Racconti

By Ferdinando Martini

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Title: Racconti

Author: Ferdinando Martini

Release date: March 31, 2025 [eBook #75764]

Language: Italian

Original publication: Milano: Treves, 1888

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK RACCONTI ***


                                RACCONTI


                                   DI
                           FERDINANDO MARTINI


                          PECCATO E PENITENZA.
                      L’ORIOLO. — GITE AUTUNNALI.
                              LA MARCHESA.



                                 MILANO
                        FRATELLI TREVES, EDITORI
                                 1888.




                          PROPRIETÀ LETTERARIA

                      _Riservati tutti i diritti._

                         Tip. Fratelli Treves.




L’ORIOLO.

                               _Alla signora Caterina Pigorini-Beri._


I.

Nel bel mondo fiorentino le stravaganze della marchesa Adriana erano
da un pezzo famose. Per dirne una: le ragazze sono fatte, sì o no,
per prendere marito? Che restino in casa, aspettando chi non viene,
le brutte e le povere si capisce; ma che lei, Adriana di Roccamare,
lei ricca, lei bella, lei di una delle famiglie più illustri d’Italia,
avesse aspettato i ventisei anni per sposare un uomo di quarantacinque,
addirittura non si capiva. E pazienza, se il padre non si fosso curato
di accasarla, o nessuno l’avesse chiesta! Ma il buon principe aveva
fatto tutto quanto può fare un padre diligente o impaziente; e prima
ch’ella arrivasse a’ diciotto anni la domandavano in moglie giovani
nobili quanto lei, ricchi più di lei. Li scartò tutti. Se almeno si
fosse saputo perchè! Niente. Una volta parve disposta a risolversi
e si parlò di un matrimonio con un conte di San Salvario, gentiluomo
piemontese elegantissimo, speranza occulta di molte madri, desiderio
manifesto di molte figliole. Se non che, una sera venne in testa a
quel benedetto conte di parlare di Napoleone e della sua guerra contro
Pietro il Grande.

— Alessandro — osservò Adriana.

— Ah! sì, Alessandro il Grande — corresse sollecito il San Salvario.

— No, Alessandro... e basta.

E l’altro piccato:

— O grande o piccolo, io ho avuto qualcosa di meglio da fare in vita
mia che studiare la storia di Russia.

— E di Grecia. Paesi scismatici non contano.

E il matrimonio dopo le mal celate ironie andò a monte. C’è egli senso
comune a mandare a monte un matrimonio di quella fatta per un errore di
cronologia?

Una mattina di luglio a Posillipo dove i Roccamare solevano passare
l’estate, il principe alzatosi da colazione chiamò Adriana e, baciatala
sulla fronte, le porse un astuccio di velluto rosso.

— A te, Nuccia mia, eccoti il mio regalo.

Adriana aprì; l’astuccio conteneva due mirabili perle nere, due
orecchini da regina. Buttò le braccia al collo del padre e gli rese il
bacio con grande espansione d’affetto.

— Di’ la verità, tu credevi che io me ne fossi scordato? Mai. Diciotto
luglio, tuo compleanno. Son date, Nuccia mia, che non si scordano.
Nascesti proprio a quest’ora: mezzogiorno e un quarto. Mi par ieri.
E sono nientemeno che venticinque anni! Eh! Nuccia mia, il tempo
passa.... E bisognerebbe anzi che facessimo un discorso....

— Facciamolo pure — riprese gaia Adriana; e mostrando l’astuccio: — Se
la conchiusione somiglia all’esordio....

— Eh! no, no, si tratta di un discorso serio. Stammi a sentire. Tu
vedi, figliola mia, ch’io non dimentico nessuna delle nostre care
solennità di famiglia, e voglio che oggi il tuo compleanno si festeggi
in tutte le regole. Ma, Nuccia mia, bisogna anche pensare che è il
ventiquattresimo che noi festeggiamo. Figurati, Adriana, che dolore
sarà per me il giorno che te n’anderai.... Sono strappi.... Basta,
voialtri figlioli non li imaginate neppure. Io vorrei che tu rimanessi
con me tutta la vita, ma.... Eh! sicuro se tu fossi storpia o senza
dote.... Ma con cotesto visetto.... Eh! è così... non c’è da abbassare
gli occhi.... Non te lo dice mica un giovanotto, te lo dice tuo padre.
E con mezzo milione di dote e le speranze....

— Babbo!

— Sì, va bene, non saranno le speranze tue, ma saranno quelle di tuo
marito e de’ tuoi figlioli, se ne farai. Si sa; si deve morire, e una
volta o l’altra toccherà anche a me... tardi, preghiamo Dio, più tardi
che sia possibile.... Te lo ripeto, vorrei tu stessi sempre con me, ma
tuo fratello ha trent’anni e bisogna che prenda moglie. Prima di tutto,
lo sai, io son tutto affezione e non mi rassegnerei a chiuder gli
occhi senza aver tenuto in collo dei nipotini; poi se tuo fratello non
si ammoglia non smette di giocare, e se non smette di giocare io non
smetto di avere ogni momento dei sopraccapi. Dunque, stammi a sentire.
Sai il bene che ci vogliamo Guglielmo ed io; ma il mondo è mondo; chi
vuoi che venga qui in casa...?

S’interruppe. Adriana, fissati gli occhi in quelli del padre, soggiunse:

— Una cognata è un impiccio.

— Ecco....

E poichè l’altra seguitava a guardarlo senza battere palpebra, il
Principe riprese compunto:

— Figurati, te lo dico con le lacrime agli occhi perchè, in fondo, una
nuora sta bene che è la moglie del proprio figliolo, ma non è sangue
del nostro sangue.

— E... dunque? — domandò dopo pochi secondi di silenzio Adriana.

— Dunque, io non mi provo più a proporti nessuno perchè tanto è fiato
sprecato. Ma desidero tu sappia che io qualunque sia la tua scelta
l’approvo fin d’ora. Tu non puoi scegliere che un uomo per bene.... Eh!
bambina mia, ci s’intende! Dillo a me. Credi che non lo vegga quanto
valgano poco i giovani al giorno d’oggi? È una disperazione! Ma e
d’altra parte? Quando non c’è di meglio? _Lorsque l’on n’a ce que l’on
aime, il faut aimer ce que l’on a_ — dice la vecchia canzone. — Ah! tu
eri fatta per rimaner sempre vicina a me ed essere il bastone della mia
vecchiaia. Ma!...

E postosi innanzi allo specchio si ravviò i capelli e sclamò con un
sospiro:

— Non è allegra la vita!...

— Ma, babbo....

— No, no, non mi dir nulla, Adriana mia, non mi dir nulla. T’intendo a
volo. Non facciamo discorsi dolorosi, per carità. Io ho compito il mio
dovere; te l’ho detto: voialtri giovani non lo credete, ma pur troppo
è così: la vita non è allegra. Bisogna farsi animo e con un po’ di
coraggio ci si strascica come me, bene o male, fin verso la sessantina.
Dunque siamo intesi, Nuccia mia; io approvo fin d’ora, approvo a occhi
chiusi, approvo senza discussione.

Affacciatosi alla finestra, gridò: — _Vicè_, preparate la lancia — e se
n’andò fischiettando un motivo dell’_Africana_.


II.

Adriana passò la più gran parte di quella sera nella terrazza
prospiciente sul mare. Era una sera incantevole, la quale io non
descriverò, perchè se anche fosse stata diversa e il vento di ponente
avesse sconvolto i marosi e i fulmini guizzato di là dal Vesuvio,
Adriana chiusa tutta in sè stessa non avrebbe sentito o pensato
diversamente. Teneva volti gli occhi al cielo stellato senza guardare,
senza vedere. Quando il marchese Gaudenzi, antico frequentatore della
casa e che l’aveva giovanotto conosciuta bambina, le si accostò e con
la confidenza che viene dalla consuetudine le domandò scherzevolmente:

— Che cosa cerca lassù?...

— Una ispirazione — rispose Adriana senza scotersi: poi, volgendosi a
un tratto verso di lui: — E l’ho trovata.

— Tanto meglio. E... si può sapere?...

— Eccome!... L’ispirazione di cercare il suo aiuto.

— Per che fare?

— Per trovare marito.

— Pessima ispirazione. Se avessi di queste abilità me ne sarei
servito io per trovar moglie, prima di arrivare a questi benedetti
quarantacinque e sentirmi addosso un po’ grave il peso del celibato.

— Ah! un’altra ispirazione!... Lei è una brava persona.

— Eh! si fa il possibile....

— E io una buona figliola....

— Questo non lo mette in dubbio nessuno.

— Dunque?

— Dunque che cosa?

— Dunque mi pare che la seconda sia proprio un’ispirazione stupenda.

— Non capisco — soggiunse dopo una pausa breve il marchese.

— Oh! via, capisce benissimo. Lei si lamenta d’esser celibe, io devo
maritarmi. Ragazza non si può rimanere, perchè Guglielmo gioca e una
cognata è un impiccio....

— Come, come?

— Non ci badi, non importa. Se le dicessi che sono innamorata di
lei, direi una bugia per la prima volta da che sono al mondo e lei si
metterebbe a ridere. Le dico: non sono innamorata ma sono una buona
figliola. Ci pensi.

Rientrò in salotto; e accostandosi al principe che se ne stava sdraiato
leggendo un giornale, gli sussurrò all’orecchio:

— Ho chiesto la mano del marchese; spero che me la concederà.

Passarono otto giorni prima ch’ella si risolvesse a dire un’altra
parola al Gaudenzi. Il quale, intontito dapprima, s’era dato poi pian
piano a vagheggiare quel disegno. Non si faceva bensì una ragione del
movente d’Adriana e desiderava spiegazioni, dilucidazioni; ma quanto
più la perseguitava e s’affaccendava a preparare un colloquio, tanto
più Adriana lo sfuggiva e qualche volta lo scansava addirittura.
Una sera si rincontrarono sulla porta della scala; egli scendeva per
cercarla in giardino, ella saliva credendolo nel giardino. Presa fra
l’uscio e il muro, Adriana, prima che l’altro avesse tempo d’aprir
bocca:

— Ho detto: non sono una donna innamorata, ma sono una brava ragazza;
proprio non saprei che altro dire.

E andò a chiudersi in camera sua.

Quella medesima sera il marchese Gaudenzi domandò al principe la mano
della figliola. Il principe, abbracciandolo e asciugandosi gli occhi:

— Se è destinato — gemè — che qualcuno me la porti via, meglio tu che
un altro.


III.

Due anni dopo la contessa Montani scriveva da Firenze a una cugina
dimorante a Palermo:

“Sai, cara Lilì, che sei molto, ma molto curiosa? Stai un anno senza
scrivermi, poi mi mandi dieci righe; non mi dici nulla nè di te nè de’
tuoi, e mi sfilzi invece un rosario d’interrogazioni. Meriteresti che
non ti rispondessi neppure; ringrazia Dio che fa un tempo orribile o
che ho da consumare in qualche modo l’ora della trottata.

“Passiamo alle interrogazioni.

“Prima: Com’è stato il carnevale a Firenze? Bellissimo. Balli tutte le
sere; balli piccoli, ben inteso, ma pieni di brio; di quelli che vanno
a me, dove non si corre rischio di presentazioni. Su questo argomento
le mie opinioni, i miei gusti li conosci da un pezzo. Mi piace la
Firenze quale è ora; senza visi novi, dove i cognomi sono inutili,
dove quando si dice Pierino, Masino, la Giulia, la Bice, l’Eufrosina,
s’intende subito di chi si tratta.

“Seconda: A che punto sono le nozze di Guglielmo Roccamare? Al punto
fermo. Sono otto mesi che ha sposato la Zanhoff. Quand’era scapolo
giocava; ora ha lasciato le carte per i cavalli e non fa che guidare;
la moglie, viceversa, non si lascia guidare. Così dicono.

“Terza: Che fa la coppia Gaudenzi? Adriana, mi pare d’avertelo scritto,
ebbe un bambino. Volle allattarlo lei e ora l’ha mandato in campagna
perchè nei salotti, dice, i ragazzi non possono crescere sani e vegeti.
D’inverno va due volte la settimana a vederlo; a maggio si pianta in
campagna anche lei, e a rivederci a Natale. Quand’è a Firenze riceve
il mercoledì. Tre mesi abbiamo durato a andare puntualmente ogni
mercoledì sino in fondo al Lung’Arno per vederla. Il portiere si cava
il cappello, s’inchina da portiere beneducato e ripete serio, come se
fosse convinto di dire la verità, una volta: — La signora si sente poco
bene; un’altra: — La signora è dovuta uscire. — Io non mi ci provo più,
tengo d’occhio il calendario e so quando tocca l’assenza e quando la
malattia. In società vien di rado e se ne va alle undici. Buon sonno.
Puoi intavolare qualunque discorso con lei: sì, no, no, sì — più d’un
monosillabo non le cavi di bocca. Metteva conto d’imparare quattro
lingue per tacere poi in tutte e quattro! Suo padre ci va a desinare
ogni tanto e dice che non ci va per il pranzo, ma per il chilo, perchè
non c’è caso che la figliola glielo disturbi con le discussioni. Gli
domandai l’altra sera se Adriana parlava almeno con suo marito. Mi
rispose: “Nel matrimonio quel che conta è l’azione, il dialogo è un di
più.„ Non capisco bene che cosa abbia voluto dire, ma una birichinata
di certo; quello sarà un birichino anche a ottant’anni. Il marchese è
la contentezza personificata; pare, a vederlo, che abbia dieci anni
di meno; quand’è con la moglie, la guarda come se la vedesse per la
prima volta. E fin qui ha ragione; Adriana è ora più bella che mai;
gli uomini dicono di no perchè non hanno nulla da sperare, le donne
ne convengono perchè non hanno nulla da temere. Anche il marchese
va e viene di città in campagna e di campagna in città. Fa grandi
coltivazioni, utilissime a suo tempo per _Mimì_ che tirato su a quel
modo diventerà un bel contadino e potrà lavorare sul suo.

“C’è altro?

“Ah! sì! Quarta ed ultima. Che n’è di Carlo Sismondi? Da parecchi mesi
non si vedeva più; è ricomparso questo carnevale mutato addirittura e
senza quella solita musonerìa che ti dava tanta noia a Saint-Moritz. Ha
ballato ogni sera, sempre con le ragazze, la qual cosa fece supporre
che si disponesse al santo matrimonio; ieri ho sentito dire che parte
per il Madagascar. Che ci va a fare al Madagascar? Se lo domandi a
me, non lo sa nemmeno lui. È un benedetto figliolo!... non sta mai
bene altro che dove non è; destinato, secondo il mio modesto parere,
a non esser contento mai. Ha il cuore troppo buono, il cervello troppo
guasto, il gusto troppo delicato; e come dice La Fontaine:

    Les délicats sont malheureux,
    Rien ne saurait les satisfaire.

“E con questo resto dell’erudizione acquistata alla SS. Annunziata,
ti lascio e vado a vestirmi. V. S. è pregata di scrivermi più spesso
e meno concisamente. Una stretta di mano a tuo marito, un saluto alla
Conca d’oro, a te un abbraccio con tutta l’anima.„


IV.

Quell’istesso giorno di marzo all’ora medesima in cui la contessa
Montani scriveva, la marchesa Adriana se ne stava sola nel suo
salottino _pompadour_; stanza che non le piaceva, ma che entrando
sposa nel palazzo Gaudenzi volle lasciata tal quale, perchè la madre
del marchese l’aveva arredata a quel modo negli ultimi anni della vita
ed ella temeva, mutandola, di far dispiacere al marito. L’oriolo di
porcellana di Sassonia posto sull’architrave del camino innanzi allo
specchio, fra due candelabri di vecchia Sassonia essi pure, segnava
le quattro e trentasette minuti. Pioveva a dirotto. La marchesa aveva
più volte percorso il breve spazio onde il camino era separato dalla
finestra che dava sull’Arno; ora appoggiata la fronte a’ cristalli
pareva seguire col guardo le nebbie che a mano a mano velavano il colle
di Montoliveto, ora ritornava a sedere sulla poltrona ad attizzare con
le molle la legna ardente nel caminetto. Compieva un di que’ brevi e
frequenti tragitti quando il cameriere entrò.

— Il signor avvocato Sismondi domanda se la signora marchesa può
riceverlo.

La marchesa si fermò e guardò fissa il servitore senza rispondere.
Quegli credendo leggere nell’occhiata un rimprovero:

— Gli ho già detto — soggiunse — che la signora riceveva il mercoledì,
ma....

— Passi.

E si sedè sulla poltrona accanto al camino.

— Lei mi perdona, non è vero, marchesa — disse entrando il Sismondi —
d’avere insistito? Ma desideravo tanto di vederla prima di partire.

— Dunque è vero? — domandò la marchesa stendendogli la mano.

— È vero.

Gli accennò la poltrona dirimpetto, poi:

— E quando parte?

— Domattina forse, domani sera al più tardi.

— E va al Madagascar?

— Neanche per sogno. Chi glielo ha detto?

— Mio padre che pranzò qui ieri sera e che l’aveva sentito dire non mi
ricordo da chi.

— Non ho potuto nascondere i preparativi del viaggio e ognuno s’è
voluto levar la curiosità di sapere dove andavo. Ad alcuni ho detto:
vo nel Madagascar, ad altri: a Nizza. Ieri sera dalla Sangiacomo
dove speravo di trovarla ho annunziato la mia partenza per Londra; e
al Torriani che è venuto stamani di levata a casa mia per prendere
informazioni, ho confidato in gran segretezza che m’imbarco per le
Isole Filippine. A lei, e a lei sola dico la verità. Vo ad Amburgo,
dove stanno preparando una spedizione per il polo Nord; ho chiesto e
ottenuto di farne parte.

— E come mai le è venuto ad un tratto questo entusiasmo per la scoperta
del mare libero?

— Ma!... È nato dal desiderio di fare qualcosa.

— E c’è bisogno per questo di andare al polo?

— Che vuole che faccia a Firenze?

— È avvocato, perchè non esercita? Vogliono farlo deputato, perchè non
accetta?

— No, marchesa, l’esercizio dell’avvocatura non è per me. Ho paura
della dialettica. Quando la si adopera per professione, quando si
mette l’amor proprio e il proprio interesse nel vincere ogni giorno la
dialettica d’un oppositore, una volta su dieci si rintraccia la verità,
le altre nove si persuade sè e gli altri della verità di un sofisma. E
questo non mi va.

— E allora accetti la candidatura.

— Peggio che mai. Nella politica una cosa è buona se la fa il tale, è
cattiva se la fa il tal altro. E poi sono troppo orgoglioso o troppo
modesto. Non sente? In tutti i paesi d’Europa lamentano la mediocrità
degli uomini politici, e hanno ragione; ma la maggior parte di quelli
uomini valevano assai più, prima di entrare ne’ parlamenti. Chi si
caccia nella folla rinunzia a far parte da sè stesso; e nelle assemblee
quel che uno può avere in sè di singolare, di rilevante, bisogna
rassegnarsi o a perderlo o a nasconderlo. Poi, non ho i requisiti
necessari.... Non sono capace nè di rancori implacabili, per esempio,
nè di egoismi profondi. Non ho nemmeno ambizione, o, per lo meno,
non ho la smania di comandare. Per quanto.... se è davvero la smania
del comandare quella che muove gli uomini politici, i più, creda,
la scontano. Ne conosco parecchi; per comandare a un sindaco o a un
medico condotto obbediscono tutti i giorni alla forza del numero,
piegano il capo innanzi agli ordini di uomini che sentono minori di
sè, sono costretti ogni giorno a battagliare contro l’intelligenza e la
coscienza.... No, no; non son fatto per quel mestiere.

— Tutte bellissime cose; ma, insomma, per non andare al tribunale o a
Montecitorio non c’è bisogno di andare al polo.

— Dunque, mi consiglia di restare a Firenze?

— Non ha bisogno de’ consigli miei; dico mi par singolare che un uomo
che come lei ha cento ragioni per esser felice a Firenze....

— Non dica di queste cose, marchesa. Non si è mai felici per cento
ragioni; sempre per una sola. E poi, felice.... Si fa presto a
dirlo.... E lei è felice?

— Io? Che c’entro io?

— Ma sì; se non ha raggiunto la felicità lei che la merita tanto,
nessuno ha diritto di ottenerla.

— Senta, Sismondi, se ha dei madrigali belli e fatti, è giusto che li
smaltisca per non portarli con sè al polo artico; ma se li deve fare
apposta, lasci correre; con me è fatica buttata.

— Scusi, non mi conosce da ieri; si ricordi ciò che le ho detto da
Lady Drummond, la prima volta che l’ho riveduta dopo tre anni. Avrò
molti difetti, ma sono incapace di una volgarità. Non fo madrigali pur
troppo; ho conosciuto in vita mia molte donne, nessuna....

S’interruppe con una lunga pausa; tanto lunga che la marchesa fu alla
fine obbligata a domandare:

— E così?

— Che vuole? Temo che mi accusi ancora di fare dei madrigali. Ma
insomma quel che è vero è vero. Ho conosciuto molte donne, nessuna che
abbia stimato tanto quanto lei, nessuna che mi sia parsa meritare la
devozione che sento per lei. Non vede? Do ad intendere a questo che
vado verso Gerusalemme, a quello che vado verso l’Egitto; solamente
a lei dico la verità tutta intera. Lascio alle altre dei biglietti
di visita per non avere occasione di vederle, da lei vengo quasi in
pellegrinaggio, poche ore prima di andarmene o quando non ho più da
vedere nessuno, perchè partirei anche più triste se non avessi ancora
nell’orecchio, partendo, l’eco della sua voce e nell’animo il ricordo
di una buona parola d’addio e di una stretta di mano.

La marchesa stese il braccio verso la parete, compresse col pollice il
bottone del campanello, poi, voltasi al cameriere che entrava:

— Portate il thè.

E dopo che ebbe non sorbito, come soleva, ma trangugiato il thè
tuttavia fumante, s’accostò alla finestra e:

— Anch’io dovrei andare a lasciare de’ biglietti di visita — disse — ma
fa un tempo così indiavolato.

— È la prima volta che il diavolo impone un’opera di misericordia. Ed
è davvero sa? un’opera caritatevole il permettermi di rimaner qui fino
all’ora del suo pranzo. Pensi, che starò molti anni senza vederla, se
pure la rivedrò.

— Resti pure, — rispose sorridendo la marchesa, rimettendosi a sedere —
ma non dica di coteste cose. Sta bene che va in capo al mondo, ma anche
una spedizione al polo....

— Oh! la spedizione non durerà più di un anno o diciotto mesi, credo;
ma è molto difficile ch’io ritorni a Firenze.

— Ma che cosa le ha fatto, Dio mio, questo povero paese che in fondo
è il paese suo, dove è nato, dove è cresciuto, dove non le mancano di
certo gli amici?

— Il paese non mi ha fatto nulla; ma io ho fatto qui tutti gli
spropositi che hanno sciupato la mia vita... e sebbene fossero
spropositi necessari....

— Mi dà della pedante se le dico che secondo me gli spropositi non sono
mai necessari?

— Della pedante no, il cielo me ne guardi; ma non credo che sia
competente a giudicare di certi fatti e di certi sentimenti....

La Marchesa scrollò il capo in segno d’incredulità. Il Sismondi riprese:

— Stia a sentire. Fino da ragazzo ebbi la smania de’ viaggi; volevo
fare il marinaro; mi sentivo addirittura portato a quella professione
che ci avvicina alla natura e ci tiene per lunghi tratti lontani dal
mondo.... Non faccio il misantropo, sa? Non odio nè disprezzo il
prossimo, ma non sono quel che si dice un uomo di società.... Mio
padre, avvocato insigne, si cacciò in testa di far fare l’avvocato
anche a me. Era buono, ma ruvido e imperioso; mi rassegnai. Fu uno
sproposito. Sono diventato difatti inutile a me e agli altri; ma potevo
fare diversamente?

— Lascia dir me? O senta: suo padre io non l’ho conosciuto, ma, a
quello che me ne hanno detto, era un uomo di molta esperienza e le
voleva un gran bene. Può essere che il vedersi contrariato ne’ propri
desideri gli dispiacesse e che per un momento anche si adirasse della
disobbedienza. Ma alla fine se gli avesse aperto l’animo si sarebbe
arreso e col tempo avrebbe benedetta quella indocilità e goduto lui
per il primo dell’onore che si faceva il figliolo... perchè lei si
sarebbe fatto onore dicerto. Scusi, ma se crede di essersi rassegnato
per rispetto della volontà paterna, sbaglia; si adattò, pur di evitare
un colloquio poco piacevole e risparmiarsi un brutto quarto d’ora.
Devo dire il mio parere? Il suo non fu uno sproposito, fu un peccato...
già... non occorre che spalanchi gli occhi... fu un peccato d’accidia,
e i peccati poi non sono necessari davvero.

— Può darsi; a ogni modo non fu il primo l’errore più grave... Vuole
che prosegua?

— Io non voglio nulla, ma se le piace di seguitare, seguiti pure.

— Senta, dunque, ancora. Un altro desiderio di mio padre, l’ultimo
forse, fu ch’io mi ammogliassi. I figli unici, si sa, debbono prender
moglie. Un’altra stortura, perchè, secondo me — non rida — si nasce
maritati o celibi come si nasce poeti; e il matrimonio fa infelice
molta gente non perchè sia male assortito e quel tal uomo non sia
fatto per quella tal donna e viceversa, ma, il più delle volte,
perchè o l’uno o l’altro o tutti due non sono nati con le disposizioni
necessarie a quella specie di vita. Nel caso mio non era una stortura
quella di mio padre; io son nato marito. Intendo e ho lungamente
desiderato la intimità serena della casa e gli affetti che sanno
essere tranquilli perchè si sentono sicuri. Bisognava trovare. Cercai
e per un pezzo mi persuasi che io davo dietro all’impossibile. Che
vuole? L’educazione delle nostro ragazze è così falsa, così piena di
ipocrisie e di sottintesi, che il matrimonio diventa per un uomo l’atto
più audace della vita. Un uomo può mutare, una ragazza deve; ed io
cercavo una ragazza che non mutasse, che non stingesse, come diremmo
noi fiorentini... che avesse vinto i pregiudizi della educazione e,
guardato il mondo senza curiosità e senza paura, sapesse e, per così
dire, confessasse la realtà della vita. Non so nemmeno s’io mi spieghi.

— Oh! si spiega benissimo.

Il Sismondi tacque e socchiuse gli occhi sospirando, quasi il
proseguire gli fosse grave. La marchesa non vista volse sopra di lui
lo sguardo malinconicamente profondo; poi con voce che ognuno, tranne
il Sismondi, avrebbe agevolmente giudicata mal ferma, domandò: E...
dunque?...

— La trovai finalmente e le offrii dal fondo del cuore un affetto così
alto, così... Non è mica vero che si voglia bene una volta sola; ma
è vero che si prova nella vita un affetto, il quale sovrasta a tutti
gli altri e, anche dopo molti anni, si capisce, si sente che quello
fu l’unico affetto nostro veramente forte e sincero. Mi parve.... non
mi parve, era una donna come se ne trova di rado, e perduta quella
si dispera per sempre di rinvenire la seconda; ma di gran famiglia
e ricchissima; con la sua dote avrebbe potuto comprare tre volte il
mio modesto patrimonio. Non osai e fu un grande errore; ho lasciato
nella mia vita un _forse_, che mi tormenta come non le posso dire.
Se mi avesse risposto di no, le parrò strano, ma oggi mi sentirei più
tranquillo.

Il cielo s’era fatto più scuro, la pioggia cadeva a torrenti;
la marchesa, che volgeva le spalle alla finestra, avvolta oramai
nell’ombra soggiunse:

— Non fu un errore nemmeno questo, Sismondi, me lo lasci dire; fu una
doppia colpa d’orgoglio e di paura.

— Di paura?

— Di paura. Previde le malignità del mondo e non ebbe animo di
sfidarle; temè l’accusassero di qualche cosa d’abietto e non seppe
armarsi del disprezzo che è qualche volta una virtù. Non fu degno,
scusi, della donna che amava; perchè, dato che fosse veramente quale la
descrive, non avrebbe, lei, dubitato della nobiltà di cotesto affetto,
nè sospettati moventi che non fossero alti. Certe nature alle brutte
cose credono quando ne hanno la prova, ma imaginarle non sanno.

— Oh! ma se lei, marchesa, sapesse di chi si tratta!...

— Se fossi una civetta, figurerei di non saperlo per aspettare che me
lo dicesse.

— Lo sa? — mormorò il Sismondi.

— Come vuole che non lo sappia, via, se da due mesi cerca l’occasione
di dirmelo, se da mezz’ora non ha altro pensiero che di farmelo
intendere? Del rimanente lo so da tre anni.

— Da tre anni? — gridò l’altro trasecolato.

— Dal giorno della nostra gita a Sorrento. Quando fummo arrivati alla
spiaggia, lei mi aiutò a scendere e guardandomi fisso mi strinse la
mano. Che vuole che le dica? Non so perchè, ma non m’è mai venuto
in mente che qualcheduno potesse scherzare con me. Ho anch’io i miei
peccati di orgoglio. Aspettai. Quando dopo quindici giorni mi dissero
ch’era scomparso da Napoli a un tratto, capii, e l’accusai fin d’allora
di paura e d’orgoglio.

— Oh! mio Dio! mio Dio! — mormorò il Sismondi coprendosi con le mani la
faccia; poi, quasi un secondo di raccoglimento gli avesse infuso intimi
vigori, riprese concitato:

— Oh! se intese allora deve intendere anche oggi; deve intendere che
chi le ha voluto bene non può dimenticarla, che un affetto come questo
basta a sconvolgere tutta la vita di un uomo.... Oh! ma è inutile, non
so, non posso parlare... lei che indovina tutto indovinerà anche quello
che sento io.

La marchesa s’alzò e poggiato il braccio al davanzale del camino rimase
lungamente silenziosa, con gli occhi fissi ne’ tizzi che crepitavano e
mandavano nella stanza bagliori tremuli; poi:

— Dunque, parte domani?

— O domani, o mai.

— Domani.

Il Sismondi s’alzò. — Ebbi dunque ragione di non osare? — domandò; e
il tono della voce rivelò assai più che le parole l’amarezza dell’animo
suo.

— Ha detto di essere incapace di giudizi volgari.... Via, questa
conversazione non può seguitare, Sismondi. Del rimanente io non ho più
che una sola cosa da dirle, una cosa che nessuna legge divina o umana
può obbligarmi a tacere; ho il coraggio di dirla, ha lei il coraggio di
starla a sentire?

Il Sismondi non rispose, ma con gli occhi la supplicò che parlasse. Ed
ella, prese nelle proprie le mani di lui:

— Era scritto — disse — ch’io non dovessi amare mai. Un solo uomo m’è
parso degno del mio amore: lei.... credo che un solo uomo m’avrebbe
fatta interamente felice: lei: credo ch’io non ero capace di fare
interamente felice che un solo uomo: lei. Dio non volle, è inutile
ribellarsi ai decreti della Provvidenza.... E ora, addio; dicono che
sono originale e hanno ragione; difatti sono donna e il pericolo non mi
piace.

Lasciò le mani di Carlo e appoggiò le spalle al davanzale. Egli,
guardatala un momento, sussurrò: — Oh! Adriana, Adriana; — si mosse
verso di lei, si fermò: finalmente, quasi vinto nella esitanza estrema
da un impeto cieco, si slanciò e fece per accostare le labbra alle
labbra di lei. Ma la marchesa alzatasi in punta di piedi curvò indietro
la schiena e, stese le braccia in avanti, lo trattenne; poi con un
sorriso pieno di profonda malinconia:

— No, Carlo, mai. Per esser padrona del mio rammarico, debbo essere
padrona della mia volontà.

Il Sismondi la guardò ancora: coprì di baci rapidi la mano che Adriana
gli stendeva, e fuggì.

La marchesa nello sforzo per togliersi al bacio di Carlo aveva dato
con le spalle nell’oriolo di porcellana; il quale, per quell’urto
sufficiente a spostarlo non a farlo cadere, rimase in bilico; quando,
uscito il Sismondi, la marchesa si scostò dal camino, ripiombò al suo
posto: fermo bensì alle 5 e 40 minuti.


V.

E fermo alle 5 e 40 minuti l’oriolo del salottino Pompadour rimase per
de’ mesi parecchi. Un giorno che la contessa Montani, credendo di far
bene stese la mano per rimetterlo, ebbe a mala pena aperto il cristallo
e già la marchesa le si precipitò addosso e le afferrò con tanta forza
il polso da lasciarle la lividura. E la contessa ne’ ritrovi serali
andava dicendo:

— A voi, andate a fare il bene; guardate qui come mi son ridotta per
rimettere l’oriolo a quella stravagante d’Adriana; — e mostrava agli
amici il cerchio paonazzo.


Intanto il marchese Gaudenzi stava in gran pensiero. Sua moglie non era
più quella di prima, la malinconia di lei s’era mutata addirittura in
tristezza. Non parlava quasi più, non usciva più, passava le giornate
intere a sfogliare degli atlanti. Suppose desiderasse e le propose
di viaggiare; al solo sentir parlare di viaggi la marchesa uscì in un
rifiuto così riciso com’egli non ne aveva mai avuti da lei, così aspro
da dimostrare mutata l’indole sua. Interrogò i medici; ma, nonostante
ella dimagrasse a vista d’occhio, i medici l’accertarono che per la
salute non c’era da temere; proposero le distrazioni; proposta sapiente
che al marchese parve quasi una canzonatura; licenziò i dottori e fece
venire di campagna il bambino. Neanche il piccolo Luca ebbe fortuna; la
madre a volte insofferente di capricci e di bizze lo voleva lontano da
sè, a volte lo teneva, con affettuoso pentimento, per ore ed ore sulle
ginocchia; e il buon marchese si lambiccava il cervello a indagare con
diligenza trepida le ragioni di quel mutamento, ma non veniva a capo di
nulla.

Un giorno la marchesa se ne stava seduta sulla solita poltrona presso
al camino; aveva sulle ginocchia una carta geografica e vicini a sè
aperti sopra una sedia un atlante e alcuni libri; e via via ora dava
un’occhiata a questo e a quel volume, ora tracciava sulla carta con
le dita profilate linee invisibili. Luchino scorazzava per la stanza
gridando e ogni tanto tornava con risate squillanti a scombuiare carte
e volumi. Più volte la marchesa s’era rassegnata a riordinarli; ma
Luchino aveva preso gusto al gioco e non c’era verso di farlo smettere
nè con preghiere nè con ammonimenti. Alla fine la marchesa gli domandò
in tono di rimprovero:

— Vuoi star buono, sì o no?

— No — rispose il bambino.

— E allora ti meno via. E s’alzò, e di peso se lo prese in collo e fece
per avviarsi alla porta.

Luchino, vedendo la minaccia prossima a verificarsi, strillò, si
divincolò; e Adriana, accostandolo allo specchio che stava sopra al
camino:

— Guarda come sei brutto quando sei cattivo.

Il bambino, mirando la propria imagine riflessa nella caminiera, stese
le braccia in avanti e sarebbe caduto, se la marchesa non lo avesse
stretto più forte: ma squilibrato piombò con le mani sull’oriolo e
lo scosse; quando le ritrasse s’udì il pendolo ricominciare il suono
isocrono e lieve.

La marchesa cacciò un grido, baciò e ribaciò il bambino e dette in un
pianto dirotto.

Il marchese tornando a pranzo scorse la traccia di quelle lacrime;
e impensierito più che mai domandò a sua moglie se non era possibile
di trovar fine a quelle tristezze; avrebbe data la vita per vederla
sorridere; chiedesse. N’ebbe in risposta:

— Fa’ mutar la mobilia del salottino.

Credè di sognare, ma non mise tempo in mezzo ad appagare quel
desiderio. Sparirono i canapè dalle stoffe fiorite, la lumiera di
Murano, sparirono i candelabri e l’oriolo di porcellana di Sassonia,
e ad un tempo, se non sparì, si diradò l’afflizione d’Adriana. E il
marchese da quello, che fu de’ pochi casi notevoli della sua vita,
trasse questo ammaestramento: che le donne hanno tutte quante un ramo
di pazzia; tanto è vero che la sua, la quale certamente valeva più
delle altre, s’era tormentata e lo aveva tormentato un anno e più per
la mobilia d’un salottino.

  _Monsummano, 1886._




PECCATO E PENITENZA.

                                               _A Vittorio Bersezio._


IO A UN ALTRO.

                             Airolo (Canton Ticino), 21 ottobre 1867.

Mio caro, restando a Lucerna hai avuto più giudizio di me; sono
arrivato ieri sera ad Airolo e vi resterò fino a Dio sa quando. Succede
in questo paese come all’inferno, dove ogni momento arriva gente e non
se ne va mai nessuno. Sul serio: il Ticino ha rotto la strada da Quinto
a Faido e buttato all’aria il ponte presso Dazio-Grande; sicchè per ora
è impossibile partire colla diligenza. Se ti punge il _dulce ridere
suos_, se ti preme veramente arrivare a Firenze prima del 25, va’
subito a Coira e passa per lo Spluga; ma prima di partire di’ a’ nostri
compagni dello _Schweizerhof_ come stanno le cose; che non venga anche
a loro il ticchio di pigliare la via del Gottardo. Qui non c’è che una
locanda sola; i letti son tutti pieni, e chi viene da ora in là sarà
giocoforza che dorma all’ombra degli abeti.

Sai chi c’è? Paolo Carpi. Ho letto il suo nome sul libro de’
viaggiatori. M’hanno detto che è andato stamani a visitare i luoghi
dove il danno della inondazione è maggiore e tornerà qui stasera. Son
quasi cinque anni che non ci siamo veduti, e non puoi imaginarti che
piacere mi faccia il trovarlo qui.

Chiacchierando col cameriere ho saputo che c’è anche un Conte di San
Vittore. Mi son messo in testa che sia compagno nel viaggio a Paolo.
I San Vittore e i Carpi non sono un po’ parenti? M’accorgo che la
domanda è inutile; tu non potrai rispondermi che a Firenze e Paolo mi
risponderà stasera. Se avessi qualche altra cosa di bello da dirti,
passerei volentieri scrivendoti il tempo che manca per arrivare all’ora
del desinare.... A proposito; come si pranza male su queste montagne
repubblicane! Fremi pure di sdegno, ma io non veggo l’ora di essere a
Milano per mangiare un risotto appestato dall’alito della monarchia.

Serbami un posto nella tua memoria; nel cuore ci hai troppa gente ed io
odio la calca.

                                                          _Il tuo_ M.

                                 * * *

Airolo è un paesetto all’imboccatura della Val Canaria, tra Bellinzona
e Hospental. Le sue poche e povere case sono poste lungo la via del
Gottardo, la quale sale verso il monte serpeggiando a settentrione
del paese; l’occhio l’accompagna sino alle pericolose balze della Val
Tremola, ove si perde tramezzo agli abeti. Di là dalla via il terreno
scende con ripido declivio verso il Ticino che quivi, ancora prossimo
al lago Sella onde nasce, pare un fiumiciattolo di poca o nessuna
importanza. Oltre il fiume altri monti, coronati da piccoli ghiacciai
o solcati dalle morene, sono le ultime ondate di quella tempesta che
sollevò le Alpi Lepontine.

Scritta la lettera, uscii. Cadeva una giornata d’ottobre; dalle
falde delle montagne scendevano torrentelli recando acque al Ticino;
nuvole di una tinta unita, fredda, coprivano a poco a poco il cielo,
e nascondendo lentamente la parte superiore della montagna, ne
arrotondavano i vertici. Pareva che la natura si mettesse in quell’ora
la sua veste più squallida; che il vento di ponente strisciando
sulle brevi praterie della valle e sui folti muschi delle falde
montane, mutasse in giallognolo il loro verde vigoroso. I soli abeti,
geometrici, serbavano il nero delle loro piramidi e si staccavano
mirabilmente sul fondo grigiastro del quadro.

Io passeggiava pensando a chi sa quante cose che ora non ricordo più e
fumacchiando un di quei sigari che fanno tanto rimpiangere la Svizzera
a chi ritorna in Italia, quando mi sentii chiamare per nome. Mi volto;
era Paolo Carpi.

— Chi non muor si rivede, — disse l’amico correndo verso di me. — Sai
che debbono esser passati quasi tre anni dacchè ci siam veduti l’ultima
volta?

— Quattro, mio caro; ci siamo lasciati a Milano nel 63, ci ritroviamo
sul San Gottardo nel 67.

— Quattro anni? Perdio! come s’invecchia presto! Di dove vieni?

— Dalla Germania; e tu?

— Da Spa; sono passato per Strasburgo e Basilea.

— Solo?

— Solo.

— E quando parti?

— Ma!... quando sarà possibile.

— Partiamo insieme?

— Ecco... chi sa? Devo aspettar qui una lettera... Basta.... vedremo;
figurati se mi farebbe piacere passare qualche giorno con un amico come
te.

Si danno in oggi alla parola amico tanti sensi e tanto diversi che
conviene questa volta determinarne il significato.

Paolo ed io fummo compagni di scuola; de’ miei condiscepoli egli fu
il solo per il quale sentissi un affetto vero. Usciti da rettorica, ci
vedemmo di rado ed è facile capire il perchè; egli faceva il milionario
ed io il giornalista; egli si divertiva con le donne leggiere, io
ero costretto a seccarmi con gli uomini gravi. Ciò non ostante quando
ci trovavamo qualche volta all’osteria, qualche altra al ballo di un
ambasciatore, ci stringevamo forte la mano e facevamo di notte giorno
parlando di noi, dei nostri studi e de’ nostri amori, di ciò che
avevamo fatto o che volevamo fare; egli si congratulava meco de’ miei
saggi letterari che gli parevano belli, io seco della sua amante che mi
pareva bellissima.

Nel sessantatrè gli prese la voglia di fare il diplomatico e fu
nominato segretario del Ministro d’Italia a Costantinopoli. Allora ci
perdemmo di vista; quattro anni dopo ci ritrovammo ad Airolo, il giorno
stesso nel quale ha principio questo racconto.

La conversazione cadde, al solito, sulla nostra prima gioventù, sulle
scappate scolaresche, e sulle vicende de’ nostri compagni.

— Che n’è stato — gli domandai — di Gigi Ruteni che abbandonò il Liceo
per entrare nella Marina sarda, perchè era sicuro, diceva lui, di
diventare ammiraglio?...

— È morto a Lissa l’anno passato.

— Povero ragazzo! E il Brini soprannominato il piccolo Aleardi, che
scriveva versi così pieni di tenerezza e di malinconia?

— Fa l’agente di cambio a Torino.

— E quel bel giovanetto biondo che veniva a scuola accompagnato dalla
mamma più bionda e più bella di lui?... Ti ricordi?... Aveva tanta
attitudine alla meccanica e noi gli predicevamo sempre che avrebbe
fatto fortuna?

— Ha finito il suo studiando sul moto perpetuo. Ora l’hanno chiuso nel
Manicomio di Perugia.

Non ebbi coraggio di domandare altro; tutte quelle biografie brevi e
crudeli mi avevano messo di mal umore. E ripensavo tanti sogni svaniti,
tanti propositi dimenticati, tante speranze deluse, stelle cadenti
del cielo della giovinezza che brillano un momento, poi si perdono
nell’oscurità della vita.

— E Federigo Ripàri (un altro condiscepolo) — riprese dopo poco Paolo —
l’hai veduto?

— Mai; forse trovandolo non lo riconoscerei neppure.

— È qui.

— Qui... ad Airolo?

— Con sua moglie.

— È ammogliato? Da quando in qua?

— Saranno due anni ad aprile. Ha sposato una milanese, una delle donne
più istruite e più simpatiche che io conosca: la figlia dell’ingegner
Crolli. Oh! si va a tavola.

Difatti la campana della locanda sonava a refettorio.

— Lascia andare — soggiunsi; — pranzeremo da noi.

— Non è possibile.

— Hai qualche amico?...

— No... ma bisogna che pranzi a tavola rotonda.

— A proposito: c’è qui un Conte di San Vittore; non siete un po’
parenti?

— La madre del conte Emilio è sorella di mio padre.

— Sicchè siete cugini.

— Per l’appunto....

— E allora, perchè mi dai ad intendere che non hai qui amici?

— Sei curioso veh! mi hai domandato se ho qui degli amici e non dei
parenti — e se ne andò verso la locanda in tanta fretta ch’io durai
fatica a tenergli dietro. Se egli, in quel punto voltandosi avesse
detto: “ho mutato pensiero, pranziamo da noi„ io gli avrei risposto:
no, ho mutato pensiero anch’io, voglio venire a tavola rotonda; tanto
mi pungeva la curiosità di conoscere il Conte di San Vittore. Lo avevo
spesso sentito lodare come uno degli uomini più culti, più cortesi,
più ricchi dell’aristocrazia fiorentina, e ora mi pareva che Paolo,
con quella sua distinzione tra gli amici e i parenti, fosse lì lì per
dirmene male.

Quando entrammo nella sala da pranzo, il Conte (Paolo con un’occhiata
me lo indicò) era già seduto ad una delle estremità della tavola.
Notai che tra i due cugini non ci fu neanche l’ombra di un saluto; i
commensali crederono di certo che quelle due persone, così strette per
vincoli di parentela, si vedessero per la prima volta nella modesta
locanda d’Airolo.

Il Conte di San Vittore era un uomo sui trentacinque, alto, calvo
nella parte anteriore del cranio; aveva il viso di un puro ovale
incorniciato da una folta e finissima barba nera. Credo che il fare un
ritratto somigliante di quell’uomo, sarebbe stata ardua impresa anche
per Michele Gordigiani; tanto la sua fisonomia si mutava da un momento
all’altro. Studiai la cagione di questa mutabilità e credei trovarla
negli occhi, i quali non saprei dire di che colore fossero; ora
parevano azzurri, ora grigi, ora verdognoli; qualche volta apparivano
fosforescenti come quelli del gatto. E la mobilità della fisonomia
non aveva relazione alcuna coi movimenti dell’animo; perchè per quanti
diversi aspetti pigliasse, il volto del Conte non lasciava trasparire
nulla di ciò ch’egli sentiva o pensava. Sulle prime, si sarebbe preso
per una persona pulita e nulla più; ma ad un osservatore minuzioso,
le mani bianche e sottili, il fare disinvolto, la studiata semplicità
del vestire lo dimostravano uomo iniziato ai difficili segreti
dell’eleganza e conoscitore delle consuetudini del bel mondo.

Il pranzo era cominciato da pochi minuti, quando entrarono Federigo
Ripàri e sua moglie. Avevo detto a Paolo che non mi sarebbe forse
possibile riconoscere Federigo, ma non imaginavo ch’egli fosse cangiato
così. Quell’uomo, ch’io avevo lasciato fanciullo vegeto e fresco, aveva
i capelli grigi, la pelle floscia e le palpebre inferiori cerchiate da
quell’occhiaia nera e profonda che è segno di stento, di stravizio o
di dolore. Noi suoi condiscepoli sapevamo che non poteva avere più di
trent’anni; chiunque, a vederlo, gliene avrebbe dati oltre quaranta.
Salutò freddamente Paolo del capo; me o non volle riconoscere, o forse
non riconobbe neppure.

La signora Ripàri si sedè accanto al marito.

Una donna così bella si vede di rado. Alta, svelta, la maestà quasi
severa del portamento era in lei temperata dalla grazia quasi infantile
de’ lineamenti, puri come un profilo antico intagliato nell’agata.
Il morbido volume de’ suoi capelli biondi mi fece tornare in mente i
versi del poeta tedesco: Dio ha dato la donna bionda agli uomini del
settentrione, per compensarli della mancanza del sole. Nulla è perfetto
nel mondo, neanche le belle donne pur troppo, e spesso Pigmalione
s’affatica invano a infondere la vita nelle membra mirabili e gelide
di Galatea; ma negli occhi cerulei della signora Ripàri brillava il
pensiero, e lo spirito illuminava quell’onesto sorriso.

Capitata in un convegno di poeti o d’artisti, la signora Ripàri sarebbe
stata accolta con uno di quei gridi che erompono spontanei dall’animo
di chi si sente fortemente compreso dall’ammirazione; fra gente che
dava battaglia alla noia con l’arme dell’appetito passò senza che
nessuno ci badasse. Tanto è vero che a questo mondo non basta aver
merito; bisogna anche saperlo mostrare a chi può pregiarlo e scegliere
una occasione propizia.

Il pranzo passò come al solito; si parlò del cattivo tempo, della
inondazione, delle valanghe; si fecero passare di mano in mano pezzi
di diorite e di cristallo di rocca, raccolti qua e là per le montagne;
pochi gl’interlocutori, molte le comparse che mangiavano senza
parlare. Federigo non parlò, nè mangiò; non fece altro che guardar
fisso il Conte San Vittore, il quale pareva non accorgersi d’essere
sbirciato, squadrato a quel modo. Carolina (era questo il nome di
battesimo della signora Ripàri) tentò più volte di attaccare discorso
col marito e inutilmente; alle sue domande non rispondeva o rispondeva
con monosillabi e Carolina pareva si sentisse umiliata dal contegno
freddo, quasi sdegnoso che egli teneva con lei. Cercava di leggere in
viso ai commensali se se ne fossero accorti e si rallegrava di vederli
tutti intenti nelle loro chiacchiere o nelle loro vivande; ma quando
i suoi occhi s’incontrarono co’ miei, capì ch’io avevo osservato e
meditato, che v’era un testimone di que’ silenzi eloquenti e divenne
pallida a un tratto. Alle frutta s’alzò; stette per un momento con
le mani appoggiate sulla spalliera della sedia guardando Federigo e
come aspettando qualche cosa da lui. Egli, se si fosse voltato verso
la moglie, si sarebbe avveduto, da una specie di moto nervoso ond’era
scossa tutta la persona, che quella donna soffriva, e tanto più, quanto
più si sforzava di nascondere l’intima pena; ma non si voltò; guardava
il Conte di San Vittore.

A poco a poco anche gli altri commensali si alzarono e andarono chi da
una parte chi dall’altra. Volevo andarmene anch’io, Paolo mi fe’ cenno
di rimanere. Il Conte si alzò e andò a porsi innanzi al camino entro
cui scoppiettavano gli ultimi avanzi d’un gran fuoco; Federigo restò al
suo posto, rimpetto al Conte, guardandolo.

Nessuno parlava; io avevo il presentimento che stava per succedere
qualcosa di grosso. Me ne sarei andato volentieri, ma Paolo mi
trattenne daccapo con un’occhiata.

Il Conte cavò fuori da un astuccio di cuoio di Russia un _manilla_ e si
diresse verso la tavola sulla quale stava un candeliere acceso. Subito
che Federigo ebbe indovinata l’intenzione di lui, balzò in piedi, stese
il braccio verso il candeliere, accese un sigaro, spense il lume e lo
posò piano piano; poi guardò il Conte come se aspettasse una parola, un
gesto... che so io? un pretesto qualsiasi per attaccarla. Ma l’altro,
come se nulla fosse, prese sulla tavola un coltello, tagliò la punta
chiusa del _manilla_ e con un fiammifero di cera che trasse da un
astuccio di platino lo accese e tornò al suo posto. Sopra una piccola
tavola presso a lui era un numero della _Gazzetta Ticinese_; il Conte
l’aveva a mala pena toccato e già v’era piombata sopra la mano di
Federigo. Il Conte lasciò andare la gazzetta e, quasi non fosse fatto
suo, si mise a scrivere colla matita sopra un taccuino che aveva levato
di tasca. Federigo quand’ebbe in mano il giornale, lo buttò sul fuoco;
il Conte seguitò a scrivere.

Paolo pareva distratto, ma teneva d’occhio ogni mossa del Conte e di
Federigo.

Quando il Conte ebbe finito di scrivere, andò verso la porta. La
bussola era chiusa, Federigo vi s’appoggiò; a me parve difficile che il
Conte potesse esimersi dal parlargli e mi tenni certo una parola sola
sarebbe favilla secondata da grande incendio. Il Conte invece passò
davanti a Federigo come se non gli fosse neanche passato per la mente
d’andarsene, e si diresse verso una delle estremità della sala; colà
giunto tirò il cordone di un campanello. Dopo un momento s’udì un lieve
rumore dietro la porta e di fuori qualcuno girò la maniglia. Bisognò
che Federigo si scostasse; il Conte invece s’era avvicinato all’uscio
dalla parte opposta.

Entrò il cameriere.

— Accendete il fuoco in camera mia, — disse il Conte; — e passando tra
il cameriere e la soglia uscì.

Paolo gli tenne dietro.

Federigo, o meravigliato o stizzito della abile strategia del Conte,
si lasciò andare sopra un divano e parve immergersi in una meditazione
profonda.

Io rimasi nella sala aspettando Paolo da cui speravo avere la
spiegazione di quella difficile sciarada. Intanto, ripensando i fatti
avvenuti, io andavo cercando da me la parola dell’enigma e facevo
questo discorso, che mi pareva assai ragionato.

— Questi due uomini si odiano, o per lo meno Federigo odia il Conte
di San Vittore. Perchè? Vattel’a pesca! Ma è chiaro che Federigo ha
tanta voglia di accattar briga col San Vittore, quanta cura pone questi
nell’evitare ogni contesa. Ci deve esser di mezzo una donna che non
vuol compromettere... altrimenti come si spiega il contegno di un
gentiluomo?.... Ma giusto, è egli poi il Conte questo gentiluomo che mi
hanno detto? Che il Conte abbia paura? Non c’è che questa spiegazione;
perchè quand’anche ci fosse di mezzo una donna, il contegno addirittura
insolente di Federigo non avrebbe fornito all’altro un pretesto tale,
da parere la ragione vera ed unica di un duello? E poi da quella
partenza ad una fuga c’è scattato poco. E Paolo che fa che non torna?
È chiaro anche questo: cerca di persuadere il cugino che se non si
batte col Ripàri è un uomo rovinato per sempre. Riepiloghiamo. Federigo
Ripàri cerca di provocare il Conte; questo è un fatto. Il Conte scansa
ogni occasione di duello; il Conte ha paura. Così si spiegano le parole
di Paolo sul conto del cugino e il suo contegno verso di lui. Ma e
il motivo di tutto ciò? Lo troveremo, pensai con la superbiola di un
uomo che ha fatta un’osservazione profondissima e ha dato prova a sè
stesso di essere abile nel sillogismo. — Lo troveremo; e seccato dal
ritardo di Paolo, che d’altra parte non avrebbe potuto dirmi cosa ch’io
non avessi indovinata senza di lui, uscii dalla sala per salirmene in
camera mia.

La quale camera mia volle il caso si trovasse precisamente accanto a
quella della signora Ripàri.

Non faccia il lettore le meraviglie, non dica con quel suo sorrisetto
d’incredulo “che bel caso!„ In una triste condizione sono oggi
romanzieri e commediografi; il pubblico dopo le fandonie che s’è
succiato per tanti anni in santa pace, s’è fatto diffidente, ombroso.
Basta che un fatto semplicissimo, torni utile al commediografo o al
romanziere, perchè paia al lettore inverosimile. La signora Ripàri
stava al n. 18; accanto al n. 18 v’era di santa ragione il n. 19;
anch’esso, in tanta piena di forestieri, dovè esser dato a qualcuno; fu
dato a me; che meraviglia? Forse se l’albergatore mi avesse assegnato
il n. 10, questo racconto non avrebbe veduto la luce. Albergatore
malcauto! Troppo poco si concede in oggi al caso che pure ha tanta
parte nella nostra vita. Come va, signor lettore, che vi trovate
questo racconto tra mano? Siete andato proprio a cercarlo? No; lo avete
visto per caso nella vetrina del vostro libraio. Ve l’ha prestato un
amico? Siete andato in traccia di quest’amico? No; l’avete trovato per
caso. O forse vi siete risoluto a comprare il libro dopo che lo avete
visto annunziato in qualche giornale? Non è un bel caso che il mio
editore l’abbia fatto annunziare per l’appunto in quel foglio che ha
l’invidiata fortuna di numerarvi tra i propri lettori?

Torniamo alla signora Ripàri. Ella dimorava dunque in una camera divisa
dalla mia per un sottile assìto ricoperto da una semplicissima carta
di Francia. Poco dopo ch’io fui entrato in camera, l’uscio della stanza
accanto s’aprì, e udii facilmente Federigo pronunziare queste parole:

— Buona notte, Carolina.

Udii facilmente ho detto e ripeto. Chi conosce gli alberghi de’
monti elvetici non meraviglierà di queste mie parole. Coloro che in
ogni locanda alpestre della Svizzera veggono un nido di congiurati
s’ingannano; co’ sottili tramezzi di legno non ci è segreto che tenga;
dopo tre ore passate nella stanza accanto alla vostra, il vicino sa
tutti i vostri usi, anche quelli che vorreste non conosciuti da alcuno.
Nelle case delle montagne elvetiche non si congiura; meglio all’aria
aperta; tanto è vero che Guglielmo Tell per preparare la rivolta
abbandonò le mal sicure case di Altdorf e condusse i compagni sulle
alture del Rutli.

— Aspetta, Federigo, voglio dirti una cosa.

— Son qui.

— Sai che da parecchi mesi faccio di meno anche delle lagnanze.

— Carolina....

— Lasciami dire; molti sentimenti si sono spenti in me, uno è rimasto
vivo per fortuna mia e tua: l’orgoglio. Mi lagnerei ancora se giovasse
a qualcosa; ma il lamentarsi inutilmente è una umiliazione che non
voglio soffrire.

— E poi? — disse Federigo col tono di chi non ha pazienza da buttar via.

— Hai fretta? Va’ pure, non c’è nulla che prema... ne parleremo domani.
Buona notte.

— No, Carolina, guarda, son qui... qui seduto e per ascoltarti.

— Stammi dunque a sentire; ce n’è bisogno, credilo. Io non ti chiedo
che tu sii innamorato di me, queste cose non si chiedono, si ottengono;
non si riacquistano quando si sono perdute, nè si risuscita un
amore che doveva essere eterno e che è morto a un tratto, di etisia
fulminante, dopo un anno di matrimonio. Ti chiedo soltanto che tu sii
con me quale saresti con qualunque altra donna e quale ti impone di
essere se non la legge del cuore, la legge del mondo; se non l’affetto,
per lo meno l’educazione.

— Non ti capisco.

— No? Allora è inutile andare avanti.... Buona notte.

— Insomma, perdio! non ti capisco.

— Federigo, non alzare la voce; ricordati che siamo in un albergo;
risparmia agli altri lo scandalo, a me lo spettacolo di una di quelle
brutte scene da commedia che aborro tanto.... Sai quello che t’ho detto
tante volte: tu non gridi che quando sei persuaso d’aver torto.

— Ebbene, dunque, sentiamo.... che cosa c’è?...

— Quando partiamo?

— Quando la carrozza potrà percorrere senza pericolo la strada di qui a
Bellinzona.

— Sta bene; domani dunque, se siamo ancora ad Airolo, noi pranzeremo
qui insieme, o tu pranzerai solo a tavola rotonda.

— Perchè?...

— Perchè io sopporto il tuo contegno finchè siamo soli, ma, lo ripeto,
ho ancora tanto orgoglio da non tollerarlo in santa pace dirimpetto
alla gente. Durante il pranzo sei stato accanto a me come accanto ad
una persona che tu non conoscessi neppure.... anzi, ho tanta stima
della tua educazione, da credere che il tuo contegno sarebbe stato
diverso con chiunque. Io voglio dunque che tu sii meco quale un
gentiluomo dev’essere con una donna. So essere disgraziata, mi ci hai
assuefatta; ridicola, no.

— Carolina, tu prendi al solito le cose troppo sul serio.... Io ero
distratto....

— Eppure tu mi toglierai anche l’ultima illusione. Una volta credei
che tu mi volessi bene, comincio a credere d’essermi ingannata. Non
puoi avermi amato, mi conosci troppo poco. Se tu mi conoscessi,
Federigo, non anderesti cercando una scusa che io non ti chiedo.
Oggi eri distratto... e ieri?... È un po’ lunga una distrazione che è
principiata un anno fa e dura ancora. Non ne parliamo più. Sei libero
di scegliere: o pranzeremo in camera insieme, o tu pranzerai solo
a tavola rotonda. E ora va’, devi essere stanco della tua gita di
stamani.... Buona notte.

Vi fu un breve silenzio; poi Federigo, parlando rapidamente e con voce
concitata, riprese:

— Hai ragione, Carolina, tu hai ragione, ed io ho torto, lo sento, ho
molto torto... ma il cuore non ci ha che fare... dipende, che so?...
dal mio temperamento... dalla mia costituzione fisica. Ho qualche
stravaganza, perdonamela e....

— Oh! Federigo, tu abusi un po’ troppo di me. Tu sai che nonostante
le tue distrazioni, le tue stravaganze, come le chiami, io ti voglio
ancora bene, lo sai, e ne abusi. Non mi venir fuori col temperamento
che non ci ha nulla che fare. Non so se tu ti ricordi qualche volta
che mi hai voluto bene anche tu; certamente non puoi aver dimenticato
di che amore t’ho amato io; io povera donna, che ho messo in te tutte
le mie speranze e tutti i miei desiderii, che t’ho creduto il solo
uomo capace di tradurre in realtà i miei sogni. Ci vuole un animo
molto delicato, molto giovane, per intendere di che colori io avessi
vestito l’avvenire. Ho serbata viva la mia speranza per un anno intero
dopo le nostre nozze. Ringrazio Iddio di avermi fatto cieca per tutto
quel tempo, cieca ma felice; se avessi avuto più esperienza, se avessi
saputo vedere più addentro nelle cose della vita, mi sarei accorta che
tu non eri poi quel tale uomo ch’io m’era figurata.

— Carolina! — esclamò brusco Federigo.

— Non t’adirare, non ho in mente di dir nulla che possa offenderti.
Il primo torto fu mio, sperai più di quanto è lecito sperare. Un
uomo capace di appagare tutti i desiderii di una fanciulla buona,
intelligente, affettuosa, di porsi tra lei e il mondo, perchè il mondo
non violi ad un tratto la verginità dei suoi pensieri, che sappia
insegnarle a poco a poco la realtà della vita senza disperdere tutti
quanti i suoi sogni, i suoi inganni, le sue ubbìe, se vuoi che dica
così, di ragazza innamorata, un uomo capace di un acume così avveduto,
così delicato non c’è.

— Ma, Carolina... è impossibile.... bisogna prendere il mondo....

— Come è, lo so, me l’hai detto tante volte! Ma se lo confesso da me
che speravo troppo.... e del rimanente ciò poco importa. Fatto sta che
tu per un anno m’hai voluto bene e molto, di questo sono sicura; chi
ama come ho amato io non s’inganna. Un giorno.... che cos’è accaduto,
Dio mio, quel giorno? Non lo saprò dunque mai?... Un giorno, come per
incanto, sei diventato freddo, noncurante, e...

— Ma ti voglio bene ancora....

— Sì... tronchiamo, Federigo, tronchiamo questo discorso. Ci sono
delle cose che offendono tanto l’amor proprio di una donna, da
essere impossibile persino il parlarne. Mi vuoi bene ancora.... —
S’interruppe, poi con accento di dolorosa ironia domandò: — Come a una
sorella?

Federigo non rispose.

— Io ti annoio, — riprese con simulata giocondità Carolina, — ti
annoio, lo capisco, e mi dispiace che siamo andati col discorso
tanto lontano. A che giova? A farmi almeno sapere perchè, da chi fu
distrutta la mia felicità? No. È un anno che me lo domando inutilmente
e oramai non voglio più saperlo. Il mistero mi ha messo paura.... Ah!
Federigo.... tu hai sciupati crudelmente i più belli anni della mia
gioventù.

La signora Ripàri disse queste ultime parole con dolore così acerbo,
così profondo, che suo marito quasi scosso esclamò con voce piena di
lacrime:

— Oh! Carolina, Carolina, per carità, perdonami, perdonami. Se tu
sapessi quello che io soffro! Dio sa se ti vorrei felice e ti faccio
patire. Senti, vieni, vieni qui, accanto a me.

E poichè ella non si mosse, udii Federigo alzarsi e soggiungere:

— Non vuoi? Perchè non vuoi?... Oh! Carolina... Carolina....

— Federigo... — mormorò la signora Ripàri, con voce che pareva chiudere
in sè tutto il rimpianto del paradiso perduto, tutte le speranze della
terra promessa — Federigo....

A questo punto s’udì nel corridoio il Conte di San Vittore chiamare il
cameriere della locanda.

— Oh! no mai! mai! — gridò Federigo, e uscì rapido fuori della stanza.

L’atto, la fuga di Federigo mi diedero per un momento a pensare;
credei fosse un maniaco. M’affacciai sul corridoio; Federigo in piedi,
pallidissimo, non si accorse di me; parve titubare un momento, poi con
passo risoluto andò fino ad una delle estremità del corridore e picchiò
ad una porta.

— Avanti, — disse una voce dall’interno della stanza.

Era la voce del Conte.

Quando tornai nella mia camera non s’udiva più nella stanza di Carolina
che un cupo e lungo singhiozzo.

Chi non s’è trovato qualche volta a spiegare una sciarada e messosi
in testa che il _primo_ fosse di certo una data parola, non ha
sudato sangue per trovare un _secondo_ ed un _terzo_ che potessero
stargli accanto? Così per l’appunto successe a me. Ho esposto le mie
osservazioni rispetto a quanto era avvenuto durante e dopo il pranzo; e
poichè i personaggi dell’ultima scena erano gli stessi della prima, io
mi affaticava a dipanare il filo che doveva legare insieme la paura del
Conte, i patimenti di Carolina, le ire e le stravaganze di Federigo.
Feci le ipotesi più strambe: gelosie, rancori politici, odii ereditari,
tutto l’archivio dei vecchi drammi fu rovistato per trovare uno
scioglimento a questa nuova commedia e inutilmente.

Così almanaccando intorno alle cose vedute con la curiosità che si fa
tanto più forte, quanto meno prontamente si appaga, quella notte non
potei chiuder occhio. Sul far del giorno udii parlare e passeggiare
nella strada sotto le finestre. M’affacciai. L’aurora imbiancava le
cime dei monti, un vento leggiero passando traverso agli abeti, recava
fino a me gli acri e salubri profumi della montagna; una carrozza
coi cavalli attaccati e volti verso il monte stava innanzi alla porta
dell’albergo.

Poco dopo il Conte di San Vittore, avvolto in una pelliccia, il viso
quasi interamente nascosto in un’amplissima ciarpa, uscì nella strada,
montò nella carrozza e partì.

Non c’era più dubbio; il Conte fuggiva, dunque aveva paura.

Il sillogismo s’era compiuto allora nella mia testa, quando Paolo entrò
in camera.

— Oh! — dissi vedendolo. — Che c’è di nuovo?

— Che ti vengo a dire addio.

— Parti?

— Per Milano, fra un’ora.

— In che modo?

— Colle mie gambe fino a Faìdo; troverò facilmente una vettura
purchessia, che mi porti sino a Bellinzona; partendo stasera di là con
la diligenza arriverò domattina alle nove a Camerlata, alle undici a
Milano.

— E lì ti fermi?

— Vo a Firenze difilato.

— Ma non m’avevi detto che aspettavi una lettera?

Bussarono alla porta.

— Eccola — disse Paolo.

Difatti un cameriere della locanda entrò e consegnò a Paolo una lettera.

Paolo guardò lungamente la soprascritta; ruppe con mano quasi tremante
il sigillo, poi come se avesse voluto risparmiarsi una qualche
commozione: apri e leggi, soggiunse.

Guardai l’amico e non senza meraviglia m’accinsi ad obbedirlo. Aprii e
lessi:

“Fra dieci giorni a Bruxelles. Avvertite lo zio.

                                                       “SAN VITTORE.„

— Finalmente! — gridò Paolo, mentre un sorriso che manifestava una
contentezza profonda gli illuminò il viso. — Finalmente!

— Oh! sì, era tempo! — esclamai.

— Di che?

— Oh! bella — soggiunsi col furbo sorrisetto dell’uomo avvezzo. — Era
tempo che il Conte si ricordasse che quand’uno si chiama San Vittore
non può fare impunemente delle vigliaccherie.

— Il Conte è un gentiluomo, anzi, è un uomo di cuore....

— Ma si batte?

— Con chi?

— Col Ripàri.

— Non ci mancherebbe altro!...

— O dunque?

— Dunque.... oh! è una storia troppo lunga....

— T’accompagnerò e me la racconterai strada facendo.

— Perchè no? — soggiunse Paolo dopo un momento di pausa. — Ho bisogno
di essere espansivo oggi, nè potrei — conchiuse stringendomi la mano
— aprire l’animo mio più sicuramente che a te. È una storia d’amore
triste, mio caro, come tutte le storie d’amore che sono finite sopra la
terra....

                             . . . . . . .

Un’ora dopo Paolo ed io ci avviammo per la grande strada che da Airolo
conduce a Bellinzona; egli narrava, io ascoltava con religiosa, con
dolorosa attenzione la storia breve e vera che oggi racconto.

Intanto spuntava il sole; sui monti che poco prima apparivano allo
sguardo cupi ed informi, si distinguevano ora i sentieri cespugliosi,
i massi l’uno all’altro sovrapposti, le cascatelle, le grotte; e il
vento fresco della mattina, asolando intorno, portava sino a noi,
insieme con i vigorosi aromi del timo e della menta silvestre, il canto
degli uccelli, che per gli alberi della valle dicevano all’autunno un
malinconico addio.


I.

Quando nel maggio del 186... il Conte Emilio di San Vittore fece sapere
che si ammogliava fra un mese, gli amici che aveva numerosi, il bel
mondo di cui era assiduo e festeggiato frequentatore furono per quella
notizia alquanto meravigliati.

Ricco, non aveva bisogno di una dote che gli puntellasse il patrimonio;
fortunatissimo in amore, per lui versavano lacrime molte belle
infelici, per lui schiudevano le labbra a sorrisi procaci le più
civette tra le donne d’Italia; avvezzo oramai alla vita di scapolo,
alla varietà e alla frequenza delle commozioni, egli non avrebbe potuto
adattarsi alla tranquilla serenità della vita domestica. Perchè dunque
pigliava moglie? Coloro che, per spiegare l’enigma, misero innanzi
l’ipotesi che il Conte Emilio fosse innamorato, non fecero altro che
destare l’ilarità in tutte le sue gradazioni diverse, dal sogghigno più
dispregiativo fino allo scroscio di risa più badiale.

Tutto ciò avveniva non già perchè la gente fosse priva di perspicacia;
era davvero difficile trovare non soltanto la ragione ma il motivo
onde il Conte era spinto ad ammogliarsi e che egli d’altra parte si
compiaceva nel tenere nascosti.

Emilio era aristocratico fino alla punta dei capelli; da giovanotto
aveva messo da parte molti scrupoli, molti proponimenti dimenticati;
d’una cosa sola non s’era dimenticato mai: che egli era il discendente
di quei Conti di San Vittore, la cui nobiltà vantava parecchi secoli
e che ora sotto la cappa luccicante d’un ambasciatore, ora sotto la
tonaca sanguigna d’un cardinale avevano avuto larghissima parte nelle
vicende della patria. Mai, per esempio, una di quelle facili donne
con le quali egli sprecava il suo tempo, la sua giovinezza e i suoi
danari, non aveva potuto oltrepassare le soglie dell’antico palazzo dei
San Vittore; la religione della casata era la sola a cui il Conte si
mantenesse con fervore devoto. Nondimeno nei luoghi che frequentava,
egli aveva fatta relazione con molta gente, la quale non era pari a
lui nello splendore del nome o nella purezza del sangue. I parenti,
aristocratici più di lui, avevano messo il broncio, lo tenevano
per un iconoclasta; e il Conte, nemico per natura delle seccature
di qualunque specie fossero, da qualunque parte gli venissero, si
risolse a prender moglie, coll’intendimento di rompere ogni relazione
con i suoi amici del giorno avanti e di fare ammenda di così grave
trascorso. Ammogliandosi, egli ristringeva i vincoli che lo legavano
al bel mondo, e dopo aver erogato le rendite nel nutrire e nel vestire
(nello spogliare, forse, se meglio vi piace) le belle ragazze di tutti
i paesi, si proponeva spenderle, d’allora in poi, nel far ballare e
cenare le signore della nobiltà fiorentina.

Non gli rimaneva che scegliere; e qui cominciavano le difficoltà. Il
Conte, pur trattandosi di cosa tanto grave quanto un matrimonio, non
era uomo da buttar via il tempo a cercare, tra le signorine italiane,
quella che meglio gli convenisse. Per uscir dalla bega, una mattina si
presentò alla casa di un suo vecchio zio materno, il marchese Varalli.

Il marchese Varalli era un antico libertino arrivato a settant’anni
senza neanche l’ombra di un pentimento. Era lungo e smilzo: aveva la
pelle incartapecorita e i capelli bianchissimi; ma il passo rapido
e sicuro, la vista lincea, l’udito perfetto e due fila intatte di
bianchissimi denti facevano testimonianza che gli stravizi di ogni
maniera nulla avevano potuto sulla sua ferrea costituzione. Di quando
in quando era tormentato dalla gotta; ma egli ci scherzava su, e
ricordava agli amici Pericle, Augusto, Carlo V, il maresciallo di
Sassonia, illustri gottosi.

Quando suo nipote comparve nella stanza: — Che miracoli son questi? —
domandò il vecchio. — Sono tre anni che non v’ho visto, signor Conte
gentilissimo e diletto nipote. Se io fossi uno zio da commedia e voi
un nipote spiantato, direi che venite a domandarmi de’ quattrini in
prestito; ma siete più ricco di me, e....

— Zio, — riprese Emilio, — vengo da lei per un consiglio.

— Un consiglio? Perdio! questa non me l’aspettavo. Voi che siete di
una generazione di filosofi, venite a prendere consiglio da un avanzo
mal conservato di una generazione di gentiluomini?.... Che diavolo v’è
accaduto? Basta, mettetevi a sedere. Son qui.

— Senta, zio, so che i miei parenti, lei per il primo, si sono lagnati
perchè ho menata sin qui una vita un po’....

— Niente, niente; — interruppe colla sua voce fessa il Marchese. —
Non so quello che abbiano detto gli altri vostri parenti, e non me ne
curo. Quello che ho pensato io ve lo dirò: ho pensato che alla vostra
età si deve fare quello che avete fatto voi. Volete che vi rimproveri
d’aver corsa la cavallina, d’aver mantenuto qualche bella donna? Siete
giovane, pare che siate anche bello, siete ricco... Magari ci potessi
tornar io! Rispetto a donne, dunque, non ho niente da osservare; quando
le principesse erano brutte e le cameriere belle, io m’attaccavo alle
cameriere. Che l’origine di una donna si perda nelle leggende delle
mille e una notte o in quelle d’una notte sola, tanto fa. E poi con le
donne non ci si lega; oggi sì, domani sì, domani l’altro no, non ci si
trova più per tutta la vita, o se ci si trova, magari non ci si saluta.
Fin qui sta tutto bene e siamo d’accordo. Quello che non mi quadra è
il vostro contegno coi maschi; che dando dietro a Lucrezia, facciate la
conoscenza di Bruto, si capisce e tiriamo via; ma che lo salutiate per
la strada e lo conduciate in carrozza con voi... ah!... questo poi no.

— Ed io per romperla addirittura con tutte queste conoscenze un po’....
un po’ democratiche....

— Volgari, plebee.

— È gente che mi son trovata accanto senza quasi avvedermene.

— E che v’è venuta intorno per chiedervi danari e non restituirveli;
per farsi vedere amica di un San Vittore e infliggere con la sua stessa
presenza accosto a voi una umiliazione al nostro ceto; per....

— Ho risoluto di prender moglie.

— Bene, — soggiunse senza scrollarsi il Marchese.

— Ma io da me non son mica capace di trovare una ragazza che mi
convenga in tutto e per tutto. Mi manca la esperienza, forse, la
pazienza di certo. Vorrei che lei, zio, si pigliasse l’impegno....

— Vi ci vuole una donna bella e di spirito. Se volete aver gente in
casa vostra, non l’avrete che a questo patto; che sia ricca....

— Oh! poco importa....

— Siete ricco voi abbastanza. Fin qui le cose vanno come l’acqua alla
china.

— Dunque ci pensa lei?

— Eh! adagio!...

— Cioè?...

— Volete maritarvi nella vecchia maniera o nella nuova?

— Non capisco, — rispose dopo un breve silenzio e con un lieve sorriso
il Conte.

— Ecco: voi sapete che io non sono un figlio del fortunato secolo
decimonono. Son nato nel 1791, grazie a Dio e al marchese padre, che
quando mi mise al mondo, aveva per l’appunto l’età che ho io. Ah! pur
troppo le generazioni deperiscono.... Basta, lasciamo là le malinconie.
Dunque dicevo che son nato nel secolo passato; e io, nonostante le
rivoluzioni, posso dire d’aver vissuto fino al 1830, per tutti gli anni
della mia gioventù insomma, come avrei vissuto sotto Gian Gastone.

— Zio, scusi, io non intendo....

— Voialtri giovanotti seguite la moda, e oggi c’è l’uso di dire che la
società d’allora era corrotta. Avete a sapere, filosofi miei, che era
tale e quale quella d’oggi. Gli uomini erano uomini e le donne donne;
salvo che parevano più signore quelle quando compravano la complicità
d’una cameriera, che le vostre quando vanno a udienza dalla regina.
Non avete nè mutato, nè inventato nulla voialtri. Voi chiamate colpa
ciò che noi chiamavamo galanteria; io vi chiamo ipocriti quando voi
vi intitolate puritani, e siamo pari. Dicevo? Ah! ho dunque bisogno
di sapere come voi la pensate, perchè appunto dal vostro modo di
pensare dipende la scelta di una moglie che vi convenga. Per farla
breve: a trentadue anni e dopo la vita che avete menata, non mi venite
a raccontare di voler essere un marito sul serio, perchè io non la
bevo; dunque una delle due: o volete una donna che non sia tanto nuova
nella scienza della vita, e allora scegliete una ragazza iniziata da
un paio d’anni ai misteri del bel mondo; potrete dirle il giorno delle
nozze ch’ella deve pensare a sè, come voi provvederete a voi, e buona
sera signori; o volete una donna ingenua, che si serbi fedele a voi
finchè non abbia acquistato un po’ d’esperienza, e allora scegliete
una ragazza uscita ieri di convento. Ve n’andrete in campagna con lei,
l’aiuterete a lavare il viso a’ figlioli e per un certo tempo potrete
dormire fra due guanciali. Tocca a voi a scegliere in massima. Aprite
bocca ed io mi farò esecutore della vostra legge e troverò l’individuo
appena designata la specie.

— Ecco... — soggiunse modestamente il Conte.

— Ho capito, — interruppe subito l’altro con un sorriso maligno —
volete l’ingenua. Siete un ipocrita anche voi.

— Zio....

— Sì... e un credulone. Voi scegliete l’ingenua, perchè vi figurate,
come si figurano tutti, che si lascierà ingannare senza rendervi la
pariglia. Sta bene. L’ho trovata.

— E si può sapere?...

— Bellissima. A me non piace, ma per i gusti d’oggi è fatta apposta;
magra, piccola, molto elegante. Poca dote, ma questo non è un difetto,
orfana, e questo è un pregio.

— E lei la conosce?

— Io? L’ho vista qualche volta col duca Esmeraldi che è suo tutore.

— E si chiama?

— Alessandra. Voi potrete chiamarla Alessandrina, Sandrina, Rina, a
piacimento; per questo non ci saranno difficoltà.

— E la famiglia?

— Altissimo lignaggio, vera aristocrazia toscana, caro mio; nome
illustre e soldi pochissimi.

— Va bene; desidero di vederla.

— È giusta; domani alle sei sul piazzone delle Cascine. Sarò in
carrozza col Duca e con la pupilla. Guardatela bene, magari venite alla
carrozza e parlatele. Domani pensate, domani sera risolvete, domani
l’altro vi aspetto a colazione da me.


II.

Il marchese Varalli da quel vecchio libertino che era, non aveva
osservato del mondo se non gli aspetti più tristi. Egli, che si vantava
di conoscere le donne, non conosceva in sostanza che certe donne
le quali si somigliano tutte. Nemico del nuovo, non aveva studiato
del suo secolo che le mutazioni apparenti; proponendo per moglie a
suo nipote Rina Miriani, credeva d’avergli trovata una delle solite
educande senza idee proprie, senza volontà, senza carattere. E prese
un abbaglio. Rina, rimasta orfana a tre anni, era stata affidata dal
tutore Duca Esmeraldi alla custodia di una governante inglese; buona
donna, puritana, che secondo l’uso inglese aveva lasciato liberamente
svolgersi l’intelletto e il sentimento di Rina, e coltivata la più che
femminile energia e la fermezza di propositi della sua figliola, per
dire come diceva; di guisa che quando Rina fu messa in conservatorio
non era più bambina, ma una donna di quattordici anni.

Intendiamoci: la _bambina_ propriamente detta non esiste. La donna
comincia, si può dire, a tre anni, perchè a tre anni cominciano a
disegnarsi in lei i suoi due contrassegni morali: l’amore e la vanità.
A tre anni cominciano nella donna le forti e delicate simpatie; e
dove i maschi, secondo che veggono onorato ora l’aspersorio ora il
fucile, imitano i diaconi o i capitani con le processioni o con le
battaglie, le bambine non pensano che ad una cosa, la quale sarà poi
la occupazione costante di tutta la loro vita: a farsi belle. Dicendo
dunque che Rina era donna a quattordici anni, intendo significare che
aveva dato un addio a tutte le superstizioni infantili e acquistato
precocemente la pericolosa facoltà di osservare e di dedurre.

Il Conte Emilio di San Vittore che non aveva in vita sua praticato
ragazze — s’intende ragazze a modo — non capì la differenza che passava
tra Rina e un’educanda di quello che gli aveva descritte il Marchese;
e ammaliato dall’aspetto di quel viso leggiadro sul quale nessuna
passione aveva lasciata la sua triste impronta; dalla tranquilla
limpidità della voce, eco della limpida tranquillità dell’anima;
respirando l’aura fresca, salubre, che aleggiava intorno la bella
creatura, l’arte del marito gli parve più facile che non gli fosse
sembrata dapprima. Del rimanente, importa notarlo, la sua osservazione
analitica rispetto a Rina non fu nè diligente nè lunga.

— Dunque? — gli domandò il Marchese, quando Emilio, che aveva veduta
Rina alle Cascine il giorno innanzi, fu da lui all’ora della colazione.

— Dunque mi piace.

— Dicerto?

— Dicerto.

— E a me, no.

— Come?...

— Ma questo importa poco, piace a voi....

— Ma pure, me l’ha proposta lei.

— Perchè quella mummia del Duca l’aveva proposta a me, m’aveva detto
che usciva ora di collegio.

— Non è vero?...

— Verissimo; ma deve uscire da un collegio militare costei.

— Non la capisco, zio.

— Eppure è molto facile, caro mio; questa ragazza non è per voi. Non
appartiene a nessuna delle due classi che abbiamo passate in rassegna
ieri l’altro. Non è donna da tollerare senza richiami un’offesa, nè
da pigliare abbagli sul conto vostro. Ha le sue idee; e se le manca
l’esperienza, ha la ferma volontà di acquistarla. Se volete una moglie
pronta a compiere in silenzio la volontà del marito e a rassegnarsi
alle vostre infedeltà per rispetto umano, questa non è, ve lo dico io,
donna per voi o, per dir meglio, voi non siete uomo per lei.

Tutti sanno che il più delle volte da lievissime cause provengono gravi
effetti; tutti sanno che nelle dispute, per esempio, tale che sul
partito da pigliarsi sarà rimasto dubbioso innanzi alle più strette
argomentazioni, ai ragionamenti più logici e più validi, si persuade
in grazia di una esclamazione, di un sorriso, di un’interiezione. E
così fu del Conte. Il discorso del Marchese, la pittura che questi gli
fece di Rina, lo sgomentarono addirittura. Aveva lo zio in concetto
d’uomo che conosce il mondo, e per di più non dimenticava di essersi
rivolto a lui, pronto ad accettare la moglie che da lui gli fosse
scelta ed offerta. Era già dunque disposto a dimettere il pensiero
delle nozze con Rina Miriani, con la stessa facilità onde l’aveva
accolto, quando vennero in bocca al Marchese quelle malaugurate
parole: _o voi non siete uomo per lei_. Come? il Conte Emilio di San
Vittore, festeggiato dai babbi, blandito dalle mamme, acclamato,
desiderato, da tutti; che aveva visto cento donne sorridergli con
tanta voluttà il giorno dell’amore e piangere con tanta sincerità il
giorno dell’abbandono; il Conte Emilio di San Vittore, bello, ricco,
nobile, cavalleresco, giovane, culto, poteva dunque trovare una donna,
culta, bella, aristocratica, elegante, che non si stimasse fortunata di
vivere con lui, che egli non fosse capace di fare contenta? Il Marchese
vaneggiava; egli non sapeva di quali pregi fosse ricco il nipote,
bisognava mostrarglieli.

Questo ed altri consimili suggerimenti dettero al Conte Emilio una
certa vanità dispettosa ne’ brevi istanti di silenzio che succederono
alle ultime parole del Marchese. E alzandosi riprese:

— Che vuol che le dica? Mi dispiace di non essere dalla sua anche
questa volta; ma mi pare che la signorina Miriani, specie dopo ciò
che ella me ne ha detto, sia propriamente la donna che mi ci vuole.
Ha molto ingegno, una grande squisitezza di maniere e nobilissime
tradizioni di famiglia. Per un gentiluomo mi pare....

— Tutte belle cose — soggiunse sogghignando il Marchese; — tutte belle
cose per le sere di ricevimento e che accarezzeranno il vostro amor
proprio finchè le sale di casa San Vittore saranno piene d’invitati....
Ma dopo? A porte chiuse e a lumi spenti? Non tutti i giorni s’invita
gente a ballare, ma si vive tutti i giorni; e per vivere in due bisogna
andar d’accordo, se no guai. Oh! insomma io ve l’ho detto e ve lo
ripeto: pensateci e... non ne fate nulla; quella ragazza ha una testa
esaltata; vi seccherà, si seccherà, vi seccherete. Voi poi, vedete,
voi, credete a me, non sarete buono a infiltrare in quel cervellino
una sola delle vostre idee. Ieri si parlò di politica, di costumi, di
religione; eravamo in due, il Duca ed io; e lei, bisognava sentirla,
combatteva a tutta oltranza, scartava quest’opinione, accettava quella,
che era ben inteso la sua e per conseguenza la migliore. “Io penso...
io credo...„ Sicuro, lei pensa, lei crede. Ragazza? È un avvocato da
cassazione.

Il Conte lasciò che lo zio si fermasse per riprendere fiato e
accomodando le labbra a un sorriso alquanto ironico, riprese:

— Mi sarà lecito di osservare, senza mancare di rispetto nè a lei nè
al Duca, che per arrivare all’intelletto di una donna come quella che
dipinge, non c’è che una strada: la strada del cuore. La signorina
Miriani è stata educata forse secondo i metodi moderni....

— Belli!

— ... per i quali si dà alle facoltà intellettuali svolgimento più
ampio di quello che si dava prima... a’ suoi tempi. La resistenza che
ha trovato lei cederà, creda, dirimpetto ad un uomo, che senza cullare
la propria moglie nelle arcadie degli affetti eterni, sappia fin dal
primo giorno ispirarle quella amicizia rispettosa, che....

— Non andate avanti, — interruppe alzandosi anch’egli il Marchese. —
Non andate avanti; buttate via il fiato e dite delle cose, le quali,
mi sarà lecito d’osservare senza mancarvi di rispetto, non hanno mai
avuto senso comune nè ai miei tempi, nè ai vostri. In sostanza il
vostro discorso, mi dispiace in coscienza di non lo poter chiamare
ragionamento, significa questo: che io son vecchio e mi sgomento, voi
siete giovane e potrete fare dell’indole di vostra moglie quel che vi
pare e piace; sta bene, pigliatela e buon pro vi faccia. Aggiungo una
cosa e non se ne parli più. Io, proponendovi questa ragazza, mi sono
ingannato per dar retta a uno sciocco, che è il Duca Esmeraldi. Voi,
ostinandovi nel volerla, vi rovinate per dar retta ad un altro sciocco
che....

— Che?

— Che siete voi. Tenete a mente: di qui a qualche anno, o voi farete
il campagnolo seppellito fra i boschi della vostra fattoria delle
Poggiola, rinunziando al mondo e allo sue pompe e accomodando gli
sbadigli in modo da farli passare per sorrisi; o questa donna vi
pianterà, per cercare chi le dia ciò che voi non dovreste prometterle
e in ogni caso non potrete nè saprete darle mai. E ora andiamo a
colazione e beviamoci su, come dice il mio guardaboschi quando ha
bastonato la moglie.

                             . . . . . . .

E due giorni dopo furono stabilite e nel mese seguente celebrate le
nozze tra il Conte Emilio Boffinghi di Saint-Aubin di San Vittore e
Rina unica figlia del defunto marchese Miriani.

Uscendo di chiesa gl’invitati ripetevano le frasi che si dicono a fior
di labbra in simili congiunture; e il marchese Varalli gli stava a
sentire con quell’attenzione silenziosa e sardonica che è il sublime
della canzonatura.

— È proprio una coppia bene assortita, — diceva uno dei testimoni.

— Se fosse vivo il povero Marchese! — soggiungeva un altro, ricordando
il padre della sposa morto da quindici anni.

— Bravo Emilio! non poteva scegliere meglio.

— Nè prendere più savia risoluzione.

— Davvero! perchè è inutile confondersi, un po’ di pace non si trova
che nel matrimonio.

— Già — saltò su a dire il marchese Varalli — come la ricchezza ne’
terni al lotto; una combinazione favorevole, e centodiciasettemila e
non so quante contrarie.

— Oh! ma sentite, caro Marchese, se que’ due lì non fossero felici
insieme, vorrebbe propriamente dire che....

— Che cosa?

— Che... che... basta, se n’è viste tante.... e poi non c’è nulla di
nuovo sotto il sole.

— Neanche cotesto aforisma, che si ricorda di Salomone.

Dopo la colazione il Conte e la Contessa partirono per la villa delle
Poggiola, ove avevano fermo di passare il resto dell’estate e tutto
l’autunno. Lo zio gli accompagnò sino alla carrozza; strinse la mano
allo sposo, baciò la sposa, e congedandosi da loro, pensò tra sè: anche
questa è fatta! ma o io sono uno scimunito, o ne sentiremo delle belle
e tra poco!


III.

La villa delle Poggiola è distante un trenta chilometri da Firenze
sulla strada delle Filigare. Fu edificata nel 1513 da Guido di
San Vittore; ma gli eredi di lui e gli eredi degli eredi, e via
discorrendo, accomodarono, sciuparono, mutarono sempre qualcosa, ognuno
secondo i gusti propri e gli usi del tempo; di guisa che sulle mura
della villa vedi oggi l’impronta di parecchie generazioni.

Gli antenati del Conto Emilio si chiamarono in origine Boffinghi.
Vecchie pergamene, conservate da lui con religiosa cura nell’archivio
di famiglia, attestano che un Corrado nativo di Bopfingen, città
imperiale della Svevia, venne nel 1154 in Italia con Federigo
Barbarossa; e dopo la pace di Costanza, formata dimora in Lombardia,
fecesi italiano nel nome e si chiamò Da Boffinga, donde vennero, con
l’andare del tempo, i Boffinghi. Al tempo delle contese tra Luigi
XII ed il Moro a cagione del Ducato, un Guido Boffinghi parteggiò per
Luigi, ed uscito da Milano stette con i Francesi. Dal re fu con altri
mandato, perchè abilissimo, a trattare della lega co’ Veneti; e dopo
la battaglia di Novara, ove combattè a fianco del La Tremouille, ad
accompagnare il Moro prigione nella torre di Loches. In ricompensa di
questi servigi ebbe in dono da Luigi XII il feudo di Saint-Aubin nella
Borgogna, quello di San Vittore nell’Astigiano, e facoltà di porre
nello stemma una ruota d’oro in campo azzurro, col motto “_Sans sortir
de l’ornière_„ significante la fedeltà serbata al re in ogni tempo. Da
allora in poi Guido aggiunse al nome de’ Boffinghi quelli de’ feudi
donatigli e si chiamò Boffinghi di Saint-Aubin di San Vittore; il
vecchio ed il nuovo nome illustrò poi combattendo a Bologna, a Brescia,
a Ravenna e ottenendo da Gastone di Foix lodi senza fine per il valore
dimostrato in quelle battaglie. Quando il Milanese passò a Massimiliano
Sforza e Luigi fu costretto a richiamare dall’Italia gli eserciti,
Guido, visto di mal occhio nel Ducato, riparò in Toscana e vi fabbricò
una villetta (quella appunto di cui parliamo) perchè gli fosso asilo
sicuro dalle persecuzioni de’ nemici e riposo alle fatiche delle armi.

Venuti tempi più tranquilli, i San Vittore tornarono a Milano; ma la
villa fu ingrandita da un cardinale della famiglia, il quale, nominato
vescovo tra gl’infedeli di non so qual parte d’Oriente, aspettò
inutilmente tra gli ozi campestri che i Turchi si facessero cristiani e
gli permettessero di provvedere alla salute del gregge. Si stabilirono
novamente in Toscana quando un altro Guido, bisnonno del Conte Emilio,
fu chiamato dal granduca Leopoldo I a delicatissimi uffici d’ambasceria
segreta e da quel tempo non si mossero più.

Il capitano aveva adunato nella villa una stupenda collezione di
armi, il cardinale vi raccolse a mano a mano una galleria bellissima,
l’ambasciatore una vasta biblioteca; l’avo d’Emilio circondò la casa
di un giardino a uso _Le Nôtre_, e tre le piante straziate a furia
di forbici, foggiate a urne e a piramidi, fece quelle splendide e
noiose villeggiature nelle quali si compiacquero tanto i nobili del
secolo scorso. Il figlio di lui allargò i confini del giardino, lo
accomodò all’uso inglese, piantò molti alberi, desiderando, diceva, che
proteggessero la sua vecchiaia com’egli avea protetto la loro gioventù;
ma lo diceva per moda e perchè aveva forse letto i libri del Rousseau;
tanto è vero che in villa non andò se non di rado, portandovi gli usi
della città, e da vecchio non si mosse mai da Firenze, dedito solamente
a’ piaceri della gastronomia, che lo condussero, con una colica
violenta, al sepolcro.

Il Conte Emilio andava alla villa due o tre volte l’anno insieme con
numeroso seguito di amici, per fare in que’ dintorni una cacciata alle
starne, agli amici mostrava con orgoglio le medaglie ottenute nelle
mostre d’orticoltura dalla sua mirabile collezione di rose emula di
quella di Charlottenhof. Di questo orgoglio del Marchese i compagni
suoi sorridevano, il giardiniere rideva addirittura.

La villa delle Poggiola sta sopra un’altura; un duecento metri dietro
la villa s’alza un monte ripidissimo di forma conica, grigio in basso
per i folti uliveti che ne vestono le falde, grigio in alto per i massi
calcarei che ne coronano la cima. Dalla sinistra del monte si parte
una catena di collinette, che danno nome di _Poggiola_ a quel luogo;
e si fanno via via tanto più basse e rotonde quanto più si avvicinano
alla via provinciale, la quale traversando la pianura passa innanzi al
giardino dei San Vittore.

Nel giardino si entra per un cancello di ferro battuto, ricchissimo,
ma carico di rabeschi e di frastagli senza parsimonia e senza gusto,
e incastrato in due colonne esagone di marmo sulle quali ostentano
la floscia opulenza delle forme una _Pomona_ e un _Vertunno_
dell’Ammannato. Dal cancello un largo viale conduce fino alla villa;
gli umili platani lo fiancheggiano sulle prime, separati l’uno
dall’altro da’ raccolti rosai. A destra, dietro a’ platani, rigogliose
piante di lauri e di lentaggini nascondono il muro ond’è circondato il
parco; a sinistra si stende in leggiere ondulazioni un prato: a rompere
la monotonia degli spazi erbosi una crittomeria, un cedro Deodara, un
tasso, un viburno. Quando il viale si allontana dal muro di chiusa e si
va con curve lievi imboscando, i platani cedono il luogo alle paulonie
ed ai tigli; e il giardino mostra la bellezza delle sue prospettive
pittoresche e la varietà armoniosa de’ suoi frondeggi che percorrono
tutte le gradazioni del verde, dallo smorto degli alberi giudaici e
degli evomini variegati al cupissimo de’ cipressi e de’ lecci.

Più in alto il viale rasenta un laghetto; nelle sue acque si bagnano
le radici profonde e le punte molli de’ salici celanti, co’ rami
ricurvi, statuette di ninfe e di oreadi, screziate sul mezzogiorno dai
raggi del sole che passano attraverso le foglie; di là dal laghetto,
in lontananza, luccicano i cristalli delle stufe, asilo iemale di
bertolonie e di calladii, di dracene e di orchidee; dirimpetto alla
villa il viale più ripido e più diritto è fiancheggiato da roccie
muscose, su cui s’abbarbicano, rampicando all’ombra delle mimose, le
vitalbe pieghevoli e le svelte bignonie.

Un ampio piazzale si stende innanzi alla villa esposta a mezzogiorno.
In essa, ogni generazione ha lasciato traccia di sè; e a chi s’intende
un po’ di queste cose dà subito nell’occhio uno strambo accozzo di
linee purissime e di scartocci barocchi, di gugliette gotiche e di
architravi greci; ma la villa, fabbricata in principio con modesti
intendimenti, andò via via allargandosi, ognuno de’ padroni vi aggiunse
del suo, senza curarsi nè tanto nè quanto di guardare se l’aggiunta
andasse d’accordo con quel che c’era di già.

Per farla breve, un amico mio, guardando un giorno con me le difformità
di quell’immenso casone lo paragonava ad un uomo che portasse le
calze alla spagnuola, la giubba a coda di rondine, e un elmo del
medioevo; domina bensì la giubba a coda di rondine, ossia, per uscire
dal paragone, il barocco pretenzioso de’ primi del settecento. La
parte centrale della fabbrica che dà sul piazzale, ha due piani; le
finestre del piano terreno sono guernite di inferriate le cui curve
sporgenti poggiano sopra due cariatidi; quelle del primo piano portano
sopra sè un frontone triangolare interrotto al vertice, per far posto
ad un busto di marmo raffigurante qualche personaggio celebre della
famiglia. Lungo le soglie verticali di queste finestre scendono due
ampie liste di stucco accartocciate nelle estremità e tutte ornate di
goffi ghirigori a rilievo. Un doppio e grave scalone di pietra mette
dal piazzale nella gran sala terrena, la sala del biliardo, riquadrata
di stucchi capricciosi, i quali svolgendosi in curve barocche
fanno da cornici ad antichi ritratti anneriti dal tempo. Dalla sala
terrena conduce al primo piano un’altra scala a due branche; lungo
il parapetto, alcuni amorini di bronzo a cavalcioni sopra altrettante
chimere egiziane reggono candelabri di finissimo gusto.

La grande sala del primo piano è un vastissimo rettangolo; la copre
un soffitto a cupola dipinto a fresco, con soggetto mitologico,
di sotto al quale gira intorno un cornicione ornato di satiri e di
ninfe scolpiti a bassorilievo. Questa sala ha nei lati corti, quattro
finestre; due danno a mezzogiorno sul piazzale; le altre, spartite da
una leggiadra colonnetta a spirale, guardano a settentrione le estreme
aiole del giardino. Da uno dei lati lunghi sta in alto un ballatoio per
l’orchestra, sostenuto da sette smilzi puttini che rappresentano, mi
figuro, le sette note della musica e che per sostenere quella baracca
avrebbero ad essere altrettanti Titani. Nel mezzo della parete opposta,
chiuso in una semplice cornice di stucco un _Ratto di Proserpina_, in
tela, sullo stile de’ Caracci; sotto al quadro un’ampia tavola di marmo
cipollino. Ai lati della tavola quattro armature compiute; nei grossi
pilastri che separano le finestre, due armadi a cristalli ove sta
raccolta in gruppi pittoreschi la collezione delle armi; ove il _kriss_
malese s’incrocia colla daga del sedicesimo secolo, e l’alabarda de’
lanzichenecchi tocca le canne di un fucile di Saint’Etienne.

La sala ha quattro porte, poste alla estremità dei lati più lunghi
del rettangolo; una dà sulla scala; per l’altra, dal lato medesimo,
si entra nella stanza da pranzo adorna di alcuni quadri stupendi
del Newton Fielding, il Raffaello delle anatre; la terza opposta a
quest’ultima, mette in un quartiere da lungo tempo deserto, ove stanno
il medagliere, le vetrine delle ambre e degli avori, la galleria e
la biblioteca, sale vastissime dove brillano gli specchi di Venezia,
racchiusi tra le volute delle cornici dorate e dai cui soffitti pendono
le lumiere di Murano co’ loro goccioloni sfaccettati e luminosi; dove
i seggioloni di cuoio con le spalliere a intaglio e con le borchie
metalliche spalancano i loro tarlati braccioli. Bronzi attribuiti
al Verrocchio, porcellane di Sassonia, piatti del Giappone, vasi di
Capodimonte, tazze d’onice sostenute da sotto-coppe di cristallo di
Boemia, maioliche di Pesaro, smalti di Limoges, arazzi di Firenze, ogni
oggetto di quelle stanze è una prova di gusto artistico e di opulenza
fastosa.

La quarta porta finalmente, rimpetto a quella della scala, dà nel
quartiere più moderno, quello che il Conte Emilio scelse per le nozze.
È un’infilata di stanze, ammobiliate alla Pompadour, piena di _sofà_,
di _canapè_, di _poltrone_ con i fusti intagliati e dorati ove spiccano
i medaglioni verdi ed azzurri co’ soliti amorini e co’ soliti fiori.

La camera occupa l’angolo della casa, tra mezzogiorno e ponente.
Non v’è nulla di antico; tranne il letto a baldacchino di damasco
giallo, solcato qua e là da larghe strisce di trina bianca di Fiandra;
gli altri mobili sono moderni, ma fatti con garbo e disposti con
semplicità. Tre quadri pendono dalle pareti; uno, meschina opera del
Benvenuti, è un ritratto della madre del Conte vestita alla foggia
dell’Impero; ai lati del letto una Sacra Famiglia di Lorenzo di Credi e
una delle solite Madonne ahi! troppo leggiadre di Carlo Dolci.


IV.

Firenze è una bella città non c’è che dire; ma, tra le principali
d’Italia, è quella dove ci si diverte meno. In ciò molti convengono
e incolpano la gente che ci vive; io credo invece la colpa sia tutta
della gente che c’è morta. Che volete? A Firenze ogni passo che si fa
ci torna in mente un pezzo di storia; s’esce da pigliare una limonata
al caffè Doney e si batte il capo nelle case de’ Buondelmonti; ci si
scansa un tantino per non restar sotto ad un _omnibus_ e s’inciampa nel
sasso di Dante; si spazzola il cappello e si pensa che forse gli atomi
del Savonarola o di Pier Capponi ce ne hanno imbiancato il cucuzzolo.
Di qui, un confronto continuo tra le grandezze passate e le piccinerie
presenti; e si contempla, si studia, s’impara, ma non ci si diverte.

Il duca Esmeraldi, tutore di Rina Miriani, arrivato alla sessantina,
pensava che gli restavano pochi anni da vivere, che a Firenze s’era
annoiato abbastanza, e non vedeva l’ora di liberarsi della pupilla, per
andare a Parigi a godere, come meglio potesse, gli ultimi carnevali.

Tutte le ragazze sanno, tutte le mamme dicono che trovare un marito,
a questi lumi di luna, è difficile; difficilissimo trovarne uno per
Rina, la quale non si contentava di un marito qualsiasi. Il Conte di
San Vittore era un ottimo partito; come molti padri e molti tutori,
anche il Duca ci aveva messo gli occhi su. Ne aveva parlato qualche
volta a Rina, per tastare il terreno; questa, indovinando il pensiero
del tutore, aveva preso intorno ad Emilio le sue brave informazioni,
e colla furberia machiavellica che hanno le ragazze d’ingegno, era
riuscita a saper di lui come suol dirsi, vita, morte e miracoli. Quando
il Duca, dopo il colloquio con il Varalli, le propose di sposare Emilio
di San Vittore, Rina dunque lo conosceva e conoscendolo consentì.

Consentì perchè preferiva Emilio un po’ guasto dalle male consuetudini,
a un di que’ monelli scempiati, viziati, effemminati che furono un
tempo il disdoro della nobiltà fiorentina; consentì, perchè, sebbene
sapesse con quale uomo s’univa, credeva nondimeno che con il tempo e
con l’amore avrebbe potuto farselo quale lo desiderava.

E credeva male; la colpa non era sua, ma di chi l’aveva educata a
quel modo. Difatti il Duca affidandola a una governante inglese, poi
mettendola in convento, poi rendendola da capo alla governante, stimava
aver compiuto intiero il proprio dovere. Ma le monache tentarono di
empirle la testa di giuccherie, alle quali Rina non prestò fede; la
governante scelse un metodo di educazione che è buono quando è logico;
la lasciò dapprima padrona di leggere ciò che volesse, di pensare come
volesse; ma quando la riebbe dal convento, non si attentò d’andare più
in là, tentennando tra il vecchio e il nuovo, tra la prudenza italiana
e la libertà inglese. Di questa guisa, scansando la strada maestra e
procedendo per le viottole, andò a riuscire al punto diametralmente
opposto a quello cui si dirigeva; Rina, che doveva essere ammaestrata
da lei a guardare il mondo nel suo vero aspetto, si caricò la testa
di una farragine di credenze e di opinioni in parte buone in parte
cattive, ma da lei non provate al crogiolo dei fatti quotidiani; sicchè
andando a marito non aveva più la verginità di pensiero per cui l’animo
riposa in una fiducia serena e non la pratica della vita, per cui
s’impara a guardarsi dagli inganni del mondo.

E sposava, fidando nel “poi„ Emilio di San Vittore.

Così succedè ciò che era facile prevedere. Di solito le finestre della
stanza che accoglie la prima notte, gli sposi si chiudono quando il
sole tramonta; nelle sale delle Poggiola invece i lumi si spensero
quando l’aurora sorse, e il Conte Emilio scese anche più meravigliato
che afflitto in giardino. Passeggiando per i viali si voltava ora qua,
ora là; gli pareva ogni tanto di udire tra’ lauri lo scroscio di riso
dello zio Varalli. E se è lecito a’ profeti ridere quando ci casca
addosso un malanno presagito da loro, il Marchese di ridere avrebbe
avuto proprio ragione; egli, preso dapprima un abbaglio, proponendo per
eccitamento dell’Esmeraldi Rina al nipote, s’era poi ben apposto nel
consigliarlo a dimettere il pensiero di quelle nozze. Si faceva chiaro
oramai che Rina era tutt’altra da quella che il Conte si figurava.

Il Conte fu sbalordito; donde si aspettava docile timidità uscirono
vigorie fiere e resistenze meditate; avvezzo a sedurre le donne
degli altri non trovò il verso di vincere la sua; esperto in tutte le
simulazioni che gli amori facili vogliono per non parere abietti, non
seppe neanche fingere. Pensava: che fare? Non s’insegna in un giorno
la realtà della vita a una ragazza di diciotto anni, non s’usa violenza
alla moglie, il raccomandarsi alla lunga è ridicolo. Aspettò.

E anche Rina aspettò; ognuno dei due giudicava male l’indole
dell’altro. Se gli avesse buttato le braccia al collo, se avesse
pronunziato una di quelle parole affettuose che si adirava di non
udire da lui, forse avrebbe provocato nuove commozioni, acuito desideri
nuovi, suscitato l’amore. Aspettò sperando aiuto dal tempo, il quale
non fece se non crescere gli ostacoli che separavano la inesperienza
presuntuosa di lei dalla rassegnazione superba di suo marito.

Dell’errore non s’accorse che troppo tardi; quando cioè il Conte
dopo aver fatto per lei inutilmente ciò che aveva fatto per le donne
conosciute, praticate, amate a modo suo, si sentì stanco alla fine di
quelle ch’egli chiamava romanticherie per non dire puerilità.

— A Firenze — disse egli una sera — devono credere che la nostra luna
di miele non finisca più.

— Cioè? — domandò Rina trepidante.

— Mi pare che da ora in là potremmo andar via; in questo romitorio
comincia a far freddo.

— Siamo di settembre....

— Lo so, e c’è l’uso di passarlo in campagna il settembre, ma....

— L’autunno è la stagione....

— Già... più mesta dell’anno... lo dice anche il Guerrazzi — soggiunse
con un sorriso sardonico Emilio. — E per questo; la mestizia non è
fatta per noi. Andiamo a Firenze a cercare un po’ d’allegria.

Rina tacque; se un senso di dignità le impedì di piangere in presenza
di suo marito, pianse disperatamente quando fu sola; quella breve
conversazione aveva distrutto ogni sua speranza. Combattere nella
solitudine della campagna contro la noncuranza di suo marito le
pareva tuttavia possibile; combattere a Firenze fra le distrazioni e
i pericoli del bel mondo, no. Si propose allora di tentare l’ultimo
sforzo e conquistare l’affetto con l’affetto; ma il proponimento fu
breve; l’amore era nascente e l’amor proprio adulto, l’amor proprio
trionfò.

Verso gli ultimi di settembre una carrozza di casa San Vittore partiva
dalle Poggiola, salutata dalle grida de’ contadini, dalle riverenze
del fattore e dalle lacrime della fattoressa. Il Conte e la Contessa
ritornavano a Firenze.

Era una di quelle giornate piovigginose che già nell’autunno preparano,
predicono l’approssimarsi dell’inverno. La carrozza procedeva per la
strada maestra lunga, diritta, attraverso la pianura vasta. Il Conte
fumava e non si affacciava allo sportello, se non per dar la via alle
boccate di fumo che il vento trasportava dietro la carrozza. Rina colla
testa appoggiata all’altro sportello, guardava i cerchi d’acqua che le
gocciole della pioggia facevano sulle pozzanghere della strada, seguiva
col guardo il volo impacciato di qualche uccellino che, disturbato
dal rumore della carrozza, andava a cercare più in là un ricovero
all’intemperie; alzava gli occhi al cielo grigio e piangeva.

— Giacomo, o di che piange la signora? — domandò il cocchiere al
cameriere del Conte, che gli stava seduto accanto a cassetta. E
l’altro: — Lo sai come sono le donne; ha visto piangere la fattoresca e
_frigna_ anche lei.

Quando arrivarono a Firenze erano le nove di sera. Il Conte accompagnò
Rina fino al quartiere preparato per gli sposi, le baciò la mano, le
augurò la buona notte e se ne andò a dormire nel solitario letto del
suo celibato.

— O questa? — domandò con suprema meraviglia il cocchiere a Giacomo che
usciva dalla camera del padrone.

E Giacomo colla cera dell’uomo avvezzo:

— Usi de’ signori, imbecille!


V.

  _Rina Miriani_

                                       _al Duca Esmeraldi_, — PARIGI.

                                          Firenze, 16 gennaio 186....

Ha ragione, Duca, di sgridarmi come fa, ha proprio ragione. Sa quando
ha torto? Quando pensa che la sua lettera non mi sia giunta gradita.

Bisognerebbe che io avessi dimenticato tutto il bene che mi ha voluto,
tutto ciò che ha fatto per me; le pare possibile? Dunque l’indugio
lo metta sul conto della pigrizia, non su quello dell’ingratitudine.
D’altra parte volevo che Emilio le scrivesse anche lui e aspettavo a
spedire le due lettere insieme; ma è tanto occupato a questi giorni,
che per non meritare più oltre giusti rimproveri, mi son risoluta a
scriverle io sola.

Eccole ora le notizie che mi domanda. Siamo stati alle Poggiola fino
alla fine di settembre; è un bel luogo, ma triste. Io che uscivo
dal mio caro quartierino, in quelli stanzoni grandi e cupi non mi
ci ritrovavo; credo che non ci torneremo a primavera e per me non lo
desidero. A Firenze molta nebbia, molta gente e punto brio; poco me
n’importa, perchè non vado in nessun luogo; passo parte della sera
con Emilio, e il resto con lo zio Varalli, che viene quasi sempre. Sa?
L’Ida Giuliani si marita; ci ho tanto piacere che non può figurarselo,
molto più che dicono un gran bene del suo fidanzato, il quale pare sia
innamoratissimo. Dio voglia che sieno felici! Per non fare ipocrisie
con lei, Le dirò che se da un lato godo per l’amica, da un altro soffro
per me. Che vuole? Lei che, lo capisco anche dalla sua lettera, non
si moverà più da Parigi; l’Emilia che si marita a Torino.... io spezzo
addirittura tutti i legami che mi stringevano ancora ai miei bei giorni
passati. Non mi rimproveri, veh! lo sa, ho anch’io le mie bizzarrie
e credo che anche tra nuovi affetti non si arrivi mai a dimenticare i
giorni della prima giovinezza. Scommetto che co’ suoi... anni (ci metta
il numero, io non voglio parere impertinente) non gli ha dimenticati
neanche lei.

Guardi quanto mi ha fatto scrivere! Quattro pagine: ci rimane però
ancora posto sufficiente per dirle che Le voglio e Le vorrò sempre un
gran bene.

                                                       _La sua_ RINA.


  _Il Duca Esmeraldi_

                      _alla Contessa Rina di San Vittore_, — FIRENZE.

                                            Parigi, 21 gennaio 186...

Ti ringrazio, Rina mia, ti ringrazio d’avermi risposto e più di tutto
di volermi ancora un po’ del tuo bene.

Saluta Emilio e digli da parte mia che ti faccia divertire; è il tuo
tempo e se a Firenze t’annoi (è avvenuto per tanti anni a me, che non
me ne meraviglierei), fatti condurre qua a Parigi dove i divertimenti
non mancano. Hai ragione di pensare che mi ci stabilirò; ho poco tempo
da vivere (briccona, sono sessantadue gli anni, e tu lo sai come me)
e voglio stare in una città dove si abbiamo i propri comodi, bisogno
supremo de’ vecchi. Se tu non verrai, siccome il Cenisio non mi fa
paura che d’inverno, a estate lo passerò volontieri per abbracciarti.
Sta’ allegra; che parli tu di _prima_ giovinezza? Fino a trent’anni,
credilo, si va d’incanto; da trenta in là... te lo dirò, se sarò vivo,
quando ci sarai arrivata.

Ti mando un bacio; e per compensarti, un gingillo di collana, che ti
starà bene come tutte le cose che ti metti addosso. T’abbraccio.

                                                     _Il tuo vecchio_
                                                           ESMERALDI.


  _Il Duca Esmeraldi_

                                    _al Marchese Varalli_, — FIRENZE.

                                           Parigi, 21 gennaio 186....

  _Caro Marchese_,

So che avete a noia gli epistolari e non vi scriverei senza una grave
ragione. Ho paura che con tutta la nostra esperienza, abbiamo fatto uno
sproposito; Dio voglia che non ci tocchi di rimproverarcelo come una
colpa. Vi acchiudo una lettera che Rina m’ha scritta qualche giorno fa
e a cui ho risposto come al solito, scherzando, oggi stesso. Leggetela.
Non è davvero la lettera di una donna maritata da tre mesi, nè, ciò
che più importa, la lettera di una donna contenta. Che cos’è accaduto?
A che razza di vita la condanna vostro nipote? È geloso forse? Basta,
certo è che Rina non è contenta. Non è possibile che io m’inganni; la
conosco tanto, da capire ciò che ella non vuol dirmi e che nella sua
ingenuità crede d’avermi nascosto. Voi la vedete, passate la sera con
lei, conoscete e vedete Emilio; ditemi tutta la verità. Prudenza non ho
bisogno di raccomandarla a un gentiluomo della vostra fatta; se posso
far del bene scrivetemi e verrò subito.

Ah! Io mi lodo ogni giorno più d’aver saputo fare di meno delle gioie
coniugali; e voi?

                                                          _Il vostro_
                                                           ESMERALDI.


Quando la lettera del Duca pervenne al marchese Varalli, questi se
ne stava sdraiato sopra una poltrona fumando e facendo il chilo dopo
colazione. Il Marchese non leggeva mai nè lettere, nè telegrammi
a digiuno, per paura che una cattiva notizia potesse togliergli
l’appetito e lo privasse per quel giorno delle voluttà dello stomaco,
estreme voluttà della vita.

Il Marchese lesse e rilesse la lettera del Duca, dette un’occhiata a
quella di Rina, poi le buttò sdegnosamente sul tavolino tutte e due,
e seguendo collo sguardo i vortici azzurrognoli del fumo, pensò fra
di sè: — Quel Duca è un gran buffone! si congratula d’esser rimasto
celibe e si lagna se chi si marita non è felice. Non ci voleva molto,
a dir la verità, per capire che quei due non eran fatti per stare
insieme, e bisognava pensarci prima. “Abbiamo fatto uno sproposito.„
Voi l’avete fatto, carissimo, e più grosso di voi quel sapientone
del mio nipote!... Bisognava non gliela dare. Oh bella! Perchè gliela
avete data? Io lo so, Duca mio; voi vi siete affrettato a conchiudere
il matrimonio per la smania di disfarvi della pupilla; e voi recitate
il _Miserere_ colle varianti: _Peccata senectutis meæ ne memineris
Domine_.... “Voi che la vedete, andate, studiate.„ Che bell’originale!
Io che vado là a passare un quarto d’ora la sera per distrazione,
devo mettermi a fare il confessore! E Rina, se mai, piglia me per
confidente, me, zio e di settant’anni! Che bell’ingegno! “E se posso
far del bene verrò.„ Piglierete un reuma a venir da Parigi di gennaio
e non farete altro. Se volete fare il bene davvero, morite e lasciate
a Rina il vostro patrimonio; tanto più che io per ora non ho voglia
di crepare e se campo dell’altro, mio nipote non sarà imbrogliato ad
amministrare l’eredità.... Quell’altra scimunita rimpiange “i giorni
della prima giovinezza!„ Belli! quand’era in convento a imparare i
sopraggitti! La conchiusione, in sostanza, è questa: ci tormentiamo
tutti l’uno con l’altro; Emilio tormenta Rina col suo contegno, Rina
tormenta Emilio coi suoi musi lunghi e con la sua cera di vittima
rassegnata, il Duca tormenta sè colle sue paure e me colle sue lettere.
Intreccio vecchio, scioglimento facile e lieto fine. Rina trova prima
o poi il modo di consolarsi, i musi lunghi finiscono... Emilio non
vede ed è contento; la corrispondenza epistolare della Signora diviene
allegra, il Duca non capisce ed è contento; io... lo sapevo... e... e,
sissignori, son contento anch’io purchè non mi secchino più.

E il Marchese scrisse prima assai brevemente al Duca; asseverava non
saper nulla di quanto il Duca temeva: forse la lettera di Rina era
stata scritta in un momento di malinconia e d’altra parte egli non ci
leggeva quello che il Duca ci aveva letto. Scrisse un viglietto uggito,
insomma, buttato giù tanto per fare; poi, riflettendo che in sostanza
nel combinare il matrimonio era stato di mezzo anche lui, pensò essere
suo debito di parlare col nipote, con cui fino a quel giorno aveva
evitato di tener parola delle faccende domestiche.

Ecco come adempiè quello che reputava un dovere. Il giorno trovò sul
piazzone delle Cascine Emilio e lo fermò.

— Dov’è Rina?

— È là in carrozza.

— Di che umore?...

— Ma!... buono; perchè me lo domanda?

— Perchè per solito ha l’aria annoiata e mi pare che abbia ragione.

— Non capisco come mai.

— Capisco io; credete che non sappia e non vegga tutto io? Pochi
discorsi; Rina va a letto alle dieci, voi tornate all’alba... voi siete
il marito di vostra moglie dalla mattina alla sera e... e basta! Vi
avevo predetto ogni cosa; non credevo però che le mie previsioni si
sarebbero avverate tanto presto. Non mi fate discorsoni, perchè non
ho pazienza, e poi tira troppo vento su questo maledetto piazzone;
se credete che vostra moglie possa durare a far questa vita, credete
male... Che v’intendiate tra voi altri, ve l’ho già detto un’altra
volta, è impossibile....

— Dunque?... — domandò impazientito il Conte.

— Dunque pensateci voi e chi ha bagnato rasciughi.

E voltandogli le spalle si allontanò, lasciando il nipote piantato come
un piolo in mezzo al piazzale.


VI.

E un anno passò. Rina vedeva il marito a pranzo e qualche volta alla
passeggiata; unica distrazione le era il pianoforte, unico compagno
nelle lunghe sere dell’inverno il Varalli; con lui, per impedirgli
il racconto degli aneddoti che non le piaceva ascoltare, giocava
all’_écarté_. Rina stava dunque sola sino al tramonto. La solitudine è
spesso funesta a chi ha l’animo delicato e l’intelletto vivo; prostra
l’uno nella malinconia, dà all’altro una singolare operosità. Nelle
donne, nelle giovani specialmente, l’abuso del pensiero è sempre
cagione di molti guai e Rina non faceva altro che pensare dalla
mattina alla sera. A che pensava? Chi potrebbe ridirlo? Passava dai
ricordi recenti alle speranze lontane; e quelli e queste crescevano
il tedio dell’ora presente. Povera Rina! qualche volta rideva, rideva
conchiudendo che il meglio è separarsi senza lacrime dagli inganni
della gioventù e, se la vita è un deserto, mettere tutte le forze della
mente e del cuore a cercarvi l’oasi della rassegnazione; qualche volta
invece piangeva quasi rabbiosamente; le speranze deluse, i desiderii
nascosti le tumultuavano rammaricandosi nel seno, e il soffio del
peccato aleggiava nell’anima sua.

Avete mai osservato un quadro della seconda maniera del Raysdael? Verso
la fine di settembre, sulle ventitrè, quando il cupo degli alberi si
stacca più vivamente sul tono tranquillo del cielo, e la luce si ritrae
lenta e la brezza pungente comincia a spandere le rugiade, Ruysdael
dava di mano al pennello; un raggio, una nuvola, faceva interpreti de’
suoi sentimenti; confidava agli alberi e alle cascate i segreti della
sua fantasia.

L’ora che il Ruysdael sceglieva per dipingere, Rina la sceglieva per
passeggiare; anch’essa era triste come il pittore di Harlem; egli
piangeva sulla felicità troppo presto perduta, ella sulla felicità
non per anco raggiunta; egli cercava la pace ne’ misteriosi godimenti
dell’arte, ella un compenso a’ desiderii repressi nel bacio immacolato
della natura.

In una di quelle predilette giornate di settembre, Rina saliva il
viale dei cipressi che conduce al Poggio Imperiale; la sua carrozza
la seguiva al passo; i cavalli pareva sapessero la strada e tiravano
avanti sciolti dall’autorità del cocchiere. Un giovane le passò
accanto; pareva cogitabondo, Rina lo guardò quasi senza volere e
ammirò in lui la vivacità degli occhi, l’aspetto buono e la virile
bellezza della persona. Il giovane anch’esso parve colpito dalla
pensosa malinconia di Rina e si fermò. Rina seguitò la sua strada con
indifferenza; indifferenza apparente bensì, perchè chi avesse potuto
sollevare il velo che le copriva il viso avrebbe osservato come le
guancie le si fossero accese ad un tratto di un incarnato vivissimo.
Il giovane la seguiva; tutte le donne, anche senza voltarsi, sentono
il passo, veggono l’ombra leggera dell’uomo che le segue. Rina era
divenuta rossa. Perchè? Per il presentimento che abbiamo quando si
avvicina un pericolo? L’altro le tenne dietro a breve distanza, fino
alla fine del viale, dove Rina rimontò in carrozza e partì.

Il giovane rimase fermo un momento, guardando dietro alla carrozza, poi
continuò pensoso, a passo lento la sua passeggiata.

Si chiamava Federigo Ripàri e nasceva da una delle più ricche
famiglie della cittadinanza fiorentina; orfano, simpatico a molti
per la dolcezza dell’indole, per l’ingegno svegliatissimo, aveva la
nomèa d’uomo fortunato in amore e quella più difficile a ottenersi,
specialmente con le donne, di essere molto piacevole. Era sui ventitrè
anni; sebbene per sfogliare troppo il libro della vita, non avesse
avuto tempo di dare una guardata agli altri, nondimeno sapeva fare un
po’ di tutto. Non era pittore, ma schizzava con garbo il motivo d’un
paesaggio, o la caricatura d’un amico; non era poeta, ma scriveva versi
che l’Aleardi, per esempio, avrebbe potuto sottoscrivere, e romanze
che, ignaro del contrappunto, metteva in musica a orecchio egli stesso.
Aveva, insomma, quel tanto di studi che ci vuole per piacere alle
donne e che bisogna non spingere oltre un certo limite; se state di qua
siete stupidi, se di là pedanti. Aggiungete una cera malinconica che
alcuni credevano simulata e non era, una fantasia desta e malaticcia, e
saprete su per giù quale era Federigo Ripàri.

In quella bella giornata d’autunno, era uscito dalle porte della
città, col bisogno di quell’innocente sfogo che molti provano nella
prima gioventù: il bisogno di far de’ versi; non per un album, non
per musica, dei versi che gli lusingassero l’orecchio per una sera,
suoni vaghi, eco di vaghi desiderii. Egli cercava appunto la propria
gradazione d’un aggettivo, quando vide Rina; anche Fausto cercava la
scienza e trovò Margherita.

— Bella donnina! — pensò tra sè Federigo. — Chi sia? Dev’essere una
forestiera.

Firenze, avanti il trasporto della capitale, era una città _sui
generis_. I Fiorentini componevano, si può dire, una sola famiglia; di
guisa che per le vie un uomo niente niente se ne desse pensiero, poteva
dire il nome di ogni donna che passasse in carrozza, quasi sempre
aggiungere il nome dell’amante, se ne aveva uno; e se la religione
della Dea indigena pendeva verso il politeismo, recitarvi, mutato il
sesso, la litania di don Giovanni.

Federigo era al fatto di ogni segreto del bel mondo, conosceva tutti,
tutti lo conoscevano; eppure in nessuna delle conversazioni che egli
frequentava, in nessun ballo, in nessun teatro aveva veduto quella
signora; supponeva dunque con ragione che fosse una forestiera.

— Dev’essere una forestiera... ricca perchè quei cavalli del
Mecklembourg che aveva, costano parecchi quattrini; e vedova di certo,
perchè i forestieri generalmente accompagnano la moglie in viaggio.
Basta, vedova chi sa? Fosse mal maritata?.... O sia venuta qua a veder
de’ parenti e abbia lasciato il marito a casa?... Che sia la moglie del
nuovo console di Francia che è arrivato ieri?... No... forestiera non
dev’essere.... Starebbe in locanda e avrebbe un legno a fitto.... la
livrea era turchina e argento, m’è parso... O bigia? No turchina.... Ci
vada alla Pergola? È facile, stasera c’è ballo nuovo.... Bella donnina!

Questo monologo incominciato alle sei finì dopo mezzanotte. Federigo
girò tutti i teatri della città, interrogò tutti gli amici suoi dando
i connotati della bella incognita, senza poterla vedere, senza aver una
notizia neanche vaga sulla patria, sul nome, sullo stato di lei. Alcuni
degli amici che interrogò si affermarono incompetenti; finalmente alla
Pergola, Federigo trovò un vecchio signore molto erudito nella scienza
delle livree e delle carrozze, frequentatore assiduo di tutte le
conversazioni ed interrogò anche lui.

— Avete detto una livrea bigia e argento?

— Ecco mi pare... forse era turchina.

— O turchina, o bigia; come si fa a non ricordarsi il colore d’una
livrea?...

— Ma... ecco... m’è parsa bigia.

— Due cavalli?...

— Bai scuri, quelli li ho visti bene....

— Quello di destra balzano dal piede di dietro?

— Ma non ho guardato....

— Dio santo! se non avete guardato a nulla... livrea bigia... cavalli
del Mecklembourg.... Ah! ho capito!

— Finalmente!...

— Eh! caro mio.... ci vuol la mia pratica.... basta, siete
fortunato.... livrea bigia e argento.... va bene?

— Va bene.

— Cavalli del Mecklembourg, bai scuri....

— Bai scuri.

— È una milanese, la moglie del conte Grimaldi.

— Siete certo?

— Certissimo.... una donna alta, bionda, grassoccia.

— Ah! neanche per idea; magra, piccolina, nera....

— Non può essere, caro mio, avete visto male... Livrea bigia, cavalli
bai scuri, casa Grimaldi, fidatevi di me. — E lo piantò.

Federigo poco persuaso si rivolse ad un altro e gli fece presso a poco
la stessa interrogazione, dandogli questa volta tutte le indicazioni
così sulla livrea, come sulla persona.

— Magra, piccola, bruna?...

— Livrea... — soggiunse Federigo.

— E chi s’occupa della livrea? Vestita come?

— Di lilla; con una sottanina nera.

— Occhi celesti?

— Non saprei.

— Come non saprei? Con un neo piccolissimo vicino al labbro inferiore a
sinistra?

— Sarà....

— Dev’essere.... Te lo dico io chi è.... È Lady Turner.

— La conosci?

— Come se la conosco? Sono di casa; l’ho accompagnata anche stamani
alla stazione; partiva per Livorno.

— Ma se l’ho vista oggi al Poggio Imperiale!

— È impossibile.... sarà stato ieri....

— Di’ piuttosto che non era lei....

— Era lei, era lei. Piccola magra, bruna, vestita di lilla con un
neo... non c’è che lei. Sbagli, credi a me; l’avrai vista ieri....

— Ma se ti dico che l’ho vista oggi.

— E io ti dico che è partita stamani per Livorno. — E lo lasciò.

Era giocoforza dimettere il pensiero di avere per quella sera
indicazioni alle quali Federigo potesse fidarsi; non potendo far altro
andò a letto. Era solito leggicchiare, quella sera non lesse; a notte
inoltrata s’addormentò pensando e domandando a sè stesso: chi sia?

Federigo, nonostante la sua disposizione alla malinconia, dormiva, come
si dorme a ventitrè anni, molte ore e tutte di seguito. Il suo primo
pensiero, appena svegliato, era quello di chiamare il servitore che gli
portava il caffè; quella mattina si svegliò, non sonò il campanello,
ma se ne stette lungamente a seguire con gli occhi i giuochi irrequieti
che i raggi del sole, penetrando nella stanza per le imposte socchiuse,
facevano sopra i muri, ripetendo a sè stesso: chi sia?


VII.

Vestitosi alle fine, cercando di farsi bello più del solito, verso le
tre uscì di casa col proposito di andarsene verso il Poggio; ma a che
fare? Se il giorno avanti si fosse imbattuto nella simpatica incognita
alle Cascine, luogo di usati convegni, avrebbe con fondamento potuto
sperare di ritrovarcela; ma al Poggio Imperiale!

Dal Maglio ove abitava, Federigo se ne andava giù giù per via de’
Rondinelli verso Santa Trinita, quando gli dette nell’occhio una
_malibran_ ferma innanzi a una bottega di crestaia; e gli parve il
cocchiere che sedeva a cassetta fosse quel medesimo, il quale conduceva
il giorno innanzi la famosa carrozza su per la salita del Poggio.
Rallentò il passo e intanto ch’egli cercava di raccapezzarsi sul conto
del cocchiere, la bella incognita uscì dalla bottega e montò nella
_malibran_. Parve a Federigo che, nel vederlo, ella si fermasse un
momento quasi commossa, e che prima di tirare il cordone per dare il
segno della partenza, voltasse gli occhi verso di lui; gli parve, e
così andò difatti la cosa, ma se anche fosse andata in modo diverso,
Federigo avrebbe goduto egualmente, perchè in simili casi noi godiamo
più a spese della fantasia che della realtà.

La carrozza partì prima che Federigo si fosse riavuto dal suo dolce
stupore; aveva riveduta quella donna, ma ne sapeva sul conto suo quanto
prima. A un tratto si ricordò che fuori dello sportello era dipinto uno
stemma; ricordarsene e montare in un _fiacre_ fu tutt’una. Raggiunse
difatti la carrozza e vi scorse non un solo stemma ma due: l’uno
portava un corno da caccia dorato in campo verde; l’altro, spaccato,
aveva nella parte superiore dello scudo un leone rosso rampante in
campo d’oro; e nella inferiore una ruota d’argento in campo azzurro col
motto: _sans sortir de l’ornière_.

Mezz’ora dopo Federigo sapeva che il primo stemma era de’ Marchesi
Miriani, il secondo dei Conti di San Vittore.

Il palazzo San Vittore era noto a lui come a tutti. — Oramai — diceva
Federigo tra sè — ho la chiave della fortezza; mi metto di piantone
davanti al palazzo, le vo dietro se esce di casa, la vedo se s’affaccia
alla finestra. — Il disegno era bello, ma per quel giorno non c’era
caso di metterlo in pratica; cominciava a farsi buio. Federigo se ne
andò a casa, e dopo aver passeggiato un paio d’ore in lungo e in largo
il suo salottino, si sdraiò sopra una poltrona. Desiderò che qualche
amico capitasse, come avveniva spesso, da lui, per potergli esporre
tutte le idee, confidare tutti i sentimenti che gli mulinavano dentro;
ma, a farlo apposta, quella sera non ci andò nessuno. E Federigo scelse
per suo confidente un pezzo di carta bianca; si mise a tirar giù senza
pigliar fiato versi, versi e versi pieni di calore giovanile e di
imagini strampalate. Se fossero stati di un altro, Federigo, leggendoli
a sangue freddo, gli avrebbe presi per una parodia dei canti orientali
di Saàdi o di Firdusi.

La mattina dopo, per tempissimo, era innanzi a casa San Vittore,
aspettando. Nessuno s’affacciava alla finestra, nessuno metteva piedi
fuori del portone. Federigo pensò non esser facile che una signora
uscisse di casa alle otto nel mese d’ottobre; girandolò tre orette,
alle undici ritornò daccapo al suo posto, aspettò inutilmente sino a
mezzogiorno, si confortò persuadendosi che quella era forse l’ora della
colazione. Tornò alle tre; Rina non uscì quel giorno.

L’uomo è qualche volta un molto bizzarro animale. Rina non era uscita;
fatto così semplice, si poteva spiegare con molte ragioni semplici
del pari. No, signore; Federigo se ne andò a casa adirato, sgridò il
servitore, buttò ogni cosa sottosopra; pareva venuta la fine del mondo.
Come? _gli era parso_ che una signora, la quale tre giorni avanti non
conosceva neppure, lo avesse guardato; questa signora sapeva che egli
non poteva vederla che per le strade di Firenze, e non usciva di casa?
Oh! le donne, le donne! Dice bene Shakespeare: “_perfide come l’onda_.„

E, notate bene, Federigo aveva torto in tutto e per tutto. Egli era
stato, sebbene a caso, veduto; se non che Rina non gli si era mostrata;
non già che ella fosse una di quelle donne furbe, avvezze a carezzare
gli amanti a quattr’occhi e a salutarli in pubblico di mala grazia e
che sono più avare di lettere che di baci, no; Rina era mossa da un
senso di pudore; provava un grande compiacimento nel vedere Federigo,
ma non voleva che Federigo se ne accorgesse. E poi, quel compiacimento
non poteva durare nè durò senza vicenda di dubbiose malinconie.

Fu quello per Rina un momento grave; l’affetto nuovo non era così saldo
nell’animo suo da toglierlo al dominio dell’antica speranza. Se il
Conte si fosse degnato non dico di scrutare ma di osservare, avrebbe
capito di che si trattasse; non importava essere un grande psicologo
per intendere che a quel punto Rina non pretendeva di vincere,
domandava di arrendersi; che una sola parola purchè detta a tempo da
lui avrebbe bastato a salvarla. Ma il Conte non si degno; guardò tanto
poco la moglie che non vide nè il suo pallore, nè gli occhi umidi di
lacrime trattenute a mala pena, supplicanti, imploranti; pranzò, fumò e
dopo il pranzo:

— Vieni al teatro? — disse a Rina.

— Perchè non resti in casa stasera? — domandò l’altra con desiderio
affettuoso, quasi umile.

— A far che?

— Buona notte, dunque, — soggiunse Rina, stendendo la mano al marito;
egli, la strinse così sbadatamente, da non accorgersi nemmeno che
quella mano era gelida e tremante.

Rina gli guardò dietro e dette in uno scoppio di pianto.

Perchè c’è un curioso mistero psicologico che io non mi studierò di
spiegare. Una donna maritata, la quale non sia congiunta contro ogni
sua volontà a un essere spregevole, se commette un errore, lo commette,
o perchè è corrotta, o perchè si sente attratta verso un ideale
sognato e non raggiunto. Nel primo caso non c’è rimedio; ma nel secondo
avviene che prima del fallo la donna ritorna per poco al marito. È,
come dicono, il miglioramento della morte; quasi pare che prima di
cercare altrove il sodisfacimento del suo desiderio irrequieto, voglia
chiederlo un’altra volta all’uomo che le è compagno nella vita. —
Perchè?

Ne ho domandato a un moralista, il quale con la burbanza di chi ha una
spiegazione bell’e fatta per tutti i misteri impenetrabili della natura
umana, m’ha risposto:

— È la voce del dovere.

No; il dovere è assoluto, non patteggia; e la donna in procinto di
fallire, impone al marito due patti: prima, amarla, poi amarla come
l’ama quell’altro.

Dunque? L’ho già detto; osservo il fenomeno ma non mi attento a
spiegarlo.

Mentre il Conte usciva di casa, Rina aprì la finestra e guardò nella
via. Pioveva a dirotto. Vide il marito salire nella carrozza che lo
aspettava alla porta e pensò che egli, scese le scale, non si ricordava
più di lei; seguendo con gli occhi la carrozza, scorse Federigo che si
voltava per guardare ancora una volta la finestra a cui era affacciata.

Ho detto scôrse: dovevo dire _credè scorgere_. Federigo a quell’ora,
se pur pensava a Rina, ci pensava da lontano; e quello che ella prese
per lui, era un pacifico cittadino il quale andava forse in cerca
dell’ombrello che non aveva e non si voltò per guardare finestre, bensì
per scansarsi dalla carrozza. Ma che importa la verità quando è dolce
l’inganno? Rina credè veder Federigo; e ciò che ella pensasse, quali
paragoni facesse tra il Conte che se n’andava in carrozza e l’incognito
che a quell’ora e con quel tempo passeggiava sotto le sue finestre, è
tanto facile a imaginarsi, che io non starò a dirlo neppure.

Richiuse la finestra e sonò il campanello.

Un giovane alto, pallido, biondissimo, tutto vestito di nero, il quale
se non fosse stata l’età sua si sarebbe preso per un professore di
filosofia di qualche Università tedesca, entrò nel salotto.

Era il segretario del Conte.

— Ma perchè viene lei? — domandò con un po’ d’impazienza Rina subito
che l’ebbe veduto.

— Ma, se la signora Contessa ha qualche cosa da comandare....

— Ma che cosa vuole che comandi a lei? Ho bisogno di Giacomo.

— Scusi....

— No, scusi lei, signor Luigi.... — riprese Rina rabbonitasi; — e
giacchè è stato così cortese da venir qui invece di Giacomo, faccia il
favore di dirgli che stasera non ci sono per nessuno.

— Vuole star sola tutta la sera?

— Sì.... già non verrebbe che lo zio Varalli a far la partita e stasera
non ne ho proprio voglia... Leggerò.

— Se ha bisogno di me....

— No, no, grazie, signor Luigi... grazie; faccia l’ambasciata a
Giacomo... buona notte.

— A’ suoi comandi, signora Contessa, — replicò l’altro ed uscì.

Rina rimasta sola pensò, — pensò; — poi, non erano ancora sonate le
dieci, si coricò.

La notte sognò. Le pareva di essere al Poggio Imperiale e di trovarvi
le stesse persone del giorno antecedente. La mattina dopo fa presa da
una smania indicibile di vedere se il sogno si verificasse; e montata
in carrozza verso le due, si fece condurre al Poggio. A piè del viale
lasciò il legno e salì verso il palazzo.

Il _Poggio_ di quei tempi non somigliava in nulla al _Poggio_ d’ora;
la nuova cinta era di là da venire; que’ viali oggi aperti, popolati di
case, erano allora modesti, malinconici, solitari; passeggiata favorita
dalla gente che stanca de’ rumori cittadineschi, andava a cercare un
po’ di pace sui colli di Bellosguardo e d’Arcetri, o per i viottoli
remoti del piano di Giullari.

Rina co’ suoi occhi lincei sbirciò fino alla cima del viale, ma non
vide nulla; si persuase che i sogni sono sempre sogni, e se ne ritornò
silenziosa verso la carrozza. Il cocchiere sonnecchiava a cassetta e
dovè chiamarlo più volte.

Ma nella carrozza, dov’ella entrava con tanto visibile malumore,
l’aspettava una sorpresa; v’era su’ cuscini un mazzolino di fiori e un
pezzetto di carta su cui si leggeva questo verso, col quale il signor
di Voltaire ha provato di conoscere profondamente l’essenza dell’amore:

    C’est moi qui te dois tout, puisque c’est moi qui t’aime.

                                            FEDERIGO.

Pigliare il mazzolino, leggere il foglio e portare l’uno e l’altro
alle labbra fu un momento, ma quale momento! E il bacio impresso alla
carta e a’ fiori fu così lungo che quando la carrozza passò dalla porta
Romana ov’era fermo Federigo, egli potè agevolmente vedere la bella
Contessa di San Vittore premere colle labbra le gaggìe ed il foglio che
egli, grazie al dormiveglia dell’incauto cocchiere, aveva gettato nella
carrozza.

Anche Rina lo vide; si dettero un’occhiata sola, ma che, secondo
il solito, disse all’animo di que’ due, più che non direbbero mille
discorsi o mille volumi. Quelle gaggìe, quel verso ripetuto a diecine
di volte, avevano insegnato a Rina la strada del paradiso; accadeva
nell’anima di lei, ciò che avviene in certe zone dove il levare del
sole non è preceduto dal crepuscolo; era notte... è giorno.

Federigo rimase così assorto, che per un momento non vide più nulla
intorno a sè; gli parve lo cogliesse una vertigine. Quando l’estasi
finì, notò che un giovine pallido, biondo, stava fermo innanzi a lui.
Federigo si mosse dando facoltà alle gambe di condurlo dove volevano
purchè lasciassero alla testa intera la libertà.

Anche il signor Luigi (era lui il giovane che aveva dato nell’occhio a
Federigo) si mosse; e mentre questi infilava la via de’ Serragli, egli
se ne andò cupo e cogitabondo verso Annalena.

Federigo, tornato nella sua cameretta del Maglio, aprì le finestre le
quali davano sopra uno di quegli orti modesti nelle cui aree hanno oggi
fabbricato le case del quartiere Savonarola; si appoggiò al davanzale
pensando a mille cose senza fermarsi su di alcuna, e riconducendo
ognuna di esse ad un solo principio: Rina. Avvertì allora per la prima
volta che due nidi di rondine erano appesi al tetto di una casa vicina,
e si domandò: — Povere rondini! o che ci sono di già? — E non ricordava
che le rondini se n’erano andate da un pezzo verso il Nilo ospitale;
non ricordava che quelle rondini, delle quali ora mirava i nidi, le
aveva tante volte maledette nell’estate, perchè troppo mattiniere gli
guastavano il sonno. Scôrse in mezzo allo squallore quasi invernale
dell’orto una pianta di crisantemi, la carezzò lungamente col guardo;
seguì le nuvole che vagavano pel cielo, respirò a pieni polmoni un’aria
fresca che da’ colli di Fiesole scendeva fino a lui, e, come se non
l’avesse mai visto, esclamò: — Come è bello quest’orto! — Sonarono le
nove di sera, era ancora alla finestra e si compiaceva guardando le
luci giallastre de’ lampioni lontani tremolare tra gli alberi nel buio
della notte. Il freddo lo punse, ma non seppe risolversi a chiudere.
La solitudine, di notte presso la campagna, ha un incanto che non si
ridice; ci par d’esser signori dell’universo; vien voglia di ordinare a
Zeffiro che carezzi quei certi capelli, di imporre alla brina che non
sciupi le azalèe di quel tale giardino.... Questo incanto dolcissimo
provava appunto Federigo; ed egli suscitava le memorie, vagheggiava le
speranze, confondeva nelle grandi armonie della natura le forti armonie
dell’anima sua.

In quelle ore istesse, Rina faceva la partita di _écarté_ collo zio
Varalli. Egli le aveva insegnato il gioco e se ne teneva, perchè
l’allieva aveva fatto in poco tempo progressi tali, da arrivare il
maestro. Quella sera bensì non fu contento di lei; Rina sbagliava,
si distraeva... quando, lasciava al Marchese le date che non gli
toccavano, quando, le pigliava tutte per sè, quasi ogni carta
diventasse _atout_ in mano sua; talchè lo zio, impazientito, domandò
alla fine:

— Ma dov’hai la testa stasera?

Rina non glielo volle dire.


VIII.

Il marchese Varalli, dopo la famosa lettera del Duca, s’era messo
a osservare le consuetudini di Rina; non già che gli premesse di
salvarla, se in procinto di fallire, o di unirla strettamente con il
marito, se gli si serbasse fedele; ma per amore della scienza, perchè
Rina gli pareva, come dicono i medici, un bel caso ed era curioso di
vedere che cosa avrebbe fatto da ultimo quella donna, con quell’indole,
in quell’età, in quello stato d’animo, in quella condizione domestica.

E anch’egli, il Marchese, che aveva detto addio da un pezzo all’età de’
facili inganni e degli amori cominciati da lontano, prese, in questa
faccenda, un abbaglio. Sapeva che nessun giovinotto frequentava la
casa San Vittore, sapeva che Rina non usciva di casa che nella carrozza
propria, accompagnata, s’intende, da un servitore; aveva scandagliato
l’animo di questo servitore, senza trovare il menomo argomento di
sospetto e aveva conchiuso a modo suo:

— Quella donna lì è di marmo; è una donna senza nervi. Po’ poi, nella
disgrazia, mio nipote ha avuto una certa tal qual fortuna, trovando una
moglie che non lo secca nè con l’amore, nè col cattivo umore e che può
faro a meno dell’assiduità del marito senza.... Basta, anche queste son
cose che succedono!

S’era bensì accorto che Rina non era da qualche tempo tranquilla come
prima, che non giocava più con la stessa attenzione, che aveva la cera
un po’ malandata; una volta entrando, come usava, senza ambasciata,
l’aveva trovata a leggere una lettera nascosta in fretta e in furia: ma
questi non erano per lui indizi tali da farne gran caso: con un mezzo
o con un altro arrivava sempre a raccapezzare se Rina era uscita sola
a piedi; se nessun _viso novo_ s’era visto in casa sua; e poichè aveva
la certezza che questi due fatti non erano accaduti, del resto non
si curava. Agli amori sospesi tra le finestre di un primo piano e il
lastrico di una strada, egli non ci credeva; aveva dimenticato oramai
le passeggiate notturne, fatte cinquant’anni prima sotto le finestre
chiuse di una bella addormentata.

Così Rina lasciata a sè stessa dal marito dissoluto, dal tutore
lontano, dallo zio sbadato, correva verso l’abisso della colpa e vi
correva per la via più facile: quella del carteggio.

C’è meno pericolo, secondo me, nel chiudere un uomo e una donna
giovani in una villa solitaria e farceli stare tutta una settimana,
che nel lasciar loro la libertà di scriversi quando vogliono e quello
che vogliono. Quando un innamorato parla, la ragione, se anche poco,
qualcosa suggerisce; quando scrive, chi detta è la fantasia.

In quel tempo giunse a Firenze da Costantinopoli Paolo Carpi. Era il
solo cui fosse dato salvare quella donna giovane e non fortunata, il
solo che potesse col linguaggio del cuore mostrarle tutti i pericoli,
verso i quali la conduceva l’affetto; il solo finalmente che avesse
tanta autorità presso il Conte, da movergli i rimproveri meritati
per non avere alimentato a suo pro un affetto eguale nell’anima della
moglie. E Rina lo accolse, allorchè le fu presentato da suo marito,
con affabilità quasi affettuosa. Vi fu un momento, anzi, nel quale si
propose di dire a Paolo, con la risolutezza che era sua, ogni cosa; ma
poi o che non avesse sufficiente fiducia in lui, o che la passione la
dissuadesse con uno de’ suoi tanti sofismi, fatto sta che non ne fece
più nulla; e quando Paolo ripartì pochi giorni dopo per Torino, dove lo
chiamava il ministero, portò seco il convincimento che il matrimonio
dei San Vittore era de’ tanti matrimoni dell’alto ceto: un affetto
tranquillo tanto da parere sopito, una valuta intesa tra i coniugi per
vivere senza gelosie, senza uggie reciproche: la solita scapataggine
per parte d’Emilio, poco pericolosa alla rassegnata pacatezza della
moglie.

Paolo Carpi si trattenne a Firenze una quindicina di giorni; durante la
sua dimora, il palazzo San Vittore aveva preso un altro aspetto; Rina
era più gaia, il Conte stava un po’ più in casa; c’era da sperare che
questo suo costume casalingo fosse per durare. Ma partito Paolo, il
Conte tornò alle proprie consuetudini; una parte della sera Rina dovè
passarla vicino al fuoco, così triste le prime volte che s’accende sul
finire dell’autunno, e un’altra giocando al solito la solita partita
col solito Marchese. Otto giorni dopo la partenza di Paolo, accadde in
casa San Vittore un fatto così nuovo da meravigliare tutti coloro che
lo seppero, e da porgere soggetto per parecchie ore ai chiacchiericci
dei servitori.

Rina, fatta dopo mezzogiorno colazione in fretta, chiamò la cameriera.

— Datemi il mio cappello nero.

— Esce, signora?

— Sì.

— Vado a ordinarle la carrozza.

— No, vado a piedi.

— Ma il signor Conte è uscito.

— Lo so.

— Ah! viene a prenderla il signor Marchese?

— No... non mi seccare... non viene a prendermi nessuno; vado sola.

Rina si studiò di pronunziare queste parole col tono altero della
padrona, che non vuole render conto di ciò che fa; ma non ci riescì, le
tremava la voce. Giustina non ci badò; un osservatore più attento o più
acuto di lei avrebbe capito subito che c’era per l’aria qualche cosa di
nuovo.

Licenziata Giustina, Rina si chiuse nella propria camera, che era un
modello di vaghissima semplicità. V’era da un lato un armadio di noce
opaco che si giudicava alla prima scolpito da artefice abilissimo, dal
Barbetti o dal Lienhart. Là dentro stavano chiusi i vestiti di velluto,
di seta, le trine di Fiandra, le martore, i cappelli d’ogni foggia
e d’ogni colore, tutto il corredo, insomma, d’una donna elegante.
Dirimpetto all’armadio una _Psiche_, anch’essa di noce opaco, sorretta
da due statuette scolpite nel legno istesso e raffiguranti la Salute
e la Gioventù; vicino alla finestra, appoggiato al muro, un lavamano
di marmo nei cui bacini di porcellana finissima, incastrati in fori
circolari, cannelle d’argento versavano l’acqua fredda e la calda.
Nel fondo della stanza il letto a padiglione tutto bianco, a’ cui
piedi si stendeva uno stupendo tappeto di Smirne; accanto al letto un
ritratto a acquerello della madre di Rina. Innanzi alla finestra, sopra
una tavola insaccata in una sottana di mossolina, stavano raccolte
e simmetricamente disposte cesoie d’ogni misura, lime d’ogni forma,
spazzole dure e soffici, pettini di tartaruga e d’avorio, acque salubri
e polveri odorose. Quante frivolezze direbbe un filosofo! E direbbe
male, perchè il dilemma del buon Gautier è giusto: una delle due: o
l’anima c’è, e importa tener lindo e aspergere di aromi il corpo che le
è vaso e tabernacolo; o non c’è in noi che materia e giova che ognuno
la faccia più bella che può.

Chiusa a chiave la porta, Rina si gettò attraverso il letto e, serrati
gli occhi, stette per un pezzetto immobile. Le si agitavano nell’animo
molti sentimenti diversi; era nell’ora delle titubanze terribili che
tormentano la donna innamorata, quando cede la prima volta a un comando
della passione, al quale le sembra che sarebbe bello resistere; quando
il sì e il no le tenzonano nel capo; quando capisce che una volta fatto
il primo passo, non c’è più strada per tornare indietro. Rina sentì
allora di che forza fosse oramai il suo affetto; pensò anch’essa forse
come il poeta che “il vento dell’amore manda il naviglio della vita„ e
pur temendo la tempesta, giudicò men triste il morire in alto mare, che
poltrire nella solitudine della riva.

Si alzò, interrogò lo specchio, perchè le ripetesse anche una volta che
era bella; per consiglio suo, buttò via un mantello che s’era messo
dapprima, e prese invece un leggiero scialletto di trina di Malines,
uno de’ più graziosi oggetti del suo corredo di sposa; si guardò
daccapo; pose in tasca un libro che aveva accanto al letto, si guardò
un’altra volta ed uscì.

Se la disgrazia fa ch’io abbia tra’ miei lettori alcuno di coloro,
che nel mondo delle passioni hanno fatto soltanto una gita di piacere
e studiato le donne ne’ romanzi del Bertolotti o del Ducange, si
meraviglierà della cura che Rina poneva nel suo abbigliamento, dubiterà
della profondità dell’affetto suo, la piglierà per una donna vana e via
discorrendo; e in queste cure di Rina stava appunto una delle prove del
suo affetto per Federigo, che ella andava in quel giorno a cercare.

Molte donne sanno e pochi uomini intendono tutta la poesia che è
talvolta ne’ colori bene accozzati d’una veste, nell’armonia d’un
abbigliamento femminile. Quante cure spese non ad attrarre l’attenzione
del volgo, ma a compiacere lo sguardo delicato dell’uomo per il
quale vorreste esser perfetta! Ogni nastro è un sospiro, ogni fiore
un sorriso; per una donna che vuol bene, il vestirsi è uno degli
innumerevoli episodi del poema d’amore.

E poi, siamo giusti, Rina aveva proprio ragione di guardarsi, di
riguardarsi. Era simpatica; non dico bella addirittura, perchè qualche
imperfezione ne’ suoi lineamenti si sarebbe potuta trovare; ma la sua
testa, se non per il disegno, meravigliava, come gli stupendi dipinti
della scuola veneta, per il colore. Aveva i capelli neri, morbidi,
lucidi; gli occhi neri del pari, vivissimi e la pelle coperta di quella
leggiera tinta rosea che fu il segreto degli statuari greci e di cui
possono dar soli una idea il tono incarnato di qualche camelia bianca,
o i primi vapori dell’alba sulla cima d’un’alpe.

Rina uscì al solito fuori della porta Romana; se non che invece di
tirar diritto, voltò a destra e prese a salire il viottolo ripido, che
mena verso Bellosguardo. Saliva guardando di qua e di là come chi cerca
qualcuno; sfogliava ogni tanto una pagina del libro, figurandosi di
leggere; ma leggeva in un altro libro: nel proprio cuore.

Quel volume che ella teneva fra le mani, lo avea letto pur troppo! Era
un romanzo che Federigo aveva trovato modo di farle pervenire e di cui
aveva segnato colla matita i passi più caldi e più tristi.

Là dove il viottolo sbocca in un’altra stradicciola, Rina si fermò;
Federigo stava aspettandola vicino alla cantonata.

I canoni dell’arte e il desiderio di conciliare al mio eroe la simpatia
altrui vorrebbero ch’io lo dipingessi come un uomo compito, ma in
omaggio alla verità debbo dire che quel giorno aveva l’aria molto
impacciata; un po’ perchè un innamorato di quell’età, che va al primo
appuntamento, disinvolto non è quasi mai; un po’ perchè s’era messo un
vestito nuovo, e tutti sanno che il vestito nuovo dà l’aria impacciata
anche al più avvezzo diplomatico del mondo.

Tanto Federigo quanto Rina avevano pensato e preparato un mondo di
interrogazioni da fare, di cose da dire, e per la strada, scelto via
via le principali perchè tutte non ci poteva esser tempo bastante.
Subito che si videro vennero l’uno incontro all’altro; egli prese
la mano tremante di lei fra le sue e la strinse. E zitti. Dove erano
andate le tante cose che avevano da dirsi? Non se le ricordavano più,
non sapevano nè l’uno nè l’altro da che parte rifarsi.

Federigo si sgomentò subito di quel silenzio e a torto; prima, perchè
per dirsi che ci si vuol bene non importa una lunga conversazione;
basta una parola, un’occhiata, il tono di voce onde si pronunzia un
_buon giorno_ o un _addio_; poi, perchè gli innamorati discorrono tra
loro anche stando zitti; v’è una forza fatale, che spinge il pensiero
di ambedue sopra una medesima via. Alla fine, come Dio volle:

— Come ti ringrazio, — disse, — d’esser venuta....

— Sì.... Oh! ma perchè siamo venuti qui?

— Perchè? Come si faceva se no? Qui nessuno ci vede.

— E se ci vedessero? — domandò Rina con naturale fierezza. — Oh! non ho
paura di questo, ma io te lo domando: dove andiamo?

Federigo credendo ella ripetesse la prima interrogazione con parole
diverse, replicò:

— Dove vuoi.

Rina alzò la testa e lo guardò fisso; questa volta fu lei che si trovò
corta a parole.

Passarono due secondi e a Federigo parvero due secoli, tanto che trovò
il tempo di scaricare sopra la propria stoltezza tutti i vituperi
imaginabili; una frase volgare che gli serviva per riattaccare il
discorso gli parve una trovata da oratore:

— Come sei bella!

— Ti pare?

— Dio mio, Rina!

— E mi vuoi bene?

— Perchè te lo direi?

— Mi vuoi bene solamente perchè sono bella?

— No....

— Se non sai nulla di me! Mi hai veduta, e....

— Ma e le tue lettere? E poi non mi domandare tante cose, Rina mia; so
che ti voglio bene e basta.

— È tanto facile a dirsi. E se io non lo credessi?

— Oh! sì che lo credi; se no, non saresti venuta qui.

— Hai ragione, — replicò Rina e chinò pensierosa la testa.

— E... lui? — domandò Federigo.

— Cioè?

— Se se ne accorgesse?

— Confesserei.

— Tu?

— Non posso nè fingere, nè dir bugie. Promettimi che non me ne dirai
neanche tu.

— Mai.

— Bada, Federigo, bisogna volermi molto bene.... la mia divisa la sai:
_J’aime, quand on m’aime, que l’on m’aime, comme j’aime_. Ma perchè
stai zitto? Che fai la sera? Ci pensi mai a me?

— Sempre, Rina; oh! saremo tanto felici se tu vorrai; tu puoi fare di
me tutto quello che ti piace; ho menata una gran bratta vita sin qui...
brutta perchè inutile; ho uno scopo ora, sei tu, ho una gioia, sei tu,
ho una speranza, sei tu.

Rina strinse forte la mano a Federigo, poi alzò novamente la testa e
guardandolo con grande dolcezza: — Addio, — gli disse.

— Di già?

— Addio, — replicò Rina.

— A quando?

— Non lo so.... Scrivimi, Federigo.... Avevo tante cose da dirti....

— E anch’io....

— Che n’hai fatto della mia foglia di lauro?

— L’ho qui; — e mostrò custodita tra le carte di un taccuino una foglia
che Rina gli aveva mandato in una lettera pochi giorni prima.

Rina sorrise serena come sorridono le madonne nei quadri del Perugino;
Federigo le strinse ancora una volta la mano e si separarono. L’uno
andò verso Marignolle, l’altra riprese la strada di porta Romana.
Egli fischiettando, ella se ne andò giù giù a passo lento, ripensando
a tutto ciò che le aveva detto Federigo, il quale in sostanza non le
aveva detto nulla. Quando tornò a casa, sonavano le cinque; era stata
fuori quasi tre ore e i servitori facevano un gran cicaleggio su questa
assenza inconsueta della signora.

Ma quel cicaleggio non arrivò sino alle orecchie del marchese Varalli;
quando il vecchio gentiluomo entrò la sera alla solita ora nel palazzo
San Vittore, trovò tutta la casa sossopra; aveva preso male al signor
Luigi.


IX.

O felici di vent’anni, non invidiate nulla a nessuno! Non gli agi al
ricco, non la potenza al monarca, neanche con più nobile desiderio gli
applausi al poeta. Il tempo fugge; e se la fortuna serbi a voi in altra
età l’oro, la possanza o la gloria, verrà giorno che vorrete dare (e
ahimè! non vi sarà conceduto) oro e possanza e gloria per un palpito
solo delle commozioni antiche, per un’ora della giovinezza perduta, per
una sola delle speranze de’ lontani “vent’anni.„ De’ tuoi vent’anni,
amico, quando tutto ti sorrideva d’attorno e la fantasia volava dietro
a mille lusinghieri fantasmi, e t’erano ignoti i dolori, le delusioni
che t’è toccato provare; dei vostri venti anni, signora mia, quando vi
credevate una creatura tanto privilegiata da non saper mai che fosse il
soffrire; e piangevate lacrime di tenerezza sopra una rosa offertavi di
nascosto e un sorriso e una stretta di mano v’empievano l’animo d’un
godimento ineffabile! Ahimè! quell’età è passata! Tu sei intristito,
amico; voi siete invecchiata, signora mia; il dolore, cancro della
bellezza, ha lasciato sul vostro volto le sue indelebili impronte.
Altri gode oggi, altri sorride, altri spera, altri rimpiangerà dopo
voi.... O felici di venti anni, non invidiate nulla a nessuno!

E l’esperienza? — dicono. — Oh! sì, bella cosa! ci costa patimenti
d’ogni maniera e non ci serve a niente; ogni giorno impariamo il modo
di navigare fra le sirti e gli scogli, in mari che non varcheremo mai
più. Lasciate un lembo dell’anima vostra tra le unghie rosee d’una
bella infedele e avrete imparato che ci sono a questo mondo delle donne
pericolose; macchiate d’un fallo la vostra vita e vi porrete in grado
di giudicare da voi che tutti gli errori si scontano; riducetevi povero
in canna e confortatevi dello avere appreso la utilità del risparmio.
Se l’esperienza fosse utile a qualcosa, in tante migliaia di secoli il
mondo sarebbe divenuto un Eden. E non mi pare che sia.

Questa famosa esperienza Rina non l’aveva; altrimenti avrebbe saputo
che la paura quando entra nell’animo col suo proprio nome, sgomenta
e invilisce, ma se si dà per prudenza aiuta e difende; che il mondo,
il quale sa che la colpa c’è, chiude un occhio sul peccato, purchè
sia fatto con garbo. Ma Rina, ripeto, tutte questo belle cose non le
sapeva; lasciandosi menare dalla passione che la signoreggiava, seguitò
le sue gite solitarie pei dintorni di Firenze, non pensando o non
curando che altri s’occupasse di lei. Così la cosa giunse agli orecchi
del Marchese. Rina non aveva veduto Federigo che per la via; ma il
vecchio zio, quando seppe di queste passeggiate della bella nipotina,
sospettò che il dramma fosse già molto innanzi e aspettò sogghignando
la catastrofe; la quale, e lo confessava a sè stesso, gli era difficile
imaginare. Non supponeva bensì che fosse per finir male; dal contegno
del Conte egli aveva creduto potesse dedursi, che questi, prevedendo
da lungo tempo ciò che succedeva, si sarebbe portato da gentiluomo e da
uomo di mondo qual era.

E s’era proposto di non parlargli mai di ciò che sapeva, quando ad
Emilio, per sua mala ventura, venne in mente d’andarsi a godere il
Carnevale a Parigi. Egli capiva che lasciare Rina sola a Firenze era
non un pericolo (a questo non ci pensava neppure) ma una scortesia,
e d’altra parte il condurla seco toglieva ogni diletto alla sua
gitarella. Pensò di rivolgersi allo zio Varalli, con questo disegno:
egli, il Conte, avrebbe invitato Rina a andar seco; lo zio l’avrebbe
dissuasa dall’accettare l’invito.

Verso gli ultimi dell’anno, zio e nipote si trovarono alla Pergola;
in que’ giorni appunto il Varalli aveva, non visto, veduto co’
propri occhi Rina sola uscire fuori della porta a Pinti e salire nel
Camposanto degli Inglesi, ove qualcheduno l’aspettava di certo, e aveva
esclamato con un sogghigno:

— Poveri morti!

E nemmeno quando vide il Conte accostarglisi quella sera per parlargli,
il Marchese potè trattenere un sorriso sardonico; ma il nipote c’era
avvezzo e non ci badò più che tanto.

— Senta, zio — disse Emilio, — ho intenzione di fare una gita.

— Solo?

— Ecco, in sostanza... sicuro... solo.

— Bravo! — disse il Marchese ridendo senza riserbo.

— Cioè?.... — domandò l’altro.

— Cioè.... Sapete chi era il Principe de’ Conti?...

— Lo so, ma non capisco....

— Ecco: il Principe viaggiava e viaggiando scriveva a sua moglie: “Non
mi tradite, Principessa, per carità.„ “Siate tranquillo, signor mio, —
rispondeva la Principessa, — non me ne vien la voglia altro che quando
vi vedo.„

E rise da cupo.

— Zio, — riprese Emilio dopo una pausa, con un po’ d’impazienza, — io
le parlo sul serio.

— E io?

— Dunque, ho intenzione di passare il Carnevale a Parigi, ma vorrei che
Rina non venisse; già il viaggio ci costerebbe più del doppio....

— Se l’ho sempre detto che siete un buon amministratore....

— Insomma....

— Dunque?...

— Dunque.... bisogna pur nonostante che offra a mia moglie di condurla
con me; ma vorrei che lei la persuadesse....

— A rimanere a Firenze? Caro Emilio, se tutte le missioni diplomatiche
fossero come questa, darei dei punti a lord Palmerston.

— Crede che si persuaderà?

L’ingenuità con cui furono profferite queste ultime parole, fece uscire
da’ gangheri il Marchese.

— Io ho sempre avuto un vago sospetto — proruppe egli — che il
matrimonio rechi molto nocumento alle facoltà ragionative e per questo
son rimasto scapolo. Ma ora, altro che vago sospetto! Come? Conoscete
Rina, sapete che ha vent’anni, la vedete a pranzo e basta.... e
v’imaginate che possa dolersi se ve ne andate? Ma, caro mio, che ve
ne andiate voi o... che so io?... il cocchiere, per lei è lo stesso.
Fino a stasera v’ho creduto un uomo di mondo; m’accorgo che mi sono
sbagliato. Che diavolo! Siete entrato da voi nel laberinto e volete
che vi ci levi io? Bravo! Mi parete un ragazzo con questi vostri
sotterfugi. Lasciamo andare. Ve l’ho detto fin dal giorno in cui
m’avete dato la fausta notizia del vostro stabilito accasamento: le
cose andranno così e così. Sono stato profeta e non ci voleva di molto;
ma Dio santo! speravo che avreste fatto le cose un po’ meglio; e non
vi sareste ridotto alla parte di fanciullone e a mettere vostra moglie
nella necessità di dare appuntamenti campestri. Volete viaggiare?
Viaggiate; che bisogno c’è che c’entri io? Andate a casa, salutate la
cara metà, auguratele buon divertimento e partite; al resto ci penserà
lei; ma come una signora, non come una crestaia.

— Zio, pensi a quello che dice....

— Eh! figliolo mio! così aveste pensato voi a quello che facevate.

Vi fu un momento di pausa; poi il Marchese domandò come se nulla fosse:

— Chi è quella forestiera al numero tredici second’ordine?

— Non la conosco, — rispose Emilio senza neanche voltarsi verso il
palco indicato dallo zio ed uscì dal teatro.

Quando fu nella strada, si ricordò che aveva ordinato la carrozza per
la mezzanotte. Battevano allora le undici all’oriolo di Santa Maria
Nuova. Andò a piedi. Abitava di là d’Arno; la strada per arrivare a
casa era lunga ed egli aveva tutto il tempo per pensare ai casi suoi.

Lo zio non gli aveva detto nulla d’esplicito; ma egli, se non sapeva,
sentiva che Rina amava un altro. Se ne meravigliava? No. Corrotto
dalla gente tra cui viveva e dalle consuetudini prese, si può dire che
Emilio avesse preveduto, sin dal primo giorno, ciò che ora avveniva.
Prevedendolo, aveva messo le mani avanti e s’era fatto nei festosi
banchetti della vita galante la sua parte anticipata. Se dunque Rina
fosse stata un’altra, se la cosa gli fosse stata annunziata da altri
e con altre parole, chi sa che cosa sarebbe successo? Ma Rina gli
dava soggezione; sentiva egli tutta la fiera nobiltà di quell’indole;
sentiva d’avere molti torti verso Rina e non gli pareva vero che ella
gli desse buon gioco, avendo una volta torto anche lei. E due frasi
del Marchese lo avevano specialmente colpito; gli “_appuntamenti
campestri_„ e “_il contegno da crestaia_„ lo mettevano in pensiero
sì perchè accennavano a fatti positivi, sì perchè lo inducevano nel
sospetto che Rina avesse fatto qualcosa di grosso; il che significava
nel vocabolario del Conte e del suo ceto, ch’ella si fosse data in
braccio a qualche amore volgare, per cui venisse a macchiarsi l’antica
purezza della casata.

Queste cose mulinava tra sè il marito; l’uomo poi pensava alla
propria umiliazione, cui sottostà sempre mal volentieri, anche quando
gl’importa poco della donna che gliela infligge.

Così, tra una cosa e l’altra, il Conte si metteva su da sè medesimo, si
accendeva nel petto gli sdegni e le collere; dove avesse avuto il tempo
di rifletterci o anche di dormirci sopra, le cose sarebbero andate
meno male. E fu difatti primo suo pensiero di aspettare la mattina per
parlare con la moglie; ma il caso, il solito caso, il quale ha, come
ho detto altra volta, tanta importanza nelle vicissitudini della vita,
volle che entrando in casa, egli s’accorgesse che Rina era sveglia e si
risolvesse ad andare da lei.

Mandò a letto il cameriere, poi, preso un lume dalla scrivania,
traversò la lunga fila di salotti che separavano la sua dalla camera
della moglie e si fermò innanzi alla porta.

Tale era la sua stizza in quel momento, che, l’uscio sembrandogli
chiuso, gli venne l’idea di buttarlo all’aria con un calcio; (anche i
Conti quando sono soli e arrabbiati sono uomini come tutti gli altri),
poi si accorse dalla gruccia che era aperto, posò il lume in terra ed
entrò.

Rina, seduta sul letto, leggeva.

La sua gentile figura si staccava mirabilmente sul fondo del
cortinaggio; dalla nuvola di mussolina leggiera che le nascondeva il
collo ed il seno usciva, trattenuto appena dalle pieghe eleganti di una
camicia di battista, il braccio, rotondo come se lo avessero modellato
Prassitele o Dupré nel marmo di Paro o di Carrara. Il pettine le era
caduto di testa e i capelli neri come l’ebano, lunghi come i rami del
salice, cuoprivano di leggiadri ghirigori le trine onde era guarnito il
guanciale.

Quando il Conte girò la gruccia, Rina lasciò cadere lentamente il libro
sulle ginocchia e fissando lo sguardo verso la porta domandò:

— Chi è?

— Son io, — rispose l’altro ed entrò.

— Tu?...

— Io.

Il contrasto era singolarissimo; negli occhi nictalopi del Conte di
San Vittore, sfavillava l’impeto di mille sentimenti diversi, anzi, per
dir meglio, delle molte gradazioni di un sentimento solo: lo sdegno; in
quelli di Rina si specchiava invece la più sicura tranquillità.

— Tu.... qui.... a quest’ora?

— O a quest’ora o ad un’altra, — soggiunse il Conte, andando di passo
lentissimo verso il letto della moglie — poco importa; bisogna che ci
spieghiamo e per questo tutte le ore son buone.

— Spiegare?... Che cosa? — interrogò Rina.

— Ma... il tuo contegno, se non ti dispiace.

Rina tacque; il Conte prese in fondo al letto una graziosa berretta di
trina che stava sul piumino e stazzonandola ripigliò:

— Abbiamo da far dei conti; meglio era farli prima d’ora, ma....

— Lascia stare quella berretta che non ci ha nulla che fare... e quel
tono da dramma, che anche questo non ci ha che fare proprio nulla. Che
cosa hai? Hai da lagnarti di me?

— Molto: e bisogna finirla.

— Se non ti spieghi più chiaro....

— Finirla... con lo passeggiate campestri, e....

In sostanza il Conte non sapeva nulla; non un solo fatto da citare;
si accorse allora che la sua furia era stata soverchia e si trovò
imbrogliato.

— E?...

— E... solitarie.

— Non posso dunque più uscire di casa quando mi pare e piace?

— Nessuno ve lo impedisce; si vuole impedirvi soltanto e io, perdio! lo
impedirò ad ogni costo, di macchiare il nome dei San Vittore, che io ed
i miei abbiamo sempre mantenuto purissimo.

— Emilio, sta’ a sentire, tu reciti una parte che non hai studiata e la
reciti male. Io non so dove tu voglia andare a parare con questa scena,
nè posso imaginarlo. Mi vieni a fare il geloso.... tu!...

— Non mi avete dato il diritto di esser geloso forse?...

— Emilio mio, è un diritto questo che bisogna acquistarselo. Per
averlo, non basta, credilo, di venire in camera di una donna a
mezzanotte e dirle delle parole scortesi....

— Ma, Dio santo!... io son pur tuo marito. Che cosa dev’essere dunque,
secondo te, un marito?

— Ma... secondo me... dovrebb’essere un amante o null’altro. Siamo
giusti, Emilio; la vita che meno, non è, Dio lo sa, quella che
desideravo. Questa famiglia che non è famiglia, questo matrimonio senza
nè diritti nè doveri, quest’abbandono in cui vivo, che qualche volta
diventa noia, noia addirittura.... Ma già lo sai tu che cos’è la noia?
Tu non lo sai, non l’hai mai saputo; e poi non basta provarla, bisogna
capirla. È una pena, sai?.... È una pena grande, un dolore, proprio
un dolore.... Ma dove sono andata?... Ah! questa vita, dunque, non
è quella che io avevo sognata; ma tu hai voluto così, così sia. T’ho
io mai domandato conto dei tuoi giorni, delle tue sere... delle tue
notti?... E vieni a domandarlo a me di qualche passeggiata _campestre_
come tu la chiami?... Via, via, Emilio, siamo di buona fede; tra noi
due non c’è bisogno di spiegarsi nulla. Giacchè sei venuto, parliamo di
qualche altra cosa.

Dette queste parole, Rina appoggiando le mani sul letto, fece forza
per sollevarsi; il velo che le nascondeva il seno, scombuiato da quel
movimento, s’aprì, e sotto la camicia di battista si disegnò sino alle
anche la leggiadra e smilza personcina di lei.

Il Conte vedendosi innanzi quella donna così vaga nell’aspetto,
così gentile nelle movenze pensò che ella era e non era sua; sentì
un battito forte e frequente tormentargli le tempie, una corrente
calda montargli dai piedi alla testa e riversarsi con impeto verso il
cuore. Si guardò intorno; la camera era avvolta nell’ombra, l’orologio
a pendolo batteva i suoi colpi monotoni, un’aria tepida spirava
d’intorno; si slanciò verso il letto di Rina e presole il braccio che
ella teneva abbandonato sul lenzuolo susurrò;

— Rina....

Rina svincolò il braccio, pose le sue mani al petto di Emilio e lo
respinse; egli, che non si attendeva a quello sforzo, retrocedè stupito
e Rina schizzando dal letto infilò una veste da camera di flanella a
righe bianche e rosee che stava sopra una poltrona; quando il Conte si
riebbe dal momentaneo stupore, ella era già in piedi, pallida, facendo
a sè riparo di una seggiola.

Il Conte mosse un passo verso di lei.

— Emilio, in verità, stasera tu hai perduto il giudizio.

— Rina, Rina, perdio!

— Emilio, io non posso lottare: i tuoi muscoli sono più forti dei
miei, e il rispetto che porti a te è anche minore di quello che porti
a me.... Ma io, lo sai.... io non ti amo.... Tu dunque dimentichi
tutto?... anche il nostro colloquio alle Poggiola e?...

S’interruppe; prevedendo la piega che avrebbe preso il colloquio parve
inclinata a tacere, ma un pensiero la vinse e seguitò:

— Che vuoi fare? Vuoi invocare la legge? Le vostre leggi le hanno fatte
i vecchi e noi povere donne ce ne accorgiamo. Io non ti amo, te lo
ripeto. Eppure ci è stato un tempo, in cui non ho desiderato, non ho
sognato altro che di amarti ed essere amata da te. Ma tu hai seguitato
la tua solita vita... io ho trascinato tristamente la mia. Che vuoi ora
da me?

— Oh! insomma, Rina, finiamola....

— Ho finito; te lo ripeto: non ti amavo più, ti stimavo, domani ti
disprezzerò.

E gettata lontana da sè la sedia che la separava dal Conte, lasciò
cadere le braccia e aspettò.

Il Conte non si mosse; ma dopo poco fissando gli occhi irosi negli
occhi severi di Rina, riprese:

— Ditemi dunque che avete un amante!

— Non so i segreti del tuo linguaggio, e non so che cosa s’intenda per
amante nei luoghi che tu frequenti. Ma c’è al mondo un uomo che mi vuol
bene....

— E che voi amate?

— Sì.

Può darsi, come credeva il Rousseau, che il selvaggio sia migliore
dell’uomo incivilito; il braccio che il Conte aveva alzato verso Rina
fu bensì trattenuto per aria dall’uomo educato.

Scorsero pochi secondi.

Rina se ne stava immobile; i suoi occhi soli si volgevano verso la
porta donde le era parso venisse un lieve rumore.

— Tornate a letto. Domani scioglieremo questa questione e provvederemo
perchè queste farse... o questi drammi non si replichino. Voi
non potete consentire a rimanere ancora in casa mia, io non posso
permettervi di fondarci una fabbrica di eredi legittimi. Scusate se ho
interrotto la vostra lettura. Buona notte.

Ed uscì.

La stanza accanto era rimasta quasi al buio; il lume lasciatovi
crepitava per mancanza d’alimento e mandava interrotti chiarori.

Il Conte lo prese, lo alzò cacciando lo sguardo in ogni angolo della
stanza; gli aveva ferito l’orecchio un rumore come di passi che si
allontanino. Non vide nulla; traversò novamente con passo rapidissimo
la lunga fila di salotti ed entrò nella propria camera, ove si chiuse.

Se l’animo del Conte fosse stato più tranquillo, egli avrebbe potuto
scorgere agevolmente l’ombra del suo segretario ritto presso uno stipo,
disegnarsi tra le Amadriadi e i Fauni, onde il Poccetti istoriò le
pareti del palazzo dei San Vittore.


X.

Subito che il Conte se ne fu andato, Rina corse, quasi per istinto,
a chiudere la porta a chiave; poi si gettò sopra una poltrona, e coi
gomiti appoggiati ai ginocchi e la testa chiusa tra le palme, pensò.
Pensò subito, s’intende, a Federigo, ai giuramenti di lui, alle sue
lettere; le parve di potersi fidare e il fidarsi era in quel momento
così dolce per lei! Poi riandò, con quella minuzia di analisi che è
tutta propria delle donne, ogni frase pronunziata, ogni atto compiuto
in quella sera da suo marito; e, bisogna pur dirlo, conchiuse che ella
aveva fatto quanto le ordinavano l’affetto e la dignità. Perchè Rina
pensava con la propria testa e sebbene non le prendesse mai, e molto
meno in quella congiuntura, la voglia di filosofare, pure le vagava
per la testa indistinto il problema, che ha incuriosito e tormentato le
donne di tutte le generazioni.

“Perchè una legge darà me, donna inerme, debole, bisognosa di
assistenza e di affetto a un uomo che non mi ama e che non amo neppur
io? Perchè mi toglierà all’uomo di cui sono il desiderio solo e la
sola speranza? E chi mi fa colpevole, colui che adoro o colui che mi
disprezza?„

Si alzò come per divagarsi e passeggiò per la stanza. Adocchiò per caso
un ritratto di sua madre che stava appeso alla parete, vi si fermò
lungamente davanti cogli occhi inumiditi. — Povera mamma! — pensò, —
mi sorride! Chi sa se quel sorriso è un artifizio del pittore? Sarà
stata felice lei?.... Avevo due anni solamente quando morì e dicono che
facesse un gran piangere per lasciare me tanto piccina.

E si rivide bambina, ricca di vestiti e di trastulli, povera di baci.

— Se avessi un bambino io! Dio, come gli vorrei bene!

Oh! se le donne sapessero che negli amori colpevoli stanno chiusi
insieme il peccato e la penitenza! Se sapessero che la vera gioia della
loro vita è un bambino concepito senza paure, carezzato senza rimorsi;
memoria e speranza ad un tempo, raggio che illumina equamente le
floride rive della giovinezza e i freddi orizzonti della vecchiaia! E
l’hanno detto, ma invano: il vero tipo della donna contenta è Maria che
allatta Gesù.

— Come gli vorrei bene! — ripetè; ma le tornarono alla mente, come
uno scherno crudele, le ultime parole del marito; si sentì mancare la
forza, si buttò sul letto e pianse.

Quando si riscosse sonavano le cinque; due ore era stata
senz’accorgersene in quel torpore cocente.

Allora ritornò col pensiero più tranquillo ai casi di quella sera, al
— _domani_ — di suo marito e ci vide chiara, aperta una minaccia di
mandarla via.

Dove sarebbe andata? Che avrebbe fatto?

I chiacchiericci, le mormorazioni del mondo non le davano pensiero; e
poi, in quel momento, se anche avesse sentito il rossore della vergogna
salirle alle gote non avrebbe saputo far altro che nascondere il viso
sul petto di Federigo.

Si vestì alla meglio; ma cercando nell’armadio questa cosa e
quell’altra, le venne tra mani un libro di preghiere colle iniziali del
suo nome da ragazza. Era un premio che le avevano dato in convento; e
ripensò alla vita di allora, alle sue compagne; ne compianse alcune,
quelle principalmente che le erano parse fredde, egoiste; quando si
fu sul punto dell’invidiare — un difetto col quale le più fra le donne
nascono e di cui guariscono di rado — passò in rassegna le più ricche,
le più contente delle sue giovani amiche; le vide liete nella famiglia,
circondate di rispetto e di cure, ma non ne invidiò nessuna; nessuna
era, come lei, amata da Federigo.


XI.

Compiangete chi si leva tardi. Quanti sono che non hanno mai sentito le
fresche carezze dell’alba, quanti che non hanno mai salutato il levarsi
del sole; e non goderono una delle delizie più salubri e più pure!
Dall’aria fresca della mattina traggono forza nuova le membra; e gli
acri profumi che manda la terra bagnata di rugiada pare dieno vigori
insoliti alla fantasia. La notte è finita, ma i sogni aleggiano ancora;
si sogna desti e ogni desiderio sembra facile a compiersi, ogni lavoro
a farsi, ogni voto a serbarsi.

Dal monte e dalla pianura, dai fiumi e dai prati si estolle un’armonia
indefinita e solenne, una sinfonia piena in cui si confondono le
mille voci della natura e che nessun Beethoven eguaglierà mai. È canto
d’uccelli, pei campi, è suono di campane pei borghi; momento il più
tranquillo del giorno; s’avverte il volo d’un insetto. La natura parla
sola e dà ad intendere che essa, buona madre, provvede da sè ai bisogni
dei figli; pare che quella pace non debba finir mai, che s’abbia a
vivere contemplando e contemplare benedicendo. Più tardi il canto dei
contadini cuopre lo spinciare dei fringuelli; nelle selve lontane l’eco
porta dai casolari il grave rumore dell’incudine; il rumore cresce,
cresce, a poco a poco, come rombo di tempesta che si avvicina; e dalle
officine stridenti, dai campi vangati, dai fondachi uggiosi s’alza
terribile la voce della necessità.

L’albeggiare in città è meno pittoresco, non meno singolare.
Quando Rina uscì sola dal palazzo San Vittore, avviluppata nella
sua pelliccia, con le mani aggranchite nel manicotto di martora,
sonavano le sette. Mentre scendeva le scale, il cuore le batteva
forte; la sgomentava il pensiero di esser vista sola per le vie così
di buon’ora, le pareva che la gente dovesse indovinare chi era, dove
andava e perchè. Desiderava, tanto le sembrava lungo il cammino, che
la portassero a volo, o, per lo meno, di potere giungere sino alla
casa di Federigo senza imbattersi in anima viva. Ma quando, traversato
l’atrio, oltrepassò il portone e fu nella strada sola davvero, il cuore
le si strinse; era avvezza a vederla popolata, e la trovava deserta;
la solitudine le fece pena. Nella casa dirimpetto, un lume mandava un
fiochissimo raggio tra le imposte socchiuse e Rina si ricordò d’una
povera malata che soffriva senza speranza là dentro. Era quello il solo
segno di vita che giungesse sino a lei e le rammentava la morte.

Si fece coraggio e si mosse. Al primo piano di una casa della
cantonata, un servo scamiciato scoteva dalla finestra un tappeto;
quando Rina passò, egli cessò dal moto e pronunziò qualche parola a
voce alta, di cui la povera fuggitiva udì il suono, ma non intese per
fortuna il significato.

Arrivò, come Dio volle, fino in via de’ Martelli, trovando soltanto
qualche operaio, che le passò accanto senza guardarla nemmeno;
procedendo ratta ratta sul marciapiede, presso San Giovannino si
scontrò con una vecchierella tutta vestita di nero, che usciva dalla
messa e teneva ancora tra mano il libro delle preghiere.

Rina andava di passo così rapido, che per quanto si studiasse di
scansare la vecchia devota, le fu impossibile di non urtarla lievemente
col gomito. Quella si rivoltò come un basilisco e squadrò Rina da capo
a piedi.

— Scusi, — balbettò Rina tremando.

— Che scusi! vada più adagino! se andasse in chiesa non avrebbe tanta
furia!...

E via, via, una filastrocca di parole che si perderono in suoni confusi
dietro la bella fuggente.

Erano lievi accidenti, ma nella imaginazione di Rina divenivano
avvenimenti terribili. Traversò la piazza San Marco di passo più lesto;
le pareva che ogni pena sarebbe finita per lei, appena avesse vista da
lontano la casa di Federigo; entrò nel Maglio e subito fissò gli occhi
verso il porto desiderato.

Fermi innanzi alla porta stavano un uomo e una donna, presso ad uno di
quei carretti con i quali i contadini dei dintorni portano il latte
a Firenze; quando Rina passò vicino a loro, la donna dette all’uomo
un’occhiata e tossì; l’uomo tossì anch’esso e più forte per significare
che aveva, come suol dirsi, mangiata la foglia.

Rina arrivò finalmente alla casa di Federigo; era tempo! La trovò
aperta, volle salire lesta le scale, e le forze le mancarono. — Ma
perchè, — si domandava, — perchè questa gente che non mi conosce,
che non sa nè di dove vengo, nè dove vado, crede avere il diritto di
insultarmi e di scherzare su di me?

Salì, meglio che potè, le scale. Quando fu in cima le parve di
rinascere. Picchiò alla porta; Federigo venne ad aprire.

                             . . . . . . .

Felice, dice Aristofane negli _Acarnesi_, chi ti stringerà fra le
braccia al levarsi del sole.


XII.

Alle undici, il Conte di San Vittore era sempre nella sua stanza.

Nell’anticamera, la cameriera passeggiava su e giù, aspettando che la
signora sonasse il campanello e il signor Luigi stava muto, immobile,
pronto agli ordini del padrone, quando il marchese Varalli entrò, senza
farsi annunziare, nel quartiere del nipote.

— Chi è? — domandò brusco Emilio udendo aprire la porta.

— Io, — rispose col suo solito sorrisetto il Marchese.

— Lei, zio? A quest’ora?

— Vi par presto? Aspettate un tantino e vi persuaderete che è tardi....
molto tardi.... Facciamola corta. Rina è fuggita.

— Eh? — urlò il Conte.

— Se vi par dura la parola, dirò: è andata via, ma la sostanza è la
stessa. M’ha scritta una lettera.

— Me la faccia vedere.

— Non posso. Ella confida nella mia fede di gentiluomo e vuole che la
lettera non vi sia mostrata.

— Oh! ma la ritroverò.... — E in così dire il Conte gettò via la veste
da camera ond’era coperto e infilò il primo vestito che gli capitò fra
le mani.

— Voi farete quel che vi parrà; ma prima farete a me la grazia di
starmi a sentire.

— Sì... ma faccia presto, zio.

— Non mi perdo mai in discorsi lunghi, lo sapete; dirò tutto quello che
ho da dire e niente di più.

— Dunque?

— Dunque c’è una parte della lettera che mi tocca passare sotto
silenzio; ce n’è un’altra di cui posso dirvi brevemente il contenuto.
Rina asserisce che voi sapete la ragione per la quale s’è indotta a
lasciarvi; dopo le vostre minaccie, ella ha pensato che, partendo, vi
risparmiava la parte odiosa di mandarla via. Io non so nulla di questa
faccenda; voi potete dunque capire, io no. Il meglio è, mi pare, che mi
diciate tutto.

— Rina ha un amante.

— Eh! grazie della notizia.

— Lo sapeva?

— Il giorno in cui vi siete sposati, ho saputo che l’avrebbe avuto o
prima o poi e ve l’ho detto; ieri sera poi, se non sbaglio....

— Ha ragione.

— C’è stato dunque qualche cosa di grosso da ieri sera in poi?

— Sì; non ho nessuna difficoltà a confessarlo; io mi sono portato molto
male con Rina, ho dimenticato perfino di essere un gentiluomo; ma credo
d’avere il diritto....

— Noi abbiamo avuto, caro Emilio, parecchi colloqui su questo
argomento. Ve l’ho detto: io reputo il matrimonio, come tante altre
instituzioni umane, una cosa necessaria e priva di senso comune. Chi
ha passata la leva sa che un affetto non dura mai tutta la vita; e chi
si marita figura di credere tutto l’opposto. Bisogna dunque preparare
le cose in modo che quando l’affetto passa, uno riacquisti la propria
libertà, senza che l’altro se ne disperi; ma bisogna pensarci per
tempo. Voi, con tutta la vostra esperienza, non ci avete pensato, avete
offeso vostra moglie....

— Io? Mai.

— Mai? Ma le avete fatto la peggiore offesa che si possa fare ad una
donna giovane; le avete fatto capire che non vi piaceva, o che se vi
era piaciuta un giorno, v’era venuta a noia il giorno dopo. L’arte del
marito è un’arte difficile e voi non l’avete mai saputa. Con una donna
delle solite, la cosa sarebbe andata più piana; con Rina no. Io ve l’ho
dotto il primo giorno, ve l’ho pestato in testa mille altre volte, non
m’avete voluto dar retta, la colpa è vostra.

— Senta, zio: confesso d’essermi lasciato un po’ troppo acciecare
dallo sdegno ieri sera; ma deve convenire che una donna la quale dà
all’amante appuntamenti per le piazze e per le strade e se ne fugge da
casa ha le sue brave colpe anche lei, e mi pare che il marito abbia il
diritto di essere severo.

— Ah! quand’è così non dico più nulla.

— Ma, no.... Dio santo! Dica, dica.

— Ma che volete che dica? In verità ve l’ho cantato un’altra volta, mi
par di discorrere con un ragazzo; a voi toccava e non a lei pensare a
tutte queste belle cose. Ma che cosa credete che ci stieno a fare le
donne in questo inondo? Ci stanno per amare sino ai trent’anni e per
essere amate da trent’anni in là. E quando una donna, dell’indole di
Rina, ama, ama in modo tale che si cura pochissimo di ciò che gli altri
penseranno o diranno di lei.

Queste ultime parole furono perdute pel Conte; egli pensava ad altro.
Quando lo zio ebbe finito:

— Insomma, dov’è Rina?

— Non posso dirvelo.

— E io le ripeto che la troverò.

— E quando l’avrete trovata?

— La condurrò meco.

— Non verrà.

— Non verrà?

— No. Ma andiamo avanti; e quando l’avrete con voi?

— Allora.... allora vedremo.

— Volete, dunque, fare uno scandalo?

— Voglio anzi che scandali non avvengano.

— Bravo; scegliete proprio la strada buona.

— Ma che cosa farebbe dunque lei nel mio caso?

— Io?.... Io nel caso vostro.... io già non sarei mai venuto a questi
ferri....

— Sì, sì, ho capito, ho capito.... ma insomma?

— Insomma io a quest’ora mi sarei convinto che questa scappata di Rina
si risaprà; a buon conto dovranno saperlo i servitori, che è quanto
dire il popolo e il comune. Sicchè il meglio sarebbe, io penso, far
credere al mondo che voi non soltanto avete consentito la partenza, ma
domandato una separazione per la solita incompatibilità di carattere.
Ecco quel che farei io: il minor chiasso possibile.

Il Conte non rispose. La pausa che succedè al discorso del marchese
Varalli fu lunghissima. Emilio passeggiava su e giù per la stanza
visibilmente agitato; lo zio lo stette a guardare per un pezzo, poi,
stanco di quel silenzio, si messe a sfogliare un album di fotografie.
Finalmente il Conte andò verso il tavolino presso il quale era seduto
il Marchese, e:

— Ho preso il mio partito, — disse. — Ha ragione, zio; soltanto
la prego di occuparsi lei di tutto quel che c’è da fare in questi
frangenti. Io parto oggi.

— Per dove?

— Per ora vado alle Poggiola, poi chi sa?... Un uomo che si trova nei
miei panni o ha da sfidare le dicerie del mondo, o andarsene. Bisogna,
dunque, o che io vada stasera al ballo dell’Altenstein, domani sera
a quello della marchesa Genziani e poi a quello del casino e via
discorrendo, o che mi seppellisca tra gli abeti della villa. Scelgo
quest’ultimo partito che mi risparmia molte noie e qualche vergogna.
Ora che mi son risoluto, mi può mostrare liberamente la lettera.

— La vostra risoluzione non mi libera dall’impegno che ho con Rina; ha
fatto assegnamento sulla mia parola, debbo mantenerla.

— Sia pure; le dica dunque che io voglio, intenda bene, voglio che ella
non stia a Firenze; le dica altresì che i frutti della sua dote, alla
ragione del sei per cento, le saranno pagati dal mio segretario o dal
mio maestro di casa, mensilmente, dove ella dimorerà.

— Ho inteso.

— Le pare che sia fatto tutto?

— Tutto.

— Allora le domando il favore di lasciarmi solo. Verrò a trovarla alle
tre, prima di partire; ora ho proprio bisogno di rimaner solo. Se le
dicessi che sono addirittura innamorato di Rina, non mi crederebbe;
mi crederà, se le dico che questo dramma ha uno scioglimento che mi
dispiace. Sarà la consuetudine.... non lo so.... insomma.... E se Rina
preferisse di tornare con me?

— Non lo credo.

— Purchè ella troncasse ogni cosa, non potrei perdonare.... e....

— Ma, e tocca propriamente a voi a perdonare?

— Non ci pensiamo dunque più.

— Vi aspetto alle tre.

— E.... chi è.... costui?

— Non lo so; ma se volete evitare gli scandali, che ad ogni modo
tornerebbero a danno del vostro nome, mi pare inutile di indagarlo _per
ora_; — _per ora_, — ripetè il Marchese battendo sulle parole.

— Cioè?

— Cioè, dato e non concesso che Rina si stanchi di quest’uomo e
lo pianti, o egli, il che è più facile, pianti lei; allora potrete
cercarlo, e con un qualunque pretesto....

— La ringrazio del consiglio, ma su questo intendo di fare a modo mio.

— V’ho detto al solito quello che avrei fatto io, se fossi stato
così.... Insomma; a rivederci... vado a scrivere al Duca.

— A proposito; e se Rina andasse da lui?

— Dio buono! ma se Rina per resistere alla tentazione avesse voluto
andarsene da Firenze, vi avrebbe pregato di portarla via. È partita da
sè senza dirvi nulla, è segno che vuol esser libera. Non andrà dunque
certo a Parigi a recitar daccapo la parte di pupilla; a meno che il
Duca non facesse per lei quel che fanno le peccatrici quando sono
lontane tanto dalla gioventù, quanto dal pentimento.... Povero Duca!
lasciatelo in pace... Io gli scriverò.... egli al solito, rimarrà a
bocca aperta, poi si persuaderà e tutto sarà finito. Oh! faccio tardi,
a rivederci alle tre.

Uscendo il Marchese udì il Conte chiudere per di dentro la porta della
sua camera, donde non si mosse che quattro ore dopo; ciò che facesse o
pensasse in quel tempo, nessuno lo ha mai potuto sapere.

Il Marchese trovò il segretario del Conte nell’anticamera.

— Oh! signor Luigi.

— Ai suoi comandi, signor Marchese.

— Giusto lei... venga un po’ con me.

— Ma il signor Conte....

— Non vuol nessuno per ora; ad ogni modo potrà dirgli che è stato meco.

— Eccomi.

Scesero le scale in silenzio; quando ebbero oltrepassato il portone, il
Marchese prese per la mano il segretario e, con quella cera di benevola
protezione che i gentiluomini dell’antica stampa sanno pigliare a tempo
opportuno, gli disse:

— Senta, signor Luigi; io ho conosciuto suo padre e conosco lei; perle
d’uomini tutti e due; l’onestà _discende per li rami_ in casa sua. Mi
dia la sua parola che farà e non dirà ciò che sto per ordinarle.

— Mi fa un onore che so di meritare, signor Marchese; può fidarsi.

— È detto dunque. — E gli strinse la mano. — La signora è partita.

Il signor Luigi impallidì e guardò il Marchese con un occhio, il cui
languore esprimeva ad un tempo la meraviglia e lo spavento.

— La Signora!...

— È partita... oh!... signor Luigi, non caschi dalle nuvole; son
cose umane. Il Conte non deve sapere dov’è, ma, in confidenza, è a
Pisa all’albergo delle _Tre donzelle_. Io dovrei andare a vederla; ma
s’immagini se io vado a Pisa... ci passerò l’inverno quando avrò male
ai polmoni. E poi non voglio commozioni. Dunque le darò una lettera,
la rimetterà in proprie mani alla Contessa da parte mia, aspetterà la
risposta e ripartirà. Ha capito?.... Ohè! signor Luigi... che cos’ha?

— Oggi non mi sento bene; lo sa, ho una salute così capricciosa...

— Dunque non può?...

Il signor Luigi, che aveva tremato sino allora come preso dalla febbre,
si scosse, guardò il Marchese e rispose:

— Posso sempre quel che voglio, signor Marchese, e voglio sempre far
ciò che Ella mi comanda.

— Comanda? Domanda, dica, domanda come un vero servizio.

— Grazie. Sarà fatto.

— Venga a casa; le darò la lettera; potrà partire colla corsa del
tocco. Non più tardi, mi raccomando.

— Stia sicuro.

Pare che il signor Luigi si vantasse, asseverando di poter sempre fare
ciò che voleva. Fatto sta che aveva promesso di partire al tocco; ma
quando uscì di casa Varalli, si mise a girare per tutte le strade,
tranne per quella che conduceva alla stazione e quando vi arrivò
credendo che fosse il tocco a mala pena, erano le quattro sonate.

Alle cinque, mentre egli partiva per Pisa, il Conte di San Vittore
se ne andava alle Poggiola. Il signor Luigi tornò a Firenze il giorno
dopo; il Conte mai più.


XIII.

Chi ha ragione, Esiodo che saluta Amore _architetto dell’universo_ o
Bacone che lo paventa _perturbatore del mondo_? È egli vero che

    “Amor è quel che ’l core a valor chiama„

come affermava sei secoli fa in uno de’ più brutti versi che sieno
stati scritti, messer Caccia da Castello, o vero invece che “amore è
odio, gemiti, grida, onta, dolore, ferro, lacrime, sangue, cadaveri,
ossami, rimorsi„ come, tra le mattìe della gazzarra romantica, bandiva
Pietro Borel il licantropo? Questioni inutili; quando si dice _amore_
si accenna ad un sentimento, la cui natura muta secondo la diversa
natura di coloro che lo provano; innamorati Catullo e il Leopardi, il
Petrarca ed il Byron. Mi ricordo d’una povera ragazza, figliuola di
uno speziale di campagna, la quale mi aveva scelto per confidente;
doveva sposare un giovanotto del paese e i suoi pensieri di tutti i
giorni erano la casa, la biancheria, la batteria da cucina, la lana,
l’armadio: col suo damo parlava di queste e di poche altre cose. Una
signora che sapeva a mente tutto il De Musset, e che era a parte anche
lei di quelle confidenze, mi diceva:

— Eppure quella ragazza crede d’amare sul serio! Povera Elisa!

Povera davvero; il suo damo la lasciò ed ella s’avvelenò coll’atropina.

Rina aveva carezzato l’amore nei sogni di giovinetta, l’aveva indarno
aspettato nelle solitudini di sposa; prima e poi la sua fantasia
s’era serbata vergine, e le duravano tuttavia immacolate nell’anima la
speranza e la fede. La condizione impostale dal marito le parve dunque
molto facile a osservare. Non voleva che ella stesse a Firenze; per che
farci a Firenze? Se le fosse stato ingiunto di domiciliarsi a Calcutta,
Rina avrebbe obbedito senza rammarico. Il paese prediletto, veramente
suo, era quello dove Federigo dimorava con lei; di là da quel paese il
deserto. Non c’era che un uomo a questo mondo: Federigo; un intento
alla vita: amarlo. Pronta, dunque ad obbedire in questo alla volontà
del Conte, si rallegrò molto quando Federigo le propose di passare la
primavera e l’estate in campagna.

Sola con lui, senza disturbi.... Ma era questo il suo sogno, povera
donna, e diveniva realtà! il suo sublime egoismo stava per esser
soddisfatto.

E pochi giorni dopo la visita del signor Luigi, Rina e Federigo
partivano per la Val di Nievole.

Tradizioni domestiche, dimore grate, reverenza di sepolcri troppo
presto dischiusi, amicizie numerose e dilette, memorie della
adolescenza ignara e della giovinezza felice mi fanno cara la Val di
Nievole sopra ogni altra regione d’Italia; pur s’io la miro bellissima
non credo sia quello inganno di occhi amorosi. Ne’ monti che la
chiudono è una armoniosa varietà di tinte e di linee, sulle quali e lo
sguardo e l’animo si riposano insieme. Dai vertici che si colorano nel
cupo delle querci si stacca per le falde l’allegro verde de’ castagni,
e la infima costa ricca dei prosperi ulivi, cinge di una glauca
ghirlanda i fertili terreni della pianura. La Nievole ora torrente,
ora ruscello corre in mezzo alla valle tra gli argini ombreggiati
dai pioppi e dai canneti. Lungo tutto il piano, da Serravalle a
Collodi qua paeselli nuovi, là rôcche antiche, testimoni delle lotte
civili, ruderi scampati alle ingiurie del tempo e degli uomini. Ne’
villaggi, quivi come dappertutto, poca la gente ammodo, molta la plebe
curiosa, fastidiosa, piccosa, irosa, oziosa, viziosa, invidiosa,
velenosa; ma da’ colli, dal piano, vola un’aura di prosperità e
di pace. Il popolo della campagna, tutto dedito all’agricoltura,
lavora e canta; canta quelle canzoni che solo sa comporre nella più
melodica lingua del mondo; popolo di agricoltori e di poeti accoglie
inconsapevole nell’animo i godimenti che la natura gli offre, e li
trasfonde e ritrae spontaneo negli umili ritmi stupendi. In un angolo
della valle, l’immenso piano del padule di Fucecchio interrotto da
canali malagevoli, avvolto da nebbie basse, rade. Fra quelle nebbie,
a dispetto dei bonificatori importuni, vivono famiglie d’atleti;
cacciatori e pescatori, eroi della miseria che aspettano il loro
Plutarco. O valle benedetta, amore della mia gioventù, desiderio
dell’età virile, invocato asilo della stanca vecchiezza, serba insieme
con il ricordo del figliuolo lontano, i sorrisi del cielo benigno, i
tesori della terra feconda.

Rina non aveva predilezione alcuna per la Val di Nievole; non c’era
mai stata; ma quando, affacciandosi a una villetta in collina, tra
Serravalle e Monte Catini, mirò tutta la splendida varietà dello
spettacolo che aveva dinanzi agli occhi, pianse di tenerezza e di gioia
e desiderò di morire là giovane e bella, per morir degna, come viveva,
dell’amore del suo Federigo.

E Federigo?

Provò le medesime sensazioni anche lui; ma la vita gli pareva quel
giorno così lieta e desiderabile, che a morire non ci pensò.

Rina, che viveva in un affetto solo, che aveva posto vita e mondo,
anima e intelletto, desideri e speranze, tutto in Federigo, poteva e
sapeva riunire i due estremi del cerchio fatale e illuminarli con la
luce del suo amore sublime; Federigo voleva vivere; più forte di ogni
altro gli batteva nel cuore il palpito della gioventù. Amava Rina
bensì: anzi giurava a sè ed a lei che l’avrebbe amata eternamente.
_Eternamente!_... intercalare d’innamorati che i re dell’Egitto non
osarono incidere sulla cima delle piramidi.

Non mi provo nemmeno a descrivere la letizia di quei due innamorati.
La felicità, fu già osservato, è così rara che l’uomo per descriverla,
ha inventato poche parole soltanto; laddove i contrassegni dell’idea
del dolore occupano parecchie colonne nei vocabolari di tutte le
lingue del mondo. Federigo e Rina lontani dal mondo, si ridicevano
ogni giorno le stesse cose, ogni giorno le ascoltavano collo stesso
piacere. Erano allegri? Godevano apertamente della loro allegrezza;
veniva l’ora della malinconia? Piangevano insieme. Di che piangevano?
Di nulla. Che trovavano nel pianto? Tutto. Federigo avviava sempre il
discorso parlando delle memorie di Rina, delle sue consuetudini, dei
suoi desiderii; l’istinto gl’insegnava che per arrivare al cuore di una
donna bisogna discorrere non di sè, ma di lei.

Il Duca Esmeraldi, sebbene possedesse ville e poderi, non poteva
soffrire la campagna e non aveva condotto quasi mai la pupilla fuori
di Firenze; alle Poggiola sappiamo che vita menasse Rina, con che
animo ci stesse. La vita dei campi era dunque per lei una cosa nuova; e
difatti correva, batteva le mani, si stupiva di ogni cosa con ingenuità
infantile; sorrideva ai fiori ed al sole, alle lucciole che brillavano
tra le siepi, alle stelle che scintillavano nel cielo.

Ignorava i nomi di ogni pianta e di ogni albero; smaniosa di impararli
presto si confondeva in guisa da far venire i bordoni a un orticultore;
appena si fu raccapezzata, cominciò a scherzare sulla passata ignoranza
e a dare lezioni di botanica a Federigo.

Un giorno passeggiando nell’orto della villetta colse un fiore di
margherita.

— Lo sai che cosa è questa, Federigo?

— Dio mio! è vero che non ho studiato scienze naturali, ma fin qui ci
arrivo anch’io. È una margherita.

— No.

— È vero, come è vero che tu sei bella.

E, perchè Rina non dubitasse, confortò la comparazione di un lungo
bacio.

— Andiamo, Federigo.... se ci vedessero....

— E poi?

— E poi così non si ragiona. Questa è una margherita, grazie, tutti lo
sanno; ma è anche un’altra cosa.

— Che cosa?

— È un’indovina.

— E che cosa indovina?...

— Ora sentirai. _Il m’aime, un peu_....

— No, Rina, lascia andare. Che bell’abilità! Senti, se dice di sì
indovina quello che sai; se dice di no, si fa canzonare.

— _Il m’aime, un peu_....

— Andiamo via, Rina, sei pur bimba qualche volta.

— Ma, Federigo, mi pigli per così stupida da credere a queste
scioccherie?

— Ma perchè le fai?

— Ma lasciami fare....

— No, ho detto di no....

— Ti prego, Federigo, sii buono... lasciami fare; tanto deve dir di sì,
se è indovina, non è vero?

— Ma... crederei.

E Rina sfogliò sorridendo la margherita sino alla fine. L’oracolo
risposo _point du tout_.

Rina trattenne nelle mani il fiore spogliato dei suoi poveri petali;
lo guardò, lo riguardò, poi lo lasciò cadere in terra e dette in uno
scoppio di pianto.

— Ma, Rina, è possibile che tu pianga per queste cose? Ma via, son
fanciullaggini; lo hai pur detto tu che sono scioccherie.

— Sì, sì... lo so... ma intanto... È la prima volta che lo faccio, sai?

— Pare incredibile! hai tanto ingegno, e delle volte ti pigliano certi
pregiudizi....

Federigo si dimostrava, qual era, molto giovane. È lecito non credere a
Dio; ma come non metter fede ne’ tavolini che girano, ne’ malefizi del
sale versato sulla tovaglia e ne’ vaticinii di una margherita?

— Sì... e se fosse vero? — domandò Rina rasserenandosi.

— Se fosse vero, la margherita avrebbe ragione, ma siccome non è....
Vedi, Rina, dicono che la natura ha fatto tutto bene.... io ci ho i
miei dubbi.

— Perchè?

— Perchè avrebbe dovuto dare a quel fiore una foglia di meno....

— E allora avrebbe risposto?...

— _Passionnement_ — conchiuse Federigo, e per non far la conchiusione
diversa dalle premesse attirò Rina tra le braccia e le coprì la fronte
di baci.

E Rina svincolandosi da lui:

— Me l’ha fatto proprio per dispetto!

— O per vendetta, — soggiunse Federigo raccogliendo il fiore, e
mostrandolo mal ridotto come era: — Sfido! L’hai rovinato così.

Rina sorrise; prese la mano di Federigo, gliela strinse forte e così
uniti andarono a correre per i campi.

Era di primavera; intorno a que’ due amanti gioiva l’imene universale,
quell’amore salutavano per la terra e per l’aria altri amori d’insetti
e d’uccelli. Da ogni fronda s’ergeva un cantico, ogni filo di erba era
un letto nuziale.

                             . . . . . . .

La sera Rina sonava un po’ sopra un vecchio pianoforte; una
_mazurka_ dello Chopin, studiata da lei per la prima volta il giorno
che s’imbattè al Poggio in Federigo, poneva fine tutte le sere
all’accademia.

— È il nostro inno reale! — diceva Rina sorridendo.

Cessata la musica, veniva l’ora della poesia. Federigo leggeva a voce
alta qualche squarcio del Leopardi, dello Shelley, del De Musset; Rina
(guardate un po’ che gusti!) sarebbe stata più volentieri a sentire i
versi di Federigo, ma egli non ne scriveva più; capiva che la sua musa
era debole, nè le era consentito levarsi all’altezza di quell’amore.

La posta arrivava tutte le mattine, ma i giornali, stretti ancora nelle
loro fasce inviolate, s’accatastavano sui tavolini; le lettere degli
amici di Federigo giacevano dimenticate per più giorni nelle tasche del
suo vestito; stando alle apparenze, non ve n’era nessuna che meritasse
risposta.

Quando, sulla metà d’agosto, s’aprì la caccia, Federigo mostrò
desiderio di andare in cerca di quaglie. Se ne discorse molto
tempo innanzi; Rina era restìa a concedere il permesso, ma Federigo
persisteva.

— M’alzerò pianino pianino, — diceva, — che non mi sentirai neppure.
Uscirò alle quattro per tornare alle nove; tornerò che tu, poltrona,
dormirai ancora e ti sveglierò con un bacio. Toglierò un po’ di tempo
al sonno, a te neanche un minuto.

E fu fissato che Federigo andrebbe a caccia la mattina dopo; ma Rina,
che dormiva del sonno leggiero di chi vuole svegliarsi, udì Federigo
fare i preparativi per la partenza.

— Dunque vai proprio? — domandò a lui che la credeva addormentata.

— Vedi, m’avevi promesso di non svegliarti.

— Come si fa, Dio mio? È la prima volta che mi lasci sola....

— Senti, Rina mia, veggo che ti dispiace e rimango.

— Ma perchè deve dispiacere a me di vederti andar via e non a te di
lasciarmi?

— Ma se ti dico che non vado. — E si affrettò a deporre gli oggetti che
teneva fra mano.

— No, no, Federigo, voglio che tu vada. Perchè non ti devi
divertire?... No.... No... sono una sciocca.

— Dunque andrò.

— Sì, ma ancora no.... resta un altro pochino con me, Federigo mio.

Due ore dopo, erano lo sei della mattina, Federigo uscì, lasciando
Rina appisolata. Passando dalla porta di casa sentiva qualche cosa
di nuovo, di straordinario moverglisi nell’animo; da quattro mesi non
aveva lasciato sola Rina neanche per un’ora; allontanandosi da lei per
la prima volta, se ne angustiava come di un rimorso. Girò intorno casa,
le quaglie gli frullarono davanti, rumorose come al solito; non se ne
accorse neppure. Alle sette, senza essersi macchiato di alcun omicidio,
senza aver nemmeno scaricato lo schioppo, era daccapo sulla porta della
villetta.

Salì le scale pian piano pensando tra sè: — Le ho detto che sarei
tornato alle nove e sono appena le sette! Chi sa che sorpresa
svegliandosi! — Entrò in camera con tutte le precauzioni per non
destarla ad un tratto. Rina s’era alzata, vestita, e, rannicchiata
sopra una poltrona in un angolo della stanza, piangeva aspettandolo.

Le imposte erano chiuse, sopra un tavolino filava dimenticato il lume
da notte.

Quando Rina vide Federigo cacciò un grido, un di quei gridi che valgono
molte parole e gli si gettò al collo. Egli le rispose con un bacio;
le sorrise come un uomo che ha sollevato l’animo da un gran peso,
poi corse ad aprire le finestre; e insieme con l’aria profumata della
mattina, rientrarono nella stanza la poesia e la luce.


XIV.

Uno de’ primi giorni di ottobre, sul tramonto, Rina e Federigo
giravano al solito per la collina; si destò un venticello freddo, poi
cominciò a venir giù un’acquerugiola fina e ghiacciata. Per quanto
cercassero di far presto, quando tornarono a casa, erano fradici
mézzi. Rina ammalò, e dovè stare a letto per otto giorni; la colse
una febbre così violenta, che ne uscì estenuata come da una malattia
gravissima. Federigo passò tutta la settimana al letto dell’ammalata;
non chiuse occhio per sei lunghe notti; qualche volta si sentiva venir
la cascaggine e sul fare del giorno un freddo pungente gli entrava
nell’ossa. Gli veniva voglia di moversi, ma, per non svegliare Rina,
rimaneva inchiodato sulla poltrona combattendo freddo e cascaggine con
l’unica forza che avesse: la volontà. La gioventù gli era a carico;
all’età di Federigo il sonno è, secondo i casi, un amico fedele, o un
poderoso nemico.

Rina, uscita di febbre, volle che Federigo se ne andasse a respirare
le aure fresche di un bel giorno di ottobre, sui poggi dove erano
stati tante volte insieme. Federigo obbedì. Nel lasciare la sua
bella convalescente, le si accostò per darle un bacio; appena ebbe
posate le labbra su quelle di lei, si ritrasse; aveva sentito l’alito
dell’inferma.

Uscito, Federigo si trattenne lungamente a passeggiare su pei colli
che sorgevano a ponente della villetta; Rina, con l’acume della donna
innamorata, notò due cose: la prolungata assenza di Federigo, la sua
negligenza.

Egli infatti dimenticò, tornando, di darle la buona sera, secondo era
solito, con un altro bacio.

I giorni seguenti uscì daccapo e non ritornò dai campi più sollecito
o più affettuoso. Nell’animo di Federigo il bisogno di star sempre
presso Rina andava estinguendosi; egli stesso se ne meravigliava, ma
pur meravigliandone, non provava, per quel fatto psicologico, rammarico
veruno.

La sera aspettava con ansietà la posta, leggeva con diligenza i
giornali, con diletto le lettere degli amici e rispondeva subito.

— Federigo, sei stato fuori tutto il giorno, hai letto i giornali, sta’
un po’ con me; risponderai domani.

— Rina mia, è impossibile. Come si fa? Devo scrivere per un affare
importante e se tardassi nascerebbero guai.

Un’altra volta, Federigo levandosi di buon mattino disse a Rina che
andava a Pistoia.

— A che fare?

— Ho bisogno di veder uno, ma mi trattengo poco. A mezzo giorno sono a
casa.

— Perchè non condurci anche me?

— Che vuoi venire a fare? Con questo fango... e poi, Dio mio! è una
città così noiosa....

— E allora.... allora va’ solo, ma torna presto.

— A mezzogiorno.

Mezzogiorno passò, venne la sera e Federigo non ritornò. Alle otto,
quando già da un pezzo Rina si torturava con timori crudeli, il postino
le portò una lettera; era questa:

Rina mia, non posso tornare; ho da fare in serata. Che noia! Scrivo in
fretta da un caffè. Ti mando un bacio; sii buona.

                                                            FEDERIGO.

Rina lesse con un’occhiata tutta la lettera e sentì come una mano
gelata posarlesi grave sul cuore. Era la prima volta che Federigo
passava la sera fuori di casa, era la prima volta che mancava ad una
promessa.

Si provò a scusarlo; e sebbene ferma nel credere che le dicesse il
vero, la conchiusione delle sue meditazioni su quel fatto così semplice
ma così solenne per lei fu che egli doveva tornare, magari anche a
mezzanotte, ma tornare. Questo lo dicevano la ragione ed il cuore; per
uno sforzo di volontà poi, col quale si studiava di trovare in fallo
piuttosto sè che Federigo, arrivò a persuadersi che ella era troppo
esigente e che non si poteva pretendere un uomo facesse a mezzanotte
tre miglia di strada, mentre pioveva a dirotto. E si acquetò in
quest’idea per un momento; poi riflettendo disse fra sè:

— Eppure un mese fa sarebbe tornato!

Da quella sera angosciosa, da quella notte insonne, Rina non fece che
studiare ogni moto, ogni parola di Federigo.

Quando le parlava la sua parola era più calda, meno affettuosa; tutti
gli atti di lui più riguardosi forse, meno spontanei. E Rina piangeva,
ma in segreto perchè sperava ancora; assisteva all’agonia della sua
felicità e pur si sforzava di non credere alla morte.

Le donne, non mi ricordo più chi l’abbia dotto ma ha detto bene, specie
le donne di una certa età, sono deboli e credule come i popoli; per
condurseli dietro e questi e quelle basta un sofisma messo innanzi
con garbo. Vi fu un momento in cui Rina si lasciò vincere dai sofismi
di Federigo; ed egli che la vedeva tanto soffrire ebbe per lei la
postuma compassione dell’amante; rialzò con mano amica quella povera
donna curvata sotto il peso di un grande dolore, le nascose la noia
sotto un sorriso, e nei simulati ardori di un baciò dimoiò il ghiaccio
dell’anima sua.

Una volta, per tutta una giornata Federigo non si mosse di casa, passò
la sera accanto a Rina, con la testa reclinata sulla spalla di lei;
ella lo accarezzava, Federigo piangeva. — Sinceramente? — Sì. Di che?
Non lo so. Forse ella gli destava un vago senso di pietà e lo movevano
a piangere un po’ lo stato di lei, un po’ la immatura morte di un amore
che lo avea fatto contento.

E Rina, non peranche ammaestrata intorno al casi della vita, si
ostinava nel proseguire i sogni, che oramai volavano per un cielo
diverso; diceva a sè stessa che ove Federigo potesse serbare per lei
la tenerezza di un fratello, ella avrebbe trovato in sè tanta forza
da obliare la felicità perduta. Così i pallidi raggi della speranza
illuminavano ancora il suo cuore; poi venne il crepuscolo del dubbio,
poi le tenebre della certezza. Bisognava rassegnarsi, ma Rina ebbe un
bel tentare, l’affetto vinse la ragione e il dolore la volontà. Un
giorno ella si lagnò apertamente come chi di lagnarsi ha diritto; e
Federigo straziò quel cuore già tanto piagato con queste parole:

— Rina, mi hai seccato!

Rina aspettò che Federigo fosse uscito ed uscì anche lei, per non
tornare più.

Perchè l’amore vive di tutto e muore di nulla. Le donne sono, checchè
se ne pensi, più costanti degli uomini. L’uomo è fatto così: vorrebbe
vedere la donna nelle sfere degli angeli e pone ogni studio per trarla
con sè nei gorghi umani del senso; poi se ne duole e si rammarica
che l’angelo non ha più le ali che egli stesso ha recise. L’angelo
è caduto; va bene che è caduto nelle nostre braccia, ma intanto
cammina sulla terra accanto a noi; e viene il giorno in cui ogni lieve
imperfezione dà noia. Un amico mio, che aveva amato molto una ragazza,
l’abbandonò poi perchè la vide un giorno con gli stivalini spaccati.
L’amore dura meno in coloro che lo sentono più ardente e profondo;
tutti gli entusiasti sono incostanti; consumano, per così dire, in un
giorno le commozioni di un anno, suggono la vita come il ferro rovente
la gocciola d’acqua; e ciò spiega il continuo mutare d’affetti che si
rimprovera ad alcuni fra gli artisti più grandi.

Federigo non era davvero un grande artista; ma poichè non poteva
animare come Pigmalione la statua, oggetto dei suoi sogni e dell’amor
suo, spezzava quelle che non raggiungevano la purezza e la perfezione
dell’ideale vagheggiato.

Per questo, a coloro i quali sanno adattarsi alla realtà della vita,
l’amore è riposo, sventura agli altri che sognano una vita e un mondo
diversi. I sogni non si verificano mai; quando uno ha ottenuto l’amore
agognato come il colmo della felicità, è contento, ma non come aveva
sperato.

L’amore è un desiderio; appagato si estingue.

E si muta, dicono, in amicizia. Non è vero. Io non so in che modo
il Rivarol, che pure leggeva nel cuore umano come in un libro,
abbia potuto scrivere all’amante: “È tempo di edificare il tempio
dell’amicizia.„ La risposta della sua bella gli provò che le donne
intorno a certi argomenti ne sanno più di qualunque filosofo. Ella gli
rispose difatti: “non si edifica sulle ceneri.„


XV.

Federigo, finchè Rina rimase con lui, ebbe per incomportabile quel
vincolo, e perchè non era più innamorato lui s’adirava che l’altra si
ostinasse a volergli bene. “Che diavolo! Se avesse voluto legarsi per
sempre, meglio pigliar moglie e farla finita; poi, si sa, tutto passa
a questo mondo; se non lasciava sarebbe lasciato. Ora c’era di mezzo
l’amor proprio, ma fra qualche mese anche Rina si sarebbe consolata,
come tutti si consolano di un affetto perduto o d’un’illusione
dileguata.„

Eppure quando fu solo, solo in quella villa deserta, quando rivide
il letto di Rina, la sedia rustica su cui ella soleva riposarsi in
giardino, il pianoforte tuttavia aperto si sentì come un gruppo alla
gola e pianse. Di che? O non aveva fatto di tutto per rimaner solo? Si
provò a dormire e si svegliò più volte in sussulto. Il giorno dopo si
propose di andare a Pistoia per distrarsi ma non ne fece nulla. Gli
pareva tutti dovessero domandargli di Rina, tutti rimproverarlo del
suo contegno verso di lei; e andò invece a Firenze con l’intenzione
di cercare un amico con cui sfogarsi, o una stanza che non chiudesse,
come la villetta della Val di Nievole, tanta malinconia di memorie;
una stanza ove stare solo a pensare, e.... a cercare modo di richiamare
Rina? No; questo pensiero non gli venne neppure.

Andò per pochi giorni, vi si trattenne un mese; nel frattempo gli amici
suoi gli proposero una gita a Milano. Accettò; e si ricordò allora,
dopo molti giorni di oblìo, che prima di partire bisognava tornarsene
alla villa. Vi tornò infatti tranquillo, molto diverso da quello che
era partito.

Nel fare i bauli gli occorse aprire uno dei cassetti della scrivania.
V’era dentro tutto il museo archeologico dell’amore; ciocche di
capelli, fiori, guanti, chiusi in tante buste, sopra ognuna delle
quali era diligentemente scritta una data. I fiori avevano perduto il
profumo e il colore, le date il significato. Federigo ne lesse due o
tre sbadatamente, frugò invano nei ripostigli della memoria, poi gettò
tutti quei poveri monumenti del proprio e dell’altrui affetto, sul
fuoco.

Da ultimo, gli capitò un fazzoletto che aveva preso a Rina il giorno
nel quale s’erano parlati al Camposanto degl’Inglesi. Lo avvolse
e lo pose nella valigia. Non come il superstite che custodisce
religiosamente il ricordo del morto, ma come il soldato che appende
alle pareti della sua sala un brano della bandiera strappata al nemico.

Rina soffriva intanto crudelissime pene; soffriva come chi, guardando
al passato, dice: — Ahimè fosti pur breve! — e all’avvenire: — quanto
sei lungo!

Ella se ne stava chiusa in una locanda a Firenze, ov’era giunta di
sera, aspettando che il cuore o la mente le suggerissero il da farsi.

L’inverno s’approssimava, ed ella passava le intiere giornate accanto
al fuoco, attizzandolo senza tregua. Nonostante le fiamme che uscivano
dal camino, e il calore tropicale della stanza, sentiva freddo; si
ricordava quel giorno d’autunno quando sulla collina solitaria, presso
alla villetta di Val di Nievole, la brezza ghiacciata dopo il tramonto
del sole aveva soffiato sopra di lei. — Ah! pur troppo il sole è
tramontato! — diceva tra sè.

Una sera volle scrivere a Federigo, e scrisse, infatti, una lettera da
far piangere i sassi. Voi lo sapete come scrivono queste povere donne
abbandonate, quando intingono la penna nelle loro lacrime! Fu lì lì per
mandare la lettera; poi impose silenzio al cuore e la stracciò.

Rina, cresciuta tra il volterianismo del duca Esmeraldi, il puritanismo
anglicano della sua governante e le puerili superstizioni del convento,
non aveva per sè i conforti della fede cristiana; sebbene ella non
sapesse ancora che cosa credere, sentiva che lo zio, la governante e le
monache avevano tutti torto. Ma negare non consola; credere sì, perchè
equivale a sperare. La più bella e più durevole delle mitologie ha un
farmaco per ogni dolore, un balsamo per ogni ferita, perchè facendo
cominciare la vita vera dell’uomo, non alla nascita ma alla morte, lo
sovviene in ogni tempo di conforti ineffabili e di speranze immortali.

Alla povera abbandonata era dunque amara quella solitudine che si era
imposta; e cercava la via di uscire quando seppe che ad una compagna
di collegio, allora dimorante a Bologna, era morto in que’ giorni
il marito, maggiore di cavalleria. Pensò andare da lei e le scrisse.
N’ebbe la risposta che si può imaginare; la vedova era in uno stato da
far pietà, l’aspettava a braccia aperte.

E Rina andò a Bologna.

Quei giorni di confidenze aperte, di mutui conforti, di memorie
evocate insieme, furono dei meno tristi fra quanti ne passò Rina
dopo l’abbandono di Federigo. Le era lecito piangere e non sola;
narrare tutto era uno sfogo, udire il racconto delle pene dell’amica,
confortarla era una buona azione.

Ma quel tempo passò presto. In capo a qualche mese gli ufficiali del
reggimento si presentarono alla vedova del loro commilitone, cercando
con tutti i mezzi di distrarla. Il comandante, forse per dare il buon
esempio, fu più sollecito e più assiduo di ogni altro nel compiere
quest’opera di misericordia. Così, a poco a poco, di quelle due
donne infelici, ambedue apparentemente inconsolabili, una si consolò.
Frequentando gli ufficiali, la vedova del Maggiore si fece naturalmente
desiderosa di promozioni e sposò il Colonnello. E Rina imparò che era
meno doloroso piangere un morto, che portare il bruno d’un vivo!

Povera rondine, che il gelo cacciava da ogni dove, ella lasciò l’amica
sua alle pallide commozioni delle seconde nozze e partì per Milano.
Aveva saputo che Federigo era là e le pareva che il solo balsamo alla
propria ferita fosse la possibilità di vederlo ogni tanto, e il sapere
che vivevano insieme tra la stessa cinta di mura, sotto un medesimo
cielo!

Rina aveva giurato a sè medesima di non cercare Federigo; vederlo
qualche volta a caso e senza che egli se ne accorgesse, perchè non
gli venisse voglia di fuggire, era il solo suo desiderio e le pareva
potesse facilmente appagarsi. Dapprima il giuramento fu scrupolosamente
osservato, ma poi....

Da quindici giorni ella era arrivata a Milano e Federigo non l’aveva
veduto ancora. Un lunedì, verso le tre, all’ora della passeggiata, si
vestì con la solita semplicità elegante, calò un velo sugli occhi e
s’avviò verso il Corso Vittorio.

E quel giorno e molti altri successivi, il giudizio e la passione
disputarono così nella mente di Rina:

— Usciamo? — diceva il giudizio. — Che andiamo a fare con questo
freddo? È egli tempo questo da andare a zonzo per la città?

— Pare che sia freddo, ma è forse più in casa che fuori — soggiungeva
la passione. — E poi il moto riscalda. Io non ho freddo, io.

— E dove andiamo?

— Ma... per il Corso....

— Andiamo piuttosto sui bastioni, se proprio usoiamo per far del moto.

— Tu le consigli d’uscire, o mia perpetua nemica, — conchiudeva il
giudizio — per il gusto di farle violare una promessa fatta a me; noi
usciamo col solo fine di cercare Federigo....

— E sia; ma in fondo, poi, qual è il tenore della promessa? Staremo a
Milano senza cercarlo, paghi di vederlo qualche volta alla sfuggita
e di vivere nella stessa città. Se non usciamo e se non andiamo nei
luoghi più popolosi, rischiamo di non vederlo mai; e importa vederlo,
non foss’altro per accertarsi che egli è ancora qui....

— Rina, Rina, non dar retta ai sofismi di costei; se tu mi avessi
sempre ascoltato, quanti dolori ti saresti risparmiati!

— Rina, Rina non badare a quel pedante; senza di me, avresti tu provato
tante gioie? E i tuoi giorni beati li devi tu forse a costui?

— Torna a casa, Rina....

— Va’, cercalo... che male c’è? Sarai in tempo a fuggirlo.

— No; vistolo, lo seguirai.... Pensaci, Rina... io ti preparo molti
anni di quiete....

— E io ti preparo chi sa? forse un altro giorno d’amore!....

Un altro giorno d’amore! Il giudizio, da quella persona assennata che
era, dopo questa vaga promessa giudicò inutile ogni altra parola e,
sentendosi vinto, lasciò a sè medesima Rina, la quale senza più alcun
ritegno si mise a girare per Milano con la ferma intenzione di cercare
e trovare. Quando la passione ha debellato il giudizio, non solamente
compie i suoi propositi, ma ha anche l’audacia di confessarli.

Quel giorno non lo trovò. Passeggiando per il Corso le parve invece di
vedere una sua antica conoscenza, il signor Luigi; o almeno qualcheduno
che gli somigliava, come si somigliano tra loro due gocciole d’acqua.
Rina ne fu meravigliata; e si fermò presso la vetrina di una bottega,
per aver modo di osservare quell’uomo e sincerarsi. A un tratto
l’altro, volgendosi, vide Rina. Si guardarono. L’una si mosse e
proseguì il suo cammino. L’altro rimase immobile nel mezzo della
strada; sordo alla voce del conduttore, poco mancò non rimanesse sotto
ad un _omnibus_ che passava in quel punto.

— Non mi saluta, non è lui, — disse Rina. — Che singolare
rassomiglianza!

E non ci pensò più.

Ma nè quel giorno, nè i seguenti, fu così fortunata da rinvenire colui
del quale andava in traccia. E così ciò che il giudizio non aveva
potuto ottenere, ottennero il dispetto e lo sconforto. Rina per un
pezzo non uscì più di casa.

Una sera, verso la fine del carnevale, se ne stava sola presso il
caminetto, seguendo col pensiero cento imagini dolorose; per la strada
era un viavai di carrozze, di maschere, un frastono da non si ridire.
Non c’è per la gente che soffre cosa più spiacente della allegria
clamorosa degli altri. E Rina disturbata in quel suo sconsolato e pur
dolce abbandono, s’alzò per uscire. Le pareva che in mezzo alla folla,
al chiasso si sarebbe divagata; ed uscì difatti, nonostante la sua
cameriera le facesse presente che l’ora era tarda e non le conveniva
andar sola per le vie della città, così popolate in quella sera.

_A chi consiglia non gli duole il capo_, insegna il proverbio. Così
anche le cameriere, se hanno la testa a segno e il cuore libero, danno
lezioni di convenienza; ma anche le signore se ne dimenticano, quando
il cuore batte più forte e la testa ragiona più debole.

La serata era scura e freddissima; ma la gente pareva non si
sgomentasse nè del bujo, nè del gelo. I perpetui convalescenti, che
ai primi freddi dell’autunno s’erano chiusi in casa paurosi delle
polmoniti, quella sera, nel cuor dell’inverno, giravano per Milano
sfidando i rigori della stagione; i cittadini precisi che hanno la
consuetudine di spazzolare diligentemente i vestiti e lisciare e
lustrare il cappello ogni volta che ritornano a casa, permettevano
quella sera che gente ignota, nascosto il viso sotto una maschera di
carta pesta, sporcasse loro il pastrano e ammaccasse il cilindro. E la
cosa si spiega. Dio buono!... era di carnevale e bisognava divertirsi;
se l’uomo non si diverte dalla Epifania alle Ceneri, quando mai si
divertirà?

Queste considerazioni Rina non le faceva; poichè era stata costretta a
togliersi alla quiete del suo salottino, si svagava tra quel frastono;
un tale svago forzato era anch’esso, forse, un tormento; ma così
nell’ordine fisico, come nel morale qualche volta l’accrescimento del
dolore dà refrigeri momentanei. Rina dunque andava di qua e di là, per
questa o per quella via; camminava con passo rapidissimo, dirigendosi
non sapeva neppur lei dove, e non avendo che un solo fine: sbalordirsi.

Finalmente seguendo sempre, senza avvedersene, i passi altrui, e
andando dove la maggior parte della gente andava, si trovò in una
piazzetta. A un lato della medesima si alzava uno di quei vecchi e cupi
palazzi che nelle città medievali stanno fra le casupole moderne come
Sansone in uno spedale di tisici; le finestre inferiori del palazzo,
che corrispondevano al piano terreno, erano illuminate di fuori;
innanzi alla porta ampia, avevano costrutto un padiglione posticcio,
con antenne e tele di vario colore. Una lunga fila di carrozze
ingombrava la piazza; ad una ad una infilavano sotto il padiglione e
vi si fermavano; la gente che v’era dentro scendeva, e la carrozza,
proseguendo verso un cortile interno, andava a riuscire per un altro
portone, nella strada parallelamente opposta. Dentro l’atrio un nuvolo
di servitori, di lacchè, di guardaportoni, dalle livree ricchissime. Ai
fianchi del padiglione gran numero di popolani che sfidavano il freddo
di una notte di febbraio, per levarsi il gusto di vedere i _signori_
che andavano a divertirsi.

Spesso, quando fermata la carrozza ne discendevano una o più persone,
si udiva un mormorìo confuso; era una specie di plebiscito col quale
il popolo salutava la sterminata ricchezza di un uomo, o la singolare
beltà di una donna; era un grido di ammirazione per le collane, per le
trine, per gli smanigli, per le croci. Salutava il popolino, ammirava
e invidiava; sentiva un tal quale desiderio di comunismo, che si
manifestava spesso, secondo i casi e gl’individui, in un’occhiata, in
un sospiro, in una bestemmia; ognuno di quelli spettatori desiderava
di essere il duca tale, o il marchese tal altro, o almeno uno di quei
fortunati lacchè tutti vestiti di verde e coperti d’oro da capo a
piedi.

Rina, entrando nella piazzetta, dovè fermarsi ad una cantonata; andare
innanzi non poteva per via delle carrozze, tornare indietro nemmeno,
per via della calca che ingombrava la strada. Rimase lì senza badare
a ciò che avveniva intorno a lei; pallida, con gli occhi stralunati,
immobile; pareva una sonnambula. E le carrozze passavano. A un tratto
l’abbassarsi di uno dei cristalli laterali di un _fiacre_ fece un po’
di fracasso. Rina si scosse e guardò; dallo sportello si affacciò
la testa di un uomo che, toltasi di bocca una sigaretta, la buttò
sul lastrico. Lo sportello si richiuse; la carrozza entrò sotto il
padiglione.

Rina si mosse con passo rapido e procedendo con molto vigore, si cacciò
tra la folla accalcata presso la porta.

In quel punto la carrozza si fermò, e l’individuo che v’era dentro
discese.

Rina aveva riconosciuto Federigo.

Accade qualche volta di formare un disegno dal quale speriamo trarre
molto utile e lo vagheggiamo con la fantasia nelle ore più tranquille
del giorno, lo carezziamo nelle notti piacevolmente insonni; poi
per un caso o per un altro ci conviene abbandonarlo e separarci da
quei lusinghieri fantasmi. Qualche tempo dopo, mutate le circostanze
succede altresì che ci appare tutto ad un tratto, e quando meno ce lo
aspettiamo, la possibilità di condurlo ad effetto. Allora l’animo sulle
prime è invaso da molti sentimenti diversi; la speranza che risorge più
calda, la dubitazione di non aver fatto dapprima tutto ciò che potevamo
e il dispetto di trovarci in colpa di negligenza; il timore di lasciar
fuggire anche questa volta l’occasione propizia, lo stupore finalmente
che la fortuna, cui siamo corsi dietro per molti mesi, ci venga ora
innanzi da sè.

Questi sentimenti irruppero tutti insieme nell’animo di Rina, subito
che le apparve Federigo; e con tale subitanea violenza, che Rina non
si accorse neppure del sogghignare della gente, meravigliata di vedere
una donna di condizione civile, sola, a quell’ora, in quel luogo, con
quell’aspetto; e non udì le crudeli ironie e le parole invereconde,
con le quali quella stessa gente spiegava sicura un fatto che non
intendeva.

Rina uscì di mezzo alla calca e si diresse a passo lento verso una
cantonata dove stava ferma una vettura di piazza. Vedutala vuota vi
entrò. Il cocchiere sceso da cassetta per richiudere lo sportello, e le
domandò:

— Dove comanda?

— Qui.

Il cocchiere non avendo inteso bene, ripetè l’interrogazione.

— Voglio restar qui per ora; vi dirò poi....

Il cocchiere tacque; sebbene un po’ meravigliato, rimontò a cassetta e
ripigliò, involto nell’ampio pastrano, il sonno interrotto.

Dalla carrozza Rina vedeva la facciata del palazzo ov’era entrato
Federigo. Si era propriamente nascosta in quella carrozza col
proponimento di aspettare che egli uscisse? No. Federico poteva
trattenersi a lungo, uscire accompagnato dagli amici; Rina tutte
queste cose le aveva pensate, e montando nella carrozza cedè a uno di
quei moti naturali che ci sospingono senza che noi ci diamo la briga
di spiegarli neppure. Tutti noi abbiamo passeggiato di notte sotto le
persiane chiuse della nostra bella; abbiamo cantato lontani da lei la
canzone che prediligeva, trovando così compagnia nella solitudine, pace
nella lontananza, e qualche volta conforto nell’abbandono. Perchè?

La gente andava intanto via via diradandosi; quando suonarono le
due all’oriolo di una chiesa vicina non era più innanzi alla porta
del palazzo anima viva. Il cocchiere dormiva sempre; Rina vegliava
aspettando.

E per fortuna sua non aspettò lungamente. Fissa sempre con lo sguardo
verso la porta, vide aprirsi una grande invetriata che metteva alle
scale ed uscirne Federigo. Egli si fermò un po’ sotto l’androne per
accendere un sigaro; poi camminando dinoccolato, lento come chi è
preso dalla stanchezza o dalla noia, traversò la piazzetta; passò senza
voltarsi neppure presso la carrozza e scantonò.

Rina era rimasta là col solo desiderio di vedere Federigo ancora una
volta e per un momento; ma quando lo perdè di vista non ebbe più che un
pensiero: seguirlo.

Uscì in fretta dalla carrozza e si diresse verso la strada nella quale
egli era infilato; il cocchiere che s’era svegliato al rumore, la
trattenne gridando:

— Ohè!... e io?...

Rina si fermò, trasse di tasca un biglietto e senza guardare se fosse
da cinque o da cento lire lo porse al cocchiere e fuggì. Il cocchiere
sbirciò alla luce del lampione il biglietto, e visto di essere pagato
lautamente, tanto per rimeritare come poteva la sua benefattrice,
compose le labbra a un sorriso maligno che significava:

— Ho avuto a fare con una matta o....

Povera Rina! non mi basta l’animo di scrivere tutto intero il dilemma.

Quel che le passava nell’animo mentr’ella teneva dietro a Federigo può
essere indovinato, descritto no. A un tratto Federigo intonò a mezza
voce la _mazurka_ di Chopin, che ella aveva tante volte sonata nella
villetta della Val di Nievole.

— Chi sa, — pensò Rina tra sè, — che egli non si ricordi dei nostri
amori.

Non era molto lontana dal vero. Federigo aveva passato il carnevale
in mezzo al chiasso, al rumore, agli amori facili, brevi, frequenti;
si sentiva stanco di corpo e di spirito. Per questo, era uscito così
per tempo dal ballo; per questo, tornando a casa, cantarellava quel
delicato motivo; per questo andava pensando tra sè:

— Oh! così non si vive; bisogna o voler bene davvero o non legarsi
neppure per un giorno. Oh! se Clotilde ne trovasse un altro!

Giova dire due cose: che Clotilde era una ballerina della Scala e che
il voto di Federigo era già esaudito da una settimana.

Rina, la quale camminava più presto, si trovò a poco a poco presso di
lui; lo raggiunse; e senza sapere nè a quale legge fatale obbedisse,
nè che cosa si facesse, passò il suo braccio magro e tremante sotto
il braccio del fuggiasco. Federigo si fermò e gli balenò in mente che
Clotilde lo perseguitasse anche a quell’ora. Sì volse e nonostante il
velo che la copriva, riconobbe subito la sua bella abbandonata.

— Tu! tu, Rina mia? tu qui.... — e le strinse forte il braccio contro
il proprio petto. Rina cercò di svincolarsi.

— Tu tremi, Rina; sei tornata dunque? Oh! povera piccina mia! — e le
baciò, traverso il velo la fronte.

Rina si ritrasse.

— Oh! hai ragione, non son mica degno di baciarti io! Oh! sono stato
cattivo, lo so.... povera bella, come sei pallida! Perchè non parli?
C’è rimedio a tutto, non è vero? Vieni, vieni con me, e non ti lascierò
più, più mai. Oh! Rina, perdonami. Come sei buona! Come t’ho fatto
soffrire! Ma non t’ho scordata, sai?... Oh! ma vieni.... Si gela qui.

Rina non sapeva più dire una parola; l’ultima battaglia tra la ragione
e la passione si combatteva forse per lei in quel momento; ma ella
non ascoltava se non la voce del proprio amore, fatto più ardente, più
imperioso che mai.

Quando volle rispondere a Federigo, non pronunziò che monosillabi;
quando opporsi al suo desiderio di condurla seco, non trovò forza per
resistergli. Un quarto d’ora dopo, ella entrava nel quartierino che
Federigo abitava in prossimità dei giardini pubblici.

Sulla _toilette_ di Federigo ov’ella posò il suo velo, stava una larga
coppa di vetro di Murano; in quella coppa era il fazzoletto che egli le
aveva preso quel tal giorno ed aveva conservato per caso.

— Non mi ha dimenticata, — disse Rina imprimendo su quella povera
reliquia un bacio caldissimo. Guardava ancora il fazzoletto come
assorta in una dolce estasi, quando fu scossa da uno schiamazzo che
veniva dalla strada. Strinse con moto convulso il fazzoletto, guardò
intorno a sè e fece per uscire. Federigo che era dietro l’accolse nelle
sue braccia.


XVI.

Federigo fu tenero senza affettazione, passionato senza ipocrisia;
durante un mese non uscì quasi mai solo, e passò i giorni interi
sognando sveglio insieme con la sua bella.

Poi la primavera tornò; la campagna si coprì del verde vellutato de’
frumenti, interrotto a quando a quando dai gialli tappeti delle rape
in fiore; i mandorli esalarono amare fragranze dalle loro bianche
ghirlande, la viola mammola, ametista odorosa, fiorì celatamente
tra l’erba. Sulle vette de’ freschi platani, e delle querci severe,
tra’ longevi cipressi e le gracili acacie i fringuelli cantarono: da
ogni lato s’alzarono al cielo profumi e armonie; profumi e armonie
primaverili, onde lo spirito s’esalta, perchè sentiamo che v’è in noi
qualcosa di così ricco e fecondo come l’olezzo degli alberi e il canto
degli usignoli. Pensieri d’amore s’alzano anch’essi verso il cielo, e
ci pongono negli occhi lacrime che hanno, come l’odore del biancospino,
una soave amarezza.

In quei bellissimi tra i giorni dell’anno, Federigo e Rina partirono da
Milano e percorsero lieti la Lomellina, il Monferrato, il Canavese; là,
nell’oblio del mondo, s’amarono come angeli decaduti, ma senza timori e
senza rimpianti. S’amarono più dolcemente di prima, ma più tristamente
perchè si ricordavano d’essersi lasciati una volta e forse avevano il
presentimento di doversi lasciare daccapo e per sempre. A Torino, la
mattina, s’imbarcavano sul Po e si abbandonavano mollemente ai flutti e
all’amore; passavano le ore calde del mezzogiorno ora qua ora là, e la
sera andavano a respirare la brezza odorosa lungo i viali dei giardini
pubblici, o tra i boschetti del Valentino.

Dopo quattro mesi di quella vita piena, sicura, Rina e Federigo
ritornarono a Milano. Quivi Federigo sentì rinascere nell’animo il
desiderio di quei romanzi che cominciano a mezzanotte e finiscono
all’alba, e ogni capitolo dei quali narra la storia di una diversa
eroina. Rina, che aveva gettato in quell’anima tanti germi d’affetto,
s’accorse ancora che aveva seminato nel deserto.

Federigo fu bensì con quella disgraziata meno crudele della prima
volta. Le nascose co’ sorrisi e le parole affettuose la propria
indifferenza; ma ahimè! era inutile; le memorie tristi parlavano, e
troppo spesso, al cuore di Rina. Intese che era venuto il tempo di
partire e di partire per sempre.

Una mattina, mentre Federigo dormiva ancora del suo sonno tranquillo,
ella si alzò piano piano, s’accostò ad una tavola e scrisse piangendo
per più di mezz’ora; ogni tanto si voltava impaurita, ma Federigo
seguitava a dormire.

Quando ebbe finito di scrivere si alzò; passeggiò un po’ per la stanza,
poi aprì le finestre. Sorgeva l’alba; l’azzurro del cielo era screziato
di nuvole brevi, rade; dappertutto silenzio; il vento della mattina
asolava fresco tra gli alberi del giardino.

— Che bel cielo! — disse Rina; e guardando Federigo: — Si sveglierà
sotto un raggio di sole, quando gli uccelli canteranno e il vento gli
porterà fin sul letto, col canto delle lodole i profumi delle magnolie.

Ritornò verso il letto. Federigo si destò al rumore, e veduta Rina
in piedi presso di sè, alzò il braccio, l’accarezzò, le sorrise; poi,
voltandosi dall’altra parte, ricominciò il suo sonno.

E Rina stette lungamente a contemplarlo; fece, per così dire, provvista
di ricordi, determinando bene nella mente i profili, i lineamenti, il
colore, come un pittore che voglia dipingere un ritratto a memoria; poi
lo baciò sulla fronte, si asciugò gli occhi ed uscì.

Quando Federigo si svegliò, non seppe darsi conto dell’assenza di Rina.
Allora gli sovvenne di averla tra ’l sonno veduta girare per la stanza
e balzò dal letto. Subito gli cadde sott’occhio la lettera che Rina
aveva scritta per lui e per lui lasciata sul tavolino.

Era questa:


“Addio, Federigo, addio e per sempre; non t’adirare se ti lascio così.
Se t’avessi detto la mia intenzione, tu m’avresti scongiurato di restar
teco; e dove avrei trovato la forza per dirti di no? Restare sarebbe
stata per me forse un’umiliazione, per te una sventura di certo.

“Non domandare dove vado e a che fare. Vado in qualche luogo a pensare
a te. Non aver paura, non ti cercherò più; mi dimostrerei ingrata del
bene che mi hai fatto, e me ne hai fatto molto, perchè m’hai insegnato
quanto si possa esser felici nel mondo.

“Non posso più legarti con una catena di rose e con una di ferro
non voglio. Addio, Federigo mio; ti ringrazio, ti ringrazio del tuo
amore, di questi mesi così belli, così ridenti; ti ringrazio di essere
stato meco così affettuoso da principio, così cortese da ultimo. Ti
ricorderai qualche volta di me, della tua povera _piccina_, non è
vero? Il giorno che ripenserai a me, il cuore me lo dirà. Lo sai per
prova, il cuore mi dice tutto. Se passi dalla Val di Nievole, da’ uno
sguardo a quella nostra cara villetta. Io non la vedrò più; per me è un
sepolcro ed io ho paura dei morti.

“Tieni a mente, Federigo, che ti lascio senza un rimprovero; prima di
lasciarti per sempre ti bacierò anoora sulla fronte come si fa ad un
fratello che vada lontano. Io ho chiesto al mondo ciò che non poteva
darmi, e se mi sento trista, sconsolata nel fondo dell’anima, la colpa
è tutta mia. Sii felice; avrei voluto far io la felicità di tutta la
tua vita; non ho potuto; perdonami.

“Addio, Federigo.... Oh! Dio mio, è proprio vero che non ci vedremo
più?„


XVII.

Dicono che la scienza della vita s’impara stando tra gli uomini;
ed è opinione così universalmente accolta che io non mi proverò a
confutarla. Forse anche quella sentenza dice la verità, ma, per lo
meno, non la dice tutta. A quella guisa che leggendo, leggendo senza
mai pensare da sè, s’imparano i fatti della storia, ma non le leggi che
li guidano; così quando i documenti della nostra vita sieno raccolti
nell’archivio della memoria, bisogna, a volerne dedurre qualche
criterio, esaminarli partitamente, meditarli; lavorìo lungo, il quale
non si fa che stando soli. Sotto questo aspetto la solitudine è una
grande maestra.

E di ciò era prova il Conte di San Vittore. Egli non era più tornato a
Firenze. Nella solitudine della sua villa delle Poggiola, aveva molto
pensato, molto ricordato, molto dedotto. In diciotto mesi era divenuto
un altro uomo; e se avesse potuto tornare indietro, il suo contegno
verso Rina sarebbe stato diverso. Il Conte non era uomo da tollerare
che altri si ridesse di lui; dopo la fuga di Rina aveva facilmente
inteso che non poteva più stare a Firenze, senza andare incontro a
mille guai e suscitare dispute e provocare scandali, che gli avrebbero
fatto più torto che altro. Aveva preso il suo partito da uomo, senza
perplessità, e da uomo aveva saputo mantenerlo, senza rammarico.
E il mutamento operatosi in lui non era effetto della mancanza di
compagnia o di qualsiasi desiderio non sodisfatto, ma di riflessione
lunga e pacata intorno a quanto era successo. Passato l’impeto primo
della collera, il Conte aveva saputo fare a ciascuno la parte che gli
spettava e, caso raro, non s’era preso per sè la migliore.

Del rimanente, queste nuove idee del Conte non si distinsero, non
si ordinarono se non per caso, un giorno in cui ricevè una visita
inaspettata.

Quel giorno egli stava sul piazzale davanti alla villa, passeggiando e
fumando; udì un chioccare di frusta e un tintinnìo di sonagli. Aggrottò
le ciglia e guardò verso la strada, facendo brusca cera, come se quel
rumore gli annunziasse una visita e quella visita lo seccasse di molto.

— Chi è? — domandò ad alta voce; ma nessuno gli rispose per la gran
ragione che non aveva nessuno intorno a sè che potesse rispondergli.

In quel punto una carrozza sboccava nell’ultima parte del viale e
saliva piano piano verso la villa. Il Conte le andò incontro per vedere
chi fosse il seccatore che veniva a disturbarlo; nè ebbe gran cammino
da fare, perchè riconobbe subito affacciata allo sportello la testa
canuta, cartilaginosa, sardonica dello zio Varalli.

Subito che la carrozza si fu fermata sul piazzale, il Conte aprì
lo sportello ed offrì il braccio allo zio; ma questi, senza curarsi
dell’appoggio, saltò a terra in un attimo.

— Lei qui, zio? — disse allora il Conte.

— Eh sfido! Vi ho scritto di venire a Firenze, voi non mi avete nemmeno
risposto; m’è toccato a ripetere il miracolo di Maometto.

— Scusi, zio.

— Sì... e un’altra volta non lo farò più, — riprese con una spallata il
Marchese.

Il Conte non rispose; salendo lo scalone che metteva nella sala
terrena, fece strada allo zio il quale lo seguiva in silenzio.

Giunti che furono nella sala, il Marchese depose sul biliardo il
cappello e la cappa, e volgendosi al nipote:

— Non vi dirò che l’accoglienza sia molto affettuosa.... questo no....
vi dirò, invece, che non me ne ho per male; io non vengo qui come zio,
ma come uomo d’affari.

— Cioè? — domandò il Conte turbato.

— Oh! Non vi mettete in apprensione.... Vi porto trecentocinquantamila
lire. Le volete?

— Si spieghi, zio, la prego.

— Volete vendere il vostro palazzo?

— Il palazzo San Vittore!

— Eh! già! Se non fosse dei San Vittore non sarebbe vostro, e se
non fosse vostro non potreste venderlo. Andiamo per le spiccie. Il
conte Suardi di Macerata, che voi conoscete benissimo, è stato fatto
senatore....

— Senatore! Come mai?

— In primo luogo ha mezzo milione d’entrata.... e questo è un gran
merito, in uno Stato indebitato come il Regno d’Italia.... e poi non
s’è mai occupato di nulla, e s’è acquistata la nomèa d’uomo d’ordine.
Ma tutte queste cose non hanno nulla che fare col contratto che vi
propongo. Veniamo al grano. Il conte Suardi, dunque, vuol sedere in
Senato.... giacchè non ci può far altro; e siccome non è uomo da andar
a stare a dozzina, vuol comprare un palazzo a Firenze. Mi ha domandato
se vendevate il vostro. È pronto a pagarvelo trecentocinquantamila
lire. Se guardate le carte dell’eredità lasciatavi da vostro padre,
vedrete che nel 1854 quel palazzo era stimato centoquarantatremila
lire. Il trasferimento della capitale vi fa dunque guadagnare.... sette
e tre dieci.... dugentosettemila lire, se non sbaglio; dugentosettemila
lire nette, perchè le spese di contratto e di registro saranno
pagate dal compratore. Combinando io la faccenda, risparmierete
anche la senseria; quando mai, vi permetto di regalarmi uno spillo
da cinque luigi in segno d’affetto e di riconoscenza. Dicevo dunque:
dugentosettemila lire di guadagno. Io venderei subito, ma con voi, io
non faccio testo. Pensateci bene e risolvete.... Ma risolvete presto,
perchè il Suardi è partito ieri; non vuol tornare a Firenze prima di
avere una casa e d’altra parte il pover’uomo ha una grande smania
d’andare a parlare al Senato.... con qualcuno dei suoi colleghi.
Dunque, sì o no?

— Ma....

— Se l’offerta non vi quadra, ditelo; diecimila lire più, diecimila
lire meno, non credo che vi saranno difficoltà....

— Oh! non è per questo! — disse il Conte con la stizza di chi fu capito
a rovescio.

— Ah no? Per diecimila lire non vi scrollate? Siete più ricco o più...
giovane di quel che credevo.

— Ma così.... subito....

— Avete bisogno di tempo? Vi concedo un’ora; intanto — e in così dire
ripigliava il cappello — intanto farò una girata per il giardino. Sta
bene?

— Sta bene. Fra un’ora le darò la risposta.

— _Amen_ — soggiunse il Marchese.

Il Conte salì al primo piano e si chiuse nella sua camera; il Marchese
uscì; per lo scalone trovò Giacomo, il cameriere del nipote, con un
fascio di carte in mano.

— Che hai costì?

— I giornali del signor Conte. Se li vuole....

— Dio me ne guardi! — rispose il vecchio.

E continuò a scendere lo scalone. Andando verso il parco pensava:

“È proprio vero che questi ragazzi spendono molto male il loro tempo.
Perdio! verrà il giorno che se ne pentiranno. Questo qui, a voi,
s’ingurgita quotidianamente una mezza dozzina di giornali, per saper
che, poi? Che c’è una rivoluzione in Grecia, un’altra in Ungheria,
un’altra a casa del diavolo che se li porti tutti.... Che cosa me ne
viene a me delle rivoluzioni? Se cominciassero come nel 48 la storia
del comunismo, tanto tanto.... ma se aspettano un altro po’, li concio
io per il dì delle feste anche i comunisti. Basta, speriamo bene; ora
che hanno fatto senatore il conte Suardi....„

Quando ebbe compiuto dentro di sè questo monologo singolare, il
Marchese si fermò in mezzo a un viale, dette intorno un’occhiata e
continuò:

“Che villa! Che giardino! Se l’avessi io, vi do parola, mio caro, che
me ne saprei servire un po’ più di voi.... Che belle villeggiature
ci ho fatto cinquant’anni fa! Ah! son nato troppo tardi.... Eh! quel
benedett’uomo del signor padre.... tutti i gusti son gusti... ma
anche aspettare di essere arrivato alla fresca età di settant’anni
per mettere un figliolo al mondo!... Già, ogni medaglia ha il suo
rovescio; forse se fossi nato prima, a quest’ora sarei morto....
Uhm! Già, poi alla fine, che importa? Almeno avrei vissuto un po’
meglio; e mi tocca a passare il tempo tra’ vecchi rimbambiti e i bimbi
decrepiti.... Eccolo là.... quel famoso boschetto.... ci ho dato il mio
primo bacio all’Emilia. Che spalle aveva quella fattoressa! Pensare che
ero arrivato a vent’anni senza dare un bacio ad una donna. Ma.... ho
rimesso il tempo perduto.„

E si fregò le mani.

“Che divario! mi par d’essere in un deserto.... Ma allora si veniva in
campagna per divertirsi, ora ci si viene per guardare alle cose sue....
Come è divertente questa generazione di Cincinnati! A me già è sempre
parso che Cincinnato avesse meno giudizio del suo figliolo.... Come si
chiamava? Quinzio.... Quinzio.... Eh! vattel’a pesca! Lui sì che se li
sapeva godere. Dicono fosse una birba; più ci penso e meno mi pare....
Ma ora è di moda guardare alle cosidette proprie terre. Ma, dico io,
se s’ha a fare i contadini, che vantaggio c’è ad esser nati signori?
Potate, ragazzi, seminate e divertitevi. Coraggio, e andate fino in
fondo.... attaccatevi addirittura all’aratro, e buon pro vi faccia.„

Mentre così pensava, gli dètte nell’occhio, lungo un viale, un
alberello. Vi avevano inchiodato un cartellino di porcellana bianca su
cui stavano alcune parole di colore turchino lucido. S’accostò e lesse:
_Oesculus hippocastanum_.

“_Oesculus hippocastanum!_ che diavolo d’albero sia?„

Guardò e riguardò, esaminò la corteccia, i rami e le foglie, poi ad un
tratto dètte in un grande e sonoro scoppio di risa.

“Oh! perdio! è un marrone d’India!... _Oesculus hippocastanum!_ Oh!
buffoni!... maledetto secolaccio, che non vuol mai chiamare le cose col
nome più semplice! Dio sa che cosa gli par di fare a quel mio nipote
quando mette questi cartelli!....„

Sghignazzando guardò l’oriolo; l’ora era passata di qualche minuto e
con passo frettoloso si diresse verso la villa.

Il Conte era novamente sceso nella sala terrena e aspettava. Il Varalli
entrò, depose al solito il cappello sul biliardo, e vôlto al nipote
domandò serio:

— Qual è il nome botanico del melo cotogno?

— _Cydonia vulgaris_, secondo Linneo.

— Me ne rallegro con voi e con lui. Quanta scienza, caro nipote!... e
quanti cartellini di porcellana!

Il Conte capì di essere canzonato; ma non se ne curò e tacque
aspettando che lo zio riportasse il discorso sull’argomento del
palazzo.

— Avete risoluto?

— Sì.

— Vendete?

— Vendo.

— A porte chiuse?

— A porte chiuse; ma desidero che alcuni oggetti non facciano parte
della vendita.

— Sta bene; venite a prenderli.

— No; mi faccia il piacere di mandarmeli lei, zio.... io non ci rimetto
piede.

— E questi oggetti sono...?

— I ritratti di famiglia.... s’intende.... la mia scrivania e....

— E?...

— E tutti i mobili della camera celeste.

— Della camera di vostra moglie?...

— Sì.

Il Marchese sgranò gli occhi e li fissò verso il nipote. E questi:

— Capirà che non voglio vendere il letto di mia moglie....

— Volete avere la consolazione di dormirci voi.... si capisce.

— Zio, parliamo del contratto e non d’altro — soggiunse il Conte.

Ma fu come dire al muro; l’altro non gli badò, si mise a passeggiare su
e giù per la stanza, poi ad un tratto, fermandosi, domandò:

— Non vi frullerebbe mica pel capo l’idea di ripigliar Rina con voi?

— No.

— Ah!

— Perchè Rina non consentirebbe a tornarci.

È impossibile dire l’aspetto che prese la faccia del Marchese; forse
l’ironia e lo stupore non s’accoppiarono mai siffattamente sopra volto
umano. Non rispose nulla e si mise a passeggiare daccapo in lungo e
in largo la stanza. A un tratto, trovandosi innanzi fermo il nipote,
si fermò egli stesso e lo guardò. Il Conte era pallidissimo; i suoi
occhi grigi sfavillavano; aveva fisonomia serena ed altera, il piglio
dell’uomo risoluto. Con tutto il suo cinismo, lo zio fu costretto ad
abbassare gli occhi innanzi al nipote.

— Zio, — prese a dire Emilio di San Vittore, — non avevo l’intenzione
di toccar questo tasto.... anzi.... Lei ha voluto toccarlo, stia dunque
a sentire il suono che manda. Rina è colpevole, lo so; ma possiamo noi,
lei ed io, possiamo condannarla?

— Mi pare che voi l’abbiate condannata il giorno in cui vi siete
separato da lei.

— Non n’esca per il rotto della cuffia; mi risponda a tono. Lei, a buon
conto, non può. Le colpe di Rina sono di quelle verso le quali lei
mi è parso sempre molto indulgente. Tanto è vero, che se Rina fosse
stata più esperta nell’arte d’ingannare o io avessi figurato di non
accorgermi dell’inganno, lei, zio, avrebbe chiuso un occhio e lasciato
che l’acqua corresse alla china. I suoi tempi... que’ famosi tempi che
ricorda sempre con tanto compiacimento, ne hanno vedute di molte delle
donne colpevoli come Rina....

Vi fu un momento di pausa; poi il Marchese, ripigliando la solita cera
dell’uomo spregiudicato:

— Volete — disse — che vi risponda a tono? Sarete servito. A’ miei
tempi, sicuro, le mogli erano... mogli, ma i mariti erano rassegnati.
Da una parte e dall’altra c’era infedeltà, sicuro; ma non c’era
inganno. In materia di morale c’è molto del relativo. Quelli della
Nuova Orléans offrono la moglie all’ospite, ma non la bastonano il
giorno dopo perchè li ha traditi. A’ miei tempi in queste faccende non
si metteva importanza. Ve l’ho già detto: si chiamavano galanterie e
ci si rideva su. Ma poichè voialtri le stimate colpe e colpe gravi,
bisogna che siate logici, anche se l’esser logici vi secca, e alla
colpa facciate seguire la condanna.

— Ma e io?...

— Lasciatemi finire. Sapete un po’ che cos’ha fatto quel bel secolo
colle sue innovazioni e co’ suoi progressi? Ha sciupato la macchina del
mondo e ora non si sa più come farla andare. Avete un bel presumere;
a fare che il mondo diventi un vivaio di Catoni, non ci arriverete
mai. Di questo a’ miei tempi s’era tanto persuasi, che il fiume delle
passioni si scavava perchè non traboccasse. Voi, invece, colla vostra
sapiente austerità, avete ristretti gli argini. Siete una massa di
buffoni. Ecco fatto.

— Mi permetta dirle, che Ella conosce tanto il matrimonio quanto io
l’Abissinia, che ho veduta solamente sulla carta geografica e non è
competente a giudicare nè di me nè di Rina, nè del mio contegno di
ieri, nè delle mie idee d’oggi. Ella ha guardato certe cose distratto,
da lontano, e non vi ha mai riflettuto sul serio; ma sempre con quel
suo animo un po’ scettico, e, scusi, un po’ corrotto da’ tempi e dagli
usi. Vede che parlo franco....

— Tirate avanti....

— La donna è lasciata più dell’uomo in balìa del male, perchè nella
vita ha meno cose da fare. Il lavoro è un grande preservativo.
Per questo io credo che il matrimonio ci faccia o molto felici, o
disgraziati senza rimedio. A Rina e a me è toccata questa sorte.... Chi
ne ha colpa? Io. Che ho fatto di Rina? Perchè avrebbe ella dovuto darmi
il suo affetto, quando le negavo il mio? È rimasta vedova il giorno in
cui s’è maritata. Io non ho mai capito quella donna, altro che quando
l’ho perduta. Aveva bisogno di essere amata, ed io non sapevo ancora,
come ancora non lo sa lei, zio, che cosa fosse l’amore. Non trovandolo
in me, l’ha cercato altrove. Ha mancato? Forse. A ogni modo, io che ho
colpe tanto più numerose e tanto maggiori, posso condannarla?

— E allora fate l’ultima corbelleria e perdonate.

— Se il perdonare è uno sbaglio, peggio per quelli che non sbagliano
mai.

— Bravo! dunque ripigliatela con voi e che il Signore vi benedica. Lei
mi è parsa sempre un po’ esaltata, voi siete ammattito addirittura,
farete una coppia numero uno.

— Zio, la prego, non scherzi. Ho passato due anni qui, solo, con un
pensiero solo. Sono nel fiore della vita, e mi sento morire; non so
se morrò, nè come vivrò. Con me si estingue la mia famiglia. Mi sento
fiacco, annoiato; desidero gli affetti che non ho saputo acquistarmi,
desidero d’amare e di essere amato davvero, e sono innamorato
di un’ombra che si è dileguata. Sono un disgraziato, zio, e co’
disgraziati non si scherza.

Il Conte portò il fazzoletto agli occhi gonfi ed umidi. Il Marchese
si avvicinò a una parete della sala e tirò forte il cordone del
campanello.

Giacomo comparve.

— Dite al cocchiere che attacchi.

Quando Giacomo fu uscito dalla stanza, il Marchese s’avvicinò al
nipote, e stesagli la mano:

— Dunque sul contratto siamo intesi. A rivederci, Emilio.... o addio
forse, perchè voi non mi parete intenzionato di venire a Firenze, ed
io non ho punta voglia di tornare quassù. Non vi prometto neanche di
chiamarvi al mio letto quando sarò al lumicino, perchè ho proibito al
mio medico di avvertirmi.... Oh! a proposito, lo sapete eh? quale è
stato il contegno di Rina dal giorno che partì da casa vostra?

— Lo so.

E il Marchese, accompagnato dal nipote, scese lo scalone; nel
piazzale montò in carrozza e di là, salutato un’ultima volta il Conte,
sdraiandosi sui guanciali borbottò tra sè:

— Lo sa ed avrebbe il coraggio civile di ripigliarla? Già, in che
consiste po’ poi questo coraggio civile? Nel fare uno sproposito e
nell’avere il fegato di confessarlo.

E passando di pensiero in pensiero, guardando gli alberi, i prati,
i boschetti che gli ricordavano i suoi primi amori, incominciò a
cantarellare:

    Cari luoghi io vi trovai
    Ma quei dì non trovo più.

Mentre il Marchese si godeva e si torturava ad un tempo con questi
ricordi della gioventù, il Conte saliva nella propria camera.

E per una settimana non fu più veduto uscirne.


XVIII.

Io non posso assistere con animo tranquillo alla demolizione di una
casa. S’intende che non parlo di quelle che sono stimate capolavori
dell’arte; per buttar giù uno di quei mirabili edifizi, ci vuole un
barbaro del quinto secolo, o un sindaco del decimonono; ma in ogni
casa, per modesta che sia, sta chiuso un tesoro di memorie e sopra
ognuna delle sue pareti è scritta a caratteri invisibili la storia di
qualche affetto: e mi pare che ogni colpo di martello dato in que’ muri
debba rimbombare per consenso nel cuore di qualcheduno. Se buttassero
giù la casa dove mio padre è nato, dove mia madre è morta, non me ne
saprei dar pace. E mi dispiacque molto quando gli inesorabili ingegneri
della Comunità di Firenze, nel tracciare il nuovo Viale dei Colli,
demolirono una villetta singolarissima del piano di Giullari. Forse
dispiacque solamente a me; perchè aveva cattiva fama e le donne del
vicinato spacciavano che ogni tantino vi succedeva qualche disgrazia.

Ho detto singolare ed era per questo: che la non si mostrava mai tutta
intera. S’aveva un bel girare, guardare, scendere e salire su per le
collinette che le stavano intorno; di qua si scorgeva l’altana, di
là il lato destro e via discorrendo. Il peggio era d’andare difilato
innanzi al cancello; traverso a’ ferri alla distanza di un metro si
vedevano due filari di cipressi fiancheggianti un vialetto che torcendo
di lì a poco non si capiva dove menasse. La gente del popolo, avvezza
a scolpire co’ soprannomi, la chiamava la _Vergognosa_ e aggiungeva:
“E ha ragione di vergognarsi! Ce n’è successe di tutti i colori là
dentro.„

Era stata fabbricata una trentina d’anni fa da un tale di cui i vicini
ignoravano il nome, gli usi, la patria, perchè viveva solo ed usciva
di rado fuori del cancello. Nessun prete c’era entrato mai; e il curato
che ogni anno andava in giro a far lo stato delle anime, sonava indarno
il campanello della villetta; non gli aprivano. All’incontro, un povero
non s’era mai attentato inutilmente a chiedere l’elemosina a quel
solitario. Ma anche la carità di quell’uomo, dicevano le donnaccole,
portava disgrazia. E citavano esempi: una volta un muratore che s’era
tronco un braccio cadendo da una fabbrica ebbe dallo sconosciuto uno
zecchino; lo spese in tanta acquavite e il giorno dopo morì lasciando
quattro creature. Già si sa, la farina del diavolo va tutta in crusca.

A’ tempi ne’ quali avvennero i fatti che qui si raccontano, la fama
della villa aveva avuto l’ultimo tracollo. Il vecchio padrone di circa
novant’anni era morto ad un tratto. Saputasi la notizia un nuvolo di
nipoti, di cugini, di zii con tanto di bruno al cappello, s’erano
messi in riga per chiappare l’eredità. Poco importava loro se la
villa fosse maledetta o no; gli eredi sono gente spregiudicata. Onde
liti, contumelie, tanto che s’era andati ai tribunali. E le donne del
vicinato conchiudevano:

— Quel vecchiaccio non lascia in pace la gente neanche dopo che è morto!

Il tribunale aveva nominato un amministratore e si cercava di
appigionare la villa, fino a che non fosse giudicata la causa. Le cose
stavano a questo punto, quando Rina, abbandonato Federigo, ritornò a
Firenze.

C’è sempre nello spirito umano anche più illuminato un cantuccio
oscurissimo in cui si rannicchiano le schifose chimere della
superstizione. Negli scavi di Pompei si trovano de’ piccoli priapi, dei
rami di corallo ritorti o biforcati, quali si usano oggi a Napoli come
talismani contro la jettatura. Il paganesimo è passato, la credenza
nella iettatura è rimasta; la religione è morta, la superstizione vive.

Sebbene Rina cercasse un asilo solitario ove ella potesse, separata
dagli uomini, vivere insieme col proprio dolore, nondimeno la nomèa
paurosa della villa la trattenne sulle prime dall’andarvi. Ma era
d’estate; quasi tutte le ville de’ dintorni riboccavano di abitatori;
verso Fiesole se ne trovava qualcuna ancora sfittata; ma bisognava
andarsi a cacciare nel tumulto della gente allegra e Rina voleva stare
da sè, avere la piena libertà di pensare e di piangere sola. Alla fine
la repugnanza fu vinta; ella si persuase che alla sua tristezza, il
luogo triste si oonfaceva meglio d’ogni altro.

Una mattina si vestì e sul mezzogiorno, salita in una carrozza chiusa,
si fece condurre per le vie più popolate; passò dinanzi al palazzo San
Vittore e uscì dalle mura per quella stessa porta onde era uscita per
andare al suo primo colloquio d’amore; rivide il viale del Poggio;
quando fu sulla collina dette una guardata all’orizzonte nebbioso
entro cui si nascondeva Firenze e sorridendo, colle lacrime agli occhi
mormorò:

— Addio!

Sulla porta della villa stava ad attenderla una sua vecchia conoscenza,
il signor Luigi. A lui il tribunale aveva affidata l’amministrazione
della contesa eredità.

Quantunque fosse d’estate, si ravvisava nel giardino, alla prima, la
traccia di un lungo abbandono; i licheni e le ortiche prosperavano
in mezzo a’ viali, le larghe malve deturpavano i prati; gli alberi
confondevano insieme i loro rami, li intrecciavano ingombrando le
aiole, ripigliando il posto già loro disputato dalle forbici del
giardiniere; la felice petulanza della natura meridionale libera di sè
stessa aveva fatto d’un giardino una selva.

Rina, riconosciuto il signor Luigi, gli stese la mano senza pronunziare
parola. Anch’egli tacque; e facendo strada alla nuova ospite la
condusse nella villa.

Il quartiere aveva lo stesso aspetto del giardino; la stoffa delle
seggiole era sbiadita; l’oro delle cornici divenuto rosso sotto la
polvere; gli orologi a pendolo, scarichi, segnavano tutti un’ora
diversa; le stanze, da molto tempo disabitate, apparivano fredde,
oscure; aprendo le porte, si sentiva un soffio d’aria gelida e tanfita
come quando si apre un sepolcro.

Sebbene la stagione propizia e i luoghi bellissimi invitassero alle
passeggiate, Rina non oltrepassò mai il limitare del giardino. Il suo
grande conforto era di salire sull’altana, di sera, quando nessuno
poteva vederla; là i suoi sguardi si volgevano verso Firenze e fissi
parevano ricercare nelle ombre lontane le fila d’un sogno interrotto.
Talvolta passeggiava sola pe’ viali e si fermava con doloroso
compiacimento innanzi ad una magnolia, il cui fusto unico verso la
radice si biforcava poi per guisa, che mentre l’un ramo spandeva acri
profumi nel giardino, l’altro scoteva i fiori pomposi di là dal muro di
cinta. E guardando que’ due rami diceva tra sè:

— Anche noi uniti per un momento poi divisi per sempre.

Passava le notti in una insonnia dolorosa; invocava il sonno e
s’accorgeva che il sonno, come la felicità, fugge quando si chiama.

Se fosse stata iniziata ai tristi e fecondi misteri dell’arte, ella
avrebbe immortalato il suo dolore, lo avrebbe scritto a lettere
eterne in qualche capolavoro, avrebbe potuto godere delle sue angoscie
medesime; ahimè! anima oscuramente sublime, Rina non sapeva che amare e
morire.

La monotonia di quei giorni era rotta soltanto dalle visite del
signor Luigi. Da principio andava a trovarla ogni due o tre sere, per
prendere, come diceva lui, gli ordini della signora; poi le visite si
fecero più frequenti e più lunghe. Egli le portava le notizie della
città, parlava finchè gli pareva che il dialogo le facesse piacere; e
quando Rina s’abbandonava alle proprie malinconie, ai propri fantasmi,
alle proprie memorie, taceva. Spesso in que’ volontarii silenzii,
ella s’accorse che gli occhi gli s’empievano di lacrime. Nell’anno
che era stata con suo marito aveva visto mille volte quell’uomo; lo
aveva rivisto dopo assai spesso, quand’egli, con puntualità mirabile,
andava a portarle le sue mesate d’assegno; eppure, assorta in altri
pensieri, si può dire non l’avesse mai guardato bene. Ma la solitudine,
lo abbiamo già detto, aguzza l’intelletto; e Rina nella quiete della
_Vergognosa_ intravide ciò che si nascondeva sotto quei lineamenti così
regolari e così mobili, sotto quel viso così queto e così espressivo ad
un tempo.

Una sera, mentre ella se ne stava pensando, come avveniva spesso, a’
giorni beati trascorsi con Federigo in Piemonte e fuggiti oramai senza
lasciare speranza di ritorno, udì battere alla porta del salottino.

— Chi è? — domandò.

— Son io — rispose di fuori la voce del signor Luigi.

— Avanti.

Per quanto Rina si studiasse di pronunziare con dolcezza tale parola,
non potè togliere alla voce quel non so che d’annoiato che c’era; e il
signor Luigi entrando nella stanza capì agevolmente che disturbava.

— Segga, signor Luigi.

— No, sono arrivato in un cattivo momento. Ho creduto che nella
solitudine soffrisse, che pensasse troppo; e il pensiero ammazza come
il veleno. Ho voluto distrarla e sono stato importuno. Mi perdoni. E
poi anch’io son solo.... e, lo so, guai all’uomo che è solo.

La voce del signor Luigi era così piena di singhiozzi vicini a
scoppiare, che Rina gli prese la mano e gliela strinse. Due lacrime
caddero dagli occhi del giovane e bagnarono la mano che egli teneva fra
le sue. Si sciolse e balbettate ancora poche parole di scusa salutò
ed uscì. Nè da quel giorno fu più veduto passare il cancello della
_Vergognosa_.


XIX.

Erano corsi quaranta giorni dacchè Rina era partita da Milano, e le
parevano quattro anni. E doveva parerle così, perchè tutto era cangiato
in lei e intorno a lei; e tra i giorni che aveva vissuti accanto a
Federigo e questi che ella trascorreva sola alla _Vergognosa_, passava
tanta distanza, quanta ve n’è tra la luce e le tenebre, le fantasie
lusinghiere e le tristi realtà.

E intanto ogni ora che fuggiva, spengeva un raggio nelle pupille di
Rina, faceva più mesto uno dei suoi sorrisi. A po’ per volta le dita
le divennero lunghe, affilate, le unghie trasparenti come l’agata;
la testa s’alzò snella sul debole sostegno di un collo che mostrava
i muscoli sotto la pelle e questa parve penetrarsi di raggi come una
lampada d’alabastro per entro a cui splenda un lume fioco. Due sole
e piccole macchie si staccavano sul pallore cereo di quel viso e ne
coloravano gli zigomi, quasi due foglie di rosa cadute in una tazza di
latte.

E piangeva; e le lacrime cadendo, a quella guisa istessa che la
gocciola d’acqua fora il granito, le passavano il cuore da parte a
parte. Perchè non v’è nulla al mondo di più semplice e di più antico
di un amore tradito, di un giuramento violato; è una vecchia storia,
ma, come dice la canzone dell’Heine, par sempre nuova a chi soffre per
essa.

                             . . . . . . .

Un giorno Rina s’accorse che stava per divenir madre.

Oh! che giorno fu quello per lei! Per la prima volta ella chiese a sè
stessa se non le serbasse ancora la vita qualche conforto, e se avesse
vuotato fino all’ultima stilla il calice del dolore. Per la prima volta
andò fino al cancello, cercando cogli occhi dello spirito il mondo
che ella aveva abbandonato così risolutamente, che così presto si era
dimenticato di lei! Accarezzò con la mano livida un bel bambino biondo
che passò di là a caso e pensò: — Oh! l’avrò anch’io dunque un bambino!

Risalì in casa e dando un’occhiata al quartiere modesto, desiderò
ancora le stoffe, i fiori, i libri, la musica; tutto ciò che potesse
ricordarle la sua felicità fuggita. Per la prima volta, finalmente,
Rina sentì il bisogno d’aria e di luce; e si preparò ad andare verso la
collina.

Si guardò allo specchio per accomodare intorno al volto il più
leggiadro de’ suoi cappellini. Ahimè! si vide.... vide le traccie che
il dolore aveva lasciate sulla sua pelle; le parve che si riflettesse
nello specchio l’imagine di una moribonda. Chiuse dapprima gli occhi,
poi raccogliendo tutta la forza, li riaprì e contemplò con orgoglio
freddo i resti della sua bellezza intristita.

— Oh! — pensò — vorrei che fosse qui e vedesse da sè a che mi ha
ridotta; son brutta e malata, e per opera sua.

Fu il suo primo moto di sdegno e fu breve. Lasciò cadere le braccia,
reclinò la testa, sentì piegare i ginocchi e cadde mezza tramortita
sopra una sedia.

La natura parve impietosire di tanta angoscia. Rina fu richiamata
a’ sensi da un temporale di estate che scoppiò ad un tratto. Si
avvicinò alla finestra, e appoggiando la fronte madida per la febbre
ai cristalli, guardò le viole reclinare le loro fresche corolle sotto
l’urto dell’acqua che cadeva a rovesci, e desiderò che la tempesta
passasse anche sopra di lei e reclinasse per sempre quel suo povero
capo. Ma si pentì quasi subito di quel desiderio, riflettendo che la
sua vita apparteneva oramai alla creatura che portava nel seno.

E da quel giorno un triste presentimento la funestò: il presentimento
che ella sarebbe morta nel dare alla luce il suo bambino!


XX.

O vecchio mondo, tu ripigli ogni anno il tuo sorriso di gioventù ed
esci dall’inverno come se tu non ci fossi entrato mai!

La primavera tornò; le rondini rifecero il nido sotto il tetto della
villa, gli usignoli cantarono su’ castagni, le api succhiarono il
miele nel calice de’ mughetti, le margherite stellarono i prati, le
lucciole scintillarono per le siepi, i grilli ruppero col loro sibilo
il silenzio della sera, la luna risalì al cielo circondata dalla calda
nebbia; ma la bellezza e la salute di Rina non rifiorirono.

E intanto che s’avvicinava il momento solenne, ella provava un senso
nuovo: aveva paura a restar sola. Scrisse una lettera a Paolo Carpi che
sapeva tornato allora dall’Oriente; questi accettò con gioia l’invito
della solitaria, e non lasciò passare giorno senza andarla a trovare in
quella Tebaide.

Un giorno all’approssimarsi di quello che doveva essere, secondo
i presentimenti, l’ultimo della sua vita, Rina si sentì stanca; il
medico, che, per compiacere a Paolo, ella consentì a vedere la prima
volta, le ordinò il riposo; le ingiunse di non alzarsi più (per dire
come diceva) che a _cose fatte_. E Rina obbedì; ma prima di coricarsi
volle ancora scendere in giardino; e come se non dovesse vederlo
più mai, volle contemplare il sole, il cielo turchino, le catene
azzurrognole dei monti lontani; studiare ogni colore, ogni forma nel
grande quadro della natura. Paolo Carpi, che la guardava da lontano e
che è spiritualista, dice, ricordandosi di quel momento: “pareva che
l’anima sua inebriata dalle brezze odorose di primavera, tentasse di
spiegare le ali per volarsene al cielo!„

Rina pensava alla fanciullezza, all’educazione che le era stata
data; e i ricordi del passato la conducevano a interrogare i misteri
dell’avvenire. Dirimpetto a quello spettacolo, rammaricava di non avere
una fede. Poco importa che si creda ai misteri o ai fenomeni, alla
rivelazione o alla scienza; questo è bensì certo: che l’anima umana
per acquetarsi ha bisogno di essere persuasa di una verità qualsiasi.
Rina, mirando le erbe, i fiori, gli alberi, si rammentava delle lezioni
ricevute in convento; del Dio che le avevano insegnato ad adorare colà,
un vecchio barbuto e severo, seduto sopra un trono di nuvole e coperto
da una tunica rossa stretta ai fianchi da un mantello turchino; e
sentiva che se c’è qualche cosa di divino, il raffigurarlo in quella
guisa è un oltraggio alla divinità; e dal feticismo delle suore,
passava col pensiero alle dottrine del suo secondo padre, il duca
Esmeraldi. Ma, ahimè! il volterianismo del Duca non era fatto per lei;
quella sardonica incredulità aveva avuto una lama per aprire una ferita
nell’anima di lei, non il balsamo per sanarla.

Così pensando, era arrivata presso una vasca piena d’acqua stagnante
che non aveva mai osservata da vicino. Si fermò e mirò la opulenta
vegetazione di un verde smeraldo che la copriva, e i milioni d’insetti
che si movevano su quelle alghe natanti.

— Ma chi è, chi è — domandava a sè stessa angosciosamente — quegli
che fa ogni cosa? Chi ha fatto queste alghe, questi insetti e quella
nuvola grigia che corre innanzi al sole, e il vento che la spinge, e
questa pietra su cui siedo? Chi ha fatto quel giglio di cui respiro
il profumo, e il sole che lo riscalda e l’ape che ne succhia gli
umori? Come si chiama? Dio, caso, natura? Morrò dunque senza saperlo?
Morire! e perchè si muore? Perchè tutte queste belle cose hanno da
distruggersi? E se la morte non fosse che una trasformazione, un
transito breve? Se, quando non sarò più donna, divenissi albero, nuvola
o fiore? — E seguitando di questo passo, scavava intorno a sè gli
abissi pericolosi della filosofia. Paolo la chiamò. Ella tornò in casa
e per tutto il giorno rimase assorta in una dolorosa meditazione.

                             . . . . . . .

Un delirio violento precedè il parto e non lasciò più benavere quella
povera madre. Il presentimento s’avverava; Rina non potè vedere il suo
bambino, un amore di bimbo vegeto, che nacque quasi senza piangere,
come se desiderasse la vita. Ogni parte del corpo di lei si enfiò; il
respiro le si fece affannoso. Il medico, interrogato da Paolo, tacque
la prima volta, poi ordinò i vescicanti. Quando n’ebbe osservato
l’effetto, disse riciso: — Secondo me, non c’è rimedio; può bensì
vivere ancora due o tre giorni; intanto se vogliono chiamare qualcuno
di loro fiducia, padroni, io non saprei che farci — ed uscì.

Ma, ahimè! il caso era uno di quei pochissimi nei quali tutti i medici
si trovano d’accordo.

Durante quei giorni, le donne del vicinato osservarono un uomo, che
di giorno e di notte girava intorno alla villa; se visto scansava, se
avvicinato fuggiva. Le donne ne traevano, per la salute dell’ammalata,
tristissimi auspici.

Giunse l’alba del terzo giorno. Per le finestre aperte entravano nella
camera le luci scialbe e le brezze roride del mattino. Paolo e la
cameriera stavano intorno al letto di Rina. Il bambino adagiato in una
culla, si destò ed uscì in que’ lamenti fiochi e interrotti che sono
de’ fanciulli appena nati. Rina, come se la voce del suo povero piccino
l’avesse ad un tratto fatta tornare in sè, girò intorno gli occhi già
vitrei, stese le braccia, fece uno sforzo per alzarsi e ricadde.

Era morta.

Il bambino pianse più forte.

Un doppio grido risonò nella camera, e gli echi del giardino, percossi,
lo ripeterono.

La porta s’aprì ed un uomo si fermò sulla soglia. La cameriera cacciò
un altro grido dallo spavento; le parve vedere colui che da tre giorni
s’aggirava solitario intorno alla villa.

Paolo riconobbe il Conte di San Vittore.

Il Conte fece alcuni passi, poi si fermò; sentiva il cuore
spezzarglisi, gli occhi coprirsi di un velo, le ginocchia piegarsi.
Tentò parlare e non potè; si mosse in silenzio e si gettò ai piedi del
letto.

Paolo e la donna uscirono.

Il Conte rimase tre lunghe ore, che gli parvero un minuto,
inginocchiato presso il cadavere di Rina. Poi si alzò, la guardò.
Era così pallida negli ultimi tempi della sua vita, che la morte non
l’aveva cambiata di molto. Ma per lui che non l’aveva veduta da tanto
tempo! Le prese la mano, e al contatto di quelle membra gelide, tremò,
sentì stringersi il cuore più forte, e si gettò, quasi fuori di sè,
traverso al letto.

E fu quello il primo amplesso veramente affettuoso che Rina avesse da
lui.

Riavutosi, il Conte contemplò con dolore ineffabile quel corpo
abbandonato, lo alzò e depose un bacio sulla fronte della sua povera
moglie. Lo adagiò di nuovo sul letto ed uscì.

Quando Paolo rientrò nella stanza, il bambino non c’era più. Il Conte
l’aveva portato seco.


XXI.

Il giorno dopo arrivarono alle Poggiola due lettere, che Giacomo depose
al solito sulla scrivania del padrone assente. Erano queste:

  _Ill.mo signor Conte,_

In obbedienza ai suoi riveriti ordini significatimi con pregiatissima
lettera del dì 15 stante, intorno alla prolungata assenza del signor
Luigi, già segretario ed ora facente funzione di cassiere, assenza
tanto dall’ufficio, quanto dalla sua casa di abitazione, via de’
Pucci, n. 5, secondo piano, ove da sei giorni non si è più veduto; mi
faccio un dovere di notificarle che stamani con l’opera del fabbro,
in presenza del notaro e di due testimoni cogniti ed idonei, si è
aperto la cassa dello scrittoio, la cui chiave sta nelle mani del
signor Luigi summentovato; e numerati così i denari contanti, come i
titoli contenutivi (de’ quali tutti Le unisco qui analoga noticina) e
confrontate le somme con quelle da me segnate nei libri di riscontro,
si è trovato tutto essere in regola; salvo un’eccedenza di lire dugento
quindici, verificatasi nella cassa e proveniente dallo stipendio del
mese di marzo spettante al più volte ricordato signor Luigi, stipendio
da me già allibrato, ma da lui non peranche riscosso.

E in attesa de’ suoi pregiati comandi ho il bene di segnarmi con
profondo ossequio

  Di Lei Ill.mo signor Conte,

  _Dallo scrittoio, 21 aprile,_

                                               Devot. e Obblig. Servo
                                            TORELLO SAVI, computista.

Altra della stessa data:

  _Ill.mo signor Conte,_

Aggiungendo ragguagli alla mia di stamani, mi faccio un dovere di
parteciparle senza frapporre indugio, che ieri sera, sulle sponde
dell’Arno presso il ponte di Signa, fu rinvenuto da alcuni pescatori il
cadavere del povero signor Luigi. I magistrati, accorsi prontamente sul
luogo, pare riconoscessero che l’infelice si era da sè volontariamente
gettato nel fiume. S’ignorano fin qui le cagioni che possono averlo
condotto a risoluzione così deplorevole.

Ho il bene di ripetermi con profondo ossequio

  Di Lei, Ill.mo Signore,

                                               Devot. e Obblig. Servo
                                            TORELLO SAVI, computista.

Insieme con esse, giunse anche alle Poggiola questo avviso stampato:

                                           _Milano, 18 aprile 186..._

Il commendatore ingegnere Serafino Crolli ed Emilia Crolli nata
Landi Cambiasco danno parte alla S. V. delle nozze della loro figlia
Carolina, col signor Federigo Ripàri.


XXII.

I lettori ricordano che questo racconto, da me trascritto alla meglio,
fu cominciato da Paolo sul punto di partire da Airolo e continuato per
la via mentre costeggiavamo il Ticino, lasciando dietro a noi Bodio e
Faìdo allora quasi per intero sommerso da un’inondazione. Quando Paolo
tacque, annottava; e noi guardando le alture che ci stavano dinanzi,
vedevamo disegnarsi sopra un fondo turchino trasparente i sinistri
profili delle torri di Bellinzona.

Il silenzio durò lungamente. Paolo era commosso ed io non osavo turbare
con le mie inchieste importune le memorie malinconiche dell’amico.

                             . . . . . . .

Quando fummo montati nella vecchia carrozza che da Bellinzona, per
Lugano, doveva menarci a Camerlata, Paolo, di cui d’ora innanzi
riporterò pressochè testualmente le parole, riprese:

— Abbrevio più che posso il racconto. Ieri sera....

— Ma — domandai interrompendolo, — e Federigo?

— Ah! hai ragione. Federigo.... che vuoi? Io sono, to l’ho giù detto
un’altra volta, imbrogliato nel giudicarlo. Debbo dire che non ha
cuore? Sarebbe il giudizio più spicciativo. Ma quest’uomo così funesto
alle donne che lo hanno amato, ha pur sentito anch’egli tutta la
violenza della passione; ha amato profondamente, lealmente.... ma
brevemente; ha sofferto e molto dei dolori che infliggeva altrui, ma
non ha mai saputo vincere sè stesso. Poco dopo la partenza di Rina,
Federigo andò sul Lago di Como; a Tremezzina, conobbe l’ingegnere
Crolli e la sua figliola che hai veduta ieri sera, che è bella ora,
ma era anche più bella a quel tempo. Conoscerla e innamorarsene fu
tutt’uno. Gli parve di avere dinanzi a sè il suo primo ed ultimo amore;
vide svanire come ombre leggiere i ricordi delle donne alle quali gli
era parso di voler bene; sentì l’anima sua rifarsi, per così dire,
vergine da ogni commozione antecedente. Carolina Crolli era ragazza;
Federigo vagheggiò subito il pensiero di sposarla. Vedi, per esempio,
se una fata benigna in quel giorno gli avesse mostrato il futuro, gli
avesse detto: “bada, sposando questa donna, tu la farai disgraziata per
sempre,„ Federigo non sarebbe fuggito, non avrebbe vinto l’affetto con
la volontà, no... si sarebbe buttato nel lago. Geroglifici del cuore
umano, mio caro, io non son buono a spiegarli. Fatto sta che l’amò di
un amore subito corrisposto.

— Ah!...

— Sì; e Carolina è tale donna che non si può dire andasse in cerea
di marito e afferrasse una bella occasione. Ma vi sono degli uomini i
quali hanno gli occhi e il sorriso che incantano. Parlano, guardano,
sorridono e sono amati; a vent’anni vincono nel paragone gli uomini di
trenta, a quaranta sono preferiti ai giovanotti di venti; Federigo è
uno di loro. Il matrimonio fu celebrato nell’aprile dell’anno scorso.
Dopo lo nozze gli sposi partirono per fare una gita e, girata l’Italia
in lungo ed in largo per tre mesi, si fermarono a Firenze. Carolina,
che amava già la Toscana come patria di suo marito e che non l’aveva
veduta mai, si rallegrò nella letizia delle nostre campagne e propose
a Federigo di passare l’estate e l’autunno in collina. Il caso è
qualche volta crudele. Federigo e Carolina andarono ad abitare alla
_Vergognosa_.

Dopo tre giorni la gente di servizio era informata per filo e per
segno della triste fama che la villetta aveva ne’ dintorni. Quelle
chiacchiere giunsero, non so come, all’orecchio di Federigo. Le
raccontò a Carolina, e scherzandoci su e baciandole la mano, disse:

— È rotto l’incanto; la sorte della villa è mutata; prima la sventura,
ora vi sta di casa la felicità.

Un giorno, imbattendosi in un viale col vecchio contadino che aveva
conosciuto tutti gli ospiti della villa, lo interrogò. Il contadino si
schermì da prima; poi raccontò quel po’ che sapeva e che, anche a suo
credere, non giustificava per nulla le ciarle delle donnicciole.

— Ma che vuole? — conchiuse. — Tre mesi fa l’amministratore s’è buttato
in Arno; e una signora che c’era venuta a stare è morta di parto. La si
può figurare se la gente ignorante ne ha dette!

Federigo domandò il nome della signora; il contadino che lo aveva
dimenticato, indicando uno dei pilastri del cancello, rispose:

— La lo ha lì scritto da sè, povera signora, l’ultima volta che uscì di
casa, tre o quattro giorni prima di morire.

Quando il contadino se ne fu andato, Federigo s’accostò al pilastro;
v’erano difatti scritte colla matita queste parole:

                             _Rina Miriani_
                          _18 aprile 186...._

Federigo cacciò un grido e cadde tramortito sul lastrico.

Quando rinvenne, si trovò nel suo letto presso a cui stavano la moglie
e il medico-condotto, che Carolina aveva in fretta fatto chiamare.
Pensando che il letto su cui giaceva, era forse quello sul quale Rina
era morta, schizzò spaventato sul pavimento; fece uscire dalla stanza
la moglie e dette ad intendere al medico che soffriva sin da ragazzo di
quegli svenimenti subitanei e sapeva quale era il metodo di cura meglio
efficace. Poi, così bel bello, lo condusse sul discorso della signora
che era morta in quella villa pochi mesi avanti; e il medico gli narrò
per minuto tutto l’andamento della malattia. Federigo seppe da lui che
il bambino, sopravvissuto alla madre, era stato involato dal Conte.

Fece fare i bauli e, sebbene fossero le undici di sera, costrinse
Carolina a partire; la condusse ad un albergo, uscì e non si fece
più vedere sino alla mattina. Ciò che sia avvenuto da quel tempo, lo
sai; il dialogo tra Federigo e Carolina, udito da te ieri sera, deve
avertelo insegnato.

Ha vissuto con sua moglie fraternamente. Se qualche volta, trovandosela
accanto, la dolcezza, le lagrime, la bellezza di lei lo commovono; se
il senso, mettiamo, sta per ripigliare il disopra, il ricordo di Rina
lo fa fuggire lontano. Povera donna! Egli l’ha costretta a viaggiare un
anno, cercando sempre del Conte che lo sfuggiva e che ieri soltanto,
per un accidente imprevedibile, ha trovato ad Airolo. Carolina è
disperata. Federigo.... debbo dirlo? Fra tante donne amate da lui, egli
si serba oggi fedele a una sola.... a quella che è morta.

— Ma ieri sera, uscendo così repentinamente dalla camera di sua moglie,
Federigo bussò pure a quella del Conte....

— Un momento e saprai tutto. Quando il Conte di San Vittore uscì
dalla sala da pranzo per salire nel suo quartiere, io lo seguii; lo
consigliai d’andarsene dall’Italia e domiciliarsi altrove per evitare
ogni occasione di ritrovarsi con Federigo; occasione pericolosa perchè
io, compiendo la volontà di Rina, ho fatto promettere al Conte di
non incrociar la sua spada con quella del Ripàri. Mentre si parlava,
picchiarono alla porta. Indovinammo subito che era Federigo. Ci demmo
un’occhiata e il Conte prima di rispondere mi indicò una retrostanza in
cui potevo, senza esser visto, ascoltare ciò che si diceva.

Federigo entrò difatti ed avanzandosi verso il Conte gli disse asciutto:

— Mi chiamo Federigo Ripàri.

— Ho conosciuto a Firenze un banchiere Ripàri.

— Era mio padre.

— Me ne congratulo.

Il Conte parlava con tanta tranquillità che pareva recitasse una parte
imparata a memoria. Federigo, indispettito, riprese:

— Insomma, signor Conte, è un anno che la cerco. Se dovremo batterci
in duello ci batteremo; ma finiamola. Ci sono conti che si saldano
presto....

— E conti che non si saldano mai, — interruppe il Conte, alzando
fieramente la testa sdegnosa. — Non ci batteremo in duello, perchè
ho promesso di non lo fare e i San Vittore sono avvezzi a mantenere
ciò che promettono. Io figurerò di non accorgermi delle vostre offese
meschine, come ho fatto stasera....

— Ma, e se v’insultassi più gravemente?

— Badate: non ho promesso di non ammazzarvi; ma....

— Ma?...

— Ma non vi ammazzerò. Che cosa volete da me?

— Il mio figliolo.

— Avete un figliolo?

— Quello che mi avete portato via.

— Io? Io ho un fanciullo che tengo nascosto e che ho raccolto un giorno
presso il letto di una povera morta. Due uomini la menarono alla tomba.
Mentre ella moriva, uno di questi uomini, che avrebbe voluto riparare
il proprio fallo a costo della vita, lo espiava in parte in un dolore
muto ed acerbo; l’altro non si ricordava neppure di averle un giorno
sussurrata all’orecchio una parola d’amore. Di questi due uomini uno è
di gran lunga più colpevole dell’altro. Voi. Io.... io ho raccolto quel
fanciullo perchè ho supposto che chi aveva atterrato l’albero non si
curasse del frutto.

— Avete sbagliato e mi renderete il mio figliolo.

— È vostro? Non lo so. Gli darete voi il vostro nome?

— Che ve ne importa?

— Me ne importa perchè gli ho dato il mio e l’ho adottato; gli ho
donato sin d’ora tutto ciò che posseggo. Egli si chiama Alessandro di
San Vittore; ho fatto per lui ciò che voi non avreste mai fatto.

Federigo piegò il capo e tacque; il Conte continuò:

— Poco importa che quest’atto meravigli voi e faccia ridere gli altri.
Quel fanciullo nessuno può togliermelo. Voi gli avete data la vita
fisica, misera cosa; io gli darò quella dell’intelletto e dell’onore;
e voi non mi insulterete più.... perchè.... perchè avreste rimorso, lo
sento, di offendere il padre vero di quel povero bimbo. Non ho altro da
dirvi; confido che la sorte ed il senno d’entrambi ci concederanno di
non rivederci mai più.

Federigo guardò un momento intorno a sè, poi uscì rapidamente dalla
stanza.

Il Conte è partito stamani per Bruxelles ove si stabilisce, ed ove io
lo raggiungerò fra una diecina di giorni. Ora debbo andare a Firenze a
dar conto al Marchese Varalli della risoluzione di suo nipote.

                             . . . . . . .

Accompagnai Paolo sino al palazzo del Marchese. Quando entrammo, egli
stava per uscire, e nel cortile accarezzava _Blood Royal_, suo baio
prediletto.

Accolse con molta cortesia Paolo, e quando ebbe saputo da lui
dell’adozione del figlio di Rina, dette in un gran scroscio di risa e
soggiunse:

— Oh! perdio, questa è bellissima! bisogna campare e poi se ne sentono
ogni giorno delle più nuove e delle più belle. Sicchè ha perdonato!...
Eh! già! il perdono è più dolce della vendetta.... l’ha detto, se il
mio maestro di storia non mi ha messo in mezzo, Pittaco di Mitilene....
Lo ringrazi, sa, cavaliere, della notizia che mi ha mandato, e più di
avere scelto lei per ambasciatore. Io non scrivo perchè son vecchio e
le lettere mi uggiscono.

E dette in un altro scroscio di risa.

— Non mi ricordo chi ha paragonato il marito al gerente responsabile.
Corbezzoli! Emilio ha preso il paragone sul serio; firma anche gli
articoli degli altri. Pittaco, sicuro, Pittaco, Pittaco di Mitilene.

E, saltato a cavallo con tanta agilità, quanta ne può avere un
giovinotto di primo pelo, strinse la mano a Paolo e partì.


XXIII.

Pochi mesi fa, scrissi a Paolo che era a Milano, perchè mi desse
notizie del Conte, di Carolina e di Federigo. Trascrivo qui un passo
della lettera che mi rispose.

                             . . . . . . .

“Ho parlato con gli amici di Federigo; sanno poco di lui, perchè
vive solo sul Lago Maggiore, separato, sebbene non legalmente, da
sua moglie. Fa frequenti gite a Firenze delle quali non dice il
motivo, nè dà conto ad alcuno. Sono andato l’altra sera in casa
Crolli e ho discorso un momento con Carolina. Se tu la vedessi, non
la riconosceresti più. Il vecchio ingegnere mi ha descritto lo stato
miserevole della sua figliola. Questo povero vecchio teme, e i medici
con lui, che le dia balta il cervello. Povera donna! Alla sua sventura
aggiunge la sventura più grave di ignorarne la causa. Col suo istinto
di donna ha indovinato che il marito è innamorato di un’altra. Di
chi? Qui sta il mistero. Federigo vive solo; nelle cassette della sua
scrivania, frugate con diligenza irrequieta, durante l’assenza di lui,
non s’è trovato neanche una lettera che fosse prova di questo amore.
Povera donna! ella cerca tra la gente felice la sua rivale! Chi le dirà
che bisogna andarla a cercare tra i cadaveri del camposanto?

“Il Conte Emilio è a Bruxelles e compie con amore che non potrebbe
ridirsi i suoi doveri di padre adottivo.

“L’ultima volta che lo vidi, parlandomi dei casi passati, mi disse:

“— Sono stato crudelmente ferito; non avrei però la coscienza delle
mie piaghe se non fosse il balsamo fresco che le ricopre; il bisogno di
signoreggiare il dolore mi ha rivelato il segreto della virilità.

“Ma pur troppo dei personaggi di questa storia, quanti peccarono,
soffrirono tutti la penitenza. Anche il Conte ha la sua che sarà tanto
lunga quanto è crudele. Sandrino di San Vittore, che compie tra poco
due anni, somiglia tale quale Federigo Ripàri.„

  _Vercelli, 1870._




GITE AUTUNNALI.

                                          _A Giulio Piccini (Jarro)._


I.

Sul torrente.

Chi da Verona muove verso Trento percorre luoghi pieni di memorie
guerresche.

Qua Rivoli ove si fece illustre il Massena, là Roveredo ove il Wurmser
si coprì di vergogna, più innanzi Caliano ove i Veneti combatterono
contro gli Austriaci condotti dall’Arciduca Sigismondo, laggiù in fondo
i leggieri declivi di Custoza infausti due volte. Sopra que’ monti,
lungo que’ fiumi, per undici secoli Franchi e Longobardi, Tedeschi
e Spagnoli si contesero il dominio delle terre italiane; ora sui
campi ingrassati da’ cadaveri pasce la vacca, che lenta leva il muso
dall’erba e accompagna col fesso tintinnìo del campanello il grave
rumore della vaporiera.

Quanti milioni sciupati nel costruire le fortificazioni che servirono
poi così efficacemente alla cessione della Venezia! Quante vite spente
per serbare autorità ai congressi di Vienna e di Verona, dei quali non
resta oggi che un motto del Metternich e un libro dello Chateaubriand.

Intanto ch’io pensava così, la carrozza s’avviava alla Chiusa.
Tramontava il sole; dalle acque dell’Adige, screziate come le penne
del pavone, s’alzavano freschi effluvi; e le cime giallastre dei massi
calcarei brillavano irraggiate, quasi mosaici dorati sulla fronte d’una
basilica bizantina.

Che portentoso contrasto di linee, di tinte, di proporzioni! I massi
levano la enorme grigia mole sul fiume, quasi giganti a custodia; a’
loro lembi la fila delle casupole, gialle per i festoni di granturco
onde le ornano, si stende lunga e sottile tra l’acqua e la roccia. E
tutto il Trentino è così: singolare di austerità vigorosa e di grazia
idillica, di balze selvaggie e di colline ridenti. La solitudine
de’ gioghi più ardui è rotta dalla paziente fatica del montanaro;
dappertutto dove è un tenue strato di terra vegetale egli lascia una
traccia di sudata industria; fin sull’orlo degli abissi s’avventura a
raccogliere un mannello di fieno; e ogni anno o l’uno o l’altro di quei
burroni ha la sua lugubre istoria.

Nulladimeno i Trentini adorano quell’aspra terra, la quale non dà
frutti, e scarsi, che al lavoro pertinace; quella ruvida nutrice che
li culla bambini fra lo scroscio de’ torrenti e il rombo della bufera;
condotti altrove dalla necessità si consumano in una malattia lenta,
l’_Heimweh_ de’ Tedeschi, il _Laengtan_ degli Svedesi, la _Nostalgia_
de’ Savojardi; lontani, non altro rimpiangono che i dirupi sui quali
si inerpicarono ragazzi, le cime petrose delle loro montagne, le quete
ombrie delle loro selve di pini; e resistono alle fatiche più gravi, a’
travagli più duri, per la speranza di morire nella capanna nella quale
son nati.

Poco prima di Trento stanco, assetato, bussai alla porta di una povera
casa per cercarvi un po’ d’acqua; al primo colpo nessuno rispose;
bussai daccapo e di dentro una voce gagliarda domandò:

— Che volete?

— Un po’ d’acqua.

— Passate.

Spinsi l’uscio ed entrai. La stanza era bassa, angusta; l’intonaco
qua chiazzato di larghe chiose d’umido, là sgretolato e rigonfio;
rimpetto alla porta, nella parete verso la montagna, una piastra
circolare di calcina recente; e sopra attaccati, un vestito da donna
e un crocifisso. A sinistra un gran focolare come quello delle case
coloniche di Toscana, aperto fino a terra; nel mezzo della stanza
una tavola, qua e là qualche sedia fregiata di rossi intagli nella
spalliera. Accoccolato presso al focolare un uomo di forme ercúlee;
aveva la pelle bruna, quanto può essere la pelle d’un europeo, le
labbra d’un rosso cupo fra le quali luccicava lo smalto dei denti
forti e bianchi; l’occhio nero e mobilissimo. Era vestito d’una camicia
color marrone e di un paio di calzoni simili che gli scendevano sino
al ginocchio; le polpe del colore del cuoio nude fino alla noce, il
piede sguazzante in un paio di scarponi colle suola di legno, ferrate,
a punta larga, quadrata. Gli copriva la testa un berretto catalano di
lana turchina, di sotto al quale i capelli neri scendevano ricciuti
e lucidi verso le spalle. Con una stecca di legno bianco flessibile
tagliava una polenta di granturco ancora fumante. Dal lato opposto
del focolare, due ragazzi robusti, seminudi, sudici guardavano con
un occhio me, con un altro la polenta; si leggeva loro in faccia una
grande meraviglia e un maggiore appetito.

Gettata a’ ragazzi la loro parte di polenta, l’uomo s’alzò e sciacquato
un bicchiere vi versò l’acqua da una fiasca, lo pose sul tavolino, e
brontolò:

— Bevete.

Bevvi, ringraziai e feci per andarmene; ma vi era nell’aspetto di
quella stanza, nella fisonomia di quell’uomo, nel suo desiderio
manifesto di liberarsi di me, tanto da solleticare la mia curiosità e
da invogliarmi a traccheggiare. Cercai un pretesto.

— Non ci avreste un po’ di latte, buono come ce lo dovete aver voialtri
qui nel Trentino?

L’uomo accennò di sì col capo.

Uno dei ragazzi uscì. Al colpo del battente che si richiuse, un pezzo
d’intonaco si staccò e cadde con rumore quatto, suscitando un polverìo
sottile.

L’uomo taceva. Io quasi mi pentivo di non essermene andato; si sarebbe
sentito volare una mosca. Il silenzio fu rotto dal cigolìo dell’uscio;
il ragazzo tornò con una ciotola di legno nero piena di latte caldo,
aromatico.

Lo bevvi d’un fiato e posata la ciotola esclamai:

— Che buon latte!

Ma l’uomo non rispose; seccato, soggiunsi:

— È del vostro?

— Sì.

— E... che cosa costa?

— Nulla.

— Come nulla?

— Nulla.

— Va bene, farò così....

E tratta fuori dalla borsa una lira: — Tieni, ragazzo, dissi, dàlla
alla mamma.

Non l’avessi mai detto. L’uomo poggiò le mani alle tempie, strinse e
scosse la testa poi piegandola sul petto s’alzò lentamente e mormorò:

— Non l’hanno la mamma.

Capii d’aver fatto una sciocchezza; pensai al _the absents are the
dead_ del Byron, e presa la mano del montanaro:

— Abbiate pazienza, — soggiunsi.

Non so se per effetto di quella stretta di mano, o della mia voce
commossa, il montanaro mi osservò con l’attenzione indagatrice di
chi rintraccia tra’ lineamenti una fisonomia nota; e sebbene fossi
certo che non c’eravamo veduti mai prima d’allora, parve riconoscere
un amico; tanto gli si leggeva in viso quando ero entrato in casa
il desiderio di silenzio, quanto ora la voglia di discorrere. In me
alla curiosità era sottentrato più pietoso movente: vedevo quell’uomo
soffrire, volevo che si sfogasse.

Abbuiava; i ragazzi si trastullavano in un cantone. Il montanaro aprì
la porta, sedè sopra uno degli scalini e dato un gran sospiro:

— E glielo avevo detto che venisse con noi!

— Quant’è che avete avuto questa disgrazia?

— Sarà un mese quest’altra settimana.

— E di che male?

Crollò il capo e soggiunse:

— Se aveva ventisette anni e era sana e robusta come me.

Tacque un momento, poi seguitò:

— Eran cinque giorni che veniva giù l’acqua che Dio la mandava. L’Adige
cominciava a mugliare. Una mattina mi levo e dico: — “Maria, porto le
bestie sul monte, a volte non si può sapere.... Se seguita a piovere e
l’acqua c’entra nella stalla pover’a noi. Porto i bimbi con me.„ Dice:
“lasciate andare, tanto, pare che si rassereni.„ “Tant’è, le porto,„
dico io; e non ero arrivato qui su quest’uscio che guardai là e vidi
de’ nuvoloni neri che si rincorrevano. Dissi: “Sarebbe meglio che
veniste anche voi.„ — “O come volete che faccia, Vergine santa, col
bimbo al petto? Piove, fa freddo.... Non lo vedete che trema accanto
al foco? O figuratevi, lassù!„ — E non venne. Portai le bestie alla
capanna che è sul monte. Non dubitate che si rasserenò.... Pioveva,
pioveva e l’acqua pareva che ci levasse la terra di sotto a’ piedi.
Dal monte vien giù una cascata che dà proprio qui dietro casa. Verso
sera la veggo ingrossare e mi sentivo una voglia di andarmene....
Che avevo a fare? Riportare sin qui le bestie? Lasciare quelle povere
creature sole lassù? E diluviava. Esco dalla capanna, l’acqua nello
scendere mi copriva le scarpe. Dico: — “Via„ — piglio i figlioli in
collo e fo per venirmene. Avrò fatto venti passi, che mi sento un
rumore dietro; l’acqua rotolava i pini tagliati e lasciati sul monte.
Cercai un viottolo che sapevo; non si distingueva più. Si levò un vento
forte che mi sbatacchiava tra le braccia i figlioli; il rumore crebbe e
dalla cima cominciarono a smoversi terra, alberi, massi e a ruzzolare
per l’erta. Salvando, ci pareva l’inferno. “Addio, — dissi — si resta
schiacciati.„ — E tanto tiravo innanzi. Il torrente s’allargò, l’acqua
veniva giù, schiantando ogni cosa. E io avanti.... Ma a un tratto fu
come un gran rombo; io stetti così un momento.... ma poi lo conosco io
l’Adige, e capii che era lui; difatti si sentiva il muglìo dell’acqua
quando fa forza contro gli argini. Oh! la mia povera donna, — dissi —
e mi raccomandai alla santissima Vergine. Non avevo finito di recitare
un’Ave Maria che si sentirono dei colpi morti verso casa. Saran durati
dieci minuti, e poi un urlo. “La mamma, la mamma,„ — gridarono le
creature; io non dissi nulla, ma scaracollai qui a precipizio sempre
diritto, cascando, rizzandomi, che non so chi mi portasse.... Quando
arrivai a cento passi di qui non fu più possibile, l’acqua mi dava al
collo. Chiamai: — “Maria, Maria„ — ma, Dio santo! non rispose nessuno.

Pianse. Il vento di ponente soffiava cupo per la montagna e pareva
accompagnare, come un organo invisibile, i singhiozzi del povero
vedovo.

— Fino all’alba — seguitò — stetti nell’acqua co’ figlioli fradici
mézzi, che tremavano e piangevano; fino all’alba a chiamare la mia
povera donna, e via via che la chiamavo mi scemava la speranza di
sentirmi rispondere. All’alba l’acqua abbassò e arrivai sin qui.
Pensato un po’: tornate a casa, ci avete lasciato la moglie e un
bambino e non ci trovate nessuno; e se non ce li trovate vuol dire che
son morti, morti affogati.... perchè, già, qui, si muore d’acqua o di
foco.

E accennò collo sguardo innanzi a noi il lontano villaggio di Salorno,
quasi distrutto da un incendio nel cinquantaquattro.

— Ma e come andò?...

— Andò che l’Adige ruppe gli argini, l’acqua arrivò sin qui e buttò
all’aria l’uscio. La Maria, secondo me, non potendo uscir dalla porta,
tentò con un martello di fare un’apertura nella parete che dà verso il
monte, per salvarsi in alto col bimbo; aperto il foro, l’acqua entrò da
due parti e portò via ogni cosa. Quando tornai io, in questa stanza ci
faceva il mulinello. Quel vestito là attaccato al muro è tutto quel che
mi è rimasto; lo trovai avviluppato ne’ campi sopra una siepe di pruni.

— Sicchè il più gran danno ve lo fece il torrente?

— Sicuro; dall’acqua del fiume si poteva salvare in collina, benchè
l’Adige ne volesse parecchi anche lui quella notte; ma quelli almeno
si trovarono e la mia non s’è potuta rinvenire. Chi sa dove l’acqua
l’ha portata?... E quando passo davanti al camposanto non posso nemmeno
dire:

— “Maria, pazienza, tanto, o prima o poi ci ho a venire anch’io.„

— E il bimbo?

— Il bimbo lo ritrovai quaggiù nel piano; si vede che l’acqua glielo
portò via, perchè lei non lo lasciò di certo. Il corpicino tutto pieno
di lividi era aggomitolato sopra un mucchio di giunchi.... Dio santo!
ma che ho fatto io?

S’alzò, le lacrime gli scorrevano per le gote; andò alla parete ov’era
appeso il vestito, ci posò sopra orizzontalmente il braccio sinistro e
su quello la testa. Mi voltai verso i bambini: dormivano.

Poco dopo uscii e presi la via del monte; non v’era alle falde quasi
più traccia di vegetazione. I campi ricoperti di mota e di ghiaia;
mucchi enormi di foglie secche cementati dalla rena umida parevano
nidi abbandonati di uccelli giganteschi: pochi arboscelli avvizziti
piegavano sotto il peso del fango che li copriva. Qua e là tronchi
d’albero divelti dall’acqua e confitti tra le ghiaie; frantumi di
scranne, di tavole, di oggetti rurali.

Cercai il torrente. Per la cavità di due grandi roccie di dolomite
verdognola scendevano, modeste fra le borraccine, poche fila di acqua.
Vi sedei vicino e mi sembrò una voce sussurrasse tra gli scogli: —
“La mia naiade vagabonda ha rotto l’urna di cristallo e abbandonati i
silenzi della rupe natale; lasciatemi scorrere tra i muschi vellutati
e gli amari steli della menta, lasciatemi correre al fiume e la goccia,
ove male si sarebbe dissetata la capinera, menerà navigli all’Oceano.„

Quelle poche fila di acqua erano allora tutto il torrente che aveva
uccisa la moglie del montanaro. Quando le nevi si sciolgono al soffio
dello scirocco, o la tempesta si distende sulle vette della montagna,
le cascatelle, conforto e poesia del viandante, si mutano in torrenti
ruinosi, e sulle pendici smaltate di fiori portano gli squallori della
solitudine e della morte.

Tali le perfide cascate di quelle alpi.


II.

Sul lago.

Il cielo ha una fisonomia come il volto umano; il giorno in cui
traversai il lago di Costanza sul battello che si dirigeva a
Friedrichshafen doveva essere per gli abitatori dell’aria giorno di
festa. Il tramonto era stupendo; una nebbia bassa e densa copriva
il lago e gli dava l’aspetto di una vasta superficie di lavagna; il
cielo pareva un’immensa cupola azzurra; alla sua estremità inferiore
si ripiegava senza gradazioni di tinte una larga striscia circolare di
giallo croma; l’anfiteatro delle colline, sulle quali si riflettevano
i raggi estremi del sole, scintillava quasi coperta di teletta d’oro
trapunta con i diamanti.

Se il mio amico Cabianca avesse tratto da quel motivo uno dei suoi
vigorosi acquerelli, chi sa che cosa avrebbero detto gli scrittori di
appendici. La natura, che non conosce quei signori e che eglino forse
conoscono poco, si divertiva a colorire con le calde tinte della sua
tavolozza uno de’ suoi quadri più singolari.

Alla prua del battello stavano i viaggiatori di seconda classe, a poppa
quelli di prima; ma l’uno e l’altro dei due scompartimenti erano per
la più gran parte ingombri di casse; su’ battelli del lago di Costanza
i viaggiatori sono accessori che tolgono spazio e comodità alle
mercanzie; ed io sul lago di Costanza, per la prima volta in vita mia,
ho desiderato di viaggiare come i bauli.

Le rive del lago appartengono a cinque Stati: la Svizzera, la Baviera,
il Würtemberg, il Baden, l’Austria. V’erano dunque tra gli operai che
stavano nella seconda classe, sudditi di repubbliche, di monarchie
costituzionali per amore, di monarchie costituzionali per forza.
M’avvicinai a loro, non parlavano di politica; ma dallo aspetto, dagli
atteggiamenti, da’ discorsi che facevano, mi formai il convincimento
che i sudditi degli Stati tedeschi non invidiavano agli Svizzeri la
loro libertà. V’erano sul battello alcune contadine dell’Alpe Sveva,
notevoli per i due contrassegni della beltà, quale la vagheggiò il
Tiziano: la robustezza del tronco e la grazia della fisonomia; orbene,
io avrei giurato che posti a scegliere tra instaurare la repubblica
e baciare le contadine, quelli operai sceglievano le contadine. —
Opinioni!

Nella prima classe si adunava una società cosmopolita addirittura;
inutile il dire che i più erano Inglesi. Come le quaglie in certe
stagioni dell’anno si gettano a migliaia sull’isola di Helgoland,
così a giugno gl’Inglesi invadono per legioni il continente europeo.
È un’usanza che dura da un pezzo, sebbene il tipo dell’Inglese,
quale i nostri babbi lo videro e lo descrissero, sia oramai perduto.
L’Inglese, vittima degli osti e dei vetturini, che comprava un pollo
per una ghinea non lo trovate più; ora, se ricco, viaggia come i ricchi
di tutte le altre nazioni; se di fortuna modesta, ammaestrato dalle
soperchierie un tempo sofferte, viaggia imaginando di continuo frodi ed
inganni; tenta di ottenere un ribasso alla tavola rotonda e poco manca
non rubi al locandiere per rifarsi di quanto sospetta che il locandiere
abbia rubato a lui.

Sul battello v’erano individui d’ognuna di coteste specie: il lord
che ha palazzo a Londra e castelli in questa o in quella Contea, e
l’oscuro mercante che tiene bottega in una città di provincia. Stretta
conoscenza sulle montagne dell’Oberland ascese insieme, facevano,
traversando il _Bodensee_, crocchio fra loro.

Per fortuna nacque una disputa sull’elevazione del lago, particolare
del quale il Murray pare avesse taciuto; chi diceva una cosa, chi
un’altra; volendo por fine alla disputa, uno di loro, il quale
scorse la _Guida_ del Joanne ch’io teneva fra mano, mi si accostò
e me la chiese. Gliela porsi; mi ringraziarono e fui ammesso alla
conversazione.

Colui che mi aveva parlato per il primo vantava un nome scritto nel
magno libro del _Peerage and Baronetage_. Era vestito colla linda
diligenza consueta negl’Inglesi: soprabito nero, panciotto, cravatta
e pantaloni bianchi, scarpe di vitello lucido; vestiario che avrebbe
potuto portare in Piccadilly o a Trafalgar-Square e di cui s’era
servito anche sulle Alpi di Berna. Aveva viaggiato mezzo mondo e tratto
dai viaggi una quantità molto considerevole di nozioni varie e curiose;
e si compiaceva di seminare nella conversazione i tesori della sua
dottrina, come il principe Estherazy seminava ballando le perle e i
diamanti dei suoi stivali. Conosceva gli nomini più popolari dei paesi
da lui percorsi. Aveva parlato in Spagna con l’Arjona e col Montès, a
Montevideo col Rosas, a Buenos-Ayres con l’Urquiza e insieme con lui
assistito alla battaglia di Caceros. A Washington strinse amicizia col
Lincoln; passeggiò al braccio del Brigham Young per le strade di Utah
e pranzò col Manin a Venezia. — In Russia udì leggere dal Ponchkine il
_Dmitri Godunoff_, vide il Gogol scrivere le _Anime morte_. In Persia
pregò con gli Yezidi, a Nowo-Tscherkask giocò coi Cosacchi.

Viaggiava solo: “Se il compagno di viaggio, diceva, ha le nostre
opinioni, le nostre consuetudini, perchè portarsi dietro un pleonasmo
ambulante? Se non le ha, che gusto c’è a viaggiare con un avversario da
combattere, con un reprobo da convertire?„

Unico compagno delle sue peregrinazioni, un ombrello, ch’era nello
stesso tempo ombrello, bastone, stocco e telescopio.

In un’ampia cassa portava seco gli oggetti curiosi d’arte e
d’antichità, raccolti in un viaggio recente per la Francia e per
l’Italia. Due vasi di Capodimonte, un piatto di Giorgione, un altro di
Orazio Fontana; un _Decamerone_ del Valdarfer, una statuetta in diaspro
di Volterra attribuita a Orazio Mochi, un libro d’oro appartenuto ad
Anna di Brettagna colle miniature del Poyet; un _Elogio della Pazzia_
di Erasmo rilegato dal Grolier e via discorrendo.

Ricco e artista, archeologo e uomo di spirito, aristocratico e culto,
in Italia sarebbe passato per un originale.

— Sono stato la prima volta in Italia, — mi disse, — vent’anni fa, e
da quel giorno ho tenuto sempre dietro alle cose vostre; credevo con
un po’ di buona volontà e con l’aiuto dei giornali politici, d’avere
un giusto concetto del vostro stato presente. Vedendo le cose da me
ho numerato le corbellerie che possono entrare in testa in vent’anni
a un galantuomo con un po’ di buona volontà e con l’aiuto dei giornali
politici. — Voi altri Italiani....

— Chi le ha detto ch’io sia italiano?...

— Lo neghereste?

— Non lo nego. Le domando come fa a sapere che sono italiano.

— Mio caro signore, voi non siete un mio compatriotta; questo è certo.

— Sta bene; e poi?

— E poi siete troppo linfatico per un greco, troppo vivace per un
olandese; parlate da mezz’ora con un uomo di cui non sapete il nome,
non siete un tedesco; parlate poco, non siete francese; viaggiate senza
servitori, non siete un russo; non avete ancora lodata l’Ungheria, non
siete un ungherese; avete data la mancia al facchino, non siete uno
svizzero; non avete le mani sudicie di tabacco, non siete uno spagnolo;
non portate diamanti alla camicia, non siete un americano del sud; non
vi pigliate i piedi in mano, non siete un americano del nord. Dunque
siete un italiano.

La conversazione continuò; il suo giudizio sugli Italiani era severo.

— Siete, — diceva — il popolo delle perpetue contradizioni; infingardi
e irrequieti: avete il sole e c’invidiate il carbon fossile:
vi occupate troppo di politica e non abbastanza; e questo nuoce
all’incremento del vostro credito e de’ vostri commerci.

— Perchè? — soggiunsi. — Nelle repubbliche antiche i cittadini si
adunavano nel Fôro e disputavano delle faccende dello Stato; usciti di
là tornavano a’ loro campi, a’ loro negozi.

— E sta bene; sarebbe curioso che io, inglese, vi dicessi l’opposto;
ma voialtri vi occupate di politica quanto basta per distrarvi dagli
studi e dalle faccende, non tanto da dare un impulso vigoroso al vostro
incremento civile. In sostanza gl’Italiani non amano la libertà....

— Oh!...

— Lasciatemi dire: non l’amano per i beni che porta seco, bensì per
i mali che risparmia; ma in fondo, un governo dispotico che desse
guarentigie di sapienza e di temperanza, se tali guarentigie fossero
possibili, compirebbe i loro voti; tant’è vero che da Taranto a Susa io
ho sentito ripetere mille volte quest’antifona: “un uomo! un uomo! ci
manca un uomo che pigli le redini e guidi lui.„

— Le pare tanto bizzarro questo desiderio?

— Sicuro. Un uomo! Gli avvenimenti, mio caro signore, in oggi sono
giganteschi, e gli uomini si mantengono della loro statura ordinaria.
Fra gli uomini e gli avvenimenti c’è una sproporzione grandissima;
potete lamentarla in mille modi, e rimediarci in un modo solo: lavorare
in molti. Il tempo degli uomini che tenevano in mano le sorti di tutto
un popolo è finito con Napoleone primo; e anche lui, sebbene imponesse
all’Europa la sua volontà per tanti anni di seguito, ha, in ultima
analisi, obbedito alla legge de’ tempi nuovi. Difatti, molte cose che
voleva, dominio in Spagna, in Italia, sono distrutte; molti regni che
gli era piaciuto annientare, la Prussia per esempio, sono più forti e
più potenti che mai. Cercare l’uomo è tempo perso; impiegatelo meglio a
fare degli uomini. E lavorate.

Mi strinse la mano lasciandomi sperare che lo avrei ritrovato
a Salisburgo; e, presentatomi ad uno dei suoi compagni, scese a
Friedrichshafen.

Quest’altro, lungo, secco, aveva il viso cartilaginoso, d’un
giallo opaco chiazzato qua e là da macchie d’un giallo più forte, a
simiglianza dei vecchi avori rinchiusi negli armadi delle sagrestie;
mani da apostolo, piedi larghi larghi. Viaggiava insieme con la sua
figliuola, vera ragazza del West-End: pelle liscia, zigomi lucenti,
sguardo vago; una figura di Lawrence nata da un personaggio di Hogarth.

Stavano seduti ambedue; il padre teneva fra le gambe uno di quei
bastoni ferrati che servono per salire sulle montagne e gl’Inglesi
riportano a casa come l’Haji dalla Mecca il _caftan_ verde. Leggeva
con una certa tenerezza la Guida del Murray e secondo il Murray lo
consigliava, si preparava a provare una commozione triste, o a uscire
in grida di ammirazione. Due terzi degli Inglesi viaggiano come
lui. C’è al Museo di Brera un quadro del Guercino: _Agar e Abramo_;
tipi volgari, toni sgradevoli: ho detto che è del Guercino, ma si
piglierebbe per un Caravaggio sbiadito. Piacque, non so come, al Byron.
Il Murray non potè non ammirarlo, dappoichè l’aveva ammirato il Byron,
e gl’Inglesi lo ammirano a bocca aperta sulla fede del Byron e del
Murray.

La ragazza disegnava. Il Murray aveva segnalato all’attenzione dei
viaggiatori le rive del lago di Costanza e il padre aveva pregato
la figliola di pigliare col lapis un ricordo; il Murray non aveva
preveduta la nebbia e il padre non se n’era occupato. Il disegno era
fatto con sentimento; le rive, com’è naturale, non si vedevano; e i
segni della matita sfregacciati con lo _sfumino_ ritraevano con bella
evidenza la nebbia che le copriva.

L’Inglese, dopo avermi accennato con un’occhiata di compiacimento il
capolavoro della figliola, mi confidò che i disegni de’ quali l’_album_
era pieno dovevano illustrare le _impressioni_ del loro viaggio
nel Tirolo e nella Svizzera. Me le dette a leggere come stavano nel
portafogli; ne ricordo questi frammenti che traduco e trascrivo:


14 _Agosto_. _Mercoledì_. Sveglio Mary alle cinque; dice che avrebbe
dormito volentieri un altro paio d’ore. Arriviamo al Pfändler alle
nove. Panorama delle Alpi tirolesi; molti pini. Hohenents: due cascate.
Spettacolo stupendo.

16 _Agosto_. _Venerdì_. Bludenz. Fabbrica di carta del signor Gassner.
Mary vorrebbe riposarsi. Montiamo sull’Arlberg. Valle strettissima.
Spettacolo bellissimo.

9 _Settembre_. _Lunedì_. Cresta nell’Engadina, il più alto villaggio
dell’Europa. Strada cattiva. Mary è stanca. Semaden 522 abitanti.
Vi dimora il banchiere Tosio. Corrispondente a Londra, Johnson Happ
and Co., Albrecht-street, 15. Ghiacciaio di Morteratsch che somiglia
agli altri già veduti. Spettacolo meraviglioso. Mary si riposerebbe
volentieri.

                             . . . . . . .

Un fiorentino ch’io conoscevo di vista passeggiava lungo il battello,
pensieroso colle mani dietro come D. Abbondio prima che incontrasse i
bravi; lo scansai. In patria lo derisero, io lo compiango. Lo dicono
invidioso; si può fargliene rimprovero? Siamo di buona fede: qual’è
l’uomo che non invidia un altro uomo? Alcuni invidiano la fantasia al
Verdi, la gloria al Manzoni, i danari al Torlonia; altri più modesti
invidiano il trono al Re; il mio compagno di viaggio, modestissimo fra
tutti, invidiava alla gente più di lui fortunata un ufficio diplomatico
e la commenda della Corona d’Italia.

La diplomazia fu il suo primo amore; egli pensò: “Dio buono! che mi
manca per essere un ottimo diplomatico? Parlo la lingua degli altri
meglio della mia, so dire, pensandoci, un complimento e una bugia
senza pensarci; non ho titoli, ma ho quattrini per comprarli; fumo
_manillas_; mi spalmo le mani due volte al giorno con la pasta di
mandorle; ho i modi affabili, l’inchino spontaneo; in gastronomia
sto tra’ primi, so che i migliori piselli nascono a Macon e che
la mortadella di Reims supera quella di Bologna. La pratica...
l’abilità!... oh! poi in fondo, questo mestiere di diplomatico dev’esser
molto facile... se se ne giudica dall’ingegno di coloro che lo
esercitano.„

Argomentazioni acute e nondimeno inefficaci. Gli toccò per entrare
nella diplomazia sobbarcarsi a un esame. Gli esami, è sentenza antica
oramai, non provano nulla e non provarono nemmeno ch’egli sapesse
verbo di quei tanti _diritti_ che si vuole opportunamente i diplomatici
conoscano, posto che debbono aiutare a violarli. Lo bocciarono e addio
legazione e commenda!

Allora raccolse intorno alla propria valentìa misconosciuta tutti gli
ordini eterocliti che il sacro sentimento dell’eguaglianza coltiva e la
rugiada democratica irrora sui soprabiti dei grandi italiani negletti
dal Governo o perseguitati dalla fortuna.

Il nastro paonazzo de’ _Salvatori_, l’amaranto dei _Fratelli
universali_, l’avana de’ _Pionieri del progresso_, il glauco degli
_Araldi della civiltà_ gli fregiarono l’occhiello composti e confusi
per lui in una rosetta elegante ostentata nella gloria del sole. Ed
egli passeggiando su e giù per il battello la sbirciava colla paga
alterezza di chi, nonostante la tristizia dei tempi, si sente al tempo
stesso salvatore, fratello, pioniere ed araldo!

Io rimpiangevo di non essere sceso a Friedrichshafen col mio simpatico
Inglese. Ci sono dei giorni nei quali lo star zitti rincresce; io
morivo di voglia di chiacchierare con qualcheduno; con chi? Col
capitano del battello? Aveva da fare; barattammo qualche parola, poi
rientrò nel suo stambugio; additandomi un giovanotto suo parente,
dottore in filosofia, che s’era ammogliato di fresco, e dopo avor fatto
con la sposa il viaggio di nozze _(Heirath-Reise)_ se ne ritornava con
lei a Stoccarda.

Erano seduti l’uno accanto all’altro; il marito aveva una faccia
rossa, grassa, concupiscente, la moglie floscia, pallida. Se avessi a
cercare anche per loro una rassomiglianza nella storia della pittura,
paragonerei lui a uno dei fumatori di Adriano Brawer, lei a una delle
Madonne clorotiche del Sassoferrato. Lui gesticolava ed istruiva a
voce alta la compagna intorno all’autorità del senso interiore, alla
obiettività e alla personalità dell’infinito, lei a occhi bassi pareva
compresa della picciolezza propria innanzi a tanto sapere, e ricamava,
non senza compunzione, una papalina, da coprire la testa al marito
finohè non gliela circondasse un’aureola di gloria.

Vicino a loro un vecchio scienziato; teneva una scatola da sigari
tutta piena d’insetti diligentemente infilzati in altrettanti spilli;
l’apriva e chiudeva ogni tantino. M’accostai a lui, ed egli mettendomi
vicino al naso or una, or un’altra di quelle bestiole, mentre mi
guardava di sopra gli occhiali, disse:

— Eleater rugosus, Platinus cærulæus — Platinus cærulæus, Eleater
rugosus.

Non potei levargli altro di bocca; non so nemmeno di che paese fosse;
chiamava gl’insetti col nome latino e aveva il collo del soprabito
unto; e queste sono consuetudini comuni a tutti gli scienziati del
mondo.

Parte di questa gente scese ad Immerstad, parte ad Hagnau; l’Inglese e
la figlia a Moersburg, patria del Mesmer. Il viaggio sarebbe loro parso
incompiuto, se non avessero calcato la terra che vide nascere il gran
profeta del magnetismo animale.

Sarei rimasto solo se non fossero salite sul battello due persone: una
donna ed un giovine, che mi dettero subito nell’occhio, l’una per la
stupenda bellezza del corpo e la espressione della fisonomia, l’altro
per la semplice eleganza delle vesti e la nobile disinvoltura del
portamento. _Lui_, se mettesse il conto, potrebbe descriversi, _Lei_
no. Nei ritratti di donna ci vuole una finezza alla quale difficilmente
si arriva; poeti e romanzieri, delineando con la penna figure di donna,
cadono per lo più nel massimo difetto dello fotografia: esagerano
i tratti rilevanti, alterano i delicati e guastano i più attraenti
aspetti femminili.

Quanti anni aveva? Chi lo sa? Che ha da fare con l’estetica il
calendario? Quando una donna adempie scrupolosamente il primo de’ suoi
doveri, — essere bella, — chi sarà così audace da investigare quante
volte agli albori autunnali abbia fissato gli occhi nel pianeta di
Venere, quante abbia destato l’invidia delle Oreadi che l’han vista,
d’estate, tuffarsi nella marina? Una battaglia terribile si combatte
quaggiù tra la più stupenda delle cose umane, — il volto di una bella
donna, — e la più crudele delle potenze misteriose: — il tempo; quando
il tempo è vinto dalla bellezza, io non interrogo, ammiro.

Aveva un vestito nero, leggiero, scollato; le spalle coperte da
una finissima trina di Malines nera anch’essa, sotto ai cui confusi
arabeschi appariva la pelle rosea, luminosa. Le pieghe del vestito, il
garbo ond’era ripreso sui fianchi, la semplicità con la quale era tutto
quanto foggiato, attestavano lo studio amorevole e quel felice istinto
de’ piaceri squisiti che si chiama gusto.

Vennero ambedue a sedersi vicino a me; parlarono e seppi così ch’erano
italiani. Non avendo nessuna voglia d’occuparmi de’ fatti loro, me ne
andai all’estremità opposta del battello. Il fanale rosso fu acceso a
poppa e rimasi nell’oscurità; credendosi soli cominciarono a parlare
più forte; un vento leggiero che cacciava la nebbia dalla superficie
del lago, portava sino a me le loro parole.


_Lei_. — Sicchè.... viaggia senza un fine determinato?

_Lui_. Per ammazzare il tempo.

_Lei_. Sarà.... ma....

_Lui_. Non mi crede?

_Lei_. Sì.... bensì è una cosa curiosa che lei, viaggiando senza saper
dove va, faccia la mia stessa precisa strada, si fermi alle stesse
locande alle quali mi fermo io, che so dove vado e perchè ci vado.

_Lui_. Ma! è un caso, un bel caso, ma un caso.

_Lei_. Badi; al caso io ci credo poco.

_Lui_. Che posso dirle? Lei sa dove va e ha preso la strada che doveva
prendere, stabilì prima di partire a quali locande si sarebbe fermata.
Io vado a zonzo in questo paese, in quell’altro, scendo sempre alla
prima locanda....

_Lei_. Non è vero.

_Lui_. .... alla prima che trovo.

_Lei_. Va bene: ma senta....

_Lui_. Mi faccia il piacere, metta da parte il _lei_; ho avuto l’onore
di ballar seco una mazurka in casa di Rustem-Bey e le ho lasciato
il giorno dopo il mio biglietto di visita; siamo stati insieme nel
Comitato per gli Asili infantili.... si può quasi dire che siamo in
intimità.

_Lei_. Odio il voi, non do del voi che ai servitori.

_Lui_. Allora....

_Lei_. Senta, le propongo una impresa eroica.

_Lui_. Dica, marchesa, dica.

_Lei_. Il caso la perseguita, a quel che pare, con una pertinacia
insolente; lo gastighi, lo deluda, lo vinca.

_Lui_. Cioè?

_Lei_. Cioè.... io vado a Baden; il caso, se lo lascia fare, ci conduce
anche lei.... lo canzoni: pigli la strada di Monaco.

_Lui_. Marchesa, mentre ella scherza sul fato, il fato le insegna a
rispettarlo. Guardi, io non sapevo che lei fosse diretta a Baden; le
ho detto che viaggiavo senza scopo, ma fra tante irresolutezze, ad
una cosa sola ero risoluto: a passare da Baden. Sa che ho studiato
medicina; non ho mai voluto esercitare e sono per conseguenza il mio
unico cliente. Per guarire da certi piccoli malanni mi sono ordinato
per quest’anno le acque di Baden. È un’ordinazione del medico,
marchesa, ci va della sua coscienza.

_Lei_. Ah! ah! glielo diceva io che il caso si sarebbe stancato alla
fine? Ho detto per chiasso; mi fermo a Carlsruhe da un vecchio amico
del mio povero marito, un antico segretario della legazione d’Austria
in Toscana.

_Lui_. Stamani a Friedrichshafen, quando caricavano i suoi bauli sul
battello, io vi ho visto mettere un cartellino su cui era scritto: _per
Baden_; le bugie hanno le gambe corte.

_Lei_. Cortissime, e lei ne ha detto una affermando di non sapere dove
io fossi diretta.

_Lui_. È vero!... Una bugia per uno; — dimentichi e perdoni, marchesa,
come io dimentico e perdono.

_Lei (dopo una breve pausa)_. Lasciamo andare gli scherzi; siamo intesi
dunque.

_Lui_. Eccome; lei va a Baden per.... non ho capito bene perchè ci
vada; io ci vado perchè il mio medico, l’uomo che mi conosce meglio e
che gode più d’ogni altro la mia fiducia, mi ha ordinato le acque.

_Lei_. L’avevo pregato di lasciare da parte gli scherzi non senza
una ragione. Parliamoci chiaro. Questa conversazione fatta nel mio
salottino mi spaventerebbe o mi farebbe ridere; qui sul lago di
Costanza, in battello, ci si può permettere un discorso franco,
anche con uno spensierato come lei. Io vado a Baden; troverò là molte
nemiche intime.... desidero che la sua compagnia così assidua non dia
motivi a chiacchiere sul conto mio. Quelle signore, dacchè son rimasta
vedova, si son sempre compiaciute nell’imaginarsi ch’io abbia così, di
nascosto, qualche capriccetto; io che bado pochissimo a quel che dice
il mondo, m’arrabbio ogni volta mi sento lanciare un’accusa simile.
Segreti, capricci no: potrei voler bene a un uomo, ma lo direi.

_Lui_. E lo sposerebbe...?

_Lei_. Secondo.

_Lui_. È tanto sincera quanto è bella.

_Lei_. Lasci stare i complimenti.

_Lui_. Se il complimento è una menzogna cortese, questo un complimento
non è. Che è bella lo sentirebbe anche se non lo sapesse, perchè
una donna sente d’esser bella prima che glielo dicano. Che è sincera
poi.... Sfido io! non c’è che lei capace di dire a un uomo: posso avere
un amante, e non provare il desiderio di mutarlo in marito.

_Lei_. Primo punto, non ho parlato di amanti... Ma via, sì, non voglio
fare ipocrisie; il significato era cotesto; oramai è andata. Sono
vedova e la mia schiettezza non fa danno a nessuno. Sicuro: potrei
avere un amante e non sentire il desiderio di farmene un marito. Che
vuole? Ho letto, non mi ricordo più in che libro, ma di certo in un
libro francese, perchè italiani non ne leggo mai....

_Lui_. Mai?

_Lei_. Mai; mi annoiano; dopo che s’è fatto l’Italia non vogliono
che si dica; ma siccome i libri italiani seguitano ad annoiarmi anche
dopo che s’è fatto l’Italia, io seguito a leggere i libri francesi. Le
amiche mie tengono i romanzi di Montépin consunti, accanto al letto, e
i libri indigeni sul tavolino di salotto. Io abborro da queste finzioni
meschine.... E poi non è vero che i libri francesi divertono di più?

_Lui_. Non lo so; a me divertono le conversazioni come quella che era
cominciata e mi annoiano le discussioni letterarie come quella a cui
vorrebbe condurmi. Dunque ha letto?...

_Lei_. Ah sì!... ho letto in un libro francese che ci sono due specie
di cantanti: quelli che hanno la voce e non sanno servirsene, e quelli
che saprebbero servirsene ma non l’hanno; lo stesso si potrebbe dire
della più gran parte dei mariti; quelli che sono adorati dalle mogli,
non se ne curano; quelli che fanno una grazia speciale ogni volta che
escono di casa, credono d’essere amati più della luce degli occhi e
opprimono a furia di tenerezze; sicchè bisogna star male con gli uni e
con gli altri.

_Lui_. E le eccezioni? Gli uomini che vogliono amare riamati e....?

_Lei_. Restano celibi; hanno troppo cuore e per conseguenza troppe
paure; formano la legione degli amanti onesti e devoti. Tutto ben
considerato non mi rimariterò. Circa all’avere un amante, — non mi lodi
tanto della mia sincerità, — son sincera... non voglio amare nessuno.

_Lui_. Eppure sono tanto vanesio da credere che muterà proponimento.

_Lei_. Oh! _(pausa)_.

_Lui_. Tant’è; oramai mi pare inutile....

_Lei_. Un momento. Anche nei romanzi francesi che leggo, salto a piè
pari tutte le riflessioni dell’autore: roba inutile, le riflessioni
le faccio da me; segua il mio esempio e salti la sua dichiarazione;
la faccio da me. Appena ha saputo ch’ero partita da Firenze m’è venuto
dietro, sebbene fosse ad Innsbruck da due settimane; ha ballato con me
da Rustem Bey una mazurka, che le ha mostrati fra una battuta e l’altra
tutti i miei pregi morali; è stato con me nel Comitato degli asili dove
non ho mai aperto bocca, e dal mio silenzio ha arguito non soltanto
il mio ingegno, ma anche la mia modestia.... A Firenze m’ha sempre
cercato, per disgrazia non m’ha trovato mai.... Sta bene?

_Lui_. Nulla di tutto questo.... parlo sul serio, Emilia....

_Lei_. Può seguitare a chiamarmi marchesa, non me ne ho per male.

_Lui_. Oh! non rida! Guardi un po’ intorno a sè. Se i raggi della luna
non penetrassero traverso la nebbia che copre il lago, avrebbe ragione
di credere che un raggio d’affetto non possa mai illuminare il cuore
d’uno scapato.... Io le voglio bene.

_Lei_. Quasi quanto a Rustem Bey e un po’ più che agli Asili infantili.

_Lui_. Non rida. Da quando? Che le importa? Ora che fissa nella luna
cotesti occhi fatati, le preme forse di sapere da quanti secoli gira
lassù? Come è nato quest’affetto? Ora che respira le brezze del lago,
si cura forse di conoscere quale fenomeno fisico ne abbia scavato il
bacino?

_Lei_. Sa che parla bene? Un po’ troppo elegante per una orazione
improvvisa forse....

_Lui_. O bene o male poco importa; ma ripeto che parlo sul serio.

_(Pausa)_.

_Lei_. Me l’avevano detto che era un uomo singolare: mi vuol bene e non
mi conosce.

_Lui_. Le voglio bene non per quello che so, ma per quello che credo
d’indovinare. La conosco poco e l’amo giù molto.

_Lei_. E forse m’ama molto perchè mi conosce poco.

_Lui_. Ma c’è proprio bisogno per voler bene a una donna d’esser stati
a scuola con lei? Io agli amori che cominciano da bambini non ci credo.
Mi ricordo benissimo di tutte le compagne della mia adolescenza, e
mi pare impossibile di sentire oggi la commozione più lieve per una
di quelle donne che mi figuro bambine con le labbra piene di conserva
e trafelate per aver giocato troppo al volano. L’amore ha bisogno di
veli dietro ai quali la percezione o l’istinto indovini ciò che non
appare; sotto l’aspetto di una donna bella come lei, l’amore nella sua
malinconica curiosità cerca e scopre tutti i requisiti dell’intelletto
e del cuore.

_Lei_. È uno spensierato o un poeta?

_Lui_. Perchè non tutte due le cose nello stesso tempo?

Il battello si fermò.

— Costanza! — gridò una voce dalla riva del lago.

_Lei_. Oh! eccoci. Mi pensi ai bauli. Dicono che Costanza è una bella
città.

_Lui_. Tocca a lei, marchesa, a farmici domiciliare.


Per le vie deserte di Costanza, per i palazzi e le chiese dove più
solenni durano le memorie di Lotario I, di Enrico III, di Federico
Barbarossa e di Giovanni Huss, io cercai invano per più giorni i due
simpatici viaggiatori.

Una sera finalmente li vidi seduti sulle rive del lago; parlavano
poco e di rado; ella coi suoi belli occhi umidi seguiva le striscie
luminose che le stelle cadenti tracciavano sull’azzurro del cielo;
egli fantasticava distratto dietro alle nuvolette che uscivano da una
sigaretta di Latakia.

Parlavano poco e si dicevano tante cose!

Ogni tanto cessavano da quella contemplazione, misteriosa voluttà
dello spirito, si guardavano e sorridevano. E Victor Ugo opina che due
sorrisi quando s’accostano spesso si confondono finalmente in un bacio.


— Wollen sie gefälligst Ihren werthen Namen auf das Fremdenbuch
schreiben?[1] — disse il cameriere del _Zühringer Hof_ a Friburgo,
presentando il libro de’ viaggiatori.

E _Lui_ seduto, mentre Emilia in piedi seguiva col guardo lo scorrere
della penna, vi scrisse:

— Il conte Carlo F.... e sua moglie.

  _Monsummano. 1869._




LA MARCHESA.


I.

Il ballo era finito allo otto della mattina; le carrozze sfilavano
lente innanzi al palazzo del principe Dolgoruki, russo ricchissimo,
che spendeva a Firenze le verghe d’argento tratte dalle miniere della
Siberia e aveva raccolto in quella notte nelle proprie sale quanti
nella città erano noti per nobiltà di lignaggio, o per larghezza di
censo; ogni tanto compariva sulla soglia dell’atrio un servitore in
livrea, una signora s’alzava per andarsene, e si vedeva un brulichìo,
un mover di mani, un curvarsi di schiene; saluti e sorrisi a bizzeffe.

Perchè nell’atrio tutto ornato con piramidi di camelie si adunavano,
aspettando la carrozza, le signore alle quali era piaciuto godere
sino alla fine il più gaio dei balli carnevaleschi; e là sedute,
continuavano le chiacchiere incominciate la sera innanzi. Gli uomini
recitavano al solito la filastrocca dei complimenti e le donne al
solito gli stavano a sentire con interno indicibile compiacimento;
si parlava d’un po’ di tutto; qua uno raccontava in segreto a dieci o
dodici persone gli scandalucci della festa: là un altro teneva allegro
un crocchio canzonando questo e quello. Guardinga, silenziosa con
l’occhio e l’orecchio attento si raccoglieva intorno ai gruppi delle
signore la falange innocente degli _accompagnatori_; gente che forma
un solo desiderio dorante il giorno e si prepara un solo godimento
durante la sera: quello di dare il braccio a una signora purchessia
quando va al ballo, al teatro; condurla quand’esce sino alla carrozza,
e chiudendo lo sportello augurarle la felice notte. Ciambellani delle
corti d’amore, introducono gli altri nelle sale del re, e aspettano
fuori dell’uscio che sia finita l’udienza.

Più ammirata, più festeggiata d’ogni altra, sedeva tra due grandi
gruppi di camelie bianche la Marchesa Clara di Villareale; intorno
a lei la conversazione era meno rapida, meno festosa che altrove.
La Marchesa appariva così portentosamente bella, che gli uomini la
guardavano e basta; per discorrere bisognava distrarsi ed eglino se ne
stavano a contemplarla in silenzio.

Vi sono al mondo donne le quali non piacciono a nessuno; è difficile
trovarne che piacciano a tutti. Perchè gli uomini le guardano con
occhio diverso; quegli desidera la maestà delle forme, il torso
vegeto, le braccia robuste; ammira le statue di Giunone e vagheggia
i ritratti della Fornarina; questi cerca invece nelle donne la grazia
della fisonomia, la dolcezza del sorriso, e darebbe non so che cosa per
far la conoscenza della Mimi Pinson di Alfredo De Musset. Lasciamo da
parte l’estetica e studiamo i fatti quotidiani della vita; come va che
spesso noi preferiamo ai lineamenti purissimi di una _Venere_ in carne
e in ossa gli angoli bizzarri di un visetto scontorto? Come va che
restiamo impassibili innanzi a una donna bella nel compiuto svolgimento
delle forme femminili dai grandi occhi umidi, dalla pelle bianca, dai
capelli folti, morbidi, lunghi e ci sentiamo attratti verso una donnina
magrina, diafana, con gli occhi semichiusi, coi capelli corti, aridi,
scarruffati?

Eppure ciò è così vero, che alla donna non importa tanto di _essere_
realmente bella, quanto di _parere_ bella a qualcheduno; e se domani
una di quelle leggi che nessuno fa e tutti rispettano, in nome della
moda e in onta alla Grecia classica mettesse al bando i volti di un
purissimo ovale, voi vedreste le donne affaticarsi a togliere dai
propri lineamenti ogni lontana rassomiglianza con la Afrodite di Cnido
_per terras inclyta_ o con la _Diana_ del Museo di Versailles. Credete
voi che la bellissima signora Tale dei Tali la quale, metto caso, non è
stata al ballo di iersera lodata nè curata da alcuno, possa consolarsi
stamani leggendo ciò che della bellezza sta scritto nel _Convito_ di
Senofonte o nelle _Grazie_ del Wieland? Neanche per sogno. Quell’altra
invece godrà che, guardandosi nello specchio e persuadendosi di non
essere bella, potrà con una scrollatina di spalle dire a sè stessa:
“Che importa? mi basta di piacere a lui!„ _Piacere a lui_: ambizioni e
speranze, cure e desideri sono tutti chiusi per la donna in questo tre
modeste parole.

La Marchesa di Villareale era una delle poche donne innanzi alle quali
tutti gli uomini fanno un atto di meraviglia e un peccato di gola.
Aveva ventotto anni; rare volte sopra un volto femminile s’aprì più
rigoglioso e vago ad un tempo il fiore della gioventù; bionda, alta,
snella, nel suo viso pallido, marmoreo, spirava non so quale fierezza
selvaggia temperata in parte dalla dolcezza quasi infantile dei suoi
grandi occhi celesti; la vita sottilissima, larghe le spalle, il tronco
voluttuosamente flessuoso. La natura che di rado illumina la fronte
delle donne bellissime col raggio dell’intelletto aveva fatta per la
Marchesa un’eccezione; bastava guardarla per ammirarne la bellezza,
parlarle per intendere ch’era una donna d’ingegno, vederla volgere li
occhi per crederla buona.

Quella notte pareva anche più bella del solito, con un vestito
di stoffa bianca guernito di marabù, il quale, sebbene ampio e
ricchissimo, la cingeva stretta ai fianchi e ne disegnava le forme
con elegante armonia; Worth, il più gran sarto da donna fra quanti
fiorirono a Parigi, l’Atene de’ sarti, aveva con quel vestito superato
sè stesso. Al collo la Marchesa portava una collana, lavoro di arte
squisito uscito dalle officine del Castellani e raffigurante una corona
di quercia, di cui ogni ghianda era una grossa perla; sulla testa un
diadema simile alla collana; accomodato con tanto gusto, da evitare
il gran difetto dei diademi, che danno alle signore una tal quale
rassomiglianza con le regine di palco scenico; i capelli fermati sulla
parte posteriore della testa le scendevano a ricci, gradatamente sulle
spalle. Quando tutte le altre mostravano nella cera giallognola, nelle
occhiaie profonde, nel corpo accasciato la traccia della veglia e delle
fatiche, ella invece era fresca come se si levasse allora.

Quando comparve sulla soglia il servitore di casa Villareale, la
Marchesa si alzò; tre o quattro uomini si fecero innanzi per darle il
braccio; ella fingendo non accorgersi di quelle offerte cortesi, si
volse ad Alberto Valmarana che stava immobile a guardarla, e:

— Andiamo, via, si scota: che cos’ha stasera? Mi dia il suo braccio.

E appoggiata al braccio di lui traversò l’atrio, strinse la mano alla
Contessa Alberici che era stata in conservatorio con lei, salutò col
più amabile dei sorrisi amici e conoscenti ed uscì.

Alberto l’accompagnò sino alla carrozza; e chinandosi per raccogliere
un lembo della veste di lei rimasto fuori dello sportello, sussurrò
queste parole:

— Stasera alle nove dunque?...

La Marchesa abbassò lievemente la testa; la carrozza partì. Alberto
rientrando nel palazzo trovò dietro a sè il Marchese di Villareale,
marito di Clara.

— Torni dentro? — domandò questi ad Alberto.

— Cinque minuti; voglio stringere la mano alla Contessa Alberici che
non ho ancora salutata.

— E poi?

— E poi.... vado a letto.

— Potresti venire a far colazione da noi.

— No, grazie.

— Ci vediamo dunque al teatro?...

— Può darsi.

Il Marchese se ne andò, Alberto s’incamminò verso la Contessa Alberici.
Ella appena lo vide accostarsele gli stese la mano.

— Andiamo, via, meglio tardi che mai.

— Scusi, ma....

E la contessa a bassa voce perchè gli altri non la udissero:

— Che cosa vuoi dire esser felici! si diventa egoisti; non si pensa
più che alla propria contentezza! — E... lei è felice molto, non è
vero? Eh non dica di no: le si legge in viso. Vada, vada, non la voglio
trattenere.

Alberto s’allontanò senza rispondere. La Contessa aveva bensì detto
il vero: gli si leggeva nel volto la gioia; nondimeno ella gli tenne
dietro con uno sguardo pieno di mestizia e di compassione.


II.

Se Alberto Valmarana avesse avuto venti anni, egli uscendo dal palazzo
Dolgornki, imbrancatosi con gli amici, sarebbe andato probabilmente
a far colazione con loro, avrebbe bevuto alla salute della sua bella
e, senza nominarla, adoperato per guisa da fare a tutti intendere
facilmente chi fosse.

Alberto s’avvicinava ai trenta e voleva godere le estreme gioie della
gioventù, goderle col desiderio prima, colla memoria poi, e se ne
andava a casa solo mentre sonavano le nove della mattina, pensando
all’appuntamento che Clara gli aveva dato per le nove della sera; ci
pensava come se quello fosse stato il loro primo convegno segreto.... e
non era.

Io che so di raccontare una storia vera, m’impensierisco se imagino che
qualcheduno già dica fra sè:

— Oh Dio! questo Alberto! come si sente subito che è il personaggio di
un romanzo.

Lo so. Lei, uomo sodo, che piglia il mondo come viene, che s’è
avvezzato oramai a sorridere delle passioni umane, lei dirà che Alberto
non aveva tutti i suoi giorni.

Lei, signora mia, che strascicando faticosamente amori infiacchiti
perdè non pure il ricordo, ma il desiderio delle commozioni prime, lei
dirà che Alberto la fa ridere.

Pazienza! Alberto era così ed io non posso mutare l’indole sua per far
piacere a lor signori; se lo avessi educato io me lo sarei tirato su
un egoista, giovandomi dei consigli preziosi di lei, uomo sodo, e dei
suoi, anche più preziosi, signora mia; ma lasciato a sè stesso egli,
povero ragazzo, crebbe pieno d’ubbìe; aveva tra l’altre quella d’amare,
vivendo in mezzo a gente che a mala pena ha vigori sufficienti per fare
all’amore.

Quando Alberto entrò in casa, il cameriere gli si fece incontro.

— C’è il signor Mario.

— Dove?

— In salotto.

Alberto aprì la porta; sopra il canapè Mario Loveni, più che amico
fratello suo, dormiva saporitamente, ravvolto in un cappotto alla
maremmana.

Reno, un bel cane da caccia di razza spagnola, dormiva anch’esso vicino
al padrone.


III.

Al rumore che Alberto fece entrando nella stanza, Reno si svegliò e
con un salto gli fu addosso dimenando la coda e divincolandosi. E Mario
balzato in piedi,

— Finalmente! — gridò, andando incontro all’amico.

— Caro Mario!

Alberto era andato a casa per starsene solo; dirò meglio: per stare
_con lei_, per ripensare a tutte le parole che Clara gli aveva dette
durante il ballo, per raccogliere le memorie e aprire a sè stesso i
tesori adunati nel proprio cuore.

Per quanto dunque volesse bene a Mario, per quanto fossero passati
quattro mesi dacchè egli non l’aveva veduto, non potè non essere un
tantino disturbato dalla presenza di lui; volle vincersi e simulare una
festosa accoglienza; ma negl’infingimenti era poco abile e Mario tanto
accorto da non lasciarsi pigliare a quei lacci.

— Come mai sei qui? Quando sei tornato? Di dove vieni?

Mario stette un momento senza rispondere poi:

— Vengo, — disse — da Campomoro dove sono arrivato ieri sera; son
qui e non so nemmeno io perchè ci sono. Ero venuto per rivederti e
per abbracciarti.... sperando di essere accolto un po’ meglio. T’ho
rivisto, non t’ho abbracciato, ma non importa, e me ne torno via....

— Come? Subito?

— Eh perdio! che vuoi che ci resti a fare? Sono stato quattro mesi
a caccia in Sardegna e in quattro mesi mi hai scritto una volta per
ringraziarmi delle pernici che ti mandai. Torno ieri sera in villa
stanco morto; le strade sono ghiacciate e non mi riesce di trovare un
legno che mi conduca a Firenze; senza sgomentarmi fo a piedi, di notte,
dieci chilometri per il tuo bel muso. Arrivo alle cinque, sei fuori;
torno alle nove e mi accogli come un seccatore.... Reno, qui, smetti di
far le carezze a cotesto signore; l’uggisce il padrone.... o figurati
il cane!...

— No, aspetta, Mario.... ti dirò....

— Che cosa? Quel che mi diresti l’ho indovinato; il resto non lo so e
non me lo dici di certo.

— Non ti capisco.

— Oh! mi spiego subito io; ma prima fammi il piacere d’andarti a levare
cotesta maledetta cravatta bianca.

Alberto entrò in camera sua, Mario si sdraiò sopra una poltrona
vicina al caminetto e ponendo tra le ginocchia la testa del cane, e
accarezzandolo pensava:

— Oh! Reno, Reno, povera bestia! campate dimolto se vi riesce; voi
almeno siete sempre lo stesso; e quando farete la corbelleria di
morire, l’ultimo sguardo di cotesti vostri belli occhioni sarà per il
vostro padrone. Campate dimolto, povero Reno! morto voi, morti tutti;
sopra Alberto non c’è da contarci più.... ce lo hanno portato via e
a me pensa tanto, quanto voi al primo beccaccino che avete puntato.
Pazienza! seguiteremo a andare a caccia, a star soli; ci annoieremo
insieme, mugoleremo insieme; voi seguiterete a dimostrarmi che la
vostra specie è migliore della mia ed io seguiterò ad ammirarvi e a
volervi bene.

L’uscio s’aprì e Alberto rientrò nella stanza.

— Mettiti lì, — disse Mario, accennandogli una poltrona dirimpetto alla
propria; — mettiti lì e rispondi.

— Ah! si tratta proprio di un interrogatorio? — domandò sorridendo
Alberto.

— In tutte le regole. Avanti dunque: come si chiama?

— Chi?

— Come chi? Lei.

— Lei?.... — domandò Alberto facendo il meravigliato; e arrossì.

— Ah! fai il viso rosso? T’hanno guastato meno di quel che credevo.
Dunque come si chiama?

— Oh! spiegati più chiaro perchè io non ti capisco davvero.

— Ah! non mi capisci? Senti, figliolo mio, può darsi che in quattro
anni dacchè sto in campagna senza vedere anima viva quasi mai, io sia
diventato un villano, ma un imbecille no.... Tu sei innamorato fino
alla punta dei capelli....

— Ma che!...

— Fino alla punta dei capelli... Dacchè ci conosciamo, ed è molto
tempo, non è passata settimana che tu non mi abbia scritto; sei venuto
spesso a trovarmi a Campomoro e mi hai ricevuto a braccia aperte ogni
volta che comparivo a Firenze. Oggi invece stai sulle spine; non hai
coraggio di dirmi “vattene„ ma se me ne andassi ti farei un piacerone.
Un mutamento c’è. La ragione? Io l’ho trovata, tu provati a darmene
un’altra se ti riesce.

— E se fossi innamorato?

— Se fossi! Bella ipotesi; se tu fossi, giocheresti, caro mio, un gioco
pericoloso. Potrebbe essere una fortuna o una disgrazia; ma le fortune
capitano tanto di rado!...

— Non mi fare lo scettico; hai una benedetta smania di apparire
peggio.... cioè meno buono di quel che sei; ma tanto, lo sai, non ti
credo....

— Che c’entra lo scetticismo? Se tu avessi diciotto anni sarebbe un
altro paio di maniche. A quell’età l’amore viene in un giorno e se ne
va in un’ora! Ma tu ne hai trenta, caro mio, a momenti. Se si trattasse
d’una ragazza e tu volessi pigliar moglie....

— Ma e che cosa ne sai?

— Oh! fammi il famoso piacere!... Se tu avessi avuto un’idea simile,
a quest’ora m’avresti scritto più lettere che non ho capelli in capo.
Già, si comincia, che una ragazza me la avresti fatta conoscere. Non
perdiamo tempo in chiacchiere.... Niente ragazza, niente matrimonio.
Dev’essere un de’ soliti amoracci....

— Mario!...

— Eh! non c’è nè Mario nè Silla. Ho detto amoracci e non mi ricredo.
Contentezze poche e guai dimolti. È così, dev’essere così ed è giusto
che sia così. E meno male se t’intoppi in una donna buona; ma con la
poesia che ti frulla per il cervello e cotesta bella esperienza che
ti ritrovi, non mi farebbe specie tu cascassi fra le unghie di qualche
strega, che ti desse il mal d’occhio per tutta la vita.

Alberto si alzò come spinto da uno scatto di molla; era impallidito
ad un tratto. La ipotesi gli parve tale un oltraggio per Clara, che,
dimenticando in un momento tutte le prove d’amicizia vera che Mario gli
aveva date, non accorgendosi neppure che quella era una testimonianza
d’affetto:

— Ma che te ne importa? — disse. — Lasciami un po’ fare quel che voglio
e non mi seccare.

Mario si alzò alla sua volta:

— Ah! che me ne importa? Eh capisco! Tu ti scordi d’ogni cosa, e per
conseguenza ti scordi anche che siamo amici da un pezzo, che dal giorno
in cui t’ho conosciuto t’ho voluto bene come a un fratello. Sicuro che
me ne importa; perchè anch’io ho la mia buona parte di egoismo e forse
quello che amo in te non è che l’ombra di me medesimo. La vita, caro
mio, la conosco più di te.... Sì; non c’è da alzar le spalle, più di
te. Pochi uomini sono entrati nel mondo con tanta fede quanta ne avevo
io; negavo il male con la sicurezza dello stoico che nega il dolore.
Passò quel tempo; e se ora ti secco con le mie sorveglianze gli è
perchè ho paura. Già, ho paura che tu ti trovi un bel giorno, come è
successo a me, a aver due soli affetti nella vita: un uomo e un cane;
un uomo al quale do noia e un cane che non m’intende.... Povero Reno!
abbi pazienza!

— Mario, scusa....

— No, lasciamo andare. È inutile di seguitare a discorrere; tra le cose
che ho imparate c’è anche questa: che dar consigli e prestar danari son
i due mezzi più spicciativi per disfarsi degli amici. Lasciamo andare.
Ho capito. Torno a Campomoro. Reno, su; se hai bisogno sai dove sto....

Prese sul canapè il cappotto, fece un cenno al cane ed uscì. Alberto
gli corse dietro fin sulle scale, richiamandolo; inutilmente.

Rimasto solo si dolse seco stesso del contegno tenuto con Mario; sapeva
i suoi passati dolori e si rammaricava d’aver riaperto vecchie piaghe.
Fu l’affare di dieci minuti poco più; poi si sdraiò di nuovo sulla
poltrona....

Come sono egoisti gl’innamorati!


IV.

Mario Loveni era nato a cattiva luna; arrivato ai trent’anni non
poteva, richiamando alla mente il passato, trovarvi conforto di memorie
care. Sua madre morì nel darlo alla luce; suo padre, banchiere tutto
dedito ai negozi, lo pose in collegio a otto anni; andava un paio
di volte al mese a vederlo per una mezz’ora, gli portava de’ dolci,
gli faceva due carezze svogliate e partiva; non aveva nell’animo del
figliolo seminato l’affetto e non lo raccolse. Mario stette sei anni in
collegio, sei anni di tormenti. I compagni lo burlavano per la sua cera
malinconica e la ritrosìa, i precettori lo trattavano con sussiego; ed
egli che, quantunque bambino, desiderava un po’ di affetto, trovava lo
scherno sciocco da una parte, la fredda autorità dall’altra. Un giorno
il socio di suo padre gli annunziò che questi era morto per una caduta
da cavallo, e prima di chiudere gli occhi, lo aveva nominato tutore del
figliolo. Il tutore levò Mario dal collegio; uomo che al padre di lui
rassomigliava nell’indole, nelle consuetudini, nei pensamenti, seguitò
col ragazzo la stessa musica; lo confinò in campagna a Campomoro,
gli andò a fare una visitina a scappa scappa di quando in quando, gli
raccomandò al solito di studiare e di farsi uomo, e non se ne curò più
che tanto.

Mario nelle solitudini della sua villa si dette tutto agli studi, e dai
quattordici a’ venti anni non visse che per imparare; così che quando
uscì dalla minore età ed il tutore, consegnandogli il ricco patrimonio
lasciato dal padre, lo fece libero di sè, Mario era un dotto, ma non
un uomo; sapeva a mente Plutarco e si figurava di non trovare lungo
il proprio cammino che eroi. Tutti i suoi pensieri volavano colle ali
dell’entusiasmo verso un polo unico: l’amore del buono. Era ricco,
simpatico e trovò nel bel mondo, di cui si fece assiduo frequentatore,
molti che gli proffersero la propria amicizia; ed egli in compenso aprì
loro il cuore riboccante di affetto e la borsa pingue di danari. Gli
amici, da gente discreta, scelsero, s’intende, la cosa meno preziosa:
i danari; e in capo a due anni facendo i conti, Mario s’avvide che
aveva buttato via un quinto del suo patrimonio in imprestiti forzati,
consolidati, senza pagamento di frutti.

— Meno male, pensò, che ho scapitato solamente qualche centinaio di
migliaia di lire; poteva andarmi anche peggio!

Volle dare alla propria vita un intento. Nei libri aveva attinto anche
lui il desiderio onde è oggi tormentata la più gran parte degli uomini
che pensano, di trovare una medicina per guarire le piaghe della
umanità. Dato un addio ai salotti, scese nelle officine; gli pareva
di conoscerlo il popolo; glie lo avevano dipinto con tanta evidenza il
Fourier, il Cabet, il Blanc, il Proudhon. Praticò gli artigiani; nelle
anime loro esulcerate dalla servitù, egli voleva versare il balsamo
della pace; e sedate le collere, suscitare, aiutare le oneste speranze.

E trovò nelle officine e nelle soffitte ciò che aveva trovato altrove:
appetiti infingardi, bramosie selvagge, alimentati quotidianamente
dalla superbia e dall’invidia; prepotenze, rivalità senza fine,
brutture d’ogni maniera.

Dure prove, dalle quali un altro sarebbe uscito sgomento. Mario no;
era tale in lui il bisogno di credere, che quando un sogno si dileguava
egli si cullava in un altro.

Alcuni chiamano debolezza questo creare i fantasmi per adorarli poi,
incielati in una specie di paradiso morale. Ma chi soffre della triste
realtà di questo mondo mediocre, trova, sollievo ineffabile, vigori
rinascenti di continuo per spandere le proprie effusioni sopra queste
creazioni ideali della fantasia, le quali traggono da noi quanto v’ha
di buono, di puro, di sacro in fondo a noi stessi.

— “Ma è inutile!„ soggiungono.

Già; inutile, come contemplare commossi il sole che tramonta, o la luna
che sorge; inutile, come lo infiammarsi di fervore e di affetto innanzi
a qualche capolavoro dell’arte; inutile come l’amare, come il soffrire,
come la vita istessa che ha due sole cose veramente grandi: l’amore e
il dolore.

Eppure v’hanno uomini d’acciaio e donne di neve che non intendono
queste caste voluttà dello spirito; sogghignano e compiangono. Anche i
soldati d’Attila schernivano i banchetti dei nipoti d’Apicio!

Al tempo del suo apostolato democratico, Mario conobbe una di quelle
ragazze che credono in coscienza di fare le crestaie ed hanno la
pericolosa consuetudine di lasciare la chiave nell’uscio di casa. Non
era bella, ma passionata nello sguardo pieno di mistero. Mario credè
leggervi il tedio della vita che ella menava, il desiderio di pace,
il rammarico d’averla perduta forse per sempre. L’amò come sapeva
amar lui; la vestì al solito dei colori dell’imaginazione e le prestò
generosamente tutti i requisiti che le mancavano. Fu seco imperioso
come un uomo e ad un tempo docile come un bambino; era ignorante,
si piegò con pazienza a educarla, era corrotta, volle correggerla!
ahimè!...

Avete un bel serrare la cingallegra in una gabbia d’oro e darle ogni
giorno il panìco e ripararla dai geli del verno, dagli ardori della
canicola; lasciatele l’usciolino socchiuso ed essa tornerà a’ campi
aperti. Un bel giorno Mario tornando a casa trovò la gabbia vuota; la
cingallegra aveva ripresa la via delle selve. Giulia se n’era andata
lasciando a Mario una lettera, documento importantissimo per il quale
si faceva manifesto che egli non era riuscito a insegnarle nè la
morale, nè la calligrafia.

Fu quello un brutto giorno per Mario; si sentì scosso; e capì che
oramai nulla, se non amarezze solitarie, poteva aspettare dalla vita.

Comprò un cane, Reno, e andò a nascondersi a Campomoro.

Là in campagna, stracco qualche volta per le lunghe passeggiate
sulla collina, godeva se non altro, dei benefizi del sonno, e fino
all’autunno le cose andavano meno male; quando l’inverno arrivava,
Mario era costretto a passare le sue giornate innanzi al fuoco; e,
solo, vagheggiava gli antichi inganni, e gli era unico conforto il
ricordarsi di avere sperato!

Reno compieva alla meglio il suo ufficio d’amico affezionato e discreto.

Ma quando la sera sul tardi la povera bestia si poneva a dormire sopra
una seggiola in prossimità del camino, Mario pensava tra sè:

— Amare una bestia è qualcosa, ma non basta! Se là su quella poltrona
fosse seduta una donna, eh! il tempo passerebbe senza ch’io me ne
accorgessi; la tramontana soffierebbe senza ch’io mi domandassi al
solito: “Che farò domani?„ E vivrei un po’ meglio che in questa
solitudine notturna, dove non ho altra occupazione che attizzare
il fuoco e porgere l’orecchio al vento che mulina tra i platani del
viale!...

Eppure, se dopo una notte insonne apriva la finestra e la luce
dell’alba entrava nella sua stanza insieme con l’aria fresca impregnata
d’aromi silvestri, sentiva rinvigorire il corpo e l’animo rinnovarsi;
usciva a godere delle commozioni dolci e tranquille che la natura
dà per nulla ai suoi amici più oscuri; e se una nuova speranza non
fosso venuta a tormentarlo, succeduta da un nuovo dolore, forse egli
si sarebbe acquetato per sempre nel convincimento che un breve lembo
di terra, qualche albero, un sentiero angusto cui fiancheggino le
borraccine e il lavoro facile e portentoso della natura bastano ai
bisogni dell’uomo che pensa e che sente.

Un giorno ch’egli faceva appunto una di queste camminate s’imbattè
in una bambina di circa otto anni, sudicia, stenta. Vedendolo, ella
si fermò, e parve volesse chiedergli qualcosa; poi, come vinta dal
ritegno, abbassò gli occhi e tirò per la sua strada. Mario prima le
tenne dietro con lo sguardo, poi la chiamò.

La bambina si volse.

— Come ti chiami, bimba?

— Carmela.

— E dove stai?

— Alla Pieve de’ Monti.

— Così lontano? E dove vai?

— A Firenze.

— A che fare?

— A vedere la mamma.

— E vai sola?

— Chi m’ha a accompagnare? Il babbo non l’ho più.

— E la mamma t’ha lasciato? Dov’è?

La bambina si strinse nelle spalle e non rispose. Mario sedè sopra un
mucchio di sassi, fece sedere accanto a sè quella povera creatura, le
ripetè molte volte e senza frutto l’istessa domanda. Alla fine:

— Tu non puoi andare da te, bambina mia, a Firenze.

— Posso.

— Ma a casa non ci hai nessuno?

— No.

— Facciamo così, vieni da me; stasera ti riposerai e domattina, se ti
parrà, te ne anderai via.

La bambina non fiatò; ma quando Mario si mosse gli tenne dietro
silenziosa. Egli la prese per la mano, che scottava e tremava; vinse la
repugnanza destata in lui dalla pelle della piccina coperta di sudore e
di polvere e se la portò in collo fino a Campomoro.

Il giorno dopo Mario, che aveva chiesto informazioni alla Pieve dei
Monti, sapeva per filo e per segno la storia di quella creatura. Era
la figliola di un muratore morto un anno innanzi; la madre di lei era
stata condotta in carcere pochi giorni prima, rea confessa di furto
qualificato.

Quando si dimostrò con la bambina al fatto d’ogni cosa, questa dette
in un dirotto pianto, nascondendo dalla vergogna il viso tra le mani;
e tanto lo pregò e scongiurò perchè la mandasse a vedere la madre, che
Mario prese il partito di condurla egli stesso a Firenze.

Ottenne non senza qualche difficoltà il permesso di accompagnarla nella
prigione.

Quando v’entrarono, la donna se ne stava accoccolata in un angolo;
appena riconobbe la bambina:

— Che sei venuta a fare? — domandò brusca.

— L’ho condotta qui perchè voleva vedervi — rispose Mario — la trovai
l’altro giorno sulla strada maestra. Buon per lei e buon per voi! se
non ero io a quest’ora sarebbe morta di freddo e di fame.

— To! chi _gl_’insegna a far la girellona? Se restava a casa,
qualcheduno ci avrebbe pensato anche a lei; sta meglio lei fuori che io
dentro.

La bambina intanto singhiozzava a capo basso senza dire una parola.

— Siete disposta a dare legalmente il vostro consenso perchè io la
tenga con me? Ve la restituirò quando avrete scontata la vostra pena.

— Per me? Uhm! faocia un po’ lei! O fuori o dentro con che l’ho
a campare io? Se il _mi’ omo_ mi avesse dato retta la sarebbe
ita più liscia. Glielo dissi io quando la venne al mondo: portala
agl’_Innocenti_... la rota la c’è apposta per buttarci i figlioli de’
poveri. Ma lui no!... volle far di _su’_ testa. E c’è cresciuto in casa
cotesto tisicume che non sa far nulla, che non può far nulla... _ora
gli dole_ il capo... ora ha gli stomachini....

— Dunque me lo date il permesso?

— Magari!

— Bene: via, piccina, di’ addio alla mamma e vieni con me.

La bimba, che il linguaggio della madre non aveva meravigliato perchè
c’era assuefatta, le si accostò, le dette un bacio e,

— Addio, mamma — disse; — vo con questo signore: quando ti manderanno
via, se mi vorrai, verrò... se, no... pazienza! ma quand’esci di qui,
per l’amor di Dio e del povero babbo bada di non ci tornar più!

Quel dialogo breve bastò a mutare in affetto profondo la pietà
che nell’animo di Mario aveva ispirata la bambina; la ricondusse a
Campomoro, le insegnò leggere e scrivere e, sebbene non credente, le
parlò di Dio; conosceva gli angosciosi accasciamenti del dubbio e lei
volle paga nella serenità della fede; si adoperò con ogni sollecitudine
a rattoppare, come suol dirsi, quel corpicciattolo smunto e malaticcio;
e a poco a poco nella dolce consuetudine dimenticando il passato, si
figurò a volte che Carmela fosse sua figliola.

Ella obbedì a ogni volontà del benefattore e l’amò; ma non potè mai
dargli una consolazione da lui desideratissima; quella di vederla
sorridere.

Una gran fatica dovè durare Mario per indurla a dargli del _tu_. Non
c’era verso di piegarcela; dapprima non volle, poi per far piacere a
lui ci si adattò; ma non le riusciva e i dialoghi loro erano qualche
volta curiosissimi.

— Senta, — diceva Carmela.

— No: _senti_. Te l’ho già detto, voglio che tu mi dia del tu.

— Se non mi riesce!

— Provati; ci piglierai l’assuefazione.

— Sì, ma si comincierà un’altra volta, ora no...

— Ora, ora....

— Senti dunque: l’ho letto quel libriccino che tu mi desti ieri sera....

— Ebbene?

— Ma non l’ho capito; se non me lo spiega....

— ..... Spieghi.

— Spieghi tu... quando tu mi dici una cosa intendo subito; da me non
son buona a nulla: non mi insegnavano niente lassù al paese.... e se
quel giorno non avessi incontrato lei....

— Daccapo!

— Ah! già!... ma se glielo dico che non mi riesce.

E gli buttava sorridendo le braccia al collo, ed egli la copriva di
baci.

Mario menandola a passeggiare seco per la campagna si studiava con
la parola piana, amorevole di addentrarla nei segreti della natura;
una foglia mulinata dal vento, un grappolo d’uva indorato dal sole,
un pettirosso svolazzante per la siepe porgevano argomento a quelle
lezioni che Carmela ascoltava a bocca aperta come novelle di fate.
Nondimeno qualche volta si faceva trista ad un tratto e Mario,
ripensando le cose dette, raccapezzava l’associazione d’idee per
cui ella s’era condotta col pensiero al padre morto, alla madre
imprigionata.

E passarono tre anni.

Una volta Mario costretto ad allontanarsi per qualche giorno da
Campomoro fidò Carmela a una donna di casa e partì.

La bambina, che in tre anni non s’era staccata da Mario un giorno
solo, divenne triste. Non faceva che piangere; la donna inquieta, la
quale cercava ogni mezzo per distrarla, si arrese al desiderio che
quella mostrò di andare a vedere il proprio paesetto e ve la condusse.
Arrivata là Carmela ebbe un solo pensiero: domandare notizie di sua
madre; e seppe che, scontata la pena, era tornata a casa, rimastavi sei
mesi, arrestata daccapo e daccapo condannata per furto.

Quando, la settimana dopo, Mario tornò a Campomoro trovò la bambina
malata; dalla gita alla Pieve de’ Monti non aveva avuto più bene;
ogni giorno l’assaliva, prostrandola, una febbre violenta. Parve
da principio cosa non grave, poi Carmela peggiorò, lagnandosi di
fortissimi dolori alla testa. Il medico discorse di tifoidèa ed
espresse il timore che la bambina, debole com’era, non giungesse a
superarla.

Dodici giorni, dodici notti stette Mario al capezzale di quella
povera bimba. Ella destandosi talvolta dall’assopimento morboso, lo
sorprendeva piangente e,

— Perchè piangi? — diceva. — Non ti lascio mica, sai?

Quella rinascente fiducia di lei alimentava nel cuore di Mario la
speranza, che il medico procurava invece di spengere. Una mattina
Carmela, sollevando lo scarno braccino, gli fece cenno d’accostarsi e
colla voce fioca così che pareva respiro:

— Sto male, — disse — non ti veggo quasi più....

Poi, dopo una pausa affannosa:

— Se mai non guarisco, ci penserai, eh? alla mamma... non ha da
mangiare, poverina... e per questo...

Cercò la mano di Mario la tenne un pezzo fra le sue senza aggiungere
sillaba, poi l’abbandonò e parve uscire di sentimento.

Non parlò, nè si mosse più.

A notte inoltrata il modico e Mario stavano in piedi ambedue, questi
da un lato, quegli dal lato opposto del letto; la donna di casa s’era
appisolata sopra una poltrona. Carmela giaceva supina, immobile; a un
tratto aprì gli occhi e sorrise.

— Ha aperto gli occhi — mormorò Mario volgendosi al medico.

— Aspetta, signor Mario, — disse quegli dopo un momento — la sua mano
che glieli chiuda.

Era morta.

                             . . . . . . .

Poco dopo quel tempo nella casa di campagna dei Villareale che era
prossima a Campomoro, Mario conobbe Alberto Valmarana. Questi veniva
da una piccola città del Veneto; nel fiore della giovinezza sorrideva
alla vita e le speranze sorridevano a lui. Mario ritrovò in Alberto sè
medesimo ed ebbe come il presentimento che anche ad Alberto sarebbero
toccati que’ medesimi dolori per i quali egli aveva tanto sofferto.

Provò dapprima un senso di pietà; stimò quasi una colpa lasciare andare
solo quel giovinotto così buono, così credente, per la sua strada,
senza sgombrarla da’ triboli; e pose in Alberto quell’affetto che era
per lui un bisogno, un intento alla vita, un mezzo per sostenerla.

Perchè Mario era vittima di uno dei mali più pericolosi fra quanti
affliggono l’umanità: il male dell’imaginazione. Chi ne è affetto
non guarisce mai, sebbene gli paia talvolta, specie dopo le crisi più
fiere, d’essere risanato. È una specie di daltonismo morale per cui
il mondo e la vita si veggono diversi da ciò che sono. Gli uomini
serî, a sentirli, hanno per curarlo una quantità considerevole di
specifici, i quali tutti si compendiano in questa semplice ricetta:
mutare la propria indole, ossia divenire un altro uomo, differente in
tutto da quallo che v’ha fatto madre natura in un momento di cattivo
umore. Quegli uomini serî somigliano un po’ a’ medici, che visitando un
operaio logorato dalle soverchie fatiche, sfinito per i cibi insalubri,
intisichito nella miseria, gli consigliano di non lavorare, bere ogni
giorno una mezza bottiglia di Bordeaux e fare ogni tanto una trottata
in carrozza. Potere!

Ah! che profondi conoscitori del cuore umano gli uomini serî.


V.

Ciò che Alberto facesse dopo la partenza di Mario anche i lettori
meno sagaci indovineranno facilmente. Aspettò che sonassero le nove,
ora in cui doveva vedere Clara; aspettando, si provò a leggere uno
de’ suoi autori favoriti e scorsa, distratto, una pagina, buttò via
il volume; ebbe dei momenti di profonda malinconia e delle ore di una
letizia quasi infantile. A pranzo non mangiò; bevve una mezza bottiglia
di vecchio vino di Borgogna; avanti d’alzarsi da tavola riempì il
bicchiere, e porgendolo a Stefano, suo cameriere,

— Bevi anche tu — gli disse.

Stefano, stupefatto da quell’offerta del padrone, non s’attentò sulle
prime a pigliare il bicchiere; e Alberto:

— T’ho detto che tu beva.

L’obbediente Stefano si rassegnò ad assaporare il Borgogna e lo sentì
così robusto, che ripensandoci giudicò la robustezza sua essere la
cagione sola della confidenza insolita datagli dal padrone.

E finalmente alle otto e mezzo, Alberto uscì e s’avviò verso casa
Villareale.

Era giunto in prossimità del palazzo quando s’udì chiamare
ripetutamente per nome; non rispose; sentì una mano posarglisi sulla
spalla, si voltò e riconobbe Alfredo Ferreri, una delle sue conoscenze.

— Dove vai?

— Ma.... — rispose Alberto — in nessun luogo.... passeggio per far del
moto....

— E dove la passi la serata?

— Non lo so, sono stanco del ballo di stanotte; ho una gran voglia
d’andarmene a letto presto.

— Perchè non vieni dalla Marchesa?

— Da chi?

— Dalla Villareale.

— Ma.... — balbettò Alberto — è sabato oggi, e la Marchesa riceve il
mercoledì.

— Lo so; ma stasera fa un’eccezione alla regola.

— Chi te lo ha detto?

— Me l’ha detto Claudio Piccardi che le presenta stasera l’Olivares...
Sai? quell’addetto alla legazione di Portogallo che è arrivato giorni
sono.... Dunque vieni?

— No.

— Vieni, vieni, dammi retta. Si piglia una tazza di thè e si fa
l’undici. Non foss’altro si guarda la padrona di casa. Hai visto
com’era bella stanotte? Che occhi, che spalle! Vieni, vieni, lasciati
persuadere.

Intanto erano giunti innanzi alla porta di casa Villareale. Alberto,
per quanto avesse dapprima negato, moriva di voglia, come ognuno
capisce, di veder Clara; si fece pregare un altro po’ dal Ferreri, poi
salì risoluto le scale.

Non era nell’animo suo ombra di rancore verso Clara; anzi più che della
pena provata da lui, si doleva in cuor suo del rammarico che Clara
anch’ella aveva dovuto provare. E sperava che glielo avrebbe dimostrato
questo rammarico, con un sorriso, con un’occhiata, con una di quelle
strette di mano che dicono più di qualunque parola.

Quando entrò con Alfredo nel salottino della Marchesa v’erano già
Claudio Piccardi, il conte Olivares e due o tre altri individui
di sesso mascolino, solite comparse delle quali non giova neppure
ricordare il nome. Clara, seduta sopra un sofà vicino al caminetto,
seguitava col diplomatico una conversazione animatissima sulla
Germania, che l’Olivares conosceva bene e dove Clara aveva, prima del
suo matrimonio, dimorato qualche tempo. Alberto le s’accostò e le stese
la mano.

— Buona sera, Marchesa.

— Buona sera, Valmarana.

Non battè palpebra. Alberto che aspettava lo sguardo, il sorriso, la
stretta di mano, fu deluso compiutamente nella sua aspettativa.

Che tumulto di pensieri si suscitasse allora nella mente di lui, che
pena crudele gli stringesse il cuore, sarà, penso, inutile dire. Si
sedè sopra una poltrona senza aprir bocca; poi si alzò, osservò con
molta attenzione le figurine di vecchia porcellana di Sassonia, che
guarnivano le _étagères_ del salotto; si fermò dieci minuti innanzi a
due battaglie del Borgognone che aveva veduto le mille volte; apri gli
_albums_ delle fotografie, sfogliò i giornali.... e soffrì.

Sarebbe rimasto zitto chi sa per quanto; ma quando venne l’ora del thè
Clara lo chiamò:

— Valmarana vuole una tazza?

— Grazie.

— Grazie sì o grazie no? Non può fare nemmeno lo sforzo di dire un
monosillabo di più? Prenda, prenda una tazza di thè, le farà bene; è
stanco e si vede. Piccardi, vuol farmi il piacere di passargliela?

Alberto prese la tazza dalle mani di Claudio e non rispose, Clara
continuò a discorrere cogli altri che le stavano attorno e a guidare
abilmente la conversazione. Di lì a poco fece cadere il discorso
sopra un paravento di lacca comprato il giorno innanzi e richiese il
Piccardi del suo giudizio. Questi che era un di quegli uomini i quali
sanno un po’ di tutto e hanno una gran smania di sfoggiare la loro
erudizioncella, lodò il paravento: ma una volta preso l’aire s’ingolfò
in una specie di dissertazione intorno alle differenze per le quali le
vecchie vernici del Giappone si distinguono dalle recenti. Intanto che
gli altri lo stavano a sentire, Clara s’accostò ad Alberto che s’era
rincantucciato presso al camino figurandosi di leggere un giornale
della mattina, il quale aveva la data di due mesi innanzi, e intavolò
ad alta voce con lui una conversazione sul quartiere del principe
Dolgoruki. Alberto la ascoltava trasecolato.

— Così è — seguitava il Piccardi. — Ne volete una prova? Nel 1874 il
_Nilo_ che portava le casse contenenti gli oggetti spediti dal Giappone
all’Esposizione di Vienna affondò ne’ pressi di Yokohama e le casse
rimasero più di un anno in fondo al mare. Le recuperarono. Sapete
che cos’era successo? Le lacche antiche erano rimaste tali e quali; i
prodotti moderni di Kioto e di Yeddo tutti quanti distrutti.

Si udirono esclamazioni di sorpresa, e in quel gruppo il dialogo al
quale oramai prendevano parte in tre, in quattro nel medesimo tempo, si
fece rapido, alto e confuso.

Clara allora con voce sommessa ad Alberto:

— Hai torto, era un impegno antecedente di cui non mi rammentavo;
scusa... ti spiegherò, sii buono.

Poi, lasciandolo e dirigendosi verso l’altro lato della stanza:

— Che racconta di bello Piccardi? Voglio sentire anch’io.

Dopo quelle parole, le collere adunate nell’animo d’Alberto si
dileguarono; egli non soltanto si adirò seco stesso di aver potuto
dubitare di Clara ma ne stupì. Alle undici il conte Olivares s’alzò
e gli altri con lui. Alberto si tenne indietro procurando di uscir
l’ultimo dalla stanza, tanto per aver tempo di dire una parola di
soppiatto alla Marchesa; ma il suo piano strategico bene meditato e
meglio eseguito non ebbe successo felice. Clara subito che si trovò
sola nel salotto, donde Claudio era uscito in quel punto,

— Piccardi — chiamò.

Claudio rientrò nella stanza.

— Non si dimentichi della mia commissione.

— Non dubiti, Marchesa, le pare?...

Claudio salutò daccapo, e Alberto fu giocoforza uscisse dal salotto con
lui.

Quando furono nella strada:

— Vi siete divertito? — domandò Claudio al diplomatico.

— Molto.

— Io no; — e levando di tasca l’orologio, — a voi; con queste piccole
riunioni si sciupa la serata senza costrutto; son le undici, poco più.
Che cosa si fa ora?

— Pare che tu ti creda un uomo necessario, caro mio, — soggiunse
Alfredo; — se t’annoi, perchè ci vieni?

— Sei curioso, sai? Oggi alle Cascine la Marchesa mi ha tanto pregato
di condurle gente, come si fa a dir di no? Avevo promesso al conte di
presentarlo, ho colto l’occasione.

Passava per l’appunto un _fiacre_.

— Ferma! — gridò Alberto al cocchiere; poi congedandosi dagli amici:

— Buona notte.

E senz’aggiungere parola aprì lo sportello della carrozza e v’entrò.
Solo, lo colse la smania; gli parve che una mano di ferro gli premesse
il cuore e gl’impedisse il respiro. Non c’era più dubbio possibile;
l’impegno precedente era una solenne bugia, Clara aveva mentito.
Perchè? Per non fargli capire che non voleva star sola con lui quella
sera. E allora perchè dargli l’appuntamento? Che cos’era accaduto?
S’era pentita... perchè? O aveva promesso coll’intenzione di non
mantenere? Di certo doveva esser così; la menzogna della sera spiegava
l’inganno della mattina. E con che tono carezzevole, con che aperta
confidenza gli aveva detto “scusa, sii buono.„ Oltre la menzogna, la
simulazione. Ma si mentisce, si simula con un uomo a cui si vuol bene?
Quanti e quanto tristi quesiti!

Entrò in casa, si sdraiò sopra una poltrona e la smania gli si fece
più intensa. Sentì destarsi il coro delle memorie che cantavano le
gioie dei giorni fuggiti, e gli passarono innanzi agli occhi tutti gli
episodi del suo poema d’amore.

Molti degli oggetti che guernivano la sua scrivania, muti per altri,
avevano per lui una voce.

— Ti ricordi, — diceva un piccolo vaso di vetro di Murano, — ti
ricordi quando mi confidasti il primo fiore che ti era riuscito carpire
dalle sue mani? Era una viola di maggio! La custodii per tre giorni
gelosamente; ahimè! dai petali riarsi più non s’innalzano olezzi!
breve come la vita di quel povero fiore è stato il sorriso della tua
gioventù!...

— Ti ricordi, — ripigliava un portafogli in cuoio di Russia, — ti
ricordi del giorno in cui ti fui regalato da lei? Come ti tremava la
mano quando la stendesti per prendermi! ti ricordi come corresti a
nasconderti nel folto degli alberi per baciarmi e ribaciarmi? E la
notte, svegliandoti, ti ricordi come balzasti dal letto, per pormi
sotto il tuo capezzale?... E ora? Ora io conservo le corolle scolorite
di quella viola di maggio e una ciocca di capelli biondi; in me si
chiudono, come in una tomba, i resti delle tue morte speranze!

Intanto, il conte Olivares, Claudio Piccardi e Alfredo Ferreri cenavano
al Caffè di Parigi. Il conte Olivares domandava agli altri notizie
delle persone che aveva conosciuto nei pochi giorni dacchè era arrivato
a Firenze. Quando venne la volta d’Alberto:

— A proposito: e quel signor Valmarana?

— Lo avete conosciuto in una cattiva serata; ha dogli alti e bassi,
certe volte è piacevolissimo, certe altre funebre.

— Mi era venuto in testa..., — riprese l’Olivares, — basta, non mi
arrischio a dirlo....

— Dite, dite pure.

— Posso sbagliare.... m’era venuto in testa che fosse innamorato della
Marchesa.

Claudio e Alfredo dettero in un gran scoppio di risa. Poi il Piccardi:

— Povero Alberto! caso mai l’avrebbe fatta buona!

— Perchè?

— Eh! il perchè sarebbe lungo a spiegare.

— Poco male; io non ho fretta e poi ricordatevi che avete assunto
l’impegno di farmi da guida nei laberinti della società fiorentina.

— Sta bene ma... vedete? Per quanto mi conosciate da poco, spero
che non mi avrete preso per un collegiale. Eppure che volete che vi
dica?... Ho una certa repugnanza a parlare della Marchesa qui a cena al
Caffè....

— Eh! perdio! — interruppe l’Olivares, — che cos’è questa Marchesa, una
santa?

— Ci corre poco. È una di quelle creature, caro mio, che noi gente
corrotta abbiamo bisogno di trovare ogni tanto nel mondo per non
perdere addirittura la fede nell’umanità. Se sapeste la sua vita!

— Raccontatemela; chi ve lo impedisce?

— Sì, ma prima lasciatemi bere il caffè.

Claudio sorseggiò la tazza poi riprese:

— Badiamo, bisogna andar d’accordo su certi principii. O ci s’intende
sull’ufficio che la donna ha nel mondo e va bene; o altrimenti....

— Bagattelle, — osservò il Conte, — la prendiamo larga. L’ufficio della
donna!...

— Ma — interruppe il Ferreri — non saprei.... Accompagnare gli uomini
all’inferno facendoli passare per il paradiso.

— Se cominciamo coi paradossi è inutile. Studiate la storia cominciando
dall’India.

Il Conte fece per alzarsi. E Claudio:

— Se mi state a sentire, bene, se no....

— Caro Piccardi, io sto a Firenze e voi partite per l’India; mi avete
promesso una biografia e mi preparate una teorica. Seguitate pure,
io intanto andrò ad accendere il sigaro. Teoriche non ne voglio. Gli
uomini... notate bene che non ho detto i maschi. Cameriere, fuoco. Vi
concedo tre uomini ogni cento maschi e credo di essere generoso; gli
uomini se ne fabbricano una per giorno di coteste teoriche sugli uffici
della donna, e via via la mutano secondo i casi e gli anni, io non so
quale sia la vostra; ma quanti anni di esperienza vi costa? Mettiamo
venti. Purchè una donna voglia, ve la farà rinnegare in una settimana.
È la solita storia dei capelli bruni e dei capelli biondi. Per un gran
pezzo ho detto e ripetuto che soltanto le donne brune erano belle;
non mi capacitavo come ci si potesse innamorare d’una bionda. Trovai
una bionda che me lo fece capire. Fra le donne che un uomo giovane
frequenta ce n’è sempre una che gli piace più delle altre. Quella donna
è per lui in quel momento “la donna ideale.„ E quindi la sua brava
teoria. Cartesio affermò una volta che lo strabismo aggiunge dolcezza
alla fisonomia femminile; segno che in quel tempo era innamorato
d’una guercia. Mi fate il piacere di dirmi quale fosse per esempio la
teorica di Luigi XIV? Prima s’innamora della La Vallière che diceva:
“Ah! se non fosse re!„ e non voleva del principe che l’amante; poi
della Montespan che sospirava: “Ah! se fossi regina!„ e nell’amante non
cercava che il principe.

— E forse aveva ragione, — soggiunse Claudio, — ai tempi della
Montespan non sopravviveva che il re; l’amante s’era perduto
nell’ultimo abbraccio della La Vallière.

— Mi pare che si divaghi — osservò il Ferreri.

— Torniamo alla Marchesa, Piccardi.

— Torniamo alla Marchesa. La sua vita non è stata altro, caro Conte,
che un continuo succedersi di sacrifizi compiuti senza titubanze e
senza rammarico. È una Sangiorgi, credo che lo sappiate.

— No.

— È figliola del barone Sangiorgi, un veneto che fu amico intimo del
marchese Piero di Villareale, suocero della Marchesa, morto cinque anni
fa. Si compromise nel 1848 e gli sequestrarono i beni. Venne in Toscana
e insieme col Villareale si dette alle speculazioni; siccome se ne
intendeva, gli riescirono bene e in poco tempo mise assieme qualcosa
più di un milione di parte sua. Nel 1859, al tempo della guerra,
i due nobili soci conchiusero non so che contratto coll’intendenza
deil’esercito francese; per via di questo contratto nacque tra di loro
una lite, che durò parecchi anni, costò parecchie diecine di migliaia
di lire, e, avrebbe da ultimo messo sul lastrico quello dei due
contendenti a cui fosse toccato il torto. Gli amici si erano intromessi
più volte per un accomodamento; il Barone era disposto, ma il Marchese
montava sulle furie solamente a sentirne parlare. Nel sessantadue il
Marchese morì, lasciando un figliolo, Guglielmo che voi conoscete. Gli
amici si interposero di nuovo; uno di loro ebbe anzi tanta malizia da
accorgersi che Guglielmo era unico erede del Marchese; Clara unica
erede del Barone; e che il mezzo più semplice per mettere in pace
le due famiglie era di farne una sola. Pochi mesi dopo fu concluso
il matrimonio. La signorina Sangiorgi Guglielmo non l’aveva mai nè
visto nè conosciuto; lo sposò temendo che la lite conducesse il padre
alla rovina, o riducesse alla miseria un povero ragazzo, il quale in
fondo non aveva nessuna colpa in tutto quel tramestìo di giudici e
d’avvocati. E il suo sacrifizio fu tanto più grande in quanto che ella
sapeva benissimo che Guglielmo a venticinque anni era un libertino
numero uno.

— Ah! davvero? — domandò l’Olivares.

— E di che tinta! — rispose il Ferreri. — Qualità sopraffine: ditta
Ozio e figli.

— Guglielmo condusse la moglie in campagna e seguitò nella vita di
prima. Giocò, perdè spesso e molto; in una sera sola settantacinquemila
lire; e la Marchesa, che non era stata ancora ad un ballo, dovè, per
pagare, impegnare la sua collana di diamanti.

— Perchè — soggiunse Alfredo — ci sono ancora a Firenze dei diamanti
veri. Non molti, ma ce ne sono.

— Voi l’avete avvicinata stasera per la prima volta; giudicherete in
seguito quanto valga la sua intelligenza; ma gli occhi, la persona
tutta imperiosa e seducente, basta vederli per capire che passioni
può destare e provare quella donna. Se avesse voluto, imaginatevi!...
Ma non ha mai voluto; non ha pensato che a una cosa sola: a tentare
di correggere il marito. Non dico di farsi voler bene da lui; non lo
ha mai ottenuto, e non può averlo neanche sperato. Senza lamentarsi è
rimasta chiusa per tre anni in villa; da due soltanto è entrata nel bel
mondo e v’è stata accolta come meritava; gli uomini l’adorano....

— Come una Dea, badate, — disse il Ferreri, — ma non s’arrischiano ad
amarla come una donna.

— Le donne, persino le donne, che le invidiano la bellezza, l’ingegno,
la virtù, non s’attentano a dire sul conto suo la più piccola
cattiveria. E lei, che superiore a tutte per ogni verso potrebbe
giudicare e mandare, non ha che silenzi indulgenti, o parole di scusa.
Non può credere al male; e quando è costretta a crederci, si sforza
di compatirlo. Ecco perchè, caro conte, il vostro sospetto sull’amore
d’Alberto ci ha fatto ridere; non credo che Alberto sia innamorato
della Marchesa; se fosse, ve lo ripeto, la farebbe buona!

— Quand’è così, — rispose il Conte Olivares, — mi pento e mi dolgo di
avere supposto, anche per un momento, una cosa tanto inverosimile. E
quando presenterò i miei ossequi a S. M. il re Luigi, lo ringrazierò
d’avermi mandato a Firenze e offertomi l’occasione di conoscere questo
miracolo di donna, saggia, forte, pura.... c’è altro?

— Voi scherzate, ma io vi dico...

— Non scherzo, mio caro; noto solamente che la Marchesa ha ventotto
anni; aspettate, in nome di Dio, a darle questi certificati di
donna-modello.... non ho mai visto distribuire ai soldati le medaglie
del valor militare, prima che partano per la guerra. E poi non potrebbe
darsi il caso che questa virtù celestiale fosse un fantasma creato e
temuto dalla vostra superstizione? Sicuro, se vi contentate di adorarla
come una Dea, senza arrischiarvi ad amarla come una donna, non sarà lei
che si affaccerà alla finestra e getterà il fazzoletto al primo uomo
che passa.

— Ma quando tutti tutti vi ripetono la stessa cosa, tutti pronunziano
lo stesso giudizio?... Avevo ragione di dire dianzi che bisognava
intendersi su certi principii. Se voi a priori non credete all’onestà
delle donne....

— Ah! un momento, caro mio, all’onestà sì. Che la Marchesa non abbia
avuto e non abbia amanti, sarà verissimo.

— Sarà?

— È, è verissimo; siete contento?

— E allora?

— E allora dico che è onesta, virtuosa non lo so e non lo dico. Un
bel merito a non peccare quando non si provano le tentazioni! Se non
c’è battaglia non ci può esser vittoria. A questo modo tutte le donne
deformi sarebbero virtuose. Voi stesso credete la Marchesa capace di
sentire la passione. Aspettiamo dunque; se la vedessi, adorata un po’
meno e amata un po’ più, correre pericolo, combattere la grande, la
formidabile battaglia nella quale non c’è neppure parità di forze,
perchè la passione ha sempre per alleati la gioventù, il senso, l’amor
proprio, la fantasia, l’incitamento stesso che viene dagli ostacoli, se
la vedessi combattere e trovare in sè stessa tanto vigore da resistere
e da vincere, oh! allora....

— Allora, — interruppe Alfredo, — il Conte scriverebbe tra i ricordi
del suo viaggio in Toscana: “Ho visto a Pisa un campanile e a Firenze
una donna che pencolano sempre e non cascano mai.„

— Ma finchè tutto ciò non sia dimostrato, abbiate pazienza, caro
Piccardi, rispetto le vostre opinioni e serbo le mie.

— Sta bene. Siete arrivato da poco e non è probabile che ve ne andiate
da Firenze presto. Ci riparleremo. La Marchesa è la _femme loyale_ come
se la figuravano certi scrittori del secolo XVI. Sapete che cosa dice
Olivier de la Marche, biografo di Carlo il Temerario? Che la donna
virtuosa deve avere _ceinture de chasteté, tablier de diligence et
pantoufles d’honnesteté_.

— Ahi! ahi! — gridò Alfredo, — gli ripiglia l’accesso dell’erudizione.
Cameriere, il conto.

Pagarono e uscirono.


VI.

La mattina seguente la Contessa Laura Alberici, avvolta in una elegante
veste da camera di flanella celeste guarnita nell’apertura da rovesce
di seta bianca felpata, gingillava svogliatamente innanzi allo specchio
con due ciocche di capelli che non volevano stare a modo suo, quando la
cameriera entrò nella stanza.

— Che c’è? — domandò la Contessa.

— La signora Marchesa.

— Chi? Clara?

— Sì signora.

— Ma che ore sono?

— Le dieci, signora.

— Le dieci? A quest’ora?... È acceso il fuoco in salotto?

— Sì signora.

— Falla passare.... Vengo.

Mentre la Contessa Laura entrava nel salotto, dalla porta opposta
v’entrava la Marchesa di Villareale.

Laura e Clara avevano, mese più mese meno, la stessa età. Due tipi
differenti di donna. Clara sovranamente bella, Laura non bella, ma
simpatica per la grazia della fisonomia, e per la vivacità dello
sguardo. Clara pallida e bionda, Laura colorita, bruna. Clara una
donna, Laura una donnina; questa aveva bisogno di studiare qual foggia
di vestito, quale accozzo di colori si addicesse meglio alla sua
persona, quella comunque vestisse appariva sempre bella nel medesimo
modo. E bellissima era anche quella mattina; in testa aveva una _toque_
di velluto nero, addosso un giacchettino a vita in panno inglese bigio
con doppia sottana della stessa stoffa, ripresa da svelte pieghe sui
fianchi, e sulla quale scendeva da uno dei lati una borsa elegantissima
in cuoio nero.

— Come mai, a quest’ora? — domandò Laura andando incontro alla Marchesa.

— Volevo vederti prima di partire — rispose Clara sedendosi sopra una
poltrona presso alla stufa; — più tardi avrò qualcosa da fare, poi c’è
il corso....

— Prima di partire?... O dove vai?...

— Vo al carnevalone.

— E ritorni.... quando?

— Non lo so; forse passeremo a Milano tutta la quaresima, per andare in
aprile sui laghi.

— E quando l’hai presa questa risoluzione?

— Io?... Lo sai, io non ho volontà; ma Guglielmo lo desidera.

— Ma l’altra sera, al ballo, non ne hai parlato; quelli che ho visto
ieri sera dopo il teatro non ne sapevano nulla.

— Non ci sono andata; sono stata in casa.

— Ah! è venuto gente?...

— Sì, il Piccardi, il Ferreri, il Valmarana, il Lunati, quel conte
Olivares addetto alla legazione di Portogallo.... Lo conosci?

— L’ho visto in casa Dolgoruki.

— Ma non l’ho detto neppure a loro.

— Ah! vuoi proprio che la notizia della tua partenza sia più dolorosa,
perchè inaspettata?...

— Oh! dolorosa poi,... non saprei. Resta tanta gente a Firenze, chi
vuoi che si lamenti della mia assenza?

— Eh!... conosco qualcuno che se ne affliggerà molto.

La Marchesa fissò gli occhi in viso a Laura e, dopo un breve silenzio,
domandò:

— Qualcuno?... Non capisco.

— Mi capisci benissimo, cara mia, — soggiunse l’altra sorridendo.

— Quando ti dico che non capisco... — ripetè Clara.

— Andiamo, è inutile che tu mi faccia la misteriosa. Quand’anche io
riuscissi a penetrare tutti i tuoi segreti, sai benissimo che non gli
andrei a raccontare alla gente. Non vorrei, perchè odio i pettegolezzi;
non potrei, perchè tu conosci un segreto mio e potresti vendicarti a
tutte le ore. Dunque quello che so lo so e....

— E che cosa sai?...

— So che il Valmarana ti vuol bene e mi pare che anche tu...

— Io! — esclamò Clara. — Tu sogni, Laura.

— Sarà. Non ne parliamo più.

— Oh! che il Valmarana m’abbia fatta un po’ di corte, è vero; un
capriccio di carnevale.... gli passerà.

— No, non è un capriccio. Il Valmarana ti vuol bene, cara mia, e sul
serio. Quello piuttosto che non capisco è come un uomo, che, siamo
giusti, non è un uomo comune e non è più un ragazzo, oramai si sia
lasciato andare così, per la china... senza nessuna speranza, senza
nessun’incoraggiamento... È singolare.

— Lo sai come sono gli uomini, pigliano tutto per moneta contante. Se
siamo cortesi con loro, gli accogliamo con affabilità, gli invitiamo
un po’ più spesso, subito si montano la testa e si imaginano Dio sa che
cosa.

— Sì sì, tutto questo va bene quando si tratta di tanti imbecilli che
ci vengono pur troppo ogni giorno fra’ piedi.... ma un uomo come il
Valmarana! Via, Clara, non siamo più in conservatorio.

La Marchesa tacque per un momento pensando se le convenisse meglio
seguitare o troncare quel dialogo, poi:

— Io non nego che il Valmarana mi sia simpatico più di tanti altri.
Forse non ho saputo abbastanza nascondere la mia preferenza; anche
questo è possibile; ma siccome non voglio nè coltivare in lui
un’illusione, nè dare occasioni di chiacchiericci al rispettabile
pubblico, me ne vado. Di più non posso fare. Che ne dici?

Invece di rispondere, Laura domandò:

— E quando parti?

— Domattina col primo treno.

— Ti verrò a salutare alla stazione — soggiunse distratta la Contessa.

— Laura — riprese Clara dopo un silenzio breve — tu pensi qualche cosa
che non mi vuoi dire.

— No. Sono io ora che non capisco. Se le cose stanno così, che
necessità c’è di questa gita a Milano?...

— Ma ti ho detto che è mio marito....

Laura alzò le spalle; l’altra continuò:

— Ora sicuro m’hai messo mille dubbi in testa....

— Io?

— Sì, tu.... Io credevo e te l’ho detto che il Valmarana avesse una
simpatia incipiente e che si sarebbe scordato di me prima che arrivassi
a Piacenza: secondo te invece è una cosa grave, un sentimento profondo.
Imagina un po’ che tu abbia ragione e che con quella benedetta testa
gli venga l’idea di corrermi dietro. Sarebbe peggio il rimedio del
male....

— Ma e per questo dico: invece di andar via, mi par tanto semplice che
tu gli faccia intendere che batte una falsa strada e che tu lo levi di
speranza una volta per sempre. Tanto, credilo, a questo mondo il meglio
è essere schietti; da ultimo ci se ne trova sempre bene.

— No, no, cara mia; a questa parte non ci son buona — replicò la
Marchesa; poi quasi le balenasse improvvisa un’idea: — Aiutami tu.

— Io? Che cosa posso fare io?

— Oh molto!... Quando sarò partita, tu, come di cosa tua, figurando
d’aver indovinato.... Già non si dice bugie perchè hai indovinato
difatti; potresti parlargli e persuaderlo a non fare imprudenze, a
metter l’animo in pace e a lasciarmi tranquilla. Le ragioni non ti
mancano. Hai più esperienza di me....

La Contessa riflettè un momento e riprese grave:

— Senti, Clara, io ho il mio convincimento oramai; credo che il
Valmarana non sarebbe al punto che è, se tu per una via o per un’altra
non ce l’avessi condotto; cotesti sotterfugi, cotesti scappavia non
mi vanno e cotesto tuo disegno mi pare, scusa, che pecchi un po’
d’egoismo.

— Ma che cosa devo fare secondo te? — interrogò la Marchesa alzando la
testa con alterigia. — Il mio dovere sì o no? Mi pare che la tua sia
una morale curiosa.

— Meno curiosa di quel che pensi, — replicò pacatamente Laura. — E
poi curiosa o no è la mia. Il dovere.... eh! ce ne sono tanti dei
doveri, io, vedi, son disposta a scusare un bacio e a condannare, come
una iniquità, una stretta di mano, secondo i casi e le intenzioni.
Compatisco e per questo perdono molto alla passione; nulla al calcolo,
alla vanità, all’ipocrisia.

Il tono onde furono pronunziate queste parole scombussolò la Marchesa.
S’alzò e sforzandosi di celare il turbamento, soggiunse:

— M’avveggo, cara mia, che il mio disegno, per dire come dici tu, è
stupendo; non potevo trovare al Valmarana una confortatrice migliore.

E l’altra più fiera:

— Ah! E cotesta che cos’è? Un’offesa? Una vendetta? Per lo meno è una
vigliaccheria.

— Laura!

— Eh! Clara, ci conosciamo. In cotesta anima di ghiaccio un sentimento
delicato non c’entra. Hai fatto un uomo disgraziato per colpa tua....
sì, sì, è inutile che tu scota la testa.... per colpa tua e ora lo
pianti senza rimorso. Soffra, pianga, muoia, peggio per lui; a te, ai
tuoi desiderî, alla tua vanità deve essere sacrificata ogni cosa. Eri
così in conservatorio, e dopo quindici anni sei sempre la stessa.

— Peccato, — replicò sogghinando Clara, — che il Valmarana non sia
ad ascoltare coteste belle tirate dietro un uscio, come usa nelle
commedie; — e senza voltarsi, traversata la stanza, uscì.

Laura immobile le lanciò dietro un’occhiata piena di sdegno.

La Marchesa arrivata a casa prese due de’ suoi biglietti di visita;
sopra uno scrisse: “Caro Piccardi, vuole avere la cortesia di passare
da me al tocco e mezzo? _Non più tardi_, badi. L’aspetto.„ Sopra
l’altro “Caro Valmarana. Ho bisogno di vederla, venga da me al tocco e
un quarto _preciso_.„ Li chiuse in due buste e fattaci la soprascritta
ordinò a un servitore di recapitarli immediatamente.


VII.

Quando il Valmarana fu dal servitore annunziato alla Marchesa, questa
non era sola. Un giovanotto sui venticinque anni, alto, bruno, di
capelli nerissimi, stava in piedi davanti a lei. Era l’architetto di
casa Villareale. Subito che Alberto entrò, la Marchesa gli fu incontro,
gli stese la mano e:

— Buon giorno, Valmarana. Mi permette un momento?...

Alberto s’inchinò; ella, preso un fascio di carte sopra il tavolino, lo
consegnò al giovinotto, e, conchiudendo un discorso incominciato da un
pezzo:

— Riprenda pure le carte, Bruni; oramai mi sono convinta che il miglior
partito è quello proposto da lei. Ne parlerò con Guglielmo più tardi. A
rivederla.

L’altro salutò ed uscì.

Alberto, vegliata tutta la notte, era pallido, sfinito; aveva gli
occhi rossi, umidi. La Marchesa andò a lui, lo prese per mano e
costringendolo a sedersi sopra il sofà accanto a lei:

— Alberto, Alberto.... — disse, — per carità, coraggio.

— Dio ti perdoni, Clara, d’avermi fatto tanto soffrire. Perchè dirmi
una bugia?

— Io?

— Sì, Clara. Tu m’hai parlato ieri sera d’un impegno preso
anteriormente e dal quale non avevi potuto svincolarti. Ho poi saputo
dal Piccardi....

— È vero. Per quanto mi repugnasse, nel vederti ieri sera stralunato,
afflitto a quel modo pensai che una bugia era proprio questa volta
un’opera di carità. Sì è vero; volli non esser sola con te ieri sera,
ma....

— E stamani?... Aspettavo da te una parola affettuosa, e tu, che non
mi hai scritto mai, mi scrivi la prima volta sopra una carta di visita
dandomi del _lei_.... Oh! dimmi che cos’è accaduto. Da ieri sera in poi
io dubito di tutto.

— Anche di me? Spero di no. Alberto mio, voialtri uomini, anche quando
siete dotati di una rara squisitezza di sentimento, non arrivate a
sapere che battaglie si combattono nel cuore di una povera donna!
Ricordati, pensa che una donna, che ha marito e che si rispetta, non
si mette nella condizione in cui sono io, senza aver vinto prima una
grande resistenza. Certi rammarichi, certi rimorsi — diciamo la parola
— gli devi intendere mio Dio!

E fissò gli occhi smorti in quelli del Valmarana.

— Perdonami, Clara; credi che non so dire ciò che penso. Vedi, lontano
da te dubito.... qui quando ho le tue mani fra le mie divento un
altr’uomo.... Sento che sei incapace di fare il male e ti credo....

— Eh! Alberto.... t’ho creduto anch’io; ecco il guaio....

Tacquero ambedue; Clara a capo basso si gingillava intanto coll’oriolo
che aveva tolto dalla cintura; alla fine lo posò sul tavolino innanzi a
sè e riprese:

— Tu mi parlavi del tuo amore con una delicatezza quasi femminile;
vedevo che mi volevi bene, il tuo ritegno era una prova.... Abbiamo
passato di bei giorni.... non te ne scorderai, non è vero?

— Come? Cioè?

— Coraggio, — disse Clara dando una rapida occhiata all’oriolo. —
Coraggio, Alberto....

— Oh Dio! che c’è?

— Per amor di Dio sii calmo. Bisogna finire.

— Eh? — urlò Alberto.

— Sss, per carità.

— Ah! ora intendo; hai mentito ieri per venire a questa conchiusione
oggi....

— Alberto, soffro troppo in questo momento e ti prego di risparmiarmi
un dolore che sarebbe il più forte di tutti; mi raccomando: ch’io
non abbia a sospettare mai d’essermi ingannata sul conto tuo. Vedi,
Alberto mio, il sacrifizio è necessario. Dio mi aiuterà e mi darà la
forza di sostenerlo.... non chiedo che di poter pensare al passato
senza rammarico; dimmi dunque che mi credi. No? Non vuoi dirmelo?...
Pazienza! Mi fa male pensarlo, ma tu non sai ancora com’io t’abbia
voluto bene!...

Alberto guardò fisso Clara poi sentì al tempo stesso parole e
singhiozzi fargli gruppo alla gola. Fece per alzarsi, ma Clara lo
trattenne e reclinò la testa sulle spalle di lui.

— No, no — riprese Alberto a un tratto — è possibile? Ma che rimorsi
puoi aver tu povero angelo a cui nessuno prima di me ha voluto bene?
Senti, io consento a tutto, Clara, a tutto; non ti vedrò più sola, non
ti ceroherò più, non ti scriverò se occorre; ma che sappia che tu mi
vuoi bene, che te lo legga ogni tanto negli occhi.

— Bambino, e credi tu che la manterremmo cotesta promessa? Siamo troppo
giovani, ci vogliamo troppo bene, Alberto. No, io parto domani.

— Domani?... Ma perchè?...

— Mi credi? Credi che soffra lasciandoti? Sì? Non mi chiedere il
perchè; non te lo posso dire.... Parto domani; tornerò più tardi che
sia possibile. Non cercare di me.... pensaci qualche volta....

Fu picchiato alla bussola.

— Avanti, — disse Clara.

— Il signor Piccardi.

— Padrone.... Alberto.... Alberto, per carità....

Claudio entrò; la Marchesa ricompose le labbra al più sereno dei suoi
sorrisi.

— Venga, venga, ho un gran bisogno di lei. E, prima di tutto, guardi
qui.

Prese un _album_ sul tavolino, glielo dette, e mostrandogli tre o
quattro disegni che v’erano contenuti:

— Osservi e risolva.

Poi s’accostò ad Alberto e a voce alta:

— A rivederci dunque, Valmarana, al ritorno. Poi, piano: — Coraggio,
Alberto, va’, sei troppo turbato.... ti vorrò bene sempre.

Alberto salutò a mala pena Claudio; e dissimulando meglio che potè la
propria commozione, stretta la mano alla Marchesa s’inchinò ed uscì.

La sera stessa il conte Olivares, incontrato al _Club_ Claudio
Piccardi, gli battè sulla spalla ed esclamò sorridendo:

— Giusto voi: pare che il signor Valmarana così taciturno ieri sera
avesse da dire qualche cosa alla Marchesa e gli seccasse dirgliela in
presenza nostra.

— Perchè?

— L’ho visto stamani alle due uscire da casa Villareale.

— Caro Conte, anche questa è sbagliata. Alberto è stato in casa
Villareale quando c’era io. A voi; eccovi il biglietto col quale la
Marchesa mi ha pregato di passare da lei. Siete persuaso?

— Amico caro, — rispose pacato il Conte, — l’ufficio de’ diplomatici
non è quello di persuadersi, è quello di persuadere.


VIII.

Alberto uscì da casa Villareale più sorpreso che afflitto. Clara
non si sacrificava anche lei? Avrebbero sofferto insieme, sebbene
lontani l’uno dall’altro, patimenti che hanno in sè il sollievo. E
poi Clara sarebbe tornata prima o poi e allora.... Erano propriamente
irrevocabili i giorni trascorsi?

Si cullava in cotesta speranza, e fu male; perocchè lo spirito,
tranquillo rispetto all’avvenire, si volse con la propria operosità a
scandagliare il passato. E tornarono alla memoria di Alberto le bugie
di Clara che non meritavano scusa e la fretta dell’ultimo colloquio e
il _lei_ della lettera, della unica lettera, e la grazia sicura onde
ella padrona prontamente di sè aveva accolto il Piccardi. E via di
questo passo si condusse alle conchiusioni della sera innanzi. Clara
non gli voleva più bene, questo era certo. Glielo aveva voluto mai? Ma
come? Tutto finzione? A che fine? I ritegni, gli abbandoni, i baci,
le lacrime avrebbero dovuto essere altrettante scene di una commedia
turpe! Bisognava che quella donna fosse un demonio. Ma se era un
angelo!... Ma!... Eppure!...

E ricominciava daccapo il ragionamento e movendo dallo stesso punto,
passando per la stessa via arrivava alla solita conchiusione. Gli
succedeva ciò che succede qualche volta nel fare un conto: che incorsi
in un errore ci se ne accorge dal risultato; e non si sa dove sia e ci
s’incoccia a rifare il calcolo, e quante volte si ricomincia tante si
ricade nello sbaglio medesimo.

Passò così parecchie ore agitato, passeggiando su e giù per la stanza,
sedendosi, rialzandosi, senza requie. Sull’imbrunire si gettò sopra
una poltrona presso la stufa. Alberto non era uno di quei fortunati
eroi di romanzo, ai quali madre natura s’è compiaciuta di concedere un
organismo apposta, perchè possano stare un mese senza chiuder occhio,
o una settimana senza bere una gocciola d’acqua, mantenendosi vegeti
e freschi. Alberto era gracile; aveva perduto tre nottate di seguito,
quell’agitazione lo aveva perturbato e lo travagliava; s’addormentò.

Sonno breve, non continuo, nè quieto. Si svegliò all’alba infreddolito;
nel caminetto il fuoco era quasi spento; da un tizzone usciva a
intervalli una fiammella languida; pioveva e le gocce dell’acqua
battevano fitte ne’ cristalli.

S’affacciò alla finestra; il cielo era coperto da nuvole; per la strada
non un’anima; gli parve in quella solitudine malinconica di respirare
più libero. Si sentì sollevato e restò lì per un poco senza pensare
a nulla, guardando i cerchi concentrici che le gocce della pioggia
facevano, cadendo, nelle pozzanghere della via.

Alberto dimorava in prossimità della stazione. Volgendo gli occhi a
caso da quella parte ripensò che quell’istessa mattina alle nove Clara
partiva per Milano. Pensarlo e proporsi di andare a salutarla fu un
punto solo; poi riflettè che avrebbe dovuto parlare al Marchese, uso a
vederlo quotidianamente e che non l’aveva visto da tre giorni, dargli
spiegazioni, inventare frottole che non sapeva neppure imaginare. Poi
temova di tradirsi; finalmente, poichè era nel periodo buono rispetto
a Clara, gli pareva dimostrare meglio a lei la propria forza di
abnegazione, lasciandola partire senza cercarla.

Se ne stette alla finestra fino alle nove; vide passare la carrozza di
casa Villareale e, quando più tardi udì il fischio della locomotiva che
gli portava via la sua Clara, mormorò: — _Addio_.

                             . . . . . . .

“Addio!„

Avete mai pensato ai tanti e tanto diversi significati che può avere
questa parola secondo le occasioni nelle quali si adopera, o il tono
di voce con cui si profferisce? “Addio!„ e si scansa un seccatore che
vorrebbe fermarci per istrada; “Addio!„ e si saluta il fratello che
sfida le ignote venture de’ mari lontani; “Addio!„ e si dà l’ultimo
bacio sulla fronte dell’amico che muore.

“Addio!„ alle città non cercate, senz’ombra di memorie, lasciate senza
rimpianto; “Addio!„ a’ luoghi dove crebbero i nostri affetti più santi,
dove passarono i più lieti giorni della vita, dove ogni pietra è una
pagina e gli alberi non stormiscono, non si piegano, sussurrano e ci
salutano.

E nel vocabolario d’amore quante cose significa: “Addio?„

— “Addio! Silvia, dice, per esempio, Riccardo. Pigliate per la vostra
strada, io seguiterò per la mia; gran sapiente il caso, che ci separa
appunto ora che non abbiamo più ragione di vivere insieme. Io già
non penso più a voi, domani voi non penserete più a me. Conserverò le
vostre lettere come un registro dello stato civile, per sapere soltanto
quando il nostro amore nacque, quando morì. Visse poco e male, lo so;
ma bisogna ricordarsi che venne al mondo rachitico nel brusìo d’una
cena, si consumò nella noia e morì di stanchezza dopo un ballo di
carnevale. Addio, Silvia!...„

— “Addio, Bianca, — dice Giorgio. — Tu vai lontana e abbandoni
piangendo questa terra che è mia, questo cielo che mi sorride. Che
importa? Io ti raggiungerò dovunque tu sia, lascerò per te i campi che
mi videro scherzare bambino, la chiesa ove pregai la prima volta; la
patria mia, è là dove tu vivi, dove l’eco ripete il suono della tua
voce, dove l’aura carezza i tuoi capelli, dove tu m’apri le braccia,
dove i tuoi baci m’aspettano. Addio, Bianca!„

— Addio, Clara, — pensava Alberto. — Che solitudine, senza di te! oh!
perchè non sei una di quelle modeste ragazze che ho sognato tante volte
prima di conoscerti? T’avrei portato con me; saresti stata mia, tutta
mia e per sempre. Lontana, nascosta agli occhi di tutti... t’avrei
fatto, a forza d’amore, lieta la solitudine e caro il silenzio.... E
ora... Quando e quale ti rivedrò? Torna, torna presto, Clara; riportami
la mia fede; sei triste? Oh! che non darei per sapere che piangevi
nell’andar via? Ah! che sgomento!... addio, Clara... addio!


IX.

Intanto che Alberto pensava a Clara, v’era un’altra persona che pensava
a lui: Laura Alberici.

Clara aveva detto a Laura che sarebbe andata via la mattina dopo e
questa aveva mandato il servitore a casa Villareale perchè s’informasse
se la Marchesa era partita o no. Gli avevano risposto di sì; ma questa
notizia non bastava all’Alberici. Clara aveva riveduto Alberto? Che gli
aveva detto? E lui?... Laura la quale, vivendo a sè, usciva raramente
di casa e non andava nel bel mondo, se non quando glielo imponeva un
debito di convenienza, in quegli ultimi giorni di carnevale fece di
notte giorno; fu al corso, a’ balli, al teatro, a’ veglioni; cercò
d’Alberto, ma inutilmente.

Con quel tatto delicatissimo che hanno certe donne e che non s’impara
a nessuna scuola, si adoperò nel far notare l’assenza d’Alberto alle
conoscenze comuni, senza pur mostrare di notarla ella medesima; e tanto
fece e con tanta arte, che Alfredo Ferreri si offrì d’andare il giorno
dopo da Alberto e indagare che cosa fosse stato di lui.

E dopo ventiquattro ore Laura sapeva che Alberto non era uscito da
tre giorni; e ad Alfredo aveva fatto chiedere scusa di non poterlo
ricevere, a cagione di un forte dolor di testa che lo tormentava.

Alberto era stato presentato alla Contessa da Mario Loveni, che, negli
ultimi mesi della sua dimora in città, frequentava casa Alberici,
perchè Laura sapeva tollerare quella malinconia che avrebbe annoiato
altri e in lei destava un senso di profonda pietà. Sapeva Laura
l’affetto fraterno di Mario per Alberto; senza porre tempo in mezzo
scrisse dunque questo biglietto:


  “_Caro Loveni_,

“Il Valmarana sta da qualche giorno poco bene: credo che Lei non lo
sappia; se lo sapesse sarebbe a quest’ora già qui.... Le scrivo perchè
mi pare utile che il Valmarana abbia in questo momento presso di sè un
amico, un amico _vero_, s’intende; e non ha altri amici veri che lei
o me: ma io sono, per mia disgrazia, una donna.... e non ho ancora i
capelli bianchi.

                                                          “Sua affez.
                                                    “LAURA ALBERICI.„


La lettera arrivò a Campomoro la sera alle otto, la mattina dopo alle
sei Mario, che pare avesse l’uso di viaggiare di notte, giungeva con
Reno a Firenze.

Mario partì da Campomoro subito dopo ricevuta la lettera della
Contessa, perchè trattandosi d’Alberto non sapeva frapporre ritardi,
ma in sostanza dalla lettera intese poco; aveva lasciato pochi giorni
innanzi l’amico in ottima salute e gli pareva impossibile che si fosse
ammalato così ad un tratto e tanto gravemente, da bisognare della
presenza di un amico _vero_; poi se la malattia fosse stata grave
Alberto non lo avrebbe fatto chiamare? E non potendo Alberto, non lo
avrebbe avvisato il cameriere? E d’altra parte il biglietto diceva “sta
poco bene.„ Fra queste dubbiezze arrivò a casa di Alberto.

Stefano venne ad aprirgli.

— Come sta?

— Chi?

— Alberto.

— Bene.

— Come bene?

— Bene per grazia di Dio.

— Ma.... è stato malato?

— No signore.

— Dov’è?

— In camera.

— Dorme?

— Non ha ancora chiamato: e, lo sa, non vuole che s’entri in camera
finchè non suona il campanello. Ma quando arriva lei è un altro affare.
Ora vado....

— No.... aspetta. A che ora è tornato ieri sera?

— Eh! son tre giorni che non esce di casa.

— Ah!... e.... è venuta gente da lui?

— Il signor Ferreri, ma non ha voluto riceverlo; gli doleva il capo.

— A che ora è andato a letto?

— Eh! tardi, se è andato....

— Come?

— Già, sì signore: a volte non va; trovo il letto la mattina tale quale
l’ho lasciato la sera innanzi.

— Va’ a dirgli che ci sono.

Nei pochi minuti che Stefano impiegò per andare nella camera del suo
padrone, Mario ebbe campo a riflettere su parecchie cose. Alberto era
malato, ma non fisicamente: di quel solito male, dunque, di cui Mario
stesso fece la diagnosi, la mattina in cui lo vide tornare dal ballo;
le cose erano, al vedere, peggiorate alquanto.

E la Contessa come sapeva tutta questa storia per filo e per segno?
Mario entrò nel campo fertilissimo delle supposizioni e di ipotesi in
ipotesi arrivò a imaginare che Alberto fosse innamorato di Laura; che
tutta la malattia dell’uno e la premura dell’altra venissero da qualche
leggero dispetto pel quale fossero crucciati; e che a lui toccasse
accomodare le cose e acquetare gli sdegni e spiegare i malintesi. Si
fermò su questa idea con molto compiacimento; que’ due gli parevano
proprio fatti per stare insieme; e con un moto di letizia quasi
infantile presa fra le mani la testa del cane e alzatala verso di sè:

— Buone notizie, caro Reno, — esclamò — buone notizie!

In quel punto Alberto entrò nel salotto.


X.

Il colloquio tra Mario ed Alberto fu lungo. Parlarono di Reno, di
Campomoro, della dimora che il Loveni aveva fatto in Sardegna; ma degli
amori di Alberto non fu detto parola. Questi non ne discorse, pauroso
che Mario gli uscisse fuori con un predicozzo; Mario non volle entrarvi
perchè aspettava le confidenze. Inoltre chi guarentiva che egli fosse
nel vero? Meglio scansare gli equivoci. Dalla Contessa doveva andarci;
là avrebbe messo in chiaro le cose. Così dopo aver fatto colazione
con Alberto e annunziato che si sarebbe trattenuto qualche giorno a
Firenze, si vestì, lasciò l’amico e prese la strada di casa Alberici.

Quando il Loveni, annunziatole dal servitore, entrò nella stanza, la
Contessa arrossì; l’altro se ne accorse e credè trovare in quel rossore
subitaneo la conferma della opinione in cui era venuto rispetto a lei e
al movente della sua lettera.

— Buon giorno, Contessa.

— Buon giorno, Loveni: bisogna proprio dire con lei “chi non muor si
rivede.„

— Lo sa, vado l’inverno a caccia in Sardegna; mi ci son trattenuto
quattro mesi; ma lei queste assenze deve condonarmele, i miei gusti e
le mie abitudini gli conosce da un pezzo.

— Gusti, me lo lasci dire, un po’ singolari, e abitudini un po’
selvatiche. Dio mio! chi avesse avuto a dire che quel Loveni elegante,
pieno di brio che tutti abbiamo conosciuto qualche anno fa, sarebbe
andato a fare l’anacoreta a Campomoro e a passare il carnevale in
Sardegna? Mi pare un sogno. Ma che cosa ci fa tutto l’anno in campagna?

— Primo punto dimentico la città, e non è poco. Sto solo; è un
danno largamente compensato dalla lontananza di tutta la gente
noiosa. I pochi amici dei quali mi preme vengo ogni tanto a trovarli
spontaneamente o quando hanno la bontà di chiamarmi.

Laura arrossi di nuovo; poi:

— Ma perchè non viaggia piuttosto?

— Perchè non mi pare che ne metta conto; a Parigi, a Berlino troverei
costumi ed usanze che conosco. Per vedere qualche cosa di nuovo
bisognerebbe star fuori qualche anno; rischierei di trovare Reno morto,
al ritorno.

— Oh via! non dica di questo cose. Perchè vuol far credere di essere
divenuto così misantropo da non amar più che il suo cane?

— Scherzo, ma è proprio vero che il viaggiare solo non mi divertirebbe.
Il disegno di un lungo viaggio l’ho fatto da anni ma credo che non
lo effettuerò mai. Vorrei andare nella Nuova Zelanda; se Alfredo si
risolvesse a venir con me allora.... Oh! a proposito l’ho veduto, sa?

— Ah!... — disse Laura nascondendo con sufficiente artifizio la propria
commozione. — Dunque?

— L’hanno ingannata, fortunatamente, Contessa. Alberto non è malato;
ha quella solita malinconia che gli si è cacciata addosso da qualche
tempo... e che accenna, è vero, a una malattia morale. Ma se è così, io
ci posso far poco o nulla.

— Ma... è tranquillo?

— Mi è parso.

— Tanto meglio. Non mi scuso con lei d’averle scritto a quel modo,
prima perchè l’ho fatto con una buona intenzione, poi perchè ci ho
guadagnato una sua visita. E quando lo ha veduto?

— Stamani.

— Hanno parlato?

— Sì, di cose indifferenti. Le dico, non mi è parso peggiorato. Son
persuaso che qualche cosa mi nasconde.... Ma che cosa, poi? Chi lo
sa? È arrivato anche lui all’età critica; a quell’età, in cui un
partito bisogna prenderlo, una passione bisogna averla. Certo non è
più il Valmarana di prima, di cinque o sei mesi fa. Non può essere nè
ambizione delusa, nè desiderio di agi; ambizioso non è, è ricco....
Potrebbe, capisco, essere innamorato. Eh! se fosse innamorato....

Laura stette per un momento in silenzio: poi, fissando gli occhi in
quelli di Mario, domandò;

— E se fosse innamorato?

— Eh! se fosse innamorato, — continuò Mario fissando a sua volta gli
occhi in quelli della Contessa, — mi darebbe da pensare. Alberto è
fatto in un modo curioso; tutte le volte che ci penso mi vengono in
mente i vetri antichi di Murano; se chi li possiede li sa fragilissimi,
acquistano ogni giorno di pregio; messi in mano a profani rischiano
d’andare in bricioli. Io voglio molto bene ad Alberto....

— Lo so.

— Perchè non faccia la mia fine anche lui bisogna che trovi una donna
capace d’intenderlo e di amarlo con quella delicatezza di sentimento
che perdona molto perchè intende tutto. La troverà? L’ha trovata?

Gli parve d’aver detto ogni cosa, parlato anzi con un certo garbo e con
la maggiore chiarezza che fosse lecita; tacque dunque e aspettò.

Laura sembrò riflettere un momento, poi:

— Non lo so — disse — ma non lo credo.

— Cioè? — domandò Mario guardandola attonito.

— Cioè, caro Loveni, temo che il Valmarana non trovi fra le donne che
frequenta quella che lei gli desidera. A buon conto, tra le mie amiche
una donna simile non c’è. Non mi accusi di malignità; alcune sono
troppo vane, altre troppo contente.

— Sicchè Alberto....?

— Alberto, creda a me, farebbe, bene a venire con lei nella Nuova
Zelanda. Si risparmierebbe probabilmente molti dolori, o almeno
troverebbe fra gente nuova in paesi nuovi una gran medicina. Lo sa
ciò che fu detto di noi altre donne: alle mani che ci fece Iddio, il
diavolo aggiunse le unghie.... e non si può mai sapere....

— Ma lei dunque, Contessa, sa qualche cosa?...

— Non mi faccia domande, Loveni, non so nulla, non posso dirle nulla;
conosco Alberto come lo conosce lei e... lo compiango. Del rimanente,
se trovasse una donna degna di esser amata da lui e che lo amasse con
la stessa devozione di cui egli è capace, sarebbero due creature troppo
felici. E ora, conchiuse Laura sforzandosi di sorridere, parliamo
d’altro; deve avere tante cose da dirmi!... è tanto tempo che non ci
siamo veduti!

— Volentieri — rispose distratto Mario.

E si provarono a continuare la conversazione, ma non poterono fare un
discorso filato. All’interrogazione dell’uno, l’altro rispondeva con un
monosillabo; poi tacevano ambedue, perchè ambedue pensavano a ciò che
più loro importava e di che s’erano proposti di non parlare.

Finalmente Mario si congedò ed uscì da casa Alberici con opinioni
molto diverse da quelle che professava quando vi entrò; persuaso,
cioè, che Laura amava Alberto; Alberto non pensava a Laura nè punto nè
poco, ma era innamorato di un’altra donna di cui la Contessa sapeva
e voleva tacere il nome; delicatezza squisita che dava credibilità
alle previsioni di lei. Bisognava dunque, senza por tempo in mezzo,
scongiurare il danno che sovrastava all’amico, e che gli veniva da una
donna.... Ma qual era questo pericolo? Qual era questa donna?

Mario si propose di saperlo innanzi sera; e a cominciare le indagini
si mise a girare per la città in cerca di chi fosse in grado di dargli
qualche notizia utile, qualche indizio importante. Ma anche questa non
era facile impresa.

De’ giovani frequentatori del bel mondo, Mario, negli ultimi anni
della sua dimora a Firenze, ne avvicinava pochi soltanto. I giovanetti
scettici per ozio e briachi di noia, non di altro smaniosi che di
dissimulare la istintiva gentilezza de’ modi; signori per nascita e
facchini per gusto; prodighi senza generosità, fastosi senza eleganza,
viziosi senza piacere; ragazzi decrepiti, che studiano a Doney e
pensano alle Cascine, questi urtavano singolarmente i nervi di Mario,
che non aveva pazienza per sopportarli. Con loro era brusco sempre,
qualche volta, pur non volendo, scortese.

Un giorno uno di loro gli domandò:

— Perchè alla tua età non pigli moglie?

E Mario:

— Per paura di avere un figliolo che ti somigli.

Egli dunque non frequentava che coloro i quali, come lui, tenevano,
per dirla col Giusti, una gamba nel mondo del buon tono e un’altra in
quella del buon senso; che sapevano a tempo godere la vita e a tempo
adoperarla utilmente; degni rampolli di quella stirpe di gentiluomini
che fu decoro della Toscana, prima che l’aristocrazia del sangue
cedesse il luogo alla più superba aristocrazia del danaro sordida,
presuntuosa e dispotica.

Questi giovani co’ quali Mario si compiaceva in altri tempi vivere
in qualche dimestichezza erano pochi; inoltre, egli, dimorando in
campagna, gli aveva persi di vista. Nulladimeno non si sgomentò. Sapeva
che Firenze, sia detto con tutto il rispetto alla madre patria, è
una città pettegola alquanto e gli pareva impossibile che nulla fosse
trapelato degli amori di Alberto.

Entrò al Caffè di Parigi.

Insieme con lui v’entrò anche Alfredo Ferreri che Mario non conosceva,
perchè Alfredo giovanissimo era entrato nel bel mondo appunto quando
Mario ne usciva. Alfredo fu salutato con un “finalmente!„ da parecchi
giovanotti che stavano seduti attorno ad un tavolino, fra i quali
Claudio Piccardi e il Conto Olivares.

— Una bell’ora! — disse Claudio — era fissato per mezzogiorno e son le
due fra poco!

— Mi son levato in questo momento — rispose Alfredo — mi pare che,
finito il carnevale, a Firenze non si possa far altro che dormire!

— Eh! Dio mio! aspetta a lagnarti; è il terzo giorno di quaresima.

— Ma che importa? Non c’è vita, non c’è brio: un mortorio; guarda le
città grandi, le vere città: Parigi, Vienna.... là almeno ci si diverte
tutto l’anno.

— Andate a Vienna — disse l’Olivares.

— Andate.... si fa presto a dirlo!... come volete che faccia? Quando
i governi invece di abolire i passaporti aboliranno i biglietti delle
strade ferrate e il ministero dell’istruzione pubblica pagherà il vitto
e l’alloggio ai giovani che viaggiano per istruirsi, anderò; ma per ora
il genitore non vuol sentir parlare di viaggi; da un pezzo in qua s’è
fatto generoso come uno svizzero.

— Fa’ un debito....

— Son vecchi; la divisione del lavoro non la vogliono intendere. Lo
dico sempre io: dividiamoci le occupazioni: i figlioli facciano i
debiti e i babbi li paghino. Fiato buttato via....

— Ma se non mette conto, — soggiunse il marchesino Lunati, ragazzo di
diciassette anni, già annoiato della vita e a cui non rimaneva oramai
da desiderare che una sola cosa: la barba. — Se non mette conto!
Parigi, Vienna o Firenze.... sempre le medesime cose....

— Ci sei stato tu?

— No, lui non è stato — rispose Claudio — che ai Bagni di Livorno
l’estate scorsa. Ma, povero ragazzo, ha perduto le illusioni tra Empoli
e Pontedera.

— Caro mio, — replicò l’altro impermalito, — non c’è bisogno di essere
stato a Vienna per sapere che su per giù ci si fa quel che si fa a
Firenze! I soliti teatri, i soliti balli....

— E.... le Viennesi?

Il Lunati scrollò le spalle. Claudio continuò:

— Povero vecchio! eh! si capisce.... alla sua età! ha diciassette anni
compiti! E pensare che io, che ne ho dieci di più e sono con un piede
nella tomba, provo un certo turbamento a vedere le spalle di Giunone o
il piede di Cenerentola.

— Là, via, Claudio, finiscila — disse Alfredo — non tormentare il
povero Lunati. Lo fai apparir peggiore di quel che è. È vero che
disprezza molto le donne quando è con noi; ma se sapeste come le
rispetta quand’è a quattr’occhi con loro!

— Sciocco.... dammi un _virginia_ — conchiuse il Marchese. — Sei tu che
hai detto per il primo che ti annoi a Firenze.

— Sicuro; mi annoio a Firenze, ma mi sarei divertito, per esempio, a
Milano. Hai letto, Claudio, che bel ballo ha dato il Barone Sangiorgi?

— No; chi te lo ha scritto?

— L’ho letto nella _Perseveranza_ di stamani.

— Ce l’hai?

— Eccola.

— Da’ qua.

— No, leggo io.

E lesse: “Il ballo dato ieri sera dal Barone Sangiorgi nel suo
magnifico palazzo presso Sant’Eustorgio fu dei più fastosi ed allegri
fra quanti se ne sono visti da anni a Milano. Ricchi ed eleganti
i costumi, quartiere magnifico, donne bellissime, cena stupenda.
La nipote del barone maritata al marchese di Villareale, venuta
appositamente da Firenze, faceva gli onori della casa con quella
cortesia, quella festività, quella squisitezza di maniere che tutti
conoscono. Portava il costume di Caterina Howard con una grazia e una
dignità veramente regale.„

— Ah! — interruppe l’Olivares — guardate un po’ che idee! andarsi a
vestire da Caterina Howard! ve lo figurate voi Guglielmo Villareale
messo a un tratto ne’ panni di Enrico ottavo? Pagherei qualcosa per
sentirlo parlare con Tommaso Moro. E Mannoc? C’era un Mannoc al ballo
Sangiorgi?

— La _Perseveranza_ tace su questo punto — disse Alfredo: — ma noi
sappiamo, non è vero, Claudio? che Mannoc è rimasto a Firenze.

— Come dire? — domandò il Lunati.

— Il Valmarana.

— Che ci ha che far il Valmarana?

Mario, che s’era rannicchiato in un angolo del caffè, ascoltava intanto
il dialogo con molta attenzione.

— Alberto è innamorato della Marchesa di Villareale. È una scoperta che
ha fatta... qui... il Conte Olivares e di cui il gabinetto di Lisbona
dev’esser già informato a quest’ora. Tu non te n’eri accorto, eh?
Nemmeno io; ma noi non siamo diplomatici, amico caro.

— Difatti vi mancano due requisiti — soggiunse l’Olivares — necessari
agli uomini di Stato: la prudenza e la pertinacia. Voi chiacchierate di
tutto e dappertutto e siete molto abili nel canzonare gli avversari;
circa a dimostrare che sono dalla parte del torto è un altro paio di
maniche. Basta: riderà bene chi riderà l’ultimo.

Queste parole suscitarono un vero baccano; risa, grida, arguzie. Tutti
volevano dire la loro e tutti parlavano nello stesso tempo.

Mario, cui premeva di non esser visto dal Piccardi che non lo aveva
scorto sino allora, profittò di quella confusione ed uscì dal caffè.


XI.

I Villareale rimasero tutto l’aprile a Milano; nel maggio corsero sul
lago di Como già sorridente tra gl’incanti primaverili; vagarono un po’
alla ventura per il Canton Ticino e ai primi di luglio si condussero a
Pegli per passarvi la stagione delle bagnature.

Il marchese Guglielmo di Villareale era alto e robusto; capelli
biondi e ricciuti, carnagione bianchissima, lineamenti così regolari
da apparire perfetti. La natura, per dimostrare forse che non
v’ha bellezza senza unità, s’era divertita a fare del corpo di lui
uno strano accozzo di bellezze disparatissime; tutto era bello in
Guglielmo, ma Guglielmo era brutto. Chi lo vedeva per la prima volta
provava una impressione singolare; pareva che quella testa di cherubino
fosso stata appiccicata per voglia di contrasti sopra quel corpo
d’atleta.

Quand’egli entrò nel salotto, Clara stava leggendo. Le si accostò, le
prese la mano e:

— Addio, — disse.

— Dunque te ne vai davvero?

— Sì; a veder sempre la stessa gente mi son seccato. Pegli non è fatto
per me. Vo a Torino per un paio di giorni; poi... chi sa? Ho una gran
voglia di fare una gita a Courmayeur. Tornerò fra un paio di settimane.

— E io resto sola?

— Sola? Hai qui non so quante conoscenze... qualche amico....

— Sì, ma vedi, Guglielmo, mi dispiace che tu mi lasci così spesso. Non
ho il diritto d’importi la mia volontà e d’altra parte ho piacere che
tu ti diverta; ma la gente chiacchiera.

— Lasciala chiacchierare. Se c’è al mondo un uomo calunniato, sono
io. Oramai, secondo la gente, io sono il peggiore marito che sia mai
comparso sotto la cappa del cielo. Se è vero, dillo tu che lo sai.
Ma che vuoi farci? Oramai _res judicata pro veritate habetur_, dice
l’avvocato Terzolli. È destino; qualunque cosa faccia la interpretano a
rovescio....

— Tutti fuori che io.

— Spero bene — esclamò Guglielmo e sorridendo la baciò sui capelli.
— Non ci mancherebbe altro! Ma vedi un po’ se non ho ragione.... La
gente dice che non mi dovevo ammogliare. E tu sai, e ti domando scusa
di tornarci sopra, che quando ti chiesi cedei a un sentimento di
generosità. Se la lite andava avanti tu eri rovinata. Ma la gente ha
detto che ti ho sposata per speculazione. Sei stata tu che hai voluto
passare due anni in campagna; no, signore, ero io che ti rinchiudevo
in villa per seguitare a far la vita di prima. Ho giocato qualche
partita di picchetto ogni tanto, ho perso mille lire una sera. Poco
male. Le mille lire son divenute cinquanta, sessantamila: tu hai
dovuto impegnare le tue gioie, come se, dato il caso, io avessi bisogno
d’impegnare le gioie di casa per pagare cinquanta o sessantamila lire.
Oramai ci sono avvezzo e le chiacchiere non mi fanno più nè caldo nè
freddo. Dunque lasciamoli cantare e facciamo quel che ci pare e piace.

— Sta bene; tu puoi sfidare la pubblica opinione, ma io no....

— Tu?

— Già, io; oggi dicono che mi trascuri, domani diranno che mi sono
stancata di sopportare con rassegnazione il sacrifizio e....

— E?...

— E.... Certe cose non le ho mai dette e non le so dire; ma mi pare che
sia facile indovinarle.

— Oh! non aver paura; nessuno ha osato e nessuno oserà aprir bocca sul
conto tuo. Del rimanente, se ti pare che sia fatto male lasciarti sola
in un luogo di bagni, resterò.

— No, Guglielmo, no; son curiosa io! non vorrei privar te di un
divertimento e nel tempo stesso....

— Perchè non scrivi allo zio Sangiorgi che ti venga a fare una visita?

— Oh figurati! è a Stresa, e non si muove più fino a settembre. No, no,
va’ pure; quindici giorni passano presto. Me ne starò in casa....

— Ma no, t’annoieresti.... Oh! aspetta....

— Che c’è?

— Un momento.

Guglielmo sedè innanzi al tavolino e preso un foglio scrisse, mentre
Clara seguiva con lo sguardo la mano di lui.

  _“Michele Bruni_

                                    “_Via Guicciardini 72 — Firenze._

“Venga subito portando seco perizia, disegni. Subito. Saluto.

                                                        “VILLAREALE.„

Il Bruni era l’architetto di casa, il giovinetto che Alberto aveva
trovato nel salotto di Clara il giorno avanti la partenza di lei.

Guglielmo suonò il campanello e al cameriere che si presentava: —
al telegrafo — disse — consegnandogli il foglio; poi, subito che il
cameriere fu uscito, voltosi a Clara, domandò: va bene così?

— Eh! — rispose Clara — è un po’ noiosino quel Bruni ma in tempo di
carestia, dice il proverbio....

— Avrai da fare, potrai distrarti; ti do facoltà di buttare all’aria la
villa; se il disegno ti va, bene; so no, proponi tu le modificazioni,
di’ quel che desideri; per me sono indifferente, fa’ tu quel che vuoi
e spendi quanto vuoi; io — conchiuse sorridendo — sono un uomo abile;
perdo sessantamila lire in una sera e nonostante fo qualche risparmio.
E ora addio perchè è tardi.

— Addio.... a presto.

— A presto — ripetè Guglielmo. — Clara gli porse la fronte, egli vi
depose un bacio ed uscì.

La mattina dopo il Bruni, puntualissimo, quasi aspettasse da un pezzo
il telegramma del Marchese, arrivò a Pegli.

E Clara, sia che si divertisse molto nell’esaminare i disegni
architettonici e nel parlare de’ restauri da farsi alla villa, sia che
giudicasse Michele meno _noiosino_ del solito, stette tutto quel giorno
chiusa in casa con lui e con lui ne uscì sul far della sera.

E chi fosse stato lungo il mare, mentre passavano, avrebbe udito due
conoscenti di Guglielmo e di Clara parlare tra loro così:

— Chi è quel giovinotto?

— Quale?

— Quello che accompagna la Marchesa di Villareale.

— Ah! è l’ingegner Bruni.

— E che è venuto a fare?

— To’! è l’architetto di casa Villareale, è venuto a parlar di affari
con la Marchesa.

— Ah! se ne occupa lei?...

— Sfido io; chi vuoi che se occupi? Guglielmo manderebbe in rovina ogni
cosa. Ha piantato la moglie qui sola e quella povera donna profitta di
questo tempo per rimediare, se può, alle scapataggini del marito.


XII.

Mario per un pezzo non si mosse da Firenze; voleva raccapezzarsi
e aspettava il soddisfacimento di questo desiderio dal bisogno che
Alberto doveva sentire di sfogarsi con un amico. Si serbò discreto,
nonostante una curiosità che era affetto, fino al giorno in cui i
ritegni del Valmarana scoppiarono in un’effusione tanto più calda e
improvvisa quanto quelli erano stati più lunghi e penosi. E allora
Mario incapace d’una ipocrisia o d’una menzogna l’aiutò in quelle
confidenze sempre difficili alle anime non volgari. Conosceva
l’articolo della _Perseveranza_; aveva udito pronunziare insieme il
nome della Marchesa e quello d’Alberto; ma stesse tranquillo, nessuno
aveva creduto ciò che importava tenere nascosto. A lui oramai poteva
dire ogni cosa.

E Alberto gli raccontò difatti ogni cosa. L’anno passato nel maggio
quand’era dall’amico a Campomoro aveva conosciuto la Villareale.
Andavano spesso a farle visita la sera e Mario doveva ricordarsene.

— Eh! sicuro che me ne ricordo.

— Abbiamo seguitato a andarvi ogni tanto. Poi tu, stanco la sera
dalle tue gite per i monti, diradasti le visite; io vi tornai spesso.
La trovavo quasi sempre sola, perchè Guglielmo passava la più gran
parte del tempo a Firenze; v’andavo volentieri, parlavamo lungamente;
mi sentivo attratto a parlare di me, a manifestare le mie idee più
bizzarre, a descrivere i miei sentimenti più intimi. Mi pareva che
ascoltasse con tanta benignità.... Prolungai di qualche giorno la
mia dimora a Campomoro, non per arrendermi a’ tuoi desideri....
(scusami), ma perchè quelle conversazioni erano divenute un bisogno.
Nonostante che partissi di là con un po’ di rammarico, tornai a
Firenze tranquillo. Un mese dopo tornò anche lei; Guglielmo mi si mise
d’intorno e volle quasi per forza ch’io ripigliassi la consuetudine
di quelle visite serali. E io profittai dell’invito; ma a Clara
quest’invito di Guglielmo parve forse un’imprudenza.... non lo so
di sicuro perchè ella non me lo ha detto mai, ma il fatto è che non
istette più in casa la sera; la vidi dunque poche volte prima delle
bagnature. Alla metà di luglio partirono per Pegli; io me n’andai
a Livorno; mi annoiai, e per scotermi feci una gita a Pegli.... La
ritrovai più bella di prima e passai un mese intiero con lei e con suo
marito. Chi mi avesse detto a quel tempo che amavo Clara mi avrebbe
fatto ridere; vedendola così bella, così simpatica, senza sentir
nulla, proprio nulla, io giudicavo che il cuore si fosse messo in pace
per sempre. Una sera capitò a Pegli suo cugino Sangiorgi, tenente di
cavalleria. Ero così avvezzo a star solo con lei, che quell’arrivo mi
seccò; il Sangiorgi mi fu antipatico prima di conoscerlo. Era cosa
naturalissima che un parente venisse a trovarla, ma io ci soffrii;
quella sera la lasciai prima del solito, non chiusi occhio tutta la
notte; mi venne in capo il sospetto (un giorno avanti mi sarebbe parso
un oltraggio) che il Sangiorgi....

— Tira avanti, ho capito.

— Sono ragazzate, lo so.

— Va’ là non hai bisogno di scusarti; e chi non è stato ragazzo a
cotesto modo? Tira avanti.

— Io m’accorsi insomma d’esser geloso, anche prima di sentirmi
innamorato. E da quel momento provai il bisogno continuo di starle
vicino; ero tormentato nell’istesso tempo dal desiderio di dirle che
le volevo bene e dalla paura di rompere, parlando, quella specie di
incantesimo... forse non mi so spiegare.

— Ti spieghi benissimo.

— Per quanto mi studiassi di dissimulare, un po’ il mio contegno col
Sangiorgi, un po’ la malinconia che mi s’era cacciata addosso, un po’
qualche mezza parola.... insomma Clara capì, mi si mostrò sostenuta,
fredda. Mi pareva, credilo, d’impazzire. Presi il partito d’andarmene.
Tornai a Firenze, girai, cercai distrazioni.... Oramai era tutto
inutile.

— E la rivedesti.... dove?

— In campagna alla fine d’ottobre. Tu eri già in Sardegna. La ritrovai
più gaia, più serena, meno sospettosa verso di me. Guglielmo volle
che mi trattenessi in campagna due settimane; lei, così restìa ad
accogliere gente in casa sua per lungo tempo, lei stessa me ne pregò.
Credimi, Mario, io avevo risoluto di non dirle mai nulla e non le
parlai.... Ma una sera.... Insomma mi voleva bene da un pezzo anche
lei.... lo disse.... m’impose di partire il giorno dopo, e partii.

— E.... il giorno dopo.... era già troppo tardi?

Alberto fece col capo cenno di sì.

— Da quel giorno — continuò dopo una breve pausa — sono oramai passati
cinque mesi; l’ho veduta sola tre volte; ha avuto sempre lo stesso
abbandono per me, io sempre la stessa fiducia in lei.... Che hai?

— Come mai, scusa, in cinque mesi non l’hai veduta sola che tre volte?

— Ma non era possibile senza destare sospetti e...

— Va bene, seguita.

Seguitò; dopo la narrazione dei fatti venne la esposizione de’
sentimenti e Mario s’accorse che la malattia era grave e lunga la cura.
Il contegno di Clara dava argomento a molti sospetti; ma nell’anima
d’Alberto non allignavano; germogliavano e morivano. Era uno di
quelli amori terribili, che colgono sulla trentina e fiaccano tutte le
forze, vincono tutte le resistenze, sono fonte di dolori ineffabili
e grati; e forse l’amore non è se non un dolore grato e null’altro.
Consigli, quand’anche i consigli fossero utili in tali casi, Mario non
sapeva darne; vagava d’ipotesi in ipotesi, di giudizio in giudizio.
Dimenticare, potendo; ma Alberto asseverava che non avrebbe potuto;
viaggiare: paesi nuovi, costumi nuovi; un po’ di forza d’animo
sul principio, poi le distrazioni aiuterebbero. Nemmeno. — E Mario
ammutoliva aspettando aiuti dal tempo.

E il tempo se non spense il fuoco smorzò la fiamma. Ora Alberto insieme
con l’amico passava tutte le sere qualche ora in casa Alberici. La
Contessa che aveva in altri tempi tollerata paziente la malinconia
dell’uno, compativa amorevole la tristezza dell’altro. E questi vicino
a lei che gli si dimostrava così serena, si faceva a poco a poco
tranquillo; credeva tuttavia che gli sarebbe stato impossibile amare
un’altra donna come aveva amato Clara; ma a volte pensava, rassegnato,
che dovendo vivere lontano da lei, forse era savio cercare rifugio in
un affetto pacato e salvare così per lo meno gli ultimi anni della
gioventù. Quel suo proposito ingenuamente egoista era il nascosto
disegno di Mario e la vaga speranza di Laura, quando alla metà di
luglio questa partì per Livorno dove l’aspettavano il Loveni e il
Valmarana.


XIII.

Livorno nell’estate porge, come qualunque altro luogo di bagni,
argomento ad un libro intero. Ah! se quel birichino di folletto, che
ne’ silenzi della notte s’aggira intorno alla mia scrivania e mi batte
colle lievi ali la fronte, quasi a destarvi i fantasmi intorpiditi,
volesse ascoltare da me una preghiera, io gli direi: portami, folletto
bizzarro, portami il calamaio di Lorenzo Sterne e la penna di Enrico
Heine, ed io, pigliando argomento da’ bagni di Livorno, ti detterò
le più leggiadre pagine fra quante ne dettarono sin qui gli scrittori
acuti ed arguti.

Pancaldi! Palmeri! che lanterna magica! che mostra di vanità! che
semenzaio di bugie! quante antipatie nascoste e quante gentilezze
ostentate! E questi va e quegli viene; fra una scorpacciata d’ostriche
e una trottata all’Ardenza, nascono le amicizie di un’ora e gli amori
d’una settimana. Si balla sulla riva e si canta; e i flutti insonni,
come il chiama Eschilo, accompagnano col loro cupo ritornello le
melodie dell’orchestra. Poi tutto ad un tratto, l’incanto si rompe;
chi fugge di qua, chi di là; l’uno torna al fondaco uggioso, l’altro
corre ai campi pieni di luce; questi alle avide cure del commercio,
quegli ai faticosi ozii della caccia. Le case, donde per le aperte
finestre uscivano le grida de’ bambini e le note della romanza,
ammutoliscono; il vento di libeccio sbatte le tamerici, sconvolge le
arene della spiaggia e vi cancella le orme impresse durante i rapidi
colloqui d’amore! Solo, ogni tanto, ritorna a’ luoghi deserti qualche
melanconico pellegrino cui preme sciogliere il voto delle ricordanze,
o ricercare il proprio cuore che una bella vagabonda ha portato con
sè. Oh! dammi, capriccioso folletto, invocato compagno delle mie notti
operose, dammi il calamaio di Lorenzo Sterne e la penna di Enrico
Heine, ed io ti detterò in fede mia un bel libro che avrà un sorriso in
ogni linea e una lacrima in ogni pagina!

Annottava; il libeccio incominciato sulla metà del giorno era
rinforzato dopo il tramonto; le onde si sollevavano in alti cavalloni
e spingevano fin di là dalla spiaggia gli spruzzi della schiuma
verdastra. La via dell’Ardenza, di solito così rumorosa a quell’ora
per le molte carrozze, era deserta; poca gente a Pancaldi; soli sulla
terrazza Alberto Valmarana e Laura Alberici.

Alberto guardava fisso e distratto il mare, Laura fissa ed attenta
Alberto.

— E ora a che cosa pensa?... — gli domandò, dopo averlo osservato
qualche minuto in silenzio.

— Io? — rispose Alberto — a nulla; guardavo il mare; questo povero mare
che è tanto bello, e a cui non bada nessuno.

E tacque ancora. Laura dopo un altro po’ di tempo, sorridendo mentre
egli si volgeva a lei:

— Sempre al mare?...

Alberto non rispose; ella continuò:

— Mi accorgo che non ha ancora acquistato il coraggio di dire le bugie.

— Non ne ho mai dette, perchè non ho mai avuto una ragione sufficiente
per dirne. Non ho nulla da nascondere. Se avessi commesso qualche
errore, ne porterei la pena io solo; ma, guardi un po’ che orgoglio!
non credo di averne commesso nessuno; forse la gente pensa altrimenti,
ma io non muto opinione.

— E perchè mi dice a codesto modo? Mette anche me fra “la gente?„

— No, Contessa, le pare? È un vizio che ho di parlare qualche volta tra
me e me....

— Anche in presenza degli altri?...

— Ha ragione; ma lei, che è così buona, non dovrebbe rimproverarmi....

— Buona? Mi crede veramente buona?

— Veramente e profondamente buona; credo anzi che sia capace di tutte
le bontà; di quella che viene dall’istinto e di quella, dirò così, di
seconda mano, che viene dalla riflessione.

— Non la ringrazio, perchè non credo che mi faccia un grande elogio! ci
vuol così poco a esser buoni a questo mondo. Perchè sorride?

— Sorriderei anche se sentissi Rotschild, dire: ci vuol così poco a
non morire di fame! Fra tutti i doni che si possono avere nascendo, io
credo che la bontà dell’animo sia il più pregevole, e, noti bene, il
più utile.

— È un paradosso?

— No, è una verità. L’ingegno? È un gran dono, ne convengo, ma
procaccia dolori senza numero e li fa più gravi. Non c’è un uomo
d’ingegno potente che (scusi la metafora) non senta sonare dentro sè la
nota dell’elegia. La salute? Un altro gran dono; ma è come una strada
stupenda che meni a un precipizio; e per la via della salute o per
quella dei malanni si procede ad ogni modo verso quell’abisso ignoto
che è la morte. La ricchezza? Dio mio! a questo mondo non si comprano
se non le cose che non mette conto di comprare. Non si comprano nè la
salute nè l’ingegno, a buon conto, non la bellezza, non la speranza,
non l’amore.

— La speranza bisogna non perderla mai... e l’amore....

— L’amore? — chiese Alberto.

Laura non rispose.

— L’amore! — riprese Alberto dopo qualche minuto; — l’amore poi....
basta, non ne so nulla; non so nemmeno se abbia veramente amato in
vita mia; forse me lo sono figurato; e oramai posso dire anch’io col
Petrarca: “La mia favola breve è già compita!„

Dopo una pausa breve Laura riprese.

— Mi ritratto.

— Di che cosa?

— Ho detto poco fa che lei non aveva ancora acquistato il coraggio di
dire le bugie. Ho sbagliato. Scusi.

— Perchè? Ne ho detta qualcuna?

— Dunque lei non è sicuro di avere voluto bene?

— Bisogna distinguere.

— Io non le domando se ha voluto bene a suo padre o a sua madre. Parlo
d’amore.

— E io ripeto che non lo so: forse. A ogni modo ho fatto punto.

— No — riprese fieramente Laura fissandolo in volto — non lo dica,
Alberto. Ha amato una donna non forse, ma di certo, l’ha amata
profondamente e lungamente. Non dica di no; l’ha dimenticata? Può
dimenticarla? Non lo so. Ma comunque sia, mi par sempre presto per far
punto.

— Lo crede?

— Perchè no? Dopo le burrasche bisogna ridursi in porto. Ma per amare
un uomo che ha avuto come lei una passione violenta, una passione che
cova forse ancora nel profondo del cuore, ci vuole una donna che sia
capace di molta annegazione, che voglia fermamente, che sia pronta a
sopportare tutto senza rammaricarsi mai.

— E questa donna si può trovare?...

— Chi lo sa? Mi pare bensì che metta conto di cercarla.

Alberto stava per rispondere; quando udendo de’ passi come di persona
che salisse la scala, si volse verso quella parte della terrazza. Una
donna comparve. Alberto rimase muto a guardarla durante un secondo, che
gli parve un secolo; Laura s’era voltata anch’essa e aveva riconosciuto
la Marchesa di Villareale.


XIV.

L’arrivo di Clara destò, come è facile intendere, sentimenti diversi
nell’animo d’Alberto e di Laura; l’uno appena si fu rinvenuto dal primo
stupore, si abbandonò tra le molte supposizioni alla più gradita e si
compiacque nel figurarsi che Clara fosse venuta a Livorno apposta per
rivederlo. Laura invece se ne sgomentò come d’una sciagura improvvisa.
Intendeva che quell’arrivo distruggeva in un attimo gran parte delle
sue speranze e che l’edifizio costrutto con tanta cura per tanti mesi,
ruinava quel giorno stesso; per giunta sentiva, per istinto, che Clara
era partita da Pegli con la determinata intenzione di nuocerle.

Nè Clara ignorava le intenzioni di lei. Alberto a Livorno viveva
ritiratissimo; passava gran parte del giorno in mare, il resto in
casa; la sera o andava con Mario da Laura, o al _Giardino_ con lei.
Questo suo contegno innocentissimo aveva dato nell’occhio e la gente
ci aveva almanaccato su; e dopo avere osservato, esaminato, meditato,
chiacchierato era venuta a questa conchiusione: che Laura Alberici
era innamorata del Valmarana ed egli di lei; e per dare attrattiva e
onestà maggiori all’aneddoto aveva anche inventato che si mariterebbero
nell’inverno venturo. La notizia da Livorno in pochi giorni arrivò a
Pegli e la seppe anche la Marchesa di Villareale. Ella subito, la sera
dopo l’arrivo, in un crocchio, ne fece lontano accenno ad Alberto.
Questi non rispose, ma più di prima smaniò d’avere un colloquio con
Clara; molte cose voleva domandarle, dirgliene una sola: che, cioè,
la notizia non aveva ombra di fondamento, che egli non amava altri
che lei. Cercando sempre l’occasione di questo colloquio, il quale la
Marchesa dal canto suo si studiava con sottile artifizio di evitare,
da Laura non andò, non le badò, non le parlò più; ed ella, che vedeva
morire le proprie speranze ma non aveva tanta forza da assistere
all’agonia loro, anticipò la partenza e alla metà d’agosto ritornò a
Firenze.

L’ultimo di quel mese, poche ore avanti che la Marchesa partisse da
Livorno per andare col marito in campagna, Alberto potè parlarle per
pochi minuti; più proprio sarebbe dire potè ascoltarla, perchè Clara
non lo lasciò discorrere; volle invece discorrere lei; si lagnò che
l’avesse troppo presto dimenticata, e soggiunse: che sebbene ella non
avesse diritto di opporsi alla sua volontà, nondimeno lo consigliava,
prima di avventurarsi, a pensarci bene; spesso nella vita d’una donna
c’erano dei segreti.... non sapeva nulla di sicuro ma da certe voci....
La scusasse„; ella non poteva dimenticare così presto e voleva dargli
ancora una prova, se non d’affetto, che oramai egli non se ne curava
più, per lo meno dell’amicizia sua a tutta prova.

Quale effetto producesse nell’animo di Alberto questo discorso è facile
imaginarlo. Aveva potuto dubitare di Clara, di Clara che ancora pensava
a lui e profanare il proprio amore porgendo orecchio anche per poco
allo parole di Laura? E che donna era questa Laura? Tra lei e Clara non
c’era da far paragoni, nè egli li aveva mai fatti; ma l’aveva creduta
buona e ora.... Dei segreti? Quali segreti?

Questi diversi pensieri confondendosi, cozzandosi nella mente di
Alberto, ne cacciarono finalmente l’idea del giusto e del retto. E
si propose di penetrare, a qualunque costo, il segreto di Laura; la
quale ora gli pareva di odiare come un nemico. Se ne andò a Firenze col
fermo proposito di tener d’occhio la Contessa, di conoscere ogni più
minuto particolare della sua vita. E seppe questo: che ella una volta
la settimana andava con abito dimesso, in carrozza fuori di Porta San
Niccolò; scendeva a un certo punto e s’avviava sola per la strada che
conduce verso l’Ema, sino a una casa di contadini, e là passava ore
intere presso la culla di un bambino di diciotto mesi. I vicinanti e la
balia istessa ignoravano il nome della signora, ma la sapevano vedova e
affermavano sicuri che era la madre di quel bambino.

Alberto, senza porre tempo in mezzo, raccontò ogni cosa a Mario; tacque
soltanto che la prima e vaga accusa era venuta da Clara. Quegli non
dette gran peso alle parole dell’amico: non era certo che sapesse il
vero, o lo sapesse tutto, e prima di credere a tanta ipocrisia di Laura
voleva averne in mano le prove. Inoltre egli era dietro a cercare la
soluzione di un problema difficilissimo: a tentare di raccapezzarsi tra
le contradizioni di Clara.

“Come mai, pensava Mario, questa donna che vuole franto ogni legame
tra sè ed Alberto, capita a rianimare l’incendio quando appunto era
sedato, se non spento ancora? Come mai, lei che non gli ha scritto una
riga sola da sei mesi, piomba a un tratto a Livorno?... Vuol dunque
ricominciare?... E perchè, se è così, scansa lui quando la cerca e si
fa cercare quando non la cerca più?„

Tra questo dubbiezze, verso la metà di settembre, lasciato l’amico a
Firenze, partì per Campomoro dove erano andati a passare l’autunno i
Marchesi di Villareale.


XV.

Alberto tornato a Firenze seguitò a vivere da solitario; di Laura non
cercò e non ne seppe più nulla. A Mario scrisse molte volte e ognuna di
quelle lettere lo dimostrava più che mai innamorato di Clara, più che
mai cullato nei soliti inganni.

Sul finire dell’ottobre Mario capitò inaspettato a Firenze una mattina
di bonissima ora; con studiata noncuranza, chiese ad Alberto come mai
piuttosto che scrivergli così spesso non andasse da lui a Campomoro;
che ci faceva Firenze? D’ottobre non c’è nessuno.

— Vieni stamani con me; passeremo una bella giornata in collina; se ti
piace di restare resterai, se no, domattina potrai tornare a Firenze.

Alberto non se lo fece dire due volte; subito partì in carrozza con
Mario, il quale lo ringraziò ripetutamente, fingendo di credere che
l’amico si movesse pel solo desiderio di far cosa grata a lui.

Per un certo tempo chiacchierarono, ma quando dall’ampia vallata si
scorsero le colline che sovrastano a Campomoro e tra le vigne e gli
oliveti si disegnò allo sguardo di Alberto la villa di Clara, tacque;
chinò la testa sul petto come se la curvasse sotto il peso delle
memorie.

Quante cose erano mutate dalla sera beata e funesta in cui là, tra
quelle mura, egli reclinava la fronte sulla spalla di Clara! La villa
stessa aveva mutato d’aspetto; v’erano stati fatti molti restauri,
altri se ne compievano e se ne preparavano tuttavia.

La villa era esposta a mezzogiorno, e dava in un ampio prato; di
là dal prato il giardino all’uso inglese; traversava il giardino
lo stradone tortuoso, cui fiancheggiavano da cima a fondo antichi
cipressi, cioè dal prato di prospetto alla villa sino al cancello che
metteva nella via provinciale. Dietro alla villa selve d’olivi. Ai
lati estremi della casa le camere dei coniugi Villareale; quella della
Marchesa nell’angolo tra mezzogiorno e levante. Da codesta camera per
una scaletta segreta si scendeva a terreno nell’archivio; accanto
all’archivio la cappella colla facciata a levante; e presso alla
cappella lo stanzone dogli agrumi che aveva l’uscita sull’oliveto. Il
signor Bruni dalla metà di luglio a’ primi di settembre aveva lavorato
quanto più poteva e condotto a termine alcuni dei restauri desiderati
dalla Marchesa; ma l’archivio e lo stanzone degli agrumi erano
sossopra; così la cappella intorno alla quale i muratori lavoravano
ancora; di fatti era spoglia di ogni arredo sacro, le avevano tolto
uscio ed imposte; e un assito tenuto ritto da due stanghe orizzontali,
le cui estremità erano ficcate nel muro, chiudeva il vano della porta,
la quale dalla cappella metteva nelle stanze dell’archivio.

I due amici saliti fino sull’estrema vetta del colle passarono lassù
nella silenziosa ombrìa di una gran selva di pini quella breve giornata
d’autunno.

La sera dopo il pranzo Mario propose d’uscire; e poichè Alberto gli
domandò dove volesse andare a quell’ora:

— In casa Villareale — rispose. — Mi pare che essendo qui, tu abbia il
dovere di far una visita a Guglielmo... e... agli altri.

Alberto sorrise e presa la mano all’amico gliela strinse come per
ringraziarlo.

Mario aveva ragione; difatti andando verso la villa s’imbatterono nel
Marchese, il quale istrutto della presenza di Alberto girava in traccia
di lui. Si lagnò Guglielmo; e più la Marchesa, e più apertamente
perchè non erano andati a pranzo da lei; disse che la colpa era
grave e che una visitina fatta così a sera inoltrata non le pareva
pena sufficiente. Per gastigarli dunque voleva che Mario ed Alberto
pranzassero in casa sua il giorno dopo. Mario addusse non so quale
scusa per rifiutarsi all’invito, e anche Alberto, così per non parere,
si preparava a fare altrettanto; ma Guglielmo:

— Oh! per te poi — disse — non ci sono scuse. Mario sta qui e verrà da
noi invece di domani un altro giorno. In questa settimana veh! perchè
dopo torniamo a Firenze; ma tu te ne vai, ti vogliamo dunque con noi
domani. Che diavolo! non ti si vede da un secolo! che cos’è successo?
Una delle due: o per imitare Mario ti sei buttato a fare l’anacoreta
anche tu, o è vera la notizia che correva a Livorno e tu prendi moglie.

Alberto fece una spallata, la Marchesa sorrise, gli occhi di Mario
fiammeggiarono di sdegno.

D’uno in un altro argomento vennero a parlare della caccia; e Mario fu
pregato dal Marchese a passare nel gabinetto ove quegli teneva le armi
e a dire la sua intorno ad un fucile arrivato allora da Londra. Appena
Mario e Guglielmo furono usciti dalla stanza, Alberto corse verso
Clara, e sedendosi sul sofà accanto a lei:

— Oh! Clara, Clara, dimmi, per carità, che mi vuoi bene ancora.

— Alberto mio — rispose Clara passando la sua mano bianca e affilata
nei capelli di lui — c’è proprio bisogno che te lo dica? Ho sperato
dimenticarti, non ho potuto. Che importa? rispettiamo la nostra
promessa; viviamo l’uno lontano dall’altra; non ti basta di sapere che
ti voglio bene? A fingere, a simulare non ci son buona e alle paure,
ai rimorsi d’una volta non voglio tornarci più. Ti-vo-glio-be-ne. Sei
contento? Lo spero; e spero anche che sia l’ultima volta che mi fai
cotesta domanda; d’ora in poi non ti risponderò più.

Quando il Marchese rientrò nella stanza con Mario, Alberto si licenziò.
Voleva conservare immacolata la impressione dolcissima avuta per le
parole di Clara; non aveva nè forza di parlare, nè voglia di ascoltare.
Prima che partisse, il Marchese gli fece promettere di andare a pranzo
da lui il giorno dopo. E Alberto accettò.

Mario e Alberto uscirono insieme e s’avviarono per lo stradone
preceduti da un servitore, che aprì loro il cancello. Il cielo era
minaccioso; la luna splendeva nel cielo, ma neri nuvoloni rincorrendosi
la coprivano di tratto in tratto; lo scirocco sbatacchiava i lauri e
piegava le vette ai cipressi del giardino. Quando il servitore si fu
allontanato, Mario si volse ad Alberto e gli domandò:

— Dunque?

— Non s’è mai scordata di me; ma è la moglie d’un altro. Le paure, i
rimorsi....

Alberto non potè vedere la fisonomia di Mario; udì uno scroscio di risa
e rabbrividì.

— Perchè ridi a cotesto modo?...

Mario non rispose; e invece di prendere la strada che menava a casa sua
girò lungo il muro della villa dirigendosi verso l’oliveto col quale
essa confinava dal lato di settentrione.

— Dove andiamo? — domandò Alberto.

Mario continuò silenzioso a camminare; e Alberto, fatto oramai
silenzioso del pari, lo seguì. Quando furono giunti presso al cancello
che metteva nello stanzone degli agrumi, Mario vi s’accostò; il
cancello era socchiuso. Mario si volse all’amico, e:

— Hai coraggio?

— Perchè...?

— Rispondimi.

— Sicuro.

— E prudenza?

— Oh! insomma spiegati....

— Promettimi che avrai prudenza, che qualunque cosa tu vegga, qualunque
parola tu ascolti, saprai contenerti. Promettimelo, perchè un atto,
un sospiro potrebbero avere molto tristi conseguenze per te; me lo
prometti?

— Te lo prometto.

— Dunque va’; traversa lo stanzone, entra nella cappella. Guarda e
giudica. T’ingannano.

— Mario!

— T’ingannano. Non stiamo a discutere. Va’ e vedi.

E partì.

Alberto, rimasto solo, si guardò intorno, come per accertarsi che non
usciva da un bruttissimo sogno. Le parole di Clara un quarto d’ora
innanzi gli avevano empiuta l’anima di queta dolcezza; quelle di Mario
vi gettavano invece una paurosa curiosità, un vago sgomento. Stette
per tornare sui propri passi, poi fece cuore, e dopo aver traversato lo
stanzone entrò nella cappella.

Era deserta; Alberto dette un gran respiro; sperò di cogliere in fallo
l’amico; meglio negar fede a lui che a Clara. A un tratto, orecchiando,
gli parve udire un bisbiglio nelle stanze dell’archivio, separate dalla
cappella per un intavolato posticcio. S’accostò; a poco a poco in quel
sussurrare diverso riconobbe lo voci di Clara e del Bruni.

Sebbene non gli fosse dato intendere le parole loro, desiderò che
tacessero; e quando tacquero per un minuto, spasimò di quel silenzio
che a lui parve d’un secolo. Rifiutò anche una volta l’occhio alla
verità; gli piacque di abbandonarsi ad un ultimo inganno e suppose che
nonostante l’ora ed il luogo non fosse in quel convegno colpa veruna.
Appoggiando la mano all’impalancato si trovò sotto le dita una fessura
e vi posò risolutamente gli occhi; ma in quel punto la luna era coperta
dai nuvoli e la stanza involta nella più cupa oscurità. I rumori
uditi dapprima giungevano bensì a lui più distinti; col suono fioco
di un respiro affannoso si univa quello di uno scricchiolìo monotono e
sottile. Fece per moversi e non potè.... a poco a poco il raggio della
luna piovendo dall’alta finestra rischiarò il pavimento e Alberto vide
il piede breve, elegante di una donna sovrapposto ad un altro piede
più largo: il piede d’un uomo.... A un po’ per volta la luce salì e si
diffuse. Alberto scôrse sul canapè dell’archivio una massa della quale
non potò determinare i contorni; ma dalla spalliera pendeva riversa,
inanimata, quasi cadaverica la bella testa di Clara.

Sentì una corrente calda salirgli dai piedi alla testa; gli occhi gli
si velarono, non udì, non vide più nulla; uscì sorreggendosi a mala
pena dalla cappella e arrivato verso la metà dello stanzone alle cui
pareti s’appoggiava con la mano, gli vennero meno le forze e cadde
tramortito per terra.

Si riebbe un po’ prima dell’alba; al rumore di passi frettolosi aprì
gli occhi e riconobbe il Bruni che si allontanava.

Fece per uscire; Michele, partendo, aveva chiuso il cancello dietro
a sè; Alberto dovè, stremo di forze com’era, scavalcarlo; si ferì in
quell’ascensione una mano, ma non sentì il dolore della ferita; troppo
più dolorosa era quella che gli s’era aperta nel cuore.

Trovò Mario che passeggiava innanzi alla casa. Questi gli si fece
incontro e stava per parlare, quando Alberto:

— Hai detto il vero — esclamò. — Ma io non te lo aveva chiesto: dicendo
il falso avresti meritato d’essere ucciso; dicendo il vero uccidi me.
Addio.

E si avviò verso la strada.

Mario rimase come intontito e non ebbe forza di dire in quel subito una
parola; soltanto quando vide l’amico allontanarsi,

— Alberto! — gridò.

L’altro non si voltò neppure.

Mentre Alberto partiva cupo e silenzioso senza sapere nè dove andasse,
nè che facesse, una contadina dall’alto di un olmo cantava:

                     Fiorin d’argento,
    E per amarvi voi ho pianto tanto,
    Povero pianto mio gettato al vento!


XVI.

Al tempo nel quale avvennero questi fatti, Firenze era sede del governo
e del parlamento; vi calavano da ogni provincia d’Italia cittadini di
ogni ceto; artisti e banchieri, scienziati e marchesi, giornalisti e
magistrati, uomini gravi e donne leggere. In qualche ora della sera i
vecchi fiorentini avvezzi alla quiete della loro città, nel vedere quel
movimento, quel viavai di gente diversa sognavano di essere trasportati
per non so quale incantesimo a Londra o a Vienna. Via de’ Tornabuoni,
nel suo piccolo, ricordava lo _Strand_ o il corso di Porta Carintia.
Gente alle Cascine, al Viale dei Colli, al Tivoli, dappertutto. Non si
entrava nel Caffè di Parigi senza intoppare una ventina di ministri
tra passati e presenti; di ministri futuri poi, uno per cantonata.
La sera alla Pergola, come sempre, mostra di donne belle, di donne
che passavano per belle e di donne belle che passavano; convegni
di diplomatici, e ritrovi di amanti; pettegolezzi sul vestito della
signora Tale e dispute sull’ordine del giorno del deputato Talaltro.
V’era come un’imagine della Firenze di tutte l’età. Il popolino,
Firenze de’ Ciompi, bestemmiava alla porta; la signoria, Firenze
de’ Medici, si pavoneggiava ne’ palchi; i vecchi borghesi, Firenze
lorenese, sonnecchiavano ne’ posti distinti.

Ma in un dato momento, quasi tutti li spettatori, per diversi che
fossero d’indole, d’età, di consuetudini, discorrevano della medesima
persona, della marchesa Clara di Villareale.

Quando la Marchesa si mostrava dal suo palco di seconda fila, tutti gli
occhi si volgevano verso di lei; perchè non soltanto era stupendamente
bella nel volto e nella persona, squisitamente elegante nelle vesti e
negli atti, ma sapeva anche il segreto di mostrarsi ogni sera bella ed
elegante in aspetto diverso. La si poteva guardare ogni sera, sicuri
di trovare in lei qualcosa di nuovo; come si possono leggere i versi di
un grande poeta cento e cento volte, sicuri di scoprirvi sempre qualche
bellezza riposta, dapprima non scorta o non pregiata abbastanza.

Il bisbiglio ond’era salutato l’arrivo di lei fu, in una sera del
novembre 186.., più lungo del solito; perchè la Marchesa era stata otto
mesi lontana da Firenze, e la gente si rallegrò nel rivederla anche più
bella di quando era partita.

Claudio Piccardi stava in un palco dirimpetto col Conte Olivares. Il
ballo era incominciato; il Conte coi cannocchiali fissi verso la scena
guardava le forme rachitiche e la pelle variopinta delle alunne di
Tersicore, quando Claudio gli dette nel braccio, e:

— Avete visto chi c’è? La Marchesa.

— La Marchesa! — esclamò il Conte; e si volse verso il palco
Villareale; poi, dopo una breve pausa, continuò:

— Ah! come rimpiango i tempi del feudalismo!

— Che vorreste fare?

— Obbligarla a star chiusa in casa, o confinarla in un castello
solitario in mezzo alla campagna, che non potesse più vederla nessuno.
Dicono che bisogna pensare alla salute dell’anima: sta bene, ma
bisognerebbe anche che Satana fosse un po’ più discreto e certe
tentazioni supreme ce le risparmiasse!

— A proposito.... e gli amori di Alberto? — domandò sorridendo il
Piccardi.

— Voi siete padrone di ridere quanto volete; ma fino a prova in
contrario, io credo che qualche cosa tra la Marchesa e il Valmarana ci
sia; a che punto abbiano condotto il romanzo non so; ma questo è certo:
ch’io l’ho visto a Livorno il signor Alberto, e prima e dopo l’arrivo
della Marchesa. L’ho visto, l’ho osservato....

— E avete conchiuso...?

— E ho conchiuso che il Valmarana è innamorato della Marchesa, come io
ebbi l’onore di dirvi otto o nove mesi fa. Aggiungo che secondo me non
è innamorato solo. Ridete, quanto vi piace; è innamorato della Marchesa
di Villareale....

— E non della contessa Alberici? — domandò Claudio sorridendo.

— Di questo non mi faccio garante. Una cosa non guasta l’altra. Io sono
di manica larga e credo che si possa essere innamorati di due donne nel
medesimo tempo.

                             . . . . . . .

Mentre tutti guardavano Clara, Clara, pareva attentissima a quanto si
faceva sul palco scenico. “Pareva„ perchè in realtà se i cannocchiali
erano vôlti verso la scena, gli occhi guardavano furtivamente altrove.
Entrata nel palco, aveva scorto in platea appoggiato alla soglia della
porta Alberto; e non le era parso l’Alberto di altri tempi che soleva
salutarla ogni volta che la vedeva d’un guardo lungo e passionato.
Quella sera aveva gli occhi infossati; e nel viso, ove per solito
sorrideva malinconicamente l’affetto, la Marchesa lesse lo sprezzo, il
sarcasmo, lo sdegno.

Lo vide uscire dalla platea e sperò per un momento che se ne andasse
dal teatro; poi ripensando che ella non lo aveva mai veduto con
quell’aspetto, conchiuse esserci qualche cosa di nuovo per l’aria, o
bisognare armarsi di tutto punto; se Alberto si fosse chiarito nemico,
sgomentarlo con l’audacia sin dalle prime avvisaglie.

Di lì a poco infatti Alberto entrò nel palco Villareale; v’erano il
Piccardi, il Ferreri e Guglielmo rincantucciato in un angolo.


XVII.

Quando Alberto entrò nel palco Villareale, Claudio Piccardi dichiarava
al solito una delle sue tante teorie. Faceva la storia del ballo
discorrendo della Cerrito, dell’Essler che gli erano note soltanto per
i discorsi de’ più vecchi di lui; dipingeva la danza delle Almèe come
se avesse visto l’Egitto, quella degli Assiaoua quasi fosse stato ad
Algeri.

— A sentirti, — esclamò Alfredo Ferreri quando Claudio ebbe finito,
— e’ parrebbe che tu fossi un Vestris o un Saint-Léon; e dire che,
nonostante tutta la tua erudizione, balli tanto male!

— Difatti non mi occupo che della teoria; in pratica detesto il ballo e
più anche le ballerine.

— Non ne dica male via, Piccardi — soggiunse la Marchesa, la quale
aveva una gran smania di dir qualcosa per togliersi allo sguardo fisso,
penetrante di Alberto, che s’era seduto di rimpetto a lei. — Povere
donne! che brutto mestiere il loro! Che si fa celia? Tutte le sere il
solito sorrisetto, le solite moine anche quando non ne hanno voglia.
Deve essere una vita d’inferno!

— E poi quella benedetta nomèa, — aggiunse il Ferreri. — Perchè insomma
una ballerina potrebbe essere una santa, per il mondo è sempre una
ballerina.

— Una delle solite ingiustizie — mormorò Alberto.

— Sarà un’ingiustizia — replicò il Piccardi — felicissimo di poter
far mostra un’altra volta della sua facile erudizione. Fatto sta che
in Francia, fino al 1681, le dame di corte salivano sulla scena e
ballavano, perchè era proibito alle donne di prender parte ai balli ne’
teatri pubblici; da quando furono inventate le ballerine, le signore
non vollero ballare più neanche sul teatro di Corte.

— Bravo — riprese Alberto — per spiegare una ingiustizia tu mi citi
un’ipocrisia — Vorrei un po’ che tu mi dicessi perchè una ballerina
che si mostra a duemila persone dal palco scenico debba essere più
svergognata di una duchessa che si mostra a tre o quattro uomini
successivamente nello stesso giorno nella camera propria fra i ritratti
degli antenati e magari nell’archivio di famiglia. Qualche volta le
ballerine salgono e le duchesse scendono.

— Lasciamo andare, — interruppe il Piccardi desideroso di troncare
quel discorso che gli pareva Alberto spingesse innanzi un po’ troppo. —
Lasciamo andare; ti dimostrerò più tardi che c’è una bella differenza.

Ma l’altro insistè:

— Sì, differenza di amanti giovani o vecchi, ricchi o poveri, biondi...
o bruni; poi signore e ballerine valgono tutte lo stesso.

La ostinazione d’Alberto, il discorso suo parvero insensati a tutti
tranne a Clara che dalle allusioni e dai doppi sensi intese il movente
di quel contegno. Non si sgomentò; e fredda, altera, fissando gli
occhi, quasi minacciosi, in quelli del Valmarana.

— La prego di credere, — disse, — che vi sono delle eccezioni.

— Alle signore non si contradice, — replicò secco Alberto.

La Marchesa lo squadrò e tacque; parve lo volesse fulminare col
disprezzo. Guglielmo intanto s’era alzato dal suo cantuccio ed era
venuto sul davanti del palco.

Succedè una pausa breve che parve lunghissima, perchè tutti cercavano
un argomento per ripigliare la conversazione.

Alla fine il Piccardi:

— Mi pare che quest’anno il corpo di ballo non si distingua per la
venustà delle forme.

— C’è la Molucchi che è una bella ragazza, — disse il Ferreri.

— Qual’è? — domandò Guglielmo.

— Quella bionda nel secondo grappo.... Aspetta.... Ecco... guarda la
seconda a sinistra.

— Eh! sì, è molto bellina.

— Un mostro! — esclamò Alberto.

E Guglielmo:

— Valmarana, tu sei di cattivo umore da un pezzo in qua e stasera
anche più del solito: quando si hanno i nervi non si va per il mondo a
seccare la gente coi paradossi e con lo spirito di contradizione.

— C’è della gente che non tollera i paradossi,-rispose Alberto — ce n’è
di quella che non tollera le lezioni.

E, salutata a mala pena la Marchesa, uscì.

Sul tardi, all’uscire dal teatro, la gente parlava di un alterco nato
fra il Valmarana e il Villareale, di una sfida corsa e di una ballerina
che era la cagione di sì brutta contesa.

Inutile dire che in tutti que’ discorsi non c’era l’ombra della verità;
ma quella sera tutto le mamme fecero presso a poco alle figliole questo
discorso:

— Figliole mie, pensateci bene prima di pigliare marito. Lo vedete! non
basta esser buone, pazienti, virtuose come la povera Clara: quando ci
s’imbatte in uno di questi uominacci perfidi come il Marchese, che ci
pospongono alle ballerine, non si hanno altro che dispiaceri.


XVIII.

Guglielmo andò a casa insieme con Clara; non le fece parola di ciò che
era accaduto al teatro, nè ella, tacendone lui, volle essere la prima
a parlarne. Licenziata la cameriera, si coricò, ma non le fu possibile
chiudere occhio in tutta la notte; tante idee le passarono per la
testa, tanti sentimenti e diversi le tumultuarono nell’animo. Temeva
di Guglielmo; le pareva naturale ch’egli mostrasse aperto il proprio
risentimento ad Alberto e la impauriva lo scandalo, sicuro effetto
della contesa. Era convinta oramai che Alberto sapesse gli amori di
lei con Michele, ma convinta del pari che, qualunque cosa fosse per
accadere, Alberto dopo quel primo impeto tacerebbe a qualunque costo.

Nondimeno si preparò ad ogni evento; sebbene non le riuscisse
addormentarsi, la mattina dopo chiamò la cameriera più tardi del
solito; e quando, giunta l’ora della colazione, l’avvisarono che il
Marchese l’aspettava, ebbe cura di tardare venti buoni minuti ad uscire
dalla camera.

Nella stanza da pranzo Guglielmo stava intanto leggendo un giornale.
Clara entrandovi,

— Abbi pazienza — disse: — ho dormito tanto; mi sono svegliata tardi e
t’ho fatto aspettare....

— No, no; ho anticipato io nel chiedere la colazione. Non m’è stato
possibile chiuder occhio in tutta la notte....

— Come mai?

— Il Valmarana m’ha talmente stizzito ieri sera....

— Oh! per carità, Guglielmo.... non mette conto neppure di parlarne....
sai che è tanto strambo quel povero ragazzo....

— Sì, sì; ma quando uno è strambo fino a quel punto deve viver da sè;
glielo ho detto e glielo ripeterò.

— Guglielmo, per amor di Dio, non mi dar dispiaceri.

— No, sta’ tranquilla; voglio che Alberto ti domandi scusa.

— Di che?

— Come di che? Di quel che ha detto ieri sera.

— Ma forse, chi sa? non ebbe nemmeno l’intenzione di dire
un’impertinenza a me.

— Lo credo anch’io, ma che importa? C’erano in palco il Piccardi e il
Ferreri; conosco i miei polli e non voglio chiacchiere.

— Fa’ come credi; non mi accôro, perchè son sicura che il Valmarana
farà tutto quello che vuoi. Solamente, o lasciar correre o far la
campana tutta d’un pezzo.

— Sarebbe a dire?

— Bisogna pagare il Bruni e servirsi d’un altro architetto.

— Perchè?

— T’è sfaggito forse: il Valmarana parlò d’amanti biondi; poi si fermò
un secondo e soggiunse: “o amanti bruni.„ Sarà un’allusione o non
sarà....

— Ma nemmeno per idea. Che diavolo ti viene in testa? Non ci
mancherebbe altro: ora che deve costruire l’ala nuova del palazzo.... E
chi vuoi che dica?...

— Lasciami finire. Non ho mica paura; figurati! nessuno ci crederebbe,
e poi mi basterebbe che non ci credessi tu.... Ma io veggo in tutto
questo la mano di una mia carissima amica, e siccome la so capace di
tutto....

— La mano di chi?

— Di Laura Alberici. Sai che a Pegli ci hanno detto che il Valmarana
doveva sposarla; arrivata a Livorno, io, che sono franca e non so
capire i sotterfugi perchè non li so fare, domandai ad Alberto,
dirimpetto a molta gente, se la notizia era vera. Non mi rispose; Laura
se ne impermalì, ed ora per vendicarsi di me, che ho avuto il torto
d’immischiarmi nei suoi pasticci, mette su il Valmarana contro di me
e fors’anche mi favorisce un amante; e siccome non sa chi scegliere,
perchè da mesi e mesi non vediamo nessuno, m’appiccica forse il
signor Michele che è stato a Pegli, ti ricordi? quando tu sei andato a
Courmayeur. L’architetto, il quale, nota bene, ha cinque anni meno di
me! È una supposizione, bada, ma mi pare sia meglio liberarsene e....

— Scusa, mi pare invece che il rimandare il Bruni, il toglierlo da’
lavori ora che sono incominciati, darà più che mai ragione a questa
signora di spargere calunnie.

— Oh! no, perchè diremo chiara e tonda, a chi la vorrà sapere, la
ragione per la quale, sebbene con molto rammarico, abbiamo dovuto
allontanarlo da casa nostra.

— Fa’ tu.

— No, scusa, non è una bella parte e non mi sento punto la voglia di
farla io. Stamani quando viene....

— Stamani non lo vedrò, devo uscire; avrò tempo in giornata, mi pare;
non c’è fretta. E poi, siccome è capacissimo, non ti nascondo che mi
dispiace.

— Ti prego....

— Sì, sta’ tranquilla, te lo prometto — conchiuse Guglielmo.

E stretta la mano alla moglie uscì dalla stanza, scese le scale e
s’avviò lentamente verso la casa d’Alberto.

Era caduta molta neve e gli fu forza andarsene a piedi.

Un’ora dopo Giovanni bussava allo porta del gabinetto di Clara.

— Avanti. Che c’è?

— Il signor Bruni ha cercato del padrone. Gli ho detto che è fuori e mi
ha mandato a domandare se la signora Marchesa ha bisogno di lui.

— No — rispose risoluta Clara.

Poi, mentre Giovanni stava per oltrepassare la porta:

— Ah! sì... a proposito, ditegli che ho bisogno di parlargli un
momento, se non ha nulla da fare, salga subito; se no, più tardi; non è
cosa che prema.

Quando di lì a poco Michele entrò nel gabinetto, Clara gli andò
incontro, e parlandogli in fretta e a bassa voce:

— Non restar qui — gli disse — fa’ che Guglielmo non ti trovi in tutto
il giorno; e se mai per caso ti imbattessi in lui, non ti meravigliare
di quello che ti dirà... non rispondere nulla, aspetta: e sta’
tranquillo... ci sono io... che ti voglio bene.... E ora va’..., va....

Michele attonito avrebbe voluto domandare chi sa quante cose; ma Clara,
senza aggiungere sillaba, lo spinse con dolcissima violenza fuori
dell’uscio.

Appena fu uscito, Clara s’accostò allo specchio, e rialzati i
capelli sulle tempie stette immobile guardandosi per un momento; poi
sorrise, di un sorriso pieno di sdegno, di scherno, di sprezzo, di
compiacimento. Se il marchese di Villareale fosse a caso rientrato in
quel momento nel salotto, la faccia di sua moglie gli avrebbe messo
paura.


Sui tetti, sulle finestre, per le vie s’era alzato già più d’un palmo
di neve. Alberto, levandosi, aveva acceso nel camino un gran fuoco,
alimentato poi per cinque ore con carbon fossile e legno di quercia.
Il termometro segnava diciassette gradi, e Alberto sentiva un brivido
serpeggiargli per le ossa. Se ne stava semisdraiato sopra una poltrona
profonda vicino al caminetto, quando Stefano, entrando, gli annunziò il
marchese di Villareale.

— Padrone — rispose Alberto, e si alzò.

Guglielmo si fermò sulla soglia; un po’ perchè, dolente della cagione
che lo conduceva colà, gli sapeva male andare innanzi; un po’ perchè le
vampe di calore che venivano dal salotto gli mozzarono sulle prime il
respiro.

S’avanzò, dopo un momento, tenendo in mano il cappotto, verso il
Valmarana e con severa tranquillità:

— Non credo che ci sia bisogno di dirti il perchè son venuto.

Alberto immobile non rispose.

— Se non ti conoscessi da un pezzo, avrei mandato due amici a chiederti
conto delle tue parole, del tuo contegno; credo che tu non sia
persuaso, nemmeno in tesi generale, di quello che dicesti, ma poco
importa; credo altresì che non ti sia passato per la testa di offendere
me e mia moglie che ti abbiamo accolto sempre, scusa se te lo ricordo,
con cortesia. Ma il tono, le parole che dirigesti a Clara ed a me in
presenza di testimoni.... Insomma bisogna che tu chieda scusa a mia
moglie e subito.

— Non ebbi intenzione di offendere nessuno; risposi un po’ bruscamente
a te perchè m’avevi parlato con un po’ troppa alterigia. Non mi pare
che ci sia bisogno di scuse.

— Non divaghiamo — riprese il Marchese anche più severo e alzando un
tantino la voce — questo nostro colloquio non può molto protrarsi. Se
avessi supposto che t’era passato per il capo di fare offesa a me o
ad altri, avrei operato diversamente; non domando che mi dichiari il
significato delle tue parole; per me non hanno nessun significato.
Fatto sta che hai mancato di rispetto ad una signora; se intendi
chiederle scusa bene, se no....

S’interruppe; poi:

— Andiamo, via, Alberto, vedi un po’ dove mi trascini.... Stasera Clara
sarà al teatro... potrai venire nel palco e con due parole....

— No — rispose subito Alberto.

— No? Sta bene — disse il Marchese.

E si mosse verso la porta.

— Un momento.

Alberto s’accostò al tavolino, prese una penna e un foglio da lettere
ornato del suo monogramma e scrisse:

“Le domando scusa, Marchesa; spero che vorrà dimenticare i paradossi
che mi uscirono di bocca ieri sera in un momento di cattivo umore.„

                                                         “VALMARANA.„

Porse il foglio a Guglielmo; questi lo lesse, e:

— Grazie, Alberto — disse.

E gli prese la mano e la strinse; poi, vedendo che Alberto restava
zitto e in piedi,

— Addio dunque — riprese.

— Addio.

Il Marchese uscì; e per le scale pensava:

“Quel povero Alberto m’è sempre parso un po’ bizzarro, ma ora poi mi
par diventato matto addirittura.„

Quando il Marchese fu uscito, Alberto si gettò sopra la poltrona;
appoggiò i gomiti sui ginocchi e si coprì colle palme la faccia. Così
stette lungamente, quando sentì il capo farglisi grave tentò d’alzarsi,
ma gli occhi gli s’abbagliarono, gli si piegarono le gambe e ricadde.
Gli pareva come d’udire un ronzìo confuso di mille voci sottili; fece
un nuovo sforzo; appoggiandosi con una mano al muro, con l’altra alle
seggiole sparse per la stanza, s’accostò alla finestra, l’aprì e tuffò
la testa nella spessa neve che s’era accumulata sul davanzale. Si sentì
sollevato e rimase come sbalordito per più di due ore alla finestra;
un vento ghiacciato gli illividiva il volto, e la neve gli copriva co’
suoi fiocchi bianchi i capelli.

Guglielmo non tornò a casa che all’ora di pranzo: e quando mostrò a
Clara le poche righe scritte da Alberto.

— Povero Valmarana! — disse quella, — l’ho sempre pensato che non è
cattivo, ma ha un benedetto naturale.... oh! meglio così! non ci si
pensa più; ha fatto bene a scrivermi.... star lì ad ascoltare uno che
fa delle scuse non è punto piacevole per una donna; e, confesso il
vero, mi sarei sentita impicciata....

Stette pensosa un momento, accartocciando il foglio con naturale
noncuranza, poi:

— Del rimanente — continuò — abbiamo fatto uno sproposito anche
noialtri.

— Quale?

— Quello di mandar via il Bruni. È stato quasi un venire a patti colla
calunnia. Oramai è fatta....

— Non è fatto nulla, — rispose il Marchese — perchè io ho cercato
Michele e non l’ho potuto trovare. Te l’ho detto sin da stamani che era
uno sproposito; ora che ne sei finalmente persuasa anche tu io non gli
dirò nulla e festa finita.

— No.... aspetta, lasciamici pensare ancora ventiquattr’ore.

— Pensaci, ma che se n’esca dentro domani.

Ventiquattro ore dopo la Marchesa non aveva ancora pensato abbastanza;
ma poichè Guglielmo s’impazientiva, ella disse d’accostarsi, per
deferenza verso il marito, all’opinione di lui; e così fu conchiuso
che il Bruni seguiterebbe a prestare i propri servigi alla famiglia
Villareale.

Due giorni dopo arrivava a Campomoro un dispaccio diretto a Mario
Loveni dal cameriere d’Alberto e concepito in questi termini:

“Il padrone sta malissimo. Venga subito.„


XIX.

Mario, quando gli portarono il telegramma di Stefano, passeggiava
innanzi alla villetta cogitabondo; Reno lo segniva lento colla testa
dimessa. L’animale era attristato della mestizia dell’uomo.

Leggere il dispaccio e montare in carrozza fu per Mario l’affare di
dieci minuti. Reno voleva montare anch’esso, ma il padrone lo respinse
bruscamente e partì. Partì subito pensando che la malattia di Alberto
doveva essere molto grave, se Stefano lo chiamava con quella fretta,
adoperando quelle parole; e in tale pensiero si confermò quando
giunto alla casa del Valmarana vide Stefano medesimo venirgli incontro
addoloratissimo e lo udì esclamare:

— Ah! signor Mario, signor Mario! che disgrazia! che disgrazia!

Ma per quanto supponesse grave lo stato di Alberto, provò, entrato che
fu nella camera di lui, uno sgomento da non ridirsi. Alberto giaceva
supino sul letto con la testa sollevata da tre guanciali sovrapposti
l’uno all’altro; livido, aveva gli occhi semichiusi, immobili, come di
vetro. Il respiro affannoso e il continuo moversi delle mani che pareva
cercassero qualche oggetto erano soli segni che la vita non aveva
ancora abbandonato quel corpo.

Mario gli si accostò, lo chiamò più volte per nome; ma Alberto non si
mosse, nè rispose. E allora voltosi a Stefano:

— Quando l’ha visto il medico? — domandò Mario.

— Ieri sera a mezzanotte.

— E tornerà?

— A star di molto, fra mezz’ora sarà qui.

— E quant’è?...

— Due giorni.

E Stefano raccontò per filo e per segno a Mario come Alberto tornato
dal teatro si fosse gettato vestito sul letto; e alzatosi di buonissima
ora la mattina e acceso un gran fuoco, fosse rimasto presso al camino
finchè non giunse il Marchese di Villareale; che partito il Marchese,
Alberto aveva aperto la finestra e v’era stato affacciato col capo
scoperto più di due ore.

— Ah! il Marchese Villareale è venuto qui? — domandò Mario.

— Sì signore.

— Dio santo! quanto sta questo medico?... E si trattenne il Marchese?

— Pochi minuti.

— A che ora suol venire?

— Il medico? Alle nove; sono le otto e tre quarti...

— Di’.... e quando uscì dalla finestra?...

— Si buttò daccapo sul letto; mi chiamò, disse che si sentiva molto
male, ma non volle che chiamassi il dottore. Poi nella notte peggiorò
tanto e.... Creda, signor Mario, creda che peggiora di minuto in
minuto. Ieri sera qualche parola la diceva, e ora....

— Zitto! è sonato....

— No signore; oh! sto attento, non dubiti, e poi c’è Francesco di là in
sala....

— Sai per che motivo venisse il Marchese?

— No signore.

— Chi è il dottore?

— Una brava persona, un po’ rotto.... il dottor Ramelli.

— Ah!

— Lo conosce?

— Sì.... questa volta è sonato di certo.

— Sì signore.... questo è lui....

Stefano non s’ingannava; difatti di lì a poco il medico entrò nella
stanza.

Mario, che lo conosceva avendolo trovato qualche volta in casa della
contessa Alberici, gli si fece incontro come per interrogarlo; il
dottore non gli badò e senza pronunziare parola s’accostò al letto del
malato.

Dopo un po’ di tempo:

— Dunque? — domandò Mario con ansietà.

Il dottore gli fece cenno di seguirlo nella stanza contigua e:

— Caro signore, — disse, — che vuol che le dica? lo vede da sè: il
malato è gravissimo.

— Una polmonite?...

— Eh! magari fosse una polmonite soltanto; ma c’è congestione polmonare
e congestione cerebrale.

— Ma c’è speranza?...

— E congestione cerebrale — ripetè il dottore.

— Ha sentito da Stefano?....

— Sì, sì, cause occasionali e non bene accertate; la causa prima è
un disturbo di circolazione; la flussione del petto è avvenuta così
sollecitamente a cagione di una precedente alterazione del cuore. E
questo è confermato dalla complicanza della congestione cerebrale.

— Ma come? Alberto?....

— Ha un vizio cardiaco.

— Un vizio cardiaco?

— Eh! la diagnosi è facile; non c’è neanche da dire posso ingannarmi.

— Ma se non s’è mai lagnato di soffrire di cuore!

— Caro signore, non si sarà lagnato, ma il vizio c’è.

— Può darsi che qualche grave dolore.... qualche commozione violenta?...

— Tutto può darsi.

— Ma si può sperare?

— Io non posso dirle nè di sperare nè di disperare. Io ho fatto tutto
quello che sapevo e potevo. A ogni modo nel vedere quel disgraziato
uomo spossato, denutrito con un’alterazione al cuore grave, molto,
molto grave non mi sgomento dell’ora mi sgomento del poi. Più della
malattia temo le conseguenze.... A rivederla, tornerò a mezzogiorno. Se
mai ci fosse un peggioramento il cameriere sa dove trovarmi.

Partito il medico, Mario si sedè accanto al capezzale d’Alberto e
ripensò i fatti narratigli da Stefano; la visita di Guglielmo, che
era pur cosa da non meravigliare, lo aveva posto nel timore che
qualche cosa di serio fosse avvenuto tra lui ed Alberto; e soffriva,
riflettendo che forse egli, Mario, era causa involontaria di tanto
guaio. Per buona sorte il Marchese di Villareale venne a toglierlo da
quell’angustia, chiedendo con affettuosa premura notizie del Valmarana.

Mario stava dunque presso al letto, assorto in tali pensieri, quando
udì un rumore alla bussola. Stette un momento in orecchio e poichè il
rumore durava ed egli non sapeva raccapezzare da che fosse cagionato,
si alzò; in punta di piedi andò fino all’uscio e l’aprì.

E Reno entrò dando un lungo sguardo al padrone, come se volesse chieder
perdono di aver trasgredito gli ordini seguendolo a Firenze. Ma il
padrone non gli badò; gli era parso di udir de’ passi nel salotto e
aveva veduto mentre apriva la porta un’ombra dileguarsi; traversò il
salotto, entrò in un gabinetto e si trovò a faccia a faccia con la
contessa Alberici.

— Lei? — esclamò Mario.

— Io. Di che si meraviglia? Di trovarmi qui? Dovrebbe meravigliarsi
se non ci fossi. Da che ho saputo dal dottore lo stato del povero
Alberto, sono venuta e non mi sono più mossa. Egli non era in grado
di riconoscermi e potevo assisterlo senza che si adirasse della mia
presenza. Che le ha detto il medico?

— Nulla di buono.

— Oh! si salverà, Loveni, si salverà. Io lo sento; il cuore mi dice
di sperare. Non è vero che stia peggio di ieri sera. Stefano non lo
ha visto bene.... Non lo rimproveri Stefano; glielo ho inibito io di
dirle che ero qui.... perchè nonostante che le avessi fatto spedire
quel telegramma ieri sera, stamani m’è mancata la forza per venirle
incontro. Ho temuto di farle paura.

Udendo quelle parole Mario fissò gli occhi nel volto di Laura: faceva
paura difatti, tanto la sua fisonomia era sconvolta, tanto profonde
v’erano impresse le tracce della veglia, dell’angoscia, del pianto.

— Santa creatura! — disse Mario. — Presala per mano la condusse nella
camera di Alberto e ambedue si sederono silenziosi, l’uno ai piedi del
letto, l’altra presso al capezzale.

Reno andò ad accoccolarsi in un canto.

Per le imposte socchiuse penetrava un sottile raggio di luce e
il silenzio era rotto soltanto dal respiro affannoso e frequente
dell’ammalato.


XX.

La mattina dipoi il dottore avvertì che la congestione cerebrale cedeva
alla pronta efficacia della cura e lo stato del petto si era fatto
migliore. Quell’annunzio doveva essere e fu una consolazione per Laura,
ma succedè presto un nuovo rammarico. Fino allora infatti Mario e Laura
tutti intenti a scrutare la fisonomia d’Alberto, a osservarne ogni
mutamento più lieve, non avevano parlato tra loro che per certificare
i fenomeni della malattia di lui, o per commentare coi criteri del
cuore le parole del medico. Quel giorno, fatti più fiduciosi intorno
al futuro, si volsero volentieri al passato; e Mario, ricordandosi
del racconto fattogli dall’amico e dei sospetti che aveva accolto
nell’animo rispetto a Laura, le disse ogni cosa. Le parole del Loveni
furono per lei, secondo la frase solita, un fulmine a ciel sereno; e le
dolse più di essere stata spiata da Alberto, che creduta colpevole; per
un momento piegò la fronte; ma rialzatala subito con fierezza rispose
a Mario che l’accusa lanciata contro di lei era la più codarda delle
calunnie; il bambino mandato a balia fuori della porta San Nicolò, e da
lei visitato ogni tanto, non era figlio suo; di chi fosse non voleva
nè poteva dire; non poteva perchè era suo stretto debito tacere, non
voleva perchè aveva diritto di esser creduta, anche senza fornire le
prove della propria affermazione, ella che non mentiva mai.

Mario le credè; ma per Laura il colpo era così forte che sentì il
bisogno di divagarsi e di uscire. Uscì difatti lasciando il Loveni a
custodia di Alberto, presso il cui letto ella si propose di tornare la
sera.

E giunta sulla porta della casa vide in carrozza la Marchesa di
Villareale. La Marchesa, fatto fermare il legno, accennò a Laura di
accostarsele; e quando fu allo sportello,

— Come sta il Valmarana? — domandò simulando con artifizio squisito
un’inquieta premura.

— Un po’ meglio.

— E chi lo cura?

— Il dottore Ramelli.

— E c’è chi lo assista?

— Mario Loveni ed io.

— Ah! tu?... — rispose Clara dando col sorriso e con la voce un
significato alquanto maligno a quelle parole.

— Io — rispose grave Laura; poi con fare disinvolto: — a proposito, mi
pare che tu avessi giurato, giurato, bada bene, di serbare un segreto
che non era nè mio nè tuo e che io feci male a confidarti. Ma! t’ho
conosciuta tardi.

— Laura, ricominciamo?

— Dunque, poichè avevi giurato, mi sapresti dire con che cuore hai
potuto violare il giuramento?

— Io?

— Tu.... Il Valmarana non ha potuto saperlo che da te.... Credo anzi
che sebbene sapessi che quel bambino è di mia sorella nato nell’assenza
del marito, tu gli abbia fatto credere che è figliolo mio.

— Io mi meraviglio.

— Tu ti meravigli, s’intende; non mi puoi rispondere altrimenti. Addio,
demonio.

E s’allontanò. La Marchesa proseguì per la sua strada, pensierosa più
dell’usato. Oramai Laura, se anche non possedeva, credeva di possedere
ella pure un segreto. E poi chi guarentiva che Alberto, inasprito
com’era, non avesse parlato? O che nel delirio non gli fosse sfuggita
qualche frase, un nome?

Scese in via Tornabuoni alla farmacia inglese e vi trovò il Marchesino
Lunati.

— Come mai, Marchesa, così mattiniera?

— Sono stata a prendere le nuove del Valmarana.

— Ah! già. Ci volevo andare anch’io e me ne sono sempre scordato. Come
sta?

— Meglio.

— Meno male; l’avevano dato per morto.

— Oh! no pare anzi che ci sia molta speranza.... Lo cura il dottor
Ramelli che è bravissimo, dicono. È ben custodito.... si figuri: ci
stanno giorno e notte Mario Loveni e Laura Alberici.

— La Contessa? Ma allora è vero quel che si diceva a Livorno!

— Perchè? È necessario forse che un’infermiera sia una fidanzata?

— Scusi, Marchesa, ma...

— Può darsi anche che sieno fidanzati, non dico di no, ma questa prova
non basta; tanto più che lei lo sa com’è Laura.... senza rispetti
umani; quando le piace di fare una cosa la fa senza curarsi di quel che
dirà la gente....

— Senta, Marchesa, scommetto che se m’ammalo io la Contessa a farmi da
infermiera non viene....

— Oh! no....

— E dunque?

— Lei è padrone di pensare come vuole; solamente mi faccia il piacere
di non raccontare a nessuno questo che le ho detto. Non voglio essere
io cagione di chiacchiericci.... Me lo promette?

— S’imagini!

Successe quel che la Marchesa s’era proposta. Il Lunati raccontò
tutto senza dire bensì d’averlo saputo da lei; e il giorno stesso sul
piazzone delle Cascine non si parlava che dell’assistenza dell’Alberici
al Valmarana.

— Congestione cerebrale — diceva il Ferreri — seguita da matrimonio.
Esito funesto.

E il Piccardi, sempre per far l’erudito, citava i versi dell’_Otello_
di Shakespeare:

    Ella m’amò per le sventure mie
    Ed io l’amai per la pietà che n’ebbe.


XXI.

Passato qualche giorno, sebbene Mario e Laura si spaventassero del
sonno quasi letargico dell’ammalato, il dottore annunziò che la
congestione cerebrale doveva tenersi vinta e predisse che, svegliandosi
dopo quel sonno morboso, Alberto avrebbe certamente riconosciuto chi
gli stava d’attorno e pronunziato a fatica qualche parola.

Partito il medico, anche Laura volle andarsene. Le molte preghiere di
Mario, i molti argomenti adoperati da lui per indurla a restare non
giovarono a nulla; Laura sapeva di non essere più nelle buone grazie
di Alberto, non voleva che vedendosela accanto si sdegnasse; ogni più
lieve commozione gli era dannosa: dunque partiva, pregando Mario di non
dire mai una parola all’amico intorno a ciò che era avvenuto, quando
egli giaceva inconsapevole in presentissimo pericolo di vita.

Mario, rimasto solo al capezzale del malato, vide avverarsi tutte le
previsioni del medico. Alberto sulla sera si destò; scôrto l’amico
fissò a lungo gli occhi su di lui, come per raccapezzare chi fosse;
riconosciutolo finalmente, sia che avesse dimenticato come e quando
s’erano lasciati, sia che gli piacesse farlo dimenticare, gli prese
la mano e gliela strinse. Volle parlare e non potè, ma mostrò con gli
atti e col guardo di intendere tutte le parole che l’altro gli disse, e
con gli atti e col guardo si studiò di rispondere alle domande che gli
furono rivolte.

Alla fine di quella settimana Alberto entrò nella convalescenza lunga e
penosa; superata la congestione polmonare e la cerebrale, rimaneva pur
sempre quel disturbo di circolazione che, al dire del dottor Ramelli,
era stato causa prima al precipitoso svolgimento e alla singolare
violenza della malattia. Era preso così spesso dall’affanno, che lo
stare giacente gli si faceva di giorno in giorno più intollerabile. Fu
dunque giocoforza adagiarlo sopra una poltrona.

E Mario stava seduto accanto a lui e si sforzava, per fargli meno
tristi le lunghe sere dell’inverno, di indurlo a parlare, a distrarsi.
Inutilmente: Alberto ascoltava, non rispondeva o rispondeva soltanto
con un sorriso pieno di malinconia. E la conversazione languiva perchè
di Clara, argomento favorito a’ discorsi di Alberto, Mario non voleva
parlare; nè Alberto avrebbe tollerato che gli si ragionasse di Laura,
argomento inesauribile alla eloquenza di Mario.

Alberto aveva bensì notato che ogni giorno, verso le due, Stefano
entrava in camera con un pretesto qualsiasi e subito Mario si alzava
ed usciva, nè tornava che dopo mezz’ora a ripigliare il suo posto.
Questo fatto semplicissimo, ripetendosi tutti i giorni e sempre all’ora
medesima, aveva destato nell’animo d’Alberto una sospettosa curiosità.
Gli pareva che la cosa non fosse liscia, che gli si nascondesse qualche
segreto e aveva fatto proposito di indagare che segreto fosse.

Una volta che s’era appisolato sopra la poltrona, svegliandosi non
trovò Mario presso di sè; guardò l’oriolo, era l’ora solita; tese
l’orecchio verso la porta che dava nel salotto e udì Mario che parlava;
con chi? Gli parve parlasse con una donna. S’alzò e a passi lenti,
appoggiandosi al bastone s’avviò piano piano verso la porta. Giuntovi,
si fermò per un momento, poi aprì l’uscio ad un tratto.

Seduti innanzi al camino stavano Mario e la Contessa Alberici.

Laura s’alzò, pallidissima, Mario rimase seduto senza neanche voltarsi.
Alberto, fermo sulla porta, volgeva intanto ora sulla Contessa ora sul
Loveni gli occhi attoniti, severi.

Fu l’affare d’un minuto; poi Mario, alzandosi, vôlto ad Alberto:

— Andiamo per le spiccie — disse. — La Contessa è venuta a chiedere
notizie della tua salute; ne aveva diritto perchè quando tu eri in
pericolo....

— Mario! — esclamò Laura.

— Mi lasci dire.... quando tu eri in pericolo di vita ha vegliato
giorno e notte insieme con me al tuo capezzale. Cogli dunque
l’occasione per ringraziarla e, giacchè ci sei, scusati di aver
prestato fede alle calunnie che ti dissero sul conto suo.

Ed uscì.

Gli altri due rimasti soli stettero un momento fermi, silenziosi. Poi
Laura si mosse verso Alberto e stesagli la mano:

— Addio — disse.

— A rivederci — replicò Alberto.

— No, addio.

— Come? Vuole che non ci vediamo più?

— No.

— Perchè?

— Importa dirlo il perchè? Non lo sa lei come lo so io? Oramai non
abbiamo più nulla da dirci. Possiamo restare amici a patto di vivere
lontani l’uno dall’altra. E resteremo, spero.

E gli stese la mano; Alberto la prese fra le sue.

— No, Contessa, non parta. Mi fa male pensare che io le costo anche
questo sacrifizio. Io debbo ringraziarla, debbo scusarmi con lei
che è la più nobile creatura ch’io abbia trovato nel mondo. Sono un
disgraziato, non merito forse l’affetto di nessuno, merito di certo la
pietà di tutti. Non mi dimentichi e mi compianga.

Laura fece per rispondere e non potè; si sentì serrata la gola;
raccolse le proprie forze e svincolandosi:

— Non la dimenticherò.... Addio. — E fuggì.

Quando Mario tornò, Alberto era stato ripreso dall’affanno più
frequente e più grave.


XXII.

  _Al signor Alberto Valmarana_ — FIRENZE.

                                                Campomoro, 8 gennaio.

  _Caro Alberto_,

Hai voluto che ti lasciassi solo, ed io ho fatto la tua volontà; ma
prima di partire ho pregato il buon dottore che mi desse ogni giorno
le tue notizie. Secondo che mi scrive, tu non sei ancora rimesso, nè
potrai facilmente, a Firenze, dove il clima è funesto a cotesta specie
di malattie. Non ho in animo di darti un consiglio, ma ti fo una
proposta. Vuoi andare in qualche altro luogo? T’accompagnerò, starò
con te finchè tu non sii guarito e non ti sia venuta in uggia la mia
compagnia. Rispondimi, se lo scrivere non ti dà soverchio fastidio; se
no, prega il dottor Ramelli che mi scriva lui e mi dica ciò che pensi
di fare.

                                                             _Il tuo_
                                                               MARIO.


  _Al signor Mario Loveni_ — CAMPOMORO.

                                                  Firenze, 9 gennaio.

  _Mario mio_,

Se non sapessi per molte prove oramai di che tempra è l’amicizia tua,
me lo insegnerebbero oggi le tue pietose bugìe. Tu e il medico sapete
come me che di queste malattie non si guarisce; è gala se si riesce a
morire. Non mi parlare dunque di clima; tutti i climi sono buoni per
chi ha da soffrire a questo modo; di’ piuttosto che tu vuoi distrarmi,
divertirmi e fare che passino meno tristi i giorni che verranno e che
la mia gioventù mi fa temere troppo lunghi, troppo crudelmente lunghi.

Non ho più nè forza, nè volontà; fa’ tu di me quello che vuoi. Vuoi che
partiamo? Partiamo. Verrò dove mi condurrai. Pongo una sola condizione:
che di quanto è avvenuto non si parli mai più.

Ho sciupato la vita. Sono un uomo senza vigore, senza forza d’animo;
lo so, che colpa ne ho io? Dio sa come mi giudicherebbe severamente la
gente, se un giorno saltasse in testa a qualcuno di raccontare la mia
storia.

Tu sai ogni cosa; e come io l’abbia amata e come mi abbia fatto
soffrire; mi ha cacciato nell’anima il più crudele dei sospetti,
il sospetto che abbia mentito sempre con me, come ha mentito con
suo marito, con Laura, col mondo; sono persuaso che mentirà sempre.
Dico abbastanza, mi pare; ma non ho detto tutto. Gli uomini a modo
sentenziano che non v’è amore senza stima. Io, Mario, la disprezzo,
ma l’amo. Dunque non _parto_ con te, Mario, _fuggo_; fuggo perchè se
domani ella vuol fare ancora di me il suo trastullo, io, consapevole,
mi lascerò ancora tormentare da lei. Quando ci penso faccio paura a me
stesso, ma è pur vero che per un suo bacio le darei il mio perdono.

E pensare che fra le memorie della sua vita, questo affetto mio non
terrà maggior posto del più semplice avvenimento.... Ah!...

Non ne parliamo dunque più. Vieni, io farò quello che tu vorrai.

                                                             _Il tuo_
                                                             ALBERTO.


Due giorni dopo Alberto partiva per Milano, dove Mario doveva
raggiungerlo, sistemate alcune urgenti faccende, poche ore dopo.

Il clima rigido di Milano si confaceva anche meno che quel di Firenze
alla salute rovinata d’Alberto. Mario propose di andare a passare
l’inverno sotto cielo più clemente, a Nizza; ma Alberto non vi consentì
e dopo lunghi e ripetuti discorsi dell’uno, ai quali l’altro rispondeva
a mala pena con un monosillabo, fu preso il partito d’andar girando
qua e là sinchè, venuto marzo, gli accogliesse una villetta sul lago
di Como ove avrebbero aspettato insieme i profumati tepori della
primavera.

— Sul lago di Como c’è stata anche lei! — pensava Alberto tra sè.

E la primavera tornò, ma non tornarono ad Alberto la letizia e la forza.

Una mattina d’aprile, scese a Menaggio dal battello il dottore Ramelli.
Non ebbe a cercare la casa solitaria e modesta ove Alberto s’era
rifugiato con Mario, perchè questi lo aspettava nel giardino il cui
lembo estremo bagnavano le acque del lago.

Mario gli andò incontro e prendendogli la mano:

— Grazie, dottore — disse.

E si avviarono silenziosi verso la villa.

Quando entrarono in camera, Alberto era seduto sul letto. Aveva
il volto livido, le braccia abbandonate, gli occhi infossati; la
testa, che egli si sforzava di tener alta, ricadeva verso il petto
accompagnando con un movimento regolare e continuo il respiro grave e
affannoso. Da un lato del letto, Stefano, affranto dalla veglia e dal
dolore, dall’altro Reno, accoccolato sopra una poltrona.

Vedendo il Dottore, Alberto lo salutò col guardo poi, volto a Mario: —
perchè lo hai chiamato?

— Non mi ha chiamato nessuno; sono venuto a Monza per un’operazione e,
giacchè ero lì, ho dato una corsa a Como.

Alberto sorrise melanconicamente e replicò:

— Bugìe.

— Non si sgomenti, non va mica peggio, sa?...

— Oh! anzi.... va meglio.... grazie a Dio.... siamo verso la fine. Lo
so, dottore, e lei lo sa meglio di me.

Il medico tacque. Mario andò verso la finestra per nascondere la
propria commozione, Stefano dette in uno scoppio di pianto.

Il dottore lo prese per un braccio e lo condusse fino alla porta.

— Povero Stefano, mi vuol bene — mormorò il malato.

— Lo so, ma in camera dei malati non si piange.

— Si trattiene, dottore?

— Fino a domani.

— Mario conduci il dottore in camera sua.

Mario desideroso di sapere ciò che veramente questi pensasse dello
stato d’Alberto, fece per obbedire alla preghiera d’Alberto; ma il
dottore lo trattenne e presolo per la mano:

— Non faccia complimenti, c’è di là il servitore, — disse — ed uscì.

E Mario restò; dal contegno del medico aveva oramai inteso tutto.

Durante quel giorno, sebbene il respiro si fosse fatto meno frequente,
Mario e il medico non si allontanarono mai dal letto dell’ammalato.
Soltanto sul far della sera il dottor Ramelli salì nella propria camera
per scrivere alcune lettere da mandarsi per il battello. Mario rimasto
solo con l’amico gli si avvicinò, e:

— Come va? — gli chiese.

— Bene — rispose Alberto — questo bel cielo che veggo.... questo
silenzio.... mi fanno ritornar buono.... mi dimentico il male che mi
hanno fatto, per ricordarmi solamente....

— Non ti affaticare.

— .... solamente delle cose belle che ho trovate nel mondo; i rancori
svaniscono.

— Alberto, per carità!...

— No.... no.... non mi fa mica male....

Non potè andare innanzi; poco dopo:

— Vorrei quel portafoglio in cuoio di Russia.... sai?...

— Alberto, mi raccomando, non ti tormentare con questi ricordi....

— Dammelo.

— Dov’è?

Alberto accennò colla mano tremante una scrivania posta in un angolo
della stanza.

— Non c’è la chiave.

— Chiedila.... a Stefano.

Mario uscì; aveva di poco oltrepassata la soglia della stanza che gli
occhi di Alberto parvero gonfiarsi ad un tratto; egli fece un moto per
alzarsi, aprì la bocca come tentando con un estremo sforzo di parlare;
poi piegò la testa verso il petto e ricadde sopra i guanciali.

Reno schizzò dalla poltrona e dette in un lungo mugolìo.

Mario, che era giunto in fondo alla scala, udendo il pietoso richiamo
della povera bestia tornò rapidamente in camera, cacciò un urlo
disperato e si gettò piangendo sul cadavere dell’amico.

E Reno intanto, mugolando sempre, leccava la mano che Alberto, morente,
aveva lasciato cadere penzoloni lungo un lato del letto.

Mario stette così fino a che il medico e Stefano, avvertiti dai suoi
cupi singhiozzi, non vennero a toglierlo al triste spettacolo. E
allora, dando uno sguardo a quella fisonomia che gli era stata così
cara mormorò le più desolate parole che uomo possa pronunziare: son
solo!


XXIII.

Mario, dato all’amico il tributo estremo, partì in fretta per la
Toscana. Gli pareva di non essere più lui; uno sgomento profondo gli
gravava sull’anima, si sentiva stanco e pauroso.

A Bologna stava per salire nel treno che doveva menarlo a Firenze,
quando gli parve di scorgere in un vagone di prima classe un noto
aspetto di donna; volle sincerarsi. Era proprio lei. Mario stette un
momento incerto se dovesse fuggire lontano o entrare in quello stesso
vagone; poi aprì lo sportello e salì.

— Oh! lei Loveni!

— Marchesa, lei qui? Di dove viene?

— Da Milano; sono stata al solito dallo zio. E lei?

— Io? Da compiere un tristo ufficio.

— Quale?...

— Alberto Valmarana....

— È morto?

— È morto tre giorni fa a Menaggio sul Lago di Como.

La Marchesa tacque; non un muscolo le si contrasse; non un lampo negli
occhi, non una piega sul viso. Mario la guardava fisso, tacendo anche
lui. Clara scrollò la testa finalmente e,

— Peccato! S’è voluto rovinare! Glielo ho detto tante volte.... Faceva
una vita che non era per lui... Lo credevo in convalescenza. E di che
male?

— Delle conseguenze della congestione polmonare che ebbe mesi sono....

— Avrà sofferto molto, poverino, eh?

Mario non rispose; strappò con moto violento la frangia che pendeva dal
bracciuolo al quale stava appoggiato.

— Loveni, che fa?

— Mi compatisca; non posso parlare di quest’argomento senza commovermi;
se fossi qui solo, a ripensare quella vita florida sino a pochi mesi fa
di tutto il vigore della gioventù, troncata ad un tratto, darei, creda,
in imprecazioni. Dirimpetto a lei non posso e mi contento di strappare
la frangia. Ma scusi.... credo di non averle risposto.... Diceva?

— Ha sofferto molto?

— Molto.

— E.... è morto in sè?

— Si figuri! Fino alla fine.... si ricordava delle più piccole cose,
dei più piccoli accidenti della sua vita. È morto aspettando ch’io
gli dessi un portafoglio di cuoio di Russia che aveva chiuso nella
scrivania.

E la guardò più fisso che mai. Clara tremò, ma internamente; abbassò
per un istante gli occhi ai quali fu impossibile sostenere lo sguardo
di Mario che le stava di faccia, poi gli rialzò sicura e fissando alla
sua volta l’interlocutore:

— Si ricordava anche delle offese fatte in un momento di cattivo
umore ai suoi migliori amici? Ah! già forse lei non lo sa.... Non era
a Firenze quando avvenne quella questioncella al teatro.... Povero
Valmarana! Quel suo cattivo umore e quella acrimonia che aveva contro
tutti negli ultimi tempi erano forse un sintomo della malattia. Non
crede?

— Può darsi....

— Perchè lei lo sa, non è vero, quel che successe?

— So tutto, Marchesa della vita di Alberto: tutto.

Si alzò e andò a sedersi accanto a Clara; poi prendendolo la mano, con
aspetto e voce benevola seguitò:

— So tutto, Marchesa, e non abuserò del segreto.

— Di quale segreto? — domandò impavida Clara.

— Di quello al quale m’è impossibile di non prestar fede, perchè i
moribondi non mentiscono.

— Oh! intendiamoci, — replicò Clara sentendosi spinta nell’ultima
trincea e tentando difenderla. — Lei mi ha detto che il Valmarana era
morto in sè.... Comincio a dubitarne....

— Clara.... non disputiamo. Io credo; negare è inutile. Alberto era
incapace di vanterie e di calunnie; se domani io ripetessi quel che
egli mi disse morendo....

— Ah! no! — urlò Clara.

— Tutti mi crederebbero, qualunque fosse la persona che si attentasse a
smentirmi.

Finalmente l’involucro s’era squarciato: il grido che le era uscito di
bocca era una conferma ed uno scongiuro.

— Oh! Loveni.... — continuò Clara alzandosi — Loveni quel momento sarà
il rimorso di tutta la vita.... Mi raccomando....

— Perchè? Alberto meritava, lo creda, di essere amato. Vuol che faccia
rimprovero a lui d’essersi lasciato attrarre da cotesta bellezza
meravigliosa? Ah! Marchesa, lei ha amato brevemente un uomo; ma chi
le dirà il numero degli uomini che si sono tormentati in una lunga e
silenziosa adorazione dinanzi a lei?

Si chetò; ma la voce e lo sguardo dissero a Clara il resto.

— Loveni!... Guardi... apra un po’ la finestra, si soffoca e a momenti
cominciano le gallerie.

Mario obbedì.

Dopo una pausa Clara riprese:

— Lei manterrà il segreto, non è vero? Non rovinerà una donna che
ha fatto del dovere l’unico idolo della propria vita e che.... Ah!
vigliacco! aveva dei confidenti.... Mario.... Mario, la sua parola
d’onore....

E gli stese la mano.

E Mario stringendola o baciandola:

— Clara, io parto domani per la Nuova Zelanda per non tornare mai più.
Vedete? Ho torto di maledire! Qualche momento felice c’è nella vita!
Questo è il primo per me: posso senza tradire un amico baciare la tua
mano, Clara.

— Mario.... ma insomma....

— Perchè non te lo direi? È tanto che taccio! Ti ho amata, Clara, ti ho
desiderata sempre....

E le cinse col braccio la vita.

— Mario, mi lasci, mi lasci....

— Oh! sii mia, Clara, sii mia!... chi lo saprà? Nessuno: siamo soli.
Io che sono custode geloso di un segreto perchè non saprò custodirne
due? E poi, parto.... te lo giuro e non ho mai mancato a un giuramento.
Parto domani per non tornare mai più.

— Ma no no.... glielo ho detto, un momento di follia sarà un rimorso
perpetuo per me.... lasciatemi.... lasciatemi.

E Mario gettandosi in ginocchio davanti a lei e afferrandole lo braccia:

— Oh! non negare, Clara, non negare. Questo momento non tornerà più....
Vuoi il mio silenzio? Compralo....

E Clara, guardandolo intenta come se volesse penetrargli nel cuore....

— Partite?

— Domani.

— Davvero?

— Sull’onor mio, parto domani per la nuova Zelanda.

Clara mandò un gran sospiro; poi chiudendo gli occhi reclinò la bella
testa bionda sulle spalle di Mario, mormorando:

— Mio Dio!

— Ah! sì? — esclamò Mario afferrandolo i capelli e rovesciandola sul
sedile. — Ah! sì? Lo hai creduto? Eri per me come per Alberto, come per
tuo cugino, come per il Bruni, come per tutti?

— Ah! — urlò Clara con un grido ferino. — E fece uno sforzo per
svincolarsi dalle braccia vigorose del Loveni che la costringevano.

— È inutile, non ti lascerò, non ti lascerò più finchè non ti abbia
detto come ti disprezzo e ti odio. Oh! perchè non posso tradire il
giuramento fatto ad Alberto, perchè non posso dire a tutti quel che tu
sei?

Un sorriso cinico, beffardo, dispregiatore sfiorò le labbra della
Marchesa.

— Sì, hai ragione: tu più vile, più abietta di quante cortigiane hanno
vissuto mai, tu sei più forte di me. Il tuo peccato è chiuso in due
sepolcri: nella tomba d’Alberto e nell’animo mio. Ridi; ma io, qui,
posso almeno rinfacciarti la tua abiettezza, posso dirti almeno che
hai ucciso un nomo, posso strappare da cotesto tuo viso di marmo la
maschera insudiciata delle virtù. Ah! sì? Ah! tu porgi il viso ai miei
baci? Perchè sei una donna? Perchè non posso farlo arrossire una volta
sotto il colpo delle mie mani?

Clara cacciò un altro urlo e con uno sforzo supremo, non previsto da
Mario si alzò; il treno era già sotto la galleria; per le finestre
aperte, il fumo entrava soffocante, mefitico. Fu una breve lotta: e
in quell’oscurità, Clara debole, mal sicura, cadde rovesciata traendo
Mario con sè.

Nè più si udì se non le strida soffocate dell’una e le imprecazioni
sommesse dell’altro.

Uscito dalla galleria, il treno si fermò. Clara pesta, malconcia non
s’era ancora riavuta, che Mario era sparito.


XXIV.

Era una bella giornata d’aprile: i viali delle Cascine, il prato del
Quercione erano gremiti di gente: da un lato, lungo lo stecconato del
viale, il popolino, dall’altro, nelle carrozze signorili, tutto quanto
v’ha di più nobile, di più ricco, di più elegante nell’aristocrazia
fiorentina.

La Corsa dell’Arno stava per incominciare: e non si udiva parlare
che di _quarti di sangue,_ di _peso_, di _proporzioni_. Intorno alle
carrozze delle signore molti uomini come sempre, moltissimi intorno
a quella della Marchesa di Villareale. Fra gli altri il Lunati, il
Piccardi, l’Olivares.

— Dunque, — diceva il Lunati, — scommettiamo, Marchesa?

— Volentieri; tengo per _The Duchess_, la cavalla del Duca di
Sant’Arpino e le do il _campo_.

In quel momento Alfredo Ferreri s’accostò alla carrozza.

— Ha saputo la notizia, Marchesa?

— Che c’è?

— Il povero Valmarana è morto.

— Oh! quando?

— Otto giorni sono, in una villa sul lago di Como.

— Lo sa di certo?

— Eccome! me l’ha detto il dottor Ramelli che è tornato oggi e che l’ha
assistito fino all’ultimo.

— Povero Valmarana! peccato! era simpatico....

Poi dopo un istante volgendosi al Lunati: — Dunque siamo intesi; va per
la cavalla del Duca di Sant’Arpino?

Claudio Piccardi e l’Olivares si guardarono e come mossi da uno stesso
pensiero si scostarono dalla carrozza; quand’ebbero fatti pochi passi:

— Avete veduto? — chiese Claudio. — Siete persuaso? Vi pare che
s’accolga a quel modo la notizia della morte d’un innamorato, secondo
voi non infelice?

— Caro Piccardi, ho torto per metà; è una donna di ghiaccio. Virtuosa
dunque no; per onesta non v’è nulla a ridire, e sono il primo io ad
affermarlo.

Il giorno stesso che così si parlava sul prato delle Cascine, Mario
s’imbarcava insieme con Reno sopra il _Manchester_, vapore che salpava
da Liverpool per la Nuova Zelanda.

Cinquanta giorni dopo entrava nella baia dell’Abbondanza e s’inoltrava
nell’isola di Ika-Na-Maoni. Solo; Reno era morto durante il viaggio.

  _Pisa, 1872._


  FINE




INDICE


  L’oriolo                     Pag. 1
  Peccato e penitenza              28
  Gite autunnali                  204
  La marchesa                     236




NOTE:


[1] Vuol favorire di scrivere sul libro de’ forestieri il suo riverito
nome?





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici. Per comodità di lettura è
stato aggiunto un indice a fine volume.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK RACCONTI ***


    

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or entity providing it to you may choose to give you a second
opportunity to receive the work electronically in lieu of a refund. If
the second copy is also defective, you may demand a refund in writing
without further opportunities to fix the problem.

1.F.4. Except for the limited right of replacement or refund set forth
in paragraph 1.F.3, this work is provided to you ‘AS-IS’, WITH NO
OTHER WARRANTIES OF ANY KIND, EXPRESS OR IMPLIED, INCLUDING BUT NOT
LIMITED TO WARRANTIES OF MERCHANTABILITY OR FITNESS FOR ANY PURPOSE.

1.F.5. Some states do not allow disclaimers of certain implied
warranties or the exclusion or limitation of certain types of
damages. If any disclaimer or limitation set forth in this agreement
violates the law of the state applicable to this agreement, the
agreement shall be interpreted to make the maximum disclaimer or
limitation permitted by the applicable state law. The invalidity or
unenforceability of any provision of this agreement shall not void the
remaining provisions.

1.F.6. INDEMNITY - You agree to indemnify and hold the Foundation, the
trademark owner, any agent or employee of the Foundation, anyone
providing copies of Project Gutenberg™ electronic works in
accordance with this agreement, and any volunteers associated with the
production, promotion and distribution of Project Gutenberg™
electronic works, harmless from all liability, costs and expenses,
including legal fees, that arise directly or indirectly from any of
the following which you do or cause to occur: (a) distribution of this
or any Project Gutenberg™ work, (b) alteration, modification, or
additions or deletions to any Project Gutenberg™ work, and (c) any
Defect you cause.

Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg™

Project Gutenberg™ is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of
computers including obsolete, old, middle-aged and new computers. It
exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations
from people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s
goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will
remain freely available for generations to come. In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg™ and future
generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see
Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org.

Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification
number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by
U.S. federal laws and your state’s laws.

The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West,
Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up
to date contact information can be found at the Foundation’s website
and official page at www.gutenberg.org/contact

Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread
public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine-readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment. Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States. Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements. We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance. To SEND
DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state
visit www.gutenberg.org/donate.

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg web pages for current donation
methods and addresses. Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations. To
donate, please visit: www.gutenberg.org/donate.

Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works

Professor Michael S. Hart was the originator of the Project
Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be
freely shared with anyone. For forty years, he produced and
distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of
volunteer support.

Project Gutenberg™ eBooks are often created from several printed
editions, all of which are confirmed as not protected by copyright in
the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not
necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper
edition.

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facility: www.gutenberg.org.

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including how to make donations to the Project Gutenberg Literary
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