The Project Gutenberg eBook of Racconti incredibili e credibili This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Racconti incredibili e credibili Author: Enrico Panzacchi Release date: March 25, 2025 [eBook #75714] Language: Italian Original publication: Roma: Perino, 1885 Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK RACCONTI INCREDIBILI E CREDIBILI *** ENRICO PANZACCHI RACCONTI INCREDIBILI E CREDIBILI ROMA STABILIMENTO TIPOGRAFICO E. PERINO 62 — Vicolo Sciarra — 62 1885 Proprietà Letteraria COI SORDINI Accadde ben presto ciò che il vecchio Petronio aveva preveduto e temuto; e, caldo ancora del rabbuffo che aveva toccato dalla signora contessa, entrò nella stanza del giovinotto. — Mio caro, non sono io stato indovino? Il vostro strumento mi tira addosso de’ guai. Scendo adesso dal quartiere della signora che m’ha parlato chiaro, o smettere di sonare o uscir subito da questa casa. Il giovine prima terminò la sua frase melodica, posò l’arco attraverso il leggìo, il violino sulle sue ginocchia, poi guardò il vecchio portiere col viso costernato, come chi è tolto bruscamente da pensieri piacevoli. — Uscire da questa casa, voi dite? O dove volete ch’io vada? Aspetterete almeno, m’immagino, che arrivi la fine del mese. E intanto pretendereste voi altri ch’io non sonassi più? È impossibile! E tolto l’arco e il violino, ricominciò la frase di prima, socchiudendo gli occhi per gustarla meglio. Il portiere allora si mise a girare per la stanza, a battere i piedi, a sbuffare, a bestemmiare. Il giovine si scosse: — C’è bisogno di bestemmiare! Certo io non patirò che, per causa mia, voi andiate incontro a de’ guai; ma, d’altra parte, io ho bisogno di studiare e non posso mica andare a sonar il violino nella Montagnola... Vediamo di rimediare alla meglio. E alzatosi, trasse dal cassetto del tavolo un gingillo d’ebano che adattò alle corde dello strumento, inforcandolo e premendolo molto sul _ponticello_: poi diede un’arcata lunga e vigorosa che, alla prima, fece al vecchio stendere in avanti tutte due le mani come per impedire che quel suono, così maledettamente vibrato, si diffondesse e scappasse fuori dalla finestra e salisse in alto a suscitare nuovi sdegni. Invece, con sua meraviglia, il portiere non intese più uscire dallo strumento che un suono, o, meglio, un gemitio velato, ottuso, tenuissimo che moriva, dopo avere appena vissuto, nel breve spazio della cameretta. — Va bene così? — chiese sorridendo il giovine, dopo aver durato un poco a segare con l’archetto sulla corda. Il portiere, col viso tutto contento, senza dir parola ma facendo di gran segni d’assenso col capo, uscì dalla stanza e chiuse l’uscio. * * * Però il giovine fu preso da una grande melanconia: e rimase un pezzo fermo, la testa appoggiata sul leggìo, tenendo l’archetto e il violino con le braccia penzoloni. La sua mente usciva da quelle quattro pareti silenziose e saliva in alto. Ma adesso era sola e non l’accompagnava più un’onda di suoni che entravano per le grandi finestre e andavano a volteggiare lassù in quel quartiere signorile e misterioso ch’egli non aveva mai visto ma del quale tante volte aveva fantasticato... Perchè bisogna sapere che in quel palazzone antico, taciturno e chiuso, in cui non si vedeva entrare che qualche vecchio e qualche prete; in quel palazzone, in cui fin le cameriere parlavano poco e a bassa voce e i servitori pareva che camminassero in punta di piedi, la contessa bigotta e settuagenaria viveva con una nipote che aveva appena toccati i sedici anni. Il padre e la madre di questa erano morti quand’era ancora bambina, e anch’essa, a vederla così pallida ed esile, così scema d’ogni vivacità e d’ogni calore di giovinezza, dava ben poca speranza che potesse vivere lungamente. Che malattia aveva? Ogni settimana veniva in casa un medico celebre per la cura delle malattie nervose, ma parlava poco e vagamente del male; non scriveva quasi mai alcuna ricetta, e si fermava ad alcune prescrizioni igieniche, a qualche consiglio intorno al modo di vita, che si riferiva piuttosto al morale che al fisico della ragazza. Il giovine s’era innamorato di lei: ma a spiegare il come, egli per primo sarebbe stato molto imbrogliato. Appena l’aveva vista qualche volta un momento, essendosi trovato, per caso, nell’androne del palazzo mentre la carrozza usciva. Aveva visti i suoi occhi grandi e fissi, raggianti nel pallore del visino bianco e delicatamente profilato; e sopra quegli occhi e quel visino una massa di capelli biondi più che il grano maturo, diffusi intorno al capo come un’aureola vaporosa. Altro: e glie n’era rimasto nell’animo come una impronta di visione bella e triste, che gli dava, ripensandola, una dolcezza ed un accoramento indicibili. E nella sua camera chiusa non si sentiva più solo. Quella fanciulla era vicina a lui nel piano superiore, sopra il suo capo: la sentiva vivere con lui, le pareva di respirare con essa. Andava agitando nel cervello dei sogni magnifici, strani, pietosi, inverosimili. Gli pareva d’essere predestinato ad una pia impresa di liberazione, come gli eroi delle leggende wagneriane; e quando la sua mente correva al premio, non sapeva immaginarlo altrimenti che vedendo sè inginocchiato dinanzi a quella sottile figura di bambina bionda, che si chinava sopra di lui e gli posava, leggero leggero, un bacio sulla fronte... Quando prendeva il violino e stava delle lunghe ore dinanzi al leggìo, il suo sonare da prima era come un balbettìo musicale incerto e timido, poi era una prova meno imperfetta, a periodi più lunghi e con qualche ripresa nei passi più importanti, a fine d’impadronirsene per bene; da ultimo, sicuro del fatto suo, il giovine violinista riattaccava ed eseguiva di seguito il suo pezzo intiero con tutta quanta la forza e la maestria di cui aveva saputo rendersi capace. E allora, mentre gli occhi parevano intenti alle pagine, l’anima sua saliva coi suoni, andava su al piano nobile, in cerca di lei, la trovava e si compiaceva ad avvolgerla devotamente come in una nube di suoni... Dopo quelle peregrinazioni fantastiche il giovine si raccoglieva in se stesso stanco e soddisfatto e con una vaga persuasione che quel suo messaggio musicale non era andato sperso nel vuoto, ma era arrivato a lei ed era stato bene accetto. Donde traeva egli quella persuasione? Qualche volta si metteva alla finestra che dava nel grande cortile interno del palazzo. Era un bellissimo cortile, fabbricato parecchio tempo dopo la facciata del vecchio edifizio, nei primi anni del secolo decimosesto. Al di sopra del vasto portico marmoreo si lanciava una galleria ariosa e allegra delle sue svelte colonne d’ordine corinzio, e sopra la galleria girava un fregio di lavoro così fine ed elegante, che la tradizione volle attribuirlo a Francesco Francia, l’orefice. Il giovine guardava lungamente d’intorno e in alto. Pareva un curioso che aspettasse, e il cuore gli batteva forte. Qualche volta perfino se lo sentiva come salire palpitando verso la gola. Ma il cortile era sempre solenne e silenzioso, la galleria sempre allegra e vuota, e il bel fregio del Francia pioveva dall’alto un sentimento di bellezza pura, fredda e inaccessibile. Del resto non un volto o una voce o altro segno qualunque. Il giovine si ritraeva dalla finestra col viso triste; ma nell’intimo suo non rimaneva a lungo senza conforto, perchè pensava che i suoni del suo strumento erano saliti in alto, e un animo gli diceva che essa li aveva ascoltati. E prendeva coraggio e sonava ancora. * * * Ma d’ora innanzi non più. Quei pesanti sordini rendevano il suo violino quasi muto; ed egli lo guardava con aria scorata, come se fosse diventato un arnese inutile fra le sue mani. Quando svogliatamente si rimise a sonare, da prima gli pareva d’essere come in uno di questi sogni, allorchè noi con la volontà e con le membra ci sforziamo a fare una cosa e l’effetto non corrisponde. Ma, continuando attentissimi nel lavoro, a poco a poco i sensi del violinista si acconciarono ad una curiosa metamorfosi. Quelle note esili e lamentose che in principio pareva che uscissero a stento, un momento appena, fuor delle corde soffocate dal peso dei sordini, ecco che ora non solo si ripetevano nel suo cervello, ma vi si compievano riguadagnando a grado a grado la sonorità, il timbro, l’espansione di prima! Il giovine si riebbe dal suo avvilimento e si sentiva invadere da una letizia profonda. Ecco che egli riaveva ad una ad una le sue note, le sue belle note che aveva piante quasi per morte! Ora esse echeggiavano novellamente nella sensibilità del suo apparecchio acustico, e poteva vibrarle a suo piacimento ingrossandole, assottigliandole, stemperandole per tutte le sfumature del colorito musicale, atteggiandole a tutte le intenzioni, le carezze e i capricci del suo gusto d’esecutore! E la sua mente riprese subito con gioia l’usato costume di tradurre la musica in un linguaggio d’amore rivolto alla bionda creatura del piano nobile. Il suo linguaggio divenne anzi, in quella seconda prova, più fantastico, più intenso, più ardente. Le note e le frasi vaporavano come una colonna d’incenso dall’anima sua: o meglio era la sua stessa anima che pareva dissolversi in esse e salire. Talvolta il giovine a un tratto interrompeva il suono e rimaneva alcun tempo con la testa voltata in su verso il soffitto ascoltando, aspettando... Un giorno, verso l’imbrunire, stava ripassando una riduzione per violino della settima sinfonia di Beethoven. Terminato l’_andante_ e lo _scherzo_ egli incominciava l’_adagio_, che è un pezzo così bello di strana e potente bellezza, nel quale par d’indovinare l’invocazione d’un mondo invisibile fatta da un’anima che tutte le cose di questa vita hanno amareggiata e disillusa. Arrivato circa a due terzi dell’_adagio_, il giovine staccava lentamente i quarti di una battuta d’aspetto, quando, d’improvviso, balzò in piedi e recò una mano alla fronte, rimanendo con tutta la persona in un atteggiamento di ascoltazione attentissima. Infatti, nel silenzio, si sentiva la voce di un pianoforte, sommessa per la lontananza, che ripeteva l’_adagio_ della settima sinfonia. Il giovane corse a spalancare la finestra e sentì che la voce del pianoforte continuava più sensibile. Veniva dal piano superiore e si spandeva pel cortile deserto. Arrivata alla battuta d’aspetto, la voce si tacque; allora il violinista si rimise al leggìo ed eseguì, con mano tremante, tutto l’_adagio_ fino in fondo; e il pianoforte non tardò a seguirlo, terminando qualche battuta dopo di lui. Il giovine era indicibilmente commosso, ma non aveva l’aria d’essere sorpreso. * * * La misteriosa corrispondenza dei suoni continuò. Per la gente che abitava il palazzo, e che non udiva altro suono che quello del pianoforte, il fatto fu accolto come un lieto segnale della migliorata salute della fanciulla. Per il giovine pareva l’ultimo termine de’ suoi desiderii e non cercava altro. Si chiudeva nella sua stanza e vi rimaneva tutto il tempo che avea disponibile, sonando Beethoven e aspettando la risposta. Questa gli veniva quasi sempre verso sera, e consisteva in uno dei pezzi eseguiti dal violinista lungo la giornata; il pezzo che a lui era parso più appassionato degli altri e in cui egli aveva messo più sentimento di adorazione e più forza di desiderio. E la relazione dei due giovani rimase là; in tutto il rimanente la stessa separazione inalterabile; non un biglietto, nè un cenno, nè un saluto; mai nulla. D’altra parte il violinista avea bisogno, per vivere, d’esercitare la sua professione. Andava per le case a dar qualche lezione, mal pagata, e sonava nelle chiese. Quando giunse l’autunno, fu scritturato nell’orchestra del Comunale. Soltanto due volte vide la fanciulla nel suo palco di famiglia, in second’ordine: sempre col visino pallido e l’aria sofferente e malinconiosa. Mostrava di non accorgersi quasi affatto delle persone che venivano in palco e d’essere attentissima alla musica. Tutte due le volte i suoi occhi, un momento, si volsero all’orchestra e fissarono il giovine violinista che tremava nella sua sedia sotto quello sguardo pieno di luce; poi li ritraeva lentamente, dolcemente, con una espressione di rinuncia rassegnata e triste. Al domani, il linguaggio del pianoforte parve al giovine più lungo e più appassionato. Verso la metà di carnevale egli accettò di essere direttore d’una piccola orchestra per due balli che la marchesa X** avrebbe dati, invitando specialmente le amiche di sua figlia uscita di poco dal collegio. Abbisognava un vestito nero col _frak_, ma egli, poveretto, non lo aveva. Allora mise in mezzo il vecchio portiere, il quale la sera del primo ballo, gli portò in camera un vestito completo «da società», comprato con poche lire. Il _frak_ era molto lungo per la statura del giovane, ma il vestito, nel suo insieme, poteva passare. Egli si annodò con cura la cravatta bianca, prese sotto il braccio il suo violino chiuso nella busta, e andò. Gli avevano preparato uno sgabello su cui sovrastava alquanto alla piccola orchestra e dominava la sala, rimanendo assai bene in vista. L’appartamento era pieno di luce e fragrante di fiori. Nella sala grande, verso le dieci ore, erano già adunate molte signorine delle famiglie più ricche e aristocratiche della città. Alcune potevano dirsi ancora delle bimbe. La voglia di ballare era in tutte grandissima. — Verso le undici il ballo era molto bene incamminato, e già alle ragazzine cominciava a mescolarsi qualche mamma elegante. Il direttore della piccola orchestra eseguiva _valtzer_ e _polke_, le migliori del repertorio in voga. Dirigeva e sonava, facendo spiccare briosamente, nel concerto la bella voce del suo Guarnieri. La contessina R*** fece notare alle sue amiche che avevano per direttore d’orchestra un bel giovane bruno: le ragazze lo guardarono un poco con simpatia ma poi risero del suo abito troppo lungo. A un tratto, si propagò per la sala un moto di curiosità, e molti occhi si volsero verso una delle porte d’ingresso. — Hanno fatto il miracolo! — disse al vicino una vecchia signora: una giovinettina, alzandosi in punta di piedi, aggiunse: — Ecco finalmente, la principessa invisibile! — Il direttore d’orchestra impallidì. Intanto al braccio del padrone di casa, appariva la signorina del vecchio palazzo. Alta, sottile, nel suo abito bianco, col suo incedere lento e gli sguardi raccolti, pareva che entrasse non a una festa di ballo, ma in chiesa. Gli uomini, per la massima parte, la giudicarono distintamente bella. Dopo alcuni minuti le fu presentato un bel giovine, di maniere assai eleganti, e si mise a ballare con lui, che, finiti i giri di _valtzer_, le si sedette vicino, studiandosi a farla parlare. Non era facile, ma di tanto in tanto riusciva; e riuscì anche a farla sorridere. Aveva essa avvertita la presenza del violinista? Sì: egli n’era convinto, lo sentiva. Perchè dunque essa non gli volgeva gli occhi, mai? Egli sentì uno spasimo nuovo, orrendo, e delle idee strane gli salivano, come vampe, al cervello. Avrebbe voluto interrompere a un tratto la suonata e sparire; gli veniva la voglia di sbattere il violino contro il leggìo; di saltare, dal suo alto sgabello, in mezzo alla sala... Ma intanto il ballo procedeva inesorabilmente e a lui toccava di sonare. E sonava, sonava. La sua testa grondava di sudore e dei momenti pareva che il braccio e le dita gli si irrigidissero, mentre, agonizzando di desiderio, aspettava sempre una occhiata che non arrivava mai. Venne ancora la volta di sonare un _valtzer_. Era un _valtzer_ di Giovanni Strauss, a fondo molto malinconico; uno di quelli che Giorgio Sand disse nati da un lungo amplesso del dolore e della letizia. La bianca giovinetta lo ballava col suo solito cavaliere e pareva che gli s’abbandonasse fra le braccia. Intanto il violino del direttore cantava con una voce così sorprendente che il resto della piccola orchestra era come ridotto a mezza voce. Gli astanti dovettero per forza occuparsi di questo straordinario esecutore di balli, e guardarono il giovane che, ritto sullo sgabello e pallido come un morto, dava dentro al suo violino con delle arcate superbe. Guardavano tutti, ma la giovinetta non guardava. Se non che, verso la fine del _valtzer_, mentre il ritmo incalzava, mentre la voce nervosa del primo violino pareva che tentasse di lanciarsi a sonorità impossibili, nel silenzio della sala, sul fruscìo strisciato e cadenzato dei piedi, s’intese uno strappo secco; il cantino dello strumento si era spezzato. La giovinetta, a quel punto, diede un tremito per tutto il corpo, si fermò in tronco, e fissò i grandi occhi sul violinista.... Il suo cavaliere la condusse alla sua sedia, ed ella disse di non sentirsi bene. Di lì a un quarto d’ora aveva abbandonato la festa. La quale, non ostante, continuò in piena allegria. Al tocco cominciò il _cotillon_ e alle tre il ballo era finito. Il direttore d’orchestra, a malgrado de’ complimenti e degli inviti, non volle rimanere a cena con gli altri sonatori, pretestando il sonno e la fatica. Chiuso nel suo pastrano e tremando pel freddo egli girò, a caso, per le strade deserte e rientrò nel palazzo dopo le quattro. Giunto nella sua camera gittò il violino sul letto e si mise alla finestra. La notte era fredda e serena, con la luna che volta al tramonto, illuminava tuttavia un pezzo del cortile e della galleria, lasciando il resto nell’ombra fitta. Il giovane, coi gomiti sul davanzale e la testa fra le mani, guardava nel cortile e piangeva delle lagrime silenziose. * * * Rimase a quel modo circa mezz’ora, quando fu scosso da un lieve rumore di passi che partiva di su dalla galleria. Fosse un servo? No, era ancora troppo presto... Il giovine guardava senza battere palpebra. Il suono dei passi s’andava avvicinando. A un tratto, ai piedi dello scalone che metteva nel porticato, vide una figura bianca che lentamente avanzava. Dio, era lei! La giovinetta usciva di sotto il portico e si incamminava pel cortile. Attraversata la parte di ombra, ella apparve nella piena luce lunare, vestita ancora del suo abito da ballo. Avanzava con passo sicuro, mostrando che si dirigeva all’uscio del portiere. Il giovane lasciò la finestra, attraversò in punta di piedi la sua camera, un breve corridoio, la stanza d’ingresso, ed aprì. La luce entrò nel buio ambiente, e dopo qualche secondo entrò la giovinetta. Alla prima egli volle prenderle tutte due le mani, ma subito rimase interdetto vedendo ch’essa aveva gli occhi chiusi. Aveva gli occhi chiusi e sorrideva, col volto triste, pallidissima. E con quella voce ch’egli non aveva mai intesa gli disse: — Sono venuta a dirti addio e per sempre... Tu hai sofferto molto questa notte, non è vero? Io lo sentivo bene, ma sentivo anche di non poter nulla altro che soffrire con te... Il nostro amore è come un filo tenue gettato attraverso un grande abisso. Che ci posso io? Che ci puoi tu? La natura si compiace talvolta a combinare di queste cose assurde... Accompagnò quest’ultima parola con un gesto di rassegnazione stanca; e proseguì, sorridendo. — Questa notte sei stato geloso!... Il tuo cuore, difatti, era un poco indovino, perchè essi pensano a far di quel giovine il mio fidanzato... Povera gente!... Lo so io quali nozze mi aspettano! Sento che fra pochi mesi io sarò morta... Il giovine ruppe in un gran singhiozzo, e cadde in ginocchio dinanzi alla fanciulla, mormorando: — Adriana! — La bianca veste profumata della fanciulla toccava quasi il suo volto. — Sai tu dirmi — ella seguitò — quanti germi di vita uccida l’inverno nel grembo oscuro della terra? E quanti fiori il vento di marzo faccia cadere morti dagli alberi?... È la legge, mio caro, ed io mi sono già rassegnata... Ora sono venuta per dirti addio e per esprimerti il mio volere, certo che tu lo eseguirai. — A costo della mia vita, io lo eseguirò. Te lo giuro... — Ebbene parti da Bologna. Parti presto e vai lontano, più lontano che potrai. A che rimarresti? Ad aumentare le mie e le tue sofferenze? Parti; me lo hai giurato. E intanto inoltrò le braccia nude e posò le mani sulle spalle del giovine. — Poc’anzi mi hai chiamata col mio nome. Io invece non conosco ancora il tuo... Non dirmelo!... Quello che t’ho dato io nel mio cuore è tanto bello! E non voglio saperne altro; e con quello io voglio pensare a te fino alla morte... e anche dopo. Addio. Non ti raccomando la mia memoria, perchè sono certa che tu penserai a me fino che vivrai su questa terra; e anche dopo. Ci siamo amati perchè così volle il nostro destino: e potemmo esprimere il nostro amore con un divino linguaggio, noto solamente a noi due. Non ti rendere mai indegno di questi santi ricordi. Addio! Parti. E il giovine inginocchiato, attraverso le lagrime, vide contro la luna la figura della giovinetta abbassarsi ancora un poco; e sentì sulla fronte, leggero leggero, il bacio della sua bocca... Poi la figura si raddrizzò con un gesto energico, si volse alla porta ed uscì. Egli la vide attraversare il cortile, entrare sotto il portico e dileguare nello scalone senza mai voltarsi. Fermo sull’uscio sperò di vederla, di udirla forse ancora dalla galleria; ma non sentì che il rumore lieve de’ suoi passi perdersi nel silenzio, mentre nell’aria fredda apparivano i primi colori dell’alba... Dopo una settimana il violinista era di partenza, avendo accettata scrittura per il teatro di Corfù. OCCHI ACCUSATORI Al signore della rocca erano giunte notizie gravi ed ordini precisi. — A Bologna, per volontà di Sisto V, avevano già strangolato in carcere, con un bel cordone di velluto rosso, il conte Giovanni Pepoli; parecchi de’ suoi seguaci e complici erano stati anch’essi strangolati, senza nemmeno l’onore del cordone di velluto; altri erravano fuggiaschi per le montagne dell’Appennino, ma li inseguiva l’ira del terribile papa e poca speranza di scampo avevano. A lui, il conte, salva la vita e gli averi; ma doveva andare subito a Roma a chieder perdono e fare atto di umile sudditanza, prostrato a’ piedi santissimi del pontefice. Non era il caso d’esitare e bisognava partir subito. La contessa sarebbe dunque rimasta sola nel castello. A esporre la sua delicata giovinezza ai disagi e ai pericoli del lungo viaggio in quella cruda invernata, nemmeno si poteva pensare. — Il conte andava corrugando le sopracciglia nere e si metteva spesso una mano nei capelli grigi perchè un brutto pensiero gli passava per la mente. Ma il giorno innanzi la partenza tenne un lungo e segreto colloquio con una sua zia, fiera vecchia di ottant’anni; poi fece schierare nella gran sala, al cospetto d’entrambi, tutta la gente del castello. Alla gente egli rivolse discorso breve, ma con quell’accento di comando insieme e di minaccia, al quale non si era mai osato resistere neppure con un moto dell’animo: ogni potere durante la sua assenza, passava nella vecchia contessa; legge assoluta per _tutti_, dal più alto al più umile abitatore della rocca, la sua sovrana volontà; e guai all’autore della più piccola trasgressione! L’indomani il conte partì. Gli addii della giovane sposa furono tenerissimi, ma senza lagrime. * * * Era venuto l’amore: l’amore negato a lei giovinetta nel freddo isolamento della vita claustrale; l’amore desiderio vago e timida speranza appena intravvista e subito distrutta, quando la famiglia toltala dal convento, la mise tra le braccia del conte, che poteva essere suo padre. Invece il giovane conte degli Alidosi aveva quattro anni meno di lei e non era che suo lontano parente da parte del marito. Quando pei rovesci di quella potente casata, il padre fu costretto a mandarlo al castello dell’amico perchè vi crescesse sicuro e vi fosse educato da cavaliere, Oliverotto degli Alidosi era poco più che un ragazzo mal fermo in salute, timido e come spaurito della vita che s’era aperta a lui in mezzo a dolori e terrori di tragedie domestiche. — Parlava di rado e male; solo qualche volta dai suoi occhi nerissimi pareva lampeggiasse intensa la vitalità della fiera schiatta da cui era nato. La dolce castellana raccolse da prima su quel taciturno fanciullo le cure e gli affetti della maternità, che altrimenti non le era stato concesso d’espandere. E vide fiorire la sua salute e le sue membra fortificarsi, e da quella triste puerizia uscire rapidamente la giovinezza ingegnosa, forte e leggiadra. — Una volta tornando insieme al conte da una caccia sull’Appennino pistoiese che li aveva tenuti fuori parecchi giorni, Oliverotto, vista la bella contessa che li aspettava nell’angusto cortile del castello, gittò l’arme a un servo, corse a lei e la baciò; poi rimase lì interdetto e turbato vedendo che la bella dama arrossiva, e sentendosi anch’egli salire al volto un gran calore come di vampata improvvisa.... Cominciarono d’allora per il conte i corrugamenti delle ciglia e quel gesto di portare la mano ai capelli, mentre la sua mente, più sovente che non avesse voluto, pensava insieme alla contessa e al giovane ospite. Ma l’amore non istette per questo. Penetrò fiamma occulta, sottile e inavvertita, dentro quei due giovani petti, invadendoli rapidamente. Doventò casto sogno e ardente passione, prima che i due avessero avuto modo d’avvertirlo e di schermirsi. Essi s’amavano già d’amore e non lo sapevano; e quando lo seppero s’amarono con più violento abbandono, obliando, calpestando, sfidando ogni cosa. Ed erano appena alle prime dolcezze, quando arrivarono gli ordini che fecero partire il conte per Roma! * * * Cominciò allora per i due innamorati un supplizio indicibile. — In tutta la rocca e nei dintorni prese subito a dominare con volontà strana e terribile la vecchia zia del conte; la quale, sia che agisse per gli ordini avuti, sia che si compiacesse ad attuare un suo proprio disegno, circondò e afflisse i due giovani di vigilanze così minute, severe e continue che ogni più viva e gelosa immaginazione ne sarebbe rimasta superata. La vecchia pareva ritornata indietro di vent’anni. Non era più nè impedita nell’andare, nè miope, nè sorda; si trovava sempre in ogni luogo dove la sua ingegnosa sorveglianza la richiedesse; e dormiva con un occhio solo, se pure è vero ch’ella dormisse là in quel suo lettuccio che s’era fatto portare vicino all’uscio della stanza da letto della contessa. Con questa poi adoperava ogni gentilezza più compita e col giovane anche; ma nelle ventiquattro ore del giorno mai un minuto secondo nel quale i due potessero trovarsi soli a cambiarsi una parola, a stringersi la mano di furto.... Tormento siracusano: e tanto più atroce perchè i due innamorati, in udire della prossima partenza del conte s’erano naturalmente lasciati andare ad ogni sorta d’immaginazioni dilettose. Quella inattesa contrarietà pareva a loro una durezza ingiusta del destino a cui si rivoltavano, egli con le imprecazioni ed essa con le lagrime. Vane lagrime e vane imprecazioni. La vecchia era sempre al suo posto, e tutti nella rocca con una esattezza implacabile secondavano il suo volere. Sulle prime Oliverotto non si diede per vinto e cercò di rompere qualche maglia a quella perfida e fitta rete di sorveglianze e di spionaggi che d’ogni parte li involgeva; ma ogni suo tentativo, per audace o astuto che fosse, riuscì inutile. — Una notte, guardando dalla finestra, credè d’accorgersi che non gli facevano la solita guardia. Scese nel fossato della rocca, esplorò bene intorno: nessuno. Alzò gli occhi alla finestra della stanza ove dormiva la contessa e vide splendervi il lume. Allora si sentì tutto invadere dalla brama di salire in qualunque modo fino a quella finestra, chiamare la sua donna, parlarle delle sue pene e cogliere attraverso la inferriata un suo bacio; sì uno, cento baci per calmare un poco la sete d’amore che dentro lo tormentava! — Credette il giovane che la forza del volere e il desiderio ardentissimo gli avrebbero conferita la snellezza rampicante d’uno scoiattolo; ma invece il salire, non fu senza grandi ostacoli e dolori. Saliva adagio adagio adoprando ogni sasso sporgente ed ogni crepaccio del vecchio muraglione; talvolta era costretto a fermarsi a lungo, talvolta a ridiscendere e studiare altra combinazione di cavità e di sporgenze. Più d’una lucertola, sentendo le dita che il giovane ficcava fra le pietre, usciva spaventata strisciandogli tra la faccia e il muro; una nottola, turbata anch’essa nel suo nascondiglio, gli volava d’intorno silenziosa. Man mano che s’approssimava al termine desiderato, crescevano gli ostacoli, l’incertezza, la smania disperata. Aveva le mani e i piedi sanguinanti e grondava di sudore freddo.... Finalmente potè abbrancare una sbarra dell’inferriata e, fatto un ultimo sforzo, arrivò a tirarsi su di mezza persona contro la finestra; gittò innanzi lo sguardo e stava per sussurrare il nome della donna amata, quando s’accorse d’avere dinnanzi a sè, ritta, appoggiata al davanzale della finestra la vecchia contessa, che lo guardava immobile, con occhi severi... Poco mancò che Oliverotto non cascasse all’indietro nel fossato della rocca. * * * Unico conforto non conteso ai due innamorati era dunque vedersi e parlarsi in presenza d’altri; e in quello essi condensavano tutte le sollecitudini e cercavano d’acquetare o contenere alla meglio, tutti i desiderii. — Passavano le giornate lente, uniformi, uggiose. Oliverotto e la contessa ogni dì stavano lunghe ore seduti uno in faccia all’altra, essa istoriando coll’ago i pietosi fatti di Bradamante, egli fingendo di leggere qualche trattato dell’arte della guerra o qualche libro di cavalleria. La vecchia contessa o alcun altro della casa non mancavano mai. I due si parlavano di rado; invece si guardavano lungamente, intensamente deliziandosi e tormentandosi insieme con un linguaggio muto e infaticabile. — E gli occhi neri d’Oliverotto parea che, supplicando, chiedessero: fino a quando? E gli occhi azzurri della contessa non sapeano che rispondere chiedendo anch’essi: fino a quando? — Le quattro ardenti pupille stanche e mai sazie di quella amorosa tensione, di tanto in tanto tremavano, si inumidivano, pareva che si stemperassero in bagliori languidi e tristi.... Nelle serate lunghe dirimpetto al focolare gigantesco, mentre sugli alari bruciavano i vecchi faggi di Monte Venere e si udiva fuori lamentarsi il vento della notte, Oliverotto leggeva alla contessa qualche scena del _Pastor fido_: Ben è soave cosa Quel bacio che si prende Da una vermiglia e delicata rosa Di bella guancia; e pur ch’il vero intende Come intendete voi, Avventurosi amanti che il provate, Dirà che quello è morto bacio a cui La baciata beltà bacio non rende; Ma i colpi di due labbra innamorate Quando a ferir si va bocca con bocca..... La morbosa tenerezza di questo e somiglianti passi era come olio bollente sulla fiamma, al cuore dei due poveri giovani, gli occhi ora vivi e scintillanti, ora annuvolati, smarriti e depressi riprendevano quel loro ufficio di esprimere insieme e di esasperare il desiderio infelice.... E talvolta l’interno struggimento cresceva a tal segno che la contessa era costretta, avanti l’ora, di ritirarsi nelle sue stanze. — Oliverotto allora correva ansando sugli spalti a respirare l’aria gelata della notte, ad imprecare alle stelle, a tempestare indarno contro il suo avverso destino! In meno d’un mese i due amanti erano ridotti ad uno stato davvero compassionevole; e guardandoli nei visi consunti si sarebbe detto che sulla loro giovinezza stava passando un soffio di vecchiaia precoce. Ma tutto ciò era nulla rimpetto ad uno stranissimo fenomeno che nei loro occhi si veniva manifestando. * * * Non era, no, un inganno visivo della gente, ma un fatto che saltava agli occhi ogni giorno più. Le grandi pupille della contessa, che erano di un bellissimo azzurro oltremarino, sembrò da prima che un poco si annebbiassero smontando in una tinta meno dolce e meno pura. Poi quell’annebbiamento si rese sempre più opaco e crebbe e crebbe finchè fu necessario riconoscere ch’essa mutava in nero il colore degli occhi. Era forse effetto delle lagrime dirotte che l’infelice versava di continuo, invece di pigliar sonno? — Ma d’altra parte anche negli occhi di Oliverotto accadeva mutamento: le pupille nerissime e fiere cominciarono a temprarsi d’una luce più dolce e mansueta che adagio adagio le veniva come clarificando; poi apparvero striate qua e là di piccole vene azzurreggianti, le quali dilatandosi ogni giorno accennavano ad invadere presto tutto il campo dell’iride..... Che era avvenuto nell’intimo di quei due esseri? Con che forza di corrente misteriosa le due anime, incontrandosi solo e sempre per gli occhi, agli occhi avevano potuto imporre quella trasformazione, quello scambio portentoso? — La vecchia sorvegliatrice non fece motto e nemmeno diede segno d’essersi accorta di cosa alcuna; ma la gente della rocca guardava, tra stupita e atterrita, a quello che essa chiamava un nuovo miracolo d’amore. Non andò molto tempo e già per largo tratto di paese s’era sparsa la voce del fatto incredibile; e molti trassero al castello studiando qualche pretesto d’accertarsene cogli occhi proprii. — I due amanti sulle prime gustarono una strana e immensa voluttà contemplandosi così trasformati dalla potenza dei loro sguardi; si sentivano come più uniti nell’amore; vedevano nei loro occhi come un segno di predestinazione a unione più intima e durevole. Ma ben presto sopraggiunse il terrore ad agitare in vario senso le loro anime. Un giorno o l’altro sarebbe tornato il conte.... La contessa nelle veglie interminabili meditava di sottrarsi colla morte alla propria vergogna, e a chi sa quale dura espiazione, quando il terribile marito l’avrebbe guardata negli occhi accusatori; Oliverotto dal canto suo, inspirandolo la passione e la disperazione, lavorava a un piano di fuga in cui era risoluto ad affrontare, con lei, ogni estremo cimento. Ma intanto ogni mattina ambedue pensavano con angoscia indicibile che in quel giorno stesso forse sarebbe giunto alla rocca l’annunzio di un prossimo ritorno! Invece una improvvisa serenità sopravvenne in quell’orizzonte così minaccioso. Un giorno sull’imbrunire bisognò calare il ponte e ricevere nella rocca, con le debite onoranze, un messo del Senato bolognese. Egli riferì il sunto di un dispaccio da Roma: Sisto V, sia che avesse chiamato a sè il conte per averlo più sicuro nelle mani, sia che in quel frattempo nuovi e più forti capi d’accuse si fossero scoperti contro di lui, appena giunto il conte a Roma, lo aveva fatto legare e chiudere in Castel Sant’Angelo e dopo breve processo strangolare. — La giustizia del sommo pontefice non andava oltre nel punire, mantenendo alla famiglia del ribelle beni, titoli e privilegi. . . . . . . . IN CASA DELL’AMICO Dal salotto da pranzo, guardando per di sopra alla terrazza, fu prima la signora a vedere il fattorino del telegrafo, che saliva ansando per il viale ancora tutto invaso dal sole e sonava al cancello del villino. Il telegramma, portato subito dal giardiniere, diceva così: «_Abbisognami sua pronta risposta, circa arazzi. È arrivato negoziante milanese. Riparte domani sera._» — Ah! ecco che Shylok mi vuole stringere i panni addosso, — disse il marito incrociando la posata sul piatto. La signora, lasciata andare indietro la sua testa bruna e guardando il soffitto con aria indolente, mise una pausa in mezzo e replicò: — E tu attacca la tua voglia ad un arpione. Faremo senza degli arazzi.... E mostrava sorridendo i denti bianchissimi. L’avvocato rimase un poco a guardare il telegramma spiegato sulla tavola e scosse il capo com’uomo a cui quel consiglio non andava. Poi con accento risoluto: — No. È già la seconda volta che quell’imbroglione di milanese mi passa davanti. Questa notte prenderò la corsa delle tre e andrò a Ferrara. — Bel gusto a fare una mala nottata! Telegrafa piuttosto le tue ultime condizioni; e vedrai che gli arazzi saranno per noi. A queste parole il marito posò sulla donna uno sguardo in cui trapelava l’intimo compiacimento suo. Ebbe un momento di esitazione, ma si raffermò subito nel primo proposito. — Chi vuole vada, mia cara. Quando tu sarai a letto, io scenderò in città. Passo al _club_ un paio d’ore; ceno magari, se mi vien voglia, e m’arriverà l’ora di prendere il treno senza ch’io me n’avveda. Farò una buona dormita domani: anzi conto, con questo caldo, che avrò finalmente una notte di refrigerio. Il caldo, di fatti, in quegli ultimi giorni di luglio, era grandissimo; e sebbene la sera fosse assai vicina, nella villa non si sentiva ancora spirare dalla collina un fiato di vento. La signora non rifiniva di mettere dei pezzi di ghiaccio nel suo bicchiere e nel bicchiere del marito. * * * Poco prima della mezzanotte, nel piccolissimo gruppo dei frequentatori estivi del _club_, si levò una esclamazione lieta di sorpresa quando l’avvocato fu visto entrare. Egli salutò tutti allegramente: anche il giovane conte Salerni, ch’egli non vedeva da qualche tempo. Dopo una partita all’_écarté_, ordinò da cena e mangiando espose agli amici la causa di quel suo trovarsi in città e al _club_ ad ora così insolita. Sonarono le due. La comitiva dei cinque o sei in breve si sciolse e rimasero l’avvocato e il Salerni, soli, seduti a un tavolino, l’uno in faccia all’altro. L’avvocato sorbiva lentamente il caffè e il conte gli offerse una sigaretta. Poi, il discorso essendo tornato sulla gita a Ferrara, il conte non esitò a dichiarare ch’egli la giudicava un passo falso. — Come, un passo falso? — Sicuro: anzi, una sciocchezza bella e buona. Ma dov’è la tua solita furberia? Io non me la spiego altrimenti che pensando a questo gran caldo che fa. Che diavolo? E non vedi che è tutto un gioco combinato tra il negoziante ferrarese e quello di Milano, che gli fa da compare? Se tu ora ti precipiti a Ferrara, caro mio, fai conoscere d’avere degli arazzi una voglia matta; ed essi, sta’ certo, ti leveranno la sete con l’acqua salata. Oh, molto salata!... L’avvocato con un gomito sul tavolino e l’indice della mano sulla fronte spaziosa stette alquanto in silenzio: — E d’altra parte, anche a non andare io corro un rischio. Un gioco combinato, tu dici?... Può essere benissimo. Ma se non fosse? Se, come mi è accaduto altra volta, il milanese dice davvero e compra? Io non voglio che gli arazzi mi scappino. Dopo averci tanto pensato su, sento che mi nascerebbe un albero nello stomaco, come si suol dire. Che vuoi farci? Ognuno ha le sue debolezze: e anche mia moglie, quantunque non lo dimostri, sono sicuro che sarebbe afflittissima se mi vedesse tornare a mani vuote... Pensiamo al modo.... — Senti — disse allora il Salerni con l’accento più naturale di questo mondo — se non è domani, sarà doman l’altro che io andrò a Ferrara e di là al _Trombone_ a vedere un cavallo. Facciamo dunque così: prendo ora il treno di Ferrara e mi presento domani dal mercante a contrattare gli arazzi per conto mio. Tu non ti muovere e dimmi solo l’ultima cifra a cui vuoi arrivare col prezzo: vedrai che domani sera torno con la roba e t’avrò probabilmente anche risparmiato un paio di mille lire. — È una buona idea e ti ringrazio! — esclamò l’avvocato alzandosi in piedi. Mancava mezz’ora alla partenza, e i due amici usciti dal _club_ s’incamminarono fumando verso la stazione. * * * I due amici passeggiavano sotto la tettoia dinanzi al treno pronto; e già la macchina mandava i primi fischi della partenza. A un tratto, l’avvocato si tastò in fretta con le mani le tasche dell’abito esclamando: — A proposito! O come faccio io ad andare a casa a quest’ora, che non ho la chiave? Il conte trasse subito fuori una chiavettina inglese, porgendola all’amico: — In dieci minuti sei a casa mia. Tu conosci il mio mezzanino. Dormirai tranquillissimo, perchè sono tutti in campagna. Domattina alle nove verrà la portinaia a svegliarti col caffè. Buona dormita! L’avvocato, per risposta, diede in una risata ed ebbe appena tempo di stringere la mano all’amico montato sul treno, che già si moveva lentamente. Quando uscì dalla stazione rideva ancora fra sè, tenendo fra le dita la chiave del mezzanino del conte Salerni. Era di buon umore. Gli piaceva d’aver accettato il parere dell’amico circa la gita a Ferrara, gli piaceva d’andar a dormire una notte in città, fuori di casa: incidente bizzarro che gli ricordava la sua vita di scapolo, che lo faceva rivivere nella sua lontana vita di studente. Però, a cercar bene in fondo all’animo dell’avvocato, si sarebbe visto che altra era la causa di tutto quel suo buon umore. Egli era geloso della moglie. La sua gelosia non era di quelle che dànno ogni giorno in manifestazioni minute, opprimenti, volgari; ma era una idea fissa, una preoccupazione acuta e costante, celata quasi sempre nell’animo con dignitoso riserbo, e per questo assai più dolorosa. Fra le cure di una vita molto affaccendata, in mezzo agli alto e basso de’ suoi affari, quell’uomo, in apparenza positivo e freddo, traeva le ragioni di tutto il suo benessere e di tutto il suo malessere da un fatto solo: la certezza che egli aveva o no dell’amore e della fedeltà di sua moglie. Il rimanente veniva sempre in seconda linea. Aveva avute, a intervalli, parecchie inquietudini vive. Da ultimo i suoi sospetti erano stati eccitati dal conte Salerni, che s’era messo a corteggiare molto assiduamente la signora ed essa, pur troppo, non gli aveva opposto quel contegno che disanima e stanca un uomo. Questa volta le male apparenze si erano prolungate e aggravate in modo che il marito, non potendone più, aveva espressi a lei con una certa violenza i suoi dubbi e il suo mal contento. Era la prima volta che le faceva una scena di questo genere. La moglie accolse le parole del marito con un misto di meraviglia, d’offesa e di sottomissione. Si tenne con lui molto seria per una settimana; ma anche gli dimostrò col fatto che le stavano a cuore il proprio buon nome e la quiete di lui. Il Salerni tornò in visita e fu accolto con amichevole ma fredda cortesia: una cavalcata che di lì a pochi giorni sarebbe fatta e in cui il Salerni doveva intervenire, fu con bel garbo disdetta dalla signora; la quale, perchè proprio voleva che ogni nube fosse dissipata, da venti giorni non era scesa in città che una volta sola e accompagnata da suo marito. Già da una settimana i pensieri dell’avvocato si voltavano alla tranquillità; ma in quel giorno, in quella serata, in quella notte egli sentiva che una serenità piena e intera era venuta ad occupare rapidamente il suo animo. E ripensava le parole con cui sua moglie s’era provata a dissuaderlo dalla sua andata a Ferrara; e correva con la mente dietro al giovane amico, che, con sì spontanea cortesia, s’era offerto di allontanarsi esso, in vece sua, per un giorno dalla città. — Quale più favorevole occasione invece per i due, se... No! no! Egli era stato ingiusto a sospettare. Nè si fermava a questo unico fatto; ma diffondendo in largo giro le tinte rosee della sua vena confidente, adesso esaminava tutta la sua gelosia passata, la trovava assurda, la sconfessava e malediva con tutta la forza del suo volere. E intanto gli si ricomponeva nella mente la fisonomia di sua moglie, bella, schietta, amorosa degna di un affetto immenso e di una fede senza confine. Insomma, si sentiva contento. E camminava lentamente sotto i portici respirando l’aria fresca dell’alba, mentre spegnevano gli ultimi fanali. Si sentiva libero e sciolto, come se un cattivo spirito tormentatore fosse uscito per sempre dal suo corpo, in virtù di un felice scongiuro. * * * Quando entrò, con in mano un cerino acceso, nella stanza da letto del conte, fiutò gradevolmente un odore delicato di legno di sandalo che impregnava l’aria. — Sibarita! — pensò sorridendo e inoltrandosi di qualche passo nella stanza. Poi accese la lampada e si guardò intorno. La camera da letto era vasta, ricca, bellissima e, mediante una alcova in fondo, aveva anche l’aspetto di un salotto da ricevere. I buongustai, visitandola insieme a tutto il mezzanino, concordavano nel giudicare che il Salerni vi s’era mostrato artista, a un tempo, e gran signore. Il conte si scagionava d’ogni merito e confessava che, avendo lungamente vissuto a Vienna con un artista celebre e fortunato, egli non aveva fatto altro che imparare da lui, anzi copiare in piccolo dal suo appartamento. A ogni modo il copista aveva mostrato molto buon gusto nella scelta e nella esecuzione. L’avvocato, respirando l’odore di sandalo, girava gli occhi ammirati sui mobili e sulle pareti, li posava sul pavimento di marmo bianco riquadrato a liste nere, li spingeva nell’ombra discreta dell’alcova, in cui vedeva il letto basso e semplice con il lenzuolo bianco rimboccato sulla coperta azzurra, sotto i festoni azzurri delle cortine ricchissime. — Sibarita! — ripetè l’avvocato, ma senza sorridere. E subito pensò che certo delle donne erano state là dentro; e pensò che certo dovevano aver serbato una molto grata memoria di quel luogo. Il suo buon umore era già disceso, e seguitava a discendere rapidamente come la colonna di mercurio di un termometro quando è portato da un luogo caldo a un luogo freddo. Chi sapeva dirgli in che modo le ragioni tanto eloquenti del suo benessere di mezz’ora fa si erano così raffreddate, scolorate, spente? Adesso, ecco che altre impressioni e altre idee lo signoreggiavano! La figura del giovane conte, nel fisico come nel morale, lì in quella sua bella camera da letto, assumeva nel cervello dell’avvocato un improvviso fascino di seduzione ch’egli, suo malgrado, percepiva con una vivezza nuova, strana, esagerata, terrificante. Poi non potè fare a meno di tramutare quella percezione da se stesso in sua moglie; poi a un tratto si immaginò, sua moglie, se la vide dentro quella stanza..... e fu costretto a chiudere gli occhi, sentendosi correre un freddo per tutto il corpo... Capì che bisognava distrarsi e si provò ad osservare con curiosità i quadri, le armi, le maioliche. Maggiore attrattiva ebbero per lui alcuni _album_ di fotografie e disegni posti sovra una tavola grande. Passavano sotto i suoi occhi rabeschi fantastici, schizzi e caricature bizzarre, ricordi di luoghi veri; passavano fisonomie di persone note e sconosciute: ed egli seguitava a voltare le pagine piuttosto in fretta, come chi va in cerca di una data cosa. Prese da ultimo fra le mani un piccolo _album_ elegantemente rilegato in velluto con grandi fermagli e borchie d’oro; e si pose ad esaminarlo meno in fretta che gli altri. Si capiva che quello era il volume privilegiato, l’_album_ riservato alle più belle signore conosciute dal conte in paese e fuori.... L’avvocato aveva il presentimento che qui avrebbe trovato il ritratto di sua moglie. Invece arrivò all’ultima pagina senza trovar nulla. Ma dov’era dunque il bel ritratto che essa un mese fa, aveva regalato al Salerni, in sua presenza? Dove lo teneva egli? La mente del marito trovò in quella assenza del ritratto una nuova e forte ragione d’inquietudine; e pensò a quei dolci nascondigli ove l’immagine della donna che si ama è messa in salvo da ogni profano contatto, da ogni convivenza indegna, da ogni occhio indiscreto e geloso.... Si mise a cercare per tutto nella stanza, ma fu ancora inutile. Presso al letto, però, stette ad osservare una bella fotografia della _Glaneuse_ di Berton; e nei contorni di quello schietto viso di campagnuola, negli occhi e perfino nella linea forte e slanciata dei fianchi, credè di cogliere una tal quale somiglianza con le brune bellezze di sua moglie. Dentro intanto gli cresceva la smania; e se avesse avuto lì presso il conte Salerni, sentiva che forse non avrebbe resistito al bisogno di mettergli le mani addosso e di frugarlo, come una guardia daziaria fruga una persona sospetta di contrabbando. Intanto erano passate delle ore. Fuori la giornata estiva era cominciata da un pezzo, ma nel mezzanino chiuso del conte durava ancora piena la quiete della notte. L’avvocato ascoltò in quel silenzio, ove non era altro suono che il _tic tic_ continuo di un tarlo che lavorava entro un mobile vicino a lui: ascoltò e si mise una mano alla fronte, perchè gli pareva che quel tarlo lavorasse proprio entro il suo cervello.... E quello fu il cominciamento di un bisbiglio strano e interminato, che si mise a girargli intorno agli orecchi, a empirgli il capo e scuoterlo e assordarlo tutto con un turbamento e un fastidio indescrivibili. Gli pareva che quel bisbiglio venisse dai quattro angoli della stanza, uscisse di dietro ai quadri delle pareti, dai mobili, dagli _album_, dal letto: e vi sentiva dentro un vago rumorìo di suoni che non arrivava a distinguer bene, ma pure ci coglieva dentro, così in confuso, come una nenia di lamenti mista a voci di scherni..... Finalmente lo pigliò alla gola un fortissimo bisogno d’aria e corse a spalancar la finestra. Entrarono il sole oramai alto, l’aria viva e il cinguettìo mattutino dei passeri. L’avvocato, così com’era in maniche di camicia, stirò le braccia fuori della finestra e si mise a provare gli occhi abbagliati sul vasto giardino che si stendeva dietro il palazzo, poi gli alzò alle colline sorgenti in faccia a lui. Che tranquilla allegria da per tutto! Vedeva a mezza costa, vicinissimo, il suo bel villino, col tetto spiovente con le persiane ancora chiuse e i muri rosseggianti in fra gli alberi verdi. Certo, pensò, a quell’ora sua moglie dormiva sempre. Questa idea penetrò in mezzo al triste scompiglio della sua testa e, se non vi mise nè ordine nè calma, riuscì almeno a produrre una risoluzione: «Presto bisognava correre al villino, andare da lei, entrare inaspettato nella sua stanza, svegliarla con un bacio, dirle un mondo di cose, sentirsi ancora ripetere da lei alcune di quelle parole che tante volte avevano rianimata in lui la fede e messo un refrigerio nelle sue viscere tormentate dagli aculei del sospetto! Presto bisognava subito uscire da quella stanza maledetta ove la gorgone orrenda della gelosia lo aveva guardato per lunghe ore con gli occhi immobili; ove l’aria pareva impregnata di recente adulterio, ove tutte le cose gli bisbigliavano intorno una infame canzone di lamenti e di scherni! Presto! Presto!» E andò a bagnarsi il viso nell’acqua fredda e a ricomporsi in fretta i capelli arruffati. Stava infilando una manica dell’abito, quando gli giunse dalla stanza vicino un lieve rumore di passi che si fermarono all’uscio. Dopo alcuni secondi sentì anche picchiare... Allora corse ad aprire e si trovò in faccia a sua moglie, che diede indietro senza far motto, diventando smorta. Un momento prima, ella aveva nella bocca il sorriso trepido della donna innamorata che, entrando in quella stanza, s’immaginava d’apportarvi una sorpresa molto gradita..... CANTORES! Io non penso, mia cara, d’aver demeritata la vostra stima. E fosse pur vero tutto quello che voi siete andata fantasticando dopo la mia lettera di martedì, o credete voi proprio che anche in un desiderio a prima vista disumano, grottesco, bislacco e teratologico, non possa nascondersi un alto senso di poesia? E sopratutto un alto senso di verità? Voglio che m’ascoltiate attentamente e pacatamente. Io ora sento di potervi parlare con calma e voi non avete più a temere da me nè crudezza di linguaggio biblico, nè impeti di «lirismo forsennato.» Sono calmo, v’ho detto, e sopratutto non ho mai cessato d’esser uomo: anzi ho in me il convincimento profondo — dopo tutto quello che è passato nell’animo mio nei giorni addietro — che un aspetto nuovo della umanità mi si è svelato e s’è in qualche modo aggiunto all’esser mio d’uomo. Vedete dunque che io non ho niente da rimproverarmi e voi niente da sospettare sul conto mio. * * * Ed ecco come andò. Io nemmeno sapevo che quella fosse la festa dell’Ascensione. Avevo pranzato solo e di buona ora all’Albergo _Milano_. Come passare meno male il tempo in quel lungo dopo pranzo? A Roma in casi simili, io ho sempre la risposta pronta: salgo in una _botte_ e mi faccio condurre a San Pietro. Ho per quella grande piazza ellittica una specie di passione strana che alimenta in me una bramosia inesauribile di rivederla: il getto superbo di quelle due fontane, illuminato dal sole, pare ogni volta che mi slarghi il petto e mi fa ballare il cuore di gioia, mentre l’immane colonnato, curvilineo, serrandomi a destra e a sinistra l’orizzonte, e tutte quelle statue poggianti ritte sovra l’attico e in atto d’osservarmi severe, par che mi avvisino ch’io sono entrato in un vecchio mondo misterioso e magnifico. Anche per la basilica vaticana io ho sempre avuta una forte ammirazione, e me la sento dentro aumentare e ingigantire, man mano che in me si raffreddano i romantici entusiasmi per certe architetture gotiche.... So che anche voi, mia cara, mi condannate per questo, ed io chino il capo rassegnato, aspettando che il tempo mi renda giustizia. Lento ma ottimo giustiziere il tempo, non è vero? Voi lo sapete per prova. Arrivai dunque in piazza San Pietro un’ora circa prima del tramonto del sole. Cominciavano le grandi ombre a stendersi dalle moli colossali: delle due fontane quella ch’io vedevo, arrivando, alla mia sinistra, pareva tutta raccolta e tranquilla nella calma vespertina, ma l’altra, dardeggiata obliquamente dal sole occiduo, era tutta una letizia di raggi e di zampilli e di nebbia luminosa, diffusa intorno per largo tratto. Un gruppo di signori forestieri, uomini e donne, stava fermo ad ammirarla; e parevano contentissimi d’essere inaffiati da quella rugiada. Credevo come al solito di trovare la gran chiesa a quell’ora deserta, ma m’ingannai. La festa dell’Ascensione aveva chiamata là molta gente: forestieri delle provincie, romani _de_ Roma, _inglesi_, suore, trasteverini, _minenti_, frati, preti, pifferari, la turba mista e bizzarra insomma che San Pietro accoglie in alcuni giorni dell’anno e che vanamente cerchereste altrove; le centinaia e le migliaia che si sparpagliano, povero formicaio umano, sotto le navate enormi, e si perdono, come ombre, dietro i piloni smisurati, non facendo nemmeno sentire il fruscìo dei loro piedi... Mentre spingevo il pesante tendone della porta, m’arrivò subito una modulazione musicale. Era un istrumento? Era voce umana? Così alla prima non potei capire. Era un suono di timbro ed acutezza insolita, esilissimo, eppure vibrante per quella vastità in modo che parea tutta riempirla. Fatti alcuni passi nella basilica, sentii distintamente la frase di un verso biblico arrivarmi colle note all’orecchio. Era dunque canto umano senza dubbio. E quale canto, signora! Immaginate una voce che fonde insieme la dolcezza del flauto e l’animata soavità della laringe umana, una voce che sale, sale leggera e spontanea come vola per l’aria un uccello di paradiso, e quando vi pare che siasi posata sugli ultimissimi vertici della gamma sopracuta, ecco che spicca ancora altri voli e sale sale sempre egualmente leggera, egualmente spontanea, senza la più piccola espressione di sforzo, senza il più tenue indizio d’artifizio, di ricerca, di stento, una voce infine che vi dà l’idea immediata del «sentimento fatto suono» e dell’ascensione d’un’anima verso l’infinito sull’ali di quel sentimento Che vi dirò di più? Ho sentito la Frezzolini in camera e la Patti in teatro; ho ammirato Masini, Vögel, Cotogni; ma in mezzo alla mia ammirazione rimaneva sempre qualcosa di inappagato in fondo al mio desiderio; rimaneva da togliere un certo dissidio fra l’intenzione dell’artista, non di rado elevata e fine, e la piena condiscendenza de’ suoi mezzi vocali. — Qui invece tutto il mio essere era mirabilmente soddisfatto: non la minima asprezza nel passaggio da un registro all’altro della voce, non penuria di astensione, non disuguaglianza di timbro da nota a nota, ma un linguaggio musicale calmo, dolce, solenne, intonatissimo, che mi stupiva e mi rapiva a un punto solo colla potenza di una gratissima sensazione non provata innanzi mai! Mi spinsi avanti per la basilica con passi affrettati verso quella voce e quel canto. — Nel giorno dell’Ascensione i cantori della Cappella Sistina scendono in San Pietro e prendono parte alla celebrazione della festa. Cantano sotto la cupola di Michelangelo in una piccola cantoria eretta all’uopo, accompagnati da un piccolo organo, che anch’oggi, come al tempo di Berlioz, è mosso sovra delle rotelle pel pavimento. La folla si faceva man mano più densa, ma io m’adoprai in modo che dopo circa dieci minuti ero arrivato proprio sotto la cantoria e guardavo in faccia il mio _solista_. — Eseguivano un _mottetto_ dell’Allegri quasi tutto affidato a lui; il coro entrava di tanto in tanto con brevi _risposte_, e l’organo con pochi accordi di accompagnamento aiutava a sostenere l’intonazione perfetta. Finalmente ho intesa la voce vera del _soprano_. Vadano a riporsi le signore cantatrici che usurpano questo nome! Con più appropriato vocabolo le chiameremo, se vogliono, _soprane_; ma è da augurare per il bene dell’arte del canto, declinante a gran passi, ch’esse smettano una buona volta la sciagurata ambizione d’assurgere cogli sforzi della loro laringe a certe acutezze diatoniche solo legittimamente consentite ai soprani veri ed a soprani sacri — ai soprani per diritto divino. Oh chi ridona all’arte i vecchi contralti, così giustamente rimpianti da Gioacchino Rossini! Nè vi paia strano, o signora, ch’io in quel giorno abbia anche compreso e partecipato il disgusto di Parini per i soprani in teatro; Abborro sulla scena Un canoro elefante... Sì, quella voce eccezionale e quasi sorvolante agli orizzonti della vita è fatta per esprimere slanci di preghiere e rapimenti di estasi religiosa, non è fatta per disposarsi alle torbide passioni del dramma umano, nè per concorrere, profanandosi, al divertimento scenico. Nella scena essa doveva perdere il suo prestigio mistico senza acquistare il vigore, la pieghevolezza e la verità del dramma, e questo forse spiega perchè il vero dramma musicale moderno comincia e coincide col bando dei veri soprani dalle nostre scene melodrammatiche. E se comprendo l’ammirazione dei nostri nonni elevata al più alto grado, trovo impossibile e ridicola la passione. L’amore di Sarazine per Zambinella e la sanguinosa avventura a cui riesce, per quanto magistralmente narrati da Balzac, mi lasciano freddo ed incredulo. Meglio comprendo gli epigrammi scritti dal popolo napoletano sulla casa costrutta da Cafariello.... * * * Io guardavo attento il mio soprano. Era un giovane alto, pallido, non grasso, con una barbetta rada e gentile, ritto e composto nella sua cotta bianchissima davanti al suo leggìo. Mentre la sua voce si elevava come un razzo canoro serpeggiando in trilli e scale, dispiegandosi in magnifiche declamazioni, io non riuscivo a notare in lui il più piccolo segno di fatica e di sforzo. La testa era lievemente inchinata sulla musica che teneva con le due mani immobili. Cantava a quel modo e pareva che leggesse. Solo i suoi occhi si dilatavano, illuminandosi tratto tratto allorchè una frase musicale toccava il suo momento di più viva espansione; solo le rughe della sua fronte si spianavano e si contraevano assecondando le movenze del ritmo. Ebbene, guardando quegli occhi illuminati e il tremito di quella fronte, io ho sentito che quel giovane cantore gustava in quell’ora una felicità alta ed intensa come io e voi, mia cara, non abbiamo probabilmente gustata mai. — Egli era felice, ma più che di tutta quella folla attenta e rivolta a lui, e del lieve mormorìo d’ammirazione contenuta che le sue mirabili note ogni tanto suscitavano sotto la più augusta cupola del mondo, egli era, io credo, felice della bellezza del suo canto che si sentiva ripiovere sull’anima come una rugiada celeste! Io l’ho compreso e l’ho invidiato: nel calore del mio entusiasmo ho pronunziato dentro di me il pazzo augurio che ho avuto la franchezza di significarvi e che mi ha tirato addosso le espressioni del vostro orrore. Che volete ch’io vi dica? Durante quel mottetto dell’Allegri uno strano cambiamento è avvenuto in me; e mi pareva che nell’animo mio si facesse una gran luce improvvisa. In quella luce io vedevo — bizzarra visione — gli antichi Coribanti che menavano intorno, con gesti e grida di gente estatica una danza vertiginosa, e in mezzo a quella ridda vedevo alzarsi la figura grave e serena di Origene che tendendo una mano e gli occhi verso le stelle esclamava: _beati!_... Al tempo stesso mi venivano in mente certe parole con cui il duca di Richelieu ringraziò la bontà divina quando s’accorse d’esser giunto al termine della sua carriera — nè diplomatica, nè militare. E pensavo: quando questo giovane sarà anch’esso innanzi cogli anni e un giorno s’accorgerà di non aver più la voce atta al mistico ufficio a cui ora la consacra, con che parola ringrazierà egli Dio della sua carriera compiuta?... In sostanza la mia mente s’andava arrampicando su per delle guglie perigliose e splendide. Mi tinnivano negli orecchi e mi sentivo vibrare per tutto l’essere accordi e dissonanze piene di voluttà ignota. Alzavo gli occhi e mi pareva che gli Evangelisti dai grandi pennacchi mi accennassero colla testa che avevo ragione. Sarò stato pazzo, se volete, ma ero superbo e felice. Potete condannarmi, ma, francamente, a compiangermi avreste torto. PRIMO RICORDO Io voglio risalire con la mente al primo ricordo preciso della mia vita. Più in là, per quanto io guardi, non veggo ondeggiarmi dinanzi che qualche ombra vaga, perdentesi nei primissimi crepuscoli della mia memoria. Ecco: io veggo ancora la casetta ove la mia famiglia passava gran parte dell’anno quand’ero bambino; bassa, bianca, con le finestre verdi, non circondata d’alberi, posta fra la strada maestra e il fiume Savena, a tre miglia da Bologna. Doveva da poco essere incominciato il giorno, perchè, guardando dalla finestra, io vedevo il cielo da una parte tutto sparso di nubi rosse; un rosso vivissimo, come non ho visto di poi che rarissime volte in qualche tramonto estivo. — Quantunque fosse così di buon ora, nella casa già era un tramestìo grande. Sentivo aprire e chiudere usci, sentivo passi affrettati e bisbigli. Certo io non mi vestii e non scesi di letto senza aiuto; ma non posso ricordarmi di chi m’aiutasse. Veggo la fisonomia d’una ragazza di casa, l’Eugenia; ma quella fisonomia si mesce confusamente a quasi tutti i miei ricordi infantili. Dopo, la mia memoria si perde per un certo tratto. C’è come uno strappo che non riesco a riunire. Dove e come io abbia passato quella giornata non ricordo: un momento mi veggo in confuso a passeggiare con un grosso cane vicino al fiume, che cominciava ad ingrossare per una delle solite piene d’autunno. Probabilmente mi avranno tenuto apposta fuori di casa, ove non poteva che essere, molto male a proposito, tra i piedi alla gente. Ma più tardi verso il tramonto, ecco ch’io sono ancora in casa mia e precisamente sulla breve scala che dalle stanze superiori mette nella loggia al pianterreno. La porta è aperta, spalancata, e veggo della gente che va e viene per la strada maestra. Nella loggia veggo tre o quattro persone, intorno ad un lettino situato in faccia alla porta. Distinguo benissimo mia madre che sta in piedi accanto al lettino e di tanto in tanto si china sovr’esso, con una grande espressione d’angoscia, senza pronunziar parola.... In quella cuna agonizzava una mia sorellina di circa un anno e mezzo; e l’avevano portata dalla sua stanza nella loggia, vicino alla porta spalancata a vedere se potesse meno penosamente respirare. Io credo che la poverina morisse di difterite; ma allora i medici non avevano ancora messo in voga questa orrenda parola. La bimba era proprio agli estremi: ed io dalla scala, non osservato, stavo guardando la triste scena. Guardavo immobile, con gli occhi fissi, senza rendermi ancora conto di ciò che accadeva; ma sentendo confusamente dentro di me che io mi trovava in presenza di una cosa arcana e terribile. Il visino della bimba era tutto color di cera, fuor che intorno alla bocca semi-aperta, che si mutava via via in una tinta fra il nero e il violetto. I due braccini, fuori della coperta, stavano abbandonati e senza moto, sul corpo inerte. Tutto il moto del corpo poi erasi limitato su su verso il collo e la bocca, negli ultimi sforzi della respirazione, che ad ogni minuto secondo andava affrettando penosamente e come restringendo sempre di più il suo circolo breve. Il respiro della creaturina somigliava nel suono a un lieve rantolo sibilante. Ed io lo sentivo quel respiro di moribonda, e fino a che mi rimarrà la memoria avrò viva e presente la indicibile pena che esso mi faceva. Sarà forse effetto d’immaginazione, ma adesso mi par certo che, sempre guardando dalla scala, anch’io allora respiravo con affanno, e seguivo e secondavo e numeravo, in qualche guisa, quel ritmo doloroso.... A un tratto il sibilo prese a diminuire rapidamente e non sentii più nulla. Allora il medico accese una candela e l’accostò alla bocca della bimba. Quando sentii singhiozzare e piangere forte intorno a me, mi misi a piangere forte anch’io, così che l’Eugenia mi trasse di là e mi condusse fuori nel prato ripetendomi spesso: _è andata in paradiso!_ Che cos’era per me il paradiso? Anche questo mi venne spiegato: ma per quanto la descrizione fosse allegra io seguitavo ad essere triste. E più d’una volta volli rivedere la bambina morta, già leggiadramente acconciata in mezzo ai fiori nella sua cuna. La sera del giorno dopo ebbe luogo il mortorio. Io era sul ponte ad attenderlo e non ricordo con chi. Ricordo invece benissimo che la piena del fiume era grandemente cresciuta e che l’acqua faceva sotto di noi un gran rombo, precipitandosi dalla cascata e urtando contro i piloni degli archi. Ero seduto sulla spalletta del ponte e una mano mi teneva: io guardavo in giù nel buio da cui saliva monotono il rombo del fiume grosso. Intorno a me erano molti bimbi che facevano un chiasso allegro: ma io nella mia testa ascoltavo il fiume e associavo, non so come, a quella sensazione una idea triste di fuga, di violenza, di rapina. E quando finalmente si avvicinò la lunga fila dei ceri accesi, che misero nell’aria piovigginosa e buia come un incendio giulivo, io non ristetti dal guardare a basso le acque torbide, le acque fuggenti sotto di me; e credetti un momento, laggiù fra i tronchi d’alberi portati dalla piena, di veder passare la mia sorellina dentro la sua cuna; la mia sorellina morta, che il fiume mi portava via, lontano, per sempre, verso un abisso ignoto, e dove non pertanto avrei voluto seguirla e perdermi con lei... IN REPUBBLICA Diamo le spalle a Rimini e all’Adriatico: la vettura corre rapidissima traverso i campi, verso la montagna, per una larga strada fiancheggiata da siepi di biancospino che verdeggiano allegramente al primo sole d’aprile. Il primo sole d’aprile è già sorto da mezz’ora sui monti d’Albania e si specchia nelle acque del mare, splendido, allegro, esultante forse dei propri splendori e della vita primaverile che sveglia e sollecita per tutto sulla terra. — Io, senza volgermi e fissarlo, ma guardando innanzi a me la campagna bellissima, lo tratto con un’apostrofe: chi sa quanti _pesci d’aprile_ illuminerai tu oggi, o vecchio sole! Questa idea mi mette addosso una specie d’allegria infantile. — Io, a buon conto, per quest’anno non corro più alcun rischio, mettendo tre lunghe ore di via montuosa fra me e il mio caro mondo civilizzato. Addio dunque, _salons polis, hommes polis, dames polies!_ Io m’arrampico sulle cime dei monti a cercare ed a visitare un ultimo rifugio della semplicità antica... Di lassù oggi potrò gettare a queste _basse regioni_ le mie occhiate più tranquille, sfidando tutti i _pesci d’aprile_ che mai sia dato di confezionare a tutte le comari, a tutti i barbieri e a tutti i giornalisti del bello italo regno. * * * Così pensando, levo gli occhi alla meta del mio viaggio, al monte Titano, sede della città di San Marino, capitale della serenissima repubblica dello stesso nome. _Conveniunt rebus nomina._ Chi, viaggiando in ferrovia tra Cesena e Rimini, guarda verso mezzodì la catena dell’Appennino, non può a meno di fermare l’occhio sovra questo enorme sasso bruno, diroccato, torreggiante un gran tratto colle sue tre creste superbe sulle cime minori; ed esso richiama davvero alla mente l’idea d’un gigante favoloso che un tempo si levò a lottare coll’onnipotente, e ora, tutto solcato dalle folgori, vinto, più che domo, sta adagiato lassù da secoli a guardare, a sfidare sempre il cielo col piglio cruccioso e dispettoso di Capaneo. Vedete che effetto può fare la distanza in una fantasia riscaldata ancora da qualche reminiscenza del De-Colonia! La strada, dopo alcune miglia, comincia a salire; poi l’erta a breve andare diventa così rapida, che i cavalli non bastano più. S’aggiunge alla vettura un paio di bovi e malgrado il poderoso aiuto si va su lenti lenti guadagnando la montagna a oncia a oncia. Il monte Titano intanto vi pare vicinissimo, è lì, proprio a pochi passi da voi; lanciando un sasso vi sembra certo che arriverebbe alla cima. Come va dunque che per due lunghe ore non vi par quasi di procedere innanzi, come se vi moveste a passi di tartaruga? Questa lunga e tediosa illusione è prodotta dall’immenso _zig-zag_ ad angoli vicinissimi che la strada è costretta a disegnare sul dorso del monte per aver l’onore d’essere carrozzabile. Io inganno il tempo guardando la collina intorno assai bene coltivata, coi peschi ed i mandorli tutti in fiore, i grossi quercioni coi rami ancora ignudi, gli ulivi e i lecci spiccanti pel verde pallido e cupo delle loro foglie perenni. Guardo e chiacchiero con due miei compagni di viaggio. Il primo è un forlivese; amico intimo del celebre baritono Cotogni, un tempo baritono anch’esso; ora è uomo d’affari notissimo a Bologna e per tutta Romagna. E il più dilettevole compagno di viaggio che si possa desiderare da un musicomane par mio. Quando ogni argomento di chiacchiere è esaurito, e le ore della ferrovia si succedono lente, lunghe, uggiose, e il sonno promette sempre di venire e non viene, allora l’amico ex cantante trae fuori dal ricco repertorio de’ suoi ricordi teatrali una parte di basso o baritono a vostra scelta, dal vecchio _Faliero_ di Donizetti al _Mefistofele_ di Gounod, e qui, con una mezza voce intonata e gradevole, comincia a cantarvela tutta da cima a fondo senza saltare una battuta, senza sbagliare una nota, — accennando per giunta il canto delle altre parti e gli intermezzi orchestrali. L’altro mio compagno di salita, e insieme nostro ospite, è il conte Bartolomeo Manzoni-Borghesi, figlio al celebre bibliografo di Lugo, erede del nome e delle sostanze del sommo archeologo di Savignano. È un giovane molto simpatico, e ricco di quella cultura soda, a fondo schiettamente classico, che fu un tempo così frequente nelle buone famiglie di Romagna, ed oggi, pur troppo, è quasi del tutto perduta. Egli ama con passione due cose: la caccia e le medaglie antiche. L’acquisto fatto il giorno innanzi d’una moneta rara dell’imperatore Pertinace accresceva il suo buon umore, e gli tardava d’aggiungerla al famoso medagliere che ereditò dal Borghesi. Ma intanto i bovi fanno il loro dovere, e siamo oramai alla meta. Ecco il borgo, un allegro e grazioso paese di circa ottocento abitanti, il quale si adagia molto pittorescamente e abbastanza comodamente sovra un ultimo ripiano che gira come d’una zona sul fianco destro l’ultima e ripidissima cima del Titano. Si staccano i bovi, ed i cavalli da soli e da bravi fanno l’ultima salita in una stupenda strada a rampe, costeggiante l’abisso. Il cocchiere li incalza colla frusta e colle grida; a un tratto le quattro ruote della vettura rumoreggiano sul duro ciottolato; ed eccoci trasportati in mezzo alla capitale della serenissima. Evviva! Oggi è un giorno di festa magna per tutti i Sammarinesi. I due _Capitani reggenti_ a nome del _Consiglio principe_, dopo i sei mesi d’uso, depongono il supremo comando esecutivo nelle mani, o, a parlar più testuale, «sul collo» dei loro due successori. Noi arriviamo appunto quando la solenne cerimonia sta per cominciare. Sul _pianello_ (la maggior piazza della capitale) è adunata molta gente in abiti festivi, che attende davanti al palazzo d’udienza i vecchi ed i nuovi magistrati. Io osservo intanto in mezzo alla piccola piazza un alto piedistallo di marmo, abbastanza bello nella sua semplicità, e mi pare che sovr’esso verrà fra breve inaugurata una statua alla _Libertà_. Donde verrà la statua, e chi n’è l’autore? I Sammarinesi non sanno più che tanto. Una signora russa, letificata dalla repubblica col titolo di duchessa di Mongiardino (una città di provincia) ha ricambiato il magnifico dono con una bella somma di denaro e la promessa di quella statua per giunta. A quest’ora, probabilmente, la figliuola d’un mercante d’olio di balena in Finlandia, scorre per le capitali d’Europa facendosi salutare e inchinare duchessa in nome d’una repubblica. E i liberi cittadini del Titano aspettano la statua della _Libertà_! Attenti: dalla parte del palazzo d’udienza esce a far mostra de’ suoi brillanti uniformi il drappello delle guardie del Consiglio Principe, e si schiera ad attendere i Consoli. I quali poco appresso escono anch’essi attorniati dai maggiori ufficiali dello stato, e s’incamminano verso la chiesa in processione lenta, sotto un cielo azzurro e splendido, accompagnati dal popolo che si profonde in atto di rispetto, con dietro la banda che suona una allegra marcia, mentre le campane suonano a festa, e più d’alto, dalla somma Rocca del Titano, s’odono, a giusti intervalli, gli scoppi de’ mortari ripetuti intorno dagli echi solenni del monte e della vallata. In chiesa la cerimonia è breve e semplicissima, perchè si limita ad una messa _bassa_, detta con edificante rapidità da un prete dabbene, più qualche _oremus_ di circostanza. L’altare è parato a festa, e intorno al ciborio brilla in grandi lettere il motto di San Paolo: _Voi siete nati per essere liberi_. Durante la cerimonia io osservavo i quattro magistrati che vi assistono gravi, silenziosi, ora in piedi, ora in ginocchio, davanti a uno sgabello parato in rosso per la circostanza. I due nuovi, malgrado che vestano uno stesso costume, che ha dello spagnuolo e del fiammingo, mostrano visibilmente al tipo che uno è tratto dal patriziato, uno di famiglia popolare. Non dirò quale dei due tipi sia meglio rappresentato: so che guardando a quelle due teste nè altere, nè umili, senza piglio dittatorio o lampi di genio, io, a tutto loro elogio, volgevo in mente un epigramma di Platen composto dal poeta tedesco mentre assisteva, non ricordo in che anno, a questa istessa solennità. «Quando entrai nella chiesa vi si eleggevano i consoli dell’anno come impone l’usanza. Veramente essi erano una coppia paesana, e non Cato e non Cesare. Ma promettevano al popolo ancora un anno di pace.» Il più importante della cerimonia, cioè la consegna del potere, si compie poi nella gran sala del Consiglio Principe. Un professore delle scuole pubbliche legge un discorso, il quale disserta al solito su qualche argomento di buon governo, e che i buoni magistrati ascoltano senza pensare (almeno sembra) alla risposta che diede Annibale a quel retore che l’intrattenne per due ore sul modo di vincere le battaglie. Giunge infine il momento solenne. I due vecchi consoli si levano dal collo il gran collare di S. Marino e lo appendono a quello dei nuovi; il segretario _prende atto_ d’ogni cosa, e il trapasso dei poteri è un fatto compiuto. Il governo della repubblica per altri sei mesi è affidato a mani sicure. — Bande, campane e mortai ripetono i saluti festivi, il popolo inchina al passaggio i nuovi suoi reggitori, e ognuno va a pranzo che già il tocco è sonato. * * * Anche noi si va a pranzo, e camminando si dà una occhiata intorno alla fisonomia del paese. Le vie strette e bistorte corrono su e giù per il dosso del monte così erte, a pendii così bizzarri e disuguali, che non di rado paiono scoscendimenti repentini avvenuti per terremoto. Le case, d’esteriore spesso modestissimo, piantate alla meglio su quei greppi di pietra arenaria, pare che s’addossino penosamente l’una all’altra per paura di cadere. Diresti che la città di San Marino siasi venuta formando via via per modo d’agglomerazione fortuita, come il sasso enorme, da cui è sorretta, il quale nel tempo dei tempi si formò, dicono i geologi, per una formazione venti volte millenaria di elementi corallini e calcari, in mezzo ai flutti vetustissimi del Mediterraneo. La casa ove il nostro ospite ci accoglie, posta in uno dei luoghi più eminenti della città, non ha nulla da invidiare ad un palazzo. — Visitiamo anzitutto il celebre medagliere di Borghesi: quarantamila circa tra monete e medaglie consolari, imperiali e medievali e del rinascimento, di cui moltissime in oro e argento. Che ricchezza metallica, e sopratutto quale inestimabile tesoro archeologico! La collezione completa delle monete consolari fu messa in ordine e tutta sapientemente illustrata dallo stesso Borghesi. Qual’è oggi sovrano o museo di Europa per cui il fortunato possessore non debba essere oggetto d’invidia? A pranzo (un pranzo squisito, ove specialmente si fanno onore i pesci dell’Adriatico e i vini del Titano) il discorso s’aggirava naturalmente intorno a Bartolomeo Borghesi, il vero _genius loci_. — Quest’uomo portentoso che tutta la dotta Europa salutò principe nella epigrafia e nella numismatica, che Mommsen chiama maestro suo, che Napoleone III volle onorare ordinando a proprie spese la stampa delle sue opere, visse quassù gli ultimi trent’anni della sua vita, solitario co’ suoi libri, semplice, alla mano, ospitale, vero eremita della scienza. Gli studi austerissimi non gli turbarono mai l’indole piacevole e l’elegante urbanità della vita. Convitava assai volentieri alla sua mensa, e là, al tramonto del sole, dopo essersi tutto il giorno stillato il cervello sopra una lapide osca o sannita, lasciava il freno all’umore gaio. A guisa di tanti altri uomini illustri, da Catone a Beethoven, egli a lungo e volentieri _sedebat et bibebat_, più contento d’un re, autorevole e modesto come un patriarca. L’amico ricordava più d’un aneddoto caratteristico della vita di Borghesi. — Un giorno gli venne notizia che in una montagna presso Ancona s’era scoperto un numero grandissimo di monete consolari. L’archeologo andò sollecito sul luogo e comperò in blocco tutto il tesoro ritrovato; poi scelse delle monete quelle che servivano ad empire i vuoti della sua collezione e disfece il rimanente. — O che ne fece? domandai io.... — Le mise in un crogiuolo e coll’argento fuso diede a fabbricare le posate di cui ora ci serviamo mangiando. Eravamo proprio in pieno ambiente archeologico, anche a tavola. Dopo pranzato ci rechiamo a prendere il caffè sul vasto spianato dinanzi alla casa, che il vecchio Borghesi volle ridotto ad orto e giardino con terra portata sin lassù a coprire il nudo sasso, a schiena di quadrupedi. Immaginate che difficoltà e che spesa! Ma non per nulla la sua fantasia si aggirava di continuo in mezzo agli ardimenti del mondo romano. Il parapetto del giardino gira proprio sull’orlo dell’altissimo ciglione. Mi affacciai e rimasi incantato. Non è il panorama di Napoli, nè quello di Genova e del Bosforo. Non è «l’interminabile sorriso» dei piani lombardi che da una balza dell’Alpi si versa per gli occhi nell’anima all’esule di Berchet. È uno spettacolo, un quadro di natura che ha un tipo tutto suo originale. In faccia Rimini e l’Adriatico, vasta distesa d’acque biancheggianti, rotte qua e là da strisce di puro smeraldo: lontano, in fondo all’orizzonte, forse nubi trasparenti nella nebbia lievissima, forse i contorni indecisi delle montagne di Dalmazia. Alla nostra destra la punta d’Ancona col suo monte solitario; e girando più su l’occhio, si scoprono a mano a mano le giogaie di San Vicino, la catena di Carpegna, e più lontano confuse nei vapori azzurrognoli le cime altissime di Cagli. La pineta di Ravenna nereggia a sinistra, verso il mare, e più presso il superbo colle di Bertinoro, tutto ridente di case e di vigneti. Fra questi due confini si stende l’ampia vallata, che la Marrecchia attraversa, camminando al mare col suo meandro serpeggiante e luminoso sotto i raggi del sole. Questa vallata, veduta così dall’altezza del Titano, ha un aspetto d’austera grandiosità, che in quell’ora, in quel silenzio, mette nell’anima una tristezza sublime. Le colline, che degradando la fiancheggiano, di colore ferrigno e in apparenza incolte, paiono di lassù colossali rigonfiamenti di terreno i cui vertici debbano da un momento all’altro aprirsi fumando in crateri di vulcani. ... Dall’aspetto di questi luoghi la mente corre alla loro storia, e coglie una somiglianza, forse fantastica, ma viva e portante. Sì, questi sono davvero i campi, questo il teatro, ove doveva agitarsi una gente feroce, indomita e generosa, così ben ritratta negli storici latini e nelle cronache del medio evo: una gente in cui la natura condensò tutti i nobili istinti della stirpe italica, ma che ereditò, più che ogni altra della famiglia, il difetto d’un ideale storico mal definito, e consumò sovente se stessa in fiere inquietudini, in lotte atroci ed infeconde.... Gli amici mi tolgono alle mie divagazioni, chè la giornata è ormai al suo termine. Saliamo in fretta a visitare la vecchia Rocca della Repubblica, messa ad uso di prigione. Una fortezza senza cannoni, e delle carceri senza un solo prigioniero! Una visita facemmo anche alla biblioteca, che è a un tempo pinacoteca, museo, armeria e raccolta d’ogni oggetto notevole posseduto dalla Repubblica. Tra le cose d’arte ammiriamo un bassorilievo in bronzo di fare michelangiolesco, una tavola di Giulio Romano, e un S. Sebastiano, bellissimo nudo fieramente spiccato in contrasto di luce e d’ombra. Lo dicono di Ribera, ed è opera degna del Velasquez. Il sole tramonta dietro la bruna rôcca di San Leo, mentre noi discendiamo rapidamente verso Rimini: i suoi raggi obbliqui colorano ritirandosi or questa or quella cima di colle, e le ombre gigantesche si estendono per la vallata innanzi a noi, mutando con vicenda rapida e fantastica. Io vado sfogliando le pagine d’un bel volume regalatomi cortesemente dal bibliotecario della Repubblica. È la storia di San Marino, scritta dal conte E. De Bruc, oggi incaricato degli affari della Serenissima a Parigi. Mi fermo casualmente al seguente passo, che regalo ai lettori _pour la bone bouche_: «Nel 1872, questo trattato (fra il regno d’Italia e la Repubblica) lievemente modificato ricevette la sua definitiva applicazione dopo che l’ebbero ratificato il signor _E. Vigliani ministro plenipotenziario della Repubblica di San Marino e il signor Guardasigilli ministro di S. M. il Re d’Italia._» DOPO DIECI ANNI La contessa Florenzi fece a posta attaccare il suo _landau_ e giunse di buon trotto alla villa dell’amica per informarla del grande avvenimento. — Sai chi è arrivato? — Chi? — L’Arnaldi. L’ho incontrato stamani in via Tornabuoni. Mi ha subito riconosciuta e staccatosi da un gruppo d’amici mi ha fermato sul marciapiedi per salutarmi. — Io invece, alla prima non lo riconoscevo... Una trasformazione, mia cara delle più complete e delle più splendide! Al tempo che partì era un ragazzo impacciato, mal vestito, nè bello nè brutto, per me piuttosto antipatico. Adesso è un giovanotto biondo con la taglia forte e svelta, la fisonomia aperta e distinta, le maniere elegantissime. Deve avere trentacinque anni... e non ne dimostra trenta. Ah, mia cara! Non c’è che la vita inglese per fare gli uomini o per accomodarli... Sapevi del suo ritorno?... Donna Giulia sapeva, all’incirca, del ritorno dell’Arnaldi, perchè egli stesso glie lo aveva annunziato come imminente in una sua lettera ricevuta da lei quindici giorni addietro: lo sapeva ma con l’amica si finse sorpresa. Poi disse: — Gli scriverò stasera che venga a vedermi... Nel pronunziare la parola _vedermi_ la voce le si alterò un pochino: ma forse fu cosa impercettibile per l’amica, la quale si mise a discorrere dei pettegolezzi della città; e in quei giorni ve n’era per l’appunto un paio di comicissimi. Donna Giulia più volte unì le sue risate sonore a quelle dell’amica. — Ora che t’ho dato una buona nuova (conchiuse la Florenzi) e che t’ho fatto ridere di gusto, ecco che me vado. E risalì leggera in carrozza. Rifacendo la strada essa aguzzava la mente per veder pure di convincersi se, ascoltando l’annunzio del ritorno dell’Arnaldi, l’amica sua non avesse proprio tradito alcun turbamento dell’animo. Le pareva e non le pareva... Ma già quella Giulia; tanto strana, tanto impenetrabile! Giulia stette a veder partire l’amica, poi rimase un poco dinanzi alla villa abbassando lentamente la testa, mentre con la punta d’una delle sue scarpine pareva che volesse trivellare il terreno umidiccio del viale coperto di una ghiaia lucida e minuta. I capelli biondi, troppo biondi sotto il sole, le cadevano a larghe treccie parte sulle spalle parte sul viso. Nella sua vestaglia bianca e celeste di taglio elegantissima e ricca di pizzi, la sua alta figura si contornava ancora magnificamente. Si capiva che era stata una gran bella donna: non aveva quarant’anni e ne dimostrava almeno almeno quarantacinque. Quando fu in casa scrisse con mano nervosa una lettera e la consegnò al servo ingiungendogli di portarla subito in città. Poi abbassò ella stessa gli _sthor_ alle due finestre del suo salotto, s’aggomitolò più che non si sdraiasse sovra un piccolo divano e chiuse gli occhi. Nel salotto era quasi buio perfetto e in tutta la villa un grande silenzio di _siesta_ estiva. La mente di Giulia spaziava nei ricordi. Allorchè conobbe l’Arnaldi essa aveva 30 anni: era nella sua più splendida efflorescenza di donna. Quanti avevano detto d’amarla e quanti anche glie l’avevano provato! Un principe di casa regnante non aveva dubitato di compromettersi, restando parecchi mesi attaccato a lei e obliando nel lungo indugio le sue alte convenienze di principe e i suoi obblighi sacri di marito... L’Arnaldi invece quando la conobbe, era ancora un giovinetto uscito di poco dalle università col suo diploma d’ingegnere meccanico, solo decantato da qualche amico per il suo ingegno audace e promettentissimo. Le era piaciuto e l’aveva voluto: ma aveva messo tanto poco d’ardore e d’esclusività in questo amoretto, che essa sulle prime non s’era nemmeno data la briga di romperla interamente con una sua avventura più vecchia e non ancora del tutto venutale a noia... Egli invece no: aveva messo nell’amarla tutto l’abbandono del suo cuore quasi vergine e ogni giorno, serrandola fra le sue braccia pazzo di passione e di gelosia la obbligava a prendere i più terribili giuramenti: che amava lui solo, che nessuno aveva mai amato a quel modo, che lo amerebbe in eterno!... E la donna lo compiaceva del quotidiano spergiuro; ma, spergiurando, si sentiva sempre più attratta in quel vortice caldo di vita giovanile e di passione sincera. Finchè un bel giorno spezzò d’un colpo il legame vecchio e fu lieta di poter finalmente, e senza rimorso, articolare sulle labbra dell’adorato ragazzo le parole del giuramento... Ma, ahimè! proprio in quel tempo pervennero in mano al giovane le prove certe dell’inganno passato... Che terribili giornate tennero dietro a quel breve intervallo di felicità perfetta! Il giovane si sentiva il cuore infranto. — Perchè lo aveva amato? Perchè lo aveva ingannato?... E adesso com’era possibile che egli avesse più fede in lei?... Seguivano parole dure, rimbrotti umilianti, invettive furibonde. La vita fra i due divenne, a breve andare, intollerabile; e fu una fortuna che l’Arnaldi vincendo le lagrime e gli scongiuri di lei, si decidesse ad allontanarsi. Andò in Inghilterra a completare i suoi studi nella visita e nella dimora di quelle grandi officine. * * * E donna Giulia proseguendo nei ricordi, vedeva un altro periodo della sua vita. Una vita deplorabile e piena di contradizione. L’anima sua era sempre con lui, lo seguiva da per tutto, lo invocava ogni giorno: ma qui, nell’uggia di una solitudine, che pareva e forse era un abbandono, essa sentiva il bisogno di vivere, di consolarsi e distrarsi. L’istinto caduco della donna mondana, bella per giunta e ricca e corteggiata, la vinceva sopra ogni altro sentimento, ed essa si lasciava andare giù, giù giù... Talvolta all’Arnaldi nel fondo di una miniera della Cornovaglia o in mezzo ai frastuoni di un opifizio di Lanchaster arrivava una lettera di dieci pagine scritte per dritto e per traverso in cui la donna innamorata versava tutta la tenerezza dei ricordi e la foga dei desiderii; ma mentre egli la leggeva, non senza un avanzo di emozione vera, molto probabilmente donna Giulia attutiva ricordi e desiderii, distraendosi... perchè essa era costretta ad amare ma non aveva nè la forza nè la virtù di soffrire. E alle cadute frequenti si alternavano i vani rimorsi. Ma intanto passavano gli anni non risparmiando la scultoria bellezza della donna, anzi attaccandola con frettolosa crudeltà. Le brezze del tramonto erano micidiali a quel fiore superbo. Donna Giulia andava pensando che in quella triste discesa della vita, la distanza fra lei e l’Arnaldi s’aumentava oltre la proporzione degli anni, e poteva diventare enorme. Un giorno, mentre si guardava allo specchio, pensò a un tratto: — S’egli tornasse?... E il triste sorriso che ella si vide sulle labbra troppo rosee, aumentò la costernazione del suo cuore. * * * Ed ecco che egli era tornato per l’appunto. Ricco, bello, forte, ammirato: l’Arnaldi in quel momento toccava il culmine trionfale della vita; quel culmine che essa aveva oltrepassato da parecchi anni e che le pareva già tanto, tanto lontano! E donna Giulia pensava irritata: — Gli uomini ci vincono sempre, in tutto. Quand’è che essi diventano vecchi? Tocca a noi quando siamo ben discese, di vederceli comparire dinanzi meglio di prima. Dove sono stati? Che hanno fatto? Il tempo che noi abbiamo perduto ad invecchiare essi l’hanno speso ad entrare in una seconda, in una migliore giovinezza... Quale ingiustizia! E la donna era tutta invasa da un avvilimento profondo, al quale tentava indarno di opporre le rivolte dell’orgoglio. Poi una idea cominciò ad attristarla, ad atterrirla. Aveva scritto all’Arnaldi un biglietto nel quale lo invitava ad andare da lei la sera stessa. Il biglietto concludeva: — Non mancate assolutamente. A questo solo patto io potrò perdonarvi d’essere a Firenze da due giorni senza che vi siate ricordato di me! Quindi donna Giulia pensò che sull’imbrunire di quella stessa giornata l’Arnaldi sarebbe arrivato e si sarebbe trovato lì in quello stesso salotto, dinanzi a lei, guardandola... dieci anni dopo!... La donna vide tutto il suo svantaggio in quel rapido sindacato e presentì un immenso pericolo e un dolore e una umiliazione intollerabili. Allora con un movimento fiero di tutta la persona si rizzò e diede due colpi al bottone elettrico. Comparve la cameriera... * * * Pochi minuti dopo le ventiquattro l’Arnaldi entro una vettura da città scoperta usciva da porta Romana. Dai campi, nell’aria temperata del vespero, veniva di quando in quando una allegra canzone e le prime lucciole cominciavano a balenare sulle spighe del frumento ancora verde. L’Arnaldi fumava il sigaro fantasticando. Nei suoi pensieri, strano miscuglio di ricordi e di sogni, la figura di donna Giulia s’insinuava sempre più dolcemente. — Non era essa la donna che egli aveva amata più di tutte le altre? E appunto perchè da lei gli erano venuti i più grandi dolori e i più acerbi disinganni, non gli aveva essa date le gioie più ineffabili... le sole complete, le sole vere?... Colpevole sì... spergiura, indegna... Ma quanta poesia, quanta sincerità di passione e di abbandono in quella donna!... Il passato risuscitava nella sua parte più dolce e più buona: e l’Arnaldi si sentiva come tornato dieci anni addietro in una di quelle sere in cui, col petto gonfio di desiderii, faceva la stessa strada, così, circa a quell’ora, in cittadina scoperta, impaziente di arrivare alla villa di donna Giulia... Il cuore del giovane s’apriva adesso ad una immensa benevolenza, e stava combinando nella sua testa delle frasi gentili e delicatissime da dire a Giulia in quella serata, dopo tanti anni che non s’erano visti! A quattro chilometri da Firenze l’Arnaldi era tutto immerso ne’ suoi pensieri, e non badò a una bella carrozza signorile che gli veniva incontro co’ suoi due grandi fanali accesi: e non badò nemmeno che, mentre i due legni si passavano accanto, una signora mise fuori dello sportello la testa fissandolo alla luce dei fanali. Donna Giulia, che aveva fatto tutto allestire in fretta per la partenza, ora andava verso la stazione a prendervi il diretto delle nove. Quando sentì il rumore della vettura, un gran battito del cuore e dei polsi la avvertì che dentro c’era l’Arnaldi. Volle vederlo anche una volta e lo avrebbe anche chiamato per nome; ma non ebbe la forza. — Passato il legno, si avvolse bene in un grande scialle, poggiò il capo all’angolo della carrozza e prese l’attitudine di chi s’addormenta... Ma la cameriera che era con lei, s’accorse che la signora piangeva. NELLA “MONTAGNOLA„ Die Nachtigall! È egli possibile immaginare un nome più disadatto e più prosaico di questo dato dalla lingua tedesca all’usignolo? Rozza, brutta, ridicola parola.... E forse Ottone avrebbe durato un pezzo ad inveire, non so se a torto o a ragione; ma intanto c’eravamo già messi per il viale tortuoso e angusto del boschetto. Io gli feci cenno di star zitto e ci fermammo ad ascoltare. L’usignuolo era a poca distanza da noi; non so se posato sopra la frasca d’un giovine tiglio o se, più probabilmente, nascoso nel folto di una vecchia acacia capitozza, che ergeva la sua testa raccolta e densa, a cui i raggi della luna davano una tinta fra il lattiginoso e l’argenteo. L’usignuolo cantava nel gran silenzio. Poco prima avevamo udito alla chiesa di San Martino suonare le due dopo mezzanotte: nella piazza d’armi non s’era incontrata anima viva; nessuno girando il gran viale rotondo della Montagnola; e ora lì circondati ogni intorno dagli alti cespugli del boschetto, nè vedendo altro che il cielo stellato sopra di noi, provavamo tutti e due un senso di isolamento e di calma perfetta, come se ci fossimo trovati a quell’ora nella solitudine d’un bosco sull’Appennino a venti miglia da Bologna. L’usignuolo cantava: e ci era, ripeto, tanto vicino che, senza vederlo, udivamo a quando a quando il leggero fruscìo delle foglie mosse da lui. L’aria immobile era tutta piena del suo canto, e il silenzio profondo pareva un silenzio d’ascoltazione, secondo l’idea degli antichi poeti che immaginavano i venti sospesi e gli alberi e le rupi intente ad ascoltare qualche suono grato e solenne. Io pensavo a questo proposito: Perchè i poeti antichi, da Esiodo a Virgilio, descrivono sempre il canto dell’usignuolo flebile e quasi piagnucoloso?... A noi invece, avvezzi alle querimonie della poesia moderna, a noi coll’orecchie piene de’ piagnistei della musica melodrammatica, e anche, ohimè! delle _romanze_ da camera, il canto dell’usignolo fa provare un senso di dolcezza calma, temperata e quasi allegra. È la gran legge della progressione che signoreggia tutte le sensazioni, massime se vi entra l’arte, e massime se quest’arte è la musica. Un coro infernale nell’_Orfeo_ di Gluk parve nel secolo passato l’ultimo segno della terribilità espressa con voci e suoni: ponete ora quel coro in mezzo a quelli del _gran finale_ della _Regina di Saba_, e farà l’effetto d’un lamento timido e sommesso... * * * Pensavo all’usignuolo, e sono cascato a parlar d’arte. Che salto enorme coll’apparenza di un passo agevole! In arte le forme si inseguono, si raggiungono, s’urtano e si soverchiano in una corsa affannosa ed infaticabile. Non solamente ogni scuola ed ogni maniera ha il suo breve tempo d’auge e di dominio; ma ogni singolo artista ha spesso nella sua vita più atteggiamenti d’ingegno e più stili, che rubano al pubblico un suffragio esclusivo ed intollerante. A vedere la energia degli assensi che riscuote d’ogni parte, direste che finalmente egli sia giunto ad una mèta stabile. Sì davvero! Ripassate fra qualche anno e vedrete quel che rimane dell’opera e delle ammirazioni. Arrivati poi al termine d’un periodo storico, noi critici ci voltiamo indietro, provando a tirare la somma: ma se vogliamo essere schietti innanzi alla nostra e all’altrui vanità, dobbiamo confessare che del molto lavoro fatto ciò che rimane di vitale e di perenne è ben piccola cosa. La più parte della suppellettile artistica somiglia un magazzino d’abiti smessi o la raccolta delle incisioni d’un giornale di mode. Come paiono goffe e sgraziate quelle fogge che, viste cogli occhi d’una volta, raddoppiavano la prestanza degli uomini e la seduzione delle donne eleganti! Fui due anni fa a Milano, poco dopo la morte del povero Cremona. Il fervore per la sua pittura era al colmo. Un critico che, pur facendo di cappello all’ingegno del pittore, volle mettere una nota sorda in quel coro di lodi, fu a un pelo d’essere lapidato. Intanto un giovine poeta cantava in metro lirico l’apoteosi dei toni gialli e rossi, paragonandoli, se ben mi ricordo, a cavalli scalpitanti in guerra. Si giunse perfino ad escogitare uno speciale sistema di ottica soggettiva per giustificare certe tinte particolari al Cremona, non riscontrabili in natura, e tutto quell’indefinito e sfumato e nebbioso ch’egli metteva nei piani e nei contorni. Passando poi dalle esecuzioni ai concetti e agli intendimenti del pittore, l’estro della esegèsi non aveva più limiti. Per esempio quei due che si stringevano le mani con passione, non erano solo due amanti: erano anche due cugini. Si capiva, o almeno si era obbligati a capire, guardando alla espressione finissimamente cuginesca messa nei volti dal pittore... Io partii da quella esposizione intronato e confuso per tutta quella critica mirabolana e, come accade spesso, repugnandomi il decidere con una affermazione secca, se ero io che non capivo od essi i panegiristi che passavano il segno, mi acconciai alla sospensiva, dicendo fra me e me: Vedremo! * * * E non ho avuto bisogno d’aspettare un pezzo. Li abbiamo veduti testè a Torino gli ultimi riflessi di quella pittura cremoniana, inavvertiti e confusi in mezzo ai quadri della mostra. — Un Milanese che era meco, appassionato e schietto cultore dell’arte, non sapeva riaversi dalla sorpresa, paragonando i suoi entusiasmi di tre anni fa colla delusione presente. E questa è storia che dura e si ripete fino dal tempo in cui l’arte è divenuta una forma della vita. La distanza dei secoli avvicina e confonde i fatti, ma ciò che avviene ora sotto i nostri occhi è avvenuto sempre più o meno. Adesso i trapassi sono più rapidi, perchè la vita moderna corre più inquieta e cupida alla cerca del nuovo e del diverso; e la mole enorme delle impressioni d’arte, accumulate nel cervello di noi moderni, rende più frequenti le combinazioni elettriche e le parvenze di novità, che un soffio compone e un altro discompone. Intanto par d’essere nel regno della ballata tedesca: _I morti corrono!_ Quante fronti che ieri nell’arringo dell’arte si ergevano con piglio trionfale, vanno oggi crucciate e dimesse! E ai trionfatori d’oggi qual sorte è serbata per domani? * * * Fortunato l’usignuolo! Il suo canto invariato passò i secoli, arrivando sempre dolce e gradito all’orecchio degli ascoltatori. «Tu sei giunto, o pellegrino, su questo sacro colle fiorente d’ulivi, e alimentatore di cavalli. Di qui s’ode l’usignuolo soavemente lamentarsi nelle valli ombrose»... Sono passate migliaia d’anni dal giorno in cui i vecchi di Colono con queste parole salutavano Epidio cieco e ramingo: altre migliaia di anni passeranno ancora, e avverrà sempre che una semplice progressione di note flautate e un rapido gorgheggio fermino di notte a mezza strada il viandante, immemore dell’ora tarda, o chiamino rapidamente alla finestra la fanciulla mezzo spogliata, incurante della umida brezza notturna. Frattanto intere cataste d’istrumenti musicali inventati dall’uomo hanno avuto tempo d’andare in disuso. Che n’è delle note che placarono Saul, delle patrie canzoni che fecero piangere Attila di tenerezza, delle melodie di Casella che innamorarono Dante Alighieri? L’usignuolo nel silenzio ascoltante della natura seguita ad essere il cantore prediletto della foresta; e non vi ha dotto poeta che non fosse pronto a dare tutto il suo greco e tutto il suo latino, per tradurre in una strofa sola ciò che egli dice alla notte e alla luna. E se noi potessimo penetrare la intima essenza delle cose, credo che scopriremmo non essere governata da diversa legge la vera bellezza effusiva che durevolmente ci viene dalle grandi opere d’arte. Di fatti, a raccogliere bene nel fondo dell’anima nostra ciò che proprio costituisce la singolare potenza di un grande artista, per esempio un poeta come Omero, un pittore come Raffaello, un melodista come Bellini, e a poco a poco eliminando tutto quello che è in lui di generico, di collettivo ed impersonale, all’ultimo che rimane? Un _incognito indistinto_ che non troviamo parole ad esprimere e che vagamente vorremmo significare con un gesto della mano, un cenno del capo, una esclamazione... Salirono le alte cime dell’ideale, scrutarono con penetrazione insolita il libro della natura e furono a ragione salutati spiriti magni; ma l’argomento della loro grandezza è tutto in un fatto semplicissimo: il quale consiste nell’aver essi fatta vibrare una nota nuova nell’ime corde dell’essere e con quella generato in noi una nuova sensazione della vita. Nel linguaggio dell’arte potrà poi chiamarsi la «sensazione omerica» la «sensazione raffaellesca» la «sensazione belliniana» e via dicendo. E questa piccola frase sarà alle loro glorie monumento assai più durevole e splendido di quelli in marmo e in bronzo eretti loro dai mecenati o decretati dai governi e dai popoli. Fuori di quest’àmbito misterioso abbiamo la mediocrità, fin che vi piace aurea e invidiata: dei quadri che durano a piacere dieci anni, delle _arie_ che per dieci mesi fanno la delizia di tutte le platee, e dei poeti che sono alla moda per una stagione di bagni. Fortunato l’usignuolo!... Che è? Io e l’amico dobbiamo a un tratto mutare l’ascoltazione piacevole in un delizioso rapimento. Non ci eravamo ancora accorti del primo sorgere dell’alba; ma egli l’usignolo dalla sua frasca aveva certo veduto comparire all’orizzonte le prime tinte rosate e crocee, e sfumare nell’azzurro perlato del cielo. E’ salutava il giorno nascente. Non erano più le note sospirose e i tenui trilli soavemente modulati, ma un impeto di canto meraviglioso ora disteso, ora fiorito, con gorgheggi a salti, a scale, a note picchiettate con passaggi nuovi, strani, inattesi, con volate di un ardimento e d’un lirismo indescrivibile. Si sarebbe detto che l’usignuolo voleva epilogare il suo lungo canto notturno gittando incontro alla bella aurora uno sprazzo di rugiada melodiosa. — Di fatti dopo breve tempo cessò ad un punto il canto e volò via. O nobili amanti di Verona, voi eravate molto inesperti del linguaggio degli uccelli! — La povera allodola deve ad essi gratitudine eterna, perchè presero argomento a un dolce indugio d’amore, confondendo il suo canto con quello dell’usignuolo... Ma forse i due innamorati giovinetti non erano pienamente in buona fede, per ragioni scusabili e invidiabili. FINE. INDICE _Coi Sordini_ Pag. 6 _Occhi Accusatori_ » 27 _In Casa dell’Amico_ » 41 _Cantores!_ » 57 _Primo Ricordo_ » 69 _In Repubblica_ » 77 _Dopo Dieci Anni_ » 93 _Nella “Montagnola„_ » 105 Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK RACCONTI INCREDIBILI E CREDIBILI *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. 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START: FULL LICENSE THE FULL PROJECT GUTENBERG LICENSE PLEASE READ THIS BEFORE YOU DISTRIBUTE OR USE THIS WORK To protect the Project Gutenberg™ mission of promoting the free distribution of electronic works, by using or distributing this work (or any other work associated in any way with the phrase “Project Gutenberg”), you agree to comply with all the terms of the Full Project Gutenberg™ License available with this file or online at www.gutenberg.org/license. Section 1. General Terms of Use and Redistributing Project Gutenberg™ electronic works 1.A. By reading or using any part of this Project Gutenberg™ electronic work, you indicate that you have read, understand, agree to and accept all the terms of this license and intellectual property (trademark/copyright) agreement. If you do not agree to abide by all the terms of this agreement, you must cease using and return or destroy all copies of Project Gutenberg™ electronic works in your possession. 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