La guerra e la pace nel mondo antico

By Ettore Ciccotti

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Title: La guerra e la pace nel mondo antico

Author: Ettore Ciccotti

Release date: August 16, 2024 [eBook #74265]

Language: Italian

Original publication: Torino: Bocca, 1901

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA GUERRA E LA PACE NEL MONDO ANTICO ***


                          LA GUERRA E LA PACE
                                  NEL
                              MONDO ANTICO


                               UN SAGGIO
                                   DI

                            ETTORE CICCOTTI



                                 TORINO
                        FRATELLI BOCCA, EDITORI
                        MILANO — ROMA — FIRENZE
                                 1901.




                          PROPRIETÀ LETTERARIA

  Torino — VINCENZO BONA, Tip. delle LL. MM. e dei RR. Principi. (8458)




                      ..... assez de livres sont pleins de toutes les
                    minuties des actions de guerre et de ces détails
                    de la fureur et de la misère humaine. Le dessein
                    de cet essai est de peindre les principaux
                    caractères de ces révolutions, et d’écarter la
                    multitude des petits faits pour laisser voir les
                    seuls considérables, et, s’il peut, l’esprit qui
                    les a conduits.

                                   VOLTAIRE, _Siècle de Louis XIV_,
                                                          chap. XI.




Attraverso tutta la storia, trascorre visibile e continua, come una via
rossa e dolorosa, una serie non interrotta e non terminata di conflitti
e di guerre, onde appare insanguinata, contristata, straziata la terra.
E questa traccia sanguigna, ha costituito e costituisce ancora, molte
volte, agli occhi degli storici, come la trama, a cui si rannodano e in
cui s’innestano uomini ed eventi, costituzioni e passioni, decadenze
e fortune di popoli. L’amor proprio o il pregiudizio di nazione e di
razza, l’interesse passionato di ogni grande fatto umano, gl’istinti
felini, mal domi o solleticati nella lotta per la vita, si compiacciono
spesso ed esultano nella narrazione, ove si rispecchiano, abbelliti e
resi attraenti dal lenocinio dell’arte, i tratti e gli episodi della
grande tragedia umana; e, per la forza dell’abitudine, di rado avviene
che, mentre il libro cade di mano, l’animo conturbato o inorridito
chieda a sè stesso: Ma è questa una grande sciagurata follia che
soggioga il genere umano e pervade la storia e vi trionfa? Od è un
destino cieco, inesorabile che condanna gli uomini, dalle origini, a
un mutuo macello? O vi è una ragione storica di questi ricorrenti e
permanenti conflitti, e quale è dessa? E quali ne sono le prospettive?
Con quali speranze e con quale vaticinio — se uno ve n’ha — questo
passato si riflette nell’avvenire?

Omai, mentre persiste e procede accurata — spesso anche fortunata —
l’investigazione minuziosa del passato, sorge sempre più avvertito
e impellente il bisogno di ricomporne i frammenti per conoscere,
in quanto è possibile, il segreto della sua vita, le leggi del suo
sviluppo, premessa e chiave anche della vita che noi viviamo; e il
passato è per noi quel che per il nocchiero è il punto di partenza,
il quale gli dà l’angolo di declinazione, gli segna il principio della
linea che, prolungata, diventa il sentiero verso il punto di arrivo.

Come un contributo a questo più alto e omai maturo lavoro d’indagine,
che da’ singoli fatti bene appurati astrae la loro fisonomia generale
e la loro ragione di vita, io mi sono accinto a ricercare, attraverso
la varietà episodica delle paci e delle guerre, la loro causa sincera
se anche dissimulata, il loro movente segreto ma necessario, facendo in
modo — se sono stato così avventurato da riuscirvi — che dalla stessa
realtà storica emerga, per virtù intrinseca, la _verità_ delle cose, e
che i fatti stessi, anche fuggevolmente e genericamente accennati, si
ricompongano in una manifestazione organica delle forme, attraverso cui
è passato il fenomeno del quale sono riflesso, e dello spirito che li
domina.




I.

Guerra e pace nell’antico Oriente.


Sembrerebbe davvero che col solo suo nome l’Oriente dovesse evocare
immagini di pace anzi che di guerra: un fantastico miraggio di
rive fiorenti, di pingui pascoli, di messi lussureggianti, di flore
maravigliose, tra la cui dovizia, sotto gl’ineffabili splendori di un
cielo sereno, un popolo molle, in un tenue abbandono, coglie senza pena
e senza tumulto dall’albero della vita il frutto maturo. E veramente
— meno che là dove il terreno, salendo di balza in balza andava a
perdersi in montagne erte ed inospiti, o, prolungandosi in brulle
pianure, andava a finire in un mare sterminato d’arene — veramente la
natura vi faceva sfoggio, quasi, di tutta la sua potenza creatrice, di
tutta la sua virtù fecondatrice; sicchè ivi prima che altrove l’uomo
non ancora educato a usufruire, comprendendole e domandole, le forze
naturali, potè costituire le prime forme di società civili, divenire
strumento e artefice di civiltà e armarsi di quelle fondamentali
cognizioni e rudimentali esperienze, che dovevano essere arra e leva di
tanti ulteriori progressi.

Perfino dove i fiumi gonfi e straripanti pareva dovessero essere
nient’altro che una forza devastatrice, il sole torrido svolgeva, come
in Mesopotamia e in Egitto, dal limo abbandonato ubertà di prodotti e
tesori di vita; dove le sponde precipitavano scoscese verso il mare,
speciali vegetazioni trovavano il modo di spiegare tutto il loro
rigoglio; e la costa, rósa ne’ suoi seni, bizzarramente tormentata ne’
suoi promontorî, formava porti, faceva sorgere città munite dalla loro
posizione e dal mare, onde si sarebbero spiccati col tempo voli più
lontani, creando con lo scambio de’ prodotti e l’intreccio de’ commerci
nuove fonti di ricchezza e nuovi mezzi di civiltà e di progresso. E,
intanto, ora, si lottava col mare, addestrandosi e costringendolo a
dare con la pesca tutti i mezzi di vita di cui era capace. Anche la
fauna, varia, strana e spesso infesta, che popolava i piani e le selve
e sembrava fare all’uomo una concorrenza vitale, forniva, spesso,
anch’essa, materia di caccia; e, in parte eliminata, in parte educata
e allevata, si risolveva in una sostentatrice della vita, in una
cooperatrice dell’agricoltura e de’ primi scambî rudimentali.

Pure, in mezzo a tanta abbondanza e tali favorevoli condizioni di vita,
l’uomo era troppo abbandonato alle variabili vicende naturali, come
un veliero che solca agile l’onda, se ha il vento in poppa, ma resta
inerte con le vele pendule e flosce se l’aria ristagna, o va a rompersi
contro gli scogli e le punte, se per una bizzarria del tempo diventa
ludibrio de’ venti. Una piena poco abbondante, una stagione troppo
secca, una invasione di cavallette, una morìa di greggi, una epidemia
sterminatrice, un improvviso, se anche temporaneo variare delle
condizioni di prosperità contro cui l’uomo non era nè agguerrito, nè
protetto, spargevano la carestia, la miseria, l’inedia dove ancora poco
tempo innanzi erano l’abbondanza e l’opulenza.

Ancora, questi doni della natura, oltre a non essere costanti, non
erano neppure ugualmente ripartiti, e — a prescindere dalle zone
più lontane dove il cielo azzurro scompariva sotto la monotonia di
nebbie incombenti e il clima mite s’incrudiva in geli persistenti —
da luogo a luogo variavano spesso le condizioni di produttività del
suolo e le agevolezze di vita; e a distribuire i prodotti — anche per
avventura adeguati — facevano impedimento i luoghi impervii mancanti
di comunicazioni, la mancanza di mezzi e organi atti agli scambi, la
produzione limitata al consumo domestico e la stessa corrispondente
organizzazione sociale e politica prettamente locale, conformata in
circoli chiusi, ristretti ed esclusivi.

La prima e più antica forma, infatti, sotto cui ci appariscono
la Mesopotamia, la Syria e anche l’Egitto stesso attraverso la
tradizionale leggendaria unità primitiva, è quella di piccole sovranità
locali, limitate a città e regioni, non coordinate tra loro, messe
semplicemente l’una accanto all’altre in un puro rapporto di contiguità
territoriale e messe in rapporto tra loro, unicamente o sopratutto,
dall’ambizioso desiderio di subordinare, dalla recalcitrante renitenza
a subordinarsi, sentendo tutte le molestie e i danni di una perpetua
minaccia, di una difesa permanente. Destinate, anche più facilmente
dalla posizione spesso piana e non munita de’ luoghi, ad un inevitabile
assorbimento del più forte, intanto si trovavano in una condizione, per
cui la sterilità del paese vicino, l’accrescersi della sua popolazione,
una carestia, un sentimento di prevalenza determinavano una incursione,
che, per effetto di successive azioni e reazioni, si risolveva in uno
stato frequente se non continuo di guerra.

Il movimento di unificazione, l’allungamento e l’arrotondamento del
dominio, che doveva riuscire a respingere sempre più indietro la zona
esposta alle aggressioni e a’ danni di attacchi continui e a costituir
così un ambito più largo di sicurezza e di garentita operosità,
formava il primo, più urgente e più impreteribile còmpito del tempo;
ma anche a questo stadio dell’evoluzione civile non si giungeva se
non attraverso una serie lunga e sempre ricorrente di guerre. Tutti
quelli, a cui la tradizione attribuisce di avere originariamente
costituita questa unità di dominio, o che la ricostituirono per tempo
più o meno lungo, dopo che s’era dissolta — Mini, il primo re della
vaga tradizione, Amenemhat I della 12ª dinastia, Ahmos il liberatore
del territorio, Tafnakht de’ principi di Sais, Piônkhi, Sabacone,
Taharqa in Egitto, Davide in Palestina, Sargone I nella Caldea, per
tacere d’altri meno lontani — sono re guerrieri, che hanno imposta
combattendo la loro sovranità e hanno suggellato con la spada il
legame o la catena, con cui hanno ristretto insieme città e regioni
indipendenti e nemiche. «È un bravo che opera con la spada — dice di
Amenemhat I un documento contemporaneo[1] — un valoroso che non ha
l’uguale: egli vede i barbari, si lancia, s’abbatte su’ predoni. È un
lanciatore di giavellotto che rende deboli le mani del nemico: quelli
ch’egli colpisce non alzano più la lancia. È un terribile che spezza
le fronti: non gli si è resistito nel suo tempo..... È un bravo che si
getta innanzi quando vede la lotta.....». E le iscrizioni, che parlano
di Sargone I, sono tutto un inno di guerra, che ne canta la gloria.

D’altra parte, raggiunto questo primo scopo e realizzato questo
primo còmpito di ampliare, unificando, il dominio, non si era fatto
ordinariamente che spostare il campo della guerra verso un confine più
lontano; e, anche all’interno, non sempre e non continuamente si era
giunto a costituire un ambiente di pace.

Questi imperi dell’antico Oriente — se pure qualcuno ha cercato
talvolta, riuscendovi in parte, di renderli più organici o meno
inorganici — in genere hanno poggiato sempre sopra una base poco
salda e coerente di una sovranità personale, e non sono andati oltre
un’organizzazione di carattere tutto feudale. I paesi conquistati,
come quelli aggregati o presi sotto protezione, restano sotto la
reggenza de’ vecchi sovrani, perdonati o sommessi, o passano sotto il
governo de’ nuovi investiti; e questi prìncipi, più spesso vassalli
che governatori, hanno per tutto obbligo verso l’alto sovrano, insieme
alla fedeltà, il pagamento di un tributo, ordinariamente in natura, e
il dovere di fornire de’ contingenti armati sia per le guerre difensive
che per quelle di conquiste. Dopo il tentativo di organizzazione
fatto da Tiglath-Pilsesar II e di Sargone, bisogna arrivare a Dario
d’Istaspe per trovare un sistematico congegno amministrativo, con
poteri e funzioni distribuite, che, peraltro, se rappresenta un
notevole progresso su’ precedenti aggruppamenti meccanici, è ben
lungi dall’eliminare ogni inconveniente. Con un vincolo rilassato e
fragile come questo, non solo rimaneva campo alle guerre che questi
prìncipi vassalli, e perfino governatori, si facevano tra di loro,
ma spesseggiavano rivolte, guerre interne, per rifiuto di tributi,
tradimenti e tentativi d’emancipazione; e, alla morte del gran re,
specie se questi non aveva avuta la preveggenza di associarsi il
successore, scoppiavano tra i vassalli e nella sua stessa famiglia
ribellioni e inquietudini che dissolvevano l’impero o lo mettevano
a un punto dalla ruina. In Egitto, da Nitocri all’undecima dinastia,
durante cinque secoli circa, com’è lecito desumere dalla brevità de’
regni e dallo spostamento di sedi delle dinastie, vi dovette essere
una grande persistenza di ribellioni e lotte intestine. L’undecima
dinastia solo verso il suo finire giunse a riunire la sovranità
dell’Egitto, poi riperduta sotto la dodicesima. Le tribù del deserto,
specialmente, già da prima sempre combattute e spesso vinte ma mai
stabilmente sottomesse, tornano, come torneranno ancora appresso a
fiottare o a volteggiare petulanti a’ confini. Nella XIII dinastia si
ha un’usurpazione militare o sacerdotale che sia. La XIV dinastia segna
un altro spostamento di sede da Tebe a Xois; e l’invasione degli Hyksos
(Shasou) coglie e sopraffà l’Egitto, appunto in un periodo di lotta
intestina, più debole per la discordia.

L’unificazione della Caldea sotto l’egemonia de’ prìncipi di Ouran
non fu di lunga durata, e Sargone I, che successe loro, ebbe turbato
di rivolte il regno, che si dissolvette sotto il figliuolo Naramsin.
Unificata ancora la Caldea sotto Kammourabi, cominciano ancora le
rivolte che vanno poi a finire con lo spossessamento de’ sovrani
elamiti, mentre nello sfondo comincia a disegnarsi la sorgente potenza
dell’Assyria. Le discordie de’ popoli di Syria alla loro volta aprono
più facile campo alle imprese di Thoutmos III, mentre all’altro
estremo del dominio di costui gli Etiopi mantengono un intermittente
ma persistente fomite di ribellione e di guerra. La morte di Thoutmos
III e l’avvenimento al trono del figliuolo Amenhotpou II è il segno
di una più generale sollevazione, vinta e repressa con mano ferrea,
senza impedire peraltro che in tempo più lontano la XVIII dinastia si
estingua in mezzo alle lotte intestine. E Harmhabi, l’instauratore
— della dinastia successiva, deve quasi ricomporre da capo l’Impero
egiziano. Seti I è costretto a farsi de’ Khiti, prima vassalli, degli
alleati; e nondimeno il figlio Ramsete II se li trova ancora di contro;
e con essi ancora la Syria, a ridurre all’obbedienza la quale basta
appena una lotta di quindici anni. Sotto Minephtah maturano moti di
ribellione che scoppiano più aperti alla sua morte e finiscono con lo
schiudere la via del trono a un usurpatore.

Nella terra di Canaan, il regno faticosamente messo insieme da David
è più volte minato da rivolte, che si riproducono sotto Salomone, e,
alla morte di costui approdano alla scissione delle tribù e a un lungo
periodo di lotte intestine tra il popolo di Giuda e quello d’Israele.
In Assiria, mentre Assurnazirpal e Salmanassar III mirano ad allargare
il dominio, portando l’impero sino a’ più lontani termini, sono
frequentemente costretti ad accorrere per domare rivolte.

E, giù giù, venendo attraverso gli anni sino al tempo meno antico,
in cui sulle rovine e dalle rovine di tutti gl’imperi precedenti si
eleva l’impero persiano, si ha uno spettacolo uniforme e persistente,
monotono, sino, nella sua tristezza, di rivolte spesso domate, ma
sempre rinascenti; per cui la storia di questi antichi imperi sembra
come un immane e ostinato sforzo di tenere insieme l’incoercibile, un
travaglio di Sisifo, che non solleva la pietra se non per vedersela
ricadere più pesante sul petto, un’opera delle danaidi che, non con
acqua ma con sangue, intendono alla vana opera di riempire un vaso
senza fondo.

È l’Assyria, che proprio quando crede di essere giunta al supremo
fastigio della potenza e di avere stabilmente incatenato a sè i
popoli vinti e i regni incorporati, vede dall’Ourarti, dall’Elam,
dalla Caldea, dalla Syria, dall’Egitto, dal suo stesso seno,
risorgere come fiamma da un fuoco male spento la rivolta e divampare
minacciosa e terribile. È Babilonia che, prendendo lo scettro dalle
mani dell’Assyria, ne eredita anche quel germe di trambusti e di
dissoluzione. È il popolo ebreo, che, ostinatamente ribelle all’Egitto,
all’Assyria, a Babilonia, a Damasco, feconda in sè stesso un lievito
di ribellione, che impedisce e dissolve i suoi rinnovati tentativi
di unità. È l’Egitto, che non solo vede smembrato e ritagliato
dalla rivolta l’Impero esteso ne’ periodi di fortuna militare e di
espansione, ma appare, ne’ suoi stessi antichi confini, un campo di
lotta intestina, dove tutte le sue nidiate di principi giocano di volta
in volta il loro circoscritto principato vassallo contro la speranza,
qualche volta riuscita e spesso anche delusa, di arrogarsi il supremo
comando e dar vita a una nuova dinastia. È l’Impero medo, dal cui seno
per un atto di ribellione fortunata esce l’Impero persiano; è l’Impero
persiano stesso, che, proprio quando pare avere stese le sue ali
dall’Africa all’Europa, è minacciato, mentre Cambise scompare, dalla
più vasta e più terribile delle rivolte.

Salmanasar IV, Ashhourdan II, Tiglath-Pileser II, Salmanassar
V, Sabacone, Sargone, Sennacherib, Gyge, Assurbanipal,
Naboukoudouroussour, Taharqou, Amasi, Dario, per nominare ancora, oltre
a quelli già menzionati, alcuni de’ più tipici o de’ più noti, salgono
al trono con le prospettive di rivolte da domare o per opera di una
fortunata rivolta, o spendono gran parte della loro vita e della loro
energia in un’opera di repressione diuturna ed estenuante.

E, corrispondente a questo male che travagliava all’interno le
compagini più vaste o meno grandi, era la minaccia all’esterno. La
compagine mal cementata, che così faticosamente giungeva a mantenersi
in uno stato di equilibrio sempre instabile, pareva per giunta
continuamente sotto l’incubo di essere attratta nell’orbita di masse
maggiori o di urti esterni che la mandassero in frantumi.

Premute dall’alimento venuto temporaneamente meno per accidentalità
naturali o reso insufficiente dal moltiplicarsi della popolazione, si
spostava tutta una massa di popolo, che, schiudendosi l’adito in altri
paesi, determinava alla sua volta un più persistente e più generale
commovimento.

Di alcune di queste immigrazioni devastatrici e conquistatrici ci
serba sopra tutto ricordo la storia di Oriente: l’invasione degl’Hyksos
(Shasou) o pastori, che, riversandosi sull’Egitto verso la fine della
13ª dinastia, circa diciotto secoli prima dell’Era nostra, vi rimasero
accampati per parecchi secoli; l’invasione de’ Gimirri o Cimmerii,
nel settimo secolo, che annientarono tra gli altri il regno di Frygia,
e l’altra degli Scyti, e, vinta la Media, messo in pericolo l’Impero
assyro, si avanzarono come un turbine devastatore sin nella Syria e
nella Palestina, deviati dall’Egitto per virtù di doni, anzi che per
forza d’armi.

Ma questi costituiscono l’espressione più caratteristica e rilevante
di fatti che, in proporzioni più ridotte e con carattere temporaneo,
si dovevano riprodurre non di rado, specie dove paesi più ricchi ed
inciviliti si trovavano a confinare con paesi poveri e rimasti a uno
stato di civiltà rudimentale.

A prescindere poi da questi eventi — di piccola importanza se
ricorrenti, di carattere straordinario se importanti — gli stessi
Imperi costituiti si trovavano, l’uno rimpetto all’altro, in condizione
permanente ora di dover respingere un attacco, ora di doverlo
realizzare, in uno stato di ostilità, insomma, ora latente, ora aperta.

Lo stato affatto rudimentale del modo di produzione, la tecnica poco
sviluppata e meno che mai proporzionata al carattere gigantesco delle
opere eseguite o progettate, il commercio poco sviluppato e sempre
impedito da difficoltà di ogni sorta; tutto sembrava spingere a
concepire come possibile l’accumulazione della ricchezza e l’elevazione
del tenore di vita solo mediante grandi e periodiche razzie, che
venivano così lentamente e insensibilmente a confondersi con la
prospettiva stessa del progresso.

Uno Stato, che si proponeva di rinunziare o era costretto per un
momento a smettere la guerra di conquista e a cessare di procurarsi
all’estero con tributi e acquisto di schiavi gli strumenti adatti alla
soddisfazione di tanti bisogni, doveva ripiegarsi su se medesimo per
trarli dalla sua stessa popolazione, e non faceva questo senza destare
i maggiori risentimenti o peggio ancora. Tutta la leggenda d’infamia,
che, attraverso la tradizione greca, avvolge Cheope e Chefren, ha
origine appunto nello scontento destato tra gli Egiziani col piegarli
alle più dure fatiche, forse per l’insufficienza degli stessi elementi
raccattati all’estero rispetto alla grandezza delle costruzioni.
Asarhaddon si servì è vero della mano d’opera mercenaria, ma egli
poteva far ciò appunto in virtù di larghi mezzi accumulati, con tante
guerre, da’ suoi predecessori e da lui stesso, con i tributi che gli
affluivano da ogni parte dell’impero portato con la conquista così
lontano.

Questo atteggiamento, intanto, e questa disposizione di spirito, sempre
pronti a un intento rapace, erano reciproci da uno ad un altro Stato;
e, in tali condizioni, s’intende facilmente che la guerra offensiva,
per intima necessità, diveniva anche guerra difensiva, in quanto mirava
a prevenire ed eliminare l’attacco.

Perciò ogni Stato antico e precipuamente ogni impero d’Oriente —
ciascuno ne’ limiti più o meno ampi de’ suoi rapporti e del suo
orizzonte, — ha fatalmente innanzi a sè, come mèta e punto di
attrazione, il miraggio dell’Impero universale, che, come un vero
miraggio, per l’allungarsi progressivo dell’orizzonte, sembra ritrarsi
proprio quando più sembra che lo si sia raggiunto e trae l’illuso in
una corsa folle e vertiginosa, in fondo alla quale trova la sua stessa
rovina.

Tutta la storia d’Oriente sembra confondersi nelle vicende di questi
centri di forze, che si formano agli estremi del suo orizzonte per
isvolgersi, assorbendo le forze gradatamente limitrofe, sino al punto
di venire in contatto, ingaggiando, in un alterno conflitto sempre
rinascente, un duello di vita e di morte.

Da un lato è il vecchio Egitto, il primogenito della storia, dietro
cui in certi periodi, sullo sfondo, si disegna l’Etiopia; dall’altro,
successivamente, l’Impero de’ Khiti, l’assyro-babilonese, il medo, il
persiano, usciti a grado a grado dalla lotta ingaggiata prima tra loro
e poi con i contermini minori. E, tra l’uno e l’altro di questi centri
di due diversi ed opposti sistemi di forze, si trovano i popoli messi
sulle grandi vie commerciali — sempre più disputate con l’elevarsi e
moltiplicarsi de’ bisogni e fatti indici delle più rudimentali ragion
di contesa — la Syria specialmente, che talvolta con le sue resistenze,
nella sua buona fortuna, serve da antemurale e da tampone tra i due
imperi opposti, più spesso è tutto un campo di battaglia, continuamente
conteso e continuamente lacerato e insanguinato, preda, benchè
sempre recalcitrante, del più forte de’ competitori. E le regioni più
eccentriche dell’Asia minore, poste fuori del campo immediato delle
lotte, si urtavano alla loro volta in un mutuo conflitto per divenire
poi, vinti e vincitori, preda della più grande vittoria del trionfatore
del resto d’Oriente.

Così la storia orientale ci fa assistere da prima a un movimento
ascendente di conquista dell’Egitto, cui Thoutmosis III schiude la
via e che culmina con Ramsete II per avere poi, a tratti, momenti di
ripresa e di fortuna; ma a questo movimento ascendente fa riscontro un
movimento di reazione che, dopo lungo fiottare, porta gli Imperi del
Nord a rovesciarsi sull’Egitto e a conquistarlo, in modo che, quasi per
un’ironia della storia, Esarhaddon finisce per segnare la sua vittoria
sulla stessa stela di vittoria di Ramsete e Cambyse, e Artaserse
Okkos va ad insultare e calpestare, nelle stesse sue sedi sacre, il
sentimento religioso degli Egizî.

Una tale inevitabile alternativa della guerra finiva intanto per
foggiare e plasmare quasi a modo suo i varî imperi, rinsaldava
quelle divisioni di schiavi lavoranti e padroni combattenti, che
costituisce, per tanto tempo e per tanta parte, la caratteristica
maggiore del mondo antico, educava nella stessa classe di padroni
uno spirito prevalentemente militare, allettava con i profitti delle
conquiste, solleticava l’amor proprio nazionale, ubbriacava con i
fumi della vittoria; in modo che l’origine prima e la radice di quel
contrasto, così semplice e materiale, veniva acquistando un aspetto
sempre più complicato, e il gigantesco conflitto millenario diveniva
a volta ambizione conquistatrice di re, guerra religiosa, disputa di
successione, intrigo di cortigiani e di gineceo.

Ma, in questa guerra perenne, insieme a un logorio di forze e di
ricchezza, vi è un vizio intimo, che rodeva in mezzo a’ loro stessi
trionfi i vincitori; onde l’esistenza stessa di quegl’imperi, come la
fortuna di un giuocatore accecato, era messa di volta in volta allo
sbaraglio su di un solo campo di battaglia, dove imperi più volte
secolari crollavano di peso come castelli di carta faticosamente
architettati da un fanciullo.

E questo spettacolo tipico d’immani e repentine ruine doveva
naturalmente riempire il mondo di stupore e sembrare, a chi non sapeva
altrimenti spiegarsi il collasso di quegli aggregati tenuti insieme
dalla spada e dalla catena, come il capriccio di un dio onnipotente
e vendicativo o il tetro disegno di un fato imperscrutabile, che si
compiacevano a sperimentare il loro potere precipitando, tra l’onta
e le stragi di una sconfitta, un dominatore del mondo da’ supremi
fastigi di un trono nelle mani di un carnefice e nell’abbiezione di una
prigione, o elevando un avventuriere sul soglio a cui aveva guardato
con lo sgomento superstizioso del servo.

V’è qualche cosa intanto che la storia — specie d’Oriente — fatta
in gran parte con i fasti, spesso auto-encomiastici, de’ re, lascia
appena intravedere, e sono i dolori, i danni, le pene delle folle
decimate, sterminate, spiantate dalle loro sedi, la cui eco s’intuisce
attraverso il cinico grido di trionfo de’ vincitori, o vibra ne’
minacciosi vaticinî e nelle lamentazioni de’ profeti. Ogni impresa di
guerra, oltre al numero di morti spesso ingente — se si vuol credere
alle iscrizioni de’ re di Assyria specialmente — travolgeva in una vera
rovina intere popolazioni, fatte segno alla strage, alle sevizie, non
di rado trascinate da un estremo dell’impero ad un altro, come armenti.

Succedeva inoltre che, come suole accadere nella storia, dove dal
seno stesso di un fenomeno germoglia il fenomeno contrario, dalle
conseguenze stesse della guerra rampollasse un desiderio di pace.

E non soltanto per le vicende varie e immediate della guerra, ma
anche per lo strascico che lasciava dietro di sè. Poi, dove la guerra
aveva accumulato ricchezza con bottino e tributi e creato uno stato
sia pure fugace di prosperità e con questo un più elevato senso
della vita e altre specie di attrattive, non solo doveva parere più
sgradito arrischiare la vita, ma gli stessi disagi di spedizioni spesso
lontane dovevano cominciare a riuscire ripugnanti. Lo stesso pungolo
dell’ambizione cominciava a trovare altre mète e altre soddisfazioni
in uffici civili e ne’ trionfi anche più efimeri dell’ordinaria vita
sociale.

Così, in mezzo allo stesso fiorire dello spirito guerriero, si faceva
strada la voce che n’era l’antitesi; e, mentre l’Egitto trionfava de’
trionfi di Ramsete III: «Perchè dici tu che l’ufficiale di fanteria
è più felice dello scriba? — domandava uno scriba al suo allievo. —
Aspetta, che io ti dipinga la sorte dell’ufficiale di fanteria, tutta
l’estensione delle sue miserie! — Lo si prende, ancora fanciullo, per
chiuderlo nella caserma: — una piaga che lo sega si forma sul suo
ventre, — una piaga di logoro è sul suo occhio, — una piaga lacera
è sulle due sue sopracciglia; la sua testa è intaccata e coverta di
umore. — In breve, egli è battuto come un rotolo di papiro, — egli
è infranto dalle violenze. — Aspetta, che io ti dica delle sue marce
verso la Siria — delle sue spedizioni in paesi lontani! — I suoi pani
e la sua acqua sono sulle sue spalle come il carico di un asino, — e
rendono il suo collo e la sua nuca simili a quelle di un asino; — le
giunture della sua schiena sono fiaccate. — Egli beve un’acqua guasta,
— poi ritorna alla sua guardia. — Raggiunge il nemico, — è come un’oca
che trema, — perchè non ha più valore in tutte le sue membra. — Finisce
per venire in Egitto, — è come un bastone roso dal verme. È ammalato,
— lo si porta su di un asino, — le sue vesti, le portano via i ladri; —
i suoi domestici, se la battono»[2]. E, la stessa analisi che ha fatta
pel fantaccino, lo scriba la fa pel milite di cavalleria, facendovi su
dell’ironia, spargendovi quel riso, che diventa la maggiore condanna di
un’istituzione, in quanto mostra che questa è omai impotente a muovere
lo sdegno e perisce, presto o tardi, sotto quell’eco dell’impotenza
pretenziosa ch’è la caricatura.

Ma questa aspirazione alla pace, per quanto naturalmente viva e
sentita, specie in un paese come l’Egitto, rispondeva piuttosto a
un senso di stanchezza, a un ripullulare della gioia di vivere, a un
bisogno, a un desiderio individuale che non ad una possibilità sociale.

La guerra, ch’era una necessità, era anche in que’ tempi un esercizio,
mercè cui si soffocava un pericolo in germe, lo si combatteva sul
nascere; e, se non riusciva eliminarlo, lo si teneva almeno lontano
col prestigio di un valore altrimenti dimostrato e lo si respingeva,
al sopravvenire, col vantaggio che potevano dare un’esperienza della
guerra e una mano addestrata.

Quel periodo più antico della storia era una vera vigilia d’armi, in
cui guai a chi si addormentava!

La guerra esauriva quest’imperi, vinti o vincitori; ma — strana
condizione — nemmeno li salvava la pace.

L’Assyria ha un relativo periodo di pace sotto Ashshourdân II e
Ashshournirari II, ma non è quello precisamente il suo periodo
più fiorente, e si rileva e si riafferma appresso, riprendendo la
logoratrice eppur fatale politica guerriera e conquistatrice.

Oltre ad essere una necessità e un esercizio, la guerra era poi anche
un’intrapresa.

Ne’ momenti in cui si realizzò un impero quasi universale, la pace non
aveva più lo svantaggio di compromettere nell’avvenire la sicurezza
del paese; e, specialmente per paesi di ricca produzione e posti sulle
grandi vie commerciali, compensava il peso de’ tributi con l’impiego
più largo, più sicuro e più remuneratore di tutte le sue utili energie.

Ma, per uno stato autonomo, la pace poteva, in tempi più antichi
specialmente, voler dire l’adito precluso ad una speculazione, la
maggiore speculazione del tempo, qual’era la guerra.

Un quadro della vita sociale dello stesso Egitto in tempo di pace,
delineato da un contemporaneo sotto la dodicesima dinastia, non è,
pur facendo ragione al subbiettivismo dello scrittore, un quadro
confortante.

«Io ho visto il fabbro al suo lavoro, — alla bocca del forno» — diceva
uno scriba del tempo a suo figlio. — «Le sue dita sono rugose come
oggetti di pelle di coccodrillo, — egli sente di cattivo odore peggio
di un uovo di pesce. — Ogni lavoratore in metallo ha esso forse più
riposo del lavoratore de’ campi? — I suoi campi sono il legno; i suoi
strumenti, del metallo. — La notte, quando si crederebbe che egli è
libero, — lavora ancora, dopo tutto ciò che le sue braccia hanno già
fatto durante il giorno, — la notte egli veglia al lume della fiaccola.

«Il taglia-pietre cerca del lavoro, — in ogni specie di pietre dure. —
Quando egli ha finito i lavori del suo mestiere e che le sue braccia
sono logore, egli si riposa: — restando raggomitolato dal sorgere
del sole, — le sue ginocchia e la sua schiena sono rotte. — Il
barbiere rade sino alla notte: — quando si mette a mangiare, allora
solamente si appoggia sul gomito per riposarsi. — Egli va di casa
in casa per cercare i suoi clienti; — si rompe le braccia per empire
lo stomaco, come le api che mangiano il prodotto del loro lavoro. —
Il battelliere scende sino a Natho per guadagnare il suo salario. —
Quando ha accumulato lavoro su lavoro, che ha uccisi delle oche e de’
fenicotteri, che ha penata tutta la sua pena, — arriva soltanto al suo
orto, — arriva alla sua casa, ed ecco che gli tocca andarsene.....

«E il muratore — lo addenta la malattia; — poichè egli è esposto alle
raffiche, — costruendo faticosamente, attaccato a’ capitelli delle case
fatti a forma di loto, — per raggiungere forse fini suoi? — Le due sue
braccia si consumano nel lavoro, — i suoi abiti sono in disordine; —
si rade da sè — le sue dita sono per lui de’ pani; — non si lava che
una volta per giorno. — Si fa umile per piacere; — è un travicello
che passa da un posto ad un altro — di dieci cubiti per sei; — è un
travicello che passa di mese in mese su’ sostegni di un’impalcatura,
aggrappato a’ capitelli delle case fatti a forma di loto, — facendovi
tutti i lavori necessarî. — Quando ha il suo pane, rientra in casa e
batte i figli....

«Il tessitore — nell’interno delle case — è più infelice d’una donna.
— Le sue ginocchia si adagiano all’altezza del suo cuore; egli non
assaggia l’aria libera. — Se un giorno solo fa a meno di fabbricare
la quantità di stoffa regolamentare, — è legato come il loto degli
stagni. — È solo guadagnando con doni di pani i guardiani delle porte,
— ch’egli giunge a vedere la luce del giorno. — Il fabbricante d’armi
pena straordinariamente — partendo per i paesi stranieri; — spende una
grande somma per i suoi asini — spende una grande somma per metterli
in assetto, — quando si mette in cammino. — Appena arriva al suo orto
— arriva alla sua casa, la sera, — gli tocca andarsene. — Il corriere
partendo per i paesi stranieri, lega i suoi beni a’ figliuoli, — per
paura degli animali selvatici e degli Asiatici. — Che cosa gli accade
quando è in Egitto? — Appena arriva al suo orto — arriva alla sua casa
— gli tocca andarsene. — Se parte, la sua miseria gli pesa; — se non se
ne va, si consola. — Al tintore, gli odorano male le dita — l’odore de’
pesci putrefatti; — i suoi due occhi sono pesti dalla fatica; — la sua
mano non ha più presa. — Egli passa il suo tempo a tagliare de’ cenci;
— il suo orrore sono i vestiti. — Il calzolaio è disgraziatissimo; —
esso mendica eternamente, — la sua salute è quella di un pesce andato a
male; — rosicchia il cuoio per nutrirsi»[3].

Per chi parlava così non vi era rifugio e salute che nella professione
dello scriba, cioè nella professione che associava — sia pure nella
maniera più indiretta — a’ vantaggi e alle soddisfazioni del comando,
che serviva di strumento in tutta l’opera di dominazione all’interno e
all’esterno e in tutti i suoi profitti immediati e mediati. Si potrebbe
quindi voler vedere un po’ di partito preso in questo suo schizzo della
vita sociale, ma il ritratto è così spontaneo e così improntato a un
buono e schietto realismo, che, anche smorzando le tinte, l’impressione
non si cancella, nè si attenua sensibilmente.

E si trattava dell’Egitto, cioè di un paese fecondo, ricco di materie
prime, dove il ceto de’ lavoratori liberi pare che avesse un’estensione
notevole specie rispetto a’ tempi più remoti del mondo antico.

Ora, questa vita travagliata e monotona e sempre delusa nello sforzo
ostinato di trarre dal lavoro una ricchezza, un avvenire migliore,
riconciliandole con la morte, con gl’istinti predatori, con la
confidenza nella fortuna, doveva non di rado rendere accetto anche a
queste classi della popolazione il partito della guerra, con le sue
avventure, con le sue promesse di bottino, con le sue prospettive
di fortuna militare, e doveva trarre anche dal loro vago, non
chiesto, impersonale consenso altra esca da aggiungere al fuoco, onde
divampavano le guerre.

V’è tuttavia un popolo che sembrerebbe costituire un’eccezione e
quasi un’antitesi a questo spirito bellicoso; un popolo che, evocato,
fomentato e sorretto dalla forza stessa delle cose, pareva penetrare
tutto e tutti: è il popolo de’ Fenici.

Alla lotta per la vita combattuta nella forma più diretta e brutale
essi sembravano preferire un’altra lotta per l’esistenza, che si
ripiega su di adattamenti divergenti, che cede per riprendere forza,
che, preoccupata dello scopo finale di vivere e trarre il maggiore
vantaggio della vita, ne accetta tutti gli accomodamenti e gli
espedienti per comandare, all’occorrenza, servendo, e dominare essendo
dominati.

Di fronte alla speculazione più primitiva della guerra veniva sorgendo
e sviluppandosi un’altra speculazione, quella del commercio, favorito
dalla guerra stessa dove diventava conquista stabile, e apriva e
sgombrava vie.

Mentre la produzione era ancora al suo stadio casalingo, o, subordinata
a condizioni e tradizioni locali, si manteneva circoscritta in
determinati punti, l’opera di chi ne raccogliesse il supero sparso
qua e là e si facesse veicolo e strumento di scambî, se presentava
molte volte rischi e disagî, prometteva anche lucri non pochi; e,
specialmente col crescere de’ centri abitati, col moltiplicarsi
e il raffinarsi de’ bisogni, con i progressi della navigazione e
l’introduzione della moneta, mezzo perfezionato di scambio, era
destinato a un grande avvenire.

Messi in vista del mare, avendo alle spalle regioni privilegiate dalla
natura, i Fenici erano così, da un lato almeno, messi al sicuro da
quella minaccia continua costituita allora da un qualsiasi vicino;
e, dall’altro lato, avevano perciò stesso meglio aperto l’adito, alle
resistenze prima, poi a quegli accomodamenti, che, imposti loro dalla
forza delle cose, entrarono poi nella stessa loro indole.

Così, adattandosi spesso a pagare un tributo, finchè poteva tenersi
ne’ limiti dirò così di un premio di assicurazione, di un’accordata
partecipazione a’ loro profitti, si ribellavano anche talvolta, e
vittoriosamente, per calcolo di principe, o per impazienza di popolo, o
per esosità eccessiva d’oppressione; e, se, alla peggio, tutto andava
in ruina, i loro _cavalli del mare_ divenivano anche le loro _case di
legno_, e, commessi alla libera distesa de’ mari, cercavano altrove
nuova patria e nuove fortune.

Per tal modo, nella sorte prospera e nell’avversa, crescevano, si
spandevano sino a toccare le regioni più lontane, si arricchivano,
colonizzavano i paesi d’approdo, specie le isole dove è facile la
difesa, difficile l’offesa; e, mentre spargevano germi di coltura e
fomiti di utile produzione, si facevano antesignani di nuovi modi di
vita e preparavano un altro terreno di concorrenza.

Non di rado, intanto, il loro commercio diveniva pirateria, la
fondazione di fattorie occasione e germe di guerre, e l’espansione
progressiva suscitava rivalità commerciali o conflitti che andavano a
mettere capo nella guerra.

Così quella brama di preda, che nelle più antiche guerre si svelava
nuda e non dissimulata, quasi come un istinto vitale, riappariva qui
più disciplinata sotto una delle sue forme riflesse; e, come pareva
che avesse portato alla pace attraverso la guerra, così riusciva alla
guerra attraverso la pace. E il conflitto pareva che non si fosse
scansato che per meglio maturarsi, per ripullulare in tante altre lotte
e, in ultimo — da parte di quel germoglio e di quell’erede de’ Fenici
che fu Cartagine — nel grandioso, epico duello con i Greci di Sicilia e
con Roma.




II.

Pace e guerra ne’ poemi omerici ed esiodèi.


Il più antico monumento letterario, la prima espressione spirituale
della Grecia è un canto di guerra, è il racconto epico di un’impresa
bellica.

Come nel Medio Evo, la società sminuzzata in feudi e comuni, scissa
tra l’antico e il nuovo trovava nel sogno oltremondano il punto
di convergenza che le mancava in terra e l’espressione di una
coscienza etica che si andava formando; come il cinquecento italiano
rifletteva nel mondo cavalleresco, rievocato e rifoggiato non senza
un sorriso canzonatore, la vita galante e avventurosa delle sue corti
principesche; come un popolo del settentrione, rinascente a una nuova
vita economica, morale e religiosa, cercava il suo riflesso in una
poesia drammatica scrutatrice di ogni più riposta latebra dell’anima;
come la Germania, ansiosa del mistero dell’essere e indagatrice delle
leggi del pensiero e della vita, riprendeva con un intento più lato e
con più elevato proposito d’arte la leggenda di Faust; come il secolo
nostro vario, multiforme, avido, curioso, impaziente, osservatore
cerca l’espressione e la rivelazione della sua coscienza nel romanzo
realista e psicologico, nella commedia di carattere e d’intrigo, nel
dramma filosofico e passionale, nella lirica tormentosa e melodica,
nell’indagine delle leggi a cui s’informa la vita sociale, nelle
divinazioni dell’avvenire; — così quella più antica vita ellenica
trovava naturalmente il suo punto di convergenza, il sostrato delle sue
manifestazioni, la sua unità in un poetico racconto di guerra con le
sue cause, le sue vicende, la serie delle sue conseguenze.

Per tal modo un episodio della colonizzazione dell’Asia minore da parte
de’ Greci — quale può essere, ridotto alle sue vere proporzioni e al
suo primo germe, il contenuto dell’epopea — assurge a nucleo della vita
e della tradizione nazionale, e intorno ad esso si aggruppano, su di
esso s’innestano tanti altri episodî e tradizioni della vita locale,
per comporsi in un poema, che, pur mal saldato come talvolta apparisce
nelle sue parti, riesce ad essere la più lucida immagine della vita di
un popolo e di un’epoca e l’opera artistica in cui meglio si compiace e
si esalta lo spirito umano.

La vita vi appare tutta dominata dalla guerra, penetrata de’ suoi
bisogni, adattata alle sue esigenze, foggiata da’ necessari e
persistenti suoi effetti.

La guerra è ancora lo strumento di gran lunga più importante di
ricchezza e di potere con l’imperio che dà a’ suoi trionfatori, con
l’accrescere che fa la potenza de’ principi, col sacco dato alle città
e alle campagne, e con l’asservimento e meglio ancora con la vendita
de’ prigionieri.

Ad Agamennone, che vuol persistere nella guerra, grida Tersite:

              ...... E di che dunque
    Ti lagni, Atride? Che ti manca? Hai pieni
    Di bronzo i padiglioni e di donzelle,
    Delle vinte città spoglie prescelte
    E da noi date a te primiero. O forse
    Pur d’auro hai fame e qualche Teucro aspetti
    Che, d’Ilio uscito, lo ti rechi al piede
    Prezzo del figlio da me preso in guerra.
    Da me medesmo o da qualch’altro Acheo?

D’altra parte la vita politica si conforma tutta a questa esigenza
dell’offesa e della difesa: l’assemblea è costituita da quelli che
portano le armi; il principe sembra trarre, se non anche la base
giuridica dal suo comando, almeno quella di fatto, dalla sua maggiore
virtù militare e da questa funzione di protezione che spiega per
i suoi sudditi. La produzione sembra anch’essa in massima parte
volta e conformata a questi bisogni della guerra, o che si tratti di
alimentare questi guerrieri, o di fornirli di cavalli per la guerra,
o di apparecchiare loro le armi, che, oltre ad essere strumento di
difesa e di offesa, sono anche oggetto di ornamento, su cui cominciano
a sbizzarrirsi la fantasia e la perizia dell’artista e che sono il più
caro patrimonio del guerriero. La città stessa è costruita in vista
e con lo scopo di una difesa, ristretta intorno alla sua rocca, tutta
cinta di mura e fortificata di torri.

L’eroe tipico di questo mondo è

        ...... Achille, a cui nel seno
    Nè amor del giusto, nè pietà si alberga,
    Ma cuor selvaggio di lïon, che spinto
    Dall’ardir, dalla forza e dalla fame
    Il gregge assalta a procacciarsi il cibo[4].

E gli altri eroi sono a volta a volta paragonati a quanto vi ha di più
selvaggio e distruttore nel regno animale e nello stesso ordine de’
fenomeni naturali. Ulysse è paragonato a un cignale[5]; i due Aiaci
sono paragonati a due leoni strappanti a’ cani la preda, a un’onda
furente[6]; Aiace Telamonio è paragonato a un’aquila che irrompe in
uno stormo di gru, a un ispido verro di montagna e, pur nell’atto
di salvare, a un leone che salva i lioncini[7]; Achille è simile a
uno sparviero, a un leone truculento, a un incendio divoratore[8];
Sarpedonte, anche esso, è paragonato a un leone, a un avvoltoio,
e, nello stesso morire, a un toro sbranato da un leone[9]; Idomeneo
è simile a folgore, pari a vampa di fuoco[10]; Patroclo è simile a
sparviero, ad avvoltoio, a vento che infuria, a leone[11]; Menelao,
anch’esso, che assalti o che rinculi, richiama l’immagine favorita del
leone[12]; e lo stesso prode e buon Ettore è presentato successivamente
dal poeta come un cinghiale e un leone, un masso rovinoso trasportato
da un torrente, un incendio, un’aquila, un vento che infuria[13].

Sono la terminologia e le similitudini delle iscrizioni
assyro-babilonesi che ritornano qui per un fatale consenso delle cose.

Pure, in mezzo a questo stesso furore di battaglia, con quanta
costanza, con quanto angoscioso desiderio non si fa strada l’immagine
della pace, come uno strappo di cielo sereno, che traspare rapido tra
la nuvolaglia di un dì di tempesta, e appare tanto più desiderato e più
bello, quanto più le nuvole minacciano di velarlo ancora e sottrarlo
alla vista che se ne bea.

Una viva, insistente aspirazione alla pace penetra tutto il canto del
poeta; e dal grembo stesso del canto di guerra sorge la condanna e la
maledizione delle guerre.

Con quale nobile ira e con quanta potenza di sentimento, Menelao non
maledice i Troiani e chi fu cagione della guerra ed esclama:

          ...... Il cor di tutte
    Cose alfin sente sazietà, del sonno
    Della danza, del canto e dell’amore.
    Piacer più cari che la guerra: e mai
    Sazi di guerra non saranno i Teucri?[14].

Quanti intimi impulsi a finire questa guerra, che in ogni modo si
presenta come un crudele decreto del fato: a’ Troiani come una sventura
macchinata col mezzo di Paride da una divinità avversa, a’ Greci come
una fatale impresa di inevitabile rivendicazione e d’imprescindibile
difesa, e che gli uni e gli altri maledicono, intanto![15]. Con
quanta meraviglia non si vede lo stesso amor proprio di uomini, che
pongono in cima a tutto la forza misteriosa, battuto in breccia da un
contrario, altissimo sentimento umano; e si sente Antenore consigliare
a’ Troiani la franca riparazione del mal fatto, rendendo Elena e i suoi
tesori[16], mentre alla mente di Ettore, nell’atto stesso che sta per
muovere contro di Achille, si affacciano pensieri come questi:

    Pur, se deposto e lancia e scudo ed elmo,
    Io medesmo mi fessi incontro a questo
    Magnanimo rivale e la spartana
    Donna cagion di tanta guerra, e tutte
    Gli promettessi le con lei portate
    Di Paride ricchezze, ed altre ancora
    Da partirsi agli Achei, quante ne chiude
    Questa città; se con tremendo giuro
    Quindi i Troiani a rivelar stringessi
    I riposti tesori ed in due parti
    Dividendoli tutti.....

È un lampo, che tosto si dilegua. Ma quale lampo rivelatore per la
società stessa in cui sorgeva il poema![17].

E questi stessi guerrieri, in guerra così selvaggiamente feroci, hanno
come la nostalgia del loro tetto natio, delle loro gioie familiari.
Non ingaggiano mai la pugna senza che abbiano abbracciato la famiglia
presente, o rivolto il pensiero più affettuoso alla casa lontana[18]. È
questo stesso pensiero che delle volte, per reazione e per attaccamento
alla vita, li rende più spietati. E piangono anche talvolta, il pianto
del forte, quello che si versa per i dolori degli altri!

L’ira turbinosa di Achille, che pure, nel suo rovescio, è affetto
di Patroclo, si piega al dolore di Priamo, e le lagrime del padre
dell’ucciso si confondono insieme con quelle dell’uccisore del
figlio[19].

Pure inevitabile e usuale, com’è la guerra in periodi, quali questi, di
scarsa produzione, quando, imposta dalla difesa, facilmente trascorre
all’offesa; nondimeno l’Iliade stessa ce la presenta come un male
rovinoso che si abbatte per triste decreto del fato sugli uomini. Nella
sua rappresentazione simbolica essa appare, quasi come più tardi nel
grande quadro di Rubens, scortata e corteggiata dallo spavento e dalla
fuga, guidata dalla contesa che va compiendo la triste e dolorosa
opera sua[20]. Quegli stessi spettacoli di zuffe sanguinose, quasi
riflettute in uno specchio del disinganno, si risolvono in un quadro
di desolazione e di tristezza, onde pare che si svolga una voce ch’è di
pietà e di accusa.

    Qual di ricco padron nel campo vanno
    I mietitori con opposte fronti,
    Falciando l’orzo ed il frumento; in lunga
    Serie recise, cadono le bionde
    Figlie de’ solchi e in un momento ingombra
    Di manipoli tutta è la campagna:
    Così Teucri ed Achei, gli uni su gli altri
    Irruendo si mietono col ferro
    In mutua strage. Immemore ciascuno
    Di vil fuga, e guerrier contro guerriero
    Pugnan tutti del pari e si van contro
    Coll’impeto de’ lupi. A riguardarli
    Sta la Discordia e della strage esulta
    A cui, solo de’ numi, era presente[21].

Queste vite troncate lasciano nel verso del poeta, come nell’animo
di chi legge, un solco di dolore e quasi di rimorso, come di cosa
distrutta per sempre e che non si può rinnovellar più. Con un’immagine
semplice, ma tanto potente quanto evidente, Euforbo abbattuto è
paragonato a un fiorente olivo schiantato.

In quell’ultimo episodio della vita di Ettore, quando il guerriero,
lottando con tutti i tristi presentimenti, va incontro al duello e alla
morte, mentre invano cercano distorglielo Priamo ed Ecuba; in quella
scena del guerriero già fiorente di bellezza, di gioventù, di valore e
ora spento, spogliato, trascinato a ludibrio intorno alle mura della
città ove doveva regnare, mentre i genitori seguono con la vista il
duello, ansiosi e impotenti ad aiutare, e poi veggono di un tratto il
figlio rapito alla patria, alla vita, allo sguardo, agli ultimi baci;
in questa come nella inarrivabile scena delle Porte Scee, il poeta non
solo raggiunge la più alta vetta dell’arte, ma riesce, volendo o no, ad
inspirare, in questo stesso canto di guerra, tale orrore della guerra,
quale forse non si riesce a sentire nemmeno innanzi alla figurazione
plasticamente e immediatamente suggestiva di un quadro come quello
di Landseer, nemmeno — e chi può dimenticarla? — innanzi alla visione
diretta di vite precocemente e violentemente abbattute.

E l’Odyssea è come la proiezione sin nella casa lontana e l’epilogo di
questo inumano conflitto, di questo inestinguibile bisogno di pace. Le
ansie e i dolori di Laerte, di Penelope, di Telemaco sono lo specchio
de’ dolori e delle ansie di tutte le famiglie invano aspettanti il
guerriero che combatte lontano; il lamento cruccioso del padre di
Antinoo è l’eco di tutti i lutti e di tutti i danni di tutto un popolo
avvolto in una guerra[22].

Il pensiero della suprema vanità di una vita di conflitti e la suprema
e sola verità di una vita benefica sembrano sgorgare come ultimo e
migliore insegnamento di tanti casi fortunosi e di tante tristi e varie
esperienze:

    Cose brevi son gli uomini. Chi nacque
    Con alma dura e duri sensi nutre,
    Le sventure a lui vivo il mondo prega
    E il maledice morto. Ma se alcuno
    Ciò che v’ha di più bello ama, ed in alto
    Poggia con l’intelletto, in ogni dove
    Gli ospiti portan la sua gloria, e vola
    Eterno il nome suo di bocca in bocca[23].

Che cosa sono gli avvolgimenti e le glorie e le fortune e i casi della
guerra di Troia e che cosa divengono di fronte all’immagine del tetto
domestico, che torna a lampeggiare per un momento dinnanzi agli occhi,
di fronte al senso della vita che risorge e si afferma in tutta la sua
forza!

Ecco Ulysse che omai

          ..... non brama che veder da’ tetti
    Sbalzar della sua dolce Itaca il fumo
    E poi chiuder per sempre al giorno i lumi[24].

E Achille:

    Non consolarmi della morte, o Ulisse,
    Replicava il Pelide. Io pria torrei
    Servir bifolco per mercede a cui
    Scarso e vil cibo difendesse i giorni,
    Che del mondo defunto aver l’impero[25].

E, se talora si riaffaccia il pensiero della guerra, ecco una voce
divina, altra volta incitatrice, che ora ammonisce:

            ..... O generoso,
    Così la Diva, di Laerte figlio,
    Contienti e frena il desiderio ardente
    Della guerra che a tutti è sempre grave,
    Non contro te di troppa ira s’accenda
    L’onniveggente di Saturno prole[26].

E l’ospite diventa sacro, sacro lo straniero che chiede protezione[27],
e attraverso e contro Polifemo, attraverso e contro

    De’ Giganti..... oltracotata
    Progenie rea che per le lunghe guerre
    Tutte col suo re stesso alfin si estinse[28],

a compiere il profilo ideale del quadro, come l’ultimo lembo indistinto
dell’orizzonte, caro all’occhio che ama carezzarlo di lontano, caro
alla fantasia che ama cingerlo e popolarlo de’ suoi sogni, si disegna
la remota e ideale isola de’ Feaci ignara della guerra, ospizio della
pace.

    Mirar credeste di un nemico il volto

dice Nausicaa alle compagne sorprese e spaventate dalla vista
inaspettata di Ulysse naufrago.

    Non fu, non è, e non fia chi a noi s’attenti
    Guerra portar, tanto agli Dei siam cari.
    Oltre che in sen dell’ondeggiante mare
    Solitari viviam, viviam divisi,
    Da tutto l’altro della stirpe umana[29].

E, a compiere con un ultimo tocco, l’azzurra visione:

            ...... che de’ Feaci
    Non lusingano il core archi e faretre
    Ma veleggianti e remiganti navi
    Su cui passano allegri il mar spumante[30].

Ma lo stesso poema, che, precorrendo con la fantasia e col desiderio
la realtà, carezzava immagini lusingatrici di pace e fingeva in
beate solitudini pacifiche popoli al riparo della guerra, formicolava
tutto di agguati da sventare, di pericoli da schivare combattendo,
di Giganti, di mostri, di avidità cieche, di amori prepotenti, di
oppressioni intollerabili e impazienti della rivendicazione e suonava
tutta attraverso di esso

    La forza invitta dell’ingordo ventre
    Per cui cotante l’uom dura fatiche
    E navi arma talor che guerra altrui
    Dell’infecondo mar portan su i campi[31].

Sicchè il poema universale riusciva così a cogliere anche meglio in
tutti i suoi contrasti, nelle sue angustie e nelle sue aspirazioni,
nella sua forma concreta e nella sua proiezione ideale la vita del
tempo in mezzo a cui sorgeva o si andava svolgendo o modificando.

Un altro poeta ora compariva che, raccogliendo il sentimento di
orrore della guerra, andava anche più in là, guardando a fondo di
quel contrasto e indicando, con le origini della guerra, il modo di
eliminarla.

In Esiodo la guerra torna con lo stesso triste accompagnamento
simbolico che ricorre in Omero, scortata dalla Morte, dalla Contesa,
dal Tumulto, dal Terrore, dalla Fame, vigilata dalle Parche, con le
donne che dalle torri piangono e si lacerano le guance alla vista
della strage e i vecchi trepidanti per la vita de’ figli; e, anche
nello scudo di Eracles, il poeta si compiace a figurare pacifiche
scene campestri di mietitori che falciano il pingue raccolto[32] e
di vendemmiatori che tripudiano nell’abbondanza della vendemmia[33].
Gli stessi paragoni omerici degli avvoltoi, de’ leoni, del cignale,
de’ massi che precipitano ruinosamente[34], se sono adoperati ancora
a descrivere il conflitto di due combattenti, sembra quasi che vi
ritornino per accrescere l’orrore della cosa, senza che il poeta
s’indugi, compiacendosi per artistico godimento, a lumeggiare in tutti
i loro contorni quelle scene mirabili di terribile grandiosità e di
drammatico furore.

Il segreto dell’avvenire, della fortuna, della vera prosperità è per
Esiodo riposto nella giustizia. «Quelli che s’inspirano alla giustizia
ne’ loro rapporti con gli stranieri e con gl’indigeni e in niente
si dipartono dal giusto, quelli vedono fiorire lo Stato e il popolo
prosperare dentro di esso; pel paese è la pace altrice di giovani, nè
Zeus dall’ampio volto va macchinando per essi una terribile guerra,
nè mai con gli uomini giusti si accompagna la fame o la sventura
vendicatrice; si spartiscono bensì ne’ banchetti festivi il frutto
sudato del loro lavoro. Per questi la terra porta abbondante alimento
vitale, la quercia ne’ monti dà ghiande dal vertice e api dal seno,
le pecore vellose sentono il peso della lana abbondante, le donne
partoriscono figli simili a’ genitori, ed essi prosperano continuamente
ne’ beni, nè vanno errando sulle navi, chè il campo donatore di
frumento reca la sua messe»[35].

E indi soggiunge: «o Perse, tu figgiti bene in mente tutto questo
e sii ligio alla giustizia e tieniti completamente alieno dalla
violenza. Poichè questa norma impose agli uomini il Cronìde: che i
pesci, le fiere, gli uccelli possono divorarsi tra loro, dacchè non vi
è giustizia tra essi; ma agli uomini dette la giustizia ch’è la cosa
di gran lunga più bella. E se qualcuno, sapendo, voglia parlar cose
giuste, a lui Zeus dall’ampio volto dà la prosperità..... Sapendo delle
nobili cose, io te le dico, o gran buon Perse».

E prosegue, infatti, incitandolo al lavoro: «Lavora, o Perse, lignaggio
divino, affinchè la fame t’abbia in orrore e t’ami invece la ben
coronata Demetra pudica ed empia di alimento il tuo magazzino. Poichè
la fame è assolutamente degna consorte dell’uomo inoperoso. Con lui
si sdegnano uomini e Dèi perchè vive inerte, simile nell’orgoglio a’
fuchi, che, mangiando oziosi, distruggono quello che a gran pena le
api hanno fatto lavorando: a te sia caro attendere ad opere adeguate,
perchè, a tempo opportuno, i granai ti si riempiano di viveri.
Lavorando gli uomini divengono ricchi di gregge e ragguardevoli, e
lavorando sarai molto più caro agl’immortali e agli uomini, poichè
essi hanno assai in abbominio gl’ignavi. Il lavoro non fa vergogna:
fa vergogna l’inerzia. Che se lavorerai, ben presto ti emulerà
l’ozioso vedendoti ricco: alla ricchezza si accompagnano e forza e
gloria [che tu sia tale per la divinità! assai meglio è lavorare, se
volgendo l’animo improvvido da beni alieni al lavoro, cercherai di
tirare innanzi come io ti comando]...... le ricchezze non si debbono
acquistare per rapina: molto migliori son quelle largite dalla
divinità. Poichè, se anche alcuno riesca a fare, per violenza di mano
una grande fortuna, o depredi col mezzo della lingua, come molte volte
accade, quando lo spirito di guadagno inganni l’animo negli uomini
e l’impudenza discacci il pudore; facilmente gli Dèi l’accecano e
l’azienda domestica va a male per un tale uomo, e dopo poco tempo se ne
va la fortuna»[36].

Il poeta che odia la rapina come «apportatrice di morte», ha fede
invece nell’opera produttiva assidua e non interrotta, e crede
nel risparmio e l’inculca. «Poichè, quando tu aggiunga anche il
poco al poco e faccia ciò spesse volte, ben presto il poco diverrà
assai: quei che aggiunge a ciò che già vi è, quegli scaccia la fame
divoratrice»[37].

Esiodo fa quindi dipendere la pace e il fiorire della famiglia e della
società da questo indirizzo per cui l’uomo, anzi che volgersi alla
rapina, sviluppa egli stesso col suo lavoro la produzione e crea per
opera propria e senza danno degli altri il suo benessere. Il poeta è
tanto compreso di questo modo di vedere, che l’età di Crono, l’epoca in
cui gli uomini vivono senza violenza e senza offese, a lungo, tra danze
e banchetti, onorando gli dèi, morendo in tarda età con la placidezza
di chi si assopisce nel sonno, è anche il tempo in cui «il campo datore
di frumento portava da sè, spontaneamente (αὐτομάτη) frutto largo,
abbondante; ed essi di buon animo e pacifici si ripartivano i lavori
con i molti valenti, ricchi di greggi, cari agli dèi immortali»[38].

Esiodo veramente non si dissimula l’antagonismo, onde germogliano le
contese tra gli uomini, ma lo concepisce sotto un doppio aspetto e
mira a formularlo ed educarlo nella sua manifestazione più civile:
«Non una sola dunque era la specie delle contese, ma ve ne sono due
sulla terra: l’una da chi sa può essere trovata degna di lode, l’altra
è biasimevole, e tengono l’animo diviso. L’una proterva, fomenta la
triste guerra e la pugna; e il mortale non l’ama, ma, sotto l’impero
della necessità, per divisamento degli dèi, onora la grave contesa.
L’altra la generò per la prima la notte tenebrosa, e il Cronìde che
regna dall’alto, abitando nell’aria, la pose nelle radici della terra
molto migliore fra gli uomini. Questa eccita anche l’inerte al lavoro.
Poichè alcuno bramoso di lavoro, credendo un altro ricco, si affretta
ad arare e seminare e ben tenere la casa; e il vicino emula il vicino
che si va facendo ricco. Questa contesa è buona per gli uomini. E il
vasaio ha il senso d’emulazione del vasaio e il muratore del muratore e
il mendico invidia il mendico e il cantore il cantore»[39].

Ma purtroppo quest’altra forma più civile di contesa, che si presentava
da prima come un diversivo e un sostitutivo della guerra, questa
concorrenza, per dirla con parola moderna, non tardava anch’essa
a metter capo e degenerare nella guerra, riardente poi più vasta e
furiosa per l’inevitabile conflitto verso cui spingeva gl’interessi
opposti la disputa di quella ricchezza, che, neppure intesa sempre nel
suo buon senso economico, era a dire del poeta come «l’anima de’ miseri
mortali, e, non paghi o non alimentati a sufficienza dal frutto della
terra, li spingeva lontano, inconsideratamente, verso tutti i rischi
della navigazione[40].

Così, a chi legge i versi di Esiodo par di sentirsi trasportato in una
di quelle verdi e chiuse valli di Grecia, dove la fecondità del suolo,
la semplicità della vita, il clima temperato sembrano invitare ad una
vita di raccoglimento, nella pratica della giustizia, nel culto degli
dèi, nella pace della famiglia. Ma, di tratto in tratto, una tribù di
predoni, in un’audace scorreria, faceva man bassa su messi ed armenti;
e, se, respinto l’aggressore dalla montagna, ove l’aveva inseguito,
il valligiano si fermava per un momento a guardare lo sterminato
orizzonte nuovamente dischiuso alla vista, l’animo da prima allietato,
era poi sopraffatto da una nuova impressione. Un germe di scontento,
un fomite d’inquietudine penetrava, attraverso quella nuova gloria di
sole e di azzurro, nel cuore. Dietro l’ultima linea dell’orizzonte,
dove il mare tutto fiorito d’isole andava a confondersi col cielo, era
l’ignoto, donde come da un agguato si sarebbero svolte le falangi e le
armate di Dario e di Serse; a un estremo opposto era la Sicilia, piena
di lusinghe, piena di pericoli; e una lontana eco nell’aria pareva
ripercuotere un altro canto che non fosse la didascalia idillica di
Esiodo; pareva ripetere il canto di Alceo fremente d’ire civili, il
canto di Tirteo triste come il grido notturno di una scolta, irrompente
come un incitato cavallo di battaglia. Tutta una folla di incertezze
che si assiepava alla mente, tutto uno stuolo di vaghi e oscuri
presentimenti che si aggravava sull’anima.




III.

Nel regno della guerra.


Il canto caratteristico degli Spartani — una delle poche manifestazioni
artistiche prodotte o assimilate in quell’ambiente — è un canto di
guerra, voce fedele di tutta quella vita. «È bello per un uomo valoroso
morire cadendo tra quelli che pugnano in prima fila, combattendo per
la propria patria»[41]. Ed è canto di una guerra combattuta per le
are e per i fuochi, per la propria esistenza: lo dice la prospettiva
evocata a contrasto di quella libera morte. «La cosa più triste è,
dopo aver lasciato la propria città e i pingui campi, pitoccare vagando
con la cara madre e il vecchio padre e i piccoli figliuoli e la sposa
pudica. Poichè ad essi sovrasterà il nemico, facendo luogo per que’
che raggiunga al bisogno e alla spaventosa povertà, mentre disonora la
schiatta, offende il nobile volto e ne seguono disonore e sventure.
Se adunque per un uomo vinto non vi è niente di bene, nè ritegno, nè
rispetto, nè compassione, combattiamo con coraggio per questa nostra
terra e moriamo per i figli, non avendo riguardo alla vita»[42].

Questo grido pare che non faccia altro se non ripercuotersi per tutta
la storia greca dalla valle dell’Eurota, accompagnato da uno strepito
d’armi.

«L’intero sistema delle leggi — dice Aristotile — è rivolto ad _una
parte_ della virtù, a quella bellica».

Sparta ci presenta il tipo più completo e meglio conservato di una
divisione di lavoro e di una conseguente specificazione di funzioni
e di organi, per cui una popolazione di soggetti attendeva alla
coltivazione della terra, provvedendo l’alimento, mentre una più
ristretta popolazione di dominatori esercitava il comando coltivando
l’esercizio delle armi.

Come si arrivasse a questo, è materia d’ipotesi, abbandonata, in
mancanza di prove e tradizioni sicure, all’induzione.

Quel che di sicuro la storia ci presenta, è Sparta cinta da presso da
una classe di servi della gleba, addetti all’agricoltura, più lungi da
una varia popolazione di perieci, posti sotto la sovranità anzi che in
servitù della capitale.

Una vita economica più progredita, quale poteva sorgere specialmente
in un paese marittimo, aveva spazzato via altrove — ad Atene, per
esempio, dove ne troviamo traccia[43], — questo rudimentale sistema
di sfruttamento, sostituito ben presto dalla schiavitù e dagli
altri impieghi di un capitale crescente; la posizione geografica,
invece, della Laconia, la stessa fecondità del suolo, che non esigeva
importazioni, nè stimolava con l’inadeguatezza sua l’industria degli
abitanti, aveva reso nella Laconia persistente e duratura quella forma
sociale rudimentale e primitiva. E questa condizione di cose faceva,
per necessità, di Sparta come un esercito in armi, della sua vita
come una milizia permanente, adattando a quello scopo permanente,
inevitabile e supremo, gli usi stessi e le norme consuetudinarie di
vita e di governo, che nella tradizione, non solo più lontana, di
Plutarco, ma più vicina anche, di Senofonte e Aristotile, dovevano
apparire come un voluto e ben congegnato sistema di vita politica e
sociale.

Questa stessa precipua educazione alle armi, intanto, specie in un
periodo di assidua lotta pel mutuo assoggettamento, si convertiva
naturalmente in occasione e scintilla di guerre.

Il conflitto con la Messenia — il più antico e rimasto forse il più
memorabile nella tradizione — fu forse, dal canto di Sparta, una
scorribanda di una popolazione crescente di numero e di ardire sulle
invidiate terre di un popolo vicino, rese tentatrici dalla loro stessa
ubertà? O fu un duello di vita e di morte, come solevano accaderne,
specie nell’antichità, di due popoli che volevano reciprocamente
sopraffarsi ed eliminarsi?

Comunque, da quella lotta Sparta uscì trionfatrice e dominatrice,
come dalle successive lotte con gli altri popoli confinanti uscì più
temprata, più addestrata, più forte e adatta ad arrogarsi ed esercitare
quell’egemonia e quel potere, per così dire, arbitrale, a cui s’inspira
d’ora innanzi la politica e l’azione di Sparta.

Agesilao, il grande re spartano, aveva detto in un’occasione che, più
de’ doni de’ nemici, gli Spartani amavano conquistarne le spoglie,
e, altra volta, parafrasando de’ versi d’Ibria, aveva risposto a chi
gli chiedeva fin dove giungessero i confini della Laconia, scuotendo
la lancia e dicendo: «Fin dove questa arriva»; — ma egli stesso
altra volta aveva pur detto: «meglio custodire la libertà propria che
toglierla agli altri»[44].

E infatti, a misura che si allontana dalla guerra necessaria,
la politica spartana va perdendo sempre più l’impronta e le mire
conquistatrici. La mancanza di mezzi per sostenere guerre lunghe e
lontane, il numero limitato della popolazione, disadatta ad eserciti di
occupazione, l’indirizzo di vita alieno dall’agricoltura e da’ commerci
che permettevano di occupare colonizzando e trafficando, la soggezione
spesso minacciosa degli Stati, erano tutte cose che distoglievano da
una politica conquistatrice.

Ora, in un periodo della storia, in cui, quasi come per un dilemma
senza uscita, si era o conquistati o conquistatori, l’unica via di
mezzo doveva consistere nel sapere imporre e mantenere un equilibrio,
che paralizzasse le velleità conquistatrici di uno con quelle
dell’altro, o, all’occorrenza, col _quos ego_ di un’autorità e, specie,
di una forza superiore.

Di qui quel diritto d’intervento di Sparta non solo nelle contese
esterne, ma anche nella politica interna degli altri Stati,
specialmente la sua azione avverso le due forme politiche, in apparenza
opposte, della tirannide e della democrazia.

La tirannide, una forma anticipata di cesarismo, realizzata nell’ambito
circoscritto di un piccolo Stato, di un Comune, era un principato
a base popolare e un termine di passaggio dalle oligarchie e dalle
aristocrazie, di cui segnava la decomposizione, alla democrazia, cui
era costretta a cedere il campo. Essa era un fenomeno di reazione
impulsiva e disordinata contro le aristocrazie sfruttatrici, da parte
di tutte le altre classi della popolazione, in parte crescenti di
numero e di ricchezza, in parte premute dal bisogno, che escluse,
interamente o quasi, di diritto o di fatto, dalla partecipazione
a’ pubblici poteri, servivano col loro senso d’inquietudine
d’inconsapevole strumento all’ambizioso il quale voleva e sapeva
giungere ad avocare a sè il supremo potere. La coscienza sempre più
prevalente de’ proprî diritti e delle proprie forze nella massa della
popolazione, l’ampliarsi del ceto commerciale e la formazione di un
proletariato cittadino, gli eccessi del principato gravosi anche alla
piccola proprietà, prima di tutti a sentire in modo più visibile
gli effetti di un qualunque stato di malessere e di crisi; tutte
queste cose, scalzando poi alla loro volta la forma transitoria della
tirannide, approdavano il più delle volte al regime democratico.

Ora, la stessa necessità imposta dalla loro origine a queste due
forme politiche, il bisogno di assicurare un largo campo di azione
al commercio, uno sfogo alla popolazione crescente, il bisogno di
estendere il beneficio del parassitismo a tutto il popolo, spingevano
naturalmente, così le tirannidi come le democrazie, a una politica di
espansione, sia sotto la forma diretta di conquiste che sotto quella di
egemonia politica. La tirannide un po’ meno, in quanto corrispondeva
a una condizione sociale meno bisognosa di espansione e provvedeva al
disagio interno in parte anche con le confische de’ beni di emuli ed
avversarî sbanditi; la democrazia anche di più, non foss’altro che per
lo sviluppo maggiore di tutte le tendenze all’espansione e perchè non
doveva nemmeno guardare all’interno con la preoccupazione paurosa del
principe.

Le aristocrazie invece, specie sotto la loro degenerazione oligarchica,
monopolizzatrici del potere e delle risorse interne del paese, aventi
radice nella proprietà fondiaria che meno si giova e meno è adatta a
imprese lontane ed arrischiate e più sente il danno di un’invasione
nemica, paralizzata per dippiù all’interno dalle altre classi spesso
anelanti alla riscossa, erano naturalmente avverse a una politica di
espansione; e, se guerre facevano, in periodi in cui uno Stato periva
della guerra ma con la guerra si preservava la vita, erano guerre
necessarie, per lo più di confine, a scopo di difesa, o dirette a
rintuzzare un nemico petulante, ad arrotondare magari a sue spese il
territorio.

S’intende quindi come Sparta, e durante la sua prima egemonia e in
seguito all’esito vittorioso della guerra del Peloponneso, mirasse
dovunque a combattere, secondo i tempi, tirannidi e democrazie e ad
instaurare aristocrazie, in apparenza facendo — come piaceva menarne
vanto — la causa della libertà, in realtà facendo con ciò una politica
esterna, che non solo garentiva la sua integrità e la sua indipendenza
ma ne assicurava anche l’egemonia.

Senonchè l’azione di Sparta si dirigeva sugli effetti, mentre
alla costrizione sua, ed a qualunque altra, sfuggivano le cause
vere, permanenti, che con loro azione lenta ma continua, se anche
dissimulata, mutavano la faccia e la base del mondo ellenico; e,
mentre Sparta era tutta assorbita in quest’opera di pura conservazione,
l’incremento continuo delle colonie allargava i termini e il campo del
mondo ellenico, il commercio si estendeva acquistando un’importanza
sempre più prevalente, il centro di gravità della vita e della
potenza politica si spostava verso il mare, e la lega marittima sorta
dall’urto, nell’aspettativa così pauroso, dell’invasione persiana,
sfuggiva di mano a Sparta per divenire l’imperio marittimo di Atene ed
elevare di fronte a Sparta la rivale più potente, più fortunata, più
gloriosa.

La guerra del Peloponneso, la grande guerra incendiatrice di tutta la
Grecia, era quindi alle viste; e da’ mirabili discorsi, che Tucidide
mette in bocca agli ambasciadori corintî, agli ateniesi, a Pericle,
ne appare subito — al disopra delle cause occasionali — il carattere
inevitabile e decisivo.

Ma da tutti quei discorsi, che pure rivelano e rispecchiano la
situazione del tempo e degli Stati, si ha una curiosa impressione,
in quanto si vede che, mentre Sparta è il centro su cui si appuntano
tutti gli sforzi, per procrastinare o affrettare, per determinare
o scongiurare la guerra, essa è l’arbitra ma non la chiave della
situazione; è lo strumento, non l’anima della guerra. Sparta fa la
parte di contrappeso, che, venendo meno, trae seco molt’altro nella
ruina; è la miccia, che al tempo stesso separa e congiunge il deposito
delle polveri e la scintilla, ma, se anche è in poter suo rallentarne
l’accensione, non è in poter suo stornarne lo scoppio.

E non può essere considerato come un semplice artifizio letterario,
se l’incitamento vivo e replicato alla guerra è messo in bocca agli
ambasciadori di Corinto, non solo danneggiata immediatamente nel suo
amor proprio e ne’ suoi interessi di metropoli, ma minacciata ancor più
nella sua vita commerciale.

In questo discorso posto in bocca a’ Corintî è colto al vivo e messo
perspicacemente in luce, sin dall’esordio, il vizio fondamentale
della politica spartana di corta veduta, egoista. «La confidenza, o
Lacedemoni — essi dicono[45] — che avete nella vostra costituzione e
nella vostra concordia vi rende, per così dire, più diffidenti verso
gli altri; e da ciò traete una certa saggezza, ma vi conducete con
maggior ignoranza quanto alle cose esterne». E soggiungevano poco
dopo: «Soli degli Elleni, o Lacedemoni, restate tranquilli non tenendo
lontani altri con la potenza ma temporeggiando, e soli non ricacciando
la potenza de’ nemici, mentre è sul cominciare, bensì quando si è
ingrandita»[46]. Movendo quindi da un concetto opposto delle cose e
della vita, che apparecchia la guerra durante la pace nella fiducia
o nell’illusione di assicurare con la guerra la pace[47], additavano
tutto il pericolo di questi Ateniesi irrequieti di cui «giustamente
si potrebbe dire che non sanno aver pace nè la lasciano avere agli
altri uomini»[48]. «Ora gli Ateniesi stanno a paro di tutti noi presi
insieme e per quanto riguarda la città sono anche più potenti: cosicchè
se tutt’insieme, ogni popolo, ogni città, con unanime consiglio non
li oppugnamo, ci soggiogheranno, divisi, senza fatica. E, se anche sia
spaventevole ad udire, si sappia che l’essere vinti non porta altro che
una pretta schiavitù»[49].

E a quest’invocazione de’ Corinti rispondeva da parte degli Spartani
una duplice e diversa voce: una, temporeggiatrice, ligia alla politica
tradizionale, di troppo calcolata prudenza; l’altra, che, mostrandosi
tocca del pericolo degli alleati, credeva di meglio intuire il
pericolo proprio e di combatterlo più efficacemente mentre era ancora
relativamente lontano. L’una era la voce di Archidamo, che, da un lato
preoccupandosi de’ possibili danni impendenti allo stesso Peloponneso,
dall’altro della difficoltà della guerra, diceva: «Rispetto a’
Peloponnesiaci e a’ vicini la nostra potenza è di pari natura, e
rapidamente si può muovere verso ciascuno di essi: invece rispetto a
quelli che abitano un paese lontano e hanno perizia del mare e sono ben
provveduti di tutte le altre cose, ricchezza sia privata che pubblica,
e navi e cavalli e armi e popolazione, quanti non ve ne sono in ogni
altro paese ellenico e hanno ancora alleati molti soggetti a tributo,
contro questi come si può sollevare a cuor leggiero una guerra e, in
che cosa fidando, si può assalirli impreparati?»[50]. E conchiudeva:
«Questi metodi prudenti dunque che i padri nostri ci legarono e de’
quali ci siamo sempre giovati, non li trascuriamo, nè deliberiamo a
precipizio, nel breve spazio di un giorno, bensì con calma, di molte
vite e sostanze e città e fama»[51].

L’altra era la voce dell’eforo Stenelaida, che con laconica concisione,
guardando in faccia alla situazione e riassumendola conchiudeva
senz’altro: «Deliberate dunque, o Lacedemoni, com’è degno di Sparta, la
guerra, e non lasciate che gli Ateniesi divengano ancora più potenti,
nè tradiamo gli alleati, ma con l’aiuto degli dèi moviamo contro gli
oppressori»[52].

Così il grande duello fu ingaggiato, un duello, che secondo le
condizioni de’ tempi, si potrebbe chiamare anch’esso «della balena e
dell’elefante».

E all’elefante rimase la vittoria, ma una vittoria di cui apparve
subito tutta l’inconsistenza e la sterilità.

Nella replica a’ Corintî, che Tucidide fa pronunziare agli Ateniesi,
questi, facendo la franca notomia della loro sovranità e del
malcontento da essi suscitato, dicevano rivolti a’ Lacedemoni:
«Voi adunque, o Lacedemoni, vi conduceste rispetto agli Stati del
Peloponneso secondo l’utile vostro; e se allora, seguitando a rimanere,
vi conducevate come noi nell’egemonia [della lega marittima], sappiamo
bene che non meno di noi sareste divenuti gravi agli alleati e vi
sareste veduti costretti o a reggere vigorosamente, o a pericolare voi
stessi»[53]. «.... E se, rovesciando noi, prendeste voi il comando,
subito vedreste cambiato il sentimento di benevolenza che vi siete
accaparrato per la paura che si ha di noi, come mostraste nel tenere
il comando per breve tempo contro i Persiani; come ancor ora vedeste,
poichè voi avete sistemi vostri proprî distinti da quelli degli altri
e, uscendo fuori, ciascuno di voi, isolatamente, non si conforma nè ad
essi nè a quelli adottati da tutto il resto della Grecia»[54].

Se Atene si era venuta arrogando un potere sempre più assoluto sugli
alleati, già aderenti spontaneamente alla prima lega marittima, sino
al punto di diventarne la signora; è pur vero che aveva cercato di
dissimulare, fin dove era possibile, tutte le durezze di un simile
stato di cose con tutti i miraggi e i lenocinî, che fanno tollerare
e qualche volta perfino aver cara la soggezione. In Atene tutti
quei soggetti, chiamati ancora con uno studiato eufemismo alleati,
trovavano come il punto d’applicazione del loro orgoglio nazionale e
l’assicurazione del mare dischiuso e garantito a’ loro commerci: da
Atene, il loro contributo di denaro e di forze tornava ad irradiarsi
come lume di civiltà, come splendore di arte, come gloria letteraria,
come ardimento di pensiero; onde la città di Pallade era lume e fuoco
di tutta la razza, l’educatrice e il tirocinio di tutta l’Ellade, come
la voleva Pericle.

Gli stessi rapporti continui, fomentati da’ commerci, dalle ricorrenti
feste religiose, dall’alta giurisdizione ateniese, mescolavano,
fondevano, anche, spesso, tutti quei diversi elementi di quell’imperio
marittimo, in modo che, come si vide poi, con la lusinga di misure meno
vessatorie e sotto forma più attenuata, potè risorgere per così dire
dalle sue ceneri stesse.

L’egemonia di Sparta, invece, conservando tutte le durezze del dominio,
ne manteneva pure tutte le forme e pretendeva estendere una disciplina
rigorosa sugli alleati, che non potevano concepire Sparta — chiusa e
impenetrabile a loro, repellente quasi a’ loro stessi contatti — se
non come una padrona gelosa, messa in rapporto con gli altri popoli
unicamente e specialmente dall’opera dilapidatrice e oppressiva de’
suoi armosti.

Questa mancanza di virtù assimilatrice da parte di Sparta, che le
impediva di ringagliardirsi e rinnovarsi assorbendo elementi vitali
dall’esterno; questa sterilità del suo predominio, questa incapacità di
convertire la stessa vittoria nella conquista e di sapere usare della
vittoria dopo averla ottenuta; rendevano di necessità precario ogni
suo trionfo, inorganica e incoerente ogni sua creazione politica; e
bastava una vittoria come quella di Cnido per iscalzare la sua egemonia
e fare risorgere d’un tratto quasi più potente la sua antica rivale,
di cui poco prima pur s’erano smantellate le mura, distrutte le flotte,
violati il territorio e la libertà.

La stessa lode di mitezza e di magnanimità, che un oratore
laconizzante[55] amava tributare a Sparta per avere impedito che
Atene, dopo la sua sconfitta, venisse rasa al suolo e spiantata dalle
fondamenta, più che a generosità era dovuta a calcolo politico di
uno Stato che fondava la sua esistenza sugli antagonismi degli altri
Stati e quindi si limitava a deprimere un rivale anzi che annientarlo
per conservarlo ancora come una minaccia e un competitore agli altri
rivali. Ma questo calcolo appunto rivelava appieno quanto fosse sterile
e negativa la politica spartana, inetta a ridurre sotto di sè tutta
la Grecia e destinata ad essere solo una forza disintegratrice e
dissolvente verso ogni opposto tentativo di unificazione.

A misura, intanto, che gli anni sussecutivi alla guerra del Peloponneso
ne venivano svolgendo e mostrando gli effetti, da un lato se ne
sentivano tutte le conseguenze disastrose, dall’altro ne appariva
sempre più fallita la mira di por fine a’ conflitti dell’Ellade con
una guerra decisiva, che mettesse stabilmente l’egemonia in uno degli
Stati.

Sicchè alla politica, come oggi si direbbe, «imperialista»,
politica di conquista, di assorbimento o di dichiarata supremazia;
succedeva, con un sentito desiderio di pace, l’ideale di un autonomo
particolarismo, per cui tutti gli Stati vivessero in una condizione
di mutua indipendenza. E questa politica, che rispondeva a meraviglia
agli interessi presenti della Persia e a cui la Persia sembrava aver
condotto col tenere in lizza, gli uni contro gli altri, gli Stati
rivali, ebbe per opera del Gran Re la sanzione forzata nella pace così
detta di Antalcida (387-6 a. C).

Ma, come più diffusamente si rileverà appresso trattando delle vicende
della pace e della guerra in Atene, non era quello il tipo in cui ogni
Stato potesse restringersi in sè per potere e sapere attendere con
le risorse sue proprie a tutte le crescenti esigenze della vita; nè
quel particolarismo costituiva l’ambiente più favorevole allo sviluppo
degl’interessi commerciali sempre più prevalenti; nè prometteva lo
schermo più efficace contro i pericoli e le minacce esterne più o meno
vicine.

Così quella riaffermata autonomia con tutte le sue proteste
ed aspirazioni di pace tornava a degenerare nella guerra; e
l’indipendenza, asserita in diritto, era continuamente violata o
minacciata in fatto.

Onde accadeva che Andocide potesse iniziare l’orazione a noi giunta
sotto il suo nome col dire (392 a. C.): «O Ateniesi, tutti sapete,
mi sembra, come è meglio fare una pace giusta che non fare la guerra;
ma non tutti mi sembra che vi accorgiate come gli oratori, a parole,
consentono nella pace, in realtà, contrastano quelle cose onde verrebbe
la pace»[56].

E al congresso per la pace, tenuto nel 371 a C. a Sparta e finito
anch’esso in una guerra, Senofonte poteva mettere in bocca ad uno
degli oratori ateniesi, ad Autocle, queste parole: «O Lacedemoni, non
ignoro che non vi riusciranno gradite le cose che mi accingo a dire; ma
mi sembra che quanti vogliono duratura l’amicizia, che si propongono
fare, debbono reciprocamente illuminarsi delle cagioni delle guerre.
Voi dite sempre che gli Stati debbono essere autonomi, e intanto voi
massimamente vi fate impedimento alla loro autonomia. Poichè, prima
di ogni altra cosa, pattuite con gli Stati alleati che vi debbono
seguire dovunque voi volete. Or questo come conferisce all’autonomia?
Dichiarate la guerra senza prima averne tenuto consiglio con gli
alleati e li fate entrare in campagna, così che di frequente i così
detti autonomi sono obbligati a combattere contro i più amici. Ancora
— ciò che è più avverso di ogni altra cosa all’autonomia — stabilite
qua un governo di dieci, là di trenta; e non vi date pensiero che
questi governanti governino com’è debito, ma che possano con la forza
tener soggetti gli Stati; talchè pare che vi compiacciate piuttosto di
tirannidi che non di libere costituzioni. E quando il re [di Persia]
prescrisse che gli Stati fossero autonomi, dichiaraste con grande
sicurezza, che, se i Tebani non lasciassero ogni città governarsi
da sè e seguire le leggi che volesse, non si conformerebbero alle
prescrizioni del re [di Persia]; indi v’impadroniste della Cadmea e
non permetteste agli stessi Tebani di essere autonomi. Bisogna che
quanti si accingono ad essere amici non credano di doversi aspettare
l’osservanza della giustizia, per essere essi quanto più possono
prepotenti»[57].

Così questa preoccupazione dell’equilibrio politico e dell’autonomia
dei singoli Stati, in parte urtava contro la forza superiore delle
cose e i casi non preveduti della politica internazionale, in parte
diveniva un nuovo fomite di gelosie, di controversie, di dissensi; e il
quarto secolo in Grecia riarde tutto di queste guerre in cui a vicenda
si dilaniano i varî Stati della Grecia e in cui l’uno fa il giuoco
dell’altro, e tutti, sinchè non spunta il predominio macedone, fanno il
giuoco dell’Impero persiano.

Intanto dal giuoco di questo equilibrio sempre incerto e sempre
spostato — in cui gli amici di ieri divenivano i nemici di oggi e la
Persia, con l’esca di corruzioni private e di alleanze pubbliche, la
chiamava a combattere in Asia or come amico or come avversario — Sparta
era tratta ad avventure e guerre lontane, così poco conformi alle sue
forze e alle istituzioni, e avute prima in tanto orrore[58], perdendo
in questo nuovo diuturno conflitto uomini, forze, equilibrio interno e
la stessa sua ragione di essere.

Le antiche abitudini ne rimanevano ruinate, i vecchi sistemi di vita
ne rimanevano scossi, senza che si potesse indurre nell’ambiente patrio
una modificazione corrispondente, una innovazione che dell’antica vita
mutasse la base e ne costituisse una organica e normale alla nuova. Per
un circolo vizioso che suole naturalmente avere origine in questi casi,
la guerra diveniva, tanto più un fomite e uno sfogo di speculazione,
in fondo a cui vi era la rovina finale ma che intanto costituiva
individualmente un espediente. I vuoti, intanto, della popolazione
già decimata dalla guerra rimanevano scoperti o mal si colmavano in
una condizione economica in cui al crescente dissesto de’ più faceva
riscontro la concentrazione delle fortune in una cerchia sempre più
ristretta di persone. E questo stato generale dava luogo nel campo
politico a un’oligarchia sempre più ristretta, che si potè persino
calcolare di quaranta persone[59], a cui d’altro lato corrispondeva un
lievito di malcontento, di rivolte, di congiure[60].

Per tal via le città greche, logorate in un mutuo contrasto, si
ammiserivano, s’isterilivano, togliendo alimento a quel lume di
civiltà, che, dove ancora con guizzi ricorrenti scintillava più
bello, pareva simile agli aneliti luminosi della lampada che sta per
spegnersi.

Gli Stati ellenici andavano scivolando verso quello stato di cose di
cui diceva il poeta:

    _Et propter vitam vivendi perdere caussas._

L’impotenza di raccogliere tutte le energie del paese, sia sotto la
forma pacifica della cooperazione che sotto quella autoritaria del
dominio, faceva sì che i fati della storia — impulso intimo, più o
meno consapevole, della società cercante attraverso ogni sforzo un
migliore adattamento — passassero in mano al principato macedone, a
cui solennemente contrastando resisteva Atene, a cui sterilmente e
interrottamente recalcitrando si ribellava Sparta, e che pure, sapendo
solo raccogliere nelle sue mani un maggior fascio di forze, si mostrava
atto a raccogliere l’eredità della civiltà greca, non per continuarne
esso stesso la tradizione, ma per ispargerla, come fa l’agricoltore,
seme di una nuova messe, in campo più largo.




IV.

Pace e guerra nell’antica Atene.


Tra i popoli dell’antichità non ve ne è alcuno che più dell’ateniese
abbia lasciato così larga traccia, meglio anche che de’ grandi fatti
storici, del meccanismo della sua vita interiore, della sua maniera
di vivere giorno per giorno, de’ sentimenti, delle impressioni, delle
lotte destate dalle sue stesse condizioni materiali di esistenza. Il
teatro, la poesia, l’arte in generale, gli oratori, l’epigrafi ne sono,
in vario modo, un riflesso e una manifestazione genuina; e la storia
di Atene, comunque genialmente trattata, ben lungi dall’essere un
argomento esaurito, si presterà sempre ad essere ripresa, specialmente
ad ogni mutamento del modo di considerare e d’interpretare la storia.

Le due tendenze alla pace e alla guerra, discordi ed opposte, hanno
in Atene un singolare rilievo, e, ad intervalli ma con insistenza,
si riaffacciano per tre secoli della sua storia, riassumendo ne’
due diversi indirizzi il grado di sviluppo economico, i bisogni, la
potenzialità produttiva, le lotte di classi, le rivoluzioni politiche
dello Stato.

Tra il settimo e il sesto secolo, sull’aurora, si può dire, della
storia ateniese, quando la tradizione vaga e leggendaria comincia
a farsi più sicura e distinta, subito si presenta questo conflitto,
rispecchiato in uno de’ più antichi, se non nel più antico documento
della letteratura ateniese.

«Io stesso venni, araldo, dall’agognata Salamina, portando sulla piazza
il ben composto mio canto.

«Oh, fossi io allora Folegandrio o Sicinite piuttosto che Ateniese,
scambiando la patria; perchè potrà presto accadere che si cominci
a dire tra gli uomini: Costui è un Ateniese, di quelli che furono
cacciati da Salamina».

«Andiamo a Salamina, combattendo per l’isola ambita, scuotendo da noi
la vergogna sì triste a sopportare»[61].

È l’elegia di Solone: sono anzi i frammenti dell’elegia di Solone,
poveri ruderi e scarse reliquie; ma, attraverso di essi, la mente
ricompone il passato come, alla vista di un basamento seminascosto
dall’edera e di un capitello spezzato ricostruisce idealmente un tempio
antico.

La critica ha spogliati questi versi della leggenda, che la fantasia
popolare o quella de’ novellatori, era venuto tessendo intorno ad
essi[62]. Non tutti sono d’accordo nel ritenere se quella elegia
risponde ad un impeto di ardor giovanile, oppure, così ardente
com’è, fu l’espressione di un’anima che si serbava ancora agile ed
entusiastica in un corpo invecchiato[63]. Non si può giungere, altro
che per induzione, a dire come e quando Salamina venne in mano di
Atene, e se fu il premio di una guerra vittoriosa di Solone o di
Pisistrato, o, meglio, un fortunato acquisto dovuto a maneggi politici
ed arbitrati[64]. Tutti questi dubbi e queste incertezze possono essere
più o meno dissipati: in ogni modo, attraverso i pochi versi solonici,
si vede bene sullo sfondo del sesto secolo tutta la situazione
politica, interna ed esterna, dell’Attica.

Questo paese, i cui colli e le cui coste non si sono ancora andati
rivestendo di olivi, di fichi, di viti, è, finchè l’opera umana
non ne svolga gli ascosi tesori, povero ed infecondo. Rimpetto alle
limitate pianure, benedette da Demetra ed ove Demetra ha culto, stanno
le pendici arse o selvagge, che male alimentano dal loro sottile
strato di terra vegetale il frumento e per cui meglio s’aprono il
sentiero le capre e i loro custodi. Ma da quelle stesse pendici
e dalle cime de’ colli, quanto più la popolazione cresce e più si
sente il disagio della vita, si guarda con maggior senso d’invidia e
con ardore di desiderio più grande a Salamina, quella che anche più
di Egina potea dirsi un «_pruno nell’occhio del Pireo_»; si guarda
agli umidi ed infiniti sentieri del mare, cantati dal vecchio Omero
e solcati ora a gara dalle navi di Egina e da quelle di Megara. Il
bisogno dell’alimento, l’aspirazione al benessere, il desiderio di
trovare sfogo all’energie crescenti in secreto e anelanti a rivelarsi,
divengono inconsapevolmente la nostalgia del mare, il patriottismo e il
sentimento dell’onore cittadino, come ne’ versi di Solone. La prudenza
e la circospezione vengono in lotta con il bisogno di espansione e con
lo spirito di avventura; il desiderio dell’indispensabile o del meglio
lotta contro l’inerzia del soddisfatto; la corta vista del campagnuolo
urta contro i più larghi orizzonti del cittadino; il ricco proprietario
del piano e il piccolo proprietario ruinato della montagna, l’usuraio
della città e il marinaio della costa, l’artigiano e il proletario
vengono naturalmente in contrasto tra loro e costituiscono il soggetto
e lo strumento degli antagonismi che domineranno ed animeranno tutta la
politica interna ed esterna dello Stato.

Raccogliersi ne’ propri confini, tarpare le ali alle ambizioni e alle
brame, estrarre dal seno del proprio paese tutto quanto potesse dare,
rassodare e perfezionare all’interno tutta una struttura politica,
che, sotto l’ègida di un diritto positivo, facesse di una classe la
dominatrice di un’altra: — ecco la divisa e l’indirizzo di quelli che,
monopolizzando le forze produttive del paese, si sentivano naturalmente
tratti a favorire una politica di raccoglimento.

Rendere più agevoli i mezzi del proprio sostentamento e più proficuo
l’impiego di tutte l’energie; risolvere all’esterno quel problema,
che all’interno si poteva risolvere solo limitatamente, a vantaggio
di pochi e a danno di molti, e fare perciò del popolo ateniese il
parassita di altri popoli col commercio, con la conquista, con la
supremazia; tentare quindi nuove vie, irrompere al mare, spezzare la
cerchia in cui vicini e rivali tenevano stretta l’Attica: — ecco il
programma e il partito di quelli, a cui era precluso il possesso della
terra, o che nella terra non trovavano impiego sufficiente alla propria
ricchezza e alla propria energia, o che, in una struttura sociale
eminentemente parassitaria, lungi dall’essere i parassiti, erano
destinati, in patria, a dare a’ parassiti alimento.

In questo contrasto sta tanta parte della storia ateniese e non della
storia ateniese soltanto, i cui caratteri sembrano come virtualmente
contenuti in questo inizio del sesto secolo, nel quale, per la prima
volta, in forma sicura e distinta, Atene ci si presenta sotto questo
aspetto. E la prevalenza di uno o di un altro indirizzo, con tutte le
conseguenze politiche interne ed esterne che ne derivano, dipende dalla
possibilità di un diverso stato di prosperità interna e di una diversa
distribuzione della ricchezza. Gl’istinti più o meno bellicosi, le
forme di potere più o meno accentrato, le lotte di classi più o meno
prepotenti avranno come misura e come condizione lo sviluppo più o meno
sufficiente delle forze produttive interne, la necessità di trarre da’
paesi esterni i mezzi per soddisfare a’ proprî bisogni, il benessere
più o meno diffuso e più o meno agevole a raggiungere, la tendenza più
o meno sviluppata a qualsiasi genere di parassitismo.

La necessità o la convenienza di vivere di _preda_, o, comunque, del
lavoro altrui, fomenteranno, per via diretta o indiretta, la guerra;
l’abitudine e la facilità di vivere del lavoro proprio tenderanno
sempre più a renderla meno frequente e ad eliminarla.

Nelle condizioni dell’Attica, un paese che non produceva tanti cereali
quanti ne occorrevano a sostentare la sua popolazione, e avea bisogno
allora, come ancor oggi ne ha bisogno, d’importarne, il libero uso del
mare e il preliminare possesso di Salamina, messa come una Sfinge a
guardia de’ suoi approdi, non solo erano la premessa necessaria di ogni
ulteriore grandezza, ma erano una questione di vita e di morte.

E il partito della guerra prevalse, malgrado l’orrore della guerra
che le precedenti sconfitte aveano inspirato. Megara fu umiliata, se
non prostrata, Salamina fu riacquistata, se non riconquistata; e, col
vantaggio morale di una rivincita e di una gloria militare, si sorresse
l’autorità morale dello Stato e si schiuse la via alla possibilità
d’importazioni, di commercî, di un futuro dominio del mare.

Nondimeno fu guerra che non divenne incentivo immediato ad altre
guerre; parve piuttosto l’epilogo di un lungo periodo di contese.

Il periodo che segue, è un periodo di raccoglimento e quasi di
preparazione. La condizione incerta ed oscillante di una sovranità
illegittima com’era la tirannide, spesso posta in pericolo, poteva, da
parte sua, contribuire a distogliere la politica da un indirizzo pieno
di avventure. Pure, altrove, la stessa forma di potere politico cercava
una base ed un appoggio nella gloria militare ed in una politica,
che, facendo de’ sudditi i signori ed i parassiti di altri popoli, li
rendesse così più tolleranti della soggezione politica interna.

I fasti de’ Pisistratidi sono fasti civili, anzi che militari; e,
benchè il loro dominio traesse occasione e alimento da una guerra
esterna, tutta l’attività guerresca successiva si potrebbe limitare a
qualche episodio non conservato nemmeno chiaramente nella tradizione.

Una delle ragioni e la precipua di siffatta politica di raccoglimento,
caratteristica del dominio de’ Pisistratidi, va cercata appunto in
quello svolgersi e fiorire delle energie interne, nello sforzo di
suscitare tutta la potenzialità economica di cui l’Attica sembrava
capace. Quel ritorno verso la campagna, rilevato specialmente da
Aristotile[65], preparava la terra a rendere tutto quanto potesse; e
la possibilità di una maggiore importazione di cereali agevolava un
così promettente strumento di prosperità com’era la trasformazione
delle culture. Le miniere del Laurio poi, se non ora scoperte, almeno
ora messe meglio a profitto, erano un vero lievito degli scambî, de’
commercî, di una futura potenza commerciale.

L’interesse de’ Pisistratidi veniva a collimare con quello del ceto
agricolo che formava la base stessa della società del tempo, e non era
in conflitto con quello del proletariato cittadino. La stessa tendenza
all’espansione, per quanto venisse crescendo, avea nella migliore e più
abbondante moneta d’argento uno strumento pacifico di sviluppo.

Così la politica esterna de’ Pisistratidi avea dovuto assumere
piuttosto un indirizzo difensivo che non un indirizzo offensivo; aveva
dovuto consistere piuttosto nel rimuovere alcuni ostacoli che non nel
costituire uno stato di violento predominio su paesi stranieri.

Soltanto, questo stato di cose non poteva essere durevole, e da esso
stesso, dato il carattere e le condizioni del mondo antico, sarebbero
sorti gl’incentivi e le inevitabili occasioni di guerre.

Lo svolgimento delle forze produttive dell’antichità era assai
limitato, e ogni desiderio di miglioramento e ogni impulso di nuovi
bisogni non si convertiva, nè si poteva facilmente convertire in uno
sforzo diretto ad ottenerne l’appagamento col proprio lavoro e col
diretto uso degli elementi forniti dalla natura. L’appropriazione
più o meno violenta della ricchezza altrui, l’assoggettamento
dell’uomo all’uomo, lo sfruttamento, sotto le forme meno larvate e
più rudimentali, si presentavano come l’indirizzo prevalente, pel
principio stesso della tendenza al minimo sforzo e dell’attrazione a’
punti di minore resistenza. Anche la divisione primordiale di lavoro
sociale tra la classe guerriera protettrice e la classe produttrice
spingeva più facilmente gli elementi dirigenti dello Stato ad estendere
oltre i confini del proprio paese il loro dominio, attribuendosi, a
titolo di conquista, quel frutto del lavoro altrui, che all’interno si
attribuivano come corrispettivo della protezione e della difesa.

In queste condizioni lo stesso sviluppo delle energie interne e un più
elevato grado di prosperità esponevano un paese produttore all’avidità
e alle aggressioni altrui, e ne faceano così un paese servo, oppure,
per naturale reazione, una potenza militare, che assai facilmente dalla
difesa passava all’offesa, dall’aggressione felicemente respinta alla
conquista.

Paesi ricchi e paesi poveri venivano in tal modo per diversa via,
attratti nel vortice della guerra. E la guerra tendeva a rendersi
permanente.

La politica internazionale, nell’antichità, piuttosto che assumere
come criterio direttivo l’autonomia o l’equilibrio, tendeva così
necessariamente all’assorbimento degli altri dominî, all’ampliamento
indefinito e illimitato dello Stato. La coesistenza e la tolleranza
reciproca costituivano soltanto un termine di passaggio e un espediente
provvisorio; ma, obbiettivamente anche più che non subbiettivamente, la
mèta era il dominio e la supremazia.

Per Atene quindi il periodo di raccoglimento dell’epoca de’
Pisistratidi non poteva rappresentare uno stato permanente, ma
semplicemente un’utile preparazione e una lunga tregua. Lo stesso
miglioramento delle sue condizioni e l’irradiarsi della sua attività
l’attraeva in un’orbita di maggiori complicazioni e di più facili
contrasti. E che così fosse, lo mostrarono prima le ingerenze di Sparta
nella politica interna di Atene, e poi, in maniera più evidente, le
guerre persiane.

A misura che uno Stato vien tratto dall’isolamento in un ambiente più
vario e più vasto, la sua politica muta necessariamente di proporzioni
e d’indirizzo, come muta un risultato quando variano i fattori. Il
contatto e il contrasto con la potenza persiana era un fatto destinato
ad indurre la più radicale mutazione di orientamento. I fattori,
l’ambiente, la mèta della politica ateniese erano ormai e dovevano
apparire diversi, e l’avere saputo intendere la necessità e scorgere
i segni del tempo costituisce la gloria immortale degli uomini che
seppero dare allo Stato un indirizzo rispondente alle condizioni delle
cose.

Lo svolgimento calmo ma costante della ricchezza dell’Attica
sotto i Pisistratidi, col necessario aumento di popolazione, con
l’incremento lento ma continuo di benessere, avrebbe stimolato
alla lunga il desiderio di espansione e avrebbe sviluppato, come in
piccole proporzioni dovette già cominciare ad accadere, la marineria
commerciale. La rivoluzione politica che pose fine alla tirannide
e l’irrequietudine rivelata dagl’incidenti che valsero come causa
prossima delle spedizioni persiane possono valere come una prova.

Lo stato di benessere che l’Attica poteva procacciare a’ suoi abitanti
con l’impiego di tutte le sue energie interne, era sempre qualche cosa
di relativo, e potea valere piuttosto come un solletico che come un
appagamento; era tale che non ne poteva fare de’ soddisfatti, ma li
allettava solo con la vista di più larghi orizzonti e di più elevate
condizioni di vita.

Tuttavia l’espansione e il mutamento d’indirizzo sarebbero stati
lenti e graduali, se l’invasione persiana non avesse resa inevitabile
una unificazione ibrida e temporanea, una coalizione della schiatta
ellenica, ch’era pur sempre un nuovo aggregato di forze, da cui si
sarebbero sviluppati l’egemonia e il parassitismo di quella che avesse
saputo divenirne l’elemento direttivo e il punto di attrazione.

Atene seppe essere l’una cosa e l’altra; ma con ciò stesso la sua
politica, la sua fisonomia, la sua indole mutavano radicalmente.

Resistere alla potenza persiana, proteggere i membri della lega o il
mondo ellenico, attaccare anche, occorrendo, il nemico; erano tutte
cose che potevano compiersi o tentarsi con la costituzione di una
forte marina da guerra. Ma a questa marina da guerra Atene non poteva
sopperire del proprio; poteva bensì averne il comando e la cura, e gli
alleati doveano contribuirvi con tributi o con navi.

La potenza militare intanto e lo sfruttamento più o meno larvato erano
due termini corrispondenti, di cui l’uno serviva all’altro di ragione
e di sostegno; e questa tendenza al parassitismo doveva crescere
parallelamente allo spirito di aggressione e di guerra.

Il tributo di danaro sostituito al tributo di navi, cioè il disarmo
quasi e il segno esterno della sudditanza; il trasporto del tesoro da
Delo ad Atene; l’imposizione del potere giurisdizionale agli alleati;
l’uso sempre più libero o meno dissimulato dal danaro comune; sono
tanti passi verso una forma di parassitismo più avanzato.

Al tempo stesso l’Atene agricola del sesto secolo diventa l’Attica
marinara e commerciale del quinto: alla repubblica aristocratica de’
grandi proprietari fondiari e alla tirannide, potere delegato della
piccola proprietà, succede la repubblica de’ commercianti, degli
artigiani, de’ proletarî. All’appropriazione diretta ed immediata de’
prodotti della terra succede una forma di appropriazione indiretta
e mediata, il commercio, mezzo di sfruttamento più perfetto e più
larvato; sul fondo de’ mestieri si va innestando una rudimentale
manifattura; il potere politico scende sempre più verso il popolo e la
politica esterna si fa sempre più avida, ambiziosa ed audace.

Ora questa relazione necessaria tra la potenza militare e la produzione
indigena, tra la grande politica e il bisogno di espansione, tra il
commercio messo a base della propria vita economica e la concorrenza di
altri Stati; questa necessità del parassitismo insomma voleva dire la
guerra all’ordine del giorno contro i concorrenti, contro i sudditi e
gli alleati defezionati, contro i potentati stranieri il cui crescere
avea in sè la minaccia e il vaticinio dell’assorbimento.

Il mezzo secolo che va dalla fine delle guerre persiane alla guerra
del Peloponneso è come un lungo affilar d’armi mal dissimulato; è un
seguito di paci bugiarde, che in realtà covano ed alimentano la guerra
e si riducono ad una incessante vicenda di tregue più o meno lunghe
e di ripetuti conflitti, in fondo a cui sta la guerra inevitabile, la
guerra di sterminio, il duello finale, la guerra del Peloponneso, che
verso il periodo precedente è come la caduta finale di un corpo libero
rispetto al suo movimento di oscillazione sempre crescente.

Le cause occasionali della guerra potevano anche ridursi, come
comicamente voleva un personaggio di Aristofane, ad una impresa ed
una rappresaglia galante[66] di Megaresi e Ateniesi: il conflitto, in
realtà, sbocciava dal seno della storia e dalle reali condizioni delle
parti belligeranti come un fiore centenario, gigantesco, avvelenato e
maturo.

Gli stessi motivi immediati e i pretesti della guerra, Potidea,
l’impresa di Corcira, il _boycottaggio_ di Megara, la pretesa
indipendenza di Egina rivelano chiaramente lo scopo vero e la ragione
intima della guerra: — il desiderio di limitare l’espansione verso
l’Oriente o di allargarla in Occidente, — come apparve più chiaro
con la guerra di Sicilia da un lato e dall’altro col proposito di
ristabilire «_il bruscolo nell’occhio del Pireo_» e la rivalità
commerciale. Ma tutti questi non erano che fenomeni di un dissidio più
profondo e irrimediabile; e tali apparivano bene anche agli uomini del
tempo.

La struttura economica rudimentale, che faceva dipendere la vita
e il benessere di un popolo da una forma anch’essa rudimentale di
parassitismo, dall’assoggettamento di altri popoli al tributo e alle
forme successive di sfruttamento, da un lato rendeva illimitato il
bisogno di espansione e dall’altro faceva di ogni regione un continuo
pomo di discordia, la preda presente o futura del più forte, il premio
reale o possibile di un eventuale conquistatore. Perciò niente pace
e sempre guerra; guerra palese o latente, ritardata o anticipata,
con maggiore o minore senso di opportunismo meditata o differita,
guerra contro il suddito, guerra contro l’emulo. Mancavano appunto
le condizioni e con esse lo spirito della coesistenza, che soli sono
fattori e condizioni di pace. Tutta la diplomazia e i progressi delle
relazioni internazionali consistevano nel larvare il vero motivo della
guerra e nel mettere _formalmente_ l’avversario dalla parte del torto:
è la franca prepotenza del leone che prende in prestito dalla volpe il
suo fare coverto e dal lupo il metodo di suscitare un’abile contesa con
l’agnello.

Atene e i suoi avversari erano giunti a quella linea ultima, oltre la
quale entrava in gioco, minacciata da presso, l’autonomia di tutta la
Grecia.

Tutto ciò era così ben chiaro che, come dice Tucidide[67], «i
Lacedemoni votarono di rompere il trattato e far la guerra, non tanto
per essersi persuasi de’ discorsi degli alleati, quanto pel timore
che gli Ateniesi non divenissero ancora più forti, vedendo che una sì
gran parte dell’Ellade era loro soggetta». Del pari Pericle, secondo
un discorso che gli fa pronunziare Tucidide, riconosceva il carattere
inevitabile della guerra e l’opportunità di andarle incontro prima,
piuttosto che poi[68].

Per questa sua stessa natura quella guerra doveva apparire agli occhi
del suo storico[69] la più importante e grave di quante avevano avuto
già luogo, e a’ nostri occhi si presenta come l’avvenimento centrale
della storia ellenica, che costituisce il punto di arrivo della storia
passata e il punto di partenza della successiva. Essa dovea rivelare,
meglio di ogni altra cosa, le magagne e il principio dissolvente
della vita greca; ma era destinata, ancor più, a suscitare ed acuire
tutti que’ contrasti interni, che sono caratteristici della guerra dei
Peloponneso[70], e rendono più chiare e visibili le vere cagioni della
guerra e, mediante il contraccolpo che essa aveva all’interno, il suo
vero rapporto con la struttura sociale del tempo.

Nel suo discorso, Pericle metteva bene in sodo quanto utile fosse il
dominio del mare, ed aggiungeva come, considerando ciò più dappresso,
occorresse non curarsi della campagna e delle case ed aver cura invece
del mare e della città[71].

Dal punto di vista collettivo e della grandezza pubblica di Atene,
il modo di vedere di Pericle era giusto. Nel mare stava la potenza di
Atene: nel mare era tutto il segreto della sua forza, sì nel passato
che nell’avvenire. Analiticamente lo avea già dimostrato l’oligarca
autore dello «_Stato degli Ateniesi_» pseudo-senofontèo[72]. «Essi soli
degli Elleni e degli stranieri sono in grado di acquistare ricchezza.
Se qualche Stato è ricco di legname adatto alla costruzione delle navi,
dove andrà a venderlo, se non voglia chi ha la signoria del mare? Se un
altro ha abbondanza di ferro, di bronzo, di lino, dove andrà a venderli
se non lo permetta chi impera sul mare? Or di queste cose appunto
si fanno le navi: da uno si prende il legname, dall’altro il ferro,
dall’altro il bronzo, dall’altro il lino, dall’altro la pece. Oltre di
ciò, quelli che ci sono avversarî, non lasceranno andare che dove essi
hanno l’uso del mare. Ed io dunque, senza affaticarmi, dalla terra ho
tutte queste cose mediante il mare. Nessun paese poi ha due di queste
cose, nè uno solo ha legname e lino, ma dove il lino è in gran copia,
la terra è piana e priva di alberi: nè il ferro e il bronzo si hanno
dallo stesso paese, nè da una regione le due o tre altre cose, ma in
uno ve n’è una e l’altra in un altro. Ancora, presso ogni paese è una
spiaggia, un’isola o uno stretto, così che è lecito a quelli che hanno
il dominio del mare di bloccare i continentali e danneggiarli»[73].

E non si arrestano qui i vantaggi derivanti dal dominio del mare: tutto
lo scritto sullo _Stato degli Ateniesi_ ne è pieno.

In tempo di pace, intanto la collisione tra le diverse classi della
popolazione, che traevano i loro mezzi di sussistenza e i loro cespiti
di entrata dal mare e dalla terra, poteva essere evitata o dissimulata
ed attenuata; ma, in tempo di guerra, quando veniva la volta di
sacrificare al dominio del mare l’uso della terra, o all’uso della
terra il dominio del mare, l’antagonismo d’interessi risorgeva e si
rendeva tanto più acre quanto più diveniva spiegato e duraturo.

L’interesse collettivo invocato da Pericle diveniva un’astrazione di
fronte agl’interessi individuali e di classe realmente offesi.

Lo scritto sullo _Stato degli Ateniesi_ rileva bene questo contrasto.
«Ora gli agricoltori e i ricchi tendono maggiormente a tenersi buoni
i nemici: il popolo invece, ben sapendo che i nemici non gli potranno
nulla bruciare e nulla tagliare, vive spensieratamente e non ha loro
riguardo»[74].

È noto come la popolazione ateniese della campagna fu contrariata nel
dovere abbandonare i campi ed i villaggi per ridursi nella città di
fronte all’invasione nemica[75]; pure, da prima, per un po’ di tempo,
anch’essa si rassegnò, se a dirittura non condivise l’entusiasmo della
guerra[76].

Era la speranza di una guerra breve e vittoriosa? Era l’ira de’ danni
patiti? Era la speranza di maggiori vantaggi?

Erano tutte insieme queste cose, e con esse la suggestione
dell’ambiente morale che si era venuto creando.

Ma, quando la guerra accennò ad andare per le lunghe, e le sue molestie
e i suoi danni parvero sempre più gravi e più insistenti, venne la
reazione contro la guerra, e un vero movimento per la pace, accanito,
tenace, appassionato si spiegò come un deciso indirizzo di politica
interna ed esterna, dando una fisonomia più accentuata che mai alla non
sopita lotta di classe.

Questo tratto della vita e della politica ateniese ci rimane, vivo e
parlante, riflettuto attraverso tutte le esagerazioni e gli scherzi
della commedia come in uno specchio, in modo tale che niente potremmo
desiderare di meglio, nè di più completo.

È il soggetto e l’ambiente delle commedie di Aristofane.

Mai apostolato per la pace fu fatto con maggiore ostinazione, con più
ricchezza d’ispirazione, con maggiore varietà di espedienti.

Ed è singolare trovare un tale apostolato della pace in bocca di uno
degli uomini più acri, più mordaci, più spietati verso gli avversarî,
il cui verso pare dardo e marchio al tempo stesso, fatto per colpire
da presso e da lungi, penetrando a fondo nella carne squarciata e
imprimendosi come bollo sulla fronte.

Mai forse con maggiore semplicità ed ingenuità di sentimento e di
espressioni fu invocata la pace e maledetta la guerra.

«Giammai accoglierò la guerra in casa mia, nè in casa mia, sdraiata al
mio fianco, canterà di Armodio. Donna avvinazzata, che, mentre io me
ne stava in pace, in mezzo a tutti i conforti, dette la stura a tutti
i mali, tutto mettendo a soqquadro, tutto rovesciando, manomettendo!
E più le si diceva: _Bevi, mettiti a sedere, accetta la coppa
dell’amicizia_; e più dava al fuoco i pali delle vigne e spargeva a
viva forza a terra il frutto delle nostre viti.... E come insuperbisce
a tavola, sì da gettare innanzi alle nostre porte le piume per far
mostra del suo banchetto.

«O Pace, conviva di Ciprigna, la bella, e delle Grazie, le care, come
dunque, avendo un sì bello aspetto, te ne stavi celata? Che un qualche
Amore, coronato di fiori come nel dipinto, ne congiunga prendendoci
insieme; o credi che io sia già troppo vecchierello? Ma prendendoti con
me, mi pare che possa ancora fare tre cose: prima di tutto stendere
un lungo filare di viti, poi, accanto ad esso, de’ nuovi piantoni di
fichi, e finalmente un tralcio di vite domestica; tutto ciò da vecchio
come sono. E, tutto in giro al fondo, metterò degli olivi per ungerci
entrambi alle feste del novilunio[77].

«Salute, salute, o carissima, come venisti aspettata. Io mi rodo pel
desiderio tuo, volendo tornare a’ campi, o divina. O sospirata, tu
eri il nostro massimo bene; tu giovavi a quanti eravamo a far la vita
dell’agricoltore. Molte cose dolci e liete e care godemmo prima sotto
i tuoi auspici: tu eri per gli agricoltori l’orzo abbrustolito e la
salvezza. Le viti e i fichi novelli e tutte le piante ti sorrideranno,
accogliendoti con l’occhio del desiderio»[78].

Tutto per la pace: le donne sotto la guida di Lysistrata negheranno
agli uomini ogni loro lusinga, ogni allettativa, negheranno
l’amore[79]; Trygeo farà un viaggio al cielo sul suo Pegaso da
burla[80]; con corde e con opera di mano e di zappe si cercherà di
trarre la pace dall’antro in cui è sepolta[81]; sacrificî, preghiere,
invocazioni saranno usate per richiamarla in terra.

In mezzo alle invettive, alla caricatura, all’epigramma che non
perdona, il desiderio della pace porta un alito nuovo. Si sente l’aria
sana de’ campi e un sentimento schietto, sano, vigoroso della natura
feconda, della terra che produce, della campagna che si rinnova.

Il frinire delle cicale, la gioia sacra della seminagione, la pioggia
benefica, il fuoco che scoppietta al chiuso, l’inverno, l’intimità
della vita agricola con i suoi piccoli piaceri tornano tutti,
anticipati e animati dal desiderio, nel canto de’ cori[82].

Ma è appunto questo contrasto rivelato dalla commedia, che mostra gli
antagonismi e le insidie della situazione.

A pace conchiusa, il fabbricante di faci si accorge che le sue cose
cominciano ad andar bene, e, all’incontro, il venditore di corazze,
quello di cimieri, di tube piangono col finire della guerra la loro
rovina[83].

Trygeo chiama tutti insieme gli agricoltori, i mercanti, gli operai, i
metèci, gli stranieri, gli isolani, perchè l’aiutino a trarre la pace
dalla caverna, dove l’ha rinserrata la guerra[84]. Ma quanti di questi
dovevano essere sordi all’appello!

Gli antagonismi e gl’interessi discordi degl’individui e delle classi
erano tali che costringevano gli uni a vedere la loro vita e il
vantaggio nella morte e nel danno degli altri.

Quelli che avevano il monopolio della terra e in genere tutta la
classe agricola, tutti quelli che, in maniera diretta o indiretta,
scarsa o abbondante, potevano appropriarsi il prodotto della terra,
naturalmente, inclinavano alla pace; ma il proletariato cittadino,
i commercianti, quelli il cui benessere o la cui vita dipendeva dal
dominio del mare, naturalmente tendevano alla guerra.

Era un solo e necessario indirizzo egoistico, i cui punti di
applicazione soltanto erano diversi; erano due forme di parassitismo,
di cui l’una si svolgeva all’interno, l’altra all’esterno, e l’una
non avea occhio e considerazione per l’altra. Una società, in grembo
alla quale questi diversi indirizzi operavano e si svolgevano,
necessariamente veniva a trovarsi in uno stato di equilibrio instabile
e gravitava continuamente verso la guerra, lo strumento più rudimentale
e meno dissimulato di parassitismo.

Questo stato d’inquietudine e di conflitti interni era più accentuato,
quanto più uno degli indirizzi opposti, la tendenza alla guerra, si
faceva più spiegato. Questo stato di malessere, che costituisce un vero
capitolo di patologia sociale, ci è appunto descritto da Tucidide, come
conseguenza della guerra del Peloponneso in alcune delle sue pagine,
che sono delle più efficaci e profonde e più obbligano a pensare.

Ad un punto, Tucidide si credeva abilitato a tirar fuori la natura
umana, mentre pure egli stesso avea e poteva trovare ne’ fatti stessi
raccontati la ragione de’ fatti. Ma non si può far colpa a Tucidide
di aver cercato, ventitre secoli addietro, in una astrazione, in una
immutabile natura umana indipendente da tempi e da luoghi, quella causa
de’ fatti che anche oggi vien cercata da tanti a questa astratta natura
umana piuttosto che alla condizione temporanea e concreta di uomini
viventi in una data società con una determinata struttura economica.

«Da ultimo, per così dire, tutto il mondo ellenico fu messo in
trambusto, essendo sorte da ogni parte contese tra i capi popolari, che
volevano chiamare gli Ateniesi, e gli oligarchi che volevano chiamare
i Lacedemoni, e in tempo di pace non ne aveano avuto il pretesto,
nè erano pronti a chiamarli. Iniziata invece la guerra e contratte
dall’una parte e dall’altra alleanze a danno degli avversarî ed a
vantaggio proprio, facilmente, a quelli che volevano, si aprivano
le vie di tentare novità. E sopravvennero allora alle città molte
e tristi cose, che furono e saranno sempre, finchè la natura degli
uomini sarà la stessa, ma accadono in forma più mite ed in aspetto
più calmo, a seconda del giro degli eventi. Nella pace e nella buona
fortuna gli Stati e i privati si conservano più sereni perchè non
cadono in contrarietà non volute: la guerra invece, togliendo il
benessere della vita quotidiana, è una violenta maestra e foggia su’
più difficili tempi gli animi de’ più. Era dunque perturbata la vita
degli Stati, e le sedizioni che scoppiavano più tarde, per la stessa
notizia delle cose già accadute, cercavano di mostrarsi più nuove ed
ardite con l’ingegnosità delle imprese e la singolarità delle vendette.
E, ad arbitrio, si mutò l’usato rapporto de’ nomi con le opere:
l’ardire imprudente si chiamò coraggio a pro degli amici, il cauto
temporeggiare larvata vigliaccheria, la saggezza maschera d’ignavia,
dappocaggine verso tutto il contegno prudente verso ciascuna cosa.
La fretta inconsiderata fu tenuta in conto di dote virile, la cauta
ponderazione come un bel pretesto di disdirsi. Chi rinfocolava l’ira
pareva fido sempre e chi moveva obbiezioni sembrava sospetto. Chi
insidiava altrui pareva prudente, se riusciva nell’intento, e tanto
più temibile quanto più astuto: chi invece provvedeva a che di ciò
non vi fosse bisogno, era elemento dissolvente della sua fazione e
timido degli avversarî. A dir breve, era lodato chi preveniva altrui
nel male che si accingeva a fare e chi incitava altri che da sè non
vi avesse pensato. Il congiunto diveniva meno stretto del partigiano
come quello che era più pronto ad osare all’impazzata: giacchè queste
consorterie non si costituivano secondo le leggi vigenti, a fin di
bene, ma contro le leggi per sentimento di avidità. E la fede mutua
tra loro non l’afforzavano tanto con la santità del giuramento quanto
col violare insieme le leggi. Accoglievano le buone proposte degli
avversarî come schermo pel caso prevalessero e non per generosità. Il
vendicarsi era avuto in più pregio che non l’andare esente da offesa.
Anche i giuramenti di pacificazione, se mai ve n’erano, dati da uno
all’altro pel momento in qualche distretta, valevano pel momento, non
avendo d’altronde potere; e all’occasione poi, chi prima se ne sentiva
il coraggio, se vedeva l’altro disarmato, lo coglieva con più piacere
nel suo fiducioso abbandono che non a viso aperto, sì perchè contava
di essere più sicuro, sì perchè, riuscendo nell’inganno, ne riportava
lode di accorgimento. Più agevolmente sono stati chiamati destri i
molti malèfici che non buoni gl’ingenui, onde dell’ingenuità si ha
vergogna e del malefizio s’inorgoglisce. Di tali danni era cagione
il potere assunto per avidità ed ambizione; e dalle stesse cose nasce
l’incitamento alle contese civili....»[85].

La guerra stessa così scalzava ed eliminava la guerra; ma non
semplicemente coll’ispirare considerazioni simili a queste fatte da
Tucidide, bensì col determinare, sul terreno pratico, condizioni
di fatto che rendevano opportuno ed anzi necessario un diverso
adattamento, un adattamento, come si dice, divergente. La guerra
cominciava a non apparir più un punto di minima resistenza; invece, con
l’incertezza delle sue fasi e degli stessi suoi acquisti, con le sue
rappresaglie, con la ripercussione che aveva all’interno e all’esterno,
dovea cominciare a destare sempre più repugnanza e dovea richiamare lo
sguardo verso altri orizzonti, spingere verso altri campi l’attività
umana.

Una guerra poi come quella del Peloponneso finita in una immane
ruina, dovea, per necessità assoluta di cose, spingere a compensare il
parassitismo esterno, venuto meno, con l’esplicazione di tutte le forze
produttive interne, con l’impiego di ogni elemento utile che fosse in
paese, col mettere a profitto ogni elemento di ricchezza.

Di questa necessità obiettiva e sentita si trova l’eco chiara ed
esplicita riflessa in qualche scrittore del tempo[86]; e, d’allora in
poi, la coscienza di questo nuovo indirizzo da dare alla politica dello
Stato e l’opportunità di sostituire, con lo svolgimento delle energie
interne, i mezzi di prosperità per l’innanzi cercati all’esterno,
tornano con maggiore insistenza, specie dopo qualche rovescio, che con
la forza stessa delle cose richiamava e ribadiva quell’insegnamento.

L’orazione d’Isocrate _intorno alla pace_, redatta dopo la ruinosa
guerra sociale, tende appunto a far prevalere questo indirizzo e vuol
conciliargli favore con ogni argomento sia di carattere utilitario, che
di carattere morale, ma specialmente di carattere utilitario.

La pace che Isocrate vuole, è la pace con tutti, la pace a qualunque
costo.

«Dico adunque — così egli si esprime — che bisogna fare la pace non
solo con i Chioti, i Rodî, i Bizantini, ma con tutti gli uomini,
e bisogna osservare non quelle convenzioni proposte ora da alcuni,
ma quelle fatte col Re di Persia e con i Lacedemoni, che rendevano
autonomi i Greci e disponevano che le guarnigioni sgombrassero le città
altrui e che ognuno stesse contento del suo. Noi non troveremo mai
nulla che sia insieme più giusto e più conveniente allo Stato»[87].

Seguita quindi ad illustrare questa proposta e a mostrare quanto vi
fosse di buono sotto la modestia apparente dal suo ideale pacifico.

«Non ci basterebbe dunque l’abitare con sicurezza il nostro paese,
l’avere a più agio tutto quanto occorre alla vita, il vivere concordi
tra noi e il goder buona opinione presso gli altri Greci? Io credo che
con tutte queste cose lo Stato finirebbe per essere di nuovo felice.

«Ora la guerra ci privò di tutte queste cose: ci rese più poveri, ci
assoggettò a molti pericoli, ci ha messi in mala vista presso i Greci
e ci ha in ogni modo danneggiati. Se faremo la pace e ci mostreremo
quali vogliono i trattati, abiteremo con piena sicurezza il nostro
paese, liberi da guerre, pericoli e trambusti, in cui reciprocamente
ci siamo cacciati; ogni giorno aggiungeremo qualche cosa al nostro
benessere, evitando le imposte, le triarchie e tutti gli altri obblighi
della guerra, coltivando la terra tranquillamente, navigando il mare
e attendendo a tutti gli altri lavori negletti ora a cagione della
guerra. Vedremo il paese rendere il doppio di quello che ora rende,
pieno come sarà di mercanti, di stranieri, di metèci, di cui ora è
deserto. Quel che è più, avremo alleati tutti gli uomini, e non per
forza ma per inclinazione, nè dediti a noi in tempi prosperi a cagione
della nostra potenza e defezionanti ne’ pericoli, ma così disposti
come debbono essere quelli che veramente sono alleati ed amici.
Inoltre, avremo facilmente con le semplici ambascerie quello che ora
non ci riesce avere con la guerra e con molta spesa. Non crediate che
Chersoblepte voglia guerreggiare con noi pel Chersoneso e Filippo per
Anfipoli, quando vedano che noi non aneliamo ad avere l’altro paese.
Ora, verosimilmente, essi temono di averci come vicini a’ loro regni,
giacchè vedono che noi non ci teniamo paghi a ciò che abbiamo, e
bramiamo sempre di più. Se muteremo sistema e acquisteremo migliore
opinione, non solo non insidieranno quello che è nostro, ma ci daranno
del loro, perchè sarà loro utile, servendo alla potenza del nostro
Stato, conservare con sicurezza i loro regni. Anche della Tracia ci
sarà lecito averne tal parte, che non solo essi la terranno senza
eccitare l’invidia altrui, ma i Greci, che espatriano per bisogni, ne
avranno quanto basti a sostentarli. Dove Atenodoro e Callistrato, l’uno
da privato e l’altro da esule, hanno potuto fondare città, là stesso
noi, volendo, potremmo occupare molti luoghi. Occorre che acquistino
preponderanza tra i Greci quelli, a cui stieno a cuore tali cose,
piuttosto che la guerra e gli eserciti mercenarî, che ora massimamente
desideriamo»[88].

Isocrate si faceva propugnatore di un indirizzo affatto opposto a
quello ch’era nella tradizione e nella politica dell’ultimo secolo
della storia ateniese: un indirizzo di raccoglimento, di neutralità
disarmata, di rinunzia ad ogni pretesa od ambizione di dominio.

A quell’impero del mare, che l’oligarca dello _Stato degli Ateniesi_
avea considerato come la pietra angolare della repubblica, che avea
formato l’ambizione, la mèta e la forza dell’Atene periclèa, egli vi
rinunziava. «Io credo che staremo meglio nel nostro paese e saremo
migliori noi stessi e ci avvantaggeremo in tutte le cose, se smetteremo
di volere l’impero del mare. Giacchè è questo che ci ha cacciato nel
disordine e ha sovvertito quella democrazia, sotto la quale, i nostri
progenitori furono i più felici de’ Greci, ed è quasi la cagione di
tutti i mali che noi soffriamo e facciamo soffrire agli altri»[89].

Senz’altro Isocrate tiene a dirlo e a ripeterlo che l’ambìto dominio
del mare è la causa di tutti i danni. «Bisogna riferire le cause non a’
mali sopravvenuti, ma a’ primi errori, onde poi si venne a questo fine.
Così che direbbe proprio il vero chi dicesse che allora hanno avuto
origine i loro mali, quando assunsero il dominio del mare: infatti
assunsero un potere in nulla simile al precedente»[90].

Lo spreco de’ tributi e la facile dissipazione delle ricchezze male
acquistate, il contrasto tra gli antenati che lottano contro i barbari
ed il tempo presente, i danni delle milizie mercenarie e gli effetti
della guerra; tutti gli argomenti, i fatti, gl’incitamenti sono
adoperati per sostenere la politica pacifica, facendo assorgere il
ragionamento schiettamente utilitario, come si è detto, a tratto a
tratto, a una più elevata ragione etica[91].

Questa tendenza alla pace rispondeva del resto così bene a un
bisogno del tempo e alla condizione reale delle cose, che, nello
stesso torno di tempo, contemporaneamente o a breve distanza, nello
scritto di Senofonte sulle _Entrate degli Ateniesi_ s’insiste appunto
sulla utilità e sulla necessità di dare tutto l’impulso possibile
all’incremento della produzione interna per sopperire con essa a quei
bisogni, che divenivano causa di conflitti e di guerre, quando se ne
cercava, con l’estensione del dominio, all’esterno l’appagamento.

Lo scopo che Senofonte si proponeva, secondo la sua chiara ed esplicita
frase, era appunto quello di «indagare se i cittadini non potessero
trarre il sostentamento dal loro stesso paese»[92], togliendo così
base od occasione al loro atteggiamento vessatorio e rapace verso
altri popoli; e a ciò miravano le sue proposte dirette a favorire il
commercio, a rendere lo Stato acquirente di navi da trasporto e di
schiavi da allogare pel lavoro delle miniere.

Chiudendo lo scritto con lo stesso pensiero con cui l’avea iniziato,
Senofonte affrontava, senza altre ambagi, la questione della pace e
della guerra.

«Se alcuni pensano che, quando lo Stato resti in pace, diverrà per ciò
più imbelle, più inglorioso e di minore nominanza nella Grecia, essi a
parer mio non guardano da un punto di vista giusto la cosa. Felicissimi
divengono tutti gli Stati che godono di periodi di pace più lunghi, e,
fra tutte le città, Atene specialmente è fatta per prosperare con la
pace. Chi dunque, quando la città nostra stesse tranquilla, non avrebbe
bisogno di essa, a cominciare da’ naviganti e da’ mercanti? Non quelli
che hanno molto frumento da smerciare e molto e buon vino? I produttori
d’olio, i possessori d’armenti e quelli che mettono a profitto sia
il denaro che le loro attitudini, e gli artefici e i sofisti e i
filosofi, i poeti e quelli che si applicano a queste cose, quelli che
hanno gusto negli spettacoli sacri e profani, degni di esser visti e
sentiti, e quelli finalmente che hanno bisogno di vendere e comprare,
qual luogo troverebbero più adatto di Atene? Se nessuno contraddice a
ciò, nondimeno soggiungono quanti vogliono rivendicare l’egemonia allo
Stato, che questa si ottiene più che con la guerra con la pace; ma
ripensiamo dapprima alle guerre persiane, se fu con la violenza o con
i beneficî che allora divenimmo i capi della forza navale e i cassieri
della Grecia.

«Ancora, dopo che per volere troppo primeggiare, lo Stato perdette
il comando, non ce lo conferirono ancora spontaneamente gli isolani,
poichè ci astenemmo dall’operare contro giustizia?.... Quando si
credesse che voi pensate a mantenere la pace per terra e per mare,
credo che tutti pregherebbero per la salvezza e il benessere d’Atene
dopo quello delle loro patrie. Se qualcuno credesse più vantaggiosa la
guerra che non la pace allo Stato, per quanto riguarda la ricchezza,
non so come meglio potrebbe essere giudicato ciò, che guardando al
modo come andarono per la città gli avvenimenti passati. Troverà che
anticamente durante la pace vennero alla città molte ricchezze e che
in guerra tutte furono spese: vedrà, se osservi, che anche oggi molte
delle entrate andarono perdute a cagione della guerra e le altre spese
in bisogni d’ogni genere; e, dopo che sul mare è tornata la pace, le
entrate si sono accresciute e i cittadini ne hanno potuto disporre a
loro talento»[93].

Intanto, come venissero accolti da molti, anzi da’ più, questi
propositi di pace, appare dalla stessa orazione d’Isocrate, ove si
accenna, ripetutamente, al favore con cui erano ascoltati quelli che
predicavano la guerra[94]. E la ragione ci vien data indirettamente
da Senofonte, là dove fa dire dagli uomini di Stato ateniesi che
«conoscono ciò che è giusto non meno di tutti gli altri uomini, ma
dicevano che la povertà della plebe gli obbligava a non comportarsi
secondo giustizia verso gli altri popoli»[95].

Perciò, quando Senofonte voleva risolvere questa contraddizione con lo
sviluppare tutte le sorgenti di ricchezza all’interno, era acuto nello
scorgere le cause del male e pratico nel porre la questione. Ma egli
s’illudeva sul valore e sulle conseguenze de’ suoi rimedî.

Senofonte, quasi in via di proemio, al suo trattato sulle entrate degli
Ateniesi, presentava un breve quadro della produttività dell’Attica e
delle sue risorse per dedurne quanto bene fosse dotata e come fosse in
grado di provvedere a sè stessa.

Quello che Senofonte diceva della varietà delle sue condizioni e de’
suoi prodotti era vero, ma era vero pure che l’Attica non produceva
tanti cereali quanti occorrevano ad alimentare i suoi abitanti; e la
notevole importazione[96], a cui dovea ricorrere, era fatta per dare,
essa sola, un particolare carattere alla politica e allo svolgimento
delle sue istituzioni. Senofonte faceva il massimo caso delle miniere
d’argento ed anzi si illudeva su di esse, al punto da ritenerle
inesauribili[97]. Ma, lasciando stare questa illusione presto smentita
dalla realtà, egli faceva del _mercantilismo_: credeva che bastasse una
grande quantità di metalli preziosi alla prosperità di un paese. Se non
che vi erano tante cose da osservare. Noi sappiamo a un dipresso quanto
rendevano allo Stato, ma non sappiamo quanto profitto netto dessero in
realtà le miniere. In ogni modo si trattava di un profitto particolare
degli assuntori delle imprese, a cui non partecipava direttamente la
restante parte della popolazione; e l’acquisto di schiavi pubblici,
proposto da Senofonte, solo in parte avrebbe accresciuta l’entrata
dello Stato con la locazione degli schiavi.

Comunque, la quantità maggiore di metallo prezioso realizzata avea
soltanto un valore di scambio, e poteva riescire utile ad Atene solo
in quanto le riuscisse di convertirlo in valori di uso. Le stesse
osservazioni quindi che Senofonte faceva sulla potenzialità economica
dell’Attica, le sue stesse proposte sull’acquisto delle navi onerarie
lo traevano successivamente alla conclusione che l’Attica fosse un
paese fatto essenzialmente pel commercio[98]. Ora il commercio e il
dominio del mare erano due cose così intimamente connesse, specialmente
nell’antichità, che l’uno dipendeva dall’altro e non poteva svolgersi
e svilupparsi senza di esso. Ma il dominio del mare era conseguenza
e causa di guerre, e così si ricadeva nella necessità della guerra,
quando più pareva che la si volesse e potesse evitare. E il contrasto
lumeggiato da Senofonte fra i periodi di pace e i periodi di guerra
era più sottile che vero, e poteva appagare piuttosto il lettore
superficiale che non l’osservatore più acuto. Quei vantati periodi di
pace non erano stati che conseguenza e preparazione di guerre, od erano
stati una calma imposta e una soggezione accettata nell’intento di
evitare un male maggiore. La prima e la seconda lega marittima, uscite
da un periodo di guerra, facevano luogo all’egemonia ateniese anche
per difesa contro la prepotenza spartana; e l’egemonia, per necessità
di cose, naturalmente e insensibilmente, si trasformava o tendeva a
trasformarsi nell’imperio marittimo di Atene.

Lo svolgimento delle energie interne del paese dovea ben servire a
rendere meno frequenti le guerre; e l’orazione d’Isocrate e lo scritto
di Senofonte non erano che la coscienza riflessa di un movimento
reale che si produceva in questo senso. Ma questa esplicazione delle
forze produttive non poteva essere così rapida e vigorosa da sopperire
all’interno a tutti i bisogni, e, in ogni modo, quale che si fosse,
sotto il sistema della proprietà privata, sotto forma di produzione
individuale, non eliminava gli antagonismi e i contrasti di classe
contro classe, all’interno, e di città contro città, all’esterno:
piuttosto trasformava la proporzione e le forme degli antagonismi.
Inoltre non in tutti gli Stati questa esplicazione delle forze
produttive procedeva di pari passo, e così non si toglievano nè lo
squilibrio, nè le cause di aggressione.

Un conflitto che dipendeva da così svariati elementi, come erano
i molti Stati greci, non si eliminava col modificare le condizioni
interne di qualcuno di esso soltanto. Anche la prosperità ottenuta per
opera e virtù propria diveniva una occasione di guerra, stimolando
le voglie altrui. Aristotele[99] osservava appunto che non bisogna
essere tanto ricchi da eccitare la bramosia de’ vicini più forti, nè
tanto poveri da non potere respingere le aggressioni. E la ricchezza
e la povertà, da paese a paese, erano sempre qualche cosa di relativo,
s’intende.

La favorita teoria aristotelica della soggezione naturale
dell’inferiore al superiore faceva considerare la guerra come un mezzo
naturale di acquisto, come una forma di caccia, della quale si poteva
fare uso tanto verso le fiere, come verso gli uomini fatti dalla
natura per obbedire ad altri. E questa era una guerra giusta secondo
natura![100].

Le ragioni che, nella pratica si ritenevano atte a consigliare e
sconsigliare la guerra, erano in fondo utilitarie[101].

In un ambiente come questo e con siffatta struttura economica, lo
sviluppo delle energie interne non bastava ad evitare la guerra, e
tanto meno bastava, quanto meno era possibile isolarsi.

Isocrate proponeva l’esempio di Megara[102], il che vuol dire che Atene
avrebbe dovuto rinunziare al posto preeminente, da essa moralmente
e politicamente occupato in Grecia, per ridursi alle proporzioni di
Megara. E anche ciò le sarebbe giovato poco per evitare i pericoli e le
conseguenze della guerra. Aristofane, per rappresentare le condizioni
di Megara in mezzo alle distrette del tempo, la figurava in un mortaio,
pestata spietatamente[103].

Era così: in forma sostanzialmente non diversa dalla nostra, ma in
maniera anche più rudimentale, la vita antica era un viaggio fatto
insieme, in poco lieta compagnia, da vasi di ferro con vasi di creta.

In fine del suo ragionamento anche Senofonte era costretto a proporsi
il caso di un conflitto necessario e lo faceva in questi termini.

«Se qualcuno mi domandasse: Credi che bisogna conservare la pace, anche
quando qualcuno faccia torto allo Stato? Non direi; ma dico piuttosto
che più sollecitamente lo puniremmo, quando non avessimo fatto torto ad
alcuno, giacchè l’avversario non troverebbe alleati»[104].

Questa domanda, evidentemente, scrollava dalla base tutto il
ragionamento di Senofonte; e la risposta non era tale da eliminarla.

Il conflitto sorgeva, e da uno se ne svolgeva un altro, per necessità
di cose; dalla difesa si passava all’attacco e dalla protezione del
proprio territorio all’occupazione dell’altrui.

Le milizie mercenarie, contro cui tanto si ribellava Isocrate[105],
erano state la conseguenza necessaria non solo di un maggiore progresso
dell’arte militare, ma di un certo svolgimento di forze produttive, di
un certo sviluppo industriale, che rendeva molesto a molti l’esercizio
prima normale della milizia, e, per una maggiore specificazione delle
funzioni sociali, faceva commettere la guerra ad una classe speciale
tratta dal proletariato crescente e disoccupato.

La milizia mercenaria avea così in gran parte la sua origine in
cause analoghe a quelle, che produssero nel Medio Evo le compagnie
di ventura, e provava praticamente che lo svolgimento delle forze
produttive, se è presupposto e base alla eliminazione della guerra
e all’assicurazione della pace permanente, non è, per sè solo,
sufficiente a produrre l’uno e l’altro di questi due effetti.

L’ideale della pace era sorto e si era venuto affermando naturalmente,
a misura che da un lato la guerra, con le sue disillusioni e con i
suoi lutti, si mostrava disadatta a realizzare uno stato di benessere
durevole, e dall’altro si venivano sempre più maturando condizioni
tali, che lasciavano sperare la possibilità di sopperire con lo
sviluppo normale della produzione a’ bisogni della vita.

Ma, tutto ciò costituiva semplicemente la _possibilità_ della pace
in un ambiente in cui varî elementi avessero omogeneità d’interesse
e potessero, concorrentemente, giovarsi de’ benefici della pace e
provvedere in maniera normale alla soddisfazione de’ propri bisogni con
l’appropriazione diretta e resa più agevole de’ mezzi opportuni.

Invece, in quell’ambiente regnava sovrana la più completa eterogeneità
d’interessi, un’opposizione d’interessi quale può sorgere dove
sussistono vive le antitesi di cittadino e di straniero nelle relazioni
esterne, di proprietario e proletario in quelle interne.

Allora quella pace che poteva rappresentare l’interesse e la mèta di
uno Stato prospero e industrioso, rappresentava invece un ostacolo
per uno Stato, che con la prevalenza politica, e la estensione del
dominio sperava ovviare alla sua inferiorità economica; quella pace
che rappresentava l’interesse e la sicurezza del proprietario e
dell’agricoltore costituiva una minaccia di disagio pel commerciante,
per il proletario, per il mercenario.

In tal caso, le parole che inculcavano la pace erano destinate a
perdersi inascoltate di fronte all’azione continua e prepotente delle
cose.

Che se, talvolta, questa illusione della pace riusciva ad imporsi come
norma di politica presente, tristi effetti ne potevano nascere in un
tempo, in cui si apparecchiava la pace solo facendo o minacciando la
guerra. La politica bellicosa di Demostene era la conseguenza ed il
rimedio, tardo forse e impotente, della politica pacifica di Eubulo.

Degli Stati dell’antichità e della loro inclinazione alla guerra,
poteva dirsi davvero: _aut sint ut sunt aut non sint_!

Il movimento verso la pace era dunque semplicemente il riflesso nella
coscienza di uno squilibrio che diveniva sempre più vivo e più sentito,
di un contrasto tra la possibilità per tutti di ottenere pacificamente
i mezzi di esistenza e la serie di conflitti con cui gli uni tendevano
a procurarseli divenendo i parassiti degli altri.

Questa aspirazione verso la pace, che, come un grande e luminoso
arcobaleno, ondeggiava innanzi agli occhi, al disopra della vita,
costituiva il nesso ideale tra una triste realtà, destinata a
tramontare, ed una migliore realtà destinata a svolgersi da quella
stessa.

Come aspirazione, come tendenza ideale, quindi, si affermava e
progrediva, assai più che nella vita pratica, nel mondo della coscienza
e delle idee, dove appariva come avvolta in un leggiero velo di
malinconia.

Da Eschilo ad Euripide, da Erodoto a Tucidide la guerra veniva perdendo
delle sue attrattive e la pace guadagnava favore.

A Tirteo si contrapponeva Bacchilide, e il suo poema era un inno alla
pace.

«La grande pace dà a’ mortali la ricchezza e i fiori de’ canti soavi e
fa che ardano agli dèi sugli altari fatti belli dall’arte, con aurea
fiamma, le membra de’ bovi e delle pecore vellose; fa popolare di
giovani i ginnasî e le aule. Negli scudi ferrati si stendono le tele
de’ neri ragni; l’umidità rode le acute lancie e le spade taglienti;
nè si ode più lo strepito delle trombe di bronzo, nè dalle mie palpebre
è rapito il dolce sonno che molce il mio cuore. Le piazze son piene di
amabili simposi, ed inni infantili si destano»[106].

Ma, altrove, Bacchilide stesso soggiungeva come oppresso dal peso di
un destino crudele: «Non è dato agli uomini di eleggersi il benessere
o l’instancabile guerra o la sedizione che tutto rovina; ma la sorte,
ministra d’ogni cosa, spinge il nembo qua e là, su l’uno o l’altro
paese»[107].

Così cantava Bacchilide.

Noi alla storia chiediamo appunto il segreto di quella «sorte ministra
d’ogni cosa», la legge e la causa della pace e della guerra, nel
passato e nell’avvenire; e qualche risposta pur ce la dà, la storia.

La pace e la guerra e la tendenza opposta all’una ed all’altra possono
essere prese come due termini dell’evoluzione sociale. La tendenza alla
guerra e la guerra permanente corrispondono alle forme economiche più
primitive e allo stato più rudimentale di parassitismo. Con un modo di
produzione più progredito si sviluppa sempre più fortemente la tendenza
alla pace; ma resta aspirazione, spesso contrastata dalla realtà,
finchè vuole soltanto sostituire la concorrenza all’appropriazione
violenta; e mostra così, con la stessa sua inefficacia, di potersi
tradurre in atto solo con l’avvenimento di una struttura economica,
che, eliminando con la forma individuale della produzione ogni
parassitismo di popolo verso popolo, d’individuo verso individuo, e
limitando l’appropriazione della ricchezza per parte di ciascuno al
solo prodotto del suo lavoro, tolga alla guerra ogni base ed ogni
motivo utilitario.




V.

Pace e guerra nell’antica Roma.


Le istituzioni di Roma sembrano plasmate dalla guerra e per la guerra;
e la lingua stessa serba tracce evidenti e profonde di una vita tutta
penetrata dall’esercizio della guerra.

Virtù è nel suo significato etimologico il valore personale, la forza
virile preponderante che si spiega e trionfa in campo. _Hostis_ è, al
tempo stesso, il nemico e lo straniero, a cui giuridicamente non si
riconosce diritto di sorta e a cui a rigore non compete alcuna tutela
legale dello stesso suo stato di fatto[108]; e tutta la politica e la
graduale organizzazione del dominio romano non sono che l’applicazione
in parte strettamente logica, in parte temperata di questo principio.
Se, nel seno della federazione latina la pace, stipulata in
perpetuo, vale come la regola e la guerra come l’eccezione, fuori
di quell’aggruppamento vale precisamente il contrario; e la pace,
conservata come stato di fatto o assicurata temporaneamente da limitate
stipulazioni, non è che un armistizio. La cittadinanza coincide, nelle
sue più antiche manifestazioni, con l’esercito, e la sua attività
politica sembra la funzione di quest’esercito mentre è in patria. Il
potere nella sua forma più alta e completa si chiama, con un nome
militare, _imperium_. Una delle funzioni della guerra, il servizio
militare a cavallo, dà il nome e l’origine a tutta una classe della
cittadinanza, l’ordine de’ cavalieri. Il possesso mobiliare mette
capo alla preda, e quello immobiliare, per mezzo dello Stato, alla
conquista. Roma estende il suo potere ad Oriente, ad Occidente, oltre
le Alpi, oltre il mare; e, dovunque il vessillifero pianta le sue
insegne, ivi tutto diventa proprietà di Roma. Che se la grande, ma pur
limitata forza di espansione della sua popolazione, e considerazioni
di ordine politico e amministrativo e interessi di dominanti le
vietano di fare una colonia di ogni angolo di terra ottenuto per
dedizione o conquistato, resta nondimeno ben fisso, in principio ed
in legge, che solo il suolo italiano è suscettibile di dominio, mentre
quello provinciale — propriamente tale — è semplicemente passibile di
possesso e, anche lasciato agli antichi proprietari, rimane in mano
loro a titolo precario con obbligo di un tributo, diverso secondo
i casi, verso Roma proprietaria e sovrana. Perciò i paesi venuti in
soggezione e chiamati amministrativamente _provinciae_, con nome che
ne vuole dire l’origine, sono anche con espressiva metafora chiamati
i fondi (_praedia_) del popolo romano[109]. «E, come la provincia
stessa è stata concepita quale un’occupazione militare perpetuata,
così la contribuzione, che si esige da’ provinciali, si concepisce
come una contribuzione di guerra perpetuata, cosa a cui mena anche la
denominazione _stipendium_; poichè il pagamento del soldo all’esercito
vittorioso costituisce il punto di partenza per le contribuzioni
di guerra... E, giacchè il suolo provinciale fu considerato come
proprietà dello Stato romano, i pesi che vi gravano sono riguardati
come rendita della terra (_vectigal_) dovuta al proprietario, e questa
concezione ha appresso dominato»[110]. La finanza romana, specialmente
dal cadere che fa in desuetudine il tributo di guerra, prelevato del
resto straordinariamente e come imprestito forzoso sulla proprietà
de’ cittadini, sino all’introduzione per opera dell’Impero di nuove
imposte generali, è costituita tutta dal provento sia temporaneo
che duraturo della guerra, impiegato in tutti gli usi della vita
religiosa e civile, adoperato a dare uno sfogo alla popolazione
esuberante, volto a sostenere nuove guerre, diretto a riparare e
placare la sorgente e risorgente questione sociale. In modo che tutta
la storia — quella rifoggiata dalla tradizione e quella rispecchiata
da’ documenti — sembra comporsi e spiegarsi, come verso un nucleo
ed un centro, intorno a questa preda strappata e difesa all’esterno,
disputata all’interno; mentre la stessa coscienza riflessa del popolo
consacra e magnifica, idealizzandolo, questo stato di cose e il poeta
nazionale inculca il vaticinio d’imperare su’ popoli. Cicerone, egli
stesso, sia pure per comodità di difesa, subordina con ogni altra
l’emula virtù dell’eloquenza alla virtù militare, scudo e fondamento
dello Stato[111], e più tardi ancora il giureconsulto, notomizzando il
diritto esistente e intessendolo come una rete d’oro e di ferro intorno
al congegno economico della società sua, dice come «diventano nostre
per ragione naturale le cose che si prendono al nemico» e «quelle cose
che prendiamo al nemico diventano immediatamente nostre per diritto
delle genti, sino al punto che anche gli uomini liberi sono ridotti in
nostra schiavitù»[112].

Pure, s’ingannerebbe, io credo, chi volesse riferire tutto questo a
uno spirito naturalmente bellicoso de’ Romani, che, quasi per intimo
e irrefrenabile impulso, corresse combattendo e conquistando tutta la
terra.

A chi partisse da un tal preconcetto, andrebbe non senza opportunità
rammentato quello che un finissimo scrittore francese faceva testè,
con una vena di sottile ed elegante umorismo, osservare a un suo
personaggio[113]: «... quanto a’ Romani, essi non erano essenzialmente
militari dal momento che fecero conquiste profittevoli e durature,
all’opposto de’ veri militari che prendono tutto e non conservano
nulla, come, per esempio, i Francesi.

«Questo anche si deve notare che, nella Roma de’ re, gli stranieri
non erano ammessi a servire come soldati. Ma i cittadini, al tempo
del buon re Servio Tullo, poco gelosi di conservare soli l’onore
delle fatiche e de’ pericoli, v’invitarono gli stranieri domiciliati
nella città. Vi sono degli eroi; non vi sono popoli d’eroi, non vi
sono eserciti d’eroi. I soldati non hanno mai marciato che sotto pena
di morte. Il servizio militare fu odioso anche a questi pastori del
Lazio che acquistarono a Roma l’impero del mondo e la gloria d’essere
dea. Portare l’equipaggiamento fu per loro così duro che il nome di
questo equipaggiamento, _aerumna_, espresse in seguito presso di loro
l’oppressione, la stanchezza del corpo e dello spirito, la miseria,
la sventura, i disastri. Ben condotti essi formarono, non già degli
eroi, ma de’ buoni soldati e de’ buoni terrazzieri; a poco a poco
conquistarono il mondo e lo covrirono di sentieri e di strade. I Romani
non cercarono mai la gloria: essi non avevano immaginazione. Non fecero
che guerre d’interesse, assolutamente necessarie. Il loro trionfo fu
quello della pazienza e del buon senso».

La storia tradizionale, se anche altera il nesso e il sèguito vero de’
fatti, duplicando e moltiplicando, per esempio, le guerre, o spostando
in tempi più antichi conflitti più recenti come quelli della lega
latina, pure può accampare una pretesa di verità, in quanto attraverso
i fatti singoli, sformati dalla tradizione orale e dall’elaborazione
successiva, riproduce questo aspetto più remoto di popoli vicini e
di territorio limitrofo o quasi, che stanno continuamente sotto la
minaccia o il danno di reciproche incursioni e sopraffazioni. La
menzione di uno stato di cose che non è pace e non è guerra, ricorre
frequentemente in Livio, e, insieme alla stanchezza della guerra
e alla repugnanza al conflitto, appare la necessità di prevenire
con l’aggressione l’attacco e di scongiurare con atto anche audace
la tempesta alla prima apparizione o al primo presentimento della
lievissima nube che l’annunzia.

«A che tardate ancora? — fa dire lo storico latino da T. Quinzio
Capitolino a’ plebei che non si vogliono arrolare[114]: — A che stato
sono le vostre cose private? Già già stanno per essere annunziati a
ciascuno dalle campagne i danni proprî. Quando, perdio, militavate
sotto il comando di noi consoli, non sotto quello de’ tribuni, in campo
non sul foro, e avevano paura del vostro clamore i nemici, avendovi a
fronte schierati, non già i patrizi romani, allora tornavate a casa,
a’ vostri penati, trionfanti, carichi di preda, ricchi di territorio
preso al nemico, pieni di fortuna e di gloria, sì pubblica che privata:
ora lasciate andar via il nemico carico delle vostre sostanze. Ve ne
rimanete piantati nelle assemblee e vivete nel foro, mentre v’insegue
quella necessità di combattere che fuggite. Era gravoso muovere contro
agli Equi ed a’ Volsci: ora ecco che la guerra è innanzi alle porte. Se
non la si rimuove di là, ben presto sarà tra le mura e salirà la rocca
e il Campidoglio e vi premerà nelle stesse vostre case».

E, altra volta, Appio Claudio a proposito della guerra contro
Veio[115]: «[Il nemico] non pose a coltura il suo territorio, e
quella parte che coltivò è stata devastata dalla guerra. Se ritiriamo
l’esercito, chi può mai dubitare che essi, avendo perdute le cose loro,
non invaderanno il vostro territorio, non solo per la brama di vendetta
ma anche per la necessità in cui si trovano di dover predare l’altrui?
Non differiamo dunque con questo partito la guerra, la ricettiamo bensì
entro i nostri confini....».

Sotto questo incubo il progresso di un popolo, il suo crescere,
una impresa vittoriosa, per la gelosia e i timori che suscitava nel
più prossimo vicino, divenivano anch’essi occasione di guerra. «La
guerra di Veio — dice Livio[116] — crebbe pel repentino sopravvenire
de’ Capenati e de’ Falisci. Questi due popoli di Etruria, essendo
di regioni vicine, credendosi prossimi alla guerra con Roma quando
Veio fosse vinta in guerra — i Falisci nemici anche per ragione
propria per essersi già precedentemente immischiati nelle guerre di
Fidene — strettisi insieme con giuramento mediante legati scambiati
reciprocamente, inopinatamente con gli eserciti si accostarono a Veio».

Così la vittoria e la sconfitta, l’una con le brame che acuiva e
le paure che suscitava, l’altra con l’aspirazione della rivincita e
l’iroso desiderio della rappresaglia — tutto diveniva fomite e materia
di guerra.

Anche qui la risoluzione del conflitto stava nella sua eliminazione,
mediante la fondazione di un dominio unico e sovrano, ottenuto con
tutti i mezzi che la forza delle armi e l’accorgimento della politica
potevano suggerire e fornire.

Prima di tutto nella penisola.

Roma, benchè sòrta da umili inizî, anche per i suoi stessi umili mezzi,
venne a trovarsi in condizioni straordinariamente favorevoli, rese tali
anche vie maggiormente dalla sua posizione centrale.

Se Roma si fosse trovata di contro, in Italia, uno Stato assolutamente
refrattario ad essere nè soggiogato, nè assimilato, la grandiosa
opera politica di Roma sarebbe stata soffocata in germe, e l’Italia ci
avrebbe presentato politicamente e militarmente lo stesso spettacolo
della Grecia sempre scissa e sempre pugnante tra Sparta ed Atene.
Ma in Italia mancava uno Stato, che, come Atene, messo alla testa di
tutto un imperio marittimo, sfuggisse alla presa di un’opposta potenza
territoriale e potesse irridere alla stessa devastazione de’ suoi campi
fatti in vista delle sue mura; nè la politica e i metodi di lotta di
Roma si restringevano in quelli angusti e sterili di Sparta.

Mentre Roma, modesta sovranità locale, combatteva ancora la sua lotta
per l’esistenza, sulle coste d’Italia fiorivano colonie greche ricche
e potenti, pel Mediterraneo andava dilagando l’egemonia cartaginese,
al Nord fiorivano il potere, i commerci e la civiltà degli Etruschi,
e dall’Italia centrale le stirpi sabelliche stendevano verso il
mezzogiorno le loro propaggini, presto alla loro volta diramate ancora
e moltiplicate.

Ma il contatto di tutti questi elementi, disgiunti da diversità di
origine, di sistemi di vita, di sviluppo civile, era necessariamente
un urto alla lunga estenuante e logorante, da cui i vincitori stessi
uscivano affranti e consunti o senza sapere trarre un frutto adeguato
e durevole dalla vittoria. Il dominio etrusco, già fiaccato su’ mari
dal tiranno di Siracusa, sopraffatto contemporaneamente, secondo un
sincronismo che il Mommsen chiama elegiaco, al confine meridionale da’
Romani e al settentrionale da’ Celti, era scalzato anche nell’Italia
meridionale da’ Sanniti, che con le varie loro ramificazioni
fiottavano, minando o fronteggiando, contro le colonie greche; e si
venivano così disegnando nello sfondo come l’ultimo propugnacolo della
resistenza italica e insieme il trionfo de’ Romani.

Mentre questi nuclei già annosi e potenti ruinavano, sgretolandosi
spesso nella loro caduta, Roma era giunta all’egemonia del Lazio, che
andò poi facendo luogo, attraverso resistenze e ribellioni, ad una vera
sovranità di sostanza, se non sempre di forma, e protetta e rafforzata
da quella limitata compagine di cui era il centro naturale. Alleata
con gli Ernici, aveva ridotto in soggezione il paese de’ Sabini, de’
Volsci, aveva messo stabilmente piede sul territorio etrusco con la
presa di Veio; e poteva già, come il falco che si libra per guatarsi
attorno, volgere l’occhio pieno di cupidigie e di fascini alla
circostante regione italiana.

Potevano i Celti irrompere anche vittoriosamente in Roma, ma, privi
com’erano di salda organizzazione politica, di una vera coesione
nazionale, la loro impresa di guerra, con tutte le disastrose sue
conseguenze, rimaneva una tempesta che devasta, schianta ed abbatte,
ma che, quando sia passata, feconda con le stesse piene riversate
su’ campi. Potevano gli Etruschi con ricorrente inquietudine rialzare
ancora il capo, ma come morti galvanizzati, dalle loro tombe che sole
dovevano conservare la traccia misteriosa della loro storia. Le colonie
greche, strette del resto da rapporti d’interesse e di amicizia, fatte
mercato di provviste e di esportazione, potevano sussistere ancora,
dove il ferro e il fuoco sabellico non erano giunti o non ne avevano
trionfato, potevano costituire specie nell’estremo punto d’Italia una
minaccia solo come punti di consistenza di un aiuto straniero. Contro
la possibile riscossa de’ paesi sottomessi, Roma era andata stendendo
le sue colonie e insinuando il suo spirito assimilatore.

Restava, grande antagonista, il Sannio, fiorente di gioventù bellicosa,
ampio di territorio, addestrato alle armi, appoggiato all’Appennino
come ad una rocca. Ma, come le fasi e l’esito del successivo conflitto
hanno rivelato, per le stesse condizioni interne e la natura delle due
compagini, la bilancia doveva finire per pendere dalla parte di Roma.

Roma favorita anche dalla sua posizione topografica, appoggiata alle
rive di un gran fiume, baluardo e sentiero di traffico, in prossimità
del mare, su lievi eminenze messe a cavaliere di un’ampia pianura,
che da un lato si stendeva a perdita di vista, mentre dall’altro con
dolce declivio andava a finire in una accidentata serie di colline e
di montagne, sembrava fatta per essere il naturale centro di gravità
della zona circostante, di cui non raccoglieva soltanto le forze, ma
riassumeva anche la vita, divenendo perciò ben presto, come accadde,
non solo la città egemonica e la signora, l’anima anche di una
compagine, che in periodo di lotta esteriore ha tanto più forza, quanto
più ha fusione ed unità. Questa stessa favorevole posizione topografica
nel centro d’Italia le aveva permesso di polire e elevare l’agreste
stato dell’agricoltore e del pastore col contatto commerciale e civile
delle più varie civiltà e de’ gruppi etnici più diversi, senza che
le subite e mutevoli fortune di una vita esclusivamente commerciale
ne falsassero l’indole o ne sviassero lo sviluppo. Così un senso di
bisogno o un desiderio del meglio che faceva guardare oltre il confine,
un modesto appannaggio che consigliava di andar cauto, una disparità
non grande di fortune, che manteneva, col desiderio e la possibilità
dell’indipendenza all’interno, il reciproco controllo delle varie
classi sociali obbligate ad assistersi e procedere concordi nella
lotta esterna — tutti questi elementi costituivano il sostrato di una
politica nè avventurosa, nè imbelle, nè miope, nè follemente ambiziosa,
per cui la potenza di Roma — col progresso costante della luce solare,
che dissipa le nubi, che si diffonde, che illumina, che riscalda
quando più sale — potè allungarsi su tutto il mondo antico colle armi
vittoriose che sgombravano la via, con i suoi negozianti che, alla
avanguardia o alla retroguardia, ne accompagnavano il passo, con i
suoi agricoltori che, venendo per ultimo, trapiantavano e radicavano
le insegne, il nome, la lingua, le istituzioni della patria sempre viva
e sempre presente in loro stessi. E, come conseguenza e complemento di
tutto questo, una mai fiaccata virtù assimilatrice, che dovunque sapeva
con occhio esperto trovare il punto di fusione, che su tutto metteva
la propria impronta, che a tutto comunicava il suo spirito assumendone
le forme e a tutto comunicava le sue forme assumendone lo spirito,
innestandosi su qualunque ceppo diverso col miracolo del centauro che
innesta sul dorso equino un busto umano, e proseguendo così invitta
la sua corsa per avvincere a sè e in sè, in mirabile fusione, tutti
i popoli, tutte le terre, tutte le civiltà della storia. E questo
miracolo umano della storia si compiva sotto il pungolo dell’interesse,
che, occhiuto si scagliava sulla preda, e prudente, a tempo opportuno,
frenava gli eccessi dell’avidità, adoperando di volta in volta la
generosità che lasciava liberi e ricchi, o la severità inesorabile
che adeguava al suolo le città, colonizzando, invadendo, aggravando,
civilizzando, pacificando, in modo da fare della stessa lotta per
l’esistenza una missione epica ed etica, che dava alla storia il
carattere grandioso e fantastico del poema e toglieva al poema il suo
carattere costringendolo ne’ termini della storia.

Quanto al Sannio — anche senza volere oracoleggiare _ex eventu_,
esagerando il giusto criterio di considerare come una necessità delle
cose gli eventi della storia — quanto al Sannio, si può ben dire che
per la sua ubicazione, per la sua fisonomia topografica e politica, pel
suo grado di civiltà esso doveva rappresentare nella storia piuttosto
l’episodio del valore sfortunato, il quale soccombe lottando per la
propria indipendenza, anzichè la parte del popolo che dà l’indirizzo e
il carattere a tutto un periodo della storia mondiale.

Disseminato per i contrafforti e le valli dell’Appennino, donde
dilagava a’ piani e alle coste sottostanti non per assimilarsene la
civiltà più progredita ma per sopraffarla con l’impeto di una raffica
devastatrice, l’elemento sannita perdeva subito non solo il legame
ma il contatto con le sue stesse ramificazioni più lontane; e anche
le stirpi più vicine, nella mancanza di un centro di attrazione
fatto tale dalla natura de’ luoghi e della vita, permanevano in una
forma federativa, determinata più che altro dalle esigenze della
difesa esterna, senza tuttavia fondersi in un più coerente organismo.
Questo popolo che non aveva potuto trovare nemmeno in sè stesso un
centro preponderante di attrazione, unificatore e moltiplicatore di
tutti i suoi sforzi; a cui, se la mancanza di duttilità, di virtù
assimilatrice e di adattibilità davano maggior potere di resistenza e
maggior riluttanza al soggiogamento, toglievano altresì la possibilità
di un’espansione durevole e pacifica; questo popolo aveva nella
stessa sua posizione eccentrica, rispetto al resto della penisola,
un’altra difficoltà a divenire il centro e la capitale d’Italia, il
nucleo mediano di tanti popoli circostanti spinti a fondersi insieme,
a costituirsi in uno Stato, a comporsi in una nazione. I montanari
disadatti ad un’opera continua e restauratrice di assorbimento e di
rinnovazione erano così destinati a vedere invaniti i loro sforzi
ostinati e a soccombere — come soccombettero — contro il fiottare
sempre più insistente e più gagliardo del popolo che aveva in sè tutta
la virtù germinativa dell’albero ben piantato in suolo propizio e che,
grazie alla forza delle sue radici, per ogni ramo reciso dalla scure o
spezzato dalla bufera, spande meglio, con vendetta allegra, nell’aria
una più lussureggiante dovizia di germogli e di rami.

E dopo il Sannio venne la volta di Taranto, la colonia greca più
fiorente, piantata sul porto più bello, che aveva accarezzato benchè
senza fortuna il sogno di un largo dominio territoriale alle sue
spalle, ma che stava sempre là come una sentinella avanzata e un
punto di approdo della razza greca, come un pomo della discordia tra
l’elemento ellenico e quello che per gli Elleni prendeva anch’esso nome
di barbarico.

Sino a questo punto Roma si era trovata nella condizione favorevole
di non avere a lottare contro l’intervento di una potenza straniera
bene organizzata; chè tali non erano i Galli; e dall’ingerenza de’
Siracusani e de’ Cartaginesi, limitati a difendere l’egemonia del
mare, i Romani non avevano tratto che vantaggio nella lotta contro gli
Etruschi.

Il provocato intervento di Pirro fu la prima avvisaglia della nuova
potenza occidentale con la potenza orientale che, avendo ora raggiunto
il suo apice, si avviava per la curva discendente della parabola;
ma fu soltanto un’avvisaglia. Pirro, più capitano che principe, più
cavaliere di ventura che conquistatore, neppure affatto sicuro del suo
nido epirota, potè essere efficacemente e vittoriosamente combattuto,
su terreno non suo, in battaglie che lo sfibravano anche quando
avevano forma di vittorie, tra le crescenti diffidenze de’ suoi stessi
alleati d’Italia, che proprio mentre cominciavano ad accorgersi d’avere
importato un padrone mentre chiamavano un mercenario — si sentivano
per la prima volta davvero attratti verso Roma e s’accorgevano d’essere
congiunti ad essa da legami etnici, geografici, politici.

Con la vittoria avuta su Taranto, Roma era omai giunta al confine
meridionale d’Italia; e, in cospetto del mare che cingeva e limitava la
penisola, in vista del biforcato Appennino che apriva le braccia come
un anfiteatro e un altro baluardo, potè sembrare a molti che si fosse
chiusa la storia di Roma. Con l’anno che segna la presa di Taranto (482
a. u. c. — 272 a. C.), Roma si trovava già di avere sparso per l’Italia
come sentinelle della sua egemonia, come pionieri del suo nome e della
sua civiltà ben trentatre colonie latine e romane[117], e pochi anni
appresso (266 a. C.) repressa la sollevazione di Reggio e del Piceno,
vinti i Salentini, era omai esteso ed assodato l’impero di Roma su
tutta quella parte della penisola che, — sin quando il nome non ne fu
spinto più oltre a’ confini naturali — s’intese sotto il nome d’Italia.
Ma a più d’uno quello stesso mare, sul cui sfondo a breve distanza si
disegnavano le coste della Sicilia e della penisola balcanica, posti
avanzati dell’Africa e dell’Oriente, doveva apparire come un nuovo
e maggiore campo di lotta, un mobile ponte verso un ignoto e più
fortunoso avvenire.

In realtà non si era chiusa la storia, ma un periodo soltanto della
storia di Roma: un altro se ne apriva più vario e più grande.

Questo fantastico miraggio della pace, che ogni allargamento di confini
pareva dover realizzare, in realtà non faceva che spostarsi con lo
stesso spostarsi de’ confini, e, vera fata morgana della vita, traeva
a sè sempre più oltre, dissimulando agli occhi allettati ed illusi i
baratri che si schiudevano innanzi a’ piedi.

Oltre quel mare pieno di lusinghe e di promesse, gravido di tutti
i pericoli e le attrazioni dell’ignoto, sulle sponde estreme, che,
cingendolo, ne segnavano i confini, erano le membra divise di quello
che era stato l’ultimo e più grande impero della storia, ma che pur
così divise — gloriose di antiche tradizioni e del prestigio più
recente, ricche di risorse e ridivenute, nello spezzarsi del più grande
impero, esse stesse centri di commercî, di civiltà e di cultura —
rappresentano una potenza e una minaccia. Erano la Macedonia, la Siria,
l’Egitto.

Rimpetto, appena oltre la Sicilia, quasi in vista, era Cartagine,
disputante vittoriosamente all’elemento ellenico il dominio del
Mediterraneo occidentale.

Ma la Grecia, ma la Sicilia specialmente, due antemurali verso
l’Oriente e verso l’Africa, erano anche due ponti, che, disputati, si
convertivano naturalmente, com’era accaduto prima, come accadde poi, in
due grandi e quasi perpetui campi di battaglia.

Così, non un preordinato piano di conquista e uno schema d’impero
da tradursi in atto — quale sembra apparire dalla storia — ma una
necessità storica, determinata di volta in volta da difese che si
convertivano in aggressioni, da interventi precauzionali o lusingatori
che divenivano occupazioni, portava i Romani ad estendere il loro
dominio con la sembianza del primo piccolo cerchio di un’acqua
percossa, che si dilata in tanti cerchi maggiori, propagandosi, finchè
il moto dura, sino all’estremo. E da’ fatti stessi il senso di questa
necessità storica si traduceva nelle menti e diveniva prima in alcuni,
poi ne’ molti, — come la fortuna secondava e i contrasti scemavano ne’
più o in tutti — politica di espansione, politica _imperialista_ come
oggi si direbbe, per cui l’_urbs_ si mutava nell’_orbis_, e l’umile
rifugio di pastori del Palatino diveniva il centro della terra abitata,
l’ombelico del mondo, l’erede e il crogiuolo di tutti gl’imperi e di
tutte le civiltà preesistenti.

Prima a scoppiare fu la lotta con Cartagine, che, ingaggiata da
prima per la protezione e poi pel possesso della Sicilia, non tardò a
rivelarsi, nella sua durata secolare (490-608 a. u. c. — 264-146 a. C.)
una vera lotta mortale, e finì, nella sua terza fase, secondo l’indole
del mondo antico, col completo annientamento della rivale soccombente,
con la sparizione di Cartagine.

Era questo — più che non ogni altro, avvenuto in passato tra potenze
navali e terrestri — il duello della balena con l’elefante.

L’elemento fenicio, duttile, pieghevole, forte di tutti i vantaggi e
gli espedienti dell’adattamento divergente in Oriente, si era trovato
dalla necessità delle cose educato alla resistenza ed alla lotta in
questo suo rifugio d’Occidente, onde non aveva altro scampo; e dove,
alla fine, sopraffare od essere sopraffatto, era divenuto un dilemma
senza uscita, e non era possibile scorrere i mari senza dominarli,
nè commerciare senza combattere e conquistare. Ma a combattere e
conquistare si adattò sopratutto per mezzo di mercenarî, in modo che,
come assai felicemente è stato osservato, anche la guerra per esso
divenne una specie di traffico. E l’arte di governo, il dominio, la
politica erano anch’essi in fondo riguardati come un affare trattato
col colpo d’occhio, ma anche con la corta veduta dal mercante e
rovinato con l’avidità che vuol trarne troppo frutto in una volta.
Ridotta a una oligarchia chiusa, Cartagine, finiva così per vivere
isolata, non solo rispetto a’ sudditi e a’ possessi più lontani, ma in
mezzo allo stesso suo dominio africano, col legame lento e temporaneo
del traffico, che mette spesso i due contraenti di fronte come due
schermidori se non come due nemici, imperando e procedendo attraverso
e mediante tutto un sistema di diffidenze, senza virtù assimilatrice,
senza quella veramente romana arte d’imperio che trasforma, che fonde,
che congiunge per mille vie con un vero processo di concrescenza il
dominato al dominatore.

Al cozzo con questa sua prima davvero grandiosa rivale, Roma procedeva
con tutta la forza, l’energia, la virtù perseverante e penetrativa
del suo popolo di agricoltori da’ progressi lenti ma stabili, che
dissoda il campo e fabbrica la casa dove il mercante ha piantata la
tenda, col sostegno di quelle stirpi italiche, che, anche attraverso
qualche risorgente proposito di defezioni e i dissidî di una
condizione disuguale, si sentivano nondimeno strette da comunanza di
aspirazione e d’interesse, costituendo per Roma una base e uno schermo
nel suo progresso verso l’Impero universale. Così potè accadere che
la battaglia di Canne fosse soltanto una ferita larga e sanguinosa
cicatrizzata con relativa sollecitudine, mentre la battaglia, forse
meno disastrosa, di Zama, fu colpo mortale che pose fine alla guerra
di rivincita, minacciando l’esistenza stessa di Cartagine; così accadde
che, mentre Annibale in vista di Roma non aveva potuto osare l’assedio
e l’assalto, Roma potè, nell’ultima fase della guerra, stringere da
vicino Cartagine e spianarla.

La lotta con Cartagine, oltre a tutti gli effetti diretti inerenti
al grande conflitto, aveva avuto la conseguenza di attrarre Roma in
tutti gli avvolgimenti e i contrasti della politica estraitalica; e
la seconda guerra punica, primieramente divampata in Ispagna, non era
ancora finita, e già altre nubi, suscitate da nuove gelosie, da nuovi
temuti o incipienti conflitti d’interesse, addensate dall’instancabile
odio di Annibale, si stendevano dall’Oriente per approdare, gravide di
procella, alla guerra tre volte rinnovata con la Macedonia, a quella
con la Siria. La lusinga, prima accarezzata in certi circoli della
classe dominante romana, di risolvere que’ confitti in un’egemonia di
Roma su di un sistema di Stati ridotti a considerarla come arbitra,
urtò primieramente contro l’instabilità di una simile posizione e
il conseguente risorgere de’ conflitti, invano risoluti, e delle
guerre inutilmente vinte; mentre la forza delle cose, che si rivelava
nell’incompatibilità di un’ulteriore coesistenza, ne’ bisogni crescenti
di Roma, nella dilagante attività economica e avidità delle sue classi
dominanti, portava irresistibilmente a fare di quegli Stati prima de’
tributarî e poi de’ sudditi, avendo l’epilogo nella distruzione di
Cartagine e in quello di Corinto.

Così dalla parte d’Oriente, Roma non aveva a guardarsi che per
proteggere o per dilatare i suoi confini, come fece nelle guerre più
tarde della Repubblica, nella mitridatica, nella conquista di Egitto,
episodio dell’ultima guerra civile, nella guerra dell’Impero contro
ribellioni più o meno ostinate di popoli soggiogati e contro i Parti,
gli Armeni fiottanti a’ confini.

Assicurata da quella parte, Roma allungava la mano sulla Numidia,
riprendeva l’ascensione verso il Nord interrotta dalla seconda guerra
punica, legando all’Impero l’impresa, omai dall’evento rifranta e
riflettuta come missione, di fare de’ confini del mondo conosciuto e
del mondo romano una sola ed unica cosa e riuscendo così, attraverso la
guerra tante volte secolare, al solo temporaneo periodo di pace, che il
mondo antico pareva promettere e consentire, l’unione di tutti i popoli
in un dominio, sotto un solo imperio; una pace figlia della forza,
legata a una catena, comunque dissimulata dal tempo e dall’adattamento,
troppo artificiale per essere durevole, troppo costosa e inquinata di
parassitismo per riuscire appieno feconda, troppo piena di antagonismi
mal costretti per cementare i varî elementi in un organismo e impedire
che dal loro seno stesso risorgessero altri conflitti più volte
secolari.

A tutto, intanto, questo ampliamento progrediente del dominio romano,
che dall’esterno e nel suo complesso appare nell’aspetto di una forza
che si esplica con moto continuo e in un solo senso, corrisponde
all’interno dello Stato un contrasto di forze e d’indirizzi di cui quel
movimento non è che la risultante.

Già la storia tradizionale è tutta penetrata dal dissidio interno, in
cui si ripercuote, nelle sue premesse e nelle sue conseguenze, ogni
azione di guerra; e, se la tradizione non può essere accolta in questo
come espressione del _certo_, può aversi in conto come riflessione del
_vero_, secondo il concetto del Vico, e vale nelle sue linee generali
sia come proiezione in tempi più antichi di lotte venute posteriormente
a farne più visibili le proporzioni maggiori, sia come interpretazione
data dalla coscienza nazionale di più remoti ma non alieni rapporti di
vita.

Nella versione così di Dionigi, come di Livio, la tradizione lascia
spesso trasparire il desiderio di pace che fa argine al partito della
guerra, e il più delle volte la guerra s’inizia tra la reluttanza e
la resistenza aperta della plebe, o come diversivo di una sedizione
interna, o come una concessione della plebe in cambio di promessi
alleviamenti economici e di ottenute riforme costituzionali.

«..... Quanto è bella cosa — fa dire Dionigi[118] perfino a Coriolano —
che ognuno si abbia il suo e vivasi in pace: quanto pregevole che niuno
tema nè i nemici, nè i tempi; e come è biasimevole che chi ritiene
l’altrui si esponga senza necessità alla guerra con pericolo delle cose
anche proprie.....».

E Livio, alla sua volta, tra le altre cose accenna a un dissidio tra il
partito della pace e quello della guerra tra i Sabini[119]; e, presso
i Latini, tanto è l’odio della guerra e la brama della pace, dopo la
tradizionale battaglia del lago Regillo, che non si rispetta nemmeno
il carattere sacro degli ambasciatori volsci incitanti alla guerra, e,
contro il diritto delle genti, se ne fa la consegna a Roma[120].

«Una moltitudine ingente d’invocanti la pace atterrì con clamore
sedizioso i consoli passanti in rassegna le legioni»[121] per la
rinnovata impresa contro i Volsci. «Consoli e senato» — in questa
impresa contro Coriolano — «in niente fuorchè nelle armi riponevano la
loro speranza, la plebe tutto preferiva alla guerra»[122].

La guerra provocata per riversare all’esterno l’inquietudine interna
e sopirla col cercarle una nuova mèta e un nuovo sfogo, è motivo che
ricorre con frequenza così nell’uno come nell’altro storico delle
origini di Roma[123]; ma occorre lo scalpitare de’ nemici alle porte
per riuscire a stento e dopo molto tentennare e molto promettere, se
non molto concedere, a trarre nel turbine della guerra i dissenzienti.
Spesso anzi il dissidio interno riaccende e fortifica l’avversione alla
guerra.

«Non appena fu bandita — dice Livio[124] — [la nuova guerra contro i
Veienti (447 a. u. c.)] ecco la gioventù fremere che non ancora si era
usciti dalla guerra con i Volsci, e pur mo’ erano stretti di assedio
due presidii, che si ritenevano ancora con gran pericolo; non passava
anno in cui non si venisse a battaglia campale, e, quasi che non se
ne avesse abbastanza, si preparava una nuova guerra con un popolo
confinante e potentissimo, che avrebbe suscitata a favor suo tutta
l’Etruria. I tribuni della plebe, per soprassello, soffiano su questo
malcontento sorto spontaneamente. La guerra maggiore, van dicendo, è
tra la plebe e i patrizi: a disegno perciò la si espone a’ travagli
della guerra e alle armi de’ nemici, la si ricaccia e relega lontano
dalla città, perchè non agiti stando in patria a riposo, non si occupi
di libertà, di colonie, di demanio pubblico o di libero diritto di
voto».

Questo sospetto reale o immaginario, spontaneo o fomentato, della
guerra suscitata come un diversivo, traeva tanto più le classi
inferiori e più disagiate della popolazione a patteggiare la loro
cooperazione, esigendo alleviamenti nel diritto rigoroso e crudele
delle obbligazioni, guarentige politiche di una maggiore tutela in
ogni campo della vita sociale; e così l’atteggiamento discorde verso
la guerra, naturalmente provocato dalla diversità degl’interessi e
dalla repugnanza a una vita di continui pericoli, cresceva per ragione
artificiale con lo studiato calcolo della resistenza.

Col graduale scostarsi, poi, della guerra dalle più immediate adiacenze
del territorio cittadino, mentre la guerra diveniva meno urgente e di
utilità generale meno immediata, cresceva di durata, di difficoltà, di
dispendio.

È vero che il territorio de’ nemici era in tal caso usufruito ad
alimentare l’esercito invasore, che anzi talvolta la guerra si
proponeva come scopo principale di cercare alimento a una parte del
popolo a spese del nemico[125]; è vero che per l’imprescindibile forza
delle stagioni e della economia agricola si regolavano il contingente e
le fasi della campagna in modo da non sconvolgere troppo la produzione
agricola; ma, quando la guerra era troppo lontana e l’azione si
prolungava troppo inevitabilmente e il territorio nemico già devastato
e non tornato a coltivare non forniva più il necessario alimento, la
guerra approdava a un altro genere di difficoltà più gravi forse della
stessa azione militare.

Fu così che, durante l’assedio di Veio, lo Stato si vide costretto (348
a. u. c. — 406 a. C.) ad assumersi esso l’obbligo di una indennità di
guerra a’ cittadini militanti; e, con felice e naturale intuito della
situazione dice Livio[126]: «niente si dice che sia mai stato accolto
con tanto gaudio dalla plebe».

Ma questa gioia dovette ben presto temperarsi quando anche quel
provvedimento cominciò a mostrare i suoi inconvenienti.

Secondo l’ordinamento che va sotto il nome di Servio Tullio, e finchè
innovazioni non s’introdussero tra la seconda e la terza guerra punica
e successivamente, il servizio militare nelle legioni ricadeva tutto
su quelli che avevano un censo di undicimila assi; e, oltre al pesante
servizio militare, questi stessi erano, per la loro parte, soggetti al
_tributum_, prestito forzoso che lo Stato si obbligava di restituire;
ma la restituzione, naturalmente subordinata alle condizioni
finanziarie dello Stato, era così incerta o per lo meno irregolare,
che le molestie e i danni della gravezza finivano per esserne di poco
attenuati.

Come compenso a questa gravezza personale e reale, doveva in certo modo
valere il bottino di guerra, che andò crescendo a misura che la guerra
fu portata in paesi più ricchi, ma che, d’altra parte col procedere
del tempo, non fu attribuito tutto a’ soldati, bensì nella proporzione
voluta dal comandante.

V’era pure un altro vantaggio nelle assegnazioni sia coloniarie che
viritane, individuali, della parte di territorio tolta non solo di
diritto ma anche di fatto al nemico vinto ed avocata allo Stato.

In questa colonizzazione, subordinata e inspirata da prima a ragioni
prevalentemente militari, si vennero a grado a grado contemperando
scopi anche essenzialmente economici e sociali; sicchè Roma, molte
volte e per molto tempo, trovò in essa uno sfogo alle agitazioni e
al malessere interno, un vivaio della sua popolazione e della sua
forza militare e al tempo stesso un mezzo, oltre che di dominare,
di diffondere il suo nome e la sua costituzione e di assimilare le
popolazioni soggette.

Ma un così lungo sèguito di guerre non poteva fare a meno di
stremare una popolazione per sè stessa limitata; e l’immiserimento
progressivo dipendente dalla continua sottrazione di tante forze vive
all’agricoltura, esercitando i suoi ultimi tristi effetti, complicava
continuamente il problema sia sotto l’aspetto economico che sotto
quello demografico con le sue conseguenze militari e politiche.

Mentre, appunto dopo la prima guerra punica, la rogazione di C.
Flaminio per l’assegnazione di terre nell’agro piceno e gallico mirava
ad assicurare alla plebe rustica, alla piccola proprietà fondiaria
un nuovo campo propizio al suo rigermogliare, sopravvenne la seconda
guerra punica con tutte le devastazioni e le sciagure dell’invasione
annibalica.

Al tempo di Polibio, per una innovazione introdotta probabilmente da
poco, forse intorno al 566 a. u. c.[127], con provvedimento pregno di
gravi conseguenze politiche, si abbassò a 4000 assi il censo richiesto
pel servizio nelle legioni, mentre, anche quelli che avevano un censo
inferiore a 4000 assi, erano chiamati a prestar servizio nella marina.

Ma, mentre un tale ordinamento non faceva altro, sottraendo forza
all’agricoltura, che far succedere sempre più il latifondo alla piccola
proprietà, il pascolo al terreno sativo, il lavoro servile al lavoro
libero, riesciva tuttavia insufficiente alle cresciute esigenze della
politica internazionale e della guerra trasportata su di una così larga
zona in paesi lontani.

L’avversione ad ogni nuova impresa di guerra da parte di questa plebe
rustica, che costituiva ancora il nerbo della forza combattente, si
mostrava in ogni cosa. Solo le minacce, abilmente fatte balenare e
fatte valere, di un’altra invasione in Italia[128] fecero compiere la
prima guerra macedonica, a cui si portavano truppe protestanti a gran
voce contro il nome ad esse dato di volontarie[129]. Il reclutamento
di schiavi, di volontari, che comincia quind’innanzi a non essere
più raro, gli espedienti de’ Latini per isfuggire alla coscrizione,
mostrano la difficoltà del reclutamento ordinario. All’estremo opposto,
in Ispagna, quanto più persisteva la guerra, tanto più suscitava
ripugnanze e stentava a trovare forze combattenti, finchè non soccorse
con l’incitamento, con l’azione sua personale, con l’esempio, Scipione
Emiliano.

Di queste tendenze e di questi bisogni fu espressione la politica degli
Scipioni, che, appoggiati al medio ceto campagnuolo, cercavano di far
prevalere un indirizzo per cui Roma riuscisse a mantenere la propria
egemonia, rispettando certe suscettività, un certo grado di autonomia
delle regioni transmarine, e così si scongiurasse l’evento di guerre
lunghe, difficili e frequenti.

Ma questa politica di mezzi termini, come si è accennato, non riuscì
a prevalere che per poco e andò presto a rompersi contro tutte le
difficoltà delle condizioni sia interne che esterne.

Catone il censore volle invece affrontare la situazione direttamente,
rompendo per sempre con impeto vigoroso la resistenza e favorendo la
persistenza e la rinascenza del medio ceto campagnuolo col combattere
il lusso e determinare il ritorno a’ campi specie con un sistema
d’imposizione, che, gravando sui bisogni voluttuarî, facesse al tempo
stesso sopportare le spese della guerra a’ più ricchi e spingesse i
capitali verso le forme d’impiego più produttive. Una più oculata e
rigorosa amministrazione, poi, una larga distribuzione del bottino a’
soldati dovevano contribuire alla loro volta a restaurare le finanze
del medio ceto e far convergere a loro vantaggio tutti gli accresciuti
cespiti dello Stato.

Questo indirizzo, che Catone voleva dare allo Stato, si rivelava
sinteticamente in quei motti brevi e concettosi con cui egli soleva
spiegare e commentare una sua azione o ribattere e castigare un
avversario; come quando, distribuendo dal bottino della Spagna una
libbra d’argento ad ogni soldato aggiunse «esser meglio che molti
Romani riportassero a casa argento che non pochi oro»; e quando disse
che la «guerra deve alimentarsi da sè».

Intanto gli allargati orizzonti, il più ampio campo d’azione, la
cresciuta quantità de’ bisogni e de’ rapporti avevano creato nello
Stato tanti altri nuovi fini, tendenze, contrasti, tanti altri nuovi
fattori, massime della politica sia interna che esterna, influenti
l’uno sull’altro; e, non solo la guerra e la pace non andavano più
soggetti a quelle ben delineate alternative e a quelle semplici forze
agenti che ne determinano le vicende nelle condizioni dell’antica più
semplice vita romana, ma le vedute in apparenza più semplici erano
non di rado deluse dagli avvenimenti successivi e approdavano per
ulteriori complicazioni a fini non preveduti e anche opposti, mentre
nuovi e vecchi interessi ora si trovavano a cooperare sul terreno
dell’opportunità, ora venivano di nuovo in contrasto.

La classe dominante si era andata biforcando nelle due categorie
de’ grandi proprietari fondiarî e de’ capitalisti, ora in conflitto
tra loro, ora alleati, come la plebe si era andata scindendo in
urbana e rustica, possidente e proletaria, con interessi non di rado
diametralmente opposti.

A tratti a tratti questi dissidî si risolvevano in maniera più
pronunziata, finchè non cercavano e ritrovavano un modo di composizione
a spese degli elementi esterni.

La controversia per la terza guerra punica che nello stesso acuto
Polibio[130] appare troppo avvolta di legalità formali, appariva già
da qualche tempo ad un accuratissimo interprete dell’antichità[131]
come un dissidio in cui Catone e il ceto commerciale combattevano
rispettivamente la concorrenza de’ cereali esiziale al ceto agricolo
italico e la risorgente rivale commerciale, mentre i latifondisti
allevatori d’armenti, con a capo Scipione Nasica, difendevano nella
conservazione di Cartagine il mercato di bestiame sempre più proficuo
con la progrediente messa a cultura della terra d’Africa.

E, con Cartagine, cadde contemporaneamente l’altro malvisto emporio
commerciale, Corinto.

Parve poi venuta la volta di Rodi, ma la sua colpa poteva apparir lieve
e contro di essa questa volta lottava una sola categoria d’interessi:
si approdò a un accomodamento tra il sentimento, la giustizia e
l’interesse delle classi commerciali: Rodi rimase, ma menomata,
umiliata, depressa, con Delo alle spalle, elevata a privilegiata
concorrente.

Il dominio romano intanto si era così allargato con la cooperazione
più o meno entusiasta, più meno sforzata di tutti, in ossequio alla
prevalente forza delle cose e all’azione decisiva degli interessi
presenti: obbedendo agli stessi agenti, spiegava ora obbiettivamente
tutta la sua azione realizzando e appagando le speranze di alcuni,
deludendo e magari deridendo le illusioni di altri.

Con la distruzione di Cartagine non era nè cessata, nè ridotta la
concorrenza a’ cereali italici, e il latifondo si estendeva sempre
più, ricacciando continuamente il ceto medio espropriato nella città,
spingendolo verso la voragine in cui scompariva.

Il dominio romano s’era ampliato ma non per ricostituire fuori d’Italia
il decadente medio ceto italico. Nè l’aristocrazia fondiaria lo
voleva, nè conveniva a’ capitalisti; nè Roma e l’Italia senza esaurirsi
potevano scaricarsi di una popolazione già declinante; nè probabilmente
gli stessi eventuali coloni erano allettati dalla prospettiva di essere
trapiantati in paesi lontani, tra popolazione mal domite e talora
in istato di barbarie, rinunziando all’esercizio effettivo de’ loro
diritti politici.

Il dominio fu quindi ordinato per provincie, in linea di principio
a tutto beneficio dello Stato, in linea di fatto a massimo se non
esclusivo vantaggio dell’ordine senatorio chiamato a governarle
con autorità quasi vicereale, a vantaggio de’ capitalisti ammessi a
sfruttarle come appaltatori, pubblicani, parassiti di ogni grado e di
ogni forma.

Tante guerre, insieme alla terra e a’ capitali, avevano anche dato con
la schiavitù lo strumento animato, automatico per mettere a profitto
l’uno e gli altri; e il medio ceto rustico, premuto, incalzato dal
latifondo, fatto proletario, veniva anche in questa nuova veste,
stretto e vessato dalla deprimente affamatrice concorrenza del lavoro
servile.

Allora le speranze, le brame e i bisogni, che avevano cercato
appagamento all’esterno, ricacciati entro i confini stessi d’Italia
riarsero ivi più forte, come forza compressa che, vicino allo scoppio,
cerca un ultimo sfogo, con aria minacciosa di tempesta.

Abili concessioni suggerite da una politica piena di perspicacia e di
tatto posero per un momento i capitalisti dal lato della plebe, con
cui potevano far causa comune questa volta anche perchè l’assegnazione
dell’agro pubblico italiano non intaccava l’ordinamento provinciale e
lasciava loro mano libera in questo.

Le resistenze erano molte e bene organizzate, quali potevano essere
quelle dell’aristocrazia fondiaria, che s’era appropriato l’agro
pubblico, ma gagliardo e potente era anche l’assalto, e la sua maniera
di eliderlo era quello di deviarlo, come fu fatto.

Piuttosto che leggi agrarie, leggi frumentarie; piuttosto che terra
da coltivare, pane da raccogliere sul Foro; pane e doni e feste e le
bricciole del banchetto de’ dominatori.

La composizione avvenne sulle basi di un comune parassitismo, tutto a
spese de’ dominati.

Con la fine della guerra perseica (167 a. C. — 587 a. u. c.) cessò il
prelevamento del tributo in Italia, sicchè quel che restava e poteva
ancora sussistere dalla piccola proprietà, n’era alleviato, mentre,
al tempo stesso, si vedeva messo al sicuro di un’altra campagna, come
l’annibalica.

Le classi dominanti imperavano, arricchivano, smungevano, corrompevano,
diguazzavano nel lusso e nel piacere.

Il proletariato, specie l’urbano, oltre agl’impieghi in cui poteva
vincere o sostenere la concorrenza servile, aveva aperto l’adito alla
corruzione elettorale, alle distribuzioni di frumento: a tutti gli
espedienti del parassitismo pubblico e privato.

Un altro sfogo s’aperse — naturale conseguenza di questa condizione di
cose — al proletariato, e fu la milizia, dischiusa sotto Mario a tutti
senza distinzione di classi e di possesso, e che cominciò a costituire,
specie per tutti i detriti sociali, una professione, una carriera, un
mezzo di sussistenza, onde s’usciva infine col gruzzolo del bottino
risparmiato, con la scorta della terra assegnata al veterano, specie ad
occasione delle guerre civili.

Parve un equilibrio, e, per quanto mutabile, mal fido, roso da un
intimo vizio, era tale pel tempo; e trovò la sua espressione pratica
nell’Impero, che, gravitante a lungo sotto forma di cesarismo,
instaurato sotto forma di una transazione tra il principato cesareo
e l’ordine senatorio, degenerato in una dispotia, appariva pur sempre
come l’unico centro di gravità di tanti elementi discordi, come l’unico
mezzo di soggezione del dominio e la guarentigia di una pace, di cui
una serie di concentriche oligarchie, che dall’Italia anelavano alla
Corte imperiale, raccoglievano i frutti, ma di cui anche l’intero
dominio, pure sfruttato com’era, sentiva e godeva i vantaggi.

In quell’immenso dominio, che omai abbracciava quasi la terra abitata
(οἰκουμένη) la guerra omai, ridesta da contese di successione o da
ribellioni, riardeva solo come fuoco che irregolarmente divampa, e per
poco, da’ resti di un incendio, o vagava incerta intorno a’ confini,
come fiamma, che lambe a sbalzi, come per tentarlo, un tronco non
ancora invecchiato, senza potervisi tuttavia apprendere e penetrare
oltre la scorza.




VI.

Le cause della guerra.


Quanto non è mai grande e molteplice la varietà de’ casi, attraverso
cui si determina o si fa più acuto il conflitto di due popoli e scoppia
la guerra!

La passione, la bizzarria, la leggerezza, la sottigliezza di storici e
di polemisti, di novellatori ed esegeti vi si fermano con compiacenza
di artisti e di curiosi; e le piccole e le grandi tempeste passano,
scatenate, a volta a volta, dall’ambizione di un re, dall’avidità
di un demagogo, dal volubile capriccio di una donna, da un intrigo
di bassa lega per assumere, agli occhi di un osservatore più acuto,
successivamente, le forme dell’esplicazione di una tendenza bellicosa,
dell’antagonismo di due razze o varietà etniche, di una piccola o
grande rivalità commerciale, di una suggestione di fanatismo religioso.

In vero quella varietà episodica rappresenta talvolta una serie
di fatti talvolta anche storicamente accertati, e queste vedute
più generali e più approfondite hanno anch’esse riscontro in reali
condizioni dell’ambiente: solo, un’indagine ancora più spinta riesce
a scorgere nel primo caso le cause soltanto occasionali e nel secondo
delle cause suscettibili di una generalizzazione ancora più ampia e
capaci di andar tutte comprese sotto una causa di ordine anche più
generale, che persiste, opera in continuazione, e si rifrange, si
rivela, s’individua, secondo la varietà de’ casi e degli ambienti, in
episodî e moventi di carattere più particolare.

Nelle sue forme più antiche e più semplici la guerra si svela
apertamente come un mezzo di provvedere alla sussistenza di una
popolazione.

Così in quella _primavera sacra_, comune all’Oriente come
all’Occidente, alla Lydia come all’Italia[132], forma riflessa e
consapevole del fenomeno più generale rivelato dalle grandi migrazioni
di popoli e determinata, come diffusamente spiega Dionigi[133],
dalla permanente sproporzione de’ mezzi di sussistenza rispetto
alla popolazione o anche da vicende atmosferiche, che riducessero la
consueta produzione del suolo o da qualsiasi altra ragione che rendesse
necessaria una riduzione della popolazione.

In tutti i ricordi epigrafici assyro-babilonesi — tanto più
manifestamente quanto più sono antichi — la guerra si risolve tutta in
una gigantesca razzia, in una imposizione, in una rivendicazione di
tributi rifiutati da sudditi ricalcitranti e che comprendono, oltre
a’ metalli preziosi, i metalli d’uso comune specie per la guerra, e
bestiame e tutto quanto potesse occorrere al vario bisogno della vita
ordinaria[134].

E sotto quale altra forma si presentano le guerre più antiche di Sparta
e Tegea, di Sparta e della Messenia, e le guerre continue in cui la
storia tradizionale ci mostra avvolta Roma con i popoli immediatamente
circostanti?

Questo scopo vero e diretto della guerra permane, del resto, come
carattere intrinseco e saliente, per tutta la storia successiva
con la riduzione in servitù de’ prigionieri e de’ soggiogati, con
l’incorporazione de’ territori conquistati, con l’imposizione di
tributi.

Con l’elevarsi intanto delle condizioni di vita, col moltiplicarsi
de’ bisogni, con l’acquistare che il corpo sociale fa una struttura
più varia e più complicata, questa lotta per l’esistenza, già così
primitiva e rudimentale, confinata ancora nell’infimo stadio della
contesa per la venere e il pane, si trasforma anch’essa, si complica di
una quantità di concause che orpellano spesso come di un velo roseo e
lucente la brutalità interna e istintiva del rinascente conflitto.

A misura che il processo conoscitivo del mondo e della vita assumeva in
un primo momento forma cosmogonica, religiosa, la legge e i fatti della
vita si rannodavano, come ad un centro, alla divinità e assumevano
naturalmente la parvenza di emanazione e riflesso della volontà divina;
e, in quanto si facevano dipendere dalla divinità i rapporti sociali,
in quella rudimentale concezione cosmogonica si compenetravano con
l’azione della divinità. E questa illusione, che in momenti successivi
divenne un fatto consapevole utilizzato come tale, in periodi più
antichi potè essere un fatto spontaneo che faceva solitamente della
guerra una guerra religiosa. Il tempio, l’idolo che costituivano
come l’estremo palladio e il punto di raccolta di tutto un popolo, ne
costituivano perciò stesso come il vessillo e il punto di applicazione
del massimo sforzo. Riprendere l’idolo rapito da’ nemici in una
fortunata guerra precedente, o fiaccare il nume emulo e concorrente de’
nemici, oltre che un’affermazione evidente di superiorità e un titolo
di onore, era un obbligo sacro; e, per quel principio di causalità
insito nella materialità delle più antiche credenze religiose, era
anche un mezzo di assicurare o rendere stabile il primato proprio,
impegnando al bene proprio una potenza oltremondana con i vincoli del
cointeresse e della riconoscenza. Il tributo imposto in nome della
divinità e alla divinità rivendicato attraverso le varie vicende, la
decima assicurata al nume protettore — ciò che con diversa gradazione
di sentimento inconsapevole emerge da’ fasti di Oriente a quelli di
Grecia, da questi a quelli di Roma — davano anche secondo i tempi ed
i popoli carattere spiccatamente religioso alle cause della guerra.
«Imposi loro — dice un re assiro[135] — il grave giogo della mia
signoria e li sottomisi ad Ašur, il mio signore».

Accanto alla feudalità terrena, e intimamente compenetrata con essa,
sussisteva, in Egitto, una feudalità divina, per cui coincidevano le
sorti di principi e dèi, e la preminenza di Ammon e quella di Tebe
erano termini correlativi come altrove erano termini correlativi quelli
di Javeh e d’Israele, dell’Assiria e delle sue divinità.

Così Salmanassar II poteva dire: «Dietro comando di Ašur, il grande
signore, il mio signore, combattetti con loro e li vinsi»[136].

«Per volere di Ašur, il grande signore, il mio signore, io presi
Til-barsip, Aligu... etc.»[137]. «Per ordine di Ašur, il grande
signore, il mio signore, e di Nergal, che procede innanzi a me, mi
accostai a Sitamrat...»[138].

E Asarhaddon poteva dire parlando di un tempio spogliato da’ nemici:
«Di ciò fu sdegnato il signore degli dèi, Merodach, e deliberò
subito di devastare il paese, di annientare gli abitanti»[139]. Più
chiaramente ancora in un’iscrizione di Tiglat-Pileser I: «Ašur (e) i
grandi dèi, che fanno prosperare il mio regno, che mi concedono come
mio retaggio forza e potenza, mi ordinarono di estendere l’ambito del
loro territorio, posero in mia mano le loro armi potenti, il turbine
della battaglia»[140].

Ma, sia per il ripetersi che fanno i conflitti tra popoli della stessa
credenza religiosa, sia perchè, in società d’ordine più complesso
e di civiltà più elevata la prima concezione religiosa della vita
cede il posto a una concezione più positiva e sopratutto umana de’
fenomeni sociali, i motivi mondani non solo diventano prevalenti, ma
la loro risoluzione esige che sieno messi in chiaro; e la guerra si
viene quindi spogliando dell’involucro religioso, che in periodi più
progrediti ricorre, così, assai raramente e solo come l’occasione o
il pretesto o la forma esterna del conflitto: nell’ultima così detta
guerra sacra in Grecia, per esempio.

La causa obbiettiva, permanente e fondamentale della guerra si
rivela, allora, piuttosto in una lotta per l’egemonia commerciale, o
si dissimula in una contesa d’indole politica o in un antagonismo di
carattere etnico.

Col costituirsi e il venire a contatto di potenze antagonistiche, la
ragione del conflitto assume la forma del mantenimento di un sedicente
equilibrio che il mondo antico — per lo stesso sviluppo poco progredito
della produzione — non comporta e che si traduce in una disputa di
preda, o in una guerra precauzionale diretta a prevenire l’attacco e
ad atterrare il nemico in condizioni favorevoli; così che vengono a
scambiarsi e a fondersi le cause dell’offesa e della difesa.

Quella concorrenza vitale, che in condizioni più progredite, si
esercita, fra individui e individui, fra città e città, fra popolo
e popolo, col diffondere i propri commerci e aumentare la propria
ricchezza, producendo a minor costo, conquistando i mercati a
preferenza di altri, spiegando un’azione lenta e inavvertita nel suo
esercizio quotidiano e permanente; in condizioni meno progredite si
esercitava prevalentemente mediante la guerra; sì perchè lo sviluppo
insufficiente della tecnica e delle forze produttive in generale non
permetteva di svolgere sino alla più ampia soddisfazione de’ proprî
bisogni la produzione propria, sì perchè quest’appropriazione violenta
dell’altrui rappresentava, comparativamente ad ogni altro sforzo,
la via di più facile escogitazione, di minore resistenza e di più
immediata riuscita.

Le varietà etniche, tanto più accentuate, quanto più chiuse in sè
stesse e diffidenti verso l’esterno; le vendette sorrette da’ criterî
morali proprî di un ambiente di mutua violenza e fomentate dall’utilità
in cui promettevano di risolversi; le ambizioni solleticate dalla
facilità di trovare un appagamento e rafforzate dal corrispondere che
facevano a un bisogno del tempo; i governi personali, che costituivano
come un punto di applicazione e un moltiplicatore delle tendenze
dell’ambiente — tutte queste cose accentuavano le ragioni continue e
fondamentali di guerra, ne acceleravano, accrescevano e precipitavano
l’azione, usurpandone spesso la forza e l’importanza agli occhi stessi
degli storici, nella narrazione di molti de’ quali, così, il lungo
sèguito di guerre si riconnetteva tutto a questo nesso di cause più
appariscenti e tangibili, ma del pari mutevoli e secondarie.

Ma, attraverso l’indagine che spinge più a fondo l’osservazione, che
mette la questione ne’ suoi termini e completa i dati necessarî alla
esatta cognizione dell’argomento, i pretesti, le cause occasionali e i
motivi secondarî, prendono tutti il loro posto per comporsi e far luogo
alla causa delle cause, alla causa in ultima istanza, all’insufficiente
sviluppo di forze produttive, che tende a spostare specialmente verso
l’esterno un sistema di appropriazione violenta.

La guerra si presenta così come un aspetto dello sviluppo delle forze
produttive.

Ne’ periodi più antichi, di minimo sviluppo, è perciò un fatto
ordinario ed il miglior mezzo, se non il solo, di provvedere a maggiori
comodità della vita, sino al punto che diventa anche un abito, che, o
non trova, o tarda molto a trovare censori e scongiuratori.

L’immane Briareo incatenato, la grande macchina umana, il grande
strumento vocale della produzione antica, la schiavitù, che costituiva
la base su cui si adagiava e la radice da cui traeva elemento il
mondo antico, avendo per molto tempo nella guerra la fonte principale
e il mezzo continuo e migliore di rifornimento, mette in luce tutta
l’indole e il carattere necessario della guerra nel mondo antico, che
legittimava e da cui si faceva legittimare alla sua volta.

La guerra forniva così la terra e il braccio che la fecondava, la
materia e la forza del lavoro, e veniva quindi a confondersi con le
ragioni stesse dell’esistenza del mondo antico, con la possibilità — o
ironia della storia! — di raggiungere certi scopi civili ed elevarsi a
un grado più alto.

Col venir meno della sua utilità assoluta o relativa, scema quindi
la tendenza alla guerra, che trova resistenza e impedimento nel seno
stesso dello Stato da cui muove, perchè, con la maggiore complicazione
e varietà degli elementi sociali dipendenti dall’ulteriore sviluppo
delle forze produttive, la guerra presenta una diversa importanza e un
diverso interesse per i diversi elementi della popolazione.

La guerra allora diviene una funzione degli interessi e delle classi
predominanti in un dato aggregato sociale.




VII.

Gli aspetti della guerra.


Una tragica aura d’incendî, di rapine, di stragi passa attraverso le
memorie, specie più antiche, delle gesta assyro-babilonesi; e tutto
quell’immane macello, tanto più ripugnante e impressionante in quanto
è glorificato in persona prima, si disegna sullo sfondo lontano come un
lugubre sogno sanguinoso.

«Guerreggiando e battagliando — dice Ašurnâṣir-abal[141] — assalgo,
prendo la città. Abbattei con le armi tremila guerrieri, portai via il
loro bottino, il loro avere, i bovi, le pecore, arsi nel fuoco molti
prigionieri, molti ne presi vivi; agli uni tagliai mani e braccia (?),
agli altri naso (?) e orecchie (e braccia), molti ne accecai, elevai
una piramide di viventi, un’altra di capi tronchi, agli.... alberi
sparsi nel territorio della loro città sospesi le loro teste, consunsi
nelle fiamme i loro fanciulli e le loro figliuole. Desolai la città, la
ruinai, l’arsi col fuoco, l’annientai. Indi desolai le città di Nerbi e
le minai, bruciai le loro solide mura».

E Tiglath-Pileser I: «Come un turbine infransi in un assalto furioso
i corpi de’ loro guerrieri, feci scorrere il loro sangue per i valloni
e le pendici de’ monti, tagliai le loro teste e le sparsi ne’ dintorni
della loro città...»[142].

E Salmanassar II: «Atterrai i suoi guerrieri con le armi, simile a
Rammân feci piovere la tempesta su loro, li riversai nelle fosse,
riempii l’ampio campo de’ cadaveri de’ suoi bravi, tinsi del loro
sangue il monte come lana... (?), alzai una piramide di teste
rimpetto alla sua città, desolai, minai le sue città, le devastai con
l’incendio»[143].

E Sargone parlando d’un ribelle: «... Lo assediai insieme a’ suoi
guerrieri nella sua prediletta città di Karkar, la espugnai, arsi
Karkar, lo scuoiai, massacrai i ribelli in quella città e vi ricondussi
la quiete»[144].

E Senacherib: «Con la forza dell’armi sopraffeci gli uomini della città
Chirimmi, nemici ostinati, non ne lasciai in vita neppure uno; i loro
cadaveri li legai a’ pali e ne recinsi la città»[145].

«Le loro gole le tagliai come fossero gole d’agnelli, la loro cara vita
la tagliai come una corda. Come una fitta, tempestosa pioggia che cade
dal cielo, feci spandere per la pianura le loro onde di sangue»[146].

E Ašurbanipal: «A Mannu-kî-aḫí... Dunânu, e Nabû-uṣallî, che si erano
condotti in maniera sconveniente verso i miei dèi, strappai le lingue
in Arbela e li scuoiai. Dunânu lo gittai in Niniveh su di uno scanno da
macellaio e lo scannai come un agnello»[147].

Nè si tratta di casi isolati od eccezionali.

Queste citazioni si potrebbero quasi dire scelte a caso fra le tante di
cui riboccano i monumenti epigrafici assyro-babilonesi, ripetute con la
monotonia incosciente di un rituale funebre[148].

Pare come se una mente tormentatrice si sia dilettata a escogitare
crudeltà raffinate, che si rispecchiano nel documento storico con tutti
i colori e le immagini di una fantasia entusiasticamente truculenta,
compiaciuta dell’opera di distruzione.

Le città distrutte, incendiate, rase al suolo — tenuta anche ragione
dall’iperbole millantatrice — non si numerano[149].

Le lingue sono irrevocabilmente strappate a’ ribelli spergiuri[150].

Ašurbanipal dopo aver scuoiato i suoi nemici, ricopre della loro pelle
le mura della città[151]. Altra volta, dopo averli fatti a pezzi, «fece
mangiare la loro carne dilaniata a cani, porci e avvoltoi, aquile,
uccelli del cielo e a pesci dell’Oceano»[152]. Il pretendente del reame
di Arabia, dopo averlo vinto, «lo pose in una gabbia in compagnia di
cani, lo legò e lo lasciò a vigilare una porta di Niniveh...»[153].

Quest’altra è di Asarhaddon: «Per mostrare a’ popoli la potenza di
Ašur, mio signore, legai le teste di Sanduarri e di Abdimilkutti a
tergo de’ loro grandi e con canti e suoni di arpe entrai nel sobborgo
di Niniveh»[154].

Questo è di Ašur-ba-nipal: «Io li legai al timone, al carro della
mia maestà e a piacer di questa.... li menai attorno per tutti i
paesi»[155].

I miti animali da macello, i feroci animali da preda, le potenze
distruttrici della natura sono invocati da questi guerrieri
auto-biografi come gradite similitudini per dare un’idea viva
dell’opera loro.

Uno si paragona alla tempesta[156], a Rammân che tuona[157], un
altro all’aquila[158]. Un esercito invasore è paragonato alle
cavallette[159], un fuggiasco ad una volpe[160]. Un prigioniero sul
rogo brucia come un legno da ardere[161]. I nemici sono infranti
come pentole[162], sgozzati come agnelli o come minuto bestiame[163],
mietuti come biada dal falciatore[164].

E tutto ciò con un’impassibilità che non trema, non si turba, non
sente; una imperturbabilità, che ha una curiosa espressione in un
documento egiziano: «Questo esercito andava in pace: esso entrò, come
gli piacque, nel paese degli Hirousshaïtou. Quest’esercito andava
in pace: esso schiacciò il paese degli Hiroushaïtou. Quest’esercito
andava in pace: esso aprì una breccia in ogni cinta fortificata. Questo
esercito andava in pace: esso tagliò i loro ficheti e le loro vigne.
Quest’esercito andava in pace: esso incendiò tutte le loro messi.
Quest’esercito andava in pace: esso massacrò i loro soldati a miriadi.
Quest’esercito andava in pace: esso portò via i loro uomini, le donne e
i loro figli in gran numero, come prigionieri viventi, cosa di cui Sua
Santità gode più che di ogni altra cosa»[165].

Quanto lontano non si direbbe il mondo ellenico da una tale barbarie!
Eppure l’_Iliade_, tanto diversa sotto certi aspetti, raccoglie
ancora come l’eco di una simile mischia; e, volta a volta, è come il
crepuscolo di quel giorno sanguigno di cui si temperano e si fondono i
colori, come un lembo di uno di quei campi di battaglia, rispecchiato
nel terso azzurro di un lago sereno, intravisto tra i concenti di una
melodia paradisiaca.

Come già si è accennato altrove, anche nell’_Iliade_ ricorrono, con
insistente frequenza, quelle comparazioni de’ guerrieri alle bestie
feroci, che si riscontrano nelle epigrafi assyro-babilonesi.

Achille è veramente, come lo chiama il poeta nazionale latino, _durus,
impius, inexorabilis, acer_. Le sue stragi, ove egli diguazza e di
cui s’inebbria, sono orgiastici eccidî. Lo stesso Achille, al pari
di Ulisse, è chiamato, quasi con epiteto di gloria, devastatore di
città (πτολίπορθον)[166], come di un re assiro si dice che «annienta
città»[167], che «stritola il complesso de’ suoi nemici e passa
calpestando su’ paesi»[168]. Si spogliano i nemici uccisi[169]; si
sacrificano prigionieri sulla tomba di un guerriero morto[170];
si fanno razzìe[171]; si usano frecce avvelenate[172]; si evoca,
s’incoraggia la vendetta[173]; si adopera il tradimento, la perfidia,
l’invidia; si saccheggiano regolarmente le terre de’ vinti, e una città
presa d’assalto si presenta alla vista così:

            ...... trucidati i figli,
    Rapite le fanciulle, i casti letti
    Contaminati, crudelmente infranti
    Contro terra i bambini, e strascinate
    Dall’empio braccio degli Achei le nuore,
    Ed ultimo me pur, su le regali
    Porte trafitto e spoglia abbandonata,
    Voraci i cani sbraneran......[174].

E Ulisse, egli stesso, descrive così una delle sue avventure di viaggio:

    Ad Ismaro, dei Ciconi alla sede
    Me, che lasciava Troia, il vento spinse.
    Saccheggiai la città, strage menai
    Degli abitanti; e sì le molte robe
    Dividemmo e le donne, che alla preda
    Ciascuno ebbe ugual parte[175].

E Agamennone inculca ostentatamente questi propositi:

              ...... Or su, nessuno
    De’ perfidi risparmi il nostro ferro,
    Nè pur l’infante nel materno seno;
    Pèrano tutti in un con Ilio, tutti
    Senza onor di sepolcro e senza nome[176].

La guerra anche qui è un duello mortale e senza scampo, il cui
epilogo è, per la parte combattente specialmente, l’eccidio, per gli
scampati la vita umiliante e dolorosa dello schiavo. L’alba incerta,
adombrataci leggenda, della storia greca, della storia romana, fa
vedere nello sfondo Troia rasa al suolo, Alba distrutta, le loro
popolazioni sgominate o trapiantate altrove; una dolorosa immagine
che si proietta nel campo della storia propria, più antica e più
recente, ricongiungendo le città distrutte e le popolazioni decimate
e trapiantate delle memorie assyro-babilonesi[177] e di altre della
storia orientale a Cartagine, a Corinto, a Gerusalemme distrutte, alle
intere popolazioni spiantate e trapiantate, pure nel periodo di Roma
repubblicana e imperiale.

E la storia tradizionale romana, quale ce la presenta Livio, si apre e
si protrae con questo seguito cupamente monotono di prede e di riprede,
d’incendî e di stragi, di offese e di rappresaglie tra Roma e i suoi
successivi confinanti; mentre il fuoco e il ferro passano ostinati e
inesorabili sugli abituri invano risorti dalle macerie, sulle messi
invano rinascenti, quasi in una sacrilega sfida tra l’instancabile
feconda natura creatrice e la potenza distruttrice dell’uomo[178].

Ma, pur tra questo imperversare di rabbia omicida, tra questo infuriare
di passioni e di cupidigie scatenate, sotto il pungolo dell’utilità che
si fa sentire, della civiltà che si eleva, della vita che rivendica
i suoi diritti, de’ bisogni sociali che si fanno più complessi e più
esigenti, si annunziano — prima come incerti bagliori destinati alla
lunga a divenire più radiosi e persistenti — alcuni temperamenti de’
furori e degli orrori della guerra, alcuni princìpî di umanità, alcune
leggi del conflitto; quasi una diga, che, non potendo evitare la foga
ruinosa della corrente che discende, la segue per ammorzarne l’urto,
per moderarla, per contenerla entro certi confini. Salvo che, come pure
accade, l’impeto delle onde non finisca esso stesso per travolgere la
diga e involgerla in una sola ruina.

Nelle stesse memorie epigrafiche assyro-babilonesi ricorrono non di
rado accenni ad atti di clemenza, a vite risparmiate, a colpe perdonate
anche qualche volta, a beni lasciati a’ vinti dietro un tributo[179].
«Io — giunge perfino a dire Sardanapalo — il misericordioso, che
non covo odio (non medito vendette), che purgo i peccati, concessi
grazia a Tammaritu e lo feci stabilire nel mio palazzo insieme alla
sua parentela»[180]. È vero che quasi sempre la clemenza ha per
corrispondente, e direi corrispettivo la dedizione, il tributo. Dice,
per esempio, Salmanassar II:

«Essi uscirono e abbracciarono le mie ginocchia. Io presi ostaggi
da lui e ricevetti argento, oro, ferro, armenti, greggi come suo
tributo»[181].

«Essi paventarono — dice Tiglath Pileser I — il violento turbine del
mio attacco e si gettarono a’ miei piedi. Io li graziai, non espugnai
quella città e presi ostaggi da loro. Imposi loro un tributo annuo
invariabile»[182].

La constatazione dell’atteggiamento supplice, del prostrarsi a’ piedi
ritorna, si può dire, invariabilmente, al pari dell’imposizione del
tributo; sicchè l’atto di clemenza ne rimane menomato, apparendo come
un maggiore atto di orgoglio e un calcolo interessato.

Ma pure era proprio per questa via che la guerra si faceva più umana.
Il bisogno e l’utilità crescente degli schiavi portava naturalmente a
risparmiare le vite de’ prigionieri per adibirli al proprio servizio,
per metterli anche occorrendo in commercio, scambiandoli con altre
merci o con danaro.

Il commercio, iniziale o progrediente, che creava vincoli d’interessi,
di simpatia, di ospitalità, andava togliendo un po’ di quell’insita
avversione tra straniero e straniero; e, oltre a rendere più rare le
guerre, ne mitigava qualche asprezza.

L’abitudine, la vita più umana, più civile faceva il resto.

Ne’ poemi omerici è notevole come, pur tenuto conto della veste e delle
esigenze poetiche, s’incontrano non infrequentemente, anche in forma
disinteressata, questi sentimenti di pietà, che magari si dileguano
subito, ma rischiarano come di un bel raggio confortatore le tenebre di
quella lotta sanguinosa.

Vi è in qualche caso, quasi un’ostentazione di cavalleria, come quando
Glauco e Diomede si separano nell’atto di venire alle mani e Aiace ed
Ettore rimettono al domani il loro duello, e, intanto, si scambiano de’
doni[183].

Alla nutrice che si rallegra della strage de’ Proci, lo stesso Ulisse,
il vendicatore, risponde così:

    Godi dentro di te, disse, ma in voci,
    Vecchia, non dar di giubilo, chè vanto
    Menar non lice sopra gente uccisa.
    Questi domò il destino, e morte a loro
    Le stesse lor malvagitati furo,
    Quando non rispettaro alcun giammai,
    Buon fosse o reo, che in Itaca giungesse.
    Dunque a dritto periro[184].

Quest’ultimo concetto di una giustizia, che regola e risolve i destini
della guerra, non è neppure infrequente sia nell’_Iliade_ che negli
scritti posteriori; ed era naturalmente un riflesso della generale
concezione cosmogonica, del modo di considerare tutti gli altri
rapporti di vita.

Ad esso s’informa la tendenza ricorrente, sia nell’_Iliade_ che
nella storia tradizionale più antica, di sostituire alla battaglia
dell’intero esercito la lotta di alcuni campioni, regolando dall’esito
di essa l’esito della causa motrice della guerra.

Questo modo di vedere, naturalmente, rinsaldava l’aspetto religioso
della guerra, ma elevandolo e idealizzandolo.

Le stesse ragioni, a cui si è accennato innanzi trattando delle cause
della guerra e che davano a queste ultime un colore o un travestimento
religioso, avevano naturalmente dovuto dare alle forme stesse
della guerra colore o travestimento religioso, in maniera tanto più
rudimentale e materiale, quanto più si risale nel corso del tempo.

La guerra è, in queste sue fasi più antiche, guerra di dèi, oltre che
guerra d’uomini.

Gli dèi erano chiamati a difendere lo stesso interesse loro,
l’integrità de’ loro templi, la guarentigia e l’abbondanza de’
sacrifizi, la proprietà de’ territori sacri, lo stesso loro regno
terreno. Erano quindi chiamati a fare, vicendevolmente, prova della
loro forza e della loro potenza; e la sconfitta de’ loro adoratori, se
non era voluta punizione della loro empietà, era una prova della loro
impotenza e un argomento della loro decadenza.

Stretto intorno a Javeh, Israele lotta come serrato intorno a un
vessillo. Più ancora, esso si sente il braccio, nient’altro che il
braccio della divinità che l’anima e lo guida.

«Il Signore — dice il cantico di Mosè[185] — è la mia forza e il
mio cantico, e mi è stato di salvezza: quest’è il mio Dio, io lo
glorificherò; l’Iddio del padre mio, io l’esalterò. — Il Signore è un
gran guerriero; il suo nome è il Signore. — Egli ha traboccati in mare
i carri di Faraone e il suo esercito; e l’eletta de’ suoi capitani è
stata sommersa nel Mar Rosso..... — Il nemico dicea: Io li perseguirò,
io li raggiungerò, io porterò le spoglie, l’anima mia si sazierà di
essi; io sguainerò la mia spada, la mia mano li sterminerà. — Ma tu
hai soffiato col tuo vento, e il mare gli ha coperti; essi sono stati
affondati come piombo in acque grosse. — Chi è pari a te fra gl’Iddii,
o Signore? chi è pari a te, magnifico in santità, reverendo in laudi,
facitor di miracoli? — Tu hai disteso la tua destra e la terra gli ha
tranghiottiti. — Tu hai condotto per la tua benignità il popolo che
tu hai riscattato; tu l’hai guidato per la tua forza verso l’abitacolo
della tua santità. — I popoli l’hanno inteso ed hanno tremato; dolore
ha colti gli abitanti della Palestina. — Allora sono stati smarriti
i principi di Edom; tremore ha occupati i possenti di Moab; tutti gli
abitanti di Canaan si sono strutti. — Spavento e terrore caggia loro
addosso; sieno stupefatti per la grandezza del tuo braccio come una
pietra; finchè sia passato il tuo popolo, o Signore; finchè sia passato
il popolo che tu hai acquistato. — Tu l’introdurrai, e lo pianterai
sul Monte della loro eredità; nel luogo che tu hai preparato per tua
stanza, o Signore; nel santuario, o Signore, che le tue mani hanno
stabilito. — Il Signore regnerà in sempiterno».

«Con lui — diceva il profeta alludendo a Sennacherib — è il braccio
della carne; ma con noi è il Signore Iddio nostro, per aiutarci e per
combattere le nostre battaglie»[186].

E le vicende del culto di Javeh diventano così, subbiettivamente la
spiegazione, obbiettivamente l’indice e la misura delle vicende del
popolo d’Israele.

E al canto dell’Ebreo fa riscontro quello dell’Egizio.

Sotto tutti i cieli, in tutte le lingue, per qualunque causa, ognuno
invoca il suo dio, perchè gli venga in soccorso.

«Nessun principe era con me — fa dire un poeta a Ramsete, narrando
la battaglia di Qodshou[187] — nessun generale, nessun ufficiale
degli arcieri o de’ carri. I miei soldati mi hanno abbandonato, i
miei cavalieri sono fuggiti davanti ad essi e non uno è rimasto per
combattere presso di me. Allora il re dice: «Chi sei tu dunque, o
padre mio Amon? Un padre dimentica forse suo figlio? Ho io dunque fatto
qualche cosa senza di te? Non mi sono io messo in marcia e non mi sono
arrestato sulla tua parola? Io non ho punto violato i tuoi ordini. È
ben grande, il Signore dell’Egitto che rovescia i barbari sulla sua
via! Che cosa sono, dunque, innanzi a te questi Asiatici? Amon snerva
gli empî. Non ti ho io consacrato innumerevoli offerte? Io ho riempita
la tua dimora sacra de’ miei prigionieri: io ti ho costruito un tempio
per milioni d’anni, t’ho dati tutti i miei beni per i tuoi magazzini.
Ti ho offerto il mondo intero per arricchire i tuoi dominii... Certo,
una misera sorte sia riserbata a chi s’oppone a’ tuoi disegni! felice
chi ti conosce! poichè i tuoi atti sono prodotti da un cuore pieno di
amore. Io t’invoco, o mio padre Amon!....».

E Amon accorre.

«La voce ha echeggiato sino a Hermonthis, Amon viene alla mia
invocazione: egli mi dà la mano. Io getto un grido di gioia. Egli parla
dietro di me: — Io accorro a te, a te Ramsetes-Mîamoun, vita, salute,
forza; io sono con te. Son io, tuo padre! La mia mano è con te e io
valgo per te meglio di un centinaio di migliaia. Io sono il signore
della forza che ama il valore; io ho riconosciuto un cuore coraggioso e
sono soddisfatto. La mia volontà si adempirà».

Era la stessa voce, che, invocata tanto tempo prima da Thoutmos III,
diceva[188]: «Io son venuto, io ti concedo di schiacciare i principi
di Zahi; io li getto sotto a’ tuoi piedi attraverso le loro contrade;
— io faccio loro vedere la tua maestà come un signore di luce, quando
tu brilli sulle loro teste come la mia immagine. — Io son venuto, io
ti concedo di schiacciare i barbari di Asia, di menare prigioni i capi
de’ popoli Routounou; — io faccio vedere la tua maestà, coverta dal tuo
arnese di guerra, quando tu prendi le armi sul carro. — Io sono venuto,
io ti concedo di schiacciare la terra d’Oriente....».

L’intervento di Javeh che nella concezione giudaica rimaneva qualche
cosa di misterioso, di trascendente, diviene qui — e più ancora altrove
— una partecipazione personale, diretta, tangibile alla lotta.

«Io — fa dire ad Asarhaddon una delle epigrafi[189] — io chiesi ad
Ašur, Sin, Šamaš, Bel, Nebo e Nergal, Istar di Niniveh e Istar Arba’
el di poter reggere il dominio della mia casa paterna, di rivestire il
mio sacerdozio ed essi udirono le mie parole. Nella loro fida grazia
mi mandarono una tavola purpurea, che diceva così: Va, non indugiare;
noi ti veniamo a lato, noi soggioghiamo i tuoi nemici! — Per uno o
due giorni io non mi guardai attorno, non vidi la faccia delle mie
truppe; non guardai indietro; non feci togliere il morso de’ cavalli,
il tiro del carro che portava gli arredi militari, non spiegai le mie
tende da campo, non temetti il gelo e il rigore del mese di Šabat, non
il violento temporale; come un uccello da preda apersi le mie braccia
per atterrare i miei nemici, a marce forzate procedetti verso Niniveh.
Innanzi a me, nel paese di Ḫanirabbat presero posizione tutti i loro
eserciti potenti, sul mio cammino, e squassavano le loro armi. Il
terrore de’ grandi dèi, de’ miei signori, li abbatteva, essi videro
il turbine della mia pugna e si spaventarono. Istar, la patrona della
guerra e delle battaglie, che ama il mio sacerdozio, mi stava accanto,
spezzava i loro archi, confondeva la loro allineata ordinanza. Nel loro
esercito si diceva: Questi è il nostro re, e al loro comando ognuno si
rivolgeva a me. Essi dicevano: Questi è il nostro re...».

Altre volte è in sogno, per mezzo di espressi interpreti di sogni
che il re riceve le istruzioni delle divinità[190]; ma, da per tutto,
attraverso tutte le epigrafi assyro-babilonesi, il combattente si muove
sotto la suggestione continua del comando divino, sentendo o sapendo
accanto la divinità, credendosi il suo braccio allungato[191].

E a questa concezione della guerra si riconnettono naturalmente come
tanti episodî connessi e interessanti gli accenni a divinità catturate,
spezzate, mutilate, trafugate e poi riprese e condotte trionfalmente
alla loro sede; a voti fatti, a parte del bottino consacrata, a
templi eretti, a sacrifizî per la vittoria, a cerimonie espiatorie
compiute[192].

Anche da questo punto di vista i poemi omerici riflettono, con notevole
corrispondenza, un aspetto della guerra orientale.

Tutta la guerra combattuta intorno a Troia non è che un riflesso di
una lotta che ha luogo nell’Olimpo, donde scendono continuamente dèi e
dèe per venire a combattere accanto a’ loro eroi preferiti, incitando,
moderando, difendendo, duplicando la lotta.

Dèi e dèe, da una cui contesa ha avuto origine la guerra e che ne sono
gl’ispiratori e la causa diretta e indiretta, dèi e dèe combattono
tra di loro e con gli uomini, e assaltano, sono assaliti, fuggono,
ritornano all’assalto, sono feriti, tramano inganni, suggeriscono
astuzie, amano, odiano, si sdegnano, si placano, piegano per doni,
fanno tutto quello che potrebbe fare un uomo di morale molto ordinaria
e talvolta anche un po’ scadente.

Le sorti degli uomini e delle città sono regolarmente pesate
dall’onnipossente e onniveggente Zeus, il quale, ligio in questo a’
voleri del Fato, ne ritarda l’adempimento o ne tempera le conseguenze,
rintuzzando orgogli, creando intrighi e avvolgimenti, tutto attraverso
una imperturbata serenità, la quale fa strano contrasto con i pianti,
i lutti, le stragi, gl’incendî della sfera terrena, che al padre
dell’Olimpo, spesso, più che preoccupazione, sembrano trastullo.

La storia tradizionale, così greca come romana, serba ancora, là
dove va a confondersi nella leggenda, la memoria di questi interventi
diretti, che sono però piuttosto di eroi, di personaggi semi-divini,
di cui la fantasia popolare o il calcolo politico innesta l’azione
talvolta sugli stessi eventi storici.

Così a Maratona si credette vedere l’ombra di Teseo[193], a Salamina
quella di Aiace[194]; ed Erodoto fa attribuire da Temistocle l’esito
della guerra a «dèi ed eroi», di cui egli spiega l’intervento con una
ragione morale-religiosa[195].

La persistenza di questo concetto, in forma più o meno superstiziosa,
è rivelata anche da trovamenti archeologici[196], dato che ve ne sia
bisogno.

Gli auspìcî, i voti, le cerimonie religiose che si facevano precedere
all’inizio della guerra, sono una conseguenza dello stesso principio
ed una espressione dello stesso sentimento, benchè sotto forma
più elevata, perchè non presuppongono necessariamente l’intervento
tangibile della divinità, ma un’azione suprema di governo del mondo e
della vita. La divinità spiega allora la sua partecipazione sopratutto
con avvertimenti contenuti negli auspìcî o in veri e proprî prodigî, o
semplici fatti naturali interpretati come tali e capaci, come più volte
riferisce la storia tradizionale, di far rinunziare a un’impresa, di
fare interrompere una battaglia, di far concludere una pace. La stessa
incipiente incredulità de’ singoli non potè per lungo tempo nulla
contro la forza dell’abitudine, la cupa impressione di certi spettacoli
naturali in momenti solenni di tragica preoccupazione e contro
l’inclinazione superstiziosa delle masse.

Questa immistione della divinità nella guerra non faceva — come
appare specialmente dalle epigrafi assyro-babilonesi — che rendere più
ostinata, più spietata, più inesauribile la guerra: il pensiero che
la mano colpiva in servizio della divinità, o sotto la sua protezione,
affrancava il braccio e santificava la crudeltà, l’incendio, la rapina,
la strage. Ma, quando, in condizione di vita più progredita e quindi
con lo svolgersi di una coscienza più matura, nella divinità cominciò a
riflettersi, come in una ipòstasi, un più elevato concetto de’ rapporti
sociali e della vita, alla divinità si pensò come ad una protettrice e
coadiutrice, almeno morale, a patto che la guerra apparisse giusta agli
occhi suoi e fosse dichiarata e iniziata nelle debite forme.

Questa sottintesa sanzione religiosa della guerra che avrebbe dovuto
assicurare la vittoria alla parte ingiustamente offesa e danneggiata
e che si presenta ancora involuta in qualche accenno omerico e troppo
commista di presupposti religiosi nelle epigrafi assyro-babilonesi,
dovrebbe avere avuta la sua espressione pratica e concreta nel _iustum
bellum_ de’ Romani; e, così intesa — dove lo spirito di proselitismo
non trovava nella religione stessa un altro argomento o pretesto di
guerra — avrebbe potuto servire di freno alle guerre o a’ loro eccessi.

Ma, purtroppo, tutti i materiali impulsi alla guerra erano facilmente
solleticati a cercare tutte le scappatoie della casistica per trovare
uno sfogo; e, quindi, anche indipendentemente dall’affievolirsi del
sentimento religioso, il _iustum bellum_ si ridusse troppe volte
alla osservanza di un modo convenzionale di dichiararlo, anzi che al
pensiero del suo contenuto intrinseco.

Nondimeno anche la preoccupazione di quell’ipocrisia risaputa, che era
in fondo la coscienza di quel che vale la forza morale nell’iniziare
una guerra, non era sempre priva di ogni effetto.

«E anche l’equità della guerra — dice Cicerone[197] — è santissimamente
prescritta dal diritto feziale del popolo romano. Onde si può vedere
come nessuna guerra è giusta, se non si faccia dopo aver domandato
soddisfazione, o che non sia prima indetta e denunziata».

«Che se — fa dire Livio da C. Ponzio a’ Sanniti[198] — che se nulla di
diritto umano rimane a chi è misero verso il più potente, io cercherò
rifugio presso gli dèi vindici di ogni intollerabile prepotenza e li
pregherò perchè rivolgano le loro ire contro quelli a cui non basta
nemmeno aver ricevuto il proprio, non l’avere accumulato l’altrui.
La cui crudeltà non si placa con la morte de’ colpevoli, non con
la consegna de’ cadaveri, non con la consegna de’ beni che segue la
resa, a discrezione del padrone; con nulla se non diamo a dirittura
a bere loro il nostro sangue e a straziare i nostri visceri. È guerra
giusta, o Sanniti, quella che è necessaria e pia per chi la combatte,
a cui nessuna speranza rimane se non nelle armi. Onde, essendo di
grandissimo momento, per le cose umane, il compiere una cosa col
favore o con l’avversione degli dèi, tenete per certo che, se abbiamo
combattuto le guerre precedenti contro gli dèi piuttosto che contro gli
uomini, combatteremo ora la guerra imminente, avendo gli stessi dèi a
condottieri».

Questo concetto che, come si vede, Livio presta anche a un altro
popolo italico, pure in onta a’ Romani, sembrava, d’altra parte, così
penetrato in questi che essi ne menavano vanto e se ne pavoneggiavano
perfino, si potrebbe dire:

«Sappiano tutte le nazioni — fa dire Livio a Scipione[199] — che il
popolo romano intraprende e finisce giustamente le guerre».

_Justum ac pium bellum_, torna con frequenza, specie presso Livio.

Cicerone attribuisce ripetutamente a questo ossequio verso gli dèi la
meravigliosa fortuna de’ Romani[200].

Se, intanto, molte volte questo nuovo concetto astratto della guerra
si disperdeva e si contraddiceva nell’azione, altre volte le stesse
condizioni che l’avevano fatta sorgere gli facevano esercitare una
forza moderatrice.

Se la guerra tra popoli dello stesso ceppo e vicini, per ciò stesso,
per la diuturna ragione di contrasto, degeneravano, talvolta, come è
stato osservato, in atti di crudeltà, spesso anche potevano ingenerare
sentimenti e condotta simili a quella che a Callicratida faceva
apparire repugnante a un greco ridurre in ischiavitù un altro greco.

La moderazione e la magnanimità erano talvolta incoraggiate anche da un
sentimento utilitario, visto che, come bene osservava Polybio[201], si
era visto ottenere con la convenienza e la bontà delle maniere (διὰ τῆς
ἐπιεικείας καὶ φιλανθρωπίας τῶν τρόπων) quello che non si otteneva con
le armi.

Il bello episodio della storia tradizionale romana per cui Camillo
disdegna vincere Falerio per tradimento e Falerio perciò stesso si
arrende, se non è improntato alla _realtà_, è improntato alla _verità_
storica, e, se non un fatto storicamente avvenuto, rispecchia uno
stato di animo. «Vi sono norme della guerra come della pace — fa dire
lo storico a Camillo[202] — e noi imparammo a praticarle con giustizia
non meno che con fortezza». «La fede romana — narra indi Livio — la
giustizia del capitano sono levate a cielo nella curia e nel foro; e
per consenso di tutti vanno ambasciadori a Camillo negli accampamenti e
indi, col permesso di Camillo, a Roma, al senato, per fare la dedizione
di Falerio». E «con l’avvenimento di questa guerra, due esempî salutari
— fa dire egli a’ legati — sono stati tramandati al genere umano: voi
alla vittoria presente preferiste mantenere intatta, pure in guerra,
la fede, noi, tratti a gareggiare con voi nella fede, spontaneamente vi
accordammo la vittoria».

La guerra è così intimamente materiata e contesta di azioni disumane e
distruttrici, che, per quanto si faccia, di poco si riesce a mitigarne
gli orrori: pure, per questa via ne’ desiderati almeno, negl’intenti, a
qualche cosa si mirava e a qualche cosa anche si riusciva.

È notevolissimo, per esempio, per mostrare quanto, moralmente almeno,
si fosse progredito in questo senso, il passo seguente scritto da
Polybio[203] per censurare la condotta di Filippo verso gli Etoli,
comunque questi potessero essere immeritevoli e fedifraghi:

«A levar via le cose attinenti alla guerra e a distruggere fortezze,
porti, città, uomini, navi, frutti, e tutte le cose congeneri, mercè
cui si possono rendere più deboli gli avversarî, più poderosi le cose
nostre e i nostri assalti; a far questo ci astringono le leggi della
guerra e quanto da essa è voluto. Ma, quanto a ciò che non promette
aiuto alle cose proprie per l’avvenire, nè di presente ne procaccia, nè
affievolisce i nemici nella guerra che si combatte, ma, per semplice
eccesso, manomette i templi e insieme ad essi le statue e ornamenti
di simil genere; come si può non dire che ciò sia atto di costume e
spirito rabbioso? Perchè gli uomini dabbene non debbono combattere
con gli ignavi per distruggerli e cancellarne sino la traccia, ma per
l’emenda e la riparazione del malfatto; nè debbono uccidere quelli
che non hanno fatto male insieme a quelli che commisero colpe, bensì
piuttosto salvarli tutti e trascegliere quelli che sembrano colpevoli
dagl’innocenti».

Si può ben dire che in una simile affermazione teorica, oggi, non si
sia andati più oltre.

Insieme a questa trasformazione dello spirito e della intensità
distruttrice, la guerra andava poi soggetta a un’altra continua
trasformazione nelle stesse forme tecniche, con cui si combatteva[204].

La guerra, quale appare da’ documenti egizi e più specialmente
assyro-babilonesi, è come uno sciamare lungo, continuo, confuso di uno
su di un altro popolo, da uno ad un altro paese. La similitudine delle
cavallette, frequentemente ricorrente nelle epigrafi assyro-babilonesi,
è un’immagine semplice ed ingenua, ma di grande veracità e di
meravigliosa evidenza.

La battaglia — anche nell’_Iliade_ — non coordinata ad un vero piano,
trova la sua unità piuttosto nello scopo generale a cui mirano i
combattenti, anzi che in una concorde azione spiegata, e si dirama,
così, naturalmente, in una serie di episodî, in cui campeggiano,
emergono ed operano pochi eroi, mentre la folla anonima, continuamente
fluttuante e sparente, serve quasi di fondo al quadro per completare le
proporzioni epiche de’ guerrieri sovraneggianti.

Secondo il poema altrove citato, alla battaglia di Qodshou, Ramsete,
egli solo, non sorretto da altro che dall’aiuto divino, si trae
dall’imboscata in cui era caduto e batte i nemici. I re assyri sono
anch’essi come il motore dell’azione, il centro in cui si appunta e
donde si dirama ogni energia; e la vittoria è l’opera del loro braccio,
anche più che della loro direzione. Gli eroi omerici, terribili
e corruschi nella sfavillante armatura, sul loro carro di guerra,
elemento integrante della guerra orientale, percorrono da un capo
all’altro il campo di battaglia, facendo inclinare le sorti della pugna
con la loro azione e qualche volta con la sola loro presenza.

Per quanto vi sia un’ordinanza, per quanto si sappia anzi che i
combattenti marciano per tribù e per patria, pure l’azione si risolve
in tante monomachie e si riassume nelle monomachie degli eletti.

La turba innominata, che quando vuole assumere un nome si chiama
Tersite, si direbbe il zero dell’abaco, di nessun valore in sè stessa,
ma fatta per darne solo all’unità, quando le si mette accanto.

Nondimeno, come un accenno di altri destini dice un verso dello stesso
poema che «unito, emerge anche il valore di quelli che per sè valgon
poco»[205]; e l’uso de’ sassi e delle frecce, che da lungi, pareggiano
la diversa virtù de’ combattenti, è anch’esso come un vaticinio
obbiettivo di diversi sistemi di guerra.

Quest’azione collettiva, regolata, uniforme e simultanea, di tutta
una massa si realizza, più per tempo e in forma più perspicua,
nell’ordinamento militare spartano e nella tattica corrispondente, che
divenne subito il tipo comune, cui si conformarono gli altri Stati,
specie in vista del buon successo e della incontestabile superiorità
militare ottenuta dagli Spartani, da un lato, e, dall’altro,
dell’evoluzione democratica progrediente de’ diversi paesi, che
all’azione preponderante della cavalleria, arma aristocratica, faceva
succedere quella della fanteria.

Ma questo periodo segnava ancora uno stadio semplice e rudimentale
nell’arte della guerra.

Nessuna strategìa, nessuna cura veramente apprezzabile delle
accidentalità del terreno, della conformazione de’ paesi, di tutte
quelle varietà di condizioni e di espedienti che formano la prova del
genio di un capitano e conferiscono interesse allo svolgimento della
guerra.

Le battaglie, solitamente limitate a piccole forze quali potevano
mettere in campo i piccoli Stati greci, non miravano all’annientamento
del nemico; e, combattute in aperta pianura, avevano per lo più
l’aspetto e l’importanza di una giostra, sia pure sanguinosa.

L’armamento fatto di lancia e di scudo, che lasciava quindi esposto il
lato destro del combattente, faceva dell’ala destra dell’ordinanza il
punto più vulnerabile della mischia; è all’ala destra quindi che si
soleva mettere il migliore elemento combattente. E, poichè l’attacco
era generale e frontale, e la necessità di proteggere il lato destro
della persona e impedire l’aggiramento obbligava a marciare con una
lieve inclinazione a destra, che poneva così lo scudo tra le due linee
combattenti, la mischia finiva per aver luogo in maniera indipendente a
destra ed a sinistra; e l’ala destra di un esercito che rompeva prima
la fronteggiante ala sinistra del rispettivo avversario, decideva
definitivamente della battaglia, rinnovando l’attacco sulla sinistra
con l’altra ala già impegnata dell’avversario.

L’allargarsi del teatro della guerra, specie durante la lunga,
accidentata e multiforme guerra del Peloponneso, ove il conflitto
riarse ne’ paesi più diversi di configurazione fisica e di condizioni
civili, in contrasto con nemici diversamente combattenti, doveva
suggerire, se non proprio imporre, notevoli mutamenti di tattica e di
armamento. L’esempio de’ peltasti di Tracia, de’ montanari di Etolia
offrivano esempî che non potevano andare, come non andarono, perduti
per Brasida e per Demostene e portarono a un impiego maggiore de’
soldati di armatura leggiera, come subito e temporaneo ripiego che
a Sparta non trovò nè imitazione, nè prosecuzione, ma che ad Atene,
sopratutto per opera d’Ificrate, ebbe poi largo sviluppo e più stabile
ordinamento, sino al punto di fare la sua trionfatrice esperienza
sul campo di battaglia ed assicurare così nell’opinione generale la
prevalenza de’ soldati di men grave armatura sulla fanteria pesante.

La cavalleria, la cui importanza era tanto decaduta col decadere
de’ regimi aristocratici, de’ quali sembrava schietta espressione,
ricominciò ad acquistare importanza come corpo tecnico con la buona
esperienza della cavalleria siciliana e con la maggiore importanza
politica ottenuta dalla Tessaglia, dalla Beozia, da paesi dove le
stesse condizioni fisiche le avevano consentito uno sviluppo non
permesso dalle condizioni della Grecia peninsulare. L’uso sempre più
consigliato e diffuso delle armi da getto sviluppò anche quest’altra
categoria di combattenti; sicchè la battaglia acquistava aspetto sempre
più vario e complesso.

Ma chi innovò radicalmente i criterî direttivi della battaglia, fu,
nella breve e fortunata sua carriera, Epaminonda, che può considerarsi
come il geniale inventore e pioniere di metodi applicati poi da Filippo
e specialmente, con importanza storico-mondiale, da Alessandro.

All’attacco frontale e simultaneo di tutta l’ordinanza, Epaminonda
sostituì un metodo per cui, contrariamente all’uso precedente,
l’ala sinistra, ove egli concentrava il nerbo delle sue forze, aveva
l’offensiva, mentre l’ala destra, messa puramente sulla difensiva,
faceva semplicemente della resistenza e teneva a bada l’ala destra
nemica, intanto che la sua ala sinistra, facilmente vittoriosa per la
forza preponderante, dopo avere sgominata l’ala destra dell’avversario,
ne scompigliava l’ala sinistra, attaccandola di fianco.

Alessandro, pur commettendo ancora l’offensiva all’ala destra, che per
la specialità dell’arma non obbligava a considerare l’inconveniente
del fianco scoperto, adottò il metodo di Epaminonda, fecondandolo e
sviluppandolo con la varietà delle armi e de’ contingenti, col rendere
mobile l’esercito snodandolo in reparti atti all’azione agile e varia,
con la rapidità delle mosse, col colpo d’occhio sicuro, calcolatore
di tutti i vantaggi offerti dagli eventi, con la strategìa geniale che
intuisce le difficoltà per superarle, che escogita i piani, li rinnova,
li muta secondo il bisogno, e, adocchiato il nemico non lo perde più di
vista, sinchè non l’abbia stritolato, come aquila, con avvolgimenti,
or lenti or fulminei, sempre inevitabili e fascinatori, diretta alla
preda.

Presso i Romani, la legione ci si presenta di varie composizioni con il
suo contingente suddiviso in _principes, hastati, triarii, velites_.
Sotto Camillo secondo alcuni, nelle guerre sannitiche secondo altri,
si divide in trenta manipoli, appresso suddivisi ancora per comodità
amministrativa in due centurie, e ricomposti, per ragione tattica,
in coorti di tre manipoli ognuna. Questa suddivisione in manipoli
segnava una nuova tattica, che da’ manipoli appunto prendeva il
nome; e, sostituendosi al più antico modo di combattere per falange
serrata, apriva nuove vie e forniva nuovi strumenti all’arte della
guerra. Spezzata in manipoli, l’ordinanza dava tutta l’agevolezza di
restringere o dividere la linea di battaglia, permettendo alla prima
linea di ritirarsi, tra gl’interstizî, dietro la seconda, e alla terza
di venire alla sua volta in prima linea; e sopratutto dava modo di
riformare nel più vario modo il piano di attacco o di difesa, deludendo
i calcoli del nemico e le mosse fatte in vista di una preveduta azione
tattica. Così i Romani, come avevano fatto per le altre forme della
vita civile, parimenti per la guerra avevano consultata l’esperienza
loro e degli altri, erano proceduti per adattamenti e imitazioni
di amici e di avversarî verso metodi di guerra e di battaglia più
complicati, usando rispettivamente l’attacco frontale, l’obliquo come
quello di Epaminonda, combattendo con l’_acies triplex, quincunx,
sinuata_, in sette tipi, quanti ne sono attribuiti.

Un’evoluzione analoga a quella della guerra terrestre aveva avuto
la guerra marittima. La trireme, divenuta la forma tipica delle navi
da guerra e base delle flotte, pur non rimane la forma ultima della
costruzione navale; e, benchè in via straordinaria, si ebbero navi
di struttura più complicata. Sopratutto, poi, la prima rudimentale
guerra navale, che differiva dalla terrestre più per il campo su cui
avveniva anzichè per le forme, si venne mutando in una forma specifica
di guerra, alla quale l’esperienza della navigazione e del mare dava
un carattere suo proprio. Mentre i popoli meno esperti o all’inizio
della guerra navale ricorrevano a speciali congegni per avvincere le
opposte navi combattenti, per convertire il combattimento in una lotta
pugnata su di un mobile suolo, su di un ponte, o cercavano di tenersi
in prossimità della sponda, mischiando la forza di terra nel conflitto;
i marinai più esperti cercavano il mare largo, davano maggiore agilità
alla nave, accrescevano il personale di servizio della nave a spese del
personale combattente, e cercavano nelle fughe simulate e ne’ rapidi
ritorni, nelle celeri evoluzioni, nelle violente abbordate, ne’ colpi
di sperone, nelle veloci traversate, negli sbarchi inattesi, i mezzi
della vittoria.

Aveva del pari tutta un’evoluzione l’arte delle fortificazioni e quella
opposta degli assedî per tutta una serie che andava dall’inerte e
sterile campeggiare degli spartani innanzi alle mura di Atene sino alla
difesa di Siracusa contro i Romani e alla sua presa.

Variava l’armatura di difesa e di offesa col sostituirsi e l’alternarsi
della lancia, della spada, del giavellotto e l’ampliarsi e il
restringersi dello scudo e il sostituirsi del giaco alla lorica, del
copricapo di cuoio all’elmo di bronzo, dell’armatura leggiera alla
pesante o della combinazione di entrambe.

Il rudimentale genio militare, che prima era consistito soltanto in un
certo numero di fabbri e legnaiuoli, aveva anch’esso il suo sviluppo:
progrediva l’arte di costruire il campo; l’approvvigionamento veniva
reso meno disordinato con un sistema di contribuzioni e requisizioni e
l’uso di magazzini nello stesso paese nemico.

Questi ed altri progressi dipendevano specialmente dalla nuova base,
che l’esercito si faceva con un diverso sistema di reclutamento.

Nel tempo più antico il cittadino è sopratutto guerriero, se non
proprio esclusivamente guerriero come gli Spartani, e quanto più è in
una posizione economica più favorita dalla fortuna, ha non solo, come
occupazione preferita, ma come monopolio il servizio militare.

Con l’evoluzione democratica dello Stato, con l’ampliarsi del medio
ceto, con l’allargarsi de’ conflitti che richiedono forze combattenti
più numerose, anche l’esercito allarga la sua base; e, allora, da un
lato si rende necessaria l’introduzione del soldo, dall’altro, viene
necessariamente a modificarsi l’armatura, anche per l’obbligo che
spesso ricade allo Stato di fornirla.

Le guerre lunghe o lontane, la complessità maggiore de’ rapporti
economici, l’arte della guerra più progredita, l’aumento di un
proletariato in cerca di uno sfogo; tutte queste cose unite insieme,
mentre sviano il ceto de’ gaudenti e il medio ceto dall’impresa di
guerra, mentre spingono parte del proletariato verso l’esercito, come
verso una risorsa e un impiego, obbligano d’altra parte l’esercito,
o ad aprire indistintamente — come sotto C. Mario — i ranghi a’
cittadini senza distinzione di censo, o a far ricorso a’ mercenarî;
e si finisce così di nuovo col soldato professionale, quale si può
considerare il milite dell’epoca imperiale romana, militante sedici,
venti, venticinque, ventotto anni, secondo la diversità de’ tempi e
delle armi. Ma è un soldato professionale, che segna un altro estremo
dell’evoluzione, al cui punto opposto sta il guerriero dell’epoca
eroica e del periodo più antico della storia.




VIII.

Gli effetti della pace e della guerra.


Quando la tempesta si rovescia furiosa su di una campagna, non si
vedono, dopo il suo passaggio devastatore, le piante prostrate rilevare
a poco a poco la testa, e dagli stessi rami infranti, da’ campi
inondati, dall’alluvione straripante svilupparsi come una nuova forza e
la promessa di un nuovo rigoglio?

E da questo lungo, immane, continuo conflitto, da questo disgustoso
dilagare di stragi, da queste violenze e da questi orrori nulla sorgeva
mai, che fosse come una affermazione rivendicatrice della vita, una
nuova forza, un’emenda o una attenuazione dello spirito di distruzione?

Non si tratta di giustificare la guerra.

Il passato è quello che è, con le sue angosce, con i suoi danni e
anche con le sue attrattive. Si può volere scongiurare la guerra
per l’avvenire e sperare di riuscirvi, ma a ciò stesso si richiede
precipuamente la cognizione delle sue cause, della sua azione, de’ suoi
effetti. Pel passato, dato che da esso, per le condizioni sue, per
le ragioni accennate, pullulava come un fatto continuo e inevitabile
la guerra, ciò che principalmente occorre — nell’interesse di quello
stesso processo conoscitivo che è base e premessa dell’azione pratica —
ciò che occorre è constatarne diligentemente i fenomeni concomitanti e
consecutivi.

Se la possibilità universale di una produzione agevole, soddisfacente
e sicura avesse potuto sin d’allora, con la prospettiva di un minore
sforzo e di un maggiore vantaggio, bandire od eliminare la guerra,
certamente per una via più o meno lunga, con maggiore o minore sforzo,
ma con graduale persistenza, gli uomini si sarebbero, con la successiva
accumulazione della ricchezza prodotta, elevati a forme più alte di
vita e a condizioni di elevata civiltà.

Ma, nella mancanza di quella premessa, che faceva riardere la guerra
incessantemente, ora sotto forma d’ingiusta aggressione, ora sotto
forma di difesa necessaria, certe guerre, che — in qualunque maniera
e con qualsiasi intento cominciate — approdarono alla costituzione di
vasti dominii, ebbero l’effetto, anche negli stadî più rudimentali,
di costituire, sia pure temporaneamente, nell’aggregato meccanicamente
realizzato sotto un solo scettro, un periodo di pace relativa e di una
coesistenza quale solo appariva possibile nel mondo antico.

Quello stesso grande sacrifizio di vite umane ebbe, rispetto alle
fasi della popolazione, un effetto ben diverso da quello che avrebbe
oggidì; e, mentre ora, con la più facile e abbondante produzione di
alimenti, una violenta decimazione della popolazione è una crudeltà
inespiabile che non si risolve in nessuna indiretta utilità od
attenuante, nel mondo antico anche questa specie di ostacolo a un
troppo rapido incremento di popolazione poteva, considerandone tutti
gli effetti, presentare un lato meno doloroso. La specie del conflitto
quasi generale di popolo con popolo, l’eliminazione spietata di tutti
gli elementi inutili e più deboli dopo la vittoria, può anche — a
differenza di quel che accadrebbe oggigiorno — aver fatto compiere
dalla guerra una certa selezione de’ più forti.

Queste guerre poi, che in una maniera più o meno aperta — spogliazione
violenta o imposizione di tributo — si risolvevano in una grande
rapina, avevano l’effetto di accumulare rapidamente in alcuni centri
una quantità ingente di ricchezza, creando così un campo di sviluppo
adatto a tante energie materiali e spirituali, a tante manifestazioni
dell’arte e del sapere.

La schiavitù, d’altra parte, la cui storia gronda tante lagrime e
tanto sangue e che era uno de’ primi e più diretti effetti, una delle
lusinghe della guerra, col suo lavoro concentrato in certi punti, compì
davvero per molto tempo nell’antichità la funzione che oggidì compie la
macchina; e molte delle più maravigliose opere dell’architettura, della
ingegneria e dell’arte antica appariscono come l’effetto ultimo di
guerre che avevano messo in mano di un conquistatore, come in un punto
di applicazione di una leva, ricchezza accumulata e forza di lavoro
disponibile.

Certo chiunque sente umanamente, risente anche tutto il tragico fato
della storia; e la maestà delle Piramidi e del Colosseo, la bellezza
del Partenone e della statuaria antica si appannano come di un’ombra
al pensiero de’ dolori che costarono. Dolore, ammirazione, rimorso,
conforto: un turbine di sentimenti potenti e contrarî sorge innanzi
ad ognuna di quelle opere, le quali, se talvolta non sono che il
mostruoso specchio dell’orgoglio di un re, altre volte hanno in sè un
riflesso d’eterna, serena bellezza, o, come le opere di canalizzazione
e di viabilità, rappresentano un grande passo innanzi sulla via
dell’evoluzione economica e della civiltà.

Anche qui, per rilevare certi fenomeni e certi effetti della guerra,
possono meglio servire de’ documenti, che, quanto più sono antichi,
tanto più hanno valore, perchè mostrano alcuni nessi nella maniera
più semplice ed immediata, non dissimulati nè celati da fenomeni
intermediarî e più complessi.

Le iscrizioni assyro-babilonesi[206] ci fanno assistere nella forma più
costante e quasi iperbolica a questa sistematica razzìa, susseguita poi
dall’altra meno violenta ma non meno esauriente de’ tributi, che faceva
migrare la ricchezza de’ paesi vinti verso il paese vincitore.

Questi stessi documenti ci fanno vedere come le esigenze della
guerra già incitassero e obbligassero a superare luoghi impervii, a
guadar fiumi, a tracciare strade[207], a fare tanti altri lavori, che
rappresentavano una difficoltà tecnica superata e convertibile poi ad
usi più proficui che non fossero quelli della guerra.

Costantemente, i re guerrieri sono anche costruttori; e non certamente
perchè avessero maggiore attività e maggiore spirito d’iniziativa, ma
perchè nella guerra avevano raccolto mezzi e braccia adatte alle opere,
a cui, nell’eccitamento della gloria, davano mano.

Ahmos, il liberatore dell’Egitto, ricomincia subito le serie delle
costruzioni, servendosi dell’opera forzata degli Asiatici, prima
dominatori, ora servi[208]. Thoutmos I, al ritorno dalla sua spedizione
d’Asia, impiegò come muratori i numerosi prigionieri condotti al suo
sèguito e cominciò grandi lavori, che i suoi successori continuarono
senza interruzione. Tutta la valle del Nilo, dalla quarta cataratta al
mare, si covrì di monumenti[209]. Ad altrettale uso servì il bottino
raunato in Siria da Sethi I[210].

Queste costruzioni avevano luogo ordinariamente nell’intervallo tra una
e l’altra guerra, specialmente in qualche periodo di pace protratto, ma
erano sempre una dipendenza delle risorse della guerra.

Ne’ casi in cui l’opera de’ prigionieri veniva meno, queste opere
pubbliche non si potevano continuare senza grandi oppressioni e
turbamenti.

Ramsete II, il principe costruttore per eccellenza, privato dalla lunga
pace con i Khiti delle risorse della guerra, dovette servirsi per la
costruzione, di Egiziani e di stranieri già internati nell’Egitto,
sollevando grandi lamenti[211]. Shabakou, che pure aveva guerreggiato,
per procurarsi le braccia necessarie, sostituì alla pena di morte
quella de’ lavori forzati[212].

Salomone, che non era re guerriero, dovette menare innanzi le
costruzioni di Gerusalemme aggravando i sudditi d’imposte e di
contributi di opere[213].

È noto il lamento de’ Romani contro l’ultimo Tarquinio di essere
«_opifices ac lapicidas pro bellatoribus factos_»[214].

Parimenti per i re assyro-babilonesi questo lusso di costruzioni è un
complemento delle loro glorie militari, un’appendice della guerra,
in quanto questa erezione di templi, di palagi, di monumenti è una
ricompensa ed una glorificazione della divinità e di chi ha vinto col
suo aiuto e nel suo nome.

«Poiché — dice Tiglath-Pileser I[215] — ebbi vinti tutti i nemici di
Ašur, costruii il tempio ad Ištar di Ašur, mia signora, il tempio di
Martu, il tempio del vecchio Bel, la casa delle divinità, tempio degli
dèi della mia città Aššur, che erano in rovina e li completai. Feci
l’ingresso a’ loro templi, vi condussi dentro i grandi dèi miei signori
e rallegrai il loro cuore divino. Ricostruii e completai palazzi,
sedi reali nelle grandi città, a’ confini del mio territorio, che dal
tempo della reggenza de’ miei padri, per lungo periodo di tempo, erano
abbandonati, decaduti e ruinanti».

«L’antica Kalḫu — dice Asur-nâṣir-abal[216] — che Salmanassar, il re
di Aššur, un principe regnante prima di me, aveva costruito — quella
città era decaduta, ruinata, ridotta a calcinacci e terra arabile —
quella città io la resi di nuovo abitata, mettendovi a dimorare i miei
prigionieri de’ paesi che io avevo vinti e presi. Scavai un canale dal
Zab superiore e lo chiamai Patiḫigal[217], vi feci intorno giardini,
offersi in sacrifizio frutta e vini ad Ašur, mio signore e a’ templi
del mio paese. Spianai l’antica collina, scavai sino alla profondità
dell’acqua, andai sino a 120 tikpi al disotto del suolo, costruii le
sue mura; la costruii e la completai dalle fondamenta al tetto».

Di un’altra costruzione anche più immediatamente connessa con le
guerre ci parla Asarhaddon: «Per l’arsenale, che i re regnanti
prima di me, miei padri, avevano costruito per tenervi l’esercito e
custodirvi cavalli, muli, carri, proiettili, arredi di guerra, bottino
de’ nemici e ogni altra cosa qualsiasi che Ašur, il re degli dèi, mi
facesse pervenire come reale retaggio — per l’arsenale io feci portare
dagli abitatori de’ paesi, bottino del mio arco, materiali ed opera,
ed essi dovettero preparare mattoni. Io demolii completamente quel
piccolo edifizio, tagliai dal campo un gran pezzo di terra come suolo
edificatorio e ve l’aggregai»[218].

E di simili lavori riflettenti costruzioni, piantagioni, opere di
canalizzazione, si potrebbe, volendo, citarne molti e molti altri[219].

Il vantaggio, anzi il carattere indispensabile che aveva per certe
opere di molta estensione l’unità del dominio, è rilevato da un
egittologo[220] per l’Egitto riunito sotto Shabakou (Sabacone); e si
può naturalmente rilevarlo anche meglio pel dominio romano solcato
di vie, che l’attraversavano in tutti i sensi, rigato di acquedotti
monumentali, che fornivano copia d’acque alle sue città, fornito di
terme grandiose, abbellito d’immensi anfiteatri e di fôri maestosi;
tutte opere queste, in parte agevolate, in parte addirittura imposte,
più che rese possibili, da un vasto dominio, che dava origine a
centri popolosi, che richiedeva, per la sua stessa esistenza, una
comunicazione agevole e possibilmente rapida delle varie sue parti e
che per questa via ne agevolava i contatti, l’assimilazione se non la
fusione.

Se commercio e guerra, sotto un certo rapporto, si potrebbero
considerare quali termini opposti, è pure indubitato, come già è stato
osservato[221], che vengono a trovarsi in frequenti relazioni tra
loro, non solo in quanto dalle contese commerciali frequentemente si
è sviluppata la guerra, ma in quanto la guerra stessa ha finito per
dischiudere l’adito al commercio.

«Non è forse vero — diceva uno di questi scrittori a cui si è
alluso[222] — che spesso la guerra ha lasciato cadere qualche
benefizio dalla sua veste sanguinosa? Per essa si son visti parecchie
volte estendersi il commercio, propagarsi l’industria, perfezionarsi
l’agricoltura, e costumi meno inumani imporsi a’ popoli barbari».

A prescindere dalle forme con cui si presenta in tempi più antichi il
commercio, partecipe dello scambio e della pirateria, è pure evidente
come un dominio ampio, che rovesciava tante barriere, assorbendo tanti
dominî minori, creava al commercio, sulla terra e sul mare, oltre ad un
campo d’azione più largo, anche un ambiente di relativa sicurezza atta
a farlo prosperare. E poichè la conoscenza di cose nuove acquistata in
quel vario rimescolìo, i danari delle conquiste, l’elevato tenore di
vita accrescevano i bisogni e davano temporaneamente almeno il mezzo
di appagarli, il commercio non poteva che giovarsi di questo movimento,
per quanto potesse in parte essere fittizio.

Da quell’incontro di popoli di costumi così diversi, da quel percorrere
di paesi così lontani nasceva pure inevitabilmente tutto un lavoro
di assimilazione materiale e morale, pel quale si cercava anche
di acclimatare produzioni di altri paesi, mentre un rudimentale
protezionismo, corrispondente all’opposto divieto di esportazione,
faceva incoraggiare in patria quanto poteva essere necessario od utile
alla guerra.

«Cedri..... alberi di paesi da me conquistati — dice Tiglath-Pileser
I[223] — piante che sotto i re miei predecessori nessuno aveva
piantato, li presi con me e li piantai ne’ parchi del mio paese. Presi
anche piante di giardino di gran pregio, che non v’erano nel mio paese,
e le piantai ne’ parchi d’Assiria. Carri di battaglia, attrezzi di tiro
per la forza combattente del mio paese, ne feci costrurre più che per
l’innanzi».

Pindaro cantava che gli olivi d’Olimpia sarebbero stati portati da
Ercole al ritorno da spedizioni lontane.

Lucullo avrebbe portato il ciliegio dall’Asia in Italia.

E così via.

Anche l’arte traeva qualche motivo di sviluppo da queste vicende di
guerra.

Anzitutto, le armi. Uno studio indefesso, un lavoro paziente e geniale
si metteva nell’abbellire l’armatura, che servisse all’offesa o alla
difesa, costituisce l’orgoglio del guerriero; e quel lusso di armi de’
poemi omerici, che prima pareva tutta una prodigiosa fantasmagoria, col
progredire de’ trovamenti archeologici si è trovato assai meno lontano
dalla realtà.

In quella sovreccitazione dello spirito e de’ sensi, data
dall’infuriare del conflitto, rampollava naturalmente il canto di
guerra di volta in volta ebbro, severo, appassionato di Tirteo, di
Alceo, di Callino, e l’immagine degli avvenimenti, rispecchiata nella
fantasia, abbellita dalla lontananza, ricomposta nelle sue grandi
linee, diveniva epopea nel poema finora e forse per sempre insuperato
ne’ secoli.

L’orgoglio del vincitore cercava una sede adeguata e costruiva
palagi, dove dal lusso si doveva sviluppare l’eleganza, e l’arte dalla
ricchezza.

«Io mi costruii — dice Tiglath-Pileser III[224] — un palazzo di legno
di cedro... Al Nord feci le sue porte di avorio... Lo copersi, lo
rafforzai con travi di legno di cedro, ampie, che sentono bene, come a’
fumatori le fragranze del legno di Ḫašurri, il prodotto dell’Amanus,
del Libano e Ammanana. Per ornamento adoperai l’arte degli artefici e
collocai la porta. I battenti di legno di cedro, doppî, il cui ingresso
largisce le grazie, il cui profumo allieta il cuore, li cinsi con
una cornice raggiante e splendente e li fermai alle porte. I leoni
colossali, i tori colossali, formati con tanta arte, con tanto lavoro,
li posi alle entrate, li feci ergere per l’altrui ammirazione. Sotto
di essi dal lato di mezzogiorno posi soglie di... feci un ingresso
maestoso. Eressi anche una statua... de’ grandi dèi; la creatura del
fondo de’ mari, la posi là con la faccia rivolta (?), feci sì che
spandesse intorno a sè il terrore. A completarla la circondai d’oro,
d’argento e di rame e feci risplendere la sua figura».

Mentre lo sviluppo stesso dell’architettura, sacra e profana, tirava
dietro di sè lo sviluppo della statuaria, questa riceveva un altro
eccitamento indipendente dal desiderio, dal bisogno di eternare quei re
vittoriosi, quei guerrieri famosi.

Quasi di prammatica nelle iscrizioni assyro-babilonesi appare dopo
qualche grande vittoria questa statua di re eretta ad eterna sua
gloria[225].

A questo stesso desiderio si riconnette il principio di una tradizione
storica scritta.

Nelle loro reciproche incursioni, i diversi belligeranti usavano
lasciare all’ultimo termine della loro conquista un segno visibile, una
memoria delle loro gesta: altre ne lasciavano ne’ templi, altre simili
iscrizioni apponevano alle stesse loro statue.

«Nella mia tavola commemorativa e nel mio documento di fondazione —
dice Tiglath-Pileser I — scrissi la gloria della mia forza eroica, le
vittorie riportate nelle mie battaglie, l’assoggettamento de’ nemici,
che odiavano Ašur, che Ašur e Rammân mi avevano donati; e li posi per
l’eternità nel tempio di Ašur e Rammân, i grandi dèi, miei signori.
Nettai anche con olio il documento di Samši-Rammân, mio antecessore,
feci un sacrifizio e lo rimisi al suo posto»[226].

E Samši-Rammân[227]: «Feci ergere una statua della mia maestà reale
di conveniente grandezza, vi feci scrivere la potenza di Ašur, mio
signore, la magnanimità, la forza e tutte le gesta della mia mano da me
compite nel paese di Nairi e la feci porre in Sibara...».

È lo stesso impulso — generalizzato e spostato da un re a una
cittadinanza — che dà origine agli annali de’ pontefici e de’
magistrati civili, e che poi fa sorgere la storia stessa, suggerendo
ad Erodoto di eternare le guerre persiane, intorno a cui trovano
posto, come intorno a un nucleo, tutti gli altri fasti storici di
altri popoli; a Tucidide di narrare la guerra del Peloponneso, e così
ad altri scrittori di narrare i fasti de’ popoli, prendendo le mosse
dalle guerre, che, essendone la parte più visibile e impressionante, ne
costituiscono per lungo tempo come la spina dorsale.

Insieme a questi effetti più generali e diretti, la guerra ne produceva
altri più indiretti, mediati e meno visibili per l’adattamento a cui
obbligava i popoli belligeranti, per le modificazioni che, col suo
contraccolpo, induceva nella loro stessa organizzazione interna.

La guerra — se non realmente, potenzialmente almeno, quasi permanente
— obbligava generalmente, la società antica a organizzarsi in vista e
sulla base della guerra.

In primo luogo, quindi, finché — ciò che accade per la più parte degli
Stati in periodo molto avanzato — l’esercito non si costituisce una
base professionale o mercenaria, vi è corrispondenza tra il diritto
di cittadinanza attiva e il servizio militare, in modo che l’uno e
l’altro, estendendosi, esercitano un’azione reciproca. Il servizio
militare per le classi superiori delle popolazioni è, più che un
dovere, un privilegio. L’assemblea sovrana deliberante è, si può dire,
l’esercito sul piede di pace. L’evoluzione democratica che allarga i
termini e i poteri della cittadinanza, abbassa anche le condizioni di
entrata nell’esercito e finisce coll’aprirne l’adito a’ proletarî.

Del pari il governo della finanza si orientava massimamente sulla
guerra.

La mancanza di servizî pubblici geriti dallo Stato riduceva,
specie ne’ più antichi tempi, lo Stato a un organo di protezione
o di sopraffazione collettiva. La forma rudimentale, che in più
antichi tempi assumeva la guerra, la sua breve durata, l’immediata
distribuzione del bottino, non esigevano, nè determinavano una
vera organizzazione finanziaria; ma col soldo introdotto, con
l’avocazione delle prede allo Stato, si rese necessaria una gestione.
La quale, peraltro, dove non era richiesta una preparazione alla
guerra, continua, dispendiosa, tecnica, si riduceva a levare un
tributo straordinario secondo l’occorrenza; ma, dove, come ad Atene,
l’armamento, specie navale, esigeva preparazione di lunga data,
rinnovazione continua del materiale, costruzione di ripari e tutto il
resto, la finanza si sviluppò più che altrove, sia per la regolare
percezione ed amministrazione de’ tributi degli alleati, sia per
l’ordinamento e l’andamento della trierarchia.

La guerra poi aveva un’azione continua sulla politica interna dello
Stato e sul contegno delle parti in lotta: tanto maggiore quanto più
all’interno diveniva più complessa la vita politica.

La classe dominante cercava talvolta nella guerra un diversivo a’
torbidi interni, sia spostando verso l’esterno, verso la speranza di
preda e di annessioni territoriali le brame che cercavano appagamento
all’interno, sia contando su quel naturale sentimento di solidarietà,
che si desta anche in una popolazione discorde di fronte a un attacco
esterno. E, veramente, molte volte ne seguì l’effetto voluto, perchè
non solo lo spirito civico e la preoccupazione del danno presente
decisero della concorde preoccupazione momentanea, ma l’esito
fortunato delle guerre permise di cercare nelle colonizzazioni, nelle
assegnazioni, nelle cleruchie uno sfogo quasi permanente al disagio
locale.

Non di rado, intanto, le discordie erano troppo forti per cessare
all’istante, e cedevano a stento e a rilento e non senza patteggiare
la propria cooperazione, concessa a base di corrispondenti concessioni
della parte dominante.

La storia tradizionale romana, quale che possa essere la sua esattezza
relativamente alla cronologia e alle particolarità di quest’ordine di
fatti, è tutta intessuta degli episodî di queste dissensioni, riardenti
o sopite rimpetto al nemico, e dei tentativi da parte della plebe di
mettere a prezzo la sua partecipazione alla guerra per fare qualche
passo innanzi nel _ius connubii_, nella questione agraria, nella sua
emancipazione dal gravoso giogo del _nexum_[228].

Il diversivo del resto era momentaneo: le promesse spesso non erano
mantenute, o le concessioni erano revocate, e alle vecchie ragioni
di dissenso, risorgenti con maggiore acrimonia, si aggiungevano altre
difficoltà, maggiori bisogni, nuovi e più complicati problemi.

Cominciavano le controversie per la divisione delle spoglie, sia
sotto forma di distribuzione di denaro o di oggetti mobili, come di
territorio.

Le guerre lunghe e lontane, la milizia prolungata, i poteri prorogati
ad alcuni generali per imperiose necessità di guerra, le ricchezze
accumulate nel governo delle provincie e nell’appalto de’ tributi, le
abitudini contratte in paesi di vita più raffinata, inducevano nuovi
bisogni e crescente disparità di fortune, creavano poteri personali
e consorterie oligarchiche e conturbavano tutta la vita pubblica con
le prevalenze de’ pochi, con la corruzione elettorale, con lo spirito
fazioso fomentato, con le concentrazioni de’ possessi, con l’interesse
pubblico traviato od eclissato.

Una guerra difensiva di confine, poi, combattuta, si può dire, alle
porte, in condizioni di vita assai semplici, aveva un interesse
presente e quasi universalmente sentito. Una guerra lunga e lontana,
combattuta mentre le condizioni economiche dello Stato erano
progredite e gl’interessi delle varie classi della popolazione si
erano differenziati ed anche contrapposti, turbava adattamenti già
conseguiti, offendeva interessi e speranze e suscitava necessariamente
vivi contrasti. Se il proletario vi poteva vedere la via di diventare
proprietario e il commerciante l’ampliamento del suo campo di azione e
il pubblicano una nuova mèsse di tributi da esigere, il proprietario
fondiario, specie medio e piccolo, vi doveva vedere volta a volta il
peso del tributo, l’invasione richiamata come un turbine di lontano
sulle sue terre, la propria azienda abbandonata, il suo mercato aperto
alla concorrenza; tutto ciò a prescindere da’ pericoli e dalle molestie
rese più sensibili a chi più aveva cominciato ad apprezzare il piacere
di evitarle.

Così gli antagonismi dissimulati talvolta all’interno dalle loro
manifestazioni individuali, si riflettevano nella politica estera come
in un mezzo più terso e ne ripigliavano vigore per divampare peggio:
la guerra n’era a un tempo come lo spontaneo processo dimostrativo e il
principio risolvente; e i partiti si riorganizzavano come partito della
guerra e partito della pace, servendo come di centro di attrazione e di
punto di applicazione a tutte le opposte tendenze.

Così, se da un lato si creava un ostacolo e un inceppo a’ conflitti,
dall’altro canto il logorìo del contrasto esterno era accresciuto
da quello di tutti i contrasti interni, e la guerra esercitava anche
per questa via la sua azione dissolvente, che operava immancabile, or
segreta, or palese, e, nell’ebbrezza del trionfo, apriva agli stessi
vincitori una fossa dissimulata sotto un tappeto di fiori.

Mentre sperdeva nel conflitto mille energie, mentre disertava,
desolava, stremava il paese e le forze de’ vinti, la guerra induceva
tra i vincitori, come un sottile e celato veleno, lo spirito
di parassitismo, il lusso corruttore e snervante, lo sperpero
scialacquatore, la demoralizzazione irresistibile, tutti gli elementi
insomma che, soppiantando lo spirito produttore, parco, assiduo,
costante, disintegrano e sovvertono una società tra l’illusione della
prosperità assicurata e crescente.

Così, proprio quando parevano aver toccato l’ultimo trionfo, questi
Stati antichi, cominciavano a presentare i tristi presagì della loro
decadenza e della loro ruina. La guerra continua li esauriva; e, se
una volta la volubile fortuna della guerra li abbandonava, rovinava in
un giorno l’opera di secoli; pure, mentre durava, la guerra manteneva
un certo eccitamento artificiale, uno spirito di coesione, sia pure
fittizio, e riforniva con le prede, con gli schiavi, gli stessi
vuoti ch’essa aveva prodotto. Ma, come accade dopo un lungo sforzo,
la stanchezza si sentiva proprio più quando lo sforzo veniva per un
momento a cessare. Allora diveniva più sensibile il lungo esaurimento.
Niente era più fatale di quella sosta, che metteva fronte a fronte
col problema di mutare la base della propria esistenza o perire. Così
l’Egitto dopo Ramsete III[229]. Così l’Assiria sotto Salmanassar IV
e i suoi immediati successori[230]. Così gli altri. Naturalmente i
paesi che sapevano ritrovare o ricreare in sè le ragioni della loro
vitalità, ripiegarsi su sè stessi in un lavoro fecondo di produzione,
se non superavano la crisi, per lo meno vi resistevano vivendo una
vita modesta, sin che un urto esterno più forte e irresistibile
per la stessa forza dominante non provocava la ruina, o sin che non
si ricostituivano condizioni di nuovi successi. Gli Stati, invece,
prevalentemente, puramente militari, sorti dalla guerra, per la guerra,
sulle condizioni della rapina permanente, incapaci di trar profitto
dalle arti della pace; questi Stati decadevano irremissibilmente,
andavano in ruina, si disfacevano qualche volta, senza lasciare una
traccia nella storia della civiltà, come un lugubre sogno.




IX.

La guerra civile.


La radice della guerra stava nel desiderio — e si potrebbe anche dire,
in molti casi, nel bisogno — determinato da uno scarso sviluppo delle
forze produttive, di vivere dell’altrui produzione, risolvendo con uno
sforzo, presuntivamente minimo almeno nella durata, il problema della
vita.

Questo fenomeno, che, all’esterno, ne’ rapporti di Stato a Stato, si
manifestava con le forme di una guerra propria e dichiarata, aveva
vita anche all’interno in forma più dissimulata e circoscritta, sia
che si trattasse di disputarsi il frutto esclusivo delle imprese
esterne, sia che si trattasse di cercare all’interno l’adattamento
insufficientemente consentito nelle relazioni esteriori.

Questo parassitismo sociale muta di aspetto, di forma, d’intensità, è
diretto o indiretto, più o meno esteso, si esercita direttamente sugli
uomini o li colpisce indirettamente attraverso le cose; ma persiste
continuo e ininterrotto sotto il sistema dell’appropriazione privata
de’ mezzi di produzione. Il fine si raggiunge esigendo servigî,
in cambio di protezione, come nel caso de’ clienti, percependo una
parte de’ frutti della terra, come nel caso degli addetti alla gleba
di varia denominazione; escludendo dal possesso delle terre e dalle
funzioni politiche una parte della popolazione, come nella contesa per
l’agguagliamento de’ ceti, che ha tant’eco nella storia tradizionale
romana; arrogandosi il possesso diretto dell’uomo, come nel _nexum_;
ma, attraverso così varie modalità, volute dal diverso sviluppo
economico e dalla migliore convenienza particolare e generale, uno è il
punto di partenza, una la mèta.

L’estendersi della schiavitù, per effetto di una nuova fase della
guerra, dando agli abbienti un più comodo ed economico mezzo di
acquisto e una più assoluta disponibilità della forza di lavoro,
aveva reso possibile di dichiarare l’inalienabilità della persona
del _cittadino_; ma, risoluta vittoriosamente la questione della sua
libertà formale, restava sempre da risolvere la questione ognor viva e
presente dell’esistenza materiale. E, per coloro che non avevano parte
al possesso della terra, lo schiavo straniero non solo non era stato un
liberatore, ma era un concorrente.

Questa condizione di cose ha avuto la sua fase ultima, benchè non
definitiva, nella formazione di un salariato, il cui primo nucleo andò
sempre crescendo pel crescere del proletariato e la sua concorrenza
alla schiavitù, per la degenerazione progressiva di questa e la
sua eliminazione definitiva[231]. Ma, durante questo processo di
trasformazione più volte secolare, a principio del quale specialmente
il salariato stentava più a trovare uno sfogo e ad attecchire,
la contesa per l’emancipazione economica, cioè pel possesso di un
mezzo di produzione specialmente fondiario e sussidiariamente per
la ripartizione degli utili dello Stato, considerato come un’impresa
comune, dovea essere viva, continua.

Il corpo organizzato, che lottava concorde e come ente unico, per
l’acquisto o per la difesa di una preda, aveva in sè un permanente
contrasto d’interessi, in vista dell’appropriazione privata di ogni
possesso; e così, nel seno stesso degli aggregati politicamente
organizzati, su di una scala più o meno vasta, sotto l’apparente
uniformità e coesione, v’erano sordi e mal dissimulati contrasti,
resi sempre più acuti da antitesi d’interessi, fomentati dalle
passioni stesse a cui davano luogo. La piccolezza dello Stato, poi,
e il fatto che nell’antichità la vita politica di un dominio, per
quanto grande, si concentrava esclusivamente nella città dominante,
facevano sì che i dissensi d’indole più generale si complicassero e
s’inasprissero di tutti gli odî ereditarî di famiglie, di tutte le
avversioni personali, di tutte le gare locali. Sicchè si aveva una
guerra continua, or manifesta, or latente, di classi contro classi, di
famiglie contro famiglie, di persone contro persone. E uno stato di
cose che da Platone[232] si era compendiato in questa osservazione:
«..... Ognuna di esse non si può chiamare una città, ma molte città.
Perchè, comunque sia, ve ne sono due avverse tra loro, una de’ poveri,
una de’ ricchi, e in ognuna di queste ve ne sono molte alla loro volta;
e tu ti sbaglieresti assolutamente, se le volessi considerare come
una sola città; considerandole invece come molte, dando agli uni le
ricchezze, la potenza, le persone stesse degli altri, troveresti sempre
molti alleati, pochi avversarî....». Un quadro che, come giustamente
si è osservato, non può a meno di richiamare quanto, tanti secoli
dopo, in un suo romanzo politico, diceva il Disraeli dell’Inghilterra
contemporanea: «Sono proprio due popoli tra cui non esiste nessuna
comunione, nessun sentimento comune, che si conoscono così poco
nelle loro abitudini, ne’ loro pensieri e ne’ loro sentimenti, come
se fossero le creature di diverse zone o gli abitanti di diversi
pianeti»[233].

L’allargarsi degli orizzonti, il crescere de’ bisogni, la facilità
d’arricchire non facevano che acuire questo stato di cose.

Uno scrittore latino[234] delinea così questa nuova fase della
vita a Roma: «Ma poichè le cose dello Stato ebbero incremento dalla
laboriosità e dalla giustizia, e re potenti furono vinti in guerra e
fiere nazioni e vaste popolazioni sottomesse con la forza, e Cartagine,
emula della potenza romana, fu divelta dalle fondamenta ed ogni
mare ed ogni terra era aperta innanzi a noi; la fortuna cominciò a
incrudelire e a confondere ogni cosa. A quei che facilmente avevano
tollerato fatiche, pericoli, vicende d’esito incerto ed aspre, parvero
desiderabili ozio e ricchezze; tutte le altre cose misere e gravose...
Poichè le ricchezze vennero in onore, e la gloria, il comando, la
potenza dipendevano da quelle, cominciò a vacillare la virtù, la
povertà cominciò a sembrare vergogna e la integrità malevolenza. Dalle
ricchezze quindi emersero, a sopraffare la gioventù, lussuria, avarizia
e superbia; rubare, consumare, far poco conto del proprio, desiderare
l’altrui, non aver riguardo, nè misura rispetto al pudore e alla
pudicizia, alle cose umane e alle divine confuse».

E, poco appresso, lo stesso storico fa parlare Catilina così[235]:
«Dopo che lo Stato cadde in potere ed arbitrio di pochi, sempre re
e tetrarchi sono loro tributari, popoli e nazioni sono tassati a
loro favore; tutti noi altri, strenui e buoni, nobili ed ignobili
fummo volgo, privi di ogni considerazione, di ogni autorità, avvinti
a quelli, di cui, se la Repubblica fosse quale dovrebbe essere, noi
saremmo lo spavento. Quindi sovranità, potenza, onore, ricchezza sono
in mano loro o dove loro piace: a noi lasciano pericoli, ripulse, piati
giudiziarî, miseria. Le quali cose sino a quando vorrete soffrir voi,
fortissimi uomini? Non giova meglio morire valorosamente che perdere
inonoratamente una vita misera e infelice, nella quale si sarà servito
di ludibrio all’altrui superbia?... Qual mortale che abbia animo virile
può tollerare che a quelli avanzino tante ricchezze da profonderne
nel costruire in mare e nell’adeguare i monti, mentre a noi manca
una sostanza familiare da poter sopperire al necessario? Che quelli
possano avere di seguito due e più case, mentre a noi manca un lare
familiare? Mentre comperano quadri, statue, cesellature, e diroccano
nuovi edificî per costruirne altri, e infine in ogni maniera estorquono
danaro, vessano, pure non possono con la somma loro libidine superare
le ricchezze. Noi, invece, abbiamo l’indigenza a casa, fuori i debiti;
triste la condizione dell’oggi, molto più aspro l’auspicio del domani:
infine che cosa altro ci resta se non una misera anima?».

Questo stato continuo di tensione, spinto all’estremo, sotto l’azione
di un avvenimento esterno, di un crescente dissesto interno, di una
rivoluzione politica, precipitava finalmente verso la catastrofe; e
allora tutte le ire, tutte le violenze si scatenavano senz’ordine,
nè misura. Tutti i metodi di guerra, tutte le crudeltà, a cui i
conflitti esterni avevano adusata l’una e l’altra parte, erano
usati reciprocamente, aggravati e circuiti di tradimenti, d’insidie,
di ragioni personali, quali potevano esservi tra vicino e vicino,
nell’àmbito di uno stesso recinto.

Nel 370, per es., il popolo di Argo massacrava con la fustigazione
millecinquecento persone. «Il popolo d’Argo — dice Isocrate[236] —
si reca a soddisfazione di massacrare i ricchi, e si rallegra, ciò
facendo, più che non facciano altri nell’uccidere i nemici». Delle
condizioni del Peloponneso dice[237]: «Si temono i nemici meno de’
proprî concittadini. I ricchi preferirebbero gettare in mare le loro
ricchezze anzi che darle a’ poveri: per questi, d’altra parte, niente
è più gradito che lo spogliare i ricchi. Cessano i sacrifizî: sugli
altari si sacrificano gli uomini. Più di una città ha ora più emigrati
di quanti ne aveva prima l’intero Peloponneso».

E a questi scoppî violenti d’ira della piazza facevano riscontro da
parte delle oligarchie gli stati d’assedio, le misure eccezionali, le
proscrizioni in massa, le confische.

Oneste lotte intestine, di cui è materiata la storia antica, e che, mal
placate da una certa beneficenza di Stato, riardevano continuamente,
finivano di solito con l’indebolire la compagine dello Stato, facendolo
preda di un nemico esterno più potente, o, sotto la doppia pressione
del bisogno di resistere agli urti interni ed esterni, determinava il
sorgere o il risorgere di un principato.

A Roma, si arrivò per questa via all’Impero, che importava un ambiente
di relativa pace favorevole agl’interessi, specie del medio ceto, e
alla sua eventuale ricostituzione, un freno all’aristocrazia avida,
una migliore amministrazione del dominio, una sistemazione delle
provvidenze pel proletariato.

Ma le dispute di successione tornavano, quando non era possibile
stabilire o mantenere una dinastia, a compromettere gravemente la
pace pubblica; e, prima di arrivare alla stessa prima costituzione
dell’Impero, tutto il dominio aveva dovuto passare attraverso un lungo
periodo di convulsioni e di guerra civile.

E niente vale forse a dare meglio un’idea di tutti gli episodî di
essa, quanto la descrizione che ne dà Appiano, discorrendo del secondo
triumvirato[238]:

«Nell’atto stesso che erano fatte le proscrizioni, si occuparono
le porte e quante altre uscite vi erano delle città e i porti e le
paludi e tutto quanto potesse dar sospetto di prestarsi a fuga o ad
appiattamento: si fece in modo che i centurioni scorressero il paese,
investigando, e ogni cosa si fece in questo stesso senso.

«Subito, adunque, in città e in campagna, dovunque ognuno si trovava,
si vedevano repentine sorprese e uccisioni di vario genere e recisioni
di teste per la taglia promessa a’ denunziatori e fughe inonorate
e contegni sconvenienti di chi prima era ragguardevole. Poichè si
nascondevano alcuni ne’ pozzi, altri in condotti luridi sotterranei,
altri ne’ camini fumosi, o se ne stavano in gran silenzio sotto le
incombenti tegole de’ tetti. Giacchè, non meno de’ sicarî, temevano
alcuni le mogli o i figli non ben disposti verso di loro, altri
i liberti e i servi, altri i debitori o i confinanti di fondi per
l’avidità di avere le loro terre. Era come un erompere, tutto in una
volta, di ciò che sin’allora era venuto suppurando, ed era spietata
la vicenda di senatori, consoli o pretori o tribuni, o ancora in
carica o già investiti di tali uffizî, cadenti in pianto a’ piedi del
loro stesso servo, invocando salvatore e padrone lo schiavo. E il più
spietato era che non trovassero mercè. Vi era tutto uno spettacolo
di mali, non quali si scorgono nelle rivolte o nelle espugnazioni
delle città: poichè non accadeva, come in quelle, che si temesse
l’avversario o il nemico, rivolgendosi a’ proprî familiari: questi
appunto si temevano più de’ sicarî, non temendoli come in guerra o
nella sedizione, ma fatti d’improvviso, di familiari nemici, o per
segreta inimicizia, o per donazioni ad essi promesse, o per oro ed
argento che si avesse in casa. Per queste cose ciascuno diveniva infido
verso i suoi di casa e anteponeva alla compassione il suo lucro.
Chi si manteneva fido o benevolo, temeva di recare aiuto, o celare,
o essere fin consapevole per la simiglianza delle pene. A ritroso
l’incalzava il primo timor de’ diciassette [i _presi_ prima della
proscrizione]. Poichè, allora, non essendo stato proscritto alcuno, ma
essendo improvvisamente stati presi quelli, tutti temevano le stesse
cose e si sentivano compagni. Venute fuori le tavole di proscrizione,
altri furono subito consegnati; altri, fatti securi di sè stessi e
voltisi al lucro, davano la caccia ad altri per consegnarli, dietro
una taglia, a’ sicarî. Dell’altro gran numero, alcuni saccheggiavano le
case degli uccisi, e il guadagno li alienava dalla coscienza de’ mali
presenti; altri più assennati e buoni erano colpiti dalla sorpresa ed
era per essi più strano se consideravano come altre città erano state
danneggiate dalle dissensioni e le aveva salvate la concordia; questa,
l’avevano ruinata in precedenza le dissensioni de’ governanti e il loro
accordo ora si rivelava in tali effetti. Morivano alcuni difendendosi
dagli assalitori, altri non difendendosi e come soccombendo a una
ingiusta loro violenza; ve n’erano anche che perivano di volontario
digiuno e disfatti dalle piogge, che si affogavano in mare o si
gettavano da’ tetti o si lanciavano nel fuoco, o andavano incontro
a’ sicarî, o li mandavano a chiamare se indugiavano, mentre altri si
nascondevano, o supplicavano senza dignità, o cercavano di scongiurare
il male incombente a viva forza o con la corruzione. Alcuni perirono
all’insaputa de’ triumviri, per errore o per insidia. E sapevano del
non proscritto ucciso, quando si presentava la testa. Poichè i capi
de’ proscritti si esponevano nel Fôro, presso i rostri, dove bisognava
che venissero a prendere la mercede quelli che li portavano. Si
osservava parimenti la premura e la virtù d’altri, donne e giovinetti
e fratelli e servi, che salvavano ricorrendo a molti stratagemmi e
morivano insieme quando non riusciva ciò che avevano escogitato: altri
si uccidevano sugli uccisi. Di quelli che fuggirono, alcuni perirono
in naufragî, in tutto oppressi dalla fortuna; altri, inopinatamente,
furono condotti a’ magistrati cittadini e a’ comandi degli eserciti e
a’ trionfi...».




X.

Pax Romana.


La guerra! La pace! La pace! La guerra!

Col ritmo monotono di un pendolo che non tocca un estremo se non
per allontanarsene e tendere subito all’altro; con l’intreccio
inestricabile di trame intessute per formare una sola tela a vario
colore; col contrasto e la correlazione di una triste realtà e di una
dolce aspirazione che si rincorrono per escludersi e per completarsi —
la pace e la guerra, la guerra e la pace si succedono, si rinnovano,
si avvicendano, s’insidiano attraverso la lunga, dolorosa via della
storia!

Il desiderio della pace, immanente e perenne, ma perennemente minato e
deluso da’ contrasti della vita, risorgeva inestinguibile e ostinato
e trovava la sua espressione e la sua incarnazione in molteplici e
continuamente riprodotti trattati di pace.

Ma erano tregue piuttosto che paci, vigilie d’armi e incubazioni di
guerre. La loro lunghissima serie[239] non fa che provare la loro
fragilità, la loro nessuna persistenza; e, nel loro carattere generale,
sembrano altri aspetti della guerra; alleanze che miravano a una guerra
futura, e, nello stesso loro nome (συμμαχία), rivelavano questo loro
scopo e questa ragione bellicosa.

A misura che si venivano costituendo più vasti e più solidi organismi
politici, che il concetto di razza si veniva fissando e determinando,
che gli interessi si complicavano e s’intrecciavano, l’aspirazione
alla pace trovava un campo più vasto in cui esercitarsi; ma non perciò
riusciva a realizzarsi. Così, in forma tipica, il mondo ellenico,
cementato da comuni tradizioni, dalla comune fede religiosa e da comuni
interessi, veniva acquistando un senso di solidarietà e un’anima
collettiva, che riflettuta ne’ suoi artisti e ne’ suoi pensatori,
faceva talvolta considerare come una lotta intestina e quasi fratricida
le guerre reciproche. Ma era una unità ideale a cui non si conformava
la realtà delle cose; era una mèta morale fatta di stati d’animo e di
tendenze, a cui si ribellava, recalcitrando, la vita quotidiana con
i suoi interessi varî che non di rado divenivano anche discordanti.
Pure, in queste sue tendenze e manifestazioni ideali, la solidarietà
nazionale e di razza finiva per avere, come antitesi e corrispondenza,
insieme, un senso di ostilità verso tutto ciò che era fuori di quel
cerchio e di quell’ambiente.

«In primo luogo — si dice in uno de’ dialoghi platonici[240] — quanto
alla schiavitù, ti pare giusto che Elleni riducano in ischiavitù città
elleniche o che ciò non si conceda ad alcuno, per quanto è possibile,
e si avvezzi a risparmiare la gente ellenica, facendo in modo che non
debba essere ridotta in servitù neppure da’ barbari? Assolutamente,
disse, importa che si risparmî. Non acquistare uno schiavo greco,
consigliando agli altri Elleni di fare altrettanto? Certamente,
disse: così si rivolgerebbero maggiormente contro i barbari ed essi si
avrebbero riguardo reciprocamente».

E poco appresso[241]: «Vedi dunque se dico cosa confacente. Dico che
la gente ellenica è congiunta da legami di famiglia e di un lignaggio,
aliena ed estranea alla gente barbarica. Benissimo, disse. Diremo,
così, di conseguenza, che, combattendo gli Elleni con i barbari e i
barbari con gli Elleni fanno guerra, e sono nemici per natura, e questa
ostilità si deve chiamare guerra. Quando, invece, gli Elleni combattono
con gli Elleni, mentre sono amici per natura, l’Ellade, così facendo,
presenta uno spettacolo morboso, si trova in istato di sedizione; e una
tale ostilità si deve chiamare guerra civile. Io, disse, convengo che
si debba ritenere così... La città che fonderai, non sarà ellenica?
Bisogna ch’essa sia così, disse. Adunque (i suoi cittadini) saranno
buoni e indulgenti? Certamente. E non saranno filelleni? E non
considereranno la Grecia come congiunta, e non parteciperanno con gli
altri alle cose sacre? Certamente. Adunque le controversie, che avranno
con gli Elleni, come con congiunti, le riterranno guerra civile e non
le chiameranno guerra? No, certamente. Controvertiranno come persone
che debbono riconciliarsi? Assolutamente. Castigheranno, con animo ben
disposto, non spingendo la punizione sino alla riduzione in servitù e
alla distruzione; essendo correttori, non nemici. Così, disse. Essendo
Elleni, dunque, non manometteranno l’Ellade, nè incendieranno le
abitazioni, nè considereranno in ogni città tutti come loro nemici, gli
uomini, le donne, i fanciulli, bensì i pochi colpevoli del dissidio, e
però non vorranno manomettere il loro territorio, quale cosa di molti
amici, nè rovesciare le case, e lotteranno invece insino a quando i
colpevoli saranno obbligati dagl’innocenti, che soffrono per loro, a
pagare il fio. — Convengo, disse, che i nostri cittadini si debbano
condurre così con questi loro avversarî, con i barbari invece come
fanno ora gli Elleni tra loro...».

Benchè, sotto questa forma, il senso di ostilità e le occasioni di
guerra fossero piuttosto spostate che non eliminate, pure quello
spirito di solidarietà, insufficiente a realizzare la pace nell’àmbito
delle stirpi elleniche, si traduceva qualche volta in effetti pratici,
o che una controversia fosse composta da un oracolo di comune fiducia,
o che fosse portata a qualche consiglio anfizionico o federale, o che
si risolvesse per mezzo di arbitrati, un’istituzione dalla civiltà
greca comunicata e trasmessa anche alla società romana.

La formazione di grandi Stati, poi, in quanto erano costretti per
qualche tempo a controbilanciarsi in un mutuo gioco di equilibrio,
o faceva luogo ad un’egemonia, che si spiegava anche per mezzo
d’interventi e di arbitrati[242], contribuiva anch’essa talvolta
ad allontanare, per qualche tempo, occasioni di guerra e assicurava
temporaneamente la pace.

Ma la pace, che urtava, come contro un ostacolo invincibile, contro il
processo di mutua eliminazione, ritardato soltanto o sospeso per una
o un’altra via, dovette sembrare finalmente assicurata, quando quel
processo di mutua eliminazione giunse al punto di toccare veramente
l’impero universale; e, con la costituzione dell’Impero romano, dovette
sembrare anche che fosse maturato l’ambiente per la pace universale.

Così, per quel carattere dialettico ch’è nell’indole stessa della
storia, tutto l’infinito periodo di guerre sembrava che non avesse
fatto se non preparare la sua antitesi, e che il sangue e la strage
non avessero cosparsi tutti i campi del mondo se non perchè da essi
sorgesse più desiderato e più vigoroso il fiore della pace, e questa
trovasse la sua sanzione e la sua guarentigia nella impossibilità
obbiettiva di un contrasto!

L’Impero romano sorse anche come l’appagamento di questa aspirazione,
nell’estrema lotta tra l’Oriente e l’Occidente, tra il più antico
impero e il più recente, tra l’antica tradizione e i nuovi bisogni; e
non parve a moltissimi pagato a caro prezzo l’inestimabile benefizio
della pace, se ad essa dovevano immolarsi vecchie forme e nomi cari e
orrori tradizionali.

Nessuno de’ fasti o delle cerimonie dell’antica èra gloriosa parve
vincere quello che si riassumeva nella chiusura del tempio di Giano.

La Pace parve davvero stendere l’ali ampie e benefiche e altrici sul
mondo; e il grido di trionfo di tutte le guerre, il gaudio intimo del
fortunato presente, le fiorenti speranze dell’avvenire trovarono tutta
la loro espressione nel canto con cui Orazio[243] credeva a un tempo
mettere il suggello alle sue odi e alle guerre che parvero le ultime.

«A me, che volevo cantar le battaglie e le città vinte, Febo avvertì,
in atto di rimprovero, con la lira, che non commettessi le piccole vele
all’onde tirrene. L’età tua, o Cesare, riportò anche la pingue mèsse
a’ campi e restituì al nostro Giove le insegne strappate a’ superbi
penetrali de’ Parthi e chiuse il tempio di Giano non più aperto a’
conflitti, e impose il retto ordine a chi se ne dipartiva e i freni
alla licenza e bandì i delitti e richiamò le antiche arti, per cui
crebbero il nome latino e le forze italiche, e la fama e la maestà
dell’imperio si è stesa dall’occaso alla culla del sole. Finchè tu, o
Cesare, starai a custodia di tutto, non l’infuriare delle lotte civili,
non la violenza cacceranno la quiete di seggio, non l’ira che tempra le
spade e inimica le misere città. Le leggi giulie, non le infrangeranno
quei che si abbeverano al profondo Danubio, non i Geti, non i Sericani,
non gl’infidi Persiani, non i nati sulle sponde del Tanai. E noi, ne’
giorni feriali e ne’ sacri, tra i doni di Libero giocondo, con i nostri
figli e le nostre matrone, dopo aver pregato secondo il rito gli dèi,
canteremo, secondo il costume degli antenati, con canto sposato alle
tibie lydie, i duci che si condussero valorosamente, e Troia e Anchise
e l’alma progenie di Venere».

Quella filosofia stoica che era emersa dalla ruina dello Stato ellenico
come un tentativo superbo e geniale dello spirito, che si costruiva da
sè una città sottratta ad ogni prepotenza di conquistatore, uno stato
d’invidiabile libertà, e come tale tornava a infrangere, moralmente, il
particolarismo ellenico per emanciparsi meglio dalle angustie fortunose
e opprimenti della politica; quella filosofia si trovava a miglior agio
e si diffondeva meglio in uno Stato che tendeva a confondersi col mondo
abitato, dove il cittadino tendeva a confondersi con l’uomo, e l’anima
umana aveva meno ostacoli a vincere per sublimarsi nella sua trionfante
espressione; mentre, d’altro canto, il diritto della città tendeva ad
allargarsi, come in un cerchio concentrico, nella sfera più vasta di
una generalizzazione maggiore del diritto delle genti, e questo stesso
in una sfera più vasta, nel diritto naturale: una realtà che diveniva
un’astrazione, un’astrazione che diveniva una realtà.

La pace aveva così il suo crisma dalla filosofia, col suo concetto di
uomo che si sovrapponeva a quello di cittadino, con quella sua sfera
ideale di azione che si emancipava dalle contingenze della vita, con
quella sua atarassia che si librava, irridendo, su tutti gli assalti
della miseria e del dolore; e, d’altra parte, per un altro crisma
diverso, si naturalizzava a Roma, prendeva anche essa il diritto di
cittadinanza romana e, nel suo epiteto e nella sua funzione solenne
di _pax romana_, s’imponeva con tutto il prestigio e l’autorità di
un’istituzione positiva, con la forza e la sanzione della potenza e
dello Stato romano.

E, per qualche tempo, fosse pure una sosta, il mondo parve godere
gl’inestimabili beneficî della pace. Rimarginava, quasi, le sue ferite;
si rifaceva in quel senso di sicurezza, come un convalescente che sente
rinascere il senso della vita al tepore del sole novello; e fu ed è
opinione di più d’uno storico, che in quei primi secoli dell’èra nuova,
sotto gli Antonini specialmente, un vero miraggio di felicità arridesse
al genere umano.

Pure, col venir meno del bersaglio, non era venuta a mancare la ragione
delle armi; e quella pace, che certo includeva in sè molti vantaggi
e sotto cui il mondo parve per qualche tempo vivere e respirare a suo
agio, celava ancora troppe ragioni intime di contrasti e simulava sotto
molti rispetti ancora come uno stato di guerra.

Tutta quella straordinaria varietà di elementi non era ben fusa o non
era fusa affatto, e l’Impero contava popoli di lingua e di origine
diverse, e, negli stessi àmbiti delle diverse regioni, padroni e
schiavi, abbienti e proletarî, dominatori e dominati, tributarî e
signori, cittadini e folle prive della pienezza dei diritti politici e
civili.

Questi elementi, così diversi e spesso inevitabilmente messi dalla
forza stessa delle cose o dalle loro ragioni di vita in contrasto,
erano tratti, di volta in volta, a cozzare tra loro, e allora quella
stessa potestà imperiale, che era il punto di unione, il centro di quel
mondo in movimento, diveniva, nelle successioni specialmente, una mèta
e una leva pel divampare della guerra civile.

Per quanto, nella fusione perenne delle diverse civiltà e
nell’irradiazione del suo potere, Roma cercasse di diventare come
l’anima e lo spirito vitale di tutto il mondo dominato, quella
compagine gigantesca era troppo aliena dal centro, troppo diversa e
lontana, perchè, da un aggregato qual’era, potesse davvero trasformarsi
in un organismo. E, finchè restava un aggregato, un dominio
artificialmente tenuto insieme, rappresentava anche un meccanismo
troppo complicato e troppo costoso; sicchè, specie in quello stadio
ancora poco sviluppato delle forze produttive, funzionava come una
continua forza depauperatrice, che elideva in certo modo i benefici
della pace, e, rendendo più aspre le cause intime di contrasto, ne
fomentava i dissensi. L’esercito stesso, che in mezzo agli elementi
inorganici non ancora coordinati o alla disorganizzazione sotto altri
aspetti crescente, rappresentava l’elemento più organizzato, pel fatto
stesso che era tale e che costituiva una forza prevalente, diveniva
agevolmente strumento e causa di prepotenza e, all’occasione, di
conflitti interni e di disordine.

Tutt’intorno all’immenso confine, convertito in una cinta fortificata
e guardato come un baluardo, formicolavano poi popolazioni barbariche,
vere orde talvolta, che si moltiplicavano con la spensierata
prolificità di gente allo stato di natura, e, soggette a tutte le
vicende degli elementi e alla balìa del caso per quanto concerneva la
stessa loro possibilità di vita, fiottavano con l’ostinazione di una
forza naturale, cieca e inesauribile, contro un ostacolo, oltre cui
vedevano, come l’immagine viva di una terra promessa, uno stato di
ricchezza e di vita, quale l’opera di secoli e gli stenti d’infinite
generazioni avevano potuto foggiare e verso cui li chiamava lo stesso
spirito della propria conservazione, la stessa lotta per l’esistenza.

Così, tra il risorgente ideale della pace, che prendeva la forma di
aspirazione religiosa, di bisogno presente, di meditazione filosofica
e la vita quotidiana irrimediabilmente turbata o insistentemente
minacciata, il mondo romano, che quasi era l’orbe, si agitava ancora
come in una contraddizione senza uscita, col moto misteriosamente
fatale del pendolo, che, proprio mentre sta per toccare un estremo, è
sospinto ed attratto verso l’estremo opposto; e si aveva lo spettacolo
dell’Imperatore filosofo, che sillogizzava sulla vanità della vita
nel campo stesso in cui ne affermava le vane ire, gli sforzi sterili e
sanguinosi.

La pace è equilibrio, che ha bisogno di essere stabile, se si vuole
stabile pace; e non vi è nè equilibrio, nè pace, dove la forza è
base e legame della vita, e popolo è congiunto a popolo, individuo a
individuo, non da mutuo scambio di servigî e uguale correlazione di
diritti e di doveri, ma da una legge di servitù che fa l’uomo e l’opera
sua mezzo a un altro uomo. Non vi è equilibrio, nè pace, dove qua la
mancanza del necessario, là il desiderio e la possibilità del superfluo
creano, a vicenda, lo scontento e la preoccupazione, la minaccia e la
cupidigia, l’aggressione ch’è difesa e la difesa ch’è aggressione, cioè
la guerra, in cui la forza non si risolve, ma si perpetua come in un
circolo vizioso, per rigermogliare esacerbata e moltiplicata in altre
guerre, in altre violenze, in altri motivi di conflitto.

Anche questa pace menzognera, a cui sembrava essersi arrivato con la
guerra, non per rinnegare ma per consolidare l’opera della guerra,
non per regolare la forza ma per assiderla in trono, si risolveva così
nella guerra, e faceva luogo al crollo più enorme che la storia abbia
mai veduto.

La compagine vacillava, si allentava, si disgregava nelle sue stesse
commessure interne, nello svilupparsi delle stesse forze centrifughe,
del malcontento, delle disuguaglianze stridenti, di quegli stessi
dispendiosi legami artificiali, che per il loro stesso carattere
dispendioso e violento si convertivano in un’azione disintegratrice;
e si agevolava la via all’urto esterno, ripetuto, continuo, fatale,
che si ripercuoteva sempre più sonoramente e fortemente sugli elementi
interni in conflitto.

E quanto più, nel procedere della disorganizzazione, le parti si
sentivano sciolte del tutto, cercavano in sè stesse le ragioni e i
mezzi della propria conservazione, e, sviluppando funzioni e creandosi
organi, si formavano una vita propria ed autonoma.

Finchè, venendo sempre meno la coesione, stremata la resistenza, come
un torrente, che, abbattuto l’argine, si riversa e dilaga, la piena
barbarica, forza vittoriosa e vendicatrice di una forza soggiogata,
si spandeva, trionfatrice, adimando l’opera più volte secolare,
sovrapponendosi ad essa, distruggendo e cancellando il lavorìo lungo ed
industre della civiltà.

Poi, per un lento lavoro di stratificazione e di riordinamento, tra
le ultime scosse di quel vero cataclisma sociale, nel riformarsi, pur
su di una base non sostanzialmente diversa, dell’assetto sociale,
emergevano nuovi gruppi etnici, nuove nazionalità, nuove compagini
politiche, che, sotto l’assillo dell’antica concorrenza, rinnovavano
l’antiche lotte; mentre dagli stessi orrori della competizione
quotidiana, da’ sanguinosi conflitti che n’erano il contraccolpo, si
svolgeva un nuovo sogno di fraternità universale, ove la pace avesse la
base e la guarentigia in sistemi di vita alieni da ogni sfruttamento
di un popolo a pro’ di un altro popolo, di un uomo a pro’ di un altro
uomo.




INDICE


     I. Guerra e pace nell’antico Oriente       _Pag._ 6
    II. Pace e guerra ne’ poemi omerici e
          esiodèi                                 »   31
   III. Nel regno della guerra                    »   49
    IV. Pace e guerra nell’antica Atene           »   68
     V. Pace e guerra nell’antica Roma            »  110
    VI. Le cause della guerra                     »  145
   VII. Gli aspetti della guerra                  »  154
  VIII. Gli effetti della pace e della guerra     »  188
    IX. La guerra civile                          »  208
     X. Pax Romana                                »  219




DELLO STESSO AUTORE


  _La costituzione così detta di Licurgo_. Napoli,
      1885                                              L.  2 —
  _La famiglia nel diritto attico_. Torino, 1886        »   2 50
  _Introduzione alla storia generale del diritto_.
      Torino, 1886                                      »   1 25
  _La Basilicata_. Torino, 1889                         »   1 25
  _I sacerdozî municipali e provinciali della
      Spagna nell’epoca imperiale romana_. Torino,
      1890                                              »   2 —
  _Antonino Pio_ (Estratto) Roma, 1891                  »   1 —
  _Amicus_ (Estratto). Roma, 1891                       »   1 —
  _Arcadio_ (Estratto). Roma, 1891                      »   — 50
  _Le istituzioni pubbliche cretesi_. Roma, 1891        »  15 —
  _Augusto_ (Estratto). Roma, 1894                      »   2 —
  _Il processo di Verre_. Milano, 1895                  »   3 50
  _Donne e politica negli ultimi anni della Repubblica
      romana_. Milano, 1895                             »   1 25
  _La questura di C. Verre_ (Estratto). Torino,
      1885                                              »   — 75
  _La fine del secondo triumvirato_ (Estratto).
      Torino, 1895                                      »   1 —
  _Il numero degli schiavi nell’Attica_ (Estratto).
      Milano, 1897                                      »   1 —
  _La retribuzione delle funzioni pubbliche civili
      e le sue conseguenze nell’antica Atene_
      (Estratto). Milano, 1897                          »   1 50
  _La pace e la guerra nell’antica Atene_ (Estratto).
      Scansano, 1897                                    »   1 25
  _Il tramonto della schiavitù nel mondo antico_.
      Torino, Bocca, 1898                               »   6 —
  _Attraverso la Svizzera_. Napoli, 1900                »   3 50
  _Scritti di Marx, Engels e Lassalle_, tradotti in
    italiano e pubblicati insieme a lavori illustrativi.
    Roma, Mongini edit. (a fascicoli).




NOTE:


[1] MASPERO, _Le papyrus de Berlin_, n. 1 nelle _Mélanges d’archéologie
égyptienne et assyrienne_, t. III, pp. 68-82 e _Histoire ancienne des
peuples de l’Orient_, 4^e éd. Paris, 1886, p. 97.

[2] Presso MASPERO G., _Histoire ancienne des peuples de l’Orient_.
Paris, 1886, p. 272, con le fonti ivi citate.

[3] MASPERO, _Du genre épistolaire_, pp. 50-62; _Histoire ancienne
etc._, pp. 117 sgg.

[4] _Il._, XXIV, vs. 55 sgg. = vs. 40 sgg. del testo, ed. Dindorf.

[5] _Il._, XI, vs. 414, ed. Dindorf.

[6] _Il._, XVII, vs. 746 sgg.

[7] _Il._, XVII, vs. 133 sgg., 281 sgg.

[8] _Il._, XX, vs. 164 sgg., 490 sgg. — XXII, vs. 139 sgg.

[9] _Il._, XVI, vs. 425 sgg., 487 sgg.

[10] _Il._, XIII, vs. 240 sgg., vs. 330.

[11] _Il._, XVI, vs. 582, vs. 765.

[12] _Il._, XVII, vs. 61 sgg., 109 sgg.

[13] _Il._, XII, vs. 40 sgg. — XIII, vs. 136 sgg. — XV, vs. 605 sgg. —
XXII, vs. 308, ecc.

[14] _Il._, XIII, vs. 816 sgg. = 635 sgg. del testo, ed. Dindorf.

[15] _Il._, VI, vs. 282 sgg.

[16] _Il._, VII, vs. 348 sgg.

[17] _Il._, XXII, vs. 111 sgg.

[18] _Il._, V, vs. 152 sgg., 408 sgg., 480 sgg., 684 sgg.

[19] _Il._, XXIV, vs. 511 sgg.

[20] _Il._, IV, vs. 440 sgg.

[21] _Il._, vs. 95 sgg. = 67 sgg. del testo, ed. Dindorf.

[22] _Odys._, XXIV, vs. 426 sgg.

[23] _Odys._, XIX, vs. 401 sgg. = 328 sgg. del testo.

[24] _Odys._, I, vs. 84 sgg. = 58 sgg. del testo.

[25] _Odys._, XI, vs. 609 sgg. = 486 sgg. del testo.

[26] _Odys._, XXIV, vs. 685 sgg., = 542 sgg. del testo. Cfr. pure vs.
531 sgg.

[27] _Odys._, XVI, vs. 483 sgg.

[28] _Odys._, VII, vs. 74 sgg. = 59 sgg. del testo.

[29] _Odys._, VI, vs. 280 sgg. = vs. 200 sgg. del testo.

[30] _Odys._, VI, vs. 380 sgg. = vs. 270 sgg. del testo.

[31] _Odys._, XVII, vs. 345 sgg. = 286 sgg. del testo.

[32] Ἀσπὶς Ἡρακλέους, vs. 154 sgg., 242 sgg., ed. Weise.

[33] Ἀσπὶς Ἡρακλ., vs. 286 sgg.

[34] Op. cit., vs. 374 sgg.

[35] Ἔργα καῖ ἡμέραι, vs. 271 sgg.

[36] Ἔργα καὶ ἡμἑραι, vs. 297 sgg.

[37] Op. cit., vs. 359 sgg.

[38] Ἔργα καὶ ήμέραι.

[39] Ἔργα καὶ ήμέραι, vs. 11 sgg.

[40] Ἔργα καὶ ήμέραι, vs. 684 sgg. Cfr. 629 sgg.

[41] _Tyrt._, Ὑποθῆκαι, I, vs. 1-2.

[42] TYRT., I, vs. 3 sgg.

[43] Ἀθ. πολ, 1.

[44] PLUTARCH., _Apophtheg. lacon._ Ἀγεσιλάου τοῦ μεγάλου, XIV, XV,
XXVIII.

[45] THUC., I, 68, 1.

[46] THUC., I, 69, 4.

[47] THUC., I, 120, 4.

[48] THUC., I, 70, 9.

[49] THUC., I, 122, 2.

[50] THUC., I, 80, 3.

[51] THUC., I, 85.

[52] THUC., I, 86, 5.

[53] THUC., I, 76.

[54] THUC., I, 77, 6.

[55] ANDOC., _Or. de pace cum Lacedaem._, 21.

[56] ANDOC., _Or. de pace cum Lacedaem._, 1.

[57] XENOPH., _Hellen._, VI, 3, 7 sgg.

[58] HERODOT., V, 49-50.

[59] XENOPH., _Hellen._, III, 3.

[60] XENOPH., _Hellen._, III, 3; — PLUTARCH., _Ag._, 5 sgg.; _Cleom._,
3 sgg.

[61] BERGK TH., _Poetae Lyr. Gr._ II^3, p. 416, 1.

[62] PICCOLOMINI E., _L’Elegia_ Σαλαμίς _e la simulata pazzia di
Solone_ (nel _Museo di antichità classica_ diretto da D. Comparetti,
II, pp. 510 sgg.).

[63] WILAMOWITZ-MOELLENDORFF, _Aristoteles und Athen_, Berlin, 1893, I,
267.

[64] TOEPPFER I., _Quaestiones pisistrateae_, Dorpat, 1887, pp. 56 sgg.

[65] Ἀθην. πολ., 18.

[66] _Acharn._, vs. 523 sgg.

[67] I, 88.

[68] I, 140 sgg.

[69] I, 1.

[70] THUC., III, 82.

[71] I, 143.

[72] c. 2, 11.

[73] _Resp. Athen._, c. 2, 11.

[74] c. 2, 14.

[75] THUC., II, 16.

[76] ARISTOPH., _Pax_, vs. 633 sgg.

[77] _Acharn._, vs. 977 sgg.

[78] _Pax_, v. 582 sgg.

[79] _Lysistr._, vs. 119 sgg.

[80] _Pax_, vs. 149 sgg.

[81] _Pax_, vs. 229 sgg.

[82] _Pax_, vs. 1127 sgg.

[83] _Pax_, vs. 1198 sgg.

[84] _Pax_, vs. 292 sgg.

[85] THUC., III, 82.

[86] XENOPH., _Mem._, II, 7-10.

[87] _De pace_, p. 159, 6.

[88] _De pace_, pp. 162-3, 19 sgg.

[89] _De pace_, p. 172, 64.

[90] _De pace_, p. 179, 101.

[91] _De pace_, pp. 168, 42, 44, 46; 172, 64; 173, 68; 175, 82-3; 178,
95.

[92] _De vectig._, I, 1: ... σκοπεῖν εἴ πη δύναιντ’ ἄν οἱ πολῖται
διατρέφεσθαι ἐκ τῆς ἑαυτῶν....

[93] _De vectig._, V.

[94] _De pace_, p. 169, 172, 51, 66.

[95] _De vectig._, I, 1.

[96] DEMOSTH., _c. Leptin._, pp. 466-7, 31 sgg.

[97] _De vectig._, IV, 3 sgg. 26.

[98] _De vectig._, I, 6, 7; III, 1, 2.

[99] _Polit._, p. 1267, a, II, 4, 9.

[100] ARIST., _Polit._, p. 1255, b, I, 2, 7.

[101] [ARISTOT.], _Rhet. ad Alexand._, p. 1425.

[102] _De pace_, p. 183, 117.

[103] _Pax_, vs. 246-7.

[104] _De vectig._, V, 13.

[105] _De pace_, p. 168, 44, 46.

[106] BERGK, _Poetae Lyr. Gr._, III^2, p. 1230.

[107] Op. cit., III^2, p. 1238, nº 36.

[108] _In hostem aeterna auctoritas esto._ Legg. XII Tab.

[109] CIC. _in Verr._, II, 2, 3, 7: ... _quasi quaedam praedia populi
Romani sunt vectigalia nostra atque provinciae_...

[110] MOMMSEN, _Abriss des römischen Staatsrechts_, Leipzig, 1893, pp.
71 e _passim_.

[111] _Pro Muren._, 10, 22.

[112] _Dig._, XLI, 1, 5, 7.

[113] FRANCE (A.), _Le mannequin d’osier_, Paris, 1897 (28 éd.), p. 7.

[114] LIV., III, 68, 3, 6.

[115] LIV., V, 5, 3.

[116] V, 8, 4 sgg.

[117] DE RUGGIERO E., _Le colonie de’ Romani_, Spoleto, 1897, pp.
127-8. (Estr. dal _Dizionario epigrafico di antichità romane_).

[118] VIII, 35.

[119] LIV., II, 16, 3.

[120] LIV., II, 22, 4.

[121] LIV., II, 39, 9.

[122] LIV., II, 39, 6.

[123] DION. HAL., VIII, 83, 91; — LIV., V, 2.

[124] IV, 59, 9 sgg.

[125] DION. HALIC., VII, 19.

[126] IV, 59, 11.

[127] NITZSCH K. W., _Die Gracchen_, Berlin, 1847, p. 108.

[128] LIV., XXXI, 7.

[129] LIV., XXXII, 3.

[130] XXXVII, I, _b, c_.

[131] NITZSCH K. W., _Die Gracchen und ihre nächsten Vorgänger_,
Berlin, 1847, pp. 235 sgg.

[132] HERODOT., I, 94; — STRAB., V, 4, 12; — FEST. S. V., _Ver sacrum_.

[133] I, 16.

[134] SCHRADER E., _Sammlung von assyrischen und babylonischen Texten_,
Berlin, 1889 e sgg., I, pp. 93, 99, 105, 165, 167, 171-3, 179, 181,
183, 191; II, pp. 15, 41, 53, 55, 95, 135, ecc.

[135] SCHRADER, _Sammlung assyr.-babyl. Inschriften_, Berlin, 1889, I,
p. 29. Cfr. pp. 33, 37, ecc.

[136] SCHRADER E., _Sammlung assyrischen und babylonischen Texten_, I,
p. 135.

[137] Op. cit., I, p. 163.

[138] Op. cit., I, p. 169.

[139] Op. cit., II, p. 121.

[140] Op. cit., I, pp. 17-19.

[141] SCHRADER, _Sammlung etc._, I, p. 71.

[142] SCHRADER, _Sammlung etc._, I, p. 19.

[143] Op. cit., I, p. 159.

[144] Op. cit., II, p. 57.

[145] Op. cit., II, p. 87.

[146] SCHRADER E., _Sammlung etc._, II, p. 109.

[147] Op. cit., II, p. 257.

[148] Op. cit., I, pp. 25, 27, 35, 59, 77, 81, 89, 143, 145, 147 sgg.,
155, 179, 181, 183, 189; II, 65, 67, 109, 119, 165, ecc.

[149] Op. cit., II, pp. 101, 119, 123, 125, 129, 145, 177, 207, 209,
241, 243, 255, ecc.

[150] SCHRADER, _Sammlung etc._, II, p. 193.

[151] Op. cit., II, p. 165.

[152] Op. cit., II, p. 193.

[153] Op. cit., II, p. 217.

[154] Op. cit., II, p. 127.

[155] Op. cit., II, p. 265.

[156] Op. cit., II, pp. 89, 189.

[157] SCHRADER, _Sammlung etc._, II, p. 183.

[158] Op. cit., II, pp. 67, 181.

[159] Op. cit., II, p. 245.

[160] Op. cit., II, p. 145.

[161] Op. cit., II, p. 43.

[162] Op. cit., II, p. 53.

[163] Op. cit., II, pp. 43, 183.

[164] Op. cit., II, p. 149.

[165] MASPERO, _Histoire ancienne etc._, p. 83.

[166] _Il._, XXI, 550; _Od._, XXIV.

[167] SCHRADER, _Sammlung etc._, I, p. 117.

[168] Op. cit., I, 5.

[169] _Il., passim._

[170] _Il._, XXIII, vs. 181 sgg.

[171] _Il._, XVIII, vs. 520 sgg.

[172] _Odyss._, I, vs. 255 sgg.

[173] _Il._, XIII, vs. 659.

[174] _Il._, XXII, 77 della trad. = 39 sgg. del testo.

[175] _Od._, IX, vs. 43 sgg. della trad. = 62 sgg. del testo.

[176] _Il._, VI, 75 della trad. = 57 sgg. del testo.

[177] SCHRADER, _Sammlung etc._, I, 185; II, 7, 11, 15, 17, 29, 67, 85,
89, 133, 147, ecc.

[178] DIONYS., VIII, 64, IX, 14; — LIV., II, 64, 3; III, 1, 8; 2, 12;
3, 10; 8; 10, 1; 26, 1-2; 30; 38; IV, 1; 21, 1; 45, 6; V, 16; 24; VII,
16, 3; 22, 3; X, 16; 36, 14, ecc.

[179] SCHRADER, _Sammlung etc._, I, pp. 19, 31, 33, 35, 37, 65, 73, 85,
87, 89, 107, 145, 147, 149, 155, 171; II, 55, 59, 91, 131, 133, 135,
145, 167, 171, 179, 197, ecc.

[180] Op. cit, II, 191.

[181] SCHRADER, _Sammlung etc._, I, p. 145.

[182] Op. cit., I, p. 33.

[183] _Il._, VII, vs. 356 sgg. = 286 sgg. del testo.

[184] _Od._, XXII, vs. 519 sgg. = 411 sgg. del testo.

[185] _Esod._, XV, 2, sgg.

[186] II, _Chron._, XXXII, 8.

[187] ERMAN A., _Neuägyptische Grammatik_, p. 6-7; — MASPERO, _Hist.
ancienne_, p. 230.

[188] Cfr. MASPERO, _Hist. ancienne_, p. 203 e gli altri autori ivi
citati.

[189] SCHRADER, _Sammlung etc._, II, 143.

[190] SCHRADER, _Sammlung etc._, II, 187, 251.

[191] Op. cit., I, pp. 23, 25, 27, 37, 55, 69, 79, 89, 105, 113, 115-7;
131, 135, 145, 151, 153, 157, 159, 161, 163, 169, 171, 173, 179, 181,
185, 191; II, pp. 7, 19, 37, 41, 53, 61, 63, 75, 83, 85, 87, 91, 93,
97, 103, 107, 109, 119, 145, 147, 153, ecc.

[192] Op. cit., I, 23, 37; II, 7, 91, 97, 133, 193, 203, 209-11, 221.

[193] PLUT., _Thes._, 35, 64.

[194] HERODOT., VIII, 64.

[195] HERODOT., VIII, 109.

[196] FOUGÈRES, _Bas-reliefs de Thessalie_ (in _Bulletin de
correspondance hellénique_, X (1886), p. 185).

[197] _De off._, I, 11, 36.

[198] LIV., IX, 1, 8 sgg.

[199] LIV., 30, 16, 9.

[200] _De nat. deor._, 2, 3, 8; 3, 2, 5.

[201] 5, 10.

[202] LIV., 5, 27.

[203] 5, 11.

[204] Delineo qui appresso per sommi tratti, tanto da rilevarne i
caratteri distintivi, le fasi, attraverso cui passò l’arte della guerra
presso gli antichi. Entrare in maggiori e più minuziose particolarità
sarebbe cosa aliena dallo spirito di questo scritto. Per chiarimenti
più ampi si possono vedere: BAUER A., _Griech. Kriegsalterthümer_,
2ª ediz. (in Iw. Müller’s, _Hdb._, IV, 1) e SCHILLER, _Röm.
Kriegsalterthümer_ (in Iw. Müller’s, _Hdb._, IV, 2) ove è pure citata
l’amplissima bibliografia dell’argomento.

[205] _Il._, XIII, vs. 237:

    συμφερτὴ δ’ ἀρετὴ πέλει ἀνδρῶν καὶ μάλα λυγρῶν.

[206] SCHRADER, _Sammlung etc._, I, pp. 61-3, 149, 167, 169, 171, 179,
181, 191; II, pp. 169, 171, 203, 207, 255.

[207] SCHRADER, _Sammlung etc._, I, 29, 31, 37, 81, 87.

[208] MASPERO, _Hist. ancienne_, pp. 170-1.

[209] Op. cit., p. 205.

[210] Op. cit., p. 217.

[211] MASPERO, _Hist. ancienne_, p. 262.

[212] Op. cit., p. 417.

[213] Op. cit., p. 334.

[214] LIV., I, 59, 9.

[215] SCHRADER, _Sammlung etc._, I, p. 39.

[216] Op. cit., I, p. 117.

[217] In una iscrizione successiva (op. cit., I, p. 119) lo chiama
«apportatore di fecondità».

[218] SCHRADER, _Sammlung etc._, II, p. 149.

[219] Op. cit, I, pp. 111, 127-9, 145, 163; II, pp. 9, 11, 19, 23, 39,
47, 71, 73, 75, 77, 111, 117, 123, 135, 137, 157, ecc.

[220] MASPERO, _Hist. ancienne_, p. 416.

[221] DU MESNIL MARIGNY, _Hist. de l’économie politique des anciens
peuples_, Paris, 1872, I, p. 36; — CUNNINGHAM W., _An essay on western
civilization in its economic aspects_, Cambridge, 1898, pp. 3 sgg., 23.

[222] DU MESNIL MARIGNY, l. c.

[223] SCHRADER, _Sammlung etc._, I, p. 41.

[224] SCHRADER, _Sammlung etc._, II, 23-5.

[225] SCHRADER, _Sammlung etc._, I, pp. 69, 99, 135, 141, 143, 147,
155, 159, 161, 181; II, pp. 33, 59, ecc.

[226] SCHRADER, _Sammlung etc._, I, p. 45.

[227] Op. cit, I, p. 181.

[228] LIV., I, 17, 4; II, 24; 27-29; 43; 38, 9; 65, 6; 66, 69; IV, 1;
5, 5; VI, 18; 31; 34; VII, 12, 4, ecc.

[229] MASPERO, _Hist. ancienne_, p. 271 sgg.

[230] Op. cit., p. 384 sgg.

[231] Cfr. CICCOTTI E., _Il tramonto della schiavitù nel mondo antico_.
Torino, 1899.

[232] _Respubl._, 423, a.

[233] PÖHLMANN R., _Geschichte des antiken Kommunismus und
Sozialismus_. München, 1893, I, p. 156.

[234] SALLUST., _Bell. Cat._, 10-12.

[235] 20, 5.

[236] _Philipp._, 20. Cfr. anche PÖHLMANN, op. cit., I, 155.

[237] _Archidam._, 67-8.

[238] _B. C._, IV, 12 sgg.

[239] SCALA (R. von). _Die Staatsverträge des Altertums_. Leipzig, 1898.

[240] PLAT., _Respubl._, 469, c.

[241] Op. cit., 470 c, d, 471 a, b. Cfr. PLAT., _Politic._, 261 d.
_Epinom._, 987 d.

[242] DE RUGGIERO E., _L’arbitrato pubblico in relazione col privato
presso i Romani_. Roma, 1893, pp. 40, 65, 67, 232 sgg.

[243] _Od._, IV, 15.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici. La notazione ^ indica che
il carattere seguente è in apice.





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        Gutenberg Literary Archive Foundation at the address specified in
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        Literary Archive Foundation.”
    
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are set forth in this agreement, you must obtain permission in writing
from the Project Gutenberg Literary Archive Foundation, the manager of
the Project Gutenberg™ trademark. Contact the Foundation as set
forth in Section 3 below.

1.F.

1.F.1. Project Gutenberg volunteers and employees expend considerable
effort to identify, do copyright research on, transcribe and proofread
works not protected by U.S. copyright law in creating the Project
Gutenberg™ collection. Despite these efforts, Project Gutenberg™
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or corrupt data, transcription errors, a copyright or other
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of Replacement or Refund” described in paragraph 1.F.3, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation, the owner of the Project
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LIABLE TO YOU FOR ACTUAL, DIRECT, INDIRECT, CONSEQUENTIAL, PUNITIVE OR
INCIDENTAL DAMAGES EVEN IF YOU GIVE NOTICE OF THE POSSIBILITY OF SUCH
DAMAGE.

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written explanation to the person you received the work from. If you
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with your written explanation. The person or entity that provided you
with the defective work may elect to provide a replacement copy in
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or entity providing it to you may choose to give you a second
opportunity to receive the work electronically in lieu of a refund. If
the second copy is also defective, you may demand a refund in writing
without further opportunities to fix the problem.

1.F.4. Except for the limited right of replacement or refund set forth
in paragraph 1.F.3, this work is provided to you ‘AS-IS’, WITH NO
OTHER WARRANTIES OF ANY KIND, EXPRESS OR IMPLIED, INCLUDING BUT NOT
LIMITED TO WARRANTIES OF MERCHANTABILITY OR FITNESS FOR ANY PURPOSE.

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warranties or the exclusion or limitation of certain types of
damages. If any disclaimer or limitation set forth in this agreement
violates the law of the state applicable to this agreement, the
agreement shall be interpreted to make the maximum disclaimer or
limitation permitted by the applicable state law. The invalidity or
unenforceability of any provision of this agreement shall not void the
remaining provisions.

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trademark owner, any agent or employee of the Foundation, anyone
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production, promotion and distribution of Project Gutenberg™
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including legal fees, that arise directly or indirectly from any of
the following which you do or cause to occur: (a) distribution of this
or any Project Gutenberg™ work, (b) alteration, modification, or
additions or deletions to any Project Gutenberg™ work, and (c) any
Defect you cause.

Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg™

Project Gutenberg™ is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of
computers including obsolete, old, middle-aged and new computers. It
exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations
from people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s
goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will
remain freely available for generations to come. In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg™ and future
generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see
Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org.

Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification
number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by
U.S. federal laws and your state’s laws.

The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West,
Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up
to date contact information can be found at the Foundation’s website
and official page at www.gutenberg.org/contact

Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread
public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine-readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment. Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States. Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements. We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance. To SEND
DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state
visit www.gutenberg.org/donate.

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg web pages for current donation
methods and addresses. Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations. To
donate, please visit: www.gutenberg.org/donate.

Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works

Professor Michael S. Hart was the originator of the Project
Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be
freely shared with anyone. For forty years, he produced and
distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of
volunteer support.

Project Gutenberg™ eBooks are often created from several printed
editions, all of which are confirmed as not protected by copyright in
the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not
necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper
edition.

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facility: www.gutenberg.org.

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