Medaglioni

By Enrico Nencioni

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Title: Medaglioni

Author: Enrico Nencioni

Release date: September 14, 2024 [eBook #74414]

Language: Italian

Original publication: Roma: A. Sommaruga e C, 1883

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MEDAGLIONI ***


                            ENRICO NENCIONI


                               MEDAGLIONI

                             _La Pompadour_
                     _La Du Barry — Sofia Arnould_
                  _Julie-Marianne — Giulia Lespinasse_
                       _La baronessa Di Krüdener_
                        _La contessa Guiccioli_
                     _Elisabetta Barrett Browning_
                          _La signora Carlyle_
                                _Rachel_

                              I.º MIGLIAIO



                                  ROMA
                    CASA EDITRICE A. SOMMARUGA E C.
                        _3, Via due Macelli, 3_
                                  1883




                          PROPRIETÀ LETTERARIA

        405 — Firenze, Tipografia dell’Arte della Stampa — 1883




PREFAZIONE


Occupato da varî anni a studiare e ritrarre il carattere e la fisonomia
artistica dei più notevoli moderni scrittori stranieri, mi è stato,
ogni tanto, grato riposo e sollievo, il fermarmi a disegnare un profilo
o a colorire un ritratto di donna: dieci dei quali studi raccolgo oggi
in questo volumetto.

Dalla nobile e casta figura di sposa della signora Carlyle, alla grazia
birichina di Sofia Arnould — dall’entusiasmo lirico di Elisabetta
Barrett Browning, ai capricci galanti della Du Barry — dalla passione
incurabile della Lespinasse, ai freddi calcoli della Pompadour —
dall’atteggiamento tragico della Rachel alla schietta naturalezza della
contessa Guiccioli — questa piccola collana di _Medaglioni_ offre
alcuni dei tipi femminili più caratteristici, e perciò più degni di
attenzione e di studio.

Ma vedendo ora qui tutt’e dieci queste donne raccolte a domicilio
coatto nello stesso volume, provo un sentimento curioso. Mi par che si
lagnino di trovarsi riunite insieme, come in un medesimo salotto, da un
padron di casa imprudente o malizioso....

La puritana Carlyle guarda d’alto in basso la povera Sofia Arnould,
che però non si sconcerta nè si sgomenta, e sogghignando sventola con
un enorme ventaglio di piume la sua _coiffure à la circonstance_. La
Browning si avvicina, piena di simpatia e di ansietà, alla pallida
Lespinasse, e ragionano insieme di amorose passioni e citano il nome
della Lesbia fanciulla. Ma la Du Barry si allontana, seccata, dicendo
col suo vezzoso _zezaiement_ di monella parigina: _ze ne sais pas
ce que c’est; ze n’y entends rien_.... La piccola e magra Rachel
volge il suo nero e profondo sguardo ebraico con aria di superbo
dispregio sulla Pompadour incipriata e voluttuosamente sdraiata in una
_chaise-longue_. La bionda baronessa di Krüdener, dopo avere lungamente
e inutilmente parlato di morale cristiana e di estasi mistiche alla
contessa Guiccioli, che l’ascolta distratta ripensando a lord Byron, si
ravvolge, mortificata, nella sua grande sciarpa di mussolina azzurra,
e solleva al cielo i suoi occhi di sonnambula illuminati da un pallido
raggio di sole polare.

Insomma, a eccezione di due, tutte queste amabili creature sarebbero
disposte a odiarsi e a evitarsi. Ma ormai le ho messe qui insieme — e
insieme staranno.

Se fanno un po’ di chiasso, non sarà male. Mostreranno così di
esser donne vive e vere, e non fantocci ripieni di stoppa, e che si
somigliano tutti.

  Firenze, 15 aprile del 1883.

                                                     ENRICO NENCIONI.




LA POMPADOUR


Aveva appena nove anni quando le fu predetto che sarebbe stata la
favorita del re di Francia. La madre, corrotta e galante, diceva
di lei ancor giovinetta, ed in sua presenza: _È un boccone da re._
La natura le aveva dato l’istinto della seduzione, il gusto innato
della _toelette_, il sentimento e l’amore dell’arte, una diabolica
vivacità parigina, l’orrore della noia, una grazia ineffabile ed
una rara bellezza: fisonomia espressiva, simpatica; occhi di un
colore misterioso, indefinibile, cupo-azzurri, dagli sguardi lenti,
irresistibili; magnifici capelli castagni; denti ammirabili; un sorriso
rallegrante su due labbra voluttuose di un roseo pallido. Jeliotte,
il famoso Jeliotte, le aveva insegnato il canto ed il cembalo;
Guidaubert, il re dei ballerini, la danza; Crébillon, la declamazione.
Disegnava, dipingeva, incideva. Cantava con passione, recitava con
brio. E quando da madamigella Poisson (ignobile nome che doveva
avvelenare i trionfi della futura marchesa, e seppellire per anni ed
anni nelle tenebre della Bastiglia quegli infelici che lo ripeterono in
velenosi _couplets_) essa diventò madame d’Etioles, grazie alle savie
precauzioni della previdente _maman_, tutte quelle armi d’Armida furono
adoprate per attirare, arrestare, incatenare il _cristianissimo_ e
annoiatissimo re di Francia.

                                   ❦

Nella foresta di Senart, ritrovo delle cacce reali, madame D’Etioles,
vestita di raso azzurro, mollemente sdraiata in un _phaéton_ color
di rosa, si offerse più volte agli sguardi di Luigi XV, passando e
ripassando fra i cavalli e i cani da caccia del re come una Diana
sorridente e affascinatrice.... Una sera di carnevale, al ballo per
le nozze del Delfino, un grazioso _domino_, dopo aver lungamente
_intrigato_ il re, sollevò la maschera e lasciò cadere il fazzoletto.
Il re, riconosciuta la misteriosa Diana, raccolse il fazzoletto e
lo lanciò ridendo dietro a lei che fuggiva. Poche sere dopo, ella
abitava al piccolo _entre-sol_ sulla camera stessa del re, trepidando,
simulando terrori per le gelosie del marito, giurando di aver sempre
amato e amare in Luigi l’uomo e non il monarca, sorridente e piangente,
insomma una vera _salsa-piccante_ per l’ottuso palato del monarca
libertino e annoiato. E che! dicevano i Condé, i Richelieu, questa
borghese, questa _robine qui n’est pas née_ sarà di fatto la regina
di Francia? Pur troppo: egli, che a far dispetti c’ingrassava, la fa
_nascere_ a modo suo, la mette pubblicamente sotto la sua protezione,
la onora, le dà palazzi e titolo, vuole che sia da tutti rispettata
la sua scelta sovrana, che tutti pieghino il ginocchio dinanzi alla
favorita, da lui creata _marchesa di Pompadour_. E così fu fatto....

                                   ❦

Fu come un risveglio generale, un destarsi da un lungo sonno in quella
corte di annoiati. Tutti, dal re al maggiordomo, vivevano nell’aria
mefitica del freddo libertinaggio, della stanchezza, della noia. «La
improba invitta necessità di consumar la vita» era la _tortura_ di quei
languenti: la Pompadour aprì una corrente d’aria vivificante in quel
limbo. Capì che per mantenersi arbitra del cuore di Luigi, bisognava
distrarlo continuamente, tener sempre desta e sempre appagata la sua
curiosità. La delicatezza e la varietà nei piaceri, la seduzione delle
sorprese, un rinnovamento continuo di _toelette_, di passatempi,
resero il gusto della vita a quei moribondi. Il capriccio diventò
la legge di corte, ed essa trasportava corte e re da Versailles a
Crécy, da Crécy a Bellevue, da Bellevue a Fontainebleau, con rapidi
viaggi e brevi soggiorni, inventando nuovi divertimenti in ogni nuova
dimora. Il _teatro dei piccoli appartamenti_ fu sua invenzione, e
fu il vero teatro dei suoi primi trionfi. Il re assisteva a tutte le
rappresentazioni. Il fiore della nobiltà componeva il _parterre_. La
Vallière, De Nivernois, De Croissy recitavano con madama di Pompadour.
Il re si divertiva, rideva, applaudiva; e una sera, incantato dalla
magia della voce e del sorriso di lei, le disse con accento di sincera
ammirazione: «Vous êtes la plus charmante femme qu’il y ait en France.»
E poteva dirlo davvero, abbagliato dalle continue metamorfosi di quella
sirena. Cantando e recitando, essa sfoggiava nel suo vestiario le più
graziose fantasie della moda, che spesso erano creazioni improvvisate
dal suo gusto parigino. Ora appariva in costume di pastorella, con
abito di _taffetas_ bianco guarnito di nastri azzurri (l’azzurro era
il colore preferito dalla marchesa) o colla veste procace color rosa
di Colin; ora da sultana splendida di _cachemires_ e di gemme, visione
abbagliante; ora da bella giardiniera, con un largo cappello di paglia
dai nastri celesti, con un vestito bianco ornato di roselline, e un
canestro di giacinti al braccio....

                                   ❦

Quale contrasto con la vita uniforme, regolare, monastica, della
povera regina Maria Leczinska! Alle torture della gelosia, alle lacrime
ardenti fattele versare dalla Nesle, dalla Châteauroux, era successa
in quella anima nobile e delicata, una cristiana rassegnazione,
una immolazione completa. Quali agonie non le aveva inflitto quel
codardissimo fra tutti i re! L’aveva ridotta a tale che essa scriveva
alla duchessa di Luynes: «Non mi son concessi nemmeno i più innocenti
piaceri della vita.» Quando Luigi si ammalò a Metz, e fu in pericolo, e
licenziò la Châteauroux, essa era accorsa al suo letto, apportandogli
intero il suo perdono e il suo amore. La conversione durò _due
settimane_.... La regina dovè ripartire, la favorita tornò gloriosa
e trionfante. Fu l’ultima mortificazione che trafiggesse quel nobile
cuore. Essa lo elevò al cielo, e lo rese invulnerabile. Ma la sua vita
ordinata ed ascetica era soggetto di scherni continui in quella corte
corrotta. Fino le sue cameriere si prendevano con lei delle libertà
che non avrebbero osato con una semplice dama. Quando la favorita
Châteauroux morì improvvisamente, la buona regina che credeva agli
spiriti, chiamò di notte una sua cameriera, e le disse: «Dio mio, se
quella povera Châteauroux mi apparisse! mi par sempre di vederla!» —
«Eh, madama, rispose la cameriera stizzita d’essere stata svegliata,
se quella signora tornasse stanotte in questo mondo, non sarebbe
Vostra Maestà che riceverebbe la sua prima visita.» I cortigiani e
le dame che dovevano per cerimonia esser presenti al suo pranzo, alle
sue passeggiate, lo riguardavano come una vera _corvée_, e regnava un
silenzio glaciale. Il Casanova ci ha descritto un pranzo della regina a
cui fu presente; durante tutto il quale, la conversazione si ridusse a
questo dialogo veramente spartano: «Monsieur de Lowendal!» — «Madame!»
— «Je crois que ce ragoût est une fricassée de poulets.» — «Je suis de
cet avis, madame.»

Uno dei pochi meriti (dico merito in senso puramente relativo) della
nuova favorita fu il suo delicato contegno in presenza della regina.
Le parlò sempre in atto di suddita, in tono di ossequio, non permise
mai che si facesse con lei la minima allusione irriverente alla
povera tradita. E questo sentimento, in donna pervertita dalla propria
madre, e corrotta fin dall’infanzia, fu pur qualche cosa; e dobbiamo
tenergliene conto.

                                   ❦

L’antica mademoiselle Poisson tornava ogni tanto a far capolino nella
nuova marchesa: la borghese si lasciava scappare delle parole, delle
espressioni, che erano malignamente sottolineate dalle vere dame.
Un giorno dirà, per esempio, _qu’on m’ôte cet engin de devant moi_,
a proposito di un cugino con cui era in collera; un altro, chiamerà
madame di Amblimont _mon torchon_. Son noti i due versi che Voltaire
le improvvisò all’orecchio quando, pranzando con lei, le sentì chiamar
_grassouillette_ una quaglia:

    _Grassouillette, entre nous, me semble un peu caillette_,
    _Je vous le dis tout bas, belle Pompadourette._

Adagio adagio, seppe imporsi a tutti e trionfare temuta. Ma quali
terrori continui, quanti sospetti, quante cure, quante fatiche morali,
quanti fisici strapazzi, per mantenersi trionfante! Altre celebri
favorite ebbero da fare con reali amanti o spensierati, o generosi, o
passionati: essa invece doveva lottare col più calcolato egoismo, col
cuore più arido e morto, simulare e dissimulare, occuparsi, per propria
difesa, della politica, per la quale non era fatta, lei nata artista,
e illuminare spesso col suo buon senso borghese le ottuse intelligenze
degli uomini di Stato che governavano allora la povera Francia.... Poi
venivano le torture dei sospetti, delle gelosie; vedeva per tutto una
rivale, sentiva già gli insulti che la fulminerebbero se cadeva dal
suo piedistallo. Come riderebbero le Coislin, le D’Argenson!... Poi si
spaventava del suo freddo temperamento, temeva che il re libertino si
disgustasse di lei, ricorreva a filtri micidiali, a erbe assassine, e
si rovinava la salute irreparabilmente per vincere le sue _froideurs de
macreuse_ come lui le chiamava....

                                   ❦

La vera gloria della Pompadour, — sua gloria e sua scusa — è il vivo
e costante amore per l’arte e le lettere, la sua ammirazione, la
sua intelligente e affettuosa protezione dei più insigni artisti e
scrittori contemporanei. Voltaire, D’Alembert, Diderot, Montesquieu,
Duclos, Crébillon, ebbero ripetute occasioni di esserle riconoscenti.
Tentò ogni modo di beneficare Jean-Jacques: ma egli, il solo filosofo
di buona fede tra quei mondani filosofi, evitò i beneficii. Si studiava
di eccitare nel re la nobile ambizione di protettore dei grandi
contemporanei, gli rammentava gli esempi di Augusto, di Francesco
I, di Luigi XIV.... Fiato sprecato. Egli la guardava col suo inerte
vitreo occhio di pesce, e sorridendo col suo glaciale sorriso di
vecchio libertino, le rispondeva: «Vorreste che gli invitassi tutti
a pranzo con me?» E ne citava i nomi, e li contava e concludeva:
«A dar retta a voi, _tout cela_ cenerebbe ogni sera con me....» —
«Ah, _tout cela_, Sire, non fu invitato a cena da voi,» ma essa era
istintivamente con loro. «Dans le fond de son cœur, elle était des
nôtres,» scriveva Voltaire a Duclos. Nell’_entre-sol_ della marchesa a
Versailles, si riunivano e discutevano colla massima libertà economisti
ed enciclopedisti. Vi pranzavano spesso Diderot, Quesnay, Helvétius,
Turgot; e _tout cela_ analizzava i mali, prevedeva le tempeste e faceva
dire alla Pompadour le memorabili parole, a torto attribuite ad altri:
_Après moi, le déluge!_

                                   ❦

Le belle arti non solo furon protette da lei, ma riceverono l’impronta
caratteristica del suo gusto elegante e decorativo. Ed era artista
lei stessa. Le sue _acque forti_ sono anche oggi pregiate e ammirate.
I resti della sua famosa biblioteca sono ricercati avidamente dai
bibliofili. Stampò, o aiutò a stampare, con le delicate sue mani, a
Versailles, una tragedia del gran Corneille. La manifattura di Sèvres
dovette a lei unicamente se le sue porcellane poterono gareggiare con
le meraviglie del Giappone. In questi _servizi_ di Sèvres, il _genere
Pompadour_ brilla di una grazia e di una eleganza uniche. Protesse
Vanloo, protesse Cochin, beneficò costantemente Boucher. A lei si
deve l’_Amore_ di Bouchardon, insigne capolavoro, a lei le pietre
incise di Gai. E tutte le grazie, tutto il gusto dell’epoca sembran
derivare da lei. Protesse le arti e gli artisti, non come orgogliosa
protettrice, ma come compagna; con passione più che con ambizione.
L’arte francese del suo tempo fu il suo rifugio e il suo conforto tra
i disgusti della favorita, e le noie e le apprensioni della politica.
Essa, la prima, combattè l’arte tradizionale e accademica, gli
eterni modelli greco-romani, e invitò e spinse pittori e scultori a
rappresentare la _vita contemporanea_. Essa, la prima, volle applicata
l’arte all’industria, e mise, per dir così, la sua _cifra_ a migliaia
d’oggetti d’uso e di lusso, mobili, letti, carrozze, ventagli,
astucci, orologi, _babioles_ d’ogni genere; cifra riconoscibile a prima
vista, di un _rococo_ elegante e voluttuoso, in una parola il _genere
pompadour_. Aveva dunque ragione Carlo Vanloo, quando durante l’ultima
malattia della marchesa, dipinse le Arti inginocchiate ai piedi del
Destino, intercedenti per la vita di lei....

                                   ❦

Ma il Destino fu sordo. Già fino dal 1759 la salute di lei era
irreparabilmente perduta, e con la salute, la freschezza e la bellezza.
Nella vecchia _Histoire de madame de Pompadour_ pubblicata a Londra,
lei vivente, nel 1759, essa è descritta così: «Le visage de madame
de Pompadour n’est plus capable de fixer l’attention.... elle est
d’une épouvantable maigreur....» Si sentì morire di una lenta agonia
quotidiana per cinque lunghi anni. Moribonda, al sacerdote che stava
per lasciare la camera, disse con un sorriso: «Un moment, monsieur le
curé, nous nous en irons ensemble.»

Quando il re seppe della sua agonia, della sua morte, non versò una
lacrima. E quando da una finestra del castello di Versailles, vide
passare il convoglio funebre, la bara con _lei_ dentro, tra il vento
e la pioggia, disse queste parole cinicamente crudeli: «La marquise
n’aura pas beau temps pour son voyage.» Una settimana dopo, la povera
regina Maria Leczinska, scrivendo al presidente Hénault, gli diceva:
«Il n’est plus question ici de _celle qui n’est plus_, que si elle
n’avait jamais existé. Voilà le monde; c’est bien la peine de l’aimer!»

                                   ❦

Quel cadavere che si trasportava in fretta, tra l’acqua e il fango,
da Versailles a Parigi, era quella stessa donna che vive ancora
e vivrà nel pastello di La Tour al Louvre, vestita di raso bianco
ricamato a rami d’oro e mazzettini di rose, mollemente assisa in
una poltrona, voluttuosa, sorridente, bellissima, con un quaderno di
musica in mano. Ai suoi piedi è una cartella di incisioni; dietro a
lei un vaso di porcellana di Sèvres; sulla tavola accanto, un volume
della _Enciclopedia_ e il _Pastor Fido_.... Povera favorita! Tutto
considerato, le sue angoscie superarono di gran lunga le sue gioie in
questa vita. E la derelitta regina rassegnata e credente, fu, senza
dubbio, incomparabilmente meno infelice della trionfante rivale.




LA DU BARRY


Jeanne nacque l’agosto del 1743 a Vaucouleurs. La madre era designata
col nome rabelesiano di _la Becu._ Suo padre.... Chi era suo padre? Non
lo seppe mai neppur lei. Soldato? frate? cuoco? Son le tre varianti
più discusse e più discutibili. Michelet sta per il cuoco: «_Voyez
son portrait: elle n’a rien d’obscène, mais la lèvre friande. Elle dut
naître en quelque cuisine, un jour de mardi gras._»

Dalla prima infanzia è affidata alle cure di M.lle Frédérique,
«_grande et belle fille, extrèmement rousse, renommée pour son
libertinage_.» Poi un parente devoto la mette in un convento che
va sottosopra ai racconti e descrizioni che la Giovannina fa del
precedente suo domicilio. Poi è gettata sul lastrico di Parigi, con
una cassetta di gingilli al collo, e va di porta in porta vendendo
la sua chincaglieria, giovinetta e bellissima, nella più corrotta
delle capitali, e nel secolo più corrotto.... Più tardi, sotto il
nome di _mademoiselle Rançon_, è modista nel famoso negozio Labille:
ha un primo amoretto col parrucchiere Lamet, e frequenta la casa di
gioco della infame Duquesnoy: e finalmente, già di matura bellezza,
e ricercata e di moda, diventa la favorita del serraglio che teneva
a Parigi il conte Du Barry di Tolosa. Era un cavaliere d’industria,
fine ed audace, in relazione col vecchio libertino Richelieu. Questi,
spaventato al pensiero che il ministro Choiseul suo nemico spingesse
il re a rimaritarsi, e da una bella bionda di casa d’Austria facesse
consolidare la sua politica; spaventato egualmente all’idea che le
orgie tiberiane a cui si abbandonava il sessagenario Luigi non lo
uccidessero sul colpo, cercava una buona _fille_, un boccone da re, per
mantenere in vedovanza il vecchio Luigi, e al tempo stesso curarne la
salute mediante una igienica monogamia.

                                   ❦

Il conte tolosano parlò al duca della sua bella _Lange_ (così si faceva
allora chiamare la Giovannina) e tornò più volte, e con insistenza, su
questo tasto. La donna era bellissima. Di persona svelta, flessuosa,
di forme perfette, di una carnagione che i contemporanei paragonarono
a foglie di rosa bagnate nel latte. Aveva, grazioso contrasto, ciglia
nerissime e occhi azzurri, abitualmente socchiusi, dagli sguardi
lunghi, voluttuosi, dalle occhiate _assassine_, come le chiama Musset:
i capelli più belli, più morbidi, più lunghi che si potesser vedere,
seta e oro, abbondanti, naturalmente ondati; un collo di statua antica,
magnifiche spalle, mani da gran signora. In breve, il conte annunziò al
duca che destinava la sua _Lange_ al re. Richelieu sulle prime finse di
non capire. Poi mostrò di capire, e suggerì a Du Barry d’intendersela
con Lebel, il vile mezzano di piaceri di Luigi XV. E così ne fu parlato
al re, eccitata con arte la sua curiosità di vecchio libertino, e la
_Lange_ gli fu fatta vedere la prima volta (senza che essa sapesse di
esser vista dal re) a una cena in casa dello stesso Lebel. Rallegrata,
eccitata dallo _champagne_, essa fu, come sempre, di una folle
allegria, graziosa, espansiva, tutta riso, e spirito, e gioia. Aveva
l’aria d’ignorare affatto l’abiettezza della sua situazione. Vera
birichina di Parigi, faceva vedere nelle sue matte risate una doppia
fila di magnifici denti al triste Borbone che la guardava non visto.
E questa sincera allegria fu l’incanto che lo tirò nella rete. Quel
viso ridente, allegro, spiritoso, malizioso, che rivelava ingenuamente
tutti i vizi degli _enfants des rues_ di Parigi, non aveva traccia nè
di ostentazione, nè di menzogna, nè di insolenza. Ciò piacque al re,
che vedeva ridere tanto poco a casa sua.... Fu sorpreso, incantato da
quella libertà, da quel riso, da quella gioia: e quella sera medesima
la fece venire a palazzo. Jeanne restò la stessa, anche sapendo _dove_
e _con chi_ era. Nessuno imbarazzo, e sopratutto nessuna commedia!...
Il re, in poche settimane, la fa dama, le dà un titolo e la marita.

                                   ❦

Divenuta contessa Du Barry per volontà del re, che faceva così, senza
avvedersene, la volontà di un libertino, di un avventuriero e di una
_mantenuta_; diventata senza sforzo e senza commedie, arbitra del cuore
o, a meglio dire, dei sensi di un re vecchio e annoiato; trovandosi
a suo agio a Versailles come alla _Cour Neuve_, o da Labille;
naturalmente _bonne enfant_, senza orgoglio, senza pretensioni, senza
provocazioni, essa fece stupire la corte colla intrepidità dei suoi
spropositi, colle adorabili sue monellerie, ed eccitò, fin dai primi
giorni, più il sorriso che l’odio. A ogni oggetto nuovo che vedeva,
essa diceva col suo _zezaiement_ di bambina parigina: «_Ze ne sais pas
ce que c’est; ze voudrais qu’on me le dit._»

Ma questa sua disinvoltura e ingenuità che tanto cattivò il vecchio
Luigi, doveva esser l’arme di partiti politici fieramente avversi; e le
carezze di questa modista dovean esser calcolate e usufruite «colà dove
nel muto aere il destin dei popoli si cova.»

                                   ❦

Il ministro Choiseul rappresentava i parlamentari, i liberali
dell’epoca, i giansenisti, i filosofi, le riforme della Chiesa e dello
Stato. Il partito del diritto assoluto, della disciplina sociale, del
romanismo, dei gesuiti, era rappresentato da D’Aiguillon. Essi erano i
campioni dei due opposti principî, e si combattevano a morte usando di
tutte le armi.

E arme premeditata, e terribile, perchè inconsapevolmente onnipotente
sull’animo del monarca, fu la nuova _favorita_. Arme offerta da Du
Barry, e accettata da Richelieu, a benefizio di D’Aiguillon e di un
partito politico. Una cosa sola mancava a consacrare i diritti della
_maîtresse_ del re, a farla istrumento veramente utile e inalienabile;
la _presentazione officiale_, che le dava il diritto di non poter
essere rimandata, di viaggiare nelle carrozze del re, di abitare
pubblicamente nel palazzo reale, di mostrarsi al Delfino, ai principi,
a _mesdames_, di ricever visite di etichetta e di ambasciatori; diritti
che soli rialzavano la _maîtresse_ al grado di favorita.... Figuratevi
con quale ansietà il partito D’Aiguillon aspettava il giorno di questa
presentazione. Molti preti in Parigi, guardando più al fine che ai
mezzi, affrettavano coi voti il gran giorno.... e si beveva «alla
prossima presentazione della nuova _Esther_, che libererà Israello
dall’oppressione di _Aman-Choiseul!_»

E il gran giorno arrivò. E siccome il re glielo aveva fatto tanto
aspettare e sospirare, essa, la popolana e parigina, si vendicò
facendo aspettar lui e tutta la corte all’ora indicata. Già Choiseul
esultava.... Richelieu fremeva.... la corte rideva.... il re si
impazientiva.... quand’ecco arrivano a Versailles le vetture e le
livree della favorita. Essa discende, sorridendo di un grazioso e
ironico sorriso, scintillante di diamanti, vestita di un magnifico
_habit de combat_, più che mai bella, ed è ufficialmente presentata al
re e alla famiglia reale dalla contessa di Béarn, lautamente pagata _ad
hoc_.

                                   ❦

Una volta installata a corte, e accortisi tutti che questo del re
non era un capriccio, ma un legame durevole — che il posto di M.me
Pompadour non era più posto vacante, — cominciò intorno alla nuova
favorita una gara di codarde adulazioni, tanto più basse quanto
più venivan dall’alto. Principi del sangue, e duchi e cardinali e
generali e ministri imploravano un suo sorriso d’approvazione. Il
re le dà lo spettacolo di grandi riviste militari; e i reggimenti
svizzeri di Sonnemberg, i veterani di Nassau, gli ussari di Esterhazy,
l’artiglieria reale sfilava dinanzi alla nuova regina del campo, che
dal suo splendido _phaéton_ riceveva gli stessi onori militari che
si rendevano alle carrozze della famiglia reale. Indi i furori di
Choiseul, attizzati dalla sorella duchessa di Grammont. Gli Choiseul
organizzarono allora una guerra di canzonette, di _vaudevilles_, di
_ponts-neufs_, che non ottenne altro effetto che di infervorare sempre
più il re nel suo amore. La _Bourbonnaise_ fu la canzone più in voga:

    Quelle merveille
    Une fille de rien (_bis_)
    Donne au roi de l’amour,
    Est à la cour!...
    Elle est gentille,
    Elle a les yeux fripons (_bis_)
    Elle excite avec art
    Un vieux paillard....
    En bonne maison
    Elle a pris des leçons....

e vi si rifà la storia dei suoi primi anni, e la si chiama la più
brava _trotteuse_ di Parigi, perchè, in un salto solo, è andata dal
_Pont-Neuf_ a Versailles!...

A una canzone pungente succedevan altre ancor più pungenti.

    Vous verrez le doyen des rois
    Aux genoux d’une comtesse
    Dont jadis un écu tournois
    Eût fait votre maîtresse.

E questi versi, veramente terribili, all’indirizzo dei principi del
sangue:

    Les seuls honneurs que ce tripot s’arrache
    C’est le matin de voir en cotillon
    La Dubarri qui rit, et sur eux crache.
    Au Champ de Mars donnez-moi le panache,
    Lui dit le Borgne, en baisant son jupon.
    Philippe dit: pour moi, j’aime cette vache.

Che più? Voltaire, a istigazione di casa Choiseul, scrisse l’atroce
satira: _L’apothéose du roi Pétaut_, dove l’insulto colpisce,
egualmente e giustamente, re e favorita:

          Qui dans Paris ne connut ses appas?
    Du laquais au marquis, chacun se souvient d’elle....

Eppure — o debolezza dei filosofi, o onnipotenza della bellezza! —
pochi anni dopo, lo stesso Voltaire faceva la sua corte alla Du Barry,
e componeva versi galanti per lei, e scriveva sotto un suo ritratto:

    L’original était fait pour les Dieux.

D’altra parte, D’Aguillon e Richelieu e Maupeou e Terray le facevano
lunghe prediche politiche che l’annoiavano mortalmente, esigendo da
lei la recita di una commedia che ripugnava alla sua natura popolana
e sincera. «Ma perchè, rispose una sera a D’Aguillon, volete che io
odii tanto Choiseul e ne procuri la rovina, se ad onta delle sue infami
canzonette, non mi è antepatico?» Ma tanto dissero e tanto fecero,
che essa si accinse con impegno a ottenere dal re la dimissione e
l’esilio del ministro. Ricorse a dei mezzi tutti femminini, a degli
strattagemmi da scolare. Si faceva trovare dal re palleggiando due
arance, e le faceva passare da una mano all’altra, dicendo fra le risa:
«Salta, Choiseul! Salta, Praslin!» E poi guardava il re in silenzio e
pareva implorare una grazia, con quei suoi occhi semichiusi, «pietosi a
riguardare, a muover parchi.» Un bel giorno fece appendere alla parete
della sua camera il ritratto di Carlo I del Van Dyck. E al vecchio re,
già impaurito da falsi rapporti, diceva e ripeteva: «_La France_, (così
essa chiamava Luigi XV, con una familiarità che fa presentire l’89 e il
93) _la France_, guarda bene quel ritratto! Il Parlamento di Choiseul
farà tagliare la testa anche a te!» Sciagurata, chi ti avrebbe allora
detto che il successore del re a cui parlavi sarebbe stato decapitato
davvero, e che la tua bella bionda testa sarebbe rotolata nello stesso
paniere?

                                   ❦

Essa ottenne la caduta e l’esilio di Choiseul, che fu compensato
abbastanza dai pubblici segni di stima che gli vennero da tutta la
Francia. Il rinvio di Choiseul non bastava al partito dei _santi_,
e la povera donna era tormentata per ore ed ore, onde piegasse il
volere del re ad atti spesso funesti al paese e sempre impopolari.
Ma appena essa si vide affatto sicura del suo dominio, cominciò a far
capire che non voleva più seccature: e a chi le parlava di politica,
rispondeva con questioni di mode. E quando dopo un’ora di catechismo
su casa d’Austria, equilibrio, Parlamenti, Chiesa e Stato, essa
sbadigliando si addormentava, la sola voce che potesse riscuoterla
da quel profondo letargo, era quella di Normand o della Bertin, che
veniva a provarle _une belle robe, fond satin blanc, rayé lamé plissé
d’or, formant des ondes avec guirlandes et bouquets de rubis;_ o _une
robe sur le panier_, o _une robe sur la considération_, o _une robe
de toilette_, o _un grand habit en velours blanc, au corps rebrodé
en paillons et paillettes, le tout très-riche...._ Allora non rideva
e non sbadigliava più: le mode erano i suoi affari di stato, e un
_pouf_ o una _polonaise_, cosa per lei assai più seria dell’_equilibrio
europeo_. E come la vita di M.me Pompadour fu una vita di affari, di
negoziati, d’intrighi politici, una continua relazione con segretari
di Stato e ambasciatori; insomma, un vero esercizio del regio potere;
la vita della Du Barry, toltane la breve lotta con Choiseul, a cui
repugnante la costrinsero, non è altro che l’esistenza di una favorita
d’alto grado. La sua vita è un sogno insensato di stravaganze di lusso.
I mercanti di stoffe erano i suoi ambasciatori: i gioiellieri erano i
suoi ministri. Gli riceveva al suo _petit lever_ prima dei duchi e dei
principi. L’esame delle _fanfioles_ alla moda era la sua preghiera del
mattino....

                                   ❦

Alla Biblioteca Nazionale di Parigi si conservano quattro grossi
volumi di fatture e di conti di M.me Du Barry. Le cifre sono
spaventose.... Abiti che costano dieci e dodicimila lire (equivalenti
oggi a trentamila). I conti dei gioiellieri sommano a milioni. Un
paio di buccole 500,000 franchi. Nella sua sfrenata fantasia di
cortigiana, voleva persino una toelette _tutta d’oro!_... La _fille_
di Vaucouleurs badava più al valore intrinseco della materia che al
lavoro. La Pompadour era stata una intelligente protettrice di belle
arti, e artista lei stessa: la Du Barry non seppe mai, o quasi mai,
_scegliere_; e artisti di terzo e quarto ordine furono i preferiti
a ritrarla in marmo e in tela, a fregiare di bronzi e ceselli i suoi
_boudoirs_. A lei bastava di vedere oro e diamanti, e che l’oggetto
costasse molto. Costa tanto, diceva, dunque deve esser bello!... Essa
restò sempre lontana dalla vera finezza aristocratica; ma compensò
questo difetto con una sincerità e naturalezza popolana, che la
rendon quasi simpatica in quella corte di ipocriti. Presente il re e
le dame, essa fa rappresentare a Lucienne _La vérité dans le vin_,
commedia più che _grivoise_ di Collé; e la fa rappresentare dai
suoi amici i commedianti del _Boulevard du Temple_. Essa balla, e fa
ballare a vecchi duchi e a giovani marchese, la _fricassée_, sorella
primogenita del _cancan_. Beve il _punch_ e il _grog_, e rimette nel
bol il cucchiaio di cui si è servita; e a una timida osservazione del
re risponde: «_Oui, la France, je veux que tout le monde boive mon
crachat!_» Ombre della Vallière, della Sévigné, della Montespan, se
le ombre arrossiscono, dovete in quel momento aver fatto il viso di
bragia!... La Du Barry ruppe tutte le leggi dell’etichetta, e anche del
decoro, nei palazzi reali. Vestiva sempre a modo suo (e troppo spesso
non vestiva affatto), anche in ore di cerimonie solenni.... Fece sempre
il suo comodo, come in casa della Duquesnoy. Essa portò a Versailles i
modi e il linguaggio delle pescivendole, e la sua condotta giornaliera
fu per sei anni un continuo schiaffo alla monarchia. Essa annunzia
addirittura la Rivoluzione!

                                   ❦

Da quando la Du Barry ebbe ricevuto l’ultimo addio e la carezza ultima
dalla mano già purulenta del re che morìa di vaiuolo, da quando,
esiliata da corte, fu tenuta a domicilio coatto in un convento, e
resale poi la libertà e i beni, si ritirò nel suo delizioso casino di
Lucienne, accade come una trasfigurazione in lei: tutti i suoi difetti
scemano e si eclissano, e le sue buone doti spiccano in più viva luce.
Essa era naturalmente buona e compassionevole. Lo provò ora nei giorni
della disgrazia, soccorrendo tutti i poveri che in quelle annate di
freddi intensi e di carestia ricorrevano a lei. E gli soccorreva in
persona, e vegliò e assistè con cure filiali due povere vecchie di
Lucienne abbandonate da tutti, nell’ultimo squallore. Essa provò anche,
la prima volta in vita sua, una vera passione: e le sue lettere a lord
Seymour hanno tale delicatezza e gentilezza di affetto, che se non
fosser accertate per sue dalla scrittura, dalla firma e dall’ortografia
sempre sbagliata, non si crederebber davvero parole e sentimenti di una
favorita. Forse la morte vicina, e qual morte! illuminava di un raggio
anticipato questa già ridente figura, e le dava un carattere di presaga
malinconia. Durante la Rivoluzione, essa non ebbe (e anche questo
la rende simpatica e le fa onore) nessuna prudenza, e non commise
nessuna viltà. Non volle nasconder mai i ritratti di Luigi XV. E a
Maria Antonietta che le si era sempre mostrata disprezzante, altera,
e apertamente nemica, ora nei giorni della suprema sventura, indirizzò
con suo sommo pericolo, questa lettera che basterebbe a farle perdonare
ben più gravi colpe di quelle da lei commesse:

«_Lucienne_ est à vous, madame.... Tout ce que je possède me vient de
la famille royale: j’ai trop de reconnaissance pour l’oublier jamais.
Le feu roi, par une sorte de pressentiment, me força d’accepter mille
objets précieux, avant de m’éloigner de sa personne. J’ai eu l’honneur
de vous adresser ce trésor du temps des Notables; je vous l’offre
encore, madame, avec empressement.

«Permettez, je vous en conjure, que je rende à César ce qui est à
César.»

Nei giorni del _Terrore_, essa trovavasi a Londra. Un furto enorme
di diamanti che le fu fatto, e i pubblici annunzi e il rumore che
ne corse, rimisero in evidenza colei che Fouquier, mostrandosi
cattivo critico quanto era crudele uomo, chiamò l’_Aspasia_ del
vecchio Sardanapalo. Essa ebbe l’imprudenza di tornare a Lucienne.
Un miserabile negro regalatole nel 71 dal principe di Conti, che lo
avea comprato a Costantinopoli, Zamore, che essa aveva trattato sempre
_anche troppo_ bene, fu la spia, l’accusatore principale di lei al
Comitato di salute pubblica. La infelice donna fu arrestata, condotta
a Santa Pelagia, poi alla _Conciergerie_, e processata il 16 frimaio
1793.

                                   ❦

Ma in quei giorni sinistri, quando, morti i Girondini, morto Danton,
Robespierre in parte esautorato, in parte complice di inaudite
barbarie, il potere era caduto di fatto nelle codarde e sanguinose
mani dei Fouquier, dei Collot, dei Barère, dei Lebon, dei Carrier, in
quegli orribili giorni in cui si ghigliottinavano senza processo, o
si gettavano nelle ghiacciaie, o si tagliavano a pezzi, o si legavano
nudi in cima agli alberi delle navi e vi si lasciavan morire, vecchi
e fanciulle, malati e donne incinte, non rei d’altro che di essere
parenti alla lontana di un conte o di un vescovo, o di avere espresso
un dubbio sugli _assignati_, o di aver sentito parlare di un discorso
di Burke, o di avere addosso una medaglia, quando le carrettate di
vittime illustri e innocenti si succedevano senza interruzione per
la tragica _via della ghigliottina_ a Parigi; mentre i proconsoli del
Comitato facevan di Lione un deserto, in quei lugubri giorni, era egli
possibile che sfuggisse alla morte la druda di un re, di un Borbone, di
un Luigi XV?

Disgraziata creatura! È già un miracolo se si fa precedere la tua
morte da un simulacro di legalità. Fra i tuoi giudici, fra i testimoni,
fra i giurati, non vedo che dei carnefici. Vi è l’infame Zamore, vi è
Salenave e Topino e Vilatte e Saubat.... La requisitoria è declamata da
Fouquier-Tinville. Ma se qualche cosa, o disgraziata, potrà rialzare il
tuo nome, è senza dubbio l’abiettezza di questo tuo giudice. Le mani
che si bagnano ora nel tuo sangue, sono inzuppate del più generoso
sangue di Francia. Tu hai l’alto onore di essere uccisa dal carnefice
dei Girondini, dall’insultatore di madama Roland, dall’assassino di
Danton.

                                   ❦

Durante il processo, la Du Barry fu calma e nobile. Condannata a morte,
tentò prima di salvare una sua amica egualmente condannata, la duchessa
di Mortemart. Ma poi, tutto ad un tratto, fu assalita da una paura
di bambina, e come se allora per la prima volta avesse sentito parlar
di morte e di ghigliottina, cominciò a urlar disperata.... Non voleva
morire! Messa a forza sulla carretta fatale, essa implorava la folla
insultatrice per via: «_Mes amis.... sauvez-moi! je n’ai jamais fait
de mal à personne.... La vie, la vie! qu’on me laisse la vie, et je
donne tous mes biens à la nation._...» E un _sans-culotte_ le rispose:
«_Tes biens! mais tu ne donnes à la nation que ce qui lui appartient
déjà._...» Essa tacque un momento, e parve calmarsi. Ma salendo il
palco, fu ripresa da nuove convulsioni di terrore. Urlava, supplicava,
si dibatteva: «_Encore une minute, monsieur le bourreau, encore une
minute!_» e sotto il ferro stesso della ghigliottina: «_A moi, à moi!_»
come donna assassinata che chiede aiuto....

Corrotta dall’infanzia, vissuta poi sempre fra i velluti e i diamanti,
senza aver mai sentito parlare di ciò che eleva e sostiene l’anima
umana, senza la forza di una idea, di un principio, di un dovere, è
naturale che l’apparecchio di una morte violenta eccitasse in lei quel
parossismo di _fisico_ terrore.

Da questo straziante spettacolo di paura e di convulsioni, il pensiero
si rivolge e si ferma volentieri a contemplare la morte intrepidamente
affrontata in quel tempo stesso da donne egualmente delicate, ma
sostenute da una grande idea o da un grande affetto. Madama Roland,
serena, bianco-vestita, coi bei capelli disciolti che scendono in
doppia lista sull’eroico suo petto, conforta i suoi compagni di
supplizio, e infonde loro il suo virile coraggio, e chiede una penna
(che le è negata) per scrivere «gli strani e grandi pensieri che le
suggerisce la morte.» Madama Roland credeva ed amava.

Ma chi potrà fare colpa alla povera Du Barry della sua paura in faccia
alla ghigliottina, conoscendo il suo carattere e i suoi precedenti?
Essa m’ispira in quel momento più pietà che disprezzo. Comunque sia, a
me pare di non giudicarla con eccessiva indulgenza, chiamandola la più
naturalmente buona e sincera tra le favorite dei re di Francia.




SOFIA ARNOULD


La madre era stata amica di Voltaire, di Diderot, del cardinal di
Bernis. La figlia nata nel 1740 nella stessa casa dove due secoli
innanzi era stato assassinato Coligny, fu allattata come Cloe da una
capra; e a cinque anni ceduta alla principessa di Conti, che arrivata
a una certa età, disoccupata, annoiata, prese la piccola Sofia come un
balocco o come un cagnolino, e si divertiva a vestirla secondo le mode
più capricciose, la teneva sulle ginocchia, la portava in carrozza con
sè, le insegnava a suonar la spinetta, a ballare, a cantare.

A dodici anni, ebbe a maestro di musica il celebre Jéliote, e un
giorno che essa cantò il _Miserere_ di Lalande nella chiesa di
Panthémont, eccitò un vero entusiasmo. La fama della sua voce arrivò
fino all’orecchio della regina Maria Leckzinska, che volle veder la
giovinetta _virtuosa_, la fece cantare, ne fu intenerita fino alle
lacrime, le battè sulla gota col suo gran ventaglio di piume, e le fece
dare un gelato....

Ma dietro al gelato della regina di nome, venne un biglietto della
regina di fatto, madame De Pompadour, che invitava le Arnould, madre
e figlia, a presentarsi a lei. Nuovi canti, nuovi complimenti, regalo
di una collana e di un rosignolo (_sweet_ to _sweet!_) e inscrizione
di Sofia tra le cantanti di camera di Sua Maestà la Regina. Un anno
dopo, era _attachée_, per ordine espresso del re, _à la musique de Sa
Majesté_; e particolarmente al suo teatro dell’_Opéra_.

                                   ❦

Aveva sedici anni: un corpo di fata, una voce di rosignolo. Gracile,
ma ben fatta, il volto di un perfetto ovale; due grandi occhi neri
chiedenti pietà o provocanti; magnifici capelli biondi; una bocca
socchiusa abitualmente a un sorriso di voluttà, fresca come una rosa
di maggio, dalla quale uscivano irresistibili le note languenti
dell’amore, o le supplichevoli della preghiera, o le flebili del
dolore. Il carattere e il prestigio della sua bellezza consisteva
nella voluttuosa armonia, nella delicata sveltezza della persona.
Nulla in lei di grossolano, di materiale; ma invece il vero carattere
della bellezza moderna, la grazia, la spiritualità della _fisonomia_,
l’incanto del sorriso, dello sguardo, che uniti alla magia della voce
la rendevano irresistibile....

E tutti i contemporanei sono d’accordo nel lodarne la bellezza e
la voce, tutti i contemporanei, e quel che più vale, tutte _le
contemporanee_. Per molti anni, la sua grazia seppe disarmare
l’invidia. Non ci fu che un giornale, una _Cronaca Bizantina_ del
1760, che ardì notare che «_elle a souvent la bouche pleine de salive,
ce qui fait qu’en vous parlant, elle vous envoie la crême de son
discours...._»

Oh, i Bizantini!...

                                   ❦

Esordì il 15 dicembre 1757. Attirata dalla sua fama, la folla assediava
il teatro. «_Je doute_, scrive un contemporaneo, _que l’on se donne
autant de peine pour entrer en Paradis_.» Garrick dichiarava che la
sola attrice francese che gli parlasse agli occhi e al cuore, era una
cantante, Sofia Arnould. Essa portò nella sua arte un elemento nuovo
e che fu una vera rivoluzione; l’emozione sincera, l’azione drammatica
naturale, il cuore nel canto. E quando modulava le divine note di Gluck

    Je ne veux pas mourir encore,

una elettrica commozione percorreva tutto l’uditorio.... ed era un
delirio di applausi.

La sua voce non era forte, ma dolcissima e simpatica. Era una voce
che si prestava mirabilmente alle parti che rappresentava: _Psiche_,
_Lavinia_, _Ifigenia_ morente trascinata agli altari e implorante gli
Dei.... Una voce palpitante, una _voce-anima_, e che i nemici del
sentimento, i naturalisti di cento anni fa, tentarono di censurare
con questa mordace definizione dell’abate Galiani: «_C’est le plus bel
asthme que j’ai entendu chanter._»

                                   ❦

In casa della fortunata Sofia era venuto ad abitare in pensione un tale
E. Dorval. Faceva vita da gran signore. Era bello, era giovine. Una
sera, dopo aver giocato a _tric-trac_ col padre di Sofia, dà la buona
notte e si ritira in camera. Ma in camera sua, palpitante, incerta
ancora, piangente, disperata e felice, lo aspettava Sofia. Un bacio
lungo, ardente.... e poi, in punta di piedi, traversano un terribile
andito, aprono, e non richiudono, l’uscio delle scale.... e via in una
vettura che aspettava lì vicino da qualche ora....

Monsieur Dorval era il _conte_ Louis De Brancas.... coniugato! Scoperta
che fa svenire Sofia. Ma si riebbe presto. La moglie del conte era
malata, egli promette di sposar Sofia appena rimanga vedovo.... e i
signori Arnould già pregustano la voluttà di esser i genitori della
nuova _comtesse De Brancas_.

E Sofia?

Ah, Sofia era donna, ma era anche artista, fiera, capricciosa,
passionata, intollerante di umiliazioni e di freno. E com’era scappata
dalla casa paterna, riscappò dalla casa dell’amante. «Gli uomini non
sono che dei mostri egoisti (scriveva a un’amica) non voglio amare
d’ora innanzi che il teatro e la musica.» E a chi, molti anni dopo,
le chiedeva notizie di quel suo primo amore, rispondeva così: «Non
mi parlate più di quell’uomo: mi ha dato due milioni di baci, e mi ha
fatto versare quattro milioni di lacrime.»

                                   ❦

La _Festa di Pafo, Proserpina, Polissena, Alina, Ifigenia in Aulide_,
son l’opere nelle quali fece furore. Le stampe dell’epoca ce la
raffigurano vestita di veli d’argento, col tragico fazzoletto in mano,
con un enorme _échafaudage_ in testa, con un manto tigrato sulla spalla
destra, e con due grandi macchie di rossetto sulle gote. Eppure, e
nonostante, essa ci appare sempre simpatica, e ci sorride come una
soave figura contemporanea.

E badate, bisogna proprio che quelli occhi e quel sorriso sian magici,
per farcela apparir bella e simpatica con quelle _coiffures_ con
quei _paniers_, con quei _caraco_, con quelle _considérations_.... O
mode del 1770, o deliri del gusto, o epopee del capriccio! È l’epoca
in cui la duchessa di Chartres nella colossale architettura dei
suoi capelli, nel suo _pouf au sentiment_, portava un ritratto, un
pappagallo, un mazzo di ciliegie, un negro, un cagnolino, e una nave a
vele spiegate.... è l’epoca in cui nella _coiffure à la circonstance_
le donne eleganti avevano in testa un cipresso, un fascio di grano e
un giardino; e in quella alla _inoculation_ (ricordo dell’innesto del
vaiolo), un serpente, un sole levante e due olivi. È l’epoca in cui la
marchesa di Boufflers reggeva in capo un _mappamondo_ che disegnava
esattamente sui suoi capelli le cinque parti del mondo; e in cui la
contessa di Lamballe scoteva lo _Zodiaco_ fra le sue belle chiome, e
portava in testa il sole, la luna e le stelle....

È l’epoca in cui le donne galanti somigliavano a delle acquaiole
che abbian due secchie d’acqua sotto le sottane; in cui i _paniers_
e le _crinolines_ davano tali circonferenze alle signore, da render
necessario che per ogni dama fosser destinate tre sedie....

                                   ❦

Sofia Arnould, superba della sua voce e regina del palco, aveva degli
alteri dispregi per la povera orchestra, la quale nel suo antro pendeva
dai cenni imperiosi e dai capricci della _virtuosa_.

«Che vuol dir ciò, signor mio? mi pare che vi sia una vera ribellione
stasera nella vostra orchestra....»

«Ma come, madamigella?...»

«La vostra orchestra m’imbroglia e mi impedisce di cantare.»

«Tuttavia, madamigella, noi andiamo a tempo e in misura....»

«In _misura_? non so che roba sia.... Animo! via, tenete dietro a me,
e sappiate che la vostra sinfonia è l’umilissima serva dell’attrice che
canta e declama.»

E si rimise a cantare.

In questo dialogo che una sera ebbe luogo davvero fra Sofia e il
direttore d’orchestra, non vi par di sentire una protesta profetica in
favore del puro _canto_, contro le future rivoluzioni musicali? contro
il predominio (e talvolta la tirannia) della _strumentazione_?

Trionfante, senza rivali per venti anni, ebbe ai suoi piedi adoratori
di ogni ordine e di ogni qualità, dal duca al tenore, dall’ambasciatore
al sottotenente. E i molti doni l’avrebbero arricchita, se la sua
prodigalità non fosse stata eguale alla sua fortuna. Ho detto che
l’avrebbero arricchita i regali, la paga no davvero; perchè questa
Malibran del secolo XVIII guadagnò meno in dieci anni che la Patti in
_una settimana_. Sofia Arnould era scritturata a lire _tremila_ l’anno,
e la più lauta gratificazione che ricevè dall’impresa dell’_Opéra_ fu
di un migliaio di lire. Oggi si dà più a una corista!

                                   ❦

Conservar lo scettro della moda a Parigi per venti anni, fu un vero
miracolo. E l’ostracismo era inevitabile, e venne. Sofia non ebbe nè
la presenza di spirito, nè il coraggio, nè la filosofia di ritirarsi
a tempo, e farsi rammentare e desiderare. Prese il partito peggiore,
quello cioè di lottare col pubblico, sempre crudele e spietato, e
sempre vincitore. Ebbe l’umiliazione di vedersi preferita Rosalia
Levasseur, una sua allieva; e di veder Gluck, il gran maestro,
dichiararsi (ingrato!) per la sua rivale. Ahimè, la Moda è come la
Rivoluzione e come Saturno; essa divora i propri figliuoli.... Una sera
d’estate che Sofia prendeva il fresco nel giardino del _Palais-Royal_,
dei giovinetti le canticchiaron dietro sul motivo dell’_Alceste_:

    _Caron t’appelle.... entends sa voix!_

E la povera Sofia dovè cedere, e ritirarsi dalla scena: non perchè la
sua voce si fosse molto alterata, ma perchè eran cresciuti i suoi anni,
perchè in questo mondo, e specialmente in Francia, _tout lasse, tout
casse, tout passe_, anche la voce più soave, la musica più dolce e la
più bella poesia....

Desolata, ebbe una velleità di devozione, e frequentò le chiese e
il confessionale. Ma fu una conversione passeggera, un capriccio;
e poche settimane dopo scriveva a una sua amica, a proposito dei
suoi confessori: «_Ces directeurs! C’est pis que les directeurs de
l’Opéra...._»

Fondò allora un _salon_ che fu uno dei più brillanti e piacevoli fra
i tanti famosi che ne contò Parigi nel secolo scorso: e i _martedì_
di mademoiselle Sophie Arnould riuscirono ciò che di più illustre e di
più _artisticamente_ elegante vantava la capitale. Rousseau, Voltaire,
Beaumarchais, Diderot, Duclos, Garrick, Bernard, Dorat, venivano a
complimentare la regina in ritiro dell’_Opéra_.

E quando scoppiò la rivoluzione, il suo salon diventò un _club_, e
Ifigenia diventò _giacobina_! Aveva cinquant’anni!... e la _Chronique
scandaleuse_ così scrive di lei, nel 1790: «.... _Elle vient de
se faire démagogue afin de recevoir chez elle la lie de l’espèce
humaine.... elle envoie étudier aux Jacobins deux enfants qu’un galant
homme lui fit jadis par mégarde...._» e sèguita di questo tenore per
mezzo giornale. Povera Sofia!

                                   ❦

Gli ultimi suoi anni furono un seguito di amarezze, di malattie, di
povertà. Si ridusse a scriver lettere, nelle quali, paragonandosi alla
cicala di Lafontaine che non ha più

    _Un seul petit morceau_
    _De mouche ou de vermisseau,_

chiede l’obolo per la vedova di _Castore_, per _Lavinia_, per _Didone_,
per _Ifigenia_ che regnò venti anni sul teatro dell’arte. E la cantante
famosa sul cui busto scrisse versi di lode Voltaire, colei di cui
Gluck lasciò detto che «senza l’incanto della sua voce e della sua
declamazione, _Ifigenia_ non sarebbe mai entrata in Francia,» quella
di cui Beaumarchais e il principe di Ligne ammiraron lo spirito, nel
1802 mancava dello stretto necessario per vivere, e languiva sola,
abbandonata e malata fino al ventidue di ottobre, giorno nel quale le
sopraggiunse la morte come una vera liberatrice.




JULIE-MARIANNE


                                               _Esperaba, desperada._

La depravazione nella voluttà, una sensualità crudele, la lussuria del
male, il Terrore nell’amore, trionfavano in Francia negli alti e nei
bassi gradi sociali. Nelle putride viscere del secolo XVIII bisognava
infondere un sangue nuovo, rialzare la donna e la famiglia, per poter
rialzare la nazione. Rousseau fece questo triplice miracolo con tre
libri immortali: la _Nuova Eloisa_, l’_Emilio_, il _Contratto_.

La _Nuova Eloisa_ fu al tempo stesso una rivelazione e una rivoluzione.
Fu la risurrezione del cuore, atrofizzato dai piaceri egoisti. Una
scintilla elettrica percorse tutta l’Europa. Fin le galanti duchesse
dal cuore inaridito, e dalla imaginazione pervertita, le eroine dei
più scettici e cinici _salons_, ne restaron commosse, mutate....
La Luxembourg fu vista piangere; la Du Deffand entusiasmarsi. Dalla
gomorra delle infami alcove, dai faticosi piaceri dei _petits-soupers_,
Rousseau richiamò la donna alla natura, alla libertà, all’affetto, al
dolore. La trovò arida, vuota, divorata dall’egoismo e dalla noia, e la
fece rinascere all’estasi dell’amore, e alle dolcezze della maternità.
Egli primo rese i bambini al latte e ai baci delle madri e ricostituì
così la famiglia. Al capriccio, la fede; alla _femmina_, successe la
_donna_: e una madama Roland fu possibile nella terra delle _Liaisons
dangèreuses_. Nè _Manon_, nè _Marianne_, nè _Paméla_, nè _Clarisse_
avean trascinato il mondo così. La Julie eclissò ogni romanzo.

Madame de Blot, quando uscì l’ultimo volume, diceva al duca di Chartres
in tono animato, e l’entusiasmo le accendeva il bellissimo volto: «Non
vi è donna che non sia pronta a consacrar la sua vita a Rousseau.»

                                   ❦

E tu dicevi lo stesso, e provavi anche più, cara donna che apristi
il tuo cuore a quello del grande infelice; ma troppo tardi: e si vide
una _Julie_ pura, bella e passionata, tentare inutilmente di rievocare
un _Saint-Preux_ tra i terrori e i tumulti e le frenesie dell’anima
devastata di Gian-Giacomo.

Era una bionda dai capelli di un oro luminoso e abbondante, dagli
occhi cerulei, sereni e puri come una bell’alba di maggio, bianca di
un voluttuoso candore. Il marito aveva tentato di depravarla; non era
riuscito che a torturarla: poi l’aveva abbandonata a sè stessa, ed essa
viveva una vita malinconica e ritirata, in compagnia di sua cugina,
una bruna giovine e vivace, che aveva per lei una devozione di sorella
minore: una vera _Claire d’Orbe_.

_Julie_ — amo chiamarla così perchè sotto questo nome essa offrì il
proprio cuore a Jean-Jacques — Julie non era più giovane. Era di quelle
donne, meno rare che non si pensi, le quali, piuttosto calme e fredde
nella prima gioventù, passati i trent’anni provano il bisogno d’essere
amate; e il desiderio si fa più intenso e doloroso quanto è meno
appagato. Momento unico e commovente nella vita della donna! Se bella,
la sua bellezza prende allora un carattere di bontà, di tenerezza
autunnale; è la bellezza del cuore, del cuore profondo, dei sensi
intelligenti, dell’anima passionata: bellezza spirituale che illumina e
armonizza le forme. È il frutto appena maturo punto dall’insetto alato
d’agosto e divenuto più dolce: è la donna ferita dal desiderio intenso
di amore.

Le bionde come _Julie_ sentono e soffron più di questa crisi del cuore.
La bruna dagli occhi neri e profondi, dallo sguardo che brucia, ha già
consumata a trent’anni tutta la sua fiamma interiore. Dicevo dunque che
questa Giulia era bionda....

                                   ❦

Ognuno cerca sè stesso nei libri: e i grandi successi derivano dal gran
numero di contemporanei che si riconoscono in uno stesso libro. Più
la donna era sommersa nel fango, più anelava istintivamente ai puri
orizzonti; e uscendo dalle sordide braccia di un Richelieu, di un De
Frise, di un Pavanne, sognava e invocava un Saint-Preux.

Quando Julie e la sua cugina lessero il primo volume della _Nuova
Eloisa_, la sorpresa, il piacere, la maraviglia, l’ammirazione,
l’entusiasmo non ebbero limite. L’una si vide dipinta al vero nella
figura di _Julie_, l’altra in quella di _Claire_. Ma la nuova Clara che
aveva già letto nel cuore della amica e ambiva per lei ciò che quella
non osava neppur confidare a sè stessa, osò scrivere al cittadino di
Ginevra questo biglietto: «Vous saurez que Julie n’est point morte et
qu’elle vit pour vous aimer; cette Julie n’est pas moi; vous le voyez
bien à mon style: je ne suis tout au plus que sa cousine, ou plutôt son
amie autant que l’était Claire.» E concludeva indicando a Gian-Giacomo
un modo per rispondere.

Rispose; e senza farsi pregare, e a posta corrente.

Il mistero, una vaga speranza, sedusse l’_orso_, il _selvaggio_, come
lo chiamavano, e rispose. E la corrispondenza cominciata per devozione
di amica, e per amore romanzesco da un lato; dall’altro per curiosità,
e per invincibile attrattiva, si animò più e più quando la nuova Clara
cedè la penna alla nuova Giulia.

                                   ❦

Rousseau prima di domandare un colloquio le chiese il ritratto. Oggi
essa sarebbe corsa subito da un rinomato fotografo: centoventi anni
fa, era più difficile aver _subito_ il proprio ritratto.... E Julie
vi rimediò facendoselo da sè con la penna, con la parola. E lo fece
scrupolosamente, non celando il minimo suo difetto. Deve essere
stata un paio d’ore a guardarsi allo specchio, prima di scrivere
quella lettera, come una devota a far l’esame di coscienza prima di
confessarsi.... È un po’ lungo, ma come si fa a esser brevi e dir
tutto? Gli confessa che le è restato qualche leggerissimo, quasi
impercettibile segno di vaiolo sul viso, che ha le braccia un po’
magre, e finisce con questa graziosa e fresca pittura della sua
_toelette_: «Mes cheveux composent ordinairement toute ma coiffure: je
les relève le plus négligemment qu’il m’est possible, et je les aime
avec assez d’excès pour que cela dégénère en petitesse. Comme je suis
modeste et frileuse, on voit moins de moi que d’aucune femme de mon
âge. Rien dans mon habillement ne mérite le nom de parure. Aujourd’hui,
par exemple, j’ai une robe de satin gris, parsemée de mouches couleur
de rose....»

Rousseau, letto il ritratto volle vedere l’originale: e le raccomandò
di vestirsi con quella stessa _robe de satin gris_.

E tale si presentò ai suoi sguardi, tremante di emozione, bella di
pudore e di grazia, di innocente ardire e di nascente passione....

La contemplò in silenzio, e le strinse lungamente la mano. Le
_Charmettes_, la prima _pervenche_ colta con madama di Warens, la
villetta bianca con le persiane verdi, riapparvero agli occhi del poeta
oratore, del romanziere filosofo. Gli ribruciò sulle labbra il bacio
di madama D’Houdetot; ma la adorabil figura che egli aveva ora dinanzi
non fece che rimescolare nel suo cuore le ceneri del passato, invece di
crearvi l’ardore di un sentimento nuovo.

E lei se n’accorse.

Fu un lampo.... e si sentì reietta per sempre.

Seppe dissimulare; e sorridente nel suo bell’abito di raso grigio
picchettato di roseo, si accostò al clavicembalo, e suonò un’aria del
_Devin du Village_....

                                   ❦

Conoscete nulla di più triste, di più ineffabilmente triste, dell’arie
allegre di cento anni fa? Non c’è _gavotte_, non c’è _chansonnette_
francese, non c’è _romanza_ o _duettino_ italiano, che non abbia in
sè un _amari aliquid_, una tinta di malinconia. Come potevan ballare e
far all’amore a quell’arie che paion lamenti venuti dall’altro mondo?
Ma chi sa? forse paion così a noi perchè son note vecchie e defunte,
e il loro lamentevole eco ci raffigura volti spariti e gioie svanite
per sempre. Forse allora eran arie allegre e rallegravano i cuori,
e forse, chi sa? nel 1983 si faranno le meraviglie che i bisnonni si
divertissero tanto alle opere di Wagner, e ballassero allegramente i
_waltzer_ di Chopin e di Strauss....

                                   ❦

C’è un proverbio francese che dice: _Dis-moi qui t’admire, et je te
dirai qui tu es_. Ogni gran poeta, ogni gran romanziere ha avuto
il suo speciale corteggio di ammiratrici, distinte d’indole, di
sentimenti, di gusti, e che sono come il riflesso del carattere del
loro idolo. Sarebbe curioso uno studio psicologico sulle _dévouées_
di Chateaubriand, di Byron, di Schiller, di Lamartine, di Balzac,
di Sue, di Dumas, di Tennyson, di Musset, fino alle _dévouées_ (non
_avouées_) di Emilio Zola.... Le ammiratrici di Rousseau gli fanno
onore: dall’umile madame Verdelin, da questa ignorata _Julie_, alle
illustri Roland, Staël, G. Sand, è un nobile e imponente corteggio;
un po’ declamatore, un po’ paradossale, ma sempre generoso, e capace,
all’occasione, di ogni sublime eroismo.

                                   ❦

La povera _Julie_, l’ho già detto, arrivò troppo tardi.... nel peggior
momento della vita di Rousseau; ed egli si decise, dopo il primo
colloquio, a impedire ogni seguito di questa romanzesca avventura, e
a dire francamente, brutalmente, come pur troppo sapeva farlo in certi
momenti, la verità alla misera donna.

Le tolse ogni illusione, ogni speranza, con una lettera glaciale, e
dove si rivela già il parossismo tragico di quell’anima irrequieta.

Essa non si arrese subito. Ebbe la debolezza di tentare altre vie
per elettrizzare quel cuore finito. Gli si presentò, senza prima
avvertirlo, tre mesi dopo la terribile lettera, pallida, dimagrata,
umiliata, portandogli della musica italiana che essa aveva copiata per
lui. Si fece annunziare col nome di _Julie_. Egli l’accolse gentilmente
ma freddamente, e quando essa si congedò le disse: «_Adieu, Marianne_,
(era il suo vero nome di battesimo), _adieu_!»

_Julie! Marianne!_ Nello scambio di questi due nomi è un _epitome_ di
mille romanzi, è tutta la ironia della vita, tutto l’ideale e tutta la
realtà delle cose umane.

Non c’è donna che non cerchi di divenire, a un momento della sua vita,
una _Julie d’Etange_, e che gli uomini o la sorte non ribattezzino col
nome di registro della parrocchia....

                                   ❦

Rousseau fu brutale, ma fu sincero, e non si divertì a illudere la sua
vittima e a protrarre il suo sogno come qualche altro _grand’uomo_ — lo
Chateaubriand per esempio — avrebbe fatto molto probabilmente.

Il cuore di Rousseau, dopo i baci di madame d’Houdetot, era stato, per
dir così, assorbito dal suo cervello. Mai non aveva scritto pagine più
calde, passionate, colorite, eloquenti che in questi anni: è l’epoca
dei primi libri delle _Confessioni_. Il suo stile si è fatto più
molle, più voluttuoso: i suoi paesaggi sono di un colorito affatto
nuovo, e che darà norma, e lascerà inevitabile traccia, in tutti i
grandi suoi successori nell’arte della parola. Certe sue espressioni si
direbbe che brucian la pagina... eppure il suo cuore era morto! Questa
contradizione fenomenale mi ricorda un doloroso verso di Browning:

    _And my heart feels ice, while my words breathe flame._

    E il mio cuore è di gelo, mentre le mie parole spirano fiamma.

                                   ❦

Uomo destinato a errare nella procella e crear del dolore, in lotta
aperta col suo secolo, Rousseau portava nel suo fatidico seno tutte
le tempeste della imminente Rivoluzione, insieme alle tempeste del
suo proprio cuore. La sua influenza è durata fino a oggi, e forse è
interrotta, ma non cessata. Tutti, o quasi tutti i grandi scrittori,
chi più, chi meno, ne hanno subìto il magnetico incanto. Bernardin,
la Staël, Chateaubriand, Lamennais, Lamartine, G. Sand, Michelet,
Renan, Goethe, Schiller, Gian-Paolo, Byron, Shelley, Carlyle, Castelar,
Leopardi. Egli incarnò la Rivoluzione. Mirabeau e Robespierre,
Vergniaud e madama Roland, la Montagna e la Gironda, giuravano
egualmente sulla sua parola. Intelligenza sovrana, che quando negli
ultimi anni della vita si disequilibrò e si scompose, parve la caduta
di un impero. Grande nella sua miseria e nella sua forza, perchè dotato
di una parola di fuoco, parola unica, che agita, sorprende e comanda.
Solo, tra i filosofi gaudenti e scettici del suo tempo, egli sentì le
miserie reali della vita; e gli passò sulla faccia l’alito sacro della
natura e dall’umanità.

                                   ❦

Nel novembre del 1789, nel quartiere appartato di un convento di
monache Ospitaliere, viveva una signora parigina di sessant’anni,
vestita abitualmente di nero, e nei cui capelli bianchi restava un
pallido riflesso dell’oro luminoso di un tempo; un profumo di eleganza
aristocratica, che certe donne privilegiate conservano fino all’ultimo
istante. Nella sua camera era un vecchio clavicembalo, con sopra della
vecchia musica, l’_Orfeo, le Devin du Village_.... In uno scaffale
nella parete opposta, erano schierati i volumi delle opere complete di
Jean-Jacques Rousseau, _citoyen de Genève_....

La riconoscete? È la povera, fedele _Julie_. E mentre assisa in una
_chaise-longue_ presso il camminetto, essa legge qualche volume della
_Nouvelle Héloïse_ o delle _Promenades_, si riscuote a un tratto,
udendo salir dalla strada urli e grida di acclamazioni entusiastiche.
È il popolo che risponde ai primi ruggiti del leone Mirabeau.... Cara
_Julie_, cara _Marianne_, posa il prediletto volume, se vuoi capir
quelle grida. Prendine invece un altro, quello piccolo à _tranches
dorées_, dov’è scritto _Contrat social_. Leggilo, e capirai quelle
grida....

Oppure, no. Serba sui tuoi capelli bianchi e nel tuo cuore spento
di vecchia, gli ultimi riflessi di un sole cadente, di un ideale
che tramonta. Rileggi per la centesima volta i memori volumi della
_Julie_.... e muori nella tua solitudine, fedele a una memoria
immortale.




GIULIA LESPINASSE

    _Oh, laissez-moi, sans trève, écouter ma blessure_,
      _Aimer mon mal, et ne vouloir que lui!_


I

Non intendo parlare dell’amica di D’Alembert e di Condorcet, dell’emula
di M.me Du Deffand, delle conversazioni o degli scritti di M.lle de
Lespinasse. Ma vorrei in pochi tratti ritrarre la sua fisonomia di
donna passionata, vederla e raffigurarla sotto la doppia aureola di
amante e di vittima, notare sulle sue magre guance il solco delle
lacrime divoranti, nei suoi occhi il fuoco sacro di una passione
fatale, che la rassomiglia a Saffo e a Didone, a Fedra e a Eloisa.

Giulia-Giovanna-Eleonora di Lespinasse nacque a Lione il 18 novembre
del 1732. Figlia adulterina della contessa d’Albon, ebbe una infanzia e
una adolescenza da romanzo. Morta la madre, rimase con la sorella e il
cognato, e passò giorni d’inferno, provando tutte le umiliazioni della
sua equivoca condizione.

Aveva appena ventidue anni, quando la marchesa Du Deffand, già avanzata
d’età e quasi cieca, le propose di venire a Parigi con lei per tenerle
compagnia e farle da lettrice e da segretaria. Giulia accettò, e visse
con M.me Du Deffand per più di nove anni in perfetta armonia. Lì ebbe
occasione di conoscere i più insigni scrittori contemporanei, che quasi
tutti frequentavano il _salon_ della marchesa, e si guadagnò la stima e
la simpatia di molti fra loro.

Non era bella, ma piacente per lo spirito, la grazia, la squisitezza
del gusto, la finezza dei modi; per la soave amabilità del sorriso,
l’intelligenza e la profonda espressione degli occhi, che avea neri e
bellissimi. Vestita con elegante semplicità, piaceva generalmente, e
godeva di accorgersene.... «_Ah! que je voudrais_, diceva un giorno,
_connoître le foible de chacun!_» Ingenua parola che le usciva dal
cuore e che ci rivela in questa donna, che la passione dovea poi
rendere così indifferente e romita, un fondo di naturale ed affettuosa
bontà, mista a una perdonabile vanità femminile. Era delicata di
sentimenti, di immaginazione, di gusti. Un oggetto, una parola
triviale, la facevan soffrire come un insulto. Malinconica spesso,
sentì fin dalla prima giovinezza la vanità e il disgusto della vita;
e gracile di persona, ed emottoica fin dai diciotto anni, era di una
sensibilità nervosa eccitabilissima; talchè può dirsi che essa riuniva
in sè, in modo più singolare che raro, tutto ciò che sulla terra
procura o fa più intenso il dolore.

M.me Du Deffand, avvezza a dormir di giorno e a levarsi tardissimo,
apriva il suo _salon_ a sera inoltrata. I suoi illustri visitatori
fino dal 1762 avevan presa l’abitudine di riunirsi ad aspettar l’ora
_officiale_ nelle stanze di M.lle de Lespinasse, e spesso anticipavano
di un’ora o due, per avere il piacere di conversare fra loro e con
lei, in più libera intimità. Quando la caustica e gelosa marchesa ebbe
notizia di questa _violazione dei suoi sacri diritti_, com’essa la
qualificava, gridò al tradimento, se ne lamentò con mezza Parigi, e
la burrasca non potendo in verun modo acchetarsi, M.lle de Lespinasse
dovè ritirarsi e aprir casa da sè. Ma aprì anche un _salon_, nella
sua elegante casina di via Belle-Chasse, e molti e dei più notevoli
e assidui frequentatori del _salon_ della marchesa lo disertarono
per quello della loro giovine amica. Fra questi, D’Alembert, Turgot,
Condorcet, Brienne, Chostelloux.

D’Alembert fece di più: andò ad abitare nella stessa casa della
Lespinasse, spinto da un sentimento più forte dell’amicizia, (questo
figlio dell’amore era magneticamente attratto verso la sventurata
figliola dell’amore) sentimento disgraziatamente non corrisposto, e che
doveva amareggiare tutta la vita dell’illustre filosofo, umiliarlo agli
occhi degli amici ed ai propri occhi, paralizzargli negli ultimi anni
l’attività dell’ingegno, ed affrettargli la morte.

Ma non anticipiamo.... Affrettiamoci invece a parlare dei due amori
di Giulia, o meglio del suo amore, perchè la fiamma del primo benchè
spontanea ed ardente, si fa impercettibile dinanzi al divorante
incendio del secondo amore di lei. Per D’Alembert essa non ebbe che
amicizia; per il signor De Mora, amore; per il signor De Guibert,
passione.

E la passione per il signor De Guibert nacque prima che fosse spento
nel cuore della infelice donna l’amore per il signor De Mora. Le
lettere di lei ci fanno assistere al doloroso dramma della lotta di
due amori, uno angosciosamente morente, l’altro audacemente invasore
e sovrano. La ragione, il dovere, il rimorso, son dissipati ai primi
soffi vulcanici della imminente tempesta, e la passione tiranna, regna,
imperversa, devasta, e non si ritira neppur dinanzi alla morte!


II

Figlio del conte di Fuentes ambasciatore di Spagna alla corte di
Francia, il signor De Mora era, secondo ciò che ne scrive il Galiani,
acuto e credibile giudice, un uomo di merito straordinario e che pareva
destinato al più glorioso avvenire. Era venuto a Parigi nel 1766.
Giovine, bello, famoso, nobile di sentimenti e di modi, cavalleresco
come uno spagnuolo, amabile come un francese, s’innamorò della
Lespinasse, e ne fu riamato con pari ardore. Malato di petto, dovè
lasciar Parigi l’agosto del 1772 per andare a respirare l’aria nativa.
La separazione dei due amanti fu dolorosa.... pareva che ambedue
presentissero il tragico loro destino e che non si sarebbero mai più
rivisti. In _dieci_ giorni egli le scrisse _venticinque_ lettere (cifre
eloquenti, infallibile termometro), e Giulia non sapea darsi pace....

Essa soffriva molto per l’assenza dell’amante, e cercava talvolta
qualche innocente distrazione al suo dolore, qualche svago per passare
le ore intollerabilmente eterne della lontananza. Un giorno, il suo
cattivo genio le suggerì di andar a far visita al pittore Watelet, alla
sua villa di Moulin-Joli, sulle rive della Senna, presso Montmorency.
Fu là che Giulia vide per la prima volta il giovine colonnello De
Guibert. Questo brillante ufficiale a cui era noto l’amore di Giulia
per il signor De Mora e vedeva la sua malinconia, cercò di distrarla,
di confortarla, e riuscì sventuratamente troppo al di là del suo
intento. Bastò quel giorno (che essa invoca ed esecra, adora e maledice
nelle sue lettere), per trasfonderle in tutte le vene il veleno che la
dovea consumare.

O misteri, o contradizioni del cuore! Come potè questo signor De
Guibert, in un sol giorno, contrabbilanciare nel cuore di una donna
innamorata, e naturalmente buona e sincera come la Lespinasse, l’amore
che essa provava per il signor De Mora, lontano, fedele e sofferente?
Questo Guibert che non era altro che un fortunato ambizioso, di una
immensa vanità e di un mediocre ingegno; autore di opuscoli militari
che fecero un certo rumore; adulato adulatori delle celebrità
contemporanee; uomo di un carattere comune, e qualche volta anche
volgare! Eppure il fortunato ufficiale fece dimenticare a una donna
come la Lespinasse un uomo come il signor De Mora; le fece disprezzare
i teneri sentimenti di un D’Alembert.... e dopo l’agonia della povera
Giulia, morta d’amore per lui, egli seppe ispirare i primi sentimenti
d’amore alla figlia di Necker, e fa parlare anche oggi di sè, grazie ai
nomi famosi della Lespinasse e di madama di Staël.

Era passato appena un anno dal giorno della fatale visita a
Moulin-Joli, e la passione di Giulia per il signor De Guibert aveva
trionfato, dopo strazianti contrasti, di ogni dovere, d’ogni rimorso,
d’ogni pietà. E il signor De Mora, fortunatamente ignaro della
infedeltà di lei, moriva quasi improvvisamente a Bordeaux.

Qui comincia la storia straziante, il dramma interno continuo, che
conduce alla inevitabile catastrofe. Notiamo le gradazioni di questo
fatale _crescendo_ nelle _Lettere_ che ci rimangono della infelicissima
donna. Il gemito di Eloisa, il grido di Fedra, il delirio di Saffo si
alternano in queste _Lettere_ veramente uniche, e che sembrano bruciare
la pagina....

Maraviglia, dolce commozione, dubbio, rimorsi, contrasto e lotta,
debolezza e abbandono, trionfo dispotico della passione, estasi
e spasimi, amari disinganni, sforzi inutili per guarire, gelosia,
umiliazioni, abbattimento fisico e morale, delirio, agonia e morte —
sono le fasi che percorre questa tragedia d’un’anima.


III

Nelle _Lettere_ di M.lle de Lespinasse è una volta chiaramente
indicato, e più volte indirettamente accennato, il giorno nel quale la
passione, più forte d’ogni altro sentimento, la gettò nelle braccia
del nuovo amante. Il 10 febbraio 1774, così essa scrive al signor De
Guibert: «Minuit sonne; mon ami, je viens d’être frappée d’un souvenir
qui glace mon sang. C’est le 10 février de l’année dernière que je fus
énivrée d’un poison dont l’effet dure encore. Dans cet instant même, il
altère la circulation de mon sang: il le porte à mon cœur avec plus de
violence. Hélas! Par quelle fatalité faut-il que le sentiment du plasir
le plus vif et le plus doux soit lié au malheur le plus accablant?...
Je me sens entraînée vers vous par un charme que j’abhorre, mais qui
a le pouvoir de la malédiction et de la fatalité.» E segue dicendo
che il fantasma vendicatore del signor De Mora la perseguita, e non
le dà un’ora di pace.... per poi concludere: «Je vous attends, je vous
aime, je voudrais être toute à vous, et mourir après.» Il giorno dopo
gli scrive una lettera di fuoco in cui sembra domandargli perdono dei
suoi rimorsi, e gli parla con una sottomissione da bambina tremante,
e finisce: «Je vous aime comme il faut aimer, avec excès, avec folie,
transport et désespoir.» Negli ultimi giorni del 1774 gli scrive
un biglietto di un rigo che si direbbe l’epilogo di tutte le sue
lettere. È datato _de tous les instants de ma vie_, e dice così: «Mon
ami; je souffre, je vous aime, et je vous attends.» Essa gli rivela
giornalmente ogni suo sentimento, ogni suo pensiero, e gli confessa:
«Je ne crois m’assurer la propriété de mes pensées, qu’en vous les
communiant.» Chiude la porta alle visite, non vuol più ricevere ne
D’Alembert, nè Diderot, quando il signor De Guibert è assente da
Parigi, e passa le giornate intere a scrivergli, o a sognare, da desta,
di lui: le sere d’estate, sola, senza aprire un libro, senza accendere
il lume, assisa presso la finestra, passa delle ore felici a pensare a
lui, a lui sempre, a lui solamente....

L’amore fu _tutto_ per lei. E dall’altezza eroica a cui la esaltò
la passione, misurava e giudicava con ironica pietà la vanità e
la piccolezza di tutto quel che più agita il mondo: la gloria, la
politica, le accademie, i teatri, le mode, i _salons_. Tutto le divenne
a un tratto _supremamente indifferente_, e stupiva di essersi tanto
preoccupata finora di simili _nulla_....


IV

Da quest’estasi la riscosse un colpo di fulmine. Il signor De
Guibert prese moglie; una giovinetta di diciott’anni; un matrimonio
di _convenienza_, dove il cuore non era compromesso.... (così tenta
di farle credere). Essa sulle prime gli scrive lettere di nobile
risentimento e di amaro rimprovero. In una lettera del 15 ottobre
1775 gli dice: «Le coup dont vous m’avez frappée a atteint mon âme,
et mon corps y succombe. Je le sens; je ne veux ni vous effrayer, ni
vous intéresser; mais je sens que j’en meurs: (e non eran frasi!) même
en supposant l’impossible, que vous redevinssiez libre, et que vous
fussiez pour moi ce que j’avais désiré, il serait trop tard.... mais je
vous pardonne; dans peu tout sera égal.» E quando egli ipocritamente
osò darle consigli di saggezza e di prudenza, e parlarle di _morale_,
gli rispose con queste parole, dove freme tutta l’indignazione della
donna ingannata: «Ne prenez pas l’envie de me faire la victime de votre
morale, après m’avoir fait celle de votre légèreté.» E quando egli
mendicava pretesti, e voleva dare spiegazioni di impegni antecedenti
ecc., essa gli rispondeva: «Sauvons les détails: quand une fois le fil
de la vérité a été rompu, il ne faut pas le rajouter; cela va toujours
mal.» Seppe poi che da un pezzo egli era fidanzato alla giovine che
sposò: eppure non le riuscì di troncare la corrispondenza e guarire.
Egli crudelmente le manteneva aperta la ferita con lunghe lettere dove
simulava l’accento dell’amore. E l’infelice era troppo interessata a
crederlo vero!

Avea però dei rari momenti di riflessione, dei lucidi intervalli,
nei quali le cadeva la benda dagli occhi, e allora provava una gran
pietà di sè stessa e piangeva: piangeva per delle ore, con lacrime
abbondanti, incessanti, che le facevan bene, la sollevavano, come un
diluvio d’estate che alleggerisce e purifica l’aria diventata afosa
e irrespirabile. In quei momenti vedeva a nudo la vanità artificiosa,
la leggerezza, la nullità dell’uomo a cui avea consacrato inutilmente
tesori di affetto, la pace, la riputazione, l’ingegno, la salute, la
vita; e ripensava al signor De Mora, e si sentiva colpevole, e provava
un’acre voluttà nel suo pianto, riguardandolo come espiazione del suo
tradimento.

In uno di questi giorni, avendole il signor De Guibert scritta una
lettera in cui la umiliava con crudeli parole, essa gli rispose così:
«Quoi! j’ai été aimée de M.r De Mora, j’ai été l’objet de la passion de
l’âme la plus noble, la plus grande, et vous voudriez m’humilier? Ah!
laissez-moi à mes remords: ils m’anéantissent....»

Eppure, poche settimane dopo, è la prima a riscrivergli: a scusarsi, a
mendicare una parola d’amore, a tentare di impietosirlo descrivendogli
le sue orribili notti d’insonnia, di tosse, di febbre, di disperazione.
Gli promette di _non annoiarlo più_ coi rimproveri.... gli chiede (essa
a lui!) compatimento e perdono.... «Ne m’aimez pas, mais souffrez que
je vous aime toujours!» E con la mano ardente di quella febbre che la
conduceva a passi precipitati alla tomba, aggiungeva: «Les battements
de mon cœur, les pulsations de mon pouls, ma respiration, tout cela
n’est plus en moi que l’effet de la passion.»

Questo veleno, questo filtro di Medea, la consumava visibilmente. Era
diventata uno spettro. E spesso si tratteneva davanti allo specchio,
guardando come istupidita, con lunghi sguardi di compassione, le sue
povere gote incavate, le sue magre braccia; e pensava a lui giovane,
bello, pieno di salute, sorridente nella sua elegante uniforme di
colonnello, al braccio della giovane sposa.... Allora dava in uno di
quegli scoppi di risa che si odon soltanto quando si passa vicino ad un
manicomio.


V

Quest’agonia della infelice Giulia fu spaventosa e lenta. Durò quasi
tre anni. L’intensità dell’angoscia era talvolta sì grande, che essa
ricorreva all’oppio per ottenere qualche ora di tregua, per dormire
un poco, per non pensare a lui. L’oppio e la musica furono i suoi
unici sollievi. Quando andava a sentir l’_Orfeo_, le note elegìache di
Gluck, l’aria famosa _J’ai perdu mon Eurydice_, le facevan versar dolci
lagrime: le pareva allora di essere soavemente rassegnata al suo fato,
le pareva possibile di morire in pace.

Ma bastava una lettera _di lui_, un ricordo, un nulla, per rimetterle
l’inferno nell’anima, per farla delirare di nuovo. La gelosia la
torturava con la fisica rappresentazione di voluttà coniugali che
le parevan rubate, rubate a lei; e si sentiva agitata da smanie
intollerabili. La gelosia le fulminava nel cuore, feroce e incessante,
come le pulsazioni spasmodiche di un tumore o di un dente cariato; e
allora, delirante, fuori di sè, raddoppiava le dosi dell’oppio; e alle
smanie febbrili succedevano mortali letarghi.

Una sola volta in questi tre anni, quasi per miracolo, essa si destò
calma, e come se fosse diventata a un tratto un’altra persona. Ripensò
ai casi di Giulia Lespinasse come ai casi di un’altra donna, si
sentì riconciliata alla vita, potè leggere, conversò con D’Alembert,
andò a fare una passeggiata nel giardino delle Tuileries. Era un
giorno di settembre del 1775. Ne parla in una sua lettera, la sola
lettera tranquilla in tutto il volume: «C’était une belle matinée de
soleil: j’ai été aux Tuileries: oh, qu’elles étaient belles! le divin
temps qu’il faisait! l’air que je respirais me servait de calmant:
j’aimais, je regrettais, je désirais; mais tous ces sentiments avaient
l’empreinte de la douceur et de la mélancolie.... Oh, je ne veux plus
aimer fort, mais j’aimerai doucement....»

Ecco finalmente, la prima volta, per la misera donna un giorno di pace,
di rassegnazione, di autunnale poesia. Essa stessa ne rimase sorpresa,
trasognata; avvezza com’era a vivere vertiginosamente nel terribile
cerchio d’un uragano, a respirar sempre l’aria elettrica della
tempesta.


VI

La sera di una burrascosa giornata di novembre, a Roma, nell’ora
del tramonto, io vidi dall’orto di Sant’Onofrio sul Gianicolo uno
spettacolo che non potrò dimenticar mai. La città tra il barlume
crepuscolare e la nebbia pareva un’enorme Pompei sotto la cenere. Il
cielo era spaventoso. Blocchi giganteschi di nuvole color di rame si
affollavano verso oriente: a occidente, una immensa tenda di fuoco,
candescente come una fornace dove il mantice soffii continuo. Qua e
là, immani forme di mostri apocalittici, tizzoni fumanti, striscie
di sangue, rovine babiloniche, confusi avanzi di enormi naufragi....
E tutto era immobile, peso, senza un alito di vento. Solo in fondo
all’orizzonte, verso Albano, si vedeva un pezzo di cielo turchino, un
piccolo triangolo d’un azzurro ineffabilmente tenero e profondo, un
occhio di paradiso su quella babele di nuvoli minacciosi....

La storia della passione di Giulia Lespinasse a me pare che rassomigli
a quel sinistro cielo crepuscolare. È una scena d’orrore, consolata
solo da un lembo d’azzurro, da un breve sorriso di pace.

Fu il primo e l’ultimo. Un letargo di due giorni precedè la morte
di lei. Quando riuscirono a farla tornare in sè, disse con accento
di dolore e di spavento: «Dunque son sempre viva?...» Sperava che
l’_orribile palpito_ fosse finito: la vita le faceva terrore.

Ma la morte, la consolatrice, venne; e posò le sue fredde mani sulla
fronte ardente, sul petto in sussulto dell’infelice.... e il cuore e il
cervello di Giulia Lespinasse si acquietarono — finalmente.

Il 23 di maggio del 1776, alle due dopo la mezzanotte, era guarita per
sempre.




LA BARONESSA DI KRÜDENER


Ho riletto _Valérie:_ e il libro mi ha tratto a fantasticare un po’ sul
suo autore, su quell’adorabile madame De Krüdener. _La pâle baronne_
mi distrae da due giorni da ogni occupazione; sono innamorato della
sua penna, della sua danza, delle sue preghiere, e del suo famoso
scialle di mussolina. Mi vien voglia di mettermi in ginocchioni
come Benjamin Constant o come lo Czar Alessandro, per dir con lei le
devozioni, aspettando «_les inspirations supérieures_.» Io la vedo
in tutti i momenti più notevoli della sua vita. La vedo quando, sotto
il Direttorio, essa apparisce la prima volta nei _salons_ di Parigi,
bionda, pallida, fine ed eterea, circonfusa da una nuvola di bianchi
veli, e gira attorno i suoi grandi occhi calmi, color verde-mare:
bellezza scandinava, illuminata da un pallido raggio di sole polare,
calma e fredda come la neve delle sue native Dofrine.... Ma ecco
Bergasse e Saint-Pierre e Garat che la circondano e la invitano a
danzare. Essa cede di buona grazia, chiede il suo scialle di mussolina
azzurra, si alza, e comincia la _danse tableau._ La scandinava è
diventata a un tratto una parigina! La vita, l’emozione, traboccano dai
suoi gesti, dai suoi sguardi, da ogni suo movimento. Essa si trasforma
in cento modi: ora è Niobe impietrita dal dolore, ora è Galatea che
fugge inseguita.... Alla voluttuosa Odalisca che languidamente invita e
resiste, succede la vivace ridente napoletana che balla la tarantella,
e batte il terreno a passi rapidi e fitti come la grandine....

                                   ❦

Le armate alleate sono entrate in Parigi. La Santa Alleanza ha
anch’essa i suoi poeti, i suoi angioli propiziatori; e la sua Sibilla,
la sua Velleda, in Giuliana Krüdener. La casa di lei si trasforma in
un tempio; essa vi aduna delle assemblee religiose dove si commentano
Swedenborg e Saint-Martin, si prega, si canta, e si profetizza....
«Alessandro sarà l’Angelo bianco, il genio dei nuovi tempi!...» E
Alessandro non tralascia di far qualche visita al tempio.... e alla
sacerdotessa. Vi vengono anche dei Gustavi sentimentali, prima di
ritirarsi alla _grande-Chartreuse_, e dei Volteriani che scoppiano
dal riso interiore, quando la bella Giuliana dall’ultima stanza della
galleria, a una luce crepuscolare _savamment ménagée_, si avanza in
un costume solenne, ma che fa risaltare anche i suoi doni.... non
spirituali.

                                   ❦

Ma, ecco, essa parla, perora, s’infiamma; e il fuoco che l’anima
lo trasfonde in petto dei suoi devoti. V’immaginate quello scettico
_blasé_ di Benjamin Constant, commosso realmente alle ardenti prediche
di questa bionda missionaria, recitare una specie di _confiteor_,
e inginocchiarsele accanto e pregare con lei? — Eppure è storia. In
altri giorni poi, quieta, serena, graziosa, fra un punto e l’altro del
suo ricamo, essa parla agli amici, e più volentieri alle amiche, dei
poveri giovani morenti d’amore per lei.... A sentirla, essa ha popolato
le certose e i cimiteri d’Europa colle vittime dei suoi sguardi
affascinatori.... «Povero Gustavo! (diceva essa un giorno a madame
Langer) ancora non è proprio morto, ma ci manca poco.... E dire che il
cielo non mi assente di salvargli la vita!...» Pare bensì che il cielo
non fosse sempre sì rigido, e madame de Krüdener profittava volentieri
di quelle temporanee indulgenze. Ma attaccata sempre al suo cielo con
un filo d’oro, o di argenteo vapore mistico, essa diceva sospirando
nei momenti più decisivi: «O mio Dio, perdonatemi l’eccesso di questo
piacere!»

                                   ❦

Nel romanzo _Valérie_, essa ci ha lasciato il proprio ritratto; o
per meglio dire una galleria dei suoi ritratti: essa vi si è dipinta
in tutti i costumi, in tutte le attitudini, a ricevere il _culto di
latria_ di quel povero Gustavo, che trascina di chiesa in chiesa, di
certosa in certosa, di villa in villa, il suo amore e la sua tise.
Ciò nonostante, _Valérie_ è un libro bello, vero, ben composto,
bene scritto, e si legge ancora con piacere, e durerà. Scritto
dalla Krüdener in un momento critico della sua vita, quando per lei
tramontavano la gioventù e la bellezza, e gli amori terreni cedevano
il luogo nel suo cuore alle esaltazioni religiose, essa vi ha ritratto
le delicate _nuances_ di quel momento unico, di quel passaggio. Ciò dà
al romanzo una grazia tutta femminina, un’attrattiva irresistibile:
e forse la _Valérie_ è il solo romanzo di forma epistolare che regga
a una lettura continuata, e si possa gustare dalla prima all’ultima
pagina.

                                   ❦

E se anche oggi si pensa e si scrive di Giuliana Vietinghoff baronessa
di Krüdener, dei suoi trionfi di _salon_, del suo illuminismo, dei suoi
catechismi ai filosofi e ai re; se ricordiamo che nel suo gabinetto
fu da Alessandro e dagli altri _angioli bianchi_ del nord tracciato
il disegno della Santa Alleanza; se la seguiamo nei suoi viaggi di
apostolato sul Caucaso ed in Crimea, o quando esule essa conduce
con Kellner una vita di nomade e di fuggiasca, perseguitata dalla
polizia, derisa dai filosofi, ma sempre serena, operosa, infaticabile,
incorreggibile; insomma, se dopo la sua morte (1825) il mondo si occupa
ancora di lei, essa lo deve unicamente a questo volumetto di _Valérie_.
Annunziato abilmente dal _Mercure_, preconizzato da Bernardin de
Saint-Pierre, fino da quando fu pubblicato nel 1802, destò un vero
entusiasmo. La moda, grande ausiliatrice a Parigi, confermò quel
successo. Cappelli, piume, sciarpe, scarpini, ghirlande, tutto fu _à la
Valérie_ per più mesi. Ma il libro sopravvisse alla moda: sopravvisse
ai bastoni a serpente, alle strette lunghissime falde e alle colossali
cravatte degli _incroyables_, ai guanti ricamati, ai _bonnets à
plumage_ e alle sciarpe di mussolina delle _merveilleuses._




LA CONTESSA GUICCIOLI


Le onde dei lunghi aurei capelli le scendevano fino ai piedi, come un
torrente delle alpi che il sole colora coi suoi raggi mattutini....
Essa creava intorno a sè un’atmosfera di vita; l’aria stessa illuminata
dai suoi sguardi pareva farsi più leggiera; tanto essi eran soavi e
pieni di tutto quel che possiamo immaginare di più celeste.... Vi si
insinuavan nell’anima, come l’alba di una bella giornata di maggio.»

Statura piuttosto piccola; gracile, ma perfetta di forme: bianchissima
di carnagione: sorriso etereo, Correggiesco: occhi veramente italiani,
pieni di languori e di tempeste, di sorrisi e di lacrime.

Aveva diciassett’anni: era di nobile famiglia, i Gamba di Ravenna, ed
usciva allora di convento. Il conte Guiccioli era vecchio, era vedovo,
ma era anche ricchissimo.... e gliela dettero in moglie.

Lord Byron la vide per la prima volta in casa della contessa Albrizzi,
nell’autunno del 1818. Ne fu colpito come da una visione celeste; ma
evitò di rincontrarla,

    _Car le baril de poudre a peur de l’étincelle._

Egli era all’apogeo della sua gloria, ma in lotta col suo cuore, e in
guerra aperta colla famiglia, colla patria e col mondo: i capolavori
del suo genio poetico si succedevano; ma quelle pagine di alta poesia
eloquente e patetica, tragica e satirica, uscivano da un _harem_
veneziano dove egli consumava le forze e la vita, fra le braccia di
_animali donne_, com’egli stesso le chiamava, bevendo fino a tarda
notte vino del Reno e cognac, fremendo, e ruggendo irrequieto come un
leone in una gabbia, tanto che i suoi bei capelli si facevano grigi, e
le digestioni difficili, e i sonni brevi e convulsi.

Aveva allora trentun anno, ed era sempre bellissimo, nonostante quel
regime micidiale di vita: il più bell’uomo del suo tempo, a giudizio
della Albrizzi, della Blessington, dello Shelley, del Trelawny, del
Moore, dello Scott. La sua testa d’Antinoo era come un bel vaso di
alabastro illuminato da interna luce. I suoi occhi grigio azzurri,
cangianti come il colore del mare, esprimevano con rapida successione
le passioni più opposte, dall’entusiasmo raggiante alla collera
concentrata, dall’ardente simpatia del poeta al glaciale disprezzo
e all’orgoglio del lord inglese. Il volto di un perfetto profilo
era pallido abitualmente, ma di un pallore marmoreo; e su la nobile
fronte e sul bellissimo collo spiccavano bruni e folti e naturalmente
inanellati i capelli.

                                   ❦

Era destino che si ritrovassero, che si amassero. «Nell’aprile del
1819 — scrive nei suoi _Ricordi_ la giovinetta contessa — io feci la
conoscenza di lord Byron. Mi fu presentato a Venezia dalla contessa
Benzoni nella di lei società. Questa presentazione, _che ebbe tante
conseguente per tutti e due, fu fatta contro la volontà d’entrambi_,
e solo per condiscendenza l’abbiamo permessa. Io stanca più che mai
quella sera, per le ore tarde che si costuma fare in Venezia, andai
con molta ripugnanza, e solo per obbedire al conte Guiccioli, in
quella società. Lord Byron che scansava di fare nuove conoscenze,
dicendo sempre che aveva interamente rinunziato alle passioni e che non
voleva esporsi più alle loro conseguenze, quando la contessa Benzoni
lo pregò di volersi far presentare a me, si ricusò dapprima, e solo
per compiacenza glielo permise. La nobile e bellissima sua fisonomia,
il suono della sua voce, le sue maniere, i mille incanti che lo
circondavano, lo rendevano un essere così differente, così superiore
a tutti quelli che io avevo sino allora veduti, che non potei a meno
di provarne la più profonda impressione.... Da quella sera in poi, in
tutti i giorni che mi fermai in Venezia, ci siamo sempre veduti.»

                                   ❦

Veduti ed amati! E la donna in questo amore aveva molto più da perder
che l’uomo, socialmente parlando. È vero; ma io non farò su lei nè
morali rimpianti nè ipocrite elegie. Essa fu amata sinceramente e
passionatamente dal più grande poeta del secolo, giovine e bello,
nobile e generoso. Essa fu il solo _vero amore_ di Byron, dopo le prime
vaghe sue affezioni d’adolescente. Nel cuore di Aroldo essa non ebbe
succeditrici o rivali; vi regnò unica, e non lo cedè che alla Grecia.
Qual trionfo per una donna!

Ma, in compenso, essa fece a lui un bene anche più grande,
infinitamente più grande. Essa brillò come un’iride su l’uragano di
quell’anima, e vi portò la calma, la serenità, la giovanile freschezza.
Essa ricompose e acquietò quel cuore esulcerato e agitato, quel
cervello minacciato dalla pazzia. Essa rese a Byron il rispetto di sè
medesimo, e per lungo tempo la pace e l’armonia della vita. Essa, essa
sola, seppe farlo _pianger d’amore_.

Attratta come da una corrente magnetica irresistibile, si gettò nelle
braccia di lui coll’entusiasmo dei suoi diciotto anni, colla sincerità
del suo cuore verginale. Non si arrese dopo le calcolate strategie
delle adultere da romanzo, ma si abbandonò a lui, tremante d’amore
vero, come Francesca. Egli si vide innanzi viva e reale la donna de’
suoi sogni, pura, ingenua, passionata. Il cuore di Zuleika e di Medora
palpitò ardente negli amplessi del poeta. Essa lo amò non per la gloria
del nome, non per lo ambito trionfo di vedere ai suoi piedi il più
famoso poeta del tempo, non per la vanità di far parlar di sè tutta
Europa, e sapersi invidiata dalle donne più belle; — ma lo amò per lui
proprio, lui Giorgio Byron, giovine, bello e infelice. Essa era lontana
mille miglia da quel sentimento misto di vanità che fece scriver
lettere e intraprender viaggi e minacciare suicidi alle sedicenti
innamorate di Goethe e di Rousseau, di Châteaubriand e di Lamartine.
Essa fu veramente donna e italiana, cioè sincera e passionata. Ambedue
erano infelici, benchè di differente sventura. La vittima innocente
consolò l’infelice colpevole; e, agli occhi del mondo, si perde per
salvarlo.

                                   ❦

Egli sentì, con fremiti di voluttà e di arcano terrore, che il suo
cuore non era morto come credeva, ma che anzi non aveva mai amato così;
e si abbandonò a tutto l’incanto di questa passione che presentiva
esser l’ultima. Non potè più vivere lontano da lei. Ed essa aveva
dovuto lasciare Venezia. «È vano lottare, lasciatemi amare e morire!» E
confidava al Po, in versi immortali, il suo amore e i suoi desiderii,
chè gli portasse alla sua donna, passando sotto le native sue mura.
Andò a Bologna, e là inquieto e solitario, passava lunghe ore fra le
tombe della Certosa, ammirando la bellezza delle rose sparse sui marmi,
e il semplice affetto di alcune iscrizioni.... Ma la seppe malata a
Ravenna, e non potè più resistere, e a costo di comprometterla, vi
andò subito. La _pineta e la tomba di Dante_ erano scuse sufficienti
al gran pellegrino. Come e quanto egli l’amasse si può ben intendere
da queste parole dei _Ricordi manoscritti_ della contessa medesima,
citati da Moore, e che dicon tanto nella loro ingenua sincerità
romagnola. «Egli giunse a Ravenna nel giorno della solennità del Corpus
Domini, mentre io attaccata da una malattia di consunzione, che ebbe
principio dalla mia partenza da Venezia, ero vicina a morire. L’arrivo
in Ravenna di un forestiere distinto, in un paese così lontano dalle
strade che ordinariamente tengono i viaggiatori, era un avvenimento del
quale molto si parlava, indagandosene i motivi, che involontariamente
poi egli stesso fece conoscere. Perchè avendo egli domandato di me
per venire a vedermi, ed essendogli stato risposto _che non potrebbe
vedermi più, perchè ero vicina a morire_, egli rispose che in quel
caso voleva morire egli pure; la qual cosa essendosi divulgata, si
conobbe così l’oggetto del suo viaggio. Il conte Guiccioli visitò lord
Byron, avendolo conosciuto in Venezia, e nella speranza che la di lui
compagnia potesse distrarmi ed essermi di qualche giovamento nello
stato in cui mi trovavo, lo invitò a venire a visitarmi. Il giorno
appresso egli venne. Non si potrebbero descrivere le cure, i pensieri
delicati, quanto egli fece per me. Per molto tempo egli non ebbe per le
mani che dei libri di medicina, poco fidandosi nei miei medici. Ma la
tranquillità, anzi la felicità inesprimibile che mi cagionava la sola
presenza di lord Byron, migliorarono così rapidamente la mia salute,
che entro lo spazio di due mesi ero in convalescenza.»

Fu in quel tempo che Byron le propose di fuggire con lui. Essa non
volle: sperava invece ottener presto il divorzio.

«Quando passai allo stato di convalescenza, egli era sempre al mio
fianco; e in società, e al teatro, e cavalcando, e passeggiando,
egli non si allontanava mai da me. In quell’epoca, essendo egli privo
dei suoi libri e dei suoi cavalli, e di tuttociò che lo occupava in
Venezia, io lo pregai di volersi occupare per me, scrivendo qualche
cosa su Dante; ed egli colla usata sua rapidità scrisse la _Profezia di
Dante_.»

                                   ❦

Poco dopo, essa dovè accompagnare in una gita di varii giorni il
marito, e Byron tornò triste e solo a Bologna. Qui, col cuore ammollito
ed esaltato dal nuovo sentimento che tutto lo possedeva, l’antica
malinconia della sua prima gioventù lo riprese. Quella sorgente di
naturale tenerezza che nè gli sforzi, le ingiurie e il veleno del
mondo, nè i suoi propri eccessi avevan potuto disseccare affatto, corse
di nuovo più vivace che mai per le sue vene. Sentì che cosa vuol dire
amar davvero ed essere amati; troppo tardi per la sua felicità, troppo
intensamente per la sua pace — ma che importa? lo sentì e ne fu beato.
Egli andava tutti i giorni a visitare il quartiere che essa soleva
abitare in Bologna e dov’era stata pochi dì prima, e lì, in quella
stanza solitaria, dove tutto gli parlava di lei, provava una ineffabile
voluttà a scrivere nelle sue carte, a leggere e postillare i suoi
libri.

Un giorno, nel giardino di quella casa, assiso presso una fontana,
pensando a lei, in quella mesta ora del vespro che nessuno dopo Dante
ha cantata meglio di lui, sentì così vivo ed acuto lo spasimo della
lontananza, fu preso da così ardenti desiderii, da così strani terrori
d’amante, che dette in un pianto dirotto. Egli pianse d’amore, come
Dante e l’Alfieri, come il Burns ed il Foscolo, che non hanno temuto di
passare da _vigliacchi sentimentali_ nel confessarcelo, e che pur non
eran _romantici_....

In questo stesso giardino, in un volume della _Corinna_ appartenente
alla contessa, egli scrisse in inglese col lapis queste parole:
«Teresa mia. Ho letto questo libro nel tuo giardino. Tu eri lontana,
amor mio.... altrimenti non sarei stato a leggere. Questo è un libro
prediletto da te e scritto da una mia amica. Mi è doppiamente caro. Tu
non capirai queste parole inglesi (ma anche _altri_ non le capirà, e
perciò non le scrivo in italiano) ma tu riconoscerai lo scritto di chi
passionatamente ti ama, e indovinerai che sopra un _tuo_ libro egli
non poteva pensar che all’_amore_. In questa parola, bella in tutte
le lingue, ma più nella tua, o _amor mio_, è compresa tutta la mia
esistenza presente e futura....»

Bisogna convenire che se Byron sapeva far dei bei versi, conosceva però
l’_arte d’amare_, per lo meno quanto l’_arte poetica_. E si capisce che
la contessa doveva adorarlo.

                                   ❦

Ma la situazione era equivoca e dolorosa per tutti e due, e non poteva
a lungo durare. La contessa dovè tornare a Ravenna, e Byron aveva
giurato di seguirla. Amici zelanti vollero dissuaderlo; anzi arrivarono
a deciderlo di partire per l’Inghilterra «per il bene suo e per la pace
della signora.» Ma la _signora_ non la intendeva così. Gli scriveva
lettere passionate, ed egli vi rispondeva con altre ardenti, in un
italiano un po’ barocco, ma chiaro ed eloquentissimo.

A Venezia, un giorno ch’egli aveva più ascoltato la voce tanto
autorevole e tanto poco obbedita del giudizio e della ragione, si fece
un coraggio da leone, e decise lì per lì di partire per Londra. Era già
in abito da viaggio, aveva preso i guanti e il cappello e la mazza. I
suoi bauli erano in gondola. I servi pronti a piè di scala. Non gli
mancava che scendere.... quando riceve una lettera che gli annunzia
che la contessa è malata e che desidera di vederlo. Disordina tutto, e
rimane, e le scrive subito: «Cara! credevo che il miglior partito per
la pace tua e la pace della tua famiglia fosse il mio partire, e andar
_ben lontano_; poichè esserti vicino e _non_ avvicinarti sarebbe per me
impossibile. Ma tu hai deciso che io debba ritornare a Ravenna; tornerò
e farò, e sarò, cara, ciò che tu vuoi!... Non posso dirti di più.»

E tornò davvero a Ravenna.

E l’influenza salutare di Teresa Guiccioli sul suo cuore e sul suo
ingegno si fè più palese. La parte patetica del Don Giovanni, la
divina chiusa del canto terzo sul tramonto e la pineta, sono ispirate
dall’amore per lei. Una tenerezza femminile, ineffabile, compenetra e
modifica la selvaggia armonia del verso di Byron. Egli la obbedisce in
tutto. Egli sposa la causa dei _Carbonari_ italiani, prima per amore
della libertà, ne convengo, ma anche per la viva amicizia che lo lega
al fratello di lei conte Pietro Gamba, patriotta generoso, uomo culto
ed amabilissimo, più tardi degno compagno di Byron in Grecia.

Egli che scrisse lettere fulminanti all’editore Murray e a Tommaso
Moore perchè gli proposero di modificare due versi del _Don Giovanni_,
ora dietro preghiera di lei sospende il poema, e non lo ripiglia finchè
essa non ritira il suo _veto_ e gli dà licenza di seguitarlo....

E quando l’innato senso _eroico_ di Byron lo spinse ad andare a
combattere e morire per la libertà della Grecia, essa che vedeva così
a un tratto _finir tutto_ per lei, seppe eroicamente sacrificarsi. Non
fece nè elegie nè _scene_: ma si immolò in silenzio, e fu grande; come
solo le donne veramente amanti sanno esserlo. Felice in questo, che
la immatura morte di Byron le lasciò intatta e pura la poesia della
passione, nè fu costretta, come tante infelici, a edificare sulle
ceneri dell’amore il _tempio dell’amicizia!_....

                                   ❦

Noi viviamo tutti per invecchiare e morire: e i disinganni invadon via
via il campo delle nostre gioie.... Molti cuori che più non credono
non sanno rassegnarsi a non amar più. Altri furono di buon’ora e
immedicabilmente feriti. Altri non possono amare, ed è loro negata
la sola vera gioia della vita. Felici quei pochi che provarono le
estasi e le torture, le trepide esultanze e le tacite voluttà della
vera passione! Essi soli posson dire come la Tecla di Schiller: «Ogni
terrena gioia gustai. Vissi ed amai!»

La morte stessa non può affatto distruggere quell’incanto. Al
superstite restano le sue memorie e le sue lacrime; e bastano a
consacrare una vita!

Teresa Guiccioli restò fedele e in patria e nel volontario esilio
a tanta memoria, a tanto amore. Le sue lettere, i suoi ricordi lo
attestano. Bella malinconica, giunta all’età in cui molte donne
cercano invano di prolungare una inutile gioventù, essa cedè con grazia
alle leggi del tempo, e restò sorridente e serena, quando i suoi bei
capelli, tanto cantati e tanto baciati da Byron, diventarono bianchi.
Io me la figuro, a momenti, passeggiar solitaria nei luoghi pieni
di tante memorie, e assidersi rassegnata e pensosa, e tòrsi di tasca
il volume di _Corinna_, e rileggervi quella _sua_ lettera.... e poi
levarsi commossa e più pallida del consueto.... Oppure, nell’ora che i
raggi del sol cadente filtrano nella fosca pineta, mi par di vederla, e
di sentirle modulare malinconicamente a sè stessa i memori versi:

    _Ave Maria! ’tis the hour of prayer_,
    _Ave Maria! ’tis the hour of love!_




ELISABETTA BARRETT BROWNING


I

Gli Inglesi e gli Americani più chiari nelle lettere o nelle arti
che soggiornavano in Italia, solevano, molti anni addietro, riunirsi
a passare i mesi del gran caldo sulle fresche colline di Siena: e
nella villa Orr ove dimorava William Story insigne scultore, critico e
poeta, si raccoglievano spesso ad amichevole convegno Savage Landor,
Hawthorne, i coniugi Browning, e altri famosi scrittori. Onorato
dell’amicizia del signor Story, conobbi in casa sua personalmente
l’illustre donna, di cui oggi mi studierò di ritrarre la poetica
fisonomia. Quando la vidi la prima volta fu nell’agosto del 59, verso
sera, nel giardino di villa Orr. Delicatissima, e già malata di petto,
essa era in quell’ora vespertina, tutta avvolta in un ampio scialle
di lana. Parlava poco, ed a bassa voce. Di tratti non regolari, e
non bella; ma un volto _esprimente_, indimenticabile. Bellissimi,
abbondanti i capelli che portava sciolti ed inanellati. Ma sopratutto
mi colpì il suo sguardo; quei suoi grandi occhi non mi usciron più
dalla mente. Ci vidi la passione e la malinconia, le prostrazioni
e gli entusiasmi che spirano dalle pagine di _Aurora Leigh_. Dei
molti ritratti della signora Browning, il solo che perfettamente la
rassomiglia è la bella fotografia del Macaire (Havre 1858) incisa poi
in un volume delle poesie, nella edizione del Chapman.

Elisabetta Barrett nacque nel 1809, ed ebbe un’infanzia felice, da lei
ricordata con amoroso rimpianto per tutta la vita, e in molte delle
sue più belle poesie (_Hector in the Garden, The lost Bower_). Amò
immensamente il fratello Ralph, che le doveva essere così lunga cagione
di pianto. Nutrita di serii e classici studi, vivendo gran parte
dell’anno in campagna, ebbe agio di ascoltare per tempo le due grandi
voci dell’arte e della natura: e la sua anima di poeta vi rispose
fin dalla prima adolescenza. La fine tragica del fratello diletto fu
il primo gran dolore della sua vita. N’ebbe a morire.... «_dans sa
première larme elle noya son cœur!_» Sputò sangue, e visse inferma
parecchi mesi: e da quell’epoca, la sua salute non si ristabilì mai
compiutamente. Risalgono forse a quel tempo queste commoventi strofe al
suo cane _Flush_:

                             . . . . . . .

«Di te si dirà: Questo cane vegliava giorno e notte accanto a un letto,
in una camera chiusa, dove mai raggio di sole non rompeva l’oscurità
intorno alla malata, all’afflitta.

«Le rose colte per metter nei vasi, in quella camera morivano
visibilmente, prive di luce e di brezza: questo cane solo aspettava e
vegliava, sapendo che quando manca la luce, rimane a splender l’amore.

«Altri cani fra le rugiade ed il timo cacciavan le lepri, inseguendole
per prati e per fratte, nell’aria libera al sole.... questo cane solo
si distendeva, si strisciava presso una languida gota, convivendo nel
buio.

«Altri cani, franchi e allegri animali, saltavano al suono acuto del
fischio che gli raccoglie nel bosco.... questo cane solo vigilava in
attenzione di una parola mormorata appena, o di un più forte sospiro.

«E se due mie lacrime scendevano improvvise sui suoi lisci orecchi,
se il mio respiro si faceva a un tratto convulso, egli saltava su
in fretta e con ansia, facendomi le feste, carezzandomi, respirando
affannoso nella sua tenera commozione.»

                             . . . . . . .

Nelle lunghe sue convalescenze approfondì lo studio del greco; del
quale dette, negli ultimi anni, uno splendido saggio, nel bel libro
su _I poeti greci cristiani_. I grandi tragici greci le divennero
familiari e carissimi; Euripide sopra gli altri, che essa designò
mirabilmente con questa strofa: «Il nostro Euripide, l’_umano_, dalle
vive e calde lacrime, che se tratta di cose comuni, le inalza fino alle
sfere!»


II

L’amore fu per lei il più grande avvenimento della vita, e inalzò il
suo cuore, e col cuore l’ingegno, alle più elevate regioni poetiche.
Il contrasto della volontà paterna, la lotta, il dramma che ne seguì,
dettero al suo amore per l’illustre poeta Roberto Browning, tutte
le tempeste e l’estasi di una vera passione. Alla fine furono uniti
in sacro legame questi due insigni e differentissimi ingegni. L’una
passionata, ardente, subiettiva; l’altro calmo, impassibile, obiettivo,
profondo e inesorabile scrutatore del cuore umano e della natura.
Elisabetta Barrett resta sempre la stessa: Roberto Browning, o faccia
parlare un contemporaneo di Gesù o una cantante del secolo decimonono,
Saul o Andrea del Sarto, Calibano o San Giovanni, un frate spagnolo
o Pacchiarotto, ti trasporta subito in quella data epoca, respiri
l’atmosfera di quel tempo, e vedi quel luogo.

Fra le poesie della signora Browning, quelle che vanno sotto il titolo
fittizio di _Sonetti dal portoghese_ serbano traccia immortale di
quegli anni di passione. Fra i molti bellissimi scelgo e traduco questi
due sulle _Lettere d’amore_ e sui _Primi baci_.

                                   ❦

«Le mie lettere! fogli morti, muti e bianchi! eppure stasera esse
sembran rivivere e palpitare fra le mie mani tremanti che sciolgono
il laccio e le lasciano cader qui sulle mie ginocchia. Questa, diceva
che egli desiderava vedermi una volta come un amico. In questa, egli
fissava un giorno di primavera per venire solamente a toccar la mia
mano, cosa tanto semplice e che pure mi fece piangere.... Questa,
di carta sì fine, diceva: — Cara, io ti amo: — e però l’inchiostro è
sbiadito dal tenerla sempre sul cuore, che battea troppo forte.... E
questa.... o amore, le tue parole avrebbero mal profittato, se ciò che
questa diceva io osassi sol di ripeterlo.»

                                   ❦

«La prima volta ch’ei mi baciò, baciò solamente le dita di questa mano
con cui ora scrivo: e da quel giorno essa divenne più delicata e più
bianca, restìa ai saluti mondani, pronta ai cenni delle cose celesti.
Un anello di ametista non potrei portarlo al dito più visibile agli
occhi miei di quel suo primo bacio. Il secondo, cercò la fronte, e
mezzo si perse cadendo fra i miei capelli. O dono supremo! questo
fu il crisma d’amore che con santificante dolcezza precedè la vera
ghirlanda d’amore. Il terzo fu deposto, perfetto, sulla mia bocca, e
fin d’allora, superba, potei dire: O amor mio, mio veramente!»


III

Alfredo Tennyson era nel pieno fulgore delle sue prime glorie, quando
furono pubblicate le prime poesie della signora Browning. E l’influsso
del Tennyson vi si sente talvolta, unito con quello di Wordsworth e
dello Shelley. Ma la signora Browning ha di suo tante rare e preziose
qualità poetiche, da non potere essere accusata di imitazione. I
soggetti delle sue poesie sono o leggendari (_ballate_), o esprimenti
un dramma interiore, un grido dell’anima, un sentimento umano, vero,
e reso sinceramente. Talvolta essa si abbandona ad una _rêverie_
musicale, a variazioni alla Paganini, che son deliziose; ma in generale
essa è precisa nel concetto e nella forma. Le poesie più notevoli
dei due volumi sono _The lost Bower_, tanto ammirato da Edgardo Poe;
_Bertha in the lane_, idillio patetico secondo solo alla _May Queen_
del Tennyson; _Geraldine_, e _The cry of the children_. Quest’ultima,
(il pianto dei fanciulli), può essere equamente giudicata anche
dagli italiani che non sanno d’inglese, nella versione che ne fece il
Chiarini.

Quali sono le caratteristiche della poesia della signora Browning?
Tre, a mio avviso, appaion preeminenti all’occhio del critico. Prima
— la _sincerità_: mai un effetto troppo cercato e voluto, nulla da
poeta dilettante, nulla di artificioso, nulla nemmeno di soverchiamente
artistico, (che è il peccato generale della poesia contemporanea). La
sua poesia è la sua vita: la sua vita palpita nei suoi versi. Essi sono
la traduzione ritmica dei sentimenti di un cuore di donna delicato ed
ardente.

Seconda — il _patetico_, l’emozione, il dono delle lacrime; dono
potente, perchè vivifica e crea; dono oggi rarissimo, e che il solo
Michelet ebbe in grado egualmente eminente.

Terza — la _musica_ del verso. La signora Browning ha l’istinto
musicale in così alto grado che spesso, in grazia dell’effetto
melodico, essa sacrifica volentieri certe regole metriche ormai
consacrate dall’uso; accusa che il Poe le ripetè con troppa insistenza.
Alcune delle sue brevi poesie sono tra le più belle. Eccone una di
poche strofe a una _Rosa morta_.

                                   ❦

«O rosa, chi oserà più chiamarti così? Non più rosea, non più morbida,
non più soave; ma arida e secca come fili di stoppia. Tenuta sette anni
rinchiusa, i tuoi stessi titoli ti fanno ora vergogna.

«La brezza che soleva alitare su te, e rapirti un odore che profumava
la valle per tutto il giorno, se soffiasse ora, passerebbe senza
raccorne un profumo....

«Il sole che su te splendeva, e mescolava la sua gloria nel tuo
magnifico calice, talchè il raggio pareva fiorire, e il fiore sembrava
ardere, se brillasse ora su te non potrebbe più colorirti...........

«Il cuore però ti riconosce; il cuore solo! Il cuore ti sente odorosa,
ti vede bella, ti giudica perfetta.... Sì; e ama più te, o morta rosa,
delle rose superbe che la freddo-sorridente Giulia porta nei balli. Oh,
resta su questo cuore che pare si spezzi sotto di te!»


IV

Un vincolo di antica e viva simpatia letteraria lega la nobile
Inghilterra all’Italia. La grande poesia britannica molto si giovò
degli esempi dell’arte nostra, e spesso si ispirò alla divina bellezza
della natura italiana.

Ma i poeti inglesi non si mostrarono ingrati come i più dei francesi e
dei tedeschi.

E splendidi inni, e affettuosi saluti, e sincere elegie, e ardenti
vaticinii ci vennero d’Inghilterra. Dal Milton al Byron, dal Byron al
Swinburne, è una tradizione non interrotta. E alcuni dei moderni poeti
inglesi, come lo Shelley ed il Browning, potrebbero, dovrebbero avere
insegnato a certi nostri poeti, che noi abbiamo _in casa_ un tesoro di
_motivi_ poetici, nel carattere vario delle nostre grandi città e delle
nostre campagne, nelle nostre leggende, nelle nostre arti, nei nostri
costumi, senza che ci sia bisogno di volare negli spazii immaginarî,
dipingendo una natura _convenzionale_, che non è nè italiana nè russa;
senza studio, senza osservazione, senza coscienza; e facendo della
lirica nostra una stonata musica da organini.

La signora Browning che amò l’Italia come una seconda patria, che qua
passò gran parte della sua vita, che qua morì, partecipò con simpatia
di poeta alle nostre patriottiche speranze, ai nostri dolori, ai nostri
trionfi. Nel suo poema _Le finestre di casa Guidi_ (_Casa Guidi’s
Windows_) vi è un accento così penetrante di entusiasmo e di sdegno,
che ricorda le più ardenti strofe del Berchet. Dalle finestre di casa
Guidi (via Maggio, in Firenze) essa vide sfilare la processione del
popolo esultante per le riforme liberali, il 12 settembre 1847. Le
grida, gl’inni, le bandiere, le coccarde, i fiori, i baci e le lacrime
di quella memoranda giornata, durano immortali in quelle pagine. Dalla
finestra medesima ella vide poi passare «col mirto al cimiero» gli
invasori austriaci; e quel funebre giorno rivive nella sua lugubre luce
in questo poema.


V

Nel 1856 la signora Browning pubblicò _Aurora Leigh_, il suo poema
favorito, e che per importanza di concetto, per composizione, per
varietà ed estensione, è l’opera sua capitale. È la confessione
d’un’anima generosa di donna, di straordinario intelletto e di compiuta
coltura, poeta e filosofo, ideale e sensibile, pudica ed ardita,
eminentemente _moderna_. La maggior parte del poema è il monologo di
quest’anima. Si direbbe che la signora Browning ha tradotto in realtà
il disegno di Giacomo Leopardi, di scrivere la _Storia di un’anima_.
Gli avvenimenti esteriori qui non hanno importanza, se non in quanto
servono all’analisi del dramma interiore. Ma Aurora Leigh incontra ed
ama poi un uomo che ha eguali aspirazioni, pari entusiasmo ed orgoglio.
Allora «il monologo diventa come un _duo_, in cui la voce femminea
alterna sogni, palpiti e fremiti colla voce maschile, _duo_ delizioso,
doloroso, di un accento esaltato ed intenso.»

Nelle _Ultime Poesie_ il gusto si è fatto anche più puro, la forma più
severa e precisa. Vi è più semplicità antica che nei precedenti volumi
della signora Browning. Anche in questa raccolta si legge una poesia
sui poveri bambini abbandonati di Londra, ove sono strofe strazianti e
di una efficacia mirabile.

                             . . . . . . .

«Fanciulli cenciosi, dagli occhi affamati, sono ammucchiati dal freddo
nei vostri andrioni.... fanciulli pazienti (pensate quanti dolori ci
sono voluti a far _paziente_ un fanciullo!...), ragazzi maligni con
menti appuntati e fronti di vecchio; ve ne son tanti che non hanno
altro piacere che nella colpa, e sgambettano con un soldo rubato!....
Bambini che piangono soli, e si lamentano con sè stessi, e non in collo
alle madri; che gemono per mera abitudine, non perchè sperino simpatia
o soccorso.»

L’ultima, credo, delle poesie della signora Browning fu scritta in
Roma, e diretta all’Andersen. È intitolata: _Il Nord ed il Sud_.

«Orsù, dacci delle terre dove crescon gli olivi — gridò il Nord al
Sud — dove il sole colla sua bocca d’oro gonfia i chicchi dell’uva nei
vigneti — gridò il Nord al Sud.

«Oh, dateci, dalle vostre grigie pianure, degli uomini resi forti dal
lavoro fra le piogge e le nevi, e dai domestici affanni! — gridò il Sud
al Nord.

«Dacci più splendide colline, e mari più intensi — disse il Nord al Sud
— poichè sempre per simboli e per lucidi gradi l’arte infantilmente si
inalza fino alle ginocchia di Dio.

«Dateci delle anime intrepide nella fede e nella preghiera — disse il
Sud al Nord — che stiano nel buio e nei più bassi scalini della vita,
eppure affermin di Dio: certo Egli è là! — disse il Sud al Nord.

«Deh, chi mi dà cieli più molli e più profondi — sospirò il Nord al
Sud — i fiori che risplendono, gli alberi che aspirano, gli insetti
composti di canto e di fuoco! — sospirò il Nord al Sud.

«Oh, chi dà a me un’anima che vegga tali cose — sospirò il Sud al Nord
— e la lingua di fiamma di un poeta che chiami l’albero e il fiore col
vero suo nome! — sospirò il Sud al Nord.»

                             . . . . . . .

Ma una delle belle e tristi poesie del volume è quella intitolata: _My
heart and I_. (Il mio cuore ed io). È di un accento così desolato, è
così impregnata di lacrime, è segno di prostrazione così profonda, che
si capisce che la donna che lo scrisse doveva dopo poco morire!

                                   ❦

«Basta! noi siamo stanchi il mio cuore ed io. Seggo presso questa
lapide sepolcrale, e vorrei che quel nome fosse inciso per me....
Si sono scritti dei libri, abbiam fidato negli uomini, e intinta la
penna nel nostro sangue, come se un tal colore non potesse morire....
Camminammo troppo diritti per arrivare alla fortuna, amammo troppo
sinceramente per serbare un amico.... alla fine siamo stanchi, il mio
cuore ed io! Come ci sentiamo stanchi, il mio cuore ed io!

«Il mondo è fatto indifferente alle nostre illanguidite fantasie; la
nostra voce, un giorno sì penetrante, vi farebbe oggi dormire.... le
nostre lacrime non son altro che acqua.... Oh che cosa ci facciamo più
qui, il mio cuore ed io?»


VI

È ben doloroso a pensare che una donna come la Browning, con tali doti
straordinarie, con tale anima; ricca, gloriosa, debba finire con un
lamento così straziante! Essa ci è un esempio di più che questa terra,
per i veri poeti, per le anime delicate, è una buia prigione, un luogo
di torture quotidiane; e che il contatto del mondo le lacera, come
farebbe un guanto di ferro alle ali d’una farfalla. Anime divinamente
gemebonde, di cui Tecla, la Généviève e la Amelia sono i tipi ideali,
ed Elisabetta Barrett Browning il tipo reale sopra la terra. Ma non
le compiangiamo troppo! Fra le loro lacrime, esse hanno avuto dei
momenti di estasi ineffabile e di gioia suprema, ignoti affatto alla
moltitudine che vegeta, calcola e passa.

In Firenze, in quella casa Guidi da cui s’intitola uno dei più mirabili
suoi poemi, la signora Browning moriva nel 1861. Il municipio vi faceva
porre questa iscrizione, dettata da Niccolò Tommaseo:

                           QUI SCRISSE E MORÌ
                      ELISABETTA BARRETT BROWNING
                    CHE IN CUORE DI DONNA CONCILIAVA
                  SCIENZA DI DOTTO E SPIRITO DI POETA
                   E FECE DEL SUO VERSO AUREO ANELLO
                       FRA ITALIA E INGHILTERRA.
                           PONE QUESTA LAPIDE
                             FIRENZE GRATA
                                  1861

Dopo l’unica Saffo, Elisabetta Barrett Browning a me sembra
incomparabilmente superiore ad ogni antica e moderna poetessa. Due sole
donne a me pare la vincano in potenza di genio: la Sand e la Eliot; ma
essa resta insuperata nel dono di toccar le corde dei soavi affetti,
nella poesia della tenera commozione e dei nobili e santi entusiasmi.
Essa è la donna-angelo nel coro dei moderni poeti: è il dolcissimo
passionato violino della grande orchestra poetica inglese.




LA SIGNORA CARLYLE


Finisco ora di leggere le _Reminescences of Thomas Carlyle_. Più
volte sono stato lì lì per gettar il libro dalla finestra, irritato
o nauseato da tanti giudizi avventati, ingiusti, crudeli, sui più
illustri contemporanei, da tanta intolleranza, dall’accento dispotico
e dittatoriale, dal tono di infallibilità puritana di questo libro.
Eppure sono arrivato in fondo, e sono sicuro che ne farò una seconda
lettura, e riaprirò spesso questo volume. Perchè? Qual è il magico
incanto che, mio malgrado, mi ha trattenuto su queste pagine? — Sono
i ricordi, sono gli affettuosi rimpianti dell’angelica moglie. La
storia delle cure amorose di lei, dal giorno del matrimonio a quello
dell’agonia, purifica, in certo modo, l’antipatico egoismo che ammorba
il resto dell’opera. Dopo la lettura di questo libro, Carlyle resta
più in ombra: e si distacca in luce d’aureola la bianca figura di una
donna-angelo, _la signora Carlyle_.

                                   ❦

Nelle varie opere del grande scrittore io non avevo trovato traccia di
quella celeste figura e della sua efficacia benefica. La felicità e la
gloria sono egoiste. E il prezzo infinito dell’amore di una donna non
si comprende bene che quando è morta.

Nelle lettere di Carlyle, anche in quelle a Goethe, poche settimane
dopo il suo matrimonio, e datate da Craigenputtock, nuova residenza
dei due sposi e proprietà della moglie, si cerca invano qualche calda
parola che ci descriva la donna gentile la quale ornava e consacrava
con la sua presenza quel tepido nido.

O letterati! anche se grandi, anche se buoni, anche se amanti, come
sempre fa capolino in voi l’egoismo! Come tutto vi sembra dovuto!
Con che olimpica imperturbabilità accogliete le lacrime e i baci, la
devozione e il sacrifizio delle povere donne!

                                   ❦

Il giovine Carlyle divorato dalla fiamma nascosta del proprio genio
che non trovava la via per manifestarsi ed espandersi, nato di povera
famiglia, selvatico e strano carattere, malaticcio ed ipocondriaco,
non bello, notevole solo per due occhi pensosi profondamente incassati
sotto una fronte granitica, era costretto per campare la vita a lavoro
ingrato e incessante: ora maestro d’aritmetica, ora precettore privato,
ora collaboratore di Enciclopedie, ora traduttore dal tedesco o dal
francese. Unico lavoro di quel tempo giovanile, che resti anche oggi
degno del suo nome, è la _Vita di Schiller_.

A un tratto le ansie e gli scoraggiamenti cessarono: la tremenda
questione del pane quotidiano fu risoluta: egli ebbe insieme l’amore,
la pace, l’indipendenza, la salute e il necessario impulso al suo
genio, da una donna, — da quella che fu sua moglie e suo angelo
tutelare, confortatore ed ispiratore per quarant’anni. Donna mirabile
per generosa abnegazione, per delicatezze ineffabili, per pazienza
costante, per i suoi sorrisi e per le sue lacrime; _sanctissima conjux_
come l’avrebbe chiamata Virgilio.

                                   ❦

A chiunque conosce la vita e gli scritti di Tommaso Carlyle, si fa
chiaramente palese che la sua natura irrequieta, la sua fantasia
apocalittica, la sua eloquenza profetica tutta folgori e tuoni,
il dommatismo puritano, il sarcastico _humour_ e le sue bibliche
imprecazioni alla scienza e allo spirito industriale e positivo del
secolo, avean bisogno di esser quotidianamente temperate da qualche
_calmante_, da qualche benefico influsso pacificatore: altrimenti, la
cieca forza del suo genio, in perfetta antitesi con lo spirito dei suoi
tempi, lo avrebbe disperatamente precipitato nel sepolcro o lo avrebbe
condotto, miserando spettacolo, al manicomio. Aggiungete che egli
era malato, e fu malato per tutta la vita: che concentrando ogni sua
attenzione e ogni sua forza in una vulcanica attività cerebrale, egli
non badava, non poteva badare, a tutti quei nulla che pur son tanto,
che talora son tutto, nella nostra prosaica esistenza.... Un giovine
fantastico povero e malato, con un genio formidabile ed aggressivo,
che cosa poteva sperare di buono nella vecchia positiva Inghilterra? —
Una donna gli tende la mano, gli dice _ti ammiro e t’amo, son tua...._
e quell’uomo allora può vivere, spiegar tutta l’ala sfolgorante
del proprio genio, campare più di ottant’anni, e lasciare un nome
immortale....

                                   ❦

Jane Welsh era bella, giovine, nobile, ricca, corteggiata da molti.
Ma il suo cuore aveva bisogno di sacrifizio, di entusiasmo e di
fede. Conobbe il povero giovine in lotta colla fortuna e col mondo,
e nei suoi tristi profondi occhi vide brillare una luce divina.
Credè nell’avvenire e nella gloria del genio: credè alla _felicità_
di aiutarlo col suo amore, e lo amò consacrandosi tutta a lui. Lo
sottrasse alla miseria, allo sgomento, gli portò il pane materiale e il
pane spirituale ad un tempo.

Furono sposi nel 1827: e fino al 1843 dimorarono a Craigenputtock. Là
fu scritto _Sartor Resartus_, là i primi saggi storici e critici che
oggi si leggon raccolti nelle _Miscellanies_.

La villa era in una perfetta solitudine: lontana sei miglia da ogni
altro luogo abitato: fra colline granitiche e paludi grigie stendentisi
fino al tristo mare del Nord. Ma la lieta Jane animò e rallegrò al suo
fosco marito il deserto. Pensava a fargli venir da Edimburgo carrettate
di libri e giornali francesi, tedeschi ed inglesi. Popolò di rose il
giardinetto sotto le finestre della sua stanza di studio. Due piccoli
_ponies_ eran sellati ogni mattina per la cavalcata prima dell’ore del
lavoro, ed essa lo accompagnava sempre.

                                   ❦

Robusto e delicato ad un tempo, Carlyle soffriva di indefinibili mali
nervosi, e di ipocondria. Che cosa non fece Jane per distrarlo, per
rinfrancarlo? Gli si mostrava sempre serena, di buon umore, avea sempre
pronte delle storielle amene, degli adorabili _enfantillages_. Quando
egli, verso sera, tornava dalla sua breve passeggiata solitaria, nella
quale meditava e mentalmente correggeva il lavoro della giornata, essa
gli preparava da sè e gli faceva trovare presso al caminetto acceso, il
_the_ fumante, la pipa di schiuma già empita dalla sua propria mano, e
il sorriso dei suoi begli occhi di moglie amante. Carlyle era di vista
debole: ed essa si adoperava assiduamente a temperare con ingegnose
invenzioni la luce troppo viva del giorno, senza intercettare l’aria,
e lavorava sempre a ventole e _abat-jour_ per la lampada notturna
dell’infaticabile lavoratore.

Quando credè che la soverchia solitudine potesse nuocere agli interessi
e alla fama del marito, fu la prima a consigliarlo di andare a stare
a Londra o vicino a Londra, e con amorosa insistenza ve lo persuase,
lei naturalmente nemica del bel mondo, amante della pace rurale e della
poesia delle solitudini.

A Chelsea, presso Londra, andarono ad abitare una casa provveduta
di ogni _comfort_ inglese — casa divenuta ormai leggendaria, dove lo
storico filosofo ha vissuto per quasi mezzo secolo, e dove è morto.

                                   ❦

Là era una continua affluenza di visitatori, di ammiratori del
_savio di Chelsea_. Ma la prudenza della donna era in continuo moto
per prevenire, temperare, o rimediare alle scappate di quel _savio_
irritabile. In certi giorni, egli era un vero orso del nord, e bastava
che uno gli dicesse bianco, perchè egli fosse irresistibilmente
trascinato a dir nero, e a sostenere la sua contradizione con tutte
le armi di una dialettica formidabile, aiutata dai lampi di una
immaginazione unica, e dagli scoppi di risa di un _humour_ grottesco e
spietatamente selvaggio. A volte un povero diavolo che era andato là
trepidante, pieno di devozione e di entusiasmo, era accolto come uno
scolaro preso in fallo o come un nemico; e annientato con due parole.
_Lei_ spesso prevedeva il caso, e _non riceveva_ quel giorno, o restava
terza a scongiurare il pericolo.... e interveniva col suo sorriso, con
le sue soavi parole, e deviava la folgore, o rianimava il fulminato, e
gli procacciava il balsamo di una parola gentile dal tremendo marito,
che, quando voleva, sapeva trovarne delle squisite. Ma talvolta egli
incontrava chi teneva fronte ai ruggiti della sua biblica eloquenza: il
Mazzini per esempio. Allora la povera Jane era in una vera agonia....
ma tanto sapeva fare, che non accadde mai che uno solo dei maltrattati
visitatori, anche dei più illustri, varcasse la soglia, senza esser
prima pacificato, senza aver scambiato una cordiale stretta di mano col
terribile autore dei _Latterday-Pamphlets_.

                                   ❦

E tutto ciò è poco, è quasi nulla, paragonato al benefizio immenso,
incalcolabile, della ispirazione, dell’impulso, della influenza
incoraggiante e fortificante, che la signora Carlyle esercitò sul suo
illustre marito. Egli era, l’ho detto, un atleta malato, un titano
ipocondriaco. La lente d’ingrandimento della sua straordinaria fantasia
gli ingigantiva gli ostacoli, gli moltiplicava i dubbi, i terrori, gli
abbattimenti morali. Essa accorreva allora, come una energica amica,
come una madre che sa volere, e gli infondeva il sereno coraggio e la
fede. A lei si deve la continuazione della _Storia della Rivoluzione
Francese_ che il Carlyle minacciava di lasciare a mezzo; fu lei che gli
suggerì la prima idea delle _Letture su gli Eroi_, e seppe vincere la
naturale repugnanza di Carlyle a fare pubbliche conferenze. Nè basta:
per anni interi gli fece da segretario, stando a dettatura, copiando,
leggendogli, facendo estratti per lui, come la moglie di quell’altro
grande storico che nella facoltà imaginatrice ed _evocatrice_
rassomiglia il Carlyle: la moglie di Michelet.

Aveva poi delle tenerezze infantili, delle ingenuità verginali, che
ricordate dopo la morte dall’infelice superstite, lo facevano piangere.
Una volta, nei primi tempi che erano a Chelsea, per economia, facevano
a meno della vettura, e armati di ombrello e _galoches_, andavano a
piedi anche di sera, intrepidamente, a far visite ai loro amici. Alle
_soirées_, ove talvolta andavano, essa appariva elegantissima, con
piccolissima o quasi nessuna spesa. «La mia cara Jane avea voluto
stasera esser bella, e siccome è una incomparabile artista, s’era
fatta un abito di una grazia divina, con ghirlande e festoni d’ellera
naturale, che non le era costato altro che lo staccarla dagli alberi
con le sue mani.» Voleva esser bella, sempre bella per lui, per lui
solo, e le bastava il suo sorriso, un ramicello d’ellera sul vestito,
un semplice fiore nei suoi bei capelli.

E anche a quarant’anni e più, essa si mantenne bella ed amabile (che
è lo stesso). L’innocenza della sposa ha una grazia particolare, che
naturalmente tocca il cuore dell’uomo: essa ha la vera libertà della
parola, dello sguardo, del sorriso, del gesto. Le _altre_ non son
libere che nei momenti di ebbrezza: nel resto sempre artificiali e
legate. Van Dyck, Rembrandt principalmente, lo intesero, e certi loro
ritratti matronali sono adorabili. Più si guardano e più si capisce
che si fanno amare, perchè hanno la _bellezza della bontà_. Oggi gli
uomini fanno poco conto di questa bellezza, e però ne sono puniti, nel
carattere, nell’arte, e nella poesia: e il _soffio che crea_ non gli
anima più a cose grandi e durevoli: sperdon le forze in gingilli: non
son più poeti, ma gelidi decoratori, e _dilettanti_ senza fede e senza
allegro coraggio.

                                   ❦

Quando la prima neve della vecchiezza cominciava a imbiancarle i bei
capelli, la signora Carlyle ammalò. Parve dapprima un semplice reuma,
ma si convertì presto in una spaventosa nevrosi generale, alla quale la
scienza non seppe trovare rimedio. Accorsero a Chelsea i più illustri
medici, e furon tentate, e tutte vanamente, più cure. Anzi gli spasimi
parvero farsi più atroci. Perdè il sonno e l’appetito: sembrava
uno scheletro vivente.... ma non perdè la serenità, la calma, la
dolcezza dello sguardo e della parola. Anche dal suo letto di dolori,
si preoccupava del suo _povero grand’uomo_. Ed egli, l’infelice,
agonizzava moralmente, ma dissimulava la propria agonia. Sentì che
stava per perderla, e diventò costantemente taciturno. Egli che aveva
nei suoi libri inneggiato al _silenzio_ come indizio di forza, e
contrassegno degli eroi, in pratica aveva sempre contradetta la sua
teoria, e amato di parlare e essere ascoltato come tutti i grandi
oratori. Il dolore gli insegna ora il silenzio: un silenzio commovente
su quelle labbra tuonanti.... un silenzio di vecchio colpito dal fato,
un silenzio tragico.

Povera Jane! agli spasimi fisici si aggiunse il terrore della pazzia.
Le parve che neppure la sua potente volontà saprebbe salvar dal
naufragio la sua intelligenza.

— Oh, amico mio — disse due volte al marito, — promettimi, qualunque
cosa accada, che mi terrai in casa, che non mi manderai al manicomio.
O caro, io sento che divento pazza, e ho tanta paura.... — E il vecchio
Carlyle a calmarla, a prometterle solennemente di non staccarsi mai un
giorno da lei....

Nei primi del 64, fu deciso di tentare un cambiamento d’aria. «Faceva
freddo e pioveva quando partimmo, il due di marzo, per la casa
sul mare, generosamente offertaci da un amico. Quale scena! non ne
vedrò mai l’eguale! Il giorno in cui la portarono in sepoltura a
Haddington, non fu più orribile. Quel giorno almeno essa non soffriva
più. Essa era composta nel suo riposo, era vittoriosa per sempre....
Ma ora!... Accostarono alla porta di casa un _carro-letto_ da malati
che somigliava a una bara. Mi par di vederla ancora la mia cara Jane,
quando la portavan giù per le scale. Il dolore fisico e un ineffabile
dolore morale eran dipinti sul cereo suo viso; ma essa si serbò anche
in quel punto eguale a sè stessa, cioè energica, risoluta, e prudente.
Con voce debole, ma sicura, dette i suoi ordini per il trasporto: e
tutto fu fatto sotto la savia sua direzione. Io sapevo che cosa essa
pensava in quel momento, e che credeva di uscire di casa sua per non
tornarvi mai più: eppure i suoi occhi rimasero asciutti; e pochi minuti
dopo eravamo partiti.»

Ma nemmeno il cambiamento d’aria giovò. Potè tornare (e fu il suo
ultimo e insperato conforto) alla casa diletta. Vi agonizzò lentamente
parecchi mesi. Ogni minimo incidente le era cagione di terrori mortali.
Non era pazza, ma di una esaltata sensibilità. Un giorno la condussero
a Hyde-Park in carrozza. Un’amica le aveva dato a tenere per un momento
un suo cagnolino. Non si sa come, questo ruzzolò sotto le ruote del
legno, e lo crederono morto. Tremante, moribonda, prese in grembo
l’animale ferito che lamentosamente guaiva, e ordinò al cocchiere di
tornare indietro. Quando la carrozza si fermò alla porta di casa, la
signora Carlyle era morta!...

                                   ❦

Sparito il suo buon angelo, l’illustre vecchio non trovò conforto che
nel lavoro, ma scarso, insufficiente conforto. La grande _Storia di
Federigo_ può dirsi bagnata dalle sue lacrime.

— Non voglion capire che io non posso più vivere — diceva ai suoi
visitatori, e restava per ore intere taciturno ed immobile, in quella
stanza dove spirava ancora il profumo di _lei_.

La morte tardò a prenderlo, ma da un pezzo egli aspettava e invocava
il colpo finale. E quando venne il momento, la sua fronte granitica
parve raggiare di nuova luce, e le sue caustiche labbra si ammollirono
in un sorriso ineffabile.... Una bianca suprema visione lo aveva
trasfigurato.




RACHEL


La _Corrispondenza_ della illustre tragica è stata pubblicata ora a
Parigi, in un magnifico volume, a cura del signor Giorgio d’Heylli.
Le lettere son precedute da brevi notizie sulla famiglia della Rachel
e intercalate alla narrazione delle sue trionfali escursioni di
attrice. Da questo eccellente libro è apparsa ai miei occhi una nuova
Rachel; non più nelle solenni attitudini della tragedia, nel costume
di Fedra o di Atalia, ma una donna semplice, affettuosa, spiritosa,
e soprattutto sincera sempre; nelle gioie, nei dolori, nei trionfi,
nelle umiliazioni (ne toccarono anche a lei), nelle malattie, e nella
morte. Più che della stessa arte che era la sua passione, essa parla e
si preoccupa in tutte le lettere, dei suoi bambini, della madre, delle
sorelle, e ha spesso accenti di ineffabile tenerezza. I bei ritratti
ond’è adorno questo volume ci aiutano a rievocare, a risuscitare quella
simpatica figura. In una fotografia del 1851 che vi è riprodotta, ci si
mostra in un elegante e semplice vestiario, coi capelli divisi sulla
fronte, lisci e raccolti in una semplice treccia, assisa, appoggiando
malinconicamente la sua bella testa ebraica sulla sua piccola mano di
parigina.

Povera Rachel! Come ti hanno calunniata, anche i critici tuoi
ammiratori! «La Rachel, diceva un d’essi, è una specie di Lamia, una
donna serpente; e riesce grande nella rappresentazione delle passioni
perverse e diaboliche. Essa ha un volto e un portamento che paion fatti
apposta per esprimere il veleno dei caratteri che rappresenta.» Perchè
essa conservava una inalterabile nobiltà statuaria di gesto, anche
nei momenti di violenta passione; perchè non ricorreva a contorsioni
epilettiche o a isterici singhiozzi da melodramma, l’accusarono di
insensibilità: e uno dei più famosi _appendicisti_ di Francia la chiamò
addirittura «artista incomparabile, ma senza cuore.»

Questo è un giudicare alla cieca come la fortuna. La sua corrispondenza
ci prova invece che essa è morta della sua arte, come la Malibran; e
che il suo calmo esteriore nascondeva un interno vulcano.

La verità è questa: essa era l’antica Melpomene, un anacronismo vivente
in pieno secolo decimonono. Tutto in lei era fatto a raffigurare e
interpretare l’antichità, la sana e forte e serena antichità di Fidia
e di Sofocle, che essa traduceva dagli alessandrini di Racine; i suoi
grandi e profondi occhi neri, il suo sguardo da Nemesi, le chiome
corvine, l’ovale perfetto del volto, e la fronte d’antica regina, fatta
per il cerchio d’oro dei Greci, o per la fascia israelitica. Con un
gesto, con una piega del manto, col levare del braccio, con l’inclinar
della fronte, essa otteneva effetti più potenti e più sicuri che altre
attrici con piangere e scalmanarsi; o col ricorrere a strani mezzi
di raffinato artifizio, a delle _chatteries_ di _cocottes_ vestite da
Andromaca o da Medea....

La Rachel era della gran famiglia tragica dei Talma, dei Salvini, delle
Ristori; e forse, per doni naturali, per innato sentimento dell’antica
semplicità, più grande di tutti. Quando si provò nelle parti febbrili,
essenzialmente moderne, dei personaggi di Hugo e di Dumas, non riuscì.
Nè poteva riuscire.

                                   ❦

Allieva prediletta di Sanson, allorchè a diciannove anni esordì nelle
parti di Ermione e di Roxane, il pubblico e la critica le si mostrarono
piuttosto ostili. La sera del 30 novembre 1838, doveva recitare nel
_Bajazet_ di Racine. La folla era enorme: si battevano alla porta del
teatro per entrare i primi.... Eppure, la tragedia finì tra un glaciale
silenzio. Il 25, esce un articolo di Janin, il Minosse del teatro, con
queste parole: «Mais que voulaient-ils donc que fît M.lle Rachel dans
ce rôle de Roxane? Cette enfant pouvait-elle deviner cette passion des
sens, non de l’âme? Cette enfant si frêle, cette poitrine naissante, ce
souffle inquiet pouvaient-ils suffire à représenter la puissante lionne
qui a nom Roxane?»

Ma l’indifferenza del pubblico e la crudeltà della critica non
scoraggirono punto la magra e pallida giovinetta. E Rachel-Roxane si
ripresentò sulla scena, cinque giorni dopo. «Vous n’avez pas peur?» le
domanda l’inquieto e trepido impresario, prima che s’alzi il telone.
«Non, risponde Rachel, non; je suis furieuse de l’article de Janin,
et c’est une raison de plus pour me monter....» E da quella sera, in
cui il suo tragico genio si rivelò intiero, datarono i suoi crescenti
trionfi. Fu una Roxane terribile. L’uditorio pietrificato non osava
nemmeno applaudire.... Poi fu un urlo, un delirio, una valanga di
fiori!

                                   ❦

Ottenere grandi effetti con semplici mezzi fu il segreto della Rachel,
ed è quello di tutti i grandi poeti ed artisti antichi. Le bastava
di passarsi la mano fra i capelli, di avvolgersi in uno scialle di
_cachemire_, per rappresentare in qualunque stanza la parte di Medea
e di Ermione. Talvolta, a un pranzo, alzatasi, e allontanata da sè la
sedia, osava affrontare la grande scena della _Fedra_, e faceva fremere
e agghiacciare i commensali, come se quella stanza _tapissée_ e piena
dei fumi dello _champagne_ e dei _cigaritos_ si fosse convertita a un
tratto nell’atrio di Atride o nella reggia di Teseo.

Restando assolutamente immobile, pronunziando a voce bassa un verso,
metteva i brividi nel suo uditorio. Certi versi, nella parte di
Ermione, gli diceva con tale intensità e profondità di sentimento, che
parevano rivelare nuovi abissi del cuore umano. Per esempio:

    Je crains de me connaître en l’état où je suis.
          . . . . . .
    S’il ne meurt aujourd’hui, je puis l’aimer demain.
          . . . . . .

Vi sono quattro versi ammirabili nella parte di Ermione che
interpretati dalla Rachel ottennero sempre frenetici applausi, tanto a
Parigi che a Pietroburgo, ad Amsterdam come a New-York. Quando Oreste
per comando della gelosa Ermione ha fatto assassinar Pirro, e si
presenta a lei e le narra come fu eseguito l’atroce mandato, essa, in
una terribile apostrofe, gli dice disperatamente pentita:

    Ah! fallait-il en croire une amante insensée?
    Ne devais-tu pas lire au fond de ma pensée?
    Et ne voyais-tu pas, dans mes emportements,
    Que mon cœur démentait ma bouche à tout moment?

E chi può senza un tragico orrore ricordare le scene ultime della
_Fedra_ interpretate dalla Rachel? l’amaro spaventoso accento con cui
faceva la involontaria fatale confessione?

    Hélas! du crime affreux dont la honte me suit,
    Jamais mon triste cœur n’a recueilli le fruit.

Ma forse ancor più mirabile era la calma finale, la dignità tragica
con cui, raccolto il manto sul petto, guardati tristamente i suoi
interlocutori, pallida, e già sulla soglia di Stige, — dopo un lungo
silenzio, scandiva lentamente i versi immortali:

    J’ai voulu, devant vous exposant mes remords,
    Par un chemin plus lent descendre chez les morts.
    J’ai pris, j’ai fait couler dans mes brûlantes veines
    Un poison que Médée apporta dans Athènes.
    Déjà jusqu’à mon cœur le venin parvenu
    Dans ce cœur expirant jette un froid inconnu....

                                   ❦

Eppure, questa terribile Fedra aveva nella conversazione e nelle
lettere tutto il brio, tutte le finezze di una vera parigina. In questo
volume della sua corrispondenza vi sono una trentina di lettere dove
brilla una schietta vena di spirito e di buon umore. Ecco, per esempio,
un biglietto col quale chiede un palco all’impresario Verteuil:

  O Verteuil! puisque c’est ainsi qu’on vous nomme, et qu’on vous
  renomme!... une petite, toute petite loge, s’il vous plaît, pourvu
  qu’elle soit de _six places_.... Tous mes remercîments.

E questa letterina a un’amica, a proposito di regali:

  N.... m’envoie pour mes étrennes un œuf, pour avoir un bœuf; on
  me dit que son hommage est en zing peint en bronze. Je l’ai déjà
  fourré à quelqu’un, pour m’en _dezinguer_ au plus vite. Faites-moi
  donc le plaisir de passer chez Giroux et d’acheter quelque chose
  de cent francs, — pas un maravédis de plus. Si ça fait l’effet de
  deux cents, tant mieux; du flafla! J’avais envie de lui coller
  un Chinois que j’ai, et collé, c’est bien ça, car il a la patte
  cassée.... J’ai un drôle de style ce matin, mais que voulez-vous?
  il pleut si fort!...

                                              Votre exploitée amie.

Una naturale semplicità la manteneva calma e degna al cospetto di
regine e di imperatori. Conversando con lo Czar o con Wellington,
con la regina Vittoria o col re del Belgio, essa si trovava _à son
aise_ come con la sorella Rebecca, o col segretario della _Comédie
Française_.

Ecco una lettera dove, con una grazia e una ironia tutta parigina,
racconta un suo trionfo alla Corte di Russia:

  J’ai été invitée à un grand banquet donné en mon honneur au palais
  impérial. Voilà qu’à mon arrivée au palais, de grands laquais
  galonnés et poudrés m’attendaient et m’escortent: l’un prend ma
  pelisse, l’autre me précède et m’annonce, et me voici dans un salon
  tout plein de dorures, où tout le monde se précipite au-devant de
  moi. C’est un grand-duc frère de l’empereur, qui vient lui-même
  m’offrir la main pour me conduire à la table du banquet. Quel
  choix de convives! La famille impériale, les grands-ducs, les
  petits ducs, et les archiducs, tous les ducs enfin de tous les
  calibres, et tout ce tralala de princes et de princesses curieux
  et attentifs, me dévorant des yeux, épiant mes moindres mouvements,
  mes paroles, mes sourires, en un mot ne me quittant pas du regard.
  Eh bien! ne croyez pas que j’aie été trop embarrassée. Pas le moins
  du monde! J’ai été comme d’habitude, au moins jusqu’au milieu du
  repas, qui d’ailleurs était fort bon. A ce moment, les toasts
  en mon honneur commencent: il se passe alors un spectacle bien
  extraordinaire. Les jeunes archiducs, pour me voir de plus près,
  quittent leurs places, montent sur des chaises, et mettent même
  un peu les pieds sur la table, — j’allais dire dans le plat! sans
  que cela ait l’air de choquer personne. Et les voilà qui poussent
  des cris, des bravos à m’assourdir, et qui me demandent de dire
  quelque chose. Répondre à des toasts par une tirade de tragédie,
  c’était bien étrange! mais je ne me suis pas laissé démonter pour
  si peu. Je me suis levée, et, reculant ma chaise, j’ai pris le
  geste le plus tragique de mon répertoire, et je leur ai entamé la
  grande scène de _Phèdre_. Il se fit alors un silence de mort; on
  aurait entendu voler une mouche, s’il y en avait dans ce pays-ci.
  Tous m’écoutaient religieusement, penchés vers moi, se bornant
  à des gestes admiratifs et à des murmures étouffés. Puis, quand
  j’eus fini, ce fut un nouvel assaut de cris, de bravos, de chocs
  de verre, et de nouveaux toasts, au point que j’en demeurai un
  moment comme interdite. Puis bientôt je me montai moi-même aussi,
  et, excitée en même temps par l’odeur des vins et des fleurs, et
  par tout cet enthousiasme qui n’était pas sans châtouiller mon
  petit orgueil, je me levai de nouveau, et j’entonnai, ou plutôt je
  déclamai avec beaucoup de châleur l’hymne national russe. Alors, ce
  ne fut plus de l’enthousiasme, ça devint du délire: on s’empressa
  autour de moi, on me serrait les mains, on me remerciait; j’étais
  la plus grande tragédienne du monde, et des temps passés et
  futurs....

                                   ❦

Ma oh, come essa passò presto da questo tono confidente e gioviale
all’accento dello sconforto e dei funebri presentimenti! L’interno
turbamento provato quasi quotidianamente nel rappresentare e incarnare
le più violente passioni, gli strapazzi dei suoi lunghi viaggi
d’attrice, rovinarono presto la sua salute. L’anima ardente consumava
e uccideva in lei il gracile corpo. Si può dire della Rachel quel che
Musset cantò della Malibran:

    C’est le Dieu tout-puissant, c’est la Muse implacable
    Qui dans ses bras en feu t’a portée au tombeau.

Ogni grido di _Fedra_, ogni gemito di _Ifigenia_ accresceva la magrezza
e il pallore delle sue gote.

Fin dal ’55 essa sentì che per lei non c’era più speranza, e che i suoi
giorni erano contati. La tosse, la febbre non la lasciarono quasi più.
Il 7 gennaio essa scriveva dall’Avana queste dolorose parole:

  .... Je suis malade, bien malade. Mon cœur et mon esprit sont
  tombés à rien. Je ne jouerai pas non plus à la Havane; mais j’y
  suis venue, et le directeur, usant du droit de son contrat, a
  demandé comme dommage 7000 piastres. J’ai payé les artistes jusqu’à
  ce jour. Je ramène toute ma pauvre armée en déroute sur les bords
  de la Seine; et moi peut-être comme un autre Napoléon j’irai mourir
  aux Invalides et demander une pierre ou reposer ma tête.... Mais
  non, je trouverai encore mes deux anges gardiens, mes jeunes fils:
  je les entends qui m’appellent. Aussi, c’est trop de temps passé
  hors de leurs baisers, de leurs caresses, de leurs chers petits
  bras. Je ne regrette plus l’argent perdu, je ne regrette plus la
  fatigue. _J’ai porté mon nom aussi loin que j’ai pu, et je rapporte
  mon cœur a ceux qui l’aiment_.

Semplice e antica espressione di un sentimento umano ed eterno! È il
grido della madre moribonda, che essa manda dall’Avana e dall’Egitto
nelle sue ultime fatali escursioni. Da Tebe, nel ’57, pochi mesi prima
di morire, dettò la più bella, sua lettera, la quale rivela in lei
rare qualità di scrittore. Descrive le rovine d’Egitto, il placido
corso del Nilo, le Piramidi, e le ruine di Burnah che essa contemplò
silenziosamente a un magnifico lume di luna, vincendo forse la sua
repugnanza a morire nello spettacolo della morte di un mondo. Fragile
vaso d’alabastro, rischiarato per pochi anni dalla fiamma interiore del
genio, essa posò per qualche giorno sulle tombe dei re; e forse, come
Adriano, sentì sospirare la statua di Mèmnone....

                                   ❦

Nell’estate del ’57, detto l’ultimo addio alla _Comédie Française_, il
teatro delle sue glorie, lasciò Parigi, e andò ad aspettar la morte a
Cannes, in villa Sardou.

Il 3 gennaio 1858, Rachel era in agonia. Parenti e correligionari,
chiamati dalla famiglia, accorsero in fretta da Nizza. E la figliola
d’Isdraello si udì raccomandare alla misericordia del Signore, nella
lingua di Giob e di Geremia.

Restarono soli nella funebre camera un vecchio rabbino e due donne. Si
avvicinarono al letto della morente. Essa si voltò dalla loro parte, e
con lo sguardo intento parve dire: leggete, aspetto le parole di Gèova!

  — Vola, torna al tuo Dio, o figliola d’Israel!

  Ascolta, Israel; l’Eterno, il nostro Dio, l’Eterno è uno.

  Va’ ove il Signore ti chiama, va’, e che la sua misericordia ti
  assista!

  Dio dei nostri padri, ricevi nella tua misericordia quest’anima
  che viene a te; riuniscila a quella dei patriarchi tra le gioie del
  paradiso celeste. —

Rachel ascoltava in solenne raccoglimento: era tutta attenzione a
quelle grandi parole: il suo volto parve illuminarsi di una luce
divina....

Vi fu un lungo silenzio. La sorella Sara rientrò nella camera, e si
appressò al letto della morente. Rachel le strinse la mano, le sorrise,
e spirò.

Allora il funebre trio cantò a bassa voce: Benedetto il Giudice di
Verità!...

Il volto di Rachel era divenuto severo e maestoso. Le sue labbra
eloquenti eran sigillate per sempre. Sul suo profilo di cammeo, sulla
sua pura e pallida fronte furono versate lacrime ardenti d’amore e di
ammirazione.

Ho qui dinanzi il ritratto della morta. La sua nobile testa è cinta
del sacro alloro. Le mani ceree sono distese in un completo abbandono.
Tutta la bella persona è composta nel riposo supremo. I capelli
nerissimi ombreggiano la faccia e il collo marmoreo.

Anche il cadavere di Rachel ha una tragica fisonomia. Dal volto emana
una suprema tristezza. Si direbbe la maschera di Melpomene, o, meglio,
il tipo incarnato dei dolori infiniti e delle indomate speranze del
popolo d’Isdraele.


  FINE




INDICE


  PREFAZIONE                       pag. V
  La Pompadour                          3
  La Du Barry                          23
  Sofia Arnould                        51
  Julie-Marianne                       69
  Giulia Lespinasse                    89
  La baronessa di Krüdener            113
  La contessa Guiccioli               123
  Elisabetta Barrett Browning         145
  La signora Carlyle                  169
  Rachel                              191





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





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or any Project Gutenberg™ work, (b) alteration, modification, or
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Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg™

Project Gutenberg™ is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of
computers including obsolete, old, middle-aged and new computers. It
exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations
from people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s
goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will
remain freely available for generations to come. In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg™ and future
generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see
Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org.

Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification
number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by
U.S. federal laws and your state’s laws.

The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West,
Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up
to date contact information can be found at the Foundation’s website
and official page at www.gutenberg.org/contact

Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread
public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine-readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment. Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States. Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements. We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance. To SEND
DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state
visit www.gutenberg.org/donate.

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg web pages for current donation
methods and addresses. Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations. To
donate, please visit: www.gutenberg.org/donate.

Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works

Professor Michael S. Hart was the originator of the Project
Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be
freely shared with anyone. For forty years, he produced and
distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of
volunteer support.

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