I miei racconti

By Enrico Panzacchi

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Title: I miei racconti

Author: Enrico Panzacchi

Release date: August 20, 2024 [eBook #74282]

Language: Italian

Original publication: Milano: Treves, 1889

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK I MIEI RACCONTI ***


   [Illustrazione: ENRICO PANZACCHI (dal quadro di Corcos).]

                            ENRICO PANZACCHI


                            I miei Racconti


                      _SESTA EDIZIONE AUMENTATA_.



                                 MILANO
                        FRATELLI TREVES, EDITORI
                                 1900.




                          PROPRIETÀ LETTERARIA

       _I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati
     per tutti i paesi, compreso il Regno di Svezia e di Norvegia._

                         Tip. Fratelli Treves.




AVVERTENZA.


_Sono raccolti in questo volume i pochi racconti, che io venni
scrivendo e stampando qua e là: piccolo rigagnolo che mando a perdersi
nel grosso fiume della letteratura narrativa contemporanea._

_Oggi si scrive e si legge in fretta, e anche più in fretta i lettori
dimenticano. Ma se avvenga a qualcuno di rileggermi, ricordando
abbastanza per instituire confronti, vedrà che io ho messo una certa
cura nel correggere e talvolta anche nel rifondere quasi per intero
questi brevi componimenti._

_I quali ho voluto intitolare_ I miei Racconti, _non certo per una
esagerata affermazione di proprietà e di originalità. La ragione di
quel loro pronome possessivo è solo in questo: che mentre alcuni
di essi sono delle vere paginette autobiografiche, gli altri,
generalmente, furono o pensati o scritti sulle rive amene della Savena,
mentre io accoglievo nell’animo le memorie della mia fanciullezza e
della mia prima giovinezza, e particolari vivi e fantasmi vaghi di
fatti, di persone, di luoghi._

  Gennaio 1900.

                                                                E. P.




PRIMO RICORDO.


Adesso io voglio risalire con la mente al primo ricordo preciso della
mia vita. Più in là, per quanto io guardi, non veggo che ondeggiarmi
dinnanzi qualche ombra vaga, perdentesi nei primissimi crepuscoli della
mia memoria.

Ecco: io veggo ancora la casetta ove la mia famiglia passava gran parte
dell’anno quand’ero bambino; bassa, bianca, con le finestre verdi, non
circondata d’alberi, posta fra la strada maestra e il fiume Savena, a
cinque chilometri da Bologna.

Doveva da poco essere incominciato il giorno, perchè, guardando dalla
finestra, io vedevo il cielo da una parte tutto sparso di nubi rosse;
un rosso vivissimo, come non ne ho visto di poi che assai rare volte,
in qualche tramonto estivo.

Quantunque fosse così di buon’ora, nella casa era un tramestio
insolito. Sentivo aprire e chiudere usci, sentivo passi affrettati e
bisbigli.

Certo io non mi vestii e non scesi di letto senza aiuto; ma non mi
posso ricordare di chi m’aiutasse. Veggo la fisonomia d’una ragazza
di casa, l’Eugenia; ma quella fisonomia si mesce confusamente a quasi
tutti i miei ricordi infantili.

Dopo, la mia memoria si perde per un certo tratto. C’è come uno strappo
che non riesco a riunire.... Dove e come io abbia passato quella
giornata non ricordo; un momento mi veggo in confuso a passeggiare con
un grande cane pastore vicino al fiume, che cominciava ad ingrossare
per una delle solite piene d’autunno.

Probabilmente mi avranno tenuto apposta fuori di casa, ove io non
poteva che essere, molto male a proposito, tra i piedi alla gente. Ma
più tardi, forse verso il tramonto, ecco ch’io sono ancora in casa mia
e precisamente sulla breve scala che dalle stanze superiori mette nella
loggia al pianterreno.

La porta è aperta spalancata; e veggo della gente che va e viene per
la strada maestra. Nella loggia veggo tre o quattro persone intorno
a un lettino collocato in faccia alla porta. Distinguo benissimo mia
madre che sta in piedi accanto al lettino e di tanto in tanto si china
sovr’esso con una grande espressione d’inquietudine, senza pronunziare
parola....

In quella cuna agonizzava una mia sorellina di circa un anno e mezzo;
e l’avevano portata dalla sua stanza nella loggia, vicino alla porta
spalancata, a vedere se potesse meno penosamente respirare. Credo che
la poverina morisse di difterite; ma allora i medici non avevano ancora
messo in voga questa oscura parola.

La bimba era proprio agli estremi; ed io dalla scala, non osservato,
stavo guardando la triste scena. Guardavo attentamente, senza rendermi
ancora conto di ciò che accadeva; ma sentendo confusamente dentro di me
che io mi trovava in presenza di una cosa arcana e terribile.

Il visino della bimba era tutto color di cera, fuor che dintorno alla
bocca semi-aperta, ove quel pallore cereo si mutava in una tinta fra
il nero e il violetto. I due braccini, fuori della coperta, stavano
abbandonati e senza moto sul corpo inerte. Tutto il moto del corpo poi
crasi limitato su su verso il collo e la bocca, negli ultimi sforzi
della respirazione, che ad ogni minuto secondo s’andava affrettando
penosamente, e come restringendo sempre di più il suo circolo breve.

Il respiro della creaturina somigliava nel suono a un lieve rantolo
sibilante.

Ed io lo sentivo quel respiro di creatura moribonda; e tanto che mi
rimarrà la memoria avrò viva e presente la grandissima pena che esso mi
faceva. Sarà forse effetto d’immaginazione, ma adesso mi par certo che,
sempre guardando dalla scala, anch’io allora respiravo con affanno; e
seguivo e secondavo e in qualche modo avrei voluto aiutare quel ritmo
doloroso....

A un tratto il sibilo prese a diminuire rapidamente fino a che non
sentii più nulla. Allora il medico accese una candeletta e l’accostò
alla bocca della bimba.... Quando sentii singhiozzare e piangere forte
intorno a me, mi misi a piangere forte anch’io, così che l’Eugenia
mi trasse di là e mi condusse fuori nel prato, ripetendomi spesso: _è
andata in paradiso!_

Che cos’era per me il paradiso? Anche di questo mi parlò l’Eugenia; ma
per quanto la descrizione fosse allegra, io seguitavo ad essere triste.
E più d’una volta volli rivedere la bambina morta, già leggiadramente
acconciata in mezzo a molti fiori nella sua cuna.

La sera del giorno dopo ebbe luogo il mortorio. Io ero sul ponte ad
attenderlo; e non ricordo con chi. Ricordo invece benissimo che la
piena del fiume era grandemente cresciuta dal giorno innanzi e che
la corrente faceva sotto di noi un forte rombo precipitandosi dalla
cascata e urtando contro i piloni degli archi. Ero seduto sulla
spalletta del ponte e una mano mi teneva. Guardavo in giù nel buio, da
cui saliva monotona e cupa la voce del fiume grosso. Intorno a me erano
molti bimbi che, aspettando, facevano un chiasso allegro; ma io, dentro
la mia testa, ascoltavo sempre il fiume; e associavo, non so come, a
quel gran rumore delle acque una idea triste di fuga, di violenza, di
rapina.

E anche quando si avvicinò la lunga fila dei ceri accesi dietro la
piccola bara, che misero nell’aria piovigginosa e buia come un incendio
giulivo, io non ristetti dal guardare a basso le acque torbide, le
acque fuggenti sotto di me; e credetti un momento — laggiù fra i
cavalloni e le spume e i tronchi d’alberi portati dalla piena — di
veder passare la mia sorellina dentro la sua cuna; la mia sorellina
morta, che il fiume mi portava via, lontano, per sempre, verso un
luogo ignoto, e dove non pertanto avrei voluto seguirla e perdermi con
lei....




LA MIA UNICA TRAVERSATA.


In questo mese, il molto discorrere dei giornali intorno alla Sardegna,
mi ha fatto ripensare più volte il mio unico viaggio all’isola. Sono
passati de’ begli anni! Ma parecchi dei miei ricordi sono sempre vivi e
come di ieri.

La mia traversata fu più triste che lieta per lo stato del mio animo,
per gli incidenti penosi e le contrarietà che non furono poche; senza
contare il mal di mare, che mise in me un odio non ancora placato....

Oh, le mie lunghe ore di spasimi in quella eterna notte, entro quelle
spaventevoli Bocche di San Bonifazio!

Io mi vedo ancora — al primo rompere dell’alba di una fredda e ventosa
giornata, verso gli ultimi di dicembre 1865 — sopra una barchetta
ballonzolante, che dal Molo di Livorno mise più di un’ora ad accostarmi
alla scaletta della _Sardegna_; la quale era, credo, la peggiore
fra le carcasse marittime che, a quel tempo, facevano il viaggio
dal continente italiano all’isola, sotto gli ordini della Compagnia
Rubattino. Arrivai sul cassero già tutto scombussolato dai marosi che
per venti volte mi avevano avvicinato e respinto dalla nave; e mi bastò
la nausea provata a respirare quell’aria sazia di olio rancido per
convincermi che non entravo in un luogo di pace.... Il mio stomaco ebbe
subito l’_intuito_ di tutte le sofferenze che l’aspettavano; e non si
rassegnò, nè seppe armarsi di coraggio.

                                   *
                                  * *

Quando fummo in vista dell’isola d’Elba, seppi da un servitore di bordo
che la _Sardegna_ portava un carico di camorristi napoletani condannati
a domicilio coatto. Erano tenuti chiusi giù presso la sentina. Cattiva
zavorra!

Ma il mare non era ancora grosso e il male mi pareva tollerabile.
Potevo dunque distrarmi, e guardare ai contorni alti e foschi
dell’isola, che si mostravano tra la nebbia, e pensare a Napoleone I,
alla sua fuga e ai suoi “cento giorni....„ Seppi che il capitano della
nave si chiamava Garibaldi; un bel vecchiotto ligure di modi cortesi e
di poche parole. A colazione, probabilmente in causa della mia faccia
smorta, egli mi aveva augurato il buon appetito con un sorrisetto
bonario nel quale era facile di scorgere una fede men che mediocre.
Difatti, non ancora finito di mangiare un’acciuga, io mi ero già
alzato, e barcollando mi allontanavo dalla mensa....

Verso sera mi parve di notare un certo rimescolio e qualche segno
di inquietudine tra la gente di bordo. Io ero già divenuto molto
egoista e guardavo con grande apatia le cose di questo mondo; ma senza
domandare, imparai che, sotto coperta, le cose di questo mondo non
procedevano troppo regolarmente. Giù nel loro camerotto i condannati
tentavano una vera rivolta, che era cominciata con una rissa e con del
sangue. S’intende che, malgrado tutte le perquisizioni, parecchi di
essi avevano saputo portar con loro il coltello.... Cattiva zavorra!
ripensai. — Intanto mi giungeva la voce secca del capitano che dava
degli ordini in dialetto genovese. Poi me lo vidi passare innanzi
rapido e tranquillo insieme a due carabinieri; e tutti e tre sparire
sotto una specie di botola che si apriva vicino all’albero maestro....

Io non ricordo se fui attratto dalla calma risoluta di quel vecchio
o se fui spinto istintivamente dal bisogno di trovar sollievo in
una distrazione qualunque. Fatto è che andai dietro anch’io; e dopo
una lunga discesa, attaccandomi ai piuoli di metallo d’una scala
strettissima e buia, mi volsi a guardare in fondo.... Sotto di me
il luogo era ben rischiarato da una piccola lanterna che uno dei
carabinieri teneva in mano. Egli pure s’era fermato sui piuoli della
scaletta e proiettava dall’alto i raggi sopra le figure del camerotto
sinistro. I coatti non erano certo meno di venti e sedevano tutti per
terra. Il capitano, ritto in mezzo ad essi, come un domatore nella
gabbia delle fiere, faceva loro un discorsetto alla buona, senza
gridare. Ma parlava con voce molto ferma; e capii che diceva, in
sostanza: — Sulla nave, egli si sentiva “come un re di corona„; e al
primo altro cenno d’insubordinazione, aveva stabilito di estrarre a
sorte tre di loro e di farli impiccare subito ai cordami della nave....

Nessuno di quei seduti si mosse e nessuno parlò. Io dal mio posto
vedevo le teste immobili, non i volti; tranne d’uno, che appoggiava
le spalle e l’occipite alla parete e aveva sulla camicia bianca una
larga macchia rossa; anch’esso perfettamente immobile, col suo viso
giovanile, attento e composto....

                                   *
                                  * *

O Enosigèo! o Posseidone! o divino Mare! Quando io ti amavo nei canti
dei poeti, immaginandoti così bello nelle tue collere; quando invidiavo
Ulisse sulla nave sbattuta dai marosi e minacciata dagli scogli, e,
levata la faccia dal volume, respiravo a pieni polmoni, come se una
poderosa aura di vita inondasse la mia cameretta e giocondasse la mia
anima; — quando mirandoti dal lido, o placido o irato che tu fossi, ti
celebravo e ti benedicevo, principio eterno e incorruttibile di forza,
di salute e di giocondità; — o sposo di Anfitrite, o padrino di Venere,
o Mare divino! — come mai avrei potuto immaginare che tu, la prima
volta ch’io m’abbandonavo a te, mi avresti accolto con delle sofferenze
così lunghe, così atroci e così miserabili?

                             . . . . . . .

Adesso voglio dire come feci la conoscenza del signor Giovanni Opfer,
olandese.

Lo spaventevole rullìo che durava da un pezzo, aveva anche all’interno
trabalzato e sconvolto ogni cosa. Il bastimento pareva accecato. Io
giacevo nella mia cabina circondato dalla più trista e dalla più fetida
delle oscurità, rotta ogni tanto da un po’ di luce livida e odiosa che
entrava non so da che parte. Vicino a me una voce infantile strillava
senza posa; e non udivo alcun’altra voce che lo confortasse o che
almeno lo sgridasse.... Per quanto rinchiuso io fossi nella patologia
del mio egotismo, quel continuo piangere di bambino abbandonato mi dava
una pena indicibile. E non avevo nemmeno la forza di chiamarlo.... Ho
detto che giacevo nella cabina; ma chi mi legge intenda. In una delle
mie svariate violenze acrobatiche puntai i miei due piedi al soffitto
della cabina e cominciai a spingere, a spingere.... A un tratto sentii
che il soffitto cedeva; e quasi nello stesso tempo, come un’ombra nera,
vidi passare di fianco a me un corpo umano, che pioveva dall’alto
urlando; poi mi sentii premere sul petto da due grosse mani e udii
delle parole in una lingua che non capivo, ma che certo avevano un tono
tutt’altro che amichevole per me. Io risposi, senza muovermi:

— Se volete ammazzarmi....

Che suono avessero le mie parole io non saprei dire; ma produssero
sicuramente un effetto di pacificazione. La stessa voce ripigliò con
modo calmo e quasi flemmatico, in italiano:

— Aspettate che accenda un fiammifero....

Al chiarore della fiammella ci guardammo. Egli era un giovanotto alto,
piuttosto tarchiato, piuttosto bello, biondo e roseo. Io dovevo aver
una faccia da far paura o pietà; ma il mio sconosciuto preferì di
ridere sonoramente, non sapevo se di me o del bizzarro caso che ci
faceva conoscere a quel modo. E continuò a discorrere in buon italiano,
con gaiezza amichevole:

— Sicuro! Quelle Bocche di San Bonifazio erano una gran noia per
i viaggiatori; e in quel momento passavamo appunto il tratto più
scabroso.... Ma egli non temeva il mare. Tutt’altro! In mare egli
mangiava, beveva benissimo; fumava come un turco e ci dormiva dei sonni
tranquillissimi.... Ah, se io non lo avessi svegliato a quel modo!

— Scusatemi! Le cose fatte coi piedi....

La sua grande indulgenza mi aveva dato perfino il coraggio di
scherzare; e la sua vista, la sua voce e le sue buone parole mi
rianimavano un poco. Finalmente egli si volle presentare in forma: — Si
chiamava Giovanni Opfer, olandese; viaggiatore della Casa.... Come da
dieci anni, faceva ora il suo solito viaggio in Sardegna ad acquistarvi
delle pelli di capretto. — Io, oltre il mio nome, gli dissi che ero
stato nominato da poco professore e che il Ministero mi mandava a fare
la mia “prima tappa„ a Sassari, come insegnante di storia nel Regio
Liceo Azuni.

                                   *
                                  * *

A Porto Torres non ci vollero. Mentre la _Sardegna_ avanzava
tranquillamente nelle acque del porto, vidi che cinque o sei barche
le venivano incontro. Poi, come fu gettata l’àncora, una di esse venne
sotto la nave, fin presso alla scala d’approdo; e il capitano discese
a parlamento.... Che c’era di nuovo adesso?!... Il nostro Garibaldi
per un poco alzò la voce, giurando in italiano e in genovese. Ma alla
sua molte voci rispondevano dalla barca prossima, intanto che quelle
rimaste indietro si avvicinavano e si collocavano dinanzi a noi, come
una minuscola flottiglia.

Ogni barca era piena di gente; e vidi che tutti si volgevano verso
di noi con delle faccie tutt’altro che amiche. Alcuni vociavano e
gesticolavano; alcuni altri guardavano senza parlare nè muoversi,
inalberando certi lunghi fucili, di forme, se vogliamo, antiquate, ma
punto rassicuranti....

In sostanza, s’era a quei giorni parlato nei giornali di qualche caso
di colera, non so in che luogo della penisola; e questa notizia era
bastata perchè quei dell’isola non ci volessero a nessun patto, se
prima non eravamo passati in quarantena. Era troppo recente il ricordo
della epidemia del 1855, che per tutta la Sardegna, e specialmente a
Sassari, aveva menato strage, fino a ridurre a metà la popolazione; e
aveva lasciato negli animi un ricordo di orrore e di terrore.

Inutile dunque ogni resistenza. E dovemmo deciderci a riprendere il
largo e a far rotta per Alghero, ove le delizie di una quarantena ci
aspettavano. Vale a dire la bellezza di altre nove o dieci ore di mare,
traversando tutto il golfo dell’Asinara e girando il Capo del Falcone
e poi quello dell’Argentina, sino alla nuova meta. E per quanti giorni
il Lazzaretto? Chi diceva per dieci, chi per venti, chi per quaranta
giorni....

Le nostre benedizioni furono molte.... E dopo mezz’ora l’amico
Posseidone cominciava a trattarmi come prima. Bontà sua!

                                   *
                                  * *

Quando fummo in vista di Alghero, imparammo che il Lazzaretto non era
presso la città ma in una piccola isola posta di faccia ad essa, e
distante circa di mezz’ora.

Al mio amico Giovanni Opfer, che conosceva Alghero, questa parve una
buona notizia, e voleva che me ne consolassi; ma io, che vedevo tutto
in nero, gli rispondevo che questo moltiplicarsi di isole per me era
tutt’altro che di buon augurio. M’avevano obbligato a muovermi da casa
mia per approdare ad una sola; ed era anche troppo!....

                             . . . . . . .

Quando le fummo presso, diedi un’occhiata alla minuscola isoletta di
Santa Maddalena; e mi venne in mente “l’isolotto funèbre„ descritto
da Aleardo Aleardi. Non era la Meloria; ma per la mia fantasia doveva
essere qualche cosa di ugualmente infausto e infame. Un marinaio
dal bastimento mi segnò col dito una vecchia casa scoperchiata del
tetto; e mi disse, — il Lazzaretto è quello! — Per tutta la spiaggia,
e guardando oltre verso l’interno dell’isola, non si vedeva altra
abitazione; nè una figura umana nè un albero.... Scendemmo a terra.
La giornata invernale e nebbiosa stava per finire; ed io non ricordo
d’avere mai visto scendere sul nostro globo un tramonto più brutto e
più malinconico.

Tutta la vecchia casa scoperchiata si riduceva al pian terreno, con un
androne in mezzo a due stanzoni bassi, nudi e sordidi. Unico mobiglio,
qua e là dei mucchi di paglia e alcuni materassi, che un tempo
saranno stati bianchi e che da più parti mostravano la imbottitura
di stoppa.... Non proseguo nel descrivere, poichè, quando posso, io
amo di attenermi alla massima di Ernesto Renan, che soltanto le cose
belle dovrebbero essere assunte dagli scrittori all’onore di una
descrizione....

Saremo stati circa una quarantina di infelici, d’ogni sesso, età e
condizione. Delle separazioni personali una sola era possibile; quella
degli uomini dalle donne; e fu effettuata, credo, con soddisfazione
scambievole.

Dopo un paio d’ore, quelli dei nostri compagni di stanzone che
appartenevano alla così detta plebe, già se la dormivano sdraiati sulla
paglia e sui materassi. Parecchi russavano. Beati loro! Io e l’amico
Opfer passeggiavamo infaticabilmente per tutto lo spazio libero,
discorrendo e tempestando sulla triste ventura che ci era toccata. Io
gridavo:

— Ma è mai possibile che possano lasciarci a lungo in questa
abominevole condizione?!...

Il buon olandese continuava ad offrirmi ogni tanto dei cattivi sigari
d’Amburgo; e visibilmente si ingegnava a cercare delle buone parole per
sollevarmi un poco l’animo. E qualche volta ci riusciva:

— Domani voi scriverete al sotto-prefetto di Alghero; voi gli
descriverete queste orribili cose; voi lo assicurerete che non
proveniamo da luoghi infetti e domanderete la nostra immediata
liberazione; voi vi firmerete col vostro titolo di _professore_, ed
egli vi ascolterà.... Che diavolo!...

Così egli mi dava un’idea magnifica dell’autorità che dovrebbero godere
i professori liceali in Olanda... Intanto le ore di quella notte
passavano una dopo l’altra, lente, lunghe, opprimenti; e in noi si
andavano accumulando una profonda stanchezza e un fastidio indicibile.
I due sentimenti combattevano pro e contro la nostra gran voglia di
sdraiarci, come gli altri, sulla paglia e dormire.

Delle poche lucerne attaccate ai muri del nostro stanzone, alcune erano
ridotte al lumicino, altre si erano spente. Un forte odore di moccolaia
errava nell’aria cortesemente e si aggiungeva a tutti gli altri odori
del luogo....

Il buon olandese, dopo essere stato per tanto tempo il mio consolatore,
appariva adesso più stanco e più abbattuto di me. Allora io mi posi a
declamargli quel celebre Capitolo di Francesco Berni:

    Udite, Fra Castoro, un caso strano,

che evoca e volge al riso tante immagini conformi al caso nostro. Tutto
inutile!... Pareva che la stanchezza e la malinconia gli cominciassero
dai capelli, i quali spiovevano nella loro biondezza cinerea sugli
occhi appesantiti. La faccia era sempre paffutella e rosea ma appariva
un po’ stirata agli angoli della bocca e come tutta mortificata da un
malcontento infantile. Egli era comico e triste....

— Amico, se provassimo anche noi a stenderci un poco? _À la guerre
comme à la guerre_....

— Avete ragione.... _À la guerre_....

E si lasciò andare come uno straccio sovra un mucchio di paglia. Dopo
cinque minuti egli dormiva; e allora anch’io mi stesi vicino a lui ad
aspettare il sonno. Intanto che aspettavo, mi sovvenne che quella era
l’ultima notte dell’anno 1865; anzi, che essendo passata la mezzanotte
da un pezzo, io ero già entrato nell’anno 1866....

Allora sentii qualche cosa dentro di me, come se il cuore
improvvisamente mi si ingrossasse fino ad aprirsi, e ne uscissero i
ricordi e gli auguri pieni di tristezza e di tenerezza, volando via
come stormi di colombi viaggiatori. — “Buon anno! Buon anno! Buon
anno!„ — E tenendo gli occhi chiusi, attraversavo il Mediterraneo e
tutta Toscana, valicavo gli Appennini, andavo di filato a Bologna,
entravo nella mia casa, passavo dall’una all’altra nelle stanze
silenziose, ove quelli della mia famiglia forse a quell’ora dormivano
e certo s’erano addormentati pensando a me. — “Buon anno! Buon anno!
Buon anno!„.... — Avrei anche voluto che il mio vicino fosse sveglio;
e mi doleva che, allo scoccar della mezzanotte, non avessimo pensato a
scambiarci un augurio, serrandoci la mano, come due vecchi amici.

Poi volli distrarmi da tutta quella tenerezza; e ruminai di nuovo nella
memoria il Capitolo di Francesco Berni:

    O Muse, o Bacco, o Febo, o Agatirsi!
    Correte qua chè cosa sì crudele
    Senza l’aiuto vostro non può dirsi....

Ma che cosa accadeva nello stanzone dei dormienti? Che cosa si
rimescolava a quell’ora, nella paglia e tra i materassi?... Ebbi da
prima la apprensione vaga di tutta una animazione extra umana, che
abitasse insieme con noi, respirasse e si movesse vicino a noi, secondo
leggi, istinti e abitudini proprie.... Poi cominciai a cogliere, dai
punti lontani dell’ambiente, qualche fruscìo, qualche rodìo e perfino
dei lievissimi gridi che parevano sibili.... Mi posi sull’attento....
Non c’era dubbio; avevo ben visto qualche cosa balzare o guizzare per
un momento vicino a me....

I topi?... Credo che avevamo già accennato ad essi, io o l’olandese, al
nostro primo giungere, là dentro, come a nostri compagni inevitabili.
Ero dunque prevenuto e rassegnato a sopportare, alla meglio, anche
quella tra le tante altre forme di schifo che si accoglievano in quella
trista dimora.... Ma altra cosa è udire, altra cosa vedere e quasi
toccare con mano!

La conclusione fu questa. A vedermi dinanzi, nella luce incerta, tutte
quelle sorche nere, sbucanti d’ogni dove, brulicanti da per tutto,
aggirantisi vicino e sopra quei corpi di addormentati, sempre più
numerose, sempre più invadenti, odiose, cercatrici, forse fameliche — o
ribrezzo o paura che fosse — io non potei assolutamente resistere....
Balzai in piedi come lanciato su da una molla, infilai l’uscio, mi
trovai nell’androne, ove travidi due o tre custodi appisolati sulle
sedie, e mi diressi a una delle porte grandi, che trovai socchiusa. La
spinsi e uscii all’aperto.

Ci avevano ben avvisati che ogni tentativo di evasione del Lazzaretto
costituiva, per legge, una mancanza gravissima, la quale avrebbe potuto
persino giustificare un colpo di fucile da parte dei custodi!... Ma io
non ebbi nemmeno l’idea del pericolo. Io non pensavo che a fuggire da
quel luogo schifoso, da quell’afa opprimente, da quella moltitudine
immonda. E respiravo con gran sollievo l’aria fredda della notte; e
seguitavo ad andare sempre più lontano, verso l’interno della piccola
isola.

                                   *
                                  * *

Erano forse di tamerici gli alberelli bassi e radi fra i quali, andando
sopra un terreno sabbioso, mi internavo nell’isola; o erano di una
piccola palma di quei luoghi che ho vista poi illustrata dal La Marmora
nella sua descrizione della Sardegna. Ben ricordo che andavo, andavo
sempre; e che, le piante facendosi via via molto meno rade, finii per
trovarmi entro una vera boscaglia nana. Qua e là vedevo anche alzarsi
qualche bell’albero, e dense masse di grandi cespugli nereggiare
dinanzi a me.

Vedevo, sulle prime, alla luce di un bellissimo cielo stellato. Forse
la luna era tramontata da poco. Intorno a me una grande solitudine e
quiete profonda.

L’aria non era punto rigida. Avevo come la sensazione di affondare e
di perdermi in tutto quel silenzio, in mezzo a quella solitudine, in
mezzo a quella ignoranza di luogo primitiva e selvaggia. Che m’era
accaduto?... Che lasciavo io dietro di me?... Non so nella mia vita
io sia mai pervenuto a provare un oblìo più completo di tutto, nel
rapimento dilettoso di una libertà inaspettata e sconfinata....

Intanto s’era fatto giorno pieno da circa mezz’ora. Io guardavo innanzi
a me alla distesa indefinita del piano boscoso; e m’allegrava la vista
di tutta quella vegetazione ondeggiante nella luce vivida e nell’aria
un po’ cruda della mattinata invernale. — A un tratto la mia solitudine
cessò per una improvvisa apparizione.

Era formata da un gruppo d’uomini in piedi, bruni, barbuti e
immantellati, che grandeggiavano pittorescamente in quella breve radura
del bosco. Capii che mi osservavano; e subito mi avvicinai, dando ad
essi il buon giorno e il buon anno! Quello che pareva il più vecchio,
senza muoversi, guardandomi fisso, cominciò a interrogarmi; e alle
prime domande mi pareva che parlasse latino.

— Sei tu continentale?

— Sì.

— Sei tu cristiano?...

Forse, per la singolarità della inchiesta, io tardai un poco a
rispondere. Credo d’avere anche, senza malizia, sorriso. La faccia del
vecchio allora si annuvolò:

— Voi altri continentali siete tutti diavoli!... Recita il _Pater
noster_....

                             . . . . . . .

La mia stupenda visione, pur troppo, non durò un pezzo! Uno dei più
giovani del gruppo mi stese gravemente la mano; e io vi deposi una lira
d’argento.

Senza indugio mi offersero di cuocermi il _furia furia_, che è il
cibo tradizionale sardo, tanto celebrato. Poichè erano nè più nè meno
che dei buoni pastori positivi e moderni questi figliuoli dell’antica
Ichnusa, che portavano la “mastruca„ sarda come un bel paludamento
orientale e che un poco prima mi avevano fatto pensare a una
composizione biblica di Gustavo Dorè....

Il giovane era andato al gregge, che pasceva poco distante dietro
una macchia; e tornò subito con un capretto ucciso, che fu scuoiato
e sventrato in mia presenza. Intanto un altro pastore tagliava dal
cespuglio vicino, mondava dalle foglie e appuntava un lungo ramo
di carubbo, a guisa di spiedo. Un terzo accese un fuoco di sarmenti
secchi, che subito levarono una bellissima fiamma. Il capretto, legato
bene con un giunco e ridotto a un globo di carne sanguinante, venne
rapidamente infilato al ramo.

Allora il _furia furia_ cominciò nella sua forma di rito. Quello dei
pastori che teneva il ramo si mise a girare rapidamente dintorno alla
fiamma, ora accostandovi, ora allontanandone un poco il capretto;
e molto abilmente voltandolo e rivoltandolo, per modo che sentisse
da ogni parte l’azione del fuoco. Un altro pastore girava anch’esso
dietro al primo; e ogni tanto gettava sulla carne qualche grano di
sale e mormorava continuamente non so se una preghiera o delle parole
cabalistiche... La scena bizzarra aveva un poco l’aspetto di una
cerimonia mistica.... Sul fuoco erano buttati sempre nuovi sarmenti
e le fiamme ondeggiavano all’aria crepitando. Dintorno si spandeva un
forte aroma di mentastro, misto all’odore buono della carne arrostita.

Fu una faccenda di pochissimi minuti; e sovra una tovaglia grossolana
ma pulita mi venne imbandito il piatto sardo, che trovai, allora e
dopo, veramente gustoso.

Dopo venne la volta del latte fresco e del formaggio, con pane
durissimo e nero, che il vecchio mi andava cavando fuori da un gran
sacco di pelle; e aveva persino la bontà di affettarmelo con un suo
coltellino. Dopo tante dolorose vicende di terra e di mare, il mio
stomaco tornava a vivere!... Ed io dimostrai ai miei ospiti un appetito
degno d’un convitato d’Agamennone.

Il vecchio pastore mi guardava mangiare, incoraggiandomi col suo riso
di patriarca, che rilevava i suoi due zigomi sopra la barba fluente....
E ogni tanto mi tendeva ancora la mano.

Oh, furono veramente delle ore belle, delle indimenticabili ore di
gioia quelle che io passai nell’isoletta di Santa Maddalena, insieme
ai pastori, il primo giorno dell’anno mille e ottocento sessantasei!...
Quante volte, errando pei facili meandri di quel piccolo bosco odoroso,
in quella fresca e serena giornata, come il più libero degli uomini
— insieme a Melibeo, a Titiro, a Menalca, a Corridone e compagni — io
alzavo la faccia a consultare il sole; e avrei voluto inchiodarlo nella
sua vôlta zodiacale!

                                   *
                                  * *

Ma anche quella giornata volse al suo termine; e bisognò pensare al
ritorno.

Come sarei stato accolto al Lazzaretto? Che s’era detto della mia
scomparsa? Che ne aveva pensato il mio buon amico olandese Giovanni
Opfer?.... Immaginando tutto quello che probabilmente mi aspettava,
sentivo dentro una ripugnanza al ritorno, una inquietudine mortale....
Eppure bisognava ritornare!... Ripresi dunque la via per accostarmi
all’orribile casaccia scoperchiata; e quando me la vidi a breve
distanza grandeggiare sull’umile linea della spiaggia, provai un
sentimento di vero odio, come se vedessi un nemico.

Ma poichè avevo cominciato con le buone sorprese, una seconda doveva io
trovarne al ritorno; e la più allegra di tutte.

Giovanni Opfer mi venne incontro con in testa un bellissimo _fez_
rosso, che gli dava una fisonomia lieta e quasi trionfale:

— Buone nuove, mio caro! La nostra orribile prigionia è ormai
finita!... Ma voi, che Dio vi benedica!... Dove siete stato?...

Gli raccontai la mia storia e gli domandai perdono d’averlo così
egoisticamente abbandonato. Egli mi disse che aveva pensato di spiegare
la mia scomparsa in modo da far credere che io — nella mia qualità
di _professore_ — mi ero recato dal sotto-prefetto di Alghero a
sollecitare la nostra liberazione. E m’assicurava che la sua storia non
aveva trovato increduli!...

Gli risposi che avrei voluto essere il suo concittadino Rembrandt
e fargli subito il ritratto, da conservare e tramandare ai miei
figliuoli, quando ne avessi avuti.

Allorchè giungemmo alla spiaggia, tutti i passeggeri della _Sardegna_
erano all’aperto. Essi guardavano con lieta aspettazione verso il mare,
a una barchetta che lentamente si accostava.

Dopo poco vidi mettere piede a terra un bel vecchietto, elegantemente
vestito di nero, che seppi essere il medico primario di Alghero. Chiese
che ci avvicinassimo. Quando ci ebbe visti bene allineati dinanzi a
lui, mise l’occhialino e domandò sorridendo:

— Loro signori stanno tutti benissimo?...

— Tutti benissimo!

— In questo caso io li dichiaro liberi dalla quarantena; e possono
passare meco in città.

Nel ritorno, più d’uno dei liberati volle congratularsi con me e
ringraziarmi calorosamente.... Io me la cavai con delle interiezioni
prudenti.

Finalmente entrammo nella vecchia Alghero — così cara a Carlo Quinto
e così volentieri saccheggiata dai suoi lanzi — io e l’amico Giovanni
Opfer, sopra una carrozzella molto sgangherata, ma soddisfatti e
allegri proprio come se fosse quella la meta lungamente desiderata di
un caro nostro pellegrinaggio.... Mentre stavamo fermi sulla porta per
la visita dei doganieri, ricordo una vecchia giallognola e grinza, che
ci fissava con due occhietti che parevano spiritati. Poi disse forte,
in puro castigliano:

— _Que feos_ (brutti) _son, estos forasteros!_

E fu con questo saluto che io feci il mio ingresso nella bella isola
del Giudice Nino e di Leonora d’Arborea.




DAL TACCUINO D’UN ASTEMIO.


Tre antichi cipressi, piantati a distanza eguale come per formare un
triangolo, alti e nerissimi contro l’aria della notte, incoronano la
cima. E giù per l’ampia distesa vagamente ondulata della collina, si
svolge e si adagia la bella vigna, tutta lussurreggiante di tralci e di
polloni, ricca per i suoi grappoli maturi che qua e là si travedono nel
fogliame.

Il vecchio contadino, che sta a guardia dell’uva, siede innanzi alla
capannuccia di frasche secche, con l’innocuo fucile appoggiato a uno
dei cipressi, fumando la pipa.

La vigna discende giù fino al torrente fiancheggiato da vecchi alberi
di giunco; poi risale e veste co’ bei filari allineati tutto il pendìo
dell’altra collinetta che mi sta di faccia, terminata in alto da una
folta siepe di biancospino.


Vanno per l’aria serena delle canzoni lente, amorose, con delle
modulazioni e delle cadenze melanconiche. Di là da quella siepe i
contadini, uomini e donne, seduti in largo semicerchio, sfogliano
il frumentone e cantano e canteranno sempre fino a che il lavoro non
sia finito.... Nei brevi intervalli del canto, mi giungono il fruscìo
della sfogliatura e i colpi secchi delle pannocchie monde, che gli
spannocchieri e le spannocchiatrici lanciano allegramente al di sopra
delle foglie, ammucchiate dinanzi a loro. Le pannocchie vanno a cadere
in mezzo all’aia pulita e vi disegnano un grand’arco giallo.

Per la vigna, in alto e in basso, ogni tanto passano come dei brividi
d’aria fresca; i polloni più alti si dondolano sussurrando, i tralci
si curvano uno verso l’altro, i grappoli si baciano fra loro; forse
discorrono.... Guardo la Luna che vien su dalle alture di Ciagnano e
di Settefonti. È la grande Luna rossa d’agosto, che illumina ancora
le notti di settembre col suo disco enorme; e pare una faccia umana
e animata; la Luna che su questi stessi colli, tanti secoli fa, gli
Etruschi temettero e adorarono. I suoi primi raggi, interrotti ancora
dalle forre della montagna, calano obliqui sulla vigna e gittano nella
mobilità del largo fogliame delle chiazze luminose e tremolanti,
variate e disfatte ogni momento da inquiete figure d’ombre che
passano....

Il vento della notte si mette a soffiare più forte; e dai pali
sbattuti, dalle viti piegate, dai tralci, dalle foglie, dai grappoli
viene su un miscuglio di rumori, che a momenti paiono un tumulto
lontano di voci vive, gridanti alla rinfusa.


.... Ancora pochi giorni, e per tutti questi bei filari passerà la
vendemmia. I grappoli neri e bianchi verranno pigiati nei tini, il
mosto fermentato entrerà nelle botti; poi il vino puro e generoso andrà
per il mondo, entrerà nei corpi di tanta gente e il vapore salirà ai
cervelli.... Chi può dire la potenza che adesso dorme silenziosa entro
un grappolo d’alicanto o di moscato o di canajolo? — Nel mondo greco
Giove avea vinto Saturno, ma dovette piegare dinanzi alla vittoria di
Dioniso, il giovane Dio dal sorriso ambiguo, dai fianchi tondeggianti,
dai capelli biondi e intrecciati come una femmina. Il flauto lidio
ruppe le corde alla lira dorica e co’ suoi toni affascinanti dominò
la religione nei misteri occulti, diresse le orgie esultanti sotto
l’occhio del Sole. E una nuova poesia si sprigionò dai petti anelanti
e un nuovo fervore scaldò le menti cercatrici della parola che viene
dall’anima delle cose....

L’Ebrezza! Ma che cosa è mai questo nuovo e misterioso coefficiente che
gli uomini hanno il potere di inocularsi volontariamente, aggiungendolo
ai proprii sensi come una forza nuova di sensibilità, allacciandolo
allo spirito come le due piccole ali che cingevano i piedi a
Mercurio?... Guardate: essa è come un salto repentino con cui la
Psiche umana balza in uno stato diverso dal consueto. Il senso intimo
dell’essere, l’aspetto del mondo, la fisonomia e il valore della Vita
cangiano a un tratto per il suo incantesimo. È ascensione o discesa? È
forza o debolezza? È liberazione o servitù?... L’Ebrezza è forse come
l’iride, che ha la tinta e la sfumatura di tutti i colori. — Dalla
blanda caldezza cerebrale in cui lampeggiò l’estro divino d’un poeta,
all’istupidimento del briaco che cade sotto la tavola: dalla incipiente
e dolce eccitazione nervosa, che nella donna inspira la pietà e l’amore
e nell’uomo la generosità e l’eroismo, al furore brutale che scatena
l’orgia svergognata nei bordelli e fa trarre i coltelli nelle taverne:
dai sogni pieni di brio confidente e di consolazione, vaporanti da
un bicchiere prelibato, alle cupe visioni e agli atroci spasimi del
delirio alcoolico, che tormenta e ammazza.... quale immensa distesa
di episodi umani attraverso la vita, attraverso la storia, e tutti
derivanti dal medesimo principio!... Nelle chiese e nelle reggie,
dentro ai palazzi e dentro ai tuguri, per le piazze e per gli ospedali,
nel consorzio e nella vita solinga, dovunque vive questa povera
schiatta umana avida di sensazioni, bisognosa di sonno e di oblio, che
diramazione smisurata e fantasticamente varia di effetti futuri! E come
sono tutti collegati a questa pianta che ora verdeggia tranquilla sulla
collina, a questi grappoli che ora finiscono di maturare in silenzio e
brillano sotto la Luna!

E dopo tutto: quando è che può veramente dirsi degli uomini che essi
sono bene in cervello? Chi ci porge la verità? È nella regola o nella
eccezione che si trova la saggezza?... Salomone, il re savio, ha
scritto: “date del vino a coloro che sono oppressi dalla fatica e a
coloro che vivono nell’amaritudine del loro cuore.„

.... Il mio intanto è divorato da una lunga afflizione tormentosa!...
Io guardo la bella vigna distesa sotto i miei occhi e penso che tutto
un mondo di sensazioni e di energie, di eccitamenti, d’estri e di
immagini, tutto uno stato dell’animo, tutto un aspetto della Vita e —
chi sa?! — forse il più forte e il più felice, mi è duramente conteso
da una curiosa condizione del mio organismo.

O bella baccante cantata da Euripide, che giaci seminuda col capo
cinto di nebridi sacre, invano tu balzeresti da terra mandando il grido
del Dio che ti possiede e m’inviteresti a seguirti alla montagna per
mescolarmi con te alla festa di Bromio! Perchè dovrei io seguirti?...
O allegri bevitori della taverna d’Averbach, cantati da Goethe, come
brilla il vin del Reno nei vostri bicchieri e come sono pazze le
vostre canzoni! Ben poterono Faust e Mefistofele sedersi invitati alla
vostra tavola ospitale. Io no. Per voi, allegri bevitori renani, la mia
calamità sarebbe considerata come un difetto spregevole. Sono un povero
Astemio....


Ma perchè non posso anch’io bere del vino? Perchè questa “parte
di Sole„ che scende a imprigionarsi nei grappoli, non può essere
assimilata anche da me e circolare nel mio sangue e giocondarlo? Perchè
esso, “la letizia degli uomini e di Dio„ com’è chiamato dal Salmista,
— appena mi tocca le labbra, e le mie nari sentono il suo odore —
un senso di dolorosa repugnanza si solleva da tutto il mio essere?
Astemio!... Onesta parola mi suona come una umiliazione e una condanna;
e io mi rodo dentro e provo un fremito di rivolta, figgendo gli occhi
sulla vigna.

.... E su dal torrente, nell’aria interposta fra le due colline, si
alzano e si muovono delle figure, confuse da prima, e che via via si
rendono più distinte e chiare nel lume argenteo della Luna.... È una
gran folla silenziosa, una folla varia e bizzarra di gente di tutte
le epoche e di tutti i paesi, vestita di tutte le foggie. E vedo
che tutti bevono facendo un gesto di beatitudine.... I sacerdoti nei
camici bianchi e nelle lucenti dalmatiche alzano con solennità i calici
d’oro; i poeti, con l’alloro in testa e gli occhi scintillanti, fanno
il gesto di brindare in grandi nappi d’argento coronati di rose....
Ai sacerdoti, ai poeti, ai guerrieri de’ tempi andati veggo che si
uniscono allegramente delle belle donnine, vestite all’ultima moda,
eleganti e spigliate.... Esse si accostano ridendo agli uomini antichi;
toccano i calici coi lunghi bicchieri spumanti, toccano le patere
antiche, e gittano indietro le teste graziose come già prese da un
principio di ebrietà.... Da tutte le parti il vino brilla, spuma, si
riversa dagli orli spandendosi a torno in allegri zampilli.... Vino
bianco, nero, color d’ambra, color di rubino, color d’ametista: vino,
vino, vino dovunque si posano avidamente i miei occhi.... O Tantalo,
Tantalo!... Dopo breve ora quella moltitudine comincia ad essere più
animata, i volti più accesi, i gesti più audaci e più ditirambici....
Alcuni pochi, data un’ultima libazione, si lasciano andar giù come
persone vinte dal sonno e scompaiono nel fondo; ma la gran massa
è sempre più infervorata nel bere.... E il bere non le basta più.
Principiano i corpi a dondolarsi e le gambe a muoversi ritmicamente.
Un gran ballo incomincia.... Tutti si muovono, aerei e silenziosi,
senza indizio di musica. Forse una musica c’è, ma non arriva al mio
orecchio; forse il ritmo della danza l’ha ognuno nei nervi e nel
sangue; un ritmo interiore che sempre cresce e rinforza, perchè i
movimenti si fanno sempre più rapidi, sempre più concitati.... Come
ondeggiano soavemente le moderne figure femminili! Che ardore, che
gioia, che abbandono beato in quelle strane coppie danzanti!... Il
cerchio del ballo di mano in mano si allarga, si allarga, avvicinandosi
a me.... Ecco che nella sua grande orbita esso arriva quasi a lambire
il ciglio delle due colline.... I danzatori mi passano sempre più
vicino con rapidità vertiginosa; parmi di sentire il loro anelito
caldo.... i capelli odorosi e svolazzanti delle donne quasi mi sfiorano
il viso.... Alcune mi gittano passando una occhiata lucente.... Oh
anch’io, anch’io!... Dovessi morire subito dopo, voglio per una volta
sentire in me la divina Ebrezza, vivere un’ora entro questo circolo
incantato, mescolarmi, e sia pure per un minuto solo, a questa danza
felice!... Che è?... Mentre stavo per lanciarmi disperatamente in mezzo
al vortice, vedo che alcune coppie si separano e si scompigliano;... la
danza par che abbia trovato un intoppo; si arresta, si scioglie.... E
io mi veggo dinanzi un argine di persone che mi sbarrano il passo e mi
atterriscono. Tutti hanno il volto corrucciato e mi guardano con occhi
ostili.... Le donne torcono la faccia disdegnando e sogghignando.... I
sacerdoti protendono le braccia verso di me come in atto d’anatema. E
per la prima volta da quella gran folla taciturna esce un coro di voci:
_Via di qua l’Astemio!_... È terribile!... Poi delle braccia di bronzo
mi urtano il petto; ed io cado riverso.

                             . . . . . . .

Sogno o visione, dev’essere durato un pezzo. Mi levo su da terra
con le membra indolenzite pel freddo della notte. Non odo più il
canto degli spannocchiatori; il guardiano dell’uva dorme; la Luna è
prossima a tramontare.... La bella vigna, la vigna maledetta si adagia
placidamente sulla collina; e i tre cipressi gittano la lunga ombra
funerea sui tralci e i grappoli....




AL “LOHENGRIN.„


Chi l’ha visto e non se ne ricorda? La sala del Comunale di Bologna
poco prima delle otto di sera si riempiva di gente sollecita, seria
e quasi grave. Molti avevano sotto il braccio un grosso volume; una
vera stranezza questa, nella nostra vita teatrale. Perfino le signore
entravano nei loro palchetti e si assidevano sul davanti silenziose,
con una certa aria composta ad aspettazione solenne. Platea, scanni,
poltrone, palchi, “Barcacce„ tutto affollato. Ognuno era già al suo
posto. Gli uomini quasi tutti in falda e cravatta bianca, le signore
scollate e quasi tutte elegantissime.

In quei dieci minuti d’attesa, la sala del Bibbiena sonava d’un
ronzio contenuto e profondo, che dava idea d’un gigantesco alveare.
Su nell’alto loggione scappava ogni tanto un brontolìo più rude, una
risata, un grido. Ma era l’affare d’un momento.

L’orologio del teatro segna in punto le otto; e nella sala s’è fatto
subitamente un silenzio completo. Ecco: Angelo Mariani è salito al suo
scanno di direttore; gira lentamente a destra e a sinistra la sua bella
testa chiomata; accenna con un sorriso calmo a Camillo Casarini che dal
suo palco sindacale gli risponde con un sorriso nervoso: e attacca in
orchestra il preludio.... Un coro di angeli cala lentamente dagli alti
cieli e restituisce alla terra la Coppa miracolosa in cui il Salvatore
consacrò il vino nell’ultima cena con gli Apostoli....

Il sipario è già alzato. Enrico l’Uccellatore espone i motivi della sua
venuta al popolo di Brabante, alle dame e ai baroni adunati sulle verdi
sponde della Schelda.


La giovane contessa ***, bellezza bionda, passionata e superba, è
nel suo palchetto di primo ordine, a sinistra, molto verso la bocca
d’opera. Guarda la scena col _libretto_ in mano ed ha seduto in faccia
un vecchio maestro di musica, tutto attento a voltare le pagine dello
spartito collocato fra i due sul damasco del parapetto. Il marito non
è con lei. Il marito era da un pezzo wagneriano convinto, ardente e
battagliero; e si era apparecchiato a quella prima rappresentazione
come ad un duello, passando sul pianoforte ogni giorno, per delle
ore di seguito, lo spartito, discutendo al Club con gli amici per
combattere e dissipare le prevenzioni sfavorevoli. La moglie, buona
musicista anch’essa, lo seguiva in questo suo entusiasmo, ma non in
tutto, com’egli avrebbe voluto.

La contessa si lagnava e s’impazientiva qualche volta delle frequenti
astruserie e delle lungaggini dello spartito; aveva dei dubbi, faceva
le sue riserve. In conclusione, aspettava d’assistere proprio alla
esecuzione compiuta della scena e capiva che solamente allora si
sarebbe sentita in grado di pronunciare il suo giudizio definitivo....

— Va bene, aspetta dunque d’aver sentita l’opera in teatro; ma bada
di non perdere una nota. Almeno le prime sere bisognerebbe proibire
le visite. Io, a buon conto, poichè non voglio nè distrarre nè essere
distratto, ho già comprata una poltrona e sarò solo tutta la sera col
mio spartito sulle ginocchia.

Difatti il conte sedeva in una poltrona verso il termine della fila,
dal lato opposto al palco della moglie.


Intanto il primo atto dell’opera va innanzi. Telramondo ha finito il
suo racconto calunnioso; Elsa chiamata a scolparsi dell’accusa di
fratricidio, entra a passo lento tutta assorta nella sua visione e
narra il sogno del suo bel campione consolatore. Il _Giudizio di Dio_
omai è deciso; e un araldo con voce tonante domanda se v’ha qualcuno
che voglia entrare in campo per Elsa di Brabante, contro l’uomo che
accusa. Dopo il primo appello, il secondo; e nessuno si presenta....
L’orchestra esprime i fremiti dell’angosciosa aspettazione. Elsa,
nel fervore della sua fede, lancia una preghiera a cui si uniscono,
inginocchiandosi, le donne con grida e gesti supplichevoli. A un tratto
una luce meravigliosa tremula dal fondo e balena sulle acque del fiume,
a cui tutti si voltano attoniti, estatici, atterriti, gridando al
miracolo:

_Chi vien? Chi vien? Quale arcano portento!_

Finalmente Egli giunge, ritto sulla navicella tirata dal candido cigno,
e indi a poco si mostra sulla verde sponda del fiume tutto chiuso nella
sua bella armatura d’argento; giunge l’invocato, l’atteso, il cavaliero
del San Gral, splendido e tranquillo come una apparizione celeste!


La musica saliva per tutti i gradi della potenza descrittiva e
appassionante, e pareva che imprimesse una strana, una fulminea forza
di ascensione all’anime degli spettatori. La sala era come piena di
lampeggiamenti elettrici. Quelli del pubblico che stavano seduti si
trovarono in piedi di scatto senza avvedersene; e da tutte le parti
del teatro scoppiò un plauso, un grido continuato e insistente,
col quale tutti, artisti e profani, wagneriani e anti-wagneriani,
esprimevano e mescolavano nella stessa dilettosa corrente lo stupore e
l’ammirazione....

Angelo Mariani marcò l’ultima battuta del pezzo, crollando fieramente
il capo come un leone vittorioso; poi si voltò, pallido e sorridente, a
ringraziare il pubblico.


Non è a dire se il conte wagneriano era rapito dalla musica e lieto
del successo. Tutte le sue facoltà nuotavano come in un fluido di
appagamenti deliziosi. Quel trionfo di Wagner e degli interpreti
era un poco anche trionfo suo. Lo sentiva e n’era beato. — Che gioia
incontrarsi dopo due ore al Club, faccia a faccia cogli increduli, coi
diffidenti, cogli oppositori, e poterli confondere con la eloquenza di
un semplice: ebbene?!...

Quando in fondo alla scena comparve Lohengrin, gli sembrò che tutta
l’anima gli si condensasse negli orecchi e negli occhi. Eppure un
pensiero venne subitamente a mettersi come di traverso a quella sua
attenzione così intensa; e si voltò per vedere sua moglie. Quante
volte, discorrendo dell’opera o passando al pianoforte lo spartito,
le aveva ripetuto: — Sentirai a questo punto! O bisogna essere dei
cretini, o bisogna urlare. — Lo vinse quindi una voglia irresistibile
di leggere sul volto della bella contessa le commozioni tante volte
pronosticate.

Guardò sua moglie, ma essa non guardava la scena.... Strano! Non
guardava nemmeno allo spartito.... La contessa era sempre seduta di
fronte alla bocca d’opera, ma piegava recisamente tutta la testa e
la voltava in su, arrotondando un poco il collo candido e slanciato.
I grandi occhi neri erano anch’essi voltati in su e guardavano
fissamente, dando a tutta la faccia l’espressione elegante e spirituale
di certe teste femminili di Guido. Era pallida, immobile; salvo che il
petto, nettamente contornato dal _corsage_ di velluto nero guernito di
trine, si vedeva mosso da un respiro frequente e vivace.... Il marito
volle cogliere la direzione di quello sguardo e gli parve di verificare
che andava diritto, come un filo luminoso, a finire in terz’ordine,
tra il palco n. 16, e il palco n. 18. I tre palchi occupati dalla
“Barcaccia„ di cui egli era socio....

Si sentì correre per le vene un rimescolamento sinistro. Perchè, mentre
duemila teste erano tutte intente verso la scena, solo la testa di sua
moglie era voltata altrove?... Chi guardava? Chi poteva attrarla così,
in quel momento solenne dell’opera?... Chi era più potente di Wagner,
della musica, della curiosità femminile?... A chi _sacrificava tutto
questo_, in quel punto, sua moglie?... Spinse gli occhi avidamente
verso la “Barcaccia„ ma per la posizione in cui era non potè vedere
alcuno. Vide appena le due lenti di un binoccolo sporto un poco
avanti e puntato verso il palco della contessa.... Inutile pensare
a collocarsi più oltre per veder meglio. Con quel po’ po’ di piena
il conte si vedeva serrato nella sua poltrona come una pipa nel suo
astuccio. E dovè rassegnarsi ad attendere.

Ma appena terminato l’atto, si precipitò nel palchetto e gittò al
terz’ordine un’occhiata da falco. La “Barcaccia„ era vuota. I soci,
come al solito, s’erano sparsi per i palchi o si erano ritirati nella
retrosala a fumare e a far commenti sullo spettacolo e sul pubblico.
Allora, sempre ritto in piedi, guardò sua moglie, che, levando verso
di lui la sua bella faccia stanca, gli ripeteva con voce fioca e
carezzevole: — Immenso! Immenso!

— E l’arrivo del Cigno?

— Immenso!

Il conte si morse il labbro inferiore; poi s’abbandonò a sedere vicino
a lei, com’uomo stanco e sbalordito d’entusiasmo musicale.


Durante il resto dell’opera, la contessa *** fu attentissima. Leggeva
il libretto, riscontrava col vecchio maestro i punti più singolari
della musica sullo spartito, esclamava, applaudiva.

Invece il conte nella sua poltrona tutta la sera non fu più visto
voltare una pagina dello spartito e guardava innanzi a sè con occhi
da smemorato. Un forte armeggio facevano i pensieri dentro il suo
cervello; gli pulsavano le tempie e tratto tratto si sentiva la faccia
fredda di sudore.

Che era avvenuto? Sua moglie non era più quella di prima?...

Dopo un primo mulinello confuso d’idee, d’ipotesi e di congetture, la
mente diede luogo ad un lavoro un po’ più ordinato.

E cominciò la ricerca dell’_uomo_. Il conte passò ad uno ad uno in
rassegna i suoi amici, i suoi conoscenti, gli amici e i conoscenti
della moglie, le amiche, le case delle amiche, i viaggi fatti insieme,
le assenze sue da Bologna.... Nulla che dèsse presa ad un sospetto
ragionevole! La contessa aveva sempre condotto una vita irreprensibile;
e mai l’ombra di un sospetto era passata sopra la loro felicità. Appena
ella mostrava di compiacersi degli omaggi resi alla sua bellezza;
e s’anche non fosse stata virtuosa, la sua alterezza aristocratica
avrebbe fatto la guardia alla sua virtù. Un tempo, quando era ragazza,
s’era bisbigliato di una passioncella romantica per il figlio minore
del marchese D***, un amico d’infanzia; ma furono voci vaghe e senza
costrutto. L’amico d’infanzia da parecchi anni era andato ufficiale
di marina e non s’erano quasi più visti. E poi dov’era ora l’amico
d’infanzia? A Bologna no certo. Forse al Chilì!...

Ad onta di tutte queste considerazioni rassicuranti, il conte aveva
sempre dinanzi alla fantasia la testa e gli occhi di sua moglie voltati
in su, verso la “Barcaccia„ e proprio al momento dell’arrivo del
Cigno....

All’uscire di teatro, l’aria fresca della notte lo riscosse un poco;
e gli parve di sentirsi più tranquillo. Aiutò la contessa a salire in
carrozza e le disse, ridendo, che passava al Club, a fumare uno sigaro
e “a godere del suo trionfo.„ Quando entrò, la sala era piena di soci
che parlavano a quattro, a sei alla volta, commentando lo spettacolo,
disputando sull’opera e pronunciando i soliti apoftegmi musicali.
Appena lo videro gli furono intorno in dieci o dodici. Qualcuno gli
espresse il suo entusiasmo, qualcuno si diede per vinto, qualcuno
sottilizzò in distinzioni per coprire la propria disfatta.

Tutta l’anima del conte s’espandeva nel suo wagneriano trionfo. Dopo
dieci minuti egli aveva riconquistata la sua gaiezza, il suo brio, la
sua formidabile parlantina di polemista musicomane.... All’improvviso
sente una voce: — Non mi conosci più? — Si volta, e squadra da capo a
piedi un giovanotto alto con la cèra abbronzata, la barba a ventaglio,
gli occhi scintillanti e assai distinto nella eleganza del suo abito da
società. Era “l’amico d’infanzia!„

L’amico d’infanzia che non era altrimenti al Chilì, ma invece a Napoli;
che non aveva voluto mancare alla prima del _Lohengrin_ e si proponeva
finalmente di passare a casa sua un due mesi e mezzo di permesso....


Le chiacchiere per Bologna dopo un mese furono molte. Si disse perfino
che il conte li aveva sorpresi _in flagrante_ ed ucciso senz’altro
l’ufficiale di marina. Poi si parlò di un duello all’americana, poi di
separazioni e d’altre cose simili. Finalmente un bel giorno si seppe
che il conte e la contessa erano partiti insieme per un lungo viaggio.
Non ritornarono che dopo due anni, in apparenza benissimo fra loro;
ma fu subito notato che ognuno conduceva la vita per conto suo, il più
allegramente che poteva.


                          _(17 novembre 1882)_

Il _Lohengrin_ si ridà al Comunale. Ma sono trascorsi undici anni ed
è passata di molt’acqua sotto ai ponti. È morto Camillo Casarini, è
morto Angiolo Mariani, è morto il giovane uffiziale di marina. Anche la
nostra giovinezza è morta.

Non sono ancora le otto, e il teatro è già pieno e quasi affollato
come undici anni fa. Arrivano le signore, ma sono meno silenziose.
La contessa *** è nel suo solito palco seduta in faccia alla bocca
d’opera. Suo marito non lo vedo in palco e nemmeno nella fila delle
poltrone. Molti sostengono che la contessa è ancora una bella donna, e
parecchi giovinetti le fanno vistosamente la corte; ma sono trascorsi
undici anni ed è passata di molt’acqua sotto ai ponti....

Seduto in “Barcaccia„ io mi diverto a guardarla, riandando in fantasia
i tempi e i casi trascorsi. Sono curioso di vedere se, all’arrivo del
Cigno, la potenza di un ricordo la indurrà a voltare la testa in su,
verso di noi.... Ma no. Quando balena la luce nel fondo e le prime
sezioni del coro cominciano a cantare:

_Chi vien? Chi vien? Qual arcano portento!_

ella reclina la testa come gravata di subita stanchezza; e rimane così
fino al termine dell’atto.

Vi ricordate, signora, vi ricordate?




OMBRA MESTA.


Mentre salivamo lo scalone, il signor Antonio, ansando un poco, mi
diceva:

— La casa dove entriamo, caro maestro, è come un sepolcro.

La contessa morì a trentaquattro anni. Un fiore di bellezza, un angelo
di bontà, mio caro! Il vecchio conte, malato e imbecillito da un pezzo,
non esce mai dalle sue stanze, ov’è tenuto d’occhio dai servitori
perchè di tanto in tanto è preso da un certo furore malinconico.... Il
figlio va da anni per il mondo e ne fa, dicono, d’ogni colore. Quando
gli morì la madre, aveva otto anni; dopo, gli ammattì il padre.

Anche prima che uscisse di minorità, il consiglio di famiglia lo
lasciava fare a suo modo.... Che si poteva aspettare di buono da
un ragazzo venuto su a quella maniera e con una vena di pazzo nel
cervello, per giunta?

Debiti il padre ne aveva già fatti parecchi; e col figliuolo cominciò
a piovere sul bagnato. Ma che dico a piovere? Grandine secca, mio caro!
Per modo ch’io non so più a che santi raccomandarmi. Il contino non fa
che scrivermi: _vendete!_... Si fa presto a dirlo. I poderi, a buon
conto, no, almeno fin che campa il vecchio. Bisognò quindi buttarsi
alla roba di casa; arazzi, pizzi, quadri, mobiglie antiche, manoscritti
e libri rari della biblioteca, avorii, bronzi, maioliche.... Questa
casa era piena come un uovo e gli inglesi venivano a visitarla con
la _Guida_ in mano; ma oramai di tante belle cose stampate sulla
_Guida_ non rimarrà da mostrare più che le stanze nude e gli scaffali
vuoti!... Finora ero riuscito a conservare intatto il salotto della
contessa. Ma che! M’aspetto che un giorno o l’altro bisognerà vendere
anche il monumento di famiglia che è alla Certosa. È un precipizio,
uno sterminio addirittura!... Sapete quel che hanno avuto il coraggio
d’offrirmi per quei due specchi grandi di Boemia? Seicento lire!... Ora
voi mi direte quanto posso sperare, a pronti contanti, dalla vendita
del pianoforte.... Il pianoforte della povera contessa!...


Intanto un servitore ci aveva introdotti nell’appartamento nobile, e,
precedendoci per le vaste camere, spalancava le finestre.

Entrammo nel salotto della contessa, ove dopo la sua morte, mi diceva
il signor intendente, non era più entrato alcuno, da esso in fuori, che
due volte ogni anno ci viene con un servo a dar aria, a spolverare, a
vedere se ogni cosa è al suo posto. Poi richiude le finestre e cala le
pesanti cortine di damasco rosso cupo.

L’ampio salotto non aveva l’aspetto di quelli che ora la moda
predilige: coi mobili che paiono, più che messi, gettati là di sghembo
e ad angoli eterocliti; con tutto un alto e basso di poltrone e
poltroncine e seggiole e _puff_ e divani di forme disparate, coperti di
stoffe a tinte diverse.

L’occhio avrebbe cercato invano i frequenti riflessi, autentici o no,
delle vecchie ceramiche italiane vicine a delle lacche giapponesi
e a delle terre cotte di fornace modernissima; e non si perdeva,
errando vagamente, sovra una moltitudine di ninnoli di ogni materia
e d’ogni foggia, profusi in ogni angolo con eleganze civettuole di
studiato disordine, e mescolati agli acquarelli, alle fotografie, alle
caricature, ai pezzi di tessuti rari, alle piante esotiche, formanti
tutt’insieme uno scompigliato _bric-à-brac_ di sagome e di colori; in
mezzo al quale si può egualmente immaginare la dama vera e la dama di
princisbecco, senza che, per questa ultima ipotesi, l’ambiente stoni.

In quel salotto, invece, molto ricco e molto elegante ma aristocratico,
serio e quasi contegnoso per la compostezza geometrica nella quale
era ordinato, non si poteva pensare che ad una vera signora, sovrana
amabile e rispettata là dentro, in mezzo a gente degna di lei.

Il signor Antonio mi fece notare sovra un tavolino di mogano un piccolo
telaio col ricamo appena cominciato; e un volume della _Matilde_ di
Eugenio Sue, lasciato aperto all’ultima pagina letta — tant’anni fa —
dalla povera contessa.

Poi mi avvicinai al piano, che già io conoscevo di fama. Era un
bellissimo Erard a coda, dei primi venuti da Parigi allorchè i
pianoforti di questa fabbrica cominciavano a trionfare dei Bessendorf,
dei Graf e degli altri di fabbriche germaniche, allora le più reputate.
— Quando arrivò a Bologna, fu oggetto d’invidia a molte signore e formò
le delizie dei maestri e dei dilettanti che frequentavano la casa.

Il mio compagno, cavando dal petto un forte sospiro, alzò la mano ad
un ritratto appeso alla parete sovra il pianoforte, lo sollevò dalla
parte inferiore della cornice e trasse di sotto una piccola chiave.
Quello era il ritratto della contessa morta. Una dolce fisonomia di
donna bionda, che pareva guardarci co’ suoi due grandi occhi pieni
di mestizia pacata; e come il quadro mosso continuava a ondeggiare
lentamente, quegli occhi e tutta la fisonomia pareva che si animassero
e prendessero una espressione di vivace diniego. Volevano dire che non
era bene ciò che noi stavamo per fare?...

La mia testa cominciò a riscaldarsi un poco.

— Prima che apriate, — disse allora il signor Antonio con voce grave
e mostrandomi la chiave stretta fra l’indice e il pollice, — prima
che apriate il pianoforte, voglio che sappiate che esso venne chiuso
or sono ventisei anni e non fu riaperto più mai. Io ricordo la triste
notte in cui fu chiuso l’ultima volta.

La contessa amava suo marito. Dopo parecchi anni di vita condotta
sempre insieme, continuava ad amarlo come al tempo della luna di miele
e forse più. Il tempo, le distrazioni del mondo, gli urti frequenti con
l’indole aspra e difficile di quell’uomo, nulla era valso a scemare in
lei la passione ardente e la devozione senza limiti. L’amava e n’era
gelosa.... Ed egli? Un tempo, certo, il conte aveva amato con trasporto
sua moglie; ma negli ultimi anni io, vivendo nell’interno della casa e
tenendo gli occhi aperti, cominciai ad accorgermi che il carattere e la
condotta del conte mutavano in peggio.

Era giovane, ricco, istruito, e piaceva molto alle donne con quella sua
aria d’uomo strano.

La contessa aveva di tanto in tanto delle giornate fosche e una triste
inquietudine che le si leggeva negli occhi. “Hai i nervi, Elena?„ le
diceva il conte, scherzando e carezzandola. Allora lei si lasciava
fare; e finiva sempre col tornar tranquilla come una buona bambina....

Il diavolo fece capitare a Bologna la signora H***, una bella danese
coi capelli color di cenere, che, appena arrivata, cominciò ad
attirare gli sguardi di tutti e a dar materia di discorsi in tutte
le conversazioni. Vestiva con eleganza originale, montava a cavallo
benissimo, cantava, pattinava e faceva molte altre cose con una
disinvoltura, dicono, insuperabile.

Sulle prime, il conte non volle inchinarsi all’idolo di moda; anzi
ostentava per la forestiera una certa indifferenza sprezzante.

Gli uomini!... Un giorno, alla passeggiata, il conte era a piedi e
la signora H*** gli cavalcava poco lontano. A un tratto, essendosi
allentata la cinghia della sella, la bella danese accennava a cadere.
Il conte accorse, l’aiutò a scendere, le aggiustò la cinghia e la
rimise in sella. Pare che la signora sapesse ringraziarlo con tanta
amabilità, che il giorno dopo il fiero conte era in casa di lei a farsi
ripetere i ringraziamenti! Dopo quindici giorni, la forestiera faceva
visita alla contessa; e da allora in poi non tralasciò mai di venire
ogni martedì sera alla conversazione della sua nuova amica.

Io non pronosticava nulla di buono.

Il conte, bravo dilettante con bella voce di baritono, dopo che aveva
fatto conoscenza con la Danese, s’era rimesso a cantare con passione;
e la contessa si divertiva moltissimo ad accompagnarli al piano quando
eseguivano insieme dei duetti. Gli invitati applaudivano, sino a
rompersi i guanti ed esclamavano che un terzetto meglio assortito era
impossibile trovarlo!...


Un martedì notte di quaresima, il ricevimento della contessa era
riuscito numeroso ed allegro come al solito. Il conte e la Danese,
accompagnati sempre dalla contessa, avevano cantato benissimo.

Verso le due, le signore erano già partite; dei pochi invitati rimasti,
alcuni stavano nella sala del _buffet_ fumando e sorseggiando il
_bischof_; altri sedevano qua e là nell’appartamento, in crocchi,
discorrendo. In questo salotto non erano rimasti che la signora H***,
il conte e la contessa, tutti e tre qui al piano, a studiare un duetto
nuovo che si proponevano di eseguire il martedì venturo.... Io ero
nella stanza qui accanto e ascoltavo. Da prima sentivo la contessa
che col suo tocco elegante sonava una frase; poi la voce del conte,
poi quella della Danese, poi le due voci insieme. Spesso uno dei
due sbagliava la nota o il tempo, e bisognava tornare da capo. Il
conte s’impazientiva, le signore ridevano.... Quando, a un tratto,
che avvenne?... Io sentii un grido soffocato, che mi parve della
contessa; poi silenzio; poi un gran colpo nel pianoforte. In due passi
fui lì su quella porta e guardai.... La contessa, in piedi, turbata,
pallidissima, voleva chiudere il piano e stava girando con mano
convulsa la chiave nella serratura. Il conte, seduto su quel divano
là, pareva molto impacciato. Di faccia a lui la signora H***, messosi
l’occhialino al naso, avea l’aria di guardare con molta curiosità il
dipinto del soffitto....

Capii ogni cosa. Nei due che stavano dietro a lei, certamente la povera
contessa aveva sorpreso una parola, un gesto, un bacio, che so io?...
Qualche cosa che, in un attimo, convertiva in certezza un sospetto, un
dubbio, un tormento serbati dentro da un pezzo e combattuti chi sa con
quali sforzi dell’animo!...

Da quel momento cominciò il precipizio di questa casa. Con quello
finirono per sempre i ricevimenti della contessa, la quale si chiuse
nel suo gran dolore e, gracile come era, dopo due anni morì. Il conte
la pianse al suo capezzale di morte e la pianse dopo; poi, rimasto
senza alcun freno e messosi allo sbaraglio, si diede a spendere e
straviziare, fin che lo dovettero rinchiudere come pazzo.

Il figliuolo, voi lo vedete, sta ora compiendo questa opera di
maledizione.


Io aprii il piano, non senza prima avere armeggiato un po’ di tempo
nella serratura arrugginita.

Tra il leggìo e la tastiera, erano parecchi fogli di musica
manoscritta, accartocciati e spiegazzati in più versi, come buttati là
con mal garbo e schiacciati nel rinchiudere in fretta l’istrumento.
Quei vecchi fogli, rivedendo la luce dopo tanto tempo, parve che
mandassero un leggero fruscìo di allegrezza. Li acconciai e distesi
sul leggio alla meglio. Era un duettino, nuovo per me, di Simone Mayer,
musicato sovra una anacreontica del Vittorelli.

Mi venne voglia di passare il duetto e cominciai a ricercare la
tastiera.... Il povero vecchio Erard aveva molto sofferto a restare
tanto tempo serrato e inoperoso; a qualche tasto le corde non
rispondevano affatto, le altre davano un suono incerto, frizzante e
nasale. Ebbi la impressione di sonare un cembalo del secolo passato. Il
duettino cominciava:

    Non t’accostare all’urna
    Che il cener mio rinserra;
    Questa pietosa terra
    È sacra al mio dolor.

Le due voci successivamente cantavano su questi versi un bell’_andante_
patetico, poi s’intrecciavano con accordi e imitazioni nella strofa
seguente:

    Disprezzo i doni tuoi,
    Ricuso i tuoi giacinti:
    Che valgono agli estinti
    Due lagrime, due fior?

Il duetto, ripeto, era nuovo per me, e mi piaceva e m’attraeva per la
sua purezza melodica e la dotta semplicità della sua armonizzazione.
Ci sentivo dentro la buona vena dell’autore della _Saffo_. Cominciai
a cantarlo a voce spiegata, accompagnandomi e sforzando il vecchio
istrumento a rendere tutte le sonorità che gli erano ancora rimaste
nelle corde e nella cassa armonica. Cantando guardavo istintivamente
il ritratto della contessa ridivenuto immobile, guardavo i suoi occhi
grandi e mesti, voltati verso di me.... Mi pareva di risvegliare,
per forza, delle voci di gente morta. A quando a quando sentivo dei
brividi per la vita e avevo dell’incertezza nella voce.... Il duetto
concludeva:

    A che d’inutil pianto
    Assordi la foresta?
    Rispetta un’ombra mesta
    E lasciala dormir!

Io non saprei dire quanto tempo abbia messo a decifrare e cantare quel
pezzo di musica, nè mi curai di osservare l’effetto che il mio canto
produceva nel signor Antonio, fermo in piedi alla mia destra. So che,
mentre ripetevo l’ultima frase:

    Rispetta un’ombra mesta....

che moriva flebile in un _diminuendo_, sentii che il signor Antonio mi
toccò sulla spalla, reprimendo a mezzo una esclamazione di spavento.
Alzai gli occhi di sopra il leggio, e sulla porta di faccia vidi la
figura del conte, che guardava e ascoltava, immobile.

Confesso che ebbi paura. Mi alzai di soprassalto, ritirandomi di
qualche passo indietro dal pianoforte; e anch’io mi misi a guardare il
conte. Indossava una sopravvesta gialla, aveva la barba e i capelli
piuttosto lunghi, ben pettinati, evidentemente ritinti. Entro tutto
quel nero artificiale, spiccavano il pallore giallognolo della sua
faccia smunta, con gli zigomi cascanti e gli occhi dilatati, in cui
rutilavano due lagrime grosse....

Quando mi vide allontanato dal piano, si fece innanzi nel salotto,
con quel passo incerto e sollevato a scatti, che è proprio dei malati
alla spina dorsale.... Con un gran colpo energico richiuse il piano,
schiacciando di nuovo insieme al leggìo i poveri fogli del duetto;
si mise la chiavetta in tasca, e senza rivolgere a noi nè un’occhiata
nè una parola, scomparve come un triste fantasma per la porta ond’era
venuto; e che subito qualcheduno richiuse dietro di lui....

Noi due, senza metter tempo in mezzo, uscimmo dal salotto muti,
circospetti e credo in punta di piedi.... Io per il primo, chè il
signor Antonio rimase un poco indietro a chiudere le finestre e calare
le tendine.

E dopo quel giorno non mi fece mai più parola di vendere il pianoforte
della povera contessa.




COI SORDINI.


I.

Accadde ben presto quello che il vecchio Petronio aveva preveduto e
temuto; e, caldo ancora del rabbuffo che aveva toccato dalla signora
contessa, entrò nella stanza del giovinotto.

— Mio caro, non sono io stato indovino? Il vostro strumento mi tira
addosso de’ guai. Scendo adesso dal quartiere della signora che m’ha
parlato chiaro: o smettere di sonare o uscire subito da questa casa!...

Il giovine prima terminò la sua frase, posò l’arco attraverso il
leggìo, posò il violino sulle sue ginocchia, poi guardò il vecchio
portiere con un viso contrariato, come chi è distolto bruscamente da un
pensiero piacevole:

— Uscire da questa casa, voi dite?... O dove volete ch’io vada?
Aspetterete almeno, m’immagino, che arrivi la fine del mese. E intanto
pretendereste voi altri ch’io non sonassi più? È impossibile!

E tolto l’arco e il violino, ricominciò la frase di prima, socchiudendo
gli occhi per gustarla meglio. Il portiere allora si mise a girare per
la stanza, a battere i piedi, a sbuffare, a bestemmiare. Il giovine si
scosse:

— C’è bisogno di bestemmiare?... Certo non patirò che, per causa
mia, voi andiate incontro a de’ guai; ma, d’altra parte, io ho
bisogno di studiare; e non posso mica andare a sonar il violino nella
Montagnola.... Vediamo di rimediare....

E alzatosi, trasse dal cassetto del tavolo un gingillo d’ebano che
adattò alle corde dello strumento, inforcandolo e premendolo molto sul
ponticello. Poi diede un’arcata lunga e vigorosa che, alla prima, fece
al vecchio stendere in avanti tutte due le mani come per impedire che
quel suono, così maledettamente vibrato, scappasse fuori dalla finestra
e salisse in alto a suscitare nuovi sdegni. Invece, con sua meraviglia,
il portiere non intese più uscire dallo strumento che un suono, o
meglio, un gemitìo velato, ottuso, tenuissimo che moriva, dopo avere
appena vissuto, nel breve spazio della cameretta.

— Va bene così? — chiese sorridendo il giovine dopo aver durato un
poco a segare con l’archetto sulle corde. Il portiere, col viso d’uomo
contento, senza dir parola ma facendo di gran segni d’assenso col capo,
uscì dalla stanza e chiuse l’uscio.

Però il giovine fu preso da una grande melanconia. E rimase un pezzo
fermo, la testa appoggiata sul leggìo, tenendo l’archetto e il violino
con le braccia penzoloni. La sua mente usciva da quelle quattro pareti
silenziose e saliva in alto. Ma adesso era sola e non l’accompagnava
più un’onda di suoni che entravano per le grandi finestre e andavano
a volteggiare lassù in quel quartiere signorile e misterioso, che egli
non aveva mai visto, ma del quale tante volte aveva fantasticato....

Perchè bisogna sapere che in quel palazzone antico, taciturno e chiuso,
in cui non si vedeva entrare che qualche vecchio e qualche prete; in
quel palazzone, in cui fin le cameriere parlavano poco e a bassa voce
e i servitori pareva che camminassero in punta di piedi, la contessa
bigotta e settuagenaria viveva con una nipote che aveva appena toccati
i sedici anni. Il padre e la madre di questa erano morti quand’era
ancora bambina; e anch’essa, a vederla così pallida ed esile, così
scema d’ogni vivacità e d’ogni calore di giovinezza, non dava molta
speranza che potesse vivere lungamente. Che malattia aveva? Ogni
settimana veniva in casa un medico celebre per la cura delle malattie
nervose; ma parlava poco e vagamente del male; non scriveva quasi mai
alcuna ricetta, fermandosi ad alcune prescrizioni igieniche, a qualche
consiglio intorno al modo di vivere della giovinetta.

Il giovine s’era innamorato di lei. A spiegare il come, egli per primo
sarebbe stato molto imbrogliato. Appena l’aveva vista qualche volta un
momento, essendosi trovato, per caso, nell’androne del palazzo mentre
la carrozza usciva. Aveva visti due occhi grandi e fissi, raggianti nel
pallore del visino bianco e delicatamente profilato; e sopra quegli
occhi e quel visino una massa di capelli biondi più che il frumento
maturo, diffusi intorno al capo come un’aureola vaporosa. Nient’altro.
E glie n’era rimasta nell’animo come una impronta di visione bella
e triste, che gli dava, ripensandola, un misto di dolcezza e di
accoramento.

E nella sua camera chiusa non si sentiva più solo. Quella fanciulla era
vicina a lui, nel piano superiore, sopra il suo capo. La sentiva vivere
con lui; gli pareva di respirare con essa. Andava agitando nel cervello
dei sogni magnifici, strani, pietosi, inverosimili. S’immaginava
d’essere predestinato ad una pia impresa di liberazione, come gli eroi
delle leggende wagneriane; e quando la sua mente correva al premio, non
sapeva immaginarlo altrimenti che vedendo sè inginocchiato dinanzi a
quella sottile figura di bambina bionda, che si chinava sopra di lui e
gli posava, leggero leggero, un bacio sulla fronte....

Quando prendeva il violino e stava delle lunghe ore dinanzi al leggìo,
il suo sonare da prima era come un balbettìo musicale incerto e timido;
poi era una prova meno imperfetta, a periodi più lunghi e con qualche
ripresa nei passi più importanti, a fine d’impadronirsene per bene.
Da ultimo, sicuro del fatto suo, il giovane violinista riattaccava ed
eseguiva di seguito il suo pezzo intiero con tutta quanta la forza
e la maestria di cui aveva saputo rendersi capace. E allora, mentre
gli occhi parevano intenti alla pagina, l’anima sua saliva coi suoni,
andava su al piano nobile, in cerca di lei, la trovava e si compiaceva
ad avvolgerla devotamente come in una nube di suoni.... Dopo quelle
peregrinazioni fantastiche, il giovine si raccoglieva in sè stesso
stanco e soddisfatto e con una vaga persuasione che quel suo messaggio
musicale non era andato sperso nel vuoto; era arrivato a lei ed era
stato bene accolto.


Donde poteva venirgli quella persuasione?

Qualche volta, dopo avere suonato, si metteva alla finestra che dava
nel grande cortile interno del palazzo. Era un bellissimo cortile
fabbricato parecchio tempo dopo la facciata del vecchio edifizio,
nei primi anni del secolo decimosesto. Al di sopra del vasto portico
marmoreo si lanciava una galleria ariosa, allegra e come superba
delle sue svelte colonne d’ordine corinzio; e sopra la galleria
girava un fregio di lavoro così fine ed elegante, che la tradizione
volle attribuirlo a Francesco Francia, l’orefice. Il giovine guardava
lungamente d’intorno e in alto. Pareva un curioso che aspettasse, e il
cuore gli batteva forte; tanto forte che qualche volta se lo sentiva
come salire in fretta palpitando verso la gola.... Ma il cortile era
sempre solenne e silenzioso, la galleria sempre allegra e vuota, e il
bel fregio del Francia pioveva dall’alto un sentimento di bellezza pura
e fredda. Del resto non un volto o una voce o un altro segno qualunque.
Il giovine si ritraeva dalla finestra col viso triste; ma nell’intimo
suo non rimaneva a lungo senza conforto perchè pensava che i suoni del
suo strumento erano saliti in alto; e un animo gli diceva che essa li
aveva ascoltati.

E riprendeva coraggio e sonava ancora.

Ma d’ora innanzi non più! Quei pesanti sordini rendevano il suo violino
poco meno che muto; ed egli lo guardava con aria scorata; come se fosse
diventato un arnese inutile fra le sue mani.

Quando svogliatamente si rimise a sonare, da prima gli pareva d’essere
come in uno di quei sogni, allorchè noi con la volontà e con le
membra ci sforziamo a fare una cosa e l’effetto non corrisponde. Ma,
continuando attentissimo nel lavoro dell’arco, a poco a poco i sensi
del violinista si acconciarono ad una curiosa metamorfosi. Quelle
note esili e lamentose, le quali in principio pareva che uscissero a
stento, e un momento appena, fuor delle corde mortificate dal peso
dei sordini, ecco che ora non solo si ripetevano nel suo cervello,
ma vi si completavano riguadagnando a grado a grado la sonorità, il
timbro, l’espansione di prima. Il giovine si riebbe dal suo avvilimento
e si sentì invadere da una letizia profonda.... Così dunque egli le
riaveva tutte ad una ad una le sue note, le belle e potenti note del
suo violino, che aveva piante quasi per morte! Ora esse echeggiavano
novellamente nella sensibilità del suo apparecchio acustico, e
poteva vibrarle a suo piacimento ingrossandole, assottigliandole,
stemperandole per tutte le sfumature del colorito musicale,
atteggiandole a tutte le intenzioni, a tutte le carezze e a tutti i
capricci del suo gusto d’esecutore!

E la sua mente riprese subito con gioia l’usato costume di tradurre la
musica in un linguaggio d’amore rivolto alla bionda creatura del piano
nobile. Il suo linguaggio divenne anzi, in quella seconda prova, più
inteso e più ardente. Le note e le frasi vaporavano come una sottile
colonna d’incenso dall’anima sua; forse erano la sua stessa anima, che
si dissolveva in esse e saliva.

Talvolta il giovane a un tratto interrompeva il suono e rimaneva
alcun tempo con la testa voltata in su verso il soffitto, ascoltando,
aspettando....

Un giorno, verso l’imbrunire, stava ripassando una riduzione per
violino della settima sinfonia di Beethoven. Terminato l’_andante_
e lo _scherzo egli_ incominciava l’_adagio_. Arrivato circa a due
terzi di quella pagina musicale così potente di passione, il giovine
marcava lentamente con l’arco del violino i quarti di una battuta
d’aspetto, quando, d’improvviso, si trovò ritto in piedi, con una mano
alla fronte, con tutta la persona in un atteggiamento di ascoltazione
attentissima. Che era accaduto?... Nel silenzio del palazzo, si
sentiva, sommessa per la lontananza, la voce di un pianoforte, che
eseguiva anch’esso l’_adagio_ della settima sinfonia. Il giovane
corse a spalancare la finestra e sentì che la voce del pianoforte
gli arrivava anche più distinta. Veniva dal piano superiore e si
spandeva pel cortile deserto. Giunta alla battuta d’aspetto, la voce
si tacque. Allora il violinista si rimise al leggìo ed eseguì, con mano
tremante tutto l’_adagio_ fino in fondo;... e il pianoforte non tardò a
seguirlo, terminando, con precisa misura, una battuta dopo di lui!

Il giovine era indicibilmente commosso; ma non aveva l’aria d’essere
molto sorpreso.


II.

La miracolosa corrispondenza dei suoni continuò. Per la gente che
abitava il palazzo, e che, in causa dei sordini, non udiva altro suono
che quello del pianoforte, il fatto fu accolto come un buon segnale
della migliorata salute della fanciulla. Per il giovine parve l’ultimo
termine de’ suoi desiderii e non cercava altro. Si chiudeva nella sua
stanza e vi rimaneva tutto il tempo che avea disponibile, sonando
Beethoven e aspettando la risposta. Questa gli veniva quasi sempre
verso sera, e consisteva in uno dei pezzi eseguiti dal violinista lungo
la giornata; il pezzo che a lui era parso più bello degli altri e in
cui egli aveva messo, forse, più sentimento di adorazione e più forza
di desiderio.

E la relazione dei due giovani rimase là. In tutto il rimanente la
stessa separazione assoluta. Non un biglietto nè un cenno nè un saluto;
mai nulla.

D’altra parte il violinista avea bisogno, per vivere, d’esercitare la
sua professione. Andava per le case a dar qualche misera lezione, e
sonava nelle chiese.

Quando giunse l’autunno, fu scritturato nell’orchestra del Comunale.
Soltanto due volte vide la fanciulla nel suo palco di famiglia,
in second’ordine; sempre col visino pallido e l’aria sofferente e
malinconiosa. Mostrava di non accorgersi quasi affatto delle persone
che venivano in palco e d’essere attentissima alla musica. Tutte due
le volte, a mezzo della serata, i suoi occhi, un momento, si volsero
all’orchestra e fissarono il giovine violinista che tremò nella sua
sedia sotto quello sguardo. Poi si ritrassero lentamente, dolcemente,
con una espressione di rinuncia rassegnata e triste.... Al domani,
il messaggio d’amore del violino fu più lungo; e la risposta parve al
giovine più appassionata.


Verso la metà di carnevale il violinista accettò di essere direttore
d’una piccola orchestra per due balli che la marchesa X*** avrebbe
dati, invitando specialmente le amiche di sua figlia, uscita di poco
dal collegio.

Abbisognava un vestito nero, ma egli, poveretto, non lo aveva! Allora
mise in mezzo il vecchio portiere, il quale la sera del primo ballo,
gli portò in camera un vestito completo “da società„ comprato con poche
lire. Il _frack_ era troppo lungo per la statura del giovine, ma il
vestito, nel suo insieme, poteva passare. Egli si annodò con cura la
cravatta bianca, prese sotto il braccio il suo violino chiuso nella
busta, e andò.

Gli avevano preparato uno sgabello su cui sovrastava alquanto alla
piccola orchestra e dominava la sala, rimanendo assai bene in vista, in
quell’appartamento signorile pieno di luce e fragrante di fiori. Nella
sala grande, verso le dieci ore, erano già adunate molte signorine
delle famiglie più ricche e aristocratiche della città. Alcune potevano
dirsi ancora delle bimbe.

La voglia di ballare essendo in tutte grandissima, verso le undici
il ballo era molto bene incamminato; e già alle ragazzine cominciava
a mescolarsi qualche mamma giovine. Il direttore della piccola
orchestra eseguiva i balli migliori del repertorio in voga. Dirigeva
e sonava, facendo spiccare briosamente nel concerto la bella voce
del suo Guarnieri. La contessina R*** fece notare alle sue amiche che
avevano per direttore d’orchestra un bel giovane bruno. Le ragazze lo
guardarono un poco con simpatia; ma qualcuna rise del suo abito troppo
lungo.

A un tratto, si propagò per la sala un moto di curiosità, e molti occhi
si volsero verso una delle porte d’ingresso.

— Hanno fatto il miracolo! — disse al vicino una vecchia signora. Una
giovinetta, alzandosi in punta di piedi, aggiunse: — Ecco finalmente la
Principessa invisibile!

Il direttore d’orchestra impallidì.

Intanto, al braccio del padrone di casa, appariva la signorina del
vecchio palazzo. Alta e sottile, nel suo abito bianco, col suo incedere
lento e gli sguardi raccolti, pareva che entrasse non a una festa da
ballo ma in chiesa. Gli uomini, per la massima parte, la giudicarono
distintamente bella.

Dopo alcuni minuti le fu presentato un bel giovine di maniere assai
eleganti; e si mise a ballare con lui. Finiti i giri del _valtzer_,
egli le si sedette vicino, studiandosi a farla parlare. Non pareva
facile, ma di tanto in tanto riusciva; e riuscì anche a farla
sorridere.

Aveva essa avvertita la presenza del violinista? Sì; egli n’era
convinto, lo sentiva.... Perchè dunque essa non gli volgeva gli occhi,
mai?

Il giovane attese un poco; poi cominciò a sentirsi dentro una vaga
inquietudine, poi una grande impazienza, e a breve andare un vero
spasimo intollerabile.... Insieme allo spasimo delle idee strane, come
dei guizzi ardenti, cominciarono ad attraversargli il cervello.... Per
esempio, avrebbe voluto interrompere a mezzo la suonata e andarsene; o
gli veniva una voglia secca di sbattere il violino contro il leggìo;
o di saltare dal suo alto sgabello in mezzo alla sala.... Ma intanto
il ballo procedeva inesorabilmente e a lui toccava di sonare.... E
sonava, sonava di tutta forza!... La sua fronte s’imperlava di sudore,
e dei momenti pareva che il braccio e le dita gli si irrigidissero,
mentre, agonizzando di desiderio, aspettava sempre dalla fanciulla una
occhiata, che non arrivava mai!...

Venne ancora la volta di sonare un _valtzer_. Era un _valtzer_ di
Giovanni Strauss, briosissimo pel ritmo e a fondo malinconico; uno di
quelli che Giorgio Sand disse nati da un misterioso amplesso del dolore
e della letizia.

La bianca giovinetta lo ballava col suo solito cavaliere e pareva
ogni tanto che quell’esile personcina, tra la folla delle coppie,
volteggiasse leggera leggera, abbandonandosi tutta alle braccia del
giovane.... Intanto il violino del direttore cantava con una voce così
sorprendente che il resto della piccola orchestra era come ridotto
a mezza voce. Gli astanti dovettero, per forza, occuparsi di questo
straordinario esecutore di balli; e osservarono il giovane che, ritto
sullo sgabello e pallido come un morto, dava dentro al suo violino con
delle arcate superbe.

Guardavano tutti, ma la giovinetta non guardava. Se non che, verso
la fine del _valtzer_, mentre il ritmo incalzava, mentre la voce
nervosa del primo violino pareva che tentasse di lanciarsi a sonorità
impossibili, nel silenzio della sala, sul fruscìo strisciato e
cadenzato dei piedi, s’intese uno strappo secco.... Il cantino dello
strumento del direttore s’era spezzato. La giovinetta, a quel punto,
ebbe un tremito per tutto il corpo, si fermò in tronco, e fissò i
grandi occhi sul violinista....

Il suo cavaliere la condusse verso un divano; e appena seduta essa
disse, con voce appena intelligibile, di non sentirsi bene. Di lì a un
quarto d’ora aveva abbandonato la festa.

La quale, non ostante, continuò in piena allegria. Al tocco, principiò
il _cotillon_ e alle tre il ballo era finito. Il direttore d’orchestra,
a malgrado de’ complimenti e degli inviti, non volle rimanere a cena
con gli altri sonatori, adducendo a scusa la sua grande stanchezza.

Chiuso nel suo pastrano e tremando pel freddo egli girò lungamente per
la città, a caso, sotto i portici silenziosi; e rientrò nel palazzo
solo verso le cinque. Giunto nella sua camera gittò il violino sul
letto e si mise alla finestra. La notte era rigida e serena, con la
Luna che volta al tramonto, illuminava tuttavia un pezzo del cortile e
della galleria, lasciando il resto nell’ombra fredda. Il giovane, coi
gomiti sul davanzale e la testa fra le mani, guardava nel cortile e
piangeva delle lagrime silenziose....


III.

Rimase a quel modo circa mezz’ora, quando fu scosso da un lieve rumor
di passi che partiva di su, dalla galleria. Fosse un servo? No, era
ancora troppo presto.... Il giovine guardava senza battere palpebra.
Il suono dei passi s’andava avvicinando. A un tratto, ai piedi
dello scalone che metteva nel porticato, vide una figura bianca che
lentamente avanzava.... Dio, era lei!

La giovinetta usciva di sotto il portico e si incamminava pel cortile.
Attraversata la parte in ombra, ella apparve nella piena luce lunare,
con la pettinatura disfatta ma vestita ancora del suo bianco abito da
ballo. Avanzava con passo sicuro, mostrando che si dirigeva all’uscio
dell’abitazione del portiere.

Il giovane lasciò la finestra, attraversò in punta di piedi la sua
camera, un breve corridoio, la stanza d’ingresso, ed aprì. La luce
entrò nel buio ambiente, e dopo qualche minuto secondo entrò la
giovinetta.... Alla prima egli volle prenderle tutt’e due le mani; ma
subito rimase interdetto e immobile, vedendo ch’essa aveva gli occhi
chiusi.

Aveva gli occhi chiusi e sorrideva, col volto triste, pallidissima. E
con quella voce, ch’egli non aveva mai intesa, gli disse: — Sono venuta
a dirti addio e per sempre.... Tu hai sofferto molto questa notte,
non è vero?... Io lo sentivo bene, ma sentivo anche di non poter nulla
altro che soffrire con te.... Il nostro amore è come un filo di seta
gettato sopra un grande abisso.... Che ci posso io?... Che ci puoi
tu?... La vita si compiace a combinare di queste cose assurde....

Accompagnò quest’ultima parola con un piccolo gesto di rassegnazione
stanca; e proseguì, sempre sorridendo:

— Questa notte sei stato geloso!... Il tuo cuore, difatti, era un
poco indovino; perchè essi pensano a fare di quel giovane il mio
fidanzato.... Povera gente!... Lo so io quali nozze mi aspettano. Sento
che fra pochi mesi io sarò morta....

Il giovane ruppe in un gran singhiozzo, e cadde in ginocchio dinanzi
alla fanciulla, mormorando: — Adriana! — La bianca veste profumata
della fanciulla toccava quasi il suo volto.

— Sai tu dirmi, — ella seguitò, — quanti germi uccida l’inverno nel
grembo oscuro della terra? E quanti fiori il vento di marzo faccia
cadere morti dagli alberi?... È la legge, mio caro, ed io mi sono già
rassegnata.... Ora sono venuta qui per dirti addio; e sono venuta anche
per esprimerti il mio volere, certo che tu lo eseguirai.

— A costo della mia vita, io lo eseguirò. Te lo giuro!...

— Ebbene, parti da Bologna. Parti presto e vai lontano, più lontano che
potrai. A che rimarresti? Ad aumentare le mie e le tue sofferenze!...
Parti; me lo hai giurato.

E intanto inoltrò le braccia nude e posò le mani senza guanti sulle
spalle del giovine.

— Poc’anzi tu mi hai chiamata col mio nome.... Io invece non conosco
ancora il tuo.... Non dirmelo!... Quello che t’ho dato io, nel mio
cuore, è tanto bello! E non voglio saperne altro; e con quello io
voglio pensare a te fino alla morte.... e anche dopo. Addio. Non ti
raccomando la mia memoria, perchè sono certa che penserai a me fino che
vivrai su questa terra.... e anche dopo.... Ci siamo amati perchè così
volle il nostro destino: e potemmo esprimere il nostro amore con un
divino linguaggio, noto solamente a noi due. Non ti rendere mai indegno
di questi ricordi.... Addio! Parti....

E il giovine inginocchiato, attraverso le lagrime, vide contro la Luna
la figura della giovinetta abbassarsi ancora un poco. Poi sentì sulla
fronte, leggero leggero, il bacio della sua bocca.... Poi la figura si
raddrizzò con uno sforzo energico, si volse alla porta, uscì.... Egli
la vide attraversare, più in fretta che non era venuta, il cortile,
entrare sotto il portico e dileguare nello scalone senza mai voltarsi.
Fermo sull’uscio sperò di vederla, di udire forse ancora la sua voce
dalla galleria.... Ma non sentì che il rumore lieve de’ suoi passi
perdersi nel silenzio. Intanto nell’aria fredda apparivano i primi
colori dell’alba....


Dopo una settimana, il giovane violinista era di partenza, avendo
accettata scrittura per il teatro di Corfù.




LORENZETTA.


— È qui — disse la vecchia. E presa per mano la nipote, s’avvicinò con
cautela all’orlo del ciglione di tufo che cadeva a picco sul fiume.
Il fiume in quel punto fa un ampio gomito e le acque in parte corrono
a precipitarsi nella cascata vicina, in parte s’avviano sotto la
cateratta e s’incanalano verso il mulino. Le due donne, con la testa un
poco avanti, guardavano al basso.

— È qui che cadde il tuo povero nonno. La notte era buia e freddissima;
s’era agli ultimi di carnevale. Chi sa se cadde per disgrazia o se fu
spinto da qualche malandrino?... La vecchia continuò, abbassando di più
la voce come parlando con sè stessa: — Discorsi se ne fecero molti in
paese; ma io ho sempre avuto il sospetto che non fosse nè per disgrazia
nè per volontà d’altri.... _Requiem aeternam dona eis, Domine_....

La nipote, con voce appena sensibile, articolava qualche monosillabo
della preghiera, accompagnando la voce forte della vecchia. Intanto
fissava nell’acqua profonda i suoi occhietti azzurri. E ascoltava
il suono del vento tra le canne spesse, che verdeggiano lì sotto,
all’angolo del fiume, e vengono su alte e sottili fino a toccare quasi
l’orlo della ripa.

A lei, in quel suono del vento, pareva di sentire una voce quasi
distinta: Vieni! Vieni!

Le due donne seguitarono la strada. La vecchia visibilmente raccolta
in un pensiero molto triste. La nipotina camminava leggera innanzi,
alzandosi ogni tanto sulle punte dei piedi scalzi, per vedere più
lontano.

Aveva compiti i sedici anni e pareva sempre una bimba. Figurina sottile
e stremenzita, capelli folti e nerissimi, come le sopracciglia, in
contrasto con la tinta turchina degli occhi. Con quelle sopracciglia
ella sapeva fare un giuoco di fisonomia strano. Mentre la sinistra, per
una contrazione dissimetrica, si corrugava e aggrottava fino a cuoprire
l’occhio, l’altra si andava inarcando su fino quasi a metà della
fronte; e allora col suo visetto regolare e smorto Lorenzetta pigliava
una espressione di piccola Tisifone. Per le genti di casa quello era
spesso un divertimento:

— Lorenzetta, fai un poco la faccia cattiva!

E Lorenzetta, quando era di buona voglia, faceva la faccia cattiva. E
la gente a meravigliarsi e a ridere; tranne la madre e la nonna, che
non potevano vedere quella faccia torva a quella strana figliuola. La
madre era stata incinta di lei quando accadde la disgrazia del nonno;
e a quel dolore e a quello spavento s’attribuivano la mala riuscita
della figura di Lorenzetta, quella anomalia della faccia, il suo umore
instabile e la sua indole caparbia. Tutt’insieme, la fanciulla era più
compassionata che voluta bene.

Passarono dinanzi al mulino; e a Lorenzetta non venne neppure in
mente di rincorrere, come soleva, le oche della mugnaia che stavano
gravemente accovacciate al sole. Pensava ad altro. Dopo altri dieci
minuti di strada la vecchia gridò:

— Ecco la Nina!

— La Nina con Lodovico! — aggiunse Lorenzetta.

Infatti di là dalla siepe, la Nina se ne stava sull’argine della
Savena, appoggiata al tronco di un pioppo; e a due passi da lei un
giovanotto, che molto animatamente le parlava, giudicando dai gesti,
così a distanza. La nonna apparve contrariata da quella vista.

— O che fa, che non viene?

— Non ci avranno ancora vedute.

— Oè! Oè!

I due non si movevano. Allora Lorenzetta raccolse di terra un sasso e
fieramente inarcando la figura sottile lo scagliò con forza. Il sasso
andò a battere nel tronco pochi palmi sopra la testa di Nina, che fece
un gesto di paura, guardò verso le due donne e disse: — Vengo! — Il
giovane intanto era già scomparso, dalla parte opposta dell’argine.

La nonna accolse la giovane con faccia burbera e cominciava ad
amministrarle una delle sue solite lavate di capo. Ma la Nina
l’interruppe con voce dolce e calma:

— Stai buona, nonna. M’ha promesso che, prima di sera, verrà a casa a
domandare di sposarmi. Se sarete contenti, bene; se no smetteremo di
parlarci ed egli andrà lontano a raggiungere suo padre!

La Nina era una bella ragazza florida, bionda e di forme piene. Un
vero contrasto al morale e al fisico con la sorella minore. Parlava
e si moveva lenta. Non s’adirava mai, se non di quelle cose che
potevano alterare la sua quiete; ed erano poche. Si sapeva bella, si
vedeva corteggiata e rideva volentieri coi giovani del dintorno; ma
era arrivata ai venti anni e nessuno l’aveva vista ancora innamorata.
Adesso Lodovico le piaceva e le conveniva per marito.

Nel ritorno, mentre la Nina e la vecchia camminavano lentamente,
Lorenzetta era corsa innanzi tanto che l’avevano perduta di vista.
La fanciulla strappava qua e là i ramoscelli sporgenti dalla siepe;
piangeva delle lagrime mute; ma reprimeva il singhiozzo che le saliva
alla gola dal petto ansante.

— Dunque non c’era più dubbio. Lodovico amava la Nina e voleva
sposarla.... Una bella infamia però dopo che la aveva innamorata a quel
modo con tante carezze, con tante paroline e regalucci, guardandola
con quegli occhi da traditore. E anche dei baci.... Sicuro! Anche dei
baci.... Che cosa era stato altro se non un vero bacio quello che le
aveva dato Lodovico, l’ultima notte di carnevale tornando dalla festa
da ballo del mugnaio?... Eh già!... Le sorelline minori fanno spesso
questo buon giuoco alle ragazze grandi da marito. Adesso capiva tutto!
Quelle dimostrazioni non erano state fatte che di riflesso e come un
mezzo per accostarsi meglio alla Nina e farle la sua corte con comodo
e piacerle. Lei infine che cos’era? Sempre una bimba! Una bimba che si
bacia anche così per chiasso e per calcolo, senza conseguenze.... Ma
lei se n’era innamorata per davvero di Lodovico!... Per davvero.... per
davvero!... — E il singhiozzo lungamente contenuto scoppiò in un pianto
di stizza e di dolore.

Quando giunse al fiume, non si ricordò nemmeno della storia, che la
vecchia le aveva raccontato mezz’ora prima. Guardò quello specchio
lucido e mobile sotto il sole, e, senza pensare, vi lanciò un sasso.
Lo vide fare il rimbalzello sul pelo dell’acqua, senza provarne alcun
piacere, benchè fosse quello il suo giuoco favorito nel quale era
orgogliosa di venir a prova coi più esperti birichini del paese.

Allora pensò al nonno che lì si era annegato quando sua madre era
incinta di lei. E si guardò intorno.... Come quella scena le pareva
mutata! Gli alberi tranquilli della riva e le case brune del paese
aggruppate un poco più lontano, presso alla strada provinciale; e
il campo verde del granturco che confina tra la casa e il greto del
fiume; e la chiesa di Sant’Andrea, con la facciata e il campanile
che dal punto più alto della strada domina la piccola vallata; tutte
queste cose pareva che con una fisonomia insolita guardassero lei,
proprio lei, Lorenzetta, e la interrogassero. — Perchè aveva pianto?...
Che cosa aveva?... — Lorenzetta, corrugando disugualmente le nere
sopracciglia, lanciò per risposta una esclamazione violenta, che
avrebbe anche potuto essere una bestemmia; troppo grande per quella
piccola persona!...

Dopo si sentì meno agitata. Raggiunta dalla Nina e dalla nonna, tornò
con loro a casa e discorse di cose indifferenti, facendo delle carezze
a Remo, il vecchio cane pastore che era venuto ad incontrare le donne.


In casa, la domanda di Lodovico per molte ragioni non poteva che
riuscire accetta. Bel giovane, aveva anche lui corsa la cavallina; ma
ormai toccava i trent’anni e accennava alla vita seria. Forte e abile
lavoratore. Mortagli la madre, suo padre se n’era andato in Sardegna
a lavorare nelle costruzioni ferroviarie ed egli ora viveva solo. Chi
meglio di lui poteva attuare il disegno vagheggiato dal padre della
Nina di farsi “il genero in casa„? Il vecchio avrebbe badato alle
fornaci e ai mattoni e il giovane alla lavorazione dei vasi e degli
ornati di terra cotta, che abbisognava d’essere rimodernata e spinta
innanzi con più d’energia. Fu anche stabilito che il matrimonio si
farebbe al più presto.

Quando a Lorenzetta diedero la nuova che Lodovico sarebbe venuto a
stare in casa con la Nina, disse che era quello che proprio lei voleva;
e battè le mani e si mise a saltare in segno d’allegrezza.

Lodovico cominciò ad andare in famiglia con la frequenza regolare dei
fidanzati. In quelle buone serate di maggio la famiglia si riuniva
sotto il portichetto basso, che serve come d’atrio alla vecchia casa
tutta annerita dal fumo delle fornaci vicine. La Nina, sicura d’essere
amata, faceva la calza cantarellando e rispondeva con dei monosillabi
o con una risatina ogni volta che Lodovico le si faceva vicino vicino,
parlandole all’orecchio. La nonna filava e teneva d’occhio i due
amorosi, mentre la madre era spesso in giro per qualche faccenda. Il
padre, sdraiato sopra una panca, fumava nella sua pipa e scambiava
qualche discorso d’affari col futuro genero. Ma presto gli venivano i
_pisani_, augurava la buona notte e andava di sopra.

Con Lorenzetta, Lodovico era sempre pieno di amorevolezza. La
accarezzava dolcemente e le chiedeva di fare “la faccia cattiva....„
Qualche volta anche si metteva a fare il chiasso come un monello e a
correre con lei fuori del portico, per il prato, sparso qua e là di
pezzi di cornici, di mensole, di orci, di olle, di vasi da giardino
d’ogni grandezza. Tutto questo materiale era disposto nel vasto prato
a mucchi, a piramidi, a gruppi irregolari e in file tortuose formanti
come un piccolo labirinto.

Ma l’umore di Lorenzetta diventava triste e bisbetico ogni giorno
peggio. Delle sere si accoccolava sola in un angolo buio del portico
e non voleva parlare con nessuno. Oppure per un nonnulla attaccava
brighe, specialmente con la sorella, dicendo che tutti la trattavano
male e scagliando a tutti delle impertinenze che finivano quasi sempre
in un gran pianto. E così piangendo o brontolando andava difilato nella
sua stanza, senza dare nemmeno la buona notte.

— Che cosa ha la bimba? — si domandavano con inquietudine la nonna e la
madre. Ma la Nina rideva volontieri di quelle bizze e anche della nonna
e di sua madre, che mostravano di darvi importanza.

Una sera, quando il padre era già andato a letto, Lorenzetta, che era
rimasta chiusa e dispettosa più del solito, uscì di sotto il portico e
giunta in fondo al prato si mise a chiamare:

— Lodovico! Lodovico!...

Ma il giovane, occupato allora a decidere un piccolo malinteso fra
lui e la sua innamorata, non badò. Trascorse un’ora. Accortisi della
assenza di Lorenzetta, cominciarono a cercarla in camera sua e per la
casa. La chiamarono ad alta voce dintorno a casa. Nessuno rispondeva.
Lodovico la cercava intanto aggirandosi per tutti quei nascondigli
del prato; e per un pezzo inutilmente. Ma passando vicino ad una
grande olla, senti qualcosa muoversi là dentro. Si protese sull’orlo
e abbassato il viso su quella piccola voragine buia, gli parve di
scorgere la fanciulla seduta nel fondo.

— Ma che fai tu qui dentro?... Come diavolo hai fatto ad entrare?

Da prima non sentì, per risposta, che un singhiozzo. Poi la voce di
Lorenzetta:

— Perchè non sei venuto quando ti ho chiamato?... Adesso voglio stare
qui!...

La voce aveva un accento fra accorato e stizzoso; e in quell’ampia
cavità di terra cotta, si ingrossava e veniva su dal fondo con un rombo
lugubre. Lodovico la pigliò colle buone:

— Vieni via, Lorenzetta, spicciati, che in casa t’aspettano e sono
stati in pena!

E intanto affondò nel vuoto il braccio vigoroso e si sentì subito
afferrare la mano dalle due di lei. Le manine della bimba bruciavano.
Aiutandosi anche coll’altro braccio, si diede a tirar su quel
corpicciuolo che gli pareva d’un peso insolito, come gravato di
volontario abbandono. Nel momento in cui la testa di lei usciva
dall’olla, i due visi si trovarono tanto vicini che gli aliti si
confusero. Poi a un tratto Lodovico si sentì piovere sulla faccia delle
lagrime scottanti; e tutte le membra di Lorenzetta sentì trasalire fra
le sue braccia e tremare.... Nel tornare verso la casa essa non ruppe
il silenzio che per dirgli a bassa voce:

— O credi tu che la Nina ti voglia proprio bene?...

Lodovico, per la prima volta, sospettò nell’animo della fanciulla
qualche cosa di triste. Ma non ci pensò più che tanto.

Il giorno del matrimonio, c’era tanto affaccendamento in casa che
nessuno badò alla sorella minore.

Quando gli sposi erano già tornati dalla chiesa e mancava poco al
pranzo, la madre, vedendola ancora tutta scarduffata e smessa, le
comandò d’andarsi a vestire e pettinare. Essa ubbidì di mala voglia e
si vestì alla peggio.

Il pranzo fu allegro e chiassoso, non disturbato dalla solita
tristezza della vicina partenza. La figliuola restava in casa; tutti
erano contenti. Anche Lorenzetta si sentì avvolta da quel calore di
allegria comune. Chiacchierò molto, rise molto e bevve d’un fiato
parecchi bicchierini di vino _santo_. Verso la fine del pranzo, spinse
la sua petulanza fino a montare coi piedi sulla seggiola e scherzare
colla chierica del giovane cappellano che le stava vicino. Ma quando
il maestro di scuola lesse il brindisi in versi; e con un bel giro
madrigalesco accennò ad una seconda visita che il “nume Imeneo„ doveva
fare a quella casa, e capì che si parlava di lei e vide che tutti si
voltavano verso di lei applaudendo, la povera ragazza si rannuvolò
subitamente e aggrottò le sopracciglia in modo anche più fosco del
solito.

— Faccia cattiva! — gridò la Nina ridendo e gettandole da lontano un
confetto.

Lorenzetta, in risposta, saettò alla sposa una occhiata in cui tutto si
sarebbe potuto leggere, tranne la benevolenza fraterna....

S’alzarono di tavola che già era buio; e appena bevuto il caffè si
cominciò a ballare. Gli altri invitati intanto arrivavano. I due sposi
aprirono il ballo. Poi Lodovico andò a prendere la cognatina; ma appena
fatti tre giri per la stanza, essa accennò che era stanca e andò a
sedersi presso la scala che conduce alle stanze di sopra.

Un’ora più tardi Lorenzetta, non vista, aveva infilata la scala, era
entrata senza lume nella sua stanza e, trovato a tastoni il letto, vi
s’era stesa sopra, senza spogliarsi.

Il ballo s’era sempre più animato; ed ella, nel buio, sentiva tremare
tutta la vecchia casa al pesante cadenzare di tutta quella massa
danzante. Venivano a lei i suoni acuti della monferrina e della polka,
insieme al vocìo della gente. Qualche volta le pareva di distinguere le
risate sonore della Nina, oppure la voce di Lodovico; poi tutto un coro
confuso di voci allegre acclamanti a qualche incidente del ballo.

La fanciulla teneva i pugni serrati contro la bocca e si sentiva
martellare le tempia. Dentro la testa non una idea chiara nè un
proposito formato; solo una punta di spasimo acuto, indicibile. Così
penò per delle ore con gli occhi spalancati. E il ballo durava sempre;
e i suoni e le risa e le voci seguitavano a giungerle agli orecchi; e
il tremito continuato della vecchia casa le dava un senso di turbinìo e
di vertigine universale.... Poi quell’acuto spasimo fisico cominciò ad
allentarsi e a svanire; ma intanto, a prendere il suo posto, entrava in
lei uno sconforto profondo, una disperazione assoluta di tutto.

— Addio, addio! — ripeteva sommessamente, con un gemere da bambina
malata. — Addio! Io sono una fanciulla disgraziata e cattiva.... Come
vuoi che io faccia a vivere con te? Come vuoi che io ti veda tutti
i giorni.... che parli con te, che scherzi con te, che mi metta a
mangiare con te? Tutti i giorni! Tutti i giorni!... Come vuoi che io
faccia?... Addio! Addio!...

E quel suo gemere pareva, a tratti, che si spegnesse in un subito
esaurimento della vita; ma poi ripigliava come prima; ed erano sempre
quelle medesime parole di lamento e di tenerezza.


Nella casa silenziosa, l’orologio a cucù dalla cucina aveva già suonato
le tre ore. Lorenzetta intanto aveva sentito morire i suoni, finire il
ballo, accomiatarsi e allontanarsi la gente chiacchierando e cantando.
Aveva sentito salire la scala e andare nelle proprie stanze la nonna,
il padre, la madre, i due sposi. Sentì anche pronunziare il suo nome e
poi la voce della madre:

— Lorenzetta è andata a dormire da un pezzo!

Quando non intese più il minimo indizio di gente sveglia, s’alzò e
scese chetamente la scala. Passando vicino all’uscio degli sposi, aveva
accostato l’orecchio e aveva sentito che non dormivano ancora....

Tirò pian piano il catenaccio della porta e uscì. Un vecchio fornaciaio
era già in piedi e stava ammucchiando delle fascine presso alla bocca
d’una delle due fornaci. Lorenzetta lo evitò girando dietro la casa; e
s’incamminò lungo la Savena.

La luna si vedeva già impallidire sopra Monte Donato, e sopra Monte
Calvo albeggiava la prima luce del giorno. Entro la piccola vallata,
anche tutta nell’ombra, non si udiva altro suono che quello, laggiù,
della cascata del fiume. Lorenzetta, a cui i capelli s’erano sciolti
nella lunga veglia, andava innanzi di buon passo senza guardare nè
a destra nè a sinistra. A un punto le parve di sentirsi seguita e si
voltò; era Remo, il vecchio cane pastore, che le teneva dietro a poca
distanza. Si fermarono tutti e due. Remo puntava sulla fanciulla i suoi
occhi umidi e grandi, come interrogandola.

— A casa! — disse lei con voce velata. Il cane non si moveva. — A
casa! — ripetè più forte, e accompagnò la voce con un gesto di comando
energico; e allora la bestia si incamminò lentamente verso le fornaci.
Lorenzetta cominciò a correre; ma il cane, che intanto s’era voltato a
guardare, si rimise a tenerle dietro di corsa anch’esso.

Quando giunse sull’orlo estremo del ciglione di tufo, Lorenzetta si
buttò in ginocchio, rivolta verso il fiume, guardandolo con gli occhi
fissi. Che vide ella mai? Nello specchio trasparente dell’acqua vide
forse la faccia d’un bel vecchio che, sorridendo, le faceva cenno
d’invito?... Oppure sentì ancora tra le canne la voce del vento: —
vieni! vieni! vieni! — come quando sua nonna le raccontò la disgrazia
del nonno?...

Dopo un poco, la fanciulla inginocchiata sull’orlo abbandonò la testa
verso il vuoto; e il corpo leggero si capovolse.... Non giunse alla
riva nemmeno il tonfo; ma solo il lieve crocchiare d’alcune canne
scompigliate, che subito si rizzarono verdi e tranquille. Il cane si
mise a urlare nel silenzio.




GALATEA.


I.

La carrozza, abbandonata la via maestra, s’era messa pel lungo stradone
interno ombreggiato di pioppi altissimi, sussurranti appena nel placido
meriggio. Già si vedevano i tetti della villa al di là degli alberi
del giardino. A un tratto il proprietario, interrompendo il racconto
sulle peripezie dell’ultima corsa al galoppo e puntando il dito, gridò
ai suoi tre amici: ecco la Luisa! — Gli amici guardarono in direzione,
ma fecero appena in tempo a vedere dietro la siepe una testa bionda
di donna e due spalle coperte da un fazzoletto rosso, che si celavano
fuggendo entro alla folta verdura. — Galatea! — esclamò ridendo uno dei
quattro, che era addetto d’ambasciata. Non so se gli altri fossero in
grado di cogliere il senso di questa allusione classica; però ridendo
assentirono e ripeterono in coro:

— Galatea! Galatea!

La villa, pel nostro paese, aveva un aspetto insolito, e molto
somigliava ad una fattoria inglese. Una casa padronale vasta, quadrata,
pulitissima, senz’ombra d’ornamento esterno; poco lungi due altri
fabbricati più bassi, di forme alquanto irregolari, puliti e nudi come
il primo. Intorno alle case non viali imbrecciati, nè aiuole piene
di fiori, nè vasi d’agrumi, nè piante esotiche. Appena dal lato di
settentrione un gruppo di vecchi alberi, avanzo d’un vecchio parco,
e alcune fila di vasi allineati accanto al muro della casa padronale,
rimanevano ad attestare malinconicamente le sconfitte del giardinaggio,
in quel luogo ove da più anni regnava, signore esclusivo, lo _Sport_.

Una siepe alta di biancospino circondava in quadrato la fabbrica e dava
al prato interno l’aspetto taciturno di un cortile chiuso. Ma appena
vi giunse la carrozza, due stallieri uscirono in fretta di sotto il
portico d’una delle case basse, e con essi sbucò fuori una torma di
cani saltellando ed abbaiando allegramente. Cani d’ogni razza, d’ogni
grandezza, d’ogni pelo; dal mastino danese, enorme e fosco, al festoso
e piccolo _terrier_, pezzato in color bianco e avana come i porcellini
d’India. All’intorno i prati si estendevano largamente, quasi a
perdita d’occhio; e la vasta monotonia del verde pallido era qua e là
interrotta da palafitte, staccionate, fossi e rialzi di terreno. Qui
passeggiavano e galoppavano i cavalli apparecchiandosi alle corse,
mentre più lontano pascevano tranquillamente delle cavalle famose nelle
genealogie dei corridori italiani.

A sedici miglia da Bologna, giù verso il Ferrarese, in questa campagna
solitaria, in mezzo a cavalli, cani, _jockeys, trainer’s_, stallieri,
scozzoni, cocchieri e cacciatori, la Luisa conduceva, a vent’anni, la
sua vita.

Fra tante bestie e uomini, unica donna; a meno che non si volesse
contare anche una vecchia più che settuagenaria, vedova dell’antico
custode della villa, che si vedeva di solito seduta in un canto della
cucina, a spennare le galline faraone e le anitre selvatiche.


La colazione del proprietario co’ suoi tre ospiti fu assai gaia.
Concorsero l’ottima tavola e l’appetito, la gioventù dei commensali
e il salotto allegro ed elegante al pian terreno, con la porta aperta
sul prato, nel quale i quattro amici, quattro _sportmen_ appassionati,
vedevano, come riunite in un quadro, tante cose, in armonia con la loro
passione privilegiata.

Il caffè era già servito; gin e cognac s’alternavano nei bicchierini
con rapida vicenda fraterna; e fraternamente confusi salivano al
soffitto il fumo delle sigarette e il fumo delle pipe.

— Santa libertà dei campi! — esclamava l’addetto d’ambasciata, mettendo
lentamente i piedi sopra la tavola sparecchiata. Ma intanto uno degli
amici, sdraiato sul divano, apriva un numero del _Gil Blas_ e lo
risospingeva in piena civiltà, leggendogli forte i passi più piccanti
di un recentissimo scandalo parigino....

Il proprietario disse alcune parole al cameriere, che subito uscì dal
salotto. Dopo cinque minuti l’uscio si spalancò in fretta, e, in mezzo
al fumo delle sigarette e delle pipe, i quattro videro comparire la
Luisa.

Le bellezze della ragazza avevano già una certa rinomanza nei
circoli della città, perchè più di un visitatore della villa n’era
ripartito entusiasta e ne aveva detto _mirabilia_. E quando il giovane
proprietario annunziava di volersi ritirare per qualche tempo in
campagna ad attendere in pace alle sue faccende, gli amici ridevano e
le signore di sua conoscenza lo proverbiavano.... Pretta e gratuita
malignità. Ad ogni modo, i tre forestieri si convinsero subito che,
quanto alla bellezza della giovane, la fama non aveva esagerato il
vero.

Era nata sul mare in un paesello di confine fra la Romagna e le
Marche; e nel suo corpo parevano concordate e fuse mirabilmente le
formosità dei due tipi muliebri. Un artista erudito avrebbe pensato
contemplandola a Perugino insieme a Melozzo da Forlì. — Alcune fattezze
del corpo, all’occhio di un raffinato, potevano apparire alquanto
grosse, se non che riguadagnavano subito in eleganza considerate
nell’altezza slanciata della taglia giovanile. Sulle larghe spalle
campeggiava una testa relativamente piccola, ricchissima di capelli
biondi traenti al castagno, pura e dolce nei contorni dell’ovale e del
profilo. Ma quella pura dolcezza era temperata, come in certe teste
romane, da due occhi fortemente incassati sotto l’osso frontale, e
dallo sguardo naturalmente altero e tranquillo. In una figura del suo
affresco _L’incendio di Borgo_, Raffaello ha saputo raggiungere anche
questo tipo di bellezza femminile.


II.

Ferma in mezzo al salotto, Luisa guardò il padrone in atto d’aspettare
un comando.

— Non ho bisogno di nulla, — questi le disse ridendo. — T’ho fatto
chiamare perchè questi signori desideravano di vederti.

La giovane era abituata a quello scherzo; forse se lo aspettava e
non ne parve punto turbata. Continuò a rimaner ferma, mostrando col
sorriso i denti bianchissimi, e girando uno sguardo pacato sovra i tre
forestieri.

I tre giovanotti avevano le facce alquanto accese e fissavano lei....

— Sai — proseguì il padrone — che questi signori ti chiamano Galatea?

— O che vuol dire?...

— Vuol dire — saltò su l’addetto d’ambasciata — che è inutile venire
da lontano apposta per vederti; vuol dire che scappi sempre via e, quel
che è peggio,... senza gittare la mela.

L’addetto era superbo d’avere così completata la sua citazione
virgiliana. Gli amici diedero in un lungo scoppio di risa. La ragazza
si sentì punzecchiata.

— Ma che mela mi va mai _melando_ lei!... Se vuol fare con me a’
proverbi, la metto subito in un sacco. Sa lei quello che dice l’acqua?
“Se non corro sempre, mi ammalo.„

— Brava! — esclamarono in coro. E avrebbero ben voluto che il dialogo
continuasse; ma la Luisa, come per dar ragione al suo denominatore, con
una brusca voltata di spalle era già uscita dal salotto, rapida come
v’era entrata....


E così, contenendosi in quella maniera, la Luisa era riuscita a farsi
nella casa una condizione di vita, che poteva dirsi invidiabile. Tutti
le volevano bene e la rispettavano; anche perchè, in origine, il primo
pizzicotto datole a un braccio da uno stalliere era stato seguito
subito da uno schiaffo formidabile....

Parlava e rideva con tutti; ma senza indugiarsi mai con alcuno dieci
minuti di seguito. Volevano trattenerla con pettegolezzi di cucina
e di scuderia o con propositi galanti? Senza dire neanche — scusate!
— tirava diritto canterellando; e di lì a qualche minuto la sua voce
argentina veniva giù da una stanza del secondo piano, o si udiva in
lontananza dall’orto o dal lavatoio.

Come aveva imparato così bene a fuggir via colei?... Galatea!

S’alzava coll’alba, e tutto il giorno era infaticabile alle faccende
di casa. La notte si coricava l’ultima e voleva che prima tutto fosse a
posto. In mezzo a tutti quegli uomini, essa, unica donna, era la buona
provvidenza, con l’ago e le cesoie per attributi; e a tutti rendeva
servigi, non permettendo nemmeno che la ringraziassero. Avevano finito
col temerla e obbedirla tutti senza accorgersene. Quella torma d’uomini
e di bestie aveva trovato una padrona.

E Luisa era felice?... Aveva venti anni!... Qualche volta in mezzo
alle sue faccende, anche lei, poveretta, si vedeva passare dinanzi
agli occhi un sogno di giovinezza; e mentre la visione passava, si
sentiva come lambire la fronte da una carezza leggera; e un soffio di
vita calda e inquieta si sentiva scorrere per le floride membra. La sua
gagliarda giovinezza espandeva in quell’ambiente tranquillo e uniforme
le sue forze lussureggianti, come una pianta di limone che è messa a
crescere in un vaso troppo piccolo, spinge le radici contro le pareti e
pericola di spezzarle....

Ma in quei momenti Luisa raddoppiava il da fare e tagliava anche più di
corto con la gente e fuggiva più lesta e cantava più forte.

Della sua infanzia passata in riva al mare, aveva conservate certe
canzonette malinconiche e la passione del bagno. Nei pomeriggi
estivi, quasi ogni giorno, essa prendeva dalla guardaroba un lenzuolo
bianchissimo, acconciandoselo al capo e traendoselo dietro come un
manto da regina; e andava al lavatoio posto a settentrione dietro
la casa, dietro gli alberi del giardino, e nascosto metà da questi,
metà da una fila di vecchi giunchi piantati in riva all’acqua. Là
si spogliava e si bagnava un’ora, come una ninfa antica, sicura
e tranquilla del fatto suo. Intanto tutti gli uomini erano alle
loro faccende; ma, dato ancora che qualcuno si trovasse per
combinazione intorno a casa, a nessuno poteva venir l’idea indiscreta
d’approssimarsi. Almeno questo era il convincimento di Luisa.

Una volta però, mentre faceva le viste di nuotare in quel brevissimo
tratto d’acqua correndo col pensiero alla spiaggia dell’Adriatico,
sentì nel prato vicino il galoppo di un cavallo che approssimava. Alzò
un poco la testa e guardò fra i giunchi. Era Gyms, il capo _trainer_,
che veniva innanzi diritto, proprio verso il lavatoio, galoppando con
l’aria distratta. Si avvicinò tanto, che già Luisa vedeva la sua testa
sormontare le cime dei giunchi. Allora mandò un grido. L’inglese le
rispose con un — _oh!_ — che avrebbe potuto voler dire tante cose.
Sferzò il cavallo a sinistra e si allontanò.

L’aveva egli veduta?...

Gyms era un giovanotto di media statura, di membra gagliarde, coi
capelli biondi e sempre studiosamente pettinati, il viso freddo e
gentile. Godeva già d’un bel nome nelle scuderie italiane; era stimato
e temuto da tutto il personale di servizio come il padrone e forse più.
Anche Luisa sentiva verso di lui una certa deferenza; ed era l’unica
persona della famiglia con cui trattasse da pari a pari.

Quand’egli era fuori di casa, essa qualche volta entrava nella sua
stanza e notava volentieri che non era ricca di mobili ed elegante
come quella del padrone, ma pulita e propria, all’incirca, come quella
dei forestieri. Sopra il capezzale ammirava una bella fotografia: il
ritratto della madre di Gyms, che aveva tutta l’aria d’una vera signora
inglese. Sul tavolino accanto al letto, stavano due grossi volumi
rilegati in pelle scura e filetti d’oro. Erano il _Paradiso perduto_ e
la _Bibbia_. Luisa non capiva naturalmente una parola d’inglese, ma si
fermava qualche volta a sfogliare i volumi e a guardare le incisioni. E
intanto con la mente giovanile fantasticava....


III.

Nemmeno la scuderia le era indifferente. Anzi, a forza di sentirne
discorrere, aveva cominciato ad amare, a modo suo, lo _sport_ con
le sue funzioni e attribuzioni. All’epoca delle corse attendeva
con qualche ansietà; e gli annunzi delle vittorie le davano tanta
allegrezza, che quella del padrone era diversa ma non maggiore.

Un giorno verso il tramonto, affidata la cura del desinare alla
vecchia, era entrata nella scuderia dei puledri; a fare una visita,
diceva essa, ai suoi _signorini_. Nella stalla non trovò alcuno. Il
vasto locale era quasi buio e il silenzio profondo, solo interrotto
ogni tanto da qualche brusco movimento o scalpitìo dei giovani animali.
Luisa cominciò a passare lentamente dinanzi ai _boxes_, chiamando
ogni puledro per il suo nome. Quando giunse dinanzi al suo puledro
prediletto, questo, ricordandosi certo dei pezzetti di pane e di
zuccaro avuti in regalo, guizzò le orecchie, nitrì allegramente e
sporse il collo sopra il cancello. Allora Luisa si mise a lisciarlo
con la palma della mano, dandogli dei nomi gentili come ad un bambino;
e nel passare la mano su quel collo così liscio, morbido e caldo,
e nell’adoperare quelle parole tenere e vezzeggianti, la giovane
donna si sentiva invasa a poco a poco da un senso di intima e nuova
tenerezza indicibile, nella quale s’insinuavano forse di nascosto il
presentimento dolce e il desiderio della maternità....

All’improvviso la donna mandò un grido. La sua mano si era incontrata
con un’altra mano piuttosto grossa e callosa, che insieme con la sua
lisciava il collo del puledro.... Si voltò e conobbe nella oscurità
Gyms, fermo in faccia a lei. — Che fate voi qui? — gli gridò la Luisa,
colta da un subito istinto di diffidenza. Il _trainer_ per abitudine
parlava pochissimo; quel giorno poi si sarebbe detto che aveva fatto
sacramento d’essere muto.... Non ci furono quindi più parole fra i due;
ma nell’ombra confusa le due figure s’agitarono in una fiera lotta, che
per il maschio non dovette essere troppo fortunata, perchè, dopo alcuni
minuti secondi, si sentì il picchio sonoro di un corpo fortemente
sbattuto contro l’assito del _box_.... E la Luisa, lesta come una
gatta, in due salti si trovò fuori dell’uscio della stalla.

Guardò intorno se vedeva alcuno; si rassettò con le mani i capelli
alquanto scomposti e mosse verso la cucina, in apparenza tranquilla, ma
con gli occhi che parevano più incassati del solito. Giunta sull’uscio,
mormorò fra i denti:

— Cane d’un inglese! Bisognerà dunque che io tratti anche te come tutti
gli altri....


Passò del tempo. Una mattina verso le nove, la Luisa, sentendo del
tramestìo intorno a casa, guardò dalla finestra e vide due stallieri
che venivano dalle praterie, portando sulle braccia Gyms con la testa
fasciata. L’animoso giovane, volendo portare per forza un cavallo a
superare l’ostacolo, aveva, come dicono nel gergo, fatto _panache_
ed era piombato a capofitto sul duro terreno. Il cavallo, anch’esso
malconcio, lo seguiva lentamente zoppicando, condotto a mano.

Con questo semplice avvenimento, cominciò per la donna una vita del
tutto nuova; quella dell’infermiera. Da prima s’erano temute per il
_trainer_ le conseguenze d’una commozione cerebrale; ma il pericolo
fu scongiurato ed egli potè cavarsela con un mese di letto e di cura
rigorosa.

La Luisa ogni giorno passava delle lunghe ore nella stanza di Gyms; e
in quella intimità da suora caritatevole col malato, i germi silenziosi
dell’amore svilupparono. Ed ella dovette confessarlo a sè stessa....
Ahimè, ahimè! L’amore era finalmente venuto! L’amore non confortato da
alcuna buona speranza! L’amore amareggiato, tormentato da ogni maniera
di presentimenti sinistri....

Quando la malattia cominciò a volgere in bene, Gyms si professò grato
alla Luisa, si comportò più delicato e affettuoso con lei.

Un giorno arrivò perfino a tradurle, nel suo italiano telegrafico, un
lungo passo del secondo canto del _Paradiso Perduto_, dove descrive gli
amori di Adamo e d’Eva. La povera ragazza incantata, a bocca aperta,
ascoltava quelle frasi che le parlavano d’una felicità sovrumana; e
pensava a un lieto paradiso intravvisto, anche da lei, un momento,
in sogno, e subito, anche da lei, perduto financo nella speranza!...
Che era essa infine per Gyms, il _trainer_ famoso? Una povera serva.
Egli poi dal canto suo, anche in mezzo ai riguardi e alle gentilezze
dell’animo grato, dimostrava abbastanza chiaramente che verso di lei
non aveva mutati i suoi propositi; che era sempre l’uomo della scena
brutale nella stalla.... No, no, no! Luisa era deliberata a morire di
spasimo piuttosto che a diventare il suo trastullo.... il suo trastullo
d’un mese, dinanzi a tutti quegli uomini, in mezzo ai quali aveva
condotta la sua vita tranquilla, altera e rispettata per tre anni!


Una notte in cui non chiuse occhio, prese la risoluzione immutabile;
e il domani a colazione annunziò che la famiglia, senza indugio, la
richiamava al suo paese.

— Al padrone aveva già scritto in città. Sarebbe partita il giorno
stesso.

La notizia fu accolta da tutti con vivo dispiacere; ma pel volto freddo
e gentile di Gyms passò un’ombra di dispetto....


Verso le tre la Luisa, che aveva mandato innanzi la sua roba,
s’incamminava a piedi verso la stazione ferroviaria, distante un paio
di chilometri. Andava sotto il sole, accorata, tutta chiusa nel suo
fazzoletto rosso, studiando il passo, senza guardare nè a destra nè a
sinistra, contenta della strada solitaria e di quel gran silenzio....

Ma dopo dieci minuti di strada ella udì venire dai prati il galoppo di
un cavallo. Sentì subito che _egli_ le veniva dietro; e che anche una
prova dolorosa le era serbata!... Si fermò su due piedi; e mentre lo
scalpito sempre più forte s’avvicinava a lei, ella portò istintivamente
ambedue le mani alla testa in atto di difesa, come se cavallo e
cavaliero stessero per ruinarle addosso....

Il cavallo si arrestò di botto. Ma prima d’ascoltare la voce di Gyms,
la ragazza si mise a gridargli, con voce un po’ tremula, ma con accento
risolutissimo:

— Lasciatemi andare! Lasciatemi andare!... Lasciatemi in pace!

E gli alzò in faccia i grandi occhi, che in quel momento
riscintillarono di tutta la loro energia romagnola. Il giovane masticò
qualche frase nella sua lingua; poi fece atto di stendere gentilmente
la mano a Luisa. Ma essa era già lontana.

Galatea fuggiva ancora; e questa volta fuggiva per sempre.




AI PIEDI DELLA SANTA.


I.

Ricordo la prima visita che Luciano ed io facemmo alla chiesa di Santa
Maria della Vittoria.

In quel pomeriggio tranquillo di una giornata di giugno, essendo già
chiusa la porta maggiore, entrammo per la sagrestia. Un sagrestano o
frate custode, in lunga tonaca nerastra, ci precedeva lento; ma appena
entrati in chiesa, Luciano si staccò da noi a passi frettolosi, andò a
piantarsi solo in mezzo all’ambiente vasto e fissò gli occhi all’ancòna
sopra l’altar maggiore.

Egli pensava discorrendo ad alta voce: — Quella parete bianca egli
doveva tutta colorarla, mutandola in una scena viva!... Il soggetto
gli piaceva assai e gli dava da qualche giorno una forte smania di
lavorare.... L’argomento era un episodio miracoloso delle guerre di
religione in Germania; un bel miscuglio di chiesastico, di popolare
e di soldatesco; una immagine della Madonna portata in trionfo da
un frate sopra un cavallo bianco; e dinanzi alla Madonna, dei fieri
lanzichenecchi con alabarde, picche, colubrine, trombe, tamburi e
stendardi sventolanti; e ogni intorno preti e frati e una grossa folla
devota, festante, variopinta....

Allora il custode, volto specialmente al pittore, si mise a fare
davvero il cicerone. — Il titolo della chiesa era venuto appunto dal
fatto che Luciano doveva rappresentare. Paolo V, il cardinale Scipione
Borghese, Domenichino, Carlo Maratta.... e altri nomi pronunciò il
frate, parlando con voce velata. Da ultimo, con un gesto più largo,
accennò alla cappella di sinistra presso l’altare maggiore: — Santa
Teresa di Dio, capolavoro in marmo di Carrara del cavaliere Bernini!

Ci voltammo a guardare il gruppo, che conoscevamo solo per qualche
brutta stampa. Cogliemmo a volo, in quella gran massa marmorea, il
volto resupino della Santa, la posa del corpo abbandonato entro il
ricco volume delle pieghe bizzarre, e un piede nudo sporgente dalla
tonaca. Guardammo anche l’Angelo che le vibra il dardo dell’amore
divino, con un volto e un riso che a Luciano (mi disse) ricordavano
certe ninfe del Correggio....

Poco dopo un bel raggio di sole vespertino, quasi purpureo, venne
dall’alto sulla scultura, tagliandola per obliquo in due parti; e
richiamò sovr’essa i nostri sguardi. Il sole illuminava il marmo fino
al soggòlo della Santa; e pel riflesso il volto di lei sembrò vivo e
tutto il gruppo subitamente animato. Il frate guardava noi e il marmo,
visibilmente compiacendosi per la nostra rinnovata attenzione.


La sera, desinando noi insieme a una taverna fuori di porta Pia,
Luciano mi parlò sempre del suo affresco e di qualche studio che aveva
già fatto. — Ma tante cose gli abbisognavano!... Non sarebbe stato
necessario un viaggio a Praga per rivelare l’aspetto della città,
che doveva sorgere nel fondo? E le armi del tempo? E i costumi? E
tutta quella accozzaglia di soldati, di chierici, di popolo, con una
prevalenza naturale del tipo czeco?...

Io ridevo di quei suoi scrupoli d’artista.

Finito di mangiare, Luciano ebbe uno de’ suoi lunghi silenzi,
tenendo una mano affondata nella massa nera dei capelli e con l’altra
sbriciolando per la tovaglia i pezzi di pane rimasti. A un tratto con
un ghigno amaro mi disse: — Quel Bernini, ti accerto, mi secca!... Hai
sentito il sagrestano? Ogni giorno vanno molti visitatori ad ammirare
il _cavalier_ Bernini!... Bel gusto deve essere il mio!... Ma io mi
chiuderò bene dentro il mio ponte....

E gettò via una galla di mollica, come irritato. Io invece volevo che
fosse di buon umore.

— Tu farai un grande affresco; tu supererai ogni altro tuo lavoro. E
un giorno la gente andrà a Santa Maria della Vittoria per vedere il tuo
affresco....

Luciano mi piantò in faccia due occhi scintillanti e capii che avevo
colto nel segno. L’idea di intraprendere una gara vittoriosa forse gli
era balenata prima; ma adesso, udendola suonare nelle mie parole, gli
gonfiava il petto di una gioia superba.

Rientrammo in Roma a notte; e per via Venti Settembre gli domandai se
la Gerolomina avanzava nello studio. Anche quella era un testo gradito
per Luciano. Quella bimba doveva essere la sua migliore opera, diceva
talvolta. E come si compiaceva a riprovare con essa _sul vivo_, diceva
egli, le sue idee sulla educazione dell’arte! — Ti mostrerò presto
alcuni suoi disegni; e ti persuaderai che per tornare allo schietto
e al semplice non c’è bisogno della metafisica degli esteti e della
falsariga dei prerafaellisti....

E prima di separarsi da me fece un gran gesto con cui pareva che
volesse abbracciare il mondo:

— Bisogna tornare alla vita, mio caro! La vita, la vita come la sentiva
Leonardo! — Poi lo vidi voltare per via Nazionale mandandosi con una
mano nella nuca il largo cappello, come soleva quando era di umor
lieto.

Tornato dopo qualche tempo a Roma, io domandai subito di Luciano e del
suo lavoro; e nessuno seppe dirmene più che tanto. Parlavasi che da
un paio di mesi egli s’era finalmente deciso ad alzare il suo ponte
a Santa Maria della Vittoria, e che stava chiuso tutta la giornata
lassù, impenetrabile perfino, dicevano, al principe romano committente
dell’affresco. Difficile poi trovarlo di sera perchè non aveva
osteria fissa per il pranzo. Si vedeva ora qua ora là, taciturno, con
l’aria del viso più lunatica che mai, visibilmente disposto a evitare
compagnia. Spesso era con lui la solita ragazzetta, che gli portava
dietro dei gran rotoli di carta e degli album, e stava a guardarlo
silenziosa mentr’egli mangiava. Prima delle nove rincasava sempre, come
per il passato.


II.

Quando, un anno dopo, entrai nella stanza di Luciano infermo, oltre il
suo aspetto assai miseramente mutato, due cose mi fermarono subito:
Gerolomina seduta accanto al letto, sempre col suo visino di bimba
malaticcia, immutata: e sulla parete, a destra dell’infermo, una
fotografia Alinari piuttosto grande della Santa Teresa di Bernini. La
bimba aveva un libro in mano e al mio giungere sospese la lettura.

La madre di Luciano mi aveva fatto entrare senza annunziarmi, tranne
all’atto stesso d’aprire l’uscio, trattandomi con la confidenza di
un vecchio compagno di scuola di suo figlio. Benchè mi avesse scritto
d’andare a trovarlo, parvemi che la mia entrata improvvisa lo turbasse
un poco.

Si levò a sedere sul letto e mi chiese: — Che tempo porti? —
Avendogli detto che fuori faceva una pessima serata del nostro inverno
settentrionale, si lasciò andare sotto le coperte brontolando: — L’ho
sentito nelle ossa fin da stamane.... Oh che brutta idea è stata quella
di farmi venire quaggiù! A Roma ora fa certo un tempo magnifico....

Intanto Gerolomina si era alzata e, posato il libro su la sedia, era
uscita dalla stanza senza far rumore, come una piccola ombra.

Allora Luciano mi disse: — T’ho fatto chiamare perchè ho proprio
bisogno di parlarti:... Hai visto? (E accennò col capo e con gli occhi
la fotografia sulla parete). Già mi sono accorto che, appena entrato,
vi hai fermato su lo sguardo.... Avresti mai pensato, quella sera che
pranzammo fuori di Porta Pia, che essa mi avrebbe seguito fin qui?
Oh!...

E con uno scatto nervoso si rimise a sedere sul letto.

— Sentimi, amico; ho acquistata ormai la certezza che il mio male è
molto, molto più serio di quel che vogliano farmi credere.... Lasciami
dire, che so quello che dico! Ma prima che accada di me quello che Dio
vorrà, io ti voglio raccontare tutto.... Perchè ho io questo bisogno?
E perchè raccontare proprio a te e non a un altro?... Non lo so. Forse
perchè fu con te che io ebbi occasione di parlare di Lei la prima
volta in vita mia.... Senti dunque. Una mattina stavo lavorando sul
ponte, solo, come sempre, in mezzo a una quiete perfetta, la chiesa non
essendo ancora aperta al pubblico.

— Ero sempre ai preparativi del dipinto, alle misure, ai cartoni, agli
spolveri. Ma il disegnino della mia composizione era lì dinanzi a me,
terminato; e ne ero contento; e guardandolo vedevo già l’opera mia
compiuta. Poi levavo gli occhi alla gran curva dell’abside.... e quella
parete vasta e grigia, tracciata qua e là da qualche segno di carbone,
ora mi ispirava un vivo entusiasmo di lavoro, ora mi buttava giù, mi
deprimeva la volontà, mi faceva provare qualche cosa di simile al senso
pauroso del vuoto, quando guardiamo da una grande altezza.... Più volte
ho cercato di ricordarmi bene tutte le altre più minute circostanze;
ma non ci riesco. Questo ricordo bene che quel giorno, lassù, in mezzo
a quel silenzio perfetto, la vasta sonorità del catino dell’ancòna si
empì improvvisamente d’alcune parole uscite dalla mia bocca: _Aut pati,
aut mori_.... E subito dopo mi meravigliai di averle pronunziate....
O di dove m’erano venute quelle parole latine?... Poco dopo aver
formulata dentro la mia testa la domanda, mi ricordai di averle viste,
qualche anno fa, scritte a grandi caratteri neri, sulla fronte di
una chiesa barocca a Napoli e precisamente mentre attraversavo una
piazzetta in carrozzella, accompagnando Matilde Serao e la Duse.... La
evocazione del mio ricordo fu così nitida e piena, che mi parve anche
di sentire distinto e dolce il suono della voce della grande attrice
che, avendo letto con me, disse a noi due: _è la divisa di Santa Teresa
di Dio_....

— Allora mi venne in mente di scostare un poco la tela con la quale
mi chiudevo sul ponte; e guardai curiosamente giù in basso, verso
la cappella a sinistra dell’altare maggiore.... Quello che vidi,
alla prima, mi parve un fatto molto comune e senza significato. Il
sagrestano frate, quello che aveva introdotti nella chiesa me e te la
prima volta, era salito sull’altare e si moveva intorno al gruppo del
Bernini.... Lo vedevo magro e piccolo nella sua tonaca nerastra, con
un fazzoletto turchino girato intorno al collo, e tutto affaccendato
a pulire la raggiera, l’Angelo e specialmente il corpo marmoreo di
Santa Teresa. A poco a poco la mia attenzione si accrebbe; dimenticai
l’affresco e mi posi a osservare minutamente ogni suo atto. Da prima
adoperava un canavaccio ruvido e un piumaccio a manico lungo fatto
con un fascio di penne, poi sottentrava con una pelle di camoscio a
strofinare, insistendo con una accuratezza minuziosa e lenta.... Andava
col suo lavoro da destra a sinistra, dal basso all’alto, mostrando la
pratica dell’uomo avvezzo; e quando gli abbisognava di salire, metteva
franco i piedi nelle parti sporgenti delle due figure, come su dei
gradini noti, abbrancandosi qua e là e avendo ogni tanto dei movimenti
vibrati e agili come di scimmia.... Nei momenti che stava fermo,
mi diede anche l’immagine d’un grande pipistrello nereggiante sulla
candidezza lucida del marmo.... Qualche volta poi lo vedevo affondare
le mani in uno dei molti sottosquadri di quell’ampia tonaca di suora,
e frugarvi dentro, quasi indugiando a cercare sotto gli indumenti le
forme vere del corpo.... Da tutto quel lavoro non si levava polvere.
Anche questo notai: e ne indussi che quella pulitura doveva essere
molto frequente; forse quotidiana....

— Ma perchè stetti io tanto tempo guardando?... Te lo dico subito.
Perchè tutto quello strofinare e lisciare e toccare del sagrestano e
quel suo agile salire e scendere su quel corpo di bella donna svenuta,
a poco a poco trasferirono in me un sentimento strano. Da prima avrei
voluto semplicemente che smettesse presto. Ma poi che egli andava
ancora in lungo, la mia insofferenza crebbe sino alla irritazione; e
seguitando egli ancora, si mutò in rabbia vera e in tormento.... Dei
momenti mi ritraevo a girare sbalordito per il ponte, sperando di non
vederlo più; poi mi riaffacciavo; e quel torzone maledetto era sempre
là affaccendato e instancabile.... Adesso aveva preso un fare più
blando, quasi carezzevole. Passava delicatamente sul marmo con la sua
pelle di camoscio, dando qua e là dei tocchi leggeri, simili a quelle
ultime passate di rasoio che dà il barbiere ad una faccia, quando sta
per finire di raderla....

— Finalmente vidi l’uomo scendere dall’altare. Prima si sedette su
la predella ad arrotolare con cura la pelle di camoscio; poi s’alzò,
si buttò il canavaccio su le spalle e col piumaccio in mano uscì
lentamente dalla cappella. Quando si inginocchiò dinanzi all’altar
maggiore togliendosi la callottola, gli vidi la faccia accesa e la
testa calva lucente di sudore....

Che sforzo fu il mio a lasciar passare qualche minuto! Quando potei
calcolare che il sagrestano era uscito dalla chiesa, calai rapidamente
giù per la scala di legno, andai difilato alla cappella, presi in
un canto lo sgabello che aveva servito a lui e mi trovai anch’io
sull’altare in faccia a Santa Teresa.... Adesso, non ridere, sai!...


III.

Luciano tacque un poco, guardandosi fissamente le mani incrociate sotto
il mento; le sue mani bellissime, che l’ozio e il male avevano rese più
scarne e più bianche. Continuò:

— E nemmeno devi aspettarti che io ti faccia capire quello che accadde
in me nel tempo che restai là sopra quell’altare. Anche se potessi
farlo, assolutamente non vorrei.... Collocatomi lassù, fra l’Angelo
che vibra il dardo e la Santa, io potei, per la prima volta, vederla
intera.... Perchè devi persuaderti che coloro che la vedono solo dal
pavimento della chiesa non potranno formarsi mai una idea vera di
quella figura maravigliosa!... Finalmente anch’io potei abbracciarla
tutta d’uno sguardo, come uscì dalle mani dell’artefice squisito,
dello scultore ardente di estro e di passione.... E vista così, nel
consenso armonioso di tutte le sue parti, quella figura acquistò
subito per me un significato nuovo, come una eloquenza fulminea che
mi andò all’anima, la occupò, la turbò, la sconvolse, caro mio, in una
maniera.... Figurati solo questo: la leggera inclinazione della testa
sulla spalla destra e quel braccio pendente e quel piede paffutello
uscente dalla tonaca, che sono le parti viste e gustate da tutti,
esprimono un abbandono e un languore di felicità che può avere, che
anzi ha realmente alcun che di sensuale. Ma l’altra metà del volto
e dell’atteggiamento, quella nascosta agli occhi di tutti, non solo
completano la figura ma la trasformano in un senso di indicibile
spiritualità.... Questo riesce molto difficile da spiegare.... Eppure è
la verità!... Immagina una larga melodia che, svolgendosi, neutralizzi
nell’anima di chi l’ascolta tutto quello che possa esservi di meno
eletto e di meno delicato nel primo suo spunto; e la risolva una
espressione nobilissima di rapimento ideale.... La mano specialmente!
Se tu la vedessi quella mano celata, così leggermente contratta,
con le belle dita affusolate e lunghe, quasi tremule e cercanti nel
vuoto.... Ma no! Ecco che anche tu sorridi con malizia e caschi nel
pregiudizio volgare!... Nel pregiudizio dei sagrestani e dei ciceroni,
nel pregiudizio degli artisti sciocchi, degli inglesi sciocchi e di
tutta quella canaglia che va a Santa Maria della Vittoria per vedere
la grande isterica!... Io odio, vedi, tutti costoro e non sempre ho
potuto nasconderlo. Ma odio sopratutto quell’infame frate sagrestano
che conduce i visitatori; e che certamente si diverte — rospo! — e male
dissimula un risolino, quando sente certi discorsi.... O povera, povera
Santa di Dio!...

Luciano, a questo punto, piegò la testa dalla parte della fotografia
e rimase qualche tempo silenzioso. Io non vedevo il suo viso, ma un
tremito leggero, quasi una vibrazione ai nervi del suo collo. Poi si
volse ancora verso di me:

— Il mio destino fu deciso così.... Uno strano destino, sai!... Che è
stata la donna per me, durante la mia vita? Che è stato l’amore?... Ero
giovane e ardente, come sai........ Ebbene l’amore io non l’ho sentito
che nell’arte.... Figurati che una volta ho avuto perfino l’idea
d’innamorarmi di Gerolomina.... Niente affatto!... In quella bimba non
ho mai potuto trovare altro che le compiacenze della mia predilezione
d’artista e di maestro.... Un antico, nel caso mio, avrebbe pensato
a una vendetta di Venere _verticordia_.... Conosci il quadro di Dante
Gabriele Rossetti? Lo dicono assai bello.... A me intanto la vista e
la vicinanza della Santa erano divenute un conforto e una ispirazione.
Poi si mutarono in un vero bisogno.... Ogni tanto guardavo dal ponte
e se non vedevo visitatori dinanzi alla cappella, ero tutto contento
e mi mettevo più alacre al mio lavoro. Se invece vedevo i soliti
curiosi m’entrava un umore nero, una inquietudine cupa e inerte.... Non
ti parlo di quando mi accorgevo che il frate sagrestano era intento
alla sua solita occupazione di pulire il gruppo.... Più d’una volta,
lavorando, egli deve avermi udito bestemmiare....

— Intanto io sentiva di non essere più solo a pensare e ad eseguire
l’affresco. Che cosa saliva di laggiù verso di me? Era come un soffio
ora caldo ora freddo che mi avvolgeva e si convertiva dentro di me in
un impulso patetico. Molte volte anche, dipingendo, m’accorgevo di
piangere silenziosamente; e quella tenerezza invece di indebolirmi
mi dava una operosità tranquilla, sicura e tanto spontanea che si
sarebbe potuto dire incosciente.... E a giornata compiuta, stupivo
vedendo il gran cammino che, in quelle poche ore, aveva fatto il mio
dipinto.... Allora mi ricordavo la leggenda di quel Santo pittore
tedesco, che un angelo aiutò nel condurre a termine in brevissimo tempo
le grandi vetrate di una cattedrale.... Chi me lo avesse detto quando
cominciai!... Te lo ricordi il mio discorso a pranzo, dopo la nostra
visita?...

— Una mattina salii sul ponte con l’animo pieno d’una soddisfazione
tranquilla, che non avevo provata da un pezzo. Guardai il mio affresco
e mi convinsi che, — dopo circa otto mesi di lavoro, — molto poco io
potevo aggiungere senza pericolo di guastare.

— Allora il mio proposito fu subito fissato: potevo finire in quello
stesso giorno: dunque non doveva smettere di lavorare fin che avessi
finito. Era terminato il mese di giugno; e così avrei compiuto il
lavoro in un anno circa da quando per la prima volta avevo messi i
piedi nella chiesa.... Che fatica fu la mia, in quella calda giornata!
Non ricordo d’aver toccato la colazione che di solito portavo con me;
non ricordo d’essermi riposato mai; non mi ricordo di nulla, tranne
che due o tre volte nella giornata sentii alla mia nuca una forte
sensazione di brivido come se un vento gelato soffiasse subitamente,
per l’ampio vano della chiesa, dietro di me.... Poi mi pareva come
se le tavole del ponte sparissero sotto i miei piedi ed io rimanessi
campato in aria, in una altezza grandissima, ma niente affatto paurosa.
Mi sentivo leggero insieme ed enorme e sicuro in ogni mio movimento....
Quando mi colsero le prime ombre della sera, non mi diedi per vinto....
Accesi un pezzo di candela e continuai a dare delle pennellate decise
in alcune parti dell’affresco ove qualche cosa era anche da aggiungere.
Finalmente sentii che avevo terminato. L’opera viveva intera dinanzi
a me e sopra il mio capo.... Ma io non la vedevo più!... La candela
s’era consumata.... Allora mi levai la sopravveste di tela, presi il
cappello e la giacca, infilai la lunga scala e scesi al buio la lunga
fila degli scalini, come un sonnambulo. Mi trovai nel pavimento della
chiesa, avvolto dalla gran notte silenziosa.... Invece di muovere a
mano sinistra per trovare l’uscio della sagrestia, e poi, valendomi
di una chiave che avevo sempre con me, uscire all’aperto, mi volsi
alla mia destra andando nell’oscurità, senza esitare.... Poi ricordo
che ebbi la sensazione di non essere più solo.... Ero salito, chi sa
come, sull’altare e mi trovavo vicino a Lei. Ne ero ben sicuro perchè,
malgrado la stanchezza e l’oscurità e tutto il resto, io avevo dentro
di me un istinto preciso e rapido che dirigeva nella tenebra i miei
movimenti in una maniera infallibile....

— Sì, ero vicino a Lei. La sentivo prima d’averla toccata. Ma dopo
un poco reclinai la fronte e sentii una freschezza di marmo che si
comunicò rapidamente per tutto il corpo. La commozione deve essere
stata tanto forte, che dopo quella rapida percezione di freddo io ho
come un intervallo oscuro nel mio ricordo.... Che è avvenuto in me
subito dopo? Fu un turbamento nervoso, fu deliquio, fu estasi?... E
quanto tempo rimasi io in quello stato? Non potrei dirlo.... Ma la
mia memoria torna lentamente a ricompormi i fatti accaduti in quella
notte.... Mi vedo di nuovo, ricordo di nuovo. Ero ai piedi di Santa
Teresa di Dio.... Un po’ di luce doveva essere entrata dagli alti
finestroni nella chiesa di Santa Maria della Vittoria, perchè vedevo
vicino a me un candeliere dell’altare capovolto sulla predella. Colla
testa ero appoggiato agli ultimi lembi della tonaca e con le due
mani tenevo stretto il piede pendulo della Santa. Lo tenevo stretto e
come fasciato amorosamente con le mie due mani.... Sentivo la forma
affusolata delle cinque dita, sentivo la curva gentile del piccolo
metatarso, su, fino al principio del malleolo, come se fossero di carne
viva; e mi pareva che fossero riscaldati e palpitanti sotto la mia
lunga pressione.... Io non pensavo — forse non osavo — alzare di più
gli occhi, ma sentivo il contatto di tutta una persona vivente e agente
sopra tutto l’esser mio.... Intanto la mia bocca articolava un discorso
continuato, il quale durava chi sa da quanto tempo!... Il discorso
era fatto di parole tenerissime, di frasi tenerissime, non legate fra
loro che da un filo intimo e inavvertito, quasi ruscello mormorante
che mi sgorgasse dall’anima per la bocca.... E ricordo che, come una
nota insistente, mi tornavano sempre le frasi: _Fammi patire!... Fammi
morire!..._

— Tutto a un tratto mi arrivò un suono di voce umana.... una voce che
mi fece l’effetto di un coltello sui tendini della nuca:

“Che diavolo fate, signor Luciano!„

— Mi volsi; vidi il sagrestano innanzi all’altare con le braccia
incrociate e in atto di contemplarmi.... Sorrideva; e gli vedeva
nelle sottili labbra contratte e negli occhietti semichiusi quella
espressione di malizia odiosa che avevo notata altre volte. Fu un
momento orribile.... Mi rizzai sull’altare, scesi d’un salto e mi
buttai addosso all’uomo, il quale, fatto un movimento per cansarmi, mi
ghermì alla schiena con una forza straordinaria; e tenutomi sospeso
un poco, sì ch’io non cadessi boccone per l’impeto col quale mi ero
avventato, mi sibilò all’orecchio:

“Andatevene subito o che chiamo gente! E sarà peggio per voi!...„

— Quelle parole e il modo con cui furono dette, mi rovesciarono
l’animo. Ebbi una improvvisa intuizione della mia demenza, a cui s’unì
un vago orrore di colpa sacrilega, di punizione, di scandalo.... Che
cosa avevo fatto? Da che mondo uscivo io?... Non trovai la forza di
rispondere e nemmeno quella di guardare in faccia l’uomo detestato....
Corsi via; corsi a testa bassa, tremando e rabbrividendo....

— Giunto fuori della chiesa, seguitai a correre; e andai così non so
per dove nè per quanto tempo.... Ricordo d’esser passato per via dei
Due Macelli e di non essermi fermato che in Piazza di Spagna. Là provai
un qualche sollievo posando gli occhi sull’acqua limpida, nella vasca
della fontana che è sotto la scalea di Trinità dei Monti....

— Quando giunsi a casa sentii che avevo appena la forza di svestirmi
e mettermi a letto, ove mi cominciò un attacco furioso del male che
ho portato dalla nascita.... E t’accerto io che questa volta dico per
davvero!... Il dottore conforta mia madre e assicura me che potrò
guarire.... Ci credi tu, Enrico?... Io no. Questa volta non ho più
speranza.... Tanto fa!...


IV.

La voce di Luciano si era subitamente indebolita. Egli s’era abbassato
allungandosi tutto nel letto e teneva gli occhi chiusi. Il volto
profilato, magro e pallidissimo, aveva un’espressione di stanchezza
estrema che mi diede l’idea della morte....

Stetti un poco a sentirlo respirare e dubitai che volesse dormire.
Allora presi piano dalla sedia il libro aperto lasciato dalla
ragazzetta e lo accostai al lume che era sul tavolino da notte. Il
libro era una vecchia edizione tradotta delle lettere di Santa Teresa
di Dio, annotate da monsignor Palafox.... Nella pagina che Gerolomina
leggeva quando entrai, erano citati in nota, e mi caddero sotto gli
occhi, due versi di un celebre sonetto della Santa a Gesù Cristo:

_Io ti temerei anche se tu non avessi creato l’Inferno; e anche senza
il tuo Paradiso io ti amerei!.........._




POVERO GUERMANETTO!


I.

Mi ricordo bene di lui, quantunque dall’ultima volta che lo vidi sieno
passati dei lustri, ahimè parecchi! e io fossi molto ragazzo.

Era un bel giovinotto con una campanella d’oro ai due orecchi,
come ancora usava nelle nostre campagne; era alto, svelto, biondo e
ricciuto. Aveva gli occhi d’un turchino chiaro, sempre un po’ spiritati
e mobilissimi. Alla mobilità degli occhi rispondeva tutta la persona.
Non aveva posa mai ed era sempre in giro ora per questo ora per quello,
comandato da tutti, pronto, obbediente, sottomesso agli ordini di
tutti.

Nella vecchia osteria del Palazzaccio faceva, occorrendo, ogni sorta
di mestieri. Era cuoco, guattero, tavoleggiante, stalliere, cocchiere.
Con la stessa buona voglia e la stessa pazienza, vegliava per lunghe
ore i bambini della ostessa o scozzonava un cavallaccio viziato o
seguiva i cacciatori del paese portando i fucili, le munizioni e la
sporta per la colazione. Coi cacciatori faceva anche da cane; e correva
come un bracco tutta una mattinata su e giù pei boschi e per le forre
di Sabbiuno e di Roncrio aiutando a levare un branco di pernici o a
trovare la pesta di una lepre. Circa alla mercede egli si rimetteva
sempre; e se dopo tante fatiche, invece di mancie, erano contumelie
o burle scellerate, non si ribellava mai. Accettava tutto dalla mano
di Dio e degli uomini, come se quello fosse un destino a cui egli
doveva rassegnarsi! Tutt’al più se ne lagnava qualche volta da sè solo
piagnucolando e picchiandosi coi pugni la testa, a guisa di un bimbo
stizzito e malcontento di sè.

Ma al primo comando era di nuovo in gamba, lesto come un capriolo e
contento, a vederlo, come una pasqua.

In sostanza Guermanetto era un pover’uomo, nato per servire. Il senso
della soggezione e della sottomissione lo dominava in modo che ogni
forza della sua volontà ne rimaneva annichilita. Avvezzo fino da
ragazzo ad essere comandato da tutti, a tutte l’ore e in ogni maniera
di servizi, s’era per tempo assuefatto a vedere un padrone in ognuno.

Non tutti però erano padroni a un modo per lui. Vivevano due persone
che a’ suoi occhi rappresentavano tutto quello che può avere di
più temuto l’autorità umana; ed erano Andrea il mugnaio del Pero e
Annibalino il proprietario del vasto e vecchio caseggiato che conteneva
l’osteria e le dava il nome. Per costoro, due capi scarichi, abbastanza
danarosi, bevitori celebri, bastonatori insigni e, a tempo avanzato,
dilettanti di contrabbando sul confine toscano, per costoro, dico, la
servitù di Guermanetto non aveva limiti. Essa pigliava, nella umiltà
dell’animo suo, tutte le forme possibili; andava dalla paura vilissima
alla tenerezza e all’entusiasmo devoto. Bastava che uno dei due lo
guardasse un po’ di traverso e gli dicesse una parolaccia per fargli
perdere la testa e riempirlo di sgomento; ma se gli facevano il viso
allegro o gli allungavano un bicchiere di vino accompagnato da un cenno
benevolo, a Guermanetto pareva di toccare il cielo. Diventava allegro,
burlone, spavaldo e, piacendo a que’ due, perfino coraggioso.

Sì, Guermanetto diventava anche coraggioso; o meglio, in virtù di
quello stimolo esterno, si risvegliava dentro di lui un senso di
coraggio vero, che era in lui per natura e che le sue consuetudini
servili tenevano addormentato. Egli, a un tratto, tirava fuori il suo
coraggio come un soldato sguaina la sua spada al comando del superiore.

Fatto sta che i due sozi se l’erano preso a compagno in più d’una
rissa ed egli aveva sempre ricambiato quell’onore, grande ed ambito,
attaccando il primo, ritirandosi l’ultimo, e menando le mani come
un paladino. Essi poi in premio lo regalavano di qualche misurata
parola d’encomio e lo conducevano con loro a cena, dove in ultimo gli
mettevano del sale nel vino, causa di una sbornia che gli durava due
giorni.

Gliene facevano d’ogni colore. Un giorno il mugnaio Andrea e Annibalino
il proprietario lo fecero salire con loro in barroccino e s’avviarono
di buon trotto verso il confine toscano, senza dirgli parola nè della
meta nè della ragione del viaggio. Giunti un paio di miglia sopra
Pianoro, ordinarono a Guermanetto di scendere e di sedersi sulla
spalletta di un piccolo ponte. Allora Andrea, con quell’accento
imperioso che non ammetteva replica:

— Bada, Guermanetto; tu devi rimanere qui seduto ad aspettarci fino al
nostro ritorno, che non sappiamo se sarà presto o tardi. Guai a te se
ti muovi!

Guermanetto accennò di sì col capo, e i due sozi via di carriera.
Andavano per un piccolo contrabbando di cappelli di paglia di Firenze,
e sapendo che da Pianoro a Bologna la strada provinciale era meno
sicura per la vigilanza dei finanzieri, divisavano, al ritorno, di
levare il contrabbando dal barroccino, caricarlo sulle spalle di
Guermanetto e così per le scorciatoie interne, farlo giungere in
luogo sicuro verso la città. Ma al contrabbando si opposero ostacoli
impreveduti e bisognò rinunziarvi. I due sozi allora, tanto per non
aver fatto il viaggio inutilmente, proseguirono fino all’osteria delle
Filigare e là, trovato il crocchio solito degli amici, si misero a bere
e a giocare.

Bevi e gioca, le ore passarono allegramente e non fu più discorso di
ritornare se non il giorno dopo. — Intanto Guermanetto seduto sulla
spalletta del ponte aspettava. Aspettava silenzioso ed immobile,
con gli occhi sempre fermi alla voltata della strada onde doveva
spuntare la testa del cavallo d’Andrea. Ma le ore passavano e quella
benedetta testa non si vedeva. Venne la fame co’ suoi tormenti;
calò la notte colla sua tristezza, il freddo, la stanchezza, il
dormiveglia tormentoso, la paura orribile dei morti; sull’alba un
pesante acquazzone di maggio lo investì, lo inzuppò, finì d’assiderarlo
e d’estenuarlo. Ma Guermanetto fermo al suo posto. _Guai a te se ti
muovi_! gli aveva detto Andrea; ed egli ripensava il volto, l’occhiata
e il tono di voce che avevano accompagnato le parole. Si sentiva
la forza di morire, non quella di muoversi di lì.... I due amici,
ritornando la sera dopo, sul tardi, allegrissimi per il vino bevuto
e per i denari vinti, trovarono Guermanetto disteso come un povero
cane sulla spalletta del ponte, più morto che vivo. — Lo caricarono
attraverso il barroccino, e giunti al Palazzaccio, a stento, con
minestre e vino caldo poterono farlo rinvenire.


II.

E con tutto questo egli era sempre povero in canna, mal pagato, mal
nutrito e vestito così male che a vederlo faceva compassione.

Suo padre, — Giannone il cenciaiuolo, che camminava dondolandosi dietro
il suo asino, a cui confidava ad alta voce tutti i suoi pensieri,
— ogni volta che s’imbatteva nel figliuolo per la strada o davanti
all’osteria, gli dava del minchione; e ricordandogli i servizi mal
pagati e gli ultimi scherni patiti, gli diceva piano: “Imparerai a tue
spese, imparerai!„ Il figliuolo scrollava la testa senza rispondere;
e Giannone tirava innanzi dondolandosi e ripetendo forte al suo asino:
“Te lo dico io, che imparerà a sue spese!„

A ogni modo, il triste fatto che seguì dopo alcun tempo, nessuno lo
avrebbe mai preveduto.

Era vecchia lite fra Andrea il mugnaio del Pero e Giacomo il mugnaio
della Zena, detto il _Signorone_. Dapprima fu una quistione di acque;
poi col tempo pare che ci si mescolasse anche la donna. Gli amici di
qua e di là avevano compita l’opera, e l’odio bolliva oramai dalle due
parti maligno e implacabile.

Eravamo nell’estate dell’anno 1849. Per le strade di Bologna, in
pieno meriggio, accoltellavano i cittadini come se nulla fosse. Anche
fuori per le campagne, e massime nelle grosse borgate più vicine
alla città, serpeggiava uno spirito inquieto e torbido. Si sarebbe
detto che rincrudiva nella gente una torva propensione ai delitti di
sangue, e che ogni uomo il quale avesse avuto un rancore da sfogare e
una vendetta da compiere era indotto, in quei giorni, a pensarci più
spesso, con stimoli più vivi e con propositi più audaci.

Una sera, in una stanza appartata nell’osteria del Palazzaccio,
sedevano intorno alla tavola, dinanzi a un doppio boccale di vino
bianco, Andrea, Annibalino e Guermanetto. A quest’ultimo era offerto da
bere con insolita frequenza, ed egli, al solito, non si faceva pregare.
I due sozi tenevano fra loro un discorso tutto a gergo e a sottintesi,
lasciando spesso una frase in tronco, come gente che sa di che si
tratta ed è pienamente d’accordo sulla massima. Guermanetto badava a
bere e canticchiava un vecchio stornello dei tempi di Napoleone con
ritornello di tirolese “alla postigliona„.

Dopo mezz’ora Annibalino augurò la buona notte ed uscì. Andrea, rimasto
solo col giovinotto, prese a ragionargli della vecchia ruggine che
egli aveva col _Signorone_; dei gravi torti di questo verso di lui; del
bisogno prepotente che sentiva di farglieli scontare di santa ragione.
Guermanetto, già un poco brillo, gongolava dentro per l’onore di queste
confidenze e, se non lo avesse trattenuto il rispetto, sarebbe saltato
al collo del suo interlocutore “.... È un Sansone colui!„ disse a un
certo punto Andrea, con un accento di rabbia contenuta. “Ma io non ho
paura di nessuno al mondo!„ replicò subito Guermanetto; e prese l’aria
di uno che si profferisca.

— Nemmeno se ti scontrassi solo con lui?

— O chi è lui? Sant’Antonio?...

— No, senti, Guermanetto....

E qui, Andrea, fattoglisi più vicino, si mise a discorrere a bassa
voce, come se parlasse ad un suo uguale, come se parlasse allo
stesso Annibalino, mettendogli tratto tratto una mano sulla spalla e
coll’altra mescendogli da bere....


Dopo mezz’ora i due uscivano insieme dall’osteria e s’incamminavano
per la strada provinciale verso Pian di Macine. Avevano combinato tutto
per bene. Guermanetto non avrebbe affrontato solo il Signorone; anche
Andrea sarebbe stato lì pronto a dargli una mano, ma voleva che egli
assestasse la prima bastonata, egli che aveva il colpo così forte e
sicuro. — Non si sa mai! Colui aveva l’abitudine d’andare armato di
giorno e di notte, mentre egli, Andrea, non avrebbe, per cosa al mondo,
pensato mai a vendicarsi con del sangue; e non voleva saperne d’armi
traditrici....

Suonarono le undici di notte all’orologio di Rastignano, e la luna,
sormontata di poco la cima di Monte Calvo, illuminava dolcemente
tutta la vallata di Savena, lunga e ristretta fra le colline, e in
particolar modo la piccola corrente del fiume, che levava tra i sassi
bianchissimi un rumore sommesso, quasi carezzevole in quel silenzio.
Andrea si era calcato un poco il cappello sugli occhi e aveva l’andare
d’uomo circospetto. Invece Guermanetto procedeva nella notte serena con
la testa in aria, il cappello sulla nuca, movendo a molinello il suo
bastone. Era anche vestito meno male del solito, con un mazzolino di
fiori all’orecchio, come se andasse ad una festa di ballo da qualche
mezzadra del contorno. A un punto della strada, lanciando gli acuti più
allegri della sua voce di tenore, riprese a cantare il suo stornello
napoleonico:

    Napoleone, guarda quel che fai!
    La bella gioventù per te la vuoi,
    E le ragazze....

“Sta zitto„ gli susurrò amichevolmente Andrea. “Ecco il posto.„
S’appostarono difatti entro un gruppo folto di piante di sambuco nel
lato interno della strada, la quale dall’altro lato dava quasi a picco
sul fiume scoscendendosi in un burrone di parecchi metri.

Aspettavano almeno da mezz’ora, quando sentirono il rumore di un
veicolo che si approssimava. Era il _Signorone_ che veniva a piccolo
trotto sul barroccino tirato da un muletto nero; e dalle redini molto
allentate e dal capo inclinato e un po’ dondolante, si capiva che
l’uomo dormicchiava.

Quando fu rimpetto al gruppo dei sambuchi, si udì la voce di
Guermanetto: “_To’, boia!_„ e con quella un colpo di bastone che
dovette essere ben forte, perchè il _Signorone_, mandando un urlo,
cadde rovescio sulla strada e non si mosse.... Allora Guermanetto
vide una cosa orribile e inaspettata. Vide Andrea il mugnaio uscire
di dietro a lui, lanciarsi sul caduto con un lungo coltello nella
mano destra, afferrarlo colla sinistra pei capelli e, puntandogli
un ginocchio sulla pancia, menar colpi sopra colpi al petto, al
collo, alla faccia, mugghiando e ruggendo come un’anima dannata....
Il _Signorone_ non disse verbo, ma Guermanetto intese il gorgoglìo
del sangue che usciva dalle canne tagliate di quella gola.... Gli si
rizzarono i capelli sulla testa, il bastone gli cadde di mano e rimase
immobile con gli occhi sbarrati.... Lo riscosse un forte urto ed una
voce:

— Tu va subito a letto e alzati domattina per tempo. Se qualcheduno
ti domanderà di me, risponderai che m’hai accompagnato per un pezzo di
strada verso Bologna, e che io t’ho detto che andavo a dormire in città
per trovarmi domattina, che è sabato, in piazza prestissimo. Se parli,
guai a te!

E Andrea dileguò come un lampo. Anche Guermanetto si mise a fuggire
a rotta di collo, urlando, piangendo, chiamando la Madonna e tutti i
santi del paradiso. Corse in qua e in là senza saper dove e nemmeno
pensando un momento a ricoverarsi in casa. A un certo punto si trovò in
mezzo al fiume coll’acqua fin quasi ai ginocchi; un’altra volta, dopo
lunghissimi giri, si ritrovò di nuovo a pochi passi dagli alberi di
sambuco; e vide il corpo dello scannato accanto al suo barroccino; e il
muletto nero, immobile....

Mentre spuntava l’alba, Guermanetto si arrampicava ansando per un’erta
boscosa al di sopra di Monte Paderno, rinomata dimora di pernici e di
lepri, ov’egli tante volte allegramente aveva corso come un bracco per
contentare Annibalino il proprietario e Andrea il mugnaio del Pero.

Il giorno dopo, coll’annunzio dell’orribile delitto, si sparse subito
la voce de’ suoi autori. Erano stati visti andare insieme dall’osteria
del Palazzaccio verso Pian di Macine; e accanto al cadavere del
_Signorone_ si era trovato il randello ben noto di Guermanetto.

Dopo un paio di giorni Andrea fu arrestato. Guermanetto potè per due
settimane circa battere la montagna; ma un giorno mandò a pregare
il medico condotto di avvertire il brigadiere che egli si voleva
costituire. E la notte stessa venne a picchiare all’uscio della casa
del medico.


III.

Ricordo ancora tutti i particolari di quella mattina. Nella stanza da
pranzo della casa del medico a pian terreno, Guermanetto sedeva dinanzi
a una tavola apparecchiata e faceva colazione.

Era una cosa lugubre insieme e commovente. Il medico, sua moglie e
due altri signori ben vestiti stavano intorno a quel povero diavolo
scalzo, lacero, infangato, col viso cadaverico e gli occhi stravolti,
parlandogli con dolcezza, quasi con rispetto e in atto di servirlo. Uno
lo esortava a mangiare, un altro gli mesceva il vino e gli chiedeva
se avesse qualche commissione, qualche ambasciata, che tutto sarebbe
stato puntualmente eseguito. Istintivamente si andava formando dintorno
all’uomo quell’atmosfera di deferenze delicate e di riguardi pietosi
che sogliono sempre circondare le espiazioni e le disgrazie supreme. —
Io intanto, dietro la inferriata della finestra, vedeva muoversi lente
due grandi _lucerne_, appartenenti senza dubbio a due carabinieri del
papa che aspettavano di fuori.

Guermanetto mangiava con l’avidità di un famelico e parlava sempre.
Parlava affollato e convulso intaccando spesso nelle parole, perchè
una piccolissima balbuzie che aveva fin da ragazzo gli era cresciuta
stranamente in quei quindici giorni.

Diceva d’aver deliberato di costituirsi, perchè proprio non ne poteva
più. La sua vita di quelle due settimane era stata una vita da non
augurarsi nemmeno a un cane arrabbiato. Che giorni! E che notti!...
Un paio di queste notti egli le aveva passate a Monte Donato entro
una profonda cava di gesso abbandonata. Era abbastanza riparato dal
freddo e al sicuro; ma giù in fondo fra i crepacci colava gorgogliando
una maledetta acqua lamentosa, in cui parevagli di sentire dei _de
profundis_ e dei rantoli di gente scannata.... Un’altra notte egli
l’aveva passata lungo il Rio Stregone, nei prati della Bora. Quel
rio che scende da Monte Paderno, famoso fino dai tempi medievali pei
convegni delle streghe, quei prati paurosi dove i contadini dicono che
s’incontra di notte uno stendardo nero, il quale sta ritto e si muove
senza che si veda mai alcuno che lo porti, guidando una processione
invisibile di anime in pena.... E Guermanetto, balbettando, giurava
di averlo veduto coi suoi occhi quell’orribile stendardo nero; ed era
caduto in deliquio per la gran paura e non si era riavuto che a giorno
alto, coi raggi del sole sulla fronte.

E concluse così il suo lungo discorso:

— Meglio la galera che quell’inferno di vita! In fondo, di che possono
incolparmi!... Credevo si trattasse d’una buona bastonatura e ho dato io
la prima bastonata per far piacere al mugnaio.... In tutto il resto non
c’entro e non ci voglio entrare!

Tutti gli astanti assentirono alle sue parole; e rassicurarono che guai
troppo seri egli non aveva a temerne.

Ma quando si fu al momento della partenza, la commozione prese
visibilmente l’animo di tutti; e tutti, compresa la moglie del medico,
vollero abbracciare Guermanetto, il quale lasciava fare più che non
corrispondesse, coll’aria di un bimbo carezzato e complimentato il
giorno della sua cresima.

Salì insieme coi carabinieri sulla vecchia carrozza sconquassata, che
noi seguimmo sempre cogli occhi fino a che la perdemmo di vista, in
quella pallida allegrezza di una serena mattinata d’inverno, rimanendo
poi tutti costernati e lungamente silenziosi. La moglie del medico fu
prima a rompere il silenzio:

— Povero Guermanetto!... Sento che non lo rivedremo più....

E davvero il povero Guermanetto non l’abbiamo mai più riveduto. Erano
venuti da poco gli Austriaci con la famosa _legge stataria_; e in
materia di sentenze capitali tiravano a far presto, per infondere,
dicevasi, un salutare timore. Interrogato se egli aveva menato il
primo colpo nell’omicidio di Giacomo della Zena, detto il _Signorone_,
rispose di sì.... Chi sa che nell’animo suo non abbia potuto, anche una
volta, perfino più che l’istinto della difesa della vita, la soggezione
di Andrea il mugnaio, che gli sedeva legato al fianco e gli andava
parlando sottovoce?... Fatto sta che, insieme con costui, Guermanetto
venne condannato a morte; e lo fucilarono pochi giorni dopo nei prati
di Caprara.

Alcuni del paese che venivano dall’aver assistito all’esecuzione,
assicurarono che gli Austriaci avevano fucilato un uomo già morto di
paura.




INFEDELTÀ.


I.

Quando il signor Carlo uscì dal cancello della villa, s’accorse che
la notte era già molto avanti perchè la luna s’era nascosta dietro la
collina e il buio nella strada, sotto i grandi alberi d’acacia, era
così fitto, che a stento potè trovare il marciapiede di sasso vivo per
discendere senza intoppi verso la città.

Aveva dunque prolungata più del solito la sua visita in casa
Luigiani.... Come mai non se n’era accorto? Ma altre e più gravi
interrogazioni si movevano nella mente del signor Carlo. La serata
era trascorsa, in apparenza, come le altre. Fin verso le undici il
signor Luigiani, sua moglie, la zia Teresa e il fattore avevano giocata
la partita. Di prima sera, alcuni vicini di villa avevano fatta una
breve fermata e s’erano ritirati presto perchè per la mattina appresso
avevano stabilita, in gran comitiva, una gita a Monte Paderno.

Egli e la signora Giulia.... Egli e Giulia, nella quieta luce del
salotto, seduti sul divano posto fra il muro e la vasta tavola di
noce, avevano passato il tempo ora guardando un giornale illustrato
e sfogliando qualche libro, ora prendendo parte per ischerzo alle
contese frequenti dei giuocatori; e il più del tempo parlando fra loro
due a bassa voce. Ma quella sera Giulia aveva qualcosa in lei di nuovo
e d’inquietante, che egli non era riuscito a penetrare. Al suo primo
ingresso nel salotto, s’era accorto che ella era un poco pallida; le
aveva chiesto subito in presenza degli altri se non si sentisse poco
bene, e lei aveva risposto che stava benissimo.... Ma allora perchè la
sua voce non aveva il suono delle altre sere, e pareva come velata da
un’interna stanchezza? E tutto il suo contegno con lui per tutta la
sera?... Strano!... Una certa riserva che si sarebbe potuta pigliare
per un principio di diffidenza; uno studio palese a impedire che la
loro conversazione si lasciasse andare a quel tono di appassionata
intimità, che da un pezzo, tutte le altre sere, fosse pure solo per
un minuto, lo rendeva sempre tanto felice!... E in mezzo a tutto
questo, delle occhiate come al signor Carlo pareva di non ne avere
avute mai; delle occhiate lunghe, intense, addolorate, che per tre
o quattro volte, a un tratto, si erano posate sopra di lui, come per
avvolgerlo tutto; e lo avevano fatto tremare di commozione insieme e di
sospetto....

Una volta egli le aveva detto piano all’orecchio:

— Confessami la verità, Giulia; tu non sei del tuo solito umore....
Stassera c’è qualche cosa....

Ma Giulia lo aveva interrotto seccamente:

— No! No!...

Bisognò cambiare discorso:

— Ora dovresti metterti al pianoforte e farmi ancora sentire la
_Primavera_ di Gounod: così come iersera, cantando ed accompagnandoti a
bassa voce; proprio per noi due soli....

La Giulia girò lentamente gli occhi sopra il pianoforte chiuso; li girò
verso le finestre del salotto che guardavano sulla strada, e si scusò
con tanta svogliatezza, ch’egli non ebbe più la forza di insistere.

E il contegno della madre era poco strano? Essa, la donna apatica,
che non s’occupava mai della figliola, se non quando era in campo la
sua vanità materna, quella sera era stata tutta attenzioni per lei.
Si distraeva dal giuoco per guardarla e interrogarla con un accento
di tenerezza insolita. Una volta perfino, fra un giro e l’altro
del _mediatore_, s’era alzata dal tavolino e fermatasi dinanzi alla
figliuola seduta, s’era curvata sopra di lei baciandola affettuosamente
nelle due guancie e sussurrandole all’orecchio alcune parole. La Giulia
aveva risposto alla madre con un lungo bacio....

Insomma qualche novità era nell’aria. Il signor Carlo n’era convinto;
lo sentiva; e sentiva pure che questa novità, qualunque fosse, toccava
anche lui in ciò che aveva di più caro nella vita: l’amore di quella
donna! Intanto aveva sempre vivo nella mano il senso della stretta
vivace con cui ella, ferma sul piano della scala, gli aveva dato la
buona notte; sentiva nel cervello come il calore della sua ultima
occhiata e lo accompagnava nell’aria il profumo sottile che per tutta
la sera aveva odorato dalle vesti e dai capelli di lei.

In questo stato d’animo, il signor Carlo scese dalla collina, entrò
in città e s’incamminò verso casa rapidamente, come un uomo che abbia
fretta di trovarsi chiuso e solo....

Quando fu nella sua stanza, si sentì affaticato, avvilito, triste.
Spogliandosi, mirò nello specchio grande dell’armadio e si vide
brutto e vecchio. I suoi quarant’anni spiccavano negli occhi pesti e
in qualche ruga dura del volto; e la sua testa nera gli apparve più
brizzolata del solito.

Quando fu in letto, si mise a guardare un quadro, nella parete a
destra, entro il quale, sotto un cristallo, erano incorniciate molte
fotografie. Parevano messe là alla rinfusa, come una folla di persone,
che si pigiano per mettere ognuna il viso fuori d’una finestra. Ma una
fotografia usciva tutta intera dal gruppo e si faceva guardare per la
prima. Era il ritratto di lei, bella, sorridente, coll’abito un po’
scollato....

Il signor Carlo ora guardava attento quel ritratto che, attraverso i
riflessi del cristallo sembrava animarsi e muoversi; ora chiudeva gli
occhi abbandonando le braccia e corrugando la fronte. Aveva dei tremiti
improvvisi e dei sospiri profondi. Certo una grande inquietudine
ricercava tutto il suo essere; e impeti d’ira e di tenerezza, di fede e
di scoramento, vi si alternavano con procellosa rapidità. A un tratto
si levò sul cubito e afferrò con la mano un grosso volume che era sul
tavolino accanto al letto. Aveva il volto alterato e la guardatura
strana, quasi feroce. Che gli passava per la testa? Forse il proposito
d’avventare il volume contro il quadro e colpire quella fotografia che
pareva guardarlo sorridendo?...

Credeva di conoscerla, la sua passione; ma in quella notte s’accorse,
sotto il pungolo del dubbio e dinanzi alla paura dell’ignoto, che aveva
delle profondità in cui egli non era ancora disceso.

Finalmente s’addormentò. La mattina appresso, svegliandosi tardi, ebbe
la sorpresa di sentirsi abbastanza sollevato e presso che calmo. S’era
vestito e stava per uscire, quando la sua vecchia fantesca gli portò
una lettera “di premura„.

Corse palpitando con gli occhi alla sopraccarta.

Non era il carattere di Giulia, ma quello di sua madre.

“Venite — scriveva — appena avrete letto. Io e Giulia abbiamo bisogno
di voi.„

Il signor Carlo discese in fretta le scale. Si fece condurre in fiacre
fino al principio della collina, poi si mise a salire la strada erta
per la quale era disceso la notte innanzi in preda a tanta agitazione.
Ora invece aveva il viso animato, sereno, quasi baldanzoso, perchè
un senso di confidenza, non precisata da alcuna idea ma viva e
confortante, gli riempiva l’animo e pareva che gli dilatasse i polmoni
nella ripida salita. La giornata era bellissima; gli uccelli cantavano
allegramente sugli alberi e tutta la distesa dei colli pareva inondata
di una tranquilla letizia nella luce e nel calore di quel meriggio
autunnale.


II.

La signora Marianna lo aspettava nel salotto, sola, seduta sul divano.
Il signor Carlo le si sedette accanto, nel posto stesso ove era stata
Giulia conversando con lui poche ore prima.

Il discorso della vecchia entrò subito in materia: — Il Conte parla di
riunirsi con mia figlia, e questa volta sembra che dica per davvero.
Io lo spero, e, come potete ben credere, lo desidero ardentemente.
Giulia è un po’ inquieta e diffida di quella testa balzana. Non posso
darle torto, dopo tutto quello che le ha fatto passare; ma in fondo
anch’ella desidera di riunirsi.... Il papà e la mamma non sono eterni.
Che posizione è la sua nel mondo? Quale diverrebbe domani se noi le
dovessimo mancare?... Malgrado che da quattro anni ella viva qui sempre
con noi, come una bambina, non sono mancate e non mancano le male
lingue....

Il signor Carlo interruppe con voce velata:

— Dov’è Giulia?

— Oh, figuratevi! Questa mattina, alla levata del sole, le ragazze
Belloni sono venute a gittare dei sassi contro la sua finestra. Non c’è
stato verso! Ha dovuto alzarsi e affacciarsi. E allora: “Venga! Venga,
signora Giulia! C’è una bellissima comitiva, il marchesino Ludolfi, la
signora Rhester, il tale, la tale. Si farà colazione sull’erba, andremo
a vedere le Grotte. Abbiamo fatto sellare un bel somarello anche per
lei. Venga! Venga!„ — Insomma la Giulia ha dovuto arrendersi; ma non
ha voluto saperne di montare un somarello. S’è vestita l’amazzone, ha
fatto sellare la baia stanca e io l’ho vista dopo dieci minuti passare
sotto la mia finestra, che andava come il vento, innanzi a tutta la
carovana. Poi che fanno colazione lassù, io non li aspetto di ritorno
se non verso le tre.... Ma ciò adesso poco importa.... Vi dicevo
adunque, caro Carlo, che le male lingue non mancano.... E ora, ecco
il piacere ch’io vi domando, in nome della vecchia amicizia che avete
per noi.... e per Giulia.... Voi dovete mettervi in mezzo per questa
riconciliazione.

— Io?...

E il volto del signor Carlo dovette certo pigliare una espressione poco
allegra, perchè la signora Marianna rimase per un poco sconcertata. Ma
continuò:

— Sì, voi; ma non mi spaventate!... Anzitutto, come avvocato e amico
della famiglia, voi siete la persona che ci abbisogna per comporre
certe differenze d’interesse tra noi e il nostro carissimo genero,
il quale — sia detto fra noi due e in tutta confidenza — deve avere
degli impicci e non pochi.... Ma pazienza! Egli aveva la nobiltà, noi i
quattrini; e ci piacque che nostra figlia fosse contessa.... L’abbiamo
pagata un po’ cara; e ora a pentirsi non c’è più costrutto!... In
secondo luogo....

Qui la voce della signora Marianna si abbassò di tono, e continuò,
facendosi più vicina al suo interlocutore:

— In secondo luogo, voi non ignorate certo che si è notata la vostra
assiduità in questa casa e che s’è malignato e si maligna sulla
stima.... sull’amicizia, e sulla simpatia che la Giulia vi ha sempre
dimostrato.... Infamie! Figuratevi se non ne sono convinta io, che v’ho
sempre accolto in casa come un amico, starei quasi per dire come un
figlio! Ma come si fa a tener la lingua ai maldicenti?... Qualche voce
so che è arrivata anche all’orecchio del marito di Giulia, con quale
effetto lo ignoro. Ma figuratevi! È capacissimo, ora che gli torna,
di fare l’indifferente; ma dopo, chi m’assicura che non tirerà fuori
queste vecchie storie per tormentare ancora quella disgraziata?... Non
ho bisogno d’imparare a conoscerlo il mio caro genero!... Adunque —
per tagliar corto e per sempre ad ogni malignità — il mezzo migliore
è che voi, voi stesso, vi intromettiate con affetto d’amico vero e
disinteressato a questa riconciliazione.... Fatelo, fatelo, Carlo!
Oltre che compirete una buona azione e proprio degna d’un uomo
come voi, vi assicurerete la eterna gratitudine di noi tutti.... e
seguiterete ad essere di casa nostra, come il più buono dei nostri
amici....

La donna apatica aveva vuotato il sacco. Si chetò e rimase con l’aria
stanca ad attendere risposta al suo lungo discorso. Il signor Carlo,
mentre ella parlava, s’era sentito come a rompere dentro qualche cosa,
che gli dava un dolore indicibile. Cercò in fretta nelle sue idee,
ma erano troppo sconvolte. Che rispondere?... Di primo moto volle
ricusare; ma gli balenò la tema d’essere come tagliato fuori del tutto,
di non poter più vedere Giulia e parlarle e avere una presa qualunque
sulla sua deliberazione. Un senso acuto di egoismo, una speranza vaga,
un bisogno irresistibile di continuare ad essere in qualche guisa unito
a quella donna, si accumularono sulla sua volontà e lo forzarono a
consentire.

La signora Marianna lo ringraziò e disse che non s’aspettava di meno da
lui.

Nell’uscire, sulla loggia d’ingresso il signor Carlo vide il padre di
Giulia disteso sopra una lunga sedia di vimini all’indiana. Leggeva un
romanzo di Paolo di Kock. Il vecchio posò il volume, gli andò incontro,
e gli porse tutte due le mani:

— Marianna le avrà già parlato.... Mi raccomando a lei! Siamo nelle
sue braccia!... Noi due poveri vecchi non abbiamo altro a cuore che la
felicità di questa figliuola.... Ci raccomandiamo a lei!

E negli occhi del vecchio, dietro gli occhiali, brillavano due
lagrimette. Il signor Carlo gli strinse le mani balbettando qualche
parola di promessa, ed uscì. Il vecchio mise un sospiro di sollievo e
ripigliò la lettura del suo romanzo.


III.

Quando uscì, il cielo era sempre sereno, gli uccelli cantavano
allegramente sugli alberi, sorrideva per le colline la tranquilla
letizia autunnale. Ma dentro di lui che misero mutamento! Andava
innanzi come istupidito. Non ostante, rispose con bontà al saluto
di un contadino e gli chiese com’erano contenti della vendemmia.
Poi pigliò lentamente, non la strada per la quale era venuto, ma un
viottolo solitario che con più lungo giro conduce anch’esso ai viali di
circonvallazione nella parte più a levante della città.

Cominciò dentro di lui il tormentoso soliloquio. Niente di vago e
d’indeterminato e di fantastico era nella sua niente; invece tutto
ora gli si poneva chiaro dinanzi agli occhi con una cruda e tagliente
precisione di contorni. Escluse anzitutto l’ipotesi che la vecchia
avesse mentito e che Giulia ignorasse l’idea del marito e della
famiglia. Ella sapeva ogni cosa; e n’era prova troppo evidente il suo
contegno della sera innanzi. Quel contegno gli scomponeva dentro la
bella, intera e ideale figura di Giulia, mutandola in un’altra di cui
non sapeva più rendersi conto, a cui non poteva ancora aggiustare una
fisonomia precisa, ma che lo turbava e gli dava dolore.

E quel suo arrendersi all’invito della passeggiata?... Una leggerezza
insieme e una crudeltà! Essa lo sapeva bene che in quella stessa
giornata, poche ore dopo, un dolore immenso si sarebbe avventato sopra
di lui, avrebbe fatto strazio di lui.... E dunque, come mai essa, di
una sensibilità così fine, essa che lo amava, che tante altre volte
aveva mostrato di comprenderlo, che aveva avuto riguardi e previdenze
delicatissime per risparmiargli anche un piccolo dispiacere, come
mai ora non aveva capito che quel suo mescolarsi intanto a un frivolo
passatempo avrebbe avuto il significato di una noncuranza atroce per
lui?...

Ma lo amava ella veramente?

Si buttò sull’erba e pianse. L’uomo si ritrovava debole contro a
quel primo e violento urto di un dolore che lo coglieva impreparato.
Anche nei giorni della felicità, alla sua mente talvolta era venuta
l’idea di un grande e finale sacrificio; ed egli, anzichè respingerla,
l’aveva accolta e guardata in faccia con una forte e quasi serena
rassegnazione. — Ma quello non era, no, il sacrificio com’egli
l’aveva immaginato!... La sua mano nella mano di Giulia, i suoi occhi
fissi negli occhi di lei, i due cuori gonfi di angoscia, ma insieme
confortati da una completa reciprocanza d’affetti e di propositi.... Il
sacrificio, insomma, egli lo aveva sempre immaginato e previsto come un
supremo argomento d’amore in faccia a qualche imperioso dovere della
vita. Ma non così, non così come se lo vedeva ora a un tratto venire
dinnanzi!... Mentre era solo a soffrire e lei, la donna sua adorata,
invece d’esserle vicina, proprio quel giorno, svagolava per le colline
in mezzo ad una brigata di donnine allegre e di giovinotti eleganti....

Dopo avere camminato un pezzo senza termine fisso, il signor Carlo
giunse ad uno degli ingressi secondari del nuovo Giardino Pubblico ed
entrò. L’occhio poteva allora spaziare senza ostacolo per quei piani
dolcemente ondulati e seguire le curve dei bianchi viali costruiti di
fresco e fiancheggiati d’alberelli giovani, a cui l’autunno aveva già
ingiallite e scemate le poche foglie.

La gente, scarsa in quell’ora, passeggiava qua e là con aria
sfaccendata e tranquilla. I vecchi, che d’autunno cominciano a godersi
il sole, sedevano sulle panche chiacchierando. Il signor Carlo notò
un gruppo di ufficiali a cavallo che venivano galoppando verso di
lui. Quando gli passarono accanto, s’avvide che un bel giovane in
abito borghese era in mezzo a loro; e riconobbe subito il marito di
Giulia.... Si sentì una stretta viva al cuore, come alla vista di un
nemico vittorioso. Ebbe subito voglia d’essere lontano da quei luoghi e
andò per un viale di scorciatoia verso il centro del giardino lontano
dai grandi viali; e sedette sotto un gruppo di salici vicino al lago.
Di là istintivamente seguiva con gli occhi la figura del Conte, che
vedeva caracollare e gestire vivacemente insieme ai suoi amici.

Tutt’a un tratto dei suoni rauchi, che avrebbero voluto essere degli
squilli di tromba, vennero a distrarlo da quell’attenzione; ed egli si
volse verso l’ingresso principale del giardino da porta Santo Stefano.

In quel momento, preceduta dal trombettiere, entrava in disordine
una numerosa “somarata„. Erano i villeggianti di cui aveva parlato
la signora Marianna. Finita la colazione a Monte Paderno, avevano
presa nel ritorno la via pittoresca di Monte Donato, mettendo capo
alla strada di Pianoro. Ed ora risalivano alla collina, verso casa,
attraversando il Giardino Pubblico. Pel viale grande, battuto da tante
zampe ferrate di somarelli, si levava già nell’aria luminosa una nube
di polvere insieme a un coro confuso di grida e di risate. Le signore
avevano il viso rosso e i gesti spigliati; i giovani s’alzavano sulle
staffe, si chiamavano per nome e si rincorrevano, battendo a furia le
povere bestie. In mezzo a quella squadriglia disordinata, su quelle
umili teste orecchiute, su quei cappelli di paglia, su quelle vesti
e quei veli variopinti e ondeggianti, dominava sull’alto cavallo la
bella figura di Giulia, nel suo nero costume d’amazzone, con le ricche
treccie bionde dorate dal sole e un poco allentate sulla nuca. Era
vivace, imperiosa, elegantissima. Entro quella nube di polvere, aveva
una grande aria di principessa; una principessa dei racconti fantastici
guidante una carovana di zingari.

Da tutte le parti del Giardino correva intanto la gente al passaggio
dello spettacolo inaspettato; e anche il signor Carlo, quasi senza
avvedersene, si trovò dietro una siepe di curiosi. Giulia passò
innanzi senza accorgersi di lui. Ma più oltre, dove il viale grande
si biforca, il Conte con gli ufficiali stava fermo sul principio del
piazzale attendendo anch’esso il passaggio; e quando sua moglie non era
ancora giunta di fronte a lui, si cavò vistosamente il cappello. Giulia
rispose al saluto sorridendo e chinando il capo fin dietro la testa
del cavallo, forse per nascondere un vivo rossore che si sentiva salire
improvvisamente alla faccia.... Il signor Carlo notò quel saluto, quel
sorriso, quel rossore.... Alla pallidezza del suo volto e al tetro
lampo degli occhi, un curioso avrebbe potuto crederlo il marito, che
studiava, non visto, l’incontro di sua moglie con un giovane che gli
era causa di sospetti....


IV.

E il male era che il signor Carlo, dentro l’animo, _si sentiva_ infatti
d’esser egli il marito di Giulia.

Non glie l’aveva essa detto tante volte? Non glie l’aveva anche
scritto? “Lo sa Dio, che mi vede il cuore, se avrei voluto essere una
moglie incolpabile e non amare che l’uomo che m’avevano destinato!...
Se il voto sincero della mia anima non potè avere adempimento, la colpa
non fu mia; ed io ora, come posso, lo adempio. Ora sei tu, sei tu solo
il mio marito unico e vero; e sento che sarò fedele a te per tutta la
mia vita; e sento di esserti unita con un nodo non meno sacro, non meno
indissolubile ed eterno solo perchè gli uomini e le loro leggi non lo
possono o non lo vogliono riconoscere....„ Queste parole erano incise
una dopo l’altra nella mente del signor Carlo; ed egli aveva creduto in
esse come nella verità immutabile; e dal canto suo aveva posto fuori
d’ogni dubbio che la sua vita fosse legata per sempre alla vita di
Giulia.

Quello che la donna aveva detto e scritto in certi momenti d’abbandono
sentimentale, egli lo aveva accolto e convertito, per sè, in legge
assoluta. Un marito, appassionato e geloso, non avrebbe potuto pensare
e soffrire diversamente da come pensava e soffriva il signor Carlo....


A casa, verso sera, finalmente gli fu portato un biglietto di Giulia. —
Lo ringraziava dal profondo del cuore d’averle risparmiate spiegazioni
inutili e che sarebbero state uno strazio per ambedue. In un modo o
nell’altro, quella vita avrebbe pur dovuto avere un termine.... Meglio
adunque rassegnarsi e piegare il capo al destino! Lo chiamava “eroico
amico„ per la parte che s’era assunto presso il marito. Si sarebbe
sempre ricordata di lui e del tempo felice.... Avrebbe egli avuto in
eterno un posto nel cuore di lei, come il più caro, il più degno degli
amici suoi. — Il signor Carlo lesse più volte il biglietto prima di
metterlo nel portafogli.

La sera andò, come di consueto, alla villa. Giulia durante la serata
non uscì quasi mai da un gruppo d’amiche e d’amici, volgendo però di
tanto in tanto la parola al signor Carlo con un fare cortesissimo.
Volle anche regalarlo di qualche occhiata fra la passione e la
compassione; ma andavano come a spuntarsi negli sguardi duri, freddi e
raccolti di lui.

Il quale fu con tutti d’un contegno esemplare e, tranne l’aria un
po’ abbattuta e taciturna, il solito uomo delle altre sere. Solo a un
dato momento, quando credette di non essere osservato, prese da una
piccola scansìa un album di Giulia chiuso fra i due fermagli d’oro.
La chiavettina pendeva dal lucchetto; aprì e, fingendo di leggere,
ne strappò pian piano una pagina ov’erano de’ suoi versi; non gli
unici che aveva pensati, ma gli unici scritti per lei ne’ primi
tempi dell’amore. Giulia sola notò quell’atto e lasciò fare. I versi
dicevano:

    Il Sogno dilettoso, il Sogno bello,
    Che la vita rapì nell’onde amare,
    Or, fermo al limitar del mio cervello,
    Chiede, o donna, per voi, di rientrare.

    Dal cor, che le chiudea come un avello,
    Esce lo stuol delle Speranze care,
    E notte e dì con dolce ritornello
    Cantano intorno al cor: torna ad amare!

                             . . . . . . .

Poco dopo le undici, Giulia disse che si sentiva molto stanca della
cavalcata del giorno. Salutò tutti, diede la bianca mano all’amico,
dicendogli con accento spiccato: — A rivederci eh?... E salì nella sua
stanza. Indi a poco la conversazione si sciolse. Mentre il signor Carlo
s’accomiatava dalla signora Marianna, questa fece col viso un movimento
d’interrogazione, a cui egli subito rispose:

— Vado domattina!

Discese solo nella notte la strada della collina. Arrivato vicino
ad una grande croce di macigno eretta sulla strada, a un terzo della
salita, sedette sul largo zoccolo e stette lì un pezzo immobile....
Che fulmineo rivolgimento di cose fuori e dentro di lui, nello spazio
di ventiquattr’ore!... Avrebbe voluto essere cento metri sepolto sotto
terra e non vedere e non udire e non intendere più nulla. Ma quella
voglia d’annientamento era subito vinta, da un desiderio indomito di
vivere, di sapere, di vedere, di lottare fino all’estremo contro tutta
quella dolorosa realtà. E gli pareva troppo mostruoso che la dovesse
finire a quel modo.... No, non doveva!...

Voltò gli occhi verso la villa Luigiani e li fissò in un quadrato
luminoso che appariva lassù nel buio circostante. Era la finestra
della stanza di Giulia; ed egli pensò che la giovane donna stava
spogliandosi.... Si trovò in piedi come di scatto e rifece il pezzo di
strada fino sotto alla finestra di Giulia.

Altre volte aveva scherzato con lei intorno a un vecchio albero
che sorgeva di rimpetto, dicendole che pareva messo lì apposta per
favorire la curiosità notturna d’un adoratore indiscreto. Svelto come
un monello di quindici anni, il signor Carlo s’arrampicò sull’albero e
vide per la finestra spalancata la Giulia che si svestiva. Poi subito
sentì la sconvenienza di quella sua posizione; e scese dall’albero a
precipizio....

Giulia, tratta dal rumore, s’accostò alla finestra e posò un momento
le braccia nude sul davanzale, guardando a basso. Ma niente potè
distinguere in quella oscurità; e chiuse lentamente le imposte.


V.

Il giorno dopo il signor Carlo andò all’_Hôtel Brun_ a vedere il Conte.
Trovò un giovane di maniere cortesi, gioviale, facilone, all’apparenza
sincerissimo. Sulla partita interesse, non ci volle gran tempo a
intendersi, perchè la famiglia della moglie era larga nel concedere.
Dal canto suo egli, dichiarandosi stanco di quella vita irregolare e
desideroso di riunirsi a sua moglie, lasciò anche abbastanza travedere
ne’ suoi discorsi che quelli dell’interesse, se erano forse i più
forti, non erano però i soli argomenti che lo tiravano a riconciliarsi
con la “sua cara Giulia„. Nell’abbandono del dialogo, il giovinotto
disse al signor Carlo:

— Io riconosco di aver dei torti gravi verso mia moglie. E tanto più
sono franco a confessarli e a dolermene, quanto maggiore è in me la
sicurezza che Giulia mi ama e non ha mai cessato d’amarmi. Io ne ho la
prova....

— Ah?!...

— Sì, ne ho la prova. Con avvocati e medici non si debbono aver
segreti. Guardi....

E trasse fuori dalla tasca interna dell’abito una busta grande di
carta, che porse sorridendo al signor Carlo. Conteneva parecchie
lettere di Giulia inviate al marito durante i cinque anni della
separazione, a intervallo di qualche mese ognuna.

L’avvocato, dissimulando l’emozione, si mise a scorrere quelle lettere.

Erano tutto un discorso malinconico sulla vita solitaria di lei. —
Niente la divertiva, niente la distraeva. Le amiche la mortificavano
coi compianti importuni e le domande indiscrete. Degli amici poi,
alcuni la seccavano facendole la corte, alcuni altri offrendosele a
confidenti e perfino a mentori!... Poi, di tanto in tanto, un pensiero
fugace alla felicità perduta, una gentile sollecitudine di donna
per la vita raminga e disordinata ch’egli menava; una espressione di
tenerezza temperata di riserbo e di rimprovero.... Un vago accenno di
speranze per l’avvenire. — Tra le lettere c’era anche un ritratto di
Giulia in fotografia. Quello stesso che ella aveva donato al signor
Carlo e che egli teneva, inquadrato, nella sua stanza. Glie lo avea
mandato, scrivendogli che era l’_unica_ copia, che l’aveva ordinata
esclusivamente per darla a lui, e che aveva obbligato il fotografo a
distruggere la negativa....

Non volle più vedere oltre, e rimise lettere e ritratto nella busta,
masticando qualche frase di complimento. Il Conte con ogni cortesia
lo ricondusse fin sullo scalone e all’atto d’accomiatarsi gli disse,
ridendo:

— Ma sa lei che Giulia s’è fatta molto più bella in tutto questo
tempo? L’ho vista ieri al Giardino Pubblico e ne sono rimasto proprio
incantato.... Tanto meglio, non è vero?....

E lo lasciò con una lunga stretta di mano.

Quell’ultima rivelazione fu pel signor Carlo più che un dolore. Essa
metteva un acre risentimento d’offesa nell’animo dell’amante ingannato.
E in lui principiò a ribollire sordamente il desiderio vendicativo.

E pensava; quella voce interiore che gli aveva imposto d’accettare un
così strano e doloroso ufficio, era dunque stata una voce profetica!
Era dunque fatale che egli arrivasse a vedere tutta e nuda la
miserabile verità intorno a Giulia, intorno alla donna per la quale
egli, cieco, tante volte avrebbe dato con gioia la vita!... E questa
verità, senza aver forza di uccidere la passione, era come un caustico
mordente che la ricercava tutta e struggeva quanto era in essa di
morbido, di mite, di sottomesso; e la riduceva ad una specie di
scheletro animato, forte, fiero e minaccioso.

Entrato nella sua stanza ruppe il cristallo del quadro che conteneva
le fotografie; prese quella di Giulia e la fece in quattro pezzi.
Cavò poi da uno stipo un grosso fascio di lettere e, messo ogni cosa
sul caminetto, vi appiccò il fuoco. La fiamma azzurrognola ardeva
silenziosa nella luce del giorno. Il signor Carlo stette a guardarla
fino all’ultimo; e intanto gli pareva di sentirsi risuonare dentro una
voce:

— Vai avanti, giustiziere!


VI.

Il calice amaro egli volle vuotarlo tutto.

La riconciliazione formale dei due sposi avvenne due giorni dopo, quasi
di nascosto ed in modo semplicissimo. Il Conte andò e fu ricevuto da
tutta la famiglia a braccia aperte. Nessuno fu invitato in quel giorno
alla villa, tranne il signor Carlo. Non era stato egli il buono e
felice mediatore della riconciliazione? La signora Marianna (parlando
anche a nome della figliuola) lo aveva invitato con un biglietto; e il
Conte, con uguale cortesia, aveva aggiunto il suo invito.

Il signor Carlo andò. Quando verso le due del pomeriggio entrò nel
salotto, Giulia e suo marito sedevano sul divano posto fra la grande
tavola di noce e la parete.

I due giovani formavano una bellissima coppia. Il Conte non
ismentiva la sua compostezza di giovane elegante e raffinato; ma il
volto attestava una sincera soddisfazione. Giulia, inchinando la
sua adorabile testina bionda sulla spalliera del divano, mostrava
nell’abbandono di tutta la persona quel mite languore che succede
alle forti e care commozioni dell’animo. Ora teneva i grandi occhi
socchiusi, come per raccogliersi, ora li fissava sul marito o li girava
sui volti soddisfatti del padre e della madre....

Allor che, guardando dalla finestra, aveva visto comparire il signor
Carlo sul cancello della villa, il volto di Giulia s’era turbato
un poco. Era, volere o no, una nube sull’orizzonte. Annunziava un
temporale?... Giulia stese la mano all’“eroico amico„, e sentì ch’egli
rispondeva alla sua con una stretta franca. Bastò questo segno a
rassicurare la giovane; e la conversazione s’incamminò disinvolta e
tranquilla.

Dopo fecero tutti insieme una passeggiata nel breve parco che circonda
la casa. Anche quel luogo era pieno di ricordi.... Giunti ad un
bell’albero di robinia coi rami pioventi e intrecciati con arte a guisa
di capanna, Giulia e il Conte v’entrarono, ridendo, e si sedettero
sull’erba. Il signor Carlo, guardando in alto, con l’aria distratta,
disse:

— Quest’albero dovrebb’essere vicino a seccare....

— Che! — ribattè il vecchio. — Per quelle poche foglie secche che lei
vede tra il verde?... Effetto solito dell’autunno. L’albero è in ottime
condizioni.

— E io credo che quest’albero dovrebb’essere vicino a seccare.

Lo strano discorso non ebbe seguito; ma nella mente di Giulia passò un
soffio di ricordanze, che la fecero rimanere in silenzio per qualche
minuto.

Verso le quattro la signora Marianna salì nelle stanze a vestirsi per
il pranzo; il vecchio andò a schiacciare il suo consueto sonnellino
d’un’ora. I tre rimasti girarono ancora un poco pei viali.... Come
passare il tempo sino alle sette? Nessuno osava palesare quella
preoccupazione. Intanto il signor Carlo si faceva sempre più taciturno
e i discorsi andavano innanzi stiracchiati e languidi. Il Conte a un
tratto ebbe una idea.

— Sapete che con la corsa delle quattro e quaranta arriva mio zio da
Milano? Io vado ad attenderlo e gli preparo una bella improvvisata.
Della nostra riconciliazione egli non sa nulla. Pensa, Giulia, se egli
cascherà dalle nuvole quando, invece di arrivare all’_Hôtel Brun_, egli
si vedrà condotto qua su a pranzare con noi!...

Giulia trovò che era una idea stupenda.

Dopo dieci minuti il _tilbury_ del Conte aspettava già dinanzi al
cancello. Mentre egli s’incamminò per partire, Giulia lo accompagnò.
Discendevano insieme, discorrendo, il breve viale fiancheggiato da
vasi di limone e d’oleandri fioriti, egli un passo innanzi mettendosi
i guanti, ella seguendolo e tenendogli una mano sulla spalla. Il
signor Carlo, seduto sopra una panchina di marmo, intanto li sbirciava
traverso i rami di un ciuffo di mortelle. I suoi occhi, guardando un
poco di traverso, avvolgevano la taglia sottile di Giulia e tutta
la sua figura elegante, curva un poco innanzi verso il marito; e
seguivano anche il moto lento de’ piccoli piedi sulla ghiaia minuta e
stridente del viale.... Quando i due furono presso al cancello, Giulia,
credendosi non vista, rattenne con la mano il marito; questi si voltò,
la baciò nella bocca e in un attimo fu sul _tilbury_ prendendo le
redini e la frusta dalle mani del cocchiere. Salutò ancora con la mano
e s’allontanò a trotto lento giù per la china.


VII.

Quando Giulia tornò al luogo di prima, non trovò il signor Carlo. Lo
cercò con gli occhi qua e là, girò un poco pei viali, diede di sfuggita
una occhiata sotto la robinia e chiamò anche ad alta voce: — Avvocato!

Nessuno rispose. Ella aveva provato prima un senso vago di tema e di
confusione all’idea di ritrovarsi così subito sola, a tu per tu col
signor Carlo. Per questo non le spiacque di non vederselo vicino; e
si mise a scherzare con un bel canino pómero che da qualche tempo, non
curato, le saltava intorno.

Intanto il signor Carlo, appena visto quel bacio s’era alzato di
scatto; e ora s’allontanava dalla casa, con la fretta d’uno che fugge,
andando senza saper dove.

Attraversò per uno stretto cancello l’alta siepe di bosso che divide
il villino Luigiani dal vastissimo parco di una villa principesca che
si distende per tutta la parte più elevata della collina. Infilò un
viottolo tortuoso ed erto, procedendo senza mai voltarsi indietro e
abbrancandosi agli arbusti per salire più lesto. Dopo circa un quarto
d’ora arrivò ad una breve spianata in forma d’emiciclo, circondata da
vecchi cipressi e con in mezzo la figura di un grande _Satiro danzante_
di marmo, tutta corrosa e annerita dalle pioggie.

Avrebbe voluto camminare ancora; ma gli parve che l’attraesse il
sorriso ferino del satiro, e quella sua movenza procace; e stette
qualche tempo a contemplarlo. Poi si voltò e vide sotto di sè,
adagiata alle falde della collina, l’ampia città turrita, illuminata
a grandi striscie purpuree dal sole che tramontava, già molto vicino
all’orizzonte. E tendendo un momento l’orecchio gli parve che di
laggiù, fra quelle case e quelle torri, risonassero, e, a malgrado
della distanza, arrivassero fino a lui delle voci conosciute....

In lui il cruccio dell’anima e lo sconvolgimento doloroso dei sensi,
dopo quel periodo già troppo lungo di sottomissione e di martirio
contenuto, si erano scatenati in una aperta rivolta.

In piedi, con le tempia fra le mani che gli tremavano, cominciò
una lunga evocazione di ricordi che si mescolavano, in tumulto, a
intimazioni, a domande, a brevi attese di risposte, a scoppi furibondi
di collera. Era un rapido confronto che egli instituiva, nell’egoismo
della sua coscienza urtata e malata, fra sè stesso e la donna che era
stata sua, che gli aveva giurato d’essere sua per tutta la vita.... E
la conclusione di tutto si presentava a lui nella immagine repugnante
di una oscena contaminazione.... La bianca e bella figura di Giulia
cinicamente andava a insudiciarsi fra le braccia del Conte.... E quel
fatto doveva, senza alcun dubbio, accadere, di lì a poche ore, proprio
in quella stessa sera, a pochi passi da lui, proprio in una delle
stanze di quel villino che vedeva lì sotto.... Allora tutte le offese,
tutti gli sdegni, tutti i martiri della sua passione si condensarono in
un atto disperato della volontà, risoluta ad impedire che “quel fatto„
avvenisse....

Poi che questo proposito fu bene compiuto e sigillato nel suo cervello,
il signor Carlo si sentì come alleggerito.

E ridiscese. Giunto alla siepe di bosso, non la varcò per il piccolo
cancello ma vi appoggiò il petto e sporse il capo avanti, guardando
all’ingiù come dalla balaustrata di una terrazza. Intanto il sole si
era del tutto nascosto. A basso, nella stretta valle formata dalla
insenatura delle colline, l’ombra era già molto cresciuta e da quella
si alzava un immenso cicaleccio di passeri cercanti tra le acacie folte
il loro asilo della notte. Sopra a quel passerìo lontano, lamentoso
e monotono, regnava già il silenzio della sera tranquilla. La stella
di Espero brillava nel sereno come un bellissimo occhio di diamante.
Dintorno, non una voce, non un rumore. Nella prossima strada deserta
non un suono di carri o di passi. Le tre o quattro ville vicine pareva
che si guardassero fra loro in silenzio, aspettando la notte; mentre,
alla sommità del colle, la napoleonica villa Aldini, col gran timpano
della sua fronte e il colonnato dorico, dava a tutta la scena un’aria
dolce e grave di paesaggio antico.

Il signor Carlo guardava immobile. A un tratto udì la voce di Giulia,
che canterellava il motivo d’una romanza di Tosti. Poi la vide
uscire per un viale da una macchia di piante, incamminarsi con aria
indolente verso la casa, salire lentamente i gradini della scala, dare,
voltandosi, una occhiata verso il cancello della villa e scomparire.
Egli aspettò ancora qualche minuto. Poi discese, passando per il
piccolo cancello. Poi entrò anch’egli nella casa.

Attraversò la loggia d’ingresso, già oscura, ed entrò nel salotto.
Oscuro anche quello; ma potè scorgere la figura di Giulia, seduta sul
divano e alquanto rischiarata dai morenti riflessi del tramonto che
entravano dalla finestra vicina a lei. La giovine donna sedeva con la
fronte appoggiata alle due palme delle mani distese sul tavolo. Forse
pensava, forse dormigliava. Tra il fondo di una porta e il pavimento,
appariva una riga luminosa e si udiva qualche lieve rumore e qualche
bisbiglio di voci. Erano i servitori che muovevano intorno alla tavola
del pranzo, nella stanza accanto.

Il signor Carlo, avanzatosi senza far rumore, si fermò ritto vicino
alla donna:

— Giulia, ascoltami.... Tu non puoi, tu non devi riunirti al Conte....
e andare questa notte con lui....

Parlava con una voce secca, che gli usciva dalle labbra aride.

Giulia si riscosse o dai pensieri o dal sonno, alzò il capo con un
movimento di sorpresa e sbarrò gli occhi in faccia al signor Carlo,
senza dire una parola. Questi, curvandosi un poco verso di lei,
proseguì:

— Sono io, Giulia! Sono io il tuo marito vero. Non me l’hai tu scritto
e detto tante volte?... Questa tua riunione col Conte non la voglio!...
È deforme, è infame!... Non c’è tempo da perdere. Alzati subito e vieni
con me....

— Voi siete pazzo!

— Sì, se vuoi, sono pazzo; ma la mia decisione è immutabile. L’amore, i
giuramenti, la colpa, se vuoi, ci uniscono con un vincolo che nulla al
mondo può distruggere.... Vieni subito con me!

E cominciò fra i due, a voce bassa, un dialogo che fu tutto una lotta
a esclamazioni, a monosillabi, a frasi tronche e strozzate dall’ansietà
e dal tremito.... Quelle due anime, quelle due vite, si urtavano con un
cozzo terribile; e come avviene in pochi istanti che l’aria circolante
nei polmoni si tramuta in veleno, così in quell’urto l’amore e la
simpatia si tramutarono in odio, d’ambo le parti; un odio a cui nulla
poteva resistere, irrompente furioso da tutto il vigore di due egoismi
disperati.... Essi, in quell’ultimo barlume del vespero, si videro
anche una volta: pallidi, sfigurati, ansanti, abbietti.... Infine,
Giulia, raccolta ogni sua forza, gli sibilò sul viso con rabbia:

— O partite subito, o io chiamo!

E, puntando le mani sulla tavola, fece per alzarsi; ma l’altro non le
lasciò il tempo. S’udì uno scoppio d’arma da fuoco, e la donna ricascò
fulminata sul divano.

La porta della stanza accanto subito si spalancò e, insieme con una
viva colonna di luce, entrarono i servitori esterrefatti. Quasi nello
stesso momento entrarono, correndo dalla porta che dava sulla loggia,
anche il Conte, accompagnato dallo zio.

Il signor Carlo fece alcuni passi verso il Conte e gli disse con voce
ferma, accennando verso il divano:

— Essa voleva commettere un vile adulterio con voi.... Io glie l’ho
impedito!

E lasciò cadersi a’ piedi il piccolo revolver.




FRA GINEPRO.


Da un’ora s’era fatto buio e il silenzio nella strada era quasi
completo. L’aria fredda, la notte stellata e senza luna. Avevo lasciato
dietro di me un gruppo di case con tutti gli usci chiusi; qua e là
alcune finestre soltanto avevo viste illuminate.

Adesso la strada provinciale andava per un lungo tratto senza passare
davanti nè a case nè a ville.

Io comminavo di molto buon passo perchè in un’ora circa volevo essere
a casa, ove i miei m’aspettavano per la cena di Natale. Un’ora di
cammino a piedi, di notte, solo.... Dentro di me, da principio, quasi
impercettibile, ma poi via via sempre più avvertita, cresceva una
inquietudine malinconica e sospettosa. Davo delle rapide occhiate
dinanzi a me, alla strada deserta, alle siepi, agli alberi, ai
neri colli lontani sulla mia destra, alla pianura anche più nera,
che s’affondava e spariva sulla mia sinistra. E se avessi avuto
ancora qualche dubbio su quello che m’accadeva, sarebbe bastato a
dissiparlo il grande sollievo che provai quando m’accorsi che stava
per raggiungermi un carro; e sentii dietro di me, ancora lontane, le
sonagliere dei cavalli. Era una di quelle pesanti e lunghe _mambrucche_
dalle ruote altissime colle quali i montanari dell’Appennino bolognese
scendono ancora in città per la via di Loiano, con carbone o altro.
Il carro ritornava in su vuoto; il montanaro, lungo disteso sul carro
e chiuso nel suo gabbano, pareva addormentato. Ma i cavalli robusti
andavano quasi di trotto e mi fu impossibile camminare al pari con
essi, come ne avrei avuto la voglia.... Dopo dieci minuti sentivo
appena nell’aria cheta i campanelli delle sonagliere; poi più nulla; e
questo mi dispiaceva; e questo aumentava il mio malumore.... Insomma,
come un Renzo Tramaglino qualunque, avevo paura, e non dei ladri.

Io!... Io che studiavo il quarto anno di medicina e chirurgia nella
regia università; io che avevo letto da poco, nella traduzione di Luigi
Stefanoni, _Forza e Materia_ del Buchner, e ne ero rimasto bravamente
persuaso.... Come avrebbero riso di me i miei compagni!... E il
professor Concato?... E il professor Ercolani?... Tant’è!...

Il fatto veramente non mi accadeva per la prima volta. Quelle tre
miglia di strada, così bella e allegra, che io avevo l’abitudine di
fare in pieno giorno senza un pensiero al mondo, di notte invece con le
ombre, con la solitudine e il silenzio assumevano tutt’altra sembianza
e mi producevano un effetto tutto diverso.

A ogni pezzo di strada incontravo luoghi di cattiva fama, luoghi
paurosi per leggende soprannaturali e ricordi di tristi fatti. Ed erano
racconti che avevo udito narrare più volte quand’ero ragazzo. — In
quella cappelletta solitaria e sempre chiusa, fra un gruppo di vecchie
acacie, che è a sinistra della strada a un chilometro da Bologna, in
certe notti dell’anno, si vede subitamente la finestra illuminata, e di
dentro si sente borbottare un prete che dice la messa.... Più oltre,
allo sbocco del vicolo che mette per la più corta a Monte Donato, nel
principio di questo secolo fu ucciso un giovane signore che veniva,
a notte inoltrata, da un colloquio amoroso in una delle ville vicine.
L’ombra dell’assassinato s’era mostrata più volte a qualche viandante
attardato e solo.... Sulle basse spallette, che riparano la via dal
canale presso al Mulino Grande, molti giurano che in certe notti si
vede una vecchia tutta vestita di nero che fila in silenzio. Essa
lascia passare il viandante senza nemmeno guardarlo: ma quando è
passato lo chiama per il suo nome di battesimo con un suono di voce
che fa rabbrividire. Una notte un barrocciaio, di quelli che vanno
a caricare i sassi e la rena nella Savena, con gran coraggio aveva
voluto accostarsi e interrogarla; ma era stato raccolto la mattina
dopo nel fosso, svenuto e coi capelli incanutiti. E ogni volta che lo
interrogavano su quell’accidente, si faceva il segno della croce; e non
c’era verso di cavargli una parola di bocca....


Strano! Questi racconti da bimbi e da donnicciole io li conoscevo da
un pezzo, fin da ragazzo, e in quella notte non ci credevo certo più
che non ci avessi creduto prima. — O dunque? Come spiegarmi quella
dubbiezza che mi faceva guardare dinanzi a me, quell’ansietà che mi
stimolava ad affrettare i passi, nel tempo stesso che una trepidazione
invincibile pareva che mi avviluppasse le gambe?... In certi momenti
mi sembrava che il mio io si dividesse in due; e che una metà, sana,
tranquilla e incredula, gettasse sull’altra metà agitata e titubante
uno sguardo pieno di compassionante rimprovero e di sprezzo. Ma con
tutto questo, il mio malessere non diminuiva!

— Questione d’atavismo! — dicevo fra me. — Certamente, questione
d’atavismo!... Io sono il risultato fisio-psichico di una lunga
generazione di gente che, più o meno, ha creduto a queste cose; ed è
sceso in un col sangue e si è annicchiato nel mio essere allo stato
d’istinto cieco quello che ne’ miei antecessori era credulità vera
e consciente. Ecco perchè adesso io provo, mio malgrado, quello che
Victor Hugo chiama: “l’aspettazione dell’impossibile„.

Allora mi diedi a seguire con cura il filo di queste idee; e facevo
ogni sforzo d’attaccare la mia mente a quel filo perchè l’aiutasse
ad andare lontano, lontano, lontano.... Cominciai col pensare a un
trattato di fisiologia pubblicato di recente; poi agli altri miei
studii di materia medica.... Male, per bacco!... Proprio la mattina
stessa aveva lavorato attorno al cadavere di una donna di circa
trent’anni morta di tubercolosi.... Ritirai con un brivido la mia mente
da quella sala, da quel tavolo di marmo, da quel povero corpo consunto
dalla tisi, inciso e squarciato dal mio bisturi.... Allora guardai in
su al cielo stellato, cercai la chioma di Berenice, Orione, Marte; e mi
fermai collo sguardo sul Carro dell’Orsa, lucidissimo.... Poi cominciai
a canterellare un motivo delle _Campane di Corneville_, raccogliendo
intanto tutte le forze della mia volontà per concentrare la mente in un
pensiero che non fosse quello della donna anatomizzata. E vi riuscii
senza sforzo.... Ma perchè v’ero io riuscito a quel modo?... Ahimè,
la mia paura aveva fatto nè più nè meno di quell’importuno, che dopo
avervi seccato per un’ora camminando, per esempio, alla vostra dritta,
a un tratto si stacca da voi; ma non avete ancora avuto il tempo di
mandare un sospiro di sollievo, che eccovelo alla vostra sinistra più
vicino e più seccatore di prima.

Infatti mentre che i miei pensieri si inseguivano e si accavallavano
nel modo che ho detto, io ero venuto oltrepassando uno dopo l’altro
parecchi dei luoghi dinanzi ai quali la paura m’abitava i suoi
fantasimi pazzi. Ma adesso si avvicinava il più famoso e il più
terribile di tutti; la Croce di Camaldoli!


Domandate alla gente, per molte miglia intorno, notizie della Croce
di Camaldoli e sentirete. Materialmente parlando, non si tratta che
di un vecchio pilastro, sormontato da una gran croce di ferro; e sorge
sulla strada maestra, allo svolto di una via che, un tempo, conduceva
a un convento di Camaldolesi, edificato sulla collina. Il convento,
sullo scorcio del secolo passato, venne prima soppresso, poi demolito
affatto, e adesso nel suo luogo hanno costrutto un terrapieno militare.
Ma il vecchio pilastro e la gran croce nera sono rimasti. Ed è là che
_si vede_ di notte e _si sente_ un frate sedente col capo chino dentro
il suo cappuccio, che recita il rosario a bassa voce.... In questo
punto poi, il dubbio non è permesso. Troppe persone hanno veduto,
passando, questo frate notturno, e attestano con giuramenti la verità
di quello che dicono.

Io m’avvicinavo dunque alla Croce di Camaldoli. Bisogna anche dire
che il luogo ha, di notte, una brutta fisonomia. La strada in quel
punto fa una curva e si abbassa. Cinque o sei vecchie quercie, avanzo
di un bosco antico, nereggiano là vicino gigantesche; la collina a
mano manca, più ripida che altrove, pare che incomba sulla strada con
un piglio sinistro. Guardando intorno nel ristretto orizzonte non si
arriva a vedere indizio d’abitazione umana....

Io andavo preoccupato e sollecito con la testa in avanti e gli occhi
incerti. Mi ricordo che da un pezzetto s’era levato un vento freddo e
tagliente. Sentivo rumoreggiare da lontano i rami delle alte quercie; e
vicino a me tutti i virgulti del fosso e tutti i ramoscelli della siepe
stormivano con un suono acuto e continuato, che mi dava la sensazione
di un lungo unisono di violini scordati, stridenti e sibilanti sulla
quarta corda. Il cuore mi batteva forte contro le costole.... Quando
fui a pochissimi passi dal pilastro e dalla croce, vi fissai bene
gli occhi, con la speranza di vedere libero e vuoto il gradino del
piedestallo.... Invece.... Angeli e ministri di grazia!... C’era il
frate!

Ebbi un momento l’idea di dare indietro; ma io era ormai troppo vicino.
E poi, con la stessa sincerità con cui ho raccontato le mie miserabili
paure, dirò che in quel momento e a quella vista, non so per quale
reazione, sentii salirmi al capo un fiotto di sangue caldo, che mi
infuse coraggio. Mettiamo che fosse il coraggio della disperazione....
Mi mossi, mi slanciai anzi verso il nero frate sedente, e stavo per
mandargli un grido, quando intesi una voce:

— Buona sera, dottore. Sei tu?... Buonasera, dottorone!...

Sentire la voce e riconoscere l’individuo fu un punto. Era fra Ginepro:
un giovane e giovial frate torzone, conosciutissimo in tutti i dintorni
dai contadini e dai villeggianti, presso i quali spesso veniva a
questuare. Tutti gli facevano allegra accoglienza, credo più per il suo
buon umore che per le sue giaculatorie.

Chi sa che faccia aveva! Ma fra Ginepro non diè segno di accorgersi
di nulla. — Che fai tu qui a sedere? — gli chiesi io con molta stizza
nella voce. Fra Ginepro, senza muoversi, mi guardò di sotto in su con
un risolino arguto e due occhietti lustri:

— A camminare tutto il santo giorno, e sempre col cavallo di San
Francesco.... già.... viene voglia di mettersi a sedere! Sono andato su
e giù tutto il giorno. Ho fatto una buona _cerca_....

In fatti vidi per terra vicino a lui le due bisaccie piene. M’accorsi
ancora che il fraticello non era proprio _ebriosus_ nel pieno
senso della parola; ma gli avevano nella giornata offerti parecchi
bicchierini dell’acquavite del Natale; e si capiva che non li aveva
sempre ricusati.

Stemmo un poco in silenzio tutti e due. Poi fra Ginepro ripigliò:

— Hai un sigaro da donarmi, dottore?

— No.

— Ebbene, quando non l’hai tu, l’ho io.... E cacciata la mano destra
nella larga manica sinistra della tonaca, cavò fuori un sigaro toscano
e me lo offerse colla punta delle dita, sempre sorridendo.

Io ero avvezzo a quella sua barzelletta del sigaro, come pure a
quella di sentirmi da lui chiamato dottore prima del tempo. Trassi un
fiammifero, e, riparandolo dal vento dietro il pilastro, accesi il
toscano. Intanto il frate s’era alzato, aveva prese di terra le due
bisaccie e se l’era posate lentamente sulle spalle....

— E dove vai, adesso, fra Ginepro?

— E dove vuoi ch’io vada?... Al convento, se Dio vuole!

— Fino lassù all’Osservanza? A quest’ora? Non arriverai certo in tempo
per la cena.

— Basta che arrivi in tempo per la messa di Natale!

Mi diede quest’ultima risposta facendo una vocina mansueta e patetica,
in cui era sempre una lieve intonazione di celia. Poi, avviandosi:

— Addio, dottorone! Buona notte e buone feste!

Anch’io lo salutai, e proseguii la mia strada. La proseguii sentendomi
alleggerito da un gran peso, vedendo tutto bello intorno a me, ridendo
delle mie paure e meravigliandomene come di uno strano sogno.

Così giunsi in vista della mia casa; vidi con gioia le finestre a piano
terreno illuminate, ed entrai allegramente, fumando ancora il sigaro
regalatomi da fra Ginepro.




LA STATUA.


Nell’isola di Cipro. — Un boschetto di mirti e di rose, dietro il quale
si travede una casa bianca e rossa, con pronào. — Delle colombe candide
volano intorno.

=Pigmalione= giace per terra in atto di dormire. — =Mercurio= sta in
piedi dinanzi a lui.


MERCURIO — .... Nella stanza ove, due anni fa, sorgeva la bianca
statua, sorge adesso un’ara. Quando, per l’ardore de’ tuoi desiderii
aiutati dalla grazia della Dea, la statua s’animò e divenne la donna
tua, tu facesti voto insieme a lei che, al compiersi d’ogni anno, su
quell’altare, voi due avreste compiuti sacrifici e date libazioni
eucaristiche a Venere misericordiosa.... Svegliati, Pigmalione, e
rispondi a me.

PIGMALIONE — (_Apre gli occhi, riconosce Mercurio e balza in piedi_).

MERCURIO — Rispondi. Al termine del primo anno tu adempisti fedelmente
la promessa. Dall’altare incoronato di fiori, col fumo del pingue
incenso odoroso, saliva in alto il tuo fervido inno di grazie. In
questa beata isola, nessun mortale poteva dirsi felice al pari di te.
Così suonava il tuo inno, ora compie un anno. E adesso?

PIGMALIONE — (_China lentamente il capo senza parlare_).

MERCURIO — Gli Dei dall’Olimpo ti contemplavano vicino a quell’altare,
abbracciato alla bellissima Galatea, la sposa tua, e sorridevano della
tua, della vostra felicità. Gli Dei non si compiacciono solamente nelle
tragiche pugne degli uomini contro il Destino.... Il padre Zeus lodò
nuovamente Venere per l’amoroso prodigio operato nel freddo marmo;
e Venere tornò ad esserne lieta e orgogliosa come in quell’istante
memorabile.... Ti ricordi?

PIGMALIONE — Sì!... Quando i suoi occhi tremolarono improvvisamente
per il primo senso della vita, e subito fissandosi in me, parve che
me vedessero prima della stessa luce — o Mercurio! — io non credo
che in terra e in cielo una felicità più grande sia stata provata
mai.... Allora io non vidi il rimanente del suo bel corpo colorarsi,
palpitare e muoversi.... non vidi che gli occhi, quei suoi due occhi
innamorati, i quali mi tenevano tutto, anima e sensi, in un rapimento
di beatitudine senza nome.... O Mercurio! tu sei venuto a parlarmi nel
sonno, mentre io sognavo anche una volta di quel momento divino....

MERCURIO — E dammi ragione dunque di quanto accade qui!... Oggi compie
il secondo anno. Il sole ha passata la linea meridiana da un pezzo e
già s’approssima all’occidente. La tua sposa, dal mattino, ha tutto
apparecchiato per il sacrificio: e ti attende, ed è mesta, e cerca
d’ingannare il tempo lungo dell’attesa filando e cantando. Ascolta....

GALATEA — (_Canta di dentro_)

    Giù, nei prati fragranti
    Dell’eterno asfodèlo,
    Forse tra le vaganti
    Ombre t’incontrerò;

    Ma lunge al patrio cielo
    E a la gentil dimora,
    Amar potremo ancora?
    Io sempre t’amerò!

MERCURIO — La canzone è triste.... e nella voce della donna trema
il desiderio.... Ma i fiori hanno tempo d’appassire sull’altare,
aspettando che a te venga la brama d’accostarti ad esso e di por mano
al sacrificio.

PIGMALIONE — Gli Dei guardano al cuore dei mortali; e io non voglio
che essi veggano il disaccordo tra il mio cuore e le parole del mio
inno....

MERCURIO — Pigmalione!... E che mai ti ha potuto rendere tanto ingrato
al favore della Dea?...

PIGMALIONE — O divino figliuolo di Maia, abbi pietà di me e non
parlarmi a questo modo!... Non sono io ingrato, no; sono un infelice
che si dibatte e si cruccia sotto il rigore di una strana e terribile
fatalità.... Più volte mi sono picchiato il petto come un forsennato;
più volte sono disceso colla mente nell’imo fondo della mia coscienza
interrogando: ho colpa io di quanto accade?... E la coscienza mi ha
risposto di no. Ascolta, Mercurio.... Ero felice con Galatea; l’amavo,
l’adoravo come si può creatura mortale. Il pregio delle amabili forme
guardavo nelle altre donne, ma con mente serena d’artista e senza un
tremito di desiderio. In questa isola dell’Amore, verso cui fanno vela
da tutti i lidi di Grecia, e dalla Trinacria e dall’Asia le donne più
devote alla Dea; dinanzi ai delubri del tempio di Amatunta, entro i
boschetti odoriferi che con le ombre discrete proteggono i più dolci
misteri, quante bellezze ho vedute passarmi vicine!... A molte piacqui
io per la mia giovinezza e per il prestigio dell’arte mia. Molte anche
entrarono nella mia casa, più per essere ammirate dallo scultore
che per ammirare le sue opere.... Bellezze ingenue come Pandora, o
fieramente virginali come Artemide, o liberamente procaci come Arianna
quando s’abbandonava nei cori delle Baccanti.... Le guardai tutte come
se fossero d’avorio o di marmo pentelico; e le rimandai disdegnando.
Vissi appartato e fedele come Orfeo.... Nessuna donna valeva e vale,
anche oggi, per me, uno sguardo e un sorriso di Galatea!

MERCURIO (_Interrompendolo_). — Anche oggi tu dici?

PIGMALIONE — Lasciami proseguire. Sì, anche oggi. Il mio circolo
si chiude in lei; vedo lei sola; ma dentro quel circolo accade
uno strano sviamento de’ miei pensieri e de’ miei desiderii.... Da
principio, mentre ero con Galatea e l’udivo parlare e cantare, e la
vedevo muoversi e danzare e incoronarsi di fiori e sorridermi, la
mia mente correva sempre alla statua immobile, alla statua fredda e
muta.... E quel confronto m’empiva di un misto di orgoglio, di gioia
e di tenerezza.... Mi sentivo più grande di Prometeo, perchè quelle
stupende forme le avevo modellate e scolpite io stesso con queste
mie mani; mi sentivo di lui più felice, perchè la creatura fatta e
animata da me io l’amavo di passione e mi sapevo riamato da lei....
Forse ero troppo felice; e la gelosa Erinni mi guardò allora con que’
suoi occhi torvi, che non perdonano!... Infatti, trascorso un anno,
lentamente, insensibilmente, i termini del confronto si andarono
mutando nella estimazione del mio spirito.... La vita reale di
Galatea, varia, mutabile, caduca, soggetta alle leggi del Tempo, agli
accidenti della Fortuna, agli assalti del dolore, agli inquinamenti
della volgarità, cominciò a presentarsi a me come uno specchio ogni
tanto attraversato e offeso da qualche ombra; mentre la pura forma
inconscia e inalterabile, che io le avevo dato nel marmo della statua,
seguitava invece a splendere sempre nella mia memoria co’ suoi contorni
intatti... Anzi di mano in mano che la prima forma s’andava offuscando,
il fulgore della seconda si faceva più vivo e più affascinante per me.
Che vuoi tu che io ti dica altro?... Da un pezzo in qua io non posso
più pensare alla mia donna senza ricordarmi che ogni ora che passa mi
ruba qualche cosa di lei; e questo converte in amarezza il sentimento
lieto del mio possesso. Ho un bel cacciarla da me, ma l’idea della
sua vecchiaia mi assale in un modo non so se più compassionevole o più
spaventoso.... E mentre un riflesso solare scherza con le sue chiome
color di bruna viola, talvolta io rabbrividisco credendo di vederle
spuntare i primi capelli bianchi; e in qualche smorfia gentile della
sua bocca voluttuosa e in qualche curva graziosa del suo candido
collo, io tremo di veder comparire le prime rughe.... O Mercurio! Il
mio è un tormento continuo che non ha paragone. Quando gli Immortabili
diedero alla schiatta di Giapeto il senso divino dell’arte, vollero
davvero beneficarci o non piuttosto mettere in noi il seme di grandi
inquietudini?... Lo ignoro. So che adesso, ogni volta che guardo
Galatea, tuttochè giovane e fiorente, veggo insieme delinearsi e
biancheggiare vicino a lei la prima Galatea del mio pensiero, la
Galatea pura, perfetta, incorruttibile.... ideale! E questa — sappilo
— è una rivale terribile, contro a cui non hanno che una mediocre
potenza le illusioni, i piaceri e le lusinghe della vita caduca.... E
la povera viva è debellata e soccombe in questa lotta incredibile e pur
vera.... E tutto il mio desiderio, come un amante infedele che torna
all’amore suo primo, si va allontanando da lei e si volge verso.... a
quell’altra! (_Si nasconde la faccia con le mani e piange_).

MERCURIO — Sei molto infelice....

PIGMALIONE — Sono forse anche colpevole. Sì! Quando un mortale venne
gratificato dagli Dei d’un portento benefico pari a quello che fu
compito per me e non sa appagarsene, vuol dire che in lui ci ha da
essere colpa.... Ebbene, che gli Dei mi puniscano e ch’io scompaia
dalla vista del divo Sole.... Se vieni esecutore della loro collera,
che tu sia il ben venuto, o Mercurio!...

MERCURIO — No. Allorchè Venere operò il prodigio, ella intese alla tua
felicità. Non ad altro. L’animazione di Galatea ebbe questo solo fine,
unica ragione dell’esser suo.... Adesso....

PIGMALIONE — Che vuoi tu dirmi, o figliuolo di Zeus?

MERCURIO — Attendi.

GALATEA (_Compare sulla soglia della casa, in veste candida, tenendo in
mano una corona di rose_). — Pigmalione!... Il sole tramonta. Non temi
tu che Venere si sdegni per il nostro indugio?...

MERCURIO (_Assumendo la voce di Pigmalione_). — Galatea! Entra nella
stanza del sacrificio e ponti presso l’altare ad attendermi.

GALATEA — Ho rinnovate le rose intorno all’altare, perchè olezzino
fresche. Vieni.... Non tardare più molto! (_Rientra_).


Un lungo silenzio. Pigmalione scruta con ansietà il volto impassibile
del Dio.


PIGMALIONE (_Con gesto supplichevole_). — Parla, o Mercurio!...

MERCURIO — Venere è Dea misericordiosa e giusta. Tu vivrai. La bella
Galatea è ora nel mio dominio.

PIGMALIONE (_Con accento di terrore_). — Ahimè!... Funebre condottiero
delle anime, stai tu forse per condurla teco nei prati fiorenti
d’asfodèlo?...

MERCURIO — No. Fra pochi istanti essa rientrerà nel candido marmo, che
il dolore non tocca e la vecchiezza non dissolve.

PIGMALIONE (_Cadendo in ginocchio_). — Grazie! Ed io l’amerò
eternamente!


MERCURIO — Rimani finch’io non ti chiami. (_Entra solo nella casa_).

GALATEA — (_canta di dentro_)

    Giù nei prati fragranti
    Dell’eterno asfodèlo,
    Forse fra le vaganti
    Ombre t’incontrerò....

La voce di Galatea cessa improvvisamente con un piccolo grido. — La
dolce melodia continua. — Pigmalione si leva in piedi e guarda ansioso
verso la casa.

Il sole è tramontato. — La stella d’Espero risplende bellissima. Le
colombe, riunitesi sopra un albero di mirto, levano insieme il volo e
migrano dal boschetto.




OCCHI ACCUSATORI

(VECCHIA CRONACA).


Al signore della Rocca erano giunte notizie gravi ed ordini precisi.

A Bologna, per volontà di Sisto V, avevano già strangolato in carcere,
con un bel cordone di velluto rosso, il conte Giovanni Pepoli. Parecchi
de’ suoi seguaci e complici erano stati anch’essi strangolati, senza
nemmeno l’onore del cordone di velluto! Altri erravano fuggiaschi per
le valli e per le montagne dell’Appennino; ma li inseguiva l’ira del
terribile papa e poca speranza di scampo avevano. A lui, il Conte,
salva la vita e gli averi; ma doveva andare subito a Roma a chieder
perdono e fare atto di umile sudditanza, prostrato a’ piedi santissimi
del sovrano.

Non era il caso d’esitare; e bisognava partir subito.

La Contessa sarebbe dunque rimasta sola nel castello. A esporre la sua
delicata giovinezza ai disagi e ai pericoli del lungo viaggio in quella
cruda invernata e per quelle vie mal sicure, nemmeno si poteva pensare.

Il Conte andava corrugando le sopracciglia nere e si metteva spesso una
mano nei capelli grigi, perchè un sinistro pensiero gli passava per la
mente....

Ma il giorno innanzi la partenza tenne un lungo e segreto colloquio
con la sua zia, valida e fiera vecchia ne’ suoi ottant’anni; poi fece
schierare nella gran sala, al cospetto d’entrambi, tutta la gente del
castello. Alla gente egli rivolse discorso breve, ma con quell’accento
di comando insieme e di minaccia, al quale non si era mai osato
resistere neppure con un moto dell’animo: — Ogni potere, durante la sua
assenza, passava nella vecchia contessa. Legge assoluta per _tutti_,
dal più alto al più umile abitatore della Rocca, la sua sovrana
volontà; e guai all’autore della più piccola trasgressione!

L’indomani il conte partì. Gli addii della giovane sposa furono
affettuosi, ma senza lagrime.


E come avrebbe potuto piangere la Contessa alla partenza del
marito?... Troppo ora la empiva tutta di sè e la signoreggiava un altro
sentimento! L’amore, negato a lei giovinetta nel freddo isolamento
della vita claustrale; l’amore, desiderio vago e timida speranza, che,
appena intravvisto, le era stato duramente vietato, quando la famiglia,
toltala dall’antico e nobilissimo convento della Sambuca, l’aveva
subito messa tra le braccia del Conte, che poteva essere suo padre!

Invece il giovane conte degli Alidosi aveva quattro anni meno di lei
e non era che suo lontano parente da parte del marito. Quando, pei
rovesci di quella potente casata, il padre fu costretto a mandarlo
al castello dell’amico perchè vi crescesse sicuro e vi fosse educato
da cavaliere, Oliverotto degli Alidosi era poco più che un ragazzo
malfermo in salute, timido e come spaurito della vita che s’era aperta
dinanzi a lui in mezzo a dolori e terrori di tragedie domestiche.
Parlava di rado e male. Solo qualche volta, dai suoi occhi nerissimi
pareva che lampeggiasse intensa la vitalità della fiera schiatta da cui
era nato.

La dolce castellana raccolse da prima su quel taciturno fanciullo le
cure e gli affetti della maternità, che altrimenti non le era stato
concesso d’espandere. Ed ebbe la gioia di veder fiorire la sua salute,
e le sue membra fortificarsi, e da quella triste puerizia uscire
rapidamente una giovinezza animosa e leggiadra.


Una volta, tornando insieme al Conte da una caccia sull’Appennino
pistoiese che li aveva tenuti fuori parecchi giorni, Oliverotto, vista
la bella Contessa che li aspettava nell’angusto cortile del castello,
gittò l’arme a un servo, corse a lei e la baciò; poi rimase lì
interdetto e turbato vedendo che la bella dama arrossiva, e sentendosi
anch’egli salire al volto un gran calore come di vampata improvvisa....
Cominciarono fino d’allora per il Conte i corrugamenti delle ciglia
e quel gesto di portare la mano ai capelli, mentre la sua mente, più
sovente che non avesse voluto, pensava insieme alla Contessa e al
giovane ospite....

Ma l’amore non istette per questo; e fece occultamente la sua strada,
senza che i due avessero modo d’avvertirlo e di schermirsi. Essi
s’amavano già di passione e non lo sapevano: e quando lo seppero,
s’amarono con più violento abbandono, obliando, calpestando, sfidando
ogni ritegno ed ogni ostacolo.

Ed erano appena alle prime dolcezze, quando arrivarono gli ordini
improvvisi, che fecero partire il Conte per Roma.


Cominciò allora per i due innamorati una vita di supplizio indicibile.

In tutta la rocca e nei dintorni prese subito a dominare con volontà
minuziosa e temuta la vecchia zia del Conte; la quale, sia che agisse
per gli ordini avuti, sia che si compiacesse ad attuare un suo proprio
disegno, circondò ed afflisse i due giovani di vigilanze così severe e
continue, che ogni più viva e gelosa immaginazione ne sarebbe rimasta
superata. La vecchia pareva ritornata indietro di vent’anni. Non era
più nè impedita nell’andare nè miope nè sorda. Si trovava sempre in
ogni luogo dove la sua ingegnosa sorveglianza la richiedesse; e dormiva
con un occhio solo, se pure è vero ch’ella dormisse, là in quel suo
lettuccio che s’era fatto portare vicino all’uscio della stanza da
letto della Contessa. Con questa poi adoperava ogni gentilezza più
compita e col giovine Oliverotto anche; ma nelle ventiquattro ore del
giorno, mai un minuto secondo nel quale i due potessero trovarsi soli a
scambiarsi una parola, a stringersi la mano di furto!...

Tormento siracusano. E tanto più atroce perchè i due innamorati, in
udire della prossima partenza del conte, s’erano naturalmente lasciati
andare ad ogni sorta d’immaginazioni dilettose. Quella inattesa
contrarietà pareva dunque a loro una durezza ingiusta del destino a cui
si rivoltavano, egli con le imprecazioni ed essa con le lagrime. Vane
le lagrime e vane le imprecazioni! La vecchia era sempre al suo posto,
e tutti nella rocca con una esattezza implacabile eseguivano, fin quasi
a sorpassarlo, il suo comandamento.

Sulle prime, Oliverotto non si diede per vinto e cercò di rompere
qualche maglia a quella perfida e fitta rete di sorveglianze e di
spionaggi che d’ogni parte li involgeva; ma ogni suo tentativo, per
audace o astuto che fosse, riuscì inutile.

Una notte, guardando alla finestra della Contessa, credè di accorgersi
che non gli facevano la solita guardia. Scese nel fossato della Rocca,
esplorò bene intorno. Nessuno. Alzò gli occhi alla finestra della
stanza ove essa dormiva, e vide splendervi il lume. Allora si sentì
tutto invadere dalla brama di salire in qualunque modo fino a quella
finestra, chiamare la sua donna, parlarle delle sue pene e veder di
cogliere attraverso la inferriata un suo bacio.... Sì, uno, cento baci
per calmare un poco la sete d’amore che dentro lo tormentava!

Immaginava il giovane che la forza del volere e il desiderio
ardentissimo gli avrebbero conferita la facilità rampicante d’uno
scoiattolo; ma invece il salire non fu senza grandi ostacoli e
dolori.... Saliva adagio adagio, adoprando ogni punta di sasso ed ogni
crepaccio del vecchio muraglione; talvolta era costretto a fermarsi a
lungo, talvolta a ridiscendere e studiare altra combinazione di cavità
e di sporgenze. Più d’una lucertola, sentendo le dita che il giovane
ficcava fra le pietre, usciva spaventata strisciandogli fra la faccia
e il muro; e una nottola, turbata anch’essa nel suo nascondiglio, gli
volava dintorno silenziosa e lugubre. Di man in mano che s’appressimava
al termine desiderato, crescevano gli ostacoli, l’incertezza, la smania
disperata. Aveva le mani e i piedi sanguinanti e tutto il corpo gli
grondava di sudore freddo.... Finalmente potè abbrancare una sbarra
dell’inferriata e, fatto un ultimo sforzo, arrivò a tirarsi su di
mezza persona contro la finestra. Gittò innanzi lo sguardo e stava per
sussurrare il nome della cara donna, quando s’accorse d’avere innanzi a
sè, ritta, appoggiata al davanzale della finestra, la vecchia contessa,
che lo guardava senza muoversi, con occhi severi....

Poco mancò che Oliverotto non cascasse all’indietro nel fossato della
Rocca.


Unico conforto non conteso ai due innamorati era dunque il vedersi e il
parlarsi in presenza d’altri; e in quello essi condensavano tutte le
sollecitudini e cercavano d’acquetare o contenere alla meglio tutti i
desiderii.

Passavano così le giornate lente, uniformi, uggiose. Oliverotto e la
Contessa ogni dì stavano lunghe ore seduti uno in faccia all’altro,
essa fingendo d’istoriare coll’ago i pietosi fatti di Bradamante, egli
fingendo di leggere qualche trattato dell’arte della guerra o qualche
libro di cavalleria. La vecchia contessa e alcun altro fidato della
casa non mancavano mai di esser presenti.

I due si parlavano di rado. Invece si guardavano lungamente,
intensamente, deliziandosi e tormentandosi insieme con un linguaggio
muto e infaticabile. E gli occhi neri d’Oliverotto pareva che,
supplicando, chiedessero: — fino a quando? — E gli occhi azzurri della
Contessa non sapeano che rispondere, chiedendo anche essi: — fino
a quando? — Le quattro ardenti pupille, stanche e non mai sazie di
quella amorosa e intensa contemplazione, di tanto in tanto tremavano,
si inumidivano, pareva che si stemperassero chetamente in bagliori
languidi e tristi.... Nelle serate lunghe, dirimpetto al focolare
gigantesco, mentre sugli alari bruciavano i vecchi faggi di Monte
Venere e si udiva fuori lamentarsi il vento dell’Appennino, Oliverotto
leggeva alla contessa qualche scena del _Pastor fido_:

    Ben è soave cosa
    Quel bacio che si prende
    Da una vermiglia e delicata rosa
    Di bella guancia; e pur, ch’il vero intende,
    Come intendete voi
    Avventurosi amanti che il provate,
    Dirà che quello è morto bacio a cui
    La baciata beltà bacio non rende.
    Ma i colpi di due labbra innamorate
    Quando a ferir si va bocca con bocca....

La morbosa tenerezza di questo e somiglianti passi era al cuore dei
due poveri giovani come olio bollente alla fiamma. Gli occhi, ora vivi
e scintillanti, ora annuvolati, smarriti e depressi, riprendevano
quel loro ufficio di esprimere insieme e di esasperare il desiderio
infelice.... E talvolta l’interno struggimento cresceva a tal segno che
la Contessa era costretta, avanti l’ora, di ritirarsi nelle sue stanze.
Oliverotto allora correva ansando sugli spalti della Rocca a respirare
l’aria gelata della notte, ad imprecare alle stelle, a tempestare
contro il suo avverso destino!

In meno d’un mese, i due amanti erano ridotti ad uno stato davvero
compassionevole; e guardandoli nei visi consunti si sarebbe detto che
sulla loro giovinezza passava un soffio di vecchiaia precoce.... Ma
tutto ciò era meno che nulla in confronto a un meraviglioso fenomeno
che nei loro occhi si veniva manifestando.


Non era, no, un inganno visivo della gente, ma un fatto che ogni giorno
saltava agli occhi sempre di più.

Le grandi pupille della bionda Contessa, che erano di un bellissimo
azzurro oltremarino, sembrò da prima che un poco si annebbiassero
smontando in una tinta meno dolce e meno pura. Poi quell’annebbiamento
si rese sempre più opaco: e crebbe e crebbe tanto che fu ben necessario
riconoscere ch’essa mutava in nero il colore degli occhi. Era forse
effetto delle lagrime che l’infelice versava di continuo la notte,
invece di pigliar sonno?... Ma d’altra parte anche negli occhi di
Oliverotto accadeva mutamento! Le pupille nerissime e fiere del giovane
amoroso cominciarono a temprarsi d’una luce più dolce e mansueta che
adagio adagio le veniva come clarificando; poi apparvero striate qua e
là di piccole vene azzurreggianti, le quali, dilatandosi ogni giorno,
accennavano ad invadere presto tutto il campo dell’iride....

Che era avvenuto nell’interno di quei due esseri? Con che forza
di corrente misteriosa le due anime, incontrandosi, toccandosi,
baciandosi, solo e sempre per gli occhi, agli occhi avevano potuto
indurre quella trasformazione, anzi quello scambio mirabile?...
La vecchia sorvegliatrice non fece motto e nemmeno diede mai segno
d’essersi accorta di cosa alcuna; ma la gente della Rocca guardava, tra
stupita e atterrita, a quello che taluni chiamavano una bieca opera del
Diavolo, altri semplicemente un nuovo miracolo d’Amore.

Non andò molto tempo che già per largo tratto di paese s’era sparsa la
voce del fatto inverosimile; e molti trassero al castello, studiando
qualche pretesto onde accertarsene cogli occhi proprii.

I due amanti sulle prime gustarono una strana e immensa voluttà,
contemplandosi così trasformati dalla potenza dei loro sguardi. Si
sentivano come più uniti nell’amore; vedevano nei loro occhi come un
segno di predestinazione a unione più intima e durevole. Ma ben presto
sopraggiunse il terrore ad agitare in vario senso le loro anime. Un
giorno o l’altro sarebbe pur tornato il Conte....

La Contessa, nelle veglie interminabili, meditava di sottrarsi colla
morte alla propria vergogna, e a chi sa quale dura espiazione, quando
il terribile marito l’avrebbe guardata negli occhi accusatori!...
Oliverotto, dal canto suo, inspirandolo la disperazione, lavorava
ad un piano di fuga in cui era risoluto d’affrontare per la salvezza
della sua donna l’estremo del cimento. Ma intanto ogni mattina ambedue
pensavano, rabbrividendo come due condannati a morte, che in quel
giorno stesso, forse, sarebbe giunto alla Rocca l’annunzio di un
prossimo ritorno!

                             . . . . . . .

Giunse invece una improvvisa serenità in quell’orizzonte così
minaccioso. Un giorno, sull’imbrunire, bisognò calare il ponte e
ricevere nella Rocca, con le debite onoranze, un messo del Senato
bolognese. Egli riferì il sunto di un dispaccio da Roma: — Sisto V,
sia che avesse chiamato a sè con lusinghe il Conte per averlo più
sicuro nelle mani, sia che in quel frattempo nuovi e più forti capi
d’accusa si fossero scoperti contro di lui, appena giunto il Conte a
Roma, lo aveva fatto legare e chiudere a Castel Sant’Angelo; e dopo
breve processo, strangolare. — Il dispaccio del Senato non diceva se
la clemenza sovrana avesse largito al nobile giustiziato l’onore e il
conforto del cordone di velluto; bensì annunziava che la giustizia del
sommo pontefice non sarebbe andata oltre nel punire, mantenendo alla
famiglia del ribelle spento beni, titoli e privilegi.




AL DI LÀ DELLA SIEPE.


Quest’anno l’estate ha voluto entrare allegramente nel dominio
dell’autunno. La vendemmia sollecita è già finita nei vigneti e anche
sulle viti attorte agli alti alberi allineati per i poderi. — Sovra i
campi di frumento e di granturco è passato l’aratro. Le terre brune, e
qua e là ancora lucenti per il taglio fresco del _coltro_ profondato
nei solchi, ora si scaldano al sole e si ritemprano all’aria,
aspettando la seminagione prossima.

E la campagna è ancora tanto bella! Più bella d’una bellezza solenne e
dolce per questo ozio intermedio dei grandi lavori campestri, per tutto
questo verde lavato, rinfrescato e visibilmente ringiovanito dalle
ultime pioggie settembrine.

Il sole è alto e scotta come di giugno; ma appena io tocco l’ombra
d’una casa o di un albero, sento che il fondo dell’aria si è molto
mutato. Effetto delle notti già lunghe. E vado per questa distesa di
campagne che dalla prima radice delle colline si abbassano lentamente,
un poco ondeggiando, verso la via Emilia e verso il fiume.

Una pace immensa, un silenzio immenso. Prendo per i sentieri vicinali
— qui li chiamano _stradelli_ — tortuosi e pieni di polvere. Le siepi
di biancospino, umili nel maggio e di un verde delicato, ora si sono
fatte alte e dense e aspre, come le vuole l’amico Gabriele; se non che
di tratto in tratto un cespuglio di more selvatiche e qualche alberello
carico di bacche rosse rompono questa irta monotonia di ostacoli
bilaterali; e pare che l’occhio li noti volentieri.

Io non so bene dove mi conducano questi stradelli polverosi. Continuano
sempre dinanzi a me, entrando uno nell’altro, tagliandosi talvolta
uno coll’altro, sdoppiandosi, piegando in tutte le direzioni. Per
orientarmi, guardo il campanile rosso della parrocchia di Pizzocalvo
che sorge sull’umile collina, alla mia destra....

                                   *
                                  * *

Ho incontrato un barrociaio a vuoto, e mi ha detto che veniva da
Medicina e andava a Monterenzo per la strada che sale lungo il letto
dell’Idice. Nessun altro incontro. Pei contadini questa è l’ora del
desinare; e i signori villeggianti intanto digeriscono la colazione
chiacchierando intorno alla tavola. Alcuni leggono il giornale
pisolando. Qualche signora preferisce di rimettersi al lavoro d’ago,
qualche ragazza di sbadigliare sopra un romanzo o di sognare a occhi
aperti, distesa sopra una _chaise-longue_.... Il dèmone meridiano
entra per le finestre semichiuse, volteggia per le stanze silenziose e
carezza delicatamente i corpi e le anime mezzo sopìte.

Ecco che arrivo in paese di conoscenza!... Nel punto ove i due
stradelli s’incontrano, lo spazio si allarga, l’ombra è più estesa,
l’aria più fresca. Quattro alti pilastri spiccano nel verde e due
bei sedili di pietra invitano a riposare e a curiosare per la vasta
cancellata.

Io siedo e ricordo, guardando. L’antica villa signorile, ove non è
nascosta dagli alberi del parco, mostra i muri neri e verdognoli,
screpolati qua e là. Sul davanti e molto più vicino alla siepe di
cinta — una bella siepe difesa da una rete di filo di zinco — si vede
la cappella, ombreggiata anch’essa da vecchi olmi, piccola ma svelta e
pomposetta nella sua architettura della prima metà del settecento.

Di queste cappelle ne ho vedute parecchie venendo dalla collina.
Difficile ritrovare una villeggiatura un po’ antica che non abbia la
sua; e quasi tutte appaiono costruite o rifatte nello stile del secolo
scorso. Esse ricordano un tempo nel quale i nostri nonni, anche la
pietà volevano circondata di tutti i comodi e non disgiunta da certe
forme di privilegio. Le cappelle erano come l’accessorio sacro e il
distintivo gentilizio della vita campestre dei signori. Quando la
famiglia si stabiliva in campagna per i lunghi mesi dell’estate e
dell’autunno, doveva avere tutto con sè; anche la messa in casa e il
prete a disposizione.

Il prete era, s’intende, ossequioso e compiacente. Veniva preferito
d’umore gioviale; e se era un poco baggèo non guastava. Anzi! —
Arrivava la mattina col cuoco sul barroccino della spesa. Celebrata
la messa, trovava pronta la colazione a parte; e mentre sorbiva il
cioccolatte, i signori e le signore lo circondavano festeggiandolo,
proverbiandolo, interrogandolo delle nuove di città. Se restava
a pranzo, lo incitavano ad alzare un poco il gomito e a dir male
dell’arcivescovo, o almeno del vicario generale. Se pernottava, era
sicuro che qualche sorpresa lo aspettava nella sua stanza. Una volta
gli facevano trovare nel letto un grande fantoccio, che doveva essere
la vecchia governante, segretamente innamorata di lui; un’altra volta
era il letto che gli sprofondava sotto con orribile fracasso; un’altra
volta.... Sempre le stesse burle e sempre le stesse risate.

Quello, a ogni modo, fu il tempo aureo di queste cappelle villereccie;
e qualche bella giornata avevano — con ricchezza d’apparati, di lumi,
di fiori — almeno per la solennità del Santo titolare.

Ma poi successe un’epoca infausta alle povere chiesette abbandonate.
Finchè i conti e i marchesi si limitavano a leggere Voltaire, il male
non fu irrimediabile, visto che anch’esso il signore di Ferney andava
alla messa, per un riguardo ai suoi contadini. Ma la invasione delle
novità doveva andare molto più a fondo e portare ben altri mutamenti!
Mutarono le idee, mutarono le usanze e mutarono anche i padroni. Per
effetto di chirografi troppo facilmente moltiplicati e messi in giro,
alcune cappelle, insieme alle ville e ai poderi, caddero persino _in
manus infidelium_. Voglio dire degli ebrei; e non furono sempre le
peggio trattate.... Quante altre, per gli umili usi a cui si vedevano
ridotte, avrebbero avuto ragione d’invidiare le sorti di quelle che
i padroni, nuovi o vecchi, avevano allegramente adeguate al suolo, in
onta ai sacri canoni, per ampliare l’area del prato o del giardino o
del parco inglese!

                                   *
                                  * *

Molte altre, come questa, rimasero semplicemente nell’abbandono e
nell’incuria. Il tempo fece la parte sua, e sopra di loro si distese
lentamente la fisonomia delle cose morte....

Quanto tempo sarà passato dacchè uno spirito di vita non è entrato
là dentro!... La bruna cicuta verdeggia liberamente a piedi dei muri
laterali e qualche bel ciuffo di erba si vede anche sui gradini e sul
margine della porta. La Santa titolare, dipinta a buon fresco entro il
vano del timpano barocco, poveretta, non ha più nè sembiante nè emblemi
riconoscibili; e mostra da ogni parte il color nero della imprimitura.

Mi vince la curiosità; e passato il cancello vado a osservare l’interno
della chiesetta per una delle due finestrelle basse ai lati della
porta.... Tra la pace animata, gioconda, luminosa della campagna aperta
e la quiete di quel breve ambiente chiuso, il contrasto non è solamente
enorme; è quasi pauroso. Credo d’avere ben poche volte sentita così
potentemente l’antitesi tra gli stati fondamentali della percezione
e le forme della vita. — Ho in me come un senso di sdoppiamento
subitaneo. — Una parte di me stesso è passata là dentro ad abitare
la chiesina abbandonata, a osservare minutamente tutti gli oggetti,
a spiare, a frugare, a fiutare da per tutto, anche gli angoli più
reconditi e più ombrosi, con un misto di attonitaggine sentimentale, di
tenerezza e di pietà.... Mi pare di sentirmi vivere in un piccolo pezzo
di spazio freddo e in un piccolo pezzo di tempo inerte, che vennero,
non so da quanti secoli, imprigionati là dentro fra quelle quattro
mura — immobili, taciturni, tristi — lontano dall’eterno movimento
mondiale, divelti e sequestrati per sempre dal gran dramma della vita
dell’universo, al quale un tempo furono congiunti....

Intanto i miei occhi si sono avvezzati a veder meglio nell’interno.
Un pulviscolo d’oro si muove silenzioso dentro un raggio di sole
pallidissimo, che è passato a stento dall’alto, per una vetrata sulla
quale, chi sa da quanto tempo, si vanno addensando il grumo e la
polvere e le tele di ragno.... Il raggio di sole arriva a rischiarare
un inginocchiatoio, che un tempo deve essere stato tinto in verde,
collocato dinanzi a una povera _Praeparatio ad Missam_, gialla come
una vecchia carta pecora e strappata largamente nel mezzo. Da tempo
immemorabile quella _Praeparatio_.... non prepara più nulla a nessuno.

Sopra l’altare senza candelabri, vaneggia una cornice di gesso, a muro.
Ma il quadro manca. Era forse un buon dipinto del Franceschini o del
Calvi o di uno dei due Gandolfi, e fu levato di là, e ora si trova in
qualche vecchia galleria. Ma quella grande cornice vuota accresce la
squallidezza a tutto quello squallore; e pare che sconsacri la piccola
chiesa.

                                   *
                                  * *

Una cosa è certa. Anche da questo chiuso e da questo silenzio e
da questo abbandono, esce un sottile aroma di poesia. Mi tornano
in mente — chi sa per quali meandri mnemonici! — delle strofe
caramente melanconiche di Jacopo Vittorelli e di Ippolito Pindemonte;
tornano perfino certe lontanissime letture dei romanzi del visconte
D’Arlincourt, ove le chiesette campestri, vicino ai castelli turriti
o in mezzo ai boschi, nelle pronube albe serene o nelle notti cupe di
tempeste e di delitti, hanno spesso tanto da fare.

Attorno alle pareti interne della cappella, giù verso il pavimento,
riesco a leggere in modo abbastanza distinto alcune lapidi sepolcrali.
Incontro per tre volte un nome, _Giovanna_; e mi sovviene che lo
porta pure l’attempata signora, che abita adesso nella villa paterna,
dalle mura screpolate e nerastre. — Una rovina anch’essa la signora,
come tutto il rimanente, quantunque opponga al tempo delle resistenze
disperate.

Ed ecco, io penso, tutto quello che qui rimane in piedi di tante
tradizioni domestiche! Un nome comunissimo di donna, tenuto vivo nella
famiglia, per mera consuetudine, e che presto finirà.... E dire che
probabilmente alcune di quelle ormai lontane antenate, quando pensavano
al sepolcreto domestico, avranno anche immaginato con tenerezza
confidente una lunga catena di ricordi pii proseguita dalle future
generazioni.... Avranno pensato alla loro cappella gentilizia parata
a bruno in certi memori giorni, e a delle grandi corone di fiori
freschi posate dinanzi alle lapidi mortuali.... O nostre ingenue fedi
nella pietà dei ricordi domestici! La Vita guarda davanti a sè con
sollecitudine affannosa, e presto si scorda di voltarsi indietro.

In buon punto, una voce femminile viene a rompere quel mio triste
soliloquio; e mi volgo verso la strada.... Alta sopra la verde linea
della siepe, vedo una testa di donna con una gran chioma di un colore
inverosimile, che si avanza, si avanza rapidamente, come se volasse;
e arrivata al secondo pilastro, svolta improvvisamente verso l’interno
della villa... Santi numi! È lei, la mia _quarta_ Giovanna, che torna
da una passeggiata in bicicletta, seguìta dal suo giovane fattore.
Alla sua età e sotto questo fulgore del Sole, che gli eroi d’Omero
invocavano sulle loro gesta!

Col busto eretto sui fianchi doviziosi, il volto acceso, una parte dei
capelli al vento e le due mani ferme al lucido manubrio, passa come
un lampo la indomita signora, evidentemente non badando nè a me nè
alla chiesetta ove posero le sue antenate. È veramente splendida; è
addirittura sorprendente, per chi sappia il suo atto di nascita!.... Un
mio giovane amico, poeta e miope, ora vedrebbe in lei il simbolo della
Vita, che passa trionfando....

Io mi levo il cappello.




DOPO DIECI ANNI.


La contessa Florenzi fece a posta attaccare il _landau_, e giunse
di buon trotto alla villa dell’amica per informarla del grande
avvenimento.

— Sai chi è arrivato?

— Chi?

— L’Arnaldi. L’ho incontrato stamani in via Tornabuoni. Mi ha subito
riconosciuto e, staccatosi da un gruppo d’amici, mi ha fermato sul
marciapiedi per salutarmi. Io invece alla prima non lo riconoscevo....
Una trasformazione, mia cara! Al tempo che partì era un ragazzo
impacciato, mal vestito, nè bello nè brutto, per me piuttosto
antipatico. Adesso è un giovanotto biondo con la taglia forte e svelta;
ha la fisonomia aperta e distinta, le maniere elegantissime. Deve avere
trentacinque anni.... e non ne dimostra trenta. Ah, mia cara! Non c’è
che la vita inglese per fare gli uomini o per rifarli a modo.... Sapevi
del suo ritorno?...

Donna Giulia sapeva, all’incirca, del ritorno dell’Arnaldi perchè
egli stesso glielo aveva annunziato come imminente in una lettera di
quindici giorni addietro. Lo sapeva, ma con l’amica si finse sorpresa.
Poi disse:

— Gli scriverò stasera che venga a vedermi....

Nel pronunziare quest’ultima parola la voce le si alterò un pochino;
ma forse fu una cosa impercettibile per l’amica, la quale si mise a
discorrere dei pettegolezzi della città. E in quei giorni ve n’era per
l’appunto un paio di comicissimi. Donna Giulia più volte unì le sue
risate sonore a quelle dell’amica.

— Ora che t’ho dato una buona nuova, — conchiuse la Florenzi, — e che
t’ho fatto ridere di gusto, ecco che me ne vado!

E risalì leggera in carrozza. Rifacendo la strada essa aguzzava la
mente per veder pure di convincersi se, ascoltando l’annunzio del
ritorno dell’Arnaldi, l’amica sua non avesse proprio tradito alcun
turbamento. Le pareva e non le pareva. Ma già, quella Giulia!... Tanto
strana, tanto impenetrabile!


Giulia stette a veder partire l’amica, poi rimase un poco dinanzi alla
villa, abbassando lentamente la testa, mentre con la punta d’una delle
sue scarpine pareva che volesse trivellare il terreno umidiccio del
viale ricoperto di una ghiaia lucida e minuta.

I capelli biondi, troppo biondi alla viva luce, le cadevano a larghe
treccie, parte sulle spalle e parte sul viso. Nella sua vestaglia
bianca e celeste di taglio elegantissima e ricca di pizzi, la sua alta
figura si contornava ancora magnificamente. Si capiva che era stata
una gran bella donna.... Ma aveva quarant’anni e ne dimostrava almeno
quarantacinque.

Quando fu in casa scrisse con mano nervosa una lettera e la consegnò
al servo da portare subito in città. Poi abbassò ella stessa lo
_sthor_ alle due finestre del suo salotto; s’aggomitolò più che non si
sdraiasse sovra un piccolo divano e chiuse gli occhi.

Nel salotto era quasi buio completo e in tutta la villa un perfetto
silenzio di _siesta_ estiva.

La mente di Giulia spaziava nei ricordi. — Allorchè conobbe l’Arnaldi
essa aveva trentatre anni; era nella sua più splendida eflorescenza
di donna. Quanti avevano detto d’amarla e quanti anche glie
l’avevano provato! Un principe di casa regnante non aveva dubitato di
compromettersi, restando parecchi mesi attaccato a lei e obliando nel
lungo indugio le sue alte convenienze di principe e i suoi obblighi
di marito.... L’Arnaldi invece, quando la conobbe, era ancora un
giovinetto uscito di poco dalle università col suo diploma d’ingegnere
meccanico, solo decantato da qualche amico per il suo ingegno audace e
promettentissimo. Le era piaciuto e l’aveva voluto. Ma aveva dato tanto
poco d’ardore e d’esclusività a quel suo amoretto, che essa sulle prime
non s’era nemmeno creduta in obbligo di romperla interamente con una
sua avventura più vecchia e non ancora del tutto venutale a noia.

Egli invece no. Aveva messo nell’amarla tutto l’abbandono del suo cuore
quasi vergine; e ogni giorno, serrandola fra le sue braccia pazzo di
passione e di gelosia, la obbligava a pronunciare i più terribili
giuramenti: che amava lui solo, che nessuno aveva mai amato a quel
modo, che lo amerebbe in eterno!...

E la donna lo compiaceva del quotidiano spergiuro; però spergiurando,
si sentiva sempre più attratta in quel circolo di vita giovanile e di
passione sincera. Finchè un bel giorno spezzò d’un colpo il legame
vecchio e fu lieta di poter finalmente, e senza rimorso, articolare
sulle labbra dell’adorato ragazzo le parole del giuramento.... Ma,
ahimè! proprio in quel tempo pervennero in mano al giovane le prove
certe dell’inganno passato....

Che terribili giornate tennero dietro a quel breve intervallo di
felicità perfetta! Il giovane si sentiva il cuore infranto. — Perchè lo
aveva amato? Perchè lo aveva ingannato?... E adesso, com’era possibile
che egli avesse più fede in lei?...

Seguivano parole dure, rimbrotti umilianti, invettive.

La vita fra i due divenne, a breve andare, intollerabile; e fu una
fortuna che l’Arnaldi, vincendo le lagrime e gli scongiuri di lei,
si decidesse ad allontanarsi. Andò in Inghilterra a completare i suoi
studi nella visita e nella dimora di quelle grandi officine....

E donna Giulia, proseguendo nei ricordi, vedeva un altro periodo della
sua vita. Una vita deplorabile e piena di contradizioni. L’anima
sua era sempre con lui, lo seguiva da per tutto, lo invocava ogni
giorno; ma qui nell’uggia di una solitudine, che pareva e forse era
un abbandono, essa sentiva il bisogno di vivere, di consolarsi e
distrarsi. L’istinto caduco della donna mondana, bella per giunta e
ricca e corteggiata da molti, la vinceva sopra ogni altro sentimento.
Ed essa si lasciava andare giù, giù, giù.... Talvolta all’Arnaldi, nel
fondo di una miniera della Cornovaglia o in mezzo ai frastuoni di un
opifizio di Lancaster, arrivava una lettera di dieci pagine, scritta
per dritto e per traverso, in cui la donna appassionata versava tutta
la tenerezza dei ricordi e la foga dei desiderii. Ma mentre egli la
leggeva, non senza un avanzo di emozione vera, molto probabilmente
donna Giulia attutiva ricordi e desiderii, distraendosi.... Perchè era
di quelle infelici che sono costrette ad amare ma non hanno la virtù di
soffrire! E alle cadute frequenti si alternavano i rimorsi vani.

Intanto passavano gli anni, non risparmiando la scultoria bellezza
della donna, anzi attaccandola con frettolosa crudeltà. Le brezze del
tramonto furono micidiali a quel fiore superbo. Donna Giulia andava
pensando che, in quella triste discesa della vita, la distanza fra lei
e l’Arnaldi s’aumentava oltre la differenza, già per sè non piccola,
degli anni; e accennava a diventare enorme! Un giorno, mentre si
guardava allo specchio, pensò a un tratto: — S’egli tornasse?...

E il triste sorriso che ella si vide sulle labbra molto rosse, aumentò
la costernazione del suo cuore.


Ed ecco che egli era tornato per l’appunto. Ricco, bello, forte,
ammirato!... L’Arnaldi in quel momento toccava il culmine trionfale
della vita; quello che essa aveva oltrepassato da parecchi anni e che
le pareva già tanto, tanto lontano! E donna Giulia pensava irritata:

— Gli uomini ci vincono sempre, in tutto. Quand’è ch’essi diventano
vecchi? Tocca a noi, quando siamo ben discese, di vederceli comparire
dinanzi meglio di prima. Dove sono stati? Che cosa hanno fatto? Il
tempo che noi abbiamo perduto ad invecchiare essi l’hanno speso
ad entrare in una seconda, in una migliore giovinezza.... Quale
ingiustizia!

E la donna era tutta invasa da un avvilimento profondo, al quale
tentava invano di opporre le riprese dell’orgoglio. Poi una idea
cominciò ad attristarla, e finì per atterrirla. Aveva scritto
all’Arnaldi un biglietto nel quale lo invitava ad andare da lei la sera
stessa. Il biglietto concludeva:

“Non mancate assolutamente. A questo solo patto io potrò perdonarvi
d’essere a Firenze da due giorni, senza che vi siate ricordato di me!„

Quindi donna Giulia pensò che sull’imbrunire di quella stessa giornata
l’Arnaldi sarebbe arrivato e si sarebbe trovato lì in quello stesso
salotto, dinanzi a lei, guardandola.... Dieci anni dopo.... La donna
vide tutto il suo svantaggio in quel rapido esame; e presentì il
pericolo e con esso un dolore e una umiliazione intollerabili.

Allora con un movimento fiero di tutta la persona si rizzò e diede due
colpi al bottone elettrico.

Comparve la cameriera.


Pochi minuti dopo le ventiquattro, l’Arnaldi entro una vettura da
città scoperta usciva da porta Romana. Dai campi, per l’aria temperata
del vespero, venivano di quando in quando delle voci di canzoni
malinconiche; e le prime lucciole cominciavano a balenare nello scuro
sulle spighe del frumento ancora verde.

L’Arnaldi fumava il sigaro fantasticando. Nei suoi pensieri, strano
miscuglio di ricordi e di sogni, la figura di donna Giulia s’insinuava
sempre più dolcemente. — Non era essa la donna che egli aveva amata
più di tutte le altre?... Appunto perchè da lei gli erano venuti i più
grandi dolori e i più acerbi disinganni, non gli aveva essa date le
gioie più forti.... le sole complete, le sole vere?... Colpevole sì....
spergiura!... Ma quanta poesia, quanta vivacità, quanta sincerità di
passione e di abbandono in quella indimenticabile donna!...

Il passato risuscitava nella sua parte più dolce e più buona. E
l’Arnaldi si sentiva come tornato dieci anni addietro in una di quelle
sere in cui, col petto gonfio di desiderii, faceva la stessa strada
così, circa a quell’ora, in cittadina scoperta, impaziente di arrivare
alla villa di donna Giulia.... Il cuore del giovane s’apriva adesso
in una immensa benevolenza; e stava combinando nella sua testa delle
parole gentili e delicatissime da dire a Giulia in quella serata, dopo
tanto tempo che non s’erano visti....


A quattro chilometri da Firenze l’Arnaldi era tutto immerso ne’ suoi
pensieri; e non badò a una carrozza chiusa che gli veniva incontro co’
suoi due grandi fanali accesi; e non badò nemmeno che, mentre i due
legni si passavano accanto, una signora mise fuori dello sportello la
testa fissandolo alla luce dei fanali.

Donna Giulia, che aveva fatto tutto allestire in fretta per la
partenza, ora andava verso la stazione a prendervi il diretto delle
nove per Roma.

Quando aveva sentito il rumore della vettura in quel tratto solitario
di strada, un forte battito del cuore e dei polsi la aveva pure
avvertita che dentro c’era l’Arnaldi. Volle vederlo, e provò anche un
gran bisogno di chiamarlo per nome; ma non ebbe la forza....

Passato il legno, si ravvolse tutta in un grande scialle e poggiò
il capo all’angolo della carrozza, prendendo l’aspetto di chi
s’addormenta.... Ma la cameriera che era con lei s’accorse che la
signora, dietro il fazzoletto premuto sulla bocca, singhiozzava.




IN CASA DELL’AMICO.


I.

Dal salotto da pranzo, guardando per di sopra alla terrazza, fu prima
la signora a vedere il fattorino del telegrafo, che saliva lestamente
per il viale, ancora tutto invaso dal sole, e sonava al cancello del
villino. Il telegramma, portato subito dal giardiniere, diceva così:

“_Abbisognami sua pronta risposta circa arazzi. È arrivato negoziante
milanese. Riparte domani sera._„

— Ah! ecco che Shyilok mi vuole stringere i panni addosso! — disse il
marito incrociando la posata sul piatto. La signora, lasciata andare
indietro la sua testa bruna e guardando il soffitto con aria indolente,
mise una pausa in mezzo e replicò:

— E tu attacca la tua voglia ad un arpione. Faremo senza degli
arazzi....

E mostrava sorridendo la bellezza dei suoi denti bianchissimi.

L’avvocato rimase un poco a guardare il telegramma spiegato sulla
tavola e scosse il capo com’uomo a cui quel consiglio non andava. Poi
con accento risoluto:

— No. È già la seconda volta che quell’imbroglione di milanese mi passa
davanti. Questa notte prenderò la corsa delle tre e andrò a Ferrara.

— Bel gusto a fare una mala nottata! Telegrafa piuttosto le tue ultime
condizioni; e vedrai che gli arazzi saranno per noi.

A queste parole il marito posò sulla donna uno sguardo in cui trapelava
l’intimo compiacimento suo. Ebbe un momento di esitazione, ma si
raffermò subito nel primo proposito.

— Chi vuole vada, mia cara. Quando tu sarai a letto, io scenderò in
città. Passo al _Club_ un paio d’ore; ceno magari, se mi vien voglia, e
m’arriverà l’ora di prendere il treno senza ch’io me n’avveda. Farò una
buona dormita domani; anzi conto, con questo caldo, che avrò finalmente
una notte di refrigerio.

Il caldo, di fatto, in quegli ultimi giorni di luglio, era grandissimo;
e sebbene la sera fosse assai vicina, nella villa non si sentiva ancora
spirare dalla collina un fiato di vento fresco. La signora non rifiniva
di mettere dei pezzi di ghiaccio nel suo bicchiere e nel bicchiere del
marito.

Poco prima della mezzanotte, nel piccolissimo gruppo dei frequentatori
estivi del _Club_, si levò una esclamazione di sorpresa quando
l’avvocato fu visto entrare. Egli salutò allegramente tutti, anche il
giovane conte Salerni, ch’egli non vedeva da qualche tempo.

Dopo una partita all’_écarté_, ordinò da cena, e mangiando espose agli
amici la causa di quel suo trovarsi in città e al Circolo, ad ora così
insolita.

Suonarono le due. La comitiva dei cinque o sei in breve si sciolse e
rimasero l’avvocato e il Salerni, soli, seduti a un tavolino, l’uno in
faccia all’altro. L’avvocato sorbiva lentamente il caffè, e il conte
gli offerse una sigaretta. Poi, il discorso essendo tornato sulla gita
a Ferrara, il giovane conte non esitò a dichiarare ch’egli la giudicava
un passo falso.

— Come, un passo falso?

— Sicuro; anzi una sciocchezza bella e buona. Ma dov’è la tua solita
avvedutezza? Per capirti ho bisogno di pensare al gran caldo che
fa... Che diavolo! E non vedi che è tutto un gioco combinato fra il
negoziante ferrarese e quello di Milano, che gli fa da compare? Se
tu ora ti precipiti a Ferrara, caro mio, fai conoscere d’avere degli
arazzi una voglia matta; ed essi, stai certo, ti leveranno la sete con
l’acqua salata. Oh! molto salata!...

L’avvocato con un gomito sul tavolino e l’indice della mano sulla
fronte spaziosa stette alquanto in silenzio:

— E d’altra parte, anche a non andare io corro un rischio. Un gioco
combinato, tu dici?... Può essere benissimo. Ma se non fosse? Se, come
mi è accaduto altra volta, il milanese dice davvero e compra? Io non
voglio che gli arazzi mi scappino. Dopo averci tanto pensato su, sento
che mi nascerebbe un albero nello stomaco, come si suol dire. Che
vuoi farci? Ognuno ha le sue debolezze; e anche mia moglie, quantunque
non lo dimostri, sono sicuro che sarebbe afflittissima se mi vedesse
tornare a mani vuote.... Pensiamo al modo....

— Senti, — disse allora il Salerni con l’accento più naturale di questo
mondo, — se non è domani, sarà doman l’altro che io andrò a Ferrara
e di là al _Trombone_ a vedere un cavallo della razza Constabili....
Facciamo dunque così: prendo io il treno di Ferrara e mi presento
domani dal mercante a contrattare gli arazzi per conto mio. Tu non ti
muovere e dimmi solo l’ultima cifra a cui vuoi arrivare per l’acquisto.
Vedrai che domani sera torno con la roba.... e t’avrò probabilmente
anche risparmiato un bel foglio di mille lire.

— È una buona idea e ti ringrazio! — esclamò l’avvocato, alzandosi in
piedi.

Mancava mezz’ora alla partenza, e i due amici usciti dal Circolo
s’incamminarono verso la stazione.


II.

I due amici passeggiavano sotto la tettoia dinanzi al treno pronto;
e già la macchina mandava i fischi della prossima partenza. A un
tratto, l’avvocato si tastò in fretta con le mani le tasche dell’abito
esclamando:

— A proposito! O come faccio io ad andare a dormire a quest’ora, che
non ho la chiave del cancello di casa?

Il conte trasse subito fuori una chiavettina inglese, porgendola
all’amico:

— Prendi. In dieci minuti sei a casa mia. Tu conosci il mio mezzanino.
Dormirai tranquillissimo, perchè ora sono tutti in campagna. Domattina
alle nove verrà la portinaia col caffè a svegliarti in vece mia. Buona
dormita!

L’avvocato, per risposta, diede in una sonora risata ed ebbe appena
tempo di stringere la mano all’amico montato sul treno, che già si
moveva lentamente. Quando uscì dalla stazione, rideva ancora fra sè,
tenendo sempre fra le dita la chiave del mezzanino del conte Salerni.

Era di buon umore. Fino da quando l’aveva sposata, egli era stato
geloso della moglie. La sua gelosia non era di quelle che si
manifestano con minuzie pedantesche o danno in escandescenze opprimenti
e volgari; ma era una idea fissa, una preoccupazione acuta e costante,
celata quasi sempre nell’animo con dignitoso riserbo; e per questo
appunto assai più dolorosa. Fra le cure di una vita molto affaccendata
in mezzo agli alto e basso de’ suoi affari, quell’uomo in apparenza
positivo e freddo, traeva la ragione profonda di tutto il suo benessere
e di tutto il suo malessere da un fatto solo: la certezza che egli
aveva o no dell’amore e della fedeltà di sua moglie. Il rimanente
veniva sempre in seconda linea per lui.

Aveva avute, a intervalli, parecchie inquietudini vive. Da ultimo i
suoi sospetti erano stati eccitati dal conte Salerni, che s’era messo a
corteggiare molto assiduamente la signora; ed essa, pur troppo, non gli
aveva opposto quel contegno che scoraggia e stanca un uomo!... Questa
volta le male apparenze si erano prolungate in modo che il marito, non
potendone più, aveva espressi a lei, con una certa violenza, il suo
sospetto e il suo mal contento.

Era la prima volta che le faceva una scena di questo genere.

La moglie accolse le parole del marito con un misto di meraviglia,
d’offesa e di sottomissione. Si tenne con lui molto seria per una
settimana; ma anche gli dimostrò col fatto che le stavano a cuore
il proprio nome e la quiete di lui. Il Salerni tornò in visita e fu
accolto con amichevole e fredda cortesia; una allegra cavalcata d’amici
che di lì a pochi giorni doveva aver luogo e alla quale anche il
Salerni era stato invitato, fu con bel garbo disdetta dalla signora.
Anzi, perchè proprio voleva che ogni nube fosse dissipata, da venti
giorni essa non era scesa in città che una volta sola e accompagnata da
suo marito.

Già da una settimana i pensieri dell’avvocato si voltavano alla
tranquillità; ma in quel giorno, in quella serata, in quella notte
egli sentiva che una serenità piena e sincera era venuta ad occupare
rapidamente il suo animo. E ripensava le parole con cui sua moglie
s’era provata a dissuaderlo dalla sua andata a Ferrara; e correva con
la mente dietro al giovane amico, che con sì spontanea cortesia, s’era
offerto di allontanarsi egli, in vece sua, per un giorno dalla città.

— Quale più favorevole occasione invece per i due, se....

No! no! Egli era stato ingiusto a sospettare. Nè si fermava a questo
unico fatto; ma diffondendo in largo giro le tinte rosee della sua
immaginazione confidente, adesso egli esaminava tutta la sua gelosia
passata, la vedeva infondata, gratuita, assurda; la sconfessava, la
disapprovava con tutta la forza del suo buon volere!

E al tempo stesso gli si ricomponeva nella mente la fisonomia di sua
moglie, bella, schietta, amorosa, degna di un affetto immenso e di una
fede senza confine....

Insomma era contento. E camminava lentamente sotto i portici
assaporando l’aria fresca dell’alba, mentre gli inservienti del gaz
spegnevano gli ultimi fanali. Si sentiva libero e sciolto, come se un
cattivo spirito tormentatore fosse uscito per sempre da tutto il suo
essere, per la virtù di uno scongiuro fortunato.


Quando entrò, con in mano un cerino acceso, nella stanza da letto del
conte, fiutò gradevolmente un odore delicato di legno di sandalo che
impregnava l’aria. — Sibarita! — pensò sorridendo e inoltrandosi di
qualche passo nella stanza.

Poi accese la lampada e si guardò intorno. Era una spaziosa camera da
letto che, mediante una alcova in fondo, aveva anche l’aspetto di un
salotto da ricevere. Sarebbe stato difficile immaginare una stanza da
giovinotto messa con una eleganza più modernamente raffinata.

L’avvocato, fiutando ancora l’odore di sandalo, girava gli occhi
ammirati sui mobili e sulle pareti, li posava sul pavimento di marmo
bianco riquadrato a liste nere, li spingeva nell’ombra discreta
dell’alcova, in cui vedeva il gran letto di legno scolpito, basso,
con il lenzuolo bianchissimo rimboccato sulla coperta azzurra, sotto i
festoni azzurri delle cortine.

— Sibarita! — ripensò l’avvocato, ma questa volta senza sorridere.
E subito gli passò per la mente l’idea che delle belle donnine certo
erano state là dentro; e che dovevano aver serbato una gradita memoria
di quel luogo....


III.

Che c’era di nuovo?... Sentiva che il suo buon umore era già disceso
e seguitava a discendere rapidamente, come la colonna di mercurio di
un termometro quando è portato da un luogo caldo a un luogo freddo....
Chi sapea spiegargli in che modo le ragioni tanto eloquenti del suo
benessere di mezz’ora fa si erano così indebolite, scolorite, e quasi
del tutto spente?... Adesso, ecco che altre impressioni e altre idee
lo signoreggiavano! La figura del giovane conte nel fisico come nel
morale, lì in quella sua bella camera da letto, assumeva nel cervello
dell’avvocato un improvviso fascino di seduzione ch’egli, suo malgrado,
percepiva con una vivezza nuova, esagerata, inquietante. Poi non
potè fare a meno di trasferire quella percezione da sè stesso in sua
moglie.... Ed ecco che improvvisamente si immaginò di vedere proprio
lei, sua moglie, in quella stanza, sola col Salerni!... Fu come un
lampo fastidioso, e chiuse per un momento gli occhi.

Capì che bisognava distrarsi e si mise a osservare con curiosità i
libri, i quadri, le armi, le maioliche.

Distrazione mediocre. Maggiore attrattiva ebbero per lui alcuni _album_
di fotografie e disegni posti sopra una tavola grande. Passavano
sotto i suoi occhi rabeschi fantastici, caricature di comuni amici o
di gente sconosciuta; passavano schizzi a penna e a matita, ricordi
e impressioni di viaggi. Ed egli seguitava a voltare le pagine
piuttosto in fretta, come chi va in cerca di una data cosa che non può
trovare.... Prese da ultimo fra le mani un piccolo album elegantemente
rilegato in velluto con grandi fermagli e borchie d’oro; e si pose ad
esaminarlo meno in fretta che gli altri. Erano tutti ritratti di donne.
Si capiva che quello era il volume privilegiato, l’_album_ riservato
alle più belle signore conosciute dal conte in paese e fuori....

L’avvocato aveva un presentimento: qui certo avrebbe trovato il
ritratto di sua moglie.

Invece arrivò all’ultima pagina senza trovar nulla.... Ma dov’era
dunque il bel ritratto che essa, due mesi fa, aveva regalato al
Salerni, in sua presenza? Dove lo teneva egli?... Ed egli allora pensò
a quei dolci nascondigli ove il ritratto della donna che si ama è
messo in salvo da ogni profano contatto, da ogni compagnia indegna,
da ogni occhio indiscreto e geloso.... Quindi si mise a cercare da per
tutto nella stanza, ma fu ancora inutile. Presso al letto, però stette
ad osservare una bella fotografia della _Glaneuse_ di Berton; e nei
contorni di quello schietto viso di campagnola, negli occhi e perfino
nella linea forte e slanciata dei fianchi, credè di cogliere una tal
quale somiglianza con le brune bellezze di sua moglie.... Ma il suo
ritratto dove era? Dove se lo nascondeva il Salerni?

Dentro intanto gli cresceva una smania di cui non ricordava l’eguale.
Se avesse avuto lì il conte, gli pareva che non avrebbe resistito al
desiderio violento di mettergli le mani addosso e di frugarlo nelle
tasche....

Intanto erano passate due ore. Fuori la giornata estiva era cominciata
da un pezzo, ma nel mezzanino chiuso del conte durava ancora la quiete
della notte.

L’avvocato ascoltò in quel silenzio, e non udì altro suono che il _tic
tic_ continuo di un tarlo che lavorava entro un mobile vicino a lui.
Ascoltò cinque minuti immobile poi si mise una mano alla fronte, perchè
gli pareva che quel tarlo lavorasse adesso entro il suo cervello....
E quello fu il cominciamento di un bisbiglio strano e immenso, che si
mise a ronzargli intorno agli orecchi, a empirgli il capo, a scuoterlo
e assordarlo tutto. Gli pareva che quel bisbiglio venisse da tutti i
punti della stanza, uscisse di dietro ai quadri delle pareti, dagli
_album_, dal letto; e dentro vi sentiva, ma come in lontananza, dei
suoni di voci vaghe, che non arrivava bene a distinguere e che gli
parevano voci dì scherno.... Quel tormento e quel fastidio durarono un
pezzo; ma egli non aveva più la percezione del tempo.

Da ultimo si sentì alla gola un fortissimo bisogno d’aria; e corse a
spalancare la finestra.


Entrarono il sole oramai alto, l’aria viva e il cinguettio mattutino
dei passeri.

L’avvocato, così com’era in maniche di camicia, stirò le braccia
fuori della finestra e si mise a esercitare gli occhi abbagliati sul
vasto giardino che si stendeva dietro il palazzo. Poi li alzò alle
colline sorgenti in faccia a lui.... Che tranquilla allegria da per
tutto! Vedeva, a mezza costa, vicinissimo, il suo bel villino coi muri
policromati, col tetto spiovente e con le persiane chiuse.

— Certo, — pensò, — a quell’ora sua moglie dormiva sempre....

Questa idea penetrò in mezzo al triste scompiglio della sua testa, e vi
impose subitamente una risoluzione.

— Presto! Bisognava correre al villino, da sua moglie, entrare
improvviso nella sua stanza, svegliarla con un bacio, dirgli un mondo
di cose, sentirsi ancora ripetere da lei alcune di quelle parole che
tante volte avevano rianimata in lui la fede e messo un refrigerio
nelle sue viscere lacerate dall’arsenico dei sospetti!... Bisognava
subito uscire da quella stanza maledetta ove la Gôrgone orrenda della
gelosia lo aveva guardato per lunghe ore coi verdi occhi immobili!
Ove l’aria pareva odorasse di recenti adulterii, ove tutte le cose gli
gettavano addosso una infame suggestione di vergogne e di scherni!...
Presto, presto! Bisognava subito partire....

E andò a bagnarsi il viso nell’acqua fredda e a ravviarsi i capelli.


Stava infilando una manica dell’abito, quando gli giunse dalla stanza
vicina un lieve rumore di passi che si fermarono all’uscio. Dopo
alcuni secondi, sentì anche picchiare dolcemente.... Pensò che fosse
la portinaia col caffè, andò ad aprire.... e si trovò in faccia a sua
moglie, che diede indietro senza far motto, diventando smorta.

Essa, un momento prima, aveva negli occhi e nella bocca il sorriso
trepido della donna innamorata, che sa di giungere inaspettata e di
apportare una sorpresa assai gradita...




CANTORES.


Io non penso, mia dolce amica, d’aver demeritata la vostra stima. E
fosse pur vero tutto quello che voi siete andata fantasticando dopo la
mia lettera di martedì, o credete voi proprio che anche in un desiderio
a prima vista disumano, grottesco, bislacco e un pochino teratologico,
non possa nascondersi un alto senso di poesia? E sopratutto un alto
senso di verità?

Voglio che m’ascoltiate attentamente e pacatamente.... Ora io sento
di potervi parlare con calma e voi non avete più a temere nè crudezza
di linguaggio biblico, nè impeti di “lirismo forsennato„ come dite
voi. Sono calmo, v’ho detto, e sopratutto non ho mai cessato d’essere
uomo! Anzi ho in me il convincimento, — dopo tutto quello che è passato
nell’animo mio nei giorni addietro — che un aspetto nuovo della umanità
mi si è svelato e s’è in qualche modo aggiunto all’essere mio d’uomo.
Perchè l’arte (abbiatelo per certo) non è sempre solo una imitazione
della natura, ma qualche volta ne è la continuazione e il complemento.

Vedete dunque che io non ho niente da rimproverarmi e voi niente da
sospettare sul conto mio....


Ed ecco come andò.

Io nemmeno sapevo che quella fosse la festa dell’Ascensione. Avevo
pranzato solo e di buona ora all’Albergo _Milano_. Come passare meno
male il tempo in quel lungo dopo pranzo? A Roma, in casi simili, io ho
sempre la risposta pronta. Salgo in una _botte_ e mi faccio condurre a
San Pietro. Ho per quella grande piazza elittica una specie di passione
strana che alimenta in me una bramosia inesauribile di rivederla. Il
getto superbo di quelle due fontane illuminate dal sole, pare ogni
volta che mi slarghi il petto e mi faccia ballare il cuore di gioia,
mentre l’immane colonnato curvilineo, serrandomi a destra e a sinistra
l’orizzonte, e tutte quelle statue poggianti ritte sopra l’attico e
in atto di osservarmi severe, par che mi avvisino che io sono entrato
in un vecchio mondo misterioso e magnifico. Anche per l’insieme della
basilica vaticana io ho sempre avuta una forte ammirazione, e la sento
dentro aumentare e ingigantire di mano in mano che mi si raffreddano
i romantici entusiasmi per certe architetture gotiche.... So che
anche voi, mia cara, mi condannate per questo; ed io chino il capo
rassegnato, aspettando che il tempo mi renda giustizia. Lento ma ottimo
giustiziere il tempo, non è vero?... Voi lo sapete per prova.

Arrivai dunque in piazza San Pietro un’ora circa prima del tramonto del
sole. Cominciavano le grandi ombre a stendersi dalle moli colossali.
Delle due fontane quella ch’io vedevo, arrivando, alla mia sinistra,
pareva tutta raccolta e tranquilla nella calma dell’ombra vespertina;
ma l’altra, dardeggiata obliquamente dal sole, era tutta una letizia
di raggi e di zampilli e di nebbia luminosa e cangiante, diffusa
all’intorno per largo tratto. Un gruppo di signori forestieri, uomini
e donne, stava fermo ad ammirarla; e parevano tutti contenti d’essere
inaffiati da quella rugiada.

Credevo, come al solito, di trovare la grande chiesa, a quell’ora,
deserta; ma m’ingannai.

La festa dell’Ascensione aveva chiamata là molta gente: forestieri
delle provincie, romani _de_ Roma, _inglesi_, suore, trasteverini,
_minenti_, frati, preti, pifferari; la turba mista e bizzarra che
San Pietro accoglie in alcuni giorni dell’anno e che inutilmente
cerchereste altrove. Le centinaia e le migliaia che si sparpagliano,
povero formicaio umano, sotto le navate enormi e si perdono, come
ombre, dietro i piloni smisurati, non facendo nemmeno sentire il
fruscìo dei loro piedi.

Mentre spingevo il pesante tendone della porta, m’arrivò subito una
modulazione musicale. Era un istrumento? Era voce umana? Così alla
prima non potei capire. Era un suono di timbro e d’acutezza insolita,
esilissimo, eppure vibrante per quella vastità in modo che pareva tutta
riempirla. Fatti alcuni passi nella basilica, sentii distintamente la
frase di un versetto biblico arrivarmi colle note all’orecchio. Era
dunque canto umano senza dubbio.


E quale canto, signora! Immaginate una voce che fonda insieme la
dolcezza del flauto e l’animata soavità della laringe umana; una voce
che salga, salga leggera e spontanea come vola per l’aria un’allodola,
quando s’inebria del sole; e allor che vi pare che questa voce siasi
posata sugli ultimissimi vertici della gamma sopracuta, ecco che spicca
ancora altri voli, e sale e sale sempre egualmente leggera, egualmente
spontanea, senza la più piccola espressione di sforzo, senza il più
tenue indizio d’artificio, di ricerca, di stento; una voce infine che
vi dà l’idea immediata “del sentimento fatto suono„ e dell’ascensione
d’un’anima verso l’infinito sull’ali di quel sentimento.

Che vi dirò di più? Ho sentito la Frezzolini e la Barbi in camera e la
Patti in teatro; ho ammirato Masini, Vögel, Cotogni; ma in mezzo alla
mia ammirazione rimaneva sempre qualcosa di inappagato in fondo al
mio desiderio; rimaneva di togliere un certo dissidio fra l’intenzione
dell’artista, non di rado elevata e fine, e la piena condiscendenza de’
suoi mezzi vocali.... Qui invece tutto il mio essere era mirabilmente
soddisfatto. Non la minima asprezza nel passaggio da un registro
all’altro della voce, non penuria di estensione, non disuguaglianza di
timbro da nota a nota: ma un linguaggio musicale calmo, dolce, solenne,
intonatissimo, che mi stupiva e mi rapiva a un punto solo con la
potenza di una gratissima sensazione, non provata innanzi mai!

Mi spinsi avanti per la basilica con passi affrettati, verso quella
voce e quel canto.... Nel giorno dell’Ascensione i _cantori_ della
Cappella Sistina scendono in San Pietro e prendono parte alla
celebrazione della festa. Cantano sotto la cupola di Michelangelo,
in una piccola cantoria eretta all’uopo, accompagnati da un piccolo
organo, che anch’oggi, come al tempo di Ettore Berlioz, è mosso sovra
delle rotelle per il pavimento.

La folla si faceva di mano in mano più densa, ma io m’adoprai in modo
che dopo una diecina di minuti ero arrivato proprio sotto la cantoria e
guardavo in faccia il _solista_.

Eseguivano un _mottetto_ dell’Allegri quasi tutto affidato a lui. Il
coro entrava di tanto in tanto con brevi _risposte_; e l’organo, con
pochi accordi tenuti aiutava a sostenere l’intonazione perfetta.

Finalmente ho inteso la voce vera del _soprano_. Vadano a riporsi
le signore cantatrici che usurpano questo nome! Le chiameremo, se
vogliono, _soprane_; ma è da augurare per il bene dell’arte del
canto, declinante a grandi passi, ch’esse smettano una buona volta
la sciagurata ambizione d’assorgere cogli sforzi della loro laringe
a certe acutezze diatoniche solo legittimamente consentite ai soprani
veri, ai soprani sacri, ai soprani per diritto divino.

Oh chi ridona all’arte i vecchi contralti, così giustamente rimpianti
da Gioacchino Rossini! Una sciagurata ambizione, accesa dalla cupidità
del guadagno, sciupa le nostre più belle voci femminili, mutando la
nota vellutata e intonata in uno strillo squilibrato e sgradevole....

Nè vi paia strano, o signora, ch’io in quel giorno abbia anche compreso
e partecipato il disgusto di Parini per i soprani in teatro:

    Abborro sulla scena
    Un canoro elefante....

Sì, quella voce eccezionale e quasi sorvolante agli orizzonti della
vita, è fatta per esprimere slanci di preghiera e puri rapimenti di
estasi religiosa. Non è fatta per disposarsi alle torbide passioni
del dramma umano nè per concorrere, profanandosi, al divertimento
scenico. Nella scena essa doveva perdere il suo prestigio mistico senza
acquistare il vigore, la pieghevolezza e la verità dolorosa del dramma;
e questo forse spiega perchè il vero dramma musicale moderno comincia e
coincide col bando dei veri soprani dalle nostre scene melodrammatiche.
Però, se comprendo l’ammirazione dei nostri nonni elevata al più alto
grado, trovo impossibile e ridicola la passione. L’amore di Sarazine
per Zambinella e la sanguinosa avventura a cui riesce, per quanto
magistralmente narrati da Balzac, mi lasciano freddo ed incredulo.
Meglio comprendo gli epigrammi scritti dal popolo napoletano sulla casa
costrutta da Caffariello....


Io guardavo attento il mio soprano. Era un giovane alto, pallido, non
grasso, con una barbetta rada e gentile, ritto e composto nella sua
cotta bianchissima davanti al leggìo. Mentre la sua voce si elevava
come un razzo canoro serpeggiando in trilli e scale, dispiegandosi
in magnifiche declamazioni, raccogliendosi in cadenze elegantissime,
io non riuscivo a notare in lui il più piccolo segno di fatica e di
sforzo. La testa era lievemente inchinata sulla musica che teneva con
le due mani immobili. Cantava a quel modo e pareva che leggesse. Solo
i suoi occhi si dilatavano, illuminandosi tratto tratto, allorchè
una frase musicale toccava il suo momento d’espansione; solo le rughe
della sua fronte si spianavano e si contraevano un poco assecondando le
movenze del ritmo.

Ebbene, guardando quegli occhi illuminati e il tremito di quella
fronte, io ho sentito che quel giovane cantore gustava in quell’ora
una felicità alta ed intensa come io e voi, mia cara, non abbiamo
probabilmente gustata mai.... Egli era felice; ma più che di tutta
quella folla attenta e rivolta a lui, e del lieve mormorio di
ammirazione contenuta che le sue mirabili note suscitavano sotto la più
augusta cupola del mondo, egli era, io credo, felice della bellezza
del suo canto, che si sentiva ripiovere sull’anima come una rugiada
celeste.


Io l’ho compreso e l’ho invidiato. Nel calore del mio entusiasmo ho
pronunciato dentro di me il pazzo augurio, che ho avuto la franchezza
di significarvi e che mi ha tirato addosso le espressioni del vostro
orrore.

Che volete ch’io vi dica? Durante quel mottetto dell’Allegri uno strano
cambiamento è avvenuto in me; e mi pareva che nell’animo mio si facesse
una gran luce improvvisa. In quella luce io vedevo, — bizzarra visione,
— gli antichi Coribanti che menavano intorno, con gesti e grida di
gente estatica, una danza vertiginosa; e in mezzo a quella ridda vedevo
alzarsi la figura grave e serena di Origene che, tendendo una mano e
gli occhi verso le stelle, esclamava: _beati!_... Al tempo stesso mi
venivano in mente certe parole con cui il duca di Richelieu ringraziò
la bontà divina quando si accorse d’esser giunto al termine della sua
carriera d’uomo; non quella diplomatica, nè militare, s’intende.

E pensavo: — quando questo giovane sarà anch’esso innanzi cogli anni e
un giorno s’accorgerà di non aver più la voce atta al mistico ufficio
a cui ora la consacra, con che parole ringrazierà egli Dio della sua
carriera compiuta?... In sostanza la mia mente s’andava arrampicando
su per delle guglie perigliose e splendide. Mi tintinnavano negli
orecchi e mi sentivo vibrare per tutto l’essere, accordi e dissonanze
piene di voluttà ignota.... Alzavo gli occhi e mi pareva che anche gli
Evangelisti, dai giganteschi pennacchi della vôlta, mi accennassero
colla testa che avevo ragione. Sarò stato pazzo, se volete, ma ero
superbo e felice.

Potete condannarmi; ma, sinceramente, a compiangermi avreste torto.




EVOCAZIONE.


Non c’era dubbio; era proprio lui!... Questa certezza, acquistata al
suo primo entrare nello scompartimento, mise nell’animo della giovane
donna un turbamento profondo. Ebbe subito un istinto di fuga; e mise la
testa spaurita fuori del vagone e stette un pezzo a quel modo, mentre
il convoglio andava sempre più guadagnando di celerità.

Non osava voltarsi, non osava sedersi nel suo angolo.... In quale
compagnia era costretta a viaggiare! E dovendo fermarsi a Imola, essa
ne avrebbe avuto probabilmente per un’ora abbondante!...


Alla stazione di Forlì, quando mancavano pochi minuti secondi alla
partenza e il treno fischiava e la campanella suonava e gli impiegati
gridavano sollecitando i viaggiatori in ritardo, essa aveva appena
avuto il tempo d’informarsi che non c’era scompartimento riservato per
le signore sole; e s’era gettata dentro lo sportello di una carrozza di
prima classe, che un impiegato le aveva aperto.

E adesso che cosa fare?... Non poteva mica starsene così in piedi
e alla finestra per tutto il tempo del viaggio!... Prese dunque il
suo partito; e girando un poco a sinistra la elegante figura, si
lasciò andare quietamente a sedere nell’angolo, incantucciandosi,
impicciolendosi più che poteva, badando per fino di smorzare,
sedendosi, il fruscìo della sua veste di seta. Intanto colla mano
destra teneva spiegato un grande ventaglio nero in modo che le
nascondeva quasi tutta la persona seduta; e con l’altra si avvicinava
al volto un mazzetto di rosine bianche....

Era proprio lui, Alberto, che era lì a due passi, solo con lei, in
quel carrozzone chiuso, viaggiando in aperta campagna.... C’era da
impazzire!... Essa non l’aveva mai più visto da quella giornata fatale;
e alla possibilità di un incontro con lui aveva pensato tante volte!
Erano passati dei mesi, erano passati oltre a quattro anni e la fortuna
la aveva sempre assistita. Eppure un suo incontro con quell’uomo, un
qualche giorno, avrebbe dovuto accadere. Lo sapeva, c’era preparata; ma
non allora, Vergine santa, ma non a quel modo!...

A ogni minuto secondo si aspettava di sentirlo muovere e avvicinarsi
a lei.... s’aspettava di sentire la sua voce a chiamarla per nome....
Che momento sarebbe stato quello!... Gli battevano i polsi e teneva gli
occhi chiusi. Il grande ventaglio nero le tremava nella mano inguantata
e seguitava sempre a odorare le rosine bianche, che facevano quasi una
tinta sola col pallore della faccia atterrita.

Passarono così circa quindici minuti. L’aria, fuori, sempre più
si oscurava e il vento fresco di una sera di maggio entrava per la
finestra. Nell’interno del vagone, si spandeva già dal soffitto il
chiarore blando e giallognolo della lampada fissa.


Al primo momento s’era raccomandata a Dio; non chiedendo nulla di
preciso, ma sentendo d’avere bisogno di un grande aiuto.... L’avrebbe
egli esaudita? I suoi orecchi s’erano venuti abituando al rumore del
convoglio corrente, per modo che ella potè cogliere un altro suono
lieve, che le veniva dall’angolo opposto.... Un respiro.... sì, un
respiro umano, regolare, lento e un tantino affannoso.... Indizio
dunque che l’uomo dormiva!

Questa scoperta fu un sollievo per lei. Non si mosse; non mutò in nulla
il suo atteggiamento guardingo; ma il senso del pericolo diventò in
lei meno acuto, anzi quella insperata circostanza pareva che glie lo
allontanasse in modo di darle tempo a prepararsi, e a difendersi. Potè
ordinare le sue idee e mettersi a pensare....

Ma che pensieri sorgevano dietro quella piccola fronte, e che
evocazione di immagini e di ricordi!... Quell’uomo essa lo aveva
amato e quell’amore era stato il grande avvenimento della sua vita
di fanciulla e di donna; l’aveva tutta riempita, agitata, tramutata.
— Poteva essa dire di avere amato veramente un altro uomo dopo di
lui? — No, mai! — Poteva dire d’averlo dimenticato? — No, mai! —
Alla tenerezza infinita e alla stima e alla fede senza limiti, erano
poi succeduti il disprezzo, l’orrore e un risentimento profondo per
l’indegna offesa. A tutto questo ella aveva dato il nome di odio....
Ma che odio, gran Dio!... Bastava che udisse pronunziare il suo nome
perchè il cuore le battesse più frequente; e si sentiva correre il
sangue alla testa; e diventava rossa, poi smorta; talchè la famiglia e
gli amici avevano dovuto imporsi il riguardo di non nominarlo mai in
sua presenza.... Ma bastava per lei che ricorressero certe date, che
passasse da certe strade, che udisse nominare certi luoghi....

Al teatro specialmente, nelle più brillanti serate della stagione
d’autunno, l’anima sua si sentiva come tutta innondata da quella
evocazione triste, cara, inestinguibile.... Le pareva sempre di vedere
aprire il palchetto, entrare suo zio e presentare alla madre il conte
Alberto D*** laureatosi l’anno innanzi e tornato allora di Romagna per
darsi alla pratica d’avvocato. Perchè essa, guardandolo, aveva subito
trasalito?... Quando, al momento della partenza, il giovine s’inchinò
fissandola negli occhi e le strinse forte la mano, a lei parve di
sentirsi presa e posseduta per sempre da quell’uomo fatale!...


Il respiro del suo compagno di viaggio continuava regolare come prima.
La donna, maggiormente assicurata, rimosse un poco il ventaglio e
guardò....

Come era andato a male!... Poteva avere tutt’al più trent’anni; e
lì, sotto la luce giallognola della lampada, in quella posa stanca e
disagiata, con quei capelli cadenti sulla faccia, con quella bocca
aperta e quel respirare faticoso, faceva l’effetto d’un omaccione
attempato.

A lei più volte erano giunte notizie della vita d’Alberto. Dopo
il suo tradimento, dopo la sua fuga improvvisa con la attrice B*** —
che colpo di fulmine per lei il giorno che glie lo annunziarono; e
quante lagrime appresso! — egli era andato sempre di male in peggio.
Dissipatore, giocatore, vizioso in tutti i sensi. Oramai la sua non
grande fortuna era consumata; e s’era anche parlato della sua fuga per
debiti. Essa ascoltava quelle brutte voci e non rispondeva. Avrebbe
voluto compiacersene. Però dentro le nasceva il dubbio che tali notizie
fossero per lo meno esagerate dalla malevolenza e dal pietoso proposito
di renderglielo sempre più spregevole e levarglielo una buona volta dal
cuore. Quel dubbio essa, senza volerlo, lo coltivava e lo accarezzava
molto più del bisogno.... Ma adesso, guardandolo così deteriorato e
invecchiato innanzi tempo, trovava come una conferma alle male voci
dette sul conto suo.... Che differenza! Che trasformazione!... E in
quel grosso uomo che dormiva vicino a lei, essa correva con la mente
a cercare il giovinetto fresco, gentile, ornato di bella coltura,
squisito nelle maniere e pieno, a sentirlo, di nobili idee, che
essa un tempo aveva tanto ammirato.... Gli risuonavano nella memoria
alcuni versi appassionati d’Alfredo del Musset che una sera d’estate,
nel giardino della villa, mentre scintillavano le stelle, Alberto
le aveva mormorato con la sua bella voce. E lo vedeva ancora in un
costume elegantissimo, sopra un bel cavallo baio, come era arrivato
improvvisamente una mattina a colazione, invitato in villa dal padre,
a insaputa di lei.... Essa non aveva potuto trattenersi dall’andargli
incontro fino al cancello;... e vedeva ancora il largo gesto con cui
egli si levò il cappello a salutarla e il vivo sorriso delle labbra e
degli occhi con cui la ringraziò d’essere venuta ad incontrarlo....

Nasceva in lei un curioso fenomeno. Dei momenti le pareva che si
trattasse di due individui fra loro opposti e impossibili a essere
confusi. Ma poi un guizzo di tutti i suoi nervi, un tuffo di tutto il
suo sangue, le smorzavano quella illusione e la avvertivano che era
ben questione di uno solo e identico uomo.... Allora anche si ricordava
che, da un istante all’altro, quell’uomo poteva destarsi e riconoscerla
e chiamarla per nome!...


Durante tutti questi pensieri, il treno s’era fermato a Faenza ed
aveva proceduto oltre, senza ch’ella vi badasse. Ma adesso il treno
rallentava e fischiava di nuovo. Capì che s’avvicinava alla stazione
di Castel Bolognese; e la tema di prima la riassalì e la turbò più
fortemente.... Come era possibile che in quella lunga fermata, mentre
tutti gli impiegati gridano a squarciagola il cambio del treno per
Ravenna e spalancano tutti gli sportelli, Alberto non si svegliasse?...
E se entrava qualche viaggiatore nello scompartimento?

Non ci fu nemmeno bisogno di tutto questo. Mentre il treno entrava
nella stazione, il dormiente cominciò a nicchiare, a muoversi, a
stirare le membra. Poi con un movimento risoluto si mise a sedere
strofinandosi gli occhi colle mani; poi lasciò cadere le braccia e
stette un poco immobile; poi si levò e andò allo sportello, dal quale
subito si ritrasse come uomo assicurato che quella non era la stazione
d’arrivo per lui.... E senza guardare altro, si buttò di nuovo sopra
i suoi cuscini, vi si riadagiò con la faccia voltata verso l’assito
divisorio dello scompartimento; e di lì a poco si mise a respirare
grosso e misurato come prima.

Nei due minuti che durò questa faccenda, la giovane signora, invece
di restringersi nel suo angolo e cuoprirsi col ventaglio, seguitò a
guardarlo con gli occhi spalancati e immobili.... Era dominata da un
fascino più forte della sua volontà....

Che singolare cosa era mai succeduta!... Tolta da quello sdraiamento
volgare e sciolta per un momento quella espressione di torpore bruto
che suol dare il dormire faticoso in ferrovia, la figura e la faccia
d’Alberto si erano, come per incanto, rinobilitate e ringiovanite.
Ella, in sostanza, rivide il giovane gentiluomo che aveva tanto
amato.... Un’onda di tenerezza la invase; la vinse quasi un bisogno
prepotente di volgersi essa a lui, di svegliarlo chiamandolo, di
sentire anche una volta il suono della sua voce.... Le fu d’uopo di
uno sforzo immenso e di correre con la mente a suo marito buono e al
suo bambino che l’attendevano a casa e che erano forse inquieti di non
vederla tornata a così tarda ora!

Volle e potè contenersi. Quella non era che una visione effimera della
sua giovinezza, che splendeva un momento dinanzi a lei. Bisognava
lasciarla passare; la ragione e il dovere lo comandavano.... Ma ciò
che nè il dovere nè la ragione poterono impedire, fu una effusione di
immensa bontà che sgorgò dal suo cuore giovanile e femmineo e andò
a posarsi su quell’addormentato.... Sì, essa gli perdonava tutto il
male che le aveva fatto, gli augurava con tutta l’anima ogni bene;
e sopratutto gli augurava di ritornare buono, come essa lo aveva
giudicato un tempo, buono come egli, certo, doveva essere stato in quei
lontani giorni quando l’amore li aveva uniti nei teneri entusiasmi, nei
sogni, nelle speranze.... Essa formava questi pensieri con la faccia
soave rivolta verso Alberto; e due lagrime le rigavano dolcemente la
faccia....


Intanto il treno entrava nella stazione d’Imola. Era già di notte
ed essa vide una lista di luce posare improvvisamente sulla testa
immobile, sull’orecchio e sul collo di Alberto.... Ebbe ancora un
brivido per tutta la persona, rizzandosi in piedi....

Al momento di scendere, vide che sarebbe stata costretta a passargli
vicina; ma non ebbe nè incertezza nè paura. Il cuore però batteva
fortissimo; le mani tremavano in modo che, nel mentre che passava quasi
strisciando presso quel corpo lungo disteso, due delle rosine bianche
si staccarono dal mazzo tormentato e caddero, sfogliandosi, sulle gambe
e sugli stivali d’Alberto.... Ella non se ne avvide e discese in un
lampo, lasciando lo sportello aperto. Alberto, ferito alla nuca da una
corrente di aria fredda, s’alzò di soprassalto, abbrancò lo sportello
e lo tirò a sè, sbattendolo con violenza e borbottando con voce rauca e
stizzita: — Contadini!...




FILOMELA.


— Die Nachtigall.... _il gallo della notte_! È egli possibile
immaginare un nome più disadatto e prosaico di questo dato dalla lingua
tedesca all’usignuolo? Rozza, brutta, ridicola parola....

E forse Ottone avrebbe durato un pezzo ad inveire, non so se a torto
o a ragione; ma intanto c’eravamo già messi per il viale tortuoso e
angusto del boschetto. Io gli feci cenno di star zitto e ci fermammo ad
ascoltare.

L’usignuolo era a poca distanza da noi. Non so se posato sopra la
frasca d’un giovine tiglio o se, più probabilmente, nascosto nel
folto di una vecchia acacia capitozza, che ergeva la testa raccolta e
densa, a cui i raggi della luna davano una tinta fra il lattiginoso e
l’argenteo. L’usignuolo cantava nel gran silenzio.

Poco prima avevamo udito alla chiesa di San Martino suonare le due
dopo mezzanotte; nella Piazza d’armi non s’era incontrata anima viva;
nessuno girando il gran viale rotondo della Montagnola; e ora lì,
circondati ogni intorno dagli alti cespugli del boschetto, nè vedendo
altro che il cielo stellato sopra di noi, provavamo tutti e due un
senso di isolamento e di calma perfetta, come se ci fossimo trovati
a quell’ora nella solitudine di un bosco sull’Appennino a cinquanta
miglia da Bologna.

L’usignuolo cantava; e ci era, ripeto, tanto vicino che, senza vederlo,
udivamo a quando a quando il leggero fruscìo delle foglie mosse da lui.
L’aria immobile era tutta piena del suo canto, e il silenzio profondo
pareva un silenzio d’ascoltazione, secondo l’idea degli antichi poeti
che immaginavano i venti sospesi e gli alberi e le rupi intente ad
ascoltare qualche suono grato e sacro.

Io pensavo a questo proposito: — Perchè i poeti antichi, da Esiodo a
Virgilio, descrivono sempre il canto dell’usignuolo flebile e quasi
piagnucoloso?... A noi invece, avvezzi alle querimonie della poesia
moderna, a noi coll’orecchie piene de’ piagnistei della nuova musica
melodrammatica, e anche, ohimè! delle _romanze_ da camera, il canto
dell’usignuolo, con la mobilità e prestezza cromatica che lo distingue,
fa provare un senso di dolcezza calma, temperata, quasi allegra.

È la gran legge della progressione che signoreggia tutte le nostre
sensazioni, massime se vi entra l’arte e massime se quest’arte è la
musica. Un coro infernale nell’_Orfeo_ di Gluk parve nel secolo passato
l’ultimo segno della terribilità espressa con voci e suoni. Ponete
adesso quel coro in mezzo a quelli, per esempio, del _gran finale_
della _Regina di Saba_, e farà l’effetto d’un lamento moderato e
sommesso....


Pensavo all’usignuolo, e sono cascato a parlar d’arte. Che salto enorme
coll’apparenza di un passo agevole! In arte le forme si inseguono, si
raggiungono, s’urtano e si soverchiano in una corsa infaticabile. Non
solamente ogni scuola ed ogni maniera ha il suo breve tempo d’auge e
di dominio; anche ogni singolo artista ha spesso nella sua vita più
atteggiamenti d’ingegno e più stili, che rubano talvolta al pubblico
un suffragio esclusivo ed intollerante. A vedere la energia degli
assensi che esso riscuote d’ogni parte, direste che finalmente egli sia
giunto ad una meta stabile. Sì davvero!... Ripassate fra qualche anno e
vedrete quel che rimane dell’opera e delle ammirazioni.

Arrivati poi al termine d’un periodo storico, il pubblico e i critici
si voltano indietro, provando a tirare la somma. Ma se vogliamo essere
schietti innanzi alla nostra e all’altrui vanità, dobbiamo confessare
che del molto lavoro fatto ciò che rimane di vitale e di perenne è
ben piccola cosa. La più parte della suppellettile artistica somiglia
a un magazzino d’abiti smessi o alla raccolta delle incisioni d’un
giornale di mode. Come paiono goffe e sgraziate quelle fogge che, viste
cogli occhi d’una volta, raddoppiavano la prestanza degli uomini e la
seduzione delle donne eleganti!

Fui qualche anno fa a Milano, poco dopo la morte del povero C.... Il
fervore della sua pittura era al colmo. Un critico che, pur facendo
di cappello all’ingegno del pittore, volle mettere una nota sorda
in quel coro di lodi, fu a un pelo d’essere lapidato. Intanto un
giovine poeta cantava in metro lirico l’apoteosi dei toni gialli e
rossi, paragonandoli, se ben mi ricordo, a dei cavalli scalpitanti
in guerra. Si giunse perfino ad escogitare uno speciale sistema di
ottica soggettiva per giustificare certe tinte particolari al C...
non riscontrabili, da noi coi nostri poveri occhi, in natura, e tutto
quell’indefinito e sfumato e nebbioso ch’egli metteva nei piani e nei
contorni. Passando poi dalla esecuzione ai concetti e agli intendimenti
del pittore, l’estro della esegesi non aveva più limiti. Per esempio
quei due che si stringevano le mani con passione non erano solo due
amanti; erano anche due cugini. Si capiva, o almeno si era obbligati a
capirlo, guardando alla espressione finissimamente cuginesca messa nei
due volti dal pittore....

Io partii da quella esposizione intronato e confuso per tutta quella
critica mirabolana e, come accade spesso, repugnandomi il decidere con
una affermazione secca, se ero io che non capivo od essi i panegiristi
che passavano il segno, mi acconciai alla sospensiva, dicendo fra me e
me: Vedremo!

E non ho avuto bisogno d’aspettare un pezzo. Li abbiamo veduti dopo a
Torino e altrove gli ultimi riflessi di quella tanto celebrata pittura,
inavvertiti e confusi in mezzo ai quadri della mostra. Un milanese
che era meco, appassionato e schietto cultore dell’arte, non sapeva
riaversi dalla sorpresa....


E questa è storia che dura e si ripete fino dal tempo in cui l’arte
principiò ad essere una forma della vita. La distanza dei secoli
avvicina e confonde i fatti; ma ciò che avviene ora sotto i nostri
occhi è avvenuto sempre più o meno. Adesso anzi i trapassi sono
più rapidi, perchè la vita moderna corre più inquieta e cupida alla
cerca del nuovo e del diverso; e la mole enorme delle impressioni
d’arte, accumulate nel cervello di noi moderni, rende più frequenti le
combinazioni eclettiche e le parvenze di novità, che un soffio compone
e un altro discompone. Intanto par d’essere nel regno della ballata
tedesca: _I morti corrono!_

Quante fronti che ieri nell’arringo dell’arte si ergevano con piglio
trionfale, vanno oggi crucciate e dimesse! E ai trionfatori d’oggi
quale sorte è serbata domani?


Fortunato l’usignuolo! Il suo canto invariato passò i secoli, arrivando
sempre dolce e gradito all’orecchio degli ascoltatori.

“Tu sei giunto, o pellegrino, su questo sacro colle fiorente d’ulivi e
alimentatore di cavalli. Di qui s’ode l’usignuolo soavemente lamentarsi
nelle valli ombrose....„ Sono passate migliaia d’anni dal giorno in
cui i vecchi di Colono con queste parole salutavano Edipo cieco e
ramingo. Altre migliaia di anni passeranno ancora; ma avverrà sempre
che una semplice progressione di note flautate e un rapido gorgheggio
fermino di notte a mezza strada il viandante, immemore dell’ora tarda,
o chiamino rapidamente alla finestra la fanciulla mezzo spogliata,
incurante della umida brezza notturna. Frattanto intere cataste
d’istrumenti musicali inventati dall’uomo hanno avuto tempo d’andare
in disuso. Che n’è delle note che placarono Saul? Che n’è delle patrie
canzoni che fecero piangere Attila di tenerezza? E delle melodie di
Casella che innamorarono Dante Alighieri!... E tutti gli strumenti che
inventava e faceva inventare il cardinale Ippolito d’Este dove sono
andati?...

L’usignuolo nel silenzio ascoltante della natura seguita ad essere il
cantore prediletto della foresta; e non vi ha dotto poeta che non fosse
pronto a dare tutto il suo greco e tutto il suo latino, per tradurre in
una strofa sola quello che egli dice alla notte e alla luna. E se noi
potessimo penetrare la intima essenza delle cose, credo che scopriremmo
non essere governata da diversa legge la effusione di bellezza, che
durevolmente ci viene dalle grandi opere d’arte.

Di fatti, raccogliendo bene nel fondo dell’anima nostra ciò che
proprio costituisce la singolare potenza di ogni grande artista (per
esempio un poeta come Omero, un pittore come Raffaele e un melodista
come Bellini) e a poco a poco eliminando tutto quello che è in lui
di generico, di collettivo ed impersonale, all’ultimo che rimane? Un
_incognito indistinto_ che non troviamo parole ad esprimere e che
vagamente vorremmo significare con un gesto della mano, una mossa
degli occhi, una esclamazione.... Salirono le alte cime dell’ideale,
scrutarono con penetrazione insolita il libro della natura e furono a
ragione salutati grandi. Ma l’argomento della loro grandezza è tutto in
un dato semplicissimo; il quale consiste nell’aver essi fatta vibrare
una nota nuova nell’ime corde del nostro essere e con quella generato
in noi una nuova sensazione della vita. Nel linguaggio dell’arte potrà
poi chiamarsi la “sensazione omerica„ la “sensazione raffaellesca„ la
“sensazione belliniana„. E questa piccola frase sarà alle loro glorie
monumento assai più durevole di quello in marmo e in bronzo eretti loro
dai mecenati e dai popoli.

Fuori di questo circolo misterioso, abbiamo la mediocrità, fin che
volete aurea e festeggiata: dei quadri che durano a piacere dieci anni,
delle _arie_ che per dieci mesi fanno la delizia di tutte le platee,
e dei poeti che sono alla moda per una stagione di bagni. Fortunato
l’usignuolo!...


Che è?... Io e l’amico dobbiamo a un tratto mutare l’ascoltazione
piacevole in un vero rapimento. Non ci eravamo ancora accorti del primo
sorgere dell’alba; ma egli l’usignuolo dalla sua frasca aveva certo
veduto comparire all’orizzonte le prime tinte rosate e crocee, sfumanti
nell’azzurro perlato del cielo.... E salutava il giorno nascente. Non
eran più le note sospirose e i tenui trilli soavemente modulati, ma un
impeto di canto meraviglioso, ora disteso, ora fiorito, con gorgheggi
a salti, a scale, a note picchettate, con passaggi nuovi, strani,
inattesi, con volate di un ardimento e d’un lirismo ineffabile....
Si sarebbe detto che l’usignuolo voleva epilogare il suo lungo canto
notturno, gittando incontro a la bella aurora uno sprazzo di rugiada
melodiosa. Difatti dopo breve tempo l’uccellino cessò a un punto il
canto e volò via.

O nobili amanti di Verona, voi eravate molto inesperti del linguaggio
degli uccelli! La povera allodola deve a voi gratitudine eterna, perchè
prendeste argomento a un dolce indugio d’amore dal confondere il suo
canto con quello dell’usignuolo....

Ma forse i due innamorati giovinetti non erano pienamente in buona
fede; e s’attaccarono a quel dubbio per delle ragioni scusabili ed
invidiabili.




IN REPUBBLICA.


È il primo d’aprile. Noi diamo le spalle a Rimini e all’Adriatico; la
vettura corre rapidissima traverso i campi, verso la montagna, per una
larga strada fiancheggiata da alte siepi che verdeggiano e fioriscono
allegramente, luccicando di rugiada.

Il sole è già sorto da mezz’ora sui monti d’Albania e si specchia
nelle acque del mare. Pare esultante dei propri splendori e della vita
primaverile che sveglia e sollecita per tutto sulla terra. Io, senza
volgermi e fissarlo, ma guardando innanzi a me la campagna bellissima,
lo apostrofo con molta confidenza: chi sa quanti _pesci d’aprile_
illuminerai tu oggi, o vecchio sole!

Questa idea mi mette addosso una specie d’allegria infantile. — A buon
conto, io metto quattro lunghe ore di via montuosa fra me e il mio
caro mondo civilizzato. Addio dunque, _salons polis, hommes polis,
dames polies!_... Adesso io m’incammino verso le alte cime dei monti
e m’arride l’idea di visitare un ultimo rifugio della semplicità
antica....

Intanto levo gli occhi alla meta del mio viaggio, al monte Titano, sede
della città di San Marino, capitale della serenissima repubblica dello
stesso nome.


_Conveniunt rebus nomina._ Chi, viaggiando in ferrovia tra Cesena
e Rimini, guarda verso mezzodì la catena dell’Appennino, ferma
naturalmente l’occhio sovra questo enorme sasso bruno, diroccato,
torreggiante per un gran tratto colle sue tre creste superbe sulle
cime minori. Ed esso richiama davvero alla mente l’idea d’un gigante
favoloso, che un tempo si levò in lotta coll’Onnipotente e ora, tutto
solcato dalle folgori, vinto più che domo, sta adagiato lassù da secoli
a guardare, a sfidare sempre il cielo col piglio di un Capaneo.

La strada, dopo alcune miglia, comincia a salire; poi l’erta a breve
andare diventa così ripida, che i cavalli non bastano più. S’aggiunge
alla vettura la forza dei bovi; e malgrado il poderoso aiuto si va su
lenti lenti, guadagnando la montagna a oncia a oncia. Intanto che si
sale, il monte Titano vi pare vicinissimo. È lì, proprio a pochi passi
da voi; lanciando un sasso vi pare che arriverebbe alla cima. Come va
dunque che per due lunghe ore non par quasi di procedere innanzi, come
se vi moveste a passi di tartaruga? Questa lunga e tediosa illusione è
prodotta dall’immenso _zig-zag_ ad angoli vicinissimi, che la strada è
costretta a disegnare sul dorso del monte, per aver l’onore d’essere
carrozzabile. Io inganno il tempo guardando la collina intorno assai
bene coltivata; coi peschi e i mandorli tutti in fiore, i grossi
quercioni coi rami ancora ignudi, gli ulivi e i lecci spiccanti,
in contrasto, per il verde pallido e per il verde cupo delle foglie
perenni.

Guardo e chiacchiero con due miei compagni di viaggio.

Il primo è un forlivese; amico intimo del celebre baritono Cotogni,
un tempo baritono anche esso. Ora è uomo d’affari noto a Bologna e
per tutta Romagna. È il più dilettevole compagno di viaggio che si
possa desiderare da un musicomane. Perchè, quando ogni argomento di
chiacchiere è esaurito, e le ore della ferrovia si succedono lente
e uggiose, e il sonno promette sempre di venire e non viene, allora
l’amico ex cantante trae fuori dal ricco repertorio de’ suoi ricordi
teatrali una parte di basso o baritono a vostra scelta, dal vecchio
_Faliero_ di Donizetti al _Mefistofele_ di Boito. E con una mezza voce
intonata e gradevole, comincia a cantarvela tutta da cima a fondo,
senza saltare una battuta, senza sbagliare una nota, accennando per
giunta il canto delle altre parti e gli intermezzi orchestrali.

L’altro mio compagno di salita, che è anche nostro ospite, è il conte
Bartolomeo Manzoni-Borghesi, figlio al celebre bibliografo di Lugo,
erede del nome e delle sostanze del sommo archeologo di Savignano. È
un giovane molto simpatico, e ricco di quella cultura soda, a fondo
schiettamente classico, che fu un tempo così frequente nelle buone
famiglie di Romagna ed oggi, s’intende, quasi del tutto perduta.
Egli ama con passione due cose: la caccia e le medaglie antiche.
L’acquisto fatto il giorno innanzi d’una moneta rara dell’imperatore
Pertinace accresceva il suon buon umore ed era tutto lieto d’andare ad
aggiungerla al famoso medagliere che ereditò dal Borghesi....

Siamo oramai alla meta. Ecco il Borgo, un allegro e grazioso paese, che
si adagia molto pittorescamente sovra un ultimo ripiano, il quale gira
d’una zona aspra e brulla l’ultima e ripidissima cima del Titano.

Si staccano i bovi; ed i cavalli, da soli e da bravi, fanno l’ultima
salita in una stupenda strada a rampe, costeggiante l’abisso. Il
cocchiere li incalza colla frusta e colle grida. Subitamente le
quattro ruote della vettura rumoreggiano sul duro ciottolato; ed eccoci
trasportati in mezzo alla capitale della Serenissima. Evviva!


Oggi è un giorno di festa magna per tutti i Sammarinesi. I due Capitani
Reggenti a nome del Consiglio Principe, dopo i sei mesi d’uso,
depongono il supremo comando esecutivo nelle mani, o, a parlar più
testuale, “sul collo„ dei loro due successori.

Noi arriviamo appunto quando la solenne cerimonia sta per cominciare.
Sul _Pianello_ (che è la maggior piazza della capitale) è adunata
molta gente in abiti festivi, che attende davanti al palazzo d’udienza
i vecchi ed i nuovi magistrati. Io osservo intanto in mezzo alla
piccola piazza un alto piedestallo di marmo, abbastanza bello
nella sua forma semplice; e imparo che sovr’esso verrà fra breve
inaugurata una statua alla _Libertà_. Donde verrà la statua, e chi n’è
l’autore? I Sammarinesi non sanno più che tanto. Una signora russa,
letificata dalla repubblica col titolo di duchessa di Mongiardino
(una città di provincia), ha ricambiato il magnifico dono con una
bella somma di denaro e la promessa di quella statua per giunta. A
quest’ora, probabilmente, la figliuola d’un mercante d’olio di balena
in Finlandia, scorre per le capitali d’Europa facendosi salutare e
inchinare duchessa in nome d’una repubblica.... E i liberi cittadini
del Titano aspettano la statua della Libertà.

Attenti!... Dalla parte del Palazzo d’Udienza esce a far mostra de’
suoi brillanti uniformi il drappello delle guardie del Consiglio
Principe; e si schiera ad attendere i Consoli. I quali poco appresso
escono anch’essi attorniati dai maggiori ufficiali dello Stato, e
s’incamminano verso la chiesa in processione lenta, sotto un cielo
azzurro e splendido, accompagnati dal popolo che si profonde in atto
di rispetto, con dietro la banda che suona una allegra marcia, mentre
tutte le campane suonano a festa, e più d’alto, dalla somma Rocca del
Titano, s’odono, a giusti intervalli, gli scoppi de’ mortari ripetuti
intorno lungamente dagli echi solenni del monte e della vallata.

In chiesa la cerimonia è breve e semplicissima, perchè si limita a una
messa _bassa_, detta con edificante rapidità da un prete dabbene; più
qualche _oremus_ di circostanza. L’altare è parato a festa, e intorno
al ciborio brilla in grandi lettere il motto di San Paolo: _Voi siete
nati per vivere liberi_.

Durante la cerimonia, io osservo i quattro magistrati che vi assistono
gravi, silenziosi, ora in piedi, ora in ginocchio, davanti a uno
sgabello parato in rosso per la circostanza. I due nuovi, malgrado che
vestano uno stesso costume, che ha dello spagnuolo e del fiammingo,
mostrano visibilmente al tipo che uno è tratto dal patriziato,
uno di famiglia popolare. Non dirò quale dei due tipi sia meglio
rappresentato; ma so che, guardando a quelle due teste nè altere nè
umili, senza piglio dittatorio nè lampi di genio, io, a tutto loro
elogio, volgevo in mente un epigramma di Platen composto dal poeta
tedesco mentre assisteva, non ricordo in che anno, a questa istessa
solennità.

“Quando entrai nella chiesa vi si eleggevano i Consoli dell’anno, come
impone l’usanza. Veramente essi erano una copia paesana, e non Cato e
non Cesare. Ma promettevano al popolo ancora un anno di pace.„

Il più importante della cerimonia, cioè la consegna del potere, si
compie poi nella grande sala del Consiglio Principe.

Un professore delle scuole pubbliche legge un discorso, il quale
disserta, al solito, su qualche argomento di buon governo, e che i
buoni magistrati ascoltano senza pensare (almeno sembra) alla risposta
che diede Annibale a quel retore che l’intrattenne per due ore sul modo
di vincere le battaglie....

Giunge infine il momento solenne. I due vecchi Consoli si levano dal
collo il gran collare di San Marino e lo appendono a quello dei nuovi.
Il segretario _prende atto_ d’ogni cosa, e il trapasso dei poteri è
un fatto compiuto; il governo della repubblica per altri sei mesi è
affidato a mani sicure.

Bande, campane e mortai ripetono i saluti festivi, il popolo inchina
al passaggio i nuovi suoi reggitori; e ognuno va a pranzo, che già il
tocco è sonato.


Anche noi c’incamminiamo verso il pranzo, e andando si dà un’occhiata
intorno alla fisonomia del paese. Le vie strette e bistorte corrono
su e giù per il dosso del monte così erte, a pendii così bizzarri
e disuguali, che qua e là paiono scoscendimenti repentini avvenuti
per terremoto. Le case, d’esteriore spesso modestissimo, piantate
alla meglio su quei greppi di pietra arenaria, pare che s’addossino
penosamente l’una all’altra per paura di cadere. Diresti che la città
di San Marino siasi venuta formando via via per modo d’agglomerazione
fortuita, come il sasso enorme da cui è sorretta, il quale, nel tempo
dei tempi, si formò, dicono i geologi, per una formazione venti volte
millenaria di elementi corallini e calcari, lentissimamente emergendo
dai glauchi flutti del Mediterraneo.

La casa ove il nostro ospite ci accoglie, posta in uno dei luoghi
più eminenti della città, non ha nulla da invidiare ad un palazzo.
Visitiamo anzitutto il celebre medagliere di Borghesi: quarantamila
circa tra monete e medaglie consolari, imperiali, mediovali e del
Rinascimento, di cui moltissime in oro e argento. Che ricchezza
metallica, e soprattutto quale inestimabile tesoro archeologico! La
collezione completa delle monete consolari fu messa in ordine e tutta
illustrata dallo stesso Borghesi. Qual’è oggi sovrano o museo di Europa
per cui il fortunato possessore non debba essere oggetto d’invidia?

A pranzo (un pranzo ove specialmente si fanno onore i pesci
dell’Adriatico e i vini del Titano) il discorso s’aggira naturalmente
intorno a Bartolomeo Borghesi, il vero _genius loci_.

Quest’uomo portentoso, che tutta la dotta Europa salutò principe nella
epigrafia e nella numismatica, che Mommsen chiama maestro suo, che
Napoleone III volle onorare ordinando a proprie spese la stampa delle
sue opere, visse quassù gli ultimi trent’anni della vita, solitario co’
suoi libri, semplice, alla mano, ospitale.

Gli studi austerissimi non gli turbarono mai l’indole piacevole e
l’elegante urbanità della vita. Convitava assai volentieri alla sua
mensa, e là, al tramonto del sole, dopo essersi tutto il giorno
stillato il cervello sopra una lapide osca o sannita, lasciava
volentieri il freno all’umor gaio. A guisa di tanti altri uomini
illustri, da Catone a Beethoven, egli, a lungo e volentieri, _sedebat
et bibebat_; più contento d’un re, autorevole e modesto come un
patriarca.

L’amico ci ricordava più d’un aneddoto caratteristico della vita di
Borghesi. — Un giorno gli venne notizia che in una montagna presso
Ancona s’era scoperto un numero grandissimo di monete consolari.
L’archeologo andò sollecito sul luogo e comperò in blocco tutto il
tesoro ritrovato; poi scelse delle monete quelle che servivano ad
empire i vuoti della sua collezione.

— O che fece delle altre?

— Le mise in un crogiuolo e coll’argento fuso diede a fabbricare le
posate di cui ora ci serviamo mangiando....

Non si può negare che eravamo in pieno ambiente archeologico!


Dopo pranzato ci rechiamo a prendere il caffè sul vasto spianato
dinanzi alla casa, che il vecchio Borghesi volle ridotto ad orto
e giardino con terra portata sin lassù per coprire il nudo sasso,
a schiena di quadrupedi. Immaginate che difficoltà e che spesa! Ma
non per nulla la sua fantasia si aggirava di continuo in mezzo agli
ardimenti del mondo romano. Il parapetto del giardino gira proprio
sull’orlo dell’altissimo ciglione. Mi affacciai e rimasi incantato.

Non è il panorama di Napoli, nè quello di Genova e del Bosforo.
Non è “l’interminabile sorriso„ dei piani lombardi che da una balza
dell’Alpi si versava per gli occhi nell’anima all’esule di Berchet. È
uno spettacolo, un quadro di natura che ha un tipo tutto suo originale.
In faccia Rimini e l’Adriatico, vasta distesa d’acque biancheggianti,
rotte qua e là da lunghe strisce di puro smeraldo. Lontano, in fondo
all’orizzonte, forse nubi trasparenti nella nebbia lievissima, forse
i contorni indecisi delle montagne di Dalmazia. Alla nostra destra la
punta d’Ancona col suo monte solitario; e girando più su l’occhio,
si scoprono di mano in mano le giogaie di San Vicino, la catena di
Carpegna, e più lontano, confuse nei vapori azzurrognoli, le cime
altissime di Cagli. A sinistra, la pineta di Ravenna nereggia laggiù,
verso il mare; e più presso è il superbo colle di Bertinoro, tutto
ridente di case e di vigneti.

Fra questi due confini si stende l’ampia vallata, che la Marrecchia
attraversa, camminando al mare col suo meandro serpeggiante e luminoso
sotto i raggi del sole.

Questa vallata veduta così dall’altezza del Titano, ha un aspetto
d’austera grandiosità, che in quell’ora, in quel silenzio, metteva
nell’anima una tristezza sublime. Le colline, che digradando la
fiancheggiano, di colore ferrigno e in apparenza incolte, paiono di
lassù colossali rigonfiamenti di terreno, i cui vertici, da un momento
all’altro, debbano aprirsi, tonando e fumando, in crateri di vulcani.


Dall’aspetto di questi luoghi la mente corre alla loro storia, e
coglie una somiglianza, forse fantastica, ma viva e potente. Sì,
questi sono davvero i campi, questo il teatro, ove doveva addensarsi
e agitarsi una gente fiera, indomita e generosa, così ben ritratta
negli storici latini e nelle cronache del medio evo: una gente in cui
la natura adunò molti dei più nobili istinti della stirpe italica, ma
che ereditò, forse più che ogni altra della famiglia, anche il difetto
d’un ideale storico mal definito, e consumò sovente sè stessa in feroci
inquietudini, in lotte accanite e infeconde....


Gli amici mi tolgono alle mie divagazioni, chè la giornata è ormai
al suo termine. Saliamo in fretta a visitare la vecchia Rocca della
Repubblica, messa ad uso di prigione. Una fortezza senza cannoni, e
delle carceri senza un solo prigioniero!... Una visita facciamo anche
alla biblioteca, che è a un tempo pinacoteca, museo, armeria e raccolta
d’ogni oggetto notevole ora posseduto dalla Repubblica. Tra le cose
d’arte ammiriamo un bassorilievo in bronzo di fare michelangiolesco,
una tavola di Giulio Romano e un San Sebastiano, bellissimo nudo
fieramente spiccato in contrasto di luce e d’ombra. Lo dicono di Ribera
e non sarebbe opera indegna del Velasquez.

Il sole si cela dietro la bruna rocca di San Leo, ove Cagliostro finì,
espiando e sempre tramando di fuggire, la sua vita piena di avventure
più e meno pulite. Noi discendiamo rapidamente verso Rimini. I lumi del
tramonto colorano ritirandosi or questa or quella cima di colle; e le
ombre gigantesche si estendono per la vallata innanzi a noi, mutando
con vicenda rapida e fantastica....




PRIMO PASSO.


Il mio primo passo verso la sacra montagna abitata dalle nove
Sorelle, fu un passo falso. Voglio ricordarlo in pubblico senza troppa
compunzione e umiltà, ma anche senza vanteria.

S’era nel 1860 ed io facevo il mio primo anno di legge alla Università
di Bologna. È ancora ben vivo il ricordo di quei tempi. L’atmosfera
era calda di patriottismo e la politica entrava per tutto. In
piazza, bandiere e dimostrazioni all’ordine del giorno e anche della
notte: negli atrii della Università affollamenti di scolari, grida,
schiamazzi, discorsi e discorse.

La politica era anche montata in cattedra, massime nella facoltà di
giurisprudenza. Anzi aveva invaso i programmi d’insegnamento in modo
ch’ormai vi stava dentro da padrona. Quante volte s’entrava in iscuola
coll’idea di ascoltare, per esempio, una lezione di filosofia del
diritto, e il professore ci somministrava un focoso commento all’ultimo
discorso di Cavour o all’ultimo proclama di Garibaldi! E passi per
le lezioni di filosofia del diritto. Attesa la sconfinata ampiezza
della materia, le affinità cogli argomenti politici del tempo potevano
essere o parere meno stiracchiate; ma gli è che anche i professori
che trattavano le materie più esatte del giure, non escluse quelle di
diritto canonico, non sapevano resistere alla tentazione; e di botto,
nel bel mezzo di una trattazione aridamente metodica, uscivano con
allusioni ed apostrofi agli avvenimenti, agli uomini, ai timori, alle
speranze che in quel giorno tenevano più occupata l’attenzione del
pubblico.

S’intendeva acqua ma non tempesta! Noi studenti, dopo aver continuato
un pezzo ad applaudire, si cominciò a mormorare. — Un po’ s’era
stanchi di sentirci sempre la stessa solfa negli orecchi, un po’
non ci pareva vero di pigliare un’aria d’emancipazione, censurando i
nostri insegnanti. Non andò molto tempo che nei nostri professori noi,
colla nostra fantasia critica, già avevamo, per così dire, eliminato e
disfatto tutto quello che essi avevano di serio e d’autorevole; e non
restava dinanzi a noi che quella loro posa declamatoria, quello zelo
intempestivo d’apostolato politico che noi, nella nostra benevolenza,
confondevamo assai volentieri colla poca voglia di far lezione per
davvero e col ticchio di procacciarsi applausi a buon mercato.

Per tal modo nacque a poco a poco nel mio cervello il disegno d’una
satira. E mi sorrideva l’idea d’erigermi, io giovane scolaretto,
giudice e flagellatore dei miei togati insegnanti. Questo mi dava
un’aria fiera e ribelle che mi piaceva infinitamente.

Ma dal dire al fare c’è di mezzo il mare, dice il proverbio.
Probabilmente io mi sarei fermato a quel disegno astratto senza venir
mai a nulla di positivo; giacchè per nove decimi, lo sento ora con
amarezza, il lavoro dei miei anni migliori potrebbe paragonarsi ad una
serie lunghissima di tele di ragno appena incominciate e distrutte da
un colpo di vento. Volle però la mia buona o cattiva stella che in quel
tempo io ammalassi per una storta a un piede, che mi obbligava al letto
senza darmi nè febbre nè dolore troppo vivo.

Allora, in quell’ozio forzato, ripresi l’idea della mia satira; e in
breve l’ebbi condotta a termine. Non la riporto qui, un poco perchè
non me n’è restato nella memoria che qualche passo e non saprei ora
ove rivolgermi per averla intera, un poco ancora perchè, in tutta
confidenza, non credo che ne verrebbe incremento alla mia riputazione
letteraria.

Era composta di strofe di tre endecasillabi alla saffica, col quarto
verso quinario. La diressi al mio amico Luigi Adolfo Borgognoni e
cominciava:

    La scienza, Gigi mio, che disser morta
    Vive di vita disdegnosa e fiera;
    E suona da le cattedre di sorta
                           La cantafera,
    Che, per gli orecchi entrando entro il cervello,
    Desta furor di plausi e di baccani....

Poi venivano ad una ad una le figure dei professori del mio corso,
tutte in aspetto passabilmente buffo. — Allora, più che mai, le poesie
del Giusti facevano testo nell’Università; ed io col capo pieno
di quelle reminiscenze avevo impinzata la mia satira di emistichi
giustiani. Anzi, come suol sempre accadere, le frasi del Giusti sotto
le mie mani inesperte venivano svisate, gonfiate, contorte o messe male
a proposito. Ricordo questo: il Giusti per dire che un tale, mediocre
o piccolo, vuol scimmiottare un dato grand’uomo, lo chiama quel
grand’uomo _in sedicesimo_. Io per dare la berta a uno dei professori
che empiva i suoi discorsi di formule giobertiane lo chiamo: _Abortito
Gioberti in sessantesimo_. Vale a dire che, amplificando l’immagine,
la sciupo e la rendo impropria. — Anche nelle volatine liriche, con cui
tramezzo l’intonazione generale della satira, la reminiscenza giustiana
si fa sentire:

    Fame di gloria, a te la gente bassa
    Chiede pregando un genïal sorriso,
    Ma chi una volta t’ha veduto in viso,
                           Sorride e passa.

    Chi t’ha veduto della tua corona,
    Che tanta speme e tant’ansia accarezza,
    Cinger la vanità che par persona,
                           Passa e disprezza!

All’amico Borgognoni la mia satira non era spiaciuta in genere; ma
al suo gusto fine non erano sfuggite tutte quelle zeppe e quelle
imitazioni, e me le notò.


Intanto io, rimesso in salute, tornai a frequentare l’Università
dove, fino dal primo giorno, m’avvidi che qualche cosa di insolito
era accaduto in ordine alla mia persona. La mia satira, copiata già
a dozzine d’esemplari e sparsa fra la scolaresca, era stata gustata
moltissimo. Era un piccolo successo letterario o un successo di piccolo
scandalo? C’era da credere molto più al secondo che al primo. A ogni
modo, la mia satira faceva _furore_ quasi come la prima ballerina al
Comunale; ed io a un tratto mi trovai presso che celebre!

Ebbi dagli amici congratulazioni caldissime. Molti mi vollero
conoscere; e passando per l’atrio in mezzo alla folla degli studenti
che aspettavano l’ora della lezione o n’uscivano, io era additato e
accompagnato da quel mormorìo di cui tanto inorgogliva a’ suoi tempi il
poeta Marziale. Parlando di me si diceva: _quello della satira!_

Io ero contentone. Assaporavo quel po’ di gloriola con una grande
soddisfazione interna, abilmente dissimulata sotto una maschera
d’indifferenza. Non dimenticherò mai il fresco delizioso che mi sentii
scorrere su e giù per la spina dorsale, un giorno in cui, trovandomi
presso il caffè di San Pietro, notai un vecchio notaio da me conosciuto
di fama, il quale era tutto intento a leggere con aria di mistero ad un
suo amico un manoscritto.... Passandogli accanto sentii che leggeva a
bassa voce i miei versi....

Però di lì a qualche tempo tutta quella mia soddisfazione cominciò
a sbollire e a raffreddarsi fino a lasciar luogo a un senso di
malcontento sempre più vivo. Sentivo già anch’io l’_amari liquid_ di
cui parla Lucrezio, in mezzo al profumo dei fiori della gloria!

E pensavo fra me: — che ragione ho io avuto per pigliar a bersaglio
de’ miei dardi avvelenati (li credevo proprio dei dardi avvelenati)
tre o quattro individui che, oltre ad essere miei superiori e
maestri, avevano anche il merito d’essere tre persone da bene e
rispettabilissime? — Sotto gli allori spuntavano le spine de’ rimorsi;
le quali spine non dico che, come a Macbeth, mi facessero la notte da
guanciale e mi uccidessero il sonno; ma mi molestavano, mi rendevano
inquieto e poco contento di me.

Poi c’era un altro guaio: gli esami! — Con quel po’ po’ di rumore
che la mia satira aveva sollevato (anche qualche giornale aveva fatto
l’eco) non era credibile che i miei professori l’ignorassero; e nemmeno
sul suo vero autore potevano aver dubbio!... Io già me li immaginavo
crucciati, furibondi, anelanti vendetta; e dalla cattedra parecchie
volte m’era parso di cogliere qualche sguardo diretto sopra di me,
più fulmineo di quello con cui dal pulpito fra Cristoforo atterrì don
Rodrigo, nel famoso sogno....

Vidi dunque con una certa trepidazione avvicinarsi il giorno degli
esami. E la trepidazione si convertì in paura vera, al momento di
entrare nella temuta sala dinanzi ai giudici temuti; tanto più che mi
sentivo tutt’altro che invulnerabile sulle materie de’ miei quattro
corsi.... Ma quale fu l’animo mio quando vidi uno dopo l’altro i miei
professori rivolgermi la parola col più grazioso e incoraggiante
dei loro sorrisi, e farmi interrogazioni discretissime e, alla più
piccola mia titubanza, incoraggiarmi, sorreggermi, suggerirmi quasi
le risposte?... Arrivai alla fine della seduta sorpreso, stordito
e, in fondo, contentissimo; ma pieno di confusione pensando a quella
maledetta mia satira che avrei voluto aver lì fra le mie mani per farla
in mille pozzetti e gettarla sul tavolo, ostia di espiazione, sotto
il naso dei miei professori. Uno di essi (un bravo prete, celebre per
le sue distrazioni, per la sua smania di polemizzare clamorosamente
con tutti, anche coi bidelli e coi tavoleggianti dei caffè), finito
l’interrogatorio, spinse la bontà sua fino a stringermi la mano,
volgendomi parole d’elogio a cui gli altri assentirono.... Parola
d’onore io ero commosso! E fui sul punto di chiedere perdono, dinanzi
al pubblico, a quelle tre ottime paste di professori.

Non arrivai fino a questo e ora me ne dispiace. Giurai però allora
di non scrivere più satire personali; e ho mantenuto, credo, la mia
promessa.


  FINE.




INDICE.


  _Avvertenza_                 Pag. VII
  Primo ricordo                       1
  La mia unica traversata             9
  Dal taccuino d’un astemio          33
  Al “Lohengrin„                     45
  Ombra mesta                        59
  Coi sordini                        73
  Lorenzetta                         93
  Galatea                           111
  Ai piedi della Santa              129
  Povero Guermanetto!               151
  Infedeltà                         169
  Fra Ginepro                       205
  La statua                         217
  Occhi accusatori                  229
  Al di là della siepe              243
  Dopo dieci anni                   255
  In casa dell’amico                267
  Cantores                          283
  Evocazione                        295
  Filomela                          307
  In repubblica                     319
  Primo passo                       335




DEL MEDESIMO AUTORE:


  _Vittor Hugo_ poeta lirico (1885)                L. 2 50
  _Tolstoi e Manzoni nell’idea morale dell’arte_      2 50
    (nel volume di Tolstoi “Che cosa è l’Arte?„).





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK I MIEI RACCONTI ***


    

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