da lungo tempo avvenuta. Il Conte di Provenza non si
partiva ancora da Marsilia; nè egli parmi persona da temersi poi
tanto, sebbene il Vaticano lo benedica, e lo armi contro di noi: e
dove fosse da temersi, il pericolo non successo vuole fermezza di
cuore, non pianto, che questo torna inutile prima che la sventura
accada; dopo, ridicolo e codardo. La figlia del Re Manfredi non si
sente tale.... Da più alta cagione che questa non è, traggono
origine cotesti furori: una cosa che ormai non istà più in
potere della ragione e del tempo,... un sentimento profondo invano
represso, forse....»

«Gismonda!» riprese Yole, fattasi pel volto e pel seno tutta
vermiglia, «si danno arcani che l'amico non può dire all'amico;
che ricercarli in ogni nome è indiscretezza e crudeltà, nei
Sovrani delitto. Hanno i Regnanti segreti che non possono svelare a
persona, perchè a noi più che al rimanente degli uomini dette il
cielo un senso squisito di dignità. Al Conte Ruggiero e alla sua
nobile consorte, assediati sul monte Etna, rimase un solo mantello
reale; essi non pertanto non mostrarono la loro nudità, ma ora
l'uno, ora l'altro si fecero vedere in pubblico sempre vestiti del
manto che non può onestamente tralasciare l'altezza del sangue.--Se
il mio segreto fosse stato da svelarsi, a te più che altrui avrei
voluto manifestarlo; ma da che mi piacque non dirtelo, guardati bene
dal cercare di saperlo. Ti basti questo, che dove la mia destra lo
rivelasse alla mia sinistra, io vorrei subito mozzarla.»

La damigella le stette dinanzi sbigottita, come quella che non aveva
mai inteso tanto acerbo rimprovero. Yole gravemente aggiungeva:

«Porgimi il velo, Gismonda; sento il bisogno di aere più
puro.--Voi tutte restate, Gismonda sola mi accompagni nel
giardino.»

Gismonda corse ad eseguire il comando; ma confusa, mal sapendo che si
facesse, tolse quel velo stesso che assunse Yole allorchè si seppe
in corte la morte di Corrado, e glielo porse senza sollevare gli
sguardi.

Lo vide Yole, e mesta sorrise: poi premendo leggermente il braccio a
Gismonda: «Accetto l'augurio» le disse «che mi viene dalla
eletta del cuore.»--E tolto il velo se lo avvolge alla persona, e
s'incammina ai giardini reali.

Gismonda, sollevati gli occhi, si accorge dell'errore, prorompe in un
grido sommesso, e segue la sua donna asciugandosi col dosso delle mani
le pupille lacrimose.

Potevano avere di appena venti passi trapassata la porta, allorchè
le damigelle, gittando via quella mentita sembianza di afflizione, si
mossero festose qua e là per la sala, alternando mille lieti
ragionamenti. Adelasia di Ansalone, damigella di forme leggiadre, e di
cuore vano, sopponendo al suo braccio quello d'Isolda Cavella,
sorridendo le disse: «In verità, Isolda, io non ho mai in mia
vita pianto siccome oggi; neppure allorchè la mia zia Contessa
Serena, di gloriosa memoria, nelle lunghe sere d'inverno, mi poneva
nella sala del castello di Campobasso presso il focolare dei suoi
maggiori.»

«Oh! per me poi» soggiunse Isolda «sento che il pianto
ristora; non l'onoriamo noi come segno di cuore tenero? Quello che
adorna l'anima, deve ornare anche il corpo.» E così dicendo si
sciolse dal braccio di Adelasia, e presa una tersissima lastra di
argento si pose tutta leziosa a mirarvi dentro la propria immagine.

«Domine, falla trista!» guardandola dietro, e scuotendo il capo
disse Matelda d'Arena antica damigella. «Da che il più scioperato
Menestrello che mai venisse in corte le cantava i suoi occhi lagrimosi
non avere paragone in cielo o in terra, io credo che per cavarne una
lagrima gli esporrebbe, non che ad altro, al fumo di zolfo.»

«E dovete sapere,» soggiunse spedita spedita una magra, lunga,
di brutte sembianze, chiamata Andolina Benincasa, «e dovete sapere,
che in que' tempi Isolda piangeva, quando anche la prendeva vaghezza
di ridere, e la cagione la sa il medico saracino Sidi Abdallah che la
guarì dalla fistola.»

«Andolina, paionvi cose queste da tenersi lungamente celate ad
amiche quali noi siamo? Per poco sta ch'io non mi corrucci con
voi,» riprese sorridendo Adelasia; «ma di grazia rammentate,
Matelda, la canzone del Menestrello: il caso merita bene di sapersi
intero.»

«Non so,» rispose Matelda «perchè non soglio faticarmi la
mente col ritenere tanto tristi versi quanto furono quelli del
Menestrello; pure proviamo.» E qui poneva l'indice alla fronte, e
chinava la testa in atto di riunire tutta l'anima in una sola
facoltà, finalmente dopo aver cominciato, desistito, e ripreso da
cinque e più volte: «Ecco!» soggiunse ella «diceva così:

    «Brillano silenziose in ciel le _stelle_
      Di benigno splendor,
      «Ma le tue luci ancor
      Brillan più belle;
    E se suffuse di pietose _stille_
      Rimira il Trovator
      Le gaie del tuo amor
      Belle pupille,
    Brillin pur luminose in ciel le _stelle_
      Di benigno splendor,
      Che le tue luci ancor
      Brillan più belle....»


Isolda, che intenta a vagheggiarsi il volto non aveva fin qui posto
orecchio a queste parole che si mormoravano a breve distanza da lei,
appena ricovrati i sensi dalla vanità che la occupava, udì
quegli ultimi versi, e subito dubitò della beffa: onde fattasi
presso Matelda con un suo riso di dispetto le domandò: «Madonna,
se Dio vi aiuti, poichè per vostra ventura avete udito i Trovatori
del secolo passato, vorrestemi dire, la mercè vostra, se valorosi
quanto i moderni essi fossero?»

«Tengo per fermo, rispose tutta stizzosa Matelda quantunque per la
età non gli abbia potuti udire io, che i moderni Trovatori sieno
tanto al di sotto agli antichi nella _gaia scienza_, quanto le moderne
gentildonne sono al di sopra delle antiche in iscortesia.»

«E voi ci offrite prova vivente della differenza, Matelda.»
riprendeva Isolda, e stava per aggiungere, allorchè Adelasia,
temendo non venissero a brutte parole, troncò quel ragionamento
dicendo:

«E la povera Gismonda!» e sospirò. «Davvero che ricava la
bella mercede del suo grande affetto!»

«Non andò mai così bene a sposa gioiello, siccome a lei il
rimprovero di Yole,» soggiunse Matelda, cui forse fu grato trovare
altro soggetto che dilungasse l'attenzione delle circostanti dal
proposito dei suoi anni.

«Ella ha voluto regnare sola nel cuore della nostra signora»
disse Andolina; «ella ha voluto vincerne tutte per soverchiarci,
perchè sebbene in volto modesta, credetemelo, è superba quanto
l'Angiolo delle tenebre. Ha scosso l'albero, ora mangi il frutto che
n'è caduto.»

«Santa Nimfa! S'ella è superba!» disse Isolda. «lo per me
credo la sua superbia uguale alla sua vanità. Se le proponete fare
alcuna cosa, ella vi risponde: ne terrò motto a Yole; se la
ricercate perchè si affligga, ed ella perchè Yole è afflitta;
e Yole sempre, e sempre Yole, ostentando così tenere proposito di
lei, siccome di sorella o di amica, anzichè di sovrana o
padrona.»

«_Il mal vien dalla radice_,» rispose Adelasia, «nè posso
darmi pace come costei abbia scelta per favorita la nostra signora.
Guardimi Dio da sparlare di tale amica quale mi si professa Gismonda;
ma per me la reputo la più insipida gentildonna del Regno. Pel
sangue poi credo che il nostro valga bene il suo, Matelda.»

«Sant'Agata benedetta! che dite mai, Adelasia? Io ho inteso le
mille volte narrare dal Marchese Pier Corrado mio nonno, di buona
memoria, la famiglia di Gismonda discendere da linea bastarda della
casa normanna, cioè, se non erro, da Clemenzia Contessa di
Catanzaro, figlia illegittima del Re Ruggiero; e valga il vero,
comunque ella vanti la _impresa_ normanna, voi potrete osservare le
fasce rosse e bianche in campo d'oro tramezzate dalla sbarra della
bastardigia; ma il nostro, Adelasia, ma il mio, Adelasia.... ah! il
mio mi scorre purissimo nelle vene quanto quello del Re. I miei
antenati di Sicilia hanno trasmesso ai loro nepoti la _impresa_ del
monte di argento, e del lion d'oro in campo azzurro, gloriosa,
com'essi la riceverono dai loro antenati di Arragona; poichè
importa che sappiate, Adelasia, la famiglia Arena derivare
dall'Arragona.» Tutto questo discorso velocemente parlava Matelda,
alla quale la gran voglia di mordere altrui ed esaltare sè stessa
fece obliare, che il Marchese Pier Corrado suo nonno, di buona
memoria, era da ben trent'anni defunto, come ne faceva fede il suo
fastoso sepolcro nella cattedrale di Palermo.

Ed ecco che queste frivole, abbandonato affatto il soggetto di
Gismonda, si lanciarono impetuose a favellare di _fasce_ nere in
_campo_ di argento, e di _sbarre_ di argento in campo nero, e di
_Lioni rampanti_, e di _Pantere passanti_, e _scudi_, e _cimieri_, e
_corone_. Matelda poi, siccome quella che sentiva assai addentro nella
scienza del Blasone, fece maravigliare le compagne col dare la
spiegazione dell'_arme_ Bonaccolta che fa fascia rossa, e testa di
porco nera, tenente sul grifo croce rossa in campo di argento.¹

  ¹ Per la verità di queste armi vedi il _Teatro delle famiglie
    sicule_ (3 vol.  in fol.) di Mungos commendatore dell'ordine di
    Cristo.

Appena ebbe finita Matelda la sua dimostrazione, che tutte le compagne
le si strinsero attorno, tanto ella piacque, onde narrasse loro
qualche bel fatto antico. Madida fece lungamente sembiante di
ricusare; alla fine, mostrandosi vinta dalle istanze loro, parlava:

«Ma che credete voi, che io abbia per le vene storie in vece di
sangue? Io faccio conto di avervene fino adesso contate ben mille, e
la vostra sete cresce a proporzione che vi porgo da bere. Che faro
adunque? Ripeter le antiche tornerebbe in vostro fastidio, e mio;
narrarne di nuove non mi riesce agevolo, poichè tante ne furono
dette da me: pure,» e qui sollevò la persona in atto contegnoso,
«pure fidata alla cortesia vostra, mie leggiadre e belle
ascoltatrici, non dubiterò pormi in pelago, sicura che la
benignanza delle vostre stelle mi dimostrerà il porto dove possa
ricovrare la debole navicella del mio ingegno.» Dopo questo
proemio, tenuto per un capo di opera di eloquenza, Matelda soprastette
alquanto pensosa, e dopo breve ora volgendo gli occhi attorno così
prese a favellare:

«E' dovete sapore, donne mie care, che nei tempi nei quali
l'_Amira_ Aureliano regnava su Roma, donde aspramente perseguitava i
fedeli di Cristo, un certo Solino Prefetto dei soldati reggeva a suo
nome la Sicilia, ed aveva tolto a dimorare nella _Conca d'oro_, la
bella Palermo, sopra tutte le altre città della Isola felicissima e
bella. Ora questo Prefetto non diverso dal suo feroce signore, anzi,
siccome nei servi suole tuttogiorno accadere, affatto a lui
somiglievole, con frequenti rapine, e feroci martirii, affrettò il
punto della vendetta di Dio; il quale, quantunque paia venire tardi,
piacendo alla sua misericordia dar tempo al peccatore affinchè si
ravveda, nondimeno giunge inaspettato, e tremendo. Stavasi dunque
certa sera il crudele Solino seduto sur una loggia del suo palazzo a
rimirare il sole cadente. Una turba di uomini e di donne gli dimorava
attorno cantando, suonando, e a mano a mano copiosamente bevendo
preziosissimi vini, che quivi aveva fatto imbandire, allorchè di
repente rizzatosi in piedi tutto smorto nel viso, tolto pel braccio un
suo paggio che gli stava vicino:--Vedi, Lampridio, gli disse, l'ultimo
raggio del sole? Questa sera apparisce sanguigno; che Allah e il suo
Profeta ci guardino, ma questo raggio, piuttostochè addio, sembra
maledizione.... guarda fisso.... fisso.... egli sparì.... egli non
ha parlato.... ma una voce che non è entrata per gli orecchi ha
detto al mio cuore ch'io non vedrò più i raggi del sole.--Mentre
quel tristo, compunto dalla coscienza, in questo modo parlava, e
susurrava bassamente scellerate preghiere, nel mezzo della città
franò con orribile rumore gran parte del terreno, e da quella
rovina ecco s'innalza un densissimo e fetidissimo fumo, il quale
gradatamente diradandosi lasciò vedere un Mostro che la gente ha
poi chiamato il _Gran Diavolo_ di Sicilia, le sembianze del quale
furono queste: sei palmi era alto, ed aveva la testa tutta calva, se
non che su la nuca un po' di pelame ispido: dalla fronte gli
scappavano due corna, a somiglianza di quelle dei capri ritorte: delle
due braccia uno stendeva lunghissimo oltre il ginocchio, l'altro
cortissimo sopra il fianco; le mani aveva come orso, la testa larga
quanto le spalle, e queste lucide come specchio: la faccia pendeva
all'umano, meno che per un solo occhio vedeva, e per una sola narice
fiutava: dalla cintola in giù andava coperto, stando seduto sopra
un carro di quattro ruote guidato da due fieri lioni davanti, e
sospinto da due orsi dietro. Or questo spaventevole animale si mosse
pianamente per la città, scintillando dagli occhi faville di fuoco:
e tanta ne fu la paura, che molte donne si sconciarono, altre
tramortirono, e tutti insieme uomini e donne rifuggivano al tempio
degl'Idoli implorando perdono con preghiere maladette. Ma queste cose
il Mostro non vedendo, o non curando, dappoi che ebbe ricerca tutta la
città, giunse alle porte del palazzo di Solino, dove tagliata
un'orecchia a un lione, scrisse con quel sangue su pel muro M. N. M.
P. V. D.--Le quali lettere non sapendosi da nessun savio interpretare,
certa donna non mai più vista comparve, e affermò poterlo fare,
dove Solino mostrasse cuore di udire. Solino, sebbene non avesse
membro che gli stesse fermo, pregò anzi, che volesse dimostrargli
lo scritto: al quale ella parlò:--Solino, _Azzael_¹ ti sta
sopra, perocchè le lettere significhino: la tua morte non sarà
morte, ma principio di vita di dolore. Ora poi, che il cielo ti è
chiuso, ti conforto a disperarti e a morire.--Così favellando,
proruppe in altissime risa, e disparve. Solino cadde tramortito per
terra, e insanguinandosi la bocca e la fronte rimase oscenamente
deturpato nel volto. Sorse il mattino, ma il raggio del sole non
rallegrò la terra: il fumo si era diffuso per l'orizzonte e vi
stava immobile come tenda. Il mostro però non si vedeva: solo si
udiva il ruggito dei lioni, e il bramire degli orsi. In quel giorno
d'ira e di vendetta non un uccello fu visto pel cielo, ma tutti
paurosi si rimasero nel nido a tutelare sotto l'ale i figliuoletti
loro: non una fiera percorse la foresta: chè il senso del terrore
strinse più forte di quello della fame; i cani a testa bassi, a
coda dimessa, vagavano incerti qua e là in traccia dei soliti
abituri, e se quelli trovavano chiusi, mandavano tanto lamentosi
ululati, che veruno uomo, per quanto crudele, gli ascoltava senza
pietà. Rinnuovavano i cittadini le preghiere; ai loro Idoli le
più care preziosità profferivano: e si trovarono di tali che per
placarli le vene delle mani e dei piedi si segavano, e quel sangue
scorrente presentavano in oblazione. Venuta la fine di quel terribile
giorno, la nuvola nera cominciò a tuonare per modo che toglieva
l'udire, l'atmosfera apparve tutta infiammata e offendeva il vedere,
un fetore intensissimo tolse l'odorato; poi la terra mise vento
rombando, e un terremoto scosse la città, sì che la più parte
delle case ruinò, e meglio di centomila cittadini perirono. Il
Mostro adesso apparve su la piazza di contro al palazzo di Solino. Il
suo sguardo dapprima spento si accese, a proporzione che quel flagello
della natura cresceva, e allora quando vide le sparse viscere dei
tanti miseramente schiacciati, e l'orrore delle rovine, divenuto
affatto di fuoco, mandò scintille, le quali appresesi di subito al
palazzo di Solino suscitarono in un momento tale incendio che i legni
e i ferri non solo, ma le pietre stesse infiammate si liquefacevano.

  ¹ Azzael angelo della morte presso i Maomettani. È inutile
    avvertire lo strano miscuglio di cose di questo racconto, il quale
    dimostra la poca notizia delle storie che in quel tempo si aveva.

Il Mostro si precipitò tra le fiamme, e di lì a poco, rovinando
tutte le pareti del palazzo, rimase in piede una sola stanza dove
Solino steso sopra un letto si dibatteva disperatamente contro il
Mostro, che appuntellategli le ginocchia sul petto con atroce
compiacenza lo strangolava.» ¹

  ¹ Questa superstizione del _Gran Diavolo_ si mantiene anche oggi in
    Sicilia.  Vedi Inveges, _Palermo Sacra_. Tomo 2.

A queste parole era giunta la novella di Matelda; le damigelle
disposte in circolo stavano tutte intente al suo volto, mostrando per
gli occhi smarriti e per la pallida faccia la paura che occupa va le
anime loro, allorchè le porte della sala si schiusero fragorose;
l'aria ventando con impeto spense ogni lume; un'alta voce si fece
udire, e il mutare de' passi pesanti, e lo strisciare di vesti sul
pavimento.

Un súbito terrore percorse veloce le vene di tutte le damigelle, e
l'una afferrando strettamente l'altra pel braccio o per la veste,
sospinte dalla medesima paura si volsero al luogo donde usciva il
romore, gittando altissimo grido.

E qui, infastidito di avvolgermi in tanta bruttezza d'invidia, di
vanità, e di errore, abbandono volenteroso il soggetto. Turpi o
frivole sono ordinariamente le passioni di femmina, ma altri sia il
Cam delle loro vergogne,¹ siccome altri l'adulatore. Vago di
manifestare quello che occorre di bene nello spirito loro, ne lascio
la sozzura all'ira, al disprezzo, od alla compassione degli uomini.

  ¹ Cham pater Chanaan cum vidisset verenda patris sui esse nudata,
    nuntiavit duobus fratribus suis foras. (_Gen_., c. 10.)




CAPITOLO TERZO.

IL PRIMO BACIO.

                Il mattin lucido lei sospirosa,
                  Lei sospirosa vede dal tacito
                  Suo cocchio d'ebano la notte ombrosa;
                Di tutta l'anima divien signore
                  Amor, se sola, se inerme trovala;
                  Donzelle tenere, temete Amore.
                                    ARMINIO, _tragedia_.


Che cosa è mai il tremito dilettoso che sorprende il corpo e la
mente all'aspetto della bellezza?--Forse l'anima fu destinata a
sentirsi commuovere per tutto quello che è bello? Forse il
principio divino dell'uomo gode vagheggiare quaggiù tutto quello
che sembra di Dio? Ma perchè dunque il pensiero non si esalta alla
vista dei cieli? Perchè scorgiamo tranquilli il torrente della
luce? Perchè se pietà di consorte o di amico non ci compunge,
non mandiamo sospiro allo aspetto del pianeta della notte?--Che ha mai
la terra da agguagliare alla grandezza dei cieli? Ahi! non l'anima si
sublima alle forme della beltà: non il pensiero divino si esalta
alla emanazione del Padre delle cose perfette; bensì il furore di
turpe voluttà ci turba nel profondo, è l'idea di sozzo piacere
quella che ci stringe il cuore, e ci rapisce la voce. Uomo, tu puoi
essere solo convenientemente paragonato al fango dal quale nascesti! O
amaro frutto della scienza del bene e del male, tu ci bai tolto
perfino le illusioni che potessero essere magnanime, i palpiti del
cuore!

La gioia dello intelletto suscitata da un istante di esaltazione, dove
non trovi cosa reale che la mantenga, poco dura. Colui che travaglia
le anime immortali troppo profondamente conosce tutti i modi della
pena per non lasciarle lungo tempo in una medesima angoscia;
perocchè allora o questa angoscia diverrebbe natura per forza di
prepotente abitudine, o, se tale da non potersi durare, la morte
correrebbe veloce su le tracce di quella; onde il _Tormentatore_ che
allontana quanto più può la morte dalla sua vittima, conoscendo
il travaglio consistere meno nella intensità che nella durata, si
mostra sollecito a variarle il modo di supplizio, onde non si abitui o
non soccomba. Arimane,¹ allorchè si avvisa perdere lo sventurato
viandante, non lo aggrava di subito con tutta la forza della sua
potenza, ma a quando a quando gli manda tra le frasche della foresta
una luce, o suscita una voce di gente vicina, affinchè il suo cuore
si apra alla speranza, che poi gli faccia più amaro lo sconforto
della tenebra, e della quiete spaventosa che precede la tempesta.
Stanco finalmente il mal Genio di questo giuoco spietato, appresta
l'ultimo danno, e lo scherno più feroce.--L'abituro degli uomini
dista pochi passi dal viandante; già il suo spirito si rallegra nel
piacere del calore che renderà il moto alle sue membra irrigidite,
e nel ristoro del cibo; ma tra lui e l'abituro è aperta una
voragine.... egli dirizza il guardo alla luce, nè bada alla via....
la terra gli manca sotto i piedi.... precipita alzando urla disperate;
alle quali fanno eco le risa di Arimane, che, sporgendo la testa
dall'orlo del precipizio, gode vedere su quante rocce percotendo
lascerà viscere e sangue, prima che giaccia lacerato nel fondo.

  ¹ Arimane genio del male presso i Persiani, siccome Oromaze il
    principio del bene.

I fantasmi della gloria aveano abbandonato il giovane scudiero posto a
guardia dei giardini reali: ad ora ad ora cupamente gemeva, ed
esclamava: «O ambizione! o amore!»

Al pronunziare che fece questa sentenza, un leggerissimo moto lo
trasse a sollevare gli occhi da terra, e.... non sarebbe questa una
illusione della sua mente di fuoco?... No.... una forma leggiadra
più che fantasia può immaginare, e poesia descrivere, gli stava
dinanzi. La sua persona era tutta avvolta in lungo velo nero chiamato
_grimpa_, che a quei giorni le belle Siciliane adoperavano per
cingersi collo e seno, e parte del corpo, facendo più lieta la
bellezza col suo migliore ornamento,--il pudore. Mortale la
dimostravano il ventilare delle vesti, che svelava tutti i cari
contorni di quel corpo delicato; ma il passo leggero, che appena
piegava le foglie calpestate, poneva il risguardante in forse, se
più che alle terrene appartenesse alle spirituali sostanze.--Il
fantastico poeta l'avrebbe detta il Genio della Malinconia, che scende
tacitamente nella notte a mormorare in basse voci un lamento, per non
isvegliare i figli della terra ora solo felici:--ora, perchè
oppressi dal sonno fratello della morte.

La vergine del sangue svevo, ignara da cui movesse quel sospiro, si
volse al luogo donde era uscito per consolare l'afflitto;--perchè
in qual cosa mai consisterebbe gentilezza del cuore, se il grido della
miseria fosse invano ascoltato?

«Santa Maria dello Spasimo!» diss'ella, entrando sotto la volta
che i raggi della luna non rischiaravano; «i tuoi devoti sono
più di quelli che vorrebbono, e dovrebbero essere.--Chi è che
geme qui dentro? Parla.... se sei sventurato, sappi che nessuno si
dipartì senza conforto dal cospetto della figlia del Re
Manfredi.»

La risposta fu indarno lungamente aspettata; i labbri dello scudiero
non si prestarono all'usato officio, ma tremarono, e il soffio della
morte parve estinguere in lui la fiamma della vita.

«Parla,» riprendeva Yole «non mi muove già vano desio a
conoscere le tue sventure. Se in me non fosse potere da consolarti,
non avrei la crudeltà di domandare i tuoi patimenti; perchè
sebbene la curiosità ostenti la favella della compassione, io per
me aborro colui, che pretende conoscere il cuore dell'uomo per lo
indolente piacere di conoscerlo. Io ti sollecito a parlare; se i tuoi
mali possono consolarsi, tu avrai conforto da Yole; dove io non basti,
aspettalo dal tempo; se neppure questo giova, aspettalo....»

«Dalla morte!» gridò lo scudiero.

Qual fu il senso segreto di Yole a questa voce, e a questa sentenza?
E' fu tal senso, che favella umana non può riferire; la quale cosa
crederemmo pietà, se mancando i modi di significarlo non ci fosse
stato compartito cuore da sentirlo. E il volto? Ah! le tenebre le
coprivano il volto, ma certo fu quello della creatura che dal tempo
precipita nell'infinito.

Un lungo silenzio seguiva: alfine Yole con voci interrotte continuava:

«Dalla Religione,--Rogiero,--dall'esempio della pazienza del
Signore.»

«Pazienza!--E sempre pazienza! S'eravamo nati a soffrire, perchè
non ci fu data un'anima più forte a sostenere, o perchè fummo
tolti dal fango, che non sente di essere calpestato, alla forma che
freme per la gravezza dell'oppressione?»

«Profondi sono i misteri del Creatore.... sperate.... I cieli
annunziano la gloria di Dio, ed egli non può fare a meno che
reggere giusto;... mantenete la vita, non perchè ella sia bene, ma
perchè la morte è ineffabile dolore.»

«Ma solo.... Spenta la vita dell'anima, che è la speranza, la
distruzione del corpo segue necessariamente, e con ambascia infinita.
Or tutto sta nella scelta di sopportarla sparsa per lungo spazio di
vita, o concentrarla in un punto, e morire. Guardimi il cielo da
vituperare colui al quale la natura non ha dato la forza di vedersi
brillare la punta del pugnale sul cuore, con lo stesso sorriso che
altri accoglie l'aspetto della bellezza;--ma neppure chi lo può,
sia biasimato. La via di colui che sta in cima al monte va alla
pianura; altri stende il corpo sul pendio, e trasvola al termine del
sentiero; altri vi perviene movendo il piede in brevi passi, tentando
prima il luogo, ritraendosi, e nuovamente provando. Chi di costoro
vuolsi lodare, chi riprendere? Nessuno: quegli fu ardito, questi
cauto;--ma la via di ambedue tendeva alla pianura, ed ambedue la
fornirono.»

«Rogiero, le vostre parole suonano come quelle del serpente.»

«Principessa, non so se fosse scellerata la favella del serpente,
ma per certo fu vera.»

«No.... scellerata, e fallace. Non promise egli di farci uguali a
Dio? Infelici traditi! noi abbiamo imparato il duro mistero, che la
nostra mente non è capace a comprendere. Atrocissima scienza! E
dalla nudità della mente oseremo sollevare la fronte ribelle fino
al Creatore? Ma di ciò basti, chè al cuore indurato riesce
ributtare ogni argomento di salute, e lo spirito del male ragiona
più sottile di quello del bene, il quale è piuttosto lieto della
sua gioia che valente a dimostrarla. Poniamo che la morte deve
soccorrere il disperato; ditemi,--sapete voi quale sia il momento in
che la speranza vien meno?»

«Allorchè le cose presenti appaiono passate, e le passate
presenti; allorchè divisando la tua via a oriente ti trovi a
settentrione; allorchè gli occhi vedono senza lagrime le rovine del
vulcano, e la gioia dei prati in primavera; allorchè la mano di
tutti si alza contro di te, e la tua mano si solleva contro di
tutti,¹ e il saluto di tuo padre ti suona come maledizione, e
quello dei figli come rampogna; e il labbro volendo profferire la
preghiera, mormora bestemmie, e i cieli nessuna altra cosa presentano
fuorchè una volta della terra che il caso ha fabbricato e che il
caso può distruggere.... ovvero l'eterna dimora del forte Signore
del fulmine....»

  ¹ .... Ferus homo: minus ejus contra omnes, et minus omnium contra
    eum. (_Gen_., c. 16.)

«Santa Vergine! voi bestemmiate....»

«Io dico che allora la speranza è morta.»

«Cotesta è la vita del dannato; nè in così miser stato
siete caduto, Rogiero. Le vostre parole scesero nell'anima mia, voi
sarete consolato.»

«Che! Avreste voi intese tutte le mie parole? Oh! non vi badate, le
profferii nel delirio.... La ragion in quel punto era ebbra di
dolore.... Ma vivaddio! si addice a cortese donzella porgere orecchio
alle parole del delirante?»

«Io trapassando nient'altro ho inteso proferire che amore....»

«Amore! sì.... poichè lo intendeste.... ma disperato
amore.... e non solo.... e pure di per sè stesso potente a
consumare ogni anima che ardisca nudrirlo. Un amore, di cui il
pensiero è fremito, la conoscenza delitto, la rivelazione
pena....»

«Ma questi sono gli attributi del misfatto!»

«Gli uomini lo direbbero tale, perocchè il delitto non compaia
delitto, se non per essere perseguitato con le pene; egli però in
sè stesso non è colpevole, ma alto...»

«Rogiero, il Trovatore canta spesso su l'arpa, che amore può
molto più che noi non possiamo; non è la prima volta che la
bellezza e il potere hanno coronato il valore; nè vi ha spazio
sì ampio tra due amanti, che il buon cavaliere non possa
percorrerlo con la spada.»

«Sia: ma nessuna dama mi ha cinto la spada: niun Barone mi ha
stretto gli sproni; il ferro del mio Re non ha toccato la mia fronte;
nè la sua voce mi ha ammesso all'ordine della cavalleria.--Io sono
oscuro donzello che porto spada per ornamento, non per arnese di
guerra: e la mia mano, usa a tenere la briglia del palafreno di
femmina, non sa come si tratti la lancia.»

«Voi dite il falso, Rogiero;... pensate che non vi riconoscesse
Yole nel torneamento della _Sala verde_¹ il giorno della
incoronazione di mio padre? Non portavate i miei colori, la _grimpa_
celeste che smarrii il giorno innanzi? Volenterosa vi avrei posto sul
capo il premio della vittoria, ma vostri furono soltanto gli applausi
delle dame del torneo.»

  ¹ _Sala verde_, luogo destinato ai tornei in Palermo. Vedi
    Inveges. _Palermo Sacra_. Tomo 1.

«Fui.... sì, fui; ma qual forza mortale poteva vincere l'uomo
che portava la divisa della figlia di Manfredi? Ecco: ella mi posa sul
cuore, ed ella sentirà i suoi palpiti, finchè palpiti saranno in
lui. Io la porto meno per vincere le battaglie terrene, che quelle del
nemico infernale: perdonimi Dio! ma io non la cambierei, con la
_grimpa_ miracolosa di Sant'Agata.¹ Io combattei, e la idea di
combattere per voi mi era sufficiente guiderdone; nè io avrei
sperato giammai che a voi si manifestasse. Ora tanta mi recano
esultanza le parole vostre, che ogni sconforto della passata mia vita
mi fanno interamente obliare.--Perchè mai non mi degnaste di uno
sguardo? Perchè tenevate sempre dimessa la fronte?--Il giorno
appresso io toccai la vostra mano... ella tremava... Vi offendeste
forse del mio ardimento di correre lancia ornato dei vostri colori co'
più prestanti Baroni del Regno?»

  ¹ Grimpa miracolosa di Sant'Agata, di cui la vista sola fece fermare
    la lava infuocata dell'Etna che minacciava Palermo. Vedi Inveges

«A dama di alto sangue non tornò mai disgrato il trionfo della
propria divisa. Ma se quivi convenne la vostra donna, e vi conobbe, il
suo cuore certamente diè sangue in vedervi combattere per
altra....»

«Oh! ella v'era presente; nè le spiacque....»

«V'era dunque!» gridò Yole ponendosi una mano alla fronte.
«Oh! s'ella v'era e non le spiacque, voi siete amante mal
corrisposto. Manifestate chi sia. Voi già foste mio cavaliere, e il
dovere più prezioso di dama cortese sta nel prendersi cura dei
giorni di colui che gli ha esposti per onorarla.--Parlate, Rogiero: io
vi giuro sopra la fede del sangue di Svevia, per quanto sta in me, di
farvi andare contento.»

«Spirito del male, oh! come tentano feroci le tue lusinghe su la
terra!...»

«Che mormorate, Rogiero? Forse vi riesco importuna? Sprezzate le
mie promesse? V'infastidisce la mia voce? Ah! vogliate perdonarmi, e
attribuirlo al forte amore e soverchio, che porto per.... tutti
gl'infelici.»

Così parlava Yole, e queste ultime parole le uscivano appena
distinte dalle labbra: mesta, abbattuta, già moveva il piede per
abbandonare quel luogo, allorchè Rogiero, come uomo al quale il
destino abbia rapito il senno, le andò incontro, e senza nessuno
rispetto afferratala violentemente pel braccio, la trasse fuori
dell'arco al raggio della luna; quivi, gettando per terra la celata,
si scoperse la fronte, appose sopra quella per forza la mano di Yole;
e poichè alquanto ve l'ebbe tenuta ferma, in tronche parole le
disse: «Che parvi, Yole, della fronte mia?»

«Che tutti i Santi del Paradiso vi guardino!» rispose esitando
la figlia di Manfredi; «ella è fredda come il marmo di un
sepolcro.»

«Deve esserlo.--Odimi, divina fanciulla, odi la parola di tale che
saprà punirsi di avere parlato.--Io spesso nel fervore delle mie
preghiere, nella rabbia delle mie maladizioni, ho sollevato un voto,
inesaudito fin qui. Dammi, gridai, nè sapeva a cui, dammi un
momento di gioia, e poi lascerò la vita.--Ora, sia ventura, sia
destino, questo momento è venuto; questo momento è passato;
nè in me dura costanza da aspettarlo lungamente, e forse indarno,
nel supplizio della vita.--Concedi uno sfogo di parole e di lagrime al
moribondo; esse non ti offenderanno; e quando anche ti offendessero,
la mia morte non basterà alla espiazione?...»

«Rogiero!...»

«Yole, sai tu da quanto tempo io porto la tua immagine nel
cuore?--Ella vi stava prima del palpito.... prima del nascimento;
imperciocchè prima di vederti ti amassi. Nel cammino della vita ho
mirato le belle figlie degli uomini, ed ho vôlto l'occhio alla
terra accorgendomi che venivano da essa. Ho veduto l'altera
nell'orgoglio delle sue forme, e non ho desiato. Ho veduto il rossore
della timida amorosa, e non ho sospirato.... e diceva a me stesso:
cuore di bronzo, non v'è grazia di amore che possa commuoverti?--Ma
una immagine di bellezza turbava pur troppo il mio spirito, nè io
l'aveva tolta da sembianze mortali.... forse mi si affacciò alla
mente, allorchè l'anima ristorata dal riposo torna agli ufficii
della vita, e i suoi sogni sono ridenti come le rose dell'aurora. Io
anelava angoscioso dietro la figlia della mia fantasia, e sovente nel
delirio della passione le indirizzava parole, e: forma divina,--io le
diceva,--esisti tu veramente? Oh! non sparirmi sul primo raggio del
sole che sorge. Io per te rinunzierei alla sua luce. Vieni, celeste
pellegrina, o _silfide_, o _gnomo_,¹ o angiolo, o demone, a fare
lieti i giorni della mia vita, e allora Rogiero sospirerà di
amore.--Yole.... un giorno ti vidi.... Troni del cielo! le tue
sembianze erano quelle della immagine della mia fantasia.»

  ¹ Silfidi spiriti dell'aria, Gnomi della terra, come le Ondine
     dell'acqua, e le Salamandre del fuoco. Mitologia cabalistica. Vedi
     _Dizionario Infernale_.

«Rogiero,» disse Yole sollevando maestosamente il suo corpo,
«sono parole queste, che un servo fedele possa favellare alla
figlia del suo signore? Può la nepote della Imperatrice Gostanza
convenientemente ascoltarle?»

«Non so, Principessa, se a voi stia bene ascoltarle, ma sapeva bene
che in me era delitto profferirle.»

«Abbiatevi il mio perdono.... vivete.... ponete l'amore vostro in
più avventurosa donzella, e che possa corrispondervi; me
obliate.» E questo disse con voce soffocata; poi soggiunse con
maggiore amarezza: «Rogiero, tanta corre la distanza in questo
mondo tra noi, che non potete sperare di essermi unito in nessuno
altro luogo che in cielo, dove, tolta ogni molesta distinzione, siamo
tutti uguali nell'amore di un _Solo_.»

«Questo non ignorava, e però senza speranza vi amava, senza
speranza i miei interni tormenti vi apriva. È vero che amore può
molto più che noi non possiamo; ma è vero ben anco, che occorrono
distanze a percorrere impossibili; e voi, orgogliosi, balzati dalla
ingiustizia o dal caso sui troni della terra, stimate avere onnipotente
impero sopra le anime immortali. Miserabili! e non sapete che l'anima ha
tali ferite, che nessuna potenza al mondo vale a sanare!--Dovrei forse
accusarti di presunzione, per avere voluto conoscere un male che non
istava in tuo potere di volgere a bene, e farti sentire che sei
polvere.... coronata sì, ma polvere? No: valgati l'animo cortese, e la
lusinga del potere che troppo ti fa baldanzosa, e più valgati trovarmi
io disposto da gran tempo alla morte, e disperato affatto. Pareami morire
con un peso sull'anima tenendo celato il mio amore; ora, poichè l'ho
potuto svelare, parmi che poserà su di me più leggera la terra del
sepolcro.--Yole, la religione e il cuore ammaestrano di una seconda vita,
e più durevole: la mente abbandonata a temerarii pensieri la nega.
Comunque ciò sia, quello che ora ti domando, con la preghiera più
profonda della mia anima lacerata, o farà lieto lo spirito se
sopravvive alla mia morte, o il solo istante della mia partenza dalle
cose viventi:--un sospiro ti chiedo, un solo sospiro. Il tempo non ha
velocità da misurarne la durata, ma egli è una eternità di
contento per colui al quale s'invia; e quando, sposa felice di un potente
della terra, vedrai le spoglie delle vinte nazioni al piè del tuo
trono, e te sollevata a tanta grandezza che dopo Dio l'uomo volga a te le
sue preghiere e i suoi voti, e udrai il tuo sposo chiamarti l'eletta del
cuore, e dirti per te avere ornate le sue tempie di alloro, per te
acquistato il premio maggiore che la gloria può concedere all'uomo, e
nel tuo nome avere combattuto, e nel tuo nome aver vinto.... oh! allora
ti ricorra alla mente il pensiero del povero Rogiero che ti amò
tanto.... e ricorda sospirando: egli mi amava così;--e tu piangerai, e
alla storia della mia feroce sventura forse piangerà anche il tuo
magnanimo consorte,--piangeranno tutti.--Nessuna altra gioia occorre in
questa vita, tranne la speranza di un sepolcro lagrimato.... Yole, l'ora
della mia dipartenza è arrivata; prega per un'anima che passa, i di
cui ultimi pensieri non possono essere di Dio....»

Pallido come quello che viene strascinato al patibolo, ma fermo nel
suo fiero talento, Rogiero cavò il pugnale, e fece atto di rompersi
il seno.

Forse non aveva Yole sopportato fin qui la più grave battaglia, che
femmina al mondo voglia e possa sostenere? Doveva ella resistere anche
a questa ultima prova, e, dovendolo, lo poteva? La passione repressa
proruppe impetuosa, imperciocchè le passioni tengano della natura
del fuoco; e la bella addolorata, a guisa di furente, mal sapendo che
si facesse, si gittò al collo di Rogiero, ponendo il suo corpo tra
il pugnale e il seno di quello. Pure così veloce fu l'atto, nè
egli seppe di tanto trattenere il colpo, che a lei non iscendesse su
la destra spalla, stracciasse le vesti, e la pelle lievemente
sfiorasse. Ma il pugnale cadde, e rimasero abbracciati; il cuore
dell'uno palpitò sul cuore dell'altro.... le lagrime loro scesero
confuse.... le guancie, i labbri, si toccarono,--e il primo bacio di
amore fu dato.

Io per me quando considero le sorti umane, credo che la gioia sia
tremendo delitto davvero, perocchè la veda tanto gravemente punita;
onde per quell'amore che porto ai miei compagni di maledizione, se
alcuno ne incontro che adesso per anima, o per cosa acquistata, si
dica felice, io mando una preghiera dalle interne mie viscere al
Creatore del fulmine, e lo supplico che si degni nella sua pietà
d'incenerirlo, e spargerne la polvere ai quattro venti della terra,
onde l'uomo conosca, che può morire felice....

Ma perchè si rimangono tuttavia abbracciati? Oh! v'è una gioia
in questa terra, che due amanti _credano_ possa, non che superare,
uguagliare gli abbracciamenti loro? Dov'è l'orgoglio del sangue?
dove la paura della pena? Essi non hanno più da temere o da
desiderare. Questo diletto trascorse, nè tornerà mai più. Il
tempo, che essi hanno obliato, non si rimane dal percorrere la sua
durata, e confondendo con le ore passate quella breve dolcezza mena
velocissimo le sventure che devono intenebrare la rimanente lor vita.

La regina Elena, sposa di Manfredi, benchè per la nobiltà del
suo sangue (chè discendeva dai _Comneni_ di Epiro) alquanto
orgogliosa, fu nondimeno affettuosissima madre. Una figlia ed un
figlio avevano rallegrato il suo matrimonio. Gostanza, sua figliastra
nata a Manfredi dalla sua prima moglie Beatrice di Savoia, portava di
già corona reale, essendosi unita con Piero figlio di Giamo,
potente Re di Arragona; rimaneanle però in casa Yole e Manfredino,
vezzosissimo fanciullo, speranza del padre, di appena dieci anni nato;
ma la sua tenerezza era per Yole, che considerava infelice; nè mai,
per quanto s'ingegnasse, poteva trarla da quell'ostinato abbattimento.
Le sue sembianze adesso erano maestose, una volta furono leggiadre
quanto quelle della sua figlia Yole; se non che un _tenue velo di
malinconia_, come dice il buon Pellico, diffuso per tutta la persona
di questa, facea sì, che la gente piuttosto oggetto di reverenza,
che di desiderio, la riputasse. Ora dunque in questa stessa sera la
Regina seduta accanto il letticciuolo di Manfredino, poichè ebbe
scôrto che il sonno era disceso su gli occhi della innocenza, si
alzò diligentemente, e soffermatasi a considerare la pace che
spirava dal volto di quel caro angioletto sentì spuntarsi una
lagrima su le palpebre; allora curvò leggiera leggiera la persona,
e datogli un bacio nella fronte gli susurrò sopra queste
parole:--Dio sa, se pure te amo, o dolce figliuol mio; ma i tuoi sonni
sono quelli del felice. Possa la pietà dell'Eterno concederti
lungamente questi sonni!--Quindi lasciatolo in custodia di alcune
damigelle, volse alla camera della sua diletta Yole.

Giunta che fu, aperse l'usciale; il vento, che soffiava nel corridore,
glielo svelse di mano, e lo percosse con impeto alla parete. I
doppieri della stanza tutti ad un punto si spensero: ella nondimeno
avanzò; e sebbene acute strida la percotessero, avvisandosi di
quello che era, senza turbarsi disse alle circostanti: «È qui la
mia figlia Yole?»--Matelda, riconosciuta la voce, rispose tutta
affannosa: «Santa Oliva di Palermo! siete voi, Regina? Voi ci avete
fatto la più grande paura che mai sia stata al mondo.»

«Matelda,» soggiunse gravemente la Regina Elena «non su la
vostra paura, ma di mia figlia io vi ho fatto domanda.»

«Regina, è nel giardino.»

«Rimanetevi con Dio, damigelle, e mostratevi in avvenire di più
forte spirito, perchè sappiate la paura essere presentissimo segno
di animo non retto.»

Così Elena, senz'altra compagnia, lasciando quelle codarde a
rassicurarsi del terrore, e a dolersi del conseguito rimprovero, mosse
al giardino reale, dove, poichè alquanto si fu aggirata, occorse in
Gismonda, la quale, assorta nel pensiero degli ultimi casi, non le
badò, se non dopo che l'ebbe per ben tre volte chiamata. A lei
domandava di Yole; e vedutala mesta, volle saperne la causa, e
conosciutala confortò la gentile damigella. Quindi unite si mossero
a ricercare Yole.

Avvicinandosi alla gran porta che conduceva fuori del giardino, si
offerse alla vista loro una donna distesa sull'erba; accorrevano
affannose.--Dio eterno! Yole in quella abbandonata riconoscevano.
Elena, vedendole la veste stracciata, e intrisa di sangue, riputandola
morta, con orrenda ansietà le si gettò addosso cercando la parte
del cuore per sentire se batteva... egli debolmente sì, ma pure
batteva: allora guardò la ferita, conobbe essere leggiera, e
sospirò.

«Gismonda, corri alla fontana, e porta un po' d'acqua.»

Gismonda partiva.--Elena, postasi a sedere su l'erba, si recò in
grembo la figlia, la scinse, e le soprappose una mano alla fronte,
pietosamente riguardandola. Ella aveva gli occhi chiusi, e non di
meno era bella. La luna la vestiva di una luce modesta, e parea
godere d'illuminare quel volto, gentile quanto il suo raggio
medesimo.--«Povera figlia!» ad ora ad ora diceva singhiozzando:
ma allorchè il pianto le ingombrò gli occhi per modo, che
più non potesse contemplare quel volto, gli volse al cielo e
parlò:

«Accettate, Signore, questo sacrificio di lagrime: egli deriva da
un'anima profondamente addolorata. Oh! dalla nascita di questa
infelice figliuola non ho avuto più un'ora di bene.--Povera Yole!
pur troppo tu fosti generata nella sventura,... ma... Dio onnipotente!
se voi sapeste che sia per una madre vedere queste guance, su le quali
non erano per anco sbocciate le rose della giovanezza, ora a un tratto
impallidirsi: che queste membra, non ancora arrivate all'incremento
loro, a poco a poco disfarsi, non mi affannereste così.--Povera
innocente! La sua anima non conosce il peccato, e pure una pena
orribile la turba, le avvelena la vita un secreto tormento, cui ella
non può nè allontanare, nè conoscere, perchè Dio si mostra
misterioso nei suoi stessi tormenti. Chiamasi pietà questa di
ragunare tutte le procelle dell'inverno per atterrare un fioretto,
testè apparso sul prato?¹ Tua è questa carne,--quest'anima,
tua: ma creasti tu forse per godere l'atroce diritto di
distruggere?--Toglitela se ti piace, ma deh! non provarla con tanto
dura battaglia... Elena! sciagurata Regina! tu hai ardito mormorare
dell'Eterno...--Io?--Signore, le mie pene sono ben grandi...
perdonatemi. L'angoscia accieca la mente: perdonate ad una madre, che
lietamente darebbe in questo punto la vita, anzichè piangere sul
sepolcro dei proprii figliuoli.»

  ¹ Dicam Deo....... Numquid bonum tibi videtur si calumnieris me, et
    opprimas me opus manuum tuarum? (_Job_, c. 40)

In questo Gismonda a mani curve, a guisa di tazza, giungeva dalla
fontana; ma la fretta fece sì, che appena poche stille di acqua vi
si conservassero: queste nondimeno, spruzzate sul volto di Yole,
ebbero virtù di ritornarla alla vita. Apriva la vergine
languidamente gli sguardi, e tratto un gemito domandò: «Dove
sono?»

«Nel grembo di tua madre.»

«Oh! non ne fossi mai uscita.»

«Che? Respingi il grembo che ti ha portato... il seno che ti diè
il latte? Santa Maria! anche a questo era riserbata la Regina
Elena?... Ah! le mie ambasce si fanno maggiori della mia
pazienza.»--Così dicendo lasciava di sostenere la figlia, e,
lacrimando disperatamente, cadeva.

«Gismonda!» disse allora Yole a questa damigella, che sola era
rimasta a sorreggerla, «perchè mi ha lasciato mia madre? Le sono
forse divenute troppo gravoso incarico le membra di sua figlia? Ah! io
incresco a tutti, e a me stessa....--Chi è che piange? Gismonda,
dimmi, chi piange?»

«La madre vostra.»

«Perchè?»

«Voi avete desiderato di non averla avuta per madre.»

«Io ho detto questo?... Io!» esclamò Yole: e il rimorso
dell'anima gentile le ricondusse su le guance i colori del pudore.
«Sciagurata! Oh! l'ottima delle madri, non vogliate piangere a
quelle cose che ho detto, ma piangete piuttosto per quello spirito che
mi costringe a dirle.--Certo, il mio cuore non vi assente.... ma una
forza feroce mi agita l'ossa, e il sangue. Io vi amo, madre mia, vi
amo di quell'amore stesso che voi amate me:--prescrivete; ogni
qualunque prova, e sia pure quanto si voglia dolorosa, incontrerò
lieta per amore vostro. Io non vi offro la vita, che il togliermela
sarebbe il più grande benefizio, che il cielo e gli uomini mi
potessero fare; ma cessate di piangere per cagion mia.... cessate, od
io muoio di affanno ai vostri piedi.»

«Io sono lieta, Yole,» disse la Regina, abbracciando la figlia,
ed amorosa baciandola; «ma tu, via, cessa di darmi tanta
afflizione. Parla.... dimmi: qual cosa mai tanto duramente ti
molesta?--Qui nel mio cuore deponi il tuo segreto.... nel cuore di tua
madre, che darebbe la vita per vederti felice. La tua sorella lo è
già: e quando te pure io vedrò così, il giorno della mia
morte sarà il più avventuroso di tutta la mia vita.»

«Gostanza» rispose Yole con accento solenne «è, e si
manterrà lungamente felice. Al cielo piacque separare la causa
della figlia di Beatrice di Savoia dalla causa della figlia di Elena
di Epiro. Su me.... su noi pesa un atroce destino. Noi morremo
illagrimati, giaceremo insepolti, monumento di pietà, d'invidia, e
di ferocia. A che vi arrancate, madre mia, per ricercare nel mio
spirito la cagione del dolore? Sollevate gli sguardi;--la causa della
nostra disperazione scintilla nel cielo....»

Elena sollevò gli sguardi all'orizzonte, e vide, o le, parve
vedere, la cometa scuotere minacciosa i suoi raggi. Non ne sostenne
l'aspetto, ma riabbassata la faccia passò il suo braccio in quello
di Yole, e mestamente silenziosa prese a incamminarsi verso il
castello. Le seguitava Gismonda, mormorando a bassa voce una preghiera
per la pace allo spirito travagliato delle sue dilette signore.




CAPITOLO QUARTO.

OFFESA.

                Che temi, animo mio, che pur paventi?
                Accogli ogni tua forza alla vendetta,
                E cosa fa sì inusitata, e nuova,
                Che questa etade l'abborrisca, e l'altra
                Che venir dee creder la possa appena...
                Sono innocenti i figli? Sieno,--sono
                Figli di traditore.
                          ORBECCHE, _tragedia antica_.


Nella parte occidentale del castello del Conte di Caserta era una
cameretta remota nella quale nessuno, per quanto fosse ardito, osava
di penetrare. I servi, allorchè nella notte faceva bisogno per
alcuna faccenda passarvi vicino, commettevano alla sorte la scelta di
quello che doveva andare; nè questi apprendeva mai il suo nome
senza impallidire; e sebbene si raccomandasse al suo Santo protettore,
e si munisse col segno santissimo della fede, pur tuttavia
s'incamminava sempre tutto pauroso, senza volgere la testa, a passi
accelerati, mormorando un esorcismo. Ciò non accadeva senza forte
motivo, imperciocchè la tradizione portasse che quivi fosse stato
commesso un molto terribile delitto; e sovente vi udivano pianti,
gemiti, ed urla disperate. V'era perfino qualcheduno della famiglia
che giurava su l'Evangelo aver veduto uno spettro di donna con un
pugnale nel seno, dal quale sgorgava un vivissimo sangue, farglisi
incontro, e dimandarla con voce lamentevole: «Il mio figlio? Il mio
figlio?» Insomma, al naturale orrore del luogo si aggiungevano le
fantastiche paure di menti superstiziose e ignoranti.

Questa camera appariva internamente poco più lunga di dieci passi,
altrettanti alta, e larga; perfettamente cubica. Le pareti, il
soffitto, il solaio, tutti coperti di nero. In essa non occorrevano
suppellettili di sorta alcuna, nè sedie, nè tavola, o che altro;
solo una lampada involta dentro velo nero, appesa al soffitto,
tristamente la illuminava. Traccia di balcone nessuna. Nella parete
volta a mezzogiorno si vedeva un tabernacolo simile in tutto a quelli
che, con troppo generale denominazione, soglionsi oggi giorno chiamare
gotici, e questo pur nero, quantunque se di marmo o di legno non abbia
conservato la cronaca. Ma se di tabernacolo gotico aveva la tavola,
sporgente dal muro, sostenuta da beccatelli traforati a fogliami, le
colonne a spirale contro ogni regola di architettura soverchiamente
sottili, e frontone protratto in angolo acuto, frastagliato di ornati,
senz'altro sodo o cornice posato sui capitelli delle colonne, non
aveva però in sè Santo, o Madonna, siccome nei tabernacoli
gotici anche oggidì osserviamo. L'aspetto di questa camera faceva
supporla destinata ad uffizio di Oratorio, benchè non si
discernesse a cui fosse consacrata.

Lì presso al tabernacolo stava immobile un uomo di persona più
alta della comune; vestiva cappa di panno oscuro, cinta strettamente
alla vita. Il suo sembiante...... oh! il suo sembiante era tale, che
chi lo mirava per nessuna altra cosa sapeva più supplicare
l'Eterno, se non per ottenere dalla sua pietà la dimenticanza di
cotesto volto. La sensazione che agitava la gente alla sua vista non
può ridirsi che per via di paragone, assomigliandola a quella che
suscita nel cuor dell'uomo sospeso sopra lo abisso delle acque l'urlo
salvatico del mostro marino. I colori della malattia e della paura gli
stavano su la fronte: le guance aveva emaciate, il labbro tumido, e
acceso. Nessuna scintilla, che accennasse la vita, balenava nei suoi
occhi incavati, coperti di un velo, intenti, ghiacciati. Angeli del
Paradiso! Parevano quelli di un Vampiro.¹ La sua immobilità, e
le membra abbandonate a sè stesse, facevano riputarlo un morto,
così fissato in piedi lungo la parete per indurre a penitenza con
tanto spaventoso spettacolo chiunque si fosse vôlto a pregare là
dentro;² ma facendosegli assai da vicino, vivo lo manifestavano il
grave respiro, e il tremolare del labbro superiore in brivido
affannoso.

  ¹ Errore che anche oggi regna in Ungheria, in Moldavia ec. ec., e
     specialmente in Grecia: credono che il corpo di uno scomunicato
     esca dalla fossa a succhiare il sangue dei vivi. Il Dottor
     Polidori descrivendo gli occhi di un Vampiro dice: «che
     cadeano su la pelle come un raggio di piombo che gravitàsse
     senza penetrare.»

  ² Costume siciliano. Vedi Pindemonte.

Poichè lungamente stette così senza dare quasi segno di vita,
prese a camminare per la stanza; ma l'anima, assorta in ben altri
pensieri, non dirigeva quei moti. Il suo corpo era lo stesso che
abbiamo descritto qui sopra, se non che si moveva; ma i suoi passi non
avevano oggetto nessuno. Ora andava direttamente fino alla parete,
dove percotendo si ritraeva; ora giunto alla metà della camera
piegava a destra, o a sinistra; spesso anche in circolo si aggirava.
Io ho veduto il sonnambulo, ho veduto il maniaco, ma non vive cosa nel
mondo che possa uguagliare l'orrore che ispirava costui.

Con gli occhi sempre fissi al soffitto, si volse a un tratto verso il
tabernacolo: brancolando per lo interno, pervenne a trovare un bottone
appena visibile, lo spinse, e si manifestò certa apertura dalla
quale trasse una cassetta nera sottilmente ornata di lavori di
argento. Ricercandosi poi sotto le vesti, rinvenne la chiave: la sua
mano, adesso divenuta fuori di misura paralitica, errò assai tempo
prima di trovare il serrame: trovatolo, applicò la chiave, lo
schiuse, e la cassetta aperta lasciò vedere un teschio umano
politissimo, con estrema diligenza conservato. Lo prese costui con
ambedue le mani, e, postolo sulla tavola del tabernacolo, lasciò
con dura percossa cadersi prostrato innanzi di quello, tenendo la
faccia sempre vôlta al soffitto, e le braccia incrociate in atto di
preghiera.

Era certamente trapassata un'ora ch'ei stava in questa posizione,
quando, abbassato il capo, si mise a riguardare fissamente il teschio.
I suoi occhi prima velati ardevano adesso di terribile luce; bentosto
si fecero rossi, scintillanti, ma non versarono lagrima; forse la sua
disperazione aveva esaurito anche questo ultimo conforto della
sciagura. Le sue labbra anelavano proferire parola, ma non potevano
mandar fuori che urla indistinte. Mi sia permesso il detto, questa era
l'ora dell'_uracano_ dell'anima. Commozioni tanto profonde, come ogni
altra cosa fuor di natura, lungamente non durano; simili però
all'uracano, lasciano dove passano traccie indelebili, e le sembianze
affatto tramutate. Quest'uomo, che dapprima poteva paragonarsi ad un
morto richiamato per forza di _negromanzia_ ad alcuno ufficio della
vita, adesso il vedevi divenuto tutto moto, e tutto velocità. Il
volto già così pallido avvampava acceso di colore febbrile: le
membra, d'immobili fatte convulse, in diversi atti del continuo
agitavansi, benchè non ardisse alzarsi davanti quel teschio che
sembrava adorare.

Nè passò molto che quei suoi urli indistinti si accostarono a
qualche cosa che parve favella umana: allora se alcuno avesse avuto
coraggio di porgere orecchio, ne avrebbe ricavato queste parole:

«Ecco!--Qui stavano quelle labbra che tanto soavemente
sorridevano.... ora le nude mascelle par che ridano tuttavia....
sì.... ma del riso del serpente, allorchè delusa la madre degli
uomini la intese condannata con tutte le future generazioni alla
morte.--Qui i mesti occhi.... e pur belli.... Qui la bianca fronte, e
le floride guance....--Or che rimane di tanta bellezza? Nude ossa....
la parte più vaga del corpo in celere dissoluzione si consumò....
l'ossa rimangono.... l'ossa, come spaventoso testimonio di morte...
Oh! per pietà di me.... per pietà di te, perchè non fingesti?...
L'anima mia geme orrendamente travagliata. Giaccio sopra letto di
fuoco, dal quale non posso levarmi, e sul quale, malgrado ogni
tormento di questa vita, e la eterna dannazione, tornerei a
giacermi.... O frutto amaro di vendetta non per anche compíta!--Io
non posso più offerire il cielo, che da gran tempo sta chiuso per
me; non lo intelletto ormai più che a mezzo perduto.... ma io
consentirei a sentirmi eternamente trasportato dai venti della terra,
percosso dall'onda procellosa contro le roccie del mare, trabalzato
per secoli e secoli negli abissi del caos, arso ad ogni istante dal
fuoco del cielo, tormentato con tutte le angosce, che mente umana, o
infernale, può immaginare, purchè potessi conseguire la intera
vendetta.... Allo spirito che albergava in questa testa giungeranno
funeste tali novelle.... Oh! questa è nuova pena, ed a un punto
nuovo incitamento per me.»

Mentr'egli così tra sè fantasticava, fu aperto pianamente
l'uscio della camera, ed entrò un uomo vestito doviziosamente, il
quale, postosi inosservato al fianco del genuflesso, stette senza
profferire parola ad ascoltare il discorso che abbiamo esposto qui
innanzi.

Dicono i maestri dell'arte, che la esatta descrizione del sembiante e
degli abbigliamenti di un personaggio, la qual cosa chiamano
_prosopografia_, valga maravigliosamente a procacciare attenzione al
racconto. Noi non sappiamo quanto questo possa esser vero; ma siccome
i maestri meritano sempre rispetto, così non esitiamo un momento a
descrivere il nuovo personaggio, protestando, che se ad alcuno non
andasse a' versi, voglia attribuirne la colpa ai maestri, che
m'insegnarono cotesta figura rettorica.

Il nuovo personaggio dunque, che, come io diceva, entrò tacito, e,
per così dire, furtivo, nella stanza dove l'altro si lamentava,
poteva essere tre braccia alto; forse meno, che più: di corpo
gracile per natura, e fatto maggiormente tale dalla abitudine del
vizio. Forse egli non annoverava molti anni, tuttavolta appariva da
buon tempo arrivato a quel punto nel quale l'uomo non potendo più
sorgere è forza che declini. La sua testa, su la fronte un po'
calva, andava non so se ornata, o deturpata, da radi capelli rossi e
distesi, ognuno dei quali pareva sorgere a bello studio in diversa
direzione dal suo vicino, offrendo in tutto la immagine di quel capo
che un moderno poeta con tanta evidenza di espressione assomigliava

    «Ad un campo di biada già matura
      Nel cui mezzo passata è la tempesta.»

Nè mai teneva il volto levato quando si trovava al cospetto di altro
uomo; solo di tanto in tanto alla sfuggita lo guardava per traverso; e
di subito, quasi timoroso che i suoi piccoli occhi grigi non
disvelassero i pensieri della sua mente, gli riabbassava. I labbri
strettamente chiusi avrebbero detto a chiunque si fosse alcun poco
dilettato a considerare le umane sembianze, lui essere uomo tremante che
non gli sfuggisse suo malgrado tal parola che potesse condurlo
direttamente al capestro. Vero è però che una passione, che egli
non sapeva frenare, glieli costringeva talvolta ad allungarsi verso lo
orecchie, e le guance a piegarsi in molte minutissime rughe; allora egli
sembrava sorridere. Che tutti i Santi del cielo ci salvino da cotesto
sorriso! Parlava tardo, ed amaro; e poichè la tranquillità della
sua anima era da gran tempo distrutta, godeva d'immenso piacere a
distruggere l'altrui. Se in quel punto l'angiolo delle tenebre avesse
amato comparire nel mondo con forme a lui convenevoli, certamente non
poteva immaginarne più triste di quelle del Conte di Cerra.

Il suo abbigliamento consisteva in sopravvesta di velluto verde
doviziosamente ricamata di argento, e foderata di vaio, lunga fino al
ginocchio, e dalle parti sotto in fianco divisa; preziosa cintura, in
mezzo alla quale stava effigiata l'aquila del Re Manfredi tutta di
argento sopra smalto celeste, gliela stringeva alla vita; sul petto
era nuovamente aperta, e le maniche non oltrepassavano la piegatura
del braccio. La sottovesta poi tessuta di seta, varia di molti colori,
e ornata d'infiniti bottoni di argento, aveva le maniche strette, e
lunghe fino al polso. Opera di ricamo maravigliosa a vedersi era la
tela che gl'ingombrava gran parte del petto e delle spalle. Una roba
di panno cremisino gli fasciava strettamente le coscie, e le gambe
sottili. Le scarpe erano pur rosse, appuntatissime, cinte sul grosso
con un bottone di argento. Questo era a un dipresso il suo
abbigliamento, quantunque molte cose per amore di brevità
tralasciamo; come la berretta, a foggia di corona imperiale, ornata di
belle piume; la catenella di oro che gli teneva appeso sul petto un
ricco medaglione, e la spada lunghissima con l'elsa a modo di croce,
secondo il costume di coloro che a quei tempi passavano in Terra
Santa; i quali la usavano in questo modo, affinchè nell'ora della
preghiera, la spada confitta su la sabbia presentando il segno della
fede, gl'incitasse alla conquista della patria del Redentore, che
volle per la salute nostra morire su cotesto istrumento di pena.

Il genuflesso, volgendo la testa, vide sopra di sè questo uomo, che
lieto del suo misero stato non aveva potuto frenare il riso schifoso
di cui qui sopra abbiamo fatto menzione; gli corse involontariamente
la mano alla fronte, e cominciò il segno della salute, che poi
invano si sforzò di compire: allora dimise la fronte, e
mormorò.... forse una preghiera;--ma certo ella fu detta con
l'amarezza della bestemmia. Di lì a poco rialzando il volto,
s'incontrava di nuovo in colui, che la sua compassione in nessuno
altro modo sapeva manifestare fuorchè col sorriso, ed egli di nuovo
si volse e guardò il teschio.... poi lui.... e poi il teschio, e da
capo lui; nè quel riso cessava.... All'improvviso balzato in piedi,
lo afferrò per la gola; e bestialmente feroce lo atterrò, gli
pose le ginocchia sul petto, e fece atto di strangolarlo. Ora la vita
del Conte di Cerra era giunta al suo fine, dove non lo avesse
sovvenuto il caso. Il teschio, smosso dalla sua caduta, balzava a
terra mandando un rumore che parve un grido lamentoso, e rotolava fino
su gli occhi dell'uomo che lo teneva per la gola: questi, dimentico di
ogni altra cosa, lasciava la presa, correva anelo a raccoglierlo, lo
guardava attentamente per vedere se si fosse in alcuna parte guastato,
e veloce come lampo nella cassetta, e quindi nel tabernacolo, lo
riponeva. Intanto il Conte di Cerra rilevatosi si aggiustava le vesti
scomposte, mostrando nella faccia livida la paura del passato
pericolo.

«Conte di Caserta,» dopo alcun tempo disse il Conte di Cerra
accostandosi all'uscio della camera; «ditemi di grazia: che cosa
farete ai vostri nemici, se tale vi comportate con gli amici e fedeli
servitori vostri?»

«Anselmo,» rispose il Conte di Caserta, «vi ho detto io forse
che dileggiate la mia miseria, e scherniate il mio dolore, e mi
suscitiate nell'anima un'ira più profonda dei miei rimorsi?
Doletevi con voi stesso, perocchè conoscete quali passioni
imperversino qua dentro:... Da lungo tempo ardono.... ma il cuore; non
è peranco tutto cenere....»

«Prendetevela con la natura, Conte di Caserta, che mi ordinò in
modo da ridere, dove altri piange. Ma parvi questa cosa da piangere,
vedervi tutte le notti tormentarvi innanzi un teschio inanimato, che
non può sentire le vostre bestemmie, o le vostre preghiere: nè
può maledirvi, nè perdonarvi? Io ve lo ho già detto le mille
volte, e vel ripeto adesso: voi ne perderete l'intelletto.»

«E conservarlo giova? E perderlo nuoce? Il rimorso vive con lui; e
perduto, gli sopravvive. Un giorno l'aveva intero, capace di tutto
comprendere, nè fui meno sventurato; ora io l'ho più che a mezzo
perduto, nè mi sento più felice per questo.»

«Ma via, concedete una volta che io vi tolga dagli occhi quell'ossame,
che di giorno in giorno vi diminuisce la ragione.--Pensate alfine, che
fu capo di donna che tradì il letto maritale, e portò nel suo seno....»

«Taci per l'amore che hai per la vita.... taci.... Il tuo ufficio
contro questa creatura terminò col colpo che le tolse la vita. Io ti
ho comandato essere il suo assassino, non già il suo detrattore.--Basta.
Io l'ho punita come colpevole, ora amo fingermela innocente.»

«Allorchè da giovanetto studiava le leggi nella Università di
Federigo, intesi, Conte, _che chi vuole il più deve necessariamente
volere anche il meno_. Mi deste il diritto di ricercare nelle sue
viscere,--e vorrete negarmi adesso quello di ricercare nella sua
fama?»

Il Conte di Caserta si accostò alla parete accennando cadere; lo
sostenne subito il Conte di Cerra che aggiunse:

«Oh! di ciò dunque non si faccia più parola. Messere, se
alcuna cosa può in voi la preghiera di un fedele servitore vostro,
abbandonate questi luoghi spaventosi, date alla terra quello che
appartiene alla terra,--le reliquie dei morti. Voi sapete se adesso
sia più che mai necessario star vigilanti, e avere il senno ben
retto.... In questo modo operando, i vostri disegni di vendetta contro
_colui_, temo forte non vadano a finire col diventare voi stesso
folle.»

«Ah!--Molto vi preme la mia vendetta? Molto la conservazione del
mio intelletto? Gran mercè!... Gran mercè! Cerra, io ve l'ho
detto più volte, siete sottile, e frodolento, quanto lo spirito del
male; pure gli accorgimenti vostri tornano inutili con me: io da gran
tempo vi conosco; deponete la lusinga d'ingannarmi; non vi date studio
di parlare con tant'arte. Voi temete che io perda il senno,--e lo
temete per me? Lo splendore di vostra casa era decaduto, e i tempi
presenti non concedevano sollevarsi con pubbliche o con private
virtù.---Voi non pertanto la riponeste nell'antico splendore.--Io
vi ho fatto Gran Camerlingo del Regno, e ricco, e potente;--tristo
eravate già troppo per non osare incolparmi sfacciatamente delle
vostre scelleraggini. Voi temete ch'io perda il senno,--e lo temete
per me?--E nessuna cura vi stringe, che io nella piena dell'affanno
sveli con un solo detto tal cosa, per la quale le nostre teste
cadrebbero sotto la scure del carnefice? E nessuna, ch'io, divenuto
soggetto di compassione e di riso, non abbia più facoltà di
disporre in favor vostro di quei beni, che adesso non posso più
lasciare al mio figlio, perchè voi gli avete portato la morte fin
colà dentro dove la natura ha posto il luogo acconcio all'opera
della vita?

«Conte, che vi giova affannarvi a conoscere il cuore dell'uomo?
Forse i vostri dubbii sono veri, forse anche falsi.--È prudenza
questa, logorare la ragione e il tempo in tale arte, della quale il
dubbio è il frutto meno amaro? Dio non volle darsi a conoscere agli
uomini, e si avvolse col mantello dei cieli profondi. Volete voi
penetrare i cieli, e investigare i pensieri di Dio? e, volendolo, lo
potrete?¹ La natura non ha voluto che il cuore nostro fosse
manifesto, e lo ha avvolto dentro un viluppo di ossa e di carne.
Qualunque più temerario pensiero della vostra anima immortale
potrà mai, Conte di Caserta, trapassare questo riparo di creta?
Contentatevi dunque delle opere, e non vi curate dei sentimenti. Tutto
questo discorso io ho voluto tenervi, onde non già abbiate di me
migliore opinione, ma perchè voi l'abbiate minore di voi quando
saprete che il vostro figliuolo vive.»

  ¹ Forsitan vestigia Dei comprehendes?.... Excelsior est coelo: et
    quid facies profundior inferno; et unde agnosces?

Il Conte di Caserta divenne pallido come la morte, vacillò, e
stette lungo tempo pensoso; poi si fece a lenti passi verso il Cerra,
lo prese pel braccio con la sinistra, e con la destra gli fece tale
atto, che la favella, quel nobile attributo che distingue l'uomo da
ogni altro animale, sembrò quasi sdegnosa di profferire. Il Conte
di Cerra, per quanto visibilmente si sforzasse, non potè di tanto
reprimere quel suo riso, che due o tre volte non gl'increspasse la
faccia; nondimeno si contenne, e parlò:

«E che, Caserta?--Tremate voi così presto essere ridivenuto
padre? Non avete voi detto ch'egli è figlio vostro? Or dite, via,
che io l'ho spento nelle viscere materne, e che la ingordigia di
acquistare conduce i moti dell'anima mia! Presuntuoso che siete,
rinunciate alla conoscenza del cuore umano!»

«Egli vive! Tu lo hai detto.... dunque tu mi hai tradito? Va,
Anselmo, va per l'amore di Dio, uccidilo avanti che la notte
sparisca.... prevaliti di queste ore di notte che avanzano....
egli.... egli è un monumento di peccato.... egli non è mio
figlio.... non è mio figlio.... bisogna che muora.»

«Bisogna che viva, Conte di Caserta.»

«Da quando in qua ricusa Anselmo di fare il sicario? Lo
conoscerò, lo ucciderò io stesso in questa medesima
notte.»--E così dicendo si precipitava verso la porta: gli si
parò davanti il Conte di Cerra, e gli disse ad alta voce:
«Importa che voi mi ascoltiate.»

Qui cominciava tra loro un velocissimo conversare in tanto basse
parole, che appena gli avrebbono potuti sentire alla distanza di
quattro o sei passi; ma frequenti e feroci erano i gesti, terribili i
volti, romorosi i giuramenti. Alfine parve tutto convenuto tra loro;
allora il Conte di Cerra, giubbilando, con quella sua orribile
contorsione di volto, domandò: «Messere, che parvene di questo
mio ritrovato?»

«E' parmi cosa» rispose il Caserta «che l'età presenti e
le future malediranno,--cosa che il narratore dei casi antichi
schiverà riporre nella sua cronaca come troppo favolosa;--cosa in
somma che lo stesso Lucifero non avrebbe potuto immaginare maggiore
nella sua stessa potenza del male. Il tradimento, e il parricidio,
commesso per amore di vendicare il padre, era un pensiero degno di
meditarlo il Cerra.»

«E di ascoltarlo il Caserta.»

Dopo queste parole il Conte di Caserta accennò ad Anselmo di
andare.

Questi, curvata la persona in atto ossequioso, partiva.




CAPITOLO QUINTO.

INGANNO.

                Ne diè Natura, è vero,
                La lingua perchè serva
                A palesar del cuor gli occulti sensi;
                Ma l'artificio uman così l'adopra,
                Che non gli manifesta, anzi gli asconde;
                E ben io so ch'è folle
                Chi mirar crede entro la voce l'alma.
                            CLEOPATRA, _tragedia del Cardinale
                                  Delfino Patriarca d'Aquileia_.


E se la vita fu bene, perchè mai ci vien tolta?--E se la vita fu
male, perchè mai n'è stata concessa?--Oh! l'ora della morte
travaglia d'ineffabile angoscia. Io, che, per felice disposizione
della natura, posso senza dolore e senza gioia guardare la contesa
della distruzione e della esistenza, ho considerato l'uomo spento col
ferro: egli aveva i capelli ritti.... le pupille terribili.... la
bocca in atto di profferire una minaccia.... tutte le membra disposte
a disperata difesa. Ho considerato l'uomo spento coll'arme da fuoco: i
suoi occhi erano languidi.... il volto abbattuto, come quello dello
estenuato da lungo patire. Finalmente ho considerato la forza della
malattia mortale sul giovane, e sul provetto: in quello la vita
lottò con vigore proporzionato alle sue forze, e gli ultimi suoi
istanti furono atrocemente dolorosi; in questo, di cui l'alito avrebbe
a mala pena potuto muovere una piuma, e appannare il cristallo
accostatogli alla bocca, la morte parve imperversare meno furiosa,
anzi calare lieve lieve la mano ghiacciata a stringergli il cuore.--Ma
e nello spento per ferro, e nello spento per fuoco, nel giovane, e nel
vecchio.... in tutti ho osservato il gravoso affannarsi
dell'agonia.... il ravvolgersi degli occhi desiderosi della luce....
il brivido celerissimo a fiore di pelle precursore della cessazione
del moto.... la grossa lagrima distillata dal cervello gocciare giù
per la pallida guancia.... tutte le membra contrarsi.... raccogliere
coll'ultimo anelito in un sul punto la vita, e.... con un sospiro il
cuore ha cessato di battere: l'eterna immobilità inceppa le
fibre:--l'uomo diventò tutto materia?--Oh! è amaro, è amaro
il punto della distruzione della vita.

E pure più amaro parve a Rogiero quello in cui, ascoltando i passi
di persona che si dirigeva alla sua volta, e la voce che di mano in
mano si approssimava, fu costretto di sciogliersi dalle braccia di
colei che tanto aveva amato senza speranza.... Dio eterno! Era la di
lei fronte ghiacciata.... le membra irrigidite; nè di per sè
stessa poteva reggersi in piedi:--e la bocca? Un alito leggerissimo
annunziava la vita.--Le voci e i passi si fanno ad ogni momento più
vicini.--L'adagerà Rogiero su l'erba del prato, o la sosterrà
sempre stringendosela al seno? Veramente sarebbe la forte prova di
amore abbandonarla così fuori di sè a persona sconosciuta! Ma
l'averla tra le braccia è misfatto.--Nè la infamia del misfatto,
nè il dolore della pena ricuserebbe Rogiero, purchè gli fosse
concesso riporla nelle mani delle sue damigelle, o di sua
madre.--All'improvviso la sua mente, più che dai molti anni,
ammaestrata dalle molte scelleratezze degli uomini, ricorre al
pensiero, che invidiato si solleva il bel giglio; vede il rettile
schifoso anelante di contaminare quella intemerata candidezza; ode il
malignare della razza del fango; un senso generoso lo esalta; vince la
presente passione, adagia Yole sul terreno, china verso di lei i suoi
sguardi, giunge le mani, si volge al cielo, e fugge senza mandare un
sospiro.

Certo, non si vuole dubitare, che in ogni caso quell'addio sarebbe
stato muto, perchè la passione loro non era da esprimersi con
parole; pure se Yole fosse stata in sè, avrebbe veduto un tale
sguardo, che poi invano avrebbe tentato di cancellare dalla memoria;
uno sguardo che svelava il desiderio di cose che l'uomo non può
conseguire, l'irremovibile giuramento di non declinare per casi o per
tempi dalla stabilita proposta, e la coscienza di vivere senza
speranza, e senza speranza morire. Fu senza dubbio nasconderle quel
guardo profonda pietà: egli avrebbe accelerata la perdita della
ragione, alla quale la misera era condannata fino dal suo nascimento.

Intanto Rogiero, ripostosi a guardia sotto la volta, non poteva
condurre lo intelletto a meditare sopra i casi avvenuti, però che
il cuore avvolgendosi per le memorie di quelli amava commettersi allo
impeto delle sensazioni.

In questo modo dimorando, intese il romore di un passo che pareva
avvicinarsegli; porse l'orecchio, e allorchè fu tempo domandò ad
alta voce: «Chi è che passa?»

«Che San Germano vi aiuti!» rispose un uomo di sembianze
piuttosto dure, di aspetto vigoroso, tutto coperto di piastre e maglie
di ferro, come usavano portare gli uomini d'arme del Re Manfredi;
«buona guardia, Rogiero.»

«Oh! siete voi, Roberto?» disse Rogiero riconoscendo la voce;
«qual diavolo vi porta in questi luoghi a questa ora?»

«Voi stesso.»

«Gran mercè alla cortesia vostra, Roberto; un amico qual siete
voi giunge opportuno a tutte le ore, specialmente poi a quelle della
guardia.»

«Rogiero, io ho le molte cose a dirvi.»

«Ed io, come vedete, luogo e pazienza da ascoltarle;
parlate,»--disse Rogiero, facendo aspetto di non volere porgere
grande attenzione a quello che stava per dirgli l'uomo di arme, e
continuando a passeggiare.

«Giovane!» parlò cupamente Roberto, ponendosi a sedere,
«io posso con una sola parola rendervi immobile per più lungo
tempo che voi non vorreste: però accostatevi, sedetemi qui a canto,
e sopra tutto parliamo basso, che nessuno ci senta.»

Rogiero non sapendo il perchè, senza alcuna cosa rispondere,
obbediva; l'uomo di arme continuava così: «Rogiero, avete voi
ripensato a quello, che nel mese scorso vi predisse l'astrologo
saracino Ben Hussein?»

«Santa Rosalia! Codeste sono vanità; io le ho affatto
dimenticate.»

«Se voi le credevate vanità, perchè le avete ascoltate? Voi
avete interrogato le stelle, ed esse vi hanno risposto la verità;
voi l'avete dimenticata, ma vi è tale che la rammenta per voi.»

«Manco male: parmi che parlasse del _Sagittario_....»

«Appunto: voi nasceste sotto questa costellazione, e il vostro
_oroscopo_ porta, che dovrete travagliarvi in lunghi viaggi. Furono
ancora consultate le vostre mani; infatti, che cosa dice il sapiente
Re Salomone? _la lunghezza della vita è nella sua destra, le
ricchezze e la gloria nella sua sinistra_.¹ L'arte manifestò _la
ruga della grandezza vermiglia e profonda;_ ma la ruga della _vita_
comparve a un tratto interrotta, e fece andar pensoso l'astrologo, che
una morte violenta innanzi tempo....»

  ¹ Longitudo dierum in dextera ejus, et in sinistra ejus divitiæ et gloria.

«Roberto,» disse Rogiero, alzandosi con impazienza, «è
egli forse vostro pensiero atterrirmi? Che serve che mi tentiate
l'anima? Oggimai dovreste sapere, che il mio volto non impallidisce al
pericolo.»

«Giovane! è vero quello che dite, ma voi siete troppo impetuoso;
«--rispose Roberto costringendolo a sedersi di nuovo, e quindi
riabbassando la voce lo domandò:

«Conoscete voi il padre vostro?»

«Io?--no.»

«Sapete voi chi vi ha salvata la vita?»

«Io ignoro quando mai sia stata in pericolo.»

«Lo fu.»

«E voi lo sapete forse? E perchè non me ne avete fatta parola
prima d'ora?»

«Perche la notte viene a cacciare la luce dal firmamento?»

«Voi invece di risposta mi fate nuova domanda, Roberto.»

«Perchè la notte viene a cacciare la luce dal firmamento?»

«Perchè?... Perchè la legge della natura ve la costringe.»

«E me costrinse la forza degli uomini potenti quanto Lucifero.»

«Ma ora, se vi viene concesso, ditemi: qual'è mio padre? che fa?
quale il suo stato? Fu per suo volere, o per altrui, che mi lasciò
fino a questo momento languire nella oscurità?»--Roberto non
rispondeva parola. Allora Rogiero, quasi supplichevole, riprendeva:
«Parlate, Roberto, parlate; il vostro silenzio mi lacera il
cuore.»

«Voi mi fate tante domande, alle quali risponderò due sole cose.
Vostro padre vive, ma sta presso al morire. La vostra condizione vi
sarà manifesta in questa notte.»

«Dove? In qual luogo? Ecco, io mi chiamo pronto a seguirvi.»

«Andiamo,» disse Roberto; e Rogiero levandosi moveva già il
passo per andare, quando a un tratto ristette, e parlò:

«No.... adesso è impossibile; fermatevi qui, Roberto, finchè
la mia guardia sia finita.... poco più manca a finirla,...
altrimenti non potrei senza mancare al mio Re, e dare sospetto di
tradimento.»

«Sospetto!»--In verità voi dovrete tradirlo: innanzi che
passi questa notte, desideroso di vendetta, vi porrete a capo dei
traditori di colui che ora custodite dai tradimenti, ed il fine di
ogni operazione di vostra vita sarà la morte di Manfredi.»

«Ribaldo! allontanati, o la mia lancia farà conoscenza col tuo
sangue: tu vuoi ingannarmi, e tradirmi,--codardo!--Ed io che era
già presso a darmi per vinto!... Allontanati.»

«Tradirvi io? ingannarvi io?» senza punto commuoversi soggiunse
l'uomo d'arme. «Il bel suggello che siete, per ingannarvi! Giovane,
non presumete tanto di voi stesso. L'oscurità, la miseria, il nulla
in che giacete, più che l'ingegno vostro vi salvano dall'essere
argomento d'inganno. Io ho fornita la mia commissione presso di voi;
solo mi piace rammentarvi, che quando si diffida di un uomo, non
conviene dirglielo così palese in faccia; poichè i momenti della
vita di vostro padre sono numerati.... e in questo punto medesimo è
ormai troppo tardi il muoverci.--Buona notte....»

«Fermatevi: in nome del Santo Sepolcro, concedete un momento.... Io
non ho da conservare l'onore dei miei maggiori, perchè non
appartengo a nessuna famiglia.... non ho che il mio; ma questo mi è
caro, come se mi fosse stato trasmesso da Roberto Guiscardo, o da
Enrico l'Uccellatore:--ma mio padre muore, dite voi; e se non lo vedo
adesso, nol rivedrò mai più, e rimarrò nelle tenebre dentro
le quali sono nato.... Ma il mio onore, il mio onore! Roberto, deh!
per pietà, non vogliate ingannarmi.»

«Povera anima, sai tu veramente che cosa sia onore, che, cosa
infamia?» proruppe Roberto. «Getta uno sguardo su i Baroni della
corte di Manfredi; essi sono grandi, perchè i loro padri tradirono
Guglielmo il Normanno: i loro figli si manterranno in grandezza nella
corte dell'Angioino, perchè tradiranno Manfredi lo Svevo.»

«Ah! questa è dura verità.»

«Ne apprenderete ben altre, Rogiero, nel cammino della vita. Ma or
via venite, _se volete_: affrettandoci, potrete tornare _se volete_,
e, se vi parrà, essere piuttosto schiavo di un tiranno che
vendicatore del padre.» E tale dicendo, Roberto camminava.

Rogiero stava tuttavia esitante, ed ora portava i suoi sguardi su
l'asta che doveva abbandonare, ora su l'uomo di arme che si
allontanava. «E v'è un destino!» finalmente proruppe; «noi
tutti governa il destino. Invano ti adopererai tenerti a sinistra, tu
ti troverai a destra, se così fu scritto nei cieli; e da che la
resistenza non giova, il meglio è lasciarmi ire ciecamente nelle
braccia della sorte che governa i miei giorni.» E gittava l'asta, e
risoluto come colui ch'era ormai disposto ad affrontare ogni più
dura occasione, si pose dietro alla sua scorta, e la raggiunse alla
uscita della volta.

«Roberto,» disse Rogiero in andando «avete mai ascoltato la
parola di Dio?»

«Certamente.»

«Avete mai pensato al premio di colui che vendè il sangue di
Cristo per pochi _agostari?_»¹

  ¹ Moneta d'oro coniata ai tempi di Federigo II: aveva da un lato
    l'aquila imperiale, dall'altro l'immagine dell'Imperatore: costava
    circa un zecchino e un quarto.

«Certamente:--il capestro in questa vita, e la eterna dannazione
nell'altra.... Ma, se io non m'inganno, voi dubitate della mia fede
pur sempre, Rogiero; ed io vi dico, che nessuno scopo mi stringe a far
sì che voi mi seguiate; che la mia commissione finisce con
l'ambasciata che vi ho riportato; che voi siete signore di rimanervi,
perchè non ho, nè voglio impiegare, i mezzi da costringervi.»

«Oh! sì, ponete innanzi alla fantasia accesa un oggetto che
valga a concitare potentemente la principale passione dell'anima, e
poi dite in noi essere libero arbitrio di non seguitarlo, in noi forza
da ributtare ogni lusinga! Questa sentenza parmi uno scherno feroce,
che voi facciate alla nostra natura.»

«Dunque abbiatemi maggiore fiducia, scudiero: forse al mondo non
v'è più lealtà?»

Mentre così tra loro favellavano, si erano di alcuni passi scostati
dalla volta, di sotto alla quale, sul finire delle parole di Roberto,
parve uscire, ed uscì certo, una voce che disse: non v'è più
lealtà.»

«Croce di Dio!» gridò Roberto indietreggiando per lo
spavento, e facendosi il segno della salute; «avete sentito,
Rogiero? Queste sono illusioni del demonio; che Santa Rosalia ci
aiuti!»--E poi continuava in debole suono: «Mi maraviglio, come
cento altre volte, nelle quali a ragione mi sarebbe stata diretta una
parola di rimprovero, non abbia sentito mai nulla, ed ora si faccia
sentire, ora» e qui alzava la voce «che nessuno può dirmi:
sei un traditore.»

E la voce rispondeva: «sei un traditore.»

«Questo è più di quello che io possa sopportare! O uomo, o
demonio, tu te ne menti per la gola.»

E la voce: «menti per la gola.»

L'uomo d'arme calò la visiera, trasse la spada, e avvoltosi il
mantello intorno al braccio sinistro fece atto di avventarsi sotto la
volta. Rogiero, che ragionevolmente non avea per anche deposto ogni
dubbio sopra la fede di quell'uomo, stette ad osservarlo con diligenza:
vide il subito terrore, figlio della trista coscienza, e vie più
sempre esitò; ma quando poi si accôrse che il sentimento dell'onore,
vinta la superstiziosa paura, gli poneva in mano la spada, e lo concitava
a degna vendetta, deposto ogni altro sospetto, stabilì affidarglisi
intero: onde, sapendo per uso da che quella voce derivasse, fattosi
incontro a Roberto con viso ridente gli disse:

«Rimanetevi, buona lancia; ogni vostra impresa contro l'ente dal
quale uscì quella voce sarebbe affatto impossibile.»

«Questo adesso vedremo,»--rispondeva Roberto, duramente
respingendo Rogiero, e sempre in atto di avventarsi.

«Rimanetevi, rimanetevi; non vi siete accorto ch'è l'eco? Non ha
egli ripetuto il fine dei vostri discorsi? Con cui vorreste
combattere, se la voce è uscita da voi?»

«San Giorgio! Io credo che abbiate ragione, Rogiero,» disse
Roberto; e in questa, fatto bocca da ridere, si asciugava la fronte
sudante per la paura. «Ma come dice il proverbio? La natura non si
vince; cacciala dalla porta, ti tornerà dalla finestra.» Dopo
queste parole fatto silenzio, quasi temesse non giungere a tempo, si
dette a riacquistare con passi veloci il tempo che aveva consumato in
discorsi. Rogiero osservò ch'egli nondimeno curava di prendere la
via più remota, piuttosto che la più corta; e sovente, come
timoroso di smarrirsi, si soffermava; ed esaminato il luogo faceva un
segnale, che, ripetuto subito di distanza in distanza, si propagava
fino a tal punto, che l'orecchio a mala pena lo udisse. Così
camminarono lungamente, allorchè Roberto soffermatosi si volse a
Rogiero, e parlò:

«Scudiero, vi fidate di me?»

«Roberto mio, concedete che ve lo dica col cuore su le labbra; la
vostra domanda è fatta in tal tempo e in tal luogo, da dare
piuttosto sospetto, che sicurezza. E poi, voi dovreste vedere bene,
che qualunque fossero i miei sentimenti, adesso mi conviene dire che
mi fido.»

«Credo che voi abbiate ragione.--Se così è, mi permetterete
che io vi bendi gli occhi.»

«Fatelo. Io non ho motivo di temere di voi. Non vi ho fatto mai
male; e per me, comunque sia grande la scelleraggine umana, non
crederò mai che giunga a porre le mani nel sangue innocente.»

«Il vostro cuore vale meglio della vostra lingua. Non siete voi che
avete promosso poc'anzi l'esempio di Giuda? Povero giovane!»
continuava con voce commossa, «voglia Dio mantenervi in tali
sentimenti, come a me perdonare di essere stato una prova in
contrario.»--Questa ultima parte del suo discorso fu appena
mormorata, e parve come strappata di bocca per quell'arcano potere che
ha la buona coscienza su la scellerata. Vero è però che l'opera
che adesso l'occupava non pareva di sangue, imperciocchè il suo
volto fosse sicuro, la voce ferma, nè le membra gli tremassero,
come suole avvenire tra la gente della sua fatta, allorchè si
apparecchiano a commettere un delitto.

Intanto Rogiero, bendati gli occhi, pose il suo braccio sotto quello
di Roberto, il quale con amorosa diligenza lo condusse per cammino
tortuoso e diverso. Percorsi circa cinquecento passi, fu fatto
fermare. La guida dette un segno, battendo le mani; allora fu
abbassato un ponte, che, per quant'arte avessero adoperata a
nasconderne il rumore, Rogiero intese nondimeno calare. La guida lo
invitava a proseguire il cammino, ed egli, passando sul ponte, lo
sentì lastricato di pietre come la strada che aveva fino a quel
punto percorsa, e questo certamente a bella posta, onde la gente
bendata che vi passava sopra non se ne accorgesse. Rogiero poi, sia
che fosse dalla natura di più squisiti sensi dotato, sia che
qualche trascuranza fosse avvenuta nel calarlo, si accôrse
benissimo del ponte, ma non ne fece sembianza, e tirò innanzi.

Così dopo ch'egli ebbe con infinite precauzioni trapassato un
numero maraviglioso di corridori e di camere, intese una voce diversa
da quella del suo conduttore, che in suono assoluto gli disse:
«Potete togliervi la benda.»

Obbediva, e lo sguardo tornato al suo ufficio si volse curiosamente
d'attorno per conoscere il luogo. Questo però non era singolare in
nulla: presentava vastissima stanza fabbricata a volta; in parte
illuminata da una lampada, che gettando tutta la luce sopra Rogiero,
teneva quasi all'oscuro due uomini sedutisi ad una tavola posta a
qualche intervallo da lui. Rogiero guardando se la sua scorta lo
avesse abbandonato, si accôrse che su l'entrare di quella stanza se
n'era partita. Pose pertanto ogni sua attenzione ai due personaggi
rimasti. Le vesti loro apparivano semplicissime; nulla accennava in
essi altezza di sangue, ed opulenza di stato; nè altra cosa era
osservabile in loro, se non che il volto quasi tutto coperto di un
drappo nero.

Quegli, che, per quanto, si poteva conoscere, aveva maggiore
autorità, si levò da sedere, e stese la mano verso Rogiero in
atto di favellare; ma si adoperò invano a profferire parola, chè
un subito tremito gl'invase la persona, e ricadde su la sedia dalla
quale si era levato. Allora il secondo, quasi volesse prevalersi del
suo turbamento, di subito cominciò:

«Le molte cautele adoperate nella vostra venuta, o Rogiero, devono
servire meno a dimostrarvi la nostra diffidanza per voi, che l'altezza
del pericolo in cui noi tutti adesso versiamo. Non vi prenda poi
nessuna maraviglia di questo mio ragionamento; fra poco vi apparirà
chiaro di per sè stesso. Intanto persuadetevi bene di ciò, che
dove il fatto, il quale siamo per isvelarvi, fosse manifesto a chi ha
il potere della spada, le nostre teste certamente cadrebbero, ma la
vostra non andrebbe salva. Nè ciò diciamo per atterrirvi: se voi
foste stato capace di passioni codarde, non vi avremmo chiamato a
intendere un segreto che nessuno ci costringe a farvi sapere. È
lungo tempo che noi vi osserviamo. I misteri più riposti del vostro
cuore sono stati da noi conosciuti. Noi sappiamo tutto..... nè
alcuna cosa ci occorse di scorgere in voi, che magnanima e generosa
non fosse. Vero è però che noi avremmo desiderato tenervi
all'oscuro di tutto, finchè, cessato ogni pericolo, aveste potuto
raccogliere lietissimo frutto. E questo non già per poca stima,
bensì pel grande amore che abbiamo per voi. Ma ora, siccome
osserviamo tutto giorno avvenire, la prudenza ordisce e la fortuna
tesse, secondo l'antico proverbio: non piacque ai cieli disporre
quello che l'uomo aveva proposto. La morte vicina, ed ahimè! troppo
certa, di personaggio principalissimo, impegnato in questo negozio,
rende vano ogni nostro disegno, e ci costringe a quello che aborrivamo
fare.»

«Non sarebbe forse mio padre questo moribondo?» domandò tutto
agitato Rogiero.

«Calmatevi..... i vostri casi domandano un cuore che senta, una
mano che operi, un volto che dissimuli. Ditemi, conoscete voi le
vicende della casa di Svevia?»

«La casa di Svevia! La storia di questa famiglia mi riuscì
sempre sopra le altre piacevole e grata; ma quantunque non siasi
accumulato sul mio capo un molto avvolgersi di anni, pure non vive
casa in Italia di cui non conosca l'origine e la storia.....»

«Voi dunque rammenterete, Rogiero, che numerosi furono un giorno i
figli dello imperatore Federigo II, e rammenterete pure suo
primogenito essere stato Enrico, eletto Re di Lamagna, vivente il
padre, ora volgarmente conosciuto col nome di Enrico _lo sciancato_,
però che la malignità degli uomini non sia soddisfatta della
sventura degli oppressi, ma li desideri ancora o ridicoli, o infami.
Questo infelice principe, di non troppo fermo volere fornito, e della
nostra religione amatore caldissimo, concitato dalle istanze di
Gregorio IX, e da quelle dei molti nemici di suo padre, stimò fare
cosa grata all'Eterno, sottraendo l'Impero di Lamagna al dominio di un
respinto dalla comunione dei fedeli, qual era Federigo II. Ahi! che,
guasto da malvagi consigli, non conobbe aborrire Dio le guerre
parricide, e la sua maladizione abitare nella casa dell'empio, che
osò nella scelleraggine del cuore sollevare la mano contro l'autore
dei suoi giorni. Appena conobbe Federigo l'amara novella, abbandonata
la Italia, valica celerissimo l'Adriatico e perviene a Vormazia. La
gente stava adesso spaventata a vedere chi primo dei due, il padre o
il figlio, avrebbe osato trarre la spada. L'eterna pietà non
consentiva, che anco questo vituperio si registrasse nella voluminosa
storia degli umani misfatti. A Dio non piacque indurare il cuore del
figlio:--pallido, sbigottito, meno pauroso della pena che sconfortato
dal rimorso, co' piè nudi, la testa rasa, vestito di sacco, col
capestro al collo, tenendo nelle mani la croce, venne a Vormazia;
traversò, non curante gli scherni, la folla della gente che aveva
atterrita con la sua colpa, e disperatamente piangendo si gettò a
misericordia ai piedi del suo genitore, e lui scongiurò, non a
risparmiargli il castigo, chè troppo sentiva averlo meritato la sua
scelleranza, ma sì a volerlo benedire, e avanti la sua morte
richiamare col dolce nome di figlio. Invano l'orgoglio offeso
procurava sdegnarsi, invano la tradita autorità paterna mantenersi
severa; le lagrime sgorgavano dagli occhi di Federigo, ed il suo cuore
sentiva tutta la verità di quella sentenza, che la gioia è
figlia del dolore. Scendeva dal trono, al collo del figlio le braccia
amorosamente gettava, e lui per gli occhi, per la fronte, e su la
bocca baciando, col nome di suo figlio diletto a chiamare ritornava.
Oh! vera pace sarebbe stata quella; e perdono durevole. Ma tra le
bestie feroci, che la natura ha formato, vivono, o Rogiero, e
sventuratamente troppi, tali uomini, ai quali l'aspetto del cielo
sereno par gemito; che si nudrono di veleno e di fiele, e
renunzierebbero volentieri agli agi, alla vita, e a Dio stesso, per
deliziarsi nello spettacolo di un uomo che sospira dal profondo della
miseria, e sorridere a cotesti singulti: e mentre furono concesse
così strette facoltà per giovare più di quella che non si
vorrebbe abbiamo potenza per nuocere. Visse, e vive, o Rogiero, quel
figlio del peccato, che suscitando ad ogni momento sospetti nel cuore
di Federigo, ed ogni più incolpabile azione di Enrico volgendo in
delitto, di mille insidie, e d'infiniti delatori circondandolo, ora
con la calunnia, ora con la compassione.... Ma che mi trattengo io
più a svolgere ad uno ad uno tutti gli accorgimenti della infamia?
Essi sono più di quelli che si possono numerare, e che l'onestà
può intendere. La sua perfidia fu insomma tanto avventurosa, che
Federigo, fieramente infellonito contro il suo sangue, quel male
arrivato figliuolo decaduto dal trono di Lamagna chiarisse, e a lui
stesso lo consegnasse, onde in qualche carcere della Puglia _col pane
del dolore e con l'acqua dell'angoscia_ gli facesse consumare la
rimanente sua vita. Nè stette molto che fu annunziata a Federigo la
morte di Enrico, il quale riaprendo il cuore alla pietà paterna
sentì tanto amaro cordoglio del suo soverchio rigore, che chiusosi
in una stanza si dispose a lasciarsi morire di fame; se non che i suoi
più fedeli cortigiani a gran pena, favellandogli attraverso la
porta, poterono indurlo a por giù quel fiero proposito, e a
ristorarsi di cibo. Il rammarico di Federigo non era tale però da
rimanersi celato: una epistola imperiale dettata dall'illustre
Segretario Piero delle Vigne, e spedita al clero siciliano diceva:
_Per quanto grande possa essere la colpa dei figli, non diminuisce in
nulla l'amarezza che la natura fa sentire ai genitori nel punto della
loro morte_;¹ e però ordinava, che di magnifiche esequie si
onorasse, stimando così compensare con la vanità della pompa
un'anima che aveva condannata a inaridirsi nell'onta. Ma Enrico
viveva: Federigo e il suo feroce consigliere erano stati delusi...»

  ¹ Petri de Vineis. _Epist_. liber 1.

«Viv'egli Enrico lo _Sciancato_?» gridò Rogiero, che
ascoltando attentamente questo racconto non potè reprimere un moto
di meraviglia.

«Troppo duro sarebbe, o figliuol mio, lo stato nostro quaggiù,
se la pietà profonda che ne regge non ci fosse stata cortese di
alcuno di quegli spiriti compassionevoli nati a temprare i misfatti,
pei quali di giorno in giorno la nostra stirpe scellerata aumenta il
tesoro della vendetta di Dio. Uno di questi bennati pose la
Provvidenza a lato del consigliere di Federigo, e volle che in lui
ogni sua fede riponesse: a questo furono gli atroci misteri svelati: a
questo fu dal consigliere imposto che si trasferisse in Puglia; quivi
col laccio, col ferro, o in qualunque altro modo, s'ingegnasse di
spegnere Enrico, e poi in tutta fretta ne recasse in corte la nuova.
Partiva il messo; con la nuova della morte di Enrico tornava, ma
Enrico era stato salvato.»

«Oh! che possa essere io il primo ad annunziarlo a Manfredi; certo
grande gioia sarà quella del Re a tanto grata novella!»
interruppe Rogiero.

«E il figlio pure dell'infelice Enrico,» continuava senza
badargli l'uomo misterioso «da crudele ambizione perseguitato, fu
sottratto alla morte, surrogando in sua vece il cadavere di altro
fanciullo defunto per naturale malattia.»

«E vive egli?» domandò Rogiero.

«Vive.»

«Perchè dunque non palesarlo a Manfredi?»

«Perchè il tradire la innocenza frutta il disprezzo degli
uomini, e l'ira di Dio.»

«Manfredi lo restituirebbe in reale condizione.»

«Manfredi lo ucciderebbe prima che se ne sapesse parola, per
risparmiarsi anche la spesa dei funerali.»

«A chiunque voi siate.» rispose con terribil voce Rogiero
«che così meno che onesto favellate del mio Re, faccio solenne
protesta, che non ne tolgo vendetta in questo luogo perchè non
siete vestito di armi convenienti. Nondimeno fino da questo punto
dichiaro voi mentitore, e cavaliere sleale, e me pronto a sostenere
con lancia, spada, e pugnale, o a piedi o a cavallo, _a primo
transito, o a tutta oltranza_,¹ il Re Manfredi di Svevia, il più
virtuoso signore di tutta la Cristianità.»

  ¹ Modi cavallereschi antichi, equivalenti ai moderni _primo
    sangue_, _ultimo sangue_. Vedi Fausto, _del Duello_.

«Accetto la sfida, e sostituisco un _campione_.»

«Si avanzi il campione,» disse Rogiero, traendo la spada;
«chi sarà mai costui?»

«Quantunque in cavalleria non sia lecito domandare il nome del
cavaliere, voglio non pertanto soddisfarvi: egli è il figlio di
Enrico, il nepote di Manfredi.»

«Dov'è egli?»

«In questa stanza.»

«Io non lo vedo.... Sarebbe forse quel vostro compagno silenzioso,
che si vanta figliuolo di Enrico?»

«Non egli nasce da tanto illustre lignaggio.»

«Dunque?» disse Rogiero guardandosi intorno.

«Dunque, siete voi stesso.»

«Io nepote dell'Imperatore Federigo!» gridò tutto stupefatto
Rogiero, e la spada gli cadeva dalla mano tremante. «Ma
perchè....» dopo riprendeva a fatica quasi anelando «ma
perchè non palesarmelo innanzi? Perchè, invece di sospettare
tanto vilmente del Re Manfredi, non manifestargli l'esser mio? Il
tempo ha forse calmato l'odio, se pure il Re lo ha mai sentito pel suo
fratello Enrico, ed egli mi avrebbe accolto con quello amore col quale
si accolgono i più cari parenti....»

«Il tempo consuma il cuore che odia, ma l'odio.... oh! l'odio non
cessa neppure col palpito del cuore.--Egli scende nei sepolcri, ed
agita perfino la polvere dei morti. Egli è la sola passione
immortale concessa all'anima costretta dentro spoglie mortali. Ma ora
non è proposito di odio; si tratta di cruda, fredda, calcolata
ambizione.»

Benchè la mente di Rogiero fosse da gran tempo assuefatta a
veementi commozioni, pure non potè di tanto sopportare quelle che
referimmo senza che la sua testa si smarrisse. Gli si affacciarono
agli occhi globi di luce: gli oggetti circostanti parvero volgerglisi
attorno; uno indefinibile spossamento gl'invase la persona, e suo
malgrado lo costrinse ad abbandonarsi.

L'uomo che gli aveva fin qui favellato stava immobile a riguardarlo,
come se dal suo stato angoscioso ricavasse argomento di piacere; ma
quegli che era rimasto taciturno, balzò premuroso dalla sedia, lo
sostenne cadente, gli fu cortese di ogni soccorso, e quando lo conobbe
tornato in sè con voce soffocata gli domandò: «Vi sentite
confortato?»

«Oh! non è nulla,» rispose Rogiero «assolutamente nulla:»
ed ostentando sicurezza allontanava le braccia di lui; «un
breve disordine qui nella mente.... ma ora è tutto passato.»

«Ei mi rifiuta!» Disse, con suono che più che a voce umana
rassomigliava al bramito di una fiera, quel silenzioso, e a passi
lenti ritornava al suo luogo.

«Rogiero, nostro pensiero, prima di favellarvi, era condurvi presso
vostro padre. Veramente sarebbe compassione celarvelo: egli è
miserabile avanzo di tal vita, che l'ira e la follia hanno lacerato a
vicenda; e questo avanzo adesso sta nel dominio della morte. Pensate
dunque qual fiero spettacolo voi dovrete sostenere.--Lo stato di
debolezza in che adesso vi scorgo, mi fa grandemente temere per la
prova alla quale siete chiamato.--Se non volete subirla, sta in voi.
La vista del padre moribondo è più angosciosa di quello che
cuore umano possa soffrire.» Tutto questo discorso fu fatto dal
primo favellatore, il quale ad ogni periodo si soffermava, quasi per
godere della impressione dolorosa che faceva nell'anima di Rogiero.

«Tacete, uomo spietato,» riprese questi: «se le vostre parole
sono profferite da voi per gioire del mio affanno, la vostra perfidia
non è cosa mortale; se per consolazione dell'anima afflitta, siete
il meno destro confortatore di quanti vissero al mondo. Tacete, ve ne
prego. Pur troppo io conosco quanto questa amarezza contristi! Io era
nato per amare, e per quanto si fossero moltiplicate al mio sguardo le
cose che si amano, esse non avrebbero potuto esaurire giammai
quell'immenso affetto che nascendo sortii. E pure io non conobbi
padre, nè madre, nè consorte, nè amico, cui indirizzare il
desio dell'anima mia. Questo fuoco, non trovando modo a svilupparsi,
ha consumato il principio che doveva alimentarlo. Era rimasta una sola
scintilla, e questa deve brillare un momento, come la meteora della
notte, e morire.... Muora, ma brilli. Sento che in questa notte io
devo affatto mutarmi, sento avvicinarsi un tormento inudito finquì;
già mi si abbrividiscono le carni, le viscere mi si dirompono, e
questi travagli derivano dalla immaginazione soltanto!... Proviamo fin
dove l'uomo può patire, e il destino perseguitare: proviamo, che
sia la voce di un padre su l'anima del figlio, comunque voce di padre
moribondo.»

Agitato da profonda passione, mosse contro cotesti uomini, che gli
stavano davanti; e benchè tacesse, parve minacciarli, dove non lo
avessero celermente condotto all'oggetto del suo desiderio. Quei due
si levarono tosto, ed avendogli fatto cenno di rimanere un poco,
s'incamminarono alla estremità della stanza opposta all'uscio pel
quale era entrato Rogiero. Per via uno di loro parlava all'orecchio
dell'altro: «Io da qui innanzi, Conte di Caserta, amo avere la
vostra approvazione. Che parvi dunque del mio operato?»

«Guarda se la misericordia di Dio è grande.... pure tu mi appari
più scellerato assai che egli non sia misericordioso.»

«E sì che le mie parole suonarono religione, e virtù.»

«Tanto è vero, che non si dà momento in cui Satana si mostra
così terribile, come quello in cui si veste da Santo.»

«Troppa grazia,» rispose sorridendo il Conte della Cerra; e
cavata una chiave, schiuse una porticella assicurata da forti sbarre
di ferro. Ciò fatto, vi sporse il capo e chiamò: «Gisfredo!
Gisfredo!»--Dopo poco tempo comparve una testa, poi le spalle, e il
petto di un uomo, come quando ascendiamo una scala. Il Conte della
Cerra gli si fece all'orecchio; lo domandò di alcuna cosa, alla
quale avendo egli risposto col cenno del capo affermativamente, si
volse a Rogiero, e disse: «Potete avanzarvi.»

Accorse Rogiero, e senza esitare si cacciò giù per la scaletta
strettissima. I due Conti gli tenevano dietro: Gisfredo lo precedeva
facendogli lume con la lanterna che aveva recata. Egli poi, per quanto
studio vi ponesse, non potè conoscere nè anche chi fosse questo
Gisfredo, perchè il suo volto andava come quello degli altri
ricoperto di drappo; ma dall'afferrarlo ch'ei fece alcuna volta
all'improvviso, come fingendo di cadere, dal suo volgersi rattissimo e
sospettoso, dallo smarrimento delle pupille, ch'egli osservò
attraverso i fori del drappo, allorchè gli prese la mano, e quasi
per caso gliela pose su la guardia del suo pugnale, si accôrse
essere costui un uomo di frode, anzichè di aperta violenza.




CAPITOLO SESTO.

LEGA LOMBARDA.

                ............. Una feroce
                Forza il mondo possiede, e fa nomarsi
                Dritto. La man degli avi insanguinata
                Seminò la ingiustizia: i padri l'hanno
                Coltivata col sangue, e omai la terra
                Altro frutto non dà.
                                     ADELCHI, _tragedia_.


L'ordine di questa nostra narrazione vuole, che per noi si esponga un
prospetto dei casi della famiglia di Svevia, nei secoli decimosecondo
e decimoterzo. La nostra mano si accosta tremando a vergare queste
carte, imperciocchè i fatti dei feroci che vissero in cotesti tempi
infelici appaiano scritti col sangue; nè occorra pagina di storia,
che non gridi delitto. Chiunque ricusasse prestare fede a quanto
andremo narrando, sappia che non seguirebbe sano consiglio, avendolo
noi raccolto da antichi e da moderni Storiografi. Per questo sarà
manifesto come l'uomo posto solo dal caso in quel consorzio, ai patti
del quale non si trovò presente, nè avrebbe, trovandovisi,
consentito giammai, qualora si avvisi scostarsene, rivendicando parte
dei diritti pei quali fu conformato, si tiri addosso la guerra di
tutti i suoi simili; i quali, non perchè la sua azione sia
essenzialmente colpa, ma perchè apporta loro nocumento, lo
condannano all'onta e alla morte, a nome di una legge che hanno
costituita i più forti soltanto. Al punto stesso vedremo le nazioni
di proporzionata forza, tra loro da nessuna altra legge costrette,
tranne la giustizia di Dio, la quale o non temono, o irridono,
muoversi intere l'una alla rovina dell'altra; la debole innocente
additarsi ai posteri con nomi di scherno, le virtù sue convertirsi
in argomento di vituperio, che la calunnia, compiacendo all'oro dei
potenti, o per naturale propensione al male, vomiterà dalle sue
mille bocche di rettile; l'avventurosa colpevole strascinare il mondo
a fare omaggio al suo splendido delitto, e l'uomo, o nato o piuttosto
educato per essere iniquo o stolto, nulla curando il sangue fraterno
che gli bagna le piante, nulla le ossa insepolte, nulla il grido delle
vittime che prorompe dai sepolcri invendicati, applaudirla nella
ebbrezza del cuore con le stesse voci che innalza alla Divinità;
onde la mente del lettore sarà percossa da quella sentenza, che
sembra assurda, e suona pur troppo orribilmente vera: lo stesso
delitto che manda l'uomo al patibolo, rendere illustri le nazioni
nella memoria dei posteri. Vedremo nel girare dei tempi quanto si
prolunghi perenne la sventura tra noi, e la gioia fugga veloce, e
quindi ricaveremo un'altra dura sentenza: essere il male nostro
proprio retaggio, e stoltamente affidarsi colui, che ogni speranza di
contento ripone in altro luogo che in cielo. Si vedrà dal seno
della tirannide nascere la licenza, e dal seno della licenza nascere
la tirannide; e i popoli del continuo travagliarsi in traccia di una
libertà, che conseguita non hanno saputo poi mantenere, come quella
che richiede l'esercizio di tali virtù che essi non conobbero mai,
o se pure praticarono una volta, sì il fecero non già per libera
elezione, ma per paura d'imminente pericolo; onde trarremo motivo di
tenere per vero il detto di quel filosofo: nessuno ente vivere al
mondo più codardo di lui, che opera il bene per la sola paura del
male. Finalmente vedremo lo schifoso spettacolo di una Nazione vinta,
e pasciuta di obbrobrio, che solo si dimostra viva per le vili querele
contro i suoi oppressori, e per le più vili invidie contro chiunque
tra lei tenta con opera di mano, o di consiglio, sorgere dalla melma
dell'anima sua; nazione nuda di virtù proprie, e di altrui,
doviziosa dei vizii di tutta la terra; gonfia di orgoglio per una
gloria antica che forma la satira più sanguinosa del vituperio
moderno; superba di tali geste, che chi le imprese avrebbe voluto non
farle, qualora avesse saputo che dovevano essere argomento di
petulanza, anzichè di rampogna, a tanti miserabili, ridicoli, e
scellerati nepoti: Popolo insomma già signore,--oggi locandiere di
tutte le nazioni del mondo.--Oh! dall'alto delle rupi, inutile schermo
ai fiacchi che non sanno contendere co' petti, dal profondo dei mari
che ti circondano, dalle foreste, dai campi... da tutto il creato,
maladizione e sventura su te, vilissima schiatta, che non sai vivere
nè ardisci morire! Possa consumarti il fuoco del cielo, e teco i
padri, i figli, e i figli dei figli, poichè la goccia nera del
cuore¹ distilla di generazione in generazione, nè si diminuisce
per tempo. La pianta della infamia si abbarbicò intorno l'albero
della vita, e ne ha guaste le più profonde radici. Gli anni si
portano la vita, che è il sepolcro dell'anima, e allora rimane dei
trapassati la fama;--qual fama! Chi più vive è più scellerato
o più vile, e le colpe che si portano alla fossa sono in
proporzione degli anni che abbiamo vissuto. E Dio volesse, che per
molti ogni anno della loro vita potesse essere contato da una bassezza
soltanto!

  ¹ «Era la notte, ed io giaceva a cielo scoperto tra due colline,
    allorchè vidi venirmi innanzi Gabriele in compagnia di un altro
    spirito celeste. I due immortali si curvarono sopra di me; l'uno
    mi aprì il petto, l'altro mi svelse il cuore, lo premè tra
    le mani, e fece uscire la GOCCIA NERA, ossia il peccato originale,
    e lo ripose al suo luogo. Questa operazione non mi dette
    dolore.» Così Maometto.

Di qua dal Reno, tra la Franconia, la Baviera, e la valle dell'Eno
giace un paese nominato Svevia. Corre fama che negli antichi tempi
fosse Regno, nei successivi fu Ducato; finalmente nel secolo scorso
perde anche questa prerogativa. La casa di Austria, e di Vittemberga,
se ne divisero il suolo; nè ora incontriamo più principe in
Germania che assuma il titolo di Duca di Svevia.

Nei secoli di cui abbiamo impreso a trattare durava una feroce guerra
civile, cagionata dalle fazioni guelfa e ghibellina. Si riunivano i
Guelfi sotto le bandiere dei Duchi di Baviera, stipite delle case di
Hannover, di Brunswich, e di Modena: i Ghibellini si erano posti a
capo i Duchi di Svevia, e così si chiamavano dal castello di
Gibeling, che questi Duchi possedevano nella diocesi di Augusburgo.

Corrado III di Hohenstauffen, succeduto a Lotario III dopo
gloriosissimo regno di quattordici anni, sentendosi nel 1152
sopraggiunto dal male di morte a Bamberga, chiamati a sè i
principali Baroni dell'Impero, consigliava, lui morto, eleggessero Re
il suo nepote Federigo; e diceva loro:--l'amore della patria doversi
ad ogni affetto privato anteporre, principalmente da coloro che la
Provvidenza chiama al reggimento dei popoli, e però egli, sebbene
fornito di figli, amare meglio, che fossero con la pace dei fedeli
Tedeschi privati baroni, che con la guerra regnanti: il suo nepote
Federigo, come quello, che, pel matrimonio di Federigo _il Guercio_ di
Svevia con Giuditta figlia di Enrico di Baviera, riuniva il sangue
delle due famiglie inimiche, affidargli di pace, non meno che di
vigoroso governo, perocch'egli guerreggiando in Palestina¹ lo aveva
sempre veduto al suo fianco fare prove di prode e valente
cavaliere.--Questa orazione di Corrado troviamo presso molti Storici
celebrata come uno dei pochi fatti che onorano la nostra specie.
Guardimi Dio da calunniare la memoria di tanto Imperatore; ma potè
ben anche essere previdenza di uomo accorto, che volle fare sembiante
di donare quello che non istava in sua potestà impedire:
imperciocchè lo Impero fosse elettivo, nè il suo figliuolo
presentasse quei vantaggi che sembravano derivare dalla elezione di
Federigo.

  ¹ Corrado combattè in Palestina ad istigazione di San Bernardo
    con Luigi VII di Francia.

Gli elettori dell'Impero convenuti a Francforte in generale assemblea,
trovando i voti del defunto Corrado conformi ai desiderii loro,
elessero Re dei Romani Federigo, dal bel colore d'oro dei suoi capelli
denominato _Barbarossa_.

Quanto poi s'ingannassero intorno alla indole mite di Federigo, lo
videro nel giorno della sua incoronazione a Ratisbona, dove supplicato
a graziare certo Barone, superbamente rispose: «per rendere severa
giustizia secondo le leggi, non già per perdonare i colpevoli, sono
stato eletto sovrano.» Al punto stesso per non isfiduciare gli
elettori, che tanta speranza di pace in lui avevano riposta,
dichiarava volersi rimettere alla decisione della Dieta di Gostanza
intorno la lite del Ducato di Baviera, attualmente pendente tra lui ed
Enrico _il Lione_, Duca di Sassonia. La Dieta gli rese sentenza
contraria, ed egli parve acquietarsi, finchè nei successivi tempi
capitatogli il destro spogliò Enrico di ogni suo possesso, e
dichiaratolo traditore, lo pose al bando dello Impero.

Nessuno Imperatore fu più vaso di guerra, più cupido, o più
presuntuoso di lui. Egli voleva l'impero Romano qual era sotto Augusto
restituire; egli l'Armenia, la Siria, l'Etiopia, l'Egitto, non che
Italia, Francia, e Inghilterra sottomettere. Vero è però che
tanto grandiosi concetti finirono in una lunga guerra, all'ultimo per
lui sventurata, in Italia; ed in alcune scorrerie piuttosto da
ladrone, che da Imperatore, in Armenia.

Mentre che Federigo dimorava a Gostanza, Albernardo Alamano, e maestro
Omobuono, cittadini lodigiani, trovandosi colà, a caso od a
consiglio, tolte in mano due croci, siccome correva costume dei
supplicanti, si fecero a visitare Federigo, e pietosamente gli
esposero i danni della patria loro, cagionati dalla orgogliosa Milano,
la quale, per le concessioni degli Imperatori Ottoni reggendosi fino
dal 960 a libero reggimento, era salita in tanta grandezza, che di
ogni costituzione imperiale non curante o sprezzante, a null'altro
intendeva che ad ingrandirsi, sottomettendo le prossimane città.

Queste cose, sebbene per nulla contribuissero sopra le determinazioni
di Federigo, ormai disposto a calare in Italia dal punto del suo
incoronamento, valsero nondimeno a sempre più concitarlo, vedendo
di poter trarre profitto dalla divisione delle città italiche.
Quindi è che, quasi per tentare gli animi, mandò Sicherio suo
Segretario a Milano per intimare che i Lodigiani negli antichi diritti
si ristorassero, e per raccogliere il _Fodero_, il _Mansionatico_, e
la _Parata_, contribuzioni usuali pel passo degl'Imperatori:
consistenti, la prima nelle derrate necessarie al suo mantenimento, e
a quello del suo seguito: la seconda nella provvisione degli alberghi;
nel riattamento di ponti e strade la terza.

Sicherio presentatosi al Consiglio di Milano espose la sua
commissione, e mostrò le lettere. I Milanesi in risposta gliele
strapparono di mano, e in sua presenza ingiuriosamente le
calpestarono. Sicherio, fuggendo a precipizio, scampava mala pena la
vita. I Lodigiani adesso, considerando lo aiuto lontano, e i Milanesi
vicini, spedirono una chiave d'oro a Federigo, perchè si
affrettasse. I Milanesi, parimente, conoscendo avere mal fatto,
mandarono all'Imperatore una coppa d'oro piena di danaro, la quale non
fu accettata.

Volgeva l'ottobre del 1154, allorchè Federigo con numeroso
séguito di Baroni, tra i quali era notabile il suo stesso emulo
Enrico _il Lione_, tutti vestiti di bellissime armature, e di
magnifiche stoffe, mosse per la valle di Trento in Italia. Questa
compagnia, poichè ebbe fatta alcuna dimora su le rive del lago di
Garda, si condusse direttamente nei prati di Roncaglia, dove per
antica consuetudine si tenevano le Diete nazionali. Qui Federigo
ascoltava con piacere infinito le scambievoli accuse delle città
italiche, in ispecie quelle contro Milano; imperciocchè partendosi
di Germania non avesse ben risoluto se Milano, o Pavia, avrebbe
distrutto: e solo in Roncaglia si decideva contro Milano, come quella
che sembrava dovergli più lungamente resistere. Poneva fine al
congresso, e comandava ai Consoli milanesi Oberto dell'Orto, e Gerardo
Nigro, che lui e il suo esercito guidassero a Novara. I Consoli, da
buoni cittadini, tenevano questi insolenti più che potevano lontani
dalla patria loro, e per sentieri piuttosto malagevoli li conducevano,
reputando nonostante questo accorgimento potere in ispazio convenevole
di tempo il cammino per a Novara fornire. Attraversava la fortuna i
generosi disegni: le piogge dirotte guastarono tanto le strade, che la
vettovaglia cominciò a mancare. Federigo, che aveva dato quella
incombenza ai Milanesi, onde far nascere un appicco per romperla, non
è da dirsi se si mostrasse crucciato per questo accidente. Cacciava
dal suo campo i Milanesi, le Campagne loro mandava a sacco, i ponti
sul Ticino ardeva, Rosate, Trecate, Galliate, e Mummia, nobilissimi
castelli, sovvertiva. Tentarono i Milanesi placarlo con preghiere, e
con doni, ma furono sempre rigidamente ributtati; dalle quali cose
inaspriti, attribuendo a colpa dei Consoli quello che si dipartiva da
mal talento di Federigo, insorsero pieni d'ira contro di loro, e ad
Oberto dell'Orto fino dalle fondamenta rovinarono la casa. La qual
cosa dimostra come fare del bene ai tuoi simili, specialmente poi alle
turbe mutabili e matte, il più delle volte venga considerato
delitto, il quale non può andare immune di pene condegne.

Federigo, per adempire i desiderii di Guglielmo Marchese di
Monferrato, muove contro Asti e Chieri. Trovatele vuote di abitatori,
la prima abbatte, la seconda incendia; poi contro Tortona. Pretesto
della guerra erano le ingiurie commesse dai Tortonesi a danno di
Pavia; cagione vera l'essere collegati a Milano. Troppo lunga sarebbe
la narrazione, quantunque piena di lagrime, della guerra di esterminio
da loro preposta al mancare di fede verso Milano. Da levante, ponente,
e tramontana, duramente assediati si difesero; alla vista dei proprii
concittadini prigionieri, dal barbaro nemico impiccati, non piegarono;
per sessantadue giorni dalle mura i nemici respinsero; le mine fatte
alla Rôcca _Rubea_, per via di contrammine resero vane: finalmente
consumati i cibi,--le acque, che andavano ad attingere fuori della
città, con pece, zolfo, ed altre immondezze dall'assediatore
guastate, si arresero. Prometteva Federigo lasciare la città
intatta; avutala, comandava ai Pavesi la distruggessero. I cittadini
sotto rigido cielo, in rigida stagione, andavano pietosamente
tapinando. Il loro venerabile Abate di Bagnolo, mediatore del
trattato, afflitto per tanto tradimento, si lasciava morire di
affanno.

Federigo, ricevuta la corona reale a Pavia, s'indirizza a Roma.
Adriano IV, in quel tempo surrogato ad Anastasio IV, cominciava il suo
Pontificato con atto di rigore: trovando apertamente contraria ad ogni
suo comando o consiglio la città di Roma per le prediche di Arnaldo
da Brescia, la scomunicava. I Romani, per liberarsi dallo interdetto,
pregarono Arnaldo volesse in qualche parte allontanarsi. Questi,
cedendo ai tempi, si riparava in Otricoli, castello dei Conti di
Campania. Adriano lo voleva morto, e di vero egli non era uomo da
lasciarsi vivo: di anima ardente, di maschia eloquenza; nel sembiante,
e più nei costumi, severo; innamorato dell'antica libertà, che i
suoi contemporanei non sapevano nè volevano conoscere; dopo avere
ascoltato a Parigi le lezioni del famoso Pietro Abelardo, si dette
prima in Brescia, poi in Roma, a declamare contro i costumi dei
chierici, in quei tempi infelici pur troppo, e con gemito degli stessi
romani Pontefici, tralignati: predicava gli ecclesiastici non
dovessero possedere beni terreni, non temporale dominio; non averlo
ritenuto San Piero, e San Lino, anzi proibito espressamente Gesù
Cristo; le citazioni di Tito Livio mesceva con quelle dell'Evangelo;
Camillo e Scipione con San Pietro e San Paolo; sacro e profano, ogni
cosa a rifascio. Di questo, poco, o nulla, si curavano i popoli; ma
quando, rapito alla considerazione delle cose future, profetava
Arnaldo risorgerebbe dalle rovine il Campidoglio; risorgerebbero il
senno e il valore romano l'augusto Senato, terrore o riverenza delle
nazioni, risorgerebbe.--si sollevavano a maraviglioso concitamento e
già sembrava loro vedere innalzarsi pel cielo l'aquila temuta al
vittorioso suo volo: di Papa, di Cardinali, di Chiesa, non si teneva
più conto; Consoli, Tribuni, e Senato, occupavano le menti di
tutti. A queste cose, di per sè sole sufficienti a condannare
Arnaldo, si aggiunsero alcune massime, meno che rette, sul mistero
della Trinità, forse attinte dal suo maestro Abelardo, che fu nel
1110 condannato nel Concilio di Soissons ad abbruciare di propria mano
il libro da lui composto intorno questa divina materia. Il Concilio
lateranense secondo, tenuto sotto Innocenzio II, lo dichiarava
eretico, e come scomunicato lo condannava. Arnaldo ripara a Gostanza;
perseguitato da San Bernardo fugge a Zurigo, dov'ebbe per alcun tempo
stanza e vita sicure.--Ma per lo esilio di Arnaldo non cessavano le
turbolenze romane. Innocenzio II, dopo essersi invano adoperato a
quietarle, ne moriva di affanno. Lucio II, vestito degli abiti
pontificali, mentre vuole salire al Campidoglio, côlto alla tempia
da un sasso cade miseramente ammazzato. Eugenio III è costretto a
fuggire, e lascia alla Provvidenza prendersi cura della Chiesa,
poichè vede tornare invano ogni mezzo terreno. Nel Pontificato di
Eugenio fu richiamato Arnaldo a Roma, dove stette fino al 1133 sempre
vegliando alla grandezza di un popolo, che parve destinato dai cieli a
non essere più grande. Adriano adesso lo chiedeva a Federigo:
questi, che desiderava essere coronato dal Papa, arresta il Barone
presso cui riparava Arnaldo, e lo costringe a consegnargli quel male
arrivato. Cinto da numerosa milizia s'incamminava Arnaldo a Roma per
ricevere, come malfattore, la pena sul luogo del delitto. S'innalza il
rogo, si sottopone la fiamma.... cresce.... gli avvampa le vesti....
gli abbrucia le piante.... _E dove è il popolo, che Arnaldo voleva
far grande?_--Il fuoco gli consuma il corpo: i suoi occhi, disperati
di umano soccorso, si affissano ai firmamento: il firmamento non si
muove: egli è fatto cadavere.... polvere.... _E dove è il
popolo, che Arnaldo voleva far grande?_--Si raguna la cenere; si
disperde al vento: il popolo accorre, urla, schiamazza, e vuole
salvarlo.--Oh! come burlevole saresti, umana razza, se tu non facessi
così sovente piangere!

Federigo, andando a Viterbo, incontra il Pontefice Adriano nei campi
di Sutri. Era costume che i Regnanti Incontrando il Pontefice gli si
prostrassero, gli baciassero il piede, gli tenessero la staffa, e la
Ghinea per lo spazio di nove passi romani gli conducessero. Lo Svevo,
sdegnando coteste cerimonie, si fa arditamente incontro ad Adriano,
che lo respinge, e gli nega il bacio della pace. I Cardinali
spaventati fuggono a Civita-Castellana: una aperta rottura sembrava
imminente, allorchè Federigo, mosso dall'esempio di Lotario II, si
dispone fare a Nepi quello che aveva ricusato a Sutri, e così
pacificato col Papa s'incamminano insieme alla volta di Roma. È
fama, che Federigo, nello eseguire queste cerimonie, sbagliasse
staffa; la qual cosa essendogli fatta osservare da certo famigliare
del Papa, rispondesse: ch'egli non aveva mai fatto lo staffiere,
volendo con questo mordere la bassa nascita di Papa Adriano; come se
non fosse maggior gloria di piccolo farsi potente; che nato grande
mantenersi in grandezza.

Mentre così si avvicinavano a Roma, ecco occorrere a Federigo una
magnifica ambasciata del Senato e del popolo romano, che ammessa alla
sua presenza così cominciava: «Gran Re, noi, di straniero che
eravate, vi abbiamo sollevato all'onore di essere cittadino, e
Principe nostro;» e così continuavano, fino ad esporre per patti
della sua incoronazione il pagamento di cinquemila libbre di oro, e la
concessione al Senato di reggersi come meglio gli piacesse. Federigo,
a mala pena contenendosi, tutto infiammato nel volto rispondeva:
«Roma o omai gran tempo che è convertita in nudo nome; voi
mentite, se osate affermare me essere vostro Principe per elezione
della vostra volontà: Carlomagno e Ottone vi hanno vinto con le
armi, ed io sono vostro Sovrano per legittima possessione....
partite.»

Giunto innanzi Roma si attendò fuori delle mura: dipoi, per
consiglio del Pontefice, mandati innanzi mille cavalieri ad occupare
la città leonina, e il ponte sotto il castello di Sant'Angiolo,
andò a San Pietro, dove dalle mani del Papa ricevè scettro,
spada, e corona, applaudente lo esercito. Compiuta la cerimonia,
tornava al campo. I Romani ragunatisi al Campidoglio risolvono non
soffrire tanto manifesto disprezzo; assaltano la città leonina, e
quanti Tedeschi vi trovano uccidono. S'ingaggia una molto terribile
battaglia davanti Sant'Angiolo. I Romani combattono francamente fino a
notte; allora con la perdita di mille duecento uomini sono respinti. I
Tedeschi però, non estimandosi sicuri, si ritirano a Tivoli, dove
Alessandro assolve i soldati, dichiarando: _non essere delitto versare
il sangue dei popoli per mantenere i Principi, ma vendetta_ _dei
diritti dell'Impero_. E sempre così! Federigo lascia il Pontefice a
Tivoli, e volte le armi contro Spoleti, divenutagli nemica per la
prigionia di Guido Guerra, e pel rifiuto di certo _Fodero_, la vince,
la saccheggia, e la incendia. Ormai in questa impresa le cose gli
andavano a seconda, e di certo gli sarebbe venuto fatto di conquistare
il Regno di Napoli, dove i suoi Baroni, obbligati a seguitarlo per due
soli anni, volendo tornarsene a casa, non lo avessero costretto a
congedarli in Ancona. Egli poi traversata Romagna con modesta
compagnia, alquanto tempo dopo teneva lor dietro. Giunto a Verona,
poichè questa città godeva il privilegio di non dare il passo
alle milizie imperiali, gli apprestavano un ponte su l'Adige. Il ponte
fu dai Veronesi costruito con questo intendimento, che quando gli
Imperiali fossero in parte passati, col gettare zattere cariche di
terra nella corrente superiore del fiume, si rompesse, e così
divisi, potessero agevolmente trucidarli. Ma l'inganno tornò in
capo agli ingannatori; perchè i Tedeschi, duramente incalzati dalla
gente del contado, passando a precipizio scamparono; gl'inseguenti
rimasero rotti, ed una parte di questi, senza poterli soccorrere.
stette sopra una riva, dolente spettatrice dello scempio che si faceva
su l'altra dei suoi infelici compagni.

Questa è la prima spedizione di Federigo in Italia, narrata
diligentemente da Ottone Frisingen, figlio di Leopoldo di Austria. Ben
altre sei, sebbene con maggiore brevità, ne verremo esponendo,
tutte piene di casi scellerati. Ora l'ordine della narrazione ci porta
a contare le vicende del Reame di Napoli.

I Normanni,¹ divenuti cristiani, dopo il conquisto della Neustria
grandemente si dilettarono di sante pellegrinazioni; e visitata da
prima Gerusalemme, passavano in Puglia, dove adorati i santuarii del
monte Gargano e del monte Cassino, se ne tornavano in patria. Nel 1016
cento di questi Normanni trapassando per Salerno, allora governato dal
Duca Guaimaro III, videro con maraviglia una masnada di Saracini
sbarcare di nave, mettere a contribuzione la città, e aspettando il
tributo darsi a banchettare trascuratamente sul lido: molto e più
stupirono poi, allorchè i Salernitani, invece di apparecchiarsi a
combattere, prepararono le cose richieste: onde sentendosi punti di
vergogna per loro, sortirono dalla città, si gittarono addosso ai
Saracini, e, molti uccidendone, costrinsero i rimanenti alla fuga.
Pensisi quali accoglienze facesse loro Guaimaro. Voleva ad ogni costo
ritenerli, ma rifiutarono; promettevano che gli avrebbero mandato
alcuni compagni, e riccamente regalati si congedavano. Giunti in
patria, la bellezza di questo nostro suolo esaltando, gli ori e le
sete ricevute in dono mostrando, e sopra ogni altra cosa facendo
gustare le frutta, che seco avevano recato, invogliarono gran
parte² dei concittadini loro a passare in Puglia. Di qui la
conquista normanna del Regno di Napoli: vennevi primo Drengotto con
poca fortuna: vennevi con migliore nel 1035 Tancredi di Altavilla coi
suoi dodici figliuoli. Ponendosi ora sotto il comando di un Duca, ora
sotto quello di un altro, vendendo il proprio braccio, per lo
indebolimento di tutti giunsero a tale grado di potenza, che Papa
Lione IX, timoroso pei suoi Stati Romani, predicò la Crociata
contro di loro. Il Pontefice, quantunque sovvenuto da Tedeschi, Greci,
Campani e Pugliesi, disfatto alla battaglia di Civitella, combattuta
il 18 giugno 1053, cadde nelle mani di Unfrido _braccio di ferro_,
Conte di Puglia, primogenito di Tancredi di Altavilla. Le molte
cortesie adoperate dal Conte Unfrido al Pontefice, di nemico ch'egli
era, glielo resero tanto benevolo e amico, che potè indurlo a
investirlo, a nome di San Pietro, delle presenti e delle future
conquiste, promettendogli in cambio un censo annuale di ottomila once
d'oro. Morto Unfrido, succedeva Roberto _il Guiscardo_. Le conquiste
di questo eroe furono tante, e tanto maravigliose, che gli antichi
cronisti vollero, piuttosto che al suo valore, attribuirle a
miracolo.³ La morte lo colse a Cefalonia nel luglio del 1085,
allorchè si apprestava ad occupare la Grecia. Lasciò due figli,
Rogiero Gran Conte di Puglia, o Boemondo: questi contesero del
Principato, finchè la guerra delle Crociate aprendo vastissimo
campo all'ambizione di Boemondo, passò in Soria, dove sottomise e
tenne Antiochia. Rogiero, rimasto tranquillo possessore del retaggio
paterno, muore a Melito nel luglio del 1101: gli succede Guglielmo,
che, defunto anch'egli a Salerno nel 1127 senza prole, lascia tutti i
suoi Stati a Rogiero II, suo cugino, figlio di Rogiero I, il quale,
vivendo il _Guiscardo_, aveva conquistato Sicilia. Questo Rogiero II
fu di mano, e più di consiglio, valoroso; per concessione
dell'antipapa Anacleto II assunse corona reale; perdè, e
ricuperò il Regno di qua dal Faro sotto Lotario II; fece
prigioniero Papa Innocenzio II, e lo costrinse a confermargli la
investitura del Regno di Sicilia; finalmente, dopo lunga e gloriosa
vita, morì a Palermo nel febbraio del 1153. lasciando Guglielmo I
detto _il Malvagio_ regnante ai tempi del Barbarossa.

  ¹ _North-men_, uomini settentrionali, o scandinavi.

  ² I settentrionali sono avidissimi dei frutti del mezzogiorno. Si
    narra, che traessero dal fondo della Scandinavia i _Varageni_ a
    Costantinopoli, vantando loro il sapore dei fichi: e nella lingua
    islandese si dice tuttavia _fagiakasta_ (desiderare fichi) per
    agognare ardentemente una cosa.

  ³ Dicono che Cristo se gli presentasse dentro una foresta sotto le
    forme di un povero lebbroso; ed essendo stato caritatevolmente
    raccolto da quel Principe, gli desse per ricompensa la grazia di
    essere felice in ogni sua impresa.

Fu il Regno di Guglielmo, non tanto per le forze degli esterni nemici,
quanto por le interne rivoluzioni, tutto sconvolto. Maione, uomo oscuro
di Bari, salì a tanta altezza di potere su l'animo del Re, che nessuna
cosa, per quanto grande ella fosse, da altri fuorchè da lui si
amministrava. La petulanza di questo Ministro si manifesta dalla domanda
ch'ei fece ai Frati di Monte Cassino, affinchè registrassero sopra il
loro libro dei _Defunti_ (dove solamente si segnavano Papi, Imperatori,
Re ec.) la morte dei suoi genitori: e i Monaci, però che l'adulazione
sia stato male di tutti i tempi e di tutti, scrivevano sul
libro:--_Curazza mater Madii Magni Admirati Admiratorum obiit VII. K.
Augus. Et Leo pater Admirati Admiratorum obiit VI. I. Sept._--Ora non
rimanendogli più nulla da desiderare, come Ministro, e Grande
Ammiraglio degli Ammiragli, sollevò la mente a più alti disegni.
Tentò e vinse l'onestà della Regina. I primi gradi della milizia al
suo fratello, e al suo figlio, concesse. Simone suo nepote creò Gran
Siniscalco; mediante il matrimonio di sua figlia sperò farsi
partigiano Mario Bonello cavaliere di moltissimo seguito nel Regno.
Istruì eziandio pratiche con Alessandro, perchè ad esempio di Papa
Zaccheria, che rimosse Childerico dal trono di Francia, deponesse
Guglielmo, e lui in sua vece costituisse. Alessandro, conoscendo la
malvagità di Maione, ributtò il trattato. Non per questo si rimase
l'Ammiraglio, che anzi, considerando come fossero di grave impedimento ai
suoi disegni Roberto Conte di Loritello, Simone Conte di Policastro, e
Roberto Principe di Capua, signori riputatissimi, e parenti del Re, si
accostò ad Ugone Arcivescovo di Palermo, uomo anche egli avido di
dominio, e abbindolatolo con infinite promesse, gli scoperse i suoi
segreti pensieri, e lo indusse a giurare, che in ogni fortuna, per quanto
fosse stato in lui, lo avrebbe sostenuto. Intanto il Re Guglielmo stavasi
chiuso nel suo palazzo di Palermo, sospettoso della lega che correva voce
avessero stretto a suo danno gl'Imperatori Federigo Barbarossa, ed
Emanuelle Comneno: dubitava della fede dei suoi Baroni; dubitava dei
parenti, di sè medesimo dubitava. Maione conobbe essere giunto il
tempo di rovinare gli odiati nemici, che con altrettanto odio lo
ricambiavano. Cominciò da Roberto di Capila, che in quel torno
dimorava a Sorrento; da prima lo mostra quale uomo pericoloso alla pace
del Regno; vedendo che le parole trovavano tenero nell'animo di
Guglielmo, lo accusa di ambiziose macchinazioni, finalmente di segrete
intelligenze col nemico. Si spediscono genti ad arrestarlo. Roberto,
avvertito in buon punto, si parte di Puglia, e con molti seguaci ripara
negli Abruzzi. Rimanevano i Conti Simone e Roberto. Maione fece insorgere
una rissa tra le milizie comandate dal Cancelliere Asclettino, e quelle
del Conte Simone; descrisse quel tumulto come gli parve; aggiunse essere
il Conte cagione di cotesti disturbi, congiurare insieme col Conte
Roberto in pro del Principe di Capua; suppose lettere e messi, per modo
che il Re, fatto arrestare Simone, senza pure ascoltarlo, lo condannava a
perpetua prigionia.

Gravissima fu la indignazione dei popoli per così grave attentato;
oggimai non potendo più sopportare la tirannide di Maione e di
Guglielmo, proruppero in manifesta rivolta. Si videro a un punto la
Calabria, la Puglia e la Terra di Lavoro, ardere di crudelissima
guerra. Il Conte Roberto vinse Taranto; sovvenuto da Emanuele Comneno
superò Bari, poi Brindisi;--tutta la Puglia sossopra. Nè meglio
andavano le cose in Terra di Lavoro, chè quivi infuriava il
Principe di Capua. Nel Picentino, meno Amalfi, Napoli e Palermo, ogni
altra città venuta in mano di Riccardo dell'Aquila Conte di Fondi.
Il Conte di Rupe Canina aveva sottomesso tutto il contado di Alife.

Guglielmo, logorando neghittosamente la vita nel suo palazzo, tutte
queste cose ignorava, chè con molta avvedutezza gliele nascondeva
Maione. Si manifesta finalmente la rivolta in Palermo: allora
Guglielmo, conosciuto il pericolo, si mostrò al popolo, ed
acquietò il tumulto: Butera occupata dai ribelli ricupera, Simone
sprigiona, appresta milizie, e valica il Faro. Maione fu ad un punto
maravigliato e atterrito da così repentino mutamento; e da che non
gli fu possibile sopire quel subito ardore, stimò meglio seguirlo.
Guglielmo continuando il suo cammino campeggia, ed espugna Brindisi,
fuga il Principe di Capua, distrugge Bari, prende Taranto, e duramente
assediando Benevento, costringe Papa Adriano IV, principale fautore di
quelle sommosse, a concedere vantaggiosissime condizioni di pace. I
Baroni ribelli, disperati di potere resistere, cercano salute. I Conti
Roberto, di Rupe Canina, ed altri, riparano in Lombardia. Roberto
Principe di Capua, mentre vuol passare il Garigliano, tradito dal
Conte Riccardo dell'Aquila, che col secondo tradimento fugge la pena
del primo, e consegue la infamia di ambedue, è condotto a Palermo,
dove crudelmente abbacinato perde la vita.

Ma il terrore, dove non sia da milizie permanenti conservato, non vale
nè anche per poco a frenare i popoli ribellanti. Tornato appena
Guglielmo agli ozii del suo castello di Palermo, la Puglia imprende a
tumultuare di nuovo. Maione stimò bene spedire Mario Bonello a
comporre que' moti. Questi, parte per l'odio segreto che portava
all'Ammiraglio, il quale, volendolo ad ogni costo per genero, gli
attraversava le nozze con Clemenza Contessa di Catanzaro, da lui
ardentemente amata; parte pei discorsi di Rogiero da Martorano
cavaliere di molta reputazione, congiurò co' suoi nemici, ed anzi
promise loro di ucciderlo. Intanto Maione, stimando giunto il tempo di
mandare ad esecuzione le cose concepite, si consigliava con
l'Arcivescovo; si accordarono su la morte del Re, su la tutela dei
figli dissentirono. La pretendeva l'Ammiraglio: Ugone, conoscendo la
sua perfidia, non voleva concederla: cominciarono scambievolmente a
dolersi; poi vennero ad acerbe parole, alla fine partirono nemici.
L'Arcivescovo è avvelenato. Tornava il Bonello, e assicurava Maione
essere le cose di Puglia affatto quietate: saputa la contesa
dell'Arcivescovo con l'Ammiraglio, si fa a trovare l'Arcivescovo
giacente in letto, dal quale intesa la trama di Maione, sempre più
si conferma nel proponimento di ucciderlo. Ora l'Ammiraglio, vedendo
che il tossico amministrato ad Ugone non faceva gran frutto, timoroso
dell'esito, presone seco uno più violento, andò con lieta faccia
a trovarlo: gli favella dolcemente, protesta volergli ritornare amico,
scapitare ambedue in quella contesa; pensasse a sanare; a lui più
che ad altri stare a cuore la sua salute; avergli perciò recato un
suo medicamento, che per certo lo avrebbe tornato da morte a vita.
L'Arcivescovo, conosciuta la perfidia, si scusò con arte, e
chiamato il Vescovo di Messina, mandò ad avvisare il Bonello come
l'Ammiraglio si trovasse in casa sua. Maione, ricambiate molte parole
di amore con Ugone, partiva; la notte era oscura, nè alcuno del
séguito dell'Ammiraglio temeva insidie; giunto che fu alla chiesa
di Sant'Agata, il Bonello, fattoglisi addosso, gridava: «Sei morto,
traditore e adultero del mio Re.» Parava l'assalito il primo colpo;
ma dal secondo mortalmente trafitto cadeva. Mentre però
l'Ammiraglio di morte sanguinosa sopra la pubblica strada finiva la
vita, quasi fosse consiglio della Provvidenza, l'Arcivescovo, da fiere
convulsioni travagliato, in mezzo ad atroci dolori di viscere spirava
l'anima.

Il Bonello fugge da Palermo. Il Re, udito il caso, sentì gravissimo
sdegno per la morte del suo favorito; molto maggiore la Regina. Alla
fine Guglielmo, conosciuta la perfidia di Maione, tra i tesori del
quale fu trovata una corona reale, chiama in Corte il Bonello, e lo
ritorna in grazia. Ma l'odio della Regina vegliava contro di lui, e ad
un Re sospettoso riesce facile cosa persuadere ch'è traditore un
potente ed ardito Cortigiano. Il Bonello, accortosi del temporale,
macchina nuova congiura, e vi trae il Conte Simone, e Tancredi di
Lecce, parenti del Re, tenuti per suo comando a guisa di prigionieri
con molti altri principali Baroni dell'Isola. Ciò fatto, accorre a
Mistretto suo castello, per provvederlo di arme e di vittovaglie, onde
in caso di fortuna contraria gli fosse aperta una via di salute.
Mentre che qui dimorava, un discorso imprudente, da certo soldato,
partecipe del negozio, tenuto al suo compagno, costrinse i congiurati
a precipitare gl'indugi. Il Gavarretto custode del Conte Simone e di
Tancredi, secondo il convenuto, li toglie di prigione, e questi
seguiti da molti s'incamminano alle stanze del Re. Sedeva
tranquillamente Guglielmo ragionando con Enrico Aristippo: alla vista
di Simone e di Tancredi, sdegnato perchè senza suo ordine gli
comparissero innanzi, prese a minacciare, poi a fuggire; ma presto
raggiunto con le spade nude dal Conte di Lesina e da Roberto Bovense,
uomini feroci, questi dissero di levargli la vita, e lo facevano; ma
Riccardo Mandra gli rattenne, e provvide alla salvezza del Re
trasportandolo prontamente in prigione. Allora, secondo l'ordine della
congiura, cavato fuori del palazzo Rogiero, primogenito di Guglielmo,
lo fecero cavalcare per la città, e lo salutarono Re. In questa
Gualtieri Arcidiacono di Ceffalù andava esponendo i delitti di
Guglielmo, e confortava con la speranza delle virtù di Rogiero: _il
popolo applaudiva!_ Ma il Bonello non si vedeva. Senza un conveniente
sussidio di armati non si ricava frutto dalle congiure: partiva
Tancredi ad affrettarlo. Ormai erano trapassati tre giorni, nè il
Bonello nè Tancredi comparivano. Romualdo Arcivescovo di Salerno,
Roberto Arcivescovo di Messina, l'eletto di Siracusa, e il Vescovo di
Mezzara, sia perchè in questa mutazione avessero perduto, sia che
in una nuova sperassero acquistare, si dettero a persuadere ai
Palermitani sprigionassero il Re: lo sprigionarono. I congiurati,
dalla velocità dei moti smarriti e confusi, abbandonano Palermo.
Guglielmo, trascorrendo armato le vie della città, vide farglisi
incontro Rogiero, amabile ed avvenente giovanetto, sua gioia nel tempo
passato, ora tutto giubbilante per la ricuperata libertà del padre;
preso da profondo dispetto non ravvisa in lui il figlio, ma il nemico
che volle strappargli la corona e la vita: lo percote nel petto: il
giovane spira l'anima senza mandare un gemito: _il popolo applaudiva!_
Guglielmo, avvedutosi del misfatto, deposta la veste reale, mettendo
dolorosi guai, come se avesse perduto l'intelletto, schiuse le porte
del palazzo, chiunque passava traeva dentro, e amaramente piangendo
gli raccontava la sua disavventura. Tra tanto dolore domestico fu
posta in oblio ogni pubblica vicenda. Il Bonello, un'altra volta
perdonato, congiurava un'altra volta. Richiesto dal Re di una
spiegazione intorno alla sua condotta, rispondeva superbo. Il Re si
armava; vinti i ribelli, parte uccideva, parte bandiva: il Bonello
rinchiuso in oscurissima prigione, poichè ebbe gli occhi abbacinati
e i nervi sopra i talloni recisi, piangendo il duro destino, di
vilissima morte terminava la vita. I rimanenti giorni del Re Guglielmo
furono uno alternare di ribellioni, di ferro e di veleno. Le dure
estorsioni, con le quali angustiava i sudditi, appaiono più
spaventose che credibili. La sua crudeltà fu tale, che non si
sbramasse neppure sopra i nemici fatti cadaveri; a brani a brani, su
per la pubblica piazza, a vista di popolo, gli facea mettere dai morsi
di affamati mastini: e _il popolo applaudiva!_--Nel 1166 la morte pose
fine alla sua esistenza, che, e per lui, e per gli altri, era stata
flagello.

Molti dei fatti siciliani fin qui raccontati succedevano contemporanei a
quelli di Lombardia che ora siamo per raccontare; ma a noi piacque
separarneli, sì perchè possono stare divisi, sì perchè ordinati
disgiuntamente fra loro rappresentano un quadro molto meglio
importante. Torniamo adesso a parlare di Federigo. Andava questi forte
cruccioso contro Papa Adriano per la pace conclusa con Guglielmo I; era
il Papa adirato contro Federigo per l'arresto dell'Arcivescovo di London.
Questi semi di mala intelligenza proruppero in manifesta discordia,
allorchè Adriano mandategli sue lettere, dopo averlo gravemente
ammonito, scriveva: «rammentasse bene, ch'egli teneva lo impero come
_beneficio_ della Chiesa;» la qual parola significava _feudo_. A
questo motivo, sebbene di per sè stesso sufficiente, si aggiunse la
notizia che Adriano aveva fatto dipingere sopra le pareti del palazzo di
Laterano Lotario II genuflesso innanzi Alessandro II, tenendo le mani
sopra quelle del Pontefice con sotto l'iscrizione:

  _«Rex venit ante fores--jurans prius urbis honores,
  Post _homo_ fit Papæ--sumit quo dante coronam:»_¹

  ¹ Giunge il Re innanzi le porte giurando dapprima gli onori di
    Roma, quindi diviene _vassallo_ del Papa per concessione del quale
    assume la corona.

la qual cosa stava a dimostrare _vassallaggio_. Federigo, insofferente
di tante ingiurie, cala pel Friuli un'altra volta in Italia, passa su
quel di Brescia, dove pubblica una disciplina per l'esercito,¹ e
cita i Milanesi. Comparsi, gl'interroga, perchè abbiano riposta
Tortona, sottomessa Lomellina, i ponti su l'Adda e sul Ticino
rifabbricati. I Milanesi, non potendo con le armi, si difendevano con
le parole; non si ascoltavano, e si ponevano al bando dell'Impero.
Federigo avanzandosi è respinto al ponte di Cassano. Ladislao Re di
Boemia valica l'Adda a Cornaliano; i Milanesi ritirandosi abbandonano
il ponte; i Tedeschi incalzando superano i castelli di Trezzo e
Melagnano, e pervengono sul contado di Lodi. Qui fu che Eberto da
Butena, stimando con un súbito assalto superare Milano, partiva con
mille cavalieri alla volta di questa città.--Non uno di loro
sopravvisse a recare la novella della strage degli altri. Federigo
muove con tutto l'esercito contro Milano; considerando difficile
l'assedio, stabilisce il blocco. Divide in sette corpi l'esercito, e
li pone a guardia delle sette porte della città. I Milanesi sortono
e rompono il corpo di Corrado Conte Palatino; ma sovvenuto a tempo da
Ladislao di Boemia gli ributta con perdita. Invano con eroico valore
quaranta Milanesi contro esercito di centomila uomini difesero un arco
antico posto in mezzo del campo; invano tentarono i cittadini nuove
sortite e alcune ne trassero ad avventuroso fine. Milano è
costretto a piegare. Guido Conte di Biandrate, mediatore per la pace,
conclude il 7 settembre 1158 un trattato nel quale si conveniva, che i
Milanesi cedessero le _Regalie_; novemila marchi di argento, e
trecento ostaggi consegnassero: Federigo all'incontro la facoltà di
governarsi a modo loro concedeva, del solo giuramento di fedeltà si
contentava. Ciò fatto, fu nuovamente convocata per San Martino la
Dieta a Roncaglia. V'intervenivano Bulgaro e Martino scolari
d'Irnerio, reputatissimi giureconsulti invitati da Federigo.
Disputarono se l'Imperatore fosse padrone del mondo. Negò Bulgaro,
affermò Martino. Si racconta che l'orazione di Martino piacesse
tanto a Federigo, che sceso da cavallo glielo offrisse in dono, per lo
che Bulgaro con un _bisticcio_ latino dicesse--_Amisi equum, propter
æquum_ (perdei il cavallo per difendere il giusto). Bartolo,
quell'_aquila_ dei giureconsulti antichi e moderni, giunse nei tempi
posteriori a qualificare eretico chiunque si fosse avvisato sostenere
diversa sentenza. La qual cosa sta a dimostrare, nel dizionario dei
legisti _eresia_ suonare _generosità_: tanto è vero che ogni
arte ha i suoi termini proprii, o come oggi diciamo _tecnici!_
Conseguenza di questa Dieta fu, che Federigo rivendicasse le
_Regalie_,² e si attribuisse il diritto di mandare Vicarii nelle
città lombarde per governarle a piacer suo. Malgrado i patti poco
tempo innanzi conclusi con Milano, non volle eccettuarla dalla
decisione della Dieta; mandava un Vicario a reggerla; questi tutto
rotto di battiture gli tornava in breve, cacciato a vituperio dalla
città. Federigo, convocata una Dieta ad Antimaco, mette i Milanesi
al bando dell'Impero. I Milanesi si uniscono ai Cremaschi, ed
apparecchiano le difese. L'Imperatore assedia Crema. Diremo noi la
nefanda strage commessa da Federigo di quanti prigioni gli venivano in
mano? Diremo come facesse appendere vivi moltissimi ostaggi cremaschi
intorno ad una torre per muoverla sicura contro la città, e come i
padri di cotesti infelici, fermi di salvare la patria, urlando
disperatamente, lanciassero sassi ed armi, per respingerla con la
morte della propria prole? La torre fu bene costretta a
indietreggiare, ma lurida di sparse cervella e di sangue,--ma
maladetta per generosi parricidii.... Diremo come tanti sforzi
tornassero vani, e come la città fosse tradita, arsa, distrutta?
No, esponiamo, se non più glorioso, meno lagrimevole fatto alle
armi italiane. Correva il 9 agosto 1160, allorchè Federigo sapendo
che i Milanesi si erano messi in campagna, accorse a guerreggiarli con
Novaresi, Pavesi, Comaschi ed altri infiniti. La fortuna gli fu di
tanto cortese che gli venne fatto di circondarli: ormai pareva non
potessero sfuggire l'universale esterminio. I Milanesi, nulla per
questo caso sbigottiti, divise in due le milizie, attendono battaglia.
Federigo comincia un furiosissimo assalto; le masnade romana e
orientale, duramente percosse, piegano e fuggono; egli le incalza,
giunge al Carroccio, ne uccide di propria mano i bovi, e rapisce il
gonfalone. Intanto per altra parte la seconda ala milanese, vinti i
nemici, tornavasi al campo. Udita la nuova del Carroccio, tutta
baldanzosa per la fresca vittoria, si precipita sul vincente Federigo;
questi lunga pezza tien fermo; alfine, sopraffatto da irresistibile
impeto, si volge in vergognosa fuga, lasciando arme e prigioni.

  ¹ La disciplina dell'esercito detta la _Pace del Principe_ è
    divisa in ventiquattro articoli; si legge in Radevico Frisingen,
    che séguita il racconto di Ottone Frisingen. Fra le altre
    disposizioni è notabile la quarta nella quale si ordina: Che un
    soldato trovando vino possa beverselo liberamente, ma gli è
    proibito di spezzare il vaso.

  ² Se ad alcuno piacesse sapere che sono queste Regalie può
    vederlo nel Libro V dei _Feudi_, dove si dice che consistono nelle
    _Armandie, Angurie, Parangarie, Compendi, Telonj,_ ec. Che sieno
    poi queste _Armandie_ glielo diranno chiaramente i
    Giureconsulti. Rosentball (_Tract. Feud._) afferma essere una
    certa gabella di armenti; subito dopo aggiunge, che si potrebbero
    intendere anche per fabbriche d'armi Cuiacio (_de Feud._) con la
    stessa sicurezza giura, per _Armandie_.  intendersi gli ufficii
    degli apparitori, o sieno sbirri. L'armento dei legali posteriori
    si è messo dietro a questo od a quello, secondo la sua
    coscienza. Qui si che è caso davvero di esclamare: Discite
    JUSTITIAM moniti!....

Se un pari numero di soldati avesse per ambedue le parti combattuto
anche in séguito, e solo fosse stata contesa di valore, la prodezza
italiana avrebbe certamente prevalso; ma nel successivo anno,
centomila Tedeschi scesi dall'Alpi in soccorso dello Imperatore, lo
riposero in grado di scorrere il Milanese. Orribile fu il guasto che
cagionava; a quanti poteva far prigionieri le mani recideva;
finalmente dopo infinite crudeltà tornava ad assediare Milano. Di
lì a poco le provvisioni, sia che non se ne potessero, o non se ne
volessero raccogliere, mancarono in questa città. Chiesero i
Milanesi di venire ai patti; rispondeva Federigo, non volerli ricevere
che a discrezione. I nobili si disponevano piuttosto a morire; la
plebe si ammotinò, e li costrinse a cedere. Qui comincia la pietosa
rovina di Milano, di cui la descrizione volentieri esporremmo, se
molte gravissime cose non ci rimanessero a raccontare. Fu il
diroccamento di Milano operato da mani italiane; nè più
crudelmente avrebbero fatto gli stessi nemici. Questa era la carità
della patria nei nostri padri! Nè ciò dico per dimostrare che
noi siamo migliori: ma essi non furono meno scellerati di noi:--iniqui
tutti! Ormai il governo di Federigo era divenuto increscioso alla
più parte delle città lombarde; nessuna poteva sperare di
resistere sola: unite, sarebbe stata cosa da tentarsi, e la tentarono.
Prima Verona ne fece proposta: Padova. Vicenza, Treviso,
acconsentirono seconde; poco dopo Venezia. Federigo, ch'era tornato in
Lamagna a cagione di una sommossa, scende nuovamente in Italia, ma
adesso per Valle Camonica onde evitare i Veronesi. Seguiva un
congresso nel Monastero di Santo Jacopo in Pontida, tra Milano e
Bergamo, dove gli abitanti della Marca di Verona convengono con
Mantovani, Cremonesi, Bresciani, Bergamaschi, Ferraresi, e Milanesi, e
giurano di non posare le armi finchè non abbiano i perduti diritti
ricuperato. Federigo evitando questa improvvisa tempesta va a Roma, in
parte la incendia, poi muove per Napoli. La peste gli distrugge
l'esercito; a guisa di fuggiasco passa per Lucca, e s'incammina a
Pontremoli, di cui gli abitatori gli si oppongono, e minacciano
arrestarlo: sovvenuto dal Marchese Malaspina giunge a salvarsi in
Lamagna. La Lega, divenuta di giorno in giorno più formidabile,
fabbrica tra il contado di Pavia e quello del Conte di Monforte, nel
confluente del Tanaro e della Bormida, sopra un terreno limaccioso e
arrendevole, una città che in onore di Alessandro Pontefice
chiamano Alessandria. Federigo oltremodo sdegnoso per questi
avvenimenti, non potendo venire in persona, mandò per reprimere la
ribellione il suo Vicario Cristiano Arcivescovo di Magonza: questi
dopo alcuni fatti, che si vorrebbero raccontare se mostrassero almeno
quella specie di coraggio che mostra il ladrone su la pubblica via,
stringeva d'assedio Ancona. I Veneziani, separatisi dalla Lega
Lombarda, si uniscono a Cristiano, e l'assaltano dal lato del mare.
Gli Anconitani adesso si chiariscono veri eredi delle glorie passate,
e degni figli di sangue latino: assaliti, tennero fermo; assalitori,
respinsero. In una sortita ruppero il nemico con sì fatto impeto,
che, fuggendo alla dirotta, lasciò in potere loro una torre: era
questa macchina, quantunque di legno, fortissima, e tutta piena di
armati, che facevano sembianza di volerla difendere fino all'ultimo
sangue. Ognuno dubitava; quel pericolo certo atterriva tutti; la
più parte diceva lasciarla stare. Stumara, valorosa gentildonna,
vergognando della viltà loro, senza mettere tempo tramezzo, preso
un tizzone, si scaglia a tutta corsa verso la torre: vi giunge, vi
appicca il fuoco, nè prima si diparte, che, suscitato un altissimo
incendio, conosce, di lì a poco sarà ridotta in cenere. Tanto
valore fu per essere indarno, a cagione del difetto di vettovaglie:
mancate le cose convenienti a cibarsi, mangiarono cuoio, schifosi
animali, e sozzure: finalmente finirono anche queste. I buoni, che
sono sempre i pochi, dimessa la faccia aspettano l'ultimo momento; i
tristi, _tenaci della vita_ quanto più meritano la morte, si
sollevano, schiamazzano, e testa a cui si oppone: di súbito sorge
un vecchio cieco, che, ringraziando il cielo per averlo privato della
luce, onde non vedere questo giorno di avvilimento, e d'infamia,
rimprovera chi parla di resa, li dispera del perdono nemico, dimostra
loro potersi salvare la città; resistessero: a questo non avergli
riserbati il Signore, conforto dei miseri, riparatore della sciagura;
in lui confidassero, in lui che infrange i denti al lione,¹ e
toglie il veleno al serpente. La plebe taceva; i più prudenti
prevalendosi del tempo ragunano quanto più possono danaro, ne
caricano una barca, che, guidata da gente esperta ed ardita, passa a
salvamento per le galere veneziane, giunge a Guglielmo Marchesella,
capo dei Guelfi di Ferrara, e lo sollecita di affrettarsi al soccorso.
Intanto la fame diventava incomportabile in Ancona. Usciva una nobile
donna dalla casa di certa vicina, dove l'aveva condotta il bisogno a
ricercare un po' di pane per sostentarsi, e nudrire col latte un
bambinello che si recava in braccio,--e non lo aveva trovato;--egli
era rigoglioso e bello; stava assopito col capo mollemente appoggiato
alla spalla della madre, che con pietà lo sogguardava. Si
sveglierà quell'innocente, nè troverà nel suo seno alimento
che valga a nudrirlo!--I passi della madre sono tardi e mal sicuri;
all'improvviso inciampa in qualche cosa, che le si pone tra i
piedi:... era un soldato che giaceva sfinito dalla fame; ella lo
scuote, e gli dice: «Da molti giorni io mangio cuoio bollito, e il
latte è presso a mancare al mio fantolino; àlzati nonpertanto, e
se nelle mie poppe trovi di che sollevarti, confortati per la difesa
della patria.» Innalza i pesanti occhi il soldato, vede la
gentildonna, la vergogna gli riconduce il vermiglio sul volto, e
sostiene quel corpo estenuato; sorge, si lancia contro i nemici,
alquanti ne uccide, e cade trafitto sul campo.

  ¹ Flante Deo... dentes catulorum leonum contriti sunt. (_Job_. 4.)

Guglielmo Marchesella, co' danari di Ancona ragunate genti e
vettovaglie, arriva a Falcognara, quattro miglia distante dalla
città assediata. Si ferma, e sopraggiunta la notte, ordina ai
soldati sospendano uno o più lumi alle lance, e si fa oltre
gridando; gli Anconitani rispondono: Cristiano atterrito fugge su le
montagne picene, poi pel Ducato di Spoleti. I Veneziani a lor posta si
ritirano. Ancona è liberata.

Federigo nell'ottobre del 1174, abbandonata Lamagna, per la parte del
monte Cenisio raggiunge il suo Vicario Cristiano; in passando arde
Susa, occupa Asti, e viene ad assediare Alessandria. La difesa di
questa città meriterebbe descrizione ben lunga: e' fu un fatto di
arme da celebrarsi quanto qualunque altro antico, o moderno;
perchè, a dire vero, sebbene gl'Italiani di que' tempi apparissero
scellerati, pure era loro più facile mostrarsi magnanimi, che a
quei di oggi mostrarsi non vili. Alessandria, difesa da un argine di
terra male assodata, ributtando l'Imperatore, chiarì nuovamente che
il petto di cittadini disposti a morire sia il miglior baluardo per la
tutela di un popolo. Federigo ricorse al tradimento, ma non ne
ricavò altro che infamia. Sempre ributtato, scioglie dopo quattro
mesi l'assedio, e si ritira a Pavia. Nel nuovo anno 1176 Wiemanno
Arcivescovo di Maddeburgo, Filippo Arcivescovo di Colonia, e molti
altri prelati vengono con numerosissimi eserciti pei Grigioni e per
Chiavenna in soccorso dell'Imperatore. Nel 29 maggio si combatte la
battaglia di Legnano. Questa terra, posta tra l'Olona e il Ticino,
lungo la via che mena al Lago Maggiore, occuparono i Milanesi, come
quella che offre ottime situazioni per la difesa, e per offendere ha
non lontane vastissime pianure dove si possono spiegare numerose
milizie. Federigo si attendò a Cariate, piccolo borgo, lontano
circa mezzo miglio da Fagnano, nel quale sorgeva un antico monastero,
fabbricato dalla Regina Teodolinda di santa memoria. Combattevano co'
Milanesi. Bresciani, Piacentini, Novaresi, Lodigiani e Vercellesi: coi
Tedeschi i Comaschi, i Pavesi e il Marchese di Monferrato. Sul far del
giorno settecento cavalieri lombardi mossero contro Federigo: questi
manda a incontrarli cinquecento dei suoi; si comincia la battaglia:
combattevasi francamente per ambedue le parti, chè i Tedeschi erano
in quel tempo i migliori cavalieri del mondo, e gl'Italiani pieni di
ardire per la causa difesa. Nondimeno i Tedeschi, per nuovi rinforzi,
sempre crescenti, rompono gl'Italiani, e gli mettono in fuga. Ora i
vittoriosi, invece di starsi rannodati ad aspettare le rimanenti forze
nemiche, si danno ad inseguire i vinti, ed incontrate per via alcune
schiere bresciane, quelle parimente percuotono e disperdono.
L'Imperatore sebbene biasimasse cotesto intempestivo inseguire,
volendosi nondimeno prevalere dello sgomento che le prime mosse
avevano gettato nelle file lombarde, carica col grosso dei fanti la
compagnia del Carroccio; questa al primo impeto scompigliata si piega,
quasi fuggendo; Federigo incalza, e già sta presso ad impadronirsi
del gonfalone. Allora la compagnia della _Morte,_ composta di
novecento giovani e nobili cavalieri, tutti legati col giuramento di
vincere o morire, che formava la schiera di riscossa, visto
quell'estremo caso, si getta da cavallo, si prostra, invoca il nome di
Dio, dei Santi Pietro ed Ambrogio, ripete ad alta voce il giuramento,
e si precipita nella zuffa. Federigo, respinto da quella dura carica,
torna all'assalto; nuovamente ributtato, si volge ai suoi per
inanimirli: ma questi scorati, esitano, e si perdono; la furia dei
rovinanti nemici gli sfonda; Federigo stesso rovesciato da cavallo
viene con pericolo di vita travolto nella fuga. La battaglia è
convertita in miserabile strage di gente sbandata. Molti furono i
morti sul campo, moltissimi i sommersi nel Ticino. Ai Comaschi,
siccome traditori, non si dettero i quartieri, e mala pena ai
Tedeschi. Venne in potere dei Lombardi il tesoro imperiale, lo scudo,
il vessillo, la croce e la lancia di Federigo medesimo; per più
giorni non si ebbe nuova di lui. La Imperatrice rimasta a Como lo
pianse per morto, e si vestì a lutto.

Federigo non pertanto viveva: fatto prigioniero dai Bresciani, si
traveste da mendico, e ricompare a Pavia con l'onta di una disfatta sul
volto. Fremeva il superbo nel doversi dir vinto: ma i casi più potenti
di lui lo costringevano a mandare a Roma ambasciatori per la pace, tanto
adesso da lui lealmente domandata, quanto poc'anzi perfidamente conclusa
con Ezzelino padre del feroce Ezzelino da Romano, ed Anselmo padre di
Buoso da Doara, a nome della Lega Lombarda. Convennero di un Congresso in
Bologna; poi mutarono in Venezia, a patto che non c'intervenisse lo
Imperatore se non a pace fermata. I Ministri non si accordavano; invece
di pace proponevano tregua di quindici anni pel Papa e pel Re di Sicilia,
di sei per la Lega Lombarda. Federigo domanda avvicinarsi al luogo del
Congresso, e al punto stesso, senza nessuna risposta aspettare, lasciata
Pomposa, villa nel contado di Ravenna, giunge a Chiozza. Parte dei
Veneziani tumultuando chiede che sia ammesso in città; il Papa, e i
Legati Siciliani sostengono doversi stare ai patti: accetti la tregua, e
la ratifichi, altrimenti si allontani; se ai cittadini piacesse
riceverlo, lo ricevessero, ma essi partirebbero nel punto stesso,
protestando contro la manifesta infrazione del diritto delle genti. Alla
fine Federigo per mezzo del Conte Enrico Dessau accetta la tregua il 6
luglio 1177. Allora mandato a prendere a Chiozza dal Senato veneziano, fu
dal Doge Sebastiano Ziani condotto a grande onoranza sopra la piazza di
San Marco, dove incontrato il Pontefice, secondo quello che narrano gli
antichi cronisti, toltasi la porpora imperiale dalle spalle la stese per
terra, e quindi prostratosi si curvò in atto di baciare il piede al
Papa Alessandro, che ponendoglielo in vece sul collo esclamò: _Super
aspidem et basiliscum ambulavi etc._ Alle quali parole Federigo rispose:
_Non tibi, sed Petro:_--e il Papa di nuovo: _Ego sum vicarius Petri_.
Questa istoria, comunque si veda tuttora con bellissime pitture effigiata
su le pareti della Sala grande del Consiglio di Venezia, reputasi dai
moderni storiografi una favola, senza però che ne abbiano esposto le
cagioni, almeno per quanto mi riuscisse di poter ricercare. Passarono gli
anni della tregua senza che accadesse azione degna di memoria; e già
si avvicinava il tempo di riassumere le offese, allorchè Federigo,
ormai disperato di fare buon frutto in Italia, e indotto dalle istanze
del figlio Enrico VII a convertire la tregua in pace durevole, mandò
al Congresso di Piacenza Guglielmo Vescovo di Asti, Enrico, Teodorico e
Rodolfo, per trattare l'accordo. Questi convennero dei preliminari, e
invitarono i deputati delle Repubbliche lombarde alla Dieta di Gostanza.
Conservasi il libro della Pace di Gostanza su la fine del Codice
dell'Imperatore Giustiniano, come monumento importantissimo, non pure per
avere lungo tempo regolato i diritti delle genti in Italia, quanto per
dimostrare la indole del Barbarossa. Costretto a cedere, vuol far
sembianza di donare; e con orgoglio, che disdirebbe alla vittoria,
concede cose, che appena si ricercano dai vinti. La prudenza dei Lombardi
chiaramente si manifesta in questa occasione, imperciocchè, poco
curando la petulanza dello stile ampolloso, guardarono ai loro interessi,
e lasciarono ch'ei si sfogasse. Il proemio della Pace di Gostanza
litteralmente volgarizzato dice: «La benigna ed infinita serenità
della imperiale clemenza ebbe sempre in costume di reggere i popoli con
larghezza di favore e di grazia, per modo, che sebbene debba, e possa con
rigida severità punire i delitti, pure ama piuttosto governare
l'Impero Romano con la propizia tranquillità della pace, e con pietosi
affetti di misericordia chiamare la insolenza dei ribelli alla dovuta
fede, ed all'ossequio di debita lealtà ec.» Dopo tanto pomposo
cominciamento l'Imperatore cede tutte le _Regalie_, i contadi, i diritti
acquistati per prescrizione, quelli di levare eserciti, afforzare le
mura, rendere giustizia; annulla le confische dei beni, e le
_Infeudazioni_ in danno delle città; approva che sollevandosi qualche
disputa tra lui e un popolo, il Vescovo decida; promette non dimorare
tanto lungamente in una città da farle guasto. I Lombardi convengono
di ricorrere ad un suo Vicario, o Podestà, per l'appello delle cause
maggiori di venticinque lire;¹ si obbligano a corrispondere del
_Fodero_, del _Mansionatico_, e della _Parata_; patteggiano rinnuovare
ogni dieci anni il giuramento di fedeltà.

  ¹ La lira milanese ragguagliava a poco più di lire settanta toscane.

Così, dopo il sagrifizio di oltre un milione di uomini in sette
diverse imprese, finivano i disegni ambiziosi di Federigo in Italia.
Ma quel suo spirito non poteva durare in riposo: nulla curando gli
anni, ormai divenuti molti, nulla i disagi e i pericoli, appena giunse
novella in Occidente che Saladino aveva preso Gerusalemme, tolta la
croce, con novantamila combattenti traversò l'Ungheria, la
Bulgaria, la Grecia, e giunto in Soria, mentre intende a conquistare
le terre soggette al Saladino, bagnandosi nel fiume Salef ossivvero
Cidno, dove anche Alessandro stette per perder la vita, miseramente
annegava. Altri scrisse, che fu fatto annegare: ma la prova del
delitto sta in mano di colui che può sempre punirlo. Questa è la
Crociata, ch'espugnò Tolemaide, nella quale intervennero Filippo il
_Bornio_ Re di Francia, e Riccardo _Plantageneto_ Re d'Inghilterra,
insieme a moltissimi Baroni di tutta Cristianità, ed esposta con
tanta sapienza di storia dal chiarissimo Gualtiero Scoti.




CAPITOLO SETTIMO.

LA CASA DI SVEVIA.

                Ponga il cor di Blacasso alle sue labbia
                L'Imperator di Roma Federigo,
                Finchè conquisi n'abbia
                I Milanesi, che per ogni parte
                Assedio posto gli hanno,
                E vive senza suo retaggio, e i suoi
                Tedeschi dentro al cor sentono affanno.
                           SERVENTESE _del Trovatore Sordella
                                    in morte di Ser Blacasso_.


Sono l'uracano, il fulmine, e il terremoto, terribilissimi segni dello
sdegno di Dio; ma più del terremoto, del fulmine, e dell'uracano,
flagella terribile la umanità un Re scellerato. Qualora l'eterno
Moderatore non lo condannasse a brevissima vita, parrebbe non voler
tenere più il patto che strinse con Noè, quando promise, d'ora
in avanti non avrebbe più distrutta la terra, _perchè la
schiatta umana cresce nella perfidia, e il pensiero della sua
fanciullezza è vôlto al male._¹

  ¹ Sensus, et cogitatio humani cordis, in malum prona sunt ab
    adolescentia: non igitur percutiam animam viventem (_Gen, c. 8_)

Ma se la vita è breve, la infamia dura lunga: e noi nepoti
contenderemo la memoria dei potenti colpevoli alla dimenticanza; e
scenderemo nei sepolcri, e ne turberemo le ceneri. La corona che cinge
quei teschii schifosi è un insulto per loro, uno scherno per noi.
La spada logorata dagli anni giace al fianco di quelli senza taglio, e
senza punta:--quel braccio tanto terribile non può più percuoterci....
il verme lo ha vinto! e noi strappiamo impunemente ai tempi, e alla
terra, quei nomi: e gli nudriamo di obbrobrio, e li tramandiamo agli anni
futuri. Allorchè la mia voce sarà dimenticata, sorga una mente
più calda, che ravvivi col disprezzo questa memoria di delitto; e
possa il secolo che trascorre consegnarla al secolo che giunge, come un
deposito che lo amico affida all'amico, onde la disperazione arda lenta
lenta, a goccie infuocate, lo spirito del malvagio; e conosca, la morte
essergli stata battesimo di maladizione per la vita interminabile
dell'anima.

Se in alcuno dei nostri lettori si fosse suscitato un pensiero di
amore per Enrico VII, che poc'anzi abbiamo veduto sollecitare il padre
alla pace, sappia, queste considerazioni essere state fatte per lui.
Nessuno sia così stolto da credere che un atto gentile derivi
necessariamente da animo gentile. La più parte di noi pratica la
virtù, perchè non fa frutto con la colpa, e commette la colpa,
perchè non gli giova la virtù: nè lo spirito per questo si
cambia in nulla, ch'egli rimane pur sempre tristo, o maligno, come la
natura, o la educazione, ce lo ha dato. Se Enrico VII amò la pace,
fu perchè il padre gli aveva promesso farselo compagno del potere,
nè questo sperava conseguire, dove non avesse fine la guerra.
Federigo considerando che non avrebbe mai ottenuto con le armi un
dominio in Italia, tentò acquistarlo per via di pratiche, e fece
tenere proposito a Guglielmo II di Napoli, santissimo Re, detto _il
Buono_, se volesse concedere la sua zia Gostanza, figlia postuma del
Re Rogiero, ad Enrico suo figlio. Guglielmo non avendo prole consente
al trattato. Nel 1184 è fama che seguissero in Milano questi
sponsali,¹ sedendo su la cattedra di San Pietro Urbano III. ed è
pur fama, che Enrico oltre i diritti sul Regno di Napoli ricevesse in
dote centocinquanta somari carichi d'oro, di vasellame di argento,
vesti, sciamiti, _grisi_ (forse vaj), ed altre preziose masserizie. Di
lì a qualche anno morto Guglielmo _il Buono_, sebbene il Regno
cadesse a Gostanza, i Siciliani, comportando gravemente la straniera
dominazione, chiamarono Re Tancredi, Conte di Lecce, e Principe di
Taranto, figlio illegittimo di Rogiero Duca di Puglia. Enrico VII
disposto a volere ricuperare i suoi diritti implora il soccorso dei
Pisani e dei Genovesi, promettendo loro amplissimi privilegii, si
avanza dal lato di Cepperano, ed occupa tutta Terra di Lavoro fino a
Napoli, il quale tien fermo per Tancredi. Una terribile epidemia
distrugge l'esercito tedesco, che, costretto ad abbandonare il Regno,
fugge a Genova. Riccardo Conte di Acerra ricupera Terra di Lavoro. La
Imperatrice Gostanza, che posando su la fede dei Salernitani
soprastava a Salerno, è dai cittadini consegnata a Tancredi.
Questi, come uomo di cuore magnanimo, la rimanda ad Enrico senza
riscatto; della quale cortesia come fosse in séguito ricompensato,
vedremo tra poco. Rogiero primogenito di Tancredi, sua consolazione e
conforto, dopo avere condotto a moglie Irene, figlia d'Isacco Angelo
Imperatore di Costantinopoli, moriva. Tancredi soprappreso di
acerbissima doglia lo seguitava nel sepolcro, lasciando Sibilia
moglie, Guglielmo, Albinia e Mandonia, figli suoi. Enrico VII, saputa
la morte del valoroso Principe, cammina celerissimo contro il Regno, e
per questa volta gli viene fatto di conquistarlo. La Regina Sibilia
ripara co' figli nel castello di Calatabellota, in que' tempi stimato
insuperabile. Enrico le fa proporre di uscire, e nella Contea di
Lecce, prima signoria del suo marito, restituirla. Accetta la
sventurata: di lì a poco, ecco come Enrico adempiva i patti
promessi: Guglielmo fece _abbacinare_, e privare dei genitali, sì
che presto se ne moriva; Sibilia, Albina e Mandonia, mandò in
carcere nei Grigioni. Ora si manifesta il suo feroce talento: fatti
prendere tutti coloro che avevano parteggiato per Tancredi, ordinò
che sul capo loro si ponessero corone di ferro infuocate, e con chiodi
roventi vi si conficcassero. Riccardo Conte di Acerra, caduto in suo
potere, fu strascinato a coda di cavallo, poi appiccato pei piedi;
nè mai, finchè visse quel crudele, consentì che si rimovesse
dallo infame patibolo. Margarito Grande Ammiraglio ebbe gli occhi
divelti, i genitali recisi. I Genovesi e i Pisani non solo delle cose
promesse non soddisfece, ma ben anche della buona fede loro
schernì. Poi, come se infierire contro i vivi fosse poco, volse il
suo furore contro i morti. Fatti disseppellire i cadaveri di Tancredi
e di Rogiero, strappò loro con rabbia la corona reale dal capo. Le
sue crudeltà e rapine di tanto si aumentarono, che il Papa gli
spedì un Legato per farle cessare; egli poi non pure non le
cessò, ma anzi le accrebbe, e, con infinito dolore dei Palermitani,
tutti i tesori dei defunti Re, i vasi di oro e di argento, le tavole,
le lettiere dello stesso metallo, i panni tessuti di seta, di porpora
e di oro, con infinite altre preziosità mandò in Germania. In
questo lo arrivava la mano della morte: fatto odioso ai sudditi, ed
alla sua stessa moglie Gostanza, si narra, che, per veleno da lei
medesima propinatogli, morisse in Messina il 28 settembre 1197.
Rimasta Gostanza assoluta Regina, inviava deputati al Pontefice,
affinchè consentisse che il cadavere dell'Imperatore si sotterrasse
in sacrato, e la investitura del Regno al suo figliuolo Federigo
concedesse. Rispose Celestino, la sepoltura in sacrato ad Enrico non
concederebbe, se prima non si ristorasse Riccardo _Plantageneto_ del
danaro estorto, allorchè ramingo pei suoi dominii lo aveva tanto
vilmente imprigionato: la investitura a Federigo non ricuserebbe, dove
pagasse mille marchi di argento² ai Cardinali. Volendo Gostanza
adempire la prima condizione, e riputando che sarebbe stato un fare
ingiuria alla memoria del defunto marito restituire direttamente il
danaro a Riccardo, come cosa rubata, si avvisò, che col dare
all'Abbate Cistercense trecento marchi di argento, l'affare sarebbe
composto; ma l'Abbate ricusò, dicendo, non potere offrire su
l'altare di Cristo altre oblazioni che quelle monde di ogni nequizia
umana. Finalmente si trovò modo di far seppellire Enrico dentro
un'arca di porfido nel Duomo di Palermo, dove attualmente aspetta il
giudizio di Dio. Per la seconda condizione tutto fu in breve
accomodato, e Federigo ricevè la investitura del Regno. Così
ridotte in buono stato le cose, moriva Gostanza il 25 novembre 1198
lasciando con poco retto consiglio Innocenzio III, creato Pontefice in
quell'anno medesimo, tutore del figlio Federigo, e assegnandogli,
perchè non ricusasse, l'annuale pensione di trentamila tarì.³

  ¹ Gli antichi Cronisti espongono la storia diversamente, e narrano
    come Enrico reduce di Soria andando a Roma nel 1195, sotto il
    Pontificato di Celestino III, trovò la Chiesa in discordia con
    Tancredi Conte di Lecce, fatto Re di Puglia e di Sicilia dal
    volere dei Baroni; onde per torgli il Regno convenisse col Papa di
    rapire Gostanza, figlia del Re Rogiero, dal convento di San
    Salvatore a Palermo, dov'era monaca consacrata, e prendersela in
    moglie. Gostanza, aggiungono, quando sposò l'Imperatore aveva
    circa 50 anni, ed essendo di lì a poco ingravidata, siccome
    nessuno lo credeva, allorchè si sentì vicina a partorire.
    fece tendere un padiglione su la piazza di Jesi, nella quale
    città presentemente si ritrovava, e mandare un bando, che quale
    donna volesse, andasse a vederla; come pure in Palermo si
    mostrò sempre col seno scoperto, onde la gente ne vedesse
    distillare il latte. Nell'arca di porfido posta nel Duomo di
    Palermo, dentro la quale riposano le sue ceneri, si legge una
    iscrizione conforme a tutte quelle cose che abbiamo fin qui
    riferite. Il Mungos nel _Teatro delle famiglie siciliane_ narra il
    modo tenuto per rapirla, e rammenta i nomi di coloro che
    condussero questa impresa; nondimeno ai moderni Scrittori è
    piaciuto narrare diversamente l'avventura, come abbiamo esposto.

  ² Il marco secondo il Davanzati valeva scudi 65 di argento.

  ³ Il tarì amalfitano valeva grana 12.

Noi non istaremo a narrare come adoperasse Innocenzio la sua
qualità di padre del pupillo Federigo, per togliergli gran parte
dei feudi donati da Enrico VII ai suoi cavalieri, protestando esser
parte delle donazioni di Carlomagno, e della Contessa Matelda: non
come dopo una rotta di Marcovaldo tedesco, che pretendeva sottomettere
la Sicilia, supponesse un testamento di Enrico VII, nel quale, tra le
altre disposizioni, si ordinava al figlio Federigo riconoscesse il
Reame della Chiesa, ed alla Chiesa, lui morto senza figli, ricadesse;
non come, incapace a difendere il Regno dai Tedeschi, chiamasse con
poca prudenza Gualtieri di Brienna, marito di Albinia, figlia di
Tancredi liberata dalla prigione di Enrico, il quale avrebbe
certamente spogliato del Regno il giovanetto Federigo, se per
irrimediabile piaga, ricevuta in un fatto d'arme sotto Samo contro il
Conte Diopoldo, non avesse perduto la vita; nè pure narreremo come
Filippo, zio di Federigo, invece di sostenere le parti del nipote in
Germania, se ne facesse incoronare Imperatore a Magonza, mentre un
altro partito coronava Ottone, Duca di Aquitania, in Aquisgrana; non
come Filippo, aiutato da Filippo Re di Francia, fugasse Ottone da
Colonia, sovvenuto da Riccardo Re d'Inghilterra, e come indi a poco
assassinato dal Signore di Witellaspach, al quale tradiva la promessa
di dargli in moglie sua figlia, lasciasse Ottone pacifico possessore
dell'Impero: solo racconteremo, che il Papa, di cui continuo disegno
era impedire la riunione del Regno di Napoli agli Stati
degl'Imperatori Germanici, consentì, in danno di Federigo, col
trattato di Spira, coronare Ottone in Roma. Scendeva questi per la
valle di Trento in Italia, assumeva la corona reale a Milano, la
imperiale a Roma; ma giunto al sommo della sua dignità, scoprendosi
avverso al Pontefice, negò cedere il patrimonio della Contessa
Matelda, e si volse alla conquista della Sicilia. Innocenzio, non
avendo armi, adoperò le scomuniche; e tanto erano tali mezzi
potenti a quei tempi, che gli Arcivescovi di Magonza, di Treveri e
Turingia, il Re di Boemia, il Duca di Baviera, con molti altri Baroni
dell'Impero, di súbito ribellatisi, strinsero lega con Filippo
Augusto contro Ottone, e riuniti a Bamberga lo dichiararono decaduto
dall'Impero, e Federigo in suo luogo surrogarono. Ottone, abbandonato
ogni disegno in Italia, torna velocissimo in Lamagna. Veramente
Innocenzio non avrebbe voluto che Federigo si mescolasse nelle cose
dell'Impero, ma adesso non gli si presentava persona migliore per
opporla ad Ottone, e nelle cose di questo mondo bene spesso non si fa
come si vuole, ma come si può: certo è poi che questo fu caso
unico di vedere i Ghibellini prendere le parti della Chiesa, e
muoverle contro i Guelfi.

Intanto Federigo lasciato Napoli si porta a Genova, poi ad Aquisgrana,
dove Re dei Romani lo confermarono. In questa, Ottone muovendo contro
Filippo Augusto di Francia pervenne al ponte di Bouvine, tra Lilla e
Tournay, dove il 27 luglio 1214 toccò la memorabile rotta, per la
quale disperando di più risorgere si ritirò al castello di
Harburgo a piangere le sue colpe, e logorare tra le penitenze la vita.
Innocenzio percosso da gravissima malattia si moriva: fu egli uomo di
molta dottrina, delle cose legali intendentissimo profondo, cupido di
regno. Il suo Pontificato va famoso pel fondamento che dette alla
Inquisizione; imperciocchè sebbene il Tribunale del Santo Officio,
propriamente detto, cominci sotto Innocenzio IV, pure fu Innocenzio
III, che commise a San Domenico di Guzmano predicasse contro gli
Albigesi, e con ogni sforzo s'ingegnasse a distruggerli.

Erano gli Albigesi una setta di Manichei fuggiti dall'Asia per le
persecuzioni degl'Imperatori Greci, e ricovrati in Linguadoca presso
il Conte Raimondo di Tolosa: si chiamarono anche con diversa
denominazione Paterini, da _Puti_ (soffrire), per distinguersi dai
Martiri della Chiesa cattolica. Consisteva la eresia loro nel credere
la esistenza di due principii, l'uno buono, l'altro tristo.
Attribuivano al primo il Testamento Nuovo, al secondo il Vecchio:
negavano la discesa corporale del Salvatore su la terra; credevano gli
uomini angioli decaduti, che dovevano tornare un giorno alla gloria
antica; rigettavano le indulgenze, il purgatorio, e i miracoli, non
meno che la _transustanzazione _, il culto della Vergine, la
dannazione dei fanciulli morti senza battesimo. San Domenico, per
consiglio del Pontefice, recatosi nella Gallia Narbonese, suscitò
contro essi una Crociata, concedendo quelle medesime indulgenze, che
solevano darsi a coloro i quali passavano a combattere in Terra Santa.

Ora San Domenico, sovvenuto dal Conte Simone da Monforte, scorre i
contadi di Tolosa, Albi, Carcassona ed incendia Beziers; finalmente,
seguendo il suo cammino, cade in potere degli Albigesi, i quali gli
domandano se tema la morte: «Io temere la morte!» rispondeva il
Santo «io temere la morte per la fede, per la gloria di Cristo, e
della Santa Chiesa romana? Non mi uccidete a un tratto, vi prego, ma a
poco a poco mutilate ciascheduno dei miei membri, e mostrateli ai miei
occhi; poi strappate anche questi, e lasciate così il mio corpo, in
mille parti piagato, rotolarsi dentro il suo sangue, finchè giunga
il punto della morte.» Gli Albigesi lo lasciarono in libertà.

Innocenzio non potè mai ottenere da Federigo, che decretasse la
pena di morte contro questi, ed altri eretici, siccome Arnaldisti,
Gazari etc.--Onorio III suo successore valse però ad ottenerla,
come si rileva dalla costituzione _Hac edictali_ conservata nel Codice
Giustinianeo. A noi duole non potere più a lungo seguitare la
storia degli Albigesi, chè il nostro soggetto ci preme; onde
null'altro possiamo fare di meglio che rimandare il lettore all'opera
che l'irlandese Mathurin con tanta forza d'immaginazione ha composto
intorno le loro vicende.

Onorio III, conformandosi in tutto alla politica d'Innocenzio, esitava
a concedere la corona Imperiale a Federigo; nondimeno costretto poneva
per condizioni, che il Regno delle Sicilie al suo figliuolo Enrico
cedesse, la Contea di Fondi alla Chiesa restituisse, egli a militare
in Palestina trapassasse. Federigo prometteva tutto, perchè a
promettere non iscapitava nulla; ma ricevuta la corona imperiale, se
ne andò in Puglia: dove, vinti i Conti di Aquila, di Caserta,
Tricarico, e Sanseverino, acquietò il Regno, vi promosse le arti e
le lettere, instituì Università; e molte altre cose così per
la pace, come per la guerra lodevoli, condusse a buon fine. Il Papa,
che non voleva venire ad un'aperta rottura con Federigo, e d'altronde
lo temeva vicino, si avvisò, per mandarlo in Palestina, di dargli
in isposa Yole figlia di Giovanni di Brienna erede del Regno di
Gerusalemme. Lo Imperatore, che poco tempo innanzi aveva perduta la
prima moglie Gostanza di Arragona, tolse ben volentieri Yole, che
fanciulla leggiadrissima era; ed apprestata una flotta s'incamminò
col Langravio di Turingia alla conquista di Gerusalemme l'otto
settembre 1227.--Qualunque però ne fosse la causa, di lì a pochi
giorni vôlte le prue, tornasi in Calabria, prorogando la impresa
all'anno venturo.

Era morto il prudente Onorio, ed in suo luogo sedeva Gregorio IX dei
Conti di Signa, siccome Innocenzio III, il quale forte sdegnato del
ritorno di Federigo, senza nè pure citarlo, lo scomunicò nel
settembre di quell'anno medesimo 1227. Federigo per niente sbigottito
appella da questa sentenza al Concilio, ordina continuarsi nei suoi
Stati gli uffici divini, lascia al governo del Regno il suo suocero
Giovanni di Brienna, e si reca a Tolemaide. Quinci mandava Legati al
Papa, affinchè si placasse; questi rispose, instigando il Brienna a
ribellargli il Regno. Federigo, fatta pace col Soldano, torna in
Italia, vince il Brienna e il suo esercito, distinto col nome di
_chiavesignato_ da quello di Federigo, che si chiamava _crocesignato_.
Il Papa è costretto a ricomunicarlo.

Le città lombarde erano già decadute da quelle virtù, che le
avevano unite nella gloriosa Lega contro il Barbarossa. Cominciarono
le contese cittadine tra nobili e popolo, aprendo così la via al
primo ambizioso che volle dominarlo. Già fino d'ora molti cittadini
reggevano la patria loro a modo tirannico, siccome i Signori da
Romano, da Cammino, da Este, da Doara, e Pelavicino: in breve la
stessa Milano vedremo cadere sotto il dominio dei Signori della Torre.
Imprevidenti però del pericolo vicino, temevano il lontano, onde i
deputati di Bologna, Piacenza, Milano, e di altre ragguardevoli
città, si ragunarono nella chiesa di Santo Zenone di Mosio su quel
di Mantova, e quivi stabilirono la seconda Lega Lombarda per quindici
anni. Intanto Enrico, sollecitato, secondo che porge la fama, dal
Papa, e dai Lombardi, si ribellava a suo padre. Come questa vicenda
avesse fine vedemmo al Capitolo quinto. Ormai Federigo, non potendo
più comportare il manifesto disprezzo che i Milanesi facevano della
sua autorità, dichiarò loro la guerra. La minuta descrizione
delle cose particolari di questa impresa vorrebbe altra estensione di
quella propostami nel presente Capitolo: narrerò i fatti principali
soltanto, e da prima la battaglia di Cortenuova, nella quale ebbero i
Milanesi dolorosa sconfitta. Tornava nell'agosto 1237 Federigo di
Lamagna, conducendo seco duemila cavalieri tedeschi: giunto che fu a
Verona, occorse in diecimila Saraceni, ed aggiuntili al suo esercito
entrò sul contado di Brescia. I Milanesi con la gente della Lega si
posero subito in cammino, e andarono ad incontrarlo sull'Oglio.
Bellissima era la situazione presa, per modo che Federigo, non volendo
assaltarli con tanto suo manifesto svantaggio, s'ingegnò di
trarneli fuori, valicando il fiume a Montecorvo, e spargendo la fama
di andarsene a svernare a Cremona. Rimasero all'inganno gli
avversarii, che stimando poterlo leggermente danneggiare per quella
confusione che mena sempre seco la ritirata, si dettero ad inseguirlo.
Pervenuti a Cortenuova, invece di fuggente, trovarono lo esercito
imperiale schierato in ordine di battaglia: di tornare indietro non
era più tempo; e' fu mestieri combattere. Ma disordinati, siccome
avviene a cui insegue troppo fidente della vittoria, e stanchi dal
travaglioso cammino, furono abbattuti, e dispersi. Solo la compagnia
della _morte_ tenne fermo all'urto della cavalleria tedesca, e con
valore inudito resse fino a notte, difendendo il Carroccio, nè si
ritrasse prima di averlo spogliato di ogni suo ornamento. Più del
giorno fu sanguinosa la notte, imperciocchè i fuggiaschi non
potendo salvarsi pel contado cremasco rimontarono l'Oglio, e si
dispersero per quello di Bergamo molti rifiniti dal disagio caddero
morti per via; molti per quei sentieri paludosi, o tentando tragettare
il fiume, si sommersero; moltissimi dai Bergamaschi sollevati contro
di loro furono uccisi. Tra per la battaglia, tra per la fuga, meglio
di cinquemila uomini perirono; sarebbero morti tutti, se Pagano della
Torre Signore di Valsassina non gli avesse raccolti, e questo fu il
principio dei Della Torre in Milano. Pietro Tiepolo, figlio del Doge
di Venezia, Podestà, imprigionato da Federigo, è da lui
indegnamente fatto decapitare in Puglia, su la torre di Trani posta
lungo la riva del mare, affinchè la flotta veneziana, che per
quelle spiaggie veleggiava, lo potesse vedere. Seguiva l'assedio di
Brescia, nel quale si rinnuovarono tutte le barbarie adoperate dal
Barbarossa nello assedio di Crema: ma Federigo non potè superarla,
e gli convenne ritirarsi a Cremona senza avere nulla acquistato. I
Veneziani, tutti sdegnosi della morte del Tiepolo, presero parte alla
Lega; il Papa Gregorio non solo si univa contro Federigo, ma ben anche
lo scomunicava. Allora non si conobbe più freno: intese
l'Imperatore a sollevare gli Stati del Papa; il Papa, a sollevare
quelli dell'Imperatore. Federigo però più potente in armi,
meglio istruito nell'arte di lusingare le passioni, superati gli
ostacoli, va a Roma. I Romani gli si dimostrano favorevoli, il
Pontefice parve ormai disperato. Mentr'egli tutto dolente stava ad
aspettare gli ultimi danni, gli sorge in mente un pensiero, donde
nacque la sua salvezza: si volge al Vaticano, toglie le teste di San
Pietro e di San Paolo; le porta in processione per tutta la città,
rimettendo a quei Santi la cura di difenderla: se ne commossero i
Romani; di nemici che gli erano, si convertirono subito in caldi
difensori, e presa la croce, si dettero a combattere Federigo; il
quale sebbene facesse tra crudelissimi tormenti morire quanti
crocesignati gli capitavano in mano, pure non potè superare Roma, e
sdegnoso e avvilito si ridusse nei suoi dominii di Puglia.

Gregorio Papa, rimesso della presente paura, volgeva la mente a cose
maggiori; convoca per l'anno seguente un Concilio a San Giovanni
Laterano, e manda lettere circolari a tutti i Vescovi della
Cristianità, affinchè intervenissero. Federigo adesso temendo
che il suo credito non diminuisse in Lombardia, vi torna con buono
esercito, e dopo di avere ad avventuroso fine condotte alcune imprese,
assedia Faenza. Qui fu che mancatigli i danari mise in corso monete di
cuoio, le quali in séguito, con raro esempio di fede, riscosse pel
prezzo di un agostaro l'una, senza apportare il minimo scapito ai
possessori. Guglielmo Ubbriachi Ammiraglio dei Genovesi imbarcava i
prelati francesi riunitisi in Nizza all'oggetto di portarsi al
Concilio. Federigo manda tosto il figlio Enzo o Giovanni colla flotta
siciliana per collegarsi a quella dei Pisani, capitanata da Ugolino
Buzzaccherini dei Sismondi, e muoversi contro la genovese.
S'incontravano il 3 maggio 1241 le due armate nemiche tra il Giglio e
la Meloria, e ne seguiva una fiera battaglia, nella quale i Genovesi
furono disfatti, ed ebbero diciannove galere prese, e tre cacciate a
fondo. I prelati si mandarono nelle prigioni di Puglia, dove si
racconta che fossero legati con catene di argento. Ricchissima
raccolsero la preda: la fama riporta che i Pisani e i Siciliani si
dividessero a moggia il danaro. Come se poi questa ingiuria fosse
poca, tanto si adoperò Federigo, che fece ribellare alla Chiesa
Giovanni Colonna Cardinale di Santa Prassede, il quale condusse seco
nella rivolta i castelli di Colonna, Lagosta, Palestina, Monticello, e
più altri. Gregorio IX profondamente angustiato nell'animo, non
potendo più comportare tanto acerbo dolore, moriva. Ora non è da
dirsi a qual punto si sollevasse la superbia dello Imperatore. Il
collegio dei Cardinali di sei soli individui si componeva. Celestino
IV nominato Pontefice visse diciotto giorni: dopo lui la Chiesa stette
per ben due anni vacante. Insoffribili erano ed obbrobriose le minacce
e le villanie, che adoperava Federigo contro il consesso dei
Porporati. Odasi un po' con quali parole gli salutasse: «A voi
figli di Belial, a voi figli di Efrem, a voi gregge di perdizione
indirizzo la parola, a voi colpevoli di ogni umano sconvolgimento,
pietra di scandalo di tutto l'Universo.» Nè andò molto, che
lo percosse il gastigo: nel 24 giugno del 1243 fu eletto Papa
Sinibaldo del Fiesco, Cardinale di San Lorenzo in Lucina, col nome
d'Innocenzio IV. Appena Federigo lo seppe, che vôlto ai suoi
cortigiani disse loro: «Di questa elezione noi abbiamo disavanzato
assai, imperciocchè costui, che ci fu amico Cardinale, ci sarà
nemico Pontefice.» Volendo però se fosse stato possibile
nell'antica amicizia continuare, mandò suoi Legati ad Innocenzio
per proporgli il matrimonio di una sua nipote con Corrado figlio dello
Imperatore, purchè dal proteggere i Lombardi desistesse, ed il
Legato che contro di lui predicava la Crociata richiamasse. Si
condussero queste pratiche, ora più, ora meno lentamente, fino al
1244, nel qual anno, quando sembrava che fossero vicini a concludere,
Innocenzio, avvertito che i Frangipani trattavano di rendere a
Federigo le fortezze che tenevano al Colosseo, si traveste da soldato,
fugge da Roma, s'imbarca a Sutri, e ripara in Genova sua patria. Se
Federigo congiurava contro il Papa, questi dal canto suo non se ne
stava. Dicesi, che fosse scoperta in quell'anno stesso una
cospirazione ordita dai Frati Minori contro la vita dello Imperatore,
e che la più parte di loro ne avessero le mani tagliate, e la testa
recisa.

Il Papa, disposto di procedere affatto nemico contro di Federigo,
convoca un Concilio a Lione per la festa di San Giovanni. Nel 28
giugno del 1245 ne fu tenuta la prima sessione nel Convento di San
Giusto, assistendovi centoquaranta Vescovi. Cominciò Innocenzio
esponendo i mali della Chiesa; la Russia, la Polonia, e parte della
Ungheria, dai Tartari devastate; Gerusalemme presa dai Carismieni.
Costantinopoli dai Vataci minacciata: tutti questi mali attribuisce a
Federigo; di spergiuro, di empietà, e di eresia lo accusa. Taddeo
da Suessa Legato imperiale, vedendo il Cancelliere Piero delle Vigne
non levarsi a difendere il suo signore, sorge arditamente, scusa
Federigo, e lo dimostra prontissimo a combattere contro gl'Infedeli.
Innocenzio chiede sicurtà; Taddeo nomina i Re di Francia, e
d'Inghilterra; il Papa gli ricusa. Nella seconda sessione Taddeo con
apprestata orazione difende Federigo; qualifica per parte del suo
signore, menzognero il Vescovo di Catania, che ripeteva le accuse del
Pontefice, ed annunzia che lo Imperatore sta per comparire di per
sè stesso al Concilio. Il Papa vuol pronunziare la sentenza; gli
Ambasciatori inglese e francese lo costringono a concedere le proroghe
per dodici giorni. Taddeo, tentati gli animi dei Cardinali, e
trovatili tutti prevenuti in favore d'Innocenzio, avvisa Federigo, che
si era avanzato fino a Torino, che non si affatichi di andare più
oltre; essere la causa sua oggimai terminata. Sorgeva il giorno 17 di
luglio, e col giorno si apriva la terza sessione. Si presentava Taddeo
protestando incompleto il numero dei Vescovi, e perciò, dove fosse
pronunziata sentenza, fino di allora _frapponeva appello_ a più
completo Concilio. Ciò nondimeno ributtate Innocenzio le proteste,
pronunzia la sentenza contro Federigo come _misleale_ vassallo della
Chiesa, violatore dei patti giurati, sacrilego, eretico, e finalmente,
secondo lo usato costume, chiudeva così: «Noi dunque che sebbene
indegni teniamo luogo del nostro Signore Gesù Cristo; Noi, cui
furono volte le parole di San Pietro Apostolo, _tutto quello che
avrete legato su la terra sarà legato in cielo_; Noi, co' Cardinali
nostri fratelli, e il sacro Sinodo, deliberammo, essersi questo
Principe reso indegno dello Impero, degli onori, e delle dignità.
Dio pei suoi misfatti lo respinge, nè soffre ch'ei sia più
Imperatore. Noi manifestiamo alla gente, siccome è legato dai suoi
peccati, respinto da Dio, privato dal Signore di ogni dignità, e di
queste cose anche con la presente sentenza lo priviamo; quelli che gli
sono tenuti per giuramento sciogliamo; anzi per nostra autorità di
più oltre obbedirgli vietiamo, non pure come ad Imperatore, ma
benanche in qualunque modo pretendesse obbedienza, e lo anatema nostro
fino di adesso decretiamo contro loro, che in qualunque modo, e sotto
qualunque pretesto, lo sovvenissero ec.»

Pronunziata la sentenza, i Cardinali rovesciarono le candele, che
tenevano accese, in atto di esecrazione; Taddeo da Suessa fuggì dal
Concilio, percuotendosi il petto, ed esclamando «Giorno d'ira è
questo! giorno di sventura e di sangue!» Giunge le novella a
Federigo, che furiosamente levatosi in piè grida: «Chi è
questo Papa che mi ha ributtato dal suo Sinodo? Chi è colui, che
vuole toccar la _mia_ corona su la _mia_ testa? Chi è colui che lo
può? Dove sono i miei gioielli? Presto, recatemi i miei
gioielli.» Glieli recavano: aperta una cassetta, dove teneva
diverse corone, ne tolse una, e se la pose in capo dicendo: «Oh!
ella non è per anche perduta; nè Papa, nè Sinodo, me l'hanno
tolta, nè me la torranno senza che sangue ne costi.»

Dopo questa sentenza Federigo non ebbe più un'ora di bene.
Innocenzio spedì lettere circolari per ribellargli la Sicilia;
tentò farlo morire per opera di congiura ordita dai figli del Gran
Giustiziere Mora, dai San Severino, e dai Fasanella: andato a vuoto il
tentativo, non cessò dalle insidie, anzi viepiù accendendosi in
quelle istigò Piero delle Vigne, rimasto trascurato in corte dopo
il Concilio, a ministrargli il veleno. Giaceva Federigo leggermente
ammalato, allorchè Piero si dispose all'opera di perfidia: fattosi
alla camera dove era l'Imperatore, lo confortò a bere certo liquore
composto da un suo medico, e gli affermava che ne sarebbe tosto
guarito. Federigo di tutto già consapevole assentiva; giunto che
vide il medico, si volse a Piero e gli disse: «Piero, è questa
la bevanda che l'amico porge allo amico ammalato?» Poi con aspetto
feroce ordinava al medico gli desse la tazza; questi pauroso della
vita finge sdrucciolare, cade, e la rovescia per terra: poco gli
giovava il consiglio; lo sparso liquore fu verificato per veleno,
ond'egli n'ebbe la testa mozza. Piero poi, privato degli occhi, e
rinchiuso dentro un monastero, dà del capo nel muro, e miseramente
finisce i suoi giorni.

Federigo, considerando sollevarglisi attorno tanti odii, timoroso di
sè, chiedeva pace. San Luigi e la Regina Bianca intercedevano.
Innocenzio per questa volta non ricusò; ma per condizioni di pace
ordinava, che lo Impero di Germania concedesse a Corrado, il Regno di
Napoli ad Enrico, entrambi suoi figli; ed egli si recasse a
Gerusalemme. Mentre che questi accordi si trattavano, giunse la
novella in corte della ribellione di Parma. Federigo, messa ogni altra
cura da parte, intese con tutto l'animo a ricuperarla. Ell'era
città importantissima per lui, perchè apriva comunicazione con
Verona, Germania, e gli Stati di Ezzelino da Romano, potente capo dei
Ghibellini in Lombardia. Accorso con ogni suo sforzo, la cinge di
soldati, ordina guardarsi diligentemente le vie onde nessuna cosa
potesse entrare, od uscire; poi innalzato un ceppo sopra un monticello
poco distante dalla città, quivi ordina che giornalmente a vista
degli assediati recidansi le teste di quattro cittadini parmigiani.

Sebbene tessendo la storia dei figli di Eva, veniamo necessariamente,
e con infinito nostro dolore, a raccontare una serie di delitti, a Dio
non piaccia, che per noi sieno celate le poche azioni che possono
ridondare in onore di quelli. I Pavesi, che noi vedemmo costanti,
ostinati odiatori dei Guelfi, non sostennero tanto scempio, e
notificarono allo Imperatore che cessasse, altramente si partirebbero,
imperciocchè essi erano venuti a fare da soldati, non già da
carnefici.

L'Imperatore, quasi per anticipare quello che aveva in mente eseguire,
ordinò si fabbricasse una città, alla quale pose nome _Vittoria_,
per trasportarvi, quando che fosse, la gente di Parma espugnata, ed
intanto disegnava di prendervi i quartieri da inverno. Correva il giorno
diciottesimo di febbraio 1248, allorchè i Parmigiani, avendo saputo
che Federigo si era allontanato con assai gente per cacciare col falcone,
si disposero tentare disperata sortita. Non fu per questa volta la
fortuna contraria ai generosi. Gl'Imperiali, assaltati allo improvviso,
dopo leggera resistenza si danno alla fuga; ne segue strage infinita.
Taddeo da Suessa, e il Marchese Lancia, caddero morti sul campo, tentando
ritenere i fuggitivi: inestimabile tesoro venne in potere dei vincitori,
e la stessa corona imperiale. Federigo ritornava adesso tutto umile ad
implorare la pace con Innocenzio, offrendo passare in Terra Santa; non si
ascoltava. Allora vide quello che doveva considerare innanzi, cioè,
che fino a tanto che ei fosse stato perdente, il Papa non si sarebbe
piegato a meno severi consigli. Si volse dunque in Toscana, ed inasprito
pei recenti disastri, ne uscì tutto sanguinoso di nefandi omicidii.
Superato il castello di Capraia, dov'erano riparati gran parte di Guelfi,
tutti fece annegare: al solo Zingane Buondelmonti per odioso privilegio
(e stimò fargli favore) ordinò che si strappassero gli occhi, e si
gittasse nelle prigioni di Puglia. Ma quasi che di ogni misfatto dovesse
immediatamente pagare la pena, poco tempo dopo, il suo figlio Enzo
combattendo a Fossalta contro i Bolognesi fu vinto e fatto prigioniero;
nè mai in séguito per prego, o per minaccia, dal Comune di Bologna
lasciato partire, e realmente trattato, visse ventidue anni in quella
città. Federigo, tentato nuovo motivo per la pace, e nuovamente
respinto, se ne andò in Puglia a macchinare nuove imprese, ed a
prepararvisi, allorchè la morte lo giunse a Ferentino il 13 decembre
1230. Innocenzio così annunziava al mondo la sua morte: «Si
rallegrino i cieli, esulti la terra, che il fulmine, di cui Dio da gran
tempo ci minacciava, si è convertito con la morte di un uomo in
freschi zeffiri, ed in limpide rugiade.»




CAPITOLO OTTAVO.

MANFREDI.

                Lasciate questo canto, chè senz'esso
                Può star la Storia, e non sarà men chiara:
                Mettendolo Turpino, anch'io l'ho messo.
                                          ORLANDO FURIOSO.


Se il fastidio di colui che ha percorso queste Storie giungesse alla
metà di quello che ho avuto io nel compilarle, non dubito punto, che
la soprascritta epigrafe dovesse essere con maggiore convenienza
collocata innanzi il Capitolo settimo. Però, se il caso sta come ho
detto, faccio qui solenne protesta, affinchè i versi citati si
abbiano _ad ogni effetto di ragione_ (per dirla co' Legali) come
anteposti al luogo menzionato. Se questa epigrafe poi sia, o no,
valevole a scusarmi, io per vero dire non vedo ragione del contrario;
perchè, se giovò all'Ariosto, come non dovrebbe giovare anche a
me? Alcuno forse opporrà, ch'egli si trovò costretto a questo
dalla cronaca di Turpino, e probabilmente avrebbe rigettati que'
racconti, laddove fosse dipeso dalla sua volontà. Ma ogni uomo, per
quanto siasi ostinato a leggere poco, conosce, che la buon'anima
dell'Arcivescovo Turpino aveva altro in testa, che contare novelle, e
che quell'umore bizzarro dello Ariosto gli attribuiva di giorno ciò
ch'ei sognava di notte. E di vero se così non fosse stato, come la
Eminenza del Cardinale Ippolito da Este dopo avere letto il divino Poema
lo avrebbe interrogato dicendo:--Messer Lodovico, da dove avete cavate
tante _frascherie_?--Domanda, che svelò a un punto il bell'ingegno del
Cardinale, e fu la sola ricompensa che Messere Lodovico ricevesse dalla
manificentissima e liberalissima Casa d'Este, come dicevano allora i
Cortigiani, perchè le Gazzette ufficiali e semi-ufficiali non erano
state peranche inventate. Ma quand'anche queste ragioni non mi
giovassero, non si creda mica, ch'io non ne abbia in pronto molte altre,
e gravissime tutte. Potrei allegare per la prima quella che parmi, ed
è la principale di ogni altra,--il piacere mio; poi per seconda, che
la presente generazione ha l'anima assetata di tutti que' libri che si
distinguono col nome di _Vite_, e di _Storie_. Non ho detto subito
_Storie_, perchè in oggi non è il libro che fa il titolo, ma il
titolo il libro; e storia ormai non sappiamo più che cosa ella sia, in
grazia di que' tanti volumi di fatti ricavati all'impazzata da opere
oltramontane, e oltramarine, male connessi, male esposti, e peggio
narrati: volumi che nulla hanno d'italiano, nè il senno, nè la
civiltà, nè la lingua; volumi che la stessa ignoranza guastano,
facendola incapace di mai più istruirsi, o, quello ch'è peggio
assai, dal proprio mal talento, dalla invidiosa mediocrità, e dalla
implacabile presunzione, seminano odio, mietono ignominia, eterno riso
dei nemici stranieri. Benedetta sia sempre quella nudità della mente
che cerca, e può acconciamente imparare; maladetta la ignoranza
presuntuosa e maligna, e cui la fomenta.--Ai tempi di Elisabetta Regina
d'Inghilterra costumavano le dame aggirarsi per le vie con un lungo
strascico di seta; oggigiorno le anime vanno a processione pel mondo con
uno strascico sperticato d'ignoranza ribalda: ogni tempo ha le sue
usanze! Elisabetta con una legge _suntuaria_ ridusse gli strascichi di
seta a due sole braccia; ma la ignoranza si ride delle leggi, e dei
legislatori, e salta quanto vuole saltare, e urla quanto vuole urlare,
chè non v'è prigione che la tenga, nè birro che la leghi; e ti
misura a passetto quattro tomi o sei di _Memorie storiche_, o libri altri
cotali. Confortiamoci dunque con la speranza che questa sia l'ultima
piaga con la quale a Dio piace di toccare l'Italia; confortiamoci, dico,
che anche quaggiù un Mare Rosso¹ aspetti il brulichío delle
_cavallette storiografe_, che si avventano alla buona messe, e fanno duro
governo dei nostri campi fortunati; confortiamoci, che l'aere di questo
cielo benigno un tempo alle imprese gentili, torni mortifero alle piante
_parasite_ che ci minacciano. Ai vecchi, che per esser fondo del secolo
passato vanno tutti schifosi di posatura, e camminano curvi sotto le
stoltezze del nuovo, le ignoranze dell'antico, e le presunzioni di
ambedue i secoli, ormai minaccia la malattia, o più giovevole la
morte. Ma non tutti tra i vecchi così, e dei giovani quasi nessuno:
castissimi nell'anima, di quel senso che si sublima alle immagini del
bello dotati, amano istituire gara di grandezza e di gloria, amano
esercitarsi nelle lodevoli imprese, e mantenere intatto il sacro deposito
del sapere, che i nostri grandi avi ci hanno tramandato. Onore! Onore ai
magnanimi, che vivono nelle visioni della immortalità! Il fuoco della
scienza, come quello di Vesta, arde scarso, ma eterno, e conservato da
mani pudiche.

  ¹ Fecit flare ventum ab Occidente vehementissimum, et arreptam
    locustam projecit in mare rubrum. (_Exod._, C. 10.)

«Ordiniamo, che Corrado eletto Re dei Romani, erede del Regno di
Gerusalemme, dilettissimo figliuolo nostro, ci succeda nell'Impero, ed
in qualunque altro dominio in qualsivoglia modo acquistato,
particolarmente nel Regno di Sicilia. A lui morto senza figli vogliamo
succeda Enrico figliuolo nostro, ed a questo morto pure senza figli
succeda Manfredi nostro figliuolo. Dimorando il mentovato Corrado in
Lamagna, od in altro luogo fuori del Regno, Manfredi faccia le sue
veci in Italia, e specialmente in Sicilia, dandogli pienissima
potestà di fare tutti quei provvedimenti che potremmo far noi, come
concedere terre, castelli, feudi, dignità, parentele ec. ec.. meno
gli antichi _demanii_ del Regno; ed abbiano Corrado ed Ennrico, o
eredi loro, le cose che avrà fatte per rate e confermate. _Item_
concediamo, e confermiamo al sopra detto Manfredi il Principato di
Taranto, di Porto Rosito fino alla sorgente del fiume Brandano, non
meno che le Contee di Montescaglioso, Tricarico e Gravina, le quali da
Bari si estendono fino a Palinuro, e da Palinuro fino a Porto Rosito.
Gli concediamo inoltre la Contea di Monte Sant'Angiolo con ogni
titolo, onore, diritto, borghi, terre, castelli, villate, e
pertinenze. In ogni altra possessione dalla Maestà Nostra
concessagli nello Impero lo confermiamo, purchè di queste riconosca
Corrado per suo sovrano signore ec.»¹

  ¹ Testamentum Friderici etc., p. 2 et passim.

Questa era la volontà dello Imperatore, come si rileva dalle sue
tavole testamentarie riferite da alcuni diligenti Storici, ma tale non
era quella di Papa Innocenzio. Abbiamo veduto come la politica dei suoi
antecessori consistesse tutta nell'impedire che l'Imperatore di Lamagna
avesse dominio in Italia, e poichè non potè attraversare, che per
mezzo del matrimonio di Gostanza con Enrico la casa di Svevia ottenesse
il Regno di Napoli, ogni pensiero della Corte Romana fu vôlto ad
impedire che si consolidasse in mano dell'Imperatore. Innocenzio non
aveva altro sentiero a seguire. Quel potente amico vicino che volendo ti
distrugge, riesce più pericoloso del nemico che puoi combattere con
incerta fortuna. Innocenzio come uomo avveduto, e delle cose del mondo
intendentissimo, accese le cupidigie dei Baroni napoletani. Ognuno di
questi, sperando farsi signore assoluto, con l'antica lusinga della
libertà andava sollevando i popoli, e diceva doversi trucidare il
tiranno, e purgare il Regno dai Barbari. Manfredi dal canto suo
sollecitava i popoli a rimanersi fedeli, gli onori e le gioie della
lealtà esponeva, i suoi nemici ribelli appellava. Sono i nomi di
_ribelle_ e di _tiranno_ nelle rivolte di per sè stessi senza
significato, e senza rappresentanza morale nella mente dei popoli, ed
aspettano la loro spiegazione dall'esito delle battaglie. Allora vedendo
gl'imprigionamenti, gli esilii, le teste tagliate e confitte su pei
pali, per quell'antica fratellanza, che corre nei loro cervelli tra pena
e delitto, senza cercare più oltre danno il torto a chi è vinto.
Il nome di riprovazione rimane a colui che ha dovuto cedere, l'altro ha
purificato la sua infamia nella vittoria.... poi la vittoria muta,
chè il chiodo alla ruota della Fortuna nessuno pose fin qui, nè
mai porrà, e con la vittoria mutano i giudizii degli uomini. Vinse
Manfredi, e fu giusto; i Baroni vinti, e però scellerati. Alla morte
dello Imperatore il Regno da un lato all'altro si ribellò, e Manfredi
in meno di un anno lo ricompose in pace, ed eccettuate le città di
Napoli e di Capua, tutte le sottomise. Fu quest'eroe figlio naturale di
Federigo, e di una Marchesa Lancia di Lombardia, ma come si ricava dal
suo testamento, avanti di morire legittimato. Bellissimo di corpo, di
biondi capelli, ed occhi azzurri, come tutti gli altri della famiglia di
Svevia; era la sua persona maestosa, il portamento gentile; di costumi
liberale e cortese: sortì dalla natura ingegno maraviglioso,
conciossiachè egli sapesse poetare a modo dei Trovatori, suonare, e
nessuno degli adornamenti cavallereschi ignorò: del pari che suo
padre Federigo parlò speditamente diverse lingue, e fu intendente di
cose naturali, come si rileva dai libri su la _Caccia_, che di lui ci
rimangono: cupamente ambizioso, stimò ogni mezzo, purchè conducente
al suo scopo, lodevole: capace di calcolare ogni delitto e commetterlo,
e celarne il rimorso: simulatore e dissimulatore destrissimo,
sprezzatore degli uomini e di Dio, nel mentre che con istrano contrasto
si mostrò sempre umano, magnanimo, e perdonatore generoso. La sua
anima fu grande, ma tenebrosa; nessuno uomo al mondo ha mai tanto
somigliato a Lucifero, allorchè ribellando parte del cielo al suo
Signore ne portò la fronte in sempiterno solcata dal fulmine divino.

Corrado si apparecchiava a visitare il Regno di Sicilia, che il suo
augusto genitore soleva chiamare _prezioso retaggio_: imbarcatosi a
Porto Navone, alla estremità del Golfo Adriatico, su le flotte
pisana e siciliana, giunse felicemente sul principiare dell'anno 1252
a Siponto in Capitanata. Gli occorse Manfredi con magnifica comitiva,
e fattegli le dimostrazioni del più _sviscerato amor fraterno_ gli
narrò le imprese eseguite, i pericoli superati, e con diligenza gli
espose le presenti condizioni del Regno. Corrado rispose, dovergli
grazie infinite: lo pregò a volerlo sovvenire co' suoi consigli, ed
a non partirsi giammai dal suo fianco. Così in buona concordia
andarono dapprima le cose. Si cominciava intanto ad imprendere la
guerra. Corrado, aiutato da Manfredi e dai Saracini, occupava in breve
Aquino, Suessa e San Germano; non dissimile da Federigo suo padre,
rigidamente si conduceva co' vinti, gli rifiniva con gravose
imposizioni, e con atroci tormenti li trucidava. Manfredi poi mostrava
compassionarli, spesso intercedeva per loro, più spesso li
trafugava, tutti dei suoi danari sovveniva; già per lo innanzi que'
suoi modi cortesi toccarono i cuori dei Siciliani, nè poco
contribuirono a sedarne i tumulti; ora poi, posti a contrasto con
quelli di Corrado, tutti lo imploravano come loro protettore, e
santissimo Principe lo dicevano, e che fosse divenuto il loro Re
desideravano. Corrado, ch'era di natura sospettoso, s'ingelosì ben
tosto di Manfredi, e cominciò a temerlo troppo potente, onde prese
a spogliarlo dei feudi, limitarlo nei suoi attributi, e così in
ogni modo umiliarlo e avvilirlo. Manfredi sopportava tutto con lieto
volto, nè se ne mostrava punto crucciato; anzi in proporzione dei
torti ricevuti pareva raddoppiare di ardore per sovvenirlo. Capua
stretta di assedio cedeva adesso a Corrado, che levato subito il campo
mosse contro di Napoli. Questa città tenne lungamente; alla fine,
soverchiata da troppo maggior numero di forze nemiche, si arrese.
Corrado vi esercitò atti di rabbia, atterrò le mura, condannò
gran parte di cittadini alla morte, la Università instituita da
Federigo rimosse e trasportò a Salerno: Manfredi era sempre lì a
spargere balsamo su le ferite cagionate da Corrado, e a prodigare
consolazione e sussidii: sembravano il genio del bene, e il genio del
male, che si fossero uniti a percorrere la faccia della terra.

Il grido degli offesi Napolitani giunse fino ad Innocenzio IV, che
considerando se un potente esercito sì fosse presentato alle
frontiere del Regno avrebbe potuto agevolmente sottometterlo, tirando
partito da quegli umori, spedì il suo Segretario Maestro Alberto da
Parma in Inghilterra per farne proposta a Riccardo Conte di
Cornovaglia, fratello di Enrico III. Riccardo ricusò il partito,
scusandosi col dire, lui essere fratello d'Isabella ultima moglie di
Federigo, ma infatti perchè nudriva ambiziosi disegni sopra
l'Impero. Enrico III allora sollecitò Innocenzio a concederlo al
suo figlio Edmondo, e di breve rimase concluso il partito, quantunque,
come vedremo in appresso, non fosse mandato mai ad esecuzione.

Giungevano intanto novelle dello Impero a Corrado, per le quali
sentendo come Guglielmo di Olanda si fosse ribellato, conobbe essergli
di mestieri confermare con la propria presenza la fede vacillante dei
Baroni tedeschi. Abbandonando la Sicilia temeva di Manfredi, molto e
più temeva di Enrico, giovanotto di belle speranze, lasciato dal
padre ricco d'infinito tesoro, preposto al governo delle Isole, al
quale egli doveva cedere il Regno di Gerusalemme, o l'Arelatense.
Troppi, come ognun vede, erano i vantaggi che resultavano dalla sua
morte, perchè Corrado lo lasciasse vivere. Enrico chiamato a Melfi
_periva:_ Corrado _finse_ sentirne immenso dolore, e Manfredi _finse_
di crederlo.

Ormai pronto a partirsi per Lamagna, Corrado la maggior parte dei
Baroni aveva raccolto a Lavello col pretesto di magnifiche feste, ma
in sostanza per ispiarne i sentimenti, e spengerli tutti alla
occasione. Trapassarono le feste, e fu imbandito l'ultimo banchetto:
sedeva Manfredi in faccia a Corrado, e con molte parole ora cortesi,
ora amorose, lo lusingava; all'improvviso si levò in piedi, e
vôltosi verso un donzello saracino gli disse: «Alì Haggì,
_pel Profeta che ha visitato,_ porgimi di quel buon vino col quale
Federigo soleva propinare alla salute di sua casa.» Il Saracino gli
porse un fiasco di argento, Manfredi n'empì una tazza (la sua era
già piena), e la offrì a Corrado esclamando: «Alla salvezza
di Svevia, all'Aquila nera in campo d'oro!»--«E all'Aquila di
argento in campo azzurro!» rispose Corrado, e presa la tazza, vi
accostò le labbra, e speditamente la vuotò. Manfredi era rimasto
con la sua alla mano, e gli occhi senza sua volontà stavano fitti
sul volto di Corrado; quando questi ebbe posato la tazza, egli
accostò precipitosamente alla bocca la sua, quasi per nascondervi
il volto, e la bevve ad un tratto. Poi ostentando una gioia smoderata
chiese un liuto, ma nell'accordarlo spezzò le corde:--gettò lo
istrumento e si pose a cantare: la sua voce era angelica,--ma
confondeva i suoni, disordinava la musica; l'anima in somma era
lontana da prestarsi a quegli ufficii. Finiva la festa, ed ognuno si
ritirava al riposo. Manfredi pure andò a trovare il suo letto, ma
s'egli vi trovasse riposo io non lo posso accertare. Non erano molte
ore ch'ei vi giaceva, allorchè una voce traverso la porta gridò:
«Messere il Principe, svegliatevi, accorrete, l'Imperatore si
muore!» Manfredi balzato da letto si pone una maglia di ferro sotto
le vesti, ed esce precipitoso. Giungeva al letto del moribondo.... Il
volto di questo, livido per la presente malattia, più livido per la
ricordanza dei suoi misfatti, appariva veramente terribile. Sporgeva
le labbra tutte annerite come lo assetato; i capelli avea ritti,
grondava sudore. Manfredi si abbandonò sul letto percotendosi il
seno, piangendo dirotto, e ad ora ad ora esclamando: «Oh! signor
mio, ch'è questo mai?»--«Manfredi,» rispose a gran fatica
il giacente «io muoio, e Dio sa come! abbi.... almeno.... pietà
di mio figlio, Manfredi!...» Trasse un anelito, cadde riverso sul
guanciale, e spirò.

Un uomo che non aveva mostrato dolore nè gioia, ma si era rimasto
sempre allato dell'Imperatore, immobile come la statua di un Santo,
trasse da parte Manfredi, e con parole tranquille gli disse:
«Messere il Principe, fa mestieri provvedere: volete voi assumere
il baliato del Regno?»--«Io dominare, Marchese Bertoldo?»
rispondeva Manfredi: «oh! sono sazio, ma sazio assai delle cose
della terra.... Io vo' passare la rimanente mia vita a piangere il mio
fratello.»--«Ben pensato, Principe: io co' miei Tedeschi
sosterrò in Sicilia le ragioni di Corradino,» soggiunse
Bertoldo. «Vi aiuti Dio nella impresa.»--«Amen,»--riprese
l'Hochenberg, e si allontanò.

Si sospettò súbito di veleno, ma ora a nessuno tornava dirlo. Il
paggio saracino, che solo non aveva interesse a celarlo, non fu più
visto in corte; e così Dio gli abbia salvato l'anima nell'altro
mondo, com'egli certamente in questo perdè la vita. Tentò il
Marchese Bertoldo di Hochenberg con quella improvvisa domanda
penetrare la mente di Manfredi, ma questi era più destro a celare
che non il Marchese a conoscere. Aveva Bertoldo un senso sicuro di
giudicare gli uomini pensando sempre alla peggio; Manfredi poi
possedeva il genio della malignità. Il Marchese poteva essere
appena inalzato all'onore di primo istrumento dei misteriosi disegni
del Principe di Taranto.

L'Hochenberg siccome _balio_ di Corradino spedì ambasciatori al
Pontefice per implorare perdono. Rispondeva Innocenzio, volere prima
di tutto essere messo in possesso del Regno, giudicherebbe dipoi qual
dritto potesse avere Corradino su quello. Non si accettavano cotesti
patti, le pratiche per la pace nuovamente si rompevano, la guerra
ricominciava. Innocenzio, messo da parte le profferte fatte pel tempo
passato ad Enrico d'Inghilterra, si consigliò di conquistare per
sè il Regno di Sicilia. A tale intento raccolse in Anagni le
milizie delle Repubbliche lombarde e toscane, quelle della Marca di
Ancona, e più altre. Al punto stesso istigava i Baroni del Regno
alla ribellione; ed in questo faceva buon frutto, perchè Manfredi o
lo aiutava, o non lo impediva. Bertoldo travolto dalla necessità
dei casi, considerando non essere omai in suo potere sedare quelle
sommosse, propose da senno a Manfredi di cedergli il _baliato_. Il
Principe finse da prima ricusare, ed ora con questa, ora con quella
scusa, andava schermendosi: alla fine accettò, a condizione che il
Marchese gli cedesse i tesori di Corrado, e andasse in Puglia a
ragunare nuovo esercito. Bertoldo, toltosi da dosso quel grave carico
di difendere il Regno, e di mostrarsi la prima persona contraria
agl'interessi del Papa, non pure non tenne i patti, ma si manifestò
avverso a Manfredi. Conobbe il Principe la disperata sua condizione, e
lo errore commesso dell'essersi affidato a quegl'incostanti spiriti
de' Napoletani: ma opponendo la frode alla frode, prevenne Bertoldo;
finse fare volontariamente quello a che tra poco sarebbe stato
costretto, e andò a Cepperano ad umiliarsi al Pontefice. Narrasi
che giungesse perfino a tenergli il palafreno per la briglia, quando
valicò il Garigliano.

Gli accorgimenti di Manfredi non dovevano gran pezza durare; egli li
aveva operati per sospendere i casi presenti, sapendo che _da cosa
nasce cosa, e il tempo la governa,_ e per dare a divedere
all'Hochenberg che penetrava i disegni suoi, e poteva renderli vani.
Infatti il Marchese pensando che il sottomettersi adesso dopo Manfredi
non gli avrebbe fruttato molto utile, stimò meglio mantenersi
nemico, ed aspettare occasione di vendere a caro prezzo la sua resa.
L'occasione non tardò molto a venire. Vedeva Manfredi la petulanza
dei fuorusciti napoletani, Morra d'Aquino, San Severino, che seco lui
abitavano in corte del Papa; e con destrezza maravigliosa dissimulava,
e gli oltraggi ricevuti altamente nell'animo imprimeva, divisando bene
vendicarsene un giorno. Intanto Bonello di Anglone, suo capitale
nemico, ottenuta dal Papa la investitura di parte del Principato di
Taranto, per la strada di Alesina s'incamminava a prenderne possesso.
Manfredi in quel giorno medesimo, avendo saputo che l'Hochenberg con
lo esercito si avvicinava, mosse da Teano per andare ad abboccarsi con
lui. Volle la fortuna, che per via s'imbattesse in Bonello, il quale
tutto orgoglioso si avanzava tenendo la mano dritta del cammino.
Manfredi scongiurava i compagni, affinchè adesso lo lasciassero
stare,--non sarebbe mancato tempo a trarne vendetta; ma essi
risposero, che non avrebbero consentito giammai che si facesse un
tanto spregio al figliuolo dello Imperatore Federigo. Le due compagnie
si accostavano, nè quella di Bonello sembrava volesse cedere;
allora Marino Capece, uomo di natura avventata ed amicissimo di
Manfredi, trascorse col suo destriero, e percotendo con la mazza
ferrata le spalle di Bonello: «Scendi, schiavo,» gli disse «e
fa omaggio al figlio del tuo Re.» Questo fu il segnale della
battaglia; posero mano alle spade, e cominciarono a menare. Il
Principe, da che non aveva potuto impedire che accadesse quel fatto,
si studiò che riuscisse felice; e da franco cavaliere spintosi con
incredibile furia addosso al Bonello, lo afferra al cimiero, gli
scioglie la barbuta che gli difendeva la testa, e col pugnale gli sega
la gola: i compagni di Bonello, visto quel caso, fuggono a precipizio.
La nuova giunse tosto in corte del Papa, il quale, infellonito per la
morte d'Anglone, spedì gente a perseguitare l'uccisore. Manfredi,
stimandosi male sicuro all'aperto co' suoi fedeli, si rifugiò nel
castello dell'Acerra, dove rimase alquanti giorni. Bertoldo, visto
Manfredi in disgrazia del Papa, gli si fece subito nemico, o con tutto
il suo esercito ad Innocenzio si vendè. Il Marchese Lancia
avvertì il suo nepote Manfredi, affinchè si partisse dall'Acerra.
Manfredi adesso ramingo e profugo era venuto in parte che
non aveva più terreno che lo sostenesse. Sperava ripararsi in
Lucera, ma anche questa città era in poter dei nemici: nondimeno
nessuno altro rifugio si presentava, e in ogni caso era forza tentare:
ma torrenti, montagne e nemici, prima di pervenirvi si frapponevano.
Chi avrebbe voluto correre tanto manifesto pericolo, e partecipare
seco lui la presente sventura? Corrado e Marino Capece, singolare
esempio di amore fraterno e di lealtà, risposero, stesse pure di
buon animo, ch'essi come pratichi di que' dirupi speravano in Dio di
condurlo a buon salvamento.--Si posero in via.--Le cose andarono sul
principio a seconda: fino a Magliano non incontrarono anima vivente.
Giunti in questo borgo, trovarono una colonna dell'esercito di
Bertoldo, quivi fermata con ordine di chiudere le vie di salute a
Manfredi. Si accôrsero i fuggitivi dello imminente pericolo, e si
dettero a traversare il borgo con molta accortezza. Già stavano
presso ad uscirne con avventuroso successo, allorchè intopparono in
doppio filaro di carri posto a capo del cammino: i soldati lasciativi
a guardia domandarono chi fosse; la più parte del séguito di
Manfredi stimandosi perduta, trasse le spade gridando: «Svevia!
Svevia! Siamo qui per punirvi, traditori.» Si venne a un duro
affronto, nel quale il caso, più che la prodezza, dispensò i
colpi. Manfredi, i Capece, ed alcuni altri rimasti addietro,
affrettando i cavalli giunsero sul luogo, e videro che i loro
compagni, fieramente assalendo, ed i nemici ritirandosi, avevano reso
libero il passo: al punto stesso sentirono un mormorio lontano di
gente, che si affaccendava per venire in soccorso della guardia dei
carri; quantità di fuochi errava qua e là pel borgo; poco più
che tardassero, erano irrimediabilmente chiusi nel mezzo. Manfredi,
quantunque conoscesse la morte imminente, spinse il destriero per
soccorrere i suoi, ma Corrado Capece lo rattenne, e gli disse: «Voi
perdete, Principe, e quelli non salvate; essi furono valorosi, ma
imprudenti.... spargiamo una lagrima sul destino loro, e partiamo.»
Toccarono allora di sproni, e quanto più poterono veloci si
allontanarono. Traversarono nei giorni seguenti per Bisacca, per Bimio
e per Guardia dei Lombardi, e tenendo il sentiero più alpestro
giunsero sul fare della notte a vista di Atropalda, castello dei
Capece.

                       --------

«Baiardo!» gridò Marino: che precorse Manfredi sotto il
castello. Fu sentito un cigolío di chiavacci, un aprire d'imposte,
un montare di balestra, e una voce tuonante, che domandò: «Chi
viva?»--«Viva Svevia, e San Gennaro: cala il ponte, Baiardo; son
Marino.»

Fu calato il ponte; e quando Manfredi ebbe posto il piè su la
soglia, i due fratelli Capece scesero da cavallo, gli si prostrarono
alle staffe, e dissero: «Messere il Principe, siete in casa
vostra.»--«Se la fortuna non mi corre sempre nemica, spero
potervi dire le stesse parole a Napoli nel castello capuano.»

Le mogli dei Capece con donnesca leggiadria fecero al profugo Manfredi
tutte quelle accoglienze che seppero maggiori; egli volle che
sedessero alla sua mensa insieme ai loro mariti, e qui dimenticando le
passate e le presenti sventure si mostrò tanto gaio e scherzoso,
che quelle gentildonne, vedendolo in séguito spessissimo volte a
corte, affermarono, ch'ei non fu mai tanto _giulio_, quanto in quella
notte di pericolo. Alla mattina, Manfredi, salutate le dame, ed
ingrossata la scorta di alcuni cavalieri della gente dei Capece, si
dipartiva. Giunse a Melfi, che gli chiuse le porte; Ascoli seguì
l'esempio, ed uccise per giunta il Governatore, che gli si manifestava
devoto. Un uomo meno magnanimo si sarebbe dato per vinto; Manfredi,
più che mai fermo contro la fortuna, si volse a Venosa, che
rispettosamente lo raccolse.

Era Lucera dei Saracini in podestà del Marchese di Hochenberg, il
quale vi aveva lasciato a governarla Marchiso con ordine di tenerne
sempre chiuse le porte. Marchisio eseguiva i comandi del suo signore,
ma non gli valse il consiglio.

Manfredi, lasciata a Venosa la scorta, tolse seco i due fedeli Capece
e il maestro di caccia di Federigo, e si dispose a partire per Lucera;
scansò Ascoli e Foggia. La notte lo sopraggiunse su l'entrare di
quella sterminata pianura, che anche oggigiorno chiamano _Tavoliere
della Puglia;_ il cielo minacciava burrasca, ma il Principe di Taranto
non era uomo da arrestarsi per la paura di un cielo turbato:--si
avanzavano; le tenebre aumentano, il vento cresce impetuoso;--di tanto
in tanto grosse goccie di pioggia gli bagnano il volto. Allo
improvviso cessò il vento; tutto fu un profondo silenzio: per
quella solitudine nessuna altra cosa si ascoltava, meno l'alternare
dei passi dei cavalli.--Venne un lampo, poi un tuono, e dietro uno
scroscio terribile di grandine: il vento che aveva cessato, quasi
mostrando di non volere essere il primo ad attaccare la battaglia con
gli altri elementi, tornò ad imperversare pel cielo. I baleni si
succedevano con tanta rapidità da sembrare un incendio continuato.
Spesso i cavalli balzarono indietro spaventati; i cavalieri, comunque
usi a vedere la morte, si facevano il segno di salute, e si
raccomandavano a Dio, perocchè lo spettacolo della natura sconvolta
spaurisca assai più dell'aspetto della morte. Qual fu in quell'ora
l'anima di Manfredi? Se i suoi compagni avessero potuto fissarlo in
volto, avrebbero conosciuto dalla penosa contrazione dei muscoli,
dagli occhi smarriti, dal sembiante disfatto, che nel suo cuore
passava una tempesta più fiera di quella che sovvertiva in quel
punto e cielo e terra. Ma essi stavano troppo preoccupati per la
propria vita, onde fare coteste osservazioni; e la voce di Manfredi
non tremava, anzi ora gl'incoraggiva, ora con qualche bel motto gli
rallegrava. Disse un antico filosofo, non so con quanta convenienza di
senno, che l'uomo _onesto_ in fondo della miseria è cosa degna
degli Dei: io per me penso, che un grande _scellerato_, il quale senta
tutto lo inferno del rimorso, e sollevi la fronte baldanzosa e serena,
sia non il più bello, certo bensì il più maraviglioso spettacolo
della umana natura.--Così camminarono una lunga via: si squarciò
l'orizzonte rovesciando sopra la terra torrenti di fuoco; le case più
lontane ne furono illuminate; Riccardo maestro di caccia esclamò:
«Coraggio, coraggio, cavalieri, ecco qui presso il ricovero.»

«Quale?» domandarono tutti.

«Non avete veduto la casetta che vi sta dal manco lato a breve
distanza? Venitemi dietro, chè ne conosco la via; la fece
fabbricare per comodo della caccia la Maestà dello Imperator
Federigo nostro signore.»

«Riccardo!» urlò involontariamente Manfredi «per amore del
tuo Dio, non mi condurre a quella casa.»

«E dove volete passare la notte, messere il Principe? Che San
Gennaro vi aiuti, sentite che grandine è questa? Venite,
venite.»

Manfredi senza aggiungere parola gli tenne dietro: allorchè fu per
passare la porta della casa prese pel braccio Corrado Capece per
evitare di cadere.

«Principe, male v'incolse?»

«Nulla, Corrado, ho posto il piede in fallo.» E si avanzò.

Riccardo frugando così al buio rinvenne alcuni fasci di legna, li
dispose sul focolare, trasse dalle tasche il focile, e suscitò un
bel fuoco.

«Questa è fiamma veramente _reale,_» disse sorridendo
Manfredi.

«Oh! ne abbiamo fatti di belli di questi fuochi, messere il
Principe.... quelli sì che erano tempi!... figuratevi, l'ultima
volta ch'ebbi l'onore di servire la Maestà dello Imperatore vostro
padre, lo vidi in questa medesima stanza.... mi sembra proprio di
averlo innanzi gli occhi.... lì a canto a voi....»

«E' parvi da durare questo tempo?» interruppe Manfredi.

«Messer sì,» rispondeva Riccardo. «Sicchè, com'io vi
diceva, stava in questa stanza, e vi potrebbe essere anche adesso....
e perchè no? Egli morì giovane, mi ricordo, giungeva appena a
cinquantasei anni.... e vivo io grazie al cielo, che ne ho sessanta, e
sono un vassallo, poteva bene viver egli che ne aveva cinquantasei, ed
era il più potente signore di tutta Cristianità; ma la fama
mormorò allora che fosse avvelenato.... Oh! quando poi c'entra il
veleno, si muore anche dell'età del Re Corrado....»

«Santa Vergine! questo è un fulmine,» disse Manfredi
segnandosi.

«Messer sì....» soggiunse Riccardo. «Raccontano molti, e
l'ho inteso sovente dalla propria bocca di mio padre, buona memoria,
che rammentando i morti dopo la mezza notte sogliono talvolta
apparire.... ma io non ho paura.... io.... E perchè dovrei
averne?... per quanto mi venne dato, l'ho servito fedelmente sempre,
in vita o in morte. Quantunque comprendessi benissimo, che la
preghiera di un pover'uomo come sono io possa poco o nulla giovare
alla grande anima di uno Imperatore, pure per quello che può valere
le ho detto, e le dico la mia orazioncella. Insemina, se ora
comparisse in mezzo di noi, io non avrei paura.... no, non avrei
paura....» e tutto timoroso si guardava d'intorno. «E voi,
messere il Principe?»

Manfredi non potendo più sopportare quelle parole, si fece alla
porta, guardò il cielo, poi chiamò i compagni e disse: «Mi
pare che si metta al buono.»

«Certamente si mette al buono;» rispose Riccardo «tra
mezz'ora non cade più pioggia.... ma vedete come è mutato il
vento!... come tirano di lungo que' nuvoloni neri neri!--La tempesta
va verso Napoli.... Pazienza! là si trovano tanti buoni Santi, che
ne avranno cura; ma qui non c'è prete che valga a esorcizzarla.
Guardate in là, messere il Principe, come fa chiaro. Oh! ne abbiamo
avute ben altre di queste nottate con l'augusta Serenità di
vostro....»

«E sarebbe bene, Riccardo, che voi andaste con un po' di strame, se
ne trovate, altrimenti col mio mantello, ad asciugare i cavalli.»

«Parvi, messere il Principe? il vostro mantello del più bel verde
_cambraio_, che io abbia visto al mondo! il mio fa più al caso di
quelle povere bestie.... eh! hanno fatto un bel fare.... e poi il mio
mantello è più asciutto del vostro, farò con questo.» E così dicendo
Riccardo andò per quello che gli aveva comandato il suo signore.

Manfredi facendosi presso ai Capece, che se ne stavano ristretti
intorno al fuoco: «Prodi cavalieri, e dilettissimi amici miei,»
disse loro «io vengo a togliervi fino il piccolo conforto di
asciugarvi le vesti: vedete che si guadagna a seguitare la fortuna del
profugo! Tra poco torneremo a cavallo.»

«Principe, noi ci professiamo pronti a lasciare la vita per voi....
le spose e i figli abbiamo di già lasciati.»

«Io per me spero che il Cielo mi sarà secondo, se non altro, per
potere ristorare dei sofferti danni voi, generosi e fedeli amici
miei.»

«Servire un cavaliere cortese come voi siete è di per sè solo
una grande ricompensa. I nostri nomi, Principe, passeranno ormai nella
memoria dei posteri uniti con indissolubile alleanza; saranno le
vostre azioni le lodi nostre, e le nostre opere le vostre lodi: una
gloria perenne ricadrà su noi tutti, nè i Trovatori canteranno
di Manfredi senza che il nome dei Capece si trovi in qualche stanza
della loro ballata.»

Manfredi gli abbracciò, e continuò seco loro a conversare,
finchè udirono venire Riccardo che cantava:

    «In sella, in sella, cavalieri armati,
      Che l'araldo dell'arme ha dato il segno;
      Stanno le vostre dame agli steccati,
      Un scudo d'oro di vittoria è il pegno.»

Allora si levarono tutti: il cielo appariva in parte sereno; salirono
i destrieri, e si riposero in via.

Sorgeva un bel giorno: gran parte dei Saracini stava raccolta sopra le
mura di Lucera a cantare il _Salè_ della _Nuba_ matutina,
allorquando videro di lontano venire per la pianura quattro cavalieri
armati di tutte arme. Giunti che furono a tiro di balestra, tre si
rimasero, ed uno si avanzò a testa scoperta in segno di sicurezza,
alzando la mano senza guanto per denotare la pace.

«Pel capo di mio padre, parmi Manfredi!» gridò un Saracino.

«È la morte che ti percuota!» rispose un altro. «Chi sa in
qual parte si trova adesso il nostro dolce signore!»

«Possano dirmi sette volte cane, e maladetta la mia generazione, se
quegli non è il figlio di Federigo!» rispose un terzo.

«Perchè hai bevuto il _sangue della vite_, Hussein? Non lo aveva
detto il Profeta, che il vino ammala il cuore, e ci fa simili allo
stolto?»

«Baba Musah, perchè mi dici ebbro? E perchè accusi dei danni
della tua vecchiezza il compagno che vede meglio di te? Questo
t'insegna la sapienza degli anni? Guarda bene: non distingui l'aquila
d'argento sul cimiero appeso all'arcione?»

«_Arsullah!_ Sì certo, è un'aquila quella.... _Arsullah!_
È Manfredi davvero.»

«Manfredi, Manfredi,» suonarono a un tratto le mura:
«Manfredi, Manfredi,» risposero i Saracini rimasti nei
quartieri, e prendevano l'arme, e accorrevano, «Ecco il diletto
signore, ecco il nostro Principe, che viene a soddisfare i nostri
desiderii, e a riposarsi su la nostra lealtà: ch'egli entri,
ch'egli entri prima che il Governatore se ne accorga.» gridavano
tutti.

Manfredi era giunto sotto le mura: un Saracino gli accennò un
canale pel quale scolava un rigagnolo dalla città; il Principe si
getta da cavallo, e si appresta a cacciarsi giù pel condotto:--nol
soffrono gli spettatori, si fanno alle porte, le scuotono, le
percuotono;--gli arpioni agli urti continuati lasciano la presa, e le
imposte traendosi dietro una spaventosa rovina cadono a terra.
Marchisio, che già armato muoveva per contrastare Manfredi,
vedendolo avanzarsi tutto minaccioso, mutato consiglio, gli
s'inginocchia, e gli fa omaggio come a suo signore sovrano.

L'acquisto di Lucera mutò i destini di Manfredi; vi trovava
infiniti tesori, i quali, diffusi con accortezza, gli produssero in
breve un forte partito, perocchè in ogni tempo il danaro sia stato
la prima provvisione per la guerra, e in ogni tempo si trovassero
uomini i quali posero l'anima allo _incanto pel maggiore e migliore
offerente_. Ora il Pontefice spediva a tutta fretta un esercito sotto
i comandi del Cardinale di Santo Eustachio per opprimere Manfredi sul
principio di quelle grandezze; gli teneva dietro Bertoldo. Manfredi si
mostrava apparecchiato a combatterli. Il Marchese di Hochenberg,
seguendo sempre quella sua doppia e finta natura, mandò un messo
fidato a tenere segrete pratiche d'accordo col Principe di Taranto.
Rispose questi che volentieri lo raccoglierebbe nella sua alleanza;
averlo sempre tenuto per caro fratello, ed amico; conoscere egli di
troppo la prepotenza dei casi per volere far carico a Bertoldo della
sua passata condotta. Il Marchese non andò più oltre, e stimò
avere con molta accortezza provveduto alle cose sue, perchè, se
vinceva Manfredi, ei gli era amico segreto: se Innocenzio, ei gli era
amico manifesto. Intanto supponendo il nemico fidente di quelle
dimostrazioni, mandò molte colonne del suo esercito sotto il
comando del suo fratello Oddo a prendere posizione sul contado di
Lucera; il nemico però stava all'erta, e avuta notizia del fatto si
pone arditamente in campagna, rompe Oddo, e lo incalza fino a Canosa;
poi lasciatolo così malconcio in parte che non più possa
riunirsi al grosso dell'armata, si fa contro Bertoldo, il quale, dopo
due ore di ostinato combattimento costretto a cedere, fugge più che
di passo verso Napoli col Cardinale Legato.

Questo Capitolo ormai troppo voluminoso ci costringe a tralasciare il
racconto di una serie di piccole perfidie, e di piccoli fatti d'arme,
quasi tutti tra loro somiglievoli, pei quali Manfredi, sotto il
Pontificato di Alessandro IV, vinti gli esterni e gl'interni nemici,
riconquistò tutto il Regno di Napoli. Più grave caso, e degno di
memoria è quello pel quale Manfredi di Vicario giunse a farsi
nominare Sovrano del Regno di Napoli; e qui lasciato Niccolò
Iamsilla scrittore _ghibellino_, mi fa mestieri appigliarmi a Giovanni
Villani di _fazione guelfa_. Narra dunque costui, «che Manfredi,
vedendosi in istato ed in gloria, si pensò essere Re di Sicilia e
di Puglia; e perchè ciò gli venisse fatto, si recò ad amici
con doni e promesse i maggiori Baroni del Regno; e sapendo come del Re
Corrado suo fratello era rimasto un figliuolo chiamato Corradino, il
quale per diritta ragione doveva essere erede del Reame di Sicilia e
di Puglia, pensò una frodolenta malizia per esser Re. Adunati tutti
i Baroni, propose loro cosa si dovesse fare della signoria,
perocchè egli avesse novelle come il suo nipote Corradino fosse
gravemente ammalato, e da non potere mai reggere il peso di un Regno.
I Baroni consigliarono che mandasse suoi ambasciatori in Lamagna per
sapere dello stato di Corradino; e se fosse morto, od infermo, fino
d'allora protestavano volere Manfredi per Re loro. A ciò si
accordò Manfredi come colui che aveva tutto fintamente ordinato, e
mandò ambasciatori a Corradino e alla madre con ricchi presenti e
grandi profferte; i quali giunti che furono in Isvevia trovarono che
la madre del garzone, Elisabetta di Baviera, come donna di gran cuore
ed avveduta, gli facea buona guardia, tenendolo confuso con diversi
fanciulli di sua età vestiti tutti ad un modo; e detti ambasciatori
domandando di Corradino, Elisabetta, temendo di Manfredi, mostrò
loro in iscambio un altro di detti fanciulli dicendo: _questi è
desso_. Gli Ambasciatori gli fecero grande riverenza, e presentandogli
doni, tra i quali confetti avvelenati, il garzone ne prese, e
incontanente morì; onde credendo aver morto Corradino si partirono
subito di Lamagna, e giunti a Vinegia fecero fare alla loro galera
vele di panno nero, e tutti gli arredi neri, ed eglino medesimi si
vestirono a bruno; ed arrivati in Puglia, come gli aveva ammaestrati
Manfredi, fecero sembiante di gran dolore, e riferirono la morte di
Corradino. Manfredi finse gran pianto, e a grido dei suoi amici, e di
tutto il popolo, fu eletto Re di Sicilia, e a Monreale si fece
coronare, gli anni di Cristo 1238.» Elisabetta di queste cose
informata, mandò ambasciatori a Manfredi per fargli sapere che
Corradino viveva, e che il suo retaggio era stato usurpato: rispondeva
questi dicendo: «dal trono non potersi scendere se non che morti:
stesse sicura, ch'ei lo conserverebbe per Corradino, ed anzi gli
mandasse il fanciullo, ch'ei lo avrebbe nelle paterne virtù
ammaestrato.»

Gl'istrumenti eletti dal Cielo per operare la rovina di Manfredi
furono Urbano IV, nativo di Troyes, Patriarca di Gerusalemme, successo
nel Pontificato ad Alessandro, e Clemente IV Cardinale di Narbona
eletto Papa nel mese di febbraio 1261. Il primo di questi Pontefici
avendo mandato in Francia Maestro Aliberto suo Notaro per offerire la
corona a San Luigi, n'ebbe in risposta che alla conclusione del
trattato si opponeva la investitura per lo addietro fatta a Edmondo
d'Inghilterra; ond'egli spedì a Londra Bartolommeo Pignattelli
Arcivescovo di Cosenza per farla renunziare ad Enrico III. Il Re,
impegnato in guerra pericolosa contro i suoi Baroni, lusingato
dall'Arcivescovo con la speranza di soccorsi, che non ebbe mai, cesse
alla sua volontà. Allora il Pignattelli tornò in Francia, e col
beneplacito di San Luigi propose la investitura del Regno di Napoli a
Carlo di Angiò, meno la Terra di Lavoro, le Isole adiacenti, e la
vallata di Gaudo, che la Santa Sede voleva ritenersi. Carlo rifiutando
la proposta dichiara che non sarebbe per accettare giammai il Regno
così smozzicato: darebbe alla Chiesa, come aveano fatto i Normanni,
la città e il contado di Benevento, non meno che ottomila once
d'oro per anno. Clemente IV assunto nuovamente alla Cattedra di San
Pietro, mostrandosi dapprima esitante, piega alle pretensioni di
Carlo, e rimanda in Francia l'Arcivescovo di Cosenza con lettere
pontificali a Simone Cardinale di Santa Cecilia perchè congiuntamente
sollecitino la esecuzione della impresa, e confortino San Luigi a
sovvenirla co' suoi sussidii. I fatti che avvennero dopo appartengono
all'epoca che deve percorrere quest'opera.




CAPITOLO NONO.

IL PRIGIONIERO.


                               Oh! perchè almeno
                Lungi da lui non muoio! Orrendo, è vero
                Gli giungeria l'annunzio; ma varcata
                L'ora solenne del dolor saria;
                E adesso innanzi ella ci sta: bisogna
                Gustarla a sorsi, e insieme.
                                 CONTE DI CARMAGNOLA.



Erano giunti a piè della scala. Il corridore appariva in parte
illuminato da luce lontana. Si appressavano: giunsero ad un vestibolo
separato dalla prigione con ispessi cancelli. L'anima e gli occhi di
Rogiero percorsero in un baleno la scena che si offeriva. Vide un uomo
quasi sepolto in una sedia: le sue membra non erano del tutto
manifeste, imperciocchè fosse vôlto altrove il raggio della
lampada; pure sembrava pallido e vecchio; i capelli aveva tutti
bianchi, teneva gli occhi chiusi, pareva volesse assuefarli a
morire.--Lì davanti stava un tavolino; sovr'esso una tazza e un
Crocifisso. A canto della sedia per terra giaceva una lunga bacchetta
tutta intaccata, e le tacche, benchè la più parte regolari, ad
ora ad ora più profonde. Cotesta fu opera di dolore.--Allorchè
quell'infelice chiusero là dentro, lo prese vaghezza di annoverare
i giorni della sua prigionia, onde conoscere la durata di un tempo
destinato a soffrire, e deliziarsi nella speranza che questo tempo
andava a decrescere: forse ancora fidente di giorni felici, stimò
doverne ricavare argomento di gioia, qualora le future condizioni
potesse paragonare con le presenti. Adesso cotesta opera giaceva in
terra negletta.--La speranza, che siede ultima al capezzale del
moribondo, e si mostra ai suoi occhi, quando anche velati dalla nebbia
della morte non giungono più a discernere le care sembianze dei
parenti e degli amici.... la stessa speranza aveva abbandonato quel
cuore. Quando gli anni accumulandosegli sopra la testa mutarono in
bianchi i suoi biondi capelli, non più l'anima e le carni gli
tremarono al suono che faceva la porta volgendosi sopra i cardini,
nè ad ogni tocco sul serrame che la sbarrava stimò giunta la
mano pietosa che doveva ricondurlo a godere della faccia del
cielo.--Disperato gittò via cotesto istrumento, che insegnandogli a
distinguere lo affanno glielo rendeva più insopportabile e più
lungo;--amò considerarlo come una gran giornata di travaglio, di
cui la notte doveva trovare nella morte.--E di vero la luce non
iscompartiva i suoi giorni. Dal punto in ch'ei fu posto in carcere non
aveva più veduto l'aspetto dell'orizzonte, nè pure dalle
inferriate;--e poichè il suo giorno era tenebra, doveva immaginarsi
la sua morte nel nulla.--Divenuto affatto insensibile, stette come
cosa inanimata ad aspettare il momento dall'ordine delle cose
destinato alla sua estinzione. Almeno gli fosse rimasto il coraggio di
porre fine a tanto compassionevole esistenza! Questo pensiero, che
vuole per la sua esecuzione tutte le potenze dell'anima, gli sorse in
mente, allorchè avvilito dalla sventura ricercò invano nelle
passioni dei tempi trascorsi un avanzo, che valesse a restituire le
membra agli elementi, variando forma alla sua materia. Non sospiro,
non voce lamentosa gli usciva dai labbri.... quello che dal profondo
dell'amarezza, o dal furore dell'ira potea dirsi, aveva detto miliardi
di volte;--gli rimaneva il silenzio, ed egli era muto come un
sepolcro. Gli anni lo avevano affatto cancellato dalla rimembranza
degli uomini.--Per lui niun gemito, nessuna parola di amore; e se
talora il nome si affacciava al pensiero dell'antico servitore, che
seduto a canto al fuoco narrava le glorie della casa di Svevia ai
valletti e all'altra gente della famiglia, si guardava bene di
chiamarlo sul labbro, perchè ricordava un colpevole di tal delitto,
che atterrisce lo stesso Lucifero; o se pure ve lo chiamava, lo
profferiva in basso sussurro.... alla sfuggita.... come quello di un
dannato. Per lui vivo non si aveva nè pure quello scarso affetto
che si conserva pei morti.

Distese a gran fatica la destra;--ella tremava paralitica:
già era presso a sovrapporla al tavolino, quando tornò a
penzolargli:--soprastava alquanto tempo.... poi la rimuoveva....
brancolando strinse il Crocifisso, e se lo recò alla bocca in atto
di bere; non sentendo il refrigerio dell'umore, aperse spaventato gli
occhi, e vista la immagine del Redentore la rimise con impazienza su
la tavola mormorando tra i denti: «O Cristo, io ardo di sete!»
Ghermiva la tazza, e bevendo bramoso lasciava gocciare giù pel
mento e pel petto l'acqua, nè se ne mostrava infastidito:--estinta
la sete, dette un gemito, e ricadde immobile nel primiero torpore.--Di
uomo ormai non gli rimaneva che la parte schifosa dei bisogni!

Vide Rogiero questo spettacolo di avvilimento e di miseria, e
soprappose mano a mano su gli occhi, stimando insufficiente a
sfuggirlo la sola pelle destinata a velarli.--Si appoggiò ad una
colonna; e quando volle ordinare che schiudessero il cancello, la sua
bocca non potè esprimere nessuna parola: l'atto della mano gli
valse per dimostrare la sua volontà.

Si schiudeva il cancello.--Il vecchio sentì percuotersi le
ginocchia, stese la mano per conoscere che fosse; le sue dita
s'incontrarono in una lunga capellatura. «Parmi la testa di un
uomo,» disse, e tornò nella consueta sua inerzia.... Ma la sua
mano non cadde a penzolare di nuovo, e la sentì costretta a
rimanersi in un luogo, scaldare,--bagnare:--fossero lagrime? Porse
l'orecchio, e parvegli sentire cosa che da anni e anni non aveva udito
più mai,--il singulto del pianto.

La fiamma dello spirito era spenta, pure egli non era divenuto affatto
ghiacciato; un leggerissimo colore di rosa pallida gli ricorse su per
le guance, e le pupille apparvero per un momento meno appannate di
prima.

«Sono lagrime queste?» diceva affannoso. «Io ho consumato da
gran tempo le mie. Le ho sparse d'ira, di amore, di tenerezza, di
rabbia.--Ora se il Cielo mi ridonasse le lagrime, vorrei spargerle
sempre di pietà, perchè il pianto più accetto al Confortatore
degli sventurati è quello della pietà, e soave....»

«Non ritirate la mano dal mio capo.... non vogliate lasciarmi sul
cammino della vita senza la vostra benedizione!» soffocato dai
singulti diceva Rogiero.

Enrico non rispose nulla. Rogiero alzò il volto, e lo vide
immobile, come se non avesse inteso le sue parole; gli scosse
leggermente la mano, e replicò: «Benedizione! benedizione!»

«Benedizione! benedizione!» rispose Enrico come se fosse stato
l'eco; e dopo: «questa è una parola di amore. Gli uomini
lassù» ed alzava la mano «l'adoperano piangendo. Il passato
trascorre senza séguito per la mia memoria; un alternare di
caligine e di luce mi occupa l'intelletto.... ma parmi.... e certo
anch'io fui benedetto tra gli uomini.--Io non posso ricordarmelo
adesso.... ma fu uno sfinimento d'immensa passione.... Ah! benedisse
mio padre questa testa, che aveva macchinato il disegno di levargli la
vita!» E qui si dava dei pugni nella fronte, e pregava, e
bestemmiava tutto doloroso.

Lo rattenne Rogiero, e gli ripeteva all'orecchio: «E questa
benedizione parla per voi; sta il suo perdono al cospetto di Dio, ed
ogni peccato vi è stato rimesso.»

«Valcherio! Valcherio! è una spada questa che mi cacciate tra
mano?--Forse con la spada alla mano il figlio deve incontrare il seno
del suo genitore?--Si addicono coleste parole ad un arcidiacono di
Santa Madre Chiesa? Sono parole del demonio.... via.... via, in nome
di Dio, non tentarmi.--Il Papa? Sei un mentitore; il Padre dei Fedeli
non può volere il parricidio.--Oh! come splende bella quella corona
reale.... come superba.... L'ami?--Se l'amo!--Ebbene, ella si conserva
per te in Monza dai tuoi leali Milanesi.... ma bada, fra te e quella
corona si trammette una vita... si spenga.--Misericordia...
misericordia, io sono contrito qui nel profondo.... Che giova? un
pensiero cancellerà una colpa? Ma e il suo perdono?--Che giova?
L'opera del malvagio può esser mai tolta dalla generosità di un
buono? Ma io ho sofferto tanto! Quanto è che soffro?» Qui si
frugava d'intorno, e non potendo trovare quello che cercava,
soggiunse: «Il tempo ha consumato l'arnese che mi serviva a
distinguerlo, ed io vivo ancora! Pure ho detto di perdonare tutto a
tutti, anche a Manfredi....»

«Manfredi!...»

«Chi ha nominato Manfredi? Tacete il suo nome per pietà....
piuttosto ponetemi alla tortura.... abbruciatemi gli occhi.... ma non
chiamate Manfredi.... egli è un nome che stette lungamente nel mio
cuore unito con desiderii di sangue:--ora il giorno della vendetta
passò, perciò sopraggiunse quello della morte.--Chi lo avrebbe
detto? Il suo sorriso era il sorriso della innocenza, la gioia pura
gli scintillava dagli occhi.... le parole soavi.... Lo dicevano tutti
il più gentile damigello d'Italia: egli sospiro delle vergini, egli
invidia di Trovatori e cavalieri, la gemma più bella del diadema di
Federigo.--Il suo volto pareva di angiolo; il suo cuore.... Ah! il suo
cuore non ha paragone... il vincolo di cotesta anima a quel corpo fu
colpa od errore.--Sete feroce di dominio! Manfredi, hai cinto il
serto bramato? Senti, via, come pesa sopra la testa, allorchè
invece di gioielli ha la maladizione di un'anima disperata, e la
condanna della giustizia di Dio....»

«Oh! padre mio....» interruppe Rogiero.

«E' fu un tempo,» continuò il carcerato ponendosi la destra
sul petto «fu un tempo, che a questa voce sentiva uno sgomento
indefinito qui dentro, che avrei anteposto a tutte le gioie della
terra. Ora non sento più nulla, nulla....--sono morto,--non ho
passione, tranne per l'acqua, che spenge la sete che mi consuma la
gola.»

E qui brancolava in traccia della tazza.--Rogiero balzò in piedi,
la prese, gliela accostò alle labbra, e sollevatogli il capo
l'aiutava a bere. Il vecchio non ripugnante, nè consenziente,
seguitava l'impulso; ma quando, aperti gli sguardi, potè fissare
Rogiero, gittò un debole strido, fece atto di allontanarlo da
sè, e tra stupito e maravigliato esclamò: «Manfredi!»

Questa esclamazione non fu di tanto bassamente pronunziata, che non
percotesse gli orecchi di coloro che erano rimasti ai cancelli: uno
tra essi contorse la persona, come a cosa molesta, e mandò un cupo
sospiro.

Il vecchio riprendeva a stento: «Ma lo vedi, Manfredi, dove mi ha
condotto cotesta tua ambizione?... vedi lo abbisso della miseria in
cui può cadere un'anima immortale; e se hai viscere di pietà,
gemi.... Ah! tu non puoi essere Manfredi.... no.... egli era di questa
tua età quando cessai di vederlo. Gli anni e l'angoscia hanno
prostrato il mio corpo più di quello che si doveva, ma anche i soli
anni non iscorrono invano su la creatura destinata a morire. Sei forse
suo figlio? Che vuoi? In te non è delitto, per te non ho mai
nudrito odio, ma non posso nudrire amore; levati, e confortati: è
molto tempo che ho perdonato a tuo padre, e nell'ora stessa del mio
furore io non ho maledetto giammai i figli e i nipoti di coloro che mi
hanno angustiato. Levati... e digli, che sia felice, e tu pure lo
sii.... Se la voce dell'uomo che parla dai confini della vita può
ottenere grazia al vostro cospetto,--in mercede dei tanti mali patiti
vi prego ad adempire questa mia volontà.... seppellite le mie ossa
accanto a quelle di Federigo.... del padre mio.... senza ornamento, se
vi piace, senza corona, quantunque concederla ad un cadavere non possa
tornarvi in danno.... mi basta di dormirgli al fianco.»

«Ascoltatemi per amore di Cristo! queste lagrime che vi bagnano la
mano sono del vostro figlio Rogiero.»

La mente di Enrico, come se avesse fatto uno sforzo a favellare da
senno, ricadde sul vaneggiare, ed immaginando di tenere discorso con la
sua sposa figlia di Leopoldo Arciduca di Austria detto _il Glorioso_,
riprendeva così: «Agnesa, che ha che piange il figliuolo nostro?
Consolalo, ch'egli forma la delizia della mia vita.... è tanto bello
quel suo riso! Com'hai tu cuore di farlo piangere? Consolalo, Agnesa,
consolalo. Di qual piacere godrà Federigo, quando gli porrai su le
braccia questo caro pargoletto!... E perchè non ne godrà egli? non
è suo nepote?--Di chi è quel sepolcro di porfido? Veggo l'arme di
Svevia.... fatti in là, che Dio ti aiuti, tu mi pari la luce....
Federigo I.... gloria all'anima sua, gloria a colui, che morì
combattendo in Terra Santa.... No.... no.... è Federigo II... egli
moriva dunque, nè al capezzale del letto si ricordò di me! Non ho
più padre, e il figlio? Agnesa.... dove sei ita? Agnesa.... il
figlio...?»

«Egli muore di affanno ai vostri piedi!»

«Egli?--Chi?....»

«Il vostro figlio.»

Enrico prese con ambedue le mani il volto di Rogiero, e lo guardò
fisso fisso, e lungo tempo, poi disse:

«Certo, quel tuo parmi sembiante di un nepote di Federigo: ma se
veramente tu sei il figliuol mio, a che venisti sì tardi?--Ti ho
chiamato anni e anni, come in un deserto di tempo.--Io non posso
lasciarti tranne un retaggio di sventura.--Ogni affetto di padre è
morto nel mio cuore.... il nome stesso suona per me una rimembranza di
cosa lontana, obbliata, come la faccia del compagno della miseria nel
giorno dell'orgoglio. Se venisti a vedere quanto sia schifoso il fine
di una creatura avvilita, allontanati, te lo comando.--Se ti condusse
la pietà, adoprati di uccidermi.... non tremare.... di uccidermi:
abbi misericordia di me.... Io soffro patimenti atroci in questa ora,
nella quale erro sospeso tra la morte e la vita... patimenti, pei
quali diventa un parricidio il rifiuto di troncare i giorni di un
padre. Tu poi assicurati, nè temere che Dio ti chieda ragione della
mia anima.--La prima preghiera che farò innanzi al suo trono
sarà per te, che mi liberasti da tanto dolore, e gli dirò che
non ti punisca, perchè fu l'amore che ti condusse la mano; che
perdoni com'io ho perdonato: che se poi la Sapienza divina vuole le
sue giustizie, non sopra di te si aggravi, ma sopra colui che
costrinse un figlio a dare la più alta prova di affetto al suo
genitore--trucidandolo.»

E abbandonato il capo sopra la spalla manca di Rogiero, singhiozzava
senza pianto. Rogiero pietosamente esclamava: «Oh! questa sì
ch'è ineffabile angoscia!»

«Ma se veramente sei carne della carne mia,» riprese il
travagliato Enrico con impeto «se quello di cui le infantili
carezze calmavano le tempeste del mio spirito feroce, salvati.... i
tuoi nemici sono numerosi e potenti. Non sai che ogni loro gioia sta
nella tua morte, ogni loro paura nella tua vita?--Sálvati....
chè essi t'inseguono con la foga dei segugi sopra la pesta del
cervo.

--Ahimè! Io credeva non avere altri affanni a durare; ma essi si
prolungano interminabili quanto l'eternità: non darmi amplesso,
nè bacio;--il tempo che consumeresti potrebbe riuscirti
esiziale;--più di questi mi giungerà caro il sapere che tu sei
salvo. Là in Palestina pel sepolcro del Redentore potrai morire
della morte dei valorosi. Prendi.... questa reliquia; essa valga a
rammentarmi qualche volta nelle tue orazioni; prega per l'uomo che
soffrì tutte le amarezze che si possono sopportare in questa terra,
prega per un padre colpevole e sventurato, ma allontanati, per l'amore
che hai per la vita, allontanati.--Chi sa che la tua venuta qui
dentro non sia tradimento? Chi sa che non vogliano farci morire
insieme? Hai tu inteso muovere i ferri del cancello? È finita....
è finita.... hanno chiusa la porta, e per sempre.... oh! gli
scellerati, gl'iniqui!...»

Sorgeva in piedi; la forza che doveva mantenergli anche per qualche
ora la vita parve riunirsi per consumarsi in un punto: le sue guancie
si fecero vermiglie di rossore febbrile, afferrò il braccio di
Rogiero, e lo spinse violentemente verso la porta;--mosse spedito il
primo passo,--mutò il secondo,... al terzo Rogiero sentì
abbandonarsi: il misero Enrico stramazzò bocconi sul pavimento. Il
giovane si affrettava a soccorrerlo; dai cancelli le tre persone
misteriose accorsero al medesimo ufficio;--lo sollevarono:--aveva la
bocca e le mascelle rigate di sangue, il naso pesto,--la fronte
livida,--gli occhi fuori dell'orbita;--gli posero la mano su i
polsi.... Lo sforzo della immaginazione in quelle membra prossime al
disfacimento, e la percossa, lo avevano tolto dal numero dei viventi.

Immenso furore occupò l'anima di Rogiero: si dette per la stanza a
ricercare chiamando pietosamente suo padre, e lui scongiurava a
rispondergli, e a non abbandonarlo sì tosto tra le mani dei suoi
nemici. Sovente prorompeva in terribili minaccie, e l'atto del corpo
si univa così violento a quell'impeto, che i circostanti a mala
pena lo ritenessero;--gli strascinava qua e là duramente
percuotendoli tra loro. Ora la esasperazione di Rogiero giunge al
sommo; lo invade irresistibile il desiderio di morte; tenta spacciarsi
da coloro che lo tengono, correre contro la parete, e darvi dentro col
capo: il disegno non gli viene fatto che a metà, giunge al muro, ma
non può uscire dalle mani dei circostanti che fanno ogni sforzo per
allontanarnelo;--l'urto della testa, benchè non sia tanto da
levargli la vita, vale però a farlo cadere privo di sentimento
nelle braccia di chi lo sorreggeva dintorno.

Il tempo che Rogiero doveva vegliare a guardia dei giardini del Re
Manfredi era trascorso. Il maestro degli scudieri seguitato da quattro
di questi s'incamminava alla gran porta del giardino per rilevare
Rogiero dalla guardia, e sostituirgliene un altro:--non lo vedevano:--
lo chiamavano:--nessuno rispondeva. Avesse disertato il suo Re?
«Impossibile, impossibile!» disse il maestro degli scudieri, ed
in questa inciampava nell'alabarda, che Rogiero in partendo aveva
gittato a terra.

Benchè l'urto del piede gli apportasse un cocente dolore, pure il
maestro lo sollevò soffiando senza mandare una voce, timoroso che
gli scudieri guardando per quella parte vedessero nell'alabarda
abbandonata una troppo presta mentita a quanto egli aveva affermato;
ma poco gli valse, che al volgere della lanterna la punta forbita
mandò un raggio, e tutti ad un punto gridarono: «L'alabarda,
l'alabarda!»

«Certo,» rispose crollando la testa il maestro «è
l'alabarda, non ho cosa da opporre; ella non è un racconto, al
quale si possa dire--non ci credo.... è l'alabarda.--Santi Magi di
Colonia! siamo giunti a tal tempo, in che l'avere fede in altrui è
cosa tanto stolta, quanto l'ingannare è scellerata.»

Così dicendo, parte stizzoso, parte confuso, raddoppiò le
guardie, s'incamminò alle scuderie, nè quivi gli occorse vedere
il cavallo di Rogiero; quindi scelti alcuni scudieri, commise loro di
andarne in traccia a tutta fretta, o di non comparirgli dinanzi,
finchè non ne avessero avuta novella.

Rogiero ricuperava i sensi: un acerbo dolore gli fasciava la fronte; i
suoi occhi s'incontrarono in un lume che gli ardeva davanti,--gli
richiuse prestamente, come se gli fossero stati feriti, domandava lo
nascondessero; allora si riprovò a tenerli aperti, e si accorse di
non essere più nella stanza di prima, ma adagiato sur un letto
magnifico; e quel misterioso, che sì poco aveva favellato,
soccorrerlo con tanto affettuosa premura, che maggiore non ne avrebbe
dimostrata una madre; onde appena tornato in sè gli udì
profferire queste parole: «Benedetto sia Dio, che finalmente s'è
rinvenuto!»

Rogiero, presa baldanza, si gettò giù dal letto, e sforzandosi
parlare disse: «Or dunque?»

«Or dunque» replicò il Conte della Cerra «il pianto spetta
alle femmine.... Domani provvederemo a imbalsamare il corpo del padre
vostro;--confortatevi di questo, ch'egli sarà suffragato di messe
da non portare invidia a nessun'altra anima cristiana che mai uscisse
od uscirà fuori di questo mondo; e che le sue ossa, più presto
che per noi si potrà, saranno trasportate a Monreale, affinchè
riposino accanto a quelle di Federigo.--In quanto a voi, se volete
fare il sacrificio del vostro Regno, e della vostra vendetta, all'uomo
che vi ha ucciso il genitore....»

«Un di noi due avanti che sia molto deve morire di ferro!»
gridò concitato Rogiero.

«Forse ambedue,» disse tra sè il parlante, e poi soggiunse a voce
alta: «Avvertite bene, Rogiero; le signorie nuove si distruggono più
agevolmente delle antiche, imperciocchè a queste la consuetudine,
quando anche manca l'amore, dia una tal consistenza d'inerzia difficile ad
abbattersi; nelle nuove, sia per non aver tempo di metter radici, sia per
riuscire sempre minori dell'aspettativa di cui le desidera, questa
difficoltà non è tanta.--Carlo Conte di Provenza si apparecchia a
muovere ostilmente contro questo Regno.--S'inviti a venire,--si aiuti a
consumarsi con Manfredi;--facciamo che lo superi, e quando lo abbia vinto,
gettiamoci addosso del Conte indebolito dalla sua stessa vittoria.»

«Ebbene?» disse Rogiero.

«Ebbene; si spedisca un messo fedele a manifestare a Carlo quanto
ho fino adesso esposto:--queste sono credenziali sottoscritte dai
maggiori Baroni del Regno; ormai faccio conto, che Carlo sia entrato
in Monferrato: un nostro messo che si affrettasse potrebbe incontrarlo
in Lombardia. Dove s'imbattesse in qualche _cavallata_ di Ghibellini,
queste altre sono lettere per Buoso da Doara, che il lascerebbe
passare.--Ma questo è gelosissimo negozio; dipende dalla lealtà
del messo la vita di migliaia di fedeli servitori vostri.»

«Al Cielo non piaccia che dove gli altri affrontano i pericoli per
me, io risparmi la fatica,... Porgete.... io stesso le recherò...»

«A Carlo d'Angiò? voi stesso, così ammalato?»

«Non monta.... porgete. In queste lettere si dà contezza
dell'esser mio?»

«Credemmo ben fatto nasconderlo.--Sareste troppo prezioso ostaggio
nelle mani del Conte.»

«Sta bene.--Voi, ditemi, chi siete?»

«Io?»

«Voi. Pagate fiducia per fiducia.»

«Principe, che importa a voi sapere chi sono?»

«Sentite: un cumulo di vicende mi trasporta a tal fine ch'è stato
sempre il mio abborrimento; forse potrei resistergli:--non voglio, mi
affido a voi, mi abbandono intieramente nelle vostre braccia; e ciò non
già perchè voi non possiate essere traditori, ma perchè, qualora
dal vostro tradimento me ne derivi la morte, io la desidero. Tutto questo
sta a dimostrarvi, che in qualunque caso possano gettarmi i vostri
disegni, non dirò mai nulla contro di voi, perchè voi non mi potete
fare danno. Ora poi vi domando un solo atto di fiducia, e mi chiedete--che
m'importa conoscervi?--certo nulla; ma a voi che cosa importa celarvi?»

«Se stesse a me, io di già vi avrei svelato il mio nome,--ma noi
siamo molti legati da comune giuramento a non manifestarci a
persona;--voi vedete che senza il consenso di tutti io non potrei...
la sicurezza loro...»

«Ma e non potrei rompere la cera e la seta che sigilla questo
foglio, e leggerne...?»

«Voi nol fareste; e poi...»

«In questo non troverei il nome vostro; v'intendo. Sia come volete.
Ordinate che mi conducano fuori; ho bisogno di confortarmi coll'aria
fresca.»

«Dove ci rivedremo?»

«A San Germano.»

«A San Germano.»

Ciò detto il Conte della Cerra, fatto un segnale, chiamò l'uomo
d'arme Roberto, che lo condusse fuori con quelle stesse cautele che
aveva adoperate per introdurlo.

Uscito della stanza, il Cerra scosse pel braccio il Conte di Caserta
assorto in cupi pensieri, e gli disse: «A che pensate, Messere?»

«Penso a quanto lo avrei amato, se mi fosse stato concesso per
figlio.»

«Egli è senza dubbio un gentil damigello; rammenta i bei giorni
della giovanezza di Manfredi.»

«Pur troppo, pur troppo si assomiglia a Manfredi!» gridò il
Caserta, e levatosi impetuoso gettò lontana la sedia, e per una
delle porte si allontanò.

«Ah» giubbilando nella pienezza del suo feroce sorriso, disse il
Conte della Cerra: «l'ho punto su la piaga.» E dopo stette
lungamente a considerare il luogo pel quale si era dileguato; alla
fine riprese:--«Imbecille! le menti come questa» e si toccava la
fronte «non sono nate a soffrire;--se i tuoi disegni, comecchè
stolti, gioveranno ai miei, ti aiuterò; altrimenti con un bel
prostrarmi, ed un migliore domandare perdono, te pongo sotto la
protezione di una forca, me sotto quella del trono--E, gettando per
terra il drappo che gli copriva il volto, uscì per una porta
diversa da quella per la quale era uscito il Caserta.

Rogiero intanto in compagnia di Roberto camminava con la benda su gli
occhi:--gli parve adesso percorrere un sentiero diverso, nè
s'ingannò: arrivato a capo di una strada, gli fu tolta la benda, e
con immenso piacere vide il suo destriero legato al battente di una
porta mezzo in rovina. Questa fu l'unica gioia che avesse in quella
notte memorabile; gli si accostava, e amorosamente palpeggiandolo
diceva: «Allah, Allah, tu dunque non hai derelitto il tuo signore!
Io mi appresto a ramingare per la faccia della terra; vuoi tu essere
il mio compagno, e il mio amico?--Bada ch'io sono infelice.»--Il
nobile animale, quasi volesse corrispondere alla fede che in lui
riponeva il cavaliere, spiccò un lancio, e sollevando tutto brioso
la testa dimostrò la sua passione con un sonoro nitrito. Rogiero
riprese: «Ciò non t'importa, Allah! e nella lieta e nell'avversa
fortuna non sono meno il tuo diletto padrone.--Oh! gli uomini.... gli
uomini hanno la facoltà di calcolare dove vada a rovesciarsi la
tempesta, e cansarsi: dove sta per piegare la fortuna, e tradirti; e
questa lor facoltà si chiama ragione!»

Proferite queste parole, pose una mano su l'arcione, e senza toccare
staffa saltò leggerissimo in sella; quindi voltosi a Roberto, che
s'era rimasto immobile a considerarlo, gli stese la destra dicendo:
«Roberto, io temo forte che noi non ci rivedremo se non che nella
valle di Giosafatte; ma se mai alcuna altra volta ci riscontrassimo su
questa terra, sovvengavi, ed io pure lo ricorderò, che vi ho
stretto la mano, come ad amico, nell'ora della mia dipartenza.»

Roberto si stava cupamente mesto; alzò la destra per istringere
quella di Rogiero; e quando sentì toccarsela, un subito tremore
gl'invase la persona, abbandonò il capo in atto angoscioso sopra la
mano che gli aveva offerto Rogiero,--v'impresse un bacio, e lasciò
cadervi una lagrima.

«Ch'è questo, Roberto? voi mi avete bagnato la mano.»

«Possa quel Dio,» replicava Roberto levando gli occhi al cielo,
e di subito riponendoli a terra «possa quel Dio, che dovrebbe
vegliare su la innocenza, accompagnarvi per la via!»--Così
favellando si allontanava, ma di tratto in tratto volgeva la testa e
il passo,--stava,--proseguiva il cammino:--erano i suoi occhi pieni
di lagrime e di sangue;--respirava affannoso.--Certo in cotesto
momento si agitava nella sua anima una molto feroce battaglia. Qual
poi delle due, o la buona o la trista passione, vincesse non diremo
per ora: ciò che possiamo dire si è, che la vittoria si fece
manifesta con una orribile imprecazione unita ad un gesto di rabbia, e
ad un fuggire alla dirotta verso il castello.

Il pensiero dei casi avvenuti non permetteva a Rogiero di porre gran
mente a quanto gli passava sott'occhio;--si partiva anch'egli
sospirando; si trovava all'aperta campagna, perchè, dopo l'assedio
di Corrado lo Svevo, Napoli non aveva più mura;--lasciò le
redini sul collo del cavallo, e chinata la testa si abbandonò a
dolorose meditazioni, senza punto badare dove lo trasportasse.

Il destriero in balía di sè stesso seguiva l'istinto che in
questi animali comunemente osserviamo, di tornarsene al luogo della
loro dimora, e di certo vi avrebbe trasportato Rogiero, se, a caso
aombrando per una pietra che gli si parò su la via, non avesse dato
uno sbalzo all'indietro, per lo che questi si riscosse, e vide con
maraviglia e spavento essere presso al castello capuano:--fu il primo
moto quello di allontanarsi quanto più potesse veloce,--ma si
fermò. La luna non era per anche tramontata, i suoi ultimi raggi
percuotevano languidamente su le invetriate del castello varie
d'infiniti colori; i suoi occhi le percorsero tutte, e si fermarono
sopra una. Si levò ritto sopra le staffe, stese ambedue le braccia,
e «_Addio_» disse con ineffabile sforzo, e ricadde: allora con
ambedue gli sproni ferì i fianchi del suo buon destriero, che,
conosciuta la impazienza del suo signore, si dette con incredibile
impeto a divorare la via; di lì a poco si nascose nelle tenebre, e
nella polvere sollevata:--ora le sole pedate si ascoltano da lontano,
sono divenute lievissime,--confuse,--non s'intendono più:--tutte le
cose ricadono nel primitivo silenzio.

Chi è che vorrebbe manifestare i pensieri di quell'anima di fuoco
espressi con la sola parola dell'addio, o chi volendolo lo potrebbe?
Non fu al bel cielo che gli svelava dinanzi tutti i tesori della
creazione che s'indirizzò quel tenero sentimento: l'addolorato non
bada se si mostri più dolce o più rigido il cielo, perchè le
sue interne angoscie lo travagliano maggiori di quelle che possono
derivargli dalle stagioni e dai climi. Non fu al torrente che spesso,
affacciato dalla rupe, considerò balzare di roccia in roccia,
frangersi in candidissima spuma,--diffondersi in minutissimi
spruzzi,--nascondersi giù per la bruna vallata,--ricomparire come
striscia di argento su la pianura,--e finalmente confondersi lontano
lontano; onde alla sua mente ricorsero le idee solenni della morte,
della eternità, di Dio. Non fu ai campi dove tolto il cappello al
generoso falcone lo vide con gioia infinita affaccendarsi per
l'orizzonte in larghissime ruote, desioso di preda; non alla foresta,
di cui il frastuono, quando i cavalli, i cani, e i cavalieri
perseguitavano il rabbioso cignale, gli suonava gradito all'orecchio,
quanto il saluto dell'amico;--non alla patria, chè egli non aveva
più patria....--non alle dolci case paterne, chè le amorose
rimembranze di queste stanno unite al sorriso e alle carezze che si
diffusero sopra la nostra culla, sia che chiudessimo gli occhi al
sonno, sia che gli riaprissimo alla luce. Quell'addio fu alla bella
addolorata, che gli dette il primo pegno di amore, ponendo il proprio
corpo tra il suo cuore e il suo pugnale. L'armonia della voce, e della
persona,--quel suo sguardo divino,--l'ambrosia del bacio,--il brivido
di tutte le membra al tatto misterioso, gli passarono per la mente
come immagini di fuoco. La speranza gli balenò su l'anima, non
già come un ragionamento, ma per via d'immaginazione. Parvegli
vedere un gran corteggio di cavalieri abbigliati da giorno
solenne,--udire un suono incessante di squille, e di trombe;--gli si
affacciarono all'accesa fantasia la Cappella della _Santa Vergine
Incoronata_, i sacerdoti, e il rito nuziale; Yole aveva la corona di
sposa, l'accompagnava Manfredo;--si accostarono all'altare;--si
cominciavano le cerimonie;--ell'erano presso che compite:--un
Crocifisso illuminato da mille ceri stava in mezzo del sacrario....
Rogiero alzò gli occhi al suo volto.... Dio eterno! aveva la fronte
livida,--la bocca insanguinata,--gli occhi fuori dell'orbita:--era il
volto del tradito suo padre. Cadde la speranza, insorse lo sconforto,
e lo trasportò dentro una tenebra profonda:--intese gli sguardi, e
vide un corpo lucido di fioco chiarore;--a mano a mano si
approssimava; aveva la fronte livida, la bocca insanguinata....
sentì il tocco di una mano, poi il ferro di un pugnale;--il ferro e
la mano erano freddi ugualmente.--Una forza rovinosa lo strascinò
verso una parte; gli alzò la destra già armata di coltello, e
gliela spinse a basso:--un gemito sommerso si fece sentire;--la stanza
fu a un tratto illuminata.... dal seno aperto di Manfredi sgorgavano
rivi di sangue; attraverso il corpo giaceva abbandonata una cara
creatura,--il fianco di quella giacente era pure sanguinoso, e il
volto, più che di assonnata, pareva di morta. Rogiero non potè
sostenere più oltre le forme della sua immaginazione, e ricadde
sopra la sella; allora fu che, quasi per fuggire sè stesso,
spronò duramente il destriero. Il destriero fugge e non si
arresta,--il suo corpo gronda sudore, ma egli morirà di fatica
prima di non corrispondere al volere del suo padrone. Rogiero,
Rogiero, a che giova la fuga? Sia che tu corra, sia che tu posi, la
disperazione ti sta confitta nell'anima.




CAPITOLO DECIMO.

IL PROPAGGINATO.

                                    Almen dovria,
                Se iniquo è nel suo cuor, serbar l'esterna
                Religion degli avi nostri.
                                 GIOVANNI DI GISCALA, _tragedia_.


La landa era lunga; la notte era buia. Il cavallo correva a
precipizio; chè comunque avvezzo a conoscere i pensieri del suo
signore, ed eseguirli, pure questi gli teneva sempre gli sproni fitti
nei fianchi, nè se ne avvedeva: trascorse quella landa,--poi
un'altra, e un'altra ancora; saltò macchie e fossati, valicò
riviere, immergendovisi dentro fino alla testa: grondava il suo corpo
sudore, e sangue, nè per anche si rimaneva. Quel corso imperversato
avrebbe a certa rovina condotto cavallo e cavaliere, se la ventura non
gli avesse sovvenuti di pronto soccorso. Un uomo montato sopra un
ronzino, che se ne andava anche egli così fuori di mano a
quell'ora, vista quella furia, si mise a tutta briglia dietro Rogiero
gridando: «Signor cavaliere, signor cavaliere, per amore di Dio,
fermatevi: al confine di questa pianura scorre la riviera
profonda;--signor cavaliere, fermatevi,--v'annegherete di certo.»

Rogiero non udiva cotesti gridi, e spronando, e spronando, si
avvicinava alla morte. Quell'uomo, benchè cavalcasse un ronzino di
trista apparenza, ora animandolo con la voce, ora stimolandolo con le
percosse, potè, sebbene a fatica, raggiungerlo, e dirgli di nuovo:
«Signor cavaliere, voi volete morire ad ogni costo, per quello
ch'io vedo: al fine della pianura corre il torrente.... sentite il
fracasso che mena da lontano: deh! non vogliate perdere così
l'anima, e il corpo; o uccidetevi almeno in parte, dove un prete possa
farvi l'esequie.... Intendete, ehi! dico, signor cavaliere?» E qui
preso per la briglia il cavallo di Rogiero, lo fermò. Questi,
trapassando allo improvviso dal moto alla quiete, si rinvenne,
guardò attorno, mise una mano alla fronte, e disse: «Dove
sono?--Chi sei?»

«Sono un povero cristianello, che vado di uscio in uscio accattando
la vita per l'amore di Dio; mi sono trovato sul vostro cammino, ho
veduto al barlume il vostro pericolo, e mi sono affrettato ad
avvertirvi che qui presso corre il torrente. Voi mi sembrate agitato,
signor cavaliere: se non siete di quelli che rinnegano Cristo per un
_agostaro_, perchè così corre il costume, ed amate fare un po'
di bene in questa vita per averne molto in quell'altra, io pregherò
San Filippello, e San Gennaro, per la pace dell'anima vostra, e per
quella dei vostri morti.»

«Allontánati, e ringrazia i tuoi Santi ch'io non ti tolga la
vita in ricompensa di avere salvato la mia.»

«Signor cavaliere, non mi cacciate con tanta villania: se la vostra
legge v'insegna ad amare il nemico, come potrete odiare chi vi ha dato
soccorso?»

«Te l'ho chiesto io quel tuo soccorso? Se non mi hai lasciato
morire, è segno che ti tornava più ch'io vivessi: e se il tuo
cervello non ha fatto questo pensiero, lo ha fatto il tuo cuore. Io,
così al buio, non posso vedere le tue sembianze, ma tu devi
certamente essere uno scellerato:--non sei uomo?»

«Voi aggiungete alla mia miseria l'oppressione del vostro
avvilimento. Oh! non così i cavalieri del tempo passato!»

«Uomo!--io non ti disprezzo perchè ti vedo miserabile, ma
perchè appartieni alla famiglia degli uomini, e vo' che tu sappi,
il mio disprezzo per essi cominciare da me.»

«Ma dagli uomini non avete avuto la vita?»

«La vita!--Parti forse dono la vita? Sia:--ma io non l'ho chiesta,
e non ne devo esser grato. Una vita destinata a finire con la morte, a
travagliarsi con le malattie del corpo, con le afflizioni dello
spirito, sempre assalita dai bisogni, sempre minacciata dagli
elementi.... è egli un dono questa vita?»

«Ma l'amore della madre, la carità dei parenti....»

«Non li conosco, non ho obbligo con nessuno:--posso odiare senza
rimorso, e vivo odiando. Vattene dunque nella tua mal'ora, e possa
incontrarti una morte cento volte peggiore di quella dalla quale tu mi
hai liberato!»

«O signor cavaliere, non parlate così, vi scongiuro pel Santo
Sepolcro. Da che voi non volete darmi neppure una _burba_¹ di
elemosina, sovvenitemi almeno della vostra compagnia, finchè saremo
usciti da questa contrada: sappiate ch'ella va per le guerre della
Santa Sede col Re Manfredi tutta piena all'intorno di ladri, e di
gente di malo affare; non mi negate questa cortesia, che vi possano
guardare sempre benigni gli occhi della vostra dama!»

  ¹ Moneta saracina di prezzo assai vile.

«Io non vo' compagnia: se ti senti debole, perchè ti metti in
pericolo? La vita deve nudrirsi col dolore: perchè vuoi sfuggire la
tua parte, o perchè pretendi che un altro la consumi con te? Io
penso a me. Qualora la tua salvezza dipendesse da un moto della mia
mano, da un cenno dei miei occhi,--non lo sperare: i tuoi tormenti
faranno le mie gioie, perchè conoscerò che non sono maledetto
solo.--Non sai che il pianto della disperazione scende rugiada di
conforto all'anima disperata? Or via, allontánati: se insisti a
voler essere mio compagno, il mio pugnale mi farà solo.--L'uomo non
è compagnia conveniente all'uomo:--più tosto il serpente del
deserto.» Profferite queste parole, si allontanò. Giunse alla
riviera, nè trovando barca da passarla, si dette lungo la riva a
seguitarne la corrente, sperando rinvenire un ponte.

Venne il mattino. Spuntava il pianeta nella maestà dei suoi raggi,
e spargeva il calore e la luce sopra tutte le cose: le acque del fiume
parevano rallegrarsi di rivedere il sole, e il sole le acque del
fiume: tremolavano queste agitate dal vento matutino, quello vi
diffondeva i suoi raggi: e quindi ne usciva un brillare lucido,
spesso, incessante, veloce, che gli occhi non potevano sostenere, ed
era pur vago a vedersi:--pareva la gioia di due amici che si
abbracciano dopo molti anni di trascorsi pericoli, e di lontananza. La
campagna suonava tutta armonia di tinte variate, di canto, e di
odori,--il giubbilo della natura! Forse vi ha un'ora del giorno nella
quale la terra ci si mostra quale apparve nei primi tempi della
creazione avanti che i nostri padri peccassero, e questa è
certamente quella in cui il sole ritorna ad illuminarla. Iddio nella
sua sapienza la dette in premio al rassegnato, il quale sorge
coll'alba per eseguire la condanna del travaglio, che percuote la
discendenza di Adamo; o più tosto in ricompensa del suo stato,
perchè l'operoso sia povero, e il suo vegliare col sorger del sole
è per colui che non lo vide giammai, se non quando comincia a
declinare. Venne il mezzogiorno,--il bel mezzogiorno nei sereni di
estate. Che mai incontriamo quaggiù che valga l'azzurro dei cieli?
L'occhio della bellezza, ci ha detto un gentile poeta, addita la via
che _al ciel conduce_,¹ ma non può assomigliarlo.--La maestà
del cielo sta sola come la onnipotenza del suo Creatore. La stella
della vita, tutta rigogliosa di giovanezza, gode illuminare quella
vôlta divina, e quella vôlta offre un campo sterminato alla
pompa dei suoi raggi:--belle ambedue, amano parteciparsi la loro
beltà. O figlio della terra! in cotesta ora di conforto non
abbassare il guardo a tua madre, che ti sostiene: gli uomini hanno
spogliato i campi dei frutti del sudore per mantenere una vita di
stento, e di miseria:--non volgere lo sguardo a tua madre, che ti
sostiene, o la illusione svanisce:--tienlo fisso nel firmamento; il
Creatore ti ha conformato per questo.

  ¹   Gentil mia donna, i' veggio
      Nel muover dei vostri occhi un dolce lume,
      Che mi mostra la via che al ciel conduce.
                       PETRARCA, _canz._ 9.

Salute, salute, o sole, che susciti, e circoscrivi le vite; salute, o
fonte di generazione, e di morte! Tu hai veduto con questi stessi
raggi il luogo del nascimento, e la tomba dei nostri primi parenti; tu
vedrai quella degli ultimi nepoti: le nazioni scomparvero dinanzi a te
come le acque del torrente, come l'arena del deserto. Gli uomini ti
hanno maledetto, e tu non hai cessato di spargere le benedizioni della
luce sopra di loro; ti hanno offerto incensi, e preghiere, come a un
Dio, e tu non hai aumentato i tuoi fuochi;--sempre grande, sempre
immutabile nella tua bontà. Spesso una nuvoletta, figlia di vapore
terreno, ingombrò quelle vôlte destinate a te solo, e tu la
vestisti di tal candidezza, che parve la fronte della innocenza: ma
ella si annerò come l'ingrato, e mosse guerra ai tuoi raggi;--il
sereno fu spento, ma per noi;--la procella fremè, ma sopra le
nostre teste;--il fulmine era sotto di te, e la tua luce, sempre bella
e pacata, rise della sua tenebrosa vita di un'ora.

Saranno dunque eterni i tuoi raggi? Donde traesti le tue fiamme? Come
le mantieni? Sopravviverai all'ultimo dei viventi? Sei per te, od una
forza ti costringe ad essere? No:--adoriamo:--egli è lucido, e
caloroso.

Venne il crepuscolo della sera, il quale, tuttochè screziato con
più gran numero di colori di quello della mattina, nonpertanto
scende tristamente mesto. Un raggio di oro e di porpora infiamma que'
confini, dove pare che il cielo inchinandosi si unisca all'oceano; ma
quel raggio è di cosa trapassata, ed ha la impronta della sua
decadenza:--sembra la fama di un potente, che, comunque scomparso
dalla faccia del mondo, abbia depositata la sua memoria nella istoria,
e come può meglio si rinnuovi con essa nei secoli futuri. Questa
agonia tra la luce e le tenebre dura solenne quanto quella tra la vita
e la morte; ella si unisce a tutto ciò che si agita di affettuoso
nel nostro cuore: abbandona l'operaio il travaglio, il filosofo la
meditazione, per lasciare l'anima in balía dei suoi malinconici
sentimenti. Questa ora è la prova dei teneri cuori: se un nemico
trovasse il suo nemico, e lo domandasse di perdono, questi quantunque
capace di ritornare nella notte ai proponimenti di vendetta, e ad
eseguirli, non potrebbe ricusarlo adesso.--Infelice colui, che vede il
giorno che muore senza sentirne pietà!--mille volte più infelice
di quello, che può vedere il giorno che nasce senza sentirne
allegrezza!

Tutta questa maravigliosa vicenda della Natura si era operata innanzi
gli occhi di Rogiero, il quale comecchè non le ponesse mente, ne
sentiva gl'influssi: furono i suoi pensieri la mattina feroci, erano
adesso pieni di mestizia. Già il suo cavallo da qualche tempo
camminava a stento nell'interno d'una foresta; Rogiero si guardò
attorno per vedere alcuno abituro di cristiani, ma il suo occhio si
smarrì inutilmente tra le fronde: tese l'orecchio:--da per tutto
silenzio, meno il susurro misterioso, che fanno gli alberi, quantunque
agitati da poco vento. Scese; si sentiva il corpo indebolito; tolse il
morso al cavallo, che tutto lieto nitrì, come se durare ogni
travaglio pel suo signore fosse dovere, e la cessazione di questo
travaglio meritasse la sua riconoscenza. Rogiero lo palpò con
affetto, e quando, ponendogli una mano sul fianco, lo sentì
grommoso di sangue rappreso, e dare una scossa leggiera per la puntura
della piaga inasprita, dimenticando ogni altro suo affanno, proruppe
in voce lamentevole: «Allah! mio buon destriero! vedi che cosa si
ricava dall'uomo scempio per la sciagura! Ahimè! comportarci con
l'amico, come si farebbe co' più crudeli nemici, è segno
manifesto di mente ammalata.»--E sollevò gli sguardi al
firmamento, e mormorò. Dipoi, tutto armato come era, si stese sul
terreno, facendosi guanciale della _rotella_. Molta l'opprimeva la
stanchezza; da prima la sua mente si fissò in un pensiero solo; di
lì a poco una serie infinita di pensieri gli si avvolse per la
testa; essi erano in principio distinti, ma spesso interrotti; e
succeduti da altri disordinati, e senza séguito, diventarono
finalmente confusi: gli occhi aggravati, lento lento si chiusero, e
Rogiero sì addormentò.

Rimase alquanto tempo in quello stato, allorchè uno schiamazzo di
risa, di bestemmie, e di male parole, come usa fare la gente della
plebe, tutto ad un tratto lo risvegliò. A breve distanza da lui,
tra le frasche della boscaglia, vide un gran fuoco, e innanzi a quello
uomini di fiero aspetto, tutti coperti di arme, che tripudiavano in
orribile maniera: sentì pure, allorchè quei loro stridi
infernali diminuivano, una voce piangente lamentarsi, e a quella voce
rispondere con risa smoderate, ed ingiurie. La più parte degli
uomini di quel tempo si sarebbe fatto il segno della salute, e
fuggendo, come se mille diavoli la cacciassero, avrebbe giurato di
avere veduto il _Sabbato_,--le oscene tresche delle streghe al lume
della luna;--il demonio in forma di caprone nero accogliere le
adorazioni della _congrega_,--scannare un bambino,--offerire il suo
cuore sanguinoso su l'altare nella messa di esecrazione, celebrata con
l'ostia nera; e simili altri errori, di che la buona gente d'oggidì
schernisce l'antica, come se fosse sicura, che la veniente non
riderà di lei per le stoltezze delle quali a sua posta va ingombra.
Rogiero, sguainata la spada, studiando il passo, si accostò al
luogo dello spettacolo; di lieve conobbe com'essi fossero masnadieri,
ma non così súbito si accôrse della cagione della loro gioia.
Osservando meglio, gli venne fatto vedere un uomo, che dalla voce,
sebbene alterata per la presente paura, e pel pianto, gli parve quel
desso, che la mattina lo aveva richiesto della sua compagnia. Le sue
vesti erano veramente da povero: portava gonnella grigia con
sarrocchino ornato di conchiglie, come correva l'usanza di coloro che
tornavano di Terra Santa; poteva avere cinquanta anni; di corpo
sottile; e sembrava dover essere destrissimo; il volto pallido, tutto
increspato di rughe; gli occhi infossati, all'intorno lividi; mala
pupilla nerissima.

«Nota bene, perchè io non vo' che tu creda che noi ti usiamo
villania, e devi persuaderti tu stesso, che è bene che tu muoia. Ti
abbiamo frugato da capo ai piedi, e non ti abbiamo trovato nè
immagine di Santo, nè corona di Madonna, ma sì questa borsa
piena di _agostari_ lucidi e nuovi, che fa piacere a vederli: questo
già, come pensi, è meglio per noi; ma tu vedi bene come non paia
merce da pellegrini cotesta: e poniamo anche che fosse, come hai
potuto, tapinando pel mondo, raccoglierli tutti nuovi, e di uno stesso
anno? Dunque non sei un pellegrino. Rimarrebbe a vedere se sei ladro,
o spione; ma risparmierò questa ricerca, perchè in ogni caso
bisogna che tu muoia: se sei ladro, come pare, la gelosia di mestiere,
il timore di vedere l'arte in mano di troppi, adesso che gli affari si
fanno scarsissimi, ci consigliano ammazzarti: se spia, il piacere
della vendetta, la certezza che tu non ci nuocerai più in avvenire,
ci consigliano parimente ammazzarti. La carità, fratel mio, è
pure la grande virtù, ma ho inteso sovente, che, per dirsi
perfetta, deva cominciare da sè stesso: ora la tua carità
procede affatto opposta alla mia; tu sei debole, ed io sono forte; tu
fuggivi, ed io ti ho raggiunto, dunque ti uccido. Che parti, so di
logica io?»

Questo discorso fu tenuto da un masnadiere, che sembrava avere una
certa preminenza su gli altri: egli compariva di bel sembiante,
giovane, e grande; il suo viso, dal mezzo in su, pel sopracciglio nero
quasi sempre aggrottato, la fronte rugosa, gli occhi minaccevoli,
veramente spauriva terribile; dal mezzo in giù, la bocca vermiglia,
sempre ridente, lieta di candidissimi denti, lo dinotava amante dello
scherzo e della gioia; era in somma il suo volto una contradizione, e
la sua anima ancora più: indole unica tra noi, ch'io non posso con
sommo mio rammarico svolgere a lungo in questa storia, però che
quegli che la possedè ebbe a piegare ad immaturo destino. Al fine
delle sue parole, i circostanti urlarono a coro: «Ha ragione
Drengotto, ha ragione!»

Il mal capitato pellegrino, quando conobbe di potere essere inteso, si
gettò ai piedi del masnadiere, e: «Bel cavaliere,» gli disse
«non vogliate porre le mani nel sangue innocente, che so che
commettereste troppo grande peccato. Io vi giuro alla croce di Dio,
che non sono ladro, nè spia. Quegli agostari ho avuti da un Barone
di Chieti, che mi albergò una notte per carità nel suo castello,
e mi ordinò recarli all'Abbate di Montecassino, affinchè ne
fosse detto tanto bene secondo la sua intenzione. Intesi dire pel
vicinato ch'egli in sua gioventù s'era fatto reo di molti omicidii,
e di altre male opere; ed ora che sentiva con la vecchiezza
avvicinarsi la morte, il pentimento gli aveva toccato il cuore, e gli
si era cacciato addosso una súbita paura del demonio.... e voi,
signor cavaliere, non temete il demonio?»

«Si temono esse le vecchie amicizie?»

«Deh via! non offendete il povero, ch'egli è il protetto del
Signore; lasciatemi pel mio cammino; io pregherò quanto più
posso per voi.... non siete un'anima cristiana? perchè volete
perder la mia che vi è sorella in Cristo?»

«_Nego minorem_» rispose il masnadiere. «Prima di tutto,
perchè il tuo argomento camminasse, si vorrebbe dimostrare che tu
ne abbi una. Ma via, poniamolo come provato: o tu l'hai buona, o tu
l'hai trista; se buona, che cosa ha questa vita che ti piaccia? ella
è una trama di angoscie, il mondo una fossa di fiere; nè a te
solo sarebbe concesso mutare la tua specie; questa è opera divina;
non ti rimane che piangerla. Godi dunque di accostarti al Principio di
tutte le perfezioni, godi di andare quanto più puoi veloce a godere
il retaggio della gioia che il tuo Signore ti ha promesso. Se ella
è trista, lo scellerato ha stretto un contratto con la innocenza;
questa gli ha venduto il delitto, quello le ha promesso il prezzo
della pena, ed io me ne faccio il suo esattore.»

«E chi vi ha dato questo diritto su la mia vita?»

«La forza, fratello, la forza. E pensi tu, che quando mi avranno
preso, e, secondo i costumi del paese, arso, o impiccato, o sotterrato
vivo a nome delle leggi, per volere di un potente _Dei gratia,_ con
una sentenza fatta per filo e per segno _in nome di Dio, amen,_ piena
di citazioni d'Irnerio, di Bulgaro, e simili baccalari, che ci avranno
proprio che fare come Pilato nel _Credo,_ avranno in sostanza migliore
diritto che questo?--La forza, fratello, è la gran madre Eva di
tutti i diritti.»

E qui i masnadieri, fino a quel punto intentissimi alla disputa,
gridarono a gola spiegata: «Bravo il nostro dottore! egli è un
valente uomo Drengotto!»

«Oh! signore mio, voi siete troppo savio maestro di argomentazioni,
perchè un povero accattone possa venire in contesa con voi, io vi
scongiuro per l'anima di vostro padre, s'è morto....»

«Questo è quello che non so neppure io. Pover'uomo! E mi
ricordo, che mi voleva bene, ma bene assai; gli dicevano tutti che io
era il ritratto vivente di madonna Ermellina, ed egli aveva
_coralmente_ amato madonna mia madre. Fecemi apprendere gramatica, ed
il maestro, che ne traeva grosso salario, gli andava susurrando alle
orecchie:--il bello ingegno di quel vostro garzone, messere! E' mi
pare di vederlo Giudice della ragione civile, e chi sa? anche
Governatore, e, se la fortuna lo porta, forse Gran Giustiziere, o
Protonotario della corona.--Il buon uomo, pieno di questi pensieri,
datimi libri, danari e palafreno, con molte lagrime, e raccomandazioni
di farmi valoroso _in jure,_ mi accomodò con certo mercadante suo
amico, che partiva per Bologna, e mi mandò allo studio. Di lì a
due mesi, venduti libri e palafreno, mi tornai a casa in farsetto;
composi una mia novella; messere la credè, e aspettava il nuovo
anno per rimandarmi a Bologna. Intanto io, se non aveva imparato lo
_jus,_ aveva imparato tra gli scolari tutti i vizii, che furono, sono,
e potranno essere, e più. Aveva bisogno di danari, e questi mi
forniva assai sottilmente mio padre, perchè con la vecchiezza suole
venire l'avarizia: mi cadde in mente di rubarglieli; osservai dove
tenesse il forziere; mi accorsi che stava riposto in una cameretta in
capo della scala; mi provvidi di arnesi, ed una bella notte mi
apprestai all'opera; apersi agevolmente l'uscio, e la cassa; tutto era
andato a dovere, e già toccava il danaro, e già lo prendeva,
e.... ma ciò facendo con poco senno, e manco precauzione, lasciai
andarne un pugno per terra; le monete cadute mandarono un suono, che
mi abbrividì di spavento: alcune di queste ruzzolando ruzzolando
trovarono l'uscio aperto, e si cacciarono giù per le scale; ogni
balzo che facevano su i gradini, era per me una stoccata per mezzo del
cuore: rimasi un momento incerto, come colui che si sente sconfortato
dalla paura e dalla vergogna, e questo momento fu che mi perdè. Mio
padre, udito il romore, amando più della vita il danaro, che egli
chiamava _suo secondo sangue_, venne a precipizio alla mia volta:
quando io volli fuggire, me lo trovai innanzi al cammino, egli mi
afferrò alla gola, e stringeva di buona mano. Intanto la fante
strepitava: «Aiuto! misericordia! al ladro, al ladro!» Ormai
parevami vedere giungere tutto il vicinato co' lumi, sentire i loro
rimproveri, quelli del padre; un peso insopportabile di avvilimento mi
si aggravava sul capo; detti in questo pensiero una scossa violenta;
mio padre cadde riverso, la scala gli stava alle spalle, vi
precipitò, io dietro; egli percosse su la pietra, io sopra lui; mi
alzai, gli passai sopra il petto, fuggii.... le mani ed il viso aveva
imbrattato di sangue: sicchè vedi che amore pel padre sia stato il
mio! Ma io non credei che ne dovesse uscire un tanto danno; vi giuro
ch'io noi credei. Voi tutti avreste fatto lo stesso, compagni, non
è egli vero? ditemi, in nome di Dio, non avreste fatto lo stesso?
Qual vita, o quale affetto può avere prezzo agli occhi del ladro in
paragone della cosa rapita? E poi c'entrava l'onore, perchè, se mi
ricordo bene, trattandosi di cosa lontana, mi pare che io fossi in
cotesti tempi onorato.»

E sì parlando rise, ma di un cotale riso sfumato che gli morì a
fiore di labbro: nè i compagni applaudirono, perchè tra loro
convennero che il detto non era arguto; ma in sostanza, perchè fu
troppo scellerato per chiunque ha viscere di umanità. Drengotto
passò due o tre volte la mano su la fronte, quasi per cacciarne,
quella immagine, e quindi riprese a favellare: «Or via, pellegrino.
perchè sei ostinato a non volerti persuadere che la tua morte è
un bene, cosa per la quale soltanto meriteresti morire, vediamo se
potrò rendertene desideroso col modo con cui intendo apprestartela.
Vo' dunque che tu sappi, che, essendo io stato a studio, amo darti una
morte latina. La gloriosa Serenità dell'Imperatore Federigo, che il
demonio faccia pace alle sue ossa, tra gli altri suoi ritrovati
inventò la pena del _propagginare_, da _propago propaginis_, che
vuol dire germoglio: questa, come vedrai, è morte curiosa,
perchè si fa un buco per terra profondo quanto tu sei alto, e
più; poi ti ci adattiamo capovolto, poi terra sopra: che partene?
non si ha da chiamare ella questa immaginazione veramente
imperiale?»

«Sì, propagginiamolo, propagginiamolo!» urlarono quei feroci,
e si posero tutti di concerto a cavar terra.

«Oh! Santa Vergine, assistetemi voi!» esclamò il pellegrino
smarrito dalla paura.

«Vergognati, via,» gli disse Drengotto «apparecchiati a
morire di buona grazia; anzi ti godi nel piacere della vendetta: tu
così propagginato germoglierai; dal seme della spia deve nascere di
certo il legno della forca; e tu lusinga queste ultime ore nella
speranza, che un giorno o l'altro saremo frutti del tuo albero.»

«Non mi uccidete, magnifico cavaliere, non mi uccidete, pel vostro
battesimo, per la benedizione di Dio e dei Santi; tenetemi per vostro
fante; io so come si governa un cavallo, avrò amore ai vostri, e a
voi; vi servirò fedelmente. Oh! liberatemi, signore, da questo
affanno; la morte è troppo grave dolore.» E intanto piangeva e
singhiozzava interrotto.

«Chi ti ha detto che sia un dolore? Tu non sei mai morto per
saperlo; un'altra volta potrò crederti, ma per questa non posso
darti fede.»

«Oh! sì, ch'ella è dolorosa; vedete come tremo al solo
sentire nominarla? e voi pure tremereste se vi foste vicino: perchè
avremmo noi questo istinto di vita, se la morte non fosse
angosciosa?» E qui tornava a singhiozzare e a pregare con disperate
parole.

«Deh! non piangere, fratello; tu mi muovi proprio a compassione:
vedi, anche Federigo il glorioso Imperatore, ch'era molto maggiore
uomo che non sei tu, è morto; anche Innocenzio, il sapiente
Pontefice; ed io, io pure, nato di messer Tafo di Andreuccio, che
teneva banco di cambio nella città di Napoli, e di madonna
Ermellina di maestro Gentile; io pure, che ho appreso lo _jus_ civile,
e la ragione canonica, nello Studio di Bologna, bello, giovane e
forte, sono destinato a morire.¹ Nasciamo tutti con questo patto;
ella è condizione _sine qua non_: l'eternità ci concede alcuni
anni di vita: non piangere sopra la tua sventura; o piangi, e
piangerò teco, su la nostra schiatta infelice.--Avete lesta la
fossa?»

  ¹ Questo discorso è affatto simile a quello che tiene Achille a
    Licaone nel 21 Libro dell'Iliade. Io per me credo che non vi sia
    persona, la quale piuttosto che epico, non voglia riputarlo
    comico.

Il pellegrino, che dal suono pietoso col quale il masnadiere aveva
proferito il precedente discorso, si era alquanto rassicurato, non
è da dirsi qual rimanesse quando ne intese la chiusa; e molto meno
è da dirsi, quando sentì ripetere attorno: «È lesta, è lesta!»

I masnadieri gli si fecero addosso; egli provò di schermirsi,
menava calci, mordeva chiunque gli si accostava: preso, più di una
volta, uscì loro di mano; i muscoli del suo volto si agitavano
convulsi; urlava da spiritato, volgeva qua e là velocemente gli
sguardi atterriti, faceva gli sforzi della disperazione: alfine
giunsero a tenerlo, lo capivoltarono; i suoi stridi divennero, se non
più forti, più feroci: lo accostarono alla fossa.

«O gran madre di Dio, aiutatemi voi!» diceva per via con
ammirabile celerità. «San Germano! Santo Ermo! San Filippello
d'Argiro! Angeli ed Arcangeli, abbiate pietà dell'anima mia! Santi
martiri e confessori....»

«Manco male, via,» interruppe Drengotto «se non va a morte
persuaso, almeno ci va pentito: sentite come canta le litanie dei
Santi!»

«Ben detto! ben detto!» con un tumulto di risa esclamarono
quegli empii, e già erano giunti alla fossa, il male arrivato
faceva invano incredibili sforzi: ormai vi avevano introdotto il capo,
ogni speranza sembrava perduta. Allo improvviso si fanno sentire tre
suoni di corno; i masnadieri tutti spaventati lo lasciano cadere, e,
senza punto badare a ciò che fosse per succedere di lui, tolte
ognuno le sue armi, sotto gli ordini di Drengotto si dispongono in
atto di ricevere qualche gran personaggio.

Si volgevano tutti ora qua ora là, incerti da dove sarebbe per
comparire costui; imperciocchè la selva sorgesse folta dintorno, e
il ronzío delle fronde ne celasse il suono delle pedate. Di
súbito vide Rogiero scaturire dalla tenebra, e svelare innanzi al
chiarore tutta la maestà delle sue forme un uomo di membra
gigantesche, era vestito come gli rimanenti masnadieri, se non che
aveva di più il corsaletto di piastra di ferro, diligentemente
forbito, il corno al fianco, e una piuma al berretto. La fiamma
rifletteva sopra il suo sembiante una luce vermiglia; e quei suoi
lineamenti gagliardi, il sopracciglio irsuto, l'occhio sanguigno, lo
dimostravano sottoposto al dominio di feroci passioni, mentre che la
testa elevata, la fronte ampia, acuta negli angoli delle tempie, il
mento un po' ritorto all'insù, le labbra strettamente compresse, lo
dicevano d'irremovibile volontà, e nato a dominare. Quel suo volto,
sebbene severo, non aveva nulla di spaventevole, anzi ispirava a chi
lo avesse fissato un senso di fiducia, cosa che sempre si osserva
nelle sembianze di quegli uomini che sono di anima e di corpo sicuri.
Lo seguitavano quattro masnadieri che conducevano quantità di muli,
a quel che pareva, carichi di derrate. Allorquando si furono avanzati,
il condottiere guardò tutti i compagni, e con modo signorile
cortesemente disse loro: «Salute.»

«Addio, condottiero!» risposero i masnadieri.

«Ecco che Dio non vuole la distruzione di cui l'offende: noi
abbiamo conquistato di che provvedere assai tempo al bisogno,--al
bisogno che ci mette l'arme alla mano contro i nostri fratelli.»

«Conquistato!» esclamò uno dei quattro armati che avevano
seguíto il condottiero «conquistato! Potevamo in vero, e di
leggieri, conquistarlo, ma voi l'avete voluto comprare in tante buone
monete d'oro di Federigo II.»

«E non parti ella una conquista, Beltramo?--Con l'oro, più che
col ferro, in oggi si vince il mondo, e per lungo tempo, del quale non
vedo la fine, ancora si vincerà.»

«Non so che dire su questo,» rispose Beltramo «ma potevano
certamente essere tutti risparmiati.»

«Gli avete spesi voi? Ve ne ho io chiesto la vostra parte? Oh! non
aggraviamo di grazia la nostra mano su l'infelice, oppresso dal caso e
dagli uomini: insegniamo a questi uomini, che ci hanno ributtato dal
seno, che siamo migliori di loro.--Di vero io poteva levare a quei
poveri vassalli le robe che portavano al mercato, e lasciare loro il
danno per prezzo: ma potresti, Beltramo, cibarti di coteste
vettovaglie, senza pensare al pianto che susciterebbe il duro esattore
del Barone, allorchè andasse in giro a raccogliere il livello, ed
essi non avessero da pagarlo per cagione nostra? No, no; il pane
rubato al povero non conforta l'anima nè il corpo. E stasera,
tornati tutti festosi alle loro famiglie, racconteranno:--Cinque
cavalieri ci occorsero per via; noi fuggimmo, lasciando le robe per
salvare la vita; essi potevano toglierle, ma ci richiamarono; e le
vollero pagare con più profitto, che se fossimo andati fino al
mercato.--E quando pregheranno, vado sicuro che ci rammenteranno nelle
loro orazioni, e i nostri nomi saliranno al cielo con quelli dei
Santi.... sì con quelli dei Santi; e Dio, sentendoci esaltati nella
bocca dei suoi eletti, ci guarderà nella sua misericordia, ci
vedrà infelici, e forse ci torrà da questa vita, angoscia per
noi, spavento per gli altri: Iddio è pietoso nelle opere sue.»

«_Amen_» disse sotto voce Drengotto.

«Perchè dici _amen_, Drengotto?» lo interrogò un
masnadiero che gli stava più prossimo.

«Perchè la predica è finita: già la sua fine deve essere
un _cordone_, o alla _vita_ o alla _gola_.»

«Drengotto!» chiamò il condottiero.

Il chiamato uscì di fila, e presentatosi baldanzoso innanzi di lui
rispose: «_Adsum,_ messere.»

«Rendetemi conto della giornata.»

«Ella è cosa di poco momento, messere Ghino: abbiamo corso e
ricorso tutto il giorno _dal bosco alla riviera,_ ma non si
presentò Saracino nè Cristiano: tornavamo dunque verso sera a
mani vuote a casa, allorchè i cani fiutando e abbaiando si sono
lanciati entro un macchione, e noi dietro di loro; quivi abbiamo
veduto che avevano addentato una bestia di pellegrino che giace là
in terra: siamo subito accorsi a liberarlo; perchè, un poco più
che tardassimo, lo spartivano da buoni fratelli in uguali porzioni tra
loro.»

«Ben fatto.»

«Alcuni di nostra compagnia volevano che lo lasciassimo andare; ma
noi per la pienezza del potere che ci avete delegato, ci siamo
opposti, ed abbiamo detto: vediamo se il buon pellegrino porta in
dosso reliquie e corone; peccatori come siamo non ardiremo porre le
mani sopra le sante ossa, questo va bene; ma se ha argento, oro, o
pietruzze dattorno, noi le prenderemo, perchè elleno sono
vanità, e noi siamo in questo censori solenni di costumi. Dopo
questo ci siamo messi a frugarlo, e _mirabile visu!_ niun Santo si
annidava sopra costui, ma questa borsa piena di _agostari_ d'oro.»

«O gloriosissimo Barone, per l'onore della vostra famiglia, per la
pace dei vostri defunti, salvatemi da quel feroce, che, e nei detti e
nelle opere, sembra essere il primogenito del demonio: vedete che mi
ha preparato la buca per propagginarmi.» Così interruppe il
pellegrino, che, ascoltato il parlare soave del condottiero, si era
levato su le ginocchia, e a questo modo, strascinandosi, recato fino
ai piedi di lui. I masnadieri nel vederlo comparire in quell'atto, con
la paura della morte sul viso, imbrattato di fango e di polvere,
proruppero in alte risa, le quali furono tosto represse dal sembiante
del rigido condottiero.

«Alzati,» disse Ghino «l'uomo non dee prostrarsi che innanzi alla
Divinità;» e scioltegli le mani soggiunse: «sei libero.» Poi,
quasi per evitare le solite formule di ringraziamento, sempre inutili per
l'uomo sapiente che conosce la gratitudine del beneficato dalla
espressione del volto, si volse a Drengotto, e domandò: «È egli
ben vero ciò che sento dire di voi?»

«Messer sì.»

«Perchè volevate far questo?»

«Oh! non era nulla: amavamo così avere un _per esempio_ del come
Federigo Imperatore faceva morire i nostri colleghi, quando gli
capitavano tra mano.»

«Avete trasgredito una legge della nostra compagnia voi meritate
una pena.»

«Chi ha fatto codeste leggi, messere?»

«La nostra libera volontà.»

«E chi ha fatto il carro lo può disfare. Tutto varia in questo
mondo, riti, lingue, costumi, cielo e terra, e non dovrà mutare un
codice di masnadieri, fatto dopo cena col bicchiere alla mano?»

«Chi è quegli che vuol mutarlo qui?» gridò Ghino con tale
una voce che strinse i cuori dei suoi compagni, girando certi occhi
all'intorno, che fecero abbassare tutti quelli nei quali
s'incontrarono: «chi è che vuol mutarlo qui? La nostra piccola
società procede diversa dalla grande, che comprende la vasta
famiglia degli uomini: qui non sono patti ai quali non siate
intervenuti, non promesse che voi non abbiate fatto, o giurato; non
leggi, se non prima da voi lungamente discusse, e con pienezza di
consenso votate. Voi tutti vi dipartiste dalla gran società,
perchè odiaste, o sivvero offendeste, i suoi statuti; ma
intervenendo in un'altra, gli statuti e le costituzioni non erano
niente meno necessarii: nessuna rettitudine d'ordine senza legge,
nessuna durata di scambievole fratellanza. Le leggi discusse e giurate
non si vogliono toccare così di leggieri, e mai, se fosse
possibile; altramente operando, daremmo trista opinione della umana
sapienza, e della eterna giustizia, accennando, con tanta
mutabilità di provvedimenti, che non si dà bene in questo mondo,
o che è cosa disperata conseguirlo. Stiamo lontani dagli uomini con
tali pensieri, e con tali atti, che un giorno, richiamati tra loro,
non adontiamo di alzare la testa, e dire:--voi foste gli scellerati,
quando perseguitaste la innocenza. Nessuno vive tra noi che nel
secreto del suo cuore non palpiti alle care ricordanze di padre, di
figlio, di parente, di amico; nessuno che non sospiri le case paterne,
e i dolci castelli: forse i nostri occhi non vedranno il giorno del
perdono, ma noi non cessiamo di sospirare quel giorno. Tutto è
legge nel creato, ed ordine stabilito: lo stesso Onnipotente si
sottopose alle leggi, senza le quali nè egli sarebbe, nè noi
saremmo; la bontà, la misericordia, ed altri assai sono i suoi
attributi, nè egli può allontanarsi da questo sentiero, che la
sua sapienza ha stabilito percorrere fin dal principio dei secoli.»

«Non mi parlate di leggi,» urlò schernendo Drengotto
«nessuno può meglio persuadervi, che non sono leggi, quanto
colui che ne ha fatto lo studio. Se la nostra natura le avesse volute,
ce le avrebbe date; e senza scritto tra mezzo saremmo buoni,
compassionevoli, e giusti: ma noi siamo al contrario naturalmente
tristi, ingiusti, e crudeli. Rugge qui dentro il nostro cuore una
rabbia amorosa di noi, la quale ci grida incessantemente--_Primo
mihi:_ la gioia altrui è un attentato alla tua, perchè ti toglie
porzione del retaggio al quale tu aneli: ognuno si fa centro del
creato; il mondo è il suo circolo; gl'interessi di tutti i viventi
formano i raggi che si devono concentrare in lui, e questo è certo:
non parlo arguto io? Occorrono nelle società degli uomini persone
che traggono tutto il vantaggio da tali condizioni, che o non furono
mai convenute, o furono, ma con principii diversi, o pure in un
momento di ebbrezza, come noi abbiamo fatto le nostre: ch'esse si
studino di conservarle, sta bene; ci va del proprio vantaggio, e anche
io farei lo stesso in quel caso. L'uomo, che trova alla sua azione,
resa manifesta, lo intoppo di una forca, non muta sentimento, nasconde
l'azione; e quindi ne nasce quella guerra perpetua di furti,
d'inganni, e di frodi, che non pure non si punisce, ma si loda
dicendo:--_costui provvede accortamente alle cose sue._ Chi più
nemico alla società di un uomo che toglie moglie? e pure il
matrimonio dicesi essere un principio essenziale di questa società:
vedete contradizione! ogni figlio che gli nasce gli dà un motivo di
guerra di più contro i suoi simili; vorrebbe ch'essi soli fossero
felici; lo cerca a prezzo della felicità universale: e poichè
pare che non sia stata concessa somma di bene capace a soddisfare
tutti, od anche volontà da soddisfarsi, per ogni avventuroso devono
vivere cento nel fondo della miseria: quegli ori, quei vasi preziosi,
quei cibi apprestati per pompa, non per bisogno, su la mensa del
ricco, non vi starebbero, se negli infiniti ricoveri del povero fosse
pane da sfamarsi, mezzina da bere, letto da riposare. Io per me
vorrei, che allorquando celebrano un matrimonio, la chiesa fosse
parata a lutto, e le campane suonassero a morto, come si usa nelle
pubbliche calamità:--un matrimonio nuoce agli uomini più di due
delitti....»

«Distruggi dunque, scellerato, distruggi; cotesta facultà
appartiene al demonio: nella sua eternità di dolore egli ama le
rovine, e i mucchi di cadaveri; essi sono il suo trono, dove regna
tormentando, e schernendo le anime che si sono affidate a lui; ma egli
è immortale, e vive per propria entità: tu, atomo, miscuglio
d'imbecillità e di creta, più fragile in mano dell'Eterno, che
paglia sotto il piede dell'elefante, come giungerai a questa potenza
di male? Come schiverai la guerra di tutti contro di te? Ti sarà
data la caccia come alla fiera del bosco, e tu morrai coll'angoscia di
essere una memoria di esecrazione e di stoltezza per quelli che
verranno. Ma poniamo che tu vi giunga: che cosa avrai fatto, quando
avrai distrutto? come sopporterai la tua esistenza? come l'aspide del
rimorso che ti roderà le viscere? Non udrai più voce nel mondo:
ma come sfuggirai quelle della tua coscienza? Sarai come l'uracano nel
deserto; vivrai solo, morirai solo.--Oh stolto! tu non conosci tutte
le amarezze della solitudine, e possa Dio non fartele conoscere
mai!»

«E v'è un proverbio, messere, che dice: meglio soli che male
accompagnati; ed i proverbii sono cose da tenersi in conto, perchè,
siccome ho udito nello Studio a Bologna, significano _probatum
verbum,_ parola approvata dalla esperienza dei secoli e dal consenso
degli uomini: ma, e poi, quello che avete detto riguarda il
séguito; allora provvederemo ai casi nostri; intanto ci giova
vivere come viviamo.»

«Ahi scellerato! E come puoi giovarti del sangue del fiacco che
piange? qual diletto o quale utile puoi ritrovare a spengere
barbaramente chi ti stringe le ginocchia, e implora la tua
pietà?--Pensa, che un giorno dovrai a tua volta essere giudicato.»

«Che volete? ogni uomo ha le sue opinioni, ed io ho questa. E'
visse un popolo nell'antichità, come mi dicevano i miei maestri,
che faceva morire per compassione i mal fatti di corpo, e si trova chi
lo loda; or come, uccidendo io i male disposti di cuore, che è
molto peggiore cosa, potrebbero biasimarmi? L'antichità si reputa
madre solenne di utili ammaestramenti, messere.»

«E chi sei tu, che pretendi scrutinare i pensieri dell'uomo, e vuoi
assumere la più portentosa qualità del Signore? Se veramente
cotesti sono i tuoi sentimenti, tu meriti, piuttosto che ragioni,
pugnalate. Questo ti basti, che il debole non fu mai trucidato che dal
vile: la storia del lione San Marco, che pochi anni fa salvò a
Fiorenza il bambino Orlanduccio, t'insegni, che il forte è
magnanimo.»¹

  ¹ «Intorno al 1760 fu presentato al Comune di Firenze un bel
    lione, al quale avevano posto nome San Marco, e lo facevano
    guardare in piazza di San Giovanni; uscito per mala guardia di
    gabbia, e vagando per la città, azzannò in Or San Michele un
    fanciullo postumo di un tale ucciso a tradimento: la madre,
    cacciando acutissimi stridi, si prostrò innanzi al lione, che
    severamente guardatala, le restituì il figlio: questi cresciuto
    vendicò l'anima del padre, e fu chiamato Orlanduccio del
    lione.» (Villani, Lib. 6, c. 79.)

«Con questo mi pare che vogliate tacciarmi di _vile_, e voi mi dite
cosa senza significato; io vi dirò _onesto_, e avremo detto una
menzogna od una stoltezza per uno.»

«Drengotto!»

«Eh via! gettiamo questa sopravvesta di virtù che non conviene a
noi altri che facciamo mestiere di rubare le strade: non vedete che
sembriamo il demonio in abito da cappuccino? guardiamoci nella nostra
nudità; ella è schifosa, ma noi abbiamo cuore da sostenerla:
diciamoci apertamente scellerati; che cosa giova celarlo? tanto,
nessuno ci crede. Ecco qui,--sia onore, sia pena, ognuno di noi porta
il segno di Caino sopra la fronte; avrete un bel tirarvi il berretto
su gli occhi; il segno sfonderà il panno e si farà vedere;
ovvero accadrà di voi come di quella donna, che per celarsi lo
sfregio del volto si pose la gonnella in capo e mostrò nudo il di
sotto. Siamo almeno sinceri, poichè col fingere non possiamo
ingannarci; renunziamo all'apparenza d'una virtù, dalla quale non
ricaviamo altro frutto, che lo scherno del diavolo.--L'essere così
pienamente ribaldi senza legge, deve tornare più che farla da
onesti con la legge: nel primo stato sei sempre sicuro, perchè ti
guardi; nel secondo ti affidi, e sei ingannato: ed allora che ti
rimane? il pianto!--il conforto dell'imbecille. Io scommetterei,
messer Ghino, questa mia spada di Damasco, che voi, voi stesso, con
tutta la vostra generosità, se il Papa o Manfredi vi promettesse un
feudo a condizione di tradirci, senza un baleno di esitanza ci
vendereste tutti, come manzi al beccaio, anima e corpo.»

«Drengotto!» gridò Ghino, e la sua mano ricorse al pugnale. Ma
quello sciagurato, seguendo la sua trista loquacità, aggiungeva: «Ma
noi vi guardiamo, perchè non abbiamo in voi migliore opinione di quella
che, se voi siete savio, dovete avere di noi: per ciò ognuno faccia
quello che gli aggrada; stiamo uniti finchè possiamo; quando non
potremo più, o ci lasceremo, o ci distruggeremo, come meglio ci
tornerà. Intanto lasciateci propagginare il nostro pellegrino.
Libertà di azioni! viva la libertà!»

«Libertà di azioni!» gridarono alcuni ferocemente. E si
muovevano per prendere il pellegrino; ma questi avendo veduto i
masnadieri intenti nella contesa, côlto il tempo, curvato la
persona, strisciato cautamente dietro di loro, se l'era data a gambe,
così che adesso poteva avere fatto assai cammino. Rimasti delusi,
volevano sciogliere i cani, frugare la foresta, rinvenirlo ad ogni
costo, e propagginarlo. Ghino, seguitato dalla più parte dei suoi,
cavò la spada, e gridò: «Io lo impedisco.»

«Lasciateci fare, o che vi uccideremo!» urlarono i compagni di
Drengotto.

«Me uccidere? vili ribaldi!» girandosi attorno mirabilmente la
spada esclamò Ghino «alla prova!»

«Alla prova!» e già venivano al sangue. Allora Drengotto si
fece innanzi gridando:

«Pace! pace! Messeri, udite un poco me prima. Ghino, come vedete,
noi abbiamo due diverse opinioni: colle parole non ci possiamo
comporre; che potremmo dire e dire fino al giorno del giudizio, ognuno
persisterebbe nella sua; e posto ancora che uno giungesse a svolgere
l'altro, ciò andrebbe troppo per le lunghe: finiamola dunque col
pugnale, ch'è più breve. Non facciamo come i potenti della
terra, i quali, quando hanno alcuno affare da strigare tra loro,
costringono il gregge degli uomini ad ammazzarsi allegramente a nome
della gloria, senza saperne il perchè; riteniamo anzi questi, che
ci sosterrebbero volenterosi, nè rendiamo vane le speranze del
carnefice, che farebbe gran pianto, se si uccidessero tra loro: tra
noi sorse la rissa, si finisca tra noi; affidiamoci al giudizio di
Dio.»

«E Dio ti ha condannato: la mia spada non ha mai dato colpo in
fallo.»

«Questo so ancora io; nè crediate, messere, ch'io voglia un
duello con voi; altra forza è la vostra, altra arte nelle armi, che
non è la mia: voi avete trattato fino dai primi anni spada e
lancia, io codice e comenti: facciamo in modo che niuno di noi abbia
vantaggio; poniamo in terra i nostri pugnali, allontaniamoci cento
passi, voi da una parte, io da un'altra; dato il segno, ognuno corra a
raccogliere il suo; chi prima giunge, ferisca; che parvene?»

I masnadieri si tacquero. Ghino, riposta la spada, trasse il pugnale,
e mostrandolo luccicante a Drengotto, gli disse: «Lo vuoi? Pensa
che ho raggiunto il capriolo al corso, e Dio mi porrà l'ale ai
piedi, perchè è causa sua.»

«Tanto meglio per voi. Che volete? i nostri compagni aspettavano di
vedere propagginato il pellegrino, egli fuggì per cagion vostra;
una festa bisogna pur farla.»

«Sia fatta la tua volontà, e il tuo sangue ricada su la tua
testa.»

Dopo questo, Ghino si raccolse un momento; poi scuotendo la fronte,
gittò il pugnale con tanta forza, che più di mezzo l'internò
nel terreno; quindi volte le spalle fece sembiante d'incamminarsi al
suo luogo. Drengotto spiava questo momento; si avventa rattissimo, e
già ficca con orribile perfidia il suo pugnale nel fianco di Ghino,
allorquando una lama di spada si vede comparire di dietro ad un
albero, e percuotere con tanta furia il braccio dello assassino, che
la sua mano cade a terra recisa. La mano guizzò saltellando, e
lasciò andare il pugnale; poi si aperse, e si richiuse celermente,
come se tentasse afferrarlo di nuovo, e stette assai tempo innanzi di
quietare quel moto. Il ferito gittò acutissimo strido, rimase un
momento in piedi, finalmente cadde svenuto. Ghino volge la testa;
conosce con un solo sguardo il caso, ed esclama: «Vive un Dio che
punisce il tradimento!»

I masnadieri, maravigliati e atterriti, piegarono la faccia a terra, e
dissero tra i denti quasi per forza: «Vive Dio?»

Come poi Rogiero si fosse rimasto immobile all'avventura del povero
pellegrino, e di così giovevole aiuto sovvenisse il capo dei
masnadieri, non riuscirà difficile a spiegarsi, qualora si voglia
por mente a quello che ammaestra il buon Lavater, su gli effetti delle
fisionomie. Occorrono di que' sembianti, dice egli, che al primo
aspetto diventano il piacere dei tuoi occhi, la gioia del tuo cuore,
nè punto ti persuadi che da te non sieno stati più visti; anzi
ti senti suscitare nell'anima un affetto confuso, che si assomiglia a
qualche lontana memoria di amore, e ti diletti ingannare te stesso, e
credere che sieno gli amici della tua infanzia, i quali, sebbene
scomparsi da anni ed anni, ti lasciarono nondimeno un lungo desiderio
di loro; quindi il moto irresistibile di congiungerti a quelli, e
chiamarli a parte delle tue gioie o dei tuoi affanni, ch'è così
bello sfogare nel cuore di un amico: mentre all'opposto ne occorrono
tali altri il cui aspetto t'inspira un senso di allontanamento, e se i
tuoi occhi s'incontrano con gli occhi loro, tu sei costretto ad
abbassarli; e se la tua bocca vuole indirizzare loro un discorso, le
parole non ti escono intere, ma smozzicate; a stento, per modo che
è un fastidio a sentirsi; per quanto ti studii, non giungerai a
vincere questo naturale sgomento; forse la tua ragione potrà
persuaderti a non odiarli,--ma amore non è passione che possa
comandarsi all'anima nostra. Ed oltre a questa cagione, per sè
stessa potentissima e naturale, ne concorsero alcune altre, alle quali
forse non pensò il medesimo Rogiero, ma che tuttavolta poterono
contribuire al suo atto senza ch'ei vi ponesse mente; e sono, che il
caso del pellegrino si operò a qualche distanza dal luogo ove egli
stava appiattato, e i masnadieri erano tutti concordi a propagginarlo,
per lo che muoversi alla sua difesa era lo stesso che non salvare lui,
e perdere sè stesso: il fatto di Ghino accadeva forse due passi
discosto, e la più parte dei masnadieri risoluti a proteggere il
capo lo affidarono, che il colpo non pure andrebbe impunito, ma anzi
lodato. Comunque ciò fosse, Rogiero considerando adesso la
impossibilità di celarsi, trasse fuori dal nascondiglio, e si
avanzò verso Ghino. Quel, suo comparire improvviso, la ricca
armatura di che egli andava coperto, e il bel sembiante, gli davano
aria di San Giorgio che ha abbattuto il dragone; e per San Giorgio, e
per l'Arcangiolo Michele, lo avrebbero adorato quelle menti
superstiziose dei masnadieri, se Ghino facendoglisi innanzi con lieta
accoglienza, non gli avesse stretta la mano, dicendo: «Io vi devo
la vita, bel Cavaliere.»

Nè aggiunse parola, ma il modo col quale queste poche furono
espresse dimostrò a Rogiero, che aveva trovato uno amico, uno che
avrebbe dato i suoi averi, la sua vita, e il suo onore, per vederlo
felice; gli dimostrò in somma tutti quei sentimenti, che favella al
mondo non si vanta potere proferire, e, quando anco potesse, il cuore
sdegnerebbe adoprare, perchè la profonda passione sta muta, ed un
ringraziamento loquace nella testa di cui lo pronunzia serve a
sdebitarlo della metà dell'obbligo.

Queste vicende accadevano in brevissimi istanti; però Ghino,
salutato Rogiero, si volse subito a Drengotto, ed aiutò i compagni
ad allacciargli alla meglio le arterie tronche, ed impedire la
effusione del sangue, che ormai troppo aveva perduto quell'empio. Lo
tolsero in appresso quattro masnadieri sopra le braccia, e
s'incamminarono soavemente alla capanna; Ghino gli sorreggeva la
testa. Per via il ferito si rinvenne, e alzando gli occhi aggravati
vide il condottiero, al quale con voce mezzo spenta parlò:
«L'uomo curioso che siete voi, messere! Or che credete voi fare con
questa apparente pietà? voi non dovete, nè potete sentirne per
me: non ho io tentato di uccidervi?--e a tradimento, direbbero gli
stolti. Che cosa significa tradimento? voi mi offendeste, io dovea
vendicarmi; apertamente non avrei potuto; e' sarebbe stato aggiungere
il danno all'oltraggio;--lo tentai come meglio poteva; non sono
riuscito;---pazienza! Ell'era una lite tra noi; il caso l'ha decisa
contro di me, nè io me ne affanno più del medico che vede morto
l'ammalato, o del giureconsulto perduta la causa: andate, via, cotesta
vostra compassione m'insulta. A che monta una mano di meno? la natura
ne ha preveduto il caso, perchè, altramente, a qual fine ce ne
avrebbe ella date due? Poichè siamo nati per morire, meglio giova
andarcene a poco a poco, che tutto a un tratto; così ci
avvezziamo:--intanto mi è morta una mano;--poi un piede....
qualcheduno doveva fare le spese della festa; sono toccate a
me:--pazienza! Già le scommesse mi sono state sempre dannose.»

Ghino si apprestava a consolarlo, ma egli era ricaduto in isvenimento.
Giunti alla soglia della capanna, il condottiero, chiamato Beltramo,
gli comandò averne cura, e lo pregò che per suo amore lo
vegliasse; lo avrebbe ricompensato in appresso; intanto se l'ammalato
si aggravava andasse a San Quirico, e dicesse all'Abbate, che messere
Ghino mandava per lui, ch'egli sarebbe certamente venuto; finalmente
rivoltosi alla masnada che lo aveva seguitato, parlò con voce
solenne brevissimo discorso: «Siavi di esempio Drengotto; io
perdono i colpevoli.»

Ciò detto, ricusata ogni altra compagnia, camminò verso la sua
dimora, pregando gentilmente Rogiero a volervi accettare l'ospizio per
quella notte. Rogiero, non che accettare il prego, avrebbe pregato
egli stesso, tanto era il diletto che ricavava dalla presenza di
Ghino, e più il bisogno che sentiva di ristorarsi. Andò pertanto
volenteroso con lui; e si misero dentro a certi intricati viottoli
della foresta, pei quali ogni uomo che non ne fosse stato ben pratico
sarebbesi certamente smarrito. Lasciamoli andare, chè Ghino ne
conosce la via, e menerà diritto il suo compagno allo albergo: noi
andremo a dar fine al _capitolo_ e alla vita di Drengotto.

I masnadieri, licenziati da Ghino, si dispersero, chi qua, chi là,
con diversi sentimenti, ma tutti profondi; nè noi li diremo.

I quattro che sostenevano Drengotto l'adagiarono sul letto; Beltramo
in atto di dispiacenza disse ai compagni: «Avrete voi cuore di
lasciarlo solo?»

«Non ci stai tu?» uno di loro rispose «e che faremmo noi per
tutta la notte?»

«Giocheremo a zara» soggiunse Beltramo.

«Se così è, rimango.»

«Così io,--ed io» risposero gli altri.

Ma Beltramo, che aveva un atomo di umanità più di loro,
osservò che Drengotto era svenuto, alla qual cosa essi risposero
che dormiva; ed allora non che egli fosse internamente persuaso che
Drengotto dormisse, ma facendosi inganno con cotesta affermazione dei
compagni, pose un po' d'accordo tra la sua anima e quello che stava
per fare, e trasse i tre dadi di tasca.

«Manca il vino!»

Uno dei compagni, che aveva infinita impazienza di cominciare il
giuoco, rispose: «Guardate su questa tavola; non vedete come
Drengotto se ne trovi molto ben provveduto? Andando a pigliarlo nelle
nostre capanne, logoreremmo troppo gran tempo: togliamo di questo; se
Drengotto vivrà, glielo pagheremo, o rimetteremo, come voglia; se
morrà, lo avremo bevuto senza pagare l'ostiero; _il che tramuta in
greco¹ anche l'aceto_, come disse il poeta.»

  ¹ Ottimo vino che fa in Italia, e così si chiama perchè nasce
    da magliuoli primieramente venuti di Grecia.

I masnadieri risero al motto, e tolto i fiaschi del vino ed alcune
candele, si disposero in circolo sul pavimento dando principio alla
partita. Avevano fatto da sei giri di giuoco, e bevuto altrettanti
fiaschi di vino, allorchè una voce, che pareva uscisse di sotto
terra, chiamò: «Beltramo!»

«Ti sei svegliato, Drengotto? Sono da te;--dopo questo tiro mi
viene la mano,--getto i dadi, e son da te.»

«Beltramo!»

«Eccomi--son lesto--dammi i dadi--bel tiro! sei e quattro dieci, e
tre tredici:--segna, Cagnazzo--la partita non è ancora perduta.»
Poi levatosi in piedi andò al letto del ferito, il quale gli disse:

«Beltramo, mentre io stava svenuto....»

«Come! non eri addormentato?» esclamò Beltramo facendo le
maraviglie.

«Mentre stava svenuto,» continuò, senza badargli, Drengotto
«sia ch'io facessi alcun moto, sia che la fascia....»

«Tre, tre! sto per uno!» urlò un masnadiero.

«Tocca a te a gittare, Beltramo; stanno per uno.»

«Per uno! E come è andata questa?--Un momento, Drengotto, gitto
i dadi, e torno.»

«La fascia era male messa, e il sangue....»

Beltramo che avea fatto un passo tornò indietro: «il sangue?»
ripetè sbadatamente, e soggiunse: «Cagnazzo, tira per me, che
ora non posso.»

«Il sangue del mio corpo quasi che tutto fuggì dalle vene
lacerate, ed io mi muoio:--vedi!» E si scoperse:--miserabile
spettacolo!--diguazzava dentro un lago di sangue.

«Tredici!--Ho vinto!--abbiamo vinto, Beltramo;--cinque ne
perdono.»

«Segna al muro, a scanso di liti.... O Vergine gloriosa! Perchè
non m'hai chiamato prima, Drengotto?» disse Beltramo, e si
affaccendò a rifasciargli la ferita.

«Sta bene!» rispose Drengotto sorridendo «ma fermati, che
oggimai tu faresti opera vana.--Io ti ho chiamato per rogare il mio
testamento _nuncupativo_; e voi pure, compagni, accostatevi ed
ascoltate le mie ultime disposizioni.»

I masnadieri, che avevano finito il giuoco, e senza il quarto andavano
malamente innanzi, sorsero, e ognuno col bicchiere alla mano
s'incamminò verso il letto del ferito. Questi, vedutili pronti ad
ascoltarlo, incominciò:

«Invocato, etc. etc. Considerando essermi vicina la morte, che
forma la conclusione della vita, di mente sanissimo, cioè, come
sono stato sempre, lascio da prima l'anima a cui di ragione, e il
corpo, poichè non ha pelle che possa giovarvi, tutto intero alla
pianura. _Item_ lascio le mie armi e le mie vesti a cui primo le
piglierà.--_Item_ il mio danaro a voi altri quattro, onde facciate
dirne, o ne diciate voi stessi.... tante partite a zara.--_Item_ a
voi, il vino che tengo in serbo nella capanna, perchè possiate
passare allegramente questa notte, e la seguente se ve ne
avanza....»

«Oh! l'abbiamo già preso» esclamarono tutti.

«Dunque cassi il notaro questo legato,» disse il moribondo
ridendo. «Quindi instituisco erede nella università dei miei
debiti Beltramo di Tafo, che mi ha fatto tanto amorosa guardia in
questa ultima malattia.»

«Oh! niente, niente, Drengotto; tu in questo caso avresti fatto lo
stesso.»

«Credo che sì, Beltramo; solo ti prego di una grazia, e ti
scongiuro a non rifiutarla alla nostra antica amicizia:--quando
porteranno a seppellire il mio cadavere, cercherai la mia mano che
deve essere rimasta là in mezzo al bosco, e ti adoprerai di pormela
accanto, in modo, che súbito la possa trovare; però che quando
l'Arcangelo ci chiamerà a quel giudizio--ch'io non ho mai
avuto--possa presentarmi dei primi, e sapere súbito il mio bene o
il mio male; altramente, come vedi, chi sa ove diavolo me la
caccerebbero, e quanto tempo dovrei frugare per rinvenirla!» E qui
rise, ma quel suo riso fu l'ultimo, chè l'agonia lo sorprese. Le
sue labbra tremolavano increspate, i suoi denti battevano
fragorosi,--ell'era una espressione infernale: le palpebre parimente
si aprivano e si richiudevano con quella velocità, con cui vediamo
scuotere l'ale alla farfalla nuovamente presa: il periodo della
convulsione fu di pochissima durata, a mano a mano divenne più
debole, cessò,--e della creatura rimase la creta.

I masnadieri che circondavano il letto col bicchiere alla mano,
vedutolo spirare, se lo accostarono alla bocca dicendo: «Anche
questa è finita,--alla salute dell'anima sua!» e lo vuotarono:
poi coperto il cadavere, tornarono a giocarsi a zara i danari del
morto.




CAPITOLO DECIMOPRIMO.

IL PELLEGRINO.

                 .... la luce di Romeo, di cui
                  Fu l'opra grande e bella mal gradita.
                Ma i Provenzali, che fer contra lui,
                  Non hanno riso: e però mal cammina
                  Qual si fa danno del ben fare altrui.
                Quattro figlie ebbe, e ciascuna reina,
                  Ramondo Berlinghieri, e ciò gli fece
                  Romeo, persona umile e peregrina;
                E poi il mosser le parole biece
                  A dimandar ragione a questo giusto,
                  Che gli assegnò sette e cinque per diece.
                Indi partissi povero e vetusto;
                  E se 'l mondo sapesse il cuor ch'egli ebbe
                  Mendicando sua vita a frusto a frusto,
                Assai lo loda e più lo loderebbe.
                                        PARADISO, _canto_ 6.


Tornato da Santo Jacopo di Galizia, un buon romeo¹ traeva verso
sera l'infermo fianco per le vie di Marsiglia, come colui che sembrava
attenuato dagli anni e dal lungo cammino, in cerca di un
_Senodochio_,² dove potere riposare per quella notte le membra.
Poichè ebbe percorso molte contrade della città, si fermò
innanzi uno splendido palazzo, dal quale partiva una gran luce, ed un
armonioso concerto di suoni e di canti: vedeva entrare ed uscire dame
e cavalieri, doviziosamente abbigliati; vedeva scudieri affaccendarsi,
maggiordomi scorrere qua e là con le mazze di argento perchè
tutto procedesse in buon ordine, e siniscalchi, e fanti, di su, di
giù, per le scale, portare in preziosissimi vasi squisiti
rinfreschi: tutto in somma accennava, che una gran festa si faceva
là dentro. Il romeo si accostò ad un uomo del popolo, ragunato
avanti la porta, e mossagli graziosa dimanda, seppe come il palazzo
appartenesse a Monsignore Raimondo Berlinghiero Conte di Provenza.
Correva in quel tempo altissima rinomanza per tutta Cristianità di
questo Conte Raimondo, sì perchè egli era nato di gentile
lignaggio, avendo comune l'origine con la Casa di Arragona e con
quella del Conte di Tolosa, sì perchè fu signore discreto molto,
valoroso, cortese, grande operatore di cose onorate. Si riparavano
alla sua corte tutti i prodi cavalieri di Provenza, di Francia, e di
Catalogna, non meno che i più valenti Trovatori che avessero fama a
quei tempi; ed egli stesso assai dilettavasi di correre lancia nel
torneo, e cantare la canzone di amore in mezzo ad un bel cerchio di
giovani dame.

  ¹ Romei erano propriamente i pellegrini che andavano a Roma.

  ² Senodochj (quando ve n'erano) erano luoghi particolarmente
    destinati ad albergare i pellegrini.

Il romeo disegnò di far prova della cortesia del Conte: e senza
altro pensare si cacciò arditamente nella corte. Maravigliaronsi i
cavalieri, che un mendico avesse tanto di audacia da penetrare in
mezzo a loro; ed ognuno di essi schifavalo, e sì come pauroso che
le sue vesti di seta non s'imbrattassero toccando quelle del povero
pellegrino, da parte si ritraeva: ne seguì quindi, che, invece di
farlo obbrobrioso, come era il pensiero, lo esaltassero,
imperciocchè egli camminava tutto solo in mezzo a due ale di dame e
cavalieri, i quali, quantunque si fossero così disposti per
disprezzo, pure il concetto mal talento non manifestavano al di fuori,
e quella posizione era rispettosa.

Il Conte Raimondo, che, per godere di un solo sguardo la festa, s'era
messo a sedere sopra un luogo elevato a guisa di trono apprestatogli
nella parte principale della sala, appena vide il romeo che si
avanzava, scese, e andatogli incontro gli fece grata accoglienza,
dicendo: «Bel pellegrino, voi siete il molto ben venuto in nostra
corte; disponete a modo vostro di tutto quello che vi aggrada,
perchè intendiamo che ne siate come signore, e padrone.»

«Monsignor Conte, ora vedo che la fama, per quanto dica della
vostra alta cortesia, non può tanto dire, che le voci al paragone
non vengano meno. Io m'era qui recato per farne esperimento, e vedere
se nell'ora della pompa avreste sdegnato volgere il guardo al servo di
Dio, stanco dagli anni, e travagliato dal cammino: ma voi, Conte,
avete lasciato l'orgoglio ai cuori codardi, che se lo hanno tolto
signore; i quali, per quanto sieno circondati di ossa e di carne, nol
potranno mai celare all'occhio dell'Eterno.» E qui girò
severamente la faccia ai circostanti cavalieri, che troppo erano
cortigiani per abbassare la loro, e che gliela mostrarono da un punto
all'altro tutta ridente. Il buon romeo, disdegnando le lusinghe, sì
come innanzi il disprezzo, continuò favellando al Conte Raimondo:
«Voi non vergognaste adempire le speranze del povero, che aveva
posto in voi fede; voi gli profferiste quello di che abbisognava,
senza ch'ei ve lo chiedesse, però che colui, che vede il bisogno, e
aspetta la richiesta, quasi si apparecchia a negare; e voi sarete
rimunerato in questa vita, e in quell'altra; con voi saranno le
benedizioni del Signore; ei vi magnificherà su i vostri emuli, vi
glorificherà sopra i vostri nemici, e il vostro nome si
conserverò nei nepoti, come l'odore della mirra si conserva, dopo
che il fuoco ne ha consumato il granello.»

Stupirono i cavalieri e le dame a sentire il pellegrino favellare
tanto discretamente, e lo tennero per uomo valoroso. Il Conte
Raimondo, tutto lieto, con benigne parole gli rispondeva: «Noi vi
abbiamo obbligo infinito, bel pellegrino, per la fede che avete posta
nella nostra cortesia, sebbene per cosa che non valga rammentare:
chè troppo gran torto noi faremmo, non diciamo ai nostri fratelli
di cavalleria, ma ai nostri meno agiati vassalli, sospettando che
avrebbero chiuse le porte al buon romeo.»

«Non l'atto, ma il modo, Monsignor Conte, guadagna lo spirito; e
v'è tale che nega in sì benigna maniera, che tu l'ami più di
tale altro che villanamente ti dona.»

Allora il Conte Raimondo, tolto per mano il pellegrino, lo condusse
nei più riposti appartamenti; e fattolo ristorare di cibo e di
bevanda, vedendolo stanco, non volle per quella sera trattenerlo in
più lunghi discorsi, ma comandato che gli si preparasse una fresca
cameretta, quivi lo lasciò a riposare, e ritornò alla festa.

Alla mattina sorgendo il Conte per tempissimo si recò in un suo
giardino non solo per meditare a mente quieta sugli affari della
signoria in quel tempo minacciata di guerra dal Conte di Tolosa,
quanto per raccogliere alcune immagini su l'aurora, onde abbellire
certa _cobola_¹ che disegnava mandare alla dama dei suoi pensieri.
Vagando così tutto internato nelle sue idee, occorse nel
pellegrino, il quale, levatosi anch'egli di buon'ora, s'era portato
colà per salutare il Signore col primo raggio del sole nascente:
questi dopo i debiti ossequii, domandò al Conte per qual ragione
fosse in vista turbato. Raimondo, sebbene per natura assai
circospetto, pure fu tanta la fiducia che su quel súbito ripose nel
pellegrino, che punto non dubitò di aprirgli l'animo suo; e il
pellegrino lo sovvenne di tali savi consigli, che a Raimondo parve
dovere non che non evitare la impresa col Conte di Tolosa,
desiderarla, qualora avesse seco sì accorto e valente consigliere.
Gli disse pertanto, ch'ei non gli avrebbe mai fatto forza di rimanere,
e che anzi era in sua facoltà lo stare e l'andare; ma se nulla
poteva presso di lui il suo prego, ei lo confortava a restare. Se
Raimondo si sentiva innamorato delle virtù del pellegrino, il
pellegrino non lo era meno di quelle di Raimondo; onde in breve si
trovarono d'accordo; nè stette molto che diventò il romeo di
ogni cosa dello stato guidatore e maestro. Egli si mantenne in abito
religioso, e con la sua industria seppe fare in modo che il Conte,
tenendo sempre la medesima corte, accrebbe di più di due terzi il
proprio tesoro; onde quando accadde la guerra col Conte di Tolosa
(ch'era il maggiore principe del mondo, avendo sotto sè quattordici
Conti) a cagione di confini, sì per la cortesia di Raimondo, sì
pel consiglio del romeo, e pel molto tesoro, tanti cavalieri e Baroni
militarono sotto le bandiere di Provenza, che il Conte di Tolosa ebbe
la peggio.

  ¹ _Cobola_ presso i Provenzali era un componimento lirico.

Ora avvenne, che il Conte Raimondo avesse quattro figliuole grandi, da
marito senza più, e, siccome sogliono la più parte dei padri,
desiderasse maritarle a prodi e potenti signori, e farle Regine, e
Imperatrici, se potesse; ma non gli veniva fatto immaginarne la via,
chè il suo tesoro non bastava per dare a tutte la dote da Regina:
il buon romeo lo confortò a non prendersi pensiero di questo;
avrebbe provveduto egli. E prima maritò la maggiore a Luigi IX di
Francia con moltissima dote; per la quale cosa essendo ripreso dal
Conte, rispose: «Lasciatemi fare, Monsignore, ch'essendo maritata
bene la prima con gran costo, mariterete le altre con minore, a
cagione del suo parentado.» E il fatto accadde come egli aveva
preveduto: imperciocchè Eduardo III d'Inghilterra, per essere
cognato del Re di Francia, tolse la seconda con dote minore, ed in
appresso Riccardo di Cornovaglia, suo fratello, eletto Re dei Romani,
la terza. Rimaneva in casa la quarta, ed il romeo disse a Raimondo:
«Questa daremo ad uomo valoroso che vi sia in luogo di figliuolo, e
vi succeda nella signoria:» ed assentendo il Conte, egli la sposava
a Carlo d'Angiò, fratello del Re Luigi di Francia, affermando che
sarebbe divenuto il maggiore e il migliore signore del mondo.

Dopo tanti anni di lealtà e di servitù, la maledetta invidia,
peste del mondo, e delle corti vizio, cominciò a susurrare alle
orecchie di Raimondo, averlo tradito il romeo, e di ogni suo tesoro
spogliato. Non dava egli fede da prima a quelle malignità, ma
ripetutegli oggi, dimani, e sempre, gli venne in pensiero di domandare
conto al romeo di ogni sua operazione: questi, come colui che
stavasene provveduto, mostrò la scrittura, dette ragione di tutto,
e chiese commiato. Il Conte, parendogli avere mal fatto, con umili
scuse si difendeva, e a grande istanza lo pregava a non volerlo
abbandonare ora che tanta parte di vita avevano insieme trascorso; ma
il pellegrino troncò quelle parole, dicendo: «No, Monsignore
Raimondo; dividiamoci adesso che siamo amici; sarà la nostra
separazione pur troppo amara, ma ognuno di noi lascerà all'altro
tal rimembranza, che volentieri si compiacerà richiamare alla
mente: forse aspettando non lo potremmo più. Voi siete vecchio, e
con la vecchiezza vengono le infermità del corpo, ed il sospetto
dello spirito:--forse è questo un vizio degli anni, forse il frutto
della esperienza che ha veduto gli uomini più pronti a ingannare,
che ad essere leali; in ogni modo il sospetto è il compagno della
vecchiezza, e piacesse al cielo che fosse il solo. Questo vostro
improvviso domandarmi ragione del mio operato, quantunque di per voi
stesso avreste potuto considerare che di umile condizione vi ho posto
in grande signoria, mi fa conoscere che la vostra età non va esente
dalla comune diffidenza, o per essersi spontanea suscitata nel vostro
spirito, o per opera altrui. Presentemente, la Dio mercè, ho potuto
chiarirvi di quello che mi avete richiesto; forse in altro tempo nol
potrei, perchè se mancano talora le prove per convincere il
delitto, possono anche mancare per dimostrare la innocenza; ed allora
mi punireste, e fareste mal'opera, e tale che il vostro onore fino
adesso purissimo ne sentirebbe irrimediabile danno: provvediamo dunque
fin che vi è tempo alla mia sicurezza, e alla fama vostra; tanto,
la morte verrebbe a separarci per forza; facciamolo volontariamente.
Ell'è parola di dolore, ma pur bisogna proferirla,--l'addio!
Possano essere i vostri rimanenti giorni tranquilli e gloriosi;
possano coloro che mi hanno allontanato da voi servirvi con quella
lealtà con la quale v'ho servito io. Povero venni in questa corte,
povero voglio partirmi; la tasca e il bordone, ch'io ho conservato
come dono prezioso della miseria, pel quale io mi credo esser ricco, e
sopra le ricchezze, saranno la mia veste; le mie gambe, come che
inferme, il palafreno:--addio. Quello che mi sarei meritato in
guiderdone dei miei ufficii, o ritenete, o donate ai poverelli di
Cristo. Addio, mio bel signore,--addio!--ci rivedremo nel
Paradiso.»

Nè per quanto il Conte con preghiere e lacrime s'ingegnasse
ritenerlo, potè pervenire a farlo restare. Partiva il pellegrino in
abito dimesso, portando seco l'amore e il desiderio di tutti; Raimondo
co' suoi vassalli lo seguitava traendo dolorosi guai: giunto alla
porta della città, il pellegrino abbracciò il Conte, lo baciò
in bocca, tolse nuovamente commiato, e lo raccomandò a Dio; con
tutti i rimanenti quelle dipartenze non potè fare; però alzata
la mano li benedisse, ed eglino riceverono quella benedizione
prostrati, gemendo profondamente, piangendo, e singhiozzando, come se
ad ognuno di loro fosse morto il padre o la madre. Così, come era
venuto, il pellegrino se ne partì, nè mai si seppe chi fosse, o
dove andasse, se non che per la più parte di quelli che il videro,
e gli parlarono, fu creduto che fosse un Santo.

Non sopravvisse molto il Conte Raimondo alla partenza del pellegrino,
e per la morte di lui la Provenza venne sotto il potere del suo genero
Carlo.

Nacque quest'uomo nel 1220 da Luigi VIII, e da Bianca di Castiglia;
come figlio di Francia ebbe in sorte la Contea d'Angiò, e la
signoria di Folcacchieri; come sposo di Beatrice, la Provenza, la
Linguadoca, e parte del Piemonte. Quale fosse di persona e di costume
troviamo con molto bel garbo narrato da uno Storico del medesimo
secolo,¹ che abbiamo preso per guida di questo Capitolo: savio,
magnanimo, di alti intendimenti, e severo, sicuro nelle avversità,
veritiero in ogni promessa, poco parlante, molto operante, non ridea
che leggermente, e di rado; largo del suo, cupido dell'altrui;
Trovatori, Giullari, Menestrelli, ed altra gente sollazzevole, non
tenne in pregio, anzi sprezzò; molto vegliava, e soleva dire che
quanto meno si dormiva, meno si moriva: lo sguardo ebbe feroce; grande
di persona, nerboruto, e di colore ulivigno; del rimanente, religioso,
e, per quanto può essere soldato, dabbene.

  ¹ Giovanni Villani. L. 6, e. 91.

Condotto nel 1250 da San Luigi al conquisto di Gerusalemme, cadde,
insieme con il fratello e la principale Baronia di Francia, in potere
degl'Infedeli presso Damiata. Uscito dalla prigionia, se ne andò in
Provenza, dove ebbe a sostenere molte contese co' suoi vassalli, i
diritti dei quali voleva annullare, e farsi senza restrizione nessuna
assoluto signore.

Qui fu che gli giunse la elezione di Urbano, portatagli dal Cardinale
Simone di Tours; e dopo averne tenuto proposito col Re di Francia, col
Conte di Artois, e con quello di Alansone, suoi fratelli, i quali per
levarsi d'attorno quell'uomo ambizioso lo animarono all'impresa, e gli
proffersero sussidio d'arme e di danaro, rispose essere apparecchiato
di mettersi alla ventura in onore di Dio e della Santa Chiesa romana.

Se molto la naturale cupidigia lo stimolava a quell'acquisto, non meno
ve lo stimolarono le vivissime istanze della moglie Beatrice, la quale
per far tesoro impegnò tutti i suoi gioielli; il che forma il
più grande sagrifizio, che donna al mondo possa mai fare. Per
quello che narrano le cronache del tempo, la cagione di questa
caldezza di Beatrice fu che poco innanzi, essendo convenuta a Parigi
insieme con le altre sorelle a celebrare nella corte del suo cognato
la Pasqua di Natale, assistendo con esse loro il dì della Epifania
alla festa dei Re, che i Monarchi di Francia usavano solennizzare
nella Chiesa di San Dionigi, l'avevano fatta sedere un grado più
basso, imperciocchè ella non portasse corona reale. Infinite, e
forse non tutte da narrarsi, furono le arti adoperate da questa donna
ambiziosa per chiamare alla sua fazione il fiore della Cavalleria
francese. Erano in quei giorni due potentissimi eccitamenti a
imprendere la guerra, la cortesia degli uomini d'arme, per la quale
stimavano che richiesti di fare alcuna impresa per amore di dama non
potessero senza biasimo ricusare, e lo spirito di religione. Ambedue
questi vennero messi in opera, il primo da Beatrice, il secondo dai
Legati del Papa, che andavano predicando per Francia la Crociata
contro Manfredi, e promettevano la remissione dei peccati, e le stesse
indulgenze che se fossero andati a combattere in Palestina. Per quelli
poi che poco tenevano in conto le lusinghe della femmina, e le
indulgenze della Chiesa (e questi narra le cronaca che fossero i
più), l'avidità di grossi stipendii fu valevole a riunirli sotto
lo stendardo di Carlo. Alle quali cose tutte se voglia unirsi la
naturale vaghezza delle menti francesi di vedere nuovità, non si
maraviglieranno i lettori se il suo esercito ascendesse a sessantamila
uomini tra cavalieri, balestrieri, e fanti di ogni maniera.

La morte avvenuta di Urbano IV, e la sostituzione al Pontificato di
Clemente IV non pure non interruppe la pratica, ma l'affrettò;
chè questi era vassallo di Carlo, e zelantissimo sostenitore delle
parti di lui. Costui ebbe da prima moglie e figliuoli, e fu tenuto in
pregio di valoroso giureconsulto: mortagli la moglie, si rendè
cherico, e diventò successivamente Vescovo di Pois, Cardinale di
Narbona, Legato in Inghilterra, e finalmente Pontefice. Bartolommeo
Pignattello, Arcivescovo di Cosenza, vassallo e nemico di Manfredi,
spedito a gran fretta in Provenza, unitosi a Simone Cardinale di Santa
Cecilia, andava eccitando Carlo a calare in Italia.

Manfredi alla novella di tanti armamenti non si smarrì, ma come
uomo di gran cuore e magnanimo si apparecchiò a ben ricevere il
nemico. Grandissima fu la cura che pose da lato di terra a custodire i
passi, afforzando Cepperano, San Germano, e mettendo scelto presidio
in Benevento: per mare, le sue galere unite a quelle dei Pisani e dei
Genovesi, che sommavano in tutte a meglio di ottanta, lo tenevano
sicuro. Le forze del Re di tutta Francia, non che quelle di un Conte,
parevano insufficienti a potergli far danno; pure tanto sono fallaci
gli umani disegni, che, e per mare e per terra, fu con mirabile
agevolezza abbattuto, siccome andremo narrando nel processo di questa
storia.

Ora Carlo considerando di quanto grande momento sarebbe stata la sua
presenza in Italia, e la ventura non presentare più di una volta la
occasione, a malgrado di molti che lo sconsigliavano, si dispose di
montare sopra le galere e andare quanto più presto potesse a Roma:
sapeva ben egli che Manfredi faceva guardare tutta la spiaggia romana,
nè ignorava essere le sue galere appena un quarto di quelle del suo
nemico; nondimeno creato Luogotenente per lo esercito di terra Guido
da Monforte, ed a lui raccomandata la Contessa Beatrice, affidato in
quel suo detto, che spessissimo soleva proferire,--_buono studio vince
rea fortuna_,--salito in nave, comandò volgessero le prue verso la
desiderata Italia.




CAPITOLO DECIMOSECONDO.

MESSINELLA.

                Egli ha pallido il volto, e gli occhi fieri;
                E in tutti gli atti, e movimenti suoi,
                Del terribil vieppiù che dell'umano.
                         MARIANNA, _tragedia antica_.


Venite, ed ammiriamo le glorie della creazione su le ultime sponde
dell'oceano. Ecco, egli riposa della quiete del lione; nessun vento
osa turbare la sua azzurra superficie, nessuna onda gemere tra gli
scogli:--sembra uno specchio, nel quale il firmamento goda riflettere
i suoi tesori. L'occhio dell'uomo si sprofonda lontano lontano in
cerca di un confine che la debolezza della sua conformazione ha
impresso nella sua vista, ma che l'oceano non ha conosciuto
giammai:--lo sguardo si perde sopra la moltitudine delle acque, e
finalmente è costretto di abbassarsi alla terra, mentre lo spirito
freme alla idea che la creta non sia capace di sostenere la
contemplazione degli elementi;--siccome appunto l'anima temeraria che
ardisce di volere penetrare dentro la nuvola che circonda il soglio
dell'Onnipotente, dopo un lungo travagliarsi di abisso in abisso nel
mondo intellettuale, sviene soverchiata dalla grandezza della
immagine, logora dalla meditazione, vinta dalla certezza che l'Eterno
non può esser compreso dalla forma destinata a morire. Questo è
il riposo dell'oceano: e pure il pianeta della vita e della luce pare
che gli si accosti tremando, come il supplichevole al trono del
Signore,--le più volte pallido e senza raggio: ed egli lo assorbe
nello sterminato suo seno, non altramente che la terra riceve la
creatura divenuta cadavere.

Ma quando il cumulo delle acque, furiando imperversato, quasi che
fosse ansioso di ricuperare l'antico dominio (però che la terra
emerse dal profondo del mare al comando di Dio),¹ si precipita a
flagellare i confini del mondo, dove trova l'insuperabile argine, e il
solo degno di sommettere la sua spaventosa potenza,--la parola del
Creatore, che lo respinge indietro: ma quando rotolandosi per
l'ampiezza del suo spazio travolge il naviglio che incontra nel corso
fatale, onde il nocchiero disperato di ogni umano soccorso guarda il
cielo, ed il cielo gli si mostra minaccioso,--questi non ha più
scampo, il flutto che vede agglomerarsi da lungi deve eseguire la
sentenza di morte che la natura ha pronunziato contro di lui; allora
tra i pensieri della vita futura s'insinua tristamente la rimembranza
della sua famigliuola che gli strazia le viscere:--e i figli?--e la
moglie?--dorme ella?--su lo stridore dei venti, tra il muggito del
mare parle sentire il suo nome sospirato nel delirio di una orribile
agonia, balza atterrita, corre al lido, e non iscorge che flutti
sommossi e cielo ottenebrato:--che Dio faccia pace all'anima del
naufrago; ma doveva sfidare il terribile elemento col peso dei
figliuoli sul cuore?--Quando tutto è sconvolto, quando tutto è
paura, e terrore,--felice quel sicuro che gode spaziare su l'ultimo
lido della terra, e sorridere di quel sorriso col quale si accolgono i
più cari amici, all'onda che dopo avere sommerso mille navigli
viene a spezzarsi tra le scogliere della spiaggia!--Felice chi nel
fragore del tuono, e nell'urlo salvatico dei mostri marini può
sentire una dolce armonia, una voce di amore, simile a quella che
acquietò i dolori della sua fanciullezza!--Ma più avventuroso
colui, che nell'ora della procella commise il suo corpo ai flutti
agitati! Lo pregavano gli spettatori, pei Santi e per la Vergine, a
non osarlo; ma egli, sprezzando i consigli della paura, si compiacque
vedersi sospeso su gli abissi, la descrizione dei quali fa abbrividire
migliaia di gente: certo egli sembrava un atomo vagante per la luce;
conobbe il pericolo d'essere ad ogni momento disfatto, mirò la
faccia della morte, nè impallidì; e in ricompensa fu la sua
anima purificata di ben molte passioni del fango, di ben molte umane
imbecillità; apprese--potere dirsi felice colui che non teme la
estinzione della vita;--e re del dolore, scoperse cose, che nè egli
sa dire, nè altri potrebbe comprendere, ma di cui la rimembranza
gli rimase nella mente come pegno di futura grandezza:--ora
quell'ardito sollevato su la sommità d'una ondata si scorgeva
più alto della terra, scoprendo il lido lontano, e i compagni; ora,
precipitato giù nel profondo, ammirava le acque soverchianti
circondarlo a modo di muraglia, e le cime loro ripiegarsi spumanti,
sibilando come serpenti sul capo di una furia;--ma egli pure vinse, e
quando gli fu a grado tornò salvo alla riva.--A questo solo sia
concesso narrare dell'oceano; stenda la sua mano sul mare come su
l'altare del Signore, e dica: _io sono degno di te_.--Venite, e
adoriamo le glorie della creazione sopra le sponde dell'oceano.

  ¹ Congregentur aquaæ, quæ sub coelo sunt, in locum unum, et
    appareat ARIDA. (_Gen._, c. 1.)

Io ti amo di quell'affetto col quale i miei fratelli di stoltezza
vagheggiano il sembiante della femmina; io godo al suono dei tuoi
flutti, al tuo riposo, e alla tua tempesta: libero fino dal principio
della creazione, nessun potente ti ha potuto dare legge, nessuno
ambizioso nè per lusinga nè per forza sottometterti;--la vicenda
degli anni e delle stagioni è nulla per te: quel barbaro
sovrano¹ che volle importi catene, sta monumento di scherno nella
storia;--le catene sono fatte per gli uomini.

  ¹ Serse.

Tu immenso, tu forte, perchè il caos era acqua, ed acqua
ritornerà. In quel punto la luce riverrà a spegnersi nella sua
antica dimora;--il fuoco tuo nemico sarà superato, e la vittoria
annunziata al mondo con la sua rovina: non più stelle, nè luna,
nè cielo, nè terra;--esulterai nel trionfo della distruzione,
nella solitudine della tua immensità: però, mentre dura in me
spirito di vita, mi dilungo su l'estreme tue sponde, e adoro le glorie
della creazione nella potenza dell'oceano.--

Coll'affanno del cuore, che agogna una corona, Carlo da tre giorni
percorre l'oceano. Spesso sedendo a mensa, o giocando a scacchi,
quando meno se l'aspettano i compagni si alza da tavola, ascende sopra
la coperta; aguzza gli occhi da settentrione, ed esclama con voce tra
spaventata e gioiosa: «È Italia quella?»

«No, Monsignore; ell'è una nuvola,» qualcheduno gli risponde;
e Carlo torna a desiderare, e cupo nel sembiante incamminasi là
d'onde si era partito.

Oggimai un uomo, per quanto in fondo della ignoranza, agevolmente
comprende--il ladro o non avere sentimento veruno, quando si appresta
a fare suo pro della roba altrui, o, se pur l'ha, essere in tutto
simile a quello del conquistatore. Vero è bene, che questo
s'ingegna di ornare il suo fatto co' luminosi fantasmi della gloria;
ma il belletto trovato dagli accorti per magnificare il delitto del
forte, che hanno punito nel debole,--il nome diverso, chiamando nei
molti gesto, impresa, conquista, quello che nei pochi hanno appellato
furto, non acquieta la coscienza, e ciò che togli altrui, sia poco,
sia molto, sia con migliaia di armati, o con una sola mano, o vuolsi
reputare male per tutti, o per veruno. La pena si assomiglia a una
insegna, che tanto più si dipinge di rosso quanto meno lo albergo
è agiato, e il vino buono: la si ritenga risolutamente marca che da
secoli e secoli inganna, e continuerà ad ingannare la gente; per la
quale si toglie per buona una merce, che non è tale. Considera il
mondo, e troverai l'origine delle pene nella prepotenza più tosto
che nella ragione. Ho scritto questi pensieri non già perchè
Carlo avesse il più leggiero rimorso a cagione del gran furto che
stava per commettere, ma perchè qui mi si sono affacciati alla
mente. Quello che adesso agitava l'anima del Conte era la idea del
molto pericolo, unito ad un senso magnanimo, che lo rendeva cupido
d'imprese pericolose. Sì fatto miscuglio di vecchie abitudini e di
nuove sensazioni non può agevolmente descriversi: egli non era un
desiderio di fuga, e pure un principio di paura, che gli abbrividiva
le carni; non un desiderio di precipitare la contesa, e nondimeno
Carlo, ogniqualvolta sentiva dirsi come fosse una nuvola l'oggetto che
supponeva Italia, sospirava d'affanno:--era la trepida esitanza di
un'anima grande tra il tempo del disegno, e quello della
esecuzione;--esitanza, che nè io, nè i miei lettori, abbiamo
provato giammai, imperciocchè le anime nostre vennero al mondo
piegate in _sessantaquattresimo_.¹

  ¹ Questo è il più piccolo _formato_ che abbia fin qui
    ricevuto un libro: almeno così mi ha detto il libraio.

Carlo agitavasi inquieto, nè i Baroni che aveva prescelto a
compagni valevano molto ad acquietarlo. Essi avevano combattuto al suo
fianco in Palestina ed in Provenza; andavano famosi per mille prove,
ma rigidi come il ferro che li vestiva;--faccie ignote al sorriso,
nessun'altra cosa fuorchè la spada e la mazza di arme conoscevano,
e nella spada consisteva a quei tempi la educazione del nobile: forse
avrebbero potuto narrare le imprese trascorse, e col racconto dei
superati pericoli inanimirsi a ben sostenere il sovrastante; ma quando
l'anima anela su l'elsa della spada, di rado si trova chi narri, e
più di rado chi ascolti storie del vecchio tempo. I nostri Baroni
al più leggiero scompiglio balzavano coll'arme alla mano, stimando
essere assaliti; nè per quanto si fossero trovati delusi
rimettevano in nulla del loro sospetto.

Il Maestro della nave, Provenzale dal viso rubicondo e dai capelli
ricciuti, era un piacevolone, finissimo intendente del vino, gran
partigiano di quello di Sciampagna; del rimanente istruito a cantare
sul liuto otto o dieci canzoni da taverna, e pratico di quanti
giuramenti correvano in quei tempi per le bocche dei Fedeli: ma
poichè laddove compariva quel viso severo di Carlo la _gaia
canzone_ cadeva in isvenimento, e la bestemmia peggio che mai, essendo
il Conte religioso, o simulando esserlo, tutta la scienza del Maestro
si riduceva a niente, ed egli stava colà come uomo morto:
rimanevagli il favellare sul vino, ma come avere il coraggio di
tenerne discorso con un Principe che beveva acqua? Il Maestro era
affatto disperato.

Così un profondo silenzio, solo interrotto dal rumore dei remi, o
del vento fremente per entro le vele, regnava su la galera. Il quarto
giorno di navigazione su l'ora di nona Carlo sentendosi trasportato
con molto maggiore velocità che nei tre precedenti, se ne andò a
passeggiare su la coperta. Non vi trovava persona, meno il timoniere,
che colla mano al timone e gli occhi intenti alla bussola (invenzione
che i Francesi contendono al nostro Gioia amalfitano,¹ poco tempo
innanzi quell'epoca adoperata nei viaggi di mare), pareva non badargli
poco nè punto. Carlo con le braccia sotto le ascelle si mise a
percorrere da poppa a prua; nè, per quanto i suoi passi fossero
fragorosi, che per antica usanza soleva sempre portare l'arme, nè
per fermarsi all'improvviso dinanzi al timoniere, nè per battere
con impazienza del piede sopra lo intavolato, pervenne mai a fargli
alzare la testa. Questa osservazione, più e più volte ripetuta,
lo rendeva curioso di sapere chi fosse: tornato indietro, s'incontra
nel Maestro che canterellando sotto voce si dirigeva appunto alla
volta del timoniere: onde subitamente chiamò: «Vassallo!» e
proseguiva il cammino.

  ¹ Vedi Tiraboschi ec. ec.

Il Maestro, cavato il berretto, curvata la persona in atto ossequioso,
gli tenne dietro alla distanza di due o tre passi, dicendo:
«Monsignore.»

Carlo non rispondeva: giunto alla estremità della galera, toltasi
la destra di sotto l'ascella, apri l'indice e il pollice, e
v'inchinò il mento, distratto da nuovo pensiero. Il Maestro si
fermò col corpo curvo, il berretto in mano, senza battere palpebra;
pareva percosso da quella tal malattia che i medici chiamavano
_Catalessi,_ l'effetto della quale consiste nel far restare l'ammalato
nella posizione in che fu sorpreso.

«Vassallo!»

«Monsignore.»

«Sapresti tu darmi contezza chi sia il timoniere?»

«Dirò, Monsignore,» rispose il Maestro, e il cuore gli si
allargava, chè adesso poteva dar la via alle parole da tanto tempo
trattenute e con tanto fastidio; «allorquando corse grido per
Provenza che voi eravate determinato alla impresa di Napoli; e furono
incominciati gli apparecchi, una sera, il 15 ottobre, se mi rammento,
tornandomene a casa, prendendo su per la piazza di Santa Genevieva,
m'imbattei in Messere Guasparrino, gran mercante di panni
_franceschi,_ intrinsecissimo mio, e di più compare, avendogli
tenuto al sacro fonte un suo figliuoletto che adesso potrà avere da
circa due anni; e se a voi accadesse di vederlo, Monsignore, sono
certo che lo terreste pel più bel garzone del mondo....»

«Dunque?» interruppe Carlo.

«Dunque, come io vi diceva, Monsignore, Guasparrino tornava da Pisa
per certe sue bisogne, e vedutomi da lontano mi corse a braccia aperte
incontro, gridando: Oh! oh! compare.--Oh! Guasparrino, siete voi?
risposi io.--Ed egli: Come state?--Ed io: Grazie a Messere Domine Dio,
non mai bene quanto ora; e voi?--Ed egli Eh! così.... ma gli anni
cominciano a diventar troppi, bel compare mio.--Ed io: Che andate voi
pensando agli anni? la morte ci ha da cogliere vivi, compare.--Ed
egli: Io vo' intanto, che abbiate la cortesia di venire meco fino a
casa, dove saggerete un cotal vino di Toscana che un mio amico
mercante di Pisa mi ha ultimamente donato, affermando con giuramento
che era vecchio di cento anni.--Cento anni! Domine, aiutalo!--Vo'
dunque, bel compare, che veniate a farne la prova.--Vengo di certo
io:--e andammo. Quivi si trovò in capo di scala dama Ginevra, che
ci accolse con una leggiadria da fare onore a qualunque grande
imperatrice o Regina; e noi ricambiati in fretta con essa lei alcuni
saluti, ci ponemmo a tavola per fare il saggio del vino. E vi so dire,
Monsignore, ch'egli era del buono, ma del buono da vero: io non saprei
assicurarvi se avesse per l'appuntino cento anni, chè la fede di
battesimo non gli vidi io, ma ottimo era certo; quasi cominciai a
credere dentro me, la causa della Sciampagna perduta: ma la Sciampagna
si manterrà pur sempre Sciampagna!

   _Quand pétille,
    Quand bouillonne.....»_

«Dunque?» guardandolo ferocemente gridò Carlo.

«Dunque.... come io diceva.... questo è quanto, signor mio,»
rispose smarrito il Maestro, quasi che avesse perduto il cammino;
«Monsignor sì.... mi ricordo che andò proprio in questo
modo.... se mi pare un minuto!... Vedete.... cominciammo a venire in
disputa sul vino, e Guasparrino, che n'è troppo bene provveduto, ne
fece portare di molte sorte, e tutte preziose, e cominciammo a fare
brindisi: Evviva San Dionigi! dissi io, e bevvi _Bordò_.--Evviva
Mongioia! rispose Guasparrino, e bevve _Borgogna_:--e poi, viva Santa
Genevieva! e l'Orifiamma! e Luigi _il Santo_! e voi, Monsignore! e per
voi tornammo alla solita disputa, ch'ei voleva ch'io _portassi la
salute_ col vino toscano dei cento anni, ed io colla Sciampagna: alla
fine ci accordammo che ognuno bevesse qual più gli piaceva; e
così fu fatto. Allora come portava il discorso, Guasparrino mi
domandò: È egli ben vero, bel compare, che tra poco il nostro
Signore stia per andare al conquisto di Napoli?--Sì bene.--E voi,
mio bel compare, condurrete la vostra galera alla impresa?--Sì
bene, perchè qual sente amore il Provenzale? _Buona spada, buon
vino, e bella dama._ Se muoio, fatemi dire una messa, Guasparrino, qui
presso al monastero dei _Cordiglieri;_ se vivo, berremo al ritorno del
vino di Sicilia.--Compare, risposemi allora Guasparrino, ponete mente
al mio discorso: voi sapete ch'io sono troppo ricco mercante, e cogli
anni giunto a tale età, che si ama, più tosto che ragunare nuovi
danari a pericolo della vita, godersi tranquillamente i già
radunati; però fino da qualche anno aveva pensiero di smettere
negozio e ritirare il capitale, se non che mi ha sempre trattenuto il
mandare sciopera pel mondo tanta gente che mangia il mio pane, non
meno che alcune faccende che aveva a Pisa e a Firenze; ora poi queste
faccende sono sbrigate, e mi rimane solo da accomodare la gente; noi
potremmo, compare, farci scambievolmente piacere.--Parlate,
Guasparrino.--Io ho una bella galera nuova e _sparvierata_, e questa
intendo donarvi, con che promettiate mantenere la ciurma che mi
piacerà porvi sopra, a quei patti che fino a questo momento ho
mantenuto io.--Gran mercè, Guasparrino; chè la mia, quantunque
ritinta di nuovo, credo sia sorella della barca su la quale il
Patriarca Noè caricò le bestie,--perchè allora non erano
tante in questo mondo.--Ora bene; e intendo inoltre di farvi un bel
dono, pel quale potrete andare francamente dinanzi Monsignor Carlo
nostro padrone, e dirgli: io ho il migliore Maestro pilota, che possa
condurvi a salvamento fino ad Ostia.--Oh! questo è troppo grande
favore, mio gentil Guasparrino; voi mi fate, non dico quanto un amico
possa fare ad amico, ma più che padre possa fare al suo figlio. E
qui mi alzai per abbracciarlo; ma inciampai nella tavola, e caddi, e
la tavola sopra: Guasparrino ridendo a gola spiegata, per modo che
aveva gli occhi lagrimosi, e gli si potevano contare quanti denti
aveva in bocca, si lasciò cadere riverso su la sedia, levando le
gambe, ed egli e la sedia tutto un rifascio per terra; pure, come a
Messer Dio piacque, ebbe salva la memoria, chè altramente il riso
convertivasi in pianto: accorse la moglie e la fantesca col lume; ci
raccolsero e ci menarono a letto, perchè in quella notte io dormii
in casa di Guasparrino, Monsignor mio.»

Ben pel Maestro, che Carlo fin dal principio del suo discorso
osservando un punto oscuro sull'estremo orizzonte, e riputandolo
Italia, distratto da nuovo pensiero non gli porse più orecchio, che
altramente gli avrebbe dato tal ricordo da non dimenticarlo più mai
nei suoi giorni. Ora, ritornato alla prima inchiesta, ripeteva per la
terza volta: «Dunque?»

«Dunque, come io diceva, Monsignore Conte, alla mattina Guasparrino
entrato nella mia camera mi prese per un piede, e mi tirò tanto,
ch'io mi svegliai. Oh! siete voi?--Sono, bel compare; alzatevi,
ch'è _l'alba dei tafani_.¹--Oh! che ora fa egli? risposi
sbadigliando, e stirandomi le braccia.--È passata terza di un buon
pezzo.--Allora mi alzai, salutai la dama, e quando fui per uscire,
Guasparrino mi si fece all'orecchio dicendo: Dimani coll'aiuto di Dio
vi manderò quel tale uomo a casa.--Che uomo a casa?--Quello della
galera.--Ma che avete le traveggole stamane, compar mio?--Come! non vi
rammentate della galera che voglio donarvi, e della promessa....--Ah!
certamente sì; pensava che fosse stato un sogno: dunque dimani lo
aspetto a casa. Ma ditemi, compar mio, saprestemi voi dire che uomo
egli sia?»

  ¹ Proverbio antico che significa mezzogiorno.

«Ed egli?» seguitò Carlo.

«Ed egli mi rispose che non lo sapeva, e che....» Carlo a quel
discorso si stimò burlato, e stretta la destra minacciò di
percuotere sul viso il Maestro, che alzata la persona fuggì per la
scala brontolando: _Tête-bleu, Corbleu_, ma tra i denti, perchè
sapeva Luigi IX di Francia chiamato _il Santo_ avere decretato la pena
del taglio della lingua col ferro rovente per tutti quelli che
profferissero queste parole.

«Oh vedete un po' che umore arabico è quello dei signori! gli ho
detto acconciamente, e con ordine, tutto ciò ch'io ne sapeva, ed in
ricompensa per poco non mi ha pestato la faccia: oh, che ingegno
bizzarro gli è questo Monsignor Carlo!--Alcuno mi dirà ch'egli
ha dei pensieri per la testa;--ma gli ho detto io, ch'entri in questi
ginepraj? ci sta egli per me? se la deve rifare con me?»

E così parlando si era accostato ad un vaso, dal quale mesciuto un
bicchiere di vino, se lo bevve, chiudendo gli occhi, e a piccoli
sorsi: poi, posandolo con rabbia su la tavola, si asciugò col
rovescio della mano le labbra, e con un gemito proruppe:
«Trangugiamo anche questa!»

Ed il Maestro, aggiunge la cronaca, pareva ombratile fuori di misura,
perchè in capo al giorno aveva mestieri di trangugiarne ben molte.

Intanto Carlo, che appena levata la destra si pentì dello atto
villano, si ripose a passeggiare, ingegnandosi con ogni modo a fare
alzar gli occhi al timoniere; ma sempre indarno: allora prende
consiglio di porglisi accanto, e dire in suono che non fosse domanda,
e pure richiedesse l'altrui consentimento: «Bel tempo è
questo!»

E il timoniere con gli occhi intenti alla bussola non risponde parola.
Carlo d'impetuosa indole dotato, come la più parte dei Francesi
appaiono, non si può più contenere, e direttamente richiede:
«Che partene, timoniere, è egli questo un bel tempo?»

«È.»

«E stimi tu che sia per durare?»

«Chi manda la procella? chi il sereno? Può la creatura conoscere
i segreti di lassù?» E alzò il dito.

«Lodato il nome del Signore!» risponde Carlo, facendosi il segno
della croce; «ma credevamo, che senza peccato avresti potuto dirci,
se il tempo sarebbe dimani buono, o cattivo.»

«Oggi è buono, però temete che dimani sia tristo. Tra la
tempesta si leva la speranza del sereno, tra il sereno sorge il timore
della procella. Questo vento che mena felicemente la galera a nona,
può farla naufragare a sera.»

«Nol permettano i Santi del Paradiso! ma le tue parole suonano
amare.»

«Devono, o possono uscirne diverse dalla bocca dell'uomo?»

«Tu sei dunque infelice?»

«E che! non lo sareste voi forse?»

«Lo speriamo. Quando il Santo Padre ci avrà posto sul capo la
corona di Sicilia, e l'avrà conquistata la nostra spada, noi
crediamo che saremo felici.»

«La speranza! Ella è una compagna ingannatrice, che ci spinge su
pel dirupo della vita, quando il corpo si sente stanco, e i piedi
sanguinano per l'aspro cammino. Voi siete nell'agonia dell'anima che
anela per la cosa bramata; e questo stato ci turba tormentoso, e pure
è il solo meno amaro per noi. Ma quando, pervenuto al sommo,
getterete lo sguardo nel profondo senza fine, e la vertigine della
fortuna farà mancarvi il piede, e vi precipiterà nello abisso,
dove non troverete voce che vi consoli, non occhio che vi pianga, non
eco che vi risponda, non speranza....»

«E tu hai provato questo?»

«Là,» dice il timoniere accennando la parte d'Italia
«là, in quella terra giace sepolta con un cadavere ogni mia
contentezza:'cominciò la mia giornata coll'alba della gioia,
presiedè al suo meriggio il delitto, la rabbia ne dispera la
notte.»

«Conosci tu dunque quella terra?»

«Se la conosco! vi nacqui.»

«Tu nato in Italia! E dì, ell'è poi bella codesta terra
quanto si va magnificando all'intorno?»

«Più che mente insaziabile di piaceri può fingere, più che
fantastico Trovatore può immaginare': se vi crescessero gli alberi
della scienza e della vita, sarebbe un errore lamentarci dell'antico
esilio dal Paradiso terrestre.»

«E gli uomini?»

Le labbra del timoniere tremano volendo proferire un groppo d'idee,
che impetuosamente gli sgorgano dal cervello; esse però null'altro
possono favellare che interrottamente: «Feroci.... feroci.»

«E tu, nato in cotesta terra, come ardisci adoperare il consiglio e
la mano in suo danno? Non conosci, o disprezzi il premio di che vanno
rimunerati i traditori?»

«Io traditore! Voi avete parlato una stolta parola, Conte di
Angiò; ma sia:--e voi, nato in Francia, come vi maravigliate di un
tradimento?»

Carlo si scuote, aggrotta le ciglia in così spaventosa maniera, che
le pupille gli si nascondono intiere, e prorompe con voce commossa:
«Perchè maledici la nostra patria? È forse la infamia una
pianta particolare alla nostra terra, o un albero sterminato che
stende i suoi rami tenebrosi sopra tutto l'universo? Sia rigido il
cielo, sia temperato, azzurro come in oriente, nuvoloso quanto in
settentrione, nè per clima, nè per cielo si rimarrà dal
crescere;--le sue radici stanno nel cuore dei viventi. Sì, pur
troppo la terra va coperta di scellerati, e di traditi; ma tu, prima
di chiamarci colpevoli, dimostraci, che sei innocente: intanto sappi
che noi ti teniamo traditore e ti aborriamo. Se la colpa vive nel
mondo, non alligna in nostra casa, guarda, se l'osi, il _fiordaliso_
di Francia; qualora i tuoi occhi possano sostenerne il bagliore,
vedrai che non ha macchia.»

«L'avrà.»

«E allora possa essere sterminata la nostra famiglia, tolta dal
numero delle cose che si rammentano. Adesso, se alcuna ingiuria
molesta alla vita avessimo sofferto dalla nostra patria, anzi che
cacciare il pugnale nelle sue viscere, lo cacceremmo nelle nostre. Se
hai cosa che non puoi sopportare, muori; altramente, ama la vita, e
sii codardo, o scellerato.»

«Conte,» riprese il timoniere; tenendo le braccia con le pugna
strette, «Conte, voi parlate stolte parole. Chi siete voi che
volete farvi arbitro del biasimo e della lode? Imparate, voi, cui
forse destinano i cieli a governare molta gente, che per tenervi un
grado seduto su le teste dei vostri fratelli, non per questo li
soverchiate col sapere; che siete debole, imbecille, come essi sono, e
creta, solo più presuntuoso,--imparate, dico, s'io amo la vita.»
E qui furiosamente si apre la veste, e mostra a Carlo i fianchi
recinti da un cilicio di ferro, che vi aveva fatto un cerchio di
piaghe, dalle quali colavano alcune gocce di nero sangue, e marcioso.
Carlo balza indietro atterrito, esclamando: «Cotesto è atroce
supplizio!»

«Ora dunque credete ch'io tema la morte? Non vedete che ognuna di
queste piaghe mi ha dato maggior dolore, di quello che abbisogni per
la estinzione di un uomo? Ecco, la mia vita trapassa per sentiero di
tormenti, che da me stesso mi appresto; la lascio consumare
nell'angoscia; ma quando minaccia di spegnersi, mi adopro a
suscitarla, perocchè ella sia deposito di vendetta e di rabbia.»

«Che cosa dunque può farti tanto crudele contro te stesso, e
contro il tuo luogo natale? Qual cosa è al mondo, che possa farti
conservare la esistenza malgrado la vergogna e il dolore?»

Il timoniere non dice parola.

«Una mente infiammata» prosegue Carlo «dalla malattia, o
dalla passione; una morta ragione, un'anima conturbata dal furore,
possono solamente concepire codesti disegni.»

«Carlo!» con voce soffocata risponde il timoniere «come vi
sentite fermo di cuore? soprapponetevi una mano, e tentate se può
reggere ad un racconto.»

«Noi abbiamo veduto trucidare al nostro fianco i più leali
vassalli senza piangere, come senza ridere vedemmo posare sul nostro
capo la corona di Provenza.»

«Non basta.»

«Noi siamo uomini; passioni soprannaturali, cercale dai demoni, o
dagli angioli: nondimeno prova.»

«Lo volete?»

«Pare che la nostra volontà non possa avere grande potere sopra
i moti del tuo cervello;--noi lo desideriamo.»

«Ascoltate; e poichè il mal seme della morte e del peccato non
può esser distrutto nel mondo, voi che siete nato per reggerlo,
traetene argomento di migliorarlo: sono certo, che non riuscirete nel
vostro assunto, ma questa è la via che il Signore ha tracciato ai
Regnanti della terra.--Non lontano da Napoli verso Pozzuolo sorgevano
due nobilissimi castelli, fabbricati negli antichi tempi da due Baroni
langobardi, allora quando Zotone venne appellato Duca di Benevento dal
glorioso Re Otari, che non conobbe altro confine al suo Regno che il
mare¹. Correva fama che quei Baroni essendo per antica amicizia
come fratelli, insofferenti di starsene da troppo gran tratto di paese
separati, gli edificassero così vicini; che le prime pietre poste
nei fondamenti fossero tinte del sangue di ambedue loro; e che un
savio negromante vi susurrasse sopra tali scongiuri, e vi incidesse
tali _cateratte_², per cui i signori di quei castelli sarebbero
stati sempre stretti di scambievole amore fino al punto in cui uno di
questi odiando il compagno per _inganno_, ne sarebbe stato ucciso
_contro volontà_ dell'omicida; ed allora, aggiungeva il vaticinio,
i castelli sarebbero rimasti per poco tempo in piedi, essendo che lo
incanto fatto col sangue cavato dalle vene in pegno di amicizia
dovesse sciogliersi col sangue versato per ira. Ahi! che la profezia,
in parte avverata, doveva avere in me compimento, che in me vedete lo
sventurato signore di uno di quei castelli.»

  ¹ Narrasi di Otari, che nel 589 dopo la conquista del Sannio, dove
    fondò il Ducato di Benevento, traversasse la Calabria fino a
    Reggio, ove cavalcando tutto armato sul lido, vista una colonna
    nel mare, vi spronasse il destriere, e la percotesse con la lancia
    esclamando: quella dover essere il termine della dominazione
    lombarda.--Vedi Giannone.

  ² _Cateratte_, caratteri magici.

«Voi Cavaliere! » interruppe Carlo, facendo mostra di ossequio
maggiore, che per innanzi non aveva praticato col timoniere.

«Sono una creatura che deve morire;» rispose questi tutto cruccioso
«ponete mente al racconto, nè proferite parola; egli non merita
essere interrotto da così abiette osservazioni.--Sapete voi come si
sente l'amicizia in Italia, ove tutte le passioni tengono del calore del
sole che la riscalda? L'amore di forma femminile è nulla in paragone di
lei: questo desio nato da vaghezza di piacere, e mantenuto dalla fragile
beltà che gli anni guastano, o distruggono, si spegne nello stesso
diletto; la ragione non presiede alla scelta, spesso anzi ne adonta, e se
questo non avviene in breve ora, il tempo è infallibile; con quello
strumento medesimo che incide la via della morte su la fronte della donna,
consuma le catene dell'anima; lo intelletto rimane liberato dalla
vergognosa servitù,--ma tardi, e il pensiero dell'uomo dall'amore
trapassa alla tomba, perchè ella da lunga pezza lo chiama; e quantunque
non abbia posto mente alla chiamata, la sua persona sta ricurva verso la
terra per abbracciarla di eterno abbracciamento: questa è la turpe
vicenda di colui che arde la sua anima in olocausto alla voluttà.
L'amicizia procede diversa: si ama per questa con furore, ma non a cagione
di forma leggiadra, ma senza desio di diletto; sta con tutte le buone
passioni, e tutte pel suo influsso diventano migliori; la donna privata di
sentimento sublime sente amore o nulla; lo affetto pe' genitori, pe'
fratelli, per i parenti, non può paragonarsi con questo; quali la
Natura o il caso gli ha dati, sono i genitori e i parenti: gli amici,
quali il cuore gli ha scelti; quando i capelli diventano canuti, e tutte
le cose si affacciano alla mente come immagine di rimembranze lontane, le
guance, quantunque, pallide, conserveranno sempre un rossore, l'occhio una
lagrima, al nome dello amico assente, o defunto: ha l'amicizia qualche
cosa di sacro, quando, perdendosi nei misteri della infanzia, due enti si
trovano innamorati prima che conoscano amore, prima che la volontà
eserciti i suoi attributi: ma la volontà benedice quel nodo, la ragione
ne sorride. Qual cosa si negherebbe allo amico?--la vita è stimata il
dono più prezioso che la Divinità faccia all'uomo, e pure credesi
povero sacrifizio all'amicizia:--facoltà, comodi, pace, sarebbe
bassezza profferire;--l'onore non chiede, perchè si nudre di questo:
l'amico ti seguirà in ogni sventura, ti sosterrà cadente, ti
rileverà caduto, sarà la tua pompa nella gloria, sostegno nei
disastri; piangerà al tuo pianto.... ora mi trovo condannato a piangere
solo!»

E qui abbassa la faccia, e per lungo tempo:--quando la rileva,
comparisce suffusa di lagrime;--gli occhi infiammati, come se avessero
durato un qualche grande sforzo per farle sgorgare;--e tremante
prosegue: «Io l'ebbi questo amico,--io lo amava,--e lo uccisi!»

La faccia gli ricade sul petto, il suo respiro diventa affannoso.

«Io l'ho trafitto, e pure mio padre mi avea comandato di amarlo:--io
l'ho trafitto, e pure il grido del mio cuore, più forte di quello di
mio padre, mi costringeva ad amarlo! I nostri genitori quando nascemmo
c'imposero i loro nomi medesimi, perchè la morte dubitasse di avere
dominio sopra l'amicizia delle nostre famiglie; amavano che i secoli
maravigliati riputassero i Folcando e i Gostanzo eterni tra i mortali per
volere di Dio, onde stessero esempio perenne di questo nobile affetto.
Bevemmo nella medesima tazza, riposammo nel medesimo letto, furono i
nostri studii, e i nostri sollazzi comuni, e crescemmo stupore degli
uomini, e benedetti dal Signore. Quando i nostri padri morirono, le ultime
loro parole furono preghiere e consigli, per conservare lo scambievole
affetto, ed aggiungevano essere questa la porzione più preziosa del
retaggio che ci lasciavano. I nostri campi non ebbero confine, i nostri
armenti confusi; volentieri ci saremmo ridotti ad abitare un solo
castello, ma per rispetto alle memorie paterne non volevamo fare l'altro
deserto: convenimmo dimorare alternamente ora l'uno ora l'altro, e così
facemmo. Scorsero anni felici, di cui la rimembranza nell'angoscia
presente è tormento più feroce di quello che la vendetta possa
desiderare al nemico. Allo improvviso Berardo diventa pensoso, spesso si
smarrisce per la foresta, tardi ritorna al castello, nè per quanto
siasi affaticato, può gustare cibo, o bevanda.--Tu soffri, amico mio,
un giorno gli dissi,--ed egli mi rispose: Io amo;--gli domandava: Qual
donna?--Era una santissima fanciulla, figlia di povero Cavaliere, che
abitava forse due miglia distante dai nostri castelli. I cuori dei giovani
s'erano accesi di scambievole amore, desideravano dirselo, più
desideravano renderlo sacro con la religione, ma non osavano,--tanto erano
verginali quelle due anime innocenti! Io fui quegli che tentai la
fanciulla; io, che la chiesi al padre; io, che apparecchiai la festa, e
sollecitai il rito; nè per nulla ne divenni geloso, che ben conosceva
lo affetto di moglie essere diverso da quello di amico, e il cuore di
Berardo restarmi pur sempre intero. Vi narrerò la gioia dei vassalli,
il tripudio degli sposi, l'allegrezza dei parenti, il fragore dei conviti?
Io lascio queste cose come non importanti al mio assunto; lascio ancora i
bei giorni che tennero dietro a cotesto caso, e narro quelli d'ira e di
sangue.--La bella sposa ebbe vaghezza di accompagnarci alla caccia, noi la
menammo; e desiderosi di preda tanto ci avvolgemmo per la selva, che ormai
diventava impossibile di poter giungere avanti vespro al castello. Uscimmo
dalla foresta, e c'incamminammo verso una casa, che compariva da lontano
in mezzo della pianura.--Arrivammo.--Un Cavaliere in modo cortese c'invita
a entrare; io lo guardo in faccia, e sento turbarmi da non mai più
sentito sgomento, che poi a prova ho conosciuto essere un miscuglio
d'odio, di disprezzo e di fastidio: volgo il cavallo per fuggire colui che
aveva suscitato nella mia anima la sensazione del rettile velenoso; mi
rattiene Berardo, e mi forza a seguirlo: entro in quella casa tremando,
presago di qualche gran danno; il Cavaliere mi sorride; quel sorriso mi
strazia le viscere; abbasso lo sguardo per non vederlo; non parlo, ricuso
il cibo, fingo súbito male, e affretto la partenza; per via di tratto
in tratto giro la testa sospettoso, come se alcuno m'inseguisse, e
prorompo in voci di minaccia: Berardo e Messinella stimano ch'io abbia
perduto il senno. Passano alcuni giorni nei quali non vedendo, nè
rammentando il fatale Cavaliere, la calma torna a serenarmi lo spirito.
Certa sera, mentre cavalcava a diporto, sento sollevarmisi in mente
irresistibile desiderio di tornare al castello; sprono a precipizio il
destriero, arrivo, e vedo un cavallo legato nella corte; ascendo le
scale,--un Cavaliere favellava domesticamente con Messinella, la teneva
stretta per mano; ella era pallida, e sembrava spaventata di trovarsi sola
con quell'uomo; al rumore dei miei passi costui si volge,--troni del
cielo! io vedo l'ospite spaventoso. Egli si leva subitamente, mi viene
incontro, mi saluta e mi porge la mano;--la mia non si mosse, pareami
averla incatenata sul fianco; le parole che favellai furono poche, ed
amare: accortosi ch'egli era il mal gradito là dentro, tolse licenza, e
se ne andò. Rimanemmo io e Messinella, con gli occhi bassi, senza osare
profferire accento intorno al Cavaliere; pareva che colui avesse sopra la
persona una malia che ci affascinasse, o la naturale proprietà di quei
serpenti che ne fanno col fiato loro cadere privi di sentimento. Venne
Berardo al castello, fu apprestata la cena, ma l'allegrezza per quella
sera non istette alla mensa con noi. Da quel punto comincia la orribile
istoria. Berardo diventa tacito, e sospettoso; non che cercare il mio
aspetto, lo fugge; gli occhi di Messinella appaiono spesso infiammati; e
sebbene ogniqualvolta appena mi vede da lontano mi corra incontro
sorridendo per abbracciarmi,--ben sono medesime le labbra che sorridono,
ma non è più quello il sorriso di prima; ben sono medesime le
braccia che mi cingono il collo, ma ora leggermente, e súbito cadono
come se avessero troppo osato. Nè il Cavaliere tralasciava di
visitarci; anzi in proporzione che vedeva germogliare i semi di discordia,
veniva a godere dell'opera sua. Un senso segreto mi avvisava della sua
venuta, però che io mi ritirava immobile in un canto della sala,
soprapponendo le mani sul pomo della spada, e finchè egli vi dimorava,
i miei sguardi stavano fissi su la sua faccia, ed egli ostentava di non
badarci: spesso io gli faceva un leggiero oltraggio onde egli dicessemi
villania, e così avere cagione di dargli d'un pugnale nel petto; ma
egli, anzi che chiamarsene offeso, trovava per me scuse, che non avrei
voluto, nè potuto proporre. In questo modo procedevamo tutti in
silenzio,--silenzio di rancore e di minaccia, simile a quello che suole
andare, innanzi agli sconvolgimenti della creazione.--Sorge, il giorno che
non dovea essere rischiarato dalla luce, non annoverato tra quelli
dell'anno:¹ la Natura, quasi consapevole del misfatto che doveva
commettersi, ne fece il principio spaventoso; una nebbia grigia ingombrava
tutto l'orizzonte, il sole vi si avvolgeva dentro come un fuggiasco,
guardando trucemente la terra: allorchè fui per uscire, la tempesta
infuriando mi costrinse a restare;--ell'era pena per me trovarmi nel
castello di Berardo,--ma non poteva dimorarne lontano;--superava ogni
tormento quello di non vederlo. A sera il cielo in parte si rischiarò;
montai a cavallo, corsi al castello di Berardo; entro, domando di lui,--mi
rispondono che fin dalla mattina, a malgrado della pioggia, si era
allontanato, nè ancora lo avevano visto di ritorno al castello: vado
oltre, mi occorre Messinella con un sorriso, che parve fiore sul volto di
un morto; ci abbracciamo e ci poniamo a sedere;--io stava di faccia a lei.
Dopo lunga ora,--Messinella, le dico, voi non siete contenta.--Ella mi
risponde con un pianto dirotto; poi si guarda all'intorno, e mi dice:--Bel
fratello,--così da gran tempo soleva chiamarmi,--questo non è luogo
acconcio, venite:--e qui si leva in piede, mi prende per mano, e mi
conduce nella selva vicina. Giunti in luogo appartato, io non osava
interrogarla; la povera donna alzò gli occhi al cielo, e mi disse in
lamentevole accento: Orribile segreto mi posa sul cuore, o fratello,
segreto che minaccia la mia vita, e che adesso voglio deporre nel vostro
seno, come il mio testamento:--Berardo ha cessato di amarmi!--E me pure, o
Messinella, gridai, ha cessato di amare il vostro consorte: e sì, che
se parte del mio corpo lo avesse offeso, l'abbrucierei subitamente,
perchè non guastasse il cuore ch'io devo conservare per lui.--Ed ecco,
rispose Messinella aprendo le braccia, Iddio vede la mia innocenza, egli
sa s'io sono rea pure di un pensiero;--dopo lui Berardo è il mio amore:
quantunque io non gli abbia aperta l'anima mia, ella n'è così
innamorata, che non può sopportarne il disprezzo; quando Berardo si
trova presente, io nascondo la mia afflizione, ma allorchè non mi vede,
piango, e piango.... oh! mio bel fratello, voi non potreste pensare quante
lagrime abbiano versato gli occhi della povera Messinella: non anderà
molto, che voi entrando nella corte di questo castello mi troverete stesa
sul letto di morte, esposta alla compassione od alla curiosità dei
vassalli; in quel punto, fratello, voi prenderete per mano Berardo, lo
condurrete dove giacerò cadavere, e gli direte:--ella è morta di
amore per te.... oh! s'egli verserà una lagrima, se manderà un
sospiro, io fino d'ora gli perdono ogni mia afflizione: promettetemi,
fratello, che lo farete, giuratemelo, non vogliate negare questo conforto
alla povera addolorata!--Dopo queste parole, la interruppe un singhiozzo
convulso, e declinò la faccia sopra il mio seno; io era commosso
profondamente:--No, bella infelice, esclamai, a te non istà morire; il
rettile ha tentato di contaminare il bel giglio, ma io lo calpesterò
nella via; il serpente si è avventato al destriero perchè si perda
cavaliere e cavallo,² ma rimarrà infranto nella impresa di
perfidia.--E così favellando le presi con ambe le mani la testa, e la
baciai in fronte.--Allo improvviso ascolto uno strido acutissimo, uno
stormire per le frasche della selva, ed uno allontanarsi precipitoso;
balzo stupefatto, corro là d'onde m'era sembrato che si fosse partito
il grido;--nessuna traccia d'uomo mi si presenta alla vista. Torno a
Messinella, che appoggiato il suo nel mio braccio, mi accenna di
riprendere la via del castello; ella era trista, abbattuta, appena mutava
di passi. Io pensava tra me di recarmi nei giorno appresso di buon mattino
da Berardo, e chiedergli ragione della condotta strana contro il suo
amico, e la sua consorte. Intanto giungiamo al castello; l'accompagno
nella sala, e prendo commiato.--Addio, mi disse l'infelice, rammentatevi
di Messinella.--Io m'incammino col cuore chiuso; giunto alla porta, mi
richiama un'altra volta--poi un'altra;--sventurata! pareva che una voce
segreta l'avvertisse, che non doveva vedermi più mai. Io
parto:--abbandonate le redini sul collo del destriere, con le mani
incrociate sul petto, percorro la via che mena al mio castello. Ad un
tratto una voce per le tenebre dietro mi chiama:--Gorello! Gorello!--Mi
soffermo: la voce pareami straniera, nondimeno rispondo:--Chi è, e che
vuole colui che per la notte ha pronunziato il mio nome?--Gorello! ripete
un cavaliere, e nel punto stesso mi si pone al fianco. Al chiarore incerto
delle stelle lo riconosco; aveva scoperta la testa, i capelli scomposti,
la voce alterata.--Berardo! siete voi? che tutti i Santi vi
aiutino.--Sono, ma i Santi mi hanno abbandonato!--Non gli risposi,
perchè ormai aveva stabilito di tenergli nel giorno appresso il
discorso intorno ai Suoi nuovi costumi alla presenza di Messinella.
Così taciturni camminiamo fin dove la via egualmente distante dai
nostri castelli si piega in angolo: quivi stava piantata una Croce, che i
nostri vassalli chiamavano la Croce nera.--Scendete, mi grida Berardo, e
al punto medesimo smonta da cavallo.--Io che pongo ogni mio contento in
piacergli, balzo a terra; ed ei mi comanda di sguainare la spada.--V'è
forse persona che c'insidii la vita?--Togliete la spada, lo saprete
dopo,--mi dice.--La traggo tosto dal fodero, e mi pongo in atto di
ferire.--Difenditi!--grida Berardo, e mi si getta addosso a corpo perduto.
Atterrito dalla improvvisa ventura, non manco a me' stesso, e paro i
colpi: in mezzo al fragore dei ferri che si cozzavano orribilmente tra
loro, si udiva la mia voce gridante:--Che è questo, Berardo? Deh! mio
dolce amico, mio diletto fratello, abbassate la spada, ascoltatemi per
l'amore di Dio, in nome dei nostri morti genitori!--Non rammentarli, mi
risponde terribilmente Berardo, tu ne sei diventato indegno dal momento
che ti facesti traditore.--Traditore io! Berardo, sospendete un solo
istante.... uditemi.... voi volete la vostra morte.--Mi oltraggi tuttora,
mormorò tra i denti Berardo, ti prevali della tua destrezza per
aggiungere al danno lo insulto!--E raddoppiava i colpi: essi cadevano
così spessi, ch'io non potei attendere ad altro che a difendermi. In
quel buio, appena scorgendo Berardo, aveva procurato di non smarrire la
punta della sua spada, sviarne le percosse fino a stancarlo, che veramente
io aveva molto maggiore lena di lui: allo improvviso la perdo;
ringraziando Dio di questo caso, m'incammino brancolando dove stavano i
cavalli, preferendo la taccia di vile al cordoglio di trafiggere l'amico:
col braccio teso sporgo la spada,--s'incontra in un corpo che cede, e
stramazza:--s'inalza un sospiro;--Berardo giaceva immerso nel proprio
sangue. Getto la spada, e urlando mi curvo a terra:--Hai vinto, mi dice
Berardo; a me non è concesso punirti, ma mi avanza anche qualche ora di
vita. Si appoggia al mio braccio, si rileva in piedi, e con la fascia che
gli reggeva la spada si benda la ferita;--ella non era mortale; io avrei
forse potuto salvarlo, ma rimasi stupido senza potere proferire parola, o
stendere passo. Berardo, impedito alla meglio che il sangue sgorgasse,
perviene a montare a cavallo, e fugge dal mio cospetto; nè io mi muovo.
Ornai si udivano appena le lontane pedate del fuggente destriero, quando
mi riscuoto, e senz'altro pensare salto sul mio, e gli conficco gli sproni
nei fianchi; egli era bene veloce sopra quanti cavalli portassero
cavaliere in quel tempo, ma Berardo di troppo mi precedeva: io lo chiamo,
ma egli non ode, o non cura rispondermi; mille volte a rischio di andare
col mio cavallo sossopra, corro furiosamente, già gli son presso, lo
arrivo,--ei passa il ponte: ripungo duramente con ambedue gli sproni il
destriero, tutto trafelante e affannoso; sono giunto sotto il
castello,--Berardo è già trascorso, il ponte rialzato. Ora con voce
di pianto io chiamava a nome tutti i vassalli perchè calassero il
ponte,--non rispondevano;--adoperai le promesse, le minacce, gli scongiuri
pe' Santi, pe' loro morti, pe' loro vivi, per quelli che dovevano
nascere,--non rispondevano;--scesi, e mi detti ad aggirarmi intorno il
castello, corsi, ricorsi,--il muro era alto, il fosso profondo;--rifinito
dalla stanchezza e dal cordoglio, cado svenuto per terra: quanto io stessi
privo di sensi, non so; questo solo conosco, che sarebbe pure stata grande
pietà non farmi ritornare in me stesso! Avanti che lo sguardo fosse
tornato allo usato ufficio, un gran splendore mi percosse la facoltà
visiva,--un ronzio confuso d'urli, di pianto, di femminili querele, e di
latrati, mi rintrona gli orecchi:--apro gli occhi.... o Cristo! il
castello di Berardo va in fiamme. Senza che l'anima fosse consapevole dei
miei moti, io mi trovo in mezzo al fosso menando mani e piedi per giungere
all'altra riva:--la prendo, tento un luogo per arrampicarmi;--mi
aggrappo,--sono giunto a mezzo del muro,--non trovo più oltre dove
mettere il piede,--rovino, lasciando su i sassi la pelle delle mani e del
viso.--Chi potrà dire quante volte mi arrampicassi, quante cadessi; chi
le mie percosse e le mie ferite; chi il supplizio dell'anima mia?
Orribilmente ansante, tutto sanguinoso, afferro alla fine un merlo:--quale
io mi fossi all'aspetto non dirò: basti solo, che nessuno mi riconobbe,
e credendomi il demonio suscitatore di cotesto incendio, fuggivano urlando
disperatamente misericordia! Eccomi sul limitare del palazzo: egli era
tutto una vampa; a quando a quando, mentre il vento soffiava, se ne vedeva
parte tuttora in piede: un trave infuocato rovinando, per poco stette che
non mi schiacciasse sul limitare;--corro oltre,--le scale vacillano sotto
i miei passi,--le pietre scoppiando mi percuotono il corpo con ischegge
roventi, in così dura maniera che un balestriere non avrebbe potuto
maggiore: traverso una sala, vado al corridore che conduceva alle stanze
di Messinella:--appena mi vi affaccio, sprofonda;--ritorno su i miei
passi, prendo per altre camere che con diverso cammino menano alla stanza
desiderata, spingo l'usciale.... Orribile misfatto! Messinella supina, con
le trecce sparse, le braccia aperte, giace sul pavimento trafitta di cento
colpi;--le sue ferite sono più atroci di quelle con le quali l'odio si
compiace lacerare corpo nemico; elle erano studiate con salvatica ferocia:
aveva gli occhi divelti e rovesciati giù penzoloni per le guance, la
faccia tagliata in minutissime righe, la gola aperta....--Deh! non
rammentiamo più oscene ferite, di cui la rimembranza è un fremito di
disperazione. Ora mi sorprende la solita immobilità, rimango lì
senza piangere, senza parlare, come impietrito:--scrolla la stanza, si
aprono le pareti, e mostrano per le fessure lo inferno:--lo istinto della
vita mi spinge fuori;--sprofonda con ispaventoso fracasso, e io scorgo tra
i vortici delle fiamme e del fumo sparirmi il cadavere di Messinella. Un
urlo di fiera adesso si fa sentire in un corridore a sinistra; corro a
quella volta;--cieco della mente e del corpo, percuotendo in tutti i muri,
col seno aperto per molte piaghe, gestendo con le mani, come il naufrago
che cerca la riva, errava Berardo.--Che hai tu fatto? gli grido. Ei non mi
ascolta, e corre, come il destino lo porta, dove il terreno rovinato gli
appresta morte sicura.--L'afferro,--egli urla, più che dolore fisico
può fare urlare umana creatura; incredibili sono i suoi sforzi per
isvincolarsi dalle mie braccia: forse sarebbe giunto a sfuggirmi, se non
fosse stato quasi vuoto di sangue. Me lo carico sopra le spalle, e mi
pongo a cercare una uscita;--da tutte le parti fuoco: e bene
sia,--arderemo insieme, e troveranno le mie ossa abbracciate alle sue:
egli ha misfatto, ma, innocente o scellerato, io l'amo quanto l'anima mia.
Fermo in questo pensiero, mi ritraggo un poco indietro, quindi mi do a
correre a capo basso, e m'immergo nelle fiamme: elleno mi avviluppano
intero; io le vedo scorrere ora sotto i miei piedi come onde trasportate
dalla bufera, ora avvolgersi in colonne spirali, e circondarmi di
certissima morte;--fuoco divampavano le vesti, fuoco i capelli; la carne
incotta, gli occhi per tanta luce divenuti ciechi. Il dolore accelera il
passo, il termine della fiamma è vicino;--un urlo acutissimo si spande
allo intorno, ma io non vedo nè odo più nulla, perchè stramazzo
come morto per terra. Allorchè mi rinvenni, vidi un Frate Benedettino,
antico famigliare di casa, seduto accanto al mio letto; il quale prima che
io parlassi mi fece cenno di tacere, ma io non potei trattenermi da
sospirare:--Berardo?--Vive, rispose il Frate, ma voi tacete in nome di
Dio.--Non posso; Padre, io sento che più poche ore di vita mi
rimangono; volete ascoltare la mia confessione?--E il Padre benedicendomi
soggiungeva:--Dite. A mano a mano ch'io progrediva nell'accusare le mie
colpe, m'interrompeva con esclamazione di maraviglia, della quale non dava
ragione, siccome timoroso di manifestare un segreto che doveva tenere
celato. Finita la confessione, tra atterrito e commosso mi domandò:--E
non avete da accusarvi di nessuna altra cosa? ricercate bene la vostra
memoria, se per avventura alcun fallo aveste dimenticato.--Ho detto tutto,
e tutta verità, che non ho mai mentito in faccia degli uomini, pensate
se oserei adesso in faccia a Dio.--Dunque, esclamò il Padre giungendo
le mani, dunque sono stati traditi!--Allora lo pregai, se potessi vedere
il mio amico innanzi di morire; ed egli mi confortò a starmi
tranquillo;--lo avrei veduto prima che fosse sera. Vennero all'ora
stabilita quattro vassalli, e preso ognuno di essi un lembo del lenzuolo,
mi trasportarono soavemente nella stanza di Berardo;--c'incontrammo con un
grido: fui adagiato su di un letto; e ciò fatto il buon Padre ordinò
che ognuno si ritraesse. Io non ardiva favellare, Berardo forse lo
sdegnava, il Frate cominciò:--Figliuoli, voi, come sentite, siete
presso a passare; vi giova quindi partirvi da questo mondo amici come vi
siete vissuti; perdonatevi scambievolmente, e come vuole la legge di
Cristo, perdonate, al peccatore che ha desiderato la vostra morte, pregate
Dio che voglia toccargli il cuore, onde la sua anima sia salva;--voi siete
stati traditi.--Frate, parlò con voce fioca Berardo, quando anche fosse
falso quello che mi disse Drogone, non ho io visto costui con la
scellerata Messinella tradirmi nella foresta?--Che hai tu visto,
sciagurato, risposi, che mille volte con tuo piacere non abbia fatto alla
tua propria presenza? Ora mi si svela un orribile mistero. Come non ti sei
accorto che lo sleale Cavaliere amava la povera Messinella, ed ella, ed
io, mortalmente l'odiavamo? Tu cadesti nelle insidie del demonio, egli ha
perduto noi tutti: oh! io ti compiango, Berardo, io ti compiango! il bacio
che detti sopra la fronte di Messinella fu puro come quello che si offre
su le reliquie dei Santi.--No, tu mi hai tradito, e quando tu non mi
avessi, dimmi per pietà, che mi hai tradito!--Bruci l'anima mia per
tutta l'eternità nei tormenti, come io non dirò mai di avere fatto o
pensato cosa che fosse contraria all'onore del mio amico Berardo. Questa
è la fede che dopo tanti anni di amore avevi riposta nel tuo
Gorello?--Pensi che le tue rampogne possano aggiungere un grano alla
immensità dell'affanno che sente lo uccisore d'una moglie, il
distruttore del castello paterno? Ma tu non giureresti che sei
innocente!--No? Padre, avreste voi nessuna cosa di Santo su la
persona?--Tengo un frammento del legno della Santa Croce che un pellegrino
di Gerusalemme con fraterna carità mi ha donato; rispose il Frate, e
aprendosi la veste trasse fuori la reliquia e me la porse: io la recai
devotamente alla bocca, e pieno di quel coraggio che dona la buona
coscienza, con voce sonora esclamai:--Per quel Dio, che abbandonando il
suo trono di gloria volle sostenere gli oltraggi degli uomini per salvarli
dalla morte eterna, pel sacratissimo sangue che versò su questo tronco
benedetto, per la salvazione dell'anima mia, per quella dei miei defunti,
per la fede di Cavaliere che ho giurato innanzi al mio Re quando cinsi la
spada, io Gorello Gostanzo solennemente protesto e sacramento alla faccia
di Dio e degli uomini, che nè in detto, nè in fatto, nè in
pensiero, ho mai tentato di guastare l'onore del mio amico Berardo
Falcando, e che di ogni imputazione ed accusa sono pienamente
innocente.--Niun gemito, niuna parola--per parte di Berardo.--Padre Ugo
gli si accosta, curva la testa, sovrappone la sua alla faccia di lui;
dipoi tornando alla mia volta chiama i vassalli, ed ordina loro che mi
riportino alla mia stanza. Io prego il Frate a non permettere che di là
mi rimuovano; non concedendolo egli, grido che non mi terrebbero senza la
forza: il buon Padre invano si affatica a persuadermi, che più sempre
mi ostino nel mio proponimento: allora i vassalli si apprestano a farmi
violenza, tento resistere ma le mie forze erano spente. Sono trasportato:
la rabbia della impotenza, e il timore pur troppo giusto che Berardo fosse
morto, irritarono talmente le mie afflizioni che caddi in deliquio.
Poichè mi riebbi, vidi al mio capezzale Fra Ugo, che subito prese a
confortarmi con soavi detti, e bellissimi esempii tolti con molta dottrina
dagli Evangeli, ma che non fruttavano nulla con me, ormai disposto di
morire. Scongiurai il Frate in nome di San Benedetto a dirmi se Berardo
viveva; ed egli, male potendo resistere allo scongiuro, mi raccontava,
come la piena del rimorso, più che le sue ferite, avesse ucciso
Berardo: allora tentai sfasciare le mie, nè potendo, sorsi dal letto
furente, per cercare la morte, o dando del capo nella parete, o
precipitandomi dalle finestre; fui rattenuto, e d'ora in avanti
diligentemente guardato: disposi lasciarmi morire di fame, nè per
quanto s'ingegnassero, potevano mai riuscire a farmi trangugiare cibo, o
bevanda:--era in me sorta una smania rabbiosa di morte. Ad un tratto mi si
presentò il Maggiordomo del mio castello, sgomento come persona
travagliata da irreparabile sciagura:--Monsignore, Monsignore, fiero caso
accadde nel vostro castello!--voi non avete più castello: vennero
stamane cento uomini d'arme, che si sono fatti calare il ponte a nome del
Re, ne hanno cacciato la vostra famiglia, e ne hanno preso possesso.--Gran
Dio! qual mai misfatto ho commesso perchè tanto duramente debba essere
perseguitato!--Oh! Monsignore, a capo dei cavalieri vidi tale uomo, che
per quanto si nascondesse il viso giunsi a riconoscere.--Chi? dillo!--Quel
Cavaliere che vi faceva l'amico, che veniva a prendervi sovente per andare
insieme alla foresta,--quell'alto, bruno, che abita il palazzo della
pianura.--Drogone?--Monsignor sì, Drogone.--Non dissi parola: ma da
quel punto feci un orribile giuramento, che in rammentarlo mi si
arricciano i capelli, nè mi sta ferma fibra del corpo: promisi l'anima
al Demonio, rinunziai al battesimo ed agli altri sacramenti, se, innanzi
di morire mi avesse fatto vedere il cuore del traditore. Diventai più
di qualunque codardo avaro della mia vita, e ben mi fu d'uopo confortarmi,
che due giorni appresso il fidato Maggiordomo venne a dirmi, aver saputo
da persona del castello, come mandavano gente per arrestarmi; come di
omicidio proditorio mi avesse accusato Drogone alla Corte di Giustizia,
come molti miei proprii vassalli avessero attestato contro di me, e
giurato, che nella notte dell'incendio io gridava ad alta voce essere
stato l'uccisore di Berardo; aggiungeva che furono spedite le citazioni,
ma non consegnate, perchè mi condannassero in contumacia; di tutto
questo doversi incolpare Drogone, che, per essere creatura del Conte della
Cerra Gran Camarlingo del Regno, poteva agevolmente tutte queste cose
conseguire. Mi riparai nella capanna di una guardia dei miei boschi, dove
la pietà di alcuni vassalli amorosamente mi trasportò; invano fui
ricercato dalla vendetta, che la fedeltà dei vassalli prevalse con
unico esempio alla rabbia dei nemici. Giunsi a sanare, comecchè in
parte rimanessi deturpato: mi provai le armi; da prima mi parvero
insopportabile peso, a mano a mano come per lo tempo passato leggiere.
Allora mandai cartelli a diversi Baroni perchè mi _concedessero il
campo_, e sfidai il traditore. Drogone tacque, i Baroni risposero
scusandosi che non potevano _tenere il campo_. Mandai messi, lettere a
Manfredi; nessun messo tornò indietro, nessuna risposta. Così
logorava il mio tempo, e la mia anima. Una sera sul finire di marzo la
guardia venne ad avvisarmi che fuggissi; avere veduto molti armati sparsi
pel bosco, ed inteso che mi cercavano;--mi affrettassi, un sol momento mi
avrebbe condotto a certa rovina. Fuggii, ma parendomi impossibile
sottrarmi alle perquisizioni dei cavalieri, che mi sentiva alle spalle,
divisai aggrapparmi sopra un albero: quivi passai la notte,--qual notte!
che Dio la faccia provare soltanto al mio nemico!--Alla mattina tesi
l'orecchio, nessun rumore si sentiva per la foresta; scesi, e mi avviai
senza sapere dove, che troppo mi gravava tornare alla casa di cui mi aveva
cacciato: vero è bene, che ciò facendo provvedeva alla mia ed alla
sua sicurezza, ed il bisogno l'aveva costretto; ma ad ogni modo io era
stato cacciato, e fosse superbia, o generosità, piuttosto che riparare
nuovamente in quel luogo, avrei scelto morire a cielo scoperto.--Seguiva i
più intrigati sentieri, guardavami sospettoso all'intorno;--quante
volte un leggiero susurro di frondi agitate dal vento m'impallidì il
sembiante! quante il latrato dei veltri lontani!--Parevami essere una
fiera, di cui alla caccia convenisse il genere umano.... Se in quel punto
mi fossi incontrato in mio padre, lo avrei tenuto, e trattato, come si
trattano i più odiati nemici. Così coll'animo commosso dalla paura
del sovrastante pericolo, giunsi verso sera sopra le rive del mare;--egli
era tranquillo, e pareva m'invitasse a farmi suo cittadino, da che su la
terra non aveva più da sperare; mi si presentò come amico che mi
offrisse salute, e mi allettasse con la speranza di eventi meno tristi:
spesso aveva veduto il mare, ma non mai con sentimento di amore siccome
questa volta. La fortuna mi fu di tanto cortese, che indi a poco scôrsi
con infinito piacere una _saettía_, che da Ischia andava a Pisa,
costeggiando la riva: chiamai la gente, scongiurando per l'amore dei
Santi, che seco loro mi accettassero; il Maestro, che uomo compassionevole
era, mi tolse volentieri, ed io gli raccontai come fossi un povero
vassallo che per avere offeso involontariamente il signore era stato
condannato alle verghe. Gli uomini di mare, che, per quanto ho osservato
in séguito, sono naturali nemici della tirannide, e per conseguenza
grandissimi estimatori della libertà, si appassionarono per me, e
tennero per fortunata la ventura di aver potuto sottrarre un uomo alla
brutale ferocia di un Barone. Arrivammo a Pisa con prospera navigazione:
quivi, desideroso di farmi valente nell'arte di percorrere i mari, tolsi
commiato da loro, e mi acconciai su le galere che navigano a Tiro, a
Tolemaide e in altre terre di Levante. Di ritorno a Pisa, co' danari
procuratimi mandai segreti messi ad alcuni dei miei vassalli, affinchè
mi chiarissero di ciò ch'era avvenuto dopo la mia partenza. Intanto
strinsi amicizia con un certo Guasparrino marsigliese, ricco mercante, che
conosciutomi delle cose di mare espertissimo, mi propose di governare la
sua galera. Tornati i messi, seppi del mio castello essere stato dal Re
Manfredi investito Drogone, il quale per opera del Conte della Cerra tanto
si era avanzato in sua grazia, che lo aveva nominato Ammiraglio del Regno;
allora accettai la proposta del Marsigliese, e da quel momento in poi una
immagine di speranza ha lusingato il mio cuore che un giorno o l'altro
potrei incontrarlo sul mare:--oh! allora.... volgono cinque anni che vesto
il cilicio, e mi circondo di terribili angoscie per sorridere alla morte,
come a mio liberatore. Se alla mia vendetta si unisse la utilità della
terra che mi ha veduto nascere, forse il mio nome ne avrebbe gloria nelle
generazioni future; fatalmente sono disgiunti, e mi frutterà
infamia:--che cosa importa? forse verrà tale che dispregiando la lode e
il biasimo che danno gli uomini,--e loro;--tale che scrutinando
impassibile le azioni chiamate delitti, e quelle chiamate virtù,
vedrà che il caso, non già il mio volere, condanna il mio nome a
comparire scellerato nelle pagine della storia, onde egli non sdegnerà
di manifestarla alla gente, e suscitare una lagrima, come che tarda, sul
mio feroce destino.»

  ¹ Non computetur in diebus anni, nec numeretur in mensibus. (_Job_, 3)

  ² Coluber in via, cerastes in semita mordens ungulas equi ut cadat
    ascensor ejus retro. (_Gen._, 49.)

Carlo d'Angiò, degno di sentire altamente, aveva ascoltato quel
racconto con tanta attenzione, che non s'era accorto il sole avere
già da buon tempo lasciato il nostro emisfero, perchè Gorello
non lo narrò così prestamente, come abbiamo fatto noi, ma con
tante altre particolarità, che volentieri tralasciammo per
provvedere alla pazienza del lettore: ora Carlo riunendo in un punto
tutte le sue sensazioni levò gli occhi al cielo, e mandò un
gemito affannoso.

Il cielo si era coperto in gran parte di un nugolone nero, che
cresceva da lato di Levante; il vento fatto impetuoso aveva sommosso
il mare per modo, che Carlo voltosi al timoniere, parlò: «Parmi
che avremo fortuna.»

«Sì, Monsignore. La mia vita è immagine di questa giornata,
luce il mattino, tenebra a vespro: questo giorno terminerà forse
con la tempesta,--la mia vita non deve finire altramente;--chi sa, che
la procella che chiuderà questo giorno non sia destinata a dare
compimento alla mia vita!»

«Nostra donna di Reims disperda l'augurio! Noi non possiamo
restituirvi la pace, ma in fede di Cavaliere giuriamo, che, potendo,
vi faremo giustizia.»

«Gran mercè, Monsignore: intanto ritiratevi, chè un balzo
della galera non vi lanci, come poco pratico, in mare; state pur
tranquillo, chè se sarà tempo da potersi superare da forze
umane, noi lo supereremo.»

«Lo crediamo certamente; e più della fedeltà dei nostri ci
dà pegno di questo la vostra vendetta, Gorello.»

Dopo queste parole Carlo, tolta la mano del timoniere, e
affettuosamente stringendogliela, soggiunse: «Prendete conforto,
Cavaliere; nuovo tempo, e nuovo amico, possono sanare le piaghe del
tempo e dell'amico passati. Addio.»

«La buona notte, Monsignor Conte!» rispose Gorello; e quando
Carlo prese ad allontanarsi crollò la testa e disse: «Miserabile!
anch'egli appartiene alla schiatta di coloro che reputano un sorriso, od
una carezza, presente del cielo, medicamento per ogni malattia
dell'anima.--Miserabili anche voi! Ma Carlo ha creduto farmi il maggior
bene che fosse in potere suo... lasciamo la presunzione, la bassezza e la
follia del presente,--rimarrà sempre un pensiero di carità, e di
questo merita gratitudine.»




CAPITOLO DECIMOTERZO.

IL CUORE MORSO.

                ........... Il vidi appena,
                Corsi a ucciderlo là.........
                Ben sette volte e sette entro all'imbelle
                Tremante cor fitto e rifitto ho il brando,
                Pur non ho sazia la mia lunga sete.
                                          ORESTE, _tragedia_.


Buio d'inferno:--non lémbo di nuvola illuminato dalla luna, non
tremolare di stella;--diresti che il firmamento sia morto, e il fiotto
del mare ne lamenti la estinzione. La galera di Carlo d'Angiò
percorre trabalzata dalla traversia senza direzione sopra la
superficie delle acque, di flutto in flutto, dentro una tenebra
spaventosa,--come corpo lanciato per lo abisso dello spazio. Da per
tutto sgomento:--Carlo geme abbattuto quanto il più tristo che sia
su la galera, perchè la vita è ugualmente cara a cui porta
scettro e a cui maneggia il remo,--nè forse corre tra essi altra
diversità che quella dello istrumento che recano in mano,--almeno
per lo amore della esistenza: chi urlava, chi taceva, chi pregava, chi
bestemmiava; e i Santi si trovano spesso in caso di dover restare
inoperosi a soccorrere una nave, però che metà della ciurma li
chiama, e metà gli rinnega; onde è che mentre dimorano incerti a
calcolare quale delle due parti preponderi, sopraggiunge un colpo di
mare che sommerge la nave, e tronca ogni quistione; la qual cosa non
avverrebbe di certo, dove di concorde preghiera tutti si volgessero ad
implorare un aiuto, che non può mai venir meno. Il timoniere,
esercendo le veci del Maestro ebbro di paura e di vino, visto quello
universale sconforto gridava da poppa: «Fate forza di remi;
chiudete la vela, se volete salvarvi; operate adesso che il tempo
stringe da vero, altramente qui presso è la terra, e ne andremo
tutti perduti.»

Di questo discorso furono prese le sole parole convenienti alla
presente situazione: _«qui presso è la terra,--siamo tutti
perduti;»_ e sortì l'effetto contrario che si era proposto chi
lo avea pronunziato.

_«Siamo perduti!»_ susurrò scambievolmente il vicino al
vicino, ed abbassarono insieme la faccia livida per lo spavento.

Il Maestro della nave, nel volto del quale la paura non si era
manifestata, come negli altri, per via di pallidezza, ma con tale un
colore che teneva tra violetto ed il nero, si vedeva intento, con le
mani su due vasi di terra per impedire che, cozzandosi in quei fieri
scotimenti, si rompessero, e quanto aveva in canna gridava:
«Libeccio, libeccio! sono si fatti i modi che suoli tenere co' tuoi
buoni amici? Or corrono ben quaranta anni che frequento casa tua, nè
mai quanto questa volta mi ti sei mostrato cruccioso: ti ho forse usato
villania? ho tralasciato un giorno di bere alla tua salute? E mi dovevi
fare questa vergogna appunto adesso che ho promesso a Monsignor Conte di
trasportarlo sano e salvo fino ad Ostia? Senti che scossa! _Domine, in
adjutorium..._ che vento indiavolato!--Ne vuoi la fine; e quando avrai
fatto percuotere questi due vasi tra loro, i quali da poi che si
conoscono sono vissuti da buoni fratelli, e spezzare, e sperdere il mio
buon vino, che cosa pensi aver fatto? Almeno tu mi avessi dato tempo di
bevermelo.... pazienza! Aspetta di grazia fino a domani, e quindi fa
quello che vuoi.... _Domine, in manus tuas commendo...._» urlò il
povero Maestro, che uno sbalzo terribile della nave fece duramente
stramazzare su l'intavolato, e rovesciargli addosso i vasi con
tanto amore guardati; onde è che tutto smanioso prendesse a dire
brontolando: «Ah! libeccio misleale e fellone, che pretendi? Annegare
Monsignor Carlo? Non sai ch'egli nasce di famiglia antica quanto la tua,
ed è il più nobile signore di tutta Cristianità? Si fanno esse
queste cose ad un fratello di un Re di Francia, di un Santo, ad un
campione di Santa Chiesa? Ah! vento, vento, tu ti sei fatto ghibellino,
la riprendi per Manfredi. Oh! tra me e te è finita; ho strappato
maglia; potresti far miracoli, non ti perdonerò mai di avermi versato
il vino, e condannato a morire nell'acqua.»

Il timoniere vedendo che in quel modo si andava incontro a inevitabile
rovina, chiamato un marinaro nel quale molto si confidava, gli
comandò di tenere per poco il timone vôlto a destra, e scese in
traccia di Carlo che trovò col capo nascosto tra le mani sopra una
tavola, travagliato dall'angoscia di stomaco.

«Animo!» gli disse Gorello con voce sicura «alzatevi,
Monsignore, e venite a confortare la vostra gente, perchè non vedo
strada di potere uscire d'impaccio in questa maniera: chi si
abbandona, Cristo abbandona; e a morire avanza sempre tempo.»

Carlo, punto di vergogna, balza in piedi, prende pel braccio il
timoniere, e si fa oltre: allo improvviso percuote in un corpo disteso
per terra, in modo che se non era Gorello vi traboccava sopra.

«Chi sei?» domandò Carlo.

«Oh! Monsignor Conte, sono io;» rispose lamentoso il Maestro
«che volete? più cerco di stare in piedi, più il vento si
diverte a gettarmi per terra,--vedete gusti! alla fine ho tolto
consiglio di starmene così lungo e disteso; in questo modo sarà
finita la burla:--e sì, vedete, io non me ne stava inoperoso qua
dentro, ma intendeva a fare che non si sperdessero le provvisioni,
perchè, Santa Vergine! che ne gioverebbe uscire salvi dal vento, se
poi dimani non avessimo vino da bere, nè biscotto da mangiare?»

Carlo, come ogni uomo immaginerà facilmente, non istette ad
ascoltare il ciarliero, ma appena sentì ch'era desso, continuò
il suo cammino, e venne là dove i remiganti, disperati di salute,
giacevano neghittosi lungo i banchi aspettando, chi più chi meno
rabbioso, la morte.

«Amici!» Carlo gridò ai galeotti «io non so come a gente
quale voi siete, assuefatta a trarre la vita sul mare, siasi cacciata
addosso così grande paura. Siete voi femminette che per nulla si
disperano, come se fosse sopraggiunta la fine del mondo? Vergogna! Ben
altre tempeste abbiamo superato, ben altri pericoli, e con l'aiuto
prima di Dio, e poi di Santo Dionigi, supereremo anche questo. Non
vedete che la negligenza vostra vi perde, e che così vi date voi
stessi in balía della morte? Pensate che un giorno dovrete rendere
conto di avere sprecato così le anime vostre. Difendete la vostra
vita, che da questo momento noi affranchiamo; avvertite, che se molto
dobbiamo fare per essa, moltissimo dobbiamo tentare per la
conservazione della libertà che adesso vi abbiamo donato.»

_Amici!_ Carlo, quel fiero uomo, quell'orgoglioso per mille memorie
paterne, ha chiamato col nome di amici una vile moltitudine composta
la più parte di gente comprata come bestie al mercato, e di
facinorosi condannati a far servigio al Principe pel danno che i
delitti loro apportarono a speciali famiglie!--pure Carlo lo ha detto.
Oh! quando la necessità uguaglia le schiatte di Adamo, e tacendo
ogni distinzione diventano pari, io per me mi maraviglio se ii superbo
dominatore non sia caduto più basso.--_Libertà!_ Dio eterno!
_libertà!_ Su le labbra di Carlo di Angiò, che porta catene ad
un Regno intero! I dottori della tirannide, e Carlo aveva imparato
alla scuola di quelli, insegnano fino dai rimotissimi secoli gli
uomini andare divisi in due classi, l'una delle quali ha da comandare,
l'altra servire; e questo avere ordinato madre Natura, non già
partorito la fraude o la violenza. Ora in che consistesse questa
libertà donata da Carlo a tal gente, che dove il danaro, o la pena,
non avesse sottoposto alla servitù, non avrebbe mancato di
ridurvela la miseria, noi per verità non sappiamo. Ma la libertà
è antica lusinga su la quale i viventi non si sono ancora sgannati,
e tutti se ne valgono per acquistare lucro, od evitare danno; anzi,
chi meno intende mantenerla, la promette più larga, però che a
fine di conto sia parola elastica, e starei per dire quasi priva di
senso;--come _l'onore_, e tale altra, che tralasciamo dire, perchè
gli uomini sono gelosi dell'apparenza;--si accomoda alle diverse
opinioni, e, _camaleonte morale_, prende colore dagli oggetti che
più le si avvicinano: nel 1796 venne in Italia vestita di azzurro a
cacciarne gli antichi dominatori;--nel 1814 vi tornò vestita di
rosso per restituirveli;--anche adesso in Francia si schiamazza
libertà; libertà in Inghilterra, e libertà in America; ognuna
poi di queste libertà era, ed è, affatto diversa dall'altra,
spesso contraria. Bisognerebbe dunque che gli uomini distinguessero la
libertà in politica, come le piante in botanica; allora forse per
libertà _spinosa,_ per libertà _lanceolata,_ per libertà
_parasita,_ potrebbe darsi che intendessimo qualche cosa; ma questo
negano fare, ed affermano invece dovere essere unica, ed uniforme: ora
non essendo unica, nè uniforme, presso nazione del mondo, anzi
ciascheduna reputando buona la sua, come gli anelli di Melchisedech
giudeo,¹ ne viene ch'ella sia o l'immagine di una mente ammalata di
giovanezza, o l'istrumento dell'accorto per suscitare i popoli a cosa
che gli torni in vantaggio. Grande esca è questa della libertà
per deludere i poveri mortali; nè fin qui se ne accôrsero, nè
se ne accorgeranno mai, per la ragione, che i pesci da Adamo in poi si
pescano con le reti, o si pigliano con gli ami. E poi e poi, l'uomo
s'innamora di tutto, fuorchè di quello che è verità. I sistemi che
ho letto in contrario intorno questa materia mi sono sembrati sempre
tanti di quei bei discorsi che cominciano col _se: se quegli stava in
casa, non si fiaccava le gambe; se quegli non fosse povero, sarebbe
ricco,_ e via favellando. E' bisogna prendere il mondo come viene, non
come dovrebbe venire; se ne fosse dato diversamente, oh! allora ogni
uomo potrebbe farsi _un mondo nuovo_ a suo modo, e adattarvi dentro
quelle _vedute_ che meglio gli piacessero. La gratitudine è una bella
virtù; chi lo nega? l'amore pe' parenti, per gli amici, chi lo nega?
e dalla gente moderna non s'è trovato il magnifico parolone di
_Filantropia?_ Ma, che Dio v'illumini! dove s'incontrano le cose
corrispondenti a questi segni? Avremmo potuto credere che fossero idee
innate, ma dopo la guerra di distruzione che mosse loro Cartesio mal
sapremmo da qual parte cercarle. Il mondo è lungo tempo, secondo i
diversi computi, che vive in questa maniera, e lungo tempo ancora
vivrà: gli stolti sono il retaggio dei furbi, i deboli dei
forti;--debolezza e stoltezza, poichè siete, e crescete, lasciate
governarvi dalla sapienza e dalla forza; fatevi merito dell'assenso, che
tanto negando perderete la prova: dormite in pace nel sepolcro della
vita, come quiete eterna vi aspetta a casa della morte.

  ¹ Boccaccio, Novella III, Giornata prima.

«Libertà! Libertà!» si udì urlare per la galera con
tale una voce che prevalse sul fragore del mare
imperversato.--«Libertà!» e si dettero a fare di braccia nei
remi per allontanarsi dalla terra pericolosa. La galera tagliando di
faccia le ondate perviene a fuggire il danno di rompere, e va incontro
all'altro d'imbattersi nei navigli che il Re Manfredi tien lungo la
costa.--Ma forse anche essi sbatte la bufera, e poi quel danno è
incerto, mentre questo altro pende inevitabile; dunque val meglio
sfuggire il presente, all'altro, se occorre, provvederemo:--così
pensava Carlo, e secondo i calcoli umani, non può negarsi, a
dovere. La catena di quelle vicende che non possiamo prevedere nè
allontanare, la quale noi chiamiamo _Fortuna_, si rise di que'
raziocinii, e dispose affatto diverso da ciò che Monsignore il
Conte aveva disegnato.

Il vento, quasi spossato dallo sforzo continuo, da un punto all'altro
si rimase tranquillo; allora cominciò a balenare, e a tuonare; poi
un rovescio tra grandine e pioggia:--in quella notte Carlo doveva
soffrire tutti i travagli dell'uomo che consuma la vita per mare. Era
trascorsa qualche ora che andavano così, senza sapere dove, vaganti
di onda in onda, allorchè ad un tratto la galera percuote
aspramente in un corpo che le si para davanti, e crolla in tanto dura
maniera che sembra doversi sfasciare. Si alza un grido,--il grido
della disperazione! che temerono di avere investito in uno scoglio; ma
quando il grido cessò,--che tutte le cose hanno fine, sieno pur
quanto vogliono liete o affannose,--ne ascoltarono un altro non meno
terribile lì presso di loro.--«È forse alcuna delle nostre
galere che battuta dalla tempesta ha cozzato con noi?» diceva una
parte di marinari;--altri: «No, è una galera genovese, l'abbiamo
riconosciuta alla forma;»--altri: «È siciliana:»--altri,
altra cosa, ma i più convenivano che fossero i nemici.

_«I nemici! i nemici!»_ urlano da ambedue le galere; e se
avessero potuto manifestare gli scambievoli desiderii, per quella
notte si sarebbero lasciati stare.

Carlo d'Angiò, che fu veramente valoroso Cavaliere, per nulla si
commuove a quei gridi, e come magnanimo si dispone, da che non può
fuggire la battaglia, a uscirne vittorioso.

«Signori Baroni,» dice piacevolmente ai circostanti Cavalieri,
che avevano di già l'arme nuda alla mano; «la fortuna nel
chiamarci in Sicilia, ne sembra che non ci abbia voluto invitare a
convito di nozze; ormai le tavole sono poste, e fa di mestieri
mostrare buon viso a tutto quello che ci verrà apprestato. Se noi
dubitassimo punto di voi, faremmo ciò che hanno avuto in costume di
praticare i Capitani di tutti i tempi, ingegnandoci con le orazioni
inanimirvi alla vicina battaglia; ma troppe volte abbiamo combattuto i
medesimi fatti di arme, e troppo spesso ci siamo veduti negli stessi
pericoli, perchè ci sia concesso di credere che una nostra parola
valga a darvi quella sicurezza che solo avrà fine col palpito dei
nostri cuori.»

Giunto là dove la ciurma di nuovo impaurita giacevasi in fondo
della viltà:--«Uomini,» disse «se in voi fosse arbitrio di
fuggire, vi conforterei a restare; la paura di morire griderà
più forte della mia voce, ognuno faccia quello che può per
salvarsi la vita.»

Questo strano discorso non dirò che infondesse un súbito
coraggio in quei vili, ma profferito da uomo riputato come era Carlo
valse a dare loro una leggiera speranza di salute, se avessero seguito
a fare quello che il Conte faceva; ed in vero, se bene non con molto
calore, si dettero ad imitarlo.

Come poi Carlo si mostrasse così caldo in questa ventura, mentre
innanzi fu d'uopo che il timoniere andasse a suscitarlo, non fa
maraviglia se si consideri, ora trattarsi d'armi, in che consisteva il
suo mestiere, dianzi di flutti infuriati ai quali non era avvezzo, e
poi lo spasimo di stomaco che aveva prostrato ogni sua facoltà
intellettuale: perchè quantunque tutti si uniscano a dire l'anima
molto maggiore ente del corpo, e più nobile, nondimeno è
subordinata alla influenza di tutti gli umori di quello,--anche agli
escrementi;¹ onde vedasi un po' quanto presuntuosa fosse l'eresia
di Priscillano, che sosteneva l'anime umane emanazioni della
Divinità.

  ¹ Vedi _Dizionario filosofico_, Articolo ESCREMENTI.

_«Ai graffi! ai graffi!»_ si udiva tuonare la voce di Carlo, (ed
erano i _graffi_ certi istrumenti uncinati coi quali tentavasi di
accostare la galera nemica per venire a battaglia manesca) e súbito
furono portati e messi in opera: questi però non bastarono a tanto
bisogno, perchè le galere ora sospinte si urtavano con molto
pericolo, ora divise furiosamente gli strappavano di mano a chi li
teneva, e seco loro li trasportavano; vi furono anche di tali che
ostinandosi a non lasciarli rimasero levati via di coperta, e sospesi
ai manichi, per modo che quando le galere tornarono a cozzarsi o
miseramente s'infransero, o non valendo loro le forze di starvi luogo
tempo attaccati, lasciarono cadersi nel mare e quivi perirono. Carlo
stringendo la mazza d'arme, con un piè levato sul parapetto della
galera, aspettava ansiosamente il punto che all'avversaria si
accostasse, e allora menava colpi, che di rado cadevano in fallo.
Seguitavano l'esempio i compagni, espertissimi anch'essi nel
maneggiare l'accétta, ed in breve ora cagionarono ai nemici non
lieve danno di morti e di feriti. Questi però non si stavano, colpo
con colpo cambiavano, e la battaglia sostenevano assai francamente. Tu
avresti veduto le sarte della galera grondanti di sangue, la coperta
sparsa di cervella infrante, e di membra recise; parte percossi
cadevano bocconi spenzolati dalla nave, e a poco a poco sdrucciolando
traboccavano nell'acqua; parte cadendo supini, le gambe di chi si
avanzava impacciavano e facevano ch'essi pure nel mare precipitassero;
alcuni sconciamente feriti fuggivano dal conflitto mettendo dolorosi
lamenti, e chi gl'incontrava, non che rimanesse sbigottito da quello
stato, cercava invece, puntando mani e piedi, di farsi largo, ed
essere dei primi ad uccidere, o ad essere ucciso.

Intanto nella pienezza dell'orrore infuriava sopra le loro teste la
procella:--ma la rabbia degli elementi scatenati comparisce solenne,
degna affatto dell'attenzione di chi osserva;--sembrano giganti che
non si possano distruggere, i quali sieno venuti nei campi del cielo
meno per isfidarsi a morte, che per far prova del proprio vigore; ora
prevale questo, ora quello, finchè stanchi della lotta si partono
senza vittoria per ritornare quando che loro ne prenda vaghezza a
nuovo esperimento:--non così della rabbia degli uomini; ogni atto
di loro è via di distruzione; piccoli e feroci offrono la immagine
di un brulichio di formiche impazzite, intente a divorarsi intorno ad
una zolla di terra; la morte, che vi tiene levato un piè sopra, si
rimane maravigliando a considerare quanto ferva in questi corpicciuoli
il furore di estinguersi senza l'opera sua. Imbecilli in tutto,--anche
in quelle opere che nella più parte di loro eccitano il
pianto,--meritano, da chi gode nello spettacolo della tempesta, un
riso di scherno.

Quella battaglia alla spartita non produceva alcuno buon frutto; da
oltre un'ora avvicendavano colpi, molti cadevano uccisi per ambedue le
parti, ma nessuna faceva sembiante di voler cedere.

Gorello, che era tornato al timone, mentre attendeva al suo ufficio
sente sollevarsi in cuore sì fatto presentimento, il quale di
súbito lo infiamma in guisa che non potendosi contenere spicca un
lancio. Chiamato a nome il marinaro a cui aveva in quella medesima
notte affidato di tenere il suo luogo, gli dà in fretta alcuni
ammaestramenti del come debba regolare il timone, e s'incammina
precipitoso sotto la coperta.

«Che fate voi così armato?» disse al Maestro, che al chiarore
di un lampione vide venirsi incontro con l'accétta alla mano.

«Che faccio! che faccio! Che si fa egli con una mazza d'arme quando
si combatte in coperta? Io vado a sbizzarrirmi con qualcheduno
lassù, perchè mi sento la maggiore stizza ch'io abbia mai
provata nel mondo: tanto, dobbiamo morire in questa notte: e se me lo
avessi potuto immaginare!--ma! darmela a gambe non posso, dunque
scelgo di finirla con una bella accettata nel capo, perchè il
pensiero di restare sommerso nell'acqua mi fa morire avanti tempo. E
voi come avete lasciato il timone?»

«S'io me ne venni, vi lasciai chi ne ha cura, Maestro: dite,
vorrestemi voi dare cotesta vostra accétta?»

«Sì certo, io prenderò quest'altra: ditemi in cortesia,
adesso che disegnate di farne?»

«La battaglia dura lunga e ostinata, la vittoria pende incerta;
Carlo così gravemente armato non osa dare un salto per giungere su
la galera siciliana....»

«Bene....»

«Io come pratico vo' tentare questo; spesso la somma delle cose
deriva da un subito ardire; gli uomini sono pecore, dove l'uno va gli
altri vanno....»

«Bene»

«Quando ho posto piede su fa galera, con l'aiuto di Dio confido
mantenermivi tanto, che chi viene dopo possa soccorrermi; altramente
bisogna morire.»

«Ed io vo' essere con voi--sì certo;--così potessi io
darvi» e qui abbassò il guardo pietosamente dove i suoi vasi
giacevano spezzati «un bicchiere di quel vino, come senza dubbio
sarò con voi!--egli ci ristorerebbe il cuore... ma!--ormai è
finita, quello che si poteva soffrire ho sofferto; per quanto possa
angosciarvi acerbo il vostro cordoglio, non giungerà mai ad
uguagliare l'amarezza ch'io sento: andiamo, via, ad insegnare a Carlo
come si salta su le galere nemiche.»

La via e il discorso terminarono a un punto, perchè se ciò non
fosse stato, Dio sa fino a quando avrebbe continuato a dire. Gorello,
visto in un balenare di occhio la condizione delle cose, gridò al
Maestro: «Qua da poppa avremo migliore ventura; da questa parte le
galere si urtano più spesso, nè v'è tanta confusione, onde ci
sarà dato operare come vorremo, e non come potremo; seguitemi.»

Eccoli giunti sul luogo, eccoli indietreggiare per meglio lanciarsi,
eccoli spiccare il salto. Ora andate a negare che un destino inevitabile
si compiaccia farsi burla degli umani disegni; il buon Maestro, che ogni
supplizio avrebbe preposto all'affanno di sentirsi tuffato nell'acqua,
che tanto deliberato si era allestito a combattere, che considerando la
mole del suo corpo aveva spiccato tal salto da disperare i più
destri, mentre ha posto sopra la galera nemica tutta la pianta del
piede, fatalmente percuote col tacco (che in quei giorni costumavano
altissimi), e riverso a gambe levate rovina nelle acque: grande fu il
tonfo ch'ei fece, e gli spruzzi salirono fino su le coperte delle
galere; il malarrivato, giunto a capovoltarsi, sbuca con la testa dalle
acque urlando da spiritato: «Arnault! Gorello! calatemi una fune, che
annego senza misericordia;--Arnault, fa presto, o Maestro Armando serve
di cena ai pesci:--Arnault! Gorello! Gorello! Arnault! oh Dio! non mi
rispondono:--Monsignor Conte! lasciate un po' di menare cotesta
accétta, e venite a soccorrere il povero Maestro Armando;--oh
Monsignor Conte!--ehi! dico a voi, Conte.... nè pur egli vuole
sentire:--bella cortesia lasciare così sommergere un'anima
cristiana;--nè pure se fossi pelle di cane!--almeno si trovasse qui
meco prete, o frate, che mi acconciasse alla meglio!»

Un nuovo colpo di mare lo spinge sotto, e lo avvolge per molto spazio,
cacciandogli in gola grande quantità d'acqua, che il povero Maestro ne
stette per morire senz'altro; ma alla fine tornò a galla con gli occhi
sanguigni quasi fuori dell'orbita per lo sforzo del vomito, urlando:
«Ohimè! che amaro, ohimè!--aiuto! oh Conte indiavolato!--ogni
volta che ho trasportato balle di panno, se mi accadeva traversìa,
gittava le balle, e mi salvava; e voi, Monsignor Conte, che non ho gettato,
in così fatto modo meco vi comportate? anzi mi tenete in mare, e senza
pietà consentite che anneghi? Oh avessi io sempre portato panni
_franceschi_! Che dirà il compare, cui aveva promesso recare vino di
Sicilia?--dirà, che mi sono lasciato morire per non mantenere la
promessa. Bella figura da Conte! in verità non fareste un piacere col
pegno in mano.» E molte altre cose aggiungeva parte burlevoli, parte
disperate, che noi lasciamo come troppo prolisse; imperciocchè gli
venisse fatto di appigliarsi alle commettiture delle tavole della sua
galera, e quivi assai tempo con tanto maravigliosa forza attenersi, che vi
lasciasse la impronta delle dita.

Gorello, più felice del suo compagno, almeno nel salto, giunge a
salvamento sopra la galera siciliana, e a prima giunta da con la mazza
d'arme sopra la testa di uno che gli si parava minaccioso dinanzi, e dal
sommo dell'orecchio destro gliela fende traverso la guancia fin sotto il
naso: un occhio dello infelice schizza fuori dalla fronte, l'altro gli
s'infossa; cade mandando un gemito; nella caduta alza le mani per portarle
alla ferita, ma non giunsero alla metà dell'atto, che la morte gli
scioglie le membra, ed egli percuote su la terra cadavere. Gorello lo
calpesta, e passa, nè va molto che s'incontra con un giovanetto, il
quale, veduto quel colpo, andava per vendicarlo: meglio per lui se non si
fosse mosso, o avesse avuto meno carità, o più valore; perchè
mentre solleva la spada, e grida--sei morto,--Gorello tanto rabbioso gli
mena dell'accétta nel ventre, che più di mezza vi penetra, e quando
la trasse a sè, gl'intestini si rovesciarono giù penzoloni per
l'anguinaia e per le cosce: il giovanetto urlando smanioso, raccolse con
ambe le mani le viscere, e si dette a fuggire; andava veloce, ma la morte
lo raggiunse in due passi; stramazza, e l'anima si parte pel luogo del
premio o della pena, piangendo il _fiore della perduta gioventù_.

Molte e più altre furono le ferite che dette Gorello, le quali non
descrive lo scrittore che dei presenti fatti ci dà contezza;
imperciocchè, essendo egli in quella fierissima notte allato di
Carlo, non potè tutte vederle, in parte preoccupato nella propria
difesa, in parte impedito dalle tenebre che di tratto in tratto
succedevano al bagliore dei lampi: egli si restringe a dire che
Gorello non mutò passo senza dar colpo, e a questo ci restringeremo
anche noi.--Ma poichè, aggiunge lo Storico, i nostri tempi non sono
più quelli del buono Re Artù, nei quali le fate donavano gli
scudi incantati perchè Lancillotto vincesse il Castello della
Guardia Dolorosa¹, Gorello versava sangue da molte parti del corpo,
onde, sentendosi scemare la lena, e crescere le percosse, tentò di
porre le spalle al maggiore albero della galera, e quivi difendersi,
finchè gli reggessero i polsi; gli venne fatto il disegno, e lì
menando in giro l'accétta potè ancora per alcun tempo tenere gli
assalitori lontani; mentre però essi s'ingegnano circondarlo
intenti a finirlo, egli inciampa in un cadavere, e cade; l'avrebbero
adesso agevolmente posto in brani, se il Cielo, che lo serbava a
più atroce destino, non lo avesse soccorso con mirabile caso:
puntellando il pugno su la faccia del morto giunge a rilevarsi in
ginocchio; ora un Siciliano che gli stava al fianco destro, desideroso
di trapassarlo, abbassa il braccio armato di pugnale, e con esso la
persona; il ferro male assestato lo coglie alla tempia, e di un taglio
poco profondo lo incide fino alla mascella. Avete mai considerata la
rabbia degli uomini? Il detto comune la paragona a quella del tigre;
ciò non è già perchè la uguagli, ma perchè tra le rabbie delle bestie
non se ne trovi altra che le si accosti, benchè alla lontana, come
quella del tigre:--l'uomo è unico, profondamente terribile in tutte le
cose.

  ¹ Questa è una bellissima avventura narrata nel Cap. 38 e
    seg. del raro libro della _Tavola Rotonda_

Con rabbia sì fatta che non ha paragone, Gorello afferra il braccio
del feritore, e glielo stringe in guisa, che i tendini costretti non
possono fare articolare la mano; poi glielo torce nel seno, e lo forza
a ferirsi; l'ucciso, che uomo di vastissime membra era, piomba addosso
a Gorello, lo copre della propria persona, e fa che nuovamente giaccia
disteso per terra: questa ventura fu operata in un punto, così che
un altro che teneva alzata l'accétta per trucidare Gorello, di
piena forza la vibra nelle spalle del morto compagno.

Intanto Carlo, che dal momento in cui vide Gorello con tanto felice
audacia lanciarsi su la galera nemica sentì pungersi d'ira, di
vergogna, e del nobile desiderio di porgergli soccorso, considerando
che col modo fin lì praticato non sarebbe riuscito in nulla,
chiamò ad alta voce: «Sire Gilles, andate, ed avvertite da
nostra parte Michaux, Labrodérie, e quanti altri potrete
raccogliere in fretta, e ordinate loro che si rechino tosto qui presso
di noi.»

Sire Gilles si avvia velocissimo; Carlo, ritraendosi un poco, per
essere meno impedito si cava le manopole di ferro, i bracciali, e gli
schinieri, quindi torna al suo posto. Accorrevano i Cavalieri
chiamati, e il Conte di Provenza così brevemente gli ammoniva:
«Baroni, il timoniere della nostra galera già si lanciò su la
nemica con raro esempio di ardimento e di valore: ci lasciammo rapire
una bella gloria; ma da che non c'è più dato di conseguire la
prima, acquistiamo almeno la seconda col dar soccorso al nostro prode
fratello di armi.»

Profferita questa breve orazione, gli si restrinsero attorno; e quando
venne il destro, ad un cenno si lanciarono tutti gridando:
_«Mongioia! Mongioia!»_ Come il destino volle, quantunque non si
fossero al pari di Carlo alleggeriti, pervennero a salvamento sopra il
legno avversario. Quella massa di uomini con tanto impeto balzata
percosse d'irresistibile urto i Siciliani, che di súbito
indietreggiarono: ripreso coraggio, si spinsero con nuova ferocia su i
Francesi che cominciarono a piegare, e cedendo cedendo giunsero in
parte, ove poco più che fossero andati oltre trovavano certissima
morte nel mare. Di rado avviene che l'uomo, posto tra la difesa
disperata e la morte, non vinca la prova. I Francesi ricuperarono,
sebbene a fatica, lo spazio perduto: tanta era la pressa, che non solo
non potessero adoperare le mazze d'arme per taglio, ma nè di punta.
Fu un urtarsi, uno spingersi e respingersi, piuttosto che ordinata
battaglia. Carlo, uomo ardito, lasciando allo improvviso l'accétta,
afferra il suo avversario alla strozza, e stringe si duramente, che lo
getta morto per terra: qualcheduno dei più forti dei suoi compagni
ebbe lo stesso pensiero, e gli venne fatto, perchè i Siciliani non
dubitavano di questo modo di combattere; qualche altro avendo il
pugnale l'adoperò: allora i nemici si ritirano, e sentendosi la
più parte feriti esitano a dare nuovo assalto. Questo istante di
dubbio decise la battaglia, imperciocchè i Francesi avendo spazio
da maneggiare le accétte, in che erano valenti, gli ridussero in
breve a chiedere i quartieri, che per comando di Carlo furono
prestamente concessi.

Queste cose accadevano allorchè Gorello, quasi sepolto sotto la
mole carnosa del suo nemico ucciso, scampò come per miracolo dalla
morte. Quegli che dette il colpo, invece di pensare a rinnuovarlo,
cheto cheto lasciò l'accétta confitta nel corpo del morto, e
favorendolo l'ombra si recò in altra parte per salvare la vita.

Carlo ottenuta la vittoria, per quella specie di affetto che hanno i
valorosi tra loro, come se fosse di ogni altra cosa dimentico si dà
con molta premura a chiamare Gorello. Gorello, udita la voce,
risponde: «Monsignore, in cortesia, sgombratemi da questo morto che
tenta vendicare col peso la vita che gli ho levata.»

Carlo getta da parte il cadavere, e porgendo la mano a Gorello l'aiuta
ad alzarsi.

«Siete voi ferito?»

«Sì, Monsignore, e in più parti, ma non mortalmente,
spero.»

«Ringraziato Dio e San Martino di Tours! Desiderate essere
trasportato su la nostra galera?»

«Desidero che si cerchi di Maestro Armando; egli mi è stato
compagno nella impresa, ma non l'ho più veduto al mio fianco.»

Carlo ordinò che se ne facesse ricerca; poi vôltosi ai
Siciliani, che se ne stavano prostrati, disse loro: «Alzatevi, voi
avete fatto quello che è conceduto ad un uomo vivente di fare; voi
non meritate questa umiliazione, e tolga Dio che noi abbiamo pensiero
di darvela: la fortuna vi ha vinto, ma noi pregiamo la vostra
prodezza, e vi ammiriamo; se tutti i vostri compagni somigliano a voi,
ardua sarà la opera alla quale ci ha chiamato il Vaticano, ma degna
di un figlio di Francia; così gloriosissima riuscirà a noi la
nostra vittoria, e la sconfitta senza vergogna.--Ora procuriamo
scampare dalla procella che tuttavia imperversa; guidateci voi, che io
fido nella lealtà vostra, perchè i valorosi non furono mai
traditori. Si chiami l'Ammiraglio.»

Così parlava Carlo, e Dio sa, che gli vedeva il cuore, con quanta
simulazione. Quello che certo si è, egli non si sentiva punto
disposto a lasciarsi condurre dai vinti, e già aveva detto a
Gorello: «Voi sarete il Maestro;» ma come pratico delle cose del
mondo, sapeva che quando non si può adoperare la diffidenza armata
(che è la meglio), non rimane altro che la ostentazione della
sicurezza; ed in fatti quella sua mezza vittoria non lo poneva in
istato di deporre ogni timore intorno l'ardire e la forza dei nemici.

«Ecco l'Ammiraglio!» grida la ciurma; e si odono pel buio più
persone che s'incamminano alla volta di Carlo.

«Io depongo ai vostri piedi la spada,» favella un uomo
sommessamente «e vi prego, glorioso signore, a ricevere l'omaggio
della mia fedeltà.»

In questo un baleno rischiara la scena; Carlo, con una mano sopra la spalla
di Gorello, contornato da molti Baroni, faceva atto che allo Ammiraglio si
restituisse la spada; questi tutto umile solleva la faccia per dimostrargli
la propria riconoscenza, o piuttosto per fingergliela.... «Vendetta di
Dio!» urla spaventosamente Gorello, e con furia rovinante respinge il
Conte. Un buio profondo succede al bagliore: si ode un cadere, un rotolarsi
sopra l'intavolato, un gemere.... Sopraggiunge il lampo....--spettacolo di
delitto! Gorello con orribile ansietà, con le ginocchia puntate sul
ventre dell'Ammiraglio siciliano, lo tiene con la manca stretto alla gola,
e con la destra armata di coltello gli squarcia il petto dal lato del
cuore. Torna la tenebra,--un susurro si diffonde su la galera; ogni uomo si
accosta al vicino, e vi si appiglia tremando.--Torna il lampo....--Gorello,
aperto il seno dell'Ammiraglio, gli aveva tratto il cuore, e con diabolico
anelito vi soprapponeva le labbra,--per baciarlo, o per divorarlo?¹ Gli
atterriti spettatori mandano un grido acutissimo, e l'oscurità cela nel
suo profondo il misfatto. Forse l'Eterno stanco di più sopportare
vibrò il fulmine rovente dell'ira a disperdere quel naviglio
insanguinato. Colui che non ha veduto, come noi abbiamo, scoppiarsi
appresso la folgore, non legga più oltre; la sua anima, per quanto
caldissima nell'immaginare, non potrebbe mai concepire, l'arcano del
terrore; colui che lo ha visto, richiami alla mente la sensazione che provo
in quel momento, e questa, più che le nostre parole, varrà a
dimostrargli qual fosse il caso che descriviamo. La folgore percosse
l'albero, e parte n'arse, parte spezzò; poi in mille lingue infiammate
si diffuse su la coperta, che apparve ad un tratto allagata di fuoco;
procedendo oltre si divise in minutissime scintille, che, trovando intoppo
al loro cammino nelle parti della galera, con impeto maraviglioso la
lacerarono, lasciando aperta la via alle onde agitate:--nessuno tra i
viventi sarebbe bastevole a sostenerne il fetore opprimente, e lo strepito
straziante; pensisi che sia per diventare allorquando vi si aggiunge la
vampa che abbrucia i capelli e la carne, e toglie affatto il vedere.
Francesi e Siciliani, gli uni su gli altri traboccarono privi di
sentimento. Nè per noi sarà passata sotto silenzio la fine
miserabilissima di Gorello: il troncone dell'albero, rotto dalla veemenza
della saetta, precipitando a basso lo colpisce a mezzo la vita, gli fiacca
la spina del dorso, e vi rimane immobile; l'infelice volendo sottrarsi alla
intensità dell'angoscia stende le braccia in cerca di un oggetto, dove
potersi con le mani aggrappare, e levare di sotto; raspando, raspando, le
dita gli si stracciano inutilmente;--su le tavole stanno impresse le tracce
sanguinose della impotenza disperata: pareva una serpe che rotta nella
schiena agita la parte anteriore del corpo, mentre la posteriore già
morta giace inviluppata nella polvere: quivi l'agonia lo sorprese, quivi la
morte, ed egli esalò l'anima dolcemente sul cuore dello scellerato
Drogone.

  ¹ Il fatto che qui si racconta non è unico nelle storie degli
    uomini. L'Archenoltz nel Cap. 5. della sua _Storia dei
    Filibustieri_ narra un fatto eguale commesso dall'Olonese contro
    del suo mortale nemico.

La galera abbandonata empivasi d'acqua per cento fessure; la gente,
per quanto sforzo vi avesse adoperato, non sarebbe venuta a capo di
salvarla; non potendo soccorrerla, fu sentita gorgogliare, come cosa
che s'empia, dipoi barcollò un momento, e si sommerse: i flutti che
si erano aperti per accoglierla nel profondo, si riunirono mormorando:
ella affondò non altramente che piombo in acque grosse.¹ Ogni
cosa scomparve: valoroso e codardo, giusto e colpevole;--la gloria
dell'oceano prevalse nel fremito della vittoria.

  ¹ Submersi sunt quasi plumbum in aquis vehementibus. (_Esod_., 15.)

Così le tracce del misfatto furono rimosse dalla vista degli
uomini; ma dettate nel singulto della agonia, ma scritte col sangue
dell'innocente, stettero incancellabili nel volume eterno della
giustizia di Dio.




CAPITOLO DECIMOQUARTO.

LA TESTA DEL GIUDICE INIQUO.

                Signor, far mi convien come fa il buono
                Sonator sopra il suo strumento arguto,
                Che spesso muta corda, e varia suono,
                Ricercando ora il grave, ora l'acuto.
                                      ORLANDO FURIOSO.


Lui fortunato! negli estri della mente divina seppe variare le corde
dell'arpa, e piovere celeste voluttà sopra i suoi versi immortali.
Leggiadro come il segno dell'alleanza di Dio, scherzoso come la
farfalla sul prato, lieto quanto il saluto dell'amante, guardò le
cose terrene traverso la luce della sua felice allegrezza; libò il
mèle dai fiori, le piante velenose o per istinto singolare
schivò, o sopra le sue labbra si tramutarono in dolcissimi
succhi.--Ahimè! chi privo dei conforti della immaginazione dal
ventre della madre fu abbandonato nell'angoscia del mondo, e
volgendosi agli anni della sua infanzia non trova luogo dove il
pensiero goda riposarsi un istante, e la più parte delle notti
della sua bella giovanezza passò seduto su le fosse che chiudono le
generazioni della polvere per meditare intorno alle sciagure e alle
colpe,--e pianse di essere uomo,--e rise di essere mortale,--e al
turpe sentimento di andare composto di creta porse la faccia nel fango
invocando eterna la tenebra sul creato per celarvi dentro la propria
vergogna,--chi tale nacque, non osi stendere la mano sull'arpa
dell'armonia; le corde si spezzeranno sotto le sue dita, quelle del
misfatto e del dolore accompagneranno soltanto la sua voce
lugubre:--non lauro di poeta, ma cipresso nudrito di lacrime sarà
la corona della sua testa, l'odio della gente la sua ricompensa, la
esecrazione l'applauso; maledirà, e verrà maledetto.

O anime innocenti, che vagheggiate dal sorriso dell'Eterno, tratte
dalla lusinga dell'amore godete affacciarvi alla vita, e tutte
esultanza intendete ad una aurora di cui non vedrete mai il sole,
nè badate alla bufera che vi minaccia alle spalle, vivete,--vivete
nelle beate illusioni di un tempo che passa; non guardate queste mie
carte, non le toccate, che grondano sangue!--La pace del mio cuore
è distrutta, ma io non amo distruggere la vostra; lasciatemi nella
solitudine dei miei tormenti:--che potrei darvi in ricompensa della
gioia perduta?--la scienza?--Adamo cibò il frutto fatale, e seppe
che doveva morire;--ecco la scienza dell'uomo!--Povera creta animata,
come amari sono i giorni che trascorri su la creta inanimata!

È Yole!--Vedetela, a passi lenti e tardi cammina pe' viali del giardino;
le posa una mano sul cuore, l'altra le pende giù abbandonata pel fianco;
il suo volto apparisce candido quanto il velo verginale che le ricopre il
seno, ma solamente candido:--Vergine benedetta! i suoi occhi splendono
lucidi come vetro, le palpebre immobili per così lungo spazio, che ogni
uomo che le avesse vedute sarebbesi maravigliato come potessero tanto
lungamente durare in quella situazione;--la pupilla gelata. Che guarda la
misera? Nessuno oggetto di questa terra. Le facoltà di quel senso
sembrerebbero morte, o sospese, se non che a poco a poco una lagrima si
forma nella cavità inferiore, e sgorga con incerto cammino giù per le
guance, quasi in testimonio dello affanno che la sua anima non ha potuto
contenere. Da lontano la seguono cautamente Gismonda e la Regina Elena.
Povera infelice! allo annunzio dell'avventura di Rogiero cadde svenuta tra
le braccia materne, ed ecco come ritorna alla vita. Ella pensò che
avessero udito il loro colloquio di amore, temè che lo avessero ucciso,
e le fibre dilicate del suo cervello piegarono sotto il peso della
angoscia: ora le volano traverso lo intelletto mille rimembranze
interrotte, in nessuna delle quali può fissare il pensiero; onde ne
nasce una vicenda vertiginosa, un roteare confuso, che la percuote con
sensazione di fastidio, simile a quella di colui che s'ingegnasse con ogni
sforzo di ritenere nelle mani alcuna cosa sdrucciolevole, nè per quanto
si affaticasse pervenisse mai a ritenerla: ora le immagini dei suoi timori
le appariscono come eventi, che si operino alla sua presenza:--affretta il
passo, muta la via, ma nè per accelerare di quello, nè per variare di
questa può fuggire lo inganno della sua mente traviata;--come talora
premendo il cuore sul letto del nostro riposo ne sembra tra i sogni di
vederci inseguiti da un demonio indefinito e terribile, e di fuggire, e
fuggire, e ad un tratto stramazzare:--tenti rilevarti, ma le membra son
fatte di piombo; nondimeno ti alzi su le ginocchia, prosegui la fuga
carponi, finchè torni a mancarti la lena,--e ti rimani immobile come
pietra;--intanto senti alle spalle il fragore dei denti, lo ardore delle
narici infuocate, e la pelle graffiata dalla branca infernale;--la natura
non può sostenere strazio sì fatto, ti svegli impaurito, bagnato di
sudore stendi le mani; conosci che fu sogno, e un gemito di conforto ti si
discioglie dal profondo del petto.--Il passato per Yole è divenuto una
nebbia, il futuro una tenebra; rammenta un amore, un sembiante, un
pericolo, ma slegati, e senza séguito tra loro: le sue idee, come le
nuvole del cielo, quando imperversano due venti contrarii, ora precipitano
da un lato, ora si cozzano impetuose, nè la procella che ne deriva è
niente meno terribile di quella che travaglia la testa di lei.--Che cosa fa
adesso l'anima, quella regina delle umane sensazioni? Perchè rimane
nella creatura ch'è diventata soggetto di pianto e di riso? Si mantiene
ella lucida, o disordinata quanto il corpo in cui continua ad albergare?
Non vuole, o non può, riprendere l'impero su gli organi ribellati?
Perchè più sublime della creta a cui sta unita si sottopone a tutte
le sue modificazioni? La scienza non giunse ancora, nè forse
giungerà, a svelare sì fatti misteri: ma la compassione è lungo
tempo che geme su questo avvilimento della nostra schiatta infelice.--Non
pertanto bellissima si avvolge Yole pei silenzii della notte, come la luna
nel firmamento,--scortato dalla quale il pellegrino, poichè schivò i
pericoli della via, e giunse a salvamento tra la sua famiglia, si sofferma
su la soglia a benedire quel raggio benigno:--quantunque spesso varii
cammino, ella si dirige a un punto determinato; qualsivoglia oggetto in che
le avvenga di urtare, le si presenta come ostacolo insuperabile, onde tutta
smaniosa si pone per altro sentiero; se il caso avesse fatto che per
nessuna parte avesse potuto procedere liberamente, forse sarebbe morta.
Andando oltre, giunse al luogo dove la notte precedente l'aveva rinvenuta
sua madre; si fermò alquanto, si pose in ginocchio, si guardò attorno
per ispiare se alcuno la osservasse, poi pianse sommessa: ciò fatto,
raccolse un monticello di terra, si trasse di seno una Croce di pietre
preziose, e ve la piantò sopra:--oh la preghiera di quella sventurata,
che sospirava a mani giunte, era fervida e degna di essere
intesa!--finalmente si levò, e parve volesse tornare al castello. La
Regina Elena la precorse con un cuore, che se alcuna madre poserà
l'occhio su questa nostra istoria potrà immaginare, perchè quei
travagli possono sentirsi, non raccontarsi.

«Ben sia giunta,» diceva la Regina Elena vedendo Yole
affacciarsi su la porta della sala «ben sia giunta la figliuola del
mio affetto!» e le corse incontro, e la baciò in fronte.
«Dove sei stata fino adesso, che ti ho chiamata tanto, e non mi hai
risposto?»

«Egli è morto.»

«Chi?»

«Egli.»

«Il nome?»

Yole non risponde parola.

«Ah figlia mia! quando cesserai di straziare l'anima della tua povera
madre? che ti ho mai fatto, perchè in questo modo tu voglia compensarmi?
non sono io che nove mesi ti ho portato nel seno? non io che col mio latte
ti ho nudrito, e il pianto della tua fanciullezza acquietato? Sfógati
qui nel mio cuore; tutto farò per te,--tutto, pur che non ti veda
infelice:--dove speri pietà più profonda di quella di tua madre?»

Yole tace.

«Tu vuoi la mia morte, lo vedo: ingrata! tu non promettevi di farti
così feroce,--no, tu non lo promettevi; eri una volta umana,
timida, pietosa,--ora come tu sei mutata! per te si consumano nello
spasimo i pochi giorni che Dio mi aveva concesso; tu me li togli....
tu.... ma io non maledirò mai l'ora del tuo nascimento.»

«Io l'ho maledetta.»

«L'hai? Dunque è finita per me; io non devo mostrarti più
questo mio volto; perdonami la colpa involontaria di averti dato la
vita, come io ti perdono il fallo meditato di averla maledetta. Là
nelle mie stanze, nascosta ad ogni vivente, lascerò logorarsi nella
fame un corpo, che ha generato figliuoli alla miseria. Da te non vo'
lagrima, non preghiera; nè devi darmela, perchè tu aborri quello
che la Natura ha posto per vincolo di amore tra madre e figlia:--ma
per gli affanni che mi hai fatto durare, per le pene passate, per le
presenti.... quando sarò morta, deh! ti scongiuro, figliuola, non
venire a rimproverare la tua vita alla mia polvere,--lasciala dormire
in pace.... ossa delle mie ossa, non mi perseguitate nel seno
dell'eternità!»

E qui la Regina Elena si allontanava. Yole agitata da fiera
convulsione stese le braccia co' pugni chiusi, e stirò la persona,
levandosi su l'estreme punte dei piedi; il bianco degli occhi
orribilmente dilatato non aveva più pupilla, che tutta le si era
nascosta nel ciglio,--solo una reticella di vene sanguigne che lo
sforzo aveva fatto comparire: era sua intenzione richiamare la madre,
ma il detto non potè uscire intero dalla gola ingrossata; appena
con istento infinito suonò come singulto. La Regina non comprese
quell'accento, e continuò suo cammino: Yole disperata di potere
farsi intendere con la voce, ricorse alle mani; pure se le fu concesso
stendere le braccia, non potè articolare le dita, e fare l'atto che
richiama, però che la convulsione gliele teneva serrate in tanto
aspra maniera, che le unghie le si erano fitte in mezzo delle palme:
ritentò con la voce.... miserabile racconto! così duramente le
tornò respinta nel petto, che vi mormorò roca, confusa,
soffocata, come il bramito di fiera, o come cigolío di cosa che si
rompe: la tensione dei nervi si convertì in languidezza, le
palpebre superiori rovinarono su le inferiori;--Gismonda la raccolse
tra le braccia.

                       --------

Dopo molto tratto di via, Rogiero seguendo i passi della fidata sua
scorta giunse all'albergo; imperocchè, a quel modo che ci racconta
Omero delle navi di Achille e di Aiace, le capanne di Drengotto e di
Ghino fossero lontanissime l'una dall'altra, e situate, in segno della
costanza dei loro signori, alle estremità di quelle dei masnadieri.
Infatti essi sopra tutti i compagni spregiavano i pericoli; il primo
per la indifferenza del bene e del male, principale distintivo della
sua indole; il secondo per una certa sicurezza tranquilla, che suole
accompagnare le anime veramente grandi. Entravano. Ghino, poichè
ebbe suscitato il fuoco, si accostò a Rogiero per aiutarlo a
levarsi l'armatura: questi vergognoso ricusava; ma insistendo il
cortese albergatore, lasciò fare. Ghino a mano a mano che ne
sfibbiava i pezzi, attentamente li considerava, e parte come buoni
lodava, parte riprendeva di alcun difetto, mostrandosi in questo
finissimo intelligente, e pratico molto. Rogiero girando gli occhi
d'intorno la capanna vide un'asta lunghissima, che per essere più
alta della parete era stata posta trasversalmente tra i due angoli;
maravigliando forte della grossezza di quella, come vago di sapere
domandò: «Cortese albergatore, di grazia, è l'asta del Re
Artù cotesta che conservate in quel canto?»

«Visse un uomo in Italia che soleva trattarla nella sua fanciullezza,
come il pastore maneggia il vincastro; egli vinse con essa più d'un
torneo, ed abbattè più di un cavaliere in battaglia. Questa sola mi
rimane del retaggio dei miei padri,--ella è la lancia del mio genitore:
anche io un tempo la palleggiai,--adesso comincia ad essere troppo grave
per le mie membra affralite.»

«Che Dio vi aiuti! affralite! Parmi che degli anni voi non potete
giungere oltre i quaranta.»

«Sono i soli anni, quelli che indeboliscono il corpo?»

«È vero... ma, in cortesia, perchè quel _pennoncello_ bianco
ne cuopre la punta?»

«Perchè vi si conservi vermiglio un sangue, che da più anni
vi sta sopra rappreso.»

In questo punto si fece udire il lamento di una remota campana, che
suonava per la prece che i Cristiani sogliono nell'ore della notte
recitare per le anime dei loro morti: Ghino ne raccolse i tocchi
concentrato, come lo annunzio di disastro avvenuto, poi disse a
Rogiero: «Bel Cavaliere, vi chiedo perdono se per un momento vi
lascio senza compagnia, perchè m'è forza recitare alcune mie
orazioni.»

«Che! avreste voi cosa per pregare, o per ringraziare il Cielo?»

«Io nulla chiedo per me; qualunque ventura mi sia mandata, o lieta,
o trista, chino la faccia rassegnato: ma io prego per la pace dei miei
defunti.»

«E credete voi che possa loro giovare la preghiera dei vivi?»

«Lo credo; e quando anche non giovasse a loro, varrebbe per
rammentarli a me. Un padre ucciso a tradimento vuolsi richiamare alla
memoria almeno una volta al dì.»

«Dite il vero; io pregherò con voi, benchè per rammentare la
morte di mio padre non reputi necessaria la preghiera.»

«Voi pure lo piangete defunto!»

«E ucciso co' maggiori tormenti che possano immaginarsi da mente
infernale.»

«_De profundis clamavi_» disse Ghino inginocchiandosi innanzi
una immagine, ove molto ferventemente per lungo tempo orò, tenendo
celato il volto nelle mani. Quando si rilevò, i suoi occhi
apparvero lagrimosi, ma la passione che gli aveva sforzati al pianto
era ormai trapassata: allo improvviso, come se la preghiera fosse
stata una parentesi, tornando sopra l'ultimo discorso domandò a
Rogiero: «Lo avete voi vendicato?»

«No.»

«Me ne duole.»

«Nell'anno che viene, se mai ci sarà dato incontrarci su la
terra, spero che potrò rispondervi in altra maniera.»

«_Amen_, bel Cavaliere.»

Sebbene i nostri eroi non sieno affamati quanto quelli di Omero¹
per doverli, come egli ha fatto, mettere tre volte a cena in una
stessa sera, nondimeno, od ora o poi, convien pure che ce li poniamo.
Ghino, imbandita la mensa, porse da lavarsi a Rogiero, ed egli ancora
data acqua alle mani gli si assise di faccia. Le vivande non furono
molte, nè ricercate; una grù arrostita fino dalla mattina
bastò a saziare ambedue. Se ad alcuno dei nostri lettori non
piacesse il cibo, incolpi i tempi dei quali trattiamo. Il mondo da
quel giorno in poi procede assai variato in tutte le cose, tanto
piccole, come grandi: i falconi, gli sparvieri, i moscadi, e simili,
tennero in gran pregio, ed imbandirono su la mensa dei grandi signori;
ora gli spregierebbe il più vile accattone che abbia mai limosinato
per amore di Dio. Quello che merita andare osservato si è, che
tutte le generazioni si accordarono nel diletto di tracannare del
vino, cosa che fa meno il suo elogio quanto quello degli uomini, i
quali hanno sempre amato di stolti diventare ubriachi, e viceversa
_per omnia sæcula sæculorum_.

  ¹ Ulisse e Diomede sono gli eroi omerici che fanno mostra di tanto
    appetito nel 9 e 10 dell'Iliade.

Mentre così sedevano a mensa, Rogiero venne in un pensiero, e tanto
vi si internò, che dimenticando il mangiare rimase immobile: Ghino,
poichè lungamente stette a considerarlo, ruppe alla fine il
silenzio, e favellò: «Bel Cavaliere, se la mia domanda non vi
riesce indiscreta, vorrestemi dire a che pensate con sì grande
attenzione?»

«Messer Ghino,» rispose Rogiero esitando «molto volentieri vi
compiacerei della richiesta, se non temessi divenirvi importuno.»

«Non vi rimanete per questo; dite pure francamente, che nessuna
cosa può derivare da voi, che molto non sia per piacermi.»

«Io pensava, come un gentile Barone, qual voi mi sembrate, possa
dilettarsi di tale mestiere, che la gente concorda a chiamare infame;
e mi pareva che voi non foste nato per questo.»

«Voi avete indovinato giusto:--io non sono nato per questo; nè
punto discordo con la gente a chiamare il mio mestiere infame,
quantunque conosca, che se a questa gente fosse detto: chi senza
peccato scagli la prima pietra,--nessuno tra lei sarebbe sì grande
imprudente da osarlo: aborro i masnadieri che mi circondano, e mi
trovo unito necessariamente con loro. La fortuna mi aveva dato
larghezza di averi, e un nome illustre; le mie facoltà sono
convenite in miseria, il mio nome in obbrobrio. Voi potete considerare
in me uno scherzo della fortuna, o, meglio, uno avanzo della
persecuzione, ch'io sono Ghino di Tacco dei Grandi di Siena.»¹
«Voi Ghino di Tacco, il famoso masnadiere!» esclamò Rogiero,
levandosi in piedi.

  ¹ Ghino di Tacco non è una invenzione fantastica, ma un
    personaggio rigorosamente storico, come il lettore potrà
    conoscere, se gliene prenda vaghezza, dai Comenti di Benvenuto da
    Imola, e del Landino, al canto 6 del _Purgatorio_, dalla Novella
    II, Giornata decima, del Boccaccio, e dalla storia di Girolamo
    Gigli.

«Ghino di Tacco Monaceschi dei Pecorai da Torrita;» senza punto
commuoversi rispose Ghino «voi avrete sentito favellare di me
strane novelle: so che la plebe matta mi dipinge come gigante di
terribile aspetto, di cuore senza pietà; so che le femmine
adoperano il mio nome per ispaventare i fanciulli, e fargli star
cheti, non altramente ch'io fossi la _tregenda_, o la _versiera_,
perchè suona antico quel detto, che gli uomini quando perseguitano
non si contentano di fare infelice il loro simile, ma lo vogliono
infame: questo è il meno;--parvi ch'io sia tale da curarmi del
biasimo, e della lode?»

«Io ho inteso rammentarvi sovente, come cavaliere valoroso nelle
armi, e più d'uno si dolse in mia presenza della necessità, che
vi ha spinto a cosa, che voi non amate di certo.»

«Sieno grazie a quei discreti. Nello stato di guerra in che io mi
trovo contro la società, mi studio a seguitare più che mi riesce
possibile il precetto di far del male meno che posso: se nel correr le
strade incontro qualche valente uomo povero, lo soccorro; se scolaro,
gli dono danari onde si compri libri, e gli raccomando a bene
applicarsi, perchè amo il mio paese: ma il cherico dovizioso, il
nobile superbo, devono pagare il riscatto; mi hanno tolto tutto,
bisogna pure che qualcheduno mi mantenga: essi tentano uccidermi, e
fanno il loro dovere; io non gli uccido, ma ne ricavo danaro, e faccio
il mio; se vogliono la pace, io pel primo depositerò le armi:
intanto, se è vero che la ricchezza dei pochi faccia la miseria dei
molti, io giovo alla società quando anche la guerreggio.»

«Certo, molto perdè Siena quando la abbandonaste.»

«Non l'abbandonai, bel Cavaliere; ne fui cacciato.»

«Dunque non rimane speranza che voi possiate tornare buono e leale
cittadino?»

«Nessuna. L'ingiuria è maggiore del perdono. Piacevi ascoltare
la storia delle mie avventure? Ella non è lunga, sebbene terribile
quanto altra mai accadesse nel mondo.»

«Io la terrò, messer Ghino, per la più alta cortesia con la
quale mi abbiate onorato.»

«Là su le sponde dell'Arnia, ove Farinata degli Uberti, il
magnanimo Cavaliere, vinse i suoi nemici, e la causa loro distinse
dalla causa della patria,--che quelli amò morti, questa
potente,--solleva le sue umili torricelle il mio castello di Torrita.
Non lontano da noi giacciono i ricchi poderi e i superbi castelli dei
Conti di Santa Fiora,--orgogliosi! che gonfii di umane ricchezze
stimano non albergare virtù in povero stato, ed ogni loro potere
dimostrano in far male, che questo reputano signoria,--essere gentile
e cortese, debolezza. Tacco mio padre, l'uomo che giocolava con
quell'asta là, tutto inteso a conseguire fama di virtuoso
Cavaliere, quantunque assai minore in facoltà dei Conti di Santa
Fiora, molto si studiava a soccorrere i miserelli del vicinato,
riparare i torti, e ricondurre la pace laddove si era del tutto
partita: quando gli veniva fatto passare pel borgo, udivasi gridare di
bocca in bocca! _accorrete a vedere il Cavaliere_,--ed ecco un recarsi
di donne alle finestre, di uomini su gli sporti delle botteghe con la
testa scoperta, e di giovanetti che gli si affollavano intorno per
baciargli la mano; egli, non che essere infastidito di quella scena,
assai se ne compiaceva, e a quale di quei fanciulli batteva
leggermente delle dita su le guance, e a quale altro spiegava sul capo
la sua mano terribile, come branca di lione alla tutela dei proprii
figli; spesso fu visto lagrimare di tenerezza, più spesso intesero
dirgli:--Signori scudieri, perchè allontanate da me quella gente?
avete voi a male che mi vogliano bene?--Talora sul tramontare del
sole, vestito di un giustacore di pelle, sopra povero ronzino si
metteva traverso la strada, e chiunque passava, a nome di Tacco da
Torrita suo padrone, pregava ad accettare per quella notte albergo al
castello; poi sè stesso per signore godeva manifestare, e l'ospite,
se era povero, secondo il suo avere mandava contento.

Spesso avvenne che i Conti di Santa Fiora mettessero gran corte, e la
facessero bandire all'intorno;--vituperio irreparabile! le tavole loro
furono deserte, mentre in quei giorni medesimi non mancarono ospiti a
Torrita; perchè dovete sapere, bel Cavaliere, che si vuole in donare
arte finissima, che non può insegnarsi, ma viene dalla natura, come la
bellezza del corpo; donando ad altri dimostri te più potente di
lui,» e qui Ghino alzò il dito, onde Rogiero ponesse attenzione,
«e gli uomini mal volentieri perdonano qualunque specie di
superiorità; il dono il più delle volte si parte dalla superbia del
donante, e si fonda su la umiltà del donato; quindi non fa maraviglia
se così spesso tu odi parlare d'ingratitudine con non retto consiglio,
che il presente del signore più che benefizio è obbrobrio per
l'umile, e per avere più argento di lui stima comprargli l'anima a
contanti: quella leggiadria, quell'affabilità di riso, per le quali la
propria piccolezza non sentiamo, o non rammentiamo, che su quel subito
persuadono che accettando fai piacere a cui offre, e ricusando gli daresti
sconforto, onde per un senso gentile tu ti trovi costretto ad accettare
l'altrui cortesia, sono cose, come io vi diceva, bel Cavaliere, da
ammirarsi, ma non da insegnarsi. Queste furono le virtù civili del mio
genitore; le militari....--voi avete tolto la sua lancia per quella del
favoloso marito della Regina Ginevra; bastivi questo, che una volta
correndo lancia in campo chiuso nel torneo del Natale, che suole tenersi
in Siena, conquistò venti armature ed altrettanti cavalli, i quali non
pure senza riscatto volle restituire ai cavalieri, ma gli menò seco a
Torrita, dove magnificamente onorati gli mantenne più giorni,
rimandandoli ai loro castelli stupefatti della virtù del Barone. I
Conti di Santa Fiora, non potendo mai prevalere in quelli esercizii
cavallereschi, molto si adoperarono presso il Comune di Siena, affinchè
gli abolissero, ma sempre indarno, chè i Senesi sono prodi di mano, e
troppo amanti di cotesti combattimenti. Nei tempi corrotti nei quali
viviamo, la emulazione anzichè esser madre di virtù partorisce odio;
nè mio padre, gentile con tutti gli altri, tenne modi assai soavi coi
Conti di Santa Fiora; anzi ogni volta che poteva trovarsi a far di arme
con loro, sempre si poneva nella battaglia contraria, e quivi di tali
colpi li percuoteva, che spesso gli rimandò ai loro castelli versando
sangue dalla bocca e dal naso. Sovente da più piccole cause derivarono
ferocissime avventure: l'odio dei signori si trasfuse nei vassalli, i
quali spesso incontrandosi pei campi vennero prima a parole di minaccia,
poi alle ferite ed agli omicidii; i Baroni reputarono andarne dell'onore
loro dove con le proprie armi non gli sostenessero, ed ecco come ruppero
in manifesta guerra in seno di un paese che vanta libertà di stato e
governo di repubblica. Mio padre, quantunque di uomini e di averi fosse
molto di sotto, così bene con la sua virtù si andava schermendo, che
i Conti considerando inutile la forza manifesta ricorsero al tradimento.
Io non mi ricordo, che forse di quattro anni era nato, della notte
terribile nella quale il perfido vassallo posto a guardia della porta del
castello mise dentro la gente dei Conti di Santa Fiora; solo conservo
rimembranza, confusa di donzelle scarmigliate accorrenti qua e là come
ossesse, e di una donna che pallida pallida mi prese tra le sue braccia, e
mi trasportò per molti sentieri tenebrosi alla presenza di un uomo
tutto armato di ferro, che fece infinite carezze a me ed a lei. Povera
madre mia! pensate con qual cuore una così grande gentildonna fuggisse
scalza, in camicia, col figlio in collo, dalle case saccheggiate del suo
nobile consorte, incerta s'egli vivesse, perchè al súbito rumore era
corso ad armarsi, e a ferire! Mi hanno raccontato le mille volte i più
vecchi dei miei vassalli, che mio padre in quella notte fece prove
incredibili, da scomparire al confronto le imprese favolose dei Cavalieri
della Tavola Rotonda; e che dove i nemici non fossero stati troppi, Dio sa
dove sarebbe andata a finire: incalzato da tutte parti, non si ritrasse,
se prima non seppe i figli, la moglie e i più fedeli vassalli suoi,
giunti a salvamento in luogo sicuro. Ei fu l'uomo armato che mi raccolse
alla campagna, e che io, sebbene uso a vederlo ogni giorno, non potei
riconoscere, tanto compariva mutato pel travaglio del corpo e dello
spirito. Mi hanno pur raccontato che quantunque non avesse piaghe mortali
su la persona, tanti però erano i tagli e le scorticature, che lungo
tempo stette senza potere vestire armatura. Qui nella mia mente occorre
una lacuna, e mi ricordo soltanto di essere stato condotto in un castello
da quella donna che mi aveva salvato, dove trovammo una bella signora
vestita di nero, ed un cherico che conobbi in appresso pel cappellano del
castello; essi ci accolsero cortesemente, e dopo che mia madre l'ebbe
favellato in segreto, piansero tanto che non avrei mai creduto che
creatura al mondo potesse piangere sì fattamente il danno di altra
creatura. Mia madre tutte le sere mi conduceva in un luogo oscuro, ove
ardeva una sola lampada innanzi alla immagine del Redentore, e quivi
pregavamo assai con la signora del castello e col cappellano; poi mi
menava al mio letto, e prima ch'io prendessi sonno molte cose mi diceva di
cavalieri antichi operate con prodezza di mano e con pietà di
consiglio. Certa sera non la vidi comparire, la seguente nemmeno; ne
domandai alla signora, ed ella non mi rispose; senza sapere il perchè,
io mi posi a piangere dirotto; il cappellano si asciugava le lacrime
dietro la sedia di madonna, che pareva più crucciosa del mio pianto,
che della morte di sua infelice cognata.--A cui appartiene quel bastone
sì lungo?--domandai un giorno alla dama, vedendo appesa l'asta paterna
nella sala del castello.--Ella è la lancia di vostro padre.--E quella
camicia insanguinata?--È la camicia di vostro padre.--Perchè non
viene a vedermi? gli sono forse mal gradito?--Orfano, ei vi amava più
della sua vita, ma i suoi nemici lo hanno trucidato.--Oh Dio! dove sono
eglino questi traditori? come si chiamano essi, signora?--Figlio del
tradito, voi lo saprete quando potrete vendicarvi.--O mia bella signora, e
quando lo potrò io?--Quando maneggerete quella asta, come la bacchetta
che adesso tenete nelle mani.--Ecco come nel mio spirito entrarono le idee
di vendetta e di morte, prima che sapessi come possa offendersi un uomo.
Da quel punto in poi nessuno altro desiderio mi si avvolse per la mente,
che farmi robusto per maneggiare quell'asta: l'alba mi trovava nel bosco,
il sole mi lasciava là dentro; in breve diventai forte cacciatore:
quando trafelante di fatica io giungeva al castello portando su le spalle
il cinghiale morto per la mia lancia, la signora mi occorreva con lieto
viso, e mi baciava; se privo di preda, il cammino era deserto, ed io mi
nascondeva nella parte più remota a fremere su la mia rabbia. Spesso
nella notte, allorchè tutto attorno taceva, me ne andava sospettoso,
come ladro, al luogo dove stava appoggiata la lancia; e prendendola pel
calcio, mi affaticava a sollevarla; incredibili erano gli sforzi che vi
adoperava; poneva le mani in tutti i modi, stringeva, scuoteva, ma tutto
questo era nulla, che ella con la sua immobilità pareva schernire la
mia debolezza; finalmente tolta di equilibrio cadeva con alto fragore, ed
io celerissimo mi confondeva nella tenebra per non essere côlto in
quell'atto vergognoso: alla mattina mi si presentava nella medesima
situazione, come se tornasse a sfidarmi. Venne il momento in cui
contraendo i muscoli, coi denti stretti, gli occhi gonfiati, l'afferrai
con ambe le mani, e giunsi a sollevarla.--L'hai sollevata!--gridò la
voce della signora, che all'improvviso mi percosse la spalla;--orfano, tra
un anno e un giorno saprai quello che si vuole da te. Fu imbandito uno
splendido banchetto, le bandiere sventolarono sopra le torri del castello,
e le trombe suonarono dalla mattina alla sera per celebrare la festa della
lancia sollevata.--Passa il giorno,--si fa il mese,--l'anno si compie: a
mezza notte sento toccare la porta della mia camera, ed una voce che
grida:--Perchè dorme il figlio del tradito? l'ora della conoscenza è
arrivata.--La signora del castello mi piglia per mano,--ella tremava come
foglia,--e mi conduce alla cappella: su l'altare stava un libro aperto, e
la camicia insanguinata; la lancia era nella mia destra.--Quella è la
camicia che vestì tuo padre nel giorno della sua morte; quel sangue di
cui va tinta è sangue di tuo padre, cavatogli dalle vene a tradimento
dai suoi nemici: giura, figlio del tradito, sopra i santi Evangeli, che lo
vendicherai.--Appoggiai l'asta all'altare, e battendo con ambe le mani sul
libro urlai:--Lo giuro.--La signora mi si gittò al collo, e pianse, e
rise, e mi baciò forsennata.--Anima sicura, vero figlio del mio tradito
fratello, ascolta chi sei.--Qui mi narrava gran parte delle cose che
già voi sapete, ed aggiunse:--La donna che ti menava la sera alla
cappella, era tua madre; ella viveva meco, come può vivere la moglie
del profugo di cui la testa è messa a prezzo: una sera un vassallo
vestito a lutto giunse al mio castello, e domandò vedermi:--Che nuove,
vassallo? gli richiesi, allorchè pose il piede nella sala.--Madonna, vi
porto parole del vostro fratello, ma le ultime.--Dille.--Avanti di perder
la testa sotto la scure, Monsignor Tacco, chiamatomi a sè, mi ordinava:
quando sarò morto, fa di levarmi la camicia, e intingila più che
potrai nel mio sangue; poi prendi la mia lancia, e va con queste cose a
Radicofani da mia sorella madonna Gualdrada,--intendi bene,--mia
sorella;--la mia sposa morirebbe all'annunzio;--e le dirai: Madonna,
questo è il retaggio che vostro fratello manda al suo figliuolo Ghino,
e vi raccomanda per quanto aveste caro il suo amore in vita, e amate la
pace della sua anima in morte, che nulla facciate sapere al fanciullo dei
suoi casi, finchè giunto a conveniente età possa maneggiare questa
lancia; allora gli svelerete il suo lignaggio, e gli farete giurare su
l'Evangelo di vendicarlo. Della sua moglie non vi parla;--questa speranza
ha reso meno amara l'ora del suo assassinio.--L'annunzio non si potè
tanto celare, che non giungesse alle orecchie di tua madre; venne nella
mia camera per saperne la verità, io non negai nè affermai, ella
cadde.... ora giace--sepolta--qui--sotto i tuoi piedi. Tuo padre bandito
dal contado di Siena sì dette alla strada; incatenato nel sonno venne
in mano dei Farisei: le sue parole commossero i cittadini, forse era
salvo; ma il Benincasa di Arezzo giudice criminale di Siena ne vendè la
vita, e i conti di Santa Fiora sborsarono il prezzo del sangue: egli è
morto sul patibolo, dico--sul patibolo;--sia il tuo odio contro i
Conti,--se hai nell'anima qualche cosa più dell'odio, pel
Benincasa:--quegli erano antichi nemici, questi un codardo tremante che
trafficò l'anima dell'innocente co' fiorini: ora egli tiene ufficio di
Senatore a Roma; la fortuna ti offre luogo splendido per la vendetta; da
questo momento non puoi più albergare nel mio castello; già di
un'ora è trascorsa la mezza notte, il cielo stride tempestoso; ma
armati, e vattene: il solo segno pel quale ti sia abbassato il ponte di
Radicofani è la testa del Benincasa.--Muggi la procella, ma non la
intesi; in compagnia dei miei pensieri cavalcai per le usurpate mie terre.
Videro la camicia insanguinata, videro il figlio del buon Cavaliere, che
trattava l'asta paterna, e tutti i vassalli mi proffersero aiuto: ne
scelsi quattrocento; e veloci quanto la mia impazienza, giungemmo a
Roma,--Roma il gran scheletro.--Siamo a piè del Campidoglio:--pareami
udire da quelle magnifiche rovine gemere gli spettri romani;--per un
momento dimenticai la mia vendetta,--per un momento.--Lasciai i miei
compagni: e ascesi tutto solo le scale.---Un uomo di bassa statura, di
colore cadaverico, smunto, cresputo per la fronte e per le guance,
sfogliava un grosso volume con mano paralitica: nel primo vederlo mi
sentii preso dal ribrezzo, che produce la cosa schifosa dalla quale ti
allontani per non imbrattarti il calzare: questo ribrezzo mi ha poi sempre
accompagnato allorchè si offerse ai miei occhi gente di toga: infatti
ella è schiuma dei vizii umani; venditori di parole senza senno, venali
quanto l'anima di Giuda, fondano l'arte loro nelle discordie di uomo e
uomo, spesso di fratello e fratello, o di padre e di figlio; impudenti
senza paragone, scoprono con mani profane le vergogne della nostra
schiatta, vi suscitano la rabbia di avere, e vi seminano, come i denti del
serpente, la massima, non darsi al mondo gentile passione, che valga al
confronto di un pezzo di oro coniato; tronfii per vano sapere, come
l'ebbro pel vino ingoiato, gobbi pel travaglioso mestiere di svolgere
libri, e di confondere lo intelletto che la natura aveva loro compartito
ordinato, tre stoltezze d'ignoranti che hanno scritto innanzi di loro
fanno per essi una ragione; chi più ha grassa la memoria di queste
stoltezze, è più reputato; come la tignola, la quale più rode,
più si approfonda: oh! avessero tutti una testa sola!... Mi accostai al
banco di cotesto abiettissimo; egli alzò la faccia, e strinse gli occhi
per meglio vedermi, che la lettura glieli aveva indeboliti.--Chi siete?
che cosa volete?--mi disse con voce strillante:--spacciatevi, che ho da
finire molte faccende questa mattina.--Magnifico Senatore,--risposi
appressandomi sempre più al banco,--la mia è piccola cosa, e da
sbrigarsi in un solo momento.--Non venite più oltre, ch'egli è
difeso farsi tanto vicino al Senatore.--Io non gli badava, e continuando
il passo, e il discorso:--Voi mi dovete un debito.--Qual debito? voi siete
folle. Allontanate quel pazzo, spingetelo fuori, cacciatelo
prigione!--Folle tu, che credesti essere salvo quando vendesti
l'innocente; tu mi devi la vita di mio padre.--In questa, io me gli era
avventato addosso, e lo aveva stretto alla gola con tale furore, che gli
occhi gli scoppiavano dalla fronte, le sue labbra balbuzienti
mormoravano:--_Salvum fac spiritum meum_;--ed io gli susurrava
all'orecchio:--Dannazione! dannazione!--Poi trassi il coltello, e seguendo
la impronta violetta delle mie dita gli segai il capo, e lo afferrai pe'
radi capelli che avea su la fronte con la gioia dell'amante che stringe la
mano della fanciulla desiata. Intanto era accorsa assai gente; senza
sconfortarmi mi vôlto, stendo il braccio mostrando il pugno e il
coltello insanguinati, e grido loro:--Cristiani, fo voto a Dio, che a
quale si oppone al mio cammino, io do di questo coltello per mezzo del
cuore.--Pare che il sembiante corrispondesse al detto, perchè si
ritirarono chi qua, chi là, mormorando come, il mare quando il vento
cessa. Mi accolsero i miei vassalli con alte strida di allegrezza, io
conficcai la testa del Benincasa su la lancia di mio padre, e dato ordine
che suonassero lietamente le trombe, me ne uscii di Roma, traversando
immensa quantità di popolo atterrita per così grave ardimento.--Guardia!
guardia! abbassa il ponte.--Chi è di là dal fosso che vuole entrare
a questa ora?--Abbassa il ponte, che sono Ghino.--Messere, voi sapete
l'ordine di Madonna: avete il segno?--Sciagurato! parti che vorrei
comparirle avanti senza esso?--Passo il ponte, volo alle stanze di madonna
Gualdrada,--non v'era; corro alla cappella, e già da lontano me
l'annunzia la sua voce salmeggiante: entrai per una porticella allato
dell'altare, e vidi madonna inginocchiata ai balaustri, intenta a leggere
la sua orazione; il debole lume di una sola candeletta la illuminava, e a
canto alla candela potei osservare una disciplina: al cigolio che fece la
porta volgendosi su gli arpioni, al rumore dei miei passi, levò gli
occhi, che assuefatti alla luce non poterono scorgere nella oscurità;
io camminava lentamente senza proferire parola sporgendo il braccio con la
testa del Benincasa: madonna a proporzione che mi avvicinava alla luce
vide un oggetto indistinto,--una testa di uomo sospesa per l'aria.--Il
volto del Benincasa!--allora esclamai:--il segno fu portato, il ponte fu
abbassato.--Ben fu abbassato,--rispose la dama, e chiuse tranquillamente
il libro, prese la candela, e fattala innanzi ai miei occhi si pose fissa
fissa a guardarmi. Poichè si fu accertata ch'era il suo nepote, divenne
a un tratto vermiglia, di lì a poco bianca; fece prova di sostenersi al
balaustro, ma le forze le mancarono, e priva di conoscenza cadde nelle mie
braccia.--Da quel giorno tutti mi hanno dichiarata la guerra, ed io assai
lietamente mi difendo da tutti. La savia dama morì, e m'istituiva suo
erede: ella teneva Radicofani dalla Chiesa, io non lo tengo da alcuno, e
non corrispondo vassallaggio, nè omaggio;--che vengano a cacciarmi, se
valgono. I Conti di Santa Fiora più di una volta hanno avuto le tempie
rotte, i castelli arsi, i poderi guasti: alla fine, lasciata la campagna,
si ripararono nelle mura di Siena, io ve gli ho chiusi in confino; se
osassero romperlo, pena--la morte. Le mie imprese non sono da
raccontarsi;--figuratevi che, cosa può fare un povero masnadiero! se
però non furono illustri, non furono nè anco crudeli. Il bene mi
è conteso, la gloria vietata; ciò che mi si concede sperare è di
essere meno aborrito. Ora poi mi ha preso vaghezza di accostarmi al Regno,
perchè amo Manfredi; e quantunque ei non lo sappia, ha in me un amico
che lo sosterrà finchè l'anima gli basti.»

«Santa Maria! Voi amate Manfredi?»

«E perchè non dovrei amarlo? non sono i suoi costumi quali la
stessa invidia non potrebbe emendare?»

«Male accorto che siete! egli è il più tristo che illumini il
sole: uccisore del suo fratello, mortale nemico mio.» E in questo
punto Rogiero gli narrò le cose avvenute, quelle che disegnava
operare, e alla fine delle sue parole interrogò: «Che parvene?
è egli uomo da amarsi costui?»

«Voi avete ragione di odiarlo, se le cose esposte sono ben vere. Io
italiano vedo in Manfredi un mio fratello valoroso, e sapiente, che
ama la Italia, e vuol farla grande; però non posso, nè devo
odiarlo: quando anche non fosse tale, ma straniero avaro e rapace, ben
io vorrei dare mano a cacciarlo con le nostre proprie armi, non già
con le altrui: ci viene da tempi assai remoti la favola del cane, che
carico di vespe stavasi immobile senza batter palpebra, perchè,
come egli disse a cui lo interrogò, quelle ormai si trovassero
sazie di sangue, nè gli dessero più fastidio, mentre se si fosse
mosso sarebbero sopraggiunte altre assetate a suggere ciò che vi
lasciavano le prime.»

«Dovrei dunque rinunziare alla mia vendetta, perchè i suoi
interessi stanno uniti a quelli d'Italia? Intanto mora egli, all'armi
straniere provvedemmo.»

«Distruggere gli stranieri non riesce così agevole come
chiamarli; e voi con incerta speranza apportate al vostro paese danno
certissimo.»

«Disperisi l'anima di mio padre! Lo avreste voi fatto?»

«Cavaliere, io non vo' dirmi più buono nè più tristo; non
so quello che nel caso vostro avrei operato; ringrazio la ventura, che
vendicandomi non ho nociuto che a pochi uomini.»

«Questa vostra risposta si rassomiglia alla spinta data al naufrago
che cerca la riva.»

«Ma!» rispose Ghino celando la faccia «potrei darvi l'anima,
non il consiglio.»

«Voi mi aborrite?»

«Io vi compiango. In ogni caso rammentatevi, ch'io vado lieto di
dovervi la vita.»

Allora si levò, e andarono a riposare. Alla mattina Rogiero, tolto
commiato dal suo ospite, che assai doloroso lo vide partire,
proseguiva la via.




CAPITOLO DECIMOQUINTO.

LA FINE DEL TRADITORE.

                Avea l'aurora già vermiglia e rancia
                Scolorite le stelle, allor che lunge
                Scoprimmo, e non ben chiari, i monti in prima,
                Poscia i liti d'Italia. Italia! Acate
                Gridò primieramente; Italia, Italia,
                Da ciascun legno rintonando allegri,
                Tutti la salutammo.
                                          ENEIDE.


Ecco le Alpi.--Quanti sono i secoli che ne incoronano la cima?--Il
tempo li confonde nei suoi misteri.--Di quelli che i popoli conoscono,
alcuni appaiono luminosi quanto la gemma sul diadema del
potente,--altri foschi di luce sanguigna, come l'ultimo raggio del
sole che muore,--altri tenebrosi di terribile oscurità.--Da quelle
rupi abbrustolate dal fulmine l'Aquila romana guardò le nazioni
della terra, e spiccando il volo al corso fatale precorse con lo
spavento di provincia in provincia, di parte di mondo in parte di
mondo, la vittoria delle legioni immortali.--Gli alti destini di
Annibale le apportarono la dolorosa conoscenza, che poteva essere
vinta; pure, finchè le virtù patrie le composero il nido, stette
coll'Alpi terrore dei popoli.--Quando consumato dagli anni e dai vizii
l'Impero dei Cesari giacque sotto il peso della propria grandezza,
abbandonò l'Aquila superba quel cadavere di gloria, lasciando allo
stormo dei corvi settentrionali cibarsi di morte reliquie.--Venne
Carlo Magno, ma l'Aquila era fuggita, il nido freddo, ed ei lo
disperse.--Il genio di un fiero Capitano erra fremendo per quegli
spaventosi dirupi. Sciagurato! a lui avevano concesso le sorti del
mondo rilevare l'antica virtù di Roma, a lui fare manifesto, che
gli eroi trapassati potevano ancora oggidì, non che imitarsi,
superarsi in Italia: l'Aquila posava nel suo pugno sicura quanto su
l'asta di Cesare:--chi mai glielo avrebbe voluto contendere, o volendo
chi glielo avrebbe potuto? non vinse un tempo uomini, e cielo?--E
sì che italiane furono le voci che gl'insegnarono le prime parole
di amore, italiano l'aere che bevve in prima, italiano il sole che
riscaldava le sue membra infantili!--pure nol fece; forse ha pagato in
vita amara la pena di questa colpa, ma non è convenevole
espiazione.--Allorchè le nostre istorie suoneranno nelle future
generazioni, come il mormorio della cascata lontana, e le imprese
parranno simili alle tracce dello spento vulcano, e le favelle oggetto
di faticosa ricerca pe' sapienti, certo il suo nome starà sempre
grande quanto il vertice del San Bernardo da lui superato, che
sollevandosi portentoso si smarrisce nel profondo delle nuvole
dell'orizzonte; ma la fama di questo errore, o delitto, vivrà
eternamente congiunta al suo nome, perchè egli non è tale che
per tempo possa essere obliato, nè per pentimento rimosso.--Ora le
sue virtù, i suoi vizii, le sue ossa dormono nella tomba;¹--non
aggraviamo la mano sul Grande, che giacque;--ma noi non possiamo
finire i nostri pensieri su lui se non che sospirando: ahimè!
potevi essere un Dio, e volesti rassomigliare a un flagello.--Chi
potrà reggersi sopra la spada dopo di te?

  ¹ Didymi Clerici prophetæ minimi vitia, virtutes, ossa, hic
    tandem conquiescere coepere. (_Epitaffio di Ugo Foscolo_)

Che volle fare la _Natura_, quando con lo orrore delle nevi, le rovine
della _valanga_, la bufera dell'uragano, lo spavento della solitudine,
i dirupi, i torrenti, ci ricinse delle Alpi? Pensava ella che fossero
sufficiente schermo alla rabbia degli uomini? Non era meglio stillare
nel cuore loro un pensiero di pace? Avrebbe la perversità della
creta superato la previdenza della Natura? Quelle nevi, quelle rupi
furono vinte da tali, che nulla curando abbandonare le care consorti e
i parenti, sgorgarono rabbiosi su queste nostre contrade simili a
fiumi di lava infuocata:--qui oppressero,--qui si strapparono dalle
mani sanguinose la preda,--qui caddero; ora bagna la pioggia, ed agita
il vento le loro ossa insepolte, senza onore di fama, senza compianto.
Miseri ingannati, che giubbilando accorreste sotto lo stendardo del
feroce, che vi chiamò con la gloria perchè vi avrebbe allontanato
il disprezzo, venite, e vedete qual sia gloria la vostra. Servi vergognosi
di un solo, traditi in vita, come derisi in morte, cadeste vittime innanzi
l'idolo della spada che avete adorato.--Essi ci oppressero, essi
_mangiarono tra noi il pane dell'empio, bevvero il vino del violento_;¹
adesso sono morti, esecriamoli.... no.... le antiche ingiurie furono
vendicate. Angoscia amaro il riso dello scherno sul labbro del vincitore?
Assai lungamente i nostri padri fecero gustarlo altrui, ora gustiamolo
noi;--il tempo viene implacabile e giusto riparatore dei torti:--assai
lungamente durammo scellerati; se avessimo continuato ad essere forti, lo
saremmo tuttora; ci mancò l'anima e la forza, altri ha prevalso;--che
giova il lamento? In nome di Dio, non mormoriamo di nessuno, o mormoriamo
di noi, che primi ad offendere ci addormentammo sicuri sul letto della
ingiuria: l'offesa non dormiva però, che passava le notti a vigilare con
la vendetta, e il sonno fuggiva fremendo da quelle inesorate:--al nostro
svegliarci, le catene ci suonarono da tutte le membra:--onta al male,
accorto che dormì sul pericolo!--Che giova mostrare il lembo lacerato?
Ogni uomo ti beffa, nessuno ti aiuta. Anche la oppressione ha la sua
grandezza; sta il rispetto co' vinti, come la paura co' vincitori; solleva
la testa, cammina sicuro: così, se vivi senza onore, morrai senza
infamia, e sarai degno che l'Eterno trami nell'arcano dei secoli ai tuoi
tardi nepoti un nuovo manto di gloria.

  ¹ Comedunt panem iniquitatis, et vimini impietatis
    bibunt. (_Prov._, 4.)

Sul declivio delle Alpi dal lato di Francia ascende con infinito anelito
una gente desiderosa di pervenire alla cima. I sentieri rotti e
precipitosi, il pericolo dei passi, l'angustia dei luoghi non permettendo
conservare gli ordini, l'esercito di Carlo cammina sbandato a drappelletti
di venti o più persone, intente a procacciare piuttosto la propria, che
la comune salvezza. Guido da Monforte _Luogotenente_ generale, Roberto
Conte di Fiandra, il Conte di Vandamme, Piero di Bilmont, il _Contestabile_
Giles Lebrun, Mirapoix il _Maliscalco_, Guglielmo lo Stendardo, ed altri
capitani, abbandonate le insegne, circondano la lettiga della Contessa
Beatrice, trasportata da due robusti montanari, i quali di tanto in tanto
rifiniti dalla fatica la trasmettono a portare ad altri che prestamente
subentrano. L'aria soffia gelata, alpestre si dirompe la via; ogni passo
che mutano segna una goccia di sudore che la stanchezza distilla dalla loro
fronte; spesso si fermano sollevando gli sguardi per vedere quando giunga
al termine il monte; ma questo, celando il superbo comignolo tra i nugoloni
grigi che quivi dimorano, come in seggio di gloria, accenna essere
insuperabile a passo mortale, e ridersi della umana impotenza. Una volta
gridarono; ma il grido risuonò così salvatico per quelle frane
scoscese, tanto spaventoso uscì l'eco da quei luoghi sconosciuti e
terribili che non osarono ripeterlo; gli uccelli di rapina fuggirono
schiamazzando dai nidi, i lupi si riunirono a torme, e visto il branco
più numeroso, e più feroce di loro, si nascosero prestamente giù
per le macchie della bruna vallata. Superarono rocce, valicarono torrenti,
sgombrarono nevi, alberi, sassi, e quanto altro si parava loro dinanzi, con
rara costanza di audacia: pure di ora in ora tu vedevi un uomo ansante,
traendo a mala pena il respiro, gittarsi come sgomento sul terreno, e
lasciare che i compagni lo precedessero, e finchè gli occhi potevano
seguitarli si allontanassero; quando poi venivano a smarrirsi per le
giravolte del monte, e il suo orecchio non udiva più voce di anima
vivente, e il suo sguardo spaziava per lo spavento di quelle solitudini,
balzare in piedi tutto tremante, e come meglio poteva correndo
raggiungerli: in altro luogo un cavallo sdrucciolando sul ciglione del
dirupo strascina seco il cavaliere, che intento a studiare il passo lo
conduceva per le redini avvolte intorno al suo braccio; mal sapendo come
salvarsi, si appiglia al più vicino, il quale a sua posta aggrappa un
altro, e questi un altro ancora,--così tutti insieme in un fascio
precipitano giù nel profondo;--uno strillo acutissimo si fa sentire, poi
séguita il silenzio mortale, perchè il luogo ove percuotendo si
rompono giace oltre l'udito dell'uomo.--Soldati di ferro tutelati dal genio
di un feroce Capitano con molto maggiore pericolo in tempi più recenti
trapassarono il San Bernardo, e lo Spluga; invano impedirono loro il
cammino le artiglierie, e gl'ingombri che le moderne guerre richiedono;
invano l'uracano dell'Alpi, le nevi smosse, lo impeto degli elementi
scatenati; vinsero, e lasciarono esempio di tale impresa, che, finchè
l'uomo sarà composto di carne, non potrà superare giammai, onde il
buono istorico¹ ebbe a dire, _questi essere fatti piuttosto da giganti,
che da uomini:_ ma se la bufera e le artiglierie non impacciarono
l'esercito del Conte di Provenza, medesime però furono le nevi
pericolose, le vie sdrucciolevoli, le roccie, i precipizii, gli scogli;
ora, come allora, più d'un soldato tenacemente stretto al compagno ebbe
vaghezza di affacciarsi a contemplare l'inferno della rovina, e tanta fu la
paura che gli percosse lo spirito, che prestamente ritirandosi si fece il
segno della croce, e si raccomandò a Dio; ora, come allora, più di
uno volgendosi alle case paterne sentì suscitarsi nell'anima il pensiero
dei figli diletti, e sospirò, maledicendo l'ambizione dell'uomo che mena
la gente da una terra perchè si finisca in un'altra.--Procedevano
tristamente in silenzio, guardandosi sospettosi d'attorno per potersi
scansare a tempo, se mai a qualche male accorto fosse avvenuto
cadere;--erano i loro pensieri salvatici, spietati, siccome vuole la
Natura, allorchè l'uomo è costretto dalla prepotente necessità di
pensare a sè solo.--Ora camminando giungono in parte dove la montagna
tagliata a perpendicolo non offre adito a cui va senza l'ale; i precedenti
incalzati dai susseguenti vi danno dentro in molto sconcia maniera; indarno
sospinti, partecipano di mano in mano ai più remoti quella involontaria
immobilità.--«Non v'erano sepolcri² in Francia, che ci hanno
condotto a morire su le aperte montagne? Dove è il Conte di Monforte?
venga il Conte, e ci riconduca a casa,»--urlava la plebe
imperversata.--«Ritorniamo,» gridò il Conte cruccioso, «poichè questo è
il piacere vostro, ritorniamo: già da tre giorni camminavamo questa via,
oggimai eravamo presso al termine, dove i nostri amici di Monferrato ci
hanno apprestato luoghi da riposare, cibo da ristorarci: le vettovaglie che
ci rimangono, serviranno mala pena pel giorno futuro; moriremo per istrada
di fame e di freddo;--che cosa importa? ritorniamo. Forse adesso Monsignor
Carlo tra gli applausi di Roma ci attende, ci attende il Pontefice
santissimo, gl'Italiani ci attendono; ma sia per noi la speranza loro
tradita, sia per noi manifesta alla gente la nostra viltà: già i
nostri padri condotti da Carlo Magno queste Alpi stesse, fortificate dagli
uomini, difese da una intera nazione, superarono;--felice lui, che i cieli
chiamavano a condurre i valorosi! noi, figli degeneri, fuggiamole senza che
alcuno ce le contenda; torniamo in Francia tra i nostri fratelli che tanti
pericoli con inudita costanza vincevano in Palestina, ed una palma di
splendidissima gloria conseguivano; le insegne dalle nostre dame donateci,
onorate di così illustri imprese, a restituire torniamo. Non io vi
tornerò per certo, chè temerei ogni uomo che m'incontrasse per via,
al suo compagno mi additasse, e gli dicesse:--Questi è quel forte, che
non seppe salire sul monte.--Imitiamo così il nostro virtuoso Signore,
che con venti galere si mise in mare alla ventura d'incontrare le ottanta
dell'eretico Manfredi; così la data fede gli conserviamo. Ben è
questa la via che conduce alla immortalità, questo il modo pel quale
acquisteremo le sacrosante indulgenze, che con tanta larghezza ci ha
compartito il Pontefice, lo scioglimento questo del voto che faceste alla
presenza dei suoi Legati, allorquando prendeste la croce:--pensate, voi
adesso trovarvi in faccia degli uomini, e di Dio. Il nostro nome sta per
diventare eterno, chè l'infamia si prenderà cura di conservarlo come
esempio di vergogna;--il giglio d'oro è macchiato, l'onore perduto; io
qui spezzo la spada, e giuro su la fede di Cavaliere di non portare più
l'armi:--andiamo incontro all'onta e alla disperazione, da che gloria e
salvezza aborrite.»--Queste cose disse il Monforte, ed altre molte ne
aggiunse, parte delle quali come vane non ascoltarono, parte andarono
perdute tra il rumore del vento, e della moltitudine. Ora stavano sul punto
di volgere le spalle, allorquando la Contessa Beatrice, donna di gran
cuore, levatasi su la lettiga ordinò che i montanari salissero in piedi
su le selle dei cavalli, e quanto più potevano la sollevassero. In
questa maniera giunse sul masso, che forse otto braccia era alto, e là,
como da un trono, toltasi il velo di testa si dette a sventolarlo in atto
di gioia.--«Viva la Contessa! Viva la dama!» urlò la plebe fuori
di sè per la contentezza;--«Viva la Contessa Beatrice!»--e accorse
con impeto maraviglioso a far prova di seguitarla. Il più forte
afferrando alle spalle il meno forte gli montava addosso, e aiutandosi con
le mani e co' piedi saliva; molti sdrucciolavano, e non trovando luogo a
posarsi si vedevano rotolare su le teste dei compagni fittamente affollati;
i saliti, mano, cintura, lancia, o che altro, a cui veniva dietro
offerivano, e così dopo lunga ora circa a dugento pervennero a salire
quel greppo: ma egli era un frastornío, una confusione, una furia da non
potersi immaginare maggiore. Quelli che si erano posti sotto a uno in pochi
momenti furono oppressi da cento; sentendosi condotti a mal termine
tentavano liberarsi, nè potevano; inferociti dalla resistenza,
cominciarono a menare le mani; vedendo che non giovavano, il ferro; i
più vicini volevano bene scansarsi, e le percosse, e le battiture contro
quelli che spingevano erano infinite: nondimeno, urtati da chi non vedeva
quel caso, gli traboccavano addosso, i sorvegnenti a posta loro cadevano su
i caduti, e così tutti in un monte sossopra; molti, chi col naso, quale
con la testa rotta, si rilevarono; molti anche non si rilevarono, che
giacquero in terra cadaveri. Il Conte Guido considerando come da quella
maniera di salire ne derivava più male che bene, cominciò a urlare
che si rimanessero, ma non faceva frutto; onde comandò ai Cavalieri che
lo circondavano andassero a ributtare con la spada la plebe impazzita.
Così con la morte e le piaghe di parecchi giunsero ad ottenere un poco
di quiete. Allora, fatte ragunare pietre e terra sotto il masso, animando
con la voce e con l'esempio, ebbe in quattro ore fabbricato un sentiero,
pel quale, come che malagevolmente, passarono cavalli, cavalieri, cariaggi,
carrette, e quanto altro si recavano dietro. Allorchè venne la notte, la
paura che fino a quel punto gli aveva divisi, gli restrinse insieme, e
dimorarono immobili là dove erano stati sopraggiunti. Sebbene il luogo
che presentemente occupavano non avesse pericolo, nondimeno tanta era nella
immaginativa loro l'idea di rovine e di precipizii, che mai osarono nella
tenebra, non che muovere passo, mutare di lato. Sorse il mattino: non
profumo di piante, non canto di uccelli, lo salutarono per quell'erme
balze; e pure le cime delle Alpi tinte di un vivace colore rancio, che si
disegnavano per l'orizzonte azzurro, oggi affatto sgombro di nuvole, erano
una cosa maestosa e al punto stesso leggiadra. Coll'anelito dell'anima
vicina a conseguire l'oggetto desiderato, i Francesi si pongono in cammino:
da prima essi mutarono i passi lenti, come quelli che erano assiderati dal
freddo; ma indi a poco il moto scaldando le membra gli rese più destri a
salire. Bello era a vedersi il brulichío di quella gente che si
affrettava, i lampi che mandavano gli elmi, le aste, le armature dei
cavalieri, le insegne abbandonate al vento, le vesti preziose; più bello
a sentirsi le trombe di tanto in tanto squillanti, le liete canzoni di
guerra, le voci di gioia; pareva assemblea di Cavalieri per celebrare
qualche giorno solenne, pareva festa più facile ad immaginarsi che a
descriversi: giungono al vertice; l'occhio scintillante pel cupido pensiero
dell'acquisto precipita per le sottoposte campagne, e per quanto gli è
concesso si spazia nel lontano emisfero. A vero dire, da quella parte non
si scorge che un'alba d'Italia; ma tanti angustiavano ancora nella memoria
gli orrori che avevano trascorsi, tante le speranze e le immagini
lampeggiavano nella fantasia, suscitate dagli altrui raccontamenti, che
parve loro di contemplare il Paradiso terrestre, quale l'Eterno aveva posto
per la creatura senza peccato; onde sollevando le braccia al cielo
gridarono--«Italia!--Italia!»--Questo grido si propaga giù per la
valle, i più discosti ripetono--«Italia!»--Adesso sì ch'era un
affrettarsi, un affaccendarsi davvero; la voce dei capitani non si
ascoltava, le percosse non si curavano; urtando, spingendo, adoperandovi
mani e piedi, gareggiavano a cui prima giungeva. Veramente la scesa non
compariva meno affannosa della salita; ma chi, potendosi deliziare nella
vista di cose leggiadre, vorrebbe attristarsi nella contemplazione delle
increscevoli? Vedevano campi fiorenti, prati benedetti dal cielo; quella
era la meta del cammino, della via che vi conduceva non si curavano: là
speravano cibo e riposo pel bisogno presente; là terre, ricchezze, e
quanto altro può rendere lieta la vita; ormai se ne facevano signori;
avevano superato la Natura, degli uomini non si davano pensiero.
Sciagurati! là avrebbero trovato la tomba, se il destino ne avesse
commessa la difesa ad uomini--o più valorosi,--o più concordi,--o
meno infami.

  ¹ Botta, _Storia d'Italia,_ c. 20.

  ² Forsitan non erant sepulchra in Ægipto, ideo tulisti nos ut
    moreremur in solitudine? (_Exod.,_ 15.)

                       --------

Siccome andiamo convinti, che nessuno leggerà queste nostre carte,
buone o triste che sieno, per imparare un trattato di geografia,
così lo confortiamo a non maravigliarsi, se con súbito salto
trasportiamo Rogiero da una foresta della Terra di Lavoro alla
Mirandola, castello un tempo fortissimo di Romagna, il che forma bene
parecchie centinaia di miglia. La cagione per la quale s'era recato
costà, fu, che quinci poteva andarsene in poco tempo a Parma, dove
predicava la fama dovesse passare l'esercito di Carlo. Il nostro eroe,
in proporzione che si avvicinava, sentiva una repugnanza, un affanno
di farsi oltre, per modo che ogni giorno più rallentasse il
cammino. Quella voce di traditore sovente gli suonava all'orecchio,
come urlo di spavento; le parole di Ghino ancora lo turbavano
fortemente; pensava tra sè:--con alto proponimento di superare i
pericoli della terra e del cielo, di vendicare il genitore, di
riacquistare quello che per nera perfidia mi venne tolto, mi sono
messo da lungi a sostenere fatiche, sotto le quali la più parte
degli uomini avrebbe piegato; stimava conseguire grandezza, e la mia
speranza mi si rivolse non pure in vanità, ma in infamia.--Ecco
l'angoscia dell'anima condannata a sentire grandemente, e non trovare
negli oggetti esterni che imbecillità, o delitto! Ghino, al quale
aveva salvato la vita, e che per la sua condizione doveva
necessariamente seguitare precetti poco scrupolosi di onesto, lo aveva
compianto; che cosa avrebbero fatto coloro che non gli andavano in
nulla obbligati, e che facevano professione di amare la patria, e
praticare gli ammaestramenti dell'onesto? Un insopportabile peso gli
gravava sul cuore. Così cento volte sellando il cavallo, ed
altrettante riponendolo in istalla, si trattenne due giorni alla
Mirandola. Chiuso nella sua camera, con la fronte appoggiata alle
ginocchia, si lamentava del suo fiero destino; e poichè quando se
ne ha bisogno, buoni o cattivi, tutti ci raccomandiamo a Dio, sovente
implorava il Cielo, che di consiglio lo sovvenisse. Nella seconda
notte della sua fermata, mentre volgendosi ora da questo, ora da quel
lato, indolito, invano si affaticava a chiamare il sonno sopra le
palpebre, ecco un rumore di qualche cosa, che debolmente si rimuove,
si fa sentire per la stanza. Rogiero si pone in ascolto temendo
d'ingannarsi; accôrtosi che non era giuoco della sua fantasia, con
voce sicura domanda: «Chi è?»

Rispondevasi in un suono fioco, quasi spento, come se si dipartisse da
cosa senza corpo: «_Rammentatevi di vostro padre._»

«Chi sei che conosci il mio segreto?» gridò Rogiero, balzando
a sedere sul letto: «Vieni, angiolo, o demonio, sarai il bene
accetto; dammi un consiglio, sia pure di perdizione, o di salute;
dammi un consiglio; l'anima mia non può consigliare sè stessa.»

Nessuna risposta, nessuno altro rumore. Rogiero si abbandonò sul
letto, e la serie dei fatti trascorsi gli si schierò davanti la
mente, come una scena terribile: quando sul finire della notte un
sopore gli chiuse gli occhi aggravati, i suoi sogni furono quali un
Cristiano può avere sul guanciale della vendetta.

La mattina levatosi pallido, disfatto, con gli occhi spaventati, scese
per pagare l'albergatore: appena ebbe posto il piede nella stanza, che
su la porta di strada comparve un uomo avvolto nel mantello, al quale
l'albergatore prestamente indirizzò la parola dicendo: «Che Dio
vi dia buon giorno, Maestro Lippo; a quel che me ne pare, voi avete
corso tutta la notte; che nuove ci portate d'insù?»

«I Ghibellini si partono dal contado di Parma con le trombe nel
sacco, perchè l'esercito del Conte ha preso altra strada: dicono
che si avanzi pel Milanese, portato da quel pendente da forca di
Napoleone della Torre; ma o di qua, o di là, stanno seminati
triboli pel suo cammino.»

«O chi c'è egli che gli contrasti su quel di Milano? non sono
Ghibellini in que' paesi?»

«E' ce ne ha dei bianchi e dei neri, mio bel Giacomino, perchè
tutto ad un modo il mondo non potrebbe andare: pure il Marchese
Pelavicino, che è consorte di Manfredi, sta sul contado di Pavia;
Buoso da Duera su quel di Cremona, e Mastino della Scala su quel di
Verona; sì che pensate se il lasceranno passare senza pedaggio! Tal
sia di loro. Che abbiamo, Giacomino, per fare un po' di colezione da
poveri Ghibellini?»

Rogiero, soddisfatto l'albergatore, premuroso di andare, quanto il
giorno innanzi di rimanere, pose la sella al cavallo, e si
allontanò dalla Mirandola. Seppe per via che i Francesi, invece di
fare la strada di Asti a Parma, ch'era la retta, si avanzavano per la
parte di Cremona, onde impaziente di affrettarsi prese a cavalcare
verso le sponde del Po. Giunto a Luzara, sebbene il sole fosse alto, e
la barca pronta per traghettare il fiume, lo sorprese la medesima
esitanza che lo aveva fermato alla Mirandola; la immagine del padre
erasi indebolita, e quel dubbio d'imprendere cosa abbominevole, e
quella parola di traditore, tornavano a scompigliargli l'anima. Nel
silenzio della notte, sul letto solitario, cercò invano di trovare
cosa che lo acquietasse, e gli pareva di camminare tentoni in luogo
tenebroso, pel quale più si avvolgeva, più si smarriva. La
mattina quando si risvegliò, si avvide di avere una carta nella
mano destra; onde maravigliato del caso si accosta alla finestra, e al
barlume del crepuscolo legge:--_Rammentatevi di vostro padre_.

Questa rimembranza partoriva nel suo spirito un effetto simile a
quello di strappare dalla ferita il panno che il sangue vi abbia sopra
attaccato; la passione vinceva su la ragione, e più feroce che mai
tornava su l'antico proponimento. Passava il Po, giungeva a Casal
Maggiore, a Rovara, nè rallentando la corsa si avvicinava a
Cremona. Era presso ad arrivare, il termine della via appariva vicino,
e pure avrebbe voluto che si fosse allontanato; ne domandava spesso a
cui gli occorreva, e coloro che gli dicevano esser più poco lo
spazio a percorrere lasciava insalutati, e nel suo cuore bestemmiava;
quelli che gli affermavano rimanere ancora gran tratto, con viso
giocondo raccomandava a Dio. Così dubbioso di andare, e di tornare,
e tuttavia strascinato oltre dalla fatalità, pervenne un giorno
avanti l'ora di vespro tra San Daniele e Cicognolo, borghi non molto
discosti da Cremona: assorto nei suoi pensieri, lasciava la cura al
cavallo di fare la via; allo improvviso, mentre alza la faccia per
considerare le belle case che gli si presentavano traverso le frasche
degli alberi, si vede circondato da una masnada di venti e più
cavalieri, il condottiero dei quali gli comandava seguirlo.

«Io vo' che sappiate,» gridò Rogiero traendo la spada,
perchè l'asta non poteva giovargli avendo i cavalieri troppo
d'appresso, «io vo' che sappiate, nessuno potermi traviare dal mio
cammino senza che adopri la forza, e sangue gli costi.»

«Cavaliere,» rispose il capitano «a Dio non piaccia che noi
vi usiamo violenza; il nostro signore Buoso da Duera ci ha mandato
incontro a voi, perchè vi scortassimo al luogo dove adesso si
trova: piacciavi pertanto seguitarci, che noi non vogliamo far cosa
che possa riuscirvi molesta.»

«E come il vostro signore ha avuto notizia dell'esser mio?»

«Questo potrete sapere da lui: non siete voi un Cavaliere
napoletano? non avete lettere da consegnargli?»

«Certamente le ho.»

«Dunque venite, chè siete desiderato.»

Rogiero sebbene avesse per que' tempi una maniera di sentire
particolare, nondimeno per la propria sua indole, e per le avventure
che gli erano accadute, andava persuaso dovere esistere un destino che
regolava tutte le sue operazioni, al quale poteva bene per qualche
tempo contrastare, ma che in fine, o a buon grado o a mal grado,
bisognava seguire. Convinto di questa opinione, si lasciò condurre
senza resistenza da quei cavalieri; i quali cavalcando a bell'agio per
non infastidirlo lo menarono a notte avanzata ad un castello, che, per
quello si poteva vedere così al buio, sembrava fortissimo. Intorno
al castello erano tese assai tende, e da queste usciva grande
moltitudine di soldati dirigendosi a un punto determinato; una
campanella martellava senza posa per riunirli, e a non molta distanza
si udivano chiamare le insegne, assegnare i posti, e dare alcuni
avvertimenti. Prevenuti alla porta, una sentinella, che con l'alabarda
in ispalla vi passeggiava traverso, fermandosi repentinamente
domandò: «Chi viva?»

«Vivano i Ghibellini!» rispose il capitano.

«Appressatevi pel segno.»

Il capitano si avanza, gli sussurra una parola all'orecchio, poi si
volge alla masnada dicendo: «Fatevi oltre.»

Trapassando per una volta lunghissima, riuscirono in un antico
cortile: qui, sotto i colonnati si vedevano molti Cavalieri
sollazzarsi quali a giuocare a tavole, o zara, quali beversi dei
grandi bicchieri di vino, e favellare e gestire in atto feroce; là
tre o quattro si provavano ad accordarsi per cantare una canzone, ma
alle prime parole alcuno tra loro non andava a dovere, ed essi da
capo; qua diversi chiudevano gli occhi, e a poco a poco lasciavano
cadersi la testa sul petto,--riscossi ad un tratto la rialzavano per
lasciarla nuovamente cadere; tali altri, vinti affatto dal sonno,
incrocicchiate le braccia su le tavole, nascondevano la faccia sopra
di quelle, e russavano in modo che ben di lontano se ne sentiva il
fragore; altri altra cosa, chè a dirle tutte verrebbero meno i
moccoli; in somma quei volti mezzo illuminati da luce rossastra, quei
gesti, quei sembianti minacciosi e diversi, avrebbero fornito materia
al Fiammingo di pittura maravigliosa.

Appena il capitano fu veduto da quella gente, che s'intese per tutte
le parti uno schiamazzo di voci confuse che dicevano: «Buona
sera,--bene arrivato;--avete fatto caccia, Messere?--Lo hai tu preso
il tuo uomo?--Piero, raccontateci.--Vieni qua, che ti cedo il
posto.--Piero, sareste il quarto, senza voi non si comincia
partita.--To', Piero, bevi un bicchiere di vino, chè ne avrai ben
bisogno.»

«Grazie _Malatolta_, grazie _Prendiparte_, grazie, grazie, Messeri;
or sono da voi,» gridava il condottiero del nostro eroe,
distinguendo sul principio ognuno pel suo nome e soprannome, e
all'ultimo salutando tutti alla rinfusa, quasi per dare una mentita a
quel filosofo¹ che affermò, gli oggetti esterni rappresentarsi
da prima nella mente umana indistinti, dipoi separati gradatamente, e
comporsi così l'esame _analitico_ che si trova agli antipodi del
_sintetico_, con cento altre coserelle graziose che ci hanno incassato
qui dentro il cervello nelle scuole, come gemme in anella.

  ¹ Condillac, _Logica_, in princ.

Il capitano smontato da cavallo si affrettò con Rogiero, che molto gli
raccomandava il suo Allah, alla parte del castello opposta a quella d'onde
erano entrati, e come colui che voleva presto esser libero, levati gli
occhi, osservò le superiori finestre, e vide lume:--«Ora potrà
bene andarvi da sè,» profferì mormorando il Cavaliere; e arrivato
su la soglia di una porticella aggiunse: «Bel Cavaliere, Messer Buoso,
come ho veduto dal chiarore del lume, è per certo nella sua stanza: voi
potete liberamente senza me andare a trovarlo; salite questa scala che vi
menerà ad una saletta, dove fanno capo tre corridori; mettetevi pel
primo a sinistra, in fondo del quale piegando a destra troverete sei
scalini; saliteli, e abbiate cura di non cadere, che il Signore vi aiuti;
allora vedrete in una sala grande cinque porte, quella di faccia è la
porta della stanza di Messer Buoso;--buona notte.» Appena terminato il
discorso, che proferì con portentosa celerità, si allontanò per
unirsi ai compagni, che lo accolsero con urli, risa ed altri segni
d'intemperante allegrezza.

Rogiero si pone per quella scaletta: ella era formata di mattoni per
taglio; il tempo ne aveva logorati gli angoli e la calcina, sì che
in quei buchi entrasse più che mezzo il piede; mille volte a
pericolo di battervi la faccia sopra, tentoni, aiutandosi più con
le mani che co' piedi, pervenne alla stanza dei tre corridori
schiarita da un lumicino che _pareva spento_, come disse con bella
vivacità quel Fiorentino bizzarro.¹ Qui giunto, un improvviso
tremore lo sopraggiunse, provò di andare innanzi, non poteva;
indietro, nè pure; appoggiò al muro la spalla e la testa, quasi
fosse convertito in pietra. Nuove dubbiezze, nuove esitanze,--ancora
un passo, e tutto irreparabilmente perduto;--la sua intenzione è
buona, ma si appoggia sopra opere parte vili, parte infami, tutte
scellerate; se non giunge a compirla, chi vorrà credergli che il
suo disegno fosse generoso?--nè sempre saranno tenebre come in quel
luogo,--nè il tradimento andrà sempre celato. Mentre a queste
cose pensando costà si tratteneva, ecco una mano leggermente
premergli la testa, e una voce sommessa dirgli all'orecchio:
«_Rammentatevi di vostro padre._»

  ¹   Al romor del tracollo
      Che rimbombò dal tetto al fondamento,
      Comparve _un lumicin che parea spento_,
      Sì facea lume a stento.
               SONETTO _del Migliorucci, barbiere fiorentino_.

«Santa Maria!» esclamò Rogiero; e volgendosi con molta
celerità vide, o gli parve vedere, uno spettro che nel corridore
opposto a quello in cui stava si allontanasse strisciando sul
pavimento. Preso da agonia di conoscere chi fosse, gli si cacciò
dietro a tutta corsa; trapassò quel corridore, poi un altro, lo
spettro gli fuggiva a poca distanza davanti, e pure non intendeva
suono di passi. Quantunque queste circostanze fossero più che
bastanti per un'anima di quei tempi, e forse anche dei nostri, a
credere soprannaturale cotesta apparizione, Rogiero non si lasciava
sbigottire dalla paura; vero è bene che non sapeva come spiegarla,
tuttavia si guardava di attribuirla a cause superiori. Lo spettro
fuggendo, e Rogiero incalzando, pervennero in parte ove non era lume;
così al primo fu concesso sparire a tutto agio: Rogiero
brancolando, mentre a malgrado delle tenebre vuole seguitarlo,
inciampa e cade traverso di un letto; allora non udendo nè vedendo
più nulla, si avvisa ritornare; parendogli di fare il medesimo
cammino traversa due o tre stanze, nell'ultima delle quali osserva
scaturire un raggio di luce dalle fessure di un uscio; vi s'incammina
prestamente, stimando che si partisse dal lume del capo scala; giunge,
apre, e si trova entro una sala vastissima; una piccola parte
compariva illuminata; l'altra si smarriva dentro profonda oscurità:
per quello che si poteva vedere era ornata di belle tappezzerie
fiamminghe rappresentanti caccie o fatti d'arme notissimi dei Paladini
di Carlo Magno, e dei Cavalieri erranti del Re Artù; a giuste
distanze pareva, che, come da un lato, dovessero essere per tutta la
sala disposte antiche armature su dell'aste fitte dentro zoccoli di
pietra; le finestre trasparenti pei lumi del cortile presentavano
istorie tolte dal Testamento Nuovo, figurate con vetri di mille
colori. Queste cose che a noi abbisognò una mezza pagina per dire,
Rogiero osservava in un volgere di sguardo, nè punto stette a
considerarle, perchè a quei tempi erano comuni. La sua attenzione
pertanto più particolarmente si fissò su due personaggi che
stavano in quella sala. Uno di questi, di vesti e di sembiante non
italiano, era un Corriere francese; vestiva giubboncello giallo, fino
poco più sopra al ginocchio, stretto alla vita con larga striscia
di cuoio nero, dalla quale pendeva il corno, e scaturiva l'impugnatura
del pugnale; i calzoni erano della medesima stoffa che la veste, e
come essa accostanti alle membra; calzava usatti¹ rossi con certi
sproni da sventrare, più tosto che da incitare cavalli; teneva la
testa scoperta, i capelli della quale divisi su la fronte cadevano di
qua e di là dalle tempie sopra gli orecchi, e a poco a poco
diventavano più lunghi, tanto che quelli della nuca coprissero
parte delle spalle; la faccia non diceva nulla,--era parete
imbiancata. Ben altro compariva il secondo: stava seduto davanti una
tavola sopra la quale erano carte, e una spada; teneva la testa
appoggiata alla mano, e considerava meditando una lettera che pareva
essergli giunta di fresco; il capo aveva calvo con la pelle tirata, se
non che su la fronte due o tre rughe profondamente tracciate; la
faccia, larga su le gote, dove sono gli ossi che i notomisti chiamano
_zigomi,_ terminava smunta, appuntata, con la barba scomposta, ch'era
sconcezza a vedersi; pel rimanente della persona, meno le manopole,
compariva armato: questi, poichè lunga ora ebbe letto e meditato il
foglio, esclamò: «Ottomila fiorini d'oro!--vendo anche l'anima.»

  ¹ _Usatto_, calzare di cuoio usato propriamente per cavalcare.

Dopo questa infame empietà levò la faccia e gli occhi.--Quali
occhi! incavernati, scintillanti, come quelli della volpe che ha
ghermita la preda;--e vide Rogiero.

«Chi siete? Chi vi ha condotto? Come avete penetrato nella mia
camera?»

«Messere, io sono stato qui tratto per ordine di un tale Buoso da
Duera.»

«Per ordine mio dunque:--ma perchè non siete passato per la
porta principale, e scaturite così all'improvviso da camera
segreta?»

«Che volete ch'io sappia di tutto questo, Messere? mi hanno
lasciato senza scorta, ed io in questo luogo nuovo mi trovo qui,
perchè non mi trovo altrove.»

«Qualcuno ha trasgredito i miei ordini.--Sareste per avventura quel
Cavaliere napolitano....?»

«Sono;--la vostra gente mi ha fermato sul cammino,
costringendomi....»

«Bisognava pure ch'io vi forzassi, viva Dio! perchè voi avete
lettere per me, che probabilmente non mi avreste recate giammai.»

«E chi vi ha detto. Messere?....»

«Chi lo ha detto poteva ben dirlo senza tema di
mentire.--Chiamavasi Piero il capitano che vi ha condotto?»

«Sì, Piero.»

«Ed è rimasto?...»

«S'io non m'inganno, giù nel cortile a giuocare, e a bere co'
compagni.»

«Deve esser punito; per le grandi colpe serve il libro della mente,
per le piccole bisogna prenderne nota, onde non obliarle;--una
vendetta perduta è un invito allo oltraggio.» E qui Buoso trasse
di seno alcune tavolette, sopra una delle quali scrisse:--Capitano
Piero mi deve la pena di aver rotto il mio comandamento;--e
riponendole soggiunse: «Avanti che il mese finisca, in modo aperto
o segreto la pagherà.--Messere Cavaliere, vorrestemi porgere le
lettere che avete per me?»

«Eccole.»

«Cavaliere,» disse Buoso, poichè l'ebbe lette, «io sento
per queste come gran numero di Baroni napolitani, infastiditi della
tirannide di Manfredi, vi hanno spedito con loro credenziali per
profferire omaggio al Conte di Provenza; già a Dio non piaccia che
per me sia posto impedimento ai giusti desiderii di quei valenti
signori; domani potrete seguire il vostro cammino verso l'esercito
francese, che troverete non lungi di qua attendato alla campagna. Devo
avvertirvi però che il Conte non accompagna l'esercito, ma
troverete in sua vece la Contessa Beatrice, o il Luogotenente Guido da
Monforte.»

«Vi chiedo perdono, Messer Buoso, ma in cortesia vorreste
rispondere ad una mia domanda?»

«Dite.»

«Non siete voi Ghibellino?»

«Che vuol dire Guelfo, che Ghibellino? Io sono per me; del nome non
mi curo più che del colore della veste; in qualunque sembiante
procaccio mia ventura.»

«Ma voi fin qui non combatteste per la fazione ghibellina,
Messere?»

«Io vi ripeto che ho combattuto sempre per me: vero è però
che l'anno scorso sovvenni del mio aiuto il Conte Giordano, che giunse
per Manfredi qua in Lombardia con cinquecento lance; quello che n'ebbi
in guiderdone furono parole; ora cortesi, ora anche minacciose: ad
ogni uomo è lecito errare una volta in sua vita, e felice chi
può vantarsi di avere errato una volta sola; ora mi sento stanco di
pascermi di promesse,--e poi l'età comincia a farsi troppa, e
bisogna pure pensare alla buona morte; nè se altri si cura, mi curo
ben io del perdono della Santa Chiesa, che troppo mi preme trovarmi
sciolto dalla scomunica, perchè possano, quando che a Dio piaccia
di chiamarmi a sè, seppellirmi in sacrato.»

«Messere, di grazia, se la richiesta non vi riesce importuna, il
cuore non vi dice nulla?»

«Da qual parte abbiamo posto il cuore? Io per me l'ho dimenticato.
La testa fa tutto, calcola tutto; il cuore c'è per di più:
vuolsi freddezza di calcolo per ben condurci nel mondo; col cuore si
fanno canzoni da innamorati, non ottimi disegni per trapassare la
vita.»

«Ma Italia?»

«Italia è qui,» rispose Buoso toccandosi la fronte: «ho
udito raccontare di tempi nei quali era altrove, ma io non li vidi,
nè credo, che sieno stati; nondimeno, se possono essere, mentre si
aspettano, ogni uomo si ponga la mano alla fronte, e dica: Italia è
qui.»

«La fama?».

«Oh la fama! è l'ombra del buon successo: procura mantenerti
felice, e gli uomini procureranno di chiamarti glorioso.»

«Pure fin qui non ho trovato lingua mortale che non condanni il
tradimento.»

«Da cui, e come? Tradimento, s'io non m'inganno, significa romper
fede; ora non vi ha fede che sia nè più forte nè più ragionevole di
quella che ogni uomo deve a sè, perchè di questa la Natura ne ha
stretto il contratto con tali condizioni, che non possono infrangersi;
però quando ti fai danno, allora commetti tradimento, e tradimento
irreparabile. Io non ho mai operato cosa dannosa altrui, che, bevendoci o
dormendoci sopra, non abbia affatto dimenticata: d'altronde il dolore che
abbiamo apportato al nostro simile ci rimane nell'anima come ricordanza,
ma il bene che abbiamo fatto a noi persevera come sentimento.»

«E questo sentimento è egli in sostanza felice?»

«Signor Cavaliere, io ho altre cose a fare perchè possa
trattenermi a sciogliere i vostri quesiti; se voi gli avete promossi
per conoscermi, io già vi ho detto assai, onde se siete savio mi
possiate capire; se per acquietare le vostre incertezze, io devo
biasimare i miei amici di Napoli, che hanno scelto in voi un
messaggero così scrupoloso. Tenetevi pronto per domani; appena fa
giorno, io vi manderò insieme con questo Corriere francese al campo
del Conte per consegnare le vostre lettere, e, se non vi grava, anche
una mia che preparerò avanti di andare a dormire.»

«Voi ne siete il padrone.»

«Sergio! Gilberto!» chiamò Buoso, e tosto comparvero due
valletti, ai quali ordinava: «Fate che questi miei ospiti sieno
bene alloggiati; vi raccomando che nulla manchi loro di quello che
possono desiderare. Addio, messer Cavaliere; innanzi di partire spero
di rivedervi.»

Rogiero e il Corriere francese si posero dietro agli officiosi
valletti, che con molte candele alla mano andavano rischiarando il
cammino: appena usciti dalla sala, la voce di Buoso si fece nuovamente
sentire, che chiamava gridando: «Messer Cavaliere!»

Rogiero rifece i passi, e domandò: «Che volete?»

«Messer Cavaliere, avete pratica co' fiorini d'oro?»

Rogiero si fece un po' rosso nel viso, e rispose che no.

Buoso sorrise, e traendo una borsa disse: «Questa parmi troppo
grande vergogna per Cavaliere come voi! Voi non conoscete i fiorini
che sono la più bella moneta che si batta per tutta Cristianità?
Havvi taluno che preferisce gli _agostari_ di Federigo, e gli
_schifati_ dei Normanni, ma io per me terrò sempre pel buon fiorino
d'oro che si batte a Fiorenza. Ecco qua, vedete,» soggiunse
prendendone uno, e mostrandolo a Rogiero, «da un lato il giglio,
dall'altro il Battista, donde l'infallibile proverbio:--_amici son
coloro--che hanno il Santo a sedere, e il giglio d'oro_. Ora fanno
dodici anni cominciarono a coniarsi dai mercanti fiorentini: l'oro
arriva alla bontà di ventiquattro carati; si contano a venti soldi
l'uno, ed otto pesano un'oncia.--Vorrestemi usare cortesia, bel
Cavaliere?»

«Parlate.»

«Dimani vedrete nel campo di Carlo affidarne certa quantità ad
un Corriere affinchè me li porti; egli è un dono che vuol farmi
la Virtuosa Contessa Beatrice, e ch'io non mi trovo in caso di
rifiutare: ora vi pregherei ad aver cura di riscontrare che formino
bene ottomila; se crescono, lasciate stare; se non arrivano alla
somma, avvertite la Contessa del difetto. Mi promettete di farlo?»

«Ve lo prometto.»

«Gran mercè, Cavaliere.»

--Ecco un'anima da appaiarsi con Gano di Maganza,--pensò Rogiero
tra sè,--ed io?--il sonno non iscese per quella notte su le sue
stanche palpebre.

                       --------

«Che Dio vi conceda il buon giorno, bel cugino,» disse la
Contessa Beatrice, che, nell'uscire da una camera ov'era stata a
riposare, s'incontrò nel Conte Guido di Monforte. Ella veniva
frettolosa, e le vesti aveva scomposte più che a nobile dama non
convenisse; le sue donzelle le si traevano dietro correndo, e andavano
aggiustandole alla sfuggita chi il velo, chi la cintura, o che altro.

«Dama, che possiate esser lieta di tutto quello che desiderate;
qual cosa vi affanna, onde tanto smaniosa vi levate di letto?»

«Cugino, arrivò il Corriere?»

«Dama, non si è ancora veduto.»

«Ci avesse tradito il Duera? Trovasse piccolo il premio? Cugino,
spedite gente per conoscere ciò che n'è stato; fate offrire
doppio premio a quel tristo, purchè passiamo. Il Pelavicino non
può tardare di caricarci alle spalle; se questo avvenisse, noi
saremmo perduti. Affrettatevi, bel cugino, affrettatevi.»

«Dama, aspettiamo.»

«Ah! Guido. Guido, questa vostra lentezza ci perderà: che
temete?»

«Che temo io? Così non mi avesse detto Carlo,--conducimi ad ogni
costo questo esercito intero,--e non mi avesse posto da lato le paure
femminili, come io avrei di già fugato il Duera, e valicato
l'Oglio; perchè i miei anni si sono consumati a rompere i nemici
col ferro, ma non ho mai appreso a cacciarli coll'oro: nondimeno,
poichè piacque a Monsignor Carlo mettermi per questa via piena di
pericoli, e vuota di onore, io devo aver cura del suo danaro,
perchè raddoppiando il prezzo di Buoso non ci basterebbe a pagare
la milizia fino a Roma.»

La Contessa si apprestava a rispondergli, e chi sa dove sarebbero
andate a finire le parole, se un donzello non fosse entrato in quel
punto annunziando, che il Corriere conducendo seco un altro uomo si
scorgeva cavalcare verso la casa.

«Oh Signore, gran mercè!» esclamò la Contessa, e corse
alla finestra; «sì certo, egli è desso... venite a vedere,
cugino... ma che hanno il restio, che vengono sì tardi quei loro
ronzini? Conte, e' pare che abbiate partecipato la vostra pigrizia
anche alle bestie dell'armata: Conte, ponete cura di dare un'altra
volta ai Corrieri i migliori cavalli dell'esercito... ditemi, Conte,
in quanti giorni potremo giungere a Roma?»

«Contessa, ricevete con maggiore temperanza la lieta fortuna, se
volete con minore cordoglio sentire l'avversa. Voi non sapete che cosa
rechi il Corriere.»

«Oh! il cuore mi predice bene, ed egli non mi ha ingannato giammai.
Ecco quel vostro insopportabile riso di scherno. Che volete?
cugino,--io sono fatta così; ricevere la lieta novella col viso
stesso col quale si riceve la trista mi riesce impossibile. Che
potrete dire di me? La Contessa ride se la ventura le cammina
prosperevole, piange se contraria; ma voi fate altramente nel vostro
cuore? E per un po' di copertura, per un po' di sforzo menate tanto
vampo; eh via! lasciate che sgorghino le lacrime quando vogliono
sgorgare, e ridete quando vi prende desiderio di ridere. Forse per
dolermi delle avversità mi perdo di animo vilmente, e, per quanto
mi ha concesso il cielo di senno e di forza, non mi adopero io a
superarle?»

«Contessa, questi che accompagna il nostro uomo è Cavaliere; non
sarebbe bene che voi andaste ad acconciare più convenientemente il
vostro abbigliamento?»

«Conte di Monforte, noi vi preghiamo che non vogliate darvi maggior
cura di nostra persona di quella che ci diamo noi;» disse in atto
disdegnoso la Contessa Beatrice; e poi guardandosi attorno, e
scorgendosi abbigliata da vero meno che onestamente, arrossì,
sorrise, ed aggiunse: «Bel cugino, io vedo che quando avrete
perduto quella vostra ruvidezza da soldato, diverrete discreto
maggiordomo della più ritrosa dama dai _trenta anni passati_.»
Poi la stessa ambizione, che così scomposta l'aveva condotta in
quella stanza, la fece uscire a comporsi, perchè la rabbia di
comparire ornate, se in pochissime donne non è la prima passione,
viene però immediatamente seconda.

Quando la Contessa ricomparve nella sala, il Corriere e Rogiero vi si
affacciavano per altra parte. Il Corriere pose ginocchio a terra
dicendo che la risposta l'aveva il compagno: la Contessa lo rilevò
graziosamente, e con la solita promessa, che si sarebbe _rammentata di
lui_, gli dette licenza. Allora Rogiero fatto un lieve saluto alla
Dama, le presentò le lettere, la quale, come colei che non sapeva
di leggere, le porse con bel contegno al Monforte, dicendogli con voce
sommessa: «Spacciatevi, Conte, che molto mi preme sapere che cosa
elle rechino.»

Il Monforte si pose a leggere, ma non era anche arrivato alla metà,
che due o tre volte lo aveva interrotto la Contessa domandandolo:
«O che dice?... o che porta?»

«Ma, Dama,» parlò impazientito il Monforte, «se voi non mi
lasciate leggere, non ve lo dirò di qui a mille anni.» Ed egli
poi non era gran maestro in letteratura, e sapeva leggere a mala pena
pe' suoi bisogni, onde sovente mormorava tra' denti: «Anche nello
scritto si palesa tristo costui: fosse qui il cappellano che tanto
vale a leggere di questi scorbii....» Alla fine, come Dio volle, la
lesse, e senza aspettare di esserne ricercato disse pianamente alla
Contessa: «Il traditore accetta il trattato, sebbene, scrive, per
essersi preso cura di mandarvi un Cavaliere napolitano che vi
recherà cosa più grata del passo dell'Oglio, voi potreste
aumentargli la somma. Vi raccomanda poi, che arrivata a Roma, vogliate
per vostra intercessione pacificarlo con la Chiesa, e renderlo
partecipe delle sante indulgenze promesse a chiunque prenda la croce
contro Manfredi.»

«Intorno la prima richiesta rispondete, Conte, che volentieri
vorremmo potergli in migliore modo manifestare l'animo nostro, ma che
le presenti strettezze non cel permettono; aggiungete, grande estimare
noi lo ufficio che ci rende, e la Casa di Francia porre ogni sua
gloria in dimostrarsi grata: per la seconda assicuratelo, che sarà
nostro pensiero adoperarci presso Papa Clemente, affinchè lo
ribenedica, e lo abbia in luogo di figlio; stia pur quieto di questo,
che noi ne avremo cura come di un nostro fratello.»

«Ah! Contessa, mi pare tanto bella l'unione di Buoso col Demonio,
che sarebbe gran peccato sturbarla.»

Dopo queste parole, la Contessa volgendo la faccia a Rogiero, con
donnesca leggiadria gli disse: «Bel Cavaliere, noi intendiamo per
queste lettere, che voi ci siete apportatore di liete novelle; se
possiate conservare sempre l'amore di vostra dama, vorreste voi
favorircele?»

«Madama, quali esse sieno potrete sapere da queste carte.»

Il Monforte, a cui furono trasmesse, cominciò a leggere con quella
sua naturale freddezza, ma in proporzione che procedeva si affrettava
agitando il capo a destra e a sinistra, brontolando indistintamente le
parole: quando fu giunto al termine, lasciò la carta, e sollevando
gli occhi e le mani al cielo disse con un sospiro: «Sire Dio, noi
avremo Italia _senza colpo ferire!_ Io la reputava terra di
gloria....»

Così grande fu la vergogna di Rogiero a questa esclamazione, che
sentendosi duramente stringere il cervello si appoggiò alla parete
per non istramazzare per terra.

«Che mormorate, Conte?»

«Questa è terra di cui se la piglia.»

«Perchè, Conte?»

«Perchè i traditori ci allignano più dei fedeli, e i maggiori
Baroni di Manfredi ci chiamano liberatori _al solito_, perchè
andiamo a liberarli del loro tiranno _al solito_, che così si
chiama colui che vuolsi tradire.»

«Ah! cugino, tanta è l'allegrezza che mi avete recato, che per
poco non sono venuta meno. Avrò finalmente corona! anche io sarò
salutata Regina! non più distinta dalle superbe sorelle con un
segno di obbrobrio!... potrò anch'io levare baldanzosa la
faccia!... anche io!... Conte Monforte, mi sembrate dei miei nemici,
che vi addolorate delle mie gioie!»

«Madama, il vostro disegno era di conseguire corona, l'avrete; ne
siete lieta, sta bene: il mio era condurre a buon fine qualche impresa
gloriosa, ed onoratamente morire; prevedo ormai che è un errore
sperarlo in questa contrada, però mi dolgo.»

«Generoso cordoglio, e ben degno di voi, valoroso Barone;» disse
la Contessa stringendo la mano al Monforte «ma godetene per cagione
mia, perchè voi non dovete affliggervi di cosa che mi piaccia.»

«Ah! mia bella cugina, s'io volessi nella presente vostra dolcezza
stillare un amaro, che non potreste dimenticare, vi direi, il
traditore per tradimento che faccia non muta cuore; egli sta come una
fiera nella caverna ad aspettare la preda: la signoria di Carlo
increscerà come quella di Manfredi increbbe, e allora....»

«Queste vostre osservazioni hanno che fare qui come il parlare di
morte a mensa, come il vestire di bruno a nozze. È tanto rara la
gioia, è tanto soave, che non merita punto di essere intorbidata
con le vostre malinconie. Sarà assai amaro pensare al disastro
quando verrà; per ora stiamo lieti, Conte; provvederemo allora. Voi
intanto, Cavaliere, sappiate che nessuna novella più grata di
questa potevate portare alla Contessa Beatrice; da qui innanzi sarete
con noi; spero che vorrete bene spesso allegrarmi della vostra
presenza. Intanto, non già perchè io la creda ricompensa, ma per
segno di gratitudine, porterete questa collana per mio amore.» E
qui levatasi una ricca catenella, con le sue proprie mani la pose al
collo di Rogiero, che a sentirne il suono sopra l'armatura
abbrividì e mormorò: «Ecco, il delitto è consumato, il premio
del tradimento fu ricevuto; l'anima mi è stata improntata
con l'infamia, l'intera eternità non varrebbe a cancellarla.»

Il Monforte, considerando quella smoderata vivezza della Contessa,
scotendo la testa sorrise a fior di labbra, e disse a voce bassa:
«Ella è valente donna, ma donna.»

Beatrice divertita da altra cura, punto badando se l'avesse, o no,
ringraziata Rogiero, fece recare il danaro, lo numerò, e lo dette
al Corriere, affinchè lo portasse al Duera. Il Monforte era sceso a
ordinare che l'esercito si movesse; ma da savio capitano provvide che
stesse in punto, come se il nemico gli fosse di contro per assaltarlo.

Buoso, ricevuto il danaro, si chiuse in Cremona, facendo spargere ad
arte la novella che i Francesi valicato il fiume Serio ritornavano su
quel di Milano per tentare il passo di Parma. L'esercito di Carlo
traghettò senza contrasto l'Oglio, e seguendone il corso pervenne
sul Mantovano, dove, lietamente accolto da Ludovico Conte di San
Bonifazio, si riposò alquanto delle sofferte fatiche. Ripostosi in
cammino, valicava il Po sopra un ponte apprestatogli dal Marchese
Obizzo d'Este, e si metteva sano e salvo per le terre di Romagna. Ora
comincia per Carlo di Angiò la serie dei prosperevoli eventi, che
lo condusse a sovvertire in pochi mesi la nobilissima Monarchia di
Manfredi. Narrasi che il Marchese Oberto Pelavicino, il quale, avuto
avviso della via dei Francesi, si era mosso subitamente dalle sue
posizioni di Pavia, giungesse a Soncino poche ore dopo il passo di
quelli, dove considerando come il savio maestro di guerra Guido da
Monforte avesse afforzato le rive opposte del fiume stimò bene non
seguitarlo, e pieno di mal talento si aggiunse a Buoso, in Cremona. Le
parole che ebbero insieme questi due condottieri furono piene di
amarezza. Se merita credenza la fama lontana, dicesi che gli
profetasse il Pelavicino:--«Buoso, che tu con fraudolenta favella
t'ingegni ricoprire il misfatto non istupisco; hai commesso il più,
puoi commettere il meno; ma se la tua parte è quella d'ingannarmi,
la mia è di non crederti. Ben io potrei svelare alle genti la tua
slealtà, suscitarti contro la plebe commossa, te, e il tuo
lignaggio condurre a miserabile eccidio; tolga Dio, che per me sia
alzata la spada contro il mio fratello di armi, contro colui al quale
ho giurato amicizia fino dai miei più teneri anni: tieni non
pertanto riposto nella tua mente, che col prezzo della patria venduta
ti sei comprata la rovina in questa vita, la dannazione
nell'altra.»

Una mente degna di non esser mortale, che dalla sua prigione di fango
osò concepire il disegno di guardare in faccia l'Eterno, e
scrutarne l'arcana natura, distribuendo a sua voglia i premii e le
pene, ha inchiodato giù nei geli infernali quell'anima maledetta¹:
nè, come se la divina sapienza si fosse presa cura di adempire il
vaticinio di Oberto, il fine della vita di Buoso fu niente meno terribile
di quello che gli aveva predetto. Il popolo, conosciuta la perfidia,
acceso di sdegno rovesciò le sue case, distrusse il suo lignaggio,--a
lui concesse la vita. Strascinava Buoso il capo grave di avvilimento e di
miseria per le vie della città di cui era stato signore, perchè la
Provvidenza per fare intero il supplizio gli aveva tolto la volontà di
trucidarsi: errava durante il giorno nella sua salvatica solitudine,
mormorando ratto ratto, come _lo idrofobo_, non curando gli urli, le
contumelie, le percosse, con le quali non cessavano perseguitarlo. Nella
notte, quando la rabbia della fame gli straziava le viscere, si appostava
in luogo oscuro, e quivi copertosi il volto sporgeva la mano, e domandava
elemosina per amore di Dio, con voce che studiava rendere
diversa;--inutile tentativo! non v'era persona che tosto non lo scoprisse:
alcuno passava chiudendo il cuore, e la borsa, e in suono minaccioso
dicevagli: disperati, e muori;--questi erano i più pietosi! coloro poi
che possedevano la scienza diabolica di avvilire le anime, e godevano di
conficcare a più riprese il ferro nel cuore, gli davano il soldo, e col
soldo la imprecazione, onde il cibo si convertiva in veleno pel sangue
infiammato del paziente, e la bevanda diventava aceto e fiele all'anima
angosciosa. Certa sera, tremante, battendo i denti pel ribrezzo della
febbre, s'incammina ad un monastero, sperando che la pietà di quei
Frati lo avrebbe raccolto: scese il primo e il secondo gradino, levò la
mano per battere,--ad un tratto percuote la faccia contro la porta, e
strisciando lungo il muro cade su i gradini:--alla mattina il portinaro lo
trovò freddo quanto la pietra sopra la quale giaceva disteso.
Sottrassero i Frati alle atroci villanie del volgo quegli avanzi della
creatura, e li seppellirono nel chiostro. La carità della religione
valse ad arrestare su le labbra la ingiuria, ma non gli potè recitare
preghiera:--non lo aspersero di acqua benedetta;--la stessa compassione
sospirò di piacere su quella sepoltura infelice....

  ¹    Va' via, rispose, e ciò che tu vuoi conta:
     Ma non tacer, se tu di qua entr'eschi,
     Di que' ch'ebb'or così la lingua pronta;
       Ei piange qui l'argento de' Franceschi:
     Io vidi, potrai dir, quel da Duera
     Là dove i peccatori stanno freschi.
                                INFERNO, 32.

Imprecheremo noi che in questo modo finiscano tutti i
traditori?--No,--perchè il desiderio che il mondo divenga deserto
è peccato.




CAPITOLO DECIMOSESTO.

IL CAVALIERE DEL FULMINE.

                L'una zuffa e poi l'altra io vi vo' dire,
                Che in due luoghi ad un tempo si travaglia;
                Lo strepito è si grande del ferire,
                Lo spezzar della piastra e della maglia,
                Che fa chi guarda intorno sbigottire.
                                     ORLANDO INNAMORATO.


Forse fu il premio della costanza:--Carlo di Angiò afferra la riva:
allorquando il suo coraggio stette al cimento della morte, se qualcheduno
gli avesse posto la mano sul cuore, non avrebbe sentito nè accelerare
nè diminuire i suoi palpiti;--alloraquando scomparsa tutta speranza di
esterni sussidii l'anima fu ridotta all'alternativa di abbandonarsi vinta,
o di sopravvivere, spiegò tal vigore, di cui ella non si sarebbe
reputata capace se la occasione non fosse venuta.--Carlo afferra la
sponda, perocchè la galera forse di un miglio lontano da terra s'era
sommersa tra Capo Linaro e Civitavecchia; ma travagliato, indebolito, in
guisa che parve la vita essergli soltanto bastata per non morire nel mare.
Il mattino vide quello uomo ambizioso, destinato a rovesciare il trono del
gran Federigo, steso senza moto su la sabbia, irrigidito per tutte le
membra, stillante acqua dai capelli, e dalle vesti;--il più vile lo
avrebbe potuto impunemente oltraggiare, il più codardo spegnere;--un
fiato, per quanto leggerissimo, estinguere quella scintilla vitale, che di
per sè stessa guizzava incerta intorno alla sede delle sensazioni. Il
sole, distillandogli per le vene il sottile suo fuoco, gli intepidiva il
sangue, e richiamava i suoi spiriti all'usato ufficio; si levava a sedere
come smemorato, e gittava gli occhi smarriti sul cumulo delle acque. Il
cielo rideva sereno, il mare tranquillo,--e sì che vedevi galleggiare,
testimoni del suo terribile sdegno, tavole, remi, remiganti;--pure lieto
di un bello azzurro, lentamente scorrevole, come i passi del Signore,
invitava con la lusinga del piacere ad affidarsi alla sua immensa
superficie:--così tenta il peccato! Sopra tutti gli avanzi della
tempesta era osservabile Armando, lo sciagurato Maestro: giaceva supino, e
quel suo ventre, già per natura tumido, adesso maggiormente per l'acqua
trangugiata, errava qua e là in balia del vento quasi isoletta natante;
ora il flutto sollevandolo su l'estreme sue labbra pareva ridonarlo alla
terra, e di subito ritirandosi lo trasportava più lontano che prima;
ora lo deponeva sul lido, e poi, come pentito, tornava a rapirlo; se
giungeva una o due volte scarso, quanto meglio poteva si allontanava
indietro, non altramente che se volesse prendere tratto a spingersi più
veemente, sì che la terza o la quarta, fremendogli attorno spumoso,
tutto gorgoglío, lo rimenava seco in trionfo: pareva un fanciullo che
prenda diletto col suo balocco.... ma i trastulli del mare sono navi
infrante, e cadaveri.

--Povero Maestro Armando!--sospirò Carlo, poichè l'ebbe
tristamente considerato; e la sua anima si abbandonava a lugubri
meditazioni, quando alzata la faccia vide disegnarsi su l'orizzonte
alcune vele, che secondate dal vento tentavano prendere la terra; ed
ecco che Carlo, dimentico di ogni altra passione, anelante tra il
timore e la gioia, si leva in piedi, intendendo a scoprire se fossero
sue. La pietà nel cuore dell'ambizioso passa veloce come il lucido
intervallo nella mente del pazzo.... Maestro Armando e i suoi fratelli
d'infortunio scomparvero dalla memoria del Conte per non tornarvi mai
più.

«Sarebbe questo un errore dei miei occhi? m'ingannasse il mio
desiderio?» esclamò Carlo, fregandosi le palpebre per meglio vedere,
«o questa è la mia diletta bandiera? azzurra è certo.... no....
sì. Così Santo Dionigi mi facesse la grazia che fossero le mie
galere, come ella è veramente azzurra! Ahimè! anche quella di
Manfredi ha il campo dello stesso colore.... ma l'Aquila bianca fa gran
macchia, e oggimai si scorgerebbe.... nello sventolare di una piega ho
visto rosso.... sì rosso.... San Martino glorioso! la mia bandiera! i
fiordalisi d'oro! il rastrello rosso!» E qui con tal atto dimostrò
la soverchia allegrezza, ch'egli stesso, ogni qualvolta lo ricordava in
appresso, arrossiva, perocchè suoni antica quella sentenza, che nessuno
uomo è eroe quando sta solo.

La fortuna, come femmina, stanca di Manfredi, seguiva innamorata le
vestigie di Carlo, e come femmina abbandonava il buono pel tristo. Le
galere chiamate dai segnali del Conte si fecero alla spiaggia, e i
Francesi salutarono il signore loro con tali trasporti di gioia, che
ad uomo resuscitato per miracolo non se ne farebbero altrettanti. Non
lungi dal luogo, ove presentemente dimoravano, apparivano i campanili,
le cupole delle chiese, e le case più alte di una città;--era
Civitavecchia: Carlo vi condusse, costeggiando, le sue venti galere, e
quivi lasciatele con parte di sua gente, se ne andò frettoloso a
Viterbo presso Papa Clemente. Essi si abbracciarono, come due uomini,
stretti per l'attuale bisogno, e pel futuro interesse, possono
abbracciarsi.

Per altra parte il Monforte, con raro esempio di prospera ventura,
traversata Romagna ove gli occorsero tutti i Guelfi d'Italia, tra i
quali quattrocento uomini d'arme fiorentini, si avvicinava a Viterbo.
Molto andava lieto il Conte Carlo della venuta del Monforte, molto
più dei quattrocento Fiorentini che gli si erano aggiunti. E'
bisogna sapere, che quando nel 1260 i Ghibellini per opera di Farinata
prevalsero in Firenze, tutti i Guelfi si partirono nella notte del 13
settembre, e nella città di Lucca si rifugiarono: ben furono dai
leali Lucchesi lungo tempo raccolti, finchè essi pure sconfitti
nella guerra che sostennero contro quell'invincibile Farinata,
doverono di altro più sicuro asilo provvedersi, se volevano campare
dalla acerba persecuzione dei nemici. Questo fu caso pieno di lacrime:
molte gentildonne partorirono su le Alpi di San Pellegrino, molti
principali cittadini caddero morti per via, di fame, e di freddo; ma
poichè, come dice lo Storico che questo fatto racconta,--bisogno fa
prode uomo,--si ritirarono in Bologna, e quivi si dettero ad
apprendere arme, e giornalmente esercitandosi vennero in breve a
ottenere fama di valorosi cavalieri. Chiamati a Modena dalla fazione
guelfa, superarono la ghibellina; lo stesso fecero a Reggio, dove
dodici di loro, che in appresso tolsero il nome di Paladini,
abbatterono, e uccisero il fiero gigante appellato _Tacha_, il quale
con una grossa mazza di ferro tutti ammazzava, o guastava, come meglio
potrà vedere nelle cronache di cotesto tempo il lettore vago di
conoscere sì fatte cose lontane dal nostro soggetto. Questa gente,
che molto erasi avvantaggiata in quelle guerre, appariva splendida di
bellissimi destrieri e di ricche armature: li conduceva Guido Guerra
dei Conti Guidi, pronipote di quel Guido Sangue, che solo scampò
dall'universale eccidio che i Ravennati commisero di sua famiglia,
s'egli è vero ciò che gli antichi Storici hanno preso cura di
tramandarci. Carlo non avendo più danaro non fu parco di promesse,
e il Pontefice d'indulgenze; anzi questi tanto gli ebbe per cari, che
dette loro a portare la propria insegna, la quale faceva campo bianco
ed aquila vermiglia con serpente verde tra gli artigli.

I Fiorentini la riceverono con la gioia dell'odio che si crede
santificato; solo vi aggiunsero un giglietto rosso sopra la testa
dell'Aquila, imperciocchè giglio rosso in campo bianco fosse la
impresa dei Guelfi di Firenze, come il giglio bianco in campo rosso
quella dei Ghibellini.

Adesso, uniti in bella ordinanza i Francesi e i Guelfi italiani,
avendo per guida il Pontefice e il Conte di Provenza, muovono da
Viterbo pel cammino di Roma. Cavalcava Clemente, vestito degli abiti
pontificali, una bianca _Chinea_: la magnificenza del manto era tale,
che non solo la sua persona, ma sì bene anche tutto il palafreno
copriva, onde l'Alighieri ebbe a dire quello che disse nel Canto XXI
del Paradiso¹: le barde del cavallo foderate all'esterno di
scarlatto comparivano ricamate a rose d'oro; di scarlatto parimente
ricamata a rose d'oro era la gualdrappa lunghissima: teneva su la
testa una mitra, simile a quella che costumano i moderni Vescovi,
però che il triregno non ornasse ancora le tempie pontificali, e fu
soltanto sul finire di questo secolo, che primo l'adoperò il
glorioso Papa Bonifazio VIII: nella manca stringeva il pastorale a
similitudine del vincastro dei guardiani di pecore, per dinotare la
mansuetudine di governo con la quale Gesù Cristo ordinava che si
reggessero i Fedeli: la destra alzava in atto di benedire; e così
ella era assuefatta a quel moto, che quando ancora non ne faceva
mestieri segnava: ambedue le mani poi si vedevano coperte di
bellissimi guanti, che in vocabolo canonico chiamavano _chiroteche_, e
il dito anulare della destra cinto di sopra il guanto di un
preziosissimo anello: di qua e di là dalla testa del cavallo due
giovani donzelli vestiti di abiti sontuosi ne reggevano il morso,
terminato con borchie d'oro dalle quali pendevano nappe di seta
cremisi, e ne regolavano il passo. Dal lato destro del Papa si
avanzava Carlo d'Angiò: aveva usbergo, braccialetti, panciera,
cosciali, e schinieri, tutti di acciaio intarsiati di oro a rabeschi
maravigliosi: invece d'elmo portava sopra la testa la corona da Conte:
nelle mani un bastone d'oro contornato di gemme: dal sommo della
spalla sinistra, attaccata a un bel nastro ricamato, gli pendeva la
croce, che aveva ricevuto dal Cardinale Simone di Tours per dimostrare
a cui ci voleva credere, che nessuno interesse mondano, ma la maggior
gloria della Chiesa, lo aveva indotto nella guerra contro Manfredi:
una clamide non diversa dalla imperiale foderata di vaio nell'interno,
e nell'esterno trapunta a fiordalisi d'oro, compiva l'abbigliamento:
il cavallo che montava Monsignor Carlo era quel desso, che soleva
accompagnarlo in tutti i suoi fatti d'arme, generoso animale, bianco
come fiocco di neve, nato di madre araba, e da uno stallone di
Normandia; dalle narici carnicine ferocemente dilatate pareva fiutare
la battaglia: bene era fatto a pennello, ed ammirabile in ogni parte
del corpo, ma si agitava fastidioso dentro grave bardatura di cuoio di
capra, che chiamavano _cordevano_, ricoperta di rabeschi, e di
_azzimine_ di acciaio: il Conte nel frenare l'impeto del suo
impaziente destriero mostrava essere molto savio maestro di
cavalleria, e sebbene nel sembiante impassibile, tuttavolta si
conosceva, com'egli facesse piuttosto opera per concitarlo, che per
reprimerlo. Dall'altro lato veniva la Contessa Beatrice sopra un
ginnetto di Spagna, il quale, quasi fosse consapevole del grado di
colei che lo cavalcava, scoteva tutto altero la testa, e caracollava
in molto leggiadra maniera; l'animosa sdegnando, come le femmine di
quei giorni costumavano, far tenere la briglia da uno scudiero, di per
sè stessa lo conduceva. Sebbene, come abbiamo già detto, avesse
molte delle sue gioie impegnato o venduto per sovvenire al marito in
quella impresa, non si creda, che non gliene rimanessero tante da
comparire ornata; un busto di lamina d'oro le fasciava la vita,
seguendone i contorni naturali fino sopra i fianchi, dove le
terminava, con la forma medesima delle corazze romane; nel mezzo con
crisoliti, zaffiri, rubini, ed altre pietre preziose, stava
configurato un giglio; il rimanente sparso di rosette composte di
cinque pietruzze di diversi colori: cingeva ricca cintura, da una
parte della quale era attaccata la borsa, dall'altra un pugnale: la
veste azzurra, affatto simile a quella di Carlo, si vedeva trapunta di
fiordalisi d'oro: ornava la corona di Contessa i suoi capelli composti
in trecce minutissime, che parte delle guance e del collo le
ricoprivano: Beatrice non era bella, ma alta di corpo, e maestosa: nel
suo volto traspariva quella indefinita autorità, che i signori
della terra derivano dai loro padri, o piuttosto dall'abitudine del
comando. La gente raccolta sopra il cammino, al comparire di sì
magnifica gentildonna applaudiva, ed ella con occhi scintillanti dal
piacere le rendeva sorridendo cortesi saluti. Seguivano quindi i
principali Baroni di Provenza e di Francia, con vesti ed arme diverse,
che a descriverle tutte andremmo di leggieri a mille e più pagine,
con troppo gran danno dei nostri editori; poi l'esercito diviso in
drappelli di bella mostra, ognuno dei quali condotto da un Cavaliere
di assai buon nome nella milizia.

  ¹   Cuopron di manti lor li palafreni,
        Si che duo bestie van sull'una pelle:
        O pazienza, che tanto sostieni!

In questa maniera procederono fino a Baccano: quivi incontrarono
duecento armeggiatori coperti di zendadi azzurri, trapunti a gigli
d'oro, montati sopra cavalli di un solo colore. Con la faccia rivolta
all'esercito veniente stettero immobili, finchè non fu avvicinato a
tiro di balestra: allora spronarono precipitosi con l'aste basse, come
se volessero assaltarlo: ma ad un tratto si fermarono e súbito dopo
si divisero, figurando una battaglia d'infiniti duelli: ricambiati
alquanti colpi, alzarono le lance, ed offersero un lungo viale di armi
intrecciate; poi tornarono a mescolarsi, e quale usciva, qual
rientrava; alcuni correvano dal lato manco, altri dal destro, e si
avviluppavano e si aggomitolavano, ch'egli era un brulichío, una
confusione maravigliosa a vedersi: ad un segno dato, in meno che non
si dice, comparivano ordinati in ischiere quadrate, piene e vuote, in
fila disposte lungo la via, o in drappelletti traversi: quindi nuove
giostre, nuovi greppi, e sempre vaghi, e sempre varii a vedersi, che
forse di tali non se ne sono ancora eseguiti nei nostri balli moderni
tanto vantati.

Gradito quanto meno aspettato riuscì a Carlo cotesto spettacolo,
che non si rimase se non circa sette miglia distante da Roma. In quel
punto correndo a tutta briglia scomparvero. Quando ebbe percorso un
ben lungo sentiero il Conte li rivide immobili, come la prima volta,
traverso il cammino, tenendo sollevate le lancie e i _pennoncelli_
confusi; nè adesso, per avvicinarsi ch'ei faceva, sembrava che
volessero muoversi. Carlo stava attento a quello che sarebbe per
accadere, allorquando si aprirono e lasciarono vedere una magnifica
ambasceria di signori romani, che, vestiti di lor cappe ermesine, si
fecero innanzi al Pontefice, e piegando ginocchio a terra gli
offrirono le chiavi d'oro della città: in appresso quegli che
sembrava più autorevole tra loro, impetrata licenza, recitò una
orazione che non era latina, ed italiana nemmeno, ma ch'egli però
intendeva recitare in latino; nè noi la riferiremo: ti basti, o
lettore, sapere che fu vilmente bassa, schifosamente servile, onde
senza sforzo potrai immaginarla da te: sebbene durasse da oltre mezza
ora, spremendone il sugo, diceva--essere universale desiderio del
popolo e dei nobili romani, che Carlo fosse creato Senatore di
Roma;--come se della signoria del Pontefice non avessero abbastanza, e
ce ne sopravanzasse: e qui nota, lettore,--che anche tu sei popolo, e
forse coll'esempio ti potresti emendare,--che quattro anni innanzi una
medesima ambasceria deputata a Manfredi lo assicurava--essere
universale desiderio del popolo e dei nobili romani, che fosse eletto
Senatore perpetuo di Roma. Come poi Clemente avesse grata quella
offerta fatta dai suoi sudditi a Carlo, lo sa colui che discende nel
profondo del cuore: per quello che potè conoscersi, assai ne fu
lieto nel sembiante, e rispose,--che volentieri. Allora fu portato un
altare, sul quale stavano deposte molte sante reliquie e il libro
degli Evangeli; il Pontefice scese da cavallo, e con esso il Conte e
tutto lo esercito: fattosi all'altare gli si prostrava dinanzi,
intuonando una preghiera che di mano in mano fu ripetuta da tutti i
circostanti; poi rilevatosi in piedi domandava Monsignore Conte se
voleva essere Senatore di Roma; al che Carlo rispose: che molto
volentieri, dove concorresse il buon piacere di Sua Santità:
Clemente allora aprì il libro dei giuramenti, ed ordinò che
giurasse: Carlo, con la destra su gli Evangeli, leggeva: «Noi Carlo
di Francia, per la grazia di Dio Conte di Angiò, di Folcacchieri,
di Linguadoca e di Provenza, etc. etc. per libera volontà del
popolo e dei nobili romani eletto Senatore di Roma, promettiamo con
giuramento preso sopra i santi Evangeli, di non contribuire con fatti,
nè con parole, a far perdere i membri o la vita al gloriosissimo
Pontefice Clemente IV, pio, universale, apostolico, non meno che ai
suoi successori, di rivelare le congiure, mantenergli nella
possessione del Papato, e nel libero godimento delle regalie
appartenenti al Patrimonio di San Pietro, provvedere alla sicurezza
dei Cardinali e loro famiglie, conservare la città di Roma nella
pienezza del suo territorio e di sue giurisdizioni, finalmente di fare
tutte quelle cose che possono contribuire al maggiore onore della
Santa Chiesa e di Dio.» Profferite queste parole, il Pontefice gli
pose nella destra le chiavi in simbolo d'impero civile, poi la spada
come condottiero delle sue milizie, finalmente lo stendardo di San
Pietro, come campione di Santa Chiesa. Tanto tumultuoso fu lo scoppio
degli urli, tanto il suono delle trombe, che fino da Roma lo
sentirono. La notte era inoltrata quando giunsero alla patria di
Cesare.... il cammino risplendeva come di giorno pe' molti doppieri
che ardevano da ambedue le parti del cammino. Sotto la porta si vedeva
solennemente ornato il Carroccio, inventato fino dall'anno 1026 da
Ariberto Arcivescovo di Milano, onde servisse per segnale di guerra
alle città italiche, non già per onorare la venuta di tali che
dovevano respingere: questo era un carro, come i miei lettori
sapranno, tirato da quattro o più bovi, bianchi e grassi a
meraviglia, coperti di panno scarlatto, ricamato doviziosamente;
girava intorno la base un doppio ordine di scalini, perchè le ruote
agivano internamente, e su i gradini stavano fitti candelabri di
argento, con ceri di stupenda grossezza: dal mezzo del carro sorgeva
una antenna fasciata di drappo, nel cui mezzo era appeso il Cristo
d'oro; all'estremità il gonfalone di Roma: i lembi del gonfalone,
che di dieci e più braccia oltrepassavano il carro, sostenevano in
cima dell'aste due Cavalieri armati di tutte arme, nobilissimi per
sangue: molti altri minori stendardi simbolici circondavano il
principale, nei quali tu vedevi il lione per denotare la forza, la
donna che si specchia per la prudenza, quella appoggiata alla colonna
con le bilance per la giustizia, e molte e molte altre virtù, che
in quei tempi il popolo romano non aveva che su le bandiere. I
Cavalieri, appena videro il Pontefice, il Conte e la Contessa
avvicinarsi, andarono ad incontrarli con molto accorgimento, e li
ricopersero del gonfalone a guisa di baldacchino. Il carro mosse;
primo a trapassare le soglie di Roma fu il Pontefice. Le strade
coperte di erbe mandavano attorno odore soave; le finestre illuminate,
leggiadre di bei tappeti, apparivano ingombre di donne vestite dei
migliori loro abiti, che gettavano a piene mani fiori della stagione
sopra i Cavalieri francesi: questi poi, giovani e vecchi, come la
natura loro li consiglia, volgevano a destra e a sinistra la testa con
la velocità del pendolo, ed ogni qualvolta veniva loro fatto di
scorgere un sembiante leggiadro, se lo ammiccavano con gli occhi, e
sorridevano, ovvero, piegata la persona, l'uno sussurrava all'orecchio
dell'altro, Dio sa che parole. In una strada si udivano suoni, canti,
e si vedevano donne danzare, e uomini bere e darsi tempone: in altra
il _giullare_ con suoi giuochi sollazzare la corona del popolo che gli
dimorava intorno per incantata, finchè egli col berretto in mano
non se ne andava in giro gridando--_larghezza_; allora chi qua, chi
là, si sbandavano tutti in traccia di un altro _giullare_ che non
fosse anche giunto a quella conclusione. Qui in mezzo d'una piazza,
montato sopra una tavola, con una torcia ai piedi e il leuto al collo,
il ciarlatano,¹ come forse faceva nell'antichità quel povero
cieco di Omero, cantava le imprese di Carlomagno, di Orlando, e degli
altri Paladini. Tra tanta gente intesa a sollazzarsi, come la serpe in
mezzo al prato vedevi strisciare il tagliaborse, con passo obliquo,
schivante il lume, ed aspettare al varco persona su la quale eseguire
il suo tiro; perchè bisogna persuaderci, che da quando gli uomini
ebbero testa da pensare, e mani da prendere, furono ladri; e ch'essi
sono la solita accompagnatura dei signori, allorchè si recano con
magnifica pompa in qualche città. Così trapassando per molti e
diversi spettacoli di allegrezza, il Pontefice, il Conte e la Contessa
con i principali Baroni, giunsero al Laterano. L'esercito già s'era
diviso pe' quartieri apprestatigli dalla provvidenza romana. Carlo,
dopo la cena, sentendosi stanco aspettava il cenno di Clemente per
andare a prendere riposo, ma non osava domandarglielo; Clemente non
voleva che stanziasse nel suo palazzo, ma non osava dirglielo; pure
alla fine considerando che a lui toccava parlare, si levò da
tavola, e favellò: «Conte, noi vogliamo che tu sappi, nessuno
cattolico, per quanto d'arme e di tesoro potente, avere mai albergato
fin qui nel nostro palazzo di Laterano, e questo teniamo in segno di
rispetto meno per noi, che siamo il servo dei servi, che per
l'Altissimo di cui facciamo le veci. Quello che è stato con tanta
sapienza dai nostri predecessori stabilito, e da tanti Imperatori
seguitato, noi non intendiamo revocare; però escine senza
mormorare, dilettissimo figlio; di bene altri palazzi abbonda la
città, nè per bellezza, nè per ricchezza punto inferiori a
questo nostro; e partendotene persuaditi che noi non vogliamo già
farti vergogna, ma sì provvedere alla fama di figliuolo ossequente
a Santa Madre Chiesa, che altissima suona di te per l'universo.»

  ¹ Il nome di Ciarlatano è venuto da questi poeti erratili, che a
    modo degli antichi _Rapsodi_ andavano di città in città a
    cantare di Carlomagno, onde si fece il _Carlocantare_, in appresso
    _Carlotanare_, e alla fine con maggior corruzione _Ciarlatanare_,
    e _Ciarlatano_.

Carlo, sebbene non fosse punto disposto a sopportare quelle grandigie
papali, come dimostrò qualche anno dopo con la superba risposta a
Niccola III degli Orsini, pure adesso con lieto viso si partì dal
Laterano, e si condusse ad albergare altrove. Il Conte di Provenza,
sì come savio, intendeva, che adattarsi una volta al piacere
altrui, per poi fare sempre a modo proprio, non è cosa che deva
punto guastare.

Nel seguente giorno il Pontefice e il Conte ristrettisi insieme si
accordarono intorno molti punti sopra i quali gli scambievoli Ministri
avevano creduto bene non tenere proposito, giudicando che si sarebbero
intesi meglio tra loro. Quali fossero i discorsi fatti, e le
condizioni pattuite è ufficio dello Storico riferire; a noi basta
accertare che si accordarono. Sciolto il colloquio, i banditori
percorsero la città, gridando: «Che nella prossima festa di
Epifania, Monsignor Carlo e Madama Beatrice Conte e Contessa di
Provenza, sarieno stati coronati Sovrani di Sicilia per mano del
Signore Clemente IV, Pontefice gloriosissimo di Roma, nella Basilica
di Santo Giovanni Laterano; che sarebbesi tenuta per tre giorni corte
_bandita_, e _rinforzata_, sì che l'ultimo giorno fosse la maggiore
di tutte, con facoltà di andare a qualunque Cavaliere portasse
arme; che tutti i giorni dopo il mangiare si aprirebbe una giostra, i
_tenitori_ della quale erano i Monsignori Conte Guido Monforte,
Guglielmo lo Stendardo, Boccard e Giuan Conti di Vandamme, Piero di
Bilmont, Mirapoix il _Siniscalco_, Giuan di Bresilles, e Ludovico
Jonville; che tutti quei Cavalieri che avevano vaghezza di provarsi
con loro andassero a portare la sfida nel chiostro di San Paolo, dove
dal sorgere al tramontare del sole sarebbero state esposte le insegne
dei tenitori; e la Contessa Beatrice Regina del torneamento, e Giles
Lebrun Contestabile del campo, avrebbero tenuto conto delle insegne, e
dei nomi dei Cavalieri che si presentassero, etc.»

I primi raggi del sole non avevano per anche illuminato il nostro
emisfero, che una calca di gente affollata nel giorno appresso intorno
le porte del monastero di San Paolo aspettava ansiosamente che si
schiudessero. Dopo lungo aspettare, si aprirono alla curiosità del
popolo che in un momento inondò quel vasto ricinto del chiostro.
Egli era una bellissima fabbrica pei tempi d'allora, divisa in quattro
lati uguali, con portici composti di molti archi a sesto acuto, e di
colonne sottilissime scanalate; le parti interne, scompartite in
più quadri, rappresentavano con le meno triste pitture che in quei
tempi si sapessero fare, le principali geste del glorioso Apostolo:
tra le altre molto lodavano quella dove si vedeva il Santo preso dai
manigoldi, che volevano ad ogni costo metterlo bocconi per vergarlo.
Nè le geste di San Paolo erano i soli dipinti: vi compariva
ritratto un Adamo che lavorava la terra--con una bella vanga di ferro:
un Giudizio finale dove certi diavoletti arguti levavano le anime in
forma di bambini dalle bocche di Cavalieri, Regnanti, Monache, Frati,
e fino da quella di un Papa; in somma un Giudizio affatto simile
all'altro che Andrea Orgagna condusse su le muraglie del Camposanto di
Pisa; e, per finirla, tutti gli altri _novissimi_. Lungo le pareti
stavano disposte l'arche dei signori defunti, nel sodo storiate di
figure, che i Frati del luogo dicevano umane; sul coperchio giacevano
le statue di coloro che vi erano chiusi; qui una donna con le braccia
incrociate sul petto, il capo piegato su l'omero, gli occhi chiusi in
atto di trapassata; più oltre un Magistrato vestito col lucco,
seduto sur un fianco, col pugno appuntellato alle tempie, la faccia
bassa, come uomo che mediti; più oltre ancora un Cavaliere armato
da capo a piedi con la spada nuda alla mano, spirante sopra un fascio
di trofei: il volgo dei morti, senza pietra,--senza scritto, che lo
additasse all'amore dei suoi, stava confusamente sepolto sotto il
pavimento del portico.... (poichè, vivo o morto, il volgo è
sempre destinato a servire di pavimento; ma tale piacendogli stare, a
me non tocca perfidiarci sopra. _Trahit sua quemque voluptas_.)

Dal lato opposto alle porte per le quali si entrava, sopra uno zoccolo
fasciato di velluto cremesino sorgeva un'asta su la quale era
attaccata una bellissima armadura, e a piè dell'asta stavano
disposte quattro coppe piene di _bisanti_ d'oro, in premio di chi
avrebbe vinto la giostra: accanto a questa, ma piantate sul terreno,
s'inalzavano altre otto lance, da ognuna delle quali pendeva lo scudo
col nome e colla insegna del Cavaliere a cui apparteneva: il primo
diceva _Monforte_, e la impresa mostrava una donna rovesciata. E qui
bisogna avvertire essere stato in quei tempi il massimo degli oltraggi
portare l'altrui sembiante capovolto nello scudo; onde quel superbo
Monforte volendo in qualche maniera dinotare il suo disprezzo per
l'Italia aveva inteso effigiarla nella donna che abbiamo descritto qui
sopra. Nel secondo si leggeva _Stendardo_, e la impresa erano due
bracci che armati di martello battevano sopra una incudine col motto:
_nè per picchiar si rompe_: nel terzo e nel quarto, _Vandamme_;
quello era tutto nero con gocce di argento, e fu dono della dama dei
suoi pensieri, che volle in quel modo significare le lagrime che
avrebbe sparso nella sua lontananza; nell'altro scorgevasi un cuore
tra le fiamme, passato da parte a parte con una freccia, a
similitudine di quelli che i nostri moderni amorosi mettono in cima
alle lor lettere _erotiche_: il quinto diceva _Belmont_, e per impresa
un vento affannato a spengere un fuoco col motto: _nè per soffiar
mi spengo_: il sesto _Mirapoix_; la impresa, una testuggine col motto
latino: _Tarde sed tuto_: il settimo _Bresilles_, e faceva levriero
che ritorna con la lepre: l'ultimo appariva tutto bianco, come
costumava portassero nel primo anno i nuovi Cavalieri, ed apparteneva
al giovane Jonville. Subito dopo le aste vedevasi una lunga tavola
coperta di ricco tappeto, intorno la quale sedevano le più belle
dame romane e francesi, giudici ordinarii di quella specie di
combattimenti: e la Contessa Beatrice in seggio più elevato come
Regina; il Contestabile Giles Lebrun sopra uno sgabelletto a piè
della tavola teneva un libro di pergamena per iscrivervi i nomi, o
descrivervi le insegne di coloro che si fossero presentati a
giostrare: i rimanenti Cavalieri, parte armati, parte abbigliati di
ricche vesti di seta, stavano in piedi all'intorno.

Ormai era passata nona, nè alcuno si presentava a far contro i
tenitori; così grande correva la fama di questi Cavalieri francesi,
che nessuno per quanto prode si attentava. Guido da Monforte vestito
di giustacuore di cuoio si avvolgeva tra i suoi fratelli di arme, e ad
ora ad ora, sorridendo, diceva: «Non ve l'aveva io detto?»

La gente accorsa per vedere stava fissa alla distanza di quattro o
più braccia dagli scudi dei tenitori, come se una linea magica le
impedisse di venire oltre. Le dame romane, guardavano verso la folla
per iscorgere qualche loro vagheggiatore, nè vedendovene alcuno,
dimettevano vergognose la faccia; le francesi esultavano su l'onta
d'Italia.

La folla si fende; un Cavaliere di aspetto leggiadro, con la visiera
calata, portante scudo con figura affatto simile a quella del
Monforte, se non che posta nella sua naturale attitudine, salutate in
prima le dame, percuote col ferro dell'asta la insegna obbrobriosa del
primo tenitore: al punto stesso il Cavaliere vede un altro ferro di
mole maravigliosa, tinto di sangue rappreso percuotere la medesima
insegna, onde volge la testa, e scorge un sembiante coperto di piastre
di acciaio, il quale portava per impresa il fulmine, che cadente dalle
nuvole abbatteva una torre, col motto: _da man celata scende_.

«Signori Cavalieri,» disse il Contestabile Lebrun ai due
sopraggiunti «noi vogliamo avvertirvi, che quantunque sia in
facoltà nostra accettare le sfide _a tutta oltranza_,¹ pure
ameremmo che non vi fosse sangue.»

  ¹ Vedi pag. 65.

«Veramente» soggiunse il Monforte «anche io vi consiglio a
ciò che vi ha detto Messere il Contestabile. Cavalieri, perchè
non vorrei che per me nessuna dama portasse la guancia lacrimosa.»

«Se voi non volete correre il pericolo di accettare la sfida _a
tutta oltranza_,» rispose il Cavaliere _primo venuto_ «non avete
che a pregarci alla presenza di queste dame, onde noi la commutiamo in
_primo transito_.»

«_Sangbleu_!» gridò il Monforte» si udì mai orgoglio
uguale a questo? Scrivete, Contestabile, la loro sentenza di morte.
Badate, Cavalieri, se volete, io vi concedo sempre tempo a
ritrattarvi.»

«Conte,» parlò il Cavaliere del fulmine» guardate in
cortesia il ferro della mia lancia, non è sangue quello che vi sta
sopra rappreso? Ed avvertite, non è mio quel sangue.»

«Se il fatto risponde alle parole,» soggiunse il Monforte
«spero che ritrarremo qualche onore dalla vostra sconfitta.»

«O forse bestemmierete i Santi per avere provocato il torneo,»
riprese il Cavaliere _primo venuto_.

«Signori,» favellò il Cavaliere _del fulmine_ rivolto verso i
tenitori «i vanti non vincono le prove delle armi, e disdicono
altamente a gentili Cavalieri: faccia ognuno quel meglio che può;
la vittoria sarà a cui Dio vorrà concederla....»

«A cui la lancia vorrà concederla, dovreste dire,
Cavaliere,»--rispose il Monforte.

«Come volete, Messer Conte. Contestabile, descrivete la insegna,
perchè il mio nome dee rimanersi celato.»

«E di voi come ho a dire?»--interrogò Lebrun il Cavaliere
_primo venuto_, dopo che ebbe descritto la impresa del Cavaliere _del
fulmine_.

«Descrivete di me pure la insegna.»

«Prudente provvedimento quando uomo presagisce la disfatta!»
disse sogghignando il Monforte, «così si getta via lo scudo e la
vergogna.»

«Signori Cavalieri, i nostri tenitori sono otto, e voi non siete
che due,» parlò il Contestabile: «vorreste forse sostenere
soli l'assalto di tutti?»

«Avete compagni?»--domandò il Cavaliere _del fulmine_ al
Cavaliere _primo venuto_.

«Ho l'anima,--la spada,--la lancia,--la mazza d'arme;--ognuna di
queste vale un Francese: voi pure le avete, dunque siamo tanti e
tanti.»

Il Monforte digrignò i denti per la rabbia, e gli occhi gli si
empirono di sangue. Il Cavaliere _del fulmine_ crollando la testa
parlò: «Ecco che si è detto troppo più di quello che si
vuole per una giostra _a oltranza_. Cavaliere, se siete valente quanto
audace, spero in Dio che avremo vittoria: nondimeno io vo' che siamo
otto anche noi, perchè l'uomo deve ben fidare in sè, ma non
presumere. Or via, signor Contestabile, condurrò io gli altri sei:
avranno stella d'oro in campo nero.»

Ciò detto, senza saluto, senza inchino, si volse verso la folla, la
quale mormorando si aprì per lasciare il passo a quel gigante, che
in un momento disparve. Il Cavaliere primo venuto, piegata la persona
con atto gentile alle dame, che volentieri lo guardavano, parimente si
allontanò.

Rotto lo incanto, suscitata la virtù italiana, si videro da tutte
le parti farsi oltre Cavalieri a toccare, qual col ferro, quale senza
ferro, gli scudi dei tenitori, così che al tramontare del sole il
libro del Contestabile si trovò pieno di nomi, e di descrizioni
d'insegne. Il Monforte accigliato non diceva parola; Lebrun chiudendo
il libro si volse verso di lui, o disse: «Sapete, Conte, quello che
dice il proverbio?»

«Che ho io a farmi dei vostri proverbii?»

«Vi acquistereste sapienza: _offendi, e spegni_.»

«Ho fatto il primo oggi, domani farò il secondo.»

«Se dirlo fosse farlo, non dubito che sarebbe; ma quei Cavalieri
non avevano sembiante di cedere così leggeri; vedrete che a
mangiarli saranno più di due bocconi.»

«Questo è perchè i sessanta anni vedono diversamente dai
quaranta; e voi oggimai, signor Contestabile, siete più proprio a
dire proverbii, che a menare colpi di spada.»

Giles Lebrun, Cavaliere senza macchia, e senza paura, sentendo quella
acerba risposta, alzò la persona, come nei giorni della sua
gioventù, scosse in atto di rabbia i capelli, bianchi di onorata
canizie, e pensò di percuotere sul volto il villano: Monforte
però nulla curando se fosse stato gradito, o no, quel suo detto, si
era di già allontanato. La prudenza consigliò Lebrun a non
muovere scandalo nelle presenti occasioni, ma la vendetta gli impresse
la ingiuria nel cuore.

                       --------

Correva il giorno sesto di gennaio _anno domini 1266_, allorchè una
splendida comitiva di Prelati, Magistrati, e Cavalieri italiani e
francesi, si fecero a suono di trombe alla dimora del Conte di
Provenza per guidarlo al Laterano, dove lo aspettava il Pontefice. Non
mai cavallo di battaglia dimostrò tanto focosamente l'interna gioia
al suono dell'assalto, quanto adesso Beatrice a quelle trombe, che le
annunziavano doversi porre in cammino per essere incoronata:
senz'altro badare interruppe la sua acconciatura, e si scagliò,
quasi mezzo vestita, impetuosamente verso la porta per uscire. Carlo
la prese pel braccio, la ricondusse al luogo onde si era mossa, e con
voce pacata le disse; «Dama, contenetevi,--l'aver corona dal
Pontefice non significa esser Regina.»

La messa solenne è cantata da Papa Clemente, assistito da Rodolfo
Vescovo di Albano, Archerio Prete di Santa Prassede, Riccardo di Santo
Angiolo, Goffredo di San Giorgio al Velo d'oro, e Matteo di Santa
Maria in Portico, Diaconi Cardinali. Il Conte e la Contessa di
Provenza, vestiti di bianco, stanno genuflessi sopra doviziosi
pulvinari. Finita la messa, Archerio e Rodolfo si fanno incontro a
Carlo, Riccardo e Goffredo incontro a Beatrice, e li conducono presso
i gradini dell'altare. Clemente prende la Bolla della investitura di
sopra la santa mensa, e legge a voce alta: «Noi Clemente Papa IV,
servo dei servi di Dio, pel potere delegatoci da Gesù Cristo, e dal
Principe degli Apostoli San Pietro, di provvedere alla maggiore gloria
della Chiesa, commessa dalla onnipotente bontà alle cure del nostro
reggimento, ordiniamo che del Regno di Sicilia _ultra_ e _citra_,
giurisdizioni, appartenenze, feudi, etc., sia considerato come
decaduto Manfredi di Svevia, e la sentenza di scomunica già dai
nostri antecessori contro lui pronunziata con le presenti confermiamo;
Carlo Conte di Angiò, e di Provenza, nostro dilettissimo figlio, di
questo Regno medesimo investiamo, eccetto la città di Benevento con
tutto il suo territorio e pertinenza, per sè, pe' suoi discendenti
maschi, e femmine; ma vivendo i maschi, sieno escluse le femmine, e
tra i maschi succeda il primogenito; i quali tutti mancando, o
rompendo le cose pattuite, ricada il Regno alla Chiesa Romana. Le
condizioni sono: che non si divida il Regno: che si presti giuramento
di ligio omaggio, e di fedeltà alla Chiesa: che se il Re di Napoli
sarà creato Imperatore, e Sovrano di Lombardia, o di Toscana,
dentro quattro mesi renunzii il Regno: che se il Re è maggiore di
diciotto anni amministri di per sè stesso, se minore si sottoponga
alla curatela della Chiesa: che annualmente nella vigilia dei Santi
Pietro e Paolo si paghi il censo di ottomila once d'oro, e più un
palafreno _bianco, buono, e bello_: che in sussidio della Chiesa a
richiesta del Pontefice mandi trecento uomini di arme pagati per tre
mesi, o pure possano commutarsi in soccorsi di navi: che il Re, e suoi
successori, non s'intromettano nelle elezioni, e postulazioni dei
Prelati, salvo però quello che loro si appartiene per _Juspatronato_:
che non s'impongano taglie alle chiese: che si tengano pronti mille
cavalieri per Terra Santa etc.» ¹

  ¹ Molte altre sono le condizioni, che non abbiamo poste per non
    riuscire gravosi, le quali si possono riscontrare nel Giannone.

Carlo che sentiva tutte queste condizioni con animo di non serbarne
pur una, maestosamente risponde: «Noi Carlo di Francia, per la
grazia di Dio Conte di Angiò, di Folcacchieri, Provenza, e
Linguadoca, Re di Sicilia, del Ducato di Puglia, e del Principato di
Capua, a voi signor Clemente Pontefice IV, e in nome vostro ai vostri
successori facciamo ligio omaggio pel Regno di Sicilia, e per tutta la
terra ch'è di qua dal Faro fino alle frontiere, eccettuata la
città e contado di Benevento, distretti, e pertinenze, a noi, e ai
nostri eredi concessa dalla predetta Chiesa Romana; le cose espresse
nella Bolla ratifichiamo, e di tenerle osservate promettiamo e
giuriamo.»

Matteo Cardinale Diacono, preso il libro degli Evangeli lo pone
innanzi al Conte ed alla Contessa, che mettono le mani sopra di
quello; Clemente tolti dallo altare due manti di porpora foderati di
ermellino li porge ai Cardinali, che ne coprono le spalle a Carlo e a
Beatrice, i quali súbito prostrati su i gradini dello altare
ricevono dalle mani del Papa la unzione col crisma consacrato, e la
corona reale, che Matteo gli presentava in un vassoio di argento.
Beatrice trema, scolorisce, una lagrima le sgorga dagli occhi, e cade
sul pavimento: Carlo impassibile, più che alla presente cerimonia,
tiene l'animo rivolto ai mezzi di conquistare il Reame di cui per ora
ha la corona soltanto. Il Pontefice, incoronati i personaggi, lascia
egli pure cadersi in ginocchio, e invoca a braccia levate lo Spirito
Santo; il popolo risponde alla prece con grida tumultuose; le campane
suonando a distesa accennano la cerimonia consumata; le trombe vi
aggiungono altissimo fragore. _Viva Re Carlo! Viva la Regina Beatrice!
Vivano i Re di Sicilia!_ e la chiesa al rimbombo pare che cada
rovesciata dai fondamenti: pure tra tante voci che applaudivano si
udì un urlo, che disse: _Morte agli stranieri!_ Ogni uomo riputando
di avere a lato colui che aveva tanto ardito (così l'urlo fu sonoro
e terribile) si volse cruccioso, ma su le labbra del vicino udì
spirare l'ultime sillabe, _Viva Re Carlo_: sospettarono molti che si
fosse partito dal soffitto, e alzarono gli occhi verso quella parte;
nè agli orecchi di Carlo rimase celato, e fu sentenza di morte per
molte centinaia d'individui, che immolava in appresso per acquietare
il sospetto suscitato nell'anima sua. Clemente, compiuta la preghiera,
scese, baciò il Re su la fronte, abbracciò la Regina, e disse:
_«En uncti Domini, et Reges estis. Sicut rugitus leonis, ita est
terror Regis; qui provocat eum peccat in animam suam: sed sicut
divisiones aquarum, ita cor Regis in manu Domini. Pax vobiscum.»¹_

  ¹ Ecco, siete Re, ed unti del Signore. Il terrore del Re è come
    il ruggito del lione; chi lo provoca a indignazione pecca contro
    l'anima sua: ma come i ruscelli di acque, il cuore del Re è in
    mano di Dio. La pace sia con voi.

In mezzo agli applausi della plebe romana i nuovi Sovrani volsero al
Palazzo Laterano dove magnificamente banchettarono; il Pontefice si
assise terzo alla loro mensa, ma in luogo più elevato, come
conveniva all'altezza della sua condizione. Remosse le mense, andarono
accompagnati dalla medesima comitiva alla Piazza di San Paolo,
accomodata per uso di torneo. Quivi si addestrava quotidianamente la
gioventù romana in certe giostre, che si combattevano con lance
senza ferro chiamate _bagordi_; e così fosse piaciuto a Dio che
sapienza di senno avesse avuto in quei tempi la Italia nostra, come
aveva fortezza di bracci! Egli era un campo di forma ovale circondato
da fossa profonda, larga quattro o sei braccia, che in queste
occasioni si riempiva di acqua: presso al punto in cui le curve si
stringono per riunirsi avevano tratto una linea retta, e lo spazio tra
questa linea e l'estremo del campo serviva pe' sergenti, araldi,
contestabili, ed altre persone necessarie a quel combattimento:
intorno le fosse avevano inalzato palchi coperti di tappeti
bellissimi, e tra questi, come ognuno potrà immaginare, andava
distinto quello di Carlo per ricchezza di tappezzerie, ori, e bandiere
di mille colori. Giovani donne di aspetto leggiadro, e di guancia
fiorita, splendide delle più ricche vesti, sedevano tutte
contegnose, cupide di un saluto per parte dei Cavalieri combattenti,
che valesse a distinguerle. Intorno agli steccati la plebe stupida e
feroce si affollava, si urtava per meglio vedere; nè a farla star
quieta giovavano le calciate di lancia che d'ora in ora distribuiva il
ruvido soldato. Accennando Carlo, suonavano un corno: le anime dei
circostanti furono percosse da brivido di speranza, e di timore; un
profondo silenzio si diffuse da per tutto: suona la seconda volta,--la
terza;--allora si abbassano due ponticelli alla estremità della
piazza, e i Cavalieri a due a due passano la fossa. Giles Lebrun
Contestabile in mezzo del campo fece accostare i Cavalieri, e giurare
loro sopra i santi Evangeli, che avrebbero combattuto francamente,
senza frodi, senza malíe; che le loro armi non erano _ciurmate_, e
che non avrebbero altro aiuto invocato se non quello di Dio, e della
Vergine Santissima: dipoi rammenta loro di non ferire i cavalli, e
divide il vantaggio del vento, e del sole; ciò fatto, si ritira
alla estremità del campo dalla parte destra vicino al palco del Re
Carlo per meglio ricevere i suoi ordini, e quivi rimane immobile come
la statua del _Commendatore Lojola_: lì presso a lui stava il
premio del torneo. Gli altri due minori contestabili con gli araldi si
posero ai capi della piazza che abbiamo descritto, accanto ai
ponticelli. I Cavalieri disposti in ordine da una parte e dall'altra
aspettavano il segno. Giles Lebrun abbassa l'asta, e i Cavalieri si
rovinano addosso. Vergognosa narrazione! sei Cavalieri italiani al
primo affronto cadono scavalcati: i soli Cavalieri _del fulmine_, e
_primo venuto_, si tennero fermi in sella; ma come se atterriti da
súbita paura, voltaron i destrieri verso le lizze. S'alza
all'improvviso altissimo suono di risa per dileggio dei vinti, e un
battere di mani pe' vincitori, e uno urlare, e un pestare, che
assordava la gente: le dame sventolavano le ciarpe; Carlo godeva in
suo cuore che con la paura degl'Italiani si mantenesse la reputazione
delle armi francesi.

«Siete voi Italiano?»--domandò il Cavaliere _del fulmine_ al
Cavaliere _primo venuto_.

«Sono.»

«E che pensate di fare?»

«Vincere, o morire.»

«Insegniamo dunque a cotesti superbi che noi due bastiamo per
tutti.»

Al punto stesso voltano le teste dei cavalli: gli spettatori in
attenzione di nuove cose si tacciono. Trasportati dall'impeto dei loro
destrieri, i tenitori che primi incontravano le lance nemiche furono
Bilmont e Bresilles; questi percosso dal Cavaliere _primo venuto_
stramazza sul terreno a gambe levate; quegli ferito dal Cavaliere _del
fulmine_ di colpo tanto rovinoso, che la lancia, rottagli la visiera,
gli entra in bocca, gli taglia la lingua, e gli riesce dietro la nuca,
sollevato di sella è scagliato cadavere lontano nel campo. I due
Cavalieri italiani, riabbassate le aste, continuando il corso, si
affrontano in Mirapoix il _Siniscalco_, e Jonville, il giovane
Cavaliere; Mirapoix e il cavallo sotto l'asta del Cavaliere _del
fulmine_ vanno sossopra, e il peso dell'animale fiacca una gamba al
caduto, che dai sergenti viene trasportato tutto doloroso fuori del
combattimento; Jonville, quantunque côlto al cimiero premesse con
le spalle le groppe del suo cavallo, e l'asta per lo spasimo gli
sfuggisse di mano, nondimeno afferrata la spada voleva ricominciare lo
affronto: il Cavaliere _del fulmine_ gli spinge addosso il cavallo, e
gli prende la mira sul fianco; guai a lui se l'avesse côlto, chè
non avrebbe mai più vestito piastra nè maglia; ma il Cavaliere
_primo venuto_ vedutolo approssimarsi prese tempo, e gli dette tal
colpo sopra la lancia, che sviatala dalla mira, si conficcò nelle
coste del cavallo, nè si rimase, finchè tutta sanguinosa non
apparve dall'altra parte: Jonville abbrividì a quel colpo, e
considerando la sua vita andar salva per opera del Cavaliere _primo
venuto_, porgendogli la spada gli disse: «Signore, la cortesia
vostra mi ha conquistato.»

«Uscite, e tenetevi su la vostra parola per mio prigioniere
all'estremità del campo.»

I fratelli Vandamme, nobilissimi giostratori, e pieni di prodezza, mal
sofferendo quell'onta, si fanno con gran cuore a vendicarla. Quel
dallo scudo nero con goccie di argento ferisce il Cavaliere _del
fulmine_, gli fora lo scudo, e passa senza ricovrare la lancia; il
Cavaliere percosso non piega un dito dal cavallo, ma sbaglia il suo
colpo, e non trova il corpo avversario, cosa che soleva accadere ai
giostratori mal pratici, o fuori di esercizio: infiammato di sdegno
afferra la mazza d'arme, che gli pendeva dall'arcione, e la scaglia
con tanta aggiustatezza sul fuggente Vandamme, che gli taglia l'elmo,
la cuffia, e la ventaglia di acciaro; la testa ebbe salva per
miracolo, se non che l'impeto della scure gli sfiorò un poco la
pelle, e gli tolse alcuna ciocca di capelli: il Cavaliere _del
fulmine_, che la vittoria sembrava rendere feroce, si disserra sul
Vandamme, che intronato nel capo, privo del lume degli occhi,
accennava ogni momento di cadere, lo prende alla gorgiera, lo tira
giù da cavallo, e sprona verso la fossa per annegarvelo: un urlo di
rabbia si fece sentire a quell'atto, e il Monforte, e lo Stendardo, si
precipitarono a salvare il mal capitato compagno. Il Cavaliere _primo
venuto_ per questa volta fu più avventuroso di prima, perchè il
suo avversario, mentre, arrivato da troppo acerba percossa, s'ingegna,
stringendo i ginocchi, di non perdere le staffe, la cinghia della
sella gli si rompe, ed egli trabocca sul campo; il cavallo lasciato in
balía di sè, mentre vuol percorrere la piazza, è preso pel
morso dal Cavaliere vincitore, e ricondotto cortesemente al vinto.

«Cavaliere, scendete, e cambiamo qualche colpo di spada, già che
il cavallo non può più servirmi, almeno per oggi,»--disse il
Vandamme.

«Signore,» rispose il Cavaliere _primo venuto_ «volentieri
farei quello che mi richiedete, ma il bisogno mi chiama altrove; io
vedo il mio compagno assalito da due Cavalieri, nè posso lasciarlo
solo: contro il Monforte, e non contro voi, noi portammo la sfida ad
oltranza.»

«Cavaliere, io non saprei dirmi vinto oggi, senza un patto.»

«Ditelo.»

«Che voi veniste a combattere meco domani: lo promettete?»

«Lo prometto, salvo che impedimento non si opponga.»

Dopo queste parole il Cavaliere _primo venuto_ si muove in soccorso
del suo compagno, che, sopraggiunto dal Monforte di un colpo di lancia
su la spalla destra, era stato costretto a lasciare il Vandamme, il
quale fu miseramente calpestato dal suo cavallo, e piegare dal lato
sinistro per modo, che, se non avesse puntato l'asta per terra,
sarebbe per certo caduto; ma così presto si addirizzò, che lo
Stendardo, avendo preso la mira bassa per ferirlo, piantò l'asta in
terra. Il Cavaliere _primo venuto_, giungendo a gran corso, urta le
spalle dello Stendardo così fieramente, che questi battendo col
viso su le barde del suo destriere si sconcia il naso, e due o tre
maglie della visiera gli si incarnano nelle guance; quindi continuando
percuote il Monforte, e rompe nel suo usbergo la lancia; levata tosto
la spada, si dà a tempestarlo, e s'ingegna a tenerlo corto,
perchè non adoperi l'asta. Nel punto stesso apparisce uno stupendo
caso; il destriero del Cavaliere _primo venuto_, di tutto nero che
era, si tramuta all'improvviso, pezzato con grandi macchie di bianco.

«Ah! disleale Cavaliere!» gridò spaventato il Monforte «tu
sei _ciurmato_. Contestabile!»

«Conte, vorreste con gli errori del volgo coprire l'onta della
vostra sconfitta? fatelo, se vi pare onorato; ma se vi accostate,
potrete conoscere, ch'io tinsi il mio cavallo perchè non fosse
riconosciuto, e che la fatica ha fatto in parte cadere il colore.»

Il Monforte dopo avere verificato il fatto, rispose: «Comunque
ciò sia, scendete, Cavaliere, e combattiamo a piedi.»

«Come volete, Conte.» E scesero, e continuarono la battaglia
più fieri di prima.

Il Cavaliere _del fulmine_, ripreso campo, venne molto terribile sopra
lo Stendardo, che côlto all'improvviso traboccò da cavallo; il
suo nemico, riputandolo svenuto, scese, e gli andò incontro per
finire la battaglia: lo Stendardo rilevatosi strinse la spada, e
cominciò a difendersi assai francamente; erano i suoi colpi quanto
quelli del Cavaliere _del fulmine_ poderosi, ma faceva meno frutto a
cagione dell'arme; imperciocchè i Francesi adoprassero in quei
tempi i ferri quadrangolari taglienti su la punta soltanto, che con
proprietà di vocabolo si chiamavano _stocchi_, mentre gl'Italiani
li usavano taglienti per ambidue i lati, e in cima, i quali si
distinguono col nome di _spade_. Ricambiati molti colpi, che non
meritano descrizione, il Cavaliere _del fulmine_ dette di tanta furia
con la punta della spada nello scudo nemico che da parte a parte lo
traforò.

«Cavaliere,» allora esclamò giubbilante «non so se il
vostro scudo _per picchiar si rompa_, ma certo _per forar si
fende._»

Lo Stendardo rispose con una stoccata, che tagliando le piastre
dell'usbergo nemico, gli piagò il fianco, e ne trasse il tepido
sangue. L'offeso, pieno di sdegno, gettato lo scudo, afferrata la
spada a due mani, percosse su la testa dello Stendardo; questi, che
stava troppo bene su la guardia, fu presto a ricoprirsi il capo dello
scudo; la spada cade, taglia lo scudo, il cimiero, l'elmo, e forse gli
avrebbe diviso la testa, se non che il ferro col quale era fissata
nell'elsa, si torce, e però la sua forza cessava sopra la cuffia di
ferro: il feritore vedendo il nemico stordito, senza porre tempo tra
mezzo, gli si spinge addosso, afferra con la manca la sua destra, e
così forte gli contorce le ossa, che mandarono uno scricchiolare,
come se fossero stritolate; lo Stendardo dal gran dolore rinviene, e
lascia andare lo stocco; il Cavaliere _del fulmine_ si avanza con la
sua gamba destra tra le gambe dell'avversario, e con la mano tuttavia
armata dell'elsa, di tanto grave punzone lo pesta nella visiera, che
senza pure aver tempo d'invocare i Santi, di nuovo spasimato lo
rovescia sul terreno; il feritore seguendo la sua vittoria trae il
pugnale, si china, gli taglia il cuoio della visiera, e gli grida che
si renda; nessuna risposta: lo Stendardo aveva la faccia piena di
morte; su la bocca, e sul naso una spuma sanguinosa, intorno gli occhi
un lividore quasi nero; ben fu due e tre volte tentato il Cavaliere
_del fulmine_ di conficcargli la lama del pugnale nella gola, e
l'alzò, ma poi, come sdegnoso di tale atto, che il costume del
tempo non considerava per vile, gli prese la spada, e lo lasciò
privo di sentimento sul campo.

«Quanto era meglio per voi, che Goffredo di Presilles non
inventasse il torneo!» gridò il Monforte ferendo di gran forza
il Cavaliere _primo venuto_: «pensate a non dar tanto affanno alla
vostra dama, a non far piangere la madre vostra.»

«Volete soccorso?»--disse, sopraggiungendo, il Cavaliere _del
fulmine_ al suo compagno, che vide in due o tre parti ferito.

Questi non risponde parola, e, come se fosse tutto fresco, raddoppiato
vigore, muove tanto furioso assalto al Monforte, che, con la sua arte,
appena di tre colpi può pararne due; calando terribili fendenti di
sotto, di sopra, gli manda in pezzi lo scudo, gl'infrange in
minutissime scheggie lo spallaccio di acciaro, e così aspramente
gli impiaga la clavicola, che il braccio per poco sta che non gli cada
in terra reciso.

«Guarda, Monforte, quanto t'era meglio _avere Italia senza
colpo ferire_! guai a te, se i suoi guerrieri combattessero
tutti!»--esclama il feritore, e lo incalza.

Il Monforte soprappreso dall'angoscia comincia a perder terreno, ad
ogni colpo cede un passo; il suo nemico avanzando calca le orme
stesse, ch'egli imprime fuggendo; Il ferro del Cavaliere _primo
venuto_, veloce, come la lingua del serpente, ora lo ferisce sul
ventre, ora gli penetra nella visiera; tutto il suo corpo con tale un
impeto assai più che umano gli preme le ginocchia, e il petto; il
pensiero che il suo avversario sia _ciurmato_ torna più spaventoso
che mai nella mente del Monforte, nè poco contribuisce ad
avvilirlo.

«Renditi, o sei morto! «--grida l'incalzante, che scorge il
Monforte giunto in parte che indietreggiando anche un poco si sommerge
nella fossa.

«I miei padri non si sono mai resi.»

«Questo vuol dire ch'essi furono più valorosi di te, non già
che tu non debba cedere al più forte: chiamati vinto.»

«Uccidimi se hai vinto, ma non isperare che io te lo dica.»

Allora il Cavaliere vittorioso, voltate le spalle, si mette a fuggire:
il Monforte, sorpreso del caso, si guarda attorno, e si vede su l'orlo
della fossa:--tu non lo avresti fatto,--gli rimprovera la voce della
coscienza: disperato di vincere la prova, torna a combattere per
morire onoratamente.

Il Cavaliere _del fulmine_, con le mani sopra il pomo della spada
fitta nel terreno, stava immobile a considerare il mortale duello;
poteva, se avesse voluto, con un suo colpo finirlo, ma lieto del
valore del compagni, gliene lasciava tutta la gloria.

Il Monforte cade abbattuto, il suo nemico gli calca il seno col piede,
e alzata con ambedue le mani la spada di punta su la visiera
smagliata, gli parla: «Cavaliere, troppo mi graverebbe ucciderti,
perchè, sebbene orgoglioso quanto Lucifero, io ti provai valente
nell'armi, e quello che potevi fare hai fatto per difenderti da me:
chiamati vinto, salva la vita; e rammentati che se Italia dorme, non
meritava di essere effigiata capovolta nel tuo scudo; ella dorme, ma
se si sveglia, quale schiatta umana la vincerà?»

«La vittoria ti ha dato il diritto di uccidermi, uccidimi; ma
risparmiati in nome di Dio questi tuoi sanguinosi rimproveri: io ti
avrei di già trucidato!»--rispose il Monforte a mala pena
respirando per la oppressione che gli davano le angoscie del corpo e
dell'anima.

«Renditi, ed hai salva la vita.»

«No.»

«Che faremo noi di questo ostinato?»--domandò il vincitore al
Cavaliere _del fulmine_, il quale freddamente rispose: «Dategli il
colpo _di grazia_.»

E l'obbediva, se non che ad un tratto sente gridare per ogni parte:
«Ferma! ferma!» e il rumore di una moltitudine che si muove gli
percuote l'orecchio; alza la faccia, e vede superate le lizze,
valicate le fosse, ed una calca di gente stringersi in cerchio intorno
di lui.

«Che è questo?»--domandava al compagno.

«Il Conte di Provenza» gli rispondeva costui «lo ha
dichiarato vinto facendo alzare la lancia al Contestabile Lebrun. La
nostra parte è finita, andiamo.»

«È egli bene che ce ne andiamo a guisa di fuggitivi?»

«Io credo che sì: questa gente che ci viene addosso ama più
il Monforte di noi, e non è la prima volta, che il premio del
Cavaliere vincitore del torneo fu morte a tradimento: se volete
campare, salite in sella, e seguitemi.»

Il Cavaliere, lasciato il Monforte, che dopo le ultime parole era
caduto in deliquio, montò il suo cavallo, e si mise dietro allo
sconosciuto compagno: questi cavalcò al luogo dove stava il premio
del torneo, levò da terra l'asta, l'armatura e lo zoccolo, prese
una coppa piena di bisanti, e la gittò alla plebe, la quale si
sbandò in un subito per raccogliere le monete: allora l'avresti
veduta percuotersi nel volto, carponi per la terra: e qui taluno
aspettare che il suo vicino avesse preso il bisanto, poi dargli un
pugno sotto la mano, il bisanto balzare all'aria, egli ghermirlo,
fuggir via, e mescolarsi nella folla, che richiudendosi a un tratto
non permetteva al derubato di perseguitarlo; là tali altri
afferratisi pe' capelli, mentre s'impediscono scambievolmente di
raccogliere la moneta, che potevano dividere, giunge un terzo che la
porta via intera; in somma era uno schifoso spettacolo dell'umana
cupidigia: molti considerando che i loro sforzi sarebbero tornati vani
per acquistare i danari già sparsi, si affollavano al Cavaliere
_del fulmine_, che gittò la seconda coppa, e la terza, e la quarta,
tanto che giunse a distrigarsi a salvamento fuori di quella
ciurmaglia.

L'onorato Lebrun, che quantunque il giorno innanzi offeso dal
Monforte, aborriva ogni vendetta, che non fosse generosa, fu che
salvò la vita al male arrivato Conte. Carlo, più volte a grande
istanza da lui supplicato, ordinò che sollevasse la lancia, cosa
che il Contestabile fece molto volentieri; e quindi affannoso andò
co' sergenti a soccorrere il Monforte, che privo di sentimento
trovarono steso per terra, e con modi soavi trasportarono alla sua
abitazione.

I Cavalieri _primo venuto_, e _del fulmine_, comecchè cavalcassero
a gran fretta, furono ben tosto raggiunti dai loro sei compagni, i
quali, rimasti prigioni a prima giunta, non trovarono per l'esito
della battaglia impedimento all'andare. Così riuniti, senza
profferire parola, s'internarono nel più profondo di una vicina
foresta; avevano forse mille passi percorso, allorquando si
abbatterono in circa dugento uomini di arme, che da lontano con le
daghe e con le partigiane gli salutarono. Il Cavaliere _del fulmine_
venuto loro dappresso si calò la visiera, e disse:--«Compagni,
abbiamo vinto.»




CAPITOLO DECIMOSETTIMO.

IL RIMORSO.

                Perchè nessuna notte ha seguitato il giorno,
                nè nessun giorno la notte, che tra il vagito
                dei nascenti non siasi inteso il pianto della
                morte, e dei funerali.
                                            LUCREZIO, 2.


«Siete voi, Messer Ghino! Già il cuore me lo aveva
rivelato;»--esclamava il Cavaliere _primo venuto_ abbassando la
visiera a sua posta, onde Ghino aperte le braccia gli correva incontro
gridando: «Voi qui, Principe Rogiero!» E si abbracciavano
scambievolmente, e amorosamente si baciavano in bocca.

«Come mai, Cavaliere,» riprendeva Ghino «di amico ch'eravate
di Francia, le siete diventato, e così tosto, nemico?»

«E' dovete sapere, messer Ghino, che allorquando io portai le
lettere di Napoli alla Contessa Beatrice su le rive dell'Oglio,
Monforte tutto cruccioso si volse al cielo esclamando:--Sire Dio, noi
avremo Italia _senza colpo ferire_.... adesso ha imparato che mal per
lui se gl'Italiani ferissero!...»

«Vedi petulanza! e non aveva anche vinto: pensate un po' quale
orgoglio avranno costoro quando domineranno su Napoli.... Oh! se i
patriotti nostri!... Ma or via, venite, Cavaliere, che dovete essere
stanco e ferito, ed io non ho mai temuto quanto oggi di trafelare
nell'arme;--con l'aiuto di Domineddio abbiamo fatto assai prove per
oggi.»

Così s'incamminarono verso una casetta riposta in luogo assai
remoto nella foresta, dove Ghino accolse ospite per la seconda volta
Rogiero.

Ora poichè pel riposo, e per le cure di alquanti giorni ebbe
Rogiero rimarginate alla meglio le ricevute ferite, avvenne che certa
volta, essendo lontano Ghino pe' bisogni della masnada, si mettesse
soletto per la foresta; teneva le braccia incrociate sul petto, il
capo chino a terra,--camminava or lento, ora ratto, spensieratamente.
La rimembranza delle passate avventure gli assaliva l'anima come un
senso di mestizia, poi come irritazione dolorosa, alla fine come
eccesso di rabbia; allora tu lo avresti veduto correre, cacciarsi le
mani pe' capelli, disfatto nel sembiante, stralunato negli occhi,
urlando e bestemmiando, come creatura travagliata dagli assalti del
Demonio. Tutto sudante si appoggiava al tronco di un albero, o tra
l'ansare dell'affanno sofferto ad alta voce diceva: «Qual è che
nega il destino? Venga chi il nega a contemplare la sentenza feroce
che mi condanna alla infamia; e se il cuore gli basta, affermi che non
sia destino.--Ecco, non vedo lato dal quale mi volga, che non sia un
delitto:--delitto, se sto neghittoso,--delitto, se opero. Il sangue di
mio padre grida dalla fossa.... chiudiamo il cuore e le orecchie....
egli starà come un'accusa contro di me davanti al trono del
Signore,--come, una vergogna alla faccia degli uomini.... Sia
vendicato;--come?--Chiama il Re Manfredi a duello.... stolto! quelli
stessi che sentono giù nel profondo la tua giustizia, ti getteranno
addosso l'onta della follía;--sarai trucidato senza frutto,....
lascerai ai tuoi discendenti nuovo misfatto da vendicare.--Chiama lo
straniero, l'anima di tuo padre sarà vendicata.... la tua patria
oppressa!--Feriscilo da tergo.... questo sarebbe il meglio.... ma non
si sa perchè gli uomini lo hanno chiarito infame. Ahimè! vedo il
disprezzo della gente a mo' di forma mostruosa che si apparecchia a
lacerare la mia rinomanza; vedo schierate dinanzi al pensiero le colpe
presenti, i falli futuri, ma i miei tra tanta moltitudine appaiono
distinti di proprio colore;--vedo il mio nome, non altrimenti che una
piastra di metallo ingrappata nella memoria dei posteri si fosse,
farsi più splendido sotto i miei sforzi di consumarlo, e richiamare
l'attenzione dei secoli. Sommo dolore egli è questo;--ma fine dei
dolori,--la morte. Se la vita è un presente, vi renunzio; l'avrei
renunziata, se la mia ragione avesse potuto conoscere la vita, e se
l'avessero interrogata;--s'ella è una pena, perchè punirmi?
perchè sarò doppiamente punito per non sopportare la pena?
Questa non si chiama giustizia.... Giustizia! osa profferire sì
fatta parola al cospetto del potente:--dov'egli abbia sortito dal
cielo compassionevole indole, farà per lo meno guardare dal medico
se hai sano il cervello.--E poi io difesi la vita dalla fame, dalla
sete, dal freddo, da tutti gli stenti, che a corpo mortale è dato
sopportare; ma dall'obbrobrio non ho saputo,--non ho potuto: se
lasciarla fu colpa, tenerla era vituperio; tra il vituperio e la
colpa, io ho scelto l'ultima: se doveva scegliere il primo, perchè
non additarmelo? perchè darmi tanta paura del disonore? perchè
compartire ai miei simili una smaniosa volontà di perseguitare
l'avvilito? perchè sarebbe peccato? Sia un corpo di forma quadrata,
o rotonda.--servirà meno agli ufficii della natura? Degli enti non
si perde nulla, la materia torna alla materia....--Lo spirito?.... Non
è assai prova superare la rabbia del vivere instillataci nel
sangue? non assai pena la ineffabile angoscia di scompigliar l'ordine
della nostra esistenza attuale? Se è concesso uccidere un altro
uomo che ti vuole apportare affanno, perchè non potrai uccidere te
stesso per fuggirlo? Che cosa ha questa vita che meriti di essere
conservata? Il mondo offre due sole strade ai viventi:--o
scellerato,--o vittima; per essere il primo l'anima mia è troppo
piccola, onde sprezzare la fama e chi la dona; per la seconda, è
troppo grande, onde sopportare come lo infingardo sopporta. Finora
ogni minuto fu un gemito,--ogni giorno un dolore,--adesso ogni anno
sta per diventare un delitto.»

E così avrebbe certamente, con lo ingegno che aveva sortito
prontissimo, divisato tutte le sentenze, che l'Abbate di San Cirano,
Robeck, Rousseau, Goethe, Ugo Foscolo, ed altri infiniti, hanno mosso in
favore del suicidio, e forse avrebbe anch'egli concluso col darsi la
morte,--argomento che non ammette ragione in contrario,--dove una voce
sonora non gli avesse percosso le orecchie, gridando: «_Rammentatevi di
vostro padre_.» Rogiero trasalì, si guardò spaventato d'attorno,
percorse i luoghi circostanti;--non traccia, non vestigio di umana
creatura. Ora sì ch'egli stette da vero per divenirne folle, e se i
precedenti discorsi furono in parte scevri di sapienza, in parte empii,
come dettava la sua feroce passione, pensisi quali divenissero dopo la
esposta avventura.

«Chi è che nega il destino? Eccomi immerso nel delirio di amor
disperato, ricinto dai lacci della colpa, nè posso liberarmi; gemo
sotto il peso di catena, che non ho balía di spezzare; i miei polsi
grondano sangue, ed è invano il dibattermi; acquietati, aspetta il
compimento dei tuoi destini, e divorati il cuore. Ecco l'abisso del
pianto, del rimorso, dell'ira; mi appiglierei al ferro tagliente per
non precipitarvi, la forza mi vi strascina. Donde nasce questa forza
maledetta? dall'Inferno, o dal Cielo? Nol so, nol vo' sapere; la forza
vive e regna, ed io sono condannato a precipitare. Oh! se mi fosse
concesso domandare ragione! se il potere di muovermi con gli
elementi!....»

E qui Rogiero divenuto del tutto privo di senno pronunziò tali
voci, che Dio nella sua bontà avrà certamente rimesso a
quell'anima, ma che furono le più scellerate, che mai avesse
ascoltato da bocca mortale: maledì il giorno che nacque, l'acqua
del battesimo, il fiato della vita, i sacramenti, il latte della
madre, la generazione del padre: trasportato dall'impeto correva per
la foresta, come uomo percosso da quello spaventevole morbo che
chiamano _licantropia_,¹ e d'ora in ora digrignava tra i denti:
«tiranno.... tormentatore delle anime.... possa morire la
natura!...» ed altre assai che sarà meglio tacere. Seguendo la
sua corsa, cieco della mente e degli occhi, ode allo improvviso
gridarsi davanti: «Fermati, uomo, se non ami andare innanzi il tuo
tempo entro il sepolcro.»

  ¹ _Licantropia_, voce greca. Specie di pazzia, per la quale l'uomo,
    come un lupo, corre urlando di notte per le campagne; e talora
    morde, e digrigna i denti, come i cani; onde questa malattia
    dicesi anche Cinantropia.

Rogiero allora, costretto a riunire lo spirito ai sensi, si vide forse
un palmo distante da una fossa: in linea retta ne erano molte altre
scavate nel medesimo campo, e aperte, quasi perchè fossero più
pronte a divorare la schiatta destinata a morire. Le parole si erano
dipartite da un vecchio Frate che pareva non avesse aperto labbro,
tanta era l'attenzione che poneva a scavare la sua celletta di morte.
So bene che l'arte di Lavater per conoscere dall'esterne qualità
del volto i reconditi pensieri dell'animo procede incertissima; pure
così siamo fatti, che ci fermiamo a considerare il vaso prima di
bere il liquore che vi si contiene: consideriamo pertanto come meglio
si può le umane sembianze, non perchè insegnino scienza, ma
perchè ammaestrano a dubitare,--e il dubbio forma tutto ciò che
alla polvere si concede sapere. Giungeva quel Frate con gli anni oltre
i novanta; la sua persona pareva essere stata una volta maestosa e
diritta, come i pini che circondavano la sua santa Abbazia; ma adesso
l'età lo aveva curvato verso quella terra ch'egli stesso si apriva
di propria mano, per esservi nascosto nel giorno non lontano della sua
morte; cortesi apparivano in lui il muovere dei labbri, il sorriso,
l'atto della mano; tuonante suonava la voce e solenne; negli occhi gli
scintillava una fiamma che sembrava dovere ardere eterna, da che nè
gli anni, nè le vigilie, nè il pianto, l'avevano potuta, non che
spengere, diminuire. Michelangiolo, se avesse dovuto dipingere un
Padre Eterno, ne avrebbe copiato il terribile; Raffaello, se ritrarre
un Redentore, ne avrebbe imitato il gentile. Rogiero sentendosi
alquanto consolato dalla bellezza di cotesto aspetto, sebbene un po'
vergognoso, gli parlava: «Santo Padre, se la domanda non vi riesce
importuna, ditemi in cortesia, perchè le vostre mani si occupano in
opera tanto umiliante? Il cadere della neve, lo scrollare della terra,
riempiono incessantemente cotesta fossa, che il giorno della vostra
estinzione potrebbe da qualsivoglia uomo compirsi in breve ora. Parmi
che il tempo si deva consumare assai meglio.»

«Figliuolo,» rispondeva il Frate piantando in terra la vanga, e
sovrappose le mani alla estremità del manico, e su le mani appoggiò
il mento in grave maniera: «certo tu diresti saviamente, se così
lieve fosse l'oggetto di questa mia opera. Io vo' che tu sappi ben altro
essere stato il consiglio del nostro glorioso institutore, quando ordinava
questo quotidiano lavoro; ben è vero che la pratica se n'è oggidì
quasi perduta tra i cenobiti di questo monastero, ed io sono ormai presso
che il solo che tuttavia la segua. Pensi l'uomo, che il suo corpo deve
formare due o tre zolle di terra, e un numero infinito d'insetti: e se le
passioni implacabili non taceranno, imperverseranno meno spietate
nell'anima sua. Noi siamo tali per nostra propria conformazione, che,
bisognevoli di piacere, rifuggiamo spaventati, non che dal dolore, dalla
fatica; ora immaginati se il pensiero vorrebbe fissarsi su la meditazione
della morte, ch'è sommo dei dolori; però fa di mestieri costringerlo
con sensazione continua. Veramente il tempo sarebbe meglio impiegato in
qualche opera di grandezza, ma le occasioni di operare sublimemente
occorrono rade, figliuolo, e rade bene; intanto aspettando che vengano,
quale studio torna più vantaggioso di quello che ci svela la debolezza
della nostra natura, e ne avverte tutte le condizioni pareggiarsi nella
bilancia della morte, e forse una terra più perfetta emanare dalle
membra dell'uomo per assiduo travaglio robuste, per temperato cibo
incorrotte, che da quelle imputridite di colui che visse nella mollezza? O
figliuol mio, non torna vano aprire la terra nella quale dobbiamo essere
sepolti.»

«Io avrei creduto che replicando ogni giorno questa opera, l'uomo
vi si fosse da gran tempo abituato, e il suo timore rimanesse come era
avanti che la cominciasse. Ma, padre mio, che cosa ha mai la vita, che
meriti tanto apparecchio per finirla? Se l'uomo per fastidio, per
dolore, o per altro, vuol darsi la morte, così senza pensare si
cacci il ferro dentro le viscere; allora, in quel momento che passa
tra la ferita e la estinzione, il suo spirito penserà essere stato
un atto del suo volere, e godrà nella lusinga di avere la
potestà di disfarsi: meditandovi sopra apprendiamo essere cosa
necessaria, disperatamente inevitabile, lo sforzo della tua costanza
affrettarla di pochi istanti; tutto ti si riduce in bassezza, in
miseria, in viltà. Non pensiamo in nome di Dio alla morte, ch'ella
ci travaglia di troppo grande sconforto:--diamocela, se fa di
mestieri, senza pensarci.»

«Ah!» gridò il Frate, percuotendosi della mano la fronte:
«tu mi sveli un terribile arcano;--forse questa mia opera, che
finora ho stimato derivare da forza del cuore, è tributo, che
l'età, crollando il vigore del mio spirito, mi costringe di pagare
alla debolezza! In altro tempo io aveva imparato che l'uomo si mostra
in tutto imbecille; ma lo spirito maligno mi ha sorpreso, e la
superbia mi ha deluso con la lusinga che la mia opera fosse magnanima:
pure io non temo la morte.»

«Nè io la temo; anzi la cerco, come tesoro nascosto,¹ e non
la trovo; la desidero come ricompensa della vita, e non mi viene
concessa. Perchè non porne tra mezzo alla via travagliosa un luogo
dove riposarsi? Perchè fra tanto dolore non v'è asilo di
pace?»

  ¹ ... Expectant mortem et non venit, quasi effondientes
   thesaurum. (_Job, 3_.)

Il Frate taceva. Rogiero stette lungamente pensoso; voltosi attorno
vide una solenne solitudine, udì un silenzio beato, solo interrotto
dal fremito delle fronde lontane, o dalla voce dell'errante lodoletta,
che con velocissima curva trapassava pel Camposanto: il suo sangue,
come rinfrescato, gli corse più placido nelle vene, i polsi gli
battevano languidi, la respirazione si fece più libera.

«Oh! qui regna pace da vero!»--proferì gemendo.

Il Frate taceva.

«Se,» continuava Rogiero «se presso l'altare del Signore non
giungesse il grido della vendetta;--se i cantici di Dio bandissero dal
mio orecchio quella voce;--se l'ombra dei morti non entrasse nel
santuario....»

«Certo non v'entra, se tu non ve la porti.»

«Io? se mi riparerei sotto terra per non essere perseguitato!»

«Hai tu commesso delitto?»

«No.»

«Sei per commetterlo?»

«Sì.»

«E che cosa vuoi dal Signore?»

«Ch'ei mi salvi da una forza che mi strascina alla colpa.»

«Qual forza? Cristiano, dì--voglio; e vorrai.»

«O Frate, Frate, voi siete incredulo, ma io per la notte e pel
giorno sono condannato ad ascoltare la voce del mio tradito
genitore.»

«Che domanda?»

«Un delitto.»

«Oltre qui» rispose il Frate additando la fossa «non v'ha che
perdono; tutto ciò che racconti è illusione del tuo spirito
disposto a mal fare.»

«Potrebbe la casa di Dio, se ciò fosse, sanarmi»?

«Potrebbe.»

«Padre, io mi rendo Frate.»

«Perchè v'è silenzio,» riprendeva il vecchio, e cogli
occhi accennava l'Abbazia, «credi tu che tutti abbiano pace là
dentro? Non sai che la disperazione tace? non sai che il pianto si
consuma, non già l'angoscia che fa piangere? La soglia del convento
non è muro che valga a difenderti dalle passioni del mondo: se ve
le porti, le troverai; se vi porti il delitto, vi troverai il rimorso;
se il desiderio, lo spasimo. Vissero tali, che ingannati dal
sembiante, o, per meglio dire, fidandosi troppo in questo recinto,
avviliti da qualche sciagura, sdegnati, ma non sazii del mondo,
vestirono l'abito del nostro ordine, ma non ne assunsero lo spirito:
indi a poco le cupidigie risvegliandosi in loro più gagliarde che
mai, anzi irritandosi per la difficoltà di conseguire, o di deboli
divennero scellerati, o logorarono nella rabbia la vita, e nessuno di
questi salvò l'anima. Nel silenzio di quelle muraglie stieno
nascosi i fatti della colpa. Tu bada, se vuoi essere felice, che lì
dovrai deporre ogni desiderio di gloria, ogni odio, ogni amore; sarai
come defunto, come non nato; ignorate passeranno le tue virtù,
vanità ti fingerai gli applausi della gente, la corona della
sapienza e del potere; solo cosa reale la terra che dovrà
seppellirti; e tu traboccherai nella morte sconosciuto, non curato,
come una goccia di pioggia che cade nell'oceano.»

«Padre, non mi respingete dal sacrario di Dio.»

«Io ti respingo? Oh! se la mia testa dovesse esserti scala per
salire alle gioie celesti, io la deporrei su la polvere mille volte e
mille, ringraziando l'eterna sapienza di averla sortita a così alti
destini. Ma io sono peccatore, nè mi può esser concesso levare
un'anima dal sentiero della perdizione, ed acquistarla al Paradiso,
no, non mi può essere concesso: forse chi sa che confortandoti ad
entrare in religione, io non ti perdessi: tale si perde Frate, che si
sarebbe salvato Cavaliere: in ogni cosa bisogna bene meditare sul
fine.»

Mentre proferiva queste parole, una campanella della Abbazia
incominciò a suonare con tocchi lenti e lugubri: il Frate levò
gli occhi al cielo, e pregò ardentemente: «Piacciati perdonare,
o Signore, all'anima del povero Frale Egidio.» Quindi vôlto a
Rogiero: «Senti, figliuolo; questa campana ci avverte che un'anima
sta per passare. Povero Frate Egidio! non sono anche otto mesi che ha
vestito l'abito, e tanto si macerò con digiuni e con discipline,
che il suo corpo non ha potuto reggere: certo, egli fu gran peccatore,
ma la misericordia dell'Eterno è più grande del peccato, e
certamente egli andrà salvo; io l'ho trovato come te, su la via, e
l'ho condotto là dentro, ma il suo volto appariva ben diverso dal
tuo, diversa la voce, diverse le parole: ora egli muore. Chi è
Frate Egidio? Nessuno lo sa; nessuno lo piange. Dalla luce del tuo
sguardo conosco che non potresti sopportare siffatta dimenticanza;
quei tuoi occhi accennano una passione che prorompe; non v'ha potenza
che valga a frenarla: se la impedisci, tornerà a spezzarti il
cuore: io non so dove ella ti condurrà, ma certo se ora tu ti
rendessi Frate, sarebbe un cacciarti nell'Inferno prima del tempo. La
pace di Dio sia teco.»

«Spietato!» diceva Rogiero «mi augura la pace, e non vuole
porgermi la mano per aiutarmi; mi respinge dal luogo dove voglio
salvarmi, dicendomi, che quella non è la via, e non me ne accenna
un'altra. Ma guarda una volta la tua creatura, Dio onnipotente!
Andiamo a prostrarci innanzi al suo altare; lo pregherò, lo
scongiurerò; tutto quello che può fare un uomo farò, purchè
finalmente mi ascolti, e mi risponda.»

Ciò detto, si pose deliberato dietro le traccie del Frate, giunse
ad una porticella, la spinse, e trapassò per un corridore in una
stanza terrena; una scala era a capo della stanza, la salì; venne
al primo piano, e poichè lungo tempo vi si fu avvolto inutilmente
in cerca di un Frate, che gl'insegnasse la chiesa, si trovò innanzi
ad un uscio, traverso del quale intese la voce sommessa di persona che
reciti preghiere per qualche morto; schiuse l'usciale, e fermò il
piede su la soglia.--Il sole presso al tramonto, nascoso dietro fitta
caligine, coloriva di vermiglio di sangue una nuvola errante al sommo
del cielo, e la nuvola ripercuoteva su gli oggetti con molto
spaventosa maniera la luce rossa: ella penetrava traverso la piccola
finestra, e illuminava il volto, e parte del petto di un moribondo.
Sia che la malattia non gli permettesse giacersi disteso, o che altro,
egli stava seduto, sorretto alle spalle con un materasso piegato; la
mano destra teneva scoperta sul letto, e non aveva più moto, e
all'estremità delle dita era violetta; ogni altra parte, bianca,
sembrava già morta; la sinistra nascondeva sotto il lenzuolo; sul
materasso dal manco lato vedevasi un Crocifisso, ma il moribondo
teneva il capo fitto al destro, quasi per ischivarne l'aspetto; di
tanto in tanto apriva gli occhi, ora velati come nebbia colore di
piombo, ora lucidi come vetro, ma smarriti, senza fissarsi su nulla,
mostrando di non veder nulla, quali sono quelli del cieco di gotta
serena;¹ i capelli rovesciati dietro le orecchie lasciavano
considerare per lo spazio della fronte il dominio della morte; le
labbra compresse mandavano fuori livida spuma, che gli gocciava giù
per la barba; la gola sforzandosi di singhiozzare si allungava, si
attenuava, e dopo un travagliarsi angoscioso costringeva la bocca ad
aprirsi quanto più poteva, e lasciava uscire un sospiro fievole
fievole. La rimanente scena era sepolta nel buio: nel buio la stola,
che gli copriva i piedi; nel buio il Frate, che, inginocchiato a
piè del letto, recitava le sante orazioni.

  ¹ Avrei potuto dire _amaurosi_, ma sarei stato inteso da meno.

Rogiero entra senza strepito. Perchè anch'egli scolora? perchè
il cuore gli batte più tardo? Si affretta, accosta il suo volto a
quello del moribondo: «Gran Dio! Roberto!»

Il senso del moribondo divenuto pigro risponde come suo mal grado alla
chiamata; leva la faccia, e considera il Cavaliere: allo improvviso il
sangue gli rifluisce commosso per tutto il corpo, gli si arricciano i
capelli, trema in maniera che tutto il letto si scuote; e con urlo
spaventevole grida: «Il tradito! il tradito! Padre, mi avete
deluso: perchè dirmi che Dio mi ha perdonato le colpe? Non vedete
ch'egli spezza le lapide delle sepolture, e manda i morti a disperarmi
nella agonia?»

Il Frate, che, inginocchiato all'estremità del letto, gli
raccomandava l'anima, maravigliando come potesse urlare sì forte,
accorse a consolarlo.

«Sono illusioni del Demonio, fratello mio: affissate la mente su la
immagine del Redentore.»

Roberto, appena vide il Padre vicino, gli si avvinghia paurosamente al
collo, e nasconde il capo nel suo seno, proferendo interrotte queste
parole: «Eccolo lì... lì... dall'altra parte del letto... per
amore di Gesù, gittategli addosso acqua benedetta... cacciatelo
via... i miei pensieri non possono essere del Paradiso, s'ei non se ne
va via.»

Il Frate, che, assorto nel sacro mistero dei suoi ufficii, non badava
a quello ch'era avvenuto, intende il guardo nel buio, e scorge un
cavaliere. Certo, il ribrezzo gli agitò le membra, ma leggiermente;
e confidando nell'aiuto divino, di súbito rassicurato cominciò:
«In nome del Padre, del Figliuolo, e dello Spirito Santo, io ti
scongiuro...»

«Padre, non sono mica uno spettro, che dobbiate scongiurarmi.»

«Non gli badate, Padre, non gli badate; proseguite a esorcizzarlo;
non vi avvedete ch'ei tenta ingannarvi per non andarsene?»

«Sciagurato! Roberto, non conoscete più la mia voce?»

«Ah non l'avessi mai udita!»

«L'ultima volta ch'io vi lasciai, vi strinsi la mano, e ci
promettemmo, che se di allora in avanti ci fossimo mai incontrati nel
mondo, ci saremmo veduti come amici: adesso così mi accogliete voi?
Bandite ogni paura; sentite, io vivo;»--e così parlando gli pose
una mano sul braccio in atto amoroso.

«Mi brucia.... Padre.... mi brucia.... gettategli l'acqua
benedetta.... acqua benedetta.... non posso più sopportare....
cacciatelo via, o io muoio bestemmiando.»

«Figliuolo, non dite queste empietà; lodate la provvidenza di
Dio, il Cavaliere che vi sta davanti è vivo.»

«È vivo!»

«Sì, è vivo: adorate gli eterni decreti: forse egli fu
inviato per farvi dolce la morte col suo perdono.»

«È vivo!»--gridò il moribondo, e lasciando il collo del
Frate prese la mano di Rogiero, e con infinita ansietà la toccò
più volte, quasi per accertarsi che non s'illudeva.--«È vivo,
si!»--e se l'accostava alla bocca, e vi spargeva un torrente di
lacrime.

«Ma deh via! Roberto, fatevi animo, non piangete tanto; molto
maggiori peccatori, che non siete voi, ottennero perdono, e con minore
pentimento.»

Roberto senza lasciare la mano di Rogiero lo guarda in viso, e con
voce lamentevole gli domanda: «Perdono! perdono!»

«Voi non mi avete fatto mai danno, Roberto; perchè dovrei
perdonarvi?»

«Oh! i miei delitti sono troppi, e mi abbisogna tutta la virtù
della speranza per non isconfortarmi del perdono, e tutta la
misericordia di Dio per perdonarli: questi delitti ho commesso contro
l'innocente,--contro di voi,--perchè vi ho tradito.»

«Perchè mi hai tradito? che ti aveva io fatto?» rispose
Rogiero con tale un suono che avrebbe commosso l'anima più feroce;
«dunque non basta, per esser sicuri, non nuocere?»

«Ma!--io vi ho tradito.»

«O cortese Cavaliere, se possedete spirito gentile come l'aspetto,
non vogliate permettere, che quest'anima si diparta sconfortata senza
il vostro perdono: egli vi ha offeso, ma la sua penitenza ha scontato
la colpa, ed ora sta per comparire davanti al giudizio dell'Eterno.»

«Bel Padre, io non rammento in che quest'uomo mi abbia apportato
ingiuria; ma da che dice avermi tradito, io gli perdono. La offesa,
come voi ben sapete, non può levarsi che in due modi, o col
vendicarla, o col perdonarla: nel primo non posso, non mi rimane altro
che il secondo; io gli perdono.»

«Padre, avete sentito, ei mi perdona.»

«Sì: state lieto, l'uomo ha perdonato; pensate se perdonerà
Dio, ch'è tanto più pietoso di lui!»

«_Amen_.»

«Roberto, di grazia, mi direte voi, come mi avete tradito?»

«E perchè non ve lo dirò io? Oh! fosse qui la universa gente
per ascoltare le mie accuse, e vedesse quanto grande scellerato sono
stato al cospetto del Signore! così la umiliazione lo indurrebbe a
riguardarmi più benigno in questa ora amarissima della morte, e
molti si emenderebbero.... ma no, che voi potreste ritirare il vostro
perdono, e pentirvi di avermelo dato, e maledirmi per sempre;--no,
ch'io non vi dirò come ho fatto a tradirvi!»

«Roberto, più che voi non credete sono assuefatto a sentire la
sciagura; voi non potrete narrarmi nessuna gran cosa ch'io non abbia
immaginata o sentita: volge assai tempo che mi trovo disposto a tutto;
parlate, io vi prometto di non ritirare il perdono.»

«Lo giurate?»

«Lo giuro.»

«Padre, in cortesia, ricevetene il giuramento.»

Rogiero pose la destra su la immagine del Redentore, e disse quello
che al Padre piacque di suggerirgli.

«Dunque voi non potete più disdirvi, Rogiero,» domandò
Roberto a Rogiero, il quale gli rispose assentendo col capo:
«allora venite qua, sedetemi vicino su la sponda del letto; io
parlerò sommesso, perchè sento mancarmi la vita, e forse chi sa
se potrò terminare la mia confessione Rogiero, sentirete la storia
di un delitto che non concede gridi nè pianto, ch'egli è troppo
maggiore di loro; le lacrime vi si congeleranno su gli occhi, i gridi
si soffocheranno nella gola.--Che impallidite, Rogiero? Oh! non è
tempo ancora; se voi non fate core adesso, in verità io vi protesto
che morirete prima che io la finisca.»

Rogiero ponendo la sua nella mano di Roberto, per fargli sentire che
non tremava, gli ordinò: «Dite.»




CAPITOLO DECIMOTTAVO.

LA ESTREMA UNZIONE.

                Posta s'era a seder sopra il suo letto
                La miserella vinta dal dolore,
                Ed avea nelle braccia
                Il figliuol pur mo nato:
                Questo, disse, è quel latte
                Che ti può dare il petto
                Di tua madre infelice, e trapassata
                Ogni cosa bruttando col suo sangue
                Finì la vita.
                                            CANACE, _tragedia antica_.


«Era una notte d'inverno; raccolti intorno al focolare udivamo il fiero
racconto del Maggiordomo:--più volte preso da insolito tremore accostai
il mio corpo a quello del compagno vicino, e quasi in segno di affetto gli
strinsi la mano, ma in vero perchè aveva paura;--certo la storia del
Maggiordomo atterriva spaventosa, e il fuoco cominciava a consumarsi, e le
tenebre diventavano maggiori; pure io sentiva dentro me sì fatto
scompiglio che non poteva derivare dai casi presenti.--Ho udito in
appresso porre in dileggio quelle voci segrete con le quali una potenza
interna sembra avvertirti che qualche sventura ti sovrasta; nondimeno non
ho sofferto mai affanno di cui il cuore non mi abbia avvisato.--Quella
sera fu destinata dallo Inferno per incominciamento dei miei
misfatti!--Una leggiera percossa sopra le spalle mi fece volgere indietro
la faccia;--il volto del conte Odrisio di _Sanguine_ mio signore era stato
sempre severo,--questa sera mi apparve terribile;--forse fu l'effetto
della luce vermiglia vicina a spegnersi, che riflettendo sopra il suo
rugoso sembiante gli compartiva quella nuova espressione; forse derivava
dal pensiero delle cose che macchinava nella mente;--al vedere quei
bianchi capelli ritti come stecchi su la livida fronte, i sopraccigli neri
contratti faticosamente, il rossore su quelle guance smorte ed estenuate,
fui per gridare;--egli spalancò gli occhi, mi presentò scintillanti
nella pienezza dell'ira le pupille poco innanzi nascoste, e con quell'atto
mi fece comprendere ch'io doveva tacere; quindi, curvata la persona sopra
la spalliera della sedia, mi susurrò basso basso agli orecchi:--Seguimi
in modo che nessuno si accorga della tua lontananza;--e sè ne andò
come era venuto. Desideroso di obbedire al mio padrone, mi allontano un
poco dal focolare,--la luce cessa rischiararmi, e con essa l'attenzione
dei compagni di rammentarmi; mi confondo nella oscurità, mi alzo, ed
esco della stanza. Appena giunto a mezzo del corridore, la voce del Barone
mi domanda:--Sei tu, Roberto?--Sono.--Dimmi, Roberto, come hai tu in
pregio il tuo signore?--In pregio di savio, di benigno e di
cortese.--Vero?--Quanto la Messa.--Tolgano i Santi che io ti ricerchi per
rinfacciarti il benefizio; ma come credi ch'io mi sia comportato verso di
te?--Come padre verso figlio bene affetto.--Vero?--Per la fede di
vassallo.--Dunque, s'io ti richiedessi un dono, me lo faresti?--Messere,
tutto quello che si può chiedere da Cristiano io sono per fare in pro
dei vostri e di voi, salva la salute dell'anima.--Hai tu corsaletto?--No,
Messere.--Daga?--Sì, Messere.--Io non ti chiedo che la morte di un
uomo.--A tradimento?--Come vorrai, basta che tu lo uccida; ma.... or che
penso.... a tradimento sarebbe il meglio.--Messere, sta a voi comandare;
per me ell'è tutt'una.--Or fa, Roberto, di trovarti una ora avanti che
sia giorno sotto il verone destro del mio castello dalla parte che guarda
il giardino.--Messere, vi domando mercè, ma quale dei due veroni devo
tenere per destro?--Il destro.... il destro venendo dal viale dei
pini.--Se ho ben compreso, quello che appartiene alle stanze di Madonna
vostra figlia?--Sì.--E questa parola disse stentando, quasi per forza,
con gemito doloroso.--Dunque un'ora avanti giorno fa di trovarti sotto
quel verone, attento, con la daga alla mano; udrai calarsi una persona....
aspetta che sia arrivata presso terra, allora....--Di forza, con la daga
nei reni, e una abbottonatura a due parti, Messere?--Sì.... verrò
subito dopo, scaveremo una fossa.... nè alcuno sarà consapevole del
fatto, meno di te.--E in me sarà sepolto, come il suo cadavere nel
terreno.--Lo spero, sebbene la cosa non meriti, perchè egli è un
ladro....--Già....--Che da più notti tenta rapire il tesoro della
mia famiglia, e forse....--Già.--Nondimeno guarda, per quanto hai caro
il mio amore, di tenerlo celato; buona notte, Roberto.--Dio vi abbia nella
sua santa guardia, Messere.--Tornai nella sala dove gli altri vassalli
ascoltavano tuttavia con moltissima attenzione la leggenda del
Maggiordomo, e senza che alcuno se ne accorgesse, accostai di nuovo al
fuoco la mia sedia; colà, declinando la faccia, mi poneva a
fantasticare:--che bisogna è mai questa? di ladro parmi non debbasi
dubitare, perchè avrebbe disposto i servi in maniera che non potesse
fuggire, e così prenderlo vivo, e martoriarlo a tutto agio. Questo è
certo qualche celato amante, che la sua figlia.... Oh! non tornerebbe
meglio compire il desiderio di quelli innamorati, che macchiarsi le mani
nella vecchiezza dentro il sangue? ma! ei l'ha per casato: forse che il
giovane non è della sua nobiltà; forse sarà qualche valletto di
casa; forse mi siede accanto!--Mi voltai, e vidi presso di me un vecchio
falconiere fatto presso che cieco dall'età, onde rassicurato
riprendeva:--diverrà d'oro la polvere nella quale si sciorrà il
corpo del mio signore? trae la sua origine da più antico uomo che non
è Adamo? dovrò io uccidere a tradimento tale, cui forse ho giurato
fratellanza?--E così di pensiero in pensiero tanto si scostava la mia
mente dalle cose che le si avvolgevano sotto occhio, che quando ricuperai
i sensi, mi accôrsi che i compagni mi avevano lasciato solo, e se
n'erano andati a dormire senza chiamarmi. Riconoscendo tentoni i luoghi
che percorreva, m'incamminai verso il giardino. Forse da un'ora mi era
posto in agguato, sebbene la impazienza me la facesse considerare come una
intera notte, allorchè intesi un lieve rumore; aguzzai gli occhi, e
vidi un corpo nero sospeso per l'aria; sguaino la daga, mi faccio
appresso, e quando credo di prendere in pieno, meno da disperato; ventura
per lo sconosciuto! che giunto circa tre braccia distante da terra
stimò bene lasciarsi cadere di un salto, onde la daga andò a
cogliere nel muro, e quivi mandò faville: guai a lui se lo
arrivava! però che di certo sarebbe stato diviso. Io non so come
accadesse;--forse teneva lo sconosciuto la spada tra i denti; sentii
assalirmi al punto stesso in molto furiosa maniera; ricambiammo alcuni
colpi, ma sopraffatto da forza e destrezza maggiori, abbandonai la daga, e
percosso di piatto sopra la testa, mi convenne stramazzare sul terreno. Io
mi rammento, sebbene fossi tutto stordito, che allora si aperse la
finestra del verone, e apparve un braccio nudo di donna che teneva una
candela, poi un volto bianco come la morte; un fiero strido si fece
sentire che diceva:--Lascia ch'io muoia con lui;--e un'altra voce di
dentro:--Gran Madre di Dio! che fate voi, mia dolce signora? ne perderete
l'anima.... Madonna, forse egli è salvo.--Un grido lontano, quasi
volesse affermare questo detto, esclamava:--Sono in salvo!--Mentre tento
rilevarmi in piede, odo il rumore di passi accelerati che si dirigono alla
mia volta, e la voce del Barone, che mi domanda:--Dov'è il morto?--E'
non ha voluto lasciarsi ammazzare, Messere, e se n'è fuggito dopo di
avermi poco meno che ucciso. Il signore proruppe in una bestemmia, e si
allontanò mormorando. Egli era un mistero: per bene otto giorni
rinchiuso nelle sue camere, non disse nè fece più nulla, se non che
mandò a chiamare un tal Rinaldo d'Aquino, Conte di Caserta, per lo
tempo trascorso famigliarissimo al castello, che i servi si dicevano
all'orecchio mal gradito amante di madonna Spina. Allo spirare degli otto
giorni fu annunciato ai vassalli si apparecchiassero alle nozze della
figlia del Conte, che doveano farsi il giorno appresso. Comecchè
assuefatti ad eseguire i comandi del Barone senza proferire parola, e allo
improvviso, tuttavolta questa precipitosa risoluzione ci parve stupenda, e
osammo dircelo, e più osammo sospettare non fosse presa contro la
volontà di Madonna: certo ella si mostrava di rado alla nostra
presenza, pure noi ricevevamo quel leggiadro aspetto con un sorriso, e
sospirando la vedevamo allontanare;--pareva un angelo tra i
demoni;--convinti che la preghiera su le nostre labbra non sarebbe
ascoltata, la supplicavamo talora volesse pregare per noi,--la tenevamo
come un anello che stesse tra le nostre anime e il Paradiso;--nessuna
orazione fu da più bella o da più buona creatura proferita, e forse
più grata.... Ah! Padre mio, credete voi che mi sia stato veramente
rimesso il peccato?»--disse il moribondo Roberto al Frate, che accanto
al letto lo confortava a morire, il quale gli rispondeva: «Così tu
avessi la virtù della speranza di crederti perdonato, come le tue colpe
ti sono state certamente rimesse! non volere, figliuol mio, peccare nella
fede; pensi la misericordia essere minore della colpa? Vedi il tuo
Redentore, egli ha le braccia aperte per istringere al petto chiunque ama
il suo amplesso: ha forse Dio respinto alcun peccatore? confida,
confida.»

«Confiderò, poichè null'altro rimane a fare;» riprese
l'ammalato, e peritoso si accostava alle labbra il Crocifisso. «Io lo
rammento, come se fosse adesso,» seguendo la storia favellava Roberto,
«però che io le stava vicino quando si prostrò avanti l'altare;
tremava di un brivido fitto fitto, che poteva sfuggire a sguardi meno
curiosi, o meno amanti dei miei; la _grimpa_ nunziale stellata d'oro le
copriva il volto,--pure son certo ch'ella piangesse;--il seno le si
gonfiava sotto le vesti di tanto in tanto, che sembrava volesse spezzarle;
tuttavia non si ascoltava un gemito, ma un lungo respirare, come fa il
palombaro¹ allorchè prende aria innanzi d'immergersi nell'acqua: la
maldicenza avrebbe potuto trovare il suo fianco un po' più rotondetto
che a vergine non si convenisse.... forse travidi.... in quel punto
sospettai così. Eravamo giunti al terribile momento nel quale il
sacerdote chiede dai genuflessi il sacrifizio delle passioni, dei
pensieri, dei sospiri, in prò d'una sola creatura nel mondo; nel quale
stringe le anime con la catena, di cui il capo tiene in mano la morte;
aperse il velo, e guardò il padre, e il padre lei.... Santa Vergine!
quali sguardi! quello della Spina parve il trepidante aleggiare di rondine
caduta dal nido prima di aver messo le penne,--cupido di vedere, e pure
pauroso d'incontrare l'oggetto della sua ricerca;--svelava una
rassegnazione disperata di perdita più che terrena,--chiedeva pietà.
Quello del Conte Odrisio si mosse da prima benigno, e, se non presi
errore, un'alba di lagrima cominciò a spuntargli dalla cavità
inferiore dell'occhio; allo improvviso balenò un lampo d'inferno;--chi
sa che lo spirito maligno non gli passasse in quel momento traverso?
Divenne immobile, mostrando una immensa rampogna,--uno sdegno profondo,--e
un domandare mercede: la mia anima sentì in quella ora, ma non può
ridire adesso, le sensazioni che l'agitarono. Il funesto consenso fu
svelto dalle smorte labbra, la benedizione proferita; udii l'assenso, e la
benedizione, come il fragore della scure che dopo avere reciso la testa
percuote sul ceppo; mi allontanai dalla cappella:--nè quelle nozze
furono liete. Alla dimane trovammo morto nel letto il Conte Odrisio; noi
lo piangemmo come uomo che non ci aveva fatto mai nè bene nè male...
Il Conte Rinaldo venne ad abitare il castello, e per noi servi queste
nuove nozze non fecero che mutarci la soma delle arme.... Se vivendo il
Conte Odrisio poco compariva ai nostri occhi madonna Spina, adesso era
diventata affatto invisibile: dopo un mese dalle nozze fatali la vidi
traverso le grate della cappella; aveva gli occhi gonfi e vermigli, il
rimanente del viso pallido, le labbra violette; la pelle le s'informava
dalle ossa; mi segnai per la pietà, perchè se può essere _senza
terrore_ la morte sul volto della bellezza, non può già esserlo la
malattia. E il Conte Rinaldo? egli era pure stato il bello uomo, vago
delle cacce, dei tornei, e di ogni altro esercizio cavalleresco; ora
scomposto della persona errava lungo i viali dei pini lamentandosi con
dolorose esclamazioni, ed ogni giorno più perdeva la floridezza
dell'aspetto, il color delle guance; i cavalli pascevano neghittosi pe'
prati; i cani giacevano cucciati nella corte, o presso il focolare; i
falconi oziavano sopra le stanghe: nulla valsero a levarlo dalla sua
mortale malinconia le visite che frequenti gli faceva il Re Manfredi,
nè la carica di Contestabile, principalissima nel Regno, alla quale fu
inalzato in quel tempo. I servi assumendo i costumi del signore se ne
andavano a testa bassa senza salutarsi. Ell'era una casa piena di
mestizia, predestinata alla sventura. Recandomi a notte inoltrata nella
mia cameretta, mi prese vaghezza di passare vicino alla dimora del Conte:
appena pongo il piè nella sala, intendo un suono di persone che
favellano;--mi accosto cautamente porgendo l'orecchio;--il vento quella
notte furiosissimo non concedeva che le parole mi giungessero intere,
nondimeno ascoltava:--Conte Odrisio, tu mi hai tradito! se stesse per me,
già non avrebbe requie la tua anima sotterra.... Il vento si portava
quello che seguiva; quando cessò di soffiare intesi da una voce
diversa:--irreparabile.... E l'impeto della bufera mi tolse di nuovo il
sentire.--Scese (soggiunse la prima voce, che mi parve quella del Conte
Rinaldo) dal letto; io vegliava, ma fingeva dormire....--E dopo nuova
interruzione:--sorsi prima di lei, rinvenni la carta, e lessi: la vostra
maraviglia, Principe, della mia ostinata repugnanza a tradire il
sacramento è piena di obbrobrio, ma giusta, perchè la femmina che ha
tradito il primo dovere, può tradire il secondo, e tutti... nè me ne
dolgo, chè la considero come una delle più lievi punizioni, con la
quale la giustizia eterna mi fa scontare la morte del mio misero padre:
felice se...--Un buffo veemente venne a rapirmi le parole; e d'ora innanzi
non intesi che alla spezzata, tra le scosse delle finestre e lo zufolío
che faceva per le sale quel vento rovinoso, ora dal Conte Rinaldo, or
dall'altra voce:--poteva tôrmi la vita, non l'onore,... quel figlio non
porterà per impresa l'arme di Aquino,... fu un inganno, un delitto,...
voi non dovete dire che una sola parola,... penso io,... è finita--è
finita,... i morti non parlano.--Mi ritirai, studiando i passi, perchè
mi parve che s'indirizzassero alla mia volta; assai mi avevano detto
intorno madonna Spina l'avventura della notte in che fui abbattuto, il suo
fianco rotondo, quegli sponsali precipitati; più mi dicevano le
ascoltate parole. Una sera che me ne andava tutto soletto a vedere se la
porta del castello era stata ben chiusa, mi si parò innanzi un tal
Conte della Cerra, che, come povero gentiluomo, assai si riparava nel
castello del mio signore, e molto si era avanzato nella grazia
di lui, così che lo avesse posto a parte di ogni suo pensiero
segreto:--Vassallo, mi disse, che cosa faresti per avere la
libertà?--Che cosa? ditelo voi che cosa farei; per me non lo so nè
pure io.--Piccola impresa ti si domanda, vassallo, che il tuo signore
potrebbe comandarti, ma pure ama pregartene, e offrirti in ricompensa la
libertà, e un florido stato.--Ed è?--Un colpo di pugnale.--Ne ho
dati cento a mio scapito, pensate se ne darò uno per guadagno.--Ma nota
che deve essere dato a un dormente, con molto accorgimento, nella notte,
senza avere nessuna altra cosa seco, tranne il pugnale.--Non si tratta di
fendere un uomo? il pugnale è tutto ciò che bisogna... porterebbe
questo alcuna difficoltà per voi?--Non per me, Roberto, ma per te che
sei uso a far d'arme, come conviene ad _uomo_ leale.--S'io combatto di
giorno, non crediate mica che non combatterei molto più volentieri di
notte; e se ferisco nel petto, non pensate che non ferirei meglio nelle
spalle: quando posso ire per la piana, Messere, non cerco mai nè
l'erta, nè la scesa.--Ben parlato, vassallo: tienti pronto dimani a
quest'ora, che ti condurrò io stesso alla posta; ti concedo questo
tempo _alla preparazione..._ del pugnale.--Certo, bel signore, sono cose
coteste, che vogliono un po' _d'esame di coscienza..._--Vedete, Padre, fin
dove giungeva in quei tempi la mia empietà, che adoperava le parole di
devozione in senso di scherno, e fingeva premettere le pratiche religiose
alla consumazione del misfatto:--pure, continuai favellando col Conte
della Cerra, pure, bel signore, io non posso obbedirvi senza la certezza
che il Barone mi sciorrà dalla servitù nella quale sono
nato.--Dubiteresti, vassallo, della fede del tuo Barone?--Non già di
quella del Barone, ma....--Di cui?--Della vostra.--E qual hai tu cagione,
vassallo, per diffidare di me?--E qual cagione ho io per fidarmi?--Non mi
vedi tutto giorno cavalcare allato del tuo Barone? pensi che vorrei dirti
cosa che non mi avesse ordinata?--È ella anche morta la schiatta dei
traditori?--E qui vidi gli occhi del Conte stralunarsi, e le guance
accendersi, ma non osò mostrarsi adirato, perchè io aveva fama di
feroce, ed egli temeva molto.--Or via, per non entrare in più parole,
che vuoi tu ch'io ti porti per sicurezza della volontà del tuo
padrone?--Non saprei: dite.--Per esempio, il suo anello?--Basterebbe,
Messere.--Dunque dimani, qui, a quest'ora, e ti porterò l'anello.--Non
vi fu che ripetere; vidi proprio il suo anello, lo guardai, lo riguardai
per iscorgere se fosse inganno, egli era quel desso.--Tu tremi? mi disse
il Conte della Cerra, allorquando, dopo avermi fatto percorrere una gran
via ad occhi bendati, m'ebbe introdotto entro un cammino
sotterraneo.--Sì, tremo, ma di freddo.--Si trema anche di paura.--Si
trema.... al ferire però si conosce se per paura, o per freddo.--Questo
è quello che potremo vedere adesso, perchè ormai siamo arrivati.--Mi
tolse la benda; le tenebre mi circondavano, le tenebre, conveniente
compagnia della colpa.--Or fa di scendere più che potrai cheto per
questa apertura, che sarà due palmi distante da terra; calavi prima per
bene una gamba, poi l'altra; fa tre passi a mano diritta, e ti troverai di
fianco al letto, ove dorme...--Chi dorme?--Che t'importa sapere chi vi
dorme? tu non devi guardare altro che a finirlo.--Che m'importa? Santa
Maria! m'importa benissimo: non potrebbe essere un mio consorte?--Non te
lo aveva detto che la paura ti ha vinto? vieni qua, che ti riponga la
benda, e ti riconduca al castello.--Rispondetemi,--e qui, Padre, proferii
un crudele giuramento--rispondetemi, è egli un mio consorte?--Non è
tuo consorte.--È egli un mio amico?--Non è tuo amico.--No?--Quanto
è vero chi ci deve condannare.--Ora vedrete se ho paura io.--Scesi in
punta di piedi, brancolando con la manca pel buio, col pugnale nella
destra, palpai il corpo del giacente, tolsi la mira sul cuore, vi apposi
la punta, l'alzai, l'abbassai... quale urlo straziante!--(E il moribondo
si turava le orecchie come se in quel momento lo percuotesse.)--Il Conte
Anselmo della Cerra avanzandosi su l'orlo della apertura, schiuse una
lanterna, e domandò:--_è anche spirata?_--Troni del Paradiso! un
raggio di luce strisciando sul letto sanguinoso mi svelava nella trafitta
le sembianze di madonna Spina. Correva intorno la stanza cieco per troppa
rabbia, gridando disperato, allorchè un vagito d'infante si aggiunse a
tanto strepito d'ira, di spavento, e di terrore: a balzelloni mi accosto
al letto, e ne rimuovo la coltre; miserevole caso!--un bambino si
avvoltolava nel sangue; il dolore ne aveva affrettato il nascimento, e
forse sarebbe venuto alla vita solo per provare quanto sia acerba la
morte, dove la madre non avesse avuto coraggio di porsi a sedere sul
letto, di recarsi in grembo il fantolino, e baciarlo. Mentre faceva tale
atto, il sangue che ad ogni suo alitare sgorgava dalla piaga a zampilli,
bruttò il volto del fanciullo, per lo che Madonna aprendo
angosciosamente la bocca proferì a stento queste parole:--Prendi,
innocente, questo è il latte che doveva dare al suo figlio colei che
fece morire di amarezza suo padre,--e cadde. Avviluppai in un lino il
fanciullo, corsi verso il Conte della Cerra, e mal sapendo che mi facessi,
glielo posi in mano; per poco stette che cadendo non si sfracellasse sul
pavimento.--Anselmo, che hai fatto? Anselmo! gridò sopraggiungendo
affannoso di fondo al corridore il Conte Rinaldo, che al vedere il feroce
spettacolo percosse semivivo per terra.--Non ho oltrepassato i confini del
vostro mandato, Rinaldo, rispose sorridendo il Conte della Cerra, e
però siete tenuto a rilevarmi d'ogni molestia in questo mondo, e in
quell'altro.--Che vi narrerò io più di quest'anima infernale?
mostrando volersi prevalere dello svenimento del Conte di Caserta, mi
proponeva di percuotere il fantolino nella parete, per levarsi, diceva
egli, quello stecco dagli occhi: io gli ordinai che se ne guardasse,
però che quell'anima andando al Limbo, avrebbe di certo insegnato alla
sua la via dell'Inferno; così salvava il fanciullo. Il Conte Rinaldo
appena ricovrò da quello svenimento metà del senno: rammentava la
perdita della consorte, perchè ad ogni momento la sentiva; gli altri
orrori obliò, o, se pure gli si affacciarono alla mente, ebbe fede che
derivassero dalla sua atterrita immaginazione. Anselmo della Cerra, di
lì a poco tempo per più sottile disegno affatto mutato, invece di
impedirmi salvare il bambino, avendomi prima costretto di giurare su i
Santi che non avrei mai svelato la sua nascita ad anima vivente, mi
sovvenne del consiglio e dell'opera per bene allevarlo; egli crebbe
benedetto dagli uomini, e dal cielo; condotto alla corte, tanto piacque al
Re Manfredi, che prima lo accolse tra i suoi paggi, e poi divenuto più
adulto tra gli scudieri... egli vi sarebbe tuttora, se...»

  ¹ Uomo che sa mantenersi lungo tempo sotto acqua.

«Finisci.»

«Se adesso non fosse innanzi di me.»

Cortese lettore, se tu sei nel numero degli eletti, che intendono,
puoi conoscere di per te stesso che l'arte della scrittura possedendo
parole soltanto per dimostrare lo stato dello spirito, difficilmente
può riferirlo in modo convenevole, perchè alla più gran parte
degli uomini nati col cuore ghiacciato coteste parole non significhino
nulla, ed alla più piccola che pur sente, pochissimo; essendo le
sensazioni che noi descriviamo non rare, ma uniche, e appartenenti
alla _scienza diabolica_ di avvilire le anime.

Rogiero si trovò a un tratto privato di padre, senza che gliene
facessero conoscere un altro; svelto da una trista certezza per essere
precipitato in un dubbio più doloroso; travolto dalla sventura nel
peccato. Assai fino a quel punto aveva disprezzato la natura degli
uomini, e la sua; ora l'aborriva, imperciocchè vedeva le passioni,
ch'ei reputava generose, convertirsegli in istrumenti d'infamia; la
sua innocenza lo aveva condotto a por fede nelle parole del suo
simile, la compassione a tenere per padre quello che non era tale, la
carità di figlio a tradire il suo Re per trarre vendetta del
tradito genitore. Tanta complicanza di casi misteriosi tanti lacci
tesigli per istrascinarlo al delitto, i più cari affetti tolti a
scherno, la rabbia, la vergogna, l'angoscia, così lo travagliarono,
che afferrate le stanghe del letto, spinto da irresistibile impeto, si
dette a scuoterlo in modo che il giacente, le coltri, e tutto quello
che vi stava sopra, balzassero; il Crocifisso cadde per terra, il
moribondo abbracciò il confessore, e nascose di nuovo il volto nel
suo seno.

«E la giustizia non vendicò quel delitto? Potè rimanersi
celato alla vendetta degli uomini?»

«Oh! prega Dio, che il potente non voglia il delitto, perchè per
celarlo appena ne prende cura, e nessuno lo vendica.»

«E il fratricidio che mi contavano di Manfredi?»

«Fu menzogna.»

«E il mio nascere da Enrico _lo Sciancato?_»

«Menzogna.»

«Ed Enrico?»

«Fu conservato, per quello che credo, onde opporlo a Manfredi nella
contesa del Regno; ma divenuto per troppa angoscia privo di senno, lo
mantennero sempre vivo, o perchè non ardissero di finirlo, o
perchè fino d'allora divisassero fingerlo vostro padre, e così
concitarvi a tradire il vostro Re.»

«Questo è un miracolo di malignità! E tu lo sapevi,
Roberto?»

«Lo sapeva.»

«E mi hai tradito?»

«Mi avevano giurato di farmi grande, e di non uccidervi.»

«Anima dannata, sii maledetta per tutta la eternità!»

«O Padre! l'udite?... Non mi hai perdonato? dì, non hai giurato
di perdonarmi?

«Se io ho giurato, adesso spergiuro: in qualunque luogo sia
chiamato il tuo spirito, o di salute, o di perdizione, io ve lo
perseguiterò sempre con incessante, interminabile maledizione....»

«Non dirlo, Rogiero!... Padre, lo pregate a non dirlo! narrategli
con quali penitenze io mi sia travagliato per iscontare la colpa....
io ti ho pure salvato la vita.»

«Esecrai chi me la dette; e te, quando anche nessuna ingiuria mi
avessi apportato, esecrerei per avermela conservata:--dànnati, e
spira.»

«Spietato! verrà giorno che pagherai amara questa tua
crudeltà:--già presso a comparire al tribunale di Dio, sento che
i miei delitti sono troppi, e troppo gravi perchè mi vengano
rimessi.... il tuo perdono non mi avrebbe giovato, ma avrebbe parlato
per te, allorquando verrai giudicato a tua posta:--anche una volta....
vuoi mantenere il tuo giuramento?»

«No.»

«Vattene dunque, e mi lascia morire in pace.»

«No:--finchè il velo della morte non sia calato sopra le tue
pupille, scorgi il mio aspetto, e dànnati, e spira.»

Non aveva Rogiero finito le amare parole, che si schiusero le porte
della cella, e comparvero due file di monaci che recavano in mano
molte torce accese; veniva ultimo in aspetto solenne il Frate che
aveva incontrato Rogiero nel Camposanto, tenendo sotto una mantellina
di seta la materia per la estrema unzione. E qui giova notare che la
disciplina religiosa di quei tempi, a norma dei documenti lasciati
dallo Apostolo Santo Jacopo, adoperava con molta discrezione quel
sacramento, nè lo amministrava se non quando l'ammalato era per
trapassare.--Inoltratosi pertanto il Frate, alla vista di Rogiero,
che, con la mano levata, faceva atto d'imprecare, e a quella di
Roberto, in religione chiamato Egidio, che supplichevole, atterrito
per la paura della vicina dannazione, grondante sudore, pareva aver
consumato i partiti pe' quali l'uomo muove a compassione l'altro uomo,
conobbe il caso; onde voltosi all'offeso, con quella fierezza che
deriva dallo zelo, gli toccò la fronte, e disse: «Creatura nata
a morire, potrai conservare odio immortale?»

«Non so, Padre, s'io lo possa; ma lo voglio.»

«Degno figlio della schiatta decaduta, il tuo sentimento partecipa
della viltà dei vermi che ti compongono; i tuoi pensieri stanno nel
fango dal quale nascesti e nel quale ritornerai.»

«Egli mi ha ucciso la madre!» gridò Rogiero accennando
l'ammalato «come potrei renunziare a maledirlo?»

«Egli» rispose il Frate alzando il dito al cielo «fece
uccidere il figlio per benedire.»

«Io non sono già Dio.»

«Lo so che sei creta; ma vive in te una scintilla di divinità,
una particella dell'intelletto di Dio, che ogni sua cura dovrebbe
porre in seguitare lo esempio del suo Fattore, e in piacergli, e in
farsi degna di quella gloria alla quale ci chiama con tutti i portenti
della creazione: l'Eterno senza peccato rimise non richiesto la colpa,
rimettila tu che sei peccatore, e te ne supplichiamo prostrati alle
tue ginocchia.»

Ciò detto, cadde ai piedi di Rogiero, e sollevando le mani giunte
lo scongiurava in bell'atto di amore. I rimanenti Frati seguendo il
moto dell'Abbate facevano altrettanto, e concordi ad una voce
gridavano: «perdona.... perdona!»

«Quando anche mi dessero il dominio del fulmine.... quando anche,
mi fosse concesso l'impero sopra il consiglio della mente.... ed ogni
cosa del creato avesse una voce che mi esaltasse, e le _miriadi_ degli
Angioli mi cantassero _osanna_ in perpetuo, io non rinunzierei mai
alla mia maledizione. Sii maledetto!» gridò con potentissima
voce Rogiero, scotendo ambe le mani sul moribondo, «e meco ti
maledicano le sostanze che hanno corpo, e le intellettuali, i morti, i
viventi, i non nati; possano da queste mie mani piovere zolfo e fiamme
su l'anima tua, e su quella dei tuoi compagni di delitto; non vi sia
bocca che non vi schernisca, non creatura che non rida alla
atrocità del vostro supplizio; e possa la mia crudeltà far
condannare me pure, e ardere nel medesimo inferno, imperciocchè
allora voi tormenterete me con la storia dolorosa, ed io tormenterò
voi con le mie feroci rampogne: ci saremo scambievoli demoni--e
spietati--e implacabili--eterni.»

Respinse il vecchio Abbate che gli abbracciava le gambe, lo stese
duramente per terra, e con un salto balzò fuori della cella. Il
crisma consacrato si sparse sul pavimento, e si mescolò col sangue
che scorse dalla fronte lacera del misero Abbate; egli però nulla
curando la ferita, aiutato dai circostanti, si ripose in piedi, e
s'incamminò ad amministrare il pietoso ufficio col poco olio
rimasto: già con la mano levata su gli occhi del moribondo aveva
cominciato a dire _per istam sanctam unctionem, et suum...._
allorchè il confessore dall'altra parte del letto con voce fioca
mormorò: «È spirato.»

Guardò con maggiore attenzione l'Abbate, e vide Roberto con gli
occhi e le labbra aperte;--un lieve rossore gli coloriva le
guance;--pareva vivo;--gli pose la mano sul cuore;--fu lo stesso che
porla sopra una pietra;--prese un lembo della coltre, e gli coperse il
volto dicendo: «È andato in pace!»




CAPITOLO DECIMONONO.

LO INDEMONIATO.

                Che di amara radice
                Amare foglie e amare frutto nasce:
                Il misero si pasce
                D'orrore e di paura,
                Di lacrime e sospiri,
                Sempre in nuovi martiri,
                E per lui solo al mondo il pianto dura.
                                   ORESTE, _tragedia antica_.


«Va, corri, Beltramo,--fa di recarmi tosto la mia armatura.... e la
lancia.... e la spada.... e....»

«Il pugnale?»

«Sì certo, il pugnale,--la più nobile invenzione per
distruggere, che onori lo spirito umano,--il pugnale. Poni la sella al
destriero....»

«Santa fede! che vorreste partire, bel Cavaliere? Guardate a quello
che siete per fare: perchè le vostre ferite sono rimarginate di
fresco; e così debole non saprei se....»

«Parti, e fa quello che ti ho comandato: chi ti ha reso tanto
ardito di provvedere al mio bene? chi ti ha detto di prendere cura
della mia salute? chi ve la dovrebbe, e ve la potrebbe avere, non vi
bada tanto nè quanto, e vuoi averla tu, disgraziato! che non sei
sufficiente di pensare a te stesso? presumi essere meno tristo, meno
debole, meno scellerato di me?»

«Ma io, bel Cavaliere, possa morire scomunicato, se intendo sillaba
del vostro discorso: non avreste veduto per caso la _Tregenda_ dentro
qualche macchione? Su via, non vi curate di cavalcare a quest'ora;
messer Ghino non è ancora tornato, e non sarebbe mica cortesia
cotesta di andarsene senza togliere commiato.»

«Che mi parli di cortesia, sciagurato! quando altri mi tradisce
beffando, mi strazia il cuore ridendo, e viene quasi a spettacolo per
godere nella contemplazione dei miei dolori!--l'arme, ti ripeto,
l'arme.»

«Deh! bel Cavaliere, voi volete gettarvi via ad ogni costo; la vita
è pur vita, e perduta una volta non si ricompra mica a contanti:
sarebbe pure il gran peccato, che veniste così miseramente a
morire, poichè mi sembrate gagliardo, e pro' della persona; guarite
prima per bene, poi non mancherà tempo a lasciare questo
mondo....»

«Dov'è l'armatura?»

«Santa fede! O Cavaliere, da che non avete nessuno amore per voi,
abbiatelo almeno per me; considerate di grazia che il ferro
confricando le vostre piaghe tornerà a riaprirle prima che sia
un'ora.»

«Ma che destino è il mio, che l'odio e l'amore degli uomini
debbano riuscirmi ugualmente importuni?»

Questo dialogo, come la più parte dei miei lettori avrà
immaginato, fu tenuto da Rogiero, che, dipartito dal convento, si era
ridotto alla casa di Ghino, con Beltramo, il caritatevole custode del
moribondo Drengotto. Terminate ch'ebbe Rogiero le riferite parole,
cadde in pensiero, e declinò la faccia tra le mani; onde Beltramo,
conoscendo che predicava al deserto, stimò nessun'altra cosa
rimanergli di meglio che eseguire il comando. Già non poteva il
masnadiero di lungo spazio avere trascorso la porta, allorchè
Rogiero, crollata la testa, si dette a camminare per la stanza
furiosamente.

«Mi prostrerò al suo trono,» diceva «mi prostrerò....
io che non mi sarei curvato innanzi cosa immortale, cadrò adesso ai
suoi piedi? Sì, cadrò, perchè la mia alterezza si dipartiva
dalla innocenza.... oh! come avvilisce la colpa!»

«Bel Cavaliere, ecco l'armatura;» entrando nella stanza
favellava Beltramo.

Rogiero non gli poneva mente, e continuava così: «Ho voluto io
la colpa? Io mi sarei sottratto a quella con la morte; pure ne porto
la pena. Questa è una via dolorosa; la sventura mi flagella,
affinchè senza requie pervenga al fine, e al fine mi attende
l'infamia....»

«L'armatura, Cavaliere....»

«Ora temo il riposo della terra, perchè mi cadrebbe addosso,
come il peso all'ostinato che volle caricarsi le spalle più che le
sue forze gli concedevano.... e non sarebbe già volontario....
nè avrei per iscusarmi.... e per accusarlo le ragioni di
prima....--Non le avrei? Non sono circondato di lacci? Non mi hanno
strascinato alla dannazione come omicida al supplizio? Io leverò la
faccia, e gli dirò....»

«L'armatura, Cavaliere, l'armatura....»

«Che debbo farmi dell'armatura? il mio nemico è invincibile;
l'asta e la spada non valgono contro di lui; egli combatte con la
volontà. Altra forza che non è la mia,--altro ardimento, hanno
perduto la prova.... toglimi dinanzi cotesta armatura, che si fa beffe
della mia debolezza, perchè non v'ha corpo nella creazione che non
giunga a guastare questa mia fievole coperta di pelle.»

«Vi domando mercè, Cavaliere; ma voi non mi avete pur ora
mandato per essa?»

«Io ti ho mandato? hai tu bene inteso?»

«Toglietemi qualunque facoltà vorrete, nè vi aspettate di
sentirne un lamento; ma negli orecchi, Cavaliere, credo valere quanto
alcun altro mio fratello di umanità.»

Rogiero si pone in atto di uomo che vuole richiamare alla mente una
cosa sfuggita: «Se io l'ho detto, segno è certo che ne aveva
ragione.... O stato che commuovi il riso, perchè sei superiore del
pianto!» e così favellando torse alquanto la bocca. «Ah! mi
sovviene adesso; non devo prostrarmi, e chieder perdono?» Il
rossore gli trascorse su per le guance fino alla radice dei capelli, e
dopo alcuna pausa ricominciava: «Non di qui, non di qui la vergogna
prende principio; segue ella come un'ombra il misfatto. Col prostrarci
può bene diventare maggiore; ma ormai l'avvilimento è consumato;
--porgimi lo usbergo.»

Beltramo, obbedendo al comando, gli fece passare le braccia per gli
scavi che cingevano le spalle, e si pose a fermarglielo addosso,
stringendo le fibbie che di sotto l'ascella destra si terminavano poco
sopra il fianco: imperciocchè gli usberghi, corsaletti, giachi, ed
altre arme di simil sorta, fossero fatte a modo delle moderne
sottovesti, se non che mastiettate da un lato per potersi aprire e
chiudere, e dall'altro, come abbiamo detto, avessero diversi fermagli,
co' quali si fissavano su la persona del cavaliere. Beltramo
proseguendo l'ufficio venne all'improvviso interrotto da una
esclamazione angosciosa di Rogiero, che disse: «Ahi! Quanto ti
hanno dato i miei nemici perchè tu mi ferissi alle spalle?» e
con súbito atto portò la mano su i reni per conoscere s'era
stato ferito.

«Cavaliere!» rispose Beltramo indietreggiando di alcuni passi
«ma che credete di stare tra masnadieri davvero? Non ve l'ho io
detto che le vostre ferite non sono ancora del tutto sanate? e questa
vi darà nella via più gravezza delle altre, come quella che
rimane sotto un fermaglio dello usbergo. In che vi ho nociuto io, onde
dobbiate così stranamente diffidare di me?»

Rogiero volse la faccia a Beltramo ridendo di quel sorriso col quale
soglionsi ascoltare le parole dette con poca sapienza, o con molta
stoltezza, e soggiungeva così: «Ogni uomo è onesto prima di
farsi scellerato,--nè il non avere commesso il delitto significa
rettitudine di anima;--ormai chi sa quanti ne avrai commessi col
pensiero! ma risponderai che tu non chiamasti la mano ad esprimere la
perfidia della mente; e credi per questo di essere meno colpevole?
forse ti fuggì l'occasione; ma questa ti può essere offerta ad
ogni momento. Torci le labbra?--non mi hai fede? frugati giù nel
cuore, sfacciato, e affermami sul viso, se l'osi, che non hai mai
pensato alla colpa.»

«Vi chiedo mercè, Cavaliere, ma io stimo che la miglior cosa pel
nostro cuore sarebbe lasciarlo stare in pace. Io per me credo di non
valere più nè meno di qualunque altro uomo; questo so certo, che
non farei tradimento a persona, e meno a voi, bel Cavaliere;
d'altronde poi io sono uomo grosso, nè m'intendo di tante
sottigliezze; pensatela un po' come vi pare, chè per questo non
dormirò meno gagliardi i miei sonni. Intanto venitemi presso senza
timore, se volete che io termini di affibbiarvi l'usbergo; o più
tosto, se volete seguire una volta un buon consiglio, che ve lo tolga
da dosso, perchè, permanendo ancora qualche giorno, possiate
ricuperare affatto la vostra salute.»

Rogiero ravvicinatosi a Beltramo gli ordinava seguitasse ad armarlo; e
allorchè di tanto in tanto il ferro, accostandosi su le mal
rimarginate ferite, lo pungeva di acri trafitte, non più, come
dianzi, dubitava di tradimento, ma esalava il concetto dolore con un
gemito ammezzato tra i denti: allora Beltramo si rimaneva, e alzava
gli occhi per riguardarlo:--la espressione dello spasimo era già
dileguata dal volto di Rogiero, e compariva composto in certa
impassibilità maestosa, che nè pareva nè era propria della
sua natura, ma chiamatavi a forza, e a forza costretta a rimanervi da
un senso magnanimo di alterezza; il che faceva cosa stupenda, e a un
punto compassionevole a vedersi.

«Quando,» continuava a dire Rogiero, «quando ritornerà
messer Ghino, gli dirai, che da poi la nostra natura è così
vile, che al racconto dell'altrui disastro il proprio o tace, o
diminuisce, tolga argomento dai miei casi di consolarsi dei suoi, i
quali in proporzione dei miei sono giuochi da fanciulli; gli dirai
ch'io fuggo per non attristarlo con una terribile storia, se veramente
mi ama, e per non farlo godere, se finge.... o invece, e farai meglio,
non dirgli nulla: dalle mie vicende non può derivarne che male; per
esse sarà noto che non giova onestà, non giova costanza,--l'amore,
la carità, e ogni altra magnanima passione, non giovano; che una forza
alla quale non ci è concesso resistere ci strascina; che non vive uomo
il quale possa vantarsi incolpevole,--e se lo fa, è stolto; e se
l'occasione gli si presenta, la sua anima darà una mentita a sè
stessa; cose in somma che sarebbe pur meglio ignorare, la scienza delle
quali prostra le menti invece di suscitarle, e le fa gemere sotto il peso
della umanità, come schiavo per la gravezza del travaglio assegnato.»
E così discorrendo, e cumulando errore ad errore noi non sappiamo dove
sarebbe andato a riuscire, se Beltramo in quel momento, stretta l'ultima
cintola, non avesse detto: «È finita.»

«Me avventuroso, quando proferiranno questa parola sul mio
cadavere! Pure chi sa che anche nella fossa non mi aspetti qualche
altro affanno, e chi sa se veramente là dentro si trovi riposo!
Nonpertanto io non posso sperarlo altrove, poichè le nostre
condizioni sono la vita e la morte, e nella prima già mi dispero di
più mai conseguirlo.»

Soffrendo impazientemente che più oltre si prolungasse il tempo di
armarlo, con quelle armi che si trovava in dosso uscì della stanza
e scese nel cortile, dove trovò il suo buon destriere Allah in
punto di essere cavalcato, tenuto da uno scudiero: senza altre parole,
posto il piede in istaffa, inforcò la sella, e lo spinse fuori del
cortile. Mentre stava per uscire, messer Ghino, reduce con alcuni dei
suoi dalla divisata spedizione, gli si presentò dinanzi,
attraversandogli la via.

«Dove, Principe?»

«Dove piace a colui che padre e innocenza mi ha fatto perdere a un
punto.»

«Voi mi parlate strane novelle, Rogiero: vorrestemi in cortesia
farmele chiare, narrandomi quello che vi è avvenuto?»

«Non vi curate conoscerlo, messer Ghino; già sapete assai per
disprezzare la vostra schiatta; io ve la farei abborrire, e troppo
grave danno ne verrebbe a voi, ed a lei: sgombratemi la via.»

«Voi siete ammalato nello spirito, amico mio; e se la compassione
non permette di abbandonare lo infermo di corpo, molto meno
concederà di abbandonare l'ammalato nel cuore, di cui le malattie
travagliano più profonde e terribili.»

«Ghino, Ghino, sgombratemi la via, o ch'io vi spingo addosso il
cavallo, succeda quello che può succedere.»

«Dio eterno!» gridò Ghino ritraendosi, e sollevando al cielo
le mani; «tu gli hai tolto il senno....»

«Amico,» esclamava Rogiero in andando «ormai se è vero che
l'uomo può amare l'uomo, la qual cosa non credo, fa di mestieri trovare
un'altra parola per esprimere questo amore, da che amicizia sta per
significare tutto ciò che l'odio, la rabbia e la frode, possono
commettere di tristo contro la creatura che parla. Io da qui innanzi,
quando alcuno mi si vorrà dire amico, porrò le spalle alla parete,
per non trovarmi trapassato da tergo, e porterò le mani alla borsa,
onde non mi sia rubata nell'abbracciamento.» E tuttavia cavalcando
aggiungeva moltissime altre sentenze, che il vento, quasi avesse senso di
ragione, tolse all'udito, e che sarebbe pietà riferire: vadano pure
disperse, che noi rispetteremo il diritto dell'elemento, e potessero con
quelle disperdersi le colpe che le fecero dire, le quali pur troppo
vissero, vivono, e crescono tra noi! Il popolo ci accusa di essere troppo
vaghi d'investigare le colpe, e desiderosi di calunniare l'umana natura. O
popolo, popolo! Dio che scende nel profondo dei cuori, Dio sa se è
sincero il nostro voto, e se più tosto di attristare noi stessi ed
altrui col racconto dei misfatti, vorremmo celebrare le tue glorie,
diffondere la luce del canto sopra i gesti magnanimi, inebriarci
nell'aere della virtù.... ma guárdati intorno, e domanda dove sia la
virtù,--non troverai nè pur l'eco che risponda a questa strana parola.

Rogiero, travagliato dalla febbre dei tristi pensieri, di più in
più si allontanava per la pianura; ma poichè tutti i nostri
affanni trovano fine, rallentandosi, se tali che la nostra pazienza
possa soffrirli, o distruggendo l'anima qualora le sieno superiori;
quelli di Rogiero non essendo di forza da distruggerla, così la
cortesia, ch'era in lui veementissima passione, appena trovò luogo
di farsi sentire, gli rimproverò le strane maniere tenute con
messer Ghino, il solo tra la famiglia degli uomini ch'egli avesse
riputato degno di riverenza e di onore; voltò la testa all'indietro
quasi per fare sue scuse alla parte del cielo che copriva quel
valoroso; imperciocchè credeva lo avesse ormai trasportato il
cavallo oltre la vista della sua dimora, ma s'ingannò; che il
destriero non istimolato dal suo signore s'era fatto innanzi a piccolo
passo, ed egli ebbe agio di vedere il buon messer Ghino, il quale
nella medesima situazione in che lo aveva lasciato stava a
riguardarlo: trasse dal lato destro la briglia, dette di sprone a
manca, ed in meno che non si dice _Ave Maria_ giunse presso Ghino,
smontò da cavallo, e gli cadde smanioso tra le braccia; la testa,
come se non potesse sopportare il peso della commozione, abbandonò
sopra le spalle dell'amico; in faccia divenne tutto bianco, nessuna
lacrima gli sfuggì dagli occhi, la gola chiusa non avrebbe concesso
che le parole suonassero, nè egli si provò a favellare. Ghino lo
sorreggeva, niuna cosa si aggiunse alla sua prima espressione, se non
che una grossa lacrima formatasi lentamente gli gocciò giù per
la guancia, posandosi alla fine sui capelli di Rogiero; dopo la prima
ne sgorgarono delle altre assai, e a mano a mano più spesse; il
volto però, come abbiamo detto, non prese nuova attitudine, ogni
muscolo rimase al suo luogo;--pareva che gli occhi non avessero nulla
che fare con quelle lacrime;--che spontanee si dipartissero dal cuore.
Un poeta a considerare quel pianto sotto quelle ciglia irsute scendere
per un viso adusto e di dure sembianze, quale era quello di Ghino,
avrebbe súbito trascorso col pensiero ai versi di Omero, nei quali
egli paragona il pianto di Agamennone

    «.......... a cupo fonte,
    Che tenebrosi da scoscesa rupe
    Versa i suoi rivi........... ¹»

  ¹ _Iliade_, Libro 9.

Le principali passioni di questi nostri personaggi, dove potessimo
significare mediante la favella, non sarebbero degne di qui riferirsi;
esse non pure assorbivano ogni altra potenza dell'anima, ma sforzavano
talmente quella destinata a riceverne gl'impulsi, che un poco più
che si fosse tesa rompevasi col danno di certissima morte. Non
fiatarono, e pure quello amplesso muto disse più di quello che
eglino avrebbero potuto esprimere in diversa maniera: l'uno non
chiese, e l'altro promise; questi accettò, e quegli non proferse;
in somma moti secreti di _natura purificata_ che il volgo non potrà
mai concepire, e dalla storia dei quali vuolsi tenere lontano quanto
dai misteri del Santuario.

«Dunque» dopo lungo tempo cominciava messer Ghino «è
irremovibile volontà vostra partire senza dimora?»

«È.»

«Terreste alcuno dei miei in vostra compagnia?»

Rogiero gli strinse la mano, e fissò i suoi negli occhi di lui, il
quale atto valse un ringraziamento; dipoi soggiunse: «Messer Ghino,
lo stato che adesso mi torni meno gravoso nella vita mi sembra la
solitudine.»

«Sia fatta la vostra volontà. I miei passi son rivolti al Regno;
terrò le stanze alle falde dei monti di Arpino presso le sponde del
Garigliano, sopra il terreno una volta occupato dal valore dei
Saracini;--quel terreno io considero come retaggio paterno, perchè
appartenente ad una schiatta perseguitata e infelice: quivi, voi lo
sapete Rogiero, vivrà un cuore di cui il penultimo sospiro sarà
per Dio, l'ultimo per voi, e un braccio che combatterà in vostra
difesa, finchè potrà sostenere peso di spada: solo che non mi
chiamate contro Manfredi:--io potrò bene stendere la destra sopra
la brace accesa, non già inalzarla contro colui che ho cominciato
ad amare.»

«Comunque possa sembrarvi strano, sappiate, messer Ghino, che se io
mai invocherò il sussidio delle vostre armi, questo non sarà se
non in favore del Re Manfredi; più oltre non v'è concesso
conoscere di questa avventura; a me riuscirebbe troppo gravoso dirlo,
a voi ascoltarlo; bastivi quanto ve ne ho raccontato. Ghino, mio dolce
amico, addio.» Rogiero proferite queste parole gli strinse di nuovo
la mano, Ghino rispose: «Voi mi levate un gran peso dal cuore:
certo adesso non istarà per noi, che i Barbari non sieno cacciati
di là dalle Alpi; la vostra spada, Rogiero, per quello che mi parve
a Roma, può compensare a misura di carbone il male che avrà
fatto la vostra lingua. Addio.... badate di non porlo in
dimenticanza,--alle falde dei monti di Arpino....»

«Dimenticanza! Quando l'anima oblierà che v'è stato uno ieri,
e che vi sarà un domani, allora soltanto potrà dimenticarvi,
Ghino!»

«Sì bene; dunque colà aspetto la vostra chiamata. Intanto
affileremo le daghe, onde, se alcuno dei Francesi scamperà, possa
narrare a quelli di là dai monti, come taglino i ferri italiani.
Addio.... Aspettate, Rogiero: se per caso non vi fosse data
comodità di venire in persona, a voi, togliete questo pugnale, il
messaggiero che spedirete a recarmelo ritornerà alla vostra
presenza con quattrocento uomini di arme, ed un amico.»

«Che posso dirvi, Ghino?--Addio!»

«Nè differite a chiamarmi nelle ultime strette; spesso, Rogiero,
minor numero di gente di quella che io conduco, giunta in buon punto,
ha reso vittorioso un esercito, che migliaia di armati, trascorsa la
occasione, non hanno potuto salvare. Non vogliate risparmiarmi;
pensate, che accorrendo con le armi nulla opero per voi, poco per
Manfredi, molto per me, che sopra i piaceri del buon cittadino
altissimo io pongo quello di menare le mani in pro del mio paese....
Me lo promettete, Rogiero?»

«Ve lo prometto.»

«Anche uno abbraccio, e addio!»

Ghino gli tenne la staffa; Rogiero, quando fu salito in arcione, gli
stese la destra; egli se l'accostò alla fronte, e disse: «Ella
mi fa bene al capo quanto la benedizione di mio padre: sopra tutto
abbiate cura delle ferite. Addio, mio diletto Rogiero, addio!
addio!»

Si allontanava lo sfortunato giovane tenendo la faccia rivolta
all'indietro, di tanto in tanto salutando il suo amico, che non si
mosse mai dal luogo, finchè potè seguitarlo con gli occhi;
quando l'ebbe smarrito a cagione del suolo montuoso, e delle giravolte
della foresta, salì sopra una torretta per vederlo riuscire su
l'aperta pianura; qui pure il cielo lontano glielo nascose, o più
tosto la debolezza della vista non gli concesse tenergli dietro;
allora curvò la persona, e appoggiò le gomita alla sponda della
torretta, puntellandosi ambe le guance, e così stette assai gran
tempo, considerando il luogo pel quale si era dileguato. Di qual sorta
fossero i pensieri che gli si avvolsero per la mente noi non sapremmo
rapportare; soltanto diremo, che togliendosi di costà fu inteso
mormorare la seguente sentenza:--«Poichè le gioie di questa vita
giungono tanto rade, e passano così veloci, io tengo per fermo che
le ci sieno date per farci sentire più addentro i dolori.»

Rogiero, avendo raccolto per via, che la Corte e i principali Baroni
dovevano quanto prima ridursi a Benevento, dove Manfredi aveva
ordinato universale assemblea, divisò volgere quivi il viaggio, che
stabiliva di fare a Napoli; e dopo un faticoso cammino per luoghi
dirotti, reso più grave dalle piaghe inasprite, giunse l'ottavo
giorno della sua partenza da messer Ghino in vista di Santa Agata dei
Goti. Sia che temesse potersi celare, sia che desiderasse sfuggire
l'aspetto dei viventi, Rogiero si consigliò di non entrare in
quella città, ma posarsi alla campagna nella prima osteria che gli
fosse occorsa, nè andò guari che il suo sguardo si fissò
sopra una insegna dipinta sul muro. Il pittore, per quello che si
poteva interpretare, aveva pensato raffigurarvi una luna nel suo primo
quarto, allorchè somiglia, come ha detto Orazio in qualche parte
delle sue Odi,--e la Musa sa con quanta gentilezza di concetto,--alle
corna della vitella; certi globi neri condotti sotto la luna dovevano
per certo fingere nuvoli,--almeno così credo;--sopra questa opera
maravigliosa dell'arte stavano scritti con la brace i versi seguenti:

    «Or che la notte è taciturna e bruna,
    V'invito nell'albergo della Luna.»

Veramente,--disse a sè stesso il cervello di Rogiero, senza che la
sua volontà vi partecipasse per niente,--poteva esser meno tristo;
pure poichè tutto bene non si può avere, il meglio è che si
trovi fuori di mano.--Mentre così fantasticava, da un fabbricato
contiguo alla casa acconcio a modo di scuderia sbucò fuori un
fanciullo di strana sembianza: pallido in volto, con gli occhi loschi,
le labbra rovesciate, i capelli stesi; la testa strettissima sul
davanti, si allargava dietro, presentando la forma di una borsa per
riporre danaro; la sua veste, screziata d'infiniti colori, aveva
sopramesse le toppe con tanta leggiadria, da sembrare, più che
altro, un arazzo. Questo fanciullo pertanto senza fare parola si
avventò alla briglia del cavallo di Rogiero, sforzandosi condurlo
seco: il cavaliere stese la destra armata del guanto di ferro, e
così per taglio percosse la mano di quello indiscreto in maniera
che indietreggiò di alcuni passi, strillando, e soffiando su la
parte offesa.

«E» instava minaccioso Rogiero «fa voto a cui adori che non
ti faccio peggio, perchè fin qui nè Cristiano nè Saracino
può vantarsi di aver toccato la briglia del mio destriero.»

Udendo poi che il fanciullo non cessava il lamento, per quella antica
abitudine, che nessuno raziocinio varrà mai a cancellare dal nostro
pensiero, di credere che uom possa con un pezzo d'oro, o di argento
coniato, riparare le ingiurie, impedire alle lacrime di scorrere, e
all'anima di sentire, il nostro eroe cavò fuori un fiorino, e
l'offerse al fanciullo. Come avvenga questo, noi non sapremmo; ma i
giovanetti, di cui lo spirito pare incapace delle nozioni più
semplici, si mostrano sopra le altre bestie a due gambe bramosissimi
del danaro; e sì che il modo di conseguirlo, quello di spenderlo,
le cose che rappresenta, il perchè le rappresenti, dovrieno formare
astrattezze non tanto agevoli a ficcarsi nella testa di un bambino;
forse quel corpo lucido e rotondo vince ogni loro attenzione; forse, e
questo mi sembra più vero, la scienza del quattrino sopra le altre
scienze si adatta alla nostra natura, ed è la sola infusa che ci
rimase da Adamo in poi. Rogiero, appena stesa la mano col fiorino,
sentì mordersi il cuore, e poichè la velocità meccanica del
pensiero, come sanno i lettori, formi anche oggidì il più
efficace argomento per provare la spiritualità, in meno che non si
chiudono gli occhi aveva conosciuto la sconvenienza tra una moneta e
il torto apportato, la viltà di credere che lo avrebbe riparato, la
stoltezza di volere con essa soffocare gli affetti, e molte altre
idee, che appartengono a troppo arcano sapere, perchè possano
convenientemente discorrersi in questo libro e convenientemente
intendersi dalla più parte dei miei lettori. Nè alcuno voglia
trovare strano quanto ho proferito qui sopra:--imperciocchè la
plebe sia di certa zotica complessione (e per plebe intendo non pure
quella che cammina vestita di frastaglio e di tela, ma si bene anche
l'altra che si fascia di panno da quaranta e più Lire per braccio),
che se a caso la fortuna le sbalestra un libro tra mano, e vede di non
comprenderlo, distingue súbito se la fama dello scrittore per
venire da tempi remoti sia radicata nella mente degli uomini, o se, di
tenerissimo tempo, abbia mala pena messo le barbe: nel primo caso
s'ingoia come una spugna il vituperio della ignoranza, e quantunque
non capisca nulla, ed abbia smania infinita di mordere, grida _bravo_!
guai a lei se gridasse _tristo_, che il disprezzo terrebbe dietro alla
nudità della mente, ed ella vuole essere bene in camicia di
scienza, non coperta di obbrobrio. La malvagità del cuore poi si
dimostra pienamente nel secondo caso: conoscendo di poter nuocere, di
far sentire il suo urlo, di rovesciare nel suo fango chi s'ingegna
uscirne, calcandole la testa, non è da dire se corra festosa, come
l'asino di Esopo, a dare dei calci in fronte al lione affralito dalla
malattia e dagli unni. Quindi è che i primi passi di colui, che non
ha troppo soverchianti doti di mente per disprezzare ogni riguardo,
vogliono essere cauti, ma cauti bene; se mette piè in fallo, già
non confidi che alcuno pietoso gli stenda la mano soccorrevole;
accorreranno tutti a gittargli addosso la pietra, e con essa lo
scherno, e quelli principalmente che più lo confortavano di
avventurarsi al passo. Gli uomini godono allo aspetto delle rovine,
nè possono perdonare nessuna superiorità di averi e d'intelletto.
La fama assai si rassomiglia al Paradiso dei credenti in Maometto, per
giungere al quale fa di mestieri traversare _Alzirat_, il ponte largo
quanto un filo di ragnatelo, sotto cui scorre una riviera di fuoco, che
con la vampa e il fragore spaventa chi passa: qui sì che fa di bisogno
davvero la buona coscienza che rassicuri; un lieve ribrezzo, uno sfumato
raccapriccio è morte eterna: da quella riviera infuocata la forza degli
angeli e degli uomini riunita nel braccio di un demonio non varrebbe mai a
sollevarti. Leggesi, che certo storpio s'imbattè un giorno in un cieco,
e poichè scambievolmente si ebbero raccontato con quanto pericolo e
affanno ognuno di loro procedesse nello impreso cammino, il cieco
proponesse di levarsi in collo lo storpio, e così l'uno giovando con le
gambe, l'altro con gli occhi, potessero ambidue pervenire a buon
salvamento. Oh! bella carità questa, e certo degna del mondo come
dovrebbe essere; ma tanto e tanto va immersa la gente nella costumanza del
male, che io per me affermo, che dove tutti fossero ciechi, e dispersi pel
deserto, ed uno solo godesse della luce per bene condurli, vorrebbero
traboccare più tosto in qualche dirupo, perdersi dentro il
torrente,--morire in somma, che sopportare la condotta di quell'uno. Ma io
ho promesso una istoria, e così seguitando parmi che si convertirebbe
in un trattato di filosofia,--e quale filosofia! pure non mi dà l'animo
di cancellare una sillaba; quello che è scritto è scritto; molti non
capiranno, più molti non vorranno capire; nondimeno la verità vive
senza bisogno di essere intesa, ed io ho avuto il coraggio di dirla, e
spero in Dio di conservarlo sempre, che in questa terra da cotesto valore
in poi non mi venne altro retaggio: intanto io me ne lavo le mani, e non
come Pilato, e la infamia a cui tocca.--Ritorno alla storia.

Rogiero dunque, sì come raccontava, avvertito dalla gentile
coscienza, stava per ritirare la mano, ed in vece del fiorino
proferire parole di scusa, quando il giovanetto si gettò avidamente
su la moneta, e con ambe le mani gliela svelse dalle dita; intanto il
suo volto si ricomponeva alla quiete, e le labbra si schiudevano al
sorriso, mentre che tuttavia le lacrime gli sgorgavano dagli occhi.
Rogiero, assuefatto a conoscere molte passioni umane, e tutte
schifose, non potè contenersi dallo esclamare: «Io non avrei mai
creduto che col danaro si comprasse anche il dolore!»

Il fanciullo lo seguitava in atto sommesso, gl'insegnava il luogo ove
meglio avrebbe accomodato il cavallo.

Rogiero, dato al suo Allah le cure di un amico, si incamminava
all'albergo.

In mezzo della stanza stava l'oste,--strana figura a vedersi! lungo
sperticato, comecchè per tenere le spalle levate verso la nuca
apparisse senza collo, con molto scapito della sua statura: il petto,
diverso da quello di ogni animale della sua specie, non era piano
nè convesso, ma incavato, macilento quanto le vacche che
vaticinarono a Faraone la carestia dell'Egitto, con certe mani scarne,
unghiate da accomodarne i nibbii:--avresti giurato che a mettergli un
lume dietro gli si sarebbe veduto che cosa pensava nel cuore; e a
malgrado lo inviluppo della carne, io credo che gli si potesse
studiare addosso _l'osteologia_; aveva la fronte aguzza, alta forse
due dita; il naso torto all'ingiù, il mento all'insù: quasi due
amici che anelassero abbracciarsi; gli occhi presso le palpebre di bel
colore carminio, più oltre di piombo scuro; la bocca amplissima
_prendeva le mosse_ da un punto assai prossimo alle orecchie, e
formava un sesto acuto sopra il mento; qualcheduno che avesse avuto
vaghezza di fare similitudini, l'avrebbe assomigliata ai festoni da
morto che oggigiorno si appiccano alle porte delle chiese; nè il
colore avrebbe impedito, chè se i labbri con erano neri non erano
neanche vermigli. Il ritratto di questo personaggio non arriva anco a
mezzo, e le tinte su la tavolozza mi mancano, onde sarà meglio
finirlo con dire, che i suoi moti parevano raccolti dagli scimmiotti,
e dai maníaci; il suo favellare da prima lento, poi precipitato in
guisa che spruzzasse la saliva in volto a cui gli stava dinanzi, e
negli angoli della bocca gli spumasse un rigonfiamento di bolle
bavose. Il primo pensiero che suscitava il suo aspetto era di scherno,
il secondo di paura; se avesse avuto la coda, lo avrebbero sbagliato
con _Moloch_, il demonio della avarizia.

«Ben venuto,» disse costui appena vide Rogiero, facendogli
profondissimo inchino col berretto alla mano, e percorrendolo da capo
alle piante con tali sguardi che parvero una frugata di doganiere,
«ben venuto sia il Cavaliere. Ahimè! la fortuna non può
pararmi dinanzi nessuna occasione nella quale tanto mi dolga delle
rapite sostanze quanto in questa, perchè non mi è dato di
onorare come vorrei il Cavaliere che mi fa dono della cortese
presenza; nondimeno spero in Santo Menna il Solitario, nostro Santo
protettore, di potere sempre onestamente servirvi pe' vostri danari.
Voi siete proprio nato vestito a capitare al primo tratto alla Luna;
avreste potuto, procedendo oltre, trovare l'Aquila d'oro, l'Orso
bianco,--Santo Menna glorioso! belle mostre,--fattucchierie per
iscorticare i poveri forestieri; e poi si vanno vantando che l'anitre
loro sono più grasse delle mie,--come se non respirassero la
medesima aria: e' vi so dire, signor Cavaliere, che hanno posto
davanti a chi ebbe la mala ventura di cadere là dentro più galli
morti di pipita di quello che non v'ha fiori in primavera; e una donna
assai mia familiare, che pratica cotesti inferni, mi assicurava
l'altro ieri che seppellirono nello stomaco di certo uomo dabbene un
gatto per lepre. Io per me non so come la Signoria non vi prenda
rimedio, solamente per la salute pubblica.... Basta, da un pezzo in
qua le cose vanno a rifascio: io sono uomo grosso, nè so molto di
ciò che sapete voi altri signori; pure, se stesse a me comandare,
vorrei....»

Rogiero, per le cose proferite dall'oste ormai rassegnato di
trangugiare un mal pasto, senza più badargli s'indirizzò verso
una camera dalla quale usciva rumore confuso di gente, che parli
insieme a gola spiegata. Giunto che fu sopra il limitare osservò
quattro uomini che portavano in testa cappelli di ferro, in parte
ammaccati, in parte rugginosi, e intorno alla vita corsaletti
parimente di ferro; le partigiane e le daghe avevano posto in un canto
della stanza: stavano seduti da un lato della tavola alternando il
mandare dentro bicchieri di vino, e il cacciare fuori discorsi. Questi
uomini, che appartenevano a qualche compagnia di vassalli armati, che
ogni Barone si faceva pregio tenersi appresso, sorsero all'apparire di
Rogiero, e molto rispettosamente lo salutarono, imperciocchè
fossero da remota consuetudine assuefatti a fare così a tutte le
armature ornate con fregi di oro, o di argento. Rogiero ringraziava
con la mano, e invitava che tornassero a sedere: ma la sua attenzione
non era rivolta su loro, sì bene sopra il quinto personaggio, che
appena lo vide entrare, con trepidante prestezza togliendosi dinanzi
un gran piatto di troppo squisita vivanda, vi sostituiva un pugno di
ulive secche, e celava più che poteva il volto nel cappuccio,
però che avesse addosso una schiavina da pellegrino. Per quanto
s'ingegnasse, non giunse però a nascondersi da Rogiero, il quale,
riconosciuto che l'ebbe, si sentì sorpreso da un senso di paura
simile a quello che ci percuote allorquando ascoltiamo un racconto
terribile:--vorremmo interrompere il narratore, e le parole si perdono
per la gola,--vorremmo allontanarci, e le gambe ci paiono radicate sul
terreno, e il sudore scorre su la fronte gelata, e non osiamo voltare
la testa. Vergognando d'impallire al cospetto di tale uomo ch'ei
teneva per vile, raccolse fiato, e disse con un sospiro: «Voi qui,
pellegrino!»

Proferite le prime parole, rotto lo incanto, riprese il vigore del
pensare, e del sentire, onde guardando su i quattro ribaldi, che avea
d'attorno, lo proverbiava con un tal sorriso di scherno: «D'ora in
avanti parmi che non avrete bisogno di altra compagnia!»

«Eh! chi cerca trova,» rispondeva il pellegrino «bel
Cavaliere; la nave piega secondo il vento, e da più gran testa che
non è la mia viene il detto:--co' Santi in Chiesa, o in taverna co'
ghiottoni.»

«E se non m'inganno, parmi che siate fatto per istare più tosto
co' secondi che con i primi, e che possa confermarvi di giorno quello
che vi dissi di notte, quando in prima v'incontrai. Non conosco le
cause per le quali v'ingegnate ingannarmi; ma credete poterlo fare
mangiando, o astenendovi in mia presenza dal cibo che poco fa
gustavate? Proseguite il pasto, chè per vedere su la mensa starne,
od ulive, già non cambierò pensiero su voi:--la faccia è
quella che conta.»

«Oh! allora poi, se mi avete veduto, continuerò a mangiare la
mia vivanda. Peccato celato è mezzo perdonato; questa volta però
me lo scriveranno a debito tutto intero;» e così favellando
faceva il pellegrino di grossi bocconi: «il peggio, a parer mio,
sta nello scandalo; quasi quasi direi che senza scandalo non vi abbia
fallo: allorchè gli uomini non veggono, anche Dio chiude un occhio,
e lascia fare...»

«Scellerato pensiero! se il grido della tua coscienza ti assicura,
pensi che ti sconforterà quello della gente? Il cedro del libano
piega sotto l'impeto della bufera, ma non si spezza.»

«Sì come, bel Cavaliere, è impossibile,--continuando a
parlare con gli esempii,--che un bottigliere correndo a gran corso con
la coppa piena fino all'orlo non lasci cadere alcuna stilla, così
riesce quasi impossibile all'uomo di mantenere l'anima bianca fino
alla fossa; ora poi siccome non dannereste il bottigliere di celare il
difetto della tazza, così non potete dannare l'uomo che nasconde il
pezzo d'anima fatto nero con la parte rimasta bianca. Con l'arte e con
l'inganno--si vive mezzo l'anno; con l'inganno e con l'arte--si vive
l'altra parte,--come diceva il poeta.»

E avrebbe continuato, se non che in quel punto entrò l'oste, che
portava a Rogiero il cibo richiesto: nè io starò a dire in che
consistesse, nè come fosse accomodato, perchè vado affatto
ignorante dell'arte della cucina, e per me Apicio potrebbe dormire
mille anni sopra di un lato, che non lo farei certo, risvegliandolo,
giacere su l'altro; e in questa, come in ogni altra cosa, converrà
cedere la mano al Romanziere scozzese: basterà accertare che il
presentimento di Rogiero non rimase deluso, e che in tempo di sua vita
non aveva fatto pasto meno gradito, nè più lodato.

«Nol dico per vantazione, chè superbia è troppo brutto
peccato,» favellava l'oste «ma andate all'Aquila d'oro se volete
gustare di questi camangiaretti; andate all'Orso bianco: Santo Menna
glorioso! lì sì che si può dire che danno il pane con la
balestra. E il vino? oh! pel vino vi giuro che può averlo uguale il
Re Manfredi. Filippello di Faggiano, mio parente, che ha servito in
corte tanti anni, mi assicurava un giorno che pareano fratelli; nè
a casa mia si fa pagare, come altrove, quattro tarì la misura,
perchè poveri ormai dobbiamo rimanere, ma col santo timore di Dio:
io per me lo compro a tre tarì e mezzo, e lo vendo tre e tre
quarti; guadagnerò poco in questo mondo, pazienza! salverò
l'anima in quell'altro; tanto, in questo siamo pellegrini, come dice
Frate Giocondo, e di là dobbiamo dimorare degli anni più di
millanta: mi hanno assicurato, bel Cavaliere, che la pena degli osti
nell'Inferno sarà di stare sommersi nell'acqua che hanno mescolato
nel vino; pensate quante pertiche sotto vi starà l'oste dell'Aquila
d'oro! davvero che me ne duole per lui, che ha famiglia; quello poi
dell'Orso bianco credo che quando anche gli fosse concessa licenza di
tornarsene a galla consumerebbe l'eternità per la via.»

L'oste, mentre così discorreva, aveva spiegato una meschina
tovaglietta, e l'andava assettando sopra la tavola, la qual cosa
vedendo il nostro pellegrino, vôlto a Rogiero favellava: «Bel
Cavaliere, se Dio vi aiuti, qualora vogliate godere della nostra
compagnia, io non vi sarò scortese come già voi lo foste con me;
venite francamente, io mi restringerò da un lato, e spero farvi
tanto luogo da potervi sedere.»

«Quando anche» gli rispondeva Rogiero, guardandolo traverso,
«tu tenessi ad una mensa il posto del cane, ed io mi dovessi sedere
nella scranna del Barone che gli getta l'ossa, aborrirei di sedermi a
quella mensa.»

«Questa è da valente uomo. Messere,» parlò l'oste,
fingendo di prender le parti di Rogiero; «ciò si chiama rendere
tre pani per coppia, e vino dolce per malvagìa; tanto sa altri
quanto altri, pellegrino, e così avviene sempre a coloro che
cercano migliore pane che di grano.»

«L'ho io offeso offrendo di fargli largo alla mia mensa?»
soggiungeva il pellegrino; «e deriva dai tempi vecchi l'esempio di
colui ch'ebbe morsa la mano per dare del pane al mastino; nondimeno
che cosa insegna il Maestro? Se alcuno ti chiede il farsetto, e tu
dàgli anche il mantello; se tale altro ti percuote la guancia
destra, e tu gli presenta la sinistra perchè ti percuota anche
quella;--però ti perdono.»

«Da vero! Provami come potresti fare altramente, allora forse ti
saprò grado del tuo perdono.»

«Spesso» affermava il pellegrino, ficcando addosso a Rogiero
certi occhi maligni quanto quelli della vipera, «una scintilla arse
castelli e abbazie; spesso un verme guastò la più alta querce
della montagna.»

«Comincia a tacere, se vuoi ch'io ti stimi onesto; se in te fosse
ombra di virtù, vanteresti meno te stesso.»

«Questa non è buona ragione; la lode in bocca propria può
essere difetto, ma non esclude la qualità lodata.»

«Io giuro che se tu avessi la potenza della favilla, arderesti: sei
un rettile fiaccato sopra la vita...»

«Sono uomo--che sovente è impedito nel fare il bene quando
vuole, ma che sa fare il male quando anche non vuole.»

«La notte nella quale senza vederti in faccia, dal suono della
voce, ti dissi scellerato, per certo non m'ingannò l'intelletto;
tuttavia non conobbi allora, nè posso conoscere adesso, di quale
specie sia cotesta tua iniquità: io non so se tu sii malvagio
stolto, o malvagio sapiente, se per arte, o per natura; tu mi
apparisci come un sembiante truce mezzo coperto dal mantello, come uno
spettro più che metà confuso nel buio; ogni tuo sguardo porta
affanno; ogni parola, trafitta nel cuore: s'è vero che vivono
serpenti, di cui il fiato ha valore d'irrigidire i sentimenti, tu ne
sei certamente uno in forma di uomo.»

«Cavaliere, se la esaltazione del sangue derivata da _finta
sventura_ vi rese una volta facile all'oltraggio, e me per compassione
paziente a soffrire, pensate che non sempre a voi sarà dato
oltraggiare, quantunque in me non sia per venire meno la virtù di
tollerare. V'è un occhio che vede i torti del debole, e una mano
che gli ripara.»

«Ch'io la vegga una volta.»

«Potreste sostenerne la vista? Ella vive quantunque nascosta: il
fulmine _da man celata scende_.»

Il suono col quale il pellegrino discorreva queste ultime parole fu
talmente diverso da quello adoperato finora, che Rogiero lasciò cadersi
come spasimato col capo sopra la tavola. Al punto stesso il pellegrino
accennando con gli occhi e con la persona a due dei suoi compagni, fece
sì che si levassero in piedi, e andassero prestissimi a situarsi ai
lati della tavola di Rogiero. L'oste si pose le mani dietro, e veduta la
mala parata si trasse piano piano verso la porta. Nessuno fiatava: per ben
dieci minuti ogni cosa fu cheta; alla fine Rogiero prese a mormorare
bassamente: «Egli è desso,--l'uomo fatale,--l'istrumento del
destino.--L'anima non ha accolto la sua voce col medesimo terrore? Non si
è congelato il sangue, i polsi rimasti?» E poi proseguiva con forza
maggiore: «Egli è desso!» Appena proferite queste parole, chiuse
le pugna, tese le braccia, tutti i muscoli del volto compresse, come se
riunisse ogni virtù per non soccombere sotto un dolore, e le ripetè
più volte: «Fosse un demonio incarnato, sprofonderemo insieme
nel fuoco penace, perchè io me gli avvinghierò alla cintura,
nè il lascerò finchè non mi abbia reso ragione del suo fiero
perseguitarmi,--del suo ingannarmi. Scellerato! io non l'offendeva
mai, mai più lo aveva visto, ed ei mi ha voluto far perdere lo
intelletto,--mi ha avvelenato la vita;--ma lo stolto me ne ha lasciata
tanta da dargli la morte,.... e se sei tale da soffrirla, ora la
soffrirai.»

Dava un calcio alla tavola, e cibo, bevanda, stoviglie, ogni cosa
gettava rovesciata sul pavimento: sorgeva; aveva la guardatura
terribile, il viso acceso, la persona in atto di offendere. Guai al
pellegrino, se lo avesse giunto, che non avrebbe avuto altro bisogno
di medico per finire la vita. I due ribaldi che gli s'erano messi
allato lo presero per le braccia e pel petto, dicendogli: «Dove,
Messere?»

«Con voi non ho nulla.... scostatevi.... lasciatemi, chè devo
ricambiare alcune parole con quel demonio là.»

«E gliele potrete dire da questa distanza, così bene che da
presso; per quello che pare non avete lasciato la lingua al
beccaio.»

«No,--no:--è forza ch'io gli stia vicino.... lasciatemi, vi
dico,» e scotevasi «lasciatemi.... vi comando.... vi prego.»

«Non vi accostate, Cavaliere, che vi farò mal giuoco; non sapete
che il Diavolo scotta? Eh! dico, Puccio, tienlo sodo,--e tu
Giannozzo,...»

«Ingégnati pure, se sai; ma converrà che tu mi dica per qual
ragione da più mesi m'inciti alla vendetta di un uomo che non era
mio padre.... dimmi.... dimmi, perchè mi hai spinto al delitto?»

Rogiero, per una convulsione di rabbia, raddoppiando la forza, si
adopra svincolarsi dai ribaldi e gittarsi sul pellegrino: quelli
però che troppo bene lo tenevano, nol lasciarono andare; tuttavia,
mal potendo resistere all'impeto, lo seguitavano strascinati. Il
pellegrino, di tanto baldanzoso che era, divenuto a un tratto
avvilito, dato un urto alla tavola, si mette a fuggire: la tavola si
rovescia come quella di Rogiero,--e qui pure, sottosopra ogni
cosa:--forse l'impeto della paura fu violento quanto quello del
furore;--forse erano poste in bilico a bella posta dall'ostiere,
affinchè al primo urto cadessero, e così avesse occasione di
farsi pagare per nuovo tutto ciò che vi stava sopra imbandito.

«Bel modo davvero di acquistar le grazie del Signore,
ghiottoni!» urlava il pellegrino avvolgendosi per la stanza;
«tenetelo, sciagurati che siete; non vedete che se vi fugge ci
strangola quanti siamo?»

«Che sciupinío!» gridava per altra parte l'oste, «che
sciupinío! Vergine addolorata! poveri miei stovigli che aveva
comprati belli e lucenti alla fiera di Piscitella!--mi avete guasta la
dozzina, signori:--chi paga? ehi! chi rompe paga.... chi paga?...»

«Mi fate forza!» gridava a sua posta Rogiero «che è
questo?... tanto ch'io possa riprendere la spada.... iniqui! al
tradimento!... al tradimento!»

«Va,» ordinò un ribaldo all'oste «va, e recaci quante
corde hai in cucina....»

«Ma questo non entra....»

«Che? Párti che ti abbiamo fatto guasto per uno agostaro? quando
anche ti abbruciassimo la casa con te e la tua famiglia dentro, il
danno non potrebbe sommare a tanto.»

«Ecco che le mie profezie diventano vere,» riprese un altro
ribaldo; «se fino da bel principio lo aveste assuefatto, secondo il
mio avviso, a dargli del bastone sul capo per pagamento, non farebbe
oggi dell'indiscreto:--va su tosto, furfante, a prendere le funi.»

«Considerate.... vedete....»

«Se rispondi anche una parola,» minacciava col pugnale il
ribaldo «giuro per l'anima di mio padre, che non risponderai in
appresso a nessuna dimanda che ti sia fatta in questo mondo.»

L'oste muovendo la bocca, come se gustasse alcuna cosa acerba, partiva
immediatamente. Intanto Rogiero faceva l'estremo di sua possa per
liberarsi; si aiutava con le mani, co' piedi, co' denti; quei che
percosse sentirono dolore anche il giorno appresso; cacciava
acutissime strida: con forza e destrezza maravigliose, sovente
abbattuto, col peso di un uomo sul corpo, lo mise sotto, e si
rilevò calpestandogli il petto; faceva uno schiamazzo, un rovinio
da potersi sentire a mezzo miglio d'attorno. In questa tornava l'oste,
smarrito nel sembiante, con corde in mano, gridando: «Gente! gente!
a questa volta.»

Un ribaldo porse il capo alla finestra, e lo ritrasse pronunziando una
fiera bestemmia.

Si udiva il rumore di mano in mano avvicinarsi, allorchè l'oste
prese a dire a voce alta: «Lasciate questo Cavaliere, egli è in
casa mia, e deve starci sicuro come in Chiesa: se vi ha fatto torto,
aspettatelo fuori:--che è questo venire in tanti contro uno?--che
soperchieria!--che assassinamento!--giuro al corpo.... al
sangue....»

I ribaldi gli risero in volto; il pellegrino che conobbe l'arte
dell'oste, gli disse: «Senti, Pierone, credi che ti mancheranno
delitti per andare alla forca celando quest'uno? Tu hai avuto uno
agostaro onde prestarci la tua opera per imprigionare questo
Cavaliere, se fosse capitato in tua casa; eccotene un altro: il modo
con che getto i danari, ti faccia persuaso che non ispendo dei miei.
Colui che mi ha comandato di arrestarlo, è tale che può farti
impiccare per avere pôrto da bere ad uno assetato. Hai inteso? fa
senno, se non vuoi che qui dentro venga la bara prima che sia
molto.»

La gente, come cosa matta, inondava la stanza;--erano vassalli del
vicinato, tratti al rumore:--domandarono che cosa fosse accaduto, come
stesse la bisogna, e intanto alcuni si portavano a liberare Rogiero:
se si fosse taciuto, lo avrebbero per certo tolto dalle mani di quei
ribaldi; ma vedendo il pellegrino che tentava nascondersi nella calca
e fuggire, non potè tenersi dal gridare, accennandolo: «Prendete
quel serpente, quel demonio là; sono mesi e mesi che mi
perseguita!»

Tutti gli occhi si voltarono da quel lato. Il pellegrino, conoscendo
non potersi celare, si fece oltre arditamente, e vôlto ai più
vecchi, giungendo le mani e sollevando gli occhi umidi di lagrime,
favellava: «O Signore, ben sei misericordioso e sapiente in ogni
opera tua, così che quello che ci mandi deve essere tutto bene,
quantunque ci si offra sotto la forma del male; pure per le preghiere
di questi Fedeli, per quelle di me peccatore, ti piaccia liberare
quella povera carne battezzata» e mostrava il Cavaliere «da
tanta tribolazione; vedi, come lo travaglia il nemico del genere
umano; vedi, come esulta della vittoria l'angiolo maledetto...»

«Ah traditore!» gridava con quanto aveva in canna Rogiero
«lascia che io mi ti accosti, e vedrai chi di noi due sia
indemoniato...»

«Deh! vedete, fratelli,» senza dargli mente continuava il
pellegrino «a che mena il peccato; divenite savii dall'esempio
altrui, frequentate i sacramenti, digiunate, vigilate, perchè il
tentatore sta sempre alle velette...»

«È indemoniato?» urlava la gente accorsa, tutta atterrita.

«Iniqui!... stolti!...» con la spuma alla bocca urlava il mal
capitato Rogiero, e avventavasi digrignando i denti.

«Tenetelo forte, fratelli, ma con carità, che sebbene
indemoniato, egli è pur sempre Cristiano; tenetelo,--a
voi,--legatelo per amore di Dio:--considerate, fratelli, la
malignità del Demonio, che lo spinge contro me perchè sono
prete. Lui misero, se mi percuotesse! chè incorrerebbe súbito
nella scomunica _lata_;--il Canone parla chiaro: _Si quis suadente
Diabulo huius sacrilegii realum incurrerit, quod clericum, vel
monachum, etc._»

La gente, che era accorsa con tanto grave aspetto di fierezza da
prendere di primo assalto un castello, adesso non osava accostarsi; si
segnava,--susurrava preghiere; alla più parte non sarebbe parso
vero rimanere lontana; altri pianamente presero l'uscio, e rifecero i
passi. I vecchi pregavano; le vecchie, incapaci di sentire
compassione, toglievano motivo dall'energumeno che credevano avere
sottocchio, per favellare di tutti gl'indemoniati che avevano veduto
ai giorni loro nel circondario della Parrocchia; i giovani ora
guardavano i padri, ora Rogiero, il quale pareva loro che avesse assai
motivo di montare così su le furie per essere tanto villanamente
legato; pure timorosi di mal fare tacevano, ammirando la gravità
delle ciglia paterne; le donzelle, sia buona natura che svapora in
proporzione che gli anni si accrescono, sia, come credo, debolezza,
gli si facevano sopra tutti gli altri vicino, e:--«Poveretto!»
dicevano,--«peccato! che sarebbe pur bello! Oh! se potesse
riacquistare la salute, darei il cappello che lo zio prete mi portò
dalla fiera!»--«Ed io il guarnellino dalle feste.»--«Oh!
sì, giusto si muove co' cappelli e co' guarnellini la misericordia
di Dio!»--parlò con voce soave una fanciullina, che pareva uno
angioletto,--«preghiamolo di cuore, e forse ci ascolterà; è
tanto buono, mi ha detto la mamma, e noi lo preghiamo di fare cosa
buona, dunque ci ascolterà.»--E le altre giovanette, seguendo il
consiglio, pregarono, e fervorosamente, per l'infelice:--ma l'infelice
non doveva essere sollevato. Rogiero le guardò:--belle le aveva
fatte la Natura, più belle le faceva quell'atto di preghiera; egli
era nato per queste sensazioni; dette un gemito, e gli parve di
sentirsi confortato da lungo riposo; per alcuni istanti non vide che a
traverso le lacrime le quali gli ingombravano gli occhi: già stava
per parlare pacato più che non soleva, e coloro che lo tenevano lo
avrebbero volentieri lasciato a patto di salvare la vita, allorchè
quel pellegrino, che conobbe il pericolo della situazione, si mise a
predicare: «Non v'inganni questa apparente tranquillità,
fratelli;--oste, porgetemi l'acqua benedetta;--osservate, signori,
quanta sia la malignità dello spirito infernale, che mostra di
ritirarsi al punto di sentirsi vinto; vedrete come è per
iscontorcersi allo spruzzo dell'acqua santa.» E presa dell'acqua,
la gittava nel volto a Rogiero: «_Ne reminiscaris, Domine, delicta
nostra, neque vindictam sumas de peccatis nostris_: dite il _Pater
noster_.»

«Uccidetelo,» fuori di senno esclamava Rogiero «trapassate
quel Longino, quel feritore dei costati innocenti....»

«_Et ne nos inducas in tentationem_.»

«_Sed libera nos a malo_.»

«_Amen. Oremus_...» ripeteva il pellegrino.

«Ah! questo non può sopportarsi!» gridò furiosamente
Rogiero, e voleva fuggire dalle mani di quei carnefici, e uccidere od
essere ucciso. Il suo stato è più agevole immaginare che dire;
forse alcuno potrebbe formarsene idea, sapendo che molti di coloro che
passavano per valorosi fuggirono via, facendosi grandi segni di croce.
Oggimai aveva esaurito ogni genere d'imprecazione che la mente offesa
può cacciare in bocca al disperato, e il finto pellegrino con
_empio abuso_ messo in opera più volte i santi esorcismi, nè il
Demonio se ne andava, perchè non v'era. I ribaldi volgevano di
tanto in tanto gli sguardi alla porta per vedere se la calca
diradasse, e darsela a gambe: ell'era di fatti assai diminuita, pure
la rimasta dava tuttavia da pensare. L'oste in quel caso parlò al
pellegrino le seguenti parole: «Messer pellegrino, voi come cherico
sapete meglio di me, che per esorcizzare i demonii non basta la
santità della vita, che si richiede anche la facoltà della
grazia;--voi forse avrete ricevuto il potere di cacciare i demonii
minori, e questo sarà certamente sopra le vostre forze.»

Il pellegrino si morse il labbro inferiore in pena di non avere
immaginato egli primo codesto espediente; nondimeno pensò
valersene, e in vista dimessa riprendeva: «Ecco, che la polvere
aveva dimenticato la sua umiltà, e Dio ha punito la sua
presunzione. E chi sono io povero peccatore da volere imprendere
miracoli concessi solamente ai Santi del Signore? Chi, per omettere le
sacre cirimonie, la stola, e le altre cose, che si richiedono
all'ufficio dell'Esorcista? Fratelli, si vuole una grazia maggiore
della mia onde liberare questo tribolato; sarebbe mio consiglio
condurlo in parte dove se gli potessero applicare addosso Reliquie dei
Santi, e Agnus-Dei.»

Finite che ebbe queste parole il perfido pellegrino, la plebe grossa
cominciò a gridare: «Meniamolo a Sant'Agata, sul corpo di Santo
Menna:--ha fatto tanti miracoli, perchè non farà anche questo?»

«A Sant'Agata!--a Sant'Agata!» ripeterono tutti; e se i ribaldi lo
gridassero di cuore non è da dirsi, imperciocchè ad ognuno di loro
paresse sentire la stretta del capestro alla gola. Tolsero di peso
l'infelice giovane per piena dello affanno caduto in deliquio; ed
esclamando: «Largo, Cristiani, in carità, largo all'energumeno;»--e
unendo alla voce violentissime spinte, giunsero a passare la porta.
L'oste in bella maniera si era tratto nel canto dove Rogiero aveva
lasciato le armi e la più grave armatura, e mentre che i muscoli della
sua bocca erano impiegati ad articolare _carità_, il suo cervello
pensava:--se quei furfanti non si rammentassero di queste armi, a ridurle
in oro ho piuttosto avanzato che rimesso all'avventura:--tanto è vero
che perdita altrui fa guadagno.--Uno dei ribaldi al punto di uscire dalla
stanza si volse, e gelò il corso di quei raziocinii nella mente
dell'oste; forse, se la folla non gli si fosse di súbito chiusa alle
spalle, sarebbe tornato per l'armatura: l'oste lo vide trapassare la
soglia con la gioia di un condannato che su la scala del patibolo ascolta
la grazia; spiegò quelle mani che di per sè sole davano idea della
rapina, e le stese, tremanti per la certezza del guadagno, su l'armatura;
poi con passi obliqui, la testa in giro, affatto simile al gatto che ha
rubato il pesce in cucina, traversò velocissimo la stanza, e andò a
nasconderla sotto il carbone.

I ribaldi che tenevano presta pel ratto di Rogiero una lettiga sopra
due buoni cavalli, ve lo chiusero dentro, ed essi pure montati su i
loro ronzini presero da prima con passi soavi la via di Sant'Agata dei
Goti.

Ormai la città appariva vicina, nè la calca diminuiva, e il
pellegrino non amava di entrare là dentro; aveva per via pensato
qualche nuovo accorgimento, ma nessuno gli era sembrato buono da
praticarsi: costretto di adoperarne uno, chiamava a sè alcuni
più vecchi della compagnia, e diceva loro: «Io ho pensato,
fratelli, di condurre il povero ossesso a Benevento.»

«Oh! perchè questo, santo pellegrino?»

«Perchè costà vi si adora la immagine di Santa Maria della
Pace, che pare fatta a posta per questi miracoli.»

«Pellegrino, a quel che vedo non avete visitato ancora la Chiesa di
Santo Menna, e non sapete che ogni anno i Frati sono costretti di
rimuovere i voti dal chiostro, e appiccarli nel refettorio.»

«Sì bene, fratello; _ma_ alla fin fine Santo Menna è Santo
normanno, e Maria è molto maggiore Santa che non è egli, e
madre, e sposa del Signore, come sapete.»

«Certo non vo' dire che non parliate santamente, _ma_ Santo Menna
ne ha fatti degli altri, e....»

«Potrebbe fare anche questo, eh? chi lo nega? Lasciamo i Santi,
via, e parliamo di cose umane: fratel mio, voi sapete meglio di me,
che Sant'Agata fa Vescovo, e Benevento Arcivescovo; ora nella
gerarchia ecclesiastica l'Arcivescovo può molto maggiori cose del
Vescovo: e poniamo che a quello riuscisse, a questo no, ditemi,
fratello, non vi rimorderebbe la coscienza di averlo così trasmesso
da Erode a Pilato?»

«Voi parlate santamente; _ma_ Santo Menna ne ha fatti degli altri,
e....»

«Ne farà degli altri ancora,--chi lo nega? E' bisognerebbe non
essere Cristiani per negarlo: _ma_ che dice il Profeta?--_Onagrus
silvester, intelligis ne, me velle ducere illum in ore leonis.... in
capite draconis._»

Il povero uomo, fulminato da quel latino, non osò aggiungere motto:
l'_ore leonis_, il _capite draconis_, lo avevano fatto abbrividire
dentro e fuori;--si nascondeva tra la folla.--Subitamente la
nuovità che non si andava più a Sant'Agata si sparse tra la
gente, onde la più parte prese a sbandarsi, e a tornare donde era
venuta; a mano a mano che avanzavano per la strada di Benevento, e si
lasciavano alle spalle Sant'Agata, alcuni altri drappelletti
cominciarono a seguire più lentamente i ribaldi, poi a riposarsi,
poi a voltarsi verso casa; la comitiva si struggeva come pezzo di tela
destinata a farne fila sotto le dita della vecchia. La notte adesso
confondeva le cose, e di punto in punto insisteva con tenebre sempre
crescenti, allorchè i ribaldi considerando che alcuni pochi giovani
gli seguitavano, i quali volentieri avrebbero fatta altra cosa che
camminare così a piedi, di notte, quindici e più miglia di paese
montuoso, se non fossero state le amanze loro che si erano fitto in
testa di voler vedere la fine di quel caso, deliberarono di essere
affatto soli, e in questo pensiero, senza porre tempo tra mezzo,
voltati i cavalli, si cacciarono tra quelli, menando di buoni colpi a
destra e a sinistra col manico delle partigiane.

«Via, vassalli, via, villani!» urlavano tra le percosse «a
casa, chè l'ora si fa tarda, e lunga la via; a casa, chè dimani
la rugiada dee piovervi su la testa.»

Già que' vassalli, come abbiamo detto, avevano più che voglia di
ritornare; ora poi che vi si aggiungeva tanto persuasivo argomento,
pensisi se levassero le gambe, e mostrassero le suola: e' vi so dire,
che chi corre, corre; ma chi fugge, vola; perchè tutto di un fiato
arrivarono a casa, dove molte novelle raccontarono vere, moltissime
false; e volevano armarsi, seguitare i ribaldi, e prenderne vendetta
da incidersi in pietra, e da rammentarsi di lì a mille anni. Un
vecchio però essendosi levato in piedi, fece loro osservare,
ch'essi dovevano sentirsi stanchi, e aveano due gambe, mentre i
ribaldi fuggivano con quattro; onde il meglio, a parer suo, era
andarsene a dormire per sorgere alla dimane freschi e riposati, e
così perseguitarli con più frutto. I giovani si guardarono l'un
l'altro nel volto, nè aggiunsero motto; dopo quello sguardo però
si accinsero a deporre sotto le lenzuola le parole e i pensieri di
sangue.




CAPITOLO VENTESIMO.

LA CONGIURA.

                Da chi mi fido guardami, Dio;
                Da chi non mi fido mi guardar io
                              ISCRIZIONE _nei Piombi di Venezia_


«Chi mi soccorre?» languido richiedeva Rogiero, rinvenendo dal
lungo deliquio; «chi mi soccorre?»

Nessuno rispondeva alla pietosa domanda. Lo sventurato stette prosteso
senza ardimento di aprire gli occhi, come colui che si avvisava di
schiuderli a nuovi dolori: già troppi erano i sofferti;--se
avessero avuto forma di cosa che si tocca, se fossero stati fuori di
lui, avrebbe avuto coraggio di levarsi, e stringersi con essi a
mortale combattimento; ma vivevano tormentando giù nel profondo,
nè egli si sentiva forza di soffocarli là dentro, e l'anima con
loro: inerte gemeva sotto lo insopportabile peso, e quantunque il
pensiero rifuggisse dal distinguere la serie dei casi avvenuti,
nondimeno lo spasimo di tutti gli gravitàva sul capo. Per la terza
volta, e con voce più sonora ripeteva: «Chi mi soccorre?» La
voce si perdè lontana, senza però che trovasse nello spazio
percorso nessuno ente compassionevole, che valesse a rompere lo
spaventoso silenzio: allora sollevò lento le palpebre,--da per
tutto buio;--stese le mani all'intorno,--le agitava nel vano.

«Potevano uccidermi, ma la morte parve poco ai feroci:--eserciti
prima la sua tirannide l'angoscia del corpo,--la eserciti più
affannosa l'angoscia dello spirito,--si uniscano le angoscie delle
quali mi circondò la Natura a quelle che mi hanno apportato i miei
simili, e trionfino... a poco a poco però,--non sia trafugato un
atomo a quello che devo soffrire; ogni trafitta abbia il suo
grido,--non si confondano,--stieno distinte,--ogni puntura il suo
spasimo,--muoriamo intera la morte... questo è veramente da
uomini!»

Piegava la faccia, e mormorava fiere parole. Dopo assai tempo tentò
il luogo di nuovo: questa volta le mani s'incontrarono in qualche
oggetto; lo prese,--era un osso di morto,--se lo strinse al petto come
uno amico, lo palpò per ogni lato con la gioia della madre che va
lisciando i bei capelli del primo frutto di amore; poi la mano gli
cadde giù abbandonata, e la bocca consentendo a quell'atto di
tristezza susurrava: «Già!--le ossa della vittima saranno
sepoltura alle ossa della vittima!» e dopo ritoccando l'osso:
«Forse tu fosti più infelice di me, chè l'unica cosa concessa
ai mortali senza misura, che possono percorrere senza fine, è
l'amarezza... presente degno di lui che lo ha dato, e di noi, che lo
dovevamo patire:--forse tu avevi padre, che versò lacrime molte, e
non sopra la cenere del suo figlio; forse madre, che andò insana
cercandoti di cimiterio in cimiterio per dire una preghiera su la tua
fossa, nè la rinvenne....»

Certo questa meditazione si addentrò più oltre nelle viscere, se
non che fu di tanto travaglio, che le labbra non la poterono
altramente articolare. All'improvviso percuotendosi la fronte
aggiungeva: «Ed io non avrò Yole?--se sopravvive....» Non
aveva ancora finito, che la tempesta scoppiò sul castello: egli
giunse le mani, e le alzava supplichevole al cielo; poi, quasi
stimasse quell'atto mal conveniente, sorgeva per prostrarsi; le sue
ginocchia percossero sopra il petto di uno scheletro, e le costole gli
si spezzarono sotto con tale scricchiolio, che parve lamento; nè
per questo mutò luogo, anzi togliendo occasione dal caso si pose a
scongiurare: «O forza che distruggi, intendi una volta il mio
voto,--voto di creatura vicina ad esser distrutta, proferito su
l'altare della distruzione: l'esperimento dei secoli ti ammaestra, che
la terra invecchia di anni, e d'infamia; che più schifoso di figlio
in figlio si trasmette il retaggio della colpa; che ormai non v'ha
luogo innocente ove il giusto potesse far la preghiera, non pietra che
non abbia sostenuto la testa di un trafitto, non zolla che non sia
sparsa di sangue invendicato; illumina la luce le stragi manifeste,
nascondono le tenebre la perfidia occulta: tutti a nostra posta siamo
destinati ad esser traditi, e traditori.... Se la donna, che con la
prima colpa chiamò sopra il suo capo e sul nostro la morte, fosse
risuscitata alla vita, e dalla sponda del sepolcro vedesse i fatti dei
feroci che uscirono dal suo fianco, si coprirebbe spaventata con la
lapide invocando di morire un'altra volta. Già i nostri padri
convennero in campi scellerati a trarre diletto dalla _soffrente
natura_¹, e applausero a fraterni omicidi; ma i nostri padri furono
detti barbari: raguna dunque, tu che lo puoi, tutte le tue tempeste in
un punto; abbandonati nel tuo furore sopra la creazione,--tra i
frantumi dei mondi che la sovrastano sia sepolta la terra,---distruggi
l'uomo, e la sua memoria;--il solo momento nel quale ti potremo lodare
sarà quando la vita, che muore accolta su l'estreme labbra, aspetta
un sospiro per volare là dove stanno le vite che devono
nascere;² e se non puoi sopportare sola la tua eternità, e se
godi ad essere esaltata nelle preghiere, e negl'incensi, deh! non
creare, ti scongiuro, non creare più la belva che ha la
ragione....»

  ¹  Potè a l'alte patrizie,
     Come alla plebe oscura,
     Giocoso dar solletico
     La soffrente natura.--PARINI, _Ode a Silvia_.

  ²  Quæris quo jaceas post obitum loco?
     Quo non nata jacent.--SENECA, _Troas, char., A._ 2.

Riferiremo più innanzi le parole di quel travagliato? Noi pensiamo
che già troppe sieno le riferite per dimostrare quanto la sua
niente aberrasse dal dritto cammino, e come angustiato da soverchio
dolore, divenuto cieco dell'intelletto, trascorresse con empio, o, per
dire più rettamente, con istolto consiglio, a bestemmiare più
tosto che a supplicare quel solo che potea sovvenirlo.

Poichè ebbe consumato le querele, si pose di nuovo a giacere sul
terreno, e disperatamente tranquillo stette ad aspettare la morte.
Così trapassarono di molte ore, allorchè un mormorio confuso
percosse il giacente, e lo fece balzare da terra, e porgere le
orecchie in ascolto; gli parve che non fosse lontano, e si partisse
dall'alto: «Forse non è che dentro il mio capo!» esclamò
Rogiero, e si toccò la fronte: ma la fronte sentì fredda: si
pose con maggiore attenzione in ascolto;--e' v'era certo un sussurro.
Sorgeva brancolando con le mani tese, tentando con un piede il
terreno, mentre su l'altro appoggiava la gravità del corpo; si
dirigeva là, d'onde gli era sembrato che il rumore derivasse: in
proporzione, che si accostava, il sussurro cresceva, e sembrava di
voci umane, sebbene le parole non suonassero distinte; s'inoltrava
più ardito;--adesso cominciava a diminuire;--rifece i passi, e
mise ogni attenzione a conoscere il luogo: instando nella ricerca, gli
venne fatto trovare ch'ei passava di sotto a certa scala, che
appoggiata sopra un mezzo arco toglieva principio dalla parte
superiore dell'edifizio, distendendosi per assai lungo tratto sul
pavimento della carcere. Eccolo a piè della scala;--ell'era
angustissima, e senza sponde;--saliva cauto esplorando con le mani;
trovò a capo di quella un ponticello, anch'esso senza sponda, sul
quale essendosi spinto alla ventura entrò in certo corridore, che
lo condusse avanti una porta, fortemente sprangata: pareva che fosse
notte, perchè dalle fessure della porta veniva tal luce di legno
infiammato, che i suoi occhi assuefatti al buio non poterono da prima
sostenere; spiando il luogo donde meglio osservare, trovò poterlo
fare a grande agio, là dove la porta mal commettendo agli stipiti
lasciava sufficiente spazio. Vide raccolte in giro circa quaranta
persone, le quali, quantunque vestite con abiti volgari, riconobbe
immediatamente, come quelle che aveva in pratica, per essere la più
parte gentiluomini del Re Manfredi: adesso stavano muti; se non che
ora questi, ora quegli, volgeva gli sguardi dubbiosi di una cotale
impazienza verso la porta che stava di faccia a quella per la quale
guardava Rogiero.

«E sì che l'ora è passata!» sovente diceva l'uno
all'altro; e a vicenda domandavano: «non fissarono a tre ore di
notte il convegno?» e rispondevano: «sì.»

Un rumore di passi parve di mano in mano avvicinarsi: i Cavalieri
fremerono; nessuno di loro rimase seduto; con gli occhi fitti su la
porta anelavano vedere chi fosse per comparire; non comparendo però
così subito, molti mostrarono un baleno di fuga, i meno trassero il
pugnale, incamminandosi risoluti, e questi furono meglio paurosi,
comunque quell'atto potesse accennare il contrario. Si schiuse la porta:
un Cavaliere bene avviluppato entro il mantello, con barbuta da soldato
in testa, si avanzò nella sala;--a considerare quello scompiglio di
paura, quei ferri levati, rise forte, aprì il mantello, si mostrò
coperto dal capo a' piedi di grave armatura, e: «Riponete i pugnali,
Baroni,» disse loro «o che ne troncherete le punte.»

«Oh! siete voi! » esclamarono tutti «non era senza ragione il
sospetto, perchè non ci avvenne mai, da questa volta in fuori,
aspettarvi, Conte.»

La voce del sopraggiunto non suonò ignota a Rogiero, che tese con
maggiore attenzione lo sguardo, e colui avvicinandosi al fuoco gli
concesse abilità di riconoscere nelle sue sembianze il Conte della
Cerra.

«Voi dite vero,» riprendeva il Conte «ma _l'uomo_ più si
avvicina agli ultimi fati, più si restringe con noi, e questa nuova
fiducia già da nessuna altra cosa può derivare se non che dalla
Provvidenza.»

«Dite santamente; Conte: dove è rimasto il vostro Signore?»

«Qual Signore?»

«Il Conte....»

«Ah! questo è ciò che stava per dirvi, Messeri: lo trattiene
_l'uomo_ per concertare con lui su le difese del Regno: io vengo in
sua vece, nobilissimi Baroni, ad esporvi lo stato delle cose; tanto
basti per ora: le disposizioni per quello che ha da nascere noi non
potremmo stabilire adesso, perchè, come ben vedete, non siamo una
volta tanti di quelli che dobbiamo essere, e manca colui che è, o
almeno si dice, nostro capo. I nostri amici convocati con i rimanenti
Baroni del Regno per la prossima assemblea giungeranno, per quello che
ho saputo raccogliere, tra questa notte e il giorno venturo; però
in questo medesimo luogo, se nessuno si oppone, potrete riunirvi, o
Messeri, la notte del posdomani.»

«Salvo malattia,» risposero i congiurati «vi promettiamo
intervenire.»

«Or dunque importa che sappiate essere giunte le nostre lettere a
Monsignor Carlo, ed averle avute sopra ogni altra cosa gradite;
confortarci alla impresa il Pontefice, e il Conte: quegli prometterci
ogni soccorso spirituale, che a dir vero nei casi presenti non
gioverebbe gran fatto; questi prometterci i suoi eserciti per
sostenerci, e privilegii e franchigie per ricompensarci. Queste sono
le lettere che un segretissimo messo fino da ieri notte ci ha recate
di Roma: lasciamo, se vi aggrada, Baroni, quelle del Papa, sì
perchè poco rilevano, sì perchè il tempo stringe, nè posso
senza sospetto starmi troppo tempo lontano di corte: leggiamo quelle
di Monsignor Carlo.»

Nessuno potè rimanere fermo al suo posto: sospinti dalla
curiosità si affollarono intorno al Conte della Cerra, che trattesi
alquante carte di seno, e tra queste sceltane una la spiegava
leggendo: «Carlo etc. etc., ai nobili Baroni rappresentanti il
Reame di Napoli, sì come componenti una sola università, e ad
ognuno distintamente, salute. Noi non sappiamo, nobili Cavalieri, se
più con noi stessi ci dobbiamo rallegrare, o con voi, che
muovendoci l'autorità della santa Chiesa, e più la nostra
naturale affezione, al soccorso di tutti que' Cristiani, che sotto il
peso di una empia tirannide gemono miseramente avviliti, voi bene
sapeste apprezzare il vostro tristissimo stato, e la purezza delle
nostre intenzioni, onde, più tosto che a contrastarle, vi
profferite pronti per quanto sta in voi a secondarle. Nè questo sia
per suonarvi amaro, perchè sapete la servitù ammalare il cuore,
appassire la mente: voi però dotati di eccellente natura sapeste
con singolare esempio, valorosi Cavalieri, serbare, in tempi
luttuosissimi, sani ed interi ambedue. Se da prima pertanto, dovendo
noi maggiori cose compire, speravamo maggiore gratitudine ricavarne,
adesso, poichè piacque a Dio accordare i nostri pensieri, ne
conseguiremo più grande sicurezza. Qualche cosa è sempre
mestieri rimettere nella pratica degli umani casi; e poichè questo
sia decreto inevitabile, noi ci reputiamo avventurosi doverlo
rimettere di gloria nostra, piuttosto che di sangue cristiano e
tradito....»

«Queste gonfiezze» interruppe un vecchio che Rogiero non potè
riconoscere «non fanno bene all'anima, nè al corpo; e' si vede
che viene da Roma cotesta lettera, e sa di stile di Bolle.... andiamo
al buono, se vi piace, Conte Anselmo, andiamo ai patti.»

«Come vi piace:» rispondeva il Conte della Cerra, ed omettendo
due o tre pagine continuando leggeva: «Già conosce il mondo se
la Casa di Francia soglia taglieggiare i suoi vassalli, se ami, o no,
conciliarsi il rispetto del popolo, l'amore dei Baroni, la benevolenza
di tutti; sa il mondo s'ella proceda cupida dell'altrui, intemperante,
inquieta e codarda....»

«Questi sono elogi, Anselmo, non sono patti;» interrompeva di
nuovo il vecchio.

Il Conte Anselmo bisbigliando prestamente la lettera pervenne quasi
alla fine; allora, facendo distinta la voce, disse: «Ecco quello
che promette.--La nostra gratitudine non dubitate che non sia per
essere adeguata a tanto beneficio: vostre saranno lo principali
cariche del Regno, vostre le magistrature, il diritto di approvare le
leggi vostro; noi prenderemo dell'autorità quel tanto che ne
vorrete concedere, e ci chiameremo contenti; sieno le _Regalíe_
annullate, il diritto d'imporre le taglie tolto dalle prerogative
della corona, quello di diminuirle conservato. Ma non volge tempo
adesso di esporre tutte le salutari riforme, che per ricondurre la
felicità nel vostro dolce paese abbiamo immaginato; elleno saranno
quali un padre di famiglia amantissimo può concedere, quali figli
amatissimi potranno sperare.»

«Ahimè! ahimè!» esclamò per la terza volta il vecchio
«guardate, di grazia, s'ell'è spedita dalla Dateria Apostolica
_sub anulo piscatoris!_»

«Udite il fine:» con súbita stizza, che volse immediatamente
in riso, rispondeva il Cerra: «Inutile, e per avventura
ingiurioso,--_ingiurioso_--sarebbe assicurarvi il pacifico possesso
dei vostri castelli, terre e privilegii; sì bene non pure sperate,
ma abbiate per fermo, che intendiamo ampliarvi di dominii e di ogni
specie di concessioni, con le quali un figlio di Francia può
dimostrare la sua riconoscenza a fedelissimi....»

«Tregua agli sdruccioli, Conte,» disse il vecchio «e ponete
mente, di grazia, all'estrema sentenza della lettera di Carlo: ei si
sconciava all'ultimo, come sogliamo dire; a mal grado delle belle
proteste, certa cosa è che le sue intenzioni sono di spogliarci.»

«Come?» domandarono molti.

«Oh! ell'è chiara: egli afferma di volerci ampliare di dominii;
ora siccome le Baronie non le porta di Francia, si fa manifesto che
per dare altrui deve togliere altrui....»

«Barone,» interruppe Anselmo «voi fate più maligna
l'espressione di quello che suoni: parvi che voglia pensare a
togliere, sul punto che sta per acquistare un Reame?....»

«Bella ragione! o che vi dovrebbe pensare al punto che stesse per
perderlo?»

«Qualche cosa, Barone, deve darsi alla fede, qualche cosa alla
fama, qualche cosa....»

«Nulla. Quando questi» e il vecchio si toccò i capelli
«erano biondi, anche io pensava come voi dite; ma voi non dite come
pensate, perchè neanche i vostri sono neri.»

«Se la canizie non vi ha insegnato altro che a calunniare la vostra
specie, sarebbe stato meglio che voi foste rimasto calvo quando i
vostri capelli erano biondi.»

I circostanti risero al motto: il vecchio, imperturbato, lasciò che
il riso passasse, poi riprese: «Mi ha insegnato a conoscerla; mi ha
insegnato cose, che voi pure sapete, ma che celate, perchè non vi
torna manifestarle. A fine di conto, qual guarentigia propone Carlo
per la esecuzione delle cose promesse?»

«Guarentigia? Un uomo che entra pacifico in un Regno che potrebbe
conquistare, vorrà darne altre di più della sua fede?»

«Fede, e stagione, Anselmo mio, mutano col giorno; e a me non
sembra prudente correre il risico della sua volontà. Badiamo dove
mettiamo i piedi, perchè da noi si percorre una strada su la quale
ritirarci non giova; provvedasi adesso che si può, poi non sarebbe
più tempo, anzi il provvedere pericoloso, il lamentarci
ridicolo.»

«Io per me non veggo la via di scansare la ventura: quello che
soffriamo sotto _l'uomo_ è certo; quello che ci apparecchia Carlo
è anche incerto; secondo i calcoli della prudenza umana, parmi che
il caso meriti di esser tentato.»

«Così voi mi avete, Anselmo, rotto ogni ragionamento, nè io
starò a dimostrarvi, se il vostro pensiero meriti biasimo o lode.
Questi medesimi dubbii riproporrò posdimani, perchè se molto
odio _l'uomo_, molto più aborro la infamia.»

«Quella senza guadagno però.»--parlava sommesso il Conte
Anselmo. Il Cavaliere non lo intendeva, e proseguiva così:
«Intanto mi è forza gemere, non so se debba dirmi su la trista
indole della fatalità d'Italia, o su quella dei suoi cittadini, che
per liberarsi da un'antica servitù non sanno migliore modo
immaginare che una servitù nuova, e rompere una catena col ferro,
del quale se ne deve fabbricare un'altra. Quando, quando verrà il
giorno, che potremo sollevare al Creatore le braccia libere di ogni
segno oltraggioso di signoria straniera?»

«Melanconie, Barone,» riprese il Conte della Cerra
«melanconie; pensiamo a dominare; così _ab eterno_ ci ha
privilegiati Natura. Ma ora che ci penso, va bene che voi amiate la
libertà, Barone; anzi dovreste aggiungere la uguaglianza di averi:
non vi fecero vendere i vostri creditori, or fa dieci anni, il feudo
di vostra famiglia? State di buono animo, Barone; continuate a
mantenere il Principe vostro nipote nelle disposizioni favorevoli a
Monsignore di Provenza, ch'egli è tal Re da restituirvi quello che
i dadi vi hanno levato.»

«Come! voi credete?...»

«Io non credo nulla....»

«Bruci l'anima mia....»

«_Amen_. Saranno sincere le cose che esponete, ma la stagione corre
contraria. Andate persuaso, Barone, che uomini più sapienti di voi,
e di me, hanno pensato a questo: miseri! le meditazioni loro si
conchiusero in gemiti, e desiderii; le opere con volontarii esilii, o
con morti costrette.»

«Sarà quel che volete, Conte; pensate come meglio vi pare dei
miei attuali sentimenti, ma io spero di vedere quel giorno.»

«E quando lo sperate voi?»

«Quando deposta ogni privata passione, quando dimesso ogni
particolare interesse, concorderemo....»

«Allora non verrà mai per noi, perchè saremo disfatti:
levateci l'interesse da dosso; che cosa ci resterà?»

Più ed altre cose si aggiunsero per una parte e per l'altra, le
quali lasceremo sì come poco importanti al proposito. Alla fine il
Conte della Cerra, levatosi in piè, tolse il mantello, e facendo
mostra di andarsene disse ai congiurati: «Non v'ha negozio tanto
difficile in questo mondo, che tenacemente volendo, e discretamente
operando, non si conduca a buon fine. Vi tengo per salutati, Baroni;
ormai troppo sono dimorato lontano di corte per ovviare il sospetto:
spero in appresso che non vi impazienterete ad aspettarmi, Messeri;
addio, dividiamoci con le solite cautele.»

Seguiva un salutarsi circospetto; fu spento il lume, ma dal rumore dei
passi di tanto in tanto più lontano si accôrse Rogiero che si
partivano: soprastava anche un poco, e quando si fu assicurato che non
vi era più alcuno, si mise a scuotere la porta con lo sforzo di un
uomo che perduta ogni altra speranza riponga la sua salute nella
esecuzione dell'ultimo tentativo; s'ingegnò in tutti i modi;
maravigliosi, ed appena credibili, furono i suoi sforzi; pure, se
molta era la sua forza di azione, moltissima gli contrapponeva forza
d'inerzia la porta; giunse finalmente a smuoverla; questo però era
ben altro che atterrarla; per quanto avesse fatto, assai più del
doppio gli rimaneva a fare, e intanto la lena cadde consunta, lo
spossamento subentrò alla furia; dalla fronte gli scorreva sudore,
dalle mani sangue; sopraffatto dalla disperazione e dalla stanchezza,
si lasciò andare. Tornava indietro,--con qual cuore pensi chi
legge:--trapassato il corridore, e pervenuto sul ponticello, lo prese
un pensiero:--precipitarsi di sotto, e andare a spezzarsi sul
pavimento, non sarebbe dar fine ad ogni travaglio, conseguire
libertà vera e durevole? Sospeso in questa meditazione, di tanto si
approssimò all'estrema sponda, che, per poco più si fosse
inoltrato, la sua caduta non sarebbe stata in potere della
volontà.--Non così tosto però sorge nel nostro cervello un
qualche consiglio, che parimente vi si suscita il suo contrario;
ond'è, che se la passione non si prendesse la pena di determinare
l'anima incerta a quale dei due appigliarsi, ella se ne starebbe
inoperosa. Alcuni filosofi per ispiegare il fatto, poichè negli
uomini sia un furore di penetrare tutto, di spiegare tutto,
specialmente quello che non può spiegarsi nè penetrarsi, hanno
supposto entro di noi la esistenza di due diversi principii, la quale
opinione noi non sapremmo biasimare, e lodare neppure, chè
pronunciare giudizio intorno cose nè sapute nè da sapersi, la
Dio mercè, non sia nostro difetto. Senza affannarci a investigare
come il fatto avvenga, il certo è che avviene, e noi ci decidiamo
all'uno più tosto che all'altro avviso, non già per via di
scelta, ma per inclinazione della volontà precedente alla
discrepanza degli avvisi. E di vero, dove non fosse in questa maniera,
e l'elezione operasse libera, come preferiremmo il male manifesto al
bene proposto? come la vergogna al piacere? come la pratica del vizio
alle gentili discipline? Questo discorso, che a molti parrà
inutile, abbiamo fatto per la ragione che appena Rogiero ebbe pensato
a morire, un altro animo gli disse di vivere, e gli dipinse il suo
corpo deturpato da oscena ferita, il cranio spaccato, il cervello
sparso, torto il sembiante, le gambe e le braccia cionche, ogni membro
disfatto con mostruosa sconcezza, come suole avvenire a coloro che
cadendo da alto percuotono sopra le selci: si ritirava atterrito dalla
sponda del ponticello, e alla idea di essersi tanto inoltrato fremeva;
quasi per sottrarsi alla tentazione si cacciava a corsa giù per la
scala: giunto al termine, si pose a sedere su l'ultimo scalino
appoggiando la testa alle ginocchia; con le mani si abbracciava le
gambe; in questa attitudine molte cose voleva meditare, a moltissime
provvedere; pure anche per questa volta l'anima, il soffio, il fuoco,
l'ente in somma, che in noi ha facoltà di pensare, non corrispose
alla volontà; s'egli voleva costringerlo sopra una immagine
determinata, cominciava a deviare entrando sopra immagine
corrispondente sebbene diversa, e di una in un'altra procedendo si
allontanava dal soggetto; allora lo richiamava Rogiero al punto dal
quale si era partito, ma di lì a poco tornava in balía di sè
stesso: infastidito il nostro eroe di consumare nel porsi
nell'attitudine di pensare quella facoltà che doveva impiegarsi in
pensare, l'abbandonava come un cavaliere che non può ritenere il
freno del cavallo infuriato; allora si lanciò a guisa di forsennato
nei dominii della memoria, dove ogni cosa rovesciando, e confondendo,
produsse dei sogni parte ridenti di speranza, parte terribili di
spavento irreparabile; gli occhi di Rogiero si chiusero, e le sue
membra s'irrigidirono di grave letargo.

Quante ore si rimanesse in quello stato ignoriamo;--dopo un certo
tempo i nervi ottici di Rogiero, offesi da un cotal senso di dolore,
richiamavano ogni altra sua facoltà agli uffici ordinarii della
vita: non aveva però sollevato le pupille, che parvegli udire
pronunziare queste parole: «Oh Dio! quanto buio;--sperava vederlo
alla vampa delle fiamme:--or come faremo noi? Ma che non è vero
l'Inferno esser tutto pieno di fuoco?»

«Madonna,» rispondeva un'altra voce «voi non siete
all'Inferno, e qui presso sta colui che desiderate. Intanto, vi prego,
non mi stringete sì forte.»

«No, no, finchè non lo abbia trovato, io ti farò così, e
peggio, perchè tu me l'hai promesso; e voi altri uomini siete
fallaci, ed io non voglio trovarmi ingannata.»

«Santa Maria!»--gridò Rogiero aprendo gli occhi, e súbito
richiudendoli, quasi per ritenere più che gli fosse possibile una
immagine che reputava sogno;--non ritrovandola dentro di
sè,--tentò s'ella fosse veramente esterna o reale. «Santa
Maria! «--ripetè il carcerato--» è Yole quella che vedo?»

Yole, avvolta in veste candidissima e schietta, gli stava davanti;
camminava lenta; teneva il braccio destro levato stringendo un pugnale,
coll'altro preso pel petto un uomo che portava una lanterna, il quale poco
si distingueva, spargendo non so se a caso, o ad arte, tutta la luce sopra
di lei. Yole all'udire il suo nome si pose in ascolto, come persona
incerta d'essere chiamata, ma quando sentì ripeterlo un'altra volta,
rispose.--«Chi ti trattiene, Rogiero?»--e lasciò l'uomo, e il pugnale,
stendendo le braccia....

Questi erano i secondi amplessi di que' due infelici, destinati a
confortare nella travagliata loro vita con le apparenze di un bene,
che non dovevano godere, la mole dei tormenti che dovevano sopportare.
Miseri! che dopo tanti giorni di lontananza non potevano, nè
sapevano favellarsi che per via di singulti, e consolarsi che colle
lacrime sole. Stavano abbracciati; l'amore li blandiva con le lusinghe
della voluttà,--voluttà misteriosa, affatto distinta da ogni
altro desiderio. Rogiero all'improvviso vide mancare la luce;--se gli
fosse mancata la terra sotto, non se ne sarebbe accorto, tanto era
immemore di sè in quel punto; ma si accôrse, del difetto della
luce, perchè gli rapiva la vista di quel volto dal quale toglieva
conforto dei passati affanni, pe' futuri costanza. Guardò attorno
pauroso:--l'uomo che aveva scortato Yole si era pianamente fatto
discosto; adesso stava per trarre a sè la porta, lasciando con nera
perfidia i due amanti imprigionati:--si sciolse Rogiero dalle braccia
dilette, e, fosse la sua maravigliosa celerità, o più tosto la
mano del carceriere tremasse pel misfatto che stava per commettere,
giunse a tempo per impedire che la chiudesse: volle quel tristo, da
che l'opera non gli era riuscita, trovare scampo nella fuga; ma di
breve raggiunto, fu in molto dura maniera stretto alla gola
dall'inseguente Rogiero, e strascinato, anzi che condotto, di nuovo
nella prigione: qui togliendogli la lanterna di mano, e volgendogliela
al viso, riconobbe in lui il pellegrino; non disse motto; abbassando
gli occhi, gli venne fatto di vedere la lama luccicante del pugnale,
che Yole aveva lasciato cadere; lo prese, stramazzò il carceriere
per terra, gli piegò le ginocchia sul petto, gli afferrò con la
manca i capelli, con la destra si apparecchiava a rompergli la gola.
La vergine di Svevia, rimasta come stordita fino a quell'atto, si
scuote di súbito, e cacciando altissimo grido si slancia a ritenere
la mano di Rogiero, e: «Scellerato!» gli disse «pensi che io
sia per lasciarmi toccare da mani contaminate?»

Rogiero levò la faccia, e guardò Yole,--poi il carceriere,--di
nuovo Yole;--ella lasciava libera la mano dell'amante.--Rogiero
comprese l'atto, si alzò in piedi, e calpestando il tristo che
giaceva: «Vivi,» gridava «vivi a più atroci misfatti, a
morte più infame.»--Senza porre tempo tra mezzo si ripose il
pugnale nella cintura, prese le chiavi, e passando il suo nel braccio
di Yole, aggiungeva: «Vieni, bella infelice, che l'innocente può
solo trovare salute nella fuga.»

Partivano frettolosi. Il carceriere, sebbene fosse tutto rotto nella
persona, si alzava, e avventandosi alla porta gli scongiurava per Dio
che lo menassero, od altramente lo finissero, perchè rimanendo
colà sarebbe morto di fame: non lo ascoltavano; anzi Rogiero
percotendolo nel petto lo respinse indietro, e gli ultimi suoi gemiti
si confusero nel cigolío che fecero i catenacci avvolgendosi dentro
gli anelli. Di lui non racconta più oltre la istoria: molto tempo
dopo, sotto il regno di Carlo II _lo Zoppo_, essendosi demolito
quell'antico edificio per ordine del Legato della Santa Sede signora
di Benevento, furono trovati entro un sotterraneo due scheletri, uno
dei quali stringeva tuttavia co' denti parte della mano destra; certo
segno, che la fame infuriando nelle sue viscere lo aveva stretto al
miserabile bisogno di trovare alimento nelle proprie membra:--questo
supponiamo che fosse lo scheletro del carceriere.

Yole e Rogiero camminavano senza sapere dove per l'ombre della notte;
tenevano le braccia intrecciate, le mani soprammesse, senza stringere
però,--senza tremare,--in silenzio,--a passi uguali.

«Io l'ho chiamato» cominciava Yole, come se parlasse a sè
stessa, «col primo raggio della luce che nasce, avanti il saluto
del Signore; io l'ho chiamato coll'ultimo raggio del giorno che
muore.... almeno avesse risposto al bramoso domandare:--la mia vita
contristata d'ignoto dolore scorreva per una fitta caligine.... egli
mi apparve lucido come l'angiolo della grazia,--mi svelò la rovina,
e sparve come il baleno della procella.»

Sogliono gl'Italiani tutti, scaldati da troppo tepido sole, e per
altre ragioni che adesso non fa mestieri qui esporre, essere
inchinevoli nelle parole, e negli scritti loro, a certo stile figurato
che per adoperarsi in ispecial modo nelle parti di Oriente, appellano
_orientale_; principalmente poi i Napolitani ed altri abitatori delle
più calde contrade, se qualche passione, o lieta o trista, li
commuova di straordinario incitamento: però nessuno, spero, sarà
per trovare _manierato_, o _contorto_, il colloquio che tennero in
quella notte i nostri due amanti.

«Nè io» rispondeva Rogiero, e le premeva la mano di
lievissimo tocco, «nè io avrei potuto ascoltarlo: lo spazio tra
la tua bocca, e il mio cuore, occupavano la perfidia degli uomini e la
maledizione di Dio;--la maledizione di Dio, perchè la colpa mi
flagellava alla colpa, e in quel momento si sacrificava alla infamia
un'anima contaminata.»

«Quando diffonde il sole i tesori della luce, quando il firmamento
annunzia la gloria del Creatore, ti chiesi al cielo con la più
fervida prece di una anima che geme;--il cielo non ascoltava la
supplichevole. Nel turbine della notte, tra il fischio dei venti, tra
il fragore dei tuoni, con le ossa dei defunti, col sangue umano, con
sacrileghi riti, io ti chiesi.... allo Inferno,--Dio eterno, rimettimi
il peccato!--allo Inferno:--tutto fu sordo alla sventurata!»

«Me felice, in qualunque luogo mi avesse collocato la giustizia, o
la grazia, purchè libero dalla fossa delle bestie feroci, che si
chiamano uomini!»

«Dove fosse andato il tuo spirito non sapeva, ma ti lagrimava
morto: là nei giardini di castel capuano.... presso alla
fontana.... tra la porta e il viale....»

«Dove nella notte destinata....»

«Mi svelasti il tuo amore, e ti furono facili le orecchie della
vergine sveva, là deve essere un monticello di terra.... queste
mani lo inalzarono.... sopra vi sta fitta la croce, che la figlia di
mio padre, Gostanza, mi appese al collo innanzi di partire per
Arragona; quivi ogni notte io invocava l'anima tua.»

«O misera! come hai sopportato tanta giornata di dolore?»

«Come? E tu non sei stato lontano da me? non mi avevi tu pure
perduto? Se per saperlo ti fa d'uopo che io te lo dica, torna inutile
dirtelo, tu nol sapresti giammai.»

«Io ti sapeva pur viva, ma....»

«Io traboccai sotto il peso, le fibre dell'intelletto si ruppero, ed
egli imperversò senza freno per le membra scomposte: solo in questa
notte dopo un tempo assai lungo riprendo la volontà,--se pure non è
illusione,» qui strinse due volte la mano di Rogiero «e più della
gioia di esserne liberata» aggiungeva «è potente il timore di
ricadere nel delirio.»

«Oh! non dirlo, io ne morrei di dolore:--parla, bella infelice,
quale angiolo ha condotto i tuoi passi nel carcere del tuo povero
Rogiero?»

«Tutto era guasto, sana soltanto la parte che rispondeva al tuo
nome: udii Rogiero.--io non mi sovvengo più oltre.... mi svegliai
tra le tue braccia.»

«Si amavano tanto, diranno i futuri, e l'amore fu indarno....»

«Indarno!»

Rogiero non rispondeva.

«È egli amore quel tuo che abbisogna del sacramento, affinchè
non si sciolga? che cerca il suo premio nel piacere, come l'operaio la
mercede? S'egli è così fatto, tu amasti indarno.... io ebbi
tutto quello che l'amore può dare, quando le mie labbra si
accostarono alle tue.»

Rogiero, traendo soavemente il suo braccio di sotto a quello di Yole,
glielo cinse al collo; con la manca le prese la destra, e se
l'accostò alla bocca: Yole gli pose le dita della mano rimasta
libera tra il volume de' bei capelli, e mesta mesta li baciò.

«E sia questa» proseguiva «la corona dell'amore su la testa
condannata....»

«Condannata!»

«Chi sa quanti, anteponendo il guadagno al riposo, ti cercano
adesso di terra in terra! chi sa quante avide donne pregano i Santi,
affinchè i vaghi, o mariti loro, conseguano il prezzo del tuo
sangue! quante speranze, quanti timori pendono dalla tua testa! Fra
te, e la fiera del bosco, non corre altra diversità, che per te il
premio è maggiore.»

«Ahi sventura!»

«Nè alcuno ti difese, la pietà stessa tacque, la
sentenza....»

«Qual sentenza?»

«Di ribelle del Regno, di traditore del tuo Re....»

«Santa Maria!»

«Saresti innocente?»

«Posso esserlo? non sono seme di Adamo?»

«Dico del tradimento?»

«Non sono....» Yole si scostava. «Sì via, allontanati,» proseguiva
Rogiero con impeto «sprezzami tu pure, aborrimi, unisciti ai tuoi
simili.... ecco la pietra, scagliala sul misero.... tutti così! Se tu
sapessi che fu finta una vittima per vendicarla.... un colpevole per
punirlo.... una pietà di figlio.... un fratricidio.... se tu sapessi che
il destino mi costrinse con voci sconosciute, che parevano partirsi da
spiriti abitatori della terra e dell'aria.... che dirigeva i miei passi
alla colpa, come un torrente all'oceano.... che comandava fino ai miei
sogni.... vorresti, figlia della polvere, o potresti condannarmi? Oh! fosse
qui qualcheduno che scendesse nel profondo, e librasse i pensieri, e
scrutasse i cuori, e si ponesse tra i miei giudici e me; udisse le
discolpe, e facesse ragione,--chi contenderebbe alla mia anima il premio
della pazienza, chi leverebbe a costoro la pena della stoltezza? Qui
dentro» e Rogiero si toccava il seno «non giungono occhi di
carne;--il senno dell'uomo è simile alla cenere, i suoi argomenti a
mucchi di fango;¹--il giudice della terra pronunzia la sentenza con ira
perchè confonde la colpa coll'uomo, e però gli suona come inguria il
perdono,--, come offesa l'assoluzione.»

  ¹ Memoria vestra comparabitur cineri, cervices vestræ luto (_Job_, 13, 12.)

Adesso un vicino scalpitare di cavalli percuote le orecchie degli
amanti.

«Sálvati!» gridava Yole «qualunque tu sii, noi godremo
uniti in Paradiso, o ci dispereremo tra i perduti:--io muoio d'amore
per te;» e camminavano di gran passo «se ci raggiungono, io ti
difenderò.... Io! scempia!--può l'innocenza o la preghiera
intercedere presso la impassibilità della cupidigia? Gran madre di
Dio! ci hanno veduti.... senti come corrono.... ci stanno sopra....
manda, Santa Vergine, chi ci protegga;--ma il Cielo fu da me tante
volte supplicato invano, che il meglio sarà affidarci alla fuga...
chi giunge a sottrarsi all'ardore della persecuzione?--noi siamo
presi.»

«Abbi costanza!» parlò sommesso Rogiero a Yole, vedendosi
arrivato dagl'inseguenti; e come quello ch'era animoso, fattosi
innanzi alla squadra parlò: «Cavalieri, vorrestemi in cortesia
scortare alla dimora del Re, chè, se io non m'inganno, potrei
ricondurgli la figlia?»

«Sia benedetto Santo Germano!» rispose il Maestro degli
scudieri, che conduceva quella brigata, «è assai tempo che noi
la cerchiamo per tutta Benevento. Principessa, la Regina vostra
madre....»

«Oh! povera madre mia! andiamo a consolarla: come io possa
consolarla non saprei; non v'è vivente al quale io mostri la
faccia, che non chini gli occhi contristato: ella pure lo afferma;
pensate voi quali saranno i suoi spasimi, se la mia vista le dà
conforto.»

«Cavaliere, io vi tengo per salutato: Principessa....»

«No, bel Cavaliere, non posso lasciarvi andare sconosciuto; è
forza che veniate meco al palazzo reale, io non voglio defraudarvi in
nulla di ciò che la riconoscenza del mio Signore si degnerà
compartirvi.»

«Messere, io sono tale, la Dio mercè, che delle buone opere non
ho bisogno di altro guiderdone, tranne il piacere che ne deriva.»

«Ed io ve lo credo di leggieri, bel Cavaliere; ma la gratitudine
non si mostra soltanto con le gioie e con gli ori....»

«Nondimeno....»

«Egli è impossibile....»

«Ma....»

«Ve ne prego in cortesia.... non ricusate; salite il mio destriero,
ch'io per me devo accompagnare la Principessa, nè potrei
convenientemente tôrla in groppa.»

Rogiero, considerando che dalla insistenza male gliene sarebbe potuto
derivare, seguiva il consiglio del Maestro, il quale ordinò alla
sua gente che per alcuno spazio si allontanassero. Così andarono
forse cento passi, allorchè la mente di Yole, ripensando ai tanti
casi avvenuti in breve ora, nè potendone sostenere la intensità,
nè spiegare come avessero avuto principio, tornò sul vaneggiare
più ferocemente di prima.

«Maligno!» diceva al Maestro che la menava «tu mi hai
ingannata con le belle parole; tu mi conduci a vederne il supplizio;
non poteva morire senza di me? che giova questo incremento di
crudeltà? non parli,--ti confondi;--non sai difenderti?--Non ti
chiedo la sua vita, perchè è consacrata alla tua avarizia....
solo non condurmi a vederne la morte.»

«Principessa, io vi conduco da vostra madre, su l'onore di
Cavaliere.»

«Ed osi favellare? Taci, non dire lo spergiuro.... dì che vuoi
essere spietato.... ti crederò.... non posso nuocerti.... mentirti
onesto non può giovarti.... quanta gente!... che folla!»

«Dove?»--domandò il Cavaliere; e si voltava attorno.

«Quanta gente accorre su la piazza, nè ve la tira senso di
misericordia.... non credere.... lo finge.... ma ella è
stolidamente curiosa, pronta a ridere sul colore del sangue, come a
piangere alla vista della scala che mena al patibolo....»

«Ma noi adesso ci troviamo in Via San Salvatore.»

«Ella è una solennità.... suonano le campane, nè si sa
perchè; forse a chiamare Dio in testimonio.... rimanetevi, state in
silenzio.... guai se lo vede!... Guarda il carnefice! tiene gli occhi
bassi in segno di modesta compassione; ma non vedi tralucervi dentro
un baleno di malignità, una gioia di stendere il braccio, e
distruggere? su le sue labbra suona la parola di _fratello_; ma non
iscorgi un sorriso indefinito agitargli i muscoli con la convulsione
del tripudio?»

«Principessa, non vedete che è notte? e queste faccende non si
fanno al buio.»

«Bella pietà! il paziente ascende le scale.... questa è l'ora
trascelta per favellare di amore alla donna rigidamente guardata dal
geloso marito.... adesso due feroci per meglio vedere come si punisca
il delitto vengono a contesa, e commettono un altro delitto....
silenzio....»

«Sono tutti a dormire.»

«È la preghiera per colui che deve passare; preghiamo
prostrati.... preghiamo.... è finita.... ha padre? madre? figli ne
ha?--io non posso sopportare la immagine di quella disperazione....
egli è prostrato,--la scure con ambedue le mani sta sollevata,--il
suo taglio deve internarsi nel ceppo, e tra la scure e il ceppo vi
è un collo.... ah! balza una testa per terra.... piove sangue....
la bocca pare che non abbia compíta una parola.... era preghiera, o
bestemmia? egli morì lacerato di rabbia.... una mano scarna,
trepidante l'afferra pe' capelli.... trema ella di terrore o di gioia?
ella la squassa, e si contamina, e la mostra al popolo.... bella
impresa davvero da mostrarsi alla gente, perchè applaudisca!...
Sdegno di Dio! egli è desso.... la morte lo ha sfigurato, ma lo ha
riconosciuto il mio cuore.... Rogiero.... Rogiero!»

Rogiero intentissimo ascoltava parte di questi discorsi, e con quanta
angoscia pensi chi legge; onde disposto a tutto più tosto che
lasciarla sconsolata, fingendo dovere alcuna cosa comunicare al
Maestro, trasse la briglia, e in breve fu a lato di Yole;--ella non
era anche liberata dalla feroce visione;--smontò da cavallo, e
presale soavemente la mano, le disse: «Io sono Rogiero.»

Il suono della sua voce produsse il solito effetto; lo riconobbe
l'addolorata, e la mente le tornava serena. Piangeva pure Rogiero, e
il Maestro degli scudieri senza che vi pensasse, volendosi asciugare
gli occhi, trovò le lacrime essergli gocciate fino a mezza guancia:
bene egli conobbe il caso, e forse più di quello che non era da
conoscersi; ravvisò, guardandolo meglio, Rogiero, imperciocchè
lo avesse in grandissima pratica: poteva guadagnare duemila
_schifati_, che sono quasi quattordicimila zecchini di nostra moneta,
denunziandolo; poteva non essere biasimato da nessuno, perchè usava
lealtà al suo Signore; poteva anzi conseguire la grazia di
Manfredi:--gloria alla virtù!--aborriva il prezzo del sangue, e
così discorreva a Rogiero: «Scudiere, se siete colpevole, già
non sarò io quegli che vi accuserà; se innocente, quegli che vi
tradirà; se aveste qualche turpe motivo per errare, abbiatene uno
onorevole per correggervi; prendete il mio cavallo, e partite;
nascondetevi, e uscite di Benevento: alla frontiera si apprestano i
tempi nei quali potrete acquistare mercede, se reo; onore, se
innocente: non esitate un momento; potrebbe perdervi un vano render
grazie; già, se non m'inganno, non sarà per opporsi la Principessa.»

Yole declinò con leggiadra soavità di affetto il bianco volto su
la spalla del Maestro, che soggiunse: «Or via, affrettatevi.»

Rogiero balzò nuovamente in sella, e quivi curvandosi parlava alla
figlia di Manfredi: «Teco l'anima mia!»--e sparve.

Yole non rispose,--gemè; seguendo la fidata sua scorta, si riduceva
lusingata dall'alito della speranza nelle braccia materne.




CAPITOLO VENTESIMOPRIMO.

LA SPIA

                Quanta, e qual sia quell'oste, e ciò che pensi
                Il duce loro, a voi ridir prometto;
                Vantomi in lui scoprir gl'intimi sensi,
                E i secreti pensier trargli dal petto.
                                      GERUSALEMME LIBERATA.


Più che io con quella mente che i cieli mi hanno concessa vado
pensandovi sopra, più mi avviso di favellare giusto affermando,
essere queste composizioni, che la gente chiamano Romanzi, assai
somiglievoli ai fioriti rosaj. Lieti di rose, bellissime per
venustà di vermiglio, per isquisitezza di odore gioconde,
innamorano l'occhio del pellegrino, che con lo incantato pensiero
maraviglia come un fiore possa avere tanta parte di volto della sua
vergine diletta. Diventa più forte il paragone se si considera, che
siccome gli steli delle rose sono irti di spine, e così le vie che
conducono alla perfezione in opere sì fatte vanno ingombre
d'impedimenti, parte difficili a superarsi, parte impossibili.
Differiscono poi in questo, che nel rosaio il passeggiero, contento
della vaghezza del fiore, non trascorre a indagare nè come s'operi
il suo nascimento, nè come mantenga la vita, nè perchè muoia,
nella qual cosa se molto ha luogo il non volere, moltissimo ancora
contribuisce il non potere; mentre che nel Romanzo la bisogna procede
altramente: ben l'arte ammaestra a disporre gli eventi in certa
bizzarria misteriosa, e presentarli con quanto di fantastico può
immaginare il poeta, onde la passione di chi legge di mano in mano
infiammata aneli la fine; ma al punto stesso ne avverte essere debito
svilupparli con naturale spiegazione, affinchè non si sdegni di
avere sparso il suo pianto sopra casi in nulla appartenenti all'umana
natura. Qui sta l'opera, qui la fatica; questo è lo scoglio pe'
buoni ingegni, l'abisso pe' mediocri; e certamente sarebbe pel nostro,
dove le raccontate avventure non fossero vere, o almeno non le
avessimo trovate entro una Cronaca di pergamena antichissima, scritta
con caratteri gotici, con le iniziali _alluminate_, e dorate, che
quantunque un po' guasta dalle tignole, un po' dai sorci, un altro po'
dall'umido, si mantiene pur sempre il bel tesoro, come andrà
persuaso chiunque abbia voglia di venirla a vedere.

Narra pertanto la Cronaca, come un certo giorno il Conte Anselmo della
Cerra, ridotto nella secreta sua stanza, esaminando alcune carte di
molta importanza udisse toccare la porta; per lo che domandato chi
fosse, gli rispondevano,--un pellegrino, che per quello che ne
sembrava aveva corso gran via, faceva istanza di favellargli.--«Un
pellegrino! che passi:»--ordinava Della Cerra; ed ecco indi a poco
entrare un uomo, che, richiuso in prima diligentemente l'usciale,
s'incammina va alla volta del Conte, e gittando la _schiavina_ da
dosso, gli si mostrava qual era.

«Gisfredo, tu qui! tu vestito da pellegrino! chi ti avrebbe
riconosciuto?»

«Dove manca natura, arte procura, messer Conte.»

«Che nuove? è anche morto quello stolto? la tua astuzia
congiunta alla sua imbecillità lo ha ancora condotto in rovina?
Narrami, narrami, che sono impaziente di udire; siedimi a canto, che
ti starai più ad agio, ed io ascolterò meglio.»

«Troppo onore, Messere,»--rispondeva Gisfredo inchinandosi, e
mostrando non tenere lo invito: pure insistendo il Conte, obbediva, e
pressato da questo col più interrogativo «Ebbene?» che mai
sia uscito da labbro di uomo, raccontava: «Messere, dalla notte che
con tanto fervore mi ordinaste vegliare su i passi di Rogiero, io,
come desideroso di soddisfarvi, non ne ho mai smarrito la traccia:
nella notte stessa io mi imbatteva in costui, che, fosse caso o
volontà, spronava a rompicollo verso un torrente, dove per certo
sarebbe traboccato, se io nol sovveniva; fidando sul benefizio, lo
richiedeva di sua compagnia, perchè allora la cosa sarebbe
proceduta meglio sicura; mi ributtava con acri parole. Il giorno
appresso, mi prende il sudore ghiaccio a ripensarvi sopra, mi
arrestava una banda di masnadieri, e dopo avermi conciato che Dio vel
dica per me, toltimi i danari che aveva dentro una borsa, volevano ad
ogni costo _propagginarmi_: già per indole, e per costume, aborro
dal magnificare quello che ho fatto per vostra signoria, e poi per
quanto operassi, io non potrei sdebitarmi degli immensi obblighi ch'io
vi professo, Messere; pure io vi giuro...»

«Va per le corte, Gisfredo; sei stato in pericolo di vita?--il gran
caso che ti avessero ucciso!--mancano ghiottoni in questo mondo!»

«Dice bene il Messere. Dunque vi basti sapere ch'io fui salvo.»

«Questo io già sapeva, perchè il Demonio si mostri più
pronto a proteggere i tristi, che...»

«Dice bene il Messere. Lo inseguiva con lo ardore della vendetta,
con l'astuzia della viltà: finchè lo conobbi di per sè stesso
infiammato, lasciai che corresse; ma quanto più si avvicinava
all'esercito francese, tanto rallentava la fuga: questa nuova esitanza
giunse a tale, ch'io stimai bene entrargli di notte tempo nella camera
dove giaceva, e concitarlo con dirgli in voce mesta, come di
trapassato:--_Rammentatevi di vostro padre_.--Varcava il Po con
incredibile furia, quindi ricadeva più che mai su l'irresoluto:
allora presi consiglio di precederlo, mi appresentai a messer Buoso,
me gli scopersi vostro servitore, gli mostrai la patente, e gli
narrai, un corriero napolitano con lettere a lui dirette essere
rimasto una giornata di cammino dietro di me; mandasse pertanto alcuna
gente a riscontrarlo, e a tutelarlo, perchè, se fosse caduto in
mano dei Ghibellini con quel deposito addosso, avrebbe cagionato gran
danno. Mandava Buoso, e glielo conducevano: era buio, ed io mi teneva
celato in un corridore della casa di Buoso per vederlo passare: vi so
dire, Messere, che fu cosa stupenda contemplare la battaglia delle
passioni che laceravano quella anima; per poco stette che non cadesse,
si appoggiò al muro senza andare innanzi nè indietro.»

«Tu godi a raccontare questa disperazione, scellerato?»

«Pensate quale sarebbe stata la vostra gioia a vederla, Messere!
Osservando che indugiava più che si convenisse, me gli accostai, e
gli susurrai alle orecchie:--_Rammentatevi di vostro padre_:--si
voltava impetuoso inseguendomi, ed io di stanza in istanza, come colui
che già conosceva la casa di Buoso, gli fuggiva dinanzi, finchè
non l'ebbi condotto dove dimorava il Duera; allora mi sottrassi
agevolmente: da quel punto in poi i suoi moti furono necessarii. Ebbe
le lettere il Ghibellino traditore....»

«Ravveduto, dovevi dire.»

«Ravveduto. L'ebbero i Francesi, e nel campo loro egli ha sempre
stanziato fino a Roma.»

«Che! non vi sarebbe egli più?»--percuotendo il pugno stretto
su la tavola con terribile giuramento domandava il Conte Anselmo.

«Udite. A Roma fu bandito il torneo; vi combattevano sconosciuti
Rogiero, e quel Ghino di Tacco, tanto famoso masnadiero d'Italia:
terribili colpi io vidi menarvi, e tali che non credo sieno mai stati
nel mondo, non che maggiori, uguali. Miseri noi, Messere, se un giorno
ne fossimo segno!»

Anselmo mutò di colore, e con voce mal ferma ordinava: «Va
innanzi.»

«Furono i Francesi scavalcati, quasi tutti sconciamente feriti; un
Bilmont trafitto; il Monforte, lo stesso Monforte, dichiarato vinto, e
come morto portato via dal campo....»

«Che importa, questo? va innanzi.»

«Conseguíta la vittoria, fuggivano Ghino, e Rogiero, e i
compagni; io mi levai súbito a seguitarli da lontano, e li vidi
internarsi per la foresta vicino a Frascati. Quivi si fermava alcuni
giorni Rogiero per sanare le riportate ferite. Una volta, mentre mi
accostava su la sera verso la sua dimora per raccogliere qualche
novella, lo vidi soletto errare per la foresta; avrei potuto
ucciderlo,--non v'era vivente, ed egli non portava armatura; ma non ne
aveva mandato; non sapendo s'io mi facessi bene o male, mi rimaneva:
sentii uscirgli dalle labbra strane sentenze; mi arrampicai leggiero
sopra un albero, e per più disperarlo ripetei:--_Rammentatevi di
vostro padre_.--Parve verro ferito; cieco d'ira si dette a cercarmi
per la selva, e tanto corse e ricorse, che al fine del giorno pervenne
alla Abbazia di San Vittorino: colà, Messere, un fiero caso si
apparecchiava a noi tutti....»

«Quale?»

«Convertito in Frate, vi giaceva moribondo il vostro uomo d'arme
Roberto.»

«Ah! e gli narrava....»

«Per quello che mi disse un Frate cercatore, tutta la storia dei
vostri tradimenti.»

«Tradimenti!--hai tu detto tradimenti?»

«Non l'ho detto già io, ma vi ho riferito quello che disse il
Frate cercatore.»

«Noi siamo perduti!» avvilito mormorava il Conte Anselmo «e
sì che lo aveva avvertito a cotesto imbecille:--vogliono i delitti,
e non sanno soffocare i rimorsi;--un giorno innanzi ch'io lo avessi
ucciso, ogni cosa era salva.» E qui mise senza pensare la mano
sotto il farsetto, e ne trasse un pugnale: Gisfredo, sorgendo, si
allontanava. Stettero muti alcuni istanti: finalmente il Conte
discorreva, volgendo la testa: «Gisfredo, dove sei ito? ritornami
allato; perchè ti stai discosto?»--Poi vedendosi il pugnale
nella destra, lo riponeva continuando:--«Vivi sicuro, non sai che
nessuno uomo adesso mi è più necessario di te?» e tra i denti
aggiungeva: «La tua ora non venne.»

«Dice bene il Messere,--v'intendo anche ritto.»

«Fa come vuoi: dunque non v'è scampo?»

«E non sapete trovarlo? Diamine! una testa come la vostra, Messere,
annega entro una coppa?»

«Dillo, se ci credi; in nome di Dio.»

«Ve lo direi molto volentieri, ma davvero che me ne prende
vergogna; egli parmi così agevole, che non può essere che non vi
venga in capo: e poi non si conviene a me che ho imparato tanto di
Gramatica, quanto fa di mestieri per avere gli ordini minori,
insegnare ad un Barone qual siete voi, che sa per fino dei misteri
dell'Astrologia.»

«Certo non si vuol negare che la mia mente non sia oggi un poco
confusa... se da un pezzo in qua le cose vanno proprio a rovescio!»

«Eh! signor mio, io conosco il modo di farle andare per verso: ma
voi non ne sapete, o non ne volete sapere.»

«Sarebbe?»

«Allargare la mano nello spendere; siete Camerlingo, potete fare, e
non co' vostri danari... la gente ai dì nostri non fa nulla per
amore.»

«Ah! vuoi danaro?»

«Nol dico già per me, vedete, Barone; perchè del danaro che
cosa ho da farmi, quando posseggo la grazia vostra?--Sebbene quello
che mi deste se lo prendessero i masnadieri....»

«Non so se i masnadieri; ma un masnadiere se lo prese di certo,
quando lo detti a te.»

«Non credete? Vi giuro pel corpo....»

«Taci, chè il giuramento della tua bocca accresce i motivi di
non averti fede.»

«Oh via! come volete; già per troppo malignare spesso l'uomo
s'inganna: alla fine di conto que' vostri danari io non gli ho più,
e per giovarvi con frutto me ne abbisognano degli altri.»

«E faceva mestieri di tanta giravolta per venire all'_ergo_?
prendi, questi sono _agostari_.»

Gisfredo stese la mano come persona avvezza a simili presenti, se gli
ripose sotto la veste, ringraziò inchinando il capo, e tornò nel
primo atteggiamento.

Anselmo aggiungeva: «Fisco coll'anima, or che gli hai avuti, dimmi
almeno che vuoi farne.»

«Io vi protesto, Messere, che Gisfredo è vago di danari come il
cane delle mazze; ma l'opera ch'io disegno fare in pro vostro, non
può in nessuna altra maniera mandarsi a fine se non che col danaro;
i tempi corrono difficili, la natura umana si corrompe ogni giorno di
più, e vi sono di tali marrani che non vi farebbero piacere nè
manco col pegno.»

«E tu ne sei prova e argomento.»

«Fate senno, Barone. Rogiero, partendosi dal masnadiero Ghino,
niuna diversa strada vorrà tenere se non quella che conduce a
Manfredi,--e questo è certo; ora, siccome ho raccolto per via che
il Re ha convocato tra pochi dì il Parlamento del Regno a
Benevento, il suo cammino deve piegare senz'altro a questa città;
mio avviso sarebbe dunque partirmi velocemente, prendere in compagnia
quindici o trenta uomini arrisichevoli, tendergli agguato, e farne
pasqua ai lupi.»

«Santo Germano!» esclamò il Conte Anselmo percuotendosi la
fronte «tanto è vero, che per veder bene da vicino ci vuol vista
corta! Tu dici saviamente, non in tutto però: in prima tu dèi
condurre meno gente per non dare sospetto; invece di ribaldi da
strada, tu passerai in partendo da Caserta, consegnerai un mio ordine
al Castellano, che lascerà venir teco quattro o sei uomini d'arme;
non più, ti comando, e bada che lascino la divisa di Aquino: in
quanto a finirlo, parmi che non sarebbe buon consiglio; che ne
senti?»

«Eh! fate voi; per me ho detto la mia: i morti non parlano,
veh!»

Il Conte Anselmo pensava alquanto, proseguiva dopo: «No, no; quel
cadavere insanguinato su la pubblica via, in occasione del
Parlamento,--scudiero,--fuggito,--dannato, ingrandirebbe il fatto, e
indurrebbe a ricercarne più oltre che la faccenda non meriti:
ingegnatevi a prenderlo vivo; se non potete, sì, l'ammazzate, ma
portatelo con voi; rimuovete ogni traccia, e sotterratelo dove non
possa esser trovato. Parti, e fa forza di gambe.»

Partiva. Quello che facesse e quello che ne seguisse, ha già saputo
il lettore: perchè non essendo venuto comodo a Gisfredo di uccidere
senza pericolo Rogiero, lo trasportò privo di senso a Benevento,
dove, trovato il Conte Anselmo, che vi aveva preceduto la Corte, lo
cacciava per suo comando dentro la carcere del palazzo del Legato di
Roma, da lungo tempo deserto, e per trascuranza, o dispregio, in parte
diroccato. Era pensiero del Conte farvelo morire di fame, non già,
come diceva Gisfredo, per brama che avesse della sua morte, ma per
risparmiarsi la spesa di tenerlo vivo.

Finita questa commissione, tornava Gisfredo alla dimora del Conte
Anselmo, e gli diceva: «Anche questa è fatta, Barone; tra poco
il nostr'uomo diverrà Santo e farà miracoli; adesso sta in
clausura; manca il sigillo allo spaccio, col gittare la chiave nel
Calore¹, e poi è finita.»

  ¹ Fiume che passa vicino a Benevento.

«Però pensiamo ad altro: trova alcun sacerdote che gli dica una
messa, perchè la sua anima non si lamenti di noi, e conosca che
abbiamo operato da buoni e leali Cristiani; pel rimanente
raccomandiamolo a Dio.»

«Dice bene il Messere!»--riprese, tra serio e beffardo,
Gisfredo, non sapendo con quale intenzione favellasse Anselmo: veduto
ch'ebbe un leggiero sorriso su le labbra del Conte, aggiungeva
anch'egli ridendo: «La dirò io questa messa; vado certo che
qualcheduno nell'altro mondo, o sotto o sopra, l'ascolterà.»

«Non può fare a meno che tu non finisca male, tanto sei empio,
Gisfredo! Adesso sono per commetterti una cura più delicata, e al
tutto degna de' tuoi talenti; deponi quelle vesti da pellegrino, vesti
l'_assisa_ di casa mia, e vattene in Corte; poco sarai guardato; o, se
guardato, come mio servo sarai anche rispettato: avvolgiti tra la
gente di Manfredi, spia i Ministri, il Re, la Regina, tutti; nota gli
andamenti, i detti, gli sguardi, e, se tu potessi, anche i pensieri;
siimi fedele, pensa come il mio abbassamento non può accadere senza
la tua rovina, la mia esaltazione senza tuo vantaggio.»

Eseguiva Gisfredo i comandi del suo signore, un po',--e qui
s'ingannava,--riputando di ricavarne qualche gran premio, un po' per
inclinazione: entrava in Corte, e come quegli che era scaltro davvero,
adesso mostrandosi carezzevole, adesso contegnoso, qui usando
cortesia, là villania, ritirandosi a tempo, e comparendo a tempo,
lusingando i più ruvidi tra i Baroni con gl'inchini, guadagnando i
servi più astuti con qualche _agostaro_, pervenne a conoscere in
poche ore quello che forse altri non aveva imparato in molti anni. A
mal grado del suo ingegno però, quel destino, che il più sovente
si oppone alle opere generose, aveva decretato che gli dovessero
riuscire fatali le sue triste; quelle che abbiamo fin qui raccontate,
vedemmo averle conseguíte con molto pericolo; ora narreremo come
avvenisse l'ultima, nella quale perdè la vita.

Stanca dalle faccende del giorno la famiglia di Manfredi era andata a
trovare il sonno, che da molto tempo non iscendeva invocato su le
palpebre dei suoi signori. Gisfredo con passi storti e leggieri, con
le orecchie attente, per farsi maggior pregio presso il Conte Anselmo,
penetrava nelle più riposte stanze reali:--i fati lo portavano;
perviene entro un andito lunghissimo,--con la mano alla parete, in
punta di piedi, senza trarre un fiato si mette a percorrerlo;--lo
percorre, giunge ad una sala, abbandona la scorta del muro, e va
oltre: non poteva essere anche a mezzo, quando un gemito represso lo
avvertiva, quivi dimorare gente;--stava,--un lamento femminile fece
suonare il vasto edifizio.

«Forse conosce la creatura» discorreva la mesta «l'arte di mentire
l'affetto? forse le ha rivelato il Demonio come si finga una passione che
m'inaridisce il cuore, mi sconvolge l'intelletto e mi consuma la vita?
Finti gli atti cortesi, finto il lungo ossequiare, il guardo, la voce,
l'amplesso, il bacio, finti? Non suonavano le sue parole ebbre di amore,
non gli tremavano le membra, non sospirava profondo? Pure mi ha lasciata
sola su la via dello spasimo; nè il pensiero dei parenti e del cielo
può consolarmi;--la mia passione dura più forte di loro. Rispondimi
almeno se sei morto, ch'io sappia dove indirizzare il mio gemito:--tenga la
fossa il suo corpo, lasci libera l'anima, o tenga anche l'anima, pur che la
lasci un momento per dirmi che non fingeva,--che mi amava;--questa
apparizione è un baleno di tempo,--poi l'abbia per tutta la eternità.
L'anima!--l'anima era nel sangue, e il sangue è stato diffuso;--avessi
il cadavere! lo veglierei come se dormisse, ingannerei me stessa, dicendo:
or ora si sveglia; e a canto al suo letto, da che egli non potrebbe
essermi unito in vita, aspetterei rassegnata di unirmi a lui nella
morte;--scalderei di baci le fredde labbra, infonderei balsamo nella sua
piaga.... Dio eterno! qual piaga! scavernata, penetrante in mezzo del
petto.... ella è insanabile.... dite il vero, è insanabile,
Maestro¹?--Non mi risponde,--piange,--e tu pure piangi, Gismonda. O
Rogiero! chi ti ha trafitto? Rogiero!»

  ¹ Forse è inutile avvertire che _Maestro_ era il titolo che si
    dava ai medici in quei tempi.

Sorgeva impetuosa, incamminandosi con passi veloci alla volta di
Gisfredo, il quale, dando indietro meno cautamente, inciampava dentro
uno sgabello con molto fracasso: l'evento lo turbava, perdeva la
direzione della porta; tentando il muro, quanto più ne andava in
traccia, tanto più se ne allontanava. Yole (però che Yole fosse
la lamentosa), al rumore fatta furente, gli era sopra, già
l'afferrava pel petto,--sentiva sotto la mano un pugnale,--gli frugava
sotto la veste, lo stringeva, e minacciando di trapassarlo gridava:
«Tu lo hai morto!--Dio mi ti caccia tra le mani, perchè ne
prenda vendetta.»

Il presente pericolo, non meno che il futuro, se quel grido di Yole
avesse richiamato gente, tanto valsero ad avvilire Gisfredo, che a
caso più tosto che a consiglio rispondeva: «Mercè, Madonna:
il vostro Rogiero è vivo.»

«Vivo!»

«Ve lo giuro per tutti i Santi del Paradiso.»

«Vivo!»

«Sì, vivo e sano, come siete voi, Madonna.»

«Non è vero, tu m'inganni.»

«Non credete nei Santi?»

«Credo in loro,--ma in te no....»

«Pure egli vive....»

«Menami a lui, nè sperare, finchè io lo vegga, che questa
mano si scosti dal tuo petto, questa punta dalla tua gola.»

«Santa Vergine! Saremo veduti, Madonna, saremo fermati, perderete
me e voi, non vedrete più Rogiero.... dimani, vi giuro....»

La vergine sveva, per passione diventata feroce, gli punse un poco la
gola,--perchè Gisfredo ebbe a stramazzare svenuto,--e con saldo
accento comandava: «Conducimi, e taci.»

Gisfredo vedendo che non correva tempo da immaginare scaltrezze, e che
se alcuna cosa poteva condurlo a salvamento era la lealtà, si
dispose, sebbene suo malgrado, ad operare onesto;--pareva che non ci
avesse garbo, quantunque in pensiero risoluto di condursi a dovere; le
membra da per loro si studiavano tradire. La vergine sveva lo teneva
corto, e sovente per sospetto lo ripungeva; egli prorompeva in un
_ahi_! sommesso, e per alcuni passi non faceva motivo, poi tornava a
far peggio. Così scesero nel cortile; due uomini d'arme camminavano
in su e in giù con differente direzione traverso la porta
grande;--passare per quella senza essere notati era impossibile cosa.
Non vi ha palazzo reale che non possieda porte segrete, donde scrive
Giuseppe Parini che talora entra la verità; Yole si sovvenne in
buon punto, che quello in cui stava ne aveva pure una; vi traeva quasi
a forza Gisfredo, e in questo modo pervennero all'aria aperta.--Ciò
che venne dietro, il lettore se lo ha già conosciuto avanti.




CAPITOLO VENTESIMOSECONDO.

DISPERAZIONE.

                Visibilmente si tramuta in faccia,
                E trema d'una larva che il minaccia.
                          I LOMBARDI ALLA PRIMA CROCIATA.


Manfredi!--Nel tempo in cui, se intemperante era la fidanza del suo
desiderio, molto maggiori erano la volontà degli uomini, e la
vicenda dei casi di compiacere a lui, trasportato dal soffio della
ventura, noi non avremmo impreso a descriverlo; adesso, nell'ora
solenne del disastro, commuove il cuore di tali sensazioni, che
nessuno, per quanto magnanimo, vorrebbe respingere; suscita nel
segreto della mente tali pensieri, che nessuno, per quanto potente,
potrebbe dire vili. La forza che regge i destini della terra ha
voluto, che per venire in fama di grande non importi l'esercizio della
virtù,--o almeno di ciò che appelliamo virtù. Nè alcuno
insorga impudente contro questa sentenza, perchè noi gli
domanderemo, se virtù fu quella dell'antico padre che coll'opera
della mano sostentò la numerosa famiglia, e con l'esempio, e con le
parole, la educò all'amore dei suoi simili e nel timore di Dio; e
dove assenta alla domanda, lo ricercheremo di nuovo, perchè un'aura
fuggitiva di memoria susurri appena nel villaggio di cui fu abitatore!
perchè la pietà dei nipoti cerchi invano pel Camposanto un
segno, una croce, una pietra, che lo distingua dal volgo dei morti!
perchè invece di educare le rose sopra la sua fossa, il giumento
del parroco vada sterpandovi le poche piante salvatiche di che la
ornava la natura! Quindi vedremo se ci affermerà, virtù incitare
parte del genere umano a dare del ferro in petto all'altra parte;
virtù, perseguitare l'innocente, perchè debole;--fargli delitto
della sua debolezza frutto della innocenza, e straziarlo, e
schernirlo; virtù, le avare rapine, i miserabili incendii, gli
stupri vergognosi; virtù, il colono, che bandito dal soldato fugge
co' figli, quale in braccio, quale per mano, e con la moglie, che
sostentando la figlia, argomento di gloria nei giorni ridenti della
tranquillità,--perchè la gloria delle madri è nella prole
leggiadra,--adesso contaminata di obbrobrio, le impreca la morte dalla
misericordia del Signore, e maledice la fecondità del suo ventre!
Poveretto! il suo cammino tende alla montagna; quelle rocce dirupate
non promettono altro che la fatica di soverchiarle;--quivi troverà
un asilo, dacchè non si trova una preda;--a mezzo dell'erta si
volge a mirare la casa a lui cara per le tante memorie di amore,--cara
anche per le memorie di dolore;--ahi! non vede più casa:--gli
sgorgano dagli occhi lacrime amare, geme profondo, ma il gemito e il
pianto non sono per le arse masserizie, non per la mèsse
sperperata, non pel censo, a stento e con lunghi travagli ragunato,
adesso in breve ora distrutto;--sospira l'aere che _lo raccolse
infante_; sospira il luogo, ove per la prima volta la desiata
giovanetta, suffusa di modesto rossore, gli disse, che non amava
indarno; quello dove per la prima volta fu salutato col nome di padre;
sospira le ceneri degli avi:--l'anima paurosa, trascorrendo gli eventi
futuri, non lo atterrisce con l'amarezza di chiedere un pane allo
straniero, che gli sarà negato, e di ascoltare unita al rifiuto la
parola acerba di un cuore che cerca pretesto nel vizio per non
commuoversi alla miseria.... solo lo spaventa con la immagine dei
nipoti, che, appena sapranno snodare la lingua, gli diranno:--menaci
dove dorme tuo padre. Che potrà egli rispondere?--io l'ho
deserto:--la rampogna di poca carità gli strazia le viscere;--si
lagnerà se lo abbandonano vivo? egli non lo ha abbandonato
morto?--morto, o vivo, è meno sacro il capo del padre?--Volge le
spalle, si affretta per la via, leva gli occhi al vertice della
montagna, anelante di riparare dietro una balza dalla vista e dal
pensiero di cose tanto miserabili.--E se questa non è virtù,
perchè coloro che tengono l'impero della fama la vestono della luce
del canto, o la tramandano ai posteri col monumento della storia?
perchè nelle vostre sale, nei vostri arnesi, fino sul vostro petto,
io non vedo che simulacri dell'ultimo conquistatore? O gli uomini sono
divenuti tanto codardi, che si hanno fatto idolo della forza, o,--e
questo per avventura è più vero,--non hanno mai saputo che sia
virtù.--Manfredi non fu virtuoso,--fu grande. Escluso per colpa
paterna dal retaggio del potere, ripose ogni suo pensiero in
conseguirlo:--tra la sua mano e lo scettro si attraversavano quattro
vite, e tutte sacre; egli stese la mano, e lo strinse:--quali furono
gli argomenti che adoperava l'ambizioso? L'ombra del trono gli
nasconde, ma stanno come nemici schierati in battaglia al cospetto
dell'anima sua, e a quello di Dio. Egli distrusse i suoi nemici, da
prima con la frode, poi con la vittoria, e dopo averli avviliti con
l'oro, gli spense col ferro. Affidato ai destini che lo menavano,
dominò la fortuna, costrinse gli eventi: non soddisfatto della
corona di Napoli, guardò la Italia, la vide divisa, e disegnò
riunirla sotto il suo impero: penetrando nei misteri dei secoli, la
conobbe preda dello straniero, e volle prevenirlo; nè, dacchè
Alarico venne a guastare il bel paese, alcuno più di lui sembrava
eletto dai cieli alla impresa portentosa: in lui sapienza di
consiglio, in lui prodezza di braccio, arte maravigliosa di
conciliarsi gli affetti, e quella temperante mansuetudine sconosciuta
ai suoi superbi maggiori; Roma decaduta alquanto dal potere;
gl'Italiani fidenti, o poco gelosi di lui, perchè signore naturale,
e scevro d'interessi con Alemagna; Toscana ghibellina, retta dal senno
di Farinata; Lombardia in gran parte devota al suo nome pel séguito
del Pelavicino, del Duera, e per le armi di Giordano Lancia. Egli pe'
tempi, i tempi per lui:--forse è da credersi che l'avrebbe dominata
con assoluto dominio; forse, inorgoglito dal successo, con tirannide;
ma l'opera stava nel rannodarla: quando poi la oppressione si riunisce
in un solo, anche un sol colpo vale a distruggerla; e se ogni tempo
non produce il sapiente, ogni tempo conta molti feroci.

Solo, dentro vastissima sala ornata delle immagini dei suoi padri,
seduto sopra un letto all'usanza saracina, Manfredi cela la faccia per
gli origlieri; se non fosse che d'ora in ora un anelito lo fa
sobbalzare, parrebbe addormentato. Noi non sappiamo quale meditazione
lo tenesse, certo però doveva essere di quelle che tribolano anche
sul guanciale del riposo. Sorgeva con impeto;--mutati due passi,
sta;--punta la mano destra su la tavola,--la persona abbandona sopra
la gamba sinistra, che attraversa con la destra, premendo il pavimento
con la estremità del piede,--gli occhi immobili, fitti per
terra,--la bocca tremante;--il sangue gli trascorreva su la faccia,
come fa l'onda marina, però che adesso comparisce infiammato,
adesso pallido:--si volta atterrito,--intende lo sguardo in quelle
parti della sala che la lampada di argento posta su la tavola
illuminava scarsamente, e si atteggia alla fuga;--concitandosi
all'audacia si avanza,--rimane,--indietreggia,--come disperato si
precipita, e tocca trepidante con ambe le mani la cagione dello
spavento:--pare che la poca luce tramutasse all'accesa fantasia gli
oggetti in immagini che non poteva sopportare. Alfine disegna spengere
la lampada, la prende in mano, se l'appressa alla bocca, compone le
labbra in atto di spingere l'aria;--in questo punto la pupilla
trascorrendo discerne tal cosa per la quale Manfredi abbrividisce;
stende la mano che stringeva la lampada, l'accosta alla parete,--era
una spada che vi stava attaccata;--sospira, avvicina di nuovo il lume
alla bocca; percorre, girando il capo, e più volte, la stanza;
quindi con estremo sforzo lascia scorrere il fiato compresso,--e fu
buio:--s'intendeva per la tenebra un passo frequente, concitato,
irregolare.

Noi ignoriamo se altrove, ma certo avviene ih Italia, che il mal tempo
spesso rimetta di giorno in giorno ad ore determinate, finchè,
consumato lo spazio che deve percorrere, cessa del tutto; però
adesso cominciava, come nella sera scorsa, a sentirsi il tuono
lontano, e a vedersi lo sfolgorío sempre crescente. «L'ora si
avvicina!»--mormorò Manfredi. Si leva un fiero libeccio; la
piena della bufera investe fischiando l'edifizio, lo scuote, ed
accenna mandarlo sossopra; si ascolta il zufolare lontano che fa per
quelle camere il cigolío degli usci e delle finestre; la grandine
batte scrosciando le invetriate, come se dovesse spezzarle ad ogni
momento, o strappate dagli arpioni trasportarle fin Dio sa dove. Santa
Maria! pareva il Giudizio finale.--Perchè Manfredi si volge intorno
la sala con orme vacillanti? Teme egli che quello sconvolgimento sia
una guerra che la Natura ha dichiarato contro di lui? Che susurra tra
i denti? Santi del Paradiso! ha imprecato le potenze dell'Inferno. La
procella imperversa; si fa con le braccia il segno della salute sul
petto, e solleva peritoso il volto;--viene un lampo; gli occhi di
Manfredi, senza ch'ei lo sappia, sono diretti sopra la immagine di suo
padre Federigo;--quella luce vermiglia parve animarlo di un baleno di
vita, e certo il ritratto storse le pupille scintillanti nel sangue, e
agitò i labbri a parole di fuoco:--guai a Manfredi se quella vista
fosse durata più d'un lampo! il suo cervello ne sarebbe stato
rotto, il cuore scoppiato. La oscurità nascose la causa del
terrore: instava fragorosissimo il tuono, e tra il rimbombo urlava
Manfredi: «L'ora è passata!»--Incapace di più reggersi,
accennando stramazzare, a scosse come l'ebbro, si pone in traccia del
letto, e vi si lascia cadere; la sua mano destra abbandonata percuote
su la corona reale, la ritira velocissimo, non altramente che se
l'avesse posta sul tizzo infuocato; e di vero tale dovette essere la
sensazione che soffriva, perchè disse: «Arde.»--Allora quasi
affaticato su l'erta di un monte trasse dal petto un anelito grosso, e
frequente;--giù per le guance piovve gelido sudore.

A refrigerio dell'afflitto, or sì, or no, secondo soffiava il
vento, un preludio dolcissimo sul liuto veniva a dilettargli le
orecchia:--l'anima però non gli dava ascolto, come quella che
gemeva oppressa sotto terribile sensazione; ma quando vi si aggiunse
una voce melodiosa di arcana mestizia, voce che con la prestezza del
baleno ricercò,--vellicò,--suscitò, quanto di soavi memorie e
di dolcezza di affetto stava riposto nel cuore di Manfredi, egli
declinava lentamente «il capo tra le mani, e piangeva: bene erano
coteste lacrime di quelle che solcano le guance su le quali
trascorrono, di quelle che si assomigliano a gocce d'olio versate
sopra ferro rovente,--ma pianse. Riputando nessuna altra cosa capace
di acquietarlo quanto ascoltare vicina quella voce che sì lo
blandiva lontana, lasciò di giacere, e si pose dietro le tracce
dell'armonia.

Licenziate tutte le damigelle, la Regina Elena si era ridotta nelle
stanze segrete con i suoi figli, Yole e Manfredino; quivi avevano
insieme pregato il Signore di perdono, e di pace: finita la preghiera,
cominciò la procella: Elena dissimulò, come meglio potè,
l'augurio sinistro, e motteggiando ridente dava animo a Yole, che le
si stringeva alla vita, e a Manfredino, che, seduto sopra uno
sgabelletto ai suoi piedi, le aveva preso una mano, e se l'era parata
innanzi gli occhi per non vedere i baleni.

«Animo, figli miei,» favellava la Regina «è la prima
questa delle procelle che udite? conviene questo terrore a figli di
Re?»

«E che? madre,» rispondeva Yole «non devono i Re tremare di
Dio?»

«Devono, ma troppo tornerebbe a sconforto, o figliuola, attribuire
ogni tempesta allo sdegno del cielo.»

«Avete notato, madre, che appena abbiamo proferita l'ultima parola
della preghiera scoppiò il primo tuono?»

«Non ho posto mente a questo, perchè stava raccolta nel pensiero
del Paradiso.»

«Parmi...» soggiunse Yole, ed abbassata la voce accostò la
bocca all'orecchio della madre, «parmi ch'egli ci abbia
abbandonate.»

«Figliuola,» riprendendola affettuosa rispondeva Elena
«nemmeno i Santi hanno penetrato nei segreti dell'Eterno; se i
Profeti gli hanno saputi, ciò è stato perchè egli stesso gli
dischiuse a loro, non altramente. Godi anzi della tribolazione che ti
manda il Signore,--egli ci vuole provare, ed i provati sono nel numero
degli eletti. Ramméntati, amor mio, di Santo Ambrogio da Milano,
che, venuto a Malmantile, domandava l'oste di sua condizione, il quale
avendogli risposto:--_io ricco, io sano,--io, bella donna, grande
famiglia, riverito, onorato, careggiato da tutta gente, non seppi mai
che male si fosse, o tristezza; ma sempre lieto e contento sono
vivuto, e vivo,_--ordinò ai fanti che sellassero i cavalli,
dicendo:--_Dio non è in questo luogo, nè con questo uomo,
perchè gli ha concesso troppa felicità._¹ E poi, che cosa
dice il Re David? _Molte sono le tribolazioni dei giusti, e di tutte
il Signore gli libererà._--Ma divertiamo il pensiero da cose tanto
lugubri.--Gli angioli hanno insegnato ai mortali l'armonia per
sollevarli dalla tristezza;» e sì favellando, ritrasse la mano
che le teneva Manfredino, e lieve lieve lo percosse su la guancia;
«va, Manfredino,» gli comandava «fa di portarmi quel liuto
che vedi su quella tavola là.»

  ¹ Passavanti, _Specchio della Vera Penitenza_.

Il fanciullo alzò gli occhi, e peritoso si pose a guardarla.

«Va, Manfredino;» insisteva la nobile Elena «hai tu forse
paura?»

Andò con franco passo il fanciullo alla tavola su la quale stavano
diversi strumenti, tolse il liuto, e porgendolo alla Regina parlò:
«Ecco, mamma, il liuto.»

«Gran mercè, figliuol mio,»

«Oh! si ringrazia egli di queste cose, mamma?»

«Perchè non si dovrebbe? se in te correva l'obbligo di
obbedirmi, in me fu cortesia ringraziarti.»

«Ora da che sei tanto cortese, vorrestimi fare un dono?»

«Qual dono?»

«Dì prima se me lo farai.»

«Che cosa ha negato Elena ai suoi figli, quando l'hanno richiesta
di cose gentili?»

«Tu dunque mi hai donato, che suonerai la ballata di Lucia, e Yole
la canterà;--è così bella la ballata di Lucia, che quando la
sento mi vengono le lacrime agli occhi: che vuol dire, mamma, che mi
fa piangere?»

Trascorse la Regina con l'agili dita le corde del liuto cavandone
dolcissime note, quasi per evitare di rispondere, ma non potè fare
a meno di mormorare: «Ahimè! l'affanno diventò il retaggio
della casa di Manfredi; amano l'afflizione anche coloro che non sanno
che cosa sia,--l'anima si anticipa nello spasimo del futuro.» E
continuando a preludiare: «Yole, mia figlia, canta della vergine
Lucia.»

«O madre, come lo potrò? ho la voce tanto affiocata....»

«E dai singulti: non è una ballata di dolore quella che devi
cantare? converrà meglio al soggetto.»

Senza altre parole presero a rendere unisona la voce col liuto. Ne
usciva un suono insistente sopra una medesima nota, proprio di quel
genere che i Greci chiamano _Melodia_; agitava gli animi degli
ascoltanti un tremolío di piacere simile a quello che fa la luce
sul ribrezzo delle acque della laguna, un riposo placido, una
insperata dolcezza.... Stolto! quale è la lingua mortale che può
svelare i misteri della armonia?

S'apre una porta: i nostri personaggi si affissano sopra quel punto.
Manfredi contro suo costume, perchè usò sempre in sua vita panni
verdi, era vestito di una maglia nera, sì che il suo corpo si
perdeva nel vano della porta, che pure era nero; aveva il volto
disfatto e pallido, i capelli ritti, le pupille immobili pel bianco
dell'occhio orrendamente dilatato, come uomo appena sottratto dal
sogno del terrore. Proruppero in altissimo grido, e timorosi che
qualche gran male lo avesse incolto, gli corsero incontro i suoi
figli.

«Io mi difenderò!» portando la mano alla cintura esclamava
Manfredi «voi volete trucidare vostro padre, come....--sta a voi
condannarmi? nè il delitto si lava col delitto:--sarà eterna la
vendetta in mia casa?»

«Padre! sposo! padre!»

E' devono suonare queste voci potenti davvero sul cuore dell'uomo,
perchè valsero a richiamare Manfredi dallo spavento, e deliziarlo
nella vista della sua famiglia: gli abbracciava Manfredino il manco
ginocchio; Yole prostrata gli aveva preso una mano, e imprimeva sopra
di quella caldissimi baci; la Regina Elena, quasi a sicura tutela, lo
invitava al suo amplesso: soverchiato dalla pienezza dell'affetto,
baciò il figlio,--baciò, rilevando, la figlia,--e volò tra le
braccia dell'amorosa consorte.

«Ed io ho fede,» poichè ebbe libato alla coppa della gioia
discorreva Manfredi «che il destino mi mandi il cordoglio,
perchè poi m'inebrii nella dolcezza dei vostri baci, o miei cari; e
se così è, io ho motivo di benedirlo, anzi che maledirlo. Ma
qui, se non m'inganno, suonava un canto? Deh! siatemi cortesi dei
vostri sollazzi, io venni desioso dell'armonia; ella mi fa bene al
sangue.»

La Regina Elena e Yole non risposero, che quella col prendere il
liuto, questa con ripetere sotto voce le note della canzone: quando si
furono accordate, Yole cominciò così:

    «O disiose vergini
      in mesto suon di pianto
      Eco mi fate, e tacite
      Deh! mi posate a canto;
      S'inalza omai la flebile
      Ballata del dolor.
    Vivea ne' dì che furono
      Lutalto, un cavaliero;
      Caso, o vaghezza, il trassero
      Un giorno a un monistero,
      Dove ascoltava un cantico,
      Che gli scendea sul cor.
    Leva la fronte: il supplice
      Contempla la giulía,
      Di raggio eterno florida,
      Sembianza di Lucia,
      Che si confuse ai teneri
      Sensi del primo amor.
    Nè più ei la mira: assiduo
      Poichè cercolla invano,
      Morto di speme l'alito,
      Là di Giudea nel piano
      Pugna per Cristo, e il fremito
      Rugge del suo valor.
    In aspri ceppi il misero
      Travolto dalla sorte,
      La vagheggiata vergine
      Chiama vicino a morte;
      Lene su gli occhi e placido
      A lui cala un sopor.
    Apre lo sguardo immemore,
      E le ritorte al piede,
      E la invocata in candida
      Vesta ricinta ei vede,
      La guancia effusa in tenue
      Mestissimo pallor:--
    E--vivi?--Io l'ale d'angiolo
      Scuoto all'aura di Dio,
      Lieta volai per l'etera,
      Te rendo al suol natio;
      Soffri la vita, e affidati
      Nel bacio del Signor.
    O disiose vergini,
      In basso suon di pianto
      Eco mi fate, e tacite
      Sorgetemi da canto:
      Finita è omai la flebile
     Ballata del dolor.» ¹

  ¹ L'avventura di Lucia è riferita dal Ghirardacci nelle _Storie
    di Bologna_, Lucia bellissima vergine si rende monaca; un giovane
    bolognese vedutala alla terrazza, dove ella si faceva ad ascoltare
    la messa, perdutamente se ne innamora; accortasi la modesta
    dell'amore del giovane, non comparisce più; questi disperato
    passa a combattere in Palestina, dove fatto prigioniero invoca
    presso a morte l'amata donzella: si addormenta, e al suo
    svegliarsi si trova in Bologna alla porta del monastero dove
    abitava Lucia, ed ella stessa lì appresso; il giovane le
    domanda se viva, ed ella risponde che sì, ma della vera vita,
    che vada a deporre i ferri sopra la sua tomba, e che ringrazii la
    Santissima Vergine della grazia ricevuta.  Accadeva il caso verso
    il 1200.

Manfredino, che al cominciare della canzone era tornato a sedersi
sopra il suo sgabelletto, e quivi coi cubiti puntellati alle ginocchia
sorreggendosi il mento ascoltava, vide suo padre che rapito dalla
soavità del canto si accostò pianamente alla figlia, le pose un
braccio sopra alla spalla, e sopra il braccio appoggiò la fronte;
intanto le labbra gli si fissavano nel sorriso, i sopraccigli si
allentavano in arco. Quella espressione cessò con la ballata, il
riso scomparve, i sopraccigli tornarono contratti: portò la mano al
cuore, come se alcuna cosa se ne fosse partita, poi esclamava:
«Udite me adesso.»--Andò risoluto verso la tavola, tolse una
arpa, foggiata a triangolo, e si pose a suonare: ricercava con
rapidissima volubilità le corde più gravi e le più acute; le
altre intermedie, che fanno più dolci e dilettevoli i passaggi, non
toccava tanto nè quanto: egli era un concerto somiglievole al
fremito di belve, al gemito di persone tormentate,--lacerava le
orecchie; pareva che le corde si dovessero rompere sotto la procella
delle percosse; ad ogni momento avresti temuto di vedere corruscare lo
istromento, e mandare faville; nè l'arte per certo conduceva la
mano veloce, ma più tosto la convulsione: nel punto che la fiera
armonia cresceva di fragore, con pienezza di voce entrava Manfredi:

    «Una strage, uno affanno, una oppressura,
      In accenti tristissimi racconto,
      Tal che il cielo ne frema, e la natura.
    Sopra un teschio aspramente percotendo,--
      Parla,--gridava un Cavaliere irato,
      Et ecco un serpe, che dal teschio uscendo
      Si mette a zufolare in mezzo al prato;
      Ma con la mazza il Barone insistendo,--
      Parla,--aggiungeva,--spirito dannato;--
      Dalle nude mascelle un suono a lui
      Venne, che disse:--io son de' maggior tui.
    Figlio a Gualfredo il vecchio, ebbi un fratello
      Famoso in cacce, e in armeggiar prestante;
      Forte del corpo a meraviglia, e bello,
      Nel disio d'una vaga delirante,
      Che tratta fantolina al mio castello
      Da un vassallo venia tutta tremante;
      E il padre mio, come il consiglia amore,
      Sposa la volle al suo figliuol maggiore.--
    --M'ami?--mi disse la proterva:--in seno
      L'alma ti ferve, o se' nei detti un forte?
      Di tal liquore questo vaso è pieno,
      Che in lieta può tornar la nostra sorte.--
      Ch'è questo che mi dai, donna?--È veleno:
      Esultiamo nel ben della lor morte...--
      Fede sopra l'orribile convito
      Di sposa ci giurammo e di marito.
    A scellerato giubbilo commossa,
      Me parricida e cieco di spavento,
      Sopra il desco, ogni face in pria rimossa,
      Ricercava di osceno abbracciamento....
      Arde la carne, e sol rimangon l'ossa,
      Treman le volte al fiero giuramento....
      Fatta or dimonio, in quell'amplesso eterno
      L'anima mi contrista nell'inferno.
    Pregando il viator, che tenga al piano
      La incominciata via, nè salga al monte,
      Il deserto castello da lontano,
      Segnandosi devoto in su la fronte,
      Accenna il buon vassallo con la mano,
      E alla memoria mia rinnuova l'onte;
      Nè un riposo è concesso alla mia testa,
      Chè tra i sassi l'avvolge la tempesta.--
    Una strage, uno affanno, una oppressura,
      In voce di mistero ho raccontato,
      E Dio mi ha maledetto, e la natura.

Il _commiato_ della ballata fu con voce così spenta cantato, che
nessuno degli astanti potè intenderlo. L'arpa sfuggì dalle mani
di Manfredi, e percuotendo sul pavimento si ruppe: egli come
sopraffatto dalla stanchezza lasciò cadersi sopra una sedia.
Accorrevano i figli, la moglie, e con begli atti di amore lo
circondavano; nessuno però osava consolarlo con le parole: forse un
senso segreto gli avvertiva che i suoi mali erano superiori al
conforto. Ne seguitava un silenzio solenne.

Un lieve colpo sopra le porte li toglieva dallo stato dolente.
Manfredi, geloso degli arcani di famiglia, ordinò ai suoi con la
destra, che si allontanassero; passò la manca sul volto quasi per
rimuovere ogni traccia di patimento, e così ricomposto a reale
alterezza disse con voce sicura: «Si avanzi.»




CAPITOLO VENTESIMOTERZO.

LA SORPRESA.

            ... E fino a quando il giogo
                Soffrirem di un tiranno?.....
               ........ Sappiasi al fine
                Che voi suo valor siete, e sua fortuna,
                E che, sdegnati voi, Giovanni è un vinto.
                         GIOVANNI DI GISCALA, _tragedia_.


«Voi qui, Alberico?»--aggiunse Manfredi, scorgendo il Maestro
degli scudieri, che, affacciata la testa dall'usciale mezzo aperto,
pareva che desiderasse un nuovo invito per entrare.--«Fatevi
innanzi francamente, messere Alberico.»

«Messere il Re!»--rispose il Maestro inoltrandosi a mezza sala,
dove inchinata la persona salutava in giro la reale famiglia.

«Che cosa vi mena, Alberico? parlate:»--e queste parole gli
disse in accento amorevole, perchè i tempi si facevano oscuri, e
Manfredi adesso sentiva più che mai il bisogno di rendersi fedeli i
suoi ufficiali.

«Messere il Re, si è presentato un cavaliere al palazzo, e a
grande istanza ha richiesto di parlare a Vostra Serenità: io gli ho
detto, questa non essere ora conveniente; ma egli ha insistito,
allegando trattarsi di caso gravissimo, nel quale andava della morte e
della vita.»

«Il suo nome?»

«Non lo ha voluto manifestare, e la sembianza neppure, perchè va
armato di armatura straniera, e tiene calata la buffa dell'elmo;
però non porta arme da offesa.»

«Chi vi ha chiesto se avesse armi da offesa? Dove si trova?»

«Io l'ho introdotto nel mio appartamento, perchè fosse veduto da
meno.»

«Elena, Yole, Manfredino, addio; voi vedete che sia la gloria del
trono,--domanda perfino quei pochi momenti felici, che ogni uomo trova
a sazietà nel seno della sua famiglia; ormai è un peso che il
destino ha imposto sopra le nostre spalle, e che noi dobbiamo portare
fino alla morte: statemi lieti; tra poco speriamo di tornare nelle
vostre braccia. Andiamo, messere Alberico.»

Forse così favellando Manfredi mentiva i suoi interni sentimenti;
forse anche parlava sincero, imperciocchè stia nella nostra natura,
che la cosa conseguíta, nuda del desiderio e della speranza,
divenga minore dell'aspettazione, e il dolore dello acquisto non abbia
compenso nelle gioie dell'acquistato.

Giunto alla soglia dell'appartamento del Maestro, gli comandava che
rimanesse, e invigilasse ad impedire l'entrata a qualunque vivente.
S'inoltrava leggiero. Un cavaliere di bello aspetto, con la visiera
calata, sorreggendosi alla spalliera di un sedile, pareva occupato in
profonda meditazione; scosso dal rumore dei passi, osservò, e vide
Manfredi; esitava da prima, vacillava; ripreso animo, si avanzò
precipitoso, pose un ginocchio a terra, e disse con accento commosso:
«Mio Re!»

«Alzatevi, Cavaliere, alzatevi: possiamo dalla cortesia vostra
conoscere chi ci sta presentemente dinanzi? Possiamo sapere a che
dobbiamo attribuire il bene di godere delle vostre parole?»

«Mio Re, se la generosità che altissima suona di voi non mi fa
troppo ardito nella speranza, io vorrei pregarvi a lasciarmi
sconosciuto; quello che sto per dirvi non è già grazia o favore,
perchè la legge lo comanda; pure vado sicuro che me ne dareste
guiderdone; sia pertanto, dove a voi piaccia, questo guiderdone
anticipato, e consista nella licenza di tenere la visiera calata.»

Manfredi pensò un poco, e rispose: «Sia fatta la vostra
volontà; voi siete venuto disarmato nelle nostre braccia, potevate
non venirci; già a Dio non piaccia che si abbia a pentire persona
di essersi affidata alla fede sveva.»

«Gran mercè!»--soggiunse il Cavaliere, toccandosi sul cuore;
dipoi rinforzando la voce riprese:--«Mio Re, voi siete tradito.»

«Questo sapevamo, Cavaliere.»

«Che? sapete voi che si congiura contro il trono?»

«Noi sappiamo che i nostri sudditi sono uomini, e che noi abbiamo
sempre tentato di farli gloriosi.»

«Non tutti vi tradiscono, e molti darebbero la vita per voi.»

«L'ora della prova non è arrivata.»

«Arriverà.»

«E allora vedremo la fede, ora vediamo il tradimento. Cavaliere,
avete nulla altro a riferire?»

«Sì, veramente.»

«Parlate.»

«Nel vostro Regno, in questa stessa città, in questo stesso
punto, dalla più parte dei Baroni napolitani si macchina contro la
vostra vita.»

«Che dite? Badate....»

«Si congiura contro la vostra vita.»

«Questo non è possibile.»

«Si parla la menzogna al cospetto dei Re?»

«Come proverete l'accusa?»

«La Dio mercè, agevolmente.»

«Pur, come?»

«Conducendo su l'istante la Serenità Vostra al luogo del
convegno.»

«Vero?»

«Venite.»

«Codardi! stolti!» gridò Manfredi, forte percuotendo sopra
una tavola; «credono fuggire la fama di vili coll'opera di
traditori: essi ad ogni modo vogliono rovinarci, rovineranno anche
sè stessi; poi in fondo alla miseria, ci desidereranno quando non
saremo più;--solita vicenda dei buoni, essere odiati in vita, e
pianti in morte! davvero che ce ne duole per essi. O miei vasti
disegni! o speranze! o veglie di meditazione indarno! Ben era morto
l'aspetto d'Italia, nondimeno ebbi fede che un atomo di vita le si
conservasse nel cuore; osai stendere la mano alla prova, ne ho
ricavato la certezza dolorosa che da gran tempo la stringe ghiaccio di
morte. Italia è spenta tutta per sempre. Maestro! Maestro! fate che
quanto prima i miei scudieri, armati, in sella, si trovino giù nel
cortile apparecchiati a scortarmi,--andate, affrettatevi, usate
discrezione.»

Mentre che questi casi accadevano nel palazzo reale di Manfredi, il
Conte Rinaldo di Caserta, raccolti a notturna congrega tutti i Baroni
congiurati, esponeva loro con ammirabile chiarezza le cose fino a quel
punto a buon termine condotte, e le altre che disegnava imprendere,
affinchè potessero pervenire allo scopo desiderato. Tutto ciò
che per lo innanzi abbiamo riferito del Conte della Cerra non era
avvenuto senza ch'ei lo sapesse, ma, od occupato più strettamente
di prima presso Manfredi, o per alterezza d'indole, aborrente dalle
minuzie che ogni opera per quanto grande suole mai sempre strascinarsi
dietro, ne lasciava lo incarico a costui: ed è qui che bisogna
aguzzare l'intelletto per ben distinguere l'animo di questi due Conti,
perché Rinaldo di Aquino fu gentile Cavaliere, e cortese operatore
di ogni azione onorata; la sete terribile della vendetta convertiva in
malvagie le sue belle qualità; travolto dall'impeto della passione,
più tosto che di animo deliberato, gustava il frutto del delitto,
ed ora si rinveniva sopra una via scabrosa dalla quale nè sapeva
nè voleva uscire, come quella, che sola poteva condurlo al suo
fine: il Conte della Cerra poi era venuto al mondo con le protuberanze
di Truffaldino; le opere oneste non pure ei non eseguiva, ma fatte da
altrui non intendeva, nè poteva andare capace come si potesse dir
savio quegli che altramente da lui praticasse; non amava nessuno, nè
odiava nessuno in ispecie,--odiava tutti; serviva da lungo tempo il
Caserta, imperciocchè ne avesse finora ricavato buono utile, ma stava
pronto a tradirlo, se questo utile fosse cessato, o se il tradirlo gliene
avesse offerto uno maggiore; pensava che il traditore non avesse mai torto
per questa ragione:--quando due uomini,--ragionava costui,--si stringono in
società, egli è certo che l'uno promette all'altro tali vantaggi, che
o solo, o accompagnato ad altro uomo, non potrebbe godere; però, se una
parte cessa di presentare questi vantaggi, e l'altra se ne allontana, la
mancanza di fede non istà nell'ultima, ma sì nella prima che ha
cessato dalla condizione dell'utile, principalissimo patto della antica
stipulazione. In somma, per non fermarci più oltre, chè l'ora si fa
tarda e lunga la via, da che mondo è mondo nessuna testa fu battezzata,
che più di quella potesse fare onore ad un nodo scorsoio.

Rinaldo seguendo la sua orazione favellava ai circostanti: «Ecco
che la Provvidenza vi manda i tempi fatali da voi così lungamente
desiderati, e con tanti voti affrettati: stiamo adesso a vedere che
sarete per fare. Già le vittoriose armi di Carlo, sgombrandosi
innanzi il paese, accennano voler traghettare il Garigliano a
Castelluccio e a Cepperano, già si presentano ad espugnare Gaeta:
sono con loro la benedizione del Pontefice, il valore che nasce dal
buon diritto, la chiamata dei popoli; con quelle di Manfredi, terrore,
e paura: che più dunque aspettiamo a ribellarci?--già più di
quello che si addice ad uomo prudente abbiamo indugiato. Vogliamo
forse che Carlo giunga sotto le mura di Napoli, per sovvenirlo dei
nostri soccorsi? Allora qual sarà maggiore, o la scempiezza del
Conte nel farci partecipi della vittoria, o la imprudenza nostra nel
pretenderlo, io non saprei. Nessun premio senza pericolo, nessun
guiderdone senza fatica: anzi, s'io bene considero, parmi che facendo
alcuna dimostrazione in pro di Monsignore di Provenza non siamo per
correre pericolo di sorta; non anche si muovono le bande armate di
Calabria e di Puglia, non anche quelle di Sicilia; sorgiamo,
precipitiamo gl'indugii, facciamo che queste forze non si riuniscano;
la fortuna non offre più di una occasione; e voi sapete, Baroni,
che un oggi val meglio di due domani, e che chi ha tempo non deve
aspettar tempo; cada questo colosso di creta sotto l'anatema della
Chiesa, sotto il furore degli oppressi. Vogliamo forse aspettare gli
estremi danni per levarci dal collo il vituperoso giogo di Manfredi?
Non bastano i baronali privilegii soppressi? non i balzelli forzati?
non le nostre case espilate? non quelle di Dio contaminate?»

«Non le mogli sedotte?»--qualcuno si avvisò di aggiungere.

«Chi è colui che ha parlato di mogli? Che si vuol dire egli con
le mogli?»--gridò concitato a rabbiosissimo sdegno il Caserta.

«Io l'ho detto così per dire, e per aggiungere un torto a quelli
che avete annoverati.»

Il Conte mutò di colore, cadde riverso su la sedia, dalla quale era
sorto per meglio mostrarsi infiammato nell'orazione, nè per quanto
si sforzasse potè continuare, onde comandava al Cerra, che gli
sedeva a canto, ordinasse i consigli.

Il vecchio, che la sera antecedente aveva con tanta aggiustatezza di
senno favellato, senza altro invito aspettare levatosi in piedi, e
riguardati gli astanti con un certo piglio di superiorità,
cominciava: «Dacchè vogliono i fati che per noi si debba
adoperare uno espediente infame per ottimo fine, confortomi di questo,
che la virtù pubblica fu sempre figlia, più tosto che madre,
della libertà, e che sì come da fetida erba nascono odorosissimi
gigli, così possano derivare dal tradimento sante provvisioni pel
felice stato dei popoli, per la contentezza di tutti. Ora poi, siccome
noi non odiamo _l'uomo_ per sè, ma pel grave giogo col quale ci
opprime, mio consiglio sarebbe che nella esecuzione dei nostri
progetti nessuno odio privato, nessuna nimicizia particolare
intervenisse, onde i nostri posteri vedano che se usammo i mezzi vili,
ciò fu perchè la necessità ci allontanò dai generosi, e la
necessità estimasi somma escusatrice dei fatti scellerati; anzi,
pensando meglio, confido che sia per ridondarcene lode, come quelli
che solo costanti in ben fare tenemmo in niun conto i beni della
opinione. Affrettiamo pertanto Monsignor di Provenza a incamminarsi
quanto può meglio veloce nel cuore del Regno; e non obbedendo ai
comandi dello Svevo, non lo soccorriamo di nostre forze; meglio
sarà non rispondere alla chiamata, che lasciarlo solo sul campo:
certamente colpevole è il primo partito, ma il secondo è
colpevole, e vile. Nè già con questo io voglio dire che ce ne
dobbiamo stare disarmati, no; anzi raduniamo le nostre bande, e
componiamo un esercito, il quale sia freno al conquistatore, e
guarentigia per le cose promesse.--Allorchè invitiamo lo straniero
in casa, ben lo dobbiamo accogliere come amico, tuttavolta però con
tale apparecchio, che il comportarsi anche egli da amico verso di noi
sia cosa non volontaria, ma costretta: quel potere ingiuriare
impunemente è grande incitamento alla ingiuria; e quel dolerci
della ingiuria quando non si hanno che querele per farla cessare, è
stimolo anche maggiore allo scherno. Usiamo della forza che Dio ci ha
concessa: veda Carlo, che se ci siamo dati a lui, potevamo anche non
darci; e se egli non ci assicura, conosca che possiamo assicurarci da
noi.... Ridete, Conte della Cerra? Parlo da stolto io? Per quanto io
abbia meditato, non mi venne fatto conoscere come meglio si possa
ovviare a quanto esponeva la sera trascorsa....»

«Rido sì, Barone, e a ragione rido, imperciocchè questi
vostri provvedimenti somiglino assai a quelli di colui, che, mentre
ardono le interne pareti della casa, s'ingegnasse a spengere
l'incendio con lo spruzzare i muri al di fuori; e' bisogna distruggere
la parte per serbare il tutto; e' fa di mestieri potare i rami
soverchi dell'albero rigoglioso, perchè meglio divenga fruttifero.
Che pensate di fare con codesto vostro esercito mantenitore degli
ordini? Davvero che me ne prende il riso, nè senza ragione,
perchè quando Carlo avrà in mano l'erario, e il potere di
mandare al patibolo chi vorrà chiamare ribelle, i mezzi in somma di
corrompere e di punire, non vedete che quel vostro esercito sarà
disfatto in una ora? E voi sapete che parando innanzi ostacoli agevoli
a superarsi si accresce la baldanza a chi li supera. Udite me adesso,
e dite se consiglio meglio di voi. Corre gran tempo, che una vil
ciurma di vassalli riscattata a contanti dalla servitù, e fattasi
ricca su i nostri livelli, trascorre insolentita a non volere
riconoscere i feudali privilegii, sogna nella grossezza della mente
farsi nostra uguale, osa perfino sperare di concorrere insieme co'
suoi antichi padroni alle magistrature del Regno; e' fa mestieri
cavare un poco di sangue a questo corpo, che tutto giorno con vicina
minaccia di danno s'ingigantisce; è forza che egli si convinca che
può variare signore, non signoria; che deve servirci, che deve
formare una massa morta o viva, secondo i nostri comandi: il mezzo di
conseguirlo sta nell'ordinaria in bande armate, e mandarla in soccorso
dell'_uomo_; s'inciti pure con la lusinga d'una libertà che nè
ella conosce, nè noi le lasceremo conoscere; vada lietamente sul
campo ad uccidere e ad essere uccisa; prevarrà, non ne dubito, la
disciplina francese, non senza strage però, ed allora noi avremo
riportato due notabili vantaggi, quello di essere affrancati da gente
tanto pericolosa, e di avere indebolito coloro che vogliono dominarci;
a noi rimarranno intere le valorose masnade dei nostri castelli, e con
esse la facoltà di sperdere i nuovi signori, sì come saranno
dispersi gli antichi: bello ci si presenta lo scopo al quale miriamo,
nè dobbiamo prenderci cura della via; un tradimento più, un
tradimento meno, non è quello che ci deve tenere ormai che siamo su
l'operare, e finalmente un po' di sangue nelle rivoluzioni parmi
necessario.... E che! abbrividite voi? Da quando in qua diventaste
femminette voi, da atterrirvi a questa parola? occorre forse uno tra
voi che abbia le mani incontaminate? Chi di voi oserebbe giurare sul
Vangelo che nei sotterranei del suo castello non ha fatto commettere
segreto omicidio? In verità io vi confermo che le rivoluzioni senza
sangue non hanno opinione. Perano Carlo e Manfredi, e provvediamo una
volta a noi stessi. Forse alcuno temerà di risse civili, di contese
tra i capi; ma oltrechè il Pontefice, apparecchiato a prevalersi
della nostra discordia, farà in modo che stiamo collegati per
ributtare i suoi tentativi, le guerre civili si vollero sempre
preferire alle dominazioni straniere.»

Giunto che fu il Conte Anselmo a questa parte di sua orazione, la
quale, se non per la profondità, almeno per la tristezza equivaleva
a qualunque pagina del nostro Machiavelli, s'intese uno spesso
scalpitare di cavalli, e vicino. Si alzò prestamente un congiurato,
e fattosi al balcone della stanza contigua, ne ritornò tutto
disfatto gridando: «Armati! armati a questa volta!»

Rispondevano in tumulto: «Siamo traditi.»--«E' sarà la
ronda che passa.»--«Misericordia! noi siamo
perduti!»--«No.... sì.... udite al rumore ch'è troppo
grossa squadra per andare in ronda.»--«Ma se lo aveva detto,»
senza levarsi da sedere parlava il vecchio congiurato al suo vicino
«che le cospirazioni quando vanno in lungo non si possono celare,
specialmente tra noi che siamo d'indole tanto loquace!»--Lo
scompiglio cresceva: egli era un andare, un venire, un urtarsi; pochi
aveano tratta la spada, sprangata la porta al di dentro, e senza dire
un fiato si mostravano disposti all'estrema difesa; i più
invocavano o bestemmiavano Dio, e si avvolgevano per la sala privi di
mente, per modo che somigliassero ai percossi di cecità
dall'Angiolo del Signore davanti la casa di Lot. A tanto scompiglio si
aggiunse un asprissimo colpo su la porta della via, e un grido che
diceva: «Aprite, da parte di Messere il Re.»--Nessuno ardì
muoversi alla chiamata, nè avrebbero potuto, chè i più fieri
guardavano il passo: qual con gli occhi al soffitto, quale al solaio,
speculavano se si parasse loro dinanzi un nascondiglio; videro una
porta, e tutti facendo pressa si affollarono per aprirla; i primi
sospinti vi dettero dentro col capo e col petto, e colà confinati,
non potendo farsi largo per operare, e cansarsi nè meno, ne veniva
che facessero nulla; intanto quei di dietro maledicevano la lentezza
loro, e spingevano più che mai.

Rinaldo di Caserta, il quale dopo l'osservazione che interruppe il suo
discorso era rimasto come smemorato, si riscosse a un tratto, e:
«Svergognati!» esclamava «nel porvi dentro alla congiura voi
non avete calcolato tutti i casi,--peggio per voi: questo è il caso
del pugnale; mettete la morte tra voi e i vostri persecutori, nè
temerete persona.»

Sono i Napolitani uomini in fama di poco valenti, ed anzi che no di
codardi; tuttavolta la fama erra, e le storie rammentano fortissimi
fatti per loro operati, quando che alcuno gli abbia con l'esempio o
con le parole commossi; però, udito il Caserta, mutarono avviso, e
tratte le spade giurarono combattere fino all'ultimo sangue. Per
istrana contradizione della nostra natura, quelli che si erano
mostrati più pronti alla fuga, contendevano adesso per essere
situati nel luogo più pericoloso.

Poichè gli scudieri di Manfredi ebbero per ben tre volte, e sempre
indarno, ripetuto la intimazione di aprire la porta in nome del Re,
posero mano ad atterrarla; conseguivano l'intento, e primo il Re si
cacciava su per le scale seguitato súbito dopo dal Cavaliere
sconosciuto; percorsero moltissime camere senza trovare traccia di
anima vivente, quando alla fine pervennero innanzi un'altra porta
serrata; provarono a schiuderla con le sole mani; non venendone a
capo, presero a darvi dentro con le mazze d'arme, così che fecero
cedere anche questa, con tempo e fatica maggiore però, come quella
ch'era forte sbarrata. Penetravano nella sala,--non v'era persona; si
vedevano su di una tavola molti mantelli, per terra qualche brano di
veste, e due spade, un fuoco, ed assai lumi accesi, vestigii tutti di
recenti abitatori,--ma gli abitatori erano scomparsi. Manfredi,
osservate alcune carte, le tolse in mano, e conobbe con maraviglia
essere lettere del Pontefice e di Carlo, suoi nemici, ai ribelli.
Intanto gli scudieri, non potendo darsi pace come fossero scampati i
traditori, facevano le più strane cose del mondo: occorreva
dirimpetto alla porta per la quale erano entrati un'altra porticella
foderata di ferro di saldissima apparenza, per lo che stimando che
fossero indi fuggiti, senz'altra cosa considerare, vi si affollarono
per isforzarla, siccome poc'anzi aveano tentato di fare i ribelli, e
già accennava crollare agli urti replicati, quando il Maestro
dimostrava impossibile che se ne fossero usciti per quella, da che i
catenacci si aprissero dalla parte loro. Adesso accadeva un fatto
singolare: considerando certo scudiero assai devoto al suo Re gli
arazzi che addobbavano la sala, ne fissò uno che presentava il Papa
seduto in Concistoro nel punto di ricevere la _Chinea_, e il tributo
che già da qualche secolo aveva imposto sul Regno; rabbioso di
cieco impeto, alzò la mazza d'arme e lasciò andarla di tutta
forza contro l'arazzo: ben per quel Pontefice ch'era tessuto,
imperciocchè la mazza giunse a ferirlo giusto su l'orecchio, e gli
divise la testa; l'arme però non balzava indietro, siccome doveva
accadere se avesse urtato nel muro, anzi s'internò nell'arazzo,
disparve, e s'intese ruzzolare molti passi distante: pensisi al
terrore dello scudiere; per poco stette che prostrandosi non
iscongiurasse il panno di perdono, se non che il Cavaliere
sconosciuto, o sì vero Rogiero, accorse prestissimo, e divisolo
affatto, scoperse un molto largo corridore. La scoperta di questo
passaggio, unita alla osservazione del Maestro, distolse gli scudieri
da atterrare l'altra porta, e fece sì che aspettassero gli ordini
di Manfredi: questi, animoso come era, recatosi nella manca un lume,
si cacciava dentro al corridore; lo seguitavano i suoi.

Importa avvertire che la sala dove si radunavano i congiurati fu
già destinata ai giudizi criminali, allorchè il Vicario
pontificio reggeva Benevento per la Chiesa: la porticella che gli
scudieri avevano voluto atterrare menava alle carceri; quel largo
corridore nascosto dietro l'arazzo serviva per stanza delle prove;
quasi capi d'opera dell'arte raccolti dentro qualche museo, vi si
vedevano disposti in ordine gli arnesi adoperati a que' tempi per far
confessare gli accusati;--eranvi le verghette di acciaio, dal lungo
disuso un cotal po' rugginose, pel tormento così detto dei
_Sibilli_, consistente nello introdurle tra dito e dito, e poi
stringer forte, il quale solevano adoperare con le donne, co'
fanciulli, e co' vecchi; eravi la _Stanghetta_, lungo pezzo di legno
di forma triangolare, che si poneva sotto i piedi del paziente,
forzandolo a posarvisi ritto durante la recita di due _Miserere_;
eravi la _Corda_, chiamata dai Dottori _Regina probationum_; la
_Capra_, o sia cavalletto a schiena d'asino, sopra del quale
costringevano lo imputato a giacersi supino; eranvi manette, spranghe
per la bocca, tanaglie, e l'altre suppellettili degli antichi giudizi.
Adesso (di tanto ci è stata benigna l'eterna misericordia) non solo
rimasero coteste infamie abolite tra noi, ma pochi sanno in che
consistessero; frutto dei caritatevoli scrittori del trapassato
secolo, che di sì grande conforto sovvennero le umane condizioni;
pure e' mi è forza, e con dolore inestimabile, confessare che i
delitti, invece di andarne diminuiti, spaventosamente si accrebbero.
Di cotesti scrittori tolsero l'ultima parte, e lasciarono la prima,
nè considerarono che la conclusione del sillogismo non può stare
senza la premessa. Basta, le mie parole sentiranno, più che
d'altro, di scemo; ma finchè non mi abbiano convinto in contrario,
persisterò a credere, che gli uomini abbiano tolto la benda al toro
prima d'introdurlo nello steccato.

Manfredi, senza dare attenzione a cotesti arnesi, procedeva con
moltissima furia; trascorse un numero maraviglioso di camere e di
anditi, di cui gli usci per la troppa fretta erano stati lasciati
aperti; finalmente, quando meno se l'aspettava, sboccò in una
strada deserta prossima alle mura: intese il guardo, intese le
orecchie,--da per tutto silenzio; stette per alcuni minuti in forse se
dovesse ritornare, o seguitare; poi il meglio gli parve rifare i
passi: pervenuto nella sala della congrega, ordinò agli scudieri
prendessero i mantelli, le spade, e ogni altra cosa lasciata dai
cospiratori; le lettere dei suoi nemici già si era riposte con
molta diligenza nel seno. Avviandosi al palazzo reale si accorse che
il Cavaliere sconosciuto, côlto il tempo, s'era fuggito: il caso
inopinato non gli apportava maggiore maraviglia; gli accresceva il
sospetto.

Intanto Rinaldo ed Anselmo, trafelati, affannosi, chè avevano
camminato più che di passo, arrivavano alle dimore loro. In qual
modo fossero giunti a sottrarsi all'imminente pericolo esporremo con
brevi parole. Il Conte della Cerra, come colui che astutissimo era,
non aveva scelto il palazzo del Legato pontificio per la riunione dei
congiurati senza il consueto accorgimento: già prima che si
partisse di Napoli aveva sentito tenere proposito delle segrete uscite
del palazzo di Benevento; sua prima cura, appena venuto in questa
città, fu di accertarsi se fosse vero quello che portava la fama, e
tanto gli fu favorevole la ventura, ch'ei ne ritrovasse la pianta
dentro l'archivio: la cagione per la quale non isvelasse il passaggio
al primo rumore, si trova nella sua scellerata natura: vilissimo uomo,
godeva dell'avvilimento dei suoi simili, e in quella comunione di
bassezza il suo cuore si sollevava; nè, se qualche grave bisogno
non lo avesse costretto, avrebbe egli imposto termine alla
dimostrazione delle vergogne spirituali, ch'ella era il più gradito
spettacolo al quale potesse esser chiamato; però finchè vide tra
i cospiratori paura, stette a goderne, immemore del pericolo; ma
quando si concitarono a súbito sdegno, quando statuirono di
difendersi, e di morire, allora, quasi non potesse sopportare la luce
di quella generosità, partecipava loro conoscere modo di salvarsi
con la fuga: se lo accettassero con liete grida, se lo immagineranno
coloro i quali sanno, che se l'uomo talvolta s'induce a diventare
prode per disperazione, più spesso si rimane vile per sicurezza.

Non anche si ristoravano dello affanno sofferto, che videro i nostri
Conti entrare nella stanza uno scudiere del Re, il quale per parte del
suo signore intimava che tosto si rendessero a Corte.

«Sapete voi la cagione della chiamata, scudiere?»--domandava il
Cerra con mal celata impazienza.

«La mia commessione sta nello intimarvi di andar súbito in
Corte.»--E dette queste parole, lo scudiere fece un inchino, e si
partì.

«Io non vi andrò,» parlava il conte Anselmo «no certo; se vogliono
imprigionarmi, mi prendano; ma che vada io stesso a pormi nella
tagliola, non conosco legge divina nè umana che lo comandi: su,
levatevi, Conte; non parmi tempo di meditare questo,--fuggiamo.»

«E sempre fuggire, e sempre fuggire, nè ferire mai!»
rispondeva il Caserta «vattene, se vuoi; io aborro il consiglio
della paura; non passò anche un'ora che mi apparecchiava a partirmi
da questa vita senza vendetta, adesso avanti di morire posso sperare
di vedere il sangue del mio nemico;--è mancata la vendetta della
mente, quella della mano non può mancare: non sei anche tu armato
di pugnale? che temi? La morte salda tutti i conti:» e preso
Anselmo pel braccio aggiungeva: «Vieni.»

«Ecco, Messer Contestabile, ecco, Messer Camarlingo,» esclamava
Manfredi appena vide i Conti di Caserta, e della Cerra, che entravano
nella sua camera, «la vantata fedeltà dei miei Baroni: quando io
mi travaglio dì e notte per preservarli dalla invasione straniera,
quando io mi apparecchio a versare il mio sangue sul campo in loro
tutela, invidiosi perfino che io chiuda con la gloria una vita
consumata dalle fatiche, congiurano a spengermi col pugnale del
sicario, offrono al mio nemico il mio trono,--perfidi!»

«Messere il Re,» rispondeva il Caserta «ma siete veramente
certo che non vi abbiano ingannato?»

«Ingannato! guardate se m'inganno io, leggete queste lettere,
vedete la firma del Conte di Provenza, argomentate dalla risposta che
cosa gli abbiano offerto i ribaldi.»

«Io fremo!»--gridavano a due voci Anselmo e Rinaldo.

«Ella è una indegnità: mi vogliono crudele, tentano ch'io
contamini la mia fama di principe benigno,--l'otterranno; forse il
sole di domani può incontrare co' suoi primi raggi più di cento
teste divise dal busto. Qui, dove li chiamo a consultare delle cose
del Regno, qui mi tradiscono, infami!»

«Io vi ho sempre confortato al rigore. Messere il Re.»
soggiungeva il Cerra «nè so perchè prevalesse il malvagio
consiglio: i buoni non hanno bisogno di clemenza: pe' tristi ci vuole
giustizia, e inesorabile, e severa.»

«Che cosa ho io fatto ai Baroni, perchè non rifuggano all'idea
del vituperio per distruggere il Re?...»

«Il figlio di Federigo!»--aggiunge il Caserta.

«Santo Germano glorioso!» esclama il Cerra «come preporre uno
sconosciuto a tanto savio, a tanto virtuoso signore?»

«No, miei fedeli, io mi sento colpevole; ma se Manfredi ha peccato,
non ha peccato contro di loro.»--E qui tace. Dopo lungo
tempo:--«Forse sono giudicato,» mormora sommesso «forse
questa è la prima ora di passione; facciamo tutto quello che ad
uomo magnanimo conviene in tale estremo, poi lasciamo compire a Dio
ciò che ha destinato.--Baroni, sedetevi.»

Seduti che furono, con ammirabile celerità dettava loro dispacci ai
Luogotenenti, ai Governatori, e ad altri magistrati che lo
rappresentavano nelle città del Regno; ordinava che quanto prima si
muovessero co' presidii, disegnava la via da tenere, le fermate da
fare, ed accennava Capua, e San Germano, come i luoghi nei quali
dovessero rannodarsi: scritti i dispacci, senza pur leggerli gli
sottoscriveva, e gli suggellava; così se ne andava gran parte della
notte. Terminata cotesta faccenda, spediva il Cerra, affinchè
provvedesse che frettolosi Corrieri gli recassero al destino loro.
Rimaneva col Caserta.

«Tu almeno non mi tradisci, o fedele;» favellava Manfredi
ponendo la sua nella destra di lui «la nostra amicizia è bene
antica: cominciava sotto gli auspicii di tale creatura, che adesso
certamente la benedice dal Paradiso.... Oh! io sono indiscreto a
rinnovarti un dolore; il tempo non ha sanato la tua ferita? Pur troppo
il tempo non ha potenza sopra affanni sì fatti! Tu va, provvedi col
Conte Giordano alla sicurezza di questa città, e della mia
famiglia; per la perfidia di pochi ribelli io non devo lasciare la
difesa dei miei fedeli, nè posso; mi si attribuirebbe a codardia:
se deve tramontare la stella di Svevia, tramonti co' medesimi raggi
con i quali comparve;--splende inclito il nome dei miei padri, nè
noi lo contamineremo: facile è mostrarci grandi allorchè la
fortuna esalta, difficile quando deprime.--Va, provvedi, tu hai senno
da reggere il Regno; fa tutto quello che vuoi, pur che non vi sia
sangue; poniamo i traditori in istato di non perdere i buoni; abbiano
per pena l'onta di aver macchinato inutilmente un'opera di vergogna:
molto mi prometto dalla vigilanza e dalla fedeltà tue.»

Accolse queste carezze il Caserta;--come un lione ammansato partiva
per fare l'ufficio.

Il Conte della Cerra, spediti i Corrieri, tornava al palazzo;--per via
andava pensando:--giudica, testa mia, se il destro di scoprirsi è
arrivato;--avesse Gisfredo preoccupato il passo?--fingesse Manfredi
con noi? Veramente Gisfredo non mi occorre più innanzi gli occhi, e
Manfredi è capace di questo, e d'altro. Ma Gisfredo non può
avergli detto il come, e il quando.... no.... io non glielo ho mai
confidato, e buona previdenza fu questa; dunque potrebbe essere una
mia confessione tuttavia necessaria, e premiata. Chi mi assicura che
Manfredi mi darà guiderdone? Avessi guarentigia.... allora.... egli
certo mi disprezzerà.... che importa? non mi dispregio io stesso?
Questo non monterebbe nulla, basta che fosse certa la mercede....
facciamolo giurare su i Vangeli.... ma se è eretico!--su l'onore di
sua famiglia.... ell'è tutt'una. Veramente posso affidarmi nel
pensare che premierà il primo delatore, perchè gli altri non si
perdano d'animo a svelargli le congiure che possono succedere; certo
non sarebbe accortezza punire anzi che premiare a quest'ora, nè
Manfredi è stolto;--di stargli al fianco non amo, nè egli
amerà;--mi manderà governatore in qualche lontana provincia di
Sicilia; tanto meglio per me, reggerò a mio modo, avrò il
diritto della vita e della morte; oh! somma gioia firmare una sentenza
di morte! Vedi come la speranza ruba la mano al senno! e se Carlo
viene? il meno che me ne possa andare, rimanendo, è la testa;
fuggendo, tapinerò pel mondo miserabile.... atroce delitto è
la miseria! in tutta la terra si trovano tribunali apposta per
punirla; i miei feudi, il mio governo, non potrò già trasportarli
meco:--patteggiamo a contanti,--torna meglio così; me ne andrò a
Trapani, appresterò quivi una _saettía_; e se le cose rovinano
per lo Svevo, fuggirò tra' Saracini, e se bisogna, rinnegherò.
La terra del mio nascimento? che nascimento? Dovunque la vite produce
il liquore che rallegra il sangue, dovunque la bellezza concede le sue
voluttà all'_affetto coniato_, dovunque s'incontrano anime da
corrompere, virtù da schernire, vizii da esercitare, colà è
la mia patria. Epilogando:--Rinaldo comincia a diventare pericoloso;
egli ha mancato di fede, e prudenza vuole che io l'abbandoni.--Così
meditando pervenne nell'anticamera del Re.

«Anselmo,» gli disse il Conte di Caserta, occorrendogli,
imperciocchè volle il destino che ritornasse prima di lui; «io
ti aspettava.»

«Ch'è mai avvenuto di sinistro, Messere?»

«Nulla. Manfredi non diffida di noi; non vi smarrite di animo,
Anselmo; mostriamo il viso alla fortuna, chè non sono ancora
disperati gli eventi. Avete consegnati i dispacci?»

«Gli ho consegnati.»

«E fatti partire i Corrieri?»

«Sì, Conte.»

«Perchè avete fatto questo?»

«O che aveva io a fare?»

«Voi non siete uomo da suggerirvi che dovevate gettarli nel
fiume.»

«Avete ragione, Messere; ma la vertigine dei casi mi ha turbato la
mente.... io non sapeva.... io non avrei pensato....»

«Bada, Anselmo, a quello che operi; il mio cuore presso a cessare i
suoi palpiti, ha ripreso l'antica vigoria; egli veglia, e tu non
potresti essere a tempo a tradirmi.»

«Oh! che parlate, mio nobile protettore?» riprese il Cerra con
atto di ossequio «io non ho mai tanto ferventemente ringraziato il
Cielo quanto ora, che mi concede occasione di mostrarvi la mia
riconoscenza col mettermi a rischio della vita per voi: meco stesso ho
giurato di partecipare alle vostre gioie, ai vostri supplizii.»

Rinaldo fece sembianza di ringraziarlo con un sorriso; pure sapendo
quanto malvagio fosse colui, divenuto anche sospettoso dal pericolo,
non volle che dipendesse dalla sua scelta il mantenersi onesto; seco
lo condusse alla presenza di Manfredi, nè lo lasciò un momento,
finchè il fato estremo, che ormai minacciava il Conte della Cerra,
non gli ebbe chiuso le labbra col segreto della morte.




CAPITOLO VENTESIMOQUARTO.

LA PROVA DI DIO.

                Cotal fin ebbe il maledetto Gano:
                Chè lo eterno giudicio è sempre appresso,
                Quando tu credi che sia ben lontano.
                                   MORGANTE MAGGIORE.


Sopra la testa di Manfredi posa la corona dei Re;--se fosse un cerchio
di fuoco, la cingerebbe con meno dolore; una angoscia, come se la lama
di pugnale gliele passasse da parte a parte, gli tormenta le tempie;
le fibre del suo cervello, quasi riarse, sono stirate con incredibile
spasimo; nondimeno solleva quella testa baldanzoso quanto in un giorno
di vittoria, e dimostra che l'orgoglio dominerà su la sua fronte,
finchè la morte non vi spieghi l'insegna della distruzione. Quegli
occhi assuefatti a vigilare notti di spavento, a dormire sonni pieni
di paura, che spesso si affissano in cotale direzione che non è
della terra o del cielo, ma quasi a contemplare le schiere degli
spiriti malefici, che la superstizione e il rimorso hanno posto
nell'aria sotto il cerchio della luna,¹ quegli occhi, dico,
scintillano pur sempre di tale una luce, che bene ardito è colui
che osa mirarli la seconda volta; infinite vene azzurre e sanguigne si
dipartono di sotto il ciglio, e dirigendosi verso la pupilla si
perdono pel bianco sporgente in molto terribile maniera:--pare che una
scossa d'interna passione lo abbia forzato a balzare dalla fronte,
ch'esso abbia resistito e vinto, pure la vittoria non sia stata senza
gran danno, e rimanga così come franato mezzo fuori delle
palpebre;--certo quegli occhi appaiono tremendi; ciò che di truce
può immaginare la fantasia commossa hanno veduto, ed oggimai senza
altra alterazione potrebbero fissare gl'interminabili cruciati delle
anime perdute;--susurra la gente uscirne un raggio più spaventevole
della cometa scomparsa, e giura che arde le carni su le quali si posa.
La faccia ha bianca, e per la faccia erra un sorriso;--ride la demenza
perchè non sa piangere;--ride la disperazione perchè non può
piangere;--di gioia veramente egli non ride; se poi l'Onnipotente gli
abbia tolto il senno o la speranza, noi non sappiamo;--la scienza
della polvere non giunge a distinguere i segni della passione. Tale
apparisce Manfredi circondato dalla pompa reale: la clamide di
porpora, ricamata d'oro e sparsa di gemme, gl'ingombra parte della
persona; stringe con la destra lo scettro; la manca ha su l'Aquila di
argento che porta tessuta nel petto:--s'ei lo fa per reprimerne il
volo, lo tenta invano:--sta scritto nel libro dove nè per minaccia
nè per preghiera lo Inesorabile cancella, che l'Aquila sveva deva
abbandonare per sempre la terra di Napoli.

  ¹ Nel secolo del quale narriamo comunissimo era l'errore di
    supporre nelle sfere generazioni di spiriti maligni, che si
    potevano costringere per via d'incanti.  Questa erronea credenza
    fu una delle cagioni per cui nel 1327 abbruciarono vivo in Firenze
    il celebre Cecco d'Ascoli degli Stabili.

Alla destra del Re siede il Conte Rinaldo di Caserta della famiglia di
Aquino, sì come Gran Contestabile della Corona: sopra il suo seggio
si vede lo scudo portante l'arme di sua casa, che a que' tempi faceva
tre bande rosse e tre bande d'oro cascanti da destra a sinistra
inquartate, con un lione rampante, da metà in su d'argento in campo
rosso, in giù rosso in campo di argento. Veste egli la cappa di
porpora foderata di armellini, copre la testa d'una berretta di seta
rossa, e tiene tra le mani la spada reale, insegna del suo ufficio:
dimentico della gente che lo circonda, dimentico di sè stesso, si
affissa sul volto di Manfredi per ispiarne il dolore; s'egli godesse,
o sivvero si disperasse della costanza del Re, non dimostrava al di
fuori, imperciocchè stesse immobile come cadavere. Primo a mano
sinistra del Re comparisce il Gran Giustiziere del Regno, Giordano
Lancia, cugino di Manfredi: veste anch'egli di porpora, e a lato della
sua arme, che mostra lione nero in campo d'oro, con fascia intorno
allo scudo, d'oro e di rosso, la quale avevano assunta i Conti di
Lancia sì come discendenti dai Duchi di Baviera, spiega il
gonfalone della giustizia, che secondo l'antica costumanza appiccava
al balcone del palazzo ogni qualvolta condannava un uomo alla morte.
Immediatamente dopo il Contestabile a mano destra veniva il seggio del
Grande Ammiraglio, nel quale non si vedeva persona, perchè cotesto
ufficio il Re Manfredi avesse conferito a Marino Capece, che in quel
tempo, insieme col fratello Corrado, governava Sicilia: stava
nondimeno su la sommità del seggio effigiata l'arme di sua
famiglia, e il fanale, insegna della carica. Secondo alla manca del Re
veniva Anselmo Conte della Cerra, gran Camerlingo, vestito anch'egli
di porpora, con la chiave d'oro alla cintura: volgeva sospettoso gli
sguardi per ogni parte, ed osservava in un punto teste, mani e petti;
là dove era riunita una sola fila di Cavalieri o non guardava, o
poco; ma ogni sua cura metteva di penetrare tra capo e capo, dove la
folla compariva ben fitta, e discernere i più lontani e i meno
rischiarati dalla luce. Seguitavano dopo di lui gli Ufficiali della
Corona nel seguente modo, che minutamente descrivere sarebbe troppo
grande fastidio nostro e altrui: il Gran Protonotario, di cui l'opera
consisteva in ricevere i memoriali, e ridurre in decreto tutto quello
che il Re sentenziava, sedeva terzo alla destra del Re, ed era, per
quello che raccontano le storie, un messer Giovanni d'Alife; il Gran
Cancelliere presidente degli affari civili del Regno e Segretario del
Re, terzo a sinistra dopo il Conte della Cerra, il nominato Corrado di
Pierlione Benincasa: e finalmente il gran Camerario, con la testa di
cignale ricamata nel mantello di porpora, seduto su i gradini del
trono ai piedi del Re, che, se la mente non erra, si appellava
Giordano d'Angalone, zio di quel Natale che fu poi tanta parte nella
congiura dei Vespri Siciliani. Disposte sì come abbiamo narrato le
principali cariche della Corona, occupava la rimanente sala del
Parlamento il volgo dei nobili, non già alla rinfusa, ma secondo la
dignità dei _sedili_ loro: e questi _sedili_, per chiunque avesse
vaghezza di sapere che fossero, erano vastissimi portici aperti, dove
da tempo immemorabile i Baroni delle diverse contrade si convocavano
per trattare di affari pubblici e privati, o sì per diporto.
Allorchè il Conte di Provenza scese in Italia alla occupazione del
Regno se ne noveravano ventinove, sei dei quali maggiori, ventitrè
minori: primo in prerogative era il Sedile _Capuano_, così detto
per trovarsi presso alla casa del Re: secondo _del Nilo_, per una
statua antica di questo fiume che avevano collocato nel mezzo del
portico; terzo quello _della Forcella_, perchè presso alle forche;
quello _della Montagna_ era il quarto, essendo nel luogo più alto
della città; pure tra i maggiori si consideravano i Sedili di
_Porto_ e _Portanuova_: i rimanenti passano innominati. Maravigliose a
vedersi erano le ricche vesti, i giubboni di broccato, i mantelli,
quale foderato di vaj, quale di zendadi verdi, rossi o rosati;
aggiunge la Cronaca il nome di alcuni altri abiti, dei quali le
memorie non ci hanno conservato la forma, come _cipresi_, _tuni_, e
_cioppe_; maravigliosi i gioielli, le catenelle e le cinture di oro o
di argento, che lavorate con quanto di più ingegnoso sapessero
inventare le arti in cotesta età, e tempestate di diamanti,
valevano talvolta mille e più once; ma più maraviglioso a
considerare era, come in tanta ragunanza di gente, per natura
loquacissima, non s'intendesse il più leggieri susurro; parevano
ombre di morti costrette dagli scongiuri del negromante a comparire su
quella terra, che da lungo tempo ne ha disfatto i cadaveri.

Mentre con grandissima sospensione di animo stavano i convocati nella
aspettativa di eventi mirabili, dischiuse, allo improvviso le imposte
d'una porta, comparvero due chierici, che portavano un altare, dice la
Cronaca, di legno; ma noi troviamo, che simili altari permessi nelle
persecuzioni della Chiesa furono dopo l'Imperatore Costantino
solennemente aboliti nell'anno 547 di nostra salute in un concilio di
Francia; onde ci è forza credere che Manfredi, il quale voleva fare
le tante cose a suo modo diverse dai precetti della Chiesa, così
pure si comportasse sul fatto degli altari. Giunti che furono i
chierici sul mezzo della sala, quivi si fermarono, e accese due
candele, e posto sull'altare un Crocifisso di argento, e un messale
con ornati parimente di argento, senza proferire parola, come erano
venuti, se ne tornarono. Manfredi soprastette alquanto, poi si mosse
per alzarsi dal trono;--parve che non potesse; tentò di nuovo, e
invano; alla fine con inestimabile sforzo si levò in piedi, scese i
gradini, e si fermò davanti l'altare; depose sopra esso lo scettro,
la corona, e la clamide; alzata quindi la destra nuda verso i Baroni
esclamò: «Noi non vogliamo sangue.... noi non vogliamo il
vituperio vostro.... cessate di cercare nel tradimento la via di
rovinarci dal trono.... voi nol potreste. Per libero, universale
consentimento vostro, questo scettro, e questa corona assumemmo a
Monreale; di libero consentimento nostro, questa corona, e questo
scettro vi restituiamo a Benevento: possa colui che voi chiamate a
succederci, operare quello che noi volemmo; possa con le sue virtù
farvi benedire il momento, nel quale, mutando di fede, sommo bene
riputaste la caduta del vostro antico signore!...» E seguitava
molto commosso, se non che i Baroni, nulla rispettando la parola del
Re, trassero le spade, e proruppero con altissime grida: «Morte ai
traditori!... dove sono i traditori?»--e quelli che più urlavano
erano coloro che più lo tradivano: il Conte della Cerra fu per
perderne la voce; Rinaldo di Caserta alzò la spada, ma rinvenuto
dalla sua distrazione, conoscendo che si trattava di difendere, non di
ferire il Re, l'abbassò sospirando:--«Non è anche tempo!»

Il nobile Manfredi levandosi contro coteste voci, prorompeva: «Noi
non vogliamo sangue:--sia questo l'ultimo comando della nostra
autorità.»

Allora i Baroni non sapendo che cosa gridare, dicevano:
«Riponetevi, messer lo Re, la corona che vi abbiamo data; noi
spenderemo la vita per mantenervela su la testa.»

«Oggimai» rispondeva Manfredi «la corona di Sicilia, più
che di gloria, è diventata di spine: pure noi non rifiutiamo lo
incarico, laddove voi partecipiate nei pericoli di sostenerlo; nè
noi soli bastiamo: giovi oggi rinnuovare l'antico giuramento; questo
è il Cristo medesimo, che ascoltava, ora fa dieci anni, le voci
vostre; questi gli Evangeli che sentivano il tocco delle vostre
mani:--giurate.»

Se qualcheduno pratico delle cose del mondo domandasse qui, come
Manfredi, il quale per indole e per esperienza tanto diffidava degli
uomini, si commettesse così di leggeri alla fede loro, e stimasse,
che alcune parole proferite avanti una immagine valessero a ritenere
dal tradirlo anime, che cessarono di essere innocenti dal punto in cui
pensarono al tradimento, noi vorremmo pregarlo a porre mente, che i
tempi si erano fatti tali pel figlio di Federigo, che pericoloso
diventava il non versare sangue, pericolosissimo il versarlo: vedeva
anche egli la debolezza dell'espediente che adoperava, ma aveva
meditato sul danno di quello che non adoperava: non già ch'egli
abborrisse dalle vendette, chè anzi n'era quanto altro uomo
desideroso: pure se nella casata dei traditori avesse avuto qualche
amico al suo nome, se lo sarebbe alienato col supplizio del congiunto;
ed egli molto abbisognava di amici, chè di nemici ne aveva più
del necessario. Nello interno dell'animo però disegnava, passata
quella tempesta, di farli colpevoli per punirli con la giustizia, e i
pochi che suo malgrado si fossero rimasti incontaminati spegnere col
veleno. Quello poi che faceva non era scelta; e da che operava
costretto, la sua memoria poteva consolarsi nel felice esito
dell'avventura, presso a poco uguale, eseguita da Filippo Augusto
innanzi la battaglia di Bouvines per confermare la fede vacillante dei
Baroni francesi. In tempi a noi più recenti, Maria Teresa,
l'animosa Imperatrice, disperate le cose del Regno, suscitò il
valore degli Ungari con simile accorgimento, e prevalse al nemico;
molti altri Re e capitani usarono di queste arti con lieto fine, molti
anche le usarono con tristo, e Manfredi fu degli ultimi; colpa meno
del consiglio, che è cosa stolta biasimare dal fatto, che della
umana natura, la quale composta di contraddizioni non concede sistema
certo, nè regola per condurci con passi infallibili nei casi dubbii
della vita: onde s'egli è pur vero che quel Divino lo dicesse,
disse poco savia sentenza Galileo quando sostenne, potersi ridurre a
dimostrazioni geometriche le operazioni morali dell'uomo. Tanto e
tanto c'inabbisseremmo dentro queste sottigliezze, allorchè ci
capita il destro di fantasticare a modo nostro, che se altri non ci
riscuotesse, immemori della storia che raccontiamo, immemori del
principio dei ragionamenti stessi, e di noi, chi sa dove mai andremmo
a riuscire:--e' vogliono essere storielle, non raziocinii; e la più
parte di coloro che ci leggono, andiamo convinti, che, quando
s'imbatte in un discorso come il passato, quasi dovesse affaticarsi su
l'erta di qualche gran monte, apparecchia lo affanno, o da bestia
leggiera lo scavalca a piè pari.--Proseguiamo il racconto.

Rispondevano in tumulto, sì come vuole il costume della plebe
raccolta, i Baroni del Regno: «Messer lo Re, noi siamo pronti a
fare quello che comandate.»

Scompigliati gli ordini, Anselmo trovò modo di accostarsi a
Rinaldo, che tornato su l'astrazione pareva sonnambulo, e dirgli
all'orecchio con molta destrezza: «Conte, tornate in voi; bisogna
rinnuovare il giuramento di fedeltà.... vedete un misfatto di
più.»

«Non sarà quello che ci manderà all'Inferno,»--rispose
Rinaldo: quindi accostatosi francamente all'altare, sì come correva
la usanza s'inginocchiò pel primo, e toccando con la destra il
libro dei santi Evangeli, con la manca le mani del Re, proferì a
voce alta che si fece a mano a mano più fioca: «Al cospetto di
Dio e dei Santi, rinnuovo nelle mani del mio Re Manfredi Primo il
giuramento di _lealtà_, e _ligio omaggio_, che già gli ho
giurato a Monreale:»--dette le quali parole, od ira, o coscienza,
che il rimordesse, di vermiglio che era si fece pallido, e le parti
del volto meno esposte alla circolazione del sangue diventarono di
colore oscuro; nondimeno tanta faceva pressa il Gran Giustiziere di
prestare il proprio giuramento, che quei moti del Caserta passarono
inosservati. Ora si accosta il Conte Anselmo, baldanzoso, ridente di
quel suo schifoso sorriso, quasi togliendo a scherno la persona del
Re, e l'aspetto molto più sacro del Dio-Uomo, il cielo e la terra;
si prostra innanzi l'altare, e stende la destra sopra gli Evangeli....

«Cristo!»--urla spaventato il maladetto, chè una mano
ghiacciata gli avvinghiava il polso a guisa di tanaglia, e glielo
teneva sospeso.

«Spergiuro!» lo minaccia da tergo un Cavaliere affatto coperto
di maglia «se non mi tenesse il rispetto dell'altare, che tu hai
polluto, e quello della Serenità del Re Manfredi, io ti darei d'un
coltello pel mezzo del cuore;--alzati.... dinanzi al mio Re, dinanzi a
voi altri, onorati Baroni, accuso costui, Anselmo Conte della Cerra,
colpevole di _crimenlese_, e traditore del Regno.»

«Tu te ne menti per la gola!»--comecchè sbigottito dal caso
rispose incontanente Anselmo della Cerra.

«Io» riprendeva il Cavaliere, volgendosi a Manfredi,
«costituito nella presenza della Serenità Vostra, con buona
grazia e licenza affermo, che Anselmo Conte della Cerra qui presente
è traditore. Egli ha tentato dare ai vostri nemici la terra vostra
in danno e vilipendio di voi, dello Stato vostro, e con pessimo
esempio di tutti i vostri vassalli; si è adoperato nella infame
opera con ogni suo ingegno e forza; e quantunque infiniti concorrano
gli indizii per chiarire con certezza la mia accusa, mi restringo a
produrre questa carta, che per certo di per sè sola sarà
sufficiente.»

Porgeva assai circospetto la carta al Re, il quale aveva riconosciuto
il Cavaliere per quello stesso, che nella sera antecedente andava a
scoprirgli la congiura: era la carta una minuta di lettera che il
Conte Anselmo divisava mandare a Carlo di Angiò, nella quale gli
magnificava i suoi servigii, e molto maggiori dei già fatti di
farne prometteva; solo si rammentasse di lui; all'ultimo toccava,
tutti i rimanenti Baroni congiurati essere una mano di stolti, che,
dove egli non fosse, andrebbero di per sè a riporsi tra le mani di
Manfredi; non pertanto non dubitasse, ch'egli saprebbe dominare gli
eventi e resistere alla fortuna; per così savio e generoso signore
spendere volentieri l'opera della mano e l'ingegno; spenderebbe anche
la vita, dove l'occasione lo avesse voluto;--e così continuava con
parole, parte lusinghiere, parte piene di cupidigia, tutte vili. La
carta però non era firmata dal Conte, solo compariva scritta di suo
carattere: Rogiero l'aveva trovata nel corridore, e il Cerra l'aveva
perduta nella istantanea fuga.

«Quando» aggiungeva Rogiero «non s'intenda pienamente provata
la mia accusa, sì come buono e leale vassallo mi chiamo tenuto a
mantenere la onoranza e vita vostre, mio Re, nè schivare pericolo
per dedurre a vostra notizia tutto quello che si trama contro lo Stato
vostro, se non voglio essere, giudicato del medesimo delitto di
_crimenlese_ colpevole: però mi offro di provare, cimentando la sua
persona con la mia, quanto ho proposto esser vero. Supplico con ogni
istanza vogliate pronunciare lo indizio sufficiente per venire a
duello, ch'io spero nella giustizia di Dio convincerlo, ad onore,
mantenimento, ed esaltazione dello Stato vostro.»

«Ed io» rispose l'accusato «Anselmo Conte della Cerra, con
licenza della Serenità Vostra dichiaro cotesto sconosciuto
mentitore, e mantengo quella carta non appartenermi per nulla,
esservisi falsificato il mio carattere....» Profferite appena
l'estreme parole si accôrse Anselmo del fallo commesso; e
procurò rimediarvi, aggiungendo precipitoso: «E però mi
offro...»

Manfredi, che fino da principio del discorso gli aveva fitto addosso
que' suoi occhi scintillanti di malignità, al punto fatale lo
interruppe domandandolo: «Chi vi ha detto, messere il Conte, essere
questa carta di carattere simile al vostro?»

«Io....» rispondeva Anselmo esitante «io l'ho veduta.»

«Ah! l'avete veduta?»--disse Manfredi abbassando lo sguardo.

«Sì»--con terrore crescente aggiunse Anselmo.

Manfredi allo improvviso gli pose di nuovo gli occhi addosso, per lo
che egli fu costretto a volgere a terra i suoi, e dopo aver
considerato quel turbamento, con voce tra minacciosa e beffarda disse:
«Sta bene.»

Anselmo, costretto a terminare la sua formula di mentita, come serpe
fiaccata sul dorso, continuava: «E però mi offro in ogni
giudizio militare e civile, difendere il contrario, solo confidato
nella giustizia di Dio.»¹

  ¹ Per queste formule vedi Fausto, _del Duello ridotto alle leggi
    dell'onore_.

Manfredi intanto, dopo aver ben letto la carta, la passava al
Contestabile, dicendo:--«Che parvene, Messere?»--Rinaldo,
recatasela in mano, faceva atto di guardarla attentamente: i
circostanti, non potendosi frenare, gli si aggrupparono intorno;
questi lo prendeva per un braccio, quegli per l'altro, chi gli poneva
il capo sotto il mento, chi lo sporgeva dalle sue spalle; il più
lungo gli stette di faccia, e in punta di piedi col capo ripiegato sul
seno, a modo di cicogna quando prende il cibo; il più piccolo
levata la faccia, e veduti quelli uomini che gli si paravano dinanzi a
guisa di muraglioni, tolse una sedia, e vi montò sopra; così ne
nasceva uno scompiglio, un susurro, che la natura napolitana ha in
ogni tempo messo nelle più comuni operazioni della vita.

I congiurati, che ad ogni momento si facevano perduti, con voci o con
cenni scongiuravano il Caserta a camparli da quella fortuna; ed egli,
che sembrava mandar fiamme allorchè tutti gli altri pareano carboni
spenti, gli assicurò di uno sguardo, che il suo spirito vegliava.
In questo accostandosegli il Re ripeteva sommesso: «Che parvene,
Contestabile?»

«Potete concedere il campo.»--Il che era vero; ma egli non lo
consigliava mica per giustizia, avvisando, che se speranza di salute
avanzava, consisteva nel levar di mezzo quella vita tanto sospettata
del Cerra; cosa che sarebbe di certo avvenuta, dove fosse stato
costretto a combattere, essendo costui d'indole codarda, di corpo
indebolito, ed il suo avversario, a giudicarne dal sembiante, assai
prode uomo di guerra: faceva in somma il Caserta al Cerra per caso
quello che non era riuscito al Cerra di fare al Caserta per arte.

«Noi abbiamo pensato, Contestabile,» disse Manfredi al Caserta,
«di ridurre questo affare a giudizio civile, perchè da questi
giudizii di Dio non si ricava mai nulla che valga, e spesso lo
invocato, che vi dovrebbe assistere, non vi assiste, e con manifesta
ingiuria della giustizia il torto prevale alla innocenza.»

«Pure la religione....»--si avvisò interrompere un Cavaliere.

«La religione è cosa santa; ma v'ha tal donna chiamata
superstizione che veste sì come ella veste, oscena di volto quanto
quella è leggiadra; e per andare ambedue velate, la gente grossa
non le distingue, Barone.»

«Dio» insisteva il Cavaliere «ha spesso visibilmente protetto
la innocenza nei suoi giudizii.»

«Spesso anche no: perchè dobbiamo porlo nella necessità di
fare un miracolo, che noi non sappiamo se sia decretato nel suo santo
volere? perchè infastidirlo quando l'uomo può fare da sè? non
ci ha egli dato il senno per questo?»

Il Cavaliere, sia che non sapesse che cosa rispondere, o che altro, si
trasse indietro, mormorando: «È un eretico.»

Rinaldo, che pe' suoi fini voleva che quel duello si facesse, aveva
lasciato dire il Cavaliere, perchè usava un mezzo di persuasione
che a lui non istava bene adoperare, e perchè dimostrarsi troppo
insistente avrebbe dato sospetto; adesso, conosciuto che quelle
ragioni non bastavano, si mise a proporre le sue.

«Mio Re,» favellava a Manfredi «voi sapete meglio che persona
due essere le cause per le quali a forma delle costituzioni del Regno
ha da permettersi il duello nella vostra terra: per _crimenlese_, e
per la morte occulta di veleno, o in qualunque altra maniera data;
sì che non potrebbe la Serenità Vostra senza derogare a un
tratto....»

«E se noi vi derogassimo, Contestabile, che direste voi? Meglio una
volta che mai: hanno a vivere eterni gli errori? Niun termine, nessun
confine alle follíe dei nostri maggiori? Dorrebbevi forse, che
fossero aboliti questi barbari avanzi di tempi infelici?»

Giordano Lancia, cugino di Manfredi, a lui per interesse e per
volontà sinceramente affezionato, prese ad agevolare il consiglio
del Caserta aggiungendo: «Messer lo Re, io stimo bene avvertirvi
costituire questi giudizii gran parte dei privilegii baronali; a me
pare, che adesso non corra la stagione delle riforme; e di questa,
sono certo, si dorrebbero più di ogni altra, come quella che, per
consistere in dimostrazioni esterne, più offenderebbe con la
mancanza i sensi della gente.»

Manfredi, che non aveva creduto trovare così forte impedimento al
suo pensiero, mosso dal consiglio di persone tanto autorevoli, si
strinse nelle spalle, dicendo: «Pur troppo l'errore giunge con la
velocità del desiderio, e si diparte con la lentezza della
speranza!»--quindi avanzatosi verso il Gran Protonotario,
ordinava:--«Spedite le patenti; noi concediamo il campo.»

Il Gran Protonotario, fornito assai prestamente l'ufficio, porse la
patente a Manfredi perchè la firmasse, ed egli munitala di sua
firma gliela restituì sul momento. Allora Messer Giovanni d'Alife
lesse: «Noi Manfredi Primo per la grazia di Dio Re di Sicilia, etc.
etc., per tenore delle presenti concediamo a Messer Anselmo Conte
della Cerra provocato, e a Messer Cavaliere innominato provocatore,
ambedue qui presenti, campo franco e sicuro a _primo transito_ nella
terra nostra di Benevento, dove ognuno di loro possa diffinire con
l'arme la querela di _crimenlese_ per lo tempo e termine di tutto il
presente giorno, nonostante alcuna cosa in contrario, etc. etc. In
fede di che Noi abbiamo fatto fare la presente, segnata di nostra
mano, e munita del nostro suggello, anno Domini 1265, giorno 24 del
mese di gennaio.--MANFREDI.»

Anselmo non si aspettava a questo; e veduto che il Re si consigliava
co' suoi più eletti Baroni, per essere tra quelli il Conte Rinaldo,
stava sicuro che l'affare del Giudizio di Dio non sarebbe andato
più innanzi; però se gli giungesse improvvisa quella concessione
del campo non è da raccontare; l'ascoltava come uomo smemorato;
pure il Gran Protonotario non aveva finito di leggere la patente,
ch'egli pensò tra sè:--Rinaldo avrà certamente consigliato
che non si venisse a questo fine, almeno doveva farlo; forse
che non avrà potuto impedirlo.... ma e non avrebbe anche potuto
promuoverlo?--perchè?--io non ne vedo la ragione: questo duello non
si ha da fare, nè si farà. Guardiamo se per avventura giunsero i
tempi di porre me sotto la protezione del trono, e loro sotto quella
della forca.... No,--oggimai è troppo tardi, gli eventi mi hanno
strascinato; a mal grado del mio ingegno per ischivare l'unione
fatale, l'altrui vita sta essenzialmente congiunta alla mia, nè
posso far cadere la scure sul collo dei miei compagni senza ch'io ne
perda la testa.... la testa!--qui sì che ci vuole arte davvero:
animo, Anselmo, non mancare in questo estremo a te stesso, aguzza lo
intelletto, mostra il viso alla fortuna, ella si volge benigna agli audaci,
e pensa che non ti resta per la tua salute che audacia.--Così appunto,
secondo che narrano le vecchie leggende, quel Gano di Maganza, che occorre
nella epigrafe del presente Capitolo, condannato da Carlo Magno allo
squarto per aver tradito i Cristiani a Roncisvalle, dove morì il famoso
Conte Orlando con la più parte dei Paladini di Francia, ormai presso
allo strazio, supplicò l'Imperatore di una grazia, il quale, pur che non
fosse di vita avendogliela quegli concessa, domandò di essere squartato
da quattro cavalli verdi; invenzione che non giovò a quel tristo, più
che ad Anselmo giovasse la sua, perchè dice la leggenda, che Malagigi
per arte di negromanzia fece apparire quattro demoni in sembianza di
cavalli verdi, e Manfredi con la sua autorità rimosse tutti gli ostacoli
che mise in campo il male arrivato Della Cerra.

«Mio Re,» con atto modesto parlava Anselmo vôlto a Manfredi,
«non v'ha colomba, per innocente che sia, che non possa essere
dall'altrui malignità calunniata; la mia lealtà per voi si
chiarisce per mille prove, nè teme offesa da questo uomo, che per
dirne meno dirò che viene sconosciuto sì come fa il ladro....»

«Potrei scoprirmi, e allora che diverreste Anselmo?»

«Io parlo al mio Re, e prego di non essere interrotto:» (Manfredi
accennava al Cavaliere che tacesse;) «ora Dio sa se volentieri io verrei
al paragone con qualunque uomo al mondo, ed anche con costui, per
sostenerla con l'armi; ma per appartenere ad illustre famiglia, tra le
più nobili del Regno onorata, le leggi di Cavalleria mi vietano scendere
in isteccato con tale che non pure non prova di essere Cavaliere, ma per
istarsi tutto nascosto nell'armi potrebbe bene aver nota d'infamia....»

«Infame io? tu sei infame....»

«O bando per assassino, per tradimento, o per qualunque altra causa
contemplata nelle costituzioni....» (Lo sconosciuto fece sembiante
di prorompere; Manfredi lo contenne con un suo sguardo severo,
tuttavia egli continuò a stringere con mano tremante di rabbia
l'elsa della spada) «.... così che lo potessi rifiutare di
ragione, e però non venissi, assistendomi Dio, sì come confido
per esser questa causa della innocenza, e causa sua, a conseguire
vittoria contro costui più vituperosa, che perdita contro un
Cavaliere onorato.»

«Conte della Cerra,» risponde Manfredi, «sappiate che un uomo
che si affatica, come fa questo Cavaliere, a sostenere la gloria della
nostra Casa, non può essere infame, nè notato di quelle vergogne
che voi andate esponendo; nondimeno perchè a noi, quanto a voi,
preme che illibate si conservino le leggi di Cavalleria, non vogliamo
che con altri combattiate se non con Cavaliere.» E così
favellando, ordinò a Rogiero che si accostasse all'altare: quivi
arrivato:--«Ponete ginocchio a terra,» aggiunse, e toltagli la
spada da canto, la sguainò, gliela percosse per tre volte su
l'elmo, e proseguiva: «Voi siete Cavaliere: i modi vostri assai ci
fanno palese, voi da gran tempo conoscerne i doveri; che voi siate per
onorare il grado non dubitiamo» (e sì dicendo gli ricinse di sua
mano la spada), «nè consentiamo che scendiate in campo senza
illustre insegna. Contestabile Rinaldo, noi vi preghiamo esserci di
tanto cortese, che lo vogliate accomodare della vostra arme; noi vi
assicuriamo che le vostre bande d'oro, e i lioni d'argento, non si
dorranno di questo, perchè se a Cavaliere privato fosse concesso
portare impresa di Re, noi gli avremmo fatto presente della nostra
Aquila stessa.»

Il Conte di Caserta, staccato dal suo seggio lo scudo, lo porse con
bel garbo a Manfredi, che lo adattò al braccio del nuovo Cavaliere;
il quale, sopraffatto da così grande dimostrazione di amore,
null'altra cosa poteva proferire oltre questa: «O mio Signore, gran
mercè!»

«Ora Conte della Cerra,» disse Manfredi, «vedete bene starvi
a fronte questo uomo, nè potersi da voi rifiutare con nessuna
eccezione, imperciocchè quando anche fosse contaminato di quelle
brutte macchie di traditore e di assassino, che voi gli avete
supposto, l'ordine di Cavalleria da noi conferitogli lo ha tutte
rimosse, sì come fa dei peccati il santissimo battesimo tra i
sacramenti.»

_Tra male gatte è capitato il sorcio_, per dirla con Dante. Il
Conte della Cerra più s'ingegna levarsi d'impaccio, più vi si
avviluppa, e ad ogni passo gli si chiude un sentiero allo scampo;
nondimeno non gli basta il cuore di abbandonare la presa: considerando
che quello ostinato celarsi del Cavaliere doveva tener sotto qualche
grande mistero, e che dove fosse scoperto avrebbe prodotto accidenti
da sturbare il duello, ricorre a nuova sottigliezza.

«S'io punto m'intendo di Cavalleria, parmi, mio Re;» favella
rivolto a Manfredi «che a me spetti la _eletta_ dell'armi.»

«Veramente voi parlate la verità: eleggete.»

«Da che a me sta eleggere, questa è la nota delle armi: due
coltelle genovesi di due palmi, taglienti; targa, un mantello di lana;
morione in capo, una ghirlanda di fiori.»

Molti stupirono alla inaspettata proposta del Cerra, tenendola per
animosa; molti, e tra questi Manfredi, con più senno la tennero per
codarda, ravvisando in essa un cavillo per impedire la prova.

«Noi, come signore del campo,» parlò il Re un po' turbato
«non possiamo ammettere coteste armi, insolite al costume
cavalleresco.»

«Io pure non vorrei levarmi da dosso questo vituperio di sospetto
in diversa maniera....»

«Se sia maggiore vituperio dare con la propria condotta luogo al
sospetto di tradimento, ovvero la manifesta dimostrazione di sfuggire
la prova che potrebbe purgarlo, noi non sappiamo, messer Conte; il
primo è incerto, il secondo comparisce certissimo....»

«La scelta dell'armi non tenga la Serenità Vostra dal concedere
il campo,» interruppe il Cavaliere innominato «perchè io
posso combattere sconosciuto anche nel modo proposto dallo
avversario.»

«E come lo potrete voi?»--domandò il Re.

«Coprendomi il volto con un velo di seta nera, simile a quello che
nascondeva il Conte Anselmo, allorchè mi condusse entro una
prigione di Napoli per farmi conoscere mio padre.»

Rinaldo, che attentissimo ascoltava la disputa, riconobbe chi fosse il
Cavaliere, e raccolti i pensieri, si diede a considerare la prepotenza
dei destini che lo avevano costretto a porgere di buon animo la sua
impresa a tale uomo, che or sono molti anni, con solenni giuramenti
sacramentava, non avrebbe indossata giammai.

Lo riconobbe anche Anselmo, e nessuno migliore espediente trovò per
nascondere la fiera alterazione, che gridare: «Or via, sia come
volete; accetto di combattere con le armi solite adoperarsi tra
Cavalieri.»

«Contestabile,» allora disse Manfredi «a noi non è
concesso per le gravi cure del Regno assistere a questo abbattimento;
pertanto a voi deleghiamo le parti di giudice, e di signore del campo,
ed espressamente ordiniamo, che vi sia senza nessuna esitanza
obbedito, come se foste la nostra stessa persona: avvertite, noi aver
concesso il duello al _primo transito_; togliete sufficiente scorta
onde reprimere chi si volesse muovere a favorire alcuno dei
combattenti; e se insistesse, si uccida, che sarà bene ucciso;
provvedete al vostro e al nostro onore; abbiate cura all'ordine, non
dimenticate mai che spesso queste prove di onore hanno finito in
obbrobriosi assassinii. Voi, Giordano d'Angalone, costituisco padrino
del Cavaliere innominato; voi, Benincasa, di messer Anselmo; adempite
da valenti Cavalieri l'ufficio: Conte Lancia, seguitemi; Contestabile,
nel nostro palazzo aspettiamo la novella del fatto.»--Profferite
queste parole, salutò con cenno cortese i ragunati Baroni, e
scomparve col Conte Lancia per una porta della sala.

«Rinaldo,» parlò il Conte della Cerra, cogliendo l'occasione
di accostarsegli, quando camminavano alla volta dello steccato fuori
delle mura di Benevento; «Rinaldo, voi avete veduto con quanta
costanza io vi abbia salvato la vita; adesso ragione vuole che voi
facciate alcuna cosa per salvare la mia.»

«Io bene pensava a questo, Anselmo; state di buon animo.»

«Ditemi il come, Messere, perchè sta in mia mano perdervi
tutti....»

«E voi stesso con noi però....»

«Non vuol negarsi questo: ma che dice il proverbio, Conte? mal
comune mezzo gaudio; e poi chi vede la fine? da cosa nasce
cosa....»

«Voi parlate saviamente, Anselmo; uditemi: adesso bisogna non
isbigottirci per nulla; state saldo, parate i primi colpi, chè per
essere voi coperto di piastra, di leggieri lo potete; allora
susciterò scompiglio nel campo, farò ammazzare il vostro
avversario, che se mal non vedo, dovrebbe essere....»

«Il figlio della vostra consorte.... è certo.»

«Sia: e voi fuggire....»

«Chi mi assicura che voi lo farete?»

«Come posso assicurarvi, Anselmo? non ho condotti già io questi
tempi, nei quali uomini senza fede è di mestieri si affidino sopra
la mutua lor fede.»

E proseguivano; se non che in questa giunsero al campo. Rinaldo,
chiamato il Capitano della gente d'arme, segretamente gli commetteva,
desse ordine ai soldati di disporsi in quadrato; badassero bene che
nessuno passasse la fila, finchè l'uno o l'altro dei combattenti
non fosse morto, o abbattuto: e se persona l'osasse, senza rispetto al
mondo la uccidessero; avvertisse che quanto gli comandava fosse
eseguito _sotto pena del cuore_. Poi ristrettosi col vecchio
congiurato, di cui la troppa età ci ha nascosto il nome, gli disse,
che dove il Cavaliere sconosciuto avesse, sì come pareva certo,
morto o ferito il Conte Anselmo, egli co' più audaci compagni
rompesse le file dei soldati, che non avrebbero fatto resistenza, e
s'ingegnasse in tutti i modi di ammazzare anche lui. Il Cavaliere,
udito il comando, scosse la testa, e rispose: «Sta bene,--assai mi
piace,--ella va in regola,--non dubitate, chè sarà fatto.»

Intanto i padrini, smontati da cavallo, come correva la usanza, si
posero a guardare con molta diligenza il proprio campione per
conoscere se fosse di tutto punto armato, se alcun pezzo di maglia
fosse male affibbiato, se alcuna piastra debole; poi il padrino di
Anselmo andò al Cavaliere innominato, e verificò di propria mano
se sotto i cordoni di seta, che allacciavano il bacinetto alla
gorgiera, fosse rame, ferro, od altro metallo; lo stesso praticò il
Conte Angalone con Anselmo, e trovarono tutto senza frode. Ciò
fatto, i combattenti mutarono tra loro le spade, perchè la
consuetudine voleva che l'uno combattesse con la spada dell'altro; e
queste pure vennero provate dai padrini per escludere il sospetto, che
fossero fabbricate con ingannevole magistero, o con falsa materia; la
lunghezza non misurarono, perchè giusto per essere quella di
Anselmo più corta e quella di Rogiero più lunga, si compensava
così il vantaggio di statura, che l'ultimo aveva sul primo.

In quei tempi non facevano altre ricerche: in appresso, variati i
costumi, pervertiti gli animi, e prevalso l'uso che il provocato
portasse arme offensive e difensive per sè e pel provocatore, fu di
bisogno consumare gran parte del giorno in questa prova, perchè tra
l'armatura mescolarono alcuni pezzi inchiodati con chiodi di stagno,
elmi bruniti dentro per modo che togliessero il vedere, o fatti con
arte tale che non si potesse guardare se non in cielo, guanti che
forte stringendo cacciavano fuori punte che ferivano le mani che li
portavano, usberghi avvelenati, che escoriata la pelle il mortifero
veleno trasfondevano nel sangue; che più? perfino panzeroni e
schinieri fatti di cartone, e acconciamente coperti di foglie di
argento; onde quelle buone anime di scrittori che composero libri
intorno questa materia, ebbero ad esclamare sovente: _o tempora! o
mores!_

I padrini posero dopo questo i capi di una cordicella, forse lunga tre
braccia, in mano ai combattenti, e rimontati in sella specularono il
campo se avesse alcuna fossa o rialzo che impedisse l'indietreggiare
dei Cavalieri; dipoi tornarono appresso loro, e fecero cenno al
Contestabile essere tutto preparato.

Il Contestabile mandò lo araldo, che con la spada della giustizia
divise la corda, e i Cavalieri principiarono l'assalto. Racconteremo
noi le vicende di cotesto duello? ripeteremo noi quello che da
qualsivoglia straniero od italiano poema viene troppo sovente
descritto? Noi nol faremo, sì perchè ogni uomo che ne abbia
vaghezza ne troverà un mirabile esempio nella _Gerusalemme
liberata_, e un altro mirabilissimo nei _Lombardi_ di Tommaso Grossi,
gloria vivente d'Italia, a nessuno secondo, e, dove il desideri,
agevolmente primo;--sì perchè comunissimi furono i casi del
nostro. Troppo soverchiava Rogiero di forza e di destrezza Anselmo;
tuttavolta questi fidente di aiuto andava a gran fatica schermendosi,
e mostrava chiaro che non poteva durare: adesso, trapassato alquanto
di tempo, nè vedendo, giusta il convegno, muovere alcuno a
soccorrerlo, suppose che Rinaldo, caduto nella solita astrazione, se
ne fosse dimenticato; però volse il capo a quella parte onde egli
rinvenisse, od alcuno dei congiurati lo facesse avvertito:--inutile
tentativo: nessuno dei molti quivi raccolti fece pur cenno di levare
una mano. Rogiero conobbe essergli capitato il destro di spingersi
innanzi, menare un bel colpo, e fornire la bisogna; nondimeno, come
avviene, sentendosi più forte del suo avversario, volle che prima
dei dolori della morte gustasse i dolori non meno terribili dello
spavento. Così seguitò anche un poco il duello: Rogiero era
intatto: Anselmo, in parte disarmato, aveva in due o tre luoghi
falsato l'usbergo, ammaccato il bacinetto, ma non gettava anche
sangue: bene lo facevano spasimare l'aspre percosse; la qual cosa
unita allo stupore di non essere aiutato, ed alla paura di esserlo, ma
non in tempo, tanto gli scompigliò la mente, che fuori di sè,
perduto il lume degli occhi, sconfortato dal rumore che annunziava la
sua sconfitta, cominciò a lasciare il terreno; ad ogni passo
volgeva disperato la testa verso il Caserta che se ne stava immobile,
e tante volte offriva occasione al nemico di finirlo a un tratto: di
vero infastidito Rogiero di quel gioco, aspetta il tempo, mena un
gagliardo manrovescio, coglie Anselmo nei cordoni di seta che la
gorgiera allacciavano al bacinetto, e ad un punto gli getta queste
armi per terra, e lo ferisce alla gola. Anselmo stramazza tramortito;
se a levarlo di sentimento contribuisse il terrore o il dolore, noi
non sappiamo; certo molto tremendi furono ambidue;, mostrava il volto
giallo come itterico, la fronte livida dai colpi, i labbri congelati
in un brivido; sgorgava dalla ferita impetuosamente il sangue, fluido
e vermiglio, segno certo di arteria recisa;--era la piaga insanabile.
Gli spettatori levarono un grido, e rotte le file dei soldati si
precipitarono a gran corso verso il caduto. Rogiero, guardatosi
attorno, vide che sopra tutti gli altri si affaticavano a farglisi
vicino i Baroni congiurati, e temè di perfidia; accostatosi al suo
padrino, proferì queste parole: «Ora salvatemi, valente
Cavaliere, o che son morto.»

«E che cosa vi fa tanto temere della fede
siciliana?»--domandò arrossendo Giordano d'Angalone.

«La fede è già rotta: perchè sforzare le file? Io vi dico
che mi trucideranno, e voi sarete debitore della mia vita in faccia
degli uomini e del cielo.»

«Tolga Dio tanta infamia! balzate in groppa, che il mio Sauro mi ha
salvato da ben altri pericoli che non è questo.»

Rogiero, senza por tempo tra mezzo, di un lancio maraviglioso, tutto
armato com'era, inforcò il cavallo; Giordano d'Angalone
concitandolo con la voce e con gli sproni, lo spinse di piena foga
là dove vide meno gente. A quella tempesta, a quel furioso rovinio,
non vi fu uomo che comparisse zoppo: taluno gittandosi da questo lato,
tal altro da quello, e molti cadendo, e per la caduta loro,
frapponendosi ai passi, molti altri forzando a traboccare, si
sbarattarono, lasciando libero il campo, pel quale precipitandosi
l'animoso destriere, ben tosto ebbe condotto quelli che lo cavalcavano
fuori di ogni pericolo.

Quando apparve vicina la porta di Benevento, in quei tempi conosciuta
col nome _del Calore_, Rogiero, che per la prestezza con la quale
andava il destriero non aveva potuto formare parola, lasciò cadersi
da cavallo, ed offerta la mano al Conte Giordano gli tenne il seguente
discorso: «Conte, vi ho per salutato; io so pur troppo che le
imprese gentili non hanno bisogno di altro guiderdone, e sono premio a
sè stesse; tuttavolta sappiate che vi devo la vita, e che mi torna
dolce manifestarvi....»

«Che è ciò che dite, signor mio?» interruppe Giordano;
«forse non volete ch'io vi conduca al Re?»

«I tempi stringono, o Conte, e molto mi rimane da fare; io non
posso....»

«Salvo vostro onore, che lealtà è questa vostra verso
Manfredi? Conoscete i traditori, nè li volete svelare?»

«Non posso. Quello che mi era concesso mostrargli gli ho mostrato:
il mio silenzio procede da una serie di tali avvenimenti, che io, io
stesso, il quale sento tutta la gravezza della loro atroce realtà,
appena li tengo per credibili; di questo vi prego, che gli diciate,
avere spento il più ribaldo dei suoi traditori; pure restarne molti
altri, che si guardi e diffidi di cui più si confida, ch'è
minacciato di estremo esterminio....»

«La salute del mio Re dunque richiede ch'io non vi lasci
andare....»

«No, Cavaliere; voi mi fareste villania, nè giovereste al Re;
lasciatemi libero, chè ogni passo, ogni pensiero miei, sono per la
preservazione della Casa di Manfredi.»

«Noi perdiamo un valente compagno, il Re un leale vassallo....»

«Nè egli, nè voi mi perdete: io vado ad apprestargli
quattrocento uomini d'arme, e un condottiero famoso.»

«E dove li condurrete voi?»

«Ditegli a San Germano; colà ci rivedremo, Conte; forse mi
riconoscerete allora, e passato il pericolo sarà bello e piacevole
per me raccontarvi le durate fatiche, i sofferti travagli. Addio,
Conte; salute a Manfredi.»

Ciò detto con presti passi si allontanò. Il Conte Giordano tutto
dolente s'incamminava a portare queste novelle a Manfredi.

Per altra parte Rinaldo ordinava si fasciasse il ferito Anselmo, si
adagiasse dentro la bara, e lo conducessero al proprio palazzo; per
via comandò al Capitano della gente d'arme, che quando vi fosse
entrata la bara, impedisse a qualunque altro l'ingresso: sì come di
fatti egli fece. Il vecchio congiurato vedendo non potere entrare,
nè essendo fino ad ora riuscito a parlare con Rinaldo, tanto spinse
che gli si accostò, e presolo pel lembo della cappa lo costrinse a
voltarsi.

«Che volete?»--interrogava severo il Conte.

«Conte, rammentatevi che secondo le regole non dovrebbe
vivere...»

«A questo penso io; così voi aveste pensato al vostro
incarico!»

Il vecchio stava per rispondergli; ma Rinaldo gli volse le spalle, e
si cacciò dietro la bara di già entrata in palazzo.

Rinaldo solo accanto al letto dove giace il ferito gli conta i momenti
di vita, e vedendo come ella di punto in punto si consuma, resta di
affrettarne la estinzione: a un tratto però, mentre il giacente
raccoglie con lungo anelito nel polmone maggiore quantità di aria,
che egli crede per l'ultimo sospiro, dato un gemito profondo,
rinviene.

«Anselmo, amico mio, come vi sentite voi?»

Anselmo, aperti gli occhi, conosce il Caserta, e mormora tra
sè:--«Ora sono perduto davvero.»

«Io sono Rinaldo, Anselmo.... perchè vi dite perduto?»

«Satana sta al capezzale... aspetta l'anima al varco... egli ha
ragione... è cosa sua... io ho ben veduto che voi siete il
Caserta...»

«O amico mio, Dio sa se forte m'incresce del vostro male...»

«Lo so,--amico,--lo so.»

«Io perdo il più fedele...»

«Che parlate voi? ma che devo morire? sono io così presso alla
morte...?»

«Siete.»

«Oh! allora, in carità, mandate per un confessore, che venga
presto.»

«Un confessore! E che volete voi fare del confessore?»

«Chi mal vive, mal finisce... pure una speranza in Dio....»

«Novelle!»

«No... io vi dico di no... mi si risvegliano in mente i precetti di
religione che io appresi da bambino, e mi confortano a non disperare:
oh! come bella ci apparisce la fede nell'ora della morte! il poco bene
che ho fatto mi lusinga del Paradiso...»

«Il vostro senno vien manco, Anselmo; io comprendo che voi tornate
sul bambino: che discorrete di Paradiso? dov'è l'animo indomato, la
minaccia di Dio, la bestemmia del vostro Creatore?»

«Io l'ho detto, Satana sta al capezzale. Voi venite per perdermi...
andate via, vi comando, vi prego... in nome di Dio, andate via... no,
accostatevi, che forse potrò vincere anche voi... Rinaldo, muoviti;
egli è un grande arcano la morte! potessi dirti la millesima parte
di quello che sento, di quello che vedo.... alza gli occhi, non
contempli la gloria del cielo?»

«Io non vedo che il soffitto.»

«Pure v'è luce più viva del sole, pure v'è melodia
malinconica; v'è Cristo... Cristo co' fulmini che gli corruscano
nella mano terribile... Un confessore, Rinaldo, un confessore...»

«Che diavolo volete voi farvi del confessore a questa ora? animo
via, che pensate esser la morte? ella è una bevanda amara; chiudete
gli occhi, trangugiatela senza sbigottirvi, passata la gola, non si
sente più altro.»

«Oh! io voglio confessare le mie colpe.»

«Ma pensate che non potete accusare le vostre colpe senza perdere i
vostri compagni, e me stesso...»

«O dunque volete che pel corpo vostro perda l'anima mia?»

«E voi volete che per l'anima vostra perda il mio corpo?»

«Questo è affanno! questa è barbarie! Io griderò tanto,
che alcuno mi sentirà....»

--Tu non griderai,--pensò il cervello del Caserta, e fu quella
sentenza di morte: poi, levatosi in piede, si pose la destra sotto
il farsetto, e si accostò al giacente: «Or via, tacete, amico,»
gli disse «da che questo è il desiderio vostro, io vi contenterò....»

«Sì? gran mercè.... Dio ve ne rimeriti in questo stesso
punto.... andate....»

«Vado, solo vi prego che non isveliate i nomi....»

«Ve lo prometto.»

«State di buon animo.»

«Sto.... ma andate.»

«Vado.--E qui che sentite?»--domandò il Caserta, premendolo
con la manca presso la ferita.

«Dolore!»

«E qui?» scorrendo con le dita, e toccandogli la clavicola
sinistra.

«Dolore!»

«E qui?»

«Mo.... orte!»

Il Conte Rinaldo, sottentrando velocemente con la destra alla manca,
aveva piantato fino al manico un pugnale nel cuore allo infelice
Anselmo; e súbito ritirandosi per non essere bruttato dal sangue,
stette con istupida curiosità a contemplare le scosse che faceva il
coltello secondo che riceveva gli impulsi dal viscere lacerato: quando
si fu del tutto estinto quel moto, e la vita con esso, lo estrasse,
prendendolo pel bottone con l'indice e il pollice, e si pose a
nettarlo, fregandolo traverso il ventre del morto.--«Povero
Anselmo!» frattanto andava dicendo «ve' un poco come hai finito.
Ma! se lo dice il proverbio! finchè abbiamo denti in bocca, non
sappiam quel che ci tocca; la tua lunga servitù, l'antica amicizia
nostra, non meritavano questo, no certo; nè io ti portava rancore,
odio nemmeno: ecco, ti ho incontrato su la mia via, ed io ti ho
distrutto. Male accorto! e non sapevi che il mio alito consuma, il
guardo abbrucia, il tatto disperde? perchè mi ti sei cacciato tra i
piedi? Io ti ho morto... uno di noi doveva morire; tu hai perduto la
prova,--colpa tua; se l'avessi perduta io,--colpa mia:» (e qui
guardava la lama s'era divenuta netta; comparendovi pur sempre qualche
striscia di sangue, continuò a fregarla sul ventre del trafitto;)
«tanto hai detto, che le tue dottrine mi sono scese nel cuore;
secondo quello che tu sentenziavi, io doveva abbandonarti avanti,
chè corre assai tempo che non mi porti utile al mondo; pure ho
aspettato che tu mi diventassi pericoloso, allora... non puoi
dolerti... ell'è cosa tua... forse ho imparato più di quello che
volevi; ma ti consoli la gloria di aver fatto un ottimo discepolo: io
per me vado convinto che quando la tua anima sarà assicurata dal
sofferto terrore, non potrà condannarmi,--forse sarà la prima a
lodarmi: ora tu hai cessato di travagliarti, tu mi devi la quiete e il
riposo; tu sei andato dove il prigione non ode la voce del carceriere,
dove il servo non obbedisce al signore; quivi abita il grande e il
piccolo¹--nella comunione della polvere, chi condanna, e chi è
condannato....»

  ¹ Ibi requieverunt fessi.... et quondam vincti, pariter sine
    molestia, non audierunt vocem exactoris. Parvus et magnus ibi
    sunt, et servus liber a domino suo.(_Job_)

Allo improvviso con fracasso spaventoso parte della invetriata di
quella camera violentemente percossa cadde giù sul pavimento; un
corpo trasvolando velocissimo sollevò, col vento che suscitava, i
capelli del Caserta, e andò a quietarsi dentro il soffitto.

«Vendetta di Dio!»--proruppe in un urlo salvatico il Conte
Rinaldo, e incrociate le mani sul petto, agitato da tremore convulso,
abbassò il capo al solaio: così stette assai tempo; poi,
diminuita la paura, aprì gli occhi e gli sollevò peritosi: un
grosso verrettone compariva conficcato al soffitto; guardò meglio,
e vide una carta pendente dalla sua penna; ascese sopra uno sgabello,
stese la mano e la tolse; lo scritto diceva così:--«Conte di
Caserta, pensa come l'eterna provvidenza punisca; tu hai l'esempio
sotto occhio; muta consiglio, e ti sia pena avere fino ad ora male
operato; altramente un mio detto può farti morire della morte dei
traditori.»

«Minacciano!» mormorò Rinaldo, e, stretto di nuovo il pugnale si
guardò attorno con ciglia severe; «ma qui non vedo alcuno,»
aggiunse guardando il cadavere «nè mi vi rimane a fare più
nulla.»--Poi avviluppò il morto nelle coltri e si allontanava co'
passi del peccato. Giunto al capo della scala gli si parò dinanzi il Re,
che scortato da molti cortigiani veniva a visitare il ferito, onde
súbito facendoseli incontro gli disse: «Messere lo Re, avete fatto il
viaggio invano.»

«Perchè questo, Conte Rinaldo? come sta il ferito?

«È spirato.»

«Spirato! Era la piaga così mortale che non gli abbia lasciato
un'ora di vita?»

«O signor mio, ell'era spaventosa, gli ha tagliato più che mezza
la gola;--le ultime sue parole sono state ch'io vi chiedessi perdono
per lui...»

«Dunque egli mi tradiva?»

«E' pare»

«Buon per lui, che mi ha risparmiato il cordoglio di mandarlo alla
forca...»

«Salvo vostro onore, Messer lo Re,» interruppe il cortigiano che
aveva consigliato il duello con la religione «dovevate dire al
taglio della testa, perchè a norma delle costituzioni del Regno,
tale è il privilegio dei nobili.»

Manfredi sorrise; e il Caserta pensò:--ti ho risparmiato il
cordoglio di uccidere Anselmo, ma ti ho tolto il piacere di uccidere
me e i miei compagni-,--questa tua gioia mi piace.--

Il Re, conoscendo la sua venuta vana se ne tornò palazzo dove tra
le altre cose ordinava al Caserta ai seppellire segretamente il
cadavere del Conte della Cerra.

Nel più buio della notte, due vassalli portando una bara e una
torcia di resina, che rischiara il sentiero di luce vermiglia, si
accostano alla porta di Benevento, chiamano la guardia che
sonnacchiosa si leva, ode una parola, e brontolando abbassa il ponte,
e lascia passare. Giunti alla valle, danno di mano alle zappe, e
cominciano a scavare; goccia dalle fronti loro il sudore, ma il
terreno è sassoso, e fanno poco frutto: uno di loro cominciando il
discorso con fiera bestemmia dice all'altro, non meritare tanto
travaglio quel ribaldo del Conte della Cerra, essere il meglio
lasciarlo sul campo, chè i lupi avrebbero loro risparmiato la
fatica:--questi risponde: da che egli si era aperto, gli avrebbe molto
miglior modo insegnato: prendesse il morto per le braccia;--egli lo
afferrò alle gambe, e così lo portarono ad un pozzo poco quinci
discosto, gli legarono al collo un sasso di enorme gravezza, e lo
precipitarono dentro; miserabile, non indegna fine di tanto
scellerato!--si dolse la Pietà dell'atroce sepolcro, non già la
Giustizia. Le acque contaminate svelarono l'opera nefanda; e la gente
del contado, non tanto per misericordia, quanto per abbisognare del
pozzo ad abbeverare il bestiame, estrassero quelli avanzi di membra
putrefatte, e con meno disonesta sepoltura li sotterrarono accanto al
pozzo.

Rosalia, figlia naturale del Conte Anselmo, caduta per la morte del
padre nella più orribile miseria, cacciata da tutti, quasi fosse
appestata od idrofoba, spesso fu vista sul far della sera aggirarsi
intorno quel pozzo, e affacciarsi all'orlo, e sporgervi dentro le
braccia: lamentava la misera, da che nessuno altro retaggio le aveva
lasciato, se non che l'avvilimento e la infamia, la soccorresse almeno
con la morte, le partecipasse la impassibilità e la immobilità
sue; disprezzarla ogni anima vivente, abbeverarsi il suo cuore di
obbrobrio, contaminarsi il suo sangue nel vilipendio, non poter durare
agli insulti feroci; soccorresse la tapina che niun'altra colpa aveva
oltre quella di esser nata da lui; sentissero le sue ossa pietà,
riparasse il fallo, le facesse un po' di luogo entro la
fossa....--Queste cose parlava la sconsolata, ed altre molte
aggiungeva, che l'intelletto di soverchio commosso non mi concede
riferire. Giunta la nuova alle orecchie di Yole, questa gentile opero
sì col padre, che la povera fanciulla venne tolta da quella vita
raminga, e messa nel monastero di Santa Maria della Pace; quivi
conobbe a prova non darsi travaglio che la religione non blandisca,
non pena che non volga in gioia. Aggiunge la Cronaca, che dopo la
conquista di Carlo, essendo le opere di suo padre diventate presso il
nuovo signore titoli di onoranza, sì come furono presso lo antico
d'infamia, ricercata dalla Contessa Beatrice di andare a Corte,
ricusasse, e come abborrente dalle umane cose prendesse il velo, e si
consacrasse al servigio di Dio, nel quale tante pietose opere fece, e
tante devote parole favellò, che dopo molti anni morisse _in odore
di santità_. Vero è poi che quanto racconta qui la mia Cronaca
non trovo confermato dalla Curia romana, che non ha mai ventilato
causa per chiarire Rosalia della Cerra _venerabile, beata, e santa_,
che sono le tre fermate per conseguire la _Dulia_, ovvero culto che si
rende ai Santi del Signore.




CAPITOLO VENTESIMOQUINTO.

LA FUGA.

                Tu vedrai che lo indugio, e la dimora
                Che si frappone alla vendetta, accresce
                Questa gran piaga, ch'è da sè mortale.
                               ARRENOPIA, _tragedia antica_.


Noi non sapremmo accertare l'amoroso lettore, che nulla curando il
fastidio ci ha con tanta benevolenza seguitato fino a questo punto
della storia nostra, se la Cronaca dalla quale ricaviamo le narrate
avventure sia o no in parte manchevole, imperciocchè priva della
numerazione delle pagine, non lascia modo a conoscere il difetto; vero
è che omettendo di esporre come Carlo si partisse da Roma, quale
strada tenesse, e quali ostacoli incontrasse, senz'altro badare,
trascorre ai casi che avvennero dopo il memorabile passo del
Garigliano eseguito dalla milizia francese; onde volendo noi dare un
po' di supplemento a questo luogo, c'ingegneremo di raccontare alla
meglio quanto accadesse in quel mezzo tempo. Coronato che fu a Roma
nel giorno della Epifania il Conte di Provenza, rompendo gl'indugii si
mise in cammino, sì per prevalersi di quel primo ardore dei suoi
soldati, sì perchè, soprastando, non aveva danari per pagarli; e
Papa Clemente, per molte cagioni, tra le quali non era ultima quella
di non averne neppure egli, non poteva prestargliene. Le storie dei
tempi non ci hanno conservato se Carlo operasse ciò che tutti i
capitani a lui antecedenti e posteriori hanno fatto movendosi alla
conquista del Regno, vale a dire dividere la sua gente in due schiere,
mandandone una lungo il littorale, l'altra pe' luoghi più prossimi
agli Appennini, con intenzione di riunirsi a Capua per marciare
unitamente alla volta di Napoli; anzi e' pare che tenesse diverso
consiglio, e repugnando dal partire lo esercito, pel cammino di
Frosinone si accostasse intero al passo di Cepperano: forse temè
incontrare troppo dura resistenza a Fondi e ad Itri, che occorrono
costeggiando la marina, e considerò, che quando pure gli fosse
venuto fatto di superare questi due passi, gli rimaneva il terzo,
più arduo, del Volturno sotto Capua, il quale, per essere quivi il
fiume grosso, e il ponte afforzato di antiche e di nuove torri,
appariva inespugnabile. Trapassando la Campagna Romana, i popoli, non
che gli contrastassero, gli davano all'opposto favore come a figlio
prediletto, e a campione di Santa Chiesa. L'Arcivescovo di Cosenza,
Bartolommeo Pignattello, veniva con esso lui in qualità di Legato
apostolico, benedicendo chiunque si fosse aggiunto alla impresa contro
Manfredi, e pronto a scomunicare coloro che avessero osato prenderne
le parti: tanta era l'autorità della sua voce, che gli uomini del
contado accorrevano per ogni lato volonterosi di farsi ammazzare in
pro, come dicevano, della religione contro un eretico. Il Monte San
Giovanni, che nel 1494 contese con tanto pericolo di Carlo VIII allo
esercito di Francia, il fatale Angioino con allegrezza infinita
accoglieva, e gli era largo di spontanei sussidii. Nè (poichè la
fortuna non toglie mai a sollevare a mezzo i suoi diletti) i giorni,
che, per essere all'entrare di febbraio, dovevano mostrarsi piovosi,
cessavano di continuare sereni; il sole oltre ogni credere caloroso,
pareva si compiacesse a rischiarare di limpidissima luce i passi del
Destinato. Così il campo di Carlo, in sembianza di gente cui tarda
essere aspettata a qualche gran festa, vide il quarto giorno del mese
le sponde del Garigliano. Questo fiume principale di tutto il Regno di
Napoli, che deriva la sua sorgente poco lungi dal lago Celano,
trapassando per Sora bagna Cepperano, traversa Pontecorvo, e sbocca
finalmente nel Mare Tirreno, formando un confine naturale tra la
Campagna Romana e la Terra di Lavoro: dicono, correre le sue acque per
lo spazio di ottantacinque miglia, e affermano potersi navigare per
venticinque discosto dal mare; nondimeno a Cepperano e a Castelluccio
non apparisce sì grosso che qualche volta non si possa guadare.
Manfredi, che ben conosceva la importanza del passo, súbito dopo
l'assemblea di Benevento vi mandò il Contestabile Rinaldo, Conte di
Caserta, al quale aggiunse Giordano Lancia con molte compagnie di
Pugliesi, perchè vi tenessero il fermo; schivassero venire alle
mani; assaltati, si adoperassero di rituffare i nemici nel fiume.
Conosceva lo Svevo, essergli lo indugio più efficace della vittoria
medesima, e la impresa di Carlo doversi risolvere in fuga, dove non
avesse potuto ingaggiare una presta battaglia, che mancava di danaro,
primo e forse unico nervo della guerra: nessuna provvisione che si
richiede da esperto capitano aveva ommesso; l'affidavano a bene
sperare il luogo di leggieri assai difendevole, i sufficienti presidii
affezionati al suo nome, per disciplina e per valore reputatissimi; la
fedeltà dei Conti di Caserta e Lancia, che aveva loro preposto.
Adesso riprende la Cronaca, e racconta, come la sera del quinto giorno
di febbraio tornando Manfredi verso Benevento, dalla quale città
era uscito per incontrare una masnada di soldati che dovevano
mandargli di Puglia, si doleva per via della negligenza dei
Governatori in ispedirli, e della lentezza dei condottieri in
menarglieli, mostrandosi più che non si convenisse malinconoso,
allorchè, levando gli occhi all'orizzonte, vide un nugolone nero
che parandosi innanzi del sole prima che fosse tramontato, ne impediva
la vista: qual fosse la relazione che in quel momento passava tra
cotesta scena e i pensieri di Manfredi, noi non sapremmo; ma egli
stava a considerarla con misteriosa calma, e con un meditare profondo,
maggiore di quello che l'uomo in simili casi possa adoperare: gli
estremi contorni della nuvola però splendevano di colore di sangue,
e ne scaturivano alquanti raggi che spargendosi largamente per
l'emisfero tingevano in vermiglio tutti gli oggetti che l'occhio
giungeva a contemplare; d'ora in ora un buffo di vento scuoteva con
violenza le fronde degli alberi, e percorreva la terra, cacciandosi
innanzi turbini di polvere mossa, e paglie; il volo degli uccelli
più e più sempre si abbassava, quasi presentissero che il cielo
era per farsi turbinoso, ed annunziavano con voce inquieta soprastare
la procella. Giordano d'Angalone, che cavalcava allato di Manfredi,
avvisando di entrare nel pensiero del Re, favellava: Stasera il sole
muore innanzi tempo.»

Manfredi, guardandolo accigliato, rispondeva: «Muore, ma
brilla.»--E nel volgere che fece degli occhi, protendendogli giù
per la valle esclamò: «Oh! perchè mai si affaccenda egli
tanto? In verità mala nuova ne porta il corriero.»

I cortigiani che accompagnavano Manfredi diressero gli occhi al punto
in cui mirava il signore, e stringendo le palpebre quanto meglio
poterono, aguzzarono la vista: pur finalmente, stanchi di nulla
discendere, parlarono insieme: «Salva vostra grazia, messer lo Re,
voi avete preso errore....»

«Errore! Guardate là, là a mancina presso al dirupato del
Diavolo,» ed accennava col dito «seguendo la direzione della
cappella di Nostra Donna del Pianto,--non vedete un uomo che si
affatica per guadagnare l'erta del monte?»

Si riprovarono più intenti di prima i cortigiani, e dopo replicati
esperimenti risposero: «Noi non vediamo cosa al mondo.»

Tuttavolta, così comandando Manfredi, si rimasero su quella vetta,
nè passò molto che incominciarono a scoprire una macchia bruna
che parea distaccarsi dall'estremo orizzonte, e di mano in mano
ingrandirsi approssimandosi; molto si maravigliarono del caso, e di
animo concorde lo attribuirono a miracolo: e veramente, dice la
Cronaca, ciò non fu senza volere di Dio, che, purificandogli le
facoltà intellettuali e del corpo, anticipava all'anima travagliata
lo spasimo della vicina sciagura, la qual cosa noi non sapremmo
affermare; comecchè presso molte nazioni della terra vivesse, e
forse anche viva la credenza, che il Destinato abbia il dono di
profezia, e possa per alcuni segni degli occhi conoscersi colui che,
prossimo a chiuderli per sempre, ha ricevuto, quasi in compenso della
morte affrettata, la potenza di antivedere gli eventi. Ora si scorgeva
manifesto il corriero: gli copriva la bocca una fascia, perchè nel
celere corso l'aria non fosse impedita dall'entrare liberamente nel
polmone; teneva fitti più che mezzi gli sproni nei fianchi del
cavallo, o che distratto da altro pensiero non avvertisse che in quel
modo gli dava la morte, o anzi che, calcolando per la fatica sofferta
non potere più a lungo durare, volesse che quegli ultimi avanzi di
vita si consumassero in isforzo disperato:--nefanda, non inusitata
ferocia presso di noi, che ci diciamo immagini del Creatore! Anelava
il povero animale in ispaventosa maniera, aveva il morso imbrattato di
spuma sanguinosa, grondava sangue dal costato, da tutto il corpo
sudore; pure trasvolava con una rabbia di corsa, per modo che a mala
pena si potesse seguitare col guardo nei rapidi passaggi che faceva
dall'ultimo globo di polvere nel nuovo che suscitava scalpitando;
giunto circa quaranta passi alla distanza di Manfredi, stramazzò
con lungo sdrucciolío, e abbandonando la testa stette immobile: il
corriere, traendo le briglie, spronando più aspro che mai,
s'ingegnava a rilevarlo;--fu opera perduta.--«Potevi aspettare a
morire dopo altri quaranta passi!» mormorava il corriere smontando,
e senza pure degnarlo d'uno sguardo s'incamminò pedone alla volta
del Re; se gli inginocchia trafelato alla staffa, ma soverchiato dal
travaglio cadeva boccone. Scese Manfredi, lo alzò affettuoso, lo
pose a sedere, e di propria mano gli allentava la cintura, perchè
meglio respirasse. Confortato il corriere di breve riposo, cominciava
dolente: «O Re Manfredi, male nuove vi porto.»

«Già corre gran tempo, che non ne aspetto di buone.»--E
così parlando Manfredi pose il gomito sopra la sella del suo
destriere, e nella palma della mano lasciò declinare la testa.

«Grande sventura sono per narrarvi, mio Re.»

«E noi siamo apparecchiati ad ascoltarla: narrala.»

«I Provenzali hanno passato il Garigliano...»

«Che!--Tu te ne menti.»

«Così piacesse alla Santa Vergine, e a San Germano, che voi mi
aveste giustamente mentito, chè io non vi chiamerei per questo in
isteccato.»

«Perchè hanno combattuto? non avevano ordine di schivare la
battaglia? Ecco, chi a adopra l'arme senza consiglio, le depone con
danno... costoro mi sono debitori di questo sangue sparso...»

«O signor mio, che parlate di sangue? un vituperio eterno ha
contaminato l'onore dei Baroni del Regno.»

«Come!»

«Carlo passò senza colpo ferire.»

«Dio!...»--proruppe con altissimo grido Manfredi, e il rimanente
digrignò fra i denti, e alzò la testa, e così duro colpo
sferrò su la groppa del destriero, che questo si mosse per fuggire:
ma egli gli cacciò la destra dentro la criniera, e con forza
convulsa lo costrinse a stare: quindi interrogò il corriere:
«Dove è il Caserta?--dove andò il Lancia? Questa è la fede
dei congiunti? Sopravvissero essi a tanto obbrobrio? Se
sopravvissero.... io lascio loro, per pena, la vita.»

«Ahimè, Messere! che vi ha tradito il Caserta.»

«Chi?--Caserta? Hai tu nominato il Caserta? Perchè mi ha egli
tradito? Che gli aveva io mai fatto? Non l'onorai? Non lo chiamai a
parte del reggimento? Non lo costituiva, dopo me, primo nel Regno? Non
lo anteposi ai miei stessi consorti? Rinaldo!--l'amico mio! Perchè?
Ah!--qual baleno di rimembranza!--La Spina!--Il tempo ha ridotto in
polvere anche le sue ossa, e non ha cancellato l'offesa?--Chi offende
dimentica; ma lo ingiuriato cinge di cilicio la memoria, e mette su
l'anima il peso della vendetta:--non è la vendetta la cancrena del
cuore? Ho errato; misero il Re che offende; più misero colui che
offende, e non uccide! Rinaldo ha fatto il debito suo: perchè noi
mancammo al nostro;--mai si concede errare indarno a cui porta corona;
noi ne paghiamo amarissima pena, ma pure dovuta. Dovevamo noi?... un
Manfredi?... No, nol dovevamo; ma _Dio a cui vuol male toglie il
senno_.» ¹

  ¹ Espressione sovente adoperata dal Cronista Villani nel racconto
    di queste avventure, Libro 7.

Queste parole non suonarono intere dalla bocca del Re, che la passione
nol consentiva; gli si nascosero le pupille sotto le ciglia tese, un
colore livido gli coperse la fronte, gli si gonfiarono i muscoli, tutta
la fisonomia ne rimase scontraffatta in guisa, che i circostanti
abbrividirono di terrore; si fece velo al sembiante con ambe le
mani, e meditato che ebbe alcun tempo, le rimosse mostrandosi
tranquillo.--Tranquillo! destava una sensazione simile a quella di colui
che seduto sul lido del mare gode vedere il placido flutto leggermente
commosso dalle danze del venticello vespertino, quando all'improvviso,
trascorrendo con l'occhio innamorato, incontra legni sparsi e cadaveri,
segno della sua ultima tempesta. Il corriero, che non aveva avuto più
animo di muovere labbro, ricevuto espresso comando, riprendeva così:
«La sera del giorno quarto di febbraio le nostre vedette tornando di
tutta carriera, ci avvisavano stessimo all'erta, perchè cominciava a
vedersi la vanguardia nemica: già non faceva mestieri di avviso, che
il Conte Lancia vigilava incessante, e confortava i soldati con le parole
e con l'esempio a bene operare: intanto apparve una schiera di Carlo, poi
un'altra, e un'altra _ancora_; la notte c'impedì di scorgere la venuta
delle susseguenti; per quello che ne apparve, prima e dopo che si fu
partita la luce, non pensavano a dare battaglia. Era già passata la
prima ronda, ed io me ne stava in guardia della tenda del mio signore,
Conte Giordano, allorchè un uomo armato s'incamminò alla mia volta:
tesi la balestra, e domandai:--Chi viva?--Viva Svevia,--rispose il
Cavaliere,--va, sveglia il Conte Giordano, chè ho da parlargli.--Non
vi ha mestieri svegliarmi,--rispose il mio signore,--affacciandosi
all'apertura, perchè tristo è il vassallo che dorme quando il suo
Re sta in pericolo; parlate, Contestabile, ch'io vi ascolto.--E venne
fuori: e quivi al sereno, chè il cielo era placido, e non soffiava un
alito, cominciava il Caserta:--Giordano mio, se voi, come non dubito,
amate il vostro Re di quello amore che l'amo io, ho pensato che voi non
impedirete un mio accorgimento pel quale di sicuro distruggeremo lo
esercito del Provenzale.--Rispose il Lancia, lo aiuterebbe molto
volentieri, nessuna cosa stargli più a cuore quanto la salute del Re,
gli esponesse il trovato; per quanto era in lui, lo metterebbe in opera
con infinita allegrezza.--Or bene, caro Giordano mio, soggiunse Rinaldo,
voi sapete che non solo qui può guadarsi ii Garigliano, e quanto
più si rimonta alla sorgente, tanto meglio si passa, specialmente a
Castelluccio; noi, secondo le regole dell'arte, e i comandi del Re,
abbiamo sprolungato le nostre forze su la destra sponda dei fiume per
contrastare i nemici dovunque accennassero di fare un motivo; ma credete
voi che quando si possa far meglio, sia questo buono consiglio? Certo voi
nol credete: il Provenzale non ha mica convenuto di ordinare i suoi
soldati, come noi abbiamo; anzi ho fede che gli riunirà in un punto, e
quivi sforzando i nostri, insufficienti a resistergli, guaderà il
_Garigliano_, e ci assalterà alle spalle e di fianco con nostro
manifesto svantaggio: vorrei dunque per ovviare al danno che noi ci
ritraessimo un po' addietro....--Come? interruppe il Conte Giordano,
trasgredire affatto i comandi di Manfredi!--Il Re, soggiunse il Caserta,
ha comandato così perchè gli pareva il meglio; e noi siamo per la
fedeltà nostra tenuti ad imprendere non quello che pare, ma quello che
è veramente meglio: se poi ce ne volesse dar carico, noi risponderemo,
Conte, ai suoi rimproveri:--abbiamo vinto;--non dubitate, ella è
questa una buona ragione, che non ammette replica in contrario: io diceva
pertanto di ritirarci indietro e spartirci nelle boscaglie lungo la via;
io sopra del ponte, voi sotto, io co' miei Pugliesi, voi co' Tedeschi:
Carlo, domani vedendo il ponte senza difensori, non manderà altrove la
sua gente, nè allargherà senza bisogno la sua fronte; si
spingerà innanzi per questo passo, riputando, orgoglioso come lo
sappiamo, che non ci sia bastato il cuore di sostenerne la vista:
facciamo che s'inoltri in colonna; io allora sboccherò dalle macchie,
e gli darò la carica sul fianco sinistro, cacciandomi tra mezzo;
quando scompigliati gli ordini vedrete ripiegare i Francesi, fate voi sul
destro fianco quello che ho fatto io in sul sinistro, e rompete il ponte;
i rimasti tra noi e il fiume vi traboccheranno a precipizio, i tagliati
tra noi e la terra deporranno le armi, avendo San Germano a fronte: nè
mi opponete, piccola schiera essere affidata al valor vostro, perchè
quei pochi Tedeschi valgono i miei molti Pugliesi; e dovendo voi
assaltare presso il ponte, non potete incontrare che una profondità di
sei od otto file, mentre io dovrò combatterli certamente molto più
grossi. Che parvene, Giordano? non è una bella astuzia questa?--Il
Conte Lancia pensò molto, e rispose breve:--Io non saprei approvarla,
Contestabile; ella mi sembra per lo meno arrisichevole, nè a noi
può giovare adesso; si vince col combattere come con lo schivare le
battaglie, ed ora è il caso: se Carlo indebolisce parte della sua
fronte per fare vigorosa impressione sopra un punto della nostra, e noi
insisteremo sopra il punto indebolito con simile arte, e lo circuiremo
alle spalle, conseguendo così più facilmente quello che in modo
più complicato e con maggiore avventura vorreste far voi, nè ci
dipartiremo dai comandi ricevuti.--Tacque il Lancia; soggiunse il
Caserta; poi il Lancia di nuovo: nè trovando modo a comporsi,
propose il Conte Giordano di ragunare un consiglio di guerra,
e starsi alla sua decisione: allora con gravi parole favellò il
Contestabile:--Luogotenente, noi fin qui abbiamo parlato a Vostra Signoria
per avervi compagno alla bella impresa; da che compagno non volete esserci,
vi ordiniamo di eseguire quanto crediamo bene di comandarvi.--Ciò
potevate fare innanzi, Contestabile, se manifestandomi il vostro funesto
disegno volevate trovare in me un lusinghiero piuttosto che un franco
soldato; nondimeno vi protesto di fare quanto posso per vincere, ma che a
malgrado della vittoria mi dorrò della vostra condotta presso
Manfredi.--Farete quello che vorrete, intanto obbedite;--e si partì.
Giordano levò la destra al cielo, e udii che profferiva:--Signore, vogli
che questa impresa abbia felice fine, come io lo preveggo sventurato.--Ci
dividemmo taciti, lasciando molti fuochi accesi per ingannare il nemico;
andò il Contestabile co' Pugliesi a oriente, noi pochi col Luogotenente
ci posammo vicino al ponte. Spuntava l'alba che doveva rischiarare l'onta
del Regno, quando i Provenzali, visto senza difesa il capo del ponte,
mandarono avanti alcune vedette: di lì a poco sopraggiunse un membruto
coperto di bellissima armatura, che certo doveva essere il Conte
d'Angiò....»

«E parti egli forte quanto si dice?» interruppe Manfredi.

«Non so se forte, prudente è molto, perchè dette ordine che i
suoi passando il ponte non si sprolungassero in colonna, sì come
aveva pensato il Contestabile, ma giunti al capo si partissero,
volgendo una fila a mancina, l'altra a destra, e si schierassero
paralleli al filo delle acque. Il mio signore che stava sopra una
eminenza con alquanti dei suoi a vegliare le mosse del nemico,
esclamò a cotal vista:--Questo sapeva io bene; pure si potrebbe
emendare il fallo, se il Contestabile tornasse presto a riunirsi co'
miei.--E spedì il primo, il secondo, fino a cinque corrieri; fecero
tutti come il corvo dell'arca;--non ritornarono. Mentre il mio signore
agitato da impazienza leva la faccia, e vede.... spettacolo d'infamia!
su le opposte montagne allontanarsi in vergognosa fuga i Pugliesi; fu
per non credere a sè stesso, fu per ferire il primo che disse:--e'
fuggono;--alla fine gli fu forza riceverne l'amara certezza.--Ecco,
che accadde fatto, esclamò smarrito, peggiore di quello che temeva;
mi era apparecchiato al fallo, non al tradimento:--ora, che faremo
noi? domandò rivolto ai suoi, che gridarono concordi:--Morire!--A
Dio non piaccia che sia così; serbate, o valorosi, le vite vostre
ad atto più generoso, e meno disperato; dico più generoso;
perchè non sia virtù spendere le anime senza consiglio; con
maggiore utile del nostro Re potremo morire un'altra volta; a San
Germano vedranno chiaro che noi non fummo i vili, sì bene i
traditi.--Adesso il mio signore mi spedisce a voi, serenissimo Re, e
vi prega ad accorrere presto, onde ristorare la cadente fortuna, e
confermare con la presenza la fede....»

Manfredi non si rimase ad ascoltare la fine; inforcò la sella, e si
affrettò a Benevento, senza pur salutare il corriere. Questi
seguiva ansimante a piedi, da lontano, il suo Re, nè andava capace
come dopo tanto durato travaglio, dopo essere tanto carezzato sul bel
principio, adesso lo avesse deserto con tanto poca carità su la
via; accusava le stelle, se la prendeva col destino, e non sapeva,
che, quantunque dica la gente--l'ambasciadore non porta pena,
nondimeno se l'ambasciata sia di dolore, non può essere che chi la
reca non dispiaccia, perchè l'anima partecipa l'odio della perfidia
con quello che gliel'ha svelata, e la ragione in queste cose non entra
per nulla.

Arrivato che fu Manfredi nella sua real sede di Benevento, mandò
per l'Amira dei Saraceni, Sidi Jussuff, della stirpe dei Ben-izeyen,
il quale comparso, e salutato il signore con ogni dimostrazione di
rispetto, secondo il costume degli Orientali, gli stette immobile
davanti, aspettando il comando. Manfredi ordinava: «D'Angalone,
procurate sollecito che le compagnie dei Tedeschi di qui a due ore
sieno in punto di marciare per San Germano; tu, Baba Jussuff, fa lo
stesso dei tuoi Saraceni: tu sai, che sebbene noi siamo credenti di
_Sidi Issa_, tuttavolta li consideriamo come i più fedeli sudditi
nostri; va, dì loro che si apparecchia un breve travaglio, che il
Dragone minaccia la luna, ma che Dio grande ha destinato che uscirà
più lucida che mai dalle sue branche schifose; nè il vincere
pende incerto, perchè non ha egli detto il Profeta:--_Chi si pasce
d'iniquità trova la sua bocca piena di cenere_?»

L'Amira, conserte le braccia al seno, fatto inchino profondo,
accennava di partire, quando il D'Angalone disse rivolto a Manfredi:
«Messere lo Re, avete considerato per via qual notte si apprestava?
Il cammino che dobbiamo percorrere è malagevole; se la procella ci
giunge, ci strazierà l'affanno, nè potremo inoltrarci di un
passo.»

«Trista è la fede,» interruppe l'Amira «che si consiglia
col tempo: la bestia che _Allah_ ha fatto compagna dell'uomo, guarda
il segno e la mano, non il sentiero, e se tra mezzo si sprofonda
l'abisso, muore nella letizia della sua fedeltà; l'uomo avrà
sortito doni maggiori per esser minore del cane? Tutto ha destinato il
Signore, nessuno può fuggire il suo fato; se l'Angiolo della Morte
scese dal cielo, ti percuote tanto seduto alla mensa, quanto schierato
in battaglia;--tutto ha destinato il Signore, e il migliore d'ogni
consiglio è l'obbedienza del Re.»

D'Angalone, a cui quella dottrina della fatalità non andava a
verso, voleva rispondere; lo prevenne Manfredi, facendo un atto di
sdegno con la mano, ed esclamando: «È destinato; l'Amira vi ha
risposto per me.»

Si allontanarono. Rimase solo Manfredi: si succedevano truci pensieri
nel suo intelletto con la celerità stessa con la quale in quell'ora
si aggiravano i nuvoli pel firmamento, nè meno erano tenebrosi; noi
non ne faremo la storia, chè forse volendo noi potremmo. Passate
due ore di passione, giunsero, primo l'Amira, secondo il Conte
d'Angalone, ad avvertirlo, essere le compagnie saracene e tedesche
disposte a partire. Manfredi, dato un grande sospiro, guardò
intorno la sala, prese l'Amira sotto l'ascella, e: «Andiamo»
disse «dove ci chiama chi in noi può più di noi stessi....
ah! il mio destriero.... io l'ho obliato....»

«Ho provveduto a questo, Messere;» rispose D'Angalone: «egli
vi attende bardato alla soglia del palazzo.»

«Gran mercè, Conte; voi avete molto bene operato.»

E scesero. Appena si furono affacciati alla porta, che agli occhi di
Manfredi occorse un pietoso spettacolo: su gli estremi gradini, disposti
in soave atto di amore, stavano la moglie e i figli suoi:--ei gli aveva
dimenticati!--tanto possono le cure del trono che facciano dimenticare
all'anima sì gran parte di lei? Nè la luce sinistra delle torce di
resina, nè i globi di fumo alteravano punto quelle care sembianze; bene
dentro sentivano scoppiare le lagrime, ma per non affliggere il Re
sorridevano:--bellezza quasi ideale di tenerezza! Una pace mesta usciva
loro da tutta la persona, e si diffondeva sul cuore pei riguardanti;
parevano una benedizione del padre, che dal capezzale non lascia ai
figliuoli che il retaggio della giustizia: era su que' volti
spavento,--era malinconia,--era speranza,--espressione simile a quella del
devoto, che, timoroso del giorno dell'ira, inalza una preghiera in
espiazione, e nel fervore dell'offerta gli raggia in fronte la fidanza di
placare l'Onnipotente vendicatore. Perchè Manfredi abbassa la visiera?
Teme egli che sveli la sua faccia il rimorso di averli dimenticati, o la
pietà di vederli? Il rimorso, e la pietà, voglionsi ugualmente
lodare; quello è proprio della creatura che deve morire, questa
conviene anche agli Angioli. Colui che fece la schiatta dei Re, volle che
fossero più che uomini;--devono respingere il pianto dal
ciglio,--devono non sentire il grido della Natura:--ma lo potranno
eglino?--Manfredi si accosta tremante;--non deve tremare, egli è
Re:--non è carne quella che lo veste, non sangue quello che gli agita
le membra, non anima?...

«Elena! Yole! Manfredino! consorte, figli miei! a che vi state
così allo scoperto? non vedete che il cielo tempestoso minaccia, e
la bufera sta per iscoppiare?»

«Perchè tu parti senza darci l'addio? perchè tu parti senza
menarci con te?»--rispose la Regina con nuova domanda.

«Con me! a perigliare in mezzo delle armi, tra la rabbia di soldati
inferociti, tra il tumulto delle battaglie, tra le morti... la
fuga?»--e questa parola gli fu come spinta alla bocca, e volendola
ritenere gli morì su le labbra.

«Staremo noi dunque lontani dal tuo aspetto a inaridirci nella
incertezza più affannosa della stessa sventura, a morire di dolore?
Chi fia, che ti consoli senza di me? Se, e Dio nol voglia, tu
rimanessi ferito, che si direbbe pel mondo della Regina Elena? una
mano straniera ha medicato le piaghe del figlio di Federigo, perchè
la sua consorte dimorava lontana dal campo. Ho io tanto mal meritato
di te, che tu vogli contaminarmi di così vituperevole onta?»

«Ma tu lo vedi, noi siamo per partire, nè voi potete seguitarne
in sella; come trasportarvi? Pochi momenti possono precipitarmi dove
non... si può risorgere.»

«Oh! non darti pensiero di questo; ho provveduto: vedi, non sono
quelle lettighe?»

«In verità voi impedirete la corsa.»

«No: tu va innanzi, nè aver cura di chi succede; non volgerti
nemmeno indietro, noi ti seguiremo da lontano,--ci basterà la
vista....»

«M'impedirete il ferire....»

«Ti mostrerò anzi, non dubitare, prima che tu corra in
battaglia, questo tuo Manfredino....» (Il Re si curva, impone
ambedue le mani sul capo del suo figliuoletto, ed esclama: «o mia
speranza!») «e ti dirò che tu lo salvi, ch'è sangue tuo;
che nol risparmieranno i tuoi nemici, se cedi....»

«Cedere io? quando ha ceduto Manfredi? quando, donna, ti tornò
il tuo consorte dinanzi in sembianza di vinto? Noi vinceremo....»

«E noi, raccolti nella tua tenda, pregheremo il Signore che ti dia
vittoria, che non risguardi alla tua fronte segnata dell'anatema, che
sciolga quello che legò in terra il suo Vicario, perchè non l'ha
legato con la giustizia.... intenda il gemito dei supplichevoli....
protegga gl'innocenti.»

«Non fare, Elena, non fare, che l'Eterno guardi dall'alto la testa
di Manfredi; pregalo per te, pregatelo per voi, figli miei; voi siete
degni che egli vi ascolti, e vi ascolterà: io mi raccomanderò
alla spada.»

E mosse per allontanarsi: gli si gittarono ai piedi, gli abbracciarono
le ginocchia, prorompendo in voce di pianto: «Non ci lasciate,
padre!--non mi lasciare senza di te!»

«Venite dunque, poichè lo volete, a partecipare dei miei dolori,
della mia morte; anteponete alla vita e alla sicurezza vostre, la mia
compagnia, ed io vi accetto:--badate, voi gusterete amarezze ineffabili,
chè l'amico del misero è più infelice di lui; tardo poi verrà
il pentimento, tardi i desiderii,--non mi credete? Io vi compiango; voi
non sapete come flagelli la sventura, nè potete conoscere quanta ci
travagli la rabbia di amore di sè, che mescolata col sangue ne circola
per la vita: sia fatta la vostra volontà. E tu, inesorabile,» e
guardò il cielo, «che raguni le tempeste, e regni sul fulmine, tu
risparmia a questi affettuosi la vista feroce dei più santi vincoli
rotti dal furore dei bisogni dell'anima e del corpo: bene io so che le mie
offerte consideri offerte di Caino davanti al tuo altare, e che per me non
hai orecchie da ascoltare la preghiera; e se discendi nel profondo, tu sai
se per me pregherei;--ma io ti supplico pe' miei figli,--intendi, pe' mei
figli innocenti; guardali se sono puri al tuo cospetto, ricercali, nè
troverai parte che tu non goda di avere creata. Io ho peccato,--puniscimi;
ma non è ragione che questi capi diletti portino il peso delle mie
iniquità.»

Così parlava Manfredi sì come disperato del perdono del cielo,
ed altamente commosso aggiungeva: «Benincasa! Benincasa! prendete
quattrocento lance spezzate, e fate scorta alla mia reale
famiglia:--bada, Benincasa, questo è sangue mio, tu pure sei padre,
e conosci a prova che voglia dire--sangue mio: a te dunque lo
raccomando.»

«Messer lo Re,» rispose il Benincasa portando la mano destra sul
cuore, «io ne avrò cura più che se fossero miei figli....»

«Non più:--guardali come guarderesti i tuoi, tanto mi basta.»

Alta la notte, e cupamente profonda, attristava la terra; nè raggio
incerto di stella, o di luna, trapelava dai nuvoli che ingombravano lo
emisfero:--in così spaventosa oscurità sarebbe stata, non che
altro, benedetta la luce del fulmine. Dalla furia del vento che si
spezzava dentro le forre dei monti, dal mugghio delle nuvole travolte,
usciva un dolore, un terrore, simile al rammarichío d'una
moltitudine di tormentati, che si lamenti in diversi suoni con
orribili favelle. Taluno per quei montani sentieri avvertito dallo
scroscio del torrente di trovarsi sul ciglione della balza, dava
indietro gridando al vicino:--qui è morte;--il quale, tentando
dall'altra parte, e conosciuto quivi ancora diruparsi la via,
rispondeva:--nè qui è vita;--si prendevano stretti per la mano,
ed abbassata la testa, puntando la persona, spesso trapassavano illesi
il cammino periglioso: molti però percorsero gran tratto carponi;
molti si aggrapparono alle rocce, nè le lasciarono, finchè il
temporale non rimise alcun poco dell'impeto: vi furono di tali che
ebbero fiaccate le gambe, o le braccia, dagli alberi divelti dalle
radici, precipitanti dall'alto; ed anche chi percosso sul capo cadde
senza anima, ingombro di terrore ai sopravegnenti: nè mancarono di
quelli che poco validi di robustezza, e male assicurati delle orme,
traportati dalla bufera non sentirono nè pure la consolazione di
manifestare ai compagni la miserevole morte con l'ultimo strido;--lo
assorbiva lo elemento imperversato, quasi geloso di partire con altrui
la potenza della paura,--come risoluto a fare, che nessuno spavento
fosse maggiore del suo.

Fra tanto scompiglio il nobile Manfredi montato sopra un generoso cavallo
di battaglia, ch'egli aveva tolto a malgrado che l'Amira Jussuff gli
avesse fatto osservare essere balzano dal piè sinistro di dietro, e
però di tristissimo augurio, procedeva arditamente, affidato
all'istinto e al vigore dell'animale; questi, quasi volesse giustificare
la fiducia che in lui riponeva il cavaliere, lo portava sicuro con
maravigliosa celerità per una via scabrosa, piena d'impedimenti e di
pericoli. Gli ufficiali del Re, o per aver sotto più pigro destriere, o
per chiudere in petto meno animoso cuore, non gli potevano tenere dietro:
egli per lungo spazio cavalcava loro davanti. È fama che le anime dei
sepolti lungo quella via sbucassero fuori delle fosse, e recando in mano
fiaccole accese lo precorressero trescando una danza infernale, e che il
cavallo e il cavaliere nulla temendo di coteste apparizioni si valessero
della luce per inoltrarsi sicuri. Aggiunge ancora la Cronaca, che Manfredi
avendo esclamato:--abbi i miei saluti, e le mie grazie, qualunque tu sii,
spirito infernale, o celeste, che mi rischiari il cammino,--quello
splendore allo improvviso cessasse, e indi a poco comparisse uno spettro
scettrato, luminoso di un bianco trasparente, come di nuvolo che veli il
disco della luna, il quale,--stupenda avventura!--invece di tramandare
raggi di luce fosse ricinto di una atmosfera più tenebrosa del buio
della notte: rassomigliava lo Imperatore Federigo, come che la sua
sembianza non apparisse con precisione descritta,--quasi immagine di
sogno, che l'anima non abbia compíto di formare;--non poteva dirsi di
vivente, nè di defunto, più tosto di persona desta per forza da
lungo letargo, che non ha per anche ben ricovrati gli ufficii della
vita.--Afferrava la larva il cavallo pel freno, e con voce, che sebbene
superasse lo stridore del turbine, tuttavolta da nessuno fu intesa, fuori
che da Manfredi, gridava:--Ben venga il figliuol mio, sono degli anni
più di venti che io ti aspettava sopra questa via:--ed alla fine delle
parole lo trasportava con tanta veemenza, che il Re, nè credendo nè
sentendo di toccare più terra, si avvisasse di correre alla bocca del
Vesuvio per essere precipitato dentro l'Inferno: quando ecco rimanersi lo
spettro, lasciare il morso, e, protendendo la mano spiegata in atto di
respingere, con orribile ululato sprofondare; il cavallo, che fino ad ora
se ne andava a rovina, s'impennava; nè per quanto Manfredi v'impiegasse
d'arte e di fatica, poteva farlo avanzare di un passo, chè anzi,
ricalcitrante, più e più sempre indietreggiava. Sopraggiunsero i
cortigiani, e maravigliando che anche i proprii cavalli, aombrando,
repugnassero inoltrarsi, cavato un fuoco greco¹ di una lanterna, si
misero a speculare per la strada:--un cadavere deturpato vi giaceva
traverso; aveva la testa affatto scarnita, meno qua e là qualche
straccio di cotenna sanguinosa; la spalla destra divorata fino alla
mammella; il fresco sangue diceva chiaro quella strage essersi operata da
poco tempo; mostrava il petto macolo dalle pedate dei cavalli, sdrucito in
moltissime parti dalle branche e dalle zanne dei lupi, che, porgendo le
orecchie, intesero non lontani brontolare, come rabbiosi che avessero loro
rotto quel pasto: non vi fu bocca che non mandasse grido a cotesta
miseria, non cuore che non sospendesse il suo palpito. Manfredi ordinò
che lo togliessero alla paura dei suoi soldati, gittandolo giù pel
macchione. Tali, e non altre furono l'esequie che ebbe quell'infelice dai
suoi fratelli. Credesi fosse un povero montanaro che andasse di notte per
giungere assai di buon tempo in Benevento a vendere certa cacciagione, e
prima di terza ritornare a vedere i suoi figliuoli.... Avanti di partire,
con essi loro ringraziava la Provvidenza che gli aveva fatto trovare tanta
salvaggina, unica causa del suo viaggio....

  ¹ Il fuoco greco, _feu grégeois_, fu una delle principali cause
     per le quali l'Impero di Oriente si conservò alcuni secoli
     dagli assalti dei Barbari: e' pare che fosse composto di
     _naphta_, o sia olio infiammabile tosto che si ponga in contatto
     coll'aria; e di alcune dosi di zolfo e di pece. Vedi molte
     particolarità intorno questo fuoco in Gibbon: _The Decline and
     Fall of the Rom. Emp._, chap. 52.

Manfredi commosso, non isbigottito, da tante vicende, guardò il
firmamento, e minaccioso parlava: «Ben puoi strapparmi la corona
del capo, bene anche il senno, pel quale gli uomini mi hanno
esaltato,--ma io ti sfido a levarmi la costanza.»




CAPITOLO VENTESIMOSESTO.

IL SARACINO.

                MESSO.

                Fuggite, o triste e sconsolate donne,
                Fuggite in qualche più secura parte,
                Chè i nemici già son dentro le mura.

                SOFONISBA.

                Ove si può fuggir? Che luogo abbiamo,
                Che ci conservi, o che da lor ci asconda,
                Se l'aiuto di Dio non ci difende?
                             SOFONISBA, tragedia antica.


«No, non ha vinto il Provenzale; egli ha varcato il confine, sì
come il mercante che dal contado romano trapassa nel Regno: sieno esse
queste le sue glorie! non gliene serbi il destino diverse! questo
desideriamo, questo speriamo, questo con ogni intento nostro faremo.
Esalti nella grossezza della mente la vergogna di sì fatta
vittoria;--a lui non concessero i cieli neppure il pudore, che non
manca al ribaldo, di godersi in silenzio il frutto dell'infamia:
certo, se così non vince, altramente non vince; conosce al mondo
qual guerriero è costui: stanno in Egitto le memorie delle sue
imprese, dove seppe ricomprare a contanti ¹ una vita che non aveva
saputo spendere combattendo per Cristo. Oh! causa di Dio in quali mani
affidata! Poco era il dolore dei Fedeli nel vedere il tuo santo
sepolcro in mano dei cani, che tu dovessi aggiungervi il molto più
grave di farti contaminare la venerata bandiera da cotesto masnadiero
francese? Male si conquistano i Regni con le arti; nè cammino di
sicurezza, bensì di vituperio, è quello del tradimento. Su la
via che conduce alla reale Napoli ora sorge Manfredi, armato della
spada dello Imperatore Federigo, preceduto dall'Aquila, usa per tanti
anni di vittoria a riposarsi nel padiglione dei vinti, ricinto dai
fedeli Baroni, che a palmo a palmo ricuperarono prima, e poi gli
donarono il Regno. Diverse battaglie ti si apparecchiano adesso dalle
tue provenzali: qui non sono vassalli difesi dalla sola innocenza, qui
non Baroni tutelati dalla sola giustizia; certo, se queste sole ci
assicurassero, ora noi ci daremmo per vinti;--tu sei invincibile, e la
gente lo sa, contro la innocenza: ma noi assicurano diecimila tra
Pugliesi e Tedeschi, tutti i Saraceni di Lucera, mirabile quantità
di saettamento, mura inespugnabili, perigliose paludi, monti
inaccessibili. Che andiamo parlando noi di paludi, di monti, di
baluardi? Siamo noi forse tali che abbiamo bisogno di bastite per
usberghi? Forse tanto dall'antica virtù decaduti, che alle anime
nostre desideriamo altra difesa che il proprio petto? Dovrà la
superbia francese vantarsi della insperata onoranza? La virtù
italiana dolersi della inusata vergogna? A noi duole trattenerci
perfino in queste finzioni d'ignominia. Nei campi aperti combattevano
i nostri padri, e noi nelle aperte pianure sortiamo, andiamo a dare
generosa ammenda al fallo di traviati fratelli, facciamo che mal
gustati gli tornino i dolci frutti d'Italia, tocche in mal punto le
italiane terre; avverso è il clima, mortifero l'aere nostro al
giglio di Francia. Qui assorsero, qui vivono, ed eternamente vivranno
alla vittoria le Aquile imperiali:--forse che adesso Carlo,--il Re del
nostro Regno!--si consiglia con la paura, e ferma di lasciare, senza
pure vederle, queste terre donategli da quel suo romano Pontefice:
è tardi,--le Alpi non si varcano indarno. Figlio di padre infelice
fu quegli che osò guastare il giardino dell'Impero; vedova prima
che sposa, l'amante di colui che offese il retaggio dei discendenti di
Costantino: di là dai monti oggimai non vedranno che l'esequie
degli stolti che si commisero alla audace intrapresa;--abbiano il
lutto da che non ebbero il senno; dopo il fatto, anche il folle
diviene sapiente: e già il nostro pensiero, lieto dei favorevoli
augurii, lusingato dalla gloria dell'evento, gode affacciarsi al
futuro, e contemplarvi venerandi per onorata canizie nelle sale dei
vostri castelli, festeggiati dai vostri nepoti, instantemente
richiesti a narrare la storia di tanti trofei appesi; voi allora li
guarderete sorridendo sì come consapevoli di vivere immortali nella
memoria dei posteri; e incomincerete così:--Corrono molti e molti
anni che una gente di Barbari mosse d'oltramonte a infestare le nostre
belle pianure; pregate, figli, la pace a quell'anime, però che
anche elleno fossero di battezzati!--e i corpi lasciarono alla
pianura, a noi le armi, ai figli le lacrime, e il cordoglio di non
poterli vendicare;--avventurosi in questo, che, morendo, noi non
potemmo togliere loro la gloria di perire sotto le nostre spade.»

  ¹ Vedi Capitolo decimoprimo.

In questa sentenza favellava Manfredi, arrivato in San Germano al
cospetto dei suoi condottieri; e se così avesse arringato per
conseguire gloria di oratore, il suo desiderio sarebbe stato compito,
perchè con tanto tumulto di mani percosse e di grida gli
applaudirono gli ascoltatori, che pareva San Germano ne sobbissasse.
Di quelli poi che applaudivano, non tutti prestavano fede alle cose
esposte da Manfredi, ed egli medesimo le credeva meno degli altri:
assai in ciò somiglievole alla femmina, che più s'ingegna
riparare all'avvenenza delle guance e al decoro della fronte, quando
più il tempo insiste a sfiorarle quegli ornamenti di troppo caduca
bellezza: nondimeno le sue condizioni non volgevano ancora in
manifesta rovina, chè forte davvero era San Germano, ed egli
attendeva del continuo a maggiormente afforzarlo; nè risparmiava
punto a sè stesso, che di giorno e di notte vigilava le sentinelle,
faceva le ronde, premiava i diligenti, i neghittosi con amorevoli
detti ammoniva: l'uso delle guerre di quei tempi rendeva il luogo
inespugnabile, meno che per mezzo di blocco; ma a questo aveva
provveduto Manfredi raccogliendovi vettovaglia sufficiente per due
anni, nè il nemico poteva circuirlo per modo, che alcuna via non
gli rimanesse sempre aperta alla campagna. Queste considerazioni
faceva il Conte di Provenza, e quasi disperava: poteva avventurare
l'assalto, e lo avrebbe tentato; tuttavolta troppo gli comparivano
forti quelle muraglie, e troppo cautamente guardate, per correre il
rischio con qualche speranza di buon successo: se ne fosse, come
sembrava, ributtato, avrebbe diminuito l'ardore dei suoi
Francesi,--soliti a ingigantirsi nella prospera fortuna, a sgomentarsi
oltre il dovere nell'avversa,--perduta la fama d'invincibile che sì
l'aiutava. Dalla scemata reputazione vedeva scaturire una serie di
mali, di cui il meno grave consisteva nel rinunziare affatto alla
impresa;--tante durate fatiche, tante concepite aspettative, i lunghi
desiderii, i disegni, commettere all'esito incerto di una battaglia,
dove nulla gli avrebbe giovato la esperienza della milizia, nulla i
buoni cavalieri armati da capo a piedi con sì grave dispendio, non
gli sembrava, nè era prudente: conosceva inoltre benissimo che quei
molti Romani, che gli si erano aggiunti, non venivano mica per
aiutarlo; solo a partecipare delle spoglie conquistate dal valore dei
suoi; e che al primo disastro se ne sarebbero andati come erano
venuti, spargendo da per tutto per onestare la fuga, la nuova della
sua disfatta, con mentito racconto magnificandola. D'altronde la
inerzia non gli nuoceva meno della sconfitta; scarseggiavano i cibi,
le casse mostravano il fondo, e i Romani, come abbiamo detto, lo
accompagnavano per guadagnare, non per rimettere; se il caso non gli
apriva qualche via di salute, ei si teneva perduto. Vero è però
che nel volto dimostrava il contrario, e diverso dalla sua natura
sorrideva spesso, e qualsivoglia capitano o soldato contemplasse
sgomento, lo chiamava per nome, e sì gli diceva:--«Fa core, che
abbiamo superato il ponte, e con l'aiuto di San Martino supereremo
anche il muro; _buono studio vince rea fortuna_.»--In questa guisa
dava animo altrui quanto più il suo era presso a disperare.

Mentre così Manfredi, a malgrado del suo bel discorso di sortire
alla campagna, stava riparato dentro la Fortezza,--non perchè gli
mancasse il coraggio, chè anzi ne aveva moltissimo, ma perchè
dubitava dei suoi fedeli Baroni;--e Carlo, da che non poteva scoprirsi
lione, attendeva con la sagacia della volpe a specolare il momento
opportuno, accadde in San Germano una avventura grave in sè stessa,
più grave per le conseguenze, e fu questa. Camminavano sopra lo
spaldo a diporto molti dei principali capitani del Re Manfredi, tra i
quali il Conte Giordano d'Angalone, e l'Amira Sidi Jussuff,
favellando, sì come i soldati costumano, delle cose della guerra; e
secondo che avviene entrando di un particolare in un altro, il Conte
Giordano venne sul discorso dei casi presenti, e con molto savie
ragioni dimostrava doversi tra breve sciogliere lo esercito nemico,
però che inoltrarsi nel Regno con San Germano alle spalle sarebbe,
stata impresa più presto stolta che audace, nè il Conte di
Provenza intendeva sì poco di milizia da commettere tanto
irreparabile errore; essergli l'indugio rovina, perchè sapeva di
buon luogo che stava co' soldati allo stecchetto di vittovaglia e di
quattrini; i soldati poi non intendere nulla di promesse; volersi oro
per mandarli innanzi, ferro per mandarli indietro; sopra ogni anima al
mondo seguitare essi l'antica sentenza, che dove non si guadagna si
perde: e qui, aggiunte molte altre novelle, passava a dire come savio
consiglio del Re fosse quello di abbandonare Benevento, e accorrere
con quante forze aveva in pronto a tutelare San Germano. A questa
proposizione rispondeva l'Amira, ch'ei favellava da quell'uomo ch'egli
era, ma che però poco rimase che per lui San Germano non si
soccorresse; e dove avessero seguitato il suo avviso, la Fortezza,
come pare, sarebbe già presa, perchè con Carlo d'Angiò a
fronte, ora più, ora meno, poteva benissimo decidere della somma
della guerra.

D'Angalone, acerbamente sopportando la rampogna al cospetto di tanti
suoi compagni di armi, soggiunse:--non sapere nulla di quanto diceva,
mai avere consigliato Manfredi se non a imprese generose; sarebbe
stato un tradirlo dove lo avesse trattenuto da soccorrere San Germano;
che, salva sua grazia, l'Amira faceva errore. I circostanti prendendo
maraviglioso diletto dal garrire di que' due, li circondarono, e
follemente curiosi si apprestarono a vedere come sarebbe andata a
finire la contesa. Qui noti il lettore, che sebbene l'espressioni
_salva vostra grazia, salvo l'onor vostro_, temprassero alquanto la
mentita, nondimeno i più scrupolosi non se ne chiamavano meno
offesi, e procedevano senz'altro al duello: raccontano i ricordi del
tempo in che Monsignor Lautrec andò a Napoli, un gentiluomo
francese avendo detto ad un italiano: _salva vostra grazia_,
l'Italiano non lasciandolo finire lo percosse sul volto; protestando
che un gentiluomo onorato non parla mai contro la fama altrui, non
afferma l'incerto per vero, nè dice averne buona scienza dove egli
non ne sia pienamente istruito. L'Amira però reputandosi offeso:
«Voi dunque, Conte,» esclamava «avete commesso tradimento,
quantunque io sosterrei per l'anima di mio padre che non siete
traditore; non vi torna alla mente, quando per timore di bagnarvi il
collare, o di guastare il sonno, volevate trattenere a Benevento il
Re, perchè la notte si metteva al piovoso?»

Si levò all'intorno un riso di scherno, divenne il d'Angalone per
la faccia di fuoco, e con amare parole riprese l'Amira: questi dal
canto suo non si tacque, e tanto si riscaldò la lite, che il Conte
senz'altro rispetto gli disse,--che mentiva per la gola, e
gliel'avrebbe provato di santa ragione; che se i matti al suo paese si
veneravano per Santi, nel suo si bastonavano perchè apprendessero
senno; che assaltare uno squadrone di cavalieri era altra cosa che
svaligiare una carovana di mercanti; che condurre gli eserciti
diversificava dal condurre gli armenti;--e molte altre cose aggiunse,
vituperevoli tutte, che l'Amira non si meritava per niente, come
quello ch'era uomo dabbene, e molto virtuoso della persona. Ma la
collera non misura i colpi, nè le parole; e all'uomo che fa il
volto soverchiamente rosso per ira, conviene poi farlo pallido per
vergogna. L'Amira, a malgrado sentisse la mentita quanto una stoccata
nel cuore, agitando la bocca di un cotal suo riso pungente, riprendeva
beffardo: «Messere il Conte come uomo alto misura la sua fede con
le nuvole, e pe' suoi doveri se la intende con la luna; davvero,
Conte, in quella notte temei che il vento la lealtà vostra
spengesse per la via; avanti d'ingaggiare battaglia procurate di
convenire col nemico di non dare di taglio, nè di punta,--a non
farsi male,--e nella testa non conta:--deh! avvertite a non lasciare
il mantello, perchè tornando riscaldato dal campo non vi si geli
addosso il sudore.»--E in questo metro continuava. Crescevano
attorno le risa, i motti moltiplicavansi infiniti: d'Angalone mal
destro a quella battaglia di epigrammi, conoscendo che per uno ne
aveva cento, gravemente tollerando lo strazio, non vedendo nè
ascoltando più nulla, trasportato dall'impeto alza la mano stretta,
e lascia andare così pesante colpo sul volto dell'Amira, che sente
spezzarglisi sotto il tenerume del naso, dove per avventura lo colse.
Jussuff, comecchè dall'acerbo dolore del corpo stesse per cadere,
sostenuto dal molto più acerbo dell'animo, pose mano alla
scimitarra; lo stesso fece Giordano, e già venivano al sangue, se
non che i comuni amici frapponendosi li trattenevano, solleciti adesso
a impedire le conseguenze di una contesa che avevano, aizzando l'uno
contro l'altro, a diletto promossa: certo costoro non dubitavano
dovesse uscirne tanto male; ma gli stolti non conoscevano che quando
le passioni si muovono, non sanno neppur elleno dove prenderanno a
posare, e che non essendo concessa all'uomo la facoltà di
moderarle, tutta la nostra sapienza si riduce a non toccarle?

Menavano l'Amira sanguinoso ai quartieri, e Giovanni Villani
racconta,¹ come i Saraceni, vedutolo così mal concio, e
intesane la cagione, tanto sdegno gli ardesse, che tolte le armi
corressero addosso ai Cristiani, i quali avendoli ricevuti a
visiera calata, ne sorgesse una zuffa fierissima con la peggio dei
Saraceni:--la nostra Cronaca però espone che ben essi volevano
fare il diavolo e peggio, appiccare il fuoco alla terra, mandare a
sangue ogni cosa, e poi ne venisse che cosa poteva venirne; ma lo
Amira li trattenne, gridando,--non volere che nessuno fosse sì
ardito d'intromettersi nei suoi affari, essere quella privata
offesa, e privatamente doversi diffinire; a eterno vituperio gli
tornerebbe se altri si mostrasse più pronto di lui stesso a
vendicare il suo onore;--si rimanessero;--a chi primo si fosse di
un solo passo avanzato avrebbe di propria mano fatto balzare la
testa dal busto:--onde, aggiunge la Cronaca, i Saraceni persuasi
dall'arringa, in particolare dalla perorazione, consentirono,
sebbene di mala voglia, a quetarsi.

  ¹ Libro 7.

Alla dimane l'Amira, chiamato il suo segretario, gli consegnava una
carta molto bene piegata, odorosa di muschio, suggellata di seta
verde, e di cera, ordinando la portasse al Conte Giordano d'Angalone.
Il segretario avendo fatto lo ufficio, il Conte ruppe il sigillo, e
lesse: «Al lodato nella fede di Sidi Issa, e dei precetti della sua
fede imitatore Giordano d'Angalone, Conte, della quarta compagnia dei
cavalieri tedeschi capitano.--In San Germano, questo dì ultimo
della luna di Gemmadi, anno dell'Egira 643.--_Ecco, tu mi hai coperto
di polvere_ al cospetto dei nostri amici, mi hai reso impotente a
combattere contro i nostri stessi nemici: si legge in alcuna fede,
ovvero comandamento del tuo Dio, percuotere l'amico che non ti
offende, o che tu primo hai offeso? Si conviene al tuo valore, avendo
fama di buon Cavaliere, che tu facci così ai leali servitori del
tuo Re? Or sappia Tua Signoria, se sei valente uomo, ch'io ti sfido a
uscire dimani dopo nona sul luogo dove mi hai percosso, affinchè
noi combattiamo insieme; vieni solo se vuoi, o con tuo seguito, chè
ciò poco importa, e ti proverò con spada e con lancia, che non
operi quello si addice a valoroso Barone. Se io, come spero, ti
ammazzerò, la mia spada riprenderà contro tutti il taglio, che
ora per tua colpa non serba tranne contro di te solo: se non vieni, io
non ti abbandonerò, sebbene tu fugga oltremare od oltremonti; se
non esci, farò che per tutta Cristianità tu sii tenuto per
codardo, e timido nel volere di Dio, e nei suoi comandamenti, in
quelli dei Santi in santità, e in quelli di tutti i Cavalieri
onorati.--Dio grande e Maometto suo Profeta concedano lunga vita, e
facciano bene a chiunque leggerà dirittamente questa lettera, come
donino breve la via, e la ambasciata gradita a chi la consegnerà al
mentovato Conte, capitano Giordano d'Angalone.--Servo di Dio Jussuff
della stirpe dei Ben-izeyen, Amira dei Saraceni di Puglia.»

Il Conte Giordano, letto con molta attenzione il cartello di sfida,
aprì un suo forzieretto, e, cavatine alquanti _agostari_, gli mise
in mano all'araldo saraceno dicendogli: «Questi terrai per
mio amore.» Quindi con voce più bassa aggiunse: «Dirai al tuo
signore che sono parato a compiacergli di quanto desidera, che dimani
lo aspetto in cortesia alla mia mensa, e levate le tavole entreremo in
isteccato, dove Dio darà la vittoria a chi meglio gli piacerà.»

Il caso non potè di tanto celarsi che non giungesse agli orecchi di
Manfredi, il quale, molestamente comportandolo a cagione dei tempi, e
volendovi, come savio, porre rimedio, venne a far quello che non
avrebbe mai dubitato, cioè a renderlo più funesto a sè, e
alle cose sue.--Noi non possiamo, per quante meditazioni vi abbiamo
fatto sopra, conoscere da che cosa derivi, nè chi la mandi, ma
esiste certo una persecuzione, terribile per le sventure che apporta,
molto più terribile pel mistero in cui sta nascosta, la quale
converte in opera di scempiezza il consiglio della sapienza, lascia al
male il suo amaro, toglie al bene il suo dolce, perverte il cuore e la
mente, ti volge in danno l'amore dei tuoi fedeli, ti muta in triboli
del corpo ogni oggetto che tocchi, in ispine dell'anima ogni disegno
che séguiti; disperata persecuzione, che ti opprime come un peso
gravissimo imposto su la tua vita mortale, e che, te consapevole, la
costringe a sprofondarsi di mano in mano nella terra che la sostiene,
finchè le chiuda, quasi lapida anticipata, la bocca del
sepolcro.--Il Conte d'Angalone obbedendo ai comandi si presenta al
cospetto del Re, si avanza con passi incerti, a testa dimessa, pallido
per la faccia, sicuro di avere incorso nello sdegno del suo signore:
non ricevendo cenno d'inoltrarsi, di fermarsi nemmeno, ristette a
giusta distanza.--più lontana del consueto però:--una volta
ardì levare gli occhi per vedere Manfredi (a cuore bennato come
giunge sconfortante l'ira della persona reverita!); non gli bastò
l'animo a sostenerne l'aspetto; e di súbito li rivolse al
pavimento. Stavasi il Re seduto nella severità della sua giustizia,
guardando fisso, accigliato, il povero Conte.--Dopo un buon quarto
d'ora di silenzio, nel quale parve, al d'Angalone avere attorno tutte
le generazioni dell'uomo da Adamo in poi a contemplare la sua
vergogna, e mille volte maledì l'ora del suo nascimento, e sentì
come s'incontrino pur troppo occasioni per la vita nelle quali, come
sommo bene, si desidera la morte, la voce del Re prese a favellare
gravemente in questa sentenza: «Lasciamo a voi, messere Conte,
decidere, se dal sospetto del vostro Re, o da altrui, dipenda che egli
non sappia oggimai più distinguere gli amici dai nemici suoi.
Mentre un esercito di Barbari, cupido delle nostre sostanze, intento
al totale nostro esterminio, ci sta schierato di fronte, e c'insegna a
vigilare concordi se vogliamo salute, v'ha tale che ardisce avvilire
con gli ultimi oltraggi un condottiero a noi per onorevole servitù,
per lunga e provata fedeltà, dilettissimo; un condottiero che forma
la principale forza delle presenti difese, e che dove egli si
ritirasse, o tradisse, a noi non rimarrebbe altro scampo che
raccomandarci l'anima ai Santi; e questo tale che l'osa, ardisce poi
chiamare infame il Conte di Caserta. A voi, Conte Giordano, lasciamo
decidere qual di costoro sia più traditore, e meriti maggior nota
d'infamia;--se il delitto si misura dal danno, chè certo si misura,
questi ne tolse la sua persona con alcune masnade di vassalli, quegli
ne toglie ogni difesa, ne precide la via della vittoria; noi, i nostri
figli, e i sudditi nostri consegna avvinti al nemico; nè qui si
ferma costui, che, con inudito ardire trascorrendo, sprezza le leggi
del Regno, sprezza la persona di un Re, il quale prima scerrebbe
seppellirsi sotto la rovina del trono, che soffrire nella più lieve
parte vilipesa la sua reale autorità; e manda cartelli, e propone
abbattimenti, e sotto i nostri occhi medesimi apparecchia le armi.
Tanto insolito e grave affare egli è questo, o Conte Giordano, che
noi, come savio signore, dubitando che l'ira non ci turbi la mente, e
s'intrometta nei nostri giudizii, abbiamo voluto, prima di pronunziare
sentenza, consultarvi della vostra opinione: dite.»

«Messer lo Re,» con tardo e interrotto discorso rispondeva il
Conte Giordano «io mi confesso colpevole; il cartello non mandai,
ma accettai, perchè così doveva fare chiunque porta sproni, e
spada di Cavaliere: ogni più grave pena a cui piaccia alla
Serenità Vostra sottopormi accetterò con lieto, non che con
tranquillo animo; solo vi prego a non volermi di tanto avvilire ai
vostri occhi che me paragoniate a quel vituperato Caserta; ciò non
meritano, non dirò le mie opere, sì bene quelle dei miei
maggiori, in pro della casa vostra eseguite; ciò non la fama per
tanti anni illibata....»

E seguitava quasi lacrimoso. Lo interruppe Manfredi con suono assai
meno rigido, tuttavolta sempre severo «Ci piace, Conte, la vostra
sommissione. Volete rimettere in noi la vostra querela?»

«Non potrei rifiutare, volendo; persuaso che quanto piacerà alla
Serenità Vostra disporre di me, sia secondo i termini dell'onore.»

«Intanto, deponete la spada nelle nostre mani, costituitevi nelle
carceri del nostro palazzo; voi siete prigioniere del Re.»

Il d'Angalone, deposta la spada, salutando, partiva. Manfredi,
inchinando a bene sperare per l'arrendevolezza del Conte, mandò
incontanente per l'Amira, volendo che non passasse quel giorno senza
che si fossero composti in pace. Da quell'uomo avveduto ch'egli era,
considerando come gli Orientali si lascino sopra gli altri prendere
dalle apparenze, chiamò i primarii ufficiali di sua casa,
ingombrò di carte le tavole, pose nella prima camera messi, e
corrieri; in somma ostentò un gravissimo apparato di faccende del
Regno.

Appena l'Amira, senza che lo precedesse l'annunzio, essendo così
comandato, ebbe posto il piè nella stanza reale, che Manfredi,
licenziati gli ufficiali, gli si fece vicino, favellando in atto
cortese: «Ben venga il benedetto nel Signore, Baba Jussuff, inclita
stirpe dei Ben-izeyen;--l'aspetto del servo fedele torna gradito al
suo Re quanto il profumo della mirra, quanto la pioggia feconda nel
mese dei germogli; vieni, siedimi allato, qui alla sinistra: il Re che
ode a destra il consiglio dell'Arcangiolo, a sinistra quello
dell'amico, e vede, come un segno innanzi alla fronte, il timore di
Dio, quel Re cammina _nelle vie diritte, nelle vie di coloro ch'egli
ha colmato di grazie_;¹ i suoi passi volgono alla contentezza,
benedizione sarà nella sua casa dai padri nei figli, e nei figli
dei figli.»

  ¹ Tutte le parole che occorrono contrassegnate nel discorso di
    Manfredi con l'Amira sono ricavate dal Koran.

A questo punto l'Amira accennò con la mano il volto pesto, volendo,
per quello che ne sembra, cominciare _ex abrupto_. Non gli lasciò
formare parola Manfredi, che di súbito aggiunse: «Se il Profeta ti
compiaccia di quello che ami, noi sappiamo, fedele Amira, ciò che
vuoi esporne, e ti abbiamo chiamato per questo: nè il nostro sonno fu
nella trascorsa notte come il sonno delle precedenti tranquillo, nè
così splendida come altro giorno ci apparve stamane la luce, nè
così grato il melodioso mattinare degli uccelli del Signore. Ecco che
piacque a lui, che può tutto, amareggiare il suo servo, e abbeverarlo
nel _liquore dell'affanno_;--Dio è grande, sia fatta la sua
volontà: il raggio dei Ben-izeyen ha cessato d'illuminare la sua
progenie; il fedele Jussuff fu vilipeso dove il Creatore ha improntato
nella creatura la sua somiglianza;--ma il corvo è nero alla faccia
del cielo, la colomba è bianca; nè il rettile, quantunque di sotto
l'artiglio abbia levato la testa, ha offeso la carne dell'aquila; solo
ne ha contaminato di veleno le penne. Dio protegge la forza del lione, e
il nome del giusto, perchè sono cosa sua, e dimostrazione del suo
braccio: pure se l'offesa fu nulla, è grave il peccato; come dal
grano della polvere alla montagna, così dal pensiero non compíto
nel segreto della mente al più grave misfatto, tutto sta alla
presenza di Allah e del suo Profeta, _e un giorno tutto sarà pesato_,
e ogni colpa sconterà la sua pena secondo la sua qualità; così
prima che paghino i vassalli a _Munchir_ e _Nechir la pena del
sepolcro_, noi Re della terra siamo deputati a far loro scontare la pena
della vita, e noi intendiamo punire l'oltraggio che ti fu fatto per modo
che ti chiamerai contento....»

Voleva continuare Manfredi; ma l'Amira, sottraendosi da quel turbine
di metafore orientali, alzò la voce gridando: «Schiatta
d'Imperatori, degno di madre impudica, degno che i suoi figli
dimandino un pane d'infamia al nemico della sua vita, è colui che
chiama chi lo difenda nella causa d'onore....»

«Forse è la bocca della calunnia che ti vuol vendicare? È il
braccio dell'assassino che toglie a difenderti? Non siamo noi il tuo
_Muleasso_, al quale concesse il Profeta dominio intero su la tua
vita, sul tuo avere?...»

«Non sopra il mio onore.»

«Dunque se noi ti chiedessimo un sacrificio in pro dei nostri
popoli, e di noi, nulla varrebbero presso te i nostri beneficii, e
quelli dei nostri maggiori? nulla aver tratto te e i tuoi dalle
montagne di Sicilia, dove avevate stanza e vita comuni con le fiere
della foresta?»

«A che rammenti quello che io so, nè mi spiace sapere? io
ucciderò le mie mogli, i miei figli, il mio cavallo, il mio cane, e
me sopra loro, se tu lo desideri....»

«Noi non vogliamo il tuo sangue, anzi la vita e la fama tua
desideriamo; tu vedrai un nobile uomo chiederti mercede innanzi un
consesso di Cavalieri, vedrai spargersi il capo della _polvere da te
calpestata_, come di una corona di gloria, vedrai starsi ai tuoi piedi
come sul trono dei potenti: che vuoi di più? E' v'ha un confine
alla vendetta: che insegna il tuo Koran nel _Sura Aaraf_? _Perdona
volentieri, benefica il tuo simile, non contrastare con gl'ignoranti._
Non insegna lo stesso il nostro santo Evangelo?»

«Il mio Profeta è il mio cuore. Il Conte ha veduto il mio
sangue, egli mi ha _coperto di polvere_, nè posso perdonargli: ben
se tu vuoi posso per settemila anni dare il mio spirito a _Eblis_,
perchè lo tormenti a sua posta; bene pel tempo che Allah condanna i
prevaricatori strascinare per tutta la _Gehenna_ la catena dei
settanta cubiti attraverso lo zolfo, e le fiamme, ma io non posso
perdonare al Conte perchè mi ha _coperto di polvere_.»¹

  ¹ Di questa frase spesso usano i Monsulmani, perchè Abulfeda
    narra nel Libro dell'_Egira_, che Maometto, fuggendo dalla Mecca
    le persecuzioni dei Koraiskiti, passò sicuro per mezzo di
    coloro che avevano spedito ad arrestarlo, spargendo un pugno di
    polvere sopra le loro teste recitando il versetto del Koran:
    «Noi gli abbiamo coperti di polvere, ed essi non ci hanno
    potuto vedere.»

«Rimetti, Amira, nel tuo Re la querela; te ne prega Manfredi.»

«Io l'ho rimessa al taglio della mia scimitarra:» e la trasse
luccicante dal fodero mettendola sotto gli occhi di Manfredi
«chiedigli ch'ei te la ceda; se ti risponde, è tua.»

«Jussuff, noi lo vogliamo.»

«Lo vuoi? Ebbene, fa che domani in questo turbante mi sia
presentata la mano che mi percosse con una carta tra le dita che
contenga la supplica del perdono; io te la rimanderò suggellata del
mio sigillo; allora io mi chiamerò soddisfatto, e lascerò la
querela.»

«Questa è sevizie affricana, nè il nostro Regno andrà
contaminato da tanta barbarie. Or via, Jussuff, da che non vuol
rimettere in noi la querela, piacciati almeno differirla.»

«Differirla? Sai che sta scritto nel libro del Sapiente?--Quando il
trave comincia a guastarsi, e tu lo muta; altramente cadrà sul tuo
capo, e su quello della tua famiglia;--se lascerai che il sangue si posi
sulla piaga, la morte terrà il frutto della tua negligenza;--dormi su
l'offesa, e diverrai degno che l'offesa dorma sopra di te.»

«Dunque va, servo fedele; incita alla strage Saraceni e Cristiani;
schiudi di tua mano le porte, e conseguaci al nemico: già in questa
terra medesima un empio Amira trucidò innanzi gli altari il
glorioso fondatore San Bertario; tu rinnuova il fatto nefando, chè
io non sarò meno innocente, nè tu meno scellerato.--Donami,
Amira, la tua querela; te ne scongiura il Re.»

«Non posso, figlio di Federigo, non posso....»

Manfredi si levò impetuoso, e afferrando pel braccio l'Amira lo
condusse al balcone, dal quale sopra il pendío del monte Cassino si
vedevano le rovine della città di Eraclea, mandata a ferro e a fuoco
dal furore dei Vandali.--Solenni appaiono coteste reliquie, e veramente
degne dei giganti di Roma, i quali non pure emulano, ma co' brani della
grandezza loro superano quanto sa elevare di magnifico l'avara ambizione
dei tempi moderni.--«Là fu una terra potente,» disse Manfredi
«adesso giacciono sformate macerie e sassi: ora corrono quasi sei
secoli che una gente feroce scese dai monti, incontrò popoli discordi
e gelosi, e trascorse le nostre campagne: vedi,» aggiunse con voce
più sonora, additando quei ruderi, «la storia dei fatti dei
Vandali si compone di coteste pagine. Tale diverrà San Germano, e per
tua colpa; ma quando l'età avrà nascosto la memoria del mio Regno
e il mio nome, uscirà sempre da quelle rovine una voce che griderà
ai posteri:--Qui fu tradito un valente signore da un servo infedele.»

«Oh se io potessi!... Non posso.... Manfredi, non posso.»

«Or via, poichè teco non vale la preghiera, valga il comando. Mi
sono figli i miei popoli, e un giorno dovrò renderne conto a cui
gli commise al mio reggimento: in virtù della reale nostra
autorità ti ordiniamo di differire questa querela:--è santo,
qualunque sia, il comando del Re.»

«V'ha tale che lo negherebbe, figlio di Federigo, ma io non sarò
quegli. Ecco,» e così favellando percosse sul pavimento la
scimitarra in falso per modo che la mandò in pezzi «ecco, tu mi
rompi la spada tra mano, togli al mio braccio la forza, spegni nel
cuore lo spirito della vita, e poni dentro di quello la _sementa del
vituperio_; io sono divenuto quasi un non nato, quasi un sepolto; gli
uomini mi vedranno, nè mi ravviseranno, perchè gli Amiri dei
Ben-izeyen solevano comparire splendidi dei raggi della fama:
forse verrà giorno che invocherai il mio aiuto, ed io ti
risponderò:--Dammi il braccio che mi hai tolto;--mi chiamerai a
nome dell'onore, ed io ti dirò:--O signor mio, come posso
ascoltarli? tu mi hai instupidito il cuore, hai chiuso gli orecchi
della mia gloria.--_Lode ad Allah sovrano dei mondi, sovrano del
giorno di giustizia_; benedetto tu sii nei tuoi pensieri, nelle tue
opere; ma perchè hai voluto che la inclita stirpe dei Ben-izeyen si
conchiudesse con tanto avvilimento? Io ti saluto, o Signore, io ti
venero con la faccia nella cenere; ma perchè hai spirato
all'intelletto del mio _Muleasso_ che mi condanni a cibarmi di fango?
Oh! i miei anni fuggono, e vanno via nella tristezza fino
all'Inferno;--un giorno avanti che io fossi morto,--il giorno nero
sarebbe stato risparmiato agli occhi dei miei. Ah! lo diceva sovente
l'anima di mio padre, che il peggio è viver troppo....»--E si
partiva sconsolato, nè già lacrimoso, compunto dal dolore, come
può sentirlo un cuore robusto, di cui la vista suscita più tosto
maraviglia che compassione.

Manfredi stette immobile alcun tempo dopo che l'Amira fu scomparso;
poi si battè con la destra la fronte esclamando: «Anima
generosa, e degna di me! Ecco, il delitto ha stretto alleanza con la
virtù, e s'incamminano abbracciati a rovinarmi dal trono;--i mostri
nel cielo già si sono fatti vedere;--questo è il prodigio nella
terra... Costanza, Manfredi,--il tuo momento si avvicina.»

«I nemici! i nemici hanno preso la terra!»--Questo grido
percuote allo improvviso Manfredi, e lo fa trasalire di terrore. Fosse
una finzione dell'anima agitata? No;-ascolta pur troppo un trambusto,
un correre precipitoso, un gridare confuso:-«I nemici! i nemici
hanno preso la terra!»

La faccia del Re impallidiva quando pensava al pericolo; quando gli si
faceva imminente, diventava vermiglia; si adattò intorno ai polsi
le manopole di ferro, imbracciò lo scudo, chiamò lo scudiero che
gli allacciasse la gorgiera, poi scelse una lancia; del rimanente era
armato: in questo modo precipita fuori delle sue stanze gridando a
quanti incontrava:--«Signori Baroni, venite almeno a farvi
ammazzare onoratamente!»

Lo stesso rovinío di percosse e di gridi giunge alle orecchie della
nobile Elena, che angustiata d'angoscia soverchiante giaceva ammalata:
le stava seduta accanto del letto la gentile Yole con la fronte posata
sopra la destra spalla, e sovente la baciava; Manfredino, seduto ai
piedi, di tanto in tanto giungeva le infantili sue mani, e pregava
Gesù che desse salute alla mamma.

«Yole! Yole!» disse Elena sollevando la testa «odi tu quello
che odo io? parmi grido di battaglia.... Santa Madre di Dio! e' si
avvicina: va al balcone, guarda che avventura è mai questa.»

Yole corre frettolosa al balcone, e: «I nemici!» urla «i
nemici! madre....»

«I nemici!»--ripete Elena balzando a sedere sul letto.

«Saranno quaranta.... tre paiono i principali: uno ha lo scudo nero
con le goccie d'argento, l'altro ha l'impresa di un cuore passato
dalle freccie, il terzo porta una bandiera.... bianca.... con aquila
rossa.... e la insegna dei fuorusciti fiorentini... Che colpi!
misericordia! che colpi! si fanno fuggire dinanzi mille soldati....
quanto sangue bagna la terra!»

«Vieni.... sostiemmi.... tanto che possa vederli.»

«Ecco Manfredi! qual rabbuffo di cavalli, e di cavalieri!... la
polvere gli avviluppa tutti.... io non vedo più nulla.»

«Ch'io veda il braccio del Re!»--dice Elena, e si apparecchia a
scendere dal letto.

«La polvere si fende... il padre ha vinto... Oh! come fuggono...
oh! come ei gl'insegue a briglia sciolta!... già sono lontani...
scomparvero.»

Affinchè sia il benigno lettore instruito del come avvenisse questo
caso, gli facciamo sapere che fuori delle mura di San Germano, uscendo
dalla Porta Romana, e piegando a mancina, si trovavano tra la città
e il campo di Carlo, ma più presso alla città che al campo,
alcuni pozzi, dove giornalmente scudieri napolitani e francesi
andavano ad attingere acqua pe' cavalli, e spesso anche gli stessi
cavalli vi conducevano: Carlo avrebbe potuto agevolmente turbare
quell'acque; considerando però che le toglieva al suo esercito e
non al nemico, il quale d'altronde n'era abbastanza provveduto, si
rimase; molto più poi, che da quel mescolarsi di gente sperava,
sebbene non ne concepisse il modo, dovesse derivarne qualche buona
occasione per assaltare la terra:--uscivano gli scudieri napolitani
non già dalla porta grande, sì bene da un usciolo che l'era da
lato, il quale oggi non si usa, e gli antichi con proprio vocabolo
solevano chiamare _postierla_, e di subito usciti si richiudeva con
saldissime imposte. Sarebbe stata temerità, più tosto che
_valentia_, suscitare una scaramuccia tra gli scudieri, e mentre i
Napolitani fuggivano verso la terra mescolarsi con essi loro, tentando
di entrare alla rinfusa; nè Carlo osava ordinarla, temendo che,
come di manifesta morte, ogni uomo la ricusasse, e anche tentata non
riuscisse. Due cavalieri francesi, Boccardo e Giovanni fratelli
Vandamme, e un cavaliere fiorentino, Stoldo Giacoppi de' Rossi,
insegna dei Guelfi italiani, insieme con altri cinquanta soldati
avvezzi alle più risichevoli imprese, convennero di mettersi
all'avventura, e il giorno dieci di febbraio essendosi di buon mattino
segretamente posti in agguato dentro una fossa, che la notte trascorsa
avevano ingombra al di sopra di siepi, che li riparavano a modo di
tettoia, stettero ad aspettare che gli scudieri venissero ad attingere
acqua. Riuscì il caso come si erano avvisati; perchè i Pugliesi
verso il tramontare del sole usciti dalle mura s'incamminarono
spensieratamente ai pozzi, dove incontrati i Francesi, cominciarono a
insultarli di percosse e di parole, gridando in ischerno del
Conte:--«Dov'è il nostro Carlotto? Dov'è Carlotto?»--Gli
scudieri di Francia non tennero le mani alla cintola, e cominciarono
la più gagliarda scaramuccia che mai fosse stata, la quale, o per
essere combattuta senza armi, o per altra cagione che noi non
conosciamo, va nelle Cronache del vecchio tempo distinta col nome di
_badalucco_. Adesso gl'insidiatori, côlto il destro, dettero dentro
alla zuffa, ed ebbero ben tosto vôlto in fuga i Pugliesi: quei
della città vedendoli apparire, aprirono tosto la postierla,
perchè trovassero pronto ricovero nelle mura, e quando accortisi
degl'inseguenti nemici, vollero chiuderla, non furono a tempo, chè
vi si gittarono, perseguiti e perseguitatori, con la foga di un fiume,
e con maravigliosa celerità la trapassarono: bene poterono gettare
giù la saracinesca, che, piombando con enorme gravezza, circa sei
cavalieri francesi separò dai compagni, e forse altrettanti con
miserabile strage schiacciò sotto le sue punte di ferro. Gli
entrati, nulla curando quel primo sconcio, s'inoltrarono menando
francamente le mani:--fuggivano i Pugliesi cacciati dalle armi
nemiche, e più dalla propria paura, offrendo la immagine di un
gregge, al quale facciano i mandriani mutare pastura. Pervenuti sotto
il palazzo reale, usciva Manfredi accompagnato dai più valenti
Baroni del Regno: cominciò un molto terribile affronto, nè
lungamente dubbioso, perchè i fuggitivi, ripreso animo, voltarono
faccia, e dettero aspro rincalzo al nemico. Ogni momento più
s'ingrossava la gente intorno ai Francesi, che, oggimai disperati di
salute, voltarono le spalle a cui le avevano fatte voltare prima; e
sì che la fuga non poteva salvarli, e valeva meglio morire per
ferite nel petto; ma se la paura si consigliasse con la possibilità
dello scampo, vedremmo spesso quei fatti generosi che or pur troppo
occorrono rari.

Il Conte di Provenza, avvisato tosto del caso, però che la Cronaca,
quantunque con poca apparenza di vero, racconta come quella imboscata
si fosse condotta lui non consapevole, si volse ai Cavalieri che lo
circondavano, e favellò breve discorso: «Lasceremo, Messeri, in
mano dei nostri nemici i nostri fratelli, perchè furono più
valorosi di noi?»--Afferrava la sua pesante mazza d'arme, chè la
rimanente armatura per antico costume non deponeva mai quando stava
nel campo, e balzò fuori della tenda. Per via narra la fama che
dicesse: «O glorioso Barone San Martino di Tours, noi facciamo voto
di presentare al vostro santuario un candelliere d'oro massiccio, se
ci farete salvare quei nostri virtuosi cavalieri.»

Stiamo a vedere che saprà fare il fiore della Baronia di Francia.
Erano giunti sotto le mura a tiro di balestra, i Pugliesi prendevano a
bersagliarli; a quella prima scarica molti cavalieri perderono il
cavallo, molti cavalli i cavalieri; i susseguenti non potendo fermare
i corsieri che venivano via di pieno galoppo, vi traboccarono sopra:
ne derivava un súbito scompiglio, una specie di vacillamento su
tutta la linea. Carlo però era trascorso avanti, e li precedeva di
due o tre aste; si fecero animo, e più arditi di prima gli
spronarono dietro. Ecco il secondo saettamento, ecco la seconda
confusione;--a quel modo non si poteva venire a capo di nulla: sel
vide il Conte, e pensò al rimedio; smonta da cavallo, toglie la
sella, e ponendosela su la testa continua il suo cammino verso le
mura; lo imitarono i suoi, e per questo ritrovato un po' meglio difesi
pervengono alla Porta Romana. Qui sorgeva un tempestare di sassi, di
travi aguzzati, e di ogni sorta armi lanciate dagli assaliti; un
percuotere irrequieto, spaventoso, delle mazze d'arme dentro la porta
e la postierla per parte degli assalitori. Carlo sopra gli altri
menava disperatamente traverso la postierla, e ad ogni colpo si
vedevano balzare chiodi, schegge, e nuvoli di polvere smossa; nè
tutti potendo travagliarsi intorno le porte, presero con temerario
consiglio a salire su i muri: quale, non bastandogli la lena di più
sostenersi, dirupava per propria gravezza, e strisciando lungo la
muraglia vi lasciava la pelle delle mani e del volto, e dopo tormentosa
agonia si squarciava percotendo sul terreno;-la umana forma deturpata,
gli occhi balzati della testa, il cervello sparso, i lacerati intestini,
la faccia, le membra oscene di lividore e di sangue, erano cosa
spaventevole a vedersi;--quale giunto agli estremi merli, respinto d'una
lancia nel petto, agitando le mani pel vano formava in cadendo una curva
nell'orizzonte;--chi rovinava trafitto dalle proprie armi, chi confitto
su l'aste altrui; vi furono tali che uccisero nella caduta il compagno
sul quale percossero, ed essi per istrana avventura, meno lo
stordimento, andarono salvi; spaziava la morte nella pienezza del suo
dominio; infiniti si udivano i lamenti, il pianto, e le querele, pure
non mancavano le risa, nè i motti piacevoli:--spettacolo nefando era
quello, pel quale Dio non ha certo formato la creatura, spettacolo che
forse lo fa pentire di averla formata,¹ e pure, per chi lo faceva,
una festa: dai cadaveri che precipitavano giù dalle mura, non solo
non ne prendevano sbigottimento gli assalitori, ma così mezzo morti
li ghermivano pel capo e per le gambe, e sopra altri morti gli
accatastavano dicendo taluno:--«In buon punto caduto è costui, che
anche uno scalino mi bisognava a salire:»--tal altro proverbiando
favellava al vicino:--«Nuove scale sono queste per entrare in
castello;»--intanto palla, o pietra, lo infrangeva, e il vicino gli
montava sul volto, e a sua posta motteggiava con altri... Schiatta
stolida e feroce, che calunnii la belva della foresta, entra nel bosco,
e apprendi dal serpente Carità;--tu sei degna della vita di supplizio
che hai, della morte di dolore che avrai.

  ¹ Poenituit quod hominem fecisset in terra. (_Gen_.)

Adesso, provato con esperimento di sangue che in quella maniera non
potevano salire, stavano per ritirarsi i Francesi, quando si alzò
una voce a confortarli che gridava:-«La porta è scassinata!»
E di vero Carlo insistendo con la mazza d'arme aveva tanto fatto che
la postierla era caduta dagli arpioni, e, seguitandolo i suoi, aveva
varcato il limitare: al punto stesso ch'ei passava, una grandine di
quadrelli lo cinse per la persona senza offenderlo, perchè era
destinato; tuttavolta una delle freccie imbroccò nella vista
dell'elmo al giovane Jonville, nel quale dubitava la gente se fosse
maggiore o la cortesia dei costumi o la prodezza della mano, ed oltre
fulminando gli traforò l'occhio sinistro, gli ferì il cervello,
e cadde il gentile amareggiato non dalla sua morte immatura, ma dalla
rimembranza dello antico genitore che lasciava diserto nel vasto
castello dei suoi antenati.--Povero padre! e sì che di tanti figli
non gli rimaneva che quello, e in lui solo viveva, in lui sperava, lui
conforto della tediosa decrepitezza (conveniente vestibolo della
morte) s'imprometteva; ed era pur pietà serbarglielo! Il buon
vecchio già nel suo segreto gli preparava in isposa la figlia del
vicino Barone, a cui riseppe che prima di partire aveva favellato di
amore sotto la quercia,--e volle vedere questa quercia.--ed aveva
trovato su la corteccia inciso i nomi degli innamorati, e traendo il
pugnale, sopra quei nomi con mano tremula di anni e di gioia aveva
impresso il suo, quasi mano imposta per benedirli:--povero
padre!--Gente mercenaria e straniera lo composero dentro la bara, e il
suo castello ebbero i consorti, che la vicina parentela in nessuno
altro modo seppero dimostrare al trapassato, se non che coll'escludere
i congiunti più lontani dalla eredità.--Forse fu compassione del
giovanetto,--forse paura della propria esistenza, che vinse i Francesi
sul limitare della mal varcata postierla; volge la testa il conte
Carlo, li conosce atterriti, e: «Parvi» esclama «sia questo
passo da non pagare gabella? è soddisfatto il pedaggio, andiamo
avanti sicuri.»--Dio eterno! ridevano, e lieti calpestavano il
corpo del trafitto fratello.

Superata la porta, mancava a vincere la saracinesca: riprincipiava lo
strazio, chè i Pugliesi traverso le fessure scagliavano dardi senza
posa, e i Francesi non avevano balestre da rispondere; si
arrovellavano intorno ai pali, e di così rabbiosi fendenti li
colpivano, che dove non fossero stati foderati di rame, rotti in mille
stiappe, avrebbero dato l'ingresso: ma il rame resisteva all'impeto; i
vani conati accennavano quello essere disperato travaglio, che non
poteva, se non con tempo e pena infinita, condursi a buon termine.

Si aggiungeva a smarrirli altra avventura: i Vandamme, Stoldo dei
Rossi, e lo scarso avanzo dei compagni, fuggivano a dirotta verso la
porta; quando vi furono vicini di circa venti passi, veduta la
saracinesca calata, conosciuti i compagni, vergognando di essere stati
côlti in quell'atto di fuga, sapendo ogni via di salute chiusa, si
misero in abbandono del corpo, e urlando ferocemente si avventarono
contro gl'inseguenti:--e' fu indarno; sopraggiungeva tempestando
Manfredi, da ogni lato sboccavano feritori, e facevano pressa
all'intorno. Dopo alcuni momenti di zuffa bestiale, in che
combatterono perfino co' morsi, smarrita la lena, lanciarono quelle
armi, che erano loro rimaste, per aria, e chiesero quartiere: se
giungesse amara la vista a quelli che stavano fuori della saracinesca,
sel pensi chi legge; vi fu un Barone che giunse a tanto acciecamento,
che internò la mano armata di scure nelle fessure, pensando di
poter ferire nella zuffa che si combatteva a venti e più passi di
distanza da lui; un fendente calato da Giordano Lancia, che gli recise
il braccio alla giuntura del gomito, gl'insegnò a non introdurlo
mai più nelle fessure delle saracinesche, e la Cronaca ricorda che
ne facesse senno pel séguito. Adesso si avveravano i timori del
Conte di Provenza;--pensava a ritirarsi;--per valore era perduta la
impresa,--rimaneva la fortuna.

Calava la sera. Manfredi, ricevuti prigionieri i fratelli Vandamme,
Stoldo con sei dei cinquanta che si avventurarono al rischio, voleva
ordinare che si alzasse la saracinesca per fare impeto contro il nemico,
e ributtarlo lontano dalle mura: all'improvviso ode alle spalle un
correre imperversato di gente, un gridare incessante:--«Il
nemico!--il nemico!»--volge la faccia, e mira sventolare sul torrione
della porta del Rapido una bandiera che non gli sembra la sua; aguzza lo
sguardo, si frega gli occhi, rimira, e: «Se Dio ci aiuti,» domanda
al Conte Calvagno, che gli stava da presso, «cotesta non mi pare la
nostra bandiera: guardate un po' voi, Conte, che l'aria è fosca, e
noi non iscorgiamo bene.»

«O signor mio! » risponde il Calvagno voi non siete punto
ingannato; azzurra è la bandiera, ma dentro vi sono i gigli di
Francia.»

«Come può esser questo? Non vi stanno i Saraceni di
guardia?»--e spronando a gran furia s'indirizzava a quella parte.

Mentre che Manfredi cavalca per sapere il caso, noi senza muoverci lo
racconteremo. Guido da Monforte, il meglio avveduto maestro di guerra
che avesse lo esercito di Francia, e, per essere del continuo al fianco
del Conte, partecipe di ogni suo più riposto consiglio, vedendo
combattersi la impresa dalla quale aveva sconfortato il suo signore,
pensava, da che s'era incominciata, ad operare per modo che riuscisse
quanto meno potevasi funesta ai Francesi; quindi è che tolse seco
alcune compagnie di Borgognoni, al punto che infuriava la battaglia
davanti la porta, circuì San Germano, guadò il fiume Rapido, e si
presentò inosservato alla porta di questo nome;--più si avanzava,
meno intendeva rumore; alzò la fronte ai merli,--nessuna sentinella;
guardò il torrione,--guardia nessuna; si maravigliava, procedeva
cauto, sospettando qualche imboscata; giunge alle mura.--non vede
persona; drizza le scale, cominciano i Borgognoni a salire,--non si
affaccia persona; montano su i merli,--sono deserti.--«Dio gli ha
acciecati!»--esclama il Monforte divotamente:--«Dio gli ha
acciecati! «--ripetono i soldati, e vanno oltre. Munisce le mura,
mette i più valorosi nel torrione, e vi pianta la bandiera; scende,
apre la porta, e spedisce messi al Conte che si affretti a venire, esser
presa la terra. La nuova giungeva a Carlo al momento in che stava per
uscirgli di bocca il fatale comando di ritirarsi; riprese l'animo già
decaduto, e poichè per quel giorno l'aveva con San Martino: «O
glorioso Barone,» esclamava segnandosi «due saranno i candelieri
d'oro che sacrerò al vostro tempio di Tours, e di venti libbre per
ciascheduno!»--Anche i suoi ripresero animo, ed egli ordinando che
facessero sembianza d'insistere da quella parte, accorre là dove la
fortuna aveva combattuto per lui.

Manfredi ascoltava per via, come sparsa fama tra i Saraceni del
rifiuto ch'ei aveva fatto allo Amira di concedergli campo contro
Angalone, abbandonassero i posti, e si riducessero nei quartieri a
piangere sul corpo di Jussuff, quasi che fosse sepolto; come i nemici
prevalendosi della occasione scalassero le mura, e se ne fossero
impadroniti: si turbava, non si avviliva per questo, e affrettandosi
alla fazione passava sotto i quartieri dei Saraceni, e chiamava:
«Jussuff! Jussuff!»

«Che domanda il Muleasso dalla bestia che parla?» risponde
l'Amira, comparendo alla terrazza con volto disfatto.

«Non te lo aveva predetto? i nemici per te sono dentro le mura,
esci alla riscossa....»

«Come posso fare se non ho spada?»

«Io ti darò la mia.»

«E il braccio chi me lo darà?»

«La battaglia.»

«E il cuore?»

«Io te lo strapperò se una volta ti giungo,» grida stizzito
Manfredi «o maladetto nell'anima di tuo padre, nella santità
della tua fede!»--e rompendo gl'indugi trasvola cupido di venire a
battaglia.

Ecco sorge in diversa parte con diversa fortuna il conflitto;--la
notte, diventata del tutto oscura, lo rendeva più spaventoso:--i
Francesi se per sorpresa s'impadronirono della terra, adesso si
mostravano degni di averla potuta superare col valore; respinti non si
smarrivano; saettati di sopra, dai lati, di fronte, con maravigliosa
intrepidezza tornavano all'assalto:--non era questa battaglia
ordinata; infiniti affronti particolari, combattuti per le vie e per
le piazze; ogni capo di strada presentava nuova difesa ai Napolitani;
ogni casa fortino: suonava nel buio aere per ambedue le parti
altissimo il grido di guerra:--_Mongioia! Mongioia! Viva Francia, e
San Martino!--Svevia! Svevia! Viva Manfredi, e l'Aquila
imperiale!_--Ardevano gli animi già tanto inferociti, e senza
distinguere gli amici dai nemici badavano a tagliare chiunque cadeva
lor sotto.--A terribili tenebre succedeva terribilissima luce: sorgeva
lo incendio; appariva una scena degna di essere contemplata dal
Demonio; armi, uomini, animali a rifascio; la sembianza del morente
più compassionevole dal lume sinistro, quella dell'uccisore più
minacciosa; braccia e spade luccicanti, quasi sospese nel vano,
scaturire dal buio, piagare, e involarsi; volti di caduti che alle
scosse del dolore talora si nascondevano nell'ombra, e talora
comparivano al riverbero delle fiamme, ad ogni istante mostrando
essersi accostati di un passo alla morte: atti supplichevoli tronchi
da fiere percosse, e le percosse vendicate da peggiori omicidii; il
sangue chiamava sangue: chi uccideva di fronte spesso cadeva trafitto
da tergo:--nè i cavalli imperversati menavano danno e paura minore
dei cavalieri (tutto alla scuola dell'uomo si perverte); furiavano
traverso la battaglia nitrendo, e parea che dalle narici dilatate
fiutassero l'odore della strage; laceravano co' morsi, rompevano
scalpitando; le zampe fino alla prima giuntura avevano ingrommate di
sangue. Prevale l'incendio nella forza della rovina; però che con
lampade siffatte conduca le sue _lucubrazioni_¹ la guerra.

  ¹ _Lucubrazione_ è voce latina, non si trova su gli antichi
    vocabolarii; l'hanno ammessa i moderni, l'adopera l'illustre Botta
    tra gli altri luoghi al Libro II della _Storia d'Italia_: vale
    propriamente studio fatto di notte.

È da credersi che dove i Pugliesi non avessero rimesso un po'
dell'animo loro per la presa inaspettata della terra, o pel timore che
i Saraceni volgessero le armi contro Manfredi non si fossero avviliti,
sarebbero stati vincitori; ma sfiduciati al punto in cui maggiormente
abbisognavano di costanza, e con valore stupendo feriti dai Francesi
sovvenuti del continuo di gente fresca, cominciarono a piegare: solo
si reggevano nella contrada dove combatteva Manfredi; pure anche in
questa assaltati dalle vie circonvicine, venute in potere del nemico,
voltarono le spalle gridando:--_salva chi può_.

Allora cominciava un miserabile eccidio: le spade nemiche
gl'incalzavano con ardore bestiale; quanti incontrarono resistenti, o
cadenti, trucidarono; la età non salvava; il sesso incitava alla
libidine, non alla pietà; dopo gli ultimi oltraggi, quelle
sciagurate donne tagliavano. A noi non concede la mente di narrare lo
sperpero commesso in quella notte dalle armi francesi, comecchè
sappiamo che la più parte delle storie degli uomini sia composta di
questi fatti; basti sapere che tra i morti per ferro e tra i morti per
fuoco, sommarono le anime a meglio di diecimila.

Manfredi, travolto nella fuga dei suoi, conoscendo la voce della paura
essere diventata più potente della sua, desideroso morire di ferita
nel petto, fa un ultimo sforzo, e volta il cavallo. Avrebbe incontrato
quello che andava cercando, perchè distinto dall'Aquila d'argento
che portava per cimiero, contro di essa si sarieno rivolte le spade
nemiche, se una nuova gente, da lui mai più veduta, sboccando dalla
via che mena alla porta dell'Abruzzo, non lo avesse circondato
gridando:--_Svevia! Svevia!_--Un Cavaliere gigantesco che teneva su
l'elmo una Lupa gli si accostava, spingendo il cavallo a slascio
traverso la pressa: e curvatosi dall'arcione, gli diceva in fretta:
«Messer lo Re, la terra è presa, il Provenzale soverchia: se
fossimo giunti avanti, vi avremmo fatto vincere; adesso non possiamo
che salvarvi:--voi non ci conoscete, ma noi siamo vostri amici.»

--Dunque non è anche l'ora,--pensò Manfredi; poi rispose al
Cavaliere: «Gran mercè, Barone; da che siete venuto, vi accetto;
a Benevento potremo sospendere anche una volta la fortuna di
Carlo.»

«E se a Dio piace, superarla!» soggiunse lo sconosciuto. Quindi
levando la voce che superò lo schiamazzo che si faceva d'intorno,
ordinava ai suoi si serrassero, ponessero le lance in resta, e così
andassero avanti. Quel battaglione di ferro si avanzava sfondando
quanto gli si opponeva; lento lento, come un carro pesante, si
approssimava alla porta dell'Abruzzo, conosciuta ancora col nome di
San Giovanni.

«I miei figli! la Regina!»--urla all'improvviso Manfredi, e senza
dire parola al Cavaliere che gli cavalcava al fianco riprende il cammino
che aveva percorso. «I suoi figli!» s'intese al tempo stesso da
una voce che partiva di mezzo allo squadrone «salviamoli.»

Il Cavaliere, che pareva il capitano, comandava alla masnada si
cacciasse dietro Manfredi, e lo difendesse fino all'ultimo sangue.
Bruttissimi fatti vedevano in passando, e degni di vendetta; pure,
come chiamati da più grave faccenda, non li vendicavano. Alla
svolta della piazza di Santa Maria delle cinque Torri ne contemplavano
al chiarore dell'incendio uno incomportabile:--sopra un trafitto
plorava, mettendo angosciosi guai, una bella giovanetta (se fosse
moglie, od amante, non si sapeva); singhiozzava forte, e tra i
singhiozzi con dolcissimi nomi lo appellava, e gli teneva discorsi,
come se quello fosse stato un convegno di amore; così veemente
l'agitava la passione, che fingendosi il cadavere a quel modo che le
s'era presentato alla mente nei giorni felici, non lo vedeva adesso
lacero per mille piaghe, livido d'infinite contusioni: aveva le labbra
pendenti, immobili, sparse di bava sanguinosa; nondimeno ella vi
accostava le sue, e ve le figgeva quasi a libarne il liquore della
voluttà. Stava appresso alla dolorosa un soldato, e le diceva
asciugasse le lacrime, morto un papa crearsene un altro, e con tali
altri argomenti la consolava ch'io non li voglio dire: alla fine,
conoscendo di non far frutto in quella guisa, l'afferrò per le
trecce, e brutalmente la strascinava. Oh! quale era la faccia della
meschina! Oh come stendeva le braccia al trapassato! Con quanti conati
s'ingegnava colei per sottrarsi alle braccia che la menavano! I
cavalieri che correvano dietro la posta di Manfredi levarono un grido,
passarono via: solo uno uscì di fila, e spingendo in abbandono il
destriero arrivò improvviso alle spalle del soldato, e levando
più alto che poteva la destra, e acconsentendo con tutta la
persona, di tale un colpo lo ferì su l'elmetto, che la mazza
d'arme, spezzati i cerchii di ferro, s'internò più che mezza nel
cranio; una vena di sangue gli spicciava bollendo dal capo....
barcollava.... cadde,--nè la mano abbandonò le trecce della
giovanetta, anzi stringendo rabbioso gliene svelse gran parte; i bei
capelli che scaturivano dalle dita, attestavano la sua brutalità,
sì come il cranio fesso il castigo. La tapina donzella ricadde
bocconi sul morto, o riprese il lamento più fiero di prima.

Ora non torni grave, di grazia, se adoperando un privilegio comune ai
Novellatori, noi, _per tornare un passo indietro,_ dobbiamo alcuna
cosa raccontare della Regina Elena, e dei suoi figli.

Corrado di Pierlione Benincasa preposto alla custodia del palazzo
reale di San Germano, conosciuta disperata la difesa della terra,
maravigliando di non vedere comparire Manfredi allo scampo dei suoi, e
però timoroso che fosse rimasto ucciso, ragunati in fretta quanti
cavalieri stavano in palazzo, favellava: «Signori Cavalieri,
chiunque tra voi desidera comperare la vita con la vergogna, esca
immediatamente, e vada a ricovrarsi ove la coscienza gli detta; chi
poi ama restare fedele al suo Re, sappia che non gli rimane altro che
una morte onorata.»

Rispondeano volere serbarsi fedeli a Manfredi, non temer la morte,
sì bene spaventarli il vituperio. Corrado esclamava commosso:
«Protegga il cielo, a cui piacciono i generosi fatti, la valentia,
e fedeltà vostre.» Quindi rinforzava le porte, disponeva i
soldati, e commettendosi intero ai voleri della Provvidenza, sovente a
lei si raccomandava. Fatto quanto conveniva a savio capitano, si
conduceva dalla Regina.--Vacillava il servo fedele salendo le scale,
piangeva, e giungendo le mani di tratto in tratto, tra i sospiri
prorompeva: «O casa del nobile Manfredi, in quanto abbassamento
caduta! » Alle damigelle, e ai fanti, che gli si paravano sul
cammino, e gli domandavano ansiosi: «Che nuove, Messere?»
rispondeva: «Raccomandatevi a Dio; «--e passava oltre. Giunto
alle stanze della Regina, si fermò, terse le lacrime col rovescio
delle mani, e bussò sommesso: gli apriva Gismonda; entrava Corrado
ostentando fermezza, ma quando vide la famiglia del suo signore, non
potendo frenarsi, dette in uno scoppio di pianto, e s'inginocchiò a
piè del letto dove giaceva la Regina.

«Che è questo, Gran Cancelliere?»--domandava la nobile Elena.

«Madonna, la terra è presa....»

«Presa!--e Manfredi?» Corrado non rispondeva. «Vergine
gloriosa! sarebbe egli morto?»

«Morto!»--gridarono a un tempo Yole e Manfredino.

«Morto non so, Madonna.... e vivo nemmeno.... pure per noi è
morto perchè non ci soccorre.»

«Avrà abbandonato i dieci per salvare i cento. Rimane scampo
nessuno, Cancelliere?»

«Nessuno.--Or che faremo?»

«Gismonda!» con voce altera chiamò la Regina «portatemi la
clamide reale, e la corona.»

Le furono portate; se ne ornò le spalle e la testa, dipoi scese dal
letto, si compose con bel decoro sopra un sedile, si pose i figli a
destra e a sinistra; quindi parlava a Corrado: «Vedete,
Cancelliere, quello che a noi rimane sappiamo,--morire da Regina; se
noi fossimo Cavaliere, non avremmo dimandato a persona quello che
dovremmo operare.»

«Nobile Madonna, non parlate così, chè a me, e ai miei ho
provveduto secondo i termini dell'onore: solo sono venuto a
ricercarvi, se a voi fosse nota alcuna segreta uscita per mettervi in
salvo, e ad avvertirvi che mentre noi difenderemo la porta del
palazzo, voi, e i vostri figli, fuggiate dalla rabbia nemica.»

«Noi non conosciamo mezzo alcuno di salute: e quando anche lo
conoscessimo, dovrebbe bastare per tutti, o per nessuno.»

«Magnanima! Addio dunque, mia dolce signora: state pur sicura che a
voi non verranno i Francesi se non per questa via,» e si toccò
il petto. «Piacciavi intanto ch'io possa esser degno di baciare per
l'ultima volta la real destra, e assicurarmi della grazia vostra, se
mai feci cosa che tornasse in dispiacere alla Vostra Serenità;--del
resto rammentatemi nelle vostre orazioni.»

Tolse in collo Manfredino, lo baciò su la fronte, e riponendolo in
grembo alla madre, supplicava con devoto fervore: «O Gesù per
noi crocifisso, fa che il tuo servo possa salvare questo innocente
fanciullo!--Sentite, sentite, l'assalto è già cominciato,
bisogna ch'io vada.--Svevia! Svevia, Cavalieri!»--gridò correndo
verso la porta, dove arrivato si voltò alla Regina iterando la
preghiera: «Raccomandatemi a Dio.»

Durava da un'ora l'assalto; ma quantunque i Baroni pugliesi tenessero
il fermo con ammirabile costanza, si vedeva chiaro che non potevano
durare più a lungo: quando all'improvviso i colpi nemici
cominciarono a farsi più rari, poi a cessare del tutto; anzi
sentirono che si sbandavano alla dirotta, e dopo alcuni istanti con
incredibile gioia suonare da per tutto: «Viva Manfredi!»

«Aprite al Re!»--urlavano cento voci; e quelli, riconosciuta
l'Aquila di argento, schiudevano la porta. Entrava Manfredi
accompagnato da pochi cavalieri; i rimanenti si fermavano avanti la
porta; si inoltrava palpitante, trascorse la corte, giunse alla
scala;--era buio,--nel porre il piede sopra il primo gradino inciampa
in un corpo,--sorge un gemito profondo, e un lamentare sommesso, che
diceva: «Chi mi calpesta?»--Vengono le torce; Manfredi riconosce
nel moribondo il fedele Benincasa:--ferito mortalmente di una freccia
nel petto, erasi il leale Barone quivi condotto per morire tranquillo.

«Corrado, mi riconosci?» gli domandò pietoso Manfredi.

«Ah! se vi riconosco?» rispose il moribondo levando le pupille
velate «voi perdete un fedele... ed io... muoio contento di aver
salvato il vostro sangue....»

«No, tu vivrai, Corrado! » proruppe Manfredi, e si curvò sul
giacente... aveva esalato l'ultimo fiato: una lacrima scese sul volto
del morto dal ciglio del Re, che si allontana, prorompendo in
singhiozzi convulsi.--Allorquando il Provenzale si fu impadronito di
San Germano, la plebe stolta, per piacere al nuovo signore, cinse di
un capestro il collo del fedele Benincasa, e lo strascinò a
vituperio per le strade della città,--solito premio che gli uomini
sogliono dare alla virtù sfortunata!--Il tempo però che rende a
tutti le sue giustizie ha ormai sentenziato se in quel momento
l'avvilito fosse Corrado Benincasa, o il Conte di Provenza, che vide
cotesto scempio, e potendo nol volle impedire. Certo io ho fede che
l'Angelo della Vendetta gli notasse quell'opera, e che fino da
quell'ora Carlo d'Angiò si rendesse degno dell'ira divina, che
così acerba lo colse nei Vespri Siciliani: se così non fu, io mi
dispero sul destino della creatura.

Udiva la famiglia del Re Manfredi i passi accelerati che si dirigevano
alla sua volta; udirono toccare le imposte; si nascose Manfredino
dietro il manto della madre, gittò un grido Gismonda, sorse la
Regina, e Yole le si fece appresso per sostenerla.

«Non bisogna....»--parlò la nobile Elena rimuovendo da sè
le braccia della figlia, e si atteggiava in altera sembianza.

Si spalancano le imposte.... «Vergine benedetta! Manfredi!»--Il
Re non proferisce motto, corre verso la Regina, si pone la spada tra i
denti, e cingendo del braccio diritto la moglie, del manco il
figliuolo, li porta fuori della stanza.

Un Cavaliere, avvenente di forma, comechè vestito di ferro da capo
a piedi, quel desso che aveva salvato su la piazza la dolorosa dalla
rabbia del soldato, si accosta a Yole, e le porge la destra;--si tinge
di rossore la modesta, e sdegnosa repugna;--le si avvicina il
Cavaliere, e le dice una parola.--Che le ha egli detto? forse l'ha
toccata con qualche breve di magia?... non so; ma ella gli si avventa
al collo dimentica del verginale decoro, sì come donna innamorata;
egli la stringe col manco braccio alla cintura, e levatala da terra se
la porta dietro Manfredi. Qualunque fosse la passione che in quel
punto agitava Yole, non valse però a vincere in quell'animo gentile
la cortesia per la quale andava famosa su tutte le damigelle d'Italia;
quindi è che non anche toccava la soglia della stanza, che volse la
faccia, e parlò: «Dov'è Gismonda?»

«Eccomi!» rispose la damigella, che tratta da un altro Cavaliere
le camminava vicina; «io vi vengo dietro, mia dolce signora.»--Yole
le sorrise, e parve contenta.

Scendendo le scale, il Cavaliere che teneva per cimiero la Lupa,
scorgendo il Re impacciato nel portare la Regina e il figliuolo, gli
favellava: «Monsignore, così non potete durare.»

«O come ho a fare io?»

«Datemi il figlio.»

«Il figlio! tu vuoi il figliuol mio? s'io te lo do, lo riporrai
sano e salvo nelle braccia paterne?»

«Spero.... almeno egli non morrà prima di me.»

«Prendilo dunque!»--e glielo porse. Il robusto Cavaliere lo
sollevò con la destra, e siccome il fanciullo nel distaccarsi dal
padre menava un lamento, lo rampognò così: «Non piangono i
figli dei Re.»--Allora Manfredino si tacque, e il Cavaliere se lo
adattò sul braccio sinistro dicendogli: «Tenetevi stretto al mio
collo:»--la qual cosa avendo egli fatta, lo ricoperse con lo scudo
per modo, che da nessuna parte poteva essere offeso. «Ora potete
dormire perchè siete sicuro,»--soggiunse, e si precipitò
giù per le scale, che, per non funestare gli sguardi dei Reali di
Napoli, aveano sgombrato del cadavere del povero Benincasa.

Uscivano all'aperto;--i nemici erano scomparsi. Da lontano s'intendeva
un cozzare di spade, un gridare confuso _Svevia! Mongioia!_ Stupivano,
non s'immaginavano che cosa potesse essere; si valevano della buona
occasione, e montati in sella, tolte in groppa le donne, spronavano
verso la porta di San Giovanni. Senza incontrare avventura che meriti
di essere raccontata, pervennero alle mura, le passarono, e si
cacciarono alla campagna, gridando sovente con allegre voci: «È
salvo il Re!»

Manfredi, spesso ricorrendo con la mente ai casi avvenuti in quella
notte memorabile, esclamava tra contento e turbato: «Anche la
sventura a qualche cosa è buona; s'ella non fosse stata, io non
avrei mai conosciuto questi fedeli che mi circondano.»

Mi volgerò io a contemplare per l'ultima volta la vinta città?
Mi volgerò,--che l'Angiolo non me lo ha vietato sotto pena di
tramutarmi in istatua di sale.--Ecco, ella arde come Gomorra; l'una
colpevole di ribellione al suo Dio, l'altra colpevole di fedeltà al
suo Re: le dico ambedue colpevoli, perchè altramente non saprei
andare capace, come una stessa rovina le percotesse, Poc'ora
d'incendio abbrucia opere intorno alle quali sudò anni interi la
industria; le dimore del superbo, i poveri ricoveri, cadono adesso
nella comunione della distruzione: vi furono figlie stuprate sotto gli
occhi dei padri, mogli sotto quelli dei mariti, e guai a loro se
facevano cenno, se mettevano un grido, un gemito; i cittadini,
parteggianti per Carlo o per Manfredi, purchè doviziosi, rubati; le
case saccheggiate, i repugnanti uccisi, i paurosi scherniti; e sì
che il Conte di Provenza diceva a cui ci voleva credere, essere venuto
a levare dal collo dei Pugliesi quella oppressione sveva, e si faceva
chiamare liberatore. Le cose e le persone sacre nulla meglio
rispettate; sacerdoti venerabili per santità, per anni e per
dottrina, dalla proterva soldatesca manomessi; monache con sacrilega
inverecondia su i gradini del santuario contaminate; i voti dalla
divozione dei Fedeli appesi alle immagini, se di oro o di argento,
intascati; se di cera, lasciati stare; le stesse immagini dei Santi,
se di metallo prezioso, arruffate; se dipinte, lasciate stare.--Che
più?--refugge l'animo al fiero racconto:--diffusi i sacri olii per
terra, o consumati in ungersi le barbe; sparso sul pavimento il
mistico pane, ghermivano i ricchi vaselli per quindi giuocarseli a
zara, o Dio sa in quale altro uso disperderli:--e sì che il Conte
di Provenza protestava essere venuto a ristorare la Religione del
Regno, e si diceva figliuolo primogenito della Chiesa.

Ecco come da rimotissimi tempi costumano gli italiani uomini ricevere
la libertà.--Assicura la gente cosa preziosa essere la libertà,
ed io di leggieri concorro in questa sentenza, considerando il grave
prezzo di averi, e il molto più grave di vite che ne ha finora
sborsato;--tratta dalla ingannevole lusinga, non badò la tradita,
se legittimi mandatarii fossero coloro nelle cui mani sborsava... essi
furono falsificatori:--ella pagò male le tre, le dieci volte,--e
sempre; peggio per lei: chi non ha il senno, abbia la pazienza. Tanti
misfatti si commisero a nome di questa libertà; in tante e sì
strane forme si è presentata al mondo ingannato, e ingannatore;
così sovente ha nascosto il volto della stessa tirannide,--che
oggimai ho fede non viva uomo di sano intelletto che al solo
intenderla rammemorare non si sgomenti: e però quell'intemerato
Parini, che ai suoi tempi l'aveva veduta tragica, e comica, e
democratica, e aristocratica, e consolare, e fescennina, e perfino
ballerina, allorchè tenevasi in sua presenza proposito di lei,
interrogava tutto smarrito:--Libertà! di che sorta?--Queste
opinioni stanno qui con la medesima convenienza dell'orazione di Tizio
nell'Inferno, che conforta gli eternamente perduti ad apprendere
giustizia: non v'è cera che turi le orecchie all'umana imbecillità;
elleno stanno aperte alla prima Sirena che voglia susurrare dentro di
quelle la canzone della frode.

Nè si presuma essere diventati in nulla migliori; siamo i medesimi
di tre e cinque secoli passati, strascinanti di età in età la
soma del vituperio sul basto della ignoranza. Mancano i fatti
nequitosi? segno è che manca chi inciti, non gli animi, non le
voglie pronte a commetterli; imperciocchè la più parte di noi
non abbia nemmeno volontà propria a mal fare, e penda sospesa ai
confini del vizio e della virtù, aspettando la spinta per
traboccare: quindi è che io non ho mai avuto in iscopo di predicare
al deserto, tentando di migliorare i miei simili,--no; possa l'anima
mia diventar quella di un avvocato, se mai ho avuto in pensiero cosa
sì fatta: ciò che ho scritto, scrissi per dimostrare altrui che
so, come dicevano i nostri vecchi Fiorentini, _quanti piedi entrano
in_ _uno stivale_, e distinguo i _bufali dall'oche_, e che, quando la
cerco, mi ritrovo anche io, e non capisco il come, una testa rotonda
sopra due spalle quadre.




CAPITOLO VENTESIMOSETTIMO.

LA NOTTE DOLOROSA.

                Un angioletto con le man di rose
                Chiuse gli occhi infelici in tanta angoscia.
                                        SAN BENEDETTO.


Tristo è il regno delle tenebre, tristo quanto i pensieri del Re
fuggitivo.--Nei lunghi anni del fastidio della vita, avviene talvolta
al decrepito di revocare alla mente il riso della perduta
giovanezza,--però che non vi sia secolo di affanno che non contenga
il suo minuto di gioia;--allora il sangue gli si squaglia, meno
languide gli battono le arterie, gli si infiamma la faccia di un
crepuscolo di rossore; quando all'improvviso su la bocca del sepolcro,
ov'ei schifosamente si appiglia, lo assale più feroce che mai la
immagine della morte, e gli gela la speranza: così lo spirito di
Manfredi in quella notte memorabile, se ricorreva sopra alcune delle
passate vicende per ricavarne sollievo, di subito la pienezza delle
sventure presenti, il timore delle future, lo sconfortavano; a lui
avevano tolto i destini anche il bene della lusinga!--Procedeva in
silenzio; avrebbe potuto mostrarsi lieto, narrare eziandio la
dilettosa leggenda, chè su quanti uomini vivevano al mondo egli era
valente a dissimulare;--simile in questo alla terra del suo Regno, che
innamora il risguardante co' tesori della creazione, mentre il vulcano
le prepara rovina dentro le viscere;--nondimeno conoscendo che a nulla
poteva giovargli l'ostentarsi lieto, e che quando anche gli fosse
giovato, nessuno gli avrebbe creduto, si lasciava in balía delle
proprie afflizioni. I seguitanti, persuasi che se rimaneva via di
salute, Manfredi l'avrebbe veduta prima di loro, che la sventura non
lo prostrava, ed egli era uomo da fare tutto da sè, procedevano pur
essi in silenzio. Senza posarsi un momento giunsero a San Pietro in
Fine, terra otto miglia distante da San Germano;--volevano quivi
fermarsi, non parve sicuro il luogo; convennero proseguire la
corsa;--i cavalli sebbene stanchi giustificavano la fiducia che i
cavalieri avevano riposto nella loro bontà.

«Soffri?» interrogava Manfredi la nobile Elena, la quale,
intirizzita dal vento ghiacciato, dolorosa pel lungo dimorare in una
stessa positura, e per la malattia di languore che da tempo remoto la
travagliava, aveva disciolto un gemito sommesso.

«Io?--Pensa a salvarti, pensa a salvare i miei figli.»

«Tu soffri.»--insiste Manfredi.

«Oh non badarvi!--Forse chi sa che questi miei patimenti non sieno
accettati in parte di espiazione!»

«No, no: il bianco è bianco, nè il loglio muta natura al buon
grano; ogni anima pensi per sè: nella valle di Giosafat ciaschedun
vivente risponderà per i proprii peccati. Tu non devi soffrire per
me.»

Adesso si trovavano alle falde della montagna Cesima, su la cima della
quale anche oggigiorno scorgiamo la terra di Presenzano. Manfredi
ordinò che lasciassero la strada battuta, e piegando a destra
s'internassero alquanto nella selva dei pini che ingombra il declivio
del monte, perchè quivi intendeva posarsi. Giunse gradito il
comando, chè la fuga precipitata, e l'aria pungente della notte,
avevano avvilito i più gagliardi. Forse cento passi andarono pel
bosco, e si fermarono: in meno che non si dice sorse un bel fuoco a
ravvivare le membra. I Reali erano discesi; Manfredi si volse attorno,
e vide al suo fianco Elena, al fianco d'Elena Yole... mancava
Manfredino; nel tornare alla primiera situazione, mira il Cavaliere
che glielo porgeva sano e salvo; lo prese il Re tra le braccia, il
fanciullo gli rise, e alzando le mani gli accarezzò le guance: il
volto paterno non sostenne severo la cara sembianza, e chinato su la
fronte del figlio lo baciava affettuoso.

«Noi dunque non abbiamo perduto nulla?»--favellò Manfredi
poichè di nuovo ebbe guardato i suoi.

«Abbiamo perduto Benincasa:»--rispose Yole con voce soave.

«In verità, figlia mia, voi avete parlato una molto savia
parola.»

«Certo,» s'intromise in quel ragionamento il Cavaliere «non
si vuol negare, che meglio per tutti saria stato che il Gran
Cancelliere sopravvivesse, nondimeno non merita grave compianto;
s'egli ha perduto la vita, si acquistò la fama, la quale in
sostanza è la vita dei valorosi, e appunto per questo vivono i
prodi Cavalieri, e se per conseguirla morirono, bene augurosa e felice
deve la morte loro riputarsi:--forse il mondo maligno, uso più
tosto a rammentarsi dei fatti che lo addolorano, che di quelli che lo
stupiscono, non serberà che tra pochi la fama di questo valente; ma
quei pochi saranno coloro, che non misurano la virtù dalla fortuna,
che in qualunque parte della terra, in qualunque tempo incontrino la
rinomanza di un forte, la salutano come sorella, e le innalzano un
tempio nel proprio cuore:--degli altri, pe' quali il solo cibo
distingue la vita dalla morte, non vuolsi far conto;--sempre nelle mie
orazioni ho supplicato il Signore di due cose,--che mi preservi dalla
lode degli imbecilli,--e dal disprezzo dei generosi.»

«Ben detto,» approvò Manfredi «così è; di rado
avviene che un forte braccio si unisca ad una trista mente: Cavaliere,
in cortesia, io vi ricerco di un dono.»

«Qual dono? Monsignore, parlate.»

«Voi mi avete donato, che mi svelerete chi siete.»

«Questo sarà un dono che voi farete a me, Monsignore, piacendovi
ricercare le condizioni di un'umile persona, quale io mi sono; però
non è tale il mio volto che ami rimanersi celato, nè tale la mia
fronte, che non possa senza impallidire sostenere la vista dei
valenti: ecco, guardatemi il sembiante; sia buono, sia sinistro, io lo
tengo quale me lo ha dato la natura.»

E si alzò la visiera, e il Re vide una testa, quale i cieli
concedevano agl'Italiani, quando con la testa concedevano anche la
facoltà di sentire la vergogna; nondimeno non rammentava averla mai
più veduta, e già moveva le labbra per domandare del nome,
allorchè aggiunse il Cavaliere: «Voi non mi conoscete di vista,
nè io conosceva voi, sebbene per fama io fossi innamorato delle
virtù vostre. Voi dunque vedete, Monsignore, in me un cittadino,
che bandito dalla sua patria ne porta per cimiero la insegna,» ed
additò la Lupa¹ «affinchè vegga quali sieno le geste del
figlio che ha cacciato, e si addolori che non sieno operate per lei,
nè in alcuno suo onore ridondino; in me voi vedete un uomo, che
perseguito dai suoi simili si vendica compassionandoli, e rendendo
loro bene per male; in somma io sono Ghino di Tacco da Turrita....»

  ¹ Arme di Siena.

«Voi Messer Ghino!»--ripeteva il Re stupefatto; e quanti quivi
erano Baroni pugliesi si restrinsero a contemplare l'uomo che aveva
levato di sè una fama da contendere con quella de' più illustri
Capitani di eserciti. Ghino si rimaneva immobile, atteggiato in cotale
mossa guerriera, non ostentata per arte, ma da lunga consuetudine
propria delle sue membra. Manfredi, soddisfatto il desio di guardarlo,
aggiunse commosso: «O nobil sangue, come avvilito! Anima grande, a
qual punto ridotta! In qual modo avete sofferta la vita? in qual modo
l'avete guardata dalla morte?--dalla infamia?»

«O signor mio, io ho scorso questa terra, che delle antiche glorie
si fa manto alle vergogne moderne, e l'ho veduta piena di delitti; il
mio braccio ha vegliato per la innocenza, e la gente mi ha
benedetto;--e poichè dura eterna la guerra della ingiustizia contro
la debolezza, io non ho posato che pochi momenti.»

«E in quei momenti?»

Ghino abbassò gli sguardi, ed esitando aggiunse: «La gente dice
che ritorna l'antica comunione delle cose;--l'uomo ha diritto
all'esistenza,--io ho chiesto un pane, e l'ho tolto a cui me lo ha
negato.»

«Ma perchè non veniste alla mia Corte? Qual è il Cavaliere,
che sotto l'ale dell'Aquila di Manfredi non abbia trovato ricovero
contro il flagello della fortuna? Avete temuto che noi ci mostrassimo
meno cortesi con voi che con gli altri? Ghino, ci avete fatto
torto.»

«No, Monsignore, mai ho dubitato della vostra cortesia, sì bene
molto ho temuto che in me fosse petulanza esperimentarla. Suona di
Ghino diversa la voce:--chi mi ha ridotto in tale stato, per onestare
il misfatto agli occhi della gente, e forse anche per superare il
grido della propria coscienza, schiamazza a piena bocca ch'io sono un
fuggito dal capestro, un periglioso ladrone;--così veramente non
dice il salvato dalla ferocia del Barone, non così le difese
donzelle, non così i castelli tutelati dalle libidini del
prepotente vicino; nondimeno il male urla più forte del bene, e la
mia condizione parla contro di me. Era dunque generosità invocare
la vostra luce, affinchè rischiarasse la tenebra che la umana
malignità ha deposto sopra il mio capo? Intanto attendeva ad
operare incontaminato, e spesso il mio labbro diceva: gli uomini al
fine cessano di essere ingiusti;--ma il mio spirito non lo sperava: e
quando mi ristoreranno del nome che mi hanno rapito (inverecondo, e
pure inevitabile fatto, che alla stolta moltitudine appartenga
chiamarne buoni, o malvagi!), allora, io pensava, riparerò alla
Corte del nobile Manfredi;--forse fu questa superbia, forse
venerazione per Vostra Serenità;--ad ogni modo credeva, e tuttavia
credo, non ogni Ghibellino sia per giovare al figlio di Federigo.»

«Voi vi apponeste al vero, valoroso Barone, quando pensaste che non
tutt'uomo, che odiasse Roma, fosse degno di amare Manfredi; pure vi
dilungaste dal retto, allorchè ci negaste il cuore o la mente di
distinguervi tra mille che gridano parte per far tacere la legge.
Assai lungo tempo corre che noi desideravamo vedere la persona vostra,
ed ora ringraziamo il destino, che, prima di finire i nostri giorni,
ci ha conservato a tanta dolcezza.»

«Nobile Manfredi, grandi novelle udimmo raccontare della cortesia
vostra; tuttavolta, per quanto dica la gente, io vedo adesso ch'ella
vince le parole.»

«E se il cielo assente che questo non sia lo estremo dei Regni
Svevi sopra le terre di Puglia, voi non vi partirete più dal nostro
fianco, noi vi faremo condottiero di una parte delle nostre compagnie,
e avrete nel Regno stanza e vita onorate:--compíta suonava per la
Cristianità la fama della Corte di Manfredi nella gloria dei
Trovatori, adesso con Ghino da Turrita compíta sarà anche quella
della gloria delle armi;--se tanto ci frutta la sventura, noi davvero
non sapremmo più invocare la fortuna. Ora che vi pensiamo, in
questa notte stessa ci si offerse agli sguardi uno di vostra gente,
Messer Ghino, che più volte ne ha sovvenuto di consiglio,--che
uccise a Benevento un traditore,--sì certo, era desso:--Yole,
dov'è il Cavaliere che vi ha menato in groppa?»

Yole declinò la faccia, forse per celarne il rossore, e rispose:
«Ei si partiva.»

«Se il Cavaliere ama restarsi celato, sarebbe scortesia volerlo
conoscere; non pertanto abbia le nostre grazie, e voi, Messer Ghino,
preghiamo di fargliele note; ditegli ancora, che se guiderdone di
onori, o di facoltà, può in parte sdebitarci dell'obbligo che
verso lui professiamo, un desiderio della vita di Manfredi è di
mostrarglisi grato.»

Più a lungo sarebbonsi tratti i colloquii; e tuttavia favellando
gli avrebbe côlti il mattino, così grande diletto ricavava l'uno
dall'altro, se in quell'istante la Regina, aggravandosi, come stanca,
sul braccio di Manfredi, non gli avesse rammentato che quivi erano
discesi per riposarsi; però egli si tolse il mantello, e stesolo
sul terreno vicino al fuoco, con un mesto sorriso lo additava alla
nobile Elena, e le diceva: «Qui giaci, Regina: oh! il giorno in che
tu fosti assunta sposa al reale mio talamo, tu non pensavi, infelice!
che avresti passato una notte di dolore sopra il nudo terreno:--chi te
lo avrebbe detto! un ciel sereno pareva dovesse essere la tua vita; e
se tra tante immagini di contento balenò al tuo pensiero l'ora
solenne della pace, certo tu la vedesti splendida come il tramonto di
un sole di estate.»

«Mio dolce consorte, dal Signore si diparte la gioia, dal Signore
lo affanno, ed io ho benedetto sempre i suoi santi voleri.»

«Soffrire è la virtù della bestia da soma; nondimeno grande
pietà sarebbe stata quella di concedermi o meno angoscia, o più
pazienza: ma tu, Regina, insegnami come fai a sopportare, senza
maledire il tuo nascimento.»

«Abbi in pensiero che la Provvidenza vive di giustizia;
misericordiosa è se ti consola, più profondamente misericordiosa
se ti travaglia; l'angoscia patita sarà tanta via che troverai aver
fatto verso il Paradiso, ogni spasimo un passo pel quale ti avvicini
al principio di tutte le perfezioni.»

«Riposate, Elena; ormai veggo ch'è tardi per me apprendere sì
fatte dottrine: il dolore sopprime la fede, almeno entro il mio
spirito:--a tempi più tranquilli serbo di chiamare alcun sacerdote
sapiente.... Ridete, messer Ghino?--e che pensate sia alchimia un
sacerdote sapiente? Il mio Regno ne conta adesso, che la stagione
corre contraria, meglio di cinquemila; or non volete che questo
capitale renda l'uno per le cinque migliaia? Sì, in verità, io
voglio restringermi seco, e disputare intorno questa teologia.»

Manfredi aveva in mala parte interpretato il riso di messer Ghino per
insolentire contro coloro, cui egli chiamava suoi nemici: questi non
rispose parola, ma toltosi il mantello dalle spalle, lo piegò a
più doppii, e dipoi, curvatosi sul luogo in che si apprestava a
giacere la Regina, parlò: «Nobile Madonna, ruvido è questo
panno, nè per nulla conveniente alle vostre membra delicate;
nondimeno se di tanta grazia lo volete far degno che possa sopportarvi
il fianco, io vi giuro per la fede di Cristo che appartiene a
Cavaliere onorato.»

«Gran mercè, Cavaliere;» soggiunse Elena con donnesca
leggiadria «nè uomo al mondo vorrebbe negare, che, posandomi io
sul mantello di Manfredi, e su quello del virtuoso messer Ghino, non
mi fossi giaciuta sopra il letto dell'onore: non pertanto io vi prego
a tenerlo; la notte stringe rigida, l'aria pungente, e voi potreste
per avventura averne bisogno.»

«Oh! sì,» scuotendo la testa replicava Ghino «sarebbe
l'ora che io non avessi imparato di farne a meno: o nobile Madonna, da
che io conobbi che i miei nemici avevano arso il castello dove
solevano riposarsi i miei maggiori, io non ho avuto altro letto che la
terra, e spesso altra coperta tranne il cielo;--il cielo si mostrava
tempestoso, e il fulmine talora mi ha rotto il sonno, ed io balzando
esterrefatto ne ho veduta l'ultima striscia infuocare le nuvole, e la
faccia aveva invetriata di gelo, e i capelli rappresi dai diacciuoli,
e il terrore mi premeva la fronte, perchè la vendetta mi stava
lontana:--adesso il cielo è sereno, la vendetta compíta, e il
fuoco vicino, sì che, se voi non avete altra scusa migliore per
rifiutarlo, ecco, io l'ho disteso.» E sì dicendo allargava il
suo mantello per terra. Terminata l'opera, salutava i Reali in atto
ossequioso, e allontanandosi augurava: «Possa esservi apprestato
migliore letto domani!»

«Lo speriamo!» rispose Manfredi;--e la Regina: «sia fatta la
volontà di Dio.»

Ghino, recatosi dalla parte opposta dei Reali di Sicilia, slacciasi
l'elmo, e lo appende al ramo di un pino; appoggia l'asta al tronco, poi
si adagia sul terreno, la nuda testa sovrappone allo scudo, s'interna la
spada tra le gambe, e aggravata la guancia sopra la destra palma, dopo
pochi momenti si addormenta. E così tutti: solo Manfredi, che giaceva
traverso alla estremità dei mantelli dove posavano i suoi, con la
faccia rivolta alla fiamma, stava, sorreggendosi il capo, a considerare
la vicenda di un arbusto infuocato: apparve da prima scintillante di una
bella luce dorata; a poco a poco, scarseggiando, l'umore, rossastra;
quindi, vie più crescendo il difetto, di un colore tra azzurro e
verde;--allo improvviso ricomparve dorata, perchè tutte le cose
vicine ad estinguersi prorompono in un baleno di vita,--e si spense;
allora prese a sollevarsi un fumo denso da prima, poi meno
cupo,--cenerino,--di bianco pallido;--finalmente anch'egli si
tacque;--un tristo pugno di cenere era avanzato dall'oggetto lucido,
diletto degli occhi: perchè così attento considerava Manfredi un
caso che inosservato passa le cento volte nella nostra vita? Oh! arguto
osservatore è il disastro, e la cagione egli la susurrò con queste
parole: «È finito;--anche la rinomanza è fumo; l'eternità e
l'oblio ingoiano le virtù, e i misfatti: ma almeno del tizzo rimase
la cenere; di noi che rimane?»--E il sonno gli si aggravò su le
palpebre. Sul principio ora le chiudeva, ora si sforzava di riaprirle,
quasi volesse contendere alla potenza del sonno:--ma chi valente contro
di lui? Manfredi giacque, come uomo spento ai sensi, o chiamato a sensi
diversi. Benefico giunge il conforto del sonno alle membra stanche, dono
prezioso agli umani travagli, balsamo alle ferite dell'anima; ma non
valeva meglio che nè la stanchezza, nè i travagli, nè le
ferite, opprimessero la nostra schiatta infelice? Non valeva meglio non
mandare il male, che apprestare il rimedio? Non basta il sonno che
dormiamo dentro il sepolcro? Perchè concludere ogni giorno di vita
con una notte di morte?--Audace! confinati dentro il cerchio della tua
imbecillità; che ti giova logorarti la mente dietro la scienza non
concessa ai tuoi sensi? Il tuo cervello non ha nervi che bastino; tu
morrai come l'avaro, consumato d'inedia sopra i tesori raccolti; più
veglierai a conseguire sapienza, più andrai convinto che nulla può
sapersi; arcane governano i mortali le leggi del firmamento, arcane
quelle della terra; il tuo simile, tu stesso sei un mistero a te
stesso.--E perchè dunque non concederci intelletto, non sensi capaci
a comprendere le maraviglie dell'universo? Perchè il nostro senno si
rassomiglia al sole della terra boreale? Il culto della ragione non deve
anteporsi alla idolatria della maraviglia? O s'era destino che nudi
d'ingegno dovessimo nascere, vivere, e morire, perchè ci tormenta una
volontà che mai non si appaga? perchè una sete che non si
estingue? perchè una curiosità che s'inferocisce contro quello che
non può penetrare? un desiderio che infuria in proporzione degli
impedimenti che trova? Io ne ho domandato alla gente che ha nome di
savia, e mi ha detto: pazienza,--ed io le ho risposto, che le selci
calpestate non mormorano, e se tali dovevano essere le nostre
condizioni, sarebbe stata misericordia tagliare le mani a Deucalione e
Pirra, che gittandole dietro le spalle, di pietre le convertirono in
uomini:¹ intanto questo sentimento di sapere, e la impotenza di
soddisfarlo, è un inferno anticipato, ed io per me ho speranza che
sopra ogni altra espiazione valga un giorno a farne perdonare di molti
peccati. Ma il sonno non si posa uguale su tutti, anzi egli veste la
sembianza che trova; puro comparisce soltanto sopra la faccia di
Manfredino; quivi non trova dolore nè gioia,--vi trova stanchezza, ed
egli si mostra sotto la forma del riposo, perchè il riposo è la
sua essenza: mesto, solenne, investe la fronte della Regina Elena, e, se
Dio mi perdoni, somiglia un esperimento che la morte imprenda a fare su
quel pallido volto:--nel punto in cui la vita si parte, e la morte
comincia, non atterrisce il suo aspetto sopra il sembiante della
bellezza; raccoglie invece gli ultimi fiati, lo estremo agitarsi dei
muscoli del labbro, e ride,--il riso del serpente però.... e poi
tocca la pelle, e la pelle si corrompe,--soffia sul corpo, e il verme si
affaccia dalle narici:--volgiamo lo sguardo dalla immagine della
putrefazione, assai tornerà amaro soffrirla,--non ci fermiamo a
meditarla. Qual è il sonno di Ghino? La battaglia: co' moti del
sopracciglio consente ai colpi che finge, e:--avanti!--grida, come nel
furore di un assalto,--avanti!--ad un tratto impallidisce, allunga la
mano in cerca dell'asta, e quasi si leva a sedere esclamando:--fate
testa, vituperati,--alla riscossa,--alla riscossa.... abbiatene cura,
egli è ferito.... io gli ho concesso sotto fede i quartieri.--Ricadde
riverso con le mani abbandonate, e mormorava tra i denti:--siatemi voi
testimoni ch'io giacqui morto d'una freccia nel petto.--Qual favella
potrebbe ridire come dorma Manfredi? Il suo non è sonno, ma
continuazione di spavento; inarca le membra irrigidite, quasi sorpreso
dall'atroce convulsione che chiamano _tetano_; stringe le pugna, ha i
capelli irti, spalanca gli occhi come ossesso, la pupilla gli trema;
dalla gola contratta, attenuata, pare che voglia ricavare un grido;
terribile è lo sforzo, ma si risolve in singhiozzo; muta positura,
rannicchia le membra, non altramente che se un cerchio di fiamme lo
circondasse; prorompe in guai lamentosi, ed ambe le mani con súbita
violenza percuote su la bocca, a modo di persona che si affanni impedire
un liquore che sgorga. Corre fama che Manfredi sognasse il giorno del
Giudizio finale, e che tratto innanzi all'Eterno Vendicatore sentisse le
sue colpe traboccare dalla lingua per accusarlo, e ch'egli nello
spaventevole caso facesse schermo con le mani, perchè non uscissero:
miserabile! Dio dove era quando ei le commise?

  ¹ Narra la Favola che dopo il diluvio di Deucalione e Pirra, i
    soli salvati, volendo ripopolare la terra, per consiglio di Terni,
    gittassero dietro le loro spalle l'ossa della Terra, che sono le
    pietre, e da quelle gittate dall'uomo nascessero uomini, e donne
    dalla donna.

Chi temerario ardisce avvicinarsi ai dormenti Reali? È odio, è
amore, che conduce i suoi passi? Egli si accosta furtivo, come
l'animale che la natura provvide di frode:--ma è la prima volta che
la virtù ha tolto la forma del vizio? la prima, che la innocenza fu
sospesa con un capestro in alto, perchè servisse di esempio ai
popoli? Il Cavaliere si accosta cauto, sommesso; punta su la terra il
calcio della lancia, vi si appoggia con la gravità del suo corpo, e
si ferma a vedere. Oh! bello splende il viso di amore quando il sogno
leggiadro lo accarezza con l'ultima piuma delle sue ale; bello quando
la speranza gli si diffonde intorno, come una atmosfera di profumo;
bello quando le labbra gli tremolano nel brivido della gioia: allora i
poeti fantasticano dell'alito delle Grazie che gli sommuovano i
capelli, perchè ad ogni soffio di vento variando forma appariscono
più vaghi; e fingono Silfi invisibili, i quali si aggirino per
l'aria alternando arcana armonia, che orecchie corporee non
distinguono, ma che scendendo soavemente nell'anima così la
innamorano di quello incanto: altre e più gioconde cose essi
immaginano, pure non vi ha poesia che giunga a narrare quello che
suscita l'aspetto della bella addormentata. Allorchè in placida
notte di estate l'orizzonte sereno quanto l'anima dell'innocente
ricopre la terra come di una insegna di gloria coll'azzurro purissimo,
trasparente, e le miriadi dei corpi celesti esaltano nella gioia della
luce la magnificenza del Creatore, allora soltanto l'anima commossa
può trovare immagine che si assomigli al volto della mesta
addormentata:--quale di questi due spettacoli racchiuda parte maggiore
di vaghezza, ella nè sa nè può ridire a sè stessa; ambedue
opera divina, ambedue sapienza dello innamorato pensiero di
Dio;--tacita, tacita, l'anima gode nella voluttà delle sue
sensazioni.

Sia che la mente di Yole, come quella che non v'era assuefatta, mal
potesse sopportare qualunque diletto, sia che veramente ne derivasse
uno di soverchio acuto dalla vicenda dei sogni, si sveglia improvvisa,
pronunziando:--«Rogiero.»--Rogiero appoggiato su l'asta le
comparisce dinanzi; ella si leva, e facendoglisi vicino gli parla
piacevole:--«Perchè t'involasti da noi? Il Re ha chiesto del
salvatore della sua figlia.»

«Oh! s'egli sapesse ch'io fui quegli che andai fino alle sponde
dell'Oglio per affrettargli contra quei nemici che adesso gl'investono
il Regno,--se a lui fosse noto che io sono un condannato, certo non
vorrebbe dimandare di me.»

«Tu facesti questa ingannato, nè vi sarebbe tuo mortale nemico
che non ti riputasse degno di pietà, non che di perdono: ma tu
spontaneo pel suo onore hai combattuto in campo chiuso a Benevento, tu
a rischio di vita l'hai ammonito di guardarsi dai traditori, tu lo hai
salvato a San Germano:--magnanimo è il cuore del Re.»

«E che giova scoprirmi? Premio di averi non attendo;--il premio che
desidero, il figlio di Federigo non sarà per concedermi mai:
lasciami dunque morire sconosciuto.»

«Ah tu non morrai!»

«Perchè dovrei vivere? Chi non anteporrebbe la morte onorata
alla vita di affanno? Forse non ho assai tempo sopportato la
esistenza? Io non voglio rinnuovare le antiche querele, ma ti giuro
pel tuo amore, che nella pianura di Benevento mi metterò in
abbandono del corpo.»

«E se tu parti, pensi ch'io vorrò rimanermi sola in questo
deserto di dolore?»

«Ed io forse te lo comando? No, Yole,--no; il cielo ci ha destinati
di fine immatura alla fossa.... io abborro le vanità degli augurii,
nondimeno questo fine mi predissero.... Muori, bella infelice,
poichè la morte sola può darti riposo.... e se mi prometti che
nell'ora nella quale i parenti lacrimosi circondando il tuo letto
saranno facili ad ogni inchiesta di te moribonda.--se mi prometti che
in segno del loro affetto tu li domanderai di essere tumulata nel mio
sepolcro,--allato alle mie ossa.... oh! ben tristo contento è
questo ch'io ti chiedo, Yole; pur l'unico che amo diffondere su
l'amarezza dei miei ultimi giorni.»

«Io aveva pensato a questo.»

«Un medesimo Angiolo dunque custodisce le nostre anime, e v'ispira
i medesimi pensieri.... Allora quando, scoperchiata l'arca nella quale
mi avrà deposto la pietà dei miei fratelli d'arme, ti caleranno
a dormire meco,--certo il mio cadavere stenderà le braccia per
darti un amplesso; egli riterrà il gelo della tomba, ma sarà
eterno....»

«Purchè eterno!--Dimmi, o caro, e lo sentirò io?--Tu lo
sentirai?»

«Ne ho interrogato i sepolcri, essi mi hanno risposto silenzio, e
tenebre.»

«E la seconda vita?--La desiderata....»

«Spera.--La giustizia non può riposare i perduti che mi hanno
trafitto la madre.... Se poi....»

«Tua madre trafitta! Oh! tu mai mi favellasti di tua madre....
Parlami.... parla di tua madre....»

«Chi ti parlò di mia madre? Taci, non dirlo.... sappi che forse
vivremo.... allora io te la farò conoscere.... chi sa che adesso
non ci preghi la pace, non ci guardi dall'alto, non pianga sopra di
noi, se gl'immortali piangono!... tu la conoscerai in Paradiso....
adesso non aggiungerne parola.... terrei per maledetto il cielo sotto
il quale fosse raccontato quel mistero di perfidia, e quasi tengo per
avvilito me stesso per averlo, ahi! troppo acerbamente,
conosciuto.»

«Io tacerò, mi allegrerò, poichè tu lo vuoi, nel segreto
desio di rivederla alla patria dei buoni: io ho inteso sovente tenere
proposito di premii futuri, di vita senza fine, di gioie che non si
distinguono con gli affanni, di seggi sereni sopra le tempeste, e ne
ho avuto fede con tutta l'ansia dell'anima mia....»

«E tu la custodisci come un tesoro.... ella ti
conforterà....»

«Se così non fosse, io mi dispererei: contenti per noi.
pregheremo pace per quelli che lasciamo su la terra,--per l'ottima
madre mia....»

«Pel generoso tuo padre....» E così discorrendo volse Rogiero
gli sguardi al luogo dove giaceva Manfredi.--Santa Maria!--Il Re,
seduto puntando la manca sul terreno, abbracciandosi con l'altra il
destro ginocchio, stava in ascolto col mento levato. Rogiero si mosse
per fuggire: Yole si resse ad un tronco.

«Fermati, Rogiero;» parlò Manfredi al fuggitivo «tu fuggi
invano; vieni, porgimi la destra, tanto che io possa alzarmi in
piedi.»

Rogiero obbediva. Manfredi continuava: «Tu ami? e ti par gioia?
Guarda,» e gli additava la sua reale famiglia prostesa su la terra
«coteste sono le gioie dell'amore.»

«Oh! se le avessi....» rispondeva Rogiero.

«Malediresti il giorno che ti salutarono col nome di padre.--Ma il
consiglio non giova, che noi fummo condannati _ab eterno_
all'angosciosa esperienza.... Vuoi ch'io mandi una fiera imprecazione
su la tua testa? e tu pure le abbi.... ma da cui? Tu hai levato lo
sguardo su la figlia del Re; sangue d'Imperatori è la figlia mia:
parla, quale è il tuo, Rogiero?»

«Il mio! Io non lo so.»

«Nessuno fu presente al tuo nascimento? nessuno ti nudriva? nessuno
ti educava? Sopra ogni altro animale lo infante, abbandonato ai suoi
bisogni, muore.»

«Mia madre trafitta di piaga insanabile mi partoriva;--innanzi
tempo il dolore mi spingeva fuori dell'utero materno.... fu levatrice
il sicario.... Oh! per pietà, mio dolce Signore, lasciate la storia
della mia vita nell'oscurità della colpa; a me pure non ne sono
manifesti che alcuni brani sanguinosi; nondimeno tanto ne conosco, da
giurarvi, che per mia stirpe non sarebbe contaminata la divisa che mi
concedeste a Benevento.»

«E il nome di tua madre?»

«Re, lo saprete, quando mi sarà gloria rammentarlo.»

«Tu prima mi hai tradito, poi hai combattuto i miei traditori:
perchè ti fu più facile commettere il fallo, che emendarlo?»

«Io vidi il vostro fratello....»

«Qual fratello?»

«Enrico _lo Sciancato_, e me lo mostrava il Caserta....»

«Dove lo vedesti? Vive egli?...»

«Moriva tra le mie braccia consumato dall'angoscia, perduto nello
intelletto, miserabile monumento di persecuzione e di pietà. Mi
dissero ch'io nasceva da lui, ed ei mi riconobbe; mi sacramentarono
voi essere il suo carnefice, ed egli pure lo affermava; forse così
lo educarono a credere chi sa da quanti anni, ed io....»

«Tu corresti a vendicarlo, e bene operasti; nel desiderio, non
già nel mezzo: non avevi allato il pugnale? perchè andare per la
vendetta a chiamare lo straniero fino a Cremona?»

«Ragiona ella la passione? S'io avessi serbato volontà su i miei
moti, mi avrebbero così vilmente ingannato? Allorquando la mente
imprendeva a meditare le sofferte sventure, una voce, che pareva
dipartirsi dal cielo, mi rampognava, gridando: _Rammentati di tuo
padre_--Oh! io sono più infelice che reo. All'Abbazia di San
Vittorino nella Campagna Romana un antico vassallo della mia famiglia,
il trucidatore di mia madre, mi manifestava la frode....»

«Perchè incitarti contro di me? perchè hanno pervertito il
cuore del fedele? commesso la mia rovina al braccio che mi difendeva?
mancavano scellerati in questa terra? Questo è caso stupendo, nè
io giungo a penetrarlo. E tu allora che facesti?»

«Piansi di rabbia, e mi affrettai a salvare il mio buon Signore.
Arrestato presso Santa Agata dei Goti, mi trasportarono a Benevento, e
mi gettarono entro una prigione, dove traverso una porta udii
congiurare la vostra rovina: non pertanto io era condannato a morirvi
di fame, se altri non mi soccorreva.... la vostra nobile figlia mi
soccorreva....»

«E a te chi fu che lo disse?»

«Molte sono le vie del Signore, o padre mio: uno spione del
Caserta, sorpreso notturno nelle più secrete stanze del reale
palazzo, mi svelava il delitto....»

«Allora io venni a farvelo manifesto....»

«Perchè non dirmi i nomi? a qual pro il misero?»

«Messere lo Re, quantunque Rinaldo di Aquino mi abbia fatto
colpevole, e molte volte insidiato la vita, tuttavolta mi è
congiunto per sangue:--il tempo chiarirà questo fatto. Io condussi
in quella notte la vostra sacra persona al luogo della congiura,
perchè non mi venne in pensiero modo migliore; sperava la mia
fedeltà avrebbe fatto perdonare la perfidia del congiunto. Piacque
al cielo ordinare altramente: allora desiderai risparmiargli la
vergogna; lo ammonii con lettere segrete a ritrarre il passo dal turpe
sentiero:--stolto! credei l'uomo fosse capace di ravvedimento. Attesi
alla morte del Cerra, egli era il più pericoloso di tutti; così
sperai spaventare i rimanenti congiurati, e voi, mio Re, avvisare del
pericolo.»

«E sono fuggiti tutti i traditori?»

«Tutti, almeno quelli ch'io conosceva, si rifugiavano col Caserta
nei castelli della frontiera.»

«Tu hai fatto il bene di tua volontà, il male per colpa altrui;
molti furono i pericoli che corresti per noi; tu meriti un premio,
l'avrai.»

«O mio dolce Signore, io null'altro desidero che morire per voi:
serbate la mercede ad altri che se la fanno cagione dell'opere; io non
vorrei che un premio, e questo conosco troppo alto per me, nè
già oso chiederlo. Volgono anni molti che io amo Yole coll'amore
dei Santi; per lei vinsi al torneo della vostra coronazione, per lei
divenni gagliardo, per lei cortese; ogni atto, ogni pensiero, fu per
piacere a lei; io non posso bandire adesso la sua immagine dal cuore,
nè ella lo può; noi ci amiamo di amor disperato, nè vogliamo
essere uniti che dentro il sepolcro.»

«No, siatelo in vita: tu l'hai salvata, ella è cosa tua. Bada a
quello che fai prima di accettarla,» disse Manfredi sorridendo;
«bada, è dono funesto quello che ti faccio.»

«Tra le braccia di Yole cantici celesti mi parranno anche le strida
dei dannati.»

«In verità, nessuno può fuggire il suo destino. Dammi la
destra, Rogiero, e tu, Yole, la tua.»--Tale favellando, Manfredi
aveva preso le mani dei giovani tra le sue, e le accostava: il fuoco
presso ad estinguersi mandava, lambendo ad ora ad ora gli arsi tizzi,
una cotal luce incerta di colore azzurro, appunto come crede la gente
che divenga allorquando qualche ombra di trapassato striscia vicino
alle lampade, e va via;--già le estremità delle dita si
toccavano,--già s'impalmano;--rifulge improvvisa la fiamma, e si
diffonde su la faccia di Rogiero:--noi lo abbiamo riferito, ella
spirava tristezza, il tempo aveva numerato su la fronte dell'infelice
gli anni che vide trascorrere; pure una volta compariva leggiadro di
bel vermiglio, adesso bianco, la guancia arida.--Manfredi vide, o gli
parve vedere, la imagine viva di una defunta ch'egli non rammentava
senza gemere; e se la memoria di lei lo sorprendeva a mezzo della gaia
canzone, le note gli spiravano sopra le labbra, e la mano errava
ignara di quello che facesse: allontanava con impeto i giovani, e
tenendoli discosti per quanto giungevano le sue braccia, gridava:
«Io vi giuro pe' Santi del Paradiso che voi non potete essere mai
uniti!»

Levarono gl'innamorati un urlo di terrore, e anelanti si apprestavano
a domandarne la cagione, quando li percosse uno scalpitare di cavalli
sempre crescente, e un gran lume che veniva dalla via battuta che
circondava la selva.

«Siamo inseguiti!»--esclama Manfredi, e atteggiandosi a
disperata difesa si pone a schermo dei suoi.

«Siamo inseguiti!»--esclama Rogiero, e ricoprendo Yole del suo
corpo, tenta col calcio dell'asta Ghino, che dormiva gagliardamente;
questi si scuote grondante sudore, si pone le mani al collo, e tasta
più volte.

«Ah!» prorompeva tra lieto e pauroso «dunque non è vero
che me l'abbiano tagliata? fu mal sogno quello che me la fece vedere
confitta al patibolo?»

«Ghino? i nemici....»--ripeteva Rogiero.

«Ove sono eglino?»

«Là, su la via.»

«Io non vedo che lumi, Santo Ambrogio! i lumi non sono nemici;
potrebbero essere anche amici; vado ad esplorare.» E balzando in
piedi staccò l'elmo dal pino, se lo allacciò alla testa, prese
l'asta, e s'incamminò fuori della selva.

«Voi non andrete solo,» disse Manfredi «io vo' esser con
voi.»

«Il ben venuto, Messere.»

«Nè io rimarrò:» parlava Rogiero «non siamo noi
fratelli di arme, messer Ghino?»

«E a voi pure ben venuto: andiamo con l'aiuto dei Santi:--fate piano,
che il fanciullo non si svegli, e non prenda paura;»--ammonì
passando presso Manfredino, e gran tratto di via percorse su le punte
dei piedi: lo imitavano i sorvegnenti; Manfredi represse fino un sospiro
che gli si levò dal cuore profondo.

Giungevano alle ultime piante della foresta; videro una grossa squadra
di Saraceni che portando moltissimi arbusti di pino accesi spandevano
quel chiarore: guardarono più attenti, e riconobbero l'Amira Sidi
Jussuff, e il Conte Giordano d'Angalone, che, montati sopra corsieri
di battaglia, s'inoltravano abbattuti, senza dirsi parola. Arrivati
che furono presso al luogo dove si celava Manfredi:--«Messer
Conte,» domandò l'Amira a Giordano «guarda un po' in cortesia
se il terreno parti piano a bastanza per potervi combattere.»

«Jussuff, e' par fatto a posta; nondimeno ti prego, aspetta che
aggiorni.»

«Ho io indugiato a commettere il peccato? perchè indugierò ad
emendarlo? O buon Manfredi, dove ti potrà raggiungere il tuo servo
fedele?»

«Sia fatta la tua volontà; tanto, la morte non potrà
giungermi amara quanto la novella che per mia colpa Manfredi ha
perduto San Germano, e forse anche il Regno.»

«Dio nol voglia, Conte Giordano....»

«E dì, Amira; sai tu che la reale famiglia sia salva?»

«Sì, puoi morire con questa certezza.»

«Amira, ascoltami: nè io, nè tu, sappiamo su quale delle
nostre spade adesso si posi la morte: non già per minacciarti,
vedi, ma non potresti essere tu l'ucciso?»

«Guarderò di non esserlo; pure potrei.»

«E allora chi condurrà a Manfredi questa tua squadra quasi
intatta, che di sì opportuno sussidio gli tornerebbe nei casi
presenti? Se ami giovargli vivo, già non vorrai danneggiarlo
morto!»

«Tu favelli le parole del savio, Conte Giordano: così tu avessi
favellato sempre! Omar, Hussein, Soraka!» appellava Jussuff rivolto
allo squadrone: i chiamati uscirono di fila, ed egli comandò loro:
«per la fede che vi tiene soggetti a me vostro Amira v'impongo, che
se questo Cavaliere mi ammazzerà, voi vogliate obbedirgli,
finchè vi conduca a Manfredi, come se fosse mio figlio.... Oh! il
mio figlio! raccomandatelo a Zuleika, e ditele che gli sia buona
madre.... Soraka, e tu aggiungi da mia parte, che abbia cura di Zekim,
il cane del mio amore, e divida il suo pane con Borak, il compagno
delle mie battaglie, finchè piaccia al Profeta di chiamarlo ad
altra vita.... Povero Borak!» aggiunse lisciando il suo cavallo
lungo il collo «per te non si farà luogo in Paradiso; ormai è
destinato; sette sole saranno le bestie che entreranno lassù....
veramente tu sei più bello dell'asino di Aazi, e del bove di Sidi
Musa, quando anche fossero bianchi quanto la brinata.... Oh, povero
Borak! non ti rivedrò in Paradiso, tu sei diseredato.» Dopo
nuove carezze, traendo la briglia, lo spinse di un lancio verso il
Conte Giordano, e: «Messere,» gli disse «il mio testamento
è finito: tu hai nulla a disporre?»

«Nulla fuor che tu dica a Manfredi, che il mio ultimo sospiro fu
per Dio, il penultimo per lui.»

«Allora possiamo cominciare.»--E sguainò ognuno la spada, e
prese campo per precipitarsi più impetuoso contro l'avversario.

«Abbasso le spade!--si accosta il Re.»--Questa voce usciva dal
maschio petto di Ghino mentre i due Cavalieri stavano per ferirsi, i
quali maravigliati voltandosi videro Manfredi che si affrettava a gran
passo verso di loro. Smontarono ambedue da cavallo, e con essi i
circostanti Saraceni. Jussuff giunto allato di Manfredi si prostrò,
secondo il costume degli Orientali, toccando con la barba la polvere,
e lamentandosi in suono di pianto diceva: «Deh! fammi degno, o
Signore, d'essere da te calpestato; tanto cadde basso l'anima mia, che
porta invidia alla morte della cosa strisciante!»

Per altra parte il Conte Giordano, atteggiato ad ossequio, preso la
mano di Manfredi, e accostandosela alla bocca la baciava sospirando:
«O mio buon Re!...»

«Io ti ho tradito,» riprendeva Jussuff «come Iscariotto
tradiva il figlio di Maria, nè il mio supplizio sarà niente meno
terribile.»

Racconta la Cronaca che Manfredi in altri tempi avrebbe tenuto la
promessa a Jussuff di trargli il cuore dal petto, e sbatterglielo su
per le guance; ma che essendo venuta la stretta, nella quale gli era
di mestieri condursi non come voleva, sì bene come poteva, gli
ponesse la destra sul capo, e favellasse in questa sentenza: «La
freccia se non è lanciata non piaga, l'arco se non è teso non
iscaglia; ben sei tu stato la freccia, ma il colpo non si partiva da
te. Sta scritto nel libro della legge, che l'uomo non può mutare in
bianco un capello nero;¹ anzi noi pensiamo che non varrebbe a
svellerlo nemmeno, laddove i destini non lo consentissero: già da
tempo che non ha misura, l'influenza dei pianeti aveva decretato
quello che adesso si è compíto; sta di buon animo; se la fortuna
di Manfredi può ristorarsi, sarà ristorata;--se credi di averne
offesi, noi ti perdoniamo.»

  ¹ Neque per caput tuum juraveris, quia non potes unum capillum
    album facere aut nigrum. _(Ev. S. Mat., 5.)_

«Generoso! E a te conceda Dio grande che le bandiere dei tuoi
nemici ti formino la tenda che ti ripari dal sole di state;--te
esaltino le anime dei profeti su la testa di Carlo.»

«Lo speriamo.... dalla spada però.»

«Sì, speralo, perchè ogni buona opera dee ricevere il suo
premio anche in terra, e tu ne avanzi molti di questi premii. Or via,
lasciami condurre a fine il mio duello, e poi mi ti porrò al fianco
per non lasciarti mai più.--Fedeli,» aggiunse parlando ai
Saraceni «s'io muoio, questi è il signor vostro; ogni ferita che
darete in pro suo, sarà la migliore esequie che farete al mio
spirito. A noi, d'Angalone.»--E levò la scimitarra.

«Fermati, Amira, tu fai torto alla persona del Re!» esclamò,
interponendosi, Manfredi.

«Oh! fatti in là, pel capo di tuo padre, Manfredi: non volere
ch'io maledica il momento che ho veduto il volto del mio Muleasso.»

«Lasciate, Messer lo Re,» supplicava il d'Angalone; «egli ha
sete del mio sangue.»

«Non del tuo sangue, Conte; della mia fama.»

«Tu ci hai perduto una terra bene afforzata, e bella; ora ne
vorresti perdere l'amico. Sappi, Jussuff, che senza sgridarti con la
più leggiera rampogna, noi potremmo perdere tre, dieci città, il
Regno, non l'amico della nostra fanciullezza.»

«Nè io ti fui meno amico di Giordano: tu vuoi che la infamia mi
copra; ebbene ella coprirà la mia fossa, non già la mia
vita.»--Ed altamente crucciato trasse un pugnale ritorto, levando
il braccio quanto meglio poteva, per fendersi il seno. D'Angalone, che
gli stava vicino, fu presto a trattenerglielo quando scendeva,
gridandogli nell'orecchio: «Se il Profeta ti aiuti, tu commetti
peccato.»

«Insegnami dunque la via di non commetterlo!»

«Noi te la insegneremo,» disse Manfredi; «già altra volta
ti pregammo a differire la querela; differire non significa rimettere,
e tu potrai riassumerla, allorchè avrà disperso questo turbine
colui che lo ha ragunato.»

«Ben lo farei, perchè tu ne fossi contento; ma io non ne conosco
esempio nelle storie che mi hanno narrato i miei padri.»

«E sì che se ne trovano meglio di cento! Mollak,» chiamò
Manfredi «non è egli vero che nelle vostre storie occorrono
molti esempii di Amiri, e di Raiah, che hanno differito il duello
secondo la volontà dei loro signori?»

Erano i Mollak nei campi dei Saraceni quello che sono nei nostri i
cappellani militari, se non che avevano alcuni attributi più
cospicui, come essere consultati negli affari civili, sedere secondi
dopo gli Amiri nelle assemblee militari, avere reputazione di
sapienti, e molti altri che troppo vi vorrebbe a numerare. Il chiamato
mostrava forse sessanta anni; venerando per pelame bianchissimo, di
volto era acceso, gli occhi avea piccoli, neri però, luccicanti
come due prugnole; rideva sovente, ma quel sorriso era fitto, nè
compariva per altro segno che pel tremolio dei peli che in copia gli
coprivano le labbra; e siccome cotesto moto poteva derivare dal più
leggiero alitare dell'aria, così egli rideva sul viso alla gente
senza che essa se lo pensasse: pel resto, maliziato quanto un mercante
che vende, attento quanto un giudeo che compra, ipocrita un po' meno
dei _galantuomini_ del secolo diciannovesimo: e pure i Saraceni lo
reputavano un Santo; e s'egli avesse raccontato loro che la sua mula
gli aveva tenuto proposito di teologia, glielo avrebbero creduto; se
affermato essere uno dei sette dormienti che dormirono settemila anni,
sette giorni, sette ore e un quarto, glielo credevano; se prometteva
di staccare il sole dal firmamento, gli si gittavano ai piedi a
misericordia che nol facesse, perchè ne sarebbero rimasti
inceneriti.--Poveri Infedeli! Dio sa quanti Santi di questa forma
venerano adesso nelle loro meschite.--Udita che ebbe costui la
chiamata, piegando in croce le mani sul petto profondamente si
curvò, e disse: «Il Signore illumini i passi della tua gloria:
molti sono nelle storie gli esempi che richiedi.»

«Io non gli ho mai saputi.» interruppe l'Amira.

«Questo deriva da non averli imparati. Raccontano le storie dei
vecchi tempi, come quando Ruggero il Normanno ci rapì la signoria
di Sicilia, un Roberto Sorlone suo prossimo consorte s'inoltrasse con
una masnada di cavalieri sino nel contado di Gerami. Ora dominava in
Gerami il lodato nella fede del Profeta Sidi Cheik-Alì padre della
bella Zulema: era Zulema l'amore di Ibrahim, e di Rhèdi; giovani
principali nelle loro tribù, pari di anni, di vigoria, e di valore;
ambedue facevano risuonare la notte serena delle loro arpe armoniose,
ambedue cantavano sotto le gelosie della bella Zulema, e lei dicevano
corona di vita, pupilla degli occhi, e sè stessi assomigliavano
agli usignuoli innamorati della rosa della valle, e scongiuravano la
vergine a risguardarìi almeno nello estremo sospiro, che divisavano
esalare sotto il suo balcone. La notte che precedeva la battaglia
cadde un ranuncolo, il quale tra i fiori meglio si assomiglia al
cuore; ognuno lo voleva intero per sè; vennero a contesa: se non
accorreva la gente, si finivano a morsi: Ibrahim spezzò l'arpa sul
capo di Rhèdi; convennero di andare per le spade, e conoscere a cui
sarebbe rimasta la vergine. Sidi Cheik-Alì gli accolse nella sua
dimora, e chiamava la figlia: venne la bella dall'occhio di gazzella,
dal piè di cervo, vermiglia sì come il granato; a lei trascorsero
gli sguardi, a lei i pensieri di tutti: fremevano di piacere alla vista
dell'_huris_ mortale.--Costei, parlò accennandola Cheik, non sarà
per cui uccide il mio amico; sposo di mia figlia si dirà quello che
nella vicina battaglia ucciderà il mio nemico.--E sparve Zulema, e
con essa la luce dagli occhi dei giovani.--Là presso la rupe che
adesso chiamano di Sorlone, il primo albore del giorno vide due
cavalieri in agguato; si avanzarono i Normanni, gli precedeva Roberto,
splendido di armatura di oro, e di piume rosse; gli si avventarono i due
cavalieri nascosti:--il sangue di Sorlone ha dato il nome alla rupe.»
«Chi dei due l'uccise, Ibrahim o Rhèdi?» domandarono a un
tratto Jussuff e Ghino, che attentissimi ascoltavano.

«Ambedue lo ferirono. Rhèdi rimase sul campo; Ibrahim tutto
sanguinoso tagliò la testa di Roberto, e senza pure fermarsi a
fasciare le ferite corse a deporla ai piedi di Zulema; quivi cadde, e
andò a dimorare co' suoi maggiori. Pe' savii della guerra fu
dichiarato vincitore Ibrahim.»

«Furono ingiusti! » esclamò Ghino «pari il coraggio, pari
la gagliardia; un dito di ferro che più o meno s'incarni, non vale
a distinguere il prode.»

«Tu hai proferito la parola del savio,» fissandolo con lieta
faccia disse Jussuff a Ghino; «io consento teco....» «Ed io
te ne dirò delle altre, se tu vorrai ascoltarle: tu devi, se sei
quel Cavaliere dabbene che affermi, e pel quale ti tengo, donare la
tua querela al Re Manfredi; il prò di tutti anteponi al tuo: che
cosa pensi che sia il malvagio? un uomo che procaccia il suo bene col
danno altrui.... e poi tu non sacrifichi cosa di conto nel differire
l'abbattimento; questo ti afferma il tuo Mollak; questo ti giuro
ancora io, che spesso intervenni a duelli per le terre d'Italia.»

«Tu lo giuri, straniero?»

«Per la mia fede,» rispose Ghino, toccandosi la fronte, «io
non ti vorrei disonorato, neppure se la tua infamia fosse la mia
gloria.»

«Ti credo, la tua parmi faccia di uomo giusto;»--soggiunse
l'Amira, e con la punta del pugnale s'incise a fior di pelle la mano
manca, e ne scosse alquante stille di sangue.--«Serbami, o
terra,» imprecava «questo mio sangue, e la mia vergogna; se io
un giorno verrò a domandartelo pagandoti in cambio quello del mio
offensore, tu me lo renderai incontaminato; ma se io muoio senza
ricattarlo, tu me lo verserai intorno alle tempie, e fa che sia un
testimonio contro di me nel giorno del Giudizio. Conte Giordano
d'Angalone, non ti guardare da me nè dai miei; noi torniamo amici,
finchè il Re ha nemici.»

«Come vi piace, Jussuff.»

«Ora andiamo ad assicurare i nostri,» comandava Manfredi «che
stanno con sospetto.»--E fu eseguito il comando. Per quella notte
non si dormì più; si rinnovarono i fuochi, si alternarono dei
bei ragionamenti. Manfredi sedè in mezzo a Jussuff, e al
d'Angalone: la Regina gli accarezzava, Yole gli accolse con un
sorriso, e si chiamarono paghi. L'Amira interrogato del come si
trovasse col Conte Giordano, rispondeva: «E' dovete sapere, o miei
signori, che dopo la chiamata del Re, che passò di sotto ai miei
quartieri, io mi distesi sul terreno a piangere sopra la passata e la
presente sventura; allorchè udii un susurro che parve trapelare dal
pavimento, e bisbigliarmi agli orecchi:--I Provenzali ardono il
palazzo del Re, quivi è rinchiuso il tuo offensore; s'ei muore, chi
può sanarti dal vituperio? hai dimenticato, che il rimedio sta
nella mano di colui che ti ha piagato?--Mi levai subitamente, e pensai
che se io non poteva combattere, sì lo potevano i miei; li feci
armare, e li condussi al palazzo. Io non so che si avessero i nemici;
stavano fermi, come se temessero di andare oltre; li percotemmo, gli
sbandammo, entrammo nelle carceri, e ne estraemmo il Conte Giordano;
lo avvisava del caso pel quale era accorso a salvarlo, egli mi rispose
piangendo:--da che Manfredi fuggiva per perfidia dei suoi, non voler
vivere per sopportarne i rimproveri, odiare la vita.--Io gli
soggiunsi, che pur troppo aveva ragione, ma ch'io non avea potuto
prevenire il fatto; solo vendicarlo; e averlo vendicato; che le teste
dei Raiah preposti al presidio della porta del Rapido erano state
sepolte in luogo separato dai corpi loro;--gli detti arme e destriero,
ed uscimmo. I Provenzali già occupavano il palazzo.»

«E lo ardevano essi?»--domandò Manfredi.

«No, lo serbavano perchè Carlo vi pernottasse.»

«O Carlo! tu già godi il contento di riposare le membra nel
letto dei vinti;--tu lo godi, ma ne attesto il mondo se questo ti
avviene per la viltà del figlio di Federigo!»

«Ormai che Carlo ha posto piede nel Regno, qualche cosa dobbiamo
concedergli.»

«Che hai detto, Amira? Sono uscite dalle tue labbra queste
parole?»

«Sì certo: non è egli Cristiano? non vorrai tu dargli la
terra per seppellirlo?»

«Che io non sia costretto a concedergli altro!--Prosegui il
racconto.»

«Egli è finito, mio Re: noi provammo di tentare anche una volta
la fortuna; i nemici stavano avvisati; molti uccidemmo, molti anche
dei nostri rimasero uccisi: due volte, mentre io correndo senza spada
per la mischia animava i Saraceni, d'Angalone mi coprì con lo
scudo, e mi difese dai colpi nemici.--Giordano, io ti dissi grazie
allora, e te lo dico adesso, e sempre.--Intanto i Provenzali
circuivano la terra, e le prime fanterie cominciavano a spuntare dalla
porta d'Abruzzo; correvamo pericolo d'essere tolti nel mezzo; sapeva
salvo Manfredi, meco traeva il d'Angalone; quello che desiderava,
aveva conseguíto; serrammo le file, e prostrando quanto si oppose
al nostro cammino, ci mettemmo per l'aperta campagna.»

Le ombre dalla parte di Oriente cominciavano a diradarsi, riprendevano
gli oggetti la forma distinta, e il giorno era vicino a comparire. Le
trombe accennavano la partenza; il Re montò in sella; lo
seguitavano i suoi; valicarono poco lontano dal luogo dove avevano
passato la notte il fiume Volturno, e per la via di Telese si
avvicinarono a Benevento. Corre la fama, che Manfredi, vedendosi
attorno tanta gente fedele, ripetesse sovente questa sentenza:
«Anche la sventura è buona a qualche cosa; io ho provato questa
gente, e mi posso affidare in lei quanto alla lama della mia
spada.»




CAPITOLO VENTESIMOTTAVO.

LA BATTAGLIA DI BENEVENTO.

                Ma egli ha più paura della vergognosa vita, che della
                bella morte, e si mette tutto nella misericordia del
                Signore, e alza la mano destra, e si segna, e poi
                piglia la spada, e volta il cavallo......
                                          TAVOLA ROTONDA, C. 28.


Impari la morte il Re che fu vinto. Il giorno destinato per termine
della gloria, quel giorno medesimo, chiuda le palpebre della sua vita
mortale. Dal campo dove lo prostra la forza si guardi attorno,--qual
lusinga lo affida? Non v'è braccio che si levi per lui:--il pianto
dei desolati, che si smarrisce nell'urlo della vittoria, adesso solo,
insistente, gli si addensa su l'anima. Se tra lo avvilimento di essere
tratto in trionfo dietro il carro del vincitore, e la morte, ha scelto
lo avvilimento, meno che rettili furono coloro che lo sopportarono, e
la corona cadde su la sua testa come l'embrice su quella di Pirro. Non
si sgomenta allo insulto dei codardi che accorrono quasi a festa per
riparare all'ombra della grande caduta?--Non lo tormentano gli scherni
dei traditori?--Al confine della sua meditazione non vede una vendetta
di sangue, una giustizia sul taglio della spada nemica?--Il vincitore
teme Dio,--non lo ucciderà: conviene all'uomo dal quale pendevano
milioni dei suoi simili gustare l'amarezza di anelare dubbioso per lo
suo stesso destino?--L'ora di passione è trascorsa;--mezza
eternità non varrebbe a compensarla!.... egli vivrà;--ecco la
vita:--fisso sopra un diadema, che non ornerà più le sue tempie,
nè quelle dei suoi figli, struggersi al suo fulgore a mano a mano
che si accosta al tramonto della speranza, sì come il fiore, che fu
ninfa, alla vicenda quotidiana dell'astro che ha cessato di
amarla:¹--avventarsi contro i ferri della carcere, e morderli, e
insanguinarli, e stramazzare rifinito di forza nella disperazione
della impotenza;--i suoi pensieri sono l'avvoltoio che gli divora le
viscere;--teme ogni cibo;--non beve liquore se prima non lo abbia
speculato traverso la luce;--non avventura un passo, se non tenta il
luogo dove gli è forza posare il piede;--lo spaventa la propria
ombra.... E i figli?--non può vederli, nè vuole.--A che
ammaestrarli? A maledire?--Più della sua voce li farà
germogliare nell'odio il cigolío delle catene.--Mostrerà loro la
sua miseria?--Non basta quella che sopportano?--Ascolterà
rinfacciarsi la vita,--la truce rampogna di averli generati?--Egli non
vuol vedere nè udire anima viva; feroce gli è diventata la
mente, l'intelletto salvatico:--nessuno gli parla, e pure tende
l'orecchio a voci sconosciute, e risponde. Sovente una rimembranza di
vittoria gl'infiamma lo sguardo: allo improvviso lo abbassa, e mira un
oggetto tanto miserabile, che la stessa pietà non ha lagrime per
compiangerlo: gli si chiude lo sguardo, e il cuore con quello, così
stretto, che non lascia sfuggire un sospiro.--Sempre esalta la
vittoria, quantunque talvolta la disfatta non avvilisca; ma l'anima di
bronzo che può sopravviverle ha pagato pena maggiore del premio
della corona.

  ¹ Clizia mutata in girasole

Io non impreco nessuno, e se una cenere si commuovesse entro la sua
cella di morte, e mandasse un singulto.... oh! io non ho voluto
aggravare la mano sul Grande che dorme.--Stanno oltre il sepolcro nel
giudizio di Dio il premio e la pena, nè la polvere ardisce usurpare
l'attributo dell'Onnipotente.--Quali occhi però seguiranno il
Fatale fino alla tomba senza versare lagrime di sangue?--Circondato di
fastidii che avvelenano la esistenza e non danno il conforto delle
grandi sventure,--di gemere senza vergogna,--trafitto di minutissime
piaghe dalle quali a goccia a goccia distilla la vita,--costretto a
limosinare il pane presso coloro che pel battesimo di fuoco erano
della sua religione....¹ che il cielo sia pio di riposo alla cenere
del guerriero! dovea egli,--lo immenso, che aveva riguardato
l'universo da tale una altezza, che appena a mente umana è concesso
immaginare,--lasciarsi cadere sì basso? A lui stava morire per la
spada dei valorosi, o per la perfidia della paura.--_Non si aspettava
a questo?_² E che? colui che indagava schernendo i vizii degli
uomini, e li toglieva a fondamento della propria potenza, doveva
affidarsi alla virtù? Nell'Isola, dove, nuovo Prometeo, lo
incatenava un odio profondo, ogni giorno lo infiammato pianeta
gl'insegnava come doveva morire l'uomo, che non aveva conosciuto pari
sopra la terra, però che quivi il sole, non come nei nostri climi,
sia accompagnato dal mesto crepuscolo, ma comparisca improvviso nella
pienezza dei raggi sul firmamento, ed improvviso lo abbandoni allo
impero dell'ombre.³--Chi sa quante volte lo austero contemplando
l'esempio solenne piegò vinto la faccia, e mormorò parole di
dolore su la perduta occasione!--Oh! se, cadendo, in lui non fosse
scomparso l'eroe! Oh! s'egli stesso non avesse svelato il segreto che
il suo cuore era composto di creta come negli altri figliuoli di
Adamo! Se la curva della sua vita non impallidisse al tramonto, e
sfolgorante di luce si perdesse nel silenzio dei secoli,--qual nato di
donna potremmo noi assomigliargli?--La Sapienza che governa il creato
forse volle mostrare con la vicenda solenne gli estremi dove può
suscitare e deprimere un'anima immortale? Se così è, mi
spavento, perchè l'ultima azione di Colui, che poteva numerare con
le vittorie i suoi anni, la gente maravigliata non distingue ancora se
deve attribuirla a costanza, o a viltà.*

  ¹ J'irai demander la soupe à ces braves: quiconque a reçu le
    baptême de feu est de ma religion. (_Parole di Napoleone_.)

  ² Parole di Napoleone nel lasciare il Bellerofonte.

  ³ Description de l'Ile Sainte-Hélène.

  * To die a prince--or live a slave--Thy choice is most ignobly
    brave!  (Byron's _Ode to Napoleon Bonaparte_.)

                       --------

Bello è il riposo della vittoria, più bello il mattino salutato
dal cupido pensiero dell'acquisto. Il destinato Carlo appena vede
diradarsi le tenebre, chiamati gli scudieri, si fa allacciare la
più grave armatura; mille volte li rimprovera della lentezza loro,
ed egli con la sua impazienza dà cagione alla dimora; alla fine
esce armato; lo antiguardo lo aspettava su la piazza in punto di
mettersi in cammino; accolto con iterati applausi, risponde modesto:
«Non abbiamo anche vinto.»

Gli ordini sono trasmessi, il muoversi cominciato: Carlo perseguita il
suo emulo con la cupidigia del falco pellegrino, che ben egli sapeva,
spesso la fortuna cangiarsi per un'ora d'accidia,--e i suoi
invincibili su quei primi bollori;--non prese la strada di Capua, come
troppo lunga; se ne andò a Venafro, dove, conoscendo che i fatti
incomportabili commessi a San Germano gli alienavano i Napolitani, ed
anche con istanti rimostranze ammonito dal Legato apostolico, volle
riparare al fallo: accolse pertanto con lieta fronte i Sindaci della
città, e li rimandò con parole amorevoli;--andassero,--impose
loro,--e dicessero ai cittadini, lui essere venuto per ristorare la
religione, e per vendicarli:--poi si condusse a visitare le ossa di
Santo Nicandro martire, dalle quali ogni anno scaturisce un
chiarissimo liquore chiamato _manna_;--veramente quando egli le
visitò, il tempo del miracolo era scorso; nondimeno, tanto seppe il
Conte di Provenza pregare il Legato Pignattelli, e il Pignattelli i
Monaci, e i Monaci il Santo, ch'ei fu contento per quella volta di
rinnuovarlo fuori di stagione. Non è da dirsi se la gente ne
levasse rumore: rammentava, Manfredi mai aver visitato quelle sante
ossa, mai per lui avere rinnuovato il prodigio; essere Carlo vero
Cristiano, verace campione della Chiesa,--Manfredi eretico, non volere
più oltre sopportare il dominio di un reprobo, di uno scomunicato.
Lo Arcivescovo di Cosenza levava l'interdetto, e profondeva a piena
mano i tesori delle indulgenze; le campane suonavano a gloria; i preti
chiamavano il nuovo signore--braccio di Giuda;--i cittadini,--invitto
e cortese;--pochi più prudenti tacevano, e aspettavano.--Il breve
soggiorno che fece a Venafro sanò la sinistra impressione derivata
da San Germano, assicurò i dubbiosi, confermò i parteggianti:
abbandonava questa città accompagnato dai voti della gente, e
costeggiava il fiume Volturno verso la foce per valicarlo con maggiore
sicurezza, perchè sebbene egli s'ingrossi quanto meglio va
accostandosi al mare, nondimeno scorre sempre meno rapido che sopra
Venafro, a cagione che quivi sboccano quasi istantanei i fiumi
Cavaliere, e della Lorda. Tentato il luogo più agevole a guadarsi,
già erano passate alcune compagnie, quando Carlo osservò per la
campagna una brigata, che faceva sembianza di piegare alla sua volta;
soprastette dubbioso di ciò che fosse per recare; allorchè fu
vicina, dalle vesti e dalle insegne conobbe essere ambasciatori:
venivano deputati a rendere omaggio al Signore da Rocca d'Arce, Rocca
d'Evandro, Rocca Guglielma, Rocca Monfina. Castel Forte, e da molte
altre terre, parte spontanei, parte istigati dal Conte Rinaldo. Furono
i ben venuti: Carlo li confortò a rimanersi fedeli; aggiunse non
volere introdurre presidii entro le rôcche per non mostrare di aver
sospetta la fede loro;--in sostanza, perchè non voleva diminuire
l'esercito, e divisava di assaltare grosso il nemico, conoscendo che
nella condizione in cui si erano ridotti gli eventi, la somma delle
cose pendeva dallo esito di una battaglia;--poi gli accomiatò
pieni, egli di carezze, e il Legato d'indulgenze. Traghettato il
Volturno, si cacciava a gran corso per la via che s'inoltra alle falde
dei monti del Matese, tanto che al declinare del giorno giunse ad
Alife. Anche questa città gli schiuse le porte; e se meno era
severo, lo portavano i cittadini per le vie quasi in trionfo: Carlo
represse il moto, ed essi si contentarono di urlare tanto alto, da
soffocare la voce della coscienza che li chiamava traditori. Se
però v'è ragione che scusi il tradimento, gli Alifesi l'avevano.
Essi serbavano in mente l'ingiuria di Federigo II, che per mezzo del
Conte di Celano distrusse col ferro e col fuoco quella loro patria
infelice: ben lo supplicavano i mal condotti di perdono, lo Imperatore
fu inesorabile; egli morendo lasciò agli Alifesi un legato di
vendetta, ed essi lo fecero pagare al suo figliuolo: certo, turpe il
misfatto, turpissima la vendetta; ma dalla colpa nasce la colpa, e la
infamia si perpetua nel mondo.--Talese non resse meglio di Alite:
un'antica memoria raccontava che i ruderi di una città, che si
vedevano circa un miglio distanti da questa terra, fossero un'altra
Talese, rovinata dai Saraceni; e però i Talesi gli odiavano, e per
cagione loro anche Manfredi avrebbero desiderato morto; tuttavolta, al
primo apparire dei soldati di Carlo chiusero le porte, e mostrarono
far testa. Si apparecchiavano i Provenzali all'assalto, quando
l'Arcivescovo di Cosenza, parato degli abiti pontificali, si condusse
sotto le mura, ed intimò i cittadini ad aprire; se resistessero,
mal per loro; aspettassero, e tra breve, condegno castigo in questa
vita, e nell'altra. Talese venne in potere di Carlo al modo stesso che
Gerico in mano dei Giudei, se non che in Talese non caddero le mura.
Carlo non prese altra vendetta di quell'ombra di resistenza che di
poco onorarla del suo aspetto; andò oltre, e diresse il suo cammino
a Santa Agata dei Goti: non già ch'ei sperasse averla come l'ebbe,
ma perchè, se la battaglia doveva definirsi nella pianura di
Benevento, bisognava che se ne assicurasse, come quella che troppo da
presso minacciava alle spalle. Il destino gli concedeva più del
desiderio; e sì che di propria natura il desiderio suole essere
intemperante. Lontano due miglia da Santa Agata occorse in una solenne
ambasceria, che gli consegnava le chiavi della terra, e con umili
preghiere gliela raccomandava. Rispose, l'avrebbe come figliuola.
Tanto inaspettata prosperità commoveva così il cuore di Carlo,
comecchè di salda tempera, che a mala pena facesse distinguergli
quali parole adoprasse: entrò giubbilante in Santa Agata, e fu
visto, mentre passava la porta, curvarsi dall'arcione, e baciarne lo
stipite. Romani e Francesi, in quel più tosto viaggio che conquisto
dicevano apparire chiara la mano della Provvidenza; Carlo stesso
cominciava a persuadersene: quell'essere destinato pare a tutti un bel
che, e seduce le menti più forti. Senza prendere riposo, armato
come era, si condusse alla Chiesa che serba le sacre reliquie di Santo
Menna il Solitario, e rese grazie all'Altissimo; nell'uscire del
tempio incontrò un capitano che aveva lasciato alla porta, il quale
gli si accostò affannoso, come chi si è travagliato nel correre,
e gli disse: «Messer lo re, gente con l'insegna bianca è venuta
alla porta; dovrò introdurla dentro io? Ella demanda parlarvi.»

«Sì, introducetela tosto, sire La-Croix; non aspetti l'amico
alla porta dell'amico; ci troverete al palazzo dei Sindaci.»

Carlo per questa volta s'ingannava; non erano amici coloro ch'egli
accolse nella sala del palazzo della città con maniere semplici e
dimesse, affinchè prendessero buona opinione di lui; per questa
volta seminò su la sabbia; non ne rimasero punto edificati; anzi un
Cavaliere, che pareva il principale dell'ambasciata, con soldatesca
ruvidezza gli domandò: «Siete voi Carlo Conte di Provenza?»

L'alterezza del Conte rimase trafitta da così aspra interrogazione,
onde, riassumendo quel superbo contegno che gli era naturale, rispose:
«Siamo.»

Il Cavaliere senza inchinarsi soggiunse: «Or via, sire Conte, la
Serenità di Manfredi I, Re di Sicilia, mio signore, mi manda a voi
ambasciatore, affinchè, se vi piace, consentiate una tregua di un
mese a patti, e...»

«Quale è il vostro nome, bel Cavaliere?» interruppe Carlo.

«Giordano dei Marchesi di Lancia.»

«Ebbene, bel Marchese di Lancia, tornate presto, e riferite al
Soldano di Lucera, che noi non vogliamo con lui nè tregua nè
pace, e che noi tra poche ore metteremo lui nell'Inferno, od egli
metterà noi in Paradiso.»

Così favellava Carlo, insolente per arte e per natura, Un Cavaliere
del séguito di Giordano, il quale teneva lo scudo traverso del
petto a bello studio, affinchè meglio si vedesse, e su lo scudo
mostrava il fulmine, che, cadente dalle nuvole, abbatteva una torre,
col motto _da man celuta scende_; il nostro Ghino insomma, il quale si
era fatto aggiungere all'ambasciata, e per disprezzo, od anche per
iattanza (imperciocchè questa sia il pelo vano della bravura, come
il timore della prudenza), portava quella insegna, onde i Cavalieri
francesi riconoscessero in lui il vincitore del torneamento di Roma,
mal comportando il superbo parlare esclamava: «Sire Conte, da quel
valente uomo che siete, accettate la tregua, che in verità io vi
giuro sarà per voi tanta vita trovata.»

«Che cosa favella quel membruto, che, se mal non vediamo, ci pare
il vincitore del torneo di Roma?» domandò Carlo ad alcuni suoi
Baroni.

«Egli brava, e minaccia....»

«Egli brava!»

«O sire Conte,» aggiunge Ghino «da quel valente uomo che
siete, accettate la tregua, perchè non sempre troverete traditori
che vi lascino il passo, non sempre i Saraceni che abbandonino il
posto, nè Benevento,...»

«Bel Cavaliere,» favellò Carlo facendosi presso a Ghino
«tu dunque ci prometti una battaglia prima di entrare in
Benevento?»

«Cavaliere di ventura, pensi ch'io mi sia aggiunto ai tuoi nemici
per vederti trionfare?»

«Nè più gradita, nè più cortese ambasciata potevi farci
di questa; abbine in guiderdone questo nostro stocco....»

«Mi basta il mio per ucciderti, Conte;--me lo trasmise mio padre,
come a lui lo aveva trasmesso il mio avo: noi Italiani non abbiamo
costume di tenere molte spade, perchè non siamo usi a renderle.»

Carlo strinse le ciglia, e interruppe: «Or sia come desideri, bel
Cavaliere; solo ti ricerchiamo di un dono, ed è, che tu voglia
portare a Manfredi lo Svevo il nostro guanto in segno di sfida per la
battaglia di domani, e dirgli da nostra parte che cessi una volta di
fuggirne dinanzi: certo, eroe non lo credevamo noi, ma almeno uomo.
Quando ci partimmo di Francia conducemmo in nostra compagnia gente di
arme, stimando venire al conquisto di Napoli; se potevamo supporre
quello che è avvenuto, avremmo condotto damigelli, Trovatori, ed
assediato le città con le Corti di amore: che si direbbe in Corte
del Re Luigi, se il Conte di Angiò senza un affronto premesse il
soglio dei Reali di Napoli? Sono così fatti i discendenti di
Federigo? Oh! di grazia, riporta al tuo signore che non c'invidii la
fama di una vittoria, che non privi sè stesso di una bella gloria,
perchè la più onorata azione della sua vita sarà di morire
per le mani di un figlio di Francia.»

Voleva rispondergli Ghino, ma il Conte gli volse le spalle, e si
condusse in altra stanza: guardò il guanto che gli era rimasto,
vide che appena gli avrebbe coperta la metà della mano, e sorrise;
poi tendendo il braccio verso la porta dalla quale era scomparso il
Conte, esclamava: «Io terrò per me questo guanto, e ti giuro,
Conte, che quando abbiano i tuoi la vittoria, lo che tolga il Barone
Messere Santo Ambrogio, tu non godrai del frutto, se il braccio mio, e
de' miei compagni, non viene meno alla impresa.»

Si avvicinano i tempi fatali.--Manfredi, alla dimane convocato il
consiglio dei suoi, così favellava al Conte Giordano d'Angalone:
«Or via, vedete, Giordano, se vero è stato il nostro presagio?
Non ve lo dicevamo noi, che da questa tregua non avremmo ricavato
altro che la infamia di averla proposta?»

«Messere lo Re, tristo è chi perde; voi per vincere dovevate
fare questo; il nemico non si lasciò andare all'amo; provvedasi
ch'ei vi sia costretto.»

«Esponete, Giordano.»

«Le medesime cagioni che dovevano rovinare la impresa di Carlo a
San Germano la rovineranno a Benevento; prendiamo la lepre col carro;
non vi dolga indugiare; soprastando si consuma il nemico; Vostra
Serenità s'ingrossa della gente che Corrado di Antiochia tiene in
Abruzzo, di quella che i Conti Federigo, di Ventimiglia, e i Capece,
ragunano in Calabria e in Sicilia, ed offre eziandio spazio di tempo
necessario ai Baroni per condurre le taglie.»

«Conte d'Angalone,» interruppe Manfredi «oggimai le cose non
sono più intere come a San Germano; adesso sarebbe danno quello che
allora appariva lodevole; l'onore nostro chiede l'ammenda.»

«Salva vostra grazia, Messer lo Re, voi sapete meglio che altrui
gli affari del Regno non governarsi con le canzoni dei Trovatori, e
l'onorato esser chi vince....»

«E che dunque?» interveniva terzo Ghino di Tacco «da che
questo ladrone provenzale fu sì veloce a investire il Reame, e si
mostra così presto di lingua, e insolentisce fino a mandare il
guanto di sfida al figlio dell'Imperatore,» e qui mostrò il
guanto che gli aveva consegnato Carlo «saremo noi sì codardi da
non rispondere alia chiamata?»

«Da quando in qua, bel Cavaliere,» soggiunse il d'Angalone
«dobbiamo combattere quando piace al nemico? forse i duelli hanno
altra legge, ma nelle battaglie il tempo utile è sempre il tempo
onorato....»

«Voi parlate da quel maestro di guerra che siete,» interruppe il
Marchese e Conte di Lancia; «tuttavolta pensate, per i sussidii che
abbiamo trovato in Benevento noi superare di già l'esercito di
Francia; ponete mente che questa scorreria di Carlo si diffonderà
con la fama di una vittoria, e certo sarà sovvenuto dalla Chiesa,
assuefatta ad aiutare, allorchè conosce di farlo con certezza di
premio; e poi,--io lo dico con l'angoscia dell'anima, ma pure
l'esperienza mi costringe a dirlo,--chi sa la dimora quanta gente del
Regno, lusingata dalla novità, delusa dalle promesse, e forse anco
condotta dal proprio mal talento, può ribellare al nostro Re?
questo è un incendio che bisogna arrestare a ogni patto; l'esempio
si allarga contagioso: e dove si sparga per le provincia nei avremo
guerra esterna, e civile, quando ora l'avremmo soltanto esterna.»

«_Machatub Ruby_!» esclamò l'Amira «è destinato: se
Allah vuole, tu troverai successa l'avventura mentre provvedi a
resisterle: se dobbiamo vincere, bastano quelli che abbiamo, se
perdere, non bastano quelli che verranno.»

«Io vi dico che le probabilità del vincere non sono mai troppe,
e cotesta vostra dottrina non giova all'anima nè al corpo, e poi
gli Evangeli la condannano.» Così rispondeva il savio Giordano;
e comecchè solo a sostenere la sua opinione, sarebbe co' savii
argomenti venuto a capo di svolgere Manfredi, allorchè un suono di
trombe gli troncò in bocca le parole. Assorse Manfredi impugnando
la spada, assorsero i convocati, gridando: «arme! arme!» Lo
stesso Giordano, senza che il suo cervello vi contribuisse per nulla,
travolto dalla chiamata guerriera, trovò la sua mano su l'elsa, e
la voce «arme» su l'estremo contorno del labbro.

«Ed arme sia!» esaltato di nuovo ardore esclama Manfredi; quindi
velocissimo comandava: «Conte d'Angalone, Calvagno, prendete con
voi le compagnie dei Tedeschi, e formatene una sola schiera più
tosto profonda, che larga su la fronte; sia essa l'avantiguardia,
assalti la prima, tenti sforzare le file nemiche, e s'inoltri più e
più sempre, senza sbandarsi,--dovesse anche riuscire alle spalle di
Carlo:--voi, Conte Lancia, Ghino, co' vostri Toscani, e Lombardi, e
tu, Jussuff, con tutti i tuoi Saraceni, comporrete la battaglia,
seguirete immediatamente l'avantiguardia, non troppo presso
però,--a mezzo tratto di freccia,--vi prevarrete della impressione
dei Tedeschi, che reputiamo infallibile; cacciatevi dietro di loro,
sbandatevi, scendete, se fa di mestieri, da cavallo, e scompigliate le
file;--a voi, Rogiero, affidiamo lo stendardo reale;--noi al capo del
ponte co' Pugliesi comanderemo alla riscossa;--andate, provvedete: vi
raggiungo all'istante; già non vi conforto a mostrarvi valenti,
solo preghiamo la fortuna a favorire la _valentia_ vostra.»

                       --------

«Elena, dolcissima donna mia,» favella Manfredi correndo armato
di piastra e maglia verso la Regina, e le strinse con la mano aspra di
ferro la sua delicata così fortemente, che per assai tempo vi
portò la impronta violetta; «Elena--addio! avanti che il sole
tramonti io sarò vittorioso, o morto.»--Poi senza attendere
risposta si volse ai figli, e gli abbracciò, e li baciò: «Voi
sarete felici, spero; se però la fortuna statuisse altramente,
sovvengavi in ogni caso voi esser nepoti d'Imperatore, figli del
nobile Manfredi; l'unico insegnamento che un Re vinto può dare ai
suoi figli per ben condurre la vita è di saper morire; una, voi lo
sapete, è la via per cui si viene alla luce, perchè una la
cagione del vivere; innumerabili quelle per le quali si fugge,
perchè innumerabili le cagioni del morire; se la natura ci
aggravò di travagli, ne concesse anche il modo di deporli: non
temete la morte; bugiardo è chi l'afferma terribile; più l'uomo
le si avvicina, meno gli apparisce repugnante; al punto di
abbracciarla, par bella; serbate, miei figli, i vostri giorni contro
la persecuzione, contro la miseria, ma non obliate che il cielo ha
fatto un asilo contro la infamia--sotterra...» Piangevano tutti;
Manfredi gli sogguardò amoroso, e soggiunse: «In questa guisa
dunque voi date animo al vostro Re per la vicina battaglia? Conviene
accompagnare col pianto un guerriero al pericolo? In verità vi
giuro, che avanti che sia molto coteste lacrime bagneranno le gote
alla donna del Provenzale.... Ma se il destino.... Oh dove sei, mio
fedele Benincasa!

«Mancano fedeli alla vostra sacra persona?» esclamò
avanzandosi con passo sicuro il medico del Re, chiamato Giovanni da
Procida; «se il mio Re vorrà onorarmi dei suoi comandi, per
quanto basta la vita, io giuro adempirli.»

«Figlio generoso di generoso padre, noi non dubitiamo della tua
prodezza; se tu avrai il senno del Benincasa, oltre il nome, e il
sembiante, non sapremmo qual differenza sarebbe tra voi; pure tanto mi
giunge gradita la tua offerta, che noi vogliamo, sebbene giovane,
affidarci a te solo: se il fine del nostro regno è fisso lassù,
se la stirpe di Federigo non deve più reggere le terre di Sicilia,
tu condurrai in salvo la moglie, e i figli nostri, a Lucera, o meglio
a Manfredonia.... Mia diletta, tu riparerai, come o piace, in Epiro
presso tuo padre, o in Aragona alla Corte di Piero: certo tu avrai
perduto la corona, perduto me tuo consorte, che avresti amato anche
senza corona;--ti rimarranno i figli.--i figli, Regina, sostegno ai
tuoi anni cadenti, consolazione delle passate sciagure;--il sapervi
salvi anche dopo la mia morte, m'invigorisce lo spirito. Or via, un
abbraccio... non piangete così... voi non conoscete s'egli sia
l'estremo. Dio solo lo sa.» Poi si sciolse dagli amplessi loro,
parlando a Giovanni di Procida: «Abbilo fermo, a Manfredonia; nè
finchè giunganti galere di Catalogna, o di Grecia, nè per
minaccia, nè per prego....»

Rogiero, il quale, finchè Manfredi stava stretto nelle braccia dei
suoi, era rimasto immobile, forse quattro passi discosto, adesso osò
sollevare gli sguardi, e muovere un piede: tentò parlare,--le parole
uscivano imperfette, tremolavano i labbri convulsi; lo guarda Yole fisso
fisso senza battere palpebra, con le pupille smarrite pel bianco dilatato
in terribile maniera; tenta anch'essa rispondergli, si affollano le voci
alla gola, vi lasciano l'angoscia dello sforzo, e tornano a gravitàrle
sul cuore; riprova:--ogni potenza dell'anima, ogni facoltà del corpo
è impiegata in quel conato; le vene che le errano su pe' cigli, e per
le tempie, sporgono turgide, e di colore di piombo; la faccia va tinta di
un sangue rappreso; tutta la vita sembra debba sgorgare in que' detti;
soccombe la natura allo sforzo inusitato, un lungo strillo strazia le
orecchie, e il cuore dei circostanti;--Yole bianca, sciolta nelle membra,
stramazza come statua percossa dal fulmine.

Le trombe provenzali chiamano un'altra volta il nemico a giornata;
pare a Manfredi intendere in quel suono una voce di scherno, balza
alla porta gridando: «Svevia! Svevia!» Rogiero vede partirsi il
Re, guarda Yole, alza la mano al cielo sospirando: «Ch'io la
rivegga lieta, o non la veda più!» e fugge.--Elena sorreggendo
la figlia non può seguitare Manfredi co' passi, lo segue con un
grido; solo Manfredino corre dietro le poste paterne chiamando: «O
padre mio, padre mio! ritornerai stasera?»--Fanciulletto infelice!
ode prima dei passi distinti, poi rumore confuso, alla fine più
nulla; ritorna piangente con le mani entro i capelli, e lamenta per
via: «Il padre è sparito,--sparito, e non mi ha promesso di
ritornare stasera.»

Lo esercito di Carlo, giunto sul vertice dei monti vicini, ammirava la
città di Benevento, tanto famosa per la bellezza e antichità
sue, non meno che per l'erronee credenze dei popoli. La sua origine si
smarrisce nelle tenebre della Mitologia, sebbene non manchino
scrittori che affermino averla edificata Diomede Re degli Etolii dopo
la guerra troiana. Poche novelle ci avanzano di lei durante la
dominazione dei Romani, imperciocchè la storia di questa nazione
assorba ogni altra storia dei paesi conquistati; e finchè ella fu,
Roma sorpassò la universa Italia. Narrano le Cronache, Totila
averla tolta dalla signoria dei Greci; ma la sua grandezza comincia
dopo la conquista dei Langobardi, chè Otari sommettendo la Italia
fino all'ultima Reggio di Calabria, ne fondò un nobilissimo Ducato,
donandolo a Zetone suo generale. Noi non faremo la cronologia dei
Duchi che successero; solo diremo, che per la venuta di Carlomagno in
Italia non fu distrutto il Ducato a patto che Arechi Duca si radesse,
e facesse radere la barba ai Langobardi, coniasse moneta col nome di
Carlo, e rovinasse le fortezze di Salerno, di Acerenza, e di Conza.
Grimoaldo generoso figlio di Arechi non li serbava, allegando _sè
esser libero, e ingenuo per lato di madre e di padre, e sempre si
manterrebbe libero con lo aiuto di Dio_. Nè i fatti suonavano
diversi: si vendicava in libertà, si faceva ungere dai Vescovi, a
modo dei Re, adoperava corona reale. I Duchi che tennero dietro a
questo Grimoaldo fino ai Normanni, non vanno distinti che per la varia
immagine impressa su le medaglie,--o per qualche delitto. I nuovi
signori duramente calcando i popoli fecero sì che implorassero lo
aiuto di Papa Lione IX, il quale si condusse in Germania presso lo
Imperatore Arrigo III, e seco lui convenne di permutare il censo delle
cento marche d'argento e del cavallo bardato, imposto da Benedetto II
su la Chiesa di Bamberga, con la signoria di Benevento, pur che di sue
milizie lo accomodasse per conquistarla: riuscì l'opera a Papa
Lione pel molto favore dei popoli, ed investì del Ducato un
Raidolfo langobardo, che in breve fu cacciato da Anfredo normanno
Conte di Puglia, fratello maggiore del Guiscardo. Per la nuova
ingiuria crebbero le asprezze tra Roma e i Normanni, e ne derivò
una serie fastidiosa di piccoli affronti, la quale non ha altro di
comune con le grandi battaglie tranne la strage. Finalmente nell'anno
1059 furono composte in pace queste contese nella città di Melfi, e
Benevento fu restituita alla Santa Sede, per esserle tolta di nuovo
nei tempi successivi. Il maggior danno però che soffrisse la
straziata città venne da Federigo II, il quale nel 1242, dopo
averla sottomessa, ne spianava le mura. Ella portava impressi i segni
della ferocia e della ambizione di coloro che l'avevano conculcata
prima, poi scelta a dimora; era il suo aspetto medesimo la storia
delle sue vicende, chè presso a lei si ammirava un arco trionfale
di marmo pario eretto a Traiano per la strada ordinata a sue spese da
Brindisi a Roma;--parte delle mura non demolite da Federigo mostravano
la strana foggia di architettare portata dai Settentrionali in Italia;
le nuove riparazioni, e le otto porte costruite per comando di
Manfredi,--il risorgimento delle arti. Il castello fondato dalla
Chiesa per istanza del Governatore pontificio, inalzandosi con le
brune sue torri su la città, avvertiva, o forse avverte ancora al
viatore, qual fosse in quei tempi la solenne maestà dei successori
di San Pietro.

Il Conte di Provenza più la guardava, più gli pareva degna di
essere conquistata; la circondò molte volte degli occhi per
iscoprirne il debole nel quale far breccia, e tentare l'assalto; la
conobbe munita con tanta maestria di guerra, che impossibile cosa
fosse espugnarla per forza;--gemè, si volse a considerare la
sottoposta valle;--spaziosa compariva, e degna di combattervi campale
battaglia; i fiumi Calore, e Sabato, confuse le acque alla
estremità di Benevento, l'attraversavano, e un ponte magnifico dava
il passo dall'una all'altra sponda: domandava come avesse nome la
pianura,--gli rispondevano:--Santa Maria della Grandella.--

«Oh se ci venisse fatto» favellava Carlo al Monforte «di
chiamare il nemico in questa valle!»

«Spingiamoci alla dirotta ad occupare il ponte, e....»

«E il nemico scorgendo il vantaggio, non verrà più fuori....
date fiato alle trombe.»

Questa fu la prima chiamata, che interruppe il consiglio di Manfredi.
Dopo il segnale ristette, ansante di speranza e di timore, a spiare
quello che fosse per nascere. Si aprono le porte, e le compagnie dei
soldati nemici prendono a stendersi per la pianura verso il capo del
ponte.

«M'ingannano gli occhi,» domandò Carlo ai Baroni che gli
stavano attorno «o sorte Manfredi?--Sì, sorte.... Sire Dio, gran
mercè!--_Or ecco, Baroni, il giorno che avete tanto desiderato....
Mongioia! Mongioia!_ la battaglia è vicina.»

«Bel cugino,» parlò sotto voce il Monforte al Conte di
Provenza «perchè il Cavaliere _del fulmine_....» E il
rimanente gli disse in modo che nessuno dei Baroni quivi ragunati lo
intendesse. Carlo parve sdegnato, e negò assoluto: insistendo il
Monforte, lasciava piegarsi, e rispondeva: «Fa, cugino, quello che
vuoi; ma guarda che sia degno di portarle:--certo egli è un molto
terribile cavaliere.»

«Lasciate fare, io troverò il vostro uomo, cuore di ferro, testa
di nuvolo.» E tale discorrendo il Monforte si dette a cercare per
le file un gentiluomo guascone nominato Sire Arrigo di Cocence, e gli
riferiva come al Re, tratto dai suoi tanti meriti, era venuto in
pensiero di vestirlo delle sue proprie armi, e farlo condottiero
dell'avantiguardia: «io» gli soggiungeva lo scaltrito «avrei
potuto contendervi l'onore, ma come grande amico vostro ho voluto
lasciarvelo; pensate alla gloria che sta per ridondarne alla vostra
famiglia, pensate, sire Arrigo, che di qui innanzi inquarterete
nell'arme vostra il fiordaliso di Francia.»

«Grande per vero» rispose il Cavaliere «è la dignità
che ci comparte sire Carlo, pure non tale a cui la illustre stirpe dei
Visconti di Cocence non sia assuefatta. Vedete, Monforte, questo morso
d'oro in campo rosso? ne sapete voi la cagione?»

«Ne udii, sire Arrigo, narrare qualche novella....»

«E che! ignorereste voi forse, sire Monforte, averlo posto Regnault
de Cocence per aver tenuto la briglia al Re Clodoveo, che il Signore
riposi, dopo la battaglia di Soissons? E queste mani intrecciate in
campo d'oro?»

«Sì veramente, Visconte: ma venite, che il Re ne aspetta, e il
nemico si avanza.»

«Geffroi Visconte, alfiere dell'Imperatore Carlomagno, che Dio
faccia requie alla sua anima, l'ebbe mozze alla battaglia delle Chiuse
portando l'Orifiamma; e la fama racconta, che sire Geffroi, senza
punto sbigottirsi, la stringesse co' denti, e così la restituisse
all'Imperatore, il quale gli disse: o Sire....»

«Già, già,--trovasi nella Storia del Regno, pagina quattromila
cento otto; vi mostrerò il luogo; si dice che la scrivesse Arduino....
gran savio maestro Arduino, Visconte,--primo consigliere di Carlomagno,
e Diacono di San Remigio.»--E così interrompendolo, e strascinandolo,
condusse Monforte il Visconte alla presenza di Carlo, e gli disse:
«Ecco il Visconte.»

«Sire Arrigo, tanto di grazia nel nostro aspetto hanno trovato gli
alti meriti vostri, che noi siamo venuti nella determinazione» e
fece cenno agli scudieri, i quali attorniarono il Visconte, e presero
a spogliarlo dell'armatura «di vestirvi della nostra divisa, e
preporvi alle prime schiere.»

«Gran mercè, sire Carlo: molto è l'onore che mi fate, nondimeno
tale a cui la stirpe dei Cocence si trova da secoli immemorabili
assuefatta. Sapete....» (e «_tout doucement_» disse stizzito agli
scudieri, che quasi rabbiosi gli levavano gli arnesi da dosso),
«sapete, sire Carlo, la cagione del morso d'oro?»

«Santo Dionigi! pensate noi essere tanto ignari delle glorie di
Francia?»

«Dico bene: e le mani intrecciate in campo....»

«Già.... gran fama vi aspetta là su quella valle, sire Arrigo.»

«L'uomo fa quello che può; nondimen tanto faremo, sire Carlo,
che ne andrete contento: «noi volgeremo alle spalle....»
(«_Doucement_» ripetè agli scudieri che nel torgli le manopole
gli avevano graffiato le mani) «alle spalle, scavalcando quei monti....
Vero che, prima dei nemici s'incontra Benevento; noi lo prenderemo per
forza, e poi....»

Così favellando era rimasto in giustacuore di bufalo;--i nemici
ingrossavano alla pianura;--Carlo cominciò ad armarlo dei suoi arnesi,
e mentre lo armava lo avvertiva: «No, sire Arrigo, voi lascerete lo
impaccio di guidare le mosse al Maliscalco Mirapoix, ed ai Vandamme; state
intento a ferire bei colpi, potrebbe distrarvi il comando....» in
questa gli stringeva gli sproni «io giurerei che nessun Cavaliere
avrà guadagnato meglio di voi gli sproni d'oro.» Quindi si levò
dal collo l'ordine di Gran Commendatore d'_Oltremare_, e ponendolo a
quello del Visconte:--«Questo d'ora innanzi onorerà la vostra vita,
o la vostra sepoltura.»--L'ordine d'_Oltremare_, conosciuto eziandio
col nome del Naviglio, e della _doppia luna_, fu instituito da San Luigi,
fratello del Conte d'Angiò, nel 1262, nel suo secondo viaggio
nell'Affrica. Egli era composto di una collana di conchiglie intrecciate
con mezze lune, e di una medaglia che rappresentava una nave sul mare:
ogni oggetto aveva il suo significato; le conchiglie dinotavano la
spiaggia di _Aigues-mortes_, dove ebbero i Francesi ad imbarcarsi, le
mezze lune la guerra da imprendersi contro gl'Infedeli, la nave il
tragitto del mare. Veramente Carlo rammentava impresa poco onorata con
quelle insegne di Terra Santa sul petto; tuttavolta, calcolando l'utile
che poteva derivargli dall'ostentazione di pietà, maggiore del danno
della reputazione nell'armi scemata, non mai le depose in Italia.

Armato di tutto punto il Visconte, Carlo fece condurre il destriero:
comparve il generoso animale avviluppato entro immensa gualdrappa ricamata
a fiordalisi; ed appena conobbe il signore, nitrì; Carlo mostrò
qualche cordoglio a cederlo, pure allo improvviso si scosse, e:
«Va,» disse «Benevento vale bene un cavallo bardato.»--Terminata
cotesta faccenda, «Baroni,» aggiunse «ascoltate i comandi: voi,
sire Visconte di Cocence, Maliscalco Mirapoix, Vandamme, Clermont,
prendete con voi mille cavalieri francesi, e sostenete l'assalto;
compongano la battaglia le brigate dei Fiamminghi dei Brabanzoni, dei
Piccardi, i Romani, e i cavalieri della Regina; porti l'insegna Guglielmo
lo Stendardo, li comandi il nostro cugino Roberto di Fiandra, il
Contestabile Giles Lebrun, e Beltramo di Balz; noi terremo la riscossa co'
Provenzali, avremo con noi Guido Monforte, Crary, e voi, Conte Guerra, co'
Guelfi di Toscana; la parola è la solita di Francia, _Mongioia,
cavalieri_. Andate dunque, miei figli, ed acquistatevi signoria.»

Si muovevano, allorchè seduto sopra bianchissima mula comparve
circondato da molti prelati Bartolommeo Pignattello Arcivescovo di
Cosenza, addobbato dei suoi più magnifici arredi; la stessa mula
andava coperta di un manto di oro ricamato a pignatte d'argento; vesti
di oro con pignatte di argento ostentavano i servitori, e pignatte di
argento su le mazze dorate portavano i maggiordomi. Certo, cotesta
arme è gloriosa, perchè le Cronache dei tempi antichi raccontano
che un Landolfo, capitano su le galere del Re Ruggiero nello assedio
di Costantinopoli, di tanto fu audace, che penetrato nelle cucine
dell'Imperatore Emanuele rapì tre pentole di argento, e le assunse
ad impresa di sua famiglia; pure ella sente un po' di ridicolo, e la
voglia dell'Arcivescovo di trametterla da per tutto la rendeva
piacevole anche più. Pertanto il Pignattello, fattosi al cospetto
di Carlo, lo domandava, gravemente, se voleva che leggesse le bolle
delle indulgenze date da Alessandro IV, Urbano IV, e Clemente IV, a
cui combattesse in quella santa Crociata; Carlo rispose non essere
mestieri, saperle tutti _par coeur_, li benedicesse, di questo
sarebbongli tenuti. L'Arcivescovo si reca in mano l'aspersorio, e
senza scendere dalla mula, con assai buone orazioni, li benedisse:
poi, recitata in fretta un brano di perorazione nel quale diceva
Manfredi figlio di Acab, fulminato dal sacratissimo anatema, razza di
vipere, ariano arnaldista, priscillanista, ed ateo, tutto insieme, e
chiamando allo incontro i Francesi veri figli d'Israello, e
discendenti in linea retta dalla tribù di Giuda, intuonava
l'_Exurge Domine et defendem causam tuam_ ecc., e gli avviava a
sgozzarsi allegramente su la pianura.--

    «Ora incomincian le dolenti note.»

Quinci e quindi a gran corsa, gridando _Mongioia_, e _Svevia_, si
precipitano le schiere l'una contro l'altra, bramose di vincere;
sparisce lo spazio che le divide, sorge la strage. I Francesi per
comando del Maliscalco Mirapoix assaltano con la fronte assai vaga,
perchè vedendo gli squadroni tedeschi avanzarsi in forma di
quadrato, sperano ricingerli di fianco con le punte delle file, alle
quali erano preposti i fratelli Vandamme. La cavalleria tedesca aveva
in quei tempi riputazione d'invitta, e a vero dire,--tanto variano le
cose in questo mondo,--incapace allora per difetto di disciplina a
resistere, era insuperabile nel dare la carica. Adempiendo dunque i
comandi del Re, insiste contro il centro dell'avantiguardia nemica, e
sforza, e punta con sì fatta costanza, che, un po' pel suo estremo
valore, un po' per essere il centro francese troppo sottile, comincia
a balenare, diradarsi, e finalmente aprirsi; le punte, o vogliamo dire
ale dell'antiguardo, già ripiegandosi per ferire i Tedeschi di
fianco descrivevano un mezzo arco, allorchè occorrono nella
battaglia di Manfredi difilata in linea retta a breve distanza dalle
prime schiere, e così in vece di assaltare di fianco fu mestieri si
difendessero di fronte da forze preponderanti. La fortuna più oltre
conduce la trista lusinga: le schiere mezzane della battaglia,
composte della masnada di Ghino, e dei Saraceni, prevalendosi della
via aperta dai Tedeschi, vi si precipitano dentro. «_Svevia!
Svevia!_» gridano muovendosi, e il suono si propaga per le valli
circonvicine, e cresce il terrore: aggiungono spavento i Saraceni
coll'incessante percuotere dei tamburi, chè in quel secolo soli
essi adoperarono cotesta loro invenzione, la quale fu in processo di
tempo accettata dalla civiltà europea per trasmettere i segnali in
guerra, e per istraziare gli orecchi dei cittadini in pace, mettendoci
di proprio i pifferi, onde compire l'armonia. Roberto di Fiandra, e il
Contestabile Giles Lebrun, accorrono con la battaglia francese a
sostenere le sorti vacillanti della giornata. _Mongioia_, e _San
Martino_ urlano a posta loro, e affrontano francamente. Formavano
parte di questa schiera i cavalieri della Regina, e molti bei colpi di
spada è fama che menassero, i quali però non ci conservano le
storie; solo ci narrano come sire Arrigo di Cocence, non potendosi dar
pace di avere indietreggiato meglio di due trar d'arco, infuriava per
le file esclamando: «Cavalieri cristiani, fate testa per San
Dionigi... che diranno di me in Francia? Vergogna! avanti... avanti...
sono paterini, eretici i nostri nemici... le spade loro non tagliano,
Dio gli ha riprovati.»--Due cavalieri di Manfredi osservato il
Cocence, cui tolsero in cambio di Carlo di Angiò, avvolgersi
così allo scoperto tra i suoi soldati, si spiccarono di fila, e
abbassata la lancia, e premutala di forza sotto l'ascella, gli si
disserrano addosso: erano questi Ghino e Rogiero. Bene avvertirono i
vicini il Visconte dell'imminente pericolo, ma egli aspettandoli di
piè fermo gridava: «Ora vedrete il bel giuoco.»--Giunti i
Cavalieri di piena corsa, al punto stesso colpiscono il Visconte nel
mezzo il petto, per modo che ambedue le punte riuscirono in angolo a
tergo, e toltolo di sella per qualche tempo lo portarono confitto
nell'aste. Si levò un grido di vittoria dall'esercito di Manfredi,
stimando morto il Conte di Provenza, e più acre che mai continuò
la battaglia: non meno vigorosi si difendevano i Francesi, comecchè
si conoscesse chiaro che alla fine avrebbero perduto la prova.
Travagliandosi così i due eserciti sul campo insanguinato, segnava
il sole l'ora di nona, quando Giordano d'Angalone senza cimiero, mezzo
scoperto di maglia, con lo usbergo falsato in più parti, recando in
mano la spada rotta, si avvenne nell'Amira Jussuff, e: «Dammi la
tua scimitarra,» disse «pochi colpi a ferire mi avanzano, e la
vittoria è compita.»

«Viemmi dietro, Conte,» gli rispose l'Amira «chè ti
provvederò di una spada.»--E così favellando sprona verso
Clermont, che dalle armi, e più dalla prova, mostrava essere assai
valente Cavaliere. Clermont vedendo colui stringersegli contro senza
consiglio, si mette in guardia, reputando il manrovescio sicuro;
allorchè gli è a tiro, mena di pieno vigore: l'Amira con
ammirabile destrezza si curva sul collo del cavallo, passa la lama
nemica, e appena gli sfiora le spalle; egli stringe la briglia allo
snello Borak, torna indietro, e cala un fendente sul cimiero di
Clermont, che, levate le gambe, aperte le braccia, cade morto per
terra: l'Amira si piega dall'arcione, raccoglie la spada, e:
«Prendi,» parla al Conte Giordano «così provvede di arme i
suoi amici Jussuff.»

«Prode uomo!» rispose Giordano «io l'adoprerò in guisa,
che corrisponda degnamente al modo col quale mi viene donata.» E
sparve internandosi nel folto della mischia.

Respinto su tutti i punti, lo esercito di Carlo aveva lasciato soli i
cavalieri della Regina, i quali, disposti di morire anzi che
indietreggiare, ordinatisi in isquadrone serrato contrastavano a tutto
lo esercito di Manfredi. Giordano Lancia considerando come non fosse
bene che tutte le forze del suo signore trattenesse quel pugno di
gente, il quale nei suoi stessi conati si disfaceva, temendo che i
respinti si rannodassero, e tornassero ad ingaggiare l'assalto,
chiamati tosto Ghino e d'Angalone, comandava che di là si
spiccassero, e senza riposo inseguissero i Francesi; rimarrebbe egli a
prostrare cotesto avanzo dell'esercito di Carlo. Obbedivano al cenno;
dietro la traccia dei fuggitivi si cacciavano a briglia sciolta;
resistenti o cedenti ammazzavano; i quartieri non concedevano; era
spenta ogni misericordia; funestava lo sperpero lagrimoso gli sguardi
di molti tra gli stessi vincitori.

«Sire Dio! non ne sostengo la vista;» grida Carlo, che dal sommo
della collina chiamata la Pietra del Roseto contemplava la strage;
«l'asta, scudieri... il mio cavallo... qui, presto, alla
riscossa!»

«Bel cugino,» ritenendolo esclama guido da Monforte «sta
saldo per San Martino, lascia ch'ei vinca anche un quarto d'ora, e poi
la vittoria è nostra...»

«Io non sopporto...»

«Io ti giuro per l'anima di mio padre che ti faccio arrestare...
costanza!»

I Tedeschi, a mal grado che il d'Angalone contrastasse, tratti
dall'ingordigia della preda, rotti gli ordini, presero, come sicuri della
vittoria, a sbandarsi qua e là per fare sacco; erravano i cavalli in
balia di sè stessi; i cavalieri smontati si davano a frugare per le
tasche dei morti e dei moribondi; a rapire di su le armature gli ornati
che stimavano preziosi, adoperando le spade a guisa di leva; taluno,
imprimendo la rapace mano sopra i cadaveri per isvellerne panno o corame
che accomodasse ai suoi bisogni, così rabbiosamente trasse, che panno,
corame, e pelle strappava a un punto; molti anche, non potendo cavare le
anella dalle dita dei morti, tagliarono le dita, e non aborrirono
riporsele in seno,--tanto si palesa schifosa l'umana cupidigia!--In
questa, Ghino e d'Angalone si affaccendavano, e a calciate di lancia
battendo il dorso ai ribaldi: «A cavallo, ghiottoni!» esclamavano,
«a cavallo!»--I battuti, intenti al guadagno, o non sentivano le
percosse, o correndo più innanzi scrollavano un po' le spalle, e
tornavano a far peggio. «Adesso scendiamo, cugino,» disse il
Monforte; e Carlo montando a cavallo: «seguitemi, Baroni;» favellava
ai suoi «voi vedrete il mio cimiero dov'è più gloria a conseguire;
voi, Guido Guerra, rammentate ai vostri, che vincendo a Benevento
ricuperano la desiata patria.»--E si slanciò alla pianura.

Un corriero spedito dal Conte Lancia si presenta a Manfredi, e gli
dice: «Messere lo Re, abbiamo vinto.»

Il Re, levando gli occhi al firmamento per un pensiero che spontaneo
gli si suscitò in mente di ringraziare il Signore, vede la schiera
di riscossa francese che stendendosi sul pendío della collina del
Roseto dechinava al piano, e ordina al corriero: «Va, va, torna a
Giordano, e digli che si guardi, perchè non abbiamo anche
vinto.»

Poi si fissò attento a considerare la masnada dei Guelfi, e
parendogli, com'era, troppo bella, domandava, che gente fosse: gli
rispondevano:--i fuorusciti di Firenze.--«Or dove» è fama
che soggiungesse «abbiamo l'aiuto di parte ghibellina, che noi con
tante fatiche e tanto tesoro favorimmo in Italia?»--E più sempre
innamorandosi nella vista della masnada, che avanzava con ammirabile
compostezza: «Veramente quella gente non può oggi perdere!»
volendo significare, che qualora avesse egli vinto l'avrebbe tolta al
suo soldo, e messa in istato.

«A cavallo vituperati! a cavallo! ecco il nemico!»--gridarono
Ghino e Giordano; ma i Provenzali galoppando di tutta carriera già
soprastavano: i Tedeschi e gl'Italiani, lasciando, quantunque a
malincuore, la preda, assorsero per combatterli; i cavalli pascendo si
erano allontanati, e nell'improvviso scompiglio molti li perderono,
però che aombrando fuggirono; nessuno ebbe il suo. Non anche
avevano formato gli squadroni, che i Francesi vi dettero dentro di
furiosissimo impeto, e gli respinsero forse quaranta passi; allora i
Tedeschi ristettero; lo spazio che li divideva appariva ingombro di
cadaveri: i Francesi vacillavano aborrendo di calpestare i corpi dei
fratelli. Carlo avvisando che da quella incertezza potevano i nemici
prendere tempo a rannodarsi, e forse nascere la perdita della impresa,
esclama: «Su, cavalieri, non badate a calpestarli, sì bene a
vendicarli: quei vostri morti sono lieti di offrirci sui loro petti la
via alla vittoria; _Mongioia! Mongioia!_»--E fu il primo a passare.

«Fate testa, avanti!--fuggirete chi avete in prima
fugato?--Manfredi vi guarda,--vincere o morire,--_Svevia! Svevia!_»
avevano un bel gridare Ghino e Giordano; i soldati andavano a ritroso,
la paura si era cacciata tra loro. Il Monforte imperversava più
fiero degli altri: montato sopra un forte cavallo normanno, menando a
destra e a sinistra la mazza d'arme, faceva aspro governo della gente
di Manfredi; l'osservò Ghino, e lo conobbe dallo scudo, che dopo il
torneamento di Roma deposta l'insegna della Italia rovesciata
riassumeva quella di sua famiglia, che mostra tre sedie rosse
all'antica in campo di argento.--Non dette l'animo al buon Toscano di
contemplare lo strazio, toglieva la lancia ad uno dei suoi, e
correndogli addosso gridava: «Guardati, che sei morto.»

Il Manforte schivò il colpo, e quando Ghino fu trascorso gli trasse
dietro la mazza d'arme, ma non lo colse. Ecco che Ghino, riabbassata
l'asta, sprona di nuovo contro Monforte; questi con fermo volto, e col
cuore tremante, attendeva a ripararsi, allorchè un suo scudiere si
precipita alle spalle di Ghino, e lancia una zagaglia, che passando
là dove la panciera si unisce all'usbergo penetra sotto l'ultima
costa spuria, e ferito a morte lo stramazza per terra.

«Da vero, Raul,» parlò sorridendo Monforte al suo scudiero
«il Cavaliere che hai ucciso era prode uomo, nè meritava morire
a tradimento; nondimeno ben per te, chè uomo spento non fa guerra,
e odore di nemico morto manda odore di rosa.»--Ciò detto, gli
spinse sopra il cavallo, che meno tristo del suo signore sdegnò
calpestarlo.--Stolto! e non sapeva che i cieli gli destinavano morte
mille volte più miserabile. È da credersi che la Provvidenza la
quale fece morire Simone Monforte suo bisavo di un sasso nel capo
all'assedio di Tolosa, Almerico suo avo di una saetta nel ventre sotto
Tolemaide, e Simone suo padre di onorate ferite sostenendo la
libertà degl'Inglesi contro il Re Enrico, contendesse a Guido in
pena della sua barbarie la gloria di cadere sul campo, oggimai
ereditaria nella sua famiglia; preso nella battaglia navale combattuta
tra Siciliani e Napolitani avanti il Golfo di Napoli nel 1287,
conchiuse nello squallore del carcere una vita, che aveva illustrata
di bei fatti d'arme, e contaminata di feroci misfatti.

Il Conte Giordano d'Angalone mirò quella morte; la mirò, e una
tenebra gli si diffuse su l'anima; nondimeno, risoluto di non tornare
in sembianza di vinto là d'onde si era dipartito come vincitore,
trovandosi presso la masnada dei Guelfi vi si lanciò in mezzo,
desideroso della bella morte. Trapassando imperversato molti percuote,
molti stramazza, tanto che giunge allo stendale che in quella giornata
portò Corrado da Montemagno di Pistoia; lo afferra con la manca,
con la destra mena la spada; Corrado a sua posta tiene stretto, e si
difende: i _Paladini_, che così, come abbiamo avvertito nel
Capitolo decimosesto, si chiamarono i dodici Guelfi che condussero a
morte _Tacha_ da Modena, circondano il d'Angalone, e lo trafiggono di
mortalissime punte; non vi bada il prode uomo, e segue la sua
battaglia col bandieraio, il quale, soverchiato da troppo maggior
forza, ferito in più parti, lascia cadersi di sella; al punto
stesso trabocca il d'Angalone, spirando l'anima sul giglio di
Firenze.--Atroci erano gli odii dei faziosi d'Italia in quei tempi,
atroci i fatti; combattevano i fratelli contro i fratelli, i figli
contro i padri, e però non senza commozione trovo nella mia Cronaca
come i Guelfi dessero dopo la battaglia onorata sepoltura al
d'Angalone deponendolo nella fossa stessa con Corrado di Montemagno, e
sopra vi piantassero una croce, che nel braccio diritto presentava il
nome di Giordano, nel traverso quello di Corrado, e pregava il
passeggiero a recitare una requiem all'anime di due forti morti sul
campo.

Spenti i capitani, non fu più modo alla fuga, non si scôrse più
altro che un correre alla dirotta per la campagna, non s'intese che un
gridare: «salva chi può.» In questa maniera rovinando pervennero
dove Giordano Lancia, vinti i cavalieri della Regina, riordinava i soldati
per condurli in sussidio dei suoi. «Ecco i nemici!» bianchi di paura
gli gridavano i primi arrivati.--«Quali nemici?»--«I Guelfi, i
Francesi, una schiera di demoni scatenati.»--«Vengano, col nome di
Dio; siamo qui per combatterli.»

Urtano i sorvegnenti Francesi le schiere del Lancia con inestimabile
valore, e sono con pari prodezza ributtati; rinserrano le file,
tornano alla carica, e di nuovo indietreggiano respinti; fu il terzo
rincalzo il meglio sanguinoso, nè quantunque laceri, peranche si
sbigottivano;--tentarono il quarto;--infiniti i colpi percossi e
ripercossi, infinite le piaghe, infinite le morti; ma il Lancia:
«fermi!» gridava ai suoi, e i suoi confortati dall'esempio non
piegavano un'oncia: combatteva Rogiero nella prima fila; stava la
bandiera di Manfredi nella sua mano salda quanto su la cima di un
torrione; intorno di lei si affollavano con impeto rabbioso i più
prodi, e quando egli l'agitava al vento, sorgeva un grido di gioia, e
il coraggio dei combattenti si raddoppiava.--Allora che assaltiamo,
non vincere significa perdere, e Carlo oggimai conosceva, per quella
ostinata resistenza, disperata l'impresa; l'animo contristandosi
però non si smarriva, anzi più acre per la sventura meditava lo
scampo. Sovente osservammo, l'uomo sfortunato diventare maligno, e
commettere nel disastro tal fatto, cui egli non avrebbe pensato nel
tempo felice. Questo appunto avveniva nel caso presente: ricorse alla
frode il figlio di Francia, e rompendo ogni patto dal diritto delle
genti costituito in quella età, inteso solo ad apportare il maggior
male possibile al nemico, ordinò che prendessero a ferire i
cavalli: fu cotesto comando contro la fede che scambievole si davano i
due popoli guerreggianti su la forma del combattere; ma la vittoria
assolve ogni peccato commesso per acquistarla, e se Grozio
sentenziò,--doversi serbar fede ai nemici, e recare loro il minore
male possibile,--crediamo che lo dicesse di luglio, nè lo avrebbe
confermato di gennaio.

Propagavasi il cenno di Carlo per tutte le file, da ogni parte
sorgeva il grido: «_Agli stocchi! agli stocchi! e ferire i
cavalli_.»--Ponevasi immediatamente in esecuzione; la prima fronte
del Lancia innanzi che avvisasse a difendersi si trovò scavalcata;
il Lancia medesimo ebbe morto sotto il cavallo; gli abbattuti si
ripiegarono in disordine su le schiere che stavano a tergo; si
aprirono queste per preservarli;--gli accoglievano;--solo infelici,
che siccome raccolsero i compagni non poterono ributtare gli
avversarii;--entrarono alla rinfusa; la francese gagliardia, fatta
maggiore per la speranza della vittoria, menava le mani a precipizio;
non mancarono in quell'estremo frangente a sè stessi i soldati del
Re, pari era il valore, disuguale la condizione. Nessuno stimi più
sanguinosa battaglia, o con maggiore prodezza, essersi mai combattuta
negli antichi o nei moderni tempi; lunga stagione la pianura di Santa
Maria della Grandetta esalò vapori pestiferi a cagione del lezzo
che intensissimo mandavano i corpi insepolti; per oltre cinquanta anni
le bianche ossa sparse alla campagna attestarono con quanta rabbia vi
si straziassero migliaia di vittime, ed anche adesso avviene sovente
all'agricoltore tracciando il solco di sentirsi a mezzo trattenere
l'aratro; si abbassa, e trova frammenti di scheletri attraversatisi al
vomere, gli afferra imprecando, e gli sbalestra nel campo del vicino.

Senza elmo in testa, co' capelli rappresi di sudore e di sangue,
ferito nel volto, tenendo nella manca lo stendardo reale lacero, nella
destra la spada dalla punta all'elsa intaccata, si presenta Rogiero a
Manfredi, e da lontano gli grida: «Alla riscossa. Messere lo Re,
alla riscossa!»

«Ch'è questo? lasciano il campo i codardi? Dove è Messer
Ghino?»

«È morto....»

«D'Angalone?»

«Morto....»

«Vendetta di Dio! Baroni, alla riscossa! seguite il vostro Re, egli
vi condurrà alla gloria, o alla morte.»--E spinse il cavallo:
non intendendo che un fievole rumore, volge la testa;--forse dieci lo
accompagnavano; i rimanenti, in numero di mille quattrocento
cavalieri, e forse quattromila fanti, non si muovevano.

«Su presto, affrettatevi! alla riscossa! chè l'indugio è
rovina!» replica Manfredi. La medesima immobilità per la parte
dei suoi. Comincia a chiarirsi il grande inganno; trema il cuore del
Re.---«O miei fedeli Baroni,» riavvicinandosi a loro esclama
smanioso «muovetevi per la vostra salute, pe' vostri figli....
già non voglio rammentarvi qui i miei beneficii,--pensate all'onor
vostro, pensate al vituperio....»

«Noi pensiamo all'anima, noi vogliamo l'assoluzione della
scomunica....»

«Che fingete ora voi? Non combatteste meco contro Papa Alessandro?
Non fa ancora l'anno, non iscorreste voi, armata mano, la campagna di
Roma? Adesso non vi propongo investire la terra altrui, sì bene
difendere il Regno....»

«Il Regno è vostro; difendetelo, se sapete.»

«Sì, lo saprò col valor vostro: usi a militare sotto l'Aquila
del figlio di Federigo, voi non l'abbandonerete a mezzo della
vittoria: il giuramento di fedeltà pronunziato a Monreale, e a
Benevento, adempite: deh! fate che per la seconda volta Manfredi vi
sia tenuto del trono.»

Gli rispondevano dando fiato alle trombe, e volgendo il tergo alla
battaglia:--incredibile tradimento, se le storie del tempo, guelfe e
ghibelline, nol riferissero. I Baroni napolitani, nella medesima maniera
dei Pollacchi nell'antica costituzione, montavano a cavallo nei pericoli
del Regno, e, come essi, formavano la principale, o la più numerosa
parte degli eserciti: chi ha letto la storia di Polonia, si maraviglia
della somiglianza tra i Pospoliti e le masnade dei Baroni napolitani;
medesimo il lusso, medesima la instabilità, le abitudini medesime: solo
diversi, in questo, che i Pollacchi difendevano ciò che reputavano
libertà, i Napolitani la Monarchia. Manfredi che dubitava della loro
fede, li sottoponeva ai suoi proprii comandi, confidando che l'autorevole
presenza gli avrebbe frenati; come rispondessero alle sue speranze
adesso vedeva;--per brevi istanti contemplò sbigottito l'immensa
viltà.--«Stolto!» finalmente proruppe «ed io li pregava!»
Poi levò la mano in atto d'imprecare: «No.... immeritevoli delle
mie imprecazioni, io li condanno a vivere!... me avventuroso! chè,
come il trono, non istanno nelle loro mani la gloria e rinomanza
nostre.»--Volgeva il destriero; col grido e con gli sproni lo stimolava
alla corsa. In quel momento avvenne un caso stupendo: l'Aquila di argento,
che teneva per cimiero, gli cadde su l'arcione.... impallidì
all'augurio fatale, dicendo: _Hoc est signum Dei_, però che questo
cimiero aveva di mia mano appiccato per modo, che non doveva cadere.»

Raccolse, ciò detto, le sue virtù; e da che gli era impedito di
vivere, ruinava nel furore della battaglia per morirvi da Re.




CAPITOLO VENTESIMONONO.

LA VENDETTA.

                Un'alma coronata si diparte,
                E lascia qui del suo gran nome un'ombra.
                O del mondo vivente, o del non nato
                Occhi pietosi, nella morte sua
                Osservate, apprendete
                D'un gran regno che cade, e d'un che nasce
                La vicenda solenne....
                               CLEOPATRA, _tragedia antica_.


Se pietà fu quella che velò in cielo il raggio delle stelle
nell'ultima notte di febbraio del 1265, e gli contese di risguardare
sul campo scellerato, perchè si affaccia ogni giorno il sole
all'oriente per illuminare opere che la notte non ha tenebre
abbastanza profonde per tenerle celate? Un aere uliginoso, pesante,
copre la valle di Santa Maria della Grandella; al fragore dei ferri
cozzantisi, al corruscare delle armi, allo scalpitare dei destrieri,
ai gridi di misericordia e di minaccia, è subentrato il silenzio;--
silenzio e tenebra, spaventosi compagni della morte! solo qua e là
il singulto di un uomo che passa, un implorare di padre, o di figlio
di qualche agonizzante; ma il lamento suona fievole, come il soffio
del vento che agita appena la fronda, e va via, nè turba la quiete
solenne. Tutto è guerra nel mondo: pure la fiera divora, e si
rinselva; noi (non so se più stolti o ribaldi) osiamo vantarci
della strage, e la diciamo vittoria, e ne rendiamo grazie
all'Altissimo, quasi per averlo compagno dei nostri delitti. Piove la
rugiada del cielo ugualmente pietosa su i cadaveri dei Pugliesi e dei
Provenzali; ed io per me quando considero la rugiada principiare e
conchiudere il giorno, penso che pianga la Natura sopra la sciagurata
generazione della polvere.... Oh fosse almeno un giorno esaudito quel
pianto!--Tutti hanno abbandonato i caduti sul campo; cerca il vinto
coll'ansia del terrore un asilo alla vita, che sottrasse alla spada
nemica; il vincitore si affaccenda a bere nelle tazze la dimenticanza
del fratello trafitto; dimani gli pregherà riposo, e gli darà
sepoltura; intanto--morti co' morti, e' pensa di godere.

Avvolto entro una cappa di panno nero, scende un uomo dal colle della
Pietra del Roseto, e volge i passi alla pianura di Santa Maria; lo
precede un grosso mastino, che stringendo tra i denti un lampione gli
rischiara la via; l'abito lo accenna per un santo Frate, la faccia
tiene quasi che affatto nascosta nel capperuccio; tuttavolta dalla
parte che mostra tu lo diresti lo spirito maligno che viene a godere
del frutto della sua tentazione: con le braccia incrociate sul petto,
senza recitare una preghiera, passa tra i morti, li guarda, li
calpesta, e va innanzi. Forse da un'ora cercava sul campo di
battaglia, allorchè proruppe infastidito: «E sì che me lo
avevano giurato morto!» Soprastette alcun tempo, poi riprese a
investigare;--colà dove maggiore compariva la strage, tra mezzo un
cerchio di cadaveri orrendamente mutilati, premendo del piè la
testa di un caduto, intendeva un leggiero lamento.

«Di poca carità! sei tu Cristiano! un Frate del Signore! e
calpesti il capo del moribondo?»

«Chi sei? M'inganna la speranza? Dimmi chi sei?»

«Un uomo che muore.»

Il Frate si nascose maggiormente nel cappuccio, prese il lampione
dalla bocca del cane, lo accostò alla faccia del giacente, e:
«Sei Manfredi!» gridava con gioia bestiale.

«Fui Manfredi, ora sono un uomo che muore; oh! se prima di passare
al tribunale di Dio, tu in carità, santo Frate, volessi....»

«Parla, Re della terra, io godo in ascoltarti.»

«Il cielo dunque mi ti ha mandato.... ma non chiamarmi Re; la
corona che io assunsi col misfatto, l'Eterno me l'ha tolta con la
morte. Vuoi tu udire la mia confessione?»

«È il mio ministero: pure come speri placare la
giustizia?...»

«Intesi sovente che il maggiore peccato commesso da Caino fu
diffidare della misericordia.... lascia a cui può la cura di
perdonarmi, tu porgi l'orecchio.... ti condurrò nell'amarezza
dell'anima mia per tutti i miei anni, accuserò al tuo cospetto le
mie colpe, e tu mi rimetterai la empietà del peccato.»

Il Frate si pose a sedere sopra la terra, lo segnò della mano,
susurrò un'orazione, e gli diceva: «Parla, Re,--io sono
parato.»

«Padre mio, Padre mio, io sto per accusarmi di un delitto che il
cuore mi scoppia a pensarci.»

«Abbi costanza: così tosto diffidi?»

«No, spero. Dalle mie mani fu versato quel sangue, sul quale adesso
sdrucciolando giaccio per sempre; il mio trono grave di una morte
nefanda m'è rovinato sul capo, e meco infrange la mia famiglia....
Vedi, e fremi, Frate, ma non fuggirmi in nome di Dio.... vedi in
Manfredi l'assassino dell'imperatore Federigo....»

«Tu parricida!...»

«Parricida!»--e per lunga ora nessuno ebbe coraggio di schiudere
il labbro.--Ricominciava Manfredi: «Sì, non parlare, tu non
diresti parola che la coscienza non me l'abbia mille volte ripetuta:
nè presumere che la tua lingua laceri quando mi ha lacerato
costei.... Se possono i rimorsi espiare le colpe.... oh! tremendo fu
il mio peccato, ma senza pari il rimorso. Correva la notte del 13
decembre, giaceva l'Imperatore ammalato.... io mi sedeva accanto al
suo letto.... la clamide e la corona imperiali, posavano sopra una
tavola poco discosto da me.... mi assaliva il Demonio; i miei occhi si
affissarono su la corona, pensai al potere, pensai alla conquista....
vidi Re vinti, nazioni debellate ai piè del mio trono.... osservai
entro i secoli futuri, ed ogni secolo mi svelava il mio nome luminoso
di fama.... più mirava i gioielli che l'adornavano, più mi
pareva che splendessero.... stesi le mani per afferrarla.... ahi! le
rattenni a mezzo l'atto.... quantunque io mi stessi tra Federigo e il
diadema, nondimeno la vita dell'Imperatore stava tra me e la corona;
mi si intenebrò l'anima, guardai mio padre,--dormiva,--un lieve
alitare accennava la vita.... Togliti, o morte, invocai dal profondo,
cotesto avanzo di vita!... Presero ad agitarsi le labbra
dell'Imperatore, e a mormorare tra il sonno:--Corrado porterà la
corona, ma la mia gloria è Manfredi, la mia mente.... il mio
braccio....--Povero padre! una voce mi susurrò nelle viscere,--e mi
morsi le labbra in pena dello scellerato pensiero, e la contrizione si
espresse con due grosse lacrime che mi sgorgarono sul volto.... Alzai
la mano per isvegliarlo.... dormiva così tranquillo! e poi faceva
di mestieri a un figlio per non commettere il parricidio che il padre
lo guardasse? Non proseguiva.--La testa che può meditare la morte
di cui l'ha generata è oggimai degna della scure in questa vita,
dell'Inferno in quell'altra.--Il raggio del diadema mi lusingava
più feroce di prima, mi vi struggeva dinanzi con ineffabile
spasimo.... dopo un'ora di meditazione, il parricidio non mi parve
tanto spaventevole.... la gloria e il potere mi abbagliavano come due
Soli.... il misfatto appariva a guisa di un piccolo nuvolo per un
cielo da per tutto sereno.... Dio non vidi, perchè indurato era il
mio cuore.... vinceva il Demonio.... solo il sangue del padre su le
mie mani rappreso.... l'estremo anelito.... il guardo, oh! il guardo
del morente mi tratteneva. In questa intendeva nuovamente ripetere il
mio nome: ben quella voce valeva a rompere l'orribile proponimento....
ormai giù nel precipizio della infamia, non volli ascoltare parola
che mi rimuovesse.... stesi senza pensarvi la mano, ed ella si posò
su la bocca paterna.... impedito nella respirazione, l'aere uscì a
guisa di gemito soppresso.... voltai la faccia.... balenò un
pensiero traverso il mio cervello, e tornò nell'Inferno.... se
l'origliere, sul quale posa la testa dell'Imperatore, gli posasse
sopra la testa.... non sangue.... non isguardo.... Balzai dalla
sedia.... tremavano le gambe.... tremavano le braccia.... grondava
sudore.... tutto il mio corpo era delitto.... m'abbandonava sul
letto.... strappo di sotto l'origliere.... e.... e percuotendolo nel
volto.... mi inginocchio sopra di quello.... io.... Manfredi....
consumo il parricidio.... e le mie membra si atteggiano in sembianza
di colui che scongiura l'Eterno.»

Manfredi vinto dalla fiera memoria si abbandona sì come spasimato;
poco ormai gli rimaneva di vita, e pure lo affanno più profondo che
avesse sofferto doveva amareggiargli quelle ultime ore: stendeva,
appena rinvenuto, brancolando le mani, nè occorrendo nell'oggetto
che ricercava proruppe: «Ahi! che s'è fuggito il Frate.... lo ha
cacciato il racconto....»

«Non mossi membro, non ho mutato fianco, Re;» di una voce
soffocata risponde il confessore.

«Non hai sentito drizzarti i capelli su la fronte?»

«Prosegui ad accusare i tuoi maggiori delitti....»

«Maggiori! Non ti fa fremere, Frate, il parricidio?»

«Il mondo non ha reato che valga a illanguidire un momento, o ad
accelerare i moti del mio polso... confessa... confessa.»

«Te non nudrirono dunque i precetti del Vangelo? Non accusa a Frate
le sue colpe Manfredi?»

«Anima innocente venni tra gli uomini, si compiacque la madre del
gentile portato, incessanti suonarono le grazie di mio padre pel
virtuoso figliuolo; amai nell'aurora avventurosa dei miei giorni ogni
oggetto creato, il buono perchè buono, il malvagio perchè poteva
diventare buono; mi avvelenava un codardo la vita, sul cammino della
perdizione mi spingeva,--io l'ho percorso:--la tua confessione non
poteva ascoltarla, che un demonio, e tu, Re, mi rendesti
demonio....»

«Le tue parole.... il furore....»

«Rendimi la mia innocenza.... la mia innocenza.... io sono il
Caserta: contempla la mia sembianza disfatta dal dolore: tue sono le
mie colpe.... in me saranno punite, ma la giustizia le aggiungerà
ancora ai tuoi supplizii.»

«Toglimiti dinanzi.»

«Dinanzi! perchè? Non sono venuto, quasi invitato a banchetto
nuziale, alla tua morte?»

«Ed io muoio....»

«E non corrono ormai venti e più anni, che ho tolto i tuoi
ultimi aneliti per cagione del mio vivere?»

«Vattene, ti scongiuro.»

«Per cui vuoi tu scongiurarmi? per Dio forse? L'ho rinnegato per
te. Pel mio onore forse? Tu me lo hai rapito. Per l'amore di mia
donna? Tu me l'hai contaminata. Pe' miei figli? Per te fui padre di
prole non mia. Cessa adunque, o Re, dallo scongiuro.»

«Fuggono le potenze dell'Inferno al segno della croce; non
cesserà l'uomo di tormentare alla preghiera dell'agonizzante?»

«No:--concedi anzi, mio Re, ch'io mi sieda a godere la convulsione
della tua agonia.»

«Ma vattene, feroce! lasciami morire in pace.»

«No.--Tu hai empiuto una coppa di disperazione; or non contendermi,
Re, che il mio spirito esulti di apprestartela ai labbri.»

«La tua coscienza....»

«La mia coscienza! Non te l'ho io detto che spaventerebbe Satana
stesso? non ti ho io detto ch'ella è opera tua?»

«Traditore!...»

«Taci, vituperato. Non sei tu quegli che fingendo amicizia mi
rapisti l'amore di colei ch'io amava di rabbioso delirio? Tu fosti il
traditore, quando ebbro di potenza aggravasti il mio capo d'infamia:
guardati, abbietta creatura, di mandare un sospiro; o se nel furore
che ti agita senti il bisogno di maledire,--maledici te stesso;--io
sono giunto a prostrarti, ed io ti calpesto.»

«Se la voce del Re, quantunque s'inalzi dalla polvere, altro
giudice degnasse tranne l'Eterno, ti direbbe, che prima che per te
fosse strascinata la Spina avanti l'altare, me amava, me suo sposo
all'intemerato seno stringeva....»

«Ti amava.... e fu punita....»

«Non periva nello incendio del castello?»

«Io la trafissi....»

«Ah! Dio ti perdoni....»

«E versai la mia colpa su la tua testa.»

«Ella non mi accuserà.... anima per anima.... quello che può
difendersi sarà difeso.... per l'altro fammi misericordia, o
Signore....»

«È tardi;--mal soddisfi alla colpa sul limitare della morte: non
rammenti quello che sta scritto nella legge?»

«Rammento che orribili furono li peccati miei, ma la infinita
bontà ha sì gran braccia che ripara chiunque le domanda
perdono....»

«Sta scritto:--io ti ho steso la mano, e tu non mi hai badato; ti
ho chiamato, e tu non mi hai risposto; tenesti a vile il mio
consiglio, le mie rampogne sprezzasti; adesso rido su la tua morte, ed
esulto se quello che temevi ti ha colto.»¹

  ¹ Vocavi, et renuistis; extendi manum meam, et non fuit qui
    aspiceret; despexistis omne consilium meum, increpationes meas
    neglexistis; ego quoque in interitu vestro ridebo, et subsannabo;
    quando id quod timebatis advenerit. (Prov.)

«Ma egli è pur scritto:--della pietà del Signore è piena
la terra, e l'Onnipotente salverà la creatura con la misericordia,
non già con la giustizia.» ¹

  ¹ Misericordia Domini plena est terra. (Psal) Non ex operibus
    justitiæ quæ fecimus nos, sed secundum suam misericordiam
    salvos nos fecit. (Act. Apost.)

«La misura dell'ira è colma,--sei condannato,--io ti dico che
speri invano.»

«Tu speri invano, se credi disperarmi in questi estremi momenti,
che una pietà profonda mi allegra con la speranza.... Intendi,
uomo, il susurro dei tuoi vermi? Essi ti diranno che mentre pensi di
tormentare, tu stesso ti senti qui tormentato....»

«Certo, io sono quegli che adesso vedo scoperchiarsi i sepolcri, e
sorgerne le anime del padre, dei fratelli, dei figli, da me uccisi,
per circondare il mio letto di morte; io che intendo lo scherno, io le
risa con le quali accompagnano il mio transito.... per te scendono gli
Angioli del Paradiso, e ti apportano la pace; per te si parte dal
trono dell'Onnipotente un raggio di gloria, sul quale ascenderà
alle gioie celesti l'anima beata... Dimmi, perduto, che opporrai nel
giorno del giudizio alla strage di tuo padre?»

«Il mio pentimento...»

«A quella di Corrado?»

«Il mio pentimento...»

«A quella di tuo figlio...»

«Qual figlio?»

A breve distanza s'intende una voce lamentosa che mormora:
«Yole!»--Balza in piedi il Caserta, osserva un moribondo, lo
prende sotto le ascelle, e senza rispetto alla sacra ora in che l'uomo
chiamato ad altri sensi combatte anche per poco la forza della
estinzione, lo strascina contro Manfredi; giuntogli davanti, glielo
getta nel grembo, urlando ferocemente: «Eccoti il figlio... oh! la
mia vendetta è piena.»--Poi torna a sedere, e volge la luce
della lanterna sopra que' volti per contemplarne la espressione.

Manfredi riconosce il morente, gli cinge le braccia intorno ai
fianchi, e sorreggendolo dolora: «O Rogiero! o figliuol mio! già
il cuore me lo diceva... qual ti riveggo, Rogiero!»

Apre a fatica le gravi pupille lo infelice giovane, e domanda: «Or
dove mi hanno tratto?»

«Tra le braccia di un Re... tra le braccia di un padre!»
risponde il Caserta.

«Padre!--Re!--Chi padre? Tu forse, Manfredi?»

«Ahi sventura! al figlio del peccato, abbracciamento di
sangue!...»

«Tenebra di dolore angustiava i miei anni... vissi la vita del
pianto... delitti, ambasce, rimorso... oh! tutto è ricompensato
dalla soavità dell'amplesso... io benedico la vita...»

«Godi nelle braccia del padre che tradisti... godi del padre
parricida!»

«Da cui muove questa voce, padre? ella m'inasprisce le
piaghe...»

«È voce di schiavo che insulta alla morte del signore...»

«È del Caserta; la riconosci, Rogiero?»

«Ti riconosco per empio... ma bada, breve gioia è quella che
deriva dall'altrui pianto... fiero destino ti aspetta, Rinaldo...
Accenni del capo, e mi deridi? Nello abisso della miseria ove ci getta
la tua perfidia io contemplo il tuo fine, e parmi sedere sopra un
trono di gloria... Ahimè! fuggono le parole alle labbra... padre, è
salva Yole?»

«Salva»

«Menti, è prigione.»

«Egli ha detto prigione... A chi affidasti la diletta?»

«Non lo rimembri? Al Procida.»

«Allora morditi la lingua... serpente, ella è salva; Padre, ti
lascio...»

«Oh figliuol mio!»

«Perchè piangete voi? Io vedo la morte con quella stessa gioia
con la quale io ti vidi, o mio tradito genitore... sono i miei casi un
fremito... terminarli è pietà... Acqua battesimale mi fu il
sangue della madre... olio santo mi è il sangue del padre... anima
più deplorabile è mai vissuta nel mondo?»

«Oh figliuol mio!»

«Stringimi forte... porgimi la mano, o padre,... corro al premio
della sventura.»

Si reca la mano paterna alla bocca, e la bacia; poi si sforza
d'imporsela sul capo: sviene a mezzo dell'atto; ricade la destra di
Manfredi,--la vita di Rogiero è già spenta.

Chi vorrebbe biasimarmi, se, come Timante velava la faccia di Agamennone,
io passo senza descriver le le sensazioni che abitarono Manfredi? Chi lo
potrebbe? Chi lo tenta nemmeno? Taccio del quarto d'ora che corse tra la
morte di Rogiero, e queste parole che il Re profferiva: «Nè così
tranquilla sarà la nostra agonia, pure l'affretto col desio... e sento
che giunge. Rinaldo, presto a comparire al tribunale dell'Eterno io non
voglio lasciare oggetto di odio sopra la terra... bisognevole dell'altrui
perdono, io ti concedo il mio... se tu mi abbi offeso lo vedi... e tu
perdona... valgaci il mutuo amore... prendi, prima che sia irrigidita, la
mia mano...»

«Non toccarmi;--io sono venuto a vederti morire, non a
perdonarti.»

«E bene, io muoio... e ti perdono...»

«Io vivo, e ti detesto.»

Allora Manfredi cadde riverso, nè andò molto che prese a
singhiozzare forte, e ad esclamare tra i singulti: «Non favellarmi
mite... oh! non mi ti mostrare placido... dimmi parricida... straziami
con la rampogna degli occhi, padre mio. Che fai? perchè mi asciughi
la fronte, Corrado? il lino è diventato vermiglio... vi stava sopra
del sangue rappreso... è tuo... Oh! egli mi bacia dove stava il suo
sangue... benedetto dal Signore... il regno dei cieli... piangerò
milioni di secoli... così dolce chiama il sepolcro? lo spirito
mio... la gioia della luce... mi raccomando.»

Il Conte di Caserta intento, chino sul volto di Manfredi, per notare i
sospiri, l'agitarsi dei muscoli, le più leggiere contorsioni dei
labbri,--allorchè lo vide spirato, si levò impetuoso, e gittata
la lanterna si dette a correre a precipizio pel campo di battaglia:
spesso su qualche cadavere stramazzava, spesso inciampando nelle armi
sparse si feriva; pareva non sentisse più nulla; strette le
mascelle, le pugna tese, digrignava tra i denti atroci bestemmie, di
tratto in tratto si pestava su per la bocca, e per le guance, ed
ululava: «Egli è morto,--e non si è disperato.»

                       --------

Qui ha fine la Cronaca nostra; se non che correndo tra i Novellieri la
usanza di accompagnare i propri eroi all'altare, o al sepolcro, egli
è mestieri che non potendo io avviarli al primo, gli segua al
secondo. E primamente favellando di Carlo d'Angiò Conte di
Provenza, trovo nelle Storie, come dopo la giornata di Benevento
senz'altro contrasto il Regno di qua dal Faro occupasse, nè con
minore fortuna l'isola di Sicilia vincesse: in qual modo ei reggeva,
perchè la sua potenza nell'universa Italia a declinare cominciava,
come finiva, già non racconterò io, che forse potrebbe prestare
soggetto a cui volesse continuare la storia fino alla celebre
rivoluzione dei _Vespri Siciliani_; solo volgarizzando con la
fedeltà che posso maggiore uno squarcio di Niccolò Jamsilla
cronista vivente in quei tempi, mostrerò ai lettori quanto
stoltamente si affidassero i Baroni del Regno nella fede francese:
soffrirono insolite gravezze, sotto lo incomportabile peso della
tirannide straniera curvarono, ebbero lo scherno per giunta; osservino
gl'Italiani lo esempio, e facciano senno, se possono. «O Re
Manfredi!» esclama lo Jamsilla «in fondo di tutta speranza,
adesso quale tu fosti conosciamo, e dolorosi deploriamo. Te, lusingati
dalla speranza del presente dominio, lupo rapace tra i quieti agnelli
reputammo; e mentre larghezza di premii in guiderdone della slealtà
nostra ansiosi attendevamo, te, troppo tardi, mansueto agnello
conoscemmo. Ora che con l'asprezza del nuovo impero lo paragoniamo, la
soavità del tuo ci è manifesta. Sovente menavamo querele
perchè i nostri piivilegii in parte di potenza della tua Maestà
si convertissero; adesso i beni in prima, poi le persone, siamo
costretti ad offrire in preda del rigido straniero.»

Di Manfredi io non voglio esporre il miserabile fine con parole diverse da
quelle che adopera il Cronista Villani, di tanto più veritiere, in
quanto che essendo egli di parte guelfa ripone ogni suo studio in
abbellire le generose opere di Carlo, e in onestare le triste: «Più
di tre dì si cercò il corpo di Manfredi, nè si trovava; e non si
sapea se fosse morto, o preso, o scampato, perchè non aveva portato
armi reali in battaglia. Alla fine uno ribaldo di sua gente lo conobbe per
più insegne di sua persona nel mezzo del campo, ove fu l'aspra
battaglia. Trovatolo il detto ribaldo, il pose a traverso di un suo asino,
e venía gridando: _chi accatta Manfredi?_ Allora uno Barone del Re
Carlo lo batteo forte di un bastone, e il corpo di Manfredi portò
innanzi al Re, il quale, veggendolo, chiamati tutti i Baroni ch'erano
presi, e domandatigli ciascuno, s'era il corpo del Re Manfredi, tutti
temorosamente dissono di sì. Ma quando venne il Conte Giordano Lancia
sì si diè delle mani nel volto piangendo, e gridando: _Oimè!
signor mio, che è quel ch'io veggio! signor buono, signor savio, chi ti
ha così crudelmente tolto di vita! Vaso di filosofia, ornamento della
milizia, gloria dei Regi, perchè mi è negato un coltello ch'io mi
potessi uccidere per accompagnarti nella morte?_¹ Onde fu molto
commendato dai Baroni franceschi.» (E Carlo pure assai lo commendava,
ma non si rattenne per questo dal farlo vilmente morire nelle carceri di
Provenza.) «Fu lo Re Carlo per alquanti Baroni pregato che gli facesse
fare onore alla sepoltura. Rispose lo Re: _le fairois-je volontiers, si
lui ne fùt excommunié_. Ma perchè era scomunicato, non volle lo
Re Carlo che fosse recato in luogo sacro; ma a piè del ponte di
Benevento fu seppellito, e sopra la sua fossa per ciascuno dell'oste fu
gittata una pietra, onde vi si fece uno grande monte di sassi.» Fin qui
il Villani. Cantando la dolente vicenda, il divino Alighieri aggiunge
averlo l'Arcivescovo di Cosenza Bartolommeo Pignattelli, per comandamento
di Papa Clemente, fatto estrarre di sotto quel tumulo, e gittare allo
scoperto fuori del Regno su le rive del fiume Verde, oggidì conosciuto
col nome di Marino, il quale scorre presso Ascoli!...

  ¹ Le parole contrassegnate sono dello Jamsilla, volte in italiano
    dal Giannone.

    «Se il Pastor di Cosenza, che alla caccia
      »di me fu messo per Clemente, allora
      »Avesse in Dio ben letta questa faccia,
    »L'ossa del corpo mio sarieno ancora
      »In co' del ponte presso a Benevento,
      »Sotto la guardia della grave mora.
    »Or le bagna la pioggia e move il vento
      »Di fuor dal Regno, quasi lungo il Verde,
      »Ove le trasmutò a lume spento.»

Ghino di Tacco, quantunque ferito a morte, fu trasportato dai suoi
fedeli in luogo sicuro, i quali tanto s'ingegnarono, ch'ebbero due
medici riputatissimi, e nelle mani loro l'affidarono, perchè ogni
accorgimento dell'arte adoperassero per sanarlo. Visitatolo da capo a
piedi, l'uno avvisò che avesse piagato il polmone, l'altro lo
contese, ragionarono una intera notte senza ragione: alla mattina, non
vedendosi persuasi, misero mano alle daghe per convincersi meglio:
poco mancò che per sanare un ferito due non si uccidessero.
S'interponevano i masnadieri infastiditi dal disonesto oltraggiarsi,
ed ordinarono con severo cipiglio che tacessero, e badassero a
guarirlo, o mal per loro. Allora muti, chi prese a forargli le vene,
chi a dargli bevande da invigorirlo; questi voleva non si cibasse,
quegli si cibasse, e bevesse; come Dio volle, la buona natura di Ghino
vinse ogni ostacolo, e guarì. Disse la gente cotesta guarigione un
miracolo, ed in fatti fino allora non si aveva memoria di
sopravvissuto alla scienza di due medici. Ritornato nel processo dei
tempi al castello di Radicofani, continuava, detestandolo, il mestiere
di rubare le strade, quando sul finire del secolo avendo preso
l'Abbate di Clugnì che se ne andava ai bagni di Siena, così lo
seppe innamorare delle sue virtù, che il buon Prelato lo pacificava
con la Chiesa, e Papa Bonifazio VIII, _sì come colui che di grande
animo fu, e vago dei valenti uomini_, lo chiamava a Corte, gli donava
una prioria dello spedale, e lo fe' Cavaliere; la quale storia
potrà chiunque ne abbia vaghezza conoscere, leggendola nell'ultima
Giornata del _Decamerone_.

Per quanta diligenza poi io vi abbia posta, non sono mai giunto a capo
di soddisfare la mia curiosità intorno l'Amira Jussuff: egli è
possibile che sia morto in battaglia; possibile ancora che abbia avuto
il destro di riparare nell'Affrica; non pertanto io non accerto
dell'uno nè dell'altro, e lascio alla coscienza del lettore di
credere qual più gli torna dei due.

Suonò lunghissimo tempo pel Regno spaventosa la fama della morte di
Rinaldo d'Aquino; l'età l'assorbiva nella dimenticanza; adesso,
come vuole fortuna, viene per me richiamata alla memoria degli uomini.
Invitato a Corte dal Conte di Provenza, ricusava; e Carlo, a cui non
parve vero godere del benefizio senza pagare mercede, lasciò
volentieri che si ritirasse a vivere separato dal mondo. Rinaldo nella
solitudine del suo castello meditando incessante i commessi delitti, e
la vendetta, travagliato dall'aspide del rimorso, non parendogli che
dalla morte avvenuta di Manfredi gliene derivasse quel conforto che ne
sperava prima che avvenisse, vegliando le notti errante per le sale
del vuoto palazzo, sussurrante nella febbre del dolore orribili
imprecazioni, timoroso della luce del sole, come dell'aspetto di un
nemico, aborrente ogni umana sembianza, osava un giorno gettare uno
sguardo dentro l'anima sua, e maravigliava come la sopportasse più
oltre albergatrice del corpo;--statuì morire. Scese verso sera nel
cortile; e ragunata la famiglia, con molti presenti l'accomiatava,
protestando volersi rendere a vita diversa; intese la famiglia avesse
fatto proponimento di entrare in qualche chiostro, e molto lo commendava:
egli era stato per lei signore cortese, gli si prostrò davanti, e
pianse menando doloroso rammarichío; forse in quel punto la toccò la
perdita del guadagno,--forse era pietà sincera;--basta,--quel che fu
vero fu il pianto; voleva la benedicesse, con iterata istanza lo
supplicava pregasse per lei. Rinaldo l'ascoltava come uomo smemorato;
rinvenne all'improvviso, e riassumendo la baronale fierezza ordinava, si
levasse, e partisse.--Tacito tacito andava ognuno alla sua cameretta a
meditarvi disegni, onde provvedere agli anni che gli rimanevano a vivere.
Alla dimane uno scudiero, al quale il nuovo comando non aveva potuto fare
obbliare le antiche costumanze, non vedendo comparire il Conte all'ora
consueta, andò pianamente alla sua camera, e porse l'orecchio in
ascolto;--non intendeva nulla:--appressò l'occhio al foro del serrame:
e mirava il suo signore appeso per la gola; leva un altissimo grido il
servo fedele, e raddoppiate le forze per la intensità dello affanno,
spinge l'usciale per modo, che scassinato lo getta in mezzo della stanza.
Il Conte Rinaldo aveva sovrapposto uno sgabello al letto, dipoi appiccato
il capestro al trave, adattatoselo intorno al collo, e dato di un calcio
allo sgabello era rimasto sospeso. Stava sul capezzale uno scrignetto
aperto,--il teschio di Madonna Spina era il tesoro che conteneva.--Ben
egli mostrava livido il sembiante, gli occhi sporgenti dal ciglio, la
bocca torta; tuttavia non sembrava anche defunto. Il servo, cavato il
coltello, con gran lamento correva verso Rinaldo per tagliare il laccio:
il mastino del Caserta cacciato sotto del letto, avvisando che il servo
volesse fare qualche mal tratto al padrone, gli si avventa rabbioso, e
l'afferra alla strozza; schermivasi il servo come meglio poteva, e a gran
voce chiamava aiuto; tanto chiamò, che alla fine fu inteso da alquanti
dei suoi compagni: accorsero, legarono il cane; e tolto il laccio al
Caserta, lo deposero sul letto.--Deplorabile caso! la lingua nera gli si
insinuava tra i denti che la mordevano; gli gocciava giù dalle narici e
dalla bocca una bava sanguinolenta; le dita livide, e contratte, il collo
lacerato, il corpo rigido:--lo scinsero: taluno gli accostò ai labbri
la lama del pugnale per tentare se l'appannasse col fiato, tal altro
empiendo una coppa gliela sovrammise al ventre, affermando, secondo
l'errore del tempo, che se il polmone respirasse, l'avrebbe agitata.
Tornati vani cotesti esperimenti, cominciarono a vellicarlo nelle parti
più delicate del corpo, poi a inciderlo, a scottarlo,--e' fu l'opera
gittata;--forse se il servo avesse súbito reciso il capestro, è da
credersi che lo avrebbe salvato; il tempo che lo rattenne il mastino
conchiuse per certo la vita allo infelice Caserta. Se caso fu quello che
punì Rinaldo del tradimento commesso contro Manfredi con la fedeltà
del suo cane, bisogna dire che il caso talora è più sapiente della
giustizia: se poi destino dei cieli, che stranamente bizzarra era la
pena.--Angiolo di Costanzo nella Storia del Regno, desiderando purgare la
fama del Conte Rinaldo, racconta, ch'essendo stato avvisato da certo suo
fante come il Re si fosse giaciuto con la Contessa, _volendo procedere da
Cavaliere, e seconda i termini dell'onore_, mandasse segretamente, senza
palesare il suo nome, a Roma, dove sapeva che appresso Re Carlo era il
fiore dei Cavalieri di quel secolo, un suo famigliare, il quale propose
avanti il collegio di quei Cavalieri, se fosse lecito al vassallo in tal
caso insorgere contro il suo Re, e mancargli di fede: il che, come
penseranno i lettori, fu deciso _dai cavalieri, e letterati che venivano
presso Re Carlo_, non solo potersi, anzi doversi fare. Io per me nato
popolano non conosco come il Cavaliere proceda, nè in che faccia
consistere i termini dell'onore, ma penso che tradimento sia pur sempre
tradimento; nefanda cosa mancare di fede a colui al quale si aveva in
prima giurata: se male fece Manfredi, peggio aver fatto il Caserta; la
scelleranza altrui non diminuire la propria, non compensarsi le infamie;
che se ad ogni modo voleva vendicarsi Rinaldo, si vendicasse contro
l'offensore però, non contro i popoli, nè col chiamare lo straniero
ad opprimere la patria;--devono il pugnale, e il veleno, meno biasimevoli
reputarsi di questa turpe vendetta.

Giovanni da Procida riserbato a vendicare la famiglia di Manfredi, non
giungeva a salvarla. Riparato in Lucera, mandava alla marina per
trovare galea o saettia, che valesse a trasferirla in Catalogna: i
messi caduti nelle mani del nemico perivano. Lucera, stretta
d'assedio, ferocemente si difendeva: certo non si sa in che cosa
sperasse; mancavano i cibi, ed il presidio ogni giorno si
assottigliava; ma il Procida protestava non entrerebbe Carlo nella
terra finchè vi fosse anima viva: tentato a tradire, gettava di
propria mano il vergognoso ambasciadore dalle mura della città;
ciò che uomo può operare, aveva operato; sul cammino della fame
si approssimava la morte. Sia che il lungo assedio infastidisse Re
Carlo, sia che diffidasse vincere con forze di tanto soverchianti,
ricorreva alle frodi: proponeva al Procida cedesse la terra, dacchè
il resistere tornava in vano; avrebbe egli investito Manfredino del
Principato di Taranto, e delle altre possessioni lasciate per
testamento dell'Imperatore Federigo a suo padre Manfredi; nessuno
ligio omaggio, nessuna cessione su la corona di Napoli esigerebbe; per
sicurezza dei patti impegnava la parola di Re: ammirare poi la rara
fedeltà del Procida, che di così generosa resistenza tutelava la
causa del suo signore, volerla ricompensare ad ogni modo; bella
virtù essere la fede, nè meno lodevole, perchè avversa ai
proprii disegni; lo terrebbe pel più fidato amico, sì come lo
aveva avuto pel più generoso nemico.--Il Procida non voleva cedere,
sospettoso della lusinga; ve lo costrinsero gli assediati. Carlo
angioino serbava la promessa a Manfredino svevo nel modo stesso che
Enrico svevo la serbava a Guglielmo normanno: così in quei tempi
remoti si assomigliavano i Re nella fede!--Elena, Yole, Manfredino, e
il Procida, rinchiusi nel Castello dell'Uovo con nuovo esempio
attentarono, non doversi i vinti affidare che alla fossa; potè non
pertanto il Procida ingannare le guardie, e calarsi dalla torre e
fuggire: assunta per cagione di vita la vendetta di Manfredi, così
si adoperò in Arragona presso Re Pietro, così in Costantinopoli
presso l'Imperatore Paleologo; tanto commosse i suoi compatriotti, cui
egli con incredibile ardire andò a trovare in Sicilia; tanto Papa
Niccolò degli Orsini, nella Corte del quale si conduceva vestito da
Frate, che dopo tre anni di viaggi continui, d'impedimenti, e di
pericoli, ribellò la Sicilia al Re Carlo, vi restituì Gostanza
figlia di Manfredi, e, tranne un solo, spense quanti Francesi
dimoravano nell'isola:--maravigliosa storia, che, dove di alcuno
sguardo benigno mi fosse cortese la fortuna, non ischiverei fatica per
aggiungere a questa.--Elena, e i figli, non comparvero mai più alla
luce; quanto vivessero, come morissero, è un mistero di delitto.
Corso un tempo il racconto come nella notte d'Ognissanti, dopo che la
campana aveva suonata a mattutino, s'intendesse un grido nella torre
occidentale del Castello dell'Uovo, e di lì a poco un'anima
scettrata, radendo velocissima per li spaldi senza mutare i passi, si
dirigesse alla cappella; non osavano le scolte aspettarla ferme al
loro posto, fuggivano tutte a quell'ora a ricovrarsi entro i
quartieri: una volta certo soldato guascone, incitato dai compagni e
dal vino, osò tener dietro all'anima, ed entrare nella cappella con
lei; alla mattina fu trovato steso senza sentimento sul terreno: e
richiamato alla vita narrava, come l'anima scettrata genuflessa
innanzi l'altare aveva percosso una lapida, e dall'avello scoperchiato
erano assorte due altre anime, una di fanciulla, l'altra di garzone,
le quali, gittandosi al collo della prima, l'avevano abbracciata, come
si suol fare tra cari parenti ed amici; che poi si erano messe a
pregare fervorosamente innanzi la immagine di Nostra Donna: la
immagine supplicata, volgendosi al figliuoletto che teneva in braccio,
gli aveva favellato:--Compiaci, dolcissimo figlio, alle dolorose;--al
che nulla rispondendo il figliuolo, la Vergine levatasi in piedi lo
poneva sopra l'altare, e gittandosegli davanti a misericordia lo
scongiurava di nuovo:--Compiaci, dolcissimo figlio, alle dolorose:--al
quale prego, il sacrato fanciullo, raccolto nella palma alquanta di
sangue che grondava dal seno dell'anima scettrata, aveva scritto
diverse parole su la mensa: allora le lampade si erano spente, un
terremoto aveva scosso la cappella, ed egli erasi sentito stramazzare
per terra. Accorsero all'altare e di fresco sangue vi trovarono
scritto _Vendetta_;--lo rimossero, ma gli anni susseguenti pel dì
dei Morti ve lo rivedevano più vermiglio di prima, nè cessò
mai di comparire fino alla strage dei _Vespri Siciliani_. Colui che
può tutto, poteva anche produrre il mentovato miracolo; tuttavia
stimo si debba attribuire alla superstizione, la quale però
dimostra quanto fosse il concetto mal talento dei popoli, i quali si
persuadevano che il Cielo fosse collegato con loro per procurare la
vendetta.

                       --------

Quale è la morale di questo libro? La scempiezza, che parla come
l'ebbro cammina, già si appresta a maledire:--maledica.--Se
gl'intelletti usi a speculare addentro la ragione delle cose
conosceranno per questa storia sì come nasca dal misfatto la
vendetta, e con interminabile vicenda dalla vendetta il misfatto;
come, allorchè la virtù non ha più vaghezza che piaccia,
nessuno argomento per contenere l'uomo da mal fare--il meglio che
avanzi è spaventarlo con gli effetti stessi del male, frenarlo
insomma col terrore, dacchè con l'amore non possiamo: se
conosceranno, dico, sì fatte verità, non dubito la morale del
libro non sia per comparire oltre quella che io aveva meditato
instillarvi.

Quale è il merito dell'opera?--Secondo il lettore.

Costume degli antichi e dei moderni scrittori fu preporre alle proprie
opere una prefazione dottamente noiosa, nella quale protestano tenere
per gradite quelle critiche che saranno ragionate: accidioso per
indole, e per sistema, io do licenza a chiunque scrivere e parlarne
delle stolte. Ma se il cieco maligno, che scongiura morta la luce
perchè i suoi occhi non ne bevono il raggio,--ma se il giornalista,
che dietro la trinciera di una lettera dell'alfabeto attende a
scoccare le frecce del vituperio dalla corda di pelo di volpe,
pensassero al mio spirito contristato dal bisogno di andare
limosinando i volumi dai quali ricavare con istudio incredibile le
notizie per ordire le storie, se al nuovo stile, se al nuovo soggetto,
al paese nel quale mi sbalestrò la fortuna,--nè aggiungo parola
per carità di patria,--il biasimo non oserebbe nemmeno sussurrare
nel segreto delle menti, e ammirerebbero la costanza.... pure l'ho
detto,--io concedo a cui piace, favellare stolto a suo senno.

Intanto, lettore, addio:--meditando su questa parola mi sembra non
solo che suoni lamentevole per le sensazioni che suscita, ma ed anche
per un mesto accozzo delle lettere:-addio;--se lo sconforto che sento
nel dartelo, tu lo sentissi per metà nel riceverlo,--oh! il premio
avrebbe sorpassato la speranza.


FINE.


  INDICE.

  Avvertimento dell'Editore
  Al benevolo Lettore
  CAPITOLO  I. Furore
     --     II. Amore
     --    III. Il primo bacio
     --     IV. Offesa
     --      V. Inganno
     --     VI. Lega Lombarda
     --    VII. La Casa di Svevia
     --   VIII. Manfredi
     --     IX. Il prigioniero
     --      X. Il propagginato
     --     XI. Il pellegrino
     --    XII. Messinella
     --   XIII. Il cuore morso
     --    XIV. La testa del giudice iniquo
     --     XV. La fine del traditore
     --    XVI. Il Cavaliere _del fulmine_
     --   XVII. Il rimorso
     --  XVIII. La estrema unzione
     --    XIX. Lo indemoniato
     --     XX. La congiura
     --    XXI. La spia
     --   XXII. Disperazione
     --  XXIII. La sorpresa
     --   XXIV. La prova di Dio
     --    XXV. La fuga
     --   XXVI. Il Saracino
     --  XXVII. La notte dolorosa
     -- XXVIII. La battaglia di Benevento
     --   XXIX. La vendetta












End of the Project Gutenberg EBook of La battaglia di Benevento, by 
Francesco Domenico Guerrazzi

*** END OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK LA BATTAGLIA DI BENEVENTO ***

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work, (b) alteration, modification, or additions or deletions to any
Project Gutenberg-tm work, and (c) any Defect you cause.


Section  2.  Information about the Mission of Project Gutenberg-tm

Project Gutenberg-tm is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of computers
including obsolete, old, middle-aged and new computers.  It exists
because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from
people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need, is critical to reaching Project Gutenberg-tm's
goals and ensuring that the Project Gutenberg-tm collection will
remain freely available for generations to come.  In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg-tm and future generations.
To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation
and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4
and the Foundation web page at http://www.pglaf.org.


Section 3.  Information about the Project Gutenberg Literary Archive
Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service.  The Foundation's EIN or federal tax identification
number is 64-6221541.  Its 501(c)(3) letter is posted at
http://pglaf.org/fundraising.  Contributions to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent
permitted by U.S. federal laws and your state's laws.

The Foundation's principal office is located at 4557 Melan Dr. S.
Fairbanks, AK, 99712., but its volunteers and employees are scattered
throughout numerous locations.  Its business office is located at
809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887, email
[email protected].  Email contact links and up to date contact
information can be found at the Foundation's web site and official
page at http://pglaf.org

For additional contact information:
     Dr. Gregory B. Newby
     Chief Executive and Director
     [email protected]

Section 4.  Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg-tm depends upon and cannot survive without wide
spread public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment.  Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States.  Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements.  We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance.  To
SEND DONATIONS or determine the status of compliance for any
particular state visit http://pglaf.org

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
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against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States.  U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg Web pages for current donation
methods and addresses.  Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card
donations.  To donate, please visit: http://pglaf.org/donate


Section 5.  General Information About Project Gutenberg-tm electronic
works.

Professor Michael S. Hart is the originator of the Project Gutenberg-tm
concept of a library of electronic works that could be freely shared
with anyone.  For thirty years, he produced and distributed Project
Gutenberg-tm eBooks with only a loose network of volunteer support.

Project Gutenberg-tm eBooks are often created from several printed
editions, all of which are confirmed as Public Domain in the U.S.
unless a copyright notice is included.  Thus, we do not necessarily
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