Racconti incredibili e credibili

By Enrico Panzacchi

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Title: Racconti incredibili e credibili

Author: Enrico Panzacchi

Release date: March 25, 2025 [eBook #75714]

Language: Italian

Original publication: Roma: Perino, 1885

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK RACCONTI INCREDIBILI E CREDIBILI ***


                            ENRICO PANZACCHI


                          RACCONTI INCREDIBILI

                              E CREDIBILI



                                  ROMA
                   STABILIMENTO TIPOGRAFICO E. PERINO
                        62 — Vicolo Sciarra — 62
                                  1885




                          Proprietà Letteraria




COI SORDINI


Accadde ben presto ciò che il vecchio Petronio aveva preveduto e
temuto; e, caldo ancora del rabbuffo che aveva toccato dalla signora
contessa, entrò nella stanza del giovinotto.

— Mio caro, non sono io stato indovino? Il vostro strumento mi tira
addosso de’ guai. Scendo adesso dal quartiere della signora che m’ha
parlato chiaro, o smettere di sonare o uscir subito da questa casa.

Il giovine prima terminò la sua frase melodica, posò l’arco attraverso
il leggìo, il violino sulle sue ginocchia, poi guardò il vecchio
portiere col viso costernato, come chi è tolto bruscamente da pensieri
piacevoli.

— Uscire da questa casa, voi dite? O dove volete ch’io vada?
Aspetterete almeno, m’immagino, che arrivi la fine del mese. E intanto
pretendereste voi altri ch’io non sonassi più? È impossibile!

E tolto l’arco e il violino, ricominciò la frase di prima, socchiudendo
gli occhi per gustarla meglio. Il portiere allora si mise a girare per
la stanza, a battere i piedi, a sbuffare, a bestemmiare. Il giovine si
scosse:

— C’è bisogno di bestemmiare! Certo io non patirò che, per causa mia,
voi andiate incontro a de’ guai; ma, d’altra parte, io ho bisogno di
studiare e non posso mica andare a sonar il violino nella Montagnola...
Vediamo di rimediare alla meglio.

E alzatosi, trasse dal cassetto del tavolo un gingillo d’ebano che
adattò alle corde dello strumento, inforcandolo e premendolo molto
sul _ponticello_: poi diede un’arcata lunga e vigorosa che, alla
prima, fece al vecchio stendere in avanti tutte due le mani come per
impedire che quel suono, così maledettamente vibrato, si diffondesse
e scappasse fuori dalla finestra e salisse in alto a suscitare nuovi
sdegni. Invece, con sua meraviglia, il portiere non intese più uscire
dallo strumento che un suono, o, meglio, un gemitio velato, ottuso,
tenuissimo che moriva, dopo avere appena vissuto, nel breve spazio
della cameretta.

— Va bene così? — chiese sorridendo il giovine, dopo aver durato un
poco a segare con l’archetto sulla corda. Il portiere, col viso tutto
contento, senza dir parola ma facendo di gran segni d’assenso col capo,
uscì dalla stanza e chiuse l’uscio.

                                   *
                                  * *

Però il giovine fu preso da una grande melanconia: e rimase un pezzo
fermo, la testa appoggiata sul leggìo, tenendo l’archetto e il violino
con le braccia penzoloni. La sua mente usciva da quelle quattro pareti
silenziose e saliva in alto. Ma adesso era sola e non l’accompagnava
più un’onda di suoni che entravano per le grandi finestre e andavano a
volteggiare lassù in quel quartiere signorile e misterioso ch’egli non
aveva mai visto ma del quale tante volte aveva fantasticato...

Perchè bisogna sapere che in quel palazzone antico, taciturno e chiuso,
in cui non si vedeva entrare che qualche vecchio e qualche prete; in
quel palazzone, in cui fin le cameriere parlavano poco e a bassa voce
e i servitori pareva che camminassero in punta di piedi, la contessa
bigotta e settuagenaria viveva con una nipote che aveva appena toccati
i sedici anni. Il padre e la madre di questa erano morti quand’era
ancora bambina, e anch’essa, a vederla così pallida ed esile, così
scema d’ogni vivacità e d’ogni calore di giovinezza, dava ben poca
speranza che potesse vivere lungamente. Che malattia aveva? Ogni
settimana veniva in casa un medico celebre per la cura delle malattie
nervose, ma parlava poco e vagamente del male; non scriveva quasi
mai alcuna ricetta, e si fermava ad alcune prescrizioni igieniche, a
qualche consiglio intorno al modo di vita, che si riferiva piuttosto al
morale che al fisico della ragazza.

Il giovine s’era innamorato di lei: ma a spiegare il come, egli per
primo sarebbe stato molto imbrogliato. Appena l’aveva vista qualche
volta un momento, essendosi trovato, per caso, nell’androne del palazzo
mentre la carrozza usciva. Aveva visti i suoi occhi grandi e fissi,
raggianti nel pallore del visino bianco e delicatamente profilato; e
sopra quegli occhi e quel visino una massa di capelli biondi più che il
grano maturo, diffusi intorno al capo come un’aureola vaporosa. Altro:
e glie n’era rimasto nell’animo come una impronta di visione bella
e triste, che gli dava, ripensandola, una dolcezza ed un accoramento
indicibili.

E nella sua camera chiusa non si sentiva più solo. Quella fanciulla
era vicina a lui nel piano superiore, sopra il suo capo: la sentiva
vivere con lui, le pareva di respirare con essa. Andava agitando nel
cervello dei sogni magnifici, strani, pietosi, inverosimili. Gli pareva
d’essere predestinato ad una pia impresa di liberazione, come gli eroi
delle leggende wagneriane; e quando la sua mente correva al premio, non
sapeva immaginarlo altrimenti che vedendo sè inginocchiato dinanzi a
quella sottile figura di bambina bionda, che si chinava sopra di lui e
gli posava, leggero leggero, un bacio sulla fronte...

Quando prendeva il violino e stava delle lunghe ore dinanzi al leggìo,
il suo sonare da prima era come un balbettìo musicale incerto e timido,
poi era una prova meno imperfetta, a periodi più lunghi e con qualche
ripresa nei passi più importanti, a fine d’impadronirsene per bene;
da ultimo, sicuro del fatto suo, il giovine violinista riattaccava ed
eseguiva di seguito il suo pezzo intiero con tutta quanta la forza
e la maestria di cui aveva saputo rendersi capace. E allora, mentre
gli occhi parevano intenti alle pagine, l’anima sua saliva coi suoni,
andava su al piano nobile, in cerca di lei, la trovava e si compiaceva
ad avvolgerla devotamente come in una nube di suoni... Dopo quelle
peregrinazioni fantastiche il giovine si raccoglieva in se stesso
stanco e soddisfatto e con una vaga persuasione che quel suo messaggio
musicale non era andato sperso nel vuoto, ma era arrivato a lei ed era
stato bene accetto.

Donde traeva egli quella persuasione?

Qualche volta si metteva alla finestra che dava nel grande cortile
interno del palazzo. Era un bellissimo cortile, fabbricato parecchio
tempo dopo la facciata del vecchio edifizio, nei primi anni del secolo
decimosesto. Al di sopra del vasto portico marmoreo si lanciava una
galleria ariosa e allegra delle sue svelte colonne d’ordine corinzio,
e sopra la galleria girava un fregio di lavoro così fine ed elegante,
che la tradizione volle attribuirlo a Francesco Francia, l’orefice. Il
giovine guardava lungamente d’intorno e in alto. Pareva un curioso che
aspettasse, e il cuore gli batteva forte. Qualche volta perfino se lo
sentiva come salire palpitando verso la gola. Ma il cortile era sempre
solenne e silenzioso, la galleria sempre allegra e vuota, e il bel
fregio del Francia pioveva dall’alto un sentimento di bellezza pura,
fredda e inaccessibile. Del resto non un volto o una voce o altro segno
qualunque. Il giovine si ritraeva dalla finestra col viso triste; ma
nell’intimo suo non rimaneva a lungo senza conforto, perchè pensava che
i suoni del suo strumento erano saliti in alto, e un animo gli diceva
che essa li aveva ascoltati.

E prendeva coraggio e sonava ancora.

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                                  * *

Ma d’ora innanzi non più. Quei pesanti sordini rendevano il suo
violino quasi muto; ed egli lo guardava con aria scorata, come se fosse
diventato un arnese inutile fra le sue mani. Quando svogliatamente si
rimise a sonare, da prima gli pareva d’essere come in uno di questi
sogni, allorchè noi con la volontà e con le membra ci sforziamo a fare
una cosa e l’effetto non corrisponde. Ma, continuando attentissimi nel
lavoro, a poco a poco i sensi del violinista si acconciarono ad una
curiosa metamorfosi. Quelle note esili e lamentose che in principio
pareva che uscissero a stento, un momento appena, fuor delle corde
soffocate dal peso dei sordini, ecco che ora non solo si ripetevano
nel suo cervello, ma vi si compievano riguadagnando a grado a grado
la sonorità, il timbro, l’espansione di prima! Il giovine si riebbe
dal suo avvilimento e si sentiva invadere da una letizia profonda.
Ecco che egli riaveva ad una ad una le sue note, le sue belle note
che aveva piante quasi per morte! Ora esse echeggiavano novellamente
nella sensibilità del suo apparecchio acustico, e poteva vibrarle a suo
piacimento ingrossandole, assottigliandole, stemperandole per tutte le
sfumature del colorito musicale, atteggiandole a tutte le intenzioni,
le carezze e i capricci del suo gusto d’esecutore!

E la sua mente riprese subito con gioia l’usato costume di tradurre la
musica in un linguaggio d’amore rivolto alla bionda creatura del piano
nobile. Il suo linguaggio divenne anzi, in quella seconda prova, più
fantastico, più intenso, più ardente. Le note e le frasi vaporavano
come una colonna d’incenso dall’anima sua: o meglio era la sua stessa
anima che pareva dissolversi in esse e salire. Talvolta il giovine a
un tratto interrompeva il suono e rimaneva alcun tempo con la testa
voltata in su verso il soffitto ascoltando, aspettando...

Un giorno, verso l’imbrunire, stava ripassando una riduzione per
violino della settima sinfonia di Beethoven. Terminato l’_andante_ e
lo _scherzo_ egli incominciava l’_adagio_, che è un pezzo così bello
di strana e potente bellezza, nel quale par d’indovinare l’invocazione
d’un mondo invisibile fatta da un’anima che tutte le cose di questa
vita hanno amareggiata e disillusa. Arrivato circa a due terzi
dell’_adagio_, il giovine staccava lentamente i quarti di una battuta
d’aspetto, quando, d’improvviso, balzò in piedi e recò una mano
alla fronte, rimanendo con tutta la persona in un atteggiamento di
ascoltazione attentissima. Infatti, nel silenzio, si sentiva la voce
di un pianoforte, sommessa per la lontananza, che ripeteva l’_adagio_
della settima sinfonia. Il giovane corse a spalancare la finestra
e sentì che la voce del pianoforte continuava più sensibile. Veniva
dal piano superiore e si spandeva pel cortile deserto. Arrivata alla
battuta d’aspetto, la voce si tacque; allora il violinista si rimise al
leggìo ed eseguì, con mano tremante, tutto l’_adagio_ fino in fondo; e
il pianoforte non tardò a seguirlo, terminando qualche battuta dopo di
lui.

Il giovine era indicibilmente commosso, ma non aveva l’aria d’essere
sorpreso.

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                                  * *

La misteriosa corrispondenza dei suoni continuò. Per la gente che
abitava il palazzo, e che non udiva altro suono che quello del
pianoforte, il fatto fu accolto come un lieto segnale della migliorata
salute della fanciulla. Per il giovine pareva l’ultimo termine de’
suoi desiderii e non cercava altro. Si chiudeva nella sua stanza e
vi rimaneva tutto il tempo che avea disponibile, sonando Beethoven e
aspettando la risposta. Questa gli veniva quasi sempre verso sera, e
consisteva in uno dei pezzi eseguiti dal violinista lungo la giornata;
il pezzo che a lui era parso più appassionato degli altri e in cui egli
aveva messo più sentimento di adorazione e più forza di desiderio.

E la relazione dei due giovani rimase là; in tutto il rimanente la
stessa separazione inalterabile; non un biglietto, nè un cenno, nè un
saluto; mai nulla.

D’altra parte il violinista avea bisogno, per vivere, d’esercitare la
sua professione. Andava per le case a dar qualche lezione, mal pagata,
e sonava nelle chiese.

Quando giunse l’autunno, fu scritturato nell’orchestra del Comunale.
Soltanto due volte vide la fanciulla nel suo palco di famiglia,
in second’ordine: sempre col visino pallido e l’aria sofferente e
malinconiosa. Mostrava di non accorgersi quasi affatto delle persone
che venivano in palco e d’essere attentissima alla musica. Tutte due le
volte i suoi occhi, un momento, si volsero all’orchestra e fissarono
il giovine violinista che tremava nella sua sedia sotto quello
sguardo pieno di luce; poi li ritraeva lentamente, dolcemente, con una
espressione di rinuncia rassegnata e triste. Al domani, il linguaggio
del pianoforte parve al giovine più lungo e più appassionato.

Verso la metà di carnevale egli accettò di essere direttore d’una
piccola orchestra per due balli che la marchesa X** avrebbe dati,
invitando specialmente le amiche di sua figlia uscita di poco dal
collegio. Abbisognava un vestito nero col _frak_, ma egli, poveretto,
non lo aveva. Allora mise in mezzo il vecchio portiere, il quale la
sera del primo ballo, gli portò in camera un vestito completo «da
società», comprato con poche lire. Il _frak_ era molto lungo per la
statura del giovane, ma il vestito, nel suo insieme, poteva passare.
Egli si annodò con cura la cravatta bianca, prese sotto il braccio il
suo violino chiuso nella busta, e andò.

Gli avevano preparato uno sgabello su cui sovrastava alquanto alla
piccola orchestra e dominava la sala, rimanendo assai bene in vista.
L’appartamento era pieno di luce e fragrante di fiori. Nella sala
grande, verso le dieci ore, erano già adunate molte signorine delle
famiglie più ricche e aristocratiche della città. Alcune potevano dirsi
ancora delle bimbe.

La voglia di ballare era in tutte grandissima. — Verso le undici il
ballo era molto bene incamminato, e già alle ragazzine cominciava a
mescolarsi qualche mamma elegante. Il direttore della piccola orchestra
eseguiva _valtzer_ e _polke_, le migliori del repertorio in voga.
Dirigeva e sonava, facendo spiccare briosamente, nel concerto la bella
voce del suo Guarnieri. La contessina R*** fece notare alle sue amiche
che avevano per direttore d’orchestra un bel giovane bruno: le ragazze
lo guardarono un poco con simpatia ma poi risero del suo abito troppo
lungo.

A un tratto, si propagò per la sala un moto di curiosità, e molti occhi
si volsero verso una delle porte d’ingresso.

— Hanno fatto il miracolo! — disse al vicino una vecchia signora: una
giovinettina, alzandosi in punta di piedi, aggiunse: — Ecco finalmente,
la principessa invisibile! — Il direttore d’orchestra impallidì.

Intanto al braccio del padrone di casa, appariva la signorina del
vecchio palazzo. Alta, sottile, nel suo abito bianco, col suo incedere
lento e gli sguardi raccolti, pareva che entrasse non a una festa di
ballo, ma in chiesa. Gli uomini, per la massima parte, la giudicarono
distintamente bella.

Dopo alcuni minuti le fu presentato un bel giovine, di maniere assai
eleganti, e si mise a ballare con lui, che, finiti i giri di _valtzer_,
le si sedette vicino, studiandosi a farla parlare. Non era facile, ma
di tanto in tanto riusciva; e riuscì anche a farla sorridere.

Aveva essa avvertita la presenza del violinista? Sì: egli n’era
convinto, lo sentiva.

Perchè dunque essa non gli volgeva gli occhi, mai?

Egli sentì uno spasimo nuovo, orrendo, e delle idee strane gli
salivano, come vampe, al cervello. Avrebbe voluto interrompere a
un tratto la suonata e sparire; gli veniva la voglia di sbattere il
violino contro il leggìo; di saltare, dal suo alto sgabello, in mezzo
alla sala... Ma intanto il ballo procedeva inesorabilmente e a lui
toccava di sonare. E sonava, sonava. La sua testa grondava di sudore
e dei momenti pareva che il braccio e le dita gli si irrigidissero,
mentre, agonizzando di desiderio, aspettava sempre una occhiata che non
arrivava mai.

Venne ancora la volta di sonare un _valtzer_. Era un _valtzer_ di
Giovanni Strauss, a fondo molto malinconico; uno di quelli che Giorgio
Sand disse nati da un lungo amplesso del dolore e della letizia. La
bianca giovinetta lo ballava col suo solito cavaliere e pareva che gli
s’abbandonasse fra le braccia. Intanto il violino del direttore cantava
con una voce così sorprendente che il resto della piccola orchestra era
come ridotto a mezza voce. Gli astanti dovettero per forza occuparsi
di questo straordinario esecutore di balli, e guardarono il giovane
che, ritto sullo sgabello e pallido come un morto, dava dentro al suo
violino con delle arcate superbe.

Guardavano tutti, ma la giovinetta non guardava. Se non che, verso
la fine del _valtzer_, mentre il ritmo incalzava, mentre la voce
nervosa del primo violino pareva che tentasse di lanciarsi a sonorità
impossibili, nel silenzio della sala, sul fruscìo strisciato e
cadenzato dei piedi, s’intese uno strappo secco; il cantino dello
strumento si era spezzato. La giovinetta, a quel punto, diede un
tremito per tutto il corpo, si fermò in tronco, e fissò i grandi occhi
sul violinista....

Il suo cavaliere la condusse alla sua sedia, ed ella disse di non
sentirsi bene. Di lì a un quarto d’ora aveva abbandonato la festa.

La quale, non ostante, continuò in piena allegria. Al tocco cominciò il
_cotillon_ e alle tre il ballo era finito. Il direttore d’orchestra, a
malgrado de’ complimenti e degli inviti, non volle rimanere a cena con
gli altri sonatori, pretestando il sonno e la fatica. Chiuso nel suo
pastrano e tremando pel freddo egli girò, a caso, per le strade deserte
e rientrò nel palazzo dopo le quattro. Giunto nella sua camera gittò il
violino sul letto e si mise alla finestra.

La notte era fredda e serena, con la luna che volta al tramonto,
illuminava tuttavia un pezzo del cortile e della galleria, lasciando il
resto nell’ombra fitta. Il giovane, coi gomiti sul davanzale e la testa
fra le mani, guardava nel cortile e piangeva delle lagrime silenziose.

                                   *
                                  * *

Rimase a quel modo circa mezz’ora, quando fu scosso da un lieve rumore
di passi che partiva di su dalla galleria. Fosse un servo? No, era
ancora troppo presto... Il giovine guardava senza battere palpebra.
Il suono dei passi s’andava avvicinando. A un tratto, ai piedi
dello scalone che metteva nel porticato, vide una figura bianca che
lentamente avanzava. Dio, era lei!

La giovinetta usciva di sotto il portico e si incamminava pel cortile.
Attraversata la parte di ombra, ella apparve nella piena luce lunare,
vestita ancora del suo abito da ballo. Avanzava con passo sicuro,
mostrando che si dirigeva all’uscio del portiere.

Il giovane lasciò la finestra, attraversò in punta di piedi la sua
camera, un breve corridoio, la stanza d’ingresso, ed aprì. La luce
entrò nel buio ambiente, e dopo qualche secondo entrò la giovinetta.
Alla prima egli volle prenderle tutte due le mani, ma subito rimase
interdetto vedendo ch’essa aveva gli occhi chiusi. Aveva gli occhi
chiusi e sorrideva, col volto triste, pallidissima.

E con quella voce ch’egli non aveva mai intesa gli disse: — Sono venuta
a dirti addio e per sempre... Tu hai sofferto molto questa notte, non
è vero? Io lo sentivo bene, ma sentivo anche di non poter nulla altro
che soffrire con te... Il nostro amore è come un filo tenue gettato
attraverso un grande abisso. Che ci posso io? Che ci puoi tu? La natura
si compiace talvolta a combinare di queste cose assurde...

Accompagnò quest’ultima parola con un gesto di rassegnazione stanca; e
proseguì, sorridendo.

— Questa notte sei stato geloso!... Il tuo cuore, difatti, era un poco
indovino, perchè essi pensano a far di quel giovine il mio fidanzato...
Povera gente!... Lo so io quali nozze mi aspettano! Sento che fra pochi
mesi io sarò morta...

Il giovine ruppe in un gran singhiozzo, e cadde in ginocchio dinanzi
alla fanciulla, mormorando: — Adriana! — La bianca veste profumata
della fanciulla toccava quasi il suo volto.

— Sai tu dirmi — ella seguitò — quanti germi di vita uccida l’inverno
nel grembo oscuro della terra? E quanti fiori il vento di marzo faccia
cadere morti dagli alberi?... È la legge, mio caro, ed io mi sono già
rassegnata... Ora sono venuta per dirti addio e per esprimerti il mio
volere, certo che tu lo eseguirai.

— A costo della mia vita, io lo eseguirò. Te lo giuro...

— Ebbene parti da Bologna. Parti presto e vai lontano, più lontano
che potrai. A che rimarresti? Ad aumentare le mie e le tue sofferenze?
Parti; me lo hai giurato.

E intanto inoltrò le braccia nude e posò le mani sulle spalle del
giovine.

— Poc’anzi mi hai chiamata col mio nome. Io invece non conosco ancora
il tuo... Non dirmelo!... Quello che t’ho dato io nel mio cuore è tanto
bello! E non voglio saperne altro; e con quello io voglio pensare a
te fino alla morte... e anche dopo. Addio. Non ti raccomando la mia
memoria, perchè sono certa che tu penserai a me fino che vivrai su
questa terra; e anche dopo. Ci siamo amati perchè così volle il nostro
destino: e potemmo esprimere il nostro amore con un divino linguaggio,
noto solamente a noi due. Non ti rendere mai indegno di questi santi
ricordi. Addio! Parti.

E il giovine inginocchiato, attraverso le lagrime, vide contro la luna
la figura della giovinetta abbassarsi ancora un poco; e sentì sulla
fronte, leggero leggero, il bacio della sua bocca... Poi la figura
si raddrizzò con un gesto energico, si volse alla porta ed uscì. Egli
la vide attraversare il cortile, entrare sotto il portico e dileguare
nello scalone senza mai voltarsi. Fermo sull’uscio sperò di vederla,
di udirla forse ancora dalla galleria; ma non sentì che il rumore
lieve de’ suoi passi perdersi nel silenzio, mentre nell’aria fredda
apparivano i primi colori dell’alba...

Dopo una settimana il violinista era di partenza, avendo accettata
scrittura per il teatro di Corfù.




OCCHI ACCUSATORI


Al signore della rocca erano giunte notizie gravi ed ordini precisi. —
A Bologna, per volontà di Sisto V, avevano già strangolato in carcere,
con un bel cordone di velluto rosso, il conte Giovanni Pepoli; parecchi
de’ suoi seguaci e complici erano stati anch’essi strangolati, senza
nemmeno l’onore del cordone di velluto; altri erravano fuggiaschi per
le montagne dell’Appennino, ma li inseguiva l’ira del terribile papa e
poca speranza di scampo avevano. A lui, il conte, salva la vita e gli
averi; ma doveva andare subito a Roma a chieder perdono e fare atto di
umile sudditanza, prostrato a’ piedi santissimi del pontefice.

Non era il caso d’esitare e bisognava partir subito.

La contessa sarebbe dunque rimasta sola nel castello. A esporre la
sua delicata giovinezza ai disagi e ai pericoli del lungo viaggio in
quella cruda invernata, nemmeno si poteva pensare. — Il conte andava
corrugando le sopracciglia nere e si metteva spesso una mano nei
capelli grigi perchè un brutto pensiero gli passava per la mente. Ma il
giorno innanzi la partenza tenne un lungo e segreto colloquio con una
sua zia, fiera vecchia di ottant’anni; poi fece schierare nella gran
sala, al cospetto d’entrambi, tutta la gente del castello. Alla gente
egli rivolse discorso breve, ma con quell’accento di comando insieme
e di minaccia, al quale non si era mai osato resistere neppure con
un moto dell’animo: ogni potere durante la sua assenza, passava nella
vecchia contessa; legge assoluta per _tutti_, dal più alto al più umile
abitatore della rocca, la sua sovrana volontà; e guai all’autore della
più piccola trasgressione!

L’indomani il conte partì. Gli addii della giovane sposa furono
tenerissimi, ma senza lagrime.

                                   *
                                  * *

Era venuto l’amore: l’amore negato a lei giovinetta nel freddo
isolamento della vita claustrale; l’amore desiderio vago e timida
speranza appena intravvista e subito distrutta, quando la famiglia
toltala dal convento, la mise tra le braccia del conte, che poteva
essere suo padre.

Invece il giovane conte degli Alidosi aveva quattro anni meno di lei e
non era che suo lontano parente da parte del marito. Quando pei rovesci
di quella potente casata, il padre fu costretto a mandarlo al castello
dell’amico perchè vi crescesse sicuro e vi fosse educato da cavaliere,
Oliverotto degli Alidosi era poco più che un ragazzo mal fermo in
salute, timido e come spaurito della vita che s’era aperta a lui in
mezzo a dolori e terrori di tragedie domestiche. — Parlava di rado e
male; solo qualche volta dai suoi occhi nerissimi pareva lampeggiasse
intensa la vitalità della fiera schiatta da cui era nato.

La dolce castellana raccolse da prima su quel taciturno fanciullo le
cure e gli affetti della maternità, che altrimenti non le era stato
concesso d’espandere. E vide fiorire la sua salute e le sue membra
fortificarsi, e da quella triste puerizia uscire rapidamente la
giovinezza ingegnosa, forte e leggiadra. — Una volta tornando insieme
al conte da una caccia sull’Appennino pistoiese che li aveva tenuti
fuori parecchi giorni, Oliverotto, vista la bella contessa che li
aspettava nell’angusto cortile del castello, gittò l’arme a un servo,
corse a lei e la baciò; poi rimase lì interdetto e turbato vedendo
che la bella dama arrossiva, e sentendosi anch’egli salire al volto un
gran calore come di vampata improvvisa.... Cominciarono d’allora per
il conte i corrugamenti delle ciglia e quel gesto di portare la mano
ai capelli, mentre la sua mente, più sovente che non avesse voluto,
pensava insieme alla contessa e al giovane ospite.

Ma l’amore non istette per questo. Penetrò fiamma occulta, sottile e
inavvertita, dentro quei due giovani petti, invadendoli rapidamente.
Doventò casto sogno e ardente passione, prima che i due avessero avuto
modo d’avvertirlo e di schermirsi. Essi s’amavano già d’amore e non
lo sapevano; e quando lo seppero s’amarono con più violento abbandono,
obliando, calpestando, sfidando ogni cosa.

Ed erano appena alle prime dolcezze, quando arrivarono gli ordini che
fecero partire il conte per Roma!

                                   *
                                  * *

Cominciò allora per i due innamorati un supplizio indicibile. — In
tutta la rocca e nei dintorni prese subito a dominare con volontà
strana e terribile la vecchia zia del conte; la quale, sia che agisse
per gli ordini avuti, sia che si compiacesse ad attuare un suo proprio
disegno, circondò e afflisse i due giovani di vigilanze così minute,
severe e continue che ogni più viva e gelosa immaginazione ne sarebbe
rimasta superata. La vecchia pareva ritornata indietro di vent’anni.
Non era più nè impedita nell’andare, nè miope, nè sorda; si trovava
sempre in ogni luogo dove la sua ingegnosa sorveglianza la richiedesse;
e dormiva con un occhio solo, se pure è vero ch’ella dormisse là
in quel suo lettuccio che s’era fatto portare vicino all’uscio
della stanza da letto della contessa. Con questa poi adoperava ogni
gentilezza più compita e col giovane anche; ma nelle ventiquattro ore
del giorno mai un minuto secondo nel quale i due potessero trovarsi
soli a cambiarsi una parola, a stringersi la mano di furto....

Tormento siracusano: e tanto più atroce perchè i due innamorati, in
udire della prossima partenza del conte s’erano naturalmente lasciati
andare ad ogni sorta d’immaginazioni dilettose. Quella inattesa
contrarietà pareva a loro una durezza ingiusta del destino a cui si
rivoltavano, egli con le imprecazioni ed essa con le lagrime. Vane
lagrime e vane imprecazioni. La vecchia era sempre al suo posto, e
tutti nella rocca con una esattezza implacabile secondavano il suo
volere.

Sulle prime Oliverotto non si diede per vinto e cercò di rompere
qualche maglia a quella perfida e fitta rete di sorveglianze e di
spionaggi che d’ogni parte li involgeva; ma ogni suo tentativo, per
audace o astuto che fosse, riuscì inutile. — Una notte, guardando
dalla finestra, credè d’accorgersi che non gli facevano la solita
guardia. Scese nel fossato della rocca, esplorò bene intorno: nessuno.
Alzò gli occhi alla finestra della stanza ove dormiva la contessa e
vide splendervi il lume. Allora si sentì tutto invadere dalla brama
di salire in qualunque modo fino a quella finestra, chiamare la sua
donna, parlarle delle sue pene e cogliere attraverso la inferriata un
suo bacio; sì uno, cento baci per calmare un poco la sete d’amore che
dentro lo tormentava! — Credette il giovane che la forza del volere
e il desiderio ardentissimo gli avrebbero conferita la snellezza
rampicante d’uno scoiattolo; ma invece il salire, non fu senza grandi
ostacoli e dolori. Saliva adagio adagio adoprando ogni sasso sporgente
ed ogni crepaccio del vecchio muraglione; talvolta era costretto a
fermarsi a lungo, talvolta a ridiscendere e studiare altra combinazione
di cavità e di sporgenze. Più d’una lucertola, sentendo le dita che il
giovane ficcava fra le pietre, usciva spaventata strisciandogli tra la
faccia e il muro; una nottola, turbata anch’essa nel suo nascondiglio,
gli volava d’intorno silenziosa. Man mano che s’approssimava al termine
desiderato, crescevano gli ostacoli, l’incertezza, la smania disperata.
Aveva le mani e i piedi sanguinanti e grondava di sudore freddo....
Finalmente potè abbrancare una sbarra dell’inferriata e, fatto un
ultimo sforzo, arrivò a tirarsi su di mezza persona contro la finestra;
gittò innanzi lo sguardo e stava per sussurrare il nome della donna
amata, quando s’accorse d’avere dinnanzi a sè, ritta, appoggiata al
davanzale della finestra la vecchia contessa, che lo guardava immobile,
con occhi severi...

Poco mancò che Oliverotto non cascasse all’indietro nel fossato della
rocca.

                                   *
                                  * *

Unico conforto non conteso ai due innamorati era dunque vedersi e
parlarsi in presenza d’altri; e in quello essi condensavano tutte le
sollecitudini e cercavano d’acquetare o contenere alla meglio, tutti i
desiderii. — Passavano le giornate lente, uniformi, uggiose. Oliverotto
e la contessa ogni dì stavano lunghe ore seduti uno in faccia
all’altra, essa istoriando coll’ago i pietosi fatti di Bradamante, egli
fingendo di leggere qualche trattato dell’arte della guerra o qualche
libro di cavalleria. La vecchia contessa o alcun altro della casa non
mancavano mai.

I due si parlavano di rado; invece si guardavano lungamente,
intensamente deliziandosi e tormentandosi insieme con un linguaggio
muto e infaticabile. — E gli occhi neri d’Oliverotto parea che,
supplicando, chiedessero: fino a quando? E gli occhi azzurri della
contessa non sapeano che rispondere chiedendo anch’essi: fino a quando?
— Le quattro ardenti pupille stanche e mai sazie di quella amorosa
tensione, di tanto in tanto tremavano, si inumidivano, pareva che si
stemperassero in bagliori languidi e tristi.... Nelle serate lunghe
dirimpetto al focolare gigantesco, mentre sugli alari bruciavano i
vecchi faggi di Monte Venere e si udiva fuori lamentarsi il vento
della notte, Oliverotto leggeva alla contessa qualche scena del _Pastor
fido_:

    Ben è soave cosa
    Quel bacio che si prende
    Da una vermiglia e delicata rosa
    Di bella guancia; e pur ch’il vero intende
    Come intendete voi,
    Avventurosi amanti che il provate,
    Dirà che quello è morto bacio a cui
    La baciata beltà bacio non rende;
    Ma i colpi di due labbra innamorate
    Quando a ferir si va bocca con bocca.....

La morbosa tenerezza di questo e somiglianti passi era come olio
bollente sulla fiamma, al cuore dei due poveri giovani, gli occhi ora
vivi e scintillanti, ora annuvolati, smarriti e depressi riprendevano
quel loro ufficio di esprimere insieme e di esasperare il desiderio
infelice.... E talvolta l’interno struggimento cresceva a tal segno che
la contessa era costretta, avanti l’ora, di ritirarsi nelle sue stanze.
— Oliverotto allora correva ansando sugli spalti a respirare l’aria
gelata della notte, ad imprecare alle stelle, a tempestare indarno
contro il suo avverso destino!

In meno d’un mese i due amanti erano ridotti ad uno stato davvero
compassionevole; e guardandoli nei visi consunti si sarebbe detto che
sulla loro giovinezza stava passando un soffio di vecchiaia precoce. Ma
tutto ciò era nulla rimpetto ad uno stranissimo fenomeno che nei loro
occhi si veniva manifestando.

                                   *
                                  * *

Non era, no, un inganno visivo della gente, ma un fatto che saltava
agli occhi ogni giorno più.

Le grandi pupille della contessa, che erano di un bellissimo azzurro
oltremarino, sembrò da prima che un poco si annebbiassero smontando
in una tinta meno dolce e meno pura. Poi quell’annebbiamento si rese
sempre più opaco e crebbe e crebbe finchè fu necessario riconoscere
ch’essa mutava in nero il colore degli occhi. Era forse effetto
delle lagrime dirotte che l’infelice versava di continuo, invece di
pigliar sonno? — Ma d’altra parte anche negli occhi di Oliverotto
accadeva mutamento: le pupille nerissime e fiere cominciarono a
temprarsi d’una luce più dolce e mansueta che adagio adagio le veniva
come clarificando; poi apparvero striate qua e là di piccole vene
azzurreggianti, le quali dilatandosi ogni giorno accennavano ad
invadere presto tutto il campo dell’iride.....

Che era avvenuto nell’intimo di quei due esseri? Con che forza di
corrente misteriosa le due anime, incontrandosi solo e sempre per
gli occhi, agli occhi avevano potuto imporre quella trasformazione,
quello scambio portentoso? — La vecchia sorvegliatrice non fece motto e
nemmeno diede segno d’essersi accorta di cosa alcuna; ma la gente della
rocca guardava, tra stupita e atterrita, a quello che essa chiamava un
nuovo miracolo d’amore. Non andò molto tempo e già per largo tratto di
paese s’era sparsa la voce del fatto incredibile; e molti trassero al
castello studiando qualche pretesto d’accertarsene cogli occhi proprii.
— I due amanti sulle prime gustarono una strana e immensa voluttà
contemplandosi così trasformati dalla potenza dei loro sguardi; si
sentivano come più uniti nell’amore; vedevano nei loro occhi come un
segno di predestinazione a unione più intima e durevole. Ma ben presto
sopraggiunse il terrore ad agitare in vario senso le loro anime. Un
giorno o l’altro sarebbe tornato il conte....

La contessa nelle veglie interminabili meditava di sottrarsi colla
morte alla propria vergogna, e a chi sa quale dura espiazione,
quando il terribile marito l’avrebbe guardata negli occhi accusatori;
Oliverotto dal canto suo, inspirandolo la passione e la disperazione,
lavorava a un piano di fuga in cui era risoluto ad affrontare, con lei,
ogni estremo cimento. Ma intanto ogni mattina ambedue pensavano con
angoscia indicibile che in quel giorno stesso forse sarebbe giunto alla
rocca l’annunzio di un prossimo ritorno!

Invece una improvvisa serenità sopravvenne in quell’orizzonte così
minaccioso. Un giorno sull’imbrunire bisognò calare il ponte e ricevere
nella rocca, con le debite onoranze, un messo del Senato bolognese.
Egli riferì il sunto di un dispaccio da Roma: Sisto V, sia che avesse
chiamato a sè il conte per averlo più sicuro nelle mani, sia che in
quel frattempo nuovi e più forti capi d’accuse si fossero scoperti
contro di lui, appena giunto il conte a Roma, lo aveva fatto legare e
chiudere in Castel Sant’Angelo e dopo breve processo strangolare. — La
giustizia del sommo pontefice non andava oltre nel punire, mantenendo
alla famiglia del ribelle beni, titoli e privilegi.

                             . . . . . . .




IN CASA DELL’AMICO


Dal salotto da pranzo, guardando per di sopra alla terrazza, fu prima
la signora a vedere il fattorino del telegrafo, che saliva ansando per
il viale ancora tutto invaso dal sole e sonava al cancello del villino.
Il telegramma, portato subito dal giardiniere, diceva così:

«_Abbisognami sua pronta risposta, circa arazzi. È arrivato negoziante
milanese. Riparte domani sera._»

— Ah! ecco che Shylok mi vuole stringere i panni addosso, — disse il
marito incrociando la posata sul piatto. La signora, lasciata andare
indietro la sua testa bruna e guardando il soffitto con aria indolente,
mise una pausa in mezzo e replicò:

— E tu attacca la tua voglia ad un arpione. Faremo senza degli
arazzi....

E mostrava sorridendo i denti bianchissimi.

L’avvocato rimase un poco a guardare il telegramma spiegato sulla
tavola e scosse il capo com’uomo a cui quel consiglio non andava. Poi
con accento risoluto:

— No. È già la seconda volta che quell’imbroglione di milanese mi passa
davanti. Questa notte prenderò la corsa delle tre e andrò a Ferrara.

— Bel gusto a fare una mala nottata! Telegrafa piuttosto le tue ultime
condizioni; e vedrai che gli arazzi saranno per noi.

A queste parole il marito posò sulla donna uno sguardo in cui trapelava
l’intimo compiacimento suo. Ebbe un momento di esitazione, ma si
raffermò subito nel primo proposito.

— Chi vuole vada, mia cara. Quando tu sarai a letto, io scenderò in
città. Passo al _club_ un paio d’ore; ceno magari, se mi vien voglia, e
m’arriverà l’ora di prendere il treno senza ch’io me n’avveda. Farò una
buona dormita domani: anzi conto, con questo caldo, che avrò finalmente
una notte di refrigerio.

Il caldo, di fatti, in quegli ultimi giorni di luglio, era grandissimo;
e sebbene la sera fosse assai vicina, nella villa non si sentiva ancora
spirare dalla collina un fiato di vento. La signora non rifiniva di
mettere dei pezzi di ghiaccio nel suo bicchiere e nel bicchiere del
marito.

                                   *
                                  * *

Poco prima della mezzanotte, nel piccolissimo gruppo dei frequentatori
estivi del _club_, si levò una esclamazione lieta di sorpresa quando
l’avvocato fu visto entrare. Egli salutò tutti allegramente: anche il
giovane conte Salerni, ch’egli non vedeva da qualche tempo. Dopo una
partita all’_écarté_, ordinò da cena e mangiando espose agli amici la
causa di quel suo trovarsi in città e al _club_ ad ora così insolita.

Sonarono le due. La comitiva dei cinque o sei in breve si sciolse e
rimasero l’avvocato e il Salerni, soli, seduti a un tavolino, l’uno in
faccia all’altro. L’avvocato sorbiva lentamente il caffè e il conte gli
offerse una sigaretta. Poi, il discorso essendo tornato sulla gita a
Ferrara, il conte non esitò a dichiarare ch’egli la giudicava un passo
falso.

— Come, un passo falso?

— Sicuro: anzi, una sciocchezza bella e buona. Ma dov’è la tua solita
furberia? Io non me la spiego altrimenti che pensando a questo gran
caldo che fa. Che diavolo? E non vedi che è tutto un gioco combinato
tra il negoziante ferrarese e quello di Milano, che gli fa da compare?
Se tu ora ti precipiti a Ferrara, caro mio, fai conoscere d’avere degli
arazzi una voglia matta; ed essi, sta’ certo, ti leveranno la sete con
l’acqua salata. Oh, molto salata!...

L’avvocato con un gomito sul tavolino e l’indice della mano sulla
fronte spaziosa stette alquanto in silenzio:

— E d’altra parte, anche a non andare io corro un rischio. Un gioco
combinato, tu dici?... Può essere benissimo. Ma se non fosse? Se, come
mi è accaduto altra volta, il milanese dice davvero e compra? Io non
voglio che gli arazzi mi scappino. Dopo averci tanto pensato su, sento
che mi nascerebbe un albero nello stomaco, come si suol dire. Che
vuoi farci? Ognuno ha le sue debolezze: e anche mia moglie, quantunque
non lo dimostri, sono sicuro che sarebbe afflittissima se mi vedesse
tornare a mani vuote... Pensiamo al modo....

— Senti — disse allora il Salerni con l’accento più naturale di questo
mondo — se non è domani, sarà doman l’altro che io andrò a Ferrara e di
là al _Trombone_ a vedere un cavallo. Facciamo dunque così: prendo ora
il treno di Ferrara e mi presento domani dal mercante a contrattare gli
arazzi per conto mio. Tu non ti muovere e dimmi solo l’ultima cifra a
cui vuoi arrivare col prezzo: vedrai che domani sera torno con la roba
e t’avrò probabilmente anche risparmiato un paio di mille lire.

— È una buona idea e ti ringrazio! — esclamò l’avvocato alzandosi in
piedi.

Mancava mezz’ora alla partenza, e i due amici usciti dal _club_
s’incamminarono fumando verso la stazione.

                                   *
                                  * *

I due amici passeggiavano sotto la tettoia dinanzi al treno pronto; e
già la macchina mandava i primi fischi della partenza. A un tratto,
l’avvocato si tastò in fretta con le mani le tasche dell’abito
esclamando:

— A proposito! O come faccio io ad andare a casa a quest’ora, che non
ho la chiave?

Il conte trasse subito fuori una chiavettina inglese, porgendola
all’amico:

— In dieci minuti sei a casa mia. Tu conosci il mio mezzanino. Dormirai
tranquillissimo, perchè sono tutti in campagna. Domattina alle nove
verrà la portinaia a svegliarti col caffè. Buona dormita!

L’avvocato, per risposta, diede in una risata ed ebbe appena tempo
di stringere la mano all’amico montato sul treno, che già si moveva
lentamente.

Quando uscì dalla stazione rideva ancora fra sè, tenendo fra le dita la
chiave del mezzanino del conte Salerni. Era di buon umore. Gli piaceva
d’aver accettato il parere dell’amico circa la gita a Ferrara, gli
piaceva d’andar a dormire una notte in città, fuori di casa: incidente
bizzarro che gli ricordava la sua vita di scapolo, che lo faceva
rivivere nella sua lontana vita di studente.

Però, a cercar bene in fondo all’animo dell’avvocato, si sarebbe visto
che altra era la causa di tutto quel suo buon umore. Egli era geloso
della moglie. La sua gelosia non era di quelle che dànno ogni giorno
in manifestazioni minute, opprimenti, volgari; ma era una idea fissa,
una preoccupazione acuta e costante, celata quasi sempre nell’animo con
dignitoso riserbo, e per questo assai più dolorosa. Fra le cure di una
vita molto affaccendata, in mezzo agli alto e basso de’ suoi affari,
quell’uomo, in apparenza positivo e freddo, traeva le ragioni di tutto
il suo benessere e di tutto il suo malessere da un fatto solo: la
certezza che egli aveva o no dell’amore e della fedeltà di sua moglie.
Il rimanente veniva sempre in seconda linea.

Aveva avute, a intervalli, parecchie inquietudini vive. Da ultimo i
suoi sospetti erano stati eccitati dal conte Salerni, che s’era messo
a corteggiare molto assiduamente la signora ed essa, pur troppo, non
gli aveva opposto quel contegno che disanima e stanca un uomo. Questa
volta le male apparenze si erano prolungate e aggravate in modo che il
marito, non potendone più, aveva espressi a lei con una certa violenza
i suoi dubbi e il suo mal contento.

Era la prima volta che le faceva una scena di questo genere.

La moglie accolse le parole del marito con un misto di meraviglia,
d’offesa e di sottomissione. Si tenne con lui molto seria per una
settimana; ma anche gli dimostrò col fatto che le stavano a cuore il
proprio buon nome e la quiete di lui. Il Salerni tornò in visita e fu
accolto con amichevole ma fredda cortesia: una cavalcata che di lì a
pochi giorni sarebbe fatta e in cui il Salerni doveva intervenire, fu
con bel garbo disdetta dalla signora; la quale, perchè proprio voleva
che ogni nube fosse dissipata, da venti giorni non era scesa in città
che una volta sola e accompagnata da suo marito.

Già da una settimana i pensieri dell’avvocato si voltavano alla
tranquillità; ma in quel giorno, in quella serata, in quella notte
egli sentiva che una serenità piena e intera era venuta ad occupare
rapidamente il suo animo. E ripensava le parole con cui sua moglie
s’era provata a dissuaderlo dalla sua andata a Ferrara; e correva con
la mente dietro al giovane amico, che, con sì spontanea cortesia, s’era
offerto di allontanarsi esso, in vece sua, per un giorno dalla città.
— Quale più favorevole occasione invece per i due, se... No! no! Egli
era stato ingiusto a sospettare. Nè si fermava a questo unico fatto;
ma diffondendo in largo giro le tinte rosee della sua vena confidente,
adesso esaminava tutta la sua gelosia passata, la trovava assurda, la
sconfessava e malediva con tutta la forza del suo volere. E intanto gli
si ricomponeva nella mente la fisonomia di sua moglie, bella, schietta,
amorosa degna di un affetto immenso e di una fede senza confine.

Insomma, si sentiva contento. E camminava lentamente sotto i portici
respirando l’aria fresca dell’alba, mentre spegnevano gli ultimi
fanali. Si sentiva libero e sciolto, come se un cattivo spirito
tormentatore fosse uscito per sempre dal suo corpo, in virtù di un
felice scongiuro.

                                   *
                                  * *

Quando entrò, con in mano un cerino acceso, nella stanza da letto del
conte, fiutò gradevolmente un odore delicato di legno di sandalo che
impregnava l’aria. — Sibarita! — pensò sorridendo e inoltrandosi di
qualche passo nella stanza.

Poi accese la lampada e si guardò intorno. La camera da letto era
vasta, ricca, bellissima e, mediante una alcova in fondo, aveva anche
l’aspetto di un salotto da ricevere. I buongustai, visitandola insieme
a tutto il mezzanino, concordavano nel giudicare che il Salerni
vi s’era mostrato artista, a un tempo, e gran signore. Il conte si
scagionava d’ogni merito e confessava che, avendo lungamente vissuto a
Vienna con un artista celebre e fortunato, egli non aveva fatto altro
che imparare da lui, anzi copiare in piccolo dal suo appartamento. A
ogni modo il copista aveva mostrato molto buon gusto nella scelta e
nella esecuzione.

L’avvocato, respirando l’odore di sandalo, girava gli occhi ammirati
sui mobili e sulle pareti, li posava sul pavimento di marmo bianco
riquadrato a liste nere, li spingeva nell’ombra discreta dell’alcova,
in cui vedeva il letto basso e semplice con il lenzuolo bianco
rimboccato sulla coperta azzurra, sotto i festoni azzurri delle cortine
ricchissime.

— Sibarita! — ripetè l’avvocato, ma senza sorridere. E subito pensò
che certo delle donne erano state là dentro; e pensò che certo dovevano
aver serbato una molto grata memoria di quel luogo.

Il suo buon umore era già disceso, e seguitava a discendere rapidamente
come la colonna di mercurio di un termometro quando è portato da
un luogo caldo a un luogo freddo. Chi sapeva dirgli in che modo le
ragioni tanto eloquenti del suo benessere di mezz’ora fa si erano così
raffreddate, scolorate, spente? Adesso, ecco che altre impressioni e
altre idee lo signoreggiavano! La figura del giovane conte, nel fisico
come nel morale, lì in quella sua bella camera da letto, assumeva nel
cervello dell’avvocato un improvviso fascino di seduzione ch’egli,
suo malgrado, percepiva con una vivezza nuova, strana, esagerata,
terrificante. Poi non potè fare a meno di tramutare quella percezione
da se stesso in sua moglie; poi a un tratto si immaginò, sua moglie, se
la vide dentro quella stanza..... e fu costretto a chiudere gli occhi,
sentendosi correre un freddo per tutto il corpo...

Capì che bisognava distrarsi e si provò ad osservare con curiosità
i quadri, le armi, le maioliche. Maggiore attrattiva ebbero per lui
alcuni _album_ di fotografie e disegni posti sovra una tavola grande.
Passavano sotto i suoi occhi rabeschi fantastici, schizzi e caricature
bizzarre, ricordi di luoghi veri; passavano fisonomie di persone note e
sconosciute: ed egli seguitava a voltare le pagine piuttosto in fretta,
come chi va in cerca di una data cosa. Prese da ultimo fra le mani un
piccolo _album_ elegantemente rilegato in velluto con grandi fermagli e
borchie d’oro; e si pose ad esaminarlo meno in fretta che gli altri. Si
capiva che quello era il volume privilegiato, l’_album_ riservato alle
più belle signore conosciute dal conte in paese e fuori.... L’avvocato
aveva il presentimento che qui avrebbe trovato il ritratto di sua
moglie. Invece arrivò all’ultima pagina senza trovar nulla. Ma dov’era
dunque il bel ritratto che essa un mese fa, aveva regalato al Salerni,
in sua presenza? Dove lo teneva egli? La mente del marito trovò in
quella assenza del ritratto una nuova e forte ragione d’inquietudine;
e pensò a quei dolci nascondigli ove l’immagine della donna che si ama
è messa in salvo da ogni profano contatto, da ogni convivenza indegna,
da ogni occhio indiscreto e geloso.... Si mise a cercare per tutto
nella stanza, ma fu ancora inutile. Presso al letto, però, stette
ad osservare una bella fotografia della _Glaneuse_ di Berton; e nei
contorni di quello schietto viso di campagnuola, negli occhi e perfino
nella linea forte e slanciata dei fianchi, credè di cogliere una tal
quale somiglianza con le brune bellezze di sua moglie.

Dentro intanto gli cresceva la smania; e se avesse avuto lì presso
il conte Salerni, sentiva che forse non avrebbe resistito al bisogno
di mettergli le mani addosso e di frugarlo, come una guardia daziaria
fruga una persona sospetta di contrabbando.

Intanto erano passate delle ore. Fuori la giornata estiva era
cominciata da un pezzo, ma nel mezzanino chiuso del conte durava ancora
piena la quiete della notte. L’avvocato ascoltò in quel silenzio,
ove non era altro suono che il _tic tic_ continuo di un tarlo che
lavorava entro un mobile vicino a lui: ascoltò e si mise una mano alla
fronte, perchè gli pareva che quel tarlo lavorasse proprio entro il
suo cervello.... E quello fu il cominciamento di un bisbiglio strano
e interminato, che si mise a girargli intorno agli orecchi, a empirgli
il capo e scuoterlo e assordarlo tutto con un turbamento e un fastidio
indescrivibili. Gli pareva che quel bisbiglio venisse dai quattro
angoli della stanza, uscisse di dietro ai quadri delle pareti, dai
mobili, dagli _album_, dal letto: e vi sentiva dentro un vago rumorìo
di suoni che non arrivava a distinguer bene, ma pure ci coglieva
dentro, così in confuso, come una nenia di lamenti mista a voci di
scherni..... Finalmente lo pigliò alla gola un fortissimo bisogno
d’aria e corse a spalancar la finestra.

Entrarono il sole oramai alto, l’aria viva e il cinguettìo mattutino
dei passeri.

L’avvocato, così com’era in maniche di camicia, stirò le braccia fuori
della finestra e si mise a provare gli occhi abbagliati sul vasto
giardino che si stendeva dietro il palazzo, poi gli alzò alle colline
sorgenti in faccia a lui. Che tranquilla allegria da per tutto! Vedeva
a mezza costa, vicinissimo, il suo bel villino, col tetto spiovente
con le persiane ancora chiuse e i muri rosseggianti in fra gli alberi
verdi.

Certo, pensò, a quell’ora sua moglie dormiva sempre. Questa idea
penetrò in mezzo al triste scompiglio della sua testa e, se non vi mise
nè ordine nè calma, riuscì almeno a produrre una risoluzione: «Presto
bisognava correre al villino, andare da lei, entrare inaspettato nella
sua stanza, svegliarla con un bacio, dirle un mondo di cose, sentirsi
ancora ripetere da lei alcune di quelle parole che tante volte avevano
rianimata in lui la fede e messo un refrigerio nelle sue viscere
tormentate dagli aculei del sospetto! Presto bisognava subito uscire
da quella stanza maledetta ove la gorgone orrenda della gelosia lo
aveva guardato per lunghe ore con gli occhi immobili; ove l’aria pareva
impregnata di recente adulterio, ove tutte le cose gli bisbigliavano
intorno una infame canzone di lamenti e di scherni! Presto! Presto!»

E andò a bagnarsi il viso nell’acqua fredda e a ricomporsi in fretta i
capelli arruffati.

Stava infilando una manica dell’abito, quando gli giunse dalla stanza
vicino un lieve rumore di passi che si fermarono all’uscio. Dopo alcuni
secondi sentì anche picchiare... Allora corse ad aprire e si trovò in
faccia a sua moglie, che diede indietro senza far motto, diventando
smorta. Un momento prima, ella aveva nella bocca il sorriso trepido
della donna innamorata che, entrando in quella stanza, s’immaginava
d’apportarvi una sorpresa molto gradita.....




CANTORES!


Io non penso, mia cara, d’aver demeritata la vostra stima. E fosse
pur vero tutto quello che voi siete andata fantasticando dopo la mia
lettera di martedì, o credete voi proprio che anche in un desiderio a
prima vista disumano, grottesco, bislacco e teratologico, non possa
nascondersi un alto senso di poesia? E sopratutto un alto senso di
verità?

Voglio che m’ascoltiate attentamente e pacatamente. Io ora sento
di potervi parlare con calma e voi non avete più a temere da me nè
crudezza di linguaggio biblico, nè impeti di «lirismo forsennato.» Sono
calmo, v’ho detto, e sopratutto non ho mai cessato d’esser uomo: anzi
ho in me il convincimento profondo — dopo tutto quello che è passato
nell’animo mio nei giorni addietro — che un aspetto nuovo della umanità
mi si è svelato e s’è in qualche modo aggiunto all’esser mio d’uomo.

Vedete dunque che io non ho niente da rimproverarmi e voi niente da
sospettare sul conto mio.

                                   *
                                  * *

Ed ecco come andò.

Io nemmeno sapevo che quella fosse la festa dell’Ascensione. Avevo
pranzato solo e di buona ora all’Albergo _Milano_. Come passare meno
male il tempo in quel lungo dopo pranzo? A Roma in casi simili, io ho
sempre la risposta pronta: salgo in una _botte_ e mi faccio condurre
a San Pietro. Ho per quella grande piazza ellittica una specie di
passione strana che alimenta in me una bramosia inesauribile di
rivederla: il getto superbo di quelle due fontane, illuminato dal sole,
pare ogni volta che mi slarghi il petto e mi fa ballare il cuore di
gioia, mentre l’immane colonnato, curvilineo, serrandomi a destra e
a sinistra l’orizzonte, e tutte quelle statue poggianti ritte sovra
l’attico e in atto d’osservarmi severe, par che mi avvisino ch’io
sono entrato in un vecchio mondo misterioso e magnifico. Anche per la
basilica vaticana io ho sempre avuta una forte ammirazione, e me la
sento dentro aumentare e ingigantire, man mano che in me si raffreddano
i romantici entusiasmi per certe architetture gotiche.... So che
anche voi, mia cara, mi condannate per questo, ed io chino il capo
rassegnato, aspettando che il tempo mi renda giustizia. Lento ma ottimo
giustiziere il tempo, non è vero? Voi lo sapete per prova.

Arrivai dunque in piazza San Pietro un’ora circa prima del tramonto del
sole. Cominciavano le grandi ombre a stendersi dalle moli colossali:
delle due fontane quella ch’io vedevo, arrivando, alla mia sinistra,
pareva tutta raccolta e tranquilla nella calma vespertina, ma l’altra,
dardeggiata obliquamente dal sole occiduo, era tutta una letizia di
raggi e di zampilli e di nebbia luminosa, diffusa intorno per largo
tratto. Un gruppo di signori forestieri, uomini e donne, stava fermo
ad ammirarla; e parevano contentissimi d’essere inaffiati da quella
rugiada.

Credevo come al solito di trovare la gran chiesa a quell’ora deserta,
ma m’ingannai.

La festa dell’Ascensione aveva chiamata là molta gente: forestieri
delle provincie, romani _de_ Roma, _inglesi_, suore, trasteverini,
_minenti_, frati, preti, pifferari, la turba mista e bizzarra insomma
che San Pietro accoglie in alcuni giorni dell’anno e che vanamente
cerchereste altrove; le centinaia e le migliaia che si sparpagliano,
povero formicaio umano, sotto le navate enormi, e si perdono, come
ombre, dietro i piloni smisurati, non facendo nemmeno sentire il
fruscìo dei loro piedi...

Mentre spingevo il pesante tendone della porta, m’arrivò subito una
modulazione musicale. Era un istrumento? Era voce umana? Così alla
prima non potei capire. Era un suono di timbro ed acutezza insolita,
esilissimo, eppure vibrante per quella vastità in modo che parea tutta
riempirla. Fatti alcuni passi nella basilica, sentii distintamente la
frase di un verso biblico arrivarmi colle note all’orecchio. Era dunque
canto umano senza dubbio.

E quale canto, signora! Immaginate una voce che fonde insieme la
dolcezza del flauto e l’animata soavità della laringe umana, una voce
che sale, sale leggera e spontanea come vola per l’aria un uccello
di paradiso, e quando vi pare che siasi posata sugli ultimissimi
vertici della gamma sopracuta, ecco che spicca ancora altri voli e
sale sale sempre egualmente leggera, egualmente spontanea, senza
la più piccola espressione di sforzo, senza il più tenue indizio
d’artifizio, di ricerca, di stento, una voce infine che vi dà l’idea
immediata del «sentimento fatto suono» e dell’ascensione d’un’anima
verso l’infinito sull’ali di quel sentimento Che vi dirò di più? Ho
sentito la Frezzolini in camera e la Patti in teatro; ho ammirato
Masini, Vögel, Cotogni; ma in mezzo alla mia ammirazione rimaneva
sempre qualcosa di inappagato in fondo al mio desiderio; rimaneva da
togliere un certo dissidio fra l’intenzione dell’artista, non di rado
elevata e fine, e la piena condiscendenza de’ suoi mezzi vocali. —
Qui invece tutto il mio essere era mirabilmente soddisfatto: non la
minima asprezza nel passaggio da un registro all’altro della voce, non
penuria di astensione, non disuguaglianza di timbro da nota a nota,
ma un linguaggio musicale calmo, dolce, solenne, intonatissimo, che
mi stupiva e mi rapiva a un punto solo colla potenza di una gratissima
sensazione non provata innanzi mai!

Mi spinsi avanti per la basilica con passi affrettati verso quella voce
e quel canto. — Nel giorno dell’Ascensione i cantori della Cappella
Sistina scendono in San Pietro e prendono parte alla celebrazione della
festa. Cantano sotto la cupola di Michelangelo in una piccola cantoria
eretta all’uopo, accompagnati da un piccolo organo, che anch’oggi, come
al tempo di Berlioz, è mosso sovra delle rotelle pel pavimento.

La folla si faceva man mano più densa, ma io m’adoprai in modo che dopo
circa dieci minuti ero arrivato proprio sotto la cantoria e guardavo
in faccia il mio _solista_. — Eseguivano un _mottetto_ dell’Allegri
quasi tutto affidato a lui; il coro entrava di tanto in tanto con brevi
_risposte_, e l’organo con pochi accordi di accompagnamento aiutava a
sostenere l’intonazione perfetta.

Finalmente ho intesa la voce vera del _soprano_. Vadano a riporsi
le signore cantatrici che usurpano questo nome! Con più appropriato
vocabolo le chiameremo, se vogliono, _soprane_; ma è da augurare per il
bene dell’arte del canto, declinante a gran passi, ch’esse smettano una
buona volta la sciagurata ambizione d’assurgere cogli sforzi della loro
laringe a certe acutezze diatoniche solo legittimamente consentite ai
soprani veri ed a soprani sacri — ai soprani per diritto divino.

Oh chi ridona all’arte i vecchi contralti, così giustamente rimpianti
da Gioacchino Rossini!

Nè vi paia strano, o signora, ch’io in quel giorno abbia anche compreso
e partecipato il disgusto di Parini per i soprani in teatro;

    Abborro sulla scena
    Un canoro elefante...

Sì, quella voce eccezionale e quasi sorvolante agli orizzonti della
vita è fatta per esprimere slanci di preghiere e rapimenti di estasi
religiosa, non è fatta per disposarsi alle torbide passioni del dramma
umano, nè per concorrere, profanandosi, al divertimento scenico. Nella
scena essa doveva perdere il suo prestigio mistico senza acquistare il
vigore, la pieghevolezza e la verità del dramma, e questo forse spiega
perchè il vero dramma musicale moderno comincia e coincide col bando
dei veri soprani dalle nostre scene melodrammatiche. E se comprendo
l’ammirazione dei nostri nonni elevata al più alto grado, trovo
impossibile e ridicola la passione. L’amore di Sarazine per Zambinella
e la sanguinosa avventura a cui riesce, per quanto magistralmente
narrati da Balzac, mi lasciano freddo ed incredulo. Meglio comprendo
gli epigrammi scritti dal popolo napoletano sulla casa costrutta da
Cafariello....

                                   *
                                  * *

Io guardavo attento il mio soprano. Era un giovane alto, pallido, non
grasso, con una barbetta rada e gentile, ritto e composto nella sua
cotta bianchissima davanti al suo leggìo. Mentre la sua voce si elevava
come un razzo canoro serpeggiando in trilli e scale, dispiegandosi
in magnifiche declamazioni, io non riuscivo a notare in lui il più
piccolo segno di fatica e di sforzo. La testa era lievemente inchinata
sulla musica che teneva con le due mani immobili. Cantava a quel modo
e pareva che leggesse. Solo i suoi occhi si dilatavano, illuminandosi
tratto tratto allorchè una frase musicale toccava il suo momento di
più viva espansione; solo le rughe della sua fronte si spianavano e si
contraevano assecondando le movenze del ritmo.

Ebbene, guardando quegli occhi illuminati e il tremito di quella
fronte, io ho sentito che quel giovane cantore gustava in quell’ora
una felicità alta ed intensa come io e voi, mia cara, non abbiamo
probabilmente gustata mai. — Egli era felice, ma più che di
tutta quella folla attenta e rivolta a lui, e del lieve mormorìo
d’ammirazione contenuta che le sue mirabili note ogni tanto suscitavano
sotto la più augusta cupola del mondo, egli era, io credo, felice della
bellezza del suo canto che si sentiva ripiovere sull’anima come una
rugiada celeste!

Io l’ho compreso e l’ho invidiato: nel calore del mio entusiasmo ho
pronunziato dentro di me il pazzo augurio che ho avuto la franchezza
di significarvi e che mi ha tirato addosso le espressioni del vostro
orrore. Che volete ch’io vi dica? Durante quel mottetto dell’Allegri
uno strano cambiamento è avvenuto in me; e mi pareva che nell’animo
mio si facesse una gran luce improvvisa. In quella luce io vedevo —
bizzarra visione — gli antichi Coribanti che menavano intorno, con
gesti e grida di gente estatica una danza vertiginosa, e in mezzo a
quella ridda vedevo alzarsi la figura grave e serena di Origene che
tendendo una mano e gli occhi verso le stelle esclamava: _beati!_...
Al tempo stesso mi venivano in mente certe parole con cui il duca di
Richelieu ringraziò la bontà divina quando s’accorse d’esser giunto al
termine della sua carriera — nè diplomatica, nè militare.

E pensavo: quando questo giovane sarà anch’esso innanzi cogli anni e
un giorno s’accorgerà di non aver più la voce atta al mistico ufficio
a cui ora la consacra, con che parola ringrazierà egli Dio della sua
carriera compiuta?... In sostanza la mia mente s’andava arrampicando
su per delle guglie perigliose e splendide. Mi tinnivano negli orecchi
e mi sentivo vibrare per tutto l’essere accordi e dissonanze piene di
voluttà ignota. Alzavo gli occhi e mi pareva che gli Evangelisti dai
grandi pennacchi mi accennassero colla testa che avevo ragione. Sarò
stato pazzo, se volete, ma ero superbo e felice.

Potete condannarmi, ma, francamente, a compiangermi avreste torto.




PRIMO RICORDO


Io voglio risalire con la mente al primo ricordo preciso della mia
vita. Più in là, per quanto io guardi, non veggo ondeggiarmi dinanzi
che qualche ombra vaga, perdentesi nei primissimi crepuscoli della mia
memoria.

Ecco: io veggo ancora la casetta ove la mia famiglia passava gran parte
dell’anno quand’ero bambino; bassa, bianca, con le finestre verdi, non
circondata d’alberi, posta fra la strada maestra e il fiume Savena, a
tre miglia da Bologna.

Doveva da poco essere incominciato il giorno, perchè, guardando dalla
finestra, io vedevo il cielo da una parte tutto sparso di nubi rosse;
un rosso vivissimo, come non ho visto di poi che rarissime volte in
qualche tramonto estivo. — Quantunque fosse così di buon ora, nella
casa già era un tramestìo grande. Sentivo aprire e chiudere usci,
sentivo passi affrettati e bisbigli.

Certo io non mi vestii e non scesi di letto senza aiuto; ma non posso
ricordarmi di chi m’aiutasse. Veggo la fisonomia d’una ragazza di casa,
l’Eugenia; ma quella fisonomia si mesce confusamente a quasi tutti i
miei ricordi infantili.

Dopo, la mia memoria si perde per un certo tratto. C’è come uno strappo
che non riesco a riunire. Dove e come io abbia passato quella giornata
non ricordo: un momento mi veggo in confuso a passeggiare con un grosso
cane vicino al fiume, che cominciava ad ingrossare per una delle solite
piene d’autunno. Probabilmente mi avranno tenuto apposta fuori di casa,
ove non poteva che essere, molto male a proposito, tra i piedi alla
gente.

Ma più tardi verso il tramonto, ecco ch’io sono ancora in casa mia e
precisamente sulla breve scala che dalle stanze superiori mette nella
loggia al pianterreno.

La porta è aperta, spalancata, e veggo della gente che va e viene per
la strada maestra. Nella loggia veggo tre o quattro persone, intorno
ad un lettino situato in faccia alla porta. Distinguo benissimo mia
madre che sta in piedi accanto al lettino e di tanto in tanto si china
sovr’esso, con una grande espressione d’angoscia, senza pronunziar
parola....

In quella cuna agonizzava una mia sorellina di circa un anno e mezzo;
e l’avevano portata dalla sua stanza nella loggia, vicino alla porta
spalancata a vedere se potesse meno penosamente respirare. Io credo che
la poverina morisse di difterite; ma allora i medici non avevano ancora
messo in voga questa orrenda parola.

La bimba era proprio agli estremi: ed io dalla scala, non osservato,
stavo guardando la triste scena. Guardavo immobile, con gli occhi
fissi, senza rendermi ancora conto di ciò che accadeva; ma sentendo
confusamente dentro di me che io mi trovava in presenza di una cosa
arcana e terribile.

Il visino della bimba era tutto color di cera, fuor che intorno alla
bocca semi-aperta, che si mutava via via in una tinta fra il nero e
il violetto. I due braccini, fuori della coperta, stavano abbandonati
e senza moto, sul corpo inerte. Tutto il moto del corpo poi erasi
limitato su su verso il collo e la bocca, negli ultimi sforzi della
respirazione, che ad ogni minuto secondo andava affrettando penosamente
e come restringendo sempre di più il suo circolo breve.

Il respiro della creaturina somigliava nel suono a un lieve rantolo
sibilante.

Ed io lo sentivo quel respiro di moribonda, e fino a che mi rimarrà
la memoria avrò viva e presente la indicibile pena che esso mi faceva.
Sarà forse effetto d’immaginazione, ma adesso mi par certo che, sempre
guardando dalla scala, anch’io allora respiravo con affanno, e seguivo
e secondavo e numeravo, in qualche guisa, quel ritmo doloroso....

A un tratto il sibilo prese a diminuire rapidamente e non sentii più
nulla. Allora il medico accese una candela e l’accostò alla bocca della
bimba. Quando sentii singhiozzare e piangere forte intorno a me, mi
misi a piangere forte anch’io, così che l’Eugenia mi trasse di là e mi
condusse fuori nel prato ripetendomi spesso: _è andata in paradiso!_

Che cos’era per me il paradiso? Anche questo mi venne spiegato: ma per
quanto la descrizione fosse allegra io seguitavo ad essere triste. E
più d’una volta volli rivedere la bambina morta, già leggiadramente
acconciata in mezzo ai fiori nella sua cuna.

La sera del giorno dopo ebbe luogo il mortorio. Io era sul ponte ad
attenderlo e non ricordo con chi. Ricordo invece benissimo che la piena
del fiume era grandemente cresciuta e che l’acqua faceva sotto di noi
un gran rombo, precipitandosi dalla cascata e urtando contro i piloni
degli archi. Ero seduto sulla spalletta del ponte e una mano mi teneva:
io guardavo in giù nel buio da cui saliva monotono il rombo del fiume
grosso.

Intorno a me erano molti bimbi che facevano un chiasso allegro: ma io
nella mia testa ascoltavo il fiume e associavo, non so come, a quella
sensazione una idea triste di fuga, di violenza, di rapina.

E quando finalmente si avvicinò la lunga fila dei ceri accesi, che
misero nell’aria piovigginosa e buia come un incendio giulivo, io non
ristetti dal guardare a basso le acque torbide, le acque fuggenti sotto
di me; e credetti un momento, laggiù fra i tronchi d’alberi portati
dalla piena, di veder passare la mia sorellina dentro la sua cuna; la
mia sorellina morta, che il fiume mi portava via, lontano, per sempre,
verso un abisso ignoto, e dove non pertanto avrei voluto seguirla e
perdermi con lei...




IN REPUBBLICA


Diamo le spalle a Rimini e all’Adriatico: la vettura corre rapidissima
traverso i campi, verso la montagna, per una larga strada fiancheggiata
da siepi di biancospino che verdeggiano allegramente al primo sole
d’aprile.

Il primo sole d’aprile è già sorto da mezz’ora sui monti d’Albania e
si specchia nelle acque del mare, splendido, allegro, esultante forse
dei propri splendori e della vita primaverile che sveglia e sollecita
per tutto sulla terra. — Io, senza volgermi e fissarlo, ma guardando
innanzi a me la campagna bellissima, lo tratto con un’apostrofe: chi sa
quanti _pesci d’aprile_ illuminerai tu oggi, o vecchio sole!

Questa idea mi mette addosso una specie d’allegria infantile. — Io, a
buon conto, per quest’anno non corro più alcun rischio, mettendo tre
lunghe ore di via montuosa fra me e il mio caro mondo civilizzato.
Addio dunque, _salons polis, hommes polis, dames polies!_ Io
m’arrampico sulle cime dei monti a cercare ed a visitare un ultimo
rifugio della semplicità antica... Di lassù oggi potrò gettare a queste
_basse regioni_ le mie occhiate più tranquille, sfidando tutti i _pesci
d’aprile_ che mai sia dato di confezionare a tutte le comari, a tutti i
barbieri e a tutti i giornalisti del bello italo regno.

                                   *
                                  * *

Così pensando, levo gli occhi alla meta del mio viaggio, al monte
Titano, sede della città di San Marino, capitale della serenissima
repubblica dello stesso nome.

_Conveniunt rebus nomina._ Chi, viaggiando in ferrovia tra Cesena
e Rimini, guarda verso mezzodì la catena dell’Appennino, non può a
meno di fermare l’occhio sovra questo enorme sasso bruno, diroccato,
torreggiante un gran tratto colle sue tre creste superbe sulle cime
minori; ed esso richiama davvero alla mente l’idea d’un gigante
favoloso che un tempo si levò a lottare coll’onnipotente, e ora, tutto
solcato dalle folgori, vinto, più che domo, sta adagiato lassù da
secoli a guardare, a sfidare sempre il cielo col piglio cruccioso e
dispettoso di Capaneo. Vedete che effetto può fare la distanza in una
fantasia riscaldata ancora da qualche reminiscenza del De-Colonia!

La strada, dopo alcune miglia, comincia a salire; poi l’erta a breve
andare diventa così rapida, che i cavalli non bastano più. S’aggiunge
alla vettura un paio di bovi e malgrado il poderoso aiuto si va su
lenti lenti guadagnando la montagna a oncia a oncia.

Il monte Titano intanto vi pare vicinissimo, è lì, proprio a pochi
passi da voi; lanciando un sasso vi sembra certo che arriverebbe
alla cima. Come va dunque che per due lunghe ore non vi par quasi di
procedere innanzi, come se vi moveste a passi di tartaruga? Questa
lunga e tediosa illusione è prodotta dall’immenso _zig-zag_ ad angoli
vicinissimi che la strada è costretta a disegnare sul dorso del monte
per aver l’onore d’essere carrozzabile. Io inganno il tempo guardando
la collina intorno assai bene coltivata, coi peschi ed i mandorli tutti
in fiore, i grossi quercioni coi rami ancora ignudi, gli ulivi e i
lecci spiccanti pel verde pallido e cupo delle loro foglie perenni.

Guardo e chiacchiero con due miei compagni di viaggio.

Il primo è un forlivese; amico intimo del celebre baritono Cotogni, un
tempo baritono anch’esso; ora è uomo d’affari notissimo a Bologna e per
tutta Romagna. E il più dilettevole compagno di viaggio che si possa
desiderare da un musicomane par mio.

Quando ogni argomento di chiacchiere è esaurito, e le ore della
ferrovia si succedono lente, lunghe, uggiose, e il sonno promette
sempre di venire e non viene, allora l’amico ex cantante trae fuori
dal ricco repertorio de’ suoi ricordi teatrali una parte di basso
o baritono a vostra scelta, dal vecchio _Faliero_ di Donizetti
al _Mefistofele_ di Gounod, e qui, con una mezza voce intonata e
gradevole, comincia a cantarvela tutta da cima a fondo senza saltare
una battuta, senza sbagliare una nota, — accennando per giunta il canto
delle altre parti e gli intermezzi orchestrali.

L’altro mio compagno di salita, e insieme nostro ospite, è il conte
Bartolomeo Manzoni-Borghesi, figlio al celebre bibliografo di Lugo,
erede del nome e delle sostanze del sommo archeologo di Savignano. È
un giovane molto simpatico, e ricco di quella cultura soda, a fondo
schiettamente classico, che fu un tempo così frequente nelle buone
famiglie di Romagna, ed oggi, pur troppo, è quasi del tutto perduta.
Egli ama con passione due cose: la caccia e le medaglie antiche.
L’acquisto fatto il giorno innanzi d’una moneta rara dell’imperatore
Pertinace accresceva il suo buon umore, e gli tardava d’aggiungerla al
famoso medagliere che ereditò dal Borghesi.

Ma intanto i bovi fanno il loro dovere, e siamo oramai alla meta. Ecco
il borgo, un allegro e grazioso paese di circa ottocento abitanti, il
quale si adagia molto pittorescamente e abbastanza comodamente sovra
un ultimo ripiano che gira come d’una zona sul fianco destro l’ultima e
ripidissima cima del Titano.

Si staccano i bovi, ed i cavalli da soli e da bravi fanno l’ultima
salita in una stupenda strada a rampe, costeggiante l’abisso. Il
cocchiere li incalza colla frusta e colle grida; a un tratto le
quattro ruote della vettura rumoreggiano sul duro ciottolato; ed eccoci
trasportati in mezzo alla capitale della serenissima. Evviva!

Oggi è un giorno di festa magna per tutti i Sammarinesi. I due
_Capitani reggenti_ a nome del _Consiglio principe_, dopo i sei mesi
d’uso, depongono il supremo comando esecutivo nelle mani, o, a parlar
più testuale, «sul collo» dei loro due successori.

Noi arriviamo appunto quando la solenne cerimonia sta per cominciare.
Sul _pianello_ (la maggior piazza della capitale) è adunata molta gente
in abiti festivi, che attende davanti al palazzo d’udienza i vecchi ed
i nuovi magistrati. Io osservo intanto in mezzo alla piccola piazza
un alto piedistallo di marmo, abbastanza bello nella sua semplicità,
e mi pare che sovr’esso verrà fra breve inaugurata una statua alla
_Libertà_. Donde verrà la statua, e chi n’è l’autore? I Sammarinesi non
sanno più che tanto. Una signora russa, letificata dalla repubblica
col titolo di duchessa di Mongiardino (una città di provincia) ha
ricambiato il magnifico dono con una bella somma di denaro e la
promessa di quella statua per giunta. A quest’ora, probabilmente, la
figliuola d’un mercante d’olio di balena in Finlandia, scorre per le
capitali d’Europa facendosi salutare e inchinare duchessa in nome d’una
repubblica. E i liberi cittadini del Titano aspettano la statua della
_Libertà_!

Attenti: dalla parte del palazzo d’udienza esce a far mostra de’
suoi brillanti uniformi il drappello delle guardie del Consiglio
Principe, e si schiera ad attendere i Consoli. I quali poco appresso
escono anch’essi attorniati dai maggiori ufficiali dello stato, e
s’incamminano verso la chiesa in processione lenta, sotto un cielo
azzurro e splendido, accompagnati dal popolo che si profonde in atto di
rispetto, con dietro la banda che suona una allegra marcia, mentre le
campane suonano a festa, e più d’alto, dalla somma Rocca del Titano,
s’odono, a giusti intervalli, gli scoppi de’ mortari ripetuti intorno
dagli echi solenni del monte e della vallata.

In chiesa la cerimonia è breve e semplicissima, perchè si limita ad una
messa _bassa_, detta con edificante rapidità da un prete dabbene, più
qualche _oremus_ di circostanza. L’altare è parato a festa, e intorno
al ciborio brilla in grandi lettere il motto di San Paolo: _Voi siete
nati per essere liberi_.

Durante la cerimonia io osservavo i quattro magistrati che vi assistono
gravi, silenziosi, ora in piedi, ora in ginocchio, davanti a uno
sgabello parato in rosso per la circostanza. I due nuovi, malgrado che
vestano uno stesso costume, che ha dello spagnuolo e del fiammingo,
mostrano visibilmente al tipo che uno è tratto dal patriziato,
uno di famiglia popolare. Non dirò quale dei due tipi sia meglio
rappresentato: so che guardando a quelle due teste nè altere, nè umili,
senza piglio dittatorio o lampi di genio, io, a tutto loro elogio,
volgevo in mente un epigramma di Platen composto dal poeta tedesco
mentre assisteva, non ricordo in che anno, a questa istessa solennità.

«Quando entrai nella chiesa vi si eleggevano i consoli dell’anno come
impone l’usanza. Veramente essi erano una coppia paesana, e non Cato e
non Cesare. Ma promettevano al popolo ancora un anno di pace.»

Il più importante della cerimonia, cioè la consegna del potere, si
compie poi nella gran sala del Consiglio Principe.

Un professore delle scuole pubbliche legge un discorso, il quale
disserta al solito su qualche argomento di buon governo, e che i buoni
magistrati ascoltano senza pensare (almeno sembra) alla risposta che
diede Annibale a quel retore che l’intrattenne per due ore sul modo di
vincere le battaglie.

Giunge infine il momento solenne. I due vecchi consoli si levano dal
collo il gran collare di S. Marino e lo appendono a quello dei nuovi;
il segretario _prende atto_ d’ogni cosa, e il trapasso dei poteri è
un fatto compiuto. Il governo della repubblica per altri sei mesi è
affidato a mani sicure. — Bande, campane e mortai ripetono i saluti
festivi, il popolo inchina al passaggio i nuovi suoi reggitori, e
ognuno va a pranzo che già il tocco è sonato.

                                   *
                                  * *

Anche noi si va a pranzo, e camminando si dà una occhiata intorno alla
fisonomia del paese. Le vie strette e bistorte corrono su e giù per
il dosso del monte così erte, a pendii così bizzarri e disuguali, che
non di rado paiono scoscendimenti repentini avvenuti per terremoto.
Le case, d’esteriore spesso modestissimo, piantate alla meglio su
quei greppi di pietra arenaria, pare che s’addossino penosamente l’una
all’altra per paura di cadere. Diresti che la città di San Marino siasi
venuta formando via via per modo d’agglomerazione fortuita, come il
sasso enorme, da cui è sorretta, il quale nel tempo dei tempi si formò,
dicono i geologi, per una formazione venti volte millenaria di elementi
corallini e calcari, in mezzo ai flutti vetustissimi del Mediterraneo.

La casa ove il nostro ospite ci accoglie, posta in uno dei luoghi
più eminenti della città, non ha nulla da invidiare ad un palazzo. —
Visitiamo anzitutto il celebre medagliere di Borghesi: quarantamila
circa tra monete e medaglie consolari, imperiali e medievali e del
rinascimento, di cui moltissime in oro e argento. Che ricchezza
metallica, e sopratutto quale inestimabile tesoro archeologico! La
collezione completa delle monete consolari fu messa in ordine e tutta
sapientemente illustrata dallo stesso Borghesi. Qual’è oggi sovrano
o museo di Europa per cui il fortunato possessore non debba essere
oggetto d’invidia?

A pranzo (un pranzo squisito, ove specialmente si fanno onore i pesci
dell’Adriatico e i vini del Titano) il discorso s’aggirava naturalmente
intorno a Bartolomeo Borghesi, il vero _genius loci_. — Quest’uomo
portentoso che tutta la dotta Europa salutò principe nella epigrafia e
nella numismatica, che Mommsen chiama maestro suo, che Napoleone III
volle onorare ordinando a proprie spese la stampa delle sue opere,
visse quassù gli ultimi trent’anni della sua vita, solitario co’ suoi
libri, semplice, alla mano, ospitale, vero eremita della scienza.

Gli studi austerissimi non gli turbarono mai l’indole piacevole
e l’elegante urbanità della vita. Convitava assai volentieri alla
sua mensa, e là, al tramonto del sole, dopo essersi tutto il giorno
stillato il cervello sopra una lapide osca o sannita, lasciava il freno
all’umore gaio. A guisa di tanti altri uomini illustri, da Catone a
Beethoven, egli a lungo e volentieri _sedebat et bibebat_, più contento
d’un re, autorevole e modesto come un patriarca.

L’amico ricordava più d’un aneddoto caratteristico della vita di
Borghesi. — Un giorno gli venne notizia che in una montagna presso
Ancona s’era scoperto un numero grandissimo di monete consolari.
L’archeologo andò sollecito sul luogo e comperò in blocco tutto il
tesoro ritrovato; poi scelse delle monete quelle che servivano ad
empire i vuoti della sua collezione e disfece il rimanente.

— O che ne fece? domandai io....

— Le mise in un crogiuolo e coll’argento fuso diede a fabbricare le
posate di cui ora ci serviamo mangiando.

Eravamo proprio in pieno ambiente archeologico, anche a tavola.

Dopo pranzato ci rechiamo a prendere il caffè sul vasto spianato
dinanzi alla casa, che il vecchio Borghesi volle ridotto ad orto e
giardino con terra portata sin lassù a coprire il nudo sasso, a schiena
di quadrupedi. Immaginate che difficoltà e che spesa! Ma non per
nulla la sua fantasia si aggirava di continuo in mezzo agli ardimenti
del mondo romano. Il parapetto del giardino gira proprio sull’orlo
dell’altissimo ciglione. Mi affacciai e rimasi incantato.

Non è il panorama di Napoli, nè quello di Genova e del Bosforo.
Non è «l’interminabile sorriso» dei piani lombardi che da una balza
dell’Alpi si versa per gli occhi nell’anima all’esule di Berchet. È
uno spettacolo, un quadro di natura che ha un tipo tutto suo originale.
In faccia Rimini e l’Adriatico, vasta distesa d’acque biancheggianti,
rotte qua e là da strisce di puro smeraldo: lontano, in fondo
all’orizzonte, forse nubi trasparenti nella nebbia lievissima, forse
i contorni indecisi delle montagne di Dalmazia. Alla nostra destra la
punta d’Ancona col suo monte solitario; e girando più su l’occhio, si
scoprono a mano a mano le giogaie di San Vicino, la catena di Carpegna,
e più lontano confuse nei vapori azzurrognoli le cime altissime di
Cagli. La pineta di Ravenna nereggia a sinistra, verso il mare, e
più presso il superbo colle di Bertinoro, tutto ridente di case e di
vigneti.

Fra questi due confini si stende l’ampia vallata, che la Marrecchia
attraversa, camminando al mare col suo meandro serpeggiante e luminoso
sotto i raggi del sole.

Questa vallata, veduta così dall’altezza del Titano, ha un aspetto
d’austera grandiosità, che in quell’ora, in quel silenzio, mette
nell’anima una tristezza sublime.

Le colline, che degradando la fiancheggiano, di colore ferrigno e in
apparenza incolte, paiono di lassù colossali rigonfiamenti di terreno i
cui vertici debbano da un momento all’altro aprirsi fumando in crateri
di vulcani.

... Dall’aspetto di questi luoghi la mente corre alla loro storia,
e coglie una somiglianza, forse fantastica, ma viva e portante. Sì,
questi sono davvero i campi, questo il teatro, ove doveva agitarsi una
gente feroce, indomita e generosa, così ben ritratta negli storici
latini e nelle cronache del medio evo: una gente in cui la natura
condensò tutti i nobili istinti della stirpe italica, ma che ereditò,
più che ogni altra della famiglia, il difetto d’un ideale storico mal
definito, e consumò sovente se stessa in fiere inquietudini, in lotte
atroci ed infeconde....

Gli amici mi tolgono alle mie divagazioni, chè la giornata è ormai
al suo termine. Saliamo in fretta a visitare la vecchia Rocca della
Repubblica, messa ad uso di prigione. Una fortezza senza cannoni, e
delle carceri senza un solo prigioniero! Una visita facemmo anche alla
biblioteca, che è a un tempo pinacoteca, museo, armeria e raccolta
d’ogni oggetto notevole posseduto dalla Repubblica. Tra le cose d’arte
ammiriamo un bassorilievo in bronzo di fare michelangiolesco, una
tavola di Giulio Romano, e un S. Sebastiano, bellissimo nudo fieramente
spiccato in contrasto di luce e d’ombra. Lo dicono di Ribera, ed è
opera degna del Velasquez.

Il sole tramonta dietro la bruna rôcca di San Leo, mentre noi
discendiamo rapidamente verso Rimini: i suoi raggi obbliqui colorano
ritirandosi or questa or quella cima di colle, e le ombre gigantesche
si estendono per la vallata innanzi a noi, mutando con vicenda rapida
e fantastica. Io vado sfogliando le pagine d’un bel volume regalatomi
cortesemente dal bibliotecario della Repubblica. È la storia di San
Marino, scritta dal conte E. De Bruc, oggi incaricato degli affari
della Serenissima a Parigi. Mi fermo casualmente al seguente passo, che
regalo ai lettori _pour la bone bouche_:

«Nel 1872, questo trattato (fra il regno d’Italia e la Repubblica)
lievemente modificato ricevette la sua definitiva applicazione dopo che
l’ebbero ratificato il signor _E. Vigliani ministro plenipotenziario
della Repubblica di San Marino e il signor Guardasigilli ministro di S.
M. il Re d’Italia._»




DOPO DIECI ANNI


La contessa Florenzi fece a posta attaccare il suo _landau_ e giunse
di buon trotto alla villa dell’amica per informarla del grande
avvenimento.

— Sai chi è arrivato?

— Chi?

— L’Arnaldi. L’ho incontrato stamani in via Tornabuoni. Mi ha
subito riconosciuta e staccatosi da un gruppo d’amici mi ha fermato
sul marciapiedi per salutarmi. — Io invece, alla prima non lo
riconoscevo... Una trasformazione, mia cara delle più complete e
delle più splendide! Al tempo che partì era un ragazzo impacciato, mal
vestito, nè bello nè brutto, per me piuttosto antipatico. Adesso è un
giovanotto biondo con la taglia forte e svelta, la fisonomia aperta e
distinta, le maniere elegantissime. Deve avere trentacinque anni... e
non ne dimostra trenta. Ah, mia cara! Non c’è che la vita inglese per
fare gli uomini o per accomodarli... Sapevi del suo ritorno?...

Donna Giulia sapeva, all’incirca, del ritorno dell’Arnaldi, perchè
egli stesso glie lo aveva annunziato come imminente in una sua lettera
ricevuta da lei quindici giorni addietro: lo sapeva ma con l’amica si
finse sorpresa. Poi disse:

— Gli scriverò stasera che venga a vedermi...

Nel pronunziare la parola _vedermi_ la voce le si alterò un pochino: ma
forse fu cosa impercettibile per l’amica, la quale si mise a discorrere
dei pettegolezzi della città; e in quei giorni ve n’era per l’appunto
un paio di comicissimi. Donna Giulia più volte unì le sue risate sonore
a quelle dell’amica.

— Ora che t’ho dato una buona nuova (conchiuse la Florenzi) e che t’ho
fatto ridere di gusto, ecco che me vado.

E risalì leggera in carrozza. Rifacendo la strada essa aguzzava la
mente per veder pure di convincersi se, ascoltando l’annunzio del
ritorno dell’Arnaldi, l’amica sua non avesse proprio tradito alcun
turbamento dell’animo. Le pareva e non le pareva... Ma già quella
Giulia; tanto strana, tanto impenetrabile!

Giulia stette a veder partire l’amica, poi rimase un poco dinanzi alla
villa abbassando lentamente la testa, mentre con la punta d’una delle
sue scarpine pareva che volesse trivellare il terreno umidiccio del
viale coperto di una ghiaia lucida e minuta.

I capelli biondi, troppo biondi sotto il sole, le cadevano a larghe
treccie parte sulle spalle parte sul viso. Nella sua vestaglia bianca
e celeste di taglio elegantissima e ricca di pizzi, la sua alta figura
si contornava ancora magnificamente. Si capiva che era stata una gran
bella donna: non aveva quarant’anni e ne dimostrava almeno almeno
quarantacinque.

Quando fu in casa scrisse con mano nervosa una lettera e la consegnò
al servo ingiungendogli di portarla subito in città. Poi abbassò ella
stessa gli _sthor_ alle due finestre del suo salotto, s’aggomitolò più
che non si sdraiasse sovra un piccolo divano e chiuse gli occhi.

Nel salotto era quasi buio perfetto e in tutta la villa un grande
silenzio di _siesta_ estiva.

La mente di Giulia spaziava nei ricordi. Allorchè conobbe l’Arnaldi
essa aveva 30 anni: era nella sua più splendida efflorescenza di donna.

Quanti avevano detto d’amarla e quanti anche glie l’avevano provato!
Un principe di casa regnante non aveva dubitato di compromettersi,
restando parecchi mesi attaccato a lei e obliando nel lungo indugio le
sue alte convenienze di principe e i suoi obblighi sacri di marito...
L’Arnaldi invece quando la conobbe, era ancora un giovinetto uscito
di poco dalle università col suo diploma d’ingegnere meccanico,
solo decantato da qualche amico per il suo ingegno audace e
promettentissimo. Le era piaciuto e l’aveva voluto: ma aveva messo
tanto poco d’ardore e d’esclusività in questo amoretto, che essa sulle
prime non s’era nemmeno data la briga di romperla interamente con una
sua avventura più vecchia e non ancora del tutto venutale a noia...

Egli invece no: aveva messo nell’amarla tutto l’abbandono del suo
cuore quasi vergine e ogni giorno, serrandola fra le sue braccia pazzo
di passione e di gelosia la obbligava a prendere i più terribili
giuramenti: che amava lui solo, che nessuno aveva mai amato a quel
modo, che lo amerebbe in eterno!...

E la donna lo compiaceva del quotidiano spergiuro; ma, spergiurando, si
sentiva sempre più attratta in quel vortice caldo di vita giovanile e
di passione sincera. Finchè un bel giorno spezzò d’un colpo il legame
vecchio e fu lieta di poter finalmente, e senza rimorso, articolare
sulle labbra dell’adorato ragazzo le parole del giuramento... Ma,
ahimè! proprio in quel tempo pervennero in mano al giovane le prove
certe dell’inganno passato...

Che terribili giornate tennero dietro a quel breve intervallo di
felicità perfetta! Il giovane si sentiva il cuore infranto.

— Perchè lo aveva amato? Perchè lo aveva ingannato?... E adesso com’era
possibile che egli avesse più fede in lei?...

Seguivano parole dure, rimbrotti umilianti, invettive furibonde.

La vita fra i due divenne, a breve andare, intollerabile; e fu una
fortuna che l’Arnaldi vincendo le lagrime e gli scongiuri di lei, si
decidesse ad allontanarsi. Andò in Inghilterra a completare i suoi
studi nella visita e nella dimora di quelle grandi officine.

                                   *
                                  * *

E donna Giulia proseguendo nei ricordi, vedeva un altro periodo della
sua vita. Una vita deplorabile e piena di contradizione. L’anima
sua era sempre con lui, lo seguiva da per tutto, lo invocava ogni
giorno: ma qui, nell’uggia di una solitudine, che pareva e forse
era un abbandono, essa sentiva il bisogno di vivere, di consolarsi e
distrarsi. L’istinto caduco della donna mondana, bella per giunta e
ricca e corteggiata, la vinceva sopra ogni altro sentimento, ed essa
si lasciava andare giù, giù giù... Talvolta all’Arnaldi nel fondo di
una miniera della Cornovaglia o in mezzo ai frastuoni di un opifizio
di Lanchaster arrivava una lettera di dieci pagine scritte per dritto e
per traverso in cui la donna innamorata versava tutta la tenerezza dei
ricordi e la foga dei desiderii; ma mentre egli la leggeva, non senza
un avanzo di emozione vera, molto probabilmente donna Giulia attutiva
ricordi e desiderii, distraendosi... perchè essa era costretta ad
amare ma non aveva nè la forza nè la virtù di soffrire. E alle cadute
frequenti si alternavano i vani rimorsi.

Ma intanto passavano gli anni non risparmiando la scultoria bellezza
della donna, anzi attaccandola con frettolosa crudeltà.

Le brezze del tramonto erano micidiali a quel fiore superbo. Donna
Giulia andava pensando che in quella triste discesa della vita, la
distanza fra lei e l’Arnaldi s’aumentava oltre la proporzione degli
anni, e poteva diventare enorme. Un giorno, mentre si guardava allo
specchio, pensò a un tratto:

— S’egli tornasse?...

E il triste sorriso che ella si vide sulle labbra troppo rosee, aumentò
la costernazione del suo cuore.

                                   *
                                  * *

Ed ecco che egli era tornato per l’appunto. Ricco, bello, forte,
ammirato: l’Arnaldi in quel momento toccava il culmine trionfale della
vita; quel culmine che essa aveva oltrepassato da parecchi anni e che
le pareva già tanto, tanto lontano! E donna Giulia pensava irritata:

— Gli uomini ci vincono sempre, in tutto. Quand’è che essi diventano
vecchi? Tocca a noi quando siamo ben discese, di vederceli comparire
dinanzi meglio di prima. Dove sono stati? Che hanno fatto? Il tempo che
noi abbiamo perduto ad invecchiare essi l’hanno speso ad entrare in una
seconda, in una migliore giovinezza... Quale ingiustizia!

E la donna era tutta invasa da un avvilimento profondo, al quale
tentava indarno di opporre le rivolte dell’orgoglio. Poi una idea
cominciò ad attristarla, ad atterrirla. Aveva scritto all’Arnaldi un
biglietto nel quale lo invitava ad andare da lei la sera stessa. Il
biglietto concludeva:

— Non mancate assolutamente. A questo solo patto io potrò perdonarvi
d’essere a Firenze da due giorni senza che vi siate ricordato di me!

Quindi donna Giulia pensò che sull’imbrunire di quella stessa giornata
l’Arnaldi sarebbe arrivato e si sarebbe trovato lì in quello stesso
salotto, dinanzi a lei, guardandola... dieci anni dopo!... La donna
vide tutto il suo svantaggio in quel rapido sindacato e presentì un
immenso pericolo e un dolore e una umiliazione intollerabili. Allora
con un movimento fiero di tutta la persona si rizzò e diede due colpi
al bottone elettrico.

Comparve la cameriera...

                                   *
                                  * *

Pochi minuti dopo le ventiquattro l’Arnaldi entro una vettura da città
scoperta usciva da porta Romana. Dai campi, nell’aria temperata del
vespero, veniva di quando in quando una allegra canzone e le prime
lucciole cominciavano a balenare sulle spighe del frumento ancora
verde.

L’Arnaldi fumava il sigaro fantasticando. Nei suoi pensieri, strano
miscuglio di ricordi e di sogni, la figura di donna Giulia s’insinuava
sempre più dolcemente. — Non era essa la donna che egli aveva amata
più di tutte le altre? E appunto perchè da lei gli erano venuti i più
grandi dolori e i più acerbi disinganni, non gli aveva essa date le
gioie più ineffabili... le sole complete, le sole vere?... Colpevole
sì... spergiura, indegna... Ma quanta poesia, quanta sincerità di
passione e di abbandono in quella donna!...

Il passato risuscitava nella sua parte più dolce e più buona: e
l’Arnaldi si sentiva come tornato dieci anni addietro in una di quelle
sere in cui, col petto gonfio di desiderii, faceva la stessa strada,
così, circa a quell’ora, in cittadina scoperta, impaziente di arrivare
alla villa di donna Giulia... Il cuore del giovane s’apriva adesso ad
una immensa benevolenza, e stava combinando nella sua testa delle frasi
gentili e delicatissime da dire a Giulia in quella serata, dopo tanti
anni che non s’erano visti!

A quattro chilometri da Firenze l’Arnaldi era tutto immerso ne’ suoi
pensieri, e non badò a una bella carrozza signorile che gli veniva
incontro co’ suoi due grandi fanali accesi: e non badò nemmeno che,
mentre i due legni si passavano accanto, una signora mise fuori dello
sportello la testa fissandolo alla luce dei fanali.

Donna Giulia, che aveva fatto tutto allestire in fretta per la
partenza, ora andava verso la stazione a prendervi il diretto delle
nove.

Quando sentì il rumore della vettura, un gran battito del cuore e dei
polsi la avvertì che dentro c’era l’Arnaldi. Volle vederlo anche una
volta e lo avrebbe anche chiamato per nome; ma non ebbe la forza. —
Passato il legno, si avvolse bene in un grande scialle, poggiò il capo
all’angolo della carrozza e prese l’attitudine di chi s’addormenta...
Ma la cameriera che era con lei, s’accorse che la signora piangeva.




NELLA “MONTAGNOLA„


Die Nachtigall! È egli possibile immaginare un nome più disadatto e
più prosaico di questo dato dalla lingua tedesca all’usignolo? Rozza,
brutta, ridicola parola....

E forse Ottone avrebbe durato un pezzo ad inveire, non so se a torto
o a ragione; ma intanto c’eravamo già messi per il viale tortuoso e
angusto del boschetto. Io gli feci cenno di star zitto e ci fermammo ad
ascoltare.

L’usignuolo era a poca distanza da noi; non so se posato sopra la
frasca d’un giovine tiglio o se, più probabilmente, nascoso nel folto
di una vecchia acacia capitozza, che ergeva la sua testa raccolta e
densa, a cui i raggi della luna davano una tinta fra il lattiginoso e
l’argenteo. L’usignuolo cantava nel gran silenzio. Poco prima avevamo
udito alla chiesa di San Martino suonare le due dopo mezzanotte: nella
piazza d’armi non s’era incontrata anima viva; nessuno girando il gran
viale rotondo della Montagnola; e ora lì circondati ogni intorno dagli
alti cespugli del boschetto, nè vedendo altro che il cielo stellato
sopra di noi, provavamo tutti e due un senso di isolamento e di calma
perfetta, come se ci fossimo trovati a quell’ora nella solitudine d’un
bosco sull’Appennino a venti miglia da Bologna.

L’usignuolo cantava: e ci era, ripeto, tanto vicino che, senza vederlo,
udivamo a quando a quando il leggero fruscìo delle foglie mosse da lui.
L’aria immobile era tutta piena del suo canto, e il silenzio profondo
pareva un silenzio d’ascoltazione, secondo l’idea degli antichi poeti
che immaginavano i venti sospesi e gli alberi e le rupi intente ad
ascoltare qualche suono grato e solenne. Io pensavo a questo proposito:
Perchè i poeti antichi, da Esiodo a Virgilio, descrivono sempre il
canto dell’usignuolo flebile e quasi piagnucoloso?... A noi invece,
avvezzi alle querimonie della poesia moderna, a noi coll’orecchie piene
de’ piagnistei della musica melodrammatica, e anche, ohimè! delle
_romanze_ da camera, il canto dell’usignolo fa provare un senso di
dolcezza calma, temperata e quasi allegra.

È la gran legge della progressione che signoreggia tutte le sensazioni,
massime se vi entra l’arte, e massime se quest’arte è la musica. Un
coro infernale nell’_Orfeo_ di Gluk parve nel secolo passato l’ultimo
segno della terribilità espressa con voci e suoni: ponete ora quel
coro in mezzo a quelli del _gran finale_ della _Regina di Saba_, e farà
l’effetto d’un lamento timido e sommesso...

                                   *
                                  * *

Pensavo all’usignuolo, e sono cascato a parlar d’arte. Che salto enorme
coll’apparenza di un passo agevole! In arte le forme si inseguono,
si raggiungono, s’urtano e si soverchiano in una corsa affannosa ed
infaticabile. Non solamente ogni scuola ed ogni maniera ha il suo breve
tempo d’auge e di dominio; ma ogni singolo artista ha spesso nella sua
vita più atteggiamenti d’ingegno e più stili, che rubano al pubblico un
suffragio esclusivo ed intollerante. A vedere la energia degli assensi
che riscuote d’ogni parte, direste che finalmente egli sia giunto ad
una mèta stabile. Sì davvero! Ripassate fra qualche anno e vedrete quel
che rimane dell’opera e delle ammirazioni.

Arrivati poi al termine d’un periodo storico, noi critici ci voltiamo
indietro, provando a tirare la somma: ma se vogliamo essere schietti
innanzi alla nostra e all’altrui vanità, dobbiamo confessare che del
molto lavoro fatto ciò che rimane di vitale e di perenne è ben piccola
cosa. La più parte della suppellettile artistica somiglia un magazzino
d’abiti smessi o la raccolta delle incisioni d’un giornale di mode.
Come paiono goffe e sgraziate quelle fogge che, viste cogli occhi d’una
volta, raddoppiavano la prestanza degli uomini e la seduzione delle
donne eleganti!

Fui due anni fa a Milano, poco dopo la morte del povero Cremona. Il
fervore per la sua pittura era al colmo. Un critico che, pur facendo
di cappello all’ingegno del pittore, volle mettere una nota sorda in
quel coro di lodi, fu a un pelo d’essere lapidato. Intanto un giovine
poeta cantava in metro lirico l’apoteosi dei toni gialli e rossi,
paragonandoli, se ben mi ricordo, a cavalli scalpitanti in guerra. Si
giunse perfino ad escogitare uno speciale sistema di ottica soggettiva
per giustificare certe tinte particolari al Cremona, non riscontrabili
in natura, e tutto quell’indefinito e sfumato e nebbioso ch’egli
metteva nei piani e nei contorni. Passando poi dalle esecuzioni ai
concetti e agli intendimenti del pittore, l’estro della esegèsi non
aveva più limiti. Per esempio quei due che si stringevano le mani
con passione, non erano solo due amanti: erano anche due cugini. Si
capiva, o almeno si era obbligati a capire, guardando alla espressione
finissimamente cuginesca messa nei volti dal pittore...

Io partii da quella esposizione intronato e confuso per tutta quella
critica mirabolana e, come accade spesso, repugnandomi il decidere con
una affermazione secca, se ero io che non capivo od essi i panegiristi
che passavano il segno, mi acconciai alla sospensiva, dicendo fra me e
me: Vedremo!

                                   *
                                  * *

E non ho avuto bisogno d’aspettare un pezzo. Li abbiamo veduti testè a
Torino gli ultimi riflessi di quella pittura cremoniana, inavvertiti e
confusi in mezzo ai quadri della mostra. — Un Milanese che era meco,
appassionato e schietto cultore dell’arte, non sapeva riaversi dalla
sorpresa, paragonando i suoi entusiasmi di tre anni fa colla delusione
presente.

E questa è storia che dura e si ripete fino dal tempo in cui l’arte
è divenuta una forma della vita. La distanza dei secoli avvicina
e confonde i fatti, ma ciò che avviene ora sotto i nostri occhi è
avvenuto sempre più o meno. Adesso i trapassi sono più rapidi, perchè
la vita moderna corre più inquieta e cupida alla cerca del nuovo e
del diverso; e la mole enorme delle impressioni d’arte, accumulate nel
cervello di noi moderni, rende più frequenti le combinazioni elettriche
e le parvenze di novità, che un soffio compone e un altro discompone.
Intanto par d’essere nel regno della ballata tedesca: _I morti
corrono!_ Quante fronti che ieri nell’arringo dell’arte si ergevano
con piglio trionfale, vanno oggi crucciate e dimesse! E ai trionfatori
d’oggi qual sorte è serbata per domani?

                                   *
                                  * *

Fortunato l’usignuolo! Il suo canto invariato passò i secoli, arrivando
sempre dolce e gradito all’orecchio degli ascoltatori.

«Tu sei giunto, o pellegrino, su questo sacro colle fiorente d’ulivi, e
alimentatore di cavalli. Di qui s’ode l’usignuolo soavemente lamentarsi
nelle valli ombrose»... Sono passate migliaia d’anni dal giorno in
cui i vecchi di Colono con queste parole salutavano Epidio cieco e
ramingo: altre migliaia di anni passeranno ancora, e avverrà sempre
che una semplice progressione di note flautate e un rapido gorgheggio
fermino di notte a mezza strada il viandante, immemore dell’ora tarda,
o chiamino rapidamente alla finestra la fanciulla mezzo spogliata,
incurante della umida brezza notturna. Frattanto intere cataste
d’istrumenti musicali inventati dall’uomo hanno avuto tempo d’andare
in disuso. Che n’è delle note che placarono Saul, delle patrie canzoni
che fecero piangere Attila di tenerezza, delle melodie di Casella che
innamorarono Dante Alighieri?

L’usignuolo nel silenzio ascoltante della natura seguita ad essere il
cantore prediletto della foresta; e non vi ha dotto poeta che non fosse
pronto a dare tutto il suo greco e tutto il suo latino, per tradurre
in una strofa sola ciò che egli dice alla notte e alla luna. E se noi
potessimo penetrare la intima essenza delle cose, credo che scopriremmo
non essere governata da diversa legge la vera bellezza effusiva che
durevolmente ci viene dalle grandi opere d’arte.

Di fatti, a raccogliere bene nel fondo dell’anima nostra ciò che
proprio costituisce la singolare potenza di un grande artista, per
esempio un poeta come Omero, un pittore come Raffaello, un melodista
come Bellini, e a poco a poco eliminando tutto quello che è in lui
di generico, di collettivo ed impersonale, all’ultimo che rimane?
Un _incognito indistinto_ che non troviamo parole ad esprimere e che
vagamente vorremmo significare con un gesto della mano, un cenno del
capo, una esclamazione... Salirono le alte cime dell’ideale, scrutarono
con penetrazione insolita il libro della natura e furono a ragione
salutati spiriti magni; ma l’argomento della loro grandezza è tutto in
un fatto semplicissimo: il quale consiste nell’aver essi fatta vibrare
una nota nuova nell’ime corde dell’essere e con quella generato in
noi una nuova sensazione della vita. Nel linguaggio dell’arte potrà
poi chiamarsi la «sensazione omerica» la «sensazione raffaellesca» la
«sensazione belliniana» e via dicendo. E questa piccola frase sarà alle
loro glorie monumento assai più durevole e splendido di quelli in marmo
e in bronzo eretti loro dai mecenati o decretati dai governi e dai
popoli.

Fuori di quest’àmbito misterioso abbiamo la mediocrità, fin che vi
piace aurea e invidiata: dei quadri che durano a piacere dieci anni,
delle _arie_ che per dieci mesi fanno la delizia di tutte le platee,
e dei poeti che sono alla moda per una stagione di bagni. Fortunato
l’usignuolo!...

Che è? Io e l’amico dobbiamo a un tratto mutare l’ascoltazione
piacevole in un delizioso rapimento. Non ci eravamo ancora accorti
del primo sorgere dell’alba; ma egli l’usignolo dalla sua frasca
aveva certo veduto comparire all’orizzonte le prime tinte rosate e
crocee, e sfumare nell’azzurro perlato del cielo. E’ salutava il giorno
nascente. Non erano più le note sospirose e i tenui trilli soavemente
modulati, ma un impeto di canto meraviglioso ora disteso, ora fiorito,
con gorgheggi a salti, a scale, a note picchiettate con passaggi
nuovi, strani, inattesi, con volate di un ardimento e d’un lirismo
indescrivibile. Si sarebbe detto che l’usignuolo voleva epilogare
il suo lungo canto notturno gittando incontro alla bella aurora uno
sprazzo di rugiada melodiosa. — Di fatti dopo breve tempo cessò ad un
punto il canto e volò via.

O nobili amanti di Verona, voi eravate molto inesperti del linguaggio
degli uccelli! — La povera allodola deve ad essi gratitudine eterna,
perchè presero argomento a un dolce indugio d’amore, confondendo
il suo canto con quello dell’usignuolo... Ma forse i due innamorati
giovinetti non erano pienamente in buona fede, per ragioni scusabili e
invidiabili.


  FINE.




INDICE


  _Coi Sordini_                          Pag.   6
  _Occhi Accusatori_                      »    27
  _In Casa dell’Amico_                    »    41
  _Cantores!_                             »    57
  _Primo Ricordo_                         »    69
  _In Repubblica_                         »    77
  _Dopo Dieci Anni_                       »    93
  _Nella “Montagnola„_                    »   105





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK RACCONTI INCREDIBILI E CREDIBILI ***


    

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Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg™

Project Gutenberg™ is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of
computers including obsolete, old, middle-aged and new computers. It
exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations
from people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s
goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will
remain freely available for generations to come. In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg™ and future
generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see
Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org.

Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification
number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by
U.S. federal laws and your state’s laws.

The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West,
Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up
to date contact information can be found at the Foundation’s website
and official page at www.gutenberg.org/contact

Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread
public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine-readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment. Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States. Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements. We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance. To SEND
DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state
visit www.gutenberg.org/donate.

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg web pages for current donation
methods and addresses. Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations. To
donate, please visit: www.gutenberg.org/donate.

Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works

Professor Michael S. Hart was the originator of the Project
Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be
freely shared with anyone. For forty years, he produced and
distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of
volunteer support.

Project Gutenberg™ eBooks are often created from several printed
editions, all of which are confirmed as not protected by copyright in
the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not
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facility: www.gutenberg.org.

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