Spasimo

By Federico De Roberto

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Title: Spasimo

Author: Federico De Roberto

Release Date: November 30, 2008 [EBook #27369]

Language: Italian


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                              F. DE ROBERTO



                                 Spasimo



                        MILANO CASA EDITRICE GALLI

                    _Galleria Vittorio Emanuele 17-80_

                                  1897



                                SPASIMO.





                          DELLO STESSO AUTORE


             ROMANZI E NOVELLE:

     LA SORTE, 4^a edizione                           L. 3 --

     DOCUMENTI UMANI, 3^a edizione                    »  2 --

     ERMANNO RAELI, 2^a edizione                      »  3 --

     PROCESSI VERBALI, 2^a edizione                   »  2 --

     L'ALBERO DELLA SCIENZA, 2^a edizione             »  2 --

     I VICERÈ, 4^a edizione                           »  5 --

     L'ILLUSIONE, 3^a edizione                        »  4 --


            FILOSOFIA:

     L'AMORE, 4^a edizione                            »  4 --


           _D'imminente pubblicazione_:

     GLI AMORI.


                              F. DE ROBERTO



                                 Spasimo



                        MILANO CASA EDITRICE GALLI

                   _Galleria Vittorio Emanuele, 17-80_

                                  1897





                          PROPRIETÀ LETTERARIA


          Tipografia degli Esercenti, Milano, Via V. Monti, 31




I.

IL FATTO.


Chi passò l'autunno del 1894 sul lago di Ginevra rammenta ancora senza
dubbio il tragico caso di Ouchy, che produsse tanta impressione e diede
così lungo alimento alla curiosità non solo tra la colonia dei
villeggianti sparsi per tutte le stazioni del lago, ma anche nel gran
pubblico cosmopolita cui i giornali lo riferirono.

Il 5 ottobre, pochi minuti prima di mezzogiorno, un colpo d'arma da
fuoco e grida confuse partiti dai _Cyclamens_, villa posta a mezza
strada fra Losanna ed Ouchy, ruppero violentemente l'abituale
tranquillità del luogo e attrassero vicini e passanti. Questa villa era
stata presa in affitto da una dama milanese, la contessa d'Arda, che
l'abitava ogni anno dal giugno al novembre. L'amicizia di lei per il
principe Alessio Zakunine, rivoluzionario russo condannato nel capo al
suo paese, espulso indi da quasi tutti gli Stati d'Europa e ultimamente
rifugiatosi nel territorio della Confederazione, era nota da tempo.

Il giorno della tragedia i due amanti si trovavano insieme; anzi le
stesse grida del principe Zakunine, con la detonazione dell'arma, fecero
accorrere i servi esterrefatti, agli occhi dei quali si presentò una
vista tremenda: la contessa, ai piedi del suo letto, giaceva esanime,
con la tempia destra rotta da un proiettile e il revolver presso alla
mano. E quantunque lo spettacolo della morte, della morte repentina e
violenta, sia tale che nessun altro lo avanza nell'orrore, pure la
commozione più forte non era prodotta negli astanti dalla trapassata, ma
dal superstite. Come un pallido fior d'azalea venato di rosso, il volto
rigato di sangue della infelice era freddo e cereo, ma nulla rivelava
delle contrazioni dell'agonia; anzi una serenità confidente e una specie
d'ancor vivo sorriso lo animavano: con le labbra violacee un poco
dischiuse, tra le quali scorgevasi appena la perlata riga dei denti; con
le palpebre rovesciate e le pupille rivolte al cielo, la morta pareva
beata, quasi non morta ancora per poter attestare che fuor dell'umana
vita, nel silenzio e nell'ombra, ella trovava alfine il bene e la gioia.
Livido e disformato, con i capelli irti sulla fronte madida di sudore
gelato, gli occhi folli, le labbra, le mani, tutta la persona tremante
come per febbre, il principe Alessio incuteva paura. Chiamato aiuto con
rauche grida, egli stava ora in ginocchio presso alla salma,
s'insanguinava nel brancicarla, e due sole parole brevi e monotone gli
uscivano dalla bocca convulsa: «È finito! È finito!...» In quelle
parole, nell'accento lacerato col quale le ripeteva, c'era uno
smarrimento, uno strazio, una disperazione senza riparo; e non più la
morta pareva tanto da compiangere quanto quel vivo implacabile, perduto
dal dolore e quasi anch'egli insofferente di respirare. Infatti, quando
le sue mani erano stanche di carezzare le mani, i capelli, la veste
della esanime, egli se le portava alla gola con un gesto violento, come
se volesse soffocarsi; e i servi, le persone accorse tentavano di
confortarlo, di toglierlo dalla vista crudele; ma con impeto quasi
selvaggio egli respingeva allora tutti da sè, stendendo le braccia,
levandosi in piedi: aggiratosi malfermo, come ebro, per la camera
mortuaria, tornava poi ad accasciarsi dinanzi al cadavere.

La villa restava aperta agli accorrenti, nessuno pensava di vietarne
l'accesso. Dalla vicina Casa di salute era subito venuto il dottor
Bérard; ma questi non aveva potuto far altro che accertare la morte
fulminea. Come la notizia rapidamente si propagava fra la colonia degli
stranieri, i curiosi, e specialmente quanti conoscevano la contessa ed
il principe, sopravvenivano. Nessuno poteva avere qualche notizia
dell'accaduto se non dai servi; come sordo, come cieco, il superstite
non s'accorgeva delle persone che lo accostavano, che tentavano di
stringergli la mano; non udiva le parole di compianto, le domande
d'addolorata simpatia che la gente gli rivolgeva. Nè le risposte dei
servi facevano molta luce sull'avvenimento. Esse si riferivano alle
circostanze esteriori della catastrofe, dicevano che il principe era
tornato alla villa, dopo un'assenza di qualche settimana, due giorni
innanzi; che quella mattina la signora s'era levata più presto del
solito ed era rimasta forse un'ora alla terrazza mentre il suo compagno
lavorava nello scrittoio con una donna venuta a trovarlo verso le nove;
che prima di colazione la contessa aveva mandato in città la Giulia, la
sua antica cameriera italiana, per alcune commissioni; che quando la
colazione stava per essere servita lo sparo aveva fatto trasalir tutti;
che dal secondo piano, dalle camere dei padroni, il principe era sceso
come pazzo al pian terreno chiedendo l'aiuto d'un medico; che tutti
erano saliti precipitosamente nella camera della contessa, dove la
straniera, tentato invano di portarle soccorso, aveva ancora invano
tentato di confortare il disperato.

Nella confusione pochi avevano notato la presenza di questa estranea.
Era una giovane d'appena vent'anni, dai capelli d'un biondo croceo corti
ed acconciati come le chiome maschili, dagli occhi chiari e freddi,
piuttosto piccola di statura, vestita da capo a piedi di nero. Se ne
stava ritta ed immobile nell'angolo d'una finestra, con le braccia
conserte, il capo chino, quasi neppur notando la curiosità della quale
cominciava ad esser fatta segno. Nel cerchio dei più curiosi la
baronessa di Börne, dama austriaca corta e grassa, sola del suo sesso
accorsa alla villa, non la lasciava con gli occhi, pure incalzando di
domande i servi che non sapevano che cosa rispondere e rivoltandosi con
gli astanti per commentar l'accaduto.

--Povera donna! Povera amica!...--esclamava.--Ma perchè? Come mai?... E
non ha scritto nulla? Non si è trovato un suo rigo?... Forse,
cercando... È morta sul colpo? Soffriva, è vero; ma non tanto che non
potesse resistere!... Era forte, era una donna molto forte, nonostante
quella sua figura tenue e delicata... I dolori morali...

Con voce più bassa, dirigendo le parole a un giovane inglese dai baffi
rossicci, gli occhi azzurri, la fronte nuda, soggiunse:

--Credete che fosse felice?

L'interrogato rispose con un gesto ambiguo, che poteva significare tanto
consenso quanto dubbio o ignoranza.

--Quel povero principe!...--riprese allora la baronessa sogguardando
continuamente la straniera.--È uno strazio vederlo soffrire così...
Bisognerebbe che qualcuno lo persuadesse ad allontanarsi...--e queste
parole furono direttamente rivolte alla giovane sconosciuta; ma come
costei non rispose, la dama soggiunse:--Perchè non adagiano almeno la
salma sul letto?

Ella parlava di là dalla folla assiepata intorno al cadavere, e poichè
fra gli astanti le sue osservazioni erano approvate, chiesto ed ottenuto
che la lasciassero passare, s'accostò al principe, il quale stava in
quel momento appoggiato contro la spalliera del letto, con le braccia
pendenti, le mani contratte e gli occhi folli ancora rivolti alla morta.

--Non possiamo lasciarla così... Vogliamo portarla sul letto?...
Volete?...

Egli non rispose, non parve nemmeno che avesse udito. Come la baronessa
gli mise una mano sulla spalla, fremè quasi investito da una corrente
magnetica; e il suo sguardo stravolto, smarrito, perduto, esprimeva
un'angoscia tanto paurosa, che alla loquace signora mancarono un momento
le parole.

--Che sciagura!... Che dolore!...--disse, turbata.--Ma bisogna pure aver
la forza di rassegnarsi al destino!... Dottore,--soggiunse rivolta al
Bérard che si riaccostava in quel punto al principe,--vogliamo togliere
la salma di lì?... Mi par quasi che la poveretta debba soffrire, per
terra!... E tutta questa gente, non si potrebbe pregarla d'allontanarsi?

--Sì... certo...--rispose il dottore imbarazzato ed esitante.--Ma prima
di far nulla bisogna aspettare l'arrivo dei magistrati...

--Sono stati avvertiti?

--Eccoli.

Il mormorìo delle voci curiose già spegnevasi infatti nella sala
contigua: il giudice di pace del circolo di Losanna, il commissario di
polizia, un dottore e due gendarmi entravano in quello stesso punto.

Col primo suo ordine il giudice fece allontanare gl'indiscreti dalla
camera mortuaria e dalla sala: i gendarmi, dinanzi all'uscio per il
quale questa sala e l'attiguo salotto comunicavano, impedirono che la
gente s'inoltrasse. Solo la straniera col dottor Bérard che spiegava al
suo collega della polizia l'inutilità d'ogni cura e la rapidità della
morte, e la baronessa di Börne che, non richiesta, verbosamente
informava il giudice dell'accaduto, restarono con il principe e il
commissario presso al cadavere.

--A che cosa attribuiscono la risoluzione funesta? Nulla la faceva
prevedere?---domandò il giudice. Ma la baronessa, che pur non sapeva
tacere, si strinse nelle spalle alla domanda e guardò il principe per
significare che egli solo poteva rispondere.

Passatosi una mano sulla fronte, come trasognato, il principe disse:

--Sì, bisognava prevederlo... Io dovevo prevederlo...

--Soffriva molto?

--Soffriva tanto... tanto...,--rispose l'altro, con intonazione di così
cupa tristezza che lo stesso magistrato tacque un poco.

--Era inferma?--domandò quest'ultimo, dopo un breve silenzio, al
dottore.

--Sì, d'una malattia di petto.

--Lo sapeva?

--Senza dubbio. Non le si poteva nulla nascondere. Aveva tanta
intelligenza e tanto coraggio che le pietose menzogne riuscivano
inutili.

--Non si poteva sperare di salvarla?

--La sua infermità era di quelle sull'esito delle quali non c'è pur
troppo da ingannarsi; ma che tuttavia lasciano vivere, con un
appropriato regime, lunghi anni.

--Allora non la sola malattia l'ha spinta ad uccidersi?

--Non la sola malattia,--ripetè come un'eco il principe Alessio.

Era, durante quel triste interrogatorio, molto curiosa e quasi comica la
vista della baronessa di Börne, la quale, non potendo parlare,
atteggiava le labbra, moveva gli occhi, scoteva il capo e tutta la
persona come per ripetere successivamente le domande del giudice, per
confermare le risposte del dottore e del principe, per far noto che
aveva previsto le une e le altre, per avvertire segnatamente che
anch'ella aveva qualcosa da osservare.

--Ecco!... È così!... Proprio così!... E con i suoi sentimenti
religiosi...

--Quali erano?--domandò il giudice.

--Ho conosciuto poche donne d'una fede tanto salda ed ardente,--rispose
il dottore.

--È vero?...--interruppe a sua volta la baronessa.--Non si può credere
quanto grande fosse il suo fervore! Io ne so qualche cosa. Non faceva
mai una passeggiata che non avesse una chiesa per meta. Le sue
escursioni preferite erano nel distretto di Echallens, a Brétigny, ad
Assens, a Villars-le-Terroir, per le chiese cattoliche che vi
s'incontrano. La domenica, le feste, passava lunghe ore, qui, a San
Luigi, in ginocchio, finchè non si reggeva più... Volevo appunto
osservare: è perfino incredibile come, con tanta fede, abbia potuto fare
quello che ha fatto.

Il principe non diceva più nulla. Il tremor nervoso che lo aveva scosso
dal principio si veniva sedando; la sconvolta, violenta, paurosa
espressione del livido viso e dei rossi occhi si trasformava: pallido,
sfinito, disfatto, pareva sul punto di mancare anch'egli.

--Era sola quando si è uccisa?--continuò a interrogare il magistrato.

--Sola.

--Parlaste con lei, stamani?

--Sì, parlai.

--Era triste?

--Mortalmente.

--Si potrebbe vedere se ha lasciato qualche scritto.

La baronessa, battendo allora una mano contro l'altra, esclamò:

--È ciò che ho detto fin da principio!...

E il commissario, a un cenno del giudice, si diede alla ricerca.

La camera della morta non aveva molti mobili. Il letto, un armadio con
lo specchio, un cassettone, una piccola scrivania disposta contro la
finestra, alla luce, e un tavolinetto da lavoro, in un angolo, ne
formavano l'addobbo. Sulla scrivania due pile di libri inglesi dalle
copertine bianche, una scatola di carta da lettere, una cartella di
stoffa antica e un calamaio da viaggio. Altri libri stavano sul tavolino
da lavoro e sul comodino accanto al letto. Il commissario di polizia li
rimoveva ad uno ad uno, apriva le cassette dei mobili, nessuna delle
quali era chiusa, e data un'occhiata agli oggetti d'eleganza muliebre
dei quali erano piene, le richiudeva. Nella scrivania vecchie scatolette
di cartone contenevano la corrispondenza epistolare della defunta; c'era
anche un portafogli pieno di valori italiani e francesi e qualche
migliaio di lire in monete d'oro e d'argento. In fondo alla cassetta di
destra una scatola a foggia di libro, ricoperta di velluto nero, era
chiusa da una minuscola chiave; sul punto che il commissario stava per
aprirla il principe fece un passo incontro a lui, dicendo:

--È il suo libro di memorie... il giornale della sua vita...

Pareva, dal tono col quale diede quell'indicazione, dall'atteggiamento
di tutta la sua persona, che volesse difendere contro gli sguardi
indiscreti l'intimo pensiero della sua povera amica. Ma la baronessa di
Börne:

--Qui appunto si potrà trovare qualche cosa!...--esclamò avvicinandosi
al giudice, il quale prendeva dalle mani del commissario il libro che
questi aveva tratto dalla nera custodia.

Era anch'esso rilegato di nero e fregiato d'argento, come un libro
mortuario; e già quella vista diceva la tristezza e il dolore dei quali
la vita dell'infelice doveva essersi abbeverata. Il giudice scorse
rapidamente i fogli: la scrittura era piuttosto grande e magra, poco
inchiostrata, elegante e d'una nitidezza mirabile. Il libro era forse
pieno per tre quarti; e l'indagatore soffermavasi con maggior attenzione
sulle ultime pagine; ma dopo aver letto scrollò il capo:

--Non s'intende,--disse;--non è una confessione...

Il commissario proseguiva frattanto le ricerche in uno stanzino attiguo,
lo spogliatoio, dove un altro armadio, il lavabo ed i bauli tenevano
tutto il luogo disponibile. Non vi trovò nessuna carta. Rientrato nella
camera, la traversò dirigendosi alla sala: qui le ricerche furono ancora
più brevi ed inutili; perchè, oltre i divani e le poltrone, solo una
tavola piena di minuti ninnoli e il pianoforte sul quale stava spiegato
un fascicolo del Pessard la mobigliavano. Già il commissario tornava sui
proprii passi, quando una voce di pianto ed esclamazioni d'ambascia lo
fecero rivoltare: i gendarmi, obbedienti agli ordini ricevuti, vietavano
l'entrata ad una donna vestita di scuro che portava sul capo il velo
nero delle popolane lombarde.

--Ah! Signore! Ah! Signore!...--esclamava costei, a mani giunte, col
magro viso solcato da lacrime ardenti.--Vederla!... Ancora una volta
vederla!... La padrona mia... la mia buona padrona!... Ah, Signore,
vederla!...

Era la Giulia che tornava in quel punto: piccola e magra, di dubbia età,
ella appariva disfatta dall'ambascia.

--Lasciate che passi,--ordinò il magistrato cui la baronessa spiegò che,
servendo la morta da lunghissimi anni, questa donna aveva goduto di
tutta la sua confidenza.

E come, entrata barcollante e lacrimosa, a mani giunte, ella si avanzò
verso la salma, il brivido nervoso riprese a scuotere la persona del
principe, nel suo viso tornò a leggersi l'atterrito smarrimento, il
pauroso dolore di poco prima, quasi la vista d'una persona cara alla
morta, quasi lo strazio di questa persona rincrudisse il tormento suo.
Egli non guardava più il cadavere ma la piangente, e pareva che si
protendesse verso di lei, che volesse accostarsele, come per unire il
proprio dolore a quello di lei, per parlarle della morta, per udirla
parlar della morta. Tutti, gli uomini della giustizia, i dottori, la
stessa baronessa erano impressionati dall'ansiosa attitudine di quel
dolente; solo la straniera restava rigidamente atteggiata, impassibile e
quasi senza sguardo.

--Come disse ha fatto!... Lo disse e l'ha fatto!...--gemeva la donna
dinanzi al cadavere.--Voleva la morte... la chiamava... Ah,
poveretta!... Ah, Signore!... E mi mandò via, mi mandò... per essere
libera... perchè io non le leggessi in viso!... Ah, se le fossi stata
vicina!... Quante volte, poveretta; quante volte pregò Dio di farla
morire!... E s'è uccisa!...--ripetè con voce più rotta, quasi avesse
potuto fino a quel momento dubitare e sperare, ma ricevesse a un tratto
l'irrecusabile conferma della sciagura.--S'è uccisa!... È morta!...
Signore! Signore!...

La baronessa, passandosi una mano sugli occhi e sospirando, le si fece
dappresso.

--Basta, ora, povera donna!... Bisogna pur troppo farsene una
ragione!... Siate calma! Basta!... Dite piuttosto a questi signori, dite
alla giustizia: dove vi mandò, perchè vi mandò?

--In città, a pagar delle note... a comperar delle cose... Io non so
più... Pareva che volesse venire con me, quando si levò... poi mutò
opinione, mi mandò via...

--Vi diede qualche carta? Sapete se scrisse qualche lettera, iersera o
stamani?

--Non ieri, stamani. Stamani scrisse una lettera.

--A chi era diretta?

--A suor Anna.

--Chi è suor Anna?--domandò il magistrato, che aveva lasciato
pazientemente interrogare la verbosa signora.

--Suor Anna Brighton, l'antica sua maestra inglese.

--Dove sta?

--Non so. C'era il nome sulla busta, un nome straniero.

--Non sapete neppur voi l'indirizzo?--soggiunse il giudice rivolto al
principe Alessio.

--Lo ignoro; però...

La sua ansia pareva sedarsi, egli stava per dire qualche cosa, quando
s'udirono ancora dal fondo della sala gli agenti della polizia
contrastare il passo a qualcuno. Ma questa volta l'ignota persona non si
lagnava, non piangeva; con voce vibrante, concitata e quasi imperiosa
diceva:

--Lasciatemi passare!... Ho bisogno d'entrare, vi dico!...

Mentre il commissario andava a vedere chi fosse, il Bérard e la
baronessa di Börne s'avvicinarono all'uscio.

--Vérod!--esclamò la baronessa, scorgendo un giovane alto, forte, con i
capelli neri e i baffi biondi, il quale, tentato di forzar la consegna,
s'inoltrò quando a un cenno del loro superiore le guardie si trassero da
parte. Ma dopo aver ottenuto l'intento, mossi rapidamente i primi passi,
il nuovo venuto parve a un tratto incerto e titubante; la concitazione
che gli accendeva il viso diè luogo a una confusione angosciosa: sulla
soglia della camera, scorto il cadavere, portò una mano al cuore e
s'addossò allo stipite dell'uscio, sbiancato in viso, sul punto di
stramazzare.

--La nostra povera amica!--esclamò ancora la baronessa, stendendogli la
destra, quasi a sorreggerlo, a infondergli coraggio.--Chi l'avrebbe
detto!... Non par di sognare?... Povera, povera amica!... Uccidersi,
così...

Allora il giovane, riscotendosi, si avanzò ancora d'un passo e disse con
voce acre:

--No.

Un movimento d'inquieto stupore passò tra gli astanti.

--Voi dite?--domandò il giudice avvicinandosi al Vérod e figgendogli gli
occhi negli occhi.

--Dico che questa donna non si è uccisa. Dico che è stata assassinata.

La voce risonava stranamente, come in un luogo vuoto, così gelato
silenzio regnava tutt'intorno, tanto sospeso e trepidante era l'animo
d'ognuno. Il principe Alessio, diritto, immobile, a testa alta, guardava
anch'egli fiso l'imprevisto accusatore.

--Come potete asserirlo?--domandò ancora il giudice.

--Lo so.

--Quali prove ne avete?

--Nessuna prova materiale; tutte le morali certezze.

--Chi l'avrebbe uccisa?

Il giovane stese il braccio appuntando l'indice contro il principe e la
straniera, e disse:

--Costoro.

Ora tutti gli attoniti sguardi si rivolgevano verso gli accusati.

Dapprima la fisonomia del principe Zakunine era rimasta vuota
d'espressione, come se egli non avesse udito o non avesse compreso; a
poco a poco una tra amara ed ironica contrazione del labbro,
l'increspamento delle ciglia sugli occhi impiccoliti e quasi ridenti
d'un doloroso riso, rivelarono il senso d'incredulo e in certo modo
ilare stupore che l'inopinata accusa destava nell'animo suo. Quanto alla
sconosciuta, ella restava con le braccia incrociate al seno e guardava
l'accusatore senza che il suo viso di statua esprimesse sdegno o
stupore.

--Prima di dir nulla contro nessuno,--riprese il giudice con tono grave
d'ammonimento,--bisogna esser certi di ciò che si dice.

--Se non fossi certo non avrei parlato.

--Quale interesse avrebbe armato queste persone?

Il giovane proruppe, studiando invano di contenersi:

--La malvagità dell'animo loro. Il piacere selvaggio di fare il male, di
distruggere una vita, di spargere il sangue. La voluttà di chiudere con
la morte il lungo martirio inflitto alla infelice.

La sua voce tremava, tremavano le sue mani, gli occhi erano gonfii di
lacrime. Ma la commozione che quelle parole suscitavano nei circostanti
diede improvvisamente luogo a un altro sentimento, a un sentimento di
vera paura, quando il principe, avvicinatosi all'accusatore, col pugno
stretto, le mascelle contratte, lo sguardo duro e cattivo, pronunziò:

--Pazzo, che dici?

I due uomini si guardarono. Lame arrotate ed aguzze, lame cozzanti e
sprizzanti scintille erano i loro sguardi. Pareva che si volessero
penetrare sino all'anima.

Il giudice e il commissario furono costretti a frapporsi.

--Dite donde viene la vostra certezza!--ingiunse il primo.

--Da tutto! da tutto! Dai sentimenti di questa creatura, ch'io conobbi
ed apprezzai; dalla cristiana rassegnazione, dall'angelica mitezza
dell'animo suo. Dalla violenza di costoro, dai loro istinti sanguinarii,
dalla complicità del male al quale sono intenti. Nessuno fra quanti
lessero in lei crederà mai che ella abbia portato la mano sopra sè
stessa. Chiedetene a chi volete, chiedetene a chiunque... dite
voi...--aggiunse, come ebbe scorto la familiare nel guardarsi intorno a
provocare la testimonianza dei presenti;--dite voi che la conosceste,
che ne aveste l'affetto, se è possibile, se è credibile...

Il giudice, fermandogli ancora in faccia gli sguardi indagatori, lo
interruppe:

--Questa donna ha detto il contrario. Ha dichiarato che la sua padrona
tentò più volte d'uccidersi; che la mandò via apposta, stamani; che mise
in atto un antico e fermo proponimento!

--Voi pensate questo?--esclamò l'altro, smarrito.--Voi avete detto così?

La donna non rispose. Girava intorno gli occhi, sbalordita, sgomenta:
pareva non capire, non vedere.

--Di chi era quest'arma?--le domandò il magistrato.

--Era di lei.

--Poteva qualcuno servirsene? Dove la teneva?

--Chiusa, nascosta.

--Voi vedete,--disse egli ancora, rivolgendosi al giovane,--che niente
conforta la vostra accusa. La ripetete ancora?

Parlava con voce grave, quasi in tono di sdegnato biasimo per la
leggerezza della quale gli vedeva dar prova. Ma il giovane, dopo un
momento di silenzio durante il quale si passò una mano sulla fronte e
girò tutto intorno un dubitoso sguardo, mirò ancora una volta il corpo
esanime disteso per terra, le forme irrigidite dalla morte, il viso
ancora più bianco sul quale le gocce del sangue perdevano la loro
porpora aggrumendosi, la bocca ancora un poco più aperta, gli occhi già
stravolti, non più beati, tremendi; e allora, steso il braccio, con voce
sorda e fremente:

--Attesto,--ripetè,--che questa donna è stata assassinata. Chiedo di
parlare al giudice istruttore.




II.

LE PRIME INDAGINI.


Francesco Ferpierre, giudice d'istruzione presso il Tribunale cantonale
di Losanna, era molto giovane: non aveva ancora quarant'anni. Una
cultura legale solidissima, molta scienza della vita e del cuore umano,
la nativa attitudine all'osservare che nell'esercizio della professione
era divenuta geniale chiaroveggenza e quasi prescienza fatidica,
facevano di lui una delle migliori forze della magistratura elvetica.
Pure la sua prima vocazione era stata un'altra.

Egli aveva cominciato a coltivare le lettere; aveva anzi, sul principio,
trascurato gli studii legali come inutili e ingrati, e nutrito una
specie di rancore contro la famiglia che lo esortava a compirli.
Scrivendo versi d'amore e prose di romanzo, esercitando la divina
facoltà creatrice dell'imaginazione, egli pensava di conquistare la
gloria, sdegnoso e neppur bisognevole di più reali compensi. Si ravvide
alla morte del padre, sostegno della numerosa famiglia. Compreso il
dovere di sostituirlo, egli disse da un giorno all'altro addio alla
fantasia favolosa e indirizzò l'attività sua per una via più positiva. I
primi esercizii non gli furono però inutili del tutto; l'abitudine
dell'indagine psicologica, contratta nel considerare avvenimenti
fittizii, gli giovò a districare i misteri proposti alla giustizia
inquirente; cominciato a studiare la vita sopra i libri, egli potè
presto comprendere come realmente è.

La professione politica e la giudiziaria sono forse quelle che più
rapidamente e meglio d'ogni altra facciano conoscere gli uomini; ma dove
l'uomo politico è egli stesso in preda a qualcuna di quelle passioni che
presume giudicare negli altri, il magistrato, indifferente, sereno,
straniero agli interessi che vede agitarsi d'intorno, è meglio d'ogni
altro in grado di leggere nel libro del cuore. Ora il Ferpierre, dato
sfogo con le artistiche esercitazioni della prima gioventù alle vivaci
passioni, aveva compreso in tempo quel che c'è d'esagerato, di falso e
di malsano in una troppo assidua prosecuzione poetica dell'esistenza; e
come i suoi sentimenti erano divenuti più austeri, più severi erano
divenuti i suoi giudizii. Il vecchio fondo morale della razza elvetica,
la serietà quasi triste accumulata nel cuor della razza dalla
contemplazione delle Alpi giganti, la rigidezza quasi ingrata di quel
protestantesimo che escluse un tempo da Ginevra la musica come arte
troppo voluttuosa, si ridestarono dopo i primi ardimenti; e la
scapataggine un poco voluta del giovane poeta diè luogo alla rettitudine
inflessibile dell'uomo maturo.

Contro i personaggi del dramma d'Ouchy, che gli fu narrato dal giudice
di pace ai _Cyclamens_, dove subito accorse alla chiamata, il Ferpierre
si sentiva pertanto animato da una secreta diffidenza. Certo la morta
gl'ispirava molta pietà; ma se ella stessa aveva voluto uscir di vita,
il biasimo contrastava al compatimento. Il legame che l'aveva unita con
il principe Zakunine era del resto fuor della legge. L'amicizia tra lei
ed il Vérod ne restava contaminata. Senza ancora aver visto
l'accusatore, udendone soltanto il nome, il magistrato credè di
riconoscere in lui Roberto Vérod, lo scrittore ginevrino che viveva da
molti anni a Parigi, di dove diffondeva per il mondo libri pieni d'amari
insegnamenti. Anzi, se non s'ingannava, costui gli doveva essere noto
più intimamente; perchè, quindici anni addietro, il Vérod entrava nella
facoltà di lettere dell'Università di Ginevra, mentre egli stesso vi
faceva il penultimo corso degli studii legali, e un circolo di studenti
li aveva accolti entrambi durante due anni. Ora perchè mai il giovane
vedeva nella morte della contessa un assassinio e presumeva vendicarlo,
se non perchè era stato rivale del principe e amante della defunta?
L'attitudine di sfida superba della straniera, la durezza dei suoi
sguardi, la certezza che anch'ella doveva essere affiliata al nihilismo,
avevano disposto il giudice di pace contro di lei; ma tutta la severità
del Ferpierre s'accumulava sul capo del principe.

Egli lo conosceva da lungo tempo per fama. Sapeva che, con uno dei
maggiori nomi e una delle più larghe fortune del suo paese, ne era stato
bandito per complicità in una congiura contro la vita d'un generale.
Sapeva che l'esiliato aveva proseguito a cospirare con maggior lena, che
era divenuto uno dei più temibili direttori del partito rivoluzionario
europeo, che una condanna di morte gli pendeva sul capo. E sapeva ancora
che, nonostante lo scopo politico paresse prendere tutta l'attività del
ribelle, costui trovava ancor tempo di fare una vita piena d'avventure
galanti, di passare d'amore in amore, ripagando col dolore
dell'abbandono e del tradimento le sciagurate incapaci di resistere alla
sua seduzione. E da questo ribelle sanguinario, da questo indegno Don
Giovanni, la contessa d'Arda s'era lasciata sedurre!... Ma aveva ella
voluto morire per non assistere alla rovina d'un sogno d'amor fedele,
oppure veramente il principe e la nihilista l'avevano uccisa?

Il Ferpierre, incerto e confuso dinanzi al mistero, discuteva la sera
stessa della catastrofe, alla villa, questi ed altri quesiti con il
giudice di pace, dopo aver ordinato la traduzione del cadavere alla sala
incisoria e il sequestro di tutte le carte che si trovavano ai
_Cyclamens_. Posto pure che l'amore o il capriccio del principe per la
contessa fosse finito, bastavano la noia ed il fastidio, od anche i
malintesi e il disaccordo a spiegare l'omicidio--se un omicidio era
stato commesso? La ragione addotta dall'accusatore e riferita dal
giudice di pace, cioè la malvagità dei nihilisti, non aveva valore senza
un più particolare ed efficace movente. Distruggere una vita per il solo
piacere di distruggerla non era da nihilisti, ma da folli. Bisognava
dunque che costoro fossero stati spinti da una passione, da qualche
interesse. Forse il male che vedeva ordire al principe, le congiure alle
quali lo sapeva mescolato, il sangue che udiva essere sparso per opera
di lui, avevano atterrito la contessa: volendo impedire che perseverasse
nell'opera tremenda ella poteva aver sorpreso qualche suo secreto, o un
secreto non suo; e la rigida disciplina della setta misteriosa aveva
forse armato quell'uomo e la sua complice? Questa supposizione alla
quale il giudice di pace attribuiva un certo fondamento, pareva al
Ferpierre, quantunque non del tutto inammissibile, poco probabile.

Era più probabile che, se delitto c'era, si trovassero dinanzi a un
delitto d'amore? Il principe, dopo aver disamata quella donna,
ricominciava ad amarla e l'aveva uccisa per gelosia? E di chi sarebbe
stato geloso, se non di quel Vérod che era tanto turbato dalla morte
della contessa, e assumeva, non richiesto, la parte d'accusatore e di
vindice? O non piuttosto ella stessa aveva commesso il misfatto perchè
amava Zakunine ed era gelosa dell'amore che vedeva da lui portato alla
Italiana?... Il delitto, chiunque fosse il colpevole, qualunque fosse lo
scopo, non aveva potuto tuttavia essere consumato senza che tra
l'assassino e la vittima fosse avvenuta una lotta, sia pur breve; ma
nella camera mortuaria non se ne trovava vestigio, nè sulla persona
della morta. Dalla posizione dell'arma, che stava con l'impugnatura in
fuori e la canna rivolta verso il cadavere, i dottori avevano arguito
che la contessa, se era suicida, doveva essersi uccisa in piedi; l'arma,
cadendole di pugno, aveva compito una rotazione che ne spiegava la
giacitura al suolo. Se pure non pareva molto naturale che la disgraziata
avesse portato la mano sopra sè stessa stando ritta, contrariamente a
ciò che fanno quasi tutti i suicidi, la circostanza che il revolver le
apparteneva ed era tenuto da lei nascosto escludeva che un assassino
avesse potuto servirsi proprio di quello. Inoltre da quel revolver mal
chiuso una cartuccia era venuta fuori nella caduta: ciò si spiegava
molto bene da parte d'una donna poco pratica nel maneggio delle armi,
d'una suicida le cui mani dovevano per altre ragioni tremare, e non si
spiegava da parte d'un assassino.

Per potersi fermare sopra un'ipotesi bisognava ancora aspettare i
risultati dell'autopsia; nel frattempo il Ferpierre, scelta la sala da
pranzo della villa come suo gabinetto per l'inchiesta da compiere sulla
faccia dei luoghi, ordinò che vi fosse introdotto il Vérod.

Quando il giovane apparve, il pallore del suo viso, l'ambascia dello
sguardo, l'imbarazzo dell'atteggiamento confermarono chiaramente come
egli dovesse esser legato alla defunta da un sentimento molto forte e
delicato ad una volta. E il giudice, senza esitazione, quantunque tanto
tempo fosse passato, tosto riconobbe l'antico studente di lettere. Egli
rammentò d'averlo incontrato sovente, durante due anni, al circolo
universitario ginevrino, e rammentò pure che fra i loro spiriti non era
passato alcun moto di simpatia. Fin da quei giorni lontani l'indole
triste ed amara dell'ingegno del Vérod si era rivelata nelle discussioni
giovanili: nessuno dei sentimenti ai quali il Ferpierre aveva
successivamente obbedito, nè gli entusiasmi poetici nè il dovere severo
eran parsi intelligibili a quell'anima chiusa. Rammentava anch'egli
l'antico incontro? Aveva chiesto del giudice istruttore sapendo chi
fosse? Si sarebbe dato a conoscere?

--Avete voluto parlarmi,--disse il Ferpierre, che rivolgeva a sè stesso
queste domande pure ordinando sulla tavola le carte sequestrate nella
camera della morta e del principe;--eccomi a voi. E innanzi tutto il
vostro nome, l'età?

--Roberto Vérod; trentaquattro anni.

--Voi siete Vérod lo scrittore?

--Sì.

--Nato a Ginevra, domiciliato a Parigi?

--Sì.

Il giovane o non lo riconosceva o non voleva dirgli che lo riconosceva.

--Bene. Quali sono le prove che avete da confidarmi?

Non solamente il Vérod non era più, come prima, sicuro di sè; ma da
accusatore pareva a un tratto essersi ridotto ad accusato, talmente si
confuse a quell'interrogazione che pur doveva prevedere. Rimasto un poco
in silenzio, fatto per dire qualcosa, poi pentito e di nuovo esitante,
si avvicinò al giudice tendendogli una mano.

--Se voi sapeste, signore,--disse con voce malferma e sommessa,--che
tumulto di sentimenti ho nel cuore, come ho paura di parlare, come ho
bisogno d'affidarmi alla vostra indulgenza, alla vostra discrezione, per
dire ciò che ho da dirvi!...

Quella invocazione fu espressa con tanta delicatezza e sincerità, che il
Ferpierre ne fu commosso. Pure non volle ancora provocarlo a farsi
riconoscere, aspettando di vedere se egli stesso avrebbe alluso ai loro
rapporti d'un tempo. Lasciate le sue carte e stretta la mano che il
giovane gli tendeva quasi per afferrarsi a lui, rispose:

--Sarebbe già il dover mio; ma facciamo di meglio: dimentichiamo
piuttosto la nostra condizione rispettiva e confidatevi non al
magistrato, all'uomo.

--Grazie, signore! Io vi ringrazio di queste buone parole... Al
magistrato, infatti, non avrei molto da dire, non riuscirei forse a
comunicare, mancando di prove reali, la mia morale certezza...

--Ed all'uomo?

--All'uomo... all'uomo io domanderò: Chi ha sopportato la vita quando
era piena di nerezza, credete voi che possa fuggirla mentre vede
finalmente la luce risplendere? Chi ha disperato rassegnatamente, in
silenzio, si dorrà, si ribellerà all'imprevista speranza?...

Il giudice che era stato a udirlo a capo chino, senza guardarlo, non
rispose subito.

Levati gli occhi su lui, interrogò dopo un poco a sua volta:

--Eravate molto intimo della defunta?

Il giovane taceva. I suoi occhi si gonfiarono lentamente di lacrime.

--Non dovrei, no, dire questa cosa...--mormorò con voce rotta.--A
nessuno io direi un secreto non mio... non tutto mio... E mi pare,
guardate, che Ella se ne dolga, che mi vieti di aggiungere altro.

--Voi l'amaste?

--Sì!

Le sue lacrime s'erano arrestate, il suo sguardo esprimeva ora una gioia
orgogliosa, un'altera felicità.

--Sì, d'un amore che può essere confessato, con alta fronte, dinanzi a
chiunque. Perchè lo negherei?

--Anch'ella vi amò?

--Sì!... E il mondo non seppe, non saprà mai che cosa fu l'amor nostro.
Il mondo è tristo e a breve andare la vita inquina tutte le cose. Ma
nulla, non un atto, non una parola, non un pensiero contaminò una sola
volta il sentimento del quale vivemmo.

--Nondimeno il principe ebbe ragione d'esser geloso?

L'espressione di superba beatitudine che animava il Vérod diè luogo a
un'amara contrazione di sdegno.

--Geloso?... Per esser geloso egli avrebbe dovuto amarla! E se l'avesse
amata, fedelmente, puramente, sarei stato amato io stesso?

Il Ferpierre fu stupito dalla manifestazione di quest'idea. Non
rammentava egli bene le crude e ingrate verità delle quali il Vérod sin
da giovane era stato predicatore: oppure il pessimista, lo scettico si
era convertito?

--Ma dunque in che rapporti stavano il principe e la contessa?--continuò
frattanto a interrogare.--Non è da dubitare che s'amassero un tempo?

--Voi sapete, signore, che questo nome, che il nome d'amore si dà a
tante cose diverse: alle nostre illusioni, ai nostri capricci, alle
nostre cupidità... Sì, ella lo amò d'un amore che fu illusione ed
inganno. Ella lo amò perchè credette di essere amata da lui; da lui, che
sa odiare soltanto!

--Come mai non si separarono, allora?

--Egli, sì, volle separarsene. Glie lo disse, le gettò in faccia la sua
fedeltà; l'abbandonò, più volte. Ella non volle riconoscere d'essersi
ingannata, o lo riconobbe soltanto tra sè; e pensando che gl'inganni si
pagano, che gli errori si scontano, accettò il martirio.

--Potete precisare in che consisterono i mali trattamenti?

--Chi può ridirli tutti? Ogni suo atto, tutte le sue parole erano
un'offesa o una durezza.

--Da chi lo sapeste?

Quantunque il giudice avesse nascosto sotto quell'espressione ambigua il
suo dubbio, il giovane protestò:

--Non da lei, signore! Io non udii mai da lei un lamento contro
quell'uomo!... Seppi, vidi io stesso... Lo conobbi a Parigi, molti anni
addietro, prima che fosse con lei: so quel che vale. Non io solo: tutti
lo sanno.

--V'incontraste con lui dopo che conosceste la contessa?

--Mai. L'anno scorso pareva ch'egli l'avesse lasciata per sempre. Ora,
dopo il suo ritorno, lo vidi da lontano una o due volte.

--Che cosa sapete intorno alla sua attività politica?

--Che non fu uno dei meno gravi dolori della infelice.

--Ignorava ella, quando lo incontrò, gli scopi ch'ei prosegue?

--Non so... non credo... Ma se pur seppe che lo avevano bandito dalla
patria e condannato a morte, buona e sensibile come ella era dovè
tremare di pietà per lui. Se egli le disse che questa sua sete di sangue
è amore di libertà e di giustizia, carità degli oppressi e sogno di
perfezione, l'anima sua ignara del male dovè fors'anche accendersi
d'entusiasmo ed ammirarlo!...

--Credete che il disinganno sopravvenisse molto presto?

--Troppo presto... e troppo tardi! Sì!

--Quando la conosceste?

--L'anno passato.

--Dove?

--Qui, al Beau-Séjour.

--Non aveva ancora preso in affitto la villa?

--Sì, ma stette alcune settimane all'albergo.

--Dove passava l'inverno?

--A Nizza.

--Dunque l'anno passato essi non erano più insieme?

--No.

--Egli era tornato da poco tempo con lei?

--In questi ultimi mesi.

--Quella donna, quella giovane, sapete dire chi è?

--Una sua connazionale e correligionaria.

--Conoscete la natura dei loro rapporti?

--No; ma non è difficile indovinarli.

--Sarebbe anch'ella sua amante?

---Vi stupirebbe? Non sapete che questi vendicatori dell'asservita
umanità amano il piacere, lo cercano, sono ben contenti d'associarlo al
_dovere_?

Sempre più amara era l'espressione del giovane nel parlare di coloro che
dovevano aver voluto la morte della creatura adorata.

--Dunque supponiamo che costei sia proprio l'amante del principe. Ella
avrebbe ucciso la contessa per gelosia? Ma di chi sarebbe stata gelosa?
Non della contessa, mi pare, che non amava più il principe, ma voi. E
neppure del principe, certamente, che non amava più la contessa, ma
lei!... Egli stesso, in questa condizione di cose, per qual motivo
avrebbe commesso il delitto?... Del resto, voi invocaste la
testimonianza della cameriera per confortare la vostra accusa. Come
spiegate che questa donna, appena visto il cadavere, dice che la sua
padrona, uccidendosi, ha posto in atto un antico proponimento?

--Ciò non vi prova,--esclamò il giovane, senza rispondere direttamente
all'interrogazione, anzi rispondendo con una nuova domanda,--ciò non vi
prova in quale abisso di miseria ella era caduta? Perchè, ispirata e
sorretta da una fede come la sua, ella parlasse di darsi la morte, la
vita non doveva esserle veramente divenuta odiosa e intollerabile?...
Volle morire, una volta. Io stesso udii la parola tremenda dalle sue
labbra. Una volta, non ora... Debbo io dirvi la speranza che ora
entrambi ci sosteneva... il sogno divino d'una felicità...

Soffocato subitamente dai singhiozzi non potè proseguire. E il giudice,
sempre più impressionato dal vedere che la fisonomia morale del giovane
era molto diversa da quella che, sulla fede dei ricordi e della fama,
gli aveva attribuita, considerava ora tra sè, in atto di discreto
compatimento, l'efficacia della prova morale che l'accusatore finalmente
precisava.

Se era vero ciò ch'ei diceva, se la morta lo aveva amato, l'accusa
appariva meno improbabile. Che il sentimento del di là avesse dovuto
impedire a quella donna di uccidersi, il Ferpierre credeva fino ad un
certo segno; ma che un sentimento più umano, tutto umano, avesse potuto
distoglierla dai funesti propositi, non gli pareva negabile. La qualità
dei motivi ai quali gli uomini obbediscono è molto varia, e nella
gerarchia dei sentimenti la fede tiene il posto più alto; ma la pratica
loro virtù non è in rapporto col grado che occupano in questa scala
ideale, e molto spesso non solo le passioni inferiori ma anche gli
infimi istinti sono più forti. Contro dolori insopportabili, contro il
bisogno di quiete e di riposo il sentimento religioso che vieta la morte
volontaria può riuscire inefficace; l'amore, la speranza d'appagare una
passione tutta vitale, riconcilia più prontamente con la vita.

Ma che cosa valeva questa presunzione? Come servirsene per incolpare due
persone?

--Voi comprenderete,--riprese il magistrato quando vide sedarsi
l'ambascia del Vérod,--la necessità che mi spinge a farvi domande certo
dolorose per voi. Mi pare d'aver ben compreso il sentimento in forza del
quale la contessa, a vostro giudizio, sarebbe rimasta con un uomo cui
nulla più la legava. Ella voleva accettare, sopportar quasi, è vero?
come un meritato castigo, fino all'ultimo, le conseguenze del proprio
errore... Tuttavia, se ciò le fu possibile prima di conoscervi, come mai
ella non riprese la sua libertà il giorno che un'altra speranza le
sorrise?

--Sì, perchè non la riprese?--ripetè il Vérod come parlando tra sè.

--Non ne sospettaste la cagione?

--Ella stessa me la disse.

Ma, invece di riferirla, il giovane tacque, guardando fiso dinanzi a
sè, scrollando il capo, con espressione di dolore amaro.

--E fu?

--Ella non si credeva, non si sentiva più libera.... L'impegno che aveva
preso un giorno, accettando di vivere insieme con quell'uomo, era un
impegno sacro per lei.... Ella non voleva passare da un uomo
all'altro.... Neppur io la volevo, così....

Lo scrupolo espresso dal narratore era credibile? Un amante che si sente
amato conosce ostacoli al compimento dei suoi voti? Certo, nelle anime
capaci di educarli, i pensieri generosi e gli scrupoli delicati hanno
molta forza, segnatamente nei primordii della passione. Che la passione
del Vérod fosse alla fase iniziale risultava dalle sue stesse
dichiarazioni; ed egli appariva tanto diverso dalla sua reputazione,
parlava con accento di così accasciata tristezza, nella sua voce c'era
ancora tale tremore di pianto, che il Ferpierre non volle sospettare
della sua sincerità.

--Ma allora,--riprese,--se questa donna v'amava e non si credeva libera;
se da una parte voleva e non poteva dall'altra infrangere un legame
divenuto increscioso; se il nuovo amore nel quale riponeva la sola
ragione di vivere le era vietato dagli scrupoli morali, l'argomento da
voi addotto per confortare l'accusa non si ritorce contro di essa? La
speranza che avrebbe dovuto sostenere questa donna non si dovè mutare
invece in un nuovo, in un ultimo motivo di disperazione?

--Come?... Perchè?...--balbettò il Vérod, trasognato.

--Io dico che, volendo e non potendo amarvi, o non potendo amarvi se non
a costo del proprio rispetto, questa donna non trovò nell'amor vostro il
conforto da voi asserito; al contrario: esso fu per lei l'estremo dolore
e la definitiva ragione di lasciare la vita!

Il giovane, come se non avesse dapprima compreso, o avesse voluto
dubitare d'aver compreso male, ora guardava il suo interrogatore con
occhio spaurito, e da tutto il suo atteggiamento, dalle labbra
dischiuse, dal breve e precipitato respiro, dal trepido gesto col quale
sollevava il braccio ed appressava la mano al petto, pareva che si fosse
sentito improvvisamente trafiggere da una punta acutissima.

---Io?... Io?... Voi dite, per causa mia?... L'ho uccisa io?... Oh!

E nascosta la faccia tra le mani soffocò un grido di dolore inumano.

Il Ferpierre fu costretto al silenzio non tanto dalla discrezione quanto
da un insolito turbamento. Egli era venuto ad istruire un processo, ed
assisteva frattanto ad un dramma. Lo spettacolo delle passioni gli era
abituale, ma il caso lo metteva ora di fronte a un'anima cui lo legavano
i ricordi della giovinezza improvvisamente destati. Chi gli stava
dinanzi non era soltanto l'antico compagno col quale aveva altra volta
discusso, ma anche uno del più chiari ingegni del suo tempo. La natura
di quell'ingegno non gli aveva ispirato simpatia; ma, se pure egli non
avesse ora scoperto che l'uomo somigliava poco allo scrittore, la stessa
rivalità intellettuale lo disturbava, lo toglieva all'ordinaria
indifferenza, alla necessaria serenità. E la stessa vista di quel dolore
lo commoveva, mentre egli aveva bisogno di tutta la lucidezza del
proprio spirito per accertare l'accusa.

Se il giovane gemeva al dubbio d'essere stato egli medesimo causa
involontaria del suicidio della contessa, bisognava credere che questo
dubbio non solamente non fosse inverisimile, ma che anzi lo addolorasse
come un rimorso. Nonostante, il giudice non voleva attribuirgli ancora
troppo valore. Mancando le prove materiali, non si poteva fare
assegnamento se non sopra mere induzioni: ora tra l'affermazione del
Vérod, che la contessa non aveva potuto darsi la morte mentre la luce
d'una nuova affezione rischiarava la tenebrosa sua vita, e il sospetto
contrario, che la stessa impossibilità di obbedire a questo sentimento
le avesse rivelato l'insanabile miseria della propria esistenza, quale
meritava più credito?

Avvezzo a esercitare le sue facoltà d'analisi in casi molto dubbii ed
oscuri, il giudice non s'era ancora trovato maggiormente esitante.
Nondimeno, invece di discutere tra sè le varie ipotesi, egli faceva di
tutto per distrarsi, per impedire che una di queste, a sua propria
insaputa, mettesse radici e gli contendesse l'esatta percezione del
vero. Egli sapeva che la vegetazione delle idee è molto più rapida di
quelle di certe piante che in breve stendono attorno folte chiome
frondose; e che la vita delle opinioni, quantunque sembri dipendere
dalla volontà e cessare sotto l'influenza delle opinioni contrarie, pure
è tenacissima e talvolta resiste agli sforzi più gravi.

Anche il Vérod, che pareva tanto confuso ed abbattuto, fu ben tosto
sollevato da una vivace reazione.

--No!...--disse a un tratto, rialzando il capo e scrollandolo in atto di
chi si ricrede.--No!... Non è possibile!... Non può essere vero!... Se
fosse morta per me non m'avrebbe ella detto, non m'avrebbe lasciato una
parola, la parola del suo dolore, un saluto, un addio?... Pur ieri io le
parlai, e nulla, nulla potè farmi sospettare il pensiero di morte: al
contrario!... No!--ripetè, affermando la voce secondo che il suo
convincimento si veniva afforzando:--No! Non si è uccisa! È stata
assassinata!... Voi non credete perchè non sapete, perchè non la
conosceste!... Voi avete bisogno di toccare con mano per credere. Io
sono certo invece che un infame delitto è stato qui oggi commesso. Io
prendo impegno di confondere gli assassini, di vendicare la morta. Il
dover vostro è di non credere nulla, per ora; di indagare, di aiutarmi a
cercare le prove che mancano. Esistono: le troverò!

--Tanto meglio!--rispose il Ferpierre.--Voi potete anche essere certo
che le cercherò, che le cerco anch'io!...

E, prima d'esser persuaso dalla forza di quella fede, lo congedò e diede
ordine che introducessero la giovane sconosciuta.

--Il vostro nome?--le domandò.

--Alessandra Paskovna Natzichev.

--Nata a?...

--Cracovia.

--Quanti anni?

--Ventidue.

--Che professione?

--Studente di medicina.

--Il domicilio?

--Zurigo.

Ella rispondeva con voce breve e secca, quasi insofferente delle
domande.

--Come vi trovate in questa casa?

--Venni a parlare con Alessio Petrovich.

--A parlare di che?

--Di cose che non riguardano la giustizia.

--O che la riguardano molto?

La donna non rispose.

--Siete sua correligionaria?

--Sì.

--Venivate a parlargli di affari politici?

Nuovo silenzio.

Il giudice, rimasto ad aspettare un poco la risposta, riprese con tono
pacato:

--Vi avverto che le reticenze potrebbero anche nuocervi. Avete udito di
che cosa siete accusata?

Ella alzò le spalle in atto di noncuranza sdegnosa.

--Chi accusate? Me, o Alessio Petrovich, o entrambi?

--Mi pare che adesso vogliate invertire le parti! Tocca a voi di
rispondere. Siete soltanto correligionaria del principe?

--Non comprendo.

--Siete anche sua amante?

Ella guardò l'inquisitore con espressione quasi irosa, avvampando, senza
dir nulla.

--Non volete rispondere neanche ora? Vi farò un'altra domanda. Dove
eravate nel momento che quella donna moriva?

--Nello scrittoio del principe.

--Dove era egli?

--Con me.

--Conoscevate la morta?

--Non parlai mai con lei.

--Oggi la vedeste?

--No.

--Sapevate che viveva da anni insieme col vostro amico, che lo amava,
che si amavano?

Il giudice, prolungando quella domanda sulla quale faceva assegnamento
per leggere nell'anima di lei, non le toglieva gli occhi dagli occhi; ma
ella rispose, impassibile:

--Sì.

--Sapevate se erano gelosi l'uno dell'altra?

--Non so.

--V'accorgeste che dopo essersi amati furono per lungo tempo discordi?

--No.

--Quando udiste il colpo che cosa faceste?

--Accorsi.

Il Ferpierre fu un poco insospettito da quella risposta. Se fosse stato
vero che ella era col principe, non avrebbe dovuto rispondere:
«Accorremmo?»

--Sola?--continuò a domandare.

--Con lui.

--Era già morta?

--Spirava.

--Perchè si sarebbe uccisa?

--Non so.

--Che disse il principe?

--Pianse.

--Quante volte siete venuta in questa casa?

--Due o tre volte.

--Le vostre visite non dispiacevano alla defunta?

--Non so.

--Conoscete il Vérod?

--Non so chi sia.

--È la persona che denuncia l'assassinio.

--Non lo conosco.

Il giudice lasciò allora d'interrogare.

--La vostra ignoranza è un po' troppo grande. Procureremo di aiutarvi a
rammentare. Resterete frattanto a disposizione della giustizia.

Ella andò via a testa alta, impassibile com'era rimasta durante
l'interrogatorio; e il Ferpierre, seguendola con gli occhi, pensava che
da quella parte non avrebbe nulla saputo. Egli ne aveva conosciuta più
d'una, di queste Slave dall'anima misteriosa, di queste giovani che nel
fiore dell'età, tra gli studii più severi, proseguivano con ferreo cuore
un tragico ideale, e per esso, per assicurarne il trionfo, non solamente
sapevano sfidare e vincere resistenze ed ostacoli, ma gettavano perfino
la vita. L'oscurità che avvolgeva l'avvenimento, invece di rischiararsi,
addensavasi; ma il giudice aspettava ora impaziente d'affrontarsi con
quello che doveva pur esserne il principale attore.

Quando il principe gli fu condotto dinanzi egli ne considerò
attentamente la figura. Era senza dubbio uno dei più belli uomini che
avesse mai visti: alto, forte, agile, con le guance incorniciate dalla
barba d'un biondo di seta, i capelli castani un poco diradati sulla
fronte che pareva pertanto più ampia, la carnagione bianca, anzi pallida
e quasi macerata come quella dei discendenti di razze elettissime, gli
occhi azzurri e profondi sotto i puri archi delle sopracciglia, il naso
aquilino dalle narici nervose, l'abito elegante, il portamento veramente
principesco. A vederlo, tutti avrebbero riconosciuto in lui il gran
signore e l'uomo galante, nessuno il rivoluzionario. Il suo viso,
dapprima scomposto dall'ambascia in presenza del cadavere dell'amica,
poi dall'ira all'accusa del Vérod, era adesso atteggiato ad una cupa
tristezza.

--Voi siete il principe Alessio Petrovich Zakunine? Dove siete nato?

--A Cernigov, nel 1855.

--Foste mai condannato?

--Fui condannato alla relegazione in Siberia, per complotto; poi
graziato e bandito dalla Russia.

--Non c'è un'altra pena più grave?

--Tutte le successive furono confuse in quella capitale per alto
tradimento e regicidio.

--Ora udiste di che vi accusa il Vérod.

A quelle parole il sangue imporporò la faccia del principe, i suoi occhi
tornarono a lampeggiare.

--Che rispondete?

Egli si strinse la fronte tra le mani, quasi a reprimere il suo
corruccio; poi disse:

--È vero...

Confessava? S'incolpava? Riconosceva d'averla egli assassinata? Il
giudice quasi dubitò di avere udito male, tanto gli pareva inverisimile
che da un momento all'altro quell'uomo si disdicesse; ma il suo dubbio
fu di breve durata, perchè Zakunine così precisava il proprio pensiero:

--È vero... l'ho uccisa io... è morta per me...

Egli parlava piano, immobile, con voce così sorda che s'udiva appena.

--È morta per voi e per mano vostra?

--Che importa? Sono io responsabile...

--Importa moltissimo, invece, e non ho bisogno, credo, di spiegarvi la
differenza!... Voi confessate di averla spinta al suicidio, non d'averla
uccisa materialmente? Come, perchè l'avreste spinta al suicidio?

--Perchè ero indegno di lei. Perchè la disconobbi. Perchè l'offesi.

--Non l'amavate più?

--Non l'amavo.

--E la piangete così?

C'erano infatti lacrime nella sua voce. Siccome lasciò cadere senza
risposta la domanda del giudice, questi riprese:

--Voleste abbandonarla?

--L'abbandonai.

--Perchè tornaste a lei? L'amavate ancora un poco? Vi faceva pietà?

--Tanta.

--Come vi amò ella?

--Come io l'amai, un tempo.

--Foste felici?

Gli occhi del principe s'arrossirono.

--Ella vi amava ancora?

Egli rispose scrollando la testa, lentamente, disperatamente.

--Vi diede motivo di gelosia?

Alla nuova domanda rispose con un gesto dubitoso.

--Sapevate sì o no che nutriva un nuovo affetto?

--Lo supposi.

--Le rimproveraste mai l'amicizia per il Vérod?

A quel nome il principe s'accigliò e tornò a fremere.

--No,--rispose con voce sorda.

--Che cosa lo spingerebbe ad accusarvi?

--Non so.

--Il dolore? La gelosia?

--Forse.

--Da quanto durava la vostra amicizia con la contessa?

--Da cinque anni.

--Era libera quando la conosceste?

--Sì, libera: vedova.

--Dove l'incontraste?

--A Aberdeen, in Iscozia.

--Quanti anni aveva?

--Ventinove.

--Ora o allora?

--Ora.

--Non pensaste mai, neppure nei primi tempi, d'unirvi legalmente in
matrimonio?

--Io disconosco questa legge.

--Ella non sofferse d'una situazione che per i suoi sentimenti cristiani
doveva essere immorale e punibile?

--Ella si era impegnata dinanzi al suo Dio.

--Vivendo con lei, dormendo sotto lo stesso tetto, conoscendola
intimamente, è impossibile che non abbiate visto prepararsi la
catastrofe.

--Non vivevo più con lei. Venivo a trovarla talvolta.

--Dove è allora il vostro domicilio?

--A Zurigo.

--Quando veniste qui?

--L'altro ieri.

--Nulla vi fece sospettare il disperato proposito?

--Soffriva più del consueto.

--Vi chiese qualche volta di separarvi?

--Mai.

--Che cosa pensava delle vostre idee politiche, dei vostri atti?

--L'idea del riscatto umano l'infiammava, gli atti le repugnavano.

--Volle impedirvi di commetterli? Tentò di distogliervi dalla vostra
attività?

--Più volte.

--In che modo?

--Dicendo che nell'amore, non nell'odio, consiste il rimedio.

--Voi la mettevate a parte dei vostri secreti politici?

--Un tempo.

--Ora non più? Cercò ella qualche volta di sorprenderli?

--Oh, mai!

--Che relazioni passano tra voi e Alessandra Natzichev?

--Pensiamo a un modo.

--Lavorate insieme alla propaganda?

--Sì.

--La defunta ebbe motivo di essere gelosa di questa donna?

--Nessun motivo.

--Null'altro fuorchè l'ideale comune vi lega? Non mentite; da queste
carte sapremo la verità.

--Attesto che null'altro ci lega.

La sua voce pareva sincera.

--A vostra insaputa la giovane vi amerebbe e sarebbe stata per ciò
secretamente gelosa della contessa?

L'interrogato tacque un poco prima di rispondere.

--No,--disse poi.

--Dove eravate quando udiste lo sparo?

--In camera mia.

--Nella camera da letto?

--Nello scrittoio.

--A che ora sarebbe precisamente avvenuto il suicidio?

--Alle undici e tre quarti.

--Che faceste udendo il colpo?

--Accorsi.

--La vostra compagna accorse dopo di voi?--domandò ancora il giudice,
studiandosi di dare alla sua voce un tono di stanchezza quasi
infastidita per nascondere l'importanza della domanda.

--Accorse con me.

Entrambi, da principio, avevano risposto al singolare, quando
naturalmente avrebbero dovuto dire: «Accorremmo.» Il Ferpierre dava un
certo peso a questo fatto, parendogli di poterne dedurre che i due non
erano insieme come asserivano. Ma chi era presso la contessa? Chi
mentiva? Su chi rivolgere i sospetti?

--Rammentate quando la defunta comprò quell'arma?

--La vinse a una lotteria tempo addietro.

--E le cartucce?

--Furono comprate quando volle esercitarsi a tirare.

--Allora, riassumendo, ella si sarebbe uccisa per i dolori che voi le
cagionaste; perchè, sposatasi a voi senza riti, non potè sopportare il
vostro abbandono? Però se amava un altro?... Voi avete confessato che
sospettaste il suo nuovo amore... Perchè si sarebbe uccisa, se amava un
altro? Da chi potevano venirle impedimenti ed ostacoli a una nuova
felicità?

--Da sè stessa.

--Che intendete dire?

--I suoi sentimenti del dovere, del rispetto, dell'onestà, erano
altissimi.

--Se voi sospettaste che volesse uccidersi, come mai non le toglieste
quell'arma?

--Non sospettai.

--La sua donna ha detto invece che era da prevedersi!

---Ella godeva della sua confidenza, non io.

--Infatti, se eravate la causa dei suoi dolori!... Però costei non vi
avvertì mai? Non vi disse mai di vegliare?

--No.

--Sentiremo ora da lei.

Il magistrato si decideva improvvisamente a metterli l'uno dinanzi
all'altra.

Rammentando la relazione del giudice di pace, secondo la quale il
principe al sopravvenire di Giulia Pico s'era turbato e aveva
ricominciato a tremare nervosamente ed a respirare con ansia, il
Ferpierre pensava che forse in lei Alessio Zakunine avesse visto
un'accusatrice e che da ciò provenisse il suo turbamento. Ma ora,
all'annunzio del confronto al quale stava per essere sottoposto, nulla
rivelava nella sua espressione che la prova gli paresse temibile.

La donna, nella camera funerale, rendeva alla salma della padrona gli
estremi pietosi ufficii prima che la trasportassero via: lavata la
fronte e la guancia sanguinosa, ricomponeva i capelli, incrociava le
mani sul seno, intrecciava alle dita la corona del rosario. La poveretta
non vedeva ciò che faceva, così fitto velo di lacrime le appannava gli
occhi. Vicino a lei la baronessa di Börne si dava ancora da fare,
zelante e loquace: quando la familiare fu chiamata di là per poco non le
andò dietro.

Due, tre volte dovette il Ferpierre ripetere le sue domande alla povera
donna, talmente costei era stordita dal dolore. Giulia Pico, di
quarantacinque anni, nata a Bellano, sul lago di Como, stava al servizio
della contessa d'Arda da quando questa era ancora fanciulla, nella casa
paterna, a Milano.

--Voi avete detto che la vostra padrona manifestò più volte il proposito
di morire?

--Sì.

--Da quanto tempo?

--Da molto... da oltre un anno.

--Non rivelaste mai questo pericolo al suo amico?

--Sì.

Il giudice, come se la smentita non lo stupisse, quasi il principe non
fosse presente, continuò a interrogare la familiare senza neppure
voltarsi dalla parte dell'accusato.

--Quando glie lo rivelaste? In quali circostanze? Procurate d'esser
precisa.

--L'anno passato, un giorno il signore stava per partire... la signora
lo pregò lungamente di non lasciarla sola... Egli partì; allora ella
pianse molto, molto: parlò della morte... Al ritorno del signore io gli
dissi d'aver cura di lei.

--Che cosa avete da rispondere?--pronunziò freddamente il Ferpierre,
rivoltandosi verso il principe e guardandolo fiso.

--Non rammento il fatto del quale parla,--rispose questi sostenendo
fermamente lo sguardo del giudice.--Ho confessato i miei torti, più
volte questa donna me li rappresentò. Forse intendeva mostrarmi il
pericolo, ma non disse mai chiaramente che cosa aveva ragione di temere.

--Negli ultimi tempi,--riprese il giudice rivolto a lei,--parlava ella
ancora del suo proposito?

--No.

--Come spiegate questo fatto? Non aveva tuttavia ragione di dolersi di
lui?

--Il signore era più premuroso da qualche tempo.

--È vero ciò che dice costei?

--Non è vero. Se io avessi riconosciuto i miei torti, se ne avessi fatto
ammenda, ella vivrebbe.

Riabbassato lo sguardo, egli parlava ora con accento di così sincero
rimorso che il Ferpierre ne fu impressionato. Se la cameriera diceva che
il suo padrone era ridiventato migliore, e se costui aveva prima taciuto
e quindi anche negava questo fatto perseverando invece nell'incolparsi,
l'accusa appariva meno fondata. Allora, se bisognava credere agli
argomenti del Vérod, i sospetti dovevano piuttosto rivolgersi contro la
giovane studente? Il principe voleva dimostrare il suicidio per salvare
la compagna di fede?

--Della donna che era qui in casa, di questa Natzichev, che cosa
pensava la vostra padrona?

--Non so. Non la vedeva.

--Pure sapeva delle sue visite? Le dispiacevano?

--Non so...

Parve al giudice che la presenza dell'accusato le impedisse ora di
parlare liberamente.

--Lasciateci soli,--disse pertanto al Zakunine. Poi, quando costui,
inchinata la testa, fu scomparso dietro l'uscio dove i gendarmi
vigilavano, si avvicinò alla donna.

--Sentite,--riprese, piano ma vivacemente e in tono di persuasiva
confidenza;--noi qui siamo dinanzi a un dubbio grave. Mentre le
apparenze dimostrano che la vostra padrona si è uccisa, qualcuno
asserisce che è stata assassinata. Nessuno meglio di voi può aiutare la
giustizia a scoprire la verità. Voi pensavate che ella si fosse tolta la
vita; ora che avete udito l'accusa non dubitate?

La donna giunse le mani, malcerta, confusa.

--Che dirvi, signore!... È una cosa di spavento!... Io non so...

--Che pensate del vostro padrone? Lo credete capace d'aver commesso un
delitto simile?

Ella rispose dopo un minuto di esitazione, ma risoluta:

--No.

--Perchè dite così?

--Volle molto bene alla signora, quando si conobbero. Le volle un bene
pazzo. La consolò dei suoi tanti dolori.

--Che dolori?

--Soffriva, era mortalmente inferma. A distanza di pochi mesi perdette
il padre e il marito; restò sola al mondo. Il signor conte morì anche in
un modo spaventevole, schiacciato sotto un treno.

--Ma il principe poi la maltrattò?

--Sì, offese le sue credenze, l'abbandonò; ma ciò non è una ragione per
sospettare questa cosa orribile.

--Rammentate quando, come, perchè cominciarono i mali trattamenti?

--In Italia, quando il signore fu espulso dal nostro paese.

--Da quanto tempo?

--Dall'altro anno. La signora aveva tanto sperato che laggiù egli
sarebbe stato migliore, più suo!...

--Vi furono diverbii tra loro?

--Non diverbii propriamente. La signora pregava sempre, quando chiedeva
qualche cosa; il signore la lasciava dire, non rispondeva e faceva poi a
suo modo.

--La tradì, anche?

--Non so. Chi può dire che cosa facesse nel lungo tempo che stava
lontano!

--Diceste che da poco egli era diventato migliore. Da quanto?

--Da tre o quattro mesi.

--Come v'accorgeste del mutamento?

--Venne a trovarla dopo una lunghissima lontananza, quando credevo che
non sarebbe mai più tornato.

--Veniva da Zurigo?

--Da Zurigo, credo.

--Restò a lungo?

--Pochi giorni, ma tornò poi molte volte ancora, a Nizza e qui. Pareva
un altro. Pareva temesse di lei.

--Come spiegate il mutamento?

--Non posso dire. Forse riconosceva d'aver fatto male vedendola così
triste e dolente...

--State bene attenta alla domanda che vi farò. Che cosa era per la
vostra padrona il signor Vérod?... Dite quel che sapete. Bisogna
scoprire la verità, punire i colpevoli se ce ne sono, vendicare la morte
della povera signora se è stata assassinata. Volete che gli assassini
restino impuniti?

--Vi dirò quel che compresi. La poveretta non mi parlò mai di lui. Una
volta mi disse solamente: «Come è gentile il signor Vérod, è vero?...»
Compresi che la sua compagnia, che la sua amicizia le erano molto
gradite, benchè qualche volta lo evitasse...

--Come mai?

--Non so: alle volte pareva anzi che le dispiacesse, quasi che avesse
avversione anche per lui. Ma era cosa passeggera...

--Forse temeva che il signor Vérod, come tutti gli uomini, non dovesse
alla lunga trattarla con la delicatezza dei primi tempi?

--Non credo. Il signor Vérod è tanto buono! Forse temeva, sì; ma...

--Di che cosa?

--Di sè stessa.

--Allora, se ella aveva questa simpatia, e se il vostro padrone se ne
accorse come voi, credete che egli divenisse migliore con lei per paura
di perderla, per gelosia del Vérod?

Ella aperse le braccia e scrollò il capo.

--Non posso dire, signore.

--Della Russa, della studente, che cosa pensate?... Che cosa veniva a
far qui?

--Stavano chiusi nello scrittoio del signore: non so che dicessero.

--Quante volte venne?

--Tre o quattro volte.

--Non avete mai sospettato che tra loro ci fosse una relazione molto
intima... che fossero amanti?

--Non posso dire. Un giorno...

--Che cosa?

--La vidi che baciava la mano al signore.

--Non udiste che cosa dicevano?

--Parlavano russo, non potevo comprendere.

--Facciamo una supposizione. Ammettiamo che costei amasse il vostro
padrone. Dovrebbe per conseguenza essere stata gelosa della contessa, è
vero?

La donna rispose con una ambigua espressione del viso che poteva
significare tanto ignoranza quanto consenso.

--Se sapeva della disunione, la sua gelosia non sarebbe stata però molto
ragionevole...--soggiunse il Ferpierre, il quale si proponeva da sè
stesso le obbiezioni e, nello sforzo di veder chiaro in quel mistero,
annunziava tutti i pensieri che gli si venivano affacciando.--Seppe che
erano in discordia?

--Non posso dire.

--S'accorse che ultimamente il principe era divenuto migliore per la
defunta?

--Non so, signore.

--Quando se ne fosse accorta, se lo amava, la gelosia avrebbe potuto
armarla?

Ma la donna non disse nulla, quasi comprendendo che il magistrato, più
che interrogarla, non faceva oramai altro che parlare con sè stesso, che
pensare ad alta voce.




III.

I RICORDI DI ROBERTO VÉROD.


Tramontava il sole. Dietro la catena del Jura i raggi d'oro che
fendevano le nuvole agglomerate sui culmini davano imagine d'un immenso
trofeo di spade. Sotto le rive di ponente il lago era di lavagna; verde
come uno stagno fra le basse rive boscose di San Sulpizio, ridiveniva
azzurro al largo, nell'alta conca chiusa dalle Alpi vallesi dove le nevi
s'infiammavano all'ultima luce. Due vele immobili, incrociate come due
ali, sulle acque immobili; una tenue riga di fumo verso Collonge; niun
altro segno di vita. Nel silenzio infinito lenti rintocchi lontanamente
dicevano che una vita erasi spenta.

Al cielo, alla terra, alla luce, Roberto Vérod chiedeva quella vita.
Tratto tratto egli perdeva la coscienza dell'incredibile verità; dinanzi
allo spettacolo che tante volte aveva rimirato con lei gli pareva
d'esserle ancora d'accanto; poi, girando lo sguardo ansioso, la
solitudine lo sgominava, l'orrore s'aggravava su lui. Andava, andava,
ignaro della sua via, per respirare: l'immobilità lo avrebbe soffocato.
Su per l'erta di Losanna, oltre la Croce, una carrozza lo avanzò. Allora
egli fermossi, tremando.

Su quella via, in quel punto, alla stess'ora, egli l'aveva vista la
prima volta apparire; un anno addietro, mentre errava per quella via,
ella era passata, forse in quella stessa carrozza. L'imagine risorse in
lui così viva, che ne fu abbagliato.

Che faceva egli a quel tempo? Che pensava? Che aspettava? Grigia,
disutile, vuota era la vita sua a quel tempo. Trentaquattro anni, non
rughe sulla fronte; ma quante nell'anima! Il chiuso pensiero, l'assiduo
esame interiore, l'inveterato istinto e l'ostinato bisogno di guardare
in sè stesso lo avevano avvelenato. La goccia d'acqua sembra più
liquida perla quando l'occhio armato di lenti vi scorge dentro un
orrido mondo? Col pensiero egli aveva guardato troppo sè stesso e le
cose, e la bellezza aveva perduto ogni incanto, e della gioia egli aveva
saputo il costo, e la speranza gli s'era consunta dinanzi. Una volta, in
più fresca età, di quel suo genio dell'esame egli era stato superbo come
d'una forza, come di una potenza; con gli anni aveva sentito che era la
miseria sua. Nel mondo delle idee gli estremi orizzonti, le cime
vertiginose erano a lui familiari; nella vita pratica moveva i suoi
passi malcerto ancora più di un bambino. Quando tentava di reagire
contro quell'impotenza, riconosceva che la volontà era inefficace, che
egli restava condannato a una vita infeconda. Nato al confluente di tre
civiltà, da una razza nella quale troppi elementi etnici si erano
confusi, sollecitato in vario senso dagli istinti ereditarii e dai
concetti acquisiti, sentiva di non poter gustare altre gioie fuorchè
quelle dell'arido pensiero.

Aveva vissuto; ma come? Come il visitatore d'un cosmorama crede di
trovarsi dinanzi agli spettacoli rappresentati: sapendo che sono dipinti
sopra cartone. Egli non credeva alla vita. Gl'insensibili oggetti, le
inanimate opere d'arte possono accenderci, pur sempre restando quelle
che sono, fredde, mute, inerti: così egli aveva amato viventi creature.
Ma dove il sentimento, non che essere ricambiato dalle cose, non si può
neppure esprimere ad esse, da creature a lui simiglianti egli aveva un
tempo sognato d'esser compreso; e poichè mai il suo sogno, il suo
bisogno era stato appagato, un moto di superbia lo aveva persuaso
d'avere un'anima diversa dalle comuni, di valer più che gli altri. La
sua superbia era stata punita con la spaventosa solitudine che lo aveva
circondato. Più triste della solitudine un'ultima persuasione gli aveva
dimostrato che, pur valendo presso a poco egualmente, le creature umane
sono condannate a non intendersi mai.

Così, con questa fede disperata, con l'amara compiacenza d'aver saputo
comprendere la sterile verità, egli viveva da anni. L'arte sua
rispecchiava troppo fedelmente queste opinioni; essa era negatrice
fredda ed amara. Diceva che la vita è un inganno, che non c'è
distinzione fra i sentimenti dell'uomo cosciente e le cieche potenze
della natura, che tutto si riduce nel mondo a un meccanismo impassibile.
Egli non aveva più nessuna ragione di vivere, e la sua vita era una
continua morte. Egli frenava ogni sua tentazione cominciando da quella
di morire; e col furore d'un iconoclasta distruggeva dentro di sè tutte
le imagini delle cose e degli esseri. Così viveva da anni, quando ella
era apparsa.

La vedeva ancora, nella carrozza che procedeva lentamente per l'erta,
accanto a un'altra dama, incrociare un rapido sguardo col suo. Egli
n'era rimasto stordito. Come era bianca, pallida, stanca! Che diceva lo
sguardo?

E l'aveva riveduta, la sera stessa, qualche ora dopo, alla Casa di
salute dove un dottore amico lo persuadeva a curare con un po' d'acqua
tepida sulle spalle il male dell'anima. D'altro rimedio aveva egli
bisogno! Non le docce, non l'aria, non l'esercizio dei muscoli potevano
nulla contro il suo dolore. Anche una volta, alla terrazza della Casa di
salute, egli le era passato dinanzi, più da presso; e quantunque il
nuovo incontro fosse rapido come il primo, pure egli aveva notato che
l'estenuata bellezza di lei era a un tratto tutta rianimata e lucente. E
anche una volta l'aveva guardata negli occhi. Che diceva lo sguardo?...

Ora le ombre sorgevano più dense dalla conca del lago. Le nubi già d'oro
erano grige, e solo per qualche pennellata cuprea e violacea la luce
attestava di non essere morta interamente. Un riflesso di quelle
colorazioni dava alle acque stagnanti l'iridescenza delle lamine
metalliche. Le digradanti coste dei monti savoiardi parevano cadere a
picco sul lago e le cime staccavansi nere sul chiaro fondo del cielo,
come un intaglio. Egli riprese ad andare, anelante.

L'appressarsi della notte lo sgominava. Che avrebbe fatto, nella notte?
Dovunque volgesse lo sguardo, ora vedeva almeno qualcosa che gli parlava
di lei. Egli la rivedeva come l'aveva tante volte veduta, tutta vestita
dell'ultima luce, contemplare immobile il muto spettacolo del tramonto;
egli tratteneva il respiro ed il passo, come un tempo dinanzi alla
figura vivente, pauroso di vederla sparire, di vederla dileguare, di
perderla. Ed era sparita, si era dileguata, egli l'aveva perduta! Quante
volte questo sentimento di paura aveva stretto il suo cuore! Era ella
fatta per la vita terrena? Quante volte l'aveva udita dire, parlando del
futuro, di disegni da compiere un giorno: «Se sarò ancora al mondo!...»
Allora egli sostava, senza vedere più nulla, con gli occhi chiusi dal
pianto; e il suo dolore era così acuto e ineffabile che diveniva quasi
una mortale voluttà. Il pianto era stato la voluttà di quell'amore: di
gioia, di speranza, di pietà, di paura, di dolore egli aveva pianto.

Così fortemente la prima vista di lei lo aveva percosso, che egli non
aveva potuto tutta comprenderne la bellezza. Consisteva la sua maggior
seduzione nella grazia languida e quasi vacillante della persona alta e
tenue, o nella purezza dei lineamenti, del gracile viso, della fronte
tersa come un'opera di scultura, cinta di chiome copiose nere e lucenti
che le scendevano in due bande lungo le tempie e la rassomigliavano alle
figurazioni della Vergine; o nella dolcezza dolorosa dello sguardo,
nell'espressione profonda di un'anima ansiosa?

Per una più pacata contemplazione aveva egli compreso più tardi che
tutte queste cose insieme formavano il molteplice incanto di lei; ma
allora aveva anche visto che quella bellezza non era durabile. A giorni,
a ore la magrezza delle guance pareva troppo grande; tutte le linee del
viso s'alteravano come prossime a disfarsi; la carnagione, non più
illuminata dalle fiamme interiori, era smorta; lo sguardo velato e quasi
cieco. Ma queste improvvise oscurazioni che parevano lo scotto d'una
bellezza troppo grande e quasi fuor dell'umano, lo avevano fatto tremar
di paura, rivelandogli la minaccia che pendeva sulla vita di lei. Il
sentimento d'ammirazione che la prestigiosa creatura destava nei
momenti del suo massimo splendore mutavasi allora in sollecita pietà; e
la pietà della fugace e peritura bellezza avvinceva il cuore di lui più
saldamente che non potesse avvincerlo l'ammirazione per ogni altra
bellezza superba e trionfante. Egli rammentava ancora le parole udite
una sera lontana, quando, in uno dei troppi rari momenti di pace,
sedotta dalla insistenza d'una folla giuliva, ella s'era messa al
pianoforte. Musiche inebbrianti uscivano dallo strumento sonoro, e la
misteriosa virtù della melodia disponeva l'animo di lui a tutta
comprendere la sovrumana bellezza che per l'improvvisa animazione le
sfolgorava in viso. A quel massimo grado di meraviglia egli sentivasi
però umiliato e quasi offeso: quanto più stupenda ella era, tanto più
inarrivabile doveva sentirla, tanto più mediocre e indegno doveva
giudicare sè stesso. Ma come più il suo cuore chiudevasi dall'angoscia
per la coscienza della troppa distanza che lo separava da lei, ad un
tratto, senza che ella interrompesse l'esecuzione d'un _Largo_ di Bach,
la porpora delle sue guance impallidì, la meravigliosa purezza dei suoi
lineamenti s'alterò e dissolse. In quel punto uno degli spettatori ch'ei
credeva occupati da un sentimento eguale al suo proprio gli era venuto
accosto per dirgli, additandola: «Non è un peccato, guardate? Senza
queste improvvise mancanze, che bellezza perfetta! Sarebbe veramente
stupenda, se non mancasse da un momento all'altro, così!...» Allora,
repentinamente, l'angoscia e la tristezza s'erano dileguate; egli non
l'aveva più sentita tanto alta e lontana da lui, ma tutta vicina e sua;
perchè non il senso di rammarico che altri esprimeva, ma un impeto di
tenerezza lo animava ponendo mente alla inferma, un sentimento di
commossa pietà, un bisogno di prodigare alla vulnerata creatura tante
cure gelose, un così vigile affetto, da compensare i suoi passati
dolori, da risparmiarle i venturi.

Era egli riuscito in quest'opera?...

Anche una volta dal cielo delle memorie la sua attenzione rivolgevasi al
circostante spettacolo. Le prime fiamme splendevano, aurate nell'ultimo
crepuscolo, sulle rive e sulle pendici della Savoia; il fanale d'un
battello, come una punta infocata, solcava le acque. Andarsene, fuggire,
sparire: solo così egli avrebbe potuto evitare a lei ed a sè stesso
altre pene. Di fuggire egli era stato tentato, quando il turbamento che
lo vinceva anche a scorgerla da lontano gli diceva che fuoco lo avrebbe
investito se l'avesse conosciuta da presso. E rammentava le lettere
scritte in quei giorni per annunziar la partenza: lettere dove la
tristezza della rinunzia a un'adorazione ch'ei presentiva formidabile si
mascherava, si sfogava in accuse alla volgarità del luogo e dei suoi
popolatori. Ma, deliberato di andarsene, era rimasto ancora, aveva
continuamente rimandato il distacco gustando la mirrata dolcezza
dell'ultima contemplazione; quando un giorno aveva potuto parlarle. Egli
aveva potuto udire la sua voce: la voce sommessa, armonia lenta, musica
velata, eco dell'anima profonda. Che sottile virtù era nelle sue
parole; come ogni sua parola pareva inaudita, felicemente creata ad
esprimere il pensiero recondito! Ed era rimasto, per udirla.

L'anima sua fu allora occupata dalla meraviglia. Egli non credeva
possibile dipendere così da una creatura umana. Ripensando i suoi
passati amori non rinveniva nulla di simile alla presente realtà. I suoi
amori erano morti, interamente; ma non perciò egli ne negava la forza;
essi non già gli parevano scialbi per quella natural legge secondo la
quale i ricordi hanno più debole vita e importano meno delle impressioni
attuali: la nuova apparizione trionfava per una tutta sua propria virtù,
offuscava fantasmi ed imagini con la purezza della sua luce. Anche la
meraviglia di lui cresceva per la subitanea fede risposta in un'anima
che gli era tuttavia ignota. L'idea della bellezza associasi
naturalmente alle idee contigue della bontà e della virtù, talchè nulla
è più facile dell'attribuzione di queste doti alle belle creature; ma
non era egli uso, oltre che a difendersi contro le troppo naturali e non
ancora verificate deduzioni, a osservare altresì con tanta penetrazione
gli altri, sè stesso e la vita da negare, come aveva negato, ogni
prestigio? Pagava ora forse la lunga, strenua e disperata resistenza a
tutte le lusinghe con la dedizione improvvisa? Ma la prova maggiore del
mutamento operatosi in lui era questa: che non più come un tempo egli
compiacevasi nei faticosi e infecondi esercizii dell'indagine intima,
nelle continue alternative del dubbio; ma, senza discutere, quasi
obbediva una volontà estranea e imperiosa. L'espressione di questa
volontà era nello sguardo di lei che diceva: «Ama e vivi, credi e vivi,
spera e vivi.» Egli uniformavasi al comandamento.

L'atto di fede compito attribuendo ogni pregio alla creatura d'elezione
era quotidianamente confortato di prove. Poteva egli pensare d'essersi
ingannato se al suo sentimento tutti partecipavano, intorno a lui?
Parole di ammirazione erano su tutte le labbra; quale appariva in vista
tale ella rivelavasi: tutta buona, dolce e pietosa, tutta piena di
grazia. Come non parea fatta per la vita del mondo così intendeva
costantemente al cielo lo sguardo e il pensiero. Quando egli la cercava,
quando aveva bisogno di vederla, era sicuro di trovarla nelle case della
preghiera, genuflessa, umiliata dinanzi a Dio. Quante volte, non visto
da lei, era entrato negli insoliti luoghi! Che ore ineffabili vi aveva
vissuto! All'idea che anch'egli una volta aveva creduto, al ricordo
dell'anima ingenua che era morta in lui, alla speranza di poter credere
ancora per essere più vicino a lei, per comunicare con lei, come aveva
pianto di dolce tristezza e di trepida gioia!

Un giorno, da Evian, l'aveva guidata a una cappella dove celebravano una
festa che chiamava a torme i credenti dai luoghi più lontani: anche egli
aveva chinato la dubitosa fronte come tutti quegli umili, come lei; ma
non soltanto per seguire l'esempio della fedele, per nascondere a un
tempo il pianto che lo accecava. Un'altra volta, sulla montagna, ella
erasi fermata dinanzi a una cappelletta alla porta tarlata della quale
stava infissa la grossa chiave rugginosa; con la debole mano bianca
cercava di schiudere quella porta, inutilmente. Egli stesso l'aprì, e
nell'atto che schiudeva alla pia il varco del sacro luogo, egli pensava
come grande fosse la secreta forza di quella debolezza apparente: quando
la povera mano s'era stancata invano e pareva aver dovuto rinunziare
all'intento, il muscoloso braccio era stato spinto a vincere per lei
l'ostacolo. E allora egli aveva sentito struggersi dal bisogno di
baciare quella mano addolorata, di baciarla devotamente sul dorso, di
baciarla avidamente sulla palma; dal bisogno di sentirsi imporre la
miracolosa mano sulla fronte infiammata. Non era la dolce mano
soccorrevole e salutare? Non l'aveva egli vista un giorno medicare
pietosamente un ferito, un infermo della cui insania morale tutti
ridevano e che ella sola commiserava? Quell'uomo era caduto, grondava
sangue; e alla vista del suo sangue, all'udire le sue parole più
scomposte del consueto, le risa crudeli crescevano; ella sola, come una
suora, aveva saputo medicarlo e guarirlo. La sua mano era soave ed
agile, pronta e destra all'ufficio di carità, tutta animata da una vita
prodiga di sè stessa; la sua mano era larga, pieghevole, venata e fresca
come una foglia; nello stringerla nuda egli risentiva la freschezza
d'una foglia polputa.

E i ricordi, i dolci luminosi imperituri ricordi lo incalzavano, nella
sera serena, dinanzi al cielo verde come la speranza che ella aveva
suscitata nel cuore di lui. Ella aveva spirato la vita nell'anima morta,
ella era stata la vita dell'anima sua. Tutto ciò che ella credeva, le
cose semplici, le cose buone, le cose eterne, erano state da lui
finalmente credute. Ella aveva compito questo prodigio naturalmente,
senza volerlo, con la sola virtù della sua presenza, come fa credere
alla luce la vista del sole. Ella faceva il bene perchè era nata a
farlo. E un sentimento nuovo, inaudito, incredibile, aveva occupato il
cuore di lui, un sentimento che avrebbe dovuto essergli cagione di pena
intollerabile, ma che invece egli sopportava rassegnatamente, quasi con
gioia. Il cupido istinto voleva impossessarsi della miracolosa creatura,
averla tutta per sè; la ragione riconosceva che ella non poteva essere
distolta dal suo ufficio buono per amore d'un solo. Qual pazzo potrebbe
sognare di prendere per sè tutta l'aria? Ed egli non era stato geloso
sapendola d'un altro. Aveva pensato che, se era di un altro, ella doveva
compiere un'opera fruttuosa; nessuno poteva biasimarla per questo,
nessuno poteva distrarla dall'opera sua. Ella conosceva le secrete vie
del cuore, sapeva le parole che leniscono e sanano, le parole soavi come
un unguento. E l'uomo cui s'era unita aveva bisogno di soccorso; non
proseguiva per vie sanguinose un intento inarrivabile? Non sospingeva a
lotte tremende le anime miti con l'efficacia di un disperato esempio?
Accanto a quell'uomo abbeverato d'odio, per cui la vita umana non aveva
valore, che seminava di cadaveri il suo cammino, accanto a quell'uomo
era il posto di lei. Nulla di nuovo aveva per lei l'ideale di giustizia
e di pace in nome del quale colui levavasi in armi; ella doveva anzi
difendere queste cose sante, tutelare la bellezza delle idee dalla
contaminazione cruenta, convertire i fanatici, confortare i disperati.
Ella era la ragione accanto al sofisma, l'umiltà accanto alla superbia,
l'amore accanto all'odio; ella era la correzione del male, la sua vista
era la consolazione del mondo...

Guardando intorno a sè, il giovane non sapeva ora più dove fosse. Ebbe
bisogno di passarsi una mano sugli occhi prima di riconoscere la via di
Belmont. Allora cadde sul parapetto della via, chiamando:

--Anima! Anima! Anima!...

Lo sconforto fremeva sordamente sotto la fede che gli dettava
quell'invocazione. Egli non voleva e non poteva rassegnarsi alla
mostruosa realtà; e un impeto violento di sdegno iracondo lo sollevava:
torbide imagini e truci proponimenti gli accendevano lo sguardo e gli
facevano stringere le pugna; disperate parole gli salivano alle labbra:

--Non c'è nulla!... Tutto è menzogna!... Non c'è altro che il male!...

Se l'amore era ripagato dall'odio, se la povera labile vita della
creatura d'amore cui si dovevano le più gelose e trepide cure era stata
selvaggiamente distrutta da chi pur sapeva la benignità del suo sorriso,
non c'era nulla, null'altro che il male...

Ma Roberto Vérod reprimeva queste parole. Dal giorno che la vista di
tutte le bellezze adunate nella fedele lo aveva abbagliato e convertito,
un giudice e un custode vegliavano dentro di lui, lo difendevano contro
i tristi pensieri, contro i propositi indegni, contro le imagini impure.
In tutti gli atti della vita, in tutte le disposizioni della mente egli
aveva voluto esser degno di lei, e quest'opera di preservazione gli era
stata agevole fino a quel giorno. Se il dubbio lo aveva morso talvolta,
quando lo spettacolo delle nequizie gli era apparso troppo crudamente,
solo a pensare che la creatura d'amore esisteva egli agguerrivasi nella
sua fede. Ora ella era morta! Era morta! Egli l'aveva dinanzi agli
occhi, distesa al suolo, immota, gelata, col mostruoso fiore sanguigno
sulla pallida tempia; e un'ansia mortale lo soffocava, perchè egli
voleva credere che la morte non l'avesse tutta distrutta, che la
miracolosa anima vivesse ancora, vegliasse su lui, gli ripetesse le
parole della fede e del perdono; ma non poteva; o se pure la voce soave
che ancora gli echeggiava attorno lo persuadeva, l'oltre umana vita di
quell'anima non bastava più a consolare la sua esistenza; i suoi occhi
mortali avevano bisogno di vedere, le sue orecchie di udire, egli aveva
bisogno di stringere la mano di lei, di toccare il lembo della sua
veste; e questo suo bisogno sarebbe rimasto inappagato, per sempre.
Perdonare agli assassini? Egli doveva vendicarla!

L'ultima luce del crepuscolo agonizzava, ma già l'alba lunare schiariva
l'oriente. La pace era divina. E nella divina pace, nel silenzio
augusto, Roberto Vérod si premeva la testa fra le mani per tentar di
sedare la tempesta che lo travolgeva. Al pensiero di non aver saputo
ispirare al giudice la propria certezza la sua ragione vacillava. Perchè
non era stato più efficace? Se un caso imprevedibile aveva voluto che il
giudice fosse un suo antico compagno, perchè non gli si era dato a
conoscere, come mai non aveva saputo persuaderlo della propria
sincerità? Non solo per discrezione egli non aveva rammentato al giudice
i loro antichi rapporti, ma per paura altresì; giacchè sapeva diverso
dal suo, e rigido, e severo l'animo di lui. Ed aveva costui visto più
lucidamente? Egli stesso si era ingannato? Aveva ella voluto morire?...
Tornava allora con la mente al passato, all'angoscioso stupore che lo
aveva occupato nel discoprire il male secreto dal quale quella povera
anima era piegata. Nell'atto che salvava altrui ella stessa era perduta.
Le sue parole d'un giorno gli tornavano alla memoria: un giorno, alla
notizia che un disperato s'era tolta la vita, alla condanna che i più
facevano pesare sopra il suicida, ella aveva espresso un sentimento del
quale i credenti non sono capaci: non era vero, ella diceva, che il
rinunziare all'esistenza portasse una dannazione implacabile, che la
fede condannasse in ogni caso la volontaria morte. Come d'ogni altra
azione umana doveva la coscienza liberamente valutare i motivi di questa
ed accettare le conseguenze del proprio deliberato; ma se l'inganno, la
paura, la viltà meritavano biasimo e pena, per altre ragioni non si
doveva disperare d'un più mite giudizio. Perchè queste idee fossero da
lei concepite ed espresse non bisognava che ella stessa si trovasse
ridotta a tale da pensare alla morte? E di che pietà il cuore di lui era
stato invaso nel vedere che l'argomentazione rispondeva al vero più
ch'ei non credesse!

Ella non aveva pensato alla morte per fuggire il dolore. Il dolore era
la stessa legge della vita, diceva. Non che fuggirlo, bisognava far
consistere il dovere e la gioia nel sopportarlo serenamente. Ella aveva
voluto sottrarsi al male. Lo aveva affrontato per distruggerlo; era
discesa fino ad esso per un'opera di redenzione. La forza dell'amore le
era parsa così grande da trionfare, immancabilmente. Passando sopra alle
leggi umane e, prova maggiore, alle divine, aveva sperato di farle
accettare all'uomo che le negava e le combatteva, tutte. Ella stessa era
caduta nell'errore per evitare che egli continuasse a consumarlo, perchè
egli credesse a qualche cosa di bene. Dal sogno superbo s'era destata
impotente, piagata, avvilita ella stessa. L'amor suo era stato
disprezzato, le sue preghiere schernite, la sua fede offesa; l'opera di
distruzione era continuata più alacre di prima; ella che aveva voluto
impedirla se n'era sentita complice. Allora aveva riconosciuto troppo
tardi che la via tenuta doveva fatalmente avere quell'uscita; il suo
inganno le era parso immeritevole di perdono: allora aveva pensato alla
morte. Nel punto che le conseguenze dell'inganno fatale le apparivano
più gravi, quando l'ultimo lume di speranza erasi spento, Roberto Vérod
l'aveva incontrata; e come egli aveva attinto in lei la salute, ella
stessa s'era sentita rivivere. Cieco, egli aveva visto per lei; piagata,
ella era stata sorretta da lui. Lungamente quella mutua salvazione era
rimasta ignota ad entrambi. Nessuno dei due, sentendosi rinascere per
opera dell'altro, aveva creduto possibile che un eguale miracolo si
fosse prodotto per sua propria virtù. Nei primi tempi egli s'era
appagato della vista di lei, era vissuto nella sua luce, nessuna gioia
imaginando maggiore. Quando ne aveva concepita e intraveduta un'altra,
allora era fuggito.

Girando intorno lo sguardo per la cerchia dei monti grigi nel lume di
luna, egli ricordava ora l'alba della fuga, l'alba livida e fredda, il
lago plumbeo flagellato dal vento, irto di onde opache. Egli fuggiva
senza esitare. La speranza, la certezza di rivederla lo sorreggevano.
Quando, dove? Non sapeva. Ma l'avrebbe rivista. E la portava
nell'anima. Non aveva pianto, con l'anima piena di lei. Sulla riva,
all'improvviso apparire del battello, grigio sulle acque grige, ansante
e tangheggiante, s'era sentito chiudere il cuore. Finchè erano rimaste
visibili, i suoi occhi non avevano lasciato le sponde di Ouchy, le
alture di Losanna. E nulla rammentava del viaggio, altro che alcune
rapide scene. Aveva vegliato tutta la notte prima di fuggire, scrivendo.
Sapeva che non avrebbe potuto mandarle altro che una parola di saluto:
ma aveva scritto tutta la notte. Sul battello un sonno penoso, un incubo
greve lo aveva abbattuto. Udiva tratto tratto il fragore delle onde
rotte contro i fianchi poderosi, l'arrestarsi dell'ansante respiro;
vedeva le rive fuggire e ignorava dove fosse, dove andasse. Era andato
in Italia, per vedere il bel paese, il chiaro sole, il cielo dolce che
l'avevano fatta qual era. Era stato a Milano per vedere la sua casa
natale: la casa alta e severa come una torre, in una via remota e
silenziosa, dinanzi a una chiesetta tutta fiorita. Aveva visitato la
piccola cittadella di provincia nel collegio della quale ella aveva
trascorsa l'adolescenza; poi, in Brianza, il paese delle rose dove ella
aveva passato tanta parte della giovinezza, dove erano sepolti i suoi
cari. Imaginazioni felici lo avevano occupato; pensando ai giovani anni
della diletta, alle ingenue speranze che le avevano sorriso, alla pura
gioia che aveva diffuso intorno a sè, all'alba radiosa di quella
benefica vita, egli aveva pianto lacrime grate. Ma il tempestoso pianto
lo aspettava altrove.

Dopo una lunga peregrinazione, al morire della bella stagione era
passato per Nizza come sempre usava prima di ridursi a Parigi. A Nizza
egli aveva perduta la sorella sua, la sola compagna della sua orfana
giovinezza; dinanzi al sepolcro della sorella egli veniva a meditare sui
formidabili enimmi della vita e della morte. Quell'anno s'appressava al
sepolcro più trepidante, pieno dei nuovi pensieri da confidare alla cara
memoria, cupido delle ispirazioni che ella gli serbava. Della sorella
morta aveva parlato a lei un giorno, accompagnandola a Chillon; le aveva
detto che geloso amore egli aveva perduto, quanta parte di sè era chiusa
in quella tomba. Ed ella stessa gli aveva chiesto di parlargliene
ancora, più volte; aveva voluto sapere la vita della sorella sua e
vederne i ritratti; con parole delle quali possedeva il secreto aveva
detto la dolcezza forte del fraterno amore.

Appressatosi al sepolcro per comporre in un solo pensiero le tutelari
imagini della morta e della lontana, i suoi occhi furono percossi da un
bagliore. Sul muro funerario, accanto agli scheletri delle ghirlande
votive che era venuto altre volte ad appendervi, una grande corona
candida abbagliava come un'aureola. Non era intessuta di fiori, ma di
bianche stoffe e di fili d'argento: una mano sapiente aveva piegato il
raso bianco, i merletti bianchi, i veli bianchi, in modo da raffigurare
petali nivei e foglie spumose. La sua confusione dinanzi a quel voto
durò un attimo; per un attimo, pensando che nessuno al mondo fuorchè
egli stesso aveva amato la morta, lo stupore, l'ignoranza dell'affetto
dal quale veniva quel voto lo lasciarono perplesso e ansioso. Comprese
come alla luce d'un lampo. Certo che nessuno fuorchè la creatura d'amore
era potuto venire ad appendere quella corona votiva, le lacrime
cominciarono a sgorgargli dagli occhi, inesauribili. Beatrice secreta,
consolatrice pietosa, egli la riconosceva al pensiero d'amore che
l'aveva nascostamente guidata dinanzi a quella lapide, al pensiero
d'amore che le aveva fatto intrecciare quella ghirlanda. Le ossa della
sorella morta avevano dovuto tremare, quando la pietosa mano aveva
appeso la bianca ghirlanda! Tremando egli piangeva di gioia secreta, di
gratitudine effusa, di timida speranza. Egli dunque viveva nella
memoria, nel cuore di lei! Quando ancora chiedeva a sè stesso quali
ricordi aveva lasciati alla lontana, quando dubitava d'esser rammentato
da lei, ella aveva sposato la sua religione del sepolcro! Fissando lo
sguardo velato alla corona luminosa pareva a lui che per un nuovo
prodigio la sorella morta esprimesse i sentimenti dai quali egli era
invaso; come oltre lo spazio ed il tempo il pensiero della lontana
arrivava fino a lui, così oltre la vita l'anima della sorella parlava,
ripeteva il consiglio che egli aveva udito altra volta: «Ama e vivi,
credi e vivi, spera e vivi.» Presentendo di adunare in uno stesso quadro
le imagini belle, egli le vedeva tenersi per mano, venirgli incontro
raggianti. La lontana aveva tratto dal sepolcro la morta; i due fantasmi
vivevano d'una stessa vita sovrumana, intangibile. Ma sopra la
meraviglia beata e l'estasi trepida e la grata fede, un sentimento di
secreta ambascia gli stringeva il cuore pensando che nessuna parola mai
avrebbe potuto significare alla creatura vivente l'impeto di devozione,
il bisogno di genuflessione che lo piegavano. Prendere genuflesso la
mano di lei, baciare la mano che aveva intessuta la corona virginea, ciò
solo egli poteva. Ma gli sarebbe bastato? Tutte le cose dolci che
s'agitavano in lui non lo avrebbero soffocato? E al pensiero d'amor puro
dal quale era stata guidata dinanzi a quella tomba avrebbe egli risposto
confessando un amore esigente, un lesivo amore? Non voleva egli ora
averla per sè, tutta, ora che la sapeva sua nella fraternità d'oltre
tomba? La fuga era stata dunque inutile? Che avrebbe dovuto dunque egli
fare?...

Sorse in piedi al ricordo di quell'ansietà, tornò indietro verso il
lago, stendendo il braccio come in cerca d'un sostegno, come ebro. La
dolcezza delle memorie lo inebriava, lo sottraeva allo strazio presente.
Ma come l'insanguinata imagine riappariva, egli sentiva il suo cuore
schiantarsi. L'iniquo destino distruggeva così le sole creature degne
di vivere: una dopo l'altra egli perdeva così le sorelle.

--Sorella!... Sorella!...

Tale era stata per lui. L'amor di sorella, il nome di sorella, erano le
sole cose soavi al suo cuore. Tutti gli altri suoi amori erano stati
perfidi e velenosi, non avevano lasciato neppure un solo ricordo buono;
sdegno e nient'altro avanzava, di tanti amori: sdegno contro le perfide,
sdegno contro sè stesso. Un tempo egli si era gloriato di queste sue
passioni, se n'era insuperbito come di altrettante fortune. Ma,
concepite nel male, esse portavano dentro il germe della distruzione; se
null'altro n'era avanzato fuorchè putredine, se egli n'era rimasto
ammorbato, ciò era il suo meritato castigo. Non volendo più commettere
l'errore, sentendo risorgere il bisogno lungamente inappagato e represso
d'un'intima comunione, non potendo più vivere solo, egli ritrovava in
lei la sorella. Andarle incontro, dirle con viva voce la gioia che ella
gli dava, era stato il suo primo impulso; ma non l'aveva obbedito.
L'esagitazione dell'anima era ancora tanto violenta, e alla solitudine
sua veniva tanta consolazione dall'assiduo pensiero di lei, che egli
volle e potè aspettare. Geloso di sè stesso, quasi pauroso di menomare
il proprio sentimento indagandolo, era vissuto in una beatitudine
secreta della quale obliava quasi l'origine. Come al destarsi di lieti
sogni, come quando latenti e ignote energie eccitano e moltiplicano i
sensi della vita, egli trovava in tutte le cose una nuova virtù. Un
giorno finalmente le scrisse. Alla sensitiva creatura, al proprio
sentimento secreto, la troppo vivace espressione vocale non conveniva. E
scrivendole egli contenne l'impeto delle passioni: tacque la speranza,
moderò la gioia, disse soltanto pienamente la gratitudine. Ella rispose.
Gli parlò della sorella morta. Quali altri ricordi avrebbero potuto mai
cancellare dalla memoria di lui le parole fraterne? «Io certamente
conobbi ed amai vostra sorella. Quando mi parlaste di lei, quando mi
diceste le preziose e care doti della sua persona e del suo cuore,
sentii che ella fu il desiderio della mia gioventù, la sorella che mai
non potei consolarmi di non trovare al mio fianco nelle ore della gioia
e della tristezza. Quando mi narraste lo strazio della sua morte mi
parve come se tanta bellezza e tanta bontà fossero state da me stessa
perdute. Io mi proposi di pregare sulla sua tomba, quando seppi che è
sepolta nella città dove passo parte della mia vita. Ho compito con
gioia l'impegno preso tra me e sono felice che il mio pensiero vi sia
tanto grato...» Ora anch'ella era morta!

Il giorno era morto, la gioia era morta. La luna spandeva sul paesaggio
un mortuario lume cinereo; i muri inalbati davano imagine di lapidi
sepolcrali; il silenzio e l'immobilità della morte tenevano le acque,
la terra, il cielo, tutte le cose. Ora egli aveva un altro sepolcro
dinanzi al quale inginocchiarsi e appendere voti! Ma ella non era per
anco sepolta. La salma sanguinosa era rimasta tutto il pomeriggio sulla
tavola incisoria, in mano degli anatomisti. A quell'ora giaceva in
chiesa. Egli si guardò ancora attorno per riconoscere il luogo, per
avviarsi alla chiesa. Era sul Cammino di Lucinge: riprese ad andare per
il Cammino di Jurigoz con passo più fermo.

Nella casa della preghiera dove erano convenuti le prime volte avevano
ora l'estremo convegno! Lontano da lei il suo sguardo e il suo pensiero
s'erano rivolti al cielo, per incontrarla. Dopo la prima lettera egli
aveva tentato di scriverle ancora, ma le parole erano state inadatte.
Allora era vissuto nell'ansia. La cercava dovunque. Credeva di vederla
dinanzi a tutte le cose belle. Talvolta il cuore gli sobbalzava, se tra
le figure incontrate per via qualcuna lontanamente le somigliava. Ma
dopo queste imaginazioni il dolore si aggravava su lui. Il terrore delle
notti erano i sogni durante i quali sentiva d'averla perduta, di non
poterla rivedere più mai. Uno tornava assiduamente: egli le stava
dinanzi, col cuore pieno di tumulto, con le mani tremanti, e non poteva
dirle una sola parola: ed ella, dopo avere invano aspettato le sue
parole, s'allontanava, svaniva, lasciandolo inanimato, impetrito. Questo
sentimento di angosciosa incapacità lo teneva anche nella veglia,
gl'impediva di correre incontro a lei. Quando andò a Nizza e non ve la
trovò quasi ne restò confortato. Nel rivederla a Ouchy, sul principio
dell'estate, tremò. Col tempo, per la lontananza, egli aveva creduto e
quasi sperato d'essersi sottratto alla sua grazia: ella doveva rinnovare
il prodigio. Ma l'angoscia e la paura e tutti i sentimenti indegni
cederono improvvisamente quando le fu vicino. Poteva egli tacerle che
viveva del suo favore?... Prima ancora che parlasse ella lo aveva
compreso. Ella non s'era offesa della confessione dell'amor suo, non ne
aveva dubitato. I falsi pudori, le ipocrisie del sentimento le erano
ignoti. «Come io vi credo, mi crederete?» gli aveva domandato. Erano
sulla montagna, nel bosco della Comte; oltre la pendula volta frondosa
il lago, i monti, i paesi si disegnavano limpidi e tersi nella luce
abbagliante. Bagliori di verità erano nelle sue parole: «La verità è
come la luce: non si nasconde, La vostra memoria mi accompagnò dovunque;
la speranza di rivedervi mi sorrise. Io sapevo che quest'ora sarebbe
venuta. Ma vi sono più verità nella vita. Come ciò è realmente vero, è
pur vero d'una verità morale che l'amor vostro e il mio non sono
durabili. L'amore dev'essere appagato. Muore nella piena felicità, ma
dopo aver vissuto. Contendergli la vita per paura della morte è lo
stesso che uccidersi perchè si deve morire. Ma la vita dell'amore
dipende da una condizione: dall'osservanza delle leggi. Pensate alla
vostra sorella morta. Che cosa le avrebbe desiderato il vostro cuore, se
fosse vissuta? Che avesse amato un uomo che l'avesse amata. Voi non
avreste ricercato molto a dentro la precedente vita di quest'uomo; non
vi sareste molto inquietato delle sue prime e meno degne passioni. Ciò è
nella legge naturale che vuole gli uomini più cupidi e impazienti. Ma
quest'uomo avrebbe sdegnato il proprio passato e avrebbe tremato di
gioia superba nello stringere al cuore la vergine. Essi si sarebbero
uniti per sempre. Non si sarebbero contentati d'un tacito impegno, ma
avrebbero chiesto la sanzione sociale e la divina; perchè la legge
morale vuole che l'amore sia il fondamento della famiglia: allora esso
non muore, o si trasforma. Noi ci siamo conosciuti troppo tardi. Io non
nego che si possa amare più d'una volta, da parte vostra segnatamente.
Per noi donne l'esperienza è più rischiosa. E in generale quanto più si
prova tanto meno si crede. Troppo a lungo io sono vissuta fuori della
legge, perchè possa ancora sperare di rientrarvi. Voi non vorrete
crederlo, ora, e siete sincero; ma sarete egualmente sincero più tardi,
credendolo. Non mi faccio peggiore di quel che sono; ma se non gli
altri, io stessa ho, indistruttibile, il sentimento della mia decadenza.
Questo sentimento contenderebbe la vita alla fede. Dinanzi al sepolcro
di vostra sorella, quando voi eravate lontano, quando non sapevo bene
che cosa sarebbe accaduto fra noi, io pensai d'esservi unita da un
sentimento fraterno. Ora sento che anche questo ci è conteso. Voi
dovreste arrossire di me. Se la pietà fosse più forte, non riuscireste a
vincere la tentazione di mutare la natura del nostro legame; o
vincendola ne soffrireste troppo. Queste cose sono tutte fuori legge,
tutte destinate naturalmente a perire ed a ferire...» Egli aveva tentato
di opporsi alle luminose dimostrazioni, non sapendo ancor bene di
trovarsi dinanzi a una coscienza tanto sicura. Allora ella aveva steso
la mano verso i monti lontani: «Vedete quelle pendici? Alcune parti sono
illuminate, altre restano avvolte nell'ombra. Ma come il sole compie il
suo corso, così queste si illuminano e le altre si velano. La verità è
in tutto come la luce: non va senza l'ombra. Se a quest'ora voi credete
che ombre misteriose e propizie ci consentano di sperare, aspettate che
il tempo s'avanzi e la luce cruda vi mostrerà l'inganno...» Egli non
l'aveva lasciata finire: «E io vi dirò altre verità che voi non sapete o
non volete sapere! Voi che vi giudicate così, voi che avete uno sguardo
tanto chiaroveggente, non sapete che per la vostra dirittura, per la
vostra sincerità, per la vostra umiltà, siete una creatura d'elezione,
degna di riverenza? Non sapete che la vita contamina tutte le cose? Vi è
tra noi chi sia esente da errori? E credete che la distinzione fra i
lievi ed i maggiori importi poi molto? Ciò che importa è nutrire
l'ideale del bene. Chi si smarrì una volta e se ne dolse non è
altrettanto degno di premio di chi seguì sempre la via diritta? Un tempo
io credei che questa fosse l'ingiustizia della fede cristiana; voi
stessa mi faceste ricredere. Se pure erraste, le intenzioni che vi
guidarono vi fanno più meritevole di perdono di ogni altro. Voi che ve
ne sentite indegna, lo sperate, lo aspettate...»

Ella disse: «Non qui.» Allora egli pianse. Non ella!

E il tempo era passato senza disperdere l'ombre proprie. Egli non le
aveva detto che l'amor suo aveva fatto di lui un uomo nuovo, capace di
nuove cose: quest'orgoglio le sarebbe dispiaciuto, questa presunzione
l'avrebbe ferita. Senza dirle più nulla s'era lasciato vivere nel puro
incantamento. La certezza d'essere amato da lei lo colmava di una così
limpida gioia, che non restava nell'essere suo nessun'altra energia per
nessun altro oggetto. La speranza fioriva nell'ombra, nascostamente. Le
parole non l'esprimevano perchè non aveva bisogno di essere espressa:
doveva anzi restare gelosamente celata. La sua vitalità era così tenue
che non avrebbe resistito ad un tocco. Lasciata a sè stessa si
sostentava naturalmente, a poco a poco; traeva alimento da tutte le
cose, era il loro alimento...

Robert Vérod s'arrestò a un tratto, rabbrividendo.

Era dinanzi a San Luigi. Le finestre si disegnavano sui muri della
chiesa illuminate dalle luci interiori; le lampade vegliavano. Egli
cadde contro il cancello.

Il giorno innanzi aveva udita la sua voce! Il giorno innanzi le aveva
aperto il proprio cuore! Il giorno innanzi ella aveva lasciato che le
baciasse la mano!

Ora era morta, assassinata; e il giudice non credeva al delitto, ed egli
viveva!




IV.

STORIA D'UN'ANIMA.


L'incertezza del giudice Ferpierre dinanzi al dramma di Ouchy era venuta
crescendo. I risultati dell'autopsia non facevano alcuna luce: l'esame
della ferita, molto netta, annerita dal fumo dell'arma, dimostrava che
il colpo doveva essere stato esploso da una distanza di circa mezzo
metro: se ciò confermava l'ipotesi del suicidio, non infirmava quella
dell'assassinio, perchè l'omicida aveva potuto trarre il colpo da
presso. Neppure le lesioni interne, il cammino del proiettile che
seguiva una linea inclinata dal basso all'alto, permettevano di dare un
giudizio preciso. Sulla persona della morta nessuna traccia di violenza:
nè alle mani, nè ai polsi, nè al collo.

Mancando pertanto qualunque prova reale a sostegno d'una delle due
sopposizioni, il Ferpierre sperava di trovarne qualcuna morale nel libro
di memorie sequestrato con altre carte in casa della defunta. La stessa
notte dell'autopsia, con la febbre della curiosità suscitata in lui dal
mistero, le lesse.

Le prime pagine delle memorie non portavano date, ma si riferivano
evidentemente all'adolescenza della contessa. Cominciavano con le
impressioni della fanciulla all'uscire dal collegio, con le
manifestazioni della gioia che l'aveva occupata nel rivedere la sua
casa, nel ritrovarsi col padre. Pure ella non rammaricavasi del tempo
passato lontano; le pagine dove diceva le dolcezze della sua nuova vita
erano ancora piene dei ricordi dell'antica.

«A quest'ora le mie compagne sono in giardino; suor Anna passeggia nel
viale della fontana, leggendo nel libro che non finisce mai, poveretta,
per vegliare sulle sue figliuole; le _Inseparabili_ si perdono, a
braccetto, sotto i tigli; Rosa Bianca se ne sta soletta con i suoi
pensieri; le _Matte_ corrono, gridano, giocano; chi si ricorda di me
come io mi ricordo di loro?»

Il sentimento predominante era l'adorazione per il padre.

«Ora ho saputo che il babbo m'ha tenuta in collegio credendo di non
poter bastare, come uomo, alla mia educazione, ai miei piaceri. E invece
noi c'intendiamo sempre, in ogni cosa. Egli dice che sono io troppo
seria quando m'accordo con lui nei pensieri gravi; io dico invece che
egli stesso è troppo buono quando partecipa ai miei pensieri futili o
folli. La verità è più semplice, e domani glie la vo' dire: come mai non
l'ho pensata prima? Sono sua figlia: che c'è da stupirsi se gli
somiglio?

«Mi piace tanto prendere il suo braccio, quando andiamo attorno! Ma
forse è più bello quando egli prende il mio. Allora sono quasi
orgogliosa che il babbo mio, un uomo così forte e grande, s'appoggi a
me; mi pare che io sia buona a qualche cosa per lui; ma poi ho una gran
paura di non esser veramente buona a nulla...

«Bisogna che io dica al babbo una cosa della quale mi vengo accorgendo.
Egli teme che io mi annoi, sola sola, in questa gran casa: si vede che
il suo studio è di farmi svagare, di procurarmi piaceri e divertimenti.
Oggi ha sgridato Giovanni, che tardò tanto a passare dal teatro da non
trovare più nessun palchetto disponibile: è in collera perchè non mi
potrà condurre a questa rappresentazione, non già perchè voglia andarci
lui. Giulia m'ha detto che egli non andava mai al teatro, quand'era
solo. Povero babbo, quanto mi duole che si sacrifichi per me! Prima
andava al circolo, tutte le sere; ora mai più. Ho dovuto pregarlo tanto
perchè non trascuri troppo i suoi amici!...

«Ho detto male; egli non fa sacrifizii per me, come io non ne faccio per
lui. Far piacere alle persone che vogliamo bene è il maggior piacere. Ma
io vorrei persuaderlo che ha torto di temere che m'annoi. Io non mi sono
annoiata mai. Paola Lerani ripeteva sempre un intercalare: «Figlia mia,
la noia è grande!» Dava a tutte della _figlia_, anche alle maggiori di
lei, e s'annoiava sempre, di tutto. I suoi parenti tardavano a portarla
via dal collegio, ma ella non se ne doleva: «Figlia mia, la noia è
grande!» Si annoiava a giocare, a studiare, a passeggiare, a lavorare,
ad andar fuori, a restar dentro: non si sapeva che cosa fare per
guarirla della sua noia. Doveva soffrire d'una malattia, poveretta.
Forse che il babbo crede ammalata anche me?...»

Tratto tratto ella parlava dei suoi mali fisici, delle inquietudini del
padre per la salute di lei: giudicava che egli fosse più abile d'una
suora nel curare gli infermi.

«Quasi io desidero di star poco bene per vederlo seduto al mio
capezzale, per udirgli narrare le storie con le quali mi distrae, per
vederlo andare attorno, preparare le medicine, apparecchiare un tavolino
proprio accanto al mio letto, togliere di mano a Giulia ogni cosa e far
egli stesso ogni cosa, meglio di suor Anna!...

«Oh, no! povero babbo mio, non voglio più restare a letto; voglio
sentirmi sempre bene e avere una bella ciera e fare il chiasso perchè tu
ti rassicuri, perchè non t'affligga tanto a causa mia.

L'altro giorno, mentre i dottori mi esaminavano, lo vidi dallo
specchio: non s'accorgeva d'essere guardato, e teneva le mani strette
l'una nell'altra, e tendeva il capo verso di noi, respirando a fatica,
come se l'ammalato che aspettasse il giudizio dei medici fosse egli
stesso!...

«Mi pare certe volte, quando ho il mal di capo, o sono infreddata, o non
posso neanche assaggiare certe cose, che il mio babbo abbia i miei
malanni o le mie nausee: se tossisco mi pare che anche a lui dolga il
petto, se sento freddo che anch'egli ne senta. È bello volersi bene
così!»

Ella era così alta e il padre ancora tanto giovane, che talvolta li
prendevano per fratello e sorella; questo errore della gente le faceva
un immenso piacere; ed ella anche pensava che non fosse errore tanto
grande quanto pareva:

«Un fratello potrebbe fare di più per me? Il fratello di Virginia non dà
altro che dispiaceri a lei ed a tutta la famiglia; anche quando sono
buoni gli uomini non capiscono tante cose, le cose che non ci piacciono;
mentre invece il mio babbo!...»

Ed anche di questo fatto ella trovava la spiegazione:

«Egli amò tanto la povera mamma, che prese tutti i suoi gusti, tutte le
sue abitudini, i suoi modi di pensare e di sentire. E tutto il bene che
ella mi voleva, quando ero in fasce, lo ha preso lui e me lo ha serbato
e ora me lo dà. Fu una gran disgrazia la morte della mamma mia,
parliamo sempre di lei, l'abbiamo sempre presente; e se potessi vederla
un giorno! Ma quando egli si duole perchè da solo non può bastarmi, non
ha ragione: io ringrazio il Signore d'avermi dato un padre come il mio,
che mi vuol tanto bene, che non mi lascia desiderare mai nulla.»

Ella stessa temeva di non bastargli, e non tanto per sè quanto per lui
pensava che, se avesse avuto una sorella, in due sarebbero meglio
riuscite a farlo felice. Le famiglie molto numerose e concordi le
facevano invidia:

«Quando si è in tanti ciascuno dice la sua, ciascuno ne pensa qualcuna,
gli umori diversi reagiscono l'uno sull'altro e si modificano; mentre
una persona sola può essere tutt'in una volta, seria e allegra, può
pensare a tutto, prevedere e far tutto? Quando sto poco bene il
desiderio di una sorella che tenga allegro il babbo, che gli allevii le
cure ed i pensieri diviene più forte.... Ho detto al babbo questa mia
idea; egli si contenta di me sola, non vorrebbe dividere in due il bene
che mi vuole. No, babbo mio; il bene non si dividerebbe in tal caso: si
sommerebbe...»

E quantunque l'amore del padre la occupasse tutta, ella sentiva che nel
suo cuore c'era posto per un affetto diverso. Confessava la prima volta
questo sentimento nel provare un secreto senso di vergogna all'idea che
il padre potesse leggere in quel suo giornale:

«Il babbo non sa che la sera, prima di andare a letto, io mi metto di
tanto in tanto a scrivere in questo libro. Ieri è venuta giù una gran
pioggia alle undici, quando egli credeva che fossi addormentata: sapendo
che ero ancora desta mi ha domandato se mi sentivo male. L'ho tosto
rassicurato; ma non ho soggiunto che mi sentivo tanto bene da restar
levata per poter scrivere in questo libro. È male che io mi nasconda dal
babbo. Certe volte mi propongo di confidarmi a lui, di dargli da leggere
ciò che scrivo. Non sono le stesse cose che gli dico a voce, ogni
giorno? Ma non so: ho vergogna e quasi paura. Talvolta mi pare anche di
far male a scrivere qui. Camilla Sergondi mi fece venire la prima volta
quest'idea, di scrivere la nostra vita, al collegio; ma non cominciammo
mai. Però, tutte le sere, ringraziando il Signore della giornata
trascorsa felicemente, io ripensavo alle cose accadute, a ciò che avevo
fatto, che avevo detto, che avevo pensato; quanto a scrivere, non sapevo
da che parte rifarmi, perchè tutti i giorni erano gli stessi; allora
aspettai d'essere a casa: e così ho cominciato. Ora me ne pento perchè
non so confidarmene al babbo. E poi, qualche volta, come ora, mi pare
inutile scrivere queste cose: le cose che penso sempre non hanno bisogno
d'essere scritte; certe altre non le so scrivere, non le posso....
Perchè vi sono certe cose che non si possono scrivere, e neppur dire? Ma
se avessi una sorella! A lei direi tutto, lo sento!...»

Un giorno finalmente, non potendo a lungo mantenere il secreto col
padre, gli aveva confidato che teneva quel diario. Per fortificar la
memoria ella vi soleva ricopiare le poesie che più le piacevano: c'erano
versi del Prati, dell'Aleardi, del Manzoni, di Shelley, di Byron; un
giorno, recitando al padre una poesia di Victor Hugo trascritta da un
giornale e non rammentandola bene, era andata a prendere quel suo libro:

«Ho detto al babbo che qui ricopio le belle poesie e scrivo le mie
impressioni. Quantunque risoluta a dirgli tutto, pure speravo che egli
non avrebbe voluto leggervi. Quando mi domandò: «Mi lasci vedere?» gli
diedi il libro, ma credo d'essermi fatta molto rossa in viso. Il babbo
ha letto qualche rigo, in due o tre pagine soltanto, poi l'ha chiuso,
abbracciandomi strettamente, baciandomi in fronte, anch'egli con gli
occhi rossi. Allora, venutomi un gran coraggio e quasi un pentimento
della mia paura, l'ho pregato di leggere tutto; ma egli non ha voluto.
Ho dovuto leggere io stessa. E così la vergogna se n'è andata e ora mi
sento come liberata, da un gran peso, e contenta, contenta...»

Ella nominava la prima volta il conte Luigi d'Arda nel parlare di poesia
e d'arte; quel nome tornava poi spesso, quasi sempre a proposito di
libri e di cose letterarie. Intimo amico del padre, suo compagno di
gioventù, il conte era dei pochissimi che frequentavano casa Albizzoni;
la giovinetta dava di lui giudizii molto favorevoli.

«Come si vogliono bene il babbo ed il conte! Somiglia al babbo, l'amico
suo; è buono come lui, ha quasi la stessa sua aria...

«Oggi il conte mi ha mandato i romanzi del Walter Scott.... Oggi ho
avuto dal nostro buon amico i drammi di Metastasio....

«Egli si esercita ancora alla scherma; il babbo invece ha smesso da
molto tempo. Ne hanno parlato a proposito dei duelli che il Tasso
descrive nella _Gerusalemme liberata_; per chiasso il conte ha sfidato
il babbo, ma questi ha risposto, scrollando il capo: «Non sono più cose
dell'età nostra!...» La sua risposta m'ha fatto tanto dispiacere! Forse
che si crede vecchio? Ha quarantanove anni appena! Anche all'amico suo
la risposta deve aver fatto male, perchè non ha più detto niente, ed
anche è andato via più presto del solito....

«Oggi il nostro amico ha mandato tanti libri inglesi che non so più dove
metterli. M'accorgo che siamo quasi sempre dello stesso sentimento
intorno ai libri che leggiamo. Egli ha tanto letto e studiato che non
ardisco dire la mia opinione quando me la richiede; allora dice egli la
sua, ed a me non resta da far altro che assentire....

«Ora comincio a farmi coraggio, sentenzio anch'io di tanto in tanto, ed
egli loda il mio gusto...

«Ancora libri! Il babbo ha detto per chiasso che il conte è il mio
fornitore.

«Oramai è cosa intesa: egli è il mio fornitore; mi ha chiesto anzi il
permesso di alzare lo stemma di casa Albizzoni sulla sua libreria; io
glie l'ho accordato: come s'è riso!

«Mi piace tanto di veder ridere il babbo e l'amico suo! Nelle persone
che ordinariamente sono serie il riso ha un altro sapore, non rallegra
tanto quanto intenerisce.

«Oggi il conte ha disegnato il nostro stemma che dovrebbe mettere sulla
sua libreria: disegna benissimo e con una sveltezza straordinaria. Mi ha
spiegato che lo scudo per le damigelle è di forma diversa da quella
delle dame e dei cavalieri; ha parlato tutta la sera d'araldica e di
cavalleria, ho imparato una quantità di cose che ignoravo.

«Il babbo che ha sempre tanta fretta di passare dalla mia sarta non si
occupa dei proprii abiti: ho dovuto pregare il suo amico di persuaderlo
a pensare un poco anche a sè.

«Scherzano tra loro, a proposito delle cose della moda; il babbo ha
osservato, ed anch'io, veramente, che l'amico suo è d'un'eleganza
squisita, da un certo tempo; e mi spiega sempre, a proposito del taglio
delle giacchette e delle fogge delle cravatte: «Questa è l'_ultima
parola_ di Gironi.... Questa è l'_ultima parola_ di Vassier...» Gironi è
il sarto, Vassier il cravattaio...

«Oggi ancora libri; ma questa volta sono accompagnati da un cartoncino
come quelli che adoperano i negozianti per diffondere il loro indirizzo:
c'è su il nostro stemma, miniato perfettamente, e poi una scritta che
dice così: _Libreria internazionale di Luigi d'Arda, Fornitore di Sua
Grazia la Marchesina Fiorenza Albizzoni-Vivaldi...._ Come ha riso il
babbo! «Aspettiamo la fattura!...» gli ha detto, continuando lo scherzo;
e il conte, serio serio: «La nostra casa regola i conti a fin d'anno.»

«Ora anche il babbo mi dà della _Vostra Grazia_, e quando parlano di me
tra loro dicono sempre: «Sua Grazia la marchesina.» La mia Grazia è
commossa da tanta grazia!...

«Il conte d'Arda, l'ho saputo oggi, è più giovane del babbo: ha
quarantaquattro anni. Non so bene se questa cosa mi fa piacere o
dispiacere...»

Una pagina bianca interrompeva a questo punto il diario. Il manoscritto
ricominciava poi, con altro inchiostro e anche con carattere un poco
modificato:

«Oggi partiamo. Non scrivo più da oltre sei mesi. Quante cose in questo
tempo! Non importa che non abbia scritto nulla su queste pagine: sta
tutto scritto qui, nella memoria, nel cuore. Luigi ha pianto, il babbo
cercava di farsi forza, ma non riusciva a contenere la sua commozione.
Quando li ho visti abbracciarsi, con gli occhi ridenti e lacrimosi,
allora ho pianto anch'io. Sua Grazia la Marchesina Fiorenza
Albizzoni-Vivaldi non c'è più...»

E il giudice Ferpierre, sostando perchè il manoscritto era di nuovo
interrotto, ricostruiva con l'imaginazione le cose taciute dalla
narratrice.

Il conte d'Arda, che aveva visto nascere la figliuola dell'amico suo e
che l'amava da bambina come un altro padre, s'era dovuto sentir vincere,
dinanzi alla giovanetta, da un sentimento diverso, più dolce e
tormentoso. Certo aveva tentato di resistergli, pensando alla grande
disproporzione dell'età, soffrendo d'una pena secreta e quasi vergognosa
tutte le volte che l'amico ancora ignaro alludeva alla loro giovinezza
tramontata; ma l'amore era stato più forte ed aveva suggerito i suoi
persuasivi ragionamenti. A quarantaquattro anni poteva egli dirsi
vecchio? Se la sua persona e il suo carattere non dispiacevano alla
giovinetta, che cosa importava la differenza degli anni? L'esperienza
acquistata con gli anni non faceva di lui un partito più conveniente di
tanti altri?... Ma sopra ogni cosa l'amicizia che lo legava al padre non
dava garanzia che egli avrebbe consacrato tutta la vita a rendere felice
la figlia dei fratello suo? Per l'assidua e intima frequentazione di
quella famiglia non era già come se egli fosse entrato a farne parte?...

E questo argomento doveva aver persuasa la giovinetta. Senza dubbio il
marchese, stupito nel comprendere la speranza dell'amico, aveva esitato
prima di secondarne la domanda, e in ogni caso aveva lasciato libera la
figlia di accoglierla o di rifiutarla; ma con altrettanta certezza si
poteva pensare che l'idea di affidare la fanciulla a un cuore provato
come quello dell'amico doveva avergli sorriso. La giovinetta, leggendo
nell'anima del padre come nella sua propria, comprendendone la secreta
inclinazione, sicura dell'affetto del conte, doveva aver sofferto per
quelle care persone ed anche un poco per sè stessa all'idea che la loro
intimità potesse un giorno finire, e accettato quindi l'idea di renderla
imperitura; non conoscendo altri uomini, non facendo ancora differenza
tra amore e amore, aveva acconsentito.

Il Ferpierre vedeva confermate le sue deduzioni nei fogli successivi:
quantunque le date mancassero ancora, questi dovevano essere scritti
dopo il viaggio di nozze:

«Nulla è dunque mutato: rieccoci insieme come un tempo. Allora Luigi
veniva da noi; ora è il babbo quello che viene a trovarci. Non ha egli
stesso voluto che si facesse una casa sola: a me sarebbe piaciuto tanto,
e a Luigi pure. Tutto ciò che mi piace piace a Luigi; il nostro accordo
sulle cose dell'arte e del pensiero continua intorno alla vita.

«Il babbo mi domanda se sono contenta: io ringrazio il Signore della
felicità che mi accorda. Che ci accorda. Egli quasi non crede
all'accaduto. L'idea che, maritandomi, io potessi capitar male, era il
suo tormento. Luigi mi domanda se l'amo; io non so come provarglielo.

«Mi pare che tutti e due dubitino, l'uno della mia felicità, l'altro
dell'amor mio. Non insistono nel volerne l'assicurazione, ma leggo nei
loro sguardi una secreta ansietà, quasi ch'io nascondessi loro
qualcosa. Tutto ciò perchè mio marito ha quarantaquattro anni! Se ne
avesse trentaquattro non dubiterebbero!...

«Che piacere! che piacere! Ho potuto finalmente persuadere Luigi della
verità. Gli avevo detto, in viaggio, che ho scritto in questo libro
certi miei ricordi dal giorno che uscii di collegio, e gli avevo
promesso di darglieli da leggere. Egli voleva sapere se parlavo di lui,
che cosa ne dicevo, che giudizio ne davo. Venuti a casa, non me ne
chiese più; l'altro giorno che glie ne riparlai io stessa, mi rispose
che non voleva leggere nel mio giornale. La sua ragione non mi parve
buona: disse che le cose da me confidate alla carta non andavano
svelate: invece era sempre la paura di scoprire che non mi fosse parso
abbastanza giovane, che mi fosse piaciuto poco. Allora l'ho pregato di
starmi a sentire, ed ho letto io stessa. Quando sono arrivata alle
ultime righe, mi ha chiesto, con gli occhi rossi, di spiegargliele. Le
ultime righe, prima del nostro matrimonio, dicono così:

_«Il conte è più giovane del babbo: ha quarantaquattro anni. Non so bene
se questa cosa mi fa piacere o dispiacere.»_

«Ed io glie le ho spiegate come meglio ho potuto. Saperlo più giovane
del babbo mi fece un senso di pena per il babbo mio, giacchè io vorrei
che per lui il tempo non solo non passasse, ma tornasse indietro; ma
poi, pensando che il babbo aveva me, mentre l'amico suo era solo, mi
piacque e mi parve anche giusto che questi fosse più giovane, perchè
doveva anch'egli prender moglie e crearsi una famiglia. Come mi ha
abbracciata, Luigi! Che occhi ridenti! Che parole d'amore! Non l'ho
visto mai tanto felice, neppure il giorno che gli dissi di sì! Ora non
può più dubitare che i suoi quarantaquattro anni mi sembrino troppi; è
anzi persuaso che l'idea di sposarlo non mi dovè sembrare poi tanto
stravagante come egli ed il babbo temevano. Mi parve anzi naturale.
Pensai un momento, è vero, che Luigi aveva il doppio dell'età mia; ma
l'età degli uomini non si conta come quella delle donne. E poi, chi
darebbe quarantaquattro anni a mio marito? Non importa l'età, importano
le qualità dell'animo; e della bontà di Luigi io avevo questa gran
prova: che è amico del babbo. Tutto ciò che gli avevo udito dire in due
anni d'intimità mi dimostrava che il suo modo di pensare e di sentire è
delicato, gentile, squisito, che il suo ingegno è alto ed eletto, che la
sua cultura è varia e profonda.

«E ora capisco che la quistione è un'altra: Luigi non aveva tanta paura
che non mi paresse giovane abbastanza, quanto che non mi piacesse come
persona, come viso.

«Ebbene, se certe volte io ho giudicato stupida l'abitudine di prendere
queste note, e se certe altre invece l'ho approvata, oggi mi pare che
sia stata proprio una fortuna averle scritte, poichè ho potuto
convincere Luigi con quella famosa esitazione. E così avessi scritto
bene tutta la mia precisa impressione di quella volta che, sfidando il
babbo per chiasso, prese un fioretto dal trofeo d'armi e si mise in
guardia! Stava così bene con l'arma lucente in mano, con gli sguardi
lampeggianti come la spada, era così forte ed agile che mi parve
veramente una figura balzata fuori da quei romanzi di Walter Scott che
mi piacciono tanto. Non pensavo ancora di poterlo sposare, ma pensai
benissimo che potevo essere la dama per la quale egli scendeva in campo.
E se sapesse che piacere diverso, non ancora provato, quando mi mandò
quel cartellino dove si diceva, per chiasso, _Fornitore di Sua Grazia la
marchesina Fiorenza!_ Su quel cartellino si trovavano insieme i nostri
nomi, come sopra una partecipazione nuziale: era scritto! Neppure allora
io pensai con precisione che un giorno avremmo potuto essere uniti come
ora: ma notai sì, che i nostri nomi erano messi accanto, pensai che egli
stesso li aveva accoppiati, che m'aveva chiamata _Sua Grazia_, e sentii
che il cuore mi batteva forte forte...

«Ah, se avessi scritto queste cose Luigi ora non dubiterebbe. Ero sul
punto di dirgliele, ma poi le tacqui; un poco perchè egli si trovava in
una delle sue ore di dubbio, un poco perchè pensai di far meglio
scrivendole su questo libro dove egli le leggerà un giorno. Giacchè non
crede, non merita ch'io le dica a lui; le confido a queste pagine che
erano già destinate ad accoglierle. Se le scrivo più tardi di quando le
pensai, non vuol dire che non siano vere!...»

E sotto quelle parole, a caratteri più grossi, più irregolari, tracciati
con mano tremante, stava scritto:

«Ha letto! Ha creduto!...»

Così continuavano quelle memorie, piene delle espressioni d'un'intima
contentezza, rivelatrici di un'anima amante, candida e schietta, della
quale il giudice Ferpierre ora quasi s'innamorava.

Maritata in quelle condizioni, con uno che poteva esserle padre, non era
però da prevedere che la giovanetta dovesse rinunziare alla vivace
felicità e ottenere, nella migliore ipotesi, la quiete; una quiete
presto o tardi insidiata dalle imaginazioni d'un bene maggiore?...

Le confessioni della morta distruggevano questo sospetto. Il Ferpierre
amava credere che, se la narratrice non fosse stata felice, se avesse
sentito d'essersi ingannata sposando il conte d'Arda, lo avrebbe
confessato schiettamente, interamente; ma poichè ella aveva riconosciuto
una volta di sentir cose che non poteva scrivere, forse non avrebbe
nettamente dichiarato il proprio inganno; fors'anche, invece di
adombrarlo, non avrebbe più scritto nulla, ed il silenzio sarebbe stato
ancora più eloquente. Ma, non che tacere, non che alludere al
disinganno, ella insisteva tanto nelle manifestazioni d'un affetto
ingenuo e caldo ad un tempo, che il giudice non poteva dubitare della
sincerità di lei. Del resto quell'amore d'una giovane di vent'anni per
un uomo d'oltre quaranta era proprio incredibile? A spiegarlo il
Ferpierre non teneva tanto conto delle qualità morali dello sposo quanto
delle fisiche; e fra le carte rinvenute presso la defunta egli aveva
visto alcune fotografie di parenti e d'amici, due delle quali, per
dichiarazione di Giulia Pico, erano del conte: la figura di quell'uomo
aveva una bellezza così forte e nobile, così piena di espressione, che
l'amore della giovane sposa ne restava giustificato. E per lunghe e
lunghe pagine ella non parlava d'altro: narrava orgogliosa tutte le
prove d'amore datele dal marito, trascriveva le sue parole innamorate,
esultava nel vederlo oramai ricreduto, nel sapere suo padre sicuro della
loro felicità.

Bruscamente una pagina bianca interrompeva ancora il giornale: sulla
seguente una sola riga era scritta:

«Padre, padre mio, vivi! Vivi per me!...»

E null'altro. Il Ferpierre quasi udiva il grido della disperata
preghiera che al capezzale del padre agonizzante rompeva dal petto della
figlia devota. Invano: nella pagina successiva una ciocca di capelli
grigiastri era passata fra due tagli del foglio, con una data al
margine: _3 giugno 1886._ Poi il libro era pieno di memorie del morto:
la contessa affidava a quelle pagine i più cari suoi ricordi di figlia
con un dolore così cocente ma confortato dalla cristiana speranza, che,
a certi passaggi, pareva parlasse ancora del padre vivo, come al
principio del libro. Ma il giudice percorreva rapidamente quelle pagine,
impaziente d'arrivare al dramma che presentiva immancabile.

Col tempo, con la vecchiezza del marito, con le seduzioni del mondo, non
era fatale che la calma felice di quella donna finisse? Come avrebbe
ella parlato della tentazione?

Non ne parlava. Il diario aveva però una lacuna maggiore delle
precedenti; la scrittura appariva, dopo un'interruzione, ancora più
modificata; e il senso delle nuove note riusciva incomprensibile.

«.... Io ne sono sicura. Le sue parole mi ritornano tutte alla memoria.
Allora ne sorridevo, ne insuperbivo: oggi pago la superbia d'un tempo. A
certi momenti dubito che la colpa sia mia. Che cosa avrebbe fatto
un'altra? La colpa è certamente della mia ignoranza, della mia
inesperienza...

«Non volle o non potè parlare? Forse non volle e non potè. Una sola
volta gli domandai: «Ma come? Com'è stato?...» L'odo ancora rispondere,
torcendo gli sguardi: «Più tardi...»

«Egli non credeva che l'uccidersi fosse male imperdonabile. Uccidersi
per non saper vivere era a suo giudizio viltà; ma in altri casi la morte
volontaria non era per lui condannabile. Molte volte discutemmo questo
problema: egli mi dimostrò che il mondo onora giustamente chi si sottrae
con la morte al servaggio, alla vergogna, al disonore; chi morendo salva
od aiuta i suoi simili. Uccidersi per castigarsi, diceva ancora, è
giustizia...

L'incertezza del Ferpierre sul significato di queste parole durò poco:
il pensiero della narratrice si veniva precisando da una pagina
all'altra: ella pensava che suo marito non fosse morto per una
disgrazia, ma deliberatamente; che avesse cercato la morte tremenda
sotto le ruote d'un convoglio.

«Le persone presenti dissero, e dicono ancora, di non capire come egli
non udisse le loro grida, non vedesse i loro gesti disperati. Una di
quelle vertigini delle quali soffriva nell'ultimo anno potrebbe spiegare
l'accaduto, se io non sapessi.

«La sua tristezza era mortale. Quando glie ne chiedevo la ragione mi
guardava così dolorosamente come se fosse sul punto di perdermi. Un
giorno, molto lontano, quando mi parlò la prima volta della sua vita di
scapolo, le parole erano così sdegnose sulle sue labbra! E la certezza
d'essersi finalmente sottratto all'errore, alla colpa, gli dava tanto
conforto!...

«Era severo e quasi senza perdono, nonostante la sua bontà, per i
traviamenti della passione. La rovina del suo amico che aveva
abbandonato la famiglia gli pareva meritata: non lo persuadeva
all'indulgenza neppure la morte nella solitudine e nella povertà...

«Io sentivo ciò che accadeva. Non parlai. Ebbi paura. Ebbi paura di
pensare.

«Non sono sincera. Non dico tutto...»

E il Ferpierre, vedendo che nelle pagine seguenti ella non parlava più
del dramma, sostò ancora una volta per meditare sulle cose lette.

Tra quelle due anime la tentazione si era insinuata; ma l'uomo, non la
donna l'aveva accolta! Le ultime parole di lei: «Non sono sincera, non
dico tutto...» significavano forse che ella non aveva accusato il marito
perchè non si sentiva neppure senza peccato? Quantunque all'esperienza
del giudice poche cose paressero impossibili, quantunque egli anzi
prevedesse che alla troppo giovane sposa il calmo affetto d'un marito
troppo vecchio non dovesse un giorno bastare, ora l'idea che ella avesse
potuto fallire gli repugnava. Egli si era venuto tanto affezionando alla
figura della morta nel leggerne la storia, la vedeva così nobile e pura,
sentiva in ogni pagina di quelle confessioni una schiettezza così
semplice, che il senso della reticenza ne restava naturalmente
giustificato. «Ebbi paura di pensare. Non sono sincera. Non dico
tutto...» Nel punto che scriveva quelle parole non pensava ella che il
tradimento del marito al quale aveva portato tanto amore, il tradimento
di chi aveva dubitato dell'amore di lei credendosene indegno, di chi
aveva promesso dedicare tutta la vita a meritarlo, a serbarselo, fosse
in lui una colpa grave, un immeritato castigo per lei? Non pensava ella
che quell'uomo aveva mentito o che si era vantato d'una forza della
quale mancava? Se turbatrici seduzioni eransi esercitate anche su lei e
se ella aveva saputo domarle e disperderle, ella che a giudizio del
mondo sarebbe stata più scusabile d'accoglierle, non doveva considerare
severamente la debolezza di quell'uomo? Tutto il dolore che il
disinganno, che la scienza del male fino a quel giorno insospettato
destavano nell'animo della sposa si esprimeva con quella frase: «Ebbi
paura di pensare...» e il Ferpierre, rileggendola, s'affermava nella sua
spiegazione, riconosceva che l'imprevista soluzione era logica:
illogico, o almeno troppo ligio al preconcetto era stato egli stesso nel
prevederne una contraria.

Che il conte d'Arda, vissuto fino a quarantaquattro anni la vita
necessariamente dissipata dello scapolo senza sentire più presto il
bisogno d'un affetto legittimo, si riducesse durabilmente a quella del
marito esemplare e s'appagasse dell'ingenuo amore della giovinetta era
forse naturalissimo? Ed era innaturale ed inammissibile che la sposa
amante ignara del mondo circoscrivesse tutta la gioia nel suo nuovo
stato? I particolari del dramma sfuggivano al Ferpierre, ma egli li
ricostruiva con l'imaginazione. Un'altra donna, una donna tutta diversa
dalla contessa, molto esperta, senza scrupoli, aveva sedotto Luigi
d'Arda: egli aveva tentato di resistere persuaso dell'infamia che
avrebbe commessa tradendo la giovanetta, dandole l'esempio del male,
egli cui non solo il dovere ma anche l'interesse consigliavano di
seguire la rigida via dapprima tracciatasi; ma la tentazione aveva
dovuto vincerlo. Che cosa bisognava pensare del sospetto della
contessa, che egli si fosse data la morte? L'anima alta di lei
attribuiva allo sposo la volontà di castigarsi se era stato incapace di
evitare l'errore? Oppure l'imaginazione romanzesca della donna vedeva un
suicidio dove non c'era altro che un disgraziato accidente? Mistero nel
mistero; ma questo doveva restare impenetrabile, se oramai il suggello
della morte aveva chiuso le labbra dei due attori del dramma. La
tentatrice sola, se viveva, avrebbe potuto rischiararlo; ma che,
soccombente mal suo grado alla colpa, il conte avesse voluto morire per
punirsi, per evitare d'essere in vita peggio punito con la caduta della
sposa a cui aveva additato le vie del male; o che, anche pensando queste
cose, la sua morte fosse opera del caso, oramai poco importava. Con
raddoppiata curiosità il Ferpierre continuava la lettura delle memorie
in cerca di ciò che più gli premeva.

Dopo i rapidi accenni alla sciagura egli non trovò altro che descrizioni
di paesi. La giovane vedova portava il suo lutto di luogo in luogo,
lungo il Reno, in Olanda, in Iscozia; qui soltanto le memorie erano
datate. Pareva che, come l'esperienza l'aveva maturata, così anche il
suo pensiero e il suo stile si fossero fortificati; certi paesaggi erano
ritratti con tocchi sobrii ma vigorosi, le imagini erano nitide ed
evidenti. Qua e là, fra le descrizioni, si trovavano schizzi a penna ed
a matita, vedute di luoghi, riproduzioni di tipi; e il tocco della
disegnatrice era aggraziato e fermo ad un tempo. Di tratto in tratto
ancora alcuni giudizii morali senza apparente relazione con le note
vicine, dimostravano come, dietro l'esteriore tranquillità, un secreto
lavorìo la tormentasse. A un punto ella diceva:

«Non basta saper regolare le nostre azioni esterne, bisognerebbe poter
guidare il pensiero intimo.»

Voleva ella forse dire con queste parole che, libera e sola, tentatrici
persuasioni, alle quali pur sapeva resistere, l'assediavano con suo
dolore? E non era troppo naturale che così dovesse essere?

«La legge del perdono è necessaria perchè il male è universale; e senza
di essa nessuno potrebbe sperare di salvarsi.»

Quest'idea derivava da una persuasione astratta o non piuttosto dalla
coscienza di una qualche colpa personale?

A poco a poco ogni altro soggetto era posto da parte: in alcune pagine
non si leggevano altro che speculazioni intorno ai problemi nella vita.

«L'ingiustizia è grande nel mondo; nessuno è più degno d'encomio di chi
intende ripararla.»

«Vi sono due specie di leggi: le leggi della natura e quelle dell'anima:
molte volte la legge ideale consiste nell'operare contro alle impulsioni
naturali. Ciò mi stupiva una volta, ora non più. Quello di affrancarsi
dalle leggi naturali è il bisogno più alto e lo sforzo più nobile: il
merito consiste nella difficoltà da superare.

«Non molte volte, ma sempre c'è opposizione tra le due specie di leggi;
non è possibile in questa vita comporle, perchè senza lo sforzo non ci
sarebbe bene. Questa è la gran prova.

«Chi dice che è stolto predicare l'eguaglianza degli uomini perchè essi
sono naturalmente diseguali, non sa di dire una eresia morale.
Altrettanto giusto sarebbe dire che è stolto predicare il sacrifizio
perchè l'egoismo è legge della natura. Se l'amore di noi stessi è il
primo nostro bisogno reale, reprimerlo e posporlo all'amore degli altri
dev'essere il primo nostro bisogno ideale. Gli uomini sono nativamente
diversi: questa verità ingrata ci suggerisce l'ideale dell'eguaglianza.
Sono idee che mi sembrano semplici; egli dice che sono rare...»

L'attenzione del giudice crebbe in quel punto. «Egli» non era il
principe Alessio Petrovich? Quei ragionamenti intorno al problema
sociale non datavano dal tempo nel quale i due amanti si erano
incontrati? La narratrice pareva rispondere alla domanda che il
Ferpierre si rivolgeva mentalmente, perchè da una pagina all'altra il
tema delle memorie mutava e dalle speculazioni astratte ella passava a
più intime confessioni.

«No, io non avevo ancora provato un turbamento simile. Volevo negarlo,
ma non posso. Quest'ansia, questa febbre m'erano ignote.

«Lessi una volta che l'amore non è uno solo, e mi parve che lo
scrittore mentisse od errasse, che non vi fosse se non un modo d'amare.
No: egli ha ragione. L'affetto d'allora non somiglia al tumulto d'oggi;
Luigi che era più esperto di me lo sentiva e non si contentava di ciò
che gli davo. Dubitava dell'amor mio perchè non lo vedeva impetuoso e
veemente. Mio padre dubitava della mia felicità per ciò. Dubito ora
anch'io?...

«Fiocchi di nebbie s'insinuano fra le cime dei monti, strisciano come
draghi, s'annodano come bende, si stendono come veli; un lato del lago è
scomparso fra le nubi, le acque ora non sono più circoscritte, formano
come un golfo aperto sopra un oceano misterioso. Odo ancora la voce di
lui. Io sono felice...

«Io sono felice. La fiamma s'apprende da anima ad anima come da face a
face. Le sue parole sono come l'alito dell'interno fuoco. Potevo
nascondergli il mio pensiero? Se pure avessi voluto tacerlo, non
l'avrebbe egli letto?

«Quando noi crediamo una cosa neghiamo tutte le altre, quando proviamo
un sentimento disconosciamo i sentimenti opposti o semplicemente
diversi. Questo è il mio primo istinto. Mi pare d'aver cominciato a
vivere da un mese soltanto. La ragione ammonisce, il cuore ricorda. È
un'altra cosa...

«Se vi sono più modi d'amare ve n'è uno migliore, più desiderabile, più
vero? Bisogna che la voce della ragione non sia più udita, che tutte le
memorie siano dimenticate, che una sola idea vinca tutte le altre e un
solo bisogno rompa tutti gli ostacoli?...

«Le sue risa d'oggi m'hanno fatto male. Non avrei voluto che egli
ridesse udendo narrare un atto eroico. Quanto grande è la sua fede tanto
profondo e amaro è il suo scetticismo. Chi lo ha fatto così? La vita,
dice egli.

«Una pena maggiore ho provato nell'udirlo ridere di sè stesso. Quando
ride di questo suo riso falso mi pare che vi sia qualcosa di rotto nella
sua voce, nel suo petto...

«Se i nostri sentimenti vivono ad uno ad uno e se quelli già morti sono
da noi negati, il sentimento vivo ha bisogno di credersi eterno. Questo
è l'errore. La felicità che io provai giorni addietro mi pareva
indistruttibile. Non è distrutta, ma turbata.

«Che pena! Che pena! Mai più avrei sospettato tante miserie, tanti
dolori, È questa la prima volta che egli li confida a qualcuno. E ride
ancora! Non voglio...

«La sua lettera d'oggi m'ha fatto palpitare di superbo contento. Se
fosse vero! Se io avessi veramente questa forza!»

Con l'espressione di quel dubbio il diario restava ancora una volta
sospeso, quasi che prima di riprenderlo la scrittrice avesse voluto
provare. Ma nei fogli successivi le confessioni non erano più ordinate.

«La vita è più difficile che io non credessi.»

Questo solo giudizio leggevasi in una pagina; più oltre un dubbio
ancora:

«Credere d'aver ragione sarebbe dunque presunzione?

Poi alcune frasi di senso oscuro:

«In nessun modo, ma giova sperare...

«Non è debolezza, non è sorpresa: ho pensato lungamente, la fede mi
sorregge, io vedo la meta....

«Ora le parole mancano...»

Sotto una data: «18 giugno 1890» stava scritto:

«Dinanzi a Dio, per sempre.»

E il Ferpierre cercava d'approfondire il senso di quelle parole
collegandole in modo da ricostruire l'intima storia.

Le cose dette dal Vérod si confermavano: l'idea di far del bene
all'anima inferma di Zakunine appariva dominante nel pensiero della
contessa: con la sua mitezza soave, per la legge d'attrazione fra i
contrarii, ella doveva apprezzare la forza impetuosa, la foga indomabile
del ribelle come greggie ricchezze dalle quali si sarebbe potuto
esprimere un valor puro. Certamente qualcosa di più semplice, il solo
amore, bastava a spiegare la relazione stretta fra i due; e dell'amor
suo ella dava una prova eloquente quando confessava di comprendere i
dubbii del marito e del padre intorno alla sua felicità d'un tempo.
L'affetto del marito le era bastato; ella non aveva fatto un sacrifizio
accettando di sposarlo nonostante la grande differenza delle età;
quantunque la possibilità del matrimonio le fosse apparsa tardi, ella
era stata veramente felice con lui; il dubbio era postumo, ma dimostrava
con grande evidenza come più forte ed eccitante fosse il sentimento
nuovo. Tuttavia la commozione per i mali che travagliavano il principe,
la speranza e quasi il dovere di giovargli avevano dovuto determinarla
ad assecondarne l'affetto.

«Se fosse vero! Se avessi questa forza!» Manifestamente il principe le
aveva detto che l'amore di lei era il suo conforto, la sua gioia, la sua
salute; fosse egli sincero, o fingesse calcolando sull'effetto di quelle
parole, era certo che l'effetto non poteva mancare in un'anima amante.
Liberi entrambi, niente avrebbe vietato che s'unissero legittimamente,
se il ribelle non avesse disconosciuto e odiato le leggi, anzi diretto
ogni suo sforzo a distruggerle. Della sua conversione avrebbe potuto
darle la massima prova, sposandola; ma probabilmente non era sincero
dicendosi convertito. Con più verisimiglianza nessuna allusione diretta
avevano essi dovuto fare al loro avvenire; nè il principe aveva
esplicitamente promesso di convertirsi al matrimonio, nè la contessa gli
aveva rigorosamente imposto di mettersi in regola col mondo: durante un
certo tempo entrambi avevano dovuto amarsi castamente, ella sperando di
placare e redimere il negatore, egli forse sorridendo di questa sua
speranza: un giorno la complicità delle circostanze, la dolcezza
dell'ora, la debolezza della donna, la prepotenza dell'uomo avevano
mutato repentinamente la natura dei loro rapporti. Ella cui la purezza
delle intenzioni non doveva bastare se n'era intimamente doluta: ma non
aveva espresso il proprio dolore, certa d'essersi impegnata dinanzi a
Dio, sino alla morte, e fiduciosa di far presto o tardi riconoscere
anche a lui la santità del dovere.

Da quale disinganno era stata amareggiata scoprendo l'inutilità della
propria dedizione? Senza dubbio l'inganno non le era stato subito
palese; finchè il principe aveva continuato ad amarla ella aveva
sperato: credendolo sentendolo suo sposo con l'anima, nella sincerità
della coscienza, ella aveva lungamente aspettato piena di speranza. La
sfiducia morale aveva preceduto o seguìto la sentimentale delusione?
Forse s'erano prodotte ad un tempo.

Il libro delle memorie mostrava, alla scrittura, all'inchiostro,
d'essere stato ancora una volta interrotto. E lo sforzo di negar credito
all'ingrata realtà era evidente nelle nuove confessioni. Ella scriveva:

«Bisogna credere. Bisogna sperare... Il più delle volte noi non ci
conosciamo, dobbiamo essere rivelati a noi stessi...»

Quest'idea era senza dubbio riferibile all'uomo che le stava vicino,
alla sua ostinata insistenza nell'opera di distruzione, alla speranza
ancora viva di piegarlo, di farlo ricredere; poichè ella scriveva
inorridita:

«Ancora l'odio, il sangue, le fiamme! No, mai: non sarà mai questa la
via!... Come un'anima amante può parlare così? Egli dice che l'amore si
ripaga con l'amore, l'odio con l'odio. Ciò sarà giusto, ma non è
generoso. E coloro che egli combatte odiano veramente? Non soffrono
anch'essi di dover ricorrere alla violenza?...»

Pareva così che la discordia fra l'istinto di ribellione del principe e
la predicazione di pace della contessa avesse preceduto il disinganno
sentimentale: ma nell'atto che riconosceva l'inutilità dei proprii
sforzi non doveva ella sospettare che quell'uomo non era stato sincero
assicurandole d'essersi per lei ricreduto? E un sospetto simile non
doveva lederla, oltre che nelle sue credenze, nelle sue stesse speranze?

Ella non parlava del destino serbato all'amor suo. Faceva così perchè,
più d'assicurare la felicità sua personale, le premeva di pacificare il
ribelle? Od al contrario rivolgeva ella la sua attenzione al dissidio
morale per distoglierla dalla più paurosa visione di un disinganno che
le sarebbe riuscito ben altrimenti funesto? Se l'amore di quell'uomo era
mentito, l'intima sanzione che la coscienza aveva dato a un legame fuor
della legge non veniva a mancare? Per la cristiana, a cui la colpa era
parsa, se non scusata, almeno attenuata dalla schiettezza dell'amore,
dall'onestà degli intendimenti, dalla saldezza dell'impegno,
l'improvvisa mancanza di queste condizioni non doveva implicare una
condanna grave?

Il Ferpierre sentiva che questi pensieri avevano dovuto occupare la
defunta a quel tempo; egli quasi li leggeva tra riga e riga. E come
durante l'audizione di una frase musicale si prevede lo svolgimento e la
cadenza della melodìa, le sue logiche anticipazioni erano confermate dai
successivi passaggi delle memorie.

«Non ho avuto coraggio, ma bisogna trovarne. Un'altra volta ebbi paura
di scendere in me per compiere l'esame di coscienza, il dovere che mi fu
sempre facile e grato. Ma la paura d'allora non ha nulla che possa
paragonarsi con la presente.

«Fingo verso me stessa? E come pretendere l'altrui sincerità? La
superbia m'impedisce d'ammettere che io abbia potuto ingannarmi? Ma Dio
che mi legge nel cuore sa ch'io credetti al bene. Io credo ancora.

«Egli non si conosce. Obbedisce a tante e così varie impulsioni, il suo
pensiero è così complesso, la sua esperienza è stata così ricca, che
egli non sa qual è la sua vera natura e non la libera dai passeggeri
atteggiamenti e si fa diverso da sè stesso. Io speravo d'essere riuscita
a rimetterlo sulla via della verità: l'opera è più difficile e richiede
più tempo che non pensai. Ma la speranza, la fiducia che m'animarono, mi
sostengono ancora.

«Vi sono momenti che dubito. Dubito, più che di lui, di me stessa.
Penso che questa speranza è fallace, che questa fiducia non è sincera,
che io me ne servii per nascondere qualcosa di meno degno, per secondare
un desiderio meno puro.

«Non è questo il giudizio che ognuno darebbe? Si serve di mezzi ambigui
chi vuol raggiungere un diritto fine? Per rimettere lui sulla via
maestra dovevo io seguire vie tortuose? Io che dovevo dargli l'esempio
della virtù alla quale non crede, gli ho dato un'altra prova di quella
debolezza accomodante che condannavo....

«Siamo ora entrambi nell'errore. Questo è grave, nell'amore: che ciascun
amante non è solo responsabile delle proprie azioni, ma anche di quelle
alle quali spinge l'amato. Su questa solidarietà io avevo fatto
assegnamento quando aspettavo di partecipare con lui non alla pena
dell'errore, ma alla gioia del premio....

«Io non posso neppur dire d'essere stata sorpresa, di non aver previsto
ciò che sarebbe avvenuto. Quanti sofismi! Nel prevedere la caduta dicevo
a me stessa che egli non poteva volere il mio avvilimento, pensavo di
affidarmi a lui per non fare atto di superbia attribuendomi
esclusivamente la capacità di regolare il nostro amore!

«Non sarebbe stata superbia. Questa capacità è nostra, siamo noi donne
responsabili del bene e del male. All'energia esuberante e prepotente
degli uomini la nostra resistenza deve dettare la legge. Ma questo
pensiero mi piegò: che per le anime forti non occorre che la legge sia
scritta in un libro: basta comprenderla. Egli che le disconosce tutte,
mi disse d'aver compreso per me la legge dell'amore: la fedeltà. Ora io
non posso, non debbo, non voglio sospettare ch'ei calpesti anche questa.
Eppure che vale pensare, dire ad alta voce, scrivere questa cosa, se il
dubbio m'occupa e mi tormenta?

«A poco a poco, ma nitidamente, io l'ho visto sorgere, crescere,
giganteggiare. In certi momenti il dubbio angoscioso diventa disperata
certezza. Allora io penso che avrò ancora una forza da esercitare,
l'estrema forza: il perdono. Sento che non mi sarà grave. Forse è male,
perchè se mi costasse varrebbe di più. Ma egli può fare di me ciò che
vuole, purchè non neghi tutto e sempre....

«Ah, quel riso!...»

Era sperabile che Zakunine osservasse l'unico patto posto dalla
infelice?... Nel ricostruire con l'aiuto di quelle confessioni il
carattere dell'accusato, il Ferpierre sentiva che l'avverso giudizio di
Roberto Vérod non era dettato dalla passione. Dietro l'umanitaria
professione di fede, con la predicazione della giustizia,
dell'eguaglianza, dell'amore, quell'uomo doveva nascondere un egoismo
scettico, ingordi appetiti, voglie malsane, se era stato capace di
ridurre a quel tormento la creatura che gli si era resa a discrezione.
Se la lusinga di ridurlo a una più calma prosecuzione della riforma
sociale era fallita, aveva egli almeno risposto con atti di bontà alle
dimostrazioni dell'amore?

Il Ferpierre lesse con raccapriccio nelle nuove pagine del diario:

«Egli m'ha detto queste precise parole:

«Dunque tu credi che l'amor tuo sia immortale? Non capisci che finirai
di amarmi, che già non mi ami più come prima? Tu mi giudichi indegno
d'amore, pensi d'esserti sacrificata, il sacrifizio ti costa, vuoi
ottenerne il compenso, lo cercherai in un altro amore; non dubitare:
qualcuno te l'offrirà.... Sul principio dirai che la colpa è stata mia,
più tardi riconoscerai che io non ho colpa. Dentro di te, dentro di me,
nei nervi, nella carne, nel sangue di noi tutti c'è un fermento che
niente e nessuno può sedare: quando tu avrai fame ti ciberai; dopo aver
mangiato sarai sazia. Non c'è altra verità fuori di questa. Bisogna
dirla, ripeterla, onorarla, e riconoscere che le tue leggi, i tuoi
comandamenti, i tuoi scrupoli sono menzogna ed ipocrisia che dobbiamo
smascherare e confondere. I tuoi grandi nomi, l'Amore, il Dovere, il
Diritto, hanno un senso, ma non è quello che tu pensi. Il nostro dovere
e il nostro diritto si riducono a ottenere e mantenere il piacere, che è
la ragione, l'origine, il fine della vita; finchè il piacer tuo è nel
mio, noi ci amiamo; quando non ci bastiamo più l'amore finisce. Tu dici
un'altra grossa parola: l'onore. Dove mai lo riponi? L'onor mio consiste
nel dire ciò che penso, nel metter d'accordo le mie azioni con le mie
idee. Tutto il mondo è retto da pregiudizii iniqui, ma più stupidi che
iniqui. La scienza che non mente ha espresso la vera, la sola legge dal
cumulo delle secolari menzogne: voglio dire la legge della lotta per
l'esistenza. Nascondetela, date al fuoco i libri che l'insegnano, se
volete che le vostre menzogne siano ancora credute. Ma quando la
riconoscete, come potete restar serii udendo ripetere i ritornelli
bugiardi? Bisogna scegliere tra la morte e la vita: rinunziare alla vita
è preferibile, ma voi non volete. Se io debbo vivere, estermino tutto il
genere umano per procurarmi quella che a te pare la più futile delle mie
soddisfazioni! Tu volevi che noi facessimo una famiglia indissolubile.
Ma non sei ora contenta d'esser libera, non è bene che tu mi possa
abbandonare se, avendomi visto come sono, ti faccio orrore? Lascia che i
figli ignorino i padri, se non vuoi che maledicano chi ha dato loro la
vita! Perchè vorresti che noi fossimo indissolubilmente legati, quando
naturalmente ciascuno di noi è autonomo; quando niente vieta, anzi tutto
ci persuade, che ciascuno di noi può amare e un giorno amerà un altro?
Se tu m'abbandoni quando non t'amo più, te ne sono grato; se mi tradisci
quando ti amo ancora, ti uccido. Fa altrettanto tu stessa. Il diritto
mio è uguale al tuo. Così fanno tutti gli uomini, a dispetto dei codici
stolti e delle ipocrite predicazioni. L'anarchia che noi vogliamo
instaurare è già nei costumi; ma è ancora anarchia nel senso vostro,
cioè come disconoscimento e lesione della legge. Bisogna invece che sia
conformazione alla legge naturale, uniformazione cosciente all'istinto
vitale; fuori di qui non c'è altro.»

«Non dimentico nulla. Queste sono state le sue precise parole. Egli ha
ragione. Fuori di qui non c'è altro....»

E il Ferpierre, nonostante la sua lunga assuefazione allo spettacolo del
dolore, si sentiva commuovere pensando come dovesse essere amaro lo
strazio della credente. Per trascrivere quelle parole ciascuna delle
quali doveva offenderla come un insulto e spaventarla come una
bestemmia, per riconoscere che Zakunine aveva ragione, bisognava che
ella si condannasse senza più scusa, che si giudicasse perduta senza più
speranza. Ella doveva ora riconoscere che l'illusione di redimere
un'anima e la fiducia di fare del bene erano stati semplici pretesti:
che nell'amor loro, che in tutti gli amori, che in tutta la vita
nessun'altra voce si ode fuorchè quella degli infimi istinti. Questo era
dunque il risultato: ella che voleva far ricredere l'amante, che voleva
accostarlo alla propria fede, ella stessa era ridotta a dubitare, a
negare. Invece di guarire l'infermo ella stessa aveva preso il suo male;
invece di mondare il caduto ella stessa erasi contaminata!

Ma poteva ella veramente a lungo rinnegare le credenze di tutta la sua
vita? Nel farle dare ragione al negatore quanta parte aveva l'amara
ironia? Poichè, mentre gli parlava dell'amor suo, costui adduceva
scettici e cinici argomenti e prevedeva e quasi s'augurava d'esser
tradito, la disgraziata doveva schernire sè stessa; ma che cosa pensava
della possibilità del tradimento? Riconosceva che per una logica fatale
il suo primo errore doveva essere seguito da un secondo e da un terzo;
oppure si ribellava a questa logica? Qui era il problema morale, la
soluzione del quale avrebbe rischiarato il mistero giudiziario.

E la curiosità del Ferpierre cresceva, l'attenzione che prestava alle
confessioni della morta raddoppiavasi.

«Per una madre dover disprezzare il proprio figlio, il vivo frutto delle
sue viscere, la miglior parte di sè stessa: che strazio!

«L'infelicità della vita consiste nell'idea della felicità.

«Chi segue nella morte una creatura adorata sarà passibile di pena? Per
un figlio, per uno sposo morire con la sposa e col genitore è una colpa?
Questa bellezza è condannata? Se io fossi morta col padre mio!

«Pregare Iddio di darci la morte, aspettarla come una liberazione,
desiderarla come un premio, non è quasi come darsela? La distanza che
separa la vocazione ardente dall'atto è poi così grande? Se l'atto è
colpevole, la supplice intenzione come potrà essere acconsentita?...

«Non dovrei aspettar molto, già l'opera di distruzione è avanzata; il
dolore morde più acutamente il mio petto. Ma ogni giorno, ogni ora che
passa mi è troppo grave.

«Vi sono coincidenze che sembrano avvertimenti, consigli, complicità del
destino. Perchè ho avuto l'arma, proprio quando ne sentivo la
mancanza?...»

Tutti questi passaggi dove l'infelice discuteva tra sè il problema del
suicidio dimostravano come solo nella morte oramai ella potesse sperare.
A un punto ella trascriveva una sentenza letta in un libro:

«Io sono obbligato di seguire le leggi quando vivo sotto di esse; ma
quando ne vivo fuori possono ancora legarmi?» (Montesquieu).

Questo giudizio aveva dovuto sembrarle singolarmente adatto alla propria
situazione. Nonostante tutti i suoi contrarii ragionamenti, ella doveva
sentire che l'uccidersi è male, e che la legge morale vuole la paziente
sopportazione della vita fino all'ultimo giorno; ma questo comandamento
poteva valere per chi aveva obbedito tutti gli altri; ella che ne aveva
trasgredito uno molto più grave doveva sentirsene sciolta, tanto più
che, morendo, intendeva punirsi.

«È tempo?» chiedeva in un altro punto a sè stessa, «Certo, quando ogni
altro rimedio è impossibile, quando la speranza è morta del tutto, io
potrei compire quest'atto; ma sono io buon giudice dell'opportunità del
momento? Quando pare che un corpo vivente sia presso a dissolversi sotto
l'azione d'un male implacabile, la natura non trova tante volte in sè
stessa la forza di ravvivarlo? La vita così ricca e feconda non può
risolvere in modo insperato una situazione che parea senza uscita? La
speranza non dovrebbe essere l'ultima a morire? Bisogna dunque
aspettare?...»

Persuasa di questa convenienza, ella aveva aspettato. Ma che cosa aveva
trovato?

Dopo alcune pagine bianche questo pensiero attrasse l'attenzione del
magistrato:

«Non la gioia ha tanta virtù di far dimenticare il dolore, quanto un
nuovo dolore.--_La notte del 12 agosto._»

Fiori secchi, ciclamini rigidi e scoloriti erano posti a guisa di segno
tra i due fogli.

I fiori, la data aggiunta a quelle parole fecero argomentare al
Ferpierre che accennassero a qualche avvenimento più degno di nota, che
la contessa attribuisse loro una speciale importanza. Continuando a
leggere egli trovò un altro passaggio sul quale s'arrestò più
lungamente. La morta non esprimeva un suo proprio pensiero, trascriveva
ancora una volta da un libro:

«Nulla contribuisce tanto al disgusto della vita quanto un secondo
amore. Il carattere d'eternità, d'infinità che porta e solleva l'amore
sopra ogni altra cosa è svanito; l'amore sembra effimero come tutto ciò
che ricomincia. (Goethe).»

Il Ferpierre rammentava molto bene questo giudizio del poeta tedesco:
poteva la morta citarlo senza sentirlo appropriato a sè stessa? E il
dubbio che egli aveva espresso al Vérod cominciava a prendere
consistenza. Se ella aveva trascritto la sconfortata sentenza dopo aver
conosciuto il Vérod, quando era stata turbata da una simpatia ancora
incosciente, bisognava credere che nel secondo amore non giudicasse di
poter trovare un compenso, ma un nuovo motivo di pena! Dopo avere
aspettato, dopo aver voluto sperare nella vita, che cosa otteneva da
questa? Non un aiuto, ma l'ultimo crollo!

La sentenza del poeta significava che il secondo amore è condannato
irremissibilmente, perchè illudersi sulla saldezza del nuovo affetto non
è possibile al cuore che ha già visto la morte del primo: tali i
selvaggi d'America credevano immortali gli Europei che primi scesero a
conquistare il nuovo mondo e li stimavano onnipotenti, finchè, visto il
primo Spagnuolo soccombere, riconobbero l'inganno e finirono di
venerarli.... Tuttavia la certezza espressa dal Goethe e riaffermata
dalla contessa d'Arda che cosa valeva contro le persuasioni dell'istinto
vitale? Sapere che il nuovo amore finirà come il primo a quanti
impedisce di amare anche una volta? Esser certi di dover morire è una
ragione d'uccidersi? Chi concepisce le tristi verità vive male, ma pur
vive, perchè gl'istinti sono più persuasivi delle astratte concezioni;
la capacità di frenarli consiste soltanto nelle sanzioni morali. E la
contessa si trovava già fuori della legge morale. Questa sua condizione,
la mancanza di qualunque obbligo scritto che la legasse
indissolubilmente al principe, l'esempio datole dall'indegno amante,
dovevano naturalmente, umanamente spingerla a cercare nel nuovo amore un
conforto e una gioia la caducità dei quali, comune a tutte quante le
cose umane, non poteva, non doveva arrestarla. Se non che, mentre ella
era libera dinanzi agli uomini, s'era vincolata dinanzi alla propria
coscienza, senza riti, ma con cuore sincero; ella si trovava bensì fuor
della legge, ma per farvi rientrare chi n'era uscito disconoscendola;
aveva ottenuto da costui l'esempio del male, ma per dargli quello del
bene. Secondare pertanto il nuovo amore non le era possibile senza
rinunziare alle attenuazioni che, nell'ambiguità del suo stato, la
sottraevano alla condanna o le lasciavano almeno sperare di evitarne il
rigore. «Questo pensiero mi piegò: che per le anime forti non occorre
che la legge sia scritta in un libro: basta comprenderla.» Poteva ella
aver dimenticato le sue proprie parole, il sentimento che glie le aveva
dettate? Se quel sentimento era sincero e saldo, se l'animo di lei era
tanto alto e forte come dalle testimonianze raccolte e dalle pagine di
quel giornale appariva, non solo era possibile, ma bisognava quasi
prevedere che ella si sarebbe data la morte.

Finchè non aveva incontrato il Vérod, il suo cuore era oppresso, la sua
vita piena d'amarezza, le sue speranze tutte fallite; ma ella poteva
ancora rispettarsi. Nell'amarezza del disinganno aveva, sì, potuto
deridersi ed avvilirsi affermando d'essersi unita col principe Alessio
non per raggiungere un nobile scopo animata da un sentimento purissimo,
ma per appagare le proprie brame, semplicemente; tuttavia ella doveva
sentire che il suo unico fallo restava attenuato. Una seconda caduta non
solamente non poteva in alcun modo scusarsi, ma avrebbe anche confermato
lo scettico giudizio che di lei aveva dato il primo amante. «Il tuo
sacrifizio ti costa, vuoi ottenerne il compenso, lo cercherai in un
altro amore; non dubitare; qualcuno te l'offrirà....» Queste parole di
Zakunine che l'avevano umiliata ed offesa quando erano soltanto una
scettica previsione, sarebbero state confermate dal fatto, avrebbero
espresso una realtà se ella avesse ceduto all'amore del Vérod; allora lo
scettico, il negatore, il bestemmiatore avrebbe avuto ragione: la fede
sostenuta contro di lui dalla credente si sarebbe ridotta, come egli
voleva ridurla, a una menzogna, a un'ipocrisia.

Il Ferpierre ripeteva a sè stesso che il suicidio non era soltanto, in
tali condizioni, possibile, ma quasi necessario. Già per un'altra
ragione egli ne riconosceva la verisimiglianza in una natura, come
quella, malinconica e contemplativa; per un'anima abituata a guardare
assiduamente sè stessa, a considerare senza paura, anzi con una specie
di compiacimento i problemi della vita. E al lume di queste deduzioni
egli trovava un nuovo senso nelle ultime note del giornale, dove la
mattina il giudice di pace aveva cercato, senza trovarla, la confessione
della morte volontaria. La disgraziata non confessava d'essersi uccisa,
ma il significato delle sue ultime parole appariva ora più chiaro al
Ferpierre:

«Bisogna che la fede sia molto salda e cerchi e trovi un modo
d'affermarsi contro il dubbio trionfante....

«La massima tristezza è di dover rinunziare alla speranza.

«L'estrema speranza.....

«..... Al bivio formidabile: di vivere peccando o di.....»

Queste erano le ultime parole. La frase non doveva logicamente compiersi
così: «o di morire per evitare la colpa?....»




V.

DUELLO.


La lettura delle memorie aveva dimostrato al giudice Ferpierre che la
contessa d'Arda si trovava in una situazione tale da dover pensare alla
morte come al solo termine della sua sventura. Tuttavia egli sentiva di
dover considerare l'altro aspetto del problema ed approfondire
l'argomento addotto dal Vérod contro l'ipotesi del suicidio. Nel nuovo
amore che ella combatteva con la previsione della caducità e più con la
coscienza del male, c'era una grande persuasione di gioia, il maggior
incitamento a vivere; lo stesso impegno col quale ella lo contendeva a
sè stessa ne dimostrava la forza. Ora mancando una esplicita
confessione, restava sempre possibile che, non essendosi ella uccisa
prima, in tutto il tempo non breve trascorso dacchè aveva conosciuto il
Vérod, non si fosse neppure uccisa all'ultimo, ma fosse stata
assassinata da uno dei due Russi: l'assassino traeva profitto dalla
verisimiglianza del suicidio per evitare l'accusa.

A rischiarare il mistero conveniva conoscere con precisione quali
rapporti erano interceduti negli ultimi tempi tra lei ed il giovane,
quali domande e quali promesse erano state scambiate. Le lettere del
Vérod alla contessa, due o tre in tutto, non dicevano cose notevoli,
esprimevano soltanto la sua gratitudine per la visita da lei fatta al
sepolcro della sorella, e il desiderio e la speranza di rivederla. Dalle
altre carte della defunta nessuna luce veniva: le più importanti erano
un fascio di lettere di quella suor Anna Brighton a cui ella aveva
scritto la mattina stessa della catastrofe.

Suor Anna la trattava veramente nelle sue lettere come una figlia; si
comprendeva dalle parole di conforto, dai richiami alla fede cristiana,
che la suora rispondeva a lettere dove la morta le diceva i suoi dolori
e le sue disperazioni. Già per mezzo della legazione inglese a Berna, il
Ferpierre aveva disposto che la Brighton fosse ricercata alla Nuova
Orléans, di dove le sue lettere erano datate, perchè si sapesse da lei
che cosa le aveva scritto nell'ultimo giorno l'antica sua allieva. Egli
aveva pure ordinato che fossero perquisiti i domicilii della defunta a
Nizza e dei nihilisti a Zurigo, e richiesto informazioni intorno a
costoro alla legazione di Russia. Frattanto fece chiamare il Vérod per
sentire da lui più precisamente in quale situazione era stato dinanzi
alla contessa. L'accusatore aveva detto, nel primo interrogatorio, che
la vigilia della tragedia si era trovato con lei e che niente gli aveva
fatto sospettare quel che doveva accadere il domani; premeva al
magistrato di sapere che cosa era stato detto in quest'ultimo colloquio.

Nel vedere apparire il Vérod, egli fu impressionato dal pallore
cadaverico, dal disfacimento della sua figura. La notte d'ambascia era
passata sul giovane come tutta una età: era invecchiato di dieci anni.

--Siete voi ancora,--cominciò a domandargli il Ferpierre,--nella stessa
opinione di ieri? Credete ancora che l'amica vostra sia stata uccisa?

--Lo credo!--rispose il Vérod subitamente vibrando come un ferito che
sente il ferro ricercar la sua piaga.

--E avete trovato altre prove od argomenti che confermino la vostra
accusa?

--Non ancora.

--Ebbene, ragioniamo un poco insieme. Se noi non troveremo alcuna
dimostrazione materiale della verità, come pare purtroppo, siamo
impegnati in un processo indiziario la soluzione del quale dipende da un
problema psicologico. Ciò che innanzi tutto importa conoscere è lo stato
d'animo della contessa negli ultimi giorni. Ma ditemi prima: vi
rammentate bene di tutto ciò che accadde fra voi dacchè la conosceste?

--Di tutto. Ogni sua parola è impressa indelebilmente nella mia memoria.
Nulla potrà mai cancellarne una sola.

--Che giorno la conosceste?

--Il 31 luglio dell'anno passato.

--Rammentate una data saliente nella storia della vostra amicizia?
Accadde tra voi qualcosa il 12 agosto?

Roberto Vérod si passò una mano sugli occhi prima di rispondere; poi
disse, sommessamente:

--Sì. Fummo insieme, l'accompagnai sulla montagna.

--Che le diceste?

--Nulla. Altri erano con noi. Io parlai poco. Non le avrei detto nulla
anche se fossimo stati soli. Non già che non provassi il bisogno di
esprimere i miei sentimenti; ma le parole erano inadatte più che di
consueto. Nel bosco della Comte, sotto la luce verde, fra le alte
colonne degli alberi, ella mi pareva un prodigioso fiore animato; la sua
bellezza fioriva come il fiore della vita. Il profumo dei ciclamini
addolciva l'aria. Io ne colsi molti, molti, per lei; i fiori che
coglievo sui vertici del monte, che le offrivo con mano tremante,
potevano solo dire il mio pensiero. La sua cintura fu in breve tutta
fiorita. Anche il riso fioriva nel suo sguardo....

--Ebbene: guardate, leggete....

Il Ferpierre prese il diario, lo schiuse alla pagina dove aveva trovato
i fiori e lo passò al giovane.

«Non la gioia ha tanta virtù di far dimenticare il dolore quanto un
nuovo dolore.--_ notte del 12 agosto._»

Roberto Vérod considerava i fiori morti, rileggeva il mortale pensiero
con occhio arido. Non poteva più piangere.

--Comprendete il significato di queste parole?--riprese il
Ferpierre.--Mi pare che sia fin troppo evidente. Insieme con voi,
all'omaggio che le facevate, al pensiero d'amore che vi scopriva, ella
sentivasi sollevare dalla lunga oppressione e pensava che per virtù
della nuova gioia il dolore fosse dimenticato; più tardi, nella notte,
considerando tra sè la condizione sua, riconoscendo di non poter
secondare questa passione, di dover rinunziare alla sperata felicità,
vedeva ancora finito il dolore antico, ma non più per opera del piacere,
sibbene per un nuovo e maggior dolore. La tristezza di questo pensiero è
veramente mortale, ella ha saputo esprimerlo con una forma incisiva che
farebbe invidia a ogni scrittore di professione. Nel leggerlo io già
sospettai che si riferisse alle vostre relazioni con lei; dopo ciò che
mi avete narrato è manifesto. Vedete dunque come questo amore non fosse
per la disgraziata signora un motivo di speranza, ma di estrema
disperazione.

Il Vérod che era rimasto a udire tenendo stretto fra le mani il giornale
della morta, non seppe rispondere altrimenti che balbettando, confuso e
quasi spaurito:

--Voi credete?....

--Come dubitarne? Leggete piuttosto le pagine seguenti.

Il giovane lesse tra sè, e il giudice cercava invano di scoprire nel
viso di lui l'effetto della lettura. Talmente esso era scomposto, lo
sguardo era così inaridito, le occhiaie così incavate, i labbri avevano
preso pieghe tanto dolorose, che la nuova tristezza non poteva esprimere
una nuova lacrima dagli occhi, non poteva incidere una nuova ruga sul
viso.

--Voi vedete che la mia induzione di ieri è confermata da queste
confessioni. L'amor vostro accrebbe l'ambascia della povera donna, non
la consolò. Non lo sospettaste mai?

Il Vérod, deposto il libro, appoggiata la fronte alla mano, rispose
lentamente, come parlando a sè stesso:

--Io speravo. Credevo che anch'ella sperasse. Un giorno, ragionando
delle speranze, io dissi che la loro forza non è tutta eguale. Ve ne
sono alcune così salde come certezze immancabili: nel dolore, nella
miseria, queste si pèrdono. Ma c'è anche una speranza lontana, tenue,
fievole, che noi teniamo nascosta perchè un soffio la disperderebbe:
questa è la speranza che non muore mai, che nulla c'impedisce di
accogliere. Io dissi questa cosa. Ella assentì. Assentendo, non
partecipò al mio pensiero secreto, che una simile speranza luceva ancora
per noi?

--Voi stesso mi diceste ieri che, apparentemente libera, ella aveva
preso con sè stessa un impegno irrevocabile nel quale trovava
l'impedimento a un altro amore. Tale era infatti il suo sentimento: da
molti passaggi di questo giornale è evidente. Soltanto la forza dello
scrupolo era in lei molto maggiore di quel che forse voi non credete.
Udite, piuttosto...

E il Ferpierre lesse ad alta voce le pagine più significative delle
memorie. Il senso delle confessioni gli appariva ora più netto, il
dibattito di quella coscienza più grave. Per dimostrare al Vérod la
sincerità della narratrice egli lesse ancora altri passaggi, le ingenue
impressioni della giovanetta e della sposa. A poco a poco ricostruì
tutta la storia di quell'anima, come l'aveva ricostruita tra sè, durante
la prima lettura.

--Bisogna credere ciò che ella qui scrisse. Se a voi non disse queste
cose, se poteste comprendere che non disperava, ciò si spiega
umanamente. Nè la mente nè il cuore restano sempre in un solo pensiero e
in un solo sentimento, senza mutazione; la forza morale cresce e scema
da ora a ora. Dinanzi a voi ella poteva trovarsi meno armata contro le
lusinghe; sola, in cospetto della propria coscienza, ritrovava la
capacità di resistere. Notate ancora questa circostanza: ella che
consegnava alle pagine del suo diario tutte le sue impressioni, non
parla direttamente dell'amore per voi; se non fossero le parole scritte
la notte del 12 agosto e il giudizio trascritto dalla _Verità e Poesia_,
non sapremmo, da queste carte, che cosa era sopravvenuto ad aggravare
la sua condizione. Ciò dimostra chiaramente che ella aveva paura di
questa passione...

--Ciò non ne dimostra anche la forza?

--Sì, è vero; ma per sapere a qual partito ella doveva finalmente
apprendersi, bisogna ch'io vi esorti ad esser sincero: di che cosa la
richiedeste e fino a che punto spingeste la vostra richiesta?

Prima di potere rispondere il Vérod dovette stringersi la fronte tra le
mani. Udendo la lettura fatta dal giudice, penetrando nel secreto
dell'anima amata, rivivendo quasi la sua vita, un amaro incantesimo lo
aveva occupato. L'adorazione per la sua bellezza, la pietà dei suoi mali
erano cresciute, lo avevano talmente invaso da cancellare ogni altro
sentimento. Per poco egli quasi dimenticò che era morta; destavasi a un
tratto udendo riaccusarsi d'averla uccisa egli stesso.

--Di che potevo richiederla? Sospettate che io insistessi presso di lei,
io che la fuggii quando temetti che il solo sguardo mi tradisse? Credete
he io tentassi di violentarla e che ella si sia uccisa per sottrarsi
alla mia violenza?

Tale era infatti il sospetto del giudice. La condizione nella quale la
contessa e il Vérod si trovavano poteva durare, quantunque ambigua, se
per opera del giovane nulla fosse intervenuto a tentar di mutarla. Ora
che il Vérod, sentendosi amato, s'appagasse sempre della pura amicizia,
non pareva al giudice credibile. E se l'artista aveva adoperato i
sottili espedienti della poesia per sedurre quella donna, se aveva
nobilitato con la magia dell'espressione letteraria il suo scontento e
le sue brame, la contessa d'Arda, destatasi dal sogno d'un affetto
fraterno, trovandosi inevitabilmente al formidabile bivio di vivere
peccando o di morire per evitare la colpa, aveva potuto apprendersi al
più disperato, ma meno indegno proposito.

--Non dico che voi foste violento, nè per un'anima come quella della
vostra amica, con la dolorosa sensibilità della quale soffriva, sarebbe
occorsa la violenza a toglierla dalla fiducia. La sola naturale vivacità
della passione, una di quelle ardenti parole che l'amore inventa, che a
voi poeti non costano molto, doveva bastare a toglierla dall'illusione
che la seduceva, a dimostrarle inevitabile la trasformazione della
vostra amicizia, e a darle, con la previsione del male, l'idea di
sottrarsi finalmente a una vita troppo assediata dal dolore. Nè voi
forse sareste rimasto diminuito nel suo concetto: ella doveva pensare
che in voi, in un uomo, l'impazienza del desiderio era naturale; che
l'errore era stato suo per non averla prevista!

--Avete ragione,--rispose il Vérod scrollando lentamente il
capo.--Questa cosa era naturale. Voi non potete credere che una cosa
naturale non si producesse. Non crederete che la fuggii, che la
rispettai, che l'obbedii. Voi non sapete la trasformazione che per virtù
sua avvenne in me.

--Ditemene qualche cosa.

--È difficile. Poichè io ho l'abitudine di dare forma letteraria ai
pensieri, voi troverete probabilmente nelle mie parole l'esagerazione
del retore. Non avete già sospettato che ricorressi agli artifizii dei
retori per esprimerle i sentimenti miei?

Era vero. Il Ferpierre, quantunque dal dolore del Vérod fosse inclinato
a un compatimento sincero, pure ne diffidava. Quell'uomo pareva migliore
delle sue opere, ma l'arte sua era troppo amara e disperata. Del più
nobile ed efficace strumento, della Parola, si serviva per un'opera
dissolvitrice. Come credere alla sua bontà?

--Non dico,--rispose tuttavia, piegato mal suo grado dal chiaroveggente
timore del giovane,--non dico che deliberamente, studiatamente, vi siate
messo a sedurla. Ma se già in ogni uomo...

--Non pensate che io sia un uomo diverso dagli altri,--interruppe il
Vérod.--La natura di ognuno di noi è duplice e le forze morali sono
latenti anche nelle anime brute. Perchè possano operare bisogna che
siano educate ed espresse da altre anime naturalmente migliori e più
forti. Questa creatura mi rivelò cose che io ignoravo. Se voi credete
alla verità, la verità è questa...

E con voce tremante, a occhi chini, narrò la storia della loro amicizia.
Il magistrato l'udiva ora con attenzione più indulgente; tuttavia il
dubbio che per vendicare la morta e perdere il rivale l'accusatore
tacesse qualche circostanza e si facesse migliore, s'insinuava
nell'animo suo.

--Una speranza sia pure tenue e remota dunque sorrideva a voi. Ma come
non pensaste che ciò che voi speravate doveva da lei esser temuto? Un
nuovo legame non doveva avvilirla?

Roberto Vérod guardò in faccia l'interrogatore.

--Io volevo farne la donna mia dinanzi al mondo e a Dio.

Con un cenno del capo il Ferpierre parve riconoscere che in tal caso la
sua argomentazione cadeva.

--Però,--riprese,--ella voleva essere degna del vostro rispetto e non
poteva sperarlo senza l'approvazione della propria coscienza. Ora ciò
che attenuava l'illegalità dei suoi rapporti col principe era appunto
l'idea, la certezza d'essersi unita con lui irrevocabilmente.
Lasciandolo, sia pure per contrarre una legittima unione, non doveva
ella vedere infirmata quell'idea e distrutta quella certezza?
L'ostacolo, se voi credete alla bellezza dell'anima sua, dovette
apparirle formidabile. È vero?

Il Vérod non rispose. Francesco Ferpierre sentì d'aver portato un colpo
giusto.

--Considerate che la via nella quale s'era messa non aveva
uscita,--continuò quest'ultimo dopo una pausa.--Sola speranza lecita per
lei era che il principe, riconoscendo i proprii torti e ripudiando
l'opera cruenta alla quale s'era dato, ripagasse finalmente l'amore e la
fede che ella aveva riposti in lui. Allora la loro passione si sarebbe
riscattata; quantunque nata male, sarebbe degnamente durata e avrebbe
prodotto un effetto buono. Forse era già tardi: ma quand'anche ella non
potesse più amarlo, dobbiamo credere che sarebbe rimasta al suo fianco,
vedendolo fatto migliore, se non felice certamente serena. Fuori di qui
non poteva esserci bene per lei. Quanto più debole era agli occhi del
mondo la parola che la univa a quell'uomo, tanto più forte doveva essere
per la sua coscienza; mancando la sanzione sociale e la sacra alla loro
unione, tanto più forte doveva essere la sanzione morale. Nonostante i
disinganni, i dolori, gli oltraggi patiti, ella doveva restare fedele a
colui che aveva accettato come compagno della sua vita. Gli estremi
torti del coniuge consentono forse ad una moglie infelice di cercare
altro bene con altri? Pensate che il sentimento di questo dovere era in
lei afforzato dall'impegno di dimostrare al miscredente la potenza di
quegli scrupoli che egli schernisce, e riconoscerete che la morte doveva
apparirle nuovamente, fatalmente, come il termine della sua sventura.
Per credere che ella potesse accettare d'unirsi con voi, dovete
ammettere che i suoi scrupoli non fossero molto sinceri... che fossero
certamente poco forti. So bene che la passione ragiona altrimenti; che,
secondo il comune giudizio, alla forza dell'amore nulla deve resistere;
ma ciò potrà esser vero, se mai, d'un primo, d'un solo amore; il
continuo rinnovarsi di simili trionfi è a costo della dignità, del
rispetto, dell'onore, di una quantità d'altre cose che importano
anch'esse moltissimo. La vostra amica, già una prima volta lasciando
parlare il solo amore, aveva seguito una via traversa. C'era in fondo
all'animo suo il sentimento lodevole del riscatto da operare; ma ella
pur sentiva d'aver errato. L'amor vostro doveva rivelarle l'abisso che
ella rasentava. Voi stesso, con la fiducia e con la sola speranza di
poterla un giorno piegare, ve la spingevate. Volevate farne la donna
vostra; ma, sollecitati entrambi dalla passione, era verisimile che,
date le condizioni nelle quali ella si trovava, aveste aspettato?
Volevate mettervi sulla via diritta, ma un giorno non vi sareste trovati
immancabilmente per una via obliqua? Ella non doveva prevedere di non
potervi resistere?... Voi siete poeta, voi conoscete la vita, voi
studiate il cuore degli uomini: a che serve l'arte vostra se non vi fece
antivedere tutte queste cose?

Il giudice aveva parlato molto severamente. Roberto Vérod taceva, a capo
basso.

--Ma torniamo a ciò che preme per il momento. Non m'avete detto che la
vedeste la vigilia della morte?

--Sì, nel pomeriggio.

--Da lei?

--Sì.

--Che cosa le diceste?... Parlaste del vostro amore?...

Vedendo che il Vérod esitava a rispondere, il magistrato insistè:

--Bisogna, ripeto, che siate sincero. Il fatto che pare meno importante,
una parola, un niente possono metterci sulla strada della verità. Se la
passione vi spinge a far punire un assassinio, la coscienza deve
rammentarvi che la giustizia non conosce passioni. Le parlaste del
vostro amore?

--Sì.

E Roberto Vérod tremava.

L'ultimo suo colloquio con l'amica, il più appassionato, il più intimo,
quel colloquio dopo il quale egli aveva sperato con nuovo fervore, era
per lui la massima prova contro gli assassini: poteva forse pensare alla
morte la donna che lo aveva lasciato parlare d'un migliore avvenire? Ma
egli comprendeva che, secondo le induzioni del magistrato, il valore di
quella prova veniva ad essere invertito; che dalla prossima
contemplazione d'una felicità alla quale credeva e sentiva di non
potersi accostare, ella era stata appunto determinata all'ultimo passo.
E se il magistrato aveva ragione, la severità delle sue parole restava
giustificata; ma, più della severità di quell'uomo, l'intima coscienza
del male fatto alla creatura che egli doveva e voleva vegliare con
trepida cura lo straziava, ineffabilmente. Non più, come il giorno
innanzi, egli gridava dal dolore; ma si sentiva premere, stringere,
torcere il cuore da una mano di ferro; soffocava, le parole gli morivano
sulle labbra, sentendo di dover dire la verità e comprendendo che la
verità sarebbe stata contro di lui.

--Sì, le parlai dell'amor mio... Parlammo della nuova stagione, del
freddo che presto ci avrebbe scacciati di qui... Io volevo sapere dove
sarebbe andata, dove e quando avrei potuto rivederla. Ella mi disse:
«Non so ancora dove andrò; forse a Nizza, forse a Biarritz. Non è meglio
ignorarlo, per voi e per me?...»

--Vedete?... E poi?

--Io dissi: «Sia come volete. Da lontano, da vicino, pensate che vivo di
voi...» Ella chiuse gli occhi. Io soggiunsi: «È la verità. Dovrei
nasconderla? Non m'avete insegnato a dir sempre la verità? Non la
sapete, d'altronde?...» Tacemmo. Il cielo si era oscurato; ella guardava
i grigi vapori che salivano su per le coste dei monti e ne sbiadivano il
verde; guardava il lago grigio e increspato come piombo che si liquefa;
gli alberi piegarsi sotto il vento, perdere le prime foglie. Io
ripensavo il suo pensiero elegiaco dinanzi alla visione autunnale. Le
dissi: «Il colore che pare del cielo nei nostri occhi. L'azzurro è nero
nella tristezza; nella letizia il grigio è celeste.» Una nube azzurrina
fra i vapori cenerognoli pareva uno squarcio di cielo. Ella soggiunse:
«Sì, ma è un inganno; il cielo è chiuso.» Replicai: «Fra breve si
schiuderà.» A poco a poco tutto il paesaggio si era velato, tutti i
colori erano scomparsi; non si vedevano altri toni che di bianco e di
nero: i monti neri, le acque plumbee, le spume argentine, le nebbie
cineree, nuvole candide, nuvole pallide, nuvole ferrigne. Ella disse:
«Non pare un acquerello?» Assentii. Soggiunsi: «È altrettanto bello così
come quando il sole risplende.» Parlai ancora. Dissi che una luce
interiore illuminava tutta la mia vita, che io non vedevo se non forme
della bellezza, ovunque. La sua bellezza pallida era meravigliosa,
pareva tutta dipendere dal pallore delle cose circostanti. Presi la sua
mano. Un calore di vita fluiva dalla sua mano per tutto il mio corpo.
Ella la ritrasse impallidendo ancora. Non dissi nulla, ma il pianto mi
gonfiò gli occhi. Disse ella: «Comprendete che bisogna lasciarci.»
Risposi: «La vostra volontà sarà fatta, sempre. Se volete, io partirò
domani. Aspetterò da lontano. Se volete che non aspetti, che non speri,
cercherò d'obbedirvi. Sarà difficile svellere la speranza per la quale
la vita si regge; ma pensate che il mio piacere, il mio orgoglio, il mio
vanto consiste nell'essere come voi volete...» Tutto era scomparso alla
vista: i candori delle nubi, le nerezze dei monti sfumavano e si
confondevano in un grigio uniforme. La pioggia cominciava a cadere. Ella
rabbrividì. Io ripresi la sua mano. Volevo significarle che era il gesto
del saluto, che ella poteva lasciare la sua mano nella mia, un'ultima
volta. Non seppi dire. Ella non ritrasse la mano, nè io potevo ancora
parlare; troppi pensieri mi premevano...

--Non sentivate la lotta formidabile che si combatteva in lei?

All'interruzione il Vérod scrollò il capo ripetutamente.

--Non so, non so... Troppi pensieri volevano essere espressi; ma un'idea
mi occupava: «Se parlerò, io perderò la sua mano.» Il velo della nebbia
ora si veniva diradando; quando il lago appariva le ondate spumose che
sorgevano e svanivano davano imagine di rapide accensioni abbaglianti.
Un lembo di cielo sorrise. Allora dissi: «Vedete l'azzurro?...» Ella si
levò...

--E poi?--domandò il giudice, alla reticenza del narratore.

Le cose da dire dovevano essere più gravi, il giovane doveva sentirle
contrarie all'accusa per arrestarsi così.

--E poi?... Dite tutto: bisogna dir tutto!...

--Ella parlò di quell'altro. Io sapevo che non più l'amore, ma solo
l'idea d'un dovere la legava. Mi disse queste parole, levandosi: «Io non
merito l'amor vostro. La sincerità che lodo e pretendo negli altri mi è
mancata. Voi sapete e già vi dissi che non sono libera... Ma l'uomo al
quale ero unita mi aveva lasciata, voi non lo vedevate al mio fianco,
entrambi potevamo credere che non sarebbe più tornato. Ora egli è qui.
Se volete che io continui a stimarmi, non mi dite più nulla...»

--Vedete? Vedete?... E voi?

--Io risposi: «Sia come volete, ma costui vi lascerà ancora una
volta!...»

--Vedete? Vedete?--ripetè il magistrato.--Se voi le diceste queste
parole con la voce dura con la quale ora le riferite, non pensate che
ella dovesse aver paura dell'odio vostro contro quell'uomo?... Non
dovette ella comprendere che, nonostante il vostro rispetto per lei,
l'idea che ella era di quell'indegno avrebbe menomato il vostro
sentimento?... E come vi rispose?...

Il Vérod, che aveva abbassato la fronte, riprese pianissimo:

--Nascose il volto fra le mani.

--E non sentiste in quel momento che ella aveva ragione, che fra voi due
l'amore era condannato a una trista vita? Non comprendeste che bisognava
lasciare quella donna al suo destino per evitargliene uno peggiore?

--Non dite così!--proruppe il Vérod giungendo le mani, alzando lo
sguardo tra umile e ardente in faccia al magistrato.--Non dite così!...
Io non so, non posso dirvi che cosa sentissi... Sì, forse questi
sentimenti, altri ancora, meno definibili, occupavano l'animo mio; ma io
l'amavo, sentivo che m'amava, la vedevo occupata di me, soffrire per me;
e fuggire, lasciarla sola, non dirle l'impeto della mia gratitudine,
della tenerezza, della pietà; non dirle che tremavo per lei, che volevo
morire per lei, non mescolare le mie lacrime alle sue, questa cosa era
impossibile!

--Voi parlaste così?

--Dovevo parlare. Ella m'udì. Il temporale era finito, il sole splendeva
sul vivido verde. Io dissi che la tempesta della sua vita si sarebbe un
giorno sedata, che quel giorno io sarei stato ancora suo. Ella mi disse:
«Se vi avessi conosciuto prima!...» Io parlai ancora. Non chiedevo
nulla, ma volevo e dovevo dire che nulla vi è d'irreparabile al mondo,
che questa vita sarebbe veramente troppo malvagia se la speranza non la
confortasse. Le dissi un'altra cosa più vera, triste forse: che la gioia
è più nell'aspettazione che nell'ottenimento; che perciò la speranza è
il massimo bene. Le domandai: «Non è forse vero?» Ella rispose: «Sì.»
Questa parola, la parola dell'assenso, fu l'ultima sua...

Il Ferpierre lasciò che l'eco della voce appassionata si disperdesse.
Incrociate le braccia sul petto, proferì poi lentamente, dopo un breve
silenzio:

--Orbene: noi non abbiamo ancora testimonianze lampanti della verità, e
voglio credere che da un momento all'altro si possa trovare la prova
irrecusabile della vostra accusa. Voglio concedere che quando avremo la
lettera diretta a suor Anna Brighton, troveremo che in questo foglio
scritto due ore prima della sua morte la contessa non solamente non
parlava di morire, ma esprimeva al contrario l'imminente felicità. Ma
ora come ora, se la logica ha da valere qualcosa, bisogna credere al
suicidio.

Poichè il Vérod non rispose, guardandolo timidamente, egli riprese:

--Quest'ultimo vostro colloquio, del quale non volete riconoscere
l'importanza, basta a spiegare la catastrofe. Io presentivo che qualche
cosa dovesse essere avvenuta fra voi per la quale ella aveva visto
spalancarsi un baratro dinanzi ai suoi passi. Se la disgraziata
illudevasi sulla possibilità d'una pura amicizia, le ultime vostre
parole doverono disingannarla. Tutti gli argomenti che le adduceste sono
i consueti sofismi della passione. Voi non chiedevate nulla: anche
l'uomo per il quale s'era perduta aveva detto così. La logica della vita
è quella che costui le aveva crudamente rivelata: «Chi ha fame deve
cibarsi.» Se la speranza è il massimo bene, intanto essa ci giova in
quanto pensiamo di conseguirne l'oggetto; nessuno al mondo si consola
imaginando un bene al quale non potrà mai arrivare. Logicamente,
necessariamente ella doveva cadere in un nuovo errore. Dico errore, ma
potrei anche dire colpa. Non dubito dell'onestà delle vostre intenzioni,
ma la debolezza vostra e sua ve la avrebbe fatta dimenticare. L'ardenza
del desiderio vi spingeva a contrarre un impegno del quale forse vi
sareste pentito. Anche senza la previsione del vostro pentimento ella si
sentiva preclusa la via ad una nuova gioia. Tutti questi pensieri che la
disgraziata aveva lungamente considerati si dovevano ridestare più
urgenti, più molesti, più funesti dopo le vostre parole. Quale momento
sceglieste per parlare? Il più grave. L'uomo cui si era legata tornava
presso di lei. Egli era diventato migliore; abbiamo la testimonianza di
Giulia Pico, dalla quale risulta che il principe cominciava a diportarsi
meglio verso l'amica. Se, dunque, ella aveva pure cercato di
persuadersi talvolta che il suo legame era sciolto dopo l'abbandono
patito, non poteva più sentirsi ora libera. Il dovere di restare con
quest'uomo al quale s'era data per sempre, che dimostrava d'apprezzare
l'amore di lei, questo dovere risorgeva, più imperioso. Lasciando un
traditore ella poteva trovare una qualche giustificazione, nè costui
avrebbe pensato di rinfacciarle l'instabilità di quella fede alla quale
ella voleva convertirlo: se pure l'avesse rimproverata di ciò, ella
aveva come rispondergli. Abbandonandolo ora che tornava a lei, ella
doveva sentirsi doppiamente colpevole. E restare con lui non poteva. Non
lo amava più d'amore; amava voi. E nei vostri occhi, nella vostra voce,
dove prima, quando, era sola, aveva letto soltanto l'amore e la pietà
per lei, ella sentì improvvisamente fremere l'odio contro l'uomo che
sorgeva a impedire la vostra felicità. Non solamente ella pensò di
dovere fatalmente scapitare nella vostra stima, ma temè di essere causa
di altri mali spingendo due uomini a odiarsi, forse ad uccidersi. Poche
ore dopo questa tempesta morale, costei, che è anche inferma
inguaribilmente, il cui petto è roso da un male senza riparo, che non ha
nessuno al mondo, nè padre nè fratello, manda via con un pretesto la
donna che ha sempre vegliato presso di lei; noi la troviamo morta, con
un'arma accanto, con l'arma che le apparteneva, che ella custodiva, con
l'arma alla quale aveva già pensato di chiedere l'ultimo riposo: io
debbo dire, voi dovete riconoscere che questa donna si è uccisa!

Il Ferpierre aveva parlato più duramente, quasi gli stesse dinanzi non
il vendicatore ma un accusato. E l'attitudine di Roberto Vérod era
quella d'un colpevole: a capo chino, con una mano sul petto, egli pareva
piegarsi sotto il peso del rimprovero altrui, del suo proprio rimorso.

--Non dite nulla? Non riconoscete l'esattezza dei miei ragionamenti?

--No!--proruppe il giovane, risollevandosi a un tratto, e in
atteggiamento quasi di sfida.--Non è così! Non può essere così! Non lo
posso credere, non lo crederò mai!... Questi pensieri furono i suoi, è
vero; ma sopra i pensieri di morte, più alto, più potente doveva essere
e fu il pensiero della vita e dell'amore. Anche a me non sarebbe nulla
costato darmi la morte, prima di conoscerla. Io avevo ragione di odiare
l'esistenza....

--La stessa ragione che ve la fece odiare a vent'anni?

Il Ferpierre disse queste parole quasi per un impeto incosciente.
Quantunque alla severità del suo ufficio non convenisse richiamare i
rapporti anticamente passati tra lui e l'accusatore, pure l'istintiva
curiosità di sapere se il giovane si ricordava ancora di lui lo pungeva
fino dal giorno innanzi.

--La stessa,--rispose il Vérod guardandolo negli occhi;--ma più urgente,
più sconsolata di quella che voi rammentate. Voi mi conoscete, è vero?
Anch'io subito vi riconobbi. Voi sapete che troppo presto io vidi la
miseria, il vuoto, l'orrore della vita.

--Come mai? Siete povero? Avete sofferto qualche ingiustizia per opera
degli uomini o del destino? Sì, io mi ricordo di voi; ma non so, come
non seppi, che cosa vi hanno fatto!

Il magistrato provava una specie di piacere nell'incalzare il
pessimista, nel costringerlo da presso a riconoscere l'errore del suo
sentimento.

--Nulla mi han fatto. Ma io piangevo di tutto. Forse ero infermo, sì; ma
inferma era l'anima, non già la fibra. Ella fu la mia salute. Dopo
averla veduta rinacqui. Questa è la potenza dell'amore: la sola
esistenza di una creatura amata è una ragione, la più potente ragione di
vivere.

--È ciò vero di qualunque amore?

--Non mi parlate degli ostacoli! Sì, io odio, io esecro, io vorrei come
già volli uccidere l'uomo che me la tolse, e l'odio trasparì dalle mie
parole. Sì, ella mi disse ciò che avete pensato, tutto ciò che il
ragionamento vi ha fatto scoprire; e nel comprendere che l'esistenza di
quest'uomo era d'ostacolo alla nostra felicità, io le dissi l'odio mio.
L'amore, l'amore ricambiato, cresce dinanzi all'ostacolo, tenta
spezzarlo; non cede. L'amore aspetta e spera. È vero, ella tremò quando
mi udì parlare così; ma ciò non le tolse di riconoscere che potevo, che
dovevo sperare. Non vi ho detto tutto ciò che accadde fra noi. Due
giorni prima dell'ultimo incontro io l'accompagnai sullo Chesand;
bevemmo a una fonte; io dopo di lei, nella stessa sua coppa, bevvi
l'acqua che ella aveva lasciata: fu come se avessi appressato la bocca
alla sua bocca. Ieri, quando ella mi consentì di sperare, io presi
ancora una volta la sua mano, la baciai avidamente. Ella tremò, ma non
la ritrasse. Io sentii che ella era mia, che avrei potuto cogliere un
altro bacio sul fiore delle sue labbra. E il domani, poche ore dopo, si
sarebbe uccisa?

--Ma sì! Ma sì!--replicò subitamente il giudice, vedendo che, nella foga
della difesa, il Vérod si scopriva.--Ma sì, poche ore dopo! Perchè
questo vostro contegno che vi pare suggerito dall'amore rispettoso e
obbediente, sapete voi da qual amore è suggerito? Dall'amore prepotente
ed egoista! Perchè questi piaceri dei quali voi godevate, che ve ne
facevano antivedere altri maggiori, dovevano invece atterrir lei!...
Ella era pure una creatura di carne: dinanzi a voi non trovò la forza di
resistere all'esigente passione; sola con la propria coscienza ne udì le
voci imperiose! Tutta l'ultima parte del suo diario è piena di un
pensiero di morte; vi stupite che, al bivio, lo ponesse ad effetto?

--Lo disse, lo scrisse; ma nel momento di compiere l'atto il pensiero di
Dio dovè fermarle la mano.

--Il pensiero di Dio le fermò tante volte la mano, ma nel momento della
massima pena s'è uccisa!

--Senza lasciarmi una sola parola? Ella che sapeva d'avermi ridato alla
vita, avrebbe distrutto d'un colpo l'effetto dei suoi insegnamenti? Voi
dite che volle sottrarsi al male, uccidendosi; ma così facendo credete
forse che abbia ben fatto?

Il giudice restò a sua volta senza risposta. E il Vérod, comprendendo
d'avere ottenuto finalmente in quella lotta un reale vantaggio, incalzò:

--Ella pensava e scrisse che si può in qualche caso fuggire la vita
senza biasimo; ma potrà morire chi è solo, non già quegli dalla cui vita
un'altra dipende. Non avete voi letto pur ora le sue parole? «Questo è
grave, nell'amore: che ciascun amante non è solo responsabile delle
proprie azioni, ma anche di quelle alle quali spinge l'amato.» Ed ella
m'avrebbe dato l'esempio della morte?... Io credo alla bellezza
dell'anima sua, non credo ad altro. Ma la certezza che ella non s'è
uccisa non lede la fede mia.

--Il dovere di non lasciare l'uomo al quale si era sposata in cuor suo
era dunque una fisima?

--Non s'era sposata realmente.

--Che cosa significava allora quel legame, se la legge non lo aveva
sanzionato?

--Credete voi alla bontà, alla perfezione delle leggi umane? Credete che
nell'osservarle letteralmente sia la salute?

--Ne dubitate? E sono questi i principii che propagate con i vostri
libri? E con questi principii avete tanta avversione per il nihilista?
Non sapete che siete voi negatori, voi pessimisti, i suoi maestri, gli
eccitatori di tutte queste anime audaci cui non basta l'astratta
speculazione, ma che traducono in atto, logicamente, i vostri
ragionamenti?

--Io non nego le leggi, dico che esse non risolvono le difficoltà dentro
alle quali noi siamo condannati ad aggirarci, le esprimono soltanto. Se
anche ella si fosse unita legalmente a quell'uomo....

--Voi avreste avuto il diritto di sedurla, di toglierla a lui? Ella
avrebbe potuto venir meno alla parola data?

--Non si può giurare d'amar sempre....

--Voi però lo giuravate a lei?

--Non si può amare chi non ama.

--Direste altrettanto se foste voi l'abbandonato?

E come alle stringenti argomentazioni il giovane restava muto e confuso,
il giudice riprese con altro tono di voce:

--Ah! Noi non siamo lontani, come vi potrà forse parere, dall'oggetto
della nostra indagine! Queste idee, il contrasto dell'illusione con la
realtà, il dissidio del dovere col piacere dilaniarono la disgraziata.
Ella vide e sentì quanto la vita è difficile. Che abbia voluto lasciarla
è troppo evidente. Resta da dimostrare che realmente mise in atto il
proposito. Le testimonianze dirette ci mancano; ma tutte le presunzioni
sono contro di voi. Considerate freddamente, se ne siete capace, la
somma delle circostanze dinanzi alle quali ci troviamo, e vedrete che ho
ragione di pensare così. Avete denunziato le due persone che erano in
casa di lei nel momento della morte; ma contro quale delle due bisogna
precisamente rivolgere i sospetti e le indagini? Sarebbe tempo di
decidersi! È colpevole il principe? E perchè mai egli avrebbe uccisa la
disgraziata? Per gelosia? Ma, innanzi tutto, voi mi dovete concedere che
quest'uomo, al quale non attribuite altra capacità se non quella
dell'odio e del male, avesse ripreso ad amare la contessa e soffrisse
sapendo di averne perduto l'affetto. Ma era ella vostra? Assecondava la
vostra passione? Voleva lasciarlo e venirsene con voi? No, al contrario!
Fino all'ultimo momento ella si sente vincolata a lui, rifiuta di
udirvi, vi scongiura di lasciarla! A stento, dopo lunghe insistenze, voi
le strappate il permesso di sperare: una speranza ambigua, incerta,
lontana; un permesso del quale potreste anche fare a meno, che ella non
vi potrebbe negare e che non l'impegna a nulla. Dato il carattere
dell'amica vostra, la serietà dei suoi scrupoli, la sincerità dei suoi
rimorsi, noi dobbiamo credere che, appena voi andaste via, ella
ricominciò ad incolparsi, a interdirsi la speranza prima consentita. In
questa situazione che motivo aveva il principe di ucciderla? L'amava
ancora o, se vi piace, era geloso d'una gelosia tutta brutale, di quella
gelosia che è offesa al sentimento di proprietà e nient'altro. Ma di che
poteva accusarla? Non di essersi data a voi! Egli doveva anzi esser
certo che il più lieve sforzo di bontà, una prova d'amore, una parola
buona avrebbero impedito che la contessa fosse vostra. Io voglio credere
che non la gelosia, non l'odio vi facciano disistimare tanto quest'uomo;
ammetto che i buoni sentimenti gli siano sconosciuti e che egli sia
veramente capace d'un volgare delitto. Ma la malvagità più brutale ha
pure bisogno d'un pretesto, se non d'una ragione, per armarsi e colpire.
Io non vedo qui nè ragioni nè pretesti. Supponete forse che, dopo avervi
con tanta pena accordato un assenso tanto ambiguo, ella andasse da lui
per provocarlo, dichiarandogli ad un tratto d'amar voi? Forse l'amor
proprio vi suggerisce, a vostra insaputa, questo ragionamento. Esso è
illogico. Se la contessa avesse voluto secondare l'inclinazione che
sentiva per voi, nessuno glie lo avrebbe vietato quando Zakunine era
lontano. Anche ora aveva ella veramente bisogno di chiederne licenza a
quest'uomo? Se l'impedimento fosse venuto da costui ella avrebbe potuto
ribellarsi e sfidare; ma non veniva da lui, sibbene da lei stessa, dalla
sua intima coscienza. Dunque l'ipotesi è assurda. Volete rifarvi con la
nihilista? Amando il principe questa era gelosa della contessa e perciò
l'avrebbe uccisa? Ma qui le difficoltà non sono minori, al contrario!
Prima di tutto si dovrebbe dimostrare che sono amanti, cosa che negano;
poi, quando pure ciò si provasse, perchè la Natzichev uccidesse la
contessa bisognava che quest'ultima fosse d'ostacolo all'amor suo. Come
mai? La disgraziata sapeva e poteva forse vietare al principe di
andarsene con altre donne? Che ombra poteva ella dare alla nihilista? I
due Russi non erano liberi di continuare a starsene insieme a Zurigo? Se
l'omicidio non si può ragionevolmente imputare nè all'uno nè all'altra,
potremo supporre che lo abbiano commesso insieme? L'assurdità sarebbe
doppia! Ora, se la vostra amica non avesse avuto ragione di fuggire la
vita, noi dovremmo, quantunque poco fondato, accogliere il sospetto
dell'assassinio. Ma i motivi che l'avrebbero spinta ad uccidersi non
solamente non mancano, ma abbondano. Voi avete nondimeno dalla vostra
parte un argomento, uno solo....

Il Ferpierre sostò un momento per riprendere fiato. Roberto Vérod
restava nell'attitudine con la quale lo aveva udito: a capo chino, le
mani strettamente congiunte, come quegli che aspetta un colpo mortale.

--Nella situazione della contessa d'Arda, tra gli scrupoli morali e gli
allettamenti della passione, nè cento nè mille donne s'uccidono.
Aspettano. Col tempo s'accomodano a condizioni di vita che per un
momento credettero insoffribili; vengono a patti con i loro scrupoli,
trovano nell'altrui esempio una scusa, sperano nella redenzione futura.
Tale è la condotta di tutte, di quasi tutte. Voi avete definito bene,
fin dal primo momento, l'importanza di questa ragione. Ma per credere
così, per sostenere che dopo l'ultima spiegazione con voi, dinanzi alla
visione del male inevitabile, ella non si sia uccisa, dovete concedere
che la vostra amica, che questa donna della quale decantate la grandezza
dell'anima, che veramente m'è parsa, in queste sue confessioni e per le
testimonianze di chi la conobbe, superiore a molte altre, dovete
concedere, dico, che fosse invece come tutte le altre, anch'ella capace
delle comode transazioni delle quali siamo spettatori quotidiani. È
bensì vero: chi si uccide non dà prova d'animo strenuo nè di fede
incrollabile; ma se, per opera vostra, questa infelice si trovò
nell'impossibilità di scegliere un terzo partito, io debbo credere che
la sua scelta cadesse su quello dei due che è meno brutto. E non è
proprio strano che debba io sostenere, contro di voi, la forza della sua
coscienza, la delicatezza dell'onor suo?....

Allora il Vérod, levandosi e premendosi la fronte con la destra,
esclamò, vinto, perduto:

--Non dite così!... Sì, è vero... Avete ragione... Potete avere
ragione... Ma non lo dite, non lo ripetete!... Perchè allora io, io
stesso l'avrei uccisa!... Ella sarebbe morta per me! per me!... E
vedete: a questo pensiero, a questo dubbio, il cuore mi si schianta, io
mi sento impazzire...




VI.

L'INCHIESTA.


Quando il giudice rimase solo, la fiducia che lo aveva sostenuto cadde
ad un tratto. La resistenza dei Vérod gli era stata di sprone
suggerendogli argomenti la forza dei quali contro l'accusa sembravagli
grande: sentendosi da ultimo dare ragione, invece d'affermarsi nella sua
opinione tornava a dubitare. La sua ricostruzione del dramma era
verisimile, ma nessuno poteva testimoniare che fosse vera; e la
possibilità dell'assassinio era veramente insostenibile? Dopo avere
lumeggiata una delle due ipotesi egli doveva esaminar l'altra; a questa
impresa accingevasi con cresciuta antipatia per gli accusati. Scosso dal
dolore del Vérod, ricredutosi rispetto alla morta, egli diffidava ora
maggiormente dei Russi.

Il domani dell'interrogatorio del giovane, insieme con i pacchi delle
carte sequestrate a Nizza ed a Zurigo, egli ebbe le informazioni
richieste al capo del dipartimento di polizia e alla legazione di Russia
a Berna intorno ai nihilisti. Ciò che già sapeva dell'indole del
principe Alessio Petrovich restava confermato e documentato da quei
rapporti lunghi e minuziosi, pieni delle deposizioni assunte nei
precedenti processi politici. Ma egli seppe pure alcune cose che non
sospettava.

Erede del genio della razza slava, mosso da sentimenti impetuosi e
troppo vicini ai primitivi istinti, Zakunine era anche infermo di
quell'isterismo che la moderna scienza delle malattie nervose ha trovato
non essere più doloroso privilegio del sesso femminile. Di lui, della
tumultuosa sua gioventù si narravano cose veramente incredibili.
Cresciuto orfano di padre, il suo odio per il secondo marito della
madre si era sfogato in ismanie omicide. Battuto a sangue, punito più
selvaggiamente che non avesse peccato, il suo carattere s'era peggio
inasprito.

Un giorno, a dieci anni, passeggiando con un compagno della sua stessa
età, si era appressato a una stazione ferroviaria; l'amico gli aveva
spiegato che i cantonieri percorrono i tratti di via a ciascuno di loro
affidati per accertarsi che nessun ostacolo minaccia l'incolumità del
convoglio; allora egli, profittando d'un momento che il compagno non
l'osservava, senz'altro scopo che una perversa curiosità del male, aveva
messo sotto le rotaie due grossi sassi e s'era indugiato fino all'arrivo
del treno per godere lo spettacolo della catastrofe. I sassi erano
grossi ma per fortuna friabili; le ruote della macchina li avevano
ridotti in polvere senza scostarsi d'una linea.

Un'altra volta, un poco più innanzi negli anni, la fredda insania di
quell'anima s'era manifestata in altro modo, contro sè stessa. Girando
per le sue possessioni della Piccola Russia, il figliuolo d'un mugik che
gli faceva da guida gli veniva spiegando le qualità dei vegetali;
dinanzi a una verde macchia, additata una pianta bassa dalle foglie
lunghe e villose, aveva detto: «Questo è giusquiamo, veleno tremendo.»
Allora, rapidamente, prima che la sua guida avesse tempo, non che
d'impedire l'atto, ma neppure d'accorgersene, egli aveva strappato
quante foglie la sua mano capiva, divorandole. La guida si era
ingannata, quella pianta non era giusquiamo; ma per un giorno tutti
avevano creduto Alessio Zakunine avvelenato ed erano rimasti tra
ammirati e sgomenti vedendo l'ironica allegria con la quale egli
aspettava la morte e sferzava i trepidanti.

Tutta la sua prima gioventù era stata una tempesta. Senza denaro, il
demone del giuoco lo aveva afferrato per i capelli: una notte, perduta
una somma fortissima che non poteva pagare, si era tirato un colpo di
revolver al cuore per non sopravvivere alla vergogna; la palla,
deviando, gli aveva fracassato l'omero. Battutosi in duello per una
quistione turpe e non riconciliatosi con l'avversario, lo aveva più
tardi salvato dalla morte, a rischio della propria vita, eroicamente.

Era stato impossibile, fino a diciotto anni, fargli apprendere nulla,
persuaderlo ad ascoltare una sola lezione; confuso una volta da una
donna, da una fanciulla, che gli parlava francese credendolo pratico di
questa lingua, aveva mutato vita da un giorno all'altro: per due, per
tre anni nessuno lo vide più: datosi allo studio con la foga che metteva
nelle cose maligne, aveva rapidamente acquistato il tempo perduto.

Intelligenza tersa ed acuta, nulla gli riusciva difficile. La sua
volontà era capace di fermezze ferree, di perseveranze instancabili, ma
non si manteneva sempre eguale; crisi di fiacchezze nervose, di
rilassamenti malaticci si alternavano con gli sforzi protervi. Questo
lato della sua costituzione morale era meno noto perchè egli metteva una
specie di geloso pudore nel nascondere le proprie debolezze. Nondimeno
era stato visto piangere.

Freddo e duro con i suoi proprii simili, amava d'umano amore le bestie.
Appassionato della caccia, i suoi cani gli tenevano luogo d'amici:
parlava con essi, li baciava, li guardava lungamente negli occhi quasi
per penetrare nell'oscura anima bruta. Dinanzi a quelle infime anime
egli si faceva umile: serviva le sue bestie, trascurava sè stesso per
badare che non mancassero di nulla; se qualcuna ammalavasi non aveva più
un momento di pace. Quando uno dei suoi cani morì, con la testa adagiata
sui ginocchi di lui, guardandolo con i miti occhi appannati; quando egli
vide irrigidite le elastiche forme, quando sentì freddo e inerte il
corpo prima vibrante sotto le carezze, quando ebbe compreso il mistero
della morte, il pianto, un muto e lungo pianto spetrò i suoi occhi. Per
le femmine non era stata mai tanto tenero come per i maschi; i colpi di
scudiscio, nei momenti d'ira, cadevano soltanto su quelle. Egli si
ricredette il giorno che una di esse, dato con stento alla luce mezza
dozzina di piccoli, si ammalò ma non sofferse che i figli le fossero
tolti, e tanto lamentosamente guaì che glie li restituirono, e spirò con
la prole attaccata al petto febbricitante.

Dalla compagnia delle donne aveva rifuggito come per istinto, fino da
piccolo. A vent'anni, morta sua madre, rimasto padrone d'un'immensa
fortuna, era uscito ad un tratto, con un voltafaccia repentino, dalla
vita solitaria delle campagne dove alternava i violenti esercizii con le
macerazioni dello studio, per darsi freddamente e quasi studiatamente
agli eleganti e malsani piaceri delle grandi città. Sciupò molto denaro
e molta forza nervosa, la sua costituzione già squilibrata deperì.
L'amore, il primo amor d'anima, gli fu ispirato dalla figlia del
principe Arkof. Con un morale anacronismo che in quella natura fuor del
comune non doveva stupire, egli amò del fanciullesco, ingenuo e timido
sentimento quando per ogni altro uomo non ne è più la stagione. La sua
adolescenza solitaria e selvaggia non era stata visitata da fantasmi
poetici; ma, per quelle leggi d'equilibrio e di compenso che sembrano
estendere il proprio impero dal mondo della materia al mondo dello
spirito, la poesia del cuore, alla virtù della quale egli pareva essersi
sottratto, lo invase quando fu immerso nei più prosaici e disgustosi
amori. Come la confusione provata una volta lo aveva spinto a trarre la
propria mente dai limbi dell'ignoranza, così il turbamento sentimentale
redense l'anima sua. Da un giorno all'altro, per un tempo non breve,
nessuno più lo riconobbe: lasciate le indegne compagnie, fuggite le vili
occupazioni, con una reazione imprevedibile non visse se non di sogni,
di pura contemplazione, di adorazione muta e discreta; non altro
proponimento lo animò se non quello di rendersi, con una vita esemplare,
degno della creatura amata. L'incanto si ruppe e il malefizio tornò ad
operare su lui quando, per la tirannia dei parenti, la principessa
Caterina andò sposa al generale Borischoff, governatore di Kiew. Allora
gl'impeti selvaggi, le convulsioni violente tornarono ad assalirlo; ma,
cosa strana, non gli presero immediatamente la mano. La sincerità del
suo ravvedimento, la capacità sentimentale dell'anima sua furono provate
e misurate da ciò: che egli seppe frenarsi ed accettò di sapere in
braccio altrui la sposa del cuor suo. Egli che non le aveva quasi
parlato, che non ne conosceva i sentimenti, che si era appagato di
sospirarla da lontano, potè credere, vedendola accettare la mano del
generale, che lo amasse, che sarebbe stata felice con lui. E sanguinando
e struggendosi, tacque, scomparve, per non esserle d'ostacolo; ma quando
seppe che il fortunato rivale era immeritevole della fortuna ottenuta,
che non solo non faceva felice, ma avviliva, maltrattava e mortificava
la creatura alla quale egli aveva voluto risparmiare, non che un dolore,
un solo pensiero molesto, allora la furia del cruccio, del rimorso e
dello sdegno lo gettarono in mezzo ai nihilisti che meditavano
d'uccidere il terribile governatore. Scoperta la congiura, il gran nome
e più del nome il motivo tutto morale, estraneo alla politica, che lo
aveva animato, lo salvarono dalle pene crudeli inflitte ai suoi
compagni; ma quella politica, alla quale fino al giorno prima era stato
indifferente, lo infiammò subitamente.

Durante i preparativi del complotto, nella frequentazione dei
rivoluzionarii, egli non aveva potuto, dominato com'era da un'altra
idea, porre mente alle ragioni che armavano i suoi compagni; l'amore
della libertà, l'odio della tirannide, la sete di giustizia, l'ideale di
fratellanza dovevano essere per l'amante vendicatore incomprensibili; ma
quando fu arrestato e processato, quando conobbe le brutalità della
polizia, l'incoscienza dei giudici, l'eroismo dei complici; quando si
vide sbandito dalla patria; quando conobbe, girando per il mondo con la
morte nel cuore, i dolorosi contrasti delle grandezze superbe e delle
miserie insanabili, una nuova meta brillò repentinamente ai suoi occhi:
la redenzione umana.

Ma, come era da prevedere, neanche questa volta egli conobbe misura. In
Francia, in Olanda, in Germania, in Inghilterra cercò i capi del partito
nihilista ed anarchico, diede quanto potè della sua sostanza e tutta la
sua attività personale alla propaganda, si mescolò a nuove congiure che
sortirono effetti cruenti, fu ancora una volta processato e condannato a
morte. Con una temerità incredibile tornò in Russia, celatamente, più
volte, per intendersi con i suoi compagni di fede, per animarli e
dirigerli; fu per cadere nelle mani della giustizia, si salvò
miracolosamente, riprese più tardi a complottare all'estero sempre
sognando e preparando il cataclisma sociale che lo avrebbe restituito al
suo paese risorto.

Il giudice Ferpierre riportava dalla lettura di quei documenti
un'impressione vivace. L'istintiva avversione che egli provava per il
ribelle si era venuta secretamente temperando con un sentimento di
pietà. Quell'anima convulsa non era tutta malvagia: messa e guidata per
altre vie avrebbe potuto dare al mondo luminosi esempii di bene. Perchè
mai l'amore d'una creatura come la contessa d'Arda non l'aveva
guarita?...

Dell'influenza che questo amore aveva esercitata sul principe i rapporti
della polizia dicevano qualche cosa. Cinque anni innanzi, al tempo che
aveva conosciuto l'Italiana, l'attività politica di Zakunine era quasi
cessata. Pareva che egli avesse dimenticato i suoi ideali, i suoi
complici e tutto per vivere vicino all'amica. Il mutamento era tanto più
notevole quanto che non riguardava la politica ma anche i costumi.
L'esuberante e insaziata capacità di vita che era in quell'uomo non
s'appagava dell'assidua prosecuzione della riforma sociale: tra l'uno e
l'altro complotto egli trovava tempo di passare d'amore in amore. Le sue
fortune galanti erano innumerevoli: come per virtù d'un fascino tutte le
donne che aveva fatto oggetto d'un desiderio erano state sue. Da questa
vita egli era uscito per opera della contessa Fiorenza. Intorno ai
sentimenti da lui provati a quel tempo il giudice ebbe più precisa
notizia leggendo le carte trovate nel domicilio della defunta, a Nizza.
Fra quelle lettere, la più parte insignificanti o rivelatrici di cose
già note al Ferpierre, c'erano quelle che il principe aveva scritte
all'amica nei primordii dell'amor loro. Erano così appassionate e
ferventi che quasi un caldo alito se ne sprigionava: le parole
sospiravano, cantavano, ardevano come vive fiamme.

«Luce del mondo, vita dell'anima, sorriso della grazia, porto della
salute, volete voi udire ciò che nessun vivente udì mai? Mai nessun
vivente seppe chi sono. Io non ebbi madre, io non ebbi sorella. Non me
ne dolgo, ne sono altero e superbo, perchè ora a voi prima, ora a voi
sola potrò svelare il cuor mio...»

Ed egli le si confessava, candidamente: le diceva che era un infermo, un
fanciullo, un pazzo bisognoso di cure e d'amore; che l'apparente suo
coraggio nascondeva una paura infantile, che nella superbia era umile,
che odiando amava, che le lacrime della pietà erano in lui represse dai
sorrisi dello scherno, che trascorreva dall'uno all'altro estremo con
una dolorosa inquietudine, con un'ansia tormentosa, col bisogno
nostalgico d'una immutabile serenità.

«L'amor vostro sarà la salvezza, la pace, il porto, la terra promessa,
il paradiso perduto e ritrovato. Amatemi come ho bisogno d'essere amato,
come si amano i bambini e le bestie, d'un amore che sia indulgenza,
pietà, consolazione, lenimento e soccorso...»

Se la contessa d'Arda non era riuscita nell'opera bisognava darne a lei
la colpa? Rammentando il diario della morta e le stesse confessioni del
principe, il Ferpierre doveva ammettere che la colpa non era stata della
contessa ma dello stesso Zakunine. Forse se ella lo avesse conosciuto
prima, quando il male non aveva messo in lui radici tanto profonde, lo
avrebbe guarito; ma il loro incontro era avvenuto troppo tardi, e se per
un poco egli aveva dimenticato le inveterate abitudini di vita e di
pensiero, era ben tosto tornato quello di prima. E poichè le continue
reazioni di quell'anima parevano crescere in violenza, egli aveva fatto
scontare alla contessa Fiorenza le promesse di ravvedimento con le
derisioni e gli oltraggi. Credendo alle promesse di lui, la contessa lo
aveva condotto in Italia, a Milano, sui laghi lombardi, nei luoghi a lei
familiari, nelle case dove ella era vissuta, sperando che per la
lontananza dai compagni di fede e per la virtù del benefico clima morale
la guarigione sarebbe stata più pronta. Invece più rapido era stato il
disinganno, perchè dall'Italia egli si era fatto espellere. L'avventura
aveva fatto molto rumore nella penisola: quantunque il solo nome d'un
rivoluzionario come Zakunine potesse giustificare il provvedimento della
polizia italiana, il ministro Francalanza era stato accusato d'averlo
preso per ragioni intime, perchè c'era di mezzo una gran dama; vivaci
interpellanze erano state portate in Parlamento. Lo scandalo aveva
dolorosamente ferito la contessa; ma, nonostante, ella aveva seguito lo
sbandito, accettando l'esilio. Fuori d'Italia egli si era dato
nuovamente alle congiure ed agli amori, tutto quanto. L'anno innanzi un
grandioso tentativo rivoluzionario in Russia, da lui ideato e diretto,
era stato sul punto di riuscire. Mentre la nave che doveva trasportare
lo Czar da Pietroburgo a Kronstadt saltava in aria, mentre due
reggimenti si ribellavano a Mosca, mentre una colonna di condannati in
Siberia marciava in armi verso gli Urali, un manipolo di fuorusciti
sbarcava in Crimea e metteva in fiamme le province meridionali
dell'impero. Se l'autocrate si fosse trovato sul battello naufragato, la
sua morte nel punto che da tante parti gli audaci scendevano in armi
avrebbe forse segnato il principio della fine; ma, per un improvviso
mutamento, la Corte aveva seguito la via di terra, e allora le parziali
rivolte erano state soffocate nel sangue: dei capi, solo Zakunine,
rimasto lontano, sopravviveva.

Tale era l'uomo che Roberto Vérod accusava di aver ucciso la contessa
d'Arda.

--È costui capace d'aver commesso l'assassinio?--domandava il Ferpierre
a sè stesso; e contrariamente all'opinione di Giulia Pico rispondeva:

--È capace!

Ma aveva veramente uccisa la disgraziata? La capacità di delinquere non
valeva nulla, senz'altro. Nel suo giornale, Fiorenza d'Arda aveva, sì,
trascritto la minaccia di lui: «Se tu m'abbandoni quando non t'amo più,
te ne sono grato; se mi tradisci quando t'amo ancora, ti uccido:» ma,
come il giudice aveva dimostrato al Vérod, non era vero che la contessa
lo avesse tradito; amata ancora da lui, ella avrebbe trovato maggiori
difficoltà a lasciarlo; l'idea di restargli accanto per dovere,
quest'idea che appariva dominatrice del suo pensiero, sarebbe stata
rafforzata dal presentimento del dolore che gli avrebbe inflitto. E,
innanzi tutto, si doveva ancora provare che egli avesse veramente
ripreso ad amarla!

Che cosa aveva fatto negli ultimi tempi? Bisognava credere che tenesse
in un luogo secreto i documenti della sua attività rivoluzionaria,
perchè nel suo domicilio di Zurigo se ne trovarono pochissimi. Questi
tuttavia non erano senza importanza. Alcune lettere di correligionarii,
con date recenti, erano piene di sorde accuse. Dalla Russia i compagni
gli scrivevano lagnandosi a una voce del suo silenzio, della sua
freddezza, rimproverandogli di non mantenere promesse sulle quali
facevano assegno e quasi accusandolo di tradimento. I nihilisti avevano
deliberato un altro tentativo subito dopo l'ultimo disastro: un
tentativo che era disperato ed inutile, ma che pure avrebbe attestato
come l'imperversare della più feroce reazione non potesse toglier loro
l'ardire e la speranza. Ora essi gli scrivevano: «Mentre noi siamo qui
pronti a dare la nostra vita, mentre non aspettiamo altro che una
parola, tu ci abbandoni? Il tuo coraggio è dunque proprio finito dopo
Kronstadt? Eppure non arrischiasti gran cosa! Te ne rimanesti al sicuro,
mentre qui si moriva!...»

Come mai Zakunine si lasciava rimproverare così? I correligionarii lo
accusavano a torto, oppure lo zelo di lui si era veramente intepidito? E
in tal caso come e perchè l'ostinato ribelle aveva potuto distogliersi
dallo scopo della sua vita?

Pensando che già una prima volta, all'inizio della sua amicizia per la
contessa d'Arda, il principe aveva quasi tralasciato la propaganda;
considerando che, prima ancora d'aver concepito l'ideale politico, il
giovane era stato trasformato dall'amore della principessa Arkof, pareva
al giudice di dover sospettare che ancora nell'amore fosse la ragione
del nuovo mutamento. Era l'antica passione per la contessa
improvvisamente ridestatasi, oppure qualche nuova avventura? A priori,
il Ferpierre non poteva escludere che Zakunine avesse ripreso ad amare
Fiorenza d'Arda, anche dopo averle inflitto tanti tormenti: in un'anima
come la sua inclinata agli estremi, obbediente a contrarie
sollecitazioni, questo rinnovamento sentimentale era possibile,
specialmente dopo che la contessa amava il Vérod. Ma il contegno del
principe, negli ultimi tempi, non era tale da far accogliere l'ipotesi.
Se dalle dichiarazioni di Giulia Pico risultava che egli era diventato
migliore per l'antica amante, risultava pure che aveva continuato a
starsene lontano. Una visita di pochi giorni ogni due settimane od anche
ogni mese poteva appagare un cuore veramente innamorato e geloso? Poteva
Zakunine restarsene lontano quando sapeva che un altro gl'insidiava il
suo bene? Se l'amore, un amore così prepotente da spingerlo poi al
delitto, avesse dato nuove vampe nel suo cuore, egli avrebbe dovuto
gettarsi ai piedi della contessa, mostrarsi finalmente convertito e
redento, indurla a fuggire con lui, a nascondersi in qualche angolo
ignorato del mondo. Se egli avesse detto qualche cosa di simile, la
contessa sarebbe stata senza dubbio fortificata nella sua resistenza al
Vérod e un accenno se ne sarebbe trovato nel suo diario. O bisognava
credere che, struggendosi d'amore e di gelosia, il principe non le
avesse detto nulla per amor proprio, per alterigia? Da parte d'un suo
pari, d'un uomo il cui pensiero si mutava in azione rapidamente, come in
un fanciullo, ciò non era da credere. Per qual motivo tornava egli
dunque dall'amica e la trattava meglio nelle ancor troppo rare e brevi
sue visite?

Il Ferpierre scoperse questo motivo quando, fra l'altre, lesse anche le
lettere d'affari che il procuratore della contessa d'Arda le scriveva
dall'Italia. In queste lettere si parlava di cambiali del principe, di
conti che egli doveva rendere, di somme inviategli per mezzo di
banchieri. Era evidente che Zakunine, impegnata la sua sostanza
nell'opera rivoluzionaria, bisognoso anche di molti denari per la vita
dissipata, aveva ricorso all'amica sua. Nei primi tempi l'intimità del
loro legame scusava se non legittimava gl'imprestiti; più tardi, finito
l'amore e cominciati i mali trattamenti, egli non era stato in grado di
soddisfare gl'impegni. E frattanto i suoi bisogni erano divenuti più
urgenti. L'ultima cospirazione di Kronstadt gli era costata tanto, che
egli non aveva saputo più come fare: da lettere di risposta trovate a
Zurigo appariva che si era rivolto a più parti, insistendo
premurosamente per avere soccorsi.

A queste notizie il Ferpierre accolse un dubbio grave. Zakunine e la
nihilista avevano uccisa la contessa per impossessarsi del suo
denaro?...

Il sospetto, a priori, non era irrecusabile. In casa della morta si
erano trovati molti valori; ma ella era tanto ricca che forse ne aveva
potuto possedere, l'ultimo giorno, per una somma maggiore. Ad arte i due
Russi, se il furto era il movente del crimine, potevano non averli
involati tutti: ma difficilmente si spiegava in tal caso il modo
rumoroso col quale l'avevano uccisa e l'acuto dolore al quale Zakunine
era parso in preda; nè si poteva dire come e dove avessero nascosto le
somme rubate nei pochi istanti trascorsi fra il colpo e l'accorrere
delle persone di servizio. Si doveva credere che qualcuna di queste
persone fosse loro complice? Oppure che essi aspettassero ancora di
sottrarre i denari dopo aver fatto credere al suicidio, non prevedendo
l'accusa del Vérod?

Il Ferpierre deliberò di far chiedere a Milano al ragioniere di casa
d'Arda se i valori rinvenuti ai _Cyclamens_ erano interamente quelli che
si dovevano rinvenire, e di interrogare quindi i servi per iscoprire se
qualcuno di loro potesse, nella confusione del primo momento, aver preso
dagli assassini le somme mancanti. Ma quantunque egli tutto credesse
possibile al mondo, pure non ammetteva ora in Zakunine tanta malvagità
da uccidere per rubare. La supposizione che si poteva, che si doveva
logicamente fare era un'altra. Zakunine tornava dalla contessa non per
amore che sentisse di lei, ma per il bisogno dell'aiuto che ella poteva
dargli spontaneamente. Ricca oltre misura, avvezza a non spendere per sè
neanche la quarta parte delle sue rendite, ella poteva immediatamente
togliere l'antico amante dall'imbarazzo. Per ciò il principe veniva a
trovarla di tanto in tanto e le si mostrava migliore. L'amore, la
passione che non soffre indugi e lontananze, lo tratteneva altrove, lo
faceva vivere a Zurigo--dove viveva la Natzichev.

Era credibile che quell'uomo, a cui la leggenda attribuiva le amanti di
Don Giovanni, fosse rimasto vicino alla studente senza che la comunanza
delle dottrine e degli scopi non desse origine a relazioni più intime? E
qualche indizio a sostegno di questo sospetto non mancava. Come dalla
Russia, così dall'Inghilterra i compagni di fede si rivolgevano a lui,
rimproverandolo di averli abbandonati: «La vostra presenza è qui
necessaria,» gli scrivevano da Londra; «vi aspettiamo da quattro mesi:
che cosa v'impedisce di venire? Sarebbe tempo che manteneste la vostra
parola!... O qualche nuova avventura vi trattiene costì?...» Lo
scrittore di quella lettera aveva dunque avuto sentore degli amori con
la giovane profuga?

Fra le carte della Natzichev il giudice non ne trovò alcuna che gli
servisse. Si riferivano tutte agli studii di lei; c'erano molti scritti
sulle più dibattute quistioni sociali, bozze di articoli destinati alla
rassegna americana _The Rebel_, a fogli spagnuoli e olandesi con i quali
era in corrispondenza. Quantunque l'antipatia del magistrato non
cedesse, egli era costretto a riconoscere tra sè che la coltura della
giovanetta era fuor del comune: scriveva correttamente lo spagnuolo,
l'inglese e il tedesco; mandava ai giornali bibliografie nelle quali
rendeva conto d'ogni sorta di pubblicazioni scientifiche e filosofiche.
Le informazioni assunte alla polizia di Zurigo deponevano anch'esse in
favor suo. Ella aveva lasciato la Russia da tre anni, sola, senza mezzi,
dopo che il padre e il fratello erano stati deportati in Siberia per
mene rivoluzionarie. A Zurigo aveva cominciato il corso di medicina,
vivendo del proprio lavoro, con le traduzioni di opere scientifiche
fatte per conto di editori francesi e tedeschi. Era in relazione con
tutti i rifugiati politici, ma non aveva preso parte attiva a complotti;
anzi con gli scritti e con le parole disapprovava i continui e inutili
sacrifizii di vite. Inclinava alla propaganda morale, alla preparazione
delle coscienze; ma, natura ardente e virile, non avrebbe esitato a
scendere ella stessa all'azione se l'avesse creduta necessaria.

E quantunque dei suoi rapporti col principe nulla si dicesse di preciso,
il sospetto che fossero amanti si rafforzava. Amandola, stando a Zurigo
per lei, Zakunine non aveva abbandonato gli agitatori impazienti, oltre
che per la snervante azione dell'amore, anche per la persuasione
direttamente esercitata dalla giovane? Costei non doveva aver messo
opera a far ricredere il principe, a dimostrargli la stoltezza degli
inutili eccidii?

Queste supposizioni parevano al Ferpierre verisimili. E l'accusa del
Vérod ne restava sempre più infirmata. Se il principe amava la
nihilista, i suoi rapporti con la contessa non erano tale ostacolo da
spingerlo a ucciderla. Il ribelle per cui la legge coercitiva non aveva
valore, poteva sentirsi legato da uno scrupolo tutto morale? In realtà
non aveva egli già lasciato l'amante sua per correre a nuovi piaceri?
Che cosa gli vietava di fare altrettanto, con maggiore libertà delle
prime volte? Realmente egli si era avvicinato alla contessa e l'aveva
trattata con maggiori riguardi; ma se pure ciò poteva dimostrare che era
pentito dei mali trattamenti d'un tempo, il pentimento, il sopravvenire
degli scrupoli, contraddicevano all'ipotesi dell'assassinio: non poteva
volere la morte d'una creatura chi si pentiva d'esserle stato causa di
dolore.

Se il principe fosse stato marito della defunta; se, stanco di lei,
avesse voluto sposare la nihilista e se la nihilista avesse voluto
sposar lui, il dramma poteva ragionevolmente ricostruirsi così: finto
d'essere ravveduto, il marito tornava presso la moglie, persuadeva gli
altri e lei stessa della propria conversione in modo da stornare ogni
sospetto; poi, solo o con la complicità dell'amante, la uccideva per
liberarsi. Ma egli nè era indissolubilmente legato alla contessa, nè si
poteva credere che volesse legarsi alla giovane connazionale: tutte
queste supposizioni si dovevano abbandonare. Il ravvedimento di
quell'uomo era tuttavia sincero o per meglio dire credibile, perchè
aveva uno scopo: il bisogno di denaro. Oltre a questa, un'altra ragione
più sottile poteva spiegarlo.

Nella sua lunga e varia esperienza il Ferpierre aveva molto attentamente
studiato le passioni umane; egli sapeva che gli amanti infedeli sogliono
essere presi, nel punto del tradimento, da un senso di pietà per
l'amante tradito. Con la coscienza di far male, essi attenuano la
propria colpa accordando una commiserazione che dovrebbe dimostrare la
bontà dell'animo loro, ma che infatti è un godimento da egoisti e, come
tale, offende peggio i traditi. Il principe che aveva trascurato e
vilipeso l'amica sua quando era andato in cerca di semplici piaceri,
poteva essere stato disposto da una nuova passione a questa presuntuosa
pietà; per meglio gustare la propria fortuna era forse venuto a
contemplare lo spettacolo dell'infelicità da lui cagionata, a
confortarla ipocritamente.

Se questa era la giusta spiegazione del sentimento di Zakunine, quale
effetto doveva essersi prodotto nell'animo della contessa? Amando
anch'ella un altro uomo, poteva essere stata gelosa della nihilista e
per gelosia impotente darsi la morte? Non si poteva credere. Al
contrario: la certezza che il principe era d'un'altra doveva averle
procurato, nonostante la serietà che aveva per lei l'impegno preso con
la propria coscienza, un senso di liberazione; ella aveva dovuto sentire
che, a giudizio dei più, sarebbe stata ora scusabile se avesse ripreso
la propria parola. Ma contro questo accomodamento stavano tutti i suoi
scrupoli, e l'ipotesi del suicidio appariva anzi più naturale se la
disgraziata aveva ignorato che la pietà del principe era falsa.
Potendola credere sincera, ignorando il nuovo amore di lui, ella aveva
dovuto sentir crescere la difficoltà di secondare le speranze del Vérod.
Ma aveva realmente ignorato il nuovo amore del principe? Anzi il
principe amava realmente la nihilista? Il Ferpierre sentiva di dover
prima accertarsi di questa opinione, verisimile senza dubbio, ma non
ancora provata.

Recatosi al carcere dell'Evêché dove gli accusati erano detenuti, egli
deliberò di cominciare il nuovo interrogatorio dalla giovane. Lo
sprezzante atteggiamento di lei nel giorno della catastrofe gli aveva
lasciato il desiderio e quasi il bisogno di misurarsi con quell'anima
fiera per piegarla e forse confonderla. Il direttore delle prigioni,
intanto che i guardiani andavano a prendere l'accusata per condurla
dinanzi al magistrato, riferiva a quest'ultimo che il contegno di lei,
nei due giorni di prigionia, era stato quello di chi non solamente è
tranquillo ma sfida i sospetti. Si era lagnata della cella e del cibo,
aveva chiesto di poter leggere e scrivere, aveva scritto infatti uno
studio sull'emigrazione svizzera pieno di cifre e di notizie
statistiche. Introdotta nel gabinetto della direzione, sedette a un
cenno del Ferpierre sostenendone lo sguardo indagatore e incrociando le
braccia.

--Pare che la vostra memoria si sia finalmente destata?--cominciò il
giudice--Se le notizie e le cifre che avete consegnate in questo scritto
sono esatte, essa è anzi molto tenace! Vorrei quindi sperare che non vi
farà difetto riguardo alle cose ora principalmente utili a sapere. Da
quanto tempo conoscete il principe Alessio Petrovich?

--Da molti anni.

--Dalla Russia?

--Sì.

--Come lo conoscete?

--Era amico dei miei fratelli.

--I quali gli erano anche compagni di fede, naturalmente?... Dopo aver
lasciato il vostro paese, dove lo incontraste?

--Qui, a Losanna.

--Era solo?

--No.

--Era con la contessa?

--Con lei.

--Andaste voi da lui? Come vi vedeste?

--Seppe del mio arrivo, cercò egli stesso di me.

--Per che motivo? Per avere notizie di Russia? Per trascinarvi nei suoi
complotti?... Rispondete!

Ella rispose dopo un momento di silenzio:

--Per aiutarmi.

--In che modo?

--Io ero sola, senza mezzi, in paese sconosciuto. Venne a offrirmi il
suo appoggio.

--Vi diede denaro?

--L'offerse. Io lo rifiutai.

--Come vi giovò, dunque?

--Mi raccomandò a persone di sua conoscenza, mi procurò lezioni di
russo, mi fece scrivere sui giornali e le rassegne.

--Quanto tempo foste insieme?

--Un giorno.

--Partiste voi o partì lui?

--Io.

--Andaste allora a Zurigo?... Vi scriveste?... E quando vi rivedeste?

--Un anno dopo, a Lugano.

--Egli era solo?

--Sì.

--Non sapete perchè? Comprendeste che non amava più la contessa?

--Non m'occupai di queste cose.

--Perchè andaste a Lugano? Che cosa vi faceva egli stesso?

La giovane non rispose.

--Non lo volete dire?

--Non posso.

--Il partito vi adunava?

Ella restò ancora muta.

--Quanto tempo steste a Lugano?

--Tre giorni.

--E poi?

--Tornai a Zurigo.

--Quando ci venne egli?

--In questo aprile.

--Per far che cosa?

Come l'interrogata taceva ancora, il Ferpierre riprese, pacatamente:

--Non volete rispondere neppur ora?... Capisco il vostro ritegno. Voi
non potete e non dovete svelare i secreti della vostra associazione. E
col silenzio vorreste significare che egli venne a Zurigo appunto per
lavorare alla propaganda, per congiurare, per una ragione politica,
insomma. Vi avverto però che c'è qualche punto oscuro da rischiarare
prima di credere questa cosa. Nel tempo che secondo voi egli stette a
Zurigo per ragioni politiche, dalla Russia, dall'Inghilterra, da tutte
le parti gli scrissero chiamandolo, rimproverandolo di trascurare la
causa, accusandolo di freddezza e quasi di viltà. Abbiamo una quantità
di lettere che sono molto chiare. Come spiegate questa contraddizione?

La giovane scosse il capo senza pronunziare una sillaba.

--Continuate a non volere rispondere?... E come mai, quando egli lascia
Zurigo e viene qui a Ouchy, voi che prima non lo avete cercato, correte
a trovarlo, più volte, in una casa che oramai non era più sua, tanto che
vi troviamo con lui il giorno della catastrofe?... Non rispondete neppur
ora?... Vi dirò dunque un'altra cosa: fra queste lettere dove quasi lo
incolpano di tradimento ce n'è una di un amico il quale lo scongiura di
non ricadere in una debolezza che pare gli sia abituale: quella di
lasciarsi sedurre dalle donne, di dare troppa parte del suo tempo alla
galanteria... Questo amico scrive come se già sapesse che proprio una
nuova avventura con un'altra donna lo distrae dal compimento del dovere
verso i compagni..... Perchè evitate ora di guardarmi? Se vi domandassi
chi è questa donna che cosa mi rispondereste?

Ella disse fermamente, fissandogli gli occhi negli occhi:

--Sono io.

--Ah, confessate?--esclamò il Ferpierre.--L'altro giorno vi offendeste
del mio sospetto!... Bene! Ditemi allora: quando mutarono i vostri
rapporti?

--Quando egli venne a Zurigo.

--Venne apposta per voi?

--No.

--Perchè allora?

--Per motivi politici.

--Spiegatemi come mutarono i vostri rapporti. In due anni vi vide due
sole volte. Vi disse allora nessuna parola d'amore?

--Nessuna.

--E voi?

--Io l'amai dal primo giorno che venne a soccorrermi.

La voce della giovane, quantunque ella si studiasse di contenersi,
rivelava un turbamento secreto.

--Allora voi stessa parlaste la prima?

--No.

--Egli s'accese così, improvvisamente, dopo che per due anni non aveva
pensato a voi?

--Stetti parecchi mesi a Zurigo, ci vedemmo ogni giorno.

--Non sapete che, dopo avere abbandonato la contessa, venne a cercarla,
proprio da Zurigo?

--Lo seppi.

--E non ve ne inquietaste?

--No.

--Come mai? Anche poco fa, quando vi chiesi del suoi rapporti con
l'Italiana, rispondeste che non vi occupavate di queste cose. Se lo
amavate veramente, come non vi premeva di saperlo libero?

--Lo sapevo libero.

--Volete dire che per lui l'impegno preso con la morta non valeva?

--Voglio dire che non la amava più.

--Ma non sapevate che ella, sì, lo amava?

--Ora neppur ella lo amava più.

--Perchè dunque tornò da lei?

--Avevano ancora interessi comuni.

--Chiamate interessi comuni i prestiti dei quali la richiedeva?... Ma se
ella non lo amava più, non poteva esser gelosa di voi!

--No.

--Allora perchè si sarebbe uccisa?

--Non so. Per suoi scrupoli, forse.

--Perchè voleva ma non poteva amarne un altro?

--Non so. Forse. Il suicidio, anche quando pare lungamente premeditato,
si compie sempre per un impulso momentaneo ed improvviso. Basta che vi
sia un motivo di dolore. Ella ne aveva molti.

--Ragionate molto bene!... Seppe il principe che ella amava un altro?

--Non credo.

--Non ve ne parlò mai?

--Mai.

--Ora torneremo a interrogar lui.

Licenziata la giovane, il Ferpierre ordinò che fosse introdotto
Zakunine.

La condotta di costui, durante la prigionia, era stata tutta diversa da
quella della presunta sua complice. Nulla aveva chiesto per sè, non cibi
speciali, non libri, non carta; di nulla si era lagnato; non aveva quasi
detto verbo: le guardie riferivano che passava il suo tempo giacendo sul
letto, immobile, come se dormisse. All'aspetto, dagli occhi arrossati,
l'interno travaglio era visibile; ma l'ingiustizia dell'accusa o il
rimorso del delitto lo travagliavano?

Quando il Ferpierre gli domandò se persisteva nelle sue dichiarazioni,
se non aveva nulla da aggiungere a propria discolpa, egli rispose con
voce cupa:

--Nulla.

--Riconosceste l'altro giorno i vostri torti, confessaste di non aver
ricambiato l'affetto che la contessa d'Arda vi portava. Se non l'amavate
più, perchè non la lasciaste senz'altro al suo destino?

--Ella mi voleva suo.

--Anche sapendo che a voi non importava più di lei?

--Credeva d'essersi unita a me per sempre.

--E voi sentivate come una specie di dovere, qualche volta, fra una
corsa e l'altra, fra l'una e l'altra avventura, di tornare per un poco
presso di lei? Questo sentimento vi fa molto onore!

Il principe guardò in faccia il Ferpierre, quasi in atto di replicare
all'ironia dell'osservazione. Poi, chinato il capo, a voce bassa, con
accento d'amarezza, disse:

--Questo sentimento fu anche molto provvido!... Infatti, quando ella
potè credere d'essersi liberata di me e pensare a disporre altrimenti
della propria vita, io venni a rammentarle l'impegno antico, l'errore
che doveva pesare su lei irreparabilmente!

Diceva egli così perchè questa era la verità o perchè, colpevole,
comprendeva l'efficacia della difesa?

--Avevate anche da ricorrere a lei per denaro?

Zakunine alzò la fronte a quella domanda, fissando lo sguardo
improvvisamente acceso sul magistrato; poi tornò a chinarlo, confuso.

--Che cosa vi ha trattenuto a Zurigo tutta questa estate?

--La propaganda.

--Non è vero. Le lettere dei vostri correligionarii di Russia e
d'Inghilterra vi rimproverano di averli traditi.

Una terza volta l'accusato guardò in faccia il giudice, fremendo.

--Avevo da badare ad altri. Credete che io vi riveli i secreti non miei?
Volete trarre profitto dalla mia cattura per istruire un processo
politico?

--Ma no! Ma no! Io posso ammettere benissimo che lasciavate senza
risposta alcuni vostri compagni non per mancato zelo ma per badare ad
altri. Alessandra Natzichev, per esempio, vi occupava molto...

Lo sguardo del principe lampeggiava.

--Non parlate così!--disse sordamente.

--E perchè non volete che parli?... Quando da più parti v'accusano di
esservi intepidito e perfino d'aver paura, quando voi lasciate che i
capi del vostro partito si adunino a Londra senza andare a sentirli;
quando voi fate così per restarvene a Zurigo dove sta questa donna che
il giorno della tragedia troviamo presso di voi, in una casa non vostra,
non volete che a lei, alla sua frequentazione, alla sua amicizia sia
attribuito il mutamento?

--Non c'è mutamento. Vi ripeto che gli scopi da noi proseguiti sono
molteplici, che le vie sono numerose. Se non andai a Londra, feci altre
cose non meno rilevanti.

--Voi non volete dire quali sono queste cose, e fate bene perchè così vi
suggerisce il dovere settario. Ma un altro dovere, più generalmente
compreso, v'impedisce di confessare la natura dei vostri rapporti con la
Natzichev. Vi avverto però che la vostra delicatezza è perduta, giacchè
ella ha confessato.

--Che cosa?--esclamò il principe, con accento di vivace stupore.

--Che voi siete il suo amante.

--Ella ha detto così?--tornò ad esclamare l'accusato, esprimendo con la
voce e con lo sguardo l'impossibilità di credere alla rivelazione.

Il Ferpierre restò un poco in silenzio a considerarlo.

La meraviglia di quell'uomo pareva sincera. La nihilista aveva dunque
mentito? E perchè? Quale motivo poteva averla spinta a confessare una
cosa che doveva riuscire di pregiudizio alla propria reputazione? Se
anche, ribelle a tutte le convenzioni, il pregiudizio non le importava,
bisognava pure che ella mirasse a uno scopo nel dire la menzogna! Ma non
aveva piuttosto detta la verità, e il principe non se ne stupiva appunto
per il danno che questa confessione doveva produrre ad entrambi?

--Ha detto ella stessa così!--ripetè il magistrato.---Ve ne stupite?

--È falso!--rispose il principe.

--Da quanto tempo la conoscete?

--Da tre anni.

--Come?

--Ero amico dei suoi fratelli.

--Quando emigrò in Isvizzera veniste a trovarla? La soccorreste?...
Vedete che sono bene informato! Ella stessa ha narrato queste cose.
Prima la vedevate raramente; dall'aprile, dacchè passaste da Zurigo,
foste insieme. Queste sono le sue dichiarazioni. Volete sì o no
riconoscere che siete il suo amante?

All'impaziente durezza di questa domanda, l'accusato guardò il giudice
negli occhi. La cute delle sue tempie s'increspò: egli stringeva
irosamente le mascelle.

--Fate male a non rispondere. Mi costringete a mettervi in confronto.

E il Ferpierre ordinò che la Russa fosse ricondotta in sua presenza.

La sorda ira del principe già dava luogo a una palese inquietudine:
pareva che egli si sentisse ora minacciato, che avesse paura, che non
sapesse da qual parte cercare una via. Al sopravvenire della giovanetta
le fissò gli occhi negli occhi ardentemente.

--Vi ho fatta richiamare,--disse il giudice,--perchè ripetiate alla
presenza di costui ciò che dichiaraste a me. Siete l'amante sua?

Il principe si protendeva verso di lei come ansioso della risposta o
cupido di suggerirla egli stesso.

--Sì,--rispose fermamente la giovane.

--Vedete,--riprese il Ferpierre additando il principe,--che egli
dimostra di non credervi.

--Comprendo il motivo che gli consiglierebbe di nascondere la verità. Ma
la verità si saprebbe altrimenti, e non m'offende.

Ella rispondeva all'interrogante, senza badare ai suo complice. Solo
quando il giudice si rivolse a quest'ultimo per domandargli se negava
ancora, ella girò il capo, guardandolo.

--È vostra amante?--ripetè il Ferpierre mentre i due si fissavano, la
donna con espressione di dominatrice serenità, il principe titubante e
smarrito.

Questi da ultimo chinò il capo, in atto di confessare.

--E allora voi tornaste dalla contessa e vi mostraste a lei pentito dei
vostri torti unicamente perchè avevate bisogno del suo denaro?

--Che dite?--pronunziò sdegnosamente Zakunine.

--Ma dunque, perchè?--incalzo il magistrato.

--Io gli suggerii di tornare da lei,--disse la giovane.

E come il principe fece un nuovo moto di protesta, ella soggiunse:

--Non abbiate paura di nuocermi. Bisogna dire la verità. Confermate pure
che io stessa vi suggerii di tornare da lei per disporla a una
definitiva separazione franca e leale. Io non mi pento d'aver dato
questo consiglio. Tutto si doveva preferire all'equivoco. Non potendo
più vivere con lei come le avevate promesso, voi dovevate restituirle la
sua parola, non farle accogliere nuove lusinghe. Se ciò le dolse e la
spinse ad uccidersi, è certo dispiacevole; ma nè io nè voi possiamo
esserne chiamati responsabili. In una circostanza simile entrambi
faremmo ancora altrettanto, chiunque agirebbe così.

--Lasciamo da parte,--riprese il Ferpierre,--il giudizio su questa
vostra supposta condotta. Prima di giudicarla importa accertarla. Ora se
voi consigliaste al vostro amante di tornare dalla contessa per
separarsi lealmente da lei, egli dovè male interpretare il suggerimento,
e invece di dirle francamente che tutto era finito, le venne vicino più
volte, le si mostrò pentito e sommesso. Mi pare uno strano modo di
rompere un legame quello di riannodarlo...

Il Ferpierre aveva parlato rivolto al principe. Mentre questi restava
muto e confuso, la giovane rispose:

--Vi stupite che nel punto di lasciare per sempre una persona già amata,
il ricordo del tempo vissuto insieme attristi, commuova, renda penoso il
dovere della franchezza e ne ritardi il compimento?

--Avevo parlato con lui, veramente, ed a lui toccava
rispondere...--osservò il Ferpierre con un'ambigua mossa del capo, come
insospettito dallo zelo della donna.--Ma poichè voi siete così bene
informata di ciò che accadde tra loro mentre prima negaste d'occuparvi
di queste cose, ditemi un poco se questo dovere della franchezza fu da
lui compito una buona volta; perchè, da altre deposizioni, mi risulta
che fino alla vigilia della catastrofe alla contessa non era stata
restituita la sua parola, anzi che ella si sentiva più che mai legata.

--Ciò non accadde fra loro due soltanto: fui presente anch'io.

--Quando?

--Il giorno della morte, la mattina stessa. Giacchè bisogna dir tutto,
vi dirò perchè mi trovai in quella casa. Sapevo che l'ultima spiegazione
doveva avvenire, aspettavo con impazienza che egli me ne riferisse
l'esito. Non vedendolo tornare, venni io. Egli esitava ancora, come
presago di farle male. Allora gli suggerii di scriverle; quest'idea gli
piacque. Eravamo nello studio di lui, credevamo di non essere uditi,
quando ella apparve. Disse parole amare, contro di lui, contro di me.
Egli se ne sdegnò, dimenticò la pietà, la accusò di spiarlo, le dichiarò
che partiva per non tornare mai più. Ella disparve. Restammo a preparare
le sue cose. Poco tempo dopo udimmo il colpo. Questa è la verità.

--Voi confermate ciò che dice costei?--domandò il Ferpierre a Zakunine.

L'interrogato rispose con un breve cenno del capo.

--Quali furono le parole amare che la contessa proferì?

Rispose ancora la donna:

--Disse: «Voi parlate di lealtà? Lo scrupolo della franchezza vi
nasconde qui, a tramare contro di me? Sono stata forse d'impaccio ai
vostri amori? Dovevate anche darmene spettacolo?»

Il magistrato tacque un poco considerando la narratrice; poi, senza
lasciarla con lo sguardo, disse lentamente:

--E voi pensate che, dopo una spiegazione tempestosa, con lo sdegno che
doveva ribollire in cuore a quella donna, la versione del suicidio
diventi più verosimile? Come non v'accorgete d'esservi posta sopra una
falsa strada, con l'invenzione poco felice di questa scena incredibile?

La giovane rispose duramente, aggrottando le ciglia:

--Il vostro mestiere è di dubitare. Io ho detto la verità; tanto peggio
se torna a mio danno. Avete null'altro da domandarmi?

Invece d'aspettare d'essere congedata, ella stessa lo congedava.




VII.

LA CONFESSIONE.


La curiosità suscitata nel pubblico dalla tragedia di Ouchy era venuta
di giorno in giorno crescendo. La qualità dei personaggi, la stranezza
del caso che poneva insieme gente venuta da tante parti e così diversa
di nascita e di vita: un rivoluzionario noto a tutta Europa come
Zakunine, uno scrittore come Roberto Vérod, una gran dama come la
contessa d'Arda, una creatura misteriosa come Alessandra Natzichev,
avrebbero eccitato l'interesse generale se non fosse già bastato
l'intrico giudiziario.

La notizia del suicidio e l'accusa d'assassinio si erano insieme diffuse
e dividevano l'opinione in due campi pressochè eguali. Forse coloro che
ammettevano il delitto erano più numerosi; ma solo il credito che
naturalmente gli uomini accordano al male, e in parte anche
l'avversione per le idee politiche del principe e della studente,
spingevano tanti al sospetto; giacchè, dovendone dimostrare il
fondamento, non ne sapevano poi dare valide ragioni. Ma le difese non
mancavano, ed erano anzi vivaci. Perchè i ribelli non indietreggiavano
dinanzi al ferro ed al fuoco quando avevano da lavorare al conseguimento
del loro ideale, bisognava dire che fossero capaci d'un delitto comune?
Non c'era fra le due cose una distinzione profonda e i più feroci
settarii non solevano essere, nella vita privata, d'una onestà
scrupolosa e d'una ingenua bontà?

I particolari intorno alla vita di Zakunine e della Natzichev davano
argomento tanto ai difensori quanto agli accusatori d'insistere nelle
loro opinioni. In quelle nature complesse di Slavi impetuosi e freddi ad
un tempo, ora violentemente trascinati dal cieco istinto, ora
rigidamente sottoposti alla più ferrea ragione, gli uni e gli altri
trovavano la capacità e l'incapacità del delitto. Era da stupire, anzi
non era naturale che in un impeto di gelosia, d'odio, di rancore, quelle
persone che si credevano superiori ad ogni legge, distruggessero una
vita dopo aver dato mano a distruggerne tante altre? Dall'altra parte
osservavasi come non fosse credibile che queste persone, la cui attività
era tutta diretta a raggiungere un intento condannato dai più, ma per
esse certamente grande e quasi sacro, si perdessero in un'avventura
volgare, per un delitto inutile. Come mai queste persone che rinnegavano
patria, famiglia, amicizia, tutti i sentimenti dai quali gli altri
uomini sono legati, per lavorare liberamente alla distruzione del mondo,
avrebbero poi tradito la loro causa per obbedire a una passione
meschina? Replicavano gli altri che questi rivendicatori dei massimi
ideali umani non erano già inaccessibili alle passioni, al contrario--e
lo provavano con le innumerevoli avventure del principe--e che sotto
l'impero d'una passione, la ragione, come cede nella generalità degli
uomini, così, anzi più facilmente doveva cedere in loro.

Quindi lunghe e vivaci discussioni s'accendevano intorno alla
determinazione dell'accusa. L'omicida era il principe? La nihilista era
innocente oppure complice? Le opinioni si dividevano ancora una volta;
perchè secondo alcuni l'uomo aveva commesso il delitto per gelosia del
Vérod; secondo altri la donna per rivalità. Di questa incertezza si
giovavano appunto quanti credevano al suicidio: come dar fede a
un'accusa che non riusciva a precisarsi? Sostenere poi che i due
avessero uccisa insieme la contessa non pareva possibile; solo qualche
accanito accusatore, in odio ai rivoluzionarii, diceva che i due avevano
potuto accordarsi nel pensiero omicida: se Alessio Zakunine voleva
punire la contessa dell'amore che portava al Vérod e se la nihilista
voleva punirla dell'amore che le aveva portato il principe, la
complicità dei due perversi restava spiegata. Alcuni andavano anche
oltre, perchè, saputo che il principe versava in imbarazzi finanziarii,
sostenevano che i due Russi avevano uccisa la contessa per derubarla. Ma
alla malvagità che bisognava ammettere per sostenere questa ipotesi
pochi credevano; e la maggior parte degli accusatori riconoscevano di
dover portare i loro colpi o contro l'uno o contro l'altra. E mancando
le prove dell'accusa e della discolpa, ciascuno dei due partiti non
insisteva tanto nel dimostrare il proprio assunto, quanto nel combattere
l'assunto contrario. Chi incolpava il principe o la nihilista sosteneva
l'inverisimiglianza del suicidio; per affermarlo, gli altri adducevano
l'inverisimiglianza e l'impossibilità del delitto.

Il giudice Ferpierre stava attento a tutte queste voci per cercare
d'averne lume nella scoperta della verità. Dopo il nuovo interrogatorio
egli era rimasto ancora più esitante. Perchè mai gli accusati avevano
risposto diversamente alla intimazione di rivelare la natura dei loro
rapporti? La Natzichev non era stata certamente costretta a confessarsi
amante del principe da prove schiaccianti; anzi aveva ella stessa quasi
forzato l'altro a non contraddirla; volendo, ella poteva ancora negare
come egli negava. Il solo amore della verità non l'aveva spinta; ella
doveva aver pensato che questa confessione le avrebbe giovato. Parimenti
non la sola delicatezza doveva aver persuaso il principe a negare la sua
relazione con lei; ma anche e specialmente la paura che, dicendo la
verità, glie ne sarebbe venuto nocumento. Più ripensava alle loro
risposte, più il magistrato riconosceva che un interesse secreto li
aveva messi per le opposte vie. Ma restava ancora insoluto il problema:
erano essi due complici che volevano salvarsi, oppure due innocenti che
temevano di difendersi male?

Il dubbio tornava ad occupare il Ferpierre. A certi momenti egli pensava
se il dover suo non fosse di rimetterli in libertà; poi un sospetto che
non sapeva bene giustificare a sè stesso, qualche cosa di ambiguo nella
condotta, e più che nella condotta nell'espressione degli accusati, lo
consigliava a indugiare, a cercare ancora.

Intorno al più triste sospetto, al sospetto d'un omicidio per furto,
egli ebbe da Milano notizie sfavorevoli agli accusati. Dalla deposizione
del ragioniere di casa d'Arda risultò che le somme di denaro, presso la
contessa, dovevano essere molto superiori a quelle trovate. Ma il
Ferpierre ebbe tosto prova che il furto non era stato commesso. Giulia
Pico, interrogata intorno alla moralità degli altri servi ed alla
possibilità che qualcuno di essi si fosse inteso con i Russi, diede
risposte che esclusero ogni sospetto. Ella disse anche che la sua
padrona faceva molta beneficenza, che dava e mandava molto denaro per i
poveri e gl'istituti di carità di Losanna, di Nizza e di Milano: ciò fu
confermato dalla baronessa di Börne e da tutti gli stranieri del
Beau-Séjour: la differenza fra le somme rinvenute presso la morta e
quelle che avrebbero dovuto trovarsi non si spiegava così? Una nuova e
più accurata perquisizione, ai _Cyclamens_, escluse che vi fossero
denari nascosti. L'interrogatorio e le perquisizioni nelle case dei
servi diedero anch'essi risultati contrarii al sospetto. Non restava
dunque se non l'ipotesi della semplice intenzione furtiva: il Ferpierre
le negava fede. Egli credeva che, se c'era stato un delitto, la passione
lo aveva determinato. Importava quindi accertare la natura dei rapporti
dei due Russi; ma nessuna luce egli ebbe dalle testimonianze assunte a
Zurigo tra i conoscenti di Zakunine e della Natzichev: i testimonii non
seppero precisare se erano veramente amanti; alcuni lo sospettavano,
altri l'escludevano; anche sulla loro capacità di delinquere le opinioni
erano divise.

La lettera a suor Anna Brighton avrebbe svelato il mistero; ma suor Anna
non si trovava. Alla Nuova Orléans, di dove erano datate le ultime sue
lettere rinvenute presso la morta, non stava più; nessuno sapeva dire
dove fosse andata. Il Ferpierre tuttavia sperava che un giorno o
l'altro ella stessa avrebbe fatto pervenire alla giustizia il documento
cercato. Tutti i giornali del mondo parlavano del dramma di Ouchy e
dicevano che solo l'ultima lettera della contessa d'Arda poteva
rischiararlo, confondendo i rei se non annunziava l'imminente suicidio,
salvando gli innocenti se confessava l'estremo proposito; non era
possibile che, alla lunga, suor Anna non avesse notizia dell'ansiosa
aspettazione e non sentisse il dovere di consegnare il documento alla
giustizia.

Aspettando, il Ferpierre non poteva occuparsi di altro che del dramma
misterioso e dei suoi attori. Dopo aver conosciuto la vita dei due Russi
egli non negava i lati buoni di quelle anime, ma la bontà restava
offuscata e menomata dalla durezza, dalla violenza, dalla tenebrosa
ferocia. Forse, trattati altrimenti, posti in migliori condizioni di
vita, essi sarebbero divenuti migliori? Ma l'umile, il devoto, il
supplice amore della contessa Fiorenza non era valso a redimere
Zakunine; e pensando al martirio della infelice, il giudice bandiva ogni
indulgenza, riconosceva che quel violento, come aveva voluto la
mortificazione della mite creatura, così aveva potuto volerne anche la
morte.

Quanto alla nihilista, la sua vita non era piena d'atrocità; anzi la
durezza della sorte che la lasciava sola a vent'anni, il coraggio col
quale lottava contro le difficoltà dell'esistenza, e l'ardore degli
studii e l'altezza della mente deponevano in favor suo; ma il giudice
non perdonava a una donna, a una fanciulla, il sanguinoso ideale della
distruzione; e se pure egli si piegava a scusarlo, senza scusa le pareva
il suo legame col principe. Come mai aveva ella potuto darsi in braccio
a quell'uomo che non era stato mai fermo in un affetto? Disconoscere le
leggi, le convenzioni, i pregiudizii sociali era, in certe condizioni
dell'animo, sotto l'influenza di certi esempii, per l'efficacia di
un'assidua predicazione, troppo naturale; e il Ferpierre ammetteva che
la giovane parteggiasse per il libero amore; ma questo amore doveva pur
essere ricambiato, doveva pur fare assegnamento sopra una sincerità,
sopra una fedeltà sia pure temporanea; ma la vita di Zakunine vietava di
credernelo capace. Allora il Ferpierre pensava che quei due s'erano
uniti senz'alcuna gentilezza di sentimenti, per mero impulso istintivo,
per sola cupidigia di piacere: da questa indegna unione il delitto aveva
potuto germinare.

La confessione del loro amore, che la giovane aveva affrettata e il
principe contrastata, aggravava realmente o migliorava la loro
condizione? Nel pubblico le opinioni continuavano a dividersi. Se la
contessa, senza amare più Zakunine, sperava ancora di potere restare con
lui rispettata e protetta, il dover rinunziare a quest'ultima lusinga
poteva aver colmato la misura e determinato il suicidio. Ma contro
questa supposizione stava il nuovo amore di lei per il Vérod: amando
anch'ella un altro, non doveva rallegrarsi della nuova affezione del
principe? Ciò pareva tanto più certo, quanto che l'amicizia fra la
morta e il Vérod non aveva potuto, secondo i più, restare innocente.
Pochissimi credevano alla purezza del loro sentimento; il giovane doveva
essere stato l'amante felice della dama italiana, senza di che quale
interesse lo avrebbe spinto all'accusa? Era credibile che, amandosi, con
la libertà della quale godevano entrambi, fossero rimasti a sospirarsi?
Come mai il giovane si sarebbe appagato d'un affetto fraterno? E che
cosa avrebbe potuto costringere la contessa a resistergli? Se una prima
volta ella era passata sopra alla legge, era fatale che continuasse a
dimenticarla. Poteva forse arrestarla la paura od il rispetto di
Zakunine che non la curava, anzi la trascurava in ogni modo?... Queste
presunzioni, passando di bocca in bocca, diventavano altrettante prove
irrecusabili: che il Vérod fosse ultimamente l'amante della morta non
era più dubbio. E in questa certezza, oltre che nell'antipatia contro i
nihilisti, molti trovavano una prova dell'omicidio: l'amica del Vérod
aveva dovuto pensare non ad uccidersi, ma al contrario a godere quanto
più era possibile del nuovo amore: il principe e la Natzichev l'avevano
assassinata. Ma le discussioni ricominciavano tosto, perchè se fra il
Ginevrino e l'Italiana non c'era una semplice ed onesta amicizia, tanto
meno semplice ed onesta si doveva credere l'amicizia dei due nihilisti:
pertanto, se il principe e la studente erano amanti, nessuno dei due
poteva pensare a dolersi dell'amore della contessa e del Vérod, nè a
voler male all'uno od all'altra; entrambi invece se ne dovevano
rallegrare, perchè questo amore li lasciava liberi di fare il piacer
loro. La morte violenta di Fiorenza d'Arda, sia per suicidio, sia per
assassinio, restava inesplicabile senza un dissidio, una discordia, un
dramma; l'ipotesi dell'accordo delle due coppie era inammissibile
dinanzi al sanguinoso cadavere.

Dell'intima lotta sostenuta dalla contessa pochi come il Ferpierre erano
edotti. Sempre che imaginava lo stato di coscienza della infelice alla
vigilia della catastrofe, il giudice riconosceva che ella aveva potuto e
forse dovuto uccidersi. Ma, oltre che l'accusa del Vérod e i sospetti
dell'opinione pubblica e il contegno degli accusati e come una specie di
secreto istinto, la stessa sua coscienza di magistrato lo difendeva
contro un definitivo acquetamento in questa fiducia. La sua lunga
esperienza d'inquisitore gli diceva che la verisimiglianza d'una ipotesi
dinanzi a un fatto oscuro non esclude altre possibilità; il suo amore
del mestiere era eccitato all'idea del caso molto intricato e difficile.
Ed egli non rammentava veramente di essersi trovato dinanzi a maggiori
difficoltà.

Escluso l'intimo dramma svoltosi nell'animo della contessa, quale altra
lotta di sentimenti da parte degli accusati poteva spiegare la
catastrofe? Bisognava tornare ad ammettere senz'altro che, amando la
Natzichev, o meglio avendola presa con sè per allungare la lista delle
sue fortune galanti, il principe non avesse del tutto dimenticata la
contessa, o che sentisse ridestarsi l'amor suo per lei nel punto stesso
che la vedeva presa da un altro. La sicura possessione di un bene non
genera tanta stanchezza, che il bene è presto sdegnato; e perchè torni
ad essere caro non basta talvolta la sola minaccia di perderlo? Basta
sovente che qualcuno apprezzi ciò che noi trascuriamo perchè, mutando a
un tratto opinione, anche noi ne riconosciamo il valore. Per sostenere
l'assassinio di Fiorenza d'Arda bisognava che questo mutamento fosse
avvenuto nel principe; allora soltanto si poteva spiegare che egli
l'avesse uccisa, sapendola del Vérod con l'anima, o che l'avesse uccisa
la nihilista sapendo che Zakunine ricominciava ad amarla.

Ma se la resurrezione dell'amore del principe era necessaria a spiegare
il delitto, l'assassino, data questa resurrezione, non poteva esser lui!
Infatti la sua gelosia non avrebbe avuto molto fondamento poichè la
contessa gli era rimasta fino all'ultim'ora fedele e per fedeltà alla
parola data si era sottratta al Vérod. Si poteva supporre che la sola
certezza d'aver perduto l'anima di lei e la persuasione di non poterla
più recuperare lo avessero spinto al delitto? Data la violenza della sua
natura ciò non pareva del tutto incredibile; bisognava tuttavia, per
ammetterlo, che fra lui e la defunta vi fossero state spiegazioni,
provocazioni, minaccie. Se egli l'avesse supplicata di amarlo ancora, di
non abbandonarlo, e se ella gli avesse risposto di non voler più
restare con lui, l'assassinio era spiegato; ma si poteva credere che,
rimastagli fedele e sottomessa quando egli la maltrattava, la contessa
gli si fosse ribellata vedendolo pentito e supplichevole? Dato il
carattere di lei, bisognava credere che, tutt'al contrario, la
resurrezione dell'amore del principe e le sue insistenti preghiere
avrebbero accresciuto l'imbarazzo, acuito l'ambascia, rafforzato gli
scrupoli, moltiplicato le dolorose difficoltà tra le quali ella si
dibatteva!

Il Ferpierre si confermava così da una parte nei ragionamenti già fatti;
ma era spinto dall'altra a considerare come molto aggravata la
condizione della Natzichev. Vedendo che Zakunine non era tutto suo; che
per amore, o per pietà, o per rispetto, o per interesse era ancora della
contessa, la Russa poteva aver odiato quest'ultima. Tra le due donne una
spiegazione era potuta intervenire, provocata senza dubbio dalla
nihilista, la cui presenza ai _Cyclamens_ poco si spiegava; benchè
incapace di voler male ad alcuno, l'Italiana aveva forse ferito la
giovane ribellandosi alle sue minaccie, non potendo tollerare che, dopo
aver distolto il principe da lei, venisse a prenderglielo nella stessa
sua casa; l'esito di questa spiegazione aveva potuto essere cruento. Ma
il principe che doveva trovarsi, se non presente, certo vicino, non si
era interposto, non era accorso ad impedire il delitto? E la nihilista,
non essendo mai entrata nella camera della contessa, come aveva saputo
trovare l'arma di lei?

Queste difficoltà non davano molta ombra al magistrato. Forze Zakunine
non si era interposto non potendo supporre che il colloquio finisse in
tragedia; forse l'arma della contessa non era quel giorno chiusa, o la
giovane sapeva dove trovarla. Una difficoltà, tutta morale, era più
grave, quella stessa sulla quale il Ferpierre erasi molte volte
arrestato: se la nihilista sapeva dell'amore di Fiorenza d'Arda per il
Vérod come poteva volerle male? La rivalità si spiegava se la defunta
avesse posto opera a trattenere il principe presso di sè: e ciò non era.
Ma forse la Natzichev non sapeva dell'amore per il Vérod: questa
passione che la morta aveva soffocata, che il giovane aveva contenuta,
poteva esser rimasta ignorata se nessun fatto esteriore, se nessun atto
l'aveva rivelata.

Pertanto, benchè queste supposizioni non fossero confortate di prove e
molte cose restassero da rischiarare, il giudice si veniva affermando
nell'opinione che, negato il suicidio, il sospetto più verisimile
dovesse pesare contro la donna. Il pentimento del principe e il suo
ritorno presso l'antica amica, determinati o dal bisogno di denaro o da
un più degno sentimento, come impedivano di credere che egli avesse
voluto la morte d'una persona nuovamente cara, così spiegavano l'odio se
non la gelosia della studente. Se Zakunine pareva più capace d'uccidere,
era meno verosimile che la sua posizione nel partito, la febbre di
propaganda e le gravi responsabilità non lo avessero distolto da un
delitto che lo consegnava alla giustizia. Nella Natzichev invece, meno
seriamente impegnata, la coscienza delle responsabilità era nulla o
minima; il dovere politico doveva opporre in lei, donna, minore ostacolo
alla passione; e se ella non aveva ancora meritato condanne per crimini,
le informazioni della polizia la dicevano capace di consumarne. Questa
capacità, la violenza dei suoi sentimenti, non le stavano scritte del
resto nella fisonomia, negli sguardi? In tutta la sua persona, in tutte
le sue parole, non c'era qualche cosa di duro, di fiero, una sfida
continua, una sorda minaccia, una ribellione implacabile? Lo stesso suo
contegno dinanzi al cadavere e dopo la prigionia disponeva il Ferpierre
contro di lei. Mentre Zakunine era apparso perduto dal dolore, ella era
rimasta fredda, impenetrabile. Aveva dapprima negato d'essere l'amante
di lui, poi aveva confessato; questa e le altre contraddizioni,
l'iniziativa presa nell'ultimo interrogatorio rispondendo invece del
principe, rivelavano, nonostante la mentita indifferenza, l'ansia
secreta di salvarsi.

A questo punto il Ferpierre si proponeva un nuovo quesito. Se ella era
colpevole, come mai il principe, vedendo pesare anche sopra sè stesso
l'accusa, non si scagionava rivelando la verità? Certo egli sperava
salvarsi con lei avvalendosi di tutti gli argomenti che stavano per il
suicidio: voleva salvarla per amore, per compassione, o piuttosto per
quel sentimento di fratellanza che la fede comune doveva suscitare e
alimentare. Questo medesimo sentimento, se l'omicida fosse stato il
principe, non avrebbe dovuto animare la nihilista? Era da credere. Ma
che cosa sarebbe avvenuto se l'innocente, chiunque fosse dei due, avesse
perduto ogni speranza di salvarsi con il colpevole? Se ciascuno degli
accusati si fosse visto irremissibilmente perduto, non era certo che
l'innocente non avrebbe più trovato tanto eroismo da salvare il
colpevole, oppure che il colpevole stesso non avrebbe più sofferto di
trascinare con sè l'innocente?

In forza di tale ragionamento il Ferpierre volle tentare una prova. Egli
pensò di richiamare successivamente i due accusati per dire a ciascuno
che tutti i sospetti pesavano oramai sull'altro; dal loro contegno
avrebbe forse potuto trarre qualche prova della verità.

Ed anche una volta ricominciò l'interrogatorio della Natzichev.

Costei occupava ancora il suo tempo leggendo e scrivendo; la sua
sprezzante indifferenza non aveva ceduto ad altri lunghi giorni di
prigionia.

--Sono venuto a compiere,--le disse il magistrato con tono
gratulatorio,--un dovere molto piacevole. La giustizia è convinta della
vostra innocenza: voi siete libera. Se avete creduto che noi godiamo
nell'accusare, nel sospettare ad ogni costo, io vorrei che, uscendo di
qui, vi persuadeste d'esservi ingannata. Il nostro dovere è di scoprire
il vero; quantunque lo scopo sia degno sopra ogni altro, soffriamo anche
noi quando, contro le apparenze fallaci, non possiamo aiutare
gl'innocenti a liberarsi. Ma, ripeto, oramai la giustizia non ha più
nessun conto da chiedervi. Certo il ricordo del tempo passato qui dentro
non potrà esservi grato; ma forse questo soggiorno non sarà stato senza
frutto per i vostri studii sociali?

Senza una parola, senza un moto di gioia, impassibile, immobile, la
nihilista affisava lo sguardo sul giudice. Pareva non avesse compreso il
breve sermone; il Ferpierre quasi aspettavasi di sentirsi dire: «Quando
avrete finito?...»

--Certamente,--riprese egli,--sarebbe stato meglio per voi esaminare il
nostro sistema carcerario liberamente; ma se abbiamo dovuto trattenervi
tutti questi giorni, la colpa, convenitene, è stata un poco anche
vostra. Il sentimento che vi guidò è certamente rispettabile e vi fa
molto onore; ma se, per non accusare il vostro amante, ci avete voluto
lasciare nel dubbio, siamo noi responsabili della prolungata vostra
prigionia?

La Natzichev continuava a guardarlo fiso. All'ultima domanda, chiusi un
attimo gli occhi, ella disse:

--Che volete significare?

--Non comprendete?

--No.

--Eppure non sarebbe difficile... O sperate ancora di liberarlo insieme
con voi? La vostra intenzione era e sarebbe molto lodevole, se non
offendesse quella verità che tanto noi abbiamo il dovere di scoprire,
quanto voi dovreste avere quello di riconoscere...

--Che dite?...--interruppe la giovane, con un moto d'insofferenza.

--Io non dico nulla,--rispose il Ferpierre stringendosi nelle spalle e
abbassando lo sguardo alle carte che stavano sulla tavola.--È il vostro
stesso amante quello che confessa d'esser egli l'assassino!

Nell'evitare lo sguardo della giovane il magistrato obbediva a due
impulsi diversi. Doleva alla sua rettitudine di servirsi della menzogna
per iscoprire la verità; rare volte, e soltanto nei casi disperati come
quello dinanzi al quale ora trovavasi, e sempre superando un'istintiva
repugnanza egli aveva ricorso a questo mezzo. Tuttavia, se un senso di
vergogna l'occupava secretamente e gli faceva torcere gli occhi,
l'istinto e l'abitudine dell'indagine gli consigliavano di insistere in
quell'atteggiamento affinchè l'accusata, non vedendosi più guardata, non
reprimesse il vero sentimento suscitato in lei dalla rivelazione.

Finto di cercare tra le carte, egli riprese:

--Ecco la sua dichiarazione debitamente firmata. Sperate ancora
salvarlo?

E la guardò.

Ella aveva un'altra faccia. Come se la maschera della durezza sprezzante
e superba le fosse stata strappata, le guance impallidite, le labbra
dischiuse e gli occhi smarriti dicevano il dolore, la paura, il rimorso,
un sentimento che il Ferpierre non sapeva ancora precisare, ma che era
senza dubbio troppo penoso.

--Ve ne duole?... Dovete molto amarlo!

Lo spettacolo di quel repentino turbamento distrasse sul principio il
giudice dall'impaccio che provava mettendosi per una via obliqua. Ma
sentendo di doverla percorrere oramai sino in fondo, considerando
l'ambascia della giovane, la sua repugnanza cresceva. Non infliggeva
egli a quella donna, per amore della verità, una morale tortura? E la
differenza era veramente grande fra gli orridi strumenti delle antiche
inquisizioni, e la menzogna con la quale ora ricercava l'anima
dell'accusata?

--Comprendo il vostro dolore, ma dovevate pur essere preparata a
sopportarlo. Voi faceste di tutto per stornare i nostri sospetti e il
rimorso di avergli nuociuto non può tormentarvi. Ma la verità a lungo
non si nasconde. E bisogna anche dire che avreste potuto essere un poco
più abile. Come poteste mai sperare che io credessi la fiaba dell'ultima
spiegazione avvenuta fra voi tre? Era credibile ancora che il principe,
tornato dalla contessa, secondo volevate darmi a intendere, per
separarsene definitivamente, mettesse tanto tempo a fare questa
dichiarazione? Se indugiò tanto, ciò fu perchè mutò proponimento; perchè
sul punto di abbandonarla s'accorse che ella stessa non pensava più a
lui; e allora l'amor proprio ferito lo distolse dalla prima intenzione.
Allora egli non volle che questa donna fosse d'altri, volle anzi
riaverla per sè come un tempo, e si mostrò pentito e supplichevole. A
voi nascose, e fu naturale, questo suo mutamento; ma come mai non lo
imaginaste vedendo le sue tergiversazioni? Voi vedeste bene che egli
tardava troppo a compiere la promessa fattavi; ma se vi disse che la
pietà gl'impediva di portare un colpo mortale a quella donna, il vostro
cuore d'amante doveva avvertirvi che il suo ritorno presso di lei era
pericoloso; che la passione, quando pare morta e sepolta,
improvvisamente divampa più gagliarda di prima. A saperlo presso di lei,
più volte, non soffriste, non sospettaste che i ricordi del passato,
che la seduzione di quella donna quasi nuova dopo il lungo abbandono lo
avvincessero ancora una volta?... Sì, voi intuiste queste cose, me lo
dice il vostro doloroso silenzio: e le avete taciute per amore di lui,
perchè comprendeste che se la giustizia avesse saputo che egli l'amava
ancora, che ne era geloso, la verità sarebbe apparsa luminosamente. Ma
il vostro zelo non poteva esser felice. Quando io gli domandai il perchè
del suo indugio presso la defunta, voi stessa gli suggeriste di addurre
la pietà; egli non seppe neppur trovare questo pretesto per nascondere
la vera ragione, che era l'amore e la gelosia! E credevate che io non
dovessi notare il vostro intervento e il suo imbarazzo, e che non ne
scoprissi finalmente il perchè?

Il Ferpierre dimenticava ora il suo rimorso nel fervore dell'inchiesta,
comprendendo d'essere molto vicino alla verità. Il silenzio della
giovane, lo smarrimento crescente della sua espressione, il tremor delle
mani, l'ansia che le sollevava il seno, dimostravano sempre più al
magistrato che egli toccava ora la nota giusta, che Zakunine era stato
veramente ripreso dall'amore della contessa, che la nihilista aveva
sofferto di gelosia, che qui bisognava trovare la ragione del mistero.
Egli aveva già divinato tutte queste cose, ma poi era stato distratto e
fuorviato da altri ragionamenti, dalla mancanza di prove: ora accumulava
tutte le presunzioni, ne imaginava perfino quando gliene mancavano,
perchè la sua fidente asseveranza servisse come una specie di reattivo
morale, mordendo il cuore della giovane e lasciandovi leggere dentro.

--L'amor vostro per lui deve essere molto forte se avete accettato
questa parte, se avete nascosto la gelosia che vi torturava, se avete
finto l'ignoranza e l'indifferenza! E come è stato mal ripagato! Voi non
poteste illudervi neppure un istante, e vedeste ciò che avveniva e
prevedeste ciò che sarebbe avvenuto; perchè, una volta impegnato a
contendere quella donna a un rivale, Zakunine, con la veemenza che porta
nelle sue passioni, non avrebbe esitato dinanzi a un delitto. Voi
veniste a trovarlo temendo che la catastrofe fosse compiuta; veniste
troppo tardi a tentar d'impedirla. È vero?

La giovane si riscosse a quella domanda. Portò le mani alle tempie
comprimendole, quasi la tempesta suscitata in lei dalle parole del
giudice minacciasse di aprirle il cervello; poi, respirato fortemente,
così da far sibilare l'aria fra i denti chiusi, con l'espressione di
repugnanza dolorosa e di sdegno impotente di chi si sente violentare ed
opprimere, disse:

--Avete finito? Volete divertirvi ancora a tormentarmi? Il vostro
piacere è troppo grande, senza dubbio? Ora basta!

--Come parlate?

--Come debbo. Io non voglio, intendete? che i vostri iniqui artifizii
trascinino nel precipizio chi non ha colpa. Voi amate la verità sopra
ogni cosa? Il vostro sacro dovere è di scoprire la verità? Voi siete
delegato dalla società a fare giustizia? Ebbene, dite a questa vostra
società,--e la sua voce si alzò di tono, ella quasi gridò:--dite che
uccisi io quella donna. Date corso alla vostra giustizia; ma sappiate
che io la disconosco, che la disprezzo; ponetevi nella mente che io
rivendico la responsabilità dell'atto commesso non per patirne il
castigo ma per ottenerne la lode!

L'impressione prodotta da quelle parole nell'animo del giudice fu
enorme. La meraviglia e il piacere per la pronta riuscita
dell'espediente, la soddisfazione di veder confermati i suoi sospetti,
la nuova curiosità per la superba millanteria della rea, un senso di
compassione che secretamente e quasi mal suo grado lo persuadeva
all'indulgenza ora che la confessione e la millanteria avrebbero dovuto
farlo più rigido, occupavano ad una volta l'animo suo.

--Ah, confessate?...--potè dire soltanto nel primo momento della
confusione, senza troppo badare all'opportunità della domanda; ma subito
dopo, padroneggiandosi:--Confessate anche voi?--ripetè, per insistere
nell'artifizio così bene riuscito.--A chi debbo credere, ora? Gareggiate
dunque di generosità fino a tal segno? Ciascuno s'accusa per salvar
l'altro? Nobile gara!...

La giovane disse, duramente:

--Voi non sapete riconoscere la verità?

--Non sempre! Quando altri lavora a nasconderla!... Bene: se volete che
io creda a voi, vi crederò. Più difficile mi riesce comprendere il tono
di vanteria col quale v'accusate. So che disconoscete le nostre leggi;
ma nella società ideale all'avvenimento della quale voi lavorate si
ucciderà forse impunemente e sarà anzi titolo di gloria aver distrutto
una vita, così, per piacere?

--Non per piacere.

--Come! Sarà forse dovere per ogni amante geloso toglier di mezzo
l'oggetto della sua gelosia?

--Voi non sapete.

--Non so, infatti! È vero, sì o no, che il principe non si poteva
decidere di rinunziare alla contessa perchè la riamava?

--È vero.

--E voi non ne foste gelosa?

Ella disse, con voce gelata, facendo sonare una dopo l'altra le parole:

--Il mio sentimento non importa; nessun sentimento, nessun interesse,
niente importa quando si è compreso il Dovere. La vita degli altri, la
vita propria, l'onore, gli affetti, tutte le cose vane debbono cedergli.
Questa è la mia norma; questa doveva essere anche la sua. Ma egli la
dimenticò!...

Il Ferpierre cominciava ora a comprendere.

--Volete dire che non per amor vostro egli trascurava di lavorare al
trionfo della causa, ma per la contessa?

--Sì.

--Perchè stava allora a Zurigo, vicino a voi, e non con lei?

--Perchè sapeva di esserle odioso, ma voleva parlare con qualcuno di
lei.

--E ne parlava con voi?

--Sì.

--Già voi diceste che non ve ne tenne parola! Ma, se ve ne parlava, non
vi amava?

--Non mi ha amata mai.

Nonostante la freddezza impassibile del viso statuario, qualcosa di così
dolente echeggiava nelle ultime parole della giovane, che il Ferpierre
pensò: «Non mentisce!»

--E voi sì, l'amaste, l'amate?

--Che v'importa di ciò?--riprese ella tornando a una durezza che il
Ferpierre giudicava ora ostentata.--Importerà a voi ciò che non importa
a me stessa? Se volessi trovare un'attenuante all'atto commesso, se
volessi essere scusata da voi, dalla vostra società, vi direi che lo
amavo, che la uccisi per gelosia. Questa debolezza, questo egoismo sono
scusati e perfino glorificati dalla società vostra. L'amante che per
evitare a sè stesso un dolore, per assicurare il piacere suo proprio
uccide il rivale, è perdonato; talvolta il cieco e letale amor suo è
giudicato forte, grande, ammirabile. L'amore che guida noi, il nostro
sacrifizio cosciente, l'opera di salute alla quale attendiamo, sono
condannati!

--Strana opera salutare la vostra, che vi fa versare il sangue,
frattanto!

--Voi credete che una, che dieci, che cento vite importino quando è in
giuoco il destino di tutti? Voi che avete paura del sangue, lo versate a
fiumane nelle vostre guerre: tanto è il vostro orrore del sangue, che la
suprema cura dei vostri reggitori è quella di armarvi. Qui, in questo
vostro paese di libertà, non è l'esercizio della forza per uno scopo
cruento il più onorato fra tutti? E non rispondete che vostro solo
pensiero è impedire di essere sopraffatti e non già sopraffare; perchè
tutti dicono così! Chi confessa di fare il male? Il bene è sulle bocche
di tutti, degli assalenti e degli aggrediti. Stolte cupidigie, interessi
bassi e meschini vi mettono in guerra. E nelle vostre guerre non è
precetto sempre obbedito di sacrificare un soldato, una pattuglia,
un'avanguardia, per la salute dei più? Noi facciamo un'altra guerra, più
giusta, la sola giusta e santa: la guerra per la redenzione degli uomini
contro tutte le nequizie e tutte le viltà, contro la fame, contro
l'ignoranza, contro la prepotenza, contro la stessa vostra guerra. Se
incontriamo un ostacolo lo spezziamo: una, dieci, mille vite che
importano?

Ella aveva parlato con mal contenuta violenza; la rigidità del suo
atteggiamento s'era sciolta ed il braccio disteso aveva fatto il gesto
di chi svelle ed abbatte.

Quando tacque, il Ferpierre che era rimasto a udirla meravigliato e
quasi intimidito, disse a sua volta, con voce fredda e severa:

--Noi non abbiamo ora da discutere sulla moralità dei vostri principii.
Sarà bene dirmi piuttosto in qual modo la contessa potesse esservi
d'ostacolo? Che cosa potevate seriamente temere da lei?

E poichè ella tardava a rispondere:

--Vorreste darmi ad intendere che ella potesse pensare a denunziarvi, a
intralciare i piani delle vostre congiure?

--Non voglio darvi nulla a intendere. Per quella donna Alessio Petrovich
si perdeva.

--In che modo?

--Per amore di lei, per riaverla, aveva dimenticato il Dovere.
Comprendeva che ella non lo amava più, che ne amava un altro, ma sentiva
che c'era ancora un modo di tenerla con sè, di sottrarla a quell'altro.
Non tanto per amore costei gli si era data, quanto per distoglierlo da
noi, per redimerlo, diceva. Egli le si mostrò _redento_, le rappresentò
che ella era la sua _redenzione_; che, abbandonato da lei, sarebbe
ricaduto nell'_errore_. Il solo mezzo di averla con sè era questo: di
dirle e di provarle il proprio _ravvedimento_. Senza più amarlo, ma per
non farlo tornare a noi, ella resisteva a quell'altro. Io gli dissi più
volte la sua stoltezza, l'indegnità di sacrificare a una donna l'ideale
di tutta la sua vita. Egli non mi udiva. Era accecato. Veniva da me a
piangere per averla perduta, per averla voluta perdere; voleva che io,
io, l'aiutassi....

Nella voce della giovane c'era, oltre lo sdegno, un'ansia secreta: non
solamente il dolore per il traviamento del compagno di fede, ma anche,
più profondo e nascosto, il tormento d'essere stata presa a confidente
dall'uomo amato che neppure avea sospettato l'amor suo.

--E voi?

--Io vidi che tutto era inutile. Non avevo molto sperato di guarirlo
perchè so come è fatto. Quando un'idea lo infiamma nulla vale ad
arrestarlo: non ragiona, non vede più. Nondimeno aspettavo che la crisi
si risolvesse in qualche modo. Un giorno, improvvisamente, compresi il
nuovo pericolo: egli aveva visto il Ginevrino; nel parlarne le sue mani
tremavano, i suoi sguardi gettavano fiamme. Compresi che lo avrebbe
ucciso, che si sarebbe perduto senza riparo. Le ultime volte che venne
qui lo raggiunsi, presaga della catastrofe. Egli mi chiese che lo
aiutassi. Lo aiutai.

--Uccidendo la donna della quale voleva l'amore?

--Liberandolo.

--E avete assassinata quella creatura così, a mente fredda,
deliberatamente?

--Venni da lei. Venni qui l'ultimo giorno per parlare con lei. Poichè
ogni altro mezzo era stato invano, se egli non udiva la voce del
dovere, colei soltanto poteva salvarlo. Le dissi di abbandonarlo, di
fuggirlo, di scomparire. Ella non volle. Le soggiunsi: «Voi amate un
altro: andate lontano col nuovo amante.» Mi vietò di parlare così;
volle sapere chi fossi io. Risposi: «Una che vi odia!» L'odiavo perchè
l'avevo sentita, fino dal primo vederla, diversa da me, d'un'altra
casta, d'un'altra razza, d'un altro animo; perchè tutte le sue idee,
tutti i suoi sentimenti erano opposti ai miei; perchè ora ella mi
contendeva quell'uomo. Non volevo, no, assicurare a me stessa l'amore
di lui; ma serbare le sue forze all'opera comune. Nonostante l'odio,
la pregai. Fu inutile anche la preghiera. Allora le dichiarai: «Sapete
perchè non volete fuggirlo? Non per lui, ma per voi. Temete che vi
creda fuggita col vostro nuovo amante. Volete mostrargli una fedeltà
che non sentite, volete ottenere con l'osservanza d'un preteso dovere
la fama di costante e di fida. Foste la sua amante e volete farvi
credere la sua sposa non amandolo più. Egli vi giudica tanto buona,
che ho voluto vedere dove consiste la decantata vostra bontà. Voi
siete ipocrita, falsa, egoista, peggio che tutte le altre...» Ella mi
lasciava dire: tentavo invano di sdegnarla, di offenderla. «Ma un
giorno finirete anche voi col rompere questa vostra ipocrita fedeltà,»
io soggiunsi, «per darvi in braccio al nuovo amante... se pure non vi
siete già data...» Furono inutili anche queste parole. Si scosse
soltanto quando le dissi: «No! Ciò non avverrà. Il vostro amante sarà
morto! Egli lo ucciderà. Lo conoscete? Lo ucciderà! Sarete voi
responsabile dell'assassinio. Lo avrete voluto, lo volete; ogni
giorno, ogni ora, ogni minuto che passa lo prepara, lo affretta,
inevitabilmente!...» Allora ella disse: «Ah, morire! Debbo io,
voglio io morire...» Lo sdegno e lo sprezzo mi gonfiarono il cuore:
chi dice questa cosa quando la sente? Se era vero che ella volesse
morire, si sarebbe uccisa. Le dissi il mio sdegno e il mio
disprezzo. «Non è vero! Avete paura! Siete vile!...» Ella assenti:
«Sì, sono vile; l'arma è lì, la mano mi trema.» Presi io l'arma,
glie la porsi: «Raccogliete il vostro coraggio, se ne avete ancora,
se ne avete mai avuto...» Ella giunse le mani, scongiurandomi:
«Uccidetemi voi, liberatemi voi!...» Il mio sdegno cresceva vedendo
tanta viltà. Le promisi, con voce sorda, con l'arma in mano: «Ti
ucciderò se non lo lasci.» Ella giunse le mani, supplicando ancora:
«Uccidetemi!...»--«Non vuoi lasciarlo?»--«Uccidetemi!...»--«No?» Udii
il passo di lui, la sua voce chiamare. La uccisi.

Ansante, ella tacque.

--E non ne siete pentita?

--Non ne sono pentita. Ella era vinta dalla vita, voleva e doveva
morire. Egli doveva essere libero d'attendere all'Opera. Li ho liberati
entrambi.

E il Ferpierre riconosceva finalmente la verità già sospettata.

Ora tutto si chiariva, tutto si concatenava logicamente. La rea non
voleva convenire che, oltre lo zelo settario, anche la gelosia l'aveva
armata; ostentava di ricusare l'attenuazione del suo crimine per
gloriarsi d'essere inaccessibile agli interessi personali. C'era in
questa rinunzia una fosca grandezza che dava la misura della forza di
quell'anima; ma, senza dubbio, anche l'amore disconosciuto aveva dovuto
spingerla contro l'Italiana. Il pentimento del principe, la sua condotta
ambigua degli ultimi mesi, il suo dolore dopo la catastrofe, tutto si
spiegava. Negando d'essere l'amante della nihilista egli aveva detto la
verità. L'aveva ammesso forzato da lei, per secondarla, per salvarla,
quando ella credeva di potersi salvare così. Anche le ultime parole
della contessa, quell'invocazione alla morte liberatrice,
quell'incitamento rivolto alla minacciosa rivale, erano la naturale
soluzione del contrasto fra l'incapacità d'uccidersi e il bisogno di
morire dal quale ella realmente era stretta. La rea non aveva ragione?
Quell'assassinio del quale la giustizia aveva pure da chiederle conto
non si confondeva quasi col suicidio liberatore?

Così l'intrico era sciolto. Ma restava tuttavia al Ferpierre di chiamare
Zakunine. Riferendo alla nihilista che il principe si era accusato, egli
aveva mentito per amore di fare la luce; ma un dubbio ora gli
s'affacciava alla mente: se, udendo che Zakunine s'incolpava, la giovane
si era incolpata ella stessa, che cosa avrebbe detto il principe udendo
la confessione di lei? Si doveva sospettare che entrambi si sarebbero
dichiarati colpevoli?

Il contegno del principe, dall'ultimo interrogatorio, era, secondo la
relazione del direttore dell'Evêché, radicalmente mutato. Non passava
più il suo tempo, immobile e silenzioso, indifferente a ogni cosa:
l'insofferenza della prigionia lo faceva ora dare in ismanie. Aveva
chiesto di parlare con un avvocato, e non avendolo ottenuto si era
sfogato con parole dure contro la giustizia. Più volte in un giorno
chiamava i guardiani per domandar loro se era venuto l'ordine di
scarcerazione; udendo le risposte negative s'accigliava e fremeva.
Misurava in lungo e in largo la sua cella, con le mani strette sul
dorso, il capo chino, lo sguardo fisso e duro. Aspettava l'ora
dell'uscita quotidiana con impazienza, rientrava più torvo di prima.
Chiedeva libri, rifiutava il cibo della prigione, faceva venire da fuori
il suo vitto.

Appena condotto dinanzi al Ferpierre disse, con accento di mal repressa
impazienza:

--Ancora interrogazioni? Non volete riconoscere la verità alla fine?

--La verità mi è nota oramai!--rispose il giudice severamente.--Non
siete materialmente colpevole e non posso più trattenervi...

--Ah, dunque!

--Ma la vostra responsabilità morale è molto più grave di quella che
confessaste in principio; e questa vostra impazienza mi pare anche fuori
di luogo, poichè con una sola parola mi avreste tolto dal dubbio...

S'arrestò per dargli tempo di rispondere, di replicare qualcosa; ma il
principe lo guardava senza dir nulla.

--Pare dunque che la generosità dalla quale foste animato nei primi
giorni taccia finalmente e che non vi importi più tanto di salvare la
rea?

--Di salvare?...

--M'inganno, allora? Fingete la meraviglia e l'ignoranza? Sono fuori di
luogo. Ella ha confessato.

--Che cosa?

L'accento d'ansioso stupore col quale egli fece questa domanda pareva
sincero.

--Su via, volete farmi perdere ancora altro tempo? Vi duole ora di
vederla perduta? Non sapete che questa donna vi ha amato? Non sentite
che tutta la morale responsabilità di tante rovine pesa su voi,
unicamente? Fingete lo stupore dopo avere mentito? Diceste la menzogna
riconoscendo di essere l'amante di lei; ma questa almeno vi fu quasi
strappata dalla speranza di salvarla; ma perchè nascondeste i vostri
sentimenti ultimi verso quell'altra sciagurata?...

Il principe tremava. La Natzichev aveva detto il vero.

--E andavate a parlare dell'improvvida resurrezione del vostro amore a
chi vi amava, a una vostra complice nelle ribellioni, affinchè la
gelosia e il fanatismo si svegliassero in costei ad un tempo e
l'animassero contro quella infelice!... Siete ammutolito e tremate ora,
dopo aver fatto due vittime?... E perchè avete nascosto tutte queste
cose? Non era dunque generosità verso la rea, era un sentimento tutto
diverso; era tutta paura che, se io avessi saputo l'impeto di questa
vostra tardiva passione, avrei potuto e dovuto sospettare di voi con
maggior fondamento?

Allora il principe, sollevando risolutamente il capo e affissando lo
sguardo nello sguardo di lui, rispose con voce sorda:

--Non ho da dirvi perchè ho taciuto. Avete saputo la verità: perchè non
mi liberate? Che altro chiedete?



VIII.

LA LETTERA.


Quando i fogli pubblici diedero notizia che, chiusa l'istruttoria,
sulle concordi confessioni della Natzichev e di Zakunine la contessa
d'Arda era stata assassinata dalla nihilista e che l'atto d'accusa
avrebbe deferito la rea al giudizio dei giurati, la curiosità del
pubblico, cresciuta a dismisura negli ultimi giorni, s'acquetò
finalmente. I negatori del suicidio trionfavano vedendo confermati i
ragionamenti opposti all'improbabile ipotesi; nè gli altri erano del
tutto sconfitti, perchè, nonostante la secretezza delle indagini
giudiziarie, già si risapeva come Alessandra Natzichev uccidendo la
contessa non avesse fatto se non obbedire al desiderio, quasi
all'ingiunzione della disperata sua vittima.

Ciò non temperava i giudizii dei quali l'assassina era segno. Al motivo
da lei addotto si credeva solo in parte; che ella avesse uccisa la
disgraziata italiana soltanto per liberare il compagno di fede e
restituirlo al partito, pareva credibile a chi dello zelo partigiano
aveva l'idea più trista; i più riconoscevano che lo zelo della settaria
unitamente con la gelosia dell'amante avevano determinato il delitto. Ma
se la ferocia della ribelle incuteva terrore, la gelosia dell'amante non
era già perdonata: i più indulgenti verso i delitti d'amore negavano
alla passione della nihilista ogni buona qualità, la giudicavano fredda,
dura e selvaggia.

E mentre la figura di lei restava così sotto una fosca luce, i
denigratori di Zakunine, senza ricredersi del tutto, riconoscevano la
sua innocenza. Non si ricredevano interamente perchè vedevano lui
all'origine di tutti quei danni; della sola materiale responsabilità
del delitto egli restava sgravato. Anche i suoi tentativi di salvare
l'assassina gli erano ascritti dai più indulgenti a favore, sebbene i
più severi glie ne facessero un addebito: correndo il rischio d'essere
condannato con lei per tentar di salvarla, non confermava egli stesso
nel modo più evidente che erano entrambi passibili dell'identica pena?
L'unanime sentimento dava infine ragione a Roberto Vérod, che contro
tutte le apparenze aveva insistito a credere nel delitto e riusciva così
a vendicare l'amante.

Mentre i curiosi aspettavano pertanto con più tranquillità di vedere
l'ultima scena del dramma al pubblico dibattimento, solo il Vérod
restava nell'ansia.

Se dinanzi al cadavere di Fiorenza egli aveva sentito schiantarsi il
cuore, se all'incredibile idea di non vederla mai più era stato sul
punto d'impazzire, se l'impotenza di vendicarla lo aveva roso, se la
paura di averla egli stesso fatta morire era venuta ad aggravare con
l'atroce rimorso il suo già troppo grave dolore, egli poteva credersi
giunto al termine delle prove crudeli; ma un nuovo orrore lo aveva tosto
occupato. Nel punto d'accusare i due Russi egli aveva già sentito un
secreto imbarazzo, come una paura di rivelare la sua amicizia per la
contessa; ma il sentimento di morale pudore che gl'impediva di narrare
quest'intima storia era rimasto soffocato e vinto dall'impeto
vendicativo. Narrandola, egli aveva temuto che il magistrato non
credesse alla purezza della passione infelice; ma, anche dimostrata
questa purezza, gli era parso come di macchiarla. Aveva egli diritto di
rivelare il secreto d'un'anima? Se quest'anima aveva nascosto non
solamente agli altri ma quasi a sè stessa il proprio secreto, poteva
egli rivelarlo? Ed egli, egli che sapeva gli scrupoli dell'anima
adorata, che li aveva compresi e rispettati, a questo ora riusciva: che
tutti parlavano di lui come d'un nuovo amante della morta....

Portando l'accusa egli non aveva pensato che un giorno le cose dette al
magistrato si sarebbero risapute dalla folla; che dinanzi a una folla
accesa di curiosità malsana egli avrebbe dovuto ripeterle; che il nome
della creatura amata sarebbe corso di bocca in bocca, che le
dimostrazioni dell'innocenza dell'amor loro non avrebbero ottenuto
credenza, che dopo essere stato causa di tanta ambascia all'amata in
vita, egli stesso avrebbe posto opera ad avvilirne il ricordo. Nel
bisogno della vendetta, nell'accesso dell'odio contro i malfattori, non
aveva previsto queste naturali conseguenze della propria condotta;
vedendole prodursi il suo tormento era cresciuto fuor di misura. La
vittima innocente era da tanti coinvolta nel disprezzo che gravava sopra
i suoi tormentatori; alcuni perfino dicevano che se l'Italiana era stata
uccisa, la triste sorte era meritata della vita trista!...

Che importava se la verità si sarebbe un giorno affermata? Come placare
la memoria della innocente profanata ed avvilita? Dinanzi a tutti, il
giorno del dibattimento, doveva egli attestar sulla croce l'innocenza di
lei? Non doveva egli piuttosto desiderare che il processo non si facesse
e dichiarare il proprio inganno e riconoscere che l'innocente s'era
uccisa, per non essere obbligato a rivelare dinanzi alla cupida folla il
secreto dell'anima amata?

Il contrasto fra i due doveri dei quali egli sentiva il peso, del dovere
di vendicare la morta insistendo nell'accusa e quello di rispettarne la
memoria tacendo, si sarebbe dovuto comporre all'annuncio della
confessione della rea. Invece in quello stesso punto cresceva.

La morale certezza dell'impossibilità del suicidio lo aveva spinto ad
accusare i due Russi, ma egli non aveva saputo dire su quale dei due il
sospetto doveva principalmente cadere. Udendo che la Natzichev assumeva
la responsabilità del delitto, questo risultato lo lasciava ora
altrettanto scontento quanto l'avrebbe scontentato la conferma del
suicidio. Vedendo provata l'innocenza di Zakunine, egli sentiva ora
d'aver lanciato l'accusa in odio a lui direttamente; una secreta voce
gli diceva che l'assassino era lui. A quell'uomo, non alla donna, egli
sentiva di dover chiedere conto della morte della infelice; l'ambiguo
sospetto ora si determinava; egli riconosceva d'avere sbagliato non
rivolgendo il magistrato fin dal principio contro quell'uomo
soltanto....

Poteva egli ancora riparare al mal fatto? Se, per una secreta ragione,
per salvare il compagno di fede, la nihilista aveva confessato un
delitto che non aveva commesso, doveva egli insistere nell'accusa contro
Zakunine? Ora che la giustizia e la pubblica opinione s'acquetavano
vedendo logicamente spiegato il mistero, come avrebbe egli potuto
sorgere ancora a negare la spiegazione, a denunciare il supposto eroismo
della giovane, la supposta infamia dell'assassino che lasciava pagare
alla innocente per amor di salvarsi?... Se avesse fatto così, egli
stesso avrebbe dato ragione a chi lo diceva amante fortunato della morta
e geloso rivale del principe! Quanto più zelo avrebbe messo
nell'accusare quest'ultimo ora che l'innocenza ne pareva dimostrata,
tanto più naturalmente si sarebbe creduto che soltanto il cieco odio lo
animava, e spiegato con l'amor suo per la morta quest'odio e questo
bisogno di vendetta! Mentre la confessione della Natzichev faceva
dimenticare la passione di lui e permetteva di evitarne le
testimonianze, egli doveva, per dichiarare mentita questa confessione,
intervenire ancora più attivamente, insistere nel sentimento che lo
aveva unito alla contessa, esporlo ai sospetti profanatori!... Ma, per
evitare il danno intollerabile, egli doveva pure, tacendo, ammettere che
Zakunine fosse innocente; e a quest'idea tutto l'essere suo insorgeva:
no! se c'era un colpevole era lui! non poteva esser altri che lui!...

Se c'era un colpevole!... Infatti, posto che egli avesse denunziato ai
giudici la menzogna della Natzichev, come avrebbe potuto convincerli poi
della colpa di Zakunine? Se la innocente s'incolpava per salvare il reo,
come indurre il reo alla confessione? Mancando le testimonianze, solo la
confessione d'uno dei due sospettati poteva escludere il suicidio:
negato valore alle dichiarazioni della nihilista e non potendo indurre
il suo compagno ad incolparsi, questo risultato sarebbe stato
inevitabile: che il giudice sarebbe tornato ad affermare la morte
volontaria!

Così, da qualunque lato egli volgevasi, a qualunque partito pensava
d'apprendersi, il danno era certo. Che l'istinto lo ingannasse, che
l'odio soltanto lo spingesse contro Zakunine, egli negava a sè stesso.
Se avesse potuto ispirare al giudice una certezza così salda come la
propria, la condanna di quell'uomo sarebbe stata immancabile. E troppo
grave, troppo triste era che l'omicida andasse impunito, più triste e
più grave ora che un'altra doveva pagare per lui.

Quell'amore di giustizia, quel bisogno di verità che avevano animato la
vittima, non sarebbero rimasti scontentati ed offesi dal trionfo della
menzogna? Il dover suo non era di confondere la menzogna? Se anche egli
non avesse idolatrata la vittima e sperato di vendicarla, l'amore di
giustizia e il bisogno di verità che ella gli aveva ispirati non
dovevano incitarlo a salvare l'innocente e smascherare il colpevole?...

Allora, dal più profondo del suo cuore, dalle latebre dell'anima,
fievole ma nondimeno distinto, un altro ricordo sorgeva: non solamente
la verità e la giustizia avevano ispirato la vittima: più forti, più
potenti, altri sentimenti aveva ella espressi: i sentimenti cristiani
del perdono e della pietà.... E l'ansia del giovane cresceva ancora,
cresceva continuamente.

Il suo piacere e il suo orgoglio era stato di pensare, di credere, di
agire come la creatura amata pensava, credeva ed agiva.
Dell'approvazione, della lode di lei gli era importato sopra ogni cosa,
unicamente. Il pensiero di lei era stato la sua guardia e la sua tutela.
Se ella era morta, non doveva egli ancora e sempre trarre dalla sua
memoria l'ispirazione e seguire i suoi insegnamenti? Non era questo il
modo di farla rivivere?... Or quale sarebbe stato il consiglio di lei,
se egli avesse potuto chiederlo, se ella avesse potuto darlo? Come si
sarebbe ella condotta in una situazione simile a quella nella quale egli
versava?...

Sì: l'odio lo animava, lo faceva cupido di vendetta. All'idea di non
poter più mai udire la voce di lei, di doversi appagare del ricordo
invisibile, l'odio contro l'uomo che glie l'aveva contesa e tolta lo
dominava, fino a soffocare la voce d'ogni altro sentimento. Se ella non
poteva più rammentargli il consiglio del perdono, se il ricordo restava
inefficace, la colpa era tutta di quell'uomo. Nei primi giorni egli non
si era neppure proposto il problema morale che ora veniva ad accrescere
il suo tormento. Ma, come il primo impeto del dolore naturalmente
sedavasi, come egli doveva fatalmente abituarsi all'idea della morte,
come tutte le forze dell'anima sua erano intente a raccogliere, a
custodire, a immortalare la memoria della perduta, egli pensava se del
cieco odio e della vendetta ella non si dolesse. Nel punto che l'arma
omicida rompeva le sue carni, che gli occhi suoi chiudevansi alla luce,
aveva ella imprecato? L'ultimo pensiero della sua vita poteva essere
livido?

Quando il Vérod si proponeva queste domande, la risposta non era dubbia
per lui. Ella aveva perdonato. Doveva egli perdonare a sua volta? Se
voleva essere degno di lei, non doveva seguirne l'esempio?...

Alle volte egli chiudeva gli occhi e chinava la fronte, invaso dal
ricordo dei buoni insegnamenti, quasi vergognoso d'averlo smarrito.
Altre volte protestava ed insorgeva. La vita non può esser fatta tutta
d'amore! Se al male s'oppone il perdono, quale sarà il premio del
bene?... Ma allora le parole di lei gli tornavano a mente: «Se al male
non si concede perdono, se gli si oppone altro male, dove è più il
bene?» Ella diceva che la giustizia è amabile, ma che non basta. Poichè
le creature umane sono troppo deboli e peccano anche quando hanno
prescienza dei loro peccati, bisogna che alla somma troppo grande degli
errori sia concessa indulgenza. «La giustizia indulgente non è
giusta!...» aveva egli replicato; ed ella: «La stretta giustizia è
impotente, la bontà solo ha ragione del male.»

Egli aveva assentito. Perchè aveva assentito? Non era stato sincero? Se
le aveva dato sinceramente ragione, se aveva accolto candidamente il suo
precetto, non doveva ora perdonare? Se ora non perdonava non era stato
allora sincero; aveva finto per piegarla, per vincerla! Doveva egli
accusarsi della passata ipocrisia oppure della debolezza presente?

Egli usciva dal dubbio pensando che la verità non è sempre la stessa,
che i contrasti della vita mettono l'uomo in opposizione con sè stesso
senza che sia imputabile di mala fede. No, egli non aveva mentito
riconoscendo che la bontà è necessaria; soltanto col ricordare la
predicazione del perdono non dimostrava d'averla compresa? Ma come
accoglierla ora che la sua ragione, la sua passione, tutto l'essere suo
voleva e doveva necessariamente volere il castigo? Allora egli udiva
altre parole, così chiare e ferme come quando ella le aveva proferite:
«La verità è una sola; riconoscerla astrattamente val poco nè vi può
essere merito se non l'affermiamo contro il nostro proprio
interesse....»

Una notte egli la vide venirgli incontro con le braccia prosciolte, le
mani aperte, la faccia al cielo; l'udì proferire: «Perdona.» L'illusione
fu così intensa che egli si destò con gli occhi bagnati di pianto.

Nella veglia, pensando di dovere oramai unicamente appagarsi delle vane
visitazioni del sogno, l'impeto della passione vendicativa tornò a
sollevarlo. Vagando per i luoghi dove era stato con lei, cercando ancora
qualcosa di lei sotto il cielo, egli riudiva la voce sommessa
consigliare:

«Perdona.»

Egli diceva a sè stesso: «Non posso.»

Non poteva. Perdonare sinceramente, col cuore, egli non poteva, non
avrebbe potuto, mai. Doveva lasciare soltanto che la giustizia facesse a
suo modo, non più intervenire? Se era sicuro del nuovo inganno, non
doveva svelarlo?...

Ma la paura di profanare le memorie dell'amor suo lo arrestava. Non le
aveva già lasciate profanare? Egli che non voleva ascoltare la voce del
perdono, non aveva bisogno che la Morta lo perdonasse?... Per sostenere
l'accusa contro Zakunine bisognava spiegare che questi era stato geloso
di lui, che aveva creduto fondata la propria gelosia. Ciò gli riusciva
impossibile. Che fare?

«Perdona,» diceva sempre la voce.

Egli l'udì non più secretamente, non più nel sogno, ma distinta, alla
luce. Un giorno, errando per la montagna dove aveva guidato la sua nuova
sorella, si trovò dinanzi alla cappelletta della quale la debole mano
non aveva potuto schiudere la porta. La porta era chiusa, come un tempo.
Egli sostò, tremante, battendo le ciglia sugli occhi ardenti. Sulla
grossa chiave rugginosa la bianca mano s'era posata. Volle aprire, poi
si ritrasse per paura di cancellare la traccia della mano. Ma il suo
braccio si distese ancora una volta, la porta gemè sui cardini. Crebbe
il suo tremore. Nella cappella egli la vide dinanzi a sè, prona, a capo
chino, a mani giunte, rivolta all'altare, vestita del color della
fiamma; egli cadde in ginocchio rompendo in pianto. Nel pianto udì la
voce distintamente dire:

«Perdona....»

Il domani fu chiamato dal giudice. Era la prima volta che egli si
ritrovava dinanzi al magistrato dopo il giorno che questi, trionfando
delle sue argomentazioni, aveva detto di credere fermamente al suicidio.
La confusione del giovane era estrema, non sapendo che cosa potevano
ancora volere da lui.

--Bisognava innanzi tutto,--gli disse il Ferpierre,--che io riconoscessi
il mio torto e la vostra ragione. È stato provvidenziale che voi abbiate
insistito nell'accusa a dispetto dell'evidenza; perchè, senza la vostra
insistenza, senza la fiducia dalla quale vi vidi animato, io avrei
probabilmente tralasciato quelle ulteriori ricerche che mi hanno
condotto alla scoperta della verità. Ne avrete forse avuto notizia, a
quest'ora; ma io voglio confermarvi che la vostra povera amica fu
veramente assassinata. La Natzichev ha confessato il suo delitto; il
principe, che aveva taciuto sperando di poterla salvare, ha confermato
la confessione di lei.

Roberto Vérod restava muto e confuso.

--Siete ora contento?

Il giovane non rispose.

--Avete reso un servizio alla giustizia. Senza di voi l'assassinio
sarebbe rimasto impunito, o peggio un innocente avrebbe pagato per il
colpevole. C'era un colpevole, e l'istinto che ve ne avvertiva non
v'ingannava; soltanto i vostri sospetti contro il principe si dimostrano
ora infondati.

Il Ferpierre tacque ancora un poco per dar tempo al Vérod di dire
qualcosa; poi, come questi taceva, riprese:

--Il principe non poteva volere la morte della contessa tornando ad
amarla, d'un amore veemente e timido insieme, che spingeva questo
ribelle implacato a desistere della propaganda rivoluzionaria, a
rinnegare il suo passato, la sua fede, i suoi complici. E ciò perchè
sapeva ora apprezzato e ottenuto da voi l'affetto della contessa,
quell'affetto che prima egli aveva sdegnato. Il cuore umano ragiona
così!... Allora la sua complice lo vide perduto non solamente per il
partito ma anche per sè, perchè lo amava e si struggeva sapendolo
d'un'altra, vedendosi presa a confidente di questo amore risorto. Andò
così dalla rivale per imporle di lasciarlo; ebbe una spiegazione
tempestosa che finì col delitto. Ha confessato ogni cosa.

Ad una nuova pausa il Vérod oppose ancora silenzio.

--Siete contento?--ripetè il giudice.

--Perchè me lo domandate?

E i due uomini si guardarono fiso.

--Dovreste essere contento, io penso, d'avere vendicato la morte della
vostra amica, confuso la rea ed ottenuto il trionfo della verità e della
giustizia.

Tacquero ancora entrambi.

--Non ne siete contento anche voi?...--disse finalmente il Vérod.

Egli aveva sentito nelle domande una specie d'incitamento, quasi una
provocazione a dire tutto il suo secreto pensiero, come se il secreto
pensiero suo fosse anche del giudice.

--Io non ho passioni da soddisfare,--rispose questi.--Un solo amore mi
guida: l'amore della giustizia...

--Se la giustizia s'acqueta...

--Ne dubitate?

--Non tocca a me dubitarne...

--Volete dunque dire che dovrei dubitar io? E perchè?... Avete
denunziato un crimine: il crimine è provato. Non avete saputo dire chi
dei due possibili autori fosse realmente colpevole, giacchè entrambi
erano capaci di delinquere: la colpevole s'accusa ella stessa!...
Vorreste forse dirmi che la sola confessione non basta? Lo so anch'io!
Ma quando non è comprovata. Un pazzo può dichiararsi autore d'un
delitto, ma non sa poi darne ragione, non sa spiegarne le circostanze.
Qui tutto non si spiega? Tutto non è confermato dal solo testimonio?...
O negate fede a questa riprova?

--Sì,--proruppe il Vérod, la cui esitazione era venuta crescendo fino a
manifestarsi con un atteggiamento che faceva più incalzanti le domande
del giudice.--Sì, le nego fede, perchè anche voi glie la negate! Perchè
questo testimonio non è disinteressato, ma vede anzi in giuoco la sua
libertà! Perchè non solamente un pazzo può confessarsi autore d'un
delitto che non ha commesso, ma anche chi vuole sacrificarsi...

--Voi dunque sostenete?...

--Io sostengo,--soggiunse il giovine rapidamente, quasi per non darsi
tempo di pensare a ciò che diceva, quasi vincendo sè stesso:--io
sostengo che questa donna si sacrifica per amore, per zelo settario;
che l'assassino trae profitto dal sacrifizio per assicurarsi l'impunità.
Io dico che l'assassino è lui, non può essere altri che lui...

Sì, egli doveva dire questa cosa. La voce del perdono taceva, la voce
non aveva mai parlato. Egli aveva sognato, era stato zimbello di
allucinazioni. La verità era un'altra: la creatura d'amore giaceva
sotterra, le macchie del suo sangue non erano ancora scomparse; il
sangue chiedeva vendetta; egli doveva ottenerla.

--Perchè non lo diceste prima? Perchè esitaste, in principio?

--Perchè non sapevo ancora, perchè non avevo ancora bene pensato. Perchè
voi non credevate al delitto e tutti i miei sforzi erano diretti a
negare il suicidio.

--Dunque quest'uomo non solamente avrebbe ucciso, ma spingerebbe
l'infamia sino a lasciar condannare una innocente?

--Ve ne stupite? Non deve egli esserne giubilante?

--Ne avete un'idea orribile! Capisco che l'odio v'accechi, ma non sono
già cieco io. Quest'uomo non è tanto perverso quanto voi credete. Nella
sua vita vi sono atti di valore. Il suo contegno dinanzi al cadavere e
nei primi giorni della prigionia non è stato di giubilo.

--Nei primi giorni. E negli altri?

A quella domanda il giudice pensò un poco prima di rispondere.

Era vero. Prestato fede sul momento alla confessione della nihilista, il
dubbio aveva subito ricominciato ad occuparlo. Se colei si sacrificava?
Che valore dare alla sua confessione e alla conferma del principe?...
Egli aveva pertanto ricominciato a interrogarli, separatamente, insieme;
ma entrambi erano rimasti fermi nelle loro dichiarazioni. Paragonandole,
egli vi aveva scoperto qualche contraddizione; mentre la Natzichev
asseriva che, nel punto culminante della sua spiegazione con la
contessa, udendo la voce conturbata del principe chiamare, aveva
lasciato andare il colpo per paura che se egli sopravveniva non avrebbe
più ritrovato l'occasione di sbarazzarsi della rivale, il principe
invece affermava d'essere accorso dopo udito il colpo da lontano. Posti
nuovamente in confronto, la Natzichev si era corretta, dichiarando che
aveva creduto di udire la voce, ma che forse per la concitazione si era
ingannata. Altri piccoli particolari avevano affermato il giudice nel
sospetto che, come nei precedenti interrogatorii, anche ora la giovane
prendesse l'iniziativa di spiegare in un certo modo il dramma e
incitasse il principe a secondarla; tuttavia egli era deciso di
rimandarla dinanzi ai giudici perchè il pubblico dibattimento finisse
di fare la luce su quel mistero. Prima però aveva voluto richiamare il
Vérod per vedere se dubitava anch'egli, per discutere con lui i nuovi
sospetti.

--Nei primi giorni egli era oppresso dal dolore,--gli rispose, dopo aver
considerato ancora una volta tra sè queste cose;--più tardi parve
insofferente della prigionia.

--Vedete?--esclamò il Vérod.--Se pure sul principio egli comprese
l'orrore del suo misfatto, fu poi smanioso di liberarsi. Il mezzo è
stato sin troppo buono!

Così aveva anche pensato il Ferpierre. Quell'uomo in cui diverse ed
opposte impulsioni si succedevano repentinamente, che non era del tutto
incapace del bene, ma che obbediva con maggior prontezza alle
sollecitazioni del male, forse era stato sul punto di confessare: mutata
a un tratto la disposizione del suo spirito, cupido di libertà, non
aveva avuto scrupolo d'afferrarsi alla tavola della salvezza.

--Se egli è così infame, la Natzichev ha un cuore eroico?

--Che cosa vieta d'ammetterlo?

Il magistrato aveva anzi espressamente riconosciuto che per l'ardor
della fede, per la tenacia dei sentimenti, la giovane era capace
d'eroismo.

--Ma come confonderla? Ella spiega molto bene il suo delitto! Ne aveva
due ragioni: l'amore e il fanatismo.

--Entrambe non le debbono consigliare di salvare l'uomo amato e il
compagno di fede?

Anche ciò era vero. Se il principe aveva uccisa la contessa, tanto per
amore all'uomo quanto per amore al partito, la giovane doveva tentare di
salvarlo.

--Bene. Ma le prove?

--Ah, le prove bisogna ancora trovarle!

--E allora, aspettando, tanta ragione voi avete d'insistere nel vostro
sospetto, quanta ne ho io di tornare alla mia prima opinione.

--Come mai?

--Ma sì! Io torno a credere che la contessa si è uccisa!

--Se già coloro ammettono il delitto?

--E come lo ammettono? Voi non sapete come, in quali circostanze la
Natzichev si è dichiarata colpevole! Ha confessato quando io le ho detto
che il principe aveva confessato egli stesso! Lo ha visto perduto ed ha
voluto salvarlo!

--E ciò non vi dimostra luminosamente che egli, egli solo è
l'assassino?

--Ma egli non ha confessato niente! Io stesso, come un ultimo disperato
espediente, dissi questa cosa!

--E non vedete che diceste la verità?--incalzò il Vérod.--Se lo sapesse
realmente innocente, quella donna avrebbe riso, udendovi! Non vi avrebbe
creduto! Avrebbe scoperto il vostro artifizio! Potrebbe mai credere che
egli abbia confessato una colpa non commessa? Se quella donna vi ha
creduto, ciò significa che voi avete detto inconsapevolmente la verità.
Ha voluto salvarlo perchè lo ha visto realmente perduto!

Il Ferpierre non rispose.

Egli era stupito di non avere ancora fatto, fra tante, quest'ovvia
argomentazione. E dell'ovvia argomentazione sentiva tutto il peso, e
sentiva ancora che, se essa rispondeva al vero, egli aveva battuto una
strada falsa.

--Ipotesi e presunzioni, come tutte le altre!--esclamò ad un tratto,
volendo negare per la confusione l'importanza che intimamente attribuiva
alle parole del giovane.--Noi non facciamo altro che continuamente
alternare le ipotesi. Se la contessa non si è uccisa è stata
assassinata; se non è stata assassinata si è uccisa! Il delitto è opera
della nihilista, se non l'ha commesso Zakunine; se la nihilista è
innocente, il reo è Zakunine! La vostra passione non è una prova!
Finchè non mi verrete a portare una prova più valida delle vostre
appassionate affermazioni, se pur vorremo essere molto severi con gli
accusati non potremo far altro che proscioglierli entrambi per
insufficienza di indizii!

E, quasi bruscamente, lo congedò.

Rimasto solo, diede ordine che non fosse introdotto più nessuno. La
gravità dei nuovi pensieri e l'irritazione che lo animava contro sè
stesso non gli consentivano d'occuparsi più d'altro.

Il ragionamento suggeritogli dal Vérod era naturalissimo: come negarne
il valore? Se egli aveva ammesso tante cose per dubitare della
confessione della Natzichev, come non ammettere questa? Era la più
considerevole. La passione del giovane serviva dunque a qualche cosa e
la freddezza sua propria non serviva a nulla, se il giovane vedeva più
chiaramente di lui?

Certo, senza l'artifizio adoperato con la nihilista, tanto il principe
quanto ella stessa avrebbero continuato a negare, a giovarsi della
verisimiglianza del suicidio. Era anche evidente che, dei due, nei primi
giorni, la più zelante della comune salvezza era stata la Natzichev. In
tutti gl'interrogatorii erasi visibilmente sforzata d'avviare il
principe alla difesa. Aveva riconosciuto d'esserne l'amante e lo aveva
sollecitato a confermare questa dichiarazione volendo impedire che si
scoprisse la resurrezione dell'amore di lui per la contessa;
resurrezione che poteva far sospettare un delitto di gelosia. Credendo
che egli si fosse poi confessato geloso e reo, aveva inventato il
proprio intervento fra i due attori del dramma! Il silenzio e la
tristezza del principe non potevano essere, non erano il rimorso del
colpevole? A ogni modo, costui era parso sulle prime indifferente, dal
tanto dolore, alla propria sorte. Il Ferpierre pensava pertanto d'avere
sbagliato adoperando l'artifizio contro la giovane: egli avrebbe dovuto
dire invece al principe che la Natzichev s'accusava. Doveva dirlo quando
Zakunine era ancora sotto il peso del dolore; allora, probabilmente, non
tollerando che un'altra pagasse per lui, avrebbe confessato la verità.

La verità!... Se anche questa era la verità vera, come accertarsene?
Posto che la Natzichev volesse salvare il principe, non avrebbe ella
fatto, dopo la confessione di lui, ciò che aveva fatto realmente udendo
la narrazione capziosa? Allora, entrambi accusandosi, la confusione
sarebbe stata maggiore! O, al contrario, il loro confronto sarebbe stato
più fruttuoso?

Ora i confronti erano inutili. Deliberato di giovarsi della generosità
della giovane, Zakunine riconosceva in lei la colpevole; ella insisteva
nella confessione: come smentirli? Il Ferpierre pensava di poter tornare
dalla Natzichev e dirle, con la forza della convinzione, il nuovo
sospetto: «Voi credete d'averlo salvato? Lo avete perduto! Perchè
confessaste? Perchè io vi dissi che egli stesso riconosceva d'avere
uccisa la contessa. Ebbene: non è vero! Egli non ha confessato niente!
Io ho detto una menzogna. Però questa che credevo menzogna è verità, e
voi stessa, senza volerlo, anzi volendo il contrario, me lo avete
provato! Se fosse stata menzogna ne avreste riso. Voi invece avete
tremato per lui e avete tentato di salvarlo, invano!...»

Ma il Ferpierre s'arrestava a un tratto, prevedendo che ella non sarebbe
rimasta senza risposta: «Non ho riso della menzogna perchè non potevo
riderne, ma dovevo dolermene. Credendo alla vostra menzogna pensai
ch'egli s'accusasse per salvar me, e siccome è innocente e la rea sono
io, così non ho riso, ma ho tremato e ho detto la verità!...»

Che cosa risponderle? E come convincerla di mendacio?... E se ella non
diceva il falso? Se era realmente colpevole? Se la sua condotta non era
quella di un'eroica salvatrice, ma d'una rea confessa? Che cosa vietava
di crederla rea veramente? Era possibile che ella avesse con tanta
abilità ricostruito e colorito una falsa soluzione del dramma e che
avesse saputo narrare un cumulo di menzogne con voce tanto turbata, con
espressione tanto sincera?

Allora il Ferpierre tornava a misurare le probabilità, a vagliare le
presunzioni, a rifare il lavoro di tutti quei giorni, arrestandosi ora
all'una ora all'altra ipotesi, riconoscendo ancora una volta
l'inestricabile difficoltà del caso.

Doveva egli proprio rinunziare a indagini ulteriori? La speranza d'avere
una prova inoppugnabile era proprio perduta? E come concludere la sua
lunga e vana istruttoria? Bisognava proprio accettare le ultime
dichiarazioni degl'imputati? O negarle, e riaffermare che la contessa si
era uccisa, e che la Natzichev s'incolpava soltanto per la paura di
veder condannato il principe, pure essendo innocente quanto lui, e che
per questa ragione le loro versioni non erano state concordi?... O
tornare all'ipotesi, già esclusa come la più improbabile, che fossero
colpevoli entrambi, che la Natzichev avesse aiutato l'amante a compiere
l'assassinio per furto, e tentato poi di scagionarlo per accusare sè
stessa?

Ciascuna conclusione ripugnava al magistrato, ma bisognava pure
accoglierne qualcuna, e già egli pensava di fare un ultimo tentativo
presso i due Russi; quando, nonostante gli ordini dati, udì picchiare
alla porta. L'usciere, scusandosi della trasgressione, gli recava un
piego della Procura generale, In un angolo del quale due parole
sottolineate avvertivano che la comunicazione era urgente. Egli apri
distrattamente la busta poichè niente gli pareva urgente se non uscire
dalla lunga ambiguità, e ne trasse due carte: un telegramma, e un
biglietto del Procuratore generale. Questi gli scriveva:

«Vi trasmetto immediatamente il dispaccio appena ricevuto dal console
elvetico di Edimburgo. Potremo ora forse sapere qualcosa di preciso
intorno al mistero di Ouchy.»

E il Ferpierre aprì con mano tremante dall'ansia l'altro foglio, che
diceva:

«Suor Anna Brighton abita a Stonehaven, contea di Kincardine, Scozia.
Sono stati presi gli accordi con la magistratura inglese per assumere la
sua testimonianza.»

Già alla notizia che l'istruttoria non era, come prima avevano
annunziato, ancora chiusa, e che il magistrato diffidava della
confessione di Alessandra Natzichev, e che tutto tornava ad esser posto
in forse quando il mistero pareva svelato, la curiosità pubblica s'era
ridestata, più cupida di prima. Tra chi sosteneva la sincerità della
nihilista e chi vedeva nella condotta di lei una nuova prova della colpa
del principe e chi tornava con cresciuta fiducia alla versione del
suicidio imputando ai metodi inquisitorii del magistrato la confessione
strappata ad una innocente, le discussioni fervevano, appassionate ed
inutili. Ma i più riconoscevano oramai che la giustizia si trovava
dinanzi ad uno di quei casi dubbii della soluzione dei quali bisogna
disperare finchè qualche circostanza inopinata non viene a rischiararli,
e che più spesso restano insoluti, per sempre.

La notizia che suor Anna era stata finalmente trovata portò ai gradi
della febbre l'aspettazione curiosa. La sua testimonianza, l'ultima
lettera a lei diretta dalla contessa qualche ora prima della morte,
avrebbero tutto spiegato.

Questa fiducia non era tuttavia generale e lo stesso Ferpierre, dopo il
primo movimento di stupore e di piacere alla comunicazione del
telegramma, temeva anch'egli di non potere ancora uscire del dubbio. Se
la morta confessava d'essere sul punto d'uccidersi, se mandava alla
suora l'ultimo saluto, costei, ricevendo quella lettera, leggendo
quell'annunzio, non avrebbe dovuto accorrere, o almeno rispondere e
cercare di avere altre notizie, di sapere se il proponimento funesto era
poi stato compito? E poichè tutti i giornali del mondo avevano parlato
della catastrofe e delle accuse, degli arresti, dell'inchiesta, non era
per la religiosa un dovere di coscienza far tenere alla giustizia la
lettera? Nulla era venuto; dunque la lettera non annunziava il suicidio!
Bisognava pertanto considerare come singolarmente peggiorata la
condizione degli imputati. Mancando un'esplicita allusione al disperato
proposito della scrittrice, sarebbe parso sempre meno probabile che,
un'ora dopo, ella si fosse uccisa; ma a quale dei due accusati bisognava
imputare il delitto? Si poteva sperare che ella avrebbe espresso la
paura suscitata in lei dal minaccioso contegno di uno dei due? Non era
più probabile che la lettera non sarebbe stata esplicita in nessun
senso, e che, pure confermando l'ambascia dalla quale l'infelice era
occupata, non avrebbe annunciato la determinazione di morire? In tal
caso l'ambiguità sarebbe rimasta.

Una prima notizia, riferita dai giornali inglesi che annunciavano il
ritrovamento di suor Anna Brighton, distrusse i dubbii del magistrato.
La religiosa, dicevano i fogli, era colpita da una grave paralisi, non
aveva più l'uso del corpo nè della favella.

Un telegramma da Londra al _Journal de Genève_ precisò, il giorno
seguente, che la malattia datava da un mese; che l'insulto apoplettico,
secondo la dichiarazione della cugina di suor Anna, sola parente di lei,
si era prodotto alla lettura di una notizia funesta.

E quando, una settimana dopo, con la conferma di queste voci, il
Ferpierre ebbe il referto del magistrato scozzese, comprese d'avere
ancora una volta sbagliato nelle sue previsioni. Suor Anna non aveva
potuto rispondere alla contessa nè illuminare la giustizia, perchè era
caduta come morta leggendo la lettera dell'antica prediletta sua
allieva.

Quella lettera trovata presso di lei e unita al rapporto insieme con
altre che non avevano importanza, diceva:

«Suor Anna, pregate per me. Pregate molto, con tutto il fervore della
vostra anima buona, perchè ho bisogno di molto perdono.

«Questa è l'ultima lettera che riceverete da me. Se un giorno udrete ciò
che avrò fatto, ricordatevi il nome che m'avete sempre dato, dalla prima
volta che mi carezzaste: ricordatevi che mi avete chiamata ed amata come
vostra figlia: a una figlia voi pregherete indulgenza.

«Dio mi legge nel cuore. A voi io non debbo e non voglio dire che
tempesta mi travolge. Voi siete beata, che non conoscete l'errore;
perchè parlarvi di quelli tra i quali io mi dibatto? Pensate una cosa
soltanto: che se troppo peccai, io voglio ora sfuggire a nuove colpe. Io
sono ridotta a tale, che dovunque è per me colpa ed orrore. La morte
sola può liberarmi; dovrei aspettarla perchè non tarderà; ma il male,
no, non aspetta.

«Se vi addoloro, scusatemi; pensate che io non ho altri al mondo cui
dire queste cose, in quest'ora estrema. Vorrei anche darvi un'altra
preghiera: di gradire le memorie che vi lascio. Sono certa che le
serberete con l'amore che mi avete sempre portato.

«Suor Anna, pregate per me.»




IX.

SPASIMO.


Gli anni passarono, e la contessa Fiorenza d'Arda, il principe Alessio
Zakunine e Alessandra Natzichev si cancellarono a poco a poco dalla
memoria degli uomini. I proprietarii dei _Cyclamens_ avevano pensato
dapprima di mutare il nome della villa temendo che il triste ricordo non
impedisse che altri la volesse abitare; ma, alla nuova stagione, un
Inglese la richiese espressamente per la curiosità destata in lui dal
dramma di Ouchy. Due anni dopo fu presa da una famiglia americana che
non sapeva della morte nè del processo, e così il nome rimase.

La baronessa di Börne, assidua frequentatrice della Casa di salute,
riferiva ai nuovi venuti la storia, con molta ricchezza di particolari,
e i nuovi venuti stavano ad ascoltarla, indifferenti a quelle cose
passate delle quali non erano stati spettatori e infastiditi anche dal
suo monotono eloquio. A poco per volta anch'ella se ne dimenticò.

Suor Anna Brighton doveva esser morta a Stonehaven; il nome della
contessa d'Arda si cancellava dalla croce del cimitero della Sallaz. Del
principe e della giovane nihilista nessuno seppe più nulla dopo la
liberazione: sicuramente essi erano tornati alla loro propaganda. Ai
loro amori, anche? Era probabile: dopo l'eroico tentativo di salvarlo,
Alessandra Natzichev doveva aver vista ricambiata da Zakunine la
passione che ella gli portava. I giornali, pieni una volta delle notizie
relative all'accusa che li minacciava entrambi, non parlavano più di
loro; altre storie di altre passioni occupavano il posto già tenuto dal
dramma di Ouchy.

Più degli altri il giudice Ferpierre, nonostante i nuovi processi e i
nuovi misteri proposti alla sua indagine, ne serbò memoria: troppo grave
era stato il suo dubbio, troppo penoso il dispetto di non aver saputo
veder chiaro in quell'intrico. Cercando di giustificarsi agli occhi suoi
proprii, egli pensava che, dopo la lettura delle memorie della contessa
e l'interrogatorio del Vérod, aveva visto ed affermato la verità; poi il
ricordo delle esitazioni, dei sospetti, dei tentativi ambigui ed
infelici lo confondeva. Come non s'era mantenuto nell'opinione che
l'accusa era tutta una costruzione dell'odio del Vérod? Una specie di
sordo e assiduo rimorso l'occupò lungo tempo all'idea di avere spinto
una innocente a un sacrifizio terribile; poi quel suo errore si confuse
con altri, egli pensò che non c'era stata altra colpa da sua parte se
non quella d'uno zelo soverchio nell'accertare l'accusa, e così anche
per lui la memoria di quei fatti si venne alfine perdendo.

Roberto Vérod diceva a sè stesso che anch'egli avrebbe dimenticato, ma
il tempo tardava a produrre l'usato benefizio.

Certe volte, quando un nuovo pensiero lo toglieva alle dolorose memorie,
egli tremava perchè il pensiero nuovo era senza fine più grave. Dinanzi
all'evidenza egli aveva dovuto riconoscere il proprio torto, ammettere
l'ingiustizia delle proprie accuse, convenire che solo l'odio glie le
aveva suggerite. Dinanzi alla prova palese egli dava ragione al severo
giudizio del magistrato, sentiva d'avere anch'egli contribuito alla
morte dell'infelice; e il rimorso che un tempo gli era parso atroce, ora
quasi gli parea lieve. Egli non solamente non tentava di scagionarsi, ma
insisteva con una specie di cupa efficacia nel confessare l'errore,
s'incolpava acerbamente, accresceva il peso della propria responsabilità
per tentar di sottrarsi a un pensiero senza fine più molesto: invano.
Egli voleva pensare che l'amor suo aveva uccisa quella donna, per non
credere che ella ne era immeritevole.

Tutte le ragioni da lui addotte contro l'ipotesi del suicidio gli
stavano nella mente, irrecusabili. Era credibile che ella si fosse
uccisa senza lasciargli un ultimo saluto? Se aveva fede in Dio poteva
ella uccidersi? Qualunque fosse l'ambascia nella quale era ridotta,
nonostante i propositi di morte, sul punto di metterli in atto la sua
mano non doveva tremare? Il suo braccio non doveva ricadere inerte al
pensiero di lasciare il triste esempio a lui che aveva riconciliato con
la vita? Uccidendosi, non lo uccideva?

«Questo è particolarmente grave, nell'amore: che ciascun amante non è
responsabile degli atti suoi proprii, ma anche di quelli ai quali spinge
la persona amata.»

Erano le sue parole. Per uccidersi aveva dovuto dimenticarle. E le aveva
dimenticate! La sua fede in Dio non era tanto salda quanto pareva,
giacchè ella si era uccisa! Si era uccisa pensando a un'estranea, senza
lasciare a lui la parola del commiato, ridandogli invece i dubbii ai
quali aveva voluto sottrarlo!

Questa era la realtà. Egli era stato vittima di un'illusione,
dell'eterno inganno dell'amore, attribuendo a quella donna le sublimi
virtù che non possedeva, esagerando la bellezza di quell'anima sino a
farne una perfezione oltre umana.

«Io dovevo sapere,» diceva egli a sè stesso tentando di reagire contro
la tristezza del disinganno, «che la perfezione è fuor dell'umano; che
gli uomini possono pensarla e cercarla, ma non raggiungerla mai. Questa
certezza mi avrebbe impedito di esaltare oltre ogni misura quell'anima;
questa persuasione deve ora temperare la mia sfiducia e impedirmi
d'avvilirla oltre misura.»

Perchè, infatti, mutata la disposizione del suo spirito, egli accusava
la memoria di lei non soltanto di debolezza, ma di menzogna e quasi
d'indegnità. Prima d'uccidersi ella gli aveva pur detto che lo amava; ed
era evidente che gli aveva mentito. Chi assicurava che non avesse
mentito altre volte?... Come tutti gli acri umori latenti in un sangue
corrotto si ridestano alla più lieve ferita e l'esacerbano e
l'incancreniscono, così il disinganno era in lui alimentato ed
accresciuto da una moltitudine di pensieri rodenti, dei quali non aveva
prima avuto coscienza. Egli ora quasi si sdegnava e si scherniva per
aver fatto un ideale di perfezione d'una donna vissuta fuor della legge.

Non era vissuta fuor della legge? Il suo legame col principe non era
indegno? Che valor dare all'impegno che ella sosteneva d'aver preso
secretamente con sè stessa? Si poteva credere che fosse stata sincera
nel prenderlo, o non aveva tentato con quell'asserzione di riscattarsi
agli occhi altrui ed ai proprii dopo aver misurato la gravezza della sua
colpa? Si poteva credere che ella si fosse data a quell'uomo per
esercitare il gratuito ufficio di redenzione? Se almeno, senza la
chimera della redenzione, senza la fede nella durata del patto, ella
avesse amato d'amor puro! Ma il dolente negava anche questo; egli non
poteva concedere che un uomo come Zakunine ispirasse una passione
sincera. Sanguinario e tirannico mentre predicava la pace e la libertà,
intento a godere avidamente mentre diceva di gemere alle sofferenze
degli altri; cupido, dissipatore, infedele, bugiardo, colui non poteva
essere amato nobilmente; poteva esercitare un fascino perverso, una
curiosità malsana, una brama servile. Servile, malsana, perversa era
stata la passione di quella donna.

La gelosia impotente, l'umiliato amor di sè stesso facevano accogliere
al Vérod questi pensieri. Vivendo Fiorenza d'Arda, egli non li aveva
concepiti; finchè aveva potuto vedere nella sua morte l'opera d'un
assassino, finchè ella gli era apparsa cinta dell'aureola del martirio,
nessun sospetto aveva potuto contaminarla; sentendosi amato, d'amor puro
e fidente l'aveva ripagata. Ora egli scopriva che l'amore di lei non era
stato verace. Se l'avesse realmente amato, avrebbe potuto lasciarlo
così? Per trovare nel legame con Zakunine un impedimento tanto grave
alla felicità, non doveva ella sentire ancora qualche cosa per costui?
Era morta per restargli fedele! La nozione dell'astratto dovere può
avere tanta forza se non si accorda con un sentimento concreto, con un
interesse tutto personale e presente?... Il bugiardo pentimento di
Zakunine, la mentita resurrezione d'un amore che non era mai stato
credibile, avevano ridestato in lei la servile passione d'un tempo, e
comprendendo la viltà del proprio servilismo, ma non potendola vincere,
ella si era data la morte!...

Così egli vedeva corrompersi e a poco a poco dissolversi in putredine la
figura già sollevata sopra un altare. Ma allora le profetiche parole di
un giorno lontano gli tornavano tutte alla memoria:

«Troppo a lungo io sono vissuta fuor della legge perchè possa sperare di
rientrarvi. Voi non vorrete crederlo, ora, e siete sincero; ma sarete
egualmente sincero più tardi, credendolo. Il sentimento indelebile della
mia decadenza deve contendere la vita alla fede, ora in me soltanto, più
tardi anche in voi...»

Ed egli restava sovrappreso da un immenso stupore angoscioso vedendo
finalmente avverarsi la profezia, comprendendo di non avere più il
diritto di togliere la sua stima alla morta, se ella stessa,
dolorosamente, umilmente, contro la fervida fiducia di lui, aveva
riconosciuto la propria indegnità.

Egli si era ribellato, allora, pieno il cuore di reverenza; ora doveva
riconoscere che ella non s'ingannava. Ella antivedeva l'avvenire
immancabile: logicamente, fatalmente questo risultato doveva prodursi:
«Verrà il giorno che mi giudicherete come io stessa mi giudico.» Non era
quasi venuto in vita della infelice? Il giorno del loro ultimo incontro,
quando ella gli aveva parlato dell'uomo al quale era legata, che tornava
a volerla sua, l'impeto dell'odio contro Zakunine e l'insoffribile
sentimento dell'impotenza del proprio amore non lo avevano quasi rivolto
contro di lei?... «Sia come volete,» le aveva detto, «ma costui vi
lascerà ancora una volta.» Il suo pensiero non era andato oltre quelle
parole? La concitazione dello sdegno non lo aveva quasi spinto ad
afferrare la mano di lei per dirle duramente: «E per un suo pari vi
negate a me? E dopo esservi perduta per lui, per lui rifiutate di
riscattarvi?...» Alla fosca luce di questi pensieri egli rivolgeva
dubitosamente a sè stesso un'altra, una più ansiosa domanda:

«Ella ha dunque ben fatto, uccidendosi?»

Se un germe velenoso insidiava la vita dell'amor loro, era dunque
meglio che fosse morta? Se ella aveva compreso che, volendola sua, ei
pensava di riscattarla, di fare un atto generoso, non per fedeltà a
Zakunine gli aveva resistito e si era uccisa, ma per la disperata
certezza d'un malinteso fatale all'amor loro? Morta per lui, egli
presumeva ancora di giudicarla? Se credendola vittima dell'altrui
ferocia le aveva dato tutta la pietà del suo cuore, una più trepida
pietà, la pietà alimentata dal rimorso, non doveva darle ora che il
volontario sacrifizio l'aveva riabilitata?

Tutta la severità dei suoi giudizii si ritorceva allora contro sè
stesso. Chi era egli che presumeva condannarla? E perchè l'aveva
condannata se non perchè gli si era sottratta? Che altro se non la
passione dell'egoista, l'inappagata rapace passione lo faceva severo
contro la memoria di lei? Null'altro se non il sofisma della presuntuosa
passione gli diceva che l'impegno da lei preso non era valido e che
dimenticandolo per mettersi con lui ella sarebbe stata nell'onesto e nel
giusto! Egli che la voleva perfetta non aveva, come tutte le creature
umane, più di tante altre, le sue debolezze e le sue colpe?

Da questi opposti pensieri usciva finalmente rassegnato alla realtà
inesorabile, disposto a riconoscere che se la povera morta non era stata
così bella come l'amorosa fantasia glie l'aveva dipinta, non era stata
neppure così trista come l'aveva veduta nel rancore dell'abbandono.
Nondimeno egli restava mortificato e dolente. La rinunzia alla
perfezione imaginata gli era grave. Egli diceva a sè stesso che nessuno
al mondo è perfetto; ma perfetta voleva poter credere ancora la sorella
sua d'elezione. E tutti i suoi sforzi per glorificare, o almeno per
legittimare il volontario sacrifizio restavano vani.

Non era vero che dandosi la morte ella si fosse redenta. La redenzione è
nella vita, non nella morte. La morte non risolve il problema morale,
lo evita. Non volendo o non potendo accettare di essere, come egli aveva
sperato, la donna sua, ella aveva una via da seguire: fuggirlo, sparire,
ma senza rinunziare alla vita.

Non era questa la via?

Egli restava esitante, dubitoso, ansioso. Per l'efficace virtù
dell'esempio, il suo giudizio intorno ai massimi problemi umani era
stato illuminato e sicuro. Questo prodigio ella aveva compito: di farlo
uscire dai dubbii, dalle incertezze, dallo scetticismo dei quali prima
viveva. Ella era stata la sua fede. Egli era rimasto abbagliato dalla
luce dei suoi pensieri, si era sentito guidare con ferma mano per
l'intrico delle contraddizioni, degli inganni, degli errori; aveva
saputo che cosa credere, che cosa negare. Ed ecco a un tratto ripiombava
nell'esitazione. Doveva ella vivere? Doveva morire? Come risolvere il
formidabile dilemma di vivere errando o di morire per evitare l'errore?
Hanno gli uomini il diritto di disporre della loro esistenza? Se questo
diritto è loro conteso, Chi lo contende?...

Al cielo che un tempo egli aveva sentito vuoto, deserto, impenetrabile,
fiduciosamente aveva rivolto lo sguardo vedendolo mirato da lei. Ora non
sapeva, o peggio, aveva paura di saper troppo. Ella si era uccisa! Non
aveva avuto paura del giudizio di Dio! Non aveva pensato alla salvezza
dell'anima, non aveva creduto alla sua vita avvenire: si era uccisa
perchè con la morte tutto finisce.

«Non c'è dunque nulla? nulla?...»

La sua domanda restava senza risposta, inascoltata.

Per la sola virtù della vista di lei, egli aveva già mirata, udita,
compresa l'anima del mondo; voci misteriose dicevano cose memorabili;
tutto viveva, palpitava e riluceva. Ora il silenzio e l'oscurità
tornavano a premere d'ogni intorno. Ciò che prima aveva un senso
evidente o recondito restava muto.

Tanto profonda e sincera era stata la sua conversione, che talvolta
lampi dell'antica fede tornavano a rischiararlo; poi le tenebre si
chiudevano, più fitte. E nelle alternative del dubbio egli ritrovava con
un muto e disperato terrore il vecchio uomo che aveva creduto di
seppellire dentro sè stesso. Come prima di conoscerla, il suo pensiero
era oscuro, confuso, perduto. La miracolosa fioritura che aveva
occupato ogni piega dell'anima sua s'avvizziva e sfrondava. Il chiuso
cuore anticamente acquetavasi nella sua aridità; ora invece, dopo il
benefizio, restava amareggiato da un rancore infinito.

Egli viaggiò. Vide altre terre, altri uomini, sperando disperdere il suo
dolore lungo le vie del mondo; ma nulla valse a placarlo. Dinanzi alla
tomba della sorella, a Nizza, pianse d'un pianto cocente che non fu
lenimento, ma fuoco nuovo. Sul lago non era più tornato. Una mortale
paura l'occupava al pensiero di rivedere i soli luoghi dove potesse dire
di avere realmente vissuto. Credeva di morire soffocato rivedendo le
rive di Ouchy, le pendici di Losanna, la villa dei Ciclamini, il bosco
della Comte, le umili cappelle, il panorama del Lemano velato di nebbie
o sorriso dal sole. Pure un giorno egli andò.

Ritrovò quelle prode quali le aveva lasciate. L'impassibilità della
eterna natura lo ferì come un insulto: se almeno qualcosa fosse stata
distrutta sulla terra, se almeno egli avesse ritrovato intorno a sè le
tracce d'una devastazione simile a quella patita dentro di sè!

I monti secolari, le acque perenni, voraci sepolcri di viventi,
restavano immutabili. Egli veniva riconoscendo ogni passo del cammino,
ogni particolarità della vista. Con la disperata certezza che nessuna
potenza avrebbe potuto compiere mai il miracolo di ridargli ciò che
aveva perduto, egli pur figgeva intorno lo sguardo e porgeva intento
l'orecchio, quasi un'apparizione, quasi una voce potesse suscitare lo
svanito bene.

E una sera che dalla finestra della sua stanza contemplava le sommità
della Dôle dietro le quali il sole scendeva radiosamente, egli trasalì
al suono d'una voce che parlava dietro di lui.

Era zimbello d'un'allucinazione? Non sognava ad occhi aperti?

Il principe Alessio Zakunine gli stava dinanzi.

--Roberto Vérod,--diceva la voce,--non mi riconoscete?

Un brivido di raccapriccio gli passò per i nervi come alla vista di uno
spettro. Che cosa voleva quell'uomo da lui? Perchè veniva a cercarlo?

--Voi sapete chi sono? Non m'aspettavate, però! Sono venuto da voi
perchè ho una cosa da dirvi.

Parlava a capo chino, sommessamente. Vista di scorcio, dalla fronte
troppo ampia alla punta del mento, la sua faccia appariva incisa da
rughe profonde; i capelli ancora più rari erano imbiancati sulle tempie;
tutta la figura portava impressi i segni d'un rapido decadimento.

Il Vérod restava a considerarlo, come affascinato, incapace di
rispondere una sola parola, di veder chiaro nel tumulto di sentimenti
che gli si scatenava nell'anima.

--Ho da dirvi una cosa. Volevo dirla al giudice Ferpierre, ma ho pensato
che prima mi convenisse rivolgermi a voi....

Dopo una pausa, riprese:

--Uditemi, Vérod: Fiorenza d'Arda non si uccise. Io l'assassinai.

Il giovane si passò una mano sulla fronte, sugli occhi. Ancora una
volta, ora anzi più che nel primo istante, egli non era ben sicuro di
essere desto.

--Non mi credete? Eppure voi foste così presso alla verità! So che
l'affermaste contro tutto e tutti, che per poco non riusciste a
dimostrarla. È vero che molte circostanze, una principalmente, furono
contro di voi. La lettera a suor Anna parve dire l'ultima parola sulla
sorte di lei. Questo ingannò la giustizia: che ella era veramente sul
punto di darsi la morte, quando io stesso l'uccisi. Io vi dirò come
l'uccisi....

L'uditore tremava quasi invaso dal ribrezzo della febbre.

--Io vi dirò le mie infamie; sarà il principio del punimento. Io la
disconobbi, sempre. Mai finchè ella visse io compresi tutta la bellezza
dell'anima sua. Nessuna bellezza io compresi; il mondo e la vita mi
parvero destituiti di questa qualità. Avevo un inferno dentro di me,
nulla poteva spegnere le fiamme che mi investivano. Tutto ciò che io
toccavo s'inceneriva. Ella mi amò di pietà: l'istinto, il bisogno, la
voluttà del sacrifizio la diedero a me. Senza comprenderla, io fui un
momento abbagliato dalla sua luce. Non potendo sostenerne la chiarezza,
torsi lo sguardo. E la derisi e l'offesi.

Tacque un poco guardando dinanzi a sè, come cieco; poi ricominciò:

--Udite. Quando io vi avrò detto tutto, sentirete che le mie parole
meritano fede. Nei primi tempi della mia fortuna io mi sentii un altro
uomo. La natura e la vita mi fecero così da trascorrere dall'uno
all'opposto sentimento con fulminea violenza. Chi sa ciò che ho fatto
nel mondo potrà pensare che forse talvolta la voce del bene mi guidò. Ma
io non ne avevo coscienza. Se col pensiero intervenivo a giudicare le
azioni mie e le altrui, tutto riducevo a un meccanismo, a un giuoco
d'impulsi ciechi e fatali. Io non potevo pertanto credere al mutamento
operatosi in me per virtù sua. Non derisi lei soltanto, derisi me
stesso... Io dovrei anche dirvi quale fu, giorno per giorno, ora per
ora, l'opera mia spaventevole; come alla costante, infaticabile, divina
sua predicazione di amore e di bontà opposi lo sprezzo, l'insulto, il
tradimento. Ma voi sapete queste cose. E poi, e poi... Tutto quanto
l'odio vostro contro di me vi suggeriva è troppo poco; ciò che io le
feci fu incredibile. Talvolta, quando con parole avvelenate e corrosive
io profanavo, vilipendevo, distruggevo la sua fede; quando le dimostravo
che nulla esiste fuorchè il male, che i soli rimedii sono il ferro, il
fuoco, la morte; quando la incitavo a lasciarmi, a tradirmi, a perdersi,
sentivo una reazione violenta operarsi dentro di me e il pianto salirmi
alle ciglia; ma le nascondevo il pianto mio. Quando voi la conosceste,
quando compresi che ella cominciava ad amarvi, il mio petto si dilatò
dalla gioia. Vedere che la sua vantata eternità dei sentimenti si
dimostrava bugiarda, prevedere che ella sarebbe caduta come cadono
tutti, poterle dire: «Hai visto? Dove sono le tue leggi morali? Anche tu
fai, come gli altri, il tuo piacere!» mi colmava di giubilo... Io mi
davo tutto, frattanto, all'opera che doveva abbattere la vecchia
società, nel mio paese e negli altri. L'ultimo tentativo mi pareva
destinato a riuscire; già pregustavo il trionfo. Avevo lungamente
preparato ogni cosa, ed incitato all'azione i pigri, i titubanti, i
paurosi, e dato quasi tutto ciò che restava della mia sostanza, senza
pensare alle difficoltà che avrei incontrate più tardi. Dovevo partire e
sarei partito anch'io, se non mi avessero costretto a restare per
preparare una nuova azione in caso di rovescio. E un giorno io seppi che
i miei fratelli erano uccisi, pendevano dalle forche, cadevano sulle vie
dell'esilio sotto la sferza degli aguzzini; io seppi che le donne, che
i fanciulli salivano il patibolo, che tanti innocenti pagavano per me,
che il terrore imperversava su tutta la gente della mia razza: un giorno
io mi ritrovai, dinanzi a tante rovine, con la paura d'avere sbagliato
la via, solo e quasi povero. Allora, improvvisamente, sorse dentro al
mio cuore come un bisogno, come un'ansia, come una sete ardente di
soccorso; allora io quasi stesi la mano per trovare al mio fianco un
appoggio; quasi mi protesi a udire una parola di consolazione... La
consolatrice esisteva. Non dovevo far altro che andare da lei, che
aprirle il mio cuore. Forse sarebbe stato ancora tempo. O forse no: era
già troppo tardi. Troppo tardi! Sapete voi che cosa significano queste
parole?... Un pensiero di superbia mi arrestò. Dovevo io supplicare?
Pure sentivo che in questa crisi della mia vita nulla sarebbe valso a
guarirmi come l'amore, nulla avrebbe pagato l'amore di una creatura come
lei. Le tornai vicino. Non dissi nulla. Il mio contegno doveva
dimostrare tuttavia ciò che avveniva dentro di me. Troppo tardi!...
Troppo tardi!... Noi possiamo penare ed accettare la pena, possiamo
disperare e vivere nella disperazione, ma all'idea che la felicità era
possibile, che la fortuna ci passava d'accanto, che dovevamo soltanto
stendere una mano, dire una sola parola per ottenerla; e aver distesa la
mano e proferita la parola--troppo tardi!--a questa idea il nostro cuore
non regge... Ella non era più mia; era vostra. Come ebbi questa
certezza, ricominciai a ridere e deridere. La fuggii; ma dovetti
tornare. Al suo fianco, quantunque mi dimostrassi pentito e convertito,
ero insofferente della soggezione; lontano da lei sentivo di non poter
vivere. Così trascorsi gli ultimi mesi, alternando le fughe con i brevi
ritorni. A Zurigo io vivevo per parlare di lei ad un'altra infelice, ad
Alessandra. Alessandra Natzichev è morta...

Il Vérod era stordito. No, egli non sognava; ma la realtà aveva tutti i
caratteri del sogno. L'uomo che gli stava dinanzi somigliava
all'orgoglioso ribelle come le pallide imagini dell'incubo somigliano
alle persone vive. La Natzichev era morta? Come, perchè era morta? Anche
l'ora e la luce erano innaturali, la sera gialla illuminava stranamente
la stanza, le cose, la faccia scialba del principe.

--Io confidavo il mio tormento ad Alessandra. E Alessandra mi amava,
senza che me ne accorgessi neppure! Ciò la vita ha voluto: che le nostre
anime, che queste quattro creature umane si siano incontrate per patire
uno spasimo ineffabile; e nessuno ha saputo quel che l'altro soffriva, o
l'ha saputo ancora e sempre troppo tardi! Quando io provavo per
Alessandra un affetto fraterno, quando dalla solitudine nella quale era
piombata, dalla forza che la rendeva capace di sopportare e vincere le
difficoltà della vita, io fui persuaso a proteggerla, a sostenerla, come
una sorella, come una figlia, ella doveva accendersi per me d'un più
cocente amore! Se pure io mi fossi accorto dell'amor suo, avrei potuto
farla felice? A lei potevo soltanto confidare i miei ardori per
un'altra!... Ella tentò guarirmi richiamandomi al dovere di servire la
causa: volli ascoltarla, invano. Il pensiero di riacquistare l'amore già
sdegnato occupava e dirigeva tutta la mia vita. Dopo averlo sdegnato, mi
pareva che questo amore avesse un prezzo inestimabile. È giustizia!... A
Fiorenza nulla dicevo: nel tempo che venivo a trovarla passavo i miei
giorni tremando di scoprire che, come non era più mia con l'anima, così
già si fosse data a voi. Pensavo, per non credere questa cosa orribile:
«Ella sente tanto altamente che non la farà mai!» Dentro di me una voce
rispondeva: «Ora tu credi a quelle morali altitudini delle quali prima
ridevi?» Ne ridevo, prima. E non le credevo ancora! La fiducia che ella
non mi tradisse non era tanto alimentata dalla stima che avevo di lei,
quanto dall'impossibilità di credere che tutto fosse proprio finito
senza riparo tra noi. Sentivo che il mio ritorno e il mio ravvedimento
le davano ansie mortali, e ne godevo sperando di recuperarla... Starle
al fianco e non poterle prendere la mano! Ricordare il passato e
disperare di riviverne un'ora sola!... Di tutto ciò che sentivo non
potevo dir nulla. Ancora la superbia mi tratteneva, e un altro motivo,
meno tristo. Io ero povero ormai; ella ricca: parlare ancora dell'amor
mio non poteva essere una menzogna suggerita dal calcolo?... Un giorno
parlai. Le dissi: «Ti ho perduta, ti ho voluta perdere; sento che la mia
colpa è irreparabile. Ma se tu sapessi che cosa accade dentro di me! Ti
chiedo per grazia di non abbandonarmi in questo momento che tutto mi
crolla intorno. Più tardi farai ciò che vorrai...» Quel giorno, il
giorno della tempesta, parlaste anche voi. Ella fu presa tra le nostre
due passioni. Deliberò di morire. M'aveva risposto: «Non vi abbandonerò
mai perchè sono la sposa vostra; ma pensate che l'amore è morto.» La sua
voce era fredda e il suo sguardo mi evitava. Quando compresi che anche
voi avevate parlato, sentii che non era sincera, che mi nascondeva
qualche cosa. Ma temevo che pensasse di fuggire; non sapevo, non credevo
che avesse deliberato di morire: ella mi era ignota ancora!... Passai
una notte tremenda. Vegliò anch'ella. Cento, mille volte fui sul punto
di andarle dinanzi; ma la sua soglia mi era vietata. Il domani venne
Alessandra a cercarmi, a chiamarmi, presaga d'una catastrofe. Le promisi
di partire, ma prima volli ancora una volta passare da lei. Udendomi
entrare ella nascose precipitosamente qualche cosa. Vidi che era l'arma.
Così fu presa tra le nostre due passioni: da voler morire per
liberarsi!... Sentivo di non avere il diritto di parlare, d'essermi
intruso presso di lei, di doverla lasciare al suo destino, alla libertà,
alla morte; ma non potevo. Quest'idea: che fra due esseri già stati
l'uno dell'altro non ci fosse più nulla, più nulla, che io fossi peggio
d'un estraneo per lei, non poteva entrare nella niente mia. E la voce
secreta diceva: «Prima tu credevi che l'amore fosse l'incontro fugace di
due capricci, prima tu ridevi dei legami indissolubili...» Io non potevo
concedere che ella fosse d'un altro, sia pure col solo pensiero. Io che
avevo tradito non potevo ammettere che sarei stato tradito a mia volta.
La mia superbia era sconfinata, non tollerava che qualcuno valesse più
di me. E come comprendevo che voi avreste saputo farla felice, la
superbia, l'amore, la gelosia, tutti i sentimenti, tutti gl'istinti
selvaggi della mia razza, della mia natura, insorgevano, formidabili.
«Tu promettevi pur ieri di non lasciarmi,» le dissi con voce amara,
«perchè sei la mia sposa, e vuoi ora ucciderti!...» Ella non negò,
«Lasciatemi morire,» rispose: «sarà meglio per tutti.» C'era nella sua
voce qualche cosa che non conoscevo: l'amore per voi, il rancore di
lasciare la felicità che da voi si riprometteva. «Non puoi dunque più
tollerare la mia vista? T'incresco a tal segno?» Dissi queste parole, e
molte, molte altre ancora. Ella rispose soltanto: «Di chi fu la colpa?»
Udite: fu questo il primo rimprovero che mi volse dopo lunghi anni di
dolore. «Ebbene,» replicai, «io sparirò: parto oggi stesso, fra poco, nè
ti verrò mai più dinanzi. Vuoi ancora morire?» Mi disse: «Sì.» Ebbi
paura di comprendere, pure domandai: «Perchè?» Le sue parole non mi
significarono nulla che io già non sapessi: «Perchè, se vivo, sarò sua.»
_Sua_, vostra, d'un altro!... Una vampa m'accese gli occhi e la fronte.
«Non è possibile, non sarà!...» Ella scosse il capo. «Non dir di no!»
insistetti. «Non dir di no!... So bene che non mi ami più, che mi odii,
che mi esecri; ma non dirmi che ami un altro, perchè... perchè...»
Disse: «L'amo.» Allora scongiurai. Piansi anche. Ella ripetè: «L'amo.
Non si deve mentire, non si può fingere. L'amo: perchè questo amore mi è
vietato, io muoio.» Allora risi, la schernii: «Chi vuol morire non lo
dice!... La parte è tuttavia bene rappresentata!...» Vedo ancora lo
sguardo suo stupito. «Non mi credete? Non credete che ho già preso
commiato dalla sola persona che mi piangerà sinceramente?...» Le dissi:
«Da lui?...» Ella aveva invece scritto a suor Anna. Ed al mio sospetto,
al tono d'ironia col quale lo espressi, non si sdegnò; mi corresse
soltanto: «Da suor Anna.» Io soggiunsi, sempre irridendo: «E la salute
dell'anima?» A queste parole si nascose il viso tra le mani. Di repente
presi le sue mani, tentai d'attirarla al mio cuore. «No, non morrai; tu
vivrai per me, con me...» Si levò di scatto, ritraendosi: «Non mi
toccate!» Io sentii l'immenso amore cozzare contro un odio implacabile.
«Bene! Vi faccio orrore,» le dissi. «E lo amate! E, se pur vorreste, non
potete uccidervi perchè avete paura del giudizio del vostro Dio. Voglio
io farvi uscire da questa pena!...» E, prima ancora che ella avesse
tempo di considerare ciò che facevo, le tolsi l'arma nascosta dietro i
suoi libri. «Così non vi ucciderete, non affronterete l'ira del Dio: e
potrete anche correre alle nuove carezze.» Da questo momento io non la
riconobbi più. Si guardò intorno come smarrita, come perduta, come
incalzata da una torma vorace ed ululante; poi mi guardò. I suoi occhi
erano illuminati da un riso di gioia, da un sorriso di scherno. «Ah, voi
credete?... Voi proprio credete che io volessi morire?... Come lo avete
creduto?... Portate via l'arma! Non la morte, ma la vita e la gioia mi
aspettano... Andate, lasciatemi: egli ora verrà!...» Anch'io mi guardai
intorno, sgomento; la mia mano armata tremava. E come nello sguardo mio
era una domanda, ella la comprese: «Egli verrà: sono sua!...» La vampa
mi salì più gagliarda agli occhi e alla fronte. «Taci!» le
ingiunsi.--«No, non voglio tacere; non posso!... Io l'amo, sono
sua!»--«Taci!» le ingiunsi anche una volta.--«No, non voglio tacere!...
L'amo, e ti odio e ti disprezzo. Tu m'hai fatto tanto male che avevo il
diritto di prendere finalmente la mia rivincita! Nessuno può
condannarmi!...»--«Taci!» ingiunsi la terza volta.--«No, non posso
tacere! Mi condannino pure: che importa? Tutto l'essere mio ha bisogno
di espandere la gioia della quale è finalmente saturato. Io voglio
gridarla a tutti, voglio a tutti mostrare la felicità che inonda l'anima
mia!...»--«Sei folle!» le gridai.--«Sì, dacchè sono sua!...» No, ciò non
era possibile; se fosse stato vero, se avessi dovuto crederlo, sarei
impazzito io stesso. «Non è vero! Non ti credo!» le dissi. Ella rispose,
attonita, ilare: «Non credi? Come farti credere?... Ascolta, se non
fosse vero, avrei voluto morire? Tu mi hai trovata con l'arma dinanzi,
ho pure mandato una lettera d'estremo saluto; ero sul punto di scrivere
il mio testamento; poi avrei scritto a lui. Credi che volessi, che
potessi lasciarlo così? Ma senza il rimorso della colpa avrei pensato
alla morte? Se non fossi caduta avrei continuato a vivere come ho
vissuto finora! Ho voluto morire credendo d'aver peccato; ora non più,
non più, non più!...»--«Tu hai fatto questa cosa?»--«L'ho fatta e
tornerò a rifarla. L'amo, è mio, per sempre; vuoi sapere da quando? Vuoi
saper come?...»--«Taci! Non mi provocare!»--«No, non ti provoco; che
cosa m'importa di te? Chi sei tu? Che fai qui? Chi ti ha dato il diritto
d'entrare qui? Lévati, lasciami: m'aspetta, ti dico... Vuoi farmi
paura?... Ah! Ah!» L'occhio mio doveva essere spaventoso; ed ella
rideva! ed ella insisteva: «Non ti temo! Che puoi farmi?» Io proruppi:
«Ti uccido!» Ella aperse le braccia, alzò la testa, protese il seno:
«Uccidimi; sarò sua fino sotterra.»--«Taci, o ti uccido!...»--«Fino
sotterra! Non c'è un solo pensiero della mia mente, non un palpito del
mio cuore, non un moto dell'anima mia, non una fibra della mia carne che
non sia sua...» Levai l'arma. Il suo sguardo sfolgorava, la sua voce
cantava: «Nella vita, oltre la morte, sola di lui...» Il colpo partì....

Roberto Vérod, che alla narrazione del dramma aveva tremato di dolore,
d'orrore, di pietà, di rimorso impotente, d'odio mal contenuto, fece un
passo innanzi levando il pugno e gridò:

--Assassino!

Il principe sostenne il suo sguardo rispondendo:

--Colpisci.

Restarono così, affrontati, un tempo che nessuno dei due potè valutare.
Poi il braccio del Vérod ricadde: con voce più sorda, fremente, egli
ripetè:

--Assassino!

--Sono venuto perchè facciate giustizia. Ciò che voi farete sarà giusto.
Però datemi ancora ascolto un istante. Quando la vidi cadere, quando
vidi il sangue suo grondare dall'orribile piaga, un urlo mi uscì dal
petto. Ella viveva ancora. Visse per dirmi le sue ultime parole.
Uditele: «Ho mentito, per morire... Io non potevo... Grazie...
Perdono...» Queste furono le ultime parole sue. Io volli morire con
lei. Avevo l'arma in mano, la rivolsi contro me stesso; ma qualcuno
afferrò a un tratto il mio braccio come con una tanaglia. Alessandra mi
era dinanzi: «Tu vivrai! Devi vivere! Devi salvarti!... Lasciami
fare!...» Non comprendevo. Ella metteva l'arma accanto alla morta,
studiava come disporla, ne traeva una cartuccia. «Si sarà uccisa,
secondo aveva annunziato: tutti lo crederanno...» Già voci e rumori di
passi si avvicinavano. «Intendi? Se sospettano, lascia rispondere a me;
conferma in qualunque caso le mie risposte. Pensa al Dovere! Pensa alla
Causa! Pensa a me che ti amo, che ti voglio, che ti saprò fare
felice!...» Non comprendevo. Correvo a chiamare soccorso, sperando che
ancora vivesse. Perchè nascondere la verità? Dire la verità era il mio
primo impulso. Se non la dissi tosto, ciò fu perchè non comprendevo
ancora: non udivo le domande che mi rivolgevano, rispondevo
meccanicamente, come in sogno. Ebbene: quando voi ci lanciaste in faccia
l'accusa, allora io mi ribellai. Tale ero, ancora. Il mio pensiero, il
mio sentimento, erano governati da queste improvvise reazioni. Accusato,
da voi, mi difesi. Tutto ciò che potei dire contro di me lo dissi,
riconobbi d'averla spinta alla morte, ma negai l'atto estremo. Più volte
nel corso degli interrogatorii fui per confessare; ma al vostro nome,
alle durezze del giudice io m'impennavo. Dal bisogno di straziarmi, di
morire, di espiare che mi occupava nei primi momenti, passai all'ansia
della liberazione; come una fiera imprigionata non ebbi altro impeto
che quello di rompere le mie catene, di correre all'aperto, di tornar
padrone di me. E secondai le dichiarazioni di Alessandra senza
comprenderle; e quando ella s'accusò, quando la compresi finalmente,
quando vidi che si perdeva per amor mio, allora accettai il sacrifizio,
naturalmente... Fummo liberi entrambi. Nel punto che fui libero, che la
menzogna trionfava, io mi proposi di dire la verità. Ma tacqui ancora,
perchè dentro di me, nella lunga notte della mia mente, già l'alba d'un
nuovo giorno spuntava. Alessandra credeva di vegliare su me perchè mi
restava vicina, perchè mi parlava. Non la vedevo: non l'udivo: una muta
e invisibile anima governava ormai la mia vita...»

S'interruppe un momento alzando gli occhi al cielo della sera. Il cielo
si era placato, le vampe gialle erano scomparse; colorazioni rosee e
verdi, purissime, schiarivano l'occidente.

Egli riprese:

--Il rancore, l'odio, l'invidia, la cupidigia, tutte le insanie delle
quali ero vissuto m'apparvero finalmente nella loro fosca luce. Il
sangue che avevo fatto spargere non mi aveva detto ancora nulla;
bisognava che io stesso spargessi il sangue d'una vittima, d'una
martire, per comprendere la legge d'amore. Tutti gl'insegnamenti di lei,
un tempo sdegnati e derisi, mi tornarono alla memoria. La semente che
pareva perduta fruttificò. Credete che ella sia morta?

La voce del penitente era così dolce, che Roberto Vérod sentì il suo
cuore tremare.

--Ella vive in tutte le cose belle, in tutte le cose buone; parla ancora
in noi, e ci consiglia. Ella m'ha detto di venire da voi. Voi che
l'amaste, che ne otteneste l'amore, saprete che cosa fare di me.

Aspettò che il Vérod rispondesse, ma come questi era incapace di dire
una sola parola, riprese:

--Voi non potete uccidermi, voi che sapete la sua legge del perdono. Ma
debbo io ancora vivere libero? Basterà che mi sia ricreduto e che abbia
occupato questo tempo a cercare di riparare il malfatto? Della
conversione mia non debbo dare al mondo la prova e la misura? E per
meritare veramente d'essere perdonato non debbo espiare?... Ho due
partiti dinanzi a me. Io posso consegnarmi o alla giustizia di questo
paese, per scontare qui dove uccisi la pena del mio delitto; o alla
giustizia della mia patria, alla quale ho da rispondere di altre colpe.
Volete voi dirmi quale vi pare il partito migliore?

Roberto Vérod non rispose. Che consigliare? E con quale diritto?...
Egli era così pieno di dolore che il suo giudizio ne rimaneva
ottenebrato.

--Ebbene, io credo di non errare seguendo l'esempio che fu come un
ammonimento: partirò per la Russia. Qui forse al mio delitto, a un
delitto voluto dalla passione, s'accorderebbe forse troppa indulgenza.
La pena capitale mi aspetta laggiù. E poi io debbo confessare al mondo
che mi sono ingannato. Se le leggi che governano le società non sono
felici, la colpa non è degli uomini che le dettarono. Altri uomini non
possono dettare se non leggi umane, cioè monche e inefficaci. Odiarsi e
combattersi per disciplinare diversamente il dolore al quale l'umanità
fu condannata è da stolti. Bisogna lottare contro l'ingiustizia ed il
male; ma non c'è altra arma efficace fuor dell'amore. Bisogna amarsi,
compatirsi ed aiutarsi. Io voglio dire ad alta voce il mio errore;
voglio chiedere scusa del male che inflissi a tanti, a troppi....

Nascosta la faccia tra le mani e rimasto un poco a meditare così,
rivolse poi lo sguardo al Vérod, riprendendo:

--Ed a voi cui ne feci tanto io voglio chiedere scusa, umilmente. Forse
è ancora troppo presto perchè possiate sopportare la mia vista. Ma io so
che il vostro cuore è pieno di bontà. Se meritaste d'essere amato da lei
voi dovete essere il migliore degli uomini. Prima di lasciare questi
luoghi che non rivedrò più mai, prima che l'espiazione si compia, vi
chiedo in grazia di dirmi una parola. Pensate che sto per morire.
L'ultima parola di lei fu di perdono; ella chiese che io la
perdonassi--io che l'uccisi! Ditemi voi che non odierete la memoria mia.

Roberto Vérod taceva ancora. Ma ora una commozione violenta gl'impediva
di parlare.

--Sarebbe troppo grave al mio cuore esser proseguito dall'odio vostro.
Voi foste tanta parte di lei, che sentire una vostra buona parola mi
sosterrebbe nel compimento del dovere al quale ora m'accingo....

Prese la mano del giovane e supplicò:

--Roberto, mi perdonate?

Questi fece col capo un gesto d'assenso.

E come vide che dagli occhi di Zakunine grondavano lacrime, come vide il
pianto di quell'uomo dal cuore di ferro, anch'egli pianse alfine.

--L'anima di lei è qui presente,--disse il principe.

La sua voce non era rotta da singhiozzi, il suo pianto era queto e
dolce.

Disse ancora:

--Sia sempre beata e benedetta.

Il pianto del giovane era tempestoso.

--Roberto, voi siete buono. Grazie!... Addio!...

Così dicendo si chinò a baciare la sua mano. Allora Roberto Vérod
ritrasse la mano ed aperse le braccia. I due uomini restarono un poco
stretti l'uno contro l'altro.

Chiese il principe, sommessamente:

--Fratello, tu mi perdoni?

--Ti perdono, fratello....

Scioltosi dall'abbraccio, Zakunine si passò una mano sugli occhi, poi
s'allontanò. Sulla soglia, prima di sparire nell'ombra, si rivolse
ancora una volta:

--Addio!

       * * * * *

Un mese dopo i fogli pubblici furono pieni del caso straordinario: il
principe Alessio Petrovich Zakunine, il nihilista feroce, il
rivoluzionario implacabile del quale da tanto tempo nessuno aveva più
avuto notizia, era tornato in Russia, a Odessa, per via di mare; a bordo
del piroscafo si era svelato agli agenti della polizia perchè lo
consegnassero alla giustizia. Oltre che confessare i suoi delitti
politici, dei quali faceva ammenda solenne, rivelava il delitto
passionale commesso in Isvizzera; la nuova versione del dramma di Ouchy
eccitò enormemente la curiosità pubblica. E quantunque la pena di morte
pesasse sul capo di lui, una volontà sovrana, impressionata dalla
conversione del ribelle e del miscredente, commutava la sentenza nella
perpetua relegazione in Siberia.

Roberto Vérod, rimasto a Losanna, nei luoghi dai quali ora non si poteva
più distaccare, incontrò, dopo aver letto quest'ultima notizia, il
giudice Ferpierre. Non lo aveva più riveduto dal tempo del processo: gli
si accostò trepidante ed ansioso, come alla sola persona con la quale
gli restava di poter parlare della morta, del colpevole, di sè stesso.

Il Ferpierre, che aveva tutto saputo dai giornali, gli disse:

--Ho piacere d'avervi incontrato. Il vostro cuore non v'ingannava: ciò
che voi sosteneste fin all'ultimo era vero. Voi avevate solo la vostra
passione; ma essa vi fece vedere lucidamente. Fiorenza d'Arda non poteva
uccidersi, non poteva morire volontariamente lasciandovi il tristo
esempio senza una parola di conforto. Qualunque fosse l'angustia
dell'animo suo, quantunque ella avesse fermato ed annunziato di
togliersi la vita, all'ultimo momento la cristiana doveva arretrarsi. Ma
poichè vivere non poteva neppure, compreso il geloso furore di quello
sciagurato, lo provocò perchè egli stesso la liberasse. Le apparenze
m'ingannarono. Ma sono pur grandi le stranezze della vita!... Potevate
esser tutti felici, se il caso non vi avesse fatto incontrare quando
dovevate tutti soffrire ineffabilmente: la contessa posta tra il
rispetto di sè stessa, della propria parola, della propria fede, e
l'amor vostro; voi amante disperato di lei e geloso di Zakunine;
Zakunine perduto dalla gelosia per voi, dal tardo amore per lei, dal
rimorso sterile contro sè stesso; la Natzichev amante taciturna,
disconosciuta, negletta.... Che ne sarà di lei?

Allora il Vérod si rammentò delle parole del principe.

--È morta.

Ma come, dove e quando? Zakunine non lo aveva spiegato, nè egli aveva
pensato a chiederlo. Era ella morta di morte naturale o violenta? Si era
uccisa, o come Alessio Petrovich, e prima di lui, era tornata in Russia
a lasciarsi condannare? Quando il principe aveva detto di voler seguire
un esempio che era stato come un ammonimento, aveva alluso a lei?
Nessuno poteva dirlo; forse non l'avrebbero saputo mai.

--Come misteriosamente è passata nella vita!--disse il
magistrato.--Aveva pure un gran cuore.

--Sì,--riconobbe il Vérod.

--Neppure quello sciagurato era tutto perverso, Bene ha fatto
l'imperatore commutando la pena: la morte deve restare nelle mani di
Dio; vivendo, l'assassino potrà sperare di redimersi.

--È redento.

E come il giudice lo interrogava con lo sguardo, Roberto Vérod gli narrò
il loro colloquio.

--Io l'ho perdonato. Sentii che la Morta voleva così. Ella che lo
convertì, che morendo di sua mano compì l'opera di salvezza alla quale
si accinse quando si mise al suo fianco, non poteva volere che io gli
serbassi rancore. L'anima superba e feroce ora ama e si piega. Io
stesso, che dopo aver creduto ero ripiombato nel dubbio, torno
ultimamente alla fede che Ella mi spirò. È vero: voi aveste ragione, un
giorno, di meravigliarvi della mia avversione per lui. Le nostre nature
erano diverse, ma noi ci accordammo nel disperare della vita. Entrambi
vedemmo nel mondo un meccanismo incosciente, un vano giuoco di forze
cieche e soverchianti. Ella ci ha uniti nel sentimento del bene, ci ha
rivelato l'amore e la fratellanza umana. Noi ci siamo abbracciati, come
fratelli. La condotta di lui, la sua accettazione del castigo sarà
d'esempio al mondo. Anch'io sento di dover rinnegare le disperate
persuasioni d'un tempo, di dover significare le cose che Ella mi
rivelò....

Erano scesi a Ouchy; procedettero entrambi silenziosi un buon tratto
lungo le rive del lago terso ed azzurro come un pezzo di cielo caduto
sulla terra.

Il giudice poi disse:

--Vi sono di queste creature venute al mondo per convertirci alle cose
delle quali purtroppo la vita ci fa dubitare. Il loro cuore è come una
fontana di salute. Voi felice che la conosceste, che l'amaste, che ne
custodite gelosamente l'imperituro ricordo.


FINE.




                              INDICE


     CAP.     I. Il fatto                         PAG.    1

     CAP.    II. Le prime indagini                PAG.   21

     CAP.   III. I ricordi di Roberto Vérod       PAG.   59

     CAP.    IV. Storia d'un'anima                PAG.   89

     CAP.     V. Duello                           PAG.  135

     CAP.    VI. L'inchiesta                      PAG.  167

     CAP.   VII. La confessione                   PAG.  203

     CAP.  VIII. La lettera                       PAG.  237

     CAP.    IX. Spasimo                          PAG.  265





End of the Project Gutenberg EBook of Spasimo, by Federico De Roberto

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