La straniera : Novelle e teatro

By Edoardo Calandra

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Title: La straniera
        Novelle e teatro

Author: Edoardo Calandra

Release date: July 22, 2024 [eBook #74100]

Language: Italian

Original publication: Torino: Società Tipografico-Editrice Nazionale, 1914

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by Università degli Studi di Torino - Sistema Bibliotecario d'Ateneo)


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LA STRANIERA

NOVELLE E TEATRO


   [Illustrazione: EDOARDO CALANDRA.]


                            EDOARDO CALANDRA


                              LA STRANIERA

                            NOVELLE e TEATRO



                              S. T. E. N.
                 SOCIETÀ TIPOGRAFICO EDITRICE NAZIONALE
        (già: Roux e Viarengo — Marcello Capra — Angelo Panizza)
                             Torino, 1914.




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     Copyright 1914, by the Società Tipografico-Editrice Nazionale
                           (S.T.E.N.), Turin.

                                 (3085)
                  Officine Grafiche della S. T. E. N.
           (Società Tipografico-Editrice Nazionale) — Torino.




EDOARDO CALANDRA


Non è nome famoso quello di Edoardo Calandra. Ma giova appunto
discorrere tra persone serie di coloro dei quali non parla a tutti
la fama, questa moderna fama giocoliera, vestita di cartelloni e di
giornali ritagliati, che suole ignorare l’esistenza di chi in qualche
modo non la lusinghi e la paghi. Edoardo Calandra la trascurò, la
sprezzò, e non ne ebbe i doni. Quando vedeva tanti altri comparire
pomposi alla ribalta della celebrità, egli si ritraeva discretamente
in disparte, quasi vergognandosi di assistere allo spettacolo non di
rado inverecondo. Cominciato il conflitto con la Turchia, ricordava
Alessandro Dumas padre, che, dopo tanti universali successi, era morto
nel 1870 presso che oscuramente, perchè allora tutti in Francia avevano
il capo alla guerra contro la Prussia; e diceva sorridendo: Non bisogna
morire in tempo di guerra...

Morì appunto il 28 ottobre 1911, dopo le più sanguinose giornate
dell’occupazione di Tripoli. Ma, guerra o non guerra, la sua morte
non poteva passare inosservata. Era stato tale uomo e tale artista da
non dover uscire dal mondo senza profondo pianto d’amici e rispettoso
compianto di estimatori anco ignoti. Della nostra personale commozione
non importa ai lettori; importa invece a tutti che le memorie alte e
belle siano raccolte e tramandate.


I.

A Torino il nome di Calandra indica una famiglia intera, nota con suoi
particolari caratteri come un uomo solo, tanto palese era tra padre
e figli la continuità dello spirito, il trapasso delle attitudini.
Piemontesi genuini del vecchio ceppo, siano tranquilli borghesi o
industriali o uomini politici o artisti, qualunque cosa facciano,
recano nella persona e nel modo di vivere il segno infallibile
della stirpe: sembrano militari, e qualche cosa di militare hanno
nell’intimo della loro natura. Hanno la disciplina interiore, l’istinto
di devozione al bene pubblico e la correttezza tra bonaria e altera
così dei modi come delle opinioni. Concepiscono ciò che fanno non
altrimenti che il buon soldato concepisce il suo dovere, con rispetto
e con serietà nativa. Se tutti gli italiani fossero cittadini di questo
stampo, l’Italia sarebbe lo Stato ideale sognato dai filosofi antichi.

L’avvocato Claudio Calandra, il padre, era rimasto vedovo ancor
giovane. La moglie, bella e buona, gli era morta di ventotto anni, nel
1858, lasciandogli i figliuoli bambini, Edoardo di sei anni, Davide di
due: sicchè la loro educazione fu fatta quasi esclusivamente da lui,
secondo la sua indole meditativa e operosa ad un tempo. Egli esercitò
dapprima l’avvocatura; ma poi la lasciò, assorto in tutt’altri studi.
S’era dato spontaneamente, da autodidatta pertinace, all’idraulica e
alla geologia; onde fece la scoperta di un nuovo modo di estrazione
delle acque sotterranee, che porta il suo nome, e potè dare opera
efficace al prosciugamento di paludi, all’irrigazione di terreni
riarsi, al risanamento di piaghe malariche, con piena riuscita nelle
bassure della sua provincia di Cuneo, con tentativi animosi nel
Tavoliere di Puglia. Amava il vivere all’aperto e gli esercizi fisici,
nei quali si fece presto compagni i figli giovinetti, che addestrava
alla scherma e alla caccia, di cui era appassionatissimo. Ottenne così
ch’essi acquistassero famigliarità con le cose della natura libera e
insieme con le armi. Di armi antiche, non per manìa da dilettante, ma
con sentimento della storia e dell’arte, teneva raccolta, fin dalla
prima gioventù, e la arricchiva di continuo con ricerche pazientissime
nel suo paese e in tutti quelli che aveva occasione di visitare.
Così, quando fu deputato per il collegio di Savigliano al Parlamento
di Firenze, battè tutta la Toscana in cerca di armi antiche, delle
quali studiava a fondo l’uso, la fattura, le origini, le fogge di
età in età. Per ciò la sua raccolta si corredava di molti libri
d’antica arte militare, con storie e figure di tattica, d’artiglieria,
di fortificazioni, opere vecchie e nuove di cui prendeva diletto
grandissimo; e di tutta questa storia guerresca, piena di spiriti
virili e di nozioni artistiche, intratteneva i figliuoli, formava
intorno a loro un ambiente i cui effetti non dovevano più venir meno
nel loro ingegno.

Mentre poi il padre era fuori per le sue faccende, essi erano condotti
a passare lunghe ore nella casa della nonna materna, vecchia casa
simile ad un privato museo, dove le pareti erano tutte coperte,
letteralmente, di quadri, stampe e disegni di pregio; e v’erano
in copia oggetti d’arte e nobili libri, con cui il vecchio nonno,
appassionato raccoglitor di belle anticaglie, morto prima che i nipoti
nascessero, operava egli pure sul loro spirito, educandolo al culto
sagace e al gusto del passato.

Era compagno dei loro svaghi giovanili il cugino Ermanno Ferrero,
erudito figlio di erudito, divenuto poi storico autorevole e professore
d’archeologia all’Università di Torino: il quale, come più studioso,
giovava egli pure a istruire i cugini, comunicando a loro tante
memorie della famiglia, che con quelle della città e del Piemonte si
confondevano.

Dotti come lui sarebbero cresciuti i due Calandra, se non fossero nati
artisti, cioè dotati di un’intima vita poetica, che tanta educazione
storica potè foggiare e alimentare, non reprimere. Davide si avviò poi
più risolutamente alla scultura, nella quale oggi ha l’alta rinomanza
che tutti sanno. Edoardo invece, a somiglianza di Massimo D’Azeglio,
fu lungamente pittore prima che scrittore; onde il suo talento, non
raccolto in un’arte sola, non diede forse quel più che in trent’anni di
lavoro avrebbe potuto.

Impaziente di fare, di espandere le forze profonde dell’animo nella
rappresentazione comunicativa, egli abbandonò il liceo dove si sentiva
intristire, a diciassette anni, e andò a scuola di pittura: prima nello
studio del paesista Domenico Roscio, poi, nel 1872, all’Accademia
Albertina, donde passò quasi subito presso Enrico Gamba, eccellente
disegnatore e pittore a’ suoi giorni autorevolissimo, che gli fu
maestro ed amico, all’antica. Cominciò fin dal 1874 ad esporre, a
Torino, quadri di soggetto o di costume storico: _Le vedette valdesi,
Al rogo la strega!, Una vittima di Caterina de’ Medici, Distrazioni_;
tentativi dei quali più tardi non voleva più sentir parlare, ma nei
quali era già, se non l’annunzio dell’avvenire, la nota delle facoltà
fondamentali, coscienziosa ricerca del segno giusto e del carattere
storico, espressione di umanità perenne nelle forme episodiche. Facoltà
esordienti nel pittore allora, maturate poscia nello scrittore.

Prese intanto a viaggiare, a veder mondo. Nel 1874 percorse con
Giuseppe Ricci, suo caro compagno alla scuola del Gamba, le rive del
Reno. Fra il 1875 e il 1876 dimorò a Parigi e nei dintorni, sempre
con la tavolozza alle mani, facendo studi e quadretti di genere;
entrò nel giro degli amici, se non discepoli, del Couture; conobbe da
presso Bastien Lepage e l’altro giro di artisti che allora parevano
scapigliati. Colà, come da per tutto, fu osservatore degli uomini e
della vita, non tecnico chiuso negli esercizî dell’arte sua.

Alla pittura serbò fede ancora per qualche anno. Dopo avere eseguito
col fratello, sotto la direzione del padre, gli scavi della necropoli
longobardica di Testona presso Moncalieri, onde vennero in luce tante
eloquenti reliquie guerresche e domestiche, e dopo avere per la prima
volta preso la penna a illustrare le dotte scoperte compiute, Edoardo
si cimentò in composizioni di largo stile, visioni dell’età barbarica,
come _Rosmunda_ e _Ritorno d’Italia_, tele che andarono vendute
oltr’Alpe, e di cui non rimane fra noi se non la modesta immagine
in qualche cartolina postale. Interessante specialmente il _Ritorno
d’Italia_, dove si vede una torma di barbari, una di quelle torme a
cui pensava il Manzoni scrivendo il primo coro dell’_Adelchi_, la quale
scavalca alle soglie delle sue capanne selvagge, recando alle donne e
ai vecchi le belle prede fatte nelle terre di Roma. Dall’esame delle
antichità barbariche dissepolte così presso a Torino, l’artista era
stato tratto a vedere con gli occhi della mente figuratrice gli uomini
che quegli oggetti avevano portato nella valle del Po e le avventure
della lor vita di ferro e di rapina: poesia dell’archeologia.

Comincia a questo punto l’avviamento di Edoardo Calandra alla
letteratura, il suo passaggio dall’una all’altra arte, nella florida
maturità dell’ingegno. Esso procedette, come tutti i mutamenti
spirituali anche più impensati, da ragioni interiori e da ragioni
occasionali. Avendo avuto dell’uomo conoscenza attentissima, io
credo ch’egli abbandonasse a trent’anni la pittura non già per uno
scoraggiamento d’amore non corrisposto o per vaghezza di nuovi
tentativi con più vicine speranze, ma perchè la pittura non lo
soddisfaceva intimamente più. Con l’esperienza e con la riflessione,
il suo temperamento d’artista s’era in qualche modo spiritualizzato,
e sempre più poi era destinato a spiritualizzarsi: non sapeva più
fermarsi alle forme esterne, penetrava addentro in quel segreto delle
coscienze e degli animi che San Francesco stimava il più oscuro dei
misteri, e nelle sue visioni abbracciava troppe più cose che l’arte
figurativa non possa rappresentare. Il passato stesso, quel passato
che sin dall’infanzia lo circondava co’ suoi documenti evocatori, e
la cui passione ereditaria si faceva in lui dominante, non poteva più
apparirgli soltanto ne’ suoi aspetti pittoreschi e decorativi, come
uno scenario da teatro. In quello scenario egli vedeva anime vivere,
mutarsi costumi: vedeva sotto le fogge antiche l’intima umanità de’
suoi padri simile alla sua, continuata fino a lui giù per i secoli,
con disposizioni e sentimenti per i quali, oltre le mutevoli apparenze
della storia, egli si sentiva contemporaneo delle generazioni
antiche. E per descriverle, per rappresentarle quali il suo intuito le
vedeva, non gli bastava più il pennello: gli occorreva, gli si faceva
desiderare come necessaria l’universale potenza della parola, che
dipinge essa pure, ma inoltre narra e documenta e indaga e ragiona, e
tutto investe e tutto dice.

Occasione al mutamento fu la moda del medio evo. Si stava preparando a
Torino, per l’Esposizione nazionale del 1884, la costruzione del borgo
e del castello medioevale nel parco del Valentino, raccogliendo in una
riproduzione compendiosa gli elementi più belli e più caratteristici
che agli artisti innamorati offrissero i monumenti piemontesi, massime
i castelli del Canavese e della valle d’Aosta. Di quegli artisti
ricostruttori, con Vittorio Avondo e Giuseppe Giacosa, a non dir di
tanti altri, fu anche Edoardo. Era il tempo (che converrà studiar
meglio) del fervore letterario torinese, quando l’editore Francesco
Casanova parve signore di tutta la fresca letteratura italiana:
Giacosa, Praga, Boito, Verga, Fogazzaro. Nella libreria di piazza
Carignano si formava un centro di cultura, che ebbe il suo bel
meriggio e la sua importanza. In quella compagnia, nella dimestichezza
quotidiana con l’autore della _Partita a scacchi_ e del _Fratello
d’armi_, ma nudrito di cultura storica ben più solida che non fosse
quella del suo già celebre amico, Edoardo fu tratto alle prime prove
letterarie.

Non però senza trapasso. Fra il dipingere e lo scrivere fu ponte
il disegno per libri. Il Casanova gli fece illustrare, con vignette
appropriate, _Il filo_ del Giacosa e le _Novelle rusticane_ del Verga;
e gli fece scrivere e illustrare con disegni in penna in leggenda della
Bell’Alda, che fu il primo esperimento, seguito, in quello stesso anno
1884, dalle _Reliquie,_ prose e disegni. L’anno dopo, il nuovo lavoro
sembrò interrotto dal lungo viaggio che Edoardo con un suo cugino
omonimo compì nell’Oriente, visitando la Grecia, la Turchia, l’Egitto e
la Palestina. Egli ne tornò più maturo, non mutato. Nel 1886 pubblicò
ancora, della prima maniera, _I Lancia di Faliceto_, con disegni suoi
e con l’affettuosa prefazione del Giacosa. Poi non più. I _Pifferi di
montagna_, stampati nel 1887, furono da lui ripudiati. Da quell’anno
egli fu tutto nelle lettere, non ebbe più altro strumento al suo
ingegno che la penna. Materia ebbe duplice: la diretta esperienza della
vita quotidiana con le sue passioni, e i casi e costumi del passato:
elementi pronti a fondersi e compenetrarsi, nel racconto o nel dramma.

Furono materiali storici per lui non pure gli atti scritti e i libri,
ma ancora, e forse più, le testimonianze varie delle cose e degli
uomini, che con acuto studio sapeva interrogare: gli oggetti antichi
che amava e ricercava nelle botteghe dei venditori, nelle case dei
possessori; vecchie lettere trovate in famiglia o comunicategli da
amici, opuscoli curiosi, annuarî, almanacchi, giornali dimenticati,
manifesti rari: documenti minimi, che nell’archivio della sua memoria
formavano i viventi segni del passato, le note espressive del costume
e dell’ambiente di un’età. Curiosità storiche, particolarità erudite,
che agli studiosi servono a integrare la conoscenza dei tempi lontani,
erano per lui elementi di creazione, perchè egli era sempre e sopra
ogni cosa artista. Con tanta accuratissima preparazione di studî, egli
confessava (ricordo) che un’epoca, una parte qualunque nella storia
a cui pensasse, gli si atteggiava sùbito alla mente nella forma di
una «favola», novella o romanzo, con personaggi rappresentativi di
pronta e spontanea invenzione. Nel passato non cercava e non vedeva
la peregrinità elegante o fastosa, non le scene culminanti della
storia illustre, ma la vita ordinaria della gente, scossa e modificata
per vie quasi sempre lontane e indirette, talora inavvertite, dai
grandi casi politici: qual è la nostra. E s’intende che quel passato,
verso il quale lo traeva tanto amore, non poteva comprendere tutta
quanta l’esistenza storica dei padri, o un suo momento qualunque.
L’inclinazione dell’artista doveva pur fare spontanea opera di scelta.
La «maga distanza», come diceva Ippolito Nievo, sfuma i contorni delle
cose e le circonfonde di poesia; ma se troppo allontanata, troppo
àltera.

Fatte da prima le sue concessioni al medio evo di moda, che nell’opera
de’ suoi amici prossimi si sfumava e alterava soverchiamente, che
troppo facilmente si snaturava in leggende e fantasie leggiadre, ombre
senza corpo, Edoardo lasciò divertire gli altri e seguì l’impulso
sincero nell’animo. Come non si sognò mai di descrivere altro paese
che il suo, cioè Torino e le terre attigue verso Saluzzo e Cuneo, così
abbandonò, per dovere di sincerità, il medio evo, troppo lontano dalla
nostra veduta e dalla nostra coscienza, e da artista fece quello che
il Taine fece da storico: sentì nel Settecento, il gran secolo della
seminagione ideale, le origini del presente, e in quello contemplò la
vita dei vecchi piemontesi, tra l’epoca della Rivoluzione, della lunga
resistenza armata e dell’invasione francese, e la terribile reazione
del 1799, seguìta dalle nuove campagne napoleoniche e dall’annessione
all’Impero.

Quella è la storica «bufera» che, prima di dare il titolo al suo
maggior romanzo, dà materia a tutti i suoi racconti migliori, dalle
_Reliquie_ in poi. Non per nulla, narrando casi di quell’età o
avventure di campagna e di caccia, egli si ritira volentieri dietro la
persona d’altro raccontatore o dice così spesso di riferire cose udite
da questo o da quello. In realtà quel suo traboccante archivio mentale
non era ricco soltanto delle reliquie e delle testimonianze che dissi
più sopra, ma anche di ricordi autentici, perchè da ragazzo in su non
aveva dimenticato nulla: ricordi del vecchio servitore di casa Ferrero,
veterano del primo Napoleone; ricordi della Rivoluzione e dell’Impero,
venuti a lui, per via del padre, dalla nonna, maritata nel 1796 e
cognata di Carlo Giulio, ch’era stato uno dei triumviri del Governo
provvisorio del Piemonte; scene di guerra riferite da reduci delle
campagne italiane e francesi, fino a quella del 1870; e poi tradizioni
dei campagnuoli anziani, istintivi custodi di memorie secolari, e
aneddoti dei vecchi _braconniers_, uditi durante le lunghe giornate
di caccia nella boscosa pianura. A quel modo che le sue cartelle eran
piene di documenti, la sua fantasia era piena di rimembranze; onde le
sue narrazioni, che noi leggiamo come opera d’immaginazione e di arte,
erano per lui «storia», e si potrebbero documentare, pagina per pagina,
con testimonianze di fatti accaduti in epoche e condizioni varie, e da
lui adoprate a’ suoi fini.

In ciò il Calandra era, senza saperlo o volerlo, un fratello del Nievo.
Come le _Confessioni di un ottuagenario_, così i suoi racconti son
tutti composti di realtà conosciuta: perfino i fenomeni di telepatia,
di suggestione e di presentimento, a cui egli diede tanta importanza,
senz’essere punto spiritista; persino, in _Juliette_, lo strano fatale
esito del duello e lo stranissimo vivere della vedova con la salma del
marito, insomma i casi che parrebbero a prima vista inverosimili, tutti
hanno riscontro nei documenti da lui raccolti. Egli sapeva bene che
l’inverosimile non esiste nella realtà della vita, pregna di misteri,
o almeno oscura alla conoscenza nostra; e per ciò non si curò mai
dell’incredulità altrui, egli che del vero aveva scrupolosamente senso
e culto. E volentieri, scrivendo, si faceva egli stesso ascoltatore
della parola altrui, perchè in effetto tale era sempre stato. Se avesse
potuto, avrebbe sempre fatto come aveva finto di fare il Manzoni
nei _Promessi Sposi_, mostrando di trascrivere più che di scrivere,
dissimulando la sua elaborazione della materia.

Ma non sarebbe stato artista e scrittore, senza codesta elaborazione
fantastica. La quale può dissimularsi nel pieno racconto, non
nell’opera scenica. Ora, a’ suoi anni più ferventi, Edoardo non si
tenne pago a raccontare; e la famigliarità medesima con i poeti
di teatro lo indusse a tentare più volte il dramma. Ebbe amici e
interpreti affettuosi Virginia Marini, Eleonora Duse, Zacconi, Andò,
Reinach. Dalla Marini fu presentata con fortuna, circa vent’anni
sono, la sua prima commedia, _Ad oltranza_, cui seguirono _Leonessa_,
_Disciplina_, scritta in collaborazione con Sabatino Lopez, _La parola,
La Primavera del 1799, L’irreparabile_. Fra le quinte e nei camerini
degli attori era alquanto singolare, senza far torto a nessuno,
l’apparizione di quello scrittore gentiluomo, che non sapeva trattare
nè la _réclame_, nè gli affari, e la cui discrezione tra riguardosa e
altera, mal si affaceva ai costumi del teatro. Non era casa sua quella,
che prima lo sedusse, poi gli venne a noia; e le opere drammatiche, in
tutto affini per concezione o per materia a’ suoi racconti, rimasero
nella sua vita letteraria un episodio chiuso, una pagina voltata. Al
teatro pensò anche poi, con una specie di nostalgia invincibile, mentre
seguiva con occhio attento le venture de’ suoi amici commediografi;
un’altra commedia aveva anche composto negli ultimi tempi; ma di
necessità tornava al più tranquillo lavoro del libro. _La contessa
Irene_, meglio assai il _Vecchio Piemonte_ (1890) avean mostrato la
qualità, se non la misura, del suo ingegno. Son già in quei racconti,
in cui si specchia il paesaggio e l’anima della patria, gli elementi
tutti che annunziano l’opera più grande e più bella, venuta in luce nel
1899, _La bufera_.


II.

Nei nove anni d’intervallo tra l’uno e l’altro libro erasi anche
mutata la vita dell’uomo. Annoiato della vita esteriore e mondana,
precocemente inclinato alla solitudine, acquistò piena e intera
la dolcezza della pace domestica sposando la donna esemplare che
lo consolò con la perfetta comunione del sentire e del vivere fino
all’ultimo respiro, e avendone un figliuolo cui tocca ora consolar la
madre, rinnovellando le virtù paterne.

Dal cuore della vecchia Torino, dove era sempre vissuto, passò nel
1895 ad abitare col fratello Davide nella palazzina che questi seppe
far bella di sobria eleganza, a mezzo il corso Massimo d’Azeglio, di
fianco al parco del Valentino. Erano quelli allora luoghi di fresca
esplorazione, strade appena tracciate, plaghe incognite della città
nuova; e all’ospite inesperto Edoardo mandava, per farsi trovare,
una deliziosa mappa figurata, in cui si vedeva delineato il quartiere
sorgente dai deserti, e, di là dalla macchia tenebrosa del parco, il
Po (fiume) con pesci natanti, e di là dal Po le colline popolate di
selvaggi simili a Pelli-rosse. Che mutamento, in quindici o sedici
anni! A mano a mano che il nuovo quartiere si venne addensando e
popolando, e la città nuova cinse del suo vivace operare la casa degli
artisti fratelli, Edoardo si ritrasse in sempre più schiva solitudine,
abbandonando a poco a poco, quasi senz’avvedersene, le consuetudini
cittadine. Ancora per qualche anno frequentò il Circolo degli Artisti;
nel 1908 fu parte attiva del Comitato formatosi per costituire al
Gerbino un teatro d’arte, che non ebbe fortuna; si lasciò eleggere e
rieleggere membro del Consiglio direttivo del Museo Civico. Ma dopo che
cominciò a soffrire in salute, fu tutto nella famiglia e nel lavoro.

Era quella la casa dell’amicizia e del nobile lavoro: al piano
superiore Edoardo copriva lentamente della sua scrittura diritta e
spaziata i grandi fogli sciolti, senza posa gettati e rifatti: giù a
terreno, nel vasto studio eretto apposta, Davide modellava cavalli
eroici e figure monumentali: e l’uno pensava all’altro, con quella
virile tenerezza che dei due fratelli faceva un cuore e un intelletto
solo. Venuta l’estate, le due famigliuole passavano nella casa avita
di Murello, ignorato villaggio oltre Racconigi, in mezzo alla pacifica
pianura sparsa di foreste e di belle acque correnti, che Edoardo
dipinse con discrezione d’innamorato ne’ suoi racconti.

Quivi non altro svago che la lettura, la visita di qualche amico, e
la caccia, pretesto a lunghe camminate contemplative più che a stragi
d’animali innocenti, dei quali, massime degli uccelli, rimpiangeva con
anima francescana, non per bramosia di preda, lo scarseggiare sempre
più sensibile, la distruzione bestiale tollerata dalle leggi. Conosceva
gli animali, le piante e la campagna meglio di un naturalista e di un
coltivatore; ma, villeggiando su le sue terre date in affitto, non le
guardava con l’occhio del padrone, non _sentiva_ la proprietà della
terra che non coltivava. Mi parve sempre poco persuaso del diritto di
ricavarne la sua modesta agiatezza. Non gli sarebbe piaciuto essere
più ricco: dì guadagni suoi propri, per il suo lavoro, sì, non di
proprietà. Non gli vidi mai danaro nelle mani. Non ne teneva, non se ne
occupava, lasciava l’amministrazione ai suoi di famiglia: sapeva bene
che, col suo assoluto disinteresse, non avrebbe giovato alla casa. La
parsimonia non gli costava il minimo sacrificio: di tutto quello che a
lui non importava godeva soltanto per la famiglia. Si può capire, con
un temperamento simile, che razza di affari facesse con gli editori e
con le compagnie comiche.

La prima edizione della _Bufera_ andò esaurita, con poco aiuto di
pubblicità sui giornali, mentre Edoardo attendeva agli altri lavori
che via via, per un bisogno invitto, compose negli ultimi dieci anni:
_La falce_ (1902), _A guerra aperta_ (1906), _Juliette_ (1909): tutte
opere sorelle, che di quella maggiore ritengono e confermano i pregi.
Esse attestano una volta di più la verità della sentenza, che il meglio
della letteratura narrativa è dato in Italia dagli scrittori paesani,
pittori dei costumi tradizionali e provinciali. Il Calandra è tra
essi degli ottimi, dei più sinceri e originali: perchè ritraendo con
religioso amore di verità i caratteri e gli aspetti del caro paese
subalpino, mostra intera nelle sue visioni della vita la personalità
propria d’uomo superiormente probo e pensoso.

Fu detto che la _Bufera_, che tutti i lavori del Calandra, commedie
e racconti, mentre con sì delicata giustezza rendono l’immagine
riconoscibile della verità, contengono uno spirito di mistero che
inquieta il lettore e lo affascina, un senso indefinito di rapporti
oscuri, ma certi, fra la vita e la morte, un’idea non espressa
dell’universale coesione e continuità dell’essere, un intuito, più
che un concetto, di qualche cosa d’ulteriore che si cela nella realtà
definita. _La bufera_ sarebbe una narrazione mirabilmente chiara dei
turbamenti recati nella società piemontese dai casi occorsi fra il 1798
e il 1799, tra la partenza di Carlo Emanuele IV e l’invasione degli
Austro-Russi; ma non sarebbe un romanzo, non sarebbe il bellissimo
romanzo che è, senza quella invenzione della scomparsa del dottor
Ughes. Parte nascostamente una mattina, lasciando la sposa amatissima,
e non torna più. È andato lontano, è carcerato, è stato ucciso? Non
si sa, non se ne sa più nulla. Ma questo assente è sempre presente,
incombe su tutta l’azione, la domina, la precipita, protagonista
occulto, anima di dramma che fa tremare tutto il libro, nel suo candido
stile. Così il poeta, sincero sovra ogni altro, trovò espressioni reali
e oggettive a quel sentimento del mistero che lo governava, fuor d’ogni
affermazione religiosa o filosofica, e che è poesia appunto perchè è
sentimento, non dottrina.

Benedetto Croce, che non conobbe mai di persona il Calandra,
studiandone l’opera in un saggio critico ancor recente, scriveva fin
dalle prime linee: «A leggere i suoi romanzi e le sue novelle si prova
la confortevole impressione di aver da fare con un galantuomo». E
concludeva: «Anche il suo stile mi sembra da galantuomo». Impressione
giustissima, e direi infallibile, perchè il Calandra nello scrivere
traduceva l’essere, e non avrebbe potuto fare altrimenti. Gli
infingimenti letterari, anche i più usuali e veniali, gli ripugnavano
come menzogne, come quelle mediocri menzogne che sono. Bastava
conoscerlo per comprendere che tutto quanto in arte è fittizio,
retorico, ciarlatanesco, fatto senza sincerità di sentimento per
conseguire un certo effetto, era cosa estranea a lui, precisamente come
le male azioni sono estranee al pensiero dell’uomo onesto. Così basta
leggere le cose sue per comprendere la tempra e il tipo umano di chi le
scrisse.

Lasciate da gran tempo le eleganze mondane, egli viveva e vestiva
con semplicità quasi rustica. Ma chi lo avesse incontrato pur fra i
campi, così dimesso ma nitido, come il rustico bastone mondato dalle
sue stesse mani, non avrebbe mai potuto sbagliare, avrebbe subito
riconosciuto un «signore», di sangue, un essere fine e superiore,
al quale affetto e rispetto erano tributi immancabili. Il titolo di
cavaliere gli veniva da natura. Non lo descrivo, perchè le descrizioni
di persone non servono a nulla. Dico soltanto che la sciolta nobiltà
del portamento, la dignità gentile di tutta l’alta asciutta persona,
l’aria dolce e arguta del viso che fu bello sempre, anche nell’età
cadente e tormentata, il fare aperto e signorilmente corretto, davano
dell’uomo una impressione divenuta rarissima a questi nostri tempi, nei
quali l’umanità cosmopolita tende mirabilmente a incanagliarsi. Alla
sua mano ogni mano si stendeva sicura, perchè si vedeva ch’egli era
ignaro d’ogni viltà, puro e schietto come un eroe nella sua semplicità
tranquilla. Direi, se la parola _virtù_ può essere intesa ancora nel
suo alto senso antico, ch’egli era uomo di virtù, tanto più amabile e
onorevole quanto più aliena da qualsiasi considerazione del giudizio
altrui e quasi inconscia della sua nobiltà. Era insomma di quei
pochissimi uomini la cui amicizia, come si dice, riconcilia col genere
umano, e che ciascuno deve reputarsi fortunato d’avere incontrato nel
mondo.

Parlava con lo stesso spirito con cui scriveva, vario e piacevole,
ricco di aneddoti con circostanze ben precise, pieno di buon senso,
volentieri faceto, alla francese; e giudicava la gente e le cose da
conoscitore, con la serenità del saggio che ha viaggiato così nei tempi
come nei paesi lontani, e che da tanto vedere ha imparato un’indulgenza
non scettica ma rassegnata, una coscienza quasi stoica del male
inevitabile e dei contrasti anche acerbissimi per cui vivere è vivere,
non campare. Ma quando quella dignitosa coscienza e netta si ribellava
a un’iniquità troppo vergognosa, nessuno aveva più di lui recisa e
ferma l’espressione dello sdegno. Il disprezzo, scrisse il Foscolo,
è sentimento di cui rari, assai rari mortali sono veramente capaci.
Edoardo Calandra era uno di quelli.

Parrebbe che un autore di tanta sincerità, il quale non scriveva
se non di ciò che per elezione e per affetto avesse fatto suo, e
rifuggiva da qualsiasi studio di virtuosità tecnica e ostentazione
di eleganze formali; parrebbe che un tale scrittore, non descrittore,
a cui lo stile era diretta espressione del pensiero, non decorazione
sovrapposta, dovesse comporre con facilità e spontaneità, magari alla
buona, appagandosi di fare a modo suo. Invece no: qualunque opera,
anche piccola, gli costava inestimabili tormentose fatiche, prima per
incontentabilità d’artista, a cui difficilmente piaceva oggi quello che
aveva fatto ieri; e poi perchè questa terribile arte dello scrivere
italiano gli dava una soggezione immensa, la soggezione che chiunque
di noi, se ha coscienza, prova davanti alla carta bianca, con di più
la soggezione propria del piemontese mal sicuro della sua italianità
idiomatica: la preoccupazione linguistica, di cui l’esempio più
famoso è Vittorio Alfieri, di cui fu trattatista il Galeani Napione,
di cui soffrirono, qual più qual meno, tutti i moderni subalpini,
e il D’Azeglio e il Balbo e il De Amicis e l’Abba, timorosi del
proprio sapere e del proprio gusto e perciò indotti ad eccedere nello
studio della buona lingua e nel culto del vocabolario. Il Calandra,
a vederlo lavorare, dava l’immagine compiuta di tutti que’ suoi
predecessori conterranei che, paurosi d’esser poco italiani, finirono
col non essere più piemontesi: male anche questo, segnatamente negli
scrittori di cose famigliari e locali. Così avviene che la sua prosa
ho talvolta un che di stentato, risente il dizionario, lo sforzo di
rendere genuinamente caratteri e discorsi piemontesi, senza incorrere
in idiotismi piemontesi. Inutilmente qualche amico gli consigliava di
abbandonarsi un poco, di lasciare che i suoi racconti tenessero dal
paese dove si svolgono anche il colore idiomatico, quale si nota senza
biasimo, quando non trasmoda, nella Serao, nel Rovetta, nel Fogazzaro,
nel Verga. La sfiducia nel proprio senso d’italianità era in lui troppo
grande e continua. Si aggiunga lo scrupolo storico, per il quale, senza
punto proporsi di scrivere storia od anche romanzo storico, egli era
incapace di citare pur fuggevolmente una circostanza di fatto, una
data, un nome, un particolare genealogico o militare o topografico,
senza essersene bene accertato sui documenti, consultando con infinita
diligenza critica le fonti.

Non avrebbe mai perdonato a sè stesso un’inesattezza: gli sarebbe
parso di tradire insieme l’opera sua ed i lettori, ai quali, come a
qualunque persona, non avrebbe mai voluto dire cosa che non sapesse
vera. Scrupolo di galantuomo anche questo, non diverso dal vivere allo
scrivere, secondo un dovere che troppi trascurano, credendo sul serio
che siano lecite e naturali nell’arte le trasgressioni morali di cui
non si vorrebbe essere rimproverati nella pratica quotidiana.

Così, tra dubbi e scrupoli ed esigenze eccessive verso sè stesso,
Edoardo scriveva con infinita pena e si logorava fuor di misura. Non
se ne accorgono i lettori de’ suoi libri; se ne accorgevano bene gli
amici, che vedevano peggiorare con tante ostinate fatiche la salute
malferma dell’artista, già estremamente sensibile di complessione,
e negli ultimi tempi tormentato da’ disturbi della circolazione,
fatali annunziatori, che egli credeva segni di nevrastenia. Cercava
ristoro nello stare all’aria aperta e nel lavoro manuale, beneficio
inestimabile, privilegio che ogni studioso gli invidiava, perchè
non disforme dai soggetti del suo studio nè dai modi dell’arte sua.
Dal padre, credo, e da una pratica non mai abbandonata, teneva una
singolare abilità febbrile in restaurare mobili ed armi, anticaglie
di cui a poco a poco s’era adorna tutta la casa, dove non è forse
uno stipo, una cornice, un oggetto da tavola o da ornamento che non
abbia avuto il compimento della sua bellezza attuale dalle mani del
padrone. Sapeva scovare nelle botteghe degli antiquari e fin nelle case
dei rustici le cose trascurate che il suo lavoro rifaceva mirabili.
Pochi anni addietro vide per caso nella fucina di un fabbro un fascio
di piastre di ferro informi: le considerò, le comprò, ne cavò un
bellissimo arnese di guerra, l’armatura completa di un ufficiale
francese del Cinquecento. Trattava da maestro i legni e i metalli,
che trovava men duri della parola scritta. E aveva il buon gusto delle
cose materiali, come aveva il buon gusto morale, ancor più difficile a
trovarsi. Nelle sue stanze di Torino e di Murello è gran semplicità, ma
non vi è cosa che sia brutta o volgare.

Negli ultimi tempi le sofferenze sempre più frequenti lo avevano reso
un po’ selvatico: di rado usciva, nelle parti centrali della città
non andava quasi più. Tardi, troppo tardi, aveva avuto compiacenze
tanto più grandi quanto men cercate. _Juliette_ era piaciuta molto. In
tutta Italia, i critici più riputati si occupavano finalmente di lui,
tutti con lode, qualcuno con ammirazione profonda. Mentre attendeva
alla seconda edizione della _Bufera_, che non fu ristampa, ma risoluto
e delicato rifacimento dell’opera intera, fatica indicibile di un
anno e mezzo, senza una giornata di tregua, si confortava leggendo
gli articoli de’ suoi lodatori non richiesti nè conosciuti, e le
testimonianze del favore che le cose sue acquistavano in Francia, dove
si prendevano a tradurre e a pubblicare nelle riviste in voga. Non
aveva mai scritto nè detto parola per attirare l’attenzione altrui:
tanto più grati gli giungevano gli omaggi inattesi. Quando il Croce
spontaneamente gli scrisse chiedendogli i libri suoi che non trovava
a Napoli, Edoardo non glieli voleva mandare, per non mostrar di
aspettarsi alcun che dall’autorevole scrittore della _Critica_. Bisognò
sforzarlo, persuaderlo che il Croce avrebbe saputo ben comprendere
l’animo suo discretissimo, come seppe infatti. Era troppo riguardoso,
troppo signore, per questo nostro mondo della _réclame_, del _bluff_
e del _boum_, fiorenti industrie. Così era schivo di cariche e
uffici pubblici: l’idea di un impiego, per quanto nobile, gli era
assolutamente inaccettabile e nemica. Nemmeno la successione onorifica
di Vittorio Avondo nella direzione del Civico Museo di Torino avrebbe
accettata, nemmeno se avesse goduto di miglior salute. Tanto ritroso
senso d’indipendenza era il riscontro legittimo della sua discrezione
verso la gente e l’autorità, a cui nulla aveva mai chiesto.

Visse e lavorò libero, supremo bene, e non si lagnò della vita perchè
seppe accettarne virilmente i travagli, senza la ridicola pretesa
della felicità. Morì, per sua ventura, fuor di coscienza, dopo mezza
giornata di patimenti seguìti da un sonno senza risveglio. Otto giorni
prima la signora Calandra gli aveva fatto vedere il suo anello nuziale
che, perduta la saldatura, appariva spezzato. Edoardo, che pur non
era superstizioso, le disse: — Sono io che me ne vado... — Ci aveva
pensato sempre, massime negli ultimi tempi, senza alcun tremore.
I suoi sapevano bene ch’egli voleva essere seppellito in una umile
bara, nell’umile terra di Murello, fra le zolle e le piante che gli
pareva di conoscere ad una ad una, non da quando era nato, ma da tutta
l’antichità de’ suoi padri, ai quali spiritualmente si ricongiungeva.

Di quella terra fu il poeta, di quell’antichità l’evocatore. Il suo
amoroso tributo al vecchio Piemonte assume nell’arte valore nazionale,
e a lui assicura onorato luogo fra gli scrittori moderni. Nella
letteratura del nostro paese onusto di tanto passato, superstite di
molte vite, le forme miste di storia e d’invenzione, l’arte nudrita
di memorie, son cose naturali e necessarie. Da noi non è possibile
dimenticare, e vivere solo del presente. Scrittore veramente italiano
è chi, come Edoardo Calandra, illustra con l’arte sua la continuità
vitale dello spirito patrio, e lascia libri in cui a questa sola legge
obbedisce il franco e disinteressato ingegno.

  (_Nuova Antologia_, gennaio 1912).

                                                      DINO MANTOVANI.




LA STRANIERA

(Novella).


                                                        A UGO OJETTI.

Nella vera storia si legge che il contado di Auriate, o sia Auretite,
si estendeva per quella dilettosa parte del Piemonte che sta fra la
Stura, le Alpi e il Po.

Al tempo di Adalaida, famosissima contessa, duchessa, e marchesana
delle Alpi Cozie, era viceconte di Auriate _dominus_ Pagano, detto _lo
Casto_. Questo Pagano fu nobilissimo signore, _vir magnificus_: ed è
opinione per alcun maestro delle più antiche e strane leggende, che
somigliasse alcun poco a Guglielmo, duca di Normandia, quale è ritratto
nel _roman du Rou_:

    «_Guillaume Longue Épée fu de haute estature;_
    _Gros fu par les épaules, greille par la chainture:_
    _Jambes eut longues, droites, et large la forcheure;_
    _Oils droit et aperts eut, et douce regardeure:_
    _Mais à ses ennemis semble moult fière et dure:_
    _Bel nez et belle bouche, et belle parleure;_
    _Fort su comme jehans, et hardi sans mesure_».

Pagano lo Casto abitava la rocca di Malavasio, fornita di ogni
vettovaglia e di tutte cose; e fortissima per la qualità del sito
scosceso e dirupato sur un’acqua molto rubesta e strepitosa. Niuna
persona vi poteva andare se non per una strada a giravolte, tra aspri
pietroni e piantature spinose. Un’apertura, fatta a regola d’arte,
metteva in un grande spazio, intorniato e fortificato con una gagliarda
palificata. Nel diritto mezzo, situata sopra una prominenza circondata
da un fosso, era la torre, quadrata e massiccia, tutta di buon legno
indurato e stagionato, con rade e piccole finestre, e piccola porta,
alla quale si saliva per un ponticello volante. Dentro il recinto,
dalla parte che più guarda a mezzogiorno, stavano gli alloggi degli
uomini, la stalla dei cavalli e i magazzini.

A quel tempo, sulle vette ignude del monte Vesulo saltavano stambecchi
e camosci di stupenda velocità, e balzellavano quelle lepri che
d’inverno si cibano di neve; nelle foreste di pini, nelle selve di
castagni, nei boschi di querce vagavano orsi irsuti e zannuti cinghiali
di molto terribile ferocia; nelle praterie e nei campi del piano
scendevano le damme e i cavriuoli a pascolare.

Pagano andava a cacciare in compagnia dei suoi buoni uomini, con
bracchi e levrieri, e prendeva molta selvaggina. Di quando in quando,
per dare a sè ed ai suoi altri piaceri e diletti, si acconciava di
buone armadure e d’un bello e forte destriere e cavalcava in avventura
per lo contado. Cercava i ladroni di strada, stanava gli scherani
della selva Laubiera, e li metteva al taglio delle spade; o, come
fanno i paladini nel romanzo di Gérard de Nevers, ne infilava parecchi
a un tratto _dans le dur bois de sa lance, comme si c’étaient oiseaux
friands à embrocher_. Alcuna volta, per trarre bel tempo, s’imboscava
presso a qualche buona strada e correva addosso ai mercatanti, ai
pellegrini, ai monaci, agli ebrei e li depredava di forza o si faceva
pagare grosso pedaggio.

Ora avvenne una notte che, dormendo, gli parve in sogno di essere in un
nobile e ricco palagio, anzi in una sala tutta dipinta e storiata. A
un punto si faceva là dentro una grande oscurità, una grande contesa,
con colpi di spade e saettamento; poi subito uno splendore ch’era a
vedere come un regno celeste. Ed ecco per la sala venire una donzella,
che portava il viso velato, ma molto bella di suo corpo; addobbata
di drappi tutti chiari, lucenti e trasparenti; con una corona d’oro
e di pietre preziose che più valeva che tre ricche castella, e una
cintura e due guanti che valevano bene una ricca città. La donzella si
metteva con lui in soave parlamento d’amore; lo prendeva per la mano
e lo faceva sedere in una sedia reale e trionfale di bello avorio e di
puro cristallo; lo incoronava soavemente di quel suo reame. E la sala
si empiva di duchi, conti, marchesi, baroni, principi, varvassori e
varvassini, tutta gente di grande nominanza, che mostrava grandissima
allegrezza.

Venuto il mattino e aperti gli occhi, egli cominciò a guardare per la
camera; e, non vedendo che il suo letto, un deschetto e il forziere,
stette un poco crucciato e malinconioso. Poi si levò e si fece alla
finestretta. Essendo l’alba chiara e appressandosi la bella stagione e
il bel mese di maggio, gli uccelli andavano cantando per la verzura.
Allora, senz’altra dimoranza, uscì dalla camera di sopra, discese
nella stanza di sotto, dove erano le pertiche delle armadure e i
fornimenti da cavaliere. Mise la sua _broigne_, tutta coperta d’anelli
di ferro fortemente cuciti; si allacciò l’_helme_ a nasale, si cinse le
_branc_: e così armato e _fervestu_, uscì dalla stanza, andò giù per
la scaletta, e passò il ponticello. Quivi montò sul destriere forbito
ed acconciato; si fece dare il forte scudo e la lancia del pennoncello
verdazzurro. Ed essendo tutti gli uomini armati ed assembrati, volle
con sè Olivenco scudiero, Glabrione, Manfredone, Durcogno, Quosa e
Mascher. Lasciò nella rocca Grisagonnella e i famigliari di cui si
poteva ben fidare, raccomandando di fare buona guardia. E poi uscì
dalla apertura e prese la scesa.

E andando con la sua compagnia, arrivò a uno sbocco della valle, e lì
ritenne il destriere, guardando d’intorno, come fa chi non sa da che
parte gli convenga rivolgersi. E a quel punto gli si parò innanzi una
donna scapigliata, e molto rea di sua persona.

Il signore disse:

— _Masca_, in qual parte troverò io la buona ventura?

E la strega rispose:

— Tenete a mano destra, e troverete la più alta ventura del mondo.

Pagano di tali parole fu assai allegro, e le gettò un marabutino d’oro.

E appresso, volendo a man destra tenere alla speranza di Dio, si mise
coi suoi per un sentiero tortuoso, e in poco tempo pervenne in un
bel piano dove erano due vie: l’una moriva nei campi; l’altra, più
battuta e antica, aveva nome _strata magna communis_, e, passando
per la valle donde scende la Stura, riusciva in Provenza. In quel
piano era una bellissima fonte d’acqua chiara e un rio d’acqua viva,
e torno torno molta erba verde e grande. Sentendo un soave venticello
venire, Pagano dismontò, appoggiò sua lancia a un pioppo, e diede il
destriere a Olivenco perchè lo abbeverasse. Anche gli uomini posero giù
lor lanciotti e lor targhe, e si misero a sedere. E mentre ciascuno
stava cheto, udirono a un tratto un gran calpestìo. Per la qual cosa
rizzatisi in piedi, videro venire per la _strata magna_ un polverone
sollevato da gente in cammino; e il sole alto or sì or no feriva sopra
l’armi e facevale tutte lustrare e rispondere, sicchè era bella cosa a
vedere.

Pagano disse:

— Per la mia fè, io credo che quello sia Aymo di Roccabruna con sua
compagnia.

E Olivenco rispose:

— Certo, monsire, ma potrebbe medesimamente essere Magnifredo di
Roccasparviera, o Gosso di Montemale, o Morderio di Montefalcone...

Ed a tanto, ecco comparire un cavaliere armato di tutte armi e bene in
sulla persona che pareva una maestà. Ecco accanto a lui, seduta sopra
un ricco palafreno, una dama addobbata come se da lontane e strane
parti venisse: una benda, bianca come neve o più se più si potesse
dire, le avvolgeva il capo e il collo, per modo che non si vedeva niuna
cosa altro che gli occhi; la inviluppava un grande mantello di drappo,
che guardato da punti diversi, mostrava diversi colori, tutto cangiante
e iridescente come coda di superbo paone. E dopo loro venivano alcuni
famigliari; due muli carichi di roba: e una schiera di forse 20 pedoni
da battaglia, con piastroni di cuoio cotto e imbusti di canavaccio
armati di squame.

Come Pagano vide che costoro portavano i capelli tonduti sopra
la fronte e spioventi sopra le spalle, e tutti, chi più chi meno,
vestivano di corto, conobbe ch’erano di nazion meridionale. Cominciò
a pensare alla visione che gli era apparsa la notte, a ciò che dianzi
gli aveva profetizzato la _Masca_; e gli parvero due fatti alti e
maravigliosi, collegati misteriosamente tra di loro e tendenti a
grandissimo fine. Voleva pensare ancora, ma il momento stringeva,
perchè la comitiva passava oltre e andava a suo viaggio. Rimontò
a cavallo, e tutto solo si fece verso il cavaliere, e lo salutò
bonariamente:

— Sir cavaliere, io ti domando in cortesia che tu mi conti tuo nome e
di qual parte tu vieni.

Lo straniero a ciò non rispose; e Pagano tenne il non rispondere a
grande disdegno:

— Cavaliere, cavaliere, bene mi devi intendere, se tu non sei sordo.
Mentre puoi aver pace, non volere aver guerra. Io ti consiglio che tu
non ti metta in avventura di morte.

Il cavaliere non parlava niente e drittamente andava a sua via.

Allora il signore di Malavasio fece vista di essere molto crucciato, e
lo prese per il freno, dicendo:

— Ahi quanto tu sei villano cavaliere! Per mia buona fè, io saprò
tuo nome piacciati o non piaccia. Or qui fa mestieri di mostrare tua
oltramaravigliosa prodezza. Qui va ardire contro ardire, forza contro a
forza, ferro contro a ferro. Non sia più parole in fra noi: prendi del
campo, ch’io ti appello alla battaglia.

Allora il cavaliere, intendendo ciò che voleva dire, cominciò alquanto
a sorridere, e imbracciò lo scudo e impugnò la lancia.

E tantosto, l’uno si dilungò dall’altro quanto può gettare un arco;
poi abbassarono le lance e si vennero incontro. Nello scontrarsi si
diedero due grandissimi colpi, che le aste volarono in pezzi, e quasi
si spezzarono anche gli scudi; ma niente li mutò d’arcione e rimasero
più fermi che due torri bene fondate. Fornito il corso, misero mano ai
loro taglienti brandi. Lo straniero, ch’era di molta lena e finissimo
schermidore, cominciò a fare certi atti maestri, come chi a battaglia
dimostra suo sapere e valore, menando colpi a destra e a sinistra, e
mandritti e manrovesci: avvolgendo Pagano così che l’elmo gli risonava
in testa, l’armadura gli si affalsava indosso, le carni si facevano
livide, tinte di sangue e di sudor sanguigno.

La dama, vedendo quel combattimento tanto forte e tanto pericoloso, non
si sbigottì niente, e solo si ritrasse alquanto indietro. E stavano a
vedere anche gli uomini di Pagano e quei dello straniero.

Pagano veniva gridando:

— Cavaliere, guardati da me! Sire san Vittore e san Costanzo e san
Ponzio, soccorrete, soccorrete! Datemi aiuto e consiglio!

Avvenne che anche il cavaliere gridò:

— _Aur! aur!_

Al grido i suoi risposero:

— _Or a jaus! or a jaus!_

E quei di Malavasio:

— A lor! a lor! Corri accorri! Piglia, piglia!

E tutti trassero a ferire molto vigorosamente, e cominciò la mislea.
Ed erano sì grandi le strida, lo scontrare degli scudi, il romore dei
ferri, che se fosse tonato non si sarebbe udito; tanta era la polvere,
che faceva nell’aria come una nebbia, sì che appena l’uno con l’altro
si potevano vedere.

Accorgendosi Pagano che il cavaliere era dei migliori combattenti del
mondo, disse con fervente cuore:

— Gesù crocifisso aiutami! — Ciò detto, si ristrinse in sè, poi di
tutta sua forza e possa colpì l’avversario sopra l’elmo, sì che glielo
partì; e, passato il cappuccio, gli fece schizzare il sangue per il
naso e per la bocca, e percuotere il mento sull’arcione. Della quale
gran piaga nella testa il cavaliere di subito morì.

Allora il signore di Malavasio rivoltò il destriero e corse addosso
ai pedoni a guisa di fiero leone selvaggio fra bestie basse e minute.
Gridava come ruggendo: — Rendetevi prigioni! Arrendetevi per morti! — E
feriva e feriva: e quanti ne scontrava, tutti li veniva abbattendo.

Quelli prima si volsero alla loro difesa: poi gli diedero il passo: poi
cominciarono quanto potevano a fuggire.

Quando la straniera vide il compagno disteso sul cammino, non si
gettò a terra ad abbracciare quel corpo, facendo pianto e lamento
e immaginandosi di morire quivi con lui: ma stette quasi avesse il
cuore di diamante: e solo abbassò la testa e la tenne chinata come se
pensasse una grande sottil cosa.

Avendo Pagano in poco d’ora sbaragliata o morta quella gente di fuori
via, si pose a bocca un corno e lo suonò a ciò che la sua compagnia
venisse tutta a lui.

E allora gli uomini cominciarono a legare quelli che gettate giù l’armi
s’erano arresi; ripigliarono e rimenarono il cavallo dello straniero
e i muli da bagaglio che se n’andavano fuggendo. Il sire vincitore
fece sua la spada del vinto, la quale era tanto bella e tanto buona:
bella, perchè fornita ad argento nobilmente con alcune pietre di ricca
valuta; buona, perchè ben trinciante e di finissima tempera. Comandò
ai villani, accorsi da quei luoghi intorno, di seppellire a grande
onore quelli dell’una parte e dell’altra ch’erano stati tratti a fine.
Appresso venne alla dama e le parlò molto umanamente:

— Dama, non sono ora in tempo di vantarmi, ma la battaglia è stata
leale e di grande pregio. Molto mi sono sforzato d’averne l’onore, e
Iddio mi ha donato tanta grazia che voi siete rimasta nelle mie mani,
conquistata per virtù e forza d’arme. Io vi dico che le cose che si
fanno in avventura d’arme non si debbono tenere a onta nè a disonore.
Voi avete perduto un cavaliere, e n’avete guadagnato un altro. Sappiate
che io sarò sempre apparecchiato al vostro comando, pronto ad ogni
cenno, e di me potrete fare la vostra volontà. Ora io vi consiglierei
che al presente voi ve ne veniste con me... Dama, mai non fui
desideroso di tanta cosa, quanto di questa...

Ella stava come donna uscita di sè, cioè fuori d’ogni pensiero e d’ogni
intendimento. E quando Pagano si mosse e andò innanzi secondo signore,
mutamente si accompagnò con lui.

Gli uomini, chi sano e allegro per la vittoria avuta, chi doglioso
delle percosse ricevute e per l’affanno durato, presero in mezzo i
prigionieri: e tutti insieme affrettarono lor ritornata.


Tornati che furono dentro la rocca, il signore dismontò, aiutò la
straniera a dismontare, e la fece condurre e riserrare nella camera
della torre, comandando che fosse bene servita di ciò che le faceva
mestieri, e ben onorata. Appresso mandò i cavalli e i muli alla stalla;
e, poichè s’era fatta preda, si accinse a dividerla secondo il modo,
l’usanza e l’ordine di Malavasio.

In quel punto, Grisagonnella, guardatore della rocca, ch’era
ragionevole e risparmiante, venne verso di lui e disse:

— Monsire, di quello che oggi vi è intervenuto, io sono gioioso, imperò
che voi potete dire d’aver avuto buona ventura. Ma perchè salvare la
vita ai vinti? Or che faremo noi di coteste bocche inutili?

Pagano rispose:

— Vassal, vassallo, non darti impaccio di cosa che non ti tocca.

E s’accostò ai prigionieri.

Uno di costoro, che aveva lo cuore ardito e la fronte giuliva, si fece
avanti, e disse in suo linguaggio come si chiamasse Barthoumiou, e
fosse di Marsiglia, tenuto un finissimo cantatore e sonatore, e facesse
di belle canzoni e il suono e il motto; e cominciò una canzonetta
quanto seppe il meglio:

    «_Aissi co’l sers que cant a fait lone cors_
      _Torna murir als crit del chussadors_».

Ma Pagano, che per aver fatto tanto d’arme in quel giorno era scaldato
d’allegrezza e uscito fuori d’ogni misericordia, li fece spogliar tutti
nudi, salvo che di mutande; e alzata la spada del cavaliere ucciso, la
quale teneva tuttavia in mano, voltò le punta dove mancavano sette pali
della palificata, precipitati per corrosion del terreno. E tantosto
Mascher e Durcogno presero Barthoumiou e lo menarono in quella parte.

Il cantatore, come si vide in proda della grande ripa, stette con
peritosa faccia e temenza grandissima; poi cominciò a divincolarsi ed
a scontorcersi, a dare tratte per rompere i suoi legami, facendo gran
lamento di sua vita. Durcogno diceva a Mascher:

— Buttalo di sotto, buttalo di sotto.

E Mascher rispondeva:

— Anzi buttalo tu.

E Pagano, fiero e crudele, dette a Barthoumiou un pesante colpo della
spada in piattone sopra la testa, che lo stordì e lo mandò in profondo.

I buoni uomini tirarono avanti un altro, così trangosciato e fuori
di sè, che in niuna maniera poteva parlare. E Pagano lo piattonò e
precipitò.

Il terzo, ch’era ginocchioni a gran divozione, si levò in piedi, alzò
gli occhi al cielo e si lasciò cadere.

Allora tutti gli altri prigionieri, riconosciuta la diritta via
di ritornare a Colui che li aveva fatti venire in questo mondo,
s’inabissarono insieme e uscirono di tanta langura.

Appresso Pagano entrò nella torre, si disarmò di tutte sue arme, salvo
che di spada; ed essendo i suoi raunati, disse:

— Le tavole sono messe, se a voi diletta, possiamo mangiare.

Gli uomini risposero ch’erano apparecchiati.

Portata e data l’acqua alle mani, si posero a sedere: _dominus_ Pagano
in capo di tavola, e ciascuno per sè in suo luogo ordinato.

Leggesi di monsignor lo re Filippo I di Francia ch’era rottamente
goloso _des hures de sanglier farcies de grives_: il visconte di
Auriate voleva le teste di cinghiale piuttosto ripiene di storni
amaretti e gustosi. Quando la vivanda prediletta venne, egli che nel
pensiero impedito si mostrava svogliato, prese a mangiare fortemente,
e a bere di molto possente e buono vino senza nulla acqua. A poco alla
volta la potenza del vino gli montò nella testa, e cominciò a favellare
assai assai:

— Sappiate che io ero fermo di non prendere mai donna, perchè ho sempre
tenuta vita cavalleresca e continuamente mi sono dilettato in cani ed
in cavalli, e d’essere molto molto libero di mia persona. Ma già da
qualche tempo io veggo che d’ogni vera allegrezza questa mia vita è
priva. E voglio mutare. Per la qual cosa intendo che mia moglie sia la
dama vedova, la quale è ora in nostra balìa. Costei è colei che fa per
me. Io non so di che paese si sia, nè di quale gente: ma mi pare di
gran parentado. E anche mi pare che mai non formò natura tanto bella
femmina quanto è questa. Per la mia fè ch’io la lascerò pensare ai casi
suoi tutta questa semmana, e appresso le dirò: — Berta, Adila, Immilla.
Ageltruda o come diavol ti chiami, mi vuoi tu per marito? — A cui
ella risponderà saviamente: — Signor mio, sì. — E adunque vi saranno
le nozze grandissime e belle; e al tempo debito ella metterà alla
luce un figliuolo maschio, che sarà il mio erede, il vostro natural
signore dopo di me: e di bellezza, di prodezza, di cortesia passerà
tutti i signori del mondo... Ma innanzi il dì della sua nascita, noi
ci partiremo di qui, e passeremo foreste e monti, terre ed acque, e ci
ritroveremo nel paese di mia dama. E secondo che m’è venuto in visione,
io riceverò la signoria di quel paese; che appresso manterrò in pace e
con amore e giustizia. E voi che farete? Giurate voi di ubbidire sempre
ai miei comandamenti? Se mia mogliera fosse lignaggio di re, come
ventura può portare, e m’ìncoronasse della metà o di tutto un reame,
starete voi a ubbidienza di mia corona?

E Olivenco rispose:

— Monsire, voi siete padre, signore e governatore di me e di tutta
vostra gente: imperò fate e comandate tutto quello che a voi piace.
Con voi e per voi trarremo a fine la più alta impresa che mai fosse in
questa contrada.

E perchè il mangiare e il bere tengono l’uomo allegro, i valenti
uomini parlavano e ridevano molto fortemente; e quando ebbero fatto una
moltitudine di parole e le maggiori risa del mondo, presero commiato e
andarono ai loro luoghi ciascuno.

Non rimase se non Pagano; il quale, come li vide andati via, spense
tutti i lumi ch’erano nella stanza, salvo che un torchietto, e quello
prese per salire in camera. Ma saliti quattro o cinque scalini, ritornò
in sua memoria; e, come colui ch’era costumato, discreto e riguardoso,
pensò un poco dicendo fra sè: — Nella mia camera sta serrata la mia
dama novella. Che le dirò presentandomi a lei? Le dirò soavemente:
— Deh voi siate la benvenuta... Cristo, nostro Sire, vi doni la
buona notte... In cortesia io vi domando che voi mi perdoniate il
disagio e la gran manchevolezza di questo mio luogo. — E dette queste
parole, che mi risponderà? Che interverrà? Delle due cose sarà l’una:
o mi discaccerà, o mi lascerà dimorare. E dimorando, come mi dovrò
portare? Io non posso richiederla d’amore perchè mi pare molto onesta
donna, perchè devo tenere suo onore in piè, perchè non la voglio in
disordinato modo. Come mi dovrò portare? Certo che se io fossi stato
più grande amatore di dame e damigelle, ora non sarei così impacciato e
impedimentito. Sire Amore, sire Amore, donami aiuto e consiglio!

Non sapendo che si dovesse fare, spense il torchietto, poi
chetissimamente rammontò a guisa di letto la paglia fresca sparsa sul
pavimento, e si pose adagiato.

Ma ebbe una molto pessima notte.


Passata che fu la notte e venuta l’alba, Pagano si levò, chiamò due
servi e comandò loro che discendessero giù nella valle, e cercassero e
prendessero una donna giovane e piacente, che potesse fare da cameriera
alla dama. Innanzi mezzogiorno i due servi tornarono alla rocca,
menando una guardiana di pecore, la quale aveva nome Gisla. Questa
Gisla fortemente strideva, pregando il nostro Signore che la dovesse
aiutare.

Pagano la disciolse e l’andò confortando, fin che fu presta a fare ciò
che lui comandava. E allora le diede un paniere di delicate vivande
confortative e ristorative, buon confetto _aquicelus_ fatto con
pinocchi e miele, un’anguistara di finissimo vino vermiglio; appresso
l’accompagnò pianettamente all’uscio della camera dov’era la straniera.

La giovane rimase nella camera fino ad ora di vespro: e, quando venne
fuori, il signore le domandò come stava la dama. Gisla rispose che la
dama stava come persona muta, ma non turbata nè smarrita.

Pagano notò le parole, fu molto allegro e le donò largamente.

Venuto l’altro giorno bello e chiaro, il signore stava provando di
molte saette nuove. Olivenco gli era dalla destra parte e Grisagonnella
dalla sinistra. Glabrione, ancora ferito nel braccio manco d’un colpo
di scure d’arme, batteva la febbre seduto in terra, con la schiena
appoggiata alla palificata.

Or mentre Pagano tendeva l’arco e vi poneva suso una saetta, eccoti
apparire la straniera sulla soglia della gran torre. Non portava più
la bianca benda, e il suo viso pareva una rosa novella; e i capelli,
più biondi che l’oro, le andavan per le spalle a grande abbondanza.
Non portava più il paoneggiante mantello, ma un bel bliaud di drappo
cilestrino, a pieghe fitte e minute sul busto, lunghe e diritte dalla
cintola in giù.

Stata che fu un poco, discese il ponticello e si avanzò.

Pagano e i suoi compagni, vedendola tanto leggiadra quanto dire si
potesse, rimasero tutti istupefatti; poi la inchinarono e salutarono,
come fare dovevano.

Ella rese graziosamente il saluto e passò oltre. Come fu davanti a
Glabrione, il fece rizzare in piè, gli sfasciò il braccio dolorante, e
vide ch’era piaga da guarire. Lo rifasciò morbidamente, mostrando molta
conoscenza in su le fasciature.

Appresso si diede diporto per quel recinto, fin che il giorno venne
mancando: allora rientrò nella torre.

Ma riapparve la seguente mattina, e prese a curare Glabrione di sua
ferita, e a medicare tutti quelli che avevano magagne o sostenevano
dolori. Così si vide che non era dama al mondo che sapesse più di
medicine e conoscesse meglio le erbe medicinali.

Non parlava niente: ma ogni sera, essendo nella camera presso la
finestra, cominciava a cantare una dolce dolce melodia, ch’era
maraviglia a udire. Gli uomini, udendo il canto, si raccoglievano
a piè della torre, e ciascuno stava cheto e in grande diletto. Ma
Grisagonnella diceva a loro:

— A dolcezza di canto si perdono le vertudi.

Il signore, tutto soletto, andava per il recinto in qua e in là; e
spesso se ne veniva a un parapetto, lo quale era a capo l’apertura, e
riguardando la valle tenebrosa, dove non si vedeva niente, gli pareva
di udire romore d’armi e nitrire di cavalli, come se schiere grosse e
cavalieri di gran paraggio, venissero contro di lui, per prendere alta
vendetta.

Nel seguente tempo, tanto Pagano continuò a mirare e rimirare la dama
del fresco colore e ad immaginare quelle sue grandi bellezze, che uscì
d’ogni altro pensiero. Il giorno poco mangiava e meno beveva, la notte
non dormiva; e, non trovando requie nè posa, sempre sospirava; — Ahi
bella, bella, bella dama, quanto per voi è tristo il mio cuore! — Il
capo e la barba si faceva più bellamente apparecchiare che non era
avanti; vestiva d’una roba vermiglia, lavorata ad aquile ispessissime
d’oro, e a vederlo da lontano faceva gran comparita, ma da vicino era
giallo, magro e di malvagio sembiante. Parlava chiuso, perchè diventato
cruccioso ed arrogante per amore. Niun diletto gli pareva niente,
e non voleva più prendere arme; ma alcuna volta andava fuori quasi
per disperamento, e stava come uno lasso e tralunato, e il cavallo
lo portava a suo modo e dove voleva; o vero scorrazzava ora innanzi
ora indietro, di luogo in luogo, devastando i campi, calpestando i
seminati, gettando a terra i lavoratori, cacciando e predando gli
animali domestici come fossero fiere. E niuna persona osava per nulla
maniera pararsi davanti al forsennato signore.

Di ciò grande mormorio n’era per la rocca e per quei contorni.
Grisagonnella ch’era savio per natura e stava molto in sugli auguri:
cioè quando il fuoco fa rombo, quando gli uccelli s’azzuffano, quando
l’uomo vede il corvo nell’aria o trova la donnola nella via, diceva
alla gente:

— Più vale malizia che forza. E io tengo per fermo che se il
nostro sire ha la testa piena di tafani, questo avviene per opera
d’incantamento. La dama di lontano paese, la quale dimora tra noi,
è la più saputa dama del mondo, e molto sa delle sette arti della
negromanzia. E sì vi dico che i nemici capitali dei negromanti sono i
romiti. Rivolgetevi al Romito giovane, egli vi donerà consiglio santo e
giusto.


Questo Romito era giovane forse di ventotto anni: d’alto sembiante
bronzino, gagliardo e bene intagliato di sue membra. Andava con il capo
scoperto, e scalzo, e portava grossa schiavina: ma pareva veramente
cavaliere di scudo, travestito di sua persona.

Abitava una grotticella, formata dalla natura nel monte un poco più in
su di Malavasio: una grotticella dove si poteva a fatica distendere; e
mangiava radici d’erbe e pomi salvatici, e beveva acqua di fontana. Non
stava giorno e notte in orazione davanti alla croce, alla clessidra e
al teschio, come i mortificatissimi anacoreti della Tebaide, ma sempre
e d’ogni tempo, come che piovesse o nevicasse, andava vagando per la
campagna con passo di pellegrin frettoloso. A volte, quando ventura
lo portava, saliva alla rocca, ed era usato sedere sur un poco di
pratello, vicino all’apertura. I buoni uomini, per volontà di sapere
alcuna novella, si ponevano in cerchio. Ed egli, parte in suo, parte in
loro linguaggio, parlava dell’alto mare, del gran diserto, di lioni,
serpenti, cristiani e saracini. Contava della città di Gerusalem,
dov’è perdonanza di colpa e di pena: come gl’infedeli vituperassero i
fedeli, e li costringessero a fare brutture sulla pietra dove Cristo fu
posato, unto con l’unguento prezioso e involto nel panno oglientissimo;
come Foulques le Noir, comte d’Anjou, avesse pigliato a gabbo quegli
oltraggiosi spandendo sulla pietra una vescica di vino bianco del
migliore del mondo; come le comte de Blois, mentre inginocchiato
baciava tre volte il Santo Sepolcro, avesse saputo distaccare coi denti
una scheggia, che ora portava chiusa nel pomo della spada a guisa d’una
molto santa reliquia.

E i valenti uomini fremevano e si adiravano; volevano armarsi ciascuno
di gran vantaggio, e passare oltremare, e fare dei cani saracini una
maravigliosa uccisione.

Perseverando adunque Pagano e nello amore e nelle sue matte bestialità,
parve tempo ai villici di ripararsi da tanto dannaggio. Si fece
l’adunanza di notte. Si formò la quistione. Molte parole v’ebbe.
Finalmente si deputarono Bruno bifolco e Girelmo bergiere, che
andassero molto cautelosamente al Romito. E come fossero davanti a lui,
lo pregassero di parlare al signore di Malavasio, perchè signoreggiasse
più a cheto, cioè senza storpiare la gente, senza guastare e rompere le
cose altrui.

Bruno e Girelmo andarono; e, giunti dove trovarono il Romito, dissero
come ai villici piaceva che dicessero.

Il Romito rispose che farebbe molto volentieri; e preso suo grosso
bordone si mise in cammino.


Pagano, poi che aveva desinato, stava sotto un pino ch’era di contro
alla torre.

Olivenco, Manfredone, Quosa e Durcogno, riposavano sopra l’erba, più
qua e più là dove non poteva il sole.

Il Romito entrò nel recinto; e, quando fu al cospetto del sire, lo
salutò cortesemente. Ma Pagano, che con l’animo era altrove, non degnò
di rendergli suo saluto. Allora il Romito, molto uomo superbo che
niente ridottava, cominciò a rampognarlo in favella latina:

— _Si quis agricolarum, caeterorumve pauperum praedaverit ovem, aut
bovem, aut asinum, aut vaccam, aut capraeum, aut hircum, aut porcos,
nisi per propriam culpam; si emendare per omnia neglexerit, anathema
sit._

Dette che il Romito ebbe queste parole, Pagano lo mirò in traverso e
molto odiosamente, e disse:

— Servo di Dio, servo di Dio, la coscienza mi riprende di farti onta
e villania. Per la qual cosa io ti dono questo consiglio: esci di mia
rocca e torna a tua via.

Disse il Romito:

— Mi farai tu forza?

Rispose Pagano:

— Certo se tu stai in mia forza! Che poca ira che tu mi facci, io non
ti guarderò nè per schiavina nè per bordone; anzi te lo aggrapperò
di mano il tuo bordone: e tanto l’adopererò sulle tue spalle, che
soperchio ti parrà. Va a tua via, va a tua via.

E il Romito latinamente:

— _Si quis sacerdotem, aut diaconum, vel ullum quemlibet clericum
arma non ferentem, quod est scutum, gladium, loricam, galeam; sed
simpliciter ambulantem, aut in domo manentem invaserit, vel coeperit,
vel percusserit._

Pagano favellò furiosamente, e disse:

— Ahi mal romito dello mala ventura, che mala perdita ti doni Iddio!
Come hai tu ardire di parlar così a migliore che tu non sei? Donde
vieni? Chi furono gli antichi tuoi?

E il Romito:

— Sappi ch’io sono stato nobile e potente signore, ch’io ebbi la
maestria e lo ardire del combattere. Sappi ch’io m’innamorai senza
misura d’una donzella, che non credo nascesse in questo mondo ma fosse
formata nel paradiso. Ella non si curava del mio amore, non per odio
nè per mala volontà, ma perchè ancora non sentiva niente d’amore. Io
tutto mi consumavo per lei; e non potendo più soffrire mio dolore, mi
convenne lasciare tutti i miei beni, ogni cavalleria e ogni diletto, e
andare tapinando per mare e per terra, per Cristianità e per Saracinia;
e poi divenire romito in luogo foresto.

Pagano non ascoltava niente, guardava il Romito minuto minuto, pensando
una sua gran crudeltà. Poco gli pareva impenderlo, decollarlo, arderlo
o smembrarlo: avrebbe voluto fargli un pertugio nell’ombelico, cavar
fuori il capo di un budello, legar quel capo a un palo; e appresso
frustare duramente il buon uomo, sì che corresse in tondo, fin che
tutto il budellame gli si fosse estirpato dal corpo.

Il Romito così proseguiva:

— Secondo ch’io conosco, sei innamorato anche tu. E l’uomo innamorato
s’egli era allegro, diventa tristo; s’egli era savio diventa folle.
Iddio creò l’uomo a immagine sua; l’uomo ma non la donna. Ed è per
via della donna che la prevaricazione è venuta sulla terra. Eva donò
ad Adamo tal mangiare che sempre mai fu tristo. Non t’impacciare
d’amore, Pagano, non t’impacciare d’amore! Pensa a ragionevolmente
signoreggiare: che lo signore sicuro fa sua gente sicura; lo signore
liberale fa sua gente leale, lo signore non crudele fa sua gente
fedele...

Mentre il saggio parlava in tale maniera, Pagano non udiva niente, era
tutto in estasi e mirava molto molto verso la torre.

Il Romito, accorgendosi di tale mirare, si voltò indietro, vide venire
avanti una dama, e troppo bene raffigurò la chiarità del viso, le
mani bellissime, il corpo adorno di quella che cotanto l’aveva fatto
languire. Non parvegli vero, credette sognare, si sentì fallire gli
spiriti; poi le andò incontro gridando:

— Richilde! Richilde!

Questa voce mise gran maraviglia nell’animo di Richilde _aux beaux
cheveux_; che fiso guardato colui il quale pellegrin forestiere
credeva, e già già riconoscendolo, disse:

— Raymond? Raymond?

E incontanente cominciò nella sua natural lingua a raccontare di sè:
come dai prieghi di quei del suo lignaggio costretta di prender marito,
avesse preso missire Raoul del Pojet, _gentils castellans de Proensa_,
ma senza mettere suo cuore in amore; come essendo passata di qua dai
monti con Raoul per visitare la badia del Villar san Costanzo, di gran
nomea, disfatta già tempo dal saracini e rifatta con grandissima spesa
della contessa Adalaida, si fossero scontrati in un signore selvaggio
e predace, che aveva disfidato a morte Raoul, sbarattati i suoi, e
lei presa e imprigionata dentro quella rocca, non però ch’ella avesse
mancanza di nulla cosa.

Allora Ramondo ciò che avvenuto gli era dal dì della sua partita
infino a quel punto narrò, e intanto si batteva lo volto con le mani,
si travagliava di parole, diceva molte cose di suo amore: ora tutto
insuperbito, giurando che se il passato era stato tempo di gran dolore,
voleva che il presente fosse tempo di vendetta e di crudeltà; ora
raumiliandosi verso di lei e rimettendosi nella sua mercè.

Richelda pensava e nel pensamento apprendeva il vero: come Ramondo
era stato il più fedele cavaliere del mondo, e l’aveva amata non di
folle ma di leale amore; e cominciò a pentirsi di quella sua gran
freddezza, a sospirare, a lagrimare per compassione dei passati
infortuni. Conchiudendo, disse in suo cuore: — Questi veramente sarà il
mio signore. — E senza aver riguardo a quelli che quivi erano, con le
braccia aperte corse al collo del Romito e lo baciò in segno di pace e
di buono amore.

E così stando Ramondo e Richelda in tale parlamento, Pagano erane molto
gramo e geloso, e veniva dicendo:

— Oh come, che parole son queste che dite voi? Che parole son queste?

E finalmente, perduto il lume degli occhi, tirò fuori un appuntato
coltello per ferire quei due. Ma la schiavina non toglieva però lo
ardire del cuore nè la forza del braccio al Romito; il quale, impugnato
il bordone, menò a Pagano un colpo nella mano diritta, sì che il
coltello andò in piana terra.

In su quel punto, Pagano molto odiava Ramondo, e Ramondo odiava lui,
e volentieri l’uno avrebbe tratto a fine l’altro. Ma gli uomini che
riposavano sopra l’erba, si levarono, entrarono in mezzo ai due mortali
nemici e li fecero dispartire.

Pagano, infiammato dall’ira, era la più violenta cosa del mondo a
vedere: diceva tutto quello che a bocca gli veniva; tutto quello che
a mano gli veniva stracciava e squarciava. Ogni poco metteva un grande
grido: — L’arme! l’arme! — e menava tale tempesta, che i suoi in nulla
guisa non lo potevano tenere. E il sangue tanto ribollì e si ragunò
dentro al celabro, ch’egli cacciò un mugghio come un toro, e tantosto
cadde come fosse al tutto morto.

Allora Manfredone e Durcogno lo presero l’uno per le spalle e
l’altro per i piedi, lo portarono dentro la torre, e lo posarono sul
letticello, che s’era fatto fare nella stanza di sotto.

Or mentre tutti quelli della rocca si assembravano dov’era il loro
signor tramortito, e non sapevano nè che si dire nè che si fare:
Grisagonella e Olivenco si trassero a consiglio.

Grisagonella disse:

— Io temo forte l’augurio. Credo che il prendere vengianza del
Romito porterebbe mala ventura a tutti noi. Adunque bisogna che
noi gli perdoniamo ogni maltalento. Per liberare nostro sire dallo
incantamento, che dobbiamo fare altro se non rendere alla dama il
palafreno, sì ch’ella vada a suo viaggio?

E definita tale questione, Olivenco andonne alla stalla e menò fuori il
palafreno sellato e cinghiato.

Ramondo non fu tardo, staffa non richiese, ma di colpo saltò su
dicendo: — Ah mia bella e buona e forte ventura! — E tantosto presa
Richelda per il braccio e per la vita, se la pose davanti a l’arcione e
se la portò via con grande allegrezza e con ebbrezza d’amore.

Pagano stette senza alcun sentimento di vita più e più giorni: era
nel viso come uomo trapassato, e non si trovava persona che rimedio
gli potesse dare. Dopo cominciò a guardare per la stanza: vedeva
sì com’egli giaceva in un letto, ma non sapeva dove; vedeva sì il
guardatore della rocca, lo scudiere e tutti gli altri, ma non li
conosceva, e si rammaricava in sè medesimo, pensando: — Come sono io
qui? Chi sono io? Chi sono costoro?

Però un giorno tornò repentemente in sua memoria, si risovvenne della
straniera, e voltandosi verso Grisagonnella, gli domandò dove fosse
andata.

Grisagonnella trinciò l’aria con la mano distesa per significare che se
n’era andata in lontane provincie.

E Pagano cominciò a piangere amaramente nel suo cuore, dicendo fra sè:
— Oh bella, bella, bella e malvagia mia dama, come t’ho io perduta?
Perchè mi ti hanno tolta? Ecco che al presente tu dimori col tuo amante
in grande libertà ed esultanza! Ecco che avete a compimento ogni vostra
gioia; e io sono rimasto in pianto e in dolore; e per poterti riavere
darei per patto il contado di Auretite, il contado di Bredulo e il più
gran reame del mondo.

E rinvenendo sempre più in sè, gli pareva di essere molto travisato
e contraffatto di sua persona, d’avere vituperosamente perduta sua
signoria. Ed essendogli venuto meno tutto l’orgoglio, spesso abbassava
la testa e un gran pezzo la teneva chinata, ragionando così: — Io sono
ancora vivo, perchè è determinata l’ora che l’uomo deve morire. Ma il
mio amore è morto, e io sono sì come fosse morto tutto il mondo.

Ora avvenne una volta tra l’altre ch’egli si drizzò in piedi e disse
con oltremirabile senno:

— Amici miei, non vi maravigliate s’io mi tribolo e fo lamento. Mentre
l’uomo è in gioventù ed in sanità, non si cura di cosa che addivenire
gli possa; e in ciò falla molto, imperò che tutto muta nel mondo. Ohi
mondo errante ed uomini incauti! Incauto sono stato anch’io, e tutto
rovina dintorno e sopra me. E questa è la cagione per cui non conosco
altra miglior via, che di servire a Dio. Adunque vi perdono; e prego
voi che perdoniate a me ogni offesa che io contro voi avessi fatta.

E sì tosto domandò sue armi, che si voleva armare e andar via.

I suoi fedeli stavano tutti coi loro cappucci in su gli occhi, e uno si
fece innanzi e disse:

— E come, monsire, andrete a vostro cammino così soletto? Come
prenderete voi battaglia che siete quasi come uomo balordo?

Ed egli rispose loro aspramente, dicendo:

— Grisagonnella, Olivenco e voi tutti, io vi comando sotto pena
del cuore e dell’avere, che voi non siate tanto arditi di farmi
impedimento. L’arme! l’arme! scudiero; e sì ti dico che questo sarà
l’ultimo servigio che il tuo signore ti debba mai domandare.

Dopo, di altero ed aspro si fece umile e dolce; si armò e montò a
cavallo. Il tempo s’era turbato: ecco baleni e fulgori e tuoni, poi una
gragnuola venne che pareva globetti d’acciajo. Ma Pagano non ne aveva
cura; e cammina cammina, per la via piemontana arrivò alla badia del
Villar san Costanzo dell’ordine di san Benedetto.

L’abate e i frati lo ricevettero con grande onore, presero il suo
cavallo e lo menarono a una bella stalla, e lui disarmarono.

Allora egli guardò e riguardò assai teneramente suo elmo, suo scudo;
trasse fuori dal fodero la spada un poco spuntata, e disse:

— Ahi lasso! o care mie armi, care mie compagne, oggi è quel giorno che
voi vi partite da me e io da voi: ma per mia buona fè, non verrete più
alle mani di nessun combattente.

E suo elmo, suo scudo e sua spada fece appiccare nella grande chiesa;
e dopo, confesso e pentito dei suoi peccati, diventò umile fraticello a
servire Iddio.




L’ORSO

(Novella).


                      «18 aprile 1582, sabato. Fu veduto un gran
                    orso sopra le fini di Cavallermaggiore, qual fece
                    pagura a molti...»

                                 (_Memorabili di Giulio Cambiano di
                                        Ruffio. Dal 1542 al 1611_).

Veniva la sera. Biagino Ghiliestra uscì dalla cascina della Torre,
prese la stradicciuola che faceva capo, allora come adesso, alla strada
maestra, voltò a diritta, s’avanzò fino alla chiudenda che cingeva
l’aia della Rivarola; e, messo un occhio a uno spiraglio, vide quel che
manco avrebbe voluto vedere.

Il fittabile Tomaso Giusiana e la sua bella figlietta Clara erano
a sedere sur una panca dinanzi all’uscio di casa; presso di loro, a
cavalcioni sur un panchetto, stava Melchiorre Gadano detto Marchioto.

— Lo dicevo io! — esclamò Biagino dentro di sè. — Quel diavolo è già
qui. Ha anticipato d’un buon poco. Anticipa tutte le sere...

E stette lì a sbirciare e a rosicchiarsi le unghie.

Erano già due anni che Biagino voleva a Clara tutto il suo bene e
desiderava di mettersi con lei; ma vedendola selvatichella, sdegnosetta
e di pochissime parole, non aveva mai saputo risolversi a farle la sua
brava dichiarazione.

Intanto nel febbraio del 1591 erano ritornati di Provenza in Piemonte
diversi gentiluomini d’arme e molti soldati del duca di Savoia. Tra
questi Marchioto, già cavalleggere, poi archibugiere a cavallo. Egli
aveva preso dimora ai Tetti; e la sera traversava i campi e se ne
veniva a veglia alla Rivarola. Era ben formato, buon compagnone,
cantava _La bella Malgarita_ e _La bella Franceschina_, ballava alla
spagnuola, contraffaceva questo e quello, e raccontava un monte di
cose sbalestrate vedute e udite girando il mondo. Oltre a tutto questo
faceva la corte a Clara e dava in burla a Biagino. E Biagino, timido,
modesto e un po’ malinconico, dissimulava più che poteva, ma soffriva.

Soffriva maledettamente anche quella sera, vedendo il padre, la figlia
e il corteggiatore in ragionamenti che gli parevano più serrati del
solito; e tutt’a un tratto gli spuntò un’idea: — Fanno un gran parlare,
un gran parlare: ci dev’essere per aria qualcosa. Che Marchioto tratti
il matrimonio con Clara?! — E non potendo più stare alle mosse, rasentò
la chiudenda, giunse all’apertura, entrò nell’aia.

Vistolo apparire, Tomaso fece un saluto brusco ma amichevole. La
brunetta Clara aggrottò le ciglia e si ravviò i capelli. Marchioto
squadrò il giovine, e ghignato un pochetto, disse:

— Uhei! come ti sei fatto bello! Giubbone di tela fina, lattughette
alla camicia, tre penne nuove al cappello!

Biagino diventò rosso e rispose:

— Non sono nuove: le ho comprate alla fiera di Racconisio un anno fa.

— Ah ah! — riprese il soldato; — tu stai sulle eleganze? Aspetta
aspetta; domani sera ci abbiglieremo anche noi. Io mi vestirò alla
militare e Tomaso alla civile. Non è vero, Tomaso?

Il fittabile, che stava accigliato per effetto di meditazione, si
scosse un poco, e borbottò tra i denti che quelli non erano tempi da
mettersi in gala. Poi continuò:

— Dove si rimase col discorso?... Ah! sicuro, il 92 risica d’esser
peggio del 91. L’altr’anno è apparsa una stella cometa la notte del 12
aprile, venerdì santo. E quindi abbiamo avuto maggio piovoso: maggio
ortolano molta paglia e poco grano. Quest’anno si è sentito un gran
terremoto la sera del 7 marzo. E adesso le querce si vanno coprendo di
bruchi scuri e pelosi, segno di guerra guerreggiata sul luogo.

— Sarà vero di certo — disse Biagino, che si era messo a sedere sur un
ceppo; — ma, senz’offesa, non capisco come c’entrino i bruchi; come i
bruchi possano far nascere una guerra!

Marchioto, che rideva quasi continuamente, e dì nonnulla, dette in una
gran risata:

— Vedi, è perchè tu non hai comprendonio.

— Non capisco nemmeno io — disse Clara, un po’ seccamente.

Tomaso si ristrinse nelle spalle:

— Questi sono misteri, come dice il prevosto: cose oscure, delle quali
non si comprende nè la cagione nè la ragione, ma che non si possono
negare. Un giorno dell’85, per modo d’esempio, è piovuto sangue a
Pancalero. Che è che non è, questo denotava la morte dei due fratelli
di Savoia Racconisio laggiù nella Spagna!

Cominciava a imbrunire. I polli erano già andati tutti a pollaio. Un
cane, nero quanto una mora, girondolava solo per l’aia; d’improvviso
trottò verso la strada e abbaiò.

Un uomo, rinvolto e serrato in una cappa scura, passava dando di piede
a un muletto.

— È Poirino — disse Tomaso: — quel mercante che ha tanta paura degli
assassini.

— Poveraccio! — esclamò Marchioto.

— Eh! — fece Biagino: — è già stato assaltato tre volte; una in fra
l’altre, ferito con una pistolettata nel collo e lasciato per morto.

— Diavolo! e dove?

— Nel bosco di Monasterolo.

Il cane fece un’altra abbaiata.

Un omacciotto tarchiato, con un cappello di paglia grossa, un giubbone
di panno fratesco, una gran paniera al collo, entrò nell’aia gridando
con accento forestiero:

— Passa via, cagnaccio; vuoi tu mangiare il _marsé_, il _marzarolo_?...
Buona sera, bella compagnia.

— Cuccia giù, Barucco! — disse il fittabile a tutta voce.

Il merciaiuolo si avanzò, si fermò, volle scoprir la paniera per
mostrare la sua merce:

— Pettini, bella compagnia, specchi, fibbie, collane, coltelli,
bottoni, aghetti e spilletti, nastri e stringhe, cuffiotti...

— Niente — interruppe ruvidamente Tomaso, — non abbiamo bisogno di
niente.

— Pazienza.

Alcuni uomini, una donna, due ragazzotti che avevano finito di accudire
alla cascina, s’erano avvicinati, e consideravano curiosamente il
soprarrivato.

— Si fa notte — riprese costui: — mi dareste un boccone e un po’
d’alloggio per l’amor di Dio? chè sono stracco morto e al paese non ci
posso arrivare.

Clara si alzò snella, entrò in casa, tornò di lì a un momento con una
scodella di minestra e un bicchier di vino, e li diede al merciaiuolo.

— Dio vi mantenga sana, che bella siete! — esclamò questi; e messosi a
sedere in terra, mangiò avidamente.

Saziato che fu, posò la scodella e diede un’occhiata in giro.

Il fittabile, senza aspettar la domanda, alzò la mano e indicò a
sinistra:

— Il fienile è là: c’è la scala a piuoli.

— Va bene — rispose il merciaiuolo. — Ah, stasera non ho bisogno di
culla: sono stracco finito! Quello del _marsé da cavagna_ è il mestiere
più miserabile dell’universo. Una vita da cani. Quando penso che ho
moglie e figliuoli che m’aspettano al paese, di là dalle montagne!
Sette figliuoli, dico, che uno non può portar l’altro. Oggi poi è
giornataccia. Non ho fatto niente per ragion dell’orso.

I circostanti si guardarono l’un con l’altro. E il forestiero continuò:

— Oggi fu visto un grand’orso tra Cavalermaggiore e Cavalerleone.
Le donne si sono chiuse in casa coi bambini, di uomini hanno tenuto
consiglio e preparata la caccia. Sicchè domani la bestia sarà stanata,
ammazzata e divisa in chi sa quante parti... Che peccato!

— Perchè? — domandò più d’uno.

Il forestiero si voltò a Marchioto e strizzò un occhio:

— Se fossi giovane e avessi l’amorosa, vorrei fare un colpo da maestro.
Mi leverei alla punta dell’alba, piglierei le buone armi, e me ne
andrei diritto diritto ai boschi di Macra, dove fu visto l’orso... Ah,
ah, un orso è un bell’aiuto per chi ha da metter su casa! La pelle si
vende bene, e c’è il grasso, c’è la carne! Separate il grasso dalla
carne mediante una giusta cottura; aspergetelo di sale; mettetelo
così purificato in una buona pentola; dopo otto giorni, dieci al più,
troverete a galla un olio sopraffino, e sotto un burro da leccarsene le
dita.

— Dev’essere una caccia ben pericolosa! — esclamò ingenuamente Biagino.

— Spaventosa! — rispose Marchioto. — L’orso, come prima vede l’uomo,
gli salta addosso che il maggior pezzo restan gli orecchi.

— È così gagliardo — aggiunse Tomaso, — che stringendo con le sue
branche un cavallo, lo fa crepare; che prendendo un sasso ben duro, lo
riduce in polvere e lo sparge sfarinato per l’aria.

— Oibò! — fece il merciaiolo: — queste sono fanfaluche da ignoranti.
Non bisogna attaccarlo quando c’è abbondanza di sorbe, ecco, perchè
questo frutto gli allega i denti e gli dà la bramosia del sangue. Del
resto l’orso è un gentiluomo: come dire che se non lo molestate, non
vi degna d’uno sguardo; se lo molestate, vi stronca. Io posso parlare
con cognizion di causa, che anni fa, quand’ero più in gamba, cacciavo
nei boschi di Villar-de-Lans, La Ferrière, Palanfrey, Saint-Barthelemi.
Tutti i boschi saran boschi, ma quelli!... E mi son trovato a certe
avventure!

Non aspettò che gli dicessero — racconta; — incominciò subito. I
presenti si misero in attenzione; e Marchioto, svelto, cambiò posto e
si pose a sedere proprio accanto a Clara.

Allora Biagino prese a indagare i loro movimenti; e a quel che gli
pareva di vedere così al buio, diceva tra sè: — Come sono d’accordo!
Qualcosa per aria c’è di sicuro. Se la intendono che è un piacere.
Ecco, lui la punzecchia col gomito. Lei gli soffia una parolina in un
orecchio. Tutti e due fanno a ginocchino. Fanno all’amor segreto, e
credono che nessuno se ne accorga!... E io mi mangio il cuore. Io per
me dico che uno strazio così non deve mai esser toccato a nessuno! — E
non potendosi frenare per la grande impazienza che lo agitava, si alzò,
girò inosservato intorno al pagliaio, strisciò lungo la chiudenda, si
trovò sulla strada.

Dopo pochi passi provò rammarico, provò una voglia accesa di tornare
indietro, ma fece forza a sè stesso e tirò via.

Non era lume di luna, ma uno stellato che faceva bel chiarore. La
campagna sterminata pareva tutta piena di grilli canterini; la civetta
errava per l’ombre notturne, gettando il suo _tuttomio! tuttomio!_
lugubre e rapace.

Biagino, assorto, non vedeva e non udiva nulla attorno di sè. Gli
tornava in mente il discorso che aveva sentito; e gli pareva d’essere
in tale stato d’animo e di corpo da poter fare qualche cosa di gran
momento con l’armi. Precorreva i fatti con l’immaginazione, superava
con la fantasia tutte le difficoltà e si figurava già di far l’entrata
nell’aia della Rivarola, glorioso e trionfante, con dietro un carro su
cui stava l’orso morto, morto da lui. Il fittabile, la figlia, tutti
gli abitanti della cascina gli correvano incontro, lo attorniavano, lo
interrogavano senza dar tempo a rispondere. Poi, mentre si facevano
feste grandissime, egli traeva Tomaso da parte e gli chiedeva
arditamente in moglie la fanciulla adorata.

Giunto tra il ribollimento di questi pensieri alla cascina della Torre
mise pian pianino la chiave nella toppa, entrò in punta di piedi per
non destare i suoi vecchi che dormivano nell’altra stanza più interna,
e spogliatosi in fretta andò a letto.

Passò la notte senza mai dormire; gli pareva mill’anni che si facesse
giorno, per mandare a effetto il proposito fatto quasi inconsciamente.
Al primo albore indossò certi non troppo buoni panni da cacciare,
calzò scarponi da fango, si mise al collo il fiaschin del polverino,
ad armacollo la fiasca della polvere e il sacchetto delle palle, pigliò
l’archibugio e uscì.

Essendo di domenica, pensava di non trovar persona in quell’ora,
ma girando lo sguardo sulla campagna vaporosa e guazzosa, scorse a
sinistra, poco distante, un uomo armato come lui, che come lui andava
nella direzion di levante. Riconobbe Marchioto, e subito si rimpiattò
dietro un tronco.

Ma colui venne speditamente alla volta sua gridando:

— Olà, Biagino! vuoi fare a rimpiattino? Dove vai così per tempo?

Il giovine, fortemente crucciato ma tuttora timido, rispose che andava
a far due passi.

Marchioto fece una risata per mostrare che non ci credeva:

— Ah ah ah! e perchè hai preso il tuo archibugio?

— Così... per compagnia.

— Bugiardo che non sei altro!

— Ebbene vado a una mia faccenda segreta, importantissima, che da un
pezzo ho in animo di fare...

— Vai a cercar l’orso, nega se puoi! Fegato non te ne manca davvero! Ma
ci vuol altro. Se vuoi andar sicuro, devi venir con me; quando che no,
tu porti pericolo dello vita. Eh, so bene che mi manderesti alle forche
molto volentieri! Ma questo non fa. Una mano lava l’altra e tutte e due
lavano il mostaccio. Ci aiuteremo scambievolmente...

Biagino fece una scrollatina di testa.

Marchioto prese un’impostatura autorevole:

— Hai da sapere che l’orso dorme così profondamente che non sente
nè voci nè ferite nè percosse. Se abbiamo la fortuna di trovarlo
addormentato, lo leghiamo come niente. Se lo troviamo desto, io lo
ammazzo al primo e tu mi aiuti a strascinarlo. Orsù, è inutile che tu
stia sull’onorevole, hai da venir con me.

Marchioto parlava con una tale energia, con tanta persuasione di sè,
che Biagino non potè più nemmeno supporre la possibilità di resistere:
e prima gli andò dietro come un cagnolino, poi si accompagnò con lui.

— Ah ah! — continuava Marchioto, sempre ridacchiando: — te ne andavi
tutto solo contro la bestia feroce? Con quell’archibugio che non
finisce mai. Pare una pertica. Dimmi un po’: ti serve ad abbacchiare
le noci, eh? Scommetto cento contr’uno che non cogli in un pagliaio. E
cosa c’è dentro? Un pugno di piselli? Il mio è caricato a doppia palla.
Guarda: è uno schioppetto di buona mira, che ho tolto a un soldato a
cavallo di quelli detti _les carabins_, lassù a Barzeloneta... E perchè
non hai preso una daga, una squarcina, un coltellone? Vedi questo ch’io
porto accanto? È un vero pistolese: lama corta, larga, a un filo e
mezzo, a tutta tempera e a tutta prova... Ah ah ah! e tu volevi andar
solo, con quell’armaccia che non è buona a niente? Queste a casa mia si
chiamano baggianate...

E così, mentre traversavano campi, prati, vigne, saltavano fossi e
passavan palancole, Marchioto non restava dal chiacchierare; e or
bravava Biagino, or lo beffava, ora gli diceva una cosa, or un’altra da
fargli rinnegare il mondo.

Giunsero in certe bassure selvagge dove la terra non era lavorata, non
era segno di via battuta, e i pruni e le erbacce qua contrastavano,
là chiudevano il passo. Messe in ordine le loro armi, s’inoltrarono
guardingamente. Poi girarono un bosco per lungo e per largo. E
finalmente videro luccicar la Macra fra tronco e tronco.

Marchioto disse:

— Sai com’è? Io comincio a perdere la pazienza. E poi dev’essere giusto
l’ora della fame. Mangiamo un boccone. M’offende il digiuno così che mi
farebbe cader in terra svenuto.

Uscirono sul greto scabro, ondulato, pieno di vetrici e di virgulti,
sparso di sterpacchi e di seccumi lasciati dall’ultima piena. Marchioto
andò a sedere sopra un arginetto, presso la corrente, e tirò fuori un
bel tocco di pane. Ma Biagino, ch’era rimasto indietro, mise una voce
di stupore, lo richiamò con un cenno, e gli additò un tratto più renoso
che ghiaioso, impresso da certe strane orme larghe e potenti.

— Lasciami un po’ vedere — disse Marchioto. — Uhei! quest’è proprio una
traccia. E che traccia!

— Seguitiamola! — esclamò Biagino.

— Seguitiamola pure. Ma qui bisogna altro che baie! Sta a buona
guardia, se vuoi bene alla vita tua; e lascia fare a me.

L’orso, molto bruno e di terribil forma robusta, stava acquattato
sur un poco di rialto erboso. Aveva fiutato ben da lontano i due che
lo cercavano, ma non se ne dava per inteso; e solo quando vide che
giravano lungo l’acqua cheti e chinati, come per prenderlo nel fianco,
cominciò a fare mal grugno e a mandar fuori certe voci porcine, che
forse volevano dire: — Cristiani di Dio! badate a quel che fate.

Biagino, quando fu presso a cinquanta passi, vide che l’orso arruffava
il pelo e puntava puntava come fanno i cani prima di dare addosso.
Subito, lasciandosi vincere troppo dall’impazienza, si pose a viso il
suo archibugio, strinse la manetta, fece abbassare il serpentino, e
diè fuoco alla carica. Poi, lesto, si curvò sotto il fumo per veder se
aveva colpito.

— Troppo presto! — urlò Marchioto. Ma sparò precipitosamente anche lui,
e riurlò: — Scappa che l’orso è ferito!

L’orso veniva a saltacchione, rugghiando e digrignando. Di botto si
rizzò, massiccio e violento, come volesse fare alle braccia.

— Ah me! — esclamò Marchioto; e sfoderato il pugnal pistolese, si fece
innanzi per investire la belva alla vita e metterle una pugnalata nella
trippa. Ma urtato nelle narici da una tanfata, da uno sbuffo di fiato
atroce, si sentì correre un gelo dai piedi ai capelli, un gelo che gli
penetrò nell’ossa, gli passò nel cuore, lo soverchiò. Rimase ancora un
istante immobile, col braccio teso, in atto bravo; poi la testa gli si
empì di paura e via di galoppo.

Biagino si vide perduto; afferrò l’archibugio per la canna e misurò un
colpo disperato al muso dell’orso. Il colpo cadde a vuoto e l’arma andò
in terra. Allora, sul punto d’aver la stretta, indietreggiò come potè;
poi si cacciò sotto a chius’occhi e combattè a pugni, a calci, a corpo
a corpo. Tutt’a un tratto ecco che gli si sfondò sotto il sabbione;
cadde rovescio; e l’orso addosso. Dettero in un tonfano, fecero due
gran rivoltoloni e si separarono: la belva si slontanò a nuoto, il
giovane diguazzò tanto che si ritrovò all’asciutto.

Stette egli come svenuto qualche tempo, chè aveva bevuto assai e
si sentiva soffocare il cuore; poi a poco a poco riebbe gli spiriti
vitali; e, sollevatosi alquanto, guardò intorno.

L’orso era di là dall’acqua; e un po’ si scrollava tutto e spruzzava
in giro, un po’ si aggomitolava per leccare uno sdrucio che aveva nella
coscia.

— L’hai avuta? — mormorò Biagino. — Ti sta bene. Anch’io mi dolgo tutto
da questa parte e butto sangue per una tua unghiata che mi lascerà il
ricordo finchè campo. Ma voglio la rivincita. Ora com’ora no, perchè
l’acqua m’ha bagnata la polvere e non posso ricaricar l’archibugio. Ci
rivedremo domani. Va pur là che ci rivedremo!

D’improvviso l’orso levò il muso e stette a orecchi ritti come
per distinguere un rumore lontano; poi girò gli occhietti, che or
sembravano argento vivo or carbon di fuoco; e sospettosamente, gatton
gattoni, si mosse verso un macchione folto e profondo che costeggiava
quella parte del greto.

L’acqua intorbidata dai tuffi, era tornata limpida e bionda; ogni poco
un pesciolino lucente dava un guizzo e spariva. E Biagino rimaneva
lì con la testa bassa, sdraiato più che seduto, e molle e stracco e
scontento. Cominciava a entrare in uno stato come di sonnolenza, nel
quale veniva perdendo il sentimento della realtà, quando gli parve di
udire un calpestìo affrettato; e, alzato il viso, scorse alcuni uomini,
tutti con armi da fuoco, i quali zitti zitti, si appostavano qua e là,
dove finiva il macchione.

Subitamente scoppiò in lontananza, dalla parte opposta, un gran rumore
di suoni insieme confusi. Il frastuono crebbe crebbe e si avvicinò:
squillavano trombe e corni, rullavano tamburi, pareva un campo in
movimento, un esercito in marcia. E di lì a poco comparve la caccia
affaccendata. Una frotta d’armati, con spiedi, spuntoni, mezze picche
e partigiane, veniva innanzi quasi in ordinanza, fiancheggiando quelli
che si sentivano ma non si vedevano. Era un interrogare dal di fuori,
un rispondere dal di dentro, un vociare, un sonare, un frascheggiare
alla maledetta.

Biagino, attento e concitato, mormorava tra i denti: — Ecco, i
cacciatori si sono messi alle poste; gli altri vanno scorrendo e
strepitando per scacciar l’orso alla volta dei compagni. Oh beatissima
Vergine degli Orti fate che non lo trovino! Fate in modo che io lo
possa pigliare, io solo, io solo!

Un cane squittì dal più fitto. Un uomo gridò all’erta. Succedettero due
minuti di un silenzio ansioso, quasi spaventato; poi un tafferuglio, un
diavolìo: gli uomini urlavano a squarciagola, i cani latravano tutti
insieme con orribil modo, le frasche stormivano come agitate da una
gran ventaggine. Alla fine l’aria rimbombò d’archibugiate, che l’una
non aspettava l’altra: e dopo s’alzò un chiasso di battimani e di voci
trionfali.

— Ecco fatto! — pensò Biagino, mordendosi le mani. — Il mio orso è
bell’andato. Me l’hanno ammazzato a furore di popolo... Quanti sono?
Un’armata. Quei di Cavalermaggiore, quei di Cavalerleone, quei delle
cascine... Tutti contro quella povera bestia! Uh, mi vergogno per loro!

Si rizzò, raccattò l’archibugio, spense rabbiosamente la miccia, e
s’incamminò dalla parte per cui era venuto.

Attraversato il bosco, passati i terreni incolti, cominciò a vagare
senza direzione certa per luoghi coltivati ma ineguali e frastagliati.
Di quando in quando si soffermava e minacciava con la mano come se
facesse un proposito di vendetta. Poi si pentiva e si rincamminava,
dicendo tra sè: — E perchè mi dovrei vendicare? Marchioto è più bello
di me; ben veduto, ben voluto, il più gentil galante di tutto questo
vicinato. In coscienza non gli posso dar colpa se vuole sposar Clara:
ognuno cerca di fare il fatto suo in tutti i modi che può. Non posso
pigliarmela con Tomaso. Non ci mancherebbe altro!... Ah, se mi fossi
potuto sfogare con l’orso! — Si mordeva il dito, lo alzava iratamente e
sollecitava il passo.

E continuando a camminare, ora si proponeva di farsi soldato e passare
i monti; ora si risolveva di passare il mare, d’andar lontano lontano,
in parte dove non fosse conosciuto, dove nessuno più trovar lo potesse.
Sospirava la venuta della notte, senza sapere perchè; e gli era d’un
certo sollievo volgere gli occhi verso occidente, donde veniva una gran
nuvola procellosa, che s’opponeva al sole, nascondeva le montagne, e
gettava sulla pianura un’immensa ombra sinistra.

Dopo un altro po’ di strada, oppresso da un senso di desolazione, di
solitudine infinita, si lasciò andare sulla proda d’un campo; e stette
inerte, con le gomita sulle ginocchia e il capo nelle mani.

Passò mezz’ora, un’ora forse. Di subito s’avvide che l’aria si
oscurava; e sbigottito dal pensiero del padre e della madre che
dovevano stare in angustia non vedendolo tornare, balzò in piedi,
risoluto d’andare diviato a casa.

Va e va, piegando senz’accorgersene un poco a diritta, dopo parecchi
andirivieni, riuscì in una strada maestra. Vide un piccolo tabernacolo
mezzo rovinato, e riconobbe il luogo; seguitando ad andare avanti in
poco d’ora, si sarebbe trovato alla Rivarola. La cascina era laggiù,
coperta dagli alberi e dalle macchie che rivestivano le rive tortuose
del piccolo Arian.

Il giovine stette fra due: il dovere voleva, ch’egli non tardasse a
rassicurare i suoi, d’altra parte avrebbe dato la metà del suo sangue
per riveder Clara. — Vederla — pensava, — anche di nascosto, anche alla
sfuggita; poi sarà quel che sarà. — Titubava ancora, quando gli balenò
in mente un altro pensiero: — Ella è là fuori, a sedere come al solito,
e c’è Marchioto! — Gli entrò nell’anima lo spasimo della gelosia, e non
potendo più resistere, pigliò la corsa.

Arrivò all’Arian; sopra vi era un ponticello di legno; e a destra e
a sinistra certi olmi bassi, annosi e frondosi che formavano una gran
vôlta buia. Da quel buio venne subitamente una voce, la voce di Clara:

— Chi è? chi è là?

Il giovane fissò gli occhi da quella parte, distinse la snella figura
appoggiata alla pertica che serviva di parapetto, e rispose quasi
timidamente:

— Sono io, sono Biagino Ghiliestra.

Clara fu per mettere un grande strido, si rattenne, fece un segno di
croce, e domandò:

— Siete proprio voi? Siete vivo? Marchioto vi ha veduto morire!...

— Ah, l’ho scampata bella! l’ho scampata grossa! Posso attaccare il
voto alla Madonna degli Orti che un’altra così non la scampo più!

Ella si staccò dalla pertica, si accostò e riprese:

— O Gesù benedetto! e Marchioto ha giurato e spergiurato che vi aveva
veduto morire! Mio padre appena ebbe tanta pazienza che lo lasciasse
finire; alzò la voce contro e glie ne disse tante e poi tante. Gli
disse questo: — Poichè tu sei solo bravo al mondo, dovevi adoprare
la tua bravura in difesa del povero Biagino. Sei un can traditore.
Levamiti d’innanzi. — Marchioto rispose, cercò di scolparsi, non vi
riuscì e andò via tutto arrabbiato e minaccioso con la testa. Allora
mio padre partì per i boschi di Macra con gli uomini della cascina. E
ora sono là che vi cercano. Io m’ero buttata ginocchioni in un canto
e avevo principiato un po’ di rosario. Poi, rimasta sola, non ho più
saputo che fare di me, son venuta qui e stavo sull’aspetto... Gesù vi
ringrazio che colui ha giurato il falso!

Si mossero tutti e due, passo passo, concordemente.

Clara ripigliò:

— Avrete bisogno di ristorarvi?

Biagino rispose:

— Non ho più nè fame nè sete in questo momento. E poi a casa troverò
bene qualcosa.

— Siete ferito?

— Una graffiatura sulla spalla sinistra. A casa mi farò ungere con
grasso di carne secca o con olio di noce, e domani sarò bell’e guarito.

Giunti dinanzi alla Rivarola, ella mise adagino il braccio dentro al
braccio di lui, e glielo strinse un poco. Così, a braccetto, voltarono,
traversarono l’aia, entrarono nella stanza terrena vuota e oscura.

Clara si scostò subito e disse:

— Biagino, mi date una mano a ravvivare il fuoco?

— Volentieri! — esclamò il giovine. E appoggiato l’archibugio in un
canto, andò a tentoni verso il focolare dove traluceva un po’ di brace.

— Dopo metteremo il paiuolo — prosegui la fanciulla, — e faremo la
polenta. Cacio, ricotta e buon cuore non ne manca. Appena mio padre
sarà di ritorno, e non può tardare, manderò a chiamare i vostri e
ceneremo tutti insieme in santa pace. Voi racconterete quello che vi è
accaduto...

— Volentieri.

Tacquero e stettero immobili nelle tenebre, incerti l’un dell’altro, e
come sgomentati dal martellare che facevano i loro cuori. A un tratto
Biagino riudì la voce di Clara, armoniosa, soave ma un po’ risentita:

— Ma ooh! non avete niente da dirmi? Nemmeno stasera? Nemmeno così...
da solo a sola?

A queste parole, Biagino fu preso da tal commozione che non seppe se
non balbettare:

— Che volete che vi dica? che volete che vi dica?

— Quel che avete nel cuore.

— Allora vi dirò che sono contento di trovarmi qui con voi... Una
contentezza così, dopo quello che ho sofferto in questi due anni, non
me la poteva mandare che Dio. Due anni in cui non ho veduto altro, non
ho sentito altro, non ho pensato a nessun’altra cosa fuori che a voi,
Clara. Vi avevo sempre davanti agli occhi di giorno: vi sognavo di
notte, tutte le notti... E anche in questo momento mi par di sognare.
Se sapeste che momento è questo per me!... Vi amo proprio infino alla
tomba... Siete tutta la mia speranza al mondo...

— Basta!... Meno male che avevo indovinato! Ma vedendovi indugiar
tanto, cominciavo a dubitare. In certi casi, vedete, l’indugio porta
danno. Mancano modi? Belle cose! Insomma è stata una gran tribolazione.
E poi, e poi, sentiamo un po’, come vi è saltato il grillo d’andar a
cercare l’abbraccio di un orso, quando...

Non finì la frase, gli gettò le braccia al collo, lo strinse con tutta
la sua forza; poi si scostò di nuovo, impetuosamente, e soggiunse così
da lontano:

— Mio padre lo sa che ci vogliamo un ben dell’anima! Dunque...




DUE SPAVENTI

(Novella).


Verso la fine d’aprile dell’anno 1836, il mio amico e fratello d’armi
Paolo Gagliardi mi scrisse di venire a tenergli un po’ di compagnia
alla Vernea, presso Lombriasco, dove viveva ritiratamente, vigilando le
faccende campestri di tre o quattro contadini.

Non essendo occupato, potevo partir subito; se non che era una
stagionaccia incostante, bisbetica, ora primaverile, ora autunnale;
in cui si passava dal vento piovoso al nevischio, da questo alla
gragnuola.

La mattina di lunedì, 2 maggio, fui preso d’impazienza, e benchè il
tempo fosse chiuso, la gola del Moncenisio, e le falde delle Alpi
biancheggianti di neve, feci attaccare, montai nel mio legnetto e uscii
di città.

Nel viaggio fino a Carignano, non mi accadde nulla di particolare. A
Carignano mi fermai più del solito per dar riposo al cavallo, chè le
strade erano guaste e faticose. E ripartii.

Il tempo si era andato sempre più rabbuiando; balenava e brontolava.
Vennero pochi goccioloni, e subito dietro una pioggia che in un momento
diventò diluvio. Il mantice del legnetto e la mia coperta da campo
mi riparavano molto bene, il cavallo trottava come niente fosse,
eppure andavo avanti mal volentieri. Il rimbombo del tuono mi urta
i nervi, promuove in me inquietudine, irritazione, direi quasi una
avversione d’istinto. Invece il rimbombo delle artiglierie, in guerra,
ha sempre raddoppiato il mio spirito marziale e infusa la volontà di
assalire braveggiando il nemico; in pace, quando è segno di salute
e di gioia, mi fa provare un misto di desiderio e di malinconia, un
senso di nostalgia bellicoso. Andavo avanti contro voglia; e come
i lampi a zig-zag, sinuosi, ramificati, diffusi, ora bianchissimi,
ora rosseggianti, si riflettevano nella strada già allagata e mi
accecavano; come lo strepito orrendo echeggiava nelle nuvole basse e
mi assordava: maledicevo il momento in cui mi ero messo in cammino,
e mormoravo tra i denti, a mo’ di giaculatoria, la famosa frase del
maréchal Ney: «_Je voudrais bien savoir quel est le Jean-f... qui dit
n’avoir jamais eu peur!_».

Di repente una scintilla immane, un globo di fuoco, scoccò da nube a
nube, turbinò veementissimo a mezz’aria, esplose dentro un albero che
s’alzava con maestosa chioma a destra della strada, e lo guastò da cima
a fondo.

In quel subito vidi tutto color di sangue, mi credetti incenerito,
annientato; e, senza sapere quel che facevo, menai una violenta
frustata ai cavallo esterrefatto. La povera bestia s’impennò, voltò
corvettando e saltabeccando in un viale a sinistra, andò a dar di cozzo
in un portone serrato.

Smontai: ma ero così abbacinato, così intronato, che invece di
picchiare e chiedere ricovero, mi diedi a strigare le guide, che mi ero
lasciato scappar di mano.

In quella che mi affannavo, tremando convulsamente, il portone si
spalancò, un contadinotto tirò sotto il portico il cavallo e il
legnetto: un uomo attempato, in mezza livrea, mi porse un ombrello
aperto, dicendo premurosamente:

— Entri, entri, Gesù e Maria, ero all’ultimo piano e ho visto
tutto! Sono io che ho avvertito monsù e madama. Venga, venga. Vuole
appoggiarsi ai mio braccio? Passi, passi...

Così dicendo, stava lì, senza avvedersi che m’impediva il passo. Alla
fine se ne accorse, si mosse, e io gli andai dietro.

Traversato un cortile, che in quell’ora, con tutta quell’acqua, pareva
un lago in burrasca, arrivammo alla porta di casa. Il padrone e la
padrona mi aspettavano ritti sulla soglia. Lui, era alto, asciutto,
con una capigliatura di splendida candidezza, che faceva parere più
bronzina la faccia rasa e rugosa. Lei anzi piccola che no, e un po’
pingue, aveva conservato essa pure molti capelli, e due folte ciocche
castagne tirate indietro, le ornavano la faccia pallidetta, ove
traspariva una bellezza passata, sfiorita, ma non ancora senile. Tutti
e due portavano il bruno grave, e la loro presenza dimostrava una
dignità riposata, un po’ malinconica, che moveva a venerazione insieme
e a simpatia.

Non si perdettero in parole di complimento, mi condussero in un salotto
vicino, mi fecero sedere dinanzi al caminetto, e prendere una buona
fiammata e una tazza di caffè. Io dissi il mio nome, il vecchio signore
mi disse il suo: Pietro Francesco Gindri. Si parlò del più e del meno.
Tanto il marito che la moglie mostravano quell’urbana disinvoltura
di modi che è propria delle persone sfranchite nel conversare con
tutti. L’uno amava la pittura, l’altra la musica. Di faccia al
caminetto vi era un pianoforte; e alle pareti, come tappezzeria, un
chiaroscuro in cui erano figurate la quattro stagioni: un vecchierello
tutto intirizzito, con le braccia ficcate fino ai gomiti in un gran
manicotto, simboleggiava l’Inverno; una vispa forosetta, emergente da
una rigogliosa fioritura, la Primavera; l’Estate era un adulto seminudo
che percoteva le biade con coreggiato; l’Autunno una venditrice
di frutta con una pezzuola annodata intorno al capo e un po’ di
scialluccio.

Il signor Gindri mi disse che quella tela, eseguita sul luogo, era
opera di Antonio Amaretti, da Pancalieri, un giovane che attendeva con
molto profitto alle bellezze dell’arte e agli studi che si competono a
un artista giudizioso.

S’avvicinava intanto l’oscurità della notte; la pioggia continuava alla
dirotta, scrosciando più rovinosamente che mai.

Il padrone chiamò il servitore perchè accendesse il lume, poi si
rivolse a me:

— Come si fa a viaggiare con questo tempaccio? Il diavolo non andrebbe
per un’anima.

E la padrona con una gentilezza che veniva direttamente dall’animo:

— Faccia della necessità virtù, e per questa sera, accetti di stare con
noi.

E poichè rimanevo sospeso, non per dubbio ma così per cerimonia, il
signore riprese:

— Parlo sul serio, sa. Sono pratico delle strade: a quest’ora devono
essere assolutamente impraticabili. Le acque dei fossi rigurgitano e
allagano. E poi, e poi... Badiamo di non fare qualche imprudenza.

Si cenò in una stanza dipinta tutta a fresco, rappresentante un
pergolato fatto di pampini, ricco d’uva, sparso di augelletti
variopinti che rallegravano l’occhio. Però la cena non fu lieta. Il
contegno dei due ospiti verso di me continuava ad essere correttissimo,
ma a momenti vedevo divenire più intensa, più cupa quella malinconia
che quasi sempre stava sul volto del marito; vedevo la moglie abbassare
mollemente la testa e rimanere come assorta in un pensiero nascosto,
famigliare alla mente e più forte su quella che la mia presenza. Poi si
cambiavano, sorridevano a fior di labbra e riprendevano il discorso.

Da queste e da altre cose che vedevo e sentivo, cominciavo a
comprendere che i signori Gindri vivevano tutto l’anno in quel luogo
appartato e solitario. Essi dovevano avere idee e opinioni particolari,
ben radicate nel cervello, modi di operare divenuti per lungo uso
ordinari e abituali: mi proposi quindi di non contraddirli, di fare il
possibile per non riuscire noioso o importuno, per non recar loro il
minimo incomodo.

Dopo cena si tornò nel salotto delle quattro Stagioni, dinanzi al
caminetto.

Qui bisognava indovinare come i coniugi usassero passare la serata:
se giocando, se sonando, se leggendo. Mentre stavo facendo qualche
congettura, la signora Gindri disse:

— Oggi è giorno di posta. Fortuna che è arrivata prima del solito, se
no ci mancherebbe la _Gazzetta Piemontese._

— Sarebbe un inconveniente — mormorò il signor Gindri; e soggiunse
volgendosi a me: — La gazzetta è una gran bella invenzione. Siamo qui,
lontani dalla città, quasi segregati dal genere umano, eppure ogni
giorno corrispondiamo in certo modo con tutti i popoli della terra!

— Penso anch’io così — risposi. — La sera, dopo passeggiato, me ne vado
al caffè. Lì combino tre o quattro amici, leggiamo le gazzette, poi
c’ingolfiamo nella politica: e ognuno, secondo la propria opinione,
ordina eserciti, allestisce navigli, apre arsenali, sottoscrive
alleanze o bandisce asprissime guerre.

Il signor Gindri aveva già preso e spiegato un foglio che stava
sul caminetto, vicino al lume; e la signora s’era rigirata sul suo
seggiolone e spingeva innanzi la faccia, come chi si dispone a sentir
cosa che assai gli prema.

— Permette? — mi domandò ancora il vecchio signore accomodandosi gli
occhiali.

— Si figuri! — esclamai. — Anzi, mi fa un favore.

E così egli cominciò a leggere, tralasciando certi passi, fermandosi su
certi altri:

— Dunque vediamo un po’:_ America Settentrionale. (Dai fogli di
Nuova York del 24 marzo). Il generale Gaines ha fatto il seguente
accomodamento con gl’indiani della Florida: — Gl’indiani ed i loro
capi si ritireranno al di là di Wildocooclui..._ Me ne rallegro
moltissimo. _Impero ottomano._ Niente. _Grecia. Leggesi nella Gazzetta
d’Augusta: «Scrivono da Larissa che le truppe turche quivi concentrate
cominceranno quanto prima le loro operazioni contro le bande dei
malandrini..._ E va bene, facciano pure. _Una lettera da Lamia, in data
dell’11 di marzo, parla di un combattimento accaduto coi clefti._ Devo
leggere? No, eh? Tiriamo via. _Impero Russo._ Niente d’importante.
_Alemagna, Berlino, 15 aprile. Dappertutto si attende a piantar
fabbriche di zucchero di barbabietole_... Oh gioia! _Gran Bretagna.
Londra, 22 aprile. Nessuna nuova politica è corsa stamattina alla
Borsa_... Uhm! _Portogallo... Spagna... Francia... Notizie d’Algeri.
Il_ Moniteur _stampa un lunghissimo ragguaglio del generale Rassatel
al maresciallo Clauzel sulla recente spedizione di Medeah_... Ah,
ah! — s’interruppe, percorse con l’occhio tutta la pagina e riprese:
— Insomma i cabaili combattono da eroi, ma che vale? Oh, oh! _Dicesi
dagli arabi che Abd el Kader, abbandonato dai suoi, si è ritirato verso
Marocco._ Possibile? Ehm! sarà un inganno militare, uno stratagemma.
_Notizie posteriori._ Vediamo le notizie posteriori... _2 maggio.
11 antim. Il corriere del Moncenisio di questa mattina è tuttavia
in ritardo_... Al solito. _Oggi perdura il freddo_... Infatti! _Il
Journal de Paris reca, che il 21 Iriarte con un battaglione sostenuto
dal presidio di Pamplona, assalì i carlisti trincerati a Balascoin_...
Se la facessero finita? E qui? Non avevo veduto! _Il dissapore fra
Mendizabal ed Isturitz finì con un duello alla pistola: niun dei
combattenti rimase ferito: essi si separarono a mediazione dei padrini:
ma più nemici che mai._ Bella riuscita!... _Sua Maestà l’arciduchessa
di Parma è arrivata il 28 aprile a Milano da Piacenza, scendendo col
suo seguito all’I. R. palazzo di Corte._ Amen! _Interno. Genova, 27
aprile. Notizie marittime. Notizie commerciali._ Questo non fa per
noi. _Torino. Osservazioni meteorologiche... Annunzi — Avvisi...
Spettacoli_...

— Appunto — disse la signora; — che cosa si rappresenta al Carignano?

— Ecco qui: _Teatro Carignano... Ballo Sofia di Moscovia; composto
e diretto dal Coreografo Monticini. Teatro D’Angennes. Compagnia
Drammatica al servizio di S. S. R. M. La Fiera. Circo Sales_ (alle ore
5.30). _Esercizi di cavallerizza eseguiti dalla Compagnia Guillaume._

Domandai alla signora se le piacesse il teatro. Ella si scosse un poco,
a guisa di chi è colto da un’interrogazione imbarazzante, poi accennò
di sì, e stette a capo basso, quasi la sua anima, sollevata un momento,
ricadesse ad un tratto in un abbandono estremo.

— Se le piaceva il teatro? — esclamò il signor Gindri. — Altro! L’opera
seria, l’opera buffa, l’opera-ballo; il dramma, la commedia... Ma poi è
venuta la tragedia, la catastrofe. E addio!

Un lungo silenzio successe a queste parole.

Marito e moglie guardavano fisso fisso il fuoco, immobili come due
statue. Io pensavo: — O mi diranno ciò che fu questa catastrofe, e
mostrerò di condolermi; o non mi diranno niente, e io rispetterò il
loro segreto.

Non mi dissero niente. A un punto il marito pigliò le molle come per
rattizzare o ravvivare il fuoco: tramestò la cenere, scompigliò tizzi
e carboni, e riprese, riponendo lo strumento al suo posto: — Mutiamo
discorso, parliamo d’altro. Adesso rileggerò la gazzetta, la spedizione
di Tencah, di Medeah... Tanto per far tardi. Poi voltandosi meno
afflitto, meno crucciato, e con una specie di rammarico d’aver parlato
in quel tono e in quel modo, mi disse: — Ma lei dev’essere stracco
morto? Senza complimenti...

E la moglie con una voce ancora un po’ alterata, ma quanto mai si può
immaginare dolce e persuasiva:

— Senta: se mai la camera è pronta...

Accettai volentieri quell’offerta opportuna e cordiale: dal canto mio
avevo sonno, e probabilmente dal canto loro i miei ospiti non vedevano
l’ora di rimaner di nuovo soli a pascersi di malinconia.

La signora scosse un campanello e al servitore che entrò, disse:

— Giacomo, accompagnate questo signore alla camera gialla.

Ci augurammo scambievolmente la buona sera e la buona notte, e ci
separammo.

Giacomo mi fece lume su per una scala di pietra, fino al primo
pianerottolo, m’introdusse nella camera che mi era destinata e disse:

— La sua sacca da viaggio è già lì sul sofà. Se ha bisogno di qualche
altra cosa?...

— Grazie, non ho bisogno di nulla.

— Oggi ha passato un brutto quarto d’ora. Si ha un bel dire. Uno
può aver più coraggio di Napoleone, ma, cospetto! col fulmine non si
scherza. Basta, il dormire le farà bene... Mi comanda?

— Andate pure.

Il servitore mi porse il candeliere e se ne andò.

La camera gialla era molto grande e sfogata, parata con carta canarina,
simile nel colore alla stoffa un po’ sbiadita che soprastava alle
finestre, al letto e ricopriva i mobili. Questi erano tutti di mogano,
di classico disegno, eccetto una consolle alla rococò, sopra la quale
stava uno specchio con la luce tutt’un pezzo e la cornice a fogliami.

Cavai dalla sacca la biancheria da notte, posai sul comodino, accanto
all’orologio e all’anello, il tomo decimo di _Lo spettatore Italiano_,
mi spogliai ed entrai in letto.

Siccome per solito non posso addormentarmi senza scorrere qualche
pagina, presi il volume, lo aprii a caso, trovai un articolo intitolato
_Filosofia_, e lessi quanto segue:

«_Mercè della filosofia, i vampiri sono iti fuori di moda. Perchè dir
non possiamo lo stesso degli spettri e delle fantasime? Tuttavia, se la
fede alle apparizioni non è ancora morta del tutto, essa almeno più non
vive che nelle menti ristrette e nel volgo pusillanime e rozzo._

_Nel libro di Flegone, liberto dell’imperatore Adriano, in mezzo a
mille racconti da veglia, trovasi la seguente storiella ch’ei dice
avvenuta in Ipate, città di Tessaglia. È dessa una delle poche favole
di questo genere, trasmesseci dagli antichi, che molto si rassomigli
alle superstiziose invenzioni moderne._

_Filinnione, unica figlia di Demostrato e di Carito, morì in età da
marito: gl’inconsolabili suoi genitori fecero seppellire insieme col
suo cadavere gli ornamenti e gli arredi che la fanciulla aveva avuto
più cari mentre viveva. Alcun tempo dopo ch’ella fu morta, un giovane
signore, per nome Macate, venne ospite in casa di Demostrato, ch’era
suo amico. Una sera, essendo Macate in sua camera, Filinnione, di cui
questi non sapeva la morte, gli apparisce, gli dichiara il suo nome, e
lo induce con mille vezzi a corrisponderle. Macate in pegno di affetto,
regala a Filinnione una coppa d’oro, e si lascia trarre di dito un
anello di ferro che usava portare. Filinnione dal canto suo, gli fa
dono del suo monile e di un anello d’oro; indi prima dell’aurora sen
parte._

_La notte seguente, ella ritorna all’ora medesima. Nel frattempo che
stavano insieme, Carito mandò una vecchia fantesca nella stanza di
Macate onde vedere ciò ch’egli facesse. Questa donna tornò indietro
ben presto, tutta smarrita, a dire alla sua padrona che Filinnione
trovavasi con Macate in ragionamenti. La trattarono qual visionaria,
ma siccome ella persisteva in accertare che quanto diceva era il vero,
giunto che fu il mattino, Carito andò dal suo ospite e gli chiese
se la fantesca non l’avesse tratta in errore. Macate confessò che la
vecchia non aveva mentito, narrò tutte le circostanze di quanto gli era
accaduto, e mostrò il monile e l’anello d’oro, che la madre riconobbe
per quei di sua figlia. Questa vista ridestò nel suo animo il dolore
d’averla perduta; ella gettò spaventevoli grida, e supplicò Macate di
avvertirla quando la sua fanciulla ritornasse; il che egli fece. Il
padre e la madre la videro, e le corsero incontro per abbracciarla.
Ma Filinnione, abbassando gli occhi, con mestissimo sembiante lor
disse: «O padre mio! O madre mia! Voi distruggete la mia felicità
coll’impedirmi, mediante l’intempestiva vostra presenza, di vivere
soltanto tre giorni, insieme col vostro ospite, nella paterna magione,
e di avervi qualche dolcezza, senza in nulla turbarvi. La vostra
curiosità vi riuscirà funesta, perchè io men ritorno all’asilo della
morte, e noi mi piangerete non meno di quanto faceste quando fui posta
sotterra per la prima volta. Ma io vi ammonisco che non son qui venuta
senza il volere de’ numi». Dette queste parole, ella cadde morta, e il
suo corpo venne esposto sopra di un letto, agli occhi di tutta la gente
di casa._

_Si andò poscia a visitare il sepolcro di Filinnione e non vi si
rinvenne il suo cadavere; eranvi solamente l’anello e la coppa d’oro
che Macate le aveva regalato. Macate, pien di vergogna per aver dormito
con uno spettro, di propria mano si uccise. Riesce inutile il far
commenti sopra l’assurdità di questa favola_».

Chiusi il volume, tenendovi dentro l’indice per segno, e volli meditare
un poco sulla credenza nelle apparizioni dei morti, credenza di
tutti i tempi, comune a tutti i popoli. Che mai può essere? Una prova
dell’insanabile debolezza della mente umana? Un argomento confermativo
dell’immortalità dell’anima? Quante volte non mi sono affaticato a
rintracciare nella memoria l’origine di certe impressioni sottilissime
e misteriose avute Dio sa quando, forse in un’altra vita! Quante volte
non ho desiderato con tutte le potenze del cuore di rivedermi dinanzi,
sin pure per pochi istanti, l’immagine di qualcuno dei miei poveri
morti!

Intanto, a poco a poco, la sconnessione delle idee divenne confusione;
i sensi si assopirono; perdetti ogni volontà, ogni intenzione. Nel
dormiveglia mi parve ancora di dover fare qualche cosa, ma non seppi
più che...

Passò un’ora, forse due, forse tre. D’improvviso mi scossi, spalancai
gli occhi, feci quasi un balzo sul letto. Non era più solo. Alla luce
tremola e impura della candela fungosa vedeva una fanciulla, vestita
da ballo con eleganza congiunta a semplicità, che si moveva per la
camera senza fare il più piccolo rumore; e ogni poco si fermava a
guardarsi nello specchio ch’era sopra la consolle, come vagheggiasse
la sua bellezza, la sua acconciatura, il suo abbigliamento. Chi poteva
essere? Una povera pazza? Una sonnambula? Non volevo credere a quello
che vedevo, e stavo lì senza batter occhio, senza trar fiato. Tutt’a
un tratto osservai, o mi parve d’osservare che le carni e le vesti di
quella figura non avevano rilievo e colore distinto, che quel corpo
non gettava ombra nè sul soffitto, nè sulle pareti, nè sul pavimento!
Volli accertarmi. La maledetta candela, filò, si affiochì e si spense.
Pensai di riaccenderla, di rompere quel silenzio sepolcrale con
qualche domanda: il pensiero se ne arretrò spaventato. Fu uno spavento
istantaneo, prepotente, atroce. Fu come se il cervello si vuotasse di
sangue e d’un tratto si riempisse da scoppiare; come se il midollo, i
nervi, tutto ciò che conferisce alle membra la forza del muoversi si
disfacesse nel sudore di morte che m’inondò la persona. Non vedevo,
ma sentivo tuttavia la presenza della forma femminile. Ecco che ella
si staccava dallo specchio e veniva verso il letto, leggera come
una piuma, trasparente come un velo, e allungava le mani verso gli
oggetti d’oro che stavano sul comodino. Ero più certo di questo che
della morte; provavo un impulso, una smania di fuga, e insieme un
intormentimento strano, resistente all’impero della volontà. Mi trovavo
come rinfanciullito, rimbambinito, tornato al tempo in cui non ardivo
salire le scale di casa all’oscuro o penetrare da me solo nel boschetto
che stava dietro la nostra villa...

Sì, ero andato soldato pauroso come una lepre, ma mi avevano guarito.
E mi si affacciava alla mente il giorno in cui avevo ricevuto il
battesimo del fuoco, e quello in cui avevo fatto la mia comparita in
Parigi con la rilucente divisa di capo squadrone degli ussari e la
sciabola d’onore guadagnata un mese avanti in battaglia. I militari
spagnuoli fanno distinzione tra bravura, coraggio, intrepidezza,
valore. Essi dicono: — Egli fu bravo in quel giorno. — Io ero stato
bravo in parecchi giorni della mia vita, ma in quella notte non
era più buono a niente. A che mi servivano l’età, l’educazione,
l’esperienza, e il fatalismo quasi maomettano acquistato sui campi?
Un altro po’ e cadevo in deliquio come una femminuccia! Come mai?
Come mai? E cercavo di comprendere, di raccapezzarmi. Che mi era
accaduto? Cos’era stato? Un fenomeno morboso, sintomo di una malattia
che stavo covando? Un abbaglio, un vedere che aveva fatto la mia mente
d’un’immagine non vera, tutta di fantasia? La continuazione a occhi
aperti d’un sogno incominciato a occhi chiusi? Avrei dato la metà
del mio sangue per potermi capacitare che quello era stato un sogno,
magari d’un’intensità, d’un’evidenza, d’un persistenza straordinaria;
per poter cancellare dalla memoria quelle ore ignominiose. Ma era
impossibile. Di tanto in tanto mi accomodavo, mi rannicchiavo per
dormire: ma l’oscurità e il silenzio, invece di conciliarmi il sonno,
me lo guastavano. Avevo certi arricciamenti di capelli sensibili, quasi
dolorosi, certi brividi veementi e prolungati; e un odore, non so se
vero o immaginario: l’odore ingrato delle stanze state molto serrate,
mi mozzava il respiro...

Alla fine, quando meno me l’aspettavo, mi arrivò all’orecchio il
canto di un gallo. Mi parve che quella voce balda dissipasse l’orror
della notte. Riebbi come per incanto il sentimento della realtà; e
vestitomi a mezzo, andai francamente ad aprire una finestra. Era già
fatta l’alba, un’alba senza albore, e si distinguevano gli alberi
rabbaruffati dal soffiar tempestoso del vento, e la campagna disfiorata
dalla tropp’acqua caduta. Mi appoggiai al davanzale, esposi la faccia
all’aria pura, e stetti lì finchè non ebbi preso ristoro, finchè non
fui di nuovo ben presente a me stesso.

Mentre finivo di vestirmi, riandavo le impressioni della torbida
nottata trascorsa, e guardavo d’intorno per vedere se potevo scoprire
un segno che mi cavasse di dubbio, una traccia indicante la via seguita
dalla misteriosa fanciulla nell’entrare o nell’uscire. L’uscio di
scala era chiuso, l’altro dirimpetto, che metteva in qualche stanza
più interna, era mezzo aperto. Si vedeva un ragnatelo lassù in cima,
che andava dal battente allo stipite con tutti i suoi cerchi fini
fini e i suoi raggi come una ruota. Se l’uscio fosse stato aperto un
po’ più o chiuso affatto, il ragnatelo si sarebbe subito stracciato.
Provai, mossi il battente, il ragnatelo si stracciò e una parte rimase
penzoloni dallo stipite. Dunque quell’uscio non era stato toccato...

Stando così fermo, in atto di chi pensa, mi parve di sentire un
calpestìo. Mi affacciai al pianerottolo e vi trovai Giacomo.

— Cospetto! — diss’egli, facendomi un inchino. — Lei è molto
mattiniero. Come ha riposato stanotte?

— Così, così — risposi, rientrando in camera.

Il servitore mi seguì.

— Solo così così? Me ne rincresce. Un po’ d’agitazione, eh? C’era da
aspettarsela.

Mi annodai la pezzuola al collo, mi abbottonai il panciotto, indossai
l’abito e mi lasciai andare sul sofà.

— Vuol prendere il caffè? — riprese Giacomo.

— Grazie; lo prenderò più tardi.

— Bene, lo prenderà con _monsù_ e _madama_. Si levano sempre presto.
Oggi poi c’è la messa da morti qui nella cappella di casa.

— La messa da morti?

— Sì, signore. Questa è una giornata molto malinconica, è
l’anniversario di madamigella Rosa. Il babbo e la mamma fanno dire
una messa in suffragio dell’anima. Una volta venivano anche gli zii, i
cugini e qualche altro parente, ma ora, dopo cinque anni... M’immagino
che ieri sera i miei padroni l’avranno informato della loro disgrazia?

Accennai di no.

— Eh già! — esclamò Giacomo. — O non smettono più di parlarne, o li
sgomenta solamente il pensiero di doverla ridire.

Mi alzò gli occhi in viso, stette alquanto senza parlare e non potendo
indovinare la farragine d’idee che mi passava per la mente, mi domandò
di nuovo se non volevo prender niente.

— Creda che un bicchieretto di alchermes è una medicina di effetto
sicuro. Lei forse preferisce il maraschino?

Crollai il capo e poi risposi:

— Su via, ditemi come andò la cosa.

— Come andò la cosa? Sì, signore, le racconterò tutto dal principio
alla fine. Oh! deve dunque sapere che madamigella Rosa era l’unica
figlia dei signori Gindri; nata assai tempo dopo il loro matrimonio. I
genitori, ai quali non pareva vero d’aver avuto una figlia quando ormai
non speravano più prole, la compiacevano in ogni cosa, e si guardavano
fino dal contrariarla, temendo che il pianto le facesse male. Un’altra
si sarebbe creduta nata per dominar tutti, per comandare a bacchetta.
Lei no, lei sapeva che la superbia è il primo dei peccati mortali, e
trattava bene tanto la servitù che i contadini. Cresceva ch’era una
bellezza... E se ne teneva. Da bambina non avrebbe fatto altro che
stare allo specchio, e di nulla si offendeva, tanto come di essere
chiamata brutta. Era una meraviglia di speranza, e diventò un modello
delle fanciulle da marito. Appena cominciò a farsi vedere nel bel
mondo, cioè nelle conversazioni, nei concerti, nei balli di famiglia,
piacque moltissimo. Tutti ammiravano le cose che diceva e faceva: e il
padre e la madre toccavano il cielo col dito. Per farla corta, l’ultimo
giorno di carnevale madama Cordara, sorella della mia padrona, invitò
parenti e amici a passare la serata in casa sua. Per sentita dire,
madamigella Rosa ballò assai, e finita la festa era molto accaldata. La
mamma insisteva perchè si riposasse; ma lei si mise il suo _par-dessus_
di pelliccia, e niente paura. Io stavo di piantone nell’anticamera,
ma il cocchiere, quel birbante di Gaudenzio, non era al suo posto.
Cerca di qua, cerca di là, gira e rigira: nessuno sapeva dove si fosse
cacciato. E la padrona e la padroncina aspettavano nell’atrio, dove
circolava una corrente d’aria che pareva venir da un ghiacciaio! Pochi
giorni dopo madamigella Rosa era in letto con mal di capo, grande
spossatezza e molto affanno. Io dicevo fra me e me: — Gesù e Maria
aiutatela! Fate che non si sia pigliato un male di pericolo! — Ma il
dottor Rodella, che la visitava, si conservava tranquillo, si dava le
sue solite fregatine di mani: — Santa pazienza! la malattia vuol fare
il suo corso... La malattia rimane stazionaria, vedremo domani... La
malattia è superata, la signorina entra in convalescenza. — Già; ella
uscì dal letto, ma... Basta, sentirà. Passò l’inverno e il medico,
sperando che l’aria della campagna l’avrebbe finita di guarire, ordinò
che fosse portata qui, nella villa dov’era nata. Si fecero queste
poche miglia in una carrozza che pareva un letto, e tutto andò bene.
Tutto andò di bene in meglio per qualche tempo: pareva che madamigella
Rosa si fosse non solo riavuta dal piccolo strapazzo del viaggio,
ma cominciasse davvero a ricuperare le forze. Ecco che una mattina,
tornando da Carignano, dove ero andato a far le provviste, trovo
le persone di servizio tutte sotto sopra; Orsola, la cameriera, che
piangeva come una vite tagliata. Domando subito: — Cosa c’è? Cosa c’è?
— Orsola risponde: — La signorina se ne va. — Io non capisco e dico: —
Se ne va dove? — In paradiso, bestia! — Oh, poveri noi!

Qui Giacomo si fermò, non potendo andare innanzi per la commozione che
una tal memoria svegliava nel suo cuore. Dopo un momento si ricompose e
continuò:

— Già, la mia padroncina moriva, e non voleva morire. Si distaccava
dai suoi, dai beni di questa terra con tanto dolore, rammentava e
rimpiangeva i bei giorni della sua gioventù così corta, diceva cose che
ferivano il cuore. Il babbo e la mamma si sarebbero fatti crocifiggere
per tenerla viva. Noi... Oh, misericordia! Basta; madama Cordara,
ch’era accorsa subito, ebbe un’ispirazione dal cielo. Cominciò a
pigliarla larga, a passare da una cosa all’altra, finchè fece cadere
il discorso sull’abbigliamento alla moda; e allora le domandò con
naturalezza, per qualunque caso possibile, come voleva essere vestita.
Madamigella Rosa, ch’era stata attentissima, non rispose subito: volle
riflettere un poco, e poi disse:

— Oramai è finita, non si torna addietro. Che serve disperarsi?
Ma io abbandono le vanità del mondo proprio mentre cominciavo ad
assaporarle: fate almeno che la funzione funebre sia perfetta...
Desidero... aspettate... Ah! un guanciale di seta color rosa. È un
desiderio perdonabile, non è vero? Ricordatevi che l’essere e il
parere bella fu il gran pensiero della mia vita. Abbiate cura che il
mio velo sia amplissimo... Troverete in quel guancialino gli spilli
d’argento per appuntarlo con grazia... Mi farete con le treccie una
corona come quella che porta la signorina Paoletti... Ma vorrei aver
la fronte un po’ più scoperta; mi starà meglio. — Venne il prete. Ella
fece santamente le sue devozioni, e poi stette tutta raccolta come se
pregasse. Poco dopo si rivolse alla zia: — Pensa che col velo tornerà
bene la veste di mussolina che il babbo ha fatto venir da Parigi...
— Uno sfinimento le impedì di continuare. Quando si risentì si dolse
di non sapere a quali scarpini dare la preferenza. Madama Cordara le
suggerì quelli di raso bianco che aveva al ballo di casa Prèville.
Sì, quelli calzavan bene, ma erano troppo attilati, la molestava il
pensiero di tenerli per tutta l’eternità. Insomma si rimetteva in lei.
Si ricordasse che voleva sembrare addormentata; non dimenticasse che
aveva sempre amato i lori... Le parole le morivano in bocca, le si
annebbiava la vista, e tanto aveva ancora quel suo sorriso! Abbracciò,
come potè, il babbo e la mamma...

Giacomo s’interruppe di nuovo, che gli venne da piangere, e voltò il
capo dall’altra parte. Andò poi pianamente all’uscio del ragnatelo,
aprì e disse:

— La sua camera è ancora intatta. Venga a vedere.

Provai entrando in quel luogo come un tumulto di sentimenti
indefinibili: curiosità e tema rispettosa, ansietà mista di commozione,
tristezza prossima a ribrezzo.

Vidi una cameretta tutta color dell’innocenza, mobiliata con molto
gusto; c’era un letto gentile col cortinaggio chiuso, un’elegante
_toelette_ con padiglione e pedana, un cassettone di noce intagliato...
Sopra il cassettone stava un ritratto a matita, due mazzi di fiori
finti dentro ai loro vasi, un guancialino di spilli, una coppa di
porcellana della più graziosa fattura.

— Ecco, — susurrò Giacomo, indicando il ritratto: — hanno voluto far
lei, la mia padroncina. Le somiglia nel capelli, ma le fattezze non son
proprio quelle. Basta, io non me n’intendo. Ci sono sotto delle parole
scritte da sua madre.

Mi accostai e lessi i notissimi versi:

    «_Elle était de ce monde où les plus belles choses_
        _Ont le pire destin:_
    _Et, Rose, elle a vécu ce que vivent les roses,_
        _L’espace d’un matin_».

Nella coppa c’era un finimento di coralli, una crocellina _à la
Jeannette_, pendenti, fermagli, anellini.

— Sono i suoi gioielli — disse Giacomo, sempre a voce bassa. — Amava
anche tanto i gioielli!

Portavo alla catenella dell’orologio un bel ninnolo esotico, dono del
dottor Salvatori, addetto all’Ambasciata francese in Persia. Lo staccai
e lo posi nella coppa, come avrei posto un fiore sopra una tomba.

D’allora in poi non dubito più: l’anima separata dal corpo può
conservare o riprendere l’apparenza delle forme corporee.




IL FUCILATO


Maddalena Arò uscì sul verone, tese al sole un panno lavato; poi,
alzando gli occhi verso le colline, spinse il pensiero al di là, dove
si figurava che fosse il mare.

— Allegra! — gridò dal basso la vecchia Marta. — Ho incontrato quel
delle lettere, e me ne ha dato una per te.

La fanciulla si scosse, scese lestamente la scala di fuori, entrò nella
stanza terrena dietro sua madre.

— Una lettera di Prospero, eh?

— Eh già; di chi vuoi che sia? Presto, vediamo, vediamo.

Maddalena si mise a sedere vicino alla finestra, prese la lettera con
la mano non ben ferma, e ruppe il sigillo.

                                   «Genova, venerdì 20 maggio 1808.

      _Mia cara Maddalena_,

  Vengo di ricevere delle vostre nuove, che grazie al cielo godete
  perfetta salute. Anch’io mi sento bene, ma passo a raccontarvi la
  disgrazia che mi è successa: come qualmente sono stato fucilato
  in piazza dell’Acqua Verde. Ho fatto una morte piuttosto eroica e
  gloriosa, gridando: _vive l’empereur!_ che i miei camerati erano
  tutti stupiti di quel mio tanto coraggio, e dicevano: _tudieu!
  quel homme que ce Tonellò!_ Cosa volete? cara Maddalena, non era
  destinato che fossimo marito e moglie. Salutate vostra madre, e
  tutti quelli che domanderanno di me. Abbracciandovi caramente, mi
  dico essere sempre vostro affezionatissimo

                                              fu PROSPERO TONELLO».

— Ebbene?... ebbene?... ebbene?... — diceva Marta, ritta dinanzi alla
figlia, con le mani arrovesciate sui fianchi.

La figlia stette qualche momento con gli occhi spalancati, stralunati,
come se si vedesse il promesso sposo disteso ai piedi in una pozza di
sangue fumante; poi balbettò:

— È morto.

— Morto! — esclamò la vecchia, cambiandosi tutta in viso. — Come?
quando? perchè?... Prospero morto? Ma che ti gira?

La giovane diede in uno scoppio di pianto. Marta raccolse il foglio
ch’era volato in mezzo alla stanza, sillabò malamente alcune parole,
s’impazientì, pensò e prese una risoluzione:

— Senti — disse alla figlia, — mi rimane tuttor qualche dubbio, voglio
schiarirlo. Vo e torno. Non ti muovere, sai. Sfogati in lacrime.
Piangi, piangi: ti farà bene.

Detto questo, uscì in fretta e s’avviò alla scuola, ch’era nel mezzo
del villaggio.

Il maestro Cagnardi, lungo lungo, fine fine, con una parrucca e un
vestito di color ruggine, pareva un chiodo enorme, dissotterrato di
fresco. Misurava innanzi e indietro a passo lento la scuola, ora
alzando ora abbassando la voce, e stringendo di tanto in tanto il
manico dello staffile. Si voltò al rumore del saliscendi, e andò
incontro a Marta guardandole le mani, come faceva per abitudine
alle madri e alle sorelle dei suoi scolaretti, dalle quali accettava
volentieri polli, uova e ortaggio.

— Ma! ma! ma! — esclamò poi, con sopracciglio minaccioso. — Vedete bene
che sto facendo lezione. Cosa c’è? Cosa volete?

— Abbia pazienza — rispose Marta sommessamente: — dia un’occhiata a
questa carta.

— Ora non è il momento.

— Oh Signor Iddio! che ci vuol tanto...

— Non nominate il nome di Dio invano.

— Ci vuol tanto, dico, a fare un’opera di misericordia?

— Un’opera di misericordia?

— Vorrei sapere in confidenza, da lei che ha studiato, se questa
lettera contiene o non contiene una brutta nuova. Mia figlia dice di
sì; io, così a prima vista, direi di no.

Cagnardi pigliò il foglio, lo lesse piano, lo rilesse forte, e disse
agli scolari:

— Avete inteso? Avete notato prima quel «_mi sento bene_» e poi quel
«_sono stato fucilato_»? Cotesto è uno spropositone dei più massicci.
Ma io non ci ho colpa: sono gli alunni del mio predecessore che si
esprimono così. E vi serva d’esempio. Quando andrete a fare i soldati e
vi troverete in paesi lontani, ricordatevi di scrivere chiaro, non solo
calligraficamente, ma grammaticalmente. Torniamo al nostro proposito.
Attenti! _Verbo_ viene dal latino e vuol dire _parola_: come se si
dicesse che il verbo è la parola sola, la parola più eccellente, più
importante. Infatti il verbo è quello che dà senso alle altre parole...
Scrivete. _Il grillo è agile... La rosa è pomposa... La mosca è
noiosa_...

Marta fece una spallucciata e se ne andò.

La figlia aspettava sull’uscio, coi capelli scarmigliati, con gli occhi
rossi, col petto ansante.

— Sono andata dal maestro — disse la vecchia, senza aspettare la
domanda.

— Perchè?

— Per consultarlo. Lo consultano tutti, quando non sanno proprio dove
batter la testa.

— E dunque?

— Dunque niente.

— Come _niente_?

— Sono andata con le mani vuote e non mi ha voluto dir niente. È un
malizioso di prima forza, colui.

Rientrarono insieme nella stanza terrena, e si posero a sedere l’una in
faccia dell’altra.

Dopo un momento, Maddalena ricominciò a piangere dirottamente.

— Basta! — disse Maria, asciugandosi pure le lacrime. — T’ho lasciata
sfogare, adesso basta. Bisogna farsi coraggio. Stasera reciteremo il
rosario in suffragio dell’anima di quel poveretto. Se credi, gli faremo
dire una messa, anche due, e poi... E poi metterai il cuore in pace,
eh?

— Mamma, il cuore in pace non lo metterò mai.

— Oh Signor Iddio! Alla fin dei conti che cos’era questo Prospero?
Quello che ti parlava quando stava al paese: come dire il tuo amoroso.
Altro è un amoroso, altro è un marito; altro è parlare, altro è vivere
insieme. Bisogna aver vissuto con un uomo di giorno e di notte, d’amore
e d’accordo, per sapere che cos’è restar senza sul colpo! Io lo so.
Sono passati nove anni, ma... Oh misericordia! Rammenta, rammenta
quella maledetta mattina!

La madre e la figlia si guardarono in viso e rabbrividirono, assalite
in un punto da una folla di rimembranze crudeli.

La mattina del 1º giugno 1799, Pietro Arò stava, con altri muratori,
restaurando la facciata della parrocchia. Tutt’a un tratto il ponte,
sopraccarico di materiali, s’era sfasciato, travolgendo due uomini, e
lasciando Arò e un certo Odasso aggrappati a un’abetella pencolante, in
piena agonia.

— Arò, il legno cede.

— Odasso, pesiamo troppo.

— Uno di noi può salvarsi, due no.

— Io ho la moglie malata, una nidiata di piccolini...

— La mia Marta è robusta; Maddalena può già lavorare...

— Arò, Arò, il legno cede!

— Vado. Pregate per me.

                                   *
                                  * *

Il figlioletto dell’aggiunto, tornato di scuola, raccontò una cosa
straordinaria: un soldato, nativo del luogo, era stato fucilato perchè
non sapeva la grammatica. L’aggiunto, domandò al terzo e al quarto per
aver qualche lume, poi credette bene di parlare col _maire_. Il _maire_
fece chiamare il maestro. Il maestro li indirizzò senz’altro alla
vedova Arò.

Vistili apparire sulla soglia, Maddalena si alzò e uscì chetamente
dalla parte dell’aia. Marta li ricevette alla meglio, e presentò loro
il foglio.

— Già — fece il _maire_, dopo averlo letto e riletto; — ma non sarà poi
uno scherzo dei compagni d’arme?

— Ma è la sua scrittura — rispose Marta; — la scrittura di Prospero.

— O uno scherzo di Prospero stesso?

— Eh no! era un giovane serio, fin troppo, fin troppo.

Il _maire_ pensò un poco, poi fece un saluto, prese per un braccio
l’aggiunto e trattolo fuori della casetta, disse sotto voce:

— Ho mangiato la foglia.

— Dite davvero?

— Questo Prospero Tonello non doveva forse venire in congedo?

— Sicuro.

— Eh! allora l’affare diventa chiaro come il sole: la lettera è
un’astuzia, uno strattagemma, nient’altro. Colui non vuol più prender
moglie, o non vuol più saperne di questa Maddalena.

— Che però è una ragazza piacente. Ha i capelli neri, gli occhi chiari,
il personale svelto, un bel portamento...

— Ma quell’altro è a Genova!

— Ciò non significa niente.

— Bravo! Si vede che non ci siete mai stato.

— Sono stato ad Alessandria.

— Ma che Alessandria! È Genova che bisogna vedere.

— Il mare, eh?

— Ma che mare! Le donne, le donne, le donne. A Genova le donne sono
tutte belle; gli uomini tutti brutti. Perciò è il paradiso dei
forestieri. Io lo posso dire, che vi ho passato un carnevale. Un
carnevale che non dimenticherò mai!

Intanto la voce si spargeva per il villaggio e per il contorno in cento
maniere. Dopo il _maire_ e l’aggiunto, si presentarono alla casetta tre
consiglieri del municipio; poi amici, parenti, conoscenti, curiosi. In
tutto il resto di quella giornata, Marta non ebbe un momento di quiete.

A notte, stufa di rispondere sempre alle stesse domande, mise la
lettera famosa sulla tavola, accanto alla lucerna accesa, serrò
l’armadio a chiave, spalancò l’uscio di strada, e andò a sedere
nell’aia, al buio, vicino alla figliuola sconsolata.

La gente entrava, leggeva o compitava lo scritto, e tornava fuori a
ciarlare.

— È proprio morto, eh? — Pare. — Ecco un altro che non vedremo mai più.
— Poveraccio! me ne sa proprio male. — Era un buon diavolo. — Poh! una
lana, che sfido chiunque. — Un prepotente bello e buono. — Prepotente
no, ma molto manesco. — Brutti tempi son questi: rivoluzioni, guerre,
esecuzioni, terremoti, carestia, epidemie; se continua un altro
poco, vuol essere uno sperpero d’uomini, e massime di gioventù, da
ricordarcene per un pezzo.

La mattina seguente, le due donne ricevettero la visita di Casimiro
Celotto, padrone di un poderetto poco distante dal paese. Era stato
coetaneo e amico d’infanzia del povero Prospero, e desiderava qualche
ragguaglio sulla sua tristissima fine. Ragguagliato che fu, mormorò
tra i denti alcune parole di conforto, di rassegnazione, e si congedò.
Due giorni dopo, passando casualmente davanti alla casetta, si
affacciò all’uscio, ricambiò un saluto, e continuò la sua strada. Ma
la domenica, verso sera, si riaffacciò; invitato a entrare, entrò, e
rimase un pezzetto a discorrere del più e del meno.

Da quel giorno in poi prese a frequentare la casetta senza suggezione.
Si metteva a sedere dirimpetto a Marta, nella bella luce che per la
piccola finestra veniva dentro dal cielo sereno e dalla campagna
assolata, e dava le nuove: — La grandine, grossa come le noci, ha
mangiato il raccolto dell’uva su cinque colline... I banditi hanno
incendiato una villa in quel di Baldichieri... Nel pozzo di una cascina
isolata, si è trovata una giovinetta sgozzata come un agnello... A
Villafranca si fanno grandi preparativi per ricevere degnamente il
vice-prefetto, il procuratore imperiale, e diverse altre autorità del
dipartimento...

Egli, sebbene non istruito, aveva molto garbo a raccontare. Rivolgeva
a quando a quando la parola anche a Maddalena, con timida e delicata
amorevolezza, come se ella vivesse in un ambiente particolare,
circondata da un’aria resa pura e quasi sacra dalla recente sventura;
le teneva poi sempre gli occhi addosso mentre preparava il desinare
o la cena, ancora un po’ pallida, e con una serietà tra malinconica e
contegnosa, che non si accordava affatto con l’occupazione ordinaria,
ordinarissima a cui attendeva.

Marta ascoltava premurosa; si attristava, inorridiva, si maravigliava;
e moltiplicava le interrogazioni e le considerazioni.

Così passavano il tempo nella massima pace.

Un giorno, mentre Casimiro si avvicinava alla casetta da una parte,
vide Marta che si allontanava dall’altra. Fu lì lì per darle una voce,
poi si rattenne e affrettò lietamente il passo. L’uscio era socchiuso.
Lo spinse bel bello, dicendo forte: — È permesso? è permesso? — Nessuno
rispose. Entrò e si affacciò all’altro uscio, che metteva sull’aia.

Maddalena era là, sotto la tettoia, a un trenta passi di distanza;
stava a sedere, volta per fianco, sopra una carriuola, e riduceva in
briciole un pezzo di pane. Ai suoi piedi era un correre scompigliato
e minuto di pulcini pigolanti, bianchi e morbidi come batuffoli di
bambagia: la chioccia, grossa e giallognola, girava attorno alla
covata, chiocciando, raspando, sminuzzando le briciole, e avventandosi
furiosamente alle altre galline che si affollavano per beccare.

— Vediamo se si volta verso di me — pensava Casimiro, contemplando
così da lontano la bella fanciulla; — se _sente_ che io sono qui; se il
cuore le dice qualche cosa...

Maddalena finì di sbriciolare il pane, appoggiò il gomito sinistro sul
ginocchio, chinò la fronte nella palma, fissò gli occhi a terra.

— Niente! — continuò il giovane dentro di sè. — Il cuore non le dice un
bel niente. Chi sa! forse lo fa apposta. Era in casa, mi ha conosciuto
al passo, ed è scappata per farmi dispetto.

In quel momento quattro tacchini, che stavano accovolati in disparte,
alzarono le teste bernoccolute dalla caruncola carnosa e pendente,
abbassarono l’ali, arruffarono le piume, spiegarono in semicerchio le
penne della coda, e si avanzarono gonfi e pettoruti verso l’intruso.

Casimiro cavò fuori la sua pezzuola a fiorami rossi, e la mosse in qua
e in là per aizzarli sempre più.

— Animo! fate la ruota, fate la ruota, glu glu glu glu, così va bene.
E quell’altra continua a far la statua! Non guarda nemmeno con la coda
dell’occhio! Ci vuol tanto a voltare un pochino la faccia? Eh, ma lo
fa apposta! Crede forse di umiliarsi? Mi umilio bene io, che vengo qui
tutti i giorni a divertire la sua vecchia. Cosa vuole di più? Che le
porti il latte d’oca? Però, dopo tante occhiatine che dicevano tutto,
vedersi ricompensato così, l’è barbara, ecco... Superbia! superbia! E
alla fin dei conti è poi una ragazza come tant’altre. Adesso è proprio
ridicola. Siamo ridicoli tutti e due. Oh me ne vado!... Non ho più
tempo da perdere. Me ne vado, me ne vado, e giuro che non torno mai
più!...

Non tornò più... Ma di tanto in tanto capitava alla casetta un ragazzo,
che portava i saluti di Casimiro, e insieme un paio di pernici o una
lepre o tre o quattro quaglie.

— Guarda com’è gentile! — diceva Marta a Maddalena. — Come pensa a quel
che fa! La carne di animale selvatico è un eccellente nutrimento. Quel
che ci vuole per noi, che siamo come due convalescenti: io perchè sono
in là con gli anni, tu perchè sei ancora un poco innamorata.

— Non lo sono più — rispondeva la fanciulla freddamente.

— Manco male... Però bisognerebbe anche ringraziarlo, questo buon
figliuolo.

— S’è reso invisibile.

— Purtroppo. Ma in questo io non ci ho colpa.

— Nemmeno io.

— Ehehe!

— Cosa? Se colui ha la luna...

— Come _colui_? Chiamalo Casimiro. Casimiro è un bel nome, e che
gli sta bene, perchè lui è anche un bel giovane. Un giovane di molto
credito, figlio unico di madre vedova, e già dispensato dal servizio
militare. Ha un po’ di terra al sole, e una calza di lana quasi
piena di marenghi, dentro il pagliericcio. Questo me l’ha detto in
confidenza la Foassa, che lo ha assistito quando aveva il mal maligno.
La Foassa esagera sempre un poco, e mettiamo che insieme all’oro ci sia
anche dell’argento e del rame: ma è tutta moneta corrente, e bisogna
rispettare chi la possiede... Casimiro veniva qui con buona intenzione,
a fin di bene, con la speranza di consolarti. La sua amicizia ti doveva
dar consolazione, perchè si capisce che non è una di quelle che tutti
possono avere. E tu fai la scontrosa, la disgustata! Belle cose!... Hai
una di quelle facce che si vorrebbero veder sempre contente e serene, e
ogni mattina metti su muso, e lo tieni per tutta la giornata. In paese
c’è già chi ti chiama la _Musona_. È un soprannome. Ma i soprannomi
sono attaccaticci come la pece. E quando una ragazza s’è guadagnato un
soprannome, non glielo leva neanche il papa. Hai capito?

                                   *
                                  * *

Potevano essere le dieci. Una campana scoccò lamentevolmente, cominciò
a sonare a morto.

— Diamine! — esclamò Marta. — Ammalati non ce n’è, ch’io sappia. È
forse accaduta qualche disgrazia mortale?

La madre e la figlia uscirono di casa. La strada era deserta. Alle
finestre e sui terrazzini delle case, ammucchiate alla falda del
colle, non si vedeva nessuno; nessuno sulle mura del castellaccio
angoluto, piantato sulla cima; ma il piccolo campanile barocco, ritto
a mezza costa, continuava a diffondere nell’aria estiva il lugubre
avviso. Finalmente il suono cessò; le ultime onde parvero estendersi,
oscillare, confondersi con altri rumori vicini e lontani; e tosto
si riudì il fracasso dei correggiati che battevano le manne di grano
distese sulle aie.

— Tant’è — fece Marta: — voglio sapere qualche cosa. Vado qui da Lucia
_la sorda_, che è sempre informata di tutto.

Maddalena si ristrinse nelle spalle e tornò in casa.

Poco dopo ricomparve la vecchia tutta frettolosa.

— Lucia non sapeva niente, quella sciocca; ma mi sono imbattuta in
Giovanni Bongiovanni, che mi raccontò come andò il fatto.

— C’è stato un fatto? — chiese Maddalena.

— Sta attenta. Due ore fa venne gente a chiamare il parroco che andasse
più in fretta che poteva su al Cascinotto, dove una persona stava per
morire. Don Nosengo fa cercare il chierico perchè lo accompagni: il
chierico non si trova in paese; prende egli stesso gli arredi sacri
occorrenti, e via. Giunto al Cascinotto, apre l’uscio e vede Geppe,
il capo di casa, seduto come al solito sulla sua seggiola impagliata,
e torno torno, i figli, le figlie, i generi, le nuore, i nipotini. —
Uhei! — dice il parroco, — dov’è il malato? — Son qui — risponde Geppe.
— Ma voi state meglio di me! — No, signore, sono proprio agli ultimi...

— Era vero?

— Come! se era vero? E la campana? Ti pare che sonasse a festa, la
campana?

— Povero vecchio!

— Poh! aveva compito novantanove anni giusto la settimana passata. Io
mi contenterei d’arrivare alla novantina.

— Comunque è una brutta notizia.

— To’, ne vuoi una bella? Ho visto Casimiro che parlava con la cugina
Rosalia. E come!

— Dove?

— Sul ponte di legno.

— Adesso capisco.

— Cosa?

— Perchè passeggia in su e in giù lungo il rio.

— E non ha mai detto niente?

Maddalena rispose con una risatina.

— Manco male — mormorò la madre, — che la prendi in buona parte.

— E che m’importa a me di quei due? Mi dispiace perchè non mangieremo
più pernici, ecco!

— Uhm! a dir _che m’importa_ ci vuol poco. Alla prova poi bisogna
vedere; io se fossi in te, starei zitta. Ti compatisco, perchè hai poca
esperienza. Tempo verrà che non penserai più a Prospero...

— Oh, non cominciamo coi soliti discorsi. Io non penso più a nessuno.
Voglio vivere tranquilla. Casimiro è biondo; Rosalia bionda tanto
o quanto anche lei: faranno figliuoli biondissimi. C’inviteranno
alle nozze, ai battesimi, a tutto. Non vedo l’ora d’andarvi. Non mi
lascierò più sfuggir nessuna occasione di stare allegra. Al diavolo la
malinconia! Al diavolo tante altre cose!

— Uh, come parli!

— D’ora in là parlerò sempre così!

— Misericordia!... E adesso dove vai?

— Vado a cogliere un po’ d’insalata.

— Che bisogno c’è di pigliare il sarchiello? Non hai le mani?

— Sta a vedere che non potrò più sarchiar l’orto!

— Oh Signor benedetto! Che maniera è questa?

— Un orto che fa pietà! Le prode si sono empite d’erbacce; le vespe, i
calabroni, i bruchi, le zuccaiuole, mandano alla malora ogni cosa. So
io quel che va fatto.

Così dicendo, la fanciulla uscì dalla stanza, traversò l’aia, entrò
nell’orto: ma invece di mettersi all’opera, gettò il sarchiello in
mezzo ai fagiuoli e girò l’occhio lungo il rio, che scorreva poco
distante, tra due rive ineguali, folte di salici e di pioppi. Intravide
subito fra tronco e tronco una figura umana, che veniva lentamente alla
volta sua.

— È lui, quell’impostore!... Ha lasciato sul ponte la sua biondona...
Ma cosa viene a far qui?

Così pensato, andò a mettersi di fianco a un grosso susino e stette lì
mezzo nascosta, con la testa avanti e la persona indietro.

Fatti alcuni passi, Casimiro si pose a sedere sur un greppo all’ombra
d’un grand’albero frondoso, come per riposarsi e prendere un po’ di
fresco.

Maddalena rimase un momento immobile e pensierosa; poi abbracciò
bruscamente il susino e diede due scosse che fecero cadere i frutti a
dozzine.

Il giovane si rizzò, balzò nel campo: ma poi si avvicinò lemme lemme,
con l’aria di chi non sa cosa fare di sè.

— Siete lì, Maddalena? Oh oh! come maltrattate quel povero susino!

Maddalena si staccò dall’albero, e accennò mollemente che desiderava
parlargli.

Casimiro si avanzò fino alla siepe e aspettò.

— Vi devo ringraziare — disse la fanciulla, dopo un poco.

— Di che cosa?

— Di tutta quella buona roba che ci avete mandata. La selvaggina piace
molto a mia madre. Vi ringrazio anche a nome suo. È un po’ tardi, ma vi
siete fatto prezioso...

— Eh, le faccende.

— Faccende di Stato?

— Faccende di campagna.

— Sento dire che volete prendere il posto del _maire_.

— Sarà.

— Che risposte asciutte.

— Ho imparato da voi.

— Cioè? spiegatevi.

— Non occorr’altro.

— Badate che io intendo le cose a mezz’aria.

— Allora poi non domandate.

— Del garbo ce n’è poco, ohe!

— Non ho preteso d’offendervi. Le mie parole vi scottano, perchè voi
altre ragazze siete tutte quante ideali; cioè avete sempre mille idee
per la testa, e spesso vi ostinate a credere che una cosa è così
piuttosto che così. E montate in superbia quando non è proprio il
caso. E la superbia fa saltar la mosca al naso, perchè è figliuola
dell’ignoranza, perchè è vizio contrario alla civiltà, perchè è il
primo dei peccati mortali!

— Grazie della predica. Ma credete pure che un poco di superbiuzza l’ha
anche lei.

— Chi mai?

— Rosalia.

— Rosalia?!

— Tutti sanno che fa all’amore con voi.

Casimiro fece un viso fra attonito e severo, e disse sentenziosamente:

— Prima di giudicar male una persona ci vogliono dei fatti.

— Non parlo a caso: mezz’ora fa eravate con lei sotto il ponte. E
l’avete abbracciata, e l’avete baciata. Sì, sì, baciata, baciata,
baciata! Vergogna! che si fanno certe cose?

Il giovane si mise una mano al petto, e rispose con tono lento e
solenne:

— Mezz’ora fa ho incontrato Rosalia sul ponte, sopra e non sotto, e le
ho detto: Rosalia, fatemi il piacere, portate quel benedetto seme di
spinaci a mia madre. Parole testuali.

Vi fu un silenzio. La fanciulla aveva spiccato uno stecco, e lo
scortecciava con l’unghia. Il giovane si faceva vento col cappello.

— Poh! — esclamò poi, scostandosi un poco; — è inutile confondersi:
tanto me ne voglio andare. Vado a fare il soldato.

— A piedi o a cavallo?

— Nei _Tirailleurs du Po_.

— Mi rincresce.

— Perchè?

— Non mi piace la divisa.

— Addio, Maddalena.

E accompagnando queste due parole con un gesto misurato e grazioso,
Casimiro si scostò un altro poco.

— Pensate a quel che fate — susurrò Maddalena, buttandogli lo stecco
pelato.

Il giovane si voltò.

— Mi fate il piacere di pensarci anche voi?

— Ci penserò.

— Quando? La settimana dei tre giovedì?

La fanciulla fece un sorriso a fior di labbra, e stese dolcemente la
mano sopra la siepe.

Casimiro brillò di gioia, ma non si mosse.

— Bene — diss’egli, — vi prendo in parola. Ma dovreste fare qualche
cosa di più.

— Che posso fare?

— Aprire il cancello.

— Non c’è cancello.

— Mi permettete di scavalcare la siepe?

— No!... Sì, scavalcatela pure.

                                   *
                                  * *

Un venticello d’autunno, foriero di pioggia, staccava dai pioppi
del rio le foglie appassite e le portava a cadere nell’aia, spianata
e spazzata di fresco. Sotto la tettoia, sgombra e sbrattata, stava
la tavola, apparecchiata per il banchetto nuziale fin dal mattino:
tovaglia e tovagliuoli bianchi di bucato, posate lucenti, fiori,
frutta, e un gran pan di Spagna proveniente da Asti, dalla rinomata
bottega del pasticciere Pavia.

Anche la cuoca veniva da Asti: era stata magnanimamente concessa
dall’oste del _Moro_, parente alla lontana di Casimiro Celotto. In
quell’ora solenne, ella armeggiava febbrilmente intorno al focolare
della stanza terrena, sudicia e nera come una blatta, brontolando,
taroccando e tirando scapaccioni al ragazzetto che faceva da sguattero.

Tutt’a un tratto, si sentì lo scoppio di parecchie castagnole. Poi
un chiasso di voci festose. Due bambine, che stavano alle vedette nel
mezzo della strada, strillarono insieme:

— Eccoli! Eccoli!

Il corteo tornava di chiesa.

Dopo qualche momento, Casimiro e Maddalena entrarono a braccetto
nell’aia, seguiti dai testimoni, dai parenti, da alcuni amici.
Uno di questi, che veniva ultimo, si voltò indietro, gettò in aria
due manciate di mandorle alla perlina; e approfittò della mischia
consecutiva, per chiuder fuori la ragazzaglia sfacciata e importuna.

Di lì a poco tempo il pranzo fu all’ordine. Giovanni Bongiovanni, zio
materno di Casimiro, mise a tavola gli sposi, con le due madri: Marta
Arò e Luisa Celotto: poi si pose a sedere di faccia, tra Rosalia Fiore
e Lucia _la sorda_. Tutti gli altri, uomini e donne, presero i posti
che trovarono vuoti.

Sparito l’antipasto, le dimostrazioni di gioia diventarono numerose.
Gli uomini battevano i pugni sulla tavola, facendo balzellare stoviglie
e bicchieri: prorompevano in esclamazioni spropositate; rivolgevano
alle donne domande equivoche e gagliarde, motti salati, ma salati
bene, che facevano sogghignare le vecchie e sgranar tanto d’occhi alle
giovani.

Un cagnuzzo affamato, che ronzava d’intorno, cacciandosi tra i piedi
di questo e di quello per leccare o abboccare una cosa caduta, saltò
bruscamente in mezzo all’aia, e cominciò a mandar fuori una voce che
bucava gli orecchi.

— Che diavolo c’è? — To’, to’, è l’ora di abbaiare alla luna? — Vuol
gridar: viva gli sposi! anche lui. — Basta, fatelo tacere. — Passa via,
brutta bestia! — Alla cuccia, alla cuccia! — Dàgli, dàgli!...

Ma il cane rabbuffava il pelo, raddoppiava gli urli, s’inveleniva
sempre più come contro un nemico ancora invisibile. Poi, quando si
sentì picchiar forte alla porta, sgattaiolò sotto la tavola, guaendo
guaendo, quasi lo avessero percosso.

Il ragazzo, che serviva, andò ad aprire.

Un giovane bruno, asciutto e nerboruto, con un _bonnet de police_
in testa, un fagotto di panni sotto il braccio, entrò chetamente e
cominciò a fulminare in qua e in là cert’occhiate da pazzo furioso.

Gli sguardi dei commensali si volsero a lui: tutti raffigurarono
Prospero Tonello e stettero immobili e muti. Anche Maddalena perdette
istantaneamente il sentimento e il discorso; gettò un braccio al collo
di sua madre e le nascose il viso nel seno. Casimiro non impallidì,
posò pianamente il tovagliolo, si rimboccò le maniche, e stette pronto
e preparato ad ogni caso.

Prospero s’avanzava piede innanzi piede; col viso infocato, torvo,
cagnesco; con tutta la persona atteggiata a minaccia. Gridava con voce
strozzata:

— Ah, Maddalena, _sacredieu!_ cosa avete fatto! Ho incontrato per
istrada uno che mi ha dato la nuova. Cosa avete fatto! È così che
mantenete le vostre promesse? Aspettate aspettate, vi dirò una parolina
in un orecchio; ve la dirò alla barba di quel poltrone, di quel
traditore, di quel Giuda che vi siede accanto!

A queste parole, Casimiro si rizzò, balzò nell’aia, e buttando il
cappello in terra davanti a Tonello disse:

— Passa quel segno, e vedrai se sono un poltrone!

Tonello rispose con un ringhio, lasciò cadere il fagotto, saltò sul
cappello a piè pari, frugando in tasca furiosamente.

— Ha il coltello! — susurrò un commensale.

— Il coltello! — risonò all’intorno. — Date un coltello anche a
Casimiro: il trinciante, il trinciante!

Gli uomini si levarono in piedi tutti insieme, concitati e frementi.
Le donne si misero a piangere, dimenandosi sulle seggiole. Lucia _la
sorda_ scappò strillando dietro il pagliaio. Il cagnuzzo, sotto la
tavola, guaiva alla disperata.

— Zitti, fermi! — gridò il vecchio Bongiovanni, alzando quelle
sue manone e movendole per aria. — Ubbidite a me, che sono stato
sergente. Casimiro torna al tuo posto. Sei ammogliato, e non puoi fare
spropositi. E tu, Prospero, rintasca quello scannarospi. Cosa vieni
a far qui, maledetto guastafeste? Il pranzo andava a vele gonfie. Un
pranzo di nozze è una cosa sacramentale: come dire una _coena Domini_.
E poi che razza di facezia! Tutti ti credevano all’altro mondo da un
buon poco...

— All’altro mondo? — rispose Prospero, digrignando. — Vi manderò voi
altri all’altro mondo!

— E va bene. Hai il fegato di metterti solo contro tutti: sei un buon
astigiano. A posto, Casimiro! A chi dico? Zitti, fermi, che qui bisogna
metter carte in tavola. Marta, andate a prendermi la lettera, quella
certa lettera; ma volate, oh!

Marta andò di corsa, e tornò di lì a un momento col foglio macchiato e
gualcito.

Bongiovanni, coi suoi occhialoni a cavalluccio sul naso, lo prese e
cominciò a leggere:

— _Vengo di ricevere_, eccetera... _Anch’io mi sento bene_. eccetera...
_Sono stato fucilato_, eccetera... Insomma questa lettera è tutta piena
di contraddizioni, di controsensi, di bestialità. Ti senti bene e sei
stato fucilato? In sogno, forse? Di’ la verità: eri stato alla cantina
del quartiere, e avevi preso una cotta, una cotta.

— Un corno! — gridò Prospero, pestando i piedi. — Badate come parlate,
mammalucco! Io non sono un notaro, non sono un avvocato. Scrivo come
mi detta il cuore. Quel giorno, pigliando la penna, ho detto fra
me: adesso facciamo bene i conti. Devo passare per le armi domani, a
mezzodì; dopo domani non ci sarò più, e Maddalena riceverà la cara mia
che io sarò sotterra da molte ore. Dunque, non potendo prepararla, non
potendo indorarle la pillola, zaffe! val meglio farla finita; dare,
direi quasi, il colpo di grazia anche a lei. Avete inteso? Diavolo,
quando le ragioni sono giuste... — Qui s’interruppe come sorpreso da un
pensiero, stette un momento, poi esclamò: — Ehi! ma questa è la prima
lettera, e la seconda? Io ne ho scritto due, una dopo l’altra, una
diversa dall’altra, due, due, due!

— Noi non abbiamo ricevuto che questa — rispose Marta; — nient’altro
che questa.

— Giurate!

La vecchia alzò gli occhi al cielo, con una grande significazione di
tutta la cera, e prese tra le dita la crocellina d’oro che portava al
collo.

— Eppure ho scritto una seconda lettera — mormorò il giovane, un
po’ raumiliato; — tutta diversa dalla prima; e l’ho data al caporale
Toulouse perchè la spedisse.

— Poh! — fece Bongiovanni, accostandosi e palpandogli le spalle e le
braccia per acquietarlo del tutto. — Toulouse si sarà dimenticato, o
l’avrà perduta.

— Infatti è uno smemorato di prima riga...

— Vedi! Dunque la colpa è sua, tutta sua. E farai benissimo a dargli
una buona lezione, alla militare. Adesso concludiamo. La lettera che
non è giunta al suo destino non conta niente. Questa, che abbiamo
sott’occhio, è come chi dicesse un certificato di morte, firmato da te,
di tuo pugno. Il fatto è fatto, caro mio, e bisogna rassegnarsi.

Detto questo, il veterano si rimise a sedere.

Casimiro aveva ripreso il suo posto; e stava lì col viso contratto,
come di chi rattiene o ricaccia continuamente dentro l’anima un
sentimento amaro e violento. Maddalena, ancora tutta sottosopra, non
mangiava, non parlava, non si moveva, se non che a quando a quando
sussultava e tremava. Gli altri avevano ricominciato bel bello a
banchettare.

— Mangioni, beoni, razza di cani — ripigliò Tonello, rivolgendosi
amabilmente a tutta la brigata: — non m’avete neanche domandato come io
l’abbia scampata!

— È vero — barbugliò Bongiovanni a bocca piena: — non gli abbiamo ancor
domandato come ha salvato la pelle!

— È il principe Borghese che m’ha fatto la grazia: il principe
Borghese, governatore generale del Piemonte in nome di Napoleone,_
mon empereur!_ Dovete sapere che il signor Della Villa, _secrétaire
des commandements_ di Sua Altezza, non entra mai nel gabinetto dove si
trattano gli affari di Stato dopo le tre pomeridiane. Quel tal venerdì
entra alle cinque sonate, così, casualmente, senza sapere il perchè.
Vede sulla scrivania _une dépêche_, un dispaccio giunto allora allora,
e lo apre. _Sacredieu! un soldat, qui avait dérobé quelques effets,
devait être fusillé le lendemain même à Gênes, à l’heure de midi_.
Legge e rilegge, pensa e ripensa, e si persuade _que le conseil de
guerre de la_ 28e _division militaire_ ha fatto le cose alla leggera,
ha giudicato a sproposito, pronunziando _dans une affaire que certaines
circonstances plaçaient sous la juridiction des tribunaux civils_. Una
bagatella! Che fare? Ricorrere al principe. Ma il principe dorme. Il
segretario piglia la cosa sopra di sè e lo fa svegliare. Quel bravo
signore salta giù dal letto, dà udienza subito, e va sulle furie —
Come! fucilare Tonello per la miseria di pochi stracci? Razza di porci,
v’insegnerò io a far di queste belle prodezze! Ma, _tonnerre de Dieu!_
l’esecuzione si deve fare a mezzogiorno in punto, fra diciotto ore,
_dix-huit heures! et il y a cinquantesix lieues de Turin à Gênes, et
la Boquette a passer!_ Presto, presto, chiamate Camillo. — Camillo, il
famoso corriere, è lì, pronto a tutto. Il principe gli promette una
gratificazione coi fiocchi se arriva in tempo. Quel demonio inforca
la sella, corre che vola, e alle nove e mezzo si trova sul luogo!...
È lui, Camillo, che mi raccontò come andò il fatto. La sentenza fu
cassata, e la pena di morte commutata in qualche mese di gabbia. Ma che
caso, eh? _A quoi tient donc la vie d’un homme!_

— Bravo! — esclamò uno dei banchettanti. — Parli francese come una
vacca spagnuola.

— E cosa farai adesso che sei rimasto scapolo? — domandò un altro,
ghignando. — Andrai a fare il bandito, come Maino della Spinetta?

— Nemmen per sogno! — gridò Tonello, spianando la destra per aria,
e mettendosi sempre più in attitudine di oratore. — Ho già un’altra
idea. Il principe Borghese conosce il mio nome, e con un tal protettore
non tremo più. Andrò a trovarlo e m’intenderò con lui. E poi e poi e
poi, voi altri vivete qui rintanati, e non sapete i casi straordinari
che succedono fuori via. _Mon empereur_ mette in combustione tutta
l’Europa. _L’Europe, une des quatre parties du monde!_ Sicchè oggi
viene la notizia d’una gran vittoria, domani d’un’altra; qua si
racconta d’un regno cangiato in repubblica, là d’una conquista fatta
con cento colpi di fucile. C’è la gloria dell’armi, la decorazione
del valore, mille diavolerie da far andare in visibilio i soldati.
Un uffiziale, un sotto uffiziale, un fantaccino comune può rivolgersi
direttamente all’imperatore, e dirgli: — Sire, ho meritato la croce. —
Lui domanda, strizzando un occhio: — E in che maniera? Fatemi un po’ la
storia del vostro affare. — Poi fa registrare il nome e il grado del
richiedente, e se ha detto il vero, la faccenda è subito aggiustata.
Così si può diventare in pochi giorni comandante, maresciallo,
principe, duca, vicerè. Io tornerò in Piemonte general d’armata, e
metterò a fuoco e fiamma tutto il paese. _Quart de conversion, par le
flanc gauche_, e che il diavolo vi porti quanti siete!

Ciò detto, dibattè i pugni in aria, raccattò il fagotto, e fece atto di
partire.

— Senti — gli gridò dietro Bongiovanni: — non sei nato su quel d’Asti,
tu?

— Altro! — rispose Tonello fermandosi.

— Allora non puoi andartene senza bere.

— Sono tuttavia digiuno.

— To’, mettiti qui in capo di tavola.

— Io a tavola con quelli che m’hanno assassinato nell’onore? Siete
matto, voi. Mangerò un boccone lì, sulla pietra del pozzo.

— Come ti piace. Olà, da sedere al generale Tonello; servite il
generale Tonello!

Il ragazzo accostò al pozzo una panca, sulla quale si mise Tonello,
mandando un auf! che parve un ruggito!

Il cielo era tutto una nuvola bassa e cenerognola; nell’aia, cinta di
muri quasi fosse una stanza, l’aria stagnava, impregnandosi più che
più d’un odor misto di vivande e di concime. I commensali mangiavano e
bevevano con gran rumore di voci discordanti e disordinate. Bongiovanni
scalcava con le sue mani stempiate un tacchino badiale. Marta tagliava
a fette squisitamente sottili un tartufo bianco, grosso come la testa
di un bambino. Lucia _la sorda_ condiva l’insalata.

Tonello, pur stando in contegno, gettava frequenti occhiate alla
tavola; e sentiva venir l’acquolina in bocca, e un moto come di
contrazione, di raggrinzamento allo stomaco. A un tratto, s’avvide che
Maddalena lo sogguardava. Fece cipiglio e un cenno con la mano, che
voleva dire: — Me l’hai fatta grossa, strega che non sei altra! — Ella
inarcò le ciglia, si restrinse nelle spalle e rispose tacitamente: —
Eh! ti sei fatto aspettare un po’ troppo. — Poi staccò una coscia di
quel tacchino, colorita e sugosa, lo mise in un piatto, e aggiuntovi
una buona porzione di tartufi, disse sotto voce a Rosalia: — Io non
posso lasciare il mio posto senza dar nell’occhio: fammi il piacere,
porta tu questa roba a Prospero Tonello. Piglia qui. — Le diede
il piatto, le diede nell’altra mano una bottiglia di quel buono, e
soggiunse: — Fa che mangi con buon appetito.

Rosalia, bianca e rossa e pienotta, s’avvicinò al pozzo, mise il piatto
e la bottiglia sulla sponda, davanti al nuovo convitato, strisciò una
riverenza leggermente canzonatoria, e se ne tornò alla compagnia.

Tonello tirò a sè la pietanza con un cert’atto trascurato, con un
volto tra distratto e disdegnoso: ma poi, divorato com’era dalla fame,
s’attaccò per bene, e prese a macinare a due palmenti. E mangiando e
bevendo, sentiva scomparire la stanchezza, farsi più leggera la gravità
delle cose e svampare in gran parte la sua ira bestiale. Quel tacchino
era proprio eccellente, un tacchino imperiale, ecco. Doveva essere
stato alimentato con granturco e con pastoni caldi di crusca. Forse era
una femmina: da che mondo è mondo, la carne della femmina è più gentile
di quella del maschio. Mentre faceva il soldato non aveva mangiato
niente di così succolento, non aveva bevuto niente di così generoso.
E il vino, il tacchino, i tartufi erano prodotti genuini dei suoi
colli, di quei colli che voleva disertare, di quel paese che voleva
incendiare!

Rosalia si riavvicinò con gli occhi vivaci, le labbra ridenti, e una
gran fetta di pan di Spagna.

— Uhm! — fece Tonello. — Il dolce non è confacente alla salute, ma lo
assaggerò per non ricusar le vostre grazie. Questo dev’esser fatto con
zucchero fino, farina finissima e rossi d’uovo, eh? Buono. Da brava,
Rosalia, fatemi un po’ di compagnia. Eccomi qui afflitto e derelitto.
Maddalena m’ha piantato... E sì che eravamo proprio fatti l’uno per
l’altra! _Ah! misère des misère!_ Mettetevi qui.

— Ma io voglio stare allegra! — rispose la ragazza, schermendosi.

— Staremo allegri.

— Poh, con quella faccia!

— Vi dirò un monte di belle cose.

— Ma giù le mani, eh!

— Fidatevi di me. Mettetevi qui, vicino vicino.

Rosalia si mise a sedere sulla panca, e Tonello rispose:

— _Tudieu!_ come vi siete imbellita! Volete che ve lo dica? Nella
capigliera voi ricordate la marchesa.

— Che marchesa?

— Una marchesa che mi aveva preso a benvolere laggiù in riva al mare.
Dovete sapere che le donne di alto bordo vanno pazze per gli astigiani,
sicchè questo inverno mi sono trovato a una certa avventura...

— Raccontatemela un poco.

— Ma ci vuol prudenza. La mia marchesa ha le braccia lunghe, e quando
mi fosse toccata una stilettata in mezzo al cuore, voi me la levereste?

— Eh! le stilettate non si dànno via come le castagne. Dite su, dite su.

Tonello incominciò a dire. Rosalia stava attenta a udirlo, e ora
sorrideva, ora aggrottava le ciglia, ora increspava la fronte e pareva
compresa da gran meraviglia; a un certo punto le vennero le fiamme
al viso e si rizzò come per fuggire; ma l’ex-soldato la prese per il
braccio e la fece sedere di nuovo.

                                   *
                                  * *

Il banchetto era per finire. I due sposi si guardavano da vicino, con
compiacenza e desiderio; si parlavano nelle orecchie, dandosi l’un
l’altro di spalla, amorosamente. Giovanni Bongiovanni prese a sedere
sulle ginocchia Lucia _la sorda_, alla presenza di tutti, si divertiva
a pizzicarla più qua e più là. Marta aveva posato il braccio sulla
tavola, posata sul braccio la fronte, e si appisolava. Intorno intorno,
era una babilonia di parole avventate, di sghignazzamenti clamorosi, di
canzoni intonate e tralasciate. Chi ingozzava tuttora, chi tracannava,
chi girellava tripudiando.

Altra gente entrava nell’aia a coppie, a brigatelle: erano giovinotti
e ragazze, tutti col vestito delle feste, ma succinti e ristretti al
possibile. E finalmente arrivarono due suonatori, con un piffero e un
chitarrone; e s’arrampicarono sur un tavolato posticcio, rizzato in un
canto.

Rosalia vide Casimiro e Maddalena che si facevano avanti, tenendosi per
la mano, e si levò in piedi, con una faccia tutta animata, come di chi
non può stare alle mosse.

— Mi piantate anche voi? — brontolò Tonello, facendole gli occhiacci.

— Non sentite che sonano! — esclamò la ragazza, accomodandosi il fisciù
sul seno, e fermando ai fianchi la gonnella fina.

— E lasciateli sonare!

— Non ci mancherebbe altro! Su, allegro, ballate anche voi: quand’uno
fa tanto d’entrare in ballo bisogna che balli.

— Ma, _sacredieu!_ non ho ancora fatto la pace!

— La farete con me: alò alò!

— Un momento! cos’è questo? La monferrina?

— Una correnta.

— Non so più... Dio sa quant’è che non ho ballato!

— V’insegnerò.

— Allora a noi, Rosalia. _Vive l’empereur!_

— _Vive l’appereur! vive l’appereur!_




UN VACCARO


Era un intervallo tra guerra e guerra, un breve intervallo di
tranquillità. Sulle torri e sulle mura di Carmagnola, armate di
bertesche e di ventiere, rafforzate da battifolli e da bastite, si
vedevano scolte, non difensori; davanti alle porte aperte, sui ponti
abbassati custodi, gabellieri, pedaggieri, gente pacifica che andava
e veniva; le bicocche di legno inalzate sui rialti, collocate sugli
alberi a una certa distanza dallo steccato e dal fosso, non avevano
vedette. E la campagna circostante era verde, fiorita e quieta;
gorgheggi e ronzii in tutte le siepi; per i campi e per i prati
canzoni, chiamate, latrati, muggiti.

Diverse vaccherelle chiare pascolavano sparsamente in un’ampia pastura
disuguale; i guardiani, ragazzi e ragazzuoli, facevano il chiasso,
vociando e scavallando sul ciglione della strada maestra.

Tutt’a un tratto ecco un nuvolo di polvere alzarsi poco discosto, ecco
un luccicar d’armi. I vaccari si aggrupparono, pallidi alcuni, altri
accesa la faccia; chi parlava di rimpiattarsi, chi di lasciar lì le
bestie e darla a gambe, chi di andar incontro, chi di star a vedere.

Intanto gli armati vennero avanti, allentarono il passo, fecero
alto dove batteva un po’ d’ombra, sulla sponda d’un torrentello che
traversava la strada.

Era un venturiero tendasco col suo tamburino, i suoi tre valletti, la
sua compagnia; compagnia piccola ma buona: dieci balestrieri e otto
pavesari, tutti validi, svelti, bene arnesati con barbute e cappelli
di ferro forbiti, giachi di maglia, giubboni imbottiti e corazzine,
cioè giustacuori di tela grossa a più doppi, forniti d’una specie di
fodera di lamelle rettangolari d’acciaio; più d’uno aveva pure gli
spallacci, le cubitiere e i ginocchielli. Lui, il capitano di ventura,
uomo d’atletiche membra, incassato tra gli arcioni della sella con
i due piedi ben saldi nelle staffe, portava il bacinetto a visiera e
a camaglio, l’armatura bianca intera, coperta d’una cotta di velluto
cremisi corta e scinta; anche il suo destriere, buono da battaglia e da
cammino, era guernito di piastra e di maglia: aveva la barda compiuta
di tutto punto, messa in uso in quel torno da Alberico di Barbiano.

I vaccari s’erano avvicinati, strisciando l’un dietro l’altro lungo il
ciglione, e stavano lì nel bel mezzo della strada, guardando a bocca
spalancata quei bei soldati che si cavavano la sete alla corrente, si
asciugavano il sudore, riprendevano fiato.

Il capitano, che non sentiva la fatica, aspettava con una specie di
pazienza muta, incurante; e andava sbirciando, così da lontano, le
buone opere di muramento e di legname che rendevano quasi inespugnabile
la grossa terra piemontese. A un punto, vedendo che i suoi erano
all’ordine e pronti ad ogni cenno, si voltò ai vaccari.

— Via! — diss’egli — sgombrate la strada, o vi sprono addosso.

I ragazzi riscossi, spauriti, si sparpagliarono a destra e a sinistra.
Uno rimase: un giovinetto cencioso, meschino a vedere, ma con occhi
vivi di falco, naso un po’ adunco, bocca stretta ed arcuata; una
fisonomia strana, di una stranezza nativa, da cui traluceva un gran
vigor d’animo.

— Via! — ripetè il venturiero, con quella sua voce che metteva paura. —
A chi dico?

Il giovinetto stette ancora un momento come estatico, poi si accostò
passo passo, giungendo supplichevolmente le mani:

— Messere, io non ho mai visto un cavaliere pari vostro. Permettete
che vi guardi ancora, e un po’ più da vicino. Che belle armi! Lancia,
mazza, spada... Avete tutto, voi. Felice voi!

L’uomo di ferro che guardava il vaccaro come avrebbe guardato un sorcio
o un ranocchio, spianò gli archi delle ciglia, e fece un sorriso a fior
di labbra.

Il giovinetto, incoraggiato da quel sorriso, proseguì fervidamente:

— Felice voi che potete maneggiar queste cose! S’io avessi una lancia
o una spada, saprei cacciarmi anch’io senza paura tra altre lance e
altre spade. Ma in casa non ci son che strumenti rugginosi. Alle volte
mi sento dentro come una forza che mi porta via, che mi spinge a dar di
piglio alla falce, alla scure, a un randello e pormi dietro al cavallo
del primo uomo d’armi che incontri alla campagna.

Il venturiero domandò col tono di chi è più avvezzo a fare che a dire:

— Dunque ti pare una bella vita la nostra? Ti sentiresti portato a
farla anche tu?

— E come! — rispose il giovinetto pieno d’ardore.

— Sei magro, pare che tu mangi le lucertole, ma dalla faccia si può
sperar bene. Che sei tu buono a fare?

— So rotare il bastone contro i cani, so frombolar sassi molto grossi...

— Come ti chiami?

— Francesco di Bartolommeo Bussone.

— Dove sta tuo padre?

— Là dove la strada fa un gomito. Vedete quella casupola scura, da cui
si alza una colonnetta di fumo?

— Tira via, che ho fretta.

Così dicendo, il venturiero si mandò innanzi il ragazzo; e si avviarono
tutti verso la casupola.

In questo mentre Bartolommeo Bussone tornava a casa. A veder da lontano
il figliuolo con quel guerriero, con quella gente d’armi, sollecitò il
passo e arrivò tutto trafelato.

— Galantuomo, ho da parlarti — gli disse bruscamente il venturiero. —
Sta attento e non m’interrompere.

— Messere, non v’è pericolo — rispose il contadino; — non dubitate...

— Devi sapere ch’io vado ad Alessandria per unirmi a Facino Cane...

— L’ho sentito nominare...

— Un condottiero che adesso fa abbassare il cimiero a tutti gli altri.
Passa di paese in paese, assalta, invade, conquista; sicchè presto sarà
signore d’un gran principato. Egli tiene la fortuna per il ciuffo;
cercherò di acciuffarla anch’io. Piglio con me tuo figlio. Non ch’io
abbia bisogno di far gente, ma perchè mi par nato soldato. Vuoi?

Dopo un istante di stupida maraviglia, il contadino squadrò ben bene
il suo Cecco, come per accertarsi che la cosa era vera; poi prese a
grattarsi il capo che non la finiva mai.

— Presto, che ho fretta — disse il venturiero.

— Messere, il sole è ancor alto...

— Come c’entra il sole?

Bartolommeo fece l’atto di chi ha preso una risoluzione ed esclamò:

— Tant’è: mi consiglierò con la moglie.

— Dov’è tua moglie?

— In casa.

— Chiamala e sbrigati.

All’udir la proposta, la donna raccolse con paurosa tenerezza nelle sue
braccia il figliuolo; poi si raccapezzò, intravvide una buona occasione
che non bisognava lasciarsi sfuggire, e con una risoluzione che sarebbe
parsa crudele, se la voce non fosse venuta come un gemito di fondo al
cuore, disse:

— Va, figliuol mio, e che il Signore sia con te in codesto viaggio, in
guerra, e sempre.

Padre e madre si misero tosto ad apparecchiare ogni cosa per la
partenza del garzoncello. L’uno gli raccomandava l’obbedienza al
capitano; l’altra diceva, lacrimando:

— Mi rincresce di vederti partire, ma se è per tuo bene, non voglio
guastare quello che fa Iddio. Ch’Egli ti accompagni e ti faccia tornar
sano e salvo. Se piango, se dico tutte queste cose, è perchè sono
donna. Pensa: da questa sera in poi non ceniamo più insieme, chi sa
per quanto tempo! Va, va; tu puoi pensare a me anche da lontano. Benchè
separati da tanto paese, noi saremo sempre uniti col pensiero. E quando
ritornerai?

— Non lo so; ma ho speranza di tornar presto — rispondeva Cecco ad
occhi asciutti, ma col viso convulso di chi ricaccia dentro l’anima un
sentimento naturale, pronto a manifestarsi.

— Ricordati di me. Io mi figurerò d’averti meco. Avrò la compagnia
di tuo padre. Va e ritorna. Appena sarai stanco di correr dietro alla
boria... alla gloria dell’armi, torna nelle braccia della tua vecchia
mamma. Se me li serrerai tu gli occhi, morirò più contenta.

Quando si diedero l’ultimo addio, quando s’abbracciarono senza poter
più articolare una parola, anche il venturiero, che pure continuava
a tempestare: — Lesti, lesti, che ho fretta! — si sentì gonfiare gli
occhi, che forse dall’infanzia più non conoscevano le lacrime, ed ebbe
quasi rimorso d’essere cagione di tanto spasimo a quella povera gente.

Cammina, cammina; ben presto Cecco non scorse più la casupola, neanche
volgendosi da lontano; allora il pianto proruppe; pianse i suoi
genitori, la sua mucca, la pastura, il torrentello. Un lungo sfogo
di pianto, poi non ci pensò più. Passò con rapida fortuna per tutti i
gradi della milizia. Venne un giorno in cui anche lui s’armò di nitido
ferro battuto a freddo, inforcò un cavallo grande e possente, brandì
imperiosamente il bastone di comando; prese un nome di guerra e portò
titolo di conte; fra stipendi, feudi, possessioni, una cosa e un’altra
ebbe un’entrata di quarantamila fiorini; salì a militari onori ben
alto, ben alto...

Il conte Carmagnola fu accusato, torturato con corda e fuoco, e
decapitato a Venezia nel giorno 5 di maggio del 1432.




IRREPARABILE

SCENE.


_PERSONAGGI_

  PAOLA LANFRANCHI.
  MAURIZIO FERRIGNI.
  LUDOVICO RIAMONTI.
  CESARE BROCCARDO.
  GIORGIO ORENGO.
  COSTANZO.

  _Stanza in casa di Maurizio — Porta d’ingresso nel fondo; porte
  laterali. Caminetto con fuoco; orologio a pendolo; scrivania;
  divano; mobili disposti per la scena. È notte._


SCENA PRIMA.

Costanzo, Maurizio, Giorgio, Cesare, Ludovico.

  _Si sentono voci animate dietro la portiera del fondo. Un uscio
  che si richiude violentemente sbattuto. Costanzo accorre e rialza
  la fiammella d’una lampada che sarà sulla scrivania. — Maurizio,
  Giorgio, Cesare irrompono in scena gesticolando: Ludovico li segue
  lentamente._

MAUR. (_Stravolto, gesti a scatti, febbrili_) Fate voi, fate voi.
L’importante è ch’io lo ammazzi; che lo ammazzi come un cane.

GIORG. Faremo noi. Sta tranquillo, vedrai.

MAUR. Sì, sì, sì. (_Posa il cappello sulla scrivania, vi getta i
guanti, spoglia il soprabito_). Vi ringrazio.

COST. (_Raccoglie tutto e si ritira_).

LUD. (_Siede indietro, in aspetto grave, costernato_).

CES. Adesso calmati.

MAUR. Son calmo.

CES. Ti sei sfogato...

MAUR. Sfogato?... Vedrete come mi sfogherò.

GIORG. Eh diavolo!... Un’offesa così, con vie di fatto...

CES. (_a Giorgio_) Tu non soffiare nel fuoco.

GIORG. (_Piccato_) Va bene, va bene, parla tu.

CES. (_a Maurizio_) Conciliazioni no?... Neppur nel caso...

MAUR. (_con impeto_) Ma che!

CES. Intendiamoci...

GIORG. Eh giusto! Che storie! Tutto è così chiaro. Maurizio ha urtato
ed ha torto di non aver fatto subito le scuse. Ma l’altro gli ha preso
il braccio sull’atto... Ciò che giustifica la parola di Maurizio; la
quale, va bene, è energica ma non vale il ricambio. (_Fa il gesto di
chi dà uno schiaffo_).

CES. (_Con impazienza_) Sì, sì, sappiamo. (_A Maurizio_) Dunque senti...

MAUR. Niente, non c’è altro; mi rimetto in voi, siete miei amici e
basta. Fate solo che sia presto.

GIORG. Vedrai.

MAUR. All’alba se fosse possibile.

GIORG. Euh!

MAUR. Vorrei che la città sapesse il fatto, la riparazione tutto d’un
colpo.

CES. Non hai altro da aggiungere? (_Gli stringe la mano_).

MAUR. Vi aspetto.

GIORG. A quest’ora troveremo gli altri al convegno. A rivederci.

MAUR. (_Seguendoli di qualche passo_). Fate presto, fate presto, vi
prego. (_Giorgio e Cesare partono rapidamente_).


SCENA SECONDA.

Maurizio, Ludovico, Costanzo.

MAUR. (_Passeggia nervosamente un momento, poi batte il timbro_).

COST. (_Entra_).

MAUR. Da bere.

LUD. Sì... Vedi di calmarti.

MAUR. Ah... sei tu? Non ti aveva veduto.

LUD. Sono rientrato con te, con gli altri... Ero là.

MAUR. Ah.

COST. (_Porta da bere, e via_).

LUD. (_Va al vassoio_) Cognac?... Kummel?

MAUR. No, no, acqua. (_Beve_) Ah c’eri? Hai visto? Va bene, eh? Capisci
che...

LUD. Chi è?

MAUR. Chi?

LUD. Il tuo avversario.

MAUR. Non lo so. Mi ha dato il suo biglietto, l’ho passato a Cesare
senza leggerlo. Non l’ho visto mai in vita mia. Per ammazzarlo non
occorre sapere il suo nome... Tu lo sai?

LUD. No. Era in un palco, con una signora che tu conosci.

MAUR. Sì, mi pare.

LUD. C’è stato due buone ore.

MAUR. Non ho notato.

LUD. Hai notato benissimo. Io l’ho visto appunto perchè tu lo notavi;
fu il tuo cannocchiale ad indicarmelo... L’avrai guardato cento volte.
Al principio del 2º atto, al levar della tela, sei rimasto in piedi,
in mezzo alle poltrone, col cannocchiale puntato là, immobile. Ti ho
tirato per la falda dell’abito, perchè si cominciava a rider di te.

MAUR. Non me ne sono accorto.

LUD. Lo so bene. (_Dopo una pausa_). Già... non ti accorgevi di nulla,
stasera; fuori che d’una cosa... Val proprio la pena di serbare così
bene un segreto... per tradirlo poi intero, in un momento... Perchè
deve essere un pezzo che... Pensare le tragedie che può fare una donna,
che è forse indegna...

MAUR. (_bruscamente_). Ma che donna! Salivo le scale... ci siamo urtati
con uno sconosciuto... Quello mi afferra un braccio. Io gli dò di
villano... egli fa l’atto... Che c’entrano donne?

LUD. Sei sicuro di non averlo urtato apposta?

MAUR. Sicurissimo! Ne sono sicurissimo. Non l’avevo veduto; salivo
di furia... Salivo... poichè lo vuoi sapere, poichè potrei restarci
domani, poichè mi sei amico vero e buono... e uomo giudizioso... Salivo
sì per andare in quel palco. Finchè colui ci era rimasto non avevo
voluto metterci il piede. Avevo avvertito fin da quando erano entrati
insieme il loro accordo perfetto, illimitato; volevo vedere fin dove
arrivavano! Lei mi sapeva in teatro, mi ha guardato, mi ha sorriso,
mi ha fatto con gli occhi quel leggiero cenno di salire che aspettavo
febbrilmente ogni sera, che ogni sera mi faceva trasalire di gioia...
Ma poi si voltava a quell’altro, e le sue labbra, e i suoi occhi
prendevano una dolcezza che non le conoscevo, che a me non aveva dato
mai... E così, allora, quando lo vidi uscire dal palco, mi slanciai
per salirvi, per sapere. Sullo svolto del ripiano ci urtammo... Lui
scendeva... Oh se l’avessi veduto avrei fatto lo stesso, più forse. Ho
levato gli occhi: solo nella rapidità dell’offesa l’ho riconosciuto.
Ah, come lo ammazzerò!

LUD. Eh... gli taglierai la faccia, basterà.

MAUR. (_Con violenza_). No, no, no. Ah no! O lui o me, uno ci resta.

LUD. Alla spada?

MAUR. Alla pistola.

LUD. (_Dopo un momento_). Ti posso servire a nulla?

MAUR. Grazie, no.

LUD. Vuoi ch’io stia con te?

MAUR. Lasciami. Ho molte cose da fare.

LUD. Vai a dormire, credi a me.

MAUR. Sì, sì... Va, va, caro mio vecchio amicone... O se vuoi, mettiti
là, vicino al fuoco, e lasciami fare... Così?

LUD. Preferisco.

MAUR. Va bene, sta lì....

  (_Scampanellata_).

LUD. Già qui?

MAUR. No, non è possibile: non hanno avuto tempo...


SCENA TERZA.

Maurizio, Ludovico, Costanzo, Paola.

COST. (_Alza la portiera_).

PAOLA (_Entra vivamente_).

MAUR. Voi!?

LUD. Tornerò (_Via_).

Paola. Lo sai che è mio fratello?

MAUR. Chi?

PAOLA. Non c’è stato nulla ancora, eh? Di’?... Non c’è stato nulla?

MAUR. Che vuoi dire? che vuoi dire?

PAOLA. Lo sai che è mio fratello. È arrivato oggi... Non lo aspettavo,
dopo due anni...

MAUR. Oh!

PAOLA. Ho visto che non capivi. Ti ho fatto cenno di salire... Eri
scuro, mi sono divertita del tuo cruccio ho fatto male. Quando ho
saputo che vi eravate insultati per le scale... Oh!... Dimmi che non vi
è stato nulla ancora... Vedi, lui non l’ho più visto. È stato un amico,
un ufficiale di marina, Pierli, che mi ha detto tutto... Adesso non so
dove sia, capisci?... È arrivato ch’ero a pranzo... fa sempre così.
L’ultima sua lettera era di Siam, e poi non aveva dato più avviso di
nulla, per piombarmi addosso come un fulmine. È tanto ragazzo!... Ma
parla... dimmi che non c’è stato nulla... Maurizio?

MAUR. Dio, Dio, Dio, Dio!

PAOLA. Hai mandato?

MAUR. Lo sai l’insulto suo?

PAOLA. So, so. Me l’ha detto Pierli, lo so... Ebbene bisogna trovare...
Senti, capisci bene che non potete battervi.

MAUR. (_Fa segno che la cosa è inesorabile_).

PAOLA. Vieni qui, pensa, pensa con me. Bisogna pensarci, troveremo. Non
voglio il tuo disonore, lo sai, eh! Sono tua, sono tua, anima e corpo.
Ma tu... tu nemmeno non puoi... Eh no, è Roberto! Pensa... Abbiamo
parlato tante volte del suo ritorno. Ne abbiamo parlato insieme, te
ne ricordi? Tu mi dicevi: — Sento che diverremo amici. — Ti piacevano
tanto le sue lettere, così gaie, così gaie... Mi ama tanto, sai, e non
ho che lui... Rispondi! Maurizio, Maurizio...

MAUR. Impossibile.

PAOLA. Hai mandato?

MAUR. Ho mandato. A quest’ora quattro uomini d’onore, estranei a me,
a te, alle nostre dispute, ai nostri affetti, hanno riconosciuto
e stabilito che le offese corse fra di noi volevano una soluzione
mortale; hanno impegnata la loro fede che così sarebbe seguito. Io sono
fuori oramai, non posso più nulla, nulla, nulla.

PAOLA. Oh!... E io? Non conterò nulla io, nemmeno presso di te? Non ti
pare che abbia qualche diritto d’intervenire?... Sono qui, a due ore di
notte, in casa tua. C’è un uomo che se mi trovasse qui avrebbe diritto
di uccidermi. Diritto, diritto, capisci! Perchè il solo fatto d’essere
venuta da te, sola, a quest’ora, a domandarti la vita di mio fratello,
prova che...

MAUR. Paola, Paola, per carità, non parlare.

PAOLA. Ma non voglio perdere mio fratello, non voglio rischiare di
perderlo. Non ho che lui al mondo... È minore di me; sono sua sorella
e sua madre... Il mare me lo porta via per mesi e mesi, e quando ci
ritroviamo è una gioia, un’allegrezza così piena, così piena! Lo adoro
e mi ricambia. È buono, è ardito, intelligente...

MAUR. Mi ha offeso, mi ha tanto offeso...

PAOLA. Si troverà la via, vedrai...

MAUR. Perchè non sei andata da lui? Perchè io, io l’offeso dovrei...?
Tu non sai, non puoi capire. Voi altre donne non le capite mai queste
cose, se non per giudicare poi inesorabilmente le debolezze che
voi stesse avete provocato. Certe questioni non si discutono, sono
necessità chiare, implacabili... Ha levato la mano, ha fatto l’atto...
Non si vive più così. Non si vive più, ecco. Va, va da lui. Cerchi,
trovi... Io poi mi contento...

PAOLA. Lo sai bene che non accetterebbe!... Un ufficiale...

MAUR. Mah!

PAOLA. E che cosa gli direi? Posso domandare al mio amante la vita
di mio fratello, non a mio fratello quella del mio amante. Lui ci
troverebbe una ragione di più. È così. Lo stesso fatto che crea in te
il dovere assoluto di salvarlo, crea in lui quello di accanirsi contro
di te. Ecco!... Ah! mi hai perseguita, eh? col tuo amore. Ho cercato di
fuggirti, ti ho allontanato da me... Volevi morire, è vero? Lo giuravi,
volevi morire... Ho ceduto, mi sono data; ho dimenticato ogni cosa.
Anch’io posso essere una donna disonorata, da un momento all’altro, per
fatto d’altri, che non potrei impedire. È così, l’amore è così. Non si
ragiona. Si cede, si cade. Si cade, capisci? È così.

MAUR. (_Dopo aver pensato un momento, come risoluto ad un estremo
partito_). E va bene.

PAOLA (_Fissandolo_). So quello che pensi. So che lo faresti. Non
voglio. Non voglio il duello, ecco. Non voglio che tu uccida Roberto,
non voglio che Roberto ti uccida. Non so nulla fuori di questo. Non
posso ragionare, non posso pregare. Sento che quel fatto è mostruoso
e non lo voglio. Di voi due non posso parlare così che a te solo.
Guardami bene. Sento qui (_indicando la testa_) che non misuro più le
cose. Io mi perdo. Se non trovi modo... non so, io dico tutto a mio
marito. Io non esco più di casa tua, ecco. Mi troveranno, sapranno,
sarò perduta. Pensaci. Ti giuro che lo farò.

  (_Lungo silenzio_). (_Scampanellata_).

MAUR. (_Scuotendosi_). Oh! (_Va rapidamente alla porta_) Costanzo!

PAOLA. Che fai?

MAUR. (_a Costanzo_). Tienili di là un momento.

PAOLA (_con calma_). Sono i tuoi padrini?

MAUR. Sì, credo.

PAOLA. Falli entrare; io non mi muovo.

MAUR. Paola, Paola, bada a me, bada, tu perdi la ragione...

PAOLA. Sì, sì, sì, mi perdo, ecco!

MAUR. Andrò io di là.

PAOLA. Vado anch’io.

MAUR. Oh...

PAOLA. Voglio parlare con loro.

MAUR. Oh Signore Iddio!... Lo vuoi? lo vuoi, lo vuoi? — Lo vuoi
eh, Paola? — Ah no, no, no, no, non posso. (_Si butta sul divano,
accasciato_).

PAOLA (_risoluta_). Sta bene. A me!

MAUR. No! (_scatta su e l’afferra_). Qui... L’avrai voluto. Mi arrendo,
ecco. Va di là, là. (_Violento_). Lo voglio.

PAOLA. Prometti...

MAUR. Va, vedrai.

PAOLA. Bada che sto a sentire...

MAUR. Sì, sì, sì. Ti dò la mia parola d’onore... L’ultima che potrò
dare in mia vita.

PAOLA (_Esce_).

MAUR. (_Chiude con la chiave e si volta rapido a far fronte a Giorgio e
Cesare che entrano_).


SCENA QUARTA.

Maurizio, Cesare, Giorgio.

GIORG. Dormivi?... Bravo, complimenti!

MAUR. (_Stringe loro macchinalmente la mano_).

GIORG. Dunque, senti: i padrini del tuo avversario sono il capitano
Capolago e Filippo Errera.

CES. Sì, e ti batti alla pistola, come volevi. — Per non lasciare il
terreno senza risultato, secondo il tuo desiderio, si farà uso di armi
rigate... Non si è deciso se il duello sarà da piè fermo od avanzando,
ma nella qualità di offeso ti rimane la scelta.

MAUR. (_In preda a fierissima lotta interna, risponde appena con un
cenno del capo_).

CES. (_Dopo aver aspettato invano una parola_). Le condizioni sono
gravi, ma...

GIORG. Ma sono quelle che hai imposto tu stesso.

MAUR. È giusto...

  (_Un silenzio. — Giorgio e Cesare lo guardano con certa sorpresa_).

GIORG. Hai capito?

MAUR. Sì, sì, sì.

GIORG. Bene. Allora a noi non rimane altro che...

MAUR. Vi ringrazio...

CES. Mentre Giorgio va a cercar l’occorrente, io corro dal...

MAUR. (_interrompendolo_). Fate voi, fate voi.

GIORG. (_stringendosi nelle spalle_). Si va. A rivederci.

CES. Saremo qui per tempo...

MAUR. (_con impeto_). No! fermatevi. (_Dopo aver gettato un rapido
sguardo verso la porta ove è entrata Paola_). Aspettate, tornate qui...
(_Con terribile sforzo_). Non mi batto più.

  (_Cesare e Giorgio fanno un movimento di estrema sorpresa_).

GIORG. (_rimettendosi_). Eeh! tu scherzi. Già... ma vai oltre, sai.

CES. Silenzio! Non abbiamo inteso. (_A Maurizio_). Ripeti.

MAUR. (_con voce sorda_). Ho detto.

CES. (_severamente_). Cioè?

GIORG. (_con impeto_). Non ti vuoi più battere?

MAUR. Non posso più.

GIORG. Avrai un perchè, spero?

MAUR. (_Non risponde_).

GIORG. E ce lo dirai?

MAUR. (_Tace ancora_).

CES. (_che lo avrà guardato attentamente, con inquietudine vivissima_).
Un momento, un momento... per carità, ragioniamo. Maurizio, bada a
te. Un colpo in faccia non prova nulla contro chi lo riceve, prova la
brutalità di chi lo dà. Ma intanto l’onta va tutta al colpito. Il mondo
non gli perdona l’offesa subita se non la cancella secondo l’usanza. È
un pregiudizio assurdo, feroce, stupido se vuoi, ma per ora è ancora
così. (_Dopo breve pausa, stringendogli il braccio con forza_).
Coraggio!

MAUR. (_scuotendosi con un grido di rivolta_). Oh!... E credi tu ch’io
ne manchi!

GIORG. Ma dunque, perdio, cos’hai?

MAUR. (_Ricade nell’attitudine cupa di prima_).

CES. (_addoloratissimo_). C’è di che impazzire. Cos’è successo?...
T’abbiamo lasciato animato, risoluto, furioso, e ti ritroviamo...
così. Maurizio, amico... Oh poveri noi! Ma pensa, immagina... quando si
sappia... Che cose!... (_con rabbia_). Ma fuori una parola, rispondi,
almeno, rispondi!

MAUR. (_sommessamente_). È inutile tutto.

CES. (_con energia_). No, no, no, non è vero. (_A Giorgio_). Andiamo
via. (_Tornando a Maurizio_). Noi ce ne andiamo, tu rifletti. Torneremo
presto e ti troveremo pronto a fare il tuo dovere. È la parola. Oh
ne sono certo come se lo vedessi! È un triste momento questo, e sarà
passato. Nessuno lo saprà mai. Dimentichiamo anche noi, non è vero,
Giorgio? Parola d’onore.

MAUR. (_soffocato_). Ti ringrazio col cuore... Cesare, ma ti prego, ti
scongiuro...

CES. (_con viva ansietà_). Dunque?

MAUR. Non tornar più.

GIORG. Basta! (_a Cesare_). Lascialo stare.

CES. (_Si ritira lentamente combattuto fra il dolore e lo sdegno_).

GIORG. (_a distanza_). Dunque... tu ci autorizzi a dichiarare...

MAUR. (_Si stringe nelle spalle in silenzio_).

  (_Giorgio e Cesare partono senza salutarlo_).


SCENA QUINTA.

Maurizio, Paola.

MAUR. (_Rimane un momento immobile, poi si scuote, si slancia come per
richiamarli, si ferma, e ritorna agitandosi per la scena_).

PAOLA (_di dentro, urtando all’uscio prima piano, poi più forte_).
Ferriani... Ferriani! Maurizio.

MAUR. (_Va ad aprire_).

PAOLA. Ah!... sei solo. Dunque? E dunque?

MAUR. (_Non risponde, si lascia andare sul divano e nasconde la
faccia_).

PAOLA. E così? Dimmi adesso, dimmi... Parlami. È salvo, non è vero?
Siete salvi, non vi battete più? (_dopo un momento, con angoscia_).
Maurizio, Dio, Dio, senti... No, no, fa che non ti veda così. Ho
capito, ecco: hanno creduto che tu... Oh!... Già, non lo crederanno gli
altri, non lo crederà nessuno, sarebbe una assurdità, un’infamia! Si
capirà che per fare quello che hai fatto, ci deve essere una ragione...
una ragione superiore a tutto, alla vita, alla morte, a tutto. E ora
anche noi penseremo. Adesso che abbiamo un respiro possiamo pensare,
e troveremo, vedrai. A tutto c’è rimedio, amico mio, fuorchè... Ho
pregato di là; mi sono rivolta a Dio, mi sono raccomandata ai nostri
morti... ho fatto anche un voto... Dunque, dunque coraggio (_piegandosi
a lui e scostandogli le mani per vederlo in viso_). Coraggio,
coraggio...

MAUR. (_Alza la testa e la guarda come trasognato_).

PAOLA (_alzandosi come spaventata_). Oh!... Parla, parla Maurizio,
parlami...

MAUR. (_con voce tronca_). Che... cosa vuoi mai ch’io ti dica?... È
finito, ecco, è finito... Sono morto.

PAOLA. Non è vero. No, no, no, sei vivo, sei vivo; lo sei per me.
Guardami adesso, sono io, sono qui, la tua Paola, tua, tua... Mi hai
detto tante volte che io ero tutto per te... Ebbene ecco, sono qui, e
se vuoi non ti lascio più. Ti ricordi quello che mi hai proposto una
volta? Vengo, sai, vengo con te, dove vuoi... Ma scuotiti, moviti,
guardami, parla. Soffro, soffro tanto! Non voglio vederti così, non
posso... Che pena, che pena, che pena... — Maurizio... ho paura!

MAUR. Ma che vuoi? Quello che cercavi l’hai ottenuto, dunque...

PAOLA (_ferita_). Maurizio!

MAUR. Ma sì! Non ho più altro, io. Mi hai preso tutto e non ho più
nulla. Dunque, via, via anche tu come gli altri.

PAOLA. Non puoi parlarmi così. Pensa, ricordati...

MAUR. Sì... l’amore, le ore felici, il passato. Oh va, l’hai avuto il
ricambio. Ti sei data, sei caduta, va bene... Ma il mondo... il mondo
vi ama, vi vuole, vi tiene. Siete belle, siete il suo ornamento, la
sua gioia... ha bisogno di voi, vi rialza, vi perdona e dimentica. Ma
l’uomo che cade, quello è calpestato, è perduto!

PAOLA. Ma io ti resto, sono io che ti prendo, vedi, sono io che ti
voglio.

MAUR. Tu!... Stasera, adesso, sì; ma domani?... Oh! e poi... anche, tu
poco a poco, penserai come gli altri, come tutti. Te ne avvedrai. Non
si resiste a certe correnti: l’odio, il disprezzo sono contagiosi. Ed
io la pietà non lo voglio, non la merito. Mi hai vinto, è finito.

PAOLA. Maurizio...

MAUR. È finito. Non ti odio, no; non ti maledico: ti perdono, ecco sì,
ti perdono... Ma non ti amo più.

PAOLA. Oh Maurizio! Che strazio, Maurizio!...

MAUR. Non posso più... Ho consumato in un’ora quanto doveva durare
degli anni... Ho tutto fatto, tutto provato, tutto. Non bisogna darla
la prova dell’amore, perchè l’amore se ne va, se ne va, se ne va.

PAOLA (_con passione_). Senti, senti... vieni qui, siedi qui... ancora.
Non pensare, non pensare. Non pensiamo per ora... Domani poi, adesso
dimentica. Me lo dicevi anche tu, quando ti resistevo: — lascia,
lascia, non pensare, dimentica. — Così mi parlavi. Ebbene sono io che
lo ripeto a te. Guardami: sono bella, sono tua e voglio consolarti dei
tuoi dolori, voglio cancellare i tuoi pensieri, cacciarli via tutti,
e rimanere io sola, sola nell’anima tua. Domani avrai tempo; domani
assisterai ai tuoi proprii dolori... Ora no; voglio la dimenticanza, il
sonno, morire d’amore... Maurizio... come sei, come sei! Sei gelato.

MAUR. Lasciami, te ne prego. Vedi come sono, in che stato... Non puoi
credere il male che mi fai rimanendo. Domani, chi sa... Verrò io... Ma
adesso non so, non so nulla. Non provo che un bisogno immenso di esser
solo (_amaramente_). Ah non mi ucciderò! Va: (_dolcemente_). Lasciami,
lasciami, vuoi?

PAOLA (_con forza_). Domani ti vedo?

MAUR. Sì, sì, sì (_le mette il mantello_). Ecco, così. Come sei venuta?
Nessuno ti ha vista?

PAOLA. No: non pensare, nessuno, nessuno. Ho Ambrogio, lì sotto.

MAUR. Bene. Va, va, va. Il velo ancora (_le cala il velo sugli occhi_).
Addio!

PAOLA (_sull’uscio, piegandosi a lui per baciarlo_). Maurizio...

MAUR. No! (_chiamando_). Costanzo!

PAOLA. Oh! (_Via_).

MAUR. (_a Costanzo_). Accompagna e ritorna. (_Va alla scrivania, apre,
prende un portafogli e valori_).

COST. (_tornando_). C’è ancora il signor Ludovico di là...

MAUR. Pregalo d’andarsene; non voglio vedere più nessuno... Parto
all’alba.


  CALA LA TELA.




LEONESSA

DRAMMA.


_PERSONAGGI_

  IL CONTE ROBERTO MONTANARI.
  ELENA, _sua moglie_.
  LUISA, CAMILLO, loro figli.
  DONNA CLELIA.
  IL DOTTOR BLAVETTI.
  MARIANNA.

_La scena è in una piccola città di provincia._


ATTO PRIMO.

  _Sala terrena nell’antico palazzo Montanari. — Nel fondo porta
  d’ingresso comune: ai lati di questa un vecchio armadio ed una
  credenza intagliata. — A destra uscio che mette in giardino, altro
  a sinistra che comunica con gli appartamenti interni. — Tavola
  nel mezzo; seggioloni antichi coperti di cuoio, seggiole moderne
  semplicissime, un sofà._


SCENA PRIMA.

Elena, Marianna, Camillo e Luisa.

MAR. (_Sta ritirando dalla tavola i resti della colazione e li ripone
nella credenza_).

ELENA (_Conduce i bambini verso l’uscio di destra_). Siete serviti.
Adesso andate in giardino, ma non stancatevi perchè oggi forse si va in
campagna.

CAM. (_Contento_) Alla Bertranda?

ELENA. Sì; ma ho detto forse, veh!

CAM. Nella nostra carrozza?

MAR. Se si trova un cavallo. Gioacchino è in giro per questo. Se non
fosse festa al Santuario di San Costanzo lo avrebbe già trovato, ma
oggi quelli che hanno cavalli li tengono per sè.

ELENA. (_Ai bambini_) Andate, e state buoni.

CAM. e LUISA. (_Escono_).

MAR. (_Che ha finito_) Comanda?

ELENA. Per ora no.

MAR. Lo sa che oggi si mangia alle undici?

ELENA. (_Con qualche sorpresa_) Oggi?

MAR. Da oggi in poi. Per me è tutt’uno, andrò presto a far la spesa; ma
per loro sarà un incomodo. Già è il padrone che vuol così.

ELENA. L’hai visto uscire?

MAR. No, signora. (_Con significato_) È ancora lassù, sulla terrazza.

ELENA. Puoi andare.

MAR. Viene giù adesso; lo sente?... Eccolo.

ROB. (_Entra dalla sinistra_).


SCENA SECONDA

Elena, Marianna, Roberto.

ROB. Chi c’è in soffitta?

ELENA. Tua madre, credo.

ROB. Sentivo due voci...

MAR. (_Di sull’uscio_) C’è su anche il dottor Blavetti. Guardano quei
quadracci...

ROB. Basta; va pure.

MAR. (_Via_).

ROB. Quel Blavetti! non si occupa che di anticaglie, di minchionerie;
non gli affiderei un cane.

ELENA. Non viene qui come medico.

ROB. Viene come seccatore...

ELENA. È un vecchio amico di tua madre.

ROB. Gli amici di mia madre io non li posso soffrire: nè questo, nè
quell’altro di Torino, l’avvocato Rostagno...

ELENA. (_Interrompendolo, ma con dolcezza_) Perchè vuoi pranzare alle
undici?

ROB. Perchè a mezzogiorno mi par troppo tardi.

ELENA. Per te.

ROB. Per tutti! Ad ogni modo si può provare: ti pare una cosa così
straordinaria?

ELENA. Non ho fatto l’ombra di un’osservazione.

ROB. Meno male (_S’incammina verso il fondo_).

ELENA. Che farai oggi?

ROB. Mi annoierò.

ELENA. La giornata è così bella: si potrebbe approfittarne...

ROB. (_Fermandosi_) Per?...

ELENA. Per fare una gita alla Bertranda.

ROB. (_Ironico_) A piedi, eh?

ELENA. Poichè abbiamo la nostra carrozza...

ROB. Ah sì! Vi attacchiamo Azor, e via!

ELENA. Gioacchino è andato a cercare un cavallo.

ROB. E se lo trova, chi guida?

ELENA. Tu.

ROB. No, sai.

ELENA. A Torino...

ROB. A Torino guidavo cavalli miei e non mi tiravo dietro l’arca di
Noè. — E poi non vedo alcuna necessità di andar con questo caldo fino
alla Bertranda.

ELENA. Però, di quando in quando un’occhiata ai nostri affari sarebbe
utile, per non dir necessaria. Anche tua madre...

ROB. Mia madre non c’entra... Badate alle cose di casa voialtre donne,
che a quelle di fuori penso io.

ELENA. (_Si guarda le mani con aria rassegnata, ma non convinta_).

ROB. Vado alla posta; ti occorre qualcosa?

ELENA. No, grazie.

ROB. (_La guarda un momento dal fondo, poi torna abbonito_) Abbi
pazienza... Ho detto che mi pareva inutile andar oggi; ma andremo alla
Bertranda un altro giorno... Bisogna immaginare che figura si farebbe
in quella vecchia berlina! E ci toccherebbe far strada con quelli
che vanno al Santuario! Tutti questi signori del contorno hanno bei
legni moderni, e che cavalli! e noi non abbiamo più niente. Almeno non
mettiamoci in mostra! — Tutto quello che vuoi, ma ridicoli no. Scusami,
eh! (_Le prende la mano, e via_).

ELENA. (_Resta pensierosa un istante, poi si stringe nelle spalle
sorridendo amaramente, e va per passare in giardino_).


SCENA TERZA.

Elena, Clelia, Blavetti.

CLELIA. (_Entrando dalla sinistra, seguita da Blavetti_) Elena!... Te
ne vai?

ELENA. (_Fermandosi_) No, no; scusate non vi avevo veduti.

BLAV. Ben levata, contessa?

ELENA. Buon giorno, dottore.

BLAV. Abbiamo fatta una visita agli avoli, agli arcavoli, ai
bisarcavoli. — Malandati, sa. Ce ne sono che fanno pietà! Ma noi li
ripuliremo e li disporremo nella galleria del primo piano.

CLELIA. Par fatta apposta.

BLAV. Sarà il museo storico di casa Montanari.

CLELIA. E c’è ancor tanta roba lassù! Adesso ch’è di moda l’antico.

BLAV. È una gran bella moda. Io poi conosco tanti segreti per pulire,
rinfrescare, restaurare...

CLELIA. (_Ad Elena_) Abbiamo trovato una cosa che può esserci utile
subito.

BLAV. Ah sì, un certo numero di piastrelle di bronzo, la guarnitura
completa di uno stipo.

CLELIA. E sai cos’ho pensato? Che si potrebbe far ricostrurre e
regalarlo a Roberto per il suo onomastico.

ELENA. Benissimo!

CLELIA. Non sappiamo mai cosa dargli! Glielo faremo trovare in camera
pieno di sigari.

BLAV. Ecco.

CLELIA. Lei pensa a tutto?

BLAV. Penserò al disegno, e lo farò eseguire.

CLELIA. E poi ci dirà la spesa!

BLAV. Si figuri! Però, prima di decidere vorrei vederle meglio quelle
piastrelle. C’è su tanta polvere, tanta patina! Bisognerà lavarle... Se
fossero mie le getterei nell’acido, ma temperato, perchè poi...

CLELIA. S’incarica anche di questo?

BLAV. Sì, signora. Porterò l’occorrente.

CLELIA. Bravo!

BLAV. Siamo intesi. — Adesso vado al dovere; ma ho poco da fare: non
mi vogliono più. Dicono che cerco quello che è vecchio, ma non lascio
invecchiare i clienti! Chiamano il dottor Angeleri, che ha preso
la laurea adesso... E lo credono meno micidiale di me!... Basta;
riverisco. (_Via dal fondo_)


SCENA QUARTA.

Elena, Clelia, poi Marianna.

CLELIA. (_A Elena_) Che te ne pare?

ELENA. (_Scuotendosi_) Scusami...

CLELIA. (_Sorridendo_) Dove sei colla testa?

ELENA. Sono qui... Sì, sì, ho capito. L’idea è buonissima, credo che
farà piacere a Roberto... (_Muovendosi verso destra_) Vuoi che diamo
un’occhiata ai piccini?

CLELIA. Sì; stamattina non li ho ancor veduti.

MAR. (_Entrando_) Il cavallo è trovato, lo dà l’oste della Croce di
Malta.

ELENA. Bisogna che Gioacchino torni subito a dirgli che può disporne
altrimenti.

MAR. (_Sorpresa_) Oh!

ELENA. Fa presto.

MAR. (_Via_).

CLELIA. Ma perchè?

ELENA. Non si va più. Roberto non vuole.

CLELIA. (_Dopo aver pensato_) Avrà qualche ragione...

ELENA. Naturalmente (_Va verso il giardino_).

CLELIA. Elena...

ELENA. (_Si volta e la guarda aspettando_).

CLELIA. Cos’hai?

ELENA. Niente.

CLELIA. Tu non stai bene.

ELENA. Sto benissimo.

CLELIA. Vorrei che tu parlassi col medico.

ELENA. (_Sorridendo mestamente_) Parlerò con Blavetti, sei contenta?

CLELIA. No; quello è il medico delle anticaglie, lascialo a me.
Scriveremo a Torino; lo dirò a Roberto...

ELENA. Tu dovresti dire un’altra cosa a Roberto, una cosa che non posso
dir io...

CLELIA. Perchè?

ELENA. Mi ha presa in una condizione così diversa dalla sua, che non mi
pare d’aver alcun diritto di consigliarlo riguardo agli affari... Ma ci
sono i bambini.

CLELIA. Cosa vuoi dire?

ELENA. Siamo venuti a star qui per far economia, e per aver l’occhio al
piccolo podere salvato dal naufragio. Alla casa ci pensi tu; ci penso
io per quello che so e posso; Roberto dovrebbe occuparsi della tenuta.
— Non ci va mai.

CLELIA. Mi par che non è molto ch’egli vi è andato!

ELENA. M’inganno, non parliamone più (_per andare_).

CLELIA. Aspetta! Vieni qui. Ti voglio bene, io; ti stimo. Tu forse ti
ricordi ancora che io mi sono opposta al vostro matrimonio...

ELENA. Avevi ragione...

CLELIA. Avevo torto! Ah poi ho capito che potevi diventare presto una
vera signora! Mio figlio non poteva darmi una nuora migliore di te; ti
ho veduta così coraggiosa nella nostra sventura... Lasciamo stare il
passato. Se qualche cosa ti mette in pensiero, parla, son qui.

ELENA (_Quasi fra sè_) È inutile.

CLELIA. (_Che ha inteso_) Perchè? Ho già cercato, sai, quello che
poteva renderti così melanconica. (_Ridendo_) E non ho trovato che
una cosa!... Elena, non son mica le distrazioni di Roberto che ti
danno ombra? Lo credi uomo da lasciarsi invescare da una modistina di
provincia?

ELENA. (_Freddamente_) Non so niente.

CLELIA. Oh!... e con che serietà! Gelosa proprio?... No, Elena, non
è il caso. L’ho guardata da vicino, sai. Ha dei begli occhi, quella
Delfina, è alta, è snella, ma poi...

ELENA. L’ho guardata anch’io...

CLELIA. E dunque?

ELENA. E mi ha fatto pensare a certe altre che ho visto in città.
Quelle potevano tutto sugli uomini. Delfina è bella, è giovane, è
audace; non ha legami, non ha doveri...

CLELIA. Eh via...

ELENA. E per Roberto ha un pregio che vince tutti gli altri. — Non è
sua moglie.

CLELIA (_Con rimprovero_) Elena!

ELENA. Ti prego... è qui!


SCENA QUINTA.

Elena, Clelia, Roberto.

ROB. (_Entrando_) Buon giorno, mamma (_Bacia Clelia in fronte_) Non ci
siamo ancor veduti.

CLELIA. Sei già uscito?

ROB. (_Porgendole una lettera_) Ecco, per te.

CLELIA (_Guardando la soprascritta_) È di Rostagno!

ROB. Sarà (_Per entrare a sinistra_).

CLELIA. Aspetta: vediamo cos’è.

ROB. (_Si ferma a malincuore_).

CLELIA. (_Leggendo_) Bene... Oh, ma benissimo! (_Dando la lettera ad
Elena_) Una buona notizia: un’offerta d’impiego per Roberto... (_a
Roberto_) Tu lo sapevi, eh?

ROB. (_Freddo_) Sì.

CLELIA. Hai già ricevuto una lettera? E perchè non hai risposto?
Rostagno si rivolge a me adesso; dice che le richieste sono molte, che
bisogna far presto...

ROB. Scriverò.

CLELIA. Ma subito; e ringrazia quel galantuomo anche a mio nome. Ha già
fatto tanto per noi!

ROB. (_Risoluto_) Ma non accetto, sai.

CLELIA. (_Colpita_) Oh!

ELENA. (_Siede presso la tavola, tira a sè un libro, lo sfoglia,
guardando spesso Roberto_).

CLELIA. O bene via! parliamo sul serio. È Rostagno che fa la proposta:
l’affare deve essere eccellente. Pensa alla nostra condizione, pensa ai
tempi che corrono; pensa che ti rincresceva tanto lasciar Torino...

ROB. Ho pensato a tutto.

CLELIA. E dunque?

ROB. Ed ho deciso di restare dove siamo. Qui casa Montanari tien
sempre il suo posto. La parte di decaduto non mi va. Perdio! non voglio
tornar a vivere da straccione dove ho vissuto coi mezzi e col decoro
convenienti al nostro nome.

ELENA. (_Si alza come per andare a lui, poi si ferma_).

CLELIA. (_Voltandosi a lei_) Che ti pare?

ELENA. (_Non risponde_).

CLELIA. (_A Roberto_) Allora... Se questa è veramente la tua
opinione... cosa vuoi che ti dica? Ma almeno rispondi, ringrazia, fammi
questo piacere!

ROB. Sta tranquilla: scriverò oggi stesso (_Apre un giornale e vi
legge_).

CLELIA. (_Ad Elena, con qualche imbarazzo_) Adesso possiamo andare, eh?

ELENA. (_Scuotendosi_) Dove?

CLELIA. Mah!... in giardino, o fuori, se credi. Possiamo portare i
piccini fino alla stazione, o fino al castello...

ELENA. Vorrei dire una parola a Roberto.

CLELIA. Devo aspettarti?

ELENA. No, no, vi raggiungerò.

CLELIA. Andremo pianino (_Via a destra_).


SCENA SESTA.

Elena, Roberto.

ELENA. (_Andando diritto a Roberto_) Tu non pensi ai tuoi figli; tu non
ti occupi del loro avvenire.

ROB. Elena, fammi il piacere...

ELENA. (_Calmandosi e cambiando tono_) Sì, sì, basta. Dimmi solamente
una cosa: vuoi sempre bene ai bambini?

ROB. (_Lasciando il giornale_) Bella domanda!

ELENA. Dunque sii buono con loro.

ROB. Non credo d’essere stato cattivo.

ELENA. Sì, ieri.

ROB. Oh!

ELENA. Ieri sera, a tavola, t’ho visto far certi occhi a Camillo! E poi
hai alzata la mano; se non facevo presto!... Oh! a un piccolino così, a
tuo figlio!

ROB. Ma è anche troppo sbadato!

ELENA. Sì, ma la mancanza era così leggiera... (_Dopo una pausa,
facendosi coraggio_) La saliera rovesciata non era che un pretesto...
La tua collera aveva un’altra ragione...

ROB. Non so cosa tu voglia dire.

ELENA. Camillo era uscito con te; tornati a casa, parlando delle
persone incontrate, ha detto un nome: è per questo che tu...

ROB. Se badi alle sciocchezze dei bambini...

ELENA. Io non sono una bambina, eppure... (_Con gran dolcezza_) No, no,
no, no, non voglio farti una scena. I rimproveri sono inutili; se mi
vuoi ancor bene, nulla è perduto, ma se invece...

ROB. (_Imbarazzato_) Ma insomma...

ELENA. Vieni qui, vieni qui... Ti nascondi così poco, così male.
Tutti ti vedono a salutar Delfina dalla nostra terrazza, a seguirla, a
parlarle, a passeggiar delle ore davanti al negozio...

ROB. Ho capito: ti hanno avvertita, o ti hanno scritto. Vi sono di
quelli che se li pigliano questi gusti. (_Minaccioso_) Ma fa ch’io
scopra chi è...

ELENA. Ma se sono io che vedo! Sono io che so!

ROB. Spero non vorrai credere...

ELENA. Lasciami dire. Ti ho visto, l’ultima volta che colei è venuta
a portarmi un abito, aggirarti intorno, e palpar la stoffa, e mostrar
d’interessarti per trovar le sue mani e consegnarle un biglietto. —
Oggi, non hai voluto condurci in campagna per non star una giornata
intera lontano. Anticipiamo il pranzo di un’ora, perchè tu possa
trovarti agli appuntamenti che vi date qui, dietro il giardino.
Insomma, tu non pensi che a lei, non vivi che per lei. La sua influenza
è penetrata in casa e si estende su tutto. Hai cambiato umore,
abitudini, carattere. Sei suo, sei suo, sei suo!

ROB. Eh! tu esageri, tu sei matta! Non sai più cosa diavolo inventare!
Bisogna sapersi calmare, riflettere... e non badare a tutte le mosche
che passano. Nelle città come questa, in tre giorni, un moscherino
diventa uno struzzo... Guarda, non mi giustifico perchè so quanto
son leggieri i miei torti. Abbi pazienza, siamo ancora tutti un po’
sottosopra; passerà... (_Attirandola a sè_). Torneranno i bei giorni;
bisogna bene che tornino, per te, per me, per tutti.

ELENA. Ah Roberto!

ROB. (_Affettuoso_) Vedi come ti parlo!

ELENA. Sì. (_Con abbandono_) Anch’io non sono più come una volta, lo
so. Ho sofferto... e soffro. Ma non staccarti, vedrai; chi sa, forse
potrò tornar bella; ti amo tanto! Puoi tu farmi un rimprovero come
moglie, come madre?

ROB. No; ma non pensar più.

ELENA. (_Col capo sopra la sua spalla_) Non penserò più, non penserò
più... (_chiude gli occhi_).

ROB. (_Dopo un momento la bacia sui capelli e fa per andare_).

ELENA. (_Scuotendosi bruscamente_) Vai?

ROB. Non vuoi?

ELENA. (Con passione) No, non ancora. Ti annoia restar solo con me?
Andiamo a raggiunger la mamma, i bambini. È tanto tempo che non siamo
più usciti tutti insieme.

ROB. Andiamo... (_Guardandola_) Tu però sei stanca?

ELENA. (_Sorridendo mestamente_) Prenderò il tuo braccio, mi farò
portare... come una volta, quando eri tu che volevi.

ROB. Si vede che hai pianto, si capirà che c’è stato qualcosa, e che
usciamo a braccetto dopo aver fatta la pace...

ELENA. Cosa importa!

ROB. Sai che mi secca il ridicolo. Aspettiamo.

ELENA. Come vuoi (_Va lentamente all’uscio di sinistra_).

ROB. (_Prende sbadatamente il cappello e se lo mette_).

ELENA. (_Si volta e lo guarda fissamente_).

ROB. (_imbarazzato_) Starei qui a finire il giornale, ma penso che devo
scrivere a Rostagno e che mi manca la carta...

ELENA. (_Freddamente_) Va.

ROB. Vado a comprarne.

ELENA. (_Indicando l’uscio che mette in giardino_) Di là farai più
presto, e troverai chi ti aspetta.

ROB. (_Facendo un passo verso di lei_) Elena!

MAR. (_Entra dal fondo_).


SCENA SETTIMA.

Elena, Roberto, Marianna.

MAR. Scusino...

ROB. (_Aspro_) Cosa vuoi?

MAR. C’è la ragazza della signora Morando; viene per avvertire che le
novità sono arrivate.

ELENA. Vado.

MAR. (_Via_).

ELENA. (_A Roberto_) Non è qui per me. Non ti ha trovato al convegno
e viene in casa con un pretesto, sperando che la sorte l’aiuti. È
coraggio, è amore, è tutto quello che vuoi. Ma poichè ha chiesto di me,
bisogna ch’io la veda.

ROB. Cosa vuoi fare?

ELENA. (_Semplicemente_) Sentir quello che ha da dirmi. — Vuoi venire
anche tu?... Vieni.

ROB. (_Andando verso il giardino_) Usciamo di qui, andiamo dove volevi
andare.

ELENA. Perchè? Non vuoi che ci veda insieme? Ti ha proibito d’uscire
con me?... È facile; conosco i suoi capricci! Non mi meraviglio più di
nulla, va là! So che mi considera come una sua pari, che non ha altro
merito che d’essersi trovata la prima sul tuo cammino. Quando passo
davanti al negozio, si affaccia con le compagne, e si bisbiglia, e si
ride. Il suo saluto mi provoca. Imita le mie vesti, contraffà il mio
portamento. Così tutti capiscono: se io son la _contessa_, lei è la
_contessina_ — Chi sa cosa spera! (_Prendendogli la mano_) Tu non hai
più l’anello che ti ho dato quando ci siamo sposati. — Non vuol più
vedertelo in dito? o l’ha voluto per sè?

ROB. (_Ritraendosi confuso_) Elena! Elena!

ELENA. Tu non hai più nè cuore, nè dignità, nè onore!

ROB. Basta!

ELENA. Sì, basta. (_Indicando l’uscita del fondo_) Voglio uscire di là,
al tuo braccio.

ROB. No!

ELENA. Ho bisogno di questo...

ROB. No.

ELENA. Roberto!

ROB. (Alzando le spalle) Oh quante storie! (Via rapidamente dal fondo).


SCENA OTTAVA.

Elena, poi Blavetti.

ELENA. (_Resta immobile, guardando come persuasa di vederlo rientrare.
Alla fine lascia cadere le braccia e discende palpitante la scena_).

BLAV. (_Dopo un momento dal fondo_) Si può? (_Avanzando_) Perdoni...
disturbo?

ELENA. (_Distratta_) Ah! è lei?

BLAV. (_Guardandola un po’ sorpreso_) Non si sente bene?

ELENA. Perchè?

BLAV. Domando... così per abitudine, abitudine di medico. Ho incontrato
adesso il conte; mi parve che avesse premura, non ho osato fermarlo. Mi
dà una tal suggezione!... Donna Clelia non c’è?

ELENA. Non so... non credo. Cosa vuole?

BLAV. (_Mostrando una boccetta_) Vorrei consegnar questo. Lo dò a lei?

ELENA. Sì, dia a me (_Prende la boccetta_).

BLAV. Per l’operazione ci sarò io.

(_Voci dei bambini dal giardino_).

ELENA. (_Scuotendosi, e muovendosi come per correre loro incontro_)
Eccoli! eccoli!...

BLAV. (_Fermandola e volendo ripigliar la boccetta_) Scusi, a me,
allora... Eh no, perchè mi saltano addosso! (_Indicando l’armadio_) Là,
là, sul palchetto più alto... Io li trattengo.

ELENA. (_Andando all’armadio_) Così?

BLAV. E chiuda, chiuda.


SCENA NONA.

Elena, Blavetti, Camillo Luisa.

CAM. (_Entrando_) Mamma, oh mamma!

LUISA. Mamma!

BLAV. (_Chinandosi per fermarli_) Oh cari! Che cari! (_I bambini lo
evitano e corrono alla mamma_).

CAM. Abbiamo visto papà, con la signorina bella!

ELENA. (_Con un grido_) Ah no! (_Li prende con impeto fra le braccia_)
Oh i miei bimbi, i miei bimbi, i miei bimbi!


  CALA LA TELA.


ATTO SECONDO.

  _Sala come nell’atto primo. Sulla tavola tovaglia, tovagliuoli,
  piatti, bicchieri, ecc._


SCENA PRIMA.

Roberto, poi Marianna.

  _La scena è vuota._

ROB. (_Si affaccia dalla sinistra, guarda per veder se è solo; si
avanza rapidamente con una piccola valigia e la nasconde nell’armadio;
chiude e mette in tasca la chiave_).

MAR. (_Entra dal fondo e vede l’atto_).

ROB. (_Brusco_) Cosa vuoi?

MAR. Niente; vengo a sparecchiare.

ROB. Dovrebbe esser fatto.

MAR. Abbia pazienza! — Sono andati a tavola ch’era quasi il tocco!

ROB. (_Via dal fondo_).

MAR. (_Continuando, mentre sparecchia_) Lei è arrivato tardi;
hanno trattenuto il dottore ed ho dovuto aggiungere un piatto...
(_Accorgendosi che Roberto è andato_). Non pensa che all’amorosa lui, e
gli altri s’ammazzino!


SCENA SECONDA.

Marianna, Clelia, Blavetti e poi Elena, dal giardino.

CLELIA. (_Sottovoce a Blavetti_) Elena sempre peggio. Ha il respiro
corto, doloroso. (_Mettendosi la mano al cuore_). Sa, ho paura che sia
malata qui, io!

BLAV. (_A capo basso_) Oh diamine!

ELENA. (_Entra_).

CLELIA. (_A Blavetti, come continuando un discorso_) Dunque lei non
credeva che si potesse ancor prendere il caffè in giardino?

BLAV. Eh altro! finchè il tempo si mantiene così.

MAR. (_Ha finito e va via_).

CLELIA. Però son d’accordo con lei che l’estate è finita.

BLAV. Il conte ne conserva le abitudini, eh? Dorme lui.

CLELIA. Era stanco dal viaggio.

BLAV. Diavolo d’un conte! Guardino un po’ se gli ho potuto far dire
quello che c’è di nuovo a Torino.

CLELIA. Si è fermato poco.

ELENA. Poco?... Quattro giorni!

BLAV. Eh, in quattro giorni se ne fanno delle cose! Io non mi trattengo
mai più di due e torno sempre a casa meravigliato di quello che ho
fatto!

CLELIA. Eh bravo!

BLAV. Oh, oh! senza malizia, eh!... I miei idilli sono al museo egizio,
oramai: nella galleria delle mummie.

CLELIA. (_Ad Elena_) Sai cosa dovresti fare? Riposare un’oretta anche
tu.

ELENA. Perchè?

CLELIA. Blavetti mi tiene ancora un po’ compagnia.

BLAV. Si figuri! Noi abbiamo di che occuparci: occorrendo facciamo una
spedizione nel continente scuro. Non capisce?

ELENA. Veramente...

BLAV. In soffitta; vi sono ancora delle regioni inesplorate. Poi
dobbiamo riparlare dello stipo...

CLELIA. Ah sì, lo stipo! La festa di Roberto è passata.

BLAV. Cosa vuole... ho finito ieri il disegno. Le piastrelle sono ancor
da pulire.

CLELIA. A proposito! cosa ci ha portato in casa? Roba che non si deve
toccare... Cosa fa? Scoppia?

BLAV. Brucia.

CLELIA. Grazie! È vetriolo?

BLAV. Precisamente.

CLELIA. Caro lei, se le tenesse per sè queste cose! (_Va prestamente
all’armadio_) Elena, sei tu che hai ritirata la chiave?

ELENA. No.

CLELIA. (_Cercando_) Sai, che è curiosa! Ho già detto tante volte
che non si deve toccare... (_Batte il timbro_). Adesso sapremo...
(_Inquietandosi_) Non saranno già i bambini?!

ELENA. (_Scattando_) Dio!


SCENA TERZA.

Elena, Clelia, Blavetti, Marianna.

MAR. (_Entra_).

ELENA. (_Correndo a lei_) Presto; dove sono i bambini?

MAR. Con Gioacchino che fabbrica un carretto per loro.

CLELIA. La chiave dell’armadio?

MAR. L’ha presa il signor conte.

ELENA. Quando?

MAR. Poco fa, mentre erano ancora in giardino. Mi ha trovata qui, mi ha
strapazzata, e poi se n’è andato.

  (_Un silenzio_)

CLELIA. Va, va pure.

MAR. (_Via_).

BLAV. (_Mortificato_) Mi scusi, abbia pazienza... Appena si potrà
aprire, me lo faccia sapere. Vengo qui, ripiglio la boccetta e dò
parola che non la vedranno mai più.

CLELIA. Bravo! e un’altra volta abbia giudizio.

BLAV. Sì, signora.

CLELIA. Torni presto.

BLAV. (_S’inchina e parte_).


SCENA QUARTA.

Elena, Clelia.

CLELIA. (_Ad Elena_) Ma guarda!...

ELENA. Mamma, questa è la casa del mistero e della menzogna.

CLELIA. Cosa vuoi dire?... Ah! Roberto ha detto che andava a dormire e
poi... Lasciamo correre: oggi l’ho anch’io con lui.

ELENA. (_Sorpresa_) Anche tu?

CLELIA. Sicuro: può ringraziare Blavetti, ch’era qui quando è arrivato,
altrimenti gliel’avrei cantata l’antifona!

ELENA. Tu! Cosa ti ha fatto?

CLELIA. (_Imbarazzata_) M’ha fatto... m’ha fatto... Prima di tutto
questi suoi viaggi...

ELENA. È la prima volta che va a Torino da che siamo qui! — No, no,
dimmi la verità. Fa ch’io non debba tormentarmi a cercarla. Dimmi
tutto, anche le cose che ti paiono senza importanza... Così almeno sarò
preparata.

CLELIA. Oh santo Cielo! Chi sa che cosa t’immagini!... Voglio vederti
quieta.

ELENA. (_Siede e si calma con uno sforzo_) Che cosa ti ha fatto Roberto?

CLELIA. Sono io che esagero.

ELENA. Mi fai morire così!

CLELIA. Che cosa ti ha detto che andava a fare a Torino?

ELENA. A vedere un amico.

CLELIA. Non c’è altro.

ELENA. (_Supplichevole_) Mamma...

CLELIA. (_Decidendosi subitamente_) Roberto, arrivando a Torino, si è
presentato a Rostagno, e voleva che gli rimettesse quello che ritiene
ancora presso di sè...

ELENA. (_Alzandosi_) Oh! i denari che...

CLELIA. Sì, la somma ricavata dalla vendita del nostro villino.
Rostagno ha preso tempo e mi ha scritto. Lui non darebbe un soldo al
Padre Eterno senza avvertirmi...

ELENA. E poi, e poi?

CLELIA. Roberto non si è più fatto vedere.

ELENA. E cosa credi?

CLELIA. Mah!

ELENA. Tu pensi che può aver preso il denaro da un altro?

CLELIA. (_Assente con un cenno_).

ELENA. Qui corre voce ch’egli abbia offerta la Bertranda all’avvocato
Vernetti.

CLELIA. (_Trasalendo_) Misericordia!

ELENA. Informati!

CLELIA. Oh Dio! Vendere la Bertranda? Sei matta! Ma ne avrebbe
parlato...

ELENA. (_Amaramente_) A noi? E che cosa siamo ancora per lui?... Non
sa neanche più d’avere dei figli! Vuol vendere la terra che è il loro
unico bene; vuol metter la mano sul poco danaro risparmiato per loro! —
E tu credi che sia per aiutare un amico?

CLELIA. (_Indovinando il pensiero_) Conosco Roberto, lo ha fatto altre
volte.

ELENA. Anch’io lo conosco. — È per darlo all’amante.

CLELIA. Non voglio che tu parli così!

ELENA. (_Con energia_) Ma apri gli occhi; ma guarda, guarda dove
andiamo! Tu sei buona, sei una santa tu, ma così debole contro di lui —
Eppure tocca a te, adesso.

CLELIA. Parliamogli insieme...

ELENA. Io non posso più nulla, io l’ho freddo ed avverso. Tocca a te
difendere la famiglia contro di lui, e per lui. Chi sa che un giorno
non ti ringrazi e non ti benedica.

CLELIA. (_Accorata_) Ebbene parla, dimmi quello che devo fare, farò
tutto, tutto quello che vorrai.

ELENA. Tu sei sua madre... Io sono stanca, io non so più... Vedi bene
che non posso nemmen più pensare. (_Siede presso la tavola, con la
faccia tra le mani_).

CLELIA. (_Va su e giù pensierosa ed afflitta_).

  (_La scena si è venuta oscurando_).


SCENA QUINTA.

Elena, Clelia, Marianna.

MAR. (_Di sull’uscio_) È notte, devo portar lume?

CLELIA. Portalo.

MAR. Non c’è più pane per la cena. Il dottore ne mangia per quattro...

CLELIA. E tu comprane.

MAR. Vado subito. — Scusino: il signor conte è arrivato con la sua
valigia, e in camera non la trovo più...

CLELIA. L’avrà ritirata lui stesso.

MAR. Era solamente per sapere se cenava con loro, o se per caso...

CLELIA. (_Con impazienza_). Ti ha detto qualcosa?

MAR. No.

CLELIA. Dunque va, e fa presto.


SCENA SESTA.

Elena, Clelia, Marianna, Roberto.

ROB. (_Entrando, a Marianna_) Lume, subito.

CLELIA. L’ho già ordinato.

MAR. (_Via_).

CLELIA. (_A Roberto_) L’hai presa tu la chiave dell’armadio?

ROB. No.

CLELIA. Eppure Marianna...

ROB. Ebbene sì.

CLELIA. Come rispondi!

ROB. (_Addolcito_) Scusami...

MAR. (_Rientra col lume_)

ROB. Ma questo è per voi! — Portane un altro per me.

CLELIA. Non vuoi star qui?

ROB. Non posso, ho da fare.

CLELIA. Prendi questo. (_A Marianna, che aspetta_) Va, va.

MAR. (_Via_).

ROB. (_Prende il lume e s’incammina_).

CLELIA. Roberto!... senza dir nulla a tua moglie?

ROB. (_Fermandosi_) Ma sì... ma sì, altro! (_Va verso Elena_).

ELENA. (Lo guarda fissamente, aspettando).

ROB. (_Posando il lume sulla tavola nervosamente_) Insomma cosa c’è?
(_a Clelia_) Tu mi parli come a un ragazzo mal educato; Elena mi fa
una faccia! Se ci son novità, ditelo. Se no, lasciatemi andare. (_Dopo
breve pausa_). E non state in quest’aria; si gela. Venite via; fatevi
accendere il fuoco nel salotto.

CLELIA. (_Con le lagrime nella voce_) Ah Roberto, come ci fai male!

ROB. (_Tra’ denti_) Ecco.

CLELIA. Sono sempre stata buona con te. Non rimpiango niente, ma questo
è il momento di ricordartene. Tu lasci una moglie che ti vuole un
bene dell’anima, per correr dietro... sappiamo tutti a chi. È un vero
scandalo, sai. Non è l’esempio che devono dare i signori. — E so anche
altre cose... Giudizio Roberto, giudizio, per carità! Pensa ai bambini,
pensa ad Elena, pensa a me...

ROB. Elena... Elena ha torto: dovrebbe capire che non si può restar gli
stessi per tutta la vita... Se fosse sincera, vedrebbe che anche lei
non mi ama più come una volta.

ELENA. (_Scattando in piedi_) Credi questo tu? — Non lo è. — Tu
vorresti che lo fosse, eh?

ROB. Oh santo Dio!

ELENA. Sei cambiato? Ti giuro che io non lo sono. Il mio amore sei tu,
la mia felicità sei tu. Mi sono data a te per tutta in vita, non posso
capire quello che adesso succede.

ROB. È un cattivo momento per discutere. Siamo tutti nervosi...

ELENA. No, no, no, finiamola, finiamola subito, d’un colpo. A te, parla.

ROB. Ebbene sia. Non sono più degno di te. Perdonami quello che ti
faccio soffrire.

ELENA. Avanti, avanti; non puoi aver finito.

ROB. Hai mia madre che ti ama come una figlia...

CLELIA. Ah sì, questo sì!

ROB. Hai i bambini... Amatevi fra di voi, e non pensate più a me.
Vedete bene che non misuro più le cose. Soffro, son vinto, è finita!

ELENA. (_A Clelia_) Lo senti, lo senti!

CLELIA. Roberto!

ROB. Conducila via, fa questo per lei!

ELENA. Aspetta! Parlo io. Dunque è finita; non posso sperar più, non
tornerai quel di prima, non saremo più noi, mai, mai, mai!? Allora,
per forza, devo cambiare anch’io. Noi madri amiamo i nostri figli, li
difendiamo. Bada a te! badate a voi! Non farei nulla per me, ma penso a
loro. — Guardatevi!

CLELIA. (_Spaventata_) Non dir queste cose! Per carità; non parlare
così!

ELENA. Tu non sai che cosa è questo momento per me! — Dimmi ancora: non
vivrò più a lungo; se muoio, tu la sposerai?

ROB. (_A Clelia_) Conducila via, conducila via!

ELENA. (_Con grandissima intensità di passione_) Dimmi no, dimmi no!
Trova una parola, Roberto! trovala, trovala...

CLELIA. (_Abbracciandola_) Vieni; lasciamolo stare, vieni con me. (_A
Roberto, severamente_) Non ti riconosco più, fa quello che vuoi! (_Via,
conducendo Elena, dalla sinistra_).


SCENA SETTIMA.

Roberto solo.

  _Guarda la porta per cui sono uscite e porge l’orecchio come per
  accertarsi che se ne vanno davvero. — Si aggira un momento turbato,
  agitatissimo; d’un tratto corre all’armadio, apre con la chiave che
  ha in tasca, e presa la valigia, parte rapidamente dal giardino._


SCENA OTTAVA.

Elena, poi Marianna.

  _La scena rimane vuota per alcuni momenti._

ELENA. (_Ricompare, e cerca avidamente con gli sguardi Roberto_).

MAR. (_Entra frettolosa dal giardino e si ferma sulla soglia a guardare
indietro_).

ELENA. (_Correndo a lei_) È uscito, eh? Corri, chiamalo, voglio
parlargli...

MAR. (_Trattenendola_) Se sapesse!...

ELENA. Via! Lasciami...

MAR. Non vada fuori. Tornavo a casa. All’usciolo trovo una figura:
questa mi vede e scappa. Io dietro; scantona, io dietro!... È buio, ma
l’ho riconosciuta. Indovini...

ELENA. No! No!

MAR. Era Delfina.

ELENA. Ah!

MAR. Aspetti, aspetti! In questo ecco il padrone che salta fuor
dall’usciolo: guarda di qua, guarda di là, non vede nessuno — perchè
noi eravamo dietro il canto — e via, verso la stazione!... Si credeva
in ritardo.

ELENA. Cosa dici?

MAR. Non capisce? Scappavano insieme...

ELENA. (_Con un grido_) Oh! Non è vero! Non è vero! Non è vero!

MAR. (_indicando l’armadio_) Guardi che è aperto! Aveva messa lì la
valigia per averla a mano...

ELENA. (_Si passa una mano sulla fronte, guarda fissamente, come fuori
di sè_).

MAR. Lo sapevo, io! Ma in grazia mia non si sono trovati... (_Correndo
all’uscio del giardino_) E l’altra è là, sa, la sfacciata! Aspetta; chi
sa come si arrabbia! Non so cosa le farei!

ELENA. (_È sempre ritta davanti all’armadio: ad un tratto si scuote
come colpita bruscamente da un’idea, si slancia, trova la boccetta
dell’acido e respingendo Marianna, balza in giardino_).

MAR. (_Sbalordita_) Ohi, ohi! perchè? Cosa fa?... Signora, signora!

  (_Uno strido acutissimo di fuori_).

MAR. Oh povera me! (_Correndo via a sinistra_) Signora Clelia! Signora
Clelia!


SCENA NONA.

Elena sola.

ELENA. (_Rientra ansante, si lascia andar sul sofà, esausta di
forze. Dopo un istante, si scuote come svegliandosi, tende l’orecchio
atterrita_).

  _Rumori confusi di fuori: voci che si vengono avvicinando
  rapidamente._

— È là, è là, è là!

— Cos’è stato?

— È qui; venite qui!

— Chi è? cos’ha?

— Misericordia!

— Lumi, lumi, lumi...

— Una donna!

UNA VOCE. (_più chiara e più forte_) Ha la faccia bruciata!

ELENA. (_Balzando in piedi_) I figli! I figli!... Voglio i miei figli!


  CALA LA TELA.




LA PRIMAVERA DEL ’99

SCENE.


_PERSONAGGI_

  ANDREA REVIGLIO.
  IL CAVALIERE DI PRIASCO.
  LA CONTESSA CLARA MALAN DEL VILLAR.
  DON ROLANDO, _prete di casa_.
  ROSA.
  ALBAN.
  UN UFFIZIALE FRANCESE.
  UN SERGENTE.
  SOLDATI.

_La scena è in Piemonte, nella casa di campagna della contessa Malan._
— Maggio 1799.


ATTO UNICO.

  _Stanza arredata con semplicità elegante. — Ingresso comune a
  destra; altro uscio a sinistra; un terrazzino in prospetto. —
  Ritratti antichi sulle pareti, vecchi mobili, un lume acceso sopra
  una tavola. — È l’alba._


SCENA PRIMA.

Alban, Rosa.

ALBAN (_sul terrazzino, guarda attentamente al di fuori_).

ROSA (_dalla sinistra, senza alzare la voce_). Alban?... Alban?

ALBAN (_venendo fuori dal terrazzino_). Son qui!... Par tutto quieto.

ROSA. Ordine di tornare alla fattoria subito, subito.

ALBAN (_per partire_). Vado.


SCENA SECONDA.

Alban, Rosa, Don Rolando.

ROLANDO (_dalla destra_). Dove andate?

ALBAN. Alla fattoria.

ROLANDO. Alla fattoria non si sa ancor niente.

ALBAN. Aspetterò al portone. (_Via_)

ROSA. Che notte, don Rolando, che notte!

ROLANDO (_passeggiando_). Brutta, sì.

ROSA. Ha capito subito anche lei ch’era la campana a martello? E come
si vedevano le fiamme! E quei colpi? Si battevano, eh?

ROLANDO. Certo, a Toralta.

ROSA. Libera nos domine! Vado, chè la signora è sola. (_Via_).


SCENA TERZA.

Don Rolando, Andrea.

ROLANDO (_passeggia, guarda fuori, si avvede che è giorno, spegne il
lume_).

ANDREA (_entra dalla destra: è un po’ ansante, con qualche disordine
negli abiti come chi è venuto correndo_).

ROLANDO. Dunque? Dunque? (_Gli va incontro_).

ANDREA. Vengo da Toralta. Il villaggio è deserto; ho visto dei morti
sul sagrato; sulla piazza vi sono due o tre case bruciate...

ROLANDO. Ah! Dai tricolori, eh?

ANDREA. Sì. I contadini, ieri mattina hanno buttato giù l’albero della
Libertà; ieri sera è arrivata truppa francese: l’uffiziale voleva farlo
rialzare, allora...

ROLANDO. Schioppettate?

ANDREA. Ecco.

ROLANDO (_con entusiasmo_) Bravi!

ANDREA (_alzando le spalle_). Oh, inaffiar con sangue un albero che non
ha radici!

ROLANDO. I francesi sono i nostri assassini...

ANDREA. I piemontesi cercano e ammazzano i soldati che viaggiano soli.

ROLANDO. È la santa insurrezione che si estende.

ANDREA. Santa perchè favorita dai preti e dai frati?

ROLANDO. Reviglio! Reviglio!

ANDREA (_continuando_). Che non si contentano di raccomandar l’omicidio
dai pulpiti, ma si mettono alla testa delle bande briache e feroci.

ROLANDO. Ma al grido di: — Viva la fede! Al grido di: — Viva il Re!

ANDREA (_Tace_).

ROLANDO. E gli Austro-Russi si avanzano... (_si frega le mani con
gioia_).

ANDREA. (_Alza le spalle_).

ROLANDO (_irritato_). Giacobino!

ANDREA. No! (_con calma_). Sono un servitore, io: un servitore di casa
Malan, e nient’altro.


SCENA QUARTA.

Rolando, Andrea, Alban.

ALBAN (_dalla destra, con sorpresa_). Sor Andrea! di dov’è passato?

ANDREA. Dal giardino.

ALBAN. Ed io che aspettavo al portone! Bisogna avvertire la signora
subito. (_Entra prestamente a sinistra_).

ANDREA (_a D. Rolando, che passeggia nervoso_). Don Rolando, siamo alle
rotte anche noi?

ROLANDO (_porgendogli la mano_). No, no, Andrea... Ma come vorrei avere
i tuoi anni!...


SCENA QUINTA.

Rolando, Andrea, Alban, Clara.

CLARA (_entrando rapida, seguita da Alban_) Aspetta. (_Ad Andrea_). E
così?

ANDREA. Non vedendo ritornar Michele...

CLARA (_con qualche impazienza_). Siete andato voi. Lo so questo.

ANDREA. Giunto a Toralta...

CLARA (_interrompendolo_). A Toralta?

ANDREA. È là che succedeva il trambusto.

CLARA (_calmandosi un poco_). Sta bene... E ne immagino anche la causa.
E poi?... E dunque? Cos’avete fatto? Vi sarete informato, spero?

ANDREA. Sì, signora. Ho saputo tutto da alcuni contadini che stavano in
vedetta sul ponte.

CLARA (_con vivacità_). Che ponte?

ANDREA. Il ponte di Rifreddo.

CLARA. E cosa siete andato a fare al Rifreddo?

ANDREA. È la strada più corta.

CLARA. Passando a Priasco allungavate di poco...

ANDREA. Non ci ho pensato.

CLARA. Avete fatto male a non pensarci. (_Voltandosi a don Rolando_). E
quell’altro come va che non torna?

ROLANDO. Michele?... Michele ha la sua vecchia mamma a Toralta. Partito
prima, assai prima di Andrea è arrivato certo a tempo per metterla in
salvo.

CLARA. E dove?

ROLANDO. A Priasco, suppongo, che è il villaggio più vicino.

CLARA (_ad Alban_). Va giù; e se Michele ritorna, avvertimi subito.

ALBAN (_via_).

ANDREA (_a Clara, umilmente_). Se la signora contessa desidera, vado io
stesso...

CLARA (_interrompendolo_). No... Più tardi, se mai... (_finamente_).
Quando le strade saranno di nuovo sicure. (_Via a sinistra_).


SCENA SESTA.

Andrea e Don Rolando.

ANDREA. (_È rimasto immobile a capo basso_).

ROLANDO (_battendogli leggermente una spalla_). Si va?

ANDREA (_scuotendosi_). Dove?

ROLANDO. A vedere i rifugiati, prenderemo la via dei boschi...

ANDREA. Cosa ha voluto dir la signora?

ROLANDO. Non so, figliuol mio.

ANDREA. Che ho avuto paura?

ROLANDO. Eh via!

ANDREA (_con forza_). Ma io non sapevo... perchè altrimenti sarei
andato dove voleva lei, a costo di lasciarci la vita!

ROLANDO. Sta bene; ma intanto cosa fai? — Vuoi star qui a covarti il
rabbuffo? Vieni, andiamo...


SCENA SETTIMA.

Andrea, Don Rolando, Alban.

ALBAN (_frettoloso, passando_). Michele è tornato... Ha visto il
cavalier di Priasco, che si è battuto tutta la notte... che sarà qui a
momenti (_via a sinistra_).

ANDREA (_colpito_). Ah! Dunque è per lui che dovevo andare a Priasco!?

ROLANDO. Certo. È cugino della signora; era il miglior amico del nostro
povero conte... Dunque non ti vuoi muovere?

ANDREA (_risoluto_). No.

ROLANDO. A rivederci.


SCENA OTTAVA.

Andrea e Clara.

ANDREA (_si aggira un momento per la scena, poi bruscamente si avvia
per raggiungere Rolando_).

CLARA (_entrando_). Reviglio.

ANDREA (_si ferma_).

CLARA. Buone notizie... Avete sentito?

ANDREA. Sì, signora. Buone notizie... Io non ho visto che orrori.

CLARA (_dopo un momento_). È vero... viviamo in tempi così tristi!
Tutto congiura per abbatterci l’anima, tutto!... Perfin le persone che
ci stanno d’intorno.

ANDREA. Soffia un vento maligno che ispira a chi comanda asprezza ed
ingiustizia!

CLARA (_con voce vibrata_). Ed a chi dovrebbe ubbidire acrimonia e
rancore!

ANDREA (_ferito_). Signora!

CLARA. Una volta si sapeva tacere.

ANDREA. Perciò mi perdoni se parlo. Io sono affezionato, pronto ad ogni
comando. E la mia devozione è nel sangue e non può venir meno. Mio
nonno servì in questa casa per tanti anni, e vi morì... E non era il
primo dei miei. Mio padre seguì il vostro al campo, e così da vicino,
che gli era al fianco quando fu fatto prigione... Il vostro tornò di
Francia, il mio no. Non vedrò mai la sua tomba.

CLARA (_raddolcita_). Reviglio, via...

ANDREA. Io nacqui in città, ma vissi quasi sempre qui per badare ai
poderi. Lei, signora, non veniva che nella bella stagione. Io l’ho
vista bambina, ragazza... poi sposa. Quando tornò vedova, non se ne
andò più. Sono tre anni che ricevo i suoi ordini. Posso aver mancato
d’abilità nell’eseguirli, ma di zelo...

CLARA (_vivamente_). Mai! — Mai, nè di abilità nè di zelo. (_Chetandolo
col gesto_). E adesso basta. (_Dopo un silenzio_). Sì... Ricordo
anch’io... Ricordo anch’io tante cose. Quando mi portarono qui dopo la
morte di mia madre, ero malata, tanto malata di dolore; mi affidarono a
voi per farmi respirare, per svagarmi. Si andava insieme all’aperto...
E... diventammo amici, eh? Tanto è vero che più tardi vi ho poi perfino
confidato un segreto.

ANDREA. A me?

CLARA. Sì, sì, a voi. Quando mi hanno fidanzata, siete stato dei primi
a saperlo.

ANDREA (_commosso_). È vero, è vero.

CLARA. V’ho dato allora una prova di fiducia grande... (_Quasi fra
sè_). E oggi... Oggi, volendo, potrei di nuovo...

ANDREA. Oggi?

CLARA (_risoluta_). Sì, Andrea, voi potete disporvi a non limitar più
la vostra devozione a me sola.

ANDREA. Ma io non l’ho mai limitata, mai...

CLARA (_ilare_). Come l’altra volta, Reviglio, come l’altra volta!

ANDREA (_colpito_). Ah! E con chi? E con chi?

CLARA. Questo poi...

ANDREA. Col cavalier di Priasco?

CLARA. Basta, vi dico.

ANDREA (_ritraendosi_). Sì, sì, basta, basta, basta. Questa è una
notizia!... Ehee, certe cose, si capisce all’istante in cui accadono
che si erano già prevedute. Solo allora si capisce... Oh, ma non dico
niente. Sarò discreto, prudente. Griderò poi: — Evviva! evviva! ma a
suo tempo... (_Dopo pausa, come ferito da una idea_). Signora mia, non
andrà via di qui, no?

CLARA (_imbarazzata_). No... per ora.

ANDREA (_supplicando, quasi senza avvedersene_). Mi faccia tanta
grazia, mi lasci solamente sperare.

CLARA. Sì, Andrea, perchè lo desidero anch’io. Ad ogni modo vedremo...

ANDREA (_ritirandosi_). Questo mi basta. Son contento! (_Di
sull’uscio_). Comanda?

CLARA. Niente. (_Subitamente, più seria_). Fermatevi, Reviglio: sentite.

ANDREA (_si riaccosta_).

CLARA (_lentamente, fissandolo in viso_). So che tutto andrà bene,
tutto. Ma... se poi un giorno occorresse esser forte?

ANDREA. Basterà un cenno.

CLARA. Bisogna esser preparati, sempre... anche alle cose più dolorose
e difficili, anche a lasciar le persone a cui si è più affezionati.

ANDREA (_come affascinato_). Per sempre?

CLARA (_con dolcezza_). Fin che sarà necessario.

ANDREA. Oggi?

CLARA. No... aspettiamo.

ANDREA (_piegando il capo_). Starò agli ordini. (_Dopo una pausa,
animandosi via via_). Starò agli ordini. Ma chi sa, forse non sarà mai
necessario! Vivere e morir qui, sotto questo tetto, godendo tutta la
sua grazia: ecco, non desidero altro. Perchè poi finora, non un gesto,
non una parola... E i pensieri non li vede che Dio!... È possibile
anche che vi sia un equivoco. E non posso, e non devo neanche provarmi
a chiarirlo. Perchè lei riderebbe delle mie parole. E naturalmente
dovrei ridere anch’io. (_Con riso sforzato_). Viva Dio, finora non ci
sono ragioni per credermi matto!


SCENA NONA.

Andrea, Clara, Rosa.

ROSA (_dalla sinistra, accorrendo_). Il signor cavalier di Priasco
arriva adesso al galoppo.

CLARA. Si apra il portone.

ANDREA (_a Rosa_). Restate, vado io. (_S’inchina a Clara e via a
destra_).

ROSA. (_Si ritira a sinistra_).


SCENA DECIMA.

Clara, il Cavaliere.

CLARA (_con tristezza, dopo aver pensato un momento_). Mah!... Perchè
questo adesso?... Perchè?

CAV. (_a destra sulla soglia_). Cugina...

CLARA. Vi aspettavo.

CAV. (_baciandole la mano_). So già che siete stata inquieta, per me.

CLARA. Sì, un poco.

CAV. (_con galanteria_). Poco o molto, la mia riconoscenza è uguale.

CLARA (_nervosa_). Raccontate, raccontate.

CAV. Ieri sera sono andato via di qui ch’era assai tardi.

CLARA. Ve l’avevo detto!

CAV. (_con un sospiro_). Eh sì, me l’avevate detto, e ripetuto anche...
Era tardi dunque e buio. Me ne andavo al passo per non inciampare,
quando alla svolta della Crocetta, ecco un gran chiarore tra gli
alberi.

CLARA. E la campana.

CAV. E la campana alla disperata. Dieci minuti dopo, arrivavo col
Bianco, di trotto serrato, sulla piazza di Toralta. Da una parte,
davanti alla chiesa, i contadini ronzavano come uno sciame di calabroni
infuriati; dall’altra, i francesi se la godevano guardando ad avvampar
due casupole. E le fiamme, amica mia, cominciavano a lambirne una
terza, spinte in giù da una tramontana indiavolata. O muoverci subito,
eh? o rassegnarci a vederle divorar tutto il villaggio. I francesi
erano pochi, ma armati, disciplinati, soldati insomma; i contadini più
numerosi, ma santo Dio!... E li avevo tutti intorno con le braccia in
aria, che mi scongiuravano di far qualche cosa per loro... Bene: io ho
messo innanzi gli schioppi, le pistole, i tromboni; dietro le falci,
i tridenti, i bastoni, poi dissi loro: — Addosso, ragazzi, e fate
quel che potete. — E si andò bene, o almeno non male. I miei cani da
pagliaio si avventarono come leoni, e sebbene i soldati si portassero
anch’essi ottimamente, si finì col ributtarli fuor del villaggio.

CLARA. Dove sono?

CAV. I francesi? Oh, li credo ancor nei dintorni. I contadini sono
venuti con me a Priasco: là, col Rifreddo davanti e col Paludaccio alle
spalle...

CLARA (_guardandolo in faccia_). Vi siete esposto, eh?

CAV. (_sorridendo_). Peuh!

CLARA (_seria_). No, ditemi tutto. Eravate innanzi, alla testa; vi
vedo. I repubblicani vi potrebbero riconoscere?... E se vi cercassero?

CAV. Io farei in modo di non lasciarmi trovare.

CLARA. Cugino...

CAV. (_affettuoso_). Vi ringrazio coll’anima, ma vi prego di non
inquietarvi. Basta guadagnar tempo, non occorre più altro oramai. Gli
uni si ritirano e gli altri si avanzano. Allegra cugina, che presto
vedremo i cosacchi!

CLARA (_con gioia_). Ah Vittorio!

CAV. (_con entusiasmo_). Amica, quando potremo gridar: — Viva il re! —
voglio che ne tremi il Monviso.

CLARA. Ho tanto, tanto pregato!

CAV. Lo credo, lo so, e Dio vi ha esaudita (_cambiando tono_). A noi,
non perdiamo tempo. Mi volete far il favore di suonare a raccolta?
Voglio vedere i vostri uomini, esaminare la casa...

CLARA. Perchè?

CAV. Chiamate, vi prego.

CLARA (_suona il campanello_).

CAV. Così in caso di pericolo...

CLARA. Pericolo mio?

CAV. Lontanissimo certo. Ma nei momenti in cui siamo, mi par bene non
trascurar precauzioni.


SCENA UNDICESIMA.

Clara, Il Cavaliere, Alban.

ALBAN (_si presenta_).

CLARA. Avvertite subito don Rolando e Reviglio...

ALBAN (_via_).

CAV. (_con affetto, cercando di prenderle le mani_). Siete buona che mi
permettete d’occuparmi di voi, come s’io fossi già...

CLARA (_ritraendosi con grazia_). Quello che non siete ancora.

CAV. (_teneramente_). Clara, Clara...

CLARA. Vi prego, ecco Alban.

ALBAN (_rientrando_). Don Rolando è andato a Priasco. Sor Andrea non si
sa dove sia.

CAV. Male, male, malissimo!

CLARA. Come si fa?


SCENA DODICESIMA.

Clara, il Cavaliere, Alban e Rosa.

ROSA (_precipitandosi in scena_). I francesi! I francesi!

CAV. Oh diavolo! (_corre al terrazzino_).

ROSA (_seguendolo_). Là, vede? Laggiù, laggiù...

CAV. Le baionette... Son loro!

CLARA. Vengono?

ROSA. Santa Maria! Poveri noi...

CAV. Silenzio! (_ad Alban_). Chi c’è in casa?

ALBAN. Stefano, Garbino, Anselmo, Michele...

CAV. Chiamali tutti. Sbarrate il portone, levate la catena ai mastini e
approntate le armi, se ne avete. Vengo giù anch’io.

CLARA. Pensate a resistere?

CAV. E perchè no?

CLARA. Son pochi, ma bastano per far di noi quello che vogliono.
Badiamo a questo. Non possiamo difenderci. E se poi... se le loro
intenzioni non fossero ostili?

CAV. (_spensieratamente_) Lo diverrebbero trovandomi qui... Trovando
chi li ha malmenati stanotte.

CLARA. Ho capito! (_Sgomenta_). Fuggite!

CAV. (_alzando le spalle_). Dio! come se potessi lasciarvi...

ROSA. Vengono, sbucano adesso nel prato.

CAV. (_battendosi la fronte_) Oh! un uomo fidato, pei boschi, a
Priasco...

CLARA. Alban, presto!

CAV. No, no, è tardi.

ROSA. Son fermi, guardano la casa... L’uffiziale parla a un sergente...

CLARA (_angustiata al Cavaliere_) Andate via, andate via!

CAV. (_fermo_). No, Clara.

ROSA. Agitano un cencio bianco.

CAV. Ah, ah! Vogliono pace.

ROSA. E si avanzano.

CLARA (_al Cavaliere_). Nascondetevi!

CAV. Oh!

CLARA. Vi prego, vi supplico, fate questo per me.

CAV. Per voi? (_Riflettendo_) È giusto. Avete ragione. La mia presenza
può essere pericolosa per voi.

CLARA. Non è questo; io non penso a questo. (_Correndo all’uscio di
sinistra_). Di qui, di qui amico mio, fino all’ultima stanza. Sotto
l’arazzo, v’è un usciolo che mette in uno stanzino. Di là...

CAV. Mi fermerò là. E ricordatevi che voglio essere avvisato di tutto
quel che succede, minuto per minuto.

CLARA. Rosa ci penserà. Andate, entrate, in nome di Dio!

CAV. Coraggio, eh!

CLARA. Ne avrò, quando non vi vedrò più.

CAV. (_via seguito da Rosa_).

CLARA (_respirando_). Ah!... Ora a noi. (_Ad Alban_). Raccomanda la
sicurezza, la calma a tutti quanti, a nome mio... E apri le porte.


SCENA TREDICESIMA.

Clara, poi Alban con un uffiziale francese.

CLARA (_siede presso la tavola, svolge un ricamo, lavora, sforzandosi
di prendere un contegno tranquillo_).

ALBAN (_si mostra sull’uscio_).

CLARA (_gli accenna di lasciar libero il passo_).

UFF. (_entra, guarda Clara e s’inchina_). Salute e fratellanza.

CLARA (_risponde con disinvoltura e con grazia al saluto_).

UFF. Cittadina, non vogliamo fare del male, e tu ci puoi far anche del
bene.

CLARA. Parlate; darò gli ordini...

UFF. Ho con me quattro feriti, che sarebbero in paradiso sopra un poco
di paglia...

CLARA (_ad Alban_). Va a vedere se Reviglio è tornato.

UFF. E chi è Reviglio? Il tuo intendente? Bon; (_ad Alban_). Gli dirai
di parlare subito col sergente Mouton per sapere quel che occorre ai
ragazzi.

ALBAN (_si avvia_).

UFF. E pensa anche a me.

ALBAN (_via_).

CLARA. Siete italiano?

UFF. Sono côrso, cittadina. Claudio Morali, di Aiaccio: terzo
battaglione, quinta mezza brigata di fanteria leggiera. (_Con un
sospiro_). Leggiera e come! Ventiquattr’ore che non abbiamo mangiato
(_al terrazzino_). Bon! gli uomini son tutti in cortile. Non sarà torto
un capello a nessuno, ma non rispondo dei polli, dei conigli, e neanche
dei gatti. (_Dopo aver guardato in giro_). Bella vista! Bel colpo
d’occhio! Sono un po’ artista. (_Tornando_). Però preferisco la figura
al paesaggio. (_Accostandosi, dopo averla contemplata un momento_).
Come ti chiami?

CLARA. Clara.

UFF. Clara? Nient’altro che Clara? Bel nome però! (_Con fatuità_). Ne
ho conosciute parecchie Clare: non una che non fosse giovane e bella...
Sei un’ex-nobile, eh? (_Sentimentale_). Ah! cittadina, in questo mondo
non sono che due i piaceri: far la guerra e far all’amore. Ma quando
il primo non lascia tempo al secondo, allora si soffre. Io, vedi...
(_s’interrompe scorgendo sull’uscio il sergente_). Eh bien? Avance!


SCENA QUATTORDICESIMA.

Clara, l’uffiziale, il sergente.

SERGENTE (_sull’attenti, parla sottovoce animatamente all’uffiziale_).

UFF. (_gli dà prestamente alcuni ordini_).

SERGENTE (_via frettoloso_).

CLARA (_li avrà osservati, frenando la sua inquietudine_).

UFF. (_brusco_). Dov’è tuo marito?

CLARA. Sono vedova.

UFF. Meglio per te. Tiriamo via. Nella tua scuderia si è scoperto
un animale sospetto: il cavallo dell’uomo che comandava gl’insorti
stanotte. Tu comprendi come sia grande il mio desiderio di vederne il
padrone... Non hai niente da dire? No? Si capisce. Cercheremo. (_Guarda
intorno, poi s’incammina verso l’uscio di sinistra_).

CLARA (_balza in piedi come per contrastargli il passo, ad un tratto si
ravvede e va ella stessa ad aprire_). Volete entrare qui? Ecco fatto:
servitevi.

UFF. (_fermandosi_). Un momento... (_porge l’orecchio_). Che, se non
m’inganno, la lepre è scovata! (_Si volge come aspettando verso l’uscio
di destra_).


SCENA QUINDICESIMA.

Clara, l’uffiziale, Alban, poi Andrea, il sergente ed alcuni soldati.

ALBAN (_entrando affannato_). Signora, oh signora, vogliono arrestare
sor Andrea!

CLARA. Lui! perchè?

ALBAN. Guardi, ma guardi!

ANDREA (_entra condotto dal sergente, seguito dai soldati, che si
fermano nell’uscio_).

UFF. (_andandogli incontro_). Chi sei? Presto: nome, cognome, età,
condizione, tutto.

ANDREA. Mi chiamo Andrea Reviglio, del fu Giovanni.

UFF. (_interrompendolo_). Ah! sei tu l’intendente? Ti eri nascosto, eh?

ALBAN. Niente nascosto! L’hanno trovato sopra una panca in fondo al
giardino.

UFF. Cosa facevi? Dormivi?

ANDREA. Mi riposavo.

UFF. Ah ti riposavi! Dunque eri stanco? Stanco a quest’ora: non ti
pare un po’ presto? Cosa diavolo hai fatto stanotte? Non sei andato
un po’ in giro per caso? Non hai fatto, per esempio, una passeggiata a
Toralta?

CLARA (_con impeto, frapponendosi_). Badate ch’egli non sa di che cosa
lo si accusa. E poi... ad ogni modo vi giuro, per quello che ho di più
sacro al mondo, che voi vi sbagliate.

UFF. (_la guarda fissamente, accarezzandosi il mento_). Meno male. Tu
vuoi dire che il reo non è lui? Se non è lui, sarà un altro. Vediamo
quest’altro. Tu capisci che... Insomma le ciance sono inutili...

CLARA. Cosa volete dire?

UFF. Voglio dire che se fra un quarto d’ora non ho nelle mani il
colpevole, io regolo il conto a costui.

CLARA. È un’infamia!

UFF. No, cittadina.

CLARA. Non potete...

UFF. Sì, cittadina. Non solo posso, ma devo. — Ordine del giorno
Grouchy, otto nevoso, anno sette...

CLARA. Un’infamia, vi dico; un vero assassinio!

UFF. La parola è grossa... (_stendendo la mano verso il terrazzino_).
Guarda, mia cara, a piè di quel campanile che si vede laggiù, ho
lasciato Jourdan, Maret e Lecoq: un caporale e due soldati, tre
bravi patrioti. Non sono i primi, e non saranno gli ultimi, perchè
l’insurrezione è scoppiata in tutti i comuni... (_Interrompendosi_).
Allons! (_ai soldati_) conducetelo abbasso; accordate i clarinetti, poi
vedremo.

CLARA (_sgomenta, tirando l’uffiziale in disparte_). Venite qui,
sentite, sentite. Reviglio è innocente, ve lo giuro. Ve lo giuro
sulla memoria di mia madre. Non volete credermi? Mettiamo che non
possiate credermi... Che cosa v’importa di quella vita? Risparmiatela,
e vi sentirete contento... Chi sa che questo non vi porti fortuna.
(_Trattenendolo sempre, abbassando ancora la voce_). Ascoltatemi. Ho
dato tutto al rompersi della guerra, anch’io come gli altri: danaro,
argenteria, quanto v’era di valsente in casa; ma non tutte le mie
gioie, quelle che m’erano più care le ho ancora. Ecco sono vostre, col
patto però...

UFF. (_ritraendosi, con garbo_). Pas de bêtises, cittadina! Parlo
italiano, ma non son sempre disposto a capirlo. (_Ai soldati_) Marche!


SCENA SEDICESIMA.

Clara, l’uffiziale, Alban, Andrea, il sergente, i soldati, il Cavaliere
di Priasco.

CAV (_sulla soglia a sinistra_). Ehi, signore, fatemi il favore di
badar a me un momento.

UFF. Volentieri, cittadino (_si accosta squadrandolo_).

CLARA (_smarrita_). Vittorio, Vittorio!

CAV. (_a Clara, serio, con calma_). Cugina, vi prego...
(_all’uffiziale_). Senza tante parole, lasciate star Reviglio, che non
sa neanche di che cosa si tratti; prendetemi con voi, conducetemi dal
comandante di piazza, dal commissario civile, al diavolo, se volete,
ma...

UFF. Ho capito! Cioè no, veramente... (_indicando Andrea_). Ma sai che
costui ha pressochè confessato.

CAV. Non è possibile.

ANDREA (_con energia_). Sì, signore... E d’altronde tutti costoro mi
han riconosciuto.

CAV. Ah? Ebbene rifacciamo la prova. (_Piantandosi di fronte ai
soldati_). Attenti voialtri: qual di noi due vi par l’uomo di stanotte?

I Soldati (_guardano ora l’uno ora l’altro, dubbiosi e perplessi_).

  (_Un silenzio_).

CAV. (_ridendo_). Bene! Bravi!

UFF. La nuit tous les chats sont gris.

CLARA (_con impeto_). Ecco! E decidereste della sorte di un uomo con
testimonianze così vaghe, incerte, confuse?

UFF. (_ad Andrea e al cavaliere_). Fate conto di fumar tutti e due la
pipa sopra una barile di polvere.

CAV. Decidiamo...

UFF. (_stringendosi nelle spalle_). Decidete voi. Io il modo l’ho di
finirla.

CLARA (_avvicinandosi a lui, spaventata_) Oh signore! signore, vi
prego...

CAV. (_severo_). Cugina!

UFF. E perchè no? (_attirandola a parte con un cenno_). Una parolina
fra noi. Caso mai... (_Abbassando la voce_). Cercavo un nemico e ne
trovo due. Come vedi, li ho tutti e due nelle mani e potrei... Mi
capisci? Ma sono un buon ragazzo, dopo tutto; e ammetto che infin
dei conti il cavallo bianco portava un sol cavaliero. Quindi (_con
malizia_) se tu hai qualche ragione di far preferenze...

CLARA (_attonita_). Non so... non comprendo...

UFF. No? Diavolo! Te ne piglio uno, ma ti lascio l’altro. Però bisogna
scegliere.

CLARA (_dopo un momento, rabbrividendo_). Dio!

UFF. Ça ne va pas?

CLARA. No, no, no, cerchiamo altro, ma questo no, questo no, questo no!

UFF. Proviamo la sorte, vuoi?

CLARA (_si lascia andar seduta, e scuote dolorosamente la testa_).

UFF. (_pestando i piedi_). Sacredieu, quelle stupide affaire!
(_Voltandosi agli altri_). E come va in lungo, cittadini cari; io non
posso star qui in sempiterno! Il regno della vera Libertà è pur quello
della Clemenza. Ed io voglio esserlo clemente. Vi dò mezz’ora per
intendervi. Va bene così? Quello a cui tocca, se vorrà essere sbrigato
sull’atto non avrà che a consegnarsi al sergente, troverà tutto pronto
in cortile. (_Al sergente, accennando l’uscio di destra_). Tu starai lì
fuori con Malaise e Legrand. (_Ad Alban_). Tu sotto con me, a servirmi,
che muoio di fame. (A quelli che restano). Saluto repubblicano, e che
l’Ente supremo vi illumini! (_Via seguito da Alban e dai soldati_).


SCENA DICIASSETTESIMA.

Clara, Andrea, il Cavaliere di Priasco.

CAV. (_andando da Andrea_) Ma voi siete matto, eh?!

CLARA (_alzandosi_). Vittorio! Non parlargli così.

CAV. Matto, dico. Perchè mentire? Che cosa gli salta di cacciarsi anche
lui nell’imbroglio, col rischio di farci moschettar tutti e due?

ANDREA (_volendo parlare_). Mi perdoni...

CAV. Credete voi ch’io non sappia a quel che mi espongo?

ANDREA. No, signor mio.

CAV. Sarò condotto in Francia, perderò i beni...

ANDREA (_con forza_) La vita!

CAV. (_incredulo_). Ah!

ANDREA. Due mesi fa le cose sarebbero forse andate come lei immagina.
Ma oggi, oggi che la Repubblica è vinta, morde e sbrana come una lupa
arrabbiata.

CAV. Dirò il mio nome, i miei titoli, le mie aderenze... (_s’avvia come
per uscire_).

ANDREA (_opponendosi_). Se lei passa la soglia, casca nelle mani dei
soldati, e allora è finita.

CAV. (_con impazienza_). Oh in nome di Dio!...

ANDREA (_opponendosi ancora_). La prego...

CLARA. Vittorio! Andrea! Non voglio vedervi l’un contro l’altro così.

ANDREA. Non perdiamo tempo. O l’uno o l’altro, dunque...

CAV. E vorreste andar voi?

ANDREA. O l’uno o l’altro! Pensiamo, qual dei due sacrifizi è il più
utile. Lei deve vivere. In questi momenti ne ha il dovere: il suo nome
rappresenta secoli di onore, di valore, di gloria...

CAV. (_con ironia_). È per questo che dovrei lasciarvi assassinare al
mio posto?!

ANDREA (_continuando_). Di là dal mare, vi è chi aspetta. Il suo esilio
sta per finire. Ricuperato il regno, guai se non potrà chiamare a
sè, stringersi intorno tutti i fedeli, tutti gli amici! Lasci ch’io
contribuisca a conservargliene uno, e dei migliori. Sono solo, signore,
non ho famiglia, non ho nè speranze, nè gioie, ed è così poca cosa la
mia vita!... (A Clara). Lo prego, m’aiuti lei a persuaderlo.

CLARA (_addoloratissima_). Io? Perchè? Non voglio perdervi, io...
Cerchiamo, cerchiamo, approfittiamo di questo respiro... (_ai due che
si scostano alquanto_). Ma no! Venite qui, tutti e due, vicino a me...
E cercate, voialtri che siete uomini, che siete forti e coraggiosi. Io
soffro troppo, non posso pensare. (_Giungendo le mani affannosamente_).
Pregherò, ecco; pregherò perchè non muoia nessuno.

ANDREA (_dolcemente, insistendo_). Ma se non mi spaventa la morte! Vado
alla pace, al riposo. E mi porto nel cuore un conforto, così grande,
così bello: la certezza di vivere nella vostra memoria... (_Fa due o
tre passi verso l’uscio_).

CAV. (_con autorità_). Fermo! Verranno a cercarci. Non precipitiamo,
qualche cosa sarà.

CLARA (_attaccandosi a queste parole_). È vero, è vero: aspettiamo. Chi
sa! Chi lo sa cosa può accadere! (_Dopo un silenzio, con un grido_).
Vittorio! Andrea! E... e se non venissero più?!

CAV. (_sorpreso_). Perchè?

CLARA. Se l’uffiziale, o mosso a pietà, o che so io... non so insomma,
ci avesse lasciati così per... per darci il modo...

CAV. (_correndo al terrazzino_). Non è possibile!... Eh no: guardate.

CLARA (_che lo ha seguito_). È vero! Sentinelle per tutto.

CAV. (_indicando in lontano_). Se mai, la salvezza potrebbe venir di
là. Da Priasco.

CLARA. Sì, sì, un miracolo!

CAV. I contadini mi amano, mi adorano. Pensate, se mi sapessero qui,
se avessi potuto avvertirli! (_Smaniando_). Oh esser là, farli entrar
nella macchia, arrivare in silenzio fino al giardino, e piombar su
costoro come l’ira di Dio!

ANDREA (_senza levare gli occhi dal terrazzino, ha indietreggiato fino
all’uscio di destra. Apre pian piano; impone silenzio ai soldati che si
affacciano, saluta Clara con uno sguardo, e scompare_).

  (_Un silenzio_).

CLARA (_con un grido_). Dio!... Vittorio!

CAV. (_scuotendosi_). Che c’è?

CLARA. Là, là! Guardate là (_con gesti febbrili_). No, più sotto, in
quell’ombra, tra gli alberi...

CAV. (_attentissimo_). Vedo, vedo anch’io, ma...

CLARA (_ansiosamente_). Son loro?

CAV. (_frenandosi_). No, CLARA.

CLARA. Eppure Priasco è là.

CAV. Sì... ma non pensate. Non sperate. Guai!

CLARA. Aspettiamo, dunque. Aspettiamo... Non guardiamo più... Chi sa,
chi sa... (_Ritraendosi, coprendosi la faccia con le mani_). Così...
Vittorio, io prego, vuoi?

CAV. (_con gli occhi fissi, pallido e grave_). Prega, prega.

CLARA (_dopo brevissima pausa_). Ebbene?

CAV. Mah!

CLARA (_premendosi il petto con le mani_). Muoio, sai. Non sento più il
cuore.

CAV. Coraggio!

CLARA. E gli altri, e i nemici che fanno?

CAV. Son tutti in cortile, quieti, sicuri... (_Sporgendosi_) E che
diamine c’è da veder in cortile?... (_Saltando bruscamente in scena e
guardando intorno_). Reviglio! Reviglio!

CLARA (_cercando anch’essa_). Reviglio!

CAV. (_indicando l’uscio_). È uscito di là. (_Vi corre_).

CLARA (_stringendosi a lui_). Vittorio no! Ti amo! Lo sai che ti amo!

CAV. Lasciami! Lasciami, ti dico. Non capisci che è perduto?

  (_Una scarica da basso_).

CLARA. Ah!

  (_Si guardano allibiti. Clara si lascia andar seduta e nasconde il
  viso: il cavaliere le è vicino, immobile e muto_).

  _Un lungo silenzio poi un grido lontano: Qui vive?_

  _Altro silenzio, altro grido: Aux armes! Aux armes! Urli, spari,
  tumulto._

CAV. (_scuotendosi, fremente_). I nostri, Clara, i nostri! Così va
bene, per Dio! A noi! Tornerò, sai. (_Via rapidamente_).


SCENA DICIOTTESIMA.

Clara, poi Don Rolando, Alban, Andrea.

CLARA (_si slancia come per seguire il cavaliere, si ferma, va per
affacciarsi al terrazzino, indietreggia inorridita al pensiero di
ciò che dovrebbe vedere. Percorre la scena agitatissima, porgendo
l’orecchio ai rumori che si vanno allontanando_).

DON ROLANDO e ALBAN (_si presentano reggendo Andrea pallido e
disfatto_).

CLARA (_raccapricciando come davanti a un’apparizione_). Reviglio!
Voi?... Vivo?

ROLANDO (_ad Andrea_) Eccoci, ancora un passo; coraggio!

ALBAN. Coraggio, sor Andrea (_a Clara_). È lui che ha voluto venir su...

ANDREA (_alla presenza di Clara cerca di reggersi, di riprendere le
forze_).

CLARA (_avanzando rapidamente una poltrona_). Qui, presto, adagiatelo
qui.

ALBAN e DON ROLANDO _vi adagiano Andrea_.

ANDREA (_vi si abbandona, chiudendo gli occhi_).

CLARA (_spaventata_). Muore! Muore!

ROLANDO. No, no: la volontà lo tien vivo, ma per un miracolo. Non
l’abbiamo salvato che dall’ultimo colpo, dal colpo di grazia. Son io
che ho avvertito i contadini, che li ho guidati...

ALBAN. Si battono al ponte.

CLARA. Silenzio!

ANDREA (_ha riaperto gli occhi, languidamente. Vede Clara, si agita,
vorrebbe rialzarsi_).

CLARA. No, Andrea, vi prego. State tranquillo, state calmo...

ANDREA (_la guarda fissamente, come per esprimere un pensiero, un
desiderio ardentissimo_).

CLARA (_indovinando ad un tratto_). Laggiù si battono, avete detto? Don
Rolando, laggiù pure occorre l’opera vostra. Qui basto io.

ROLANDO (_s’inchina e parte, seguìto da Alban_).

CLARA (_facendosi anche più vicina ad Andrea_). Sono qui con voi. Siamo
soli...

ANDREA (_vorrebbe parlare, fa vani sforzi per articolare le sillabe_).

CLARA. Mio povero Andrea... (_accostando l’orecchio per afferrare
le parole_). Sì, sì, v’intendo, sapete. Ho capito. Non ci separeremo
più, è questo che volete? Guarirete, e poi sempre qui, sempre con noi,
sempre con me. Siete contento?

ANDREA (_scuote il capo con un sorriso tristissimo, si lascia ricadere
all’indietro_).

CLARA. Sempre con me, Andrea... Guardatemi... Coraggio, coraggio,
ancora una parola! (_Chinandosi e cogliendo un mormorio appena
intelligibile_). Ah! la memoria? Oh sì, nel cuore di tutti la vostra
memoria. Come un fratello, per lui che avete salvato, e per me un
amico, un grande, un dolcissimo amico. Ricorderò tutto, Andrea, tutto,
ve lo prometto. (_Con la mano al petto_). Ho tutto qui, nell’anima, per
sempre, per sempre, per sempre!

ANDREA (_si protende a lei col volto sereno, con gli occhi sfavillanti
di gioia, stendendo avidamente le mani_).

CLARA (_gli porge la destra_).

ANDREA (_la prende, la stringe fra le sue con passione; abbassa
lentamente il capo come per posarvi le labbra e rimane immobile_).

  (_Un silenzio_).

CLARA (_ad un tratto si scuote, getta un grido e si ritrae rapidissima.
Dopo un momento, ricomponendosi, si riaccosta in atto d’infinita
pietà_).


  CALA LA TELA.




MADONNA ORETTA

COMMEDIA.


_PERSONAGGI._

  MADONNA ORETTA.
  MESSER BERNABÒ.
  UN MONACO _dell’ordine di San Benedetto_
  GIANNUCOLO, GABRIOTTO, MASETTO, _contadini._
  MINGHINA, PINUCCIA, _contadine._
  GINEVRA, COSTANZA, _damigelle di Oretta._
  MACHERUFFO., _scudiere di Bernabò._

_Cacciatori e famigli, contadini e contadine._


  _Le falde d’un poggio coronato di mura merlate, sopra cui si
  mostrano comignoli, rocche di camini, alte torri imbertescate. Al
  basso il terreno è incolto, ineguale, sparso d’alberi, d’arbusti
  e di pruni, indizio di bosco vicino. È un mattino sul finire di
  maggio; apparisce l’aurora, e lo splendore cresce al crescere del
  giorno._

  (_Giannucolo è sdraiato sull’erba a sinistra: ha la testa nuda, un
  farsetto rappezzato, calze intere allacciate al farsetto e fornite
  di suole sotto le piante dei piedi. — Entrano Masetto e Gabriotto
  dalla destra: portano cappelli gualciti, camiciotti biancastri e
  brache strette: tutti e due sono muniti di falci fienaie. Vengono
  dietro Pinuccia e Minghina con le cottardite alzate e fermate ai
  fianchi: l’una ha un rastrello, l’altra un forchetto_).

MASETTO (_indicando Giannucolo_). Oh guarda chi vedo!

GABRIOTTO. Domine fallo tristo: dormire a quest’ora! In tempo di
fienagione!

MINGHINA. Ohimè! Egli ha passato la notte a ciel sereno.

PINUCCIA. È un gran dorminterra! Un gran dorminterra!

MASETTO. E quando non dorme, va poltroneggiando ch’è una vergogna.

MINGHINA. La colpa non è sua, se è divenuto balordo: l’hanno stregato.

MASETTO. Aspetta, aspetta, ch’io gli fo lo scongiuro. (_Fa un fischio
acutissimo_).

GIANNUCOLO. (_si leva a sedere e li guarda di traverso_).

MASETTO. Leva su, dormiglione: che il fien di maggio è maturo.

GIANNUCOLO. Va alla malora tu e il tuo fieno! (_Si rimette a giacere_).

  (_Suoni confusi in lontananza_).

GABRIOTTO. Giannucolo, hai da sapere che il signore è già in caccia.
Non senti i corni? Se ti coglie, stai fresco.

PINUCCIA. Guai a chi non lavora!

MINGHINA. Deh, sventurato, non ti conosci tu? Non consideri che
sei lavoratore dei campi? E vai vagabondando come trasognato, che i
fanciulli ti verranno oggi mai dietro co’ sassi!

GIANNUCOLO. (_non risponde e fa una spallacciata_).

MASETTO (_prende una manciata di terra e gliela butta come va, va_).
Su, ghiro!

GABRIOTTO (_gli getta un ramoscello secco_). Su ghiro, tasso, marmotta!

PINUCCIA. (_con voce strillente_). Su su su!

GIANNUCOLO. (_si leva in piè_). Che male vi ho fatto? Non vi ho fatto
niente. Come potete divertirvi a noiare uno che non vi ha fatto niente?
Lasciatemi stare, che sarà meglio per voi.

GABRIOTTO, MASETTO e PINUCCIA. (_continuano a sghignazzare e a fare
atti di spregio_). Su su su!

GIANNUCOLO. (_stringendo le pugna_) Io non so a che mi tengo...

MINGHINA. Zitti!... Zitti, vi dico: ecco un benedettino.

  (_Un monaco bianco appare nel fondo, e si avanza lentamente
  esaminando certe erbe che poi mette in una sporta. I contadini e le
  contadine gli fanno riverenza_).

MONACO. Pace, pace, fratelli miei. Nega la pace a sè, chi la nega
altrui. È nemico di sè medesimo, chi vuole per nemico il prossimo suo.
Perchè altercate?

GABRIOTTO. (_indicando Giannucolo._). Perchè costui non vuol venire al
lavoro.

MASETTO. E il maggese è maturo.

GABRIOTTO. Una scossa d’acqua può mandarcelo a male.

GIANNUCOLO. (_se ne sta in silenzio con la testa bassa_).

MONACO (_con severità pacata_). Che non rispondi, figliuol mio? Che non
di’ qualche cosa? Sei tu divenuto mutolo vedendomi?

GIANNUCOLO. (_confuso_). Non so...

MONACO. Parla liberamente.

GIANNUCOLO. Non posso più attendere a nessuna cosa, chè mi par d’avere
tutto il mondo addosso.

GABRIOTTO. (_sogghignando_). Sonno mena sonno.

MASETTO. Un sonno tira l’altro.

PINUCCIA. Un uomo ozioso è il capezzale del diavolo.

MINGHINA. Padre riverito, io com’io dico che qualcuno gliel’ha fatta.

MONACO. Parla chiaro.

MINGHINA. Qualcuno, cioè una strega o uno stregone. Basta una parola,
un gesto, un’occhiata per legare un uomo che non sia più libero nè
della mente nè del corpo. Voi le sapete queste cose?

MONACO (_crollando il capo_). Di presente non pare vi siano maliarde in
questo paese.

PINUCCIA. Vengono di fuori via.

MINGHINA. Vengono di fuori via. Ier sera, al tramonto, ero nell’orto.
Che è che non è, cala giù una vecchiaccia bruna e magra e pelosa, fruga
nella salvia, ghermisce un rospo e frr, risale su pei nuvoli!

MASETTO. Ier notte, entrando nella stalla per abbeverare la vacca, ho
visto un folletto rannicchiato nella greppia: uno di quei folletti che
amano il caldo e temono il freddo.

GABRIOTTO. Venerdì mattina, un caprone forestiero s’è cacciato tra il
mio gregge, nabissando e cozzando alla maledetta. E mi ha stroppiata
uno pecora.

PINUCCIA. E quante galline nere non son nate quest’anno!

MONACO (_infastidito_). E chetatevi un po’!... Domani verrò al borgo
col nostro esorcista, e qualcosa si farà. Orsù, andate a falciare,
andate a falciare.

GABRIOTTO. Andiamo, che si fa tardi.

MONACO (_a Giannucolo_). Rimanti con me.

  (_I contadini e le contadine se ne vanno, discorrendo
  animatamente_).

GIANNUCOLO. (_sta immobile, in atto di chi aspetta_).

Monaco (_avvicinandosi_). Io sono medico in cirugia, abbi fiducia in
me. (_Lo guarda fissamente, tenendolo per il braccio in quella parte
dove i medici cercano il polso_). Tu non mi sembri infermo. Però questa
impossibilità d’attendere alle solite occupazioni può essere principio
d’infermità. (_Pensando_). Anche l’anima s’inferma, quando per vizio
o per colpa perde fermezza e si mette sul pendio del male. Hai tu
fatto bene l’esame della tua coscienza? Quanto tempo è che non ti sei
confessato?

GIANNUCOLO. La mia usanza era di confessarmi ogni mese almeno una
volta...

MONACO. Intendo: era ma non è più. Or mi di’, figliuol mio, hai tu
detto male d’altrui?

GIANNUCOLO. Padre mio, mai.

MONACO. Tolte dell’altrui cose?

GIANNUCOLO. Mai.

MONACO. Fatta testimonianza falsa richiesto o non richiesto?... Sei tu
stato bestemmiatore di Dio semplicemente o ereticalmente?... Bevitore,
giocatore, mettitore di malvagi dadi?

GIANNUCOLO. Padre mio, no.

MONACO. Nel peccato della gola hai tu dispiaciuto a Dio?

GIANNUCOLO. Vivo di pane e di acqua.

MONACO. Hai tu offeso i tuoi genitori con l’opere o con le parole?

GIANNUCOLO. Son solo al mondo.

MONACO. Dimmi, in avarizia hai tu peccato? Tenuto quello che tu tener
non dovevi? Desiderato più che il convenevole?

GIANNUCOLO (_sotto voce, quasi senza volerlo_). — Ecco il mio male! Un
desiderio...

MONACO. Un desiderio folle, occulto, focoso? Vi sono desideri che
struggono i giovani come il fuoco strugge la cera. Tu sei ammalato
nell’anima. Perchè non ti raccomandi a Dio?

GIANNUCOLO. Che mi guarisca? Ma io non voglio guarire. Il mio male
è la più cara cosa ch’io abbia al mondo. Non posso, per il tormento
che mi dà, nè mangiare, nè dormire; spesso sono come fuori di me; e
pure non vorrei tornare quel di prima. Vorrei solamente imbattermi in
qualcuno che mi soccorresse di consigli. Io non so niente di niente,
sono un povero idiota, ma assetato di sapere. Chi mi può dire come
si compongono i beveraggi, i filtri di cui ho sentito parlare? Dove
si trovano i talismani che arrestano gli effetti ordinari delle
cose, o cambiano la condizione degli uomini? È egli vero che per via
d’incantesimi uno può diventar bello come messer lo arcangelo, o ricco,
nobile, potente come un reale di Francia? Che occorre per ottenere tali
effetti? Un patto segreto? Un sacrifizio di sangue? Rinunziare a dieci,
a venti anni di vita? Alla salute dell’anima?

MONACO (_si mette ancor più attento_). Di’ sicuramente, che, il ver
dicendo, nè in confessione nè fuor di confessione si peccò giammai.

GIANNUCOLO. Sabato, su la mezzanotte, vincendo ogni pauroso pensiero,
sono salito fino al gran castagno di Ripalta. Il lume della luna
rischiarava torno torno il terreno, riarso dalle ridde, dai bagordi,
dagli accoppiamenti infernali...

MONACO (_ansioso_) E che cosa hai veduto? Di’ liberamente... Sotto
sigillo di confessione. Che ti è accaduto?

GIANNUCOLO (_ristringendosi nelle spalle_). Nulla.

MONACO. Il tuo Creatore ti ha aiutato, ti ha risparmiato la vista della
mala cosa.

GIANNUCOLO. Ma io ero pronto a tutto...

MONACO. Chetati, sciagurato! Tu sei ammalato nell’anima, cioè posseduto
nell’anima da uno spirito malefico. Or bene a tre capi si riduce
ogni sorta di maleficio: a maleficio ostile, sonnifero e amatorio.
(_Piantandogli in faccia due occhi scrutatori_). Il più terribile
è il maleficio amatorio, per cui il demonio eccita verso alcuno una
passione, un travaglio amoroso così violento che è veramente un furore.

GIANNUCOLO. Non è un furore, padre mio, è piuttosto un languore.

MONACO. Languor possente d’amore che rende languente la vita.

GIANNUCOLO. Non so che mi fare nè che dire...

MONACO. Guardiamo come si rimedia. Ma il rimedio non s’ha dalle mie
ampolle.

GIANNUCOLO (_tentennando mollemente il capo_). Il rimedio vince il
male, e io...

MONACO. Taci. Io ti condurrò al monastero, dinanzi al nostro abate, il
quale è monaco antico, di santissima vita, gran maestro in iscrittura,
di molto più sottile intendimento che tutti noi. Tu esporrai ogni cosa.
Egli ti parlerà per religione, per fisica, per filosofia; farà sì che
l’eccesso del tuo umore non trapassi in insania. Dopo t’inchinerai
alla testa di san Clemente, la reliquia insigne che venne d’oltremare.
Dopo ancora tu visiterai la nostra dimora, aperta a quanti hanno
sperimentato i pericoli del mondo; fidato rifugio dei pentiti, dei
tribolati, dei perseguitati. Fuori è come un palagio, dentro le celle
sono anguste e disadorne. Il nostro monastero ha possanza e ricchezze
al pari di un piccolo stato; ha poderi in monte e terre in piano,
giurisdizioni, dominii e signorie; riceve largizioni e doni solenni
d’oro, d’argento e di gemme... Noi monaci passiamo la vita tra le
orazioni, i digiuni, le battiture, i cilizi; ci obblighiamo con voto a
vivere poveri; le parole «questo è mio» non si pronunziano mai: sicchè
pochi giorni or sono fu negata la santa sepoltura a un confratello,
morto con due monete nascoste sotto le ascelle... Ognuno di noi, oltre
ai suoi doveri, ha il suo ufficio: chi studia le antiche memorie, chi
minia pergamene, chi riscuote i tributi, chi provvede al refettorio,
chi accoglie i pellegrini... Tutti c’inebriamo di sacrifizio: e da
quest’ebrezza, congiunta alla concordia degli animi, alla pace degli
atti, scaturisce la forza della nostra comunità. Uomini in altissimo
stato ambiscono d’esser chiamati nostri fratelli; vicini a morte
prendono l’abito, supplicano d’esser sepolti nella nostra chiesa
perchè la preghiera vegli sulle ceneri loro in sempiterno. Vieni
meco, e vedrai...(_S’interrompe_). Oh, guarda come scordavo il mio
ufficio! Sono medico, io: e bisogna che colga l’atropo medicinale e
l’erba morella mentre la rugiada bagna ancora la terra. Non t’incresca
d’aspettare un poco: ripasserò per questo sentiero. (_Si allontana
lentamente_).

  (_Giannucolo si aggira qualche tempo tutto agitato, poi si avvia a
  sinistra. — Il luogo sta vuoto un momento. — Madonna Oretta entra
  dalla destra: porta una leggera ghirlanda di rose selvatiche sul
  capo biondissimo: è vestita d’uno sciamito rosato strettissimo
  dalla cintola in su e da indi in giù largo, e lungo fino ai piedi:
  ha una leggiadra cinturetta d’argento con una bella borsa: la mano
  destra nuda, la sinistra coperta con un guanto da falco. Le fanno
  compagnia Ginevra e Costanza, tutte e due in guarnacca succinta,
  con velo in capo_).

ORETTA (_piena di corruccio_). Ma dove, dove si sarà cacciato quel
falco? Io non comprendo. Lo lascio andare sur una lodola, così per
provare, e la prende. Lo lascio andare sur un’altra, e vola in alto, in
alto, e tanto lontano che lo perdo di vista!

GINEVRA. Io l’ho veduto fin qui...

COSTANZA. Soleva esser tanto maniero!

ORETTA (_battendo i piedi in terra_). E invano l’ho chiamato al pugno!

GINEVRA. L’ho veduto fin qui. Non è che uno smeriglio, ma moveva l’ali
come un falcon pellegrino...

ORETTA (_con moti d’impazienza_). Ha tutti i segni d’un pellegrin
naturale: gli occhi, il becco, gli artigli, le penne maestre, le
piume... Tutto, meno la nobiltà! Se lo ritrovo, lo tratto come un
falcon villano. Giuro che lo piglio per i geti, lo percuoto a un
albero, e lo butto a un can da pagliaio!

COSTANZA. Madonna, siete troppo crucciosa!

ORETTA (_fra’ denti_). Dio faccia che lo ritrovi!

GINEVRA. Lo ritroveremo. Non può andar perduto. Non ha gli scudetti ai
piedi, e i sonagli d’argento smaltati con l’arme del signore?

COSTANZA. Zitta! che mi par di sentirli i sonagli. (_Sta in orecchi_).

ORETTA. Non è suon di sonagli.

COSTANZA. È suono argentino, madonna, è suono argentino! Torniamo
addietro, che siamo venute troppo oltre. Chi sa! forse si è ravveduto,
il cattivo; e, mentre noi cerchiamo di lui, egli cerca di noi.

  (_Ginevra e Costanza tornano dalla parte per la quale sono venute.
  — Oretta continua a guardare in su, aguzzando la vista e facendosi
  schermo della mano. — Giannucolo rientra dalla sinistra, la vede e
  rimane come estatico_).

ORETTA (_voltandosi a lui_). Vieni dal bosco? Hai tu visto il mio
falco, posato in vetta a qualche albero? È uno smeriglio piccino e
leggero... Di’ tosto, di’ tosto. Perchè mi guati come un tralunato?

GIANNUCOLO (_si scuote, accenna di no_).

ORETTA (_si rivolge indietro per partire_).

GIANNUCOLO (_sopraffatto da un sentimento irresistibile_). Madonna!

ORETTA (_fermandosi_). Che vuoi tu?

GIANNUCOLO. Se posso fare alcuna cosa che vi levi dalla noia che avete,
ditemelo e lo farò volentieri. Volete che vi cerchi un altro falchetto?
Io so trovare nidi e nidiaci. A tre miglia di qui, dove nasce il nostro
fiume, vi sono dirupi che par che vadano in abisso. Là nascono falchi
piccoletti e di piumaggio gentile, ma onorati, superbi e di grande
ardimento; hanno voglie guerriere e fanno preda piombando dall’alto. Io
li credo dei migliori del mondo. Comandate.

ORETTA (_lo guarda in faccia e dà in una risata_). Che occhi mi fai!
Gli occhi d’un barbagianni al sole.

GIANNUCOLO. Madonna, sì: io sono un barbagianni e voi siete il sole.

ORETTA (_gaiamente_). Oh! oh! tu parli come un uom di corte!

GIANNUCOLO (_facendosi ardito_). I barbagianni s’inchiodano sugli usci
a scongiuro di danno e pericolo. Fatemi inchiodare sull’uscio della
vostra camera e beato me!

ORETTA. Tu parli come un cavaliere di scudo!

GIANNUCOLO. Dico quel che mi detta il cuore.

  (_Suoni di corno e voci non troppo lontane_).

ORETTA (_attenta a udire_). Messer Bernabò caccia un lupo con la muta
dei bracchi. Senti: harlaù, harlaù, harlaù... (_bruscamente_). E ora
dove si saranno riposte le mie damigelle, che non tornano più? (_si
incammina a destra_).

GIANNUCOLO (_seguendola a mani giunte_). Deh, io ve ne prego, servitevi
di me. Ogni cosa che a grado vi sia, io m’ingegnerò di fare. Sarò
sempre vostro fedele, ubbidiente ai vostri comandamenti, per la vita e
per la morte...

ORETTA. E che vuoi ch’io faccia di te?

GIANNUCOLO (_guardandola con un’aria di aspettazione supplichevole_).
Fatemi quel bene che potete.

ORETTA (_con derisione_). Vuoi che ti elegga mio maggiordomo o mio gran
siniscalco?

GIANNUCOLO (_ferito_). Madonna!

ORETTA. Per alcun caso, avresti tu già servito alla tavola d’un
signore, o governato cavalli, o custodito cani, o addestrato e conciato
uccelli di rapina?

GIANNUCOLO (_scuote la testa_).

ORETTA. Adunque non puoi fare il servitore, nè il palafreniere, nè
il canattiere, nè lo strozziere. (Dopo una breve pausa) Quando sono
i freddi grandissimi e ogni cosa è piena di ghiaccio e di neve, nel
castello occorrono canti, suoni, spettacoli per alleviare la noia...
Sai tu per avventura motteggiare, dialogare, novellare in latino o in
volgare? Sei tu costumato e ben parlante?

GIANNUCOLO. Madonna, io son uom materiale.

ORETTA (_crudamente_). Hai tu appreso a sonare di viola, a trovare e
cantare imprese d’armi e d’amori?... Potresti tu giocar coi coltelli,
ingoiare le spade, spiccar salti oltremaravigliosi?

GIANNUCOLO. Non ho mai esercitato arti da sollazzo, signora.

ORETTA. Non puoi esser menestrello, non puoi essere giullare. Se tu
fossi mutolo, nano, gobbo o almen contraffatto, potresti vestir di
vergato, e sostituire Felisotto buffone, che invecchia e comincia
a pigliar malinconia: ma tu hai buon aspetto, il tuo fare non è
buffonesco, nè tale da muovere a riso.

GIANNUCOLO (_prontissimamente_). Ma io son folle, madonna; non ve ne
siete avveduta?

ORETTA (_lo squadra ben bene_). Tu non mi sembri svanito di senno.

GIANNUCOLO. Ho levato alto il viso, e ho guatato tanto in cielo, che ho
perduto la terra.

ORETTA. Come dire che ti perdi in vani pensieri?

GIANNUCOLO. Ho posto tutto il mio animo e tutto il ben mio in una
stella, la quale passa di bellezza millanta altre che si vedon lassù.

ORETTA (_ridendo_). Oh! oh! questo è molto bel cominciamento.

GIANNUCOLO. A niun’altra cosa posso pensare se non al mio altissimo
amore.

ORETTA. Per certo che non sei in buon senno. Che dunque fai?

GIANNUCOLO. Io temo forte che non vi sia noia s’io dico altro.

ORETTA. Di’ tosto, ch’io ho vaghezza di nuove cose.

GIANNUCOLO. Appena è notte, comincio per la campagna a vagare, fissando
il cielo, e dicendo a tutta voce: — Madama stella, madama stella, usa
in me la tua crudeltà e fammi morire. Ma sappi che se appresso la morte
s’ama, non mi rimarrò d’amarti.

ORETTA. Ma ella niente di queste cose, nè di te si cura?

GIANNUCOLO. Pare a me che da quella una soavità si muova, e discenda;
la quale mi riempie d’un piacere mai da me non provato.

ORETTA. Ma la tua infima condizione umana non ti lascia pigliare niuna
speranza di lieto fine.

GIANNUCOLO. La fortuna assai sovente gli oscuri ad alto leva, a basso
lasciando i chiarissimi.

ORETTA. E in che speri? Forse in qualche occulta operazion negromantica?

GIANNUCOLO. Sommamente desideravo di vederla più da vicino; e l’ho
veduta!

ORETTA (_dando in uno scoppio di risa_). Che è ciò che tu di’? Come hai
tu fatto?

GIANNUCOLO. Ho veduto colei che per me è più che una stella.
(_Pigliando fervore_). L’ho veduta e la vedo, e sento tanto piacere
nell’animo che appena so dove io mi sia.

ORETTA (_con sembiante altero, con uno sguardo che ammonisce_). Guarda
quel che tu parli.

GIANNUCOLO. Ancor mezza parola...

ORETTA. Non intendo il tuo coperto parlare.

GIANNUCOLO. Parlerò aperto...

ORETTA. Non più, che ora mi è fastidio a udire. (_Dà addietro e gli
butta una moneta_). To’ questo, mentecatto, e va via.

GIANNUCOLO (_mettendo il piede sulla moneta_). Madonna, la giovinezza
è sottoposta alle forze e alle leggi d’amore; le quali sono di maggior
potenza che tutte le altre.

ORETTA (_tutta nel viso cambiata_). Conosco quanto possono, e so
pure che non una volta ma molte hanno condotto i pazzi temerari ad
asprissimo gastigo!

GIANNUCOLO. E così sia. Usate in me la vostra crudeltà, fatemi
martoriare, fatemi morire...

ORETTA. Poni una statua di cera della tua grandezza dinanzi alla figura
di messer santo Nicola, per i meriti del quale io ti faccio grazia. E
fa ch’io non ti rivegga più in questi luoghi.

GIANNUCOLO (_con dolorosa voce_). Mercè per Dio e per pietà! Voi mi
date d’un coltello al cuore...

ORETTA (_fieramente adirata_). Levatimi dinanzi, can fastidioso che tu
se’! (_Volta le spalle e si avvia a sinistra_).

GIANNUCOLO (_con gli occhi lampeggianti e come uscito di sé_).
Maledetto sia il giorno che vi ho veduta, madonna! Ma, perso per perso,
vi voglio baciare. (_L’insegue, la raggiunge e tenendola forte, le
preme le labbra sul collo_).

ORETTA (_manda un altissimo strido_).

GIANNUCOLO (_la lascia e fugge a destra_).

ORETTA (_volgendosi attorno attorno con altre grida_). Aiuto! aiuto!...
Oh il ribaldo! il ribaldo! il ribaldo! (_Vede venire messer Bernabò, si
ferma e si ricompone_).

  (_Entra messer Bernabò dalla sinistra, porta un cappuccio di
  color verde scuro, una giubba di zendado verde chiaro con tanti
  bottoni di pietre preziose, calze intere, scarpe da caccia senza il
  becchetto, spada dorata, corno d’avorio cerchiato d’oro: ha in mano
  uno spiedo_).

ORETTA. Signor mio, voi siate il molto ben venuto.

BERNABÒ (_con tranquillità abituale d’animo e di maniere_). Ho
riconosciuto la voce tua. Perchè hai gridato accorr’uomo? Che diavolo
vuol dir questo?

ORETTA (_ancor tutta fremente_). Fui villanamente oltraggiata.

BERNABÒ. Come andò?

ORETTA. Stavo cercando il mio falco smarrito, quando...

BERNABÒ. Chi fu colui?

ORETTA. Un giovane di cattiva vita, di biasimevole stato, di vilissima
condizione.

BERNABÒ. E che ti ha fatto?

ORETTA. Mi è corso addosso, mi ha messo le mani addosso...

BERNABÒ. E non ti sei difesa?

ORETTA. Mi ha presa a tradimento.

BERNABÒ. Ti ha fatto forza?

ORETTA. Mi ha baciata.

BERNABÒ. Ti ha baciato le gole? la bocca?

ORETTA. Il collo. Ci sento tuttavia come il bruciar dell’ortica.

BERNABÒ. E dove s’è nascosto?

ORETTA. Si è dileguato.

BERNABÒ (_dopo una pausa pensosa_). Donna, qui si convien tacere.
Tacendo, niuna vergogna ti può tornare; parlando n’avresti vitupero
appresso tutti.

ORETTA. Marito mio, signor mio dolce, io mi starò ben cheta; ma non se
ne starà cheto il mio offensore. Quel che tre sanno, tutti sanno. Io
speravo in una pronta e intera vendetta.

BERNABÒ. Pronta, intera, ma astuta. Lascia far me. I secondi pensieri
sono i migliori.

  (_Ginevra e Costanza entrano dalla destra_).

GINEVRA. Ohimè, madonna, il vostro buon smeriglio è perduto!

COSTANZA. Con poca speranza, o nessuna, di riaverlo.

BERNABÒ. Chetatevi. Voi non sapete quel che vi dite. (_Si pone a bocca
il corno e lo suona_).

GINEVRA. Uno smeriglio cotanto tenuto caro!

COSTANZA. Il migliore che mai volasse!

GINEVRA. Di bellezza e di bontà passava tutti che nel castello fossero
mai!

  (_Dalla sinistra entrano Macheruffo, e parecchi cacciatori e
  famigli che accorrono alla chiamata: gli uni sono in zazzera,
  altri in cuffia, tutti hanno gonnelle corte, qualche poco ornate al
  collo, alle maniche e al fondo: e sono armati di spiedi, coltelli,
  e altro da caccia_).

BERNABÒ. Venite qua, brigata. Dove avete lasciato Rinuccio, Crivello e
Scannadio?

MACHERUFFO. Messere, si sono incamminati per il bosco di san Giuliano,
chè i cani hanno trovato la passata d’un altro lupo. Ma contro il vento
lavorano male...

BERNABÒ. Deh, vadano tutti al nome del diavolo! che ora bisogna cambiar
caccia. Un villano, un paltoniere ha involato il falco alla vostra
signora. Correte e ricorrete questi luoghi intorno, cercate dietro le
siepi, tra le macchie, nei fossati. Trovato il ladro, mettetegli un
bavaglio sì che non possa proferir parola, e menatelo qui.

MACHERUFFO. Dategli la mala ventura, messere!

ALCUNI CACCIATORI (_a una voce_). Fatelo di mala morte morire!

BERNABÒ. Or via, andate e traetelo qui.

  (_Macheruffo e gli altri partono correndo. Bernabò passeggia in
  su e in giù. Oretta sta da parte con le sue damigelle. Gabriotto,
  Masetto, Pinuccia, Minghina e altri contadini d’ogni età e di
  ogni sesso arrivano alla spicciolata, tra curiosi e paurosi, e
  si aggruppano nel fondo. Riappare il monaco bianco, interroga
  sommessamente Masetto, poi viene avanti e saluta_).

BERNABÒ. Buon dì, messer lo monaco.

MONACO. Dio vi salvi, mio signore. Torno dalla cerca dell’erbe
che sanano il corpo; ma ho facoltà di sanare anche l’anima, con lo
svellerne tutti i peccati. So che avete sentenziato un giovinetto...

BERNABÒ (_alzando le spalle_). Poh! egli non è il sire di Castiglione,
nè il Dusnam di Baviera, e non mette conto che voi stiate qui in
disagio.

MONACO. Ma è un cristiano di Dio!

BERNABÒ. Dico ch’egli è un giovane di perduta speranza, infamato di
ladronecci e d’altre vilissime cose.

MONACO. E che vi ha rubato?

BERNABÒ. Un mirabile falcone.

MONACO. Messere, la pena dev’essere adeguata al delitto.

BERNABÒ. In buona fè, che voi siete un piacevol uomo! Non sapete che il
falcone è l’insegna stessa della nobiltà e della cavalleria?

MONACO. La legge antica dice che chi ruba un falcone, se può, paga
dieci soldi d’argento, che valgono il quarto d’un soldo d’oro; se non
può, soffre che il rapace gli becchi sei once di carne viva nel petto.

BERNABÒ. Monsignore lo re Filippo di Valois avendo smarrito uno
sparviero, fece andare per tutto il reame una grida, che chi pigliasse
il detto sparviero e lo presentasse, avrebbe da lui dugento franchi, e
chi non lo presentasse, andrebbe al gibetto.

ORETTA (_mossa da un pentimento istantaneo, a cui si aggiunge un
lontano e confuso spavento, si stacca dalle damigelle e si accosta al
monaco_). Padre mio buono, io vi rivelerò cosa tanto secreta, che niuno
deve sapere all’infuori di noi e di voi. (_Sottovoce_). Quel giovane
m’ha fatta molta villania e onta tale, che non la posso sofferire.

MONACO. Dunque fu ingiuria, non rubamento? Dunque è vendetta, non
punizione?

ORETTA. Non sa quanto dolce cosa sia la vendetta, se non chi riceve
l’offesa.

BERNABÒ. E ancor dico io che l’ho sentenziato!

MONACO. Sentenza sommaria senza vero giudizio.

BERNABÒ. Messer lo monaco non v’impacciate, lasciate fare a me ciò che
quel malvagio ha meritato.

ORETTA. Colui m’ha fatto onta troppo più che io non possa sopportare.

MONACO. Non potete sopportare?... E perchè? Guai a chi non può
sopportare! Egli dovrà soffrir poi. Chi sopporta è sulla via della
pace, della pace cristiana, della pace vittoriosa. Già da tempo si
combatteva con odio contro l’odio, con offese contro le offese, con
male contro il male. Ma il Salvatore, venendo in terra, ha portato
una nuova maniera di guerreggiare, che è vincer l’odio con l’affetto,
l’offesa col perdono, il male col bene. (_Con un tono come di placida
ispirazione_). Udite, a questo proposito, un avvenimento di maraviglia.
Berta, moglie di Bertranno da Montemale, con pompa d’arnesi, di cavalli
e di famigli, andava in pellegrinaggio alla badia di San Michele della
Chiusa. Avvenne che Bruno da Oulx, il quale con una grossa brigata
di masnadieri tormentava quel paese, sentì la sua venuta, si mise in
agguato, uccise i famigli, tolse i cavalli e gli arnesi; e, sia per
capriccio, sia per raffinamento di crudeltà, lasciò in abbandono la
gentile donna, spogliata e scalza e senza alcuna cosa in capo. Ella,
tutta piena di lagrime e d’amaritudine, diè volta addietro; e non senza
gran fatica, sì come colei che d’andare a piè non era usa, tornò al
Castello di Montemale. Bertranno, udendo ciò che le era intervenuto,
giurò solennemente di non tagliarsi più nè unghie, nè capelli prima che
gli fosse riuscito di vendicarsi...

BERNABÒ. In fè di Dio, cotesta fu buona ira!

MONACO. E più mesi egli perseverò in quello stato, divenendo come un
bestion da bosco; finchè, dato compimento all’apparecchio di guerra,
montò a cavallo, e cavalcò con sua compagnia verso il luogo destinato
per la vendetta. Provocati i masnadieri alla battaglia, li sconfisse
e dissipò; Bruno prese e trascinò a corda a Montemale, disposto di
farlo vituperosamente morire. I terrazzani concorsero a vedere il
prigioniero: e chi voleva fosse arso a lentissimo fuoco: chi sotterrato
vivo a capo all’ingiù; chi legato a un palo in alcun alto luogo del
castello, nè quindi mai levato, infino a tanto che, disfatto dal sole e
dall’intemperie, per sè medesimo non cadesse.

BERNABÒ. Alla croce di Dio! che questa fu bella pensata. E che fece
Bertranno?

MONACO. Quello che io sono per raccontarvi. Le porte erano serrate e i
ponti alzati, e ciò non ostante eccoti comparire un molto venerabile
uomo, il quale tutto rivolto a Bertranno e a Berta, cominciò a
ragionare. E la materia del suo ragionamento fu la necessità di
perdonare le ingiurie, benchè gravissime. Diceva: «Dio non pretende
che voi non sentiate l’affronto, pretende che non trascorriate alla
vendetta come una fiera. E veramente l’ira è una fiera che traversa
l’animo anche del savio, ma non vi scava però la sua tana. La sua tana
scava nell’animo dello stolto. _Ira in sinu stulti requiescit_. Essa
col tempo passa: tardate a sfogarla, senza però permettere che traligni
in odio. Ricordatevi che tutti, o più presto o più tardi, abbiamo
a morire. Non mettiamoci a rischio di morire da bestie arrabbiate.
Alzate gli occhi lassù a quel bel soggiorno di pace, alla nostra patria
celeste. Siamo in cammino per giungervi, non ci adiriamo per la via.
_Ne irascamini in via_...

  (_Si sente, a una certa distanza, un forte grido incomposto di
  trionfo. Tutti si voltano a guardare da quella parte_).

GABRIOTTO. L’hanno pigliato!

MASETTO. L’hanno pigliato a furore!

GABRIOTTO. Era nel canneto.

PINUCCIA. No, che il canneto è a mancina.

MINGHINA. Domine aiutalo!

BERNABÒ (_si scosta da Oretta e dal monaco e guarda anche lui_).

MONACO (_a Oretta, riprendendo il discorso_). Perchè mi distendo io
in tante parole? Udite il prodigio. Bertranno e Berta, fatti mansueti
dall’ammonizione dell’uom di Dio, perdonarono a Bruno da Oulx; e quasi
ciò fosse poco, poichè Bruno ancora era giovane e piacevole nel viso,
lo presero per figliuolo e lo costituirono loro erede. O altezza della
fede cristiana che tanto ottiene! O forza grande della grazia divina!
Che Dio vi converta, madonna!

  (_Si sente un suono confuso e vicino di grida imperiose: — Cammina,
  ladrone! Alla morte, alla morte!_)

MONACO (_si tira da una parte e sta a vedere che cosa succede_).

ORETTA (_rimane nel mezzo, accigliata e fissa in gran pensiero_).

BERNABÒ (_ai contadini_). Fate luogo! fate luogo! o vi faccio frustare
come cani.

  (_Macheruffo, i cacciatori, i famigli entrano dalla destra
  conducendo a forza Giannucolo tutto rabbuffato, pallido il viso, la
  bocca strettamente coperta con un panno_).

MACHERUFFO. Largo! largo!

I CACCIATORI E I FAMIGLI. Alla morte! alla morte!

BERNABÒ. Orsù, legategli le mani dietro le reni.

UN CACCIATORE. Manca la corda.

BERNABÒ. Pigliate una cintura.

GABRIOTTO (_togliendosi la correggia che gli cinge la vita_). Ecco la
mia.

BERNABÒ. Addoppiate un guinzaglio, e fate nel capo un nodo scorritoio;
glielo metterete alla gola e lo impiccherete a un albero.

MACHERUFFO (_indicando_). A quel bel ramo sodo.

UN CACCIATORE. Manca la scala.

BERNABÒ (_a Masetto_). Va per una scala alla casa più vicina; e va di
galoppo.

MASETTO (_via a tutta corsa_).

MONACO (_venendo avanti_). Io farò l’assoluzione in _articulo mortis:_
e raccomanderò a Dio l’anima di costui, che forse muore senza colpa.
(_Rivolgendosi a Macheruffo_). Ma, dimmi, dove s’era nascosto? Dove
l’avete trovato?

MACHERUFFO. Lungo disteso nel campo dei dodici solchi.

MONACO. E s’è dato alla fuga?

MACHERUFFO. No.

MONACO. È stato forte contro alla forza?

MACHERUFFO. No.

MONACO. E che ha fatto?

MACHERUFFO. Nulla.

MONACO. Siete certi di non averlo colto in iscambio?

MACHERUFFO. Aveva il volto turbato, ed era tutto graffiato dalle
frasche e dai pruni.

BERNABÒ. Messer lo monaco, o pregare o partire.

MONACO (_leva destramente il bavaglio a Giannucolo e lo spinge dinanzi
a Oretta_). Madonna, per Dio, aiutatemi che costui non sia morto contro
ragione. Guardate: raffigurate l’uomo quale da voi fu già conosciuto,
direttamente o per alcun indizio?

ORETTA (_sta immobile, muta, fredda come un marmo_).

MONACO. Non tenete la fierezza in conto di gloria. Provvedetevi di
carità. La carità si stende agli offensori, agli avversari, ai nemici,
e li ama sin nella necessità del combatterli. Madonna, Dio è carità.

ORETTA (_rimane ancora un momento come sospesa, poi fa forza a sè
stessa e volge gli occhi verso Giannucolo_).

MONACO (_ansiosamente_) Or via, guardatelo ben fiso: lo riconoscete?

ORETTA (_risoluta, a voce alta e ferma_). No.

GIANNUCOLO (_s’inginocchia ai piedi di Oretta e le bacia il lembo della
veste_).

MONACO (_alza gli occhi e le mani al cielo_).

  (_Mormorio, esclamazioni, movimenti diversi. I contadini si
  avanzano goffamente. A un cenno di Bernabò, i cacciatori e i
  famigli si buttano loro addosso e li respingono con l’aste degli
  spiedi e con le fruste_).




LA PAROLA

DRAMMA IN TRE ATTI.


_PERSONAGGI_

  _Il Maggiore Conte_ VITTORIO BERMOND DELLA MOTTA.
  _Il Cavaliere_ AMEDEO BERMOND DELLA MOTTA.
  _Il Capitano_ CONTE CARLO D’ALDENGO.
  _La Contessa_ SABINA D’ALDENGO.
  _La Contessa_ ORTENSIA DATIS.
  _La Baronessa_ SOFIA MILLIET.
  _Il Marchese_ DEL CERRETO.
  DI PRANERO, LA TORRETTA, _ufficiali_.
  SAN VITO, _quartiermastro_.
  _Un chirurgo militare._
  _Il suo garzone._
  GAUDENZIO.
  MICHELE.
  _Un sergente._
  _Un soldato._
  _Altri soldati._

Atto 1º — Al campo piemontese sul Piccolo San Bernardo.

Atto 2º — A Torino; nel palazzo D’Aldengo.

Atto 3º — A Torino; in casa dei fratelli Bermond.

  L’inverno del 1793 — L’inverno del 1794.




ATTO PRIMO.

  _L’interno d’un meschino tugurio. Porta in fondo che aprendosi
  lascia vedere il terreno coperto di neve. Focolare con rozza
  panca davanti; in un angolo alcuni bastoni ferrati, una brocca
  per l’acqua, un pane di munizione; a destra una tavola con carte,
  libri, un cannocchiale, oggetti diversi. È notte, ma si fa giorno a
  poco a poco._


SCENA PRIMA.

Vittorio Bermond, Carlo D’Aldengo, Di Pranero, La Torretta.

  (_Di Pranero e La Torretta, avvolti nei loro mantelli, dormono su
  due sacconi. Carlo seduto sul suo è assorto in profondo pensiero.
  Vittorio mette in ordine la tavola, al lume d’una candela piantata
  in una bottiglia. S’ode un rullo di tamburo affievolito, lontano_).

VITT. (_senza voltarsi_) La diana, signori.

DI PRAN. (_si scuote, si alza_).

LA TOR. (_si muove, sbadiglia, guarda intorno mezzo assonnato_).

DI PRAN. (_va ad aprir l’uscio, guarda fuori_).

LA TOR. Oh! chiudi, chiudi, da bravo!... Cos’abbiamo? Tormento sempre?

DI PRAN. (_richiudendo_). Nebbia.

LA TOR. Meno male che i lupi ci hanno lasciato dormire.

DI PRAN. Giù, i Tricolori si avanzano e i lupi scappano. Ci stanno
addosso oramai.

LA TOR. Cospetto! s’è visto ieri... (_si alza_). Facciam colazione?
(_va a prendere il pane e la brocca e li porta vicino al fuoco_).

DI PRAN. Ci sarà ancora del formaggio? Spero.

LA TOR. Neanche una briciola.

DI PRAN. E chi l’ha finito?

LA TOR. S’è finito da sè. (_Mettendosi a cavalcioni sulla panca e
cominciando ad affettare il pane_). Bermond?...

VITT. Grazie, più tardi.

LA TOR. D’Aldengo?...

CARLO. (_Rifiuta col gesto_).

LA TOR. (_mangiando di voglia_). Pranero, pensa un po’: due belle tazze
di cioccolatte caldo, spumante... alcune fette di prosciutto...

DI PRAN. Non seccare, non seccare.

LA TOR. Bella campagna, eh! Nessuno certo ha mai osato attendare un
esercito in luoghi come questi, e mantenervelo per tutta l’invernata.

DI PRAN. No, non si trovano esempi, neanche nelle storie più antiche.

LA TOR. Doveva toccare a noi, ecco!

DI PRAN. Per star appena bene, ci vorrebbero muraglie, invetriate,
stufe, tutto in regola.

LA TOR. E vino, vino, vino...

DI PRAN. Vino, caffè, liquori...

LA TOR. E invece manca anche il necessario.

VITT. (_che sta prendendo misure sur una carta topografica, notandole
poi sopra un taccuino_). I soldati stanno peggio di noi.

DI PRAN. (_tra’ denti_). I soldati sono soldati.

VITT. Dormono entro baracche sconnesse, sotto tenda stracciate, in cui
penetrano la nebbia e la neve; sempre in lotta col vento che spegne i
loro fuochi; col gelo che spella le mani; mal nutriti, mal vestiti...

LA TOR. Mal guidati.

VITT. (_severo_). Non l’ho detto.

LA TOR. (_piano_). Lo dico io.

VITT. Soffrono, si battono, e non si lagnano mai.

DI PRAN. (_brontolando_). Se almeno ci lasciassero tentar qualche
cosa... Ma no! Allo stato generale si discutono i piani, e l’esercito
aspetta.

LA TOR. Quei signori sono al caldo, vedi, stanno bene; cosa vuoi che
lor importi di noi?... (_riporta a posto il pane e la brocca_).

VITT. (_imponendo quasi il silenzio_). Basta! Tacere e ubbidire. Contro
mala fortuna, cuor fermo.

LA TOR. Intanto noi siamo di pattuglia (_cingendo la spada_). Siam di
pattuglia, mio caro Pranero!

VITT. Pattuglia di scoperta: ordine d’avanzare fin oltre la linea dei
piccoli posti. Potete partir anche più tardi.

LA TOR. Bene (_disponendosi a uscire_). Faccio un giro pel campo e vi
porto le nuove.

DI PRAN. T’aspetto qui, io.

LA TOR. Bravo. E prepara quel che occorre. (_Via_).

CARLO (_si alza e va a seder davanti al fuoco_).

DI PRAN. (_cerca intorno e sulla tavola_).

VITT. (_a Di Pranero_). Che vuoi?

DI PRAN. Scusa... La borraccia?

VITT. È qui.

DI PRAN. (_scuotendola_). Niente: neanche più una gocciola! Fortuna che
c’è il fiasco...

VITT. Il fiasco? L’ha vuotato La Torretta ier sera.

_Di Pran._ (_stizzito_). Evviva! Sgocciola i fiaschi, smaltisce
i viveri, e se la gode, lui! Gliene ho già dette tante... Ma va
raddrizzare il becco allo sparviero!

VITT. La baracca della vivandiera è qui a due passi.

DI PRAN. Già (_avviandosi_). Purchè non abbia vuotato anche la baracca,
colui!


SCENA SECONDA.

Vittorio, Carlo.

CARLO (_sempre seduto davanti al fuoco_).

VITT. (_spegne il lume e si volta a guardar Carlo_). E tu D’Aldengo.

CARLO. Sarò di gran guardia domani.

VITT. E oggi?

CARLO. Oggi starò qui.

VITT. (_un po’ duro_). Così, senza far niente? Male. Nelle condizioni
in cui siamo non bisogna stare inoperosi. Guai!... Io, per esempio,
sin cercando un nuovo sistema di difesa per queste montagne. Una cosa
chimerica, vedi, eppure...

CARLO. Tu sei un bravo ufficiale.

VITT. (_continuando_). Questo mi distrae, mi occupa, mi contenta...

CARLO. Sei un bravo ufficiale.

VITT. (_sorridendo_). E batti! Vuoi un complimento anche tu?

CARLO (_con amarezza_). Non lo merito.

VITT. (_con forza_). Animo, animo! Bisogna scuotersi: così non si va
più avanti.

CARLO (_risentito_). Cosa vuoi dire?

VITT. Quello che t’ho già detto più volte.

CARLO (_alzandosi e avvicinandosi all’uscio_). Allora è inutile ch’io
stia qui a sentire.

VITT. (_severo_). Fermati! Come superiore non dovrei permetterti
di parlarmi in quel tono. Ma ti sono amico... (_dopo una pausa,
rabbonito_). Dove vuoi andare?

CARLO (_volgendo altrove la faccia_). Così... un po’ fuori.

VITT. Fuori del campo? No eh? Sarebbe un avventurar la vita da pazzo,
inutilmente.

CARLO. Penso di scender al quartier generale.

VITT. Tu! a far che?

CARLO. Voglio presentar una domanda a Sua Altezza, o se non mi riesce,
al generale d’Argenteau.

VITT. Ah, ah! E che domanda? (_lo guarda fissamente_).

CARLO (_muovendosi_). Questo riguarda me solo.

VITT. (_tagliandogli il passo_). Tu vuoi chiedere il permesso di andare
a Torino? Nega se puoi!

CARLO. E quando fosse?

VITT. In questo momento!

CARLO (_alzando le spalle_). Se non si fa niente.

VITT. Ma durante la tua assenza potrebbe venir l’ordine di pigliar
l’offensiva. Non s’aspetta che questo!

CARLO. Tanto peggio per me.

VITT. (_vibrato_). Ti sconsiglio dal domandar un favore che ti sarebbe
negato.

CARLO (_cupo, a mezzo voce_). Oh allora... Allora poi...

VITT. (_imperioso_). Taci! Non sai quel che dici!

CARLO (_torna a sedere sulla panca, curvo sulle ginocchia
accavalciate_).

VITT. (_si accosta con calma_) Non sei più padrone di te: lo vedo bene.
È una cosa grave, alla quale bisogna trovar rimedio. Cerchiamo insieme?
Vuoi?... Fa conto di parlar con un fratello.

CARLO. Tu non mi puoi capire.

VITT. Perchè?

CARLO. Hai il cuor contento; l’hai detto poc’anzi; e col cuor contento
non c’è male che vi tocchi.

VITT. Come se non vedessi ciò che ci accade d’intorno!

CARLO. Ecco! Ma di questo siete in tanti a soffrire: l’esercito, la
Corte, tutto il Piemonte. Del mio male soffro io solo; (_voltando
bruscamente la faccia_) e guarda come!

VITT. (_dopo una pausa con impeto_) Santo Dio! Come mai t’è saltato in
mente di prender moglie?

CARLO (_fa alcuni gesti scomposti: scatta in piedi come per correr
via_).

VITT. (_fermandolo_). No!... Senti! Dimmi: non potevi aspettar dopo la
guerra?

CARLO. La guerra?... E chi se la sognava la guerra, pochi mesi fa, dopo
quasi cinquant’anni di pace?!... Il dieci settembre io chiesi in moglie
Sabina; la notte del ventuno i francesi passavano il nostro confine. Un
fulmine! (_camminando agitato, e fermandosi tratto tratto_). Tiriamo
via! La cattiva stagione ci riduce ai quartieri d’inverno, in Aosta.
Ottengo una licenza; vado a Torino; mi sposo. Contavo sur una tregua...
(_con passione crescente_). Fui richiamato subito, il giorno dopo!
Dovetti lasciar mia moglie il giorno dopo, tutt’a un tratto, così!...
Ma se lo sai! Non rivanghiamo, per amor di Dio, che mi sento impazzire!

VITT. (_con tristezza_). È la separazione, non è vero? È la lontananza
che ti accora, che ti tormenta? (_pensoso_). Infatti... se penso a mio
fratello, a cui voglio bene...

CARLO (_interrompendolo_). C’è altro! C’è altro! Sabina non risponde
al mio amore come io vorrei. Capisci? Mi sembra che il tono delle sue
lettere si venga mutando. Non so come, nè perchè mi sorgono nell’animo
mille dubbi. La mia immaginazione è d’una fecondità inesauribile nel
trovare, nel dirmi tutti i casi, tutte le combinazioni che possono
riuscirmi più amare.

VITT. Sei geloso?

CARLO. Ebbene sì, è questo, è la gelosia! E gli impeti sono continui e
così disperati che mi passano il cuore come vere stoccate.

VITT. (_vivamente_). Ma dunque son fantasie che non hanno nulla
di vero? Abbi pazienza, tu manchi di senso comune; lasciatelo dire
(_energico_). Scuotiti, metti giudizio, portati da uomo, per Dio!

CARLO (_abbattuto, desolato_). Vittorio, la volontà non mi serve più...
Mi sento dominato da una forza ignota, malvagia... Cerco di contenermi,
di resistere, ma...

VITT. (_severissimo, scrutandolo_). Ma?... E poi? Avanti, sentiamo.

CARLO (_scostandosi_). Finora... ho potuto viver così, lontano,
separato da lei...

VITT. (_insistendo con forza_). Cosa vuoi fare? Rispondi.

CARLO (_disperatamente_). Ma non me la sento più, non me la sento più...

VITT. (_sempre con gran forza_). Cosa vuoi fare? Andartene? Fuggire?
Disertare? (_accentuando la parola_). Disertare?... È a questo che
pensi, sciagurato?

  (_Un silenzio_).


SCENA TERZA.

Vittorio, Carlo, Soldati al di fuori, poi Di Pranero.

VOCI (_che si vengono avvicinando_):

    Noi d’Oneja, noi d’Sardegna
    Imitand la virtù degna
    Difendroma ’l bel Piemont.

DI PRAN. (_sull’uscio, voltandosi_). Silenzio, voi altri!

VITT. (_aspro_). Lasciali cantare; che male ti fanno?

DI PRAN. (_ai soldati_). Alla buon’ora: cantate fin che volete.

VOCI (_ripigliano e si allontanano_).

CARLO (_si lascia andar sulla panca_).

VITT. (_riprende il suo lavoro_).

DI PRAN. (_brontolando_). Bei cantanti! Farebbero una bella figura sur
un teatro; gialli, irsuti, magri come il cavallo dell’Apocalisse...
Fortuna che i sans-culottes hanno poco da invidiare ai nostri. Ho visto
i prigionieri di ieri. Barbe e facce! Oh siamo allegri tutti, amici e
nemici!... E la Volpianina se n’è andata stanotte.

VITT. Chi! La vivandiera?

DI PRAN. Già. E la baracca è chiusa, e ci toccherà star senza acquavite.

VITT. (_attristato_). Morta! Povera donna! E di che?

DI PRAN. Della febbre maligna che ci ammazzerà tutti quanti
(_brontolando_). Quella lì poi era una brava ragazza: cuciva e lavava
le nostre robe, dava il bicchierino a credito ai soldati, e...

VITT. (_dopo aver aperto l’uscio e data un’occhiata al di fuori_). Ohe,
mi par tempo d’andare.

DI PRAN. Per me son pronto; ma la Torretta cosa fa?

VITT. D’Aldengo, a te.

CARLO (_senza muoversi_). Son di gran guardia domani.

VITT. (_duramente_). Su, su; non c’è tempo da perdere.

CARLO (_alzandosi, con sarcasmo_). Mi parli come superiore, eh?

VITT. Per Dio!

CARLO (_va lentamente a prendere un bastone nell’angolo, e si dispone a
uscire_).

DI PRAN. (_munito anche lui d’un bastone_). Posso parlare? Bada che
presto non avremo più legna.

CARLO e DI PRANERO (_escono_).


SCENA QUARTA.

Vittorio, un Soldato.

VITT. (_segue Carlo e Di Pranero fino alla soglia, di là alza la voce,
accennando_). Olà? uno di voi.

SOLDATO (_con un fazzoletto annodato sotto il mento, viso ed atti
esprimenti gran freddo, entra e si mette sull’attenti_).

VITT. Portami una bracciata di legna.

SOLDATO (_esita, crolla il capo_).

VITT. Cosa c’è?

SOLDATO. Aspettiamo la distribuzione da ieri.

VITT. Sta bene; va.

SOLDATO (_saluta e via_).


SCENA QUINTA.

Vittorio, poi La Torretta.

VITT. (_rimane un momento immobile, pensieroso in mezzo alla scena; poi
scuote il capo come per cacciare un’idea molesta_).

LA TOR. (_entra, guarda intorno_). E... Cospetto! E Pranero? Non è
ancor venuto, o non mi ha aspettato?

VITT. (_grave_). Hai fatto tardi. D’Aldengo è andato in vece tua. Tu lo
sostituirai domani. Per questa volta si rimedia così.

LA TOR. (_mortificato_). Diavolo! mi rincresce per D’Aldengo. Non
è piacevole andar fuori. Senza contar le schioppettate, c’è di che
buscarsi un’oftalmia, o rimetterci la pelle del viso. La nebbia è
andata via; adesso tira un vento che pela; chi sa cos’avremo più tardi!
E lui, D’Aldengo, la deve tener da conto la sua persona. Cospetto! Se
torna a casa sfigurato, la sposina si rifarà con un altro. Ti pare?

VITT. (_freddo_). Non è argomento da scherzi, questo.

LA TOR. Tutt’altro! Cose serie. Povero D’Aldengo! Ha il corpo in
montagna e il cuore in pianura (_ride_).

VITT. (_un po’ infastidito_). Che c’è di nuovo nel campo?

LA TOR. Niente. Si dànno le verghe a un soldato.

VITT. (_scotendosi_). Oh! E perchè?

LA TOR. Non so, non ho domandato.

VITT. (_va per uscire_).

LA TOR. Toh! Vai a vedere?

VITT. Sì, a veder se posso impedire il supplizio. (_Disgustato_).
Queste punizioni barbare, odiose, io le vorrei assolutamente abolite.

LA TOR. Corri, allora, perchè quando son passato io, il plotone era già
formato.

VITT. (_via rapidamente_).


SCENA SESTA.

La Torretta, poi San Vito.

LA TOR. Chi lo capisce! Tanto cane con noi altri ufficiali, coi
soldati... latte e miele. (_Siede davanti al fuoco tentennando la
testa_).

SAN VITO (_affacciandosi_). Tenente.

LA TOR. (_alzandosi salutando_). Avanti, avanti.

SAN VITO (_entrando_). Brrr... Chiudiamo fuori il vento, eh! (_chiude
l’uscio con cura_).

LA TOR. Lei chiude fuori anche il maggiore, sa!

SAN VITO. Busserà. Qui quanti siete?

LA TOR. Quattro, sor quartiermastro.

SAN VITO. Quattro?!... Quattro qui e tredici nella catapecchia vicina!
Tredici ufficiali che lavorano, mangiano, dormono, cantano tutti
insieme, nella stessa stanzuccia! Troppi là, pochi qui. Penso io.

LA TOR. Senta...

SAN VITO (_chetandolo col gesto_). Zitto! (_calcolando_). Quattro e
tredici: diciassette. Perciò: nove là e otto qui, oppure nove qui e
otto là.

LA TOR. (_seccato_). Scusi, non vede quanto siamo stretti?

SAN VITO. Cari voi, guadagnerete in calore quello che perderete in
spazio. Sicuro. E Sua Altezza Reale vuole che i suoi ufficiali stiano
al caldo. Positivamente. S’è degnato di farmelo sapere. Penso io
(_presentando la sua tabacchiera a La Torretta_). Gradite?

LA TOR. (_imbroncito_). No, grazie.

SAN VITO (_con modi insinuanti, guardando intorno_). E voi... Non avete
niente da offrirmi?

LA TOR. (_indicando il focolare_). S’accomodi: aggiungo un pezzetto di
legno.

SAN VITO. Nè vino, nè acquavite, nè rosolio? Un po’ d’anisetta, per
esempio? No? Ah non bisogna stare sprovvisti! Non per offendervi:
un buon militare deve aver sempre modo di mostrarsi cortese coi suoi
camerati (_dopo una pausa_). Vi annoiate, eh?

LA TOR. Peuh! tanto o quanto.

SAN VITO. Caro voi, se l’ozio è il padre, la noia è la madre dei vizi.
Saprete almen qualche gioco? Dadi, carte, tarocchi. Giocate a tarocchi?

LA TOR. (_con un sospiro_). Giocavo, ma adesso...

SAN VITO. Penso io. (_Toglie di tasca un mazzo di tarocchi_). Una
partitina?

LA TOR. (_rasserenato_). Cospetto!

SAN VITO (_si mette a cavalcioni sulla panca_). A noi!

LA TOR. (_imitandolo_). A noi!

  (_Giocano. Dopo un poco due colpi all’uscio_).


SCENA SETTIMA.

La Torretta, San Vito, un Sergente.

LA TOR. Ehi?

SAN VITO. Sarà il maggiore.

LA TOR. (_alzando la voce_). Chi va là?

SERG. (_dall’esterno_). Sergente Chiodo, signore.

SAN VITO. Mandatelo via.

  (_I colpi si ripetono affrettati e più forti_).

LA TOR. (_balzando in piedi_). Ma cosa diavolo c’è?

SERG. (_dall’esterno_). Disgrazia grossa; un capitano ferito!

LA TOR. (_correndo ad aprire_). Cospetto! (_al sergente_). Chi è? Su,
parla, di’ subito...

SERG. (_trafelato, con gli abiti in disordine_). È il signor conte
D’Aldengo.

LA TOR. Misericordia! Oh poveri noi! È grave? Dov’è ferito? Dove l’hai
lasciato?

SERG. Lo portano qui.

SAN VITO. Qui? E perchè non all’ambulanza? Per che cosa è fatta
l’ambulanza?! Questo non è regolare.

SERG. È lui che vuole...

LA TOR. (_affannato_). Andiamo! Lasciamo!... Il chirurgo maggiore è già
avvertito?

SAN VITO. Penso io. (_Via_).

LA TOR. Bravo! Pensateci voi... (_al sergente_). E noi... Noi
accomodiamogli il letto. Dammi una mano (_eseguendo_). Così... Adesso
va bene, cioè meno male. All’ambulanza, no: muoiono come le mosche.
Adesso va a pigliar un po’ d’acqua. La brocca è là... Ah! E manda un
uomo a cercare il maggiore Bermond: e che corra, che corra...

SERG. (_via_).

LA TOR. (_camminando agitato per la scena_). Oh poveri noi! Poveri
noi!...

  (_Mormorio e calpestio all’esterno_)


SCENA OTTAVA.

La Torretta, Di Pranero, Carlo, alcuni Soldati, il Sergente.

  (_Carlo avvolto nel mantello è portato da due soldati. Altri
  soldati si affollano confusamente all’uscio. Il sergente ritorna
  coll’acqua_).

DI PRAN. (_a La Torretta_). Siamo qui... Brutta faccenda, sai, brutta
faccenda (_ai soldati, indicando il saccone di Carlo_). Mettetelo giù,
pian pianino... così, così.

CARLO (_pallidissimo, con gli occhi chiusi, si abbandona come svenuto_).

I SOLDATI (_dopo averlo deposto si ritirano verso il fondo_).

DI PRAN. Non vi allontanate: si può aver bisogno di voi. Accostate
l’uscio.

LA TOR. (_considerando Carlo_). Par morto.

DI PRAN. Ssst!

LA TOR. (_sottovoce_). Ma come mai?...

DI PRAN. Cosa vuoi! Si attraversava il gran piano, su due file, lui ed
io in testa, cheti, cheti... A un tratto: boum! da un’altura, un colpo
di spingarda: e me lo vedo là sulla neve...

LA TOR. Nella gamba?

DI PRAN. Quattr’once di palla due dita sopra la noce del piede.

LA TOR. Ahi!

DI PRAN. Ssst!

CARLO (_senza aprir gli occhi_). Bere.

LA TOR. (_al sergente_). Acqua, presto!

DI PRAN. (_togliendo la brocca dalle mani del sergente ed accostandola
alle labbra di Carlo_). Adagino, eh, non ti far male...

CARLO (_dopo aver bevuto, girando gli occhi torbidi all’intorno_) Il
maggiore?... Non c’è Bermond? Voglio vederlo. Chiamate, cercatelo...

LA TOR. Quieto! Quieto! Sarà qui a momenti. L’ho fatto avvertire.

CARLO. Voglio vederlo! Ho bisogno di lui, subito!

DI PRAN. Calmati... (_vedendo Vittorio che entra_). Eccolo! Vedi!


SCENA NONA.

La Torretta, Di Pranero, Carlo, Vittorio, San Vito, il Chirurgo
maggiore, il Sergente, i Soldati.

VITT. (_accostandosi rapido_). Ah Carlo, amico mio!...

CARLO (_con un sorriso spasmodico_). In che stato, eh?

LA TOR. Sarà niente, vedrai.

_Carlo_ (_subitamente irritato, agitandosi come per sciogliersi dal
mantello_). Niente? Con una piaga così? Guarda!... Sarai sempre uno
sventato!

VITT. Calmati, via. Vedi, qui c’è il nostro chirurgo.

CARLO. Grazie.

CHIRURGO. Mio dovere. Dunque, mi dica: cos’abbiamo buscato?

LA TOR. Un po’ di piombo nella gamba sinistra.

CHIRURGO (_si abbassa ed esamina con molta attenzione_).

CARLO (_con voce fioca_). Non ho sentito niente. Volli guardare chi
aveva tirato e mi trovai in terra.

CHIRURGO. L’osso è rotto, spezzato. Già qui abbiamo un piede un po’
malconcio.

CARLO (_fissandolo_). Oh dica, dica pure.

CHIRURGO. Bene. Lei non si oppone a che io... a quel ch’io dovrò fare?

CARLO. No... Ma è finita.

VITT. Non devi creder questo!

CARLO. Se lo sento! Se lo so!

CHIRURGO. Si calmi (_esitando_). La gamba già... temo assai di non
poterla salvare. Voglio dire che bisognerà aver pazienza.

CARLO (_interrompendolo_). Parli chiaro. Cosa importa oramai!

CHIRURGO. Dobbiamo deciderci...

CARLO (_interrompendolo ancora_). Son deciso, son pronto a tutto. Ma
sarà inutile. Sono un uomo morto io (_dopo una pausa, cambiando tono_).
Bermond, ho bisogno di te. Lasciatemi... lasciatemi tutti vi prego.

  (_Escono tutti, meno Vittorio_).


SCENA DECIMA.

Carlo, Vittorio.

CARLO. Mettiti qui, vicino, molto vicino a me. Ho bisogno di te,
dell’amico. L’amico d’una volta... di prima della guerra.

VITT. (_mettendosi accanto_). Sì, sì, sono quello. Cosa vuoi? Di’ pure.

CARLO. Non ho altri che te... (_Colpito da un’idea subitanea_).
Bisognerà avvertire il cappellano!

VITT. Se sarà il caso... Sta tranquillo. Ma io spero...

CARLO. No, no, no, non dirmi niente d’inutile. Non abbiamo tempo da
perdere. Piuttosto rispondimi: ti pare ch’io abbia sempre fatto il mio
dovere?

VITT. Ma sì...

CARLO (_con intenzione_). Anche... anche in questi ultimi giorni?

_Vitt._ Ma sì, ma sì, senza dubbio.

_Carlo._ Non m’inganni, eh? Sta bene. Lo dirai a mia moglie. Tu la
vedrai (_animandosi_). Le dirai pure ch’io ti parlavo di lei, tanto,
tanto, sempre... e che sono morto col suo nome sulle labbra... Sarà
così.

VITT. Non dimenticherò niente. Adesso riposati.

CARLO (_dopo breve pausa_). Non ho finito. La pregherai sopra tutto
di ricordarsi di me. Ah su questo bisogna insistere! È l’essenziale.
Non vi è parola che possa esprimere quanto l’ho amata. (_esaltato_).
Guarda, penso a quel che potrebbe accadere dopo la mia morte, e soffro.
Soffro più di quel che soffrirò tra poco, a momenti, quando...

VITT. (_angustiato_). Non pensare, non pensare.

CARLO. Una cosa orrenda! Patirei ancora anche morto. Non posso credere
che dopo sia tutto finito. Porterei con me il mio tormento; e allora, e
allora, e allora...

VITT. (_raccogliendo tutta la sua energia_). Basta! Fida in me, che
son tuo amico. Adesso voglio vederti tranquillo. Tu non te ne accorgi e
aggravi il tuo male.

CARLO. Non parlarmi (_col capo tra le mani_). Vedi, vengono adesso
le idee! Le cose importanti! Vengono, vengono. Aiutami tu a fermarle
(_tornando al pensiero di prima_). Ma sarai là, eh? Conto su di te,
come su un altro me stesso. Ricordati questo, nel nome di Dio: se è
possibile, se le condizioni dell’altra esistenza mi lasciano libero,
io t’ispirerò, ti guiderò, ti darò forza, coraggio... e... e tu ti
opporrai!

VITT. Oppormi? A che? A che vuoi che mi opponga?

CARLO (_con ira_). Oh! ma bada a quel che dico! Sta attento: fa di
comprendere mentre i pensieri mi obbediscono ancora. Non voglio che
Sabina mi dimentichi. Ecco. Non voglio. È stata così poco mia! Così
poco! E non voglio che appartenga ad un altro. Pensa! È questo che mi
devi promettere.

VITT. (_sbalordito_). Io?!

CARLO. Le ripeterai semplicemente ciò che ti ho detto. Mi fido di te. E
ti opporrai. Non voglio che diventi moglie di un altro.

VITT. (_con dolcezza_). Ho capito. E adesso non pensar più a questo; ne
riparleremo.

CARLO. No, no, no! È adesso che mi devi dir sì: adesso, sull’atto.

VITT. (_con calma_). Perdonami, ma bisogna ancor ch’io ci pensi...
Il mandato è difficile, molto difficile. Mettiti un po’ nella mia
condizione morale; dove prendo il diritto? Dove prendo la forza? Come
troverò le ragioni? Rifletti, rifletti, ti prego.

CARLO (_con un singhiozzo furioso_). Vittorio, tu non devi lasciarmi
morire così!

VITT. Bada che è la febbre che ti fa preveder certe cose. La febbre e
forse un po’ di delirio. Passerà e discorreremo. Adesso mettiti giù,
sta fermo, sta quieto.

CARLO (_smaniando_). Lasciarmi andar nella tomba senza questa promessa!
Lasciarmi morir disperato!

VITT. (_accorato_). Carlo, mio povero amico...

CARLO. No, no, no, no, non lo sei mio amico!

VITT. Pensa a Dio! Rimettiti in lui!

CARLO (_agitandosi convulsamente_). Guarda come soffro! Ho male, ho
male nel corpo e nell’anima e tu mi neghi il conforto!... A un uomo che
muore!... L’ultima consolazione! Puoi e rifiuti! (_a mani giunte, con
accento straziante_). Aiuto, Vittorio! Aiutami presto! La tua parola
che farai quel che t’ho detto! La tua parola! La tua parola!

VITT. (_vinto, con la mano sul petto_). La mia parola!

CARLO (_ricade indietro, rovesciando la testa_).

VITT. (_va rapidamente all’uscio_).

  (_Entra il chirurgo, seguito da un garzone che porta una cassetta_)


  CALA LA TELA.




ATTO SECONDO.

  _Sala nel palazzo D’Aldengo. Una porta in fondo che serve
  d’ingresso comune; due altre laterali. Canapè, sedie, poltrone,
  altri mobili ricchi ed eleganti disposti per la scena. È giorno._


SCENA PRIMA.

Gaudenzio, il Cavaliere Amedeo Bermond.

GAUD. (_introducendo Amedeo_). Sì, signore, la contessa Sabina è uscita.

AMEDEO. Ne sei sicuro?

GAUD. Sì, signore. Se vuole, avviso la signora contessa madre.

AMEDEO. Sta bene, avvisala.

GAUD. (_via a destra_).

AMEDEO (_passeggia un po’ nervoso_).


SCENA SECONDA.

Gaudenzio, Amedeo, la Contessa Ortensia, Datis.

GAUD. (_rientra, traversa la scena ed esce dalla porta comune_).

ORT. (_affabile_). Buon giorno, Bermond. E così?

AMEDEO (_inchinandosi_). Contessa...

ORT. Voi avete qualche cosa da dirmi?

AMEDEO. Io? Come fa a saperlo?

ORT. (_con malizia fine_). Capita così di rado che domandiate di me!

AMEDEO (_confuso_). Oh! Lei non mi deve dir questo. Al solito non
domando di lei, perchè la so occupata...

ORT. (_sorridendo_). Via, via, non cercate di giustificarvi, fate
peggio! Dunque che c’è di nuovo?

AMEDEO (_lietamente_). Ieri sera è arrivato mio fratello.

ORT. Ah!

AMEDEO. È a Torino con altri ufficiali, venuti per veder le famiglie.
Quest’anno i granatieri reali passan l’inverno in Asti.

ORT. Una cara improvvisata, eh? Siete contento?

AMEDEO. Oh! sì, felice! È maggiore di me e mi ha sempre fatto anche un
po’ da padre. Mi ama tanto! Io poi gli voglio un bene dell’anima.

ORT. Si fermerà molto?

AMEDEO. Non so. È arrivato tardi, stracco morto; mi abbracciò,
mi baciò, e andò a riposare. Stamattina uscì presto per presentar
certe sue note al generale. Suppongo che questo l’abbia trattenuto a
colazione, perchè a casa non è più tornato. Cosicchè appena posso dir
d’averlo veduto.

ORT. (_seria_). Egli non ripartirà senza farci una visita, ne son
certa. (_Dopo una breve pausa_). Fu lui che chiuse gli occhi al povero
D’Aldengo; lui che ce ne annunziò la morte...

AMEDEO (_piano, a capo basso_). Lo so, lo so.

(_Un silenzio_)

ORT. (_cambiando tono_). Perchè state in piedi?

AMEDEO. Non vorrei trattenerla, incomodarla...

ORT. (_benevola_). Mia figlia non starà molto a tornare; volete
aspettarla, o preferite andarle incontro?

AMEDEO. Ma da che parte? dove trovarla a quest’ora?

ORT. Alla passeggiata della Cittadella, semplicemente. Sabina non
voleva saperne d’andare, ma la baronessa Milliet ha tanto insistito!

AMEDEO (_rannuvolato_). La baronessa, eh? Avrà avuto con sè suo
fratello?

ORT. (_con un sorriso fine_). Naturalmente!

AMEDEO (_per congedarsi_). Allora vado. Anche per non disturbarla di
più.

ORT. (_ridendo_). Ma non sapete dir altro! Vi ripeto che...
(_s’interrompe e porge l’orecchio_). Ecco una carrozza che entra nel
portone. Non possono che esser loro. Buon per voi che non siete andato!
(_ascoltando ancora_). Sentite, sentite la voce di Sabina.


SCENA TERZA.

Amedeo, Ortensia, Sabina, la Baronessa Sofia Milliet, Il Marchese del
Cerreto.

SAB. (_entrando allegra, vivace_). Eccomi, mamma! Oh! Bermond!... Come
va?

AMEDEO (_dopo aver fatto un inchino alle dame e ricambiato freddamente
un saluto col marchese_). Non volevo venir che più tardi, ma poi...

SAB. Avete fatto benissimo a venir presto. Anche noi, eh, siamo andati
e tornati con una prestezza!...

SOF. Cara, prima di far a questo modo, valeva meglio non muoversi.

MAR. Una passeggiata? — Un sogno è stato, un fugacissimo sogno! (_come
improvvisando, ma senza caricatura_):

    Oh! quanto mai fu rapida
    La mia ridente scena!...

SOF. (_al marchese_). Vogliamo andare?

MAR. (_seccato_). Oh, Dio! Così, subito?

SAB. Infatti! Poichè vi siete preso l’incomodo di salire le scale
perchè non volete sedervi, star ancora un po’ con me?

SOF. Voglio trovarmi a casa per le quattro. Vien sempre qualcuno.

ORT. Non sono ancora le tre.

MAR. Io poi ho promesso alla contessa Sabina di recitarle i miei nuovi
versi «_Amor sovrano nelle moderne politiche agitazioni_». E come si
fa?

SAB. Vedete un po’. È vero. Se ve n’andate, come si fa?

MAR. Stasera infallibilmente devo declamarli nell’adunanza dei Pastori
della Dora (_con sussiego_). Capirete che il pastor Mirtillo non può
mancare a un impegno. D’altra parte vorrei che la contessina fosse
la prima a sentirli. È un omaggio... (_continua a discorrere con
Ortensia_).

SOF. (_sottovoce a Sabina con un po’ di stizza_). So perchè hai voluto
tornar subito a casa!

SAB. (_con semplicità_). Ignoravo affatto che Bermond fosse qui, te lo
assicuro.

SOF. Non te l’hai a male se non ti credo?

SAB. Figurati!

MAR. (_sempre a Ortensia, ma alzando un po’ la voce_):

    Mentre il gallico sistema
    Mette il mondo in iscompiglio,
    E vorrebbe ogni diadema
    Orgoglioso conculcar,
    Anche amor, che ha scettro e regno...

SOF. (_interrompendolo_). Scendi dalle tue nuvole, fammi il piacere!
Andiamo, che è tempo. (_A Sabina_). Mi dai un bacio?

SAB. Due, cara!

  (_Si baciano_).

SOF. Contessa Ortensia... Cavaliere... (_si avvia_).

MAR. (_a Sabina, baciandole la mano_):

    Quanto fu la mia gioia instabil breve!

I miei ossequii, contessa Ortensia (_s’inchina_). Bermond, vi saluto
(_segue Sofia_).


SCENA QUARTA.

Amedeo, Ortensia, Sabina.

ORT. (_a Sabina, avviandosi a destra_). Bada che Bermond ti deve dar
una nuova. Io la so già. (_Prima di uscire, bonariamente_). E non
bisticciatevi, mi raccomando. (_Via_).


SCENA QUINTA.

Amedeo, Sabina.

SAB. Una nuova? Buona o cattiva? Cos’è? Presto!

AMEDEO. Speravo di trovarvi, di vedervi subito e invece...

SAB. Ecco! L’avete con me perchè sono uscita con Sofia! Ma se esco
quasi tutti i giorni!

AMEDEO. Sì, ma oggi era con voi anche il marchese. Quel poeta!

SAB. (_ilare_). Ah! ah! sicuro, il poeta mi fa la corte. E Sofia lo
incoraggia, e vorrebbe che lo incoraggiassi anch’io (_con sentimento,
con grazia_). Ma questo a voi deve importar così poco... La nuova, la
nuova, fuori la nuova!

AMEDEO. Vittorio è qui.

SAB. Oh! Il conte? Da quando?

AMEDEO. Da ieri sera.

SAB. E non siete venuto a dirmelo subito!

AMEDEO. Ma è arrivato tardi, tardissimo.

SAB. Bisognava venir stamattina! E poi? Vi sarà altro: vi sarete
parlato, mi immagino?

AMEDEO. Sì, al momento dell’arrivo. Oggi non l’ho ancor veduto. Spero
di star con lui un po’ a lungo stasera... Appunto son venuto per
sapere, per concertar con voi...

SAB. (_come se non avesse capito benissimo_). Concertar che?

AMEDEO. Quello che gli devo dire a proposito di... A proposito del
nostro... (_si ferma titubante_).

SAB. (_con freddezza simulata, fingendo di raccapezzarsi_). Ah! Sì, sì,
ho capito. Ma c’è tempo, eh? Che ve ne pare?

AMEDEO. Oh!

SAB. Siete d’un altro parere, voi?

AMEDEO (_timidamente, quasi sottovoce_). Il lutto è finito.

SAB. Questo non significa niente.

AMEDEO (_attristato_). No?! Credete di dover aspettare? Aspettiamo
pure. Sapete che la vostra volontà è tutto per me. Ma vi avverto
che non rispondo di nulla (_animandosi via via_). Mio fratello può
ripartire quando che sia, da un momento all’altro. Non avete voluto
mai ch’io gli scrivessi; adesso sarò io che non vorrò più. E per una
buona ragione. Potrebbe rispondermi: — Perchè non hai parlato mentr’ero
a Torino, con te? Segno che non avevi fiducia. Adesso aspetta; ne
riparleremo quando tornerò. — E chi sa quando tornerà! (_cambiando
tono, con tenerezza_). Io non mi stancherò d’aspettare: ma voi?... io
non mi stancherò, perchè vi amo, vi amo, vi amo... Vi adoro, io!

SAB. Ecco! Parlatemi così. Questo sì ch’è un argomento stringente!
(_gaia_). Che fatuo! Non si può scherzare? Non avete capito che
fingevo? Basta così (_andando al canapè_). Qui, venitemi vicino.
Parliamo sul serio, concertiamo, combiniamo. A voi. Cosa intendete di
fare?

AMEDEO (_rasserenato_). Non so quel che mi direte.

SAB. (_con gravità_). Bisognerà tener conto di tutto; delle nostre
condizioni rispettive; della mia particolarmente. Agir con prudenza,
con delicatezza, per non far cattiva impressione alla prima. Non
conosco personalmente il conte Vittorio, ma so che è un uomo serio,
austero: ne avrò suggezione... e voi non dovrete dire a vostro fratello
spiattellatamente: — Io amo, eccetera, eccetera; e voglio eccetera,
eccetera. Ci vorrà qualche riguardo, qualche cautela. Pensiamo un
momento.

AMEDEO (_le prende la mano e fa per baciarla_).

SAB. (_ritirandola con grazia_). No, non divaghiamo! Animo,
concentratevi in voi, cercate, studiate, calcolate... (_dopo un
silenzio, con qualche impazienza_) E dunque?

AMEDEO. Ci penso.

SAB. Com’è vostro fratello? Vi somiglia? No! Non ditemi niente. Vedrò
io... Sarei solo curiosa di sapere se, incontrandolo per istrada...
Non ditemi niente! (_dopo una brevissima pausa_). Vittorio Bermond!
(_ripetendo con compiacenza_). Bermond... Bermond... Un bel nome,
sapete. A me mi par bello (_subitamente più seria_). Chi m’avesse
detto, quando l’ho visto sotto la lettera... terribile che dopo avrei
conosciuto voi, e che... Cos’è il destino, eh? Cos’è la vita!

AMEDEO (_cercando di distrarla_). Amica mia, adesso siete voi che
divagate.

SAB. (_come trascinata dai suoi pensieri_). Quando penso a quei
giorni...

AMEDEO. Sabina, vi prego...

SAB. (_senza ascoltarlo_). Passai ore, traversai angoscie, che prego
Dio di non mandar mai più a nessun’anima umana. No, non credevo di
poter tornare quella di prima! (_alzandosi_). Eppure, che volete? le
impressioni vennero perdendo vivacità, a poco a poco mi acquetai, mi
rimisi, e.... eccomi qui, eccomi qui, eccomi qui.

AMEDEO (_fissandola stupito_). Contessa... Sabina... Che c’è adesso?
Che cosa avete? (_Si alza, ma non osa accostarsi_).

SAB. (_sempre agitata_). Questo però era inevitabile. Ditemi voi. È
quel che accade ai giovani, eh?

AMEDEO. Santo Dio, è quel che accade a tutti!

SAB. Ma è un brutto lato della nostra natura! Un brutto lato! Un brutto
lato! (_rimane immobile, con la testa china sul petto_).

AMEDEO (_avvicinandosi dolcemente, sempre più sorpreso e addolorato_).
Ma che idee! Perchè mai questi... come devo dire?... questi scrupoli.
E proprio oggi! Proprio adesso che dobbiam pensare a... a tutt’altro.
È la prima volta che vi vedo così. È una cosa nuova per me, nuova e
dolorosa. Che avete, Sabina? Vi prego, ditemi, che avete?

SAB. (_con le lagrime nella voce_). Ma se non so! Ero così gaia,
così gaia, e a un tratto m’è venuta addosso una inquietudine, un
malessere... Non v’è capitato mai di sentire all’improvviso farsi come
un gran silenzio tutto intorno, e dentro di voi anche?... Non credevo
di doverla provar più questa sensazione paurosa... Quest’informe
presentimento... Quando avevo Carlo lassù, continuamente esposto al
pericolo... Ma ora? Perchè ora? Oh ma mi passa, mi passa.

AMEDEO. Ma che ubbie! Che sogni! Avete fatto paura anche a me, sapete!
(_attirandola verso il canapè_). Venite, torniamo qui. E pensiamo a
noi. Pensiamo al nostro amore, alla nostra dolce intimità, che a me
pare ch’abbia sempre, sempre esistito (_con passione_) Lasciamolo
stare il passato. Tutto quello che è stato deve sparire dalla nostra
memoria. Le nostre due vite devono unirsi, formarne una sola. E adesso
raccogliamo le idee. Sabina, Sabina mia...


SCENA SESTA.

Amedeo, Sabina, Gaudenzio.

GAUD. (_sull’uscio_). Il signor conte Bermond chiede di vedere la
signora contessa D’Aldengo.

SAB. Venga.

GAUD. (_Via_).

AMEDEO. Lui!

SAB. (_pensosa_). Sì.

AMEDEO. È naturale però?

SAB. Sì, sì, è naturale.

AMEDEO. Avrà qualche cosa da dirvi?

SAB. Non so...

AMEDEO. Vi lascio.

SAB. No!... Sì! Fate come volete.

AMEDEO. Sabina...

SAB. Silenzio!

AMEDEO (_s’incammina come per muovere incontro al fratello, poi quasi
senza accorgersene si mette un po’ in disparte_).

SAB. (_si alza e si volge all’uscio_).


SCENA SETTIMA.

Amedeo, Sabina, Vittorio, Gaudenzio.

GAUD. (_introduce Vittorio e si ritira_).

VITT. (_in abito civile, nero, si avanza e s’inchina_).

SAB. Signor conte... Sapevo già il suo arrivo, ma non avrei osato
sperar mai che si sarebbe ricordato così subito di me.

VITT. Lei sapeva il mio arrivo? E come mai? (_s’accorge che Sabina
guarda altrove, si volta e vede Amedeo; con un atto di stupore_) Tu! Tu
qui?

AMEDEO. Sono io che l’ho avvertita. Ho fatto male?

VITT. No.

AMEDEO (_inchinandosi_). Contessa...

SAB. Ve ne andate? A rivederci.

AMEDEO (_con intenzione_). Domani...

SAB. (_parlandogli anche con gli occhi_) Domani, stasera, quando
vorrete. È ancor presto. Se all’ora in cui venite al solito non saprete
come impiegar meglio il tempo, mi troverete in casa.

AMEDEO. Siete mille volte troppo gentile. Addio Vittorio (_via dal
fondo_).

SAB. (_a Vittorio_). Lei non sapeva ch’io conoscessi suo fratello?

VITT. Infatti! E, a quanto vedo, viene qui molto spesso?

SAB. (_suonando il campanello_). È un giovane serio, garbato, e la sua
compagnia è piacevole a tutti.

GAUD. (_entra_).

SAB. Avvertir la contessa.

GAUD. (_via a destra_).

SAB. (_a Vittorio_). Non voglio privar mia madre del piacere di
trovarsi subito con lei.


SCENA OTTAVA.

Sabina, Vittorio, Ortensia, Gaudenzio.

GAUD. (_rientra e via dal fondo_).

ORT. (_entrando, molto affabilmente_). Conte! Quanto le dobbiamo esser
grate di questa sua gentile premura! Abbiamo parlato tanto di lei! Se
sapesse com’era vivo in noi il desiderio di conoscerla!

SAB. Per ringraziarla...

ORT. Sì, per ringraziarla di quanto ha fatto per il nostro povero...

SAB. Di questo, sì, e della sua lettera così piena di commiserazione,
di benevolenza, di bontà. Ha ricevuta la mia risposta?

VITT. L’ho ricevuta, l’ho ancora e la conserverò sempre.

SAB. Davvero? (_con espressione_). Lei immagina come dovevo trovarmi
in quei giorni!... Temevo di non aver saputo, di non aver potuto
esprimerle tutta la mia riconoscenza. E m’era rimasto come un rimorso!
Però prevedevo, anzi ero sicura, che, o prima o poi, lei sarebbe
venuto. Nella chiusa della sua lettera accennava anzi a un colloquio
che avrebbe dovuto aver luogo fra noi.

VITT. È vero... Ed ho pensato molto a questo incontro. E lei non può
credere con quanta ansietà!

SAB. Oh! Non comprendo il perchè! Doveva pur sentire come l’avremmo
accolto! (_come raccapezzandosi_). Ah! forse il timore che la sua
presenza potesse riuscirmi penosa? È questo forse? Ebbene, no, no, no!
(_dopo una pausa, lentamente, con sentimento_). Lei deve sapere che la
memoria di Carlo mi ritorna serena, sempre mestamente serena... È il
ricordo d’un amico lontano, d’un amico smarrito, ma non perduto.

VITT. (_con effusione_). Grazie! La ringrazio di parlarmi così!
(_cambiando tono, porgendole una scatoletta di ricco lavoro_). Ecco:
qui sta quanto le devo rimettere.

SAB. (siede, apre la scatola, la considera in silenzio).

ORT. (avvicinandosi a lei dietro le spalle). Gli anelli, eh?
L’orologio, i capelli...

SAB (commossa). Sì, mamma: le sue reliquie...

ORT. (dopo un poco, togliendole dolcemente la scatola dalle mani).
Adesso basta. Riguarderemo queste cose quando saremo tra noi.

SAB. (ancora commossa, accostandosi a Vittorio). E adesso mi dica... E
lei? Non ha ritenuto niente? Non le resta alcuna memoria di lui?

VITT. Quella che ho nel cuore.

SAB. Dunque tocca a me... Si compiaccia d’aspettarmi un momento (via a
sinistra).


SCENA NONA.

Vittorio, Ortensia.

VITT. (_in atto di chi pensa_).

ORT. (_respirando_). Ah! Creda che avevo il cuore stretto in modo
da non si dire. (_Dopo una pausa, cangiando tono_). Lei ci favorirà
ancora, non è vero? Verrà spesso a trovarci?

VITT. (_scotendosi_) Riparto domani, signora.


SCENA DECIMA.

Vittorio, Ortensia, Sabina.

SAB. (_entra tenendo in mano un piccolo ritratto, che porge a
Vittorio_). Ecco: questo è uno dei primi doni che ho ricevuto da Carlo.
— È per lei, lo tenga.

ORT. È una miniatura, fatta proprio benino.

VITT. Grazie! Ma io non vorrei privarla...

ORT. Io ne ho un’altra copia, che darò, com’è giusto, a mia figlia. Per
tutte e due poi, c’è un bel ritratto al naturale di là nel salone (_a
Vittorio che contempla la miniatura_). Com’è lui!

VITT. Sì, sì, è lui (_quasi tra sè_). È lui, ancora tranquillo, ancora
felice...

ORT. (_a Sabina_). Il conte ci lascia, sai: parte domani.

SAB. (_con accento di meraviglia dolorosa_). Oh! (_a Vittorio_). Lei
parte? Ma perchè?

VITT. L’andare o lo stare non dipende sempre dalla mia volontà.

SAB. Mi concederà ancora qualche momento? Almeno questo.

ORT. Almeno questo, sì! La prego anch’io. Non è possibile che non abbia
più niente da dire a mia figlia. Li lascio en tête-à-tête (_porge la
mano a Vittorio e via a destra_).


SCENA UNDICESIMA.

Sabina, Vittorio.

SAB. (_andando al canapè e accennando a Vittorio di sederle vicino_).
Sa perchè l’ho trattenuta?

VITT. In verità... (_siede_).

SAB. Perchè spero d’indurla a restare.

VITT. Son soldato, contessa.

SAB. Come mi risponde!

VITT. Mi perdoni; voglio dire che devo fare di necessità virtù.

SAB. Se penso a insistere, è unicamente perchè mi rincresce che lei
vada via (_con forza_). Sì, sì, è così: la sua partenza m’affligge.

VITT. (_sorridendo_). Possibile! Lei vuol vedermi confuso...

SAB. (_seria_). Non rida... Speravo tanto d’aver acquistato un amico!

VITT. (_serio anche lui_). Lo sono.

SAB. Sì, ma lontano da domani in poi, ed io lo vorrei vicino, sempre
vicino. Mi sento sola...

VITT. (_stupito_). Oh! Lei però ha sua madre...

SAB. Guai se non avessi la mamma! È buona, indulgente, mi vuol bene,
tanto, troppo bene. Vede coi miei occhi, pensa con la mia testa, e mi
dà sempre ragione. Io avrei bisogno d’una persona che, occorrendo, mi
sapesse dar torto.

VITT. E lei crede ch’io avrei questo coraggio?

SAB. (_con brio_). Diamine! Un soldato! Se mai si può provare.

VITT. La conosco da un’ora.

SAB. Rimanga, e la difficoltà si appiana. E poi che importa, se a
me par d’averla sempre conosciuta? Se mi sento disposta, inclinata,
spinta a confidare in lei? E viene a tempo, sa; capita in un momento
opportuno. Mi spiego. (_Blandamente_). Ho vissuto un anno... come
dovevo vivere. Adesso l’anno è finito. Mettiamo pure ch’io non avessi
alcuna intenzione di tornare al mondo, il mondo verrebbe a me. Capisce
perchè vorrei vicina una persona di buon consiglio?

VITT. (_che ha tenuti gli occhi fissi su di lei, mostrando attenzione
profonda_). Sì.

SAB. A meno che non mi risolvessi a cercar un luogo di sicurtà e di
scampo... Che mi direbbe di fare?

VITT. (_pensoso_). Non so...

SAB. Scusi, ma lei è altrove!

VITT. Perchè!? No!

SAB. (_con vivacità_) Ma dunque ci sarebbe mai dubbio? Mi vede lei
chiusa in qualche vecchio castello, o rifugiata sulla cima d’un monte?
E per la vita, s’intende. Mi meraviglio! Ho vent’anni!

VITT. (_perplesso_). Mi perdoni...

SAB. (_sempre lieta e disinvolta_). Ci sarebbe anche il convento, eh?
Ma la vocazione, la vocazione, dove la piglio?

VITT. Prenda la vita come viene, si abbandoni.

SAB. Già! E le par semplice questo?

VITT. No, nè semplice, nè facile. Ma perchè voler prevedere,
prestabilire? S’ottiene così di rado quel che si spera! E, per
fortuna, anche non sempre accade quello che si teme! E poi, guai se
si conoscesse il futuro! Dunque, si affidi a Dio, a sè stessa... e
(_alzandosi_) si ricordi di me.

SAB. (_restando seduta_). Almeno, mi dica: posso contar su di lei?

VITT. Sì. Mi scriva, mi scriva spesso: io le risponderò.

SAB. (_insistendo_). Posso contar su di lei come sopra un fratello?

VITT. (_baciandole la mano_). Senza dubbio.

SAB. Quando ci rivedremo?

VITT. Chi sa! (_si scosta da lei_).

SAB. Non abbiamo proprio più nulla da dirci?

VITT. Per ora...

SAB. Le scriverò presto, sa... (_con significato_). Forse prima di
quello che crede.

VITT. (_colpito_). Oh! (_fissandola_). Io non posso immaginare di che
si tratti; però mi dica la verità: lei ha già in mente quello che mi
comunicherà poi?

SAB. (_con grazia_). Eh sì, press’a poco. Ma non so ancor bene. Forse
la pregherò semplicemente, ma caldamente, di tornar qui. Forse no...
forse sì... Insomma vedremo.

VITT. (_studiando di contenersi_). E non vuole, e non può dirmi nulla?

SAB. (_ridendo_). Quando ci dicono che siamo curiose!

VITT. (_tornandole vicino d’un balzo_). La supplico di rispondermi!

SAB. (_un po’ stupita_). Ma, signor Iddio! Vi sono cose che non si
possono dire nè in due, nè in quattro parole. Lei è lì per andarsene;
domani sarà lontano... Non mi resta che scrivere.

VITT. (_risoluto_). Disponga liberamente di me, del mio tempo. Non so
se lei parlasse sul serio dianzi, quando ha detto di volermi considerar
come un fratello: ma suo amico lo sono, amico vero, fino alla morte. Mi
raccomandò questo colui che non è più.

SAB. Ah! E lei si dimenticava di dirmelo? Vede? E se ne andava!

VITT. (_turbato_). È giusto! Mi perdoni. E mi perdoni pure se, in
conseguenza appunto di questa raccomandazione, mi trovo come obbligato
a rivolgerle una domanda. Le parrà strana; indiscreta, ma la prego di
rispondermi.

SAB. (_inquieta_) Avanti, dica.

VITT. (_con mal repressa ansietà_). Avrei indugiato, aspettato
ancora... rispettando scrupolosamente non solo un segreto, ma anche, ma
anche...

SAB. (_sempre più inquieta, con impeto_). Ma non vede che questi
preamboli mi fanno rabbrividire!

VITT. (_fissandola_). Quello che non mi voleva dire per mancanza di
tempo, quello che intendeva di scrivermi, riguarda... riguarda forse il
suo avvenire?

SAB. (_angustiata_). Sì. — E poi? Adesso tocca di nuovo a lei a
parlare. Io ho risposto. Non le basta? Ebbene, ecco: penso che posso
essere ancora felice, e lo vorrei esser presto. Ecco tutto. Vedo che ha
capito. Non mi guardi così: potrei indovinare. E non voglio. Non voglio
indovinar niente! Voglio sentire, voglio sapere da lei. Ecco!

VITT. (_addoloratissimo_). Come avevo ragione di pregar Dio che tenesse
lontana l’ora in cui avrei dovuto compiere intero il mio mandato!

SAB. (_atterrita_). E io!... Io sentivo bene intorno a me un non so
che d’avverso, d’occulto, d’insidioso... È l’avviso interno di poco fa!
Oh! (_risoluta_). Presto! Dunque, c’è un ostacolo? È questo, eh? Cos’è?
Cos’è? Abbreviamo il supplizio.

VITT. Il desiderio di Carlo.

SAB. (_quasi inorridendo_). Ah!... Mio marito è morto desiderando che
io... Possibile? Sì, questo si può desiderare, ma dirlo? Che cosa!
Dirlo!... (_scattando._) E adesso voglio tutto. Voglio le sue parole,
una a una, per ordine, come le ha pronunziate. Devo poter pesare il
loro significato, giudicar della loro portata. Può andarne la vita!
Che ne sa lei! M’han voluta legare: ho il diritto di veder la catena. A
noi, a noi: desiderio o volontà?

VITT. (_sommessamente_). Volontà.

SAB. Ah! (_come sollevata_). Sta bene. Non devo passar a nuove nozze,
perchè l’ultima volontà di mio marito vi si oppone. Son questi i
termini esatti? Possiamo parlar chiaro quanto ci piace, oramai. La
volontà! La volontà! La volontà! (_a Vittorio_). E lei... Lei ha
ricevuto l’incarico di farla eseguire? (_amaramente_). S’è preso un
bell’assunto, lei!

VITT. (_tristamente_). Lo so: l’ho visto subito; è più d’un anno ch’io
penso a questo. Oramai, non mi può fare un’obbiezione ch’io non abbia
fatto cento, mille volte a me stesso. Non potrei ribatter pur una
delle sue ragioni. Son disarmato nel campo della logica, la vittoria
è sua. Perciò non mi rivolgo alla mente, io, mi rivolgo al cuore. Mi
secondi, signora; torni indietro con me, venga al giorno in cui si è
separata da Carlo... Rammenti l’angoscia dell’ultimo addio!... E poi,
e poi, e poi... io vorrei aver modo d’esprimere ciò che quell’infelice
pativa diviso da lei. L’acerba ed intensa tristezza che l’opprimeva,
lo spasimo di certe ore, le ribellioni insensate... Vivevo con lui
nella stessa capanna: so tutto, le posso dir tutto. Sempre così,
sempre turbato da uno stesso pensiero, sempre con quell’immagine sola,
che non si spostava mai dalla direzione del suo sguardo, che non lo
lasciava mai, nemmeno fra i rischi, le ansie, le spietate fatiche di
quei giorni. La vedeva nel cielo, nella nebbia; nel candor della neve,
nell’ombra dei burroni. Lei, lei, lei! Sempre lei!

SAB. (_Immobile, muta, lo guarda, come affascinata dalle sue parole_).

VITT. (_dopo una breve pausa, con gran forza_). E quello che deve
aver provato quando sentì che stava per lasciarla per sempre! Ero
là. Soffriva, e non pensava che a lei. Non vedrò cosa più orrenda in
mia vita! Un’anima disperata in un corpo straziato (_con grandissima
forza_). Come potevo negargli il conforto che implorava a mani giunte?
Non era possibile lasciarlo partire così!

SAB. (_si lascia andar seduta: ha le palme strette ai due lati del
volto, gli occhi spalancati, come se vedesse realmente ogni cosa_).

VITT. (_accostandosi ancora, ripetendo con voce soffocata le parole di
Carlo_). Dirai a Sabina che ti parlavo tanto, tanto di lei; sempre di
lei. Che son morto col suo nome sulle labbra... (_cambiando tono_).
Spirò tra le mie braccia: fu così! (_Dopo una pausa, intenerito_).
Povero amico! Poveri morti! Voi non mutate: l’amore che ci avete
portato è un fatto sempre vero e reale. Perchè dobbiamo mutar noi?
Perchè piangervi oggi, e fra mesi, fra un anno, ridere, scherzare,
dimenticar tutto...

SAB. (_sopraffatta nasconde il volto tra le mani_).


SCENA DODICESIMA.

Sabina, Vittorio, Gaudenzio, Amedeo.

GAUD. (_introduce Amedeo e si ritira_).

AMEDEO (_entra, fa due passi, poi vede, si ferma attonito_).

VITT. (_correndo a lui, con voce bassa, concitato_). La contessa non
può riceverti. Non è il momento. Va via!

AMEDEO (_sbigottito_). Cos’è successo?

VITT. (_spingendolo verso la porta_). Taci! Saprai poi. Vattene.

AMEDEO (_resistendo_). Perdonami! Così no! È inutile: non vado via
così. (_Alzando la voce_). Sabina...

SAB. (_si scuote, balza in piedi_). Voi!

AMEDEO (_angosciato_). Cos’avete?... Che hai? Sabina, che hai?

VITT. (_con un grido_). Tu?!... Dunque sei tu che... Oh!
(_afferrandolo_). Via, via, via!

AMEDEO (_impetuoso, dibattendosi_). Lasciami!... Voglio una parola...
Sabina!

SAB. (_piegata a lui, con le mani protese_). Va! Adesso devi andare...
Va! (_con uno scoppio di passione e di pianto_). Ma spera, sai! Spera
ancora! Spera! spera! spera!


  CALA LA TELA.




ATTO TERZO.

  _Stanza in casa dei fratelli Bermond. Due porte laterali: quella
  di destra serve d’ingresso comune; quella di sinistra mette agli
  appartamenti interni. Caminetto acceso nel fondo. Tavola, sedie,
  poltrone. — È sera: la scena è scura._


SCENA PRIMA.

Vittorio, Amedeo, poi Michele.

VITT. (_immobile, seduto sur una poltrona davanti al caminetto_).

AMEDEO (_apre l’uscio di sinistra, dà una rapida occhiata all’intorno,
non vede Vittorio e s’avvia a destra_).

VITT. (_con voce tranquilla, senza voltarsi_). Amedeo!

AMEDEO (_trasalendo_). M’hai chiamato?

VITT. (_alzandosi_). Oh guarda: non m’accorgevo d’essere al buio! E
anche tu, di là, eh? (_gli passa davanti e va all’uscio di destra_).
Michele!... lume, presto! (_ad Amedeo_). Tu stai con me.

AMEDEO. Perchè?

VITT. Mi fai piacere.

MICHELE (_entra con una lucerna che posa sulla tavola, e via_).

AMEDEO. È un desiderio, od è un ordine?

VITT. (_non risponde_).

AMEDEO. Perchè, se mai... di là son più tranquillo.

VITT. (_blando_). Però te ne andavi.

AMEDEO (_aspro_). Se sono tuo prigioniero, dimmelo. Lo devo sapere!

VITT. Sentiamo: è la mia presenza che ti è uggiosa?

AMEDEO (_prorompendo_). Non dovevi promettere.

VITT. T’ho detto tutto. Mi hai chiesto tempo per riflettere. Te l’ho
accordato. Ora...

AMEDEO. Non dovevi promettere.

VITT. Quello che è fatto è fatto.

AMEDEO. Sei spietato.

VITT. (_porgendogli la mano_). Vieni qui, senti...

AMEDEO. Lasciami stare.

VITT. (_con dolcezza_). Soffro, sai, nel vederti così... Tu rendi
l’obbligo mio mille volte più imperioso ed amaro. Sei mio fratello!
Devo fare per te quello che farei per me. Devo contrastarti la felicità
più severamente, più duramente che a qualunque altro. Ecco.

AMEDEO. La tua promessa è assurda, assolutamente assurda. Non la dovevi
dare.

VITT. (_calmo e grave_). T’ho detto e ti ripeto che non ho potuto
sottrarmi. Che vuoi? Nella vita si dànno questi casi urgenti, queste
circostanze che vincolano implacabilmente tutto l’avvenire... Momenti
terribili, che non si possono stornare, nè con ragioni, nè con pianti,
nè con alcun mezzo umano. Tu dici che quello che ho fatto è assurdo?
Che ne so io? Che me ne importa?

AMEDEO. Tu ti sei attaccato a un’idea, ne hai vissuto, l’hai nel sangue
(_con forza_). Ma io posso, io voglio discutere!

VITT. Non devo considerar nulla. Eh già, lo so, è un sentimento. Non è
che un sentimento!... Non si spiega, non si afferra, non si definisce.
Prova a mancarvi. Prova a esitare in fatto di lealtà, di generosità,
di coraggio; prova a non respingere un insulto; prova a non pagare
i debiti che la legge non tutela; prova a non considerar come sacra
qualunque promessa! (_severamente_). I doveri di noi gentiluomini verso
Dio, verso il prossimo, e verso noi stessi, non si contano e non si
pesano.

AMEDEO. Ma una promessa vincola chi la fa! Io sono libero! Sabina è
libera! E poi, senti, mi hai detto tu stesso che D’Aldengo era ferito,
morente. Puoi tu affermare ch’egli fosse ancor sano di mente? Eh? Vedi?
La stranezza della sua richiesta è una prova chiara, lampante ch’egli
non lo era più. E mi vuoi sacrificare a un delirante, a un demente? Ti
par giusto?

VITT. (_angustiato, tra sè_). Fa quel che devi, e avvenga quel che può
(_percorre la scena accigliato, col capo basso_).

AMEDEO (_addoloratissimo_). Ma questo è un sogno d’inferno! Non posso,
non posso, non posso romper così col passato!

VITT. Affidati a me.

AMEDEO (_amaramente_). Oh!

VITT. Ti guarirò. Farò tutto al mondo per renderti la calma, per farti
felice.

AMEDEO. Taci, taci, mi fai male! Oppure no; senti: son calmo. Mi
calmerò anche di più. Lascia ch’io torni a lei, ch’io la veda ancor una
volta...

VITT. (_accenna dolcemente di no_).

AMEDEO (_implorando_). Chi sa? Forse trovandola tranquilla, persuasa...
Lei stessa mi dirà... Ragioneremo. Sai, alle volte una parola può far
un gran bene. Mi lasci andare, eh?... No? Perchè così soffro troppo,
vedi: soffro proprio troppo!... Non conviene nemmeno a te pretendere
tanto, spingermi così. Son tuo fratello, Vittorio, son tuo fratello!...
(_fa l’atto di lanciarsi all’uscio_).

VITT (_si frappone_).

AMEDEO (_indietreggia e si getta singhiozzando sopra una seggiola_).
(_Un silenzio_).

  (_Si sente picchiar sommessamente all’uscio di destra_).

VITT. (_a Amedeo_). Su, su! Presto, che nessuno ti veda!

AMEDEO (_alzandosi_). Chi sarà? (_pieno di speranza_). Chi può essere?
Chi credi che sia?

  (_Si picchia ancora_).

VITT. Avanti!


SCENA SECONDA.

Vittorio, Amedeo, Michele.

MICHELE. Il signor conte Di Pranero, il signor cavaliere La Torretta.

AMEDEO (_si allontana lentamente, cupo, e va a porsi davanti al
caminetto_).

VITT. (_a Michele_). Dirai loro che... (_dopo aver pensato_). No: falli
entrare.

MICHELE (_via_).


SCENA TERZA.

Vittorio, Amedeo, Di Pranero, La Torretta.

LA TOR. (_entrando, seguito da Di Pranero_). Deo gratias!

VITT. Venite, venite.

LA TOR. (_vedendo Amedeo_). Oh guarda! Bermond iuniore! Quanto tempo
è che non ci vediamo! (_avvicinandosi_). Si sta bene, eh, vicino al
fuoco?

VITT. Sedete, vi prego.

LA TOR. e DI PRAN. (_seggono intorno al camino_)

AMEDEO (_si scosta, si avvia verso l’uscio di destra: d’un tratto si
volta titubante a guardare Vittorio_).

VITT. (_lo fissa, lo ferma con lo sguardo_).

AMEDEO (_siede vicino alla tavola_).

DI PRAN. Dunque si parte o non si parte, domani?

VITT. Si parte. Non eravamo rimasti intesi così?

DI PRAN. Eh altro! Ma non avendoti visto in tutta la giornata...

LA TOR. Che diavolo hai fatto?

VITT. Che volete... gli affari...

DI PRAN. Noi abbiamo girata la capitale in cerca di notizie.

VITT. Ah sì? Ebbene?


SCENA QUARTA.

Vittorio, Amedeo, La Torretta, Di Pranero, Michele.

MICHELE (_entra portando un vassoio con bottiglie e bicchieri_).

LA TOR. (_vedendolo_). Bravo!... Come ti chiami?

MICHELE. Michele, signore.

LA TOR. Bravo, Michele.

DI PRAN. (_a Vittorio_). È La Torretta, sai, che s’è preso la libertà...

LA TOR. Di domandar del vino, dopo che tu avevi ordinato i liquori.

VITT. Avete fatto benissimo (_a Michele_). Mesci e va pure.

MICHELE (_eseguisce e via_).

LA TOR. (_prima di bere_). Viva la guerra! eh?

DI PRAN. E viva l’amore!

LA TOR. Lascialo stare, l’amore! Non c’è tempo adesso. Non si può bere
e fischiare a un tratto. Non parlerei così, se qui ci fossero dame,
ma... (_rivolto ad Amedeo_) cavalierino, e voi?

AMEDEO. Grazie, non bevo vino.

LA TOR. Cospetto! Si vede.

AMEDEO. Perchè?

LA TOR. Siete pallido.

DI PRAN. Avete brutta cera.

VITT. Dunque, e coteste notizie?

LA TOR. Oh buone, eccellenti! Si prepara una campagna coi fiocchi!

VITT. (_attento_). Dite, dite: che cosa sapete?

DI PRAN. Si muovono tutti.

VITT. (_con gli occhi scintillanti_). Che! la leva in massa?

DI PRAN. No: se fosse stata ordinata, lo sapresti anche tu...

LA TOR. Ma fa quasi lo stesso. Giovani e vecchi, ricchi e poveri,
contadini e borghesi, nobili e plebei, tutti in moto, tutti in
faccende. All’armi! all’armi! L’altro anno si sono ammessi nei
reggimenti i fanciulli? Ebbene, guarda, sarà molto se quest’anno si
riuscirà a far stare a casa i lattanti!

DI PRAN. Euh! È tutto dire!

LA TOR. Naturalmente che esagero un poco.

DI PRAN. (_brontolando_). Sì, ma l’argomento è serio...

LA TOR. Ed io so parlar anche sul serio (_alzando il bicchiere_). Al
Re! Al Piemonte! A noi! Va bene così?

VITT. Benissimo.

DI PRAN. (_avviandosi_). A domani, dunque!

VITT. A domani, a domani.

DI PRAN. (_ad Amedeo_). Cavaliere, buona notte. E curate la vostra
salute.

LA TOR. Cospetto! E se mai... ricordatevi che l’aria di montagna è una
gran medicina.

VITT. (_accompagnandoli_). All’alba!

LA TOR. Non quella dei tafani, eh?

DI PRAN. e LA TOR. (_escono_).


SCENA QUINTA.

Vittorio, Amedeo.

VITT. (_accostandosi ad Amedeo, e battendogli sopra una spalla_). Tu
vieni con me.

AMEDEO (_lo guarda trasognato_).

VITT. Hai sentito come ti hanno parlato quei due ufficiali? E, bada,
senza nessuna intenzione di offenderci. Il tuo posto non è più qui.

AMEDEO (_si scosta con un atto rabbioso_).

VITT. Partiamo insieme, domattina.

AMEDEO. Senza vederla più?... No!

VITT. Ricorda. Volevi venire quando si entrò in campagna. Non ho
consentito. Pareva non si trattasse che di respingere una torma di
furibondi, e profittar della vittoria per tentar la conquista. Era un
errore, era un sogno. Il nemico ha vinto, rivinto; si fa ogni giorno
più esperto e feroce. (_Con forza_). La casa brucia, tutti dobbiamo
correre al fuoco!

AMEDEO (_animandosi un poco_). Ti raggiungerò.

VITT. Parti con me e ti darò il modo di farti subito onore. Staremo in
Asti fin che ci lascieranno. Oh, ma non si andrà per le lunghe! Alla
metà di gennaio ci metteremo in marcia verso le montagne: andremo a
rilevare i battaglioni che avranno svernato lassù. Vedrai un’accolta di
spettri... e ti sentirai un altr’uomo.

AMEDEO (_amaramente_). È un rimprovero, questo?

VITT. Seguimi, e domani a quest’ora non potrò fartelo più.

AMEDEO. Verrò, te lo giuro.

VITT. Devi dire: vengo (_con forza persuasiva_). Senti, Amedeo: anche
adesso là si battono, sai. Le maledette carmagnole brulicano lungo
il confine, e stuzzicano, e provocano, e sfidano senza posa i nostri
avamposti. Appena il sole squaglierà le nevi, daremo battaglia (_con
entusiasmo_). E noi due ci saremo: saremo là, fianco a fianco. Ah! tu
non sai ancora cosa sono i colpi, gli urli, la lotta, le bandiere al
vento! Vedrai, vedrai, vedrai che nella vita non c’è soltanto l’amore.

AMEDEO (_con voce sorda_). E se... se, diviso da lei, io non potessi
sopportarla la vita?

VITT. (_fissandolo_). Vale a dire che, in un momento di disperazione,
di follia, potresti anche pensare a... E sta bene (_dopo un silenzio,
con molta calma_). L’anno passato, dopo le giornate di giugno, sul
Raus, dentro un ridotto, si trovarono i corpi di due giovinette.
Avevano indosso l’assisa, e le armi alla mano. Come, perchè fossero là,
nessuno seppe: nessuno, credo, lo saprà mai. Forse, chi sa, non potendo
anch’esse sopportare la vita, le povere donne, l’avevan buttata via...
da uomo (_dopo una pausa_). Hai inteso?

AMEDEO (_sottovoce_). Sì.

VITT. (_energico_). Allora, a noi: occupiamoci!

AMEDEO (_come risvegliandosi_). Aiutami tu! Assistimi! Dimmi tu quel
che devo fare. Io non so più: non posso pensare...

VITT. (_affettuoso_). Son qui, non ti lascio. Chiameremo Michele. Egli
penserà alla roba. Una piccola valigia, niente più del necessario. Noi,
noi penseremo all’essenziale. Alle armi. Sta bene attento. Porterai
la tua spada, quella d’acciaio brunito: l’altra non è buona che per la
parata. Le pistole lunghe, quelle di Versailles, sono eccellenti. E poi
vedremo (_avviandosi a sinistra_). Bisogna vedere subito, anzi. Vengo
di là, con te. (_Fermandosi_). Prima però... prima però, vieni qui. Ti
voglio qui, sul cuore. (_Lo prende fra le braccia_). Non ho che te! Sei
la mia speranza. D’ora in poi starai con me; sempre, sempre, sempre con
me...

AMEDEO (_intenerito_). Vittorio...

  (_Rimangono abbracciati in mezzo alla scena_).


SCENA SESTA.

Vittorio, Amedeo, Sabina.

SAB. (_entra frettolosa_).

AMEDEO (_vedendola_). Dio!... Lei.

VITT. (_turbato_). Signora!

SAB. (_indicando Amedeo_). Voglio parlare con lui.

VITT. Devo ritirarmi? Lo esigete?

SAB. No, potete restare. Anzi, ve ne prego. (_Con ironia_). La
discussione sarà più animata. Prima però voglio parlar sola: io sola
con lui.

VITT. (_risale la scena e va ad appoggiarsi al camino_).

SAB. (_ad Amedeo_) Ti eri già arreso, eh!

AMEDEO (_esita a rispondere_).

SAB. Lo vedo. Lo prevedevo. Lo sentivo, sai. Ho pensato: Che farà il
conte?... Vorrà condur via Amedeo, domani, stasera, subito forse! E
son venuta. Dunque è così? Ti ha persuaso a partire? Dimmi la verità. E
saresti andato? Senza una parola, senza pur salutarmi? E il tuo grande,
il tuo immenso amore?

AMEDEO. Ho lottato, ho lottato...

SAB. Eh, ma non quanto occorreva per vincere!

AMEDEO. Ma tu, tu stessa, quando t’ho lasciata...

SAB. (_con impeto_). Io?! Ma io ti ho gridato di sperare. E credevo
tutto finito. E provavo la sensazione di scendere, di scendere in un
gran vuoto buio, senza fondo. Ho anche desiderato di morire! Ma poi,
ma poi, ma poi... Insomma, sono venuta, son qui, e bisogna decidere
(_accostandosi rapida_). Avanti, sentiamo: rinunzi a me?

AMEDEO (_vivamente_). No!

SAB. Bene (_indicando Vittorio_). E allora che rispondi a lui? Come ti
svincoli?

AMEDEO (_abbassa gli occhi, confuso_).

VITT. (_stendendo il braccio, ancor calmo_). Amedeo, non vi è mai
stata una nube fra di noi, mai, mai, mai... T’ho sempre trovato docile,
buono, condiscendente. (_Con forza crescente_). Son maggiore di te, tuo
tutor naturale. Posso, come capo della nostra casa, anche comandare.

AMEDEO (_ribellandosi tutt’a un tratto_). Ah! Non lo farai!

VITT. (_severo_). Non bisogna costringermi.

AMEDEO. La tua potestà non può essere nè arbitraria, nè assoluta.

VITT. Rappresento tuo padre.

AMEDEO. Mio padre era giusto.

VITT. (_offeso_). Amedeo!

AMEDEO. Mio padre era giusto. (_Con sarcasmo_). E la giustizia,
fratello? E la lealtà? E i sentimenti tanto vantati poc’anzi?

VITT. (_esasperato_). Tu adesso m’insulti!

AMEDEO. Sei il più forte, non devi abusare.

VITT. (_violentissimo_). M’insulti, m’insulti, m’insulti!

SAB. (_interponendosi accorata, tremante_). Pace, signori! pace, pace!
Questo è terribile, che per me...

VITT. Bada, Amedeo, non ragioniamo più!

AMEDEO (_furibondo_). Mi difendo! Difendo il mio avvenire, la mia
felicità... (_indicando Sabina_). Difendo i diritti di noi due vivi
contro la prepotenza insensata di un morto!

VITT. (_con grandissima autorità ed energia_). Ma, Dio santo! Sei pur
mio fratello! Il sangue deve bollir con vigore nelle vene a te come a
me. La guerra sta per farsi accanita, terribile... Io parto e tu resti!
Dimmi: vuoi dunque il biasimo, il disonore, la vergogna?

SAB. (_allibita_). Oh!

AMEDEO (_perplesso, abbattuto_). Vedi... È così che mi hai vinto!

SAB. (_con voce soffocata, con un rapido gesto di deliberazione_)
Ebbene, sì. Anche tu... Quando sarà tempo. Quando ti parrà tempo.
Quando vorrai. Non t’impedirò (_singhiozzando e torcendosi le mani_).
Ma adesso no! Adesso no!... Tu sei mio.

AMEDEO. Sabina!

SAB. (_risoluta_). Basta così. Andiamo.

AMEDEO (_a Vittorio_). Tu! Dimmi una parola...

SAB. (_andando incontro a Vittorio_). Parlerò io! (_Di fronte, con
veemenza_). Non ho che una ragione. Amo. Sento un immenso tesoro di
affetti nel cuore. Ho sete, tanta sete di vita. (_Dopo una pausa_). Ora
a voi. Replicherò poi, se potrò (_si scosta_).

VITT. (_crollando il capo mestamente_). Che vi posso dire ch’io non
abbia già detto, o che voi stessa non possiate pensare... Badate a voi!
Passati i dì dell’amore: può venire il rimpianto... Ve le ho ripetute
le ultime parole di Carlo. Esse mi risalgono continuamente dal cuore
all’orecchio. E ora mi suonano già come un lamento. Badate a voi! Sono
terribili i lamenti dei morti: sordi a ogni discolpa, inflessibili a
fronte di qualunque pentimento, tornano, tornano; non si acquetano, non
si stancano, non dànno più pace. Badate a voi!

SAB. No!... Non posso credere questo. Guai se i morti potessero influir
così su di noi... Guai se potessero abbrancarsi così ai vivi! Non lo
ammetto. Vi deve essere una legge che ripara, rinnova, conserva. Una
legge provvida, naturale. Vedete bene: d’inverno tutto muore, poi
a primavera rinasce. Pensate un po’, se le foglie cadute potessero
soffocare i germi nascenti? Tutto sarebbe finito! Chi vive va avanti,
si sa. Anche senza l’amore, basta l’istinto!

VITT. E il rimorso? Non credete al rimorso?

SAB. Ma sì, ma sì, ma sì: credo al rimorso, ma per chi mal fa. Io penso
a Carlo... (_a fronte alta_). Vedete come pronunzio questo nome. Penso
a Carlo con sicurezza, con calma. Quest’è un’ora grave, eh? Un’ora
decisiva, solenne. Non ho paura. Vorrei vederlo apparir qui, tra noi;
vorrei saper presente il suo spirito, e non parlerei in altro modo.
(_Guardando intorno_). E chi sa! Chi sa! Questo è certo: l’immagine di
lui morto, più grande e buono di quel che non mi sia mai parso vivo,
mi riempie la mente. Egli adesso meglio sa, meglio ama... Non temo
rimorsi. Non ho paura... (_dopo un lungo silenzio_). Amedeo!

AMEDEO (_dolorosamente implorando_). Vittorio, Vittorio!

VITT. (_li guarda immobile, con le braccia incrociate_).

SAB. (_ad Amedeo, con espressione, con grazia allettatrice_). Son
venuta sola, per le strade oscure, deserte. Vuoi lasciarmi tornar via
così?

AMEDEO (_a Vittorio, supplichevole_). Perdonami...

SAB. (_con passione_). Vieni, vieni, vieni! Non senti che nel fondo del
suo cuore egli ci ha già perdonati? (_via_).

AMEDEO (_si abbandona e la segue_).

VITT. (_guarda ancora per un momento la porta donde sono usciti, poi
scioglie, lascia cadere le braccia_). Così!... Doveva andare così!
(_Guardando intorno, quasi con un senso di speranza_). Sì, Carlo...
anch’io ti vorrei qui: per sentirmi assolvere prima... poi per vederti
convinto che il tuo volere mancava veramente di sapienza e di bontà.
(_Risale lentamente la scena, meditabondo_).


  CALA LA TELA.




INDICE


  EDOARDO CALANDRA                      Pag.   7

  NOVELLE.

  LA STRANIERA                          Pag.  27
  L’ORSO                                 »    51
  DUE SPAVENTI                           »    69
  IL FUCILATO                            »    89
  UN VACCARO                             »   117

  TEATRO.

  IRREPARABILE                          Pag. 125
  LEONESSA                               »   141
  LA PRIMAVERA DEL ’99                   »   169
  MADONNA ORETTA                         »   190
  LA PAROLA                              »   212




OPERE DI EDOARDO CALANDRA


  =La bell’Alda=. — Torino, F. Casanova, 1884.
  =I Lancia di Faliceto=. — Torino, F. Casanova, 1886.
  =Pifferi di Montagna=. — Torino, F. Casanova, 1887.
  =Pifferi di Montagna. — Un Paladino.= — Torino,
    F. Casanova, 1891.
  =La Contessa Irene.= — Torino, F. Casanova, 1889.
  =Vecchio Piemonte.= — Torino, Roux e Viarengo (ora
    S.T.E.N.), 1905.
  =La Bufera.= — Torino, S.T.E.N. 1911.
  =A guerra aperta.= — Torino, S.T.E.N., 1906.
  =Juliette.= — Torino, S.T.E.N., 1909.
  =La Straniera.= — Torino, S.T.E.N., 1914.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA STRANIERA ***


    

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