The Project Gutenberg eBook of L'incantesimo This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: L'incantesimo Author: Enrico Annibale Butti Release date: November 6, 2023 [eBook #72053] Language: Italian Original publication: Milano: Treves, 1897 Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by the Bibliothèque nationale de France (BnF/Gallica)) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK L'INCANTESIMO *** E. A. BUTTI L’INCANTESIMO ROMANZO. MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI 1897. PROPRIETÀ LETTERARIA _Riservati tutti i diritti, compreso in Isvezia e in Norvegia._ Tip. Fratelli Treves. ALLA MEMORIA SACRA DELLA MAMMA 4 gennaio 1895. I. LA SIRENA. Nota dell’Autore. Le idee politiche e sociali, attribuite al protagonista di questo romanzo, sono state attinte in gran parte dagli articoli che il compianto conte Alberto Sormani pubblicò nella _Idea Liberale_. Debbo anzi soggiungere che il concetto fondamentale dell’opera nacque e si svolse in me sùbito dopo la morte del carissimo e nobilissimo compagno, avvenuta nella estate dell’anno 1893, — morte che tante e sì belle speranze troncò, disperdendo, per un oscuro capriccio del Destino, una moltitudine di possibilità insolitamente lusinghiere. Ne _L’Incantesimo_ non è la Morte che distrugge. Un altro gran fatto della Vita esercita razione dissolvitrice su l’individuo, un altro fatto elementare, generale e continuo — come la Morte — che agisce forse con minore lestezza, ma certo con uguale intensità e altrettanta efficacia. Queste cose ho voluto dire, innanzi tutto per ricordare in fronte alla mia opera il nome dell’amico perduto, che l’ha ispirata; e poi anche, per mettere in guardia il lettore su la conclusione di questa prima parte, conclusione che non è definitiva. E. A. B. I. L’APPARIZIONE. Una campanella acuta e stridula singhiozzò ostinatamente nel silenzio. Il giovine conte Aurelio Imberido, allo squillo subitaneo, si scosse con un moto brusco su la sedia a sdrajo, dov’era caduto in sopore mentre studiava e meditava con un grosso volume di economia politica tra le mani; fissò per un attimo, istintivamente, gli occhi ancor torpidi su la pagina aperta del libro; poi lo scagliò d’un tratto lontano, verso una tavoletta d’ebano già tutta ingombra di fascicoli e di fogli scritti. Il libro cadde a terra in piatto, sollevando un romor secco d’esplosione e un nuvolo di polvere. Era l’ora del tramonto: dalle stecche delle persiane richiuse, un livido chiarore penetrava a pena nella camera, come una triste luce lunare. A poco a poco l’aria ambiente era andata imbrunendo durante il sonno del giovine, e al richiamo della campanella questi con suo ingrato stupore s’era trovato là disteso e immemore, avvolto in una semioscurità che non gli permetteva più di distinguere i caratteri del libro in lettura. Egli ebbe nel levarsi un gesto d’ira, quasi di sdegno contro il suo frale organismo che gli aveva rubato per riposarsi un tempo prezioso; e si diresse a passi concitati verso il vano del balconcino. Spalancò le persiane con violenza, e uscì fuori all’aperto. La stanza da studio guardava a levante, incontro alla collina e al vecchio giardino del palazzo dagli alti abeti, dai grandi cedri svettati, dalle innumerevoli statue bianche. In quel chiuso paesaggio i rossori del tramonto non mandavano un riflesso; ogni tinta vi si ammorbidiva, assumendo tonalità viepiù discrete e quietanti. Il cielo appariva già cupo, sebben non anche solcato da stella; le piante nell’orto, le vigne serpeggianti lungo i lividi scaglioni, le praterie presso i culmini parevan fresche e umide come dopo una pioggia; soltanto, dietro la linea pacata dei colli, la nuda solitaria piramide del Sasso del Ferro si slanciava verso l’azzurro, ancor rosea e calda dell’ultimo bacio solare. Aurelio, appoggiato con le braccia alla ringhiera, guardò la montagna luminosa con uno sguardo corrucciato, in cui una punta d’invidia pareva. Era pertinace il suo dispetto; egli non poteva perdonarsi quelle due ore d’incoscienza, che il suo corpo aveva pur dritto d’esigere dopo una notte insonne. La sua paradossale opposizione alle leggi della Natura aveva sofferto un’altra piccola sconfitta: egli s’era imposto di studiare fino all’ora del pranzo, e non l’aveva potuto perché il sonno gli era piombato sopra d’improvviso, strappandolo alla sua volontà. — Il giovine, com’era abituato dalla solitudine e dalla vita contemplativa alle riflessioni larghe e sintetiche, pensò a questo duello strano, disperante che la sua tempra di ribelle gli imponeva anche contro l’Invincibile; e sorrise mestamente, non senza però un certo fondo di simpatia e d’ammirazione per la sua bellicosa debolezza. Aurelio Imberido contava a quel tempo venticinque anni o poco più. Di statura media e alquanto esile, se non eran le sue forme complessive quelle del perfetto tipo virile, aveva egli bensì una testa singolarmente nobile, che sola bastava a designarlo come il prodotto d’una razza superiore, diretta da secoli per una serie di generazioni progressive verso le sommità della Specie. Il naso lungo, profilato, regolarissimo, partiva dalla fronte estesa, alta e ben lunata, disegnando una linea diritta, a pena un po’ prona su la fine; la bocca era larga, sincera, senza pieghe malinconiche o amare; sotto la breve barba nera a punta, il mento e l’arco dell’osso mascellare, a bastanza sviluppati, chiudevano armonicamente ed energicamente l’ovale del suo viso. Contrastavano con la forza e la purezza di tutti i suoi lineamenti gli occhi e il color della pelle: gli occhi piccoli e glauchi, che parevan coperti come da una tenue velatura lattea, nel rossore delle palpebre e della cornea accese da un’ostinata infiammazione; il color della pelle, ch’era femmineo, bianchissimo, anzi pallido, d’un pallor tenero e unito senza irradiazioni rosee e senza livide ombre. Il portamento altero del capo, la foga del gesto, certi sguardi profondi, investigatori, talvolta quasi molesti nella loro velata fissità, l’uso assiduo d’abiti oscuri e di cappelli flosci caratterizzavan così la sua persona, che vista una sola volta non si poteva dimenticare mai più. Estremo discendente d’una famiglia aristocratica, che aveva dato alla storia più nomi illustri di capitani e di diplomatici, il conte Imberido dai primi anni di giovinezza aveva sentito il bisogno di dominare, di farsi largo tra la folla, d’empire il mondo della sua persona e delle sue virtù. La sua famiglia, un tempo doviziosissima, aveva attraversato nell’ultimo secolo un periodo disastroso: le rivoluzioni avevan sottratto gran parte delle antiche ricchezze all’avo suo Gian Franco, morto gloriosamente in esilio dopo aver sacrificato ai nuovi ideali democratici anche le tradizioni della sua stirpe, sposando per amore la figlia d’un martire, povera e di modestissime origini. Il padre suo Alessandro, superbo e sensuale, forse per nascondere la sua ruina agli altri e a sè stesso, aveva sperperato in lusso e in vizii il resto del patrimonio avito e quasi intera la dote della moglie, un’assai nobile donna che il primo parto aveva condotta irrimediabilmente al sepolcro. In fine anch’egli, ebete e distrutto, s’era spento ancor giovine, lasciando nelle strettezze il figliuolo poco più che trilustre e la vecchia madre sessantenne. Aurelio rimase così, orfano e quasi miserabile, erede d’una secolare tradizion di grandezza, in faccia all’avvenire fosco e minaccioso. Il suo spirito si temprò nella sventura e nell’abbandono. Egli comprese sùbito che lo studio, solamente lo studio nei tempi nostri avrebbe potuto renderlo degno del suo nome e capace di riaccendere intorno a questo una nuova aureola di superiorità e di potenza. Si nudrì adunque di letture varie e profonde, esercitò il suo ingegno in ogni campo dello scibile, sviluppò le sue preziose facoltà con le meditazioni più acute e le ricerche più diligenti. E, sfuggendo ogni occasione di svago e di riposo, s’appartò in una specie di chiostro intellettuale dove gli echi del mondo non gli giungevan che affiochiti come voci sotterranee e irreali. Fu in una siffatta solitudine che si precisarono a poco a poco le sue ingenite tendenze di dominatore: gli insegnamenti della filosofia positiva e sopra tutto quelli della sociologia e dell’economia politica gli aprirono un vasto orizzonte d’azione e di ridenti possibilità. Eran le lotte della vita pubblica, che lo chiamavano, che promettevano al suo sogno d’effettuarsi: per esse non avrebbe mancato, con la sua intelligenza, la sua coltura e la sua forza morale, di togliersi dall’oscurità in cui era immeritatamente caduto e divenire una persona insigne, un condottiere d’uomini inermi, come già qualche suo avo era stato d’uomini armati. Uscì a vent’anni, gravido di scienza e d’illusioni, dalla sua biblioteca, dove omai gli pareva di soffocare, e si gittò tosto perdutamente nella mischia, tra la folla, alla dolorosa conquista d’una gloria. La sua ingenua sincerità, la singolarità delle sue idee, lo splendore della sua dottrina non tardarono ad attirare su lui l’attenzione malevola di tutti quanti già combattevano nella lizza politica, sciupati dal contagio popolare, corrotti dall’esperienza, avvelenati da una vanità insodisfatta o dalle umili esigenze della vita quotidiana. La Rivista di sociologia, ch’egli aveva fondata con quattro o cinque coetanei trascinati dal vento del suo entusiasmo, fu accolta da costoro con l’indifferenza beffarda che schiaccia senza toccare: essi risero discretamente alle sue spalle, malignarono un poco sul suo gran nome e su la sua povertà, lo giudicarono uno spirito eccentrico e malfermo, poi continuarono tranquilli la loro via senza più curarsi di lui o di quanto egli scrivesse. Questo primo insuccesso tra le persone più autorevoli della città non fece che spronare il giovine a proseguir la sua campagna con maggior pertinacia e con miglior discernimento: abituato in solitudine a giudicar tutto e tutti indipendentemente dall’opinione comune, egli si sentì onorato dalla sorda ostilità e dal disdegno, che gli venivan tributati da gente ambigua, spregevole, senza coltura e senza convinzioni di sorta. E, più che non mai fiducioso nel suo programma che sapeva fondato sopra solide affermazioni della scienza e della filosofia, si diede ben tosto a ricercare altrove il suo pubblico di seguaci e d’ammiratori. Era una grande opera di restaurazione sociale ch’egli aveva meditata e voleva pazientemente iniziare. — Gli statuti, le leggi, le formule correnti e le teorie preferite nei tempi nostri minacciavano, secondo lui, il progresso avvenire della Specie, poiché tendevano a soffocare la lotta per l’esistenza, a rinnegare il principio ereditario, a distribuire i diritti e i poteri e i beni con criterii astrattamente numerici in opposizione agli esempii della Natura. Le torbide condizioni della società contemporanea, abbandonata omai all’arbitrio delle masse, dipendevano sopra tutto dall’acquiescenza quasi criminosa delle classi superiori, che avevano piegato il capo sotto la violenza o si eran morbosamente commosse alle declamazioni e ai sofismi della democrazia. Rassegnati o apóstati, gli uomini che, affinando il corpo ed elevando lo spirito con le più aspre discipline, avevan già tenuto nelle loro mani i destini della razza, erano in atto d’abbandonare armi e insegne a coloro, che una lunga servitù e una secolare ignoranza rendevano indegni nonché di governare e di giudicare gli altri, anzi di godere della stessa loro libertà d’azione e di pensiero. Occorreva dunque risvegliare dal letargo o dal sogno quei nobili immemori della loro storia; occorreva chiamare sollecitamente a raccolta tutti quelli che si erano adattati al presente stato di cose, per debolezza, per inerzia o per disdegno; occorreva ricostituire una nuova aristocrazia battagliera con i resti dell’antica e i doviziosi e gli eletti, per arrestare a forze riunite il cammino della barbarie plebea, ebra dei successi ottenuti, bramosa di devastazioni e di rapine. Con un programma così audace e insolente, esposto però con sottile abilità, senza precipitazione e senza intemperanza di parole, la Rivista dell’Imberido trovò alfine un pubblico di curiosi e d’apprezzatori laddove appunto egli desiderava, tra le persone cólte e facoltose, tra gli uomini di scienza, tra i filosofi, tra gli artisti. La cerchia dei collaboratori venne man mano allargandosi; la polemica con gli avversarii, sopra tutto socialisti, s’accese vivace e cortese; uno scambio elevato d’idee si determinò tra i due campi, precisandone gli intendimenti, lumeggiandone la profonda divergenza di principii, preludendo pacificamente alla gran lotta che i tempi maturano e l’avvenire dovrà decidere in favore degli uni o degli altri. Ma il giovine non poteva appagarsi del successo di curiosità ottenuto dal periodico, né della effimera nomea che gli davano i suoi articoli succosi e cristallini. Egli voleva lasciare una traccia più notevole e più duratura di sè; egli voleva organizzare in un libro il complesso delle idee che spargeva disordinatamente e a seconda delle occasioni nella Rivista. Ottimo consiglio gli parve, poiché omai il periodico aveva conquistato pubblico e fortuna, il ritrarsi dalla lotta viva, per qualche tempo; molto più che la stagione calda incominciava, e la città era divenuta intollerabile sotto un sole assiduo che fiaccava forza, volontà e ingegno. Durante la sua assenza, i compagni senza difficoltà avrebber potuto continuare l’opera da lui intrapresa, e al bisogno egli, anche da lontano, li avrebbe sorvegliati e consigliati a dovere. Dopo aver raccomandato la Rivista alla direzione d’uno de’ suoi più ardenti collaboratori, il giovine avvocato Zaldini, egli, con un’enorme cassa di libri e di carte, si ritirò in un piccolo villaggio del Verbano, a Cerro, dove contava di passare l’estate e l’autunno in un assoluto isolamento. Il palazzo, di cui l’Imberido aveva preso a fitto soltanto l’ala sinistra, era un antico monasterio divenuto più tardi dimora padronale. Seduto maestosamente a mezzo del villaggio su un rialto erboso, esso apriva le sue rade finestre e i suoi due rozzi balconi laterali a una vista superba, di fronte alla massima estensione del lago, che ivi s’ingolfa profondamente verso la valle del fiume Toce e le creste del Sempione. Era un’architettura primitiva, quasi immutata dal tempo in cui i monaci l’avevan costrutta: liscia, densa, disadorna nel suo esterno, s’alleggeriva e s’aggraziava internamente dove un cortile recinto da un doppio ordine di portici diceva ancora il gusto e la possanza degli antichi proprietarii. Le stanze eran tutte a vólta, semplicissime, ben quadrate, sebbene un po’ tenebrose per la scarsità e l’angustia delle luci. A pian terreno un pertugio a mo’ di grotta metteva in comunicazione il cortile col primo spianato d’un giardino veramente mirabile. Il palazzo confinava da una parte col letto d’un torrente sempre gravido d’acque, dove i pallidi armenti scendevano al meriggio per dissetarsi; dall’altra parte, con la piazza principale del Comune, una ristretta superficie inclinata verso il lago, cui facevan corona alcuni abituri addossati l’uno all’altro in disordine e l’umile prospetto della chiesa parrocchiale. Il villaggio poi era quieto, muto, come spopolato; un rifugio di pescatori insociabili, che parevan uscire soltanto a vespro dalle dimore per mettere, su la riva già ottenebrata, mobili profili neri, simili a fantasmi. La campanella acuta e stridula squillò un’altra volta, anche più a lungo nel silenzio. Aurelio, ch’era rimasto immobile al balconcino, gli sguardi perduti nel vuoto, forse oppresso ancora dai residui della sonnolenza, si scosse. Quel secondo richiamo era dedicato a lui che, come d’abitudine, tardava a presentarsi alla mensa; ed egli, dallo strappo vibrato, disuguale, sebbene un po’ debole, che moveva la campana, riconobbe esser la nonna medesima che lo sollecitava. Con un atto neghittoso si passò le mani su gli occhi, quasi si fosse risvegliato in quel punto, rientrò a passo incerto nella camera già invasa dall’ombra, raccattò il libro caduto a terra, e poi si risolse non senza sforzo a discendere per il pranzo. La mensa era preparata nel mezzo d’una gran sala umida e tetra a pian terreno, assai più lunga che larga, le cui pareti tra le scrostature, le livide macchie e le pallide emanazioni del salnitro mostravan qua e là brani a pena decifrabili di pitture a fresco. Quella piccola tavola rettangolare, così bianca nella bianca tovaglia su cui piombavan concentrandosi di sotto al paralume opaco i raggi bronzei della lampada, pareva fosforescente nella vasta oscurità del luogo. Aurelio, dopo un breve indugio su la soglia, entrò. Donna Marta, che stava già seduta al suo posto di fronte all’uscio e mangiava, alzò il viso dalla scodella fumante per gittargli uno sguardo gonfio di rimproveri. Era una vecchia donna d’oltre settant’anni, magra, distrutta, rattrappita, pallida d’un pallor cereo, quasi orrida nei lineamenti che l’età e l’indole impulsiva avevan devastati: un gran naso aquilino, cartilaginoso, spiccava in maniera grottesca nel mezzo della sua faccia; il mento, troppo forte e sporgente, faceva sì che il labbro di sotto soverchiasse quello di sopra fin quasi a coprirlo; i capelli grigi e copiosi, inanellati alla foggia antica, ondeggiavanle a cernecchi intorno alle orecchie e su l’occipite con una triste caricatura di giovinezza. Eppure ella non era fastidiosa nè ripugnante a vedersi, specialmente se la si osservava con un poco d’attenzione e di continuità. In fatti nel lampo degli occhi, due grandi occhi nerissimi dilatati da una lunga malattia al cuore, e nel facile sorriso che scopriva la dentatura ancor ricca, e nella mobilità vertiginosa delle espressioni, donna Marta possedeva una specie di grazia affascinante che accattivava la simpatia di chiunque la conoscesse. — È almeno mezz’ora che t’aspetto! — ella brontolò sordamente, fissandolo con la faccia scura. — Come sempre, mi son dovuta risolvere a pranzar sola. Nessuno al mondo, per tua norma, non mi ha mai fatto aspettar tanto: nè il tuo povero padre, nè il mio povero marito. Essi però mi rispettavano, mentre tu non hai proprio alcun riguardo per me!... Era la solita occhiata minacciosa che lo riceveva quand’egli compariva in ritardo su quella soglia; eran le solite parole aspre con le quali s’inaugurava troppo spesso il pasto familiare. Senz’aprir bocca, con un lieve sorriso benevolente su le labbra, il giovine sedette a tavola, versò flemmaticamente la sua parte di zuppa nella scodella e incominciò a mangiare. Egli aveva fatto l’abitudine a queste brusche accoglienze. Egli d’altra parte sapeva che l’umore dell’avola non poteva avere stabilità e tra poco ella medesima si sarebbe dimenticata d’essere in urto con lui. In quel cervello bizzarro le idee, le imagini, le volizioni si rincorrevano con una singolare rapidità, senza un nesso determinato, per un principio di degenerazion nervosa che la rendeva intollerante di qualunque stato fisso dello spirito. Tacere adunque, in aspettazione della prossima crise psichica, era ancora il miglior sistema per vivere in concordia e in armonia con lei. Un silenzio seguì. Fu donna Marta che parlò prima; e parlò amabilmente con la sua voce chiara e giovenile dei momenti buoni, che tanto contrastava con la decrepitezza della sua figura. — Aurelio, sai dunque la gran novità? — Che novità? — domandò il giovine, sorridendo. — Eh, càspita, sono arrivati i nostri vicini, or fa una mezz’ora. È stata una festa per questo paese! Cerro è tutto in fermento: la spiaggia d’avanti al palazzo sembra un magazzeno di casse, di cassette, di bauli, di valige! Tu vedessi: la popolazione vi si è riversata in massa per assistere allo sbarco, per prender parte all’opera di sgombero che continua ancora. E il ricevimento degli ospiti fu clamoroso, addirittura trionfale: ò visto alcune contadine che sventolavano i fazzoletti, mentre i monelli grandi e piccini gittavano in aria i berretti, urlando a squarciagola: «Evviva, evviva!» Ti garantisco: una scena curiosa che mi à divertita più che a teatro! La vecchia parlava assai forte, alternando le intonazioni basse della voce con le acute, sottolineando le frasi con certi gesti enfatici che la mettevan tutta scompostamente in agitazione. A ogni tratto però era costretta a interrompersi per riprendere il fiato; e lo sforzo era visibilmente penoso. — E perché tanto chiasso per alcuni villeggianti che arrivano? — chiese Aurelio con un’aria d’indifferenza. — Per noi non si è fatto niente di simile, mi pare. — Càspita, si capisce! Tutti li conoscono qui in paese: sono ormai dieci anni che vengono a passar l’estate e l’autunno a Cerro. E poi l’ingegnere, lo sai, è amministratore di tutte le possessioni che ha nei dintorni la marchesa de Antoni. Qui anzi lo si chiama senz’altro: il Padrone. — Il Padrone! — ripetè il giovine con un sogghigno amaro, rivedendo d’innanzi a sè la figura imbelle e servile dell’ingegner Boris. — Sicuro. Questa buona gente non ha mai visto e conosciuto che lui: se ha ricevuto del danaro fu dalle sue mani; se ne ha consegnato fu nelle sue mani. È naturale che lo si creda il proprietario e lo si chiami così. — Naturalissimo, — egli soggiunse per troncare il discorso. La notizia dell’arrivo inaspettato l’aveva turbato e reso un po’ perplesso. Egli non conosceva le abitudini de’ suoi vicini, e temeva che queste potessero in qualche modo disturbarlo o distoglierlo dalle sue occupazioni. Aveva voluto esser solo, libero, sottratto agli strepiti e agli svaghi: per ciò solamente s’era risolto a lasciare non senza rimpianti la città e a ritirarsi in campagna. Anzi, nel prendere a fitto una metà del palazzo di Cerro, l’Imberido s’era particolarmente informato di coloro che avrebbero abitato l’altra metà, e aveva saputo che la famiglia dell’ingegnere vi sarebbe venuta molto tardi, amando di passare i mesi caldi dell’anno su l’alta montagna, in Engadina o nel Tirolo. «Verremo probabilmente in principio di settembre, tutt’al più, se la stagione non sarà buona, alla fine d’agosto,» gli aveva detto l’ingegnere medesimo nell’accomiatarlo. Or come mai, proprio quest’anno per la prima volta, egli anticipava così il suo arrivo a Cerro? Aurelio, ch’era rimasto per alcuni momenti assorto e pensieroso, si rivolse d’un tratto a donna Marta, con gli occhi accesi da un primo lampo di curiosità: — Sono qui soltanto per pochi giorni, non è vero? — Chè, ti pare? — ella rispose. — Avrebber portata tanta roba per pochi giorni? Io credo che si fermeranno tutta la stagione. — Ma no.... Se l’ingegnere, quando lo vidi l’ultima volta a Milano, m’assicurò che non sarebber venuti fino a settembre.... — Si vede che han cambiato di parere, — concluse donna Marta con sicurezza; — ed io certo non me ne lamento. Tutt’altro! In questo paese maledetto, dove m’hai relegata, morivo di tedio e di tristezza: sempre sola, sempre sola, sempre sola.... Essi mi terranno almeno un po’ di compagnia. Son persone assai per bene, e, a quanto pare, simpatiche, espansive, allegre.... Ella seguitò così per molto tempo a parlare dei nuovi arrivati, con quella sua loquela colorita e asmatica, che incatenava l’attenzione e insieme faceva pena. — Questa famiglia Boris, a quanto ella asseriva, si componeva in tutto di tre persone: l’ingegnere, sua moglie — una bella donna ancora, bruna, elegante sebbene un po’ pingue —, e la loro figliuola di vent’anni o poco più, bruna anch’essa come la madre e singolarmente graziosa: alla descrizione minuta, che donna Marta faceva di lei, una imperfettibile figurina da oleografia. Il suo nome era Flavia, ella l’aveva sentita chiamare ripetutamente da’ suoi parenti. Insieme con loro i Boris avevano anche condotta un’altra giovinetta, — una nipote, un’amica di Flavia o, forse, un’istitutrice? — della quale la vecchia non aveva notato che il color dei capelli, e diceva ch’era bionda, d’una biondezza pallida, cinerea, quasi bianca. — Quando l’ingegnere se ne sarà andato, poiché certo la sua professione lo richiamerà presto in città, rimarranno le signore; e con queste, grazie a Dio, si potrà scambiare qualche parola, passare un po’ di tempo piacevolmente. Tu mi hai trascinata per un capriccio in quest’eremo, e poi non ti sei più ricordato di me, come proprio non esistessi. Ti sei segregato nella tua stanza, il cui accesso mi fu _perfino_ vietato, e chi t’à visto, t’à visto!.... Sai? Se i Boris non arrivavano, io pensava già di ritornarmene a Milano, e al più presto!.... anche sola. Da vero non c’è una ragione perchè io vecchia e malata m’abbia sempre a sacrificare per te che sei giovine e stai bene. Ho poco da vivere, caro mio; e, quel poco, non lo voglio sciupare stupidamente in tanta malinconia e tanta noja, per farti piacere..... La voce di donna Marta a poco a poco ritornava irosa: l’astio inguaribile contro il nipote, astio che aveva le radici in un profondo attaccamento affettivo, spuntava di nuovo nelle sue parole. Tutte le accuse accumulate su di lui rompevan di nuovo dal suo cuore, esacerbato dalla malattia e dalle acute esigenze senili alle quali Aurelio non sapeva spesso corrispondere. «Oh, ella lo capiva bene! Quell’arrivo inaspettato non gli andava a genio: egli avrebbe preferito di lasciarla morir di tedio in un deserto piuttosto che sopportare un piccolo, problematico disturbo! Sicuro; egli non si smentiva mai, mai: era sempre quello stesso egoista che non si curava di nulla e di nessuno, tanto meno poi di lei, povera vecchia inferma! Ma dove aveva dunque il cuore? dove l’aveva?» Il giovine taceva, e il suo ostinato mutismo stuzzicava la collera dell’avola. Ella infatti seguitava, affannosamente, alzando viepiù la voce, rimescolando nel passato le colpe e le mancanze e le trascuratezze del nipote. E incominciava già a intenerirsi su la propria sorte sventurata, a spargere anche qualche lacrima per amaro conforto delle sue diuturne sofferenze. Aurelio intanto, con gli occhi bassi su la mensa, senz’ascoltare quel fiotto intempestivo di rimproveri, meditava in preda a un sordo turbamento su le conseguenze possibili d’una siffatta vicinanza. — C’eran dunque due giovini donne tra i nuovi arrivati al palazzo? Le avrebbe egli conosciute? Avrebbe forse dovuto vederle ogni giorno per casa, conversare con loro, accompagnarle nelle passeggiate, sacrificare in somma una certa parte del suo tempo prezioso per non incorrere nella taccia di scortese e d’incivile? Tutto ciò lo sgomentava, quasi come l’aspettazione d’una probabile avversità. E non era tanto l’idea (già per lui così grave) del tempo disperso, d’un ozio obbligatorio, che più l’angustiava: era anzi quella d’un’assidua domestichezza con la Donna, con questo essere inferiore e ammaliante ch’egli non conosceva per pratica ma aveva teoricamente giudicato come il più terribile nemico della personalità, il dèmone simbolico della Specie che distrugge l’individuo. Fin da giovinetto egli aveva appreso a valutare la fatale potenza della Sirena: la prima apparizion femminea su la soglia della sua anima era stata causa d’una commozione così profondamente paurosa, ch’egli n’aveva avuto mòzzo il respiro e il cuore squassato. D’allora in poi l’istinto animale di fuggire, di nascondersi, di sottrarsi con un mezzo vile a un fascino misterioso, l’aveva sempre tenuto e dominato, ogni qual volta gli fosse occorso di trovarsi al cospetto d’una donna giovine e piacente. Questa selvatica timidità — forse l’effetto d’un temperamento eccessivo, forse piuttosto la resultante di due correnti psichiche in opposizione — rappresentava certamente un lato debole, il più debole del suo carattere; ma egli si compiaceva, in vece, d’interpretarla come una forza, anzi come una virtù. Con uno di quegli artificii maliziosi, che l’uomo usa a sua intima giustificazione, Aurelio Imberido si giudicava migliore e superiore degli altri, perchè (fuggendo la donna) egli sapeva vivere senza di lei e poteva evitare i guai e gli errori di cui son prodighe le relazioni amorose. Facile inganno, poichè realmente non aveva ancor messo alla prova del fuoco la sua presunta virtù. Ora l’occasione di saggiarla era venuta, ed egli, ostinato nella sua arte d’illudersi, preparava già un piano per iscansare abilmente questa occasione. Egli pensava: «Io non mi farò vedere nelle ore pericolose! rimarrò chiuso ermeticamente nella mia camera; se sarò costretto a conoscerle, farò loro intendere dal principio che non si può assolutamente contare su la mia compagnia, perchè io sono molto occupato e non debbo essere distratto.» Anche, pensava: «In fine la mia bella libertà vale un lievissimo sacrificio d’amor proprio: mi chiamino orso, mi credano scortese e incivile. Che mi fa della loro opinione? dell’opinione di due femmine!» — Tu non mi dài ascolto, Aurelio; — proruppe d’un tratto donna Marta; — tu non ti degni più di sentire nè anche quello che dico!.... Ebbene bada, Aurelio: la mia pazienza ha un limite! Se un’altra volta, appena suonata la campana, non discendi sùbito, io faccio immediatamente i miei bauli, e me ne torno sola a Milano! Queste parole furon proferite a voce alta e squillante, con tragica solennità, nel silenzio della gran sala piena d’ombre e di mistero. Strappato per forza alle sue meditazioni, il giovine dovette ascoltarle tutte quante con attenzione, e su l’inizio anche con una certa inquieta curiosità. Come però intese il senso della minaccia, un lieve sorriso involontariamente gli increspò le labbra: quell’inaspettata ripresa finale del primo argomento di rimprovero parve a lui una specie di ritornello con cui l’avola volesse chiudere esteticamente la sua irosa canzone. Il pranzo era terminato. Aurelio si levò in piedi, e disse con voce assai carezzevole: — Via, mamma, un po’ di calma! Tu ti riscaldi senza motivo: lo sai che ti fa male! Quindi, tranquillamente, uscì dalla stanza. Gli parve, rivarcando la soglia, d’udire dietro di sè uno scoppio di singulti. Rimase un po’ incerto, titubante se dovesse ritornare presso la nonna, o se in vece fosse meglio lasciarla sola ad acquetarsi. Preferì quest’ultimo consiglio. A passi rapidi attraversò l’anticamera buja e il cortile, i cui portici nella semioscurità sembravano avere una profondità singolare; e uscì dal palazzo sul rialto erboso, dove si lasciò cader di peso sopra uno dei sedili di granito ch’erano ai canti della porta incastrati nel muro. La spiaggia, d’avanti a lui, era quasi deserta: soltanto l’ombra nera di qualche pescatore spiccava laggiù presso le barche, di tra i fusti dei salici, sul lucido riflesso dell’acqua. Non una voce, non un passo, non uno strepito turbavano il vasto silenzio crepuscolare, che il fioco anelito dell’onda morta scandeva regolarmente con un ritmo lento e strascicato. Un lezzo fatuo di pesci e d’alghe fracide saliva a intervalli dal lago, come una respirazione nauseosa, corrompendo il profumo delle erbe aromatiche ancor calde di sole e il buon odor cereale della paglia raccolta a fasci d’oro su l’aja comune. Nel vespero sereno un estremo chiarore profilava tuttora nettamente le cime dei monti: prima la linea continua e dolcemente ascensionale del Motterone, poi il gran dorso gibboso dell’Eyenhorn, poi i picchi arcigni delle Alpi bianche per neve, poi il pizzo di Proman e la brusca elevazion dentata della Zeda che declinava novamente verso settentrione fino a nascondersi dietro il ceppo brunastro delle casupole di Cerro. Su tutto il paesaggio, sul cielo, su la terra, sul lago si distendeva uno strato di vapore violaceo, come un fitto velo che ne modificasse e offuscasse le tinte e i rilievi. A traverso quel velo, la riviera opposta appariva quasi piana, senza promontorii e senza insenature: la costa di Stresa, la curva del golfo, le isole Borromee, la punta di Pallanza sembravan tutte su una linea sola, ininterrotta, ch’era quella chiara dell’acqua, battuta dall’ultima luce occidentale. Solamente l’acuta gola di Mergozzo, aperta incontro a Cerro, si vedeva inabissarsi verso le lontananze dell’orizzonte: e il suo aspetto era nebuloso, fantastico, sinistro, così sommersa nel vapor violaceo tanto più denso quanto lo spazio cresceva. Aurelio, il corpo rilassato su la rigida pietra, la testa appoggiata per inerzia alla muraglia, fu preso da uno strano senso di stanchezza e di malinconia al cospetto del paesaggio cupo e grandioso. Avveniva dentro di lui una di quelle rarissime crisi d’abbattimento, che tal volta piegavano e vincevano la sua forte fibra di lottatore. Durante siffatte crisi il suo spirito, che le consuete astrazioni avevan momentaneamente abbandonato, si smarriva in lente fantasie, cui le sensazioni delle cose esteriori imponevan come una triste tonalità minore. Alcuni pensieri insoliti in lui, alcune sepolte aspirazioni della prima adolescenza, alcuni lontani ricordi del padre morto o dell’avola vigilante con materna sollecitudine su la sua fragilità infantile, passavano lievemente in quelle fantasie, a similitudine di spettri esili e confusi, volanti verso una porta misteriosa. Senza potersene rendere una ragione, egli si lasciava vincere e intenerire dalle memorie. Egli sentiva nel fondo della sua anima levarsi un grido spasimoso: egli sentiva arrivare dalle intime energie dell’essere un impulso irresistibile verso qualche cosa oscura ma supremamente necessaria alla sua vita. Ogni suo più ardente desiderio, ogni sogno, ogni ideale pareva s’avviluppasse nel lugubre sudario dell’indifferenza: la gloria era vana, l’umanità era trista, l’avvenire incommutabile o non meritevole d’esser commutato. Uno scontento immane del mondo e di sè stesso, un tragico bisogno di riposo finivano per impadronirsi di tutte le sue facoltà; ed egli rimaneva come soffocato nella stretta di tanta desolazione, deplorando le sue fatiche e le sue ambizioni, anelando inutilmente a un Bene, ch’era la Morte ma poteva anche esser l’Amore. La strana crise sentimentale incominciò questa volta dal ricordo della scena incresciosa con donna Marta e di quello scoppio di singulti che gli era parso d’udire varcando la soglia della stanza. Da parecchi giorni egli sopportava senz’alcun commovimento dell’animo le periodiche esplosioni di mal umore che l’avola sfogava a preferenza contro di lui: — un po’ per freddezza, un po’ per abitudine, un po’ per la convinzione ch’esse fossero conseguenza irrimediabile e inevitabile della lenta degenerazione ond’era esasperata l’indole di lei. Appena lo sfogo era esausto o appena egli riusciva con un qualunque mezzo a sottrarsene, Aurelio dimenticava sùbito le parole amare e non c’era caso che ritornasse sopra queste con la memoria. Quella sera in vece, come si trovò solo sul rialto del palazzo d’innanzi al lago silenzioso, i ricordi del pranzo non tardarono a risorgere nel suo pensiero, più vivi ed eloquenti degli stessi fatti reali. Allora un’onda impetuosa di tenerezza, di pietà, di simpatia gli gonfiò il petto, improvvisamente. L’imagine della nonna, della sua seconda madre, ischeletrita dal morbo, disfatta dalla vecchiaja, dilaniata da continue angosce, gli si presentò d’avanti agli occhi dell’anima, come un’allucinazione. — Le stimate del dolore erano omai impresse indelebilmente sul povero viso, ch’egli aveva veduto tante volte curvarsi su di lui, con tanta bontà, con sì amoroso struggimento, nei dì lontani! Certo: ella soffriva veramente durante quegli scoppii di collera ingiusta contro di lui; ed egli poteva rimanere impassibile e quasi irridere alle sue sofferenze! La nonna, la sua seconda madre si logorava di giorno in giorno, consumava in futili querimonie l’estreme energie, andava piegando a poco a poco verso la fossa; ed egli non sapeva trovar nulla in sè per renderle meno triste l’agonia, per infondere un’ultima gioja in quell’anima moribonda! La sua coscienza morale era profondamente rimorsa da queste idee; il cuore era lacerato a sangue dalla tetra previsione. Aurelio si sentiva legato all’avola da un vincolo indissolubile d’affetto; alla morte di lei si vedeva già solo e perduto nel mondo, come un viandante affaticato in una steppa senza confine. Un bisogno intenso d’appoggio, di compagnia, di convivenza familiare palpitava dentro di lui. Gli passavan nello spirito, in forma di sentimento vago, alcune afflizioni del tempo trascorso, che parevagli dovessero rinnovarsi ingigantite nell’avvenire. L’imagine della nonna sorgeva da tutte quelle memorie, come un simbolo consolatore. La stessa imagine ondeggiava su quelle aspettazioni, come un vacuo fantasma cui avrebbe inutilmente invocato nelle ore dolorose. Egli si domandò costernato: «A che combattere? In che sperare? Perchè ostinarmi a vivere, quando ugualmente dovrò morire?» Così la crise d’abbattimento incominciò; così lo scontento immane di sè stesso e del mondo, il tragico bisogno di riposo s’impadronirono di tutte le sue facoltà. La testa del giovine piegò lentamente sotto il peso dei tristi pensieri involontarii; gli sguardi caddero al suolo, e vi rimasero lungamente fissi, vitrei, acuiti, come penetrandone i misteri. In tanto su la spiaggia, d’avanti al rialto del palazzo, passarono, di ritorno dai pascoli, le vacche cornute e corpulente, a una a una, in lunga schiera, barcollando, gittando a tratti nell’aria i tremuli e sordi muggiti; passarono le pallide pecore, strette e confuse in gruppo, mute, quasi invisibili sul fondo grigio della terra; passarono ultimi, salendo dal greto, i pescatori tardivi, recando su le spalle le pertiche prolisse, le fiocine dentate, gli staggi dalle reti ancora sgrondanti. Tutti, animali e uomini, scomparvero successivamente dalla parte del villaggio, dove li chiamava al riposo lo squillo lento e monotono dell’Ave Maria; e il vasto spiazzo fino al lago rimase affatto deserto, inanimato, come assopito nell’ombra, in aspettazione della notte imminente. Su l’opposta riviera apparvero man mano le luci: Intra, la prima, scintillò per vivaci fiammelle, disposte a intervalli regolari lungo la costa; un gran faro d’oro s’accese su la punta di Pallanza e rischiarò d’un riflesso ondulato l’acqua cupa; altri lumi dispersi tremolarono qua e là, a Stresa, a Baveno, su i fianchi selvosi del Motterone, laggiù, lontanamente, nei malinconici abituri di Feriolo. In alto, quasi presso la vetta della Zeda, ben profilata ancora sul cielo verdognolo, un enorme fuoco divampò d’un tratto, s’allargò come un incendio di foresta; poi rapidamente declinò, si ridusse a un punto rossastro nell’oscurità, si spense. Quando gli ultimi tocchi dell’Ave Maria caddero inerti e flosci nel silenzio crepuscolare, Aurelio, sorpreso dall’apparizione di quei lumi annunziatori della notte, volle scuotersi dal suo accasciamento e uscire da quella specie di sogno tormentoso. La crise era sul finire; uno sforzo mediocre di volontà bastava a dissiparne i molesti residui. Egli d’un balzo s’alzò in piedi, e rientrò nel palazzo. Attraversò il cortile vuoto e bujo a testa alta, con quel piglio ardito e imperioso, che talvolta la vision della folla gli suggeriva; si mise su per la scala ottenebrata; percorse a passi rapidi il breve tratto di loggia fino alla porta delle sue stanze; ne schiuse i battenti quasi con violenza; entrò. Dal balcone spalancato penetrava l’estremo pallore del giorno morto; in quel pallore i mobili non avevan più tinte, spiccavan neri e angolosi, simili a ombre più che a oggetti reali. La brezza, che saliva dalla prossima valle, faceva stormire dolcemente la pineta nel giardino, agitava gli apici d’alcune fronde di glicina arrampicate lungo la ringhiera, irrompeva fin nella stanza, suscitando deboli fruscii nelle carte sparse su la tavola centrale. Di quando in quando al soffio alterno le tende paonazze si gonfiavano con un largo moto d’espansione, come un respiro profondo. Trovandosi nel luogo prediletto, Aurelio riacquistò totalmente la serenità e la sicurezza consuete dello spirito. S’arrestò, estasiato dal subitaneo benessere che tutto lo invase, in mezzo alla stanza. Era ben quello il rifugio sacro agli studii, il tempio delle superbe ambizioni e delle speranze immortali. Da quell’umil rifugio egli, come un’aquila destinata ai trionfi, avrebbe preso il gran volo per il mondo popoloso, alle battaglie del progresso umano, alla conquista della gloria. Che cosa omai avrebbe potuto arrestarlo? Quale forza terrena sarebbe riuscita a opporsi all’impeto del suo ingegno e della sua volontà? Egli si sentiva giovine, sano, energico, incorrotto anzi incorruttibile dalle avversità e dalle passioni: egli si sentiva veramente un Eletto fra i suoi simili. Allargò le braccia vittoriosamente, le stese ritte sopra il capo orgoglioso, agitò le mani nell’aria, sorridendo trasfigurato dalla gioja al suo destino, ch’era scritto in alto, molto in alto nei misteri azzurri del cielo. «Chi, chi può dunque mutare il destino?» egli disse a voce spiegata, in atto di sfida. Un acuto scroscio di risa, d’una insolente gajezza, si levò in quel punto dal parco silenzioso. Alle risa successe una pausa, un susurro di voci femminili a pena sensibile; poi le risa ricominciaron da capo, più forti, più gioconde, irrefrenabili. Aurelio, che aveva già dimenticato l’arrivo dei vicini annunziatogli dall’avola durante il pranzo, fu sorpreso da quell’insolito strepito nella calma imperturbata della campagna. Spinto dalla curiosità, e un poco dal dispetto che quel riso importuno aveva mosso in lui, s’affacciò al balcone per osservare chi dunque osava disturbarlo nel suo rifugio. Sopra una delle scalee marmoree, che adducevano al secondo spianato pensile del giardino e alla pineta, stavan ritte, appoggiandosi con una squisita grazia signorile alla balaustrata, due giovini donne assai eleganti nel chiaro costume estivo. Le loro persone uscivan tutte intere, ben definite dal candore del marmo: entrambe, alte ugualmente, apparivano snelle, di forme molto leggiadre, con gli omeri un po’ sostenuti e la cintola strettissima sopra i fianchi leggermente arcuati. Una, roseo vestita, era bruna di capelli, e gli si presentava di fronte, con gli occhi e i denti illuminati dal riso; l’altra in un attillato abito celeste, volgendogli le spalle, mostrava una splendida capigliatura bionda, raccolta in un denso intreccio su l’occipite. E nulla superava la grazia di quel gruppo fiorente di giovinezza, sul bianco della scalea, nella luce favolosa del crepuscolo. Aurelio, in vederle, le riconobbe. Rammentò le descrizioni dell’avola; rammentò ancora i molesti pensieri e i disegni di prudenza che l’arrivo imprevisto di quelle fanciulle aveva in lui suscitati. Volle sùbito ritrarsi, ma una strana compiacenza gli impedì di muoversi: i suoi sguardi rimasero fermi come incantati dall’estetica apparizione. Mentr’egli così la contemplava, un turbamento pànico e pur dolce si veniva man mano impossessando del suo spirito assorto e maravigliato; assomigliava questo turbamento alla leggera ebrietà che dà il dolce vino spumante, mettendo tra i sensi e le cose una specie di velo sentimentale, malinconico o giocondo, continuamente trepido. Al giovine pareva di sognare. Passavano in fatti dentro di lui, come in un sogno, impetuosamente, confusamente ricordi di scene o di letture lontane, nebbiose imagini romantiche, fremiti fuggevoli di desiderio, di curiosità o di speranza. Tutto ciò nasceva e si svolgeva per una forza spontanea di fantasia, senza ch’egli potesse averne coscienza; e le fibre della sua anima tremavan tutte, come fascio di corde sottili strappate insieme da un plettro. D’un tratto un nuovo scoppio fragoroso di risa salì dal parco. La fanciulla bruna con un movimento repentino si volse, si diede a correre all’impazzata su per la scalea, e, giunta al sommo, s’internò agile e veloce nella pineta. Un roseo tremolìo illuminò per un attimo l’ombra nera del bosco. — Flavia! Flavia! — l’altra chiamò nel silenzio, ferma al suo posto, attonita di quella fuga improvvisa. Nessuno rispose. Solamente un’eco lontana ripetè il nome, come un gemito indistinto. Allora anche la bionda si mosse, ascese rapida i gradini marmorei, e scomparve in corsa tra i pini, dietro la compagna. Il giardino apparve deserto, muto, misterioso, con le sue piante cupe e i bianchi fantasmi delle statue mutilate, ritte su gli stalli invisibili. — Flavia! Flavia! — s’udì ancora chiamar da lungi, per l’ultima volta. Aurelio, che aveva seguíto avido con gli occhi le due fanciulle fino al limite del bosco, quando più non le vide, fu preso da un desiderio cieco e selvaggio di scendere al basso precipitosamente, d’inseguirle, di raggiungerle come prede nel folto, dove già la notte doveva esser profonda. II. L’INCONTRO. — Signorino, un telegramma! — gridò Camilla con la vocina esile e acuta, entrando impetuosamente nella camera. Aurelio che, stanco dal lavoro protratto a tarda notte, s’era riaddormentato dopo aver sorbito alle sei del mattino la solita tazza di caffè, si levò di scatto a sedere sul letto, fissando gli occhi spalancati in viso alla fantesca. — Un telegramma?... Per me?! — egli domandò, stupito. — Sì, per lei, — rispose Camilla; e, avvicinatasi a lui, gli stese la busta gialla, sottolineando l’atto con un fatuo sorriso, un poco ironico. Poi, sùbito, soggiunse: — Favorisca di firmare la ricevuta. Il fattorino è giù che aspetta. — Non posso già scrivere con le mani, — egli borbottò nervosamente. A passi brevi, dimenando leggermente l’anca, ella attraversò la camera, prese dal tavolino una penna, che intinse più volte, con lenta diligenza nel calamajo; ritornò poi senza scomporsi presso il letto, e la porse ad Aurelio con un gesto assai leggiadro. Egli, ansioso di leggere, cominciava a indispettirsi per l’indugio. — Che ore sono? — chiese con la voce aspra. — Le otto, signorino. Anzi, le otto e mezza. — Va bene. Prendi, — concluse Aurelio, dopo aver firmato; e le porse la ricevuta, congedandola con un brusco accenno del capo. Quando la fantesca fu uscita, il giovine rimase ancora un poco con la busta chiusa tra le mani. Chi aveva dunque bisogno di lui? Egli viveva solo, staccato da ogni consorzio grande o piccino, senz’alcuna comunanza di negozio e senza stretti vincoli di parentela o d’amicizia. Quale notizia importante poteva giungere fino al suo sconosciuto ritiro, e con un mezzo così imperioso? Non potendo trovare una risposta plausibile, si risolse ad aprire il foglio e leggere lo scritto misterioso. Un sorriso gli passò negli occhi alle prime parole; con un subitaneo movimento di contrarietà, e d’impazienza, egli gittò il telegramma a pie’ del letto, e s’attaccò con tutta la sua forza al cordone del campanello. — Vengo, signorino! Vengo sùbito, — s’udì gridare Camilla da lontano, acutamente, mentre lo squillo furioso durava ancora. Come però tardava a comparire, Aurelio dovette suonare una seconda volta, anche più forte e più a lungo, per sollecitarla. Finalmente ella entrò nella camera, tutta accesa in viso come avesse fatto una corsa a perdifiato, le ciocche della fronte scomposte e riversate all’indietro, il respiro frequente e affannoso. — Che vuole? Che comanda?.... Mio Dio, signorino, un po’ di pazienza! stavo arricciando i capelli alla signora.... Non potevo tralasciare d’un tratto; ella sa come la signora s’inquieta per un nonnulla!... Eccomi. Che vuole? Disse queste frasi interrottamente, anelando, accomodandosi con le mani le ciocche volanti, senza lasciargli il tempo di sfogare il suo mal umore per l’involontario ritardo. — Via, spìcciati! Avverti prima la mamma che oggi avremo un ospite con noi. Poi corri immediatamente a chiamare Ferdinando perchè m’accompagni in lancia a Laveno. Dobbiamo essere alla stazione per le nove e mezza. Non c’è tempo da perdere. Hai capito? — Perfettamente, — rimbeccò la giovinetta, tutta ilare d’essere sfuggita a un rabbuffo che s’aspettava. E con insolita lestezza si diresse alla camera di donna Marta, ch’era all’altro capo del portico. Aurelio, rimasto solo, balzò dal letto e s’affrettò a vestirsi. L’annunzio d’una visita dello Zaldini, non ostante i suoi propositi di solitudine, lo aveva messo lì per lì in un orgasmo di gioja infantile, che si manifestava con una smania bizzarra e nuova di far romore a ogni movimento, battendo forte i piedi su l’assito, spostando le sedie, urtando bruscamente con le mani gli oggetti disposti su le tavole. La immacolata chiarità della mattina di giugno, il sole che irrompendo a traverso le tendine illustrava d’una trama aurea il pavimento, i canti giulivi e il buon odore di resina e di fiori che venivan dal giardino portati dal vento, tutte quelle vivaci apparenze accrescevano la sua giocondità, infondevangli nello spirito riposato la luce e il profumo della vasta campagna lussuriosa. — Finalmente avrebbe potuto parlare, aprire la sua chiusa anima a una confidenza, comunicare i suoi pensieri, da oltre un mese contenuti nel cerchio del suo intelletto, a qualcuno simile a lui! Finalmente avrebbe potuto riattivar con l’amico quello scambio di idee e di sentimenti, imposto come un bisogno dalla nativa sociabilità della razza anche agli esseri superiori, per cui la solitudine non è pure un tedio e un silenzio mortale! Nell’attendere alle cure della persona, Aurelio, inconsapevole, pregustava già il primo colloquio con lo Zaldini durante il tragitto da Laveno a Cerro; pregustava le saporose novelle che questi gli avrebbe recate da Milano, le discussioni vivaci che si sarebber presto accese tra loro sopra uno dei temi preferiti. Il desiderio di ritrovarsi con lui, desiderio che l’aspettazione del prossimo incontro aveva d’un tratto eccitato, gli acuiva singolarmente il senso dell’amicizia, gli rievocava d’innanzi oltre modo simpatica l’imagine dell’amico, quale l’aveva visto ancora ignoto comparire nella redazione della sua Rivista, due anni addietro. Da quel giorno che rara affinità d’intendimenti e d’entusiasmi ambiziosi li aveva legati! E che lunghi voli spirituali avevan tentati insieme nei loro sogni di grandezza e di felicità! Tutte, tutte le ardenti questioni, che affannano oggidì il pensiero umano, erano state sfiorate, discusse, talvolta anche audacemente risolte nelle loro interminabili conversazioni notturne, che spesso i primi chiarori dell’alba venivano ingrati a interrompere. Ripensando ora alla vita fraterna ch’egli e lo Zaldini avevan condotta in quei due ultimi anni a Milano, Aurelio si maravigliava d’essersi potuto separare dall’assiduo compagno con tanta indifferenza, e d’averlo potuto totalmente dimenticare durante quel mese di villeggiatura. In verità, dal dì ch’egli era giunto a Cerro, quella era la prima volta che il desiderio di lui si risvegliava, che le memorie della loro lieta convivenza palpitavan vivaci dentro il suo cuore. Perchè? Egli dunque non l’amava? E avrebbe potuto non rivederlo, fors’anche mai più, senza un rimpianto del passato e quasi senza un ricordo? Sì, era così; pur troppo doveva confessarlo, era così! Egli sentiva che entrambi, non ostante la comunione di vita e d’abitudini, eran rimasti estranei l’un per l’altro, come due viandanti, riuniti dal caso, i quali avesser percorso discorrendo uno stesso cammino. Egli sentiva che la propria anima, asservita a un Ideale superbo, era infusibile, chiusa nel suo superbo mistero, incapace di sacrificio e d’amicizia. La consapevolezza di questa necessità psicologica fu per lui, nella tenera disposizione in cui si trovava, una pena e quasi un rimorso. Volle dunque troncar sùbito l’indagine, abbandonare le aride considerazioni che minacciavan d’amareggiare la spontanea gioja di quel risveglio. Appena fu vestito, uscì dalla sua camera, passò ad augurare il buon giorno alla nonna, che pareva d’ottimo umore, e discese sul greto dove Ferdinando, il vecchio barcajuolo, già l’aspettava. La mattina era un po’ velata dalla parte delle Alpi: sopra la vetta del Motterone una gran massa plumbea pendeva, sbrandellandosi verso levante in tenui nubecole bianchicce. Qua e là, su le altre cime, qualche fiocco disperso, alcuni lunghi nastri torbidi apparivano; e il fondo della valle di Mergozzo era cupo, come polveroso, sprofondato in un’ombra azzurrastra. Da settentrione un vento impetuoso scendeva, suscitando un vasto scroscio rotto da sibili alterni e un tumulto di ciuffi lattei al sommo delle onde. Ferdinando dovette faticare assai per vincere la violenza di quel vento, che soffiava diritto contro la prua. D’innanzi all’antico fortino austriaco, che siede smantellato allo sbocco del golfo di Laveno, il lago divenne, per il rimbalzo dei flutti, così fiero e minaccioso che Aurelio stesso fu costretto a prendere i remi per venire in ajuto del vecchio. Giunsero nel porto in ritardo di qualche minuto, mentre già il treno irrompeva, fischiando, sotto la tettoja della stazione. L’Imberido discese rapidamente a terra, e s’avviò a passo sollecito incontro all’ospite, che apparso per il primo su lo spiazzo, girava intorno lo sguardo come stupito di non trovare alcuno a incontrarlo. L’avvocato Luciano Zaldini, accuratamente raso, con due piccoli baffi bruni a pena accennati, pareva più giovine d’Aurelio, sebbene questi avesse qualche anno meno di lui. Era alto della persona e ben formato; elegantissimo in ogni particolare dell’abito. Il suo viso, piuttosto largo e carnoso, serbava ancora la freschezza dell’adolescenza, nella soda pastosità della pelle, nello sguardo sempre un poco attonito, nel riso ingenuo e pronto che scopriva di tra le labbra rosee una mirabile dentatura d’una regolarità femminina. — Oh, l’eremita!... — egli gridò, come vide Aurelio che gli correva incontro. — Tu vedi in me Maometto che viene alla montagna, semplicemente perchè la montagna non volle venire a lui. — La montagna sta bene e non si muove, — l’altro rispose ridendo, e gli stese ambo le mani con sincera espansione. Durante il tragitto in barca, l’Imberido interrogò sùbito l’amico su le sorti della Rivista. — Va bene, molto bene, — rispose l’avvocato; — soltanto si lamenta il tuo lungo silenzio. Io ho tentato, dopo il tuo ultimo articolo, di trascinarti in una polemica; ho aspettato per una settimana la tua replica, che mi pareva non potesse mancare; non venne! Perchè? Era una domanda che ti volevo rivolgere fin d’allora, per lettera; poi le cure, i fastidii, le donne.... Sai bene, io non sono un eroe della tua forza; io pecco, come il savio, sette volte al giorno.... Scoppiò, così dicendo, in una risata sonora, e passò il braccio su le spalle d’Aurelio con un gesto che gli era abituale. — Che vuoi? — disse questi dopo una pausa; — tu mi movevi una questione così stantìa che non valeva proprio la pena d’una risposta. Mi facevi certi squarci di metafisica dottrinaria, degni tutt’al più d’un Mazzini o, peggio, d’un mazziniano..... Il miglior servigio che ti potevo rendere era di tacere: ho voluto essere, almeno una volta in mia vita, generoso, e lo sono stato con te. — Come? Come? Facevo squarci di metafisica, io? — Eh, pur troppo! Mi parlavi di popolo, di diritti, di doveri, di maggioranza, di uguaglianza, di fratellanza, che so io.... Il frasario era un po’ retorico e antiquato, confessalo..... — Per Dio! — gridò, riscaldandosi, lo Zaldini; — non hai dunque capito? Io non me ne serviva se non per chiarezza. Bisogna pur farsi capire anche da quelli, e sono i più, i quali si convincono e si convertono solamente sotto il fascino di date parole e d’espressioni consacrate. Ogni arma è buona per combattere il Nemico. E il sistema d’una larga propaganda liberale mi sembra il migliore per richiamare a noi le maggioranze che ci sfuggono. — Ma chè! Le maggioranze? Lasciale dunque andare dove credono meglio, le maggioranze! Tu devi persuaderti che non è a queste che noi dobbiamo parlare né ora né mai. Noi siamo come gli scienziati che espongono una questione: non si curano se la folla li capisce o non li capisce. Ad essi basta d’esser compresi dalle aristocrazie intellettuali, poichè son queste che hanno e avranno in qualunque tempo il monopolio delle verità. Per il volgo tanto vale un buon ragionamento quadrato quanto un pessimo sofisma; se questo poi gli promette la felicità e la potenza, il volgo approva il secondo e respinge con indignazione il primo. Gli è per tal motivo che le maggioranze saràn sempre ingannate e sempre oppresse; e che le loro effimere vittorie, siccome son fuori della logica delle cose, non apporteranno mai, alla chiusa dei conti, se non a un nuovo assetto sociale, governato ancora dalle minoranze aristocratiche più intelligenti e più forti. L’Imberido pronunciò queste parole con la sua voce calda ed eguale che non mutava a traverso le più aspre discussioni, sottolineandole a pena con un leggero sorriso. Quando finì, l’amico, che lo aveva attentamente seguito, annuendo a tratti col capo, lo guardò tra attonito e maravigliato, e disse: — E perchè tutte queste belle cose non le hai scritte e non me le hai mandate a Milano per la Rivista? — Perchè le avevo già accennate qua e là in altri miei articoli, e a me non piace di ripetermi. Il vento, che soffiava ora favorevole, un po’ scemato di forza per l’approssimare della calma meridiana, faceva proceder la barca più leggera, come scivolasse su le onde. Dalle cime i vapori erano scomparsi: una serenità umida rendeva l’aria d’una singolare trasparenza, accentuava i rilievi e le tinte del paesaggio maestoso. Sul promontorio di Pallanza e su la breve elevazione dell’Isola Madre, le varie forme degli alberi si distinguevano nette e precise, uscendo dallo sfondo uniforme dei dossi più lontani. Le cave del granito intorno a Baveno biancheggiavano fastidiose al sole, simili a immani volute di neve. — Guarda, — soggiunse Aurelio, indicando con un gesto circolare il lago, — conosci tu un paese più dolce di questo? — Davvero, è superbo. Si direbbe che una lunghissima città si distenda su quella riva, infinitamente. — E da questa parte, in vece, tu non vedi un’abitazione; il bosco è profondo e deserto a perdita d’occhio. Io conosco tutti i sentieri che corrono sotto quelle vòlte di verzura; ve ne ha d’incantevoli, dove la solitudine ti appar così grave, che li diresti segnati non dall’uomo, ma dall’oscuro capriccio della terra. Camminando a traverso quei boschi silenziosi, sopra tutto nel crepuscolo, tu ti senti un altro essere, nato come in tempi assai remoti, vivente una vita primordiale, il quale presagisca per una misteriosa divinazione la civiltà dell’età nostra. Io, vedi, ho provato in questo mese le più bizzarre transposizioni dello spirito; ho bevuto alle sorgenti della vita le più pure essenze; ed ora mi pare d’esser così forte, così compatto, così sicuro di me e del mio destino, come da molti, molti anni non mi sentivo. Credi? Luciano lo fissava, trasognato. Gli domandò: — E sei sempre stato solo? — Sempre. — Non conosci dunque nessuno? Non ci sono altri villeggianti qui a Cerro? — Ci sono, ma non li conosco; e non li voglio conoscere. — Ti annojerai pure, qualche volta? — No, mai.... L’amico tacque, meditabondo; e ritornò a guardare con occhio invido laggiù, all’altra riva, dove una città lunghissima si distendeva infinitamente nella gloria bionda del sole. A una svolta, inaspettato nel verde del castagneto, il villaggio tranquillo apparve. — Ecco l’eremo! — esclamò Aurelio con gioja, indicando il palazzo allo Zaldini. Donna Marta, al riparo d’un largo ombrello nero, era discesa su la spiaggia a incontrarli, e sventolava un fazzoletto in segno di saluto. Ella accolse l’ospite con molta cordialità; lo ringraziò d’esser venuto a portare un ricordo delle consuetudini urbane in quella plaga abbandonata, che aveva reso il nipote oltre modo rozzo e scortese; anche, gli domandò amabilmente notizie della Rivista, benché avesse sempre avuto per questa creazione d’Aurelio una speciale antipatia. Risalì quindi con loro verso il palazzo, chiacchierando animatamente, con insolita festività. Come però il suo respiro era rantoloso e l’ascesa l’opprimeva, ella dovette sostare due volte anelando, e alfine appoggiarsi al braccio del nipote per raggiungere il sommo del rialto. — Come ti senti oggi, mamma? — le chiese Aurelio, impensierito. — Così, così... non troppo bene; soffro un poco d’asma.... stanotte non ho chiuso occhio.... Soggiunse sùbito rivolta allo Zaldini, sorridendo: — Sono i maledetti acciacchi dell’età mia. Non c’è di che stupirsene. A settant’anni battuti la vita è già un prodigio. E parlò d’altro. Su la porta del palazzo avvenne un subitaneo incontro: le signore Boris uscivano per la passeggiata mattutina. Dal giorno del loro arrivo, Aurelio non le aveva più vedute, quantunque l’avola fosse già entrata con esse in amichevoli rapporti. Flavia, assai leggiadra nell’abito roseo, veniva prima, la testa alta, il seno proteso nell’erezione leggermente arcuata della persona; a fianco l’una dell’altra, susseguivan poi, in silenzio, la biondissima, un viso esangue e capriccioso illuminato da due chiari occhi procaci, e la madre, solenne e trionfante della sua pingue maturità e della sua bellezza ostinata. Si salutarono, passando. Donna Marta e il nipote entrarono sotto il peristilio. Luciano, che pareva molto maravigliato di quelle presenze, si fermò un attimo, involontariamente, su la porta per riguardare le tre donne, mentre discendevano a passo lento gli scalini del rialto, incerte ancora su la via da percorrere. Udì le due fanciulle che mormoravan tra loro alcune parole e ridevano; le vide aprire al sole gli ombrelli variopinti, e rivolgersi indietro verso la madre per consultarla. Come i suoi sguardi s’incontraron con quelli di Flavia, egli sùbito si ritrasse, un po’ confuso della distrazione, e raggiunse gli ospiti i quali non s’eran peranco avveduti del suo breve indugio. — Conduci l’amico tuo in camera. Egli avrà bisogno di ravviarsi un poco, — disse donna Marta al nipote. — Ricordatevi: fra mezz’ora la colazione è pronta. Quando i due giovani furon soli su le scale, Luciano non potè più contenere la sua maraviglia per la piacevole apparizione. Egli inseguì Aurelio che lo precedeva, gli cinse con un braccio il fianco, lo scosse con forza e gli susurrò all’orecchio scherzosamente: — Ah, impostore! Tu chiami dunque un eremo, questo?! Ma questo è il giardino d’Armida.... con la differenza che Armida era sola e qui è bene accompagnata. Ah, ora capisco perchè non ti sei mai fatto vivo in questo mese; ora capisco l’incanto delle viottole perdute nel bosco; ora so bene a che sorgenti hai bevuto le pure essenze della vita! Se non ti dà ombra la mia concorrenza, son pronto anch’io a ritirarmi dal mondo per far l’eremita con te. Mi vuoi? Di’: mi vuoi? Rideva pazzamente. E anche Aurelio rideva; ma gli scrosci giocondi di Luciano contrastavano assai col suo ghigno fioco, un po’ beffardo. Egli pensava: «Costui non vede la felicità che nei piaceri meno nobili del senso e del sentimento; l’Idea per l’opposto lo lascia freddo, stupefatto, tutt’al più curioso. E non può assolutamente capacitarsi che alcuno, migliore di lui, abbia a trovare in Essa il più alto godimento della vita! La donna, sempre la donna! Sopra ogni pensiero pende nel suo cervello, come un torbido astro, l’imagine del connubio immondo. Egli è lo schiavo sottomesso della sua carne: il basso istinto della generazione lo domina tutto e ne inquina ogni facoltà fisica e morale. Posso io dunque esser l’amico d’un uomo simile?» Giunsero nella camera destinata all’ospite, una camera, come tutte le altre, spaziosa, squallida, forse un po’ più chiara perchè prospiciente il lago. Aurelio sedette su una vecchia poltrona, e Luciano, mezzo svestito, interruppe la sua celia per refrigerarsi il capo e le mani in una tinozza piena d’acqua. L’Imberido, che fin allora non aveva aperto bocca, si volse d’improvviso al compagno e gli domandò: — Tu credi dunque ch’io conosca quelle signore? Ebbene oggi è stata la prima volta che le ho salutate. Luciano levò il viso, che grondava da tutte le parti, e lo guardò con un’espressione singolare d’incredulità. — Veramente, — ribattè Aurelio sorridendo. — Dopo oltre un mese di convivenza nella stessa casa? — Se non dopo un mese, dopo dieci giorni da che sono arrivate. — Ah, son soltanto dieci giorni.... La cosa è già men grave. Ma, in tal caso, guàrdati: è l’avvenire che si presenta irto di pericoli, — insinuò l’avvocato, fissando burlescamente l’amico. Aurelio scosse la testa, e inarcò le labbra in atto sdegnoso. — Non credo e non temo, — egli mormorò; — sarà questione di temperamento, come tu m’hai detto tante volte; ma è così: le donne mi tentano poco. — Anche idealmente? — Ancor meno. Come femmine, via, quando l’estro mi tortura, so ben dove trovarle col minor dispendio di tempo e di pazienza. Ma, come donne, che vuoi? io le stimo davvero troppo inferiori ed estranee a me perchè me ne debba occupare. — E pure son così divertenti! — esclamò Luciano, scoppiando in una gran risata. — Divertenti?... Forse. Ma gli è appunto perchè son tali che non fanno al mio caso. Io non sento alcun bisogno di divertirmi; la vita nostra è troppo breve per concedere uno svago a chi s’è prefisso qualche scopo di là dalla vita stessa e all’infuori degli umili sodisfacimenti corporali, che son comuni alle bestie come agli uomini. E poi l’amore è un giuoco troppo assorbente e troppo pericoloso. Si sa come comincia; non si può sapere come finisce!... E quasi sempre finisce male.... molto male, quand’anche finisce!... Parlava piano, gravemente, con una leggera intonazion malinconica. Come ogni volta che l’anima gli si schiudeva a una confidenza, il suo sguardo velato, in cui la luce esterna pareva rifrangersi, naufragava mobilissimo nello spazio quasi cercando un ideal punto d’appoggio. Anche l’amico, vinto dalla suggestione delle sue parole, erasi fatto d’un tratto serio e meditabondo. Tacquero. Sopra di loro il tragico soffio della coscienza vitale passò. Liete o tristi, legate al senso o all’idea, schiave degli impulsi elementari o delle più squisite ansietà del pensiero, le vite loro e le altre tutte avevano una medesima sorte, spezzavansi contro lo stesso ostacolo, si dissolvevan come gocce nel gran fiume inarrestabile dell’umanità. E, su quel tumultuar d’esistenze perdute, sospinte verso una foce misteriosa, il torso della Sirena emergeva, terribilmente bello, simbolo eterno di fecondità, lusinga ammonitrice d’una Forza suprema che voleva la vita e contro la quale ogni ribellione era follìa. I due giovini ebbero insieme, durante il lungo silenzio, la confusa visione di questa imagine, la torbida consapevolezza della vanità d’ogni cosa per le loro individualità effimere, condannate a una breve comparsa su la Terra, e poi, dopo aver procreato, a dileguarsi fatalmente nel nulla. Il comune destino li affratellò; la vertigine del tempo li spinse l’un verso l’altro, quasi per sorreggersi a vicenda su l’orlo della tenebrosa voragine che avevano scandagliata. Istintivamente si guardarono negli occhi con un’espressione profonda di simpatia e d’incoraggiamento; sorrisero l’uno all’altro; parvero attingere in quello sguardo e in quel sorriso il provvido oblio dell’Abisso, la fiducia nelle proprie forze, il sacro desiderio di vivere, di combattere o di godere. Aurelio si levò in piedi di scatto, come si sottraesse a un incubo, e disse a voce spiegata: — Veramente si han troppe cose da fare.... Poi soggiunse, alzando il capo con quel suo atto d’orgoglio e quasi di jattanza: — Ma siamo giovini: le faremo. Non è vero? — Oh tu, di certo, — rispose umilmente lo Zaldini; — io? Io farò quel che potrò. E tutto sarà per il meglio, come sempre. Discendendo le scale, Aurelio mise il suo braccio sotto il braccio dell’amico, con familiarità insolita. Sentivano entrambi il bisogno di parlar di cose leggere, futili, impersonali: a richiesta dell’Imberido, Luciano spiegò i progressi notevoli fatti dalla Rivista in quegli ultimi tempi, gli comunicò il numero delle copie che si stampavano, il crescente afflusso d’abbonati in amministrazione, il reddito netto dell’impresa che prometteva tra non molto di coprire il disavanzo ridotto omai a una cifra lievissima. Durante la colazione, essendo poi venuti a discorrer di Cerro, Aurelio narrò la storia della sua fondazione, che risale soltanto al secolo XVII nell’anno memorabile della più cruda pestilenza; anche, narrò la curiosa leggenda del cimitero villàtico, sòrto — a quanto si dice — sopra il campicello recinto dove un famoso bandito di nome Polidoro aveva sepolto i resti delle sue vittime numerose. Luciano l’ascoltava con un’espression forzata d’attenzione, gli occhi incantati ne’ suoi, la testa un po’ inclinata dalla sua parte, quasi per meglio afferrare il senso delle parole che gli sfuggiva; di quando in quando però, senza volerlo, si distraeva, sembrava concentrarsi profondamente in sè stesso, si rivolgeva con un moto improvviso a donna Marta per lodare con qualche frase ammirativa il gusto di una vivanda, la freschezza dell’acqua, l’eccellenza del vino paesano, un vinetto limpido, leggero, un poco acidulo. Egli assumeva una specie di solennità cogitabonda d’avanti a una mensa; assaporava sapientemente, con una palese volontà di godere; pareva che s’obbligasse a pensare ciò che sentiva, per una raffinata arte di sensualità. Quando assaggiò una gran pasta dolce, che donna Marta aveva preannunciata come una squisita ghiottornia, egli non potè più contenersi, e l’allegro entusiasmo scoppiò. — Signora mia, — egli proruppe; — mi permetta di farle le mie più vive congratulazioni: questa focaccia è un miracolo di bontà, è il capolavoro delle focacce. Ella deve assolutamente insegnarmene la ricetta; io poi la comunicherò a mia sorella Maria, la quale sta per divenire, mercè mia, una cuciniera di prim’ordine. Perchè, signora, io mi sono imposto un compito da padre previdente: non potendo fare altro per essa, vado preparandole una dote di sapienza gastronomica, che la renderà senza dubbio assai preziosa e invidiata tra le ragazze da marito. Rideva a tratti, in così dire; e anche donna Marta rideva, mentre lo incitava a rifornire il piatto, rapidamente sgombro, del dolce prelibato. E le targhe zuccherine succedevano alle targhe e scomparivan tra le risa nella bocca vorace. Udendolo, osservandolo, Aurelio pensava: «Ecco: egli è beato; ha già dimenticato i nostri discorsi di poc’anzi, e senza serbarne la minima traccia amara nello spirito. È bastata una semplice sensazione gradevole per infondergli dentro la gioja di vivere; è bastato un fatto organico inferiore per ridargli la piena sodisfazione di sè medesimo. Ogni inquietudine cerebrale è stata vinta e dispersa in lui dal piacer bruto di nutrirsi!...» Egli l’osservava, soggiacendo contro l’amico all’invidia istintiva che ognuno prova al cospetto d’un essere più felice; ma l’invidia era incosciente, assumendo dentro di lui la fallace parvenza d’un sentimento neutro, quasi d’una fredda curiosità scientifica. Avveniva assai di sovente ch’egli s’ingannasse nell’interpretare i suoi moti interni; l’abitudine continua dell’astrazione e lo sforzo di formular verbalmente i suoi pensieri distoglievano facilmente la sua attenzione dalle intime cause psicologiche che originavano il lavorío mentale. Per tal modo i suoi sentimenti rimanevan quasi sempre oscuri, impenetrabili, sottratti a ogni freno e a ogni vigilanza della volontà. Finita la colazione, donna Marta, accusando un po’ di malessere, si ritirò nella propria camera, e i due giovini vollero tentare una passeggiata nei boschi circostanti. Ma l’ora non era propizia. Sul lago, immoto e abbacinante, stagnava l’afa del meriggio; il sole, alto nel cielo chiaro, lasciava cadere a perpendicolo i suoi raggi infocati, che si slargavano in macchie rance su le praterie, correvano in accese strisce lungo le viottole, s’immillavano come strali d’oro a traverso il fogliame del castagneto, bollando d’innumerevoli cerchietti tremuli la terra in ombra. Anche nel fitto del bosco la caldura, non mitigata dal più lieve soffio d’aria, quasi inasprita dallo strepito incessante delle cicale, era insoffribile. I due giovini furon costretti a ritornar sùbito su i loro passi e rientrare in palazzo. Luciano, oppresso dall’afa e dal travaglio della digestione un po’ faticosa, andò a gittarsi sul letto e s’addormentò. Aurelio si chiuse nella sua stanza, dove riprese tranquillamente i suoi studii, interrotti dall’arrivo e dalla presenza dell’amico. Non ne uscì che ai richiami iterati di Luciano dal giardino e a un rabbioso squillo della campanella, dopo oltre cinque ore di continua occupazione. Entrando nella sala da pranzo, egli al primo sguardo s’avvide che la nonna era di pessimo umore, probabilmente irritata contro di lui perchè aveva lasciato solo l’ospite durante l’intero pomeriggio. Ella non levò gli occhi dalla tavola quand’egli comparve, e rimase poi lungamente muta, covando dentro lo sdegno che presto o tardi avrebbe dovuto esplodere. L’esca fu accesa innocentemente da Luciano, quando domandò all’Imberido come avesse passato tutto quel tempo nella propria camera. Alla risposta assai calma di questo: — Ho lavorato, — la testa irosa della vecchia si rialzò con impeto fulmineo. Un fiotto di parole aspre ruppe dalla sua bocca, violentemente. — Non potevi dunque aspettar domani?... Era proprio necessario che tu continuassi oggi il tuo lavoro inutile e odioso?... L’amico tuo è da tre ore che s’annoja, solo, aspettandoti! È venuto a cercarti: eri chiuso a chiave, come se avessi avuto paura di farti sorprendere! Si direbbe che tu abbia qualche mistero da nascondere in quelle tue maledette stanze!... Io.... io, lo sai, mi sono ormai rassegnata: non ci metto più piede, cascasse il mondo, e non te ne parlo più. Ma che tu continui le tue abitudini d’orso, nascondendoti nella spelonca anche quando abbiamo con noi un ospite venuto per te, questo poi no, non lo sopporto e non lo sopporterò mai!... Era l’antico rancore che le suggeriva le parole; quel rancore ch’ella provava sopra tutto contro le occupazioni predilette del nipote, di cui non riusciva a intender bene le mire e le ambizioni. Donna Marta, uscita da una famiglia di borghesi intraprendenti, avrebbe voluto che Aurelio, dappoichè non era più ricco, avesse esercitata una professione lucrosa, approfittando della sua laurea in giurisprudenza e delle sue attitudini oratorie. Gli studii e il lavoro di lui eranle per ciò più intollerabili dell’ozio medesimo; e non poteva trascurare un’occasione di rammentarglielo. Mentre l’avola lo rimproverava, il giovine mangiava silenziosamente, scambiando a intervalli un’occhiata con l’amico. E questi, un po’ confuso, cercava con una qualche uscita burlesca d’interrompere il sermone o almeno di renderlo meno aspro e inquietante. Ella in vece proseguiva così concitata, così convulsa che pareva dovesse da un attimo all’altro rimanere senza respiro. — Vede, Zaldini? — diceva ora rivolta all’ospite: — è sempre così. Io vivo assolutamente sola. Non lo posso più vedere che a colazione e a pranzo, e spesso debbo anche aspettarlo a tavola inutilmente!... Come non bastassero le tristi figure che son costretta a fare dovunque, per colpa sua!... Ella non crederà, Zaldini: io non sono ancora riuscita a persuaderlo ch’egli è in dovere di presentarsi alle signore nostre vicine. Esse, naturalmente, sanno che c’è; desiderano di conoscerlo; m’hanno anzi pregata di condurlo meco in casa loro, e non una sola volta han ripetuto la preghiera! Io, che debbo dire? Che posso fare? È una vergogna! Una scortesia incredibile e ingiustificabile!... Ma chi lo fa capire a un ostinato di quella forza?... — È verissimo! — interruppe d’un tratto lo Zaldini, parendogli questo un buon appiglio per deviare il tema del discorso, e insieme per mettere nell’impiccio lo schivo amico. — Perchè dunque t’ostini a star lontano da quelle signore? Hai paura forse di perdere i tuoi sonni tranquilli, conoscendole? — No. Ho paura di perdere il mio tempo, che è ben peggio, — mormorò sordamente Aurelio. — Ma chè, ti pare? Non c’è bisogno di rimaner con loro da mattina a sera e da sera a mattina. M’imagino ch’esse medesime non te lo permetterebbero. Una mezz’ora al giorno in loro compagnia, credo però che la potresti passare senza sacrificio. Donna Marta, già un po’ più calma, intervenne. — Io non chiedo tanto da lui, — ella disse. — Desidero solamente ch’egli non scappi quando le incontra nel cortile o per via, e che venga una sola volta con me a salutarle. Poi lo lascio libero di rintanarsi dove e come gli piaccia. — Dunque?! — esclamò Luciano, allargando comicamente le braccia, e fissandolo con uno sguardo penetrante, pieno di sottintesi maliziosi. Aurelio, stretto dalle due parti, si difendeva debolmente; mormorava seccato timide frasi, in cui il diniego si diluiva in giustificazioni, in desiderii di lavoro, di libertà, di quieto vivere. Alla fine, come l’angustiava maggiormente quel diverbio che non l’idea stessa d’esser presentato alle signore Boris, acconsentì. — Bene! — gridò trionfalmente lo Zaldini, quand’egli ebbe pronunciato il «sì» strappatogli a forza dalla sua insistenza. — Allora la solenne presentazione del _monstrum_ avvenga questa sera medesima. Così avrò anch’io la fortuna di conoscerle, ciò che desidero con tutto il trasporto dell’anima mia. Il ritrovo serale di donna Marta con le signore Boris era il piano del rialto d’avanti alla porta del palazzo. Le ragazze usavano accoccolarsi su l’erba molle del pendío, le due donne si facevan portare le poltroncine dall’interno; e la conversazione si prolungava finchè il tramonto era esausto e le tenebre occupavano intense la valle del lago. Quella sera, quando donna Marta apparve su la soglia col nipote e con l’ospite, le vicine eransi già accampate e chiacchieravan giocondamente tra loro, ridendo forte. Quelle risa fecero su Aurelio un’impressione singolare: gli ricordarono vagamente voci conosciute. Quali? — L’avvocato Luciano Zaldini, — disse la vecchia; poi, accennando Aurelio, soggiunse con un accento diverso, un po’ sarcastico: — E questo è mio nipote, l’invisibile. I due giovini s’inchinarono. Le donne abbassarono il capo con grazioso sussiego: soltanto la bionda aperse la bocca a un fuggevole sogghigno, che sembrò all’Imberido un’acuta puntura di spillo. Dopo la presentazione, l’avola andò ad accomodarsi nella sua poltroncina che era già pronta accanto alla signora Boris; Aurelio s’abbandonò come stanco sul sedile di granito accosto al muro, e Luciano rimase ritto in piedi d’innanzi alle due giovinette. Il vespero non era perfettamente sereno: alcune masse plumbee di vapore offuscavano l’occidente, anticipando la mezz’ombra del crepuscolo. Su lo spiazzo, di solito deserto, ferveva un’animazione quasi febbrile; molte femmine, su la riva, aspettavano ansiose le barche delle filandaje, di ritorno per la festa del domani dagli opificii d’Intra e di Pallanza: nel prato, tra i salici e i gattici sottili, quattro o cinque bambine tutte bionde giocavan silenziosamente, ammontando i ciottoli del greto. I discorsi incominciaron sùbito vivacissimi tra le donne e lo Zaldini. Si parlava, con grande volubilità, delle cose più varie e disparate: di abitudini di campagna, del caldo in città, di comuni conoscenze, di futili avvenimenti che parevan degni di memoria sol per il nome noto delle persone che vi avevan preso parte. E i comenti, le osservazioni, le sentenze spuntavano di quando in quando a mezzo di quei discorsi — comenti ingenui, vane osservazioni, sentenze plateali a base di luoghi comuni e di frasi fatte. Aurelio, rimasto fuori del crocchio ciarliero delle donne che gli volgevan le spalle, taceva e osservava in preda a un tedio schiacciante. Quella conversazione gli sembrava intollerabile; non poteva capacitarsi come l’amico suo vi si frammescolasse con tanta spontaneità di piacere. Certi scatti subitanei d’ilarità giungevano a lui più ingrati che il soffio d’un lezzo nauseoso; certe uscite, che l’obbligavan per poco all’attenzione, riempivano il suo spirito d’insofferenza, sì ch’egli doveva far forza contro sè stesso per non allontanarsi da quel posto di tortura. — Gli uomini son leggeri come farfalle, — udì sentenziare la bionda, fissando i suoi chiari e cupidi occhi in quelli di Luciano. — Io, se per caso prendo marito, voglio che.... — Ma se è sempre così: l’uomo si stanca presto della sua casa, della moglie, dei bambini, e allora... — No, no, credi a me, Luisa; io lo dico sempre: è assai meglio rimaner zitelle fin che si può.... Si è sempre in tempo per fare il salto nel bujo!.... Luciano, difendendo il suo sesso dalle accuse femminili, rispondeva gravemente, discuteva con calore gli argomenti più sciupati, accusava a sua volta la donna di leggerezza e di crudeltà; solamente a intervalli si permetteva qualche facezia arguta e sottile che sollevava d’improvviso le proteste di tutto il crocchio. In tanto Aurelio, infastidito da quelle ciarle insulse, erasi distratto a poco a poco nella ottusa contemplazione della scena. Le barche, che avevano tragittate le filandaje, giungevano ora confusamente, ondeggiando, presso il lido. Sul riflesso livido dell’acqua i cerchii, spogli delle tende, si disegnavan neri e lugubri, come costole d’immani scheletri ribaltati; e i profili indecisi delle fanciulle, strette e pigiate tra quei cerchii, avevano una mobilità informe, che pareva un brulichìo. Cantavano alcune un canto malinconico, all’unisono, seguendo il ritmo grave dei remi nell’acqua. Quando giungevano a una cadenza, le altre tutte sposavano le loro voci a quelle poche, e un lungo grido saliva per l’aria, simile a un appello desolato di naufraghi. Poi susseguiva una pausa, qualche riso incontenuto, un ululo impaziente di salutazione alle donne che aspettavano, e il canto incominciava di nuovo, flebile e basso. Le barche approdarono. Accorsero in torno le femmine, chiamando, interrogando, stendendo le avide mani verso le figliuole, che sapevan fornite del gruzzolo, con un trasporto folle di cupidigia. Si formò un gruppo compatto, multicolore, strepitante d’avanti alle prue cariche come d’un denso grappolo vivo. Le filandaje, il capo avvolto negli scialletti chiari, un canestro appeso al braccio, si contrastavano il passo, si sospingevan con i gomiti, cadevano a una a una nelle braccia delle aspettanti, con la bocca aperta a un vacuo sorriso di trionfo. Le prime discese dalle barche, vogliose d’uscire, avevan determinato nella ressa una corrente; alcune compagnie si dirigevan già a passo sollecito, disperdendosi, verso il villaggio. A poco a poco il gruppo s’assottigliò: lo spiazzo arsiccio si macchiò per qualche istante di capannelle silenziose che s’affrettavano al povero desco familiare. E la solitudine consueta riprese il suo dominio severo, nella lenta mestizia del crepuscolo. Aurelio seguì con un pietoso sguardo, finchè disparvero, le miserabili, che la vicina festa e il riposo d’un giorno bastavano a esilarare. Splendeva su quelle anime semplici e inconsapevoli il raggio dell’eterna Consolazione: le loro vite, condannate a un perenne sacrificio, attingevan certo a una qualche miracolosa sorgente la forza di resistere alle fatiche diuturne, alla monotonia accasciante delle abitudini, alle umiliazioni, alle privazioni, agli stenti, agli strazii. E la sorgente del miracolo non poteva esser se non l’Amore, la sacra febbre di tutti i nati, quella che perpetuava la loro razza di bruti dolorosi, su le campagne frustate dal sole, nelle fabbriche attossicate dal fumo, negli squallidi ricoveri del gelo e della fame! «Perchè? Perchè?» si domandò il giovine, angosciosamente. Una voce prossima lo trasse d’improvviso dalla sua meditazione. — Conte, — disse Flavia, piegando indietro il viso verso lui; — ci scusi se le volgiamo poco amabilmente le spalle. La colpa non è nostra: è lei che ha scelto quel posto.... Soggiunse poi con un sorriso a pena accennato, socchiudendo le palpebre alla maniera dei miopi: — Se lei volesse avvicinarsi un poco a noi.... Io e Luisa invochiamo la sua autorevole protezione contro gli attacchi ingenerosi dell’amico suo. — Eccomi, — rispose Aurelio, alzandosi, fulminato da un’occhiata imperativa dell’avola. Lo Zaldini, dimentico omai d’ogni sussiego urbano, s’era disteso su l’erba del pendìo accanto a Luisa, e le parlava a mezza voce, concitatamente, mentre la fanciulla, tutta scossa dal riso, arrovesciava indietro la testina capricciosa, scoprendo la gola liscia d’un candor d’alabastro, e protendendo le delizie dei seni rigidi e forti in una pulsazione inebriante. Quand’ella rideva, il giovine per un minuto ammutoliva, intesi l’occhio e l’animo a raccogliere il dolce frutto della sua malizia. Aurelio s’avanzò, come un automa spinto da una volontà esteriore, e venne a sedersi presso la signorina Boris. — Ah, così va bene! — gridò allegramente Luciano, vedendolo accostarsi; — ti giuro che non è cosa agevole tener testa da solo contro due avversarie gentili, belle ma spietate. Io stava per arrendermi, ed era una triste e umiliante necessità per un uomo di battaglia com’io sono. Ora, _viribus unitis_, spero che le sorti della tenzone muteranno. Si volse di nuovo a Luisa, e riprese sùbito il suo discorso interrotto, a bassa voce. Flavia, con un cenno cortese e incoraggiante del capo, domandò all’Imberido: — Ella lavora molto, non è vero? — Molto, — rispose Aurelio gravemente. — Troppo, forse...? — No, non mai troppo. Io vengo in campagna soltanto per lavorare. Le distrazioni della città mi rendono affatto incapace d’un’occupazione continuata e severa. — Le distrazioni della città...? — Sì. Ho tante conoscenze a Milano; e queste, non lo crederà, mi fanno perder tempo in discussioni e in ritrovi. Sopra tutto, gli amici. — Proprio gli amici...? — chiese Flavia, con un’intonazione insinuante e così modulata che pareva l’inizio d’una melodia. Aurelio la fissò stupito negli occhi, e corrugò la fronte. — Non capisco, — egli disse, dopo una breve pausa di raccoglimento. Ella ripetè con la stessa voce: — Proprio gli amici, o non piuttosto...... le amiche? — Ah, — esclamò il giovine, inarcando le labbra a un’espressione amara, quasi di sdegno; — m’avvedo che sarà bene per entrambi che faccia sùbito una dichiarazione aperta e leale, quantunque non molto gentile: io sono misogine. — Misogine?.... — fece Flavia, che a sua volta non comprese. — Che cosa vuol dunque dire: misogine? — Ohimè, signorina: la parola può essere oscura, ma il significato n’è fin troppo chiaro! Vuol dire: nemico delle donne. Nel proferire queste parole, egli non ebbe un’inflession carezzevole di voce; parlò come un maestro che spieghi la lezione a un allievo indifferente. S’aspettava un mutamento subitaneo di contegno in lei: ch’ella s’offendesse e cessasse d’interrogarlo, o almeno che, rinunciando a ogni inchiesta sentimentale, passasse con la leggerezza propria delle femmine a tutt’altro discorso. Ella in vece s’accontentò di guardarlo attentamente, e parve a lui di sorprendere in quello sguardo anche un lampo di simpatia. — L’han dunque fatto molto patire le donne per renderselo così avverso? — ella chiese, scrutandolo sempre negli occhi. — Affatto. — Ella non ha mai amato, forse? — Mai, signorina. — Proprio: mai? — Mai, le dico. — Lei beato! — esclamò Flavia, e abbassò gli sguardi come oppressa da un assalto di memorie tristi. Successe un silenzio. Il dì moriva assai dolcemente: rampollavan le stelle a una a una dalla cupola del cielo, e le luci dalle ombre ugualmente fosche delle pendici; l’ultimo chiaror tramontano agonizzava al sommo delle vette, e il suo riflesso, attraversando il lago, giungeva a illividire il prospetto roseo del palazzo e i volti degli astanti. Un gregge attardato passava su la riva. I belati rompevan lamentevoli la calma della sera. Maravigliato dall’esclamazione dolente della fanciulla, Aurelio incominciava a esser morso da una sottile curiosità. Egli fu primo a parlare. — Me beato, ha detto..... E perchè? — Perchè la invidio. — M’invidia perchè..... non ho mai amato? — Sì. E non soltanto l’invidio, ma anche sinceramente l’ammiro, e faccio voti per lei ché possa sempre dire così. Una strana commozione suscitavan nel giovine le parole e l’atteggiamento inaspettati di Flavia. Blandito nella sua vanità d’uomo puro, egli piegava a poco a poco verso lei, in un languido abbandono di gratitudine e di compassione. La coscienza della sua incorruttibilità sembrava trarre da quell’elogio e da quell’augurio una conferma misteriosamente persuasiva, come da un sortilegio; ed egli si concedeva fiducioso e docile alla lusinga, assaporandone il venefico succo con la improntitudine d’un fanciullo goloso. — E, dica, signorina, — riprese Aurelio a voce più fioca: — ella dunque ha molto sofferto per invidiare con tanto ardore un passato arido e freddo come il mio? — Oh, molto sofferto! — assentì Flavia, abbassando le palpebre su gli occhi scintillanti. E, a frasi sommesse e concitate, recitò il suo lamento, il viso contratto, gli sguardi smarriti nel vuoto, come parlasse a sè medesima: — Io fui molto, molto disgraziata!... Se sapesse che triste esperienza ho già fatta io della vita!... Tutte le mie belle illusioni furon distrutte!... I miei più puri sentimenti, calpestati e infranti!... Ah, bisogna nascere senza il cuore per esser felici! O almeno averlo perduto per sempre.... L’amore è una menzogna... Aurelio l’ascoltava con lo stesso piacere che si prova ascoltando una musica. Delle frasi sconsolate di Flavia egli non percepiva che il suono, un suono dolce, vellutato, a cadenze malinconiche verso le note gravi. E in tanto la guardava fisso, attratto per la prima volta dalle mirabili fattezze di quel viso impallidato da un acre ricordo e dalla luce crepuscolare. Era un viso ovale, forse un poco esiguo per quel corpo troppo snello e troppo allungato. I lineamenti, d’una irregolarità gustosa a pena sensibile a un qualche osservatore paziente, avevano quell’espressione complessa di fragilità e insieme di resistenza morale, che rivela bene spesso l’indole femminilmente decisa ed equilibrata. Un’ombra tenera, leggerissimamente violetta, le circondava gli occhi che volgevano un’iride grigia, profonda, cerchiata di nero; maravigliosi occhi, a cui l’anima pareva affacciarsi, ora triste, ora gioconda, ora calma, ora agitata, con una singolare mobilità. La bocca, piuttosto larga e sinuosa, era d’una chiarezza affascinante: mentre ella parlava, di tra le labbra un po’ smorte e la chiostra dei denti, appariva a scatti la punta umida della lingua, come un bagliore. E nulla superava la dovizia della sua chioma, densa e castagna, disposta su la finissima testa a guisa d’un caschetto di lucido rame. Donna Marta e la signora Boris conversavano animatamente tra loro; la voce di Luciano era divenuta un bisbiglio indistinto, e le risa della bionda s’eran fatte più rade e gutturali, quasi spasmodiche. Flavia continuava: — Ora son guarita. Guarita come si può essere da una ferita indelebile! Ho fatto una mala esperienza e questa mi servirà per l’avvenire; è l’unico vantaggio che n’ho avuto, e naturalmente non voglio perderlo. Chi batterà di nuovo alla porta del mio cuore, la troverà irreparabilmente chiusa, anzi murata. Tanto peggio per colui! — Ella vuol dunque, con un sistema penale di nuovo genere, infliggere al secondo la punizione dovuta al primo, non è vero? — domandò celiando l’Imberido. — No, conte. Ho perdonato a _lui_; imagini se voglio vendicarmi su un altro!... Del resto gli uomini son tutti uguali: essi, creda, non soffrono che nella loro vanità. Quando sanno di non esser posposti a nessuno, accettano indifferenti qualunque ripulsa.... Io sarò sorda e muta per essi: ecco tutto. E, chi sa? Forse così potrò ancora esser felice, — ella soggiunse con un debole sorriso. — Io glie lo auguro di tutto cuore, signorina. La notte era discesa. D’innanzi, lo spiazzo giaceva oscuro nell’abbandono. I gattici e i salici presso il ruscello stormivano dolcemente al soffio continuo della valle. A Stresa alcuni razzi colorati salivan nelle tenebre, vi si spegnevano con certi rombi cupi, che gli echi ripercotevano qua e là lungamente. E il villaggio lontano appariva a ogni accensione, come devastato da fantastici fuochi. — Ragazzi, fa fresco. Rientriamo, — ammonì donna Marta, levandosi in piedi. III. I FANTASMI E LE IDEE. Dopo avere accompagnato l’amico alla stazione, Aurelio Imberido ritornava solo, a passi solleciti, verso casa lungo la viottola alpestre, che costeggiando il lago s’inerpica su per i dirupi scoscesi, quasi impercettibile tra le fittissime macchie dei noccioli e dei castagni. La mattina era monda, soffusa di luce, dominata dal silenzio. Su i giovini rami le foglie scintillavano al sole, ancor madide di rugiada. Di tratto in tratto un merlo si levava strepitando da una frasca, passava come una freccia nera a traverso il sentiero, scompariva sùbito nel verde. Poco appresso lo si udiva gittare un fischio da lontano, come un saluto di scherno. Tra i prestigi mattutini Aurelio percorreva la via solitaria, chiuso e indifferente al maraviglioso paesaggio che gli si spiegava d’innanzi. Com’era solito nelle sue passeggiate meditative, egli avrebbe voluto concentrarsi tutto per riafferrare il corso delle sue idee, interrotto da quella serata e da quella mattinata d’ozio obbligatorio; egli avrebbe voluto raccogliere la mente sul tema del suo lavoro, per poterlo riprendere dove l’aveva lasciato il giorno innanzi, appena di ritorno a casa. Ma ogni sforzo di volontà era inutile; l’imagine dell’amico, i ricordi dell’incontro con le signore Boris, i discorsi fatti con Flavia gli s’imponevano con insistenza, rievocati dall’ultimo colloquio con lo Zaldini. Questi, durante l’intero tragitto in barca e nella lunga aspettazione della partenza a Laveno, non gli aveva parlato se non della bionda Luisa, comunicandogli il suo dialogo sommesso della sera prima, confidandogli le speranze ch’egli nudriva d’un prossimo accordo sentimentale con lei. E si sarebbe detto dall’espressione del suo volto che la Felicità gli avesse sorriso dagli occhi di quella fanciulla, una felicità piena e senza fine alla quale egli correva incontro come a una madre. Ancora dal finestrino della carrozza, quando il treno era già in moto, egli aveva voluto sporgere un’altra volta il capo per ripetere all’amico d’aspettarlo presto, ché non avrebbe tardato a farsi rivedere in Cerro, dove omai tendevano ansiosamente tutti i suoi desiderii. Ripensando ora a quelle parole e all’espressione con cui erano state proferite, Aurelio provava un senso di turbamento, d’inquietudine e quasi di rancore al quale invano cercava di sottrarsi. — Lo Zaldini, quella mattina, non si era mostrato più gajo e più vivace del giorno precedente; soltanto, una nuova cagion d’esultanza aveva preso il posto d’onore dentro all’animo suo, ed egli, nella perpetua vicenda di illusioni gradevoli cui fatalmente propendeva, l’aveva accolta come l’unica, come la precipua origine del suo benessere ostinato. Per tal modo egli ora credeva d’amare, sperava d’esser riamato, edificava su le basi di questo amore imaginario un ipotetico avvenire di gioja; e in siffatto sogno trovava l’energia salutare che lo avrebbe sorretto fino all’aurora d’un altro sogno. Con ogni probabilità il sogno presente sarebbe stato effimero; egli non sarebbe più ritornato a Cerro; avrebbe tra poco dimenticato e la bionda Luisa e la casa ospitale. Non importa: nella sua sostanza era radicato il prisco senso gaudioso della vita; e tutte le realità come tutte le illusioni dovevansi offrire a servigio della sua letizia. Così Aurelio giudicava l’amico con limpidezza e rigorosa equità mentali; e pure sentiva in fondo a sè un gorgoglio di pensieri ingiusti, un movimento cieco d’antipatia contro di lui, che a tratti interrompeva o deviava lo stesso filo delle sue considerazioni. Avveniva nel suo spirito, come sempre nei momenti di debolezza, un dissidio aperto tra le idee e i sentimenti; le idee che objettivamente cercavano d’analizzare un dato fenomeno per ricollegarlo allo schema delle sue teorie generali; i sentimenti che s’appigliavano in vece agli effetti immediati del fenomeno, degenerando in commozioni piacevoli o ben più spesso dolorose, nel raffronto spontaneo delle altrui con le sue proprie condizioni d’animo. Già il giorno prima, durante la colazione, egli aveva provato un movimento consimile d’antipatia per lo Zaldini; ma, più assorto nel suo ragionamento, non l’aveva avvertito. Questa volta l’impulso fu più vivo e definito poi ch’egli sùbito se ne accorse, e fu dall’intima scoperta profondamente turbato e contristato. Egli pensò, accelerando il passo: «Io non sono a bastanza forte se mi lascio sorprendere da un sentimento così indegno di me! Invidiare costui?! E perchè?... Forse ch’io sarei felice come lui se anche mi sorridesse l’amor verace d’una donna?... L’Amore, sempre l’Amore,» egli disse a voce bassa, sogghignando, «l’eterno inganno, l’incantesimo della Natura bruta per conservar la razza, l’umiliante connubio di due corpi che l’animalità più inconscia infiamma e fa delirare!» Pensò: «Io ho rinunciato alle consolazioni dell’Amore, ho rinunciato alle torbide gioje della folla, alle basse ebrietà del senso! Debbo potere assisterne allo spettacolo senza rimpianti e anche senza sdegni.» Era giunto Aurelio alla estrema punta del golfo, dove il pendìo d’un tratto s’addolcisce e si spiana in ombrosi boschi di querce e in fresche praterie, assiepate da bassi roghi, declinanti con lenta ondulazione verso le rovine del Fortino. S’arrestò, udendo un approssimarsi di voci femminili dalla parte di Cerro. Alla svolta della strada un cane irsuto e nero s’avanzò primo, scodinzolando, incontro a lui; poi, lentamente, seguirono una dietro l’altra tre vacche corpulente, brucando sul terreno, fiutando a intervalli l’aria, sbirciando in torno con i grandi occhi oscuri; poi, improvvisamente, apparvero le due fanciulle che guidavan la piccola mandria al pascolo. Usciron queste dal folto, ridendo forte e rincorrendosi per il prato, inconsapevoli d’esser vedute: biondicce entrambe, esili di forme, con le impronte delle privazioni sul viso magro e pallido, ma così agili nelle movenze, così liete e spensierate che ricordarono al giovine il giocondo mito pagano delle Driadi. Egli non volle disturbare il loro giuoco leggiadro. Trovandosi presso un muro diroccato, vi si nascose dietro rapidamente, e aspettò che le fanciulle fosser passate. Il cane irsuto e nero, che lo aveva visto, venne a fiutarlo con diffidenza, e, come rassicurato, riprese il suo cammino, senz’abbajare; egli udì i passi grevi e cadenzati delle tre bestie batter su i ciottoli della strada vicino a lui e allontanarsi. Le risa delle fanciulle risonarono in fine più prossime, stridule, acutissime, strozzate dall’affanno della corsa. — Sì, sì: lo so, — una diceva, fuggendo: — Tonio è il tuo amoroso! — Stupida! Stupida! — gridava l’altra che la rincorreva. — Io lo so. Il mio fratellino m’ha detto d’avervi incontrati soli, sul tardi, vicino al camposanto.... — Stupida! Non è vero! — È vero! E m’ha detto che vi siete baciati.... — Non è vero! — E che avete preso la strada dei monti.... — Stupida! Stupida! Se ti piglio.... Le grida si confusero, s’affievolirono, si spensero presto nel silenzio del bosco. Quando fu sicuro di non esser veduto, Aurelio uscì dal nascondiglio, e riprese la sua via a passo più veloce, quasi volesse sottrarsi al fascino della scena inaspettata. Le parole audaci di quelle fanciulle, il suono delle loro voci, i loro scoppii nervosi d’ilarità, quella fuga ninfale su l’erba fiorente tra i fusti muscosi delle querce, gli avevan dato un senso d’ebrezza, che non gli era del tutto ignoto e lo sgomentava. Dentro di lui la scena aveva risvegliato il ricordo d’un’altra somigliante: la prima improvvisa apparizione di Flavia e di Luisa su la scalea marmorea, negli estremi chiarori del vespero, e la fantastica fuga nella pineta. Anche la commozione provata allora rassomigliava assai a quella da cui si sentiva posseduto in questo momento: una specie d’alterazione indefinibile, una violenza di cose soffocate, come un vaneggiamento leggero che non gli permetteva di distinguer nettamente dentro né intorno a sè. Ma questa volta la commozione era men chiara, più complessa, più aspra: pareva avvelenata da alcunchè di sgradevole e quasi di doloroso. «L’Amore, sempre l’Amore!» egli si ripeteva cercando di dominare la strana inquietudine dello spirito, mentre camminava a grandi passi tra le siepi arborescenti della via. E le due visioni l’accompagnavano ostinate e moleste, come un profumo troppo forte che lo avesse investito. Più d’una volta rimase. Nulla omai si moveva nella selva: saliva il romore delle onde morte sul greto, simile a un lento respiro affannoso; e qualche fronda alta stormiva. Ah, quella solitudine e quel silenzio e quella mitezza di clima e di paese! Ah, l’implacabile educazione dell’eterna Natura, che seducendo ordina e impera! «Io sono infelice!» mormorò d’un tratto il giovine, arrestandosi attonito, girando gli occhi intorno a sè per le vòlte capricciose del bosco, dove il sole irrompeva a fasci, a sprazzi, a scintille, dispensatore di vivido oro su le foglie polite e su i rami vellutati di muschi e di licheni. La frase gli era misteriosamente sgorgata dalle viscere profonde, ed egli l’aveva detta senz’averne coscienza, per un bisogno irresistibile quasi di liberazione. Non l’anima sua l’aveva suggerita; aveva parlato in lui l’oscuro Genio della Specie; ed era, la sconsolata frase, una delle innumeri espressioni di lamento delle creature che si senton sole e sterili e vane, il grido d’angoscia che l’Avvenire strappa a queste reclamando le sue vittime in pericolo di non essere. Non diversamente il cervo solitario gitta al silenzio della foresta il suo triste bramito; non diversamente dall’eccelse vette degli alberi l’usignuolo, alato poeta della notte, piange e chiama la compagna lontana e sconosciuta. Aurelio alzò lentamente le spalle, parve riflettere un poco; poi ripetè una seconda volta, con tutt’altro accento: «Io sono infelice!» Sogghignò, per irridere a sè medesimo, e riprese al passo concitato di prima il suo cammino. Il sentiere, dopo essere alquanto disceso, usciva alfine dalla boscaglia e costeggiava la spiaggia del lago, a pena protetto da una siepe di mori prugnoli che i fanciulli avevan qua e là abbattuta. Il sole lo inondava tutto di luce, un bel sole estivo non ancora alto, non ancora cocente, sospeso in un cielo opalino, d’una singolare purità. Una calma estatica teneva il lago; avevan le acque tal lucidezza che ripetevan con perfetta similitudine qualunque imagine. Le montagne della riva di Piemonte, popolate di villaggi, s’ergevan nette, gaje, luminose, come spiccando da un tersissimo specchio. Uscendo dall’ombra a quella luce suprema, parve al giovine di sottrarsi a un malefizio e di riprendere d’un tratto la sua personalità. Il turbamento s’acquetò; il suo cuore riprese a pulsare con la regolarità consueta; le torbide visioni, che lo avevano occupato, a poco a poco si dissiparono; ed egli potè novamente impadronirsi del governo del suo pensiero. Senza indugio, per natural reazione dello spirito violentato, egli sentì il bisogno di formular da capo il suo grande principio di condotta, d’enunciare a sè stesso il programma della sua vita com’egli voleva che fosse, d’affermare con una sintesi stringente la solidità del suo piano e la forza della sua volontà. «La vita è breve», egli pensava; «occorre affrettarsi. Occorre sviluppare la propria individualità in tutta la sua potenza; allargarla fin dove le resistenze esterne lo concedono; giungere possibilmente fino al punto lontano che gli occhi del pensiero vedono e segnano come una mèta. Ecco dunque il dovere: non distoglier mai lo sguardo da quel punto; non deviare mai dal diretto cammino che conduce a quel punto.» — Poichè il Destino non aveva voluto ch’ei possedesse terre, servi e cavalli, doveva per altra più ardua via (ed Esso glie ne aveva fornito i mezzi e le attitudini), raggiungere un alto fine vitale. Gli uomini della sua stirpe, anche nei tempi meno propizii, non erano stati a nessuno secondi: l’avolo suo Gian Franco, nell’amor della patria; il padre Alessandro, nello splendore del fasto e dell’eleganza. E lo sventurato esule, morto nelle prigioni dello Spielberg, sognando in una estrema visione profetica l’Italia liberata, doveva nel mondo delle ombre tendere pietoso la mano al figliuolo demente che, negli anni torpidi della pace, aveva cercato di salvare il lustro del Nome, sacrificandogli la fortuna e la salute. Egli veniva terzo: egli, povero e oscuro, sentiva pur sempre nel sangue lo stesso sfrenato orgoglio, che aveva già trascinato in turbini diversi le anime de’ suoi maggiori. Compire e coronare l’opera iniziata dall’avolo, ecco il suo grande disegno; ed egli, per affrettare l’evento favorevole, sognava a sua volta, per la patria ormai risorta e già minacciata da ruina, un dominio d’uomini nobili e possenti, che ne rialzassero e assicurassero le sorti maravigliose, mostrando al mondo l’indistruttibile preminenza del più puro sangue latino. «Un popolo fedele, guidato da un’aristocrazia degna, attiva e sapiente», egli pensava, «ha nell’età nostra, tra popoli inquieti retti dal malgoverno plebeo, tutte le probabilità di trionfare e d’imporsi.» E Aurelio Imberido si sentiva pronto e capace di mettersi alla testa d’un’agitazione schiettamente aristocratica nel grigio e turbolento diluvio delle odierne democrazie. Egli, libero da ogni giogo, forte d’un’antica eredità d’ambizioni, sorretto da una vasta dottrina positiva, avrebbe trovato, nella lotta viva contro i preconcetti politici e morali del tempo, il mezzo più sicuro e più nobile per dare alla sua esistenza un particolare significato e uno scopo superiore; per estendere la sua personalità oltre i limiti ristretti e oscuri che s’impongono ai più; per divenire un uomo, nel senso più alto della parola, e tentare anche l’erta della Grandezza. «Combattere per un’idea, o, sia pure, per un sogno,» diceva l’Imberido: «ecco l’opera che sola affranca dall’umiltà delle nostre origini, e fa men grave la coscienza della nostra vita precaria.» Ma, perché potesse egli attuare il suo programma, era necessario che ad esso consacrasse intera la propria attività, era necessario che facesse a sua volta una rinunzia suprema: non certo quella vile dell’individualità e d’ogni sano impulso agonistico, che le presenti ambigue tendenze spirituali tristamente sembrano esaltare; ma bensì quell’altera rinunzia d’ogni sentimento volgare e d’ogni timida fede e d’ogni morbosa pietà, che inizia l’uomo all’esercizio delle più feconde virtù e lo dirige sicuro alla prova delle imprese più memorabili. Così il giovine, meditando sotto il sole benefico, si tracciava novamente la prediletta linea di condotta, e ritrovava a poco a poco la sua volontà adamantina e insieme con questa il geloso tesoro delle sue speranze di gloria. L’opera futura, ch’egli avrebbe dovuto compire, gli si veniva per tal modo disegnando e precisando dentro al pensiero nelle sue diverse possibili estrinsecazioni, — opera di franca propaganda per mezzo del libro, del giornale, della parola, anche, se fosse occorso, dell’azione diretta. E le due formule rigorose su cui poggiava l’edificio della sua concezione riscintillavano d’avanti a lui, come fossero incise a lettere di fuoco dovunque il suo sguardo cadeva. «L’umanità resta e progredisce, non ostante ogni scempio più doloroso de’ suoi individui.» E l’altra: «L’unico ideale degno d’un uomo intelligente è l’aspirazione a un’umanità superiore, a un’evoluzione della Specie spinta più che sia dato verso il cielo. Fermarsi a rendere felici quelli che esistono non è e non può essere che un ingenuo e vano desiderio sentimentale.» Un improvviso entusiasmo l’assalì. Dov’erano omai tutti gli sbigottimenti e le ansie e le fosche imagini che lo avevano prima oscurato? Dov’erano gli obliqui desiderii e i disgusti e le insidiose memorie? Egli non si ricordava più di nulla. Il suo spirito erasi liberato dai fantasmi, aveva disperso le nebbie che l’attorniavano. Pareva che un altro principio di vita fosse entrato in lui; pareva che qualcuno fosse uscito da lui, segretamente, e avesse portato seco il triste fardello dei dubbii, degli scoramenti, delle debolezze. Egli riacquistava la fiducia in sè stesso. A capo alto e raggiante nel viso, Aurelio rientrò in Cerro. Sotto l’arco caliginoso, che sta in guisa di porta all’inizio del villaggio, trovò Camilla, frettolosa, tutta rossa e con gli occhi gonfii, la quale gli venne in contro singhiozzando, coprendosi la faccia col fazzoletto. — Che c’è di nuovo? — egli chiese stupito. — La signora.... La signora.... — balbettò a stento la ragazza, e non potè continuare, interrotta come fu da uno scoppio di pianto. — La signora?... Ebbene?... Che è avvenuto?... Aurelio cominciava a inquietarsi. Sempre in timore per la salute della nonna, egli supponeva già ch’ella avesse avuto un attacco più atroce del suo male; e un leggero tremito aveva per il corpo e nella voce, mentre interrogava la cameriera che muta e a viso coperto gli singhiozzava d’innanzi. Poi che questa non accennava ancora a rispondere, egli richiese più vivamente, quasi con ira: — Ebbene?... Che è avvenuto?.... Parla in nome di Dio! — Io non ho colpa.... Io non ho fatto nulla.... Pretendeva che avessi percosso il bambino del guardiano, e non era vero.... Non era vero, glie lo giuro, signor Aurelio! Il bambino è caduto per caso.... Io non l’ho visto cadere.... E la signora m’ha licenziata in malo modo.... — Ah, è per questo che piangi? — fece Aurelio, senza lasciarla continuare, dopo aver tratto un gran respiro. Ella affermò a pena, col capo. — Sempre la stessa storia! — mormorò il giovine, stringendosi nelle spalle. Poi si rivolse ancora a lei: — E dove te ne andavi or ora con tanta fretta? — Andavo a Laveno. — A Laveno? E per che fare? — Per cercarmi un posto.... — Così sùbito?!.. Via, non far sciocchezze, Camilla! Adesso torna a casa: avrai tempo più tardi per pensare ai fatti tuoi. E s’incamminò, sorridendo con un poco d’amarezza, verso il palazzo. Presso la porta il guardiano, un vecchio robusto e sanguigno dalla folta capigliatura grigiastra e dagli occhi di volpe, era seduto sopra una delle lastre di granito infisse nella parete, intento ad affilare il falcetto, e fischiava allegramente. — Olà, Giuseppe! — gli gridò Aurelio, salendo i gradi del rialto. — È vero che il vostro piccino s’è fatto male? — Oh, signor conte, una cosa da nulla! Il monellaccio è ruzzolato mentre correva per il cortile.... Che vuole? Non può stare un momento quieto! Lo si sorveglia tutto il santo giorno; ma non serve. Egli sa trovar sempre il momento buono per farne qualcuna delle sue!... — Voi, Giuseppe, eravate presente quando è caduto? — Sicuro! Era anch’io in cortile con lui.... Fortuna volle che questa volta non si sia fatto quel male che avrebbe potuto! Una leggera ammaccatura su la testa.... cosa da nulla, le dico, signor conte. — Tanto meglio! — concluse il giovine e, salutato il guardiano, entrò risoluto in casa. La sala da pranzo, con le persiane chiuse, era avvolta in una mezz’ombra glauca, appena rotta qua e là da alcune lamine sottili di sole, a traverso le quali i pulviscoli dell’aria si vedevano incessantemente roteare. In un angolo, presso l’ultima finestra, donna Marta era seduta, come d’abitudine, sul suo seggiolone d’avanti al tavolino da lavoro tutto ingombro di fili, di gomitoli, di ritagli, di minuti arnesi muliebri. Il giovine s’avvicinò lentamente a lei. Ella, il capo arrovesciato su la spalliera, le mani penzolanti dai bracciuoli, giaceva abbandonata e inerte, come affranta da un immane sforzo; e ansimava. I suoi lineamenti alterati dalla collera e dal dolore avevano l’immobilità, la rigidezza, il pallor d’un cadavere: e gli occhi, quei grandi occhi giovenili, saettavano in giro sguardi sinistri, all’ombra delle sopracciglia irte e aggrottate. — Mamma, che hai? Sei così pallida... — mormorò il giovane con la voce dolce, quando le fu presso. — Che ho? — ella proruppe. — Sono stanca, capisci? Non ne posso più! Finirò per commettere una follia, se si continua così. Intanto t’avverto che ho messo alla porta quella tua serva esemplare, ed era tempo, per Dio! — Tu l’hai messa alla porta...? — E come! L’avessi sentita...! Che lingua! M’ha risposto in un tal tono che per poco non m’ha spinta all’estremo di cacciarla a ceffoni!.. E tutta la colpa è tua, perchè sei stato tu a non volere ch’io me ne liberassi a Milano, prima di partire per la campagna. — Ma infine, mamma: che è successo? Che cosa ha fatto costei? — Ah, che cosa ha fatto?... Ha percosso a sangue il povero piccino del guardiano... — Non è vero, — asserì Aurelio con la stessa voce dolce, fissando l’avola negli occhi. Ella ebbe un sussulto repentino. Quasi per un prodigio, parve che il suo corpo esanime ritornasse d’un tratto alla vita. Si levò ritta a sedere e, affrontando violentemente lo sguardo di lui: — Come, non è vero? — gli gridò con tutta la sua forza. — Oseresti anche smentirmi per difendere quella sguajata?! — Mamma, via, non arrabbiarti così, — Aurelio s’affrettò a soggiungere in tono anche più blando, persuasivo: — non è proprio il caso. Parliamo un poco con calma. Si tratta d’assodare un fatto; non di discutere. Ora tu affermi, che Camilla ha battuto quel bambino. Lo affermi forse perchè l’hai sentito piangere. Ebbene, credimi, t’inganni: il guardiano stesso, ch’era presente, m’ha assicurato che suo figlio è caduto mentre correva nel cortile. E nota che Camilla non l’ha visto neanche cadere! Donna Marta ascoltò queste parole, contenendo a stento l’ira che le bolliva dentro. In verità, ella era così certa della sua supposizione che ogni più valida prova negativa non sarebbe riuscita a insinuarle la punta d’un dubbio. Abituata sin dai tempi di suo marito a un imperio incontrastato su tutti quanti l’avvicinavano, resa anche più irritabile dai nervi impoveriti di sangue, ella non poteva ormai tollerare una contradizione, sotto qualunque forma le venisse rivolta; e s’adombrava, e inviperiva, e perdeva, nello sdegno per l’offesa, ogni senso d’equità e di misura. Quando poi l’opposizione contro di lei partiva proprio da suo nipote, che ella considerava come un vassallo per tema di dover sopportare come un padrone, la rivolta del suo spirito indisciplinato era così folle e veemente che l’ultimo bagliore di ragione andava nel tumulto miseramente perduto. — Tu dunque l’hai vista? — ella disse, mordendosi le labbra. — Tu hai parlato con lei?... — Sì, mamma. Ho parlato anche con lei. — Capisco. Hai voluto ricever l’imbeccata!... E, come sempre, hai preferito credere a una serva che non a me... — Oh, Dio, mamma... — esclamò Aurelio, che cominciava a impazientirsi. — Se debbo parlarti schietto, ti dirò che non ho creduto né all’una né all’altra. Si trattava di sapere se una cosa fosse avvenuta o no. Capirai bene che non era il caso di far distinzioni di grado o d’autorità o di merito tra le persone che contendevano. Ho ricorso alle testimonianze e mi son persuaso che non era avvenuta. Vuoi forse che ti affermi ora il contrario, per compiacerti? Donna Marta ebbe un sogghigno, e disse con sarcasmo feroce, sillabando quasi le parole: — Peccato davvero che tu non abbia fatto l’avvocato.... ma non di queste cause, s’intende!... All’enfasi che metti nel difendere la tua protetta, si direbbe... — Che cosa? — interruppe con forza Aurelio, guardandola fissamente. — Oh! Oh! Credi forse di farmi paura con quegli occhi? — Ti prego di spiegarti, mamma. Che hai voluto dire? Ella non rispose sùbito; alzò sdegnosamente le spalle, mentre il sogghigno di prima le ritornava anche più mordente su le labbra. Il giovine fece un passo avanti, e ridomandò quasi per violenza: — Via, rispondi, mamma. Lo esigo! Che hai voluto dire? — Ebbene: ho voluto dire che al tono, con cui tu ora mi parli, si crederebbe che costei sia la tua amante! Aurelio illividì. Benchè alla prima reticenza avesse già imaginato il pensiero dell’avola, l’enunciazione aperta e brutale di questo lo colpì atrocemente quasi un colpo di maglio nel mezzo del petto. Insulto più grave non gli si sarebbe, no, potuto scagliare; egli, il puro, il casto, l’insensibile era d’un tratto accusato d’amoreggiare trivialmente con la propria cameriera. Il giovine non ebbe tempo per riflettere; sentì il soffio ingiurioso passar su la fronte, e la vista gli si ottenebrò. — Come sei volgare! — disse sordamente, stringendo i pugni e atteggiando il volto a un’espressione di profondo dispregio. Poi, per non aggiungere altro, con un moto subitaneo volse le spalle a donna Maria, e uscì correndo dalla stanza. Udì dietro di sè un urlo soffocato, quindi un fiotto impetuoso di parole aspre, terribili: «Infame! Infame! Egli osa anche insultarmi! A questo si doveva giungere... Io vado via sùbito... Caschi il mondo, non mi vedrà più...!» Attraversò in fretta il cortile, ascese rapidamente le scale, entrò nella propria camera e vi si rinchiuse a due mandate di chiave, come se la vecchia avesse potuto inseguirlo con le sue minacce. Poi che fu solo, sottratto alla presenza impositrice dell’avola, nel luogo dedicato agli studii, la sua eccitazione, invece di scemare, aumentò. Tutti i pensieri, che già durante la scena eran passati per la sua mente, gli tornarono alla memoria; tutte le parole che per prudenza o per rispetto aveva dovuto reprimere, tutte incominciarono di nuovo a fluirgli alle labbra con insolita irruenza. Ed egli, con una specie di amaro sorriso interiore, si piacque di ricostruire il diverbio, aggiungendo quello che avrebbe voluto dire, i ragionamenti e le objezioni e le proteste sdegnose, senza più blandizie, senza più eufemismi, senza rispetto o prudenza alcuna. Così rievocò l’intera scena, accompagnando le parole con una mimica vivace, percorrendo la camera per il lungo e per il largo a grandi passi. Quando però giunse all’ingiuria, che l’avola gli aveva lanciata, ristette perplesso, come se ne avesse afferrato per la prima volta il senso preciso; e la risposta violenta, che poc’anzi aveva taciuta, non venne. Un nuovo ordine di pensieri, più calmo ma non meno ingrato, si svolse allora nel suo cervello: perchè sua nonna lo aveva tacciato di essere l’amante di Camilla? Come, come aveva potuto imaginare una simile assurdità? Non certo perchè egli, col suo contegno e anche con le sue difese, le avesse mai dato un appiglio per sospettarlo. Non certo perchè la possibilità di una siffatta tresca fosse una sola volta balenata nella mente di lei che conosceva troppo bene le sue idee in proposito e il suo rigido orgoglio e le sue «abitudini d’orso», come celiando si compiaceva di chiamarle. Doveva esser dunque un’altra intenzione nella calunnia sanguinosa. Or quale poteva essere questa intenzione?... Era chiaro: ella lo aveva voluto affliggere, offendere, umiliare, anche a prezzo d’una bugìa. Inviperita contro il nipote, perchè era sorto in difesa altrui a ribattere le sue accuse, ella aveva opportunamente usato di un argomento _ad hominem_ per liberarsi con un sol colpo del molesto contradittore. Il fatto in sè non era grave, ma pur troppo non era nuovo né raro: quasi ogni giorno, o per un motivo o per un altro, ella trovava il modo di rivolgergli frasi consimili, in cui sempre l’identico sprezzo insisteva, come una nota tenuta a fondamento d’accordi diversi. Aurelio ne rammentava ora una serie innumerevole; anche Aurelio rammentava che quelle frasi tendevan tutte a colpirlo dove più delicata era la sua sensibilità: ne’ suoi ideali, nelle sue predilezioni, nelle sue stesse virtù, nelle sue stesse rinunzie. Si sarebbe detto ch’ella traesse dalle mortificazioni a lui inflitte, una specie di strazio divinamente piacevole; o, meglio, che una volontà superiore, in mano della quale ella non era se non lo strumento doloroso, glie le suggerisse per uno scopo oscuro e fatale. Ma, quale scopo? «Ah, le donne! Le donne!» esclamò il giovine improvvisamente, tratto come di consueto a generalizzare le sue considerazioni. «Madri, sorelle, mogli, amanti, esse non si smentiscono mai, mai! Che cosa sono per esse i nostri sogni, le nostre speranze, i nostri sacrifici, la nostra coscienza, in somma tutta l’anima nostra? Nulla, meno che nulla. Esse non comprendono che gli uomini comuni, mediocri, normali, quegli uomini che lavorano indefessamente per vivere, generano figliuoli, li allevano, e lasciano a questi il posto, quando il loro malinconico cammino è giunto alla mèta. Gli altri tutti, sono per le donne altrettanti mostri paurosi, che bisogna distruggere, redimere o avvilire; ed esse li distruggono, li redimono o li avviliscono, perchè tale è il loro dovere. Non hanno esse forse, nel misterioso equilibrio della Natura, la missione di conservare le tradizioni della razza? di mantenerla strettamente legata alle origini? d’impedire che i caratterismi del tipo umano si perdano o si trasformino? Non sono esse le sacre custodi della essenza prima di nostra Specie? Vigilare affinchè questa non traligni, non strisci o non voli: ecco il segreto potere della anima loro, ecco la base di tutta la loro psicologia.» Egli soggiunse: «Liberi, liberi dunque bisogna essere dalla tirannia di queste vilificatrici d’ogni personalità, di queste nemiche implacabili d’ogni tendenza elevata e d’ogni slancio sublime! Liberi bisogna essere, per divenire qualcuno e poter fare qualche cosa — prima della morte!» Egli si mosse, di nuovo; andò alla finestra, l’aperse, lasciò ch’entrasse la trionfante luce del giorno. Il giardino splendeva nel sole, con le sue bianche scalee, con le sue statue bianche, come intagliate nel verde cupo della pineta. Il poggio, sopra, aveva un chiarore metallico, come fosse tutto cosperso d’una polvere d’oro. Quella visione, dopo lo sfogo benefico, gli ricondusse lo spirito alta calma, gli ridiede la coscienza piena di sè stesso. Valeva forse la pena di crucciarsi per quelle futili questioni? Non aveva egli altro di meglio e di più serio da pensare o da fare? Egli richiuse le persiane, e venne a sedersi d’avanti alla scrivania. Molti fogli vi erano sparsi in disordine, quasi tutti vergati, per intero o in parte, a caratteri grandi, decisi, piuttosto oblunghi, un po’ inclinati da sinistra verso destra: le cancellature frequenti e risolute mettevano sul nitor della carta vaste ombre oscure. Tra quella moltitudine di fogli, dov’egli era solito d’abbozzare i suoi lavori o di fermare le idee utili, emergevano qua e là alcuni grossi libri aperti e le pagine fitte di qualche rivista nostrale o forestiera. Sul piano del palchetto eran poi raccolti i frammenti delle sue tre opere in corso: un enorme fascio di carte, chiuso in una custodia di pergamena su cui si leggeva il titolo in inchiostro rosso: _L’avvenire delle società umane_; un altro fascio meno voluminoso, rattenuto da un semplice foglio piegato a mo’ di busta, sul quale era scritto: _La Morale dell’Evoluzionismo, critiche all’opera di Erberto Spencer e conclusioni_; e infine un terzo fascicolo, alquanto esiguo, con la dizione: _Socialismo e Cristianesimo_. Aurelio prese quest’ultimo dal palchetto della scrivania, e se lo pose dinnanzi. Era uno studio sintetico e impressionante su le comuni aspirazioni delle nuove idee sociali e della vecchia morale cristiana, il quale tendeva a dimostrare come la fusione delle due teorie non potesse esser lontana, e voleva mettere in guardia gli studiosi e i pensatori contro le fatue lusinghe e i gravi conseguenti pericoli che un siffatto connubio avrebbe portati con sè. L’Imberido s’era accinto a scriverlo nell’ultimo mese passato a Milano, avendo intenzione di pubblicarlo in diverse riprese su la sua Rivista; poi, siccome dal suo arrivo a Cerro s’era immerso totalmente nella grande opera _L’avvenire delle società umane_, lo aveva abbandonato, e, sebbene fosse già presso a concludere, non s’era più dato pensiero per ultimarlo. In quel momento, forse perchè ricordava le sollecitazioni che lo Zaldini gli aveva fatte la mattina precedente, o perchè non si sentiva di riprendere un lavoro troppo intenso e faticoso, Aurelio fu spinto involontariamente a continuare il breve studio interrotto. Egli sfogliò il fascicolo lentamente, scorrendo con lo sguardo su le pagine, già fatte giallognole dal tempo, quasi volesse risvegliare la memoria precisa di quanto aveva scritto. Come giunse alla interruzione, indugiò alquanto per rileggere attentamente gli ultimi periodi; e li rilesse a voce alta, ascoltandosi. «E questi saranno gli estremi e i più fervidi adoratori di Cristo, non forse molto dissimili da quelli che primi lo adorarono. Così le Scritture saranno compite, e così la parabola terminerà com’era incominciata. «L’attacco sarà certo formidabile. Il fanatismo dà un coraggio che le persone calme non hanno e non possono avere. Se dalla parte dei Ribelli non ci sarà un soverchio equilibrio morale, ci sarà per compenso il Genio nelle sue più acute manifestazioni. Uomini grandi, uomini terribili sorgeranno in questa sollevazione disperata, da questo ibrido connubio di misticismo e d’animalità: spiriti tumultuosi, dotati d’un potere magnetico irresistibile, dominatori e affascinatori delle masse, i quali troveranno vie insospettate per trascinarvi perdutamente i cervelli e i cuori. E a questi s’uniranno con entusiasmo tutti gli spostati dalle assurde e magiche idealità, e le anime guaste dall’odio o dalla cupidigia, e i perpetui adolescenti, e i perversi e i degenerati e i pazzi! «Con queste bandiere, con queste reclute, con questi capitani, la parte inferiore della Umanità insorgerà contro la superiore, tenterà lo sforzo supremo per arrestare il fenomeno fatale della civiltà e dell’evoluzione. Chi trionferà nel gigantesco cimento?» Così il manoscritto bruscamente s’interrompeva. Aurelio Imberido, dopo esser rimasto alcuni minuti pensieroso, fissando lo spazio d’avanti a sè, prese con un atto improvviso la penna, e continuò. IV. L’ALBERO DEL BENE E DEL MALE. Il dì successivo, Aurelio, avendo concluso l’articolo, discese in giardino, e s’inoltrò nella pineta per cercare ombra e riposo. Era un pomeriggio sereno, d’una serenità incandescente, caldo ma temperato da qualche soffio d’aria. Per tutto quel giorno egli sapeva che non avrebbe ripreso la penna, come sempre quando terminava un lavoro o una determinata parte di lavoro; e, libero e sodisfatto di sè, seguiva distrattamente i sentieri tortuosi sotto l’ampio padiglione verde, guardandosi d’intorno, aspirando la diffusa fragranza delle resine riscaldate dal sole, ascoltando rapito il fruscìo alterno del vento tra le fronde o il susurro d’un ruscello nascosto. Nella pineta era una luce pacata e raccolta, come in un tempio. Per il denso intrico, che formavano i rami, premendosi, intrecciandosi, confondendosi nella loro antica e tenace espansione, ogni lembo di cielo veniva occultato. Una parete opaca si distendeva a similitudine d’un velario sopra la terra; e solo, a traverso gli interstizii dei tronchi, un chiarore aureo o rancio o verde, a fasci nettamente visibili, s’insinuava, quel chiarore innaturale che lascian cadere nell’ombra le finestre a vetri variopinti. Un sentimento mistico e solenne emanava dal luogo, come da un santuario a pena illuminato, saturo di vapori d’incenso. Tra quei profumi, in quella pace, il giovine camminava a rilento, senza un pensiero, abbandonandosi al fascino che gli veniva dalle apparenze esteriori. Tutto assorto nella ottusa contemplazione, egli si perdeva ad accompagnar con lo sguardo il volo d’un insetto nell’aria o il viluppo appassionato dell’edera intorno a un fusto impassibile: s’arrestava ogni tratto attonito per ammirare qualche cespo di ciclamini o di violette sbucante come per prodigio dalle cavità del tufo. Lo spettacolo d’un ragno in atto d’avvolgere la preda nel suo sudario mortale lo tenne fermo lungo tempo, sospeso, attratto, commosso quasi fosse al cospetto d’una rappresentazione tragica. E il suo spirito si mantenne così semplice durante l’osservazione del minuscolo conflitto per la Vita, ch’egli non sentì altro impulso se non quello d’intervenire a favore del debole, predestinato al sacrificio, contro il forte che pure esercitava il suo pieno diritto all’esistenza. D’improvviso una voce acuta risonò dietro le sue spalle. — Buon giorno! Egli si volse bruscamente. La bionda Luisa, che discendeva in corsa sul medesimo sentiere con un gran mazzo di fiori in pugno, lo aveva raggiunto senza ch’egli si fosse accorto della sua presenza. — Buon giorno, signorina! — egli rispose, arrossendo un poco. Ella s’era fermata vicino a lui, e lo fissava con quegli occhi chiarissimi e ardenti, in cui la luce pareva concentrarsi come nel fuoco d’una lente. — Bella giornata, oggi, — ella disse sùbito, poi che Aurelio immobile d’avanti a lei non accennava a continuare. — Bella, davvero. — E che delizioso rifugio è questa pineta! Io ci passerei la vita.... L’estate qui dentro è dolce come un autunno. — Se non erro, ella è stata a raccolta, signorina....? — Sì, di fiori, — interruppe Luisa con vivacità; — di fiori selvaggi, come piacciono a me. Ma adesso bisogna che torni a casa e in fretta, perchè l’ora del pianoforte è già scoccata e la zia è severissima.... Sorrise lievemente, socchiudendo a pena le palpebre ma senza distogliere gli sguardi dagli occhi del giovine. Poi, chinando il capo in segno di saluto, con un atto assai leggiadro: — Con permesso, — soggiunse; e riprese in corsa la sua strada. Prima d’oltrepassare il gomito del sentiere, si volse ancora verso di lui per gridargli: — Se s’inoltra appena un po’ nella pineta, trova Flavia.... A rivederla! E, così dicendo, la giovinetta scomparve. Aurelio, che non aveva avuto il tempo di rispondere, era rimasto fermo e attonito, con gli occhi inerti, alla svolta della viottola. Quell’incontro gli era stato insolitamente gradito. Sorpreso dalla comparsa subitanea della fanciulla, egli aveva prodigato a questa la stessa benevolenza curiosa e quasi tenera, che gli abondava in quel momento nello spirito e aveva espansa su le mute manifestazioni del bosco. Le poche parole scambiate non avevan potuto certo risvegliare in lui un’idea o un sentimento nuovo, diverso da quello ond’era invaso. Avevan parlato della beltà del giorno, della pineta ospitale, di fiori, delle cose miti e piacevoli, al cui incanto l’anima sua dolcemente si concedeva. E la frase, che Luisa gli aveva gittata da lontano, era giunta fino a lui senza che potesse afferrarne bene il significato. Egli a pena l’intuì, ripensandoci. Ebbe un attimo di perplessità: doveva seguitare e farsi incontro a Flavia? Doveva retrocedere ed evitarla? Inconsciamente il suo pensiero rifuggì da ogni indagine sul senso esatto della frase, si ribellò a qualunque sforzo a fin di prendere una risoluzione. Egli proseguì per inerzia la sua passeggiata contemplativa nel bosco, dove il silenzio era tornato quasi più grave e più vasto che prima non fosse. Passò la grotta artificiale, irta di stalattiti superbe, onde alcune gocce perennemente cadevano su la terra fradicia; arrivò al crocicchio dei due sentieri che tagliavan la pineta nelle due direzioni principali; s’arrestò un poco d’avanti all’erma che dominava il luogo, un gran busto nudo di donna su cui l’assidua carezza del tempo era passata, corrodendo e levigando il sembiante, ma lasciando rigidi e intatti i seni, come gonfii d’un desiderio immortale. Procedette poi a passo più spedito verso l’altura, quasi lo chiamasse, da quell’ombra, il vivido raggio di sole che illuminava a traverso un pertugio la sommità del sentiere. Flavia era là, sola nella luce. Saliva lentamente l’erta d’un prato contiguo alla pineta. Al di là l’orto incominciava, tutto lussureggiante di piante pallide, da cui si vedevan pendere i frutti ancora acerbi o alcuni grappoli vermigli di ciliege. Sopra l’orto, il poggio coltivato a vigneti s’elevava in una succession di scaglioni petrosi, intorno ai quali le viti avevan disegnato come un greve merletto verde. Ella saliva quella distesa inclinata su cui l’erba cresceva foltissima e intonsa con una maravigliosa chioma di fioretti d’oro. La sua persona, un po’ curva in avanti, appariva dal ginocchio in su tra la verzura profonda, lasciando dietro di sè un mobile solco di fili prosternati. A volte rimaneva per cogliere con la mano un fiore sopreminente; a volte s’inchinava alquanto verso il suolo, e scrutava assorta i misteri di quella selva minuta. Come più s’allontanava, ella facevasi più lenta, indugiando a ogni passo sul pendìo lubrico ed erto, arrestandosi, col capo levato in alto, per fissare l’orto o il poggio solatìo, quasi fosser la mèta del suo cammino. Quando fu presso al limite estremo, improvvisamente le forze le mancarono, ed ella, mettendo un piccolo grido, si volse e s’abbandonò tutta quanta, distesa su l’erba come su un letto. — Lei, conte?! — esclamò Flavia turbata ma sorridente, poichè vide il giovine fermo allo sbocco della viottola; e s’alzò di scatto a sedere. Aurelio senz’aprir bocca la salutò, levandosi il cappello. — È venuto a sorprendermi, eh? — Confesserò — egli rispose — che senza volerlo sono stato spettatore di tutta l’ascensione. — Male, assai male! Doveva avvertirmi della sua presenza... — L’avrei desiderato, ma come fare? Potevo prendermi la libertà di chiamarla per nome? Ella gridò, ridendo: — Gran che!.... Del resto non occorreva: bastava tossire, tossire con molta violenza.... Io, che ho buon cuore, mi sarei sùbito impensierita per la sua salute e naturalmente, volgendomi, l’avrei scoperto.... — È vero! Mi scusi.. non ci ho pensato! Risero entrambi. Ella così forte che un’eco lontana rispose; e agitò le mani, e battè l’una contro l’altra palma in un fresco trasporto di giocondità. — Non è indiscrezione domandare dov’era mai diretta per sì mali passi la signorina? — chiese Aurelio. — Non so precisamente. Ero stanca di star là giù seduta a lavorare: e m’è nata la cattiva ispirazione di salire verso l’orto a traverso questo prato. — Ah, ella vien fin qui a passare le ore calde della giornata? — Sì, noi lavoriamo quasi sempre all’aria aperta. Si vuole avere il gran cielo per testimonio che l’ozio non è tra le nostre abitudini... Come può vedere, quello è appunto il nostro laboratorio, quando almeno il tempo ce lo consente. Il giovine si volse verso il punto che Flavia indicò. All’ombra degli ultimi abeti del bosco, in una specie di nicchia verde, era disteso su l’erba un ampio scialle a mo’ di tappeto, tutto coperto di scatole, scatolette, astucci, astuccini, cestelli, e d’una infinità di gomitoli colorati; due telaretti per ricamo e due sediuole portatili compivano quell’improvvisato luogo di lavoro. — È un rifugio da poeti, questo! — disse Aurelio, rivolgendosi a lei. — Dove, per buona ventura, poesie non se ne fanno, e né pure se ne leggono mai! Io odio cordialmente i versi e i verseggiatori.... Non è per caso tra questi, signor Imberido? — No, signorina, pur troppo! — Pur troppo?... — Sì, perché vorrei esser poeta. — E a che pro? — A che pro...?! — ripeté il giovine, fissandola, un po’ impacciato. La domanda l’obbligava a una lunga esplicazione e non agevole. Egli ammirava profondamente le opere estetiche: tra tutte le arti, la poesia e la musica eran quelle che prediligeva come le più perfette espressioni della bellezza ideale. Pensava anzi che l’arte fosse, con la filosofia, l’eccelsa fioritura della mente umana, un privilegio degli spiriti eletti, un titolo tra i più validi e più legittimi nelle nuove aristocrazie intellettuali. Per lui l’artista era un uomo nobile, e uomo nobile non poteva essere chi rimaneva estraneo e chiuso al fascino del bello, alle pure ebrezze dell’intelligenza. Queste cose egli avrebbe voluto esprimere, e le parole gli salirono spontaneamente alle labbra. Ma invece rispose: — Per celebrar le sue lodi, signorina! Ella lo guardò, come se dalla pausa avesse indovinato i suoi pensieri e dubitasse della sincerità di quella risposta. Quindi, per non insistere su l’argomento in cui sentiva esser tra loro una discordia d’opinioni, domandò: — E lei, dove andava da queste parti? — Io? Non so... Verso l’alto, come sempre... Perchè a me piace salire, continuamente salire... La montagna m’attira con una prodigiosa potenza. Quando mi metto per una via che tende in su, non posso più fermarmi, proseguo come un automa sospinto da un’energia ignota, accelero il passo man mano che l’erta si fa più scoscesa, non rimango se non ho superato un culmine. Non so perchè: questa strana sensazione d’ansia e di piacere, l’ho provata dalla prima volta che ho visto la montagna, quando ero ancor bambino. Flavia ascoltò grave e attenta, or corrugando e ora spianando la fronte, tenendo lo sguardo fisso su di lui, ma non ne’ suoi occhi. D’un tratto si levò ritta in piedi, e disse a mezza voce, così che a pena egli la intese: — Su via, dunque, mi dia un saggio della sua abilità d’alpinista. Mi raggiunga... Andiamo! Le semplici parole, che parevan dette per giuoco, ebbero dall’intonazione e dal gesto un significato profondo. Egli non potè resistere all’invito; s’abbandonò a quel tenue incanto; si lasciò trascinare da quella voce di donna che lo chiamava discretamente a sè. Un desiderio oscuro l’assalì: di mostrare la sua vigoria fisica, di rivelare in uno slancio leonino la sua giovinezza agile e forte. Si sarebbe detto che l’essere originario, primordiale, selvatico, avesse avuto in lui un brusco risveglio, fosse uscito libero e fresco dalla spoglia artificiale che l’opprimeva. Egli ascese in corsa il pendìo ripido del prato, giunse in un attimo a fianco della fanciulla, si fermò sicuro d’avanti a lei, rattenendo il respiro per non tradire la commozione del cuore, per ostentarne la regolarità dei palpiti anche dopo uno sforzo supremo. — Bene! Bravo! — ella approvò seriamente, senza sorridere, con sincerità; poi, soggiunse cambiando tono ed espressione: — Ed ora che si fa? Dove andiamo? — Dove andiamo? Dove vuole, signorina. — Nell’orto? — Nell’orto. — Forse non c’è mai stato? — In fatti, mai. — Io le farò da guida, — concluse la fanciulla; e s’incamminò spigliata d’avanti a lui. Portava un abito grigio, sobrio e attillato, che avvinceva strettamente il suo torso e scendeva diritto lungo i fianchi, ritraendo a ogni movimento le forme eleganti della persona. Nessuna guarnizione su quell’abito; un sol nastro serico d’un color di lilla pallido le girava intorno alla cintola assai sottile, e ricadeva dalle reni in due lunghe bande volanti fin quasi a terra. In capo aveva un cappellaccio di paglia dalle tese larghe e convesse, su cui risaltavan due tulipani scarlatti in un ciuffo di foglie e di spighe; e in mano, a guisa di mazza, un ombrellino di raso iridescente, orlato d’una trina bianca. Aurelio la seguiva da presso, guardandola con curiosità intenta, ma immemore e spensierato come un fanciullo. Entrarono così nell’orto, uno dietro l’altra, senza parlare, tenuti entrambi da una specie di stupefazione dolce, da una specie di torpore, sotto la sferza del sole. Un gran viale, cosparso di ghiaia fina e quasi candida, tagliava a mezzo il pianoro dove il vecchio frutteto prosperava. Da ambe le parti, equidistanti e regolari, altri viali più angusti vi affluivano in una perfetta simmetria di linee parallele. Nei rettangoli intermedii gli alberi crescevan poderosamente sopra un suolo grasso e ubertoso, piantati in ordine sparso, bene esposti alla luce, diritti e sani, come assistiti nel loro sviluppo da una mano sollecita. Alcuni, troppo carichi, avevan sostegni obliqui sotto i rami più oppressi dal peso; alcuni, ancora esili e malfermi, si vedevan protetti da una custodia di piuoli confitti nel terreno, trattenuti da cerchii di ferro. E v’erano albicocchi, peri, pruni, mandorli, superbi d’una innumerevole prole di globuli gialli o verdi; alcuni noci giganteschi dal fogliame smorto, dal fusto smorto, dai malli smorti, come scolorati dalla soverchia illuminazione; fichi enormi e serpentini, che parevano celare a fatica il loro scheletro mostruoso nel manto delle vaste foglie triforcute; e una moltitudine di peschi fragili, seminudi, maturanti al sole i grossi frutti penduli e vellutati. Si spandeva all’aria da quella possente coltura di piante fruttifere un odor caldo e salubre, molto simile a un alito vivo. Qua e là qualche vaso di limone o d’arancio, disposto su i margini dei viali, mesceva alla fragranza diffusa dei grandi alberi il profumo penetrante de’ suoi fiori, come un artificio d’eleganza e di seduzione in una bocca di donna. E dovunque era silenzio, silenzio profondo; nella pineta, nel prato, nell’orto, sul poggio, nel cielo. — Com’è ben tenuto questo frutteto! — esclamò Aurelio, guardando in torno pieno di maraviglia. — È l’unica parte del giardino che non fu trascurata dopo la morte del vecchio marchese. Il guardiano Giuseppe vive in su questa comodamente con la sua numerosa famiglia. Perciò prodiga qui tutte le sue attenzioni, impiega tutto il suo tempo; io credo che l’ami più di sua moglie, più de’ suoi stessi figliuoli.... E ne è geloso, geloso fino alla manìa, — ella soggiunse, ridendo forte. — Se il pover uomo sapesse che ora noi gli abbiamo invaso il territorio, chi sa in che pena starebbe!... — Non sospetterà certo che noi gli si voglia rubare.... — Sospetta di tutto e di tutti.... — Ritorniamo dunque indietro, — propose Aurelio, seriamente. — E perchè?.... Se a me piace di venir qui, soltanto perché so che Giuseppe non lo desidera.... — È una cattiveria questa, signorina! — No, un capriccio. — Ma se ci scopre?... — Peggio per lui!... Non sarebbe poi la prima volta ch’egli mi trova nel suo orto, sola o accompagnata.... Aggiunse anche, facendosi grave, guardando fissa il giovine: — D’altra parte noi pure abbiamo un certo diritto su queste frutta, perché il luogo non è suo e noi lo teniamo in affitto senza alcuna riserva della padrona. A queste parole egli ebbe entro di sè un moto ostile contro la fanciulla, una specie di disgusto istintivo, come fosse stato colpito da un suono discorde o sgradevole. Ma Flavia non gli lasciò il tempo di ricercare le intime cause, di rendersi ragione d’un tal sentimento. Ritornata ilare e leggera, gli susurrò sotto voce all’orecchio, con un’espressione infantile di malizia e di gioja: — Ormai le ciliege son mature!.. — Ebbene? — chiese il giovine, senza comprendere. — Ebbene: se son mature, si possono mangiare. — Naturalmente, — egli confermò, non potendo trattenere un sorriso. — E perché non le mangiamo?... Aurelio indietreggiò d’un passo. — Come? Come?! Vorrebbe.... — Rubare, certo: rubare! — Ah, questo poi no! Io mi ribello, o meglio mi ritiro. Non voglio esser complice d’un furto, e nè pure spettatore.... — Ella sarebbe dunque capace di farmi un affronto simile?... Vorrebbe lasciarmi qui sola in lotta con gli elementi? Abbandonare una donna in un momento difficile?... Non sarebbe soltanto scortesia, signor conte; sarebbe viltà.... Parlava forte e solenne, interrotta a ogni frase da un urto d’ilarità incontenibile. E in quell’atteggiamento emanava da tutta la persona una grazia così semplice e schietta che sedusse e maravigliò il giovine, quasi una rivelazione inaspettata. — Vede come sono alte?... e come sono belle! Ella gli mostrava un ciliegio venerabile dal tronco alto e robusto, su cui i grappoli vermigli rampollavano con sovrana abondanza e levava la mano verso i frutti desiderati, ridendo, comunicandogli a poco a poco la sua giocondità fanciullesca. — Ci deve essere una scala di mia conoscenza nel frutteto, — ella disse, girando in torno lo sguardo per iscoprirla. Poi, d’un tratto, gridò trionfante: — Eccola! Eccola! E si diresse in corsa verso un pilastrello poco discosto, a cui una lunga scala era appoggiata. — Io spero che vorrà almeno ajutarmi a portarla fin sotto l’albero. È troppo pesante per le mie povere braccia! — Si pretende dunque la mia complicità attiva...? — No, s’invoca semplicemente un soccorso! Venga! Ferma ed eretta nel sole, sul candor niveo della ghiaja, tra le masse degli alberi che s’inarcavano verso di lei carichi di frutti, ella parve al giovine supremamente bella. Omai Aurelio seguiva, domato e attonito, ogni suo atto, ogni suo movimento, ogni sua parola, come se tutto il resto si fosse occultato a’ suoi sensi. Un potere misterioso e irresistibile lo teneva soggetto all’agile creatura che gli splendeva d’innanzi, lo piegava inconsapevole a qualunque stranezza, a qualunque follìa ch’ella gli avesse potuta comunicare. L’impeto birbesco e tumultuoso della sua compagna sembrava avere invaso, travolto, rituffato il suo spirito in un fiume d’oblio e di spensieratezza; ed egli, già ebro della magica luce in cui si scioglievan le sane fragranze terrestri, s’abbandonava alla seduzion di quel giuoco, cedeva insensibilmente al fascino di quella malizia puerile, quasi a traverso una seconda adolescenza. Flavia ripetè il richiamo, limpida e forte, come volesse meglio affermare la sua possanza: — Venga dunque! M’ajuti! — Ella mi vuol proprio trarre in perdizione! — mormorò Aurelio, sorridendo, mentre s’avvicinava a lei. E prese la lunga scala, la sollevò ritta con le mani per mostrare il vigor de’ suoi muscoli, la portò così senz’inclinarla fin sotto l’albero, mediante uno sforzo che a pena riuscì a dissimulare. Ella, tenendogli dietro seria e attenta, lo fissava con uno sguardo ambiguo tra d’ammirazione e d’ironia. — Ed ora, bisogna salire! — disse, poi che il giovine ebbe deposta e bene assicurata la scala tra due rami del ciliegio. — Anche salire?! — Mi sembra. Vuol forse che salga io, per rimanersene qua giù tranquillo a contemplarmi da un nuovo punto di vista? Io non dò di questi spettacoli, signor mio, e a così buon prezzo!... Proferì queste parole celiando, ma senza la minima reticenza, senza un’ombra nella voce o negli occhi, con una sicurezza da donna spregiudicata. Aurelio, che la guardava, abbassò sùbito gli occhi, arrossì anche un poco, offeso dal senso volgarmente procace dello scherzo; poi, per non tradire il suo disgusto, le volse con un moto subitaneo le spalle, e si mise rapidamente su per la scala. — Le lasci pure cadere abbasso ché le raccolgo nel mio grembiule, — gli gridò dietro Flavia, raggiante, trasfigurata dalla gioja. Il giovine, ritto su l’ultimo piuolo, col capo nascosto nel fogliame profondo, si vedeva allungar le braccia, pencolare, atteggiarsi in pòse larghe e snodate tra i viluppi dei rami, alla ricerca dei grappoli maturi. A quando a quando una fitta gragnuola di chicchi vermigli, annunziata da un richiamo, accolta da un saluto festoso, partiva dall’alto, si sparpagliava un poco nell’aria, cadeva solo in parte nel grembiule spiegato a riceverla. La giovinetta per giuoco fingeva d’irritarsi perché non poteva contendere alla terra tutti quei chicchi; protestava ridendo contro di lui; gli raccomandava d’esser più attento e preciso nel gittarli; a volte si chinava a raccattarne qualcuno più appariscente, e, con aria di dispetto, se lo mangiava. Quando Aurelio discese dall’albero erano entrambi come ubbriachi d’ilarità. Balbettavan frasi insulse con la voce alterata; ammiccavano con gli occhi piccoli, abbacinati dal soverchio chiarore; si sfioravan con le mani, esprimendo una specie di piacere a ogni lieve contatto; e ridevano insieme con la facilità di due fanciulli. La spartizione del bottino provocò poi tra loro una questione romorosa e vivace, che finì in una corsa sfrenata a traverso il frutteto. Ella, agile e astuta, si sottraeva a lui, approfittando della sua conoscenza dei luoghi, calpestando senza scrupoli le zone coltivate, sgusciando sotto gli intrichi dei frutici con una perizia singolare. Egli, più veloce e più cauto, cercava invece di raggiungerla senza batterne le orme, prevenendola allo sbocco d’un viale, aspettandola a un varco in agguato, accelerando vertiginosamente il passo quando ella percorreva una strada dritta. Finalmente Flavia, mentre usciva d’improvviso fuor da un cespuglio, cadde, come una preda, in suo potere. Accesi, esausti, anelanti, s’avvinghiarono uno all’altra con un moto istintivo e selvaggio. Ella, stanca, s’abbandonò, arrovesciò indietro il capo, prorompendo in una risata nervosa, che squillò acutamente nel silenzio; Aurelio, stringendola forte a sè e smarrendo ogni senso nella contemplazione di quel viso illuminato da una strana fiamma, la sorresse, la tenne così per qualche attimo come sospesa tra le sue braccia. — Mi dò per vinta! — ella mormorò d’un tratto. E si sciolse con un moto languido da lui, invasa da una sùbita angoscia, intimorita dal suo sguardo vorace. Non parlarono più. Susseguiva a quel tripudio folle di vita il turbamento oscuro e quasi pauroso degli eccessi. Provavano ora un malessere profondo, indefinibile. Si guardavano in faccia attoniti, arrossendo; si sentivan soli, estranei, divisi da un ostacolo immane; si sentivano oppressi da un peso morale, rimorsi da un’occulta voce. L’incanto breve era sfumato; ed essi si trovavano, come al risveglio d’un sogno voluttuoso, sfiniti, delusi, umiliati. S’incamminarono così, in silenzio, verso il poggio, sospinti da un’idea comune: quella d’allontanarsi dal palazzo, forse per acquetarsi, per riprendere le loro espressioni abituali, sformate dalle agitazioni e dai turbamenti molteplici. Aurelio era come trasognato e stupefatto. Si movevano nel fondo della sua anima alcuni pensieri molesti, sorgevano i ben noti fantasmi a rappresentargli dentro l’eterna Comedia, il Dramma immortale, in cui egli si vedeva continuamente trascinato dalla fatalità delle cose. — Che cos’era avvenuto? Da quale possente soffio di passione o di frenesia s’era lasciato dominare per dimenticarsi a tal segno? Come aveva potuto cedere senza una resistenza a quei trasporti insensati? — Ecco: la Donna, il mostro magnifico, era là accanto a lui, e lo seguiva. Egli ne udiva il passo cricchiare su la ghiaja con una regolarità da pendolo che misura il tempo; egli, senza guardarla, la vedeva distintamente procedergli a fianco, alta e serena, terribile e inconscia come un feticcio. La loro via era comune, ed eran pari le forze: salivano una dolce erta, tra gli alberi onusti di frutti caduchi o acerbi, verso un’altura limitata, perduta tra altre innumerevoli alture. La montagna superba dalle incorrotte solitudini, dalle larghe visioni, s’ergeva lontana, molto lontana, di là da tutti quei colli, reale ma pure impervia per entrambi e irraggiungibile. Essi salivano insieme, quasi tenuti da una stessa catena, la dolce erta su cui erano impresse le orme di mille passanti; e, giunti al sommo, sarebber dovuti sostare, sconosciuti pellegrini, stretti in torno dall’umile giogaja, avendo sempre in vista — come un Ideale beffardo — la vetta alpestre baciata dal cielo.... — Oh! Guardi! — proruppe Flavia, volgendosi maravigliata verso il lago. E parve ch’ella, divinando il pensiero di lui, volesse distogliere il suo sguardo dalla scena simbolica. Anch’egli si volse. Dal poggio si rivedevano alfine la superficie azzurra delle acque e la riviera opposta, dove già qualche obliqua ombra cadeva. Alcune vele, gonfie e quadrate, apparivano qua e là dirette verso settentrione, così tarde da sembrare immobili. Un piroscafo presso Intra lanciava nell’aria un’enorme colonna di fumo nero, che si torceva in grosse spire senza dissolversi. Le nevi del Sempione, in fondo alla valle nebulosa, erano pallidamente celesti e parevan fondersi nell’orizzonte. Ella mormorò fissando il lago con gli occhi incantati: — Che pace! Egli aggiunse, gravemente: — Che silenzio! Non s’ode frusciare una fronda! Infatti il più piccolo romore non rompeva il sonno dell’universo: non un soffio di vento, non un murmure d’acque, non una voce, non un latrato, non un’eco di lavoro lontano. La calma del paesaggio pesava sopra di loro come un malefizio, infondeva nelle loro anime una malinconia suprema. Ambedue sentivano ora il tempo scorrere, disperdersi le cose nella vanità dello spazio, le illusioni e i desiderii morire. Ambedue sentivano che la vita era triste, e che oltre la vita eran tristi anche le speranze. — Discendiamo? — propose Flavia, accasciata dal silenzio, provando uno sgomento fosco d’avanti a quella solitudine, sotto quel cielo deserto e impassibile. — Discendiamo! Ritornarono su i loro passi; si salutarono freddamente al limite della pineta, non avendo scambiato durante il cammino che poche frasi brevi e inconcludenti. Flavia riparò di nuovo al suo luogo di lavoro, nell’ombra degli ultimi abeti; Aurelio, solo, s’inoltrò nel bosco per discendere verso il palazzo. V. ECHI DEL PASSATO. Quel giorno stesso, durante il pranzo, donna Marta disse ridendo al nipote: — Ho saputo un gran fatto!... una specie di miracolo, di prodigio, di favola maravigliosa!... Dalla sera innanzi, ella aveva cambiato totalmente d’umore, come se l’ultimo alterco l’avesse liberata di tutto il veleno che le stagnava nell’animo. Era ridivenuta ilare, festosa, ciarliera, garbata, quale da molto tempo non si mostrava. Verso Camilla specialmente usava cortesie nuove, delicatezze insolite: non le impartiva un ordine senza soggiunger sùbito «per piacere»; non le rivolgeva la parola se non con un’inflessione di voce affettuosa, quasi materna; e talvolta anche l’accarezzava con la mano. Del brusco congedo non s’era più fatto alcun accenno tra loro due; e, come di consueto (poiché donna Marta licenziava le sue cameriere almeno tre volte al mese), non se ne sarebber più rammentate né l’una né l’altra fino allo scoppio d’un prossimo litigio. — Che hai saputo, mamma? — chiese il giovine, distratto, un po’ pensieroso, senza sorridere. — Ho saputo che ti sei degnato d’accompagnar Flavia per il giardino.... — Ah, tu hai già visto la signorina Boris? — Sì, or ora. Ella stessa m’ha anzi raccontato le vostre imprese, e puoi imaginare che allegre risate si son fatte alle tue spalle! Vuoi tu spiegarmi ora come fu addomesticata la belva selvatica? Donna Marta, in così dire, rideva forte ancora; e mostrava una specie di profonda compiacenza, di sodisfazione sarcastica, vedendo il nipote confondersi e arrossire al soffio vivo di quei ricordi. — Vuoi dirmelo, dunque? — ella insisteva. — Vuoi confidarti a me? Io ho già interrogato Flavia in proposito, ma la poverina non mi seppe rispondere. Proprio vero che i miracoli si fanno senza saperlo! — Oh, Dio, che storie! — egli interruppe. — Si direbbe che ti sian saliti i fumi alla testa, questa sera! In fine: che t’ha detto quella... sciocca? — Quella sciocca?!... Oh! Oh! Qual disprezzo!... Bada al vecchio proverbio, figliuol mio: chi sprezza.... Aurelio ebbe un lieve fremito in tutta la persona: le sue labbra, trattenute nell’atto di pronunciare una qualche parola, s’atteggiarono a una specie di sorriso ironico a pena percettibile. Contenendosi, tacque un istante; poi con un’intonazione esagerata d’indifferenza ridomandò. — Che t’ha raccontato dunque la signorina Boris? Sentiamo. — M’ha raccontato.... oh, nulla di compromettente nè per te nè per lei, puoi imaginarlo; ma, via, per quanto almeno ti riguarda, m’ha detto cose abbastanza sorprendenti: per esempio, che non hai avuto difficoltà ad accompagnarla a traverso l’orto fin su alla cima del colle; che hai perfino rubato per lei le ciliege del fattore.... È vero questo? — Verissimo. Ma che trovi di straordinario e d’esilarante in tutto ciò? — La novità! — rispose donna Marta, scoppiando a rider forte, come prima. — Del resto, — ella soggiunse sùbito, poichè s’accorse che il giovine incominciava a mostrarsi seccato, — una novità che non mi dispiace e per cui teco mi rallegro. Tu, caro mio, hai bisogno di vivere un po’ tra la gente, di distrarti, d’interrompere per qualche tempo quelle uggiose abitudini da solitario che ti guastano la salute del corpo e dello spirito! Questo potrebbe essere un buon principio.... — Ah, ora intendo la tua allegria! Tu sei contenta perchè.... costei mi ha fatto perder del tempo. Si capisce! Egli disse queste parole senza guardar donna Marta, arrestandosi un attimo prima di pronunciare quel «costei», e scivolando con la voce sul resto. Poi lentamente si levò da tavola, conficcò una sigaretta tra le labbra, e soggiunse volgendosi indietro, quasi per spiare l’atteggiamento di lei: — Usciamo fuori per prendere il caffè. Qui fa troppo bujo. Nella gran sala in fatti, esposta a settentrione e illuminata da due finestrelle protette da fitte inferriate a rabeschi, la luce si era a poco a poco affievolita sì che le cose già s’ammantavano in ombre profonde. Aurelio uscì sotto il porticato, e si diede a percorrerlo da un capo all’altro, meditando. Una sorda inquietudine si moveva dentro di lui: le confidenze fatte da Flavia all’avola, le strane previsioni che questa n’aveva tratte, le punture benevolmente sarcastiche di lei turbavano profondamente il suo spirito, sempre vigile e sospettoso. — Che c’era dunque già di segreto ne’ suoi rapporti con la signorina Boris, perchè egli si sentisse offeso solo al pensiero che una terza persona n’era venuta a conoscenza? Da che aveva origine quel sentimento quasi di pudore, che lo aveva acceso ascoltando dalla bocca dell’avola le sue gesta innocenti della giornata? Aveva forse fatto male Flavia, raccontando tutto? — No, in verità: nè male nè bene. E perchè dunque, provava egli contro di lei una specie di dispetto? perchè involontariamente, nell’animo suo, ne la rimproverava? «Son donne entrambe,» egli pensò; «tra loro s’intendono. Certo, la mamma vedrebbe volontieri ch’io m’inamorassi della signorina; e.... certo quell’altra conosce le mie idee, pe’ suoi colloqui con la mamma. Che trionfo sarebbe per lei la mia conquista!... Fortunatamente un tal trionfo non potrà raccontare a nessuno, nè domani nè mai.» In quel punto, mentre il giovine era tutto assorto ne’ suoi pensieri, fu sorpreso dal contatto d’un braccio che gli cingeva il fianco. Donna Marta s’era levata, era uscita anch’essa dalla sala e gli si era pian piano avvicinata. — Che pensi, Aurelio? — gli mormorò con dolcezza all’orecchio, accompagnando il passo a quello di lui. — Nulla. Perchè? — Tu non sei in collera con la tua povera vecchia nonna, non è vero? Io sono talvolta un po’ rude con te, un po’ bisbetica, un po’ violenta. Devi compatirmi. Non ero così un tempo; son gli anni e le sofferenze che m’hanno tanto mutata! Ma, dopo tutto, io ti voglio sempre un gran bene.... — Oh mamma! — egli esclamò d’un tratto commosso. E la cinse, anche, col braccio e si chinò per baciarla su i capelli canuti. Camminarono così, un poco, stretti l’uno all’altra, in silenzio. Sotto le arcate dei portici l’ombra del vespro s’era già diffusa, pallida e fioca, come una sfumatura più densa della luce verdognola che colava dal cielo nel cortile: su quell’ombra, in torno, le colonne si distaccavano biancheggiando, simili a grandi torce di cera. E una malinconia di fedi spente, di cose passate, d’uomini che non sono più, aleggiava per il luogo antico, dove le due figure, nere entrambe e taciturne, parevano i fantasmi di due monaci medievali vaganti ancora nel crepuscolo tra le mura dell’ospizio disertato. — Il caffè è pronto! — annunziò improvvisamente Camilla con la sua voce più squillante, apparendo tutta rosea e leggiadra su la soglia. Si diresse alla piccola tavola da giardino, che donna Marta aveva fatto collocare a un capo del portico d’avanti alla sala da pranzo, vi depose il bacile, e, con la stessa sollecitudine, canterellando, rientrò. — Eppure quella ragazza non mi dispiace — disse la vecchia, seguendola con gli occhi sorridenti. — Un po’ d’allegria ci vuole; e noi veramente non siamo molto allegri! Mentre essi sorbivano in silenzio il caffè, le vicine uscirono dalle loro stanze dopo aver pranzato. Come per prodigio, d’improvviso l’antico cortile si animò: le tre donne parlavan forte, ridevano, si chiamavan festosamente, suscitando nel luogo sonoro un intenso strepito d’echi. Quando s’avvidero della presenza di donna Marta, le loro voci divennero anche più alte nei saluti, i loro passi risonaron rapidi e concitati sul lastrico per accorrere più presto verso di lei. — Buona sera, donna Marta! — Come sta, contessa? — Che piacere di vederla.... — Si parlava appunto di lei, or ora.... La vecchia s’era levata in piedi e diretta incontro ad esse, sorridendo alquanto confusa da quel chiasso, curvandosi ora verso l’una ora verso l’altra, porgendo ad esse le povere mani vizze, ceree, tremanti. Aurelio in vece era rimasto ritto al suo posto, e aspettava con aria distratta che le consuete espansioni femminili fosser finite. Dopo poco, lentamente, s’avvicinò al gruppo; strinse la mano alla signora Boris; salutò con un inchino e un sorriso la bionda, che rispose lanciandogli un’occhiata piena di malizia; si volse in fine a Flavia e, senza guardarla negli occhi, mormorò con un fil di voce, abbassando alquanto il capo: — Signorina, buona sera.... Ella pure abbassò il capo, ma non fiatò. Anzi, si volse sùbito verso Luisa, e si diede a parlarle di cose indifferenti, con un po’ d’alterazione nell’accento e nei gesti. — Avevamo deliberato di far due passi fino a Ceresolo; — annunziò la signora Boris. — Di giorno non si può uscire, per il caldo. Se non si approfitta della frescura della sera.... — È vero, non ci si muove più, — s’affrettò a dire donna Marta. — Io, per esempio, non so da quanti giorni resto chiusa in palazzo. Si rivolse quindi ad Aurelio, e chiese sorridendo: — Se andassimo anche noi fino a Ceresolo?... — Veramente — mormorò il giovine, angustiato dalla proposta; — mi pare un po’ lunga la strada per te.... — Ma chè! E poi a questo tu non ci devi pensare. Se mi sentirò stanca, ritornerò da sola, passo passo.... Andiamo! Proferì queste parole, fissando il nipote con occhi imperiosi, come volesse dominarlo con la suggestione; e, sùbito sorridente, appoggiatasi al braccio della signora Boris, si diresse con lei verso la porta del palazzo. — Avanti la gioventù! — comandò la vecchia, fermandosi con la compagna sul piano del rialto. S’avviarono così in due file per la via mulattiera, che costeggia a sinistra il lago, di là dal vecchio ponticello gittato su le povere acque del Riale. Aurelio e le giovini precedevano; queste tenendosi strette sotto braccio, quegli solo al fianco di Flavia. Le due signore venivano in sèguito, a qualche metro di distanza, alquanto più lente sì che perdevan terreno pressoché a ogni passo. Il tramonto era oramai esausto: dietro le Alpi lontane il cielo s’era spento, e solo poche pallide bragi languivano ancora agli orli di qualche nuvoletta dispersa; la tinta neutra del crepuscolo aveva già avviluppato tutte le pendici, distendendosi come un drappo cinereo su la piana superficie del lago. A lunghi intervalli, squilli di campana a morto venivano dall’altra sponda, non si poteva precisamente capire da quale villaggio appostato sul golfo; e in torno, nei prati e per le siepi, il coro degli insetti infervorava. Un odor misto di fieno e d’acqua stagnante fluttuava nell’aria quasi immobile. Aurelio, a capo chino, con le mani penzoloni, camminava in silenzio accanto alle due fanciulle, ch’erano in vece assai gaje e loquaci. Per quella specie d’orrore che le donne hanno del silenzio, discorrevano esse di cose vane, rievocando le memorie degli scorsi anni in campagna: gite, avventure, abitudini o conoscenze perdute. Ed egli, con un turbamento visibile, seguiva il suono di quelle voci, che parevan melodiare su le vaghe armonie della notte estiva. — Ti ricordi? — disse d’un tratto Luisa alla cugina. — Quante volte si è fatta così, di sera, questa strada con Federico! — Era la passeggiata preferita da lui. — Eh, si capisce: è la più buja! — malignò sogghignando la bionda. — Ti ricordi anche quella volta ch’egli mi fece tanto spaventare, uscendo d’improvviso da una siepe? Io, per poco, non caddi svenuta; e tu in vece.... Di’ la verità: voi eravate d’accordo? Come non avesse udito la domanda, Flavia mormorò quasi tra sè, con voce triste: — Già due anni son passati da quel tempo! Come mi sento mutata!... — A proposito — interruppe Luisa vivacemente; — volevo chiedertelo fin dall’altra sera sul rialto. Non trovi che il conte Aurelio rassomigli un poco al Bracci? — È vero, l’ho notato anch’io; — rispose Flavia, volgendosi a osservare il giovine. — Negli occhi; nella bocca, specialmente quando parla o ride; ha perfino alcuni gesti identici a Federico... Aurelio, da che aveva udito il suo nome, si era avvicinato alle due signorine, e aveva seguito attentamente le ultime frasi del loro discorso. — A chi rassomiglio io? — chiese con curiosità alla signorina Boris. — A... un tal signor Bracci... — Bracci...? — Sì, un amico _suo_, — rispose Luisa, allungando il collo per veder bene in faccia l’Imberido. — Un amico d’altri tempi, che ora non conosco più, — Flavia soggiunse, con la voce concitata. Il giovine, non avendo compreso l’allusione, si strinse nelle spalle e non osò interrogare oltre. Fu Flavia medesima che riprese, dopo un breve silenzio: — Credo di averle già parlato altra volta di lui; precisamente la sera che fu a Cerro il signor Zaldini. — È strano, non rammento... Non so... — Egli... è stato per tre anni il mio fidanzato... — Ah, — fece Aurelio con insolita vivacità; — sì, sì; ora ricordo... Ella però, signorina, non me ne aveva fatto il nome; nè io poteva imaginarlo.... è dunque per colpa di questo signor Bracci (al quale ho anche la sventura di rassomigliare) ch’ella ha chiuso per sempre e a tutti i battenti del suo cuore?... — Sicuro, proprio per colpa di costui! — rispose Flavia, componendo i lineamenti del viso a un’espressione di dolore non ancor rassegnato. E a poco a poco, con qualche interruzione di silenzio, come rispondesse a un sèguito di domande esatte che il giovine le indirizzasse, narrò intera la sua storia d’amore, a voce bassissima, senza uno scatto, mostrando solo dagli occhi l’indignazione profonda e il cordoglio che i ricordi ancora agitavano in lei. — La famiglia Bracci era venuta per ben cinque stagioni, senz’intervallo, a Cerro in campagna; e negli ultimi tre anni aveva preso in affitto appunto quell’ala del palazzo de Antoni ora abitata dagli Imberido. Quand’ella lo conobbe, Federico era un giovinetto ancora imberbe, studente di Liceo, biondo, roseo, paffuto, con due puri occhi celesti d’una rara chiarezza, con un’anima così semplice come quella d’un fanciullo. Incominciarono a giocare insieme spensieratamente e finirono per amarsi. Ella, ingenua fantastica appassionata, s’invaghì perdutamente di lui, forse soltanto perchè era il primo uomo che aveva saputo aprirle il cuore alla luce della vita; provò per lui un sentimento irresistibile, esclusivo, morboso, una specie di feticismo, di soggezione a un tempo umile ed eroica; lo giudicò in ogni cosa perfetto; ne ornò e corpo e spirito d’ogni grazia e d’ogni virtù. Perchè negarlo, oggi? Ella, durante quei tre anni d’illusione, fu in verità molto felice; così obliosamente felice che non potè nascondere a’ suoi stessi parenti la festa dell’anima sua. E questi, che su le prime eransi mostrati non poco ostili al suo nuovo legame, a mano a mano, persuasi dal contegno e più dalla perseveranza dei due inamorati, parvero alfine accettare il fatto compiuto con una certa benevola tolleranza. Dopo il secondo ritorno dalla campagna in palazzo, a Milano, essi permisero anzi a Federico di frequentare la loro casa; ed egli ben presto ne divenne non solo assiduo, ma familiare. Ciò significava che anche i suoi genitori avevan ragione di credere le sue intenzioni assolutamente serie e oneste, non è vero? Quanto a lei, si sentiva a quel tempo così tranquilla e fiduciosa nell’amor suo, che, se qualcuno le avesse detto di dubitare di Federico, avrebbe risposto: «Di Dio piuttosto che di lui.» Oh, com’è facile ingannarsi quando l’inganno ci è dolce!... E quanto sono indegni gli uomini d’essere creduti e d’essere amati!... Un anno dopo ogni rapporto tra loro era rotto, e per sempre. — Ella ha dunque molto amato quel giovine? — chiese Aurelio sotto voce, quasi con ansia, quand’ella tacque bruscamente senza dare un sol motivo a quella separazione. — Tanto, che non potrò mai più amare. Una delusione, come questa che ho patita, basta a distruggere in un cuore ogni entusiasmo, ogni fede, ogni confidenza, per sempre! — Vuol dire che lo ama ancora? — egli mormorò. Flavia non rispose; fece solo col capo un segno leggero di diniego. — Certo, certo! Le pare?... — proruppe d’un tratto Luisa. — Flavia s’ostina a negare, ma si capisce che lo ama solo a guardarla bene negli occhi. Mentre quelle memorie Flavia assembrava e raccontava con la voce dolente, Aurelio, un po’ chino verso di lei, sembrava che seguisse attentamente ogni sua parola, benchè di quando in quando fosse distratto da qualche pensiero intimo che gli sorgeva spontaneo nella mente. Egli in principio era stato colpito e maravigliato, sopra tutto dall’aspetto e dal tono inconsolabili di lei. — Era dunque quella medesima la creatura di gioja, che aveva empito in quel giorno i silenzii del giardino con lo squillante suo riso? Era quella mesta, la quale spargeva lacrime e fiori come sul sepolcro della propria anima, la giovinetta spensierata ch’egli aveva sentita tutta trepida e ardente palpitare tra le braccia? — Poi, a poco a poco, inavvertitamente era stato dallo stesso racconto preso, commosso, attristato; era discesa sul suo spirito, mentre Flavia narrava, una malinconia indefinibile, quasi un senso di solitudine e di scoramento. In fine, quando Luisa affermò che la cugina amava sempre quel giovine pocanzi sconosciuto anche di nome, parve d’un tratto all’Imberido d’esser morso da un sordo sentimento d’ostilità, da un’antipatia aspra e profonda contro di lui. «Codesto indimenticabile sarà probabilmente un qualche uomo incolto e dozzinale,» egli pensò; e, come il suo dispetto si volse da questo all’inamorata, aggiunse sùbito, gittando a Flavia uno sguardo, pieno d’irrisione e quasi di sprezzo: «Degno di lei, senza dubbio.» Eran giunti alle prime case di Ceresolo, dove il sentiere si biforca, e una viuzza scende alla antichissima chiesa e al lago, mentre l’altra si dirige su tra i dirupi verso la borgata d’Arolo. Dovettero fare una sosta nell’oscurità per aspettare le due donne, ch’eran rimaste molto indietro e si udivan ridere da lontano nel silenzio. Era discesa la notte; nel cielo, fitto di stelle, non appariva più che un debole chiarore, una sottil zona di luce verdognola all’estremo occidente. Poichè il pendìo declinava non molto ripido in un denso ammanto di robinie selvatiche, il Verbano, muto e vasto, era invisibile e dava l’idea d’un largo abisso spalancato tra le due discoste catene di monti. Si vedevan staccare, nerissimi su lo sfondo uniformemente bigio del paesaggio, i profili secchi delle case e quelli ondulati degli alberi più vicini. — Che bujo, — esclamò Flavia, con la voce un po’ tremula, avvicinandosi al giovine. — Ho quasi paura!... — Di che, dunque? — egli chiese, ridendo. — Di tutto e di nulla. Mi han sempre fatto un senso strano le tenebre... Tu, Luisa, lo sai: io non ho mai potuto passar sola per una stanza oscura... E, con un gesto repentino, ella mise il suo braccio sotto quello dell’Imberido. Non dissero altro durante quell’aspettazione. Aurelio e Flavia, addossati al muro, stettero, quasi con l’animo sospeso, ad ascoltare i passi e le parole che s’avvicinavano lentamente; Luisa sedette su un macigno e incominciò a cantare con un filo di voce tenuissimo la romanza di Faust d’innanzi alla dimora di Margherita; poi, dopo poche note, anch’ella, attediata, si tacque. — Ebbene? Che fate? Siete stanchi? — domandò donna Marta, trovandoli tutti e tre muti nelle tenebre. — E perchè questo silenzio?... Flavia si sciolse sollecitamente dal braccio d’Aurelio e corse incontro a sua madre, dicendo: — Vi si aspettava per sapere se dobbiamo ritornare o se si procede fino alla chiesa. — Avanti! — ordinò la vecchia bruscamente. — Avanti, — ripetè la signora Boris con la sua voce melliflua da contralto. Discesero insieme nello stesso ordine di prima. La chiesa di Ceresolo siede sul colmo del promontorio che protegge dalle tramontane la piccola baja di Reno, a capo d’uno spiazzo da tempo immemorabile tappezzato d’alte erbe, recinto da un muricciuolo quasi diruto. E il tramite per giungervi corre in mezzo a due siepi di sambuchi, così abbandonato anch’esso che l’erba e i muschi vi hanno liberamente messo radice tra gli apici della roccia. Così fitta era quivi l’oscurità e insidiosa l’ineguaglianza del terreno che Aurelio si volse più fiate ad avvertirne la nonna, la quale già protestava per la mancanza d’una lanterna. Fortunatamente il percorso era breve, ed essi usciron presto dall’ombra imprescrutabile in cui le siepi assai folte avvolgevano il sentiero. — Un po’ di riposo, adesso, — disse donna Marta, e si soffermò colta da una sùbita ambascia. Le due signore sedettero presso la chiesa sopra una pietra rettangolare che pareva il coperchio d’un antico sarcofago; il giovine, poi ch’ebbe accesa una sigaretta e scelto il punto d’onde la visuale era più spaziosa, si pose un po’ discosto a cavalcione sul muricciuolo; Flavia e Luisa, per iniziativa di questa, s’abbandonarono ridendo sul prato. Dopo qualche momento non s’udì più nella gran calma delle cose che il pispiglio ininterrotto delle due donne in un angolo dello spiazzo, così sommesso che si confondeva con quello degli insetti nelle campagne circostanti. — Canta, Luisa! — disse allora Flavia, cui le memorie avevano infuso una tenera mestizia. La bionda tosto accondiscese; e la sua voce fluida e forte si levò nel silenzio, come un zampillo d’acqua balza subitaneamente dalla sommità d’una fontana muta al girar della chiave. Cantò ella ancora una melodia del _Faust_, quella lenta e velata con cui s’apre la grande scena di seduzione nel giardino di Margherita, al cader della notte: _Laisse-moi contempler ton visage_.... Poi, come s’avvide che tutti l’ascoltavano intenti, ella proseguì; e il suo canto divenne caldo e appassionato, a volte s’addolcì come un sospiro, a volte ascese squillante come un grido, espresse successivamente l’angosciosa gioja della rivelazione, un desìo irresistibile di possesso, una disperata tenerezza, una smania oscura e fatale d’abbandono e di voluttà. Nella strana disposizione di spirito in cui Aurelio si trovava alla fine d’una giornata per lui così diversa dalle altre, d’avanti a quei luoghi solitarii e misteriosi, tra i profumi snervanti ch’esalavano i prati e le acque, il canto di Luisa ebbe su lui un fascino nuovo e possente. Egli riconobbe la musica; ricordò le commozioni provate altra volta, udendola in un teatro; parvegli anche di riveder la scena rischiarata come da una luce lunare, e la tranquilla casetta tedesca mezza nascosta dal fogliame, e, in fondo, le due figure confuse insieme in un amplesso violento, al davanzale della bassa finestra cui la vergine s’era affacciata per mandare all’amante l’ultimo saluto. Fu, come già allo spettacolo reale, novamente sedotto e inebriato da quella magica finzione, alla quale l’arte dei suoni dava la sembianza di cosa più che vera, eternamente bella; e, nell’incoscienza della fascinazione, sentì sorgere e gonfiarsi dentro al cuore un desiderio folle d’amare, di gioire, d’obliar tutto in un gran sogno di felicità, di giuncare con i fiori più preziosi della sua anima privilegiata il cammino della donna eletta, affinchè questa passando ignara li calpestasse. Quando Luisa si tacque dall’angolo dov’eran sedute le due signore vennero applausi e approvazioni alla cantatrice: era donna Marta che, suscitando l’ilarità della signora Boris, batteva calorosamente le mani e gridava a tutta possa: — Brava! Brava Luisa!... — con lo schietto, romoroso entusiasmo d’una bambina. L’Imberido, come si scotesse da un letargo, si passò più volte le mani su gli occhi, stese neghittosamente le braccia, poi, facendo eco debolmente alle approvazioni dell’avola, balzò con un salto dal muricciuolo a terra. Nell’immenso silenzio s’udì suonar l’ora alle chiese lontane di Stresa e d’Intra: eran le nove e mezza. Un gran fuoco brillava su la vetta del Motterone, che pareva un vulcano; una profonda oscurità si stendeva in vece su tutti gli altri monti della riva opposta, fuorchè nelle borgate distese lungo il lago. — Si va? — chiese Flavia, alzandosi in piedi. — Andiamo! — risposero insieme sua madre e donna Marta. Nel ritorno, all’inizio del sentier tenebroso, Flavia passò sùbito il braccio sotto quello d’Aurelio, e non si staccò più da lui che d’avanti alla porta del palazzo. Quivi si salutarono senza parlare, quasi commossi, stringendosi forte la mano. Quando il giovine si trovò solo nella sua stanza, una gioja pacata e serena lo prese d’improvviso, come una sensazione assai gradevole di riposo dopo uno sforzo coronato da esito felice. Egli ristette qualche attimo sorridente e attonito nel bel mezzo della camera, col lume acceso in pugno; guardò il cumulo disordinato delle sue carte su la scrivania, e si compiacque, senza saper perchè, di sè medesimo, dell’opera sua, del suo destino che gli pareva aperto e chiaro come non mai. Nessun ricordo preciso di quel giorno era nella sua coscienza: egli non pensava nè a Flavia, nè al racconto del suo passato, nè al canto di Luisa, nè alla seduzione della musica amorosa; pensava vagamente a cose incerte e nebbiose, infinitamente piccole o infinitamente grandi, a tutto e a nulla. Si sentiva giovine, forte e sicuro; ed era lieto di vivere. D’un tratto si mosse. Depose il lume su la scrivania, come usava fare tutte le sere; si sprofondò nel suo seggiolone d’avanti a questa; prese risolutamente la penna, e stette un poco con la mano ferma, sospesa su la pagina incompiuta dell’opera sua. Un soffio tenue di vento, come una carezza fluida, entrava a intervalli dalla finestra, portando nella stanza un odore acutissimo di gelsomini. «Sono stanco,» egli pensò, senza stupore, senza rammarico: «scriverò meglio domattina.» Gittò la penna, si levò in piedi, e incominciò sùbito a spogliarsi. VI. PRIME NEBBIE. — Via, conte, coraggio! Faccia un bel salto nel vuoto, — gridò Flavia giù, dal giardino, ad Aurelio ch’era apparso in quel punto al balconcino della sua camera, con un libro aperto nelle mani. Le due giovinette stavano in piedi, col viso levato verso di lui, tra due statue di ninfe seminude dai gesti raccolti e pudichi, d’avanti a un denso cespuglio d’ortensie tutto ornato da pallidi corimbi di fiori. — Io verrò a morire ai loro piedi, — rispose Aurelio per giuoco, sporgendo il corpo dalla ringhiera come per misurare con lo sguardo l’altezza. — No; noi lo riceveremo tra le nostre braccia, — disse audacemente la bionda; e scoppiò a rider forte, sbirciando la cugina che d’un tratto si fece seria e abbassò gli sguardi al suolo. Aurelio sorrise e si ritrasse. Nel tepor blando della sera, l’anima gli si diffondeva nell’aria con la respirazione. Il vespero estivo aveva una purità di cristallo; come una grande brage ardente sotto il cielo, il poggio rosseggiava; tutte le cose sottostanti, penetrate d’ombra, parevan sommerse in un terso liquido azzurro. Egli, ancor dubbioso su ciò che avrebbe fatto, venne presso la scrivania e vi lasciò cadere lentamente il libro che stava consultando. Il pensiero che Flavia era là ad aspettarlo gli metteva nel petto un palpito convulso. Provava, come sempre quando doveva andare incontro a lei, quasi una necessità di sosta, di riposo, di raccoglimento, prima di prendere una deliberazione; e rimaneva così, a lungo, con il corpo e il pensiero inerti quasi in attesa d’un impulso esteriore. «Devo andare? Devo rimanere?» si chiese alla fine; e parve a lui in quel momento che non solo le convenienze lo consigliassero a trattenersi nella sua camera, ma altresì la sua volontà e il suo desiderio. «Discendere?» egli pensò. «E perchè? Forse che mi diverte codesta compagnia? E non ho perduto già troppo tempo per causa loro? Dai primi di giugno non ho scritto che una decina di cartelle, e anche queste dovrò probabilmente rifare. Val dunque la pena ch’io ritardi il compimento dell’opera mia per quelle donne? No, no, io non discendo. Io non voglio discendere!» Si volse; e vide ancora dal balcone spalancato il poggio igneo ai riflessi del tramonto. Imaginò le fanciulle in basso, nel memore giardino, tra le due statue goffe, d’avanti ai frutici fioriti. Esse certamente l’aspettavano ancora, immobili al loro posto, e fors’anche, aspettandolo, discorrevano di lui. Un’acuta curiosità lo punse: di sapere come potessero averlo giudicato quelle due ragazze frivole e astute; di conoscere il sentimento diverso ch’egli aveva suscitato in ciascuna di esse. Rivolse prima la sua attenzione a Luisa, poi la portò sùbito su Flavia, di cui si soffermò a indagare con più sottile arte il pensiero. Quella creatura così bella e così mesta gli ispirava un sentimento di fiducia e quasi di protezione, irresistibile. Appena da un mese l’aveva conosciuta; e solamente da una ventina di giorni egli aveva incominciato a vivere con lei in una certa domestichezza, qualche ora ogni giorno. Eppure, in così breve lasso di tempo, egli aveva già fatto un’abitudine della sua compagnia, e, quando gli mancava, ne sentiva come un rimpianto. Espansiva, ciarliera, propensa a parlar di sè stessa, Flavia a poco a poco gli aveva confidato le sue memorie, le sue speranze, i suoi crucci intimi. Ed egli, da prima indifferente e quasi ostile, aveva appreso a poco a poco ad ascoltarla con un certo piacere, a vivere nel ristretto mondo intimo di lei, senza provare angustie o insofferenze. Così, lentamente, cedendo per gradi insensibili alla seduzione di quei colloquii insidiosi, dopo avere accolto amabilmente le confidenze di Flavia, egli medesimo aveva anche incominciato ad aprirle un poco il suo mistero, a renderla in qualche modo partecipe de’ suoi pensieri e delle sue ambizioni. E, come s’era accorto ch’ella lo ascoltava con un’attenzione profonda, gli occhi fissi ne’ suoi immobilmente, e che spesso altresì lo approvava con rapidi cenni del capo, aveva posto un’assidua cura nel mostrare a lei il suo valore, la larghezza della sua coltura, la forza del suo carattere, la sottilità del suo ingegno. E un orgoglio enorme gli aveva sollevato tutto l’essere, quando ella un giorno aveva detto con accento di convinzione a lui, che taceva stanco dopo un lungo discorso: — Ah, come la invidio, conte! A lei è riserbato certamente un alto destino. Ella possiede il segreto di dire le cose più astruse e complicate in una forma così limpida, così piana ch’io stessa, donna e ignorante come sono, riesco a intenderle e a persuadermene. Nessun elogio già mai, nessun augurio eragli parso più dolce, più veritiero, più incoraggiante. Ed egli ora, ritto presso la scrivania, ripensava a quelle parole e si gonfiava novamente d’orgoglio. Ma un’ansietà lo stringeva quanto più i minuti fuggivano. Lo urgeva un’inquietudine confusa, come un bisogno di movimento e di respiro libero, come un’impazienza che gli saliva su dal fondo del cuore e gli occupava, annebbiando, il cervello. Altre volte in quei giorni era stato assalito da una commozione simile; altre volte aveva dovuto d’un tratto, sotto la spinta misteriosa, interrompere il suo sereno lavoro, a mezzo d’un periodo che pure aveva già tutto concretato nella mente e avrebbe potuto compire in un attimo; altre volte, senza saper come nè perchè, s’era trovato fuori della sua camera, ramingo nel parco solitario o su la spiaggia, come alla ricerca di qualche cosa ignota!... Aurelio lanciò uno sguardo in dietro verso il poggio: parvegli che il rossore al sommo fosse impallidito; parvegli che nel cielo qualche luce brillasse. Era un inganno questo, ma egli vide veramente qualche luce brillare nel cielo. — Quanto tempo era passato? Le due fanciulle l’aspettavano forse ancora in giardino? Imaginavano esse, — imaginava Flavia il motivo di quel lungo indugio? Il dubbio che questa, avendo dato al suo ritardo una causa diversa, potesse giudicarlo scortese o immemore di lei, l’accorò profondamente. Si sovvenne in quel punto d’esser rientrato senza salutare, senza pur rispondere con un rifiuto giustificato all’invito confidenziale; ebbe contro sè stesso un moto di rimprovero e di rabbia, vivissimo. Pensò: «Ora bisogna discendere, almeno per iscusarmi presso di loro.» E si mosse. Nel giardino non trovò nessuno: per un’istintiva curiosità, s’inoltrò fin nel mezzo dello spianato; volle riconoscere il luogo preciso dov’eran già le giovinette, tra le due ninfe marmoree, d’avanti al cespo florido d’ortensie; e qui lo ferì un profumo strano e complesso, indefinibile, che non poteva esser quello d’un fiore e gli sollevò il ricordo come d’un vago sentimento lontano. Dov’erano esse? Stanche d’aspettarlo, eran rientrate in casa? Eran uscite dal palazzo? Ritornò su i suoi passi; attraversò la grotta e il cortile senza incontrar nessuno. Aveva un bisogno smanioso di cercarle, di vederle, d’interrogarle; temeva sopra tutto che Flavia fosse indispettita contro di lui; pensava che, solamente presentandosi in quella medesima sera, sarebbe riuscito a cancellare l’impressione sgradevole in lei lasciata. Come uscì sul rialto, la vide finalmente abbasso, presso le barche, in compagnia di Luisa. Entrambe gli sorrisero. Disse la bionda, accennandogli con la mano d’avvicinarsi: — Ci scusi: siamo discese senz’aspettarlo..... Venga! Venga giù! Noi andiamo a fare un giro sul lago. Egli discese verso di loro, sorridendo. E una mirabile mutazione avvenne nel suo interno, poichè i sospetti, che fino a quel minuto lo avevano oppresso, ora precipitavano all’imo, dileguavano, cedevano il luogo alla certezza salutare che nulla era ancor sòrto a turbare i suoi buoni rapporti con Flavia. Ella, curva fin quasi a terra, era occupata a sciogliere il nodo della fune che assicurava la lancia a un grosso anello confitto al suolo; ed essendo la fune un poco umida, la premeva inutilmente con le piccole mani, e s’affannava, e sbuffava, e s’accendeva nello sforzo vano. Tutto in essa, veramente, nell’atteggiamento del corpo e nell’espressione del viso, era fragile e infantile, e crebbe nel giovine quel sentimento di superiorità generosa, come di simpatia tutelante che provava sempre al cospetto di lei. — Ah, mio Dio, non ci riesco! — mormorò Flavia, ergendosi con un moto lento, guardando con occhi impietositi le sue palme arrossate e graffiate dall’asperità della canapa. Poi soggiunse rivolta ad Aurelio, mostrandogliele: — Guardi le mie povere mani! — Tenterò io, se permette: le mie sono meno gracili e meno belle, — egli disse, sorridendo. Senza durar molta fatica, sciolse il nodo e porse il capo della fune alla fanciulla. Il lago era calmo, liscio come una lastra d’acciajo. Una luce incolore e bassa, la luce dei pigri crepuscoli estivi, si rifletteva sul piano delle acque, che parevan più chiare del cielo, e lasciava in un’ombra dilavata i fianchi selvosi delle montagne. Alcune grosse barche da trasporto, provenienti dal mercato d’Arona, spiccavan nere come ebano in alto lago; e i loro alberi, spogli di vela, disegnavan con le corde dell’antenna legate a poppa, immani triangoli sul chiarore. — Poveretti! — disse Flavia malinconicamente, osservando le barche quasi ferme. — È sabato, ed essi non hanno un fil di vento che li ajuti a ritornare a casa! — Non mi sembra il caso di compiangerli, — notò il giovine, tra serio e scherzoso: — il vento li ajuta già fin troppo; ed è bene in vece ch’essi esercitino anche un poco l’unica virtù che posseggono: la forza dei loro muscoli. — Vuole che andiamo a vederli da vicino? — chiese ella, come non avesse udito le parole di lui, fattasi d’un tratto ilare e vivace, grazie a quella sua speciale facilità di mutar pensieri, umore ed espressioni, la quale aveva già più volte stupefatto l’Imberido. E, senza aspettar risposta, si guardò intorno per il lido deserto con impazienza visibile. — Dov’è andata mia cugina? — Era con lei quando son disceso, non è vero? — domandò Aurelio. — Non si rammenta? È stata Luisa a chiamarla.... Oh, eccola! La vede? La giovinetta correva rapidamente lungo il greto verso il piccolo arsenale, dove Ferdinando nella morta stagione occupava il suo tempo a costruire barche che poi in estate noleggiava ai villeggianti. I suoi capelli biondi s’erano in parte disciolti e si levavano a guisa di lingue ignee nel vento della corsa, sì che pareva in lontananza che la sua testa fiammeggiasse. — Luisa! Luisa! — chiamò Flavia a voce alta. — Dove corri? Non vieni? — Andate avanti piano! — ella rispose, senz’arrestarsi, volgendo a pena il capo per farsi intendere: — vado a prendere il sandalino. Vi raggiungo sùbito sùbito. Andate avanti! E disparve, valicando leggera il molo che proteggeva la darsena di Ferdinando. Flavia entrò risoluta nella lancia, dicendo al giovine: — Andiamo noi soli! Aurelio, per la lunga dimora fatta sul lago, era un forte ed espertissimo vogatore. La lancia, spinta da’ suoi colpi di remo, tagliò l’acqua velocemente, e s’avanzò diritta come una freccia verso una delle grandi barche al largo. Ambedue tacquero a lungo; ambedue avevan gli sguardi fissi nel vuoto, instancabilmente; ambedue parevano ascoltare ansiosi, quasi aspettando una qualche alta rivelazione dal gorgoglio sonoro delle ondette che si movevano intorno al legno. Un turbamento invincibile, misto di gioja e di confusione, teneva Aurelio, da che si trovava, per un caso insperato e inaspettato, solo con Flavia su quel piccolo schifo perduto nelle acque, a quell’ora estrema del giorno, in quella luce moribonda. Provava un bisogno intenso di parlare; ma le parole, che gli si affollavano senza nesso alle labbra, erano impronunciabili. Sentiva un desiderio quasi doloroso di guardare la sua compagna, d’osservarla bene e lungamente nel viso; ma i suoi occhi non potevano staccarsi dalla banderuola azzurra che sventolava a poppa. Avrebbe voluto almeno provocare una sua parola, udirne il suono della voce; ma ella, come lui, pareva tenuta astratta e silenziosa da un incantesimo. — Luisa è comparsa? La vede? — chiese alfine Flavia con accento pigro, dispiacendole perfino di volgere indietro il capo, nello stato d’attonitaggine in cui era caduta. Aurelio ebbe un sussulto: fissò un attimo interrogativamente la compagna, come non avesse compreso; poi diresse gli sguardi al villaggio, e parvegli di vedere agitarsi sul lago, d’innanzi all’arsenale, una piccola forma oscura. Era certamente Luisa che veniva a raggiungerli. — Sì, la vedo: ella viene, — disse. — È ancora molto lontana? — Sì, parecchio... Vuol forse che l’aspettiamo? — domandò con un’alterazione indefinibile nella voce e negli occhi. Ella rimase alquanto pensierosa, quasi incerta. Poi rispose bruscamente: — È inutile. Andiamo pure avanti. L’aspetteremo più tardi, laggiù! Ritacquero. Aurelio, grato in cuor suo a Flavia, d’aver voluto prolungare il fascino di quell’assoluta solitudine tra le acque, riprese a vogare con lena anche più vigorosa, quasi cercasse di fuggire a un molesto inseguitore. Il Verbano sembrava allargarsi man mano ch’essi si scostavano dalla riva e l’ombra cresceva: sembrava dileguarsi in una illusoria lontananza, prolungarsi a mo’ d’un vasto e lento fiume livido che non avesse per gli occhi nè principio nè fine. E nell’anima del giovine, inclinata verso quell’unica presenza femminile come da un possente desiderio di consorzio, era una strana eccitazione sentimentale, ferveva come un incendio improvviso di tutte le sommità liriche. Due o tre volte il nome di lei salì alle labbra d’Aurelio, e fu a pena trattenuto dalla volontà. Due o tre volte i loro sguardi, ora errabondi, s’incontrarono, parvero per un istante interrogarsi, e si sfuggirono quasi intimiditi dalla loro reciproca audacia. — Eccoci! Si fermi! Si fermi! — ella gridò d’un tratto, allungando le mani verso quelle di lui per trattenergliele. Aurelio, un po’ sgomento dall’atto e dal grido, abbandonò tosto i remi, e si volse a riguardare, udendo dietro di sè un tonfo come di cosa greve che si tuffasse. Il navicello sorgeva prossimo a loro, con la sua massiccia e cupa mole uscente dal piano lacustre, alla quale l’alto albero e la stanga a poco a poco più larga del timone davano un aspetto fantasticamente geometrico contro l’estrema luce del crepuscolo. Ritto su la sponda del legno, un vecchio erculeo con le gambe ignude, col torso mezzo ignudo, tutto ispido di peli grigiastri, moveva faticosamente, facendo tre passi a ritroso, il gran remo scabro che a ogni spinta mandava stridi e sibili come un cignale ferito. Di quando in quando s’arrestava, stanco o affannato, e abbandonava il remo per tergere con l’avambraccio il sudore che gli colava in copia dalla fronte bassa e rugosa. Aurelio e Flavia stettero a osservare la sua manovra, intenti. L’uomo dall’alto, durante una sosta, fece loro un saluto rispettoso, togliendosi il cappello e agitandolo nell’aria. Entrambi risposero con la voce, augurandogli a un tempo la buona sera. — Poveretto! Come mi fa pena! — disse Flavia quasi tra sè, sinceramente commossa. L’Imberido, benchè fosse attentissimo a quell’ombra nera che oscillava con la regolarità meccanica d’un ordigno, rimaneva affatto insensibile a quegli sforzi senili; e, udendo Flavia impietosirsi, senza volerlo sorrise. Allora ella si rivolse a lui e, penetrandogli in fondo agli occhi con uno sguardo grave di rimproveri: — Perché quel sorriso? — gli chiese. — Non so, veramente. Un’idea... — Ah, capisco! — fece ella, senza cessare di fissarlo, con accento d’irrisione. — Ricordo le sue parole là, su la spiaggia, ricordo anche altri suoi discorsi... Ella (credo per ismania di singolarità) s’è imposto lo scopo di conservarsi impassibile allo spettacolo delle sofferenze umane!... Come potrebbe dunque aver compassione d’un povero vecchio, che, non ostante la tarda età, deve continuare senza una speranza di riposo quel lavoro da schiavo o da galeotto? Aurelio, attonito, la guardò. Ella non aveva mai parlato così. Non aveva mai osato contradirlo. Altre volte, quando egli le aveva manifestato apertamente alcuna delle sue più crude idee sociali, era rimasta silenziosa ad ascoltarlo, se anche non aveva fatto cenno d’approvare. Ora da che proveniva quell’ardire, quel calore di principii, quella voglia nuova e improvvisa di discussione? E che significavano nella sua bocca i due epiteti di «schiavo» e di «galeotto», riferiti per ironia a quel rozzo essere ignaro, come per proclamarlo contro di lui uomo libero e suo pari? Chi le aveva suggerito le parole ribelli, che non potevano essere il frutto d’una semplice anima femminile? — Un dubbio attraversò fulmineo il pensiero d’Aurelio: quelle eran le idee dell’Altro, dell’Indimenticabile, dell’uomo a lui ignoto ch’ella aveva tanto amato un tempo e forse amava ancora nel segreto del suo cuore, disperatamente. Certo, certo così per analogia doveva ragionare in politica quel rètore dell’amore che, dopo averle infocata la fantasia con un’abile comedia di passione e d’entusiasmo, s’era da un giorno all’altro comodamente sottratto alle responsabilità assunte, ripudiando senza scrupoli ogni sua promessa, ogni suo giuramento, ogni suo impegno morale! Il giovine ebbe da questo dubbio una specie di gelosia, una specie di sordo furore vendicativo contro lo sconosciuto e per riflesso contro la fanciulla che aveva parlato come in suo nome. Rispose dunque con la voce aspra, contenendosi a stento: — Signorina, quell’uomo non è soltanto immeritevole della mia compassione; ne è anche indegno. La fatica per lui non è un dolore; e le sue occupazioni, se pur sembran gravose, non son certo, anche considerate come semplice consumo di forze, paragonabili..., ad esempio, alle mie. Ed io non mi son mai compianto, nè so che altri mi abbia compianto mai. D’altra parte le sofferenze dell’infima umanità sono il risultato logico, necessario, anzi provvidenziale della concorrenza per la vita tra gli individui di nostra specie. Io non stimo dunque uomo sano, nè forte, nè ragionevole quello che non può assisterne allo spettacolo senza commuoversi e cedere a un sentimento di ribellione contro le leggi incommutabili dell’esistenza, che sono anche quelle del progresso. — Eppure, — ella insistette, — vi sono molti giovini còlti e d’ingegno quanto lei, i quali si sono imposto come un ideale la redenzione di quelle classi sofferenti, ch’ella chiama con disprezzo: l’infima umanità... — Quei giovini, — disse impetuosamente Aurelio, esagerando il suo pensiero, quasi avesse avuto l’Altro per avversario nella discussione, — quei giovini, se anche hanno ingegno e coltura come lei asserisce, van pur sempre considerati come imbecilli morali, perchè sono o ingenui o fiacchi o bugiardi. E il loro ideale per conseguenza non può essere che un’utopia, una scempiaggine sentimentale o un inganno. Flavia pareva che traesse dalla sua acredine crescente una sorta di piacere maligno. Lo guardava fissamente, socchiudendo gli occhi alla maniera dei miopi, e aveva su la bocca un sorriso quasi impercettibile, come una lieve ombra agli angoli delle labbra che i denti di sotto continuamente mordevano. — Sentiamo dunque; — ella domandò ancora: — qual è, secondo lei, l’ideale vero, l’ideale sano e onesto, il suo, insomma...? — Ajutare l’opera fatale della Natura, senza pretendere di correggerla e di rivederla. Favorire, per quanto ci è dato, il progresso d’un tipo superiore nell’umanità, non curando la massa degli individui che la compongono. Confusa dalla concisione scientifica della formula, ella non potè ostinarsi nella sua ironica opposizione, e dovette tacere per un attimo, forse meditando un nuovo possibile attacco. In quel punto una voce si levò, inaspettata, dietro di loro. — Disturbo, forse?... Era Luisa, che nel frattempo li aveva raggiunti e, fermatasi per discrezione a qualche metro di distanza dalla lancia, li osservava con la sua solita aria di maliziosa penetrazione. — Ah, sei tu, Luisa? — disse Flavia, volgendosi a lei con un atto brusco e inquieto. — Avvicìnati, dunque! Che fai?... Si parlava col conte di politica, figùrati!... — Di politica?! — ripeté la bionda, incredula, scoppiando a ridere. Quindi, con un gesto semplice, riprese nelle mani il remo a due pale, e si diresse verso la lancia. Era soffusa d’una tenue fiamma su le gote, e anche aveva l’espressione un poco alterata. Disse il giovine, mentr’ella s’avvicinava: — Sa, signorina Luisa? ho scoperto in sua cugina certe tendenze rivoluzionarie ch’ero ben lungi dal sospettare. — Eh, che vuole? — fece ella, spensieratamente. — Noi siamo tutte repubblicane..., almeno fin che troviamo un re che ci governi! La notte sopraggiungeva, placida notte senza nube, che un ricordo di sole e una promessa di luna inondavan di timide trasparenze glauche. Dalle convalli, rinfrescate dall’ombra precoce, qualche soffio d’aria incominciava ora a discendere verso il lago, che a tratti rabbrividiva e s’accapponava come epidermide delicata al solletico d’una piuma. Quasi tutte le grosse barche, che ne macchiavano il piano, erano state assorbite dall’oscurità. Solo il navicello più vicino si scorgeva ancora distintamente a una decina di metri innanzi, dove s’era fermato, e, nella speranza di raccogliere que’ soffii dispersi, aveva inalberata l’alta vela quadrangolare. Ma questa per il contrasto delle correnti non poteva gonfiarsi, e si udiva a intervalli sbattere con colpi secchi e reiterati, come applausi. Luisa s’accostò alla lancia fino ad afferrarne il bordo con la mano. Ella pareva molto nervosa, in uno stato d’irritazione allegra, di facile e spontanea mordacità. Pareva che nudrisse dentro un dispetto acidulo contro i due, che l’avevan lasciata sola in dietro. Specialmente contro Flavia ella si compiaceva d’incrudelire: sapeva trovar per lei parole piene di sottile veleno; sapeva cogliere nel discorso fatuo e vago ogni occasione propizia per rivolgerle allusioni velate, che la facevano a volte impallidire, a volte arrossire fino alla radice dei capelli. Quando ritornarono, ella, senz’avvertire nè la cugina nè il giovine, si diede improvvisamente a vogare con tutte le sue forze come per una gara, e in pochi momenti, sopravanzandoli, scomparve alla loro vista nelle tenebre. — Luisa! — chiamò una volta Flavia, seccata. Poi, non ottenendo risposta alcuna, si volse ad Aurelio, che s’era lanciato a inseguirla, e gli disse: — Non so che abbia stasera quella sciocca! Sembra impazzita!... La lasci andare!... Non s’affatichi inutilmente!... Tanto, non la si perde.... Rimasero, così, di nuovo soli, su la barca invisibile, in mezzo al lago deserto e bujo. Ma l’incanto primo era stato disperso, e la solitudine omai era vana. Persisteva tra loro un distacco, un sentimento di diffidenza e quasi d’ostilità, che la loro discussione aveva mosso e poi la presenza e i sarcasmi di Luisa avevano esacerbito. Erano omai due esseri distinti, separati, infusibili. E lo stesso silenzio, che prima li aveva accomunati, ora in vece li rendeva viepiù estranei l’uno per l’altra. Aurelio pensava, considerando con occhio intento e freddo la sua compagna, muta e accigliata di fronte a lui: «Come è bassa e angusta codesta fronte! La sua intelligenza dev’esser chiusa in cerchii di ferro come una botte vuota. Costei non potrà mai avere un pensiero suo, che sia generato dal sangue suo, nudrito dall’ingegno suo, cresciuto e fortificato da una sua meditazione. Ella è andata raccattando fino a oggi, dalle frivole letture e dalle conversazioni degli uomini che l’hanno avvicinata, un certo corredo d’idee frammentarie e d’opinioni sparse; e talvolta, ripetendole, se ne serve, ma esclusivamente a profitto del suo giuoco sentimentale; poichè un giuoco è quasi sempre la vita d’una donna, almeno fino al giorno in cui essa giocando diventa madre. In verità costei riserba tutta la sua indifferenza e fors’anche un poco di disprezzo alle occupazioni dell’intelletto; un lampo di convinzione, d’entusiasmo o di mera curiosità non ho mai visto illuminare il suo sguardo, quando ella parla di cose astratte o generali. Che cosa sono per lei gli altissimi voli e le maravigliose penetrazioni del pensiero contemporaneo? Che cosa, la scienza, l’arte, la filosofia? Che parte prende ella mai ai grandi rivolgimenti della società moderna? Con quale ansiosa sospension d’animo, con quali speranze o con quali timori scruta nell’avvenire il destino della sua razza? Ohimè, il suo mondo è così ristretto che, solo allargando le braccia, ella ne può toccare i confini! E al di là per lei è il mistero; peggio, è un mistero che non l’impensierisce e non l’attira!» Pensava: «Come, come ho potuto perdere il mio tempo in compagnia d’una creatura sì semplice e sì vana? Come ho potuto confidare a lei sia pure una minima parte del mio pensiero? Probabilmente, ella non m’ha mai ascoltato, quando m’approvava; ella ha finto di prestarmi orecchio e d’intendermi, soltanto per rendermisi piacevole, per tenermi vicino, per affascinarmi o per burlarsi di me. Come, come dunque non ho inteso sùbito il giuoco e non ho saputo sventarlo?» — A che pensa? — ella chiese. — A nulla. Cioè.... a lei, signorina. Ella ridomandò: — A me? Male, non è vero? — No.... Perchè dovrei pensar male di lei? Nè bene nè male. Si guardarono un attimo, scrutandosi. Poi ciascuno parve di nuovo concentrarsi in sè stesso. D’improvviso Flavia scoppiò in una risata sonora. Aurelio domandò, stupito: — Che cosa è avvenuto? Perchè ride? — Ah, un ricordo! M’è tornato alla mente il nostro primo colloquio, quella sera, sul rialto. — Ebbene? — Sa che l’espressione della sua faccia, quando mi si è dichiarato nemico delle donne, è stata assai buffa? Io ho dovuto fare una gran forza su me stessa per rimaner seria.... Aurelio ebbe un vivo sussulto, a queste parole. Esse in fatti parevano confermare le sue considerazioni, avvalorare il dubbio che la ragazza avesse sempre sostenuto una parte con lui, per farsene beffe. Egli lasciò per un istante i remi e disse, piano, con l’amarezza nella voce: — È strano! Nessuno certo l’avrebbe potuto sospettare! Si vede ch’ella sa fingere molto bene, signorina! Flavia tornò a ridere. Poi domandò: — Ora vorrei da lei una confessione; ma vorrei che me la facesse seriamente, con tutta la sincerità, senza riguardi per me o per il suo amor proprio.... M’intende? — Dica.... — È ancora un nemico delle donne, lei? Il giovine, che si sentiva corrodere da un sordo rancore e incitare come da una smania di vendetta, rispose forte, sfidandola con lo sguardo: — Schiettamente, più che non mai. La risposta era stata sincera, ma egli sùbito si pentì d’averla proferita. Per un’oscura divinazione imaginò l’effetto ch’essa avrebbe avuto in quel momento, dopo i loro discorsi, nell’anima di Flavia. E in mezzo alla sua momentanea avversione per lei, provò una specie di brivido interno, un brivido insieme di paura e di dolore, al pensiero d’aver reso irrimediabile il loro dissidio, d’aver distrutto in sè per tal mezzo ogni speranza di prossima conciliazione. — Grazie di tanta franchezza! — esclamò Flavia, stringendosi nello scialle, distogliendo con un moto sdegnoso il suo sguardo da quello di lui. Su l’atto egli non trovò il modo di mitigare l’asprezza della frase, togliendole almeno ogni significazione personale; e, nella necessità di sopportarne tutte le conseguenze, riprese il remeggio in silenzio, con un’energia maggiore, come gli tardasse omai che la riva fosse raggiunta. La notte aveva già disteso il suo mantello bigio sul lago; la riviera di Piemonte scintillava di fiamme minute, in lunga fila; le creste più alte, quelle del Motterone e dello Zeda, si vedevan rischiarate dalla luna sorgente. Allora la malinconia lo assalì; uno scontento amaro di sè stesso e del mondo si levò dalle profondità del suo spirito e vi si diffuse come una nebbia. Il ricordo del suo lavoro lento, interminabile, che da più giorni progrediva a pena tra difficoltà sempre crescenti; l’imagine dell’avola debole, decrepita, malata; la previsione d’una solitudine senza fine; il terrore d’un’esistenza diversa dal suo sogno, sacrificata alle necessità corporali, oppressa forse da un giogo ignobile; tutte le sue tristezze, tutte le sue paure gli passaron di nuovo a traverso la mente con una rapidità fulminea, a similitudine di spettri esili e confusi volanti verso una porta piena d’ombra. In vano egli tentò di ribellarsi a quella dominazione di fantasmi neri; in vano cercò in sè un pensiero gradevole, una speranza o un desiderio che potesse sottrarlo ad essi. Il proposito di rimettersi assiduamente al lavoro lo riempì di tedio e di freddo. L’imaginazione d’un possibile avvenire di gloria si trasformò subitamente in una visione certa di morte. — A che avrebber dunque servito i suoi studii, le sue fatiche, le sue opere? E che cosa avrebbe potuto fare egli, solo sconosciuto povero fiacco, contro l’onda immane dei preconcetti, degli appetiti, delle ambizioni d’una folla innumerevole? Egli era scoraggito, deluso, vinto; il suo sogno sfumava; la sua vita non aveva più scopo; egli si vedeva fuggito da tutti, dannato a un isolamento perenne tra uomini nemici o estranei a lui. Chi dunque lo amava? Chi lo avrebbe soccorso, malato o miserabile, quando la nonna sua fosse scomparsa? E a che farmaco miracoloso avrebbe egli chiesto la forza nuova per tollerare un’esistenza simile a un esilio? Alcune parole disperate risonarono dentro di lui, acute come un grido: «Mio Dio, come mi sento stanco di vivere!» Esse gli eran misteriosamente scaturite dalle viscere profonde, ed egli le aveva pensate senz’averne coscienza, come inconsapevole le avrebbe urlate al silenzio in un momento di supremo abbandono. Non l’anima sua le aveva suggerite; aveva parlato in lui l’oscuro Genio della Specie; e la vana invocazione non era se non una delle innumeri espressioni di lamento delle creature che si senton sole e sterili e inutili, il grido d’angoscia che la tirannica Natura strappa a queste, reclamando le vite del domani in pericolo di non essere. Aurelio guardò istintivamente la sua compagna. Ella s’era levata d’improvviso in piedi e fissava con intensità un punto lontano d’avanti a sè. Il suo corpo svelto ed eretto, con le braccia un poco allargate nello sforzo di tener fermo il governo del legno, si disegnava sul piano cupamente glauco delle acque e pareva ingigantito. Una trepidazione continua rendeva incerte le linee di quell’alta figura gorgónea, cui il vento della corsa agitava i capelli alquanto scomposti e le pieghe ampie della veste. E partiva dal suo sguardo vitreo e fosforescente un bagliore magnetico, qualche cosa insieme di procace e d’imperioso, come una sfida, come un invito muto e fatale al giovine che lo scrutava. «Io ti potrei soccorrere,» gli dicevan quegli occhi che non lo guardavano. «Io ti potrei amare. Io ti veglierei malato e seguirei fedele i tuoi passi nell’esilio. Io, io sola saprei trovare il farmaco che tu cerchi e te lo porgerei con queste mani carezzevoli in una coppa illibata. Ma tu dovrai esser mio, appartenermi tutto, struggerti tutto tra le mie braccia, esser per me lo schiavo che lavora e che mi nutre col profitto del suo lavoro. Che mi fanno le tue ambizioni? Che mi fa il tuo sogno? Io non vedo in te che l’uomo predestinato a generare i miei figli e a rendermi agevole e dolce la vita.» E Aurelio, leggendo in quegli occhi le parole dell’Incantesimo, pensava al corso degli anni venturi, a sè medesimo legato ai polsi da una catena ferrea con quella creatura mediocre e assorbente, pensava alla povera casa sempre sudicia, romorosa, devastata dalla barbarie infantile, ingombra forse di ribelli, forse d’indegni, forse d’intrusi. E poichè le parole avevan pur sempre su lui un fascino irresistibile, simile all’attrazione vertiginosa che sale dagli abissi, egli andava ripetendo a sè stesso: «Diffida e guàrdati! Non credere! Non illuderti! Ella non ti amerà mai; ella non accetterà mai di dividere la tua sorte malinconica! Per lei, come per tutti gli altri, tu non sei che un estraneo.» Ma questi pensieri, ben lungi da confortarlo, aggravavano in vece il suo scoramento, rendevan più vasto e più squallido il deserto intorno alla sua solitudine. — Osservi! — disse Flavia d’un tratto, sempre ritta e attenta, accennando con la mano un punto dietro le spalle di lui. — Che c’è laggiù? Che cosa sono quei lumi? Osservi! Aurelio si volse. Un’ombra densa premeva sul villaggio, ormai non molto lontano. In quell’ombra la spiaggia e gli abituri erano invisibili, e soltanto le poche case intonicate si distinguevano a pena, come pallori incerti. Presso la chiesa, raccolte in gruppo, molte fiammelle tremolavano, acute e distinte, diffondendo in torno un’aureola rossastra. — Che sarà? — ella ridomandò, attonita, volgendosi al giovine. — Forse un funerale. — A quest’ora? — Forse una funzione... Certo: è una funzione. Non vede? Si muove. Le fiammelle in fatti si movevano. Fu dapprima un’agitazione disordinata, come un incrociarsi rapido e confuso di tutte quelle luci in un piccolo spazio; poi alcune di esse si staccarono dal gruppo e discesero fantasticamente, ondulando e sussultando, la scala del tempio. Le altre seguirono a poco a poco, mentre quelle prime, disposte in ischiera, s’allontanavano, e ben presto una lunga processione di fiamme doppie si sviluppò serpeggiante per l’oscurità del piazzale. Allora Aurelio s’accorse che una campana rintoccava. — Sente? — egli disse a Flavia. — Che squilli lenti, lugubri... — È un’agonia, senza dubbio. Qualcuno muore laggiù, e quelle torce seguono il Viatico! Ella aggiunse dopo una pausa: — Mio Dio, che tristezza! — e si lasciò ricadere su i cuscini come morta di fatica. «Che tristezza! Che tristezza!» ripeté l’anima del giovine, facendo eco. E il ricordo della nonna, della sola persona ch’egli amava e dalla quale era amato, risorse vivido, risplendette come una stella solitaria sul cielo opaco della sua mestizia. Un’onda di tenerezza impetuosa gli gonfiò il petto a quel ricordo sòrto per una secreta associazion d’idee dopo la funebre visione; tutte le fibre del suo cuore vibrarono concordemente al sacro nome di Madre. Oh, era quello l’essere caro, l’essere indimenticabile, a cui egli era legato da un’intera vita di solidarietà; era quella la creatura di consolazione, di conforto, d’infinita benevolenza sul seno della quale avrebbe potuto senza viltà e senza pericolo riposare il capo stanco. Un desiderio ansioso lo prese: di correre a lei, di stringerla tra le braccia, di coprirne di baci il povero volto cereo, vizzo, emaciato. Tutta la sua affettuosità, sempre oppressa da un pertinace proposito d’indifferenza, si slanciò in quel momento di debolezza sentimentale verso colei ch’era stata la sua vera madre, verso colei ch’egli aveva appreso ad amare ne’ suoi giorni più tenebrosi. «Oh, mamma! mamma!...» Come un bambino smarrito egli invocava l’assente, ripetendone il nome nel pensiero. E i rintocchi, che udiva battere ostinati dietro le spalle, gli infondevano una temenza oscura, quasi il presentimento d’una notizia triste che l’aspettava insidiosa là su la spiaggia. Disse Flavia, osservando sempre intenta il corteo delle fiaccole: — Passano ora il ponte; vanno verso Ceresolo. Chi sa dove abita il moribondo? Soggiunse poi con la voce più fioca, come parlasse tra sè: — La morte! Ecco ciò che tutti ci uguaglia!... Aurelio, alzando gli occhi verso la fanciulla, ebbe un fremito profondo. Quelle parole precisavano la causa del suo sgomento. Oh sì, era la Morte ch’egli temeva; era il fantasma della Morte che projettava una prolissa ombra nera nella sua mente. La Morte poteva da un momento all’altro precipitarsi di nuovo nella sua casa, cui aveva già tanto devastata, e annientare in un colpo tutto il suo bene. Sua nonna era per essa una facile preda, una vittima pronta; bastava un debole soffio perchè si spegnesse la fiamma di quell’esistenza, che ogni giorno più si vedeva infievolire e attenuarsi, consunta dall’età e dal male. Egli non avrebbe potuto far nulla per contendere alla Distruzione la vita della sua cara; egli, quando fosse scoccata l’ora fatale, avrebbe dovuto assistere impotente spettatore al lugubre dramma, che gli toglieva senza colpa e senza ragione l’ultimo conforto. — Ma che sarebbe poi stato di lui? E come, solo, avrebbe vissuto nella casa squallida e severa, che le imagini de’ suoi maggiori, appese alle pareti, rendevan simile a una critta foderata di lapidi? Gli occhi di Flavia parvero leggergli nel pensiero e rispondere alle sue domande angosciose. Fissi su lui, intorbiditi come da un velo di pietà e di tristezza, essi ricantavano ora più forte il poema della seduzione, essi ripetevan con maggiore eloquenza il dolce invito alla Gioja! «Perchè t’affliggi, giovine?» dicevano quegli occhi di donna: «Perchè non domandi alla vita quel bene, quell’unico bene ch’essa largisce liberalmente a tutti i nati? Guardami: io son colei che potrebbe confortarti nella sventura; io son colei che potrebbe prendere il posto di quella che sta per lasciarti. Amami, sacrificami il tuo inutile orgoglio, ed io ti allieterò la casa squallida e severa con la mia beltà e la mia giovinezza.» Sotto quegli sguardi armoniosi come un canto, la confusione del giovine crebbe, si trasformò, divenne un’ebrezza tenera e imaginosa, una specie di spasimo spirituale, misto di temenza e di gaudio. Egli sentiva il cuore gonfio e convulso, sentiva affluire a fiotti il sangue al cervello, sentiva l’anima ammorbidirsi e sciogliersi come fusa da un calore supremo. L’angosciosa mobilità del suo pensiero s’acquetava; pareva che tutto il suo mondo interiore si dissolvesse in guisa di nebbia e vanisse rapidamente, disperso da una raffica, nelle profondità d’un cielo oscuro come quello che si schiudeva sopra il suo capo. Alcune frasi liriche, inaspettate, si abbozzavano a intervalli nella sua mente, illuminandola con la fugacità frenetica di lampi: «Oh, dimenticare tutto, tutto, tutto... Fuggire lontano, molto lontano dagli uomini in un paese vergine, selvaggio, primaverile... Esser solo, forte e libero in cospetto della Bellezza... Amare, inebriarsi d’amore, vivere e morire in un’estasi sublime senza pensieri, senza rimpianti, senza dolore...» Era il gran Sogno che incominciava, il Sogno dell’eterna passione umana. Era un desiderio fatale d’integrazione, di struggimento, di creazione che lo accendeva, ch’esaltava la sua anima per modo che ogni imagine vi si riproduceva alterata sotto forma di poesia. E i frammenti del carme immortale continuavano a succedersi dentro di lui, abbaglianti e sonori, sempre più tenebrosi e sempre più incantevoli, spontanee polle d’Arte scaturite dai più densi misteri della Vita. Gli passava da presso la Felicità, ed egli udiva bene nel silenzio della notte il rombo delle sue ali; egli sentiva l’aria scossa e turbata dall’eterna Chimera proteiforme, dietro a cui gli uomini volan travolti, come foglie nel vento d’un traino impetuoso. — Rallenti, ci siamo, — disse Flavia con la voce spenta. Quando ebber lasciata la barca, Aurelio, quasi dimentico di lei, ascese solo in corsa la spiaggia verso il palazzo. Si vedevano ancora tra i fusti sottili dei salici e dei gàttici tremolare sinistramente le fiamme della processione, che s’allontanava salmodiando verso Ceresolo. Sul rialto eran sedute, in aspettazione di Flavia, la signora Boris e Luisa. — La mamma? — chiese Aurelio, trafelato dalla corsa, senza lasciarle parlare. — È rientrata, sarà una mezz’ora, — rispose la signora Boris: — non si sentiva bene.. «Lo sapevo! Lo sapevo!» gridò una voce nel cuore del giovine. Ed egli, senza salutare, si volse, attraversò velocemente il cortile, salì gli scalini a due a due tra le tenebre, si trovò con il respiro strozzato dall’affanno d’avanti alla porta della camera di sua nonna. Aperse, dopo una breve pausa. La stanza era avvolta in una penombra bronzea e oscillante. Il gran letto pareva nel mezzo un catafalco funebre, alto com’era e senza sporgenze nè a capo nè a piedi; e in torno era un vuoto di squallore. Sul comodino una candela tutta consunta mandava fumigando gli ultimi bagliori a scatti, come palpiti d’anima moribonda. Su le prime Aurelio credette che donna Marta fosse già discesa, dimenticando di spegnere il lume. Poi, d’improvviso, egli la vide là distesa, supina sul letto, ancor tutta vestita e con gli occhi chiusi, forse assopita, forse svenuta, forse forse...! Gittò un’esclamazione rauca, congiungendo le mani in atto di stupore e quasi di preghiera. Si precipitò verso di lei, mormorando tra i singhiozzi: — Mamma! Mamma! Mamma! VII. AL BIVIO. Era l’ora più calda del giorno. Aurelio aveva esplorato i sentieri che corrono su la collina tra Cerro e Laveno, quei sentieri a pena praticabili che, già un tempo comodi e spaziosi, servirono ai soldati d’Austria per salire al forte, piantato su la vetta e ora interamente distrutto. L’altura recava ancora le tracce del vandalismo militare, che per lungo periodo vi aveva regnato: nessuna coltivazione su quel pendìo dolce e terrigno dove sarebber potuti prosperare al bacio d’un sole benefico le viti e i frumenti; allignavano in vece tra l’intrico delle viottole sabbiose, l’erbe e gli arbusti selvatici, cespugli di ginepro e di timo, ciuffi di ginestre, folti tappeti di muschio e di menta, spandendo in torno l’odore aspro e aromatico delle altitudini alpestri. Non una macchia d’alberi d’alto fusto sorgeva a perdita d’occhio su i fianchi del colle arcigno, a romperne con l’ombra la radura solatìa: così gli antichi dominatori lo avevan voluto nudo e libero, come una rocca, contro le insidie nemiche. Solamente in alto, presso la sommità, una novella vegetazione di castagni era da pochi anni cresciuta, e ondeggiava docile al vento su i ruderi della trista tirannide straniera. Dopo aver girovagato a lungo e senza scopo per la collina, Aurelio Imberido, oppresso dalla caldura, s’era rifugiato al rezzo tenue di quella selva adolescente, in un punto pittoresco di fronte al lago. Ora immobile e distratto, con gli occhi smarriti nella luce, riposava il corpo affaticato, steso su l’erba come sopra un giaciglio. Da qualche giorno quella era la sua vita: i luoghi circostanti non avevan più segreti per lui; egli aveva percorso ogni sentiere, era penetrato nel più fitto delle boscaglie, aveva scoperto le vallucce più nascoste, asceso i pendii più ripidi, superato i passi più ardui. Un bisogno istintivo di moto, di distrazione, di stordimento lo spingeva all’aperto appena si trovava solo, d’avanti al suo lavoro divenutogli omai più che impossibile, intollerabile. Qualunque sforzo della volontà, qualunque freno della ragione rimanevano irriti contro l’inquietudine che ferveva nelle profondità del suo essere. Egli doveva uscire di casa e camminare; egli doveva fuggire sè stesso per ritrovarsi a ogni sosta, a ogni svolta della via e riprender da capo disperatamente la sua inutile fuga. In quei giorni le relazioni tra le due famiglie in palazzo eran divenute più strette e più cordiali; omai si poteva dire che donna Marta e le signore Boris vivessero in una specie di comunione familiare, ritrovandosi sùbito dopo i pasti, facendo le medesime passeggiate, trascorrendo insieme i pomeriggi più caldi nella frescura del cortile o in giardino al rezzo della pineta, e le lunghe serate sul rialto in vista del lago e del tramonto. Aurelio non era sempre in compagnia delle donne. Pareva anzi che cercasse di sfuggirle, di sottrarsi ai loro inviti, di tenersi estraneo più che poteva a qualunque maggiore intrinsechezza con le vicine. Ogni sera però regolarmente compariva sul rialto e rimaneva a conversare con esse fino al momento in cui tutte si ritiravano nei loro appartamenti. Le gite in barca s’eran ripetute soltanto per due volte, prendendovi parte anche le madri, e poi, interrotte da una giornata piovosa, non erano state più riprese; si eran fatte in vece alcune brevi passeggiate a Ceresolo, verso il Fortino o verso Mombello, ma ben presto si era dovuto rinunciare anche a queste per la salute di donna Marta, afflitta in quei giorni da una recrudescenza oscura de’ suoi mali. Si passavan dunque i lenti vesperi estivi invariabilmente d’avanti al palazzo, come nei primi tempi, le giovini distese su l’erba dello scalere e le madri sedute nelle loro poltroncine sul piano del rialto; e l’abitudine di quel ritrovo e l’immobilità prolungata rendevan ciarliere le quattro donne, favorivano il fluido e vano chiacchiericcio femminile, lasciando il giovine muto e come dimenticato nel suo angolo a contemplare con occhi spenti l’immutabile paesaggio e a ruminare dentro di sè propositi vani di liberazione. Egli sedeva di solito su la lastra di granito infissa nel muro, dietro le due signore; qualche volta, per incitazione di donna Marta, discendeva fin sul margine dello scalere, e si collocava sempre a fianco di Luisa, deliberatamente. Tra lui e Flavia, dopo la loro gita in barca, pareva che per ragioni occulte fosse scoppiato un sordo contrasto, un dissidio profondo delle anime che li teneva lontani, inconciliabili, sdegnosi o paurosi d’un avvicinamento. In quei convegni crepuscolari, essi non si rivolgevan mai direttamente la parola se non costretti dalla necessità; non si fissavan mai negli occhi, o almeno ciascuno dei due cessava di guardar l’altro appena i loro sguardi s’incontravano; non si stringevan mai la mano per saluto nè all’arrivo nè alla separazione. Il contegno gelido e quasi ostile di Flavia era certo per Aurelio una tortura senza nome; ma, nei momenti di riflessione, egli lo sapeva intendere e giustificare con il suo stesso contegno altrettanto freddo e sostenuto. Ciò che più l’angustiava e l’irritava era in vece la loquacità spontanea di lei, la facilità con la quale ella prendeva parte alla scipita conversazione generale, la festività imperturbabile delle sue parole e de’ suoi atteggiamenti. Questo egli non sapeva comprendere; questo non sapeva scusare: questo offuscava costantemente la sua ragione, come un’offesa brutale e ingiusta ch’ella ogni sera gli lanciasse in viso. Quando si trovava solo nella sua camera già occupata dalla notte, la ribellione del suo spirito prorompeva alfine senza ritegno. Egli sentiva crescere il suo dispetto contro Flavia e crescere la sua umiliazione per la passività colpevole con cui si prestava a quel martirio quotidiano; sentiva che un atto d’energia si richiedeva senz’indugio per distruggere il fascino maligno che lo dominava e riconquistare l’indipendenza e la serenità necessarie al suo lavoro. Non gli pareva ormai più possibile di continuare una vita simile; ed egli, come i giorni passavano senza rimedio, si rivoltava contro sè medesimo, ricercava dentro, con una smania puerile, le cause di quella sua nuova debolezza, i motivi d’un turbamento così grave delle sue facoltà. Una ripugnanza suprema gli si levava dalle radici dell’essere, al solo pensiero ch’egli potesse amare quella creatura frivola e sdegnosa; che dovesse un giorno invocare da lei la pace perduta, la forza di sopportare un’esistenza affatto diversa dal suo sogno. — No, non l’amava, non l’avrebbe mai amata. Volgendo ora a Flavia il fuoco della sua mente, provava egli forse un movimento di simpatia intellettuale o morale per lei, un fremito passaggero di tenerezza, il più tenero desiderio di sensualità? No, non provava nulla di tutto ciò; egli si sentiva il cuore arido e gelato come non mai. La sua inerzia dolorosa doveva aver dunque ben altre origini; ma quali, quali? — Nel più forte dell’incertezza, per allontanarsi vie più dall’ipotesi temuta, egli s’indugiava allora a esaminare con maggior pacatezza lo stato delle cose e dell’anima sua, a indagare dentro e fuori di sè tutte le cause possibili del male ond’era afflitto; e a mano a mano riusciva a illudersi con le più umili supposizioni, ora riversandone la colpa su la nonna che insisteva per volerlo trascinare con sè, ora imaginando un’infermità del suo sistema nervoso che l’assiduo studio e l’intensità delle concezioni dovevano avere affranto e debilitato. Esaurita l’indagine, gli pareva d’esser calmo e libero d’ogni timore: voleva coricarsi e dormire, ma un impulso cieco lo spingeva d’un tratto verso il balcone, dov’egli rimaneva lungamente immobile e ritto nell’oscurità, ad ascoltare commosso il gorgoglio delle acque nel giardino o il grido querulo dei gufi nelle altitudini della pineta. Oh, quelle notti tepide, senza luna, che abissi riflettevano nell’anima del giovine, china per la prima volta su gli abissi sacri del Divenire! Il cielo fecondo, scintillante d’astri, talvolta a pena attraversato da un’ala di nebbie, spiegava sul suo capo un poema di gioja e di passione; la campagna muta e nera spingeva verso di lui un profumo inebriante di fiori e di resine, il vasto alito della vegetazione in atto di crescere e di moltiplicarsi; il vento, che a tratti esagitava le tenebre, gli accarezzava la fronte, gli mormorava all’orecchio parole divine, rotti sospiri, gridi giubilanti, tutta la sublime sinfonia della Voluttà che il mistero delle notti protegge e consacra. In quel viluppo d’apparenze incantevoli egli a grado a grado s’obliava, si semplificava, smarriva ogni facoltà di critica e d’analisi, ogni vanità e ogni timore: si sarebbe detto che l’essere primordiale e selvatico si risvegliasse in lui, uscisse libero, fresco, infantile dalla spoglia artificiale che l’opprimeva. E questo essere si sentiva languire nella solitudine, spasimava di desiderio, agognava febbrilmente a utilizzare la sua fugace giovinezza, a crescere, a fiorire, a concedersi e a possedere, in un immenso slancio verso la felicità che integra e che crea. E l’imagine di Flavia, della Donna conosciuta e vicina, gli si levava nel pensiero, sorgeva alta e fulgida come un sole nel cielo del suo Destino. Ma l’incanto dell’Ombra e del Silenzio finiva: sopraggiungevan la stanchezza, lo snervamento, il bisogno fisico di mobilità e di luce. Il giovine si scoteva, si ritirava dal balcone, rientrava nella camera a passi incerti, con gli occhi umidi e tardi, con il cuore oppresso come da un peso immane. E il noto ordine dei mobili, la rossastra fiamma della candela, la tavola coperta di libri e di fogli dissipavan gli ultimi residui del sogno inutile, richiamandolo tosto all’amara realità della sua vita, alla consapevolezza del suo triste ideale, de’ suoi rimpianti, de’ suoi vani propositi di liberazione e di lavoro. Egli, affranto e disperato, si gittava sul letto e invocava dal sonno, dall’unico consolatore dei deboli e degli inetti, il riposo d’un’ora, l’oblìo mortale di sè stesso e del mondo. Così i giorni succedevano ai giorni senza rimedio, senza novità, senza mutamenti; e luglio in tanto era venuto e inoltrava, un luglio torrido e polveroso, essiccato da un chiarore feroce, petrificato dall’assidua bonaccia dell’aria e dell’acqua, immobili come cristalli. A rompere la torbida monotonia di questo periodo, un dubbio nuovo e inatteso era piombato d’improvviso la sera innanzi nell’anima dell’inerte, scotendone la volontà, svegliandone la coscienza, illuminandone la ragione. Non era stato che un attimo, un lampo, uno di quei bagliori fuggevoli che incendiano per poco l’oscurità e si spengono; ma in quell’attimo la latebra d’un’altra anima s’era svelata a’ suoi sensi, e un dubbio era sòrto, il dubbio dolce e tremendo d’una grande cosa ch’egli non aveva avuto il tempo di desiderare, prima di conoscere e di temere. Aveva forse traveduto? Era stata un’illusione? era stato un inganno o un giuoco? Non importava. La cosa era possibile, se anche non certa. E la sola possibilità valeva per lui, che non aveva saputo presupporla, quanto una rivelazione. La sera innanzi donna Marta, assalita durante il pranzo da uno de’ suoi più fieri accessi d’asma, non s’era potuta presentare al solito convegno vespertino d’avanti al palazzo. Dopo esser rimasto per una lunga ora ad assisterla e a confortarla durante il parossismo della crise, Aurelio l’aveva lasciata in custodia di Camilla ed era disceso, per volontà della nonna stessa, a giustificare presso le vicine l’assenza di lei. Le signore Boris, consigliate dall’insolita caldura del tramonto o stanche forse d’aspettare, avevano abbandonato il luogo di ritrovo per fare un breve giro in barca nelle vicinanze; si vedeva in fatti, su lo specchio lucido delle acque a un centinaio di metri dalla riva, la lancia dalla banderuola azzurra, che volgendo la poppa s’allontanava sempre più. Un po’ seccato dal contrattempo, egli stava già per rientrare in casa quando d’un tratto una voce forte dalla parte dell’arsenale, la voce di Flavia lo aveva chiamato. — Come qui, signorina? — egli aveva chiesto, confuso e intimorito di trovarsi solo con lei dopo tanti giorni. — Ohimè! aspetto da dieci minuti Ferdinando, ch’è in baldoria all’osteria della Pace. Ho mandato sua moglie a cercarlo, ma sembra ch’egli non abbia intenzione di scomodarsi per me questa sera!... Volevo seguir la mamma col mio nuovo sandalino, ch’è stato messo in acqua jeri per la prima volta... Un capolavoro d’eleganza, vedrà!.. Ella aveva anche soggiunto sorridendo: — Le confesso però che non mi sento totalmente sicura nella mia nuova imbarcazione.... Se lei volesse avere la bontà d’accompagnarmi, mi farebbe proprio un favore.... C’è sempre l’altro sandolino a sua disposizione, quello di Luisa. Il vecchio barcajuolo era apparso in quel punto, sbuffando e barcollando, e Aurelio passivamente l’aveva seguita. Erano usciti così dalla darsena, al fianco l’uno dell’altra su i due legni minuscoli, oblunghi e puntuti come spole. Il vespero era inoltrato; ogni rossore sopra le Alpi era spento; il lago, livido e vasto, stagnava; in mezzo al lago, lontanissima in apparenza, la macchia della lancia spiccava informe, nera, immota, simile a un piccolo scoglio emergente dal lividore. Poichè Flavia taceva, Aurelio, intenerito dalla mesta serenità del paesaggio e dai residui delle ansie recenti, aveva incominciato a parlare del male di donna Marta, delle sue apprensioni per la frequenza di quei minacciosi accessi d’asma che avrebber potuto una volta o l’altra soffocarla. Stimolato poi dall’atteggiamento confortevole della compagna, egli aveva continuato a discorrere, con un insolito abbandono, di sè stesso, della sua misantropia, del suo attaccamento esclusivo alla nonna, ch’era stata per lui più che una madre, tutto, tutto; aveva dato in fine libero sfogo al più recondito e doloroso suo pensiero, descrivendo le conseguenze terribili della sventura che gli sovrastava: la solitudine del domani, le incertezze d’un avvenire irto di difficoltà e di privazioni, senza il conforto d’un affetto, senza un appoggio, senza una casa. E a poco a poco s’era commosso, i glauchi occhi velati gli eran divenuti lucidi e tremanti, due lacrime improvvise erano apparse di tra le palpebre, gli avevan rigato incontenibili le guance. Flavia, ascoltandolo con un’attenzione intensa, fissava su lui uno sguardo carico di maraviglia e di pietà, non senza una sottil punta d’ironia. Due volte solamente aveva fatto un cenno di diniego col capo, quand’egli le aveva espresso il dubbio che la nonna morisse; poi era rimasta ferma e silenziosa ad assaporare il gusto delle sue parole, come avesse temuto con un gesto, con un’interruzione di risvegliare la sua diffidenza e di turbare l’inconscia sincerità della confessione. Quando in fine Aurelio s’era taciuto, sollevato dallo sfogo ma un po’ vergognoso della sua commozione, ella aveva parlato, lentamente, con la voce grave, guardando il vuoto d’innanzi a sè, avendo su la fronte una lunga ruga pensosa tra ciglio e ciglio. — Come vuol bene a sua nonna! — aveva detto. — Io non avrei mai supposto un sentimento così profondo in lei: l’avevo giudicato male, e lo confesso. Io la credeva freddo, indifferente, incapace d’amare, un po’ per egoismo e molto per orgoglio. Quei pochi discorsi che abbiamo avuti insieme, mi avevano fatto supporre ch’ella fosse uno di quegli uomini forti che sdegnano qualunque affetto, qualunque legame, qualunque sacrificio, per meglio riuscire al proprio scopo. Ella in vece è tutt’altro, ella è un uomo di cuore, di molto cuore... Aveva soggiunto, dopo una pausa: — Grazie; grazie, signor Aurelio, d’avermi creduta degna di conoscerla e di poterla apprezzare. Ed eran proceduti, senz’altre parole, verso le lontananze che l’oscurità incominciava ad assorbire, ambedue diversamente turbati: Aurelio sentendo piovere su l’anima il refrigerio di quell’elogio impreveduto; Flavia assaporando ancora la dolcezza di quelle imprevedute confidenze. E le due vite, disgiunte sempre da un ostacolo immane, s’eran protese con tutte le forze loro una incontro all’altra. Ella d’un tratto aveva lasciato il remo, mormorando: — Sono stanca! Egli pure, nello stesso attimo, aveva cessato di vogare e s’era fermato accanto a lei, come vinto da un accasciamento improvviso. La notte era discesa: su le acque il chiarore del crepuscolo s’era ristretto intorno ai due piccoli schifi come un cerchio cinerino; al di là l’ombra aveva avvolto ogni cosa in una nebbia azzurra, imperscrutabile. La lancia lontana, in quella nebbia, era scomparsa. I due giovini s’eran trovati così, soli e come perduti in una immensità, vicinissimi sebbene ancor divisi da una sottil lingua liquida, da un abisso. Non si guardavano, non parlavano, non avevan cercato d’accostarsi, immobili entrambi su i loro legni immobili. Ma una virtù misteriosa li aveva sospinti dolcemente uno verso l’altra, li aveva insensibilmente approssimati, aveva fatto sì che l’abisso tra loro si chiudesse e le due spole natanti, attraendosi a vicenda e scivolando silenziose su l’acqua, giungessero fino a combaciare. All’urto lieve dei legni, essi s’erano scossi sorridendo, s’eran guardati negli occhi con un’espressione infinitamente lusinghevole; e Flavia aveva levato con atto pigro una mano dal grembo, aveva preso in pugno i due bordi perchè di nuovo non si staccassero. Qualche minuto d’oblio supremo era passato sopra di loro nel crepuscolo deserto. — Esisteva una Umanità? Esistevano altri esseri su la Terra? Non eran plaghe sconosciute e inospiti quelle che si stendevano nell’ombra, oltre il cerchio ancor luminoso che avvolgeva le barche come un cerchio di magìa? Non bastavan forse le loro due vite per animare tutto il creato? — Certo, Aurelio aveva avuto in quel breve lasso di tempo la ferma persuasione d’un’assoluta solitudine intorno a loro, il sentimento netto e definitivo della loro sufficienza in un’assoluta solitudine. E, inconscio e risoluto, provando il bisogno imperioso d’unirsi all’altra creatura superstite d’un mondo inutile e distrutto, di sentirla, di mescolarsi perdutamente con lei, aveva posata la sua su la gracile mano femminile che, spontanea al contatto, s’era rivolta, quasi per offerirsi tutta quanta al suo desiderio. Oh, quella lunga stretta concorde, che solco vivo di passione aveva lasciato su le loro palme! E che grande rivelazione era stata più tardi per il giovine, ingenuo e sensibile ancora come un adolescente! Rientrando in casa, egli, dopo essere passato da donna Marta e averla trovata calma e dormente, era corso nella sua camera, vi si era richiuso a chiave, aveva spalancato i battenti del balcone per esalare alfine liberamente in un gran sospiro la piena interna della sua esaltazione, trattenuta fino a quel punto dal pensiero della nonna sofferente. Che notte, quella! Che notte! Egli non ne ricordava una simile in vita, nè credeva che fosse possibile di superarne una più agitata e più folle! Egli aveva riso, aveva pianto, aveva percorso volte infinite in su e in giù la vasta camera, era rimasto ore intere immobile sul balcone, ascoltando il tumulto del suo cuore sul fremito immenso della campagna tenebrosa. Da scoppii d’entusiasmo indescrivibili, in cui tutta l’anima sua s’era lanciata a volo verso il cielo, era piombato subitaneamente in prostrazioni supreme, in mortali desolazioni, durante le quali la terra non gli era parsa a bastanza profonda per nascondere la sua miseria. Aveva visto a vicenda le più fulgide speranze dissolversi in paurose ansietà, i dubbii più laceranti trasformarsi per prodigio in ebre, impazienti aspettazioni di gioja. Mille volte egli s’era detto: «Bisogna fuggire, non più avvicinarmi a lei, non più vederla, mai, mai!» Mille volte s’era chiesto: «Perchè non vado ora a battere alla sua porta e non la chiamo sùbito a me?» E tre parole, tre sole parole — un canto, un poema — non avevan mai cessato di ripetersi nel suo cervello sopra i timori, sopra le speranze, su i propositi di rinuncia, su i propositi di conquista: «Ella m’ama! Ella m’ama! Ella m’ama!» Che mutamento era dunque avvenuto in lui durante il breve letargo, in cui era caduto ai primi chiarori dell’alba con il dolce nome ancora impresso su le labbra? Per qual segreto processo il gran fuoco divampato quella notte nella sua anima, s’era così rapidamente consunto, ed egli, risvegliandosi, non aveva trovato se non un gran cumulo di cenere arida e fredda? Quella mattina, sorpreso dal sole, ch’era penetrato per l’aperto balcone fino al suo letto, Aurelio non aveva avuto che un ricordo confuso degli avvenimenti e delle commozioni della sera innanzi. Il tremendo accesso d’asma della nonna sua, che l’aveva tenuto un’eterna ora in cospetto della morte ad aspettare il rantolo estremo; l’incontro fortuito con Flavia presso l’arsenale; le proprie spontanee confidenze; le parole lusinghevoli di lei; la loro stretta di mano eloquentissima nella solitudine del lago oscuro; l’ansietà che lo aveva incalzato in vicinanza del palazzo al pensiero improvviso dell’avola, dimenticata durante quel tempo; la sovreccitazione quasi febbrile di gioja da cui era stato preso in vederla calma e assopita; e poi le deliranti agitazioni nella sua camera, gli impeti alterni di tenerezza e di rivolta, la vicenda vertiginosa delle risoluzioni e degli scoraggiamenti, i magici sogni vissuti a occhi aperti d’avanti alla maestà della notte, — tutto al risveglio gli era tornato in confuso alla memoria dopo la prima stupefazione, trovandosi disteso sul letto, nel sole mattutino, ancora interamente vestito e così stanco come dopo una burrascosa notte di piaceri. Un movimento brusco di dispetto contro sè medesimo lo aveva fatto balzare a terra; lo aveva spinto con violenza a chiudere le imposte del balcone, per ricacciare indietro quella luce invadente che gli dava una specie di sbigottimento misto di rabbia e di molestia. Doveva esser tardi: il giardino, visto come a traverso un cristallo leggermente torbido, languiva già sotto un’afa opprimente; nella camera, spalancata da parecchie ore al gran sole, si soffocava. Egli, dopo avere immerso a più riprese il capo nell’acqua, era uscito immediatamente su la loggia ancora in ombra, s’era trovato senza volerlo d’innanzi alla porta di donna Marta, aveva aperto, era entrato. La nonna, in un disordine fantastico, stava assisa alla specchiera, e Camilla, in piedi dietro lei, era in atto di pettinarne le lunghe trecce argentee. Ridevano entrambe così allegramente nell’ilare splendore della mattina estiva, che il giovine, apparso su la soglia in aspetto quasi funereo, aveva dovuto atteggiar sùbito il volto a un sorriso di maraviglia e di simpatia. Egli s’era seduto accanto alla vecchia, aveva ascoltato per la centesima volta una delle molte barzellette tradizionali, ch’ella si piaceva di raccontare nei momenti lieti e a seconda delle occasioni. Era poi disceso al suo braccio in sala da pranzo, dove aveva atteso pazientemente l’ora della colazione, temendo sempre di rimaner solo, sperando di sottrarsi in compagnia di lei ai rimproveri e ai sarcasmi che sentiva formicolare incessantemente in fondo al suo pensiero. In fine, quando ella era salita di nuovo in camera per riposarsi, s’era lanciato all’aperto, verso i boschi ombrosi della valle, poi su su per la china aspra e solatìa finchè stanco, madido, accecato dal bagliore, s’era lasciato cadere su l’erba al rezzo dei giovini castagni, presso la sommità del colle arcigno. Là, nella inerzia ristoratrice, udendo sopra il suo capo stormire le fronde, contemplando con occhi piccoli la placida ridente distesa del lago, egli rivisse, non più in confuso, lucidamente, pacatamente, l’ora insidiosa delle confidenze, dei conforti e dei silenzii. All’eccitazione enorme della notte era succeduta una languida apatia, uno stato d’esaurimento sentimentale assai propizio alla riflessione serena dei fatti e al giusto discernimento delle conseguenze e delle prossime opportunità; le distrazioni della mattina avevan lasciato calmare la rivolta morale, avevano estenuato negli inutili assalti i rimproveri e i sarcasmi della sua coscienza irritata. Egli poteva dunque giudicare e deliberare; egli poteva veder chiaro in sè e intorno a sè, illuminare col fuoco della pura intelligenza l’errore del jeri e gli smarrimenti possibili del domani; poteva discernere ancora nettamente la mèta lontana, che s’era imposta, e rintracciare il cammino più diritto per raggiungerla. Egli si domandò freddamente: «Che avviene dunque in me? Che vado facendo da un mese a questa parte? Come e perchè mi trovo tanto mutato in poco tempo? Sono io infermo? E il mio male è un male fisico, o non piuttosto un male della volontà, dell’intelligenza, del sentimento?» Era inutile negarlo; egli si trovava veramente mutato, così mutato che a stento riusciva a riconoscersi; si trovava pieno d’inquietudini dianzi sconosciute, d’ansietà misteriose, di desiderii inafferrabili, incerto, svogliato, indifferente a tutte le cose che prima lo appassionavano, incapace d’uno sforzo mentale come d’un qualunque atto d’energia. Da più d’un mese egli trascinava una vita desolante, senza ordine, senza idee, senza occupazioni, che simile non avrebbe mai supposto di poter tollerare; e, non ostante l’immenso vuoto, i giorni volavano, si disperdevano nel nulla con una rapidità portentosa. Pareva che fosse sopravvenuta in lui un’altra personalità nel luogo della sua propria, una personalità primitiva, elementare, che poteva pascersi di semplici sensazioni, svolgersi naturalmente senza il sostegno d’un’idealità o d’un’ambizione, accettare oscuramente l’umiltà della sua essenza, creata per uno scopo a lei inconoscibile. Malato di corpo egli certo non era. Al contrario, godeva una salute nuova, non mai avuta, resistente a ogni fatica fisica, a ogni più grave trambusto morale: il suo sangue fluiva libero e gagliardo nelle vene; i suoi muscoli s’irrobustivano; il suo viso, di solito pallido e sfiorente, sfoggiava vivacità di coloriti, freschezza di carni, limpidità di sguardi, ch’egli sùbito dopo l’adolescenza aveva perdute. Assolutamente, doveva riconoscerlo, non era mai stato così bene come in quel tempo; non mai s’era sentito così sano, così forte, così leggero. E l’aspetto esterno quanto l’interno benessere escludevano quei disturbi al sistema nervoso, ch’egli tante volte aveva addotti, illudendosi, a giustificazione della sua inerzia spirituale. «Ma dunque, non poteva esserne questa stessa la causa?» egli si domandò. «Il suo mutamento di carattere, d’abitudini, di tendenze non dipendeva forse da quell’insperato ritorno della salute, da quel soverchio rigoglio di giovinezza, da quella specie di tarda primavera che gli fioriva di nuovo maravigliosa nelle fibre?» Egli sorrise, scotendo malinconicamente il capo. — Ohimè, no, no, non era più il tempo d’illudersi: colpevole è quell’illusione che può per altri divenire un inganno! — Egli ben sapeva che la vita oziosa e spensierata di quei giorni non conseguiva dalla salute, ma piuttosto questa da quella. Egli sapeva che altra era la causa vera di tutte quante le novità che l’occupavano: omai dopo le commozioni della sera precedente, dopo gli strani turbamenti dell’ultima notte, essa gli appariva più che possibile, necessaria, evidente, irrefutabile. Bisognava però proferire la gran parola; bisognava riconoscere la grande cosa; bisognava confessare coraggiosamente la propria fragilità: «Egli amava; egli, al meno, stava per amare!» Nessuna confessione sarebbe stata per Aurelio Imberido più grave e più incresciosa di questa. Nelle sue teorie di filosofia pratica, l’Amore rappresentava una degradazione, una vilificazione della personalità, un’indegna rinuncia della propria superiorità di vita e di pensiero; l’Amore era la funzione bruta e immonda, comune a tutti gli esseri vivi, che indicava chiaramente l’ignominia delle nostre Origini, — che rammentava il Passato bestiale, la lenta evoluzione della putredine terrestre verso un progresso apparente, verso un perfezionamento relativo e inutile delle Specie, legate pur sempre alle basse necessità dell’esistenza, sempre sottoposte alle leggi incommutabili che regolano il trasmutare della materia organica. Egli negava risolutamente ogni elevazione morale nell’Amore: avendo a lungo meditato su i libri di storia e su le opere d’arte, s’era convinto che tutte le più celebrate passioni erotiche avevan distrutto e non mai edificato, erano state la ruina d’uomini insigni e di stirpi gloriose, avevano sparso in torno l’infelicità, la sventura, la morte. E, osservando quotidianamente i casi comuni della vita, aveva appreso che il sentimento dell’amore, cantato dai poeti, magnificato dalle masse, non era in verità se non il desiderio tantalico dell’amplesso, un impulso veemente verso l’atto finale, una fiamma selvaggia e divoratrice che l’indugio rinfocava e il possesso come per incanto spegneva, coprendone pietosamente con le ceneri l’ardore fittizio dei sonanti vocaboli, delle vane promesse, dei propositi generosi e sublimi. Ma non ancora per queste considerazioni astratte Aurelio Imberido temeva e respingeva l’Amore: era in vece per l’influenza malefica ch’esso esercita su gli uomini d’intelletto, su i lottatori per l’Ideale, in ispecial modo su quei Pochi capaci di belle imprese e di superbi disegni. Caduti nel dominio della passione, sorpresi dal primo brivido della sacra febbre, questi come gli altri tutti dimenticano facilmente la loro missione, i loro doveri, i loro scopi; divengono indifferenti a ogni lusinga gloriosa, ribelli a qualunque fatica e a qualunque arduo tentativo; non vedon più con i loro occhi mortali che l’Oggetto unico onde dipende omai la loro salvezza o la loro perdizione. Da quel punto lo spettacolo del mondo s’eclissa; l’esistenza diventa per essi un’azione continua e affannosa; i loro pensieri e i loro fatti non tendon più se non al successo sessuale, all’egoistica conquista del Piacere. E gli Eletti, dalle altitudini a cui s’eran levati, retrocedono precipitando verso le bassure originarie, smarriscono ingegno e volontà, vanno a confondersi fatalmente con gli infimi, occupati a vivere, a godere, a conservare per proprio diletto la Specie che non deve finire. Quante ascensioni interrotte! quante carriere sviate o infrante! quante energie disperse! quante primavere gelate! Quanti fiumi, gonfii da fecondare immense contrade, s’inaridirono sul seno della Donna, nudo, morbido, cocente come le sabbie d’un deserto! Questa, l’eterna Sirena, non comprese e non ammirò mai gli esseri superiori, o troppo forti o troppo belli: li umiliò, disamandoli, e, amandoli, li distrusse. Così, inconscia, compì nei secoli la sua terribile missione espiatrice, ridendo, scherzando, cercando per giuoco la voluttà e la prole; e non ebbe pure un palpito di riconoscenza o di pietà per le sue grandi Vittime, quando le vide, già prossime a entrare nel paradiso conquistato, accontentarsi ancora del misero destino comune e avviarsi, per amore di lei, verso le Terre dell’Oscurità e della Morte! Queste profonde cose il giovine ripensava in confuso, vagando con gli sguardi sul calmo paesaggio lacustre, pieno di luce e di gajezza. Alcune vele quadrate apparivano qua e là, dirette verso settentrione, così tarde da sembrare immobili. Un piroscafo presso Intra lanciava nell’aria un’enorme colonna di fumo nero, che si torceva in grosse spire senza dissolversi. Le nevi del Sempione, in fondo alla valle velata, erano pallidamente celesti e parevan fondersi nell’orizzonte. «Ed io amo!» egli esclamò d’un tratto, interrompendo il corso delle idee generali: «io, al meno, sto per amare!» Se pure la grande passione, che inebria i sensi e offusca l’intelletto, non era peranco scoppiata, i sintomi precursori, manifestatisi in lui, non eran dubbii e l’annunziavano vicina; e alla stregua di quei sintomi il morbo doveva esser fatale! — Occorreva dunque trovar sùbito un rimedio per prevenirlo in tempo, per arrestare il progresso dell’infezione, per riacquistare al più presto la sua salute morale e la sua incolumità. Ma quale, quale rimedio? Il più sicuro era ineffettuabile: egli non poteva lasciar la villa senza la nonna sua, ed era certo che questa non l’avrebbe seguíto, anzi che avrebbe contrastato il suo proposito con tutte le forze. E, rimanendo, come avrebbe egli potuto evitare ogni occasione di ritrovo con le signore Boris e specialmente con Flavia, che forse ora, desiderandolo, lo avrebbe cercato? — E pure questo era necessario e doveroso: necessario per la sua pace e per il suo avvenire; doveroso verso la giovinetta, che poteva illudersi su le sue intenzioni e soffrire immeritatamente per la sua debolezza. Ma se la nonna o l’abitudine o la sorte lo avessero ricondotto presso di lei? Se si fosse trovato un’altra volta solo con lei in uno di quei momenti di tristezza e d’abbandono, in cui non si risponde dei proprii atti e delle proprie parole? Se la catena fosse ribadita un giorno, inaspettatamente, con una frase, con un gesto, in sèguito a un movimento repentino e concorde delle due anime già pronte a fondersi? Ciò non era fuori della possibilità: il cammino degli uomini non è quasi mai segnato dai grandi fatti, preparati di lunga mano e pazientemente voluti; ma dai piccoli episodii imprevisti, dalle circostanze sempre mutevoli, dalle risoluzioni subitanee e inconsiderate, che impongon poi serie responsabilità e provocano, come dirette conseguenze, gli avvenimenti più gravi e decisivi della vita! In tal caso, egli da un momento all’altro si sarebbe trovato di fronte a un fatto compiuto, all’irreparabile, all’oscuro problema dell’amor casto, della passione corrisposta e insodisfatta, al bivio spinoso della conquista estrema o dell’estrema rinuncia! Lentamente, trascinato dall’ardore dell’imaginazione, egli si diede a esaminare questa possibilità, come già si fosse avverata; a sviscerare con sottile analisi il problema, per ricercarne tra le varie soluzioni quella che sola avrebbe salvato insieme il suo Ideale e la tranquillità della sua coscienza. Pensava: «Io potrei sempre fuggirla, anche più tardi, anche quando fosse sopravvenuto un accordo esplicito tra noi: la partenza dalla villa mi separerebbe necessariamente da lei, e il tempo e la lontananza sanerebbero poi ogni ferita. Ma, secondando in questo modo gli eventi, non commetterei un’azione obliqua e sleale? Non mi farei complice d’un inganno consapevolmente, volontariamente, colpevolmente?» Aurelio si rammentò di quell’Altro, del primo adoratore di Flavia, il quale aveva agito precisamente così ed egli aveva con tanta severità giudicato; ed ebbe un moto di rivolta morale contro sè stesso, contro il suo pensiero che s’era per un istante compiaciuto nella certezza d’una comoda liberazione. «Ah, no, no! Io questo non farò mai! Non mi sottrarrò mai per paura o per calcolo alle responsabilità assunte! Io sono diverso, sostanzialmente diverso da codesta gente borghese, che pecca per debolezza e si rinfranca per viltà. Altro sangue scorre nelle mie vene; e altra legge presiede alla mia condotta. Se un giorno per disgrazia dovessi trovarmi legato a Flavia da una promessa, da una semplice confessione d’amore, saprei senza dubbio sopportarne con dignità qualunque conseguenza... Ma qual conseguenza? «Flavia era zitella, in quella età nella quale tutte le speranze e tutte le forze della donna tendono a toglierla dalla casa paterna per creare una casa propria, per ottenere da un nuovo stato l’indipendenza di sè stessa e la direzione d’una famiglia. Ogni intesa sentimentale con lei presupponeva dunque una conclusione unica e necessaria; egli, confidandole il suo amore, si sarebbe moralmente obbligato a darle il suo nome, a chiamarla compagna della sua vita, a consacrarle intero il suo avvenire; egli, salvo casi imprevedibili, avrebbe dovuto sposarla! «Sposarla?!» egli esclamò stupefatto dal suono stesso della parola, levandosi d’un tratto a sedere. Ed ebbe una specie di sussulto intimo istintivo, simile a quello che si prova talvolta quando, camminando distratti per le vie, ci sembra d’udire improvvisamente il rullo minaccioso d’un carro dietro le spalle e ci si avvede poi, rivolgendoci spauriti, che il carro passa senza nostro pericolo dall’opposto lato della strada. Aurelio sorrise sùbito del suo stupore ingiustificato e del suo atto repentino: la sola enunciazione della cosa gli parve così enorme e quasi così assurda che assunse, nel suo spirito calmo e sereno, aspetto ridicolo. «Che cosa buffa, la vita!» egli si disse, sogghignando e scotendo il capo: «Sposarla?! In verità, basterebbe quest’unica prospettiva a tenermi recluso nella mia camera per un anno intero!» Il suo pensiero, abituato alle gravi meditazioni, parve sdegnare l’argomento che non era a bastanza serio e positivo; si distrasse per qualche istante nella contemplazione delle cose remote, del lento declinare dei colli dalla parte d’Arona, dove il lago sembrava allargarsi infinitamente come un mare morto. Il vento cessava: le barche calavano le vele a una a una, malinconicamente, e prendevan da lontano l’apparenza d’insetti bizzarri che camminassero a passi faticosi sul piano delle acque. Il piroscafo, ingrandito dalla vicinanza, entrava fischiando nella baja di Laveno. Di nuovo però, dopo la percezione della pace circostante, Aurelio, (proprio come chi abbia temuto un pericolo anche imaginario), fu tratto a mano a mano, senza volerlo, a costruire compiutamente quella vaga possibilità e a considerarla con riflessione, quasi fosse già sul punto d’effettuarsi. — Chi era dunque costei? Egli la conosceva da poco tempo e poco la conosceva: era per lui un’estranea, un’ignota piombata d’improvviso nella sua esistenza per impadronirsi d’una parte del suo essere, per contendergli la libertà del suo tempo, forse per troncare il filo del suo destino. Nelle ore che aveva vissute con lei, ella gli era bene apparsa sotto le forme esteriori più lusinghevoli, ma nulla gli aveva rivelato dell’anima sua, de’ suoi gusti, de’ suoi istinti, de’ suoi desiderii, della sua intima essenza. Era ella buona? era sincera? era pura? Non celava forse, sotto la dolcezza del sembiante e l’innocenza degli sguardi, la vergogna o la smania insodisfatta d’un fallo, la maligna curiosità della donna indifferente o la terribile leggerezza della donna vana, desiosa di lusso, di piaceri, di licenza? Aveva veramente amato quell’Altro? Cedeva ora di nuovo alla passione, o la fingeva per giuoco e per vanità? Era dunque capace d’amare, di sacrificarsi, di comprendere e d’offrirsi? — Egli non sapeva nulla, nulla! E quel lembo stesso del suo passato, che gli aveva voluto scoprire, lasciava l’adito a mille supposizioni diverse, non rendeva se non più oscuro e inquietante il mistero della sua bellezza. E la sua famiglia? Era essa degna d’imparentarsi con lui? I Boris erano d’infima origine: insòrti solo da pochi anni dal torbido gregge degli umili, essi erano giunti rapidamente all’agiatezza e forse omai all’opulenza per le vie tortuose della speculazione e dell’intrigo. Il padre Boris, che portava il titolo d’ingegnere senza esercitarne la professione, era notissimo in Milano come amministratore d’alcune grandi famiglie e come iniziatore di parecchie imprese più o meno fortunate. Coinvolto nei più gravi disastri finanziarii, che avevano scosso negli ultimi tempi la metropoli lombarda, egli n’era sempre uscito senz’onta e senza danno, acquistando anzi, a traverso le stesse disavventure della sua instancabile avidità, reputazione e stima sempre maggiori. Ora al sommo della possanza, egli ambiva a divenire un uomo pubblico, a conquistare un posto autorevole, a insediarsi comodamente al Comune tra i degni rappresentanti del Popolo che lavora e che soffre. Attivo, astuto, intraprendente, egli poteva dirsi il tipo perfetto della nuova classe dominatrice, che sa sfruttare con esperta mano il giovine albero della libertà; egli era veramente l’incarnazione della odierna borghesia trionfante, sorretta da un egoismo feroce, capace di qualunque simulazione, prosternata fino a terra d’innanzi all’altare dell’Oro. Per un uomo simile, il matrimonio dell’unica figliuola con un nobile d’illustri origini, sarebbe stato certo il coronamento d’un gran sogno, il trionfo più insigne di sua vita. Con ogni probabilità, in quel giorno, avrebbe in fine aperto i forzieri gelosi, dov’era andato accumulando il frutto della sua perspicacia, e dai lastrici, pazientemente battuti anche negli anni della fortuna, si sarebbe compiaciuto di veder trascorrere in cocchio per le vie popolose la contessa sua figlia, rifulgente di beltà e d’orgoglio. — Ma poteva egli, Aurelio Imberido, accettare un contratto di quel genere? Poteva vendere il suo nome alla vacua ambizione d’un plebeo arricchito? Ed era certo che Flavia lo avrebbe sposato per lui e non per la vanità, comune a tutte le femmine, di divenire la moglie d’un nobile? Aurelio pensò alla rovina economica e sociale di tante magnifiche schiatte, private nell’ultimo secolo d’ogni potestà, scomparse lentamente nelle tenebre per lasciare il posto ai nuovi venuti; pensò alla sua stessa famiglia, già un poco corrotta nel sangue, piombata nell’indigenza, forse vicina a scomparire per sempre con lui dalla faccia della terra. E per un istante l’idea d’un figliuolo, d’un erede, d’un continuatore occupò tutta la sua mente; fece tacere in lui ogni scrupolo morale, ogni timore, ogni objezione dell’amor proprio. Non aveva egli un dovere da adempiere verso i suoi maggiori, che gli avevan trasmesso un nome glorioso e un’impronta profonda di superiorità? Non era egli in obbligo di conservare quel nome e quell’impronta alle generazioni venture? E perchè dunque non avrebbe seguito l’esempio di tanti suoi pari, i quali, spogliati dei loro averi e delle loro attribuzioni, s’erano risollevati, accettando un’alleanza di sangue con quegli stessi che li avevano sopraffatti? «Ah, no, no!» egli gridò d’un tratto, in una ribellione di tutta la sua coscienza. Quei suoi pari egli aveva sempre disapprovati; li aveva anche condannati ne’ suoi scritti come i più acerrimi nemici della tradizione aristocratica; poichè, portando un nome superbo, lo avevano esautorato e avvilito, mercanteggiandolo, cedendolo su la piazza al maggiore offerente. I figli di costoro, se pure potevan chiamarsi per forma i legittimi discendenti di stirpi illustri, avevan però nelle loro vene un sangue spurio, eran bastardi creati da un connubio ineguale, espulsi da un alvo plebeo, cresciuti in un ambiente corrotto. La nobiltà non aveva più alcuna ragion d’essere, se non cercava di mantenersi immune dal contagio borghese, se non sapeva conservarsi estranea e indifferente al trionfo fittizio dei finanzieri e dei bottegai. Questi eran riusciti a usurparne le ricchezze? la nobiltà, per riconquistarle innanzi tempo, non doveva, no, cedere ad essi il più sicuro de’ suoi privilegi: quello del nome e del sangue. Così l’Imberido aveva crudamente asserito in uno degli ultimi articoli pubblicati su la Rivista, che tante discussioni e tante critiche aveva sollevate tra i suoi stessi ammiratori. Ora, che valore avrebbero poi avuto la sua parola e il suo apostolato, quand’egli avesse in tal guisa trasgredito alle sue massime sociali? E con che severità l’atto contradittorio sarebbe stato giudicato, non solo dagli avversarii, ma dai medesimi suoi amici? Certo, tutto il suo piano sarebbe d’un colpo crollato sotto il peso della diffidenza e del ridicolo, e le macerie avrebbero sepolto per sempre il suo decoro e la sua ambizione. Sarebbe in sèguito bastata la ricchezza a compensarlo di tanta perdita? E avrebbe egli potuto sopportare un’esistenza da parassita gaudente nella casa d’un estraneo? Ahimè, egli non avrebbe durato un mese in una condizione simile: con il suo orgoglio e con la sua ombrosità, in ogni sguardo della moglie o del suocero avrebbe letto un tacito rinfacciamento, un’affermazione di padronanza su di lui, un’intenzione di sindacato su le sue azioni, assolutamente intollerabili. Egli, per sottrarsi alla tortura umiliante dei sospetti e dei rimproveri, sarebbe andato ben presto alla ricerca d’un guadagno, d’una qualunque occupazione proficua, del più umile degli impieghi. E così la sua vita si sarebbe consumata inutilmente in opere ingrate e ingloriose, al contatto di gente diversa da lui, tra i rimpianti implacabili d’un bel sogno volontariamente distrutto. «No!» egli esclamò, concludendo quel sèguito serrato di considerazioni. «Io non mi credo degno d’una tal sorte! Io non mi voglio trovare nella necessità morale di sacrificarmi! Suprema jattura sarebbe per me s’io sposassi Flavia: io debbo dunque fin d’ora evitarla, fuggirla, dimenticarla.» La sua mente era stanca; la luce intensa del pomeriggio, che s’insinuava a poco a poco tra i fusti sottili, aveva appesantite le sue palpebre. Il giovine chiuse gli occhi, s’abbandonò con un moto lento, supino su l’erba, sostenendosi il capo con le due mani intrecciate dietro l’occipite. Una gran calma si faceva dentro di lui: il suo pensiero, affaticato dal lungo dibattito, ottuso dalla canicola, parve distendersi mollemente, come il suo corpo, in un’inerzia sonnolenta. Qualche imagine vaga e indistinta si rifletté per un attimo su lo sfondo rossastro delle palpebre abbassate, si modificò, si trasformò, disparve. D’un tratto il sembiante di Flavia, sorridente e con gli sguardi luminosi, si disegnò ben chiaro nello spazio fantastico, e diede una sùbita accelerazione ai palpiti del cuore. Alcune parole risonarono disperse nel silenzio del suo cervello, come proferite all’orecchio di lui da una ben nota voce femminea: «Ho amato e non amerò più.....» Poi, sùbito: «È vero: gli assomiglia negli occhi, nella bocca, specialmente quando parla e ride...» In fine: «L’avevo mal giudicato. Ella in vece è un uomo di cuore, di molto cuore.....» Egli si scosse con un movimento brusco di tutto il corpo, aperse gli occhi, li fissò, abbacinati e come ciechi, d’innanzi a sè, sul paesaggio inondato dal sole. Il più piccolo romore non rompeva il sonno della natura: non un soffio di vento, non un murmure d’acque, non una voce, non un latrato, non un’eco di lavoro lontano. Istintivamente, offesi dal chiarore, i suoi sguardi s’abbassarono verso il suolo: a pochi passi da lui, su una zolla nuda tra i ciuffi arsi dell’erbe, giaceva riverso il corpo esanime d’una grossa lucertola con il capo schiacciato. La minuscola spoglia, abbandonata dal destino in quel luogo deserto, attrasse l’attenzione del giovine. Egli pensò, osservandola, alla fragilità di tutti gli organismi viventi, all’inutilità d’ogni esistenza, al potere formidabile della Morte, che nessuno risparmia, che ogni essere indifferentemente colpisce. Contava egli nell’armonia dell’universo più di quella semplice creatura inconscia, che il piede d’un fanciullo era bastato ad arrestare d’un tratto nel suo cammino e a distruggere? Aveva egli una sorte diversa dalla sua? Una profonda mestizia l’invase. Egli sentì il tempo fluire irreparabilmente, le cose disperdersi nella vanità dello spazio, le ambizioni e i desiderii perire. Egli sentì che la vita è triste, e che oltre la vita son tristi anche le speranze. E una voce ammonitrice gli disse: «Guardati dalla Chimera! Il tuo sogno è fastidioso, è stupido, è vano. Affrèttati, giovine, a godere quello che la realità ti offre, prima che le tenebre ti circondino.» E la stessa voce sùbito dopo soggiunse: «È vero che la vita è breve, e i suoi piaceri son caduchi e velenosi. Perché dunque vivere di realità e non d’illusioni? Un giorno tutto sarà nulla: che importerà allora se tu avrai goduto o avrai solamente sognato?» VIII. UNA FESTA. Da tre lunghi dì Aurelio Imberido non si faceva più vedere dalle vicine. Chiuso nella sua camera quasi tutta la giornata, egli lavorava con gran lena, si sprofondava nelle più gravi letture, dominava così i suoi desiderii fino a illudersi d’essersene interamente liberato. Ogni sera poi, sùbito dopo il pranzo, usciva dal palazzo prima che le Boris avessero occupato il rialto, si dilungava in prolisse passeggiate meditative su i colli circostanti, e, approfittando del plenilunio, non rientrava in casa che a notte inoltrata, quando era ben sicuro di non più incontrarle. Il quarto giorno (era di domenica) donna Marta, che aveva già dato qualche segno manifesto di mal umore, apparve inaspettatamente su la soglia della sua stanza, mentr’egli stava a tavolino scrivendo, e gli disse con accento imperioso che non ammetteva contradizioni: — Scusa se ti disturbo. Bada che questa sera siamo invitati in casa Boris. Non si può mancare, perché l’invito ci viene dall’ingegnere medesimo e si tratta d’una festa di famiglia: del compleanno di Flavia. Alle sei precise tròvati abbasso: io ti aspetterò. Gittato uno sguardo dominatore sul nipote, richiuse con uno strappo brusco l’uscio e disparve. Quando donna Marta al braccio d’Aurelio entrò nella sala dei Boris, la conversazione vi ferveva animatissima. Il luogo era quasi oscuro: dalle anguste finestre penetrava un chiaror pallido che lasciava in ombra la maggior parte del vano; in quell’ombra irriconoscibili eran sedute diverse persone, che all’apparire dei due invitati si alzarono, interrompendo i loro discorsi. L’ingegnere si fece incontro a essi, facendo un profondo inchino cerimonioso e un gesto largo con le mani come per abbracciarli: — Signora contessa, quale onore.... Signor conte, son ben lieto di rivederla in casa mia... Porse mollemente la destra alla vecchia signora e ad Aurelio che, stringendola, provò di nuovo a quel contatto languido e passivo un senso di ripugnanza, invincibile. Poi chiamò a sè gli altri invitati, e fece le presentazioni. — Donna Marta Imberido, il conte Imberido, suo nipote; l’avvocato Maurizio Siena, il mio giovine amico Giorgio Ugenti. Aurelio sorrise ironicamente, abbassando il capo d’avanti a due giovinotti quasi imberbi, uno altissimo e sottile, l’altro basso e tarchiato, che s’affrettarono a stringer la mano a sua nonna e a lui, senza un atto di sussiego o di deferenza, con grande semplicità, come tra camerati. Donna Marta sedette sul divano insieme con Luisa; i quattro uomini si fermarono a discorrere in mezzo della sala. L’Ugenti, il più alto, biondo, con due esigui baffi su una bocca freschissima e un gran naso cartilaginoso e arcuato in mezzo alla faccia oblunga, parlava del gran caldo in città, delle sue occupazioni faticose, del desiderio, per lui ineffettuabile, di passare una quindicina di giorni libero e tranquillo alla campagna. L’altro, un tipo ebraico dall’espressione penetrante e sarcastica, nerissimo d’occhi e di capelli e olivastro di carnagione, asseriva in vece, sogghignando, che la città non è mai così piacevole come in estate, quando la società elegante l’ha disertata e le notti brevi son tepide come giorni di primavera senza la noja del sole. Incerto tra i due, l’ingegnere ascoltava entrambi con visibile compiacenza, e approvava a tratti indifferentemente or l’uno or l’altro con un cenno rapido del capo, con un’interjezione ammirativa, con qualche breve osservazione in cui si ripetevan sotto forma diversa le stesse cose dette prima da’ suoi interlocutori. Mentre i tre discorrevano, Aurelio, muto nel crocchio, considerava con attenzione il padre Boris, che rivolto verso la finestra era in piena luce. Il suo viso rugoso dai lineamenti grossolani, dalle labbra sottili, dalle mascelle robuste, dalla fronte stretta, limitata da una folta capigliatura setolosa, sarebbe parso quello d’un contadino, se non fosse stato corretto da due fedine diplomatiche, a pena un po’ brizzolate alle estremità. Alto, ossuto, muscoloso, quell’uomo, non ostante la potenza della sua complessione, aveva nei gesti, nelle attitudini, nel suono della voce, sopra tutto negli sguardi, una espressione così mite, umile o paurosa, che a poco a poco d’avanti agli occhi dell’osservatore perdeva ogni apparenza di forza e di salute. Sopra tutto i suoi sguardi eran degni di studio e d’attenzione — pallidi sguardi obliqui e pietosi, che si volgevano in torno pateticamente come per rassicurare, per confortare, per ammansare un nemico o per procurarsi un complice; pallidi sguardi indulgenti, che sembravan dire a chiunque si dirigevano: «Tranquillizzati: io non ti voglio rovinare; io ti desidero amico; io non ti tradirò mai, se per caso conoscerò un tuo fallo segreto; noi siamo fatti per intenderci e per ajutarci a vicenda.» Il giovine, a ogni incontro de’ suoi con quegli sguardi ambigui, sentiva crescer dentro l’ostilità sorda che nudriva contro il Boris, come una specie d’antipatia di razza che glie ne rendeva intollerabile perfino la vicinanza. Una porta s’aperse. La signora Teresa entrò, dicendo a voce alta: — Signori, la zuppa è in tavola. Portava un abito pomposo da teatro, di tinta viva, quasi scollacciato, tutto adorno di trine preziose, scintillante di vetri e d’ori. Flavia, in una veste bianca semplicissima, la seguiva recando nella mano una lucerna. Si scambiarono saluti e augurii; l’ingegnere presentò agli Imberido una sua sorella, esile e smunta, ch’era entrata nella stanza, inosservata, dietro la signorina Boris; poi tutti, confusamente, si diressero verso la sala da pranzo, conversando, ridendo, annusando il buon odore che si propagava in torno dalla cucina contigua. Aurelio veniva ultimo al fianco di Luisa. Questa, a un tratto, si appoggiò fortemente al suo braccio e gli disse piano all’orecchio, indicandogli l’ebreo che li precedeva: — Vede? è un pretendente alla mano di Flavia! Chi sa che stasera non si combini qualche cosa in famiglia! Diede in una risatina acutissima, guardò bene il giovine negli occhi, e lo lasciò bruscamente senz’altro aggiungere, correndo innanzi alla conquista del suo posto. La mensa, ben rischiarata dalle sedici fiamme di due alti candelabri di bronzo, aveva un aspetto di gran lusso. L’argenteria copiosa e massiccia, il vasellame miniato in oro, la finezza della biancheria cifrata e frangiata, parlavano in vero della ricchezza degli ospiti, ma rivelavano altresì, nella loro lucente e inestetica novità, la recentissima fortuna di questi e il loro gusto volgare nel prediligere i prodotti dell’industria moderna alle creazioni dell’arte. Nessuna cosa memore, nessun oggetto singolare rompeva su quella tavola oblunga la monotona uniformità di quegli utensili comuni, segnati da un marchio esatto, fusi in cavi inesauribili o copiati da mani mercenarie, simili in tutto a mille altri utensili offerti nelle vetrine delle botteghe all’anonima richiesta dei passanti. Sedettero intorno alla mensa l’ingegnere, tra donna Marta e Flavia, poi in ordine l’avvocato Siena, la signora Teresa, Aurelio, Luisa, l’Ugenti e in fine la sorella del Boris. Aurelio aveva quasi di fronte Flavia e il pretendente, che lo guardava sotto le lenti da miope con un’ostinazione pressochè offensiva. Le conversazioni non tardarono a esser riprese con grande vivacità. L’Ugenti, espansivo e ciarliero, aveva prima tenuti allegri i commensali con i racconti delle sue prodezze infantili, che lo avevan reso uno tra i più temuti e i più battuti fanciulli terribili; ora il Siena, per contrasto, li annoiava tutti, narrando con pedanteria curialesca e con una certa solennità di gesti e di parole il caso d’un giovinetto perverso, che egli aveva in quell’anno difeso d’avanti al tribunale per ferimento volontario d’un coetaneo e che, assolto per merito suo, era stato poi rinchiuso in una casa di correzione. La sua voce tra gutturale e nasale, regolata da una cantilena continua, a ogni minima interruzione s’elevava bruscamente di tono e squillava come per dominare un tumulto. Udendolo, osservandolo, Aurelio pensava: «Flavia lo potrà amare? potrà esser felice con un uomo simile?» E le parole maligne di Luisa gli tornavano alla mente, riempiendogli l’animo di rancore e di desolazione. Pensava: «È possibile ch’ella accetti? È possibile che ella non sappia distinguere? ch’ella sia affatto indifferente tra me e lui? che almeno, ricordandosi di me, non abbia un’esitazione prima d’acconsentire?» Guardava ora la giovinetta, che pareva attentissima al discorso dell’ebreo. Nulla sul suo viso che indicasse il più tenue turbamento sentimentale, un passaggio di memorie, un assalto di rimpianti, uno sforzo della volontà per nascondere agli estranei l’intima sua inquietudine. Ella, che aveva riso con spontanea gajezza ai racconti dell’Ugenti, ascoltava adesso seria seria la cantilena prolissa e tediosa dell’altro, senza un moto d’impazienza, senza mai rivolgere uno sguardo fuggevole a lui che fissandola lo chiedeva. Aurelio pensò, vedendo accanto a lei il Boris: «Ella è la figlia di quell’uomo basso e volgare. Qual maraviglia se ne ha ereditato gli istinti e le ambizioni? Il pretendente deve esser ricco, avaro e laborioso: ecco tre ragioni formidabili per non rifiutarlo.» Egli considerò a più riprese, alternativamente, il padre e la figliuola, cercandone le rassomiglianze. In verità costui, non ostante la rozza semplicità del sembiante, poteva ben dirsi la maschera deforme di lei: aveva la medesima fronte angusta, lo stesso color grigio degli occhi, un’analoga struttura del capo; perfino la bocca grande e quasi sdentata rammentava quella bellissima della erede nel colorito acceso della pelle, nel sorriso, specialmente in una certa piega amara, che si formava nei momenti d’attenzione a un angolo delle labbra. Erano entrambi dello stesso sangue, discesi per linea diretta l’una dall’altro, frutti successivi d’un medesimo albero, le cui radici s’affondavano in un terreno incolto e malnoto; dovevan dunque agire entrambi sotto identici impulsi, correre verso una mèta comune, desiderare un unico destino! «Ma perchè m’occupo tanto di lei?» egli si domandò d’un tratto. «Che mi fa s’ella sposa quell’ebreo pedante a preferenza d’un qualunque altro? Io, certo, non la sposerò mai. Dunque?» Cercò di sottrarsi in qualche modo al pensiero molesto che lo perseguitava, di cancellare dalla memoria la confidenza insidiosa della bionda. Volse perciò in giro uno sguardo indagatore ai suoi commensali: notò che l’ingegnere e sua sorella portavan spesso il coltello alla bocca, se ne servivano per scalcare il pesce, non indugiavano per semplicità a metter le dita sul piatto; anche notò che la sorella in distrazione s’asciugava talvolta le labbra e il mento col lembo della tovaglia. S’accorse, osservando bene il giovine Ugenti, che questo teneva appeso alla catena dell’orologio un distintivo a lui ben noto, la medaglietta d’argento con l’effigie di Carlo Marx, l’apostolo del Socialismo. S’accorse che il Siena aveva le unghie lunghe, adunche, non ben polite. Un senso istintivo di molestia, d’insofferenza, quasi di soffocazione, quel senso che assale spesso nelle strette d’una calca, si diffuse rapidamente nel suo essere, parve salirgli alla gola e stringerla a forza, rendendogli impossibile di trangugiare un sol boccone di più. Egli si sentiva male tra quella gente diversa da lui; si sentiva assolutamente isolato, poichè anche sua nonna, in quell’ambiente ch’era già stato il suo, s’era a poco a poco dimenticata delle abitudini apprese, s’era confusa con gli altri e discorreva ora animatissimamente con la sorella del Boris, come si discorre soltanto con una sua simile. La signora Teresa si volse a lui e gli disse per la decima volta: — Perchè non mangia? Perchè non beve? Egli rispose: — Grazie, ne ho a bastanza. Io mangio sempre poco.... — Ma se non ha mangiato niente! Via, conte, si faccia coraggio!.... Prenda ancora qualche cosa, almeno per farmi piacere. E gli afferrò il piatto, glie lo riempì di nuovo fino all’orlo. Il pranzo era interminabile. L’ingegnere, un po’ acceso dalle abondanti libazioni, proponeva ora una gita in compagnia sul Motterone per una delle domeniche successive; e il Siena, sempre freddo e solenne, si scusava di non poter parteciparvi in causa delle sue occupazioni, salvo che non la si rimandasse almeno di due settimane. — Ah, — gridò d’un tratto l’Ugenti; — non vorrei poi che coincidesse proprio col giorno delle elezioni, perchè in tal caso dovrei mancar io, e ne sarei desolatissimo. — E che ti fa se ci sono le elezioni? — chiese ridendo il Boris. — Caro ingegnere, la disciplina del partito esige la mia presenza. Se ciascuno s’astenesse per una causa o per un’altra fidandosi del voto dei correligionari, nessuno naturalmente voterebbe, e gli avversarii, i cari borghesi, trionferebbero in eterno. Nel caso presente poi si tratta d’una grande battaglia; e la vittoria sarà certo strepitosa per noi socialisti purchè si vada tutti compatti alle urne. Il Boris rise del suo riso blando, pieno d’indulgenza, e disse scotendo il capo: — E quando bene avrete vinto?.... — Avremo un deputato di più al Parlamento: saremo su la via di diventar maggioranza e di imporre le nostre leggi anche a chi non le vuole. — Lei crede? — chiese l’Imberido con sottile ironia. — Fermamente, — rispose serio e convinto il giovine, volgendosi a lui senza rancore. — Noi siamo i trionfatori del domani, poiché la nostra idea va guadagnando, ogni dì più, terreno e potenza. — Dica meglio: la loro retorica, perché l’idea è piuttosto astrusa e complicata e non si presta troppo ad adattarsi nelle teste ottuse in cui la si vorrebbe trapiantare. Ma ammettiamo pure che sia l’Idea che trionfi, ammettiamo pure che i socialisti si conquistino tutti i cinquecento seggi del Parlamento; io nego sempre che i loro sogni febbrili possano per questo semplice fatto divenire realtà, come nego che l’êra della felicità universale abbia a essere mercè loro inaugurata. — E perché, di grazia? — domandò l’Ugenti sempre con grande cortesia. — Perché l’avvento del Socialismo non esige soltanto una riforma economica e sociale, già un poco fantastica com’è quella che si propone; ma sopra tutto una riforma delle anime e delle coscienze. Esige un’umanità diversa dalla nostra, rinnovata dalle fondamenta; esige l’abolizione assoluta di tutti gli istinti e i sentimenti che animano o muovono gli uomini sul nostro povero pianeta. Questo, almeno che io sappia, non si può ottenere né con la ragione né con la forza: e non lo si otterrà, mi creda, nemmeno con una legge votata all’unanimità dal suo Parlamento di socialisti. L’Ugenti che, mentre Aurelio parlava, continuava a scrollare il capo in atto di diniego, s’alzò bruscamente in piedi per rispondere con maggior forza a’ suoi argomenti. Il Siena però, attento e impassibile al suo posto, lo prevenne. — Io non sono socialista, — egli disse con la sua voce nasale, con il suo accento cattedratico — o almeno non sono collettivista nel senso etimologico della parola. L’abolizione della proprietà privata è, secondo me, una riforma ineffettuabile. Ma, ciò non ostante, mi guardo bene dal giudicare il Socialismo con la severità sdegnosa e con l’antipatia manifesta con cui il signor Imberido lo condanna. Lo spettacolo delle sofferenze umane, delle ingiustizie sociali non mi può lasciare inerte, estraneo, indifferente a osservarle o a giustificarle. Io considero quindi le nuove teorie come il risultato ancora imperfetto d’una ricerca nobile e generosa per alleviare le une e per rimediare alle altre. Sotto questo aspetto, bisogna riconoscerlo, il Socialismo è un’idea altamente rispettabile, che merita l’appoggio di tutti i buoni e il soccorso di tutti gli intelligenti. L’Ugenti, ch’era rimasto ritto in piedi, approvò romorosamente; il Boris stesso annuì col capo, sorridendo; Flavia, che aveva fatto cenni palesi d’assentimento a ogni pausa dell’avvocato, battè in fine le mani e gridò con trasporto, guardando per la prima volta negli occhi l’Imberido: — È vero! È vero! Allora un’esasperazione subitanea prese Aurelio. L’antipatia fisica, che provava contro l’avvocato pedante, il pensiero geloso che Flavia fosse per appartenergli, il rancore, che avevan mosso in lui quelle approvazioni concordi e specialmente l’esclamazione entusiastica della giovinetta, lo fecero sussultare su la sedia e atteggiare il viso a un’espressione amara di disprezzo e di sarcasmo. Egli disse con la voce aspra e altezzosa: — Questa è appunto la parte retorica del Socialismo, alla quale accennavo pocanzi e che costituisce tutto il suo fascino e tutta la sua virtù. Ma la retorica è sempre stata retorica; e con le vuote promesse, con le false lusinghe, con le descrizioni fantastiche d’un meccanismo sociale imperfettibile, non si ha, no, il diritto di mettere a soqquadro il mondo intero, d’aizzare le masse brute alla ribellione, di preparare al prossimo avvenire giorni criminosi di stragi, di rapine e di vandalismi.... L’Ugenti fece l’atto d’interromperlo. — I socialisti — egli continuò risoluto — con qualche proposta generica, che basta un ragionamento infantile a dimostrare insensata, s’atteggiano evangelicamente a redentori della umanità, e chiamano in tanto alla riscossa gli ignoranti e i barbari, adulandoli, solleticandone gli appetiti, rinfocolandone le ambizioni. Ora, sanno essi se al momento critico questa gente, come sarà padrona del campo, non li abbandonerà sghignazzando ai loro sogni malati? Possono essi garentire dell’onestà, della buona fede, dell’obedienza illuminata dei loro numerosi gregarii? E sono in fine sicuri di poter costruire, sopra una rivoluzione dei più torbidi elementi sociali, quel monumento di giustizia, d’equità, di benessere, del quale non son peranco riusciti a tracciare un piano convincente nei loro libri e nelle loro discussioni teoriche? Caro signore, — egli soggiunse, volgendosi con un moto brusco all’avvocato, — di fronte al disastro, che ne minaccia, io intendo in vece che tutti i buoni e tutti gli intelligenti s’accordino tra loro per combattere questi rètori pericolosi con ogni arma, con ogni possibile repressione. Il socialista e l’avvocato proruppero insieme in una protesta veemente — il primo balzando di nuovo in piedi, sollevando le lunghe braccia alte sul lungo corpo sottile; l’altro agitandosi convulsamente su la sedia, torturandosi con la mano gli esigui baffi neri. — Le persecuzioni non ci fanno paura! — urlava l’Ugenti stentoreamente. — Ben vengano le persecuzioni! Esse hanno sempre spianato la via alle idee nuove; le violenze e gli abusi di potere non fanno se non inasprire l’opinione pubblica contro le classi dominanti e affrettare i moti rivoluzionarii. Un anno di dispotismo val quanto mezzo secolo guadagnato per il trionfo della nostra causa.... — La libertà di pensiero non può essere conculcata in un regime democratico, — declamava Maurizio Siena, alzando la voce per dominare quella dell’Ugenti; — essa è una conquista intangibile del nostro secolo di scienza e di progresso. Gli uomini d’ordine hanno il sacro dovere di rispettarla.... Parlavano insieme, e le loro parole giungevano confuse all’orecchio dell’Imberido. Flavia e Luisa, che su le prime avevano protestato, ridevano ora allegramente del tumulto improvviso. Soltanto il Boris, sempre tranquillo e sorridente, affermava in silenzio col capo, ammiccando però con gli occhi stretti e come riconoscenti a colui che aveva proclamato forte lo sterminio dei disturbatori. — Basta! — gridò d’un tratto la signora Teresa; e, per richiamar l’attenzione, percosse ripetutamente con la lama del coltello il suo bicchiere. — Basta con la politica! — fece eco donna Marta, che a più riprese aveva rimproverato il nipote con gli sguardi. — Voi ci stordite.... Parliamo d’altro, per carità! Si stava concertando una bella passeggiata in compagnia sul Motterone. Quando la si fa, dunque? Con le vostre chiacchiere non si verrà mai a una conclusione! I due giovini, che gridavano insieme, s’interruppero a mezzo d’una frase, si guardarono in torno come stupefatti di trovarsi presenti a un convito ospitale, e scoppiarono insieme a ridere, scusandosi con le donne per la loro vivacità inopportuna. L’Imberido aggiunse le sue scuse a quelle de’ suoi avversarii; e la conversazione fu ripresa senz’altro sul tema meno eccitante dell’escursione in montagna. Questa fu stabilita per domenica quindici «tempo ed elezioni permettendo», secondo la espressione finale dell’ingegnere. — Mi raccomando a lei, — mormorò Luisa all’orecchio d’Aurelio; — faccia venire anche il signor Zaldini. È così simpatico! La discussione calorosa aveva lasciato l’Imberido in quello stato d’accasciamento e quasi di desolazione, in cui egli sempre cadeva sotto l’urto d’un’opinione altrui, altrettanto salda e inflessibile quanto la sua. Mentre gli altri, già immemori di tutto, ciarlavano e ridevano spensieratamente, egli riandava ancora, incerto e umiliato, il corso della disputa inutile; e una folla di buoni argomenti taciuti, di nuove risposte efficaci, sorgeva spontanea nel suo pensiero a offuscare le cose che aveva dette, a dimostrargli l’imperizia della sua dialettica e l’imprudenza delle sue affermazioni. Perché non aveva saputo rimaner muto e impassibile alle frasi del giovine socialista? E perché, anche affrontando una discussione, non aveva riflettuto, non aveva considerato il valore e la qualità de’ suoi ascoltatori, non aveva pesato bene le sue parole, prima di ribattere? — In vece egli s’era lasciato miseramente trascinare dall’impeto de’ suoi sentimenti; aveva parlato con rancore e non con serenità spassionata; aveva fatto, di fronte a quegli estranei, la figura meschina d’un retrogrado rabbioso o d’un volgare nemico della Luce! Sopra tutto in causa di Flavia egli si rammaricava d’aver discorso in tal modo. Nel fondo del suo spirito, un poco annebbiato dai vapori del vino bevuto in copia, incominciava omai a trepidare un senso di malinconia tenera e obliosa, quel bisogno d’abbandonarsi, di perdonare, di fraternizzare che assale irresistibile all’inizio di un’ebrietà. Guardando ora la fanciulla, Aurelio la trovava, nella semplicità della sua bianca veste virginale, sovranamente incantevole; un soffio di vaghe memorie gli passava a traverso la mente angustiata, inclinandola insensibilmente a benevolenza verso di lei, riaccendendo a mano a mano il fuoco assopito della sua simpatia. Ed egli, inconsapevole, si stupiva d’aver potuto contrariare la bella creatura che gli splendeva d’innanzi, e si rimproverava il suo contegno pertinacemente ostile e scortese, e deplorava il suo indocile orgoglio che ogni dì più scavava un abisso incolmabile tra le loro due vite. — Ma non era egli dunque che la gittava deliberatamente tra le braccia del rivale? Non la voleva egli così, estranea e nemica, divisa sempre da lui da un ostacolo immane? Non era preferibile per il suo scopo quel dissidio aperto e sincero a un’intesa lentamente insidiosa, a una domestichezza con lei che avrebbe potuto generare la catastrofe temuta? — Oh, un suo sguardo lusinghevole! Egli, certo, avrebbe in quel momento sacrificato il suo sogno più caro per uno sguardo lusinghevole di lei, che fosse venuto a traverso la mensa a ricercarlo! Frattanto intorno a lui l’animazione aumentava. La fine del pranzo generoso rendeva loquaci e ilari gli altri commensali, li accomunava in un unico sentimento di benessere, di confidenza, d’espansiva cordialità. Parlavan tutti insieme, e il frastuono delle voci alte e delle risate rimbombava sotto la vòlta profonda: l’ingegnere, con gli occhi sfavillanti e il naso purpureo, raccontava a donna Marta un aneddoto procace, che pareva scandalizzasse l’anima candida della sorella zitellona, in atto di turarsi le orecchie con le mani; il Siena, acceso in viso, discorreva vivacemente con Flavia e la signora Boris, prorompendo a tratti in ghigni gutturali, che lo facevan torcere e rannicchiarsi su la sedia come all’impressione d’un solletico ostinato; l’Ugenti in vece era divenuto patetico e nebuloso, e declamava chino verso la bionda un’ardente poesia di passione, sottolineandone i passaggi più teneri con certi sguardi estasiati, tremuli nel vuoto, battendo con le lunghe braccia aperte il ritmo dei versi sonanti. Le bottiglie del vino di Sciampagna, recate per i brindisi, suscitarono un’acclamazione entusiastica, un grido unanime d’esultanza. Sembrò quasi che un vento di frenesia passasse d’improvviso nella sala da pranzo, esagitando le fiamme delle candele, scotendo le sedie e gli oggetti sparsi in disordine su la tavola. Le fanciulle e donna Marta applaudirono; Maurizio e Giorgio si levarono d’un balzo in piedi, per disputarsi con comico accanimento l’onore di stapparle. Come i calici furon tutti ricolmi del dolce vino propiziatorio, l’Ugenti con un atto risoluto impugnò il suo bicchiere, lo sollevò alto sopra il capo e incominciò a parlare. Il fumo delle sigarette si dilatava omai su le teste, striando l’aria di tenui strati azzurrognoli, continuamente mobili. L’afa nella stanza chiusa si faceva sempre più sensibile e opprimente; un odore acre di vivande e di vini saliva a ondate dalla mensa, intollerabile. Il giovine socialista, la fronte imperlata di sudore, proseguiva il suo discorso con una foga enfatica di gesti e d’accenti, esaltando le virtù e le attitudini della donna, illustrandone l’alta missione morale, profetizzandole un avvenire glorioso in una società meno egoistica e più giusta della presente. E gli altri, d’un tratto ammutoliti, lo guardavano attoniti, stupefatti, senz’ascoltarlo, nell’attesa impaziente d’una conclusione. Quand’egli s’interruppe a mezzo d’un periodo per riprender fiato, un applauso formidabile risonò sotto la vòlta e i calici simultaneamente s’alzarono per brindare. Il Siena, nell’immenso strepito, urlò con tutte le forze de’ suoi polmoni: — Evviva dunque la signorina Flavia! Alla sua salute, alla sua felicità, all’esaudimento delle sue speranze! Gli evviva echeggiarono, mentre i calici s’incrociavano, battevan forte l’un contro l’altro, tintinnando. Flavia abbandonò prima il suo posto, s’avvicinò a suo padre, poi a sua madre, e, strettoli tra le braccia, li baciò ripetutamente sul viso, assai commossa: aveva gli occhi lucidi, un rossor vivo cosparso su le guance delicate. Così accesa e come trasfigurata, stretta nella semplice veste bianca, ella emanava dalla persona un fascino irresistibile, l’incanto sublime della Vergine, quell’acuto profumo di poesia e di candore, che infiamma l’imaginazione, inebria i sensi e abolisce ogni volontà. Aurelio, il quale muto e immobile l’accompagnava con gli sguardi, si sentiva languire d’ammirazione e di desiderio. Non mai gli era parsa così leggiadra e così nobile di forme e d’espressione! Non mai gli era parsa così degna d’essere amata, d’esser preposta a supremo scopo d’un’esistenza mortale! Ella non era più la fanciulla, ch’egli ben conosceva: era il simbolo della grazia, l’incarnazione tipica dell’Eterna Bellezza, era l’Unica, era l’Eletta, era la Dea. — Oh, uno sguardo, un solo sguardo lusinghevole di lei! Egli avrebbe sacrificato tutta la sua vita per uno sguardo lusinghevole di lei, che fosse venuto in quel momento solenne a ricercarlo! Ma la giovinetta pareva che lo avesse affatto dimenticato, pareva che ignorasse la sua presenza alla festa familiare: tremante di commozione, guardava fisa il padre o la madre con occhi pieni di gratitudine e d’affetto, e non si stancava di scoccare su le loro guance quei baci sonori, che avevano nell’anima del giovine un’eco spasimosa. Quando la signora Teresa si levò e uscì dalla stanza, Aurelio anche si mosse: fece qualche passo verso la finestra quasi cercando un soffio d’aria libera, poi, vedendosi inosservato, infilò pianamente la porta e riparò solo nel salotto. Si lasciò cader di peso sul divano. Si prese il capo fra le palme, con atto disperato. Un ardore molesto gli infocava le tempia. Il cuore gli pulsava in petto con una violenza non mai avuta. I fumi del vino si spandevan torbidi e foschi intorno a lui, annebbiandogli la visione delle cose, dandogli a intervalli il senso ingrato della vertigine. — Egli si sentiva solo, affranto e desolato: egli soffriva terribilmente, e nessuno era presso di lui a confortarlo! Il suo dolore si dissipava inutile e indifferente nell’impassibilità dello spazio, come quello d’un qualunque bruto ferito a morte in una foresta!... Egli, certo, avrebbe potuto spegnersi così, senza che un’anima buona fosse accorsa in suo aiuto, senza turbare con il suo gemito indistinto la gioja romorosa di coloro che gli eran vicini!.... Impeti subitanei di collera sorgevano nel suo spirito a ogni scoppio d’ilarità nella stanza contigua; supremi abbattimenti lo prendevano appena l’ira cessava. E intanto un desiderio folle si faceva strada tra le tenebre di quel tumulto selvaggio dell’anima, usciva a poco a poco dal caos delle imagini oscure, si rischiarava, splendeva, scintillava come astro solitario in un cielo tempestoso: il desiderio di Flavia, d’una parola benevola di lei, d’una sua carezza su la fronte accesa, d’uno di quei baci inebrianti, ch’ella aveva pocanzi prodigati con tanto trasporto a’ suoi parenti. — Oh, perchè ella non veniva? perchè tardava tanto? Non sapeva ella forse ch’era là, solo, triste, afflitto da un’angoscia senza nome, ad aspettarla? E la sua pietà, sempre sì docile all’appello dei sofferenti, non si risvegliava dunque per la prima volta al suo grido disperato di soccorso? Un passo leggero che s’avvicinava lo fece sussultare di sgomento e di giubilo. Egli non respirava più: il suo sangue pareva si fosse d’un tratto arrestato nelle vene. Era lei? Certo, era lei; doveva esser lei. La gioja ineffabile del suo cuore non poteva ingannarlo. Egli l’aveva invocata; ella, ecco, accorreva. — Oh, caderle ai piedi e morire!.... Qualcuno era entrato nel salotto. Aurelio tolse con lento atto il viso alterato e livido dalla stretta delle mani, e guardò d’innanzi a sè, come un sonnambulo strappato repentinamente al suo sogno. — Signor Aurelio, che cos’ha? — disse spaurita Luisa, avvicinandosi a lui con vivacità. Egli continuava a fissarla senza parlare. — Ohimè, l’ultima speranza andava miseramente tradita. Il mondo non aveva più luce! La sua vita non aveva più scopo! L’inganno era mortale e palese: un riso acuto, a lui ben noto, si levò nella stanza vicina e venne a colpirlo d’improvviso come un’irrisione del Destino. Luisa sedette al suo fianco, gli prese amorevolmente la mano. — Signor Aurelio, per carità risponda: si sente male? Ha bisogno di qualche cosa? Risponda! — Grazie, signorina, grazie! — egli riuscì a mormorare, rialzando il capo — Non è nulla: un po’ d’emicrania.... — Faceva forse troppo caldo nella sala da pranzo. Io stessa non ne poteva più! Vuole che apra le finestre? L’aria libera le farà bene. Vuole che le ordini qualche cosa di caldo? Vuole che chiami donna Marta?.... Ella parlava concitatamente, assai commossa, con una specie d’affanno appassionato nella voce e nel respiro. E intanto gli stringeva forte la mano, e lo guardava con gli occhi inumiditi, gonfii di pietà e di tenerezza. «Non è lei! Non è lei! Non è lei!» ripeteva spasimando l’anima del giovine, mentre quelle dolci parole si disperdevano vane e sciupate, come semi sparsi sopra un terreno sterile. — Oh, fosse stata Flavia, la consolatrice! Su la Terra non vi sarebbe stato un uomo più divinamente felice di lui! — Grazie, è inutile, signorina, — disse Aurelio, levandosi d’improvviso in piedi. — Proverò a uscire, proverò a far due passi nel cortile.... Grazie! Studiando il passo, senza più rivolgersi, s’avviò verso la porta. L’aperse. Vide le tenebre spalancate d’innanzi a sè; vi si gittò perdutamente come in un abisso. IX. IL SOGNO. E il gran Sogno fatalmente si svolse. Il padre Boris era ritornato a Milano; gli ospiti eran partiti. La solita pace regnava nel palazzo antico, mentre in torno l’opera alacre degli agricoltori ferveva, ornando i campi rasati d’accese frange d’oro, empiendo la purezza degli spazii di strepito giulivo. Dall’alba all’imbrunire, le canzoni della mietitura, disperse di qua e di là su i colli ubertosi, ondeggiavan nel silenzio, e davano all’orecchio che le ascoltava un senso di vastità singolare; il buon odor cereale e l’olezzo del fieno fresco imbalsamavano alternativamente l’aria, assumendo negli aridi meriggi intensità quasi d’essenze. La festa dell’ultima ricolta si celebrava così sotto il sole benefico d’agosto, tra gli inni, tra i profumi, tra i colori smaglianti, in una semplicità solennemente primitiva di riti e di costumi. E gli inni eran d’amore, e i profumi eran di vita, e i colori eran di gioja. Aurelio, dal balconcino della sua camera o nel parco o durante le peregrinazioni su le colline circostanti, assisteva al grandioso spettacolo, commosso, attonito, maravigliato. Non mai come in quei giorni egli s’era sentito così posseduto dal fascino della Natura feconda; non mai come in quei giorni s’era sentito legato da vincoli così stretti alla grande madre Terra. Egli, atomo d’un tutto, pareva fondersi e confondersi tra quelle manifestazioni vaste e benigne, dimentico d’ogni cosa, conscio soltanto della sua piccolezza e della sua vanità in un mondo attivo e produttivo, dove la vita si svolgeva gloriosamente sopra una distesa senza confini. Il suo corpo illanguidito dalla canicola, il suo spirito ottuso dal desiderio, si sottraevano ogni dì più al dominio della ragione e della volontà. Egli non poteva più fermare a lungo la sua attenzione su i soggetti dei propri studii: appena faceva uno sforzo mediocre d’applicazione, una stanchezza dianzi sconosciuta gli pesava sul cervello, ed egli doveva arrestarsi d’un tratto nel suo lavoro, come chi si trovi d’improvviso su la soglia d’una stanza buja. Passava perciò lunghe ore nell’inerzia più assoluta, distratto, vuoto, come estatico, seguendo con l’orecchio il ritmo d’un qualche canto campestre, o accompagnando con gli sguardi il fumo d’una sigaretta che si smarriva sottilmente nell’aria cristallina. Una moltitudine di sensazioni minute, spontanee, incoscienti componeva in quei giorni l’esistenza materiale di lui. Il suo essere era simile a una pagina bianca su cui una penna segnasse a caso piccoli segni indecifrabili: si difformava e s’alterava continuamente alla minima impressione d’un soffio, d’un profumo, d’un suono, d’un bagliore. D’avanti a un prato raso di fresco, macchiato dai cumuli più smorti del fieno, d’avanti a un campo popolato di spigolatrici chine in fila su le glebe, d’avanti a un albero carico di frutti, al gorgheggio d’un uccello tra il fogliame d’una siepe, alla voce d’un bambino in una cascina solitaria, egli si soffermava attento e turbato, come al cospetto d’un fatto straordinario o d’una cosa supremamente mirabile. Le imagini delle sembianze esteriori si succedevano per tal modo inattese nella sua mente, senz’ordine e senza logica, convertendosi in idee fuggevoli, in confuse astrazioni, in pallidi raziocinii che non duravano un attimo e si disperdevano. E sotto questa sorta di velario sensibile e sempre mutabile, ch’era come la superficie della sua anima, una calda corrente di tenerezza passava, profonda, invisibile, violenta, — il bisogno istintivo e fatale di pace, di felicità, d’amore. Dalle campagne, illustrate magnificamente dal sole, animate dall’opera umana, gli veniva assai di sovente l’esempio seduttore: era la Terra stessa, sgravata, nuda e come distesa per un nuovo amplesso ferace, la quale descriveva alla sua fantasia con muto languido atto l’insuperabile voluttà del creare; era quella gente umile e travagliata da ogni tristizia, che gli gittava sul viso l’alito ardente della sacra febbre, il soffio infocato dell’immortale desiderio. Talvolta, percorrendo le viottole perdute, egli aveva sorpreso, nascosto in una macchia, qualche ruvido idillio; talvolta aveva sentito nel silenzio, dietro una fitta cortina arborea, il susurro di due voci diverse, interrotto a tratti dai baci; talvolta aveva visto nei campi, integre nella luce, due alte figure, prossime e sole, esprimere con gli sguardi l’impazienza della loro mutua simpatia. Il giovine osservava e ascoltava con l’avidità d’un sitibondo che oda il croscio d’un’acqua sotterranea. E torbide visioni gli si levavano nello spirito, mentre un’angoscia soffocante agitava tutti gli elementi della sua sostanza; poichè egli intendeva di trovarsi in fine d’innanzi al segreto del suo scontento e della sua fragilità. A quelle sollecitazioni della Natura imperiosa, il cuore pareva gli divenisse gonfio e convulso; il sangue gli affluiva a fiotti al cervello; l’anima gli si ammorbidiva e si scioglieva come fusa da un calore supremo. Alcune frasi liriche, inaspettate, s’abbozzavano nel suo pensiero, illuminandolo con la fugacità frenetica di lampi: «Avere una donna propria, un’amante.... Smarrire ogni senso nella contemplazione de’ suoi sguardi inamorati.... Perdersi con lei in quelle selve folte e mute, che ammantano le valli.... Amare, amare molto, fino alla stanchezza, fino all’esaurimento, fino alla distruzione, fino alla morte!» Era il gran Sogno che si svolgeva, il Sogno dell’eterna passione vitale. Era una brama indomabile d’integrazione, di struggimento, di congiunzione che lo accendeva, ch’esaltava la sua anima per modo che ogni imagine vi si riproduceva alterata sotto forma di poesia. Omai egli si sentiva languire nella solitudine, spasimava di desiderio, agognava febbrilmente a utilizzare la sua effimera giovinezza, a crescere, a fruttare, a concedersi e a possedere, in un immenso slancio verso la Voluttà che integra e che crea. E l’imagine di Flavia, della Donna conosciuta e vicina, gli sorgeva alta e fulgida nella mente come un sole nel cielo del suo Destino. Dalla sera del pranzo in casa Boris, nuovi impulsi eran sopravvenuti a spingere irresistibilmente il giovine verso la fanciulla: innanzi tutto, la gelosia viva contro il pretendente noto e disprezzato; poi, la curiosità di sapere s’ella accettava quest’uomo e se accettandolo lo amava; in fine, l’ambizione virile di contenderla a questo, di strappargliela, di trionfare su lui con le proprie qualità e i proprii meriti. L’impresa gli si presentava oltremodo facile e d’esito quasi sicuro: il rivale era partito, era lontano, probabilmente senza alcun rapporto epistolare con Flavia; e non sarebbe riapparso a Cerro che tra una quindicina di giorni al più presto. Durante la sua assenza, egli era bene il padrone incontrastato della situazione: avrebbe potuto agevolmente insinuarsi nelle grazie di lei, vincerne le solite ritrosie, cancellarle dalla memoria gli ingrati residui del loro breve passato. Sarebbe certo riuscito, con la sua esperienza psicologica e le virtù della sua persona, a insignorirsi del cuore ancor titubante della giovinetta, e a scacciarne ogni altra imagine, ogni altro ideale, ogni estranea speranza. Non era ella forse già sul punto di cedere, prima ch’egli avesse deliberato d’evitarla e di fuggirla? E quella sera sul lago deserto, quando gli aveva stretto con tanta effusione la mano, non aveva ella confessato in modo indubbio la sua nascente simpatia per lui? Bastava dunque ch’egli si riaccostasse con una mossa abile a Flavia; bastava che sapesse riprendere il filo degli avvenimenti da quell’ultimo tenero colloquio avuto con lei in solitudine, ed era sicuro che ogni causa di dissidio sarebbe d’un tratto venuta a mancare ed egli l’avrebbe avuta di nuovo pienamente in suo potere. La preoccupazione di questo disegno astuto, la speranza ambigua di poter contrastare al rivale quel bene a cui egli volontariamente aveva rinunciato, permanevano costanti nel fondo della sua anima, dove l’azione della coscienza non giunge che a lunghi intervalli e sotto forma di rimproveri fievoli e inerti. A volte, com’era tratto a riflettere su qualche atto preciso dalla sua vita indisciplinata, Aurelio riusciva bene a intendere la bieca intenzione del suo piano, la slealtà de’ suoi propositi di conquista; riusciva a intendere ch’egli agiva sotto l’impulso d’un sentimento invido e geloso e che di là della vittoria sul rivale egli non vedeva e non considerava mai la conseguente necessità d’una riparazione verso la fanciulla. Allora aveva momenti terribili di rammarico e di rivolta morale: come un peccatore credente che si confessi, egli esagerava il rilievo della sua colpa, e giurava a sè medesimo di mutar linea di condotta, e s’imponeva, convinto d’eseguirle, penitenze e rinunce esemplari. Ma il vento della passione si riversava fulmineo sul suo capo, dissipando in un colpo le nebbie momentanee delle riflessioni, dei rimorsi e dei buoni proponimenti. Quella specie di sovreccitazione inconscia e impaziente, ch’era in quei giorni lo stato abituale del suo spirito, s’impossessava novamente di lui. Egli ricominciava a sognare, a correre verso la mèta oscura, contro la quale si sentiva spinto come da una volontà estranea alla sua, a inebriarsi di frasi sonore, di morbide fantasticherie, d’imaginose aspettazioni di felicità. Per tre giorni egli non poté avvicinar Flavia se non alla presenza delle altre signore, in giardino o sul rialto. Nell’impossibilità di parlarle da solo a sola, d’investigare il mistero dell’anima sua, Aurelio sofferse veramente torture senza nome. Seduto un po’ lontano dal crocchio, come per il passato, egli rimaneva intere ore fermo e silenzioso al suo posto di guardia, osservando con occhi distratti le cose circostanti o fingendo d’ascoltare i discorsi interminabili delle quattro donne. Nulla nel suo aspetto che indicasse un turbamento, un’angustia, la più leggera impazienza; eppure dentro di lui ferveva una continua tempesta d’idee oblique e di sentimenti dolorosi. Talvolta era una malinconia profonda, che lo prendeva durante quei ritrovi, come un desiderio tragico di riposo e di morte; talvolta era un’irritazione maligna, come una smania di vendetta e di crudeltà contro la fanciulla che pareva incurante di lui, o contro le estranee che gli paralizzavano ogni tentativo; talvolta in vece era un senso gelido di apatia e di malessere, che gli rendeva intollerabili e quasi odiose tutte quelle donne e tutte quelle ciance. Flavia d’altra parte, forse consapevole del suo nuovo valore e delle mutate intenzioni del giovine, sembrava che si piacesse di fomentare la sua ansietà e d’esasperare per gusto felino i nascosti tormenti del suo cuore. Sempre appostata accanto alla madre o alla cugina, non gli si rivolgeva che assai di rado, e solo per indirizzargli fuggevolmente un’insipida domanda o per lanciare qualche frizzo mordace contro le sue teorie su la donna e su la società. In verità, ella poteva dirsi maestra nell’arte d’usare l’ironia e il sarcasmo: sapeva cogliere ogni più vaga occasione nel discorso comune per colpire direttamente dove voleva; sapeva dare a una semplice frase un senso recondito e affatto diverso dal letterale, con un gesto, con un atteggiamento del viso, con un’inflessione della voce; sapeva trovare l’epiteto pungente e cortese, che, mentre passa per gli astanti inosservato, fa impallidire colui al quale si rivolge. E i suoi dileggi maliziosi venivan sempre accompagnati dal sorriso più dolce e più benigno. Sotto le sferzate subitanee che lo ferivano nel più vivo della sua sostanza, Aurelio, costretto a tacere o a ricercare una difesa blanda e rispettosa, fremeva di rabbia e di dolore; ma provava anche, al risveglio de’ suoi istinti pugnaci, un sollievo particolare, una specie di scossa violenta e non disaggradevole, come chi esca da una camera afosa all’aria gelata della via. Più che le irrisioni, più che gli scherni, più che le ingiurie, egli aborriva il contegno freddo e indifferente di Flavia: eran la gioconda loquacità di lei, la calma imperturbabile della sua faccia, sopra tutto il suo riso schietto e squillante che provocavano in lui i più lividi rancori, le più fosche idee, i più desolati abbandoni, spingendolo talvolta fin sul confine della demenza. La pena era così amara ch’egli pensava di non poterla oltre tollerare. Ma omai egli era già al punto in cui l’amarezza sprona, in cui l’ostacolo cimenta, in cui la passione si pasce sia pur di strazii, di ripulse, d’umiliazioni. Egli partiva da quei convegni stanco, tediato, oppresso, ma sempre più infervorato del suo piano, sempre più acceso dal desiderio e dalla gelosia. Tutte le forze del suo orgoglio s’erano omai concentrate in una mira unica e costante. Le grandi indignazioni generavano le maggiori tenerezze. L’odio medesimo non serviva se non a inasprire l’avidità del sentimento, a rendergli più attraente la visione prossima della preda. E il pensiero del tempo perduto lo faceva perseverare e ostinarsi nella sua impresa, come il denaro divorato dalla Fortuna trascina fatalmente dietro di sè il giocatore che spera di riaverlo. Quel giorno, dopo la colazione, Aurelio era salito nella sua camera in balìa d’un’inquietudine straordinaria. Dopo aver tentato in vano di continuare la lettura d’un libro, che nei dì precedenti lo aveva molto appassionato, era uscito all’aperto sul balconcino, e v’era rimasto a lungo, magnetizzato dalla gran luce del pomeriggio. Il suo cervello aveva vibrazioni continue, pareva còrso da brividi infocati; i palpiti del suo cuore eran lenti e faticosi, come trattenuti nello sforzo da una difficoltà. Un sentimento inafferrabile teneva tutto il suo essere, il sentimento d’una necessità urgente, d’un’imminenza assai grave, d’un’occasione propizia, sospesa sopra di lui, che il minuto fuggevole avrebbe potuta irremissibilmente distruggere per la sua felicità. Quando udì salire dal basso un suono di pianoforte, Aurelio si mosse. L’intenzione oscura che lo agitava si dichiarò su l’istante. Egli voleva veder Flavia nel giardino, in quell’angolo romito al rezzo degli ultimi abeti, dove l’aveva trovata sola la prima volta; voleva confidarle tutti i suoi pensieri, tutte le sue pene, per strappare a lei una confessione esplicita che in un qualunque modo mettesse fine alla crescente angoscia del suo spirito. Discese precipitosamente le scale. Salì in corsa a traverso il bosco senz’incontrar nessuno. L’affanno l’obbligò a sostare qualche attimo al crocicchio delle due viottole, d’avanti all’antica erma dal volto corroso e dai seni intatti, come gonfii d’un desiderio immortale. — Oh, le memorie di quel calmo giorno lontano! Dov’era mai la sua pace? Dove, la sua gagliarda indifferenza? Dove, i suoi puri sogni di gloria? — Procedette poi a passo anche più spedito verso l’altura, quasi lo chiamasse, da quell’ombra, il vivido raggio di sole che illuminava a traverso un pertugio la sommità del sentiere. Flavia era là, seduta sotto i pini, un po’ abbandonata su sè stessa, tenendo su le ginocchia un ricamo che osservava con intensa attenzione. D’innanzi a lei era disteso l’ampio scialle a mo’ di tappeto, tutto coperto di scatole, scatolette, astucci, astuccini, e d’un’infinità di fascetti colorati. Un’altra sediuola portatile all’opposto lembo dello scialle indicava il posto di Luisa, discesa per l’esercizio quotidiano di pianoforte. Vedendola così vicina e così sola, sembrò al giovine che la sua mente per prodigio si vuotasse e ogni sua energia venisse d’un tratto a mancare. Rimase immobile allo sbocco del sentiere, incerto ancora se dovesse avvicinarlesi o retrocedere rapidamente prima d’essere scoperto. — Perchè era salito lassù? Che cosa avrebbe potuto dire a Flavia? Con che parole avrebbe incominciato? Egli s’era lasciato trasportare da un cieco impulso; e non aveva avuto il tempo di prepararsi al difficile colloquio, di concretare un abile pretesto di discorso o una qualunque giustificazione della sua presenza a quell’ora, in quel luogo! Egli si trovava di fronte a lei, dubbioso, inetto, disarmato, come un capitano che non abbia preveduto l’incontro d’un nemico formidabile! Che fare? Come presentarsi? E come allontanarsi? — Nella sua grande confusione, la fuga gli sembrava impresa quasi più ardua dell’attacco. Ella alzò per caso gli occhi dal telajo, e lo scorse. — Signor Aurelio! — esclamò, piacevolmente stupita. — Buon giorno, signorina, — egli disse, levandosi il cappello e avanzando. Poi chiese con atto di maraviglia: — Sola? — Sola, lo vede. Luisa, come sempre a quest’ora, è alla tortura dell’odioso strumento. — Difatti..... — egli mormorò. Voleva dire: «Difatti l’ho sentita studiare dalla mia camera.» Ma si trattenne in tempo, con il lieve tremito di chi stia per tradirsi o per isvelare un interno segreto. In vece domandò, concitatamente: — Ella non ama dunque la musica, signorina? — Poco. Almeno amo poco la musica ch’io debbo eseguire: al contrario in teatro mi piace assai, forse perchè mi piace molto il teatro. Se sapesse quanto han fatto la mamma e il babbo per invogliarmi a imparare il pianoforte! Essi mi avrebber voluta una grande pianista; io però li ho scoraggiti presto con la mia inettitudine e con la mia negligenza. — E ora, non suona mai? — Mai, mai!... Ma prego, conte, s’accomodi, — ella aggiunse con cortesia, indicandogli la sediuola disoccupata, d’onde tolse un pajo di forbici e un rocchetto di filo d’oro. Aurelio sedette, dopo un’esitazione breve. Egli era alfine presso di lei, solo, assolutamente libero, come aveva desiderato, come aveva voluto. In torno, il bosco d’abeti si piegava discretamente in arco, formando una profonda nicchia verde, una specie di parete alta e opaca, che s’apriva soltanto da una parte quasi per ricevere i riflessi aurei del poggio ammantato dal sole. Il silenzio della campagna circostante proteggeva il luogo nascosto, che pareva creato per un qualche alto mistero. Su le vette degli alberi e sul culmine del colle si distendeva l’etereo manto azzurro, il muto e deserto paese dell’Eternità e della Gloria, a cui volano disperdendosi i sogni dell’umanità insodisfatta. — Egli era alfine presso di lei, solo, assolutamente libero, come aveva desiderato, come aveva voluto! Perchè dunque temeva? E da che proveniva l’angustia del suo cuore? E perchè non osava? perchè lasciava trascorrere inutili quegli istanti preziosi di solitudine? Ohimè, la sua mente era vuota, la sua volontà assopita! Egli s’abbandonava alla corrente come un uomo che disperi di salvarsi! Parlarono un tempo incalcolabile di cose indifferenti, con lunghi intervalli di mutismo. Flavia gli mostrò, perchè l’ammirasse, il suo ricamo, una combinazione a bastanza armonica di tinte languide, di viola smorto, di verde smorto, d’oliva smorto, disposte a fiamma e orlate d’oro. Egli, confuso e timido, teneva gli occhi fissi sul lavoro paziente, e, per dire qualche parola, chiedeva spiegazioni su lo stile, sul tempo che occorreva per compirlo, su l’uso ch’ella ne avrebbe poi fatto. In tanto dentro di lui, i rimproveri sorgevano, a uno a uno, implacabilmente, a similitudine di spettri maligni che uscissero alla luce da una porta misteriosa; e una voce corrucciata ripeteva ognor più forte la sollecitazione: — «Agisci! Spiègati! Domanda! Il tempo fugge, e tu non sai se domani ti sarà concessa un’occasione altrettanto propizia. Puoi tu sopportare oltre la tortura che ti ha dilaniato in questi giorni passati? Puoi tu vivere di timori e non di speranze? Pensaci: meglio, mille volte meglio lo schianto della più cruda certezza all’angoscia del dubbio sempre crescente. Quando tu conoscerai tutta la verità, allora soltanto potrai trovare la via di scampo, che ora la tua vista ottenebrata non discerne.» Il giovine ascoltava e fremeva. Durante un silenzio più prolungato, gli parve alfine di poter sciogliere la lingua, d’aver trovato un appicco facile per il discorso che voleva tenere; credette che un’ispirazione buona fosse venuta a scuotere il torpore del suo spirito. Egli non sapeva ancor bene quale fosse questa ispirazione; ma sentiva che il momento era giunto per tentar la sorte e si diceva che una volta gittato il dado la partita sarebbe stata senz’altro risolta. Alcune parole si precisarono nella sua mente; egli le ripetè più volte con il pensiero, senza poterle pronunciare. — E poi? E poi? — In fine, con la voce tremante, abbassando gli occhi, mormorò: — Signorina, avrei bisogno di parlarle. Flavia, intenta al suo lavoro, alzò lentamente il capo e fissò Aurelio con aria sospettosa, interrogando. — Dica pure, — fece ella dopo una pausa, poi ch’egli non accennava a proseguire. Un nuovo e più grave eclisse oscurò per qualche istante lo spirito di lui. — Che cosa dire? Come incominciare? Era dunque necessario rispondere? Egli non sapeva più nulla, nulla; ignorava per fino dove e con chi fosse; egli pensava a cose estranee; egli ora era tutto occupato a considerare attentamente il disegno d’un gran fiore giallo, che s’ergeva alto su l’erba del prato. Come staccare gli sguardi da quel fiore? Come concentrare la mente sopra un determinato soggetto? Gli occhi di Flavia, che lo fissavan sempre con un’espressione acuta d’impazienza e d’interrogazione, l’obbligarono a troncare quell’indugio ingiustificabile. Egli parlò pianamente, cercando le parole, arrestandosi a ogni frase, quasi aspettando da lei un’interruzione che gli risparmiasse lo sforzo supremo di concludere. — Signorina — incominciò — ella deve scusare la mia curiosità... È stata lei a risvegliarla... con la sua schiettezza, con la sua espansività, con la fiducia di cui si compiacque d’onorarmi fin dai primi tempi della nostra conoscenza.... Io vorrei farle una domanda.... una domanda forse un poco indiscreta.... forse inopportuna... e forse no... Ma desidererei, prima di rivolgergliela, una promessa da parte sua... desidererei ch’ella m’assicurasse di rispondermi francamente, senza timori e senza reticenze... perchè dalla sua risposta può dipendere... io saprei... In breve, signorina, mi permette di farle questa domanda? Flavia, rassicurata dal lungo preambolo, lo ascoltava sempre più indulgente nell’aspetto, sempre più benevola, con un lieve sorriso di sodisfazione su le labbra. Ella aveva in quel momento la coscienza della sua superiorità di fronte a quell’uomo forte, intelligente e coltissimo, che balbettava con lei come un bambino; e cedeva senza riflettere al sentimento insidioso di pietà e di condiscendenza, che suscita assai di sovente nelle donne l’omaggio timido o servile. Rispose: — M’interroghi pure quanto vuole; io cercherò d’esser più franca che m’è possibile. Il giovine, osservandola di sottecchi, s’avvide del suo mutamento e fu investito come da un soffio subitaneo di speranza e d’audacia. Rialzò con un moto brusco il capo e rivolse sicuro gli occhi verso quelli di lei. — La porta del suo cuore, — egli domandò, con accento leggero, — è dunque sempre chiusa, anzi murata, come due mesi or sono? Il dado era gittato. Ogni ansietà non aveva più ragion d’essere: Aurelio si sentiva calmo, sereno, quasi indifferente, pronto a sopportare qualunque più fiero colpo. E la fanciulla, offesa dalla forma della richiesta e ancor più dalla espressione con cui era stata proferita, aveva cessato di sorridere e sosteneva gagliardamente lo sguardo di lui. Si fissarono così un poco senza parlare, in atto di sfida. L’eterno odio dei sessi, fatto di diffidenza, di paura e d’orgoglio, irritò e disgiunse le loro anime, le quali un istante prima eran già in atto di fondersi. Parve che ciascuno di essi volesse penetrare con gli occhi nell’intimo dell’altro, senz’esserne a sua volta investigato; parve, come in un duello, che ciascuno, raccolto nella posizione forte di guardia, indugiasse a muoversi per la tema di scoprirsi o nella speranza di sorprendere l’avversario con una botta fulminea. Ella in fine si risolse a parlare. — Io le risponderò, — disse con la voce grave, — come lei ha già risposto a una mia domanda altrettanto indiscreta: schiettamente, più che mai. Aurelio la guardò, impassibile. Le parole crudeli non gli suscitarono in quel momento nessuna commozione: le ascoltò sorridendo, e concluse in tono scherzoso, ironicamente: — Me ne rallegro molto con lei, signorina. E le chiedo perdono d’aver dubitato della sua coerenza. Più tardi però, quando fu solo, quando l’imagine dell’amata si sostituì alla sensazione e la fantasia smussò gli spigoli pungenti della realità, egli, ripensando a quell’ultimo colloquio avuto con Flavia, ebbe le ore più torbide e più agitate della sua vita. L’idea d’aver sciupato un’occasione favorevole, d’aver distrutto con un movimento brusco e temerario l’incanto che stava già per avvolgerli entrambi, lo rese folle d’ira, di rimorso, di dolore. Il flutto di tenerezza e di passione, ond’era invaso, sommerse i piccoli rancori, gli impulsi vendicativi, le ribellioni dell’amor proprio; ed egli non sentì più se non lo schianto atroce della delusione, l’angosciosa tristezza del suo povero amore incorrisposto e spregiato. Su le prime accettò senza discutere il senso letterale delle parole di Flavia, e giudicò irreparabile e definitivo uno stato di cose che era fuori del suo potere e della sua volontà. «Ella non l’amava; lo aveva respinto: ogni speranza dunque era omai perduta per lui.» Egli si vide, per il capriccio d’una sorte cattiva o per una tragica disposizione della Natura, perennemente solo e abbandonato tra esseri estranei o nemici. Pensò che la vita a tal prezzo non valeva la pena d’esser vissuta; pensò che la gloria era vana, l’umanità era trista, l’avvenire incommutabile o non meritevole d’esser commutato. Uno scontento immane del mondo e di sè stesso s’impadronì di tutte le sue facoltà. Egli rimase soffocato nella stretta di tanta desolazione, maledicendo all’esistenza e alle sue miserie, anelando inutilmente a un Bene, ch’era l’Amore e poteva anche esser la Morte. Ma una reazione benefica, il ritorno spontaneo e naturale dell’illusione dopo lo scoramento supremo, non tardò a risollevare il suo spirito e a infondervi di nuovo il soffio vivificatore della speranza. Le sue abitudini di riflessione e d’analisi lo spinsero in buon punto a ricercare sotto il velame delle parole il loro senso recondito e a costruire pazientemente quelle ipotesi ch’eran per lui meno avverse e meno scoraggianti. — Era dunque ben certo che Flavia non l’amava? La sua ripulsa sdegnosa non poteva esser dettata da un tardo desiderio di rivincita, dall’istinto femminile di difendersi con la bugia, con l’astuzia, con l’offesa? E non l’aveva egli forse provocata e meritata quella ripulsa, con la sua domanda importuna e piena di sarcasmo? — Aurelio ricordò il sorriso che aveva a grado a grado modificato l’espressione della fanciulla, mentr’egli parlava a frasi interrotte e la corda della tenerezza vibrava ancora nel suo balbettìo confuso: Flavia certamente in quell’attimo aspettava da lui una qualche appassionata rivelazione, e l’aspettava palpitando d’impazienza e di piacere. S’egli, in vece d’inorgoglirsi e di reprimersi, avesse aperto con lealtà il suo cuore, probabilmente ella non avrebbe mutato contegno e non gli avrebbe risposto in tal guisa. «Ella dunque lo amava; ella non aveva inteso di respingerlo; ella poteva sempre divenire, quando egli lo volesse, la donna tua.» Un impeto folle di gioja trasportò la sua anima dagli abissi della disperazione al colmo della fiducia in sè stesso e nel suo destino. Egli tremò di soavità, pensando d’essere amato. Egli, imaginando l’avvenire, credette che la sua vita interna acquistasse d’improvviso un’accelerazione prodigiosa. La gloria era in lui; il trionfo della sua persona empiva di letizia l’universo. Ogni cosa si rischiarava; ogni ostacolo cedeva, come disperso dalla passione soverchiatrice. Gli passava da presso la Felicità, ed egli udiva bene nel silenzio il rombo delle sue ali; egli sentiva l’aria scossa e turbata dall’eterna Chimera proteiforme, dietro cui gli uomini volan travolti, come foglie nel vento d’un traino impetuoso. Ma i dubbii e i timori lo circuirono da capo, appena l’analisi si spinse un poco oltre lo scopo per cui era fatta. Chi cerca il conforto negli artifizii del raziocinio corre gli stessi rischi di colui che cerca un tesoro nascosto nel fondo d’una palude. Il pensiero, nella sua indagine, non può d’un tratto arrestarsi contento alla migliore ipotesi, e trova sempre accanto a questa un’interpretazione contraria che ne abolisce ogni valore di certezza e ogni virtù di consolazione. — L’imagine del pretendente venne a frammescolarsi allora alle sue considerazioni, e distrusse con il suo solo apparire tutto l’edificio delle liete aspettative. Non era dunque possibile che il sorriso di Flavia fosse dedicato a costui? Non era possibile che un’analogia di situazione o di parole le avesse risvegliato nella mente il ricordo del fidanzato lontano, illuminandole il volto di dolcezza e di bontà? E l’ultima sua risposta non poteva essere in vece una superba menzogna, ch’ella aveva detto volontariamente, per nascondere a un estraneo il geloso segreto del suo cuore? Tutto ciò era possibile, ed era più disperante d’ogni altra supposizione! La gelosia rinasceva; l’odio contro il rivale noto e disprezzato saettava dentro di lui; il desiderio della fanciulla, inacerbito da quell’odio e da quella gelosia, diveniva uno spasimo inumano, una follia cupa e maligna che fomentava nel suo spirito i più temerarii e i più obliqui divisamenti. Nei dì successivi il dibattito continuò viepiù fiero: ogni frase, ogni gesto di Flavia assunse nella sua imaginazione due sensi contradittorii, ai quali egli rimaneva a lungo aggrappato come agli orli d’una voragine. «Ella lo amava? Amava quell’altro o rimaneva fedele al primo che aveva amato?» Egli rispose mille volte, successivamente, a queste diverse domande con la stessa affermazione convinta, interpretando una parola di lei scelta a caso nel corso d’una conversazione indifferente, una sua occhiata fuggevole o un tremito delle sue palpebre, un sospiro, un sorriso o un silenzio. Non si eran più trovati soli dopo d’allora. Aurelio per una settimana non aveva osato ripresentarsi a lei in quel luogo determinato, a quell’ora fissa del giorno. Si vedevan dunque, come per il passato, ai convegni comuni, dove non riuscivano a scambiare che qualche breve discorso o di quando in quando qualche sguardo eloquente. Una mutazione sensibile era però avvenuta nel contegno di Flavia: ella aveva deposto la sua maschera sarcastica e lo trattava ora con la massima cortesia, sempre un po’ fredda nell’aspetto ma con inflessioni di voce sottilmente insinuanti e con una certa gravità di linguaggio che dimostrava una deferenza insolita per lui, un rispetto nuovo per i suoi principii e per le sue ambizioni. Una sera che donna Marta si lagnava del nipote e delle sue trascuratezze verso di lei, ella disse inaspettatamente, senz’ombra d’ironia: — Per carità, contessa, non si lamenti! Io so che il signor Aurelio le vuole molto bene. E poi, creda a me, noi donne non abbiamo il diritto di pretendere dagli uomini, che hanno un ideale e interamente vi si consacrano, più di quanto essi ci possono concedere. Se noi vogliamo esser per loro un appoggio e non un ostacolo, è giuocoforza che ci pieghiamo alle loro esigenze e accettiamo senza protesta il posto ch’essi ci assegnano nella loro vita. Il signor Aurelio avrà certo uno splendido avvenire; farà un grande onore al suo casato: ella dovrebbe esserne superba e non chiedergli di più. E un’altra sera che tutte a vicenda avevan pianto su la loro sorte, ella disse anche, rivolgendosi a lui direttamente: — Chi proprio deve esser felice tra noi è lei, conte; lei, che non ha pensieri, non soggiace alla comune debolezza dei sentimenti, e vive una vita speciale, tranquillo, sereno, appartato in mezzo alle sue idee, come in un mondo creato a sua imagine e somiglianza. Ella non sa quanto io la invidii, certe volte. Se fossi nata uomo, avrei voluto essere come lei, forte, solo, libero e sdegnoso d’ogni giogo. Non sospettava dunque ancora la fiamma divoratrice che gli ardeva nel cuore? O diceva queste cose per accertarsene, per studiare sul suo viso l’effetto che avevano dentro di lui? Così passò un’altra settimana, e il piano di conquista imaginato da Aurelio rimaneva tuttora allo stato di mera intenzione, sempre più incerto e più difficile. Le sue speranze s’estinguevano, progressivamente; il suo sogno di felicità andava avvolgendosi ogni dì più in cupe ombre, da cui l’imagine di Flavia usciva a pena visibile, tentatrice e irreale come un’apparizione d’incubo. Tutta la sua giornata non era omai che una lunga agonia. Egli, come pensava al giorno in cui il rivale sarebbe ritornato, si sentiva morire d’ansia e di raccapriccio. E quel giorno era vicino; e ogni ora inerte, anzi ogni attimo, che il suo cuore pulsando annunziava perduto, lo approssimava di più! Che fare adunque? Che tentare? Eppure qualche cosa ancora bisognava fare e tentare, prima di risolversi all’ultima rinuncia, prima d’abbandonare il campo all’odiato vincitore. In tanto, l’ora era giunta per lui del grande verace amore di sua vita. Pareva che sotto l’azione del fuoco violento, tutto il suo essere si fosse trasmutato, dilatato oltre i limiti consueti, alleggerito, e arricchito di nuove e sconosciute proprietà. Pareva che fosse sopravvenuta in lui un’altra anima in luogo della sua propria, un’anima sensitiva e imaginosa che, avendo a sdegno le nozioni precise e le fredde astrazioni, amava appassionatamente le cose incerte, mobili e colorite, i facili errori della fantasia, i trepidi voli dell’idea nell’aria crepuscolare dei sogni e delle leggende. Egli si rinnovava; egli aveva cessato d’essere pensatore per divenire artista. Egli sentiva ora il bisogno d’adornarsi, d’abbellire tutto ciò ch’era intorno a lui, di vivere una vita estetica, composta di sensazioni armoniche e ritmate. La sua squallida camera, già ingombra di libri e di fogli gittati qua e là in disordine, s’assestò, si trasformò, apparve sotto un aspetto nuovo, femminilmente gradevole. Egli prese dalle stanze superflue alcuni tappeti, un grande specchio e due o tre quadri, e ve li dispose con cura, quelli sul suolo e questi su le pareti; con un drappo, scoperto nella chiesuola annessa al palazzo, si foggiò un ricco padiglione sopra il capezzale del letto; discese in giardino, e colse molte rose, alcuni mazzi di fiori campestri, alcune fronde d’edera per riempire i vasi polverosi e ornare con essi la tavola da lavoro, il vecchio canterano e la specchiera. Persino nel suo modo di vestire e d’atteggiarsi, egli dimostrò una sollecitudine non mai avuta, una preoccupazione assidua e intensa di piacere, un gusto raffinato nella scelta delle forme e delle sfumature, il cui segreto non avrebbe mai sospettato di poter conoscere. E per occupare i suoi ozii agitati, si fece mandare dalla città diversi libri di liriche, che lesse per la prima volta, fremendo, esaltandosi, spasimando, quasi gli rivelassero nel loro linguaggio poetico e ardente l’ardore e la poesia de’ suoi sentimenti inesprimibili. Alte idee, in vero, sorgevan nella sua intelligenza, mentr’egli compiva inconscio la profonda metamorfosi. «Perché non debbo io amare?» egli si domandava. «Perché questa rinuncia, questa mortificazione, questa restrizione? Non sono io giovine? Non son forse degno del supremo godimento della vita? L’attimo è fuggevole; e dopo l’attimo vengono ininterrotte le tenebre del nulla. Posso io sacrificare questo attimo a un avvenire, di cui non avrò mai più visione, nè coscienza? Posso io ragionevolmente opprimere e disconoscere i diritti di questa carne mortale, che _forse_ è tutta quanta la mia sostanza?» Egli anche pensava: «Io ho saputo fino a oggi trionfare de’ miei sensi, per esser libero e consacrarmi interamente alla preparazione d’una vasta coltura e d’una chiara comprensione della vita. E per trionfare de’ miei sensi, ho giudicato l’Amore un’inferiorità, una bruttura, un pericolo. Ma se mi fossi ingannato? Se le commozioni dell’Amore, ch’io non ho voluto conoscere, fossero diverse da quelle che ho supposte, e rafforzassero in vece il carattere e sollecitassero l’ingegno alle imprese memorabili?» Dai libri di poesia, ch’egli continuamente leggeva, saliva al suo cervello, come un profumo inebriante, il culto fanatico, la glorificazione, l’apoteosi della grande passione, che l’Arte ha generato e cui l’Arte filialmente venera. Per quei poeti, gente nobile e illustre, l’Amore era tutto: era l’armonia dell’universo, la fiaccola del genio, era la gioja, era l’ideale, era la divinità. Senza l’Amore, il mondo non aveva più sole; senza l’Amore, la pace, la gloria, le ricchezze, la stessa fede non eran se non parole vuote di senso, ornamenti derisorii gittati sopra un corpo piagato e difforme. — Perchè vivere se non per amare? — si chiedevan quei poeti, volgendo in torno gli sguardi assetati di felicità. E il cuore del giovine ripeteva profondamente, come un’eco fedele: «Perchè, perchè vivere se non per amare?» In quegli ultimi giorni, ispirato da quelle voci fascinevoli, sospinto dal pensiero che l’altro stava per ritornare, Aurelio divenne ardito, risoluto, intraprendente, non trascurando mezzo alcuno a fin di raggiungere il suo scopo nel termine prefisso. Ormai nessuna incertezza rimaneva in lui su quanto avrebbe dovuto fare per costringere Flavia a una risposta sincera e decisiva: occorreva parlarle a cuore aperto, dichiararle senza ambagi il suo sentimento, chiederle con lealtà se lo potesse ella, ora o in un giorno non lontano, contraccambiare; bisognava abbandonare i piani lenti e astuti per appigliarsi alle risoluzioni rapide ed energiche. Ma come trovarla sola? Con qual pretesto domandarle un colloquio in disparte? Ed era forse possibile ottenere un risultato da una conversazione a bassa voce in cospetto delle altre donne? La migliore occasione per trovarla sola era irremissibilmente sfumata. Dal giorno, in cui egli s’era spinto fino al sommo della pineta, Luisa aveva pregato la zia di trasportarle l’esercizio di pianoforte alla mattina, e non aveva più lasciato Flavia durante l’intero pomeriggio. Aurelio, risalito là per ben due volte pien di speranza, aveva dovuto ritornarsene deluso e scorato in palazzo, dopo aver passato un’ora di supplizio ineffabile accanto alle due giovinette. Egli procurò dunque di farsi intendere da lei a sguardi, a reticenze, ad allusioni velate durante i ritrovi comuni sul rialto; si diede a corteggiarla nettamente e volgarmente, sedendole con ostentazione sempre vicino, cercando di trascinarla per gradi ad appartarsi dal crocchio, a discorrere con lui solo di cose intime, discrete, confidenziali. Più volte, nella mezz’ombra dei crepuscoli caduchi, sdrajato al suo fianco su l’erba dello scalere, egli, approfittando d’un momento opportuno, riuscì a parlarle del mutamento avvenuto in lui negli ultimi tempi e ad accennarle i suoi nuovi desiderii; anche tentò, con qualche inchiesta astuta, d’investigare a fondo nel mistero della sua sensibilità. Ma le presenze estranee esercitavan pur sempre sul suo spirito una bizzarra influenza: egli, per sottrarsi alla loro soggezione, doveva dare alle sue frasi sentimentali un tono fatuo e giocoso; egli doveva discorrere scherzando, a similitudine d’un balbuziente che, per vincere la difficoltà di parola, bisogna che canti. Flavia, d’altra parte, pareva che si prestasse amabilmente a quel giuoco: lo ascoltava con visibile piacere, e gli rispondeva a tratti ridendo, schermendosi dalle celie con altre celie più leggere. — Via, signor Aurelio, — gli diceva talvolta, oppressa dalla sua insistenza: — sarebbe tempo di finirla con questa burla. Io non posso credere a una sola dalle sue parole. Non posso credere ch’ella parli da senno; e, le confesso, non mi garba d’esser burlata. — Ma io parlo da senno, signorina, — egli affermava, cercando d’atteggiare il viso a una espressione più seria. — Lei? con le sue idee? con il suo orgoglio? con le sue belle opinioni su le donne?... Ma mi stima dunque così ingenua e, diciamolo pure, così sciocca da credere cecamente a tutto quanto mi si racconta? Ella, caro signore, vuol divertirsi un poco alle mie spalle; ma io, benchè non sia che un povero essere inferiore, ho però almeno tanta intelligenza quanta ne occorre per intenderlo. Altra volta, gli chiedeva anche con voce grave, quasi malinconica: — Perché mi dice queste cose, signor Aurelio? Se scherza, ha torto di scherzare. E se parla sul serio, ho torto io d’ascoltarlo. E il giorno ultimo venne, inaspettato, senza che Aurelio avesse potuto effettuare anche in minima parte il piano di conquista, che gli era già sembrato così agevole e d’esito quasi sicuro! Ritornò il padre Boris, ritornarono gli ospiti, riapparve il pretendente basso e tarchiato, dalla pelle olivastra e dagli occhiali d’oro. Venne anche a sera lo Zaldini, più fresco e più giocondo che non mai, essendo stato chiamato per lettera dall’Imberido in sèguito alle preghiere insistenti di Luisa. La comitiva a bastanza numerosa, divisa in tre imbarcazioni, lasciò il villaggio verso le cinque del pomeriggio per passare la notte a Baveno ed esser pronta, la mattina dopo per tempo, a intraprender l’ascensione del monte. In una lancia erano l’ingegnere Boris, il Siena e le due fanciulle; in un’altra la signora Teresa, sua cognata e Giorgio Ugenti; e nella terza infine, donna Marta accompagnata da Camilla, e Aurelio e Luciano ai remi. La vecchia quantunque indisposta e sofferente, aveva voluto seguire la comitiva almeno fino a Baveno, dove sarebbe rimasta con la fantesca in aspettazione, per far ritorno a Cerro insieme con gli altri nella sera successiva. Una grande tristezza occupò l’anima del giovine durante la lunga traversata e durante il pranzo interminabile alla tavola rotonda dell’_Hôtel Belle-Vue_. Nel silenzio del lago, battuto da un sole bianchissimo, nella gran sala oblunga, popolata d’Inglesi impassibili e di Tedeschi ciarlieri, il pensiero di Flavia non lo abbandonò un solo istante, e la presenza del rivale, sempre accanto a lei, non cessò di martoriarlo, come un cancro ostinato che gli rodesse il cuore. In vano lo Zaldini tentò più volte di farlo sorridere con le sue storielle e il racconto grottesco d’una sua recente avventura d’amore; Aurelio rimase pertinacemente muto e grave, finchè questi, tediato dalla sua indifferenza, si risolvette a volgergli le spalle e ad appiccar discorso con un vecchio signore inglese, suo vicino di mensa. Ora Luciano chiacchierava allegramente e senza ritegni con il nuovo suo amico, decantando nel più pretto idioma britannico la bellezza incomparabile delle _misses_ e l’eccellenza del gin e del _whisky_ come eccitanti delle più pazze fantasie. — Io, se per avventura m’ammoglierò, — diceva lo Zaldini a voce alta, — sarà senza dubbio con una signorina del vostro felice paese, perchè adoro il biondo dei capelli e delle sterline. E voglio, la sera delle nozze, rinnovare il celebre aneddoto del campanello elettrico, che voi probabilmente conoscete, poichè l’eroe ne fu un vostro compatriota, anonimo ma non per questo meno degno di memoria... Il vecchio accennava di no col capo, incoraggiandolo a continuare con un’occhiata piena di curiosità lasciva. E il giovine infatti, senza farsi pregare, raccontava l’aneddoto salace, piegando il capo verso di lui, soffiandogli le parole fioche all’orecchio, scoppiando a tratti in una risata sonora, che trasfigurava per incanto il viso terreo e severo dell’ascoltatore. Nulla irritava di più lo spirito ansioso dell’Imberido che il cicaleccio frivolo e ininterrotto de’ suoi due vicini. A intervalli, tra lo strepito dell’acciottolìo e delle conversazioni diffuso per la vasta sala, giungeva a lui, come un avvertimento di sventura, la voce fessa e nasale dell’avvocato, seduto al fianco di Flavia a quattro posti in distanza dal suo. Egli, roso dalla gelosia, aguzzava l’udito a quel suono sgradevole, che pareva per poco dominare ogni altro romore; a volte, credeva di comprendere qualche frase inconcludente, un’affermazione, un ringraziamento, il nome dell’amata proferito dalle labbra odiose; ratteneva profondamente il respiro per afferrare il senso dell’intero discorso. Ma uno scroscio d’ilarità si levava d’improvviso presso di lui, e tosto la voce si disperdeva nel clamore, vinta e soffocata. Aurelio doveva fare un enorme sforzo di volontà per contenere il suo dispetto contro l’amico e vincere l’impulso cieco di levarsi in piedi e allontanarsi da quella sedia di tortura. Almeno gli fosse toccato in sorte un posto di fronte a Flavia e al rivale! Avrebbe potuto scrutarli, spiare i loro movimenti, i loro sguardi, le loro espressioni! Avrebbe potuto leggere su le loro facce il sentimento che li occupava! In vece, da quel posto, non gli era dato nè di vederli nè d’ascoltarli! Egli, anche sporgendo il capo in avanti, non riusciva a scorgere se non le loro mani, così prossime che parevan toccarsi, così mobili nella comune bisogna, che tal volta egli non sapeva distinguere le une dalle altre!... Dopo il pranzo, la comitiva uscì dall’albergo per fare una breve passeggiata prima di coricarsi, e si diresse a piccoli gruppi verso Stresa su la gran via provinciale che costeggia il lago fino ad Arona. Il vespero era chiaro, pallido, còrso come da un brivido voluttuoso. I vasti boschi di castagni, che avvolgono le falde del Motterone, piovevano su la strada polverosa una frescura umida, un profumo penetrante di terra e di vegetazione. Dal lago, a pena increspato presso le rive, saliva un odor caldo di pesci e d’erbe fracide. L’isola Superiore, sola su le nebbie delle lontananze, spiccava nitida dalle acque, con le sue case fitte e inghirlandate, con il bianco campanile della chiesuola acuminato verso il cielo, come un ideale. Le donne procedevano insieme; poi venivan gli uomini in due file: il Boris d’avanti tra l’Ugenti e il Siena; e Aurelio e Luciano in coda. Luisa, accanto a Flavia, accennava a mezza voce, malinconicamente, l’aria preferita del _Faust_; donna Marta, eccitata dalla novità del luogo e dalla compagnia numerosa, parlava forte, con animazione quasi febbrile, al braccio della signora Teresa e della sorella dell’ingegnere. L’Imberido, che si sentiva più calmo e come rassicurato, domandò sorridendo all’amico: — Perchè hai tardato tanto a ritornare a Cerro? Hai dunque sùbito dimenticato la signorina Luisa e i tuoi entusiasmi sentimentali per lei? — Dimenticata? non del tutto. Ma, che vuoi? appena giunto a Milano fui travolto in quell’avventura eroica, che t’ho narrata e tu non hai avuto la bontà d’apprezzare. Ho corso due volte serio pericolo di vita; ho passato intere ore rinchiuso in un armadio, come un vecchio soprabito; ho visto un marito passarmi d’innanzi col lume in una mano e un’enorme mazza ferrata nell’altra. Capirai: le commozioni violente esercitano una certa influenza su la memoria: ed io per il momento ho scordato la bionda incantatrice e l’innocente idillio campagnuolo. Però, come vedi, al solo nome di lei apparso in una tua lettera d’invito, io non ho esitato a lasciar Milano, ed ora sono qui. Che puoi pretendere di più dalla mia fedeltà? — E... come hai trovato Luisa al tuo ritorno? — ridomandò Aurelio con ironia. — Ah, per questo, mutata, molto mutata! Forse, te lo confesso, mi son lasciato troppo desiderare. Ma... e tu, tu come te la sei passata in questi due mesi di convivenza con l’altra, con la bruna, nel palazzo fatato, tra i boschi maravigliosi? Sarei curioso d’accogliere oggi le tue confidenze: credo che ne sentirei di carine. L’eremita mi ha l’aria d’essersi fatto diavolo. M’inganno? — Assolutamente, — rispose sicuro l’Imberido, fissando gli occhi a terra. — La signorina Boris è in teneri rapporti con quel signore dagli occhiali d’oro, che ci precede. Si parla anzi d’un prossimo matrimonio con lui. Lo Zaldini parve molto maravigliato dalla notizia. — Davvero? Ma ella sarebbe fortunatissima, caro mio! — egli esclamò. — Io conosco il Siena da molti anni. È un giovine coltissimo e simpaticissimo! Uno degli avvocati più apprezzati e meglio retribuiti di Milano! E poi, è molto ricco: figùrati che ha ereditato, or non è un anno, cinquecento mila lire da uno zio di Ferrara. E sua madre è nata di casa Orbetello, figlia del celebre banchiere di Roma, arcimilionario. Se è vero quanto mi racconti, la signorina Boris fa uno dei più splendidi matrimonii che si possano imaginare. Aurelio ascoltò, contenendosi a stento, l’elogio del rivale aborrito, detto senza malizia da una bocca fraterna. Non ebbe un gesto di protesta; non una contrazione di spasimo, non un tremito delle mani, non un battito delle palpebre. Ammutolì, si fece smorto in viso, sentendo penetrare nel cuore a una a una le parole dell’amico, come trafitture di spillo. Gli parve che tutto crollasse intorno a lui. Gli parve di udire la sua condanna mortale pronunciata da un giudice inappellabile. — Che valeva omai resistere? Che valeva lottare? A che servivan la sua ostinazione e il suo orgoglio? Costui era il preferito, era il vittorioso, era il più forte. Costui era l’invincibile, d’avanti al quale bisognava per necessità cedere o soccombere. Una divina speranza si spegneva, troncata da quelle affermazioni, irreparabilmente. La luce non era più luce, la vita non era più vita! Nel ritorno egli non parlò più. Scendeva la sera e il vento aumentava su la montagna oscurata. Dalla gola di Mergozzo, già invasa dalle tenebre, venivano a intervalli i soffii striduli e subitanei, si riversavano scrosciando su le acque, giungevan senza freni alla terra, e quivi, irritati dall’ostacolo, imperversavano contro la foresta, che si piegava e si torceva con un fragor formidabile di ruina. E l’anima del giovine avvizzita e divelta dal dolore, pareva seguire travolta il cammino della corrente aerea, anelando alla distruzione, alla dispersione, all’annientamento totale di sè stessa, tra il folto di quegli alberi conquassati, verso le lontananze misteriose, dove le raffiche ululando s’inabissavano. La notte era ancora profonda, quando la comitiva lasciò l’albergo e s’incamminò al lume fioco delle lanterne su per le falde boscose del monte. Durante un lungo tratto nessuno parlò per il calle aspro e angusto, serpeggiante sotto la verzura profonda: procedettero tutti, uno dietro l’altro, in silenzio, ancora un poco ottusi dal sonno bruscamente interrotto, intenti con gli sguardi al suolo, che le sporgenze delle radici e delle rocce rendevano insidioso. A metà della selva per la prima volta riposarono: le donne più affaticate sedettero su i macigni o su l’erba, gli uomini rimasero in piedi vicino a esse, in aspettazione. L’aria era fresca e ancor buja: il vento, alquanto scemato di forza, stormiva tra le fronde, spostando i brani di cielo visibili in cui palpitavano gli astri. Verso l’oriente l’azzurro incominciava a impallidire. Si scambiarono poche parole durante la sosta, che fu assai breve: le signore, assalite dai brividi, si lamentarono del freddo e sollecitarono la partenza. Ripresero tutti insieme il cammino, nel medesimo ordine di pocanzi, con la stessa svogliatezza muta, con una maggiore preoccupazione del terreno. Man mano che salivano, il sentiero si faceva più ripido e più scabro, l’ànsito dei viandanti, più frequente e più grave. E il bosco si diradava, e i castagni immiserivano tra la ghiaja, e il cielo costellato si schiudeva più libero sopra le loro teste. Si udiva solo, nel silenzio antelucano, il ticchettare monotono dei passi contro le pietre mobili del calle, si scorgeva omai là, lontano sotto di loro, il lago, simile a una vasta distesa di pece brunastra, simile a un immane stagno limaccioso in mezzo alle incerte forme delle montuosità. La comitiva, un poco avvivata dall’aria più leggera, giunse al confine della selva e in vista della vetta, quando l’alba imperlava già l’orizzonte sopra i colli di Lombardia. Gli ultimi alberi crescevano sul ciglio d’uno sprone scosceso, al sommo del quale l’erta d’un tratto s’addolcisce larghe praterie irrigue s’incurvano mollemente, appoggiate a una tenue concavità e quindi al pendìo terrigno del monte. Nel chiaror livido dell’ora, quei prati avevano una tinta cupa e unita, d’una inimitabile morbidezza; e qua e là, di tra l’erbe, balenavano foscamente le grandi pozze degli abbeveratoi o spiccavano le macchie nere delle stalle e delle capanne pastorizie. Un tintinnìo languido di campani e qualche sordo muggito venivan dall’alto, dove una mandria usciva in quel punto per il pascolo. Come la viottola si stendeva più larga e più agevole, la comitiva ruppe per ragunarsi l’ordine primiero di marcia, e le conversazioni non tardarono ad accendersi. Camminavano tra i prati, quasi su un piano, disposti in due schiere, stretti gli uni agli altri, rinvigoriti e imbaldanziti dalla brezza e dalla vision della mèta. L’Ugenti e lo Zaldini apparivano allegrissimi, e gareggiavano in dir motti e sciocchezze, che sollevavan l’ilarità delle quattro donne; e il Siena a volte li secondava, con la sua flemma mordace e quasi maligna. Ma Aurelio seguiva astratto e taciturno i compagni, volgendo gli occhi inquieti su la severa maestà del paesaggio. Era in lui, dal momento in cui aveva lasciato l’albergo, una perplessità strana e confusa, che era andata a grado a grado addensandosi fino a opprimerlo come un’angoscia. Aveva passato una notte insonne, sprofondando gli sguardi nel vortice della sua infelicità; aveva sentito più volte morire le sue speranze e risuscitare per novamente morire; aveva singhiozzato come pazzo nelle tenebre, immemore dell’amico che dormiva tranquillamente accanto a lui. Ma poi, quasi per un prodigio, appena su la via, ogni triste ricordo s’era spento, ogni doloroso residuo erasi dileguato nel suo pensiero; ed egli era caduto in una specie di torbida incoscienza animale, rotta da fuggevoli proponimenti e da incerte fantasie. Ora egli seguiva i compagni astratto e taciturno, occupato tutto da un pensiero ignoto, da un’ignota volontà, da un’intenzione che rimaneva occulta nei recessi impenetrabili dell’essere. Il pianoro fu ben presto attraversato. Il calle per giungere alla cima si drizzò più arduo che non mai, lungo il dorso eretto, sdrucciolevole per le infiltrazioni delle acque, che costituisce la mole centrale della montagna. La comitiva dovette sbandarsi di nuovo, e ciascuno separatamente intraprese l’ultima ascensione, chi seguendo il cammino più comodo tra i margini del sentiere, chi cercando il tramite più diretto su le zolle madide del prato. Un superbo spettacolo si svolse frattanto, da ogni parte, intorno a loro. La luce aumentò con rapidità, come regolata da una mano impaziente: l’erbe splendettero, si copersero d’innumerevoli fiori; le pozze degli abbeveratoi si rischiararono; le stalle e le capanne pastorizie spiccarono con le loro forme pittoresche tra il verde uniforme delle praterie. Di qua e di là, su la frescura dei pascoli, apparvero distintamente le mandrie e i greggi, che si udivan prima tintinnare, muggire e belare nell’ombra. Quando il chiarore si diffuse più crudo, le catene dei monti, abbraccianti il Verbano, si fecero tutte palesi nella loro ricca vegetazione fino alle estreme punte settentrionali, si propagarono come un’immensa successione di gigantesche onde impietrite rimaste a vestigio d’una qualche primordiale fluttuazione tellurica. E, in basso, il lago opaco e inerte si mostrò lucido e bianco nell’alba, simile a un bel fiume di latte, simile a una favolosa lama d’argento piombata dall’alto e affondatasi per la sua gravità nelle onde della terra molle. In fine l’aurora venne a tinger di rosa l’orizzonte lontano. Sul monte Nudo, sul Sasso del Ferro, su i colli di Mombello, lungo la linea quasi diritta delle campagne d’Ispra e di Ranco, una zona di luce rancia si prolungò in guisa d’un nastro serico che orlasse per vaghezza i capricci del litorale. Quasi sùbito, alcune strisce di vapori si formaron per incanto nell’aria pura; parvero imbeversi, come spugne, delle tinte calde dell’aurora; s’accesero, fiammeggiarono preannunziando l’avvento glorioso del sole. E questo maravigliosamente comparve, fuor del dosso precipitoso che incombe sopra Laveno, prima come un punto incandescente e poi come una gran bolla di fuoco espressa dalle viscere del monte. Le vette s’imporporarono; i raggi discesero a grado a grado per le chine, cospargendole d’oro; avvolsero in una nebbia adamantina le falde boscose; s’infransero in ultimo su la superficie delle acque, provocando nell’urto l’accensione subitanea d’infinite scintille. Il nuovo giorno era fatto. Le campane dei villaggi squillarono a festa, in segno di saluto. La comitiva fu sbandata e dispersa dalle difficoltà sempre crescenti dell’ascesa. I più giovini e i più validi, procedendo lunghesso i prati, s’allontanarono dagli altri che rimasero in basso, trattenuti dall’affanno e dal calore. L’Ugenti e lo Zaldini, offrendo le mani a Luisa, trascinandola a forza su per l’erta, scomparvero primi alla vista dei compagni in una valluccia angusta, avvivata da un ruscello garrulo e schiumeggiante. Il Siena più cortese restò sul sentiere tortuoso con la signora Boris, l’ingegnere e sua sorella, per soccorrerli nei passi disagevoli. Aurelio e Flavia si trovarono d’un tratto soli e liberi, come smarriti nel monte deserto, su una piccola prominenza erbosa a metà della china. Quando il giovine se n’avvide, volgendo gli occhi in torno, ebbe un sussulto improvviso e violento in tutto l’essere. — Flavia era là, d’avanti a lui, come in quel giorno lontano sul minuscolo prato al sommo della pineta! Ella saliva pianamente per quella distesa inclinata, tra l’intonsa verzura, lasciando dietro di sè un mobile solco di fili prosternati. Portava ancora, come in quel giorno, l’abito grigio, attillato, senza guarnizioni, che una cintura d’un color di lilla pallido avvinceva strettamente sopra i fianchi sobrii e a pena arcuati. E recava in testa il cappellaccio di paglia dalle tese larghe e convesse, su cui risaltavan due tulipani sanguigni in un ciuffo di foglie e di spiche. Oh, le memorie, le memorie! — Aurelio si volse, fissò gli sguardi laggiù verso il lago, all’opposta riviera dove biancheggiava il villaggio solitario. Era là, sotto di lui, remotissima, la pineta del palazzo, simile a un ammasso di cose oscure, indefinibili; era là il luogo nascosto e favorevole, dov’ella aveva per la prima volta incantato la natura e la sua anima. Ancora ella lo incantava; ancora e più, ella con la sua grazia annobiliva e irraggiava le apparenze per mezzo a cui passava. Eretta su lo sfondo verde e fiorito, come in quel giorno lontano, ella era simile a un’imagine immortale e immutabile. Anche una volta il giovine, contemplandola, non vide in lei la fanciulla ch’egli ben conosceva: vide l’arbitra del suo destino mortale, la custode della sua felicità, l’incarnazione portentosa del suo più schietto Sogno di giovinezza; vide l’Unica che avrebbe potuto far di lui un essere giojoso. Con un impeto subitaneo, come spinto a tergo da una forza esteriore, accelerò il passo sul pendìo; e, giunto presso colei che lo precedeva, disse: — Flavia, m’ascolti. È la prima volta, dopo molti giorni, che ci troviamo soli. Io ho passato due settimane di tortura ineffabile, cercando un mezzo per poterle liberamente parlare..... Oggi finalmente il caso mi ha favorito.... Ho bisogno di farle una confessione assai grave e di chiederle un consiglio. — A me? — ella domandò con un accento ambiguo, d’incredulità e d’ironia, volgendo a pena il viso verso di lui. — A lei, Flavia, a nessun altri che a lei. Poi, dopo una pausa in cui parve ch’egli ascoltasse i palpiti accelerati del suo cuore, soggiunse: — Ella mi troverà molto mutato; si stupirà del mio cambiamento radicale da un mese a questa parte. Io non ne ho colpa alcuna; ho fatto il possibile, signorina, per soffocare i nuovi desiderii e le nuove commozioni del mio spirito, per esser forte, per riprendermi e per dominarmi. Tutto fu inutile. Dirò meglio: ogni sforzo della mia volontà ribelle non riuscì che ad accrescere i miei turbamenti e le mie angosce. Io sento oggi che una sola via di salvezza mi rimane: quella di rivolgermi con tutta franchezza a lei, e di rimettere fiduciosamente nelle sue mani il destino della mia vita. — Mio Dio! — esclamò la fanciulla, tentando di sorridere. — È una responsabilità troppo grave ch’ella mi vuole addossare! Io non credo d’esser da tanto, signor Aurelio. Il viso del giovine si coprì di pallore; le sue mani tremarono; i suoi occhi si volsero inquieti in torno, come se un passo estraneo fosse risonato d’improvviso dietro di lui. — Per carità, Flavia, non rida, non scherzi! — egli riprese a dire, rassicurato dalla solitudine; — ella deve comprendere ch’io parlo ora con tutta l’anima mia; ella da molto tempo deve aver compreso ch’io la cerco, ch’io la seguo, ch’io non perdo un’occasione di potermi avvicinare a lei. Ricorda, Flavia, quel giorno che son salito lassù, sapendo di trovarla sola, e l’ho interrogata? Ricorda il mio sgomento, la confusione delle mie parole? Ricorda bene la mia ultima domanda? Già fin d’allora avrei voluto confidarmi a lei interamente.... Era salito per questo, ella deve averlo compreso... E m’ha dato una risposta così fredda, così crudele! Ella, che sempre camminava, sorrise. — Crudele, ma meritata, — mormorò con un fil di voce, senza levar gli sguardi dal prato. — No, meritata, no. Forse, prima; ma poi, poi.... e in quel momento!.. Ebbene, Flavia, ella non sa, non può sapere quanto io ne soffersi. Ella non sa ch’io ho passato giorni e notti intere, meditando quella risposta, analizzandola, rivolgendola dentro di me, cercando sotto le parole i sentimenti che potevano averla dettata. — E perchè? — ella domandò, interrompendo, con un tono forte di voce e un atto superbo della testa, che diedero al semplice motto una significazione profonda. Egli anche si eresse; egli anche per poco la fissò, sicuramente. Ma lo sguardo di lei dal basso in alto, uno sguardo armato, turbinoso, pieno di mistero, lo vinse, obbligandolo ben tosto a distoglier di nuovo gli occhi dal suo viso. Egli rispose dunque, umilmente, a capo chino: — Perchè io l’amo, signorina Flavia. La fanciulla non si scosse alla grande confessione. Si fermò, in aspetto indifferente, e mormorò dopo una pausa, abbassando le palpebre: — Fermiamoci qui. Aspettiamo gli altri. — Oh, Flavia! Flavia! — proruppe egli con impeto, irritato da quella freddezza, esaltato dalla sua audacia, deciso a combattere fino all’estremo. — Ella non mi risponde? Non ha nulla da dirmi, almeno per cuore, per pietà? Ella mi respinge dunque così....?! — No, io non la respingo, — disse Flavia tranquillamente, rimanendo ritta di fronte a lui. — Non è ch’io la respinga. M’aveva chiesto un consiglio, e volevo pensare coscienziosamente prima di risponderle, appunto perchè le sue parole m’hanno colpita e il suo sentimento non mi può che insuperbire. Essere prescelta da lei, nobile, intelligente, coltissimo: è certo l’ideale sognato da una donna. Ma io ho sofferto, signor Aurelio; le tristi vicende della vita m’hanno resa cauta e diffidente.... Io so, io sento che, secondando l’impulso momentaneo, preparerei la mia, la nostra sventura avvenire... E questo non voglio. — Oh, Flavia.... — Ricordo bene le sue parole, — ella continuò, senz’interrompersi, con un accento vibrato e sicuro, sempre ritta, sempre immobile di fronte a lui. — «L’uomo deve rimaner solo, libero, senza impegni, senza legami, se vuol riuscire nel suo intento, se vuol vincere e dominare.... L’amore è un’umiliazione... La donna è una ruina, un essere inferiore che affascina e che distrugge!...» Ella vede, Aurelio, io le ricordo tutte; e le ricordo perchè le ho a lungo considerate e meditate. Ho creduto allora a lei, come credo adesso; ma devo alle prime parole prestare una fede maggiore, perchè quelle eran dette pacatamente, risolutamente, senza influenza di commozione o di sentimentalità. Ora, pensi, pensi, Aurelio: come potrei, con la memoria lucidissima delle sue massime sconfortanti, abbandonarmi, spensierata e fiduciosa, all’illusione presente, al fascino ingannevole d’un sentimento, che in lei non può durare?... — Oh, Flavia, ella dubita di me? — egli chiese, con la voce strozzata dall’affanno. — Dio me ne guardi! Ma anche lei oggi si illude; anche lei s’inganna, in preda a un’esaltazione passaggera, che basterà la più piccola contrarietà a calmare e a disperdere.... Se io poi le intralciassi il cammino? Se io potessi un giorno esserle d’ingombro? Se in avvenire le dovessi costare il sacrificio de’ suoi ideali e delle sue giuste ambizioni? Ella avrebbe pure il diritto di rimproverarmi questo momento di debolezza e di malintesa condiscendenza; ed io avrei segnata per sempre la mia condanna! — Le mie ambizioni! — egli esclamò, con doloroso sarcasmo. — I miei ideali! Io non rammento più neppure d’averli sognati!... — E questo è appunto ciò che più mi sgomenta. Perché un giorno ella potrà dire con uguale sincerità: «Il mio amore! Io non ricordo più neppure d’averlo supposto!» E in quel giorno, gli ideali e le ambizioni si saranno di nuovo impadroniti di tutta la sua anima, come e forse più che in passato!... Ah, no, no, rifletta bene, signor Aurelio: è impossibile, impossibile! A lei è riserbato un avvenire di gloria, ben diverso dal mio. Ella deve restar solo. Alle sue idee predilette, alle grandi battaglie della vita, ella deve consacrare tutto quello che v’ha di alto, di buono, di nobile nel suo intelletto e nel suo cuore. Solamente così potrà vedere giorni felici; poichè il sogno, che ella ha accarezzato dai primi anni di sua giovinezza, è ben di quelli che si realizzano o rendono intollerabile qualunque altra realità. Ella parlava con una tale sicurezza e una tal limpidità, che le sue affermazioni assumevano su l’animo dell’ascoltatore un’irresistibile virtù persuasiva. Egli non osava più interromperla; egli la guardava con un’indicibile angoscia, sentendo a poco a poco passare nell’anima sua le idee ch’ella gli veniva esponendo e impossessarsi contro ogni volontà della sua ragione. E vedeva l’ostacolo crescere tra loro, salire a mano a mano come una nebbia densa, dividerli per sempre e respingerli indietro, sempre più indietro, verso due plaghe remote, inaccessibili l’una per l’altra. — Pensi poi al mio passato, al mio tristissimo passato, signor Aurelio! Esso pesa sopra di noi non meno grave del suo lieto avvenire. Pensi alla delusione, ch’io ho sofferta e m’ha distrutto ogni ingenuità del cuore, ogni fede, ogni entusiasmo! Che cosa potrei darle io oggi, in cambio del suo affetto? Un povero fiore, sì, ancora, ma senza profumo e che la bufera ha già fatto baciar la terra!.. Ella vede dunque: è meglio, è necessario per entrambi che questa follìa non continui. Lasciamoci da buoni amici, che si conoscono e si stimano. E proseguiamo senza rimpianti le nostre due vie, che son diverse e non possono confondersi. Più tardi, creda, ella penserà a me con riconoscenza; più tardi mi saprà grado d’essere stata forte e riflessiva in un momento in cui ella non lo era. Flavia s’arrestò, calma, pensierosa, un poco triste, e lo fissò negli occhi intensamente. — Ella, in cuor suo, già m’approva, non è vero? — chiese, con un pallido sorriso. — Addio, dunque. E... grazie! Disse anche, dopo un silenzio: — Si ricordi di me come d’un’amica sincera, devota, immutabile. Io non dimenticherò quest’ora della mia vita mai, mai... E gli stese con un atto franco la mano. Aurelio, passivo e attonito, la prese nella sua, la strinse con forza. Si udivan da lontano le risa della bionda echeggiare contro il monte solitario; si udivan di qua e di là tintinnare i campani delle mandrie e dei greggi su i pascoli. Il Sogno pareva disperdersi, e il risveglio era assai desolato. Egli era solo, senza più una speranza, senza più un’illusione. Egli sentiva nell’anima la necessità fatale d’esser solo, «per riuscire nel suo intento, per vincere e dominare.» Qualcuno aveva affermata questa necessità; ed egli se n’era persuaso. Su, su, sempre più in alto, egli sarebbe dovuto andare, continuamente andare, portando la croce della sua sapienza, anelando affaticato alla sommità del suo Golgota, dove avrebbe trovato ad aspettarlo la Morte. Quale forza terrena sarebbe riuscita a opporsi a una disposizione superna? «Chi, chi può dunque mutare il destino?» Così era e così doveva essere. Le gioje dei mortali non eran per lui, non eran per quelli che son destinati a sacrificarsi a un Ideale, a versare il loro sangue più puro per fecondar la terra o per imbevere le sabbie. Su, su, sempre più in alto, egli avrebbe dovuto andare, continuamente andare, chiudendo gli occhi agli spettacoli giocondi della vita, per non morire lungo il cammino d’invidia e di desiderio! Ma non gli era dunque riserbato un conforto, un unico conforto nella sua gloriosa sventura? Egli cercò avidamente nel suo cuore se un conforto esisteva. E l’imagine sparuta della nonna gli sorrise benigna di tra le tenebre, come la prima e l’ultima dolcezza del suo infinito abbandono. X. TRA L’AMORE E LA MORTE. La sera del dì successivo l’ingegnere e gli ospiti partirono. Anche Luisa, richiamata dal padre, dovette lasciare la villa e far ritorno a Milano in compagnia della sorella Boris. Su la spiaggia donna Marta e il nipote discesero a salutarli. Quando le due barche piene, dove avevan preso posto anche Flavia e sua madre, scomparvero alla vista, la vecchia, ch’era stata prodiga d’effusioni per tutti e aveva versato anche qualche lacrima abbracciando la bionda che pure piangeva, ebbe d’improvviso un colpo di tosse secca, violenta. — Vedi? Vedi? — le disse Aurelio, impensierito, prendendola sotto il braccio per ricondurla in palazzo. — Tu oggi dovevi fermarti a letto. Dopo l’imprudenza di jeri, tu non saresti dovuta alzarti. Prendere tutta quell’acqua! Arrivare a casa inzuppata come se avessi fatto un bagno nel lago! E tutto questo, per la tua ostinazione, per non volermi ascoltare mai, mai!... Non si poteva forse restare un’altra notte a Baveno? Non si poteva, poiché il tempo minacciava, rimandare il ritorno a questa mattina? Ma tu, no, tu, come sempre, hai voluto agire di tua testa; tu hai voluto tentare la traversata, soltanto perché io ti pregava di non farlo! E, lo sai, io te ne pregava soltanto per la tua salute.... Ora, vedi? Vedi? Hai la tosse. Ora ti ammalerai... — Crepi l’astrologo! — esclamò donna Marta, ridendo. — Non scherzare, mamma, — proseguì serio e accalorato il giovine: — quella tosse non mi piace, e bisogna che tu la curi prima che sopravvenga una qualche complicazione. Alla tua età i mali più leggeri son sempre pericolosi. Domani in tanto rimarrai a letto. Io esigo che domani tu rimanga a letto. — Domani farò quel che mi piacerà. — No, domani invece farai quel che a me piace, e sarà forse la prima volta che un caso tanto straordinario accade nella nostra vita. Donna Marta, ancora commossa dalla scena dei saluti, non era in vena di discutere e di litigare; e concluse con un sorriso di compatimento per il nipote: — Ebbene, domani ne riparleremo. La mattina dopo; quando Aurelio si presentò nella camera dell’avola, la ritrovò mezzo vestita d’avanti alla specchiera, in atto di pettinarsi. Egli ebbe un moto subitaneo d’irritazione che a stento potè contenere. Le domandò guardandola negli occhi: — Come? Ti alzi? Ella rispose: — Sì, mi alzo. Ma era più pallida del giorno prima. Era bianca come i suoi capelli, come la sua camicia. Egli richiese: — Hai tossito stanotte? Ella rispose: — A bastanza. Non ho potuto chiuder occhio fin verso l’alba. — E ti alzi ugualmente? — Sì. — Perchè, mamma? Perchè? — Perchè lo voglio. Perchè so che, se rimango a letto un giorno, non mi rialzo più. — Che sciocchezza!... Del resto, se farai così, quando ti deciderai infine a rimanervi, sarà troppo tardi e forzatamente il tuo triste presagio si avvererà. Egli si avvicinò a lei, la baciò su i capelli, le disse con la voce più dolce, implorando: — Sii buona: ritorna a letto, mamma! Ascoltami! — Non seccarmi! — ella proruppe d’un tratto, irosa. — Non ho voglia d’esser seccata, stamane! Lo vedi, non mi sento bene! Mi sembra d’avere il cuore sospeso a un filo! È una crudeltà questa tua di farmi arrabbiare nello stato in cui sono! Vattene via! Lasciami in pace! Aurelio comprese ch’era inutile insistere. Uscì dalla camera di donna Marta, inseguito da un presentimento sinistro. Come fu solo su la loggia, sentì gli occhi bruciare e inumidirsi; mandò un gran sospiro di rassegnazione desolata. «Mio Dio! Quanto era pallida! Quanto era breve la sua respirazione! Se mi morisse?!» egli pensò, trasalendo, affondando per un attimo paurosamente gli sguardi nell’avvenire. Durante la colazione, donna Marta si mostrò vivace, ciarliera, oltremodo allegra, di quella sua allegria nervosa e scomposta che ricordava un poco l’eccitazione d’un ebro. Domandò con insistenza al nipote i particolari dell’ascensione, alla quale era stata afflittissima di non poter prender parte; discorse a lungo dei vicini, profondendosi in elogi e in attestazioni di simpatia per essi; lo rassicurò anche a più riprese su la sua salute, affermando che in verità ella non si sentiva nè meglio nè peggio di prima. Quanto a quel po’ di tosse, càspita, non c’era proprio di che impensierirsi: ella aveva già ordinato a Laveno certe polveri miracolose, le quali senza dubbio ne l’avrebbero liberata in due o tre giorni al più tardi. — E se non ostante le tue polveri, la tosse continuasse? — chiese Aurelio, sempre serio, sempre più triste quanto ella si dimostrava più gaja. — Non temere: passerà. — E se non passasse? Due o tre giorni senza cure posson esser causa di complicazioni anche molto serie, che oggi si riuscirebbe senza difficoltà a evitare. Pensaci! Vuoi che vada io a Laveno per chiamare il medico? — Il medico? Guàrdati bene! Io non voglio saperne di medici! Non ne ho mai voluto sapere! E poi, ora, non è il caso neppur di parlarne. Si tratta probabilmente d’un semplice raffreddore; e tu, al solito, esageri.... Finita la colazione, il giovine uscì dal palazzo, sedette al sole sul rialto, invaso da una strana malinconia, da un’ansietà inesplicabile. Erano i residui del colloquio definitivo avuto con Flavia su la montagna, che gli infondevan quella cupa tristezza? No; gli avvenimenti di due giorni innanzi gli sembravano irreali e lontanissimi. Sentiva anzi una discontinuità profonda tra lui e il suo essere anteriore, tra quel che era stato e quel che era. Le sue speranze distrutte, il suo amore respinto, la coscienza del suo avverso destino lo lasciavano freddo e impassibile, com’esse non riguardassero più la sua persona, ma bensì un’altra ch’egli aveva già amata ed ora a pena ricordava. Che gli importava di Flavia? Che parte rappresentava ella nella sua vita? Che conforto avrebbe egli potuto trarre anche dalla speranza d’essere amato da lei? Ohimè, nell’ora presente, nessun conforto, nessuno! Altre cure, e più gravi, assai più gravi, occupavano omai tutto il suo spirito: altri dubbii, altri pensieri, altri sentimenti. Quali? Egli non sapeva bene e non cercava di sapere. Egli aveva paura di inoltrarsi nel mistero del suo accasciamento; provava orrore solo a rivolgervi di sfuggita gli occhi dell’anima; evitava d’investigarsi, per la tema di precisare il fantasma, d’udire in fondo a sè l’eco d’una tremenda profezia. Il sole, un sole autunnale senza forza e senza vita, slargava i suoi raggi pallidi e velati sul prospetto del palazzo. Qua e là nel cielo alcuni fiocchi bianchicci di vapore intorbidivano l’azzurro, oscurandosi e addensandosi verso la pianura. Un silenzio di morte teneva la spiaggia deserta, dove le barche s’allineavano in disordine, immobili e abbandonate come carcasse respinte dall’onda. Aurelio rimase a lungo seduto là, sotto quel sole scialbo, col corpo inerte e gli occhi incantati nelle nebbie. Poi, d’un tratto, sospinto da un’idea oscura, balzò bruscamente in piedi, rientrò a passi solleciti in palazzo, si trovò senza volerlo nella camera della nonna. Era vuota, spalancata, piena di luce: nessuna novità nella disposizione d’ogni minima cosa; nessun oggetto estraneo, su i mobili; il gran letto, coperto come di solito dall’ampia coltre verde, appariva piano, intatto, senza una piega e senza una concavità. Egli, quasi incredulo, volse a più riprese, attentamente gli sguardi in torno, per ricercare un segno che rispondesse alla sua inquietudine. La camera aveva pur sempre l’aspetto tranquillo e sereno dei giorni passati; nulla indicava in essa un cambiamento, una perturbazione, una precauzione recente. Le due fiale dello strofanto e della stricnina erano sole sul comodino, chiuse come sempre nei loro astucci neri. Aurelio, illuso dalle apparenze, pensò: «Nulla è mutato; nulla si muterà.» E gli parve di liberarsi da un peso enorme, di respirare ancora liberamente dopo una lunga soffocazione. Egli uscì su la loggia più calmo, quasi lieto, quasi immemore de’ suoi sospetti tenebrosi. Per un’astuzia incosciente, non volle presentarsi sùbito alla nonna, non volle rivedere il suo viso smorto e sparuto, temendo di distruggere o di menomare il beneficio superstizioso avuto da quell’ispezione nella camera di lei, piena di luce e di pace. Ridiscese al basso, attraversò difilato il cortile, si diresse a caso lungo la riva verso il villaggio di Ceresolo. A pranzo, donna Marta non si mostrò meno gaja e meno spensierata che alla mattina. Parve anche al nipote che una lieve irradiazione rosea tingesse le sue povere guance avvizzite, — che i grandi occhi neri avessero il loro lampo consueto. Pensò, guardando l’avola, che discorreva senza tregua: «Ella è forte; ha una vita misteriosamente tenace; ella guarirà; ella vivrà a lungo con me.» Ma un accesso di tosse ostinato venne a interrompere il corso delle sue considerazioni per ripiombarlo nelle tenebre dei dubbii e degli scoramenti. Il corpo debole della vecchia piegò sotto l’urto, le sue palpebre si gonfiarono di lacrime; un gorgoglio umido si udì in fine nel fondo della sua gola. Aurelio impallidì. — Quel rossor vivo su gli zigomi, quegli occhi scintillanti non eran dunque sintomi di febbre? — Come ti senti, mamma? — egli domandò, ansiosamente. — Meglio, — ella rispose, e scosse con un atto blando il capo. — Non bisogna impensierirsi per un po’ di tosse. Non ti sembra già diminuita da stamattina? — No, non mi sembra, — mormorò Aurelio tra i denti. E s’oscurò in viso, sentendo nascere un sordo rancore contro la vecchia che tentava d’ingannarlo. Dopo una pausa di silenzio (anche donna Marta era ammutolita), egli, viepiù inquieto, prese in mano il polso di lei. Aveva il calor naturale, anzi era quasi freddo. Ma l’arteria batteva con un’irregolarità straordinaria: aveva sùbite accelerazioni, che somigliavano alla caduta d’una pietra per una balza assai ripida; aveva arresti subitanei, come se la pietra precipitando avesse toccato il fondo della balza e fosse rimasta. — Vedi? Non stai bene; il cuore è agitatissimo! Spero che stasera non uscirai sul rialto; spero che te ne andrai a letto sùbito dopo il pranzo. Donna Marta, per la prima volta, non si ribellò al desiderio del nipote. Gli rivolse uno sguardo attonito e sgomento, e acconsentì con la voce tremula, incerta, sommessa d’un bambino impaurito. La sua fittizia esaltazione era caduta. Ella, che non aveva voluto credere alle sue stesse sofferenze, era stata d’un tratto vinta e persuasa dall’ultima affermazione d’Aurelio. I consigli, gli ammonimenti, i rimproveri di lui le tornarono alla memoria, la turbarono. «Senza dubbio, era stata una gravissima imprudenza, quella commessa... Senza dubbio, avrebbe fatto meglio a rimanersene a letto in quei due giorni, dopo il primo accenno di tosse! Ora, che sarebbe avvenuto? Che sarebbe avvenuto di lei così debole, così affranta, così vecchia?» — Se dovessi morire? — ella chiese, con un sorriso timido su le labbra esangui. — Ho tanta paura della morte! — Questo non sarà, — disse Aurelio con forza, quasi per rassicurare anche sè stesso; — ma ti devi curare; ma non devi commettere altre follìe; ma bisogna che mi ascolti quando parlo per il tuo bene. — Sì, sì, hai ragione: lo farò, — assicurò la vecchia, mentre il suo viso assumeva un’espressione indefinibile di terrore e d’ansietà, come avesse ella visto per un attimo balenare sopra il capo un’arme spaventosa. E di nuovo ripetè, fremendo e sorridendo timidamente: — Ho tanta paura della morte! Si levò in piedi con uno sforzo visibile; salutò il nipote, rivolgendogli uno sguardo pieno di tenerezza (insisteva sempre su le sue labbra quel sorriso contratto, ch’era l’estrema dissimulazione pietosa del suo spirito già invaso dalla paura); e, chiamata Camilla, uscì al braccio di questa, faticosamente, dalla sala, — povero essere rattrappito, deforme, ignobile cui l’argento della chioma infondeva pure un’ultima tragica maestà. La mattina seguente, Camilla si presentò inaspettata nella camera d’Aurelio poco dopo l’aurora. — La signora la vuole, — disse con la voce rotta dall’affanno, precipitosamente: — venga sùbito! Il giovine, che stava vestendosi, ebbe un sussulto violento. Non osò interrogare la giovinetta, non osò trattenerla. La seguì, passivo e taciturno, lungo il portico, con il viso alterato dall’angoscia. Entrò dietro di lei, quasi sospinto da un turbine, nella stanza dolorosa; e corse al letto, al gran letto bianco, dove la vecchia stava seduta, appoggiata con le spalle a molti guanciali sovrapposti, i capelli canuti erti su la fronte, gli sguardi stravolti e immobili come perduti in una visione terrifica. — Che hai, mamma? — egli domandò, ponendole una mano sul capo, chinandosi fino a guardarla nelle pupille. — Che hai? Ella mormorò, desolata: — Ah, figliuol mio! Io muojo.... — Ma no... Perché dici questo? Che ti senti? — Mi sento male, molto male. Ho passato una notte spaventevole. Se avessi potuto, ti avrei chiamato. Ma come fare? Ero sola!... Ho temuto di non rivederti più, di morire senza salutarti.... — Bisognerà chiamare un medico, sùbito. — È quello che volevo dirti, — ella aggiunse, alzando le spalle con un atto rassegnato. — Telegrafa a Milano al dottor Demala. — Sì, mamma. Intanto però faccio venire il medico di qui. Credo che tu ti spaventi a torto; credo che tu esageri: egli sarà a Cerro fra un’ora e ti potrà ridare un po’ di coraggio. Aurelio discese da Ferdinando, lo mandò a Laveno con un telegramma urgente per il dottor Demala e l’ordine di ricondur sùbito con sè il medico del Comune. Quindi risalì sollecitamente nella camera della nonna. Donna Marta, che pareva più tranquilla, gli disse: — È tempo ch’io muoja, figliuolo mio! Forse la morte mi darà la pace che non ho mai goduta in vita. La morte potrà sola farmi dimenticare tutto il male, che ho visto e ho sofferto. Son vecchia, stanca, logora, travagliata da mille dolori! Credilo: è tempo ch’io muoja; è bene ch’io mi riposi alfine sotto la terra. Il giovine cercò di disperdere il livido presagio che occupava la mente dell’avola. Sedette al capezzale, prese una mano di lei nella sua, le parlò sorridente del domani, componendole una prospettiva d’illusioni serene, un’apoteosi di calma e d’amore su le rovine del passato crudele. E non tacque, finchè non vide accendersi un fievole raggio di speranza in quegli occhi indeboliti e dilatati dal lungo pianto, dal morbo e dall’età. La nonna in fine s’assopì. Egli fece chiudere le persiane, e rimase seduto presso di lei a vegliarla, nell’ombra. Un gran silenzio era d’intorno. Dal parco veniva il croscio sordo d’una fontana e a tratti, appena sensibile, il canto melodioso d’una capinera. Null’altro. Il respiro dell’inferma, fattosi nel sonno più aspro e più forte, pareva dominare la calma mattutina e scandire con ritmo sinistro il tempo che fluiva. «Povera creatura!» pensava Aurelio, osservando il volto della progenitrice, irriconoscibile con gli occhi chiusi, contraffatto dalle rughe e dalle pieghe, con il mento spostato in avanti, con i capelli scomposti su la fronte in guisa di fiamme nivee. «Povera creatura! Ella è stata veramente infelice! La corona degli Imberido pesò su la tua testa più grave d’una maledizione!» E, poichè nelle ultime parole della vecchia eran passate le imagini atroci che ne avevan già insanguinata la memoria, più profonda risorse in lui la pietà per quella fragile donna a cui gli eventi avevano riserbato d’assistere alla fine di tre generazioni d’uomini amati, spenti tutti nel fior degli anni da una stessa tragica sorte. In che dramma luttuoso doveva risolversi per lei il dolce idillio sbocciato per incanto, tra i sogni ribelli e i propositi guerreschi, nel piccolo giardino di casa Imberido, profumato dalle rose e dagli aranci! Là, ella aveva visto il padre e colui, che sarebbe poi divenuto il suo sposo, stringersi la mano in un patto di fratellanza mortale. Là, tra il susurro feroce delle cospirazioni, ella aveva sentito nascere, come un fiore dal sangue, il primo e solo amore di sua vita. Oh, con che accelerazione prodigiosa aveva dovuto battere il suo cuore d’adolescente in quel giorno illusorio, quando il giovine patrizio, circonfuso da un’aureola d’eroismo, le aveva confidato all’ombra d’un viale solitario le sue fiere speranze e il suo affetto sconfinato! Fu quello l’unico tempo felice della sua vita, e fu così breve!... Un anno dopo, il padre usciva per l’ultima volta dalla sua dimora, pallido, ammanettato, stretto in torno dai birri austriaci per salire il palco infame e penzolare nel vuoto, tra i chiarori dell’alba, d’avanti alle mura del Castello. Tre anni più tardi anche lo sposo doveva lasciarla sola per sempre, e partire verso una città remota, verso una carcere sotterranea e bieca, dove la paura degli oppressori lo aveva segregato e d’onde una morte precoce non l’avrebbe lasciato mai più ritornare! Ah, quella sera lontana d’agosto, quando le era giunto inaspettato l’annunzio funereo nella gran sala del palazzo deserto, mentre il fanciullo, inconscio e immemore, giocava e rideva a’ suoi piedi!... Ella se ne ricordava come d’una cosa avvenuta jeri; e, ogni volta che ne discorreva con lui, i suoi occhi si riempivan di lacrime, irresistibilmente. Non poteva essersi placato il destino dopo le due prove funeste? No, il destino glie ne imponeva una terza, e forse la più inumana di tutte! Di nuovo, trascorso un periodo di calma rassegnata, erano incominciate per lei le lotte, le angosce, gli spaventi, le disperazioni nel contrasto con il figlio indocile, caparbio, violento, smanioso di piaceri e di prodigalità. Ella, impotente a frenarne desiderii e ambizioni, aveva tentato in vano di salvare con un’alleanza fortunata i più sacri tesori familiari: la nuora, per colmo di sventura, era spirata mettendo alla luce un bambino, e Alessandro aveva tosto ripreso le sue abitudini grandiose, dissipando in pochi anni il resto della ricchezza paterna e la dote della povera morta. Da allora i tristi fantasmi si succedevano senza tregua nella memoria infaticata della vecchia; e il nipote, vegliando sul suo sonno inquieto, li evocava tutti in ordine come li aveva uditi raccontare da lei nelle sue ore di confidente abbandono: il mesto esodo dall’antico palazzo, consacrato da tanti ricordi e venduto all’asta dai creditori impazienti; i prodromi del male misterioso, che doveva condurre al sepolcro il figliuolo, apparsi sul finir d’una notte al suo ritorno da un’orgia; il graduale deperimento d’Alessandro, inesplicabile ai medici che lo curavano; l’indebolirsi della sua ragione; i primi vaneggiamenti, le prime stranezze, le paure infantili, gli scoppii improvvisi di pianto; poi il rapido aggravamento e gli strazii inenarrabili di lei, che non poteva più farsi riconoscere, che si sentiva una estranea, un’ignota di fronte al figlio inebetito; in fine la terribile agonia, le imprecazioni mute del morituro contro di lei, contro la madre, l’ultimo grido e l’atto di lanciarsi verso la finestra spalancata, il rantolo breve e l’immobilità della fine! Tutti gli episodi amari di quell’esistenza tornavano nella memoria d’Aurelio, a uno a uno, osservando il volto cadaverico della nonna assopita, che agitavano a intervalli moleste visioni. Ed egli, riandandoli, pensava con maraviglia alla resistenza tenace del suo fragile organismo, alla freschezza incorrotta della sua anima, che a traverso tante e così gravi avversità non s’era sciupata, nè invecchiata, nè inacidita, nè delusa. Come, come non era ella già morta di dolore? Come aveva potuto trovare ancora un sorriso, dopo tante lacrime sparse inutilmente sopra le cose irrimediabili? Eppure ella era rimasta semplice, innocente, spensierata, amante della vita, come nei primi anni felici della sua adolescenza, come una bambina ignara d’ogni tristizia! Ella aveva piegato, a mo’ d’un giunco, sotto le raffiche veementi, e s’era sempre rilevata per ricever di nuovo, pienamente, l’impeto d’altre raffiche! «Ma ora? ora?» si chiese il giovine riguardandola, angosciato. «Ora che è tranquilla, che è libera d’ogni cruccio, d’ogni angustia, d’ogni paura, ora potrebbe dunque morire?» Dopo due ore d’ansiosa aspettazione, il medico giunse. Era un giovine di trent’anni, pallido, bruno, con una foltissima capigliatura castagna, con un sorriso ironico continuamente fisso su le grosse labbra escoriate. Egli visitò l’inferma con cura minuziosa, si chinò a più riprese sul suo torso denudato (oh, come spiccavan le costole a traverso il debole involucro della pelle!), glie lo percosse in ogni parte, ascoltò i battiti del cuore, rivolse a lei e al nipote molte domande precise, e concluse in fine sorridendo che non c’era ancora motivo d’impensierirsi, che bisognava attendere, che si trattava per il momento d’una leggera bronchite, un poco inquietante solo per le tristi condizioni del cuore. — Non morirò, dottore? — gli chiese donna Marta, in forma di scherzo, salutandolo. — Signora mia, — egli rispose allegramente, — la nostra vita è in mano di Dio; ma, per quanto ne sappia, non credo ch’ella sia finora in disgrazia di Quello lassù. In tanto, pensi a scacciare le cattive idee per discendere al più presto da quel letto, dove si sta bene di notte ma non di giorno, e sopratutto in campagna. A rivederla. E al nipote, che lo interrogava ansioso, lungo le scale, egli rispose asciutto e risoluto: — Non ho altro da aggiungere, signor conte. Speriamo che non sopraggiunga qualche complicazione. Ora le scriverò una ricetta, e passerò stasera o domattina a rivederla. Nel pomeriggio le signore Boris, avvertite della visita del medico, vennero premurosamente a chieder notizie di donna Marta. Parevano entrambe molto addolorate, e non entrarono nella sua camera che in sèguito alle esortazioni insistenti d’Aurelio. La vecchia, già alquanto sollevata dalle parole del dottore, ebbe dalla loro presenza quasi una conferma della poca gravità del suo male: le accolse dunque con visibili segni di gioja, le fece sedere amabilmente accanto al letto, ritrovò con esse per un’ora la sua loquacità ilare e giovenile. Anche la signora Teresa, rassicurata dall’umore eccellente dell’inferma, dimise ben presto il suo contegno grave e compunto; e la conversazione s’accese tra loro viva, leggera, volubile, come già sul rialto negli ultimi convegni. Aurelio, seduto dall’altra banda del letto, guardava fissamente Flavia: non l’aveva mai veduta così smorta e così commossa; ella non diceva che una qualche parola di quando in quando, allorché era direttamente interrogata da sua madre o da donna Marta, e teneva gli sguardi bassi: una ruga prolissa le solcava la fronte tra ciglio e ciglio. Il giovine la guardava, cercando d’immaginare la causa di quella sua mestizia; e, inconsapevole, traeva dalla vista di lei una dolcezza serena, un senso indefinibile di pace e d’oblìo, che si stendeva come un fitto velo su le angosce profonde della sua anima. Il giorno declinava: il sole era scomparso dal giardino; un soffio di brezza entrava dalla finestra aperta, gonfiando le tende, movendo il lembo delle coltri a pie’ del letto. D’un tratto la vecchia, che discorreva animatamente, ammutolì, s’abbandonò inerte su i guanciali. Un tremito agitò i suoi occhi, che parvero appannarsi, confondersi nel vuoto, perdere ogni luce; un fioco rantolo, come un cigolìo interno, s’udì distinto nella sua respirazione accelerata. — Donna Marta! Donna Marta! — chiamò la signora Teresa, alzandosi di scatto in piedi, avvicinandosi a lei, sgomenta dal suo aspetto e dal suo silenzio improvviso. L’inferma non rispose, nè si mosse. Anche Flavia e Aurelio s’eran levati e l’osservavano ansiosamente. — Che l’abbia fatta parlar troppo?... — chiese confusa la Boris all’Imberido. — Dio mio! Se l’avessi imaginato!... Forse sarà stanca; forse avrà bisogno di riposo.... — Sì, di riposo.... — mormorò con un sospiro l’inferma, quasi si scotesse allora da un deliquio momentaneo. E tentò di sorridere, e stese con uno sforzo la mano per salutare. Le donne, prima d’uscire, la baciarono entrambe sul viso con sincera effusione. — Non ci tenga in pena! Si alzi presto. Noi siamo perdute senza di lei; — aggiunse Flavia con la voce tremula, mentre stava per varcare la soglia. Aurelio, incitato dall’avola, le accompagnò lungo il portico fino alla scala. — Se ha bisogno di noi, ci comandi, — gli disse la signora Teresa. — Io e Flavia saremo ben liete di poterle esser utili in qualche cosa. Se vuole, per esempio, che qualche notte la vegliamo noi.... Flavia è una buona infermiera; io ne conosco tutta la pazienza e tutta la sollecitudine.... Ella non cerca altro. — Oh, sì, signor Aurelio, — esclamò impetuosamente la giovinetta; — voglio tanto, tanto bene a donna Marta! Ella arrossì così forte che parve le si fosse raccolto tutto il sangue delle vene sul viso. E distolse sùbito con un atto timido gli occhi, che scintillavano, da quelli del giovine. — Perché Aurelio fu assalito da un brivido alle sue parole e al suo turbamento? Egli ebbe un’intuizione fulminea dei tristi pensieri che si movevano nella mente di lei; egli credette d’indovinare il perché della sua malinconia presso il letto della nonna ammalata. — Era vero! Era vero! Ella lo amava: ella temeva per lui; ella tremava per lui su la vita della sua cara! — Un trasporto di tenerezza e di gratitudine lo spinse irresistibilmente verso la fanciulla; ma non fu che un attimo. L’eccitazione sentimentale si placò; il tumulto del cuore si tacque; alla certezza della prima supposizione successe il dubbio, lo scoramento, l’indifferenza. Egli rientrò, già immemore di lei, nella camera di donna Marta, tenuto da una sola ansietà, sorretto ancora da un’unica speranza. Quella notte Aurelio non si coricò nè potè chiudere occhio. Rimase sempre al capezzale dell’inferma, assistendo inutile e straziato alle sue inquietudini, alle sue sofferenze, a’ suoi delirii, alle sue soffocazioni. Dieci lunghe ore, interminabili, egli rimase accanto a lei, nell’ombra della vasta stanza a pena mitigata da una debole fiamma oscillante, nel lugubre silenzio della campagna rotto a tratti dai lamenti dei gufi o dallo strepito sordo del vento. Donna Marta non ebbe un attimo di requie durante l’intera notte: oppressa dall’affanno, ora accesa da un calore intollerabile, ora assiderata da un gelo mortale, s’agitò, smaniò, rigettò indietro le coltri, s’avviluppò in queste fino ai capelli, domandò di vestirsi, d’uscire; sotto un accesso più violento, supplicò perfino il nipote d’andar sùbito a prendere il prete perchè si sentiva morire, morire. Livida, stravolta, con le chiome in un disordine fantastico, con gli sguardi spenti o inferociti, ella a ogni momento lo chiamava a sè, gli afferrava con forza una mano, gli chiedeva come folle se quel martirio doveva durare eterno, se quella notte non doveva finire mai più. In vano Aurelio cercò di rassicurarla, ricordandole le parole dette dal medico alla mattina; in vano cercò di frenarla, spiegandole il danno di quelle smanie e di quelle frenesie, supplicandola, almeno per amore di lui, d’esser più calma, di dominarsi, di non abbandonarsi in tal guisa alla disperazione. Ella non lo ascoltava più; ella non sentiva se non i bisogni momentanei del suo corpo addolorato: aveva caldo, e violentemente si scopriva; aveva freddo, e si sprofondava rabbrividendo sotto le coltri; non poteva respirare, e chiedeva l’aria libera, e voleva uscire così, sola, nelle tenebre, verso l’aperta campagna dove, tremando di desiderio, udiva il vento frusciare. Su l’alba finalmente ella s’acquetò un poco. Esausta, ricadde su i guanciali, chiuse gli occhi e parve assopirsi. La candela, tutta consunta, agonizzava a pie’ del letto. Aurelio s’alzò con precauzione, andò in punta di piedi a spegnerla, ritornò sùbito al suo posto vicino all’inferma. Si sentiva stanco, sfibrato, aggranchito; ma non aveva sonno. Un’apatia desolata fasciava la sua anima; non un palpito di pietà, di dolore, di sgomento sollevava il suo petto; egli era vuoto, vuoto e nero come una caverna senza luce. E stette immobile, lungamente, finché apparve il sole, a contemplare quel viso cereo, ossuto, spettrale che, senza il rantolo umido gorgogliante nella gola, si sarebbe detto l’imagine d’una morta. Il medico di Laveno entrò verso le nove nella camera di donna Marta, tranquillo, indifferente, con il suo immutabile sorriso un poco ironico su le grosse labbra escoriate. Sedette, senz’aspettare un invito, su la sedia prossima al letto; ascoltò, stupito e quasi incredulo, la descrizione della notte tormentosa che gli fece l’ammalata e il vegliante confermò. S’era appena levato in piedi per esaminarla novamente, quando Camilla venne ad annunziare l’arrivo del dottor Demala. Questi, un uomo tarchiato e possente dalla testa enorme, dagli occhi piccoli e brillanti sotto due foltissime sopracciglia brizzolate, era un vecchio amico di famiglia: aveva prestato le sue cure amorevoli durante la lunga infermità del padre Imberido; e conosceva a fondo le tristi condizioni di salute della contessa per averla assistita più volte nelle sue frequenti indisposizioni di cuore e di bronchi. S’avvicinò sinceramente commosso a lei, le prese con affetto una mano nelle sue. — Che mi fa, donna Marta? — disse con la sua voce cordiale. — Che brutte sorprese mi riserba, vivendo lontana da me? — Caro dottore, — ella rispose puerilmente, rianimata dalla sua presenza. — Avevo tanto desiderio di vederla, che ho fatto il possibile per ammalarmi.... — Ho sentito! Ho sentito!... — soggiunse il dottore, avendo già interrogata Camilla su le cause del male. — Sempre imprudenze! E sì, che sarebbe ornai tempo di metter giudizio!... Vediamo dunque che c’è di nuovo. I due medici la visitarono insieme alla presenza d’Aurelio. Poi, rassicurata l’inferma, uscirono insieme dalla stanza, seguiti da lui più pallido e più ansioso che non mai. Quando furono al basso, il dottor Demala dichiarò schiettamente trattarsi d’un’infiammazione piuttosto estesa al polmone sinistro, che lo stato del cuore rendeva oltremodo grave e pericolosa. Non potendo ritornare a Cerro il giorno successivo, raccomandò l’ammalata alle cure del collega e pregò l’Imberido di telegrafargli sùbito in caso d’urgenza: ordinò le punture di caffeina, una soluzione espettorante e le polveri di chinino se la febbre fosse ricomparsa. Nel risalire in barca, disse al giovine che lo guardava muto, attonito, accasciato, quasi implorando una parola di conforto: — E tu, Aurelio, non perderti d’animo. Io doveva dirti tutto; ma ora soggiungo che finora non s’annuncia alcun pericolo imminente. Si può sperare.... Si ha diritto di sperare che tutto si risolva secondo i nostri desiderii. A doman l’altro; e fate in modo ch’io la trovi meglio. E la barca s’era allontanata, mentre i due medici discorrevano tra loro animatamente. Il giovine rimase solo su la spiaggia, ritto, immobile, accompagnando con gli occhi il vecchio amico che forse aveva cercato d’illuderlo. «Sarebbe troppo, troppo!» ripeteva meccanicamente dentro di sè; e le ginocchia gli vacillavano, e il battito del cuore pareva soverchiare lo strepito dell’onda contro il greto. Quando la barca s’eclissò, egli si mosse: andò a gittarsi sul divano in sala da pranzo; si strinse il capo tra le mani, come volesse spremere le lacrime che non volevano sgorgare. «Sarebbe troppo, troppo!» esclamava a tratti, senza più intendere il significato delle sue parole; e aveva la sensazione d’esser seduto nella più fitta oscurità e di non potersi alzare, non sapendo dove mettere i piedi, dove dirigersi, dove trovare una via di salvezza. Come levò gli occhi trasognati, quasi uscisse da un letargo profondo, vide d’avanti a sè nel sole il tavolino da lavoro della nonna e la grande poltrona vuota. Quell’apparizione subitanea di cose memori su la soglia della sua coscienza lo riempì di terrore e di cordoglio: nulla, nulla al mondo, neppure la stessa presenza dell’avola spenta, avrebbe potuto dargli un’idea più chiara e più tremenda della sua sciagura. «Ecco,» egli si disse, «quelle cose non mutano e non muteranno; il sole scendeva a illuminarle quand’ella le occupava; il sole scende sempre a illuminarle, ed ella non vi è più!» Sentì che il pensiero di nuovo gli si confondeva; che il cuore a poco a poco rallentava il palpito; che la tension dei nervi s’ammorbidiva, sotto il peso d’un’immane e schiacciante fatalità. Un nodo di pianto gli salì alla gola. La vista gli si offuscò. Egli piegò la povera testa su le palme, e ruppe alla fine in singhiozzi, perdutamente. Nel pomeriggio ritornarono le signore Boris a veder l’ammalata; rimasero a lungo presso di lei, quasi sempre silenziose; se ne andarono tristi e scorate quando il giorno tramontò, raccomandando ancora ad Aurelio di non dimenticarle, di ricorrere a loro senza riguardi per qualunque servizio. La sera cadde; e donna Marta, ch’era stata fino allora a bastanza tranquilla, riprese ad agitarsi, a lamentarsi, a rantolare. Nè il nipote nè la fantesca poterono abbandonarla un sol momento durante l’intera notte, che fu assai più torbida e spaventosa della precedente. Verso il tocco un temporale scoppiò sopra il golfo, riempiendo l’aria di bagliori e di boati; e l’inferma incominciò a delirare. Ella voleva alzarsi, voleva partire, voleva fuggire; e, come Aurelio la tratteneva, in un risveglio di memorie antiche chiedeva soccorso alla madre, non riconoscendo più il figlio di suo figlio, credendolo un estraneo che volesse chiuderla per violenza in quel luogo di tortura. — Mamma, mamma, ajutami! Portami via! — ella urlava con la voce rauca, strozzata dall’affanno, mentre cercava di svincolarsi e di precipitarsi dal letto. E nulla nella notte, tra il frastuono della bufera, era più tragico di quel grido infantile nella bocca d’una vecchia canuta e moritura! L’alba alfine s’annunciò, una lugubre alba piovosa come d’autunno estremo. L’inferma ricadde affranta su i cuscini, invocando la madre in un ultimo fievole grido; Camilla, pallida e disfatta dalla veglia, s’assopì reclinando il capo sul piano del letto; Aurelio, in punta di piedi, uscì sotto il portico per respirare, per sottrarsi alle visioni di follìa che l’assediavano nella camera dolorosa. Su la loggia di fronte, dalla parte abitata dai Boris, splendeva ancora nel timido crepuscolo un lucignolo d’avanti a un’icona. L’imagine, consacrata dalla fede, rispettata dal tempo e dagli uomini, era un piccolo brano del fresco, che illustrava in origine tutte le pareti del portico superiore e che più tardi era stato ricoperto da un intonico bianco per la volontà d’un marchese de Antoni, pauroso di quelle figure allegoriche e oscure tra cui a ogni tratto si vedeva la Morte spietatamente falciare. Era un gran volto di donna giovine dai lineamenti incerti e rozzi, ma d’una singolare espressione mistica nei larghi occhi smunti rivolti verso il cielo. Rappresentava forse in origine una martire nella estatica aspettazione del supplizio; ora però quel volto appariva coronato da una aureola circolare di fattura recente, e si diceva l’imagine della Madonna. I guardiani del palazzo e la gente del villaggio asserivano poi che l’icona aveva compiuto nel tempo trascorso molti miracoli, e che, velata anch’essa dall’intonico, se n’era liberata ed era riapparsa sola in una notte, maravigliosamente. Il giovine, inconsapevole, fu attratto da quel lume, che oscillava al vento umido dell’alba. Attraversò cautamente i due lati della loggia, giunse presso al sacro emblema e si fermò, come arrestato da un ostacolo, d’innanzi ad esso. Un’immensa desolazione era in lui: la sua anima era piena d’ombra e di mistero. Grandi fantasmi vi si levavano a tratti, fluttuavano alquanto nel vuoto, svanivano verso l’alto, quasi assorbiti da una fauce immane spalancata sopra di essi. — Tutto era vano! Tutto era triste! Tutto era irreparabile! A che valevan gli strazii, i timori o le speranze? — Quel volto, ch’egli contemplava, gli diceva l’inutilità d’ogni nostro sforzo; gli diceva la fatalità degli umani eventi, i quali son come prescritti in un libro secreto e immutabile; gli insegnava che all’ora scoccata il destino si compie inesorabilmente contro ogni volontà, contro ogni opposizione, contro ogni rivolta; gli insegnava ancora che agli uomini non resta che pregare o piangere, pregare per rassegnazione, o piangere su la loro sventura e su la loro impotenza! La vita perdeva pregio, significato, valore. Essa non era che una lotta disperata, una lunga sofferenza, un perenne sacrificio nella sola aspettazione della fine. E i piaceri, le ambizioni, le glorie di questa terra eran gli inganni d’una Natura ostinata, forse le insidie d’un Ente vendicativo per tenerci legati fino all’estremo soffio alla nostra catena. E poi? Poi veniva il nulla, l’ignoto, l’eternità. Il nulla, proprio il nulla? dopo tanto soffrire, dopo tanto sognare, dopo tanto pensare? Era dunque possibile che l’esistenza individuale, questa unica realità intelligente, non avesse uno scopo? — L’idea religiosa batteva alla sua porta: l’eredità mistica si risvegliava nel suo sangue cristiano, in quell’ora di prostrazione, d’avanti a quell’antica imagine che aveva fatto miracoli. Egli, il superbo, s’umiliava; egli, il sapiente, rinnegava d’un tratto la sua dottrina, il nobilissimo frutto di lunghi studii e di profonde meditazioni. Il mistero dell’Irreparabile, ond’era tutto circondato, compiva il prodigio della sua conversione, distruggeva la sua vanità, risuscitava dalle ceneri la sua fede sopita. Era la scintilla repentina; era la percossa improvvisa: egli provava il bisogno di credere in qualche Essere superiore, onnipotente, a cui rivolgere in quell’ora i suoi voti. Alcuni ricordi lontani ricorsero nel suo cervello; preludii d’orazione s’illuminarono; una suprema speranza gli cantò deliziosa nel cuore. Egli piegò le ginocchia fino a terra, congiunse le palme, chinò sul petto il capo orgoglioso; e in quell’atto di devozione puerile, come già negli anni ottusi dell’infanzia, recitò le preghiere obliate da tempo immemorabile, invocando dalla pietà divina la salvezza della sua cara, che disperava omai d’ottenere dalla scienza e dalla sollecitudine degli uomini. Per alcuni dì donna Marta vacillò tra la vita e la morte. Durante il giorno pareva che si riavesse un poco, aveva ore di calma e di sonno tranquillo; appena scendeva la sera, ricadeva subitamente nello stato febbrile, era ripresa dalle soffocazioni, dalle nausee, dalle smanie, dai delirii. E allora diveniva veramente terribile: respingeva con violenza il dottore, rifiutava cibi e rimedii, vituperava il nipote e la fantesca; intollerante d’ogni freno, ribelle a qualunque consiglio. Sopra tutto contro Camilla ella nudriva un astio e un rancore, inesplicabili. Tal volta, durante una tregua, ella chiamava a sè Aurelio, e gli diceva sotto voce, con circospezione paurosa: — Manda via costei! Te ne prego, mandala via! Non la posso vedere.... E i suoi occhi avevano lampi d’odio, come al cospetto d’un nemico temuto e minaccevole. Fortunatamente, dopo due notti insonni, la ragazza, gracile e impressionabile, non potè più reggersi in piedi e per ordine dello stesso medico dovette ritirarsi. Flavia venne a sostituirla, e parve che portasse, con la sua grazia e la sua dolcezza, un ultimo impulso di vita a quella povera anima esausta. La notte, donna Marta si mostrò in fatti più calma, più coraggiosa, più ragionevole. Era per simpatia? Era per deferenza? Era per soggezione o per vergogna? Bastava che Flavia si rivolgesse verso di lei, perchè d’un tratto si ricomponesse, frenasse le sue irrequietudini, dissimulasse sotto un pallido sorriso di persona stanca i suoi interni tormenti. Quando la giovinetta si inchinava sul suo viso per baciarla o le prendeva una mano per sentirne il battito del polso, i suoi lineamenti contratti si rilassavano per incanto, sembrava ch’ella provasse un gran sollievo, che le si comunicasse al solo contatto un po’ di quella forza giovenile. Quando le porgeva le medicine, ella si sollevava sùbito a sedere e le sorbiva in fretta, senza una protesta, sogguardandola anzi con occhi gonfii di riconoscenza. Tal volta, come il male le strappava un gemito incontenibile, ella si volgeva pentita alla vegliante, e, se per caso incontrava il suo sguardo, mormorava con la voce tanto mite: — Ho parlato?... Non so.... Dormivo.... E socchiudeva tosto le palpebre, fingendo di riprendere il sonno interrotto. Aurelio rifinito dalle fatiche e dalle angosce di quei giorni, eppure tenuto desto dall’insonnio nervoso, stava seduto in un angolo bujo, e osservava. Era vero tutto quanto gli stava d’intorno? A lui pareva di sognare: come in un sogno, in fatti, gli si presentava la camera grande, che una candela posata in terra illuminava fantasticamente dal basso in alto, rilevando le cose che di solito non eran visibili, lasciando in un’ombra densa quelle altre a lui note. Come in un sogno, la figura di Flavia si moveva continuamente tra quelle strane apparenze, e non suscitava nei passi il benché minimo strepito: il lembo delle sue vesti chiare era dorato dai riflessi della luce, ma la sua testa si perdeva nell’oscurità ed era irriconoscibile. Egli, ottuso dalla stanchezza e dall’immobilità, guardava, attonito e quasi incredulo, intorno a sè: — era proprio la camera dell’avola, quella? era Flavia, colei che gli passava d’innanzi in silenzio, più leggera d’uno spettro? Il giovine non poteva credere alla sua ragione; non poteva credere alla stessa evidenza. A tratti le idee gli si confondevano, la realità gli sfuggiva, e la fantasia dava alle sue sensazioni aspetti falsi, difformi, inaspettati. Egli allora vedeva una donna nuova nella sua casa, sola padrona e arbitra; la vedeva in una stanza sua aggirarsi, frugare nei tiretti, cercare e trasportare le cose sue, accostarsi sicura a un gran letto bianco, che nell’ombra grave imaginava deserto. Quella era bene la sua donna; era la sua compagna, e quel gran talamo bianco era il loro. Flavia o un’altra? Era Flavia, non poteva esser che Flavia. Grandi fatti erano avvenuti, che ora non rammentava più; ed egli l’aveva sposata!... L’ipotesi non lo sgomentava, anzi gli dava un’impressione profonda di ristoro. Non era egli solo, triste, abbandonato nel mondo, senza parenti e senz’amici? Aveva una donna accanto a sè, che lo amava, che lo curava, che lo assisteva vigile e solidale nelle lotte della vita.... Ma un gemito lieve o un fruscìo di coltri smosse venivan dal letto, dove giaceva l’inferma; ed egli d’improvviso era richiamato al senso esatto della realità. Allora un’irritazione amara s’impossessava del suo spirito; una specie di rimorso gli feriva il cuore, da prima fievole e confuso, poscia lucido e tagliente come una lama affilata: — irritazione contro sè stesso, contro la sua debolezza che aveva evocato un mondo chimerico in contrasto con tutte le sue ambizioni, con tutti i suoi principii — rimorso per l’obliquo disegno riparatore, ch’egli aveva già inconsciamente abbozzato, in presenza dell’avola ancor viva. Oh, al risveglio, riflettendo, quel suo sogno di pace futura gli sembrava abbominevole! Come, come aveva osato persuadersi e compiacersi d’una simile supposizione? Non amava dunque sua madre? Non amava quella povera creatura, legata a lui dai più sacri vincoli di sangue e di consuetudine? — Sì, certo, egli l’amava, l’amava sopra ogni cosa al mondo; avrebbe dato la vita per salvarla; sinceramente, sarebbe morto felice prima di lei, pur di non vederla morire! E, non ostante il suo verace affetto, aveva potuto in sua presenza adattarsi all’ipotesi più tremenda, accettarne le conseguenze, ricercarne perfino i rimedii!... La sua coscienza morale era profondamente rimorsa da queste idee: egli si giudicava vile, egoista e perverso; egli si sentiva macchiato da quelle speranze, ch’eran fiorite spontanee sopra le minacce d’un’immensa sciagura. «Ella non morirà,» si ripeteva, per disperdere i residui del sogno: «ella guarirà; ella deve guarire; qualche giorno ancora, e lascerà il letto.» Ma in fondo a lui un altro pensiero si moveva e s’imponeva alle vacue parole, ostinato, invadente: «Sarà così, certo sarà così! Se anche dovrà morire, io mi rassegnerò, io continuerò a vivere, io la dimenticherò.» E la previsione d’una siffatta necessità lo sprofondava in uno scoramento infinito, più lacerante di qualunque rimorso, più doloroso di qualunque cordoglio. Ahi, miserabile carne, eternamente schiava dei proprii istinti bestiali!.. — Egli ora vedeva il destino della Vita in una vasta astrazione simbolica; vedeva il gran fiume scorrere, inarrestabile, a traverso il tempo, a traverso lo spazio. Una goccia scompariva assorbita dalle sabbie: altre gocce sopraggiungevano a colmarne la minuscola lacuna, a ingrossare il corpo delle acque, che scendeva sempre gonfio, tumultuosamente, verso la foce remota e sconosciuta. Chi s’accorgeva dell’umile goccia scomparsa? Le altre tutte, per una necessità fisica intrasgressibile, eran trascinate via dalla corrente, sospinte da quelle che seguivano, attratte da quelle che precedevano. E il letto del fiume continuava nelle profondità la sua monotona opera d’assorbimento, inavvertita e provvidenziale!... Via, via, a traverso il tempo, a traverso lo spazio! Bisognava vivere, bisognava fluire, bisognava rifondere le gocce perdute perchè il gran fiume non s’asciugasse!... Ed egli in fatti, atomo dell’universo, soggetto indistinto delle sue leggi oscure, aveva già pensato a vivere dopo, a seguitare il suo inutile cammino, a sostituire con altre le esistenze che crollavano dietro di lui. Egli, in cospetto del passato che stava per dileguare nel nulla, aveva già ideato un piano d’adattamento, un dolce nido d’amore dove festeggiare il suo attimo di luce; aveva già concepito in potenzialità i nuovi esseri che avrebbero popolato l’Avvenire!... Questi pensieri, sotto altre forme, con diverse imagini, lo torturarono anche nei due giorni che seguirono. Flavia era sempre là, attenta, vigile, infaticabile al capezzale di sua nonna: egli la poteva vedere a ogni ora, in ogni momento, come una familiare, come una sorella. Era sempre là vicina a lui, così vicina che molte volte le loro vesti si sfioravano, le loro mani si toccavano, i loro respiri si confondevano, chini come erano entrambi sul letto dell’inferma. E quella convivenza ininterrotta, quella comunione d’intenti, di timori e di speranze, assimilavano a poco a poco le loro due anime, accrescevano la mutua confidenza, li appartavano in una specie di solitudine mistica assai propizia agli abbandoni, alle illusioni, alle insidiose idealità. Non si scambiavano se non poche parole durante le veglie interminabili; ma i lunghi silenzii nella camera dolorosa eran più eloquenti d’un poema, scendevano su i loro cuori più incantevoli d’un filtro. In vano il giovine cercava di sottrarsi al fascino di quei silenzii; in vano si ribellava alle molli lusinghe che assediavano il suo spirito illanguidito; in vano respingeva, sdegnato, le onde ineffabili di voluttà che si riversavano a tratti su i suoi nervi scoperti dalla spossatezza e dalle angosce molteplici. Ella era là; ed egli non poteva chiudere gli occhi per non vederla! Omai, egli non poteva non vederla, anche avendo ben chiusi gli occhi! E dall’imagine di lei, sempre presente, divinizzata dall’alta poesia del suo còmpito pietoso, gli veniva incessantemente il conforto non chiesto, non voluto, il conforto umiliante e sacrilego. La malattia di donna Marta si svolgeva frattanto con una continua vicenda di brevi fallaci miglioramenti e di ricadute viepiù gravi e inquietanti. Il medico di Laveno era venuto parecchie volte a visitarla, aveva cambiato ordinazioni per sodisfare alle richieste dell’ammalata e, persuaso della inefficacia d’ogni rimedio, se n’era andato, alzando le spalle, aspettando rassegnato la morte o un miracolo. In fatti tutte le cure erano inutili: anche le punture di caffeina, che si facevano ora due volte al giorno, ottenevano soltanto un momentaneo sollievo e la lasciavan poi più abbattuta e più affannata di prima. I germi del triste morbo avevan trovato un terreno ben preparato a riceverli e si propagavano fecondi e indistruttibili, come una mala erba in una maremma. La respirazione diveniva ogni dì più corta e frequente; i rantoli umidi, i tintinnamenti metallici risonavano in ogni parte del suo povero torace scarno; i delirii si moltiplicavano, provocati dalla debolezza sempre maggiore dell’organismo — foschi e tragici delirii in cui ella con la voce spenta parlava del futuro, non parlava che del futuro, confondendo nomi, date, luoghi, dimenticando le persone prossime a lei, risuscitando e rivedendo d’innanzi a sè quelle morte da anni, sopra tutto il figlio e la nuora! — Quest’inverno, — ella talvolta diceva, prendendo nelle sue le mani dei due giovini, — quest’inverno andremo in Riviera, noi tre soli, soli... Son tanti anni che non vedo il mare!... Prenderemo una villetta su uno scoglio, contro cui si oda nella notte sbattere le onde, dove non ci sia il silenzio che qui ci opprime, questo silenzio che non finisce mai, mai... Vero? Vero? Ci condurrai al mare, Alessandro? Mi farai rivedere il mare, Alessandro? Altra volta si scoteva d’improvviso, faceva l’atto di scendere dal letto. — Andiamo! Andiamo! — diceva con grande impazienza. — Ci aspettano. Non bisogna farci aspettare. Domani saremo là: ci fermeremo un mese, un lungo mese... Là c’è aria buona, là si respira, là si può passeggiare al sole.... Andiamo! Andiamo! E gli occhi allucinati si perdevano in una lontananza fantastica, parevan rispecchiare nelle loro pupille dilatate la felice utopia dove l’aria salubre non soffocava, dove ancor si poteva liberamente uscire per rivedere il sole. Ma il terzo giorno sembrò in vero che la fine fosse prossima e che la vita di donna Marta non dovesse arrivare al domani. Già dal mattino ella, sentendosi mancare, aveva chiamato a sè Aurelio e gli aveva detto con accento desolato: — Figliuol mio, è l’ultimo giorno. È inutile illudersi: io mi sento morire. E non puoi credere quanto m’affligga il pensiero di lasciar qui solo te che hai tanto bisogno d’appoggio, sognatore e inesperto come sei di tutte le cose della vita. Che farai tu, povero Aurelio? Che sarà della nostra casa? — Mamma, — proruppe il giovine, trattenendo a pena un singhiozzo, — non parlare così! Tu non stai peggio. Un po’ di pazienza ancora. Tu devi guarire. — Dovrei ma non posso. Oh, fosse possibile!... Per te, per te solo, credilo, ho tanto pregato Iddio di farmi guarire!... Ma era tardi; era troppo tardi. Dovevo pensarci prima. Ho commessa una grave imprudenza, ed ecco il castigo! La colpa è mia. Tutta mia... Perdonami, Aurelio... — Oh, mamma! — egli esclamò, afferrando la mano ch’ella gli offriva. E cadde in ginocchio presso il letto; e compresse il volto contro i guanciali per nascondere le lacrime che già gli solcavano le guance. Il dottor Demala giunse verso mezzodì a Cerro. Udì da Camilla le cattive notizie; salì concitatamente nella camera dolorosa, e, senza salutar nessuno, con il cappello in testa, si avvicinò, visibilmente turbato, all’inferma. Le tastò il polso, l’esaminò, s’oscurò in viso. — Presto, un po’ di bambagia, alcuni bicchieri... Presto! — Dottore, come soffro! — mormorò donna Marta, appena Aurelio fu uscito. — Come si soffre a morire!... — Ma chè morire! — fece il dottore bruscamente, quasi con ira, alzando le spalle. Non disse altro per confortarla. Si volse, guardò attentamente Flavia che ancora non conosceva; poi, toltosi il cappello, sedette in aspettazione. — Pessimo tempo! — soggiunse dopo una pausa. — E noi avremmo bisogno del sole, d’un bel sole per la nostra ammalata. — Oh, il sole! — esclamò questa con un profondo rammarico nella voce. Tacquero. Aurelio rientrò, seguito da Camilla, portando i bicchieri e la bambagia; e il medico s’accinse sùbito ad applicar le ventose, ajutato a stento da Flavia, che la sua nervosa impazienza confondeva, e sbigottiva la vista del fuoco su quelle misere carni. Donna Marta non diede segno di dolore. Ma la pelle sotto le coppe ardenti si gonfiò e al distacco apparve tutta macchiata di cerchii sanguigni. Il dottore uscì insieme con Aurelio. — Ebbene? — chiese questi tremando d’ansia e di paura. — L’infiammazione si estende: il catarro ha invaso già una gran parte del polmone destro. E il cuore è sempre più debole: gli sforzi di questi giorni l’hanno estenuato. C’è da temere un’asfissia.... — La morte, dunque?!... — Eh, pur troppo.... Ma speriamo che non avvenga; speriamo d’arrivare in tempo a scongiurarla. Ora scriverò una lettera al dottor Redi.... e una ricetta. Sono pillole di muschio: glie ne darai una ogni due ore.... regolarmente. Io debbo essere stasera a Varese per un consulto.... sarò qui di nuovo domattina.... più presto che potrò. Coraggio, in tanto, coraggio, amico mio! Aurelio rimase stordito dalla fiera minaccia, come da un colpo di maglio ricevuto nel mezzo del cranio. Non era dolore quel che provava: era un senso di vuoto, d’accasciamento, di desolazione indefinibile. Gli pareva d’esser perduto in un’immensa foresta, e di sentir la notte scendere su lui a traverso i rami degli alberi secolari: nessuna via, nessuna speranza, nessuna salvezza! Egli vedeva il destino, come vedeva il paesaggio, di là d’un velo di nebbie e di piogge: d’avanti a lui una parete fluida si drizzava fino al cielo per separarlo dalle cose esteriori. E nel suo cervello continuava a passare, lento e infinito, come una migrazione di larve pallide, tutto il corteo delle astrazioni, delle parole vaste, incerte, chimeriche.... L’intero giorno egli restò in quello stato di stordimento e quasi d’ebetudine, che non gli permetteva pur di soffrire. S’aggirò come un sonnambulo per le camere, per gli anditi, per le logge; stette lungamente, immobile e taciturno, seduto su una poltrona nella stanza di donna Marta; s’assopì anche un poco nel pomeriggio, ma il sonno fu torbido, inquieto, attraversato da baleni sinistri. Si svegliò di risalto a un gemito più forte della sofferente. «Non valgono a nulla anche le preghiere, dunque?» si domandò, rivedendo il volto cadaverico della nonna, ricordando d’un tratto la lugubre previsione del medico. — Oh, con che fervore, con che umiltà aveva egli saputo pregare quel mattino, dopo tanti anni che la sua fede era muta! Con quanta umiltà e con quanto fervore egli era ritornato di poi al luogo dei miracoli, e si era ancora genuflesso d’avanti alla sacra imagine! A nulla era valso: umiltà e fervore erano stati inutili, s’eran dispersi come un fumo nell’impassibilità dello spazio! Si levò, uscì dalla stanza, sentendo prorompere dall’anima l’odio e la bestemmia contro le leggi tenebrose della vita, contro la sorte, contro Dio. Non vi rientrò che un’ora più tardi, accompagnando il dottor Redi. — Aurelio! — chiamò l’inferma con un grido, come lo vide comparire su la porta. — Ah, non lasciarmi, non lasciarmi più! Sta qui vicino a me, molto vicino.... Perché sei andato via? Ho paura! Ho paura!... Era più alterata e più deforme che non mai: parve al giovine che in quell’ora fossero piombati vent’anni di torture su quella faccia miserabile. — Eccomi, mamma! — egli balbettò con la voce tremula, avvicinandosi al letto. Mentre il medico l’esaminava, Flavia s’accostò pianamente a lui e gli disse sotto voce all’orecchio: — Mio Dio, quante volte l’ha chiamata durante la sua assenza! Io ho pensato ch’ella dovesse riposare e non ho voluto disturbarla. Ho fatto male? — Grazie! Grazie! — egli rispose, e le stese indietro la mano, involontariamente. Sentì un contatto caldo, una stretta energica, un intrecciarsi furioso con le sue dita d’altre dita più sottili. E quelle dita tremavano, d’un tremolìo incessante, quasi la vibrazione d’una corda sfiorata. Il brivido si comunicò più forte alla sua mano, gli ascese lungo il braccio su su, come un’onda elettrica, verso il cuore, verso la gola. La sua anima si gonfiò di confuse aspirazioni.... Egli comprese: era il conforto, il conforto non chiesto, non voluto. Fece per ritrar la mano ma non gli fu possibile; e rimase così, avvinto a lei nell’ombra, in cospetto della moritura, finchè il medico, compiuta l’opera, non si mosse. La sera calò rapida tra i nembi. Pioveva, pioveva sempre. Si udiva lo scroscio sordo dell’acqua su la campagna buja: si udiva il rombo alterno dei flutti contro la spiaggia. Di quando in quando qualche foglia divelta dal vento cadeva sul davanzale delle finestre, stridendo lieve contro i vetri. Era la triste monotonia dell’autunno in tutta la sua funebre maestà, la lenta decadenza della stagione, la malattia irreparabile di tutte le cose vive sotto l’inclemenza di un cielo plumbeo. La luce affievoliva, le piante si sfrondavano, l’erbe e i frutici infracidivano, la terra stava per chiudersi assiderata nella compostezza brulla della morte. E, nel crepuscolo, la campana della chiesa, battendo tra lo strepito della pioggia l’Ave Maria, sembrava annunziare ai fedeli che un’agonia incominciava e convocarli per una preghiera di requie eterna. Al calar delle tenebre, ai lugubri squilli, principiò ad allentarsi il viluppo d’apatia che teneva fasciata l’anima del giovine fin dal mattino. A mano a mano egli venne riprendendo coscienza di sè stesso, ritrovando il sentimento normale della sua persona, rientrando nella realità con i sensi vigili e la mente perspicace. Allora intese tutta la gravità della sciagura che gli incombeva; allora ebbe veramente l’intera e lucida consapevolezza della sua infelicità. — Sua nonna, la sua seconda madre era là, china e sospesa su l’abisso senza confine. Tutta la sua giovinezza, tutta la sua vita anteriore, tutti i suoi sogni medesimi erano intimamente legati alle memorie di quell’essere precario, che nessuna forza umana poteva contendere alla sua sorte. Ella precipitava; e avrebbe forse trascinato con sè memorie, sogni, giovinezza. Che fare? Ogni cosa era inutile. Bisognava aspettare, assistere, rassegnarsi. E poi? Ahi, questo era il più terribile: poi bisognava vivere, vivere ancora, portando in cuore il peso di tutte le disperazioni, di tutte le maledizioni, di tanta amara esperienza; bisognava scegliere una via nuova da percorrere, sapendo già la vanità di ogni nostra impresa e la mèta fatale d’ogni nostro cammino! Era affondando gli sguardi nel futuro che Aurelio provava lo sgomento maggiore: lo stesso spaventoso attimo del trapasso impallidiva di fronte all’idea della lunga serie di giorni grevi che lo avrebbe seguito. Egli era solo: dentro di lui non restava che il rimpianto d’un unico affetto distrutto; e d’intorno a lui, un mondo impassibile, aspro, prodigo di sarcasmi per l’anima in pena. In quel momento nessun conforto estraneo, nessuna obliqua aspettativa mitigavano la cruda evidenza della sua previsione: il cordoglio, il grande cordoglio nobile e puro, dominava, autocrata severo, tutte le sue facoltà. Donna Marta, dopo la puntura di caffeina, aveva avuto un’ora di sollievo, aveva anche mangiato qualche cosa; poi d’improvviso era ricaduta nello stato di prostrazione mortale. Ora, riversa su i cuscini, delirava fiocamente; e Flavia, tenendole una mano, assecondava con qualche blanda parola il suo delirio. — Andiamo! Andiamo! — diceva l’inferma, senza muoversi, senza potersi muovere. — Ma dove, donna Marta? Dove vuole andare a quest’ora? — Via, lontano... Qui si sta male. Andiamo? — Eh, si sta male dovunque, cara signora. E non si può uscire. Piove, piove a dirotto. L’inferma taceva un istante, poi ricominciava a supplicare, guardando la fanciulla con occhi stravolti, pieni d’una luce innaturale, biancastra come quella dei lampi: — Andiamo! Andiamo! La notte era discesa. La candela, posata in terra a piedi del letto, spandeva un chiarore dorato su le cose ignote, lasciando in un’ombra densa quelle altre di solito visibili. L’orologio a pendolo sonò le nove, nell’oscurità. — Ho sonno, — disse l’inferma d’un tratto. Aurelio s’avvicinò al capezzale. Le prese l’altra mano nella sua, susurrandole all’orecchio: — Dormi, mamma. Sarai stanca. Dormi. Ella fece cenno di sì col capo. Sorrise debolmente (oh, quel sorriso non era, non era di questa vita!). Poi, avendo chiusi gli occhi, con un atto repentino avvicinò le mani di Flavia e d’Aurelio, le riunì sopra il suo cuore, ritirò le sue con lenta precauzione, e parve assopirsi sotto il calore di quel nodo di giovinezza ch’ella medesima aveva voluto stringere in un estremo risveglio della coscienza. I due giovini, chini su di lei, non si guardarono: stettero immobili, compresi come dalla solennità d’un rito religioso. E l’orologio sonò di nuovo il tempo fuggitivo, sorprendendoli ancora con le mani sovrapposte al cuore della morente, che si sentiva battere folle e disperato quasi lottasse contro un nemico implacabile. — Dorme? — chiese Aurelio, con un fil di voce. — Dorme — rispose Flavia. Si sciolsero, s’allontanarono in punta di piedi, sedettero discosti l’uno dall’altra ai due angoli della vasta camera. Pioveva, pioveva sempre. Si udiva lo scroscio sordo dell’acqua su la campagna buja; si udiva lontano il rombo cadenzato delle onde contro il greto. Di quando in quando i vetri della finestra stridevano lievemente, percossi da uno spruzzo o da qualche foglia secca, che il vento spingeva verso il palazzo. Un’ora passò, silenziosa. Donna Marta dormiva supina, rialzata da tre o quattro guanciali, e l’estrema debolezza le toglieva ogni moto, ogni segno esterno di vita; l’avrebbe fatta credere esanime se non fosse stato il fioco ritmo della respirazione, così rauco e frequente come l’anelito d’un cane dopo una corsa a perdifiato. Ella giaceva inerte, con gli occhi chiusi, con la bocca spalancata; e lo stesso affanno non le sollevava il petto, non dava la più piccola scossa all’esile persona che a pena formava rilievo sotto le coltri scomposte. Aurelio, dal fondo della camera, teneva gli sguardi fissi al funereo chiarore che rompeva l’ombra al sommo del letto. Non poteva distinguer nettamente la figura dell’inferma dal bianco dei guanciali e dei lenzuoli; ma il rantolo breve e l’immobilità d’ogni cosa richiamavan la sua attenzione, accrescendo d’attimo in attimo la sua inquietudine. Più d’una volta, assalito da una paura repentina, fece l’atto di levarsi, di correre a lei per toccarla, poichè gli pareva che dovesse esser già fredda e stecchita. Ma lo trattenne la vista di Flavia, vigile come lui e ferma al suo posto. In fine, dopo un’aspettazione eterna, si risolvette: in punta di piedi attraversò la stanza, venne accanto alla fanciulla, le disse piano, senza voce: — Bisognerà darle il muschio. Son già passate tre ore dall’ultima pillola. — Svegliarla? — Mi sembra. — Credo sia meglio lasciarla quieta. Dorme. È la prima notte che può riposare un poco... Aurelio voleva aggiungere: «Quel sonno non mi piace;» e non l’osò. Fece un gesto vago d’assentimento.... si ritirò ancora in punta di piedi nel suo angolo oscuro.... ricadde costernato su la sedia, afferrandosi il capo che bruciava tra le palme gelate. Il sospetto tremendo aumentava continuamente dentro di lui: egli s’esaltava. La camera era fosca, irriconoscibile; il volto dell’inferma assumeva nella sua fantasia l’apparenza d’una spaventosa maschera di cera sul pallor della tela; e la sua contemplazione prolungata diveniva tragica, poichè egli sentiva nell’aria, sopra quel volto, la presenza della Morte invisibile. Tutta la sua anima era sospesa al respiro di lei, che strepitava in una corsa matta, come un congegno guasto che il freno non regga più e stia scaricandosi per ristare d’improvviso e per sempre. Egli pensava con raccapriccio: «Ella non dorme. Quel letargo greve e affannoso non è sonno, è coma. L’asfissia è incominciata: ella non si sveglierà più.» Cercava di scacciare da sè il sospetto.... d’illudersi un poco ancora... di credere cecamente alle apparenze tranquille ch’erano intorno a lui, «Dorme,» si diceva; «non ha accusato alcuna sofferenza prima d’assopirsi. Io mi spavento senza ragione.» Ma le parole confortevoli risonavano senza eco nel suo cervello; e quelle paurose le soverchiavan sùbito, più forti, più convincenti, più imperative, come proferite al suo orecchio da un estraneo che non poteva ingannarsi. Un tempo incalcolabile passò, senza che avvenisse un movimento nella camera dolorosa. Pioveva.... pioveva sempre. Si udiva il rombo cupo della pioggia su la campagna oscura.... si udiva lo strepito delle onde contro la spiaggia.... Di tratto in tratto un baleno muto rischiarava le vetrate, rivelando un paesaggio grigio, informe, spugnoso a traverso i fili lucidi dell’acqua cadente.... Nel suo angolo, Flavia a poco a poco s’era addormentata.... L’inferma rimaneva nella sua compostezza immutabile.... e il suo respiro, accompagnato da un gorgoglio liquido nella gola, continuava senza tregua, rapido e anelante, prevenendo i battiti regolari del pendolo.... La campana della chiesa sonò lungamente la mezzanotte.... l’orologio nella stanza la ripetè lungamente sùbito dopo. Quando il giovine s’accorse che anche Flavia dormiva, si levò in piedi di nuovo, s’avvicinò con passo furtivo al letto, giunse inavvertito presso al capezzale.... Toccò la fronte dell’inferma.... era fredda e un poco madida!... Le prese il polso.... era di gelo, e l’arteria batteva a pena, ora agitata ora lentissima!... Si rialzò, inorridito.... Si passò una mano su i capelli, con un gesto di smarrimento supremo.... — Era possibile? Era possibile? — Un terrore subitaneo lo irrigidì, gli agghiacciò il sangue, gli offuscò l’intelletto. Tutto era oscurità e silenzio: egli non sentiva più, non vedeva più, non pensava più.... Parvegli veramente in quel punto che fosse la fine del mondo.... ed era la fine del mondo, ma non per lui!... Restò qualche istante immoto, attonito, ottenebrato d’avanti all’avola, che al suo contatto non aveva dato un segno di vita.... Poi la chiamò. — Mamma! Più forte la chiamò una seconda volta. — Mamma! La scosse, la chiamò una terza volta quasi con un grido. — Mamma! La voce nel silenzio notturno ebbe un suono così strano, ch’egli si volse spaurito a riguardare, come se qualcuno avesse gridato con lui dietro le sue spalle. La camera era quieta, e sembrava deserta.... Flavia, morta di fatica, non s’era risvegliata, e nell’ombra densa era quasi invisibile.... Egli si sentì solo, assolutamente solo di fronte al mistero: gittò un ultimo sguardo obliquo all’inferma, immobile sul letto come una statua di cera; e, pazzo di dolore e di sgomento, si precipitò in corsa fuor della stanza. Le tenebre eran fitte sotto il portico.... si vedeva soltanto, dall’altro lato, fumigare il lucignolo votivo d’innanzi all’icona miracolosa.... Aurelio si diresse risoluto verso la porta della scala.... discese brancicando fino al cortile.... l’attraversò a passo concitato, senz’accorgersi dell’acqua che gli pioveva in testa... Anelante, con le arterie che gli battevan su le tempia quasi colpi di martello, entrò nella sala da pranzo ch’era buja, fredda, umida come una grotta. Non pensò d’accendere un lume.... si lasciò cader di peso sopra il divano.... — Tutto era finito! Le tristi previsioni del medico s’erano avverate: il cuore non aveva potuto oltre resistere agli immani sforzi di quei giorni, e l’asfissia era incominciata: sua nonna moriva! Ogni speranza omai era vana; ogni illusione, dispersa; la vita gli si stendeva, d’avanti agli occhi sbarrati nell’ombra, arida, tetra, desolata, infinitamente. Che cosa gli restava da fare? Attendere rassegnato la fine? Così solo, gli pareva impossibile: gli pareva superiore alle sue povere energie. Partire, fuggire? Ma come, a quell’ora? e chi, chi dunque avrebbe poi pensato al resto? — La sofferenza diventava orribile.... Egli non sapeva risolversi a nulla, e provava il bisogno istintivo di muoversi, d’agire, di sottrarsi a quell’inerzia fatale che gli pesava sul cuore come un rimorso. Per un attimo, un’idea gli attraversò il cervello: quella di correre alla casa parrocchiale, di svegliare il prete, di chiamarlo sùbito per l’estrema unzione della morente. Non ebbe tempo di considerarla: l’idea passò ratta come un lampo, e si confuse nel tumulto delle altre idee che sopraggiungevano. Egli la dimenticò. — E se fosse disceso da Ferdinando? Se lo avesse mandato in tutta fretta a prendere il medico? — Ohimè, era tardi, era troppo tardi; e anche prima, sarebbe stato inutile. Gli uomini non potevano opporsi alla volontà del Destino; ed era scritto, come in un libro infallibile, che sua nonna dovesse morire in quella medesima notte! Tutto era fatale! Tutto era irreparabile! Bisognava aspettare, rassegnarsi e soffrire. Ed egli s’abbandonò intero al suo dolore, come un naufrago, allo stremo delle forze, si concede alla corrente impetuosa che lo travolge. Seduto sul divano, con la testa, che ardeva, stretta tra le palme gelide, pianse, pianse a lungo, senza più saperne il perchè; cercandolo dove non era, nei tristi ricordi, nelle delusioni patite, negli sconforti che l’avvenire gli riserbava. Poi non avendo più lacrime, si mise a singhiozzare, a ripeter forte il nome adorato, a invocare come un bambino smarrito la madre assente — quella povera creatura omai sorda e muta che rantolava lassù tra gli ultimi spasimi d’un’agonia senza coscienza. Rimase così non seppe quanto, avvolto nell’oscurità che i baleni a intervalli debolmente rischiaravano. Un brontolìo di tuono lontano, qualche rovescio veemente di pioggia o di grandine rendevano il silenzio più sensibile e più pauroso. D’un tratto una finestra si spalancò con un fragore formidabile, e una folata di vento invase la sala, sollevando tende e tappeti, trascinando a terra alcuni giornali spiegati che parvero alla luce d’un lampo pallidi spettri fuggenti. Aurelio si alzò di sbalzo, in preda all’orrore; ricadde tosto sul divano, senza poter fare un passo, imprigionando ancora disperatamente il capo tra le palme. Fu scosso dal romore della porta che s’apriva. Flavia apparve livida, convulsa, agitatissima, con il lume stretto in pugno. — È mezz’ora che la cerco, — disse con la voce alterata. — Mi ha tenuto tanto in pena!... Poiché il vento minacciava di spegnere la fiamma, ella depose il candelliere su la tavola e corse a richiudere la finestra. Aurelio non s’era mosso, non aveva levato la testa: l’aveva riconosciuta e, supponendo ch’ella venisse a comunicargli la cosa tremenda, era rimasto con il viso nascosto, con l’anima chiusa come per difenderli da un colpo mortale. Flavia ritornò indietro, venne presso di lui, gli si fermò d’innanzi, più calma, fissandolo con uno sguardo umido di pietà. — Ma perché fa così, signor Aurelio? — disse dolcemente, dopo una pausa. — Perchè scoraggirsi a questo modo? — È morta? Dica: è morta? — egli chiese d’improvviso con la voce rôca, senz’alzare il capo dalle mani. — Ma no, Dio mio, no! Dorme, dorme sempre. È tranquilla. Ciò che più m’addolora è veder lei così debole, così afflitto, così disperato! Son giorni terribili, lo so; ma passeranno, vedrà, passeranno. Donna Marta guarirà, tornerà sana e lieta; si stenderà un velo d’oblio su queste tristezze. Ma se lei non reagisce, se s’abbandona così allo sconforto, finirà per ammalarsi a sua volta, e darà altri giorni d’ansie e d’apprensioni alla sua nonna e.... a chi le vuol bene!.... Su via, mi guardi! Mi lasci veder la sua faccia!... Il giovine sentì le dolci parole passar su l’anima assiderata, perduta nelle nebbie alte del dolore, come un soffio tepido di primavera che disciolga i ghiacci d’una vetta. Il singhiozzo rincominciò più fitto, irresistibile. Un nodo di commozione gli strozzò la gola, ed egli ruppe di nuovo in pianto, violentemente. — Ma no!.... Perchè piange, adesso? Ma perchè? Mio Dio! Non faccia così!... Aurelio!... La supplico.... Aurelio! Aurelio!... Ella lo chiamava, ella lo pregava inutilmente. A ogni sua esortazione, il singulto aumentava, le spalle sussultavan più forte negli spasimi del convulso; e le lacrime in tanto continuavano a sgorgare copiose di tra i cigli, scendevano a rivi per le gote, piombavano a una a una su la terra nuda, come gocce di sangue. — Aurelio, per pietà, m’ascolti! — ella gridò, con un brivido di tenerezza irresistibile; e non sapendo che fare, si chinò, si protese verso di lui, e gli afferrò con ambo le mani gli òmeri sussultanti. Il singulto cessò d’improvviso. Egli scoperse la faccia tutta madida, solcata dai segni delle dita, sformata dalle sofferenze atroci, con la bocca viscida, con le palpebre gonfie e infiammate. La guardò come non la riconoscesse, attonito e smarrito come uno che abbia portato a lungo la benda su gli occhi. Ella era china su lui, appoggiata alle sue spalle, e gli sorrideva dall’alto tenuamente, con un sorriso ambiguo di pena e di beatitudine, tra materno e inamorato, insostenibile e affascinante come un bagliore. Si fissarono così un tempo indefinito senza muoversi, senza parlare, comunicandosi con le pupille i loro pensieri ch’erano immensi e ineffabili, tendendo le loro anime su cui pesava tutta la mestizia e tutto il mistero delle umane miserie. Nello sguardo della donna era come una promessa, e nello sguardo del giovine era quasi un desiderio. E a grado a grado il dolore dell’uno divenne il dolore dell’altra; e la pietà di questa divenne la pietà di quello; e le loro due vite segrete, sempre disgiunte, aderirono, si sciolsero, si confusero in un sentimento unico d’una grandezza muta ed esclusiva. Essi rimasero soli, in una solitudine senza confini, fuori del tempo e dello spazio, fuori della realità, nel nulla. E d’un tratto ella piegò, come vinta da un languore subitaneo, cadde con i ginocchi a terra, e s’abbandonò tutta quanta sul petto di lui, singhiozzando. Aurelio sentì il contatto molle del suo corpo, sentì il profumo sottile de’ suoi capelli, vide qualche cosa oscura passar d’avanti ai proprii occhi. E senza poter parlare, soffocato da un accesso violento di commozione, s’aggrappò a lei con le braccia disperatamente per il bisogno istintivo di vivere, di salvarsi, d’uscire alfine all’aria libera da quell’onda mortifera che lo sommergeva e l’annegava... E così stretti, mescolarono insieme le loro lacrime, piangendo in vano su la sorte di colei che si dipartiva e fors’anche su quella più triste di coloro che dovevan venire! Egli primo si rialzò; egli primo riebbe negli occhi la luce e fece attenzione alle cose circostanti. La candela ardeva su la tavola, e la fiamma era immobile, acuta come una punta d’oro. La pioggia pareva cessata; nel silenzio imperturbato dell’alta notte il suo orecchio percepì il lamento lontano d’un gufo nella pineta. Egli contemplò per alcuni istanti la fanciulla prostrata a’ suoi piedi, che ancora qualche raro singulto scoteva; e poi d’improvviso le strinse la testa fra le mani, glie la rovesciò indietro, le soffiò in volto l’impeto folle della sua passione: — Ma tu mi ami, dunque? Tu mi ami? — le domandò, investigandola da presso nelle pupille lacrimose. Ella esitò un poco, con la fronte corrugata, come chi considera e risolve rapidamente. Poi agitò il capo, parve illuminarsi tutta nel supremo abbandono, e rispose forte e sicura: — Ti amo! Ti amo! Darei la vita per vederti felice! — Ma se tu mi ami.... — egli gridò con un accento indefinibile di strazio, di desiderio e di terrore, insortogli chi sa da quale profondo abisso dell’anima. Non potè proseguire con le parole. Ma gli occhi espressero bene con il loro lampo bieco, selvaggio, terrifico il suo pensiero disperato di felicità e d’oblìo: «Se tu mi ami, porgimi la tua bocca, cingimi con le tue braccia, fammi dimenticare tutto in un tuo bacio! Prendimi e fammi felice, poichè il dolore è inutile, e questa vita miserabile non merita che si soffra un’ora pe’ suoi destini!» La donna da quel lampo intese l’invito fatale, e si sgomentò. — Andiamo, Aurelio! — disse ritraendosi dolcemente, ritornata padrona di sè stessa, già fatta cauta e previdente dal pericolo, già sorretta da un intuito chiaro della propria convenienza. — Andiamo di sopra! Se la mamma si sveglia e non ci trova... Vieni! Si rialzò, gli offerse sorridendo la mano. Egli la prese, e si lasciò trascinare da lei passivo e taciturno, quasi caduto in uno stupore profondo. Così la Coppia novella, legata dal nodo simbolico d’Amore, s’avviò lenta nella oscurità, avvolta come da un nimbo irreale, verso la stanza funesta dove la Morte aspettandola indugiava. XI. SOLO. Appoggiato con le braccia al davanzale della finestra nel suo studio in Milano, Aurelio Imberido contemplava malinconicamente la via popolosa ancora un po’ dorata dai riflessi del sole cadente. Sul corso Venezia e sul corso Vittorio Emanuele una moltitudine di carrozze e di tranvie passava in corsa; e il romorìo confuso e ininterrotto, dilatandosi in torno, giungeva fino all’estremità di via Monforte, a pena attenuato. Un piccolo treno, di là dei cancelli del Dazio, fischiava e scampanellava ostinatamente, avanzando lentissimo lungo la strada di circonvallazione, che alcuni veicoli carichi di masserizie attraversavano a fatica; le voci dei conduttori si udivan distinte tra gli scocchi delle fruste incitare aspramente i cavalli con le bestemmie, con le ingiurie, con gli urli. Nell’appartamento di fronte alla finestra dell’Imberido si procedeva con alacrità all’opera di sgombero; e le stanze apparivan già quasi vuote, in un nuvolo fitto di polvere, con le tappezzerie lacerate, con le poche suppellettili rimaste, radunate a cumuli negli angoli. In basso, d’avanti alla porta, un enorme carrozzone giallo attendeva, intorno al quale una torma di facchini s’affaccendava silenziosa, mentre altri uscivano di continuo dalla casa con qualche mobile su le spalle. Aurelio guardava triste quello spettacolo intenso, quella smania febbrile di mutamento e di lavoro che agitava la grande città senza una tregua, dal mattino fino alla notte. A che si affannavano codesti uomini laggiù? Che insani desiderii, che vili ricompense, che stolte ambizioni li urgevan dunque così, a logorarsi l’esistenza, a disperdere il tempo fuggitivo, a ritardare l’unica dolce ora del riposo? La vita ferveva dovunque inarrestabile, come prima, come sempre; e il dolente ne ricercava in vano le ragioni e gli scopi. In fondo a lui era quel senso lucido dell’inutilità d’ogni cosa, quell’apatia serenamente desolata e quasi superba, che infonde negli spiriti sensibili, proclivi alle meditazioni astratte, l’idea della morte fissa nel centro della loro intelligenza. Egli si sentiva lontano da codesti uomini attivi e spensierati, come se li avesse veduti da una vetta altissima in una valle profonda; essi parevano a lui uno sciame di formiche minuscole e industriose, costrette a una perpetua fatica da un istinto oscuro: i loro pensieri, i loro sforzi, i loro intenti gli erano estranei e quasi inesplicabili. Egli provava per costoro un sentimento complesso, insieme di maraviglia, d’indulgente superiorità e di compassione amara, molto simile a quello che avrebbe avuto in cospetto d’un avaro decrepito e infermo, che patisse la fame per rimpinzar di monete il già colmo forziere. Il piccolo treno si celò dietro le mura, sempre fischiando e scampanellando; i veicoli carichi di masserizie s’allontanarono per il viale della Concordia verso l’aperta campagna; altri carri sopraggiunsero, s’incrociarono, disparvero. Man mano che il tramonto s’approssimava, il movimento cresceva nella città e nel suburbio: frotte di lavoratori passavano in fila, di ritorno dagli opifici o dalle botteghe; coppie d’inamorati s’affrettavano impazienti alla volta dei bastioni o dei pubblici giardini; gruppi di borghesi azzimati e tranquilli uscivano dalle dimore per l’abituale passeggiata avanti pranzo. Il giovine, immobile alla finestra, pareva non saziarsi dello spettacolo. Osservò attentamente un cocchio padronale, che sbucò con gran fragore dall’androne sottostante e si diresse al trotto di due sauri focosi verso il Corso, portando una giovine donna e un bimbo ricciuto e biondo. Vide dopo poco un convoglio funebre spuntare tardo e nero su la strada esterna. La sua tristezza s’aggravò: egli piegò il capo come oppresso da una memoria crudele, e con le mani furtivamente si terse gli angoli degli occhi dove già due lacrime luccicavano. — Povera nonna! — mormorò con accento d’infinito sconforto. E seguì con gli sguardi, fin che gli fu dato, quel feretro miserando, che dietro trascinava altri dolori, altre disperazioni a traverso la città impassibile, indurita alle scene dei lutti, distratta dalle opere e dalle vanità della vita. Quando il sole esulò anche dai fastigi più alti delle case, Aurelio si ritrasse, rientrò nell’ombra della stanza, s’abbandonò su una poltrona d’avanti allo scrittojo sgombro d’ogni carta. Egli si sentiva vacuo, stanco, svogliato: non un desiderio, non un’intenzione, non un impulso pungevano la suprema inerzia del suo spirito. Che fare? Dio mio, che fare? I giorni erano eterni; le ore, interminabili; lenti lenti, i minuti. E la sua anima pareva cristallizzata in una forma immutabile, su cui il tempo scorresse pigro e lieve senza lasciare la benchè minima traccia. Che fare? Mio Dio, che fare? Tutto omai gli era indifferente; tutto gli sembrava inutile; la sua stessa persona non aveva esigenze, non provava bisogni, non richiamava su sè stessa, con un sol palpito passaggero, la sua attenzione costantemente fissa nel nulla. Lavorare; e perchè? Correre in cerca d’uno svago, d’una distrazione, di compagnia; e con qual costrutto? Nessuna cosa al mondo più non gli sorrideva; egli si guardava d’intorno e non vedeva che il fondo delle varie apparenze per mezzo a cui passava. E il fondo era grigio, senza luci e senza ombre, uniforme e tedioso come un deserto sconfinato di sabbie. Da quindici giorni questa era la sua vita; da quindici giorni, egli languiva così in un ozio schiacciante, nella casa paterna che le imagini de’ suoi maggiori, appese alle pareti, rendevan simile a una critta foderata di lapidi: — solo, assolutamente solo, smarrito nella foresta degli uomini, incapace e sdegnoso di trovare una via di salvezza o un luogo tranquillo di rifugio. Nella vecchia casa, le memorie sorgevano da ogni parte; una moltitudine di fantasmi leggeri e mormoranti si levava incessantemente intorno a lui e veniva ad assediarlo. Era tutta la sua adolescenza, che gli si riaffacciava in un velo di sogno, idealizzata da un sentimento superiore, circonfusa come da un’aureola tenera di poesia e di malinconia; era tutta la sua vita che usciva a brani dispersi da quegli oggetti ben noti, evocata da una forma, da un suono, da un profumo indistinto; erano i fiori più ingenui dell’anima sua, poveri fiori omai secchi e a pena riconoscibili, che gli riapparivano d’improvviso in qualche angolo dimenticato, nei tiretti polverosi, nelle casse chiuse da tempo. E insieme con i suoi ricordi si confondevano i ricordi altrui, i ricordi anche più tristi e suggestivi di coloro che lo avevano preceduto: talvolta per le stanze deserte e silenziose pareva a lui che vagassero ancora le figure de’ suoi consanguinei scomparsi, richiamate a una vita incorporea dalla stabilità delle cose circostanti. Il luogo in fatti non era quasi in nulla mutato da venti lunghi anni, da quando il conte Alessandro, scacciato a forza dal palazzo avito, era venuto con lui e con la vecchia ad abitarlo. La camera dov’egli dormiva era la medesima in cui suo padre era morto: i mobili antichi e sontuosi, che ornavano le sale, i grandi quadri e gli arazzi, che coprivano le pareti, eran nell’ordine preciso in cui il padre aveva voluto disporli; i piccoli oggetti muliebri, sparsi un po’ dovunque, attestavano la recente presenza dell’avola in tutte quelle stanze, ch’egli partendo aveva lasciate l’ultima volta con lei! Come poteva egli dissociare l’imagine dell’assidua compagna dalle cose ch’ella aveva guardate o toccate, — dal luogo familiare, in cui egli l’aveva sempre veduta? Veramente, ella esisteva ancora per lui come prima, più di prima. Dal dì del suo ritorno a Milano, egli ne aveva sentita la vicinanza in ogni ora, come se l’avesse ricondotta viva con sè e non rinchiusa in una cassa eternamente chiodata. E l’illusione era in lui così forte, che bastava talvolta il più piccolo romore in una stanza contigua, il fruscìo d’una tenda, lo stridìo d’un tarlo, la scricchiolata d’un mobile, per farlo volgere d’improvviso, con il cuore in sussulto e l’anima sospesa, quasi aspettandone l’apparizione dalla soglia oscura. Abbandonato su la poltrona, Aurelio guardava ora fissamente un ritratto, appeso sul muro, di fronte a lui. Era l’effigie d’una donna giovinissima, non bella, ma illuminata da una strana fiamma di volontà e di passione nei vasti occhi neri, nella linea ferma della bocca, su la fronte convessa che ingombravano due folte ciocche di capelli notturni, cadenti a onde da una scriminatura mediana fin su le tempie e su gli orecchi. Fuor dall’ombra cupa dello sfondo, il volto un po’ pallido, il collo di cigno e i nudi omeri arcuati spiccavan bianchi nella rara luce, come uscissero in rilievo dal quadro. L’imagine raffigurava donna Marta Imberido cinquant’anni prima, sposa novella, nel pieno rigoglio della sua giovinezza; ed era l’opera d’un artefice squisito, che aveva saputo infondervi con maestrevoli segni l’evidenza dell’anima e della vita. Aurelio, immobile e come affascinato, non poteva distoglier gli sguardi da quel ritratto dove convergevano gli ultimi riflessi del tramonto. — Era mai l’avola sua stata così?... Oh, il tempo, il tempo! Come l’aveva mutata! Come l’aveva distrutta! Come tutto muta e distrugge il tempo!... Quella figura amabile, fresca, adolescente egli non riserbava pur tra le memorie fioche della sua infanzia; e certo non avrebbe potuto riconoscerla, se gli si fosse offerta in quel momento per la prima volta alla vista. Egli dell’avola ricordava un altro aspetto, tutt’altro aspetto: la imaginava curva, bianca di capelli, con il labbro di sotto che soverchiava quello di sopra, con la pelle avvizzita, il collo rugoso, le iridi anche più larghe, attraversate da sprazzi di follia. Eran dunque la medesima persona quella che gli si presentava d’innanzi reale, e l’altra imaginaria ch’egli vedeva con gli occhi dell’anima? Potevano essere così diverse nelle apparenze, così disgiunte nel tempo, una sola persona? Il giovine non riusciva a riunirle, a fonderle nella sua mente, ad afferrarne la personalità unica e continua a traverso due differenti età; per quanto cercasse, non trovava una rassomiglianza anche lontana tra il fantasma e l’effigie, e contemplava questa, senza che un palpito di commozione ne derivasse al suo cuore. Ma il crepuscolo cadde e le tenebre della sera invasero a poco a poco la stanza del solitario. Il ritratto parve retrocedere, rientrare nel cerchio della cornice e rimanere come una figura affacciata a un vetro un poco torbido. Le guance si riempirono d’ombre simili a incavi; i capelli si confusero con il fondo neutro della tela: una vecchiezza subitanea rese flaccida e smunta la nudità del collo e delle spalle. Fu un attimo: l’effigie si rivelò. Egli riconobbe il sembiante dell’avola lassù, com’egli lo ricordava, come già gli aveva tenuamente sorriso sul letto di puerizia. I tratti erano bene i suoi; l’espressione era la sua, quella dei momenti teneri e obliosi; lo sguardo, oh, lo sguardo non poteva esser più vivo e più materno, e gli cadeva sopra dall’alto come un ammonimento supremo! — Era lei! Era lei, la madre, la santa, l’adorata! — Dall’oro cupo della cornice, quasi da una finestra ideale, ella lo contemplava ancora, ella ritornava a lui misteriosamente, nella fosca ora del vespero, forse per confortarlo, forse per rimproverarlo, forse per rivolgergli l’ultimo saluto. «M’esalto?» egli si domandò, sentendo un brivido freddo correr su dalle reni alla nuca, mentre fissava l’imagine, che appariva lassù con una straordinaria evidenza, sempre più illusoria sì che sembrava ora commossa dal ritmo della respirazione. «Quella parvenza è dunque scevra di ogni elemento soprannaturale? Son gli occhi che la vedono in sensazione reale? o è il fantasma interno che si projetta sopra l’effigie e la trasforma?» Egli restò perplesso, avviluppato nel mistero, senza saper rispondere alle sue domande tenebrose. Sentì che la radice dei capelli diveniva sensibile; ebbe nell’anima un tumulto di cose oscure, un flusso improvviso di cordoglio, soffocante. Protese lentamente un braccio verso il ritratto, e chiamò la morta con la voce bassa, trasalendo: — Mamma! Mamma! Oh, mamma!... Un silenzio grave susseguì. Nelle stanze contigue non era il benchè minimo romore; dalla via saliva soltanto il ticchettare di qualche passo, monotono e regolato come lo strepito d’un meccanismo. — Che fare? Dio mio, che fare? — disse il giovine, levandosi d’un balzo a sedere, cercando di sottrarsi in alcun modo al fascino della visione paurosa. Le tenebre avevano omai occupato ogni angolo della camera. Il ritratto, anche il ritratto di fronte alla finestra, era scomparso. Agli occhi del solitario, sempre intenti al medesimo punto, non veniva più a tratti che qualche tenue bagliore dall’oro della cornice, — forse uno sguardo, forse un sorriso, forse una lacrima? Uno sguardo, un sorriso, una lacrima. Allora un nuovo fantasma si disegnò terribile nell’oscurità d’avanti a lui. La figura di donna Marta, stesa sul letto, supina, con la faccia sconvolta, con i capelli irti e dispersi, con la bocca vacua, con la pupilla fissa a un segno inconoscibile tra le palpebre socchiuse, riapparve. Teneva le braccia inerti lungo i fianchi. Sussultava orribilmente, cercando l’aria, come lottando disperata contro qualcuno che le tenesse stretta la gola nel pugno. Talvolta il busto s’arcuava nello sforzo inane. Talvolta le mani graffiavano il lenzuolo, in una crespazione suprema di dolore e di rivolta. E la vita si vedeva fuggire a ogni anelito dalle labbra contratte, come un liquido leggero che svapori da una boccetta scoperta. Riapparve così, al superstite, l’avola nell’ultima sua ora. E tutte le particolarità del giorno funesto gli tornarono alla memoria: — il Viatico portato inutilmente all’alba, pochi istanti prima che l’agonia volgesse al suo termine; il tragitto affannoso in barca con Ferdinando e un altro uomo fino a Laveno, innanzi il levar del sole, in un mattino fresco, nitido, purgato dall’uragano recente, e durante il tragitto gli irresistibili scoppii di pianto; e poi la casa tutta piena d’estranei, piena d’un susurro di voci sommesse, di preghiere e di comenti, piena di un lezzo acro di folla bruta; e poi l’arrivo dei due medici, dello Zaldini e d’un cugino materno, avvertiti da lui per telegramma; e in fine la veglia orribile al cadavere e l’improvvisa apparizione d’un uccello notturno alla finestra spalancata, la sua discesa precipitosa verso il letto intorno alle torce mortuarie, il suo grido raccapricciante d’angoscia mentre riprendeva in fuga il volo e scompariva di nuovo nelle tenebre dell’aperta campagna.... E poi? E poi? Che giorni, che giorni cupi, fatali, tremendi eran seguiti a quel giorno!.... I ricordi si moltiplicarono, galopparono come un branco di cavalli apocalittici a traverso la sua mente esaltata. Egli si rivide, al fianco di un prete salmeggiante, nella gran barca parata a nero, occupata tutta dal feretro quasi invisibile sotto il cumulo dei fiori; si rivide con lo Zaldini pigiato tra gente ignota nel treno, che trascinava dietro, entro un carro chiuso, come una merce, la cara spoglia; si rivide nei sotterranei del Cimitero Monumentale, tra un’esigua compagnia d’indifferenti, fermo rigido impietrito d’avanti alla nicchia oscura, in cui la cassa era scomparsa adagio adagio verso il fondo con un cigolìo stridulo e lungo come un lamento. Egli era uscito dal luogo sepolcrale senza una lacrima, oppresso da una disperazione arida e muta; era stato accompagnato in silenzio fino alla sua casa dallo Zaldini e da tre altri suoi amici, congedatisi per discrezione su la porta da via; era salito solo nelle sue stanze, credendo di ripartir la dimane per la campagna. E quindici giorni erano omai trascorsi, eterni e fuggitivi, senza ch’egli avesse potuto sottrarsi all’apatica inerzia che lo dominava, senza che avesse potuto trovare un momento d’energia per accingersi a quel breve viaggio. Come eran trascorsi? Che cosa aveva egli fatto? Non sapeva. Sapeva di non aver veduto una faccia amica durante quel tempo; di non aver pensato una volta al suo lavoro; d’aver vissuto una vita fantastica e contemplativa nell’immobilità morale d’un Asiatico in aspettazione del Nirvana. «A che combattere? In che sperare? Perché ostinarsi a vivere quando ugualmente si dovrà morire?» In queste tre domande aveva compendiato ogni regola di condotta in quei giorni; e, soffrendo fino alla noja, filosofando fino al dolore, era caduto di tristezza in tristezza nel profondo mistero delle cose, dove tutto è ombra e silenzio. — Flavia! Flavia! — egli chiamò, come per ajuto, spaventato da tanta solitudine, oppresso da tanto cordoglio. E l’imagine gentile passò in un baleno d’avanti a’ suoi occhi, chiudendo con una speranza il corteo funerario delle sue memorie. Aurelio si levò in piedi e ritornò di nuovo al davanzale. Doveva esser tardi: la sera era discesa, una tepida sera di settembre popolata di stelle, temperata da un’alba di luna. I fanali del gas, nella strada, sul bastione, lungo i viali del suburbio erano stati accesi e scintillavano in file diritte, spandendo su i muri e sul lastricato un mobile chiaror giallastro. A basso l’animazione era scemata; molte finestre si vedevano lucenti di qua e di là negli edifici circonvicini. «Che pace!» pensò il giovine, volgendo malinconicamente gli sguardi intorno a sè. «Quanti felici sederanno ora raccolti alla mensa domestica?» Stette in ascolto. Gli giunse nella calma, da una stanza di sotto, il grido capriccioso di un bambino; poi, un tintinno confuso di bicchieri e di stoviglie. Guardò una finestra illuminata; e vide, nel rettangolo chiaro, disegnarsi l’ombra d’una donna, con le braccia tese in avanti, portando un piatto che fumava. Un bisogno spasimoso d’appoggio, di compagnia, di convivenza familiare palpitò dentro di lui. «La vita è dunque triste per me solo?» si domandò. Stette in ascolto. Gli parve d’udire un fruscìo di vesti nell’anticamera, e quindi un battito lieve contro l’uscio. Andò, nel dubbio, ad aprire. Era la portinaja, che saliva come di solito in quell’ora ad apprestargli la stanza per la notte. — In casa ancora, il signor conte! — disse ella, stupita, facendo un piccolo inchino. — E all’oscuro!... Non esce dunque stasera? Desidera forse che le faccia portare il pranzo in camera? — No, buona Felicita. Non desidero nulla. Non ho fame. — Sempre così! — esclamò la portinaja, scrollando il capo, guardandolo con occhi impietositi. — Se io potessi darle qualche consiglio.... Il giovine sorrise blandamente. — Proverò ad uscire, — egli annunziò dopo una pausa, poi ch’ella non sapeva dire altro e continuava a fissarlo con peritanza. — Chi sa? un po’ di moto mi farà bene. Fatemi lume, Felicita. La donna l’accompagnò fino alla porta. La lampada su la scala era già accesa. Egli discese rapidamente, s’incamminò a passo spedito lungo la via Monforte verso il Corso. Giunto all’angolo della chiesa di S. Babila si fermò incerto. Veniva un’intensa luce bianca dalle bocce elettriche sospese a mezzo della strada. Nella piazzetta, presso la colonna del Leone, alcuni cocchieri sghignazzavano, proferendo parole oscene, e le loro voci rauche si ripercotevan forte contro il prospetto del tempio. Egli notò un crocchio di fanciulle che passava vicino alle carrozze, con gli orecchi intenti a raccogliere il senso del turpiloquio e la bocca contratta da un sorriso irrefrenabile. Anche, notò su l’opposto andare tre operai avvinazzati, che barcollavano al braccio l’uno dell’altro, sospingendo i viandanti, lanciando occhiate e motti bassi alle donne che incontravano. «Ecco il Popolo Sovrano!» egli esclamò con amara ironia, sentendo risorgere nell’anima l’antico astio contro la plebe rozza e spregevole. E per togliersi a quei contatti umilianti, si diresse risolutamente verso il Caffè delle Colonne, le cui vetrine a smeriglio splendevano di fronte a lui. La sala rotonda era quasi vuota, e silenziosa: un vecchio cameriere stava sparecchiando una tavola, e due ufficiali, avendo finito di mangiare, giocavano una partita di carte su la tovaglia ancora ingombra di piatti, di calici e di bottiglie. Egli sedette discosto da loro, ordinò un pranzo assai frugale, si fece portare le gazzette del giorno per allontanar la mente, almeno in quell’ora, dai tristi pensieri consueti. Ne prese a caso uno e, non attratto da nessuna curiosità, si diede a leggerne svogliato e disattento il primo articolo, che portava per titolo: _I soliti soprusi_. Era una critica violenta contro il Ministro dell’Interno, il quale aveva sciolto alcuni circoli socialisti in Romagna e impedito un’adunanza di protesta in un teatro di Ravenna: aspro, velenoso, aggressivo, lo scrittore, per difendere la libertà d’opinione e di riunione, si scagliava contro la persona del Ministro — un vecchio e illustre patriota — vituperandola con le ingiurie più triviali, e augurava in termini nebulosi il tramonto delle istituzioni monarchiche, causa suprema d’ogni pubblico malessere. L’Imberido gittò irritato il foglio in disparte e ne spiegò un altro d’avanti a sè. Nel contrasto delle sue idee con quelle dello scrittore anonimo, il suo spirito battagliero s’era a poco a poco risvegliato; il dolore assiduo, che gli mordeva l’anima, s’era alquanto assopito; un desiderio confuso di vita e di lotta aveva incominciato a palpitare dentro di lui. Egli andò sùbito ricercando nel secondo giornale, di partito contrario al primo, il diverso comento che avrebbe potuto fare all’atto energico del Ministro. Non trovò nulla: soltanto il fatto era narrato brevemente nella rubrica delle notizie politiche, e si soggiungeva che alcuni deputati avevan presentato in proposito una vivace interrogazione alla Camera. La sua irritazione aumentò. Con mano nervosa egli sfogliò una dopo l’altra tutte le gazzette: o rimanevan prudentemente mute come la seconda, o inveivano in modo minaccioso, come la prima, contro il vecchio Ministro e contro il sistema delle repressioni arbitrarie. Aurelio Imberido levò gli occhi da quei fogli e li fissò pensosi e corrucciati in alto, nello spazio. — In verità il fatto era molto grave: quei circoli socialisti esercitavano un’influenza formidabile su le popolazioni incólte, attiravano a sè ogni giorno nuovi proseliti; da quei circoli veniva pubblicamente impartito l’insegnamento della ribellione, e già in due o tre borgate la forza aveva dovuto accorrere per sedare i tumulti improvvisi della plebaglia; i capi di quei circoli predicavano alla piazza l’odio contro le classi dirigenti, l’iniquità dei privilegi e dei diritti legali, la necessità di distruggere la famiglia, la patria, la proprietà. Sospinti da una cieca fede, animati d’una straordinaria attività, essi correvan la campagna, propagando dovunque il contagio del malcontento, solleticando gli appetiti con le più insinuanti promesse, rimovendo gli istinti brutali nelle anime semplici e inconsapevoli. Non era bene, non era giusto che un uomo di Governo troncasse in tempo la pericolosa propaganda, cercasse d’impedire con qualunque mezzo l’opera funesta di quei fanatici untori d’una novella pestilenza? Il giovine restò un istante perplesso, prima di rispondere. Altra volta, egli medesimo avrebbe forse acerbamente combattuto una sì aperta offesa portata alla libertà individuale. «La funzione dello Stato» egli aveva scritto «deve esser sempre più ristretta e limitata, in una nazione veramente civile.» E ancora: «L’evoluzione delle società tende all’emancipazione totale dell’individuo dalla tutela e dalla tirannia dello Stato. Solo in un regime d’assoluta libertà, i forti e i meritevoli avranno ragione dei deboli e degli indegni; e solo per mezzo della libera concorrenza per la vita, la razza potrà progredire e raggiungere la sua perfezione.» Come mai dunque inconsciamente, aveva egli approvato la disposizione illiberale del Ministro? Era forse stato anche lui un rètore in passato? O la sua bella serenità era andata miseramente perduta a traverso gli anni e gli eventi? «Bisogna esser pratici!» egli si disse d’un tratto, vincendo i suoi scrupoli di coerenza. «Non è più il tempo di proseguire serenamente un ideale. Bisogna difendere la realità ch’essi minacciano; difendere la nostra casa ch’essi appetiscono, la patria ch’essi rinnegano, la stessa anima nostra ch’essi vorrebbero violentare. Verrà un giorno in cui, approfittando della libertà che fu poeticamente largita e conservata, essi imporranno su le nostre spalle il giogo più ignobile, insulteranno trionfanti la verità e la bellezza, vorranno chiudere a forza il cervello d’ogni uomo in una scatola angusta e uniforme! Che ci varrà in quel giorno d’essere stati fedeli alle nostre massime, d’aver proseguito sereni e superbi il nostro puro ideale?» Una folla di pensieri fece ressa d’improvviso nella sua mente: fu in un colpo come l’accensione d’infinite scintille, spente da tempo immemorabile. Egli rimase, trasfigurato in viso dallo stupore, con gli occhi fissi in alto nello spazio, sentendo la gran luce diffondersi dentro di lui, sentendo l’anima inondata e ravvivata da quel caldo getto d’idee, che sgorgava veemente e inatteso come da antiche sorgenti inaridite. Oh, finalmente egli riviveva! Finalmente usciva dalle nebbie del suo tenero sogno e dalle tenebre del suo tragico letargo, e rientrava nella vita, con lo stesso ardore di fede, con gli stessi entusiasmi, con la medesima volontà d’un tempo! Che aveva fatto in quegli ultimi mesi d’ozio, di trepidanze e di dolori? In che attorti sentieri s’era smarrito, alla ricerca d’un bene ignoto e forse insussistente? Come non aveva saputo discernere la via di salvazione? — Quella, quella era ben la sua via; questo era il suo ufficio: agire, lottare, appassionarsi nella mischia degli uomini, conoscere in tutta la sua intensità l’ebrezza dell’apostolato e della dominazione. «Combattere per un’idea, o sia pure per un sogno,» aveva detto, «ecco l’opera che sola affranca dalla umiltà delle nostre origini e fa men grave la coscienza della nostra vita precaria.» Tale era la Legge; e dalla Legge doveva venire il prodigio; con la Legge soltanto sarebbe incominciata per lui la nuova esistenza. Già troppo egli s’era concesso e compiaciuto nelle afflizioni: troppo aveva languito e pianto su le cose vane e irrimediabili. Il dolore che abbatte, che assorbe, che uccide non è virile; e misero è quell’uomo, cui lo spettacolo solenne della Morte e l’austero senso della solitudine non infondono una forza e una speranza maggiori. Il cordoglio e la rinuncia non gli rendevano il Passato e gli toglievano l’Avvenire! Occorreva dunque volger gli occhi e tender gli orecchi altrove. Un improvviso entusiasmo l’assalì. Il suo spirito erasi liberato dai fantasmi, aveva disperso i vapori che l’attorniavano. Pareva che un altro principio di vita fosse entrato in lui: pareva che qualcuno fosse uscito da lui, furtivamente, e avesse portato seco il triste fardello delle debolezze, degli scoramenti, delle disperazioni. Senz’indugio, egli provò il bisogno di concentrarsi, di mettersi all’opera, d’organizzare e di concretare le idee, che gli eran nate spontanee e confuse dopo la lettura dei giornali. Non era in esse la materia d’un articolo vivace e concettoso? Non era tempo di riprendere la penna, di ritornare al suo posto di battaglia, alla direzione della sua Rivista?... Oh, lo stupore de’ suoi amici, vedendolo ricomparire come un risorto su la soglia di redazione, con in mano uno scritto pronto per le stampe! Oh, l’alto grido di saluto e di giubilo, che lo avrebbe accolto trionfalmente nella vasta stanza, tappezzata di manifesti multicolori, pregna dell’odore acre e dello strepito delle macchine vicine! Un sorriso gli inarcò le labbra, forse il primo ingenuo e schietto dopo il suo lungo errore. Egli s’abbandonò all’incanto di quell’aspettazione; si lasciò avvolgere da quella lusinga che gli pareva nuova. Ebbe la visione allucinante dei giorni futuri in cui egli, affrancato dal peso dei funebri ricordi, da ogni estranea influenza, da ogni triste soggezione, avrebbe ripreso il suo cammino interrotto, come a traverso un’aria eroica, verso la Gloria. E, indugiandosi nell’imaginare quel ritorno alle antiche abitudini, egli sentì nascere in sè e dilatarsi un fervore ineffabile, misto d’orgasmo fisico, d’orgoglio spirituale, di confuse aspirazioni; un fiotto di poesia gli eruppe dall’intimo empiendogli l’anima di luce e di freschezza. Era una febbre, un’impazienza senza nome: gli tardava di ritrovarsi là, nella stanza nota e favorevole, dove aveva passato il periodo più intenso di sua vita; gli tardava di rivedere gli amici, di stringere le loro mani nelle sue, di parlare, di discutere, di agire... A capo alto e raggiante nel viso, Aurelio uscì nella via. Certo, egli si sarebbe sùbito diretto verso la redazione della Rivista, se non lo avesse trattenuto il pensiero che in quell’ora il luogo era deserto e la porta chiusa. «A domani!» si disse. «E questa notte stessa, al lavoro!» Accese una sigaretta. S’incamminò a passi tardi lungo il Corso verso la piazza del Duomo. La notte autunnale era tepida, molle, attraversata appena da languidi moti di brezza. Su la città, già invasa dal sonno, si slargava un bel chiaro di luna, illustrando da un lato i prospetti delle case che parevan tutti di marmo, stendendo ampii tappeti d’ombra su i prospetti opposti dove tremolava timidamente la luce delle lampade elettriche. Nelle strade ogni animazione era cessata; qualche rara carrozza passava ancora a lunghi intervalli; pochi gruppi di viandanti macchiavano qua e là i lastrici, e le loro parole s’udivano distinte nel silenzio. In quella gran pace il giovine procedeva assai a rilento. L’aria libera, gli effluvii sapidi della notte, lo spettacolo bianco e monumentale avevano a poco a poco temperato la sua prima febbrile eccitazione; gli avevano infuso nell’anima un senso di calma e di benessere. La mente, stanca del gran volo improvviso e concitato, languiva; il cuore non palpitava al soffio della più lieve memoria; egli guardava, ascoltava e s’obliava. Come giunse alla svolta della via, una prodigiosa visione l’arrestò: la immensa mole del Duomo, circonfusa d’un’atmosfera di sogno, s’ergeva candida, delicata, chimerica su dall’ammasso nero delle case in ombra. Egli restò maravigliato ed estatico a contemplare il miracolo. Nel chiaror blando della luna, l’armonia della basilica appariva più limpida e più pura: i contorni tormentosi si fondevano, le linee troppo nette s’addolcivano, i rilievi sfumavano in una trasparenza semplice di velo. Quell’accordo audacissimo d’archi acuti, di sagome, di cuspidi, di fregi, di fiorami e di fogliami, di statue e di mostri, si rivelava nella sua vera luce, pallido in un pallore uniforme, incerto su un cielo a pena luminoso, etereo e vasto e lontano come il pensiero che l’aveva creato. Era un paesaggio fantastico campato nell’aria quello che si vedeva bianco là sopra le case oscure, una foresta d’alberi favolosi cresciuti al bacio come di qualche ignoto sole moribondo, un cimitero di mitici eroi segnato non dalle umili croci ma dai pinnacoli superbi raggianti in guisa di spade verso l’immutabile vanità degli spazii. Una voce prossima trasse il giovine dalla sua contemplazione. — Buona sera, Aurelio! Egli si volse, non avendo riconosciuto la voce. Un giovine elegantissimo nel lungo soprabito aperto, che lasciava vedere l’ampio sparato della camicia e l’abito nero, si fermò, retrocedette di qualche passo, venendogli incontro. — Oh, Vincenzo! — esclamò l’Imberido; e gli stese con un atto cordiale la mano. Era il conte Sforza, quel cugino materno che era accorso a Cerro dopo la sua sciagura. — A Milano, tu, di questi tempi? — soggiunse Aurelio, poi che l’altro lo guardava muto, sorridendo. — Certo, a Milano; ma, grazie a Dio, per un giorno solamente. Domani mattina sarò di ritorno a Varese per le corse: ho i miei migliori cavalli iscritti, due nuovi superbi acquisti fatti nel mio ultimo viaggio a Parigi; ed ho anche una bella somma in gara. Lo Sforza parlava piano, in dialetto, mordendo forte la erre, per vezzo non per difetto di pronuncia. — Augurii di vittoria e di fortuna! — Grazie, grazie! Ho buone speranze. Ma tu, tu che fai qui? — chiese il cugino a sua volta, cambiando tono, fissando con attenzione l’Imberido negli occhi. — Nulla. Mi rattristo e mi annojo. Vorrei, dovrei mettermi presto al lavoro... — Povero Aurelio! Capisco! La è dura! — esclamò l’altro, con accento di sincero rammarico. Aggiunse, dopo una pausa: — E pensare che tutto questo.... lo devi a tuo padre, che aveva le mani bucate come le mie!... L’Imberido, non avendo afferrato sùbito il pensiero del cugino, ebbe un sussulto subitaneo e levò il capo orgogliosamente. — Non m’hai compreso, — disse con la voce alquanto alterata. — Vorrei, dovrei lavorare; ma per distrarmi, per togliermi alle tristi memorie, per non essere ozioso e inutile.... Lo Sforza fece un gesto vago, indifferente, annuendo con il capo e abbassando gli occhi a terra. Tacquero un poco entrambi. — M’accompagni? — chiese l’altro in fine. — Vado in Monte Napoleone da donna Bice Ferrati. Sono scappato dalla Galleria per non farmi schiacciar le ossa... C’è una mezza rivoluzione stasera in Milano... — Una mezza rivoluzione? — Ma sì, le solite buffonate! Un branco di monellacci che urlano: «Evviva! Abbasso!», un nuvolo di guardie e di carabinieri, una fanfara che stona maledettamente, una folla di curiosi.... Per un po’, mi son divertito; ma poi la ressa cresceva, il clamore diveniva assordante, e ho pensato meglio di prendere il largo. — È strano. Qui non si sente nulla. — Ascolta! — interruppe lo Sforza, indicando la piazza del Duomo. — Non odi? Ascoltarono entrambi. Veniva in fatti da lontano a ondate, sul vento, un brulichìo, un ronzìo confuso, come sotterraneo, e di tratto in tratto qualche suono fesso di trombe. — Io vado a vedere, — annunziò l’Imberido, punto dalla curiosità, agitato da un desiderio oscuro di sfidare l’urto della Folla, di conoscere da presso l’implacabile nemico. — Dio ti salvi le ossa! Io vado in più spirabil aere: per sorbire un tè eccellente e per fare un po’ di maldicenza. Buona sera, Aurelio. — Buona sera, Vincenzo. — Ricòrdati: in novembre la mamma sarà a Milano: vienla a salutare. Le farai molto piacere. — Grazie. Addio. I due giovini s’incamminarono in opposte direzioni. L’Imberido, fatti pochi passi, si volse a riguardare lo Sforza, che s’allontanava lento, superbo nella sua indolenza signorile, impettito, come chi sa d’esser sempre osservato e invidiato lungo la pubblica via. «Chi più nobile di costui?» pensò Aurelio, considerando con occhio intento e lucido il cugino. «Nelle sue vene scorre il più puro e forse il più bel sangue d’Italia: sangue di principi, di condottieri, di mecenati, d’artisti. E chi più vano, più vacuo, più incosciente di lui?... Che impronta di superiorità gli han mai lasciato in retaggio i suoi maggiori? Che virtù di stirpe gli han trasmessa? Egli ignora la febbre di gloria e d’impero, che ha fatti grandi quelli del suo nome e ricchi e possenti; egli disprezza il lavoro, come un’occupazione ignobile, umiliante e venale; egli ride del pericolo imminente, non perché lo misuri e raffronti con le proprie energie, ma perché non lo sa prevedere e non lo discerne. Le donne e i cavalli: ecco il suo piacere più acuto e la sua più alta ambizione!... E, come lui, sono tutti i suoi pari; come lui, vivono e pensano e si perdono gli eredi dei re, dei patrizii, dei dominatori. Forse, chi sa? anch’io sarei oggi come lui, se una provvida sventura non m’avesse sottratto in tempo alle mollizie degli ozii lussuosi e all’esempio corruttore de’ miei stessi consanguinei.» Una profonda amarezza l’invase: la sua momentanea esaltazione era già irremissibilmente caduta; i dubbii eran risorti, più terribili e più scoraggianti d’innanzi alla realità. Egli si chiese, quasi con ira: «Ma è proprio nelle mani di questi uomini imbelli e insipienti ch’io vorrei riconsegnate le insegne del potere e dell’autorità? È dunque possibile che dalle nostre razze degeneri e moriture escano d’improvviso, per un prodigio divino, i nuovi eroi, i nuovi re della Terra?» Aurelio, così pensando e amareggiandosi, era disceso lungo il Corso fino alla piccola piazza di San Paolo. Di là lo strepito della sommossa s’udiva distinto e continuo, simile a un sordo boato di tuono: di quando in quando, alcune grida più alte giungevano a ondate, con il vento, passando ratte su la città muta, assopita al chiaror della luna, come brividi di sgomento nel sonno. Quel soffio prossimo di bufera distrasse il giovine dalle sue riflessioni: egli accelerò il passo, raggiunse in breve l’ultima svolta del Corso e si trovò all’imbocco della piazza del Duomo. Nelle vicinanze non era anima viva: il braccio della piazza, che si protende verso il Corso, circuendo il lato settentrionale della cattedrale, languiva deserto nell’ombra grave, che projettava dall’alto la massima aguglia. Ma in fondo, d’innanzi al grande Arco, nel chiarore trionfante, un nembo nero s’addensava, ingolfandosi viepiù fitto nel vano dei portici e della Galleria. Un clamore formidabile veniva dal nembo, urlo di mille gole insieme, ruggito minaccioso d’un’immane belva inferocita. Il giovine ristette un poco su l’angolo, osservando quella massa confusa, che sembrava immobile, avviticchiata con le radici alla terra: non vi si distingueva una figura, non si percepiva il senso d’una parola. La Folla appariva una, compatta, indivisibile, informe come un organismo elementare, pigiata e fusa come una colonia di crostacei su uno scoglio marino. E, aggregazione di migliaja e migliaja d’individui, essa era un solo corpo, aveva una sola voce, un sentimento unico, un’unica volontà, oscura e invincibile più d’un istinto. Egli stava per procedere, quando una raffica si precipitò nel nembo e lo squarciò. D’un tratto il preludio dell’inno garibaldino risonò forte e giojoso sotto la vólta dell’Arco che rimbombò lungamente: una macchia rossa, come il sangue d’una ferita, comparve alla superficie della massa e se ne staccò, avanzandosi verso di lui tra le grida e gli applausi della moltitudine. L’Imberido si fermò in aspettazione del corteo. Ben presto la fanfara sanguigna, che riempiva l’aria di squilli guerreschi, avendo attraversato il braccio ombroso della piazza, lo raggiungeva all’inizio del Corso. Dietro a essa la folla si affrettava densa, innumerevole, slargandosi o restringendosi, con l’elasticità d’un mollusco, a seconda dei capricci della via. Turbe d’adolescenti quasi imberbi, pallidi, viziosi, dalle facce trasfigurate dall’entusiasmo; compagnie d’operai logori, tristi, incomposti, con le bocche dolenti e gli occhi febbrili; gruppi di fanciulli del popolo sbraitanti e sgattajolanti tra le gambe degli uomini; qualche viragine ossuta, qualche contento borghese sedizioso, qualche povero vecchio, fregiato il petto di medaglie — tutta questa gente s’accalcava e scorreva come trasportata da un turbine veloce, segnando con il passo il ritmo della marcia bellica, alzando a intervalli grida di minaccia o d’osanna nel silenzio della notte lunare. — Evviva la Repubblica! Evviva la rivoluzione sociale! — Morte agli sfruttatori del popolo! — Morte al Governo! — Evviva i fratelli di Romagna! — Evviva il Socialismo! Una, due voci proponevano il grido: cento, mille voci in coro subitaneamente rispondevano, voci acute o basse, rauche o squillanti, irate o festose, tutte dissimili e tutte discordi. Aurelio, a ridosso contro il muro, doveva tenersi aggrappato allo spigolo d’una porta per non esser travolto dalla fiumana che l’investiva. I volti di tutti quegli uomini si presentavano a lui e s’occultavano, come in una tormentosa visione di dormiveglia: egli non poteva distinguer bene una sola di quelle fisonomie, e aveva l’impressione che si riproducessero di continuo, sempre le stesse, con i medesimi caratteri, con i tratti medesimi, passando e ripassando come fanno le comparse su un palcoscenico. A intervalli una qualche figura singolare, diversa dalle altre, lo attraeva maggiormente; ed egli l’accompagnava con gli sguardi fin che gli era possibile. Così notò un gigante fuligginoso, che pareva sbucato in quel momento da una fucina, e che, in vece di gridare, ululava in falsetto levando in alto il muso alla maniera dei cani gementi; notò un giovincello biondo, elegantissimo, che incedeva altero e taciturno, movendo continuamente il capo in atto d’approvare; notò un uomo vestito a nero, con il cappello floscio gittato indietro e l’aria affaccendata di un duce durante la battaglia, il quale si volgeva a destra e a sinistra per parlare con i vicini e poi si sollevava su la punta dei piedi come per abbracciar con lo sguardo l’imponenza del suo esercito. Anche a un certo punto parve a lui di riconoscere, lontano tra la folla, Giorgio Ugenti che, altissimo, emergeva con tutta la testa fuori dell’onda umana. — Evviva la rivoluzione! Evviva la libertà! — A morte i prepotenti! — A morte i borghesi! — Abbasso il Ministero! Il corteo serpeggiante si sviluppava, interminabile; e lo schiamazzo cresceva, si dilatava, si ripercoteva contro le muraglie, pareva venir da ogni lato, come se la città tutta si fosse svegliata dal suo sonno e partecipasse al furore della sommossa. In alto, anche in alto si propagava lo strepito; molte vetrate, aperte con precipitazione, sbattevano violentemente e i colpi secchi rintronavan sul tumulto della via simili a scariche di fucili. Passava ora d’innanzi all’Imberido, sempre fermo e attento al suo posto, una falange di giovinetti affatto imberbi, disposti in lunghe schiere rettilinee, procedenti in perfetto ordine come milizie in marcia. Alcuni tra essi portavano un fiore scarlatto all’occhiello; tutti, accurati nell’abito lindo e assai contegnosi, avevano un’espressione quasi estatica di fiducia e di serenità negli occhi ingenui e su le labbra sorridenti. Non gridavano nè vita nè morte; cantavano in coro, all’unisono, un inno lento e uniforme, e le loro voci, ancora immature, s’elevavano e s’abbassavano, forti nelle note alte e fievoli nelle profonde, dominando a volte il clamore e a volte perdendosi in questo come un susurro indistinto. Aurelio li riconobbe: erano studenti; era la Giovinezza illusa e irriflessiva, che portava il suo giocondo tributo alla ribellione e, piena di baldanza, credeva di avviarsi alla conquista della Felicità universale! Ma dietro a essa il nembo s’oscurava novamente, e più che non mai dianzi. Il corteo dei dimostranti era finito, e sùbito in coda un secondo corteo incominciava, senza un intervallo, confuso e come riunito con il primo, più torbido, più romoroso e ben più minaccevole di questo: era la caterva infame dei miserabili, degli oziosi, dei vagabondi, dei malviventi, ch’erano accorsi al fragore della sommossa dai vicoli immondi, dalle taverne e dai postriboli, e la seguivano e la secondavano, solleticati da una bieca speranza di rapina e di saccheggio. Venivan essi fluttuando, a crocchi distinti e serrati, sudici, abjetti, striscianti, e diffondevano intorno un lezzo nauseabondo di vino, di tabacco e d’immondizie: giovini per la massima parte, alcuni giovinissimi, eran tutti abbigliati in fogge curiose, tutti lividi, con le occhiaje violacee, con le bocche infiammate, con le mani nere, con l’espressione obliqua di bestie rapaci e notturne. — Morte ai borghesi! — Evviva il Socialismo! — Evviva la libertà! Eran le stesse grida ch’essi proferivano; eran le stesse minacce e le stesse acclamazioni. Qualcuno tra costoro cercava anche d’intonare il medesimo inno lento e uniforme, che già più innanzi gli studenti cantavano. Ma nelle loro bocche le grida, accompagnate da sghignazzi beffardi, divenivan terribili; e l’inno di fratellanza, mescolato a motti e a gesti osceni, metteva i brividi della paura. Incalzato dai bruti, Aurelio fu spinto violentemente nel vano della porta chiusa. Per alcuni minuti, per un secolo, rimase là prigioniero, stretto da ogni parte, assordato dallo schiamazzo, soffocato dalla calca e dalle esalazioni immonde. Il disgusto lo prese alla gola, l’eccitò a fuggire; egli cercò di farsi largo, di rompere la cerchia della moltitudine a forza di braccia, ma non gli fu possibile. Uno di quei vagabondi lo rigittò indietro con un urtone poderoso, urlandogli sul viso: — Alla forca gli aristocratici! — e poi un’ingiuria turpe e scurrile, che sollevò le risa tra i compagni a lui d’intorno. Un’esasperazione subitanea prese l’Imberido; una di quelle esasperazioni che offuscano la vista e fanno balenare nel vuoto imagini criminose. Lo sdegno a lungo compresso contro la torbida comedia della libertà; l’antico suo odio contro la plebe rozza e ignobile; il furore della vendetta, della punizione esemplare e istantanea: tutto si levò improvvisamente nel suo spirito ed egli non sentì più se non il cieco impulso alla percossa mortale. Divenne pallido come un cencio; e pure non osò, non fece un gesto, non rispose una parola. Comprese che costui era il più forte e che quei bruti avrebber potuto schiacciarlo senza che alcuno fosse accorso in suo ajuto; comprese ch’egli era nulla tra quel branco oscuro e inferocito; e stette immobile sotto l’offesa, come fosse legato con le corde a un palo d’infamia. L’insultatore scomparve; altri, altri uomini biechi passarono d’avanti a lui gridando, sghignazzando, urtandolo, sfidandolo con gli occhi rapaci. Finalmente la ressa diminuì; i gruppi s’assottigliarono; apparvero i pennacchi rossi dei carabinieri, come fiammelle accese su l’onda tenebrosa della calca. Egli potè uscire dalla sua carcere e trovare una via di salvezza tra le ultime capannelle disperse e lo stuolo sbuffante e tintinnante delle guardie. Convulso, affranto e scorato, si diresse in corsa verso la piazza del Duomo, che appariva ora deserta, solenne, pacifica nel chiarore intenso della luna. «Quella era la Folla! Quello era il nemico!... Ohimè, come vincere un tal nemico? Con quali mezzi? Come respingere nel suo corso il torrente che precipita? Come, come rivolgersi da solo all’uno e all’altro, aprire con le sue sole povere mani tutti gli occhi che sono ciechi, farsi intendere con la sua sola esile voce da tutti gli orecchi che sono sordi?» Era inutile ogni sforzo, pazzo ogni tentativo, miseranda ogni illusione! La Folla era sovrana; correva, travolgeva, calpestava, annientava ogni ostacolo sul suo passaggio. L’Idra vorace e scatenata stava per inghiottire nelle sue fauci innumerevoli ogni cosa grande e nobile e bella, ogni idealità, ogni tradizione, ogni fede. E nessuno, nessuno al mondo era in grado di contenderglielo, poiché nessuno, che non fosse un Dio, poteva rimetterle le catene e rigittarla vinta e umiliata nella sua gabbia. Che valeva omai l’individuo di fronte alla massa? Egli era un voto, contro mille e mille voti; era una voce, contro mille e mille voci; era un’unità contro una pluralità senza numero. Due di quei malviventi, pur che sapessero scombiccherare il loro nome, pesavano più di lui su la bilancia della Democrazia. Uno di quei fanatici, senza ingegno e senza cuore, poteva con poche parole insensate sollevare la moltitudine e dirigerla a suo mal talento; egli con tutta la sua eloquenza, con tutta la sua dottrina non sarebbe riuscito a convincerne una minima parte, ad arrestarla per un solo attimo nel suo cammino. — O esaltare i diritti sconfinati del nuovo Despota, o cadere irremissibilmente sotto la sua condanna. Aurelio si risovvenne in quel punto di suo cugino; si risovvenne delle amare riflessioni ch’egli aveva fatte pocanzi intorno a quei nobili oziosi, scettici, senz’ambizioni e senza idealità, non ad altro occupati se non a ricercare il Piacere. «Non hanno essi forse ragione?» egli si domandò. «Che cosa potrebbero fare? Che cosa dovrebbero fare?... Il loro crepuscolo precipita; la notte incombe fatale sopra di loro; ed essi la aspettano stoicamente, ridendo in faccia alla morte, aggradendo con raffinata cortesia gli ultimi favori della loro fortuna fuggente. Non sono essi mirabili in questa loro indifferenza ai capricci del destino come in quel loro indistruttibile amore per la Vita e pe’ suoi godimenti? Non sono essi mille volte più lodevoli che se scendessero in campo, irosi e meschini, a difendere i loro privilegi, sollecitando vanamente i suffragi popolari, predicando al deserto le loro teorie antiquate, misurandosi tra i fischi nelle assemblee con gli avversarii acclamati e portati alle stelle?» Aurelio era giunto senz’accorgersi in mezzo alla piazza del Duomo: si fermò, incerto. L’apatia desolata di quei giorni l’aveva ripreso; ed egli, riudendo da lontano gli squilli delle fanfare e il gridìo della folla, sorrise mestamente, come già dalla sua finestra, mentre il sole esulava su i fastigi delle case, aveva mestamente sorriso della smania di lavoro che affaccendava gli uomini laggiù, nella via. «Perchè lavorare? Perchè agitarsi, così? Perchè soffrire e appassionarsi? Si muore, e questa vita triste e precaria non vale che si soffra un’ora pe’ suoi destini.» Egli si guardò d’intorno. La luna colma spaziava alta, quasi alla sommità del cielo immacolato. Il Duomo, avvolto dai raggi, era bianco e fantastico come una di quelle montagne di ghiaccio che navigano nei mari polari. Milano di nuovo s’assopiva, nel silenzio. L’aria commossa odorava d’aperta campagna. «Ritorna, ritorna presto!» disse una voce sommessa nel cuore del giovine. «Ritorna, ritorna presto!» Il saluto di Flavia ricantò in lui, accorso dagli orizzonti delle sue memorie in quell’ora di supremo accasciamento. — Dov’era dunque Flavia? Che faceva? A che pensava? Perchè, perchè non aveva risposto all’ultima sua lettera? Non l’aspettava forse più? Incominciava a dimenticarlo?... Oh, se l’avesse avuta al suo fianco in quel momento! Se avesse potuto sentir nella sua la mano di lei, come nei lugubri giorni al letto della morente!... Al giovine parve d’un tratto che scendesse uno spiraglio di luce nelle tenebre dell’anima sua. Parve come di vedere nelle onde oscure, che circondavan furenti la sua navicella smarrita, il chiarore d’una figura viva e misteriosa che lo invitava a sè con un sorriso divinamente incantevole. — A lei, a lei egli doveva andare. Verso quell’unico sorriso, che rompeva l’aspro cipiglio di tutte le cose, doveva tendere la sua anima travagliata. Verso quelle candide braccia aperte egli doveva piegare e abbandonarsi dolcemente come nel grembo alla Morte!... Non era là, tra quelle onde, nell’oblio, il riposo, la salvezza, la luce, la gioja? Là certo era l’Amore, e l’Amore era tutto: era la gioja, era la luce, era la salvezza, era il riposo. «Senza l’Amore,» cantavano i poeti, «il mondo non avrebbe più sole; senza l’Amore, la gloria, la ricchezza, la fama, la pace, la stessa fede non sarebbero se non parole vuote di senso, ornamenti derisorii gittati su un corpo piagato e difforme. Perchè, perchè vivere se non per amare?» Oh, quei poeti gli avevano spiegato il vero; quei poeti gli avevan già da tempo indicato la via sicura, insegnandogli che una sola dolcezza certa e durevole si può gustare su la Terra: l’Amore. Il giovine levò in alto il capo risolutamente. Si disse: «Domani partirò! Domani sarò lontano di qui! Domani sarò presso di lei!» Gli apparvero in un baleno il palazzo, la pineta, l’orto, il colle solatìo; gli apparve la sala ombrosa dove l’aveva stretta a sè la prima volta nella notte tragica, tra il frastuono della bufera; gli apparve l’imagine di lei, alta e agile, in un’attitudine di grazia, su lo sfondo verde del prato. «O Flavia! Flavia!...» Si mosse, si diresse verso casa. Udì il clamore della folla, che ritornava indietro confusamente, ventargli di nuovo sul viso. Non si sgominò: non cercò pur d’evitarla. Procedette tranquillo e sdegnoso il suo cammino, andandole incontro. XII. IL POEMA ETERNO. Notte d’autunno calma, lucida, benigna come una notte d’inoltrata primavera. Nell’antico parco è il silenzio: qualche fievole fruscìo di piante, qualche gemito alto di gufi, qualche sospiro, qualche fremito, qualche brivido, ignoti.... In quel silenzio la luna, saliente per l’arco del cielo, dispensa pallidi baci di luce e cupe carezze, d’ombra.... Cadono i baci, strisciano le carezze ma non sembran toccare che il tenue velo di vapore, che avvolge tutte le apparenze come per custodia. Solamente i vertici degli alberi nella pineta, sopra il velo, sentono i timidi contatti e rispondono: le fronde eccelse son madide di rugiada, e le innumeri gocce scintillano al chiarore, quasi piccole iridi tremanti, inumidite da lacrime di tenerezza. Il luogo par deserto. Ritte su gli stalli muscosi, le statue rigide e tristi aspettano, stendendo i loro monconi verso un fantasma invisibile.... E le grandi scalee biancheggiano, a pena turbate qua e là dalla macchia di qualche foglia vizza caduta. Un profondo incantesimo sembra pesare su la stabilità di tutte le cose presenti.... Non un soffio di brezza attraversa a intervalli la notte: il fogliame della selva stanco riposa; i crisantemi restano fermi e diritti su i loro steli, come chiusi in un cristallo diafano; e nei cespi delle ortensie ramificano ombre immutabili.... Perfin dai tralci delle rose rampicanti, dove gli estremi fiori pendono moribondi, non un petalo solo si distacca e vola oscillando nell’aria. Tutto è muto e tutto è stabile. Tutto pare stabile e muto da tempo infinito. Si direbbe che, senza cessare, la vita del parco sia stata arrestata da una volontà misteriosa in una immortale compostezza d’arte. Si potrebbe credere che a un cenno di questa volontà, non solo gli alberi e i fiori dovessero muoversi, ma le statue medesime discender vivificate dai loro stalli e avviarsi sollecite verso il fantasma che invocano. Una campana batte l’ora, da presso.... Squilla lentamente, come per riprender lena a ogni rintocco, e poi si tace. Mentre l’ultimo suono vibra ancora nell’aria, alcune frasche lassù, al sommo della scalea, si piegano, scricchiolando forte; e una piccola ombra si sposta.... Che avviene? È il vento della valle che sorge?... No: una figura, prima invisibile dietro i fusti d’un oleandro, s’avanza a passo furtivo verso i balaustri.... Entra nella luce.... S’appoggia con le braccia al marmo.... Affonda intenta gli sguardi al basso, verso l’oscurità del pertugio.... Come partecipe dell’incantesimo, la figura rimane là lungamente, rigida, immota nell’immobilità del parco favoloso. Un’altra volta, dopo una pausa, la campana batte la stessa ora con uguale lentezza. Ahi, quanto scorre tardo il tempo nell’aspettazione! L’uomo non ha un gesto d’impazienza; ma i suoi occhi, sempre fissi, lampeggiano e il suo petto si gonfia a un respiro profondo. Sul suo pallido viso, rischiarato dal plenilunio, è impressa un’ansietà mortale: forse, egli pensa che ogni attimo scoccato è un attimo perduto in eterno per la Felicità che egli aspetta.... Ed è veramente un’apportatrice di Felicità, ch’egli aspetta là, al sommo della scalea; un’apportatrice fragile e segreta, che gli correrà incontro tremando, ansimando, paventando come lui a traverso i misteri della notte. «Se non venisse?..» si domanda a ogni tratto il giovine, mentre i suoi sguardi non si stancano d’interrogare le tenebre dell’andito, sempre chiuse e sempre avare. «Se non venisse?!...» Ogni volta, la richiesta dubbiosa apre nella sua anima abissi senza fondo. Ogni volta, per soffocarla, egli deve riandare le memorie di quel giorno e ripetere a sè stesso le parole precise che stabilirono il convegno. — È stato dopo il pranzo, sul rialto. Parecchie persone vi stavan raccolte, gli ospiti dei vicini, per la più parte a lui sconosciuti; e l’ebreo era tra questi e guardava a tratti lui o la fanciulla, con aria sospettosa. Essi parlavan piano, di cose indifferenti, in un angolo, presso il sedile di pietra infisso nel muro. Egli era calmo, quasi felice: aveva dimenticato i mutamenti terribili ch’eran sopravvenuti; credeva che tutto fosse come per il passato, e aveva quasi la coscienza che la povera nonna fosse presente. La sera scendeva in fatti tepida e mite, tra i noti rossori del cielo sopra le Alpi; l’odor di pesci e d’alghe fracide saliva blandamente dal lago, odore acre ma pieno di soavi rimembranze per lui; le vacche traballanti, le pecore mute, i pescatori tardivi passarono su lo spiazzo d’avanti a loro nell’ordine consueto, come ogni sera, un tempo. Ed egli d’improvviso la interrogò: — Perchè non hai risposto all’ultima mia lettera? — (È la domanda che l’aveva torturato durante tutta la notte, durante tutto il viaggio, la domanda che in vano aveva cercato di rivolgerle sùbito, al suo arrivo, nel salutarla). Ella è impallidita, s’è turbata, s’è guardata d’intorno timorosa come se qualcuno li dovesse spiare. — È impossibile che ti risponda, qui, — ha detto in fretta, con visibile concitazione, così piano che a stento egli la udì. E poi, dopo un silenzio, in cui parve profondamente riflettere: — Tròvati stanotte in giardino. Quando tutti si saràn ritirati, io verrò. Aspettami. Ci parleremo. Queste sono state le sue precise parole. Il giovine ricorda persino il suono basso e un po’ rôco della voce e il tremito continuo, che agitava le belle labbra nel proferirle. Oh, sopra tutto quelle labbra egli ricorda, egli rivede d’innanzi a sè in imagine allucinante.... quelle tumide e fresche labbra, su cui le più semplici parole acquistano il valore d’una rivelazione o d’un enimma! Ella gli ha dato convegno in quel luogo; ella non può mancare. Ma il tempo fluisce, e nulla si muta nel parco deserto e silenzioso: le statue stendon sempre, infaticabilmente, le braccia mutilate a un fantasma increato, ed egli fissa sempre, infaticabilmente, gli sguardi alle tenebre dell’andito, dove la sua accesa imaginazione dipinge talvolta il gesto repentino d’un altro vano fantasma!... Tormento fiero dell’attesa, in cui la mente si perde nelle ipotesi più assurde e i sensi troppo vigili riempion l’anima d’illusioni e di delusioni fulminee! La campana da presso, a tocchi lenti come per un’agonia, batte l’ora successiva, e poi si tace. L’aspettante di sbalzo si solleva ritto in piedi: il dubbio si ripete più forte dentro di lui e l’impazienza si fa manifesta. «Se non venisse?... Dio, se non venisse!...» Il suo cuore non regge più all’ansietà che lo sprona; i suoi polsi hanno palpiti affrettati e sonori come in un accesso di alta febbre. Un solo pensiero lo tiene, un solo pensiero lo tormenta: ch’ella possa mancare. E non mai una possibilità in vita gli ha dato un’ambascia e un’inquietudine maggiori! Egli ha la certezza assoluta, limpida, evidente che senza lei quella notte non debba avere un termine. E la solitudine incomincia già a turbarlo, e quella luce uniformemente bianca lo agghiaccia, e le apparenze irreali che lo avvolgono nel loro incantesimo, infondono in lui a poco a poco una strana temenza superstiziosa. Allora tutto il suo essere si scioglie in un’invocazione suprema: «O Flavia, vieni, vieni! Non farmi soffrire così; non prolungare oltre questo mio supplizio!... Come, come ti desidero!... M’intendi? Voglio vederti, parlarti, accarezzarti: vieni! Voglio morire a’ tuoi piedi di tenerezza e di passione! Vieni, anima, vieni!» E, con uno sforzo cerebrale a lungo insostenibile, egli lancia le parole infocate nel vuoto, lontano lontano, oltre le cose presenti, oltre la massa nera che chiude e adombra il parco laggiù, come se l’assente dovesse raccoglierle per qualche occulto senso e commuoversi e accorrere affascinata al suo richiamo. È un abbaglio?... Uno scalpiccìo lievissimo s’ode ora nell’andito.... Qualche cosa si muove veramente sotto la grotta tenebrosa, che mette in comunicazione il giardino con il cortile del palazzo. Non è più un abbaglio; no, no, no, non è più un’illusione!... Una figura alta e velata di donna appare su la soglia del pertugio e si ferma un attimo sospesa, forse maravigliata dal superbo spettacolo notturno. Il giovine si scuote, accenna con un braccio dall’alto. Ella lo vede, attraversa a passi celeri lo spianato delle statue e s’avvia su per la scalea bianca, in corsa. — Finalmente!... — esclama il giovine, quand’ella gli è vicina, stendendole ambo le mani. Il suo volto s’è trasfigurato: un rossor vivo ne tinge le guance; gli occhi raccolgono nelle pupille dilatate il più fulgido raggio lunare. Tutta l’onda di felicità, che l’ha investito d’improvviso, passa nella sua voce maschia e sonora. — Perdonami. T’ho fatto aspettar molto... — mormora la donna, agitata, rauca, convulsa. — Ma che vuoi? La mamma è alzata ancora adesso: il babbo s’è sentito male, d’un tratto... Non sapevo come lasciarlo... Aurelio è felice, indicibilmente felice. Ogni ansietà è scomparsa; ogni temenza, fugata; ogni nube, dispersa. La guarda con occhi intenti, e a pena ode il murmure delle sue parole. Ella ha il viso mezzo nascosto in uno scialletto nero, che le cade a punta su la fronte e si piega in doppio giro intorno al collo fino a coprirle il mento e le orecchie. La sua bellezza appare più regolare, più pura, quasi mistica in quel contorno oscuro e fittizio; e gli occhi come la bocca hanno un’espressione nuova e complessa, insieme di sgomento e di volontà tenace, che il giovine, senza interpretare, contempla e ammira. — Vieni, dolcezza, — le dice amorosamente. Circonda i suoi fianchi con un braccio e la trascina, passiva e quasi inerte, su su per il viale ombroso, nella pineta. — Dio, che imprudenza mi fai commettere! — continua Flavia con la voce sommessa, sempre più affannata e più convulsa. — Pensa: per liberarmi, ho detto alla mamma che avevo l’emicrania e che andavo a coricarmi sùbito. Ma il babbo era ancora sofferente, ed ella mi ha guardata con certi occhi pieni di rimprovero!... S’ella mi venisse a cercare nella camera e non mi trovasse! Dio, sarei perduta, perduta... Non verrà a cercarmi, non è vero? Di’, Aurelio: non verrà a cercarmi? — Ma no! Tranquillizzati. Non verrà. Perché dovrebbe venire? — Non so, non so... Sono così inquieta, così nervosa; ho come il presentimento d’una disgrazia. Tutte le paure son dentro di me, stasera; non ho più una goccia di sangue nelle vene. Senti, senti come son fredda, — ella soggiunge, prendendogli la mano che le cinge il fianco, gelida quanto la sua. — Povero amore! — E quanto sono stata in pena per te, Aurelio! Sapevo che tu eri qua ad aspettare, e non potevo muovermi e vedevo là, sul caminetto, la sfera dell’orologio che correva, correva senza misericordia, con una celerità non mai avuta! Imagina, Aurelio, il mio tormento. Imagina: ho temuto di non poter venire... — Guai, guai se non fossi venuta! — egli prorompe, rabbrividendo al ricordo della lunga aspettazione, esaltandosi al pensiero della gioja presente, provando un bisogno folle di travolgere, di confondere nel suo sogno di felicità colei ch’è sempre trepida e smarrita al suo lato. — Sarei morto d’angoscia! Sarei morto di desiderio! Credo che non avrei potuto veder l’alba di domani. Son giunti nel folto della selva, dove l’ombra è più fitta e il silenzio più misterioso. Gli alberi li circondano da ogni parte, neri e profondi; è impossibile distinguerne le forme dei tronchi e dei rami. Tutto si ammanta nell’oscurità, e a pena qualche livido raggio di luna occhieggia qua e là, insinuandosi tra le fronde più alte, senza illuminare. I pini odorano di resine. Un uccello notturno si lagna ostinatamente sopra una vetta. In basso, al termine del sentiere, un brano della balaustrata s’intravede ancora, candido e funereo come una pietra cimiteriale. Il giovine si ferma. Non regge più all’émpito della commozione, e sente sgorgare dall’intimo del cuore un fiotto incontenibile di parole dolci e appassionate. — Flavia! — esclama con una voce nuova, tremula e bassa, infinitamente carezzevole. Tenendola sempre stretta con un braccio, le appoggia l’altra mano su la spalla e l’attira lentamente a sè. — Flavia, — egli prosegue, — tu non sai, tu non puoi imaginare da quanto tempo io sogno quest’ora di solitudine e d’abbandono. Nessuna, nessuna ansietà mai nella vita ho provata simile a quella che m’ha tenuto e torturato mentre t’aspettavo. Era una febbre, un delirio, una sofferenza così forte che mi toglieva il respiro, m’opprimeva il cuore fino a fermarlo, mi faceva barcollare come ebro a ogni passo!... Son pochi mesi che ti conosco: mi sembrano anni ed anni che ti amo e ti sospiro. La mia giovinezza è così piena della tua imagine che per quanto affondi gli sguardi nel passato non trovo che te, te sola, padrona e arbitra d’ogni mio momento. Non sei tu quella che ho sognata nelle mie prime fantasie d’adolescenza? Non è per te che ho avuto un giorno il desiderio della gloria? Non è per te che ho studiato, ho scritto, ho voluto esser qualcuno?.... Perchè, perchè avrei sacrificato i miei più begli anni su i libri e con le vane meditazioni, se non per te, per attenderti e per riserbarti intatto il fiore della mia anima?.... Tu non mi credi, forse; lo so, altri, prima di me, ti ha insegnato a diffidare di tutto e di tutti; altri ti ha detto le stesse parole e ti ha delusa; ma io voglio oggi ridarti la fede, io sento oggi d’averne in me tanta che non mi sarà difficile d’infonderne una parte nel tuo cuore... Ti ricordi tu i primi tempi della nostra conoscenza? Hai tu compreso allora il perchè della mia continua, crescente malinconia?... Io ti posso dire che un’ora innanzi ch’io ti vedessi la prima volta, qui appunto nel giardino, ero sfiduciato, accasciato, triste da desiderar la morte, e che la tua sola apparizione è bastata a ricrearmi, a ridonarmi il desiderio della vita, a rendermi d’un tratto consapevole del mio lungo errore passato. Da quel momento io credo d’averti amata; certo, da quel momento avrei dovuto abbandonarmi lieto e fiducioso all’incanto che da te mi veniva. Eppure no, non è stato così. Ho lottato contro di te, ora per ora, come tu fossi la nemica mandata a mio danno da qualche Genio malefico. Ah, sciocco, illuso, misero! Tu eri la gioja, ed io non ti vedevo. Tu, diletta, mi movevi incontro, e l’essere fittizio, che viveva in me, mi gridava: «Fuggila!» ed io ti fuggivo! No. Ora, ora che son tuo (perchè son tuo, Flavia, lo senti? tutto tuo), ora maledico me stesso per aver ritardato questo istante divino; ora che ho aperto gli occhi e visto la luce, io ti dico: «Flavia, Flavia mia, perdona! Io ti amo!» Mi credi, Flavia? Di’: mi credi? Ella è sempre passiva, sempre inerte. Cede a ogni suo minimo impulso, come una cosa morta. Attratta, gli si è abbattuta sul petto, con l’atto di chi sta per cader bocconi, pesantemente. Avvinta tra le sue braccia, rimane immobile e taciturna, con le mani pendule lungo i fianchi, con il capo reclinato su la spalla di lui. Ascolta ella le parole appassionate e dolci? Si direbbe che queste passino sopra di lei inavvertite, come il gemito del gufo in alto della pineta, come il fruscìo leggero che suscita ora nei rami un primo soffio di brezza. — Non rispondi? — prosegue il giovine, oppresso d’un tratto da un vago senso d’inquietudine. — Non hai nulla da rispondermi?... Non mi credi da vero, dunque! Tu temi ch’io t’inganni o pensi ch’io m’illuda, parlandoti così in quest’ora fuggevole d’abbandono... Oh, dovresti rammentare, Flavia, il dramma terribile a cui abbiamo assistito insieme; dovresti rammentare le mie lacrime e le mie disperazioni, che non ho cercato di nasconderti; dovresti rammentare l’ultimo gesto della mia povera mamma, quando morendo riunì le nostre mani sul suo cuore.... Non sono, lo sai, nè un uomo perverso nè un fanciullo esaltato. Quei lugubri ricordi, a cui si lega indissolubilmente il nostro amore, ti dovrebbero persuadere ch’io non posso illudermi e non saprei ingannarti. Son solo, schiacciato ancora sotto il peso d’un lutto tremendo, in un momento assai grave e penoso della vita.... Come non credermi? Come puoi tu, Flavia, diffidare di me? Egli pronunzia le ultime frasi con una voce più debole e più incerta, in cui si sente palese lo sforzo per contenere i singhiozzi. L’evocazione della sciagura recente ha riaperto la piaga profonda della sua anima, e l’ha fatta sanguinare. Una grossa lacrima discende per le sue gote, si stacca e piomba su la testa china di Flavia. — Ti credo, sì, ti credo..., — mormora ella, scotendosi vivamente, sollevando il volto incontro al suo, cercando di scorgere tra le tenebre gli occhi che l’hanno bagnata. — E mi ami? — Aurelio!... Sarei qui, se non t’amassi? — Flavia, mia consolazione, mia vita, mia gioja!... — grida il giovine, con un brivido di ebrezza suprema, stringendola più forte più forte tra le braccia. Le loro teste si toccano: le loro bocche son vicine; egli sente l’alito di lei sfiorare la sua pelle come una carezza infinitamente leggera. Un attimo d’indugio; un lampo, un vero lampo visibile, negli occhi; una breve esclamazione, e il suo viso si piega e le sue labbra cercano il caro viso, lo percorrono tutto in un bacio lungo e molteplice, s’accostano alla bocca, alla divina bocca sospirata, e vi si arrestano umide e protese come per ferirne il mistero. Ella, sotto la furia improvvisa, sembra smarrita e sgomenta: non parla, non si muove, non cerca di sottrarsi al suo ardore e neppur lo seconda. Fredda, rigida, scossa tutta da un tremito, riceve la pioggia dei baci senza rispondere e si abbandona a lui come soggiogata dalla paura. D’un tratto, un singulto profondo sale dalle sue viscere e un pianto dirotto le si sparge a rivi caldi su le guance. — Anima, tu piangi! — le susurra all’orecchio l’amante, beato, immemore di tutto, avviluppandola più forte, vie più forte nella sua stretta. — Perchè piangi, ora? Perchè?... — Anche tu piangi, Aurelio... In fatti anch’egli piange; anch’egli ha la faccia inondata dalle proprie lacrime. Entrambi piangono insieme, come già nella tragica notte spasimosa; piangono avvinti, inconsci, disperati, — disperati come se sentissero l’ombra della Morte sempre presente tra le loro due beatitudini. — Dio, Dio, mi par d’impazzire! — ella prorompe, sciogliendosi con un movimento brusco dall’amplesso, indietreggiando un poco, passandosi una mano nei capelli, che lo scialletto cadendo ha scoperti. — Andiamo avanti. Qui fa troppo bujo. Andiamo, Aurelio! E sola, d’innanzi al giovine, s’interna per il viale, con un passo più celere. Egli la segue in silenzio, turbato da una folla di pensieri inquietanti. Dopo il distacco repentino, si è fatta dentro di lui un’oscurità imperscrutabile; egli s’è svegliato come da un sogno luminoso e s’è trovato d’improvviso nel più fitto d’una notte. Non riesce a spiegarsi il contegno di lei, quello smarrimento pertinace, quel mutismo opaco mentr’egli le parlava, quella passività gelida e quasi repugnante tra le sue braccia. — Che pensa ella? Che teme? Che vuole? — Egli lo ignora, egli non sa, egli s’interroga in vano; e pure, in confuso, intende che nell’animo di lei si cela qualche cosa indubbiamente avversa al loro amore e minaccevole per la loro felicità. Così procedono uno dietro l’altra, disgiunti da un ostacolo misterioso, lungo il sentiere che monta ora un po’ ripido a traverso la pineta. Le tenebre son sempre densissime, rotte soltanto qua e là da qualche bolla di luce che filtra dagli interstizii e piomba sul verde cupo delle conifere. I soffii lievi di brezza, passando tra i rami, agitano a intervalli quelle bolle livide, che salgono, scendono, si spostano, si gonfiano, si restringono con una irrequietezza nervosa di cose viventi. Al sommo però, un fascio compatto di raggi precipita sul viale, e pare in distanza un’immane colonna bianca e diafana, che sorga dalla terra tra il nero dell’ombra circostante. In silenzio essi raggiungono il luogo rischiarato dalla luna. Sono al crocicchio delle due stradette, dov’è un sedile, dove sta custode impassibile l’antica erma dal viso corroso e dai seni intatti, come gonfii d’un desiderio immortale. — Sono stanca! — ella mormora, fermandosi di fronte a lui. — Vuoi che sediamo, un poco? Siedono entrambi, alquanto discosti sì che l’ombra dell’erma si compone sul suolo tra le loro due ombre. Tacciono. Ella tiene il capo reclinato sul petto e le palpebre socchiuse; egli in vece guarda d’intorno curiosamente quasi distratto dallo spettacolo, ma ha una lunga ruga pensosa, su la fronte, tra ciglio e ciglio. In fine si volge a lei e con accento d’indifferenza simulata: — Vuoi dirmi ora, — le chiede — perchè non hai risposto all’ultima mia lettera?... — Perchè non ho risposto...?! — esclama Flavia concitatamente, rialzando di scatto la testa come sbigottita dal suono della sua voce. E gli occhi, ancora umidi di lacrime, le si dilatano esprimendo un’ambascia profonda. — Ah, è vero: debbo dirti perchè non ho risposto, perchè non ho più scritto... Ora ricordo: è stato per questo che t’ho dato convegno qui, non per altro, non per altro... Pronunzia le ultime parole con una voce spenta che non par più la sua. Poi, dopo una pausa di raccoglimento in cui gli occhi si son per poco sottratti all’investigazione acuta del giovine, lo fissa di nuovo deliberatamente, con una specie di violenza spasmodica; e riprende: — Ebbene, Aurelio, giacchè vuoi sapere.... io non voleva più scriverti, ero decisa a non scriverti mai più... — E perché? — Perché... Perché credevo che non saresti più ritornato, credevo che le abitudini cittadine ti avrebbero ripreso interamente a me, facendoti sentire tutto il peso e l’impaccio del legame che si era stretto tra noi in un momento di comune debolezza. Che vuoi? Mi pareva che il nostro amore non fosse che un sogno, un bel sogno che, come gli altri tutti, non si sarebbe mai realizzato!... E ancora adesso, vedi, io non so convincermi che possa essere una cosa durevole, seria, resistente agli attacchi del tempo e degli eventi. Mi amerai tu sempre come oggi dici di amarmi? Non verrà un giorno in cui ti sarò d’ingombro nella tua via e sarà troppo tardi per potertene liberare? In quel giorno che sarà di noi?... Tu non hai mai considerato questa possibilità; ma io, intendi? io, qui sola, da che sei partito, non ho pensato ad altro. E, certo, se tu m’avessi dimenticata, se avessi cercato in qualunque modo d’allontanarti da me, credi pure che non avrei fatto un passo per richiamarti, non avrei scritto una riga per rammentarti ch’io t’amava e ti aspettava. Egli l’ha ascoltata a testa bassa, guardando la terra, senza fare un atto di protesta. Le tre ombre vicine, ch’egli vede sul suolo, sembrano attirare tutta la sua attenzione; e in verità egli sente, sente che qualcuno estraneo sta tra loro in quel momento, a dividerli e a spiarli. — O Flavia, — egli dice con voce dolente, poi ch’ella non accenna a proseguire: — e così tu mi parli ora, dopo quel che hai udito dalle mie labbra, uscendo appena dalle mie braccia, ancor bagnata dalle mie lacrime e da’ miei baci?... — Aurelio, per carità, non fraintendermi! Non credere ch’io non t’ami; non credere neppure che dubiti del tuo amore. Ci amiamo, lo so. Pur troppo, so che io, io t’amo come una pazza. Ma, vedi, temo.... penso che non potrò mai renderti felice; ed è questo che mi spaventa, questo che mi fa guardare l’avvenire con una specie di terrore, come vi vedessi scritta la nostra condanna sicura!... Sai tu che non ho avuto un momento di pace, con questo pensiero sempre fisso in mente? Sai tu che ho letto le tue lettere appassionate, tremando d’angoscia per me, per te..? Sai, sai che son giunta perfino a desiderare che tu, tu per il primo non mi scrivessi?... — Anima sublime! — egli esclama, con accento d’amaro sarcasmo, alzandosi in piedi, non per allontanarsi da lei ma per togliersi alla visione molesta delle tre ombre vicine. — Intendo: l’idillio t’ha già stancata. Vuoi che ci lasciamo? Lasciamoci. — Oh, Aurelio! È un grido che è uscito dalla gola di Flavia, un grido di dolore, di stupefazione, d’implorazione disperata; e le due mani si son levate con un atto istintivo verso il giovine, come per trattenerlo. — Quanto sei ingiusto e crudele! — continua ella, dopo un silenzio, scotendo mestamente il capo. — Come mi tratti male!... Dimmi, dimmi tu, Aurelio; che fiducia posso io avere in te, quando mi parli così?... E tu non puoi giudicarmi; tu non sai le torture ch’io ho sofferte in questi giorni per causa tua, mentre tu eri lontano e tranquillo, torture d’ogni genere, torture che mi venivano da ogni parte come una persecuzione! Se fossi libera della mia volontà come tu sei, se potessi liberamente disporre della mia vita, forse avresti ragione di sospettare di me, di rimproverarmi questi scrupoli, queste paure, queste esitazioni... Ma io, lo sai, non sono sola, io vivo in famiglia, e molte volte debbo seguire la volontà altrui più che la mia, debbo pensare agli altri più che a me stessa. E non ho il diritto di rendere infelici i miei cari, di sacrificarli leggermente al mio egoismo, di ricambiare il loro affetto con la disobbedienza e con l’ingratitudine... — Flavia, — egli interrompe, mettendosi in faccia a lei con le braccia conserte, fissandola violentemente come per penetrare a forza nel fondo della sua anima, — tu mi nascondi qualche cosa... — Ma no... voglio dire... — Sì, sì, tu mi nascondi qualche cosa! Una breve pausa, in cui i loro respiri affannosi s’alternano, in cui i loro sguardi s’interrogano reciprocamente, avidi e sospesi.... E poi, d’improvviso, un’esclamazione rauca di lui, l’urlo breve e soffocato d’un uomo colpito a morte. — Ah, ho compreso!... So, so di che si tratta! — Che cosa sai? — So tutto! — Aurelio?... — Tutto, tutto. Nega, se puoi: tu devi sposare l’avvocato Siena! — Chi ti ha detto...? — Ah, lo confessi?... È vero, dunque? — Ma chi ti ha detto questo? — Presto, rispondi: è vero? È vero? Ella sùbito non risponde. Appoggia i gomiti alle ginocchia e nasconde il viso tra le palme, in un atteggiamento di prostrazione suprema. Piange? Il suo corpo reclinato non ha un fremito: la sua ombra è immobile, accanto all’altra ombra immobile dell’erma. — È vero! È vero! — ripete il giovine nel silenzio, come un’eco fioca e lontana. Lascia cader le braccia lungo i fianchi, e rimane a lungo attonito, in contemplazione della donna così prostrata e quasi vergognosa d’avanti a lui. — Ascoltami, Aurelio. Ormai è necessario ch’io ti dica tutto... perché tu possa giudicarmi, e al caso anche consigliarmi. Sì, è vero: l’avvocato ha chiesto la mia mano e mio padre glie l’ha accordata... senza chiedere un mio cenno d’assenso, puoi imaginare, perché, se l’avesse fatto, avrei risposto senz’altro con un rifiuto aperto e decisivo. È inutile che ti racconti ora le scene che son successe in quest’ultima settimana tra me, il babbo e la mamma, quando poi ho cercato di ribellarmi, di far prevalere i diritti del mio cuore su le dispotiche pretensioni della loro esperienza e della loro autorità. Il babbo ha gridato, ha imprecato, ha detto che aveva impegnata omai la sua parola per concludere ogni volta con la stessa terribile frase: «Devi sposarlo e lo sposerai»; e la mamma, poveretta, non ha fatto che piangere, supplicarmi, dimostrarmi tra le lacrime e le carezze ch’io respingeva per un capriccio la fortuna della mia vita, infliggendo un dolore immenso e immeritato a loro due che in fine non volevano se non la mia felicità!... Tu, tu, Aurelio, eri lontano.... Se fossi stato qui a sostenermi nella lotta, a consigliarmi, a infondermi la fede nel tuo amore, oh, non avrei ceduto.... Ma tu non arrivavi mai, mai.... e i dubbii nel mio cuore, quei dubbii che tu conosci, divenivan sempre più forti, mi circondavano, mi schiacciavano, mi toglievan forza e coraggio assai più delle rampogne del babbo, assai più delle preghiere della mamma!.. Quando io mi rifugiavo nella mia camera per sottrarmi alle pressioni dell’uno o dell’altra, i dubbii, vedi, incominciavano ad assalirmi da ogni parte; ed io, affranta, smarrita, sfiduciata mi chiedeva se non sarebbe stato meglio anche per te che accettassi, se non avrei fatto sopra tutto il tuo bene, liberandoti da ogni legame con me.... Jeri, proprio jeri, poco prima che l’avvocato giungesse, la mamma mi chiamò a sè e, implorando, singhiozzando, ricorrendo a ogni mezzo di persuasione, riuscì a trascinarmi vinta e rassegnata d’avanti al babbo!.... Ora che si fa, Aurelio? Che posso fare? Che debbo fare?... Consigliami tu, dimmi, ordinami tu quel che debbo fare ed io, lo giuro, ti obedirò a costo di qualunque follìa! Ella ha parlato calma, senza un gesto, con un’espressione di serietà ferma e misurata, tenendo continuamente fissi gli occhi, che sono asciutti e solo un po’ rossi per le lacrime di prima, in quelli intenti d’Aurelio. — Flavia, — dice questi, dopo un’esitazione cupa, — non bisogna che t’illuda: io sono povero, molto povero. L’agiatezza, di cui la mia povera mamma ha potuto fortunatamente godere fino all’ultima sua ora, ella la traeva da un vitalizio... Io sono povero; e costui in vece è ricco; egli può assicurarti un’esistenza felice, senza privazioni di sorta e senza preoccupazioni per il domani. T’amo troppo, Flavia, per esigere da te un sacrifizio di questo genere: se tu credi di potermi lasciare senza grande dolore, io mi rassegnerò, m’eclisserò, andrò lontano e, t’accerto, non sentirai mai più parlare di me in vita. Vuoi che ti consigli, come un amico, come un fratello?... Sposa quell’uomo e dimenticami. — Anche tu! Anche tu m’abbandoni!.... — ella grida esterrefatta, congiungendo le palme come in atto di preghiera. — Ma non capisci, Aurelio, ch’è impossibile? Non capisci che non l’amo, non l’amo e mai non potrò amarlo? Non capisci che non potrò mai esser felice, insieme con un uomo che mi spiace e mi ripugna?.... Oh, è con un senso d’orrore indicibile ch’io penso al giorno in cui sarò sua, in cui dovrò appartenergli tutta, anima e corpo, per sempre!... Ella s’interrompe, senza respiro: ha un sussulto violento, un moto istintivo di raccapriccio, quasi avesse già visto la mano del tiranno avvicinarsi sicura e audace alle sue carni. Si passa le dita nei capelli, e soggiunge con un accento di disperazione infinita: — Dio, o mio Dio, quanto sarò infelice! — Ed io, Flavia, ed io?!.... Io, che non ho nessuna persona cara vicina a me? Io, che non ho altri che te al mondo e, perdendoti, non posso sperare in una parola di conforto e d’incoraggiamento da nessuno, intendi? da nessuno....?! Pensa, pensa quando ritornerò solo nella mia casa deserta e dirò a me stesso: «Tutto, tutto è finito!» Che sarà poi? Dove porterò il mio dolore? Come potrò trovare un mezzo, se non di vincerlo, di lenirlo, di renderlo sopportabile al mio povero cuore ancora affranto dall’altra terribile sciagura?... Oh, la morte, Flavia, non c’è che la morte che possa sorridermi, quando ti avrò perduta. — No, la morte no! Non la morte! — esclama ella, precipitosamente, poichè vede le palpebre del giovine gonfiarsi di nuovo e luccicare. Qualche cosa d’oscuro passa come un fulmine ne’ suoi occhi. Ella sembra concentrarsi tutta in un suo pensiero, come chi riflette e delibera su l’istante. Poi scrolla il capo, il suo viso fiammeggia d’una gioja selvaggia, e, inchinandosi verso di lui: — Ascoltami, Aurelio, — dice. — Ho un’idea pazza, pazza come sono io in questo momento. Un solo rimedio c’è omai per salvare te, me, la nostra vita, il nostro amore!... Dopo che t’ho visto, dopo quel che ho udito dalle tue labbra stanotte, io sento che non potrò mai esser d’altri che tua.... e tua sono da questo momento, pronta a offrirmi a te così, tutta quanta, appena tu lo voglia!... Nessuno sa che sono uscita di casa; le notti son lunghe, ora, e l’alba è lontana:... se mi vuoi, Aurelio, (bada: se mi vuoi) stanotte stessa abbandono la mia famiglia, ti seguo, fuggo con te.... Sarà un colpo tremendo per il babbo, e sopra tutto per la povera mamma.... Non m’importa: sono essi che l’hanno voluto.... E, non temere, Aurelio; più tardi essi medesimi finiranno per cedere, per acconsentire alla nostra unione e perdonarci..... Al punto in cui siamo, soltanto una follìa, una grandissima follìa ci può salvare! Straordinario è lo slancio di passione e di volontà, che ha rialzato la voce, tutta la persona di Flavia in quel momento. Una nuova creatura è apparsa in lei d’improvviso e s’è rivelata all’amante in tutta la sua magnificenza: una creatura superbamente bella, sostanziale, foggiata per l’esperienza d’amore, maturata dalla avversità, forte, pugnace, sicura del suo scopo, schiusa a tutte le sensazioni e pronta a tutti gli ardimenti. Il giovine la guarda stupito, incerto, come sopraffatto da tanta bellezza e da tanta energia morale. Ma la sua esitazione non dura che un attimo. Anche il suo capo si scuote, anche i suoi sguardi fiammeggiano, anche la sua persona s’aderge fiera e possente nella notte come la figura d’un eroe. — Vuoi? — egli chiede. E la sua voce è dolce, serena e pur risoluta. — Aurelio?! — Vuoi? — egli ripete, stendendole la mano con un gesto semplice e solenne. — Oh, grazie! È un grido, ma un divino grido d’ebrezza, di gratitudine e d’abbandono. Ed ella di sbalzo s’è levata in piedi per gittarsi perdutamente tra le sue braccia. E le labbra hanno cercato spontanee quelle di lui, si sono unite con queste, si son fuse insieme in una prima concordia di voluttà furiosa, quasi frenetica, come labbra arse dalla sete che suggano l’acqua d’una sorgente impreveduta. — Grazie, Aurelio! — ella prosegue, staccandosi dal bacio, interrotta a tratti da un breve riso nervoso. — Tu m’hai ridato la forza, m’hai ridato la vita, la fede, la felicità!... Ora, vedi, non son più sgomenta, ora non tremo più... Qui, tra le tue braccia, mi sento così sicura che sfiderei il mondo.... Oh, il dubbio, l’orribile dubbio che tu avessi a sdegno il mio amore e provassi onta del tuo!... È finito, è finito, non c’è più!... Dio, mi sembra di morire, tanto sono beata! Mi sembra d’esser divenuta un’altra donna.... Non temo più nessuno, non temo più nulla.... Sono tua, tua, tua.... a dispetto di tutti, a costo di qualunque felicità che non sia la nostra!... Vedi, Aurelio: adesso sento che potrei anche affrontare il babbo e farlo piegare alla mia volontà.... In fine, perchè dovrei aver paura di lui? Che mi può fare? Sono io dunque la sua schiava? E il nostro amore è forse un delitto, chè noi per difenderlo si debba fuggire?... Grazie, Aurelio, mille volte grazie! Tu sei buono.... e mi ami.... ora son certa che mi ami.... Una tua parola è bastata a rischiararmi tutta l’anima; è bastata a ridonarmi la ragione e la calma, a indicarmi la via migliore per raggiungere il nostro intento.... Io resto, ora, io resto qua.... Non bisogna più fuggire.... Ieri ho detto: «Sì»; ebbene domani dirò: «No, no, no», e il mio rifiuto sarà irremovibile.... Oh, Aurelio, amore, mio amore!... E, con un moto languido e felino, si raccoglie palpitando sul suo petto, umile d’un tratto, tanto debole e sottomessa quanto le sue ultime frasi sono state energiche e risolute. Il giovine non pensa più, non considera più. Estatico, travolto da quell’onda improvvisa di passione, egli segue e rispecchia ogni atto di lei, ogni moto delle sue labbra, ogni capriccio della sua volontà, come se tutto si fosse annullato nella sua mente. Una cosa egli intende, una sola cosa, questa: la donna ch’egli ama è lì, avvinta a lui, fiduciosa, inebriata dal suo bacio, tutta sua alfine; è l’ora suprema delle delizie e degli oblii; e in torno si distende una notte profonda, piena di segreti e d’incanti. Bisogna amare, inebriarsi, sognare. — Vedi, anche la mia stanchezza è passata! — ella continua, scossa sempre da quel breve riso spasmodico. — Vuoi che ci muoviamo? che andiamo più in su, verso l’orto (ti ricordi le ciliege, quel giorno?), verso il mio nascondiglio, dove tu venivi a trovarmi, forse troppo di rado?... Chi sa che effetto farà con questa luna!... Sarà bello! Se andassimo là?... — Andiamo, sì, andiamo.... Ella è, questa volta, che lo spinge; ella che lo guida su per il sentiero un po’ ripido, a traverso la pineta in cui le tenebre si son di nuovo addensate. Tenendolo stretto a sè e sollecitandolo, ella gli parla senza tregua all’orecchio con quella voce che vien di lontano, trepida, un po’ affannosa, indefinibile. Ed è palese lo sforzo ch’ella fa per distrarlo, per dissipare in lui qualunque ombra, nella sua animazione eccessiva, nell’alterazione nervosa de’ suoi movimenti, nell’incoerenza delle sue parole. Le ricordanze, le più fioche ricordanze del loro amore passano così a una a una su la sua bocca, evocate in confuso, trasformate dal suo sentimento nascosto, dalla confessione dei suoi intimi pensieri, che il giovine conosce per la prima volta, estasiandosi, maravigliandosi. — Ti ricordi, nell’orto? — ella mormora: — tu mi raggiungesti, io ti caddi tra le braccia, e mi parve di morire, non so se per la gioja o per la vergogna.... Ti ricordi? Io t’amava già e ho cercato d’interrogarti: tu sei stato scortese, molto scortese con me, quella sera in barca.... non puoi imaginare il dolore che mi hai dato.... Rammenti? Oh, che rivelazione sono state per me due lacrime, due goccioloni tremanti ne’ tuoi occhi sempre serii, sempre aridi, sempre attenti e così freddi!... E quel giorno, su al mio rifugio? Io ho voluto vendicarmi con le tue stesse armi; ma che forza ho dovuto fare su me stessa per non saltarti al collo e non coprirti la faccia di baci.... E quella mattina, sul Motterone, quando ci siam trovati soli e m’hai parlato? Io mi sono fermata, ho detto: «Aspettiamo gli altri!»; ero così commossa, così confusa, così turbata dalla tua dichiarazione improvvisa! Se non avessi preso tempo, mi sarei tradita!... Tu non crederai, Aurelio, tu non potrai credere a quanto sto per dirti; e pure quella sera lontana, la stessa sera, in cui t’ho raccontato il mio primo amoretto infantile, io simulavo un rammarico enorme, soltanto perchè temevo che tu e Luisa mi leggeste in volto la nuova passione, che già mi infiammava. La memoria dell’altro era già morta e avvizzita; io era già tutta piena di te, come adesso, intendi, come sempre..... Così arrivano al limite più alto della pineta, leggeri, stretti, come volando sul suolo. E Flavia parla sempre, non altro forse che per affascinar l’amante con la musica della sua voce. E Aurelio obedisce, sempre docile e rapito, alla minima pressione del braccio che lo circonda. La cerchia degli alberi si rompe; l’oscurità li abbandona, rifugiandosi dietro le loro spalle; il chiarore li riprende, li avviluppa, li divinizza, arrestandoli attoniti e maravigliati su la soglia tenebrosa della selva. Allora, istintivamente, Aurelio e Flavia levano la testa. Di fronte a loro il prato dalle erbe intonse, l’orto lussureggiante di piante fruttifere, il colle coltivato a vigneti fin quasi alla sommità, si ergono pallidi per nuova luce, trasfigurati da nuove ombre, nell’inondazione dei raggi lunari. Il prato sembra scosceso come un bastione tappezzato dal muschio; nell’orto, le diverse forme degli alberi si fondono tutte insieme in un’unica massa porosa e fiorita, su cui ondeggia un fluido grigio e iridescente; e gli scaglioni petrosi risplendono nitidi e ben definiti tra il bruno della terra, simili a lunghe strisce candide distese per uno strano ornamento su i fianchi della collina. Ogni colore è scomparso; ogni rilievo, spostato. Tinte, linee, contorni, sporgenze, sinuosità, tutto resta vago, trasparente, fantastico, come languente sotto una carezza diffusa che prostra, snerva, dissangua, disanima ogni apparenza. — Osserva! Che maraviglia!... Un sogno! — ella esclama. Egli ripete, come un’eco: — Un sogno! Ella domanda: — Credi tu che riconosceresti il luogo, se t’avesser condotto qui con gli occhi bendati?... Io, no: io credo che non lo riconoscerei. Poi, dopo una pausa, aggiunge sorridendo, abbracciando il paesaggio con un gran gesto circolare: — Tutto nostro, non è vero? Tutto nostro!... — Oh, Flavia! — egli prorompe con un singhiozzo violento di commozione, quasi oppresso e sfinito dal peso di tanta felicità. Le sue braccia si aprono, si chiudono di nuovo sopra Flavia, ch’egli afferra come una preda, preme contro il suo petto con tutta la frenesia de’ suoi muscoli. E la sua bocca si attacca a quella di lei in un secondo bacio più lungo, più profondo, e pure infinitamente men dolce del primo. Così intensa è la sensazione di quel contatto, e pure così smaniosa e imperfetta, che le sue mani s’aggrappano alle spalle di lei, ed egli crede di cadere come se la terra gli mancasse sotto i piedi. La vista gli si offusca; il battito delle arterie diventa insostenibile. È il delirio che lo prende; è l’eterna fiamma della sessualità che si sprigiona da tutto il suo essere, investendo impetuosamente la donna che gli sta vicina. Un flutto bruciante di parole, l’invito inconscio e fatale alla dedizione, sale fino alle sue labbra e si disperde senza suono, vaporando, nel vuoto. Egli la stringe più forte a sè; le accarezza le guance, il collo, le vesti; la bacia ancora; le soffia in viso il suo desiderio ineffabile, non sapendo più che fare, non sapendo più che dire, esultando di piacere e spasimando d’un’ansietà senza nome.... — No, Aurelio, lasciami! Mi fai male!... — ella dice d’un tratto; e si scioglie dall’abbraccio con un respiro profondo. Accesa, anelante, con gli occhi semichiusi, ella sembra risvegliarsi da un letargo malefico: si guarda d’intorno con un’espressione angosciosa di smarrimento; si passa le palme su le tempia, su i capelli omai disciolti e sparsi; si piega convulsamente su le reni, quasi curvata in dietro dalle gravità delle folte trecce cadenti. Poi prende una mano di lui, e se la porta sul seno. — Senti il mio povero cuore!... Quasi si spezzava nella stretta... Credevo di morire... Oh, dimmi, Aurelio, se fossi morta tra le tue braccia? — Anch’io sarei morto tra le tue, — risponde il giovine, con un pallido sorriso. — Saremmo morti insieme, avvinti, immemori, felici.... — Felici!... Forse era meglio, non è vero? — No, — egli esclama con forza, ergendosi di tutta la persona, mentre il suo volto si rischiara come alla visione prossima d’una gioja anche più grande. Ella sùbito ha inteso; ella sùbito approva con il capo, ripetutamente, senza poter parlare. Ambedue, senza poter parlare, si comunicano ora con gli occhi lo stesso pensiero inebriante: «È vero! Non bisogna morire! Guai, guai se fossimo morti! Bisogna vivere, vivere molto per amarci, per provare ogni gaudio, per conoscere ogni segreto, per vedere tutte le forme, udire tutte le armonie, aspirare tutti i profumi. La vita è bella, maravigliosamente bella; e noi abbiamo le mani colme de’ suoi doni più preziosi: la giovinezza, la libertà, l’amore. Di che temiamo? Tutto il male che abbiamo sofferto non era in noi, era fuori di noi; non traeva origine dalla nostra sostanza, ma ne veniva dalle cose estranee che ci toccavano. Conviene adunque che ciascuno di noi faccia scudo all’altro della propria persona; conviene che ci chiudiamo nella nostra realità, come in una rocca impenetrabile, non accettando dall’esterno che quelle sole comunioni le quali possan rendere più gradevole la nostra gelosa dimora. Abbiamo con noi il favore della Fortuna; e la Felicità ci parla dai nostri occhi, dove si riflettono e si moltiplicano senza fine le stesse nostre imagini. L’Universo è in noi, poichè noi siamo un universo. Viviamo per intensamente amarci, per sfruttare ramo per ramo l’albero fecondo della nostra giovinezza, per provare ogni gaudio e conoscere ogni segreto.» Rimangono così lungamente taciti, tenendosi per mano, guardandosi, sorridendosi. E la luna, come in un sogno, li avvolge nel suo pallido incantesimo. — Vieni, — ella mormora in fine con una voce morbida e insinuante, in cui trepidano tutte le promesse. — Andiamo alla mia casa, nel mio nido... Bisogna rivederlo questa notte... È là ch’è nato veramente il nostro amore... Vieni! E s’avvia prima, la faccia mezzo rivolta in dietro verso di lui, traendolo per la mano. Attraversano il breve prato senza sollevare il minimo strepito, più leggeri delle loro ombre; s’affacciano al luogo memore e s’arrestano ancora su la soglia, trattenuti da un nuovo stupore, come da un sentimento religioso, da un timore oscuro di profanazione. Nell’ombra densa della notte, che il riflesso del colle a pena addolcisce, il piccolo spiazzo tondo pare un tabernacolo misterioso, creato per qualche antico culto silvano nel cuore di un bosco sacro. In torno gli abeti venerabili si piegano discretamente in arco, riparandolo da ogni lato, non lasciandovi penetrare un sol raggio di luna. E un languore d’alcova, un silenzio di solitudine non mai turbata, un profumo complesso d’essenze selvagge native, stagnano nell’immobilità dell’aria, che non un fremito muove. Tutto è chiuso, raccolto, nascosto in quella nicchia vegetale. Perfino il brano d’aperto cielo, che si stende su le vette degli alberi, dà l’illusione d’una cupola, dipinta in tempi assai remoti, su cui le figure siano a poco a poco svanite, lasciando solo nel fondo azzurro l’oro delle stelle, onde le loro vesti splendevano. — Entriamo. Che si aspetta? — ella dice, esultante ma con la voce sommessa di chi sta per varcare la soglia d’un tempio. — Entriamo. Ella s’avanza cautamente, d’avanti a lui. — Oh, Dio, guarda! — esclama d’un tratto, accennando verso il suolo. — Giuseppe stasera s’è dimenticato di portar giù le sedie, i miei scialli, i miei arnesi. Guarda! Entrambi sorridono alla scoperta; entrambi si stringono la mano con la medesima intenzione. A entrambi la presenza di quegli oggetti in tal momento pare un segno straordinariamente favorevole alla loro felicità; pare la conferma sicura che ogni loro desiderio abbia a essere in ugual modo esaudito. — Si direbbe ch’egli abbia preveduto la nostra visita — ella soggiunge. — Tutto è come doveva essere. Tutto è come tu ricordi. E, staccandosi da lui, s’avvicina con aria di malizia infantile a uno degli sgabelli, vi siede e, a testa china, un po’ abbandonata su sè stessa, finge di riprendere con grande alacrità il suo paziente lavoro di ricamo. — Eccomi al posto. Ora io t’aspetto. — Anima! — mormora l’amante affascinato da quel giuoco, con un brivido di gioja orgogliosa, mentre tutte le memorie dell’incerto passato si accumulano nell’anima sua e si disperdono a brani, nebbie dissolte dal sole. Barcollante in guisa d’un ebro, egli s’accosta all’incantatrice; si gitta alle sue ginocchia, le mette supino la testa nel grembo e, con un gesto tremulo d’invocazione le tende in dietro le mani aperte per un invito d’amplesso delirante. Non è che un attimo. Ella si solleva ritta sul busto e rimane seria e immobile a osservarlo dall’alto con un’espressione dura e quasi ostile di penetrazione. Su la sua fronte, dove i capelli più brevi insorgono come i raggi d’un barbaro diadema, un pensiero cupo e profondo si disegna nella profondità delle rughe. Pare che la sua fisonomia si complichi, s’oscuri fino a divenire enimmatica.... Poi d’un tratto il suo capo si scuote vivamente ed ella, come vinta da un languore repentino, piega sopra di lui e gli si concede sospirosa tra le braccia. — Flavia, — egli implora sommessamente, non potendo dal basso vederla, non potendo sentirla bene contro il suo cuore, non riuscendo a incontrare con la sua bocca le labbra desiderate — Vieni, vieni qui più vicina. — Dove vuoi, — mormora ella come in sogno. E, attratta con dolce violenza dalle mani del giovine, scivola senza resistere giù dalla sediuola per cadergli mollemente al fianco su l’ampio scialle disteso al suolo a mo’ di tappeto. L’oscurità del luogo li assorbe; taciti, confusi in gruppo, invisibili nell’ombra, essi restano là protetti dalle ali della notte clemente, mentre nel cielo la luna incomincia a dichinare verso i monti occidui e su la terra i primi segni antelucani si manifestano di qua e di là, perduti nell’infinita calma, come timide inascoltate sollecitazioni all’alba che indugia. Lo strillo acuto d’un gallo ha già risonato d’improvviso, simile a un grido guerriero, là su i colli, in lontananza; sùbito dopo, un altro strillo solitario ha risposto da presso, sotto la chiesa, men forte, meno libero del primo, rauco e come soffocato in gola dal sonno bruscamente interrotto. E già a più riprese il brivido del gelo crepuscolare ha percorso il giardino, turbando la quiete della selva e del prato, diffondendo intorno un susurro fioco di vita che si ridesta, preannunziando alle cose tutte il termine delle tenebre e del silenzio. Ma gli amanti, chiusi e isolati nel cerchio del loro gaudioso mistero, non sentono, non odono, non vedono più nulla. In vano il soffio della brezza bisbiglia alle loro orecchie il suo gelido ammonimento; in vano gli abeti s’agitano in giro con un fragore sordo di minaccia; in vano trepidano sgomente l’erbe ai loro piedi; in vano su le loro teste intona una capinera il melodioso inno mattutino. Nulla vale a vincere la potenza fatale ed esclusiva del Sogno! Essi non sentono se non il tepore delle loro carni; non odono se non i sospiri delle loro bocche; non vedono se non la luce delle loro anime, dove l’eterno fuoco brilla e avvampa, omai inestinguibile. Qualunque comunicazione con l’esterno è rotta; il mondo delle apparenze è scomparso; il passato è abolito; l’avvenire non è che un velo opaco e fluttuante su cui l’attimo fuggevole projetta il bagliore della sua bellezza. Essi son soli, assolutamente soli, in uno squallore senza confini, fuori del tempo e dello spazio, fuori della realtà, nel nulla. E vivono, vivono, e son felici di vivere, ignari di tutto e di tutti, immemori forse anche di sè medesimi, sconosciuti, umili, abjetti; vivono, paghi di quell’attimo più che d’una eternità, contenti del palmo di terra, che li raccoglie, più che d’un immenso magnifico impero. È l’ora delle delizie e degli oblii, supremi. — Esiste un’umanità? Esistono altri esseri su la Terra? Non son plaghe ignote e deserte quelle che si distendono nell’ombra oltre la spira avvolgente delle loro braccia intrecciate? Non bastan forse le loro due vite ad animare tutto l’universo? — Certo, entrambi hanno in quel breve lasso di tempo la ferma convinzione d’una assoluta solitudine intorno a essi, il sentimento netto e definitivo della loro sufficienza in una assoluta solitudine. E ciascuno, inconscio e risoluto, prova il bisogno imperioso d’unirsi all’altra creatura superstite d’un mondo inutile e distrutto, di sentirla, di mescolarsi perdutamente con essa in un abbraccio quasi cruento, in una congiunzione così intima da divenire insieme un solo unico essere. — Flavia! — Aurelio! — Anima mia! — Mia vita! — Amore! Amore! Amore!..... Essi si chiamano a vicenda, continuamente. Essi si allettano piano, senza voce, soffiando le proprie parole più che non proferendole, bevendo le parole altrui più che non udendole. E tutte le dolcezze, tutte le tenerezze, tutte le delicatezze del linguaggio umano rampollano dai loro labbri, spontanee e vive come le stelle dal cielo in un vespero sereno; e tutte le eloquenze parlano nelle loro anime, tutti i gaudi sospirano, pregano tutti i fervori, osannano tutti gli entusiasmi che nessun linguaggio mai riuscì a esprimere. È l’estro oscuro della Specie che stimola e infiamma le loro facoltà liriche, quell’estro medesimo onde sono ispirati i canti maravigliosi degli uccelli nel tempo sacro alle nozze. È l’eterno Poema della Passione che si svolge impetuosamente dentro di loro, attingendo i culmini dell’estasi e dello spasimo. È il turbine della Felicità creatrice, che li avviluppa, li acceca, li inebria, ne precipita i corpi avvinti in fondo agli abissi della materia per sollevarne gli spiriti fusi in alto, sempre più in alto, verso le magiche regioni invocate dal loro desiderio, là dove non dominano nè orgoglio nè vanità nè convenienza, là dove è sola realità il Sogno, sola e suprema legge l’Istinto. — Flavia, ti amo! — Ti amo, Aurelio! Ti amo! «Amore! Amore! Amore!» La più che dolcissima parola ritorna a ogni tratto nel loro bisbiglio continuo, come il motivo dominante d’un’irrequieta e sublime polifonia; si ripete senza fine, sempre la stessa e sempre nuova, — sintesi insuperabile d’ogni loro pensiero, di ogni sentimento, d’ogni sensazione, — sovrano Verbo che tutto significa, tutto spiega e giustifica. — Sei felice? — egli domanda, stringendosi più forte a lei, come se un dubbio improvviso l’avesse turbato. — Son tua, tua, tua.... — ella risponde con la voce rauca, follemente, smarritamente. E gli afferra il capo nelle mani, gli avventa in faccia la sua intenzione disperata d’ebrezza e d’oblio: — Son tua, tua tutta quanta, anima e corpo.... non d’altri che tua, perché io voglio così, intendi? da ora, per sempre... Amo te, amo te solo, non ho amato che te in vita, lo giuro, lo giuro.... Per accontentarti, son pronta anche a sacrificarmi, anche a perdermi, anche a morire.... Fa ciò che vuoi di me, Aurelio.... Prendimi, soffocami, uccidimi, se ti piace.... Il tuo piacere è tutta la mia felicità! Un attimo d’esitazione nel giovine; e poi l’effetto d’un impulso oscuro, selvaggio, irresistibile. Ella si abbandona a lui quasi senz’anima, supina, inerte, con due lacrime fisse negli angoli degli occhi come due gemme, trasfigurata. ...... E il tempo vola. Il tempo si precipita nel nulla inavvertito, sopra la loro letargica voluttà. Quanti istanti ha battuto il palpito dei loro cuori? Quante ore son passate? Quanti secoli?.... ..... D’improvviso ella riapre gli occhi faticosamente, come destandosi da un sopore mortale, come tornando alla vita da un’altra vita increata e divina, di cui non serba nella memoria che un rammarico immenso e confuso. — Mio Dio, che freddo! Che chiaror livido! Che strani suoni dispersi nell’aria!.... Dove si trova ella mai? D’onde proviene quell’umido gelo che tutta la intirizzisce? Chi le opprime il respiro? Chi bisbiglia, chi si muove, chi fugge intorno a lei?... — Passano alcuni minuti in cui ella lotta in vano contro la nebbia che le offusca il cervello; in cui cerca inutilmente di coordinare i suoi pensieri, di rendersi conto delle sensazioni inesplicabili ond’è sorpresa.... Finalmente con uno sforzo enorme, solleva un poco il capo e si guarda in giro, smarrita. È l’alba. È la fredda livida alba che succede alla benigna notte lunare. È la realità che succede al Sogno. È la luce nemica e beffarda che fuga trionfando la coorte delle Tenebre e sembra disperdere con queste l’incanto breve che esse hanno tramato. Per sempre? Forse, per sempre!... — Aurelio! — ella chiama, invasa dall’orrore, con un fioco grido. — Lévati! È giorno. — È giorno? — domanda il giovine, aprendo a sua volta gli occhi, balzando fresco e agile a sedere, mentre un vasto sorriso illumina la sua faccia a quel risveglio inaspettato. Una profonda gioja è dentro di lui: nessuna nebbia offusca il suo cervello; nessuna paura turba il suo spirito. Egli vede, ode, respira liberamente. E l’aria del mattino lo delizia come un elisire; e il frullo d’ali, il cinguettìo dei passeri su gli alberi, gli strilli dei galli sparsi per la campagna gli accarezzano dolcissimamente l’udito come una musica; e quel cielo pallido pallido, dove qualche raro astro tremula ancora, quel paesaggio raccolto, vergine, un po’ nebbioso, affascinano la sua vista e lo rapiscono. Egli esce dall’estasi e rientra nella vita col sentimento orgoglioso e sereno di chi ritorna in patria dal paese della Fortuna. — È giorno? È un nuovo giorno che s’avanza? E benedetto sia questo giorno che lo ridesta alfine tra le braccia della Felicità! — Flavia, ti amo — egli esclama, volgendo le pupille piene di luce verso di lei, prendendole la mano come per esprimerle tutta la gratitudine che gli fluttua nell’animo. Ella arrossisce, si turba, si svincola tremante e inquieta dalla sua stretta. Lo sgomento, onde fu assalita, in vece di diminuire, sembra che aumenti sotto lo sguardo beato e riconoscente che tutta l’avvolge. — Dio mio, che ho fatto! — mormora, coprendosi il viso colle palme, rabbrividendo forte al ricordo del fallo irreparabile. — Che penserai tu di me, ora? — Penso che tu sei la _mia_ donna e che nessuno omai mi ti può contendere, perchè sei mia, interamente mia. Ella gli gitta un’occhiata obliqua e paurosa, e s’avvicina un poco a lui, timida, umile, sottomessa come una schiava. — Oh, Aurelio, — continua con la voce implorante: — tu non devi pensar male di me, non devi accusarmi.... Sei tu che l’hai voluto, tu che m’hai inebriata, tu che m’hai resa folle... Ora tu devi amarmi molto, soccorrermi, salvarmi, perchè, lo vedi, io son debole e non ho più che te solo al mondo.... Puoi far di me ciò che tu vuoi... Io sono una cosa tua, io t’appartengo.... — Tu m’appartieni ed io pure t’appartengo, Flavia, — egli interrompe, sorridendo, rassicurandola con un gesto calmo e affettuoso. — Se tu temi, se dubiti di me, sei ingiusta. Quest’ora di beatitudine che m’hai data, è la prima ora felice della mia vita, ed anche la prima sincera. Io non potrò dimenticarla mai, intendi? mai, ed essa mi lega a te più di qualunque giuramento, di qualunque rito, di qualunque legge. — Bisogna ch’io discenda, adesso, — ella prorompe d’un tratto, concitata, scrollando la testa, distogliendo gli occhi da quelli di lui. — Forse è già troppo tardi!.. Ah, che imprudenza! Che imprudenza! Fa l’atto di levarsi bruscamente in piedi, ma le forze l’abbandonano ed ella ricade di peso su la terra. — Lo vedi? Son morta!... Ajutami, per piacere. Il giovine di scatto s’è alzato. Sembra che sia più grande, più valido, più forte che non mai, tanto energico e fiero è il suo portamento. Offrendole le due mani aperte, egli l’attira a sè e la solleva ritta senza il minimo sforzo, come una piuma. — Addio, Aurelio, — ella dice freddamente, sotto voce, senz’osare di guardarlo, arrossendo di nuovo poi che si trova in piedi d’avanti a lui. — Non vuoi che t’accompagni? — No, no! È meglio che tu resti qui, è meglio ch’io discenda sola.... Posso incontrare qualcuno in giardino.... — A più tardi, dunque! La riprende con dolcezza tra le braccia e soggiunge con un accento teneramente carezzevole: — A più tardi, anima, e.... per sempre! — Oh, sì, per sempre, Aurelio! Per sempre! È questo l’ultimo fuggevole lampo di passione in lei — il primo dopo il risveglio. Ella lo bacia su le labbra con un furore disperato; si scioglie immediatamente da lui; tenta di ricomporre un poco il disordine dei capelli e delle vesti; poi, senz’altro, gli volge le spalle ed esce in corsa dal nascondiglio. — Ti amo! Ricordami! — le grida dietro il giovine, che il suo sgomento e la sua confusione sembrano aver reso anche più sereno e più grato. Ella non fa cenno d’averlo udito. Attraversa il prato a brevi passi assai rapidi; giunge all’imbocco oscuro della pineta e, senza più rivolgersi, s’occulta d’un tratto in questa, — anzi meglio è dire, per esprimere la sensazione ch’egli n’ha avuta, vi si sprofonda. Rimasto solo, Aurelio s’incammina lentamente verso il poggio, sospinto da un bisogno intenso di spazio e di frescura. Persiste dentro di lui quel sentimento di placida allegrezza, che l’ha invaso destandosi dal suo sogno di delizia, riprendendo la coscienza della vita al fianco d’una donna amata, nei limpidi prestigi mattutini. Pare a lui in quel momento che tutta la bellezza dell’Universo gli si spieghi d’avanti agli occhi soltanto per festeggiare la sua presenza. Pare a lui che la luce della propria persona sia quella che illumini con palpito crescente le cose circostanti e la vólta del cielo. Un’onda di poesia gli scorre nel sangue; i polmoni gli si dilatano ai sapidi effluvii della campagna; le idee gli balzano dalla mente agili e leggere, ciascuna portando in sommo l’imagine incantatrice; e una rifioritura di giovinezza gli si schiude nel cuore, come un’aspirazione possente alla semplicità originaria, ai salubri esercizii corporali, a una vita di piacere quasi selvaggia, alla grande e spensierata e primitiva libertà degli infimi o degli eroi. E la sua anima dice, esultando: «Ah, finalmente: anche la mia festa è incominciata! Finalmente: anche per me è battuta l’ora divina della rivelazione! A che soffrire? A che combattere? Perché inseguire affannosamente una Chimera, che sfugge a ogni presa e, anche raggiunta, non lascia tra le mani se non un cencio vacuo e inutile? Amare! Magnificamente amare! Ecco il segreto della gioja di vivere! Ecco la causa suprema e il supremo scopo d’ogni esistenza creata!» Egli vuol rivolgersi in dietro ancora una volta verso il Dolore e verso l’Ideale; ma non riesce più a scorgere nè l’uno nè l’altro. La Donna è venuta; e con essa il riposo, l’oblio, l’umiltà, l’acquiescenza beata all’eterna incommutabile legge che regola nell’infinito spazio il trasmutare della materia organica. Così egli sale, solitario tra i mobili rossori dell’aurora, la dolce erta impressa dalle orme di mille passanti, verso un’altura limitata perduta tra altre innumerevoli alture. Intorno a lui, i rami degli alberi vacillano a pena a pena, abbandonando al vento qualche foglia vizza o qualche stilla di rugiada. Nella calma pallidezza dell’aria un nuvolo di passeri mette un cinguettìo vivace; i galli, delle fattorie sparse su le colline, mettono i loro gridi spavaldi; e le pecore dai chiusi, qualche tenero belato; e le giovenche, qualche profondo cupido mugghio; e un asino dalla valle, il suo immenso singhiozzo, unico lamento nell’universale gajezza delle cose. Egli è giunto al sommo dell’altura e deve sostare, sconosciuto pellegrino stretto intorno dall’umile giogaja, avendo a tergo, invisibili, le creste alpestri baciate dal cielo. D’innanzi è la natività del sole, e in questa s’affissa ebro il suo sguardo. Da un mare di nebbie quasi sanguigne si libera un gran disco vermiglio e s’estolle con lento moto fatale verso l’alta purezza degli spazii. L’Illuso leva le due braccia trionfalmente e lo saluta, come l’apportatore d’un giorno senza tramonto. _Cerro Verbano, luglio 1894._ _Quinto al Mare, dicembre 1896._ FINE DE _LA SIRENA_. INDICE. LA SIRENA. I. L’apparizione _Pag_. 1 II. L’incontro » 30 III. I fantasmi e le idee » 63 IV. L’Albero del Bene e del Male » 86 V. Echi del passato » 105 VI. Prime nebbie » 123 VII. Al bivio » 151 VIII. Una festa » 183 IX. Il Sogno » 205 X. Tra l’Amore e la Morte » 251 XI. Solo » 303 XII. Il Poema eterno » 338 Segue LA CHIMERA. _OPERE DI E. A. BUTTI._ ROMANZI E NOVELLE: L’Automa. 4.ª ediz. (Ed. Treves) L. 4 — L’Anima. 4.º migliaio. (Ed. Galli) 4 — L’Immorale. 3.ª ediz. (Ed. Galli) 3 — L’incantesimo. (Ed. Treves) 4 — La Chimera (_di prossima pubblicazione_). Un apostata (_in preparazione_). L’Eroe del domani (_in preparazione_). TEATRO: Il Vortice. (Ed. Galli) 1 50 L’Utopia. (Ed. Galli) 2 — Gli atei (_in preparazione_). VERSI: Le dolorose (_in preparazione_). CRITICA: Né odii né amori. (Ed. Bocca) 3 50 Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK L'INCANTESIMO *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. Project Gutenberg is a registered trademark, and may not be used if you charge for an eBook, except by following the terms of the trademark license, including paying royalties for use of the Project Gutenberg trademark. 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International donations are gratefully accepted, but we cannot make any statements concerning tax treatment of donations received from outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff. Please check the Project Gutenberg web pages for current donation methods and addresses. Donations are accepted in a number of other ways including checks, online payments and credit card donations. To donate, please visit: www.gutenberg.org/donate. Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works Professor Michael S. Hart was the originator of the Project Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be freely shared with anyone. For forty years, he produced and distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of volunteer support. Project Gutenberg™ eBooks are often created from several printed editions, all of which are confirmed as not protected by copyright in the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper edition. Most people start at our website which has the main PG search facility: www.gutenberg.org. This website includes information about Project Gutenberg™, including how to make donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation, how to help produce our new eBooks, and how to subscribe to our email newsletter to hear about new eBooks.