Il muto di Gallura : Racconto storico sardo

By Enrico Costa

The Project Gutenberg eBook of Il muto di Gallura
    
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Title: Il muto di Gallura
        Racconto storico sardo

Author: Enrico Costa

Release date: August 9, 2024 [eBook #74218]

Language: Italian

Original publication: Tempio Pausania: G. Tortu, 1912

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Sardegna Digital Library)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK IL MUTO DI GALLURA ***


                              ENRICO COSTA


                           IL MUTO DI GALLURA

                       (RACCONTO STORICO — SARDO)


                            SECONDA EDIZIONE



                                 TEMPIO
                   TIPOGRAFIA EDITRICE DITTA O. TORTU




                          PROPRIETÀ LETTERARIA




A Medardo Riccio


_Hai voluto gentilmente dedicarmi il tuo_ Testamento del Diavolo, _e
te ne ringrazio. Permetti dunque, che anche io ti dedichi il mio_ Muto
di Gallura, _in pegno di quella salda amicizia che da molti anni ci
unisce._

_Ed ora — prima di cominciare — lascia che io faccia una dichiarazione,
che credo necessaria per coloro che avranno la pazienza, o la bontà di
leggere le mie pagine._

_Non ho scritto un romanzo. I fatti che io narro sono veri; — veri
nei particolari, nei nomi dei personaggi, nei luoghi dell’azione, nei
tempi in cui accaddero, e fin nei dialoghi che riporto. I galluresi
potrebbero farne fede._

_Insomma in generale ho voluto narrare la storia delle inimicizie di
Aggius nei sette anni che corsero dal 1849 al 1856; e in particolare
quella di Bastiano il muto — uno dei personaggi che vi presero più
larga parte._

_L’esigenza storica dei fatti mi ha costretto a far menzione di scene
di sangue, che ben volentieri avrei taciuto, se lo scopo della mia
pubblicazione non fosse quello di far rilevare da quali cause leggere
ebbero ben spesso origine le sanguinose vendette che afflissero in ogni
tempo le generose e forti popolazioni della Gallura, e specialmente di
Aggius, le quali trascesero negli odî, anche per colpa dei Governi che
le trascurarono sempre._

_La politica d’allora corrotta e corruttrice, non faceva che avvilire
quegli uomini fieri, concedendo l’immunità ai più feroci banditi, a
solo patto che catturassero o uccidessero a tradimento i loro compagni;
onde accadde non di rado, che un assassino volgare riacquistasse
facilmente la libertà, uccidendo colui, che solamente si era fatto
omicida per vendicare l’onore della propria famiglia._

_Vincolato da una promessa ai cari amici di Gallura, oggi l’ho sciolta
come meglio ho potuto, suggellandola col tuo nome._

_Se a te ed a loro il mio_ Muto di Gallura _riuscirà a manifestare
l’affetto che vi porto, avrò motivo di compiacermene. Potrò dirvi con
orgoglio: — Son riuscito a far parlare un muto!_

  _Sassari 15 Luglio 1884._

                                                         ENRICO COSTA




PARTE PRIMA

PRELUDIO


Nell’ombra

A passi lenti, chiuso ne’ suoi pensieri, camminava per ore ed ore, alla
ventura.

Di colle in colle, di balza in balza, egli si agirava per quei
dintorni, ma finiva sempre per ritornare al punto donde era partito:
ad uno speco, chiuso fra tre blocchi di granito, intersecato da folte
macchie di rovere e di lentischio.

La notte era buia, quantunque il cielo fosse stellato; ma quell’uomo
era pratico dei sentieri e dei burroni che conosceva palmo a palmo.

Sotto il cappuccio tirato sul viso, i suoi occhi mandavano lampi;
dalle falde del corto cappotto di orbace usciva la tersa canna del suo
fucile, compagno indivisibile nella sua solitudine: unico amico a lui
rimasto fedele nei giorni della sventura.

Assorto in cupe meditazioni, egli teneva gli occhi fissi nel fiocco
lumicino, che appariva in una casetta posta sull’altura di S. Gavino di
pietra Màina.

Quel punto luminoso era la mèta de’ suoi pensieri — la causa delle sue
smanie.

Il cielo era stellato; ma che importava a lui del cielo? — nessun
astro in quella notte scintillava come il lumicino che rompeva l’ombre
addensatesi sulla terra.

Tratto tratto quell’uomo sussultava nascondendo il volto fra le mani;
e poi rialzava la testa per fissare di nuovo la finestra lontana, con
uno sguardo che tradiva l’interna battaglia di un’anima esacerbata.
Nell’espressione del suo volto leggevasi il contrasto di opposti
sentimenti: odio ed amore — vendetta e perdono.

Appariva smanioso, perplesso. La lunga notte non era bastata a dargli
consiglio. Forse attraversava uno di quei punti fatali che dividono la
generosità dal delitto: uno di quei momenti che possono fare dell’uomo
un eroe od un assassino, decidendolo cioè a sacrificare sè stesso per
il bene altrui o gli altri per il proprio bene.

Il filo di luce era sparito dall’imposta socchiusa; e non pertanto
quell’uomo continuava a guardare nell’ombra, come se vedesse ancora la
pallida fiammella che gli brucciava l’anima e il sangue.

Stava alcuni istanti immobile, poi si alzava d’improvviso, gesticolava
come un matto, riponeva sotto braccio il fucile, e ricominciava le sue
escursioni, per ritornare al suo covo di belva. Sparviero irrequieto,
parea volesse librare il volo intorno al gruppo di casette, per
uccidere, o per essere ucciso. — Quella notte gli sembrava eterna e
stanco e intirizzito guardava le vette del monte Spina, invocando la
luce del giorno.

Più volte, con moto febbrile, aveva strappato dal nudo petto una
medaglia di bronzo, che andava coprendo di baci e di lacrime; ed ogni
volta parea ne risentisse un refrigerio alle sue smanie. Quale arcana
virtù si celava dunque in quel pegno, compagno fedele de’ suoi dolori?
Era forse un sentimento religioso quello che si ridestava in lui? No:
perocchè a quell’uomo non avrebbero potuto insegnare una preghiera — nè
mai egli aveva pregato!

Quell’essere misterioso era Bastiano Tansu, un giovane bandito
soprannominato il _terribile_; — quel gruppo di case era l’Avru: uno
dei cento _stazzi_ seminati fra Bortigiadas ed Aggius; — quel giorno
era il sesto di luglio 1857.

Il giovine bandito manifestava le sue smanie col movimento convulso
delle braccia, col lampo delle nere pupille, e col grido inarticolato
che gli usciva dalle labbra, come ruggito di fiera innamorata e gelosa.
— Nè altrimenti avrebbe potuto manifestarle, perocchè era sordo-muto
fin dalla nascita.

La causa intima delle sue smanie era la bella figlia di Anton Stefano
il pastore. Più volte quel giovane era stato accolto nello stazzo
dell’Avru, dov’era stato presentato da un suo cugino — Pietro Vasa.
Al bandito che erra per la campagna, inseguito dalla giustizia, non
si nega un asilo; e l’ospitalità è sempre inviolabile su quei monti di
granito; essa è un culto, una religione, un bisogno dell’anima.

In quella casetta Bastiano aveva conosciuto Gavina — e con Gavina un
affetto fino allora ignorato.

Nè Gavina aveva raggiunto i diciott’anni — nè Bastiano i trenta. Erano
giovani entrambi.

Le smanie del bandito, in quella notte silenziosa, erano giustificate
da una speranza che vedeva ad un tratto svanire. L’idea di un amore
corrisposto lo aveva reso frenetico; delirante, pazzo. In mezzo ad
una vita di martirio, vissuta nella miseria e nell’abbiettezza, egli
per la prima volta aveva avuto orrore de’ suoi delitti. Da sette anni
che batteva la campagna, era sempre stato il terrore dei dintorni.
Quando si era vendicato del suo primo nemico, oltrepassava di poco
i vent’anni, ma aveva molto vissuto — perchè soffrire è vivere
lungamente.

E il suo era stato un crudele disinganno! — Da poco Bastiano si era
ritirato dalla via del delitto — e già stava per rimettervi il piede.
Da quattro giorni quell’infelice si aggirava intorno allo stazzo
dell’Avru per consumarvi un delitto — e per quattro giorni aveva
lottato incessantemente con una forza misteriosa che tratteneva il suo
braccio.

Ma l’alba tremenda stava per spuntare, ed egli l’aspettava con ansia
paurosa.

Fidente in un nuovo avvenire, immemore di un triste passato, aveva
per un istante sorriso alla donna. L’amore gli aveva fatto balenare la
speranza d’una riabilitazione; ma fu delirio di un’ora.

Ferito nel profondo del cuore aveva giurato di vendicarsi — e la sua
parola era sacra! — La vendetta gli aveva suggerito quattro vittime
da colpire — ma a Bastiano bastava una sola. Quale? Ecco la sua
tortura, il suo martirio! Fino a quella notte aveva esitato, lottando
disperatamente con la propria coscienza ma la coscienza dell’uomo aveva
sempre ceduto all’istinto della belva.

E la belva aveva designato la sua vittima.

Ma chi era costui, additato da tutti come il terrore della Gallura,
come il feroce tra i feroci? Qual fu la sua vita? Qual forza di eventi
lo trasse così giovane sulla via del delitto? Perchè la maledizione
degli uomini lo perseguitò nel suo cammino, con un odio che sopravisse
alla sua morte — ad una morte più misteriosa della sua vita?

I fili di quella esistenza erano collegati ad uno di quegli odii di
parte che in ogni tempo resero famosa la Gallura in generale, ed Aggius
in particolare.

In attesa dell’alba tanto invocata dal giovane bandito, accenneremo
ad una storia di sangue, che potrebbe definirsi il complesso di molte
storie.


II.

Aggius

Gli abitanti dell’estremo lembo della Sardegna settentrionale hanno
un tipo speciale, caratteristico. La loro immaginazione è fervida, il
loro carattere energico, la loro tempra d’acciaio. Hanno una naturale
tendenza alla poesia e i loro canti sono ispirati o da sentimenti
malinconici, o da un umorismo satirico. Tenaci nell’amore quanto
nell’odio, una sola parola basta per intenerirli — una sola parola per
eccitarli all’ira. Risentono molto del carattere dei côrsi, dei quali
hanno lo slancio, la temerità, il coraggio.

E côrsi diconsi i primi abitatori della Gallura. È detto nella
narrazione di Pausania, che essendosi accesa tra i côrsi una sedizione,
la parte più debole dovette cedere e rifugiarsi nella vicina Sardegna.
Sebbene il Fara voglia derivata questa popolazione dai Galli condottivi
coloni e il Landino da certi pisani che avevano un gallo per insegna,
e il Nurra dai _Galluri_, nome dato dai côrsi agli africani ed iberi
disertati dalle insegne puniche dopo la conquista dell’isola, pure è
certo che la versione di Pausania è sempre la più probabile, se non
la più vera; perocchè i galluresi hanno molta analogia cogli abitanti
dell’antica _Cirnus_, coi quali hanno comune la fisonomia, la lingua e
il carattere.

Fin dai tempi remoti la Gallura fu teatro di odii atroci e di tremende
vendette. Per cause tavolta assai frivole, gli abitanti si dividevano
in distinte fazioni, per dilaniarsi a vicenda.

Di generazione in generazione veniva trasmessa la vendetta; nè rare
erano le madri che mostravano ai teneri figli la camicia insanguinata
del padre per mantener vivo nei loro petti l’odio al nemico; perchè
potessero freddarlo, divenuti adulti. Ond’è che scene di sangue
funestarono assai spesso quella terra poetica, dove i canti dell’amore
venivano alternati, o confusi, coi canti dell’odio e della vendetta.

Nella Gallura, oltre la città di Tempio, sono cinque villaggi
principali: Aggius, Bortigiadas, Luras, Calangianus, S. Teresa[1]. La
maggior parte però della popolazione è sparsa per l’estesa campagna,
in gruppi di due, tre, o quattro case cui si da il nome di _stazzo_
— specie di ovile isolato, dove vive un’intera famiglia di pastori.
Gli stazzi sono aggruppati fra loro sotto il nome di _cussorgie_; le
cussorgie sono in gran parte riunite in _Cappellanie_, o parrocchie
rurali ausiliarie, istituite dal Conte Bogino sotto il regno di Carlo
Emanuele III, verso il 1759.

Secondo l’Angius, le Cussorgie della Gallura sono 188; le quali
comprendono 1568 stazzi, sotto sette parrocchie, cioè: S. Teodoro — S.
Maria Maggiore — S. Pasquale — S. Francesco d’Aglientu — La Trinità di
Agultu — S. Maria, appartenente a Castelsardo.

                                   *

Aggius è uno dei più caratteristici villaggi della Gallura, tanto per
la sua curiosa giacitura, quanto per i suoi abitanti fieri, nervosi, e
un dì implacabili nei loro odi secolari.

Questo villaggio era già uno dei componenti il feudo di Gallura, e
apparteneva ad un barone spagnolo. Nell’ultimo censimento del 1881,
contava 2420 abitanti; di cui, soli 500 in paese, e 1920 sparsi nei
suoi 459 stazzi, non compresi i 95 oggi disabitati.

Aggius ha le abitazioni brune — come Tempio, come Bortigiadas,
come Luras, e come Calangianus; perocchè le sue case sono costrutte
con blocchi squadrati di granito, ben di raro intonacate di calce.
All’intorno ha una vegetazione piuttosto lussureggiante; ma la sua
natura è triste e fredda, come le sue case di granito. I boschi d’elci,
di querce e di sugheri gli danno un aspetto singolare. Sorride, è vero,
tra le terre sabbiose e i grigi macigni rigogliosa la vite — ma è un
sorriso melanconico che risente del broncio delle vecchie quercie,
cariche d’anni e di ghiande. Quà e là in mezzo a foreste vergini, o
a vigne deliziose, tu scorgi qualche masso imponente lanciato sulla
terra, non sai come, perchè, nè da chi; — lo diresti caduto per
atterrire i vecchi sughereti o i giovani pampini.

Nella Gallura tu vedi uomini alti, asciutti, nervosi, dal volto
arsiccio e dall’occhio fiammeggiante; — vedi dappertutto colossi di
granito che sfavillano al sole, come fossero tempestati di diamanti;
— vedi giganti vegetali dalle chiome folte, che van mostrando i loro
rami contorti e i loro tronchi anneriti dai secoli. La natura ha
colà un’intonazione perfetta: i suoi tre regni sono l’espressione
della forza. Quegli uomini robusti e pieni di vigore li diresti nati
dalle nozze misteriose della quercia e del granito, sotto l’ira delle
tempeste: essi risentono dell’una e dell’altro.

Però, se il loro dialetto è una musica, se dolce è la loro parola, ben
amaro talvolta è il loro sorriso: amaro come il loro miele, — curiosa
specialità di quell’alpestre regione.

E queste tre forze della natura han pur esse le feconde carezze della
grazia e della bellezza. Le fanciulle più seducenti, dalla carnagione
bianchissima, dagli occhi espressivi e dalle forme gentili, sorridono
innamorate a quegli uomini fieri e robusti; — l’edera più tenera
stringe nelle sue spire affettuose i tronchi delle quercie secolari;
— e la felce, piena di vita, si affaccia sorridente fra i neri graniti
delle case, per adornarle co’ colori della speranza.

Il paese di Aggius è addossato ad una strana catena di montagne che
sembrano create per difenderlo. Diresti che non siano gli uomini che
abbiano fabbricato il villaggio a piedi di quella catena; ma piuttosto
la natura che abbia costrutto quella barriera granitica alle spalle di
Aggius.

Quei monti hanno forme bizzarre, e ti fanno pensare al famoso Resegone
di Lecco, immortalato dal Manzoni. Essi ergono al cielo le creste
nude, frastagliate, capricciose; e gli abitanti guardano con un certo
orgoglio quelle punte — taglienti e aguzze come il loro ingegno, come
la loro lingua, come il loro coltello.

Veduto da lontano, circondato da quella catena di monti, il paese
d’Aggius sembra una vittima designata al martirio. Sono sette le punte
principali che emergono dalla corona di spine, che l’avverso destino
ha posto sulla fronte d’Aggius, quasi a presagio delle sventure che
dovevano colpire il maledetto dagli uomini e da Dio; sette punte che
potrebbero significare gli altrettanti dolori che tormentarono quella
povera madre di figli sventurati, più che colpevoli.

Fra il monte Tummèu-Soza, il Monte Tronu, il monte Fraite, e il monte
Pinna, s’erge maestoso, e più imponente di tutti, il monte della
Crocetta, le cui creste sovrastano quasi il villaggio. Sulla punta
più alta di granito, che minacciosa sembra guardare il paese, vedesi
una croce di legno, la quale attira l’attenzione e la curiosità del
viaggiatore. Quel simbolo ha dato il nome al monte; esso impressiona
la vecchierella, la quale non può guardarlo senza farsi il segno della
croce, e senza mormorare la preghiera dei morti.


III.

Il Monte della Crocetta

Una tradizione popolare (che corre tutt’ora sulla bocca dei vecchi)
narra, che il diavolo abitasse un tempo sulla vetta di questo monte.
Egli, di tanto in tanto, si compiaceva d’affacciarsi ai massi di
granito per guardare con occhio di fuoco il sottostante villaggio.

In quei giorni nefasti sentivasi soffiare un vento gagliardo, che,
pur venendo da levante, recava dal Limbara ricoperto di neve il suo
alito glaciale. E mentre gli abitanti d’Aggius si sentivano il corpo
intirizzito, il diavolo alla sua volta soffiava sulle anime loro,
suscitandovi pensieri d’odio, di vendetta, di sangue.

Si diceva che gli aggesi fossero in origine d’indole serena e
tranquilla e che lo spirito infernale, volendo dannare le loro anime,
avesse preso stanza nella reggia di granito, ch’era in cima del monte;
e si compiacesse, nelle notti insonni, di tribolare quei poveretti.

Le vecchie tremavano di paura nel loro letto, e recitavano il rosario
sotto le coltri, mentre il vento furioso urlava dalle fessure delle
imposte. Il figlio dell’inferno, non potendo chiuder occhio, si
divertiva a turbare il sonno dei figli della terra.

Ogni tanto il diavolo — a quanto asseriscono i vecchi — si affacciava
alla rupe; e dopo aver annunziata la sua presenza con un rullo sordo e
prolungato, gridava per tre volte rivolto al villaggio.

« — _Aggius meu, Aggius meu; e candu sarà la dì chi ti zz’aggia a pultà
in buleu?_[2]

La minaccia diabolica era il pronostico della distruzione del paese;
e il rullo prolungato che la precedeva significava che un uomo era
designato a morire di morte violenta. Così almeno diceva la tradizione.

Figuratevi lo sgomento della popolazione! Si ricorse al parroco; si
chiamarono a consulto i _ragionanti_ del paese; ma sempre invano. Il
diavolo non se ne dava per inteso, e continuava a tormentarli.

Verso la metà del secolo XVIII, ad un zelante missionario capitato ad
Aggius, venne l’ispirazione di piantare una croce di ferro sul monte,
per far fuggire il demonio.

Narra la leggenda popolare, che in quella notte spirò un vento così
gagliardo che sradicò molte quercie secolari e fece precipitare
dai monti più d’un masso di granito. Tutte le case tremarono dalle
fondamenta, ma la croce stette salda sulla punta del monte.

Udendo quel baccano infernale i popolani corsero al Rettore; il quale
li rimandò a casa tranquilli, dicendo loro:

— Non temete è il diavolo che prepara le valigie per tornarsene
all’inferno. Non verrà più a tormentarci.

Pare però che il diavolo non volesse rinunziare alle due mila e più
anime, di cui aveva giurata la perdizione. Aveva bensì abbandonato
il monte della Crocetta, ma forse per ricoverarsi sul monte Fralle,
o sul monte Pinna, donde, come per il passato, continuò a soffiare
il suo livore sulle anime dei buoni aggesi; i quali, alla loro volta
continuarono a dilaniarsi l’un l’altro, spargendo il terrore nella
Gallura.

                                   *

Negli ultimi giorni di luglio dello scorso anno (1883) volli fare la
salita del monte della Crocetta per esaminare i luoghi ch’io voleva
descrivere. È impossibile immaginare i disagi ed i pericoli cui si
va incontro, arrampicandosi lassù, per quei massi giganteschi che ad
ogni istante minacciano precipitarvi addosso. È impresa veramente
temeraria tentar l’ascensione del monte a parte di levante, com’io
l’ho tentata per consiglio di una guida inesperta. Dovetti saltar di
blocco in blocco, strisciar carponi come biscia, aggrapparmi colle
unghie ai graniti, abbrancare arbusti e lentischi per poi lasciarmi
cadere nel vuoto chiudendo gli occhi; — insomma sforzi inauditi ed
esercizi ginnastici che solo potrebbe tentare un disgraziato inseguito
dall’umana giustizia. Ma vi ha di più: una volta incominciata la
salita, bisogna continuarla perocchè il tornare indietro è lo stesso
che sfidare il pericolo di uno sfracellamento.

Era la prima volta che io visitava il monte della Crocetta — e posso
assicurarvi che fu anche l’ultima. Arrivato lassù dopo due ore di
stenti, respirai a pieni polmoni, ed esclamai dal profondo dell’anima:

— Sono veramente in casa del diavolo!

Su quel monte vidi tre cose: la croce del missionario — la conca della
Madonna — e il tamburo del demonio.

La croce del missionario è infissa sopra un masso gigantesco, quasi
isolato, che misura da venti a trenta metri di altezza, e che forma il
cucuzzolo del monte, bersagliato dai fulmini e dai venti. In origine
quella croce era di ferro; e vi durò oltre mezzo secolo — finchè un
giorno, schiantata dalla folgore, fu sostituita con altra di legno, che
viene rinnovata ogni due o tre anni.

La conca della Madonna è una specie di nicchia naturale scavata nel
granito. Dicesi che la Madonna vi abitasse qualche volta, per tener
lontano lo spinto delle tenebre.

Il gran tamburo (_lu tamburu mannu_) è una gran lastra di granito, a
base convessa, la quale posa sopra un blocco spianato. Basta salire
sull’orlo, e far forza col corpo, perchè la pietra oscilli, dondoli,
e produca un rullìo cupo, sordo, continuo, come il mugolìo d’un tuono
in lontananza. Il gran tamburo d’Aggius ha molta analogia colla famosa
_Pietra ballerina_ di Nuoro; la differenza è una sola: quest’ultima, da
parecchi anni non balla più — quello invece continua a suonare.

A memoria dei più vecchi, questo tamburo è sempre esistito, e gli si
annettono non so quali malefici influssi. Dicono, per esempio, che
allorquando si ode il suo rullo, è indizio certo che una persona è
morta o deve morire di morte violenta.

Il parroco d’Aggius ebbe un bel mostrare la croce ai superstiziosi,
per persuaderli che il diavolo se n’era andato! — Essi continuarono
ad affermare che il demonio passeggiava sempre sulle sette punte, che
sovrastano il loro infelice paese.

E la loro credenza era purtroppo convalidata dai fatti; perocchè la
Gallura continuava ad essere funestata da moltissimi delitti, consumati
sotto il patrocinio del diavolo. E ben poteva affermarlo l’estesa
campagna che da Sedini si stende fino a Bortigiadas, da Bortigiadas
alla Trinità di Agultu, e dalla Trinità all’estremo litorale che corre
tra Castelsardo e l’Isola Rossa.

Fu il diavolo, difatti, che sul monte Fraile protesse i falsi monetari
che vi ebbero la fucina nel 1639; — fu il diavolo che inspirò il
terribile bandito Giovanni _il Gallurese_, ucciso nel 1657, mentre
usciva dalla casa della sua ganza d’Osilo; — fu il diavolo che sul
monte Cùccaro rese invulnerabili alle armi regie tutti i malandrini
che vi si annidavano dal principio alla fine del secolo XVIII; — fu lui
che protesse il terribile Antonio Pompita: — fu lui che nel 1800 gettò
lo sgomento nelle terre d’Aggius, fomentando le fazioni dei Mamia,
degli Addis, dei Malu e dei Biancu; — fu lui che nel 1808 eccitò gli
aggesi a ribellarsi con mano armata contro la legge della coscrizione;
— fu lui che entrò nel corpo dei traditori Stefano Buchicara, Don
Giacomo Alivesi, e Giovanni Mazzoneddu, quando il primo nel 1557, il
secondo nel 1671, ed il terzo nel 1802, fingendosi amici consegnarono
al carnefice le teste di Lorenzo Judas, del Marchese di Cea, e di
Francesco Cilocco!

Ma nessuno era riuscito a domare quegli spiriti turbati dal demonio.
Lo stesso fra Gavino Achena d’Ozieri — il celebre missionario e
poeta — non potè con la sua voce e i suoi strattagemmi comporre le
inimicizie di Aggius. Ond’è che nell’Agosto del 1766 il vicerè Balio
della Trinità faceva conoscere, con un pregone che S. M. Carlo Emanuele
aveva in animo di schiantare il villaggio e gli abitanti di Aggius[3]
— ond’è che il Conte di Moriana, governatore di Sassari, nel luglio
del 1802, proponeva a suo fratello Carlo Felice di ridurre in cenere
il villaggio, dividendo gli abitanti fra diverse popolazioni fuori
della Gallura[4] — ond’è finalmente che, per i tanti delitti commessi,
il paese d’Aggius (come nota lo Spano) veniva designato in un pregone
vicereggio quale il più feroce dei villaggi sardi!

— Finchè non si metteranno croci su tutte le punte dei nostri monti, i
figli d’Aggius saranno sempre tormentati dallo spirito infernale.

Così dicevano i vecchi del paese, sempre quando un nuovo fatto di
sangue veniva a turbare quelle povere popolazioni.


IV.

L’Infanzia del Muto

Bastiano Tansu era figlio di modesti pastori di Aggius. Aveva parecchi
fratelli — alcuni maggiori d’età, altri minori di lui.

La sua infanzia era stata tempestosa; perocchè fin dai primi anni ebbe
a soffrire molte umiliazioni per la sua imperfezione fisica. I suoi
compagni lo maltrattavano, o lo deridevano; nè tardò ad accorgersi
ch’era un uomo incompleto.

Nei trastulli infantili era sempre scartato — nelle dispute sempre
percosso.

Talvolta coi gesti e gli urli cercava persuadere i compagni della
loro ingiustizia: ma chi comprendeva gli urli e le smorfie di
quel disgraziato? Nessuno. Egli piangeva e si disperava — e quelli
credevano che facesse uno scherzo; egli supplicava invocando un po’ di
compassione — e quelli credevano insultasse. Infelice! — altro mezzo
non gli era dato per manifestare i suoi pensieri, all’infuori di quegli
urli e di quei guaìti i quali non facevano che provocare l’ilarità, o
la celia.

Bastiano si raccoglieva in sè stesso. Tra lui e il mondo esteriore non
c’era alcun rapporto. Egli non poteva manifestare agli altri i suoi
pensieri — nè gli altri a lui. Era dunque centro d’un mondo tutto suo,
e discorreva soltanto con la propria coscienza.

Tuttavia, non poteva intieramente rinunziare a quei trastulli che
formano il passatempo dell’età infantile. Era sempre co’ i suoi
compagni; e andava con essi a sorprendere il nido degli acquilotti
sulle vette del monte Pinna o del monte Fraile; oppure si dava a
correre in mezzo ai cespugli per far raccolta di corbezzoli d’oro o di
ginestre fiorite, che tanto abbondano in quei dintorni. La sua parte di
divertimento era la più modesta — ma gli bastava, ormai si era abituato
agli altrui motteggi, o all’altrui indifferenza, e fingeva non badarvi.

Col crescere degli anni però, il suo carattere e le sue abitudini si
erano modificati. Alle felici accondiscenze era subentrato un orgoglio
insolente. Bastiano entrava nel periodo della reazione; La sordità lo
aveva reso diffidente — la mancanza di lingua lo aveva reso irascibile.
Veduto che i suoi urli movevano al riso; veduto che la sua umiliazione
gli provocava insulti; veduto che i suoi gesti non venivano compresi e
che egli non riusciva a comprendere il gesto degli altri aveva adottato
un mezzo che rispose all’intento prefisso. Non riuscendo a farsi amare,
tentò di farsi temere; alla sua lingua, che non sapeva spiegarsi,
oppose i suoi pugni d’acciaio che venivano compresi. Usando della
forza e dell’audacia di cui madre natura lo aveva fornito, riuscì a
farsi rispettare. Non ebbe mai altra coscienza che quella della propria
forza; non sentì altra voce che quella dell’istinto.

I saggi del paese dicevano che Bastiano aveva sortito dalla nascita
istinti feroci. Tutti avevano riconosciuto in lui una natura perversa;
e il parroco aveva presagito e predicato in piazza, che quel muto
doveva finire nell’ergastolo o sul patibolo.

Bastiano era per tutti un cattivo, tranne per i suoi fratelli e per
sua madre la quale aveva una predilezione per il povero disgraziato:
forse perchè sapeva che i disgraziati hanno, più degli altri, bisogno
d’affetto e di premure.

E il muto, dal suo canto, non amava che sua madre e i suoi fratelli;
perocchè essi soli al mondo comprendevano i suoi gesti e i suoi urli.

Nato senza lingua e senza udito, quell’infelice crebbe coll’odio nel
cuore. Nutriva una profonda invidia per tutti gli uomini che potevano
liberamente esprimere i loro sentimenti. Egli era un derelitto, un
reietto, un miserabile. Quantunque fanciullo, pur comprendeva che la
natura lo aveva gettato in mezzo ad una gente più sorda e più muta di
lui. Mentre all’intorno ferveva la vita e il frastuono, nella sua anima
era sempre un silenzio sepolcrale ed una squallida solitudine.

Non passava giorno senza che Bastiano percuotesse un suo compagno.
Provava una ferocia indicibile a far del male ad altri. Non udendo i
lamenti della vittima, gli era meno penoso l’ufficio di carnefice che
si era assunto.

Divenuto grandicello, si era vendicato ad uno ad uno di tutti
quei compagni che bambino lo avevano maltrattato, deridendo la sua
infermità, ma accadeva ben spesso che il percosso era lui; perocchè,
acciecato dall’ira, diventava temerario, e non misurava le proprie
forze con quelle dell’avversario. Chiunque fosse che gli facesse uno
sfregio, non transigeva, gli si avventava addosso come una tigre,
senza preoccuparsi di una sconfitta. Sugli altri aveva una superiorità:
percosso a sangue non si lamentava mai; anche vinto aveva l’orgoglio
dei vincitori. Gli sarebbe parsa vigliaccherìa piangere o lamentarsi in
faccia al nemico che egli aveva sfidato. Anzi, Bastiano non sfidava mai
— assaliva all’improvviso, senza dar campo al nemico di riaversi dalla
sorpresa. Ed era questa la sua forza — il segreto delle sue vittorie.

Il muto d’Aggius non conosceva paura. Più volte insieme coi compagni,
era salito sul monte della Crocetta per dar la caccia al nido degli
avvoltoi. Giunti lassù, i compagni si mettevano d’accordo, e lo
piantavano solo sul monte misterioso. Il muto dava una scrollatina di
spalle, sogghignava, e faceva ritorno al villaggio, col massimo sangue
freddo. Eppure non vi era fanciullo in Aggius, capace di salir solo
sulla roccia maledetta!

Non v’ha dubbio! — dicevano in paese — il muto è figlio del diavolo — e
il diavolo lo protegge.

La imperfezione del muto, che negli uomini destava ilarità, nelle
donne destava anche avversione. Quando Bastiano, più galante del
solito, parlava a modo suo colle ragazze, cercando di mettere nei suoi
movimenti tutta la grazia possibile, le ragazze ridevano a scrosci,
per le smorfie ch’egli faceva con la bocca e per i suoni striduli che
gli uscivano dalla strozza. E si allontanavano da lui mostrandogli la
lingua e facendogli le corna con le dita, per dirgli ch’era figlio del
demonio.

E se i motteggi dei compagni inasprivano il muto, quelli delle
fanciulle lo ferivano a sangue. Dagli uomini sapeva difendersi coi
pugni d’acciaio; ma colle donne non poteva che contorcere le braccia,
mandando un ruggito ch’era imprecazione. Il contegno delle donne gli
diceva chiaramente che era una creatura deforme e imperfetta, messa
al mondo per dar pasto agli scherni ed agli insulti dei suoi.... non
simili! E difatti era la natura che rinnegava sè stessa, facendo tacere
nel cuore della donna il supremo degli istinti — l’amore.

Non potendo vendicarsi di quelle deboli quanto belle creature, il
muto soffriva crudamente. Guai allora se gli capitava fra i piedi un
compagno che gli desse la baia! Tutto il suo cruccio si riversava sul
malcapitato, il quale doveva scontare a caro prezzo la sua imprudenza.

Se oggi voi domandate a tutta la Gallura, vi si risponderà che il
muto era un tristo, una belva dagli istinti feroci; e che in lui già
si presentiva l’implacabile bandito che doveva ricevere il battesimo
di _terribile_, e che dal 1850 al 1858 doveva gettare il terrore e la
morte nelle campagne d’Aggius e di Bortigiadas.

Ma chi si arrogava il diritto di giudicarle?

Dio aveva dato al muto un’anima espansiva; ma l’aveva rinchiusa in
un corpo privo d’organi, perchè non potesse manifestarsi. Dentro
quell’involucro di bronzo l’anima doveva corrodere il cervello ed il
cuore. — Il sordo-muto non poteva comunicare col mondo esteriore —
nello stesso modo che gli uomini non potevano aver comunicazione con
la sua coscienza. L’Orfeo della favola, che placava la tigre col suono
della lira, non avrebbe potuto placare il muto di Aggius.

Dunque il muto era al disotto della belva.

                                   *

E cogli istinti della belva, temuto da tutti per la sua forza e la sua
temerità, Bastiano aveva raggiunto vent’anni.

Era legato a molti parenti, fra i quali alla famiglia Vasa, una delle
più notevoli di Aggius.

Nel maggio 1849 Pietro Vasa aveva invitato tutti i parenti alla
cerimonia dell’_abbraccio_ che doveva aver luogo nel suo stazzo della
Trinità di Agultu. Fra gli invitati erano pure i fratelli Tansu, suoi
cugini, e con loro il muto, per il quale aveva una speciale affezione.

Il Vasa si faceva sposo ad una bella e ricca fanciulla di sedici
anni, della quale era innamorato da oltre sei mesi. Come prescrive
l’usanza di Gallura, lo sposo voleva che tutti i parenti assistessero
alla cerimonia dell’abbraccio, la quale non è altro che una promessa
formale, o meglio la convalidazione del contratto nuziale.

Essendo la storia del muto collegata alla storia di questo matrimonio,
che fu causa di molte sventure, lasceremo per poco il nostro
protagonista per occuparci dei fatti che hanno dato origine agli
avvenimenti sanguinosi che funestarono il territorio d’Aggius, dal 1850
al 1856.




PARTE SECONDA

I VASA E I MAMIA


I.

Mariangiola

Fra le più notevoli persone d’Aggius, per censo, intelligenza ed
onestà, primeggiava Antonio Mamia che, a buon diritto, godeva la stima
generale. I consigli di quest’uomo probo erano ascoltati religiosamente
e, difatti, era ritenuto come il più autorevole dei _ragionanti_
e il più efficace dei _paceri_. Perocchè il giudizio del Mamia era
inappellabile; ed anche il più caparbio dei litiganti avrebbe chinato
con rassegnazione la fronte, ove il buon vecchio gli avesse detto: hai
torto.

Il Mamia, che non toccava la sessantina, aveva due figli: Mariangiola
e Michele — la prima sui diciassette, il secondo sui quattordici anni.
Egli era un benestante: possedeva casa in Aggius, e parecchi stazzi
nella regione di Vignola, dove passava una buona parte dell’anno, com’è
costume di quasi tutti gli abitanti della Gallura.

Pietro Vasa apparteneva anch’esso ad una famiglia di benestanti, e
godeva in paese fama d’uomo di spirito e di energia. Piuttosto basso di
statura, e col volto adorno di una barba ispida e incolta, Pietro era
tutt’altro che un bell’uomo; però sapeva cattivarsi la simpatia delle
fanciulle, per la sua dolce parola, per la sua grazia, e per quella
fierezza di carattere che piace tanto alle donne di quella regione,
che, a buon dritto potrebbe chiamarsi la _Svizzera sarda_.

Era per raggiungere, o di poco oltrepassava i trent’anni e nutriva
una particolare affezione per la sua vecchia madre, che teneva sempre
con sè. La sua indole irascibile e le sue maniere alquanto ruvide gli
avevano creato qualche inimicizia; ma chi poteva vantarsi di non avere
nemici in Gallura? Le contestazioni erano colà sempre vive, ed il Vasa
non era andato immune dai rancori, che possono dirsi indispensabili su
quei monti di granito, dove il vivere fra le lotte diventa quasi una
necessità.

Fra le altre, il Vasa era da qualche tempo in contestazione d’interessi
colla famiglia Pileri; nè mai era riuscito a stabilire con essa un
amichevole accordo. E la fierezza dei galluresi giunge a tanto, che,
talvolta, essi rinunziano risolvere una questione, solo per non subire
l’umiliazione d’essere i primi a proporre la soluzione.

Pietro Vasa si era invaghito di Mariangiola, la figlia di Antonio Mamia
— una bella fanciulla, con la quale si era incontrato più volte in
chiesa all’ora della messa, e al ballo che soleva farsi ogni domenica
nella piazzetta del Rosario, o in quella poco distante dalla casa dello
stesso Mamia.

La bella Mariangiola si era subito accorta delle occhiate languide e
significanti colle quali andava perseguitandola Pietro; e, non solo se
ne compiacque, ma non tardò a corrispondere alla corte di quel fiero ed
energico innamorato.

Gli aggesi dell’uno e dell’altro sesso, che assistevano ai balli, in
piedi, o seduti sulle soglie delle porte, seguivano attentamente la
graziosa coppia che ballava la _dansa_ con raccoglimento che tradiva le
smanie amorose invano celate all’occhio dei circostanti.

Pietro e Mariangiola, con le strette di mano, e con le parole brevi e
concitate, alimentavano quell’affetto, che ben presto divenne gigante.

E per vero, Mariangiola, formava l’ammirazione dei giovani e delle
fanciulle d’Aggius; i primi invidiavano sospirando il conquistatore
di una tanta bellezza, le seconde constatavano la superiorità della
loro rivale — cosa non troppo comune, specialmente nelle fanciulle da
marito.

Bisognava vederla la Mariangiola, tutta rossa in viso e cogli occhi
dimessi, fare i passi cadenzati al fianco del suo Pietro! e come ci
teneva a ballar con precisione e compostezza, tanto nel _ballo tondo_,
quanto nella _dansa_ e nel _baddittu_. — Il suo rossore e il suo
turbamento ben rivelavano agli astanti curiosi di qual natura fossero
le parole che Pietro le andava sussurrando all’orecchio: parole che
la turbavano ma di cui si compiaceva; quantunque di tanto in tanto le
facessero perdere il tempo e le rigorose battute della _dansa_ — nella
quale i ballerini hanno le mani intrecciate in modo, che le due destre
si stringono sul petto dell’uomo e le due sinistre a tergo.

Mariangiola era di una rara bellezza e di una grazia affascinante.[5]
Il capriccioso costume d’Aggius si attagliava leggiadramente a quella
figura gentile. Le sue guancie color di rosa, il labbro sottile e gli
occhi celesti risaltavano dal fazzoletto a frangie, color vinaccia,
che le aggesi sanno avvolgere intorno al viso con una grazia tutta
speciale. Vestiva una gonnella nera col lembo orlato in rosso: — aveva
un busto di velluto granato che le serrava completamente il seno;
un fazzolettino di seta al collo, ed un rosso corsetto a rivolte di
broccato, con maniche aperte dalle quali uscivano gli sbuffi della
camicia. Era questa la tenuta d’inverno. In estate le aggesi non
portano il corsetto, ma lasciano vedere le ampie maniche della camicia
stretta ai polsi. Una particolarità delle donne aggesi, che impressiona
molto il forestiero, è quella di chiudere il piedino nudo in eleganti
scarpette. Non saprei dirvi la ragione per cui quelle care fanciulle
sdegnano le calze; forse perchè le sante non le usano.

Pietro era l’ombra di quella creatura svelta e gentile. La seguiva
dappertutto, e specialmente nei giorni festivi.

Com’era lunga per lui la settimana! Egli aspettava con ansia la
domenica, perchè potesse inebriarsi nella vista di Mariangiola.

La fanciulla usciva di casa con la mamma, ed entrava in chiesa, dove
Pietro ascoltava la stessa messa. Alla sera poi, egli non mancava
all’indispensabile ballo, che gli dava il diritto di avvicinarsi a lei,
di stringerle la mano e di dirle tante belle cose. E Mariangiola aveva
pochi passi da fare per recarsi in chiesa, poichè la parrocchia di S.
Vittoria è distante una trentina di metri dalla casa Mamia, dalla quale
è separata dalla casetta del parroco, e dalla viottola che conduce alla
piccola valle Rischeddu.

La casa di Mamia è a un piano; vi si accede per una porta che ha due
scalini verso la via, che trovasi fra due finestre basse. Nel piano
superiore è un balcone con rozza ringhiera di legno, dalla quale
partono quattro listoni che reggono una tettoia sporgente, le cui
tegole si congiungono con quelle del tetto principale.

Quantunque l’uomo contasse quasi tredici anni più della donna, pure
Pietro e Mariangiola erano una _giusta coppia_, come tutti dicevano;
perocchè nei villaggi è appunto questa l’età prescritta per il
matrimonio, essendo ben rara la fanciulla che si sposi ad un giovane
ventenne. Pietro e Mariangiola, essendo simpatici a tutti, erano
guardati con compiacenza e senza alcuna invidia dagli uomini e dalle
donne; e tutti desideravano ardentemente di vederli accoppiati.

I due cuori si erano rapidamente accesi di una stessa fiamma — ed ormai
non mancava che convalidare l’amore con un formale matrimonio.

Il Vasa cercò indagare l’animo del padre di Mariangiola, e lo trovò ben
disposto a suo favore. E difatti, Antonio Mamia non poteva affacciare
alcuna difficoltà, inquantochè Pietro Vasa era un buon partito; e se
tale non lo avesse reputato, non avrebbe certo permesso alla figliuola
la troppa dimestichezza col giovane: — dimestichezza ch’era venuta a
conoscenza del vecchio, ma che il vecchio aveva finto ignorare, come
costume dei padri e delle madri quando si avvedono che le loro creature
sono innamorate di chi a lor piace e conviene.

Questi fatti erano avvenuti nei mesi di marzo e di aprile del 1849. La
primavera, che destava l’amore nella natura, aveva pur parlato alle
anime di Pietro e di Mariangiola col suo arcano linguaggio. Senza
andarsene, i due giovani avevano presentito il mistero della creazione.

Le due famiglie Vasa e Mamia, presi i dovuti concerti, stabilirono di
comune accordo di solennizzare la così detta cerimonia dell’_abbraccio_
in una bella giornata del prossimo mese di maggio.


II.

L’Abbraccio

Dalla catena granitica dominata dalle punte dei monti Tumeu-Soza,
Crocetta e Fralle, andando giù giù, fino alla spiaggia del mare, è un
esteso territorio sparso di centinaia di stazzi, tutti appartenenti al
paese di Aggius.

Gli stazzi di Mamia erano nella cussorgia di S. Maria di Vignola, poco
distante dalla spiaggia del mare. Quelli del Vasa erano invece nella
cussorgia della Trinità d’Agultu, parrocchia figliale istituita da
monsignor Stanislao Paradiso nel 1813, per riguardo ai molti pastori
stanziati intorno ad essa, distante circa tre ore dal paese.

L’_abbraccio_ ebbe luogo in Vignola, nello stazzo Giunchiccia del Mamia.

Lo stazzo Giunchiccia si componeva di più stanze. Oltre quella da
letto, ben fornita di mobili, vi erano: la stanza del focolare (dove la
famiglia soleva raccogliersi per le faccende domestiche) e la stanza
che serviva di magazzino per la provvista dei frutti e del grano, il
quale si conserva nella luscia, specie di stoja di canne, ridotta a
forma cilindrica. Eravi poi l’indispensabile stanza della manipolazione
dei formaggi, con la macina, gli utensili per la salamoia, i secchioni
o mastelle, delle _pinte_, le pelli, la lana, e le forme fresche di
caccio, deposte sul graticcio del focolare per essere condensate.

Gli Stazzi più modesti non hanno che una sola stanza, dove sono
raccolti tutti gli utensili qui sopra menzionati, nonchè la macina per
il grano. Venuta la sera, i membri della famiglia, compresi i servi,
si sdraiano sopra stuoie, pelli, sugheretti o sacchi, e dormono avvolti
nel loro gabbano, o altro panno, intorno al tronco di quercia che arde
sul focolare, il quale è scavato in mezzo alla stanza, ed è di forma
quadrata.

                                   *

Era una bellissima giornata di maggio dell’anno 1849; e fin dall’alba
si notava per il territorio d’Aggius un insolito movimento. Erano
i parenti e gli amici degli sposi, che, a piedi o a cavallo,
si disponevano a lasciare i loro stazzi per recarsi a quello di
Giunchiccia per la cerimonia dell’_abbraccio_.

L’abbraccio è una specie di convalidazione del matrimonio, quasi un
contratto nuziale, ed è messo in pratica anche oggidì nella maggior
parte dei villaggi della Gallura.

Oltre sessanta persone, fra parenti ed amici, erano convenuti nello
stazzo di Giunchiccia.

Dopo alcun tempo che questi erano raccolti nella casa del padre di
Mariangiola, fu visto arrivare Pietro Vasa, attorniato e seguito da
ugual numero di amici e parenti. Essi si fermarono fuori dello stazzo —
e si diè principio alla cerimonia.

Un cugino dello sposo si avanzò fino all’ingresso dello stazzo, sulla
cui soglia comparve un parente della fanciulla. Fra i rappresentanti
delle due famiglie si scambiarono, presso a poco, le seguenti domande e
risposte.

— Che vuoi tu, qui? — chiese il parente della donna al cugino dello
sposo.

— Scusa, se io sono importuno. Da un mio amico venne oggi smarrita una
bianca colomba, bella come le nuvolette baciate dal sole nascente,
pura come le nevi che depone l’inverno sulle creste del Limbara. Il
mio amico i inconsolabile; ed io vengo qui per cercare il tesoro che ha
perduto.

— Mi duole della sventura toccata al tuo amico — ma devo dirti che qui
non vi ha colomba.

— Fratello, non adontarti, se son costretto a non credere alla tua
parola. Fu vista da taluni una colomba spiegare il volo verso questo
stazzo. Essa dev’essere qui; ed io non mi allontano, se tu non me la
rendi. Senza di lei il mio amico morrebbe di dolore.

— Aspetta alcuni istanti, finchè io possa consultare il capo della
famiglia; egli forse potrebbe essere meglio informato di me.

E, così dicendo, il parente della sposa rientrò nella stanza e si
rivolse ad Antonio Mamia.

— Hai tu veduto una bianca colomba, smarrita su questi monti? Essa è
bella come le nuvolette baciate dal sole nascente — è pura come le nevi
che depone l’inverno sulle creste del Limbara.

— Sì, l’ho veduta, ma essa è mia nè fu smarrita da alcuno.

— E non vorresti cederla?

— Sì: la cederei ad un uomo che sapesse renderla felice.

— Ebbene quest’uomo che tu cerchi è qui; ed io domando per lui la tua
bianca colomba.

— E saprà rendermela felice?

— Ne impegna la sua fede.

— La fede di un uomo onesto è già per me un’arra sufficiente. Che
l’ospite amico sia il benvenuto sotto il mio tetto. Digli che gli
affido la mia colomba, bella come le nuvolette baciate dal sole
nascente — pura come le nevi che depone l’inverno sulle creste del
Limbara.

Il parente del Mamia riferì la risposta al cugino dello sposo; e allora
Pietro entrò in casa seguito dai suoi congiunti ed amici, i quali
presero posto tutt’intorno nella stanza.

Il vecchio rivolse la parola allo sposo:

— Sii il benvenuto! Ti affido volentieri la mia colomba: essa è tua.
Amala sempre, come l’amò il padre suo; e veglia su lei, come suo padre
ha sempre vegliato![6]

E la cerimonia continuò nel modo seguente.

I parenti, ad uno ad uno, si alzarono e avvicinandosi alla sposa la
baciarono sulla fronte e le gettarono nel seno uno o due scudi di
argento. Era una specie di dote che i congiunti e gli amici facevano
alla fanciulla.

La sposa ricevette i baci tutta tremante, cogli occhi a terra e col
volto comparso di un pudico rossore.

Dispensati i doni e dato il saluto colle labbra, gli invitati tornarono
al loro posto. E allora toccò alla sposa fare il giro della stanza
per rendere ai parenti ed agli amici il bacio ricevuto, regalando a
ciascuno un piccolo fazzoletto, quasi in ringraziamento della dote
ricevuta.

D’ordinario, in queste cerimonie, il fazzoletto viene regalato dalla
sposa a chi dà più d’uno scudo: e qui il lettore potrebbe osservare
che l’usanza manca di delicatezza; essa, però, è convalidata
da un’antichissima consuetudine, e nessuno ha quindi diritto di
offendersene, nè di mormorarne.

Spetta finalmente ai due sposi, che sono gli ultimi a chiuder la
cerimonia dell’_abbraccio_. Pietro e Mariangiola si avvicinarono, alla
loro volta, e si scoccarono sulle guance un sonorissimo bacio. E questo
bacio fu il più sincero e il più caldo di tutti!

A questo punto vennero scambiati i doni fra i due sposi.

Pietro regalò a Mariangiola un fazzoletto di seta e il solito
_manafidi_, che è un anello d’argento, di poco valore, rappresentante
un cuore: esso costituisce il sacro pegno della fede, ed è vincolo
indissolubile fra due fidanzati.

Mariangiola, dopo averlo ringraziato con un ineffabile sorriso,
presentò allo sposo un fazzoletto ed un piccolo coltello col manico
d’osso: pegni anche questi di fedeltà e affetto. Qualunque sia la
condizione degli sposi, sono questi i due pegni che si regalano nel
giorno dell’_abbraccio_.

Ricambiati i doni, un giovane pastore si alzò in piedi ed improvvisò
una bella poesia, dove si descrivevano le rare doti dei due sposi e
la solennità del rito. Era una vera poesia ricca di immagini, e di
similitudini, come sanno improvvisarla quei popoli entusiasti e di
fervida immaginazione.[7]

Gli astanti complimentarono Pietro e Mariangiola, facendo auguri di
felicità per il suo avvenire, e siccome in simili cerimonie essi hanno
la minor parte della gioia, così si pensò — secondo la consuetudine —
a preparare il lauto pranzo di nozze, a cui assistono i due sposi e le
rispettive famiglie.

Tutta la giornata passò in baldorie e in allegrie, ma i più contenti
della comitiva erano Pietro e Mariangiola, i quali nell’_abbraccio_
avevano convalidata un’unione, che per due mesi era stata la meta dei
loro ardenti desideri.

L’_abbraccio_ è sacro in Gallura, e non può essere sciolto che
dalla sola fidanzata. Nè sposo nè genitori potrebbero violare, anche
volendolo, quel rito solenne e tradizionale.


III.

Mestizia nella festa

La festa fu spontanea, schietta, vivace. Tutti i convenuti non facevano
che dar la baia agli sposi con motteggi, allusioni e scherzi innocenti.

Lo abbiamo detto: in mezzo a quell’adunata i più felici erano Pietro e
Mariangiola. Essi vedevano alfine realizzarsi i più cari sogni d’amore;
e i lunghi sguardi, i sorrisi e le furtive strette di mano che si
scambiavano di tanto in tanto, ben dicevano agli astanti quanto gli
sposi volevan loro tacere.

Il chiacchierio assordante dei parenti e degli amici non preoccupava
i due sposi. Essi fingevano ascoltare gli altrui motti, ma non li
udivano. La felicità li rendeva egoisti. In mezzo a quella moltitudine
si sentivano soli — in mezzo a quel frastuono si beavano del silenzio
che li circondava.

Il pranzo fu lauto e sontuoso — come suole essere in simili
circostanze. Trattavasi di ristorare oltre centocinquanta persone, e
si può immaginare quanti vitelli, montoni e capretti furono sacrificati
sull’altare dell’amore, in omaggio ai due sposi.

Gli scherzi, le risa, il chiacchierio si protrassero per oltre cinque
ore. Verso l’imbrunire una buona parte degli invitati augurarono la
buona notte alla famiglia e si accinsero a far ritorno ad Aggius,
o ai propri stazzi. Mentre nel piazzale si preparavano le bisacce e
s’insellavano i cavalli, i parenti più stretti e i più vecchi amici se
ne stavano ancora a tavola, risoluti di ritornare ai loro casolari a
notte inoltrata. Erano circostanze che non si ripetevano con frequenza,
epperò ognuno voleva divertirsi approfittando della generosità di
Antonio Mamia, il padrone di casa.

E i brindisi, gli auguri e i complimenti continuarono ad alternarsi
in mezzo a quella gioia schietta che facilmente si riscontra in
tali cerimonie, fra gente povera di censo, ma ricca di cuore e di
sentimento.

                                   *

In un angolo di quella stessa stanza, vicino alla finestra, v’era
tuttavia un gruppo di persone che sembrava non prender parte alla
gioia che sfavillava da tutti i volti. Quel gruppo era composto di un
fanciullo, di un giovane e di una vecchia.

Il fanciullo era Michele Mamia, fratello di Mariangiola. Sdraiato sopra
un basso sgabello, appoggiava la testa sul grembo della vecchia, la
quale sedeva su d’un secolare cassone di abete.

A pochi passi da loro era il terzo personaggio. — Bastiano il muto.
Dando le spalle alla finestra, e colle braccia conserte al petto, egli
fissava la vecchia ed il fanciullo che gli stavano dinanzi.

La vecchia settantenne era la madre dello sposo — di Pietro Vasa. Il
suo volto, sereno e venerabile, spiccava dal bruno fazzoletto, dal
quale sfuggivano alcune ciocche di capelli con riflessi d’argento. Essa
guardava con aria pietosa il biondo fanciullo che aveva fatto guanciale
del suo grembo; e gli andava carezzando la capigliatura, quasi per
fargli conciliare il sonno. Ben sapeva che Michelino aveva bisogno di
riposo, dovendo egli alzarsi all’alba per recarsi al lavoro col babbo.

I tre volti avevano un’espressione melanconica che contrastava
col frastuono e con la gioia che regnavano nello stazzo. Occupati
unicamente dagli sposi, gli altri non badavano a loro; ed essi si
compiacevano di quella noncuranza che favoriva il loro raccoglimento.

Il sole era calato dietro i monti lontani dell’Asinara, lasciando
all’orizzonte lunghe striscie infuocate, le quali gettavano un’onda
luminosa dietro la stanza, dov’erano raccolti i festeggianti.

Nei commensali già cominciava a notarsi quella stanchezza che si prova
alla sera di un giorno di festa, dopo aver libato ad un pranzo più
lauto e più abbondante del solito.

Il chiaccherìo continuava ancora — ma era un chiaccherìo stanco,
compiacente, quasi convenzionale. I parenti e gli amici aspettavano
che Pietro si alzasse, per accompagnarlo al suo stazzo della Trinità
di Agultu; ma Pietro aveva poca voglia di lasciar la tavola, dove
stava tanto bene vicino alla sua fidanzata. Egli non considerava che
il tempo, il quale per lui fuggiva, scorreva assai lento per gli altri.
Solito egoismo di chi è felice.

Il muto sempre immobile, non faceva che osservare la vecchia ed il
fanciullo, che pareva riposasse.

Ma Michelino non dormiva. Quantunque sentisse le palpebre più pesanti
del solito, pure lottava col sonno; e mentre con abbandono appoggiava
la testa sul grembo della vecchia, teneva gli occhi sempre fissi
sul volto della sorella la quale era seduta vicino a Pietro Vasa,
dimenticando quanti li attorniavano.

Era pur strana la melanconia di quei tre personaggi in mezzo alla gioia
comune! Si sarebbe detto che un pensiero triste, un penoso sconforto e
un triste presagio dominasse quelle menti e che un misterioso vincolo
unisse fra di loro quelle tre creature.

Eppure, essi non avrebbero dovuto rimanere indifferenti alla cerimonia
che si compiva nello stazzo per convalidare il sacro patto che univa
Mariangiola a Pietro! Quella vecchia era la madre dello sposo: — la
sposa era sorella di quel fanciullo. Pietro sulla terra, non aveva
amato alcun essere più di sua madre; e Mariangiola nutriva una speciale
tenerezza per il suo fratellino Michele, oggetto continuo d’ogni sua
cura e d’ogni suo pensiero.

Pietro e Mariangiola erano però sposi — e il loro amore doveva
assorbire ogni altro amore.

Ed era questo il pensiero fisso che occupava la mente della vecchia
e del fanciullo in quel giorno solenne: un pensiero geloso che, l’uno
all’insaputa dell’altro, celavano nel profondo del cuore.

La madre di Pietro guardava con occhio diffidente la Mariangiola,
destinata a toglierle l’affetto di suo figlio. Nel matrimonio la
sposa viene sempre a togliere il posto alla madre; la quale tarda a
persuadersi che il suo ufficio finisce là dove comincia quello della
moglie. La gioia segreta di far ballare sui ginocchi i figli dei
figli non basta soffocare la crucciosa invidia che prova una madre nel
veder sottentrare alle sue cure un’altra donna. E da ciò i dissapori e
l’incompatibilità di carattere fra suocera e nuora.

Il fratello di Mariangiola, dal canto suo fissava con dispetto Pietro,
che doveva portargli via la cara sorella. Il fanciullo non poteva
comprendere come per uno straniero, per uno sconosciuto, Mariangiola
potesse dimenticare chi l’aveva amata per tanti anni d’un profondo
affetto. Nella sua piccola mente accusava quasi d’ingratitudine la
sorella; ma non sapeva ancora che il potente affetto che provava per
lui la fanciulla, non era altro che l’istinto della famiglia, che nella
donna comincia a rivelarsi con la tenerezza per le bambole.

Tali erano i pensieri che attraversavano la mente di quella vecchia
e di quel giovinetto nel giorno dell’abbraccio di Pietro e di
Mariangiola.

E il muto?

Con le braccia serrate sul petto, Bastiano guardava la vecchia e
il fanciullo, che gli stavano da presso. Egli ammirava quella testa
bionda, vicino a quella testa bianca — il riposo della giovinezza in
grembo alla vecchiaia — il tramonto che sorrideva all’alba, il debole
che sorreggeva il forte.

Anche lui provava un sentimento d’invidia per tutti. Per lui non vi
erano state mai feste — per lui non vi era stato mai amore.

Il muto era là per far numero. Dai sorrisi, dall’espressione dei volti,
dai gesti delle persone, da tutto l’insieme delle cose che andava
osservando, si accorgeva che in quella casa tutti erano felici. Avrebbe
voluto esprimere anch’esso i suoi sentimenti, ma non poteva parlare.
La natura maligna gli aveva inchiodato la lingua al palato; aveva posto
una barriera di granito tra gli uomini e lui.

E assisteva alla festa col cruccio nel cuore, ripensando alla sua
giovinezza e ai compagni che lo avevano deriso, percosso, ma egli
era l’uomo di pietra; doveva assistere all’altrui gioia senza poter
manifestare un suo pensiero, senza percepire il pensiero degli
altri. Ecco perchè il sordo-muto era triste come la vecchia e come il
fanciullo!

La fatalità aveva riunito quei tre personaggi, che pur dovevano aver
tanta parte negli odii destinati al dilaniare le due fazioni dei Vasa
e Mamia. Fila misteriose vincolavano quei tre esseri innocenti. Il
destino aveva loro tracciato la strada che dovevano percorrere. Due di
essi erano designati come vittime — il terzo come carnefice.

                                   *

Arrivò finalmente l’ora del commiato e della partenza. Pietro Vasa si
alzò; e dopo aver dato una stretta di mano ed un bacio alla sposa ed al
futuro suocero, si accostò alla vecchia.

— Madre mia, andiamo. Vi ho fatto troppo aspettare, non è vero? Dovete
perdonarmi, perchè son cose che non capitano due volte nella vita!

La vecchia sorrise amaramente; e si accostò alla sposa che baciò sulla
fronte.

Mariangiola le restituì il bacio con trasporto mentre due lacrime di
gioia le irrigavano le guancie.

Entrambe piansero, senza darsene ragione. Erano vivamente commosse.

La sposa si accostò al fratello, e dopo averlo accarezzato gli disse:

— Sei stanco, povero Michele? Va dunque a letto, e riposa.

Il fanciullo rispose mestamente.

— Lo so: Mariangiola. D’ora innanzi non avrò più le tue carezze. Il
babbo caccia di casa la nostra colomba per darla ad uno sconosciuto!

Al muto non si accostò alcuno. La comitiva cominciava già a sfilare, ed
egli era sempre là, vicino alla finestra, cogli occhi a terra e colle
braccia sul petto.

Il vecchio Mamia gli battè infine sulla spalla, per dirgli coi cenni
che rimaneva solo.

Il muto lo ringraziò; e accennando col dito alle sue orecchie sorde,
gli fece capire che non si era mosso perchè non aveva sentito le
pedate della gente. Mandò quindi un rantolo cupo per esprimere un
ringraziamento ed un saluto; ed uscì dallo stazzo per accompagnare suo
cugino Pietro Vasa.

I pastori degli stazzi di Vignola si presentarono alla soglia dei loro
abituri per salutare lo sposo e il suo seguito che si dirigeva alla
Trinità d’Agultu.

E così terminò la bella giornata di maggio, e la cerimonia
dell’abbraccio che doveva lasciare un indelebile ricordo nell’animo dei
Vasa e dei Mamia.


IV.

Odio vince amore

Tra la famiglia dei Vasa e quella dei Pileri — lo abbiamo detto — era
un’antica ruggine che, invece di diminuire, andava sempre crescendo.
Alcune questioni d’interessi tennero accese per lungo tempo le
contestazioni, quantunque le due famiglie fossero imparentate, avendo
un Pileri sposato la sorella di Pietro Vasa.

Nell’agosto del 1849 — due mesi dopo l’_abbraccio_ — nacquero dei
puntigli fra i membri delle diverse famiglie, e la cosa parve prendere
serie proporzioni. L’orìgine del malumore risaliva ad alcune capre di
Salvatore Pileri trovate uccise entro un chiuso ad orzo di Pietro Vasa.
Il Pileri pretendeva che quest’ultimo si dichiarasse autore di un tal
dispetto — ma il Vasa respinse sdegnosamente l’accusa, e rifiutò ogni
dichiarazione.

I Pileri, per evitare un forte attrito, decisero di rivolgersi al
Mamia, col quale erano legati con vincolo di più stretta parentela.
Essi dissero:

— Sappiamo che Pietro Vasa, fra non molto farà parte della tua
famiglia. A te spetta sistemare le nostre vertenze; chè altrimenti
potrebbe venirne danno allo sposo ed alla tua figliuola. Bada dunque di
risparmiar dispiaceri a te ed a noi!

Il vecchio Mamia, uomo saggio e prudente, s’incaricò di appianare le
questioni; e si mise all’opera, fidando nella propria influenza ed
autorità.

E diffatti, due sere dopo, rientrando in casa trovò il Vasa, che era
venuto a far visita alla fidanzata, e gli disse:

— Senti, Pietro, ti ho accordato con piacere la mano della mia
figliuola, perchè ti conosco per un uomo dabbene. Vorrei però che tu
ti mettessi in pace co’ tuoi avversari. Capirai bene che io non vorrei
disturbi in famiglia. Essendo stato per diciassett’anni latitante per
un delitto che mi si voleva apporre, ben so per prova quanto costi il
prendere la campagna per mettersi al sicuro dai nemici.

Il Vasa che in quel momento parlava con Mariangiola, troncò a metà
il discorso incominciato, si fece serio e volgendosi al vecchio gli
rispose freddamente:

— Che importa a voi delle nostre questioni private? Coi Pileri ha
solo da vedere il mio fucile; in esso sono due canne con tre palle
per ciascuna: sarò abbastanza generoso dando loro la scelta. Altro non
posso fare.

La risposta superba del giovane non andò troppo a sangue al Mamia, il
quale pertanto volle contenersi.

— Pietro; tu sei un galantuomo; e sono persuaso che ti abboccherai coi
Pileri per....

— Mi recherò da loro, sì; ma col berretto sotto l’ascella! — interruppe
il Vasa con alterigia.[8]

— Bada, Pietro! — riprese il vecchio corrugando la fronte e cambiando
tono — sii ragionevole. Se vuoi far parte della mia famiglia, è d’uopo
che tu rinunzi ad ogni idea di vendetta. Sarei costretto a negarti
Mariangiola, se tu persistessi nel tuo proposito!

— Ed io sarei costretto a rinunziare alla tua figliuola, se mi si
chiedesse la conciliazione co’ miei nemici! — rispose fieramente il
Vasa.

Mariangiola afferrò con affetto le mani di Pietro e divenne pallida. Ma
Pietro non sentiva più le carezze nè vedeva il pallore della fidanzata.
Il vecchio Mamia continuò colla stessa flemma:

— Le parole che tu pronunci in questo momento non sono quelle di un
uomo sano. Tu non ami Mariangiola!

— È grande l’amore che io porto alla tua figliuola — esclamò vivamente
Pietro — ma è assai più grande l’odio ch’io nutro per i Pileri!

In quella camera si trovavano la vecchia madre del Vasa e il giovane
fratello di Mariangiola.

Michele corse a carezzare la sorella che si era lasciata cadere sopra
una sedia: e la vecchia afferrò Pietro per un braccio, cercando di
frenar l’ira che trapelava dai lineamenti alterati del figliuolo.

— Lasciatemi! non ascolto ragioni! — gridò Pietro fuori di sè; ed uscì
dalla stanza seguito dalla madre, senza curarsi degli spasimi della
fidanzata e dello sdegno del futuro suocero.

Il vecchio Mamia si accostò lentamente alla porta per seguire cogli
occhi i due che si allontanavano; quindi tornò e si fermò dinanzi
ai suoi due figli che si tenevano abbracciati, Michele diceva alla
sorella:

— Via Mariangiola, lascialo andare quel cattivo! Ti farò io da sposo...
Sei contenta?

— Finitela! — esclamò il vecchio rivolto all’uno e all’altra. — Non
fate ragazzate! Egli ritornerà; ritornerà, perchè non si abbandona così
una fanciulla quando si è _abbracciata_. L’_abbraccio_ non può essere
sciolto che dalla sola sposa: e tu non hai intenzione — non è vero
Mariangiola?

— Io no padre mio!

                                   *

Il Vasa però, non tornò in casa del Mamia; ed invano Mariangiola
lo aspettò per due, quattro e dieci giorni. Era evidente che si era
piccato e voleva tenere il broncio.

Con tutto ciò, il vecchio non volle più oltre inasprire il fidanzato
della sua figliuola; temendo di essersi lasciato trasportare da un
accesso di collera, aspettò pazientemente che il tempo avesse apportato
un po di giudizio nel cervello di Pietro.

Passarono altri quindici giorni, ma Pietro non varcò la soglia della
casa Mamia; forse nella speranza che il suocero finisse per smettere i
suoi rigori.

Sugli ultimi di agosto accadde un fatto, che per quanto in apparenza
insignificante, bastò per complicare gli avvenimenti.

Alla terza domenica del mese, in cui ricorre la festa di Santa Maria
di Vignola, sogliono i devoti portare una bandiera alla rispettiva
chiesuola per scioglier un voto o _promessa_. In tal circostanza fu
domandato in prestito a Pietro Vasa un suo cavallo, il quale, per
la bellezza delle forme e per la robustezza dei muscoli, formava
l’ammirazione di quanti lo vedevano. Questo cavallo, già da qualche
tempo, era tenuto nella scuderia di Antonio Mamia, nè Pietro aveva
pensato a ritirarlo — segno evidente che egli accarezzava la speranza
di far ritorno alla casa della fidanzata.

Terminata la funzione, fu ricondotto il cavallo allo stazzo del Mamia;
— ma quel giorno il vecchio, o perchè fosse più di cattivo umore del
solito, o perchè inasprito da recenti dicerie, rimandò indietro il
giovane che portava il cavallo dicendogli che la sua scuderia non
serviva per le bestie altrui.

Quest’azione ferì a sangue Pietro; e dice la cronaca, che l’innocente
cavallo fu la prima e vera causa delle inimicizie che si accesero più
tardi fra le fazioni dei Mamia e dei Vasa; nel modo stesso che alcune
capre dei Pileri, entrate a pascolare nei terreni del Vasa, avevano
gettate le prime basi di un altro odio implacabile.

Si cominciò a comprendere da entrambe le parti che te cose prendevano
una cattiva piega; e un altro mese trascorse fra puntigli, messaggi,
dicerie. I buoni amici cercarono di conciliare gli animi, in
considerazione dell’amore dei due fidanzati e dei riguardi che meritava
il vecchio Mamia; nè mancarono allo stesso tempo i cattivi amici,
i quali fomentavano gli odi dei dissidenti col riferire, inventare,
od esagerare le parole e i discorsi che venivano proferiti dalle due
famiglie.

I due nemici però furono inconciliabili; poichè se il Vasa stava sul
tirato, il Mamia non era tal uomo da cedere facilmente agli altrui
capricci.

— Io sono il più vecchio — egli diceva. — Spetta dunque a Pietro
sottomettersi.

Non è a dire quanto ne piangesse e ne soffrisse Mariangiola, e
quali scene accadessero ogni giorno in casa. Il vecchio si sentiva
intenerirsi alla presenza della sua creatura; ma per quanto l’amasse,
avrebbe meglio desiderato vederla morta, anzichè umiliarsi al superbo
che lo aveva offeso.

Molti _ragionanti_ e alcuni sacerdoti si presentarono al Mamia per
fargli presente il dolore della Mariangiola, la quale doveva rinunziare
ad un uomo che amava e che le aveva giurato eterna fede. E a tanto
giunsero le preghiere e le esortazioni del Rettore e dei probi uomini
di Aggius, che il vecchio padre propose di far accompagnare la sua
figliuola allo stazzo della Trinità da due stretti parenti, i quali
l’avrebbero consegnata allo sposo. Egli però — lo dichiarava — non si
sarebbe mai indotto ad accompagnare sua figlia, nè a metter piede in
casa del superbo genero.[9]

Non rimaneva dunque più altro, che far la restituzione dei doni;
ma anche questa pratica, in apparenza così semplice, provocò
molte contestazioni. Noti il lettore la fierezza dei galluresi,
la loro tenacità negli odi e la scrupolosa raffinatezza della loro
suscettibilità.

Affacciata agli amici del Vasa e del Mamia la convenienza della
reciproca restituzione dei doni, scambiati fra gli sposi nella
cerimonia dell’abbraccio, nessuno dei due volle esser il primo a
metterla in pratica.

— Io non voglio chiedere i doni alla sposa — diceva il Vasa — perchè
sarebbe un confessare che il torto è dalla mia parte. Tale umiliazione
non voglio subirla!

— Io non debbo restituire i doni allo sposo — diceva il Mamia — questo
atto potrebbe significare che riconosco il mio torto. Non intendo
intaccare la mia dignità per nessuna cosa al mondo!

E per due mesi l’uno e l’altro furono irremovibili in questa
decisione: tanto che si dovette ricorrere ad un consiglio di arbitri,
o di _ragionanti_ — ciò che nell’espressione gallurese suol dirsi
_sottomettersi alla ragione_.

Dopo lunga e seria discussione, i cinque arbitri, scelti di comune
accordo dalle due parti, pronunciarono il loro giudizio, dando
unanimemente il torto a Pietro Vasa ed assolvendo il Mamia.

Il Vasa, rassegnato, piegò la fronte all’inappellabile verdetto, e
inviò un suo incaricato in casa di Antonio Mamia per riprendere i doni
fatti a Mariangiola, e per restituire quelli che aveva ricevuto da lei.

Tralascio di descrivere il dolore e la disperazione della povera
fanciulla, quando dovette togliersi dal dito l’anello d’argento per
consegnarlo al messo spedito dal suo Pietro. In un attimo ella vide
svanire tutte le speranze d’amore; coll’anima straziata ella diede
un ultimo sguardo al _manafidi_ — a quel pegno bugiardo a cui aveva
confidato i più bei sogni della vita — a quel talismano che le aveva
parlato d’una casa, d’uno sposo, e d’una famiglia — a quel dono infine,
che per l’ultima volta ella bagnava di lacrime e di baci.

Pietro non pianse, nè si commosse. Egli lo aveva ben detto: in lui
l’odio era più forte dell’amore!

Indignato oltremodo, e volendo esprimere la sua noncuranza e il suo
disprezzo per la fanciulla, si recò alla parrocchia d’Aggius e si fece
rilasciare dal rettore la dichiarazione di _stato libero_, per la quale
sborsò tre lire sarde.[10]

Fu l’ultimo colpo che annunziava la rottura d’ogni promessa. Il vecchio
fremette — Mariangiola non sapeva che piangere e pianse.

Antonio Mamia, rientrando in casa, trovò la figliuola che si struggeva
in lacrime. La rampognò severamente, e le disse:

— Mariangiola; gli uomini come Pietro non si piangono mai. Quando
commettono azioni simili, essi sono indegni di far parte di un’onesta
famiglia. Il giorno in cui vedrò una lacrima nei tuoi occhi — ricordalo
bene! — quel giorno cesserai d’essere mia figlia; sarà indizio che non
senti l’onta gettata da quell’infame sulla mia casa.

Così dicendo, il vecchio uscì. Michele si accostò alla sorella e la
baciò sulla guancia.

— Sorridi, via, al tuo fratellino! — le disse: — Ora posso dirtelo:
odiavo quell’uomo che voleva toglierti alla nostra casa. Egli non
poteva che apportarci sventura!

Mariangiola esclamò sommessamente:

— E chi ti dice che non l’apporti?!


V.

Il battesimo del Muto

Quattro mesi erano trascorsi dagli avvenimenti da noi narrati. Tra
le fazioni del Vasa e dei Mamia regnava quella calma glaciale che
d’ordinario è foriera di tempesta. La folgore era per iscoppiare;
pareva che gli animi esacerbati aspettassero il più lieve appiglio per
provocarla. Perchè quella sosta? era facile immaginarlo: perchè ogni
fazione voleva un valido pretesto per dar sfogo all’ira, e per avere
il diritto d’inferocire sull’avversario. Soliti riguardi di scrupolosa
cavalleria!

Quattro mesi, però parvero troppo lunghi; e fu deciso di finirla.
D’altra parte non poteva nascere alcun dubbio: vi era un oltraggio
da vendicare — dunque il primo pensiero doveva rivolgersi
all’oltraggiatore!

Era il 19 marzo 1850.

Pietro Vasa, fin dalla mattina, si era recato alla chiesuola di S.
Giuseppe di Cucurenza per assistere alla messa. Era un giorno di festa
per i galluresi, e Pietro aveva voluto santificarlo.

Terminata la funzione religiosa, verso mezzo giorno, Pietro si era
messo in cammino per far ritorno allo stazzo, dove l’aspettava la
vecchia madre.

Giunto a metà strada, in un punto ingombro di macchie di lentischio,
sostò alquanto per accendere la sua pipa. In quel momento si udirono
due spari di fucile. E Pietro cadde a terra gravemente ferito da tre
palle.

Alcuni pastori, che per fortuna passavano colà accorsero a lui, gli
fasciarono le ferite e lo trasportarono al suo stazzo, dove ricevette
le prime cure.

Sapendolo in pericolo di morte, il parroco della Trinità di Agultu
si recò subito da lui per confessarlo e lo esortò a perdonare ai suoi
nemici.

— Sì....! — rispose il Vasa con voce spenta — che tanti angeli li
accompagnino in vita e in morte!

Ma mentre il prete si avvicinava alla porta per andarsene il Vasa
si rivolse a un suo parente che gli stava al capezzale, e gli disse
solennemente e con significato:

— Ricordati che mi hanno ucciso!!!

Il prete tornò indietro indignato:

— Pietro!.... che vai dicendo? Io non posso più ascoltarti; cerca
un’altro confessore![11]

Si aspettava che da un giorno all’altro Pietro Vasa spirasse; eppure
— vero miracolo — egli migliorò, e dopo una settimana era fuori di
pericolo. Fu trasportato dallo stazzo ad Aggius, e più tardi da Aggius
a Tempio per sottoporlo a più rigorosa cura, e dopo un mese potè
ripigliare le sue forze e le sue faccende.

Chi era stato l’autore di quell’agguato? Due versioni corsero in
proposito: gli uni ne accusarono Mamia per l’oltraggio fatto alla
figliuola — gli altri i Pileri, per gli antichi dissensi e per i
continui dispetti che ricevevano dal Vasa.

Ad ogni modo il tiro veniva dai Mamia imparentati coi Pileri. Il dado
era gettato, e cominciò da quel giorno la strage sanguinosa che doveva
durare per sei anni.

Ferito il Vasa, i suoi parenti pensarono di farne le vendette e fu
Michele Tansu che si incaricò del colpo.

Poche settimane dopo il ferimento di Pietro Vasa, trovandosi il Tansu
in compagnia di un suo cugino s’imbatterono in due parenti del Mamia, e
scaricarono su di essi i loro fucili. Uno di loro cadde ferito.

Ma i parenti del Vasa non menarono vanto di questa vendetta per lungo
tempo.

Verso gli ultimi di aprile, il vecchio padre del ferito vendicò suo
figlio uccidendo Michele Tansu, e nascondendone il cadavere nella
campagna di Aggius.[12]

Gli stessi nemici fecero correre in paese la voce della vendetta fatta,
e si può immaginare quale impressione produsse negli aggesi la notizia
ferale. Quella morte misteriosa e la sparizione del cadavere rendevano
più luttuoso l’avvenimento. Le ire, le bestemmie i giuramenti di
vendetta correvano di bocca in bocca. Gli uomini imprecavano i vivi,
impugnando i loro fucili; le donne piangevano i loro morti, mandando al
cielo grida strazianti.

Michele Tansu era fratello di Bastiano — il sordo-muto. Quando a
costui fu comunicata la disgrazia che lo aveva colpito, poco mancò non
diventasse pazzo. Colle narici dilatate, cogli occhi fuori dell’orbita
fissò stupito l’incauto messaggero, quasi credendo scherzo la ferale
notizia. Abituato ad esser deriso, tardò a prestar fede all’asserzione.
Quando però un secondo, un terzo, tutti gli confermarono l’assassinio,
mandò un cupo ruggito e prese la campagna.

Pareva un forsennato, quantunque tutti conoscessero Bastiano per un
giovane di spiriti bollenti e facile all’ira, pure si era ben lontani
dall’immaginazione che la morte del fratello potesse produrre in lui
una così terribile impressione.

Tutta quella sera e il giorno seguente il muto corse la campagna.
Andò di stazzo in stazzo, si spinse fino alla spiaggia, e visitò le
cussorgie della Trinità e di Vignola, chiedendo sempre di Michele.
Dopo aver cercato il suo fratello vivo, quell’infelice cominciò la
ricerca del fratello morto: — visitò tutti gli antri e le gole; osservò
attentamente ogni crepaccio di granito ed ogni macchia di lentischio, e
si diede persino a graffiare con le unghie la terra, quando gli pareva
smossa di recente.

Le sue indagini furono vane.

Spossato, stanco, fuori di senno, sedette su un’altura, e si diede a
contemplare tutta la grande distesa della campagna sottostante. Volgeva
intorno le pupille stralunate, chiedendo agli uomini il suo Michele,
dilatava le nari, quasi volesse fiutare il sangue dell’assassinato;
stringeva i pugni e li mostrava al cielo, quasi imprecando ad esso
perchè gli negava il conforto di abbracciare un cadavere.

Il sole era sceso dietro ai monti dell’Asinara — le tenebre erano
calate sulla natura; ma il muto non volle abbandonare il suo posto.

L’assassinio del fratello aveva destato nell’animo del muto tutti i
peggiori istinti e insieme con essi un prepotente bisogno di sfogare
il cruccio che covava nel cuore. La sua strada era stata tracciata
dal destino, nè titubò un istante ad ubbidire alla voce insistente e
misteriosa che dal fondo della sua coscienza lo eccitava al delitto.

Tornò a casa preoccupato, pensoso, ma calmo in apparenza. Non confortò
i più stretti parenti che si disperavano — non badò agli amici che lo
compiangevano, o fingevano compiangerlo per maggiormente irritarlo.

Pietro Vasa, sopra tutti prese a consolarlo in un modo singolare:
più che condoglianze per la sciagura accaduta, pareva desiderio di
fomentare l’odio in quell’uomo, facile ad accendersi.

Quel giorno il muto afferrò per la prima volta un fucile, e giurò
di mai più riporre il piede nel suo paese. Gli uomini non l’avevano
compreso — ed egli studiò il modo di farsi comprendere; la natura
gli aveva chiuso la bocca — ed egli pensò di far parlare la bocca del
suo fucile. Le sue smanie, le sue preghiere, la sua disperazione non
potevano ridonare la vita al suo Michele; ma che perciò? Se non era in
suo potere dar la vita ai morti, ben sapeva che avrebbe potuto dar la
morte ai vivi.

Il giovane sordo-muto fin’allora trastullo dei suoi compagni, si
innalzava terribile sopra gli uomini. Il sangue di suo fratello gli
gridava vendetta; ma egli giurò di spargerne tanto — fino a placare
l’ombra dell’estinto.


VI.

Una partita sleale

Era una splendida mattina — la mattina del 15 agosto 1850, giorno sacro
dell’Assunzione, una delle feste più solenni della cristianità.

I pastori della Gallura si erano recati alle chiesuole delle diverse
cussorgie per assistere alla messa. Era un giorno di divertimento, si
errava qui e là per santificare coll’ozio la solennità della festa. Il
solo paese d’Aggius ha nel suo territorio tredici chiese rurali; e le
feste popolari più frequentate dai pastori sono appunto quelle della
Vergine Assunta e del Rosario.

Dal campo del Coghinas, tutto solo, veniva un giovinotto biondo,
guidando a tiro un cavallino, sul quale erano due sacchi di grano. Era
Michele, il figlio di Antonio Mamia — il fratello di Mariangiola.

Egli veniva dall’aia, ed era diretto ad Aggius incaricato di
trasportare il frumento che doveva servire per la provvista di casa.

Poco importava a quel fanciullo del giorno solenne, per lui era sempre
festa; libero come gli uccelli, egli non viveva che d’aria, di luce e
di canti.

Veniva passo passo, canticchiando una canzone tempiese una di quelle
canzoni che sono la vita di quel popolo entusiasta, che nasce colla
poesia nel cuore e sulle labbra.

Il fanciullo era allegro, ma strano invero! la sua canzone era mesta.

La sua voce squillante ed argentina echeggiava per i campi silenziosi;
e ad essa rispondevano in coro le capinere e i cardellini, che
gorgheggiavano tra le frondi degli elci e dei lentischi.

Erano alcune strofe di Don Gavino Pes, il poeta più popolare della
Gallura — il Metastasio sardo, come lo chiamò Valery.

    . . . . . . . . . . . . . . .
      Lu campu no si ’esti
    Di gala più, nè d’allegri culori:
      In abiti funesti
    Mi si mustra la rosa e l’alti fiori;
      L’albureddi frunduti
    Tutti pal me di luttu so’ vistuti.

Il paziente cavallo, colla testa bassa e con passo stanco seguiva
lentamente il giovine conduttore, il quale interrompeva tratto tratto
la sua canzone per sollecitarlo a camminare.

Il fanciullo era già arrivato a mezza strada, e misurava coll’occhio la
distanza che lo divideva dal suo paese.

Giunto ad una svolta, mentre cantava i versi:

      E di la primaera
    È vinuta pal me l’ultima sera.

si udì uno sparo di fucile.

La canzone spirò sulle labbra di Michele, il quale si fece pallido. Non
ebbe neppure il tempo di guardare donde venisse il colpo: cadde prima
sulle ginocchia, poi stramazzò supino, e chiuse gli occhi per sempre.

Il cavallo, con la testa bassa, continuò la sua strada inciampando ad
ogni passo nella lunga corda che si tirava dietro.

                                   *

Verso le due dopo mezzogiorno, la moglie e la figlia di Mamia erano
sedute al telaio, nella loro casetta d’Aggius. La vecchia consolava la
Mariangiola che non poteva darsi pace dell’abbandono di Pietro.

Ad un tratto s’intese come un mormorio confuso che man mano andava
crescendo; come il tumulto di una folla che irrompesse nelle vie del
paese.

Madre e figlia si fecero paurosamente alla porta; e un orribile
spettacolo si offerse ai loro occhi.

Una folla piangente attorniava e seguiva due pastori, i quali portavano
una specie di barella improvvisata con frasche d’elci e di lentischi.
Su quella barella avevano adagiato il cadavere di Michele.

Furon grida, spasimi, lamenti che straziavano l’anima, e che la penna
rifiuta di descrivere. I parenti, gli amici, le comari, le donne del
vicinato, tutti aggiungevano i loro pianti al pianto d’una madre e
d’una sorella che si strappavano i capelli, pazze dal dolore.

Fu subito chiamato Antonio Mamia, che trovavasi in campagna....

Il vecchio arrivò in paese l’indomani all’alba. Aveva la faccia del
color della morte, e le mani in preda ad un tremito convulso; ma i suoi
occhi non mandarono una lacrima. Tutto il suo dolore si era concentrato
nel cuore, e la sua mente non si preoccupava che di un solo pensiero —
quello della vendetta.

Colle braccia conserte sul petto, egli fissò più volte il suo
figliuolo, che pareva dormisse; indi si mise a passeggiare da un capo
all’altro della stanza, in preda ad una smania febbrile. Invano gli
astanti cercavano di consolarlo: egli non ascoltava nessuno. Dava un
rapido sguardo a quel volto color di cera e a quelle membra irrigidite
dalla morte, e continuava a passeggiare in mezzo ai pianti ed alle
grida dei parenti e delle comari che ingombravano la sua casa.

A un certo punto, una giovinetta diciottenne, ch’era stata taciturna
in un angolo della stanza, uscì nelle seguenti lamentazioni con un
linguaggio orientale, biblico. Era una specie di nenia (_attititu_)
che molto spesso si pronuncia nei funerali, da persone anche della
famiglia.[13]

«La tua vita era un raggio di sole, una melodia d’amore, un olezzo di
gelsomino; — e per tanto sei sceso nel sepolcro, dove non v’ha conforto
di luce, di suoni, o di profumi. E fu sventura!

«I compagni ti dicevano forte, le fanciulle bello, le madri buono; —
e pertanto la morte ti ha colto all’impensata, non rispettando il tuo
vigore, la tua bellezza, e la tua bontà. E fu perfidia!

«Eri verde ramoscello pieno di fronde e di vita; e crescevi rigoglioso,
carezzato dai venti ma gli uomini t’han reciso dal vecchio ceppo, forse
paurosi del tenero virgulto, destinato a diventar robusta quercia. E fu
vigliaccheria!

«Com’eri bello, o Michele, quando scendevi dalle colline di
Giunchiccia, cantando i versi della capinera! Le giovinette si
nascondevano dietro alle siepi per vederti passare e si mormoravano
all’orecchio la parola d’amore. Ed ora giaci in mezzo alla stanza; nè
più dal labbro ti escono le canzoni della primavera!

«Eri bello! e te lo dissero le fanciulle d’Aggius, quando piene
di grazia e di lusinghe ti danzavano intorno. I tuoi occhi, tanto
affascinanti, erano azzurri come il nostro mare di Vignola e
scintillavano come il granito delle nostre montagne; — avevi i capelli
biondi come le spighe che ondeggiano sui campi di Coghinas — e le
guancie rosate, come l’aurora che saluta gli aggesi dai colli di
Calangiunus. Le donne di Vignola t’han chiamato bello — ed è perciò che
gli uomini della Trinità t’hanno ucciso!

«Ed ora riposi, pallido fanciullo, sopra il gelido letto, dove non sei
spirato, e dove la madre non ha potuto chiuderti gli occhi. Il sangue
che ti scorreva nelle vene era ardente come l’acqua solforica che bolle
ai piedi di Castel Doria; ed ora è aggrumato sulla tua ferita, freddo
come l’acqua dell’Ampolla che sgorga sulle vette del Giugantino![14]

«Tu dormi — ma il tuo sonno è di morte. Nè raggio di sole, nè profumo
d’aprile, nè bacio d’amore potranno ridestarti alle gioie del mondo.

«A te dunque la tomba, o Michele, a tua madre le smanie della
disperazione; ed ai parenti il grido della vendetta. A noi soltanto,
sconsolate figlie della Gallura, le tristi note del dolore!

«Piangi anche tu Mariangiola! — piangi con noi, o giovinetta tradita
ai piedi dell’ara! Strappa dalla pura fronte la corona di sposa, e
spargine i fiori sull’altare insanguinato, dove t’hanno ucciso il
fratello! Va, ti rinserra nella stanza nuziale, non consacrata dal
bacio d’amore; cingi la fronte con un serto di spine, e impreca ai Vasa
ch’han deluso i tuoi voti!

«Oggi è un giorno di lutto. Venite, venite o vergini della campagna,
ad intonar meco la canzone del pianto! Non vedete voi che il vento
della sera reca in giro i pètali del fiore! Piangete dunque, o vergini
sconsolate, poichè quest’anno i nostri mandorli non porteranno frutti!

«O fiorita ginestra dei campi d’Aggius, noi ti mandiamo l’ultimo
saluto, giacchè forza umana non potrà ravvivare il tuo stelo reciso.
Chi non darebbe la metà del suo sangue per rivederti in mezzo a noi?
Nessuna vergine di Vignola negherebbe di posare le sue labbra ardenti
sulla tua bocca di gelo, se un bacio d’amore potesse ridonarti alla
vita! Ma il bacio di fanciulla innamorata non può destare alcun fremito
vitale sulle membra irrigidite dalla morte!

«Piangiamo insieme, vergine di Gallura: — il nostro fiore è caduto! — »

Antonio Mamia sempre cupo e meditabondo, senza preoccuparsi delle nenie
della fanciulla, si era piantato dinanzi al tavolo funebre, dove era
disteso il cadavere, coi piedi rivolti alla porta d’uscita.[15]

Stette alcuni minuti con gli occhi fissi sul figlio; poi con voce
calma, ma improntata di amaro sarcasmo, pronunciò lentamente le
seguenti parole:

— Povero fanciullo! Han fatto una bella prova, togliendoti dal mondo!
Per fermo al tuo assassino sarà tremata la mano nel prenderti di
mira! Guai se non ti avesse colpito, mio povero figliuolo! — Può andar
superbo il mio nemico del colpo fatto; e avrà ragione di vantarsene coi
valorosi campioni della famiglia Vasa.

La madre dell’ucciso, intontita dal dolore, era sorda ad ogni parola
di conforto. Accoccolata in un angolo della stanza, non pronunciava che
queste parole:

_Lu mè còri_[16]

La morte di Michele aveva commosso e indignato tutta la Gallura. Era
un fatto nuovo a memoria d’uomo; perocchè nelle secolari inimicizie
si erano sempre riguardati come sacri i fanciulli e le donne; anzi
il macchiarsi del loro sangue costituiva nelle vecchie tradizioni tal
viltà, che non veniva mai perdonata.

Non solo si erano fin’allora rispettate le deboli creature, ma in ogni
tempo era stata scrupolosa consuetudine differire la vendetta, sempre
quando un nemico avesse incontrato l’avversario (a piedi o a cavallo)
in compagnia di una donna o di un fanciullo. — A questo proposito mi
piace far menzione di un’inimicizia sorta appunto in Gallura, per aver
violato la generosa consuetudine. Nel 1775, non solo non si rispettò il
nemico che trovavasi in compagnia di una donna — ma insieme a lui si
uccise la nuora incinta (la pastorella Teodora) che sedeva in groppa
dello stesso cavallo. E bastò questa viltà perchè fra due fazioni si
accendesse una guerra sanguinosa.

La sera del 16 agosto la salma di Michele fu portata a seppellire nel
piccolo cimitero di Aggius. Una folla di congiunti e di amici andò
dietro al feretro facendo gran piagnisteo, come vuole l’usanza di quasi
tutti i paesi della Gallura.

Il vecchio Mamia seguì cogli occhi il funebre corteo; soffrì torture
atroci, ma ebbe la forza d’animo di non mandare un lamento, nè di
versare una lacrima.

Mi si disse in Aggius, che due giorni dopo la morte del fanciullo, fu
veduto il Mamia seduto sulla soglia della propria casa, fumare la sua
pipa tranquillo in viso. Quella calma fece paura a molti! Era indizio
certo, che quel vecchio meditava un sinistro pensiero.

                                   *

Dall’altura del monte della Crocetta un uomo incappucciato guardava il
corico funebre che s’incamminava al cimitero.

Quell’uomo era Bastiano Tansu — il sordo-muto. Era mestissimo, e
commosso; poichè mentre reggeva con una mano la testa, coll’altra
tergeva le lacrime che scorrevano abbondanti sulle sue guancie.

Era pietà vera? — era rimorso? Non so dirlo.

La voce pubblica aveva accusato Pietro Vasa come autore della morte
di Michele; ma chi poteva asserirlo? Il vero feritore s’ignora quasi
sempre in queste guerre fratricide; tutti i membri di una famiglia sono
solidali nell’esecuzione della vendetta; poco monta conoscere la mano
che ferisce; si sa che la mente è una sola, — e basta! — La morte di un
nemico è sempre ascrìtta ad una fazione, non mai ad un individuo.

Il muto scese dal monte della Crocetta quando le ombre scesero sopra il
villaggio. Egli s’internò nella campagna, poichè si era volontariamente
proscrìtto dal paese natio, per sfuggire alla giustizia degli uomini:

Quella di Dio non la temeva.


VII.

La rivincita

Non eran trascorsi che cinque giorni dalla morte del povero Michele.

Nel cuore della notte quattro individui appartenenti alla fazione del
Mamia erano raccolti in uno stazzo escogitando una pronta ed adeguata
vendetta. Anche nel consumare un delitto si vuol mettere lo scrupolo e
la delicatezza!

Si sceglieva la vittima sulla quale doveva pesare il loro cieco furore;
e la questione era un po’ complicata, trattandosi d’un fatto singolare.

Per una legge barbara, convalidata in Gallura da un’antica
consuetudine, alla morte violenta d’un fanciullo non potevasi opporre
che la morte d’altro fanciullo, o di una donna. In altro modo non si
potevano equilibrare le partite. Dente per dente, infamia per infamia,
vigliaccheria per vigliaccheria: così era scritto nel codice gallurese,
sanzionato da un odio implacabile.

Uno degli astanti pronunciò un nome, e tutti applaudirono alla felice
idea, lodando chi l’aveva manifestata. I Vasa avevano ferito il
Mamia nel più santo de’ suoi affetti — nell’amor di padre; orbene, i
Mamia dovevano ferire il Vasa nel suo affetto più santo — nell’amore
di figlio. Fra i due capi fazione doveva essere uguale lo strazio
dell’anima; Antonio Mamia si era strappata la barba dinanzi al cadavere
del suo giovane figlio — e Pietro Vasa doveva trascinarsi cieco d’ira
dinanzi al cadavere della vecchia madre. Un rimorso doveva rodergli il
cuore — quello di aver dato la morte a colei cui doveva la vita!

Il giorno dopo, verso sera, con passo tardo e vacillante, la madre di
Vasa usciva al solito dal suo stazio della Trinità per recarsi alla
vicina fonte. Portava sulla testa il tinello con l’_uppu_,[17] e nella
mano destra il rosario. La vecchierella pregava; pregava sempre per il
suo figliuolo, esposto agli agguati del nemico, — pregava per i suoi
parenti e per i tanti padri di famiglia che minacciavano divorarsi l’un
l’altro.

A mezza strada una palla di piombo la colpì nel petto, e cadde.

Fu trovata colà, agonizzante, con una mano sul cuore, e col rosario
nell’altra. Pareva sorridesse alla morte.

Come tigre ferita Pietro Vasa accorse all’annunzio ferale; si chinò
disperato sul corpo della madre; la scosse, la strinse al petto, la
chiamò, la baciò, ma inutilmente. La vecchia aveva gli occhi socchiusi
e le mani irrigidite dalla morte; respirava ancora, ma non riconobbe
suo figlio.

L’amore che portava Pietro alla vecchia madre era un culto, una
religione, un delirio. Anche oggidì si parla in Gallura della singolare
impressione che ricevette il Vasa quando apprese l’orribile notizia.
Non seppe mai darsene pace, e, finchè visse, bastò il semplice ricordo
di quella barbara fine per renderlo crudele ed inumano con chicchessia.

— Vigliaccherie! gridò il Vasa. — Uccidere una donna, una vecchia
cadente! A che dunque è ridotta la nostra Gallura? Miserabile razza dei
Mamia! Il tuo valore non consiste che in simili imprese; ma ben altro
è il nostro! Voi non siete buoni che a far posare cannocchie — noi però
faremo posare fucili.[18] Vigliacchi, vigliacchi, vigliacchi!

Così esclamava Pietro, acciecato dal furore: e gli facevano coro
i componenti la sua fazione; ma tutti dimenticavano che la prima
vigliaccheria l’avevano commessa i loro, assassinando un povero
fanciullo quattordicenne. L’uomo però non è che un egoista e nel
misurare l’oltraggio ricevuto, dimentica facilmente quello che egli ha
recato ad altri.

Inginocchiato vicino al cadavere della madre di Vasa, e assorto in
profondi pensieri, stava Bastiano il muto. Egli ripensava fremendo alla
cerimonia dell’_abbraccio_, compiutasi un anno prima nello stazzo di
Giunchiccia. Colà egli aveva veduto il giovine Michele posar la testa
sulle ginocchia di quella vecchia. L’uno e l’altro erano scesi nella
tomba, vittime innocenti di un odio infernale. Il muto si asciugò una
lacrima — e fu la seconda che gli sgorgò dagli occhi dinanzi ad un
cadavere!

Il giorno seguente la salma della madre di Pietro fu portata nel
piccolo camposanto della Trinità di Agultu. Tutti gli amici e i
parenti alzavano al cielo i loro lamenti, nè mancarono le comari
che improvvisarono le solite nenie, dove si encomiavano le rare doti
dell’estinta, deplorando il tristo avvenimento.

L’assassinio della vecchia fu imputato dalla voce pubblica ad uno
dei Pileri che aveva in moglie la sorella di Pietro Vasa. Il supposto
feritore fu arrestato e la sorella di Pietro proclamò l’innocenza di
suo marito, giurando a tutti che in quel giorno egli trovavasi presso
di lei. I fratelli le tennero il broncio e non le parlarono più; ma
la povera donna sfidò l’odio ingiusto del Vasa, e protestò sempre
energicamente contro l’arresto del suo innocente marito.


VIII.

La posta al cinghiale

Dal giorno dell’assassinio della madre di Pietro Vasa, non vi fu più
tregua. Era un continuo succedersi di combattimenti sanguinosi e di
uccisioni: una caccia di fiere che si davano uomini contro uomini.

Era un lutto generale; il terrore regnava sovrano in quelle contrade.
Sul far del giorno, prima di recarsi in campagna, i figli abbracciavano
i padri — le sorelle abbracciavano i fratelli, come se mai più si
dovessero rivedere. Non erano sicuri di ritornare la sera in seno
alla famiglia. E lungo la giornata erano ansie, spasimi, trepidazioni;
preghiere a Dio ed ai santi. Un ritardo li spaventava; una fucilata li
faceva trasalire.

Nè avevano torto di temere a tal segno. Si correva rischio di esser
uccisi in campagna, in paese, e persino sulla soglia della propria
casa. Zii, nipoti, cugini, congiunti di terzo e quarto grado, tutti
cadevano da una parte e dall’altra, senza tregua.

Potrei ma non voglio più oltre far nomi; la penna si rifiuta ad
enunciare il numero delle vittime cadute in quell’eccidio. Perchè il
lettore possa farsi un’idea delle stragi che funestarono la campagna
d’Aggius dal 1850 al 1856, mi basterà accennare, che il numero dei
morti fra le due fazioni superò la cifra di _settanta_, e che nella
statistica dei cinque anni furono registrate oltre quaranta vedove.[19]

I due capi fazione, senza mai stancarsi, continuarono ad eccitare
i congiunti e gli amici alla vendetta e alla strage. Ed erano ben
singolari quei capi! L’uno vecchio, freddo stratega, che dirigeva
l’esercito dalla sua tenda; — l’altro giovane ardente, che era generale
e soldato ad un tempo.

Pietro Vasa, fin dal primo attacco, aveva preso la campagna per
sfuggire alle insidie dei nemici e dei carabinieri. Egli contava, sopra
un braccio forte — sul braccio di suo cugino Bastiano il muto.

Costui, non solo aspettava che Pietro gli designasse la vittima da
colpire ma non risparmiava il nemico se gli capitava fra i piedi. Il
suo occhio come il suo fucile non fallivano mai! Quando stabiliva di
disfarsi di qualcuno, i suoi occhi mandavano lampi, i suoi muscoli
si contraevano e persino la sua lingua paralizzata sapeva trovare
una parola; _lu tumbu!_ — parola che nel suo linguaggio di fiera
significava: lo uccido!

Il muto era strumento del Vasa — e questi sapeva valersene perchè
possedeva il segreto d’insinuarsi nell’animo di quel disgraziato che
somigliava più ad una belva che ad un uomo.

Eppure — strano invero! mentre tutta la Gallura designava il muto
come il più inesorabile dei sicari, nessuno avrebbe saputo nominare le
vittime da lui immolate. Vi ha chi afferma, che Bastiano non odiasse
e non perseguitasse che i soli uccisori del fratello. Quanti omicidi
imputati ai Vasa, ai Pileri e ai Mamia furono invece commessi dal muto!
E quanti delitti, al muto imputati, furono forse consumati da assassini
che seppero nascondersi nell’ombra e nel silenzio!

                                   *

Il vecchio Mamia era rimasto fin’allora incolume. Esperto generale,
aveva saputo deludere gli agguati del nemico, e si guardava bene
dall’esporre la sua vita. Dalla sua casetta d’Aggius, o dai suoi
stazzi, sapeva dirigere i feroci scontri; che a lui dava il nome di
giusta vendetta. Nessuno sapeva come e quando il Mamia uscisse di
casa per visitare le sue campagne e i suoi stazzi; nè quando e come
rientrasse nel suo covo.

Nel giorno di S. Giovanni il vecchio voleva recarsi alla campagna
di Pietro Carlotto, situata a poca distanza da Tempio. Diversi amici
lo avevano più volte avvertito di non fidarsi, perchè gli avversari
potevano preparargli un brutto tiro. Il Mamia disprezzò i saggi
consigli; continuò a fidare nella sua sagacia, e rispose agli amici
ch’era troppo sicuro di sè.

La mattina del 24 giugno 1855 — giorno di San Giovanni — Antonio
Mamia non mancò di recarsi alla solita campagna. Invano i suoi amici
tentarono di dissuaderlo; egli fu irremovibile, e vi andò. Pareva che
il destino lo trascinasse per i capelli sul luogo del supplizio.

Mentre in compagnia di un amico guardava il rio Veldidonna, si udì
una scarica di fucili, e Antonio Mamia cadde colpito a morte da una
palla. Venti e più uomini fin dal mattino si erano appiattati dietro
ai graniti ed ai lentischi, aspettando al varco il formidabile nemico —
come si aspetta un cinghiale. — La sua morte era inevitabile; perocchè
tutti in quel giorno, erano decisi di fargli fuoco addosso, fino
a freddarlo. Il compagno del Mamia prese la fuga; e gli fu sparato
contro, più per fargli paura che per intenzione di ferirlo.

Il vecchio capo della fazione Mamia era caduto, nè è a dirsi quanto
ne gioissero in quel giorno Pietro Vasa ed i suoi. La morte del
vecchio non salvava Pietro dall’ira degli avversari; ma che perciò?
Antonio Mamia era stato ucciso _per il primo_ — e ciò costituiva una
soddisfazione ed una vittoria per il partito avverso.


IX.

Le paci d’Aggius

Nei tre o quattro mesi che precedettero l’agguato da noi descritto, si
era verificata una certa tregua nelle uccisioni; appena però fu ucciso
il vecchio Mamia, i suoi parenti si destarono più inferociti che mai, e
ricominciarono gli assalti ed i delitti.

La popolazione della Gallura era ormai stanca di cinque anni di lotte,
di ansie e di paure; si aveva bisogno di un pò di quiete, e tutti la
desideravano ardentemente.

Il Governo vedendo infruttuosi i tentativi fatti per mezzo della forza,
aveva pensato di tentare le paci fra i due partiti; così almeno, se
non era riuscito ad impadronirsi dei colpevoli, avrebbe impedito nuove
uccisioni e nuove stragi in Gallura.

L’intendente di Tempio — allora Angelo Conte — cominciò ad accordare
salvacondotti ai fuorusciti; e primo fra tutti chiamò presso di sè
Pietro Vasa per persuaderlo alla conciliazione coi suoi nemici.

Il Vasa aveva ascoltato le parole dell’Intendente colle braccia sul
petto e col capo chino, in atteggiamento d’uomo che rifletta alla
risoluzione che deve prendere.

Appena ebbe udito la proposta, levò con alterigia la fronte corrugata,
e rispose risoluto:

— Sta bene: vi darò la risposta. — E fece per andarsene.

— Hai forse bisogno di consultare qualcuno?

— Sì.... consulterò mia madre. Se essa mi dirà di sì, acconsentirò
volentieri a far pace coi Mamia.

— Che vuoi tu dire?

— Voglio dire, che io perdonerò ai miei nemici, sol quando mia madre,
ch’essi hanno ucciso, tornerà dall’altro mondo per darmene il permesso.

— Pietro! — gli disse l’Intendente col piglio severo — anche al vecchio
Manna hanno ucciso un figlio — e se non erro, fu ucciso prima di tua
madre!

Pietro non rispose.

— Sei molto più superbo di loro o Pietro! Parmi che i Mamia,
nell’accettare la conciliazione, siano più generosi di voi. Ad essi fu
ucciso il capo; tu invece sei vivo!

Pietro continuò a tacere; l’ostinato silenzio in cui egli si chiuse,
ben fece capire all’Intendente che ogni ulteriore esortazione sarebbe
riuscita vana.

Il Vasa tornò alla campagna, e per altri otto mesi non se ne fece
niente. Gli odi e le uccisioni ripresero il loro corso.

Ma ciò che non potè il governo, lo potè infine la religione. Il
Rettore d’Aggius, Leonardo Sechi — oggi vicario di Tempio — si prese
l’incarico di ridurre alla ragione quelle belve. Egli era molto amato
in paese, e godeva a buon diritto la fiducia generale; era stato lui
che aveva favorito la cerimonia dell’abbraccio: lui ch’era stato fra
gli arbitri nelle diverse questioni sorte fra i Vasa e i Mamia; lui
infine, a cui i due partiti avevano fatto le più segrete confidenze. Di
comune accordo colle persone più saggie ed influenti del paese, e col
concorso di Raimondo Orrù (Intendente di Tempio, succeduto al Conte)
il Rettore riuscì a persuadere le due fazioni dei Vasa e dei Mamia a
riconciliarsi. I principali capi delle due famiglie nemiche si recarono
a Tempio muniti di salvacondotto, e furono presi i necessari accordi
per la cerimonia delle paci. E ciò avvalora le parole rivolte dal Re
Carlo Alberto al Padre Bresciani: valere, cioè in Sardegna, più una
dozzina di buoni missionari, che dieci reggimenti di soldati.

                                   *

Eppure, poco mancò che le paci non andassero a monte per la seconda
volta. Altre contestazioni, all’ultimora, sorsero fra le due famiglie
avversarie. Michele Pileri (che capitanava la fazione Mamia dopo
la morte del capo) non voleva che sulla spianata di S. Sebastiano,
insieme agli altri, si schierassero due parenti di Pietro Vasa, non
compromessi con la giustizia a causa della fazione, bensì come sicari,
avendo essi assassinato un uomo mediante compenso. Il Vasa, dal suo
canto, rifiutava recisamente di accettare le paci, se non intervenivano
alla cerimonia i due coniugi che si volevano scartare. Così almeno,
fu trattato e questo prova l’onestà e la fierezza di quei galluresi:
i quali, pur acciecati da un odio implacabile, sdegnavano di aver a
fianco chi si era macchiato di sangue umano per ingordigia di denaro,
non per scopo di vendetta.

Il momento era decisivo: trattavasi di oltre cinquecento persone
compromesse, già radunate in un luogo stabilito per intendersi sulle
paci; trattavasi, che ciascuna delle due fazioni teneva pronti,
in piede di battaglia, quattordici uomini scelti che all’occasione
potevano fare una strage; trattavasi, infine, del pericolo di rendere
inutili le pratiche fatte per indurre gli avversari ad un accordo che
doveva apportare la pace e la tranquillità nella Gallura.

E la buona riuscita di questa conciliazione si deve in gran parte al
giudice d’Aggius Celestino Concas, che incaricato dall’intendente Orrù,
e venuto a colloquio co’ nemici, fece sì che Pietro Vasa rinunziasse
alla presenza dei suoi due parenti sul campo di S. Sebastiano — col
patto però, che le paci con essi si sarebbero stabilite più tardi,
nella chiesa di S. Francesco.

                                   *

Il 26 maggio 1856 fu un giorno memorabile per la Gallura.

Nel famoso campo di S. Sebastiano — quasi alle porte della città di
Tempio — fin dall’alba accorrevano a frotte uomini e donne dai vicini
villaggi e dalla campagna. Erano famiglie intiere dell’una e dell’altra
fazione, che convenivano là per la sospirata pace. Gli avversari
volevano darsi il bacio del perdono, alla presenza di un ministro che
avrebbe loro parlato la parola di Cristo.

Era il mese di maggio. Sette anni precisi dal giorno dell’_abbraccio_,
che aveva avuto luogo nello stazzo Giunchicchia nel 1849.

Oltre seimila persone erano in quel campo, fra attori e spettatori,
offesi e difensori, testimoni e curiosi. Non mancava alcuno, neppure
un fanciullo; perocchè la mancanza di esso sarebbe bastata per far
rompere le paci. Si sarebbe potuto dire, che il fanciullo assente, non
legato a giuramento, pensasse a far le vendette diventando adulto. Vi
assistevano anche molte signore; tant’è vero che il Vasa ebbe a dire
ad un suo vicino: essere venute a curiosare e a far sfoggio di ricche
vesti.

Sopra un palco costrutto per la circostanza, sormontato da un gran
crocifisso, era il ministro della chiesa. — Il P. Carboni frate
scolopino, venuto appositamente da Sassari. Da una parte e dall’altra,
divise in due schiere, a dieci passi di distanza, erano due lunghe file
di avversari; a destra del frate i coniugi del Vasa, con a capo Pietro
— a sinistra quelli del Mamia, guidati da Michele Pileri.

Il frate cominciò a voce alta la sua predica, esortando quei feroci
alla pace ed al perdono, in nome di Cristo.

Terminato il sermone, le due schiere si slanciarono l’una verso
l’altra, ed offesi ed offensori si baciarono sulla guancia.

Narra la cronaca, che fra le schiere ci fosse un fanciullo ostinato,
che non voleva baciare sul viso alcuno degli avversari: e non fu che
dopo mille preghiere ed esortazioni che si decise ad accostare la bocca
alle guancie del nemico di suo padre. Quest’incidente turbò alquanto la
cerimonia, ma fu cosa di un momento.

Era uno spettacolo commovente. Quasi tutta la Gallura assisteva a quel
solenne perdono; e molte donne, e vecchi e fanciulli scoppiarono in
pianto, forse ripensando ai tanti morti che giacevano sotto terra,
colpiti dall’odio e dalla ferocia. Oltre la metà dei componenti le due
fazioni vestivano ancora il lutto!

E doveva essere uno spettacolo imponente, vedere quella moltitudine
composta d’uomini e donne, di vecchi e di giovani, di fanciulli e di
bambine — tutti là, intorno a quella chiesa in rovina e col tetto
a metà smantellato, posta nel centro di un campo estesissimo, dal
quale si domina uno stupendo orizzonte! — A tramontana la punta della
Balestra, le montagne di Padule, e più in là il monte Crosta della
Corsica: a mezzogiorno la città di Tempio, da cui spunta il campanile
della cattedrale col suo gallo irrequieto; a levante la catena dei
monti di Limbara; a ponente infine le frastagliate punte dei monti
d’Aggius col sottostante paese, centro delle tremende inimicizie che lo
avevano decimato. I tre villaggi di Nuchis, Luras e Calangianus erano
là sotto, quasi a testimoni di quel solenne giuramento.

Verso sera, il campo era sgombro, i curiosi spettatori erano rientrati
nelle loro case, e le turbe venute per le paci avevan fatto ritorno ai
propri paesi od alla campagna. Per la prima volta, sui loro volti si
leggeva la serenità e la fiducia poichè finalmente potevano camminar
sicuri, senza tema d’esser colti all’impensata dai nemici.

E ho detto _senza tema_, perchè la parola del gallurese è sacra; e
dopo aver concesso il bacio del perdono, è ben difficile trovar chi
manchi alla promessa ed al giuramento. In mezzo agli odi di parte che
li rendono quasi crudeli, torna ad onore dei figli della Gallura questo
sentimento di dignità, di cui si mostrano tanto gelosi.

Fra i mille individui che formavano le schiere degli avversari
convocati per le paci, due sopra tutti avevano attirato la curiosità
degli astanti. Pietro Vasa, l’antico fidanzato di Mariangiola, e causa
prima delle inimicizie; e Bastiano il muto, in fama del più sanguinario
dei fuorusciti, e l’unico che avesse opposto resistenza, quando fu
pregato d’intervenire alle paci.[20]

Ad ogni modo, il 26 maggio 1856 fu per Aggius una giornata memoranda.
Nel paese si fecero feste; e gli abitanti, tutti commossi, si
abbracciarono l’un l’altro, come se si fossero riveduti, dopo sette
anni di separazione.




PARTE TERZA

GLI AMORI DEL BANDITO


I.

Un raggio nelle tenebre

Fatte le paci, il muto riprese il fucile, che durante la cerimonia
aveva deposto nella casa di un suo amico di Tempio, lasciò il campo
di S. Sebastiano, e si diresse ad Aggius per la viottola tortuosa che
allora vi conduceva.

Che importava a lui delle paci concluse fra le due fazioni? Egli
continuava ad essere il perseguitato dall’umana giustizia, e la sua
condizione non era mutata. Tutti i suoi conterranei erano ritornati
alle proprie case per godere in seno alla famiglia un po’ di quiete
e di pace — egli però non poteva ciò fare, poichè non aveva casa nè
famiglia. Il suo covo erano i crepacci di granito e le spelonche dei
monti d’Aggius e di Bortigiadas. Quale il suo vantaggio? — Invece di
due, doveva guardarsi da un sol nemico, dal carabiniere!

Negli stazzi era una festa continua; i giovani e i vecchi, donne
e fanciulli si erano riuniti insieme, tranquilli finalmente. Erano
cessate le loro ambasce, i loro timori, le loro trepidazioni. Per
il muto niente di nuovo; per lui le paci erano state una pantomima
ridicola; aveva veduto un mondo di gente sul campo di S. Sebastiano;
aveva veduto i due avversari schierati l’uno in faccia all’altro,
facendo gesti strani; aveva veduto un sacerdote colle braccia levate al
cielo e con le labbra contratte — ma non aveva udito nè le preghiere
del ministro di Dio, nè la parola de’ suoi nemici. Per lui quella
cerimonia era stata una formalità a cui si era piegato senza coscienza.
Che sapeva egli di accordi? Sapeva solo che i parenti lo avevano
circondato, trascinato a Tempio con un salvacondotto, e costretto a
prestare un giuramento.

Il muto si era accompagnato col Vasa, suo cugino, ancor esso bandito,
e venuto alle paci con un salvacondotto; ma era ben diversa la loro
condizione! Il Vasa da qualche anno aveva tolto moglie, era padre e ben
sovente penetrava inosservato nello stazzo della Trinità, per rivedere
i suoi cari e per sedersi al desco, in mezzo alla famiglia.

Bastiano era solo; compagno e confidente del cugino, egli non aveva
servito che come cieco strumento di vendetta. In fondo al cuore non
nutriva odio di parte — odiava solo chi gli aveva ucciso il fratello;
gli altri delitti li commetteva per cieca ferocia, per brutale istinto
in lui nato per la fatalità degli eventi. Egli si batteva con coraggio;
nè vi era alcuno che lo vincesse in temerità. Disprezzava la vita
perchè abituato al silenzio, e perchè muta com’esso.

Errava dall’una all’altra cussorgia, stanco, annoiato della vita;
girava intorno i suoi grandi occhi neri, quasi volesse avvertire con
essi le pedate dei carabinieri; la sua sordità doveva renderlo più
circospetto. Aveva visitato tutte le montagne — dal monte Pulchiana
a monte Spina, dal monte Ruiu al monte Cucurenza; aveva guadato tutti
i fiumi — dal rio Sirena a Conca di Chiara, da Turrali a Fiuminaltu;
qualche volta si spingeva fino al litorale — tal’altra faceva notte sul
monte Cùcaro, antico protettore dei banditi d’ogni specie.

Il monte Cùcaro ha una storia; esso è sinistramente celebre,
essendo stato nel secolo scorso il quartiere generale dei fuorusciti
perseguitati dalle armi regie. Vi si raccolsero persino trecento
banditi, sotto diversi capi squadriglia, fra i quali, Don Gavino
Delitala, i fratelli Pintus di Nulvi, i Cubeddu di Pozzomaggiore e i
Fois di Chiaramonti. Su questo monte i banditi ebbero molti scontri coi
soldati, riuscendo or vincitori, or vinti. Vincitori — come nel 1745,
in cui misero in fuga le compagnie svizzere capitanate dal colonnello
Sumaker, dopo aver ucciso 75 soldati; e nel 1746, in cui, dopo aver
fugato i dragoni comandati dal conte Craveri e dal baronetto Busquetti,
si vestirono con le cappe rosse dei soldati morti, per il capriccio
di fare una burla alle loro donne e ai loro compagni. Vinti — come nel
1734 che furono presi o fugati dal Vicerè marchese di Rivarolo, e nel
1748 che vennero messi in fuga da Valentino di Tempio e dal Dettori
di Pattada ai quali il Vicerè Valguarnera aveva affidato l’impresa
del monte Cùcaro. E taccio dei fasti del celebre contrabbandiere e
bandito Pietro Mamia, che prima protesse e poi abbandonò il Sanna ed il
Cilocco, venuti dalla Corsica per ritentare la guerra angioina.

Lo abbiamo detto; Bastiano errava di stazzo in stazzo, smarrito,
sconfortato, col tedio nell’anima, col cruccio nel cuore. La solitudine
gli riusciva sempre più pesante. Quel giuramento pronunciato sul campo
di S. Sebastiano lo aveva indisposto; non potendo più dar la caccia
ai nemici si sentiva come disoccupato; quell’ozio onesto lo tediava.
Abituato alla pugna e a preparare insidie, le giornate gli sembravano
interminabili. Non aveva che una sola preoccupazione; guardarsi dal
carabiniere: quella divisa lo irritava; quegli esseri creati per dargli
la caccia lo rendevano feroce. Il muto cinghiale odiava quei cani,
causa unica delle sue notti insonni, delle sue veglie tormentose.

E Bastiano tentava distrarsi recandosi da un punto all’altro della
Gallura — ora cacciandosi nei crepacci del monte della Crocetta o del
Fraìle, ed ora scorrendo le vallate della Sirena, di Chiligheddu o
della Fumosa.

Fra gli altri il muto frequentava lo stazzo dell’Avru, nei dintorni
di Bortigiadas, appartenente al pastore Anton Stefano. Colà lo aveva
presentato la prima volta suo cugino Pietro Vasa, il quale soleva
andarvi assai spesso.

Da principio Bastiano si era recato con indifferenza a quello stazzo
solitario, dove passava un po’ di tempo assistendo alla preparazione
dei formaggi o ad altre domestiche faccende; più tardi, però, il muto
aveva reso più frequenti le visite alla casetta del pastore; e dalla
sua fisonomia era sparita quella tinta fosca che rivelava una natura
irrequieta, ringhiosa e annoiata.

Qual’era la causa di quell’improvviso cambiamento? La causa c’era — ed
una bella causa di sedici anni!

Anton Stefano aveva tre figlie; giovani, graziose, avvenenti, ma
fra tutte primeggiava per bellezze di forme e gentilezza di modi la
Gavina — una snella fanciulla dai quindici ai sedici anni; dai capelli
nerissimi, dalla taglia svelta ed elegante, e dalle braccia paffutelle,
che indossava il pittoresco costume di Bortigiadas, quasi uguale a
quello di Aggius.

La famiglia d’Anton Stefano faceva buon viso al muto, per due ragioni;
la prima, perchè era stato presentato da Pietro Vasa, loro amico;
la seconda, perchè il muto aveva una rara abilità, tutta naturale,
nell’arte del disegno. Egli si era reso celebre in Gallura per le
incisioni che sapeva fare sulle zucche da vino, sulle _ventriere_,
o sui calci dei fucili; di più lavorava da sarto, da calzolaio,
da falegname, e in tutto riusciva assai bene. La natura non è mai
intieramente partigiana colle sue creature; essa equilibra le facoltà
fisiche e morali — toglie un senso per perfezionare un altro. Bastiano
era un’artista! — Questo lampo d’arte fra le tenebre della sua
intelligenza lo rendeva bene accetto e simpatico a tutti — e in modo
speciale alla famiglia di Anton Stefano, il pastore di Bortigiadas.

Sovra tutti però, gli si mostrava tenera la Gavina, la minore delle
tre fanciulle dell’Avru; ma non erano le zucche rabescate, nè le
cinture a fantastici ricami che rendevano quella fanciulla premurosa
e cortese con lui: — Gavina aveva una particolare affezione per
il muto, perchè sapeva che era un infelice proscritto; sapeva che
la natura gli era stata avversa negandogli la parola e l’udito, e
che gli uomini lo avevano maltrattato, perseguitandolo di balza in
balza come un cinghiale. La donna ha assai spesso di queste bizzarre
predilezioni. Ben sovente essa si affeziona a colui che sa abbandonato,
o deriso dagli uomini; sapendosi onnipossente nella sua fragilità, ama
intraprendere un’opera di redenzione; conscia del fascino che esercita
il suo sesso, non ignara che la sua debolezza può abbattere una forza
— ed è allora che essa impegna col leone una lotta, dalla quale sa di
uscire vincitrice: la lotta dell’amore!

Bastiano aveva veduto altra volta la bella figlia di Anton Stefano:
l’aveva conosciuta, bambina di dieci anni, nello stazzo di Giunchiccia,
quando era andato colà per assistere all’abbraccio di Pietro Vasa con
Mariangiola Mamia. L’aveva riveduta co’ suoi genitori nel settembre
dell’anno seguente, il giorno della festa del Rosario; e ricordava
di aversela seduta sulle ginocchia, di averle accarezzato i capelli,
e di aver deposto più d’un bacio sulle sue guancie. Allora però era
proscritto; le sue mani erano lorde di sangue umano, e non pensava ad
altro che a guardarsi dai continui agguati che gli tendevano nemici e
carabinieri. Egli ricordava l’affettuosa bambina — ma la bambina non si
ricordava più di lui.

Gentile ed affettuosa per indole, compassionevole per natura, Gavina
usava molte attenzioni a Bastiano. Quando entrava nello stazzo lo
invitava a sedere; gli mostrava il cucito che aveva fra le mani, e si
faceva disegnare qualche fiorellino ch’ella tentava ricoprire coll’ago
alla meglio, sulla mussola.

Per il muto, abituato sempre ai maltrattamenti e ad esser posto in
un canto come cencio inutile, quelle attenzioni non potevano passare
inosservate. E difatti serbò in cuore una riconoscenza profonda per
colei che gliele usava.

Bastiano si sentiva contento; nell’Avru era considerato come un’amico;
lo si invitava qualche volta a desinare in famiglia, e ben sovente
Gavina gli metteva a parte qualche pietanza squisita, che gli offriva
appena lo vedeva entrare.

Il muto sentì una gioia segreta nel cuore; per la prima volta si vedeva
considerato come un uomo, e ne provava soddisfazione. Assalito da una
vaga inquietudine, egli si aggirava tutta la mattina per i dintorni,
aspettando ansiosamente la sera per sedersi vicino alla Gavina che
lavorava di cucito, o prestava mano alla preparazione dei formaggi.

Richiesto dalla famiglia _dove_ avesse passato il giorno, Bastiano
faceva capire ch’era stato negli stazzi della Trinità di Agultu —
oppure che aveva gironzato verso la spiaggia dello _Stagnareddu_,
l’_Agliola di vento_, o sulla strada di _lu Strìttoni_. Era costretto
a mentire, perchè non voleva confessare a nessun costo ch’era sempre
rimasto nei dintorni dell’Avru — o errante, cioè nelle valli di
_li Trai_, di S. Gavino o di _Gambaiddoni_: oppure sulle alture del
Castel Doria e di Cucurenza, dove era rimasto lunghe ore immobile, con
gli occhi fissi sullo stazzo che racchiudeva il suo tesoro — la sua
felicità.

Un notevole cambiamento si era per certo operato nell’esistenza di
quell’infelice. Egli confrontava il presente col passato, e si sentiva
un altr’uomo. Pareva che intorno a lui si fosse fatta la luce. Egli che
mai aveva avuto una casa, nè una famiglia; che era stato maltrattato
nell’infanzia e amareggiato nella giovinezza; che da sette anni non
aveva sognato che sangue e vendetta — egli sentiva nel cuore un nuovo
sentimento tutto soave, inesplicabile. In quella fanciulla amava una
sorella, una madre — la madre che da pochi anni aveva perduto.

Ed egli, col capo chino, a lenti passi, errava per la campagna. Dal suo
cuore eran spariti l’odio e lo sconforto, ma per sottentrarvi una calma
melanconica che dolcemente lo torturava. Era un’inquietezza che lo
assaliva senza saper come — una smania di correre senza saper dove — un
desiderio di piangere senza saper perchè!

Era persino diventato meno circospetto; fidente in Gavina dimenticava
ch’era inseguito.

La Gavina, buona creatura, si era accorta di questa strana sicurezza, e
col segreto istinto della donna, che pare tutto ignori e tutto invece
intuisce, vegliava occultamente per lui. Ella infatti ben spesso
usciva fuori dello stazzo come per passeggiare; ma in fondo non faceva
che rivolgere gli occhi all’intorno, per esplorare se qualche tristo
insidiasse la vita o la libertà del suo protetto. E il muto, dimentico
dei pericoli che gli sovrastavano, continuava a disegnare i fiorellini
sulla mussola, che Gavina gli aveva affidato.

La fanciulla appariva al muto sempre più bella; più affettuosa, più
affascinante; ella, con una compiacenza tutta infantile, lo invitava a
parlare.... e lo comprendeva — lo comprendeva ad un semplice cenno del
capo, al minimo movimento delle labbra. Ed anche a lui era ben noto
il linguaggio di Gavina. Per la prima volta i suoi pensieri venivano
compresi — per la prima volta egli comprendeva i pensieri degli altri.

Vi erano momenti in cui a Bastiano pareva di aver riacquistato l’udito
e la parola!


II.

Gli effetti d’una lusinga

Era diventato il fido seguace di quel corpicino delicato. Dovunque
Gavina rivolgesse il passo, era sicura di vedere a poca distanza il
muto.

Anche la fanciulla sentiva a volte come un ardente bisogno di star sola
— come un fastidio della presenza e delle chiacchere delle sorelle.
E si aggirava quà e là col pretesto di portar delle legna secche, di
sorvegliare le mandrie che pascolavano intorno allo stazzo, o di dare
un’occhiata alla biancheria che la mamma aveva esposta al sole distesa
sulle corde del cortile, o sui massi di granito che circondavano
l’Avru. Non aveva che avvolgere gli occhi in giro per essere certa
di vedere in qualche punto il muto, o errante sul monte, o sdraiato
sotto un elce od un macigno. Facendo le viste di essersi trovato là
per caso, egli non perdeva mai d’occhio la sua protettrice. Era la
vigile sentinella di quella graziosa creatura, la quale si compiaceva
della solitudine e del silenzio dell’estesa campagna, fatta sensibile
al soffio benefico della primavera che le riscaldava il sangue ed
accelerava i battiti del suo polso.

Un giorno, mentre Gavina era seduta sotto il grosso mandorlo del
cortiletto, vide Bastiano sull’opposta altura. Era sdraiato sul musco
di un granito, col gomito destro a terra e colla guancia appoggiata
alla palma della mano. Il sole cadente, i cui raggi gli battevano sul
viso poneva in risalto quella maschia fisonomia, la bionda barba che
gli ornava il mento e i lunghi capelli ricci che gli cadevano sulle
spalle. Il muto pareva tutto assorto in un oggetto che teneva colla
mano sinistra, e che Gavina, per la distanza non poteva discernere.

Il volto di Bastiano, illuminato dal sole, in quel momento era bello
— sovranamente bello; e la fanciulla notava quella bellezza con una
segreta compiacenza, che non si curò di nascondere perchè si sapeva
sola e inosservata. Ella lo fissava con tenerezza pietosa, mentre una
moltitudine di pensieri le attraversavano la mente....[21]

Già le cicale avevano cessato i loro canti di saluto al sole —
e dal seno di Gavina uscì un sospiro lungo, profondo. Se in quel
momento qualche indiscreto si fosse accostato a lei, avrebbe sentito
pronunciare, con un’espressione di rammarico, queste parole:

— Che peccato ch’egli sia sordo-muto!

E Bastiano — che non aveva veduto la fanciulla — continuava a tener gli
occhi fissi sull’oggetto misterioso: il quale non era che un piccolo
specchio rotondo con astuccio di metallo, recente acquisto fatto a
Tempio.

Bisogna dirlo, da qualche tempo il muto faceva un po’ di toeletta;
si pettinava con cura i capelli, si lavava assai spesso al fiume e
cambiava la camicia due volte la settimana. Aveva bisogno di farsi
bello — più bello che gli fosse possibile. — Curiosa invero l’insolita
toeletta d’un povero infelice, tiranneggiato dagli uomini e dalla
natura, nel deserto d’una campagna silenziosa! Il sordo-muto sognava
giorni lieti e sereni; riandava il suo triste passato per contrapporgli
il sogno d’un avvenire di rose; richiamava alla mente il giorno
memorando in cui aveva assistito all’abbraccio di suo cugino Vasa con
la figlia di Antonio Mamia; e guardandosi allo specchio augurava per sè
quella bella giornata, persuadendosi che non era brutto, e che non era
follia aspirare alla mano della figlia di Anton Stefano il pastore.

Che più? il fiero bandito era diventato anche galante. Quando si recava
allo stazzo di Anton Stefano, non mancava mai di portare alla Gavina il
mazzolino di violette, colte nei sughereti o ai piedi degli elci, nella
selva dell’_Inferno_, poco distante dall’Avru. Onde le donne solevano
dire per scherzo:

— Vengono dall’_Inferno_ — dunque sono i fiori del diavolo![22]

La madre e le sorelle di Gavina lusingavano sempre il muto con le
belle maniere e coi benevoli sorrisi, facendogli quasi sperare che
lo avrebbero ben volentieri accettato in seno alla loro famiglia.
Le loro premure, però, avevano ben altra mira. Non era il desiderio
d’imparentarsi con lui, nè la possibilità di concedergli in isposa
Gavina, che rendeva gentili ed affabili le tre donne; esse volevano
trar partito dall’abilità del muto che, con la lesina, coll’ago o
col temperino sapeva cucire scarpe e ventriere, trapuntare i cappotti
d’orbace, e incidere le zucchette da vino e il corno dei cervi. Esse
volevano fruire dell’ingegno del muto in quel luogo disabitato — ben
sicure che il muto avrebbe finito per persuadersi che le sue speranze
non erano che deliri, e che le lusinghe della famiglia non potevano
essere che uno scherzo innocente. Le imperfezioni fisiche del povero
disgraziato sarebbero bastate per farlo ricredere delle sue follie,
nel caso che esso le avesse manifestate audacemente — ciò che non
credevano. E come mai poteva un deforme, un bandito, uno sciagurato
aspirare alla mano d’una fanciulla sedicenne, che oltre all’avvenenza
vantava una discreta dote in terre e in armenti? Era mai presumibile
che il muto avesse pensato alla possibilità delle nozze? Dove avrebbe
potuto celebrarle? Dove avrebbe fabbricato il suo nido d’amore, sicuro
di non venir disturbato? Dove mai si sarebbero potuti cacciare i due
colombi innamorati per scongiurare le ricerche e gli assalti degli
avvoltoi, celati sotto la divisa del carabiniere? E se Dio avesse loro
concesso dei figli, dove li avrebbero nascosti per difenderli? Era loro
possibile trasportare di roccia in roccia i teneri nati, per non far
cadere su di essi l’odio che il padre s’era tirato addosso con le sue
colpe?

A tutto ciò pensavano la madre e le sorelle maggiori della Gavina,
mentre continuavano la loro opera di lusinghe con lo scopo di far
lavorare il muto e di burlarlo a suo tempo.

Ma il muto non era uomo da scoraggiarsi, nè da torturarsi con simili
ragionamenti. Egli si credeva amato; si credeva in pieno diritto di
pretendere l’affetto della Gavina, da lui guadagnato coll’amore,
colle premure, e colle prove del suo lavoro e della sua abilità,
a cui teneva, e che in lui compensavano la mancanza della lingua e
dell’udito.

Quantunque per natura diffidente, pure Bastiano non dubitò un solo
istante d’essere deriso o burlato. Col muto nessuno poteva scherzare —
ed egli ben lo sapeva!

Se la madre e le sorelle della Gavina prendevano a gabbo il muto, il
vecchio Anton Stefano lo tollerava, anzi gli voleva bene. In quanto
alla simpatia di Bastiano per la sua figliuola, di cui più volte ebbe
a sentir parlare, l’aveva sempre ritenuta uno scherzo innocente, e non
se n’era preoccupato. Intento com’era alle faccende domestiche, od alla
preparazione dei formaggi, da cui sperava un buon lucro, Anton Stefano
lasciava che a tavola si chiaccherasse, e talvolta non ascoltava
neppure. Terminato il pranzo e le chiacchere, si rimetteva al lavoro,
o fumava la sua pipa sul limitare della porta, non pensando nè punto nè
poco al muto ed alle sue aspirazioni amorose.

Un diverso sentimento guidava invece Gavina. Essa capiva bensì lo
scherzo della madre e delle sorelle, e qualche volta lo secondava
per contentarle; pure quello scherzo le faceva male perocchè non le
dispiacevano le gentilezze di Bastiano, e le pareva perfidia e crudeltà
ridere delle smanie di quel disgraziato. Dirò di più; — la Gavina si
compiaceva in segreto delle premure del muto. Una donna che sa d’essere
amata, ben raramente ride delle smanie d’un amante. Nell’amore è sempre
un’intima soddisfazione; l’essere fatta oggetto di cure speciali è
sempre una lusinga che non dispiace ad una donna, anche quando non si
sente inclinata a corrispondere con pari amore.

A sedici anni, sola in quello stazzo silenzioso, vivente in aperta
campagna dove son rare le visite, posta a contatto con un uomo che
la colmava di gentilezze e di attenzioni, Gavina doveva finire per
lasciarsi trascinare ad un sentimento di gratitudine, che, ingrandito
più tardi, dalla pietà e dalla compassione, doveva per fermo
trasformarsi in amore. A sedici anni si sente l’assoluto bisogno di un
amante purchessia. Ma come si spiega la scelta di un sordo-muto? — Non
ce n’erano altri — ecco la vera ragione. Se invece del muto si fosse
presentato a Gavina un uomo con la parola, forse lo avrebbe preferito.
D’altra parte quella fanciulla ragionava a suo modo: — Bastiano era
muto: ebbene? — ella lo comprendeva. Era sordo; ebbene? ella si faceva
intendere da lui.

— Buon Dio — pensava nel segreto del cuore — per fare il marito
c’è proprio bisogno di aver la lingua che parli e le orecchie che
ascoltino? Credo di no! Ad ogni modo non ho detto di sposarlo, nè lui
me ne ha parlato; e se ciò accadesse, farei in modo di parlare e di
ascoltare per due!


III.

Le piccole attenzioni

Bisognava vedere, con quale affetto e con quanta premura il muto
offriva i suoi servigi alla Gavina, per sbrigare le faccende
domestiche! Egli l’aiutava spesso a fare il bucato; a trasportar
l’acqua dalla fontana dei _Frassiggioli_;[23] a sciorinar la
biancheria, e a raccogliere le patate o i fagioli dal piccolo orticello
ch’era stato posto sotto la sua diretta sorveglianza.

Talvolta il muto, quando da lontano vedeva la bella fanciulla venir
giù dalla collina col fascetto della legna, le andava incontro
premurosamente, le toglieva dal capo quell’impiccio, e se lo caricava
sulle spalle, facendo intendere a lei che quei rami secchi le
scomponevano i capelli sulla fronte. La Gavina batteva le mani con
vezzo infantile, e rideva come matta nel guardare quel fiero bandito,
terrore della Gallura, venir giù tutto umile, portando la legna sulle
spalle e il fucile sotto il braccio; e mentre rideva, gettava uno
sguardo alla campagna circostante, per vedere se l’arma _benemerita_
non tendesse un’insidia al suo fedelissimo servitore, il quale aveva le
mani occupate.

Certe sere se ne andavano tutti e due nelle vicine siepi per cogliere
quà e là il frutto del mirto, i corbezzoli, o le belle more selvatiche.
Il muto si cacciava nel fitto dei cespugli sfidando le spine: la
Gavina se ne stava tranquillamente in basso col mento all’aria e col
grembiale teso, ricevendo le more che il muto gettava, e ridendo a
scroscio quando il suo compagno si pungeva le dita coi lunghi rami
spinosi. In fondo al cuore, però sentiva un’affettuosa riconoscenza per
quell’infelice che le risparmiava tante fatiche, e che molte volte le
dava a tenere il fucile, quasi volesse dirle che poneva nelle sue mani
la propria libertà, la propria vita!

Colte le more tornavano allo stazzo. Gavina andava innanzi
canterellando come una capinera — e lui le teneva dietro con gli occhi
a terra mesto, meditabondo: fiero leone del deserto, seguiva tutto
docile la sua snella cerviotta della collina.

La mamma e le sorelle, che lavoravano all’uscio di casa, ridevano a
crepapelle vedendo comparire quei due matti; e mentre la Gavina correva
dall’una all’altra tirando i due lembi del grembiule, per mostrare loro
l’abbondante raccolto, tutti le davan la baia:

— Te la fortunata ch’hai trovato il tuo cane!

— Non ti lascia proprio far nulla! A noi non tocca altrettanto!

— Quello scimunito ti sta abituando a far la signorina!

La Gavina sorrideva con un certo orgoglio, e si compiaceva dei
motteggi cui era fatta segno dalle sorelle. Il muto però non udiva, nè
immaginava il senso irrisorio dei discorsi; perocchè le furbe donnette
avevano l’avvertenza di parlare col capo chino, senza gesti e tutte
serie, per non lasciargli indovinare la loro opinione a suo riguardo.

Arrivato allo stazzo, Bastiano si rimetteva al lavoro; ora faceva il
falegname, il sarto, il calzolaio, ed ora l’incisore: molto spesso
si cacciava nell’orticello, sua cura prediletta, e zappava di buona
voglia, sicuro di guadagnarsi sempre più le simpatie e la benevolenza
della famiglia.

Anton Stefano soleva dire:

— Povero diavolo! dopo aver ucciso tanti uomini, Bastiano sente il
bisogno di uccidere il tempo. È proprio un’abitudine.

— Ma con diverso risultato — aggiungeva sollecita la Gavina, che voleva
sempre difenderlo; — prima faceva del male, adesso invece fa del bene.

— A te solamente! conchiudeva la sorella maggiore, con un tono in cui
si celava un leggero dispetto.

Una sera, attraversando la stanza di Gavina per recarsi al cortile,
Bastiano si era fermato dinanzi al lettino della fanciulla, e vi era
rimasto alcuni minuti fissando a lungo il ramoscello d’olivo e la palma
benedetta che adornavano il capezzale.

La vecchia scherzando, fece intendere al muto:

— E che? vorresti forse la _luna_?[24]

Il muto diede in uno scroscio di riso; e dondolando la testa rispose
co’ segni:

— Non saprei davvero dove appenderla. Non ho avuto mai letto io!

Quando Gavina — dopo molti anni — raccontava alle amiche gli
avvenimenti dell’Avru, soleva dir sempre:

— Fra i miei ricordi, questo della _luna_ mi riuscì sempre penoso. Fu
l’unica volta che il riso del muto mi fece piangere!

E diceva il vero; poichè dal giorno in cui seppe che al capezzale di
Bastiano non vi era alcun ramo benedetto, Gavina si mostrò molto più
inquieta. Essa aspettava con più ansietà il muto, e quando tardava più
di due giorni a presentarsi nello stazzo, fantasticava mille pericoli,
mille disgrazie. Dacchè aveva preso a volergli bene, un pensiero fisso,
incessante, la tormentava; temeva sempre ch’egli cadesse vittima di un
agguato.

Le sue notti erano angosciose. Sognava sempre di vedere il muto cinto
di funi, in mezzo ai carabinieri che lo trascinavano in un carcere
orribile. Più spesso lo sognava ferito, steso a terra, pallido in
volto, e col petto insanguinato; egli implorava da lei un soccorso che
ella non poteva dargli. Una notte sognò un patibolo attorniato da una
folla irrequieta e curiosa; e vide Bastiano con una corda al collo,
salirne le scale. Lui la fissava con uno sguardo lungo, supplichevole;
ed ella si svegliò di soprassalto, mandando un grido che fece balzar
dal letto le sorelle.

Eppure il muto non pensava più a commettere alcun delitto! Egli era
completamente trasformato.

Bastiano Tansu voleva rinnegare il passato; era troppo fiero del nuovo
battesimo ricevuto dalla più bella delle figlie dell’Avru.

Una sera Gavina conversava a suo modo col muto, a poca distanza dallo
stazzo. Erano soli; e la fanciulla mostravasi impacciata più del
solito. Pareva che volesse dire qualche cosa al suo compagno — ma non
l’osava. Finalmente dopo essersi assicurata che nessuno li osservava,
trasse di tasca una piccola medaglia di rame, legata ad un cordoncino
di seta nera, e la porse al muto, il quale la guardava negli occhi, non
comprendendo la ragione di quel dono. Nella medaglia era incisa da un
lato l’effige della Madonna, dall’altro un Gesù Nazzareno.

La fanciulla, tutta tremante e colle guancie soffuse di rossore, fece
capire a Bastiano che il suo dono era un talismano che aveva virtù
miracolose; gli raccomandò di tenerlo sempre sul petto, perchè lo
avrebbe preservato dalle palle e dalle insidie de’ suoi nemici.

Gavina nel dir ciò, aveva recato le mani alle guancie, perchè sentiva
che scottavano; e Bastiano la guardava con le lagrime agli occhi —
lagrime di riconoscenza per la pietosa protettrice, che aveva deposto
l’abituale timidezza, dinanzi al pericolo che correva il suo infelice
protetto.

Il muto prese la medaglia, la baciò tre volte con religioso trasporto,
e se la pose al collo, sotto la camicia. Quella pietà gentile lo aveva
commosso; egli era ormai sicuro che un angiolo avrebbe vegliato per
lui. Nessuno fin’allora si era preoccupato de’ suoi pericoli — ed aveva
la salda convinzione che non doveva più morire. La fede di Gavina si
era trasfusa nella sua anima; Bastiano credette d’essere invulnerabile
— e forse a questa fede dovette il maggior coraggio e la temerità che
mostrò in seguito, in diverse occasioni. Mi basta citare il seguente
fatto, che mi venne riferito da persona molto informata.

Mentre un giorno il muto, col fucile sotto il braccio e col cappuccio
sugli occhi, saliva un monte, nel voltarsi vide quattro carabinieri
sotto di lui, i quali attraversavano una gola per ritornare ad Aggius.
A quella vista — narra il testimonio oculare — il muto si trasfigurò;
si fece tigre. I suoi occhi mandarono lampi; e pareva volessero uscire
dall’orbita. Invece di fuggire fece due passi verso i carabinieri,
pose un ginocchio a terra, puntò il fucile, e gettato dinanzi a sè il
berretto con tutta la forza del braccio, lo additò ai carabinieri come
un limite; quasi volesse dire: — se avete coraggio oltrepassate quel
segno! — La posizione era tale, che i carabinieri credettero prudenza
ritirarsi dinanzi a quella fiera che, se avesse voluto, avrebbe potuto
divorarli tutti. L’amore aveva fatto forza al muto: egli sentiva
centuplicato l’istinto della conservazione — il bisogno della vita che
aveva consacrata alla sua cara fanciulla.

Quando Bastiano ricevette dalle mani di Gavina la medaglia di rame,
rispose con un gemito nel quale aveva trasfuso tutta l’anima. Era il
suo modo di ringraziare. Per mezzo dei segni egli aveva detto a Gavina:

— Quando sarò stanco della vita, mi strapperò dal petto la tua medaglia
— e sarò sicuro di morire!

La pietosa fanciulla si era però ben guardata di dire al muto che
quella medaglia l’aveva sempre portata addosso fin da bambina, e che
se n’era separata per donarla a lui. Guai se il muto avesse potuto
immaginare che quel talismano era stato tanti anni sul vergine seno di
Gavina testimonio occulto dei palpiti di quel cuore generoso!

La vigile madre si era un giorno accorta che dal seno della figliuola
mancava la medaglia della Madonna; e gliene domandò il perchè. Gavina
rispose arrossendo, che l’aveva smarrita.

La fanciulla però era ben lieta che il talismano fosse passato sul
petto di Bastiano. Egli ne aveva bisogno, perchè tutti l’odiavano: essa
poteva farne senza — forse perchè sapeva di essere molto amata!


IV.

All’ombra delle spine

Era la seconda metà di giugno, e il sole co’ suoi raggi ardenti
sferzava inesorabilmente uomini e cose. Di poco era oltrepassato il
meriggio, e in quella giornata si era sofferto un caldo eccessivo,
eccezionale. I graniti infuocati rimandavano un calore insopportabile,
e le cicale, col canto importuno, parevano lamentarsi dei soverchi
rigori del sole.

La famiglia del pastore era tutta raccolta fuori della porta a fare la
siesta, in cerca dell’arietta che veniva dal mare. Anton Stefano aveva
fatto capezzale del suo cappotto ripiegato, e appoggiata la nuca sulla
palma delle due mani.

Dopo aver finito la sua fumatina faceva l’indispensabile sonnetto,
prima di rimettersi al lavoro. Le donne, sul piazzale dello stazzo,
filavano, e chiaccheravano.

La campagna, sotto ai raggi ardentissimi era calma e silenziosa. Il
cielo — di un limpido azzurro carico — moriva lontano lontano nella
linea purissima del mare, che andava lambendo la costa settentrionale
dell’isola, la quale somigliava ad un lunghissimo nastro bianco,
frastagliato.

La Gavina e Bastiano si erano seduti a un mezzo tiro di fucile dallo
stazzo, e stavano quasi addossati ad una folta siepe di more e di
biancospini, la quale li riparava dai raggi cocenti del sole.

La fanciulla mondava tranquillamente le ultime fave fresche,
raccolte all’alba nell’orticello — fave già quasi appassite dentro i
baccelli che cominciavano ad annerire. Erano destinate per la cena, e
d’ordinario spettava alla Gavina quell’occupazione domestica.

Vicino a lei sedeva il muto, tutto intento a rabescare col coltellino
una grossa zucca color d’oro, già preparata per servire da fiasco di
vino. Era sua intenzione d’incidere su quella superficie levigata un
rozzo pastore che carezzava una bianca agnelletta; ma bastava gettare
uno sguardo su quella zucca per convincersi che il disegno era assai
più rozzo del pastore che si voleva incidere. Quantunque il muto non
fosse troppo esperto nel disegnare la figura, pure, chi conosceva
la sua abilità, avrebbe di leggeri giudicato che quel giorno il muto
disegnava macchinalmente — senza proprio sapere quel che si facesse. E
infatti, bastava guardarlo per persuadersene; gli tremavano le mani, e
grosse goccie di sudore gli imperlavano la fronte.

E anche alle mani di Gavina si era comunicato una specie di tremito
nervoso. Si sarebbe detto che quella sera non sapesse mondare le fave.
E se la madre e le sorelle fossero là capitate per esaminare l’opera
sua, avrebbero veduto con meraviglia molti baccelli neri nel cestino
delle fave bianche, e molte fave bianche nel mucchietto dei baccelli
neri — segno evidente che la mente della ragazza era ben lontana
dall’innocente legume che doveva servire per la cena!

Il caldo era soffocante, la terra infuocata mandava vampe sul volti
di Bastiano e di Gavina, le cui fronti grondavano sudore. L’ombra del
benefico rovaio non riusciva a mitigare gli ardori anticipati del
giugno. E le cicale continuavano il loro canto stridulo, monotono,
incessante, il quale rendeva più profonda la solitudine che regnava
all’intorno.

La Gavina andava man mano rallentando la sua operazione — finchè la
sospese affatto. Le sue dita raggiravano distrattamente un baccello,
senza aprirlo.

E anche la mano di Bastiano pareva stanca; non sapeva più reggere il
coltellino cui quale andava incidendo delle figure rozze, senza garbo
nè simmetria.

La zucchetta color d’oro, quasi sapendo d’essere importuna o
indiscreta, scivolò pian piano dalle ginocchia del muto, e cadde
a terra, senza che la mano del distratto incisore si desse cura di
andarla a raccogliere.

Qualche cosa di misterioso e di singolare accadeva per fermo nelle
anime di quei due esseri, che sapevano d’esser soli sotto i raggi
di un sole cocente, che bruciava loro il sangue ed il cervello. Essi
provavano una strana agitazione nello spirito, mentre il loro corpo era
assalito da una vaga sonnolenza; da un languore insolito, spossante.
Era un desiderio indefinito; una leggera febbre dei sensi che sfumava
in un sentimento tutto arcadico; o meglio, un sentimento ineffabile che
andava morendo in una febbriciattola dei sensi.

Ed i raggi del sole diventavano sempre più infuocati, mentre quelle
cicale importune, col canto noioso, non facevano che accrescere quel
languore, quella sonnolenza, quella febbre.

Rimasero in quell’attitudine un po’ di tempo; al vederli pareva che
l’uno non si curasse dell’altra — mentre invece si vedevano entrambi
senza guardarsi. Era un gruppo grazioso: la tenera edera che desiderava
avviticchiarsi alla robusta quercia.

Vi fu un punto in cui i loro occhi si cercarono, senza volerlo; quelli
di Gavina si riabbassarono subito — quelli del muto si fissarono
audacemente sulle guance della bella fanciulla, che avevano arrossito:
— parevano inchiodati sull’ingenua giovinetta, che aveva conosciuta
bambina. Quel seno di vergine, chiuso e compresso sotto il vermiglio
corsetto, gli dava la vertigine: — era un’insidia pudica — un pudore
insidioso. Ed ella su quel seno chinava vergognosa gli occhi, mentre
una voce carezzevole le andava rivelando la suprema delle sue missioni.
La natura maliarda, tradisce assai spesso i suoi misteri, coll’intento
di prevalersene: finge una ripulsa per provocare un assalto.

Bastiano lasciò sfuggire dalle labbra un gemito — a cui rispose Gavina
con un lungo sospiro.

Strano caso! — La fanciulla aveva udito la parola del muto: il muto
aveva presentito il sospiro della fanciulla. A lei era parso che
un’onda di suoni uscisse dalle labbra di Bastiano: e a lui pareva di
udire una musica celeste sulle labbra di Gavina.

Oh! l’amore ha pur esso i suoi linguaggi arcani che possono rivelarsi
senza bisogno degli organi della parola e dell’udito. La natura ha una
voce eloquente che è intesa anche dai sordi, essa dà al muto una parola
— dà all’amante un suono che penetra nell’anima senza passare per
l’orecchio!

Gavina e Bastiano stettero alcun tempo immobili, pallidi, pensierosi.
La mano del muto, quasi macchinalmente andò a cercare le mani della
timida giovinetta, alle quali tolse quel baccello innocente che veniva
tormentato senza colpa. Gavina si lasciò prendere il baccello senza
opporre resistenza — credeva sognare. Senza sapere che si facesse,
ella raccolse da terra la zucchetta color d’oro, e si mise a guardare
le figure che Bastiano vi aveva inciso. Solo allora parve destarsi il
muto; e con l’amor proprio dell’artista che non vuol mostrare il primo
abbozzo del suo disegno, strappò dolcemente la zucchetta dalle mani
della fanciulla, e mandò un gemito lungo....

Il caldo era soffocante — la stanchezza diventava più penosa. Il muto
afferrò vivamente la mano di Gavina e la strinse fra le sue con una
stretta che sapeva troppo d’umano.

Il pudore della fanciulla reagì con tutta la sua forza. Solo allora
ella parve destarsi dalla fatale sonnolenza che l’aveva circondata
di carezze arcane e di tentazioni indefinite. Balzò in piedi di
soprassalto, passò una mano sugli occhi, e si diede a correre verso lo
stazzo, percorrendo la tortuosa linea d’ombra che accompagnava tutta la
siepe spinosa.

Il muto si alzò pur esso, come scosso da una molla, e corse dietro
alla fanciulla. La sua fisonomia era alterata, e i suoi lineamenti
stravolti. Sentiva un fremito per tutta la persona, e come una
strana debolezza alle ginocchia. Col petto ansante, col respiro
affannoso, cogli occhi spalancati teneva dietro alla cara visione
che gli sfuggiva. Dalle sue labbra uscivano gemiti lamentosi, suoni
inarticolati, quasi guaiti di fiera.

Gavina affrettava sempre il passo cogli occhi chiusi, senza mai
voltarsi. Il muto la seguiva a cinque passi di distanza. Il rumore del
suo passo cadenzato faceva battere con violenza il cuore di Gavina, a
cui pareva immensa la distanza che la separava dallo stazzo.

Giunta allo svolto della siepe, sentì ad un tratto afferrarsi
per i capelli; volle continuare la corsa, ma sentì uno strappo al
fazzoletto. Le parve che una mano invisibile la trattenesse per forza.
Per liberarsi da quella stretta, recò allora la mano alla testa, ma
subito la ritrasse mandando un grido: aveva sentito un’acuta puntura
all’avambraccio.

Un lungo ramo spinoso, che usciva dalla siepe, e ch’ella non aveva
visto s’era impigliato ne’ suoi capelli e nel fazzoletto, e l’aveva
ferita al braccio.

Gavina si fermò, guardò la parte ferita, e si passò più volte la mano
con un’espressione di dolore.

Il muto non aveva udito il grido della giovinetta, ma aveva indovinato
la cagione del suo dolore; e mentre Gavina si pizzicava a più
riprese l’avambraccio per calmare la puntura, il muto era riuscito a
sbottonarle il polsino della camicia, e a rimboccargliene la manica,
ponendo a nudo il braccio della fanciulla fin sotto all’ascella.

Sull’avambraccio spicciò una stilla di sangue, grossa come un granello
di sabbia. Il muto fissò a lungo quella macchietta rossa sopra quel
braccio bianco come il latte, ben tornito, morbido, provocante.
Dopo averla guardata anche lei, Gavina volse la testa e sorrise al
sordo-muto, abbandonando il suo braccio alle cure di quel medico
affettuoso, quasi in compenso del rigore con cui lo aveva poc’anzi
trattato.

Il muto però era cieco: afferrò con ambe le mani il braccio nudo della
fanciulla, ed appressandovi le sue labbra infuocate, succhiò a lungo
quella ferita con una voracità spaventosa.

Il rimedio era peggiore del male.

— Basta, basta! — gridava la fanciulla tentando svincolare il braccio
da quelle dita d’acciaio, e già pentita della sua condiscendenza.

Ma Bastiano non sentiva; e continuava a suggere da quella ferita la
stilla di sangue — e col sangue un lento veleno che gli struggeva
l’anima.

— Basta Bastiano! mi fai male!! — continuò a gridare Gavina, la quale
si era proprio dimenticata che Bastiano era sordo!

Le labbra del muto lasciarono per un istante il braccio di Gavina
ma solamente per mandar fuori l’aria aspirata, onde poter ritornare
all’opera.

Il punto dove Bastiano aveva posto le labbra era diventato bianco.
Gavina, un po’ indignata, pose una mano sul petto del muto, per
respingerlo; ma il giovine colle due mani compresse sulla carne,
fissava con occhio cupido quel braccio candido, morbido il cui contatto
lo faceva fremere, dandogli la vertigine. Riaccostò con più ferocia
la bocca al braccio della fanciulla, e glielo morsicò leggermente due
volte, con un’avidità e con un tal impeto che spaventarono Gavina, la
quale trovò la forza di svincolarsi dall’amplesso di quella piovra, di
riabbassare la manica della camicia, e di prendere la corsa verso lo
stazzo uscendo dall’ombra malefica che proiettava la lunga siepe di
biancospino. Corse, ansante, trafelata, senza pur accorgersi che il
muto non la seguiva più.

Cieca d’ira, di passione, di vergogna, Gavina arrivò allo stazzo per
la porticina dell’orto; entrò non vista nella sua cameretta, e sedette
sulla sponda del suo lettino; e dopo aver dato uno sguardo all’intorno,
per accertarsi che nessuno la spiava, tirò su di nuovo la manica della
camicia e guardò la ferita.

Sull’avambraccio era una macchia livida, rotonda, larga come uno scudo;
e in giro a quella macchia si vedevano le impronte lasciate dai denti
del muto. Gavina tenne gli occhi fissi su quei solchi bianchi, poi
diventò rossa rossa, e si mise a piangere — indignata contro sè stessa
per aver permesso una simile audacia.

Era molto indignata, ma si guardò bene dal raccontare alla mamma ed
alle sorelle il disgustoso fatto che le era accaduto!

L’ombra del biancospino l’aveva tradita!

                                   *

Il muto non aveva seguito la fanciulla. Era rimasto immobile sotto il
ramo di biancospino, seguendo cogli occhi la ragazza finchè la vide
sparire alla svolta della siepe. Allora tornò indietro, passo passo;
giunse al sito dond’era partito, si lasciò cadere di peso sul macigno
che gli ricordava la sua imprudenza, e stette alcuni istanti col volto
fra le mani; indi, per sfogare il dispetto che lo rodeva, riprese
la zucca d’oro e con moto febbrile si pose a incidere certe foglie
sguaiate che facevano orrore. Finalmente, indignato, gettò a terra la
sua opera, e la ruppe coi piedi.

                                   *

La più giovine delle figlie di Anton Stefano, il pastore, quella notte
tardò a prender sonno. Una delle sorelle, che dormiva a lei vicino, e
che la sentiva voltarsi, le disse:

— Che hai stanotte, Gavina? Non hai digerito la cena?

— Ho... che non mi sento bene.

— È forse il muto che ti dà a pensare? Scommetto che, con gli scherzi,
finirai per amarlo davvero!

— E se ciò fosse, che ve ne importa — rispose Gavina un po’ piccata per
la baia che le davano continuamente per quel benedetto muto che loro
per le prime avevano lusingato.

— Confessa almeno che gli vuoi bene!

— Ebbene, sì: gli voglio bene; lo amo perchè gli altri l’odiano. Quel
disgraziato ha bisogno d’essere amato da qualcuno. Amatelo voi — e
allora cesserò d’amarlo io: ve lo prometto!

Così diceva Gavina alla sorella; ma in cuor suo pensava:

— Peccato che sia muto! Questi disgraziati vogliono bene in un modo
singolare; non potendo sfogare con la lingua, si sfogano coi denti!

La figlia di Anton Stefano dormì quella notte colle labbra compresse
sull’avambraccio — dov’era stata punta dal biancospino, e dove ancora
si vedevano i segni lasciati dal muto. Capriccio da bambina!

Appena l’alba penetrò dalle fessure delle imposte, Gavina gettò
un’occhiata al suo braccio.

La ferita non c’era più, ma non poteva rallegrarsene: era passata nel
suo cuore.


V.

I regali del muto

Neppure il muto aveva chiuso occhio in tutta la notte. Dalle sue labbra
uscivano sospiri, gemiti, rantoli. Era inquieto, smanioso.

Si era aggirato per selve e burroni; aveva camminato tanto, finchè
si era trovato alle falde del monte della Crocetta, proprio sul far
dell’alba. Salì allora sul monte; pel sentiero a lui ben noto, si
trascinò a fatica fin sotto la Conca della Madonna, e sedette spossato
sul Gran tamburo.

Era stanchissimo, e dormì alquanto. Sogni strani lo svegliarono più
volte di soprassalto. Un’insolita gioia irradiava la sua anima.

Pensava sempre al braccio di Gavina. — Egli pareva di sentir sempre
il profumo di quella carne bianca, vellutata, che gli era salito al
cervello per inebriarlo.

Si volle illudere — e lasciò libero freno alla fantasia, che lo
trasportò in plaghe sconosciute. Vide Gavina ebbra d’amore seduta al
suo fianco; vide un sacerdote che li benediva; provò tutte le arcane
gioie del suo primo giorno di nozze.

Aveva la febbre.

Sentiva una matta voglia di correre, di arrampicarsi su per i monti
del suo paese; pensava a sua madre e a quei pochissimi che lo avevano
amato; e, comparando il passato col presente, credette probabile quella
felicità alla quale non aveva mai aspirato.

Le scene del giorno precedente tornarono alla sua memoria; riandò tutti
gli atti di Gavina — il suo cieco abbandono, il suo pallore, il suo
tremito, e persino la sua collera — e in tutto gli parve scorgere i
segni manifesti di un amore nascente.

Quel giorno non fece che correre da un punto all’altro; fermo non
poteva stare, perchè glie lo impedivano i pensieri che a frotte
attraversavano il suo cervello. Prese la via degli stazzi di
Giunchiccia e della Trinità, e si recò a visitare i parenti che
da qualche mese non aveva riveduti. Volle lasciar passare alquanti
giorni, prima di riprendere le visite allo stazzo dell’Avru; perocchè
comprendeva che non era prudente recarsi subito, dopo l’accaduto.
Voleva farsi desiderare; ed impose a sè stesso il sacrificio della
privazione.

Dopo quattro giorni d’assenza, Bastiano presentavasi d’improvviso sul
piazzale dello stazzo di Anton Stefano. Le donne, che lavoravano fuori
dell’uscio, lo salutarono e gli fecero feste, chiedendogli conto della
sua lunga assenza.

La Gavina, che stava in piedi sciorinando i panni sopra una corda tesa
fra il muro della casa ed un mandorlo, si fece tutta rossa nel vederlo,
ma continuò il suo lavoro dopo aver salutato il nuovo venuto con un
cenno del capo. Ella volle fare la risentita; ben sapeva che non era
conveniente mostrar buon viso a Bastiano, dopo il bacio temerario che
aveva ricevuto sul braccio.

Il muto si mostrava impacciato; non aveva la solita disinvoltura, nè il
solito buonumore — e la ragione si può comprendere.

La vecchia madre e le due figlie maggiori fecero a Bastiano
un’accoglienza più cordiale e più espansiva del solito, mostrandosi
dispiacenti di non averlo veduto per quattro giorni. Il muto, però,
sembrava sulle spine; per certo era venuto allo stazzo con un disegno
prestabilito, che non aveva coraggio di tradurre in atto. Aveva una
mano in tasca, come se celasse un oggetto che voleva, ma non osava
mostrare.

Finalmente ruppe ogni indugio, e mostrò alle donne due piccoli
orecchini di corallo montati in oro.

— Oh belli! — esclamarono in coro le tre donne; e i loro occhi
scintillarono per compiacenza.

Gli orecchini passarono dall’una all’altra mano, e vennero rivoltati,
pesati, ed esaminati attentamente. Nessuna delle donne, chiese a chi
fossero destinati... forse perchè lo avevano indovinato.

La sola Gavina aveva continuato a stendere i panni di bucato sulla
corda tesa, ma senza levar gli occhi e senza voltarsi. Le sue orecchie
però erano più tese della corda, e non perdevano una sillaba di quanto
si diceva.

— Guarda! guarda, Gavina! che graziosi orecchini — esclamò la vecchia,
rivolgendosi alla figliuola che faceva la distratta e l’indifferente.

A quella chiamata Gavina volse la testa verso le sorelle; ma poi
continuò l’opera sua, dicendo con freddezza e senza alcuna curiosità:

— Molto belli!

— E... di chi sono? aveva osato chiedere la vecchia al muto, per
non mostrarsi troppo sfacciata confessando che sapeva a chi erano
destinati.

— Sono i miei — fece il muto, puntandosi sul petto l’indice della mano
destra.

— Vuoi forse metterli tu?

— No: voglio regalarli — fece intendere il muto coi gesti.

— Regalarli! e a chi?

Il muto arrossì un pochino, e accennò cogli occhi la Gavina, che
in quel momento gli dava le spalle affaccendata più che mai nella
biancheria, per la quale in quella sera mostrava un’insolita cura.

— Non senti Gavina? Il muto dice che gli orecchini sono per te. È un
regalo che egli vuol farti!

Le due sorelle maggiori si fecero un po’ serie, punte forse
dall’invidia per il bel regalo toccato alla Gavina; e cercarono sfogare
l’interno cruccio con un po’ di sarcasmo e di burletta.

— Già! la Gavina ci guadagna sempre in questa ridicola commedia! —
disse l’una.

— Pare che questo stupido imbecille prenda la cosa sul serio! — esclama
l’altra.

— Fa già dei regali, l’amico!

— E non sarà certo l’ultimo!

— Tacete, maldicenti! — aveva esclamato la madre. — Bisogna sempre
accettare ciò che Dio ci manda! Badate piuttosto, che egli non si
accorga delle vostre celie!

— Se è sordo più del granito!

— La nostra Gavina è ben fortunata se sposa un sordo muto. Dev’essere
una bella felicità per una moglie, vivere con un marito che non parla e
non ode!

Il muto, poveretto, non poteva udire i discorsi che gli facevano sul
muso; ed era ben lontano dall’immaginare di qual natura fossero. Quelle
scaltre parlavano di lui chine sugli orecchini, come se tessessero le
lodi del dono e del donatore.

Dopo esser stati esaminati per ogni verso, gli orecchini vennero
restituiti al muto, il quale li prese, si accostò a Gavina, e con
un’occhiata supplichevole che voleva significare tante cose, la pregò
di accettarli per ricordo di un amico affettuoso.

La fanciulla — già indispettita e addolorata per gli sconvenienti
discorsi fatti dalla madre e dalle sorelle — dimenticò il suo
risentimento, e sorrise al muto, ringraziandolo con uno sguardo che
partiva da due occhi pieni di lacrime. Ella non poteva tollerare che si
deridesse o s’insultasse il suo povero muto, che non poteva difendersi.
L’odio altrui, e l’altrui disprezzo, erano state le cause prime del
suo affetto per Bastiano: lo aveva già dichiarato alle sorelle — e non
aveva mentito!

Con una grazia tutta infantile, quasi per compensare il muto delle
maligne parole scambiate fra le sorelle, la Gavina prese gli orecchini
dalle mani di Bastiano e se li appese alle orecchie.

Gli scherzi, e le celie e le mormorazioni che seguirono a questa scena,
si possono bene immaginare; ogni donna disse la sua e non si cessava
mai dal ringraziare il donatore della prova di gentilezza data in
quella sera.

Quando sul tardi Anton Stefano rientrò nello stazzo gli fecero il
racconto dell’accaduto, e si cominciò da capo con le matte risa. Il
vecchio pastore non rispose, e sedette a cena molto serio. Egli si
lasciò scappare:

— Temo le cose siano troppo spinte. Dio voglia che non abbiamo a
pentircene!

— Uh! che scrupoli — esclamò la moglie.

— Ti par possibile, concedere nostra figlia ad un sordo-muto, ad un
bandito?

— Per l’appunto, e neppur lui lo crederà.

— E se lo credesse sul serio?

— Allora la colpa sarà sua.

— No: sarà la nostra; anzi la tua.... tutta tua!

— Ti pare?

— Proprio così... E a te Gavina, che pare?

La Gavina, all’interrogazione del padre, abbassò gli occhi e la faccia
sul petto; arrossì, ma non rispose.

Il vecchio la guardò un istante; scambiò un’occhiata con la moglie, e
si accinse a mangiare la zuppa, dando una scrollatina di spalle.

— Temo molto che...

E inghiottì in una volta il cucchiaio di zuppa, e la metà della frase!


VI.

Battaglia dello spirito

Non erano ancora trascorsi due mesi dagli avvenimenti da noi narrati.

Una gran parte del genere umano pretende conoscere la sera dalle
promesse del mattino — ed è pretensione fallace!

Il giorno che nasce non dà l’immagine del giorno che muore: perocchè
un’alba serena e limpida non garantisce la limpidezza e la serenità
d’un tramonto.

Il tempo passa, e l’uomo invecchia. Chi non sa che l’esperienza può
dare un nuovo impulso alle nostre idee, ai nostri desideri, ai nostri
propositi? Le passioni turbano sempre il mare della vita, così quando
si destano, come quando si assopiscono.

Insensato chi si crede padrone del domani. L’uomo non falla quando
manca alle promesse — falla quando promette. Più a lungo accarezziamo
una speranza, e più saremo sicuri del tedio quando l’avremo realizzata.
Chi giura dichiara già di mancare al proprio giuramento. Giurare non
è indizio di fermezza di carattere, nè di onestà d’intenzione, è un
confessare la debolezza del nostro carattere e l’instabilità dei nostri
propositi. L’animo forte ed energico non ha bisogno di vincolare la sua
volontà col giuramento.

Il tempo passa. Coi giorni che corrono l’uomo diventa vecchio — e la
fanciulla può diventar donna. Si sa che il tempo può fortificare,
o infiacchire una fibra. Col tempo l’uomo ha diritto di cambiar le
proprie opinioni, e la donna di cambiar le mode — il primo può diventar
deputato e ministro, e la seconda potrebbe diventar fidanzata e madre.

Come possiamo noi contar sul domani, quando non ci è dato strappare il
velo che circonda l’ignoto? Perchè tacciare d’incostante e di volubile
la natura umana se essa non è responsabile del vento che spirerà
il domani? Il vento increspa la superficie del mare, come il tempo
increspa la superficie dell’uomo... che non è sempre la pelle!

                                   *

Se, dopo due mesi dagli avvenimenti da noi narrati, il lettore avesse
fatto una visita alla famiglia di Anton Stefano il pastore, si sarebbe
subito accorto che un mutamento era venuto nello stazzo dell’Avru.
Era un mutamento sensibile, ma che ancora non si era manifestato
palesemente. Gli animi tutti erano preoccupati, ma si aveva paura di
una confessione reciproca. Ciascuno teneva chiuso in cuore il proprio
pensiero, e aspettava rassegnato il responso degli eventi.

Come la sarebbe finita? — era questa la domanda che ciascuno si faceva
nel segreto della propria coscienza; ma la risposta era nella mente
di Dio, e si aspettava la soluzione degli avvenimenti con impaziente
trepidanza.

Che cosa dunque era avvenuto nello stazzo di Anton Stefano? Passiamo
in rassegna ed esaminiamo i diversi personaggi del nostro racconto
— giacchè tra gli uffici del romanziere è pur quello di giudice
istruttore!

La Gavina era smaniosa, irrequieta. Mostravasi stanca, svogliata, e
soffriva di frequenti distrazioni. Sentimenti diversi si alternavano
nel suo cuore. Quella strana alternativa di contrari sentimenti non era
frutto dell’assidua e occulta cura che da tempo la travagliava; qualche
cosa di nuovo era penetrato nella sua anima. Due opposti sentimenti si
combattevano in lei: era una lotta disperata, accanita, tra due forze
uguali; un desiderio indefinito di una felicità insperata, contro il
rimorso di una colpa che sapeva di non aver commesso.

Si sentiva perplessa, incerta dinanzi a un sogno che la lusingava, e ad
un ricordo che l’accusava di ingratitudine.

Erano torture inesprimibili e inesplicabili!

Ella diventava sempre più pallida, più sofferente; soffriva di
capogiro, mangiava poco, e poco dormiva. Provava un senso di peso alle
palpebre e una stanchezza insolita nelle membra. Erano strani per lei
quei patimenti angosciosi — ma più strano l’accorgersi che nessuno de’
suoi cari le chiedeva ragione del suo malessere. Perchè ciò? Era forse
perchè coll’astuzia sapeva celare il suo malore, deludendo la vigilanza
materna? O forse tutti la lasciavano in pace per non tormentarla
maggiormente?

Per certo ella si avvedeva che qualche cosa di nuovo accadeva nello
stazzo: perocchè più volte aveva sorpreso in segreto colloquio le
sorelle e la madre, e si era ben accorta che al suo appressarsi i
discorsi venivano interrotti, o cambiati all’improvviso. Il cuore le
diceva che si tramava qualche cosa per il muto.

Anton Stefano era diventato serio e meditabondo; pareva che fosse
imbronciato con tutti, specialmente con la moglie. Spesso cenava
senza dire una sola parola; o si allontanava bruscamente, senza che
la moglie gli chiedesse ragione del suo broncio: — segno evidente che
quei malumori erano frutto di precedenti diverbi fra marito e moglie.
Talvolta Anton Stefano rispondeva di mala grazia a chi gli moveva
qualche domanda; e si adirava senza motivo, cercando futili pretesti
per dare in escandescenze. E questa sua condotta tanto più faceva
meraviglia, inquantochè il pastore era piuttosto di carattere dolce e
di una pazienza ammirabile.

Bastiano, dal suo canto era diventato ringhioso come un cinghiale.
Girava intorno i suoi grandi occhi spalancati, quasi con essi volesse
udire; e li piantava in faccia a tutti con una diffidenza, che da
qualche mese non gli era più abituale. Giammai, come in quel tempo,
gli era sembrata tanto penosa la mancanza dell’udito e della parola.
Diventato dispettoso all’eccesso, era capace di sedersi in un canto
del piazzale, e di rimanere colà due ore di seguito coi gomiti sulle
ginocchia e col capo fra le mani.

Un nuovo personaggio era venuto nello stazzo dell’Avru:

— Giuseppe, uno dei nipoti di Anton Stefano. Costui parlava assai
spesso colla Gavina; ma la Gavina si tratteneva con lui con una certa
titubanza — massime quando il muto era presente. E tanto il muto,
quanto la fanciulla, si erano accorti di una singolare dimestichezza
fra Giuseppe e i due vecchi di casa. Anzi si era notato che parlavano
sempre insieme, a bassa voce, in modo che gli altri della famiglia non
udissero i loro discorsi.

Tutti dunque — nell’Avru — parevano sotto il peso d’una cura segreta
che li tormentava. Le diverse cure parevano divise in tre distinti
gruppi. L’uno si componeva dei due vecchi e del nuovo venuto; il
secondo delle due sorelle di Gavina; e il terzo finalmente, di Gavina
e di Bastiano il muto — i quali però non facevano causa comune, ma
meditavano ciascuno per proprio conto, celandosi a vicenda i sospetti e
l’inquietitudine da cui parevano turbati.

E perchè il lettore conosca le cause intime del turbamento che regnava
nella famiglia di Anton Stefano, racconteremo i nuovi fatti avvenuti
nello stazzo dell’Avru nel breve giro di due mesi.


VII.

Il cugino Giuseppe

Giuseppe, parente di Anton Stefano, possidente di terre e di bestiami,
da qualche tempo visitava con frequenza lo stazzo dell’Avru; e più
volte s’era trovato col muto, ch’egli già conosceva per la trista fama
che aveva acquistato nelle inimicizie dei Vasa coi Mamia.

Le visite di Giuseppe, prima rarissime, e ormai troppo frequenti,
dovevano per certo avere una causa — e la causa c’era e si può di
leggeri indovinare quando si consideri che Giuseppe era un bel giovine
di vent’otto anni, e che nell’Avru abitava una bella cugina di sedici.

Una sera, Giuseppe, mentre trovavasi nello stazzo dello zio, si era
messo a meditare sui propri casi, e si era persuaso ch’era ormai tempo
di mettere su testa e casa; che la vita di scapolo a lungo andare viene
a noia; e che era cosa saggia formare una famiglia per dividere coi
propri figli quel po’ di fortuna che il buon Dio gli aveva concesso.
Pensò che ancora era giovine; che con gli anni le forze mancano, e che
è una grave sventura non aver molte braccia per lavorare le proprie
terre.

E così ragionando, volse lo sguardo in giro, e i suoi occhi si
fermarono per caso sulla cuginetta che faceva la calza sul limitare
dell’uscio.

Guardate combinazione! per la prima volta soltanto si accorgeva, che la
cuginetta, che per tanti anni egli aveva considerata come una bambina,
si era fatta grande, belloccia, e buona padrona di casa.

Da quel giorno Giuseppe frequentò con più assiduità lo stazzo dello
zio, e trascurò alquanto le sue faccende. Seduto in mezzo alla
famiglia di Anton Stefano, egli raccontava qualche storiella, inventava
burlette, e cercava tutti i modi possibili per entrare poco per volta
nelle grazie della Gavina, la quale lo ascoltava con piacere, e faceva
le grosse risate ai motti di spirito del galante cugino.

Dico _entrare nelle grazie_, poichè nei matrimoni sardi il volere dei
genitori è sacro, e la volontà della donna è quasi sempre sottomessa
all’autorità paterna. L’ottenere però le grazie di una fanciulla è già
la metà dell’opera — e Giuseppe queste cose le sapeva.

La Gavina, in su le prime, prese gli scherzi di Giuseppe come si
prendono i complimenti dei congiunti: con un po’ di riso, un po’
di celia, e molta compiacenza. I cugini innamorati hanno però un
sopravvento sopra gli altri mortali: avendo vissuto insieme alle
cugine, ne conoscono meglio i capricci e le debolezze, i pregi e
i difetti; quindi, volendo spiegarsi vanno per la via più breve, e
arrivano più presto all’intento. Aggiungete a questo la maggior fiducia
e libertà che loro si concede dai parenti, e vi convincerete che ho
tutte le ragioni del mondo per farmi forte di questa asserzione.

Quando però la Gavina si avvide che il cugino andava troppo oltre
nelle celie, e che le sue occhiate erano troppo significanti, pensò
bene di ritirarsi un po’ indietro e di opporre un po’ di ritegno alle
scappatelle dell’innamorato. Il cugino, che diventava amante cessa per
diritto d’essere parente; e non è più ammesso nei segreti di gabinetto,
finchè il prete non gli conceda la benedizione nuziale.

Il primo pensiero di Gavina, non appena si accorse delle intenzioni
del cugino, fu il muto; il suo primo sentimento fu una ripulsa netta,
decisa, inesorabile. Che avrebbe pensato Bastiano della sua perfidia?
Come avrebbe potuto vivere senza di lei? Chi si sarebbe più curato
di quel reietto dagli uomini e da Dio, di quell’infelice deriso dalla
natura e bersagliato dalla umana giustizia?

Queste considerazioni bastarono per farla star in guardia contro
gli assalti del cugino, consigliandola a ridere con più schiettezza
alle celie, ed alle dichiarazioni del nuovo innamorato, come se li
considerasse un semplice scherzo permesso dalla stretta parentela.

Il riso è per le donne un’arma potente per tener a bada un uomo,
senza esporsi al pericolo delle rampogne o di uno spiacevole sgarbo.
Una donna che facilmente ride ad ogni complimento, si capisce assai
poco; ma se Giuseppe capiva pochissimo la Gavina, capiva abbastanza
per persuadersi che non gli era antipatico; ciò che bastava per non
scoraggiarlo. Il resto sarebbe venuto in seguito. Pel momento gli era
sufficiente quell’affezione, la quale, unita alla autorità paterna,
poteva procurargli la moglie ch’egli aveva sognata, e in seguito le
braccia necessarie alla coltivazione delle sue terre.

Giuseppe, intanto, si diede a valersi di tutto il suo ascendente sopra
i vecchi genitori di Gavina, per strappar loro un consenso, che non
poteva mancargli.

E da quindici giorni aveva incominciata la sua opera, con una pazienza
e con una tenacità che provavano il suo amore per la giovinetta e il
suo fermo proposito di piantar su casa, ed una famigliuola ammodo.

La Gavina, che vedeva inutili tutte le sue astuzie per scongiurare
gli assalti del cugino, credette premunirsi contro le insidie pensando
con più intensità al muto; e sperava di trovare motivo ad un rifiuto —
vincolando la sua coscienza ad una promessa di fedeltà, che, in fondo
in fondo, non aveva mai fatta. L’ingenua fanciulla aveva dimenticato
che Bastiano era sordo e muto — vale a dire, che non aveva potuto
svelare a lei il suo amore, e che da lei non aveva potuto udire una
sola parola che lo autorizzasse a rimproverarle la mancata fede.

Giuseppe non aveva per anco esternato allo zio ed alla zia le sue
intenzioni riguardo alla loro figliuola; egli rimandava di giorno in
giorno la sua domanda di matrimonio; ma intanto, in quei giorni, aveva
finito per innamorarsi pazzamente della cugina, tanto da diventare
frenetico. Il lungo aspettare è per l’amante sempre fastidioso, e non
fa che accrescere il desiderio del possesso. Si era così verificato;
chè la Gavina, col suo ritegno, non aveva fatto che pregiudicare i
propri disegni.

Se però Anton Stefano non immaginava le ragioni delle frequenti visite
del nipote ben lo avevano immaginato la madre e le sorelle di Gavina:
quella con una certa soddisfazione per il partito vantaggioso che si
presentava alla figlia, e queste con una certa invidia dispettosa, per
la fortuna che toccava sempre alla sorella minore.

Giuseppe aveva sul muto molti vantaggi: e fra gli altri ne aveva due
che a una donna non potevano tornare discari: la leggiadrìa delle forme
e il fascino della parola. Questi due vantaggi non potevano sfuggire
alla graziosa figlia di Anton Stefano. Essa non poteva necessariamente
stabilire confronti fra la figura simpatica ed aperta di Giuseppe, ed
il volto accigliato e chiuso di Bastiano. Doveva senza pur vederlo
— paragonare l’eterno silenzio che regnava intorno al muto, con la
voce argentina e insinuante del cugino. Per quanto dagli occhi e
dai lineamenti di Bastiano sfavillassero i pensieri che turbavano
quell’anima irrequieta e misteriosa, pure tutto ciò era al disotto
del fascino che esercitava la parola di Giuseppe, sempre ardente,
armoniosa, irresistibile. Il cugino manifestava con poche parole, ciò
che il muto non riusciva ad esprimere con un mondo di gesti e di suoni
indistinti. D’altra parte, il linguaggio di Bastiano era limitato:
pochi segni e pochi rantoli che rivelavano le sue sensazioni, più che
i suoi sentimenti. Quelle labbra, quasi condannate all’immobilità,
non avevano ricchezze di suoni. Il vocabolario del muto era povero,
circoscritto — ristretto ai più urgenti bisogni della vita; e per
quanto Gavina fosse addentro nei misteri di quell’anima tribolata,
tuttavia non poteva percepire tutti i pensieri del muto; non poteva,
dirò così, afferrare tutte le sfumature del sentimento che traboccava
da quel cuore. Molte cose la fanciulla non capiva — e se fingeva
capirle, ciò faceva per non affliggere il muto, il quale diventava
furioso quando si accorgeva che mal si spiegava, o che non veniva
compreso.

Vi era di più: il muto nell’impeto della passione, era orribile a
vedersi, e destava quasi ribrezzo. La sua fisonomia si trasfigurava,
le sue nari si dilatavano, le sue labbra si contraevano mandando suoni
striduli, e gutturali, che non sapevano d’umano. Come le belve non
aveva che suoni inarticolati.

Il muto era una creatura imperfetta — e Gavina lo sapeva. Essa era
legata a lui da una profonda pietà — dal melanconico affetto che
sentono le anime gentili per gli sventurati. Lo amava per le sue
imperfezioni fisiche, per la sciagura da cui era stato colpito, per
la sua vita errante e tribolata, per la convinzione che, senza di
lei, tutti lo avrebbero odiato. Gavina voleva compiere la sua opera
di redenzione; si era quasi votata a quella santa missione; si era
prefissa un’opera di misericordia; si era imposto un sacrificio che
voleva compiere ad ogni costo, anche a prezzo della propria felicità.
Non era essa padrona del suo cuore e delle sue azioni? Chi poteva
proibirle di amare e di proteggere uno sventurato?

Le sorelle maggiori e la madre erano ben lontane dall’immaginare quanto
Gavina volesse bene a quell’infelice. Se lo avessero immaginato, forse
non avrebbero incoraggiato nel muto la speranza d’esser corrisposto
— non avrebbero concessa tanta libertà alla giovinetta, con la
convinzione che la bruttezza del muto e le sue imperfezioni fisiche,
fossero una garanzia sufficiente per allontanare l’amore. Dinanzi a
quel deforme, una fanciulla non poteva temer pericoli — il cuore non
poteva aver palpiti — la carne non poteva aver desideri!

Dunque la madre credeva in buona fede di non mancare al suo dovere,
permettendo alla figlia i lunghi colloqui da solo a sola col muto.
Bastiano non era un uomo, non era una tentazione, non era un pericolo:
— era un aborto della natura. Bisognava solo guardarsene come un cane
ringhioso che all’occasione poteva mordere — null’altro. Tutta la
prudenza non consisteva che nell’accarezzarlo — ecco tutto!

Abbiamo detto che Gavina si era imposta il sacrificio di amare e
proteggere il muto; ma bisogna aggiungere, che, quando ciò prefiggeva,
ella non aveva ancora veduto il cugino; o, meglio, non aveva da vicino
apprezzato le belle doti di quell’uomo che le aveva parlato di amore
con una parola calda, melodiosa, affascinante. Giurò a se stessa, in
buona fede — ma fu imprudenza, perchè non considerò che il domani è
nelle mani di Dio, e che è pericoloso per una fanciulla di sedici anni
star vicino ad un uomo di trenta — anche quando è sordo e muto!

Fatto sta che, agitata da due opposti sentimenti, e spaventata dalla
lotta che s’impegnava nella sua anima, Gavina da un mese viveva una
vita d’inferno. Le sue veglie erano piene di angoscie e di paure — i
suoi sonni turbati da cento fantasmi.

In mezzo alle lotte disperate, quella debole creatura trovò le forze
di prendere una ferma risoluzione: — fuggire Giuseppe. Gavina voleva
essere come Bastiano — sorda ad ogni parola, muta ad ogni preghiera.

Bastava ch’ella vedesse il cugino, perchè si desse alla fuga; bastava
udisse la voce di Giuseppe perchè impallidisse, si turbasse, e
sospendesse ogni faccenda domestica.

Ogni parola la faceva trasalire — ogni suono la faceva fremere. Tendeva
paurosamente l’orecchio ad ogni rumore, e bastava il gemito del vento
perchè il suo cuore accelerasse i palpiti. Era capace di piantare
bruscamente la comitiva con un futile pretesto, se sentiva le pedate,
o la voce di Giuseppe che arrivava allo stazzo. Che più? si era persino
ridotta a fargli degli sgarbi.

Il contegno della Gavina non tardò a impressionare seriamente la
famiglia. I suoi modi poco urbani non facevano che compromettere la
pace domestica, minacciando anche di provocare spiacevoli conseguenze,
tenuto conto del carattere irritabile dei galluresi.

La vecchia colse più volte occasione per rimproverare la figlia; e
giunse persino a minacciarla. Il padre la sgridò severamente, e le
sorelle non facevano che maltrattarla dal mattino alla sera.

— Perchè simili smorfie? — le dicevano. — Che ti ha fatto Giuseppe?
La più bella e la più ricca fanciulla di Gallura si chiamerebbe ben
fortunata delle gentilezze di tuo cugino: e tu lo tratti in tal modo?
A lui sempre il broncio e al muto tutte le attenzioni: Giuseppe sempre
disprezzato — e quel sordone, quel bandito, quel mostro, sempre oggetto
delle tue carezze. Va! sei pure la sciocca e la gran capricciosa! Ma
già! Dio dà sempre il pane a chi non ha denti!

E la Gavina, muta ai rimproveri delle sorelle, non faceva che sospirare
e piangere.

— Zoticona — le diceva il babbo — chi ti ha insegnato simili villanie
in casa mia? Non si può, dunque più scherzare? Guai a te se non cambi
maniera con Giuseppe!

E Gavina piangeva come una bambina, e non sapeva rispondere. Si
ritirava nella stanza da letto, e là dava sfogo alle sue lagrime.

Un giorno si trovava sola nell’orticello, intenta a cogliere i
fagiolini, udì uno stropiccio di passi, e vide a sè dinanzi Giuseppe.
Gavina tremava come foglia, e si fe’ bianca come un pannolino di
bucato.

— E perchè tanta paura quando io ti parlo? Che mai ti ho fatto, o
Gavina, perchè tu mi tratti in tal guisa? Ti sei forse offesa perchè
ti ho detto di volerti bene? Le mie intenzioni sono oneste, ed è mio
divisamento di chiederti in moglie al babbo. Ti dispiacerebbe dunque
ch’io ti conducessi meco, per formare una famiglia? — Ebbene — dimmi
francamente che ti sono antipatico, ed io partirò subito, giurandoti di
mai più rivederti.

Vi era tanto affetto e tanto dolore nell’accento di Giuseppe che Gavina
ne fu vivamente commossa.

— Giuseppe — gli rispose — no; non mi sei antipatico; non mi sono
offesa delle tue dichiarazioni, nè avrò mai a male le parole di colui,
col quale ho passato la parte più bella della mia fanciullezza. Ma....

— Ma?....

— Ma, per ora lasciami in pace — non interrogarmi....

Più tardi, forse, ti dirò tutto....

— Dimmi almeno che....

Un grido della fanciulla, interruppe la frase del giovine il quale vide
la cugina arrossire fin nel bianco degli occhi, e prendere la corsa
verso lo stazzo.

Meravigliato di un tal contegno, Giuseppe seguì con gli occhi la cugina
che si allontanava; e nel voltarsi notò il muto dietro l’opposto muro
di cinta.

Giuseppe andò incontro a Bastiano con un cordiale sorriso; e nella
presenza dell’importuno credette aver trovata la causa, della scomparsa
di Gavina. Fin’allora egli aveva ignorato le intenzioni del muto,
perchè le donne si erano ben guardate di palesare a Giuseppe lo scherzo
innocente fatto a quel disgraziato.

Giuseppe salutò col capo Bastiano; ma, distratto com’era non si avvide
del feroce sorriso che errava sulle labbra della belva gelosa; la
quale da qualche tempo si era accorta del sentimento che nutriva il suo
rivale per la figlia di Anton Stefano.

Quella sera Giuseppe aveva preso la risoluzione di tradurre in atto il
suo progetto. Si era proposto di prender moglie, nè voleva più oltre
indugiare nel far la domanda ai genitori della cugina.


VIII.

La domanda di matrimonio

Anton Stefano aveva terminato il suo pranzo frugale; e se ne stava,
al solito, sdraiato sotto un elce che trovavasi sotto il riparo di un
macigno, a breve distanza dallo stazzo.

Giuseppe, arrivato nel momento all’Avru, senza neppur salutare le
donne, si era incamminato verso il pastore, e gli sedette al fianco.
Dopo avergli dato il buon giorno, prese addirittura a entrare
nell’argomento.

— Anton Stefano, voi avete notato da qualche tempo la frequenza delle
mie visite al vostro stazzo; e son persuaso che avrete chiesto a voi
stesso la ragione della mia premura insolita nel salutare la vostra
famiglia.

— Difatti — non lo nego — le tue visite frequenti mi hanno stupito
alquanto. — Giuseppe — ho detto fra me stesso — lascia le sue terre
troppo in abbandono, e trascura i suoi interessi!

— Che cosa avete pensato di me?

— Che volevate darvi alla vita dello scioperato.

— E vi siete ingannato! Io invece, qui venendo, non ebbi in animo che
di metter testa, e di cominciare una vita più seria e più attiva!

— E come questo?

— Ve lo spiego in due parole, e senza preamboli. Voglio prender moglie!

— E venite a me per chiedere un consiglio?

— Oibò! vengo a voi per chiedere la moglie.

— A me?

— Sicuro. Perchè voi solo potete darmela: voglio la Gavina!

Anton Stefano, che era sdraiato, si alzò di colpo e si mise a ridere.

— Mia figlia....?

— Sì, vostra figlia! — non fatemi osservazioni di sorta, perchè ci
ho pensato a lungo. La mia età, la mia condizione, la mia moralità,
il mio patrimonio, son tutte cose a voi note, nè avete bisogno di
attingere informazioni al mio riguardo. Rispondete dunque netto e senza
complimenti: me la date, sì o no?

Anton Stefano riaccese lentamente la pipa che si era spenta, si
aggiustò il berretto, prendendo tempo per rispondere. La risposta alla
domanda di Giuseppe fatta così a bruciapelo, non era così facile a
darsi, come il suo parente credeva.

Si avvide subito Giuseppe, dell’impressione prodotta nel vecchio,
dalla sua domanda — e se ne sgomentò. Che cosa poteva impedirgli
di dare una risposta affermativa, spontanea? Perchè quella nebbia e
quell’improvviso cambiamento nel volto del vecchio? Con gli occhi fissi
in quelli dello zio, egli aspettò trepidante una risposta, che tardava
troppo ad uscirgli dalla bocca.

Dopo aver carezzato a più riprese la sua barba grigia, Anton Stefano,
rivolto al giovine gli disse con tono grave e solenne:

— Capirai, Giuseppe, ch’io ti conosco, e che il riceverti come figlio
nella mia famiglia sarebbe un onore, di cui andrei orgoglioso. Miglior
partito per la mia figliuola non potrei pretendere, nè essa troverebbe.
Vi è però un ostacolo grave che si oppone al tuo e al mio desiderio —
trattasi di delicatezza, di prudenza, di cuore, e....

— Ostacolo grave?.... di delicatezza?.... Non capisco!

— Ho motivo di credere che Gavina non sia affatto libera di cuore....

Un sudore freddo bagnava la fronte di Giuseppe. A questa rivelazione
sentì una mano comprimergli il cuore. Senza volerlo, ripensò allora al
contegno strano di Gavina, alla sua perplessità, ai modi singolari, che
fin allora egli aveva creduto frutto di timidezza e d’ingenuità.

— Avete _motivo a credere_ che Gavina non sia libera? — ripetè,
dubitando di aver male inteso.

— Sì, vi è forse un altro pretendente, che potrebbe creare qualche
disturbo a me.... ed a voi!

— Un altro pretendente....?

E Giuseppe cercava col pensiero chi poteva essere quest’uomo a lui
sconosciuto. Da due mesi circa che egli frequentava lo stazzo, non
aveva mai veduto alcuno che potesse ispirargli timore. Per quanto si
torturasse la mente, non potè rintracciare il suo misterioso rivale.

— E quest’uomo frequenta il vostro stazzo?

— Sì.

— Ed io lo conosco?

— Sì.

— Ditemi il suo nome.

— Bastiano.

Giuseppe si rizzò in piedi come spinto da una molla, e facendosi presso
al vecchio, ripetè:

— Bastianu Tansu?

— Egli stesso.

— Il sordo-muto?!....

— Il sordo-muto!

La calma tornò di nuovo nel cuore di Giuseppe; e componendo il labbro
ad un amaro sorriso, esclamò, quasi offeso:

— Anton Stefano, voi scherzate e volete farvi giuoco di me. Ciò non sta
bene, quando si tratta di cose serie!

Il vecchio soggiunse con pari serietà;

— Io non uso scherzare, quando trattasi dell’avvenire di mia figlia, e
della lealtà del giovane onesto che me la chiede. Ho detto il vero!

Giuseppe si passò una mano sulla fronte, credendo sempre di sognare.

— Ma.... — soggiunse dopo una breve pausa, — Gavina si contenta?

— Non lo so. Potrebbe anche contentarsi!

— Potrebbe? Siete dunque voi che volete questo matrimonio?

— Nè io nè mia moglie possiamo volere per genero un sordo-muto.

— Nè un volgare assassino....

— Giuseppe....!

— Sì un assassino; sarei anche capace di dirglielo in faccia! — gridò
indignato il giovine, non credendo ancora a quanto il vecchio andava
narrandogli. — Spiegatemi almeno come stanno le cose.

— Ma... non saprei forse spiegarle. Il muto da qualche tempo frequenta
il mio stazzo... ci aiuta, fa qualche lavoro, ed ha un carattere
dolcissimo. Si mise però in testa che la Gavina potesse far per lui; si
lusingò.... non so di che; prese sul serio certi scherzi delle donne...
e pare che nutra delle serie speranze.

— Ed è tutto questo?

— Sì.

— E vi fece intendere la sua intenzione...?

— Oh, mai.... ha fatto, così qualche regaluccio....

— E allora...?

— Voi conoscete il muto... sapete quanto è feroce quando si mette in
testa una cosa....

— Ma vi è mezzo di fargliela togliere — esclamò vivamente Giuseppe, con
gli occhi che mandavano lampi. — Gli si dice con le buone... e se con
le buone non intende, si ricorre alle cattive... e si mette addirittura
alla porta. Insomma, io vi domando la mano di vostra figlia Gavina —
esclamò risolutamente il giovine. — Me la date sì o no?

— Per parte mia ve la concedo, e con piacere; però pretendo seriamente
che il muto non sia molestato e che io non abbia a soffrire alcun
disturbo, o dispiacere: egli è parente dei Vasa, e ben so quanto
bisogna andar cauti in fatto di inimicizie. Tutte le grandi cose, in
Gallura, furono sempre partorite dalle cose piccole — e so quel che mi
dico. Abbiate dunque pazienza, o Giuseppe, se è vero che amate la mia
figliuola; e se vi riuscirete con la prudenza e con l’astuzia a far
ricredere il muto delle sue stolte pretensioni, il contratto e bell’e
stabilito, nè se ne parli più.

Stasera ne terrò parola a mia moglie, e vedremo il partito da
prendere. — Vi prevengo però: desidero, anzi voglio, che si prendano
tutte le cautele; senza ricorrere, cioè a mezzi violenti e a scene
spiacevoli, amo la tranquillità della mia casa e della mia famiglia,
nè voglio immischiarmi in contestazioni, che ho saputo evitare per ben
cinquant’anni. Non vorrei aver disturbi nella vecchiaia. Non vi dico
altro!

— E sta bene. Io penserò a soddisfarvi.

E così dicendo Giuseppe si era allontanato dal vecchio, il quale, per
tutta quella sera, non fece che ripensare alla domanda del nipote,
studiando tutti i mezzi per togliersi d’impaccio nell’intricata
situazione. — E aggiungete che Anton Stefano, che era una buona pasta
d’uomo, aveva taciuto a Giuseppe, ciò che sempre aveva taciuto in
famiglia. In fondo in fondo il muto non gli dispiaceva, nè aveva
mai creduto un peccato mortale concedergli la figliuola. Bastiano
non poteva dirsi brutto; era un instancabile lavoratore, aveva
dell’abilità, e non mancava di cuore.

— Gran che l’esser sordo-muto! diceva nell’intimo della sua coscienza.
— Conosco tanti giovanotti che parlano e che ascoltano, eppure son più
muti e più sordi di Bastiano! Ma andate a dire queste cose alle mogli e
alle figlie! Vi mangiano vivi.

                                   *

Giuseppe meditò a lungo sul dialogo avuto col pastore, nè arrivava a
persuadersi dell’accaduto. Alla sua mente ritornavano certe circostanze
non prima avvertite — e fra tutte la improvvisa comparsa del muto
nell’orticello, e il grido e la fuga della fanciulla.

Quel grido era amore, od era paura?

Ecco quanto voleva sapere Giuseppe. Qual sentimento aveva turbato la
cugina? Poteva essa nutrire una passione per quello storpio? Ciò non
era probabile. — La mente di Giuseppe rifuggiva da simili ipotesi. Come
mai Gavina poteva lasciarsi allucinare da un essere di quella fatta?

Dunque?.... Bisognava cercare il segreto di quell’intrigo. Che cosa
accadeva nello stazzo?

Un pensiero balenò alla mente del giovine: — il muto si era imposto col
terrore — con quel terrore che lo aveva reso celebre nella sanguinosa
lotta che s’era impegnata fra le fazioni dei Vasa e dei Mamia. Col
terrore voleva imporsi al cuore della timida fanciulla — col terrore,
voleva carpire il consenso dei genitori — col terrore, infine, sapeva
allontanare da Gavina tutti quelli che gli davano ombra.

E ciò Giuseppe non poteva tollerare, nè come amante, nè come amico,
nè come parente della famiglia di Anton Stefano. E che? non vi sarebbe
dunque stato un uomo in Gallura, capace di far stare a dovere il muto?
era poi tanto potente e _terribile_ costui? Non era egli un uomo di
carne ed ossa come gli altri?

— Dicono che sia figlio del diavolo — concludeva Giuseppe. — Ebbene,
anche per il diavolo quando ogni mezzo mancasse, c’è l’acqua santa!

Giuseppe, nel segreto del cuore, passava in esame tutti i mezzi validi
per far ricredere quel forsennato; ne trovava molti, ma c’era un guaio;
bisognava far le cose in modo da non dispiacere al futuro suocero, che
rifuggiva dai forti attriti, — e da non spaventare la cugina, che egli
già amava alla follìa. Il pensiero che un altro aspirasse a quella
graziosa creatura, lo inquietava molto e allo stesso tempo non faceva
che accrescere la sua passione. Provava come un dispetto geloso — si
sentiva umiliato d’essere costretto a lottare con un essere che egli
credeva molto inferiore a lui, sotto tutti i rapporti.

Anton Stefano — la stessa sera — tenne parola alla moglie della domanda
formale di Giuseppe, e dei timori che gli incuteva il muto. Non si può
immaginare la gioia con la quale la vecchia accolse la fausta nuova,
che d’altronde era per lei assai vecchia; perocchè la madre di Gavina
aveva avuto più volte occasione di esplorare le intenzioni di Giuseppe
per la sua figliuola.

Da quel momento la vecchia prese impegno di guidare lei stessa le cose.

— Lasciami fare — aveva detto al marito — se vorrai secondarmi
prendendo consiglio da me, condurrò le cose, in modo, che rimarrete
tutti contenti.

— Temo però che noi le abbiamo troppo imbrogliate! Aveva esclamato il
vecchio, non sapendo vincere un presentimento che da lungo tempo lo
tormentava.

— Fida in me!

— Che Dio e San Gavino di Petra Màina ci aiutino!

— E così sia!


IX.

Tra madre a figlia

Una sera, mentre le due figlie maggiori e le serve erano tutte riunite
nell’orticello, occupate nella raccolta dei legumi, la vecchia madre
prese di fronte Gavina, la quale era rimasta sola nello stazzo, e le
disse:

— Il tuo contegno misterioso ha già di troppo tenuto in pensiero la
famiglia. È tempo ormai di togliere di mezzo qualunque equivoco.
Rispondimi subito e senza reticenze! Dammi ragione della strana
condotta che tieni con tuo cugino.

La fanciulla, colta alla sprovvista arrossì, abbassò gli occhi e tacque.

— Rispondi: nutri dunque dell’odio per Giuseppe? Perchè lo fuggi?

Gavina, tremante come foglia, celò il volto nella palma della mano.

La vecchia, allora, le afferrò con violenza il braccio le alzò con
forza la testa, e costrinse la fanciulla a guardarla in viso.

— Lascia le moine ridicole, e rispondimi: — perchè fuggi Giuseppe?

Dominata dal rigore materno, e in un accesso di passione, Gavina ruppe
in singhiozzi; ed esclamò vivamente con accento concitato:

— Ma non vi siete dunque accorte che io fuggo Giuseppe perchè l’amo
troppo, perchè la sua voce mi fa troppo male, perchè i suoi occhi mi
bruciano il corpo e l’anima!?

E la fanciulla, vergognosa, nascose il volto nel seno della madre,
e arrossì fin nel bianco degli occhi. La fisonomia della vecchia
si rischiarò d’una gioia improvvisa; ella sorrise a sè stessa; e
chinandosi all’orecchio della figliuola, mormorò con voce dolce e
affettuosa:

— E... se Giuseppe ti avesse chiesta in isposa?....

— Lo rifiuterei con tutte le mie forze!! — esclamò risoluta la
fanciulla, levando la faccia.

— E se noi si volesse che tu lo sposassi?

— Mi lascerei percuotere, uccidere da voi, ma non diverrei mai la sposa
di Giuseppe, finchè....

E la fanciulla esitava.

— Finchè....

— Finchè il muto mi vorrà bene!

— Sei matta!?

— Non capite che giammai darò a Bastiano il dolore di un mio rifiuto,
dopo che egli ha tanto bisogno del mio affetto, dopo che voi... sì
voi!... gli avete fatto credere d’essere riamato? Sarò infelice,
soffrirò per tutta la vita, ma non mi torturate più oltre. Finchè il
muto vivrà nella speranza del mio amore, io sarò irremovibile nel mio
proposito. Non sposerò nè l’uno nè l’altro — ecco il sacrificio che
posso fare; ma non domandate altro da me!

La madre credeva di sognare; e stava già per rispondere alla figlia,
quando d’improvviso questa si tolse alla sua presenza, e sparì
nell’altra camera.

La vecchia volse uno sguardo alla porta, e vide il muto che si
avvicinava allo stazzo, col fucile in ispalla e con gli occhi a terra.
Non aveva veduto Gavina.

Fu allora che la vecchia prese un’istantanea decisione. Andò incontro
al muto, gli fece capire che la seguisse perchè aveva comunicazioni da
fargli, e lo condusse nel vicino chiuso, dove si trovava Anton Stefano,
seduto sotto un elce.

Dopo averlo invitato a sedere, la vecchia cominciò a fargli capire
co’ segni che gli avevano sempre voluto bene, e che sempre lo avevano
accolto nello stazzo come un onesto e carissimo amico.

Il muto fissò alquanto la vecchia, senza capire; ma in seguito i suoi
occhi sfavillavano di contentezza, volendo dare un significato troppo
benevolo a quella prima dichiarazione.

La vecchia, sempre coi gesti continuò a fargli capire, che fin’allora
avevano con lui scherzato a proposito della figliuola — autorizzati
a far ciò dalla piena confidenza che accorda l’amicizia ma che era
tempo ormai di regolarsi perchè si trattava di cosa seria. Essi — i
genitori — non potevan più oltre tollerare un’intimità che, sotto molti
rapporti, poteva pregiudicare la loro figliuola.

Quantunque la madre s’ingegnasse di far capire al muto simile
proponimento con gesti abbastanza espliciti, perchè abituata da qualche
tempo a conversar con lui; e quantunque il muto fosse abituato a
comprendere i gesti della famiglia di Anton Stefano, pure quella sera
pareva nulla comprendere: forse perchè troppo lontano dalla crudele
disillusione che gli si preparava. Egli stava con la bocca e gli occhi
spalancati, cercando quasi di raccogliere tutti i pensieri che per
mezzo di segni gli manifestava la vecchia. Capiva solo che qualche
sciagura gli sovrastava, poichè la fisonomia di quella donna era
chiusa, e Anton Stefano non osava neppure levar gli occhi sopra di lui,
lasciando tutta la responsabilità del messaggio alla moglie.

La vecchia, però, aveva pensato a tutto; e vedendo che co’ segni
non raggiungeva lo scopo, tolse lentamente di tasca una scatolina di
cartone, e la consegnò al muto.

Quegli l’aprì, vide i suoi orecchini, impallidì e mandò un urlo.

Aveva tutto compreso. Ritto in piedi, chiedeva spiegazione con gli
occhi, con la bocca e con tutta la persona.

La vecchia gli fe’ intendere che Gavina non poteva più ritenere presso
di sè quegli oggetti.

— Per qual motivo?

— Perchè la comprometterebbero.

— Ma perchè allora accettarli? — fe’ intendere il muto.

— Per sola amicizia, per non offenderti.

— E perchè non può tenerli come dono di amicizia?

— Perchè un sol uomo può regalare simili oggetti; un promesso — e tu
non fosti mai tale.

— Non gli si disse, che, se lavorava nello stazzo per conto loro, gli
avrebbero concesso la fanciulla?

— Fu uno scherzo!

— Non gli si disse che Gavina gli avrebbe voluto bene?

— Fu uno scherzo!

— Perchè lusingarlo, accettandolo nello stazzo?

— Scherzo!

— E che male potrebbe venire a Gavina, se ritenesse, come una memoria,
i suoi orecchini?

— Potrebbe spiacere all’uomo che la chiedesse in isposa.

— Ma quest’uomo non c’è!

— C’è!

— Chi mai?

— Giuseppe!

Questo dialogo era stato fatto a furia di segni e di urli — ma il
muto aveva capito. Mandò un grido, gettò uno sguardo fulminante sulla
coppia che gli stava dinanzi, e ripose in tasca con moto febbrile la
scatoletta di cartone, che la vecchia gli aveva restituito. Era una
fiera, un pazzo — e ne ebbero paura.

Il muto riflettè alquanto; poi, digrignando i denti, mostrò il pugno
chiuso ad entrambi; afferrò con mano confulsa la canna del suo fucile;
tolse di tasca il suo fazzoletto, lo lacerò coi denti, e lo gettò ai
loro piedi; quindi strinse sul petto le due braccia in forma di croce,
indicò il cielo, segnò col dito lo stazzo; e piegò leggermente la testa
sulla palma della mano destra. Con tali segni egli aveva detto:

— Giuro di uccidervi tutti, se non manterrete la promessa, concedendomi
in isposa la vostra figliuola!

E senza aspettar risposta, Bastiano si diede a correre verso la
campagna, come se fosse inseguito. Non si volse, non sostò mai; andò
sempre innanzi, saltando su per le rocce, senza sapere ove andasse.

Era nuovamente diventato una belva.

Anton Stefano e sua moglie lo seguirono macchinalmente con gli occhi
per un buon tratto, poi si guardarono in faccia.

— Ebbene — disse la moglie.

— Ebbene... temo che la cosa vada a finir male!

— Lo credi proprio?

— Sì!

— Allora puoi toglierti i calzoni e metterti le gonnelle perchè non sei
che una femminuccia!


X.

Un giuramento

Il muto era fuor di senno; e Anton Stefano ben sapeva di quanto sarebbe
stato capace quel mostro per mettere in opera la sua minaccia.

Non frappose tempo in mezzo. Anton Stefano all’indomani, si recò negli
stazzi della Trinità per conferire coi Vasa e con gli altri parenti di
Bastiano. Espose lo stato delle cose: le minaccie e le pretensioni del
muto, i timori e le inquietudini della famiglia.

I parenti, essi stessi, riconobbero le sciocche pretese del muto, e
promisero d’intromettersi nella questione per scongiurare qualunque
imprudenza. Essi assicurarono Anton Stefano, che avrebbero calmato
Bastiano, strappandogli il giuramento che non avrebbe recato danno
ai parenti della Gavina. E se riuscivano ad ottenere la promessa, si
poteva star tranquilli, poichè Bastiano era scrupoloso nel mantenere
un giuramento: avrebbe cento volte perduto la vita, anzichè mancare
alla sua parola. In mezzo ai suoi vizi, il muto possedeva la virtù di
qualunque sacrificio. Strano miscuglio di fierezza, di generosità e di
ferocia!

Il muto — sollecitamente consultato — fu irremovibile nel suo
proposito, e rispose ai parenti che l’insulto ricevuto era stato
sanguinoso, e che il rinunziare alla vendetta era tal vigliaccheria che
non entrava nel suo carattere e nelle sue abitudini.

Passarono alquanti giorni. L’ira del muto si era a poco a poco calmata,
per dar luogo a riflessioni più ragionevoli.

Nelle sue lunghe solitudini, errante per la campagna, egli ripensò
ai suoi casi: al suo primo incontro con Gavina — alle gentilezze
della famiglia di Anton Stefano che lo aveva accolto nel suo seno
come un figlio, senza badare ch’era un fuggiasco, un perseguitato, un
assassino; pensò che nell’Avru aveva trovato asilo, pane, compassione;
pensò alla bella fanciulla tanto cortese con lui, riflettè con mente
serena all’accaduto, e si persuase che non era giusto prendere da
quella famiglia il sacrificio di Gavina; non trovava giusto che quella
ingenua e cara figliuola si vincolasse ad una creatura imperfetta, ad
un sordo-muto condannato ad una vita errante, ad un colpevole inseguito
dalla giustizia. Finì per persuadersi che non era stato un galantuomo;
che doveva riconoscenza a Gavina — alla sola fanciulla che dopo sua
madre, lo aveva amato; si persuase che non doveva rispondere con
ingratitudine ai benefici ricevuti, recando la guerra dov’egli aveva
trovato la pace — recando la sventura dove aveva trovato il conforto.

Stanco di aver camminato tutta la giornata in preda a tante emozioni,
Bastiano sedette, chiuse la testa fra le due mani, e si diede a
piangere forte a singhiozzi, come un bambino.

Si sentiva troppo solo, troppo abbandonato, non aveva più casa dove
recarsi per riposare, per ricevere una parola di conforto. Cacciato
dallo stazzo di Anton Stefano, non gli restava da invocare che la
morte. Da un anno era stato un onest’uomo — ed ora era sul punto di
diventare un assassino.

E fu appunto in uno di questi momenti di ambascia e di sconforto, in
cui la creatura umana sentesi capace di slanci generosi, che il Vasa ed
i parenti trovarono il muto, e lo esortarono alla pace, alla clemenza,
ed all’oblio; fu in un di quei momenti che lo colsero e gli strapparono
il giuramento di non mai recare offesa alla famiglia di Anton Stefano.

Bastiano giurò solennemente: ma non fu per riguardo a Giuseppe, suo
rivale, che in grazia di Anton Stefano e della moglie, i quali lo
avevano troppo offeso e quasi scacciato! — egli giurò per il solo
affetto di Gavina che amava tanto, e che avrebbe per sempre perduta,
abbandonando lo stazzo.

E quando Bastiano Tansu giurava, sapeva mantenere con la vita il
giuramento; e i parenti lo sapevano — e lo sapeva tutta la Gallura!


XI.

Cuor di madre

Quando la famiglia di Anton Stefano seppe dai Vasa del giuramento
strappato al muto visse più tranquilla.

La madre di Gavina cominciò a vedere il frutto de’ suoi raggiri — ma
non era ancora soddisfatta. Il muto aveva tutto obliato — o almeno
aveva finto di obliare; ma egli non aveva sospese le visite all’Avru,
dove si presentava per passarvi al sicuro qualche notte, per chiedervi
un tozzo di pane, o per lavorare volenteroso.

La presenza del muto nell’Avru non tornava gradita ad alcuno, poichè
poneva inciampo alle intenzioni di Giuseppe, teneva in continua
agitazione i due vecchi, e impediva alla Gavina di mostrarsi benevola
col cugino. Essa lo aveva ben detto alla madre; «finchè il muto mi
vorrà bene, io non sarò mai d’altri, poichè non voglio che soffra!»

E per vero era incomprensibile il sentimento che avvicinava Gavina a
Bastiano! Era pietà, riconoscenza, rimorso, o paura? Forse un po’ di
tutto. Da qualche tempo l’improvvisa comparsa del muto faceva in lei
uno strano effetto. Dinanzi a lui rimaneva come paralizzata, subendo il
fascino di quelle nere pupille che la fissavano, come la vipera fissa
l’uccelletto per ammaliarlo. Ma perchè, poi? l’ignorava! Sapeva solo
d’essere schiava di quell’uomo — e gli ubbidiva ciecamente come se
lo riconoscesse per suo Signore. Non aveva paura, ma gli voleva bene,
la sdegnava la sua presenza, ma si sentiva inquieta quando lo sapeva
lontano.

Gavina, ormai, non comprendeva sè stessa. Giunse persino a credersi
dominata dallo spirito infernale — e invocò il perdono di Dio, nel
dubbio ch’ella fosse dannata. Pregò, stancò il Cielo — ma nessun santo
le tolse dal cuore il misterioso sentimento che la turbava.

A Giuseppe avevano taciuto le minaccie di Bastiano e gli accordi
presi co’ parenti. Nè Anton Stefano, nè sua moglie, avevano creduto
conveniente informarlo dell’accaduto. Le circostanze erano gravi:
il vecchio non era troppo alieno dall’accordare al muto la mano
della sua figlia: la madre però, donna prudente, si era incaricata
dell’assestamento delle cose e pensava a trar profitto della
situazione.

Il muto, dal suo canto, non supponeva le cose inoltrate come lo erano:
credeva anzi che Giuseppe ignorasse sempre le sue intenzioni a riguardo
di Gavina.

                                   *

Dal giorno che la vecchia gli aveva restituito i doni, il muto non si
era mai trovato da solo a sola con la fanciulla; poichè la fanciulla
aveva saputo trovar modo di sfuggirlo — come sfuggiva Giuseppe, di cui
era seriamente innamorata.

Dacchè Bastiano aveva fatto ritorno all’Avru, si era notato un
cambiamento nelle sue abitudini. Non scherzava più nè rideva come
prima; sedeva in un canto del piazzale, e lavorava tranquillamente non
preoccupandosi di nulla — neppure delle insidie che potevano venirgli
tese come bandito. Ma da questo lato aveva sempre una misteriosa
sorvegliante: Gavina — la quale, quantunque in apparenza distratta, non
dimenticava mai di volgere uno sguardo all’ingiro, per far la guardia
al suo protetto.

Una sera, mentre le donne erano raccolte nello stazzo, la moglie di
Anton Stefano aveva trovato modo di appiccar discorso con Giuseppe, e
lo aveva tratto seco, per la piccola viottola che conduceva all’ovile,
poco distante.

Giuseppe quella sera era molto preoccupato; e la futura suocera ben
sapeva il motivo della sua inquietudine.

— Cos’hai, Giuseppe? — le disse, fingendo un’aria distratta.

— Sono annoiato.

— Un po’ di pazienza, figliuolo mio! Le cose si appianeranno.

— Temo che la Gavina non mi voglia bene!

— Timori sciocchi! la Gavina non pensa che a te — e te ne darei le
prove più convincenti, se delicatezza di madre non mi consigliasse di
tacere.

— Quel muto che non vuol abbandonare lo stazzo m’indispone... m’irrita!

— Che vuoi? è un povero bandito che tutti siamo in dovere di proteggere.

— Mancano forse altri stazzi in Gallura? Perchè lo abbiamo sempre fra i
piedi?

— Pazienza, figliuolo! Bastiano finirà per andarsene.

— Pare però che ne dimostri poca voglia.

— Si stancherà di venirvi.

— E... se non si stancasse?

— Allora si troverà il modo di farlo stancare.

La suocera pronunciò queste parole con un tono così secco, che Giuseppe
si fermò di botto, e la fissò in volto.

— E qual modo?

La suocera lanciò un’occhiata al nipote, e si strinse nelle spalle.

Giuseppe capì — o credette capire. Capiva che non bisognava render la
suocera responsabile di certi avvenimenti.

Camminarono insieme per un buon tratto di strada ma senza discorrere.
Quel silenzio non faceva che far maturare nel cervello di Giuseppe
l’idea che vi era stata gettata, come a caso, dalla futura suocera.
L’eco delle ultime parole della vecchia non si era perduto nello
spazio: si ripercuoteva ancora nelle orecchie dell’amante.

Giuseppe era sopra pensiero. Grosse goccie di sudore grondavano dalla
sua fronte: ed egli le asciugava col fazzoletto. La vecchia finse di
far cadere ad arte il discorso sopra ad altri argomenti — ma Giuseppe
non sentiva; esso andava ruminando quella idea, quasi rivoltandola da
tutte le parti, come per trovarvi il lato più comodo per realizzarla.

Dopo un lungo silenzio, la vecchia domandò a Giuseppe se nelle sue
terre di Bortigiadas aveva seminato molto grano, e Giuseppe, che non
sentiva nulla, le rispose cupo, con altra domanda.

— Ditemi... il muto ha proprio giurato di non offendere la vostra
famiglia?

— Sì — rispose la vecchia; e siccome capì che il pensiero di Giuseppe
non era uno scrupolo di coscienza, riprese: — però i parenti del muto
non richiesero da noi un ugual giuramento.

— E come mai hanno potuto omettere una formalità così importante?

— Ma!... chi lo sa?

Continuarono a passeggiare, fecero ritorno a casa ma non pronunciarono
nessun’altra parola sul muto.

Avevano detto abbastanza — e forse Giuseppe credette capire più di
quanto la vecchia aveva voluto dirgli. Il geloso cugino pensava per
proprio conto, ma voleva creare un pretesto per mettere in pace gli
scrupoli della coscienza.


XII.

Si rompe ogni indugio

Era l’ora di stanchezza e di melanconia, in cui si ristà dal lavoro;
quell’ora che non è giorno, nè notte troppo tardi per lavorare —
troppo presto per andare a letto; l’ora in cui i grilli cantano con
più sentimento e in cui le civette e i gufi della Gallura cominciano la
monotona serenata degli sbuffi e dei fischi cadenzati; l’ora che invita
le madri a preparar la cena, e le figlie a ricambiare una stretta di
mano con l’innamorato.

Una quiete serena regnava per le campagne dell’Avru.

Anton Stefano e Giuseppe si erano allontanati per visitare alcuni
terreni, verso l’Adu di Sarzughe. La mamma, con le serve, era in
cucina, intenta a impastar la farina; le due figlie maggiori si
pettinavano sul limitare dell’uscio e Gavina si era recata nel
cortiletto, per spiccare dalle corde i pannellini che il sole con tutto
comodo aveva rasciugato nelle sue dodici ore di viaggio.

Bastiano, seduto all’estremità del piazzale, era quasi solo. Col
fucile fra le ginocchia e col volto fra le mani, pareva riflessivo,
annoiato. La vecchia per un po’ di tempo lo aveva tenuto a bada; poi
lo aveva piantato lì senza tanti riguardi, per accudire alle faccende
domestiche. Voleva fargli capire che la sua presenza cominciava ad
essere incresciosa, e che se veniva tollerato lo era solo per cristiana
misericordia.

Il muto non era così gonzo da non avvedersi della diversità di
trattamento che riceveva in quella casa. Capiva benissimo che
nello stazzo era di troppo, ma si era rassegnato a subire qualunque
umiliazione, pur di non rinunziare alla visita di Gavina. — Giacchè
ogni altro conforto gli era negato.

La fanciulla dal suo canto, non faceva che contraccambiargli il saluto
— senza trattenersi con lui, come per lo passato. Ella aveva disposto
le cose in modo, che non le rimanesse un minuto di libertà. Era sempre
affaccendata in occupazioni, create lì per lì per darle il pretesto di
star lontana dal muto.

Bastiano fingeva non accorgersi di nulla; sorrideva mestamente al
sorriso di Gavina, ma provava una stretta al cuore.

Stanco finalmente di rimaner solo nel piazzale, egli si alzò lentamente
si accostò all’uscio dello stazzo vi cacciò dentro la testa, e mandò
dalla gola un urlo. Quell’urlo era la _buona sera_ ch’ei soleva dare
alla famiglia, quando lasciava lo stazzo.

La vecchia con le maniche della camicia rimboccate era venuta in sulla
soglia per restituire il saluto a Bastiano; ma era subito rientrata in
casa, perchè vi si faceva il pane, e non poteva abbandonare la pasta.

Il bandito prese a destra, verso Aggius; fece il giro dello stazzo, e
passò dinanzi al cortiletto, dove Gavina ritirava i panni dalle corde.

La vide, e si fermò a contemplarla.

Gavina non aveva sentito le pedate del muto nè poteva immaginare che in
quella sera l’ospite lasciasse lo stazzo prima dell’ora.

Dopo aver alquanto riflettuto, Bastiano si diresse pian piano verso di
lei, e le si fermò dinanzi.

L’inaspettata apparizione fece trasalire Gavina; ma non ebbe il tempo
nè credette conveniente allontanarsi da lui. Chinò gli occhi a terra,
si lasciò cadere le braccia lungo il corpo, e stette immobile — come
se aspettasse una condanna dall’uomo ch’ella aveva involontariamente
lusingato co’ sorrisi e le attenzioni. Gavina teneva sempre la testa
bassa; non guardava il muto, ma sentiva il fascino di quegli occhi
lampeggianti che le metteva un brivido in tutta la persona. Il bandito
non fece altro che allungare la mano verso di lei, e col pollice
e l’indice le pizzicò dolcemente il lobo dell’orecchio, come per
chiederle conto degli orecchini che vi mancavano.

La fanciulla comprese quanto il muto voleva dirle, levò gli occhi su
lui, quasi per implorare pietà; e con le mani giunte, fissando il muto
con uno di quegli sguardi che di consueto lo disarmavano, gli fece
intendere che la perdonasse; che lei non ci aveva colpa che lo avrebbe
amato sempre... ma come un fratello.

Ma Bastiano non faceva che guardarla negli occhi, dimenticando le
promesse fatte e gli avvertimenti di Anton Stefano e della moglie.

La belva era domata. Bastiano si avvide ben tosto che aveva bisogno di
allontanarsi da quella donna per gustare tutte le voluttà dell’odio.
Dinanzi a lei non provava che amore — soltanto amore.

Fra le stranezze del suo sentimento, ve n’era una che non sapeva
spiegare: egli non aveva mai nudrito odio nè rancore per Gavina —
cercava sempre in altri le cause della sua infelicità, non mai nella
figlia di Anton Stefano.

Finalmente — temendo di venir sorpreso da qualcuno, o di commettere
qualche imprudenza — il muto stese la mano a Gavina, come per darle
e ricevere un saluto — un addio. La fanciulla dopo aver esitato, si
decise a mettere la sua bianca manina in quella ruvida di Bastiano —
e allo stesso tempo portò il grembiale agli occhi, per asciugarsi le
lacrime che cadevano copiose.

Allora il muto, con dolce violenza si recò alle labbra quella mano
prigioniera, e v’impresse un bacio infuocato.

Ad un tratto però, Gavina levò la testa. La sua fisonomia si era
d’improvviso trasfigurata: i suoi occhi scintillavano di gioia: le sue
labbra tremanti si erano composte ad un ineffabile sorriso, mentre le
sue orecchie tese parevano carezzate da una musica celeste.

Che cosa era avvenuto?

Bastiano ebbe un lampo di speranza!

Ma l’infelice si era ingannato! L’emozione di Gavina, che lo rendeva
pazzo di gioia, avrebbe dovuto invece gettarlo nella disperazione.

La timida fanciulla aveva udito la voce di Giuseppe, il quale tornava
dall’Adu di Sarzughe in compagnia del padre — e quella voce aveva
la virtù di accenderle il sangue. Il suo Giuseppe cantarellava una
strofetta che suonava per lei rimprovero.

      Bedda, paichì tanti peni
    Senza muttiu mi dai?
    Sarà forsi paichì m’hai
    Siguru in li tò cateni?

Pallida, spaventata, misurando la gravità della sua imprudenza, Gavina
tentò svincolare la sua mano dalla mano del muto; ma il muto non volle
lasciare la fanciulla senza dirle coi segni:

— Non devi amar nessuno! perchè sarei capace di uccidere l’uomo che ti
facesse sua!

Gavina mandò un grido d’orrore, si svincolò da quella mano d’acciaio, e
fuggì verso lo stazzo.

Bastiano era sordo — nè aveva udito la canzone di Giuseppe. Acciecato
dalla passione, si era lusingato del turbamento di Gavina; credeva
l’insensato, che l’amore si destasse nel cuore della fanciulla, mentre
invece esso andava spegnendosi.

Col cuore pieno di speranze, riprese la viottola tortuosa che conduceva
alla valle di San Gavino....

Il canto di Giuseppe si era bruscamente interrotto.

Tanto Anton Stefano, quanto il suo futuro genero, avevano veduto
nella penombra la Gavina correre spaventata verso lo stazzo; e poco
dopo il muto che se ne allontanava frettoloso, prendendo la viottola
dell’orticello. Entrambi immaginarono la ragione di quella fuga, e
ne provarono dispetto e gelosia. L’uno però non comunicò all’altro
l’impressione ricevuta. Giuseppe calmo in apparenza, disse al vecchio
che era suo desiderio rientrare nell’Avru dalla parte del piazzale,
non volendo incontrarsi col muto, e difatti prese la scorciatoia. Anton
Stefano tirò dritto per la sua strada, volendo invece andare incontro
al muto.

Gli tagliò infatti la strada, e gli si piantò dinanzi. Bastiano fu
costretto a fermarsi.

— Donde vieni? — gli disse con un gesto e con piglio burbero Anton
Stefano.

Il muto allungò la mano, e gli indicò lo stazzo.

— Non vuoi dunque capire che le tue visite sono importune?

Il muto allungò il collo e aprì la palma delle mani per domandargliene
la ragione.

— Perchè mia figlia è fidanzata con Giuseppe, ed è tempo che tu smetta
le molte corbellerie che hai per la testa!

— E che faccio a tua figlia? — continuò Bastiano sempre co’ suoi gesti
abituali.

— Fai che m’indisponi il fidanzato, mi spaventi la figliuola, e mi
turbi la casa, dove non siamo più padroni di vivere come ci pare e
piace!

— E così... non devo più venire nello stazzo?

— No — fece Anton Stefano, dondolando l’indice della mano destra.

— E se io venissi?

Anton Stefano, infastidito, fece col piede il gesto di dargli un calcio.

— Hai capito, finalmente? Non ti voglio più trovare nello stazzo. È la
seconda volta che ti ho avvertito; alla terza saprò come regolarmi!

— Mi ucciderete forse?!

— In casa mia non ti voglio nè morto nè vivo! Intendi?!

E senz’altro dire, nè aspettare risposta, Anton Stefano piantò il muto
in mezzo alla viottola e s’incaminò verso lo stazzo.

Il muto si volse due volte per guardare il vecchio che si allontanava;
indi si cacciò nel sentiero, come un disperato.

L’addio dato a Gavina, la vista del rivale, le minaccie del vecchio,
gli avevano fatto salire il sangue al cervello.

Continuò la strada con la testa china camminando a balzi, con un
tintinnio nelle orecchie, col fiele sulle labbra e coll’affanno nel
cuore.

Giuseppe non era rientrato nello stazzo per la porta del piazzale, come
aveva detto al suocero. Aveva fatte un lunghissimo giro, coll’intento
di tagliar la strada al muto, verso la vallata.

Il cugino di Gavina era furente. Già da qualche mese egli si era
contenuto, vinto dalle preghiere di Anton Stefano, ma ormai l’aspettare
più a lungo gli pareva vigliaccheria. Aveva sopportato abbastanza per
amor della cugina i capricci del sordo-muto: e sebbene fosse sicuro
dell’affetto di lei pure non era tranquillo. Nella condotta di Gavina
vedeva una timidezza tale, che lo inquietava, e lo rendeva suo malgrado
geloso di quel disgraziato, che credeva capace di qualunque tiro.

Egli ben lo ricordava: la suocera un giorno si era lasciata sfuggire
una frase molto significante; — se il muto non si stancherà di
frequentare lo stazzo, si cercherà un mezzo per farlo stancare.

La vista di Gavina che fuggiva, e del muto che la seguiva a breve
distanza, gli fecero perdere la ragione: era sulle furie, e voleva
approfittare del momento propizio. Era sicuro che Bastiano gli tendeva
un’insidia, e pensò di prevenire il colpo.

Sedette fra due macchie di lentischio, poste sopra un poggio, dove la
viottola faceva gomito. Per di là doveva passare il sordo-muto ed egli
lo aspettò. Era trafelato per la corsa fatta, ma vi era arrivato in
tempo....

Dieci minuti dopo si udì una detonazione.

Bastiano Tansu — che aveva oltrepassata di cinquanta passi la meta —
sentì all’orecchio il fischio d’una palla. Agile come un capriolo, fece
due salti avanti e si voltò. — Si udì un altro sparo, e una seconda
palla andò a colpire il calcio del suo fucile, e glielo ruppe.

Questa volta, però, Bastiano credette ravvisare il suo nemico che
saltava una siepe, e gli mandò dietro una palla, che non lo colse.

L’ira che acciecava i due rivali, e l’ora tarda, avevano mandato a
vuoto i loro colpi.

Bastiano seguì con gli occhi l’uomo che si allontanava, guardò il
calcio rotto del suo fucile e compose le labbra ad un riso infernale.

— Non ti ringrazio di avermi salvata la vita — pensò con rabbia —
perchè della vita son stanco. Ti ringrazio, perchè poni in pace la mia
coscienza. Miserabili! — aggiunse, minacciando con la mano l’Avru — voi
mi avete sciolto dal più insensato de’ giuramenti!

E continuò la strada incamminandosi verso gli stazzi della Trinità
d’Agultu.


XIII.

Vendetta

Era la notte del 5 al 6 luglio del 1857.

                             . . . . . . .

A passi lenti, chiuso ne’ suoi pensieri camminava per ore ed ore, senza
sapere ove andasse.

Si aggirava inquieto intorno allo stazzo dell’Avru; ma finiva per
ritornare ad uno speco, chiuso fra tre massi di granito, per poter
fissare il pallido lume che vedeva sfavillare laggiù, in mezzo alle
tenebre: stella funesta che annunciava una vendetta — punto luminoso
che pareva additasse una vittima da colpire.

Dal giorno che Anton Stefano lo aveva coperto d’insulti; dal giorno
che Giuseppe gli aveva spezzato il calcio del fucile, facendogli fuoco
addosso, Bastiano non aveva più voluto metter piede in alcuno stazzo:
nè in quello dell’Avru, nè in altri.

— Ormai son solo! — ei pensava — Non ho più sposa, non ho più amici,
non ho più parenti. La sposa si è tolta dalle orecchie i miei orecchini
per dirmi che tutto era finito; l’amico mi ha scacciato dalla sua casa
come un cane; i parenti han fatto lega co’ miei nemici per perdermi.
Han tutti congiurato la mia morte, dunque son solo!

E da quel giorno il muto aveva giurato odio alla sposa, agli amici,
e più di tutti ai parenti: — ai parenti che gli avevano strappato il
giuramento di non recare offesa alla famiglia di Anton Stefano, senza
reclamare ugual giuramento dalla parte avversa. L’omissione di questa
formalità poteva nascondere un perfido disegno, e riuscirgli fatale.
Era mai presumibile che i parenti avessero dimenticata una promessa
che garantiva la sua vita? O piuttosto, nell’ometterla, non avevano
essi cercato un mezzo più facile di disfarsi di lui, perchè stanchi
di sopportarlo? Eppure erano stati loro la causa prima d’ogni sua
sventura! Cieco strumento dei Vasa nell’odio che nutrivano per i Mamia,
per essi si era macchiato di sangue umano. Ecco la ricompensa che gli
davano.

Rabbia, dispetto, vendetta: — erano questi i sentimenti che si
combattevano nell’anima del muto nella notte che precedette l’alba del
6 luglio!

Chi aveva potuto armare il braccio del suo rivale? Anton Stefano e
sua moglie! — così ragionava Bastiano. — Essi soli avevano congiurato
la sua morte. Mancava loro un braccio punitore — e lo avevano trovato
in Giuseppe, a cui si concedeva la mano di Gavina in premio d’un
assassinio. « — E i miei parenti plaudirono alla trama infernale! Dopo
aver approfittato della mia generosità, mi gettano ora in un canto,
come uno strumento inservibile. E mi sta bene!»

E Gavina?

Al pensiero della figlia di Anton Stefano le smanie del muto parevano
calmarsi; egli dimenticava gli odii, le vendette e i rancori, per non
pensare che a lei. Richiamava alla mente il giorno felice in cui Gavina
gli sedeva al fianco sotto l’ombra del cespuglio spinoso, e al ricordo
di quel braccio nudo, sul quale aveva impresso un bacio ardente,
sentiva il sangue affluirgli al cuore.

Ad un tratto i suoi pensieri presero un altro indirizzo. Gli pareva
di veder Giuseppe, più fortunato di lui, stringersi al petto la bella
cugina per baciarla in bocca. Allora digrignava i denti; levava al
cielo i due pugni minacciosi, e si dava a correre come un disperato,
volendo quasi fuggire quella visione infernale, che lo perseguitava
dovunque. Il suo odio, come i suoi pensieri, si scatenavano allora
contro i due vecchi, che riteneva unica causa della sua infelicità.

— Se Anton Stefano avesse voluto, Gavina sarebbe stata mia! Fu lui che
si lasciò dominare dalla moglie; da colei che mi ha preso a gabbo:
che mi ha restituito i doni, e che ha concesso la propria figlia al
primo venuto, a patto che mi uccidesse! Su lei sola, dunque, dovrebbe
ricadere tutta la mia collera; ma io non sarò così vile da macchiarmi
del sangue di una femminuccia. Voglio colpirla, sì, nel cuore, ma in
modo ch’essa viva per poter conoscere la mano che l’ha colpita. Le
nozze di Gavina hanno da essere lugubri: il giorno dell’_abbraccio_
non dev’essere per alcuno un giorno di gioia — dev’essere per tutti un
giorno di lutto!

E così pensando gettava uno sguardo terribile sullo stazzo; perocchè in
mezzo alle tenebre che regnavano nella sua mente, egli non vedeva che
quel lume lontano che altri forse avrebbe scambiato con gli astri del
firmamento — non però lui che ben sapeva discernere le stelle del cielo
dai fuochi della terra!

Erano stati per lui due giorni di agonia, quelli che precedettero
quell’alba funesta! Bastiano vedeva tutto fosco; il cielo gli
si presentava sotto un diverso aspetto, la terra aveva per lui
nuovi linguaggi: la natura, invece di dargli calma, pareva volesse
suggerirgli pensieri sinistri. Il giorno prima aveva errato nella
foresta dell’_inferno_ — e forse l’Inferno aveva soffiato nella sua
anima.

Tutto gli parlava di morte.

Strane paure, di cui non sapeva darsi ragione, gli si addensavano in
cuore. Gli pareva che ogni cespuglio, ogni crepaccio nascondessero
una creatura umana; che la stessa solitudine fosse popolata di lugubri
fantasmi.

Tutto, a lui d’intorno aveva vita — tutto aveva una parola.

Quando attraversava qualche gola i grossi macigni gli apparivano come
giganti minacciosi che aspettassero un soffio di vento per piombargli
addosso — quando poneva il piede sulle pianticelle vermiglie che
crescono a grappoletti sul muschio o sui licheni del granito, gli
pareva di calpestare sangue aggrumato[25]; quando s’internava nelle
foreste dei sugheri, trasaliva dinanzi ai tronchi rossi degli alberi a
cui era stata tolta la corteccia. Avrebbe giurato che quelle quercie
insanguinate storcessero le braccia per dolersi delle loro piaghe
— oppure che gridassero vendetta contro gli uomini che le avevano
assassinate.

E pensava raccapricciando:

— Dovunque passa, il Gallurese lascia traccia di sangue, — anche sui
graniti e sulle piante!

                                   *

Il lumicino si era spento, e lo stazzo dell’Avru era immerso nelle
tenebre. Tutta la famiglia di Anton Stefano riposava — ma il muto
vegliava per loro.

Accovacciato nello speco, ed in preda ad un tremito nervoso, Bastiano
passò la notte a guardare le stelle, finchè le vide sparire ad una ad
una.

I primi bagliori del giorno nascente cominciarono a tingere le creste
dei monti d’un color scialbo.

Bastiano era stanco, pallido, intirizzito, ma non staccava gli occhi
dalle casette dell’Avru, che cominciavano a rischiararsi a poco a poco.

Ad un tratto la porta dello stazzo si schiuse, e un uomo comparve sulla
soglia.

Era il pastore Anton Stefano che aveva lasciato le coltri per esplorare
il tempo. Era l’ora in cui le sue cure lo chiamavano alla campagna e il
muto lo sapeva, perchè pratico delle abitudini di quella famiglia.

Al disotto dello speco che serviva di vedetta a Bastiano era un
sentiero che conduceva ad un chiuso. Per di là doveva passare il povero
vecchio.

Un’ora dopo il sole gettava i suoi sprazzi luminosi sulla campagna, che
pareva destarsi alla vita.

Anton Stefano accese la pipa, montò sulla sua cavalla, s’incamminò,
passo passo, per la viottola che rasentava la collina.

Il muto fremette. La vista di quell’uomo produsse in lui un effetto
singolare. Mentre da un canto sentì riaccendersi nell’anima l’ira e la
vendetta, dall’altra gli tornarono in mente l’affetto e la generosità
di quel vecchio pastore, che un dì lo aveva raccolto, protetto,
alimentato....

Un velo di sangue offuscò la sua ragione, e sentì mancarsi. Aveva un
tremito alle mani, ed un cupo ronzìo alle orecchie.

Aveva sempre colpito le sue vittime con freddo coraggio... e questa
volta si sentiva pusillanime.

Chiuse gli occhi spaventato di sè stesso — sperando quasi che il
pastore potesse salvarsi oltrepassando la mèta. Li riaprì lentamente
dopo alcuni minuti... e guardò.

Anton Stefano trovavasi sotto di lui — a tiro del suo fucile.

Bastiano era pallido, tremante.

Gli parve che uno spirito infernale fosse entrato nel suo corpo, e che
operasse nel suo spirito indipendentemente dalla volontà.

Egli guardava a sè dinanzi, come inebetito, non opponendo alcuna
resistenza alla forza misteriosa che ridestava i suoi istinti di belva.

Il fucile passò dalle sue ginocchia alle sue mani; ne montò il
grilletto, lo spianò, puntò... e chiuse nuovamente gli occhi, quasi
sperando che il colpo andasse a vuoto.

Si udì una detonazione.

Anton Stefano ebbe appena il tempo di girare la testa per sapere
dond’era partito il colpo. Vide il suo feritore lassù, in piedi fra due
cespugli, con gli occhi e la bocca spalancati.

Mandò un grido acuto, portando la mano destra al petto... Barcollò,
si contorse, tentò afferrarsi alla criniera della cavalla, ma cadde a
terra gridando _aiuto_ per due volte.

Il muto, svelto come un capriolo, era sparito fra i macigni ed i
lentischi.

                                   *

Allo sparo dell’arma ed alle grida del ferito, le donne, Giuseppe ed
i servi, uscirono dallo stazzo. Essi presentirono l’accaduto quando
videro la cavalla di Anton Stefano che tornava sola dall’Avru. La
povera bestia era tornata indietro, quasi ad annunziare alla famiglia
la disgrazia toccata al suo padrone.

In un baleno si recarono tutti presso al caduto, che si contorceva,
tentando invano di puntellare una mano a terra per rizzarsi.

Furono pianti, urli, grida che straziavano l’anima.

Il vecchio fu sollevato alquanto. Aveva il viso color della cera,
l’occhio vitreo, le labbra insanguinate. Volse intorno gli occhi,
stranamente spalancati, cercando quasi di darsi ragione dell’accaduto.

— Chi ti ha colpito? Parla! parla! — gli chiedevano con ansiosa premura
i servi!

— Il muto, non è vero? — esclamarono insieme Giuseppe ed i pastori, già
resi feroci dal pensiero della vendetta. E avvicinarono con avidità
le loro orecchie alla bocca del morente per raccogliere coll’ultimo
respiro il nome dell’uccisore.

Il vecchio volse in giro gli occhi vitrei, e li fissò a lungo sul volto
della moglie. Finalmente con un supremo sforzo pronunciò queste parole:

— Date uno scudo a San Gavino... Mi ha ucciso il muto... Dovevamo
prevederlo!

Non disse altro.

La scena che accadde in seguito è più facile immaginarla che
descriverla. Le figlie, la moglie, le serve urlavano disperatamente
strappandosi i capelli e assistettero raccapricciando ad un’agonia
straziante che durò due ore.

Uno dei più rispettabili pastori della Gallura, caro a tutti per bontà
di cuore, per nobiltà di carattere e per onestà di costumi, era stato
tolto dal mondo. Lo stesso Pietro Vasa, quando apprese l’accaduto,
esclamò con risentimento:

— Per compensare la morte di Anton Stefano non basterebbe l’uccisione
di diciotto uomini!




PARTE QUARTA

FINALE


I.

Sulla china del monte

Erano trascorsi dieci mesi.

La campagna, palpitante sotto le prime carezze della primavera, si era
tutta ricoperta di fiori, quasi sposa feconda che sorrida all’amante.

Era l’ora dello sconforto, del silenzio, della solitudine. La natura,
stanca, parea cercasse il riposo.

I monti prendevano colori foschi, fantastici; il mare lontano,
sbiadito, pareva confondersi col cielo, nell’ampia distesa che divide
l’isola Rossa da Castelsardo. Il sole era da poco calato dietro
all’isolotto dell’Asinara, e lunghe nuvole infuocate listavano ad
occidente l’orizzonte. Quella luce sanguigna tingeva di rosso tutte
le vette dei monti, e fusa coll’azzurro purissimo del cielo produceva
quella nebbia violacea e vaporosa che dà al crepuscolo della sera
un’intonazione calda, melanconica.

La solitudine era profonda. Non si vedeva alcuna foglia muoversi poichè
nessun vento spirava. Solamente il timo e le altre erbe aromatiche,
recavano in giro i loro profumi, destati dalle ombre che calavano
lente. Le selve degli elci sembravano grandi macchie nere, compatte;
i graniti mandavano l’ultimo scintillìo sotto i raggi infuocati, che
andavano impallidendo. Le nuvole sottili che listavano l’orizzonte,
da rosse si erano fatte violacee — da violacee turchine. E la natura
diventava sempre più triste, più fosca, più misteriosa.

Le forme dei monti, dei graniti, e dei folti lentischi apparivano
sotto profili incerti, indefiniti; e i colori si confondevano insieme,
perdendosi in isfumature leggere, o cariche.

La canzone di qualche pastore gallurese, il quale guidava le mandrie
all’ovile, si era perduta in lontananza, insieme al tintinnìo monotono
delle campanelle.

Un uomo, tutto solo in quel deserto silenzioso, attraversava lo spazio
che separa le colline di Petra Màina dal monte di Cucurenza.

Camminava lento lento, con passo incerto — col passo stanco del
proscritto che si dà in braccio ad un cieco destino, senza lotta e
senza tema d’insidie.

La notte lentamente calava, ed egli camminava sempre col proposito di
fermarsi dove avrebbe trovato un giaciglio che lo riparasse dall’umido
della sera. Non aveva casa, non aveva famiglia, motivo per cui nessuno
poteva aspettarlo.

La campana della parrocchia d’Aggius suonava l’ave Maria, e quei
rintocchi lontani, portati dalla brezza serale su quelle alture, si
perdevano in un fievole lamento.

Quell’uomo, forse, avrebbe pregato all’annunzio dell’_Ave Maria_ — ma
egli era sordo, e non udiva la campana; era muto e non sapeva pregare.

Bastiano — poichè era lui — levava di tanto in tanto gli occhi, quasi
misurando la distanza che lo separava dal monte di Cucurenza, a cui
pareva diretto.

Il monte aveva preso una tinta nera, e la sua vetta spiccava nettamente
nel limpido cielo infuocato che le serviva di sfondo.

Tratto tratto il muto si voltava per gettare un’occhiata al colle di
Petra Màina o alla catena dei monti d’Aggius, di cui vedeva appena le
punte di tramontana.

Una forza misteriosa pareva spingerlo verso la vetta del monte, sul
quale saliva; ma un pio desiderio, un ricordo lontano, un sentimento
doloroso gli faceva volgere la testa per salutare quelle due montagne
da cui si allontanava la crocetta e Petra Màina. Tutta la sua vita
si era svolta là, fra quelle due punte che gli parlavano d’Aggius e
dell’Avru, della patria e dell’amore — della madre e dell’amante, le
sole donne che lo avevano amato sulla terra.

Bastiano pareva chiedere ai monti d’Aggius la benedizione di sua madre
— e ai monti dell’Avru il perdono della sua Gavina.

Sogni! sogni! — La madre in quell’ora riposava nel silenzio del
sepolcro — e la Gavina forse posava il capo sul petto del suo Giuseppe!

Ormai lo sapeva: Gavina non poteva esser più sua. Egli stesso aveva
spezzato l’ultimo filo di speranza. Fra lui e la cara fanciulla sorgeva
minacciosa l’ombra d’un vecchio canuto che gli rinfacciava l’ospitalità
tradita. E Gavina non poteva più stendere la mano ad un assassino — a
colui che le aveva ucciso il padre!

Bastiano era già arrivato alla metà del monte. Saliva lentamente,
svogliato, senza fretta, come se poco gli premesse arrivarci presto o
tardi. Poteva andare incontro a un agguato — o poteva anche sfuggirlo:
poco gli premeva. Non aveva premura, tutto il tempo era suo, e nessuno
poteva chiedergliene conto.

Quell’essere umano come un punto nero, si era confuso nelle ombre
vaporose del monte.

Saliva, saliva sempre, volgendosi ad ogni istante per salutare le punte
di Petra Màina, che spiccavano ancora in tinte rosee su cielo nero.
Quelle di Aggius non le vedeva più perchè si erano nascoste dietro il
Monte Spina. Prima dell’amore, era sparita dai suoi occhi la patria!

Strano contrasto! A ponente un cielo limpido, sereno; a levante le
nuvole si addensavano minacciando un uragano.

Il muto giunse finalmente al culmine di Cucurenza. Uscito appena dal
seno tenebroso del monte, il suo cappuccio accuminato si disegnò sul
fondo rosso del cielo. Dalle falde del cappotto usciva la canna del suo
fucile, ch’egli portava sotto il braccio. — Veduta da lontano, quella
figura pareva il mezzo busto di un nero cappuccio, disegnato nel fondo
trasparente di un cielo luminoso.

Quando raggiunse il culmine, stette alcuni minuti immobile, colla
testa rivolta verso le punte d’Aggius e dell’Avru, ch’egli salutava
per l’ultima volta poi parve sprofondarsi a poco a poco finchè non si
vide il solo cappuccio accuminato. Poco dopo anch’esso si abbassò... e
scomparve.

La bruna vetta del monte tornò a distinguersi nettamente sul limpido
sfondo del cielo.

Dov’era andato Bastiano? era forse disceso nell’altro versante del
monte, oppure si era fermato sulla spianata dove sorge la chiesetta di
San Giuseppe? — Era forse un’ambascia senza nome che lo spingeva lassù,
a chiedere il perdono dei suoi peccati? Oppure aveva proseguito il suo
cammino fino a Paduledda, o a quella Cala falsa, dove nel 1671 furono
tratti in inganno il marchese di Cea e i suoi compagni, dal traditore
Don Giacomo Alivesi?

Le nuvole salivano sempre, e l’azzurro del cielo spariva a grado a
grado sotto le loro spire.

La notte aveva tutto cancellato — tutto avvolto nelle sue ombre: l’uomo
ed il monte!

                             . . . . . . .

Il _terribile_, il feroce bandito che dovunque aveva seminato lo
scompiglio e il terrore era finalmente scomparso al di là di Cucurenza.

Gli abitanti tutti della Gallura, con grido unanime, avevano sempre
imprecato al mostro, al dannato, al maledetto.

Ma chi mai era penetrato nel buio sepolcrale di quella coscienza
che non s’era rivelata che a Dio? Chi mai aveva saputo leggere in
quell’anima tribolata, per incidere una condanna infamante sul libro
della storia? Gli uomini non certo. Il loro Codice, forse? No: il muto
era fuori della legge, com’era fuori dal mondo; perchè le leggi sono
fatte per gli uomini e Bastiano non era un uomo!

Colui che giudica questi disgraziati alla stregua della propria
educazione, forte dei sani principi appresi dall’esempio della famiglia
e dell’insegnamento della scuola, non può farsi un giusto concetto
del loro valore — e ben di rado sa trovar una parola di compatimento
pietoso, in favore di una creatura che, per avversità di fortuna o di
destino, ha sempre vissuto nelle tenebre di una feroce ignoranza.

La società ha creato il maestro ed il giudice; il primo perchè insegni
le buone regole del vivere civile — il secondo perchè applichi gli
articoli del codice ai trasgressori delle leggi sociali. Ma il muto, a
cui il giudice applicava le pene, aveva egli fruito, o poteva fruire
degli insegnamenti del maestro? — A qual coscienza doveva attingere
Bastiano i sentimenti nobili — egli nato sordo e muto, cresciuto nella
miseria e nell’ozio, gettato in mezzo ai boschi, e condannato a vivere
ramingo con l’odio nel cuore e l’urlo della fiera sulle labbra? Qual
concetto poteva egli formarsi dei diritti e dei doveri sociali?

I diritti ed i doveri li aveva ben esercitati con lui la giustizia
umana, quando per punirlo lo aveva perseguitato di balza in balza, di
monte in monte. Ma, non so se il miglior vanto della legge consista
proprio, come si crede, nella superba scritta incisa sopra il banco dei
giudici! Se è vero che la legge è _uguale per tutti_, è vero altresì
che non tutti sono uguali davanti alla legge; e la ragione potrebbe
esser questa; che il Codice è uno e gli uomini sono molti!

D’altra parte bisogna pur convenire, che il Codice penale è clemente
coi sordo-muti, e infatti coll’art. 92 li assimila ai giovani maggiori
di 14 e minori di 18 anni, e commuta generalmente la pena di morte in
quella della reclusione per anni quindici! E vi ha di più: risparmia
loro la proibizione dell’uso della parola, che forma il principale
supplizio dei reclusi!

Bastiano era come il granito dei suoi monti. Al silenzio che lo
circondava non aveva risposto che col silenzio. Nessuno più lo
comprendeva, ed egli non se ne dolse. Dopochè si era dileguata la
speranza dell’amore, non sentì più il bisogno d’essere compreso.

Nel suo cuore senza speranze, come quella notte senza stelle, era sceso
un silenzio sepolcrale.

Bastiano ubbidiva ciecamente al destino.

Ed era scomparso nell’ombra al di là del monte nero.

                                   *

Appena scomparso il muto tre uomini uscirono da uno dei crepaci di
granito che sono alle falde di Cucurenza. Erano tutti armati di fucile,
e col cappuccio tirato sugli occhi.

Ciascuno di essi — il giorno prima — era partito da un punto diverso:
da Bortigiadas, da Aggius e dalla Trinità di Agultu. Si erano trovati
insieme la mattina seguente: verso sera avevano attraversato le vallate
di Conchedda e di Chiligheddu, tra Muntlju di li Culzi, e il rio
Pirastro, e la vista di Bastiano li aveva colpiti in un modo singolare,
tanto che, istintivamente sentirono il bisogno di celarsi, per non
essere veduti. Si sarebbe detto che l’improvvisa comparsa del muto,
rispondesse, a completare un piano da lungo tempo meditato.

Fra quei tre uomini furono scambiate a voce bassa le seguenti parole,
che io riporto fedelmente, lasciando al lettore, la cura di decifrarne
il misterioso significato, a me ignoto:

— Pare proprio il destino — disse l’uno.

— Oppure il diavolo — soggiunse l’altro.

— Dunque?... esclamò il terzo con l’impazienza di chi vuol troncare
ogni chiacchera per venire ad una conclusione.

— Dunque è intesa.

— A quando?

— A domani, se non avrò intoppi.

— Dove?

— Non lo so. Forse alla Trinità — forse allo Stagnone — forse a Littu
di Zòccaru!

— Come?

— Ciò mi riguarda.

— È giusto. Dove hai attinto le informazioni necessarie?

— A Tempio.

— Perchè non ad Aggius?

— Perchè in Aggius le nevi si sciolgono molto prima che a Tempio.

— E vuol dire?...

— Che ad Aggius fa più caldo di Tempio.

— Ho capito. Io per tanto ritornerò in paese.

— Ad Aggius?

— Sì. Ditemi però: nel caso... chi di voi mi avviserà?

— Io no, perchè sono incaricato di recarmi sotto Castel Doria per
riferire sul mio operato.

— Allora sarò io — disse il secondo. — Domani dovrò trovarmi sul monte
della Crocetta, dove ho un appuntamento con un aggese.

— Ti aspetterò in paese.

— Dimenticate ch’io sono un fuoruscito?

— Come farai dunque?

— Aggius è alle falde della Crocetta.

— Ebbene?

Quest’uomo allora abbassando la voce, come se temesse che i graniti di
Cucurenza gli facessero la spia, spiegò il suo disegno.

— Ben trovata!

— Siamo dunque d’accordo.

— Una pietra nel pozzo.

E i tre uomini si separarono. Due di essi fecero il giro del monte da
parti opposte; il terzo tornò indietro, e a passi frettolosi prese la
direzione d’Aggius.


II.

Il Gran Tamburo

All’indomani l’alba fu più tarda ad affacciarsi ai colli di
Calangianus. Neri nuvoloni correvano il cielo, sospinti da un vento
furioso di tramontana.

Era uno degli ultimi giorni di marzo. Le punte del Giugantino,
ricoperte di neve, spiccavano nettamente nel cielo nerissimo, il quale
somigliava ad un manto funereo steso sulla Gallura.

Lontan lontano udivasi un urlo cupo, prolungato, lamentoso. Pareva
l’urlo d’una lupa che chiamasse al covo i lupicini, per metterli
al sicuro dalla tempesta imminente, annunziata da un improvviso
acquazzone.

Le aguzze creste dei monti d’Aggius — che prima parevano sfidare l’ira
degli elementi — erano ad un tratto scomparse sotto una nuvola nera.
Avresti detto che sulle punte maledette si covasse un delitto che si
voleva nascondere all’occhio degli uomini. Il diavolo si compiace di
lavorare nel mistero degli uragani.

Il sole, durante la giornata, non era riuscito a fare uno strappo
al denso velo che ricopriva la volta celeste — ma l’orizzonte, a
ponente, era solcato da spessissimi lampi. Gli uomini della campagna
assicuravano che la sera sarebbe stata uguale al mattino, e la notte
assai più tempestosa della sera. Ond’è che ognuno avea curato di
mettere in salvo i propri armenti, ritirandoli negli ovili.

Gli aggesi erano rientrati nelle loro case, e si erano rinchiusi per
mettersi al sicuro dalla collera di Dio — e da quella degli uomini, più
temibile ancora. I bambini si erano rintanati in fondo alle stanze;
le vecchie mormoravano una preghiera per gli assenti invocando tutti
i santi del paradiso ad ogni lampo che faceva capolino dalle fessure
delle porte e delle finestre.

                                   *

Attorno a pochi tizzi che fumavano crepitanti sul focolare d’una
casetta, posta all’estremità superiore del villaggio, stavano raccolte
parecchie persone, componenti una famiglia.

La padrona di casa, piuttosto giovine e alquanto malaticcia, era già
a letto, insieme coi suoi due bambini; la vecchia nonna, settantenne,
si riscaldava dinanzi al fuoco; ed il capo della famiglia — un uomo
sui trent’anni, dalla barba nera e dai capelli lunghi — era in piedi
vicino a un cassettone antico, intento a ripulire le canne del suo
fucile; perchè la ruggine non le danneggiasse. — I buoni aggesi non
potevano dimenticare il loro fucile: era l’arma favorita, e sapevano
che bisognava accarezzarla ogni tanto, per rendersela amica. Erano tali
gli odi d’allora, che quasi si diffidava del proprio fucile!

Il tuono brontolava lontano; e la vecchia, ch’era seduta in un canto,
co’ piedi sopra la cenere e col corpo chino sulle brace, non faceva
che recar la scarna mano alla fronte, per farvi replicatamante il segno
della croce, invocando ad ogni istante santa Barbara.

In quella famiglia notavasi come un’inquietezza paurosa. Non si osava
parlare per timore di provocare il temporale.

Il capo della famiglia cercava infondere coraggio agli altri; egli
si provava a sgridare le donne ed i bambini: ma in fondo era più
impressionato di tutti. I suoi movimenti nervosi tradivano l’interna
inquietudine, da cui pareva dominato.

I tuoni si facevano sempre più forti, e brontolavano sempre, come
impazienti, ringhiosi. Il temporale si avvicinava. I lampi fendevano di
tanto in tanto le nubi che si addensavano sul villaggio, e mettevano
in mostra le punte aguzze della Crocetta, del Fraìle e di Tumeusoza,
le quali apparivano improvvisamente sul nero fondo del cielo, tinti dal
colore del sangue.

E la vecchia fremeva, rosariando, accoccolata sulla cenere. Si faceva
piccina piccina — quasi sperando di sottrarsi all’ira celeste, col
raggomitolarsi.

L’uomo dalla barba nera e dai capelli lunghi continuava a sfregare le
canne del suo fucile con uno straccio intinto d’olio, e chiudeva gli
occhi quando i lampi listavano di fuoco le fessure della porta e delle
due finestre. La moglie con voce tremante rassicurava i bambini, i
quali avevano cacciato la testa sotto le coltri ed i guanciali.

Il vento che ululava al di fuori pareva il gemito di un sofferente che
chiedesse ospitalità per la notte. La fiammella della lucerna ad olio
serpeggiava, mossa dall’aria che penetrava dalle fessure delle imposte;
e tutti la fissavano; temendo che si spegnesse.

All’urlo del vento si frammischiava quello del tuono, che muggiva con
maggior insistenza.

— Santa Barbara! — ripeteva la vecchia, scuotendo le pallottoline del
suo rosario.

— Volete finirla, nonna? — aveva esclamato l’uomo dalla barba nera,
impazientito. — I vostri guaiti non fanno che maggiormente spaventare
mia moglie e i bambini. Lasciate che gli elementi urlino. Avete forse
paura del tuono?

— Del tuono? — ripetè la vecchia; e lasciò uscire dalle labbra un
gemito lungo. Voleva ancora parlare, ma le tremavano le mascelle come a
persona colta dai brividi della terzana. Ella piantò i suoi occhi negli
occhi dell’uomo barbuto, continuò a fissarlo, senza aprir bocca.

— Ebbene?... e che volete dirmi, adesso? Avete forse sonno?

La vecchia, senza rispondere alla domanda del genero mormorò tutta
tremante con un filo di voce:

— Non è il tuono!

— Sarà il vento.

— Non è il vento!

— Allora sarà il cane che ulula.

— Non è il cane, non è il vento, non è il tuono!

Alla strana esclamazione la moglie ed il marito fissarono la vecchia
con curiosa sorpresa; e quest’ultimo, ristando dal lavoro esclamò
impazientito.

— E che cosa è dunque?

— Tendete l’orecchio e ascoltate — ripetè la vecchia raggomitolandosi,
e tirandosi i due lembi della gonnella sul petto, come per
nascondervisi.

Tutti tesero l’orecchio e stettero attenti.

L’urlo prolungato, lamentoso, si fece udire più distinto.

— È il vento che soffia fra le punte di Tumeusoza e del Fraìle — disse
l’uomo alzando le spalle e rimettendosi al lavoro.

— V’ingannate tutti! — esclamò allora la vecchia, con forza e a bassa
voce — è il gran tamburo!!

— Il Gran tamburo?! ripetè l’uomo vivamente, non potendo celare un
movimento di soddisfazione. — Ne siete proprio sicura?

— Sì: è l’avviso misterioso che parte dai graniti maledetti. Non è il
vento che fischia sul monte Crocetta — è lo spirito delle tenebre che
vorrebbe abbattere lassù la croce di ferro!

Tutti tacquero. Benchè sapessero che la vecchia era molto
superstiziosa, pure le sue parole, in quell’ora, con quella tempesta,
produssero su loro uno strano effetto.

— Pregate — proseguì la vecchia — pregate, perchè l’ira celeste pesa
sul nostro villaggio; pregate per l’anima di un disgraziato colpito da
morte violenta. Noi siamo piccoli, ma la misericordia di Dio è grande;
i giusti sono pochi, ma i nostri peccati sono molti!

L’uomo dalla barba nera si strinse nelle spalle, ma sentivasi in preda
ad un’inquietitudine che non riusciva a dominare. Camminava da un capo
all’altro della stanza, e gettava frequenti occhiate alla porta come se
aspettasse o temesse qualcuno.

I tuoni si facevano sempre più spessi — la vecchia pregava a voce alta.

— Pare che il temporale stia per iscoppiare.

La vecchia prese la parola, interrompendo un’_Ave Maria_:

— Il temporale è scoppiato. Non sentite le misteriose parole che volano
per l’aria? Ascoltate o peccatori.

Si fece nuovamente silenzio.

Non si udiva nulla, al difuori di quel brontolìo cupo lontano,
continuato.

— Ebbene? è il tuono! — disse la donna ch’era a letto.

Non è tuono — continuò solennemente la vecchia. — Sono le parole del
diavolo: — _Aggius meu, Aggius meu, e candu sarà la dì chi ti zz’aggiu
a pultà in buleu?_

Nessuno rispose alla vecchia, la quale riprese la recita dell’_Ave
Maria_, dal punto ove l’aveva interrotta.

Dopo un breve silenzio, la moglie dell’uomo barbuto esclamò, quasi
parlando a sè stessa:

— Dove sarà Francesco? Voglia Iddio che il temporale non l’abbia colto
in cammino!

— Via le paure! — rispose l’uomo dalla barba nera. — Francesco non è
più un bambino: egli si sarà fermato allo stazzo. A tredici anni si ha
abbastanza giudizio per non mettersi in viaggio con simile tempo!

Mezz’ora dopo, il temporale irrompeva. L’acqua cadeva a scrosci sul
tetto della casa; e il forte scoppio d’un tuono atterrì le due donne e
i bambini i quali mandarono acute grida.

Allo stesso tempo fu picchiato replicatamente alla porta.

L’uomo dalla barba nera, impallidì.

— Non aprire, non aprire! — gridò la moglie spaventata, ponendosi a
sedere sul letto, e stendendo le braccia verso il marito.

— Misericordia di noi! — urlò la vecchia.

Si tornò a picchiare con più forza e con più insistenza.

— Aprite! aprite! — gridò una voce al di fuori.

— È Francesco! — esclamarono tutti in coro; e l’uomo andò a togliere la
spranga, dall’uscio, e fece entrare Francesco, e rinchiuse prestamente
la porta.

Un giovinetto sui tredici anni entrò nella stanza tutto smarrito,
bagnato dalla pioggia e dal sudore. Egli ansava, poichè era venuto di
corsa.

— Perchè metterti in viaggio con questo tempo?

Il fanciullo aveva il respiro affannoso, e non potè subito rispondere
al fratello maggiore.

— Ebbene?

— Il temporale mi colse in cammino, a un ora e mezza da Aggius —
rispose Francesco dopo alcuni minuti.

— E perchè non affrettare il passo per rifugiarti nello stazzo?

Il fanciullo non rispondeva.

— Tu mi sembri agitato. Che hai?

— Ho veduto... il diavolo!

— Il diavolo!? — esclamarono in coro le donne e l’uomo dalla barba
nera; e la vecchia cacciò un urlo, celando la faccia tra le mani.

— Chi ti ha messo in testa simili corbellerie? — gli domandò il
fratello.

— No, vi dico — era proprio lui — il diavolo in carne ed ossa!

— Raccontaci un po’....

— Taci, taci! — gridò la vecchia.

— Finitela, nonna! pare che questa sia la notte del diavolo!

E il fanciullo, tutto tremante, raccontò l’accaduto nel modo seguente:

« — Io m’incamminavo verso lo stazzo di Bonaita quando, oltrepassato
appena il rio Turrali, sentii delle pedate dietro di me; mi volsi, e
vidi un uomo lungo lungo, col cappuccio sul viso e col fucile sotto
il braccio. Mi parve che egli venisse dalle falde del monte della
Crocetta. Allora affrettai il passo per isfuggirlo, ma egli raddoppiò
il suo, come se volesse raggiungermi. Spaventato della solitudine in
cui mi trovavo, mi diedi a correre; ma quell’uomo mi gridò per due
volte;

« — Fermati!

«Mi sentii tremare le ginocchia; la paura mi aveva inchiodato lì, nè
potei muovermi. L’uomo non tardò a raggiungermi.

«Io abbassai gli occhi, nè osai guardarlo in faccia.

« — Dove vai? mi domandò.

« — Vado allo stazzo — risposi.

« — Sei aggese?

« — Sì.

« — Ebbene; torna in Aggius. Dirai al paese che il Diavolo ha portato
via il corpo e l’anima di uno scellerato.

«Ciò detto quell’uomo scomparve.

— Non l’hai tu ravvisato? — domandò l’uomo dalla barba nera al
fanciullo.

— Era chiuso nel suo cappotto; ma mentre parlava, un lampo rischiarò
quel volto; e mi parve vedere sotto al cappuccio due occhi accesi, e
due corna nere, piccole lucenti.

L’uomo dalla barba nera riflettè alquanto; poi disse al fanciullo,
pacatamente.

— Sei tutto bagnato; spogliati subito, va a letto, e dormi. E bada
di non raccontare ad alcuno simili fole! Potresti tirarti addosso il
ridicolo.

La vecchia tremava anch’essa come una foglia e non cessava mai dal
mormorare.

— Il gran tamburo ha parlato! Pregate o peccatori, perchè l’ira celeste
pesa sul nostro villaggio. Noi siamo piccoli, la misericordia di Dio è
grande!

L’uomo dalla barba nera si strinse nelle spalle, e andò a posare in un
angolo della stanza il fucile ch’egli aveva pulito.

                             . . . . . . .

Due ore dopo in quella casa regnava un silenzio profondo. La famiglia
era a letto, e riposava tranquillamente.

Gli elementi si erano finalmente placati — forse perchè giustizia era
fatta!


III.

Pietro Vasa

Fin dalle prime ore del mattino del 19 febbraio 1859 si notava un
insolito movimento nella città di Tempio. Era un farsi alla soglia
delle porte, un affacciarsi alle finestre, un formar capannelli per le
vie, un interrogarsi a vicenda, e domandar particolari.

Una notizia, con la rapidità del lampo, si era sparsa da un capo
all’altra della città: e tutta la popolazione, impressionata e curiosa,
si era riversata, per la via Runzatu, verso la strada che da Tempio
conduce ad Aggius.

— Hanno ferito ed arrestato Pietro Vasa — si ripeteva da tutti con
accento che rivelava ad un tempo compassione, dispiacere, e curiosità.

— E sarà poi vero?

— Alcuni aggesi, venuti stamane a spron battuto, ne hanno sparsa la
notizia.

— E dove fu preso?

— In Nuragheddu, verso il mare.

— E non fece resistenza?

— Dicesi sia stato sorpreso nel suo stazzo, in mezzo ai figli ed alla
moglie.

— Ciò si capisce. Gli aquilotti si colgono più facilmente nei loro
nidi! Fu arrestato colà?

— No. Il Vasa era riuscito a fuggire dallo stazzo, ch’era circondato
dai carabinieri; ma, rifugiatosi in un chiuso, verso Nuragheddu, ivi, —
dicesi — fosse appiattato colui che l’ha colpito.

— Pietro Vasa lasciarsi cogliere così! È impossibile! Sotto c’è del
torbido.

— Qualcuno, certo, avrà guidato i carabinieri.

Questione di vendetta.

— E i carabinieri, al solito si saranno vantati del bel colpo!...

— Il qual colpo — si capisce — non verrà loro contrastato dal vero
feritore...

— Cosa vecchia!

Questi apprezzamenti si pronunciavano quà e là nei crocchi che si erano
formati per le vie. Da tutti, però, non si udiva mormorare che una sola
parola:

— _Lu colciu!_[26]

E, per vero, l’arresto di Pietro Vasa aveva prodotto una dolorosa
impressione nell’animo dei tempiesi. Egli non era ritenuto come un
assassino volgare, ma bensì come un traviato dalla fatalità degli
eventi. Tanto l’Antonio Mamia quanto il Pietro Vasa, erano due uomini
rispettabili, d’ingegno non comune, di sentimenti generosi, e di un
criterio ammirabile; essi però si erano lasciati trascinare da un
eccesso di malintesa suscettibilità, alla quale non vollero, o non
seppero opporre resistenza. I loro errori, più che a individuale
debolezza, debbonsi ascrivere alla natura di quell’alpestre regione;
dove il sole scalda, più che altrove, il sangue gagliardo che scorre
nelle vene dei galluresi.

— Eccolo, eccolo! — fu gridato da tutti; e la folla compatta irruppe
come un’onda scrosciante intorno al gruppo di armati che circondava
l’arrestato.

In mezzo ai sei carabinieri veniva condotto il bandito. Era stato
trascinato, a piedi, da Nuragheddu ad Aggius, e da Aggius a Tempio. Lo
seguiva una folla chiassosa, irrequieta, pazza.

Era proprio lui — Pietro Vasa; principio e fine, causa ed effetto:
l’uomo che aveva aperto e chiuso il libro d’una storia orrenda,
suggellandone col proprio sangue la prima e l’ultima pagina!

Pietro Vasa era stato assicurato con una corda a più giri che gli
serrava strettamente le braccia al corpo. Il suo cappotto, lacero e
infangato, ben rivela la disperata resistenza ch’egli aveva opposto,
quando, ferito, si era dibattuto fra i suoi assalitori.

Quà e là sugli abiti, sopra il petto, sulla barba, e specialmente sul
fazzoletto che gli avvolgeva il collo, vedevasi il sangue aggrumato,
che usciva ancora dalla larga ferita che aveva alla gola.

Quell’uomo faceva orrore e compassione. Egli volgeva gli occhi
all’intorno, fissandoli ferocemente sulla folla immensa che lo
attorniava, e che a stento veniva trattenuta dai carabinieri.

Tutte le finestre e le porte della via Runzatu erano gremite di
teste umane. Gli abitanti di Tempio erano accorsi frettolosi a vedere
quell’uomo — non tanto il forte bandito della Gallura, quanto la causa
prima della sanguinosa inimicizia ch’era durata oltre sette anni, e che
aveva immolato più di settanta vittime.

Eppure, quell’uomo insanguinato, pallido, lacero, legato come una
belva ai polsi ed alle braccia, strappò molte lagrime di compassione
in quella memoranda giornata! Senonchè Pietro Vasa non aveva l’aria
accasciata di chi sente paura perchè vede appressarsi il momento
dell’espiazione. Più che la ferita mortale che egli aveva alla gola, lo
pungeva e lo straziava la nervosità curiosa della gente che lo seguiva.

Con gli occhi fissi, pareva volesse dire agli astanti:

— Tremila contro uno? vigliaccheria! Provate a sciogliermi le mani e a
darmi un fucile, ed io sarò capace di sfidarvi tutti!

Il sangue colava sempre. E faceva dolorosa impressione vedere il Vasa
in quello stato, con le occhiaie livide, con le labbra violacee e la
barba insanguinata. Pietro era stanco e molto abbattuto per il cammino
fatto, per il sangue perduto e per la lotta impegnata dal suo corpo e
dal suo spirito. La sua faccia era cadaverica, le sue membra fiacche,
peste. I soli occhi conservavano un terribile lampo di alterigia, di
sprezzo, di sfida. Un giorno egli aveva detto: «vivo non mi prenderanno
mai» — e l’aver mancato alla sua parola era la più grande delle sue
umiliazioni. Anzichè vedersi fra i carabinieri, avrebbe preferito
presentare il petto ad un nemico: la sua morte sarebbe stata meno
infamante! E col sogghigno che gli stava sul labbro pareva dire alla
folla, che non era caduto per la bravura dell’_arma reale_ ma bensì per
il tradimento d’un nemico.

La ferita del Vasa era gravissima, e poteva apportare funeste
conseguenze. Una palla gli aveva traforato la gola parte a parte, senza
però intaccargli la trachea — caso unico, più che raro. E fu constatato
che quella palla non era uscita da un moschetto di carabiniere.

Pietro era rientrato in Tempio per la via Runzatu — per quella via
che si soleva far percorrere ai malfattori, quando venivano tratti
sul luogo del supplizio. E il lugubre pensiero si era in quel giorno
affacciato alla mente del celebre bandito.

Sempre seguito dalla folla tumultuante e curiosa, Pietro Vasa fu
accompagnato fino al carcere vecchio, dove venne rinchiuso.[27]

Lasciato solo nelle tenebre, Pietro stette in piedi alcuni minuti,
volgendo gli occhi in giro per esaminare la sua prigione... ma non ci
vedeva. Con le nari dilatate fiutò l’aria mefitica di quell’ambiente
angusto, umido, tenebroso, e la comparò all’aria pura e profumata
dell’aperta campagna, che per tanti anni aveva respirato. L’infelice
presentì che la porta del suo carcere si era chiusa per sempre dietro
di lui.

Solo, inquieto, ringhioso, Pietro aspettò per ventisette giorni il
giudizio degli uomini; ma prima di questo lo colse il giudizio di Dio.
In quel carcere, il 18 marzo 1859, spirò l’anima il celebre capo d’una
fazione che aveva seminato la strage ed il lutto nei territori della
Gallura.

Nelle ultime ore della sua malattia, presentendo la vicina morte,
egli ebbe due gioie: quella di non dover ripassare per la via Runzatu
seguito dal carnefice — e quella che nessuno lo avrebbe veduto
penzolare da un patibolo con la faccia rivolta al suo paese natale.[28]

Pietro Vasa era sceso nella tomba, quattro anni dopo il suo avversario
Antonio Mamia. I due capi, — il giovine ed il vecchio, il padre e il
fidanzato — si erano forse ritrovati alla presenza di Dio.

Le due ombre sdegnose erano andate a raggiungere le loro vittime e i
loro cari perduti. Ignoro se in Cielo abbiano fatto le paci; posso però
assicurare che in terra le loro partite vennero saldate.

Mariangiola — la innocente e prima causa degli odi dei Vasa e Mamia —
sopravvisse alla catastrofe — e vive tuttora, sposa ad un uomo ch’ella
adora, e dal quale è adorata.

                                   *

La vidi la prima volta nel luglio del passato anno 1883. Visitando
una sera la chiesa parrocchiale di Aggius, notai vicino alla porta
d’ingresso una vecchia accoccolata sul pavimento. Aveva le braccia
tese con abbandono sul grembo, il rosario fra le mani e gli occhi
rivolti all’altare, dove un prete dava la benedizione. Essa pregava
con fervore; di sotto al bruno fazzoletto le uscivano alcune ciocche
di capelli grigi: ma nei lineamenti del volto e nella grazia di tutta
la persona si notarono ancora la vestigia d’una bellezza non del tutto
distrutta dal tempo.

La fisonomia e l’atteggiamento di quella donna mi colpirono talmente,
ch’io chiesi di lei; e allora mi venne narrata la storia che ho
presentato ai lettori in questo libro.

La vecchia fissava con occhio spento l’altare maggiore — e recitava il
rosario.

Povera Mariangiola! Quanti pensieri dolorosi dovevano affollarsi
nella sua mente! Forse sulle spire d’incenso che uscivano dal turibolo
per salire al Cielo, ella vedeva ad una ad una sfilare le ombre dei
settanta morti che avevano attinto gli odi feroci ad un suo sorriso!
— E l’ultima vittima trascinata nel vortice della vendetta era stato
lui... Pietro — l’uomo che aveva mancato alla promessa d’amore, e
che aveva tradito l’_abbraccio_. E lo vedeva sempre là, con la gola
squarciata, tutto pallido e insanguinato! — e forse per lui solo erano
le preghiere ch’ella mandava all’Eterno, perocchè la donna non niega
mai il suo perdono all’uomo che ha amato — anche quando ella sa che ha
ricambiato il suo amore con perfidia ed ingratitudine!

Ed anche la Gavina — la figliuola di Anton Stefano — sopravvisse agli
odi delle due fazioni e vive tuttora a Bortigiadas, felice accanto al
suo adorato Giuseppe e ai cari figli. Ma, in seno alla sua felicità,
avrà ella dimenticato il muto, il maledetto dagli uomini, colui
che come un feroce fantasma si era rizzato minaccioso in mezzo alle
fazioni, strumento degli uomini e del destino?

Potenza della bellezza e dell’amore, supremi cardini della creazione!
La natura si è rivelata in tutta la sua vigorìa nella campagna
gallurese; ha estrinsecato la sua forza nei massi incrollabili di
granito, nelle quercie secolari e nella robustezza degli uomini. Ha
voluto però dare alle donne un’avvenenza, una grazia e un fascino tali
da poter col lampo ardente delle pupille, fulminare i più forti figli
della Gallura! E furono appunto due deboli e belle creature quelle che
suscitarono l’acerba guerra che per sette anni sparse il terrore ed
il lutto di quelle pittoresche regioni che sono la parte più eletta
dell’isola nostra.

Ma l’ira che tutto distrusse e seminò la morte, rispettò la bellezza;
quella bellezza che fu creata per apportare la vita.

Mariangiola e Gavina sopravvissero all’eccidio che fulminò la Gallura
ed entrambe andarono spose ad un uomo che non era il primo amato.
Pietro pagò il fio delle sue colpe terminando i suoi giorni nell’orrore
di un carcere. Bastiano invece...

Che ne fu del povero muto?


IV.

Mistero

Il muto era scomparso nell’ombra — al di là del monte nero.

Nessuno di lui seppe più nulla; nè vi ha alcuno in Gallura che sappia
darvi ragguagli sulla fine di quel disgraziato. Eppure il suo nome si
ripete sempre con orrore, come quello di un vampiro assetato di sangue
umano. I maggiori delitti a lui si ascrivono — ma nessuno saprebbe
dirvi a punto fisso il nome delle vittime da lui colpite.

Bastiano Tansu veniva chiamato il _Terribile_, ed era sordo-muto.

Sordo, non doveva udire la calunnia — muto, non poteva rispondere alle
accuse — _terribile_, non lasciava alcun dubbio sulla sua efferatezza!

Chi aveva colpito il muto? Dove, quando, come, perchè lo si era fatto
sparire? Mistero.

Quando la notizia della sua sparizione cominciò a circolare per gli
stazzi, non vi fu alcuno che si prendesse la briga d’indagare la verità
dell’asserto: non un parente che sorgesse a vendicarlo; non un amico
che corresse a domandarne il cadavere alle foreste di Cucurenza od alle
spelonche di Petra Màina!

E chi doveva occuparsi di lui? Sua madre era morta: Gavina si era
con altri fidanzata; gli amici lo avevano abbandonato — e i congiunti
ringraziavano il cielo per la sua sparizione.

Era stato forse tradito, venduto, assassinato?

Fin dal giorno ch’egli si annunciò al mondo col primo vagito, gli venne
negata la voce. Gli avvelenarono l’anima col fargli provare tutte le
torture dell’inferno — gli avvilirono il corpo negandogli la sepoltura
ed una croce — gli straziarono persino il nome, recandolo di bocca in
bocca, come quello d’un condannato all’infamia.

Sparì — nè di lui rimane più traccia.

Alla quarta pagina del registro dei NATI del 1827, esistenti negli
archivi della parrocchia di Tempio, è scritto: che il 29 del mese di
ottobre dell’anno suddetto, fu battezzato in quella chiesa Sebastiano
Addis Tansu, figlio legittimo e naturale di Andrea e di Agostina Razzu,
pastori d’Aggius.

Ma non vi ha libro in Gallura in cui sia registrata la sua morte!
Solamente alla pagina 76 del volume III del libro di morti d’Aggius
leggesi una memoria, dalla quale risulta; che nel giorno 28 di giugno
del 1858, i parenti di Bastiano il muto hanno fatto celebrare le sue
esequie, pregando pace all’anima sua. — E null’altro.

Cinque o sei mesi dopo la sparizione, si rinvenne vicino al rigagnolo
che solca il _Campu di lu tricu_, una fiaschetta di polvere legata
ad una catenella, che fu riconosciuta appartenente a Bastiano Tansu.
È l’unico oggetto che si ha di lui. Si fecero minute ricerche per
rinvenire il fucile — ma inutilmente. Esso forse — come il più fedele
degli amici — era sceso con lui nel sepolcro.

Molte e curiose versioni corrono sulla bocca dei galluresi a proposito
della separazione di Bastiano il muto.

Vi ha chi crede che gli stessi parenti, d’accordo coi nemici, abbiano
voluto disfarsi di lui per mettere tregua ai continui dissensi che egli
suscitava e di cui erano stanchi. — Altri asseriscono che la morte
di Bastiano ha troppo stretti rapporti col terribile dramma svoltosi
sulle alture di Petra Màina. Vi ha chi dice che Bastiano era figlio del
diavolo, e che il diavolo se l’abbia portato vivo all’inferno. — Altri
invece, vorrebbe, che Bastiano non sia morto, ma che siasi rifugiato
in qualche segreta spelonca della Gallura o della Corsica, dove vive
misteriosamente, facendo penitenza dei suoi peccati. Qualcuno, infine
è di parere che Bastiano non sia caduto vittima dell’odio altrui ma
che, stanco della vita, abbia cercato la morte in qualche inaccessibile
scogliera del litorale, o sul monte della Crocetta. Calatosi in uno
del profondi crepacci che circondano il gran tamburo, e inconsolabile
perchè nessuna donna lo aveva baciato, forse Bastiano chiese l’ultimo
bacio d’amore alla bocca infuocata del suo fucile.

Ad ogni modo — o assassinato, o suicida — non è improbabile che il muto
abbia cercato la morte perchè stanco della vita.

Chi lo sa? Quest’ultima versione — che in generale è la meno accettata
— potrebbe avere ancor essa un fondo storico. Certo è che ad una sola
donna in Gallura non è forse ignoto il giorno della sparizione del muto
— e questa donna è Gavina. E perchè il lettore porti il suo giudizio
sul curioso fatto riepilogherò brevemente l’accaduto nello stazzo
dell’Avru, dopo la morte di Anton Stefano.

                                   *

Fin dal giorno in cui Anton Stefano cadeva vittima della ferocia
del muto, il buon umore e la tranquillità erano spariti dallo stazzo
dell’Avru. La morte del buon vecchio doveva per fermo apportare un
notevole cambiamento negli affari e nelle abitudini della famigliuola.
Dalla mattina alla sera le cose presero un diverso indirizzo. Alla
gioia ed al cicaleccio espansivo che regnavano nello stazzo, erano
sottentrati il dolore ed il silenzio — al riso schietto ed agli scherzi
innocenti erano succeduti i pianti e la malinconia.

Morto Anton Stefano, la vedova capì subito che doveva far calcolo
sull’attività e sull’affetto di Giuseppe destinato a far parte della
famiglia; ed in questa lusinga raddoppiò di cure e di attenzioni verso
il volenteroso giovine, il quale si addossò l’incarico di sistemare gli
interessi della piccola azienda, cui le donne, per recente sciagura,
non erano in grado di pensare.

Non è a dire quale impressione avesse prodotto in Gavina la morte del
padre. Oltre il dolore per la perdita dell’autore de’ suoi giorni,
ella provava una viva inquietudine, ritenendo se stessa come unica
causa della catastrofe avvenuta nell’Avru. Non poteva soffocare la
voce misteriosa che l’accusava quasi di parricidio. Chi mai le avrebbe
detto che l’affetto nutrito per il muto doveva costarle la morte del
genitore?

Seduta sul limitare della porta, col capo chino, lavorando in silenzio,
Gavina bagnava di lagrime la stoffa che trapuntava. Ed era tanto bella
nel suo dolore! Le lunghe veglie ed il continuo pianto avevano resa
la sua carnagione più bianca e più trasparente; ma quel volto pallido
appariva assai più bello e gentile sotto il nero fazzoletto a frangie
che lo contornava. Con gli occhi bassi, e con le nerissime ciglia che
spiccavano sulle guancie color cera, Gavina pareva la madonnina dipinta
nella chiesetta di Petra Màina.

Giuseppe l’andava sempre divorando con gli occhi ed affrettava col
desiderio il giorno in cui doveva torla in moglie, per condursela a
Bortigiadas dov’erano tutti i beni e i suoi parenti. Più volte egli
aveva esternato il desiderio di celebrar le nozze dopo i sei mesi; ma
Gavina lo pregò di desistere da quell’idea, poichè le sarebbe sembrato
insultare la memoria del padre deponendo le vesti di lutto prima del
tempo stabilito dalla consuetudine. La vedova di Anton Stefano unì le
sue alle preghiere della figlia. Ella voleva ritardare il matrimonio
per due ragioni: la prima, perchè separarsi così presto dalla figliuola
le avrebbe fatto troppa impressione: la seconda, perchè Giuseppe,
dovendo stabilirsi con la sposa a Bortigiadas, non avrebbe potuto
aiutarla a sistemare gli affari dell’Avru.

Insistendo però Giuseppe nel suo proposito, si venne ad un accordo;
e le nozze furono stabilite per i primi di maggio, dopo dieci mesi di
lutto — con la condizione ben inteso, che gli sponsali, da celebrarsi a
Bortigiadas, si sarebbero fatti senza alcuna pompa.

Vi sono nella vita umana sentimenti che non si spiegano; essi hanno
misteriosi rapporti con cause intime, sulle quali ogni indagine
torna vana. Gavina si torturava l’anima per un fatto che trovava
inesplicabile. Ella sentiva che non provava per l’assassino di suo
padre tutto quell’odio, tutta quell’avversione che avrebbe ardentemente
desiderato — e se ne doleva come di un fatto dipendente dal suo volere.
Giunse a tanto la sua fissazione, che ella stabilì di rivolgersi a Dio,
perchè le destasse nel cuore il sentimento d’un odio implacabile per
l’assassino di suo padre. Ma Dio non esaudì la sua preghiera o, per
meglio dire, Gavina non ebbe mai il coraggio di unire quella grazia
alle altre che domandava a Dio nelle preghiere della sera!

                                   *

Spuntò finalmente il giorno desiderato — il giorno in cui Giuseppe
doveva togliere Gavina dallo stazzo per condurla al nido di
Bortigiadas, dove avrebbero formato una famiglia.

Da due settimane Gavina aveva deposto il lutto; e la notizia
dell’imminente matrimonio si era sparsa per tutti gli stazzi
circonvicini.

Fin dalla vigilia del fausto giorno, una profonda mestizia si era
impossessata di Gavina. La cara fanciulla era inquieta, preoccupata.
Per quanto grande fosse in lei la gioia di unirsi al suo caro Giuseppe,
non poteva uguagliare il dolore che provava nel lasciare la casa
paterna.

Era quella l’ultima notte che passava nella sua stanzetta di fanciulla,
piena di care memorie. All’indomani ella doveva staccarsi dalla madre,
dalle sorelle, dai vecchi servi di casa; doveva lasciar l’Avru —
quello stazzo dov’era nata, dove bambina l’avevano accarezzata, dov’era
trascorsa la parte migliore della sua giovinezza.

Gavina non aveva potuto dormire, aveva bagnato di lagrime il guanciale,
e volgeva lo sguardo all’intorno, come per dare un ultimo addio a quel
nido verginale dove aveva tanto sognato.

L’alba, col suo fioco raggio venne a battere allo spiraglio della
bassa finestra che dava sul cortiletto. Gavina sentiva i passeri che
cinguettavano sul tetto, e le pecorelle che belavano nell’ovile.

La punse il desiderio di balzare dal letto prima dell’ora, perchè
voleva sorridere al giorno, voleva affacciarsi alla finestra per
salutare la campagna, lo stazzo, i cari monti, il mare lontano; voleva
bevere l’aria profumata di quei luoghi ch’erano stati la sua culla, il
suo mondo, il suo paradiso.

Balzò dal letto, si vestì in fretta, e quasi discinta corse alla
finestra.

Coll’animo trepidante e col cuore che parea volesse balzarle dal seno
spinse al di fuori i due battenti per lasciare passare un buffo d’aria
fresca ed un raggio di sole....

Ad un tratto impallidì; fece un passo indietro, e mandò un grido.

Stette alcuni minuti immobile, con gli occhi fissi col seno ansante,
senza poter articolar sillaba.

Sul davanzale della finestra, che sporgeva al di fuori, c’era una
piccola medaglia di rame attaccata ad un cordoncino di seta nera.

— Bastiano è morto!! — esclamò Gavina raccapricciando e afferrò con
mano convulsa quella medaglia, che era bagnata di rugiada.

La fanciulla stette alquanto pensosa, e quasi istintivamente, la recò
alle labbra mormorando:

— La mia medaglia! Non poteva qui metterla che _lui_ solo!

E la fanciulla terse con una mano le lagrime, che scorrendo per le
guancie le cadevano sul seno.

— Povero Bastiano! — ella mormorò scuotendo melanconicamente la testa.
— Ha trovato modo di farmi sapere che non ha più bisogno di vivere! Un
giorno me l’ha pur detto: «quando sarò stanco della vita mi strapperò
la tua medaglia dal petto, e sarò sicuro di morire!»

Ad un tratto Gavina si scosse atterrita; e, quasi avesse commesso
un delitto, corse al suo lettino, s’inginocchiò dinanzi all’ulivo
benedetto e levando gli occhi al cielo esclamò:

— Perdonami, o padre mio, se in questo momento io prego per l’infelice
che ti ha colpito! — Dio ce l’ha pur detto di perdonare i nostri
nemici!

                                   *

La sera di quello stesso giorno Gavina abbandonava il nido verginale
dell’Avru per seguire lo sposo a Bortigiadas — e forse entrava nella
stanza nuziale nell’ora stessa che il sordo-muto scompariva al di là di
Cucurenza!

Resta solo a sapersi, se l’avviso del Gran tamburo lo abbia dato
il diavolo, o uno dei tre misteriosi incogniti che abbiamo veduto
alle falde del monte nero; oppure se Bastiano si sia tolto la vita
precipitandosi nei crepacci del monte Crocetta, o nelle scogliere
dell’Isola Rossa.

Chi lo sa? Mistero.

Il vecchio rettore d’Aggius — che assistette allo svolgimento dei
drammi d’Aggius e di Bortigiadas, e dal quale ho attinto molti
particolari della mia storia — chiuse l’orecchio ad ogni mia domanda
quando gli chiesi la fine del muto.

Il buon vecchio chinò sul petto la rugosa fronte, e mi disse
solennemente:

— La morte del muto sarà per tutti un mistero! Trattasi di un segreto
conosciuto da Dio in cielo, e da me in terra. Ma Dio non lo svelerà
agli uomini, perchè non fida nella loro giustizia: ed io lo porterò
nella tomba, perchè tale è il mio dovere!

Non disse altro.

E giacchè il segreto della confessione è inviolabile, domandate del
muto ai rulli misteriosi del Gran tamburo, quando sui graniti maledetti
piomba l’ira delle tempeste!




INDICE


  Dedica                                      Pag.  3

  PARTE PRIMA

  PRELUDIO

  I.    — Nell’ombra                           »    5
  II.   — Aggius                               »    8
  III.  — Il Monte della Crocetta              »   11
  IV.   — L’infanzia del muto                  »   16

  PARTE SECONDA

  I VASA E I MAMIA

  I.    — Mariangiola                          »   21
  II.   — L’abbraccio                          »   25
  III.  — Mestizia nella festa                 »   29
  IV.   — Odio vince amore                     »   34
  V.    — Il battesimo del muto                »   40
  VI.   — Una partita sleale                   »   44
  VII.  — La rivincita                         »   51
  VIII. — La posta al cinghiale                »   53
  IX.   — Le paci d’Aggius                     »   56

  PARTE TERZA

  GLI AMORI DEL BANDITO

  I.    — Un raggio nelle tenebre              »   61
  II.   — Gli effetti d’una lusinga            »   67
  III.  — Le piccole attenzioni                »   71
  IV.   — All’ombra delle spine                »   76
  V.    — I regali del muto                    »   82
  VI.   — Battaglie dello spirito              »   87
  VII.  — Il cugino Giuseppe                   »   90
  VIII. — La domanda di matrimonio             »   97
  IX.   — Tra madre e figlia                   »  103
  X.    — Un giuramento                        »  107
  XI.   — Cuor di madre                        »  109
  XII.  — Si rompe ogni indugio                »  112
  XIII. — Vendetta                             »  118

  PARTE QUARTA

  FINALE

  I.    — Sulla china del monte                »  125
  II.   — Il Gran Tamburo                      »  131
  III.  — Pietro Vasa                          »  138
  IV.   — Mistero                              »  143




NOTE:


[1] Appartengono pure alla Gallura, Terranova, Nuchis, Maddalena,
nonchè Monti e Berchidda, sebbene questi due ultimi siano passati
da parecchi anni alla giurisdizione del Tribunale di Sassari ed alla
Pretura di Oschiri.

[2] «Aggius mio, e quando verrà il giorno che ti porterò via in un
turbine?» (Vedi note di SPANO all’_Itinerario_ del Lamarmora.)

[3] Vedi Editti e pregoni emanati per il Regno di Sardegna sotto la
R. Casa di Savoia fino all’anno 1774, riuniti per comando di Vittorio
Amedeo III (Cagliari 1776).

[4] Lettera originale in data del 12 luglio, esistente nei R. Archivi
di Stato e da me consultata. In essa leggesi: «Contro i perfidi pastori
di Aggius perchè si usi il massimo rigore, senza remissione. Quella
sciagurata gente è ormai arrivata al colmo dell’iniquità. Esauriti
tutti i mezzi, rimane quello di ridurre in cenere quel villaggio,
dividendosi gli abitanti in tante diverse popolazioni fuori della
Gallura.»

Il Conte di Moriana morì a Sassari, e fu seppellito nella Cattedrale,
dove vedesi il suo monumento, fatto eseguire dal re Carlo Felice.

[5] La Mariangiola era tanto bella, che gli studenti aggesi la
chiamavano per antonomasia l’Elena Sarda.

[6] La similitudine in queste cerimonie, varia sempre; ora si raffigura
la sposa ad una cara e graziosa agnelletta: ora ad una melodiosa
capinera, ecc. ecc. Talvolta è il padre dello sposo che si reca nello
stazzo del padre della ragazza per cercare la pecorella smarrita. Il
messaggero fa il giro della stanza per esaminare ad una ad una le donne
che vi sono sedute, fa un grazioso complimento a tutte, ma dice: non è
questa; finchè si ferma dinanzi alla sposa dicendo: l’ho trovata!

«Il chiedere per isposa una fanciulla sotto il velame della parabola
— scrive il Bresciani — è tutto modo orientale. Nella Bibbia se ne
trovano molti esempi. La moglie di Urìa viene raffigurata dal profeta
Natan ad un’amorosa agnelletta perduta. — Sansone dà il nome di vitella
alla sua sposa, ecc. ecc.»

[7] Fra i poeti sardi estemporanei, i galluresi occupano per certo
il primo posto; non v’ha chi li eguagli nell’egloga, nell’elegia e
nella satira. Scrive il Bresciani: «In Gallura mi accadde di ascoltare
egloghe mirabilissime, e poetar quei pecorari e quei caprari come i
Menalca, i Melibei e i Titiri di Virgilio.»

[8] È questa un’espressione assai frequente in bocca dei Galluresi,
quando vogliono dire che non si recheranno dal loro nemico, se non
per accompagnarne la salma al camposanto; e ciò alludendo all’usanza
di tenere il berretto sotto l’ascella quando si fa parte di un corteo
funebre, o religioso.

[9] Si assicura, che difatti il Mamia avesse affidata la sua figliuola
a vari suoi congiunti, i quali insieme ad alcuni parenti del Vasa,
si portarono una mattina alla chiesa rurale di S. Pietro di Ruda
(luogo prestabilito) dove sarebbesi pur trovato Pietro Vasa e donde si
sarebbero tutti recati alla Trinità di Agultu per la celebrazione del
matrimonio. Senonchè, arrivata sul posto la comitiva, invano attese per
più ore l’arrivo di Pietro. E stavasi in pensiero, quando arrivò colà
Michele Tansu per avvertire quelle rispettabili persone che Pietro Vasa
si era assentato dal proprio stazzo fin dal giorno precedente, e che
era inutile aspettarlo. Si può immaginare il furore di Mamia quando dai
congiunti gli fu restituita la figliuola.

[10] Dicesi, che ottenuto il certificato di stato libero, il Vasa,
volendo maggiormente indispettire il Mamia, al affrettò a riconciliarsi
col Pileri, indennizzando questi dei pretesi danni. Tanto nel tuo cuore
era penetrato il puntiglio.

[11] Questo fatto mi venne riferito dallo stesso prete, allora rettore
della Trinità di Agultu.

[12] Fu detto che il Tansu, in compagnia d’un altro, avessero tentato
di sorprendere il vecchio, che stava seduto in un suo orticello,
coltivato a fave. Andata a vuoto la scarica da loro fatta, il vecchio
puntò il suo fucile verso i fuggenti, e uccise il Tansu. Onde più d’uno
disse, che il Tansu si avesse procurata la morte da sè stesso.

[13] La prefica improvvisatrice soleva essere d’ordinario la più
giovine; essa teneva le lodi dell’estinto, e talvolta eccitava i
parenti alla vendetta. Quest’usanza molto in voga nella prima metà del
secolo, andò man mano decadendo, ed oggi è quasi cessata. Ben è vero
però, che anche oggidì le madri, le sorelle, e i parenti che assistono
ai funerali, prorompono in nenie, rammentando le doti dell’estinto.

[14] La fontana dell’ampolla è sul Limbara; così chiamata perchè dicesi
che immergendovi una bottiglia, questa si rompe sotto l’azione del
gelo.

[15] Anche l’uso di mettere i morti col piedi alla porta riscontrasi
nei popoli orientali, come le nenie. Leggesi nell’Iliade d’Omero.

    D’acuto acciar trafitto egli mi giace
    Nella tenda co’ piè volti all’uscita,
    E gli fan cerchio i suoi compagni in pianto.

[16] Lu mè cori (Cor mio) Espressione molto abituale in Gallura.

[17] Recipiente di sughero con lungo manico di legno, usato in molte
regioni della Sardegna per attingere l’acqua dal tinello.

[18] Arrumbà rocchi, oppure fusili, significa appoggiare al muro,
in un’angolo della stanza, la cannocchia od il fucile; e siccome gli
uomini galluresi non lasciano mai lo schioppo, e le loro donne stanno
sempre in casa a filare, Pietro alludeva alla morte degli uni e delle
altre, a seconda l’oggetto che loro appartiene.

[19] Mi risulta da relazioni ufficiali, che gli omicidi commessi nelle
inimicizie dei Vasa e dei Mamia ascesero alla rilevante cifra di 74,
tra i consumati e i mancati. E si noti che i mancati furono pochissimi,
poichè l’aggese (come suol dirsi) sa mettere la palla dove mette
l’occhio.

[20] La stessa notte del 26 maggio, l’Intendente Orrù aprì le sue
sale a molte notabili persone, tra le quali al capi principali delle
fazioni Vasa, Pileri e Mamia. Fu offerto uno splendido trattamento di
vini e dolcerie; ed un pastore improvvisò una poesia di circostanza, la
quale in pochi giorni corse sulla bocca di tutti, ed è tuttora viva in
Gallura. Eccone la prima strofa.

      Fistini Templu faci,
    Faci festa la Gaddura:
    E ca la paci assigura
    Vera paci in cori senti,
    Vivia, dunca, l’intendenti
    Veru strumentu di paci!

[21] Bastiano Tansu aveva una figura simpatica. Ecco il giudizio
pronunziato dal giudice di Aggius, quando fu inviato in missione per
trattare le paci con Pietro Vasa. Egli mi scrive: — Il famigerato
bandito sordo-muto Sebastiano Razzu Addis Tansu, detto per antonomasia
il _terribile_, era un bell’uomo che a prima vista affascinava: i suoi
occhi esprimevano un’eletta intelligenza, da non resistere a lungo
se si fissava: ed io, che prima non lo conosceva, devo confessare
che mi sentii attratto verso di lui da un’irresistibile sentimento di
simpatia, quantunque lo sapessi macchiato di sangue umano e non nego
che mi spiacque la sua sordaggine e il suo mutismo, perchè non mi
permettevano di appiccar discorso con lui.»

[22] L’Inferno è una boscaglia ricca di quercie, elce, corbezzolo,
scopa e diverse specie di legno ceduo; talmente fitta, da rendere quasi
impossibile l’uscita a chi non ne conosca i laberinti. Fu il ricovero
di molti banditi — e da ciò il nome datole d’inferno (L’infarru). È
distante una mezz’ora dall’Avru.

[23] È la fontana da cui attingono l’acqua quelli dell’Avru, a mezzo
tiro di fucile dallo stazzo. È chiamata «li frassiggioli» (piccoli
frassini) forse perchè un tempo era circondata da tali piante. Intorno
all’Avru sono molte sorgenti, le quali si riuniscono nel «canali mannu»
fiume che scorre nella valle, dov’è la strada che conduce a S. Giovanni
di Coghinas.

[24] In Gallura si dà il nome di lune elle palme benedette infisse
ad un ramoscello d’ulivo, o di altra pianta; e ciò in grazia della
forma di stella che esse hanno. Veramente la somiglianza non calza
troppo — ma è accettata per buona dell’antichissimo vocabolario della
consuetudine.

[25] Questa pianta color sangue è conosciuta in Gallura sotto il nome
di «ua di maccioni» (uva di volpe).

[26] «Lu colciu» Espressione comunissima in dialetto tempiese, e
significa: lo sventurato! Il poveretto.

[27] Queste carceri vecchie furono demolite nel dicembre del 1683 per
edificarvi il nuovo mercato. Sui neri graniti di quel lugubre edificio
era una lastra in cui leggevasi: Condè d’Altamira 1603 — forse perchè
riedificate o restaurate sotto quel Vicerè, durante il viaggio ch’egli
fece in quell’anno nell’Isola.

[28] I condannati a morte venivano in Tempio giustiziati sulla piccola
spianata che trovasi all’uscita della via Runzatu; e il patibolo si
erigeva in modo, che il condannato dava le spalle alla città di Tempio
e la faccia al paese d’Aggius.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK IL MUTO DI GALLURA ***


    

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