La bufera

By Edoardo Calandra

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Title: La bufera

Author: Edoardo Calandra

Release Date: May 10, 2023 [eBook #70733]

Language: Italian

Produced by: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team
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                            EDOARDO CALANDRA


                               LA BUFERA



                                  1899
                       ROUX FRASSATI E Cº EDITORI
                                TORINO.




                          PROPRIETÀ LETTERARIA

                                 (2048)




ALLA MEMORIA DI MIO PADRE




I.


Quando nel gran mondo torinese di cento anni fa, si veniva per caso a
discorrere del castello e del parco di Racconigi, accadeva spesso di
sentir soggiungere:

— Anche i Claris hanno una bella campagna da quelle parti.

Però il marchese Enrico Costa de Beauregard, che nel 1796 scriveva: —
_Raconis est un des plus beaux lieux du monde_ — non avrebbe potuto in
buona coscienza dir altrettanto di Robelletta. Rari amici e conoscenti
si recavano a visitare la contessa al tempo della villeggiatura; e la
villa di casa Claris, meglio che a questi pochi, doveva forse la sua
fama ai molti che non vi erano mai stati.

Tenendosi in Polonghera, sulla fine del secolo XVII, la grossa gabella
del sale proveniente da Nizza, mentre se ne mandava una grossa parte
a Torino sui barconi del Po, con l’altra si provvedeva, per mezzo di
carri, Murello, Racconigi, Cavallerleone ed altri comuni vicini. La
strada per cui passavano questi carri è detta anche oggidì strada del
_sale_.

In un punto di questa sboccava un viale largo e diritto, che metteva,
tra due sfilate d’olmi, a un cancellone di ferro, ritto fra pilastri
guarniti di brutte arpie di pietra molto mal scolpite. Quello era
l’ingresso di Robelletta. Il fabbricato poi si divideva in due parti:
una signorile e l’altra rustica. La parte signorile, di due piani,
oltre il terreno, aveva una facciata schietta e severa, senz’altri
ornamenti che un terrazzino con graziosa ringhiera di ferro battuto,
ed una gran meridiana scrostata e scolorita. Cigolavano alte sul
tetto due ventaruole, tutte rugginose, con l’iscrizione C. d. R. 1777.
Nella parte rustica, assai più bassa e più lunga, erano le stanze dei
contadini, la stalla, i magazzini, il fienile. Una grossa muraglia, con
un portone quasi sempre chiuso, separava il cortile dall’aia, i signori
dai servi.

Dietro la casa era il giardino, che sebbene vago e assai grande, non
aveva che far con un parco.

Tutti gli anni, quando la stagione si faceva propizia, il conte
Annibale avvertiva la contessa Polissena che, a dì tanti del mese
corrente, si sarebbe recato alla Florita: palazzina con vigna situata
alla sinistra della strada di Moncalieri, non lontano da Cavoretto, in
luogo appartato ed ameno.

La contessa distribuiva tosto gli ordini, e si disponeva a partire per
Robelletta.

Il cavaliere Telemaco Mazel della Comba, informato di quanto avevano
stabilito i due coniugi, deliberava subito di fare una visita ad un
certo suo castellotto, posto tra Cavallerleone e Cavallermaggiore, e
veniva ad offrire la sua compagnia alla dama, della quale era da anni
sviscerato ammiratore ed amico.

La partenza e l’arrivo seguivano nel giorno prefisso, sempre nello
stesso modo e colle stesse formalità.

Una bella mattina, a Robelletta, si vedevano giungere i barocci
dei bagagli; più tardi, verso mezzogiorno, un gran veicolo pieno
di servitù; infine nel pomeriggio, preceduta dal cavaliere Mazel,
che si compiaceva di far da battistrada, la carrozza ampia e comoda
dell’illustrissima signora contessa.

Il cavaliere, entrato in cortile, metteva piede a terra e, all’arrivo
del legno, con un garbo tutto suo, offriva la destra alla nobil
signora. Questa scendeva e volgendosi subito a sinistra, rispondeva con
un cenno grazioso ai saluti ed alle riverenze dei contadini maschi e
femmine affollati al portone. Sbucavano dietro di lei pianamente, don
Nicolao Bonhomine, il prete di casa, e la signorina Teresa Virando,
damigella di compagnia, rinfichisecchita dagli anni e dall’uniformità
del servizio.

Intanto Mazel, baciata la bianca mano ingemmata che aveva tenuto fra le
sue, dava un passo indietro e piegato il capo e la persona, mostrava
poi, rialzandosi, un volto composto a certa commozione, qual di chi
lascia, Dio sa per che tempo! una persona sommamente diletta. Inforcata
quindi la sella, si allontanava curvo, dinoccolato, seguito dal fido
cameriere Chambery, pur esso a cavallo.

L’assenza del buon gentiluomo non durava mai più di ventiquattro ore;
il giorno dopo, sul far della sera, egli era di nuovo a Robelletta;
occupava un elegante appartamentino al secondo piano, e non si moveva
più che per riaccompagnare a Torino la signora del suo cuore.

Ma nel maggio del 1797 egli non ricevette l’annunzio della partenza con
la consueta soddisfazione: il tempo non era fermo; le strade non erano
sicure; poi lo seccava aver per compagno nel viaggio, e probabilmente
anche nel soggiorno, Massimo Claris, giovane e bollente ufficiale, al
quale il conte Claris padre, per certe sue ragioni e previa licenza
dei superiori, credeva opportuno di far mutar aria. Il contino non gli
rendeva l’ossequio ch’egli sentiva di meritare; la sua presenza, senza
che sapesse spiegarsi il perchè, gli era sempre riuscita noiosa durante
il quotidiano adempimento dei suoi doveri di perfetto servente. E poi
insomma il cavaliere andava in sulla persona che pareva una maestà a
mirarlo, ma sentiva di non esser più giovane e cominciava a non veder
più di buon occhio tutti quelli che lo erano ancora.

Il tragitto da Robelletta al castello avito sembrò a Mazel più lungo e
sopratutto più uggioso d’ogni altra volta. Sulla pianura si stendevano
nuvoli bassi e densi, i quali comprimevano l’aria e la rendevano
immota ed affannosa. L’aspetto della campagna, inondata dalle pioggie
eccessive ed invasa dai bruchi, faceva presagire una nuova carestia,
forse più aspra di quella del 95.

Alla vecchia stamberga lo aspettava un mare di noie e di guai. Il
custode non avendo ricevuto l’annunzio del suo arrivo, non aveva nè
ammannita la cena, nè data aria alle stanze: Mazel dovette contentarsi
d’una frittatina di due uova e d’un po’ di formaggio, e dormire in
una camera parata di un damasco stupendo, ma dove il tanfo di muffa
e di racchiuso levava il respiro. La mattina seguente si destò un
po’ rasserenato, ma si rannuvolò tosto vedendo che un fulmine aveva
diroccata la metà del torrione, e che a voler tener su le mura,
sgretolate dagli anni e dalle intemperie, erano necessarie pronte,
importanti e costose riparazioni.

Anche nel podere annesso il disordine ed il trasandamento erano grandi;
gli fu impossibile dar le sue istruzioni e sbrigarsi di tante faccende
in un giorno, gliene abbisognarono tre. Si rimise in cammino nel
pomeriggio del quarto, ma colto per istrada da due gagliarde scosse
d’acqua che lo obbligarono a cercar rifugio prima sotto il portico
d’una cappelletta, poi in un tugurio isolato, non potè essere a
Robelletta che molto tardi, quando la contessa s’era già ritirata.

La disdetta raddoppiò in lui la bramosia di rivederla, cosicchè si
alzò di buon’ora, come non s’era più alzato da anni, forse forse dalla
mattina del suo famoso duello col vassallo di Pantaneto; uscì di camera
profumato, incipriato, rinfronzolito, e discese adagio adagio le scale,
perchè si sentiva le ossa gravi e fiaccate dallo strapazzo di quei
fastidiosissimi giorni.

Un servitore finiva appunto di dar ordine alle stanze terrene: —
Cospetto! era proprio presto! — Si fece alla soglia per considerare il
tempo: — Finalmente, lodato Dio! il cielo era tutto sereno. — Si voltò,
e, quando meno se lo aspettava si trovò fronte a fronte con Massimo.

— Oh! — esclamò questo — già alzato?

— Già — rispose Mazel — e tu dove vai?

— Fin lì sulla strada. Un momento fa, stando alla finestra, ho visto
passare una veste chiara, una veste color di rosa... A quest’ora,
capisce, e da queste parti, val ben la pena di vedere chi è?

— Qualche contadina vestita da festa...

— Che contadina! Una signora, son certo che è una signora. Vado e torno.

— Sì; e ricordati che è domenica... Sventato!

Il giovane non rispose, non l’udì forse nemmeno; era già in cortile. Il
cavaliere attraversò la stanza d’ingresso, entrò nel salotto buono, e
si adagiò sopra una poltrona.

Auf! quel Massimo, quanti dispiaceri non aveva già dato ai suoi
genitori, e, per rimbalzo, anche al più intrinseco fra gli amici di
casa. Prima avevano avuto a dolersi di lui perchè si accostava troppo
al fare di certi scioperati che si gloriano d’essere audaci con le
donne, intemperanti negli svaghi e nelle spese, presuntuosi, arroganti,
malcreati, quasi che il grado di tenente o di capitano fosse un
privilegio per insolentire con tutti e per tutto. Poi...

Qui il cavaliere sentì che esagerava; Massimo non era nè presuntuoso,
nè arrogante; era una testa calda che operava sempre senza giudizio.
La sua esaltazione di mente lo aveva tratto a sbagliar nel passato e
poteva imbarcarlo in brutte faccende per l’avvenire.

Nel ’92, l’abbandono della Savoia e di Nizza al primo rompersi
della guerra, senza un serio tentativo di difesa, aveva sollevato il
malcontento di tutti. Il Re, colpiti più o meno severamente quelli
che dovevano rispondere a lui delle proprie azioni, aveva creduto
opportuno, per riguardi di disciplina, di punire, col privarli
del grado, due giovani ufficiali, i quali avevano osato biasimare
apertamente i loro capi: Borgarelli d’Isone e Massimo Claris. Tutti
e due avevano poi fatta la seconda campagna come semplici soldati
volontari, portandosi in modo da riaver subito quanto avevano perduto
e meritare un avanzamento per giunta. Ma in casa Claris la memoria del
castigo durava più viva che quella del compenso. Il conte Annibale,
uomo d’inflessibile severità di principii, dava a divedere molto
spesso che non aveva ancor compiutamente perdonato a suo figlio. La
contessa viveva inquieta, temendo sempre qualche nuovo errore; tanto
più che Massimo non mostrava affatto di volersi ravvedere; anzi veniva
manifestando idee sempre più eteroclite e sempre meno pacate.

— Già — conchiuse tra sè il cavaliere, seccato da cotesti ricordi
— questo benedetto ragazzo sarà sempre il nostro tormento. — Così
pensando si alzò e girellò per le sale cercando come passare la noia.
Sfogliò il _Palmaverde_ e il _Calendario per la Real Corte_; tolse
una statuina da un tavolincino, ov’era in pericolo, e la portò sul
caminetto; odorò voluttuosamente, chiudendo gli occhi, un mazzolino al
fresco in un bel vaso di Vinovo; e nell’atto, senza che egli sapesse
il perchè, gli si ripresentò alla mente l’immagine di Massimo col suo
leggiero soprabito color tanè chiaro, la sottoveste bianca, i calzoni
di pelle e gli stivali con la rivolta, che tornavano così bene alla
gamba ed al piede.

— Peccato — diss’egli tra sè — che sia un animale sì fatto, perchè poi
è un bel giovane, e veste benissimo.

E qui, come per fare un confronto, andò a porsi davanti a una magnifica
spera _alla rococò_, che posava inclinata sur una nobile _console_
messa a oro. La pausa fu lunga e meditata. Mazel vi si mirava dalla
testa ai ginocchi, poi indietreggiando compiva l’esame: il ventre
cominciava a pronunciarsi un po’ troppo, ma c’era di che confortarsi
considerando le gambe; quelle si potevano dir veramente tornite, sì che
le calze finissime non vi facevano una grinza.

— Hum! — mormorò egli, tra’ denti — gambe di questa forma, nel secolo
venturo, non se ne vedranno forse più.

Alla fin de’ conti egli non aveva che cinquantasei anni; poteva
togliersene cinque grazie alla freschezza delle gote, alla bianchezza
dei denti, e sopra tutto a certe sapienti manipolazioni del suo
cameriere... Però Chambery non era più quello d’una volta; le sue mani
non erano più ferme, e nel ravviargli i capelli, nello stringere col
compasso le ciocche, spesso tirava troppo più l’una che l’altra, un
affare serio...

— Niente — disse Massimo, affacciandosi all’uscio — sono andato fin
presso alla cascina del Colombetto senza trovar anima viva. Eppure,
creda, che non ho sognato: ho visto realmente una signora accompagnata
da un signore, e parevano giovani tutti e due. Bisogna dire che abbiano
svoltato. Però non saprei dove...

— Dimmi un po’ — interruppe Mazel — quel cameriere che avevi
ultimamente... Frontino, mi pare?

— Fiordelis.

— Bene: sai che sia già collocato?

— Non saprei proprio.

— Perchè, se fosse ancor libero, forse mi deciderei a mandare a spasso
Chambery, che oramai è vecchio... Pettina bene quel giovinotto.

— Benissimo, ma è una canaglia.

— Non importa, purchè faccia il servizio. Dove vai?

— A dar un’occhiata in scuderia.

— Bada che a momenti si suonerà per la messa; non allontanarti, eh!

Rimasto di nuovo solo, il cavaliere guardò l’orologio. Cospetto!
era impossibile che l’amabil contessa non fosse desta ed alzata.
Non scendeva perchè forse ignorava tuttora il suo ritorno. Allora
escogitò un modo delicato e sottile di avvertirla della sua presenza
e manifestarle nel tempo stesso la smania ch’egli aveva di rivederla.
Sedette al cembalo, crollò le mani per liberarle dai pizzi, poi,
accompagnandosi, cantò modulatamente un motivino patetico, che egli
giudicava dovesse suscitare, nel cuore di colei che lo udiva, un
subisso d’affetti.

Com’ebbe finito andò per vedere se mai don Bonhomine fosse già nella
cappella, il cui uscio privato si apriva di fianco alla scala. Ed ecco
che subitamente un fruscio di serica veste gli fece balzare il cuore
dalla gioia. La sua signora, la sua regina, scendeva appoggiata al
braccio della secca compagna: scendeva con la testa alta, leggermente
inclinata a diritta sur un collo vezzoso e sottile, come quello
di Maria Antonietta. Anche negli occhi, nel naso, nella bocca ella
ricordava alcun poco l’altera figlia di Maria Teresa. Aveva poi la
dignità e la venustà del portamento propria alle dame dell’antico
regime.

Mazel, immobile, l’ammirava a tutto potere; un lieve sorriso, ch’ella
gli schiuse guardandolo, lo scosse; salì ad incontrarla e presale la
mano, vi accostò una, due, tre volte le labbra, accompagnando l’atto
con un gemito sordo, che esprimeva bramosia, tenerezza, riconoscenza,
beatitudine. La condusse quindi, senza lasciar le sue dita, alla
sala da pranzo, ove sedettero di fronte. La damigella di compagnia
posò sulla tavola un libro e un ventaglio e si ritirò. Intanto, da un
altr’uscio, entrò un domestico con tutto il servito da cioccolata.

La contessa ricusò con un atto quasi impercettibile; ma il cavaliere,
presa la chicchera, intinse nella calda bevanda spumante una fettina di
pan francese, e la recò, immollata a puntino, alle labbra. Dopo di che
credette opportuno di avvertire l’astensione della dama.

— Oh! — fec’egli — e perchè?

— Perchè non ho appetito.

— Cioè non volete avere appetito.

Ella contrasse le ciglia e non disse altro. Il cavaliere sentì che
il suo pensiero era altrove e le esaminò il viso: era pallida; e il
pallido candor della pelle pareva lievemente annebbiato di livido al di
sotto degli occhi.

— Ohimè — disse fra sè, contristato: — è dunque vero? La cara metà di
me stesso un giorno più dell’altro si fa mesta ed accasciata!

Un anno prima, già angustiata da un cominciamento di pinguedine, la
contessa Polissena s’era fisso in capo che ottimo partito fosse lo
scemarsi il cibo, ch’ella usava pur già assai frugale; poi, sembrandole
che questo non bastasse e volendo anche dar al suo vivere una regola
più confacente all’età in cui entrava, si era rivolta ai medici. Il suo
caso era stato lungamente e minutamente discusso, imperocchè bisognava
stabilir nettamente, prima di tutto, se si trattasse d’una vera e
propria malattia; poi, quando la cosa risultasse provata, se il male
fosse di quelli che van combattuti fortificando il corpo, o distrutti
debilitandolo.

Mentre i luminari della scienza consultavano senza nulla concludere,
il buon cicisbeo non lasciava senza conforto il suo idolo. Egli si
mostrava d’una galanteria senza pari, si stemperava in dichiarazioni ed
in complimenti, coglieva tutte le occasioni per affermar gagliardamente
che non l’aveva mai vista sì formosa, sì elegante, sì seducente.

— È inutile — diceva egli — una donna non può dirsi veramente bella se
le manca l’espressione, e questa non si acquista che con la maturità;
che è poi l’età perfetta dell’uomo e della donna.

Quanto alla delicata, scabrosa questione del magro e del grasso, chi la
pensa in un modo e chi in un altro.

Mazel, benchè cavaliere cristiano, trattandosi di cosa affatto profana,
non si adontava d’andar d’accordo coi turchi; i quali, essendo quei
gran conoscitori che ognun sa, le donne improsciuttite e mummificate
non le voglion neanche vedere.

Sapeva questo, perchè glie l’aveva detto un medico che era stato
in Barberia a esercitar nei serragli; e aggiungeva una quantità di
osservazioni scientifiche di nuovo conio, che destavano l’ilarità degli
amici e talora avevano anche la virtù di rasserenar per un momento la
stessa signora.

Ma quella mattina, lì da solo a sola, non sapeva più cosa dire; mandava
giù pianamente una fetta dopo l’altra, pensando al modo di rompere un
silenzio che incominciava a pesargli.

Alla fine, una voce sommessa chiese licenza d’entrare; e, ad una breve
parola affermativa, Gringia, il maestro di casa, si presentò sulla
soglia profondamente inclinato.

La contessa e il cavaliere si alzarono.

Nel cortile, riuniti davanti alla porta della cappella, i contadini
e le contadine aspettavano per entrare che i padroni fossero a posto.
Indossavano tutti i loro migliori vestiti. Gli uomini tenevano in testa
cappelli a cencio o a tre punte, di sotto ai quali usciva il codino,
attorcigliato in più modi. In quasi tutti si scorgeva lo studio d’aver
negli abiti qualche cosa del militare; e ciò non per ostentazione o per
moda, ma per impulso di persuasione, per spirito naturalmente marziale.
Erano giubbe d’un taglio che davano aspetto di milite a chi le portava;
casacche cenerine adorne di galloni, o addirittura vecchie uniformi
riconoscibili al colore, ai bottoni, alle rivolte. Fra le donne, alcune
avevan le treccie chiuse in una cuffia più o meno ricca di gale e di
trine; altre la testa e le spalle coperte da un velo.

In un subito si levò un breve mormorìo, seguìto tosto da silenzio
profondo. I signori entravano nella cappella dall’uscio laterale.
Si vide Mazel porgere alla contessa due gocce d’acqua benedetta
sull’estremità delle dita, segnarsi devotamente con lei, secondar
con un inchino la riverenza ch’ella fece all’altare, e porgerle,
accompagnandola al banco, il libro e il ventaglio.

Entrarono le persone di servizio; entrarono i contadini; e, alla fine,
nel momento in cui il prete compariva all’altare, entrò anche Massimo,
che andò a inginocchiarsi accanto a sua madre.

Il cavaliere gli lanciò un’occhiata severa, poi si trasse davanti una
sedia e cercò subito di concentrar la mente in un pensiero di devozione
sincera. Ma lo sguardo, fisso da prima sull’altare, salì pian piano,
senza ch’egli se ne accorgesse, al gran vecchione bianco e barbuto
dipinto sulla volta, ridiscese tosto sulla pianeta rabescata di don
Bonhomine, si posò sul panno d’arazzo che pendeva davanti all’uscio,
risalì fino alla finestra... e la trovò chiusa.

Così dunque l’aria pura e vitale non poteva venire ai suoi magnanimi
polmoni che dalla porta che gli stava alle spalle, e l’intervallo era
pieno di servitorame d’ambo i sessi e di villani d’ogni età.

— Boh, che tanfo malefico!

Ficcò il pollice e l’indice nel taschino della sottoveste, frugò,
trasse un gingillo d’oro che, appena schiuso, gli creò intorno una
squisita atmosfera olezzante. Osservando la donna amata, gli parve che
anch’essa respirasse a fatica: aveva le labbra semi-aperte e lavorava
assai di ventaglio.

— Ehee! — pensò egli — lo so bene che si soffoca. Ma perchè stringersi
anche nel busto a quel modo?... Per me forse? Poverina!

Poteva sì o no proporle d’uscire un pochino? — No: ella avrebbe
sopportato qualunque disagio prima che mancare a un dovere verso Dio;
e poi appunto in quel momento la vide curvarsi sul banco e coprirsi
il viso con le mani, come per raccogliersi in più intima e fervorosa
orazione.

— E come prega! — seguitava tra sè il cavaliere. — Uhm! non sarà
per Annibale certo: hanno stanze, villeggiatura, tavola, servitori,
carrozza, tutto a parte... Pregherà per suo figlio... o per sè
stessa... Poverina, poverina!

Sì sì, doveva esser così: la contessa implorava dall’Eterno
Dispensatore d’ogni grazia una dilazione, una sosta nell’inesorabile
fuga del tempo. Ella soffriva di sentirsi invecchiare, temendo forse di
veder intiepidire quell’adorazione che le era sì accetta, sì preziosa,
indispensabile, forse!

Mazel provò un senso di commiserazione profonda. Il caro nodo durava
oramai da molti anni. Egli era il cavaliere servente legittimo,
accettato e stipulato per contratto matrimoniale; il marito l’aveva
sempre trattato con molto riguardo; gli amici e gli affini, con
gran deferenza; nel bel mondo era stato proposto molte volte come
esempio. Infatti, cospetto! egli poteva vantarsi d’aver osservato
scrupolosamente tutti i patti, d’aver atteso sempre con ogni
sollecitudine al suo ufficio. Si sentiva senza paura, senza macchia,
disposto a perseverare. Oh Dio, sì, dispostissimo!

E affissandosi nella sua dolcissima fiamma, rinnovò solennemente il suo
giuramento di fedeltà.

S’udì il campanello dell’elevazione. La contessa non si mosse.

Mazel si stupì. Un momento dopo la vide che si abbandonava tutta,
languidamente a sinistra. Si rimescolò, si slanciò: fu appena in tempo
a sorreggerla.

Corse subitamente per la piccola cappella un fremito di esclamazioni
soffocate, uno scricchiolare di banchi e di seggiole, uno stropiccìo
sgominato di piedi. Don Bonhomine si voltò e rimase là, sbalordito,
con le braccia alzate. La damigella, la cameriera, il maestro di casa
si accostarono premurosi; gli altri servitori si fecero strada fra
il contadiname a furia di gomitate per uscir subito e trovarsi fuori,
pronti a ogni ordine.

La gentildonna, levata di peso dall’amico e dal figlio, fu trasportata
nelle sue stanze. Seguì uno sbatter d’usci; passi rapidi suonarono
sul pianerottolo; una voce concitata gridò confusamente alcuni
ordini. I servitori attruppati col naso in aria a piè della scala,
si precipitarono tutti insieme in cortile, come ne fosse toccato per
l’appunto uno a ciascuno.

— Un medico! Un medico! Un medico!

— Su, ragazzi! — diceva il maestro di casa: — uno a Polonghera, subito;
o a Murello; o a Racconigi. Animo, a te, Tracco!

— Io? Ma non son niente pratico, io.

— Allora avanti: Biglia, Merlo, Pomero, a voialtri, presto!

— Ma cosa! — protestava Merlo — qui si tratta di correre, ohe: bisogna
mandare gente giovane.

— Diavolo! — esclamava Pomero — gente svelta.

— Gente in gamba! — aggiungeva Biglia.

Gringia agguantò un contadinotto e lo buttò con uno spintone nel viale.

— A Polonghera, tu, alò! Via di galoppo. Un altro a Racconigi, adesso;
e un altro a Murello. Scarpe in mano e ali ai piedi. Fzzzt! Volate!




II.


La giornata si era fatta bellissima; spirava vento, un vento mite,
a grandi folate blande; e l’erba, i fiori, le fronde si movevano,
godevano, brillavano nel sole che andava acquistando possanza.

Anche nel piccolo bosco di Riochiaretto i pioppi e gli ontani
stormivano festosamente; ma nella cavità ove nasce il ruscello che dà
il nome al luogo, la superficie dell’acqua non faceva una crespa. La
vita era tutta nel fondo renoso; là, fra parecchie polle men ricche,
una ve n’era abbondante e di gran forza, che sollevando di continuo
la rena, formava una specie di nebbietta lucida, secondo che le
sfaccettature dei corpuscoli minerali agitati riflettevano i raggi
luminosi.

Luigi Ughes, addossato a un tronco, contemplava sua moglie; la quale,
seduta sul margine del pelaghetto, non si saziava di mirare il minuto
turbinìo.

— Liana — diss’egli dopo un poco — non ti par tempo d’andare?

La giovane signora crollò dolcemente il capo, senza alzarlo.

— No? — riprese Ughes, sorridendo. — A me piace quello che piace a te;
restiamo pure qui fino a domani.

— Non senti come si sta bene? — mormorò Liana. — Che quiete!... Vengo,
sai, ma mi devi promettere di ricondurmi qui molto presto.

— Possiamo ritornar oggi, dopo desinare.

— No, prima desidero di vedere gli altri luoghi che mi hai decantato.
Però prevedo che questa sarà la mia passeggiata prediletta. Non
so perchè, ma sento che sarà così... Sono anche sicura che non
dimenticherò mai questa mattinata.

— Perchè?

E Ughes, staccatosi dall’albero, si accostò, e prese ad accarezzarle
leggermente i bei capelli giovanili pendenti in rosso, un bel rosso
bruno, lumeggiato d’oro.

— Pensa — seguitava ella intanto: — fra un anno, fra qualche mese, noi
avremo già scordato tante cose. Non rammenteremo che le circostanze
importanti di questi primi giorni che siamo insieme. Poi, con l’andare
del tempo, chi sa...

— Oh! — fece suo marito, con accento di rimprovero, lasciandosi andar
sull’erba vicino a lei. — Via, non guardar più nell’acqua, è di lì che
ti vengono le idee nere. Non guardar più.

In quel momento arrivò fino a loro il suono d’una campanella lontana.
Liana alzò un poco la testa, stette in ascolto.

— Dev’essere la campana di Robelletta — disse Ughes. — Oggi è
domenica... — Pensò un poco, poi soggiunse animandosi: — Liana, questo
è il quinto giorno che siamo a Murello; cinque giorni di felicità
piena ed intera! Però, viva Dio! non è troppo a confronto di quello che
abbiamo patito. Guarda, in certi momenti, quando non ti vedo, quando
non ti sento, dubito ancora; non so se sia proprio vero che noi siamo
uniti!

Le cinse la vita con un braccio. Ella vi si appoggiò, vi si abbandonò
con passione; diceva soavemente:

— Sì, sì, siamo uniti... Eccomi, sono qui, sono la tua Liana, tua,
tua, tutta tua. Non ci lascieremo più. Voglio consolarti di quanto hai
sofferto; voglio cancellare tutte le memorie dolorose, cacciarle via
tutte, per sempre. Adesso non pensar più, te ne prego, lo voglio.

Ughes taceva, figgendo anche lui gli occhi nella scaturigine fonda.
Stettero così a lungo, come affascinati. Un gelo, uno sgomento strano,
penetrava a poco a poco, sottilmente, nell’animo loro. Perchè, potendo
volgere con fiducia, con gaudio la mente al futuro, si sentivano
trascinati a riandar sempre, con pertinace angoscia, i casi della loro
vita passata? Perchè?


Luigi Ughes, nato a Torino e rimasto orfano in tenera età, era stato
raccolto da uno zio, Gioanni Battista Vietti, medico a Murello. Il buon
vecchio, educato e istruito il nipote secondo i suoi mezzi, l’aveva poi
rimandato in città perchè si applicasse allo studio della medicina: —
Il miglior modo — diceva — di farsi un personale e procurarsi un pane
onorato.

Ughes si era dato tutto allo studio, riuscendo prima a distinguersi tra
i compagni per capacità, per raro profitto, per egregia condotta; poi a
conseguire con molta lode la laurea.

Dopo, la sua vita, ch’era stata tutta di quiete e abbastanza felice
nel tranquillo e inalterabile suo corso, mutava aspetto. Egli aveva
sempre sentito una certa inclinazione per la lingua italiana; potendo
ora disporre un po’ più liberamente del suo tempo, prese a frequentare
la casa dell’avvocato Gaetano Oliveri, ove settimanalmente si adunavano
amici e cultori delle belle lettere e dei buoni studi per leggere prose
o poesie di loro invenzione.

Giuliana Oliveri — Liana, come la chiamava suo padre — era allora una
cara giovinetta, piena di grazie naturali e d’una dolce ingenuità. Fin
dal primo vederla, Ughes provò un’ammirazione schietta e rispettosa,
una grande bramosia di trovarsi spesso con lei; ben presto si sentì
irresistibilmente portato ad amarla. Scrivendo allo zio, manifestava
alla lontana il suo desiderio di accasarsi, appena avesse finito le
pratiche nell’Ospedale Maggiore di San Giovanni. E lo zio, rispondendo,
parlava di tutt’altro; però chiudeva invariabilmente tutte le sue
lettere con queste parole: — Studia e lavora, lavora e studia, che un
giorno o l’altro, più presto di quel che credi, io ti cederò il mio
posto.

Ora avvenne che una sera, trovandosi testa a testa con l’avvocato,
Ughes non si potè più contenere, e gli aperse con poche parole, ma per
benino, l’animo suo. Oliveri lo ascoltò sino in fondo, non nascose che
gli sembrava troppo giovane, ma aggiunse che ci avrebbe pensato.

Invece di pensarci, interrogò subito sua figlia; e siccome ella si
mostrò modestamente lieta, i due giovani furono considerati promessi.

Intanto in Francia era scoppiata la rivoluzione. Essa si presentava
agli spiriti generosi ed ardenti come l’avveramento di antiche e
solenni profezie, il trionfo della giustizia e della libertà, un
immenso, maraviglioso, irrefrenabile moto dell’umanità verso una nuova
èra di civiltà e di gloria.

Anche in Piemonte, anche in Torino spirava un’aria che non pareva più
quella di prima. Idee ed opinioni nascoste ed accumulate da secoli,
nessuno avrebbe saputo dir dove, lampeggiavano or qui ed or là,
precedendo il tuono dei fatti.

Il popolo acquistava a poco a poco, confusamente, la coscienza della
propria dignità, della propria indipendenza, dei propri diritti, delle
proprie forze. Molti fra i borghesi si riunivano, cercavano, per dir
così, di orientarsi; attendevano febbrilmente a procacciarsi i fogli,
le lettere, le gazzette, gli opuscoli che venivano clandestinamente di
Francia, per leggerli in segreto, commentarli e discuterli.

Fin le adunanze letterarie di casa Oliveri presero bel bello una tinta
politica; ma Ughes, benchè assiduo frequentatore di quelle, non si
tenne dal prender parte ad altre riunioni meno temperate e serene;
cosicchè sul finire del 1793 si trovò impegnato in una conventicola
composta d’uomini risoluti a far novità.

Forse alla trama, perchè molto vasta, mancava la saldezza, forse un
avvenimento fortuito e inopinato spezzò qualche filo; fatto sta che nel
maggio del ’94, ad un tratto, il Governo cominciò a inquisire.

Fu una lugubre sequenza di perquisizioni, di arresti, di delazioni, di
processi, di condanne. Ughes, avvertito misteriosamente del pericolo
che lo minacciava, riuscì, come parecchi altri congiurati, a lasciar
subito Torino.

Lo zio Vietti potè leggere, con indicibile sbigottimento, in casa del
sindaco Domenico Godano, la circolare del conte Delfino di Trivero,
governatore della città e provincia di Saluzzo, nella quale si ordinava
alla comunità _d’invigilare di buon concerto coi risp.vi sig.ri
Giusd.ti p. l’arresto di certo Luigi Ughes Torinese come sospetto di
miscredenza, e di Giacobinismo nel caso venga a capitare nei rispettivi
loro luoghi, e territori facendolo successiv.e tradurre con sufficiente
scorta in questa città, ecc. ecc._

Poco dopo, cioè il 7 agosto, per sentenza dell’Ecc.ma Delegazione,
Ughes, riconosciuto complice di una cospirazione contro il Regio Stato,
fu condannato alla confisca dei beni e nella vita; giustiziato in
effigie ai confini del Piemonte, a Borgo San Dalmazzo, e posto fra i
ribelli e banditi di primo catalogo.

Il buon vecchio zio cominciò a dimagrare; batteva spesso la febbre; e
ad ogni colpo picchiato all’uscio di casa, s’immaginava fossero i birri
o i soldati venuti per catturarlo invece di suo nipote.

Passarono alcuni mesi prima che Ughes potesse dar notizia di sè.

Liana viveva in grandissima inquietudine, stava di continuo
ansiosamente in sull’aspetto, ma era in quell’età in cui non si dubita
mai, nè si dispera; e quando Oliveri s’ingegnava con quelle ragioni e
quelle carezze che sa trovare un padre amoroso, di farle entrare certi
suoi consigli che egli stimava fossero per il suo meglio, ella crollava
il capo, corrugava le ciglia, dichiarava di sentirsi sicura che Luigi
sarebbe tornato e di non voler in niun modo rimuoversi da ciò che aveva
fermo nel cuore.

Finalmente si seppe in confuso che il giovane medico si trovava al
servizio di Francia; quindi, in modo preciso, che egli era stato dagli
ufficiali di sanità dell’esercito delle Alpi impiegato provvisoriamente
nelle ambulanze.

Era un primo raggio! Poi le nuvole trascorsero di nuovo dinanzi alla
faccia del sole, alternando per lunghi giorni la luce della speranza e
il buio dell’incertezza.

Nel ’96 il cielo tornò tutto sereno. Con l’articolo 8º del trattato di
pace concluso a Parigi il 15 maggio, il Re di Sardegna si obbligò ad
accordare amnistia piena ed intera ai sudditi condannati per opinioni
politiche; ad annullare processi e sentenze; a restituire i beni mobili
ed immobili, o a rimborsare il prezzo, ove fossero stati venduti.

L’indulto generale fu pubblicato il 5 luglio; Ughes lasciò tosto
l’ospedale militare di Gap, ove era stato nominato medico ordinario,
e volò a Torino. Trovò Liana che ringraziava Dio d’averla creata;
l’avvocato felicissimo di rivederlo; gli amici tutti concordi nel
fargli affettuose dimostrazioni di amorevolezza.

Diede poi tosto una scappata a Murello per rivedere lo zio. Questo
era di molto malandato e stentava a reggersi in piedi. La gioia di
riabbracciare il nipote operò un miglioramento, pronto sì ma effimero,
nella sua salute; dopo qualche tempo dovette allettarsi, e tanto si
aggravò che Ughes, il quale già l’aveva lasciato, tornò subito per
assisterlo.

L’infermo, benchè agli ultimi, era in pieno sentimento. Non gli si
vedeva più in viso quel non so che di torbido, di affannoso che vi
avevano impresso le vicende passate; era diventato placido, sereno,
quasi sorridente.

— Me ne vado — diss’egli. — Luigi, domani a quest’ora sarai in lutto...
Abbi pazienza, ti tocca sospendere ancora le nozze... È una seccatura
che durerà poco. In compenso ti lascio il mio posto e quel poco che
ho al mondo. Il poderetto rende assai bene. Troverai anche una piccola
somma in contanti messa da parte e serbata per i casi imprevisti... Ti
raccomando Menica e Gabriel; li conosci, neh? Non metterti più contro
quelli che hanno i fucili e i cannoni. Lascia stare Voltaire e Rousseau
e compagnia brusca; leggi le cose del signor abate Metastasio, che
non c’è niente di più bello al mondo. Vivi allegro e quieto, e parla
qualche volta di me con tua moglie...


— Liana — disse Ughes, dopo il lungo silenzio grave, — si fa proprio
tardi, sai.

Si alzò, prese ambe le mani di lei e l’aiutò ad alzarsi. Uscirono dal
boschetto nei campi, avviandosi per il viottolino che mette capo alla
strada del sale. Al di là di questa, a mano sinistra, si scorgevano
le nobili ventaruole di Robelletta; le chiome dei più alti alberi del
giardino.

A un certo punto, Liana si soffermò, schermì con la destra gli occhi
dal sole e domandò a suo marito il nome della casa.

— Me l’hai detto dianzi, ma non lo rammento più.

— Robelletta — rispose Ughes.

— E appartiene?

— Alla contessa Claris.

— Or mi ricordo, l’altra sera il parroco ce ne annunziò l’arrivo. E
come ne parlava! Non la finiva più: una dama adorna di tutte quelle
doti, che possono meritare i giusti elogi dei saggi: pietà, religione,
affabilità, tratto cortese, perspicacità d’ingegno, facilità di
espressione; istrutta profondamente nella storia sacra e profana, nella
geografia, nell’astronomia, nelle belle arti... E dopo di lui cominciò
il notaio, che enumerò le parentele, le aderenze, le amicizie. Quindi
il tuo amico Bechio...

— Bechio non è mio amico.

— È un patriotta come te.

— Può darsi, ma non è mio amico.

Liana, che precedeva, si voltò, guardò suo marito.

— Cos’hai? — diss’ella, timida e seria.

— Niente — rispose Ughes, abbassando gli occhi.

— Non capisci che parlo in celia?

— Sì, sì. Va avanti: cosa diceva Bechio?

— È inutile... E poi c’eri anche tu...

— Non ci ho badato. Di’ su tutto, ti prego.

— Diceva che un giorno o l’altro bisognerà pure illuminare Robelletta,
come i repubblicani di Francia hanno illuminato i castelli e le ville
dei feudatari...

— Basta, immagino il resto.

Voltarono nella strada; Ughes offerse il braccio a sua moglie.

— Senti — diss’ella — se ti è antipatico, perchè lo ricevi? Scusa,
parlo ancora di Bechio.

— Oh Dio!... Non saprei. Egli veniva già in casa di mio zio, con don
Prato, con Arignani, col chirurgo. Lo zio non lo vedeva di buon occhio
neanche lui, ma era medico e Bechio essendo speziale, capirai che...
Insomma non parliamone più, vuoi?

Giunsero in silenzio allo sbocco del viale: non ci si vedeva anima
vivente. Liana si fermò, trattenne il marito.

— Ma guarda — mormorò sottovoce, — tutto tace; non pare una casa
disabitata?

Non aveva finito di dire, che il cortile si empì come per incanto,
tumultuariamente, di uomini, di donne, di ragazzi.

— Cos’è stato? — esclamò Liana, scotendosi.

— Nulla — rispose Ughes — escono da messa; ci deve essere una cappella
privata...

— Ma no, ma no: io dico che succede qualche cosa di serio. Guarda come
son tutti in faccende, scalmanati! Non ti pare che...

Ughes la chetò con un cenno; stava in orecchi per afferrare una parola
chiara, significativa, fra ’l ronzìo confuso. Ma in quella il cancello
fu aperto con impeto: un contadino, poi un altro, poi un altro ancora,
saltarono nel viale, venner giù di galoppo.

— Cosa c’è? — gridò il giovane. — Dove andate?

Il primo si arrestò, gli altri tirarono via volando.

— La contessa! la contessa! C’è venuto un accidente alla contessa!
Andiamo pel medico tutti...

— Vengo io! — esclamò Ughes. — Torna indietro a dir che vengo. Presto!
— Indicò a Liana una delle panchine che fiancheggiavano l’ingresso e
soggiunse: — Abbi pazienza, aspettami qui...

— Va, va! — interruppe sua moglie, — per amor di Dio, va subito!

Il ragazzotto tornava indietro, vociando:

— L’ho già qui, il medico, l’ho già qui! È quel di Murello.

Ughes lo seguì rapidamente. Appena di là dal cancello, si trovò
attorniato dai servitori, che con voce sommessa ed in aria compunta,
volevano ad ogni costo ragguagliarlo di tutto. Ma un giovane, alto di
persona e di signoril presenza, balzò fuori, gli afferrò un braccio,
lo trasse in casa, poi su per una scala fino a un gabinetto buio, dove
intravvide una forma femminile distesa sur un canapè, e alcune altre
persone che si davan gran moto all’intorno.

Il medico spalancò la finestra, pregò si lasciasse aperto anche
l’uscio per stabilire subito una corrente d’aria pura; poi si appressò
all’ammalata.

La contessa Polissena era smorta smorta, aveva le palpebre abbassate
sulle pupille immote, madide le tempie. Ughes le spruzzò un po’ d’acqua
in viso, le accostò alle nari una boccettina che aveva con sè; e,
dopo un poco, vide che riapriva gli occhi e cercava di raccogliere
gli spiriti smarriti. Come poi gli parve tempo, ordinò alle donne
di trasportarla pianamente e senza scosse nel suo letto, e uscì sul
pianerottolo, seguìto immediatamente dal contino e dal cavaliere Mazel.
Tutti e due gli stavano alle costole susurrando:

— Ebbene? Ebbene? Ebbene?

— Niente di grave — rispose Ughes; — uno svenimento, una cosa
passeggiera.

— Eh? — fece il cavaliere, volgendosi a Massimo — l’ho detto subito che
si trattava d’uno svenimento. Però, non capisco: conosco la contessa da
anni e questa è la prima volta che le succede un simil caso. Cospetto!
ci ha fatto impaurir tutti. Ci dev’essere un influsso: nemmeno io non
mi sento proprio bene. Ogni tanto ho certi sfinimenti che appena mi
reggo ritto. In questo momento, per esempio, ho una languidezza di
stomaco della quale è difficile farsi un’idea.

— Qualche volta basta l’appetito — disse Ughes, blandamente.

— Crede? Meno male. Tornando alla contessa, adesso bisognerebbe
scongiurare il pericolo d’un nuovo mancamento delle forze vitali con
una buona cacciata di sangue. Questo almeno è il mio parere. Che ne
dice?

Il medico non fiatò.

Un momento dopo madamigella Virando venne a dire che la signora
contessa desiderava di parlare col dottore.

Rientrarono tutti nel gabinetto e di là passarono nella camera attigua,
dove, in un gran letto a padiglione di stoffa cremisi damascata, Ughes
rivide la dama. Fatto un inchino, si approssimò e le chiese il permesso
di sentire il polso. Ripetè poi pacatamente quel che aveva già detto ai
due uomini:

— Niente, ma proprio niente di grave.

La semplicità garbata dell’atto, la sincerità del tono rassicurarono la
gentildonna più e meglio d’un lungo ragionamento.

— S’accomodi, la prego — diss’ella con voce languida, ma piena
d’affabilità.

Era aliena, l’altera donna, sia per indole che per costume, dal
dimostrare facilmente e volgarmente ciò che sentiva; ma questa era
un’ora scura per lei, un’ora di smarrimento e di confusione; ella aveva
sete di benevolenza, di conforto, di aiuto.

Considerò un momento la fisonomia seria e piacente del giovane che le
stava davanti, poi prese a parlare abbandonatamente, come se già avesse
piena fiducia nei consigli di lui, come se sperasse più in lui, pur
ignorando perfino il suo nome, che in tutti i barbassori ch’ella aveva
fin qui consultati. Oltre alla gravezza di testa che la tormentava
assai spesso, si sentiva immalinconire ogni dì più. Le pareva che
l’abbattimento del corpo fosse effetto dell’abbattimento dell’anima.
Cercava il modo di riposarla, quest’anima stanca, e non lo trovava, non
lo trovava. Non sapeva ella stessa che si facesse. Soffriva come non
aveva sofferto mai. Non ne poteva più...

Il medico ascoltava attentissimo, comprendendo dal tono accorato,
da certe frequenti pause espressive, che gli bisognava sottintendere
moltissime cose. Per la contessa Polissena la primavera fiorita era
già lontana; l’estate pur anche si andava dileguando, e con essa la
luce e il calore. Poteva l’autunno rischiarare ancora la sua vita con
fuggevoli riflessi, allietarla con qualche soffio soave... ma l’autunno
precedeva l’inverno! Nulla nel complesso della bella persona dava
indizio di decadenza o di sfacelo; ma ad ogni parte era necessario il
sostegno o l’appoggio di un’altra. Nel cuor della donna vibrava ancora
l’eco delle gioconde canzoni d’un tempo, ma doveva disporsi a sentirlo
affievolirsi via via, e tacere ben presto per sempre. Era questo, era
il pensiero della dissoluzione inevitabile che la opprimeva di giorno,
la soffocava di notte, non le dava più un’ora di pace.

Ughes, seduto accanto al letto, aveva appoggiato il gomito sinistro
sul ginocchio, chinata la fronte nella palma, e rifletteva. S’udiva
nel silenzio profondo il passo di Massimo, che, ancor commosso e
sottosopra, andava su e giù per la stanza.

— Fermo, Massimo! — mormorò Mazel, mollemente sdraiato sur una
poltrona. — Cospetto, faresti girare la testa a un reggimento!

Il contino lo guardò di traverso, poi si addossò alla parete e incrociò
le braccia sul petto.

— Mah! — sospirò il cavaliere, alzandosi adagino e movendosi verso il
letto in punta di piedi. — Bisognerebbe poter indurre questa adorabile
dama a non pigliar per complimenti le verità sacrosante che dicono
e ripetono gli amici. Risponda a me, signor dottore: le pare che con
quegli occhi, con quelle due superbe luci, si possa esser malati sul
serio?

— Lei deve farsi coraggio, signora madre — disse Massimo, — cercar di
distrarre la mente dalle noie, dai fastidi; fare il possibile per non
star sola.

— Se non lo è mai! — brontolò Mazel. — Se non lo è mai!

Intanto Ughes aveva rivolto sottovoce qualche domanda alla contessa;
udito a qual cura dietetica si fosse assoggettata, non disapprovò, ma
consigliò alcune modificazioni, facendole intendere delicatamente che
miravano in modo più innocuo al medesimo scopo.

— Questo — diss’egli, alzandosi — e un po’ d’esercizio tutti i giorni,
e l’aria balsamica della campagna, devono bastare a favorire l’azione
intrinseca e riparatrice della natura, che si rimetterà da sè nel
primitivo equilibrio.

Prese congedo ed uscì. Il cavaliere, occupato in quel momento a dar
garbo alla gala che gli si increspava allo sparato, accennò appena del
capo.

Massimo invece discese col medico, lo accompagnò fino al cancello e
stava per lasciarlo, quando, data per caso un’occhiata nel viale, vide
Liana.

Ella passeggiava lentamente; la veste color di rosa pallida or si
smorzava nell’ombra dorata degli olmi, or si avvivava nel sole. Il
contino tirò avanti, seguitando a parlare di sua madre.

— Veramente mi ero accorto anch’io che dava un po’ giù; ma attribuivo
questo alla stagione, all’angustia di vedere come si mettono male
le cose del nostro sciagurato paese. Ha un animo tanto sensibile, se
sapesse!... Ma insomma, poichè lei mi assicura che non sarà nulla...

— Ne sono intimamente persuaso — disse Ughes, affrettando il passo e
sorridendo a sua moglie.

Ella aveva esitato un momento scorgendo il contino; ora veniva
premurosamente ad incontrarli.

Massimo s’inchinò; Liana rispose, poi si volse verso suo marito.

— Buone nuove — disse Ughes — la signora contessa si è già riavuta. È
stato un malessere di nessuna importanza.

— Fortuna che lei è venuto a tempo — osservò Massimo.

— No, signore; quando sono arrivato ella stava già meglio...

— Eh, capisco, ma...

— Ad ogni modo io sto a Murello. Medico Ughes, pronto ad ogni loro
cenno, a qualunque ora del giorno e della notte.

— Io la ringrazio, la ringrazio quanto so e posso, anche a nome di mia
madre.

Si separarono. Ughes e Liana tornarono nella strada. Massimo voltò;
passando sotto le finestre della contessa, vide Mazel ritto dietro la
invetriata, che lo guardava con un risetto che teneva di sogghigno. Gli
fece una spallucciata e in un batter d’occhio fu su.

— L’hai riveduta, eh, la rosea veste? — disse Mazel. — Di qui non
discernevo bene la faccia, ma, cospetto: _un port de reine!_

— Come si sente adesso, signora madre? — domandò Massimo, stizzito
contro il cavaliere, senza sapere il perchè.

— Sempre meglio. Se posso avere una buona nottata, domani sarò bell’e
guarita. Dunque, sentiamo: com’è questa signora?

— Com’è?! Non ho mai visto una figura più bella in mia vita.

— Poh! — fece Mazel.

— Carnagione bianca — continuò il giovane — di color vivo e gentile;
una ricchezza straordinaria di capelli; dentatura che sembra un avorio,
labbra porporine... Non so niente degli occhi, ma li credo neri o
castagni.

— Anche il medico è simpatico — disse la contessa. — Non è vero, Mazel?
— Peuh!...

— Solamente... Dì un po’, Massimo, non ti par che somigli a qualcuno?

— Non saprei proprio.

— No? Ebbene io trovo che ricorda straordinariamente quel giovinotto
che tu avevi preso...

— Cospetto! — esclamò Mazel. — Fiordispino, eh? ma è vero, verissimo.

— Non tanto — disse Massimo, freddamente. — Fiordelis aveva un aspetto
basso, volgare, e il dottor Ughes si direbbe nato distinto.

— Uhm! — mormorò Mazel — fino a un certo punto, solamente fino a un
certo punto.

Qui il maestro di casa venne ad annunziare l’arrivo del signor Tabasso,
medico di Polonghera.

— Ringraziarlo — disse il contino — compensarlo e mandarlo a farsi
benedire. Chi sa che tanghero!

Ma il cavaliere dichiarò che gli pareva cosa savia ed opportuna sentir
anche il suo parere.

Il dottor Tabasso approvò in massima le ordinazioni del collega;
prescrisse per di più l’uso interno del vino vecchio, come specifico
contro l’abbattimento, e l’applicazione d’un sacchetto pieno di
zafferano sul cuore, per combattere la malinconia.




III.


Anche quella sera, come nelle antecedenti, i coniugi Ughes sedettero
di fianco alla porta del loro salottino da pranzo, verso il giardino,
per vedere come si compiesse il tramonto. Ma il primo, il principal
atto del grandioso spettacolo era finito. Scomparso il sole, non
rimaneva altro segno del suo passaggio che una tinta rosea, diffusa
nello spazio sovrastante alle cime dei monti, digradata in modo da
cangiarsi dolcemente in un delicatissimo colore di viola nel sommo
del cielo. Vagavano lente lassù alcune nuvolette grigie, come spente
da poco. Spiccavano opachi sull’ultimo barlume le vette degli alberi,
i comignoli delle casette poste al di là del muretto di cinta. In un
folto di nocciuoli, a sinistra, s’udiva ancora il pispigliar delle
passere che s’appollaiavano; a destra, nella massa d’ombra del vecchio
castello, brillava già un lume.

Dinanzi ai due sposi, muti ed immobili, passò un punto lucente, una
goccia d’oro sospesa nello spazio; la seguirono cogli occhi: tutto il
frutteto appariva picchiettato così, centinaia di lucciole baluginavano
sull’erba, baluginavano fra i rami, agitate per modo da procurare
quasi un senso di leggiera vertigine. E tutto quel che si desta con
l’appressar della notte, e vola o salta, corre o striscia, animava
le tenebre crescenti d’un brulichìo, d’un misterioso andirivieni
invisibile. Quante voci confuse! Quanti fremiti vicini, lontani, sparsi
intorno per l’immensa campagna! E l’ombra e la pace movevano l’anima
tanto soavemente!

Ad un tratto si sentì uno scalpiccio e un chiasso di voci maschili
dalla parte del cortile.

— I nostri assidui! — mormorò Liana.

— Sì — disse Ughes, — e stasera anticipano d’una buona mezz’ora. Se
almeno se ne andassero prima!

Si alzarono e rientrarono nel salottino da una parte, mentre dall’altra
comparivano il parroco don Saverio Prato, lungo, smilzo, con un volto
ossuto ed abbronzato, fiancheggiato da un gran paio d’orecchie; il
notaio Costanzo Arignani, piccolo, grassoccio, col viso rubicondo e il
naso bernoccoluto. Sulla soglia Stefano Bechio, lo speziale, strisciava
maledettamente i piedi e faceva inchini a tutto andare.

Il medico li invitò a prender posto intorno alla tavola; la serva mise
nel mezzo, accanto alla lucerna, un vassoio con bottiglia e bicchieri.

— Basta, Bechio — susurrò il parroco, vedendo che colui non la finiva
con le sue scempiaggini. — Da bravo, venite qui anche voi.

Lo speziale balzò fuor dell’ombra in cui era rimasto, e chiese a Ughes,
con certa buffonesca ed affettata umiltà, il permesso di sedere. Andò
quindi con gli occhi bassi, stropicciandosi le mani, ad accoccolarsi in
un angolo.

Era di bassa statura, come il notaio, con un testone che gli traboccava
dalle spalle, reso anche più voluminoso dai capelli neri, untuosi,
malamente legati, a guisa di coda, con un pezzo di spago. Indossava una
specie di pastrano grigio, sudicio e logoro, con un colletto di velluto
ulivigno; portava calzoni vecchi e rattoppati, e calze di lana che gli
sbrendolavano giù sui talloni.

— Quando poi avrete finito di fare il _torototella_ — gli disse il
notaio, — pregheremo sor Luigi di favorirci qualche particolare sul
fatto di stamattina. Volete star cheto!

— Cheto com’olio.

Ughes raccontò subito, molto succintamente, la visita fatta a
Robelletta.

— Capito — disse il notaio, dopo un momento di riflessione: — la
signora contessa ha avuto qualche cosa meno d’un deliquio e qualche
cosa più d’una mancanza.

— Vale a dire uno svenimento! — esclamò lo speziale.

— Però — osservò il parroco — guardate un po’ come si fa presto a
spaventare la gente! Si parlava già d’un insulto, che so io? d’un colpo
apopletico.

Bechio dette in una sghignazzata.

— Lei era in pensiero per il desinare, eh, reverendo?

— Che desinare? — domandò don Prato, rosso come un gambero. — Non
capisco proprio...

— Non capisce? Figuriamoci se può aver dimenticato che tutti gli anni
l’illustrissima empie una volta la pancia ai preti ed ai nobili qui del
contorno!

— Ebbene sì, sicuro che mi ricordo, sicuro che ci penso; che male c’è?
Quella è sempre una bella giornata. Certo non è più come una volta;
non c’è più quell’allegria... il conte della Torre non viene più in
campagna, il barone di San Lorenzo e il cavaliere di Robella son morti
alla guerra, il signore di Bonavalle è sempre mezzo malazzato, il
cappellano della Madonna se n’è andato in gennaio... Eh poveri noi!

— Dev’essere stato un affar serio, eh, sor Luigi? — disse il notaio,
tornando al discorso di prima. — Con una persona di quel grado, la
responsabilità del curante è ben grave. Certo l’arte medica ha tanti
mezzi per aiutare la natura; ma sempre convien superare le difficoltà
che presentano i diversi temperamenti. Ci sono di quelli che rinvengono
subito annusando del pane appena sfornato; altri invece bisogna trovar
modo di farli starnutire; per altri ancora bisogna ricorrere agli urli
nelle orecchie, alla torsione delle dita, al tiramento dei capelli,
all’applicazione di ventose, a frizioni, legature, suffumigi...

— Meglio pigliare un randello e accopparli addirittura — interruppe
Bechio; e avvicinata la sedia alla tavola, riempì un bicchiere e lo
tracannò in un fiato.

— Basta — soggiunse Arignani, — sor Luigi, lei ha potuto veder da
vicino una gran bella dama.

— Bontà passa beltà — sentenziò Bechio.

— Bene; allora dirò una bella e buonissima dama.

— Ottima — corresse don Prato, — ottima; in tutto e per tutto degna,
degnissima consorte del signor conte Annibale.

— Sarà per questo — esclamò lo speziale — che vivono separati!

— Due, tre mesi al più — disse aspramente il notaio. — A Torino stanno
nello stesso palazzo.

— Già, ma in campagna...

— In campagna no, perchè Robelletta è in pianura, e al signor conte
piace di più la collina.

— Hm! Hm!

— Cosa volete sapere voi?

— Io ho le mie opinioni.

— Le vostre opinioni? Le conosciamo le vostre opinioni. Se le rane
avessero i denti...

— Eh, un giorno o l’altro mostreremo anche quelli.

— Bechio, Bechio, Bechio! Ringraziate che nessuno vuol farvi del male,
perchè stareste fresco. Credete a me, non fate troppo il galletto;
vi vedo e non vi vedo, caro voi; una bella sera capitano qui i
gastigamatti, vi legano come un salame e vi portano in gattabuia.

— O in galera — mormorò don Prato, — a bastonare i pesci.

Continuarono a bere, a disputare, a bisticciarsi per un’altra buona
ora, come fossero all’osteria od al piccolo caffè del paese, senza por
mente all’inopportunità del discorso, senza notare che Ughes e Liana,
noiati e distratti, non aprivan mai bocca. Alla fine Bechio si rizzò,
andò a raccattare il suo cappellaccio bisunto, lo gettò e lo ghermì in
aria, e inchiodatoselo in capo con una manata, disse al medico:

— Stamattina mi hanno portato una vipera. Venga a vederla, le
taglieremo la testa e continuerà a guardarci, a far la cattiva, a
cercare di mordere. Conduca anche madama, le darò un bicchierino di una
certa anisetta, che... ohè!

E fatta una giravolta con quelle sue scarpaccie rotte e scalcagnate,
se ne andò zufolando, senza aspettare gli altri, che vuotavano ancora i
bicchieri.


Nel pomeriggio del giorno appresso, mentre Ughes e Liana stavano per
andare un poco a diporto, capitò inaspettato il contino. Era venuto
un passo dopo l’altro fino a Murello, pensando che il medico non
sarebbe stato malcontento di sapere che non s’era sbagliato nelle
sue previsioni, poichè la contessa si poteva dire veramente rimessa.
Voleva anche pregarlo di dare, così di tempo in tempo, una capata a
Robelletta, per ripetere le sue prescrizioni ed i suoi consigli.

Mostrando poi d’accorgersi che stavano per muoversi, non volle sedere,
non volle accettar nulla, e uscì con loro.

Vedendoli prendere la stradicciuola, che, traversando il giardino,
passando accanto al castello e dietro la parrocchia, raggiunge fuor
del villaggio la strada di Racconigi, si dichiarò felicissimo di poter
godere, almeno per un piccolo tratto, la loro compagnia. — Dunque
essi andavano a spasso così tutti i giorni? — Sì, tutti i giorni,
or nella mattinata, or nel dopo pranzo, or per l’una, or per l’altra
via; talvolta si spingevano anche assai lontano, per visitare qualche
villaggio, qualche borgata, qualche santuario.

Massimo sospirò; amava molto quei dintorni anche lui, ma non aveva mai
potuto girarli a piacimento. Ora che sarebbe stato in facoltà di farlo,
non trovava più la volontà. Se il cavaliere Mazel si fosse indotto ad
accompagnarlo, chi sa... Ma, santo Dio, colui aveva in orrore il sole,
l’aria, la terra, ogni cosa!

— Senta — disse Ughes, blandamente — conosco assai bene le strade,
le scorciatoie, i sentieri; quando lei vorrà giovarsi della mia
esperienza, non avrà che da dirlo.

Il contino significò il suo gradimento con un sorriso ed atto cortese
del capo; poi, essendo ormai giunti al trivio della Crocetta, si
congedò.

La Madonna degli Orti è un piccolo santuario, una graziosa cappella
ad un quarto di miglio da Murello, col quale comunica per una strada
diritta ed ombrosa, che è la passeggiata del paese. In quella strada
— allora assai stretta e tortuosa — pochi giorni dopo, Ughes e Liana
rividero Massimo. Era a cavallo e veniva verso l’abitato, mentre essi
se ne allontanavano. Salutò, fermò il baio, diede buone notizie di sua
madre, e passando presto d’una cosa in un’altra, disse che un’ora prima
s’era sentito grandemente tentato d’approfittare dell’offerta che gli
aveva fatto il dottore, ma aveva rinunziato temendo di disturbare.

— Ebbene — disse Ughes — domani faccio conto di condur mia moglie
a veder la Varaita. Ci metteremo in cammino verso le quattro...
L’avverto, per il caso in cui lei si trovasse ancora disposta a fare
del moto.

Il contino fu puntuale; alle tre e tre quarti egli era in casa Ughes e
trovava i coniugi pronti per uscire.

— Traverseremo il paese — disse il medico, — andremo diritti diritti
alla Folia, ne seguiremo il corso fin dove sbocca nella Varaita, e
torneremo a casa per qualche altra via.

Quel giorno era un caldo leggermente afoso, e si stava assai meglio
all’ombra che al sole. E l’ombra non mancava sulle rive della Folia:
dopo un querceto, una fila di salci, poi una piantata di pioppi, poi
una macchia d’ontani; talvolta il terreno si avvallava, il piccolo
torrente cristallino e veloce scorreva in un fondo fresco ed erboso,
celandosi di tratto in tratto sotto la robusta e folta vegetazione.
Ughes andava innanzi, un po’ pensoso e raccolto in sè stesso, come al
solito. Liana si mostrava francamente lieta; provava una di quelle
effusioni di letizia e di benessere proprie alle persone giovani e
sane, quando libere, nell’aria libera, possono esercitare il corpo
e contentare la mente. Ella non faceva altro che coglier fiori ed
erbe odorose, come fossero nati a bella posta per lei; e Massimo ora
la seguiva da vicino, ora le stava accanto. Aveva voluto da prima
contribuire all’accrescimento del mazzo ch’ella veniva componendo,
poi s’era accorto che il chinarsi, il far da sè, aumentava in lei la
vivacità del diletto.

Perciò le indicava semplicemente quanto di vago riusciva a scoprire,
lasciandole la facoltà di prendere o di lasciare. Liana gli dava
intanto, inconsapevolmente, grande agio a riguardarla, a vagheggiarla.

Ell’era tanto elegante nella sua veste chiara, semplicissima, che,
cinta sotto il seno d’un largo nastro verdazzurro, rivelava intera la
leggiadria delle forme, la sveltezza e il vigor delle membra, quella
giusta e gentile pienezza che fa bello il corpo!

— Siamo al bosco — disse ad un tratto Ughes, fermandosi.

— E la Varaita? — domandò Liana.

Il medico stese il braccio, indicò il torrente che tremolava laggiù fra
tronco e tronco.

Entrarono nella grande ombra verde, più qua e più là penetrata
dai raggi, impregnata d’esalazioni vegetali, lievemente odoranti;
il sentiero, appena segnato fra l’erba alta e le felci, correva
serpeggiando alla riva, la seguiva per un tratto, se ne staccava
bruscamente e scompariva nel folto. Affrettando il passo, furono in
pochi minuti alla foce, e quivi sostarono.

La Varaita scendeva di contro, da un gomito vicino, in un ampio letto
di pura rena e di ghiaia; accoglieva placidamente in sè la Folia, e
girava lenta ed in tonfano; ripigliava poi tosto il suo corso, qua
increspata e tutta d’argento, là dorata perchè baciata dal sole, poi
lumeggiata di larghi riflessi celesti, poi verde o bruna per l’ombra
battente dagli alberi; e correva a perdersi all’orizzonte, nei vapori
azzurrini d’altre curve lontane.

A quando a quando un merlo trasvolava velocissimo dall’una all’altra
sponda; un uccelletto turchino passò come una freccia, rasentando
l’acqua; altri uccelli con l’ali nere ed arcate, arrivarono in
brigata, accennando di volersi posare sur un lembo di greto, e invece
s’inalzarono rapidi con acuto stridìo. E dai pioppi bianchicci, dalle
scure quercie fronzute, uscivano voci gutturali e sommesse, un monotono
tubare di tortore e di colombi, superato da gorgheggi, da trilli, dallo
schiamazzo sgangherato delle gazze e delle ghiandaie.

La giovane signora e i suoi due compagni, per ricreare più comodamente
lo sguardo con l’ampia amenità della veduta, sedettero sull’erba.

— Dunque — disse Liana, rompendo la prima il silenzio: — questa è la
Folia, quella la Varaita; e come si chiama il bosco ove noi siamo? Mi
par che debba avere un nome dolce, dolce e gaio...

— Il Bosco dei morti — rispose Ughes.

— Oh! E perchè?

— Ho sentito dire che scavando poco sotto il fior di terra, si trovan
dell’ossa.

— Pare — aggiunse Massimo, — che ci sia stata una battaglia nel secolo
passato... o Dio sa quando!

— Una battaglia qui? — esclamò Liana. — In un luogo così appartato,
quieto, ridente?

— Tu non sai — disse Ughes, grave — che quando gli uomini sono per
scannarsi diventano ciechi.

— Altro che ciechi! — esclamò Massimo — bisogna vederli. Eppure è
sempre stato e sarà sempre così.

— Chi sa! — replicò il medico. — L’avvenire è nelle mani di Dio.

— Come? Lei crede che verrà un giorno in cui non ci ammazzeremo più
reciprocamente?

— Perchè no? Pensi un poco. Possibile che l’umanità sia condannata
a dibattersi in eterno dentro un pelago di miserie, di lagrime e di
sangue?

— Pensare? Presto detto; pensare è un affar serio per me, che non
ci sono avvezzo. Può darsi benissimo che Dio abbia fatto dono d’un
cervello anche a me; ma sono sempre stato soldato e non ho mai potuto
usarlo come mi veniva bene.

Liana sorrise; ma Ughes, che aveva chinato il capo, lo rialzò subito.

— Sì — diss’egli, — può venire un’età nella quale ci durerà fatica
a creder vere molte cose che noi vediamo coi propri occhi. Non la
pretendo a profeta, ma se considero la trasformazione di certe idee nel
passato, non mi par più tanto difficile presagire il futuro. Procedo
per induzione. Noi le conosciamo le idee dei nostri vecchi antichi
sulla schiavitù, la tortura, l’inquisizione; sul rispetto alla roba,
alla vita, alla libertà, all’onore, alla coscienza altrui. Non sono
più quelle d’una grandissima parte di noi. Vuol dire che il mondo
ha già cambiato un pochino. Cambierà ancora. Varierà fors’anche la
morale. L’uomo penserà meno a guadagnarsi il Paradiso ed a scansare
l’Inferno, ma acquisterà una cognizione più determinata dei suoi doveri
quaggiù. Capirà, per esempio, che non bisogna molestare, nè tormentare
il prossimo; che l’egoismo e la durezza son cose abominevoli;
l’abnegazione e la carità cose sante, necessarie sulla terra come
l’aria che si respira; che esiste realmente una fraternità umana; che
le lotte tra individui, tra classi, tra popoli sono delitti, grandi,
grandissimi delitti.

— Eh! — fece il contino — noi questi prodigi non li vedremo più.

— Certo; e non li vedranno neanche i figli dei nostri figli. Siamo
ancor molto indietro, molto barbari, molto selvaggi; adoriamo la forza,
adoriamo la violenza...

— Eppure, quando s’entra in guerra, che allegria!...

— Basta; io sono medico e lei è militare, per conseguenza...

— Oh! — interruppe Massimo — sento anch’io un orrore sincero, spontaneo
per le crudeltà, le prepotenze, i soprusi... — Tacque, trasse il
temperino e prese a scortecciare nervosamente un tronco ch’era lì
presso, mormorando tra’ denti: — Questo almeno non soffre.

— Mah! — fece Ughes, — Che ne sa lei?

— Se soffre l’albero, soffrirà anche l’erba! — esclamò Liana,
osservando che suo marito ne aveva strappata una buona manciata.

— E i fiori, naturalmente! — ribattè Ughes, indicando il mazzo ch’ella
aveva in grembo.

Si alzarono di consenso e presero attraverso il bosco, l’un dietro
l’altro, aprendosi il passo con le mani e con le braccia in un
guazzabuglio intralciato di frasche e di cespugli. Uscirono finalmente
nei campi e s’avviarono verso casa, voltando le spalle all’infocato
chiarore dell’occidente. Passarono d’una in un’altra viottola,
discorrendo intorno a cose di poco momento, barattando osservazioni
sul tempo, sull’aria, sulla poesia della campagna in quell’ora; finchè
giunsero a un crocicchio, ove il contino si fermò.

— Se restasse da me — diss’egli — continuerei così, magari fino al
paese. Ma alle sette precise devo trovarmi a Robelletta... Ora io li
ringrazio senza fine della loro amabilità...

— Che! — fece Ughes — tocca a noi ringraziare. E se mai... adesso lei
sa a che ora si esce.

— Lo so, lo so! E si figuri se ci verrò volentieri. Lei è mille volte
gentile.....

Quella sera Ughes e sua moglie parlarono assai di Massimo. Tutti e
due eran d’accordo nel non trovare in lui neppur l’ombra di boria o
d’alterigia, ma una cortese e piacevole franchezza.

— Però — diceva il medico, pacatamente — non bisognerà far troppo
a fidanza con lui. Egli è tale in campagna, può essere che in città
diventi un altr’uomo; e che incontrandoci a Torino, non si degni, per
esempio, neanche più di ricambiare il saluto. Son cose che succedono.

— Ma che non crederò, finchè non le avrò vedute — mormorava Liana,
tentennando il capo.

— E poi c’è altro. Egli sa che mi chiamo Ughes, ma non si è data certo
la briga di prendere informazioni. Mi immagino che farebbe presto a
lasciarci, quando venisse a conoscere il mio passato, a ricordare che
il nome mio è stato appeso alle forche qual nome di ribelle! Suo padre
è ben veduto in Corte, ottiene ciò che vuole; passa per più realista
del Re.

— Ma chi sa che il figlio non senta dal canto suo d’aver diritto di
seguir altre opinioni che gli sembrano migliori?

— Sì, anche questo è possibile. Basta, diamo tempo al tempo.

— Ecco, e non precipitiamo i giudizi!

Massimo ricomparve due giorni dopo, e si fece assiduo.

Il naturale del giovane gentiluomo era affettuoso e malinconico, il
temperamento sanguigno ed infiammabile. Il medico aveva un carattere
semplice, mansueto, rilevato di fermezza; uno di quei caratteri buoni
che sanno creare in altrui la bontà. Malgrado la differenza della
condizione sociale, si stabilì presto una certa armonia. I due uomini
non trovavano mai che ridire tra loro, e non mancava alcuna cosa a
quella pace solida e lieta che viene dalla conformità dei sentimenti.

Liana poi aveva insita la facoltà di accordare gli spiriti; e con
quella sua mirabile squisitezza di tatto, sapeva toglier sempre di
mezzo le difficoltà che potevano nascere dalla discrepanza delle
opinioni e rendere agevole la conclusione di tutti i discorsi.

Quel senso fine e recondito che la natura ha posto in quasi tutte le
donne, rivelava pure a Liana qual fosse per lei l’animo di Massimo.

Nel suo intimo essa godeva di sapersi ammirata; ma era un compiacimento
tutto d’amor proprio, poichè nessun cuore umano, per quanto elevato,
può rimaner chiuso all’amor di sè stesso. Considerava dunque il
sentimento del giovane come una prova di più di quanto ella valesse,
ma sentiva troppo altamente di sè per concedergli il benchè minimo
alimento. Egli d’altronde era con lei infinitamente ed elettamente
gentile, ma si mostrava lontanissimo da ogni affettazione, da ogni
presunzione; perfino alieno da quella galanteria leggiera ed usuale,
che le donne mondane ascoltano con soddisfazione distratta e senz’ombra
di scrupolo.




IV.


Il tempo, torbido fin dal mattino, si andò rabbuiando dopo mezzogiorno;
certi gran nuvoloni neri, posati qua e là sulle creste dei monti, si
allargarono, si addensarono, chiusero a poco a poco, intorno intorno,
tutto l’orizzonte. Verso le quattro l’aria grave ed inerte si commosse,
cominciò a soffiare quel venticello umido e freddo che suol precedere
la burrasca; nel momento in cui Massimo entrava nel cortiletto di casa
Ughes, s’udì il rumoreggiar lungo e lontano del tuono.

— Bravo! — esclamò Ughes, ritto sull’uscio. — Vuol far burrasca, ma
niente paura.

— Uhm! — fece il contino — non credo, sa.

— Come? Non vede com’è chiuso; non sente come brontola, laggiù? A
momenti vien giù il diluvio... Non è vero, Gabriel?

Il colono passava pian piano, avviato al giardino.

— Parlano del tempo, neh? — egli chiese. — L’ho già strologato bene
anch’io. Se Quel di lassù ci vuol mandare ancora dell’acqua, pazienza!
Ma per carità, che non ci mandi granella! Sarebbe bell’e finita.

— Il signor contino è persuaso che non pioverà.

— Può aver anche ragione. Dice il nostro proverbio:

    _Temporal ven d’an montagna_
    _Pia la sapa e va ’n campagna._

— Bene — disse Massimo — andiamoci anche noi?

— Noi due, se mai — rispose Ughes, — perchè non so se mia moglie vorrà
esporsi...

Lasciò la parola in tronco e alzò il viso: grosse gocciole furiose
cominciavano a rigar l’aria obliquamente, bevute tosto dal terreno
inaridito. D’un tratto il tuono rimbombò fragoroso e vicino.

— Ehi! — fece Massimo — comincia a dir davvero!

— Dio ce la mandi buona — borbottò il colono.

Il medico e il contino entrarono in casa; trovarono Liana che lavorava
nel salottino da pranzo. Riusciva già difficile intendersi. Alla romba
dell’acqua che veniva giù a secchie, s’univa il mugghiar del vento, e
il tuono minaccioso, frequente, preceduto da lampi vivissimi; i quali,
guizzando fra le tende, inondavano la stanza di luce sinistra.

Per quasi un’ora parve che il cielo, tutto convertito in acqua,
si volesse rovesciare sulla terra; poi la burrasca si allontanò,
dirigendosi verso Torino.

Passato ogni pericolo di veder la pioggia mutarsi in gragnuola, i due
uomini, ch’erano rimasti in piedi dietro le invetriate, vennero a seder
vicino alla signora. Taceva il vento, taceva il tuono, ma l’aria era
ancor fosca. La luce, livida e scarsa, rischiarava un breve spazio
del pavimento intorno alle finestre, lasciando il resto del salotto
nell’ombra.

— Che peccato! — esclamò Ughes — oggi si doveva andare alla Torre della
Rea, e invece ci tocca star qui tappati.

— È vero — disse Liana — ma almeno dimmi com’è; perchè la chiamano così.

— È un torracchione quadrangolare, posto sopra un rialto artificiale.
Nel passato si dice che abbia servito di prigione a una gran dama
trovata infedele dal marito, al presente serve di granaio e di
magazzino ai contadini d’una cascina annessa. — Sostò un momento e
riprese: — Non dimenticherò mai la prima volta che ci sono andato.

— Oh! — fece Liana — E perchè?

— Sentirai. Racconterò qui, quello che ti volevo raccontar per
istrada. È un fatterello che rimonta al tempo in cui ero giovane,
molto giovane. La buon’anima di mio zio, che voleva avviarmi per
medico, cominciava allora a condurmi qualche volta con sè, forse per
agguerrirmi, per avvezzarmi forse a veder soffrire... Un dopo pranzo
d’estate, non saprei dir di qual anno, venne gente a chiamarlo perchè
andasse più in fretta che poteva alla cascina della Torre, ove il capo
di casa, già allettato da parecchi giorni, aveva fatto a un tratto un
grave peggioramento. Ci mettemmo in cammino... L’uomo giaceva in un
misero letticiuolo, attorno al quale stavano inginocchiati piangendo
un giovinetto e tre ragazze di lui minori; una donna, ritta vicino
al capezzale, ogni tanto gli bagnava la bocca e balbettava parole
di conforto. All’entrar del medico, cedè il posto. Il moribondo ci
salutò; e si mise a parlare con significazione di tanto dolore della
sua condizione, dello strazio di lasciare una vedova e quattro orfani
in mezzo alla strada, che la moglie e i figli scoppiarono in lagrime.
Venne il prete, un buon cappellano, che cominciò subito a discorrere
del dovere di rassegnarsi al volere di Dio, di sperare ciecamente in
Lui, e sacrificargli senz’altro ogni pensiero terreno. Quindi porse
un Crocifisso al poveretto. Questi lo baciò con gran compunzione,
benedisse i figli, disse addio a colei con la quale aveva vissuto
trent’anni d’amore e d’accordo; poi, rivoltosi verso il prete, gli
disse: — E adesso non mi parli più che di Nostro Signore e della
Madonna degli Orti. — Il buon sacerdote temendo che l’accoramento
degli astanti non distraesse l’agonizzante, li fece ritirare nella
stalla contigua. Seguii lo zio nell’aia e sedetti vicino a lui sur
una trave. Mi ricordo che udivo distintamente il rantolo aspro e
precipitato dell’infelice che lottava con la morte, i gemiti e i
singhiozzi dei suoi, ed a quando a quando, qualcuna delle parole che il
prete andava pronunziando con una dignità così soave che m’inteneriva
e meravigliava. Io non aveva ancora assistito alla morte d’alcuno,
ero in un’età in cui il morire par cosa tanto impossibile, che mi
sentivo l’anima scossa in modo nuovissimo. Era un misto di stupore,
di ribrezzo, di compassione, di paura. Lo zio pareva di pietra; nè
parlava, nè si muoveva. Pregava? Meditava? Non lo saprei dire. Dopo
un’altra mezz’ora, o forse più, d’agonia, il malato spirò. Rientrammo
in casa. Mentre il cappellano cercava di confortare il giovinetto e
le ragazzine, il medico soccorse la donna di consigli e credo anche
d’un po’ di denaro, poi si congedò. Il sole era tramontato da un buon
poco, e l’aria si abbuiava di più in più. Tutti e due avevamo il cuor
pieno e la mente occupata, e si camminava rapidamente e in silenzio.
A un certo punto provai la sensazione d’aver qualcuno alle spalle e mi
girai di netto. Che rizzar di capelli! Lì, a quattro passi, c’era, che
so io? una cosa... una cosa smorta, ignea, aeriforme, indescrivibile.
Misi uno strido, mi gettai addosso allo zio, che s’era pur voltato, e
mi aggomitolai dietro di lui perchè mi servisse di scudo. Lo zio guardò
un momento, poi dette in una bella risata: — Bestia! — mi disse — è
niente. Su via, acchiappa e porta qui. — Accortosi che mi mancavano
le ginocchia, mi pigliò per la mano e mi tirò verso l’oggetto. Questo
balzò indietro, tornando a inseguirci non appena ci fummo rimessi in
cammino. Lo zio mi spiegò poi che quello non era altro che un fuoco
fatuo, uno di quei vapori luminosi che si sollevano di notte dai
terreni umidi e grassi, paludi o cimiteri, e sono generati da sostanze
animali in istato di decomposizione; meteore innocue, e così vane e
leggiere, che la corrente d’aria prodotta dai passi basta ad attirarle
o a respingerle. La spiegazione era semplice e chiara, ma io ne avevo
trovata un’altra che mi pareva anche più verosimile. Che meteora! Che
vapore! Quello era lo spirito del povero contadino a cui avevo veduto
chiuder gli occhi, e ci seguiva per ringraziare alla meglio il dottore
di quanto aveva fatto per i suoi.

Mentre parlava, Ughes s’era avvicinato più famigliarmente a sua moglie;
e questa stava tutta attenta a udirlo. Massimo, a cui essi non badavano
più, li guardava fissamente; era un po’ pallido, con qualche cosa di
convulso negli angoli della bocca. Quando il medico tacque, egli scattò
in piedi.

— Non vuole aspettare che spiova? — chiese Liana, credendo che volesse
andar via.

Il contino non rispose, pareva assorto in un altro pensiero.

Ughes pure si alzò, andò ad aprir l’uscio che rispondeva sul giardino.

— Qui cade appena più qualche goccia — diss’egli; — ma laggiù, dalla
parte ove deve andar lei, sor contino, piove a ciel rotto. E come
lampeggia! Misericordia! Creda a me, stia ancora un poco con noi.

L’orologio, posto in un angolo, dentro una stretta ed alta cassa di
noce, battè alcuni tocchi. Nel salotto nessuno li contò, ma la serva
comparve sulla soglia e dette alla padrona un’occhiata espressiva.
Questa intese e rispose con un gesto.

— Cosa c’è? — domandò Ughes, spensieratamente.

— C’è — rispose Menica, facendosi avanti con le mani arrovesciate sui
fianchi — che ho fatto la zuppa _alla giacobina_; e adesso è cotta e
bisognerebbe pigliarla nel suo vero punto.

— E pigliamola! — esclamò Ughes. Si rivolse a Massimo e soggiunse con
accento franco e cordiale: — Se volesse restar servito?

— Luigi! — mormorò Liana, confusa. — Ti pare?...

— Dico se vuole, se crede... Ci farebbe un favore, ecco.

— Non vorrei guastare — disse Massimo, che moriva di voglia d’accettare
senz’altro.

Menica non si tenne di ficcar nuovamente il suo naso.

— Non guasta niente affatto. Si figuri! Quando ce n’è per due,
ce n’è per tre. Poi, posso anche aggiungere un piatto di piccioni
_all’improvviso_. Son già morti, spennati, vuotati...

— Basta — interruppe il padrone; — aggiungi i piccioni e apparecchia.
Il signor contino gradirà il buon cuore. La casa è piccola, la cucina
corrisponde alla casa, la mensa alla cucina, e via dicendo.

Il modo con cui era stato fatto l’invito, quello con cui era stato
accolto, promettevano una cena piacevole, lieta, senza cerimonie, qual
fu realmente. Liana ed Ughes, considerando la naturalezza del contegno
di Massimo come indizio d’una gran semplicità di abitudini, non si
sentivano per nulla impacciati. Menica, rassicurata, incoraggiata,
imbaldanzita dal vedere ch’egli mangiava e beveva gustosamente come e
forse più che i padroni, andava e veniva moltiplicandosi.

— Ecco qui due belle trote, trote alla _ussara_. Mezz’ora fa sbattevano
ancora la coda. — Pollastra _in calzoni_; cucinata proprio secondo una
ricetta stampata nei libri. — Crema alla _sultana_. Ho fatto la crema
invece dei piccioni, pensando che c’era già la pollastra...

E proclamò così, trionfalmente, ogni portata, senza badare ai cenni di
Ughes ed agli occhi di Liana, che le dicevano di smettere.

Alzandosi da tavola, passarono in giardino, avvertiti dal chiacchierìo
delle passere, che fuori le cose si mettevano bene.

Il temporale, cacciato dal vento, girava sulle Langhe; un immane
ammasso cinereo si trasmutava continuamente, pieno d’un balenìo
arrabbiato e silenzioso. In alto però il cielo era nitido come il
cristallo e già ricco di stelle.

— Che sera, eh! — esclamò il medico, giulivo. — Chi l’avrebbe detto due
ore fa?

— Che bellezza! — disse Liana, indicando una stella. — Come brilla!

— Non è la mia! — mormorò Massimo, sorridendo.

— Eh! — fece Ughes. — Chi sa!

— Son nato sotto un’altra — rispose il contino; — una stelluzza
modesta, dimessa, confinata in un angolo appartato del firmamento; una
di quelle che si mostrano tardi e spariscono presto. Signora Ughes,
cerchiamola insieme?

— Eppure — osservò il medico — molti e molti piglierebbero il suo
stato, e lei si lamenta!

— Infatti... può darsi ch’io abbia gran torto a non contentarmi. Se
si sta alle apparenze, sicuro che dovrei essere felicissimo... Ma la
felicità non è cosa di questo mondo. Ecco tutto.

Pareva avesse già detto più di quanto voleva dire, ma ad un tratto,
quasi portato irresistibilmente ad aprire il suo cuore, ricominciò
a parlare abbandonatamente di sè. Discendeva da una famiglia che in
Torino, per titoli e per ricchezze, primeggiava da tempo immemorabile.
Il conte Annibale, suo padre, godeva molta reputazione di onestà
e di senno, e in addietro era stato incaricato di tante pubbliche
ingerenze, che non aveva avuto l’agio necessario ad educare l’unico
suo figliuolo. Per questo, e perchè v’era l’uso di vivere in famiglia
con sostenutezza e con cerimonia, lo aveva sempre veduto di rado. Così
pure la contessa Polissena, sua madre, non era mai stata con lui quanto
sarebbe bisognato. Da piccino egli s’era sempre trattenuto ora con la
sua governante, donna di mente ottusa e di sentimenti volgari, ora con
una sua vecchia parente, che mostrandogli soverchio affetto, lo educava
male e lo viziava goffamente. Dagli otto ai dodici anni era stato
affidato a un certo pedagogo, che ogni giorno, a quell’ora precisa, lo
conduceva a dar il buon giorno alla mamma; poi in chiesa a servire la
messa; indi a casa a far colazione, studiare i rudimenti del latino,
ripassare l’albero genealogico della famiglia; che dopo desinare
lo menava al passeggio, e daccapo in chiesa, al rosario; infine a
risalutar la contessa e a letto.

Il giorno stesso in cui compiva dodici anni, suo padre lo aveva
presentato all’ufficio del soldo, e così era entrato nell’esercito,
prima soldato, poi cadetto, poi ufficiale; seguendo le guarnigioni,
addestrandosi negli esercizi militari, adempiendo sempre con voglia
e con cura le incombenze che gli venivano assegnate. Era scoppiata la
guerra, ed egli...

Qui tacque, si morse il dito, e alzandolo, lo scrollò minaccioso. Si
calmò quasi subito, lasciò cadere le braccia, piegò il collo, come se
quell’assalto di passione, provocato da memorie amarissime, lo avesse
spossato.

— Basta — ripigliò poi, con voce sommessa, — tiro via, che adesso non
mi vo’ confondere con certi pensieri. Tutto muta nel mondo, e verrà
pure il tempo in cui i padri e le madri non terranno più lontani da sè
i loro figliuoli; non si contenteranno più d’ammetterli ad ore fisse
a una udienza di formalità, introdotti dall’aio, dall’aia, dal prete,
dal servitore, dalla cameriera ad offrire una specie d’omaggio di
sudditanza... Non so se le cose vadano da per tutto così...

— No! — esclamò Ughes — no che non vanno da per tutto così. Ve ne sono,
sa, delle madri che si rammentano che Dio pone nelle loro mammelle
il cibo dell’infanzia, e non isdegnano affatto d’essere le nutrici
dei loro piccini; padri che li menano seco al passeggio quando son
grandicelli; case nelle quali i figliuoli conversano gaiamente con chi
è del sangue loro, e ricevono insegnamenti, ammonizioni, carezze da
labbra e da mani che sono loro care.

— Lei pensa ai suoi? — chiese il contino.

— Il babbo è morto l’anno in cui son nato; e non avevo ancor l’uso
della ragione quando morì la mia mamma.

Vi fu un silenzio. La quiete solenne componeva i loro cuori a soave
mestizia; destava in loro un turbamento di affetto che non avrebbero
saputo esprimere.

— Mia madre è buona, però — mormorò Massimo, raumiliato, pentito del
suo sfogo, — tanto più buona di me. E mi ama veramente. Anche mio padre
mi vuol bene... Ma, santo Dio, con lui bisogna rigar diritto, troppo
diritto!... E il troppo stroppia!




V.


Era il gran giorno, quello in cui doveva aver luogo il pranzo che la
contessa Claris offriva ai signori ed ai preti del contorno. Don Prato
arrivò tutto trafelato all’ingresso del viale, mise la mano al taschino
e non vi trovò l’orologio. Si ricordò subito che l’aveva lasciato sul
cassettone. Meno male, non l’aveva perduto; ma intanto si trovava al
buio!

Era tardi? Era presto? Gl’invitati erano già entrati? Avevano ancor da
giungere? Come fare a saperlo? — Si levò il cappello, e asciugandosi il
viso col fazzoletto e soffiando, considerò il cancello e le finestre
della villa. — Uhm! Andar avanti e arrischiar d’essere il primo?... E
se la contessa, l’illustrissima signora contessa, fosse ancor nelle sue
stanze? Disturbare, frastornare una dama di quel calibro! Far la figura
dell’affamato con la servitù! Oibò, oibò!... Ma l’idea di presentarsi e
veder tutti a tavola, gli metteva i brividi fin nei capelli. Egli era
sempre venuto col cappellano della Madonna, timido come un coniglio
anche lui, e si facevano animo a vicenda. Ma il poveretto era morto
sei mesi prima. Si sentiva il cuor piccolo e riboccante di dubbi: —
Aveva poi capito bene? L’invito era poi davvero per quel giorno? E per
mezzodì?

— Piovono novità da tutte le parti — diceva tra sè; — le mode cambiano
secondo i gusti o i capricci, non potrebbe darsi che nelle case
aristocratiche quest’anno si pranzasse alle tre, come si pranzava una
volta? Bene; e se invece or fosse in uso l’anticipare? Questa è pur una
gran tribolazione!

Sedeva or sull’una or sull’altra delle panche che si facevano
riscontro; s’avviava verso il cancello; tornava sulla strada, guardava
a destra ed a sinistra, ora gemendo, ora bofonchiando.

Ad un tratto sentì un chiasso di voci allegre e, quasi nel medesimo
tempo, vide venir avanti una piccola brigata composta di quattro
uomini e di una donna. Questa era una brunetta, molto elegantemente
abbigliata, e pareva piena di brio e d’una certa arditezza. Le stavano
ai fianchi due giovinotti attillati, leggiadri, disinvolti, pronti ad
assisterla nei passi difficili.

Così la sostenevano quando trovavano sassi od ingombri, l’alzavano
da terra ove fosse polvere, fango o pacciame. Li seguiva il cicisbeo
in titolo, dispensato dai servigi ordinari e forte del suo diritto di
porgere il braccio alla dama a tempo opportuno. Veniva ultimo, tutto
flemma, il marito, percotendo le frasche con una graziosa mazzettina
d’ebano guernita d’argento.

Voltarono nel viale; ma prima di entrar nel cortile, i due minori
serventi posero a terra un ginocchio, e la bella donnetta favorì l’uno
con l’appoggiargli una mano sulla spalla, mentre accordava all’altro la
grazia di spolverar le scarpette.

Don Prato, pensando non si convenisse ad un prete entrare con una
compagnia così allegra, aspettò.

Dalla parte di Polonghera arrivò un legnetto scoperto, tirato a
sghimbescio da un gran cavallo grigio. Vi stava rannicchiata una coppia
di vecchietti pomposi: il maschio in parrucchino ad ali di piccione,
con un abito verde-porro ed un panciotto marrone; la femmina con una
veste cangiante ed un cuffione alto mezzo metro, adorno di sgonfi e di
gale.

Il parroco salutò e indugiò ancora. Vedeva avvicinarsi, tenendosi con
gran riguardo nel mezzo d’una via traversa che faceva capo alla strada,
un gentiluomo di bella presenza; questi portava il suo cappello sotto
il braccio, per non sciupare la mirabile anellatura del crine, e si
riparava dal sole con un ombrello di seta; non si discerneva che cosa
diavolo avesse intorno alle gambe.

— Stivali non sono — diceva il parroco, sbirciandolo così da lontano,
— ghette nemmeno; paiono fogli di carta... E lo sono! Ha i piedi e le
polpe rinvolti e legati in tanti fogli di carta. Uhm! ecco una moda che
non abbellisce nessuno.

Il nobil signore si approssimò, rispose alla levata di cappello del
prete; sostò e, sciolte speditamente le sue estremità impacchettate,
tirò avanti lindo e illibato come se uscisse in quel mentre di casa.

Don Prato, che ora non temeva più di arrivar troppo tardi, pensava
già a superare le difficoltà dell’entrata; era sempre un affare, nella
confusione del primo momento, discernere la padrona di casa tra l’altre
dame e andar diritto a lei, senza scambiare. Decise di prendere il
gentiluomo per guida; gli si cacciò dietro, entrò con lui nel salotto
ov’erano quelli che li avevano preceduti. Si sentì subito sollevato,
scorgendo che la compagnia era assai minore degli altri anni.

Egli non aveva ancor finito di far riverenze, quando l’uscio della sala
da pranzo fu aperto, e si vide la tavola bellamente apparecchiata.

La contessa prese il braccio del cavaliere Mazel e andò a mettersi
dirimpetto all’uscio dal quale entravano i piatti. Tutti gli altri
presero posto a piacimento. Si recitò il _benedicite_; e, fatto il
segno della croce, ciascuno ricambiò coi vicini un saluto e l’augurio
d’un buon appetito. Cominciò allora l’andirivieni silenzioso dei
servitori, il tintinnìo riguardoso delle posate, l’acciottolìo prudente
dei piatti.

La tovaglia e i tovagliuoli erano finamente damascati; la porcellana
di Sassonia, di ricca e graziosa fattura; ma dell’antica stupenda
argenteria di casa Claris, non si vedeva più che quello ch’era
strettamente necessario. Il conte e la contessa avevano ottemperato con
vero zelo al Regio Editto del 14 ottobre 1792, nel quale si ordinava ai
sudditi tutti, come pure ai luoghi pii, chiese e monasteri, di mandar
alla Zecca il metallo prezioso superfluo. Non v’erano poi sulla mensa
nè bottiglie, nè bocce, nè bicchieri. Due domestici a ciò designati,
s’accostavano a chi accennava, porgendo sur una sottocoppa calici
e ampolle. Un altro, abbigliato severamente di nero, attendeva a
trinciare. Il maestro di casa soprintendeva al servizio.

La contessa Polissena, in capo di tavola, aveva a destra il bel barone
Nizzati, a sinistra il cavaliere Mazel; a un lato sedeva la vispa
contessina Acquadro, coi suoi tre patiti; all’altro il conte Acquadro,
Massimo Claris, la veneranda dama Ghigliestra col venerando marito;
in fondo stavano don Bonhomine, don Prato e un altro prete, certo don
Macari da Racconigi.

I tre reverendi mangiavano appetitosamente, in silenzio; mentre la
conversazione cominciava alquanto ad animarsi qua e là. La bruna
contessina ora interrogava l’uno dei damerini con una paroletta
discreta; ora rispondeva all’altro con una risatina sommessa;
cinguettava un momento col terzo; e, di quando in quando, chinava la
testolina vezzosa, come per concentrarsi in sè stessa, poi la rialzava
pian piano e fissava Massimo con due occhi scintillanti e procaci.

Ma il contino non le dava alcun contraccambio; mangiava poco, parlava
meno e pareva facesse tutti i suoi sforzi per attendere a quanto gli
dicevano il conte Acquadro e la vecchia dama, fra i quali sedeva.

Il vassallo Ghigliestra, poi, era pieno d’una voglia che non lo
lasciava ben avere. Uomo ambizioso, ma di poca accortezza, non aveva
saputo porsi vicino alla padrona di casa ed ai cospicui signori che le
stavano a lato. Sentiva in confuso che parlavano del Re, della real
famiglia, della Corte, dei ministri, del gran mondo; e s’immaginava
che s’andassero comunicando Dio sa quali notizie curiose ed importanti.
Poterne afferrar qualcheduna e portarla con sè a Lombriasco!

C’era di che farsi un bell’onore coi maggiorenti del paese! E li
vedeva, colla fantasia, tutti raccolti sotto il suo pergolato, attenti
a lui solo, come contadini alla predica. Perciò si sporgeva, e, mirando
la contessa Polissena, inarcava le ciglia e arrischiava di tanto in
tanto qualche sorrisetto, qualche cenno del capo, secondo la frase o le
parole che gli veniva fatto di raccapezzare.

Parendogli poi venuto il momento di far sentire anche la sua voce:

— Mi gode proprio l’animo — diss’egli, mellifluamente, — mi gode
proprio l’animo nel sentire che il nostro amatissimo Sovrano s’è
rimesso bene in salute.

Siccome s’era detto per l’appunto il contrario, nessuno rispose. E
poichè il marito aveva parlato, la moglie volle seguirne l’esempio.

— Ah! — diss’ella — bisogna che sia robusta davvero Sua Maestà, per
star bene con tanti pensieri, tante cure, e in tempi come questi!

— Tempi brutti, tempi calamitosi — brontolò don Bonhomme, col naso nel
piatto.

— Il frumento si paga lire otto l’emina — riprese flebilmente la dama,
— il miglio lire nove, i ceci dieci, le lenticchie dodici. La gente
soffre e si lamenta; non sa con chi sfogarsi e se la piglia con noi.

— In questo ha torto — disse il conte Acquadro; — ma chi ha fame
non ragiona. Credo però che bisognerà prender presto qualche nuovo
provvedimento.

— Se ne son già presi tanti — osservò il barone Nizzati.

— Per questo ho detto _nuovo_, qualche _nuovo_ provvedimento. Tutto
accenna a rincarare.

— Però io non capisco! — esclamò la contessina vivace. — Perchè non
mangiano pane e formaggio? Piuttosto che patire! Non è poi una cosa
tanto cattiva, pane e formaggio!

— Infatti! — mormorò Massimo, con ironia.

— La difficoltà forse sta nell’averne — susurrò la contessa Polissena,
col suo sorriso fine.

— Non si stenta solamente nelle campagne — disse il marchesino Canalis,
che sedeva a sinistra della Acquadro. — Si stenta anche nelle città.

— A Saluzzo c’è perfino un po’ di fermento! — esclamò il cavalierino
Gausier, che sedeva a diritta.

— Saluzzo è niente — disse il giovane conte Di Pranero, suo vicino, —
m’hanno scritto da Asti...

— Ma che Asti! Che Saluzzo! — interruppe Canalis. — È la capitale
che bisogna vedere. La capitale che è come dire la testa dello Stato.
Un braccio, una gamba si possono tagliare, ma quando il male è nella
testa... Sabato scorso ho visto una scena che mi ha fatto impressione.
Ero andato a Torino, così senza proposito, per trattenermi un poco e
tornare alla Prata. Trovo Giacinto Violant sotto i portici che m’invita
a colazione con Di Cimalta, La Torretta e Spadafora; alle frutta capitò
poi anche Francastel. Eravamo ancora a tavola e si chiacchierava,
quando ci parve di sentire rumore in istrada. Andiamo alla finestra
e vediamo molta gente che si accalcava davanti al forno che sta
dirimpetto al portone; voleva del pane per una donna ch’era caduta
per terra e non dava segno di vita. Il fornaio, ritto sull’uscio, si
sfiatava a dire con la mano al petto che a quell’ora non aveva più in
bottega neanche una crosta; ma si insisteva, si alzava la voce; alcuni
cominciavano anche ad alzare le mani. Allora Francastel, sapete che
è un po' matto, cosa fa? Corre alla tavola, piglia una pagnotta e la
getta, gridando: — Ecco qui, ecco qui, fatele mangiar questa! — In un
battibaleno tutta la marmaglia fu sotto il palazzo. Nessuno pensava
più alla donna, ciascuno chiedeva per sè. Si buttò giù tutto il pane
avanzato; si fece portar quello che c’era in dispensa. Bisognava
vedere che barabuffa, che parapiglia! Erano tre, quattro, sei, dieci
a disputarsi ogni tozzo come disperati; facevano a pugni, a calci, a
graffi, a morsi. Violant ne aveva trovata una: mirava diritto al viso,
lui, e di tutta forza...

— Euh! — fece Massimo, con i denti stretti, tagliuzzando qualche cosa
che aveva nel piatto. — Come vorrei esser stato presente! E l’avete
lasciato fare, voialtri?

— Figurati se non glie l’ho cantata chiara! Il popolo bisogna lasciarlo
cuocere nel suo brodo, come diceva ieri la mia signora nonna.

— Sicuro — mormorò la Ghigliestra — adesso bisogna guardarci bene da
provocar lo sdegno della bassa gente.

— Tanto più che c’è chi l’aizza — aggiunse Canalis.

— Eh, ma la polizia vigila — disse Nizzati. — Non temete.

— Io ho sempre una gran paura dei ladri, dei banditi, dei briganti —
mormorò la contessina, rabbrividendo graziosamente. — Cosa volete? non
mi sento sicura se non ho con me almeno tre uomini.

— I banditi! i briganti! — saltò su il marito. — Cosa vuoi che ti
facciano? Sono i facinorosi, le teste calde che mi tengon sempre in
pensiero. E ce n’è da per tutto.

— Ma la polizia li vigila — ripetè Nizzati, con gran convinzione.

— Siamo d’accordo, pienamente d’accordo; ma forse bisognava cominciare
un po’ prima.

— Molto prima! — esclamò Mazel. — Almeno sette od otto anni fa. E
mettere in pratica il consiglio che il mio caro amico, il marchese di
Cordon, dava al Re al tempo dei torbidi di Vercelli: — Maestà faccia
impiccare, faccia impiccare, faccia impiccare, e tutto sarà quieto. Ah
se a Parigi avessero fatto così! — Vi ricordate, Nizzati?

Don Macari alzò quella sua testa sbiancata, emaciata così da lasciare
distinguere sotto la pelle i contorni delle mandibole e l’ossatura del
cranio; i suoi occhi lampeggiavano sinistramente.

— Ehehe! — fec’egli con voce nasale — siam rovinati, se Dio non ci
provvede. Bisognava combattere le radici del male. Ormai le gazzette
arrivano da per tutto; son lette persin dai contadini. Poi ci sono le
adunanze massoniche. E poi, e poi, e poi... Insomma per quanto faccia
la polizia, gli aderenti a quel vertiginoso, scellerato sistema che ha
messo in combustione gran parte dell’universo, aumentano sempre più.
Nei nostri paesi, quando non è giacobino il notaio, lo è il maestro di
scuola; quando non lo è il medico, lo è lo speziale...

S’interruppe e rivolgendosi a don Prato con un’aria cupa e maliziosa,
soggiunse:

— A Murello poi son giacobini tutti e due.

Il parroco, che masticava gagliardamente, si scosse e guatò don Macari.

— Già — balbettò poi — ma... ma bisogna distinguere.

— Cosa volete distinguere? — domandò l’altro quasi ruvidamente. — Non è
più il tempo di fare distinzioni.

Le orecchie di don Prato diventarono purpuree.

— Santa pazienza! — diss’egli — lasciamo star Bechio, che, con
riverenza parlando, non è che un bestione; ma io dico così che se
tutti i giacobini fossero come sor Luigi, cioè come il dottor Ughes, si
potrebbe... si potrebbe...

— Toh! — fece bruscamente il cavaliere Mazel — Ughes, eh? Adesso mi
ricordo: Iunod, Chantel, Pico, Cerise, Botta, Pelisseri, Ughes, e via
dicendo. Insomma uno dei fanatici del ’94. Con quel viso? Con quel
fare? Fidatevi dell’apparenza! Cospetto, cara contessa, siete stata
nelle mani d’un congiurato; dovete il miglioramento della vostra salute
a un fautore d’idee democratiche a tutta oltranza!

La dama Ghigliestra giunse le mani e alzò gli occhi per ringraziare il
cielo, che aveva scampato la contessa da tanto pericolo. Domandò poi:

— E adesso è qui?

— Adesso è a Murello — rispose don Macari; — in grazia dell’amnistia.

— Tu non sapevi niente? — chiese la contessa Polissena a suo figlio,
affissandosi in lui.

Massimo crollò il capo.

Don Prato si andava contorcendo sulla sedia, guardava attorno
sottecchi, si asciugava la bocca ad ogni momento, martoriato
dalla brama di dire ancora qualche cosa in difesa di sor Luigi, e
dall’ossequio ai nobilissimi interlocutori.

— Basta — susurrò finalmente, approfittando d’un momento di silenzio —
non ch’io voglia portarlo in palma di mano, ma giurerei che è cambiato,
che non la pensa più come una volta. Prima di tutto ha preso moglie...

A queste parole, alcuni dettero in una grande risata:

— Bravo, don Prato! Bravo, bravissimo!

— Ecco trovato il mezzo di acquietare i novatori — disse Nizzati.

— Un mezzo infallibile — aggiunse Acquadro: — ammogliarli tutti!

— Per amore o per forza! — gridò Gausier.

— Li vedremo metter subito il capo a partito — riprese Acquadro. — Ma
bisogna spicciarsi.

— Il male è questo — gemette la vecchia dama, — che gli ammogliati alle
volte sono peggiori degli scapoli.

— Non importa — disse Mazel, — si può provare.

— E sentiamo un po’ — domandarono Canalis e Di Pranero. — Com’è la
giacobina?

— Ah! bella — rispose Mazel. — Cospetto! La veste rosa, non è vero,
Massimo?

Massimo maneggiava un bel coltellino di _vermeil_ dal manico di
porfido, come fosse stato un pugnale; e mentre i visi dei commensali
erano lieti e, qual più e qual meno, coloriti di benessere, il suo era
pallido; gli errava sulla fronte e nella guardatura un’ombra scura di
malcontento.

Faceva caldo là dentro, benchè le finestre fossero già state aperte, e
si cominciava a respirare male.

La contessa Polissena posò sulla tavola il suo tovagliuolo, girò
l’occhio intorno, mosse leggiermente la sedia; s’udì per un istante il
ronzìo delle mosche rifugiate tra i viticci della lumiera dorata. Il
cavaliere Mazel fu tosto in piedi, col capo chino, col braccio curvato
in dentro, davanti alla sua dama. Ella si alzò, si pose con lui innanzi
a tutti, per indicare la via.

La bella comitiva passò per un ridotto tutto bianco con contorni
a oro, dove pendeva e regnava un gran ritratto al naturale del
defunto Vittorio Amedeo III, uscì in giardino e andò alla cupola
verde che stava nel mezzo. Il caffè, versato allora nelle chicchere,
profumava l’aria tutt’intorno alla gran tavola di pietra. Fu sorbito
prestamente dagli uni, lentamente dagli altri, gustosamente da tutti.
Poi la contessina Acquadro scappò, seguita dai suoi adoratori, verso
l’altalena, che sorgeva nel centro d’un praticello, all’ombra di certi
bellissimi alberi.

Le altre due gentildonne, più contegnose e mature, rimasero
tranquillamente sedute; mentre il conte Acquadro, il barone Nizzati, il
vassallo Ghigliestra e don Macari si strinsero in disparte in crocchio
politico. Mazel ora si accostava e si tratteneva un momento con loro,
ora andava a dare un’occhiata dalla parte dell’altalena; ma ritornava
sempre, senza indugio, vicino alla sua dama, caso mai si presentasse
qualche gradita opportunità di servirla.

La moglie del vassallo raccontava la storia d’un suo vecchio fratello,
comandante d’un borgo remoto, dove l’aria era cattiva e pessimo
il vino; si trattava di far noto il gran desiderio che aveva colui
d’essere trasferito più vicino alla capitale, ma ella non osava parlar
chiaro e andava per le lunghe noiosamente, e non la finiva con le
digressioni, le circonlocuzioni, le pause.

— Un uomo che finchè fu giovane ha servito il paese nella milizia...
e sempre con onore... La rivalità d’un superiore lo fece cadere in
disgrazia, sicchè non ottenne mai gli avanzamenti che si meritava...
Non li ottenne proprio mai! Poveretto, e adesso ch’è vecchio gli tocca
fare una vita!... L’ho già detto, eh, che ha coltura, dottrina? Non è
mica solamente un soldato, un _sabreur_: mi scrive delle lettere che
non finiscono più... Ma il suo forte sta nella musica. Se sentisse,
contessa, come tocca il cembalo! È poi anche molto abile in fare
la calza, e potrebbe competere con una donna... Non dico questo per
fargliene merito, lo dico perchè è la pura verità.

La contessa accennava di tanto in tanto del capo mostrando d’intendere
appieno; ma aveva il pensiero rivolto a tutt’altro.

I politicanti stavano tutti e quattro con la testa alta, col petto
in fuori, con aria di gravità e d’altura, quasi che da quel colloquio
potesse nascer cosa di gran conseguenza. Parlavano moderando la voce
e il gesto, da persone bennate, implicitamente e incondizionatamente
d’accordo. Tenevano in mano le lor tabacchiere; or l’uno or l’altro
batteva la sua e l’offriva aperta ai compagni. Seguiva un coro di
rumori nasali, un lungo scoccar di dita nelle gale del petto.

Don Prato e don Bonhomine giravano passo passo intorno alla
vasca, chiacchierando bonariamente del più e del meno, e cercando
d’intravvedere qualche pesce.

— E Massimo? — pensava la contessa, che nè lo vedeva, nè distingueva
la sua voce fra gli strilli, le risate, le esclamazioni di tripudio e
di maraviglia che scoppiavano nel prato. — Che cosa fa? Dove può essere
andato?

Massimo, che alzandosi da tavola moriva di voglia di star un po’
solo, aveva prima pensato di chiudersi in camera, poi invece s’era
semplicemente sdraiato sul piccolo canapè del ridotto. Maledetto
pranzo! Senza di questo, egli se ne sarebbe andato tranquillamente
a Murello. Poteva darvi almeno una scappata e tornare prima che gli
invitati lasciassero la villa? Adagio un po’: per un ufficiale, per
un nobile, per un giovane appartenente a una famiglia che tributava
alla monarchia un culto quasi divino, frequentare la casa di Ughes,
diventava adesso una cosa assai grave. Adesso, pur troppo sapeva chi
egli era!... Ma, santo Dio, lo sapeva anche prima! A che negare! Appena
conosciuto il medico, appena udito il suo nome, aveva immaginata
la verità, perdendola poi tosto di vista, incantato, rapito dalla
bellezza di Liana, dalla dolcezza dei suoi modi. Ecco: il pensiero
di lei l’aveva occupato subito tutto, abbacinandogli e gli occhi e
la mente. Che fare, ora che non era più lecito conservare neppure
l’ombra d’un dubbio? A che partito appigliarsi? Poteva sperare
che il medico avesse cambiato opinioni? Sentiva bene che non era
possibile. Doveva renderselo benevolo, amico, guadagnarne l’animo e
cercar di convincerlo? Ardua impresa! Ughes era riservato, sagace,
troppo superiore d’ingegno e di forza... E intanto che rispondere
alla contessa, se lo avesse interrogato? Che opporre nel caso in
cui gli avesse vietato di tornare a Murello? Come mettere d’accordo
la sommissione, il timor figliale con la brama di continuare
a veder Liana? Non era forse un pretendere di voler conciliare
l’inconciliabile?

Si sentiva pieno il cuore d’un’incertezza, d’un’angustia indefinibile,
parendogli vedere anche in questo l’infallibile indizio d’una fatalità
che lo perseguitasse.

— Basta — diceva tra sè — mi governerò secondo le circostanze...
Vedremo stasera... Vedremo domani.

Cercò col pensiero qualche altra cosa importante, per applicarvelo
tutto; non ne trovò nessuna. Non potendo distrarre la mente, volle
almeno occupare gli occhi: si rizzò a sedere e si affissò nel ritratto
del Re, che pendeva dalla parete di contro. L’aveva sempre veduto lì, e
non s’era forse mai fermato a guardarlo. Chi sa perchè? Non s’intendeva
di pittura e non poteva giudicar dal suo valore come dipinto, ma gli
pareva pure assai grossolano. Era almeno rassomigliante? — Sì e no.

Vittorio Amedeo era rappresentato con una piccola testa bianca e rosa,
dai lineamenti spiccati e sottili, dalla fisonomia lieta, piacente,
graziosa, posta sur un corpo grande e robusto, atteggiato da despota.
Ritto in piedi, appoggiava la destra sur un bastone scarlatto, seminato
di croci; nella sinistra, arrovesciata sul fianco, stringeva i guanti
rabescati, di pelle. Portava un abito rosso di nobil tintura, con
rivolte turchine; una sottoveste turchina, l’uno e l’altra riccamente
gallonati d’argento. Una gran sciarpa azzurra gli cingeva la vita;
una tracolla dorata sosteneva la sua spada; e non gli mancava nè il
collare della SS. Annunziata, nè la croce dei Ss. Maurizio e Lazzaro in
mezzo alla corazza. Le gambe calzate di ghettoni attillati e guerniti
di sproni, si disegnavano scure sulla porpora d’un manto amplissimo,
foderato d’ermellino, scendente con inverosimile ragione di pieghe da
una tavola d’oro, fra un barocco affastellìo di emblemi.

Il giovane, davanti a quell’effigie, ch’era stato abituato a
considerare come il simbolo d’un’autorità sacra e illimitata, smarriva
insensibilmente ogni idea del presente, si sentiva avvolto in un
movimento confuso di ricordanze lontane.

Si vedeva piccolino, condotto a spasso dalla governante sotto i portici
della contrada di Po. Il tempo era dolce e piovoso. Ad un tratto la
gente cominciava ad agitarsi; correva di bocca in bocca una voce: —
Il Re! il Re! — La governante si fermava, e gli metteva prestamente
in mano il cappello. Re Vittorio, _barba Vittorio_, come lo chiamavano
tra loro i soldati, compariva e veniva avanti col collo un po’ torto,
come il gran Federico, su cui si modellava; con una divisa militare
semplice e usata; accompagnato da un sol gentiluomo; seguìto da due
soli camerieri in modesta livrea.

La folla riverente faceva posto, ed egli a ringraziare con atti e
sorrisi, con un viso che pareva dire: — Sicuro, sì, sono Sua Maestà, ma
amatemi pur tutti come un padre!...

Infatti nelle cose tutte della città, del piccolo Stato quieto, si
sentiva in quel tempo larga e paterna l’ingerenza reale. Nel nobile
ceto poi nulla si deliberava, nulla si faceva senza riferirsi alla
suprema autorità. Non passava giorno senza che Massimo udisse nominare
il Re; in casa, a proposito di questa o di quella faccenda domestica;
fuori, dai parenti e dagli amici, a proposito di questo o di quel
partito da prendere.

Rotta la guerra, per lui subito questo nome era diventato sinonimo con
quello di patria.

L’aveva gridato tante volte in battaglia, mentre intorno intorno la
Morte menava freneticamente la falce. E come aveva sofferto quando
gli era parso di vedere che il Re, il suo Re, non si mostrava della
casa ond’era nato, e piegava la fronte, invece di alzarla arditamente
e provare di avere per nulla il destino; come aveva fatto novant’anni
prima un altro Vittorio Amedeo, al quale pure non era rimasto altro
bene che la sua spada e le sue pistole!

Ma il povero Re era morto, ed egli ora gli rendeva giustizia. Alla fin
dei conti aveva saputo sostenere quattro anni di guerra contro ai primi
soldati d’Europa; mentre doveva guardarsi e dall’alleato che gli stava
a tergo, e dai rivoluzionari disseminati per tutto.

E Luigi Ughes era stato uno di questi!

Balzò in piedi, uscì nel cortile, poi nel viale, poi nei campi. Andò
vagando a lungo, senza direzione, senza riuscire a dar corso alla
passione che lo agitava.

Tornò a Robelletta che già principiava a farsi buio. Fastidiose a udire
in quell’ora, aspre voci si rispondevano da lontano.

Trovò al cancello il maestro di casa, che pareva lo aspettasse.

— Quei signori sono andati via che sarà un’ora — prese a dire costui.
— Poi è arrivato un corriere a spron battuto. Ho l’ordine di avvertire
il signor contino, che la signora contessa desidera di vederlo. Devo
anche...

Ma il signor contino s’era già lanciato su per le scale.

La contessa Polissena aveva il lume e stava scrivendo.

— Sei tu? — diss’ella, senza voltar la testa. Indicò un foglio che
aveva vicino e soggiunse: — Ecco una lettera di tuo padre. Leggi
l’ultima pagina, c’è urgenza.

Massimo, preso il foglio, cercò, trovò e lesse.

V’era scritto:

  «Ieri, Iº del mese di giugno, il Re si portò con la Regina, con
  sua zia, e col Duca di Monferrato dal castello della Veneria,
  ove si trovano in campagna, al castello di Rivoli a fare una
  visita al Duca d’Aosta ed alla Duchessa, che ivi si trovano a
  villeggiare. Dopo pranzo partirono per ritornare al loro soggiorno.
  Appena arrivati alla Veneria, il Re ricevette una staffetta da
  Torino, spedita per avvertirlo che sulla strada che doveva fare,
  lo aspettavano certi sediziosi armati, con uno scritto in mano,
  calamaio e penna, per forzarlo a firmare un atto di rinunzia
  a favore del popolo, ed in caso di resistenza da parte sua,
  lo volevano rapire e condurre nella Cittadella di Torino, non
  aspettando la città altro che questo per rivoltarsi. O la staffetta
  partì troppo tardi, o il Re e i suoi partirono da Rivoli troppo
  presto; il fatto fu che essi passarono per quel luogo, ov’erano i
  detti sediziosi armati, e questi non li videro o furono sbigottiti
  da qualche cosa veduta. Nella carrozza erano i soli quattro
  sunnominati, con qualche servo, ma senza alcuna scorta di soldati o
  di guardie. Sua Maestà crede questa cosa un vero miracolo o almeno
  una grande grazia della Madonna SS.ma, imperocchè alla voltata
  della strada grossa di Rivoli, d’onde s’introducevano in istrada
  più solitaria e poco battuta, uno di loro suggerì agli altri tre di
  recitare il Rosario, cosa che fu da tutti accettata con piacere.
  Stanotte e stamattina sono già stati arrestati alcuni dei detti
  malandrini, venendosi sempre più in chiaro dell’attentato che
  meditavano, ma i più colpevoli la scamperanno pur troppo.

  «Il paese è agitatissimo per i guai di questi tempi, e ritengo
  _qu’avant peu nous aurons du fil jacobin à retordre_.

  «Vi prego di salutare Mazel, e di partecipare a Massimo, per sua
  regola, che lo attendo a Torino nel più breve tempo possibile,
  poichè da un momento all’altro si può avere bisogno di lui.

                                                  «Son tutto vostro
                                                 «ANNIBALE CLARIS».




VI.


— Liana! — disse Ughes, ritto sull’uscio. — Se tu vedessi che nuvola!
Sembra un animale favoloso: un drago, un grifone. Era bruna e adesso
s’è fatta di fuoco; tutta di fuoco sur un cielo verdognolo... Un brutto
cielo anche, un cielo da cataclisma.

Liana si avvicinò pian piano, gli venne a fianco senza aprir bocca.

Ughes voltò subito il viso e la guardò attentamente.

— Tu non ti senti bene? — chies’egli.

— Benissimo — rispose Liana.

— Tu hai qualche cosa?

— Ti assicuro che non ho niente.

— Allora vieni, facciamo due passi.

— Scusa, ma stasera voglio proprio scrivere al babbo; e scrivergli un
po’ lungamente, come ho promesso e non ho ancora fatto. Domani è giorno
di posta.

Ughes si trasse di tasca alcune lettere, ne scelse una, la mostrò
a sua moglie: era uno scritto di Massimo, conteneva un breve, un
singolarmente breve saluto.

Liana, che l’aveva già letta alla mattina, vi diede appena un’occhiata.

— Ebbene? — diss’ella freddamente.

— Eccola qui, la causa del tuo malumore! — esclamò il marito, celiando.

— Può darsi... Anzi, non nego: questa partenza così inaspettata m’ha
fatto una certa impressione.

— Vedi! Il contino veniva qui tutti i giorni, ti stava attorno, si
mostrava devoto, e volere o no...

Liana battè un piede a terra.

— Lasciami dire — ripigliò concitata. — Sì, questa partenza mi ha
fatto impressione, ma sai perchè? Perchè mi giunge come un presagio, un
avviso o una minaccia del cielo.

— Oh questa è bella! Mi spiegherai almeno l’enigma.

— Impossibile! Come vuoi spiegare?... La stessa cosa che oggi vi
cagiona un effetto nel cuore o nello spirito, te ne cagionerebbe un
altro domani... Alle volte si sente come un urto, o solo un contatto
leggiero... Di chi? Di che? Non si sa, non si capisce, non se ne può
ragionare, eppure vi resta nell’anima una malinconia, un’uggia tenace
e confusa... Anche tu, un momento fa, mentre guardavi il cielo, hai
avuto un brivido come quando si dice che passa la Morte. Ho visto
benissimo... E adesso vado, per non far tardi.

Rientrò nel salotto.

Ughes stette un momento con la fronte aggrinzata, come per una
contrazione dolorosa, poi si voltò:

— Sono ancor qui! — disse Liana, con voce soffocata. — Sono ancor qui!

E gli si slanciò nelle braccia.

Le loro anime, in quel punto, si unirono come due fiamme accostate, si
trasfusero l’una nell’altra, formarono un’anima sola. Dopo un abbraccio
lungo, appassionato, che pareva non dovesse finir più, si separarono
quasi bruscamente, senza articolare parola.

Ughes saltò giù dalla soglia, andò a sedere in faccia alla finestra
di sua moglie, sotto il cipresso ch’era dietro alla casa. Un non so
che di vivo, di forte saliva dal petto alla gola, agli occhi e glieli
inumidiva. Li chiuse per assaporare più intensamente la sensazione
inenarrabile; quando li riaprì, la finestra era illuminata. Liana era
là; Liana eternamente sua. Che bene puro e verace! Che campo immenso si
apriva davanti a lui giovane, forte, libero e felice!

Immaginava l’avvenire. Dove sono uomini, son guai, contrasti, dolori:
si sentiva pronto ad affrontar tutto, a sopportar tutto. Lotte contro
vecchi pregiudizi, vecchi errori, vecchi sistemi; lotte contro i
profanatori del tempio, contro gli smoderati distributori di specifici
senza sufficienti cognizioni scientifiche e senza raziocinio. I
suoi antichi compagni di studi lo guardavano meravigliati, poi
cominciavano a disapprovare, a schernire. I medici vecchi sogghignavano
e alzavano le spalle. Si trovava anche chi gli buttava addosso fango
ed ingiurie... Era una vita laboriosa, piena d’ansie e di timori, ma
quanto viva di liete speranze! — Liana non gli stava forse sempre
vicino? Si sentiva stanco, scorato, abbattuto? Una sua parola, una
carezza, e il sangue tornava a scorrer caldo nel cervello e nel cuore.
Avanti, avanti, avanti! E finalmente riusciva a vincer la prova. Non
poteva determinare ancora in che dovesse consistere la sua vittoria.
In una scoperta destinata a salvare migliaia, milioni forse di vite?
Oppure in una nuova dottrina saldamente fondata nei suoi principii,
validamente sostenuta dall’esperienza e dalla pratica, applicata con
prudenza e con senno, proclamata con alta e sicura parola?

Si concentrò tutto in cotesti pensieri.

Il tempo passava. Sotto la luce lunare, il giardino pareva pieno d’un
vapor latteo, trasparente e leggiero; pieno d’un silenzio arcano e
vivente; già pieno di quell’inesprimibile senso di speranza e d’attesa,
che rende incantevoli le notti d’estate.

Improvvisamente s’udì un mormorìo, poi una voce acuta ed ingrata.

— Dottore! Ehi, dottore, dottore!

Ughes scattò in piedi, con l’idea di non rispondere, di celarsi anzi,
addopandosi dietro al cipresso; poi pensò che lo speziale aveva forse
urgente necessità di parlargli; che non trovando lui avrebbe certo
disturbato sua moglie.

— Eccomi! — rispos’egli. E quand’ebbe voltata la cantonata, soggiunse
seccamente: — C’è forse qualcuno che ha bisogno di me?

— Neppur per sogno! — rispose Bechio. — La stagione è bella, le
malattie son poche e leggiere. Lei lo sa, eh? Oh poi, se c’è un
paese in cui si potrebbe far senza del medico, quest’è Murello. Un
veterinario o un flebotomo, e non occorre altro. Diavolo! Abbiamo
un chirurgo che fa le amputazioni a meraviglia con un semplice
coltellaccio da cucina. È vero che per liberarvi d’un callo, lui vi
taglia il dito, ma è perchè gli tremolano già un poco le mani. Poi ci
sono io e la mia bottega sempre in ordine. Cosa si vuole di più?

Rientrarono nel salotto e andarono a seder presso la tavola, sulla
quale stava una lucerna e il solito vassoio. Mentre Ughes, distratto,
guardava oscillar la fiammella, Bechio mesceva senza verun riguardo.
Chiacchierava sempre.

— E madama s’è già ritirata, eh? Stracca morta, magari? Chi sa dove
diavolo lei l’ha fatta andare quest’oggi! E sì che incomincia a far
caldo! — Tracannò e riprese: — Buono! Proprio sempre quello; siamo
amici vecchi. Lo dicevo già a sor Battista: meglio di così non si può
bere; vino amaro tienlo caro...

Si chetò tutt’a un tratto e andò curvo, in punta di piedi, ad accostar
l’uscio che rispondeva sulla stanzetta d’ingresso. Tornato poi alla
tavola e alzato il testone ronchioso, lo tenne immobile, piegandolo un
poco su un lato come chi tende l’orecchio.

— Fidarsi è bene — brontolava, — non si fidare è meglio...

Stato così un momento, strabuzzò gli occhi, li piantò in viso al medico
e fece un gesto rapido e strano.

Ughes, che assuefatto alle sue giuocate era altrove, si scosse e
impallidì.

— Cosa c’è? — diss’egli con voce alterata.

— C’è che gli _amici_ hanno bisogno di lei — rispose subito Bechio.

— Gli amici! Quali amici?

— Quei di Racconigi. Ma come? Lei non sa che essi si valgono di me
per comunicare di straforo con Moretta, Villanova, e talvolta perfin
con Saluzzo? Ieri sera c’è stata adunanza. A Torino par che la
polizia abbia subodorato di nuovo qualche cosa; si fanno arresti, e si
acchiappano naturalmente quelli che sono al buio... D’altronde la bolle
tanto forte che converrà anticipare. Si tratterebbe di saltar su ai
primi di luglio, o al più tardi alla metà, senza aspettare l’agosto.
E questa volta nessuno dovrà mancare. Bisogna, come diceva Boschis
appunto ieri sera, che gli anelli della gran catena siano tutti a
posto e stiano saldi come un acciaio. Tutti quelli che hanno fatto il
giuramento dovranno... Basta, sentirà. Io ho già detto anche troppo.

Ughes intanto, coi gomiti appoggiati alla tavola ed il mento nelle
mani, s’era posto a pensare.

Bechio riempì il suo bicchiere, lo votò, si asciugò il muso con la
manica e ripigliò:

— Non che non mi fidi di lei, sa; ma Fidati e Nontifidare eran
fratelli... E la lingua non ha osso ma fa rompere il dosso. Insomma
l’affare è bene incamminato; questo glielo posso ancor dire. Stavolta
non c’è pericolo di restar isolati. Ma bisogna decidersi, ohè! Come
diceva Govean ieri sera: — Se non diamo fuoco in tempo alla mina,
troveremo chi ci strapperà di mano la miccia. — Parole d’oro, eh? Non
le pare?

— Cosa devo fare? — domandò Ughes, ritornato interamente padrone di sè.

— Nient’altro che questo. Giovedì mattina lei va a Racconigi. Arrivando
al ponte di Macra vedrà un pescatore, a diritta. Come può darsi che
ce ne siano degli altri, il nostro è un uomo sui cinquant’anni, alto,
asciutto, con la pelle color mattone; sarà scamiciato, avrà un cappello
da miliziotto e un nastro rosso al codino. Scenda giù sulla riva come
per veder pescare. Si sentirà dire così: — Eh mio caro signore, i pesci
grossi mangiano i piccoli. — Lei risponda subito: — Sì, ma guai se i
piccoli si mettono d’accordo! — Basterà. L’uomo gl’indicherà il modo di
veder Boschis, Rubatti, Govean e gli altri.

Diede di piglio alla bottiglia, la scrollò; sentendola vuota, fece
scoppiettare le dita e si alzò.

— Ecco fatto — conchiuse con aria d’importanza, avviandosi all’uscio. —
La commissione io l’ho eseguita. Adesso tocca a lei. Si ricordi sopra
tutto che in bocca serrata, non entrò mai mosca. Viva la libertà, e
buonanotte!

Menica venne a chiudere la finestra, a sprangar l’uscio del giardino,
poi domandò al padrone se comandava altro.

Questi accennò del capo, senza rispondere e puntati i pugni alla
tavola, si alzò. Ma rimasto solo, si lasciò ricader sulla seggiola e
si coprì con le mani la faccia. Dio santo! come tutto gli appariva
cambiato! Ciò che altre volte stimolava gagliardamente il suo
desiderio, ora non aveva più nulla di desiderabile. Il possente suo
nobile ardore era svampato, chi sa? forse per sempre. Anzi sentiva
dolore, quasi rimorso dei passi già fatti. No, no, no, egli non era
nato per fare il cospiratore, il settario e simili; per l’addietro,
pur troppo, egli era andato a fortuna e non a criterio. Ma ora li aveva
veduti questi famosi _patriotti_.

V’erano eccezioni, e ne aveva conosciute parecchie; ma per i più
l’ideale era sempre la Francia di Robespierre e di Marat. In sostanza
tutt’un miscuglio, un guazzabuglio infernale d’ogni sorta di gente.
Ambiziosi che si buttavano ai partiti estremi perchè lasciati a
parte, o non appagati mai dal Governo; prepotenti che volevano sì la
libertà, ma per loro soli, convinti che per far predominar le loro
idee non vi fosse altro mezzo che soffocare spietatamente quelle degli
altri; malvagi cupidi di pescare nel torbido, o disposti a vendersi al
maggiore offerente; e con questi, e dietro a questi, tutta una turba
di disonesti, d’illusi, di esaltati, di balordi, di matti. Quant’erano
poche le menti illuminate, gli animi retti!

Inorridiva anche adesso, rammentando che tre anni prima il club, di
cui faceva parte, aveva scordata obbrobriosamente la patria e contratte
pratiche col nemico: profferendosi, chiedendo denaro, comunicando, in
tempo di guerra, carteggi, notizie, disegni. Egli però s’era sempre
opposto ai partiti violenti e feroci; in più d’una conventicola aveva
animosamente sfidato l’ira e le minaccie di quelli che volevano si
giurasse morte ai principi ed al Re.

Durante il suo esilio, egli aveva avuto campo di far lunghe e profonde
riflessioni; il sentimento d’avversione per le macchinazioni, le
combriccole s’era reso in lui più vivo e più forte. Tornato in patria,
gli amici avevano ricominciato a dargli ragguaglio delle loro mene;
ma poi, trovandolo chiuso e distratto, avevano finito per lasciarlo
tanto in disparte ch’egli era rimasto al buio d’una nuova e terribil
congiura, ordita con stranissima audacia in palese, cioè negli
alberghi, nei caffè, nelle case, nelle strade della città di Torino.

La mattina di domenica, 22 gennaio, andando un po’ a diporto con
l’avvocato Oliveri e con Liana, aveva osservato in piazza Castello e in
piazza Reale, un tramenìo di gente, affatto insolito in quell’ora. Si
vedevano adunanze parziali, piccoli crocchi; un gestir minaccevole, un
accennar misterioso, che avevano qualche cosa di malaugurato e di goffo
ad un tempo. V’erano borghesi, mercanti, frati, preti della città;
contadini dei dintorni; accattoni e vagabondi venuti di fuori via.

Che aspettavano? Che volevan costoro? Lì per lì, nessuno era riuscito
a chiarirsi; neppure quelli che per ufficio avevano l’obbligo di
stare in giorno di tutto. Ma presto erano cominciate le delazioni, le
confessioni, le accuse. S’era venuto a sapere che il Re ed i suoi,
nell’andare alla messa, avevano corso un pericolo orrendo. Quattro
demonii arrischiati, appostati nella cappella reale, coi tromboni
nascosti sotto i mantelli, dovevano sparare nel mucchio al primo
tocco del campanone di San Giovanni. Nel tempo stesso, la tregenda
dei congiurati, avvertita da due colpi di pistola, tirati l’uno sullo
scalone del palazzo, l’altro in piazza Castello, si sarebbe precipitata
all’assalto della reggia, della Cittadella, della caserma di Porta
nuova, dell’Arsenale.

L’uomo incaricato di dar il segnale aveva trovato chiuso l’uscio del
campanile; e il colpo era fallito...

Così, a poco a poco, Ughes era venuto nella persuasione che più nessuno
si ricordasse di lui. S’ingannava a partito.

Scattò in piedi.

— Non andrò! — diceva tra sè, movendosi nervosamente per la stanza.
— Oh piuttosto... andrò, sì, perchè Bechio mi ha nominato Govean, e
con Govean si può parlare. E parlerò, per Dio! E dirò tutto quello
che ho pensato, tutto quello che ho nel cuore. Forse mi si vorrà dare
qualche mandato... Spedirmi in Liguria o in Lombardia. Rifiuterò...
Salvo che... No, no, no, rifiuterò nettamente. Li ringrazierò d’aver
pensato a me e dirò loro che non mi sento da tanto. Voglio fare il mio
mestiere, io: quello per cui ho studiato. Non cercherò di sfiduciare
nessuno, poichè non mi sento sfiduciato io. La mia fede nella libertà
è sempre incrollabile. Ma certi impeti, certi furori, certi eroismi,
si potevano comprendere al tempo in cui eravamo studenti; ora siamo
uomini fatti... Siamo uomini fatti e dobbiamo saper aspettare; saper
transigere. A questo mondo non si va avanti che a forza di transazioni.
Guai a chi non sa aspettare! Guai a chi non sa discernere e separare
la realtà dai propri sogni. La nostra impresa è vasta, e richiede il
lavoro continuato e concorde di parecchie generazioni. E secondo il
mio avviso i tempi non sono maturi. Un popolo non si scuote se non
per quello che desidera; e il nostro è ancor lontano dal desiderare
mutazioni. Lasciando a parte la gran nobiltà, il clero, i ricchi,
l’esercito... anche fra i borghesi, anche fra i contadini son molti
quelli che adorano il Re ed odiano i francesi e chi tien dalla loro...
Dunque la via breve è chiusa, prendiamo la lunga. Bisogna rinunziare
ai casi gloriosi, commoventi delle aggressioni rivoluzionarie, e far
capire a chi tocca che gli si levano contro dei diritti, dei veri,
sacrosanti diritti e non soltanto delle passioni. E questi diritti
conquistarli non con la violenza e col sangue, ma con paziente
fermezza, con una resistenza lenta, ordinata, tranquilla. Non temete:
le idee vere ed utili hanno un’essenza che non si altera mai.

E non più adunanze segrete; lavori misteriosi e sotterranei, che non
producono niente di buono: luce, luce, luce! La verità non prospera
che al sole. Le rivoluzioni le fa Dio, amici miei: Dio, Dio, non
l’Essere supremo. Le occasioni dipendono da Lui. Sapersi preparare e
approfittarne, questo dipende da noi. Prepariamoci, speriamo un miglior
avvenire, e... schiviamo i fanatici!

Prese la lucerna e si avviò. Si sentiva fremere come all’avvicinarsi
d’una prova pericolosa, d’un cimento oscuro, indefinito, contro il
quale non aveva difesa. Su per le scale, gli tornò a mente una frase
che aveva pronunziata altra volta; non sapeva quando: — Non si fa
niente di grande in questo mondo se non si fonda sul sacrificio. —
Gli suonava grave, amara come un rimprovero. Si soffermò in una stanza
vuota del primo piano, per calmarsi, per ricomporsi; poi entrò nella
camera da sposi.

Liana dormiva placidamente.

Ughes depose il lume a terra, e s’avvicinò al letto in punta di piedi;
respirava forte, inconsapevolmente, cercando l’alito dolce nell’aria
immota.

— Ah! — diss’egli giungendo le mani, ebbro d’amore, — non ti lascierò
più, sai. Oramai non ci dividerà che la morte!




VII.


La campana parrocchiale suonava festosamente mezzogiorno. Ughes entrava
in casa dal cortile, mentre Liana scendeva la scala.

— Bravo! — diss’ella con accento di rimprovero — stamattina non mi hai
neppur salutata.

— Non è la prima volta — rispose il medico, passando nel salottino da
pranzo.

— Appunto per questo! — replicò la signora, seguendolo.

— Era presto e tu dormivi come una marmottina. — Ughes posò sulla
tavola apparecchiata un involtino e riprese: — Guarda, t’ho portato le
paste sfoglie fresche fresche da Racconigi. E con garbo, sai, non ne
troverai una guasta.

— Da Racconigi! — esclamò Liana. — Che sei andato a fare laggiù?

— A comprarti le paste.

— Oh! figuriamoci.

Il medico fece una risata e andò a sedere sul canapè.

— Eh già — fece egli — da Murello a Racconigi non è la via dell’orto. A
queste solate, poi... Ma infine, sapevo di farti piacere.

— Vedi bene che non ti credo.

— Allora ti dirò che sono stato chiamato a un consulto. Il medico
curante fu già mio compagno di scuola; sapendomi qui, mi ha mandato un
biglietto...

— Ho capito. E vi siete trovati d’accordo?

— Hm! così così. L’infermo è un vecchio, un vecchio del popolo minuto.
Ha un’infermità grave e strana, che merita di essere studiata. È un bel
caso, come dicono i barbassori.

Menica mise in tavola e non si parlò più di Racconigi.

Ughes vi tornò quattro giorni dopo; e seguitò ad andarvi, or nella
mattinata, ora nel pomeriggio, poichè diceva d’aver promesso al
medico Boschis di lasciarsi vedere di tempo in tempo per conferire ed
accertare la cura intrapresa.

Verso la fine di giugno le malattie si fecero inopinatamente frequenti
a Murello e nei paesi circonvicini. Ughes dovette faticare dalla
mattina alla sera per prestare il servizio necessario.

Talvolta gli toccava uscire anche di notte. Diceva egli stesso ch’era
la vita più dura che non avesse fatto mai.

Alla moglie che lo pregava spesso di prendere un po’ di riposo,
rispondeva che alla fin dei conti non faceva che il suo dovere; non
faceva nè più nè meno di quel che avrebbe fatto lo zio Vietti, se fosse
stato ancora in vita.

— Egli è morto! — esclamava — ma non voglio che questa povera gente se
ne risenta. Almeno fin che io starò qui.

— E poi? — chiedeva Liana. — Ti basterà l’animo di pregare i murellesi
di cercarsi un altro medico?

— Non so niente. Ci penserò a suo tempo: fra quattro o cinque mesi.
L’avvenire è nelle mani di Dio.

Così essi avevano cangiato vita. Le lunghe passeggiate giornaliere
erano finite. Non uscivano più insieme che dopo cena, sull’imbrunire, e
per aggirarsi intorno all’abitato.

Mentre il marito era fuori, Liana lavorava, leggeva ed accudiva
placidamente alle faccende domestiche.

Ella non rimpiangeva i giorni trascorsi, era anzi lieta di vedere Luigi
tornato con ardore alle sue occupazioni. Tanto più che le continue
assenze, invece di intiepidire il suo amore, lo rendevano più ardente.
Più ardente, ed anche, per così dire, più concentrato e profondo.
Erano contemplazioni lunghe, mute, appassionate; erano effusioni di
tenerezza e di commozione che lo spingevano a parlarle come nei primi
tempi del loro amore. Egli si mostrava timido e desioso; e poichè la
mano candida di lei talvolta, forse involontariamente, sfuggiva ai suoi
baci infocati, egli pregava, supplicava, quasi che essa non fosse ormai
sua, e per sempre. In verità pareva ch’egli in quel tempo non sapesse
più come dare sfogo ad affetti troppo indomiti e bollenti. Accadeva
pure che in certi momenti i suoi occhi restassero immobili e vitrei,
o torbidi e come spalancati su una visione penosa; un osservatore più
attento di Liana avrebbe potuto sospettarvi il travaglio insistente di
un pensiero ineffabilmente molesto.

Verso la metà di luglio le cose cominciarono a prendere miglior piega
e nel villaggio e nelle cascine; i malati diminuivano, le morti si
facevano rare. Però l’epidemia continuava ad infierire a Racconigi; e
Ughes annunziò a sua moglie che il medico Boschis stesso l’aveva presa
e lo pregava di supplirlo.

Anche a questo Liana non trovò che ridire, e lo supplicò solo,
teneramente, di aversi riguardo.

Per alcuni giorni consecutivi il medico andò via molto per tempo, ma
tornò sempre regolarmente per l’ora del pranzo.

Una sera che i due sposi si godevano il lume delle stelle in giardino,
Menica si affacciò all’uscio e gridò:

— Una lettera, una lettera, l’ha portata adesso Giantermo!

— Del babbo! — esclamò Liana, contenta. — Il cuore me lo diceva.

Rientrò subito, prese la lettera e fattasi presso al lume, vide sulla
sopraccarta il nome e il cognome di suo marito.

— Roba tua — diss’ella a Ughes, che l’aveva seguìta. — Speravo che il
babbo ci annunziasse il suo arrivo. Non è, e mi rincresce.

E andò in cucina per dare un ordine alla serva. V’era da un momento,
quando Ughes comparve sulla soglia col lume in mano.

— Bada — diss’egli a Menica, quasi ruvidamente — stasera non voglio
veder nessuno. Chiunque si presenti, dirai che son venuto a casa tardi,
stanco morto, e che sono andato a letto. Hai capito?

Liana gli si era accostata, lo guardava fissamente.

— Che c’è? — domandò con ansietà. — Ti viene male? Vuoi prender qualche
cosa?

— No, cara — rispos’egli con voce raddolcita. — Sto bene. Non ho
bisogno di niente. Sto benissimo, anzi. Vieni andiamo su.

Ella gli si mise premurosa a fianco; salirono prestamente la scala.
Ughes voltò nell’andito, in fondo al quale era il suo studio, vi entrò,
sedette al tavolino, si pose a scrivere di foga.

Liana, in piedi, considerava suo marito, sul cui volto vedeva passar
volando nuvole e nuvole di neri pensieri. Sentiva ch’era inutile cercar
d’indovinare, e aspettava, torturata da questa impotenza.

Di repente Ughes cessò di scrivere, stette un momento immobile, poi
gettò la penna e lacerò il foglio.

— Valgo pochi soldi stasera — diss’egli, con un certo suo riso
tutt’altro che in armonia con l’espressione degli occhi. — Scriverò
domani.

Liana lo seguì in camera senza far motto nessuno; lasciò ch’egli,
posato il lume sul cassettone, si gettasse in una poltrona, poi,
accostandosi, gli posò una mano sulla fronte.

— Perchè sei in collera?

— In collera? — rispose Ughes. — Neppur per idea!

— E dunque?

— Sono seccato. Oh sì! prodigiosamente seccato.

— Avanti, avanti.

— Un amico, un vecchio amico, mi prega di partir subito per andare a
cavarlo da un brutto pasticcio.

— Bisogna andare.

— Ma l’amico è a Torino.

Liana pensò un poco.

— Senti — disse poi — e non posso...

— Cosa?

— Non posso venire anch’io con te?

Il giovane prese tra le sue mani quelle di Liana, e posandovi le labbra
rispose:

— No; e ti scongiuro di non insistere.

— Basta — mormorò lei, rassegnata. — Ti aspetterò qui, e...

Le mancò la voce. Si scostò, andò a spalancare la finestra, chè l’aria
le pareva fuoco. Entrò un soffio leggiero, odorante di fieno e di
fiori.

— Senti, Liana — disse Ughes, rizzandosi.

Ella non rispose, nè si mosse.

Egli ripetè con maggior significato d’affetto:

— Senti, cara.

Liana venne lentamente, con gli occhi a terra.

— Non mi vuoi più bene? — domandò il giovane.

— Perchè vuoi lasciarmi...

— Oh Liana! Sei tu che mi parli così?

— Parlo così perchè mi sa male che tu vada via... Mi consolo un poco
pensando che tu vedrai il babbo, che gli parlerai, lo persuaderai,
e, tornando, lo prenderai con te. Non è vero? Questo poi me lo devi
promettere.

— Sì, te lo prometto.

— È la prima volta che ci separiamo dacchè ci siamo sposati. Pensa, la
prima volta!

— Spero in Dio che sarà l’ultima!

— Tu parti domattina?

— Non so niente.

— E... come farai?

— Gabriel mi condurrà col calessino fino a Carignano; là poi...

S’interruppe e fece un atto rabbioso.

— Calmati — mormorò Liana. — Perchè fai così? Mi sembri un altro,
stasera. Va là, va: guardati nello specchio.

Ughes fece macchinalmente due o tre passi, fissando gli occhi nella
spera che stava sopra il cassettone. Oppose in quell’istante, al
turbamento dell’animo, uno sforzo potente di volontà. Volle cacciar
certe idee paurose, certi sinistri presentimenti, e li cacciò; volle
esaltarsi, e vi riuscì. Tornò a Liana, le cinse la vita con le braccia
nervose, se la strinse al petto convulsamente.

— No, no, no — diceva, baciandola e ribaciandola con ardentissimo
affetto. — Non farò più così. Ma tu non domandar altro... Partirò, non
partirò, non so niente. Ci penserò domani. La notte porta consiglio.
Qualche cosa sarà. Non parliamo più adesso, non c’è bisogno... Non
diciamoci nulla, eh?... Vuoi? Dimentichiamo tutto, Liana, amor mio...
mio dolce, mio solo pensiero...

La mattina seguente, svegliandosi, Liana non si trovò a fianco il
marito. Non fece che un balzo dal letto alla finestra: la vecchia
_scorratta_ color canarino, dello zio Vietti, era là, sotto la tettoia,
tra un baroccio e una carretta. Dunque Ughes non era partito. Si vestì,
si pettinò in fretta e discese, lusingandosi di trovarlo abbasso.

Menica l’aveva visto comparire verso le sei; gli aveva portato come al
solito un bicchiere di latte nel salotto da pranzo; ma non sapeva nè
quando, nè da che parte fosse uscito.

Liana non cercò altro. Si trattenne tutta la mattina in cucina,
compiacendosi nel far preparare certe vivande che riuscivano sempre
gustose al suo Luigi.

Al tocco, vedendo ch’egli non tornava, si mise a tavola; vi stette
pochi minuti, poi s’alzò per andare ad interrogare Gabriel.

Il colono aveva veduto il padrone avviato verso la strada di Racconigi.
Non poteva però asserire ch’egli avesse voltato proprio a destra.

Liana si sentì pienamente rassicurata. La cosa le pareva chiara:
Ughes era andato a Racconigi, e non aveva potuto sbrigare tutte le sue
visite, come era già accaduto altre volte. Boschis, o qualche altro
collega, l’aveva voluto a pranzo. Siccome per la strada si avvampava,
non sarebbe tornato che a sera.

Si proponeva d’andare ad incontrarlo al tramonto, invece,
superstiziosamente, andò a seder sull’uscio del salotto. Di lì, tre o
quattro sere prima, aveva sentito Luigi entrar dal cortile e domandar
subito a Menica: — Dov’è la signora? — Era convinta che il fatto si
sarebbe ripetuto tal quale. Guardava il bel crepuscolo e cercava con
l’immaginazione suo marito. Cosa strana: non lo trovava, non riusciva
a vederlo in nessun punto della strada ch’egli doveva percorrere. Come
mai? Forse ch’egli era ancora a Racconigi? Ma allora non sarebbe stato
di ritorno che a notte? Pensò con sgomento al caso possibile ch’egli
avesse tardato molto, molto a venire... E ad un tratto le arrivò al
cuore una puntura, un dubbio acuto e sottile. — Credeva suo marito a
Racconigi? Non era facile ch’egli fosse andato a Torino?... Sì, andato
a Torino, e partito senza salutarla, per risparmiare a sè ed a lei
l’impressione dolorosa dell’addio... Un dolore che a quest’ora sarebbe
già lenito dal pensiero consolante del ritorno!... Il ritorno sì, ma
quando? Come aveva agito male Luigi, lasciandola nell’incertezza,
un’incertezza così profonda e crudele! Chi era, chi poteva essere
l’amico che chiedeva soccorso? Da che pericolo Ughes andava a
salvarlo?... Niente! Ella non sapeva niente di niente. Non poteva
più raccapezzarsi; non poteva far altro che aspettare, rammaricandosi
amaramente di non aver pensato a chiarirsi a qualunque costo, mentre
era in tempo.

Menica venne a domandarle se dovesse apparecchiare per due, come al
solito. Non ricevendo risposta, mise le mani sui fianchi e crollò più
volte la testa.

— Sa cosa penso? — disse poi, — penso che il padrone avrebbe fatto
meglio ad avvertirla. Sor Battista mi avvertiva sempre: — Menica,
stamattina mi farò aspettare... Menica, stasera tarderò forse un
pochetto. — E anche lui, neh, girava sempre di giorno e di notte.
Ebbene, guardi, sono stata in pena una volta sola: quando l’acqua
grossa portò via la chiatta di Moretta, e che lui, sor Battista, era di
là, dall’altra parte della Varaita.

Liana si rizzò, balzò in casa, afferrò un lume, salì rapidamente le
scale. Luigi doveva aver lasciato qualche cosa per lei nello studio:
una lettera, un biglietto, una riga. N’era sicura. Come mai non vi
aveva pensato prima?

Ridiscese un quarto d’ora dopo, più conturbata. Si lasciò andar sul
canapè e rimase immobile, con la fronte bassa e le mani intrecciate
sulle ginocchia. Menica andava e veniva per le sue faccende,
brontolando, soffiando, sospirando; quando non ebbe più nulla da fare,
sedette in cucina e si addormentò.

Più nulla si moveva nel silenzio profondo. Liana sentiva dentro di
sè, intorno a sè, l’impressione d’un gran vuoto che si oscurava, si
ampliava senza fine. Subitamente le prese un brivido e le ritornò il
pensiero. Ella comprese che oramai era inutile aspettare di più: Luigi
quella sera non sarebbe tornato. Si alzò, salì lentamente, fermandosi
di tanto in tanto a riflettere. Giunta in camera, vi si chiuse e
cominciò a spogliarsi. Gli occhi suoi si fermarono per caso sopra una
poltrona, ella vide l’abito bruno che suo marito aveva in dosso il
giorno avanti.

Ecco! Non avevo che da guardar in tasca per trovar la lettera
dell’amico di Luigi, per conoscere forse la causa della sua partenza
strana e precipitosa.

— Faccio male — pensava, — lo so... È una cosa indegna. Ma pure...
poichè soffro... E chi sa che una volta trovata questa lettera, io non
mi senta più quieta, più tranquilla. Mi basterebbe così poco! Può darsi
ch’io abbia la forza di non aprirla, di non leggerla che domani, e se
non potrò farne a meno; se Dio non mi aiuta in qualche altro modo...

Nell’abito non v’era niente; e allora cercò affannosamente sul
cassettone, nei cassetti, per le sedie, per terra, da per tutto.

E come era andato via suo marito? Come vestito? — Aperse l’armadio:
mancava una giubba nuova di color ferrigno, una giubba ch’egli non
aveva mai indossato in campagna... Un altro enigma, un altro punto
oscuro! Ah! non aveva più testa. Che fare? Che fare?

Si stese sul letto, vi si compose, rimase immobile. Si assopì per un
momento, poi si sentì come scrollata da una mano brutale, e trascinata
vertiginosamente indietro nella sua vita passata. Cominciò a riandarne
i casi, dalla prima volta che aveva visto Ughes, fino all’ultima notte
ch’erano stati insieme. Lo aveva sempre amato, lo amava, lo invocava,
avrebbe voluto sentirsi ancora tra le sue braccia, morire d’amore! Si
voltò, cacciò il viso nel guanciale, lo morse con impeto disperato.
Ah! ella avrebbe dovuto vegliar su Luigi, custodirlo; opporsi alla sua
partenza con preghiere, con lagrime... Opporsi, o seguirlo. Non aveva
saputo far nulla e n’era acerbamente punita. E adesso? Aspettare. Ma
fino a quando, fino a quando, fino a quando? Una voce insistente e
maligna le diceva nel cuore: — La sua assenza sarà lunga, assai assai
più lunga di quanto tu puoi prevedere. — Ma ella non poteva prevedere
nulla. Ughes l’aveva lasciata al buio, interamente al buio.

Si rizzò a sedere, atterrita; tutt’intorno, sulle pareti scure, nel
barlume della finestra, sui mobili sparsi nell’ombra ella leggeva in
caratteri arcani la parola:

                               PERICOLO.

Dio! Dio! Qual poteva essere questo pericolo a cui andava incontro suo
marito?

Stette così a lungo, lottando contro i fantasmi che le attraversavano
la mente, poi ricadde supina. Si sentiva male, si sentiva spossata. I
funesti pensieri entravano in folla, tumultuariamente, nel suo cuore. A
poco a poco, senza perder punto della loro terribilità, si sformarono,
si cangiarono in una lugubre sequenza di sogni.

Non si risentì che a giorno inoltrato, e rimase un poco seduta sul
letto a guardar la finestra con gli occhi sgranati; pareva che la sua
mente, trasportata in regioni oscure e sconosciute, non sapesse più
far ritorno. Alla fine si raccapezzò, e sentì che la speranza, l’eterna
amica degli afflitti, rientrava pianamente nel suo cuore. — Non poteva
darsi che Ughes le avesse scritto, o mandato un espresso?

Si alzò e discese.

Udendo camminare, Menica sbucò dalla cucina. Comprese subito quel che
cercava la padrona sul tavolino della stanzetta d’ingresso, e crollò il
capo.

— No, signora — diss’ella — niente; non è venuto nessuno, non hanno
portato niente, anzi...

— Come _anzi_? — domandò Liana — Che cosa vuoi dire?

— Eh, guardi un po’ lì nell’angolo: non le pare che manchi qualche
cosa? No? Bene, glielo dirò io. Manca il bastone con lo stocco di sor
Battista, quello che portava quando andava in giro di notte. Me ne sono
accorta stamattina spazzando. L’avrà preso sor Luigi, non crede?

Liana uscì senza rispondere. In pochi minuti fu sulla strada di
Racconigi.

La strada correva innanzi sotto la sferza del sole di luglio, tutta
bianca di polvere. Per la campagna si sentiva un rumorìo indistinto,
come se i milioni d’insetti sparsi fra l’erbe e fra le foglie,
trillassero tutti insieme, all’unisono. La giornata era bella, una di
quelle giornate in cui si vive volentieri. Liana guardava lontano,
ansiosa di veder qualcheduno, come se da questa persona immaginaria
ella fosse certa di aver notizie di Ughes. E dopo pochi passi,
vide infatti una cosa piccola, curva, deforme, che veniva avanti
sciancatamente, appoggiandosi ad un bastone. Raffigurò subito un
mendicante mezzo scemo, al quale lei e suo marito non negavano mai
l’elemosina.

— Oh, madama! — biascicò costui, fermandosele davanti, e alzando la
faccia smunta, sudicia e lentigginosa. — Sei tu, madama?

La signora gli pose in mano alcune monete, che l’altro fiutò quasi, poi
fece sparire nei cenci di cui era coperto.

— Tu brava — riprese egli: — tu sempre soldi, ma sor Vigio no; ieri
niente.

Liana ebbe un sussulto.

— Cosa vuoi dire? — esclamò. — Parli di mio marito?

— Già, ieri mattina niente. Passato lì lì, vicino a me. Io fatto così,
con la mano. Lui niente. Perchè così, così, così...

E imitò l’aspetto e l’andatura d’un uomo profondamente compreso da un
pensiero.

— E dove l’hai visto? — chiese Liana, quasi supplichevole. — In nome di
Dio, dimmi dove l’hai visto?

Il mendicante si voltò indietro, stendendo il braccio.

— Eh! — rispose — laggiù sul ponte lungo.

— Sul ponte di Macra?

— Già, proprio sul ponte di Macra.

— Ieri mattina, hai detto? E andava o tornava?

— Andava, andava.

— Sei sicuro? Ti ricordi bene?

— Già che mi ricordo. Ma tu non andare, neh, madama. Tu sei brava,
brava donna. Sempre soldi. Non andare. Mercato no, fiera no, eppure
tutti gridano, tutti fanno così, così, così...

E si mise a sbracciare alla disperata.

Liana non si curò più di comprendere, tornò rapidamente verso casa.

— Ho avuto torto d’inquietarmi — diceva tra sè. — Luigi è andato
semplicemente a Racconigi, e vi è rimasto. Perchè? Che importa! Lo
saprò da lui il perchè. Tornerà a mezzodì?... Oh Signore, mi raccomando
a voi, fate che non tardi fino a stasera!




VIII.


La mattina dopo Menica tornò da far la spesa più tardi dei solito; salì
subito a cercar la padrona, e la trovò nello studio.

Liana sedeva al tavolino; vi appoggiava le braccia, e su queste la
testa; non mostrando altro che la capigliatura scomposta, come le vesti
che l’avvolgevano più che non la coprissero.

— Madama, — disse la serva — madama...

La signora mise un gemito come le desse noia quella voce, poi alzò il
viso.

— Che vuoi? — mormorò.

— Sa perchè ho tardato?

— No — rispose Liana, cominciando subito a impazientirsi della temuta
loquacità della donna; — ma non importa, lasciami in pace.

— Se sapesse che cosa c’è di nuovo...

— Parla, per amor di Dio!

— Bechio è sparito, la bottega è chiusa.

La signora si strinse nelle spalle.

— Cara lei, — continuò Menica — stamattina non si parla d’altro. Il
medico è andato via, lo speziale scappato, che cosa vuol di più per
metter sossopra un paese! E poi... ma là, non si spaventi, neh!

— Avanti, avanti! Mi fai morire.

— Si dice che la rivoluzione viene anche qui da noi. La gente non vuol
più il Re: quello che abbiamo adesso; al Re vecchio, pazienza, erano
tutti abituati. Non crede? Senta, tant’è vero che a Racconigi c’è già
un altro Governo.

— Le solite ciance — disse Liana, tornando indifferente; — va pure giù,
va in cucina.

S’era alzata col cuore compreso d’una nuova speranza; non voleva
essere frastornata. La posta arrivava al villaggio il sabato sera e il
mercoledì mattina. Era mercoledì. Le pareva assolutamente impossibile
di non ricevere una lettera di suo marito.

— Dovunque egli sia, in qualunque caso, deve aver scritto... A meno
che...

E crollava il capo per scacciare fin l’ombra d’un dubbio funesto.

Di repente si rammentò che quando il procaccio veniva di mattina, la
trovava quasi sempre occupata a lavorare sotto una pergola piantata
lungo il muro di cinta.

Discese velocemente e vi andò di corsa, quasi per affrettarne, per
agevolarne l’arrivo.

Ma non potendo occupare nè la mente, nè le mani, non resse a star
ferma. Uscì dalla pergola; vagolò pei viali, finchè incontrato Gabriel,
lo mandò in paese perchè s’informasse della cagion del ritardo.

Il colono tornò dopo pochi minuti. Giantermo era arrivato da oltre
mezz’ora; ma non aveva niente per lei.

— Ma è meglio, sa, — soggiunse l’uomo, vedendo Liana farsi ancora più
smorta. — È meglio; il proverbio non falla: niuna nuova, buona nuova.
Si faccia coraggio. Vedrà che il padrone tornerà presto...

Liana si spiccò da lui senza dir nulla; andò diviato al piccolo
cancello di legno ch’era in fondo al giardino, e, per una breve
stradetta che si apriva tra certi orti cinti di siepi, uscì sul
piazzale della parrocchia. Cercava don Prato, e lo trovò subito,
seduto all’ombra d’un grand’olmo fronzuto, con un libro aperto sulle
ginocchia.

Il parroco l’accolse con cordialità gioiosa ed affaccendata; voleva
condurla nella sua casa, posta quasi dirimpetto alla chiesa sulla via
maestra; servirla di frutta, vin bianco, rosolio, e non si chetò se non
quando s’avvide che Liana aggrottava sempre maggiormente le ciglia.

La giovane signora gli domandò senza preamboli che cosa pensasse della
sparizione di suo marito.

— Sor Luigi è medico — rispose il buon prete, — e lei sa che i medici
qualche volta sono obbligati a tenere il segreto... E poi a quest’ora
se gli fosse accaduto qualche cosa si saprebbe. Bisogna sperar sempre
bene, confidar in Dio, e... — E tacque non sapendo più come finire.

— Ma non c’è qualche cosa per aria? Non ha sentito dir niente?

Don Prato strinse le labbra, ne fece uscire un suono inarticolato.

— Hm!... A Fossano, ecco... sì: pare che a Fossano i patrioti abbiano,
abbiano... Ma lei capirà che Fossano...

— E a Racconigi?

— Già già, anche un poco a Racconigi. Ma cosa vuol mai che facciano?
Giovinotti, teste calde...

— Chi sono?

— Mah! Ho sentito nominare un certo Boschis, un certo Govean...

— Grazie! — mormorò Liana, porgendogli la mano.

— Si faccia animo — ripigliò don Prato, un po’ commosso. — Io credo che
stasera o domani sor Luigi sarà di ritorno. Me lo farà saper subito,
eh? Verrò col notaio; sentiremo le nuove anche noi... Adesso vado in
chiesa e... faccio quel che posso. Preghi anche lei; confidi in Dio.
Dio non l’abbandonerà.

Liana tornò dond’era venuta. Appena a casa, cercò subito Gabriel, gli
disse d’apprestare la carrozza e di prepararsi a condurla a Racconigi.

— La carrozza! — esclamò il colono. — Lei vuol dir la scorratta! La
scorratta di sor Battista; non abbiamo altro.

— Prenderemo quella — rispose la signora, voltando le spalle.

Gabriel tirò il legnetto in mezzo al cortile e lo mise in ordine come
al tempo del medico vecchio; provvide al cavallo; pensò a sè, mangiando
in fretta un boccone, poi andò a trovar Menica in cucina.

Era contento d’andar a vedere quel che succedeva a Racconigi; ma temeva
anche assai d’avventurarsi a un’impresa un poco rischiosa.

— Io — diceva — sto per il Re; le novità non mi vanno. Adesso vediamo:
se arrivato là, qualcuno mi volesse obbligare a gridar: viva la
Repubblica!? Sì, che mi troverei in un bell’impiccio!

La signora si affacciò a capo scala; lo chiamò, lo avvertì d’attaccare.

— Ma scusi — esclamò Menica, sbucando anche lei dalla cucina, — è ora
di desinare; non vuol prender niente?

Liana non l’udì, era già tornata in camera. Un momento dopo discese
rivestita e in ordine, e si accomodò nel legno accanto al colono.

Sull’ampia distesa dei campi riarsi, l’aria brillava infiammata
dal sole. Le cicale cantavano allegramente. La signora, tutta in sè
raccolta, non parlava; e Gabriel, pur badando al cavallo, che andava
d’un trotterello discreto, guardava spesso dinanzi ed intorno se
apparisse qualche cosa di straordinario. Gli pareva che la strada
avesse un aspetto insolito, niente piacevole, e non vedeva l’ora
d’esserne fuori; così che, quando scoprì da lontano il castello di
Racconigi, si riconfortò e lo salutò con la frusta.

Dopo un poco si videro apparire anche le vette degli alberi secolari
del parco da una parte; e campanili, cupole, tetti dall’altra.

Già da un momento s’udivano spari, a intervalli brevi, quasi misurati.

— Cosa diavolo fanno? — mormorava Gabriel, fra’ denti. — Sarebbe bella
che avessero cominciato ad ammazzarsi!

Ma arrivando al ponte di Macra, vide che sull’altra sponda, sur un
tratto di terreno sterposo confinante col greto, era stato piantato il
gioco dell’archibugio.

— Perdiana! — diss’egli. — Tutti al _tavolazzo_, tutti al _tavolazzo_!
Vogliono farsi forti contro i soldati del Re!

E, spiegata alla signora la ragione di quei colpi, spinse il cavallo
sul lungo ponte di legno.

I tiratori stavano riuniti sotto una baracca; l’arma che passava dalle
mani dell’uno in quelle d’un altro, era una carabina a serpentino, nel
quale, invece della corda, stava adattato un pezzetto di fungo da esca.
Il muretto col segno sorgeva a cento sessanta passi; in una capannuccia
vicina si rimpiattava l’uomo che doveva indicar l’esito di ciascun
colpo.

Gli spettatori, accalcati sulla strada che metteva all’abitato, si
godevano lo spettacolo all’ombra di certi altissimi platani. Quieti
e silenziosi mentre il tiratore prendeva la mira; appena andata la
botta, applaudivano o fischiavano rumorosamente, secondochè colui s’era
mostrato abile od inetto.

Giunto all’estremità del ponte, Gabriel fece schioccar la frusta e
gridò due o tre volte:

— Ohe hop! ohe hop!

Quelli che si sentirono urtar le spalle dal muso del cavallo si
ritrassero un poco; ma gli altri non degnavano neppure di voltarsi.
Gabriel provò ad alzare la voce; poi vedendo ch’era inutile, cominciò a
pregar intorno con flemma, con garbo:

— Facciano il piacere... un po’ di luogo, è l’affar d’un momento. Si
tratta d’una faccenda importante... Un parente di questa signora che è
agli estremi.

Quando vide l’impossibilità di farsi ascoltare, si appoggiò indietro e,
pur continuando a dimenar dolcemente la frusta a destra e a sinistra,
si rassegnò ad aspettare.

Liana guardava fissamente un gruppo di giovani diversamente vestiti;
i quali, ritti sur un arginetto e separati dal resto del pubblico,
parevano sopraintendere al tiro. Il colono li osservò anche lui, e
domandò ad un vicino chi fossero.

— Quelli là? — rispose costui, sottovoce. — Sono quelli che menano la
barca. Io poi non so altro.

Intanto un di coloro che facevano parte del gruppo aveva visto il
legnetto e adocchiata la giovane donna. Rendendosi poi ragione del
perchè stesse ferma in quel luogo, s’aprì il passo, giunse al cavallo,
lo prese a mano e, pian pianino, pregando gli uni, cansando gli altri,
riuscì in pochi minuti a trar dalla calca bestia, scorratta e persone.
Dopo di che, levatosi il cappello e mostrando denti bianchissimi in un
largo sorriso, salutava e s’apprestava a tornare con i suoi. Liana si
chinò, gli accennò d’accostarsi.

— Dio gliene renda merito — diss’ella. — Lei mi ha fatto una vera
carità. E adesso, se non fossi indiscreta...

— Dica, dica! — esclamò il giovane, premurosamente.

— Non ci sarebbe per caso un medico fra quei signori?

— Ma guardi che combinazione! Io stesso... dottor Boschis, ai suoi
comandi.

— Il suo nome non mi è nuovo. Credo d’averlo sentito pronunziar da mio
marito, il medico Ughes.

— Ah! — fece il giovane, con un cotal atto trascurato. — Ughes, Luigi
Ughes... Certo che mi conosce: siamo stati compagni di scuola.

Liana gli piantò gli occhi in viso.

— Ecco! — diss’ella. — E m’immagino che si saranno trovati insieme
anche altre volte. Ultimamente mio marito è venuto a Racconigi,
chiamato a consulto. Non era per caso lei il medico curante?

— No, signora...

— Eppure... Basta non importa. Non saprebbe dirmi a chi potrei
rivolgermi per averne notizia? Non so più nulla di lui da quattro
giorni. È andato via così... una mattina, molto per tempo, e non è più
tornato. Mi contenterei di poco: saper che sta bene, e poi...

Il petto le si era venuto gonfiando; non potè aggiunger altro.

Boschis stette un poco sopra sè.

— Non so niente — disse poi, guardando a terra. — Ma potrebbe darsi
benissimo che qualcuno dei miei amici avesse veduto suo marito. Con
permesso.

E tornò rapidamente verso i compagni.

Liana lo vide trarre un di costoro in disparte e cominciare a parlargli
animatamente. L’altro crollava il capo. Boschis pareva insistere, si
riscaldava, alzava la voce; e l’altro duro, continuava a dir di no,
di no e di no. Allora un giovane in uniforme francese, che aveva nel
volto una certa autorità, salto giù dall’argine, li chetò; poi udite
le ragioni del dissenso e affissato un po’ l’occhio in Liana, si mosse
pian piano. Boschis lo seguì con faccia compunta.

— Signora Ughes — disse quello dall’uniforme, giungendo di fianco
al legno e inchinandosi con disinvoltura, — da quel che sento, lei
vorrebbe aver notizie di suo marito?

Liana si protese a lui; un tremito violento le vietò per un istante la
parola.

— Le dirò quel che so — riprese il giovane. — Ho avuto il piacere di
veder Ughes, il signor Ughes, tre o quattro giorni fa, appunto qui a
Racconigi. Ma si è trattenuto pochissimo ed è ripartito, credo, per
Torino.

— Come fa a saperlo?

— Mi par che me l’abbia detto lui stesso.

— Sta bene; andrò a cercarlo a Torino.

Il giovane chinò la fronte.

— Non stia in pena — disse poi rialzandola. — Anzi mi permetta di
darle un consiglio. Torni a casa, viva tranquillamente a casa. Non è il
momento di andare in giro.

— Ah! E perchè?

— In questi giorni il nostro paese è tutto in iscompiglio...

— Vede! E lei mi dice di non star in pena! Le par possibile questo? Se
sa qualche cosa di più me lo dica. Ho già sofferto tanto! Se sapesse!
Lei è giovane; deve aver buon cuore...

— Si faccia coraggio, non si lasci abbattere...

— Pregherò Dio per lei.

— Non si lasci abbattere, non è il caso.

— Non le domando di tradire nessun segreto. Lei può darmi qualche
informazione, qualche particolare, senza compromettere nessuno. Ci
pensi un momento e troverà certo il modo. Ci pensi, ci pensi.

Boschis commosso, nervoso, aveva afferrato il braccio del compagno
e glielo stringeva come in una morsa. Questo si voltò e gli fulminò
un’occhiata.

— Dunque — ripigliò tosto Liana — non vuol proprio arrendersi, non vuol
compir l’opera di misericordia?

— Non è la volontà che mi manca. S’immagini! È un supplizio, un vero
supplizio, non poter contentare una così amabile, una così bella
signora.

Il viso di Liana diventò freddo, severo.

— Mi scusi — continuò l’altro, un po’ confuso, — non ho voluto farle un
complimento...

Il cavallo, imbizzarrito da uno scoppio strepitoso d’applausi,
scalpitava, non voleva più star fermo. Gabriel faceva tutti i suoi
sforzi per calmarlo, per ritenerlo.

Il giovane si slanciò, restò ancora un momento vicino al legno.

— Senta — gridò egli, mettendosi una mano al petto, — cercherò,
m’impegnerò... Le farò saper presto qualche cosa a Murello; glielo
prometto, guardi, glielo giuro!

Liana accennò del capo e non si voltò più. Guardava diritto davanti a
sè, stringendo le labbra, riandando dolorosamente quanto aveva udito.

— Luigi era stato a Racconigi e di lì partito per Torino? Ma era poi
vero? Che costava a quei giovani una bugia di più o di meno, pur di
non compromettere la loro causa! Come credere ch’egli fosse veramente
partito? Non volevano ch’ella s’informasse, cercasse di lui, lo
distogliesse dalle sue tenebrose occupazioni. Non volevano arrischiar
di riperderlo, dopo aver faticato tanto per toglierlo a lei. Che
infamia! Che orrore!

Chiuse gli occhi un momento per riposare la mente, per richiamare a sè
tutto il vigor dello spirito, tutto il vigore del corpo.

Li riaprì subito sentendo che il colono metteva il cavallo al passo.
La strada in cui entravano aveva l’aspetto animato dei giorni di
fiera o di mercato. Nulla dava indizio che quello fosse un giorno di
sollevazione e di tumulto. I mercanti, i bottegai non solo non avevano
chiuso, ma tenevano in mostra il fiore delle merci e delle derrate,
contando forse su un maggior numero di compratori.

Uomini, donne, fanciulli, tutti col vestito delle feste, formavano
un rimescolìo di colori variati, pieno di vivezza e di mobilità. Gli
abitanti, che non erano in giro, guardavano aggruppati sulle porte,
affacciati alle finestre, ai terrazzini. Le comitive, le brigatelle,
incontrandosi, si fermavano e si univano; o si salutavano, passando,
con evviva, strette di mano, risate, motteggi. S’udivano dalla strada
le voci e lo schiamazzo dei bevitori e dei mangiatori attruppati nelle
bettole.

— Bisogna che il vino si venda al prezzo fissato dagli avventori —
mormorava Gabriel, — o che oggi ci sia chi paghi per tutti. Senta che
baccano!

Ma più oltre, davanti al castello, la scena cambiava aspetto, aveva un
non so che di più significativo, di più minaccevole.

Qua e là si ballava la _Carmagnola_ al suono dei pifferi e d’ogni sorta
d’istrumenti improvvisati. Quelli che facevano da spettatori cantavano
o zufolavano l’aria, o sbraitavano le parole:

      Madame Veto avait promis
    De faire égorger tout Paris;
    Mais son coup a manqué,
    Grâce a nos cannonié:
    Dansons la Carmagnole,
    Vive le son du canon!

Altri, passando, si cacciavano in mezzo, scompigliavano e rompevano il
cerchio, urlando: «Ça ira, ça ira, ça ira!» o qualche altro ritornello
esotico e rivoluzionario.

Tra la folla più fitta, più varia, più agitata, formata in gran parte
di artigiani, manovali, lavoranti di campagna, operai, si aggiravano
uomini dalle facce dure, stravolte, sinistre; che quelli del luogo non
si ricordavano d’aver visto mai.

Sur un tratto sgombro, ma invaso ad ogni momento, un giovane vestito
d’un abito grigio da molinaro, con calzoni di pelle e un cappello da
soldato coperto di tela incerata e gallonato, si scalmanava a insegnare
il maneggio del fucile ad una dozzina di ragazzacci muniti di bastoni.

Più oltre, un altro giovane alto e smilzo, con una criniera rossa ed
arruffata, predicava al popolo, ritto sopra una seggiola. Ad ogni
pausa, quelli che erano più vicini e potevano udire, vociavano e
battevano le mani; gli altri stavano guardando come davanti a una
baracca di ciarlatani, o chiacchieravano tranquillamente fra loro.

Qua e là sorgevano banchi ove si vendevano nastri tricolori per
gli occhielli, coccarde e distintivi per adornare i cappelli. Si
attaccavano alle cantonate affissi, manifesti, grandi iscrizioni, su
cui si leggeva: _Viva la Francia! — Viva il signor generale Bonaparte!
— Viva il principe di Carignano! — Viva la Repubblica! — Libertà,
Eguaglianza o Morte._

La gente si faceva spettacolo di tutto, si fermava a leggere ed a
commentare gli scritti; a osservare quelli che con palchi e scale
toglievano le cifre e le insegne regie dalle facciate dei pubblici
edifizi, o rompevano gli stemmi scolpiti, o davano di frego ai dipinti.
Qua si tratteneva una squadra che veniva da una casa o da un convento,
ove s’era fatta consegnar cibi e rinfreschi, e si guardava, si gustava,
si pigliava, facendo sperpero ed abuso. Là si circondava una carretta
piena d’armi da fuoco o da taglio, scoperte e requisite nella casa
d’un nobile o d’un ricco; e in men che non si dice, schioppi, pistole,
sciabole, spade, palosci, erano presi, esaminati, maneggiati, branditi;
passavano da una mano in un’altra, e bene spesso sparivano.

Il caldo era intenso e molesto; il polverone sollevato da tanti piedi,
agitato da tanti corpi, formava una nebbia gialla, densa, accecante.

Liana si sentiva come stordita; le cose apparivano e si confondevano
all’intorno senza suggerirle alcun pensiero.

Ed ecco che quando meno se l’aspettava un’apparizione improvvisa,
istantanea, le ferì gli occhi, le sconvolse il cuore. Vide, a un
cinquanta o sessanta passi di distanza, uscir dalla calca ed entrar
frettolosa in un portone una figura che, così da lontano, le parve
aver il portamento e l’andatura, e perfino l’abito di suo marito. Si
rattenne a stento dal gettare un grido, afferrò il braccio di Gabriel,
lo costrinse a fermare e balzò a terra.

Prima che il colono avesse pensato a trattenerla, a domandare gli
ordini, essa s’era già cacciata tra la folla e lottava per aprirsi
il passo con disperata energia. Come fu giunta al portone, vi entrò;
trovò un cortiletto sudicio e buio; da quello si passava oltre in un
chiassuolo, che sboccava in una piazza.

La giovane signora andò più volte affannosamente innanzi e indietro per
quegli andirivieni. Poi pensò che colui ch’ella aveva visto, chiunque
esso fosse, poteva essere passato per di là solamente per abbreviare il
cammino. Si dolse amaramente d’aver perduto tempo, e uscì sulla piazza.
Continuò a cercare in quella e nelle strade vicine la forma umana che
l’aveva colpita. Entrava nelle porte, negli anditi, nei vicoli, nelle
corti; si fermava a guardare nelle botteghe, alzava gli occhi alle
finestre; avrebbe voluto penetrare nelle case, visitarle tutte stanza
per stanza. Dominata dalla fantasia eccitata, or camminava rapidissima,
ora rallentava il passo; voltava a diritta, scantonava a manca; tornava
bruscamente indietro, ripassando spesso nei luoghi pei quali era già
passata.

Trovandosi davanti a una spezieria, le venne in mente di entrare e di
domandare al padrone s’egli conoscesse per caso il medico Ughes di
Murello. Questi la guardò inarcando le ciglia, e rispose che non lo
aveva mai sentito nemmeno a nominare. Ella uscì ringraziando; e colui,
dopo averle guardato dietro, si voltò al garzone e fece con la destra
l’atto di cacciarsi le mosche dalla fronte.

Uscita di lì, Liana si sentì stanca e assetata. Guardò attorno: si
trovava sotto un portico scuro, alto sulla strada di parecchi scalini.
Si volse a una fruttaiuola e le domandò se potesse procurarle un po’
d’acqua. Questa la pregò di tener d’occhio il banco, andò, tornò con
un bicchiere pieno, e parendole che la signora si reggesse a fatica, le
offrì la sua scranna.

In quel momento di spossatezza delle membra, Liana si sentiva ricadere
nello stordimento di prima. La visione si affievoliva, si offuscava,
perdeva contorni e colore. Se dianzi era stata persuasa d’aver
veramente intravvisto Luigi, ora cominciava a dubitare, e, subitamente,
ricordando la affermazione del giovane con cui aveva parlato presso al
ponte, si sentì convinta che suo marito era andato a Torino.

— Domani — pensava, — domani a quest’ora ci sarò anch’io.

Sarebbe partita per tempo; arrivata assai prima di sera. E dove
cercarlo? Dove trovarlo? In casa non c’era, non poteva esserci in
quell’ora. Bisognava aspettare. E aspettava.

Si internava con soave compiacenza in quella fantasia. Si figurava
di essere nella stanza d’ingresso, sentiva un calpestìo su per le
scale, due voci famigliari... Il babbo e Luigi rincasavano insieme.
Ella apriva l’uscio pian piano. Dio! che sorpresa, che rimproveri, che
abbracci! Si poteva bene soffrire queste angustie, per godersi una tal
gioia!

Come rinvigorita da questi pensieri, la giovane signora si rizzò,
ringraziò la buona donna, le fece accettare un piccolo compenso, e
discese nella strada.

Questa adesso era quasi libera. Un po’ prima la folla aveva cominciato
a tumultuare per una voce che s’andava spargendo, che correva di bocca
in bocca. S’era scoperto un magazzino, due magazzini, tre magazzini
pieni, riboccanti di granaglie. Si gridava che bisognava dare il
sacco, fare giustizia, impadronirsi di tutto a qualunque costo. Ma dove
fossero questi magazzini nessuno sapeva dirlo.

In questo mentre era uscito da un vicoletto un ragazzo del popolo che
suonava sur un tamburo poche battute di una marcia militare francese.
Parve un avviso, un segnale. Dove piacque al garzoncello d’avviarsi,
quelli che aspettavano il momento di mettersi alla testa si avviarono
anch’essi; e la turba con impeto unanime li aveva seguiti.

Il sole stava per tramontare; il castello, colorito da una luce
vermiglia, campeggiava sopra un cielo d’una bella tinta d’acqua marina.
Liana raccapezzò subito da che parte doveva volgersi per ritrovare il
legnetto.

Gabriel, con la flemma e il buon senso comune ad una gran parte dei
contadini, aveva pensato di non allontanarsi dal luogo ove lo aveva
lasciato la sua padrona. Spinta la scorratta in un angolo ombroso,
mandato un ragazzo a comperare un po’ di fieno in un vicino stallatico,
s’era acconciato ad aspettare pazientemente, barattando chiacchiere con
gli amici e i conoscenti che venivano a passare.

Si rallegrò molto quando vide ricomparire la signora. Si faceva tardi,
e da certe parole che aveva udite, da certi indizi che aveva notati,
gli pareva che la sera dovesse essere meno tranquilla del giorno.

Ripassando per la strada che conduceva al ponte, la trovarono ancora
sparsa di crocchi, e si vedeva su quasi tutte le facce un non so che
di stanco, di cupo, di annoiato. L’insurrezione durava appena da due
giorni, e molti cominciavano ad averne assai ed a preoccuparsi del come
sarebbe andata a finire. Su molte finestre stavano lucerne, candele,
lumi d’ogni specie pronti per essere accesi al sopravvenire della
notte. Era un ordine venuto non si sapeva bene nè di dove, nè da chi,
ma al quale nessuno osava disubbidire.

— La finirà male — disse Gabriel, appena furono di là dal torrente.
— Vedrà. Non sanno nemmeno loro cosa vogliano. Hanno per generale un
certo Govean, un bravo giovane, che non ha bisogno di nessuno; adesso
lo portano in palma di mano, dicono che lo vogliono far re, quando ci
sarà la Repubblica. Che bestie! Che cosa ha saputo fare? Mettere taglie
su due o tre ricchi, ecco tutto... E la gente? Ieri ha voluto provare
le cucine dei frati e delle monache. A quanto ho sentito, stamattina
si parlava di tassare il grano a quattro lire, dieci soldi l’emina;
stasera si va già a dare il sacco ai magazzini. Bisognerà vedere quando
sarà qui la truppa: fanteria, cavalleria e qualche pezzo. Ah! ah!...
C’è chi prevede il caso e parla anche di fare resistenza. Con che se
vi piace? Con le molle, le palette, i bastoni? Ho sentito parlare di
una spingarda puntata laggiù, sulla strada di Torino. Eh, già sarà
proprio quella che farà tornare indietro i soldati!... Toh, e ora? Che
c’è egli? Mi pare che si batta la generale!... Senta, senta, anche la
campana a martello!

Voleva fermare, guardare indietro per vedere di comprendere da qualche
segno che cosa succedesse nel luogo che avevano lasciato. Ma Liana,
assorta nel nuovo pensiero che le occupava la mente, gli ordinò invece
di stimolare il cavallo. Le pareva di abbreviare così il tempo che la
separava dalla sua partenza per Torino. Non vedeva l’ora di mettersi di
nuovo in viaggio. Riesaminava le circostanze che avevano accompagnato
la partenza di Luigi: concordavano tutte per farle parer più fondata la
nuova speranza.

Teneva l’occhio immobile; le cose che le passavan davanti a poco a poco
diventavan tutte d’un colore, ondeggiavano, si confondevano insieme
in un miscuglio ottenebrato. Ella cominciava a sognare, a sognare con
gli occhi aperti: — Ecco, Luigi era seduto al suo fianco. Non parlava
perchè non avrebbe saputo esprimere quello che sentiva neanche lui, ma
la guardava sorridendo, con significazione di grandissimo affetto, e
ogni tanto le baciava appassionatamente la spalla...

— Ah, Luigi, Luigi — pensò ella, quasi svegliandosi — perchè non sei
qui con me!

Erano ormai giunti molto vicino a Murello. I tetti del villaggio si
discernevano appena nell’aria bruna.

— Cosa c’è? — chiese Liana, sentendo Gabriel fare un brusco movimento
come di chi vede cosa che non s’aspettava.

In quel punto scorse anch’ella un uomo ritto all’imboccatura della
stradetta per cui si doveva voltare.

— Oh, madama! — susurra Gabriel — se fosse...

— Dio!

Liana guarda attentissima, tutta l’anima sua è negli occhi:

— No, non è lui. Luigi è meno alto. E poi, e poi...

— Ohe! — grida una cara voce nota — Liana sei lì?

— Oh babbo, babbo, babbo!




IX.


— Piangi pure — diceva l’avvocato Gaetano Oliveri, camminando innanzi e
indietro per il salottino, — piangi, sfogati che ti fa bene.

Ma Liana, entrando, s’era lasciata andare in un seggiolone e ne
stringeva nervosamente i bracciuoli; non piangeva, non parlava, non
aveva che singhiozzi convulsi.

— Quieta, quieta — continuava l’avvocato, — quello che non mi puoi dire
adesso, me lo dirai poi. D’altronde la tua cuoca mi ha già informato...
Oggi sei stata a Racconigi, eh? Tutto sossopra anche là? Se tu avessi
visto a Carignano! Il popolo tumultuava attorno al palazzo comunale:
voleva armi, voleva che si diminuisse il prezzo del grano, voleva
questo, voleva quello. Quando son passato io, il giudice, il sindaco
erano lì lì per cedere. Ho sentito dire che anche a Virle, a Piobesi
è principiato il tafferuglio. Tra due o tre giorni sarà da per tutto
così. Il Piemonte è in combustione, tutto in combustione, figlia mia.

La tavola era apparecchiata. L’avvocato sedette, e cominciò a
sbocconcellare una pagnotta.

— Scusa — ripigliò poi — non ho preso che una tazza di cioccolata
stamattina, prima di partire. Volevo fermarmi a Carignano, ma poi...
figurati! Ho lasciato riposare il cavallo in una cascina, dove fu
grazia trovare un po’ di fieno...

All’apparire di suo padre, Liana aveva provato un senso di gioia
ineffabile, credendolo apportatore di liete notizie. Non avendole egli
detto nulla alla prima, s’era sentita ripiombare nelle tenebre; adesso
immaginava ch’egli cercasse di prepararla a qualche cosa di terribile.
Non la rassicuravano nè gli atti, nè l’espressione del viso; sapeva
che neppure l’amarezza del dolore, neppure l’acerbità dello sdegno
non modificavano quello stato di calma sbadata e singolare in cui
viveva quasi costantemente il buon avvocato. La sua faccia era sempre
colorita, la fronte spianata, la bocca composta al sorriso anche nelle
circostanze più gravi della vita.

Menica entrò con la zuppiera fumante e la posò sulla tavola. Oliveri
spiegò il tovagliuolo, si servì, poi, prima di mettersi a mangiare,
considerò di nuovo sua figlia.

— Non ti senti proprio di prendere niente, tu?

Liana si alzò, venne a sedere di fronte.

— Dimmi tutto — esclamò angosciata, — dimmi subito tutto quello che sai
di Luigi.

— Ma io non so niente — rispose l’avvocato. — La cuoca mi ha detto
che è andato via, che non ti ha ancora scritto, che non ha più data
contezza di sè. Non è tutto? Se c’è altro, parla.

Liana raccontò minutamente, febbrilmente quanto era accaduto in quei
giorni.

— Bene; questo lo sapevo... — diceva suo padre. — Questo no. Ecco un
punto che va rilevato... Ecco la conferma di ciò che pensavo.

Liana tacque.

L’avvocato contemplava il suo bicchiere tentennando la testa.

— Ma tu — diss’ella — come va che sei qui?

— Niente di più semplice. Non avevo forse promesso di venire a passare
qualche tempo con voi? E poi, quando ho visto che vento spirava, ho
pensato: qui è meglio muoverci prima che siano rotte le comunicazioni
tra la capitale e le provincie. E son venuto. — Vuotò lentamente il
bicchiere e ripigliò: — Del resto a Torino non si sta male. Non fa
nemmeno poi tanto caldo. E quanto a guai, c’è stato un po’ di chiasso
l’altro giorno contro un fornaio, che non voleva vendere il pane a un
prezzo conveniente; ma c’è truppa, il Governo sta all’erta...

— Ma dunque — interruppe Liana — cosa pensi possa essere accaduto a mio
marito?

— Finora niente; il ballo è appena cominciato...

Liana fece un atto d’impazienza.

— Aspetta — proseguì suo padre. — Il partito delle persone avverse
all’attuale sistema è numeroso, più numeroso di quel che si
crede, tanto numeroso che il Governo forse non osa prendere alcuna
determinazione per non svegliare imprudentemente un formidabile
vespaio. Io immagino come una gran rete che tiene lo Stato da un capo
all’altro. In ogni paese ci deve essere uno o più uomini fidati, pronti
a mandar nuove, lettere, istruzioni. Si tengono adunanze segrete,
conventicole d’ogni specie. Non c’è dubbio che adesso, per esempio,
si cerca di dar ad intendere ai contadini che la roba c’è, ma che
chi non vuol far le cose a dovere è il Governo. E si mette a rumore
città e villaggi, con un pretesto che ha già servito in tanti tumulti:
la carestia. Sicuro che i presagi per quest’anno sono sinistri:
le pioggie, i bruchi, le scarse raccolte degli anni precedenti,
l’abbandono dalle campagne, le provvigioni enormi che si sono dovute
fornire, le contribuzioni, lo scapito della carta monetata, della
moneta eroso mista...

— Ma parlami di Luigi! — disse Liana, giungendo le mani. — Dimmi dove
credi ch’egli possa essere andato.

Oliveri stese dolcemente la destra verso sua figlia, poi riflettè un
momento. — Tutto m’induce a credere che tuo marito appartenga sempre al
partito dei novatori. Perciò si possono far tante supposizioni. Egli si
può essere recato in qualche città dello Stato per combinar coi faziosi
il giorno e i modi della sollevazione. Può essere stato mandato dai
capi a dirigere, ad arrolar gente, a dar il segnale... È un male, vedi,
ch’io non ci abbia pensato prima: sarei venuto qui, l’avrei tenuto
d’occhio. Vedendolo pensieroso, cogitabondo, l’avrei interrogato...

— E ora — domandò Liana — cosa farai per aiutarmi?

— Stasera niente, sono stracco morto. Domani, la notte mi avrà portato
consiglio. E adesso vediamo dove mi hai messo a dormire.

Liana condusse suo padre nella stanza che gli era stata preparata.
L’aveva già lasciato, era già sull’uscio, quando tornò indietro e
gli si slanciò nelle braccia, piangendo a calde lagrime stavolta,
pregandolo d’aiutarla a ritrovare Luigi.

— Ma sì, ma sì, ma sì — diceva l’avvocato, accarezzandole i capelli. —
Non son più il babbo, eh? Non ci ho che te al mondo, diamine!

La mattina seguente, quando Liana picchiò all’uscio di suo padre per
sapere come avesse passata la notte, si sentì gridar: — avanti! — dal
vicino studio di Ughes.

Oliveri, seduto al tavolino, scriveva una lettera; quattro altre
lettere stavano già davanti a lui piegate e sigillate.

Sorrise, ma non alzò gli occhi, e Liana andò a sedere sul sofà per
aspettare che egli avesse finito.

Anche a Torino, egli passava una parte della mattina a scriver
lettere. Benchè laureato in legge, Oliveri non aveva mai esercitata
l’avvocatura, preferendo applicarsi agli studi letterari, storici
e filosofici; e viaggiare. Aveva una copiosa libreria; amicizie e
relazioni con molti dei migliori ingegni del Piemonte.

— Ecco — diceva Liana fra sè — ecco come ha pensato a me! Egli ha già
preso le sue abitudini... Oh Signore! Soccorretemi voi! Non ho un cuore
in cui versare il mio, non un aiuto, non un conforto! — E ripeteva a
sè stessa una domanda già fatta altre volte: ogni volta che si trovava
alle prese col carattere di suo padre. Era così per la forza della
ragione, o per ottusità di affetti? Era ponderato e tranquillo? Od era
freddo e insensibile?

L’avvocato ricominciò a sorridere, questo significava che egli era per
terminare. Firmò, piegò, fece l’indirizzo e collocò la lettera accanto
alle altre.

— Ho scritto a Biella — diss’egli, fregandosi lietamente le mani,
— Novara, Vercelli, Asti, Mondovì, pregando tutti i miei amici, di
mandarmi ragguagli su quanto accade, o quanto sarà per accadere. Sta
tranquilla che mi sono spiegato in modo da farmi capire. Se tuo marito
si trova in una di queste città, lo sapremo. Nei luoghi più vicini,
andrò io con la vostra scorratta. Va bene così? Se poi, malgrado tutto
quel che si farà, non si saprà nulla di lui ancora per qualche giorno,
non ti dovrai turbare.

— Oh babbo! — esclamò Liana, dolorosamente.

— Senti: potrebbe aver avuto una missione, un mandato dai capi del
suo partito. Credi tu che non ne abbiano dei capi? Che siano tutti
liberi ed uguali perchè parlano di libertà e di uguaglianza? Potrebbe
essere in Liguria o in Lombardia, ove sono rifugiati tutti i principali
mestatori.

— Perchè non mi ha avvertita? — domandò Liana, con infinita amarezza. —
Perchè non mi ha scritto?

— Avrà promesso il segreto; avrà giurato di non dir nulla a nessuno,
pena la vita. Del resto poi queste son tutte ipotesi. Non mi stupirei
niente affatto di vederlo ricomparire qui un momento o l’altro, fresco
come una rosa. Chi sa mai? E se il segreto, invece d’esser politico,
riguardasse la sua professione? Il caso sarebbe tutt’altro che nuovo.

La giornata passò assai tranquilla; Oliveri passeggiò, meditò, desinò
con appetito, scrisse due altre lettere dopo il sonnerello pomeridiano,
poi uscì per dar un’occhiata al paese.

Il parroco e il notaio, informati del suo arrivo, vennero subito dopo
cena. L’avvocato e sua figlia erano ancora a tavola. La conoscenza fu
presto fatta; Menica arrivò coi bicchieri e la conversazione s’avviò.
Si parlò un poco del caldo, della siccità che cominciava a farsi grave.

— Tant’acqua, tant’acqua e poi adesso più niente! — diceva don Prato. —
Speriamo nel triduo che incominceremo domani sera...

Arignani guardava in terra, con certe tentennatine di testa, che
parevano voler dire: — Questo è niente: se a questo mondo ci fossero
solamente la siccità ed il caldo!

Tanto che l’avvocato se ne accorse, si voltò a lui, e gli disse:

— E lei, signor notaio, cosa ci racconta di bello?

— Di bello?... Eh, veramente non so. Dipende dalle opinioni... quelli
che possono averne... perchè già... Insomma la rivoluzione di Racconigi
è bell’e finita.

Liana si riscosse, puntò le mani sulla tavola come per alzarsi, poi si
lasciò ricadere fissando in faccia a suo padre gli occhi smarriti.

— Sentiamo i particolari — disse l’avvocato.

— Ieri sera sono arrivati i soldati...

— E poi?

Arignani e don Prato affermarono di non saper nulla più. L’avvocato
credette che rifiutassero di parlare per non spaventar Liana, e per
il momento non domandò altro. Però quando si furono congedati, li
accompagnò nel cortile come per cortesia, e quivi, prima di lasciarli,
rivolse loro parecchie domande:

— Mi sanno dire se la resistenza è stata accanita? Se si son fatti
molti arresti? Ricordano per caso il nome di chi comandava la regia
truppa? C’era solamente la fanteria, o anche un po’ di cavalleria?

Rientrò subito.

— Niente — diss’egli a Liana, — non sanno proprio altro.

Liana aveva il viso nascosto tra le mani. Oliveri contemplò un poco
i folti capelli dorati, fregandosi dolcemente le ciglia come per non
lasciarle aggrottare.

— Di che cosa hai paura? — susurrò poi. — Tuo marito non era mica a
Racconigi?

Liana si riscosse, raccontò concitatamente a suo padre la visione
avuta; come avesse creduto di veder Luigi entrare in un portone, e non
fosse riuscita nè a rivederlo, nè ad accertarsi che si era ingannata.

Oliveri ascoltò attentamente, pensoso, ma non turbato; come al solito,
si sarebbe detto che udiva una cosa semplice, ovvia, ch’egli aveva
perfin preveduta.

— Ho capito — disse poi. — E con questo io vado a letto.

Liana si sentì stringere il cuore: conosceva suo padre, ma non si
sarebbe aspettata in simile circostanza, tanta freddezza. Si alzò per
accompagnarlo, come la sera prima.

— Si va a dormire all’ora delle galline — diceva Oliveri, salendo la
scala, — ma che farci? Ieri sera ero stanco, domani mi dovrò alzar
presto...

— Perchè? — chiese Liana, distratta.

— Eh, figlia mia, bisognerà pur veder questa faccenda un po’ da vicino.
Ma per mezzogiorno spero d’essere a casa.

— Dove vai?

— Oh bella, a Racconigi!

— Oh babbo! — esclamò Liana, spaventata — per amor di Dio...

— E cosa vuoi che mi accada? Ti par ch’io abbia il viso d’un
cospiratore? E poi sono prudente... Sta quieta, sta tranquilla...

Liana gli aveva afferrato una mano e gliela baciava.

— Oh babbo, non andare! Se succedesse qualche cosa anche a te! Pensa!
Che orrore, che rimorso...

— La vuoi finire! — esclamò l’avvocato, ritraendosi. — Chi vuole vada,
chi non vuole mandi. Ora siccome io voglio... voglio fare quel che si
può, domani vado a Racconigi.

Quella notte Liana non dormì quasi affatto, più che mai tormentata da
oscuri e sinistri presentimenti. Voleva alzarsi prima che partisse suo
padre per salutarlo, per raccomandargli ancora di non esporsi in nessun
modo, a nessun pericolo. Avrebbe voluto accompagnarlo, ma pensava che
in un serra serra sarebbe stata un impaccio e non altro.

Stanca di mente e di corpo, si assopì al nascer dell’alba e non si
risentì che verso le sette. L’avvocato era partito da mezz’ora. Ecco,
era di nuovo sola! Che fare? Come passare il tempo? Come distrarre la
mente? Desiderava tanto ardentemente un po’ di pace: dove trovarla?

Si aggirò per la casa, senza riuscire ad occuparsi. Poi sentì bisogno
di aria, di moto, e uscì in giardino. Gabriel le venne subito incontro:
erano tre giorni che aspettava un certo ordine. Le parlava, le parlava,
ed ella, per quanto facesse, non riusciva a raccogliersi così da
poter rispondere a tono. Laggiù, in fondo al viale, il cancelletto che
metteva alla parrocchia era spalancato. Le parve un invito. Sì, sì,
rifugiarsi in chiesa, pregare, pregare, pregare.

Vi andò subito. A quell’ora, là dentro, non c’era nessuno. Sedette
nel suo banco col viso tra le palme, e cominciò a raccomandare
fervorosamente a Dio suo padre; ma il pensiero corse tosto a Luigi,
si trovò trascinata nella ricerca affannosa. Oh non avere un luogo in
cui poterlo vedere almen con la mente! Si sentiva come sollevata da
una mano potente e terribile, in alto in alto, in luogo di dove la
vista spaziava su città e villaggi brulicanti di uomini furibondi.
Luigi era là, si trattava di scoprirlo in quel formicaio. Una cosa
tanto impossibile! Almeno esser certa ch’egli era vivo! Cercava di
rammentare quello che aveva provato l’altra volta, quando egli aveva
dovuto fuggire. Anche allora aveva sofferto, ma almeno era stata
avvertita! Oh una parola, una sola parola, scritta o pronunciata! Ma
che strazio questa ignoranza assoluta, questo trovarsi perduta fra
tenebre fitte!... Abbandonarsi a Dio, non c’era altro... Ebbene, ecco
si abbandonava. Ascoltava il cuore batter forte forte e aspettava,
parendole di sentirsi già spuntar dentro una lieve, repentina speranza.
Subito cercava di vedere, d’immaginare uno scioglimento felice,
impensato. Una lettera di Luigi, che si diceva sicuro a Genova, a
Milano, e l’invitava a partire, a venirlo a raggiungere. Oppure no:
egli rientrava in casa all’improvviso e la stringeva fra le braccia.
Raccontava subito tutto. Era stato chiamato a veder un malato in
una villa, in un castello lontano. L’uomo era agli estremi, ma egli
aveva intravveduto il mezzo di ridargli la vita. Solamente bisognava
assisterlo continuamente, stabilirsi lì al capezzale, e combattere il
male senza dargli un minuto di tregua. Era rimasto, e l’aveva salvato.
— Perchè non scrivere? — Ma sì, aveva scritto. — Dunque la lettera era
andata perduta?! — Ecco! — E Liana si metteva in ginocchio e tenendo
giunte al petto le mani, alzava il viso e gli occhi al cielo e tornava
a pregar Dio, affinchè concedesse che la cosa fosse così, per l’appunto
come ella la immaginava. Tutto questo non era forse possibile,
assolutamente possibile?

— Mio Dio, alla fin dei conti io non vi domando un miracolo!

Una rondine, entrata per la porta spalancata, andava su e giù per la
navata di mezzo; s’udiva il cinguettare d’alcune altre posate al di
fuori sul cornicione. Dalle finestre lunghe del coro si vedeva il cielo
azzurro, il tremolar delle fronde nel sole.

— Mio Dio — ripeteva Liana, supplicando — non fatemi soffrire di più!

Ad un tratto le parve di sentire un leggero rumore di ruote; la via
traversa che dalla strada di Racconigi conduceva a casa, passava
appunto lì dietro la chiesa.

Si alzò, uscì, riattraversò rapidamente il giardino, pieno il cuore
d’una nuova e forte ansietà.

L’avvocato, sceso allora allora dal legno, aveva domandato subito di
lei alla serva. Le veniva incontro adagio, ridente, con la faccia di
chi ha in pronto una barzelletta, una celia:

— Come va? Come hai dormito? — domandò egli, baciandola.

— Bene — rispose Liana. — E dunque?

— Oh tutto tranquillo. Racconigi pareva un cimitero, stamattina. Ho
avuto modo di saper molte cose; ho trovato un conoscente, un certo
Ghersi, mio antico compagno di scuola, che credevo morto da anni e
che invece è più in gamba di me. È un realista sfegatato; informato di
tutto. Per farla corta: alcuni dei capi sono fuggiti o nascosti; gli
altri sono stati arrestati. Tuo marito fra questi non c’è.

Liana chinò la testa, mise un sospiro.

— Cosa vuoi di più? — conchiuse suo padre.

Più tardi uscì per rendere la visita al parroco, al notaio, e sentire
se c’erano nuove in paese.

— Domani vado a Moretta e a Villafranca — diss’egli poi, tornato a
casa. — Pare che il tafferuglio sia cominciato anche là.

Infatti il giorno dopo andò via al mattino e tornò verso sera. S’era
fermato poco a Moretta, ma a Villafranca lo aveva divertito assai lo
spettacolo degli insorti, che, ordinati militarmente, perquisivano le
case dei nobili e demolivano i molini ed i forni feudali.

Egli seguitò così; in quei giorni fu continuamente in moto, malgrado
l’afa, malgrado i disagi. Partiva, arrivava, ripartiva; sempre solo,
sempre franco, sempre sereno.

Quando si seppe che in Asti era stata proclamata la repubblica,
annunziò a Liana ch’egli andava anche là.

— Da quanto ho inteso, là le cose sono molto più serie che altrove. Chi
sa...

Liana lo lasciò andare anche questa volta. Si sentiva così stanca
oramai, così spossata dalla continua attesa! Durante le assenze di suo
padre, o lunghe o brevi, non usciva quasi più. Tutto il giorno ella
stava seduta nella finestra dello studio di Luigi, senza leggere, senza
lavorare, con gli occhi fissi sulla stradetta per cui, secondo la sua
immaginazione, egli doveva tornare. Durava così delle ore ad essere
come fuori del mondo.

Partito al mattino, Oliveri prima di sera era già di ritorno.

— Caspita! — diss’egli, dopo aver abbracciato strettamente la figlia.
— Non c’è stato modo d’andar avanti; nei paesi per i quali passavo,
tutti mi consigliavano a non tentar l’impossibile. Par che in seguito
all’ultimo editto la gente di campagna si sia armata per il Re; fatto
sta che le strade sono impedite e che ci si arrischia la pelle...
Del resto notizie da Asti ne avremo ugualmente. Sai che ho scritto
all’amico Fraschini; o prima o poi arriverà la risposta.

Oliveri non si mosse più da Murello; cominciò un’altra vita. Si alzava
assai tardi, passava il resto della mattina leggendo o scrivendo, e
dopo pranzo andava a casa di Arignani, ove convenivano le notabilità e
le autorità del paese. Dimostrava a Liana una tenerezza quasi materna,
ma non le parlava più di suo marito.

Si apriva invece col parroco e col notaio, esponendo loro placidamente,
con lo stesso tono di voce, tanto le supposizioni più rosee, quanto le
più nere.

— Chi sa dove diavolo hanno spedito il buon Ughes quelli della sua
setta? Non mi meraviglierei niente affatto di ricevere un bel giorno
notizie da Parigi, di saperlo diventato qualche cosa di grosso laggiù:
che dell’ingegno ne ha da rivendere mio genero, e senno, e tenacia, e
coraggio... Del resto potrebbe anche essere scappato per sottrarsi a
qualche funesto giuramento, a qualche impegno delittuoso e terribile.
Così si spiegherebbe il segreto assoluto, il silenzio prolungato...
Un’altra ipotesi: non potrebbero averlo, per così dire, rapito e
rinchiuso per punirlo d’aver abbandonato il partito? Non potrebbero
averlo assassinato? Nei tempi in cui siamo tutto è diventato possibile!

Quando si sparse la voce che in parecchi luoghi, come a Carignano, a
Chieri, a Cuorgnè, un certo numero di repubblicani erano stati fucilati
a furor di popolo, l’avvocato osservò che suo genero poteva aver finito
così, e che in questo caso non si sarebbe saputo mai più nulla di lui.

— Santo Dio! — diceva egli — le combinazioni sono tante, tante le
possibilità, che a volerle scoprir tutte c’è di che ammattire... E il
Governo è stato abile, bisogna dirlo. Col bando del 24, il Re concede
perdono ai colpevoli dei tumulti accaduti fino a quel giorno per il
caro delle granaglie ed esorta i municipi a provveder d’armi le persone
dabbene e i possidenti contro i sediziosi... Ecco trovato il modo di
separare i campagnuoli dai repubblicani. Questo non è che il tuono;
due giorni dopo scoppia anche il fulmine. Data facoltà a chiunque di
accoppare quelli che saccheggiano le case o commettono violenze; gli
arrestati in flagrante, puniti di morte... E poi Giunte locali, giudizi
sommari, esecuzioni immediate, insomma la legge marziale con tutte le
sue conseguenze. Il provvedimento è energico; purchè non si ecceda.

La prima domenica di agosto, mentre i murellesi uscivano da messa
grande, sentirono che in piazza si batteva il tamburo. In pochi minuti
uomini, donne, vecchi, fanciulli furono tutti adunati davanti all’albo
pretorio. Chetato il bisbiglio confuso, l’inserviente Antonio Boscario,
con a lato Giambattista Spertino e Domenico Godano, quali testimoni, ad
alta ed intelligibile voce di grida, proclamò il seguente:

  «Premendo alla pubblica tranquillità per soddisfazione dei buoni
  e terrore dei reprobi che si esterminino i nemici dello Stato e
  del buon ordine, la Regia Giunta stabilita nella presente città,
  valendosi delle facoltà da S. M. accordatale nel suo Editto delli
  26 ora scorso luglio, dichiarando esposti alla pubblica vendetta
  Carlo Gallo del vivente medico Carlo e Gio. Battista Comino di
  Revello, sedicenti Generale, e Luogotenente Generale, comandanti
  la Repubblica piemontese nella Valle del Po, promette ed accorda
  impunità e premio di lire millecinquecento Regie di Piemonte a chi
  non essendo degli autori e promotori principali, ancorachè complice
  nel tumulto ed attruppamento sedizioso occorso nei passati giorni
  in detto luogo di Revello, darà vivo nelle forze della Giustizia,
  li detti Gallo e Comino, ed altri simili; ed a chi uccidesse alcuno
  di essi, siccome resta lecito ad ognuno di fare, il premio di lire
  mille oltre l’impunità.

  «A chi poi non essendo complice in tale orrido eccesso arrestasse,
  o consegnasse vivo nelle forze alcuno d’essi Gallo o Comino, o loro
  correi, se gli accordi facoltà di poter liberare altro reo di altri
  delitti, ancorachè meritevole di morte, od altro complice di tale
  attruppamento e tumulto, purchè non sia degli autori o promotori
  principali suddetti del medesimo, ancorachè fosse di quelli che
  in qualche occasione si fossero in pubblico mostrati sedicenti
  sediziosi, e se gli accorda in oltre il premio di lire tre mille.
  «Se poi non gli riuscisse di consegnarli vivi nelle forze, ma
  soltanto di ucciderli, resta loro accordato il premio di lire tre
  mille.

  «Si persuade la R. Giunta che pentiti li Rei ed animati da giusto
  zelo li buoni, vorranno profittare di questa opportunità per
  rientrare nella classe degli amanti del buon ordine, e gli altri
  maggiormente animati dal desiderio di ristabilire la pubblica
  tranquillità s’impiegheranno tutti, giusta le loro forze, ad
  estirpare cotesti infesti sediziosi.

      «Saluzzo, il 5 agosto 1897.

  «Per detta R. Giunta

                                               «ISASCA, segretaro».

La folla cominciò a sciogliersi; i più tiravano via verso casa, come se
ciò che avevano udito fosse una cosa lontana, d’altri tempi o d’altri
paesi. La piazzetta rimase seminata di capannelli e di crocchi nei
quali correvano blandi commenti.

— Le cifre sono tonde — osservava un contadino, — non c’è che dire.

— Già, già, rispondeva un altro — ma, ehi! pensa che si arrischia anche
la pelle. Credi tu che quel signor Gallo, o quel signor Cornino si
lascierebbero arrestare senza far resistenza?

— Non credo niente io; parlo dei quattrini.

— Ecco — diceva un giovinotto — dato il caso, bisognerebbe mettersi
d’accordo, fare come una squadra, e poi...

— E poi e poi — interrompeva un vecchio, — credi a me: certe cose è
meglio lasciarle fare a chi tocca.

— Bravo! Sicuro! Questa è giusta! — gridarono tre o quattro voci. — Che
se la sbrighino un po’ fra di loro.

E si tornò ai tranquilli discorsi delle altre domeniche.

L’avvocato Oliveri, che era stato presente alla pubblicazione, si
guardò bene dal parlarne alla figlia. Non gli pareva d’averla mai
veduta così, neppur quando Ughes aveva dovuto fuggire, dopo la scoperta
della prima congiura.

— E sì che anche allora era già innamorata — pensava, — bisogna dire
che il suo amore sia ancora aumentato!

Egli temeva sempre che, perduta ad un tratto ogni speranza, ella
scoppiasse in un accesso di disperazione terribile, oppure si mettesse
a far atti o a dir parole di estremo dolore. Ah quando si fermava su
quest’idea, subito si sentiva divenir meno quieto, meno imperturbabile!
Perciò s’ingegnava in tutti i modi di tener lontano da lei il pensiero
che Ughes potesse non tornar più.

— Diamine! — egli diceva a Liana ogni tanto. — Tuo marito è già
risuscitato una volta; non vuoi che risusciti questa? Dopo i fatti del
’94 egli corse ben altro pericolo. Caspita! era compromesso, ricercato,
condannato. Invece ora, per quanto io sappia, nessuno ha pronunciato il
suo nome.

In certi momenti Liana gettava le braccia al collo di suo padre e stava
così senza piangere e senza parlare. Altre volte, rabbrividiva tutta e
lo scongiurava di dirle la verità qualunque essa fosse; poichè quello
stato lì era il peggiore di tutti. Venne un giorno in cui parve che
le parole tante volte ripetute da suo padre non entrassero più nella
sua mente. Le dimostrazioni d’affetto, le premure non la crucciavano,
non le davano noia, ma le riuscivano indifferenti. Ora stava lunghe
ore chiusa in casa, come se avesse ribrezzo del sole, della luce, del
verde, di tutto ciò che ispira idee di serenità e di gioia; come se
fosse priva di volontà, piena d’avversione per ogni piccolo sforzo,
ogni movimento. Ora invece si aggirava per il giardino e per le stanze
con gli occhi lagrimosi, le labbra convulse, occupata a visitare tutti
i luoghi in cui la memoria le rappresentava suo marito, a raccogliere
mentalmente, con minuzia affannosa, tutti i ricordi lasciati da lui.
Sul piccolo cancello di legno egli aveva posate tante volte le sue
mani! Su quella panca sedevano spesso insieme di sera. A quel vecchio
tronco mancava un pezzetto di scorza, tagliato da lui, un giorno che
si baloccava col suo temperino. Ella cercava le sue orme nella terra
dei viali. Apriva l’armadio e maneggiava i suoi abiti; sfogliava i suoi
libri, toccava le penne, la carta, tutti gli oggetti che si rammentava
d’aver veduto toccare da lui. Quando, tornando, suo padre non la
trovava in casa, sapeva dove andarla cercare: ella era nel cimitero,
inginocchiata sulla tomba del vecchio zio Vietti.

L’avvocato riceveva lettere a tutte le poste. Andava egli stesso
ad aspettare il procaccio, si faceva dare quello che portava il
suo indirizzo e correva a chiudersi in camera per leggere più
tranquillamente. Erano risposte ad altre lettere scritte da lui, che lo
informavano del modo con cui erano andate le cose nelle varie città e
in parecchi paesi.

Si narravano in tutte presso a poco gli stessi fatti; i realisti
avevano il sopravvento in ogni luogo.

Arrivò finalmente anche la lettera del signor Fraschini. L’avvocato
seppe così che in nessun altro luogo l’agitazione era stata lunga
e grave come in Asti. L’amico mandava una relazione molto ben
particolareggiata dei fatti, e concludeva: — Si sono già fucilati Arò,
Berruti, Testa, Trinchero, Rattino, Manzo, Celotto, Rivella, Chiomba,
Raspo, ecc.

— Eccetera! — brontolò l’avvocato. — Purchè quest’eccetera non voglia
dir Ughes. Bisognerà ch’io riscriva, pregandolo di mandarmi i nomi in
disteso.

Ma ben presto comprese che a voler aver i nomi di tutti quelli che
cadevano in quei giorni condannati dalle Giunte e giustiziati dai
soldati era cosa difficilissima, per non dire impossibile.

Quando seppe che le esecuzioni si facevano a intervalli di alcuni
giorni e che si lasciavano i cadaveri esposti sino alla sera, Oliveri
tornò a mettersi in moto.

Fu a Saluzzo, a Racconigi, a Carignano, a Moncalieri. Tornava a casa
un po’ pallido e non sorrideva più. Appena arrivato, se la sera non
era troppo inoltrata, andava a cercare il parroco o il notaio, per
raccontare quello che aveva visto o sentito.

— Si eccede, si eccede. Io sono per il Governo; mi duole il dirlo, ma
si eccede. Sapete chi hanno fucilato a Moncalieri? Carlo Tenivelli.
Un uomo dotto, che ha dato alle stampe molte opere, anche poesie.
L’ho conosciuto un pochino. Costui capo degli insorti? Ci sarebbe da
ridere, se il caso non avesse avuto una fine così lagrimevole. Dite
che l’insurrezione era condotta, capitanata da un bambino di tre
anni e sarà tal e quale. Aveva un viso serio e mansueto, quel povero
Tenivelli, dal suo labbro non uscivano che poche e benigne parole,
la sua compagnia era mite e soave. Era anche miope come una talpa.
Dicono che abbia fatto dei discorsi sediziosi, terribili. Ma se aveva
l’aria di non saper nemmeno in che mondo vivesse! Per me non capisco!
Gli amici, forse gli stessi che l’avevano cacciato nell’imbroglio, lo
persuasero a scappare. Girovagò per la collina e finì col rifugiarsi
in casa di un altro amicone, che lo denunziò per trecento lire. Fu
arrestato, ricondotto a Moncalieri da un drappello di cavalleria, e
fucilato senza complimenti l’altra mattina alle cinque. Prima di morire
scrisse una lettera alla sorella, e andò al supplizio come se andasse a
passeggio.

A Savigliano non v’era stato che qualche tentativo di rivolta, represso
subito energicamente dagli stessi abitanti. Un giorno l’avvocato
vi andò col legno per diporto e tornò con una buona, con un’ottima
notizia.

— Un altro editto! — diss’egli lietamente a sua figlia. — Il Re ordina
alle Giunte di desistere da ogni procedimento verso coloro che non sono
stati nè autori, nè capi di ribellione e che sono rientrati nel dovere
deponendo spontaneamente le armi. Adesso vedremo. Sono quasi certo che
tuo marito non era fra i capi, l’avrei saputo dai miei corrispondenti.
A meno che egli avesse cambiato nome, preso un nome di guerra, ciò
che non credo, non rispondendo all’indole sua. Ad ogni modo penso che
questo ci lasci facoltà di sperare.

Egli chiacchierò assai a cena e dopo. Spiegò a sua figlia quello che
erano le Giunte, e come gl’ispirassero ben poca fiducia perchè composte
di persone anticipatamente e naturalmente nemiche di quelli che
dovevano giudicare.

— Lasciamo a parte la capitale, dove a formar la Giunta intervengono
membri affatto speciali, ma nelle altre città! Il comandante militare,
il prefetto civile, l’intendente, l’avvocato fiscale... Quasi tutte
persone troppo ligie al Governo, vincolate, inclinate a provare la
loro fedeltà, la loro devozione, con degli atti di rigore, e santo
Dio! anche di crudeltà. E nota che per l’arresto dei rei, essi possono
servirsi di mezzi straordinari: premi, impunità, salvacondotti, e
simili. Puoi immaginare quante vie vengano aperte alle accuse, alle
delazioni, alle vendette, ai tradimenti...

Qui cominciò a fare spensieratamente un lugubre quadro di quello che
era stato il Piemonte nei giorni antecedenti, ma voltatosi per caso a
guardar Liana, restò non so con qual parola ammezzata a fior di labbra.

Non l’aveva mai vista così pallida, così mortalmente pallida.

— Insomma — diss’egli, tagliando corto — quelli che fanno veramente
compassione sono i soldati. Dopo aver combattuto valorosamente per
quattro anni contro un nemico fornito di pratica e di ferocia, vedersi
costretti a far il mestiere del birro, e diciamolo pure, anche del
boia. Meno male che adesso è finita.

Quando fu noto che in parecchi luoghi si celebravano funzioni religiose
per ringraziare Dio della ricuperata tranquillità; e si banchettava,
e si danzava per festeggiare il ristabilimento della pace, parve a
Oliveri che si dovesse far qualche cosa anche a Murello; e invitò
alcuni dei notabili a trovarsi di sera in casa sua.

Venne il parroco, vennero i sindaci (che allora erano due e si
cambiavano a ogni semestre) venne il notaio, il chirurgo, il barbiere.

Oliveri, ritto vicino alla tavola nel salotto da pranzo, sembrava
un professore in attesa di veder a posto tutti i suoi scolari per
principiar la lezione. Accennò a ognuno di accomodarsi ed espose
bellamente le ragioni che l’avevano indotto a fissar l’adunanza.

Tutti approvarono.

— Allora — riprese l’avvocato — poichè siamo d’accordo che si debba far
qualche cosa, resta a vedere, a decidere che cosa si deve fare.

— Però — disse a mezza voce Susta, il barbiere — qui a Murello non
abbiamo fatto niente di male; non so perchè si debba chieder perdono.

— Oh! — esclamò il notaio — non avete capito? Si tratta di fare una
festa, non di chieder perdono.

— Vorrei saper solamente se è un affar di premura? — domandò Godano, il
sindaco allora in carica.

— No — rispose Oliveri; — perchè mai?

— Eh niente! Tanto così per sapere.

— Bisognerebbe anche essere certi che questa storia è finita — osservò
il chirurgo Formica. — Ieri sera ne ho ancor visto freddar uno a
Racconigi.

— È l’ultimo — disse Vallero, l’altro sindaco.

— Doveva essere l’ultimo quello a cui hanno presa la pelle giovedì.

— Sì, ma stamattina, a Racconigi, si diceva piano e forte che il
principe Carignano è andato dal Re e si è fatto sentire...

— Cioè — interruppe Oliveri, — avrà pregato, avrà interposto uffici in
favore degli imputati che ancora rimangono.

— Sarà così; e pare che il Re stavolta abbia proprio promesso il
perdono.

— Ecco! — esclamò l’avvocato. — È questo che dobbiam festeggiare.

— Io sarei d’avviso d’aspettare ancora un pochino — mormorò Godano.

— Anch’io, anch’io, anch’io! — gridarono tre o quattro altri.

— Cinque o sei giorni, una settimana — disse don Prato. — Potrebbe
darsi che fosse qui anche sor Luigi, allora sì che si starebbe allegri!

— È vero — mormorò l’avvocato, e soggiunse fra sè: — Toh! come diamine
questo è venuto in testa a lui e non a me?

— Chi sa che non torni anche Bechio — disse il barbiere.

E si cacciò a ridere.

— A proposito — esclamò l’avvocato — ho sentito a parlare di questo
Bechio, scomparso anche lui come... E nessuno sa dove sia?

— Eh no, signore — rispose Godano, — non si sa proprio niente. C’è
chi assicura d’avergli visto in mano un passaporto del signor generale
Bonaparte, ma la credo una favola.

— Che uomo era?

— Peuh! — brontolò il chirurgo. — Io dico che se gli hanno empita la
testa di piombo, hanno fatto un vantaggio a lui che l’aveva leggiera e
un gran servizio al paese!

Menica entrò col vassoio e si cominciò a discutere allegramente sul
vino.

Pochi giorni dopo accadde il fatto di Govean, che tolse all’avvocato
ogni velleità di proporre festeggiamenti. Pietro Francesco Govean, capo
degli insorti di Racconigi, veduta fallita l’impresa, si era salvato
in Francia. Saputo che il Re aveva accordato il perdono, tenendosi
sicuro, rimpatriò. La Giunta, che a Racconigi s’intitolava Consiglio di
guerra, non fece altro che tanto: lo agguantò e lo condannò a morte. Il
4 settembre Govean andò al supplizio fra due file di soldati, intrepido
come chi ha fatto da tempo il sacrifizio della propria vita. La gente,
attediata oramai dal ripetersi di quei casi, lo guardava passare cupa
e angustiata. Egli cercava di giustificare le opere sue con voce alta,
solennemente squillante nel silenzio mortale. Si narra che il luogo
in cui cadde, un quieto, ombroso viale che serviva alle passeggiate e
ai ritrovi, rimanesse per molti anni abbandonato, quasi che il terreno
durasse tuttavia bruttato di sangue.

L’impressione del caso fu enorme da per tutto e sollevò innumerevoli
dispute. Anche Oliveri n’ebbe una, e relativamente assai viva, col
chirurgo Formica. Secondo lui la Giunta, o Consiglio che fosse, aveva
fatto benissimo a non considerare altro che l’articolo 1º dell’editto
14 agosto, il quale escludeva dal perdono giust’appunto gli autori ed i
capi.

— Ma chi sono gli autori? — diceva il chirurgo. — Chi sono i capi?
Come li classifica lei, come li distingue? Si doveva tener conto delle
parole del Re, non badar ad altro che a questo!

— Un accusato di delitti comuni...

— Un’altra adesso! Lo so bene che si sono fondati su ciò. Ma mi dica
un poco: non è vero che il bando non fa distinzioni? E dunque! E poi:
delitti comuni? Quali? Specifichi. Forse perchè Govean ha messo taglie?

— Sicuro!

— Oh bene! Perchè le ha messe? Per motivo di rivoluzione. Dunque il
delitto cessa di esser comune per diventar strettamente politico. Ma
poi cosa andiamo cercando! Era tornato fidando sulla parola d’un Re;
ecco quello che lo doveva salvare!

E la contesa durò su e giù per la strada della Madonna degli Orti,
finchè quasi non ebbero più fiato. Usciti prima del tramonto,
rientrarono in paese che era già notte.

— Basta — disse il chirurgo, barattando il saluto — intanto quelli che
sono fuori faranno bene a restarci.

L’avvocato non disse più nulla, accelerò il passo, arrivò a casa, salì
diviato nello studio di Ughes, dove era certo di trovar Liana.

Ella lo vide, si riscosse, balzò in piedi palpitando.

— Oh niente — diss’egli, — niente di nuovo, sta pur seduta. Ti volevo
solo dir questo: se tuo marito, come seguito a credere, è salvo e
lontano, prega Dio che non torni, ma pregalo, sai.




X.


Una bella mattina di settembre, Massimo dormiva ancora tranquillamente,
quando una voce che da piè del letto lo chiamava: — Sor contino, sor
contino — lo fece riscotere. Aprì gli occhi e raffigurò subito il
vecchio cameriere di suo padre.

— Il signor conte vorrebbe parlare al signor contino.

— C’è premura?

— Non credo, ma sarà meglio che venga subito. E faccia anche il piacere
di mettersi l’uniforme...

— Cos’è successo?

— Non so niente... Badi che il signor conte s’è fatto svegliar prima
del solito ed è già alzato...

Massimo inquieto, stimolato dall’immagine del padre impaziente,
si vestì in fretta, uscì dal suo quartierino a terreno, attraversò
l’atrio, salì lo scalone. Credeva di trovare il conte nel suo gabinetto
particolare, ove lo riceveva quando voleva consigliarlo, rimproverarlo,
ammonirlo; fu introdotto invece nella stanza da letto.

Il conte Annibale prendeva il caffè, voltando le spalle all’uscio,
ritto davanti a una finestra. Sentì il passo di suo figlio, la voce
rispettosa che gli domandava come avesse passata la notte, ma non
rispose, nè si mosse finchè non ebbe vuotata e posata sur un tavolino
la bella tazza di porcellana filettata d’oro.

Padre e figlio si considerarono per qualche tempo, come si vedessero
per la prima volta.

Il conte Annibale era di piccola statura, assai curvo; aveva i capelli
bianchissimi, gli occhi grigi, i lineamenti del volto fini come quelli
d’un ritratto in miniatura. Faceva stupore la sua voce robusta e
sonora.

— No, che non ho dormito bene — diss’egli poi; — ma non importa. Leggi
questo e quindi discorreremo.

Massimo prese il foglio che gli porgeva il padre con la punta delle
dita, e si avvicinò alla finestra. Chi scriveva si dichiarava amico
dei nobili e particolarmente di casa Claris. Avvertiva il conte che
in certi discorsi ultimamente tenuti, suo figlio Massimo aveva dato
non equivoci contrassegni di aderire alle recenti sfrenate opinioni di
Francia. La lettera non aveva firma. Il giovane alzò le spalle, ripiegò
il foglio per restituirlo.

— No, no! — esclamò il conte — straccia e butta via.

— Sono insinuazioni stupide e maligne — disse Massimo, — cose che
vengono dal basso; e lei, signor padre, fa benissimo a...

Il conte alzò la mano:

— Sì: ma c’è pur Qualcuno che sta in alto, molto in alto, il quale
si meravigliò non poco quando seppe che non avevi voluto entrare nei
battaglioni che combattono gl’insorti.

— In tutti questi anni ho sempre cercato di fare il mio dovere...

— Cosicchè credi di poter riposar sugli allori?

— Non dico questo, ma...

— E ti par d’essere un militare perfetto?

— No, signore, ma senta...

— Credi che basti mostrar intelligenza, fermezza, coraggio? No, caro,
no. Sai cosa manca a te? Un’idea chiara di quel complesso di leggi,
di regolamenti, di norme atte a stabilire, a mantenere severamente
l’ordine in un esercito, e che si chiama disciplina. Senza la
disciplina, la gente armata può riescire più dannosa ai suoi che ai
nemici.

— Hm! — fece Massimo, quasi involontariamente.

Il conte, che camminava innanzi e indietro per la stanza, si fermò su
due piedi e squadrò severamente suo figlio.

— La disciplina militare degli antichi romani era ferrea! — soggiunse
egli, alzando la voce. — Essi ne lasciarono al mondo mirabili e
terribili esempi. Non sai che Tito Manlio condannò a morte suo figlio
per essere uscito in campo contro un Gallo insultante, senza l’ordine
espresso del console?

— Era già di moda anche allora lasciarsi insultare dai Galli? — voleva
dir Massimo, ma si morse la lingua.

— Gli storici poi narrano questo — continuò il conte. — Durante
un’accanitissima pugna, un legionario aveva atterrato un nemico, lo
teneva sotto il piede e già alzava il braccio per finirlo, quando s’udì
suonare a raccolta. Che credi tu ch’egli abbia fatto?

Massimo crollò il capo e inarcò le ciglia.

— Ritenne il colpo e ubbidì — ripigliò il conte. — Vuoi ancora un
fatto? Un giorno, una legione pose il campo in un luogo ov’era un
bellissimo albero carico di pomi maturi; vi passò la sera, vi passò la
notte. La mattina di poi, quando si allontanò, non mancava neppure uno
di quei frutti, neppure uno!

Il giovane ascoltava a capo basso. Poichè tutto pareva risolversi in
una semplice ramanzina, conseguenza della lettera anonima ricevuta,
l’inquietudine procurata dalla chiamata improvvisa scemava via via.
Però non capiva perchè il cameriere gli avesse detto d’indossar la
divisa.

Un servitore venne ad avvertire ch’era attaccato.

Il conte guardò l’orologio e prese il braccio di suo figlio, come fosse
inteso che doveva venire con lui. Scesero lo scalone in silenzio.

Massimo immaginava che si andasse ad assistere a qualcuno di quei
tridui che certe pie associazioni facevano celebrare or in una chiesa,
or in un’altra, per implorar l’aiuto divino contro i nemici della
pubblica tranquillità. Credette prima che la funzione religiosa dovesse
aver luogo a San Filippo, vedendo la carrozza voltar da quella parte;
poi a Santa Teresa, vedendo che proseguiva senza fermare.

Altri legni precedevano o seguivano il loro. Le strade erano assai
popolate. Nella gente era un fermento, un’aspettativa che pareva tener
tutti agitati. Notò che i più andavano verso la Cittadella: gli uni
chini chini come sopraffatti da un gran dolore, gli altri guardandosi
attorno come rintontiti.

In Santa Teresa non entrava nessuno. Sulla piazzetta v’era un
capannello di giovani tutti vestiti di nero. Uno di questi, mentre
si voltava a guardar la carrozza, mostrò dipinta nel volto una così
intensa e stanca costernazione, mista a tant’odio, che Massimo si sentì
rischiarar la memoria come da un lampo: — Era il 7 settembre, il giorno
fissato per l’esecuzione di Boyer e di Berteu! E non si potè rattenere
dallo scuotersi in tutta la persona, come chi vede repentinamente cosa
che gli faccia ribrezzo.

— Che c’è? — domandò il conte.

Il contino si rincantucciò in fondo al legno senza rispondere.
Rammentava che parecchi nobili avevano stabilito di cogliere
quell’occasione per dimostrare il loro fervente amore per la
monarchia, assistendo al supplizio di quelli che avevano congiurato
per abbatterla. Comprendeva tutto, oramai. Anche suo padre afferrava
quella congiuntura per porre ad effetto un suo divisamento, forse già
antico. Non sapendo al giusto quali fossero le idee di suo figlio, e
impensierito per certa tepidezza che sentiva in lui, non cessava dal
tentar l’animo suo in varie maniere per vedere se gli si aprisse. Ora,
poichè una lettera lo accusava nettamente di propendere alle nuove
dottrine, cercava di troncare i sospetti, obbligandolo, in certo modo,
a provare pubblicamente il contrario. Massimo conosceva abbastanza
suo padre per non meravigliarsi se non s’era pigliata la briga di
comunicargli la sua decisione. Oramai era tardi: ogni osservazione,
ogni rimostranza sarebbe riuscita vana; bisognava piegarsi.

Il legno procedeva quasi di passo, ma al giovane pareva volasse.
Il conte aveva la sua solita faccia marmorea, guardava fuori
tranquillamente come se andasse a semplice diporto. Al momento in cui
passavano davanti alla chiesa di San Giuseppe, si chinò innanzi verso
il cocchiere e gli ordinò di fermare. Massimo sperò per un istante
che quella fosse la meta e che non si andasse più oltre, ma scendendo
a terra dietro al padre, scorse lo zio, il marchese Violant di Ricaud
avviato a piedi con suo figlio.

— Faremo così anche noi — disse il conte. — Abbiamo tempo, e un po’ di
moto a quest’ora fa bene.

I due nobili cognati si salutarono, si strinsero la mano e cominciarono
tosto a parlare gravemente, sommessamente fra loro. Massimo si
accompagnò a malincuore col cugino.

Giuseppe Giacinto Violant, era un giovanotto sui ventidue o ventitrè
anni; grosso, paffuto e colorito come suo padre. S’occupava assai di
cavalli, d’intrighi galanti e anche un po’ di politica.

— Dunque è stamattina che si fa loro la festa! — diss’egli a Massimo. —
Ci sarà un bel pubblico, sai: parecchi gentilissimi cavalieri e qualche
bellissima dama. Anche la mattinata è bella.

— Troppo bella... per morire.

— Che muso hanno questi signori borghesi! Guarda se non sembrano
tutti amici o parenti di quei due disgraziati. Non hanno ragione,
per Bacco! Niente capestro, questa volta: piombo, piombo servito con
tutte le formalità, come se si trattasse di due gentiluomini, o di due
militari... Ed ecco lì che per contentar certa gente si finisce col far
le cose a rovescio.

— Contentar chi?

— Per contentare l’ambasciatore di Francia si fucilano i borghesi e
s’impiccano i nobili.

— Che nobili?

— Il conte della Morra, per Bacco! Non ti ricordi?

— Ma il conte della Morra è stato appeso in effigie! Solamente in
effigie!

— E cosa importa?

Massimo alzò le spalle e non aperse più bocca.

Giacinto ripigliò subito:

— Mio caro, niente di più pericoloso che queste concessioni al
ceto medio; lo dice anche mio padre. In questo caso le leggi, le
consuetudini prescrivono la forca, e forca doveva essere. Basta,
vedremo come andrà la faccenda. Sai che mi sono già trovato presente
alle esecuzioni del cavaliere di Saint-Amour, del maggiore Mesmer,
di Chantel e di Junod? Questa sì mi ha fatto una certa impressione!
La Corte si era ritirata alla Vigna della Regina; pattuglie in tutte
le strade; in Cittadella i cannonieri ritti accanto ai pezzi con la
miccia accesa; la cavalleria accampata fuor di porta Susina. Però
nessuno si mosse, parevano tutti più balordi di quello che non siano
quest’oggi... E non avrei creduto mai che quei due sapessero morir così
bene! Nessuna debolezza, nessuna bravata. Non vollero confessar niente,
neppure quando li interrogò il Primo Presidente in persona. Quando li
hanno fatti inginocchiare per chiedere perdono a Dio, al Re, alla regia
delegazione, sì l’uno che l’altro... Oh, guarda un po’ chi c’è qui!

Così dicendo il marchesino lasciò bruscamente il braccio del cugino per
slanciarsi verso una leggiadra bussola che usciva in quel momento dal
palazzo Rombelli. Si levò il cappello, s’inchinò, baciò con ingordigia
la piccola mano inguantata, che comparve per un momento fuor dello
sportello.

Avvedendosi che suo figlio era rimasto solo, il conte lo chiamò vicino
con un’occhiata. Massimo si pose al fianco di suo zio. Avrebbe voluto
distrarsi un poco prestando orecchio a quanto dicevano, e non gli
veniva fatto. Pieno il cuore d’una viva, crescente angustia, non poteva
levar gli occhi dalle severe muraglie del mastio; dai baluardi, che
indi sporgendo, si guardavano insieme con aiuto scambievole; da tutta
la parte della formidabile fortezza che gli sorgeva davanti, via via
più vicina e distinta.

La fantasia ora gli rappresentava i condannati piangenti, tremanti, in
atto d’implorare misericordia e perdono; ora furenti e minacciosi; ora
pieni di coraggio e di forza; ora lividi, disfatti, già quasi morti.

Avevano percorso più che mezzo il viale tendente all’ingresso della
Cittadella, quando si udì gridare: — Largo, largo!

La folla si apriva per far luogo a un drappello di soldati, mandati
a schierarsi più avanti a maggior tutela dell’ordine. Massimo scambiò
un saluto coll’ufficiale che li comandava, suo conoscente, e si fermò
per vedere sfilare quelle facce maschie ed abbronzate, esprimenti in
quell’ora una noia fredda e rassegnata.

Passato il drappello, bisognò lasciar passar coloro che gli si erano
cacciati dietro a furia per approfittare del solco che si veniva
aprendo; e poichè la gente sospinta dalle due parti cercava di
riserrarsi, seguì un momento di gran confusione. Nel pigia pigia,
Massimo si trovò bruscamente separato dal padre e dallo zio. Li
cercò subito con gli occhi qua e là, alzandosi in punta di piedi.
Tutt’intorno la folla fluttuava esaltata, commossa; s’udiva un mormorìo
cupo e continuo, nel quale nascevano e si propagavano fremiti subitanei
e strani movimenti convulsi. Di tanto in tanto scoppiava qualche grido
senza senso e senza parole, simile al ruggito d’una belva, all’urlo
inarticolato d’un pazzo. Accanto a Massimo alcuni artigiani disputavano
caldamente fra loro con gesti focosi e parole veementi. Uno di essi,
eccitato forse da quel terribile stimolante che è la morte, agitava la
testa e le braccia come un frenetico.

Il giovane si sentiva inchiodato nel punto ove s’era fermato; incapace
non solo di movere un passo, ma di volgersi dalla parte ove si
volgevano già tutti gli altri.

S’udirono i tocchi lenti ed eguali di una campana; soverchiati ben
tosto da un lugubre rullar di tamburi. Massimo, preso da un capogiro,
s’aggrappò all’albero che aveva vicino. Stava per succedere una cosa
orrenda, disumana: non sapeva più altro.

Ritta di fronte a lui, che ora dava le spalle alla fortezza, una
giovinetta smorta, con le due palme strette al volto, lo guatava
immobile, come impietrita.

Tosto il pensiero di Massimo corse alle famiglie dei condannati. — Chi
sa che strazio in quell’ora!... E colei chi poteva essere? La sorella,
la fidanzata, l’amante forse d’uno dei due moribondi?

La mirò un momento anche lui, come incantato, mentre sentiva un nodo
che gli stringeva la gola, che gli toglieva il respiro e gli faceva
gonfiar le vene dal sangue che circolava a fatica. Non aveva più
provato uno spasimo simile da quando era bambino; si calò il cappello
su gli occhi, poichè le stille calde calde cominciavano a rigargli le
gote.

In quel subito, senza ch’egli sapesse spiegarsi il perchè, gli tornò
nel corpo un po’ di forza nervosa, e insieme a questa la smania, lo
struggimento di fuggir lontano da quel funestissimo luogo.

Avendo la gente continuato a spingersi avanti, ed egli non essendosi
mosso, veniva adesso a trovarsi quasi all’estremità della calca. In
pochi istanti, con pochissimi sforzi, ne fu fuori affatto. Appena si
trovò alla dirittura d’una via laterale, scantonò; da quella voltò in
un’altra; poi in un’altra ancora, trepidando sempre d’esser raggiunto
dal fragor della scarica.

Arrivato a casa, serrò le finestre, sbattè le imposte e cominciò a
passeggiare. Ogni voce, ogni rumore che venisse dalla strada lo faceva
rabbrividire. Stupiva nel trovarsi il cuor così fiacco. Che diavolo! Un
soldato! Quasi non avesse visto cader colpiti di piombo al suo fianco
amici e camerati. Ma in guerra la Morte aleggia nel fumo, abbatte
questo, abbatte quello e si pensa a lei così poco! Guai se non fosse
così!

Quando si dice il destino! A Carassone, nel fatto d’arme che seguì la
battaglia di Mondovì, Berteu s’era diportato da valoroso, incoraggiando
con le parole e con l’esempio i dragoni del Re, suoi compagni, e
rispondendo al colpo con cui il generale Stengel lo feriva al volto,
con un altro che gli passava il petto. Aveva così contribuito a
sgominar gli usseri francesi per modo, che se non si fosse trovato con
loro Murat, invece di una ritirata sarebbe stata una fuga.

Promosso maresciallo d’alloggio sei mesi dopo, la ricompensa gli
era sembrata tarda e meschina. Vedendo svanire Dio sa che larve di
rinomanza, di gloria e forse d’amore, aveva posto in non cale l’onore,
la sua fede di soldato, ed era entrato a far parte di una congiura... O
quanto meno l’accusa era questa.

Massimo si gettò bocconi sul letto con la faccia nel guanciale e
cominciò a riandar quanto sapeva del fatto. Prima erano stati arrestati
Giuseppe Pasio, materassaio, e Paolo Bonino, cameriere del marchese di
Cravanzana, come rei del fallito attentato contro il Re sulla strada di
Rivoli; e poco dopo l’ex-maresciallo Berteu, il medico Boyer e cinque
altri medici: Negri, Benvenuti, Sala, Savi e Simondi.

Un uffiziale d’artiglieria, al quale Boyer e Berteu avevano fatto
confidenze e proposte, s’era creduto in dovere di denunziare ogni cosa.
Denunzia confermata prima da Simondi, fidente nell’impunità; poi da
Benvenuti, che vedendo inutile star sulla negativa, s’era limitato a
cercar di salvar sè e di scolpare per quanto era possibile Sala, Negri
e Savi. — Pasio e Bonino, rei confessi, erano stati giustiziati per
l’appunto un mese prima di Boyer e di Berteu.

Tutto questo era noto; ma intorno, ma sotto questo chi sa che vasta,
intricata, occulta rete d’imbrogli! Erano tante le voci che andavano
in giro, tanti i giudizi, tanti i pareri; tanti e tanti quelli che
stimavano deboli o addirittura fallaci le prove su cui s’era fondata la
condanna dei due giovani; insufficiente o vana la difesa ch’era stata
loro concessa. Non s’erano forse trovati uomini disposti a sacrificar
temporaneamente la loro libertà, pur di ottenere la facoltà di provar
l’insussistenza delle accuse! Perchè erano stati respinti?

E poi non bastava forse meditar un momento su queste stesse imputazioni
per trovarle spropositate e fantastiche! Dunque questi poveri esaltati
avevano concepito il disegno d’impadronirsi a un dato momento della
Cittadella, dell’Arsenale, delle porte della città; di sequestrare il
Re, trucidare i principi, proclamar la repubblica? Ma erano poi certi
d’aver con sè tutto il popolo e almeno la metà dell’esercito?

— Cose da matti! — pensava Massimo. — Come mai tanto il Re che la
Regina non hanno visto in questo una buona occasione per mostrarsi
clementi? Non fanno altro che pregare: non s’è mica santi per niente!

Qui si ricordò che il conte di Castellengo, vicario di polizia, e il
ministro Priocca s’erano mostrati più inclinati a indulgenza che a
rigore. Chi sa? Non era nuovo il caso d’una grazia arrivata all’ultimo
momento. Berteu era raccomandato dalla sua bella condotta e dalla
ferita riportata in battaglia. Boyer dall’ingegno, dal buon nome, dalla
vita esemplare.

Facile a credere quanto desiderava, Massimo saltò giù dal letto, aprì
la finestra per aver ragguagli dal primo che passasse. — Sentì un
ronzìo lontano che pareva indicare un gran movimento: pensò fosse la
folla che tornava dalla Cittadella; poi un gemito lì vicino.

Accovacciato sur un muricciuolo, accanto al portone del palazzo, v’era
un povero ragazzo di forse dodici anni. Aveva un cappellaccio in pezzi,
i piedi scalzi; la camicia lacera e i calzonetti tutti toppe e strappi,
lasciavano vedere le carni sudicie e le membra così rifinite che
parevano pelle e ossa.

Si rizzò, vedendo il contino, e tese la destra. Massimo corse subito
con la mano alla tasca, cercò, trovò di che soccorrerlo e si ritrasse
senz’altro.

Ma il silenzio, la solitudine gli riuscirono insopportabili.

Uscì di casa, girovagò per le strade, avido d’informazioni, e scansando
precisamente quelli da cui poteva averne. Però anche questi erano
pochi. Non si ricordava d’aver mai visto meno gente in giro, anche nei
luoghi più frequentati; e a quando a quando gli tornavano in mente le
parole di suo cugino: — Guarda se non sembrano tutti amici o parenti di
quei due disgraziati!

V’era nell’aria una calma tetra e pesante che opprimeva il corpo e
soffocava il pensiero. Gli pareva che tra il cielo alto e puro e la
città triste si estendesse un gran velo fosco.

Quando fu di ritorno al palazzo, trovò accostato il portone; l’atrio
e il cortile già pieni d’ombra. Si fermò un momento a riflettere, poi
si avviò risoluto su per lo scalone. Un servitore andava attorno ad
accendere le lanterne e i lampioni appesi qua e là. Seppe da questo che
il conte era in casa.

Entrando nell’anticamera, udì camminare e parlare nel gabinetto di suo
padre; passi e voci si appressavano all’uscio. Egli fu lesto ad aprir
quello che metteva nell’attiguo salone di ricevimento, vasto spazio
neutrale che separava l’appartamento del conte da quello della contessa
e nel quale le due parti non mettevano piede che in qualche rara e
solenne occasione. Scivolò dentro e ascoltò.

Il marchese Violant e due altri gentiluomini prendevano congedo dal
conte. Avevano chiacchierato fino allora ed uno di questi diceva forte
a mo’ di conclusione:

— Ebbene, sì signori, ammettiamo pure che per noi nobili la sia finita,
che la borghesia arrivi a soppiantarci o prima o poi; cosa credete?
imiterà i nostri difetti, non acquisterà mai le nostre qualità.

— Volete dire le nostre virtù — corresse il conte.

— Bravo, ben detto! — disse il marchese.

— Ben detto, ben detto! — esclamarono gli altri.

E si separarono ridendo.

Come fu certo che nessuno di coloro sarebbe tornato indietro, Massimo
s’accostò all’uscio del gabinetto e picchiò.

Si rispose subito: — Avanti!

Il conte, seduto alla scrivania, stava temperando una penna. Alzò la
testa, gettò il temperino e fissò il figlio coi suoi occhi grigi.

— Niente! — diss’egli, prima che Massimo pensasse ad aprir bocca. — Non
voglio sentir niente. Non ti permetto di dirmi una sola parola.

— Ma son venuto appunto per...

— È un gran destino che tu m’abbia ad esser sempre cagione di dolore,
di cordoglio!

Massimo a quel rimprovero acerbo, fatto con insolita veemenza, die’ un
passo indietro; le vampe del rossore gli salirono sul volto.

— Creda — balbettò egli, — creda, signor padre, ch’io non ho proprio
colpa se stamattina...

Il conte balzò in piedi, stese il braccio, appuntò l’indice all’uscio.

— Non voglio più sentir la tua voce! — gridò. — Via, cattivo soldato!
Via, cattivo suddito! Via, pessimo figlio!

Massimo chinò il capo ed uscì.

Si fermò tosto in mezzo all’anticamera; il cuore gli batteva fitto
fitto, si sentiva fischiar gli orecchi, non aveva nella mente un
pensiero fatto, ma una sì strana confusione d’idee che pareva gli
dovesse togliere il senno.

Rimasto così alquanto, le mani, che teneva su gli occhi, discesero
lungo il volto, poi giù per la persona; la sinistra si posò sulla
spada.

Se la strappò dal fianco con furia, la sbattè violentemente per terra.




XI.


L’avvocato Oliveri, un po’ impensierito dello stato in cui vedeva sua
figlia, cominciò a pensare se non sarebbe stato opportuno di ricondurla
a Torino. Si provò a parlargliene a varie riprese:

— Adesso — diceva egli, — adesso verranno le piogge e la campagna
perderà tutte le sue attrattive. In città almeno ci sono i portici!
Quando il tempo è bello, abbiamo il passeggio della Cittadella...
La sera vien sempre qualcuno per fare un po’ di conversazione... Una
piccola società, che quando si acquietassero le cose, potrebbe diventar
di nuovo più numerosa. Tu sai che è sempre stato il mio sogno, fondare
in casa mia una Colonia di Pastori. La proposta era già stata accolta
calorosamente da parecchi amici, uomini serii, colti, garbati; quando
patatrac! nel maggio del ’94 venne l’editto che chiuse i casini, i
caffè, proibì tutte le riunioni anche scientifiche, anche letterarie.
Te ne ricordi, eh?

Liana rispondeva macchinalmente di sì; ma quanto alla proposta di
lasciare Murello, pareva non volesse, o non potesse fermarvi sopra il
pensiero.

Ma un giorno in cui egli tornava a parlarne, ella ebbe un sussulto,
come se afferrasse solo allora il senso di quanto egli aveva detto già
tante volte, e lo guardò in modo che gli tolse ogni voglia d’insistere.

— È vero — diss’ella — tu hai i tuoi lavori, le tue abitudini. Eri
venuto qui per poco, per passare solo alcuni giorni con noi...
Invece Luigi aveva intenzione di fermarsi in campagna fin verso
Ognissanti..... Va pure, io starò sola.

— Senti... Cosa vuoi fare?

— Aspettare.

— Pazienza! — pensò l’avvocato — approfitterò della libertà e quiete
della villa, per cominciare a verseggiare l’_Eugenio_.

Era un poema epico, d’argomento nazionale, già del tutto ideato e
steso: _Eugenio l’invitto, ossia Torino liberata_.

Aveva il discorsetto nel quale dichiarava le sue intenzioni _Ai
leggitori_; aveva preso appunti, cercate notizie negli scrittori più
degni di fede. Non restava che mettersi all’opera.

E l’avvocato ci si mise di vena.

Appena alzato, e fatta un po’ di colazione, scendeva in giardino,
passeggiava alquanto, aspettando l’ispirazione, poi si chiudeva nello
studio e scriveva finchè non lo chiamavano a pranzo.

— Va bene, sai — diceva spesso a Liana. — Lavoro con vero trasporto;
l’estro c’è. Non mi mancano nè l’eleganza, nè il brio, nè la vaghezza
dello stile. Quanto alla padronanza della lingua toscana l’ho sempre
avuta. È un fatto! Chi direbbe che son nato a Chivasso?

Dopo aver faticato tanto di testa al mattino, Oliveri pensava d’aver
diritto a un completo riposo dopo pranzo, e andava a giuocare ai
tarocchi in casa del notaio, ove trovava don Prato e Formica; più tardi
poi usciva a passeggio con loro verso la Madonna.

Santo cielo! egli voleva un bene dell’anima alla sua Liana! Sentiva
anche un certo rimorso a lasciarla sola; ma a che sacrificarsi se la
compagnia non le recava alcun giovamento? Tempo e quiete, ecco i veri,
i soli rimedi per certi dolori! Per voler distrar troppo presto, alle
volte si fa peggio: si esaspera.

Stare insieme e non parlare di Ughes, era impossibile. Questo non
serviva che a infiggere sempre più profondamente la spina che aveva nel
cuore sua figlia, e costringeva lui a lambiccarsi ancora il cervello:
— Sarà libero, sarà in prigione? Sarà vicino, sarà lontano? Sarà vivo,
sarà morto? — Sicchè addio l’ispirazione, addio la vena!

Liana passava quasi sempre il pomeriggio nello studio, dove aveva
passata già la mattina.

Un giorno vi salì prima del solito, e si fermò davanti alla finestra
con gli occhi immobili e fissi, la mente sopraffatta dalle torbide
immagini che non la lasciavano mai. E stando così e tutto tacendo
d’intorno a lei, udì un susurro, si sporse, vide suo padre, ch’ella
aveva lasciato a tavola, fermo con don Prato nel viale sottostante.
Il parroco parlava animatamente, gesticolando; l’avvocato ascoltava
col dito mignolo tra i denti, rosicchiandosi l’unghia. Ella scese
velocemente e si accostò con gli occhi scintillanti, le gote colorite
di momentanea vita.

— Cosa c’è? — domandò. — Qualche notizia? qualche speranza?

— Cara — rispose Oliveri, — non so... Il signor parroco aveva appena
cominciato...

— Continui — interruppe Liana, volgendosi al prete, quasi imperiosa.

Questi, un po’ sconcertato dalla venuta della signora, aveva fatto un
grande inchino e s’era tirato un passo indietro.

— Mi rincresce che lei si sia disturbata — disse poi. — Son venuto
semplicemente per comunicare al signor avvocato una cosa... una voce
che mi è venuta all’orecchio.

— Uhm! — fece Oliveri, — una voce così in aria, molto in aria.

— Dunque tu sai già di che si tratta? — chiese Liana.

— So e non so. Sarà bene non illuderci troppo, ecco, per non andare
incontro a qualche altro disinganno.

Liana si voltò di nuovo al parroco. Adesso non vi poteva essere nello
sguardo maggior ansietà, maggior preghiera.

— Ma si figuri! — esclamò il buon prete. — Altro, altro, dirò subito
tutto. Lei deve sapere che nel bosco di Vallombrosa esistono ancora
le rovine d’un antico convento di monaci vallombrosani: due pezzi di
muraglione diroccato, niente più. Lì in mezzo s’è fatta la sua casa
un certo... il vero nome non lo so; basta, chi lo chiama l’eremita,
chi Barabam, chi semplicemente Teo. Si dice che sia un _vitton_, cioè
un montanaro; ma da che montagna sia venuto nessuno lo sa. Siccome
non fa male e non dà fastidio a nessuno, lo lasciano stare. Consiglia
quelli che lo vanno a consultare; vende polveri, erbe, medicinali per
le bestie e per i cristiani; ha coltivato un pezzetto di terra, largo
come il mio fazzoletto, e vi semina un po’ di tutto; io credo che tenda
anche lacci agli uccelli ed alle lepri; e poi le acque dei dintorni
sono piene di pesci, di gamberi e di rane. Insomma vive come può...

Liana fece un gesto involontario d’impazienza; don Prato s’accorse
che andava per le lunghe, volle tagliar corto, e affondò in altri
particolari di nessuna importanza.

L’avvocato lo rimise subito a galla.

— Dunque — diss’egli — siccome il bosco è grande e folto, è naturale
che serva di rifugio ai banditi, ai profughi d’ogni specie, e che
questi divengano ospiti più o meno desiderati del signor Barabam. Don
Prato, non è così?

— Ecco! — fece il parroco.

— E pare che giust’appunto in questi giorni il solitario non sia solo,
che abbia con sè una persona, un giovane di civil condizione...

— La voce è venuta da Polonghera — osservò don Prato.

— Se fosse lui! — esclamò Liana con fuoco. — Se fosse Luigi!

— Ssst! — fece Oliveri, alzando e abbassando le mani spiegate. — Questo
temevo, che tu ti scaldassi. Ragioniamo.

— Perchè? — ripigliò Liana — Cosa serve? Di che cosa mi vuoi
convincere? Che non può esser lui? Crederò quando avrò visto. Non t’ho
detto tante volte che mi pareva di sentirlo vicino? Il cuore non mente.
Luigi era a Racconigi e si è salvato là, quando ha visto tutto perduto.

— Tu accomodi subito le cose — disse Oliveri, — e invece io...

— Quel bosco — domandò Liana a don Prato — non è lontano da Racconigi,
dica un po’?

— No, signora, tutt’altro.

— Ma aspetta! — continuava l’avvocato. — Se mai perchè non ci avrebbe
fatto sapere...

— Non avrà avuto modo! Chi mandare? Di chi fidarsi? Rispondi un po’ a
questo? E poi cosa importa, ripeto? Se mi persuaderò solamente quando
avrò veduto? Adesso bisogna...

— Sì, cara — mormorò Oliveri, — manderemo Gabriel.

— No Gabriel, noi!

— Domani...

— No domani, oggi!

— Andrò io...

— Andremo insieme.

— Non capisci che ci vuol prudenza? Ammettiamo che si tratti veramente
di tuo marito; se non dà notizie di sè, è segno che non può. L’hai
detto tu stessa. La Giunta vigila. Figuriamoci! Il luogo sarà
circondato da esploratori, da spie, da birri. Pensa un po’, s’egli
venisse scoperto, preso per causa nostra, che rimpianto! che rimorso!
Non è vero, don Prato? Parli lei.

Don Prato, che faceva la rivista dei bottoni, abbassava la testa come
per guardarsi le fibbie, pigliava e ripigliava tabacco, si scosse alla
chiamata dell’avvocato e aperse le labbra.

— No, — disse Liana, con la voce piena di dolore, le lacrime che
luccicavano sotto le ciglia, — non dica niente, è inutile; sono
risoluta. Tu non venire, babbo; andrò sola. Non senti come sei crudele?
Non vedi che non misuro più le cose, che soffro troppo, che non ne
posso più? Andrò sola; adesso, stasera, stanotte, appena sarò libera.
Non vorrai rinchiudermi, spero?

Oliveri si guardava intorno, tentennando la gamba, facendo battere le
note al codino. Vide Gabriel che sarchiava in fondo al giardino, e gli
die’ tosto una voce.

— Sentiremo costui — brontolava: — cos’è questo bosco, dov’è, come si
fa per andarci; poi si vedrà, si vedrà, si vedrà...

Gabriel venne senza troppa fretta, strascicando gli zoccoli.

— Sai dov’è la Vallombrosa? — gli chiese l’avvocato.

— Lei vuol dir la Lambrosa; altro che saperlo!

— Quanto si mette ad andarci?

— Dipende dalla strada.

— Pigliando la più corta?

— Dipende dal passo.

— Oh bene! Partendo adesso si può essere di ritorno prima di notte?

— Sì, signore.

— Allora via!

Don Prato si accomiatò subito.

— Che Dio li assista! — diss’egli, assai commosso. — Adesso vado a casa
e li accompagno col cuore. Mi capiscono, eh?

Liana in un momento fu pronta. Gabriel tolse un grosso randello;
l’avvocato prese anch’egli un bastone.

Uscirono dal giardino e si avviarono verso la strada del sale. Cammin
facendo, Oliveri credette bene di palesare a Gabriel lo scopo della
gita, per animarlo e fargliene sentir l’importanza.

Gabriel guardò sott’occhio Liana e non fiatò.

Oltrepassata Robelletta, l’orizzonte verso tramontana apparve tutto
boscoso; chiuso da un gran cerchio verde carico, già lievemente
brizzolato di giallo e di rosso. L’autunno incipiente si mostrava
anche nel cielo d’un dolcissimo colore di turchina, popolato di bianche
nuvolette, addossate le une alle altre come uno sterminato branco di
pecore pascenti.

— Come se si andasse a spasso — diceva l’avvocato a sua figlia, — come
se si andasse a spasso. Prudenza ci vuole; non facciamoci osservare.
In simili circostanze si ha ragione di sospettare di tutto e di tutti,
anche del più innocente lavoratore dei campi.

Liana camminava rapidamente, passando spesso davanti a Gabriel, che
faceva loro da guida, impazientita dall’andatura pigra ed eguale del
contadino.

— Sei stanca? — domandava Oliveri — Vuoi sostare un momentino? No?.....
E perchè non passi qui, dove c’è ombra? Non che il sole sia caldo, ma
via... Tienti a destra, tienti in su, non vedi quante pozzanghere?

Le parlava come a una bambina, cercando distrarla; ma Liana,
abbandonata tutta all’impulso di persuasione che la portava, non
l’udiva nemmeno. L’anima sua era tutta laggiù fra quelle ombre. Sentiva
la speranza crescere, scemare, morire, rinascere. Era una folle,
una vertiginosa seguenza di visioni, che si mutavano continuamente.
Luigi vivo e sano, che gettava un grido di gioia al vederla apparire
e le apriva le braccia... Luigi ferito, moribondo, giacente sur un
po’ di paglia, con il viso d’un cadavere, gli occhi spalancati, ma
senza sguardo. Lo chiamava, lo supplicava, si prostrava vicino, e non
riusciva più a farsi conoscere... Luigi infermo, però non aggravato,
anzi vicino alla convalescenza. Che incontro! Che gioia! Era stato
in fin di vita, ecco perchè non aveva scritto, dato notizie di sè. Si
poteva dir scampato come per miracolo! D’ora in poi non si sarebbero
lasciati mai più..

Ad un certo punto ella si fermò, giunse le mani, chinò il viso sopra di
esse.

— Cosa c’è? Cosa c’è? — esclamò Oliveri, accorrendo. — Non ti senti
bene?

Liana non rispose, raggiunse Gabriel che voltava in una viottola.

L’avvocato, vedendo oramai vicino il bosco, domandò al colono se
conosceva questo eremita, questo Rabadan.

— Lei vuol dire Barabam? — rispose Gabriel. — Sì, signore, che lo
conosco. Sono stato a consultarlo due volte: quando ho avuto il cavallo
malato, e un po’ prima che mi morisse la moglie.

Il terreno s’ingombrava di cespugli, di querciuoli imbozzacchiti;
seguitando ad andare avanti, attraversarono una folta macchia d’ontani;
passarono da questa in un’ombra verde e diffusa, in una quiete mesta e
solenne.

— Ecco, — disse Gabriel, prima d’inoltrarsi, — qui siamo nel bosco.
Vedono, eh, che razza di sentiero? E badiamo di non perderlo, per non
perdere anche la tramontana. Si ricordino poi che l’uomo, quel Teo,
è un po’ strambo, un po’ lunatico. Se non fosse così, vivrebbe come
vivono gli altri. Voglio dire che le sue parole vanno pigliate nel loro
verso, e con pazienza, perchè se gli salta la mosca, si ficca nel suo
buco, e bisognerebbe affumicarlo per farnelo uscire! Adesso andiamo.

S’avviò di nuovo il primo, col solito passo, anche più misurato e
più lento. Ogni tanto si chinava a raccogliere uno di quei funghi
che i contadini chiamano _cravëtte_, lo mostrava con compiacenza
all’avvocato, come se lo avesse fatto lì per lì con le sue mani, poi lo
infilzava in un giunco.

Oliveri, più che i funghi, ammirava le enormi piante secolari; e
misurando i tronchi con gli occhi, e alzando lo sguardo alle cime,
parlava sommesso, compreso da un senso di meraviglia quasi religiosa,
come se si trovasse in un tempio, in una gran cattedrale.

Liana guardava intentamente avanti; anelava e insieme temeva il momento
in cui avrebbe scoperto la capanna; il cuore batteva, batteva, batteva,
e a quando a quando le si appannava la vista, le pareva di sentirsi
mancare le ginocchia.

D’improvviso si udì l’abbaiar strillente d’un cane. Nello stesso tempo
Gabriel mostrò un non so che di bruno che traspariva tra il verde: le
rovine d’una massiccia muraglia rivestita d’edera e di musco, irta di
cardi e d’ortiche.

— Il palazzo di Teo è dall’altra parte — susurrò il colono; — bisogna
farsi veder subito.

Liana, presa da un tremito, cercò il braccio di suo padre, vi si
appoggiò, chiudendo gli occhi. Li riaprì dopo un poco. Aveva dinanzi
un tugurietto meschino, coperto di paglia; sull’uscio stava un uomo
poveramente vestito, sparuto e piccolo di persona.

Costui non parlò, nè si mosse; durò alquanto a girar gli occhi or
sull’uno, or sull’altro, e, siccome l’avvocato aveva una di quelle
facce fresche e rubiconde che fanno consolazione e mettono subito di
buon umore, sorrise e si toccò il cappello.

— Buon giorno — disse Oliveri. — Vi godete l’ombra, eh?

Barabam non rispose. Il cane, accucciato ai suoi piedi, uggiolava cupo
e sommesso.

Liana tornò a immaginare con veemenza suo marito agonizzante in quella
tana; voleva farsi sentire, alzar la voce, chiamarlo con l’accento
della disperazione, e le mancava il respiro. Le pareva di sognare.

Oliveri, che la sentiva tremar tutta dal capo alle piante, colto da
un impeto d’impazienza improvvisa, cominciò a tempestar Teo con tante
domande, le une dirette, le altre suggestive, tutte così informi,
precipitate, confuse, che colui, dopo aver risposto alle prime, vistosi
avviluppato, si tirò indietro e mostrò di voler chiudere l’uscio.

Gabriel che, conoscendolo, si aspettava quella mossa e stava all’erta,
fu lesto a cacciar il randello tra il battente e lo stipite.

— Aspetta un momento, diavolo! Non vedi che hai da fare con signori? Se
sono venuti fin qui per domandarti un servizio, è segno che sono pronti
a pagarlo.

— Non c’è niente qui per i signori — rispose l’eremita, dando in qua e
in là certe occhiate spaurite, come se cercasse per dove svignarsela. —
Io non guarisco che la gente di campagna, io. Mi lascino stare.

— Qui non si tratta di guarire, caro il mio Teo — ripigliò Gabriel; —
questa è un’altra faccenda.

E spingendolo un poco in disparte, si mise a parlargli sottovoce,
pacatamente.

L’avvocato intanto, con un certo suo fare trascurato e bonario,
frugando in tutte le tasche come per cercare la tabacchiera, insieme a
vari altri oggetti, tirò fuori anche la borsa e la tenne così un po’ in
vista, quasi per distrazione.

— Va bene — rispose poi Teo a Gabriel, staccandoselo di torno con un
cotal garbo tra il blando e il ruvido. — Adesso ho capito.

Si ravvicinò all’avvocato pian piano, alzando il gomito destro e
ciondolando la mano in aria.

— Son tanti quelli che per una ragione o per un’altra vengono a
villeggiare qui con me, e a ricordarli tutti, e saper come vanno a
finire, ci vuol altro! Qui l’amico mi dice che lei cerca un giovinotto.
Sarebbe mai uno nè alto, nè basso, con due occhi da scoiattolo, i
capelli neri come carbone e gli orecchini d’argento?

— Hm! — fece Oliveri. — Ad ogni modo ditemi presso a poco in che
circostanza gli avete dato ricetto.

— L’anno preciso non lo so più; ma mi pare che fosse sul finire di
febbraio o in principio di marzo, perchè faceva ancor freddo. Era
scappato da Saluzzo, dal reggimento dragoni di Ciablese...

— Euh! — esclamò Oliveri — un disertore?

— Già, credo proprio che fosse un disertore.

— E dopo non c’è più venuto nessuno? Quest’estate, per esempio? In
luglio o in agosto?

— In giugno c’è stato un certo Bonsoldat... Poi c’è passato Cibonfa con
quattro della sua banda... Poi, poi, poi...

Mentre Barabam si grattava la nuca per sollecitar la memoria, Oliveri
gli porse alcune monete.

— Fate di ricordare — diss’egli, indugiando a rimettere in tasca la
borsa.

Adesso Teo guardava e riguardava Liana.

— È sua figlia, quella lì?... E sarà magari la sorella di quello che
cercano?

— Sono sua moglie — rispose Liana, con dolcezza.

Un lampo di compassione passò sulla faccia terrea, aggrinzita
dell’uomo. Entrò in casa e ne uscì tosto portando un panchetto di
legno.

— Lei sarà stanca — diss’egli alla signora; — lei sarà meglio che si
metta a sedere.

Si accosciò poi in terra, di fronte, strappò alcuni fili d’erba e prese
a torcerli, ad intrecciarli, ad avvolticchiarli in cento modi.

— Due mesi fa — cominciò egli, senza preamboli, — giorno più, giorno
meno, mi trovavo verso sera a pescar nel Riofreddo, proprio sull’orlo
del bosco. Ecco che sento gridare: — Dalli, ferma! Ferma, dalli! —
Lascio andar la _trubia_, alzo la testa sopra la sponda, e vedo venire
a tutta corsa un signorino senza cappello, inseguito da parecchi
soldati. Non era più che a un cinquanta passi dal bosco, quando
questi assassini, tutti insieme, pan! pan! gli fanno fuoco addosso. Il
giovinotto spicca un salto, poi giù lungo disteso! L’ho visto buttar
le braccia di qua e di là, rizzarsi stentamente a sedere, cacciar fuori
una pistoletta e spararsela in bocca. I soldati l’hanno poi esaminato e
frugacchiato, portandogli via persino le scarpe.

Liana, pallida come se fosse morta, ascoltava senza battere le
palpebre. Oliveri si asciugava la fronte, si contorceva, soffiava,
smanioso di sentire i connotati.

— E com’era? — domandò poi. — Com’era questo giovane?

Teo non gli badò, ripigliò subito:

— Sono venuto via senza dargli neanche un’occhiata; non volevo andar a
dormire con quella faccia d’ammazzato negli occhi... Ingozzai qualche
cosa, poi mi gettai sul mio saccone. Fino a mezzanotte tutto andò bene.
Ad un tratto: toc, toc, toc. — Chi va là? — Niente; nessuno risponde.
— Se non mi dite chi siete, non apro, ecco! — Passa un minuto, due,
tre, poi di nuovo: toc, toc, toc. — Ricaccio giù il capo dicendo: —
Ho capito, è il signorino che non vuol dormire scoperto. — All’alba mi
alzai, tornai sul luogo, e con quattro vangate me ne spicciai.

— Dunque — ridomandò Oliveri — com’era? Biondo o bruno? Magro o grasso?
Alto o basso?

Teo gli fece una spallucciata.

— Se lo incontrassi vivo credo che non lo riconoscerei.

— Andiamo! — esclamò Liana, scattando in piedi.

— Oh brava! — disse l’avvocato. — Così va bene. Andiamo pure a casa,
che si fa tardi. Ho fame, ho sete, non ho più gambe, non ho più
fiato...

— Ditemi — domandò a Teo la giovane signora: — il luogo... quel luogo è
molto lontano di qui?

— Lontano no; da quella parte il bosco si stringe, fa come una punta,
non c’è che da attraversarla.

Liana si tolse una catenella d’oro che aveva al collo e gliela gettò
tra le mani.

— Andiamo, andiamo: pigliate quel che vi occorre!

— Misericordia! — esclamò l’avvocato, cacciando fuori tanto d’occhi.
— Cosa vuoi fare? Cosa pensi? Sei matta, eh? Ma Liana!... Lasciali
riposare in pace i poveri morti. Cosa vuoi vedere? Non si vedrà più
niente, figlia mia. Sarà sfigurato! E poi... Quel poveretto non può
esser Luigi. Lo so, te lo proverò con un argomento stringente...
Piuttosto tornerò, tornerò io domani...

Agitava le braccia, batteva e ribatteva il piede per terra, non s’era
forse mai sentito tanto sconvolto in sua vita; poi, quando vide che
tutto era inutile, guardò il cielo con un sospiro, e tenne dietro a gli
altri.

Seguendo Teo, in pochi minuti giunsero al Riofreddo, mezzo asciutto in
quei giorni; passarono oltre, sopra certe pietre sporgenti dall’acqua,
e si trovarono sur un gran tratto di terreno incolto, sparso di
cannucce e di giunchi.

— Ci avrai messo una croce, spero? — mormorò Gabriel.

— Lo volevo fare — rispose Teo, — ma poi...

Riflettè un momento, quindi andò diviato a un grosso salice tutto
piegato e scontorto; di là guardò intorno, si raccapezzò, e piantando
la vanga in terra, disse forte:

— È qui.

Gabriel, che s’era fatto dare una zappa, lo raggiunse subito;
cominciarono insieme a scassare gagliardamente il terreno.

Oliveri, fatta sedere sua figlia sur un rialto formato dalla sponda, le
si mise risolutamente davanti.

— E tu starai qui — diss’egli. — Andrò io di tanto in tanto a vedere;
rimettiti in me. Se non è lui, come spero, come ne son certo, ce ne
andremo subito. E se per disgrazia... Non mi vorrai far passare qui
la notte, eh? Giunto a casa penserò, provvederò, prenderò tutte le
disposizioni per il trasporto della salma in un luogo più conveniente.
Lascia fare a me che son tuo padre, per Bacco!

Ma Liana non poteva star seduta; provava invece un bisogno prepotente
di moversi. Si alzò con un gemito rauco e andò ad attaccarsi ad un
tronco, raccapricciando, come se vedesse spalancato ai suoi piedi un
abisso.

— Santo cielo! — ripigliava Oliveri — mi fai paura, mi spezzi il
cuore. Andiamo via? Gabriel ci riferirà poi... No? Pensa a quello
che fai. Sarebbe assai meglio, secondo me, conservar l’immagine di
quell’infelice, del tuo povero Luigi, quale t’è rimasta nella mente,
piuttosto che guastarla con... con... Mi capisci, eh?

Liana crollava il capo, e l’avvocato si mordeva le labbra.

Egli cominciava a voltarsi spesso verso i lavoratori. Pensava che da
un momento all’altro poteva esser chiamato a contemplare gli avanzi
mortali di suo genero! Oh ne avrebbe fatto a meno così volentieri!

— Mi sta bene — diceva tra sè: — imparerò a far sempre quello che vuole
mia figlia. Non ho mai saputo far prevalere la mia volontà, la mia
calma, il mio buon senso, il mio giudizio. Me lo merito!

Pensò poi che forse era meglio preparare un po’ Liana, per il caso che
il sepolto fosse proprio Ughes. E cominciò a cercare, a disporsi in
mente le parole, le frasi che gli parevano più acconce ad attutire il
colpo, a lenire il dolore. Ma si sentiva terribilmente distratto da
quello che si operava alle spalle, distratto da una nuova, importante
considerazione: — Tutto il male non viene per nuocere. Accertata la
morte di Ughes, Liana si persuaderà d’esser vedova... E le vedove, o
prima o poi, si rassegnano tutte ai voleri di Dio!

Vi fu un lungo silenzio, rotto appena dallo strider lieve della terra
squarciata dai ferri.

Ad un tratto s’udì la voce di Gabriel:

— Sor avvocato...

Oliveri si scosse, fece un gesto supplichevole a sua figlia per
raccomandarle di non muoversi, e si avviò riluttante, stralunato,
verso i due contadini; i quali, curvi sulla buca aperta, guardavano,
turandosi le narici.

Sentendo il passo di Oliveri che si appressava, Gabriel crollò la testa.

— Ha i capelli rossi — diss’egli, — non è sor Luigi.

— Lodato Dio! — gridò l’avvocato. — Sta quieta, Liana, non è proprio
lui!

E non sentendo alcuna volontà di verificare la cosa, voltò prontamente
le spalle.

Liana era lì a due passi. Egli aprì le braccia per trattenerla; ella lo
scansò rapida, guizzò via, arrivò alla fossa.

— Per carità, Liana! — mormorò l’avvocato, parlando in gola. — Tu vuoi
farmi impazzire?

E guatava inorridito certe dita scarne e verdognole che trasparivano
fra la terra smossa.

Liana da prima indietreggiò, poi s’irrigidì, si protese. Dal punto
in cui era non discerneva la faccia del morto; girò lentamente
all’intorno... Il pallore, la maniera di andare, quella tomba aperta ai
suoi piedi, tutto la rendeva simile a uno spettro.

L’avvocato si sentì fremer dentro fino alle midolle e gonfiarglisi gli
occhi; tornò a raccomandarsi, a pregarla, a scongiurarla di venire.

Quando alla fine se la ritrovò di nuovo accanto, le passò la mano sotto
il braccio per trovarsi pronto a sorreggerla, e nello stesso tempo la
spinse avanti, sbuffando, quasi a furia.

— A diritta, a diritta! — gridò lor dietro l’eremita; — di lì si va a
Racconigi, signori!

— Vengo — disse anche Gabriel. — Do’ solo una mano all’amico per
rimetter tutto a posto. Non voglio che la fantasima venga a tirarlo
pei piedi... E poi, seppellire i morti l’è un’opera di misericordia,
perdiana!

Quella giornata era per finire; le piccole nubi, che s’erano unite
e fuse, formavano un tendone diafano, dietro al quale il sol cadente
pareva intriso di sangue. Verso levante l’orizzonte era coronato d’una
leggiera nebbiolina purpurea.

I palombi passavano in alto, a coppie, a stormi.

— Che dopo pranzo m’hai fatto passare, figlia mia! — brontolava
l’avvocato. — Che dopo pranzo! E ne sappiam come prima. Basta; purchè
tu non mi venga ammalata, con tutte queste impressioni! Io sono un uomo
pacato, tranquillo, ma tu... Ecco, ecco i frutti della guerra civile! I
cristiani mutati in cannibali. Certo che questi giovani sono colpevoli
di grandi enormità contro lo Stato, ma sono in buona fede, combattono
per idee che credono buone. Volete moschettar le idee? Trucidando quei
meschinelli, ne fate dei martiri. Servite la rivoluzione, ecco tutto.
Governar con la clemenza e con la ragione, non con l’archibugio e
col capestro! In una congiuntura qual è questa, dove occorrerebbero
uomini di gran mente e di gran cuore, i politicanti e il boia non
possono fornire che vani espedienti. Ecco quel che direi al nostro Real
Sovrano, quand’io avessi l’onore di far pervenire la mia umile voce
fino a lui.

Liana si stringeva al braccio di suo padre, ma pareva staccarsi da quel
luogo a fatica. Mormorava a quando a quando:

— Non era lui, eh? Babbo, sei proprio certo che non era lui?

Ella si provava a richiamare alla mente la fisonomia espressiva, il
colorito di salute, la svelta persona del suo Luigi, e a confrontar
tutto questo con quell’altra cosa orrenda che aveva veduto poc’anzi.
Ogni tanto rabbrividiva e si voltava bruscamente indietro, come si
sentisse qualcuno alle spalle.

Camminarono lentamente, finchè Gabriel non li ebbe raggiunti, poi
affrettarono il passo.

— Si può bere quest’acqua? — domandò l’avvocato a un punto. — Io muoio
di sete.

— Boh! porcheria! io non ne berrei davvero — rispose il colono. — Ma
non lontano di qui c’è una fontana eccellente; se crede...

— Dove andremo a finire?

— Non allungheremo niente affatto! Troveremo anzi un viottolino che
conduce diritto diritto alla strada del sale.

Lasciata la scorciatoia in cui erano, presero a sinistra verso un
boschetto di pioppi, camminando nell’erba alta, umida già di rugiada.

Gabriel seguitava a vantar la sorgente.

— Come questa non ce n’è un’altra in tutto il contorno! Sempre fresca,
sempre leggiera, io la credo perfino un po’ medicinale. Oh poi adesso
sentirà... Ci siamo, ci siamo!

— Guarda, Liana, che bel sito! — esclamò l’avvocato, come furono
entrati tra gli alberi. — Un luogo degno di infiammare il cuor d’un
poeta. Ecco che penso già ad un’egloga, ad un idillio... Il nome, il
nome!

— Riochiaretto — rispose Gabriel.

Liana, mossa da una subitanea ispirazione di affettuose rimembranze, si
spiccò da suo padre, si slanciò verso la sorgente.

— Ecco — diss’ella con voce appena intelligibile: — una bella mattina
di maggio, son venuta qui con lui... Mi ricordo, mi ricordo...

L’ambascia le troncò la parola; si strinse con le mani il petto, e
cadde svenuta.




XII.


Il contrasto avuto con suo padre giunse tanto doloroso all’anima già
disgustata e sopraffatta di Massimo, ch’egli decise senz’altro di
domandar dimissione dal servizio. Non ne parlò al conte, ma lo avvertì
con una lettera; questi non lo giudicò degno di risposta alcuna.
Scrisse parimente subito alla madre; la quale cercò dolcemente ma
fermamente di dissuaderlo. Anche il suo colonnello e i compagni d’arme
lo consigliarono a pensarci dell’altro.

Massimo finse di arrendersi, aspettò un mesetto, ripresentò la domanda
senza dir più nulla a nessuno, e ottenne quanto desiderava.

La contessa seppe, tornando in città verso la fine d’ottobre, che suo
figlio non apparteneva più all’esercito. Non ebbe animo di muovergli
alcun rimprovero. Non l’aveva più visto così duramente smarrito dal
giorno in cui era tornato dalla contea di Nizza, dopo la ignominiosa
ritirata di Courten.

In verità il contino batteva una triste e sdrucciolevole via. Non
sapendo più che cosa far di sè, aveva cominciato a frequentare una casa
ove si teneva giuoco, e nella quale concorrevano altri giovani, tutti
più o meno oziosi, ignoranti e malavvezzi.

Dopo aver passata la notte con le carte in mano, Massimo dormiva fino
a mezzodì, e consumava il resto della giornata in compagnia dei suoi
nuovi amici.

Giravano bighellonando la città e i borghi in cerca di distrazioni più
o meno lecite ed oneste; o stavano fermi davanti a qualche bottega da
caffè a dar noia a quelli che passavano. E, poichè tutti avevano legni
e cavalli, usavano pure andar a far pranzi nelle osterie dei paeselli
vicini, portando con loro signore e signorine di liberi e allegri
costumi.

Ma il cuore di Massimo era vuoto e inquieto; aveva dentro di sè una
pena, un tedio che nulla bastava a calmare. Talora, mentre si trovava
in brigata, si sentiva come colto da un avvilimento improvviso. Altra
volta una celia, un gesto, una parola gli urtava i nervi, lo moveva
a sdegno, si tratteneva a stento dal proferire invettive contro i
compagni; spesso, scuotendosi subitamente, se ne andava.

Non aveva però la forza di svincolarsi da quella stretta malvagia.
Oramai la sua vita correva in quella tal maniera e non avrebbe saputo
variarla per nessun costo.

Era una bellissima giornata d’autunno; Massimo, Giacinto Violant e
due comuni amici uscirono dalla porta di Po per andare a prendere una
boccata d’aria in collina, e nello stesso tempo ronzare intorno alle
ville ancora abitate, adocchiando finestre e cancelli.

Massimo, più scuro e più annoiato del solito, camminava solo, un po’
indietro dagli altri; i quali andavano a braccetto, con una certa
andatura da snoccolati, come se non avessero mai avuto un pensiero al
mondo.

Fatti pochi passi sul ponte di Po, videro venire alla loro volta una
giovinetta, la quale batteva il tacco lesta lesta e faceva sventolar
la gonnella. Teneva gli occhi bassi, pareva tutta raccolta in sè; ma
Violant e gli altri due storditi si presero il gusto di pararla ora
da una parte, ora dall’altra del ponte, beffandola con atti e voci da
libertini.

Massimo non pronunziò una parola, voltò bruscamente le spalle e si
allontanò.

— È matto! — esclamò Violant. — È proprio matto; lasciamolo andare,
lasciamo che gli passi la stizza; quando tornerà con noi, gli dirò io
una parolina in un orecchio...

Massimo non si fece vedere nè quella sera, nè il giorno seguente;
allora Violant, Di Cimalta e La Torretta stimarono opportuno d’andarlo
a trovare.

Un vecchio domestico, grave e impassibile, li introdusse in una
saletta, ove il contino, spettinato e mezzo svestito, faceva le volte
del leone fra i cocci di due stupendi vasi chinesi, i quali poco prima
adornavano il piano del camino.

Avendone buttato a terra uno involontariamente, subito s’era punito
della sua sbadataggine fracassando anche l’altro.

— Prometti di non mangiarmi? — disse Violant ridendo e fermandosi sulla
soglia.

— Avanti! — brontolò Massimo, burbero. — Cosa c’è? Cosa volete?

— Ho comprato un altro cavallo.

— Ed io un bel paio di pistole.

— Bene, vediamo le pistole, poi andremo a vedere il cavallo.

— Non voglio muovermi. O, sai com’è? Sono stufo di girellare in gloria,
di far lo spensierato, di vivere da rompicollo!

— Hai ragione, hai ragione... Vediamo queste pistole.

Massimo stese il braccio verso il cassettone.

— Eccole là, sono scariche, guardatele pure.

Violant prese le armi e le maneggiò, mirando or questo, ora quel punto
fuor della finestra. Dalle sue mani passarono poi in quelle degli altri
giovanotti.

— Due bei _Kuchenreuter_ — diceva Massimo, rabbonito. — Guardate
sulla canna il nome del maestro e l’impronta della marca di fabbrica.
_Kuchenreuter!_ Buonissime armi, sapete. Meno eleganti, meno rabescate
d’oro e d’argento di quelle che vengono di Francia; meno lavorate e
meno rifinite di quelle che si fanno in Inghilterra, ma roba seria,
roba solida. E come portano, cari voi! Le ho provate ieri. E poi... e
poi sentite che scatto!

Finito d’esaminare le pistole, Violant si sdraiò in una poltrona; Di
Cimalta e La Torretta si buttarono sul sofà.

— E com’è quella tua bestia? — domandò Massimo al cugino.

— Un sardo, un bellissimo sardo: mantello bianco come la neve, fattezze
distinte, una testa, un’incollatura, un petto!... Adesso, se vuoi il
sauro...

— Uhm! — fece Massimo — vedremo. Non oggi, però; oggi mi sento un poco
balordo; mi lascierei imbrogliare con troppa facilità.

— Ho bisogno di quattrini, vedi; e c’è De Hawlictzeck che gli fa la
corte.

— Chi?!

— De Hawlictzeck, un ufficiale austriaco.

— Va bene, cedilo a lui.

La Torretta si era alzato e si divertiva a saltare a piè zoppo sui
frammenti dei vasi.

— Finiscila! — esclamò Violant, seccato. — E ora cosa si fa?

— Poichè Massimo pare un poco ammansato — rispose Di Cimalta, — si
potrebbe condurlo a vedere la _Dama nera_.

— Che roba è? — domandò Massimo.

— Guardare e non toccare — disse La Torretta. — È una signora sempre
vestita di nero che abita quasi in faccia all’Albergo Reale, e sta
giorno e notte sul suo terrazzino.

— La notte no — rettificò Di Cimalta, — ma il giorno sì. E con
qualunque tempo, con qualunque atmosfera. Ieri mattina tornavo a casa
per coricarmi, verso le otto: lei era già levata, era già là, con una
nebbiaccia che si poteva forar con la spada. Stamattina piovigginava:
lei era là, a guardar nella strada, come se aspettasse qualcuno. Alle
volte si vede anche un signore attempato, che le si fa accanto e le
parla e le parla, par che cerchi di persuaderla a rientrare nella
stanza; va, viene, e finisce col portarle fuori uno scialle, una
mantellina, un fisciù. L’ho vista per la prima volta cinque o sei
giorni fa; forse era in campagna, ed è tornata dopo l’Ognissanti.

— È bella? — domandò Massimo.

— E come! Se non lo fosse non te ne parlerei. Non ho mai visto una
bellezza più straordinaria.

— Boum! — gridò La Torretta. — Perchè l’hai scoperta tu.

— Di Cimalta ha ragione — disse gravemente Violant, che la pretendeva a
gran conoscitore: — badate però che può essere di quelle che a vederle
promettono il paradiso, e vi dànno l’inferno.

Continuarono a discorrere, mentre Massimo si rivestiva e si rilisciava
in una stanza contigua.

Uscirono poi tutti insieme. Giunti in piazza San Carlo, corsero alla
cantonata di contrada Nuova e guardarono verso piazza Castello.
Di Cimalta indicò il terrazzino, ma su quello non vi era alcuno.
Aspettarono un poco, chiacchierando e motteggiando; poi La Torretta
osservò ch’era una vera stolidezza star lì di piantone per contemplare
da lontano una donna vestita di nero, mentre potevano andarne a veder
da vicino altre di tutti i colori.

Si esibì anche di fare da guida, e tutti gli tennero dietro.

Quella fu l’ultima volta che Massimo si lasciò trascinar dai compagni.
Cominciò dal non recarsi quella sera stessa al solito convegno;
poi prese ad evitare tutti i luoghi ove poteva incontrarli. I suoi
servitori ricevettero l’ordine di non introdur visite. Scomparve così
senza avvertire nessuno, senza dare informazioni o spiegazioni di
sorta.

Violant, Di Cimalta, La Torretta e gli altri della brigata, visti
riuscir vani tutti i tentativi fatti per richiamarlo, esaminato e
ponderato bene l’affare, considerato che si divertivano ugualmente
anche senza di lui, deliberarono all’unanimità di lasciarlo cuocere e
bollire nel suo brodo.

Massimo continuò ad alzarsi assai tardi, a star in ozio, ad andar a
zonzo per la città e fuori le porte.

Visitava pur talvolta sua madre, nelle ore in cui era certo di trovarla
sola. Non passava mai per lo scalone, per non rischiar d’abbattersi nel
conte; saliva da una scaletta interna a certi anditini, per dove, dopo
un lungo giro, si giungeva all’uscio segreto dello stanzino dove ella
si pettinava.

La contessa accoglieva sempre amorevolmente suo figlio; parlava
con lui di cose liete o anche frivole, evitando con cura i discorsi
troppo seri, gli argomenti spinosi, ogni allusione alla vita ch’egli
conduceva; lo trattava insomma come si tratta una persona che per una
ragione o per un’altra ha bisogno di distrazioni e di riposo. Pareva
considerare lo stato in cui si trovava Massimo come una specie di
convalescenza.

Però un dì ch’erano stati insieme oltre l’usato, vedendolo coprirsi con
la sinistra la bocca, come per rattenere o nascondere uno sbadiglio,
ella gli pose le mani sulle spalle e gli disse sorridendo:

— Ti secchi, eh? Bene. Questo significa che prima o poi sentirai il
bisogno di ricominciare a far qualche cosa. Quando ti troverai ben
rimesso in tutti i modi, me lo farai sapere. Penserò io a trovarti
un’occupazione. Ringraziando Dio, sei nato in una condizione che ti dà
abilità ad aspirare a tutto, o quasi...

— Aspirare a che? — pensava Massimo, più tardi, andando a spasso. — Che
cosa devo fare?

Sapeva bene anche lui che questo periodo d’inerzia non poteva durare;
che tardi o tosto avrebbe avuto una grande smania d’agire; una smania
tormentosa, prepotente, conforme in tutto all’indole sua. Ma che fare?

Egli aveva servito con entusiasmo un sistema, finchè lo aveva amato e
stimato; venuti meno l’amore e la stima, aveva lasciato di servirlo.
Ma ora come adoperare la sua gioventù, le sue forze? Come impiegare il
tempo? Dove, dove, dove trovare una grande occupazione d’intelletto e
di cuore?

Cercar d’accostarsi alle idee dei novatori? Partecipare ai loro
maneggi? Seguir l’esempio di qualche altro nobile, d’altri ex militari?
— No; questo no! Viva il Re sempre! _Vive le Roi quand même!_

E si dava più che mai al fantasticare, al vaneggiare co’ propri
pensieri; tornando spesso indietro ad esaminare il passato, per
spiegarsi il presente, per trarre induzioni e pronostici per
l’avvenire.

Un giorno, entrando in contrada Nuova, gli venne in mente, senza saper
come, la _Dama nera_ tanto celebrata da Di Cimalta.

Cercò con gli occhi, così da lontano, il terrazzino, e su quello scorse
una donna. Si avvicinò pian piano: la persona era alta e snella, il
volgere della testa dignitoso e leggiadro. A un tratto gli parve di
riconoscere quella forma, d’averla già riguardata e ammirata altre
volte; fece ancor qualche passo e raffigurò la signora Ughes.

Essa era là, ritta, con le mani posate sulla ringhiera, piena di
noncuranza per gli sguardi che s’alzavano dal basso verso di lei, dei
sentimenti e delle parole che poteva ispirare. Si sarebbe detto che si
credeva sola, sulla cima d’un’alta torre, in una solitudine immensa.

Massimo la considerò un momento e si sentì dare una stretta al cuore.
Gli pareva triste triste, con un non so che di annebbiato nella fronte,
un non so che di sfiorito nelle gote. Non ebbe tempo d’osservar altro:
improvvisamente ella girò la testa, come se qualcuno la chiamasse dal
di dentro, si mosse e sparì.

Massimo, turbato, seguitò il suo cammino.

— La signora Ughes a Torino? — pensava. — Ma è la cosa più naturale del
mondo, dal momento che gli altri villeggianti sono già tutti in città!
Se non ho ancor visto per istrada nè lei, nè suo marito, questo vuol
dire che sono arrivati da poco o che escono di rado...

Piuttosto c’era da maravigliare ch’egli non avesse neppur pensato
a quell’incontro, mentre doveva prevederlo e cercarlo. Sicuro:
_cercarlo_. Avevano passato insieme tante belle ore, laggiù!...
S’erano lasciati così improvvisamente, così bruscamente!... Non avendo
parlato di scriversi, non s’erano scritto, e perciò buona notte! Egli
non sapeva più nulla; non aveva nemmeno pensato d’informarsi da sua
madre, nè quand’essa era ancora a Robelletta, nè dopo ch’era tornata
a Torino. Non che si fosse dimenticato di loro, non se n’era ricordato
abbastanza, ecco tutto. Adesso che aveva riveduto la signora, la cosa
gli riusciva inesplicabile, gli pareva incredibile.

Dominato da questi pensieri, giunse in fondo a contrada Nuova,
e, passata la porta, si fermò con le spalle voltate alla facciata
esteriore, bellamente rivestita di marmo e ornata di colonne e di
statue.

La pianura gli si apriva dinanzi spaziosa e brulla, squallida e grigia,
sotto un cielo color di piombo che pareva fondersi in lontano con
gli alberi spogli, dando ai contorni sfumature e morbidezze di piuma.
Laggiù, laggiù, in un punto dell’orizzonte, dietro un velo di nebbia
più tenue, apparivano le montagne: era un tratto di paesaggio tutto
cime taglienti e balze dirupate, tutto torbide luci, e livide ombre;
un paesaggio morto e freddo, ove pareva dovesse durar perenne la neve,
regnar eterno il crepuscolo.

Massimo chiuse gli occhi un momento come per sottrarsi a quella
visione; immaginò la campagna rigogliosa, ammantata di verde,
dardeggiata vivamente dal sole; fu assalito dalla nostalgia della luce,
del caldo, da una folla di dolci rimembranze.

Era seduto sulle rive della Varaita, con Liana e suo marito; avevano
davanti la corrente limpida, le ghiaie nitide, intorno intorno le ombre
amene degli alberi; la giornata era splendida, quieta, fragrante...

Di repente sentì sulla mano un lieve contatto gelato. Riaprì gli occhi:
fiocchi bianchi e minuti cominciavano a scender lenti e radi, morivano
subito là ove toccavano.

Il giovane si scosse e rientrò in città. Si sentiva nell’anima una
grande malinconia, ma lo confortava il pensiero che Liana e Ughes erano
anch’essi a Torino, che poteva vederli, ritrovarsi spesso con loro.
Quella sera stessa, se l’avesse voluto... Ma perchè non subito?

Allungò il passo; gli si ripresentò l’immagine di Liana, quale l’aveva
vista alla sfuggita poc’anzi. La _Dama nera_? Oh sì, avevano ragione
gli amici di chiamarla così! Com’era pallida! Che aspetto severo! E
viveva in lutto: portava il bruno, il bruno grave! La madre non l’aveva
più: aveva dunque perduto suo padre? Ma allora chi poteva essere il
signore attempato, che, stando al detto del conte Di Cimalta, abitava
con lei? — Come aveva fatto male a tenersi per tanto tempo al buio di
quanto riguardava i coniugi Ughes! Quante cose non potevano essere
accadute in quei mesi!... Pensò ai tumulti dell’estate, alle note
opinioni del medico e si sentì rimescolare.

— Bisogna sapere — diss’egli tra sè, — bisogna assolutamente ch’io
sappia!...

Il tempo s’era fatto più tetro che mai; seguitava a fioccare il
nevischio, con un freddo pungente. In piazza San Carlo il terreno più
qua e più là cominciava a biancheggiar leggermente; la gente pareva
fuggire, sbandarsi. Quando vide che il terrazzino era vuoto, benchè
dovesse aspettarselo, Massimo sentì venir meno ogni desiderio, ogni
volontà di salire.

— Capitar così all’improvviso! — pensò egli. — A quest’ora, con questo
tempo infame... E se la signora non mi riconoscesse più? S’io fossi
obbligato di dirle il mio nome? Verrò senza fallo domani.

E tirò di lungo verso piazza Castello. Anche il sinistro presentimento
s’era già dileguato.




XIII.


— Oh santa Vergine! — esclamò Menica, aprendo e ravvisando Massimo. —
Chi vedo mai!

Poi subito gli accennò di parlar sottovoce. Massimo, un po’ sorpreso,
domandò se i padroni erano in casa.

— Sì, signore: madama è lì nel salotto, il signor avvocato, il papà di
madama, dev’essere in camera.

— Il signor Ughes forse è già uscito?

Menica diede due passi indietro.

— Oh Vergine cara! Cosa sento mai! Dunque non sa niente? E io che
credevo fosse qui con qualche nuova! Poveri noi! Domanda se sor Luigi
è già uscito? Altro che uscito!... Dio volesse che ci fossimo ancor
tutti!

E cominciò a raccontare a Massimo quant’era accaduto dopo la sua
partenza.

— Insomma — diss’egli a un certo punto, vedendo che la narrazione
riusciva lunghetta e confusa, — il signor Ughes è andato via e non si
hanno più notizie di lui. È questo?

— Già. Ma le pare naturale una cosa simile? Adesso mettiamo che non sia
niente affatto morto, che madama si stanchi d’aspettarlo, che un bel
giorno si lasci far la corte da un altro, e che poi... Guardi un po’
che pasticcio!

— E la signora come sta?

La serva mise un gemito e alzò gli occhi al soffitto, agitando le mani.

— Adesso vedrà — diss’ella; — vedrà, vedrà, vedrà!

Chiuse, senza far rumore, l’uscio dal quale era entrato il contino e
andò pian piano ad aprirne un altro di fronte.

Liana era nella finestra fino a terra che metteva sul terrazzino;
teneva la testa un po’ china, appoggiando la fronte ai vetri.

— Sempre lì — mormorò Menica, — sempre così. È una fissazione. —
Soggiunse poi, alzando la voce. — Madama, un signore... una visita che
le farà piacere.

Liana si voltò, fece alcuni passi mollemente, languidamente, come se si
movesse in sogno. Ad un tratto scorse il giovane, rimasto, per delicata
temenza, indietro nell’anticamera buia, gittò un grido soffocato.

Massimo indovinò, comprese per chi essa lo scambiava e si portò rapido
dove batteva la luce. Ma la povera signora s’era arrestata sull’atto,
mettendo un — Oh! — pieno d’inesprimibile sconforto. Si lasciò poi
andar seduta sopra una seggiola vicina, alzando e crollando leggermente
la testa, con un lieve, amaro sorriso di compassione per sè stessa.

— Mi perdoni — diceva intanto al contino, che la guardava muto ed
afflitto; — lei non sa... lei non può sapere...

— So tutto, so tutto! — rispondeva Massimo con voce alterata. — Sono
io che devo domandarle perdono; io che sono venuto a disturbare... a
disturbarla. Ho fatto male. Dovevo pensarci, dovevo avvertirla.

L’avvocato Oliveri, udendo parlare dalla stanza vicina, si affacciò
all’uscio.

Menica, che stava già per ritirarsi, si credè in obbligo di risparmiare
a Liana la cura della presentazione.

— Il signor contino di Robelletta — diss’ella, appuntando a Massimo
l’indice della destra. — Quello ch’era tanto amico di sor Luigi. E si
figuri, sor avvocato, che non sapeva niente di niente.

— In cucina, voi! — susurrò Oliveri, abbottonandosi la veste da camera
con una mano e accomodando il parrucchino con l’altra.

Si fece poi incontro al contino tutto affabile, grazioso, ridente; lo
inchinò e si affermò felice e onorato di far la conoscenza d’un nobil
giovane, che aveva sentito mentovare tante e tante volte con moltissima
lode.

— S’accomodi, signor conte. Mi rincresce che ci trova così... ancora
così sottosopra. Siamo arrivati dalla campagna che è poco. S’accomodi,
prego... Basta, cosa vuole? queste sono le conseguenze dei bei tempi in
cui viviamo.

E ripetè a Massimo quello che gli aveva già detto Menica, ma con
maggior ricchezza di particolari, con maggior venustà di linguaggio.

Liana intanto s’era acquietata; guardava Massimo attonita, intenerita.
Egli le ricordava un passato ch’ella temeva morto per sempre.... Luigi
poi lo aveva veduto volentieri, lo aveva considerato per un amico.

Quando l’avvocato ebbe finito il suo racconto e aggiunto un certo
numero di gravi e dotte riflessioni filosofiche, Massimo, che temeva
già di essere indiscreto, si alzò. Volgendosi per congedarsi da Liana,
vide ch’ella aveva gli occhi pieni di lacrime; ricominciò a scusarsi,
ma Oliveri lo interruppe subito:

— Che Iddio lo benedica! — esclamò. — Questo è uno sfogo. La lasci
piangere che non c’è niente di meglio; spesso al pianto segue la pace
consolata della rassegnazione.

Prese la destra del contino per accostarsela al petto, lo ringraziò
della visita; lo volle accompagnar fin sulla scala.

— Lei ha fatto bene a venire — disse poi, mentre Massimo già
discendeva. — La sua è stata una buona ispirazione. Adesso, avendo
visto che questo è un luogo di dolore, sa che farà opera meritoria
tornando.

Massimo si ripresentò tre o quattro giorni dopo, alla stessa ora.
Menica gli aprì, andò ad avvisare nel salotto, e tornò subito a dir che
passasse. L’avvocato, vestito di una bella giubba e d’una sottoveste
di panno nero, con bottoni sfaccettati d’acciaio brunito, gli si
fece incontro col sorriso sulle labbra e con gli sguardi pieni di
riconoscenza.

Liana, in piedi, s’appoggiava con una mano alla spalliera d’una
seggiola; l’espressione del suo volto era tranquilla. Ella fece al
giovane un’accoglienza pacatamente gentile.

Dopo il breve silenzio che succede ai saluti, si ricominciò a parlar di
Ughes: poichè si sentiva ancora impossibile qualunque altro discorso.
Se ne parlò posatamente, esaminando con diligenza e valutando ancora
una volta ogni particolarità del caso.

— S’è fatto tutto — concludeva Oliveri; — creda, signor conte, che
s’è fatto tutto... Ma noi abbiamo mezzi tanto limitati! Adesso ci
vorrebbe qualche aiuto potente, l’opera di qualche persona di nobile
lignaggio... Questa, per mezzo dei parenti, degli amici, degli
aderenti, potrebbe ottenere che si facessero ricerche nelle varie città
dello Stato, e anche fuori... Insomma, chi sta in alto vede lontano,
ha cento mezzi ch’io non conosco per ottenere una grazia, e occorrendo
anche un miracolo. Le pare?

Mentre l’avvocato parlava, Massimo guardava la signora. Non incontrò
che un attimo lo sguardo di lei; bastò per farlo scattare in piedi,
quasi si trattasse di agir sul momento.

L’atto era più eloquente di qualunque promessa.

— Animo, Liana — disse l’avvocato, con gravità — tocca a te ringraziare
il signor conte delle sue buone intenzioni.

— Le intenzioni! — esclamò Massimo — sì, queste ci sono, ma poi... non
so ancora cosa farò, quello che potrò fare. Non posso rivolgermi a mio
padre... Parlerò con mia madre... m’ingegnerò, glielo prometto.

— Dio! — mormorò Liana, accorata — se lei sapesse cos’è per me una
speranza... anche un filo di speranza!... È la vita, è la ragione, è
tutto...

Tacque e si coperse il viso con le mani.

— Su su — disse Oliveri, — ci vuole energia, ci vuol coraggio...

Ella scosse il capo, poi stese la destra a Massimo. Questo la strinse
silenziosamente, si chinò, v’impresse le labbra.

Sulla faccia fresca dell’avvocato balenò un raggio di compiacenza,
d’orgoglio.

— Se permette — diss’egli poi al contino, quando furono nell’anticamera
— vengo un tratto anch’io.

E senza aspettar la risposta prese il cappello, la canna d’India, e
voltò le spalle a Menica perchè vi adattasse il ferraiuolo.

Scesero nella strada, si avviarono verso piazza Castello.

— Le ho fatto un discorso un po’ ardito — cominciò a dire Oliveri, — un
po’ temerario; ma che vuole? bisogna fare il possibile per confortare
quella poverina. Non si sa dar pace. E guardi che stranezza, che
contradizione! È convinta che suo marito è vivo, e vive e veste come
una vedova! Invece io purtroppo non ho più dubbi. Oramai è finita;
mio genero è morto. Lontano o vicino, nella China o in fondo d’un
carcere segreto, a quest’ora se fosse in vita, ci avrebbe fatto saper
qualche cosa. Si figuri, son quasi sei mesi! Questo è il silenzio di
chi dorme sotterra. È morto, è morto. Dove? Come? Chi può saperlo! Son
tante le maniere con cui si può andare o esser mandati violentemente
nel mondo di là. Avevo cominciato a farne una lista, ho visto che
era fatica buttata. La mia opinione è sempre questa: Ughes, mandato
dal suo partito a capitanare i sediziosi, è stato preso con le armi
alla mano, spinto contro un muro e moschettato, senza dargli tempo
di fare Gesù. Chi sa? Sarà fors’anche stato mascherato, travestito,
irriconoscibile! E non se ne saprà mai più niente. E mettiamo pure
che sia stato giudicato e giustiziato regolarmente: non se ne saprà
più niente ugualmente, poichè pare che il Governo abbia emanato, o
stia per emanare, un ordine severissimo, in forza del quale viene
imposto ai tribunali, ai giusdicenti, che so io? a tutti quelli che
hanno avuto mano in questa triste faccenda di stracciare, bruciare,
annientare registri, note, processi, memorie, tutta la farragine
cruenta. Questo, credo, per tagliar corto alle recriminazioni francesi,
e per guarentirsi contro possibili vendette... Io già non ho più che un
pensiero: vedere rassegnata e consolata mia figlia. Santo Dio, al mondo
non ci ho che lei!

Il tempo era mite; si camminava male: ad ogni passo i piedi entravano
in una pozza d’acqua mescolata alla neve, che più qua e più là ne
impediva lo scolo. Piazza Castello, specialmente nell’angolo di
ponente, pareva addirittura uno stagno melmoso. In principio della
contrada di Doragrossa si vedeva una piccola squadra d’uomini che
lavoravano, con lunghe pertiche munite al capo d’un legno trasversale,
a spinger la fanghiglia verso il mezzo della strada, ove correva
torbido e gonfio il rigagnolo.

Oliveri si fermò allo sbocco di contrada Nuova.

— Mi scusi se torno indietro — diss’egli, — non mi piglierei
impunemente tutto questo umido.

Ma invece di congedarsi, durava a girar con gli occhi la piazza.

— Cosa vuole — ripigliò, — a me non mi par più piazza Castello,
la nostra piazza Castello d’una volta. Chi sa perchè? Oggi,
per esempio, non c’è il burattinaio con la sua baracca e la sua
campanella: dirindin, dirindin, dirindin... Non vedo più quei quattro
straccioni camuffati da Brighella, da Arlecchino, da Pantalone... che
improvvisavano sciocchezze sur un palco lì a sinistra. Guardi un po’:
nè acquavitai, nè venditori di ciambelle, niente!... Poche carrozze,
poche portantine, e anche pochi pedoni. Capisco che bisogna tener conto
del tempo, ma via... Sono stato in campagna poco più di tre mesi, e
mi par d’essere stato assente tre anni! E la ritirata è ancor sempre
battuta dai tamburini e dai pifferi, la ritirata?

E canticchiando le parole che il popolino aveva adattate a quell’aria,
si voltò a guardare verso Doragrossa, come se vedesse il drappello in
marcia verso il quartiere di porta Susa.

    Ogni doi meis ai dan tranta pan
    Ch’a pieuva, ch’a fioca tant ai je dan!

Il vecchio ciarliero e il giovane pensieroso s’indugiavano a
considerare la piazza, ove non c’era veramente nulla da osservare, come
se non trovassero più il modo di dividersi.

Le ombre della sera calavano lentamente e si confondevano con la nebbia
stagnante. Le campane annunziarono sonoramente la fine del giorno.
Gli accenditori liberarono dalle loro catene le lunghe scale a piuoli
raccolte sotto l’atrio del castello, uscirono, si sparpagliarono
correndo verso i radi lampioni.

— Buona sera — disse Massimo, alla fine.

— I miei ossequii, signor conte — rispose Oliveri.

E si lasciarono.

Quando fu presso al portone del palazzo Claris, Massimo ne vide uscire
il cavaliere Mazel.

— Mia madre è sola — pensò tosto. E invece di entrare nel suo
quartierino infilò la scaletta.

La contessa aveva davanti un tavolinetto riccamente intarsiato, e
leggeva al lume d’una grossa ed elegante lucerna.

Massimo le sedette di fronte ed entrò subito in argomento. Le ricordò
Ughes, ne raccontò la sparizione misteriosa, descrisse lo stato
lacrimevole in cui era la povera moglie e in fine pregò sua madre di
far quanto poteva per lei.

La contessa lo ascoltò impassibile, senza levar gli occhi dal libro,
poi, dopo aver mostrato di pensare un momento:

— Va bene — diss’ella — ne parlerò con...

Ma invece di pronunziare il nome si morse il labbro. Voltò la pagina, e
rannuvolandosi alquanto, soggiunse:

— Tu poi non devi far nulla, assolutamente nulla senza dirmelo prima.
Promettimi questo.

Massimo promise e se ne andò.

La faccenda non si avviava come avrebbe voluto, tuttavia il giorno dopo
corse in casa Oliveri tanto per poter dire che aveva già parlato con
sua madre.

Vi tornò poi; e vedendosi sempre accolto con egual cortesia, si
affrancò d’ogni soggezione e si fece assiduo.

Quando andava di sera, trovava a veglia due o tre vecchi amici di
Oliveri; quelli che un tempo intervenivano alle antiche adunanze
accademiche ed erano destinati a far parte di quella tal Colonia
che l’avvocato aveva in animo di fondare. C’era il dottor Chiovetti,
che doveva prendere il nome di _Filinto_; l’avvocato Bottalla ed il
banchiere Aquilante, ai quali erano destinati i nomi di _Menalca_ e
di _Dalindo_. Oliveri, futuro custode, si riserbava di scegliere a
suo tempo tra _Nidalmo_ e _Mirtillo_. Disputavano poi ogni sera se
dovessero intitolarsi _Pastori del Po_, oppure della Dora, della Stura
o della Macra; discutevano il regolamento interno: verbigrazia, se
le adunanze dovessero dividersi in pubbliche e in private; se con le
produzioni poetiche, si potessero ammettere anche quelle in prosa;
quale avesse ad essere il numero dei soci ordinari, quale quello
dei corrispondenti. Oliveri prometteva solennemente d’inaugurare le
riunioni con la lettura del suo _Eugenio_.

In tal compagnia Massimo e Liana si sentivano come soli. Ella lavorava,
egli le sedeva accanto, raccontandole, per distrarla, quanto succedeva
in città, ripetendo per lo più quello che aveva inteso da sua madre o
dal cavaliere Mazel, col quale si trovava pur qualche volta.

Liana ora ascoltava tenendo gli occhi bassi sull’ago, ora li alzava
fissandoli in quelli del giovane per cercare il significato di qualche
parola. Avveniva pure ch’ella rimanesse immobile, trasognata; o che il
suo viso prendesse repentinamente un’espressione di tristezza infinita.
Anche Luigi aveva occupato quel posto, lì vicino a lei, in quella
stessa stanzetta, al tempo in cui le parlava ancora dei suoi studi e
delle sue speranze.

Queste memorie, questo confronto non ridondavano però affatto in danno
di Massimo. Ella lo vedeva volentieri, aveva per lui maniere dolci
ed uguali, gli parlava con certa amichevole famigliarità. Il contegno
del giovane era così riserbato! La sua premura di vederla ogni giorno
accompagnata da un rispetto così sincero, così spontaneo! Al sentir le
sue profferte le si allargava il cuore: non perchè sperasse realmente
ch’egli potesse giovarle in alcun modo, ma perchè mostrava di credere
che Luigi era vivo. Sentiva bene che suo padre, e gli amici di suo
padre non lo consideravano più come una persona di questo mondo! Ma che
importava a lei delle loro opinioni!

Dopo tanto riflettere, dopo tanto meditare, le pareva finalmente
d’aver trovata la occulta ragione del fatto. Luigi era legato da un
vincolo antico, infrangibile, indissolubile, che gli imponeva obblighi
e doveri. Il suo braccio, la sua mente, la sua vita non appartenevano
a lui ma ai confratelli, a coloro coi quali lavorava per cambiare i
destini della patria.

Arrischiata una prima volta la libertà e la vita, e sofferto l’esilio,
aveva ottenuto come in premio la facoltà di sposar colei che amava,
di vivere felice al suo fianco. Ma improvvisamente l’opera sua era
ridivenuta utile, forse necessaria. Egli era partito. Era partito
senza avvertirla, senza un addio, perchè aveva giurato di morire,
prima che rivelare il segreto. E non poteva dar notizie perchè vi era
chi vigilava continuamente sopra di lui; si trovava spiato, insidiato,
circondato di gravi pericoli; un momento di debolezza, un’imprudenza
poteva perderlo insieme a tanti compagni, distrurre il frutto di
lunghe, penose, gigantesche fatiche. Chi sa, chi sa che il suo silenzio
non significasse anche semplicemente che l’ora del gran rivolgimento
era vicina, che la sua assenza non doveva durar più a lungo!

Ella fermava la mente ogni giorno su queste considerazioni, rifuggendo
dall’approfondirle, dallo sviscerarle, dal ricercare che cosa potevano
contener d’improbabile, d’esagerato, d’assurdo. Vi si rifugiava nelle
ore buie e sconsolate. Le teneva chiuse nel cuore, perchè nessuno
potesse non che distrurle, sciuparle; spezzare con una parola, con un
gesto il tenue filo che teneva legate le sue ultime speranze, le sue
ultime illusioni.

Oliveri riceveva sempre con maggior espansione il signor contino,
felice della simpatia che questo mostrava d’aver per la figlia.

— Benone — diceva egli tra sè, — mi ricordo d’aver letto che la
simpatia è una parentela di cuore e di spirito: _une parenté de cœur et
d’esprit_... Se sarà rosa fiorirà.

Faceva poi grandi elogi di Massimo col dottor Chiovetti, suo
confidente, concludendo così:

— È giovane, e se non ha ancora imparato a gustare le gioie tranquille
del pensiero, imparerà. È nobile, ma è socievole, garbato, e mostra
l’urbana disinvoltura di modi d’un uomo sfranchito nel conversare con
tutti... Del resto ora si grida troppo contro i nobili, proprio troppo!
Cosa comoda non guardar che i loro difetti, senza tener conto delle
loro qualità. Io non son nobile e non mi sento affatto umiliato per
questo; niente umiliato e niente disposto ad abbattermi a terra davanti
a quei che lo sono, ma mi dichiaro pronto a riconoscere i loro diritti.
Per Bacco! La mia patria mi appartiene non solo nel presente, ma anche
nel passato; m’inchino riverente a tutto quello che fece e che fa la
sua grandezza. Certi nomi celebri, famosi cessano dopo un certo tempo
d’essere il privilegio esclusivo d’un uomo o d’un casato, illuminano,
illustrano tutto un paese... Tutti possono, tutti devono compiacersi e
gloriarsi di questi grandi antenati. Il passato, vale a dire la storia,
non si cancella. Non si cancella!

Aggiungeva, dopo aver preso fiato:

— I Claris portano d’azzurro, con una stella d’oro a sei raggi.


In gennaio si ebbe una serie di giornate rallegrate dal sole, da
un’aria fredda, sottile, ma non pungente.

L’avvocato riuscì a condur fuori qualche volta sua figlia. Massimo lo
seppe: si studiò di poterli incontrare, o senza esser veduto vederli
alla lontana ed anche seguirli.

Un giorno finì con l’imbattersi in loro ch’erano appena usciti di casa.

— Che fa di bello? — gli domandò Oliveri, dopo i primi saluti. — Vuol
venire a passeggio con noi?

Il giovane non si fece ripeter l’invito, andò quella volta, andò
un’altra, poi prese l’abitudine di venirli a cercare a casa nel
pomeriggio. Evitavano i viali, i luoghi frequentati; uscivano
or dall’una or dall’altra porta; si dilungavano per la strada di
Stupinigi, per quella di Rivoli; s’avviavano lungo la sponda del Po,
verso la Madonna del Pilone; salivano alla vigna della Regina o al
Monte dei Cappuccini per contemplare la città ricca di palazzi e di
chiese, irta di campanili e di torri, cinta e munita di bastioni, di
rivellini, di fossi.

Il gran pensiero di Massimo era il trovar modo di render leggiera la
sua compagnia. Il timore che Liana potesse prenderlo a noia, gli stava
sempre fisso nel cuore come una spina.

Perciò, di tanto in tanto, mentre s’allontanava dopo aver
riaccompagnato a casa il padre e la figlia, sentiva sorgere dentro di
sè, crescere, diventare immutabile la risoluzione di star uno, due, tre
giorni senza lasciarsi vedere.

— Domani non andrò, e nemmeno dopo domani, e poi... poi vedremo.

E per non essere tentato in alcun modo di mancare al proponimento, si
chiudeva in casa e non ne usciva più, astenendosi perfino d’affacciarsi
alla finestra. Era una lenta successione d’ore nere e pesanti, ch’egli
passava buttato sul letto, o misurando innanzi e indietro a gran passi
il suo appartamento, del quale spalancava tutte le porte.

Intanto fantasticava, rifletteva, cercava spiegarsi quel sentimento
così dolce e così amaro, così sottile e così veemente, diverso da tutto
ciò che aveva sentito vicino ad altre donne, diverso anche da ciò che
aveva provato per Liana nel tempo ch’era stato a Murello. Ora, quando
gli tornavano in mente certi pensieri, certi propositi, certi sogni di
quei primi giorni, sentiva un rimorso vivo e cocente.

— Egli è che il mio affetto adesso è vero, incondizionato, leale —
pensava; ed esaltandosi in questo pensiero, aggiungeva: — Non sarò
felice che quando essa vorrà ch’io lo sia.

Accadeva pur talvolta che tra lui e l’immagine di quella gentile si
rizzasse il fantasma rigido e torvo di Ughes; questo or si piantava
nella sua mente e non si moveva più; ora lo trascinava con sè,
l’obbligava a seguirlo per il mondo, mentre mutava continuamente di
luogo, d’aspetto, di forma. Era come un incantesimo, una malìa.

Questo stato di scontento e di languore, misto ad impeti di dolore
e di rabbia, durava fino alla sera precedente al giorno in cui aveva
stabilito di riveder Liana.

Ma che maraviglioso svegliarsi la mattina seguente! Con che ansia di
gioia si alzava, si abbigliava, e venuta l’ora, correva là!

L’avvocato lo accoglieva con una cordialità affaccendata, con un
profluvio di chiacchiere da sbalordire; il compenso di quanto aveva
sofferto, Massimo lo trovava nella sincera premura con cui Liana gli
diceva:

— Temevo che fosse ammalato...

Accadde una volta che dopo una lunga, eterna assenza di quattro giorni,
Massimo trovò l’avvocato sdraiato nel suo gran seggiolone all’antica,
con un piede posato sur uno sgabello; erano le tre pomeridiane ed aveva
ancora in dosso la veste da camera ed in capo il berretto da notte.

— Son servito! — diss’egli al giovane.

— Cos’ha? — domandò Massimo. — Cosa si sente?

— Male.

E così dicendo si alzò e fece alcuni passi avanti e indietro molto
curvo, molto a sghimbescio, e zoppicando.

— Guardi un po’ come son ridotto! È l’umor di podagra che mi gira tutto
il corpo. Lunedì e martedì l’avevo al petto come raffreddore; ieri
lo sentivo nel braccio come dolore artritico, oggi è nel piede. Son
servito, ma servito bene.

Liana entrò in quel momento e porse affabilmente la mano a Massimo.

— Torna a letto — disse dolcemente a suo padre. — Manderemo pel medico.

Oliveri andò a rannicchiarsi nel suo seggiolone, facendo grugno.

— Il medico, il medico, il medico! — brontolò poi. — Che vuoi ch’io
ne faccia del medico? Lo sai bene che mi canta sempre le stesse
fandonie?... Dovrei fare una vita più attiva. Ah sì! In che modo? Non
esco forse tutti i giorni? Devo mettermi a scavallar per le piazze?
Bisognerebbe anche aver pazienza: contenersi nel mangiare, lasciar i
cibi succulenti, astenersi dai liquori, bere annacquato. Ouf! E quel
somaro d’un Chiovetti non capisce che la causa del mio male è tutta
morale, tutta, per così dire, politica. Il primo insulto podagroso l’ho
avuto nell’89, quando si seppe la presa della Bastiglia. Adesso poi
domando io come potrei star bene!

Tacque un momento e soggiunse con voce più flebile:

— Basta, hai ragione: sarà proprio meglio che io veda il dottore.

— Manderò subito Menica — disse Liana.

— Menica? — esclamò Oliveri. — E chi resta in cucina? Non vuoi che si
mangi stasera?... Poi non pensi che Menica non è ancor pratica delle
strade: per andar di qui alla piazzetta di San Martiniano, dove sta di
casa Chiovetti, può impiegar due ore. Se poi farà tanto d’imbattersi in
un’altra serva di sua conoscenza, non la vedremo più fino a notte. Sai
come si rimedia? Andandoci tu. Non sei più uscita in questi giorni, un
po’ di moto, un po’ d’aria ti farà bene. E se vuoi, se ti secca uscir
sola, il signor conte è così gentile...

Massimo guardò Liana, esitò a rispondere.

Ella uscì senza aprir bocca; tornò dopo un momento con la sua
casacchina nera e col suo cappello abbrunato.

— Fammi anche un altro piacere — disse l’avvocato a sua figlia, — entra
un momento da Costanzo, vicino a Santa Teresa, e comprami i tre libri
che ho notato su questo foglietto. Pagherai e dirai che me li mandino a
casa.

Scendendo la scala con Liana, Massimo si sentì come una vampa al cuore.
Era la prima volta che si trovavano insieme soli, affatto soli.

Usciti nella strada, pensò ad avviare il discorso. Era far torto a sè
ed a lei cominciare con un complimento volgare. Doveva dirle veramente,
sinceramente quello che provava, lasciar parlar l’anima? No, non era
ancor tempo; sarebbe stato un atto imprudente ed avventato, le cui
conseguenze non erano nemmen prevedibili. Avrebbe voluto semplicemente
poter dar prova d’una piacente agilità di spirito, distrarla, per tutto
il tempo che dovevano stare insieme, dai pensieri e dalle rimembranze
che purtroppo si risvegliavano in lei spesso e dovunque: anche in mezzo
al frastuono ed al via vai delle strade, anche alla vista di oggetti
che si sarebbero giudicati affatto indifferenti. Sì, ma come, dove
trovare un argomento abbastanza attraente? Si sentiva nullo e umiliato.

— Come se non mi fossi mai trovato con donne! — diceva egli tra sè.

E così veniva appunto a rammentarsi le compagnie con le quali si era
deliziato altre volte; con che sorta di madamine si era fatto veder
per istrada; e si trovava spinto a mostrarsi anche più riguardoso, più
circospetto, più gelido.

— Sono ridicolo! — pensava egli, — nè più nè men che ridicolo.

E seguitava a tacere.

Il suo tormento durò meno di quel che temeva. Svoltando in piazza San
Carlo, si trovarono di fronte il viso di mummia ed il soprabitone color
di ruggine del medico Chiovetti, il futuro _Filinto_. Andava appunto a
trovare Oliveri, senza sapere ch’egli avesse bisogno di lui.

— Già, già, già! — esclamò un po’ ruvidamente, com’ebbe sentito di che
si trattava, — ma se Gaetano continua ad impinzarsi così, la finirà
male. Troppe ghiottonerie, troppe ghiottonerie, troppe ghiottonerie!

Avvertito il medico, non restava più che ad occuparsi dei libri.
Massimo e Liana si volsero al negozio di Felice Costanzo.

Mentre la signora parlava col commesso, il giovane restò sulla
soglia. Fu così che scorse tra la gente che andava e veniva Violant,
Di Cimalta, La Torretta e un altro dei suoi compagni d’un tempo: il
cavalierino Spadafora di Pont. Egli non fece nulla per farsi vedere, e
nessuno dei quattro girò il viso verso di lui.

Liana si sbrigò in due minuti. Tornarono subito verso casa, e Massimo
la lasciò a piè della scala, promettendo di venir presto a prendere
notizie dell’avvocato.

Uscendo dall’androne buio, rivide, piantato dall’altra parte della
strada, il marchesino Violant; un po’ più lontano, gli altri tre
signorini ridevano e parlavano forte fra loro.

Massimo andò diritto diritto verso il cugino, che, non aspettando di
vederlo ricomparire, diventò rosso e prese una faccia ilare, candida,
tutta affettuosa.

— Vedi combinazione! — balbettò egli. — Cercavo appunto di te. Di un
po’, la sai la notizia, la gran...

— Bada — disse Massimo, con i denti stretti, — bada che questa
dev’essere l’ultima volta che ti colgo a seguirmi, a ficcar il naso
comunque sia nei fatti miei. Non mi stuzzicare, perchè può darsi che tu
abbia un ricordo. Lo sai che panni vesto, eh?

E gli volse le spalle, senza curarsi degli altri.




XIV.


In quell’ora tarda della sera, in mezzo ai fitti vapori, il palazzo
Claris aveva un aspetto singolarmente inospitale ed arcigno. Massimo
si avvicinava pian piano, rallentando sempre più il passo, preso da
un’insormontabile ripugnanza d’entrarvi, mentre vagheggiava ancora
col pensiero l’immagine ineffabilmente mesta di colei con la quale era
stato fino allora.

Era ormai giunto sotto il lampione appeso alla cantonata, e cercava già
con l’occhio il portone, quando vide venirsi incontro un uomo, il quale
teneva un fardello in una mano e un bastoncino nell’altra. Costui,
arrivato che fu vicino a Massimo, lo guardò e si fermò su due piedi.

— Il signor contino Claris!? — disse esclamando e interrogando insieme.

— Son io; cosa c’è? — domandò Massimo.

— Esco di casa sua — rispose l’altro; — dove sono stato a cercar di
lei. M’hanno detto che non c’era. Non volevo credere, ma...

— E chi siete? — interruppe il contino, a cui però quella voce in
falsetto non era nuova.

— Vossignoria non mi conosce più? — esclamò l’uomo dal fardello.

E fatta una giravolta, alzò il viso e lo presentò alla luce fosca e
sanguigna che mandava il lampione.

Non era Ughes, no; ma gli rassomigliava in tal modo che Massimo si
sentì raccapricciare.

— Fiordelis?! — disse poi, dopo un momento.

— Ai suoi comandi.

— Non ti ho mai più visto — soggiunse Massimo, prendendo il tono con
cui gli parlava quando l’aveva al suo servizio. — Dove sei stato?

— Ho girato il mondo. Come si fa? Bisogna mangiare. Adesso vengo
diritto dall’Astigiano, dal castello di Paracollo. Avevo un buon
salario, e gran parte dello spoglio del padrone, ma... pativo l’aria.
Sono arrivato stasera; vado a dormire in casa d’una mia cugina, e
domani mi metterò in giro... Lei non mi vuol più, eh?

— Non posso mandar via Tracco...

— Se lei sa qualcuno a cui indirizzarmi! Servo in camera e a tavola;
non porto livrea, non seguito carrozza: cameriere vero insomma. Quanto
a stipendio...

— Basta! — disse Massimo. — Tempo fa il cavaliere Mazel ti avrebbe
preso volentieri. Puoi provare a presentarti a lui.

— Sì, signore. Sta sempre di casa in piazza Carlina, il signor
cavaliere?

— Sempre.

— Riverisco.

— Buona notte.

Rimasto solo, Massimo tentò distrarre il pensiero da quell’incontro;
sentì subito che non era possibile.

— Come somiglia a Ughes, quel cialtrone! — pensava. — Adagio un
poco, però; le fattezze di Fiordelis ricordano quelle di Ughes, ma il
servitore ha l’aria d’un birbo, mentre la presenza del medico era di
quelle che annunziano una superiorità vera, amabile, schietta... Ho
bell’e capito: stasera non mi levo più dal capo nè l’uno nè l’altro! E
poi chi sa!...

Oh! non poteva l’apparizione di Fiordelis essere un presagio, un
avviso? Quante volte a Massimo non era accaduto d’incontrare per
istrada una persona affatto sconosciuta, che pure gliene richiamava
alla mente un’altra, non più vista da tempo, o dimenticata, o
ch’ei credeva lontanissima, e d’imbattersi poi, dopo pochi passi,
precisamente in quest’altra!... Se il giorno seguente, entrando in
casa Oliveri, trovasse Liana esultante per il ritorno del marito! —
Volle cacciar la visione con una scossa furiosa di testa, ma i pensieri
arrivavano in folla, informi, diversi, opposti, confusi; urtandosi e
battagliando fra loro.

Il ribollimento intollerabile durò gran parte della notte; egli non
potè prender sonno che verso il mattino, e si destò poi tardi, ancora
inquieto e turbato.

Appena alzato, andò a dar un’occhiata al terrazzino di contrada Nuova
e, vedendolo vuoto e chiuso, si sentì più tranquillo, come se ciò fosse
indizio che non era accaduta alcuna novità. Mentre tornava a casa,
gli si affacciò alla mente una domanda che Liana gli aveva fatta la
sera precedente, e non per la prima volta. Ella desiderava di saper
finalmente se la contessa Claris avesse avuto qualche lume riguardo
alla sorte toccata a Luigi. La richiesta era giusta e legittima,
bisognava pensare a soddisfarla.

Massimo salì subito da sua madre. Seppe da un servitore ch’ella stava
desinando con don Bonhomine e la damigella di compagnia. Non volendo
parlare davanti a quei due, discese e tornò dopo un poco.

Adesso la contessa era nella sala rossa col signor cavaliere.

Massimo rattenne a stento un atto di stizza, e passò avanti.

Sua madre, seduta a un tavolino, aveva una lettera in mano; Mazel, di
fronte, ne ascoltava la lettura. Tutti e due si voltarono accigliati a
chi entrava senza farsi annunziare.

Il cavaliere però si rasserenò subito.

— E tante grazie — diss’egli a Massimo.

— E di che? — chiese questi.

— Che m’hai mandato quel... quel...

— Ah! Fiordelis?

— Fiordelis, precisamente Fiordelis. Guarda.

E atteggiò la testa in modo che il contino potesse esaminare la
disposizione irreprensibile dei suoi capelli.

— Pettina bene — diceva intanto — oh se pettina bene! Con Chambery
non andavo più avanti. Mezzo cieco, adesso. E poi, una mano... Invece
di stringerle le ciocche, col compasso, tirava, sciupava, stracciava.
Vedevo le stelle.

Massimo ogni tanto sogguardava sua madre e, parendogli che si
rannuvolasse sempre più, abbandonò il pensiero di riparlarle di
Ughes. Ricordando poi un altro incarico ricevuto da Liana in quei
giorni, domandò a Mazel se conoscesse per caso qualche buon pittore di
ritratti.

— A proposito di ritratti — rispose il cavaliere: — ho visto quello
del barone Duc, morto al colle Ardente. Sua sorella, la... la... la
marchesa Raimondi, non aveva che una miniaturina. Il pittore... un nome
francese, ne cavò un ritratto grande. Bello, parlante!

— Dunque la cosa è fattibile! — esclamò Massimo, contento. — Noi non
abbiamo che un ritrattino in matita.

— Ah _voi_ non avete che un ritrattino, _voi_? — disse Mazel. — Basta.
In miniatura o in matita i lineamenti stanno sempre gli stessi.

— Mi farebbe il favore di dirmi dove abita, questo pittore?

— Sicuro, amico mio: nome, cognome, indirizzo, tutto ti darò. Sarete
contenti. Ha riuscito un fratello, caspita, perchè non riuscirebbe un
marito?

Massimo prese una sedia, la trascinò davanti al camino e vi sedette con
le spalle voltate.

— Sapete già quel che volete? — domandò Mazel, facendo l’occhiolino
alla contessa. — Tutta la persona, o solo la testa col busto?

— Non so niente — rispose Massimo, asciutto.

— Per potervi dare qualche altro consiglio. Il povero Duc è in piedi,
una mano sul fianco, l’altra sull’elsa. La marchesa, per facilitare
il lavoro all’artista, gli ha rilasciato l’uniforme, e questi ne ha
vestito il _mannequin_, o il modello. Capisci?

Massimo non rispose; quel discorso cominciava a seccarlo, a irritarlo
anche. Stava attento per vedere dove andava a parare.

— Fate come vi dico — continuò il cavaliere, parlando sempre al plurale
e sogghignando a fior di labbra, — imprestate al pittore un abito di...
del... del...

Invece di suggerire il nome, il contino si levò in piedi, guardando
fissamente Mazel.

Questi si battè la fronte.

— Cospetto! — esclamò imperterrito. — Anche il modello potete fornire!
Io vi lascio Fior di... Fiorde... Fiordelis. Il pittore lo copierà tal
e quale, e sarete serviti. Va bene così?

Massimo afferrò la sedia per la spalliera e se la trasse davanti; la
tenne così un momento, poi ad un tratto l’alzò e la ripiantò a terra
con impeto.

La contessa si voltò di sobbalzo; Mazel pure si scosse.

— Per Bacco! — disse poi, pacatamente — sedia buona, sedia forte; se
non s’è rotta stavolta, non si rompe mai più.

E tutto sereno, tutto gentile, si alzò, baciò la mano alla dama ed uscì.

Massimo, rimasto a capo basso, con le mani congiunte sul dorso,
guardava fisso la punta d’una scarpa che muoveva in qua ed in là.

— Massimo — disse la contessa, severa, — quella donna ha un’azione
cattiva sopra di te.

— Che donna? — domandò il giovane, che però aveva già inteso.

— La vedova Ughes.

— Vedova! Perchè vedova?

— Non facciamo questione di parole. Dico che la signora Ughes ha
un’azione pessima sopra di te. Me ne accorgo ogni giorno di più.
Perciò, io ti consiglio...

Massimo agitò energicamente una mano per aria.

— Allora — ripigliò la contessa — ti ordino...

— Nè consigli, nè ordini, signora madre, nè consigli, nè ordini.

La gentildonna si rizzò, prese il campanello e lo scosse con una certa
violenza.

— Ritornerai quando ti farò avvertire — diss’ella, senza guardar più
suo figlio.

Si udì il passo della damigella di compagnia che accorreva sgomentata.

Massimo balzò fuor della sala, discese rapidamente, si trovò
nell’atrio. Il cuore gli batteva a fretta, le guance gli bruciavano, le
gambe tremavano per modo che non osò uscir nella strada.

In fondo al cortile v’era un piccolo giardino, con pochi viali tutti
diritti, tutti uniformi; con pratellini chiusi da spalliere di alberi
rimondi, stranamente tagliati per figurar guglie, cupolette, muraglie
ed arcate.

Massimo vi andò, stette a lungo appoggiato a una statua, con gli occhi
sur un ragno microscopico, che faceva la sua tela fra i piedi di marmo.
Lo guardava senza però porvi attenzione; era come sbalordito, non si
raccapezzava, cercava invano di ricordar le parole che aveva detto a
sua madre; mentre quelle di lei gli suonavano ancora chiare e vibranti
all’orecchio: — Quella donna ha un’azione cattiva su di te...

— Se mai senza sua colpa — pensava egli. — La signora Ughes non
ha mai fatto niente per invaghirmi di sè, mai e poi mai!... Lo so
anch’io che sono cambiato. Ma questo malessere, quest’abbattimento,
questa sfiducia, questi scatti improvvisi, tutte le maledizioni che
ho addosso, provengono dal modo di vivere. È l’ozio che mi rende
svagato e noioso a me ed agli altri. In questa inoperosità quasi
totale la passione lavora dentro più forte che mai. Bisogna scuotersi.
Ma come?... Partendo! Ecco, non c’è altro che andar via, almeno per
qualche tempo... E Liana?... Eh, chi sa che questo non le torni a
vantaggio! Andrò a Genova, od a Milano; vedrò i principali fuorusciti,
mi abboccherò con loro, m’informerò... Chi sa che io non riesca ad aver
notizie di Ughes; a riportarlo a casa o vivo o morto!

Rientrò nel suo quartiere, e passò il resto di quella giornata occupato
febbrilmente a preparare tutto il necessario per la partenza.

Alla sera, prima d’andare a letto, prese due pezzetti di carta,
scrisse: _Genova_ sull’uno, sull’altro: _Milano_, e li gettò nel
cappello. Cavò fuori: _Milano_.

Egli partì la mattina seguente di buonissim’ora, senza dir nulla a
nessuno, e pigliando il servitore con sè.

Alitava una brezza rigida e sottile, l’oriente appena si vedeva
albeggiare. Il principio del viaggio fu triste. Massimo si figurava
d’andar lontano lontano, portato via dal suo avverso destino, per non
tornar forse mai più. Ma quando il sole d’una bella mattina di marzo si
fu levato tutto sull’orizzonte sereno, colorendo lietamente l’immensa
pianura, coprendo d’argento le montagne nevose, quel rincrescimento
indefinito con cui l’anima andava combattendo, parve che a un tratto
si dileguasse. Dopo un poco però, cessata la novità dell’impressione,
assuefatto l’occhio all’aspetto della campagna, si ridestò in lui il
pensiero delle persone che aveva lasciato a Torino. Si approssimava
l’ora in cui gli altri giorni andava in casa Oliveri. La signora
non l’aveva visto il giorno avanti, non lo vedrebbe nè quello, nè
i seguenti. Come cercherebbe di spiegar la sua assenza? E se non
l’avvertisse nemmeno? Sarebbe troppo; non bisognava esagerare. Era
però possibile che ci si abituasse subito, e che fra pochi giorni non
pensasse più a lui...

All’idea acerba d’esser dimenticato da Liana, si univa quella d’aver
dato sì forte dolore a sua madre, d’averle forse cagionato una
malattia; il suo viso pallido e contraffatto gli tornava alla mente, e
gli faceva paura e pietà. — Povera mamma! è così sensibile; e alla fin
dei conti credo che mi voglia anche un gran bene!

E seguitava a passare di posta in posta, saettato or dall’uno, or
dall’altro pensiero: raumiliato e compunto quando gli veniva innanzi
sua madre; agitato e commosso quando gli si presentava Liana;
corrucciato e fremente se in quelle sue fantasie si ficcava l’immagine
aborrita e beffarda del cavaliere Mazel.

Sul tardi, col scemar della luce, egli si sentì intenerire anche più il
cuore; così che giunto a Novara, decise di fermarsi per ponderar bene
quanto aveva fatto e quanto stava per fare. Entrato in una locanda,
prese due camere, una per sè, l’altra per il servitore; si spolverò, si
lavò e domandò da cena.

Un garzone lo condusse su per una scaletta, ove si sentiva l’odor misto
d’una quantità di vivande, a un andito lungo e buio, che metteva capo
a un uscio socchiuso. Si udiva un acciottolìo di piatti, un tintinnìo
di bicchieri e di posate, un gran chiasso di voci maschie, allegre e
discordi.

— Un momento! — disse Massimo, fermandosi. — Che cos’è questa?

— Sono i signori ufficiali — rispose il garzone, mettendosi in
sussiego: — mangiano quasi tutti qui.

— Che ufficiali?

— Eh! Abbiamo un battaglione di Piemonte, uno della Regina, uno di
Streng; più due squadroni...

— Va bene. E i nomi di questi ufficiali? Me ne sai dire qualcuno?

In quel momento, s’udì un passo lesto su per le scale poi nell’andito.
Era un giovinotto in divisa che, affamato e per la fretta che aveva
di raggiungere i compagni, nel passare urtò Massimo malamente col
braccio. Questi si voltò, ma prima che avesse aperto bocca o fatto un
atto qualunque di risentimento, l’ufficiale si scusò con buon garbo e,
spinto l’uscio, prese a insistere perchè andasse avanti. Fu così che si
videro e si ravvisarono.

— Claris! — gridò l’uno.

— San Vito! — esclamò l’altro.

E si baciarono. San Vito, pigliato il braccio dell’antico camerata,
lo trasse in una sala spaziosa e ben illuminata, piena di militari a
tavola, che mangiavano, bevevano e chiacchieravano allegramente.

Massimo trovò fra quelli parecchie altre conoscenze, che gli fecero
un’accoglienza clamorosa e cordiale.

Nessuno di quei gentiluomini pensò a chiedergli che cosa fosse venuto
fare a Novara; tutti insistettero perchè vi si fermasse quanto gli era
possibile.

Il contino rimase fino allo sciogliersi della lieta riunione; poi
andato in camera, si mise subito a tavolino, e scrisse una lettera a
sua madre, nella quale, dopo essersi ingegnato di scusare il passato,
faceva molti proponimenti per la sua futura condotta e terminava
pregandola con le parole più affettuose e più forti di rispondergli
a Novara; dove aveva trovato persone che gli mostravano vera amicizia
e lo colmavano di finezze. Seguiva la nota degli ufficiali coi quali
aveva passato la sera.

Scritto ch’egli ebbe la lettera, si sentì sollevato, e gli parve di
poter dormire veramente tranquillo.

Così fu infatti. Si svegliò persuaso che la contessa gli avrebbe
risposto prontamente, e per richiamarlo senz’altro a Torino. Era
stata una gran buona idea quella di fermarsi in quel luogo! Andando a
Milano avrebbe destato infallibilmente nuovi sospetti sul suo conto,
avvalorati dal modo precipitato e segreto con cui era partito. Invece
tutto si riduceva ad una scappata, ad una giterella fatta per cambiar
aria e per distrarsi un pochino.

Era contento di sè; questa volta almeno non avrebbe avuto a pentirsi
dell’inconsideratezza dei suoi portamenti.

Regolò subito la sua vita su quella dei suoi amici; stava con loro
nelle ore che avevano libere, passava le altre in compagnia dei suoi
pensieri.

— Che cosa farà Liana in questo momento? — diceva spesso fra sè. — Sarà
in casa o sarà fuori col padre?... Pensa a me qualche volta?... S’è
accorta che questa è una assenza più lunga e più grave delle altre?

E la immaginava impensierita, poi inquieta, poi afflitta.

Adesso era lui ch’essa aspettava affacciata al terrazzino. Parlava
di lui col padre; lo persuadeva ad andarsi ad informare al palazzo.
E l’avvocato si metteva in cammino. Lo vedeva entrar nel portone,
rivolgersi al servitore di guardia...

— Purchè non trovi quel tanghero d’un Pomero, o quel superbioso di
un Gringia; incapaci sì l’uno che l’altro di rispondere con un po’ di
creanza.

Passarono alcuni giorni e la lettera della contessa non veniva. In
breve l’attesa si fece tormentosa.

— Cosa devo fare? — pensava. — Ho chiesto scusa ed ho promesso di
emendarmi: che si vuole di più? Ch’io venga a Torino scalzo, senza
niente in testa, a far le croci con la lingua su per lo scalone?

E presto cominciò ad arrovellarsi, a dar in escandescenze, a meditar
cose strane e terribili.

La lettera arrivò per l’appunto un giorno in cui stava in fra due: o di
tornar a casa, presentarsi a sua madre e farle una rimostranza seria,
vibrata e dignitosa; o di tirar via verso Milano, avvenisse quel che
poteva avvenire.

La risposta della contessa era mite e benigna, ma non quanto Massimo
avrebbe voluto. Senza più entrare neppur da lontano nelle cose passate,
approvava pienamente l’idea del viaggetto. Gli parlava brevemente
dei suoi di casa e d’altre faccende. Lo consigliava a trattenersi
ancora a Novara: non avendo nulla da perdere, ma tutto da guadagnare
nella compagnia di quelli che s’erano sempre portati da uomini e da
valentuomini.

— Ah sì! — esclamò Massimo, amaramente. — Come se non avessi fatto
altro che dormire in tutti questi anni!

E chiudendo gli occhi, si vide in un ridotto, coi nemici a pochi passi,
accecato dal fumo, assordato dagli urli, dal ronzar delle palle,
dal fracasso infernale; e solo, solo a comandare, poichè gli altri
ufficiali erano tutti per terra!

— Allora li ho compianti, adesso li invidio!

Ripigliando poi la lettera di sua madre, trovò in fondo una riga:
«Quando sarà tempo di ritornare a Torino, te lo farò saper io».

— Ma che? Ma cosa? — pensò ancor Massimo, sempre più esacerbato. —
Ma sono forse in esilio? Questo è un parere di Mazel, senza fallo.
No, signore: son partito di mia spontanea volontà e tornerò quando mi
piacerà di tornare!

La sera stessa si congedò dagli amici.


Il calesse andava in tutta foga. Massimo rivedeva le successive poste
con gioia crescente; ognuna di esse significava tante miglia di meno
da fare. Ed ecco che a un tratto, la figura del cavaliere Mazel gli si
venne a cacciar nella mente.

— Va bene — pensò il giovane, — a Torino, sì, ma solamente per Liana.

Invece d’andare al palazzo, prese alloggio alla Dogana Vecchia.




XV.


Un bel giorno di Pasqua, l’8 aprile 1798! Un bel sole caldo, ma non
ardente, rasciugava il terreno e seccava le pozze; un’auretta tepida e
gentile correva per le strade e per le piazze, batteva alle cantonate,
scivolava rasente ai muri, frugava nei chiassolini e nei vicoli. In
alto le rondini fendevano l’aria con mille voli leggieri e bizzarri, e
salutavano garrendo la natura ringiovanita.

La città prese di buon’ora l’aspetto gaio e animato dei giorni
festivi; più tardi, nelle vie gremite di gente, comparvero le vesti di
mussolina, i calzoni di nankin, gli ombrellini, i ventagli.

Quella mattina anche Massimo si alzò presto, e venuto sotto il portone
dell’albergo, si fermò a guardar nella strada.

Guardava, ma non vedeva; il suo pensiero vagava di cosa in cosa
confusamente, e si arrestava mesto su Liana.

Ella gli aveva fatto, al suo ritorno, un’accoglienza serena e
tranquilla, che a lui era parsa gelida. Si ritrovava con lei ogni
giorno, come per il passato, ma la lasciava sempre più disanimato e
dolente.

Eppure Liana non s’era cambiata, ma a lui non bastavano più le
dimostrazioni semplici e quiete d’un tempo. Il suo amore acquistava
possanza e voleva progredire. S’egli avesse almeno potuto illudersi!
Scorgere almeno nella simpatia blanda, ma costante di lei, qualche
indizio d’un’inclinazione nascente! Non c’era da sperar nemmeno tanto;
e s’accorgeva, con profonda amarezza, d’aver sognato assai più del
convenevole nel breve tempo ch’era stato lontano. Che bel guadagno
aveva fatto a partire! Che scapataggine! E se ne diceva tante e poi
tante. Ecco che adesso si sentiva nel cuore qualche cosa che prima non
c’era: un’agitazione più acuta e febbrile, un miscuglio indefinibile
di aspirazioni elevate, di desiderii torbidi, d’improvvise fiacchezze,
d’oscuri sgomenti. Oramai non aveva più un pensiero dal quale ella
fosse esclusa. Non si dava più cura di veruna cosa, nè s’induceva più a
operare neanche in utile proprio.

La sua presenza a Torino non era certo più ignorata dai suoi: i parenti
e gli amici che l’avevano visto, dovevano essersi procurato il piacere
di avvertire la contessa. Perchè dunque continuava a star all’albergo?
La cosa non aveva più opportunità, pure ammettendo che ne avesse avuta.

Nelle ore che non passava in casa Oliveri, moriva di noia. Andava
vagando per le vie remote della vecchia città, mangiando alla peggio
un boccone in qualche osteriuccia, poi rientrava stanco all’albergo, e
stava lì, senza sapere cosa fare di sè, nell’andirivieni dei vetturali,
dei conduttori, dei cavallari, dei mercanti d’olio o di grano;
infastidito dal loro vociar triviale, nauseato dalle loro maniere
villane e plebee; offeso, urtato, ferito dal profondo contrasto fra le
molli fantasie, a cui era avvezza la mente, e quella ruvida e volgare
realtà.

Quando gli venne a tedio lo star fermo, si avviò verso la piazza delle
Erbe, coll’idea vaga di entrare nel caffè di Chiaffredo Molineri, per
leggervi la gazzetta, come usava qualche volta. S’avvide, guardando
intorno, che era festa, e festa solenne. Questo gli parve un ottimo
augurio, senza sapere il perchè. Doveva andar subito da Liana a darle
la buona pasqua? Perchè no? Certo le sarebbe grata di questo suo
pensiero gentile. Si poteva fors’anche combinare una passeggiata fuor
di città. Si meravigliò di non avervi pensato prima; e attraversata
Doragrossa, entrò nella rete delle piccole strade ch’egli prendeva in
quei giorni per recarsi in contrada Nuova.

— Bravo! — esclamò l’avvocato, vedendolo comparire. — Signor conte, lei
capita a tempo! Mi aiuti a persuadere questa testolina, che a star in
casa con un tempo sì bello è un voler far ingiuria a Domeneddio che ce
lo regala!

La signora Ughes era seduta presso la finestra, col viso un po’ chino
sul petto; voltò la testa per salutar Massimo, e intanto rispose
sorridendo lievemente:

— Ti ho già detto di no, babbo, tante volte. Lo sai bene che è inutile
insistere.

Ella adesso aveva una voce un po’ velata, un po’ sorda, quasi priva di
vibrazioni e di forza.

— E non vuoi proprio uscire? — ripeteva l’avvocato. — Neanche un
momento?

— Sono già stata a messa.

— Ma che cos’hai? Non ti senti bene?

— Sono stanca.

— Stanca a quest’ora!

— Sì, stanca, stanca, stanca.

— Fa come vuoi! — conchiuse Oliveri, ripigliando l’espressione viva e
gioconda che gli era abituale. — Adesso non sei più sola, posso andar
io. Perdere una mattinata così? Nemmen per sogno! Ora che sto meglio,
non vorrei ricascare. Sai quel che mi predica sempre Chiovetti: vita
attiva! vita attiva!

Prese il cappello, che aveva posato sopra una sedia, si congedò
garbatamente dal contino, e, fatto un gesto affettuoso di saluto a sua
figlia, se ne andò.

Rimasti soli, Massimo si avanzò un poco e, messosi a sedere, considerò
Liana fredda e insensibile come una statua.

— Bisogna assolutamente ch’ella guarisca — diss’egli a un tratto,
energicamente.

— Non sono malata, — rispose Liana, senza guardarlo.

— Lei deve cercare di distrarsi, di farsi animo... Dar retta a chi le
vuol bene...

— Oh se bastasse dire: via tristezza, vattene!...

Massimo tacque, ferito non dal senso di quelle parole, ma dal tono acre
con cui ella le aveva pronunziate.

Nè l’uno, nè l’altra provarono più alcun desiderio di parlare. I minuti
passavano, e nulla veniva a toglierli quell’imbarazzo, che si faceva
pesante, angustioso.

Dopo un poco egli credette d’accorgersi ch’ella guardava il terrazzino,
mal comprimendo un vivo desiderio d’andarvi. Pensò che la signora nè
poteva voltargli scortesemente le spalle e lasciarlo solo nel salotto,
nè forse le garbava mostrarsi apertamente con lui in quel modo, a
quell’ora.

— Bisogna lasciarla in pace, e subito — diss’egli tra sè. Ma sentì
nell’alzarsi che avrebbe dato un anno di vita per restare ancora un
momento.

Scese le scale pian piano, col cuore gonfio d’amaritudine.

— Non dovrei più tornare — pensava, — non dovrei più tornare. Che
cosa vengo a fare? A rendermi sempre più antipatico, lo vedo chiaro.
L’avvocato mi fa buon viso in apparenza, ma chi sa come mi trova
noioso, chi sa che cosa dice di me dietro le spalle!

Voltò inconsapevolmente verso piazza San Carlo, poi si avvide che
andava diviato a cacciarsi nella folla elegante che, udita la messa
di mezzogiorno a San Filippo, traeva per la contrada di Santa Teresa
al passeggio della Cittadella, confondendosi laggiù sotto gli olmi con
quelli che venivano da San Lorenzo e da San Dalmazzo.

Era una compagnia ben poco confacente a chi avrebbe voluto piuttosto
trovarsi solo in mezzo ad un deserto. Tornò indietro subito. Mentre
ripassava davanti alla porta da cui era uscito, voltò gli occhi per
caso a una carrozza tirata da un stupenda pariglia. Rimase stupefatto,
scorgendovi dentro suo padre e sua madre.

Che voleva dir questo?! Il conte e la contessa Claris non avevano più
nulla in comune da anni: nè appartamento, nè servitori, nè legni, nè
tavola; era poi così raro che si mostrassero in pubblico insieme!

Chi poteva aver fatto il miracolo di ridurli a pace e concordia?

La gente, che sopravveniva fitta e continua, lo spingeva, lo urtava,
non gli consentiva di fermarsi nè col corpo, nè con la mente. Sgusciava
via infastidito verso una stradetta laterale, quando una mano finamente
inguantata si posò sopra la sua spalla.

— Massimo! — disse nello stesso tempo una voce ben nota.

Il giovane si voltò brusco e accolse il cavaliere Mazel con un’occhiata
feroce.

— Eh no! — mormorò questi con un fare carezzevole e mellifluo. — Sono
una colomba, amico caro, ho nel becco un ramoscello d’ulivo, un bel
ramoscello...

Uscirono insieme da quel pigia pigia, ed entrati nella stradetta, si
tirarono alquanto in disparte.

— Son qui — disse Massimo: — mi vuol dir qualche cosa?

— Tante cose. Tuo padre e tua madre m’hanno dato l’incarico di
cercarti, di trovarti, di parlarti. Mi proponevo di venir appunto al
tuo albergo, alla... alla... alla... oggi o domani. Spiegami bene dove
sei.

— Alla Dogana Vecchia — rispose Massimo.

— Ecco! E non alla Dogana Nuova, come asseriva Violant. Dogana Vecchia,
va bene. Dalla piazza dell’Erbe, si va verso la contrada dell’Albero
fiorito, eh? Deve farti un effetto curioso vivere da viaggiatore nella
città ove sei sempre stato. Un’idea strana, originale...

— Verrò io da lei — interruppe Massimo, che intanto aveva potuto
riflettere.

— Come sei gentile! Oggi? Domani?

— Oggi, se crede.

— Fra le quattro e le cinque, eh? Prima non posso e dopo nemmeno.

E si separarono con una scappellata e un inchino.

Alle tre e tre quarti, il cavaliere Mazel avvolto in serica zimarra
a fiorami chinesi, steso sur una morbida coltre vermiglia, russava
placidamente, sommessamente, da quel costumato signore ch’egli era.
Una mano leggiera cominciò a grattar l’uscio pian piano, a più riprese,
finchè il cavaliere si trovò desto senza il minimo sussulto.

La prima impressione fu di maraviglia: accadeva così di rado che il
cameriere si attentasse di rompergli il dolce riposo pomeridiano!
Aveva ancora gli occhi al soffitto, e cercava di raccapezzarsi, quando
l’uscio si aprì.

— Il signor conte Claris figlio — susurrò Fiordelis, affacciandosi.

— Cospetto! — fece Mazel, rizzandosi a sedere e mettendo giù le gambe,
senza però posare i piedi in terra. — L’avevo dimenticato.

Massimo entrò introdotto dal cameriere, il quale si ritirò subito.

— Accomodati — disse il cavaliere. — Un momentino e son da te. Se me lo
permetti, mi rivesto. Stasera sono invitato in casa... Fammi il piacere
di dar una strappata a quel cordone che hai lì dietro le spalle.

Massimo diede la strappata. Intanto il cavaliere spogliò la veste da
camera e andò a sedere in una poltroncina bassa, davanti allo specchio.
Fiordelis rientrò subito e lo avvolse tutto in un ampio e candido lino.

— Svelto, eh! — disse Mazel.

Il contino sedette in un seggiolone e, accavalciate le gambe, prese a
dondolare fortemente un piede; il mobile scricchiolava, e questo gli
pareva dovesse stimolare Mazel a spicciarsi.

Fiordelis rimediò prontamente al leggiero guasto prodotto alle chiome
dalla pressione del guanciale; poi le rimbiancò leggermente, operazione
che richiedeva mano pronta ed esperta in chi spargeva la cipria,
immobilità e pazienza in chi la riceveva. Seguirono poi altre pratiche
minute e raffinate. Un grosso astuccio di cuoio, rabescato d’oro, fornì
tutto un forbito e lucente arsenale di cisoie e cisoine, spazzole,
pettinini, limettine e nettadenti. Poi fu un maneggiar rapido e franco
di alberelli, ampollette, vasetti e boccettine; e tosto si sparse per
la stanza un complicato e squisito profumo di pomate e di cosmetici, di
essenze e di aceti, tutti diversamente e intensamenti odoriferi.

Massimo si alzò, s’avvicinò alla finestra, e l’aperse.

— Fa caldo, eh? — domandò Mazel. — Apri, apri. — Soggiunse poi,
rivolgendosi al cameriere: — Oggi sei eterno, sai!

Fiordelis si precipitò verso un armadio, lo spalancò; si videro
appiccati abiti e soprabiti, sottovesti e calzoncini, tutti vari di
stoffa e di colore, diversi di foggia e di taglio, quali semplici e
schietti, quali adorni di guarnizioni, di gale, di ricami. Cavò fuori
una leggiera giubba color verdemare, finamente vergata di bruno, e la
mostrò al padrone.

— Ma che! — esclamò questi. — Sei matto? Dammi l’altra che è a
dritta... No quella, l’altra, l’altra _gris de souris effrayée_...
Ecco, e un _gilet glacé_. Bravo! Quanto ai calzoni... tengo quelli che
ho. Cosa ti pare, Massimo?

Massimo approvò.

Mazel finì di vestirsi; mandò via il cameriere; prese sul cassettone
e ripose nel taschino la sua ripetizione guernita di brillanti, con
tutta la famiglia dei ninnoli ciondolanti; ritirò la tabacchiera, il
mucchietto degli anelli e si buttò di sghembo sul canapè.

— Sempre contento — diss’egli, — contentissimo sempre, sai.

— Mi rallegro — rispose Massimo, senza sapere di che cosa intendesse
parlare.

— Pettina a maraviglia. Non occorre ripetergli due volte le cose. Una
perla di servitore, questo ex tuo Fiordelis... Adesso poi, se credi,
possiamo cominciare a parlare.

Massimo, stupito di sentirsi così paziente, si pose di nuovo a sedere.

— Prima di tutto — diss’egli, — mi faccia il favore di spiegarmi perchè
oggi mio padre e mia madre si trovavano insieme. Come, quando, perchè
si sono riconciliati?

— Sono io che li ho rappattumati — rispose il cavaliere. — Il perchè te
lo diranno loro. L’unione fa la forza, amico mio, e perciò... Insomma
adesso tocca a te compir l’opera. Sei aspettato. Puoi presentarti
quando che sia, e sarai ricevuto a braccia aperte... o quasi. Si è
parlato molto di te in questi giorni. Si vuol far di te un... sentirai.
I patti son questi: tuo padre e tua madre chiuderanno un occhio, e
magari due, su quel certo capriccio...

— Che capriccio? — interruppe Massimo, con impeto.

— Benissimo, calmati. Dirò: fantasia. Ti va fantasia?

— No, signore!

Mazel aprì tanto d’occhi.

— Cospetto! Devo dire: amore, passione, delirio?

— Non dica niente, mi lasci stare! — esclamò il giovane, aspramente.

— Abbi pazienza, non pigliar fuoco! Credi proprio di aver una vera
affezione per... per... per...

— Non credo niente. Tiriamo via.

Mazel si alzò, gli si avvicinò molto grave.

— Cosa pensi? Che ti voglia canzonare? In affari di cuore, non
ammetto la celia. Nè la troppa severità, nè la celia. So anch’io che
cos’è il cuore, quando batte sul serio. Ho il diritto, per la mia
età, di parlarti un poco come un padre. Andiamo avanti, seguitiamo a
discorrere.

Tornò al canapè, si prese la punta del naso fra il pollice e l’indice e
pensò un momento.

Massimo aspettava muto, nero come un calabrone.

— Tu non devi dimenticare chi sei — ricominciò il cavaliere, — quello
che conta la tua famiglia in Torino per antichità e per riputazione. Tu
mi dirai che per noialtri nobili ormai è finita? Pare. Ma chi sa!...
Il Re stesso ha creduto bene di toglierci i nostri ultimi, meschini
privilegi col decreto di luglio. Sia fatta la sua volontà... Viviamo
in un tempo bisbetico, ah, questo sì! Credi tu che nelle storie antiche
si trovino fatti paragonabili a quelli a cui assistiamo? Tuo padre, che
ha letto tutto, dice di no. Quel signor generale, alto quanto un soldo
di cacio e magro come un lupo cerviero, che trova modo d’entrare in
un paese come il nostro, alla testa d’un’orda d’uomini senza camicia,
senza scarpe e senza calzoni, e lo attraversa, seminando da per tutto
odio, spavento e maraviglia! Ti ricordi d’aver letto qualche cosa di
simile quando facevi i tuoi studi?... Nel ’96 questo Bonaparte, non
avendo di che premiare un capo di battaglione, gli regala un paio
di stivali usati; nel ’97, ricevendo dal Re, nostro signore, un bel
puledro sardo, con bardatura e pistole guernite con gli ultimi diamanti
di Maria Clotilde, distribuisce agli ufficiali, che accompagnano il
dono, tabacchiere, anelli e gingilli di gran valuta, e fa dare ai
palafrenieri mance degne d’un Reale di Francia... Adesso poi non vuol
forse andare a cozzar con le piramidi d’Egitto?...

— Scusi — brontolò Massimo, — ma come c’entro io in tutto questo?

Mazel, che aveva perduto affatto il filo del discorso, chinò il viso
senza saper che rispondere; lo rialzò poi subito.

— Insomma — riprese egli con forza — tu credi alla eguaglianza, eh?

Il contino alzò le spalle.

— Tu credi — seguitò il cavaliere — che le differenze di nascita,
di condizione, d’educazione siano tanti pregiudizi? Ebbene guardati
intorno, non vedrai che ineguaglianza fra gli uomini, fra gli animali,
fra le piante, fra tutto. Sempre il debole e il timido sottostanno
al più forte. Metti alle prese una tigre e una pecora, o meglio fa un
confronto tra un elefante e un moscherino, o piuttosto... In fine, se
per costituire un’eguaglianza perfetta, occorre una stessa quantità di
forza, di potenza, di ricchezza, d’ingegno, di studio, io non vedo due
esseri eguali in tutto il creato. Mi vieni dietro, eh? Capisci quello
che ti voglio dire?

Massimo fece un atto di assenso. Gli era nuovo quel fare cattedratico
del buon cavaliere, e voleva vedere dove andasse a finire.

— Dunque — proseguì Mazel: — non posso concedere che quella stima,
quella considerazione che va unita al grado ed ai titoli, sia tenuta
per cosa vana, insussistente, spregevole. Questa è per me una dottrina
perversa ed assurda, che non può servire ad altro che a buttar in aria
tutte le nostre sante e gloriose istituzioni!

— Perdoni — disse Massimo. — Mi ha forse sentito parlare in quel senso?

— Non ti confondere. Queste sono idee mie, idee che ho sempre tenuto
per me, e che forse forse avrei fatto bene a divulgare un pochino.
Adesso vengo al punto. Dimmi un po’: avranno raccontato anche a te,
quand’eri bambino, certe favole di pastorelle sposate da principi, da
re, da imperatori? Non ti ricordi?

— No — rispose Massimo.

— Una volta, quando avevo tempo, mi divertivo anch’io a leggere
novelle e romanzi, o teneri o tetri. Mi restò impressa nella memoria la
storia di un marchese di Saluzzo o di Monferrato, che costretto dalle
preghiere dei suoi uomini a prendere moglie, regalò loro per signora
la vera e propria figliuola d’un villano. Un racconto piacevole, ma
privo di senso comune... Privo di senso comune, non di verità, perchè
purtroppo giovani disposti a oscurare il decoro d’una casa per amor
di una donna, se ne sono visti in tutti i tempi. In Russia, a quanto
ho inteso dire, le grandi principesse non nascono tutte nei palazzi e
nei castelli... Senza andar tanto lontano, la prima moglie di Giulio
Cesare Claris, tuo avolo, era una popolana, o press’a poco. È vero
che in seconde nozze ha poi sposato una Granvolant di.. de... Basta,
ammettiamo pure, poichè non si può impedire, che un gentiluomo faccia
una corbelleria, voglio dire un matrimonio irregolare; ma per carità,
non mettiamoci a gridar osanna per questo! Tu mi dirai: è il cuore,
la passione... Cospetto! Lo so anch’io che, quando si è giovani, la
voltata d’occhi d’una bella creatura vi porta per aria; ma è forse
indispensabile d’incatenarsi in sempiterno? Vediamo un po’: se tutti
gli uomini di nascita si mettessero a sposar contadine, è chiaro che
tutte le fanciulle di nobile famiglia sarebbero ridotte ad appaiarsi
coi tangheri. Ti pare?

— E così, concludendo?

— Concludendo, ti consiglio di procedere con considerazione e
prudenza, d’andar avanti coi piedi di piombo, badare sopra tutto a non
impacciarti fino al punto di... Insomma la vedovina, amico mio. Credi a
me, ci vuol occhio a trattar con le vedove.

— Va bene — disse Massimo, che lottava di nuovo fieramente per serbarsi
tranquillo. — Se mai... mi ricorderò i suoi precetti.

— E cosa vuoi ch’io dica in tuo nome a tua madre?

— Che mi vedrà presto.

— È poco, sai.

Massimo uscì dalla stanza senza rispondere più nulla.

Discesero le scale l’un dietro l’altro, in silenzio; giunti al basso si
salutarono cerimoniosamente e si lasciarono.

Il cavaliere si avviò verso casa Claris, ma dopo alcuni passi, si fermò:

— Cosa vado a dire? — pensò. — Che ho perduto il ranno e il sapone,
ecco tutto; poichè già il frutto della mia predica non può essere che
questo. Cocciuto come un rospo, l’amico caro. Basterà lasciarsi vedere
stasera o domani.

E cambiò direzione senz’altro.

Massimo pure si allontanava meditabondo. Cos’era adesso quest’altra
faccenda? Che cosa aveva voluto dire Mazel con quel suo viluppo di
ciance? Era proprio un destino ch’egli avesse da far sempre con gente
verbosa! — E pensava con certa avversione anche all’avvocato Oliveri.

Avrebbe poi voluto sapere esattamente quali potevano essere le
intenzioni dei suoi; e per questo bisognava abboccarsi con loro.
Vedendo da lontano che Mazel, dopo essersi soffermato un momento,
tirava avanti diritto senza piegar verso il palazzo, si sentì
fortemente tentato d’andarvi. Si mosse passo passo, agitato, combattuto
da due sentimenti opposti: la vergogna di tornare come un pentito
a confessarsi in colpa e a chieder perdono; la speranza confusa di
trovare un refrigerio al tormento interno. Ah sì! egli adorava la sua
catena, sentiva che mai in eterno avrebbe avuto la forza di spezzarla;
ma in quell’ora desolata quasi desiderava trovare chi l’avesse per lui,
salvo a rammaricarsene dopo e a tutto tentare per riavvolgersela al
cuore.

Sul portone e nell’atrio non c’era nessuno. In un baleno fu su, arrivò
allo stanzino. L’uscio era socchiuso e così quello della camera di sua
madre. Si fermò a questo, picchiò due colpi leggieri. S’udì rispondere:

— Avanti!

La contessa era lì, ritta vicino a uno stipo, con le braccia stese,
pronta a stringersi al petto il figliuolo.

— Signora — mormorò Massimo, — signora madre...

— Vieni, vieni — rispose lei, guardandolo con occhi fissi e amorosi: —
lo sai bene che ti ho perdonato! Vieni qui, dammi un bacio.

Dopo un breve sfogo di tenerezza, la contessa prese per mano suo figlio
e se lo trasse a seder vicino sul sofà.

— Hai incontrato Mazel? — diss’ella. — Ti avrà detto tutto, m’immagino.

— Mi ha detto molto — rispose Massimo, con qualche imbarazzo, — ma...

— Bene, ci riparleremo. Però mi devi dir subito che vuoi esser con noi:
con tuo padre, con me, con alcuni altri dei nostri amici più cari.
Ti conosco, quando saprai... ti appassionerai anche tu. Quanti hanno
mente sana e animo nobile e leale devono affiatarsi, unirsi, diventare
formidabili... almeno per concordia. Farai tu pure il possibile per
renderti utile al tuo paese, al tuo Re.

— Signora madre...

— In contraccambio, più nessuna ingerenza nè diretta nè indiretta nelle
cose del tuo cuore.

Il giovane la guardava attonito e mesto.

— Ti avverto — riprese la contessa, — a discarico di coscienza, che
ti si offre una fanciulla distintissima per padre e per madre; erede
della maggior parte del bene paterno... È bella ed intelligente; sono
persuasa che ti farebbe felice. Vuoi prendere tempo a rispondere?

Massimo si alzò stringendo i pugni, mordendosi le labbra per vincere
la commozione che lo pigliava alla gola. E tutt’a un tratto diede in un
pianto dirotto.

La contessa non parlò, nè si mosse; aspettò che la foga del pianto si
fosse allenita.

— Ma colei ti ha proprio stregato!? — mormorò poi, facendosi vicina.
— Spiegami, spiega a tua madre perchè soffri così. Non ti ama?... Ti
amerà. Dà tempo al tempo.

E con un fare festoso, affatto insolito in lei, lo spinse davanti a uno
specchio. Tornò subito seria:

— Adesso andiamo — soggiunse, prendendogli il braccio. — Tuo padre sarà
contento, molto contento di vederti. Passeremo la sera in famiglia.




XVI.


Il conte Annibale ricevette suo figlio assai benevolmente, come nei
giorni in cui non aveva nulla da rimproverargli; riprese poi subito
un contegno grave e riserbato, forse per fargli intendere che aveva
perdonato, ma non dimenticava. Era un’idea sottintesa, e toccata spesso
incidentemente, che le mancanze di Massimo venissero come segnate in
un gran registro immaginario; il conte, nella sua bontà, talvolta si
piegava e tirava mentalmente due righe in croce sull’una o sull’altra
pagina, ma queste non impedivano mai di rileggere e di ricordare quanto
era stato scritto.

Il conte, la contessa e il contino cenarono insieme.

Massimo aspettava con una certa ansietà che suo padre gli manifestasse
le sue intenzioni; gli dicesse che cosa si voleva da lui. Ma quegli
prese a discorrere di cose indifferenti e continuò finchè rimasero
a tavola. Cominciò poi, quando furono passati nel suo gabinetto, un
lungo elogio dei parenti, degli amici, dei conoscenti che in quegl’anni
avevano data la vita per la patria e per il Re; seguì a questo una
violenta ed abbondante invettiva contro _certi tali_ che una volta
altro non facevano che vantar l’antichità del loro lignaggio e i
servizi resi in tutti i tempi alla monarchia, e adesso stavano zitti
e cheti, ch’era una pietà a vederli, o mostravano una fiacchezza,
una perplessità, una sfiducia peggiore e più dannosa d’un’aperta e
dichiarata opposizione.

— Conosco uno — diceva egli, fremendo, — un ufficiale superiore che
fu ferito nel secondo fatto dell’Authion; che guarito, continuò a
combattere valorosamente nelle altre campagne. Invece di gloriarsene,
si direbbe che adesso ne arrossisce: poveretto, si è trovato lassù
perchè non poteva far di meno; se si è portato bene, non l’ha fatto
apposta!... È un’ignominia!... Spira un brutto vento che fa girar le
teste come tante banderuole. Però ve ne sono ancora degli uomini che
non si lasciano smovere nè da paure, nè da speranze, nè da ambizioni.
Ve ne sono ancora dei cuori d’oro, d’oro finissimo e senza mistura. Lo
dico io che ve ne sono ancora!

Venuta l’ora in cui era solito d’andare a letto, porse la piccola e
cerea mano a suo figlio perchè la baciasse.

— T’aspetto domani mattina alle otto in punto — disse poi. — Sii esatto.

Massimo non solo fu esatto, ma anticipò come sempre. Il cameriere lo
introdusse nel gabinetto, lo avvertì sottovoce che il conte era ancora
in camera e gli mostrò l’uscio socchiuso. Il giovane potè vedere, per
lo spiraglio, suo padre curvo sull’inginocchiatoio che faceva orazione.
Stette fermo, aspettando in silenzio, finchè sentì che aveva finito.
Allora gli andò incontro, e gli chiese come avesse passata la notte.

— Hm! — fece il conte, — al solito, al solito.

Sedette alla scrivania, raccolse e ordinò prestamente alcune carte, poi
si volse e guardò un momento suo figlio con freddezza sarcastica.

— Tu non devi saper più niente — diss’egli — delle cose di questo
mondo. Tu vivi sulle nuvole, tu... Bene, adesso fammi il piacere di
scendere quaggiù e di star a sentire.

Massimo prese una sedia e si collocò di fronte a suo padre.

— Sai, o non sai, — domandò questi — che la Repubblica Cisalpina ci ha
regalato il conte Cicognara come nuovo ministro plenipotenziario, e la
Repubblica Francese un nuovo ambasciatore che si chiama Ginguené?

Sì, Massimo questo lo sapeva.

— Meno male — brontolò il conte.

Tacque un momento, poi ripigliò sorridendo a fior di labbra.

— Un bell’originale questo Ginguené. Per farsi un’idea dei piemontesi,
non ha trovato di meglio che leggere e rileggere Machiavelli.
Cosicchè arrivato qui con la testa piena di questo e di chi sa quali
strampalerie borgiane, non fa altro che sognare congiure, insidie,
tradimenti, pugnali, veleni... Figurati che ha perfino saputo
scoprire un non so che di finto e di malvagio nel sorriso del ministro
Priocca!... Tanto Ginguené, come Cicognara, tra le loro istruzioni
hanno quella d’incoraggiare, favorire, spalleggiare i rompicolli
amatori di novità. Questi accennano a rizzar la testa sempre più; e il
Governo dovrà cercar presto il bandolo di qualche altra brutta matassa
giacobina.

Qui il cameriere fece entrare Mazel. Questi salutò il conte, e vedendo
Massimo, fece un atto scherzevole che voleva dire: — Buon per te, che
hai avuto giudizio! — Poi si gittò in una poltrona.

— Si parlava del nuovo ambasciatore — disse il conte.

— Ah ah! — esclamò il cavaliere. — Hai raccontato a tuo figlio
l’ingresso a Corte del _citoyen_ Ginguené? La presentazione delle
credenziali? No? Cospetto! Prima di tutto, bisognava vederlo con
quell’abito pomposo, col sciabolone al fianco! Poi ha cominciato a
parlare, con una certa faccia, con certi gesti, arrotondando certi
periodoni: — Sire, il Direttorio, il Direttorio, il Direttorio... E
non la finiva più col suo Direttorio. E come dev’esser rimasto vedendo
Sua Maestà così semplice! Sentendo che invece di rispondergli con
altre magnifiche ciance, gli domandava se avesse fatto buon viaggio,
e come stava la signora!... A proposito, e la presentazione di questa
alla Regina! La _citoyenne_ Ginguené a Corte! Un altro bel fatto.
Il predecessore Miot s’era già presentato all’udienza con stivali e
sproni, ma almeno aveva lasciato che la moglie vestisse l’abito di
Corte; come del resto ha pur fatto la contessa Cicognara. Ma Ginguené
no, cospetto! Repubblicano lui, repubblicana naturalmente la sua metà.
— La Corte è in lutto? Bene, ti vestirai di bianco: veste bianca,
calzette bianche, tutta bianca dalla testa ai piedi; ultima moda e
avanti! Vedremo cosa saprà dire questo Re, questa Regina, e il loro
circolo di _aristocrates_, di _aristocruches_, d’_aristochiens_!
Nessuno ha mostrato d’accorgersi, _et voilà!_... Buon giorno, Violant.
Complimenti; siete il primo, o quasi, stamani!

Salutava così il rubicondo e corpulento marchese, senza badare che
questi lasciava dietro di sè l’uscio spalancato. Lo seguivano infatti
quattro altri signori, ai quali il conte distribuì sorrisi e strette di
mano. Li pregò poi di sedere, e rivolgendosi a Violant, gli domandò del
figlio.

— Mah! — rispose il marchese, stringendosi nelle spalle. — Sarà rimasto
addormentato!

Massimo comprese che quella radunanza non era casuale e doveva essere
stata preceduta da altre; girò gli occhi intorno per riguardare i
presenti. Aveva a destra l’abate Arbaudi; un ometto vivo, ciarliero,
petulante, avvezzo a considerar tutte le cose come attraverso due
rosee, fantastiche lenti, a vederle non quali erano, ma quali le
avrebbe desiderate. A sinistra il cavalierino Di Capolea, grande
ottimista anche lui. Egli era appunto nel maggior brio della sua
giovinezza; non pensava che a farsi abile nel maneggio delle armi,
non sognava che allori, non parlava d’altro che di vincere o morire
per il Re. Sedeva di rimpetto il conte Micard, di Tournon, rimasto a
Torino in grazia ad un articolo del trattato di Parigi, che autorizzava
il Re di Sardegna a mantenere al suo servizio emigrati savoiardi e
nizzardi. Costui era di quegli uomini rinomati, i quali par che diano,
a chi ha il bene di usar con essi, qualcosa della loro pomposità.
Egli poteva vantarsi di aver saputo dar fondo signorilmente a un vasto
patrimonio; d’aver passata una parte della sua gioventù a Versailles,
e di ricordare, così un po’ alla lontana, Luigi Stanislao Saverio,
conte di Provenza. Questa rassomiglianza era stata da lui coltivata,
perfezionata, studiata fin nei particolari più minuti e leggieri. Per
esempio, egli non si separava quasi mai dalla sua mazza; mollemente
sdraiato in un seggiolone o sur un sofà, si baloccava in più modi con
quella, ficcando molto spesso il puntale in una scarpa, per imitare
un vezzo del suo illustre modello. Raccontava poi volentieri aneddoti
e storielle licenziose, lanciava motti piccanti, si divertiva a far
gl’indovinelli, a parlar per enigmi; e non c’era chi lo superasse nel
dar arguto risalto alle cose più libere e più scandalose.

Il barone Claudio Brunel stava immobile, ritto nel vano di una
finestra. Coi suoi capelli canuti, la fronte rugosa, il naso aquilino,
il labbro di sotto allungato in fuori, pareva l’immagine della severità
e del rigore. Era questi un vecchio ufficiale, pieno d’onore e di
energia, ma ancor contristato dall’inutilità degli sforzi fatti durante
le passate campagne; corrucciato dal modo con cui era stata troncata
la guerra; tormentato dal sentirsi radicata in cuore la certezza che la
monarchia precipitava a certa ruina.

Il conte Annibale pure era rimasto in piedi; parlava da un momento,
con le spalle alla scrivania, guardando ora l’uno, ora l’altro di
quelli che lo ascoltavano; e ad un punto, avvedendosi dagli occhi di
Massimo ch’ei non era più lì con la testa, lo ammonì di star bene
attento, perchè poteva per avventura venir chiamato a dar qualche
parere anche lui. Riprese poi subito il filo del discorso per dire come
gli paresse veramente venuto il momento di formare in Torino un forte
nucleo di gentiluomini, alieni da ogni ambizione e da ogni cupidigia;
i quali, lasciate a parte tutte le altre questioni che occupavano le
menti e agitavano gli uomini, non pensassero ad altro che a sostenere
francamente, gagliardamente i diritti della Casa di Savoia.

— Bisogna — proseguì egli — aver l’accortezza di non lasciarsi
distrarre da nulla; non pensare che allo scopo. Il fine loda l’opera,
signori miei... Si potrà poi, si dovrà anzi, cercare fautori e aderenti
nelle altre città.

— E nelle campagne! — esclamò l’abate Arbaudi. — Questo è importante.

— Meno di quello che lei crede — disse Di Capolea. — I campagnuoli sono
tutti devoti al Re.

— Tutti mi pare un po’ troppo — osservò Mazel.

— Creda, non esagero — replicò il cavalierino: — la cosa è così.

— Tanto meglio, tanto meglio! — ripigliò l’abate. — Allora sì, allora
si può pensare sul serio a trasformare il Piemonte in una nuova Vandea.
Per questo sarebbe indispensabile aver con noi tutti i parroci. La voce
del prete, in Vandea, sollevò e scatenò contro i _bleus_ migliaia di
uomini!

— Signor abate — disse il cavalierino, — creda a me, non è necessario
guardar tanto in là. Basterebbe che i contadini imitassero tutti
l’esempio dei nostri barbetti, veri eroi.

— E veri briganti — susurrò Violant.

— Non combattono secondo l’arte della guerra, ma che importa!

E balzando in piedi tutto infiammato, Di Capolea prese a celebrar i
fatti dei _suoi_ barbetti, come se li avesse visti, come se li avesse
praticati, come se non vi fosse stato fra i presenti più d’uno che
poteva parlarne con ben altra autorità. Ah! i francesi l’avevano
fatta grossa col maltrattare i montanari nizzardi, violentare le loro
famiglie, saccheggiare le loro case, devastare i loro averi. Li avevano
spinti ad armarsi, a formarsi in compagnie ordinate e disciplinate, a
scegliersi dei capi. Che servizi avevano reso costoro durante tutta
la guerra, come informatori, come esploratori e sopra tutto come
ausiliari! Destri, instancabili, temerari, espertissimi conoscitori dei
luoghi, tormentavano senza posa il nemico, vagando intorno ai campi,
distruggendo i posti staccati, decimando le retroguardie, predando i
depositi, i carri, i bagagli, impadronendosi degli uomini or con la
forza, or con l’astuzia. Appiattati nel fondo d’una valle, apparivano
d’improvviso come se uscissero di sotterra; sparpagliati sulle cime
dei monti, tiravano schioppettate che parevano venir dalle nuvole;
inseguiti, fuggivano ricaricando e sparando, e mai si dava caso che
venissero colti.

— Come i _chouans_! — interruppe l’abate. — Come i _chouans_, tali e
quali.

— A costoro — ripigliò il cavalierino, più infervorato che mai — si
sono poi uniti tutti i soldati, tutti quei poveri miliziotti nizzardi
licenziati dopo la pace, che i francesi, sempre avventati, sempre
imprudenti, vollero considerare e trattare come emigrati. Adesso i
barbetti sono da per tutto, sanno tutto, hanno amici, protettori,
partigiani tanto in Nizza, come negl’infimi villaggi delle montagne.
I francesi hanno un bel pubblicare bandi, ordinare cacce, promettere
ricompense a chi arresta o denunzia, hanno un bel fucilare, fucilare e
fucilare, i barbetti sembrano rinascere e moltiplicarsi, si fanno ogni
dì più audaci, più implacabili, più feroci.

Il conte Annibale, il quale volgeva spesso gli occhi a suo figlio
per stimolarlo a mostrarsi un po’ caldo, un po’ volenteroso, un po’
zelante, vedendo che assolutamente non pensava ad aprir bocca, finì per
domandargli se credeva i contadini della pianura pari in forza ed in
coraggio a quelli della montagna.

— Oh mio Dio, no! — disse il conte Micard, mentre Massimo preparava la
risposta. — Volete mettere a confronto le talpe e le marmotte?

— Cosa! — esclamò Di Capolea. — Come se i montanari fossero giganti e
quei del piano pigmei!

— Non è questione di statura — rispose il savoiardo, — è questione di
denti.

— Per me i denti sono le armi! — gridò il giovinetto. — Armateli tutti
e vedrete! Dunque fiducia, cuor forte, e mettersi subito all’opera
allegri ed animosi. Non è vero, barone?

Brunel alzò il capo per dargli un’occhiata tra l’attonito e
l’infastidito. Uscì poi lentamente dal vano, e mentre tutti si
volgevano a lui, Massimo e Di Capolea fecero l’atto di cedergli il
posto.

— Prego! — diss’egli. — Fermi, fermi, padroni. Hum!... Francesi se ne
accoppano un po’ da per tutto: nella valle d’Aosta, sulla strada da
Alessandria a Tortona, sulla strada da Cuneo a Nizza... Alle porte
di Nizza, padroni, e di pieno giorno, si accoppan francesi! Hum!
assassinamenti questi, e nient’altro! Assassinamenti inutili e dannosi,
ecco. Chi paga i fratelli Maino e quelli che lavorano tra Tortona
e Alessandria? Il governatore d’Alessandria, s’intende. Chi paga i
fratelli Contini, capi barbetti? Il conte Saluzzo. Chi paga gli altri
furfanti sparsi in tutto il Piemonte? Sua Maestà, e si dice anche
il prezzo: venti soldi al giorno. A Torino si provvedono le armi, i
danari, perfin l’arsenico per avvelenar le acque dove bevono i soldati
francesi. Bestialità, corbellerie che fanno ridere noi, ma che possono
servire di pretesto a prepotenze, vessazioni e forse peggio. Sicuro che
se si fosse potuto provare anche questo... hum!... l’azione di piccole
squadre contro le grandi masse... Attaccare, battersi, sparire prima di
venir sopraffatti... e ricominciar sempre da capo, infischiandosi della
logica, della tattica, di tutto. Quelli che devono rispondere a chi
di dovere delle proprie azioni, non possono farle certe cose, ma gli
altri!

Puntò un tacco sul pavimento come volesse sfondarlo, agitando
nervosamente la punta del piede.

— Eheee — soggiunse concitato — adesso è tardi... Spezzarla la spada,
non consegnarla al vincitore! O buttarla via, visto che non serviva,
e dar di piglio a una falce, a un tridente, ad un randello. Allora sì,
perdinci, allora sì!

Quand’egli ebbe finito, nessuno aperse bocca per un pezzo; tutti
si aspettavano un altro ragionamento, un’altra conclusione, e si
guardavano un po’ sconcertati.

Massimo solo non poteva staccare gli occhi dalla faccia del vecchio
militare; vi vedeva tutta la maestà di un’anima elevata, e, mentre
la riverenza l’avrebbe mosso a inchinarsegli e ad imprimere un bacio
rispettoso sulla sua destra abbronzata ed incallita, il cuore si
espandeva per una dolcezza ineffabile, quale non aveva forse provata
mai nella compagnia dei suoi genitori.

Finalmente il conte Annibale riprese la parola:

— E così, signori, quando ci rivedremo? Bisogna fissare fin d’adesso un
nuovo convegno.

— Giovedì, alle tre, in casa mia — disse Violant.

— Alle tre non posso, alle tre non posso! — esclamò l’abate. — Se fosse
di sera...

— Giovedì sera, giovedì sera — ripetè forte il conte Annibale. — Siamo
intesi?

Vi fu un breve mormorìo di acquiescenza; poi tutti si alzarono. Brunel
salutò militarmente ed uscì il primo. Massimo lo seguì subito: gli
pareva di doverlo ringraziare per aver espresso idee ch’erano pure
le sue, per le quali aveva sopportato amarezze e rimproveri. Non osò.
Discese lo scalone, attraversò l’atrio dietro di lui, e si fermò sulla
soglia del portone. Dopo un momento gli passò accanto, salutandolo con
un sorrisetto, l’abate Arbaudi. Mentre lo guardava allontanarsi franco,
con la testa ritta, mostrando la bella gamba, udì camminare e parlare
dietro le spalle.

Il conte Micard diceva a Violant:

— Caro marchese, bisogna aver pazienza; in tempi come questi, quello
che meno si vede sono le cose evidenti.

Passarono, accennando appena del capo. Massimo si voltò per rientrare e
si trovò faccia a faccia con Di Capolea.

— Vedrai che non si farà niente — disse questi. — Troppi saccentoni,
troppi animali a sangue freddo. Quel barone! _Un vieux radoteur._
L’abate ha ragione. Quando i Tricolori sapessero che ogni casa può
essere una piccola fortezza, ogni campo un campo di battaglia, ogni
argine una trincea; che ogni siepe, ogni tronco, ogni cespuglio può
nascondere un agguato, allora sì che farebbero presto a sgombrare il
paese! Sono tentato di far gente, buttarmi alla campagna e provare per
conto mio. Chi sa!... Non foss’altro che per dare il buon esempio. E tu
dovresti unirti a me, sai.

— Cosa vuoi ch’io possa ancora fare? — rispose Massimo, mestamente.
— Per riuscire in certe imprese ci vogliono qualità delle quali io
manco totalmente: ci vuole abilità, e non posso dire d’averne; ci vuol
fede, e non ne ho più; ci vuole sopratutto una forte volontà, e la mia
è stanca, variabile, pronta a cedere al più leggiero soffio di vento
contrario.

— Bene — ripigliò il cavalierino, distratto. — Ma pensaci; credi a me,
val la pena di pensarci. Vincere o morire! Vincere o morire!

    Ça ira, les patriotes à la lanterne!
    Ça ira, les patriotes on les pendra.

Seguirono a questa altre riunioni, in casa Claris e in casa Violant,
più o meno numerose, e in ore diverse.

Massimo, docile alla volontà di suo padre, desideroso di compiacere a
sua madre, interveniva a tutte assiduamente. Ma come l’acqua limpida,
spruzzata in un muro, non lascia di sè alcuna traccia asciutta che
sia, così uscivano subito dalla mente del giovane tutti i discorsi che
udiva. Gli pareva che si dicessero pochissime cose con molte parole,
e che se ne dicessero eziandio delle insulse. Invece di accendersi,
l’animo diveniva ogni dì più torpido e più accidioso.

Un giorno ch’egli finiva svogliatamente di desinare, prima di recarsi
ad uno di questi uggiosi convegni, il servitore lo avvertì che un
signore desiderava parlargli.

Massimo spinse via il piatto, si alzò seccato e passò nella stanza
vicina. Vi trovò Oliveri peritoso, ossequioso e sorridente, che
dopo una farragine di scuse, di cerimonie, di complimenti, cominciò
ad esporre le ragioni che l’avevano indotto a venir disturbare, in
quell’ora indebita, l’illustrissimo signor contino.

— Stamane — diss’egli, — essendo uscito per far due passi dopo
colazione, come mi ha raccomandato Chiovetti, ho visto diversi
capannelli in piazza San Carlo; pensando che qualche cosa bollisse in
pentola, ho cercato subito di avere informazioni. Così venni a sapere
che i nostri patriotti — dico nostri per modo di dire — minacciano
un grande attacco alla periferia del Piemonte, ma un attacco serio,
sperando forse in un movimento interno che li aiuti a scombussolare
ogni cosa... Io già lo prevedevo, sa. Da qualche tempo è ricominciata
la grandine dei libercoli, dei proclami, dei foglietti incitanti il
popolo a rivoltarsi, i soldati a disertare. I brulotti, insomma, quelle
navicelle piene di materie combustibili e di fuochi artificiali delle
quali si fa uso in guerra per incendiar ponti od altre opere di legno
e dar fuoco alle grosse navi nemiche. Lei le sa meglio di me queste
cose. Veniamo al punto. Torno a casa, trovo mia figlia con un viso
così ingrullito, così melenso, che proprio faceva rabbia. — Aspetta,
aspetta! — dico io. E le do le nuove. Misericordia! Non l’avessi mai
fatto! Sgranò tanto d’occhi, e si mise a tremare, come se battesse
la febbre. Cosa vuole? Tutto questo combina con un sogno che ha fatto
stanotte e con certi suoi presentimenti... Si figuri! E voleva scendere
nella strada per sentire, per sapere, benchè Menica avesse già messo
in tavola... Basta; ho ingollato in fretta un boccone e son venuto
qui a importunar lei, sperando d’ottenere dalla sua amabilità qualche
particolare di più.

Massimo guardò l’orologio. Mancavano pochi minuti all’ora fissata, e
doveva ancora andare fino al palazzo Violant. Si scusò con l’avvocato,
promettendo formalmente di venire, appena libero, a comunicare alla
signora Ughes quanto avrebbe potuto raccogliere.

Uscirono insieme e si separarono appena fuor del portone.

Giunto in casa Violant, Massimo si avvide subito che non aveva bisogno
d’interrogare e che gli bastava di star a sentire. Non si parlava
d’altro che del nuovo subbuglio. Pareva d’essere in una di quelle
giornate d’estate, in cui, dopo un’afa e un ardore insopportabile,
s’ammontano per aria nuvoloni scuri, bianchicci, cenerognoli; i lampi
sanguigni guizzano per ogni lato, e s’aspetta ansiosamente per vedere
se s’incomincia coi goccioloni, oppure con la grandine.

Si parlava, fin dagli ultimi di marzo, d’un conciliabolo tenuto a
Milano dai rifugiati piemontesi, con intervento di alcuni ufficiali
disertori venuti da Vercelli. S’era poi saputo che costoro, d’accordo
col Comitato rivoluzionario di Genova e con altri giacobini residenti
nel Delfinato, avevano stabilito di violar la frontiera e penetrare in
Piemonte. E le notizie si erano venute facendo più precise e più gravi.
Il generale Fiorella, comandante della guardia nazionale di Milano,
e i piemontesi Baratta, Rossignoli e Soman erano riusciti a mettere
insieme da sette a ottocento uomini, un guazzabuglio di piemontesi,
lombardi, veneti, francesi, polacchi, dalmati, corfiotti, americani; e
a fornir loro abiti, fucili e cannoni. Costoro si andavano attruppando
sui confini dell’Alto Novarese, sotto gli ordini di Seras, aiutante di
Brune, e di due ufficiali francesi: Lions e Léotaud.

Si aggiungevano a queste altre voci sinistre. Si affermava, si
smentiva, si confermava che i repubblicani si disponessero pure a
scendere nelle valli Valdesi. Si dava per certo che dalla Liguria
movessero due torme: la _Divisione del mezzodì_, condotta da Spinola,
nobile genovese, da Pelisseri e Trombetta, piemontesi, e afforzata
da una mano di finti disertori francesi, provenienti da Tortona e
comandati da Camillo Guillaume; l’_Armata infernale_, guidata da
Giuseppe Tordo.

In casa Violant si facevano già i nomi degli ufficiali destinati
a contrastare ai ribelli. Il brigadiere Policarpo d’Osasco, aveva
l’incarico di ributtare le bande liguri. Il conte Del Carretto di
Millesimo, colonnello del reggimento Torino, e Alciati, colonnello
dello stato generale, dovevano rintuzzare l’orgoglio di quel maledetto
Seras o Serassi, chè chi lo chiamava in un modo e chi in un altro.
Una colonna formata dai reggimenti Cuneo, Acqui, La Marina e Mondovì,
comandata da Avogadro di Ronco, andava a mettersi a disposizione di
Dellera, governatore di Mondovì, per guardare le valli dell’Ellero, del
Tanaro e delle due Bormide.

— E a Pinerolo? — domandava qualcuno. — Chi ci pensa?

— Il marchese di Ceva, se non mi sbaglio, — rispondeva un altro.

— Meno male. Perchè, ehi! pensando a Pinerolo, si copre la capitale, si
copre la capitale!

Si annunziava pure imminente la pubblicazione d’un bando, nel quale
Sua Maestà avrebbe, come già altre volte, sollecitato i sudditi fedeli
ad armarsi per cooperare coi soldati al mantenimento dell’ordine;
promesso perdono ai disertori ed a quanti s’erano già uniti ai ribelli;
minacciato di far passare per le armi chiunque si ostinasse a non
cedere.

Al palazzo Violant, oltre a quelli che vi si erano dato l’appuntamento,
si trovavano in quell’ora molti amici e congiunti, venuti per portare o
avere notizie, e discuterle per lungo e per largo. La sala, nella quale
sono i due stupendi arazzi di fabbrica torinese, disegnati da Beaumont,
era piena, vi si soffocava. Il marchese diede l’ordine di aprire il
salone contiguo, uno dei più grandi della città, di semplice ma nobile
architettura, ornato di pregevoli sculture dei fratelli Collini. Si
popolò in un momento; e allora nella sala degli arazzi non rimasero che
gruppetti qua e là che si parlavano stretti e concitati.

Massimo era ben ragguagliato, oramai; vedendo che nessuno badava a lui,
neppure il severo genitore, se la svignò.

Pochi minuti dopo arrivava in contrada Nuova e saliva di corsa la scala
dell’avvocato. Questi era solo nel salotto, sdraiato nel suo seggiolone
con un foglio in mano. Vedendo entrare il contino, si levò in fretta
gli occhiali e si alzò.

— Ebbene, che nuove abbiamo? — domandò egli. — Sulla gazzetta non c’è
ancor niente, proprio niente. S’accomodi, chiamo subito mia figlia.

Liana entrò in quell’istante.

— Grazie! — diss’ella al giovane. — L’aspettavo con tanta impazienza!
Mi fa il favore di parlare?

Si lasciò andar sur una seggiola, ch’era a fianco dell’uscio, e stette
attentissima.

Massimo riferì, più ordinatamente che potè, quanto aveva inteso.

Quand’egli ebbe finito, Liana alzò gli occhi con un moto leggiero
della testa all’indietro, come se affissasse lo sguardo smisuratamente
lontano.

Dopo aver pensato un momento, il contino aggiunse altri particolari,
che gli parevano curiosi. Quel Seras o Serassi, spedito dal generale
Brune a diriger le mosse d’una delle colonne repubblicane, era
piemontese, nato a Pinerolo. Essendo alto della persona, tutto ben
rispondente e proporzionato, aveva preso servizio nella guardia del
corpo. Messo in arresto per aver sedotta in Isvizzera la figlia di un
ministro protestante, visto che per certa intromissione diplomatica
la scappata poteva costargli cara, s’era rifugiato in Francia, mentre
appunto l’antico regime andava a rifascio. L’animo ardito, l’aspetto
maestoso gli avevano procurato il grado di ufficiale superiore.

Liana si alzò d’improvviso, si accostò vivamente, brillando negli occhi.

— Dunque — diss’ella — i patrioti si avanzano da tre parti. Dove sono
adesso quelli che vengono di Francia?

— Par che siano ad Abriez — rispose Massimo, — un piccolo borgo...

— Chi li comanda?

— Ho sentito vari nomi, fra gli altri quello di Andrea Chantel, ex
ufficiale di artiglieria, fratello dell’avvocato condannato a morte e
giustiziato nel ’94.

Liana battè con forza le mani, esclamando con accento profondamente
convinto:

— Luigi è con loro!

— Euh! — fece Oliveri, alzando le spalle.

— E cosa faranno?

— Cercheranno di arrivare a Pinerolo — rispose il giovane; — se ben
inteso...

— Va bene! — interruppe Liana. — Noi andremo a Murello.

— Sì, cara — disse l’avvocato, blando: — quando farà caldo.

— No, babbo: partiremo domani mattina.

— Un’altra adesso! Oh santo cielo! Ma ti par verosimile che...

— Anche l’altra volta sono stata tanto tempo senza saper nulla, poi le
prime notizie son venute di là, son venute di Francia.

— Sì, ma senti, l’altra volta...

— Sarà così anche questa. È il cuore che me lo dice. Mi sono sforzata
d’immaginare mio marito a Milano, a Genova, in due, tre, quattro altri
luoghi... Niente. Invece adesso lo vedo lassù tra quelle montagne. Lo
vedo, capisci!... Quand’era studente, Luigi aveva un amico sommamente
diletto, un sottotenente; non rammento più il nome, ma mi pare che
fosse appunto Chantel. Non è probabile che siano insieme? Da Pinerolo
Luigi verrà a cercarmi a Murello. Crederà di trovarmi dove mi ha
lasciata. È naturale. Può avermi scritto d’aspettarlo, ed io non
aver ricevuta la lettera, perchè perduta od intercettata. L’abbiamo
già spiegato tante volte così bene questo affare delle lettere!
Come farebbe il Governo, come farebbero i ministri per saper le
cose appuntino, se non fermassero e leggessero certe lettere? È così
chiaro. Vedi, babbo, quante ragioni ho di sperare? — Soggiunse poi,
rivolgendosi con un atto soavissimo al giovane. — Mi scusi, signor
conte, se mi abbandono così, ma lei è di casa oramai...

Oliveri aspettava con le braccia aperte che sua figlia avesse finito.

— Partire! — esclamò egli. — Si fa presto a dire: partiamo, ma e il
mezzo?

— Una carrozza.

— E i preparativi?

— Possono esser fatti in un’ora.

E Liana s’avviò verso l’uscio dond’era venuta; l’avvocato la seguì, ma
si fermò sulla soglia per non lasciar solo il contino.

— Ti avverto che il tuo calcolo è sbagliato, sbagliatissimo —
ripigliava egli. — Se mai Pinerolo non sarebbe che una tappa, una tappa
militare. Padroni di Pinerolo, gl’insorti marceranno sulla capitale;
strategicamente si fa così. Domanda al signor contino, che se ne
intende. Tuo marito non sarà mica lui il generale in capo! Voglio dire
che non può aver facoltà di spostar i suoi verso Murello, solamente
perchè egli vi ha lasciata la moglie! Capisci?

E continuò a snocciolare argomenti, finchè non fu persuaso che
predicava veramente al deserto.

— Almeno — conchiuse poi, lamentevolmente — pensa tu alla mia roba.
Io non mi sento proprio di far la valigia. Non so più dove io abbia la
testa.

E se la prese a due mani, e se la palpò tutta quasi temesse di
scoprirvi una fessura, per la quale il cervello potesse realmente
svampare.

Massimo teneva le braccia incrociate, il capo chino sul petto.

— Che farò quando Liana sarà partita? — diceva tra sè. — Che farò
domani, tutta la giornata? Che farò doman l’altro? Adesso, quando non
sono qui, passo le ore aspettando il momento di venire. Che sarà di me
se non trovo un impiego del tempo, una maniera qualunque di vivere?

Liana era ancor lì, e gli pareva già lontana! Sentiva i suoi passi
presti e leggieri, distingueva il gemere d’un cassetto aperto e
richiuso, il cigolar d’un’imposta, il fruscìo lieve d’una stoffa
maneggiata e piegata. La fantasia gli mostrava la camera, dove non
aveva mai posto il piede, in tutti i più minuti particolari; e quella
era una tortura indicibile. Con che febbre, con che foga ella si
apparecchiava a partire! In quel momento si sentiva forse già nelle
braccia dell’uomo col quale aveva continuato a vivere spiritualmente,
del quale attendeva appassionatamente il ritorno. Non c’era dubbio:
Ughes era vivo. Altrimenti egli avrebbe dato un avviso, o naturale o
soprannaturale, a chi lo amava e lo aspettava così. Era vivo, era vivo
e sarebbe tornato, e se la sarebbe ripresa per sempre...

Massimo sentì una trafitta al cuore acuta, penetrante, quasi materiale;
balzò in piedi e, per farla finita, si accostò all’avvocato.

— Vorrei fare i miei saluti alla signora — diss’egli, — se si potesse...

— Per Bacco! — esclamò Oliveri. — Liana! E il conte? Diamine, almeno un
po’ di...

— Mi perdoni — disse Liana, ricomparendo.

Porse la mano al giovane, che la prese con ambo le sue.

L’avvocato spianò gli archi delle ciglia, sorrise, come faceva sempre
quando li vedeva d’accordo e vicini.

— Buon viaggio — mormorò Massimo. — Non posso voler la riuscita
d’un’impresa che considero funestissima, micidiale al mio paese... Ma
auguro a lei, con tutta l’anima, tutte le felicità che può desiderare.

— Lei è un amico — disse Liana, con dolcezza melodiosa, — un amico vero
e leale.

— Quando ci rivedremo? — domandò Oliveri al contino.

— Oh! — esclamò Liana, fervidamente. — È vero; venga presto in campagna
anche lei. Se Dio volesse che ci ritrovassimo tutti, come l’anno
passato! Che giorni sono stati quelli, che giorni! Si ricorda?

Massimo non rispose, s’inchinò e uscì rapidamente.




XVII.


— Che strada! — brontolava Oliveri, sporgendosi fuor del legno. — E che
tempo!

La strada era veramente molto fangosa, ma il tempo non poteva dirsi
brutto. Glielo faceva parer tale la gran seccaggine di lasciar Torino.
Il cielo era nuvoloso, ma non oscuro; anzi i vapori alti e radi
accennavano a dileguarsi.

— I cavalli non c’è male — seguitava l’avvocato, parlando alla figlia,
— due caprette, ma vanno; il legno è perfido. Senti come crocchia. E
dianzi come si rimballava sul selciato!... Guarda, guarda come lavora
tutto per sghembo!

— Gesù! — susurrò Menica, seduta con una paniera sulle ginocchia di
fronte ai padroni — e quel vetturino, che ceffo!

Oliveri non lo aveva osservato, gli indirizzò subito la parola per
farlo voltare.

— Ehi, brav’uomo, come vi chiamate?

Colui, che andava sonnecchiando, si scosse e rispose che il suo nome
era Bono Biagio, ma che la gente lo chiamava _Lesna_.

— E le strade, come sono le strade?

— Infami, vede bene.

— Vi domando se sono sicure?

Lesna girò alquanto la testa, tanto da mostrare un viso forte ricagnato
e ulivastro.

— Sicure non lo sono mai. Verso Poirino c’è Frustafer che batte
la campagna coi suoi disertori; e verso Pinerolo c’è la banda di
Malanotto. Da questa parte non so, non ho inteso dir niente. Speriamo
di non fare cattivi incontri.

Per un quarto d’ora vi fu silenzio, poi il vetturino, destandosi da
un altro sonnerello, ritornò spontaneamente sull’argomento. — Già,
bisognava sempre sperar bene, ma qualche volta questo non bastava.
Proprio su quella strada lì, egli s’era trovato in un bell’imbroglio.
Il signore doveva ricordarsi anche lui d’un fatto capitato la sera
di venerdì, 2 giugno 1786? No? Diavolo! Eppure era stato pubblicato
e ripubblicato in tutti i paesi grandi e piccoli dello Stato. Ecco
com’era andata. A quel tempo egli, Lesna, faceva la staffetta e
portava la valigia delle lettere a Nizza. Quella sera, sulle undici
ore di Francia, mentre si trovava tra porta Nuova e la chiesa di San
Salvario, due birbanti gli erano saltati addosso lesti come gatti;
avevano atterrato e ferito lui con parecchi colpi d’arma da taglio e
vuotata la valigia. Un colpo da maestro! V’era dentro una cassetta,
coperta di tela incerata e sigillata con le arme gentilizie del
generale di Finanza, il signor marchese di Cravanzana, e indirizzata
al signor Biscarra, tesoriere della città di Nizza, la quale conteneva
la bellezza di ventiduemila novecento ottanta e più lire, in tante
doppie nuove da ventiquattro. V’erano altri involti di particolari per
il valore di circa novemila lire, e poi orologi, oreficerie, gingilli
preziosi provenienti da Ginevra.

— E crede lei che li abbiano presi? Nemmen per sogno. E sì che
i connotati io li ho dati precisi. Guardi: uno era alto, con una
sottoveste bianca, logora, e senza calzette; l’altro piccolo, tutto
vestito di grigio, e teneva in mano un paloscio.

Secondo Lesna poi, se le cose andavano di male in peggio, era perchè
non si castigava più.

— Dica lei, è un fatto che non si vedono più quelle belle esecuzioni
che si vedevano una volta. Non per vantarmi, ma io ho assistito a
certe operazioncelle, che farebbero venire i bordoni a chiunque. Lei
non era mica a Vigevano nel ’66? No? Il 31 ottobre 1766! Io c’ero, io.
Il reo principale era un certo Baudolino Testa, di Casal Bagliate,
in provincia d’Alessandria; aveva per complici Giacomo Miladano e
Gioanni Leonardo, tutti e due di Alessandria. Baudolino era accusato
del premeditato, proditorio e barbaro omicidio di Domenico Fusi, suo
padrone, consumato la notte dal 20 al 21 febbraio. Mi par che l’avesse
percosso al capo con una stanga, mentre sonnecchiava in cucina vicino
al fuoco, e finito a coltellate. Guardi che anima dannata! Poi se n’era
andato portando via argenteria, gioie, abiti, biancheria, denari per
il valore di cinque mila lire imperiali. Miladano, detto _Pogarolo_, e
Leonardo erano convinti e confessi d’aver prestato aiuto e assistenza
a Baudolino e d’aver diviso con lui il bottino. Razza di cani, eh? E
noti che stavano anche a loro carico altri furti di mantelli e di vesti
commessi a danno di parecchie persone. Bene, lei sa come la giustizia
accomodò le loro partite?

— Cosa volete ch’io sappia! — rispose Oliveri.

— Furono condannati tutti e tre ad essere strascinati a coda di cavallo
dalle carceri al luogo del supplizio; ad essere arrotati vivi sul
palco con colpo nel petto, e scannati tanto che l’anima uscisse dal
corpo; ad aver rotte l’ossa delle gambe e delle braccia e il loro corpo
intessuto in ruota di legno e levato in alto per tutto un giorno; ad
aver il capo spiccato dal busto, chiuso in grata di ferro ed esposto
sopra una colonna alla porta detta di Novara. Baudolino poi, già
torquito prima, come si dice, si ebbe per soprappiù l’applicazione di
tenaglie infuocate per due volte in una spalla durante il tragitto, e
l’esposizione sulla colonna, oltre che della testa, anche del braccio
destro. La confisca dei beni poi, ben inteso. E se avesse visto che
concorso! Era giorno di pubblico mercato; uomini, donne, bambini, non
si poteva dar passo nè in qua, nè in là, a gittarvi del panìco, non
cadeva in terra, sì la gente era ammassata.

Oliveri, che aborriva le cose lugubri o penose, si andava contorcendo
senza trovar il modo di rompere le parole in bocca a colui.

Liana, immobile e muta, guardava la strada. Ella rivedeva quei luoghi
per la terza volta. Era venuta con Luigi il primo giorno che si
trovavano insieme, finalmente soli, pienamente liberi di soddisfare
la bramosìa di parlar del loro amore, del loro avvenire. Un giorno di
felicità ineffabile; ore fuggite come lampi! Era ripassata, tornando a
Torino col padre: la campagna si stendeva intorno tetra ed avvizzita,
ed il suo cuore stillava sangue. Adesso la primavera splendeva di nuovo
in quella fertile, ridente pianura del bel Piemonte, ed ella cercava
invano di rintracciare qualche pensiero, qualche sensazione, qualche
rimembranza anche confusa, anche indistinta del suo primo viaggio. Il
viaggio di nozze! Che strana caligine offuscava il punto più luminoso
della sua vita!

— È dunque vero — diceva tra sè, — che i ricordi dolorosi s’improntano
nel cervello con ferro rovente, e che tutto il resto si perde e
svanisce?

La volta azzurra era ancor ragnata qua e là; grandi ombre correvano sui
prati e sui campi, ma la magnifica giogaia lontana s’ergeva smagliante
nel sole. L’avvocato non ascoltava più le ciance del vetturino, teneva
gli occhi fissi sur un punto. Chi sa cosa diavolo succedeva lassù! Chi
sa che spettacolo! Vie, aditi, passi asseragliati, ponti abbattuti,
vecchie trincee riparate in fretta, nuove trincee costrutte in furia,
soldati occupati ad afforzarsi nei luoghi elevati, squadre di montanari
mandati ad esplorare le gole, artiglieria in cammino, munizioni in
moto, apprestamenti guerreschi per tutto. Pensava alla possibilità
d’un combattimento appunto in quell’ora; interrogava la forma e il
color delle nuvole, disposto a trovar loro apparenza di fumo; tendeva
l’orecchio se mai sentisse tuonare in gran lontananza le folgori di
guerra. E perchè no? Non si avevano forse esempi di rumori, di suoni
portati dal vento a distanze veramente incredibili!

— Mah! — sospirò poi. — Povera patria mia messa a soqquadro pei
disastri d’una lunga, crudelissima guerra, per la sollevazione d’una
parte del popolo, e minacciata adesso d’una nuova e fatale invasione!

Liana comprese, si scosse, si voltò anche lei verso le montagne,
maravigliata di non aver pensato prima che Luigi forse le aveva già
varcate, stava forse scendendo in Piemonte. Si concentrò tutta nel
dolcissimo sogno, e non levò più gli occhi dalla bianchezza pura di
quelle vette, sulle quali aleggiava per lei la più cara speranza.

Un calesse, che passò loro accanto, portò con sè tutte le riflessioni
politiche dell’avvocato.

— Guardate guardate come si dimena quel postiglione! — esclamò. —
Questo vuol dire che si aspetta una bella mancia!

Si abbatterono in una grossa carrozza chiusa, con lo stemma marchionale
sugli sportelli: Oliveri avrebbe pagato volentieri un tanto per vedere
colui o colei che v’era dentro. Ogni poco poi si lagnava dell’aspetto
solitario della strada.

— Ehe! si vede che c’è qualche cosa per aria — diceva. — Carri,
carrettoni, scorratte, ma legni signorili appena due. È un po’ poco.
E i pedoni?... Frati, contadini, e una falange, una vera falange di
straccioni, con certe facce proibite!...

Di questi continuavano a rintopparne assai più che l’avvocato non
avrebbe voluto. Erano uomini di varie età, cenciosi, sudici, arruffati;
non campagnuoli, nè artigiani, nè accattoni, ma scioperati e vagabondi,
vere crisalidi di malviventi, poco temibili se soli, terribili se per
caso, per opportunità, o per bisogno venivano a formare una banda!

— Almeno — ripigliava Oliveri, — almeno si vedesse qualche drappello,
che so io? qualche pattuglia, qualcuno in divisa, tanto per rassicurare
i viandanti e tener in rispetto i malintenzionati; ma Signore Iddio,
chi pensa più alle strade!

— Eccoli gli uniformi! — esclamò il vetturino ad un tratto, indicando
con la frusta un baroccio che si avvicinava lento, a scossoni.
Era carico di fantaccini; e questi avevano tutti il viso pallido e
smunto, gli occhi incavati, e stavano così fitti che parevano messi al
supplizio.

Liana si sentì stringere il cuore e stava per chiedere spiegazione di
quello che vedeva, ma Lesna la prevenne dicendo:

— Poveri diavoli! Vengono dall’ospedale militare di Saluzzo, e vanno a
finire di crepare a Torino.

Seguitarono il loro cammino e si vennero avvicinando a un borguccio di
poche case, luride, affumicate, cascanti a pezzi. Quivi la scena era
un po’ più animata. Si vedevano tre vacche al pascolo in un praticello
a sinistra; alcuni maiali nel fossato di destra, che grufolavano e si
voltolavano nel fango; pollame sparso qua e là. Una vecchietta filava
seduta presso l’uscio della prima casipola; le scherzavano intorno due
fanciulline ed un ragazzetto. Questi si riponeva or dietro il tronco
d’un noce, or dietro una siepe; le fanciulline gli si accostavan
pian piano e, appena scortolo muoversi e minacciar di rincorrerle,
scappavano strillando e ridendo a rifugiarsi accanto alla vecchia.

Andando innanzi tra le case, l’avvocato e quelli che erano con lui,
sentivano crescere e avvicinarsi un ronzìo, un calpestìo che indicava
un gran movimento. Guardavano ma non vedevano nulla, perchè la strada
non correva diritta che per tutta la lunghezza del borgo.

All’improvviso s’udì uno sparo; seguirono risate, applausi, voci
clamorose, da lontano; un aprir d’usci e di finestre, un domandare, un
accorrere, un abbaiar di cani, uno schiamazzar di galline. Poi si vide
svoltare e venire avanti sulla strada maestra un militare robusto ed
elegante, sur un bel cavallo grigio pomellato. Portava un gran cappello
con pennacchio tricolore, un abito turchino, i cui galloni d’oro
brillavano al sole; aveva ancor in pugno una pistola fumante e parlava
con altri ufficiali che marciavano a piedi. Uno di questi teneva per le
zampe l’anitra che aveva servito di bersaglio al suo superiore.

Il vetturino fermò subito e si affrettò a tirar la carrozza in
disparte. Passò il gran cavaliere pomposo, che fulminò Liana con
un’occhiata conquistatrice; passarono gli ufficialetti disinvolti e
briosi; passò tutta la colonna francese, la quale pigliava un buon
tratto di strada.

— Di dove vengono? — domandava Oliveri, sottovoce.

— Chi lo sa? — rispondeva Lesna: — forse da Cuneo.

— Dove vanno?

— Chi lo sa? Forse a Torino.

— Quello a cavallo è un generale, non è vero? M’ha l’aria d’un corso.
Che sia Casabianca? Dicono che stia facendo un giro in Piemonte, per
visitare tutti i posti. Poveri noi, è uno dei più arrabbiati demagoghi
che siano al mondo!

Arrivarono senz’altri incidenti a Carignano, passarono le ore del
rinfresco ai Tre conigli; e poi via per Lombriasco e Casalgrasso fino a
Polonghera, ove piegarono verso Murello.

Erano appena entrati nella nuova strada, quando il vetturino si fermò
per levare un sasso dal piede di un cavallo che non poteva più andare
avanti. In quel mentre Menica, la quale dal posto che occupava poteva
veder dietro il legno, inarcò le ciglia, alzò le mani ed esclamò:

— Oh guarda chi c’è qui!

Oliveri si voltò, scorse un misero ronzino magro, stecchito, che pareva
vacillare sotto il peso di due uomini e d’una lunga sella che copriva
la groppa fino alla radice della coda.

— Sai chi sono? — domandò egli alla serva.

— Quello che sta sul davanti della bestia è il notaio Arignani: lo
vede il lucernone all’antica? L’altro, col cappello tondo, è certo
un murellese anche lui... Il chirurgo è più alto, il barbiere è più
largo... Toh, sa chi è? È lo speziale!

— Non lo conosco — disse Oliveri.

— Non può conoscerlo — proseguì Menica. — L’anno passato, quando lei è
arrivato a Murello, egli era andato via.

E guardò Liana furtivamente. Ella, in quel momento, era così assorta
nei suoi pensieri che nulla vedeva e nulla udiva.

— Aspetta! — gridò l’avvocato, vedendo che il vetturino, rimontato
a cassetta, era per andare. E, memore delle cortesie ricevute l’anno
prima dal notaio, volle scendere e movergli incontro.

Arignani lo raffigurò subito, si rallegrò assai di vederlo tornare
a Murello, chiese premurosamente notizie della gentilissima signora
Ughes.

— È qui — disse l’avvocato, — è qui con me; ci siamo tutti.

— _Tutti!_ — esclamò Arignani, accentuando la parola. — Come _tutti_?
Anche...

— Eh no, no, no — rispose Oliveri, crollando il capo. — Quello là chi
sa dov’è andato a finire!

Bechio, col suo testone nelle spalle, stava cheto cheto e sogguardava
l’avvocato.

Il buon notaio, giunto al legno, spinse il cavalluccio di fianco,
facendo mille ossequii, mille inchini. Liana lo accolse con un
sorriso, e aspettava ch’egli avesse finito i suoi salamelecchi per
rivolgergli qualche parola gentile, quando, guardando dietro di lui,
vide Bechio. Rammentò in un lampo chi era, la relazione che aveva con
suo marito, come anch’egli fosse scomparso quasi nello stesso modo,
quasi nello stesso tempo. Subito le parve di scorgere una connessione
tra tutti questi fatti: il ritorno di costui era un augurio, una
promessa; annunziava, forse precedeva il ritorno di Luigi! Si piegò
tutta verso di lui, lo interrogò ansiosamente con lo sguardo... Nulla.
Trovò una faccia dilavata, marmorea, priva d’ogni significato, d’ogni
espressione.

S’incamminarono poi tutti insieme di passo, perchè lì la strada
cominciava a farsi malagevole. Intanto si discorreva. Il notaio veniva
da Polonghera, ov’era stato per affari concernenti la sua professione.
Aveva condotto lo speziale con sè per compagnia. Questo era un
viaggetto che non gli andava punto a genio. Avrebbe preferito recarsi
una volta al mese a Saluzzo, a Savigliano, e magari a Cuneo, che una
volta all’anno a Polonghera od a Ruffia, dove temeva sempre di essere
riconosciuto per un buon murellese e accolto a suon di bastonate. Tutto
questo a causa d’un odio antico, d’una vecchia ruggine che durava
da secoli e che forse sarebbe scomparsa, quando si fosse riuscito a
segnar bene i confini di ciascun paese. Con Ruffia s’era fatta da poco
una specie di tregua, ma dalla parte di Polonghera non passava quasi
settimana senza che accadessero guai. Un maledetto pezzo di pascolo,
ove non cresceva che _plon_, un’erbaccia palustre e malsana, serviva di
pretesto e di campo ad alterchi ed a risse, spesso sanguinose e qualche
volta mortali.

— Nell’andata tutto andò bene, perchè nessuno sapeva... Ma adesso ci
hanno visti... Se la passo liscia al ritorno, attacco un voto alla
Madonna degli Orti!

— Già — diceva anche Bechio — finchè si è sul territorio nemico,
bisogna guardarsi da vicino e da lontano: si fa presto a frombolare
una sassata, a dare una schioppettata nella schiena. I torinesi non han
niente a temere. Ma noi, eh, notaio? Noi, capperi!...

E stringendo l’occhio a quelli che erano nel legno, cominciò a
rattrappirsi, a far le boccacce, a raccomandarsi a tutti perchè
guardassero attorno e stessero all’erta.

Procedevano pian piano, il ronzino dinanzi, il legno dietro, non
essendovi modo di avanzare altrimenti.

La strada s’andava facendo sempre più tortuosa e disuguale. Nelle
vicinanze dei boschi e delle macchie che fiancheggiano la Varaita,
s’ingombrò tutta di felci e di sterpi. Si abbassò poi fra prati e
fra campi acquitrinosi, finchè entrò in un vasto terreno incolto,
ove, sotto ai giunchi e alle cannucce, serpeggiavano, con lene corso,
infiniti rigagnoli; i quali, trovando appunto in quell’avvallamento uno
sfogo, vi fluivano dentro, gorgogliando da tutte le parti, si univano e
correvano come in un comodo letto.

Intanto lo speziale non ristava dal ciarlare, dal torcere gli occhi e
la bocca, agitandosi sulla sella come un vero scimmione.

— Ehi, ehi, che roba è questa? Cosa c’è laggiù, dietro quel salice? Una
testa o una spalla?... No, è un viluppo di foglie. Tanto meglio, tanto
meglio.

E dopo un momento:

— Ohè! Non vi pare d’aver visto luccicare un’arma in mezzo a quei
cespugliacci?... Ehm! Una trombonata che venisse di là ci accomoderebbe
tutti pel dì delle feste. Capacissimi di sparare nel mucchio, quei di
Polonghera, senza neanche dire: — scansati — a chi è forestiero. Non
so se sia meglio avanzar pian pianino per star a vedere, o passar lesti
lesti per distrarre la mira.

Forse, benchè scherzasse, non si sentiva troppo tranquillo nemmeno lui,
ma la sua inquietudine era alleviata e come esilarata dal gusto maligno
di stuzzicare e d’inasprire quella del suo onesto compagno.

In un subito cacciò fuori una pistola corta e rugginosa e la brandì.

— Toh, e ora? — esclamò l’avvocato.

— Fermo, fermo! — brontolò il notaio.

— Fermo? — disse lo speziale, — vedrete come starò fermo.

— Sarà mica carica? — domandò Arignani. — Cosa volete fare?

— Altro che carica; carica a palla forzata. Cosa voglio fare? Tirare al
cagnaccio; ditegli che si provi a saltar al muso del cavallo, come ha
fatto stamani. Si può aver pazienza una volta, ma due no!

— Oggi è il giorno di Santa Pistola! — mormorava Oliveri, seccato. — È
la seconda che vedo per aria.

Lo speziale gettava frequenti occhiate verso una cascina, che sorgeva
sulla sinistra, a un tiro di schioppo. Si sentiva da un momento un
abbaiar rauco e rabbioso che si veniva avvicinando; e ad un tratto si
vide sbucare dall’apertura d’una siepe un animale brutto e rabbuffato,
con gli occhi rossi e le fauci aperte.

— Bada a te, che ti brucio! — gridò Bechio, e volle armar la terzetta,
ma sia che il cane gli sfuggisse dal pollice, sia che l’indice premesse
fuori tempo il grilletto, fatto sta che si udì la botta e la testa di
Arignani sparì tutta nel fumo.

Liana si coprì il viso, l’avvocato si rizzò, Menica strillò, il
vetturino arrestò i cavalli. Tutti, che avevano vista la direzione
dell’arma, credevano che il notaio non avesse più il cervello nel
cranio.

Arignani, stordito dallo scoppio, per poco non era balzato dalla sella,
ma ignorando che la palla gli avesse rasentato la nuca, si voltò a
guardare il bestione che scappava impaurito, e domandò sorridendo:

— Fallito, eh?

— Fallito, fallito — rispose Bechio — e ammiccando verso il legno, mise
fuori un palmo di lingua.

Dopo un poco videro emergere tra gli alberi la punta del campanile ed
il tetto del torracchione quadrato; poi scoprirono le prime case di
Murello, bianche e basse, coi loro orticelli e coi loro cortili cinti
da muretti e da siepi.

Liana, stretta alla gola dalla commozione, chiuse gli occhi e non
guardò più, finchè non si sentì nell’abitato. Si soffermarono davanti
alla cappella di S. Sebastiano; e, mentre l’avvocato e il notaio si
promettevano reciprocamente di rivedersi presto e ricominciare le
loro partite sia a chiacchiere sia a’ tarocchi, la signora disse allo
speziale che lo pregava di venir a casa sua un momento, avendo gran
desiderio di parlargli.

— Si figuri! — rispose colui.

La sera stessa, il parroco ed il chirurgo, avvertiti dell’arrivo di
Oliveri e di sua figlia, vennero cortesemente a dare il ben tornato.
Bechio non si fece vedere. Liana lo aspettò tutta la mattina seguente;
poi, dopo mezzogiorno, uscì e andò diviato alla sua bottega.

Bechio era al banco, pestava droghe in un mortaio e discorreva con una
donna. Vedendo entrar la signora Ughes, chinò la testa, per nascondere
forse qualche brutto versaccio, e la pregò di passare nella stanza
contigua:

— Spedisco solamente questa ricetta e sono da lei.

Liana si trovò in una stanzaccia annerita dal tempo e dal fumo; v’erano
poche seggiole di paglia male in gambe, un camino con quattro fornelli,
e una tavola.

Lo speziale entrò di lì a un momento, portando su di una sottocoppa una
caraffa e due bicchierini.

— Anisetta, anisetta — diceva egli; — non vorrà farmi torto, non vorrà
rifiutare un ditino d’anisetta?

Accettato il liquore, Liana disse le ragioni che l’avevano indotta a
venire. Ricordò la partenza di Ughes; espose brevemente le circostanze
dalle quali era stata preceduta, accompagnata, seguita; lo pregò di
manifestarle francamente il pensier suo.

Bechio guardò la signora con certi occhi che parevano dire: — Ed è
questo il modo di parlar d’un affar così grave? — e si fece pensoso.
Dopo un momento andò a serrar l’uscio e le impannate di foglio delle
due finestre.

— Ecco la pura verità — diss’egli, mettendosi la mano al petto. —
Una mattina, sulla fine di giugno dell’anno passato, mi trovavo a
Racconigi. Non dirò in che strada, perchè non importa niente. A un
certo momento mi sento battere sulla spalla, mi volto e vedo Boschis,
il dottorino Boschis, buon’anima. — Cosa c’è di nuovo? — chiedo io.
E lui: — Sei incaricato di far sapere al medico Ughes che si avrebbe
piacere di vederlo. — Eh sì! — rispondo io: — sapete bene che è sposo
novello, che è nel miele fino al collo. — E lui, Boschis, con maggiore
appoggiatura: — Gli dirai che i _fratelli_ hanno bisogno di lui. —
Quando uno vi parla così, non si replica; io sono venuto a far subito
la mia commissione.

— E poi? — domandò Liana, dopo aver aspettato un momento.

— Sor Luigi sarà andato a Racconigi, m’immagino, avrà sentito quello
che si voleva da lui. Io non so altro; non m’impiccio dei fatti degli
altri, io.

Liana si lasciò andare sur una seggiola, incrociò le braccia e
s’abbandonò ai suoi pensieri.

— Sa come ha finito? — ripigliò Bechio, dopo un poco.

— Chi?! — domandò Liana, voltandosi a lui di sobbalzo.

— Oh parlo sempre di Boschis! — rispose lo speziale, ridendo di quel
suo riso grossolano e sinistro, — parlo sempre di Boschis. Dopo il
gran tentativo fatto in luglio per atterrare il mostro del dispotismo
e della feudalità, il dottorino fu preso e condannato dai satelliti
del tiranno. Messo contro un muro con tre o quattro altre vittime, non
si smarrisce niente: vede i fucili spianati contro il suo petto, sta
all’erta, coglie il tempo e giù! lungo e disteso. Non è neppur ferito,
ma lui comincia a dar i tratti come un pollo sgozzato... Si credeva
già salvo, e forse sarebbe riuscito davvero a scapolarsela, se non
era un ufficiale (certo un nobile) che si avvicinò per vedere se quei
poveri assassinati avevano tutti finito di soffrire. Costui s’accorse
che Boschis non aveva neppure cominciato. Allora, senza dargli tempo di
rialzarsi..... Cos’ha?

Liana era balzata in piedi, inorridita. Bechio ammutolì, sbalordito
dagli occhi spalancati di lei, pieni d’un’angoscia terribile.

— Parli, parli — diss’ella, — dica pure che Luigi è morto così! Se
questa è la verità, è meglio ch’io la sappia. Tanto, un giorno o
l’altro, bisognerà bene...

— Ma no, ma no, ma no! — esclamò lo speziale. — Non ha capito che
parlavo di Boschis? È a Boschis, giurabacco, che l’ufficiale ha fatto
dare il colpo spicciativo!... Un’altra gocciola — soggiunse poi,
riempiendo in fretta i bicchierini, — un’altra gocciola, non c’è di
meglio per cambiar le idee.

La signora ricusò con un gesto, e Bechio li votò tutti e due.

— Ancora una domanda — disse poi Liana, tornata quieta. — Come va che
la sua partenza ha seguìto così da vicino quella di Luigi? È caso,
oppure...

— Caso, puro caso — rispose lo speziale, con certa affettata serietà. —
Ero stato avvertito, sapevo ch’era bene mutar aria per qualche tempo.
Ho nemici occulti, ma potenti, gente che ha interesse a liberarsi di
me.

Liana gli domandò ancora se era consapevole di quanto accadeva ai
confini.

— Euh! — fece Bechio, alzando i gomiti e battendo l’aria con le mani
penzoloni dal polso. — E creda che davvero non vorrei essere nei piedi
del Re.

Così dicendo salì sopra una seggiola, tolse da un palchetto, pieno di
stoviglie, di barattoli, d’utensili, un grosso vaso bianco a rabeschi
turchini e lo posò sulla tavola.

— Lei è moglie d’uno dei nostri — diss’egli, — mi fido, ma...

E strinse le labbra, mettendoci il dito in croce. Poi, sciolta la
cartapecora polverosa che copriva il vaso, tirò fuori una manciata
di fogli, che mostrò a Liana. Era una collezione di manifesti, di
proclami, di libelli rivoluzionari, che Bechio sapeva quasi a mente
e si sfogava a declamare, chiuso nella retrobottega, con la schiuma
alla bocca ed arrotando i denti. In alcuni, diretti al popolo
piemontese, i patrioti dichiaravano benemerite le città ed i comuni
che innalzassero l’albero della Libertà; promettevano l’immediata
diminuzione dei carichi e dei balzelli, e grandi vantaggi morali e
materiali; minacciavano di morte chi resistesse. In altri s’invitavano
focosamente i militari ad abbandonar la causa dei tiranni, ad unirsi
alle patriottiche coorti: perciocchè prima d’essere soldati erano
figli della patria, la quale ad essi stendeva amorosamente le braccia
e si raccomandava. In tutti il Re, i principi, i nobili erano chiamati
_tigri coronate, lupi con la pelle di agnello, mostri col cuore di
iena, gli artigli delle arpie, il labbro della sirena, l’occhio del
coccodrillo_...

— Vede! — esclamò lo speziale, come se alla vista di quelle carte gli
s’infiammasse subitamente la fantasia: — Questa è semenza che gettata
al vento da mani pure e generose, cadrà in buon terreno e produrrà una
messe tremenda. Sì, per Bacco, unione, fratellanza, uguaglianza! Finirà
la nostra servitù, la nostra miseria; il Piemonte avrà splendore,
ricchezza, felicità. Coraggio, cittadina! O il tuo Luigi ritorna e
tutto andrà bene, od egli è stato trucidato furtivamente per ordine del
visionario Re di Cipro e di Gerusalemme, e si acquista la gloria dei
martiri!


Anche quest’anno, appena giunto a Murello, Oliveri mandò lettere ai
quattro punti cardinali per ottenere dagli amici e dai conoscenti
informazioni e notizie.

Così venne a sapere che i repubblicani di Liguria, molto ben
consigliati, s’erano accampati a Carosio, terra piemontese cinta di
terre genovesi. Potevano da quel luogo tentar scorrerie nel Tortonese
e nelle Langhe, mettendo le schiere inviate a cercarli ed a punirli,
nella necessità di violare il territorio d’una repubblica che si
adoperava apertamente per renderli grossi ed invincibili.

L’avvocato fece con Arignani un viaggetto a Pinerolo. Vi trovò pace
e tranquillità. La banda discesa dalle cime francesi nelle valli, e
già padrona di Bobbio e del Villar, era stata assalita e facilmente
sgominata da una piccola colonna mandata da Pinerolo. I repubblicani
avevano lasciato cinque o sei morti sul terreno, e chi diceva venti,
chi trenta prigionieri nelle mani dei soldati.

Liana, benchè in quei giorni avesse sempre mostrato di attendere il
ritorno di suo marito con nuova e singolar fiducia, ricevette quella
notizia senza far un gesto, senza pronunziare una parola.

Suo padre, che si aspettava di vederla scoppiare in lagrime ed aveva
preparato una filza di sdolcinate frasi consolatorie, rimase di sasso.

— Che filosofia! — diss’egli, tra sè. — Meno male. Avevo ragione io
di sperare nel tempo. Ecco che incomincia a mettere il cuore in pace.
Andiamo bene, per Giove! Andiamo benone.

E pochi giorni dopo le comunicò senza esitanza e senza preamboli una
lunga lettera narrativa dell’amico Chiovetti.

Il corpo di Seras, forte di milleduecento uomini, aveva preso il
castello di Domodossola e, lasciatovi un piccolo presidio, s’era mosso
risolutamente contro i soldati del Re. Le due schiere s’erano trovate
di fronte tra Ornavasso e Gravellona. I repubblicani, collocata una
compagnia di granatieri a guardare il varco del fiume Toce, che li
riparava a sinistra, avevano cominciato a sfidare arditamente il
nemico.

«A mezzodì — scriveva Chiovetti — si combatteva accanitamente da
ambe le parti. La fortuna, prima repubblicana, si fece ad un tratto
realista. Sei compagnie di granatieri, fatti a pezzi quelli che stavano
sul Toce, riuscivano a prendere i patrioti tra due fuochi. La disfatta
è stata solenne da ricordarsene. Oltre a centocinquanta morti, molti
prigionieri, gli uni presi subito, gli altri catturati dai contadini. A
Domodossola si lavora a moschettare dalla mattina alla sera».

Un lungo poscritto parlava delle bandiere conquistate, gialle, rosse
ed azzurre, con l’iscrizione: — _Democrazia o Morte — Obbedienza alle
leggi militari — Libertà ed Uguaglianza — Anno primo della Repubblica
Piemontese_. Dava i nomi dei reggimenti che avevano preso parte alla
battaglia: Savoia, La Marina, Peyer-im-hoff, Zimmermann e Bachmann; in
tutto quattromila uomini.

Finiva poi con queste parole: «Si dice che tra i fucilati vi sia un
nostro torinese, il giovane Angelo Paroletti, quartiermastro, fratello
dell’avvocato Modesto».

— Ecco qui — disse Oliveri a sua figlia, dopo aver pensato un poco: —
questo significa per l’appunto che se ci fossero altri torinesi morti,
feriti o prigionieri, si saprebbe, si avrebbero i loro nomi come si ha
quello di Paroletti. Dunque fatti animo, cara. È già una gran bella
cosa aver la certezza che tuo marito non s’era messo allo sbaraglio.
Come pure, te l’ho già detto, sono sicuro che non era nemmeno fra
quelli che si avventurarono alla pazza, rischiosissima impresa di
conquistare le valli. L’avrei saputo a Pinerolo. Santo cielo! tu
sognavi già di vederli scender dalle vette, come leoni dalle balze
della Mauritania...

— Oh babbo! — esclamò Liana. — Non capisci che mi passi l’anima? Io
spero ancora, vedi; spero sempre, sempre, sempre!




XVIII.


Il conte Annibale aveva continuato ad adoprarsi per raccogliere intorno
a sè gli amici e i conoscenti che professavano le sue massime. La
società era costituita; si tenevano frequenti sedute, nelle quali si
discutevano gli interessi della parte, e si disputava sui fatti che
accadevano in quei giorni. La materia non mancava. La gran Repubblica
rinfocolava odii e malumori, molto ben secondata dalle sorelle minori,
la Cisalpina e la Ligure, che facevano il possibile per tribolare il
Governo regio ed alimentare il contagio rivoluzionario che serpeggiava
in Piemonte. Gli agenti segreti si aggiravano per le città e per le
campagne, si ficcavano da per tutto a esplorare, stimolare, provocare.
La stampa clandestina mordeva, dilaniava spietatamente la Casa reale, i
nobili, i ministri. I patrioti si agitavano speranzosi. Gli ufficiali
francesi si univano agli insorgenti, li istruivano, li dirigevano, ne
pigliavano, occorrendo, il comando. Il vespaio di Carosio era sempre
intatto; il ronzìo diveniva ogni dì più forte e più insolente; lo
sciame repubblicano usciva, correva allegramente le terre di S. M.,
faceva prigioni i soldati, svaligiava i corrieri, devastava e metteva
sossopra ogni cosa.

Massimo interveniva alle radunate, ascoltava quel che vi si diceva,
fremeva, si appassionava, qualche volta prendeva la parola anche lui;
ma appena uscito, dimenticava tutto, e ricadeva nella sua indifferenza
abituale.

In quei giorni egli viveva molto con sua madre; la quale pareva gustare
con sempre maggior dolcezza le delizie dell’amor materno. Ella lo
accoglieva affettuosamente, lo tratteneva a desinare e a cena, lo
voleva con sè quando usciva.

Ben presto, vedendolo più che mai affralito dal tedio e dalla
malinconia, vedendo farsi manifeste le apparenze di sfinimento sul suo
viso, cominciò a interrogarlo, a inquietarsi, a temer seriamente per la
sua salute.

Massimo ammetteva d’aver addosso un certo malessere, che spesso gli
impediva di pensare e di agire; si guardava dal dire che pativa pure
vertigini, molta disappetenza ed insonnia.

Quando la contessa lo consigliava a consultare il medico e curarsi,
rispondeva:

— Signora madre, poichè non è male acuto di febbre, nè da star a letto,
cosa vuole che mi ordini il medico?

— Fai male a non consultarlo — insisteva sua madre.

— Senta, uno può sentirsi ammalato senza esserlo realmente. Questo è il
caso mio. Cercherò di non fermarmi coll’attenzione su ciò che mi par di
avere, e presto o tardi tutto passerà.

— Hai torto. Appunto perchè è una cosa che si trascina senza carattere
preciso, devi tenerne conto e non trascurarti. Se non ci pensi tu, ci
penserò io.

Infatti un giorno, entrando nell’appartamento di sua madre all’ora
di desinare, Massimo trovò il dottor Vincenzo Garonis, il quale gli
venne incontro e prendendogli la destra con ambe le sue, la strinse,
la palpò, la tenne più di quanto era necessario per un semplice atto di
amicizia.

A tavola, il giovane s’accorse che ogni poco il medico gli ficcava
addosso l’occhio acuto, inquieto, indagatore. Dovette rispondere a
parecchie interrogazioni riguardanti l’appetito e la digestione. Si
sentì infine esortato a mangiare di più.

— Moto, cibo carneo e vino buono, caro contino. Non occorre altro.

Dopo pranzo il dottore si accomodò in una poltrona e con la tabacchiera
nella sinistra e una presa bell’e preparata fra le dita della destra,
attaccò a parlar di politica. — Sicuro, i tempi erano calamitosi,
ma non bisognava spericolarsi troppo, veder tutto nero. La procella
poteva dileguarsi da un momento all’altro, com’era venuta. Tutte queste
perturbazioni avevano una spiegazione naturale. Poichè il secolo stava
per finire, corrispondevano a quei moti convulsi che spesso fanno
i moribondi. Bisognava aver pazienza un paio d’anni, dare al futuro
secolo il tempo di nascere. Col 1800 si vedrebbe apparire: _coelum
novum et terram novam_.

Dopo un poco Massimo s’accomiatò ed uscì.

La contessa si volse ansiosamente a Garonis.

— Stia di buon animo — disse questi, — non c’è niente di serio.

— Sì, ma pure....

— Male grave non c’è, dico. Occorre per altro un metodo di cura tutto
speciale, che riguardi più il regime che i medicamenti....

— Cioè?

— Il signor contino è giovane e vive da giovane.

— No, dottore, questo non è vero.

— Lo sa, lei?

— Lo so, lo so positivamente.

— Allora bisognerà cercare, scrutare, investigare..... Ad ogni modo.....

E qui, alzandosi, si accostò alla contessa, la quale si mise in
attenzione. Garonis domandò quanti anni avesse Massimo; poi dichiarò
che gli pareva ormai tempo di pensare alla continuazione della casa.
Il signor contino era figlio unico. L’estinzione d’una prosapia
come quella dei Claris non era cosa da pigliare a gabbo, caspita! E
bisognava considerare anche l’avvenire dell’aristocrazia piemontese,
così decimata da quattro anni di guerra. Diamine! niente di più facile
che trovare a Torino, o fuori, un partito a proposito e....

La contessa lo interruppe per chiedergli se non conoscesse qualche
rimedio per il mal d’amore. Il dottore non intese la domanda, se
la fece ripetere, poi stette un poco pensoso con l’indice al mento;
non aveva capito neppure questa volta, ma si preparava a rispondere
prendendo le parole alla lettera.

— Rimedio materiale o morale? — chiese egli.

— Non importa, purchè sia efficace.

— Ecco, qui sta il busillis: l’efficacia!

Poichè la signora contessa parlava di rimedi, era segno che reputava
l’amore una vera malattia. In questo erano perfettamente d’accordo. Una
malattia pericolosa sì, ma non mortale però. Bisognava lasciarle fare
il suo corso, come a tutte le altre. Guai opporsi, guai contrastare!
Le forze della natura non si distruggono, se trovano chiusa una via, ne
pigliano un altra. Le distrazioni? I viaggi? Tutte fandonie. L’immagine
dell’amata non vi esce mai dalla mente, come volete distrarvi? Un
giovane militare gli aveva raccontato che non pensava mai tanto alla
sua dama come quando si trovava in vedetta, a pochi passi dal nemico.

In quella entrò il conte Annibale, il quale, dopo la riconciliazione,
veniva di tanto in tanto a passar mezz’oretta con sua moglie.

Il dottore si alzò, s’inchinò, lo informò subito che si parlava d’amore.

— Capperi! — disse il conte, sedendo. — Un grande argomento.

— La signora contessa mi ha chiesto se la scienza possedesse qualche
rimedio contro un male così bello e così brutto. Io le stavo appunto
rispondendo che.....

— Che il meglio era tenerselo, eh? — esclamò il conte. — Gli antichi
avevano filtri, malie, segreti, tutto per rinforzare, ma niente per
indebolire. Ne parlano Ovidio, Virgilio, Tibullo, Properzio... Plinio
vanta l’efficacia del cuore della rondine; un altro, di cui non ricordo
il nome, dà la preferenza al cervello della gru; Aristotile loda la
carne di remora e gli ossi di seppia; Apuleio raccomanda un intingolo
fatto con gamberi, ostriche e granchi.

— Sicuro — disse Garonis, — e credevano anche nella virtù delle erbe,
gli antichi. E non solamente gli antichi, ma anche gli uomini di due
o tre secoli fa. Si opinava, per esempio, che i due bulbi da cui sono
formate le radici di certe piante, avessero virtù opposte e contrarie;
che cioè l’uno accendesse, mentre l’altro spegneva. Quindi..... Eh, eh,
eh!

Il medico si rifece subito serio.

— È indubitato — riprese egli — che esistono mezzi naturali per destare
come per assopire questa sorta di fiamme; ma la prudenza, dirò meglio
la coscienza... Insomma, signora contessa, per farsi amare bisogna
rendersi amabili.....

— Lo dice anche Ovidio — osservò il conte: — _Ut ameris amabilis esto._

— E per guarire dall’amore: dar tempo al tempo. Non c’è altro. Servitor
suo.

E fatte due belle riverenze, il dottor Garonis se ne andò.

— Si può sapere — domandò il conte, alzandosi, — com’è nato questo
discorso così ameno? A proposito di che?

— A proposito di Massimo — rispose la contessa — il quale va dimagrando
a vista, e temo che......

— Cosa?

— Niente, niente.

— Son tempi da pensare alla patria e non a donne; Massimo non la vuol
capire, tanto peggio per lui. Figuriamoci! Come se io potessi avere il
capo ai suoi amori! Tutti abbiamo attraversato le nostre tempeste e non
siamo nè morti, nè impazziti. Siamo guariti noi, guarirà anche lui.

— Il medico raccomanda di non contrastare.

— Non contrastiamo — brontolò il conte, — non contrastiamo.

E fatto un atto garbato di saluto a sua moglie, girò sui tacchi.

La contessa rimasta sola, si abbandonò ai suoi pensieri.

Le parole del medico avevano suscitato in lei, senza che ella sapesse
come, una viva curiosità di conoscere quella che dominava così
fortemente l’animo di suo figlio. Nello stesso tempo sentiva che se
avesse potuto arrecare alla signora Ughes qualche gran male, l’avrebbe
fatto volentieri, per ripagarla dei dispiaceri passati, presenti e
futuri.

Si vide dentro un così torbido miscuglio di sentimenti cattivi che se
ne sgomentò e, stesa la mano, prese un libro di preghiere sul tavolino
che aveva davanti.

Si provò invano a leggere, seguitò a discorrere con sè stessa, lottando
contro i pensieri astiosi, contro i propositi di vendetta; e si placò,
si rabbonì fino al punto d’aprir la mente a idee, a immagini che un
tempo avrebbe cacciato con ira, come indegni della condizione in cui
era nata.

Non si sentiva alcuna voglia d’uscire, ma avrebbe desiderato di
vedere suo fratello, il marchese Violant, o il cavaliere Mazel, per
consigliarsi con loro. Quando anch’essi accettassero per vero e per
buono il parere del medico, si sarebbe pienamente acquietata.

Ella aspettò inutilmente.

Sull’imbrunire Massimo ricomparve, e le venne a sedere dirimpetto. Dopo
un momento di silenzio, la contessa gli domandò quasi brutalmente se
fosse stato a far all’amore.

Massimo, non uso a tal linguaggio, cercò nell’ombra gli occhi di sua
madre. Ne riudì tosto la voce addolcita.

— Che notizie ci sono dal Genovesato?

— Oggi mancano — rispose il giovane.

La contessa tacque per pochi momenti, poi ripigliò:

— Hai veduto la signora Ughes?

Massimo si scosse.

— No — rispose con voce mal ferma. — È più di un mese ch’ella è partita.

— Dov’è andata?

— A Murello.

— E... e se andassimo in campagna anche noi, saresti contento?

— Io! Perchè?

— Rispondi.

— Ebbene: no!

— E come mai?

— Tutto è inutile.

— Spiegati, perchè non capisco.

— Oh! signora madre, la prego! Vede bene che...

Non potè compier la frase: un servitore entrava portando il lume.

Quando costui fu uscito, nè l’uno nè l’altra tornarono più sul discorso.

In quei giorni Massimo si provava di nuovo a lottare con la corrente
che lo trascinava; tentava di prenderla gagliardamente di petto. Ma
ogni parola che alludesse o paresse alludere al suo amore, lo feriva,
lo esasperava.

La contessa cominciò ad aspettare con certa impazienza l’occasione di
rinnovare a suo figlio la proposta di lasciar la città. La stagione
era bella e soave, il conte non poteva tardare molto ad annunziarle la
sua partenza per la Florita, allora ella si sarebbe recata col figlio
a Robelletta. Poichè l’assenza della signora Ughes non aveva mitigato
in nulla l’asprezza del male, e Massimo soffriva sempre di più, perchè
indugiare a riavvicinarlo? L’immobilità e la mestizia avrebbero dato
luogo pian piano al movimento; l’aria pura della campagna, la novità
della vita, la presenza dell’amata, forse qualche nuova, misteriosa
speranza, avrebbero migliorata la salute del giovane, e per il
momento ella non chiedeva altro a Dio, tanto la impensieriva, tanto
l’angustiava lo stato in cui lo vedeva.

Ma i giorni passavano e il conte s’era reso invisibile. La contessa,
maravigliata, s’informò: seppe che stava bene a salute, ma che era
occupatissimo.

Anche il cavaliere Mazel non veniva più con la frequenza d’una volta;
le sue visite erano rare, brevi, la sua galanteria meno pronta e meno
fervida.

Il 27 maggio, giorno della Pentecoste, mentre la contessa usciva da San
Filippo dopo messa cantata, si trovò accanto, nella calca, il marchese
Violant.

— Ebbene — susurrò egli, offrendole il braccio, — e Annibale?

— So che sta bene — rispose la contessa, — ma non lo vedo più. Ignoro
la ragione di questo nuovo rannuvolamento. Siccome però non ci ho
colpa, capirai che.....

— Ma tu non sai niente? — interruppe il fratello.

— No! — diss’ella. — Che c’è adesso? Parla, ti prego.

— Qui no, non è prudenza. Sei a piedi? Bene, ti accompagno a casa.
Sentirai.

Il marchese stava in Corte, era intrinseco con un tale che aveva il
dovere di esser ben ragguagliato; perciò parlava sempre come se fosse
incaricato di qualche pubblica e importante ingerenza anche lui.

Passo passo, discorrendo del più e del meno, arrivarono al palazzo.
Violant salì nell’appartamento di sua sorella, e quivi, lasciatosi
cadere un po’ ansante sopra un canapè, oscurò la faccia, corrugò le
ciglia e raccontò come qualmente due giorni prima il conte Annibale
avesse ricevuto il consiglio di sciogliere senz’altro la sua società.

— Un consiglio cortese, officioso... ma che sapendosi da chi veniva,
valeva un ordine. Abbiamo piegato il capo e buona notte!

— E le ragioni? — chiese la contessa.

Violant allargò le braccia, sporse il mento e chiuse gli occhi.

— Possibile che tutto vada così male? — mormorò la sorella.

— Di male in peggio, Polissena, di male in peggio. Sei proprio al
buio, tu? Mazel ti trascura, eh? Me ne sono accorto. Cosa vuoi? è un
po’ imbalordito anche lui... Dunque dirò io... Come se non bastassero
tutti gli affari gravi, intralciati che abbiamo sulle braccia, il
ministro della Cisalpina e l’ambasciatore francese par che cerchino
continuamente il modo di farci perdere il tempo e la calma. Cicognara
vede in tutto e da per tutto affronti ed offese, sta sul puntiglio,
sembra un monello smanioso di attaccar briga. Ginguené è giunto
finalmente a comunicare al Direttorio i suoi sospetti e le sue paure.
Laggiù a Parigi non intendono a sordo. Quei signori hanno scoperto
subito le fila d’una cospirazione colossale: qui si sta premeditando
nientemeno che l’uccisione di quanti francesi sono in Italia. Sua
Maestà, i ministri, noialtri nobili siamo occupati a preparare moti
sediziosi e tumulti in tutti i paesi dello Stato. A un dato momento
divamperà l’incendio. I soldati francesi, chiamati in aiuto, saranno
obbligati a dividersi, e allora: addosso! Succederà lo sterminio. Com’è
chiaro, facile, semplice tutto questo! Ti pare? Ora poi, con grande
accompagnamento di accuse offensive, di recriminazioni stizzose, di
proteste arroganti, si chiede il solito perdono per i ribelli; la
dispersione dei barbetti e di quanti stanno alla strada; la pena di
morte per i portatori e detentori di coltelli, pugnali, stiletti; la
punizione dei parroci di campagna e di tutti i preti che fomentano
l’odio contro una nazione così ben disposta per noi; la cacciata degli
emigrati savoiardi e nizzardi. Per darti un’idea del criterio con
cui è fatta la lista, ti dirò che in essa vi è il nome del mio amico
Salmatoris, il quale è nato a Cherasco, non è stato più di quindici
giorni a Nizza in tutta la sua vita, ha corso la carriera militare con
me, si trova, come me, in Corte da circa trent’anni. Non basta, vi è
notato anche il cavaliere di Camerano, chiuso da ben quattordici anni
nell’ospedale dei matti!

Il marchese soffiò, si asciugò la fronte.

— Adesso — ripigliò poi a bassa voce, — quando si sappia quello che è
accaduto ieri mattina a Casale, vuol essere un affare serio!

— Cos’è accaduto? — domandò la contessa, che ascoltava con l’animo
gravemente contristato.

— Tu sai, non è vero? che i ribelli presi a Ornavasso, sono stati
giudicati parte a Domodossola, e parte a Casale? Or bene, per questi
l’ambasciatore di Francia aveva chiesta e ottenuta la grazia. Ma la
staffetta che recava l’ordine, partita nella notte del 25, arrivò a
Casale quando già dodici di quei disgraziati erano stati sbrigati. Il
peggio si è che tra questi vi è Leótaud e Lions, entrambi francesi di
nascita, se non di servizio! Figurati! Ginguené non mancherà di dire
che la staffetta ha dormito a Crescentino od a Trino, oppure che a
Casale hanno anticipata l’ora del supplizio; ne nascerà un putiferio,
saremo a guai.... Insomma — continuò alzandosi — Priocca mi diceva
ieri che non è più possibile tirare innanzi. A sentir Ginguené, par
che la Francia abbia già usato molta longanimità, dato prova d’una
clemenza ineffabile lasciandoci vivere fino a questo momento. Se in
Italia esistono ancora governi monarchici, questo si deve unicamente
alla sua generosità, alla sua tolleranza! Capisci? Dunque finiamola con
le umiliazioni. Se vogliono ammazzarci, ci ammazzino di colpo. Meglio
finir così che martirizzati da quella marmaglia di scimiotigri e di
scampaforche che infesta i nostri confini.

Il marchese si avviò verso l’uscio curvo curvo, quasi si sentisse sulle
spalle il peso delle cose che aveva narrato. Giunto sulla soglia, si
fermò e si rivolse di nuovo alla sorella, che l’aveva seguìto.

— C’è poi sempre l’affare di Carosio — riprese egli, —
quell’affaraccio. Si teme di veder saltar fuori qualche brutta e
pericolosa novità, qualche complicazione scellerata... Basta, adesso
vado a veder un momento Annibale, gli dirò di non far tanto il
prezioso; e lo dirò anche a Mazel. E poi avvertirò altre persone;
verremo a veglia da te, come una volta.....

— No, no, no! — esclamò la contessa — ti prego. Vieni tutti i giorni,
di mattina, di sera, quando ti fa comodo, ma solo. Non mi sento di
veder gente. Fammi il piacere.

Il conte Annibale comparve subito dopo pranzo. Era pallido, austero;
non si fermò che pochi minuti, il tempo di confermare freddamente, in
succinto, quanto aveva detto il cognato.

Più tardi si presentò Mazel; poi Giacinto Violant e l’abate Arbaudi.
Nei giorni che seguirono, la contessa Claris dovette ricevere una
quantità di persone, e comprese che, malgrado la sua preghiera, il
fratello raccomandava a quanti incontrava, amici o parenti, di venirla
a trovare. Poi le visite cominciarono a diradare, e ben presto la
quiete e il silenzio tornarono a regnare nel palazzo.

Un pomeriggio il marchese venne ad annunziare alla sorella che
finalmente Sua Maestà aveva presa la risoluzione di mostrare i denti a
quei di Carosio.

— Ha dato l’incarico a fra Policarpo, è l’uomo che ci vuole.

— Fra Policarpo?!

— Policarpo d’Osasco. Non ti ricordi? Lo chiamano fra Policarpo perchè
è cavaliere di Malta. Sta tranquilla che li sbrigherà in poco tempo.

Infatti egli tornò presto, tutto lieto, a riferire che il maledetto
covo era disfatto.

Ma la letizia di Violant fu di breve durata, ricomparve due giorni dopo
molto scuro.

— Siamo a guerra, Polissena; il Direttorio ligure è montato in bestia,
proclama offesa la dignità nazionale, la libertà minacciata, il
territorio violato, tutti gli accidenti, e ci dichiara formalmente la
guerra. E sia. Ne abbiamo vedute altre, vedremo anche questa.

Egli continuò a venir così, sempre alla stessa ora. Entrava, sedeva,
soffiava e comunicava, senza preamboli, tutto quel che sapeva.

— L’affare si mette male. Una colonna genovese ha assalito i nostri
avamposti verso Pasturana; li ha obbligati a ripiegarsi sotto
Serravalle.

— Cattive nuove. Il reggimento Asti è stato sorpreso, circondato, fatto
prigioniero. La notizia non è però ancor confermata.

— Polissena, un altro corpo ligure ha preso Loano e marcia su Oneglia...

— Grandi feste a Genova per l’arrivo dei prigionieri piemontesi. Li
hanno fatti entrar nel gran cortile del palazzo nazionale, e lì...
Figuriamoci!

— Sorella mia, Serravalle ha capitolato. Adesso par che vogliano
entrare in ballo anche i cisalpini..... L’ambasciatore continua a far
girar l’anima con la sua storia fantastica della grande congiura.....

— È arrivata una dichiarazione del Direttorio francese che raccomanda,
o comanda di cessar le ostilità. Ginguené sarà mediatore tra i liguri e
noi. Avremo la pace, ma su che basi? Con quali patti?.... Che Dio ce la
mandi buona! Purchè questo non sia il vero _commencement de la fin_!


Una notte, verso la fine di giugno, la contessa Polissena si destò di
sobbalzo, le pareva d’aver sentito sbatacchiare un’imposta lontana,
nelle profondità del palazzo. Sta in orecchi: — Sì, certo, qualcuno
cammina nella sala contigua. — Si rizza a sedere, guarda all’uscio, lo
vede aprirsi, vede entrar suo marito.

Il conte era sbiancato come un morto, aveva gli occhi spalancati,
i lineamenti irrigiditi; le sole narici, tumefatte dall’ira e
dall’afflizione, davano segno di vita.

— Che c’è? — domandò la contessa. — Cos’hai?

Il conte aveva posato il candelliere sur un cassettone, e taceva,
guardandola.

— Massimo?! — gridò Polissena, atterrita, correndo repentinamente col
pensiero alla più gran disgrazia che potesse immaginare.

Suo marito crollò il capo.

— No, no — diss’egli con voce affogata, — Massimo è vivo. Ma che vale?
Se siamo tutti perduti!

— Parla, ma parla, per amor di Dio!

— Dio?... Dio doveva farmi morire, non lasciarmi assistere alla
distruzione... No, peggio mille volte! all’onta di quanto ho di più
caro e venerato su questa terra... Tutto è finito. Il Re piega il capo.
Il Re consegna la Cittadella, la nostra Cittadella ai francesi.

La contessa ebbe tronco il respiro, si strinse le mani al petto,
ricadde indietro sui guanciali.

Il conte Annibale, seduto a piè del letto, col capo basso, le ciglia
fieramente aggrottate, fissava il pavimento. Dopo un poco balzò in
piedi e andò a ripigliar la candela.

— Domani — diss’egli — mi ritiro alla Florita.

— Posso partire con Massimo per Robelletta? — domandò quasi timidamente
sua moglie.

Il conte fece un atto d’assenso.

— Coraggio! — mormorò Polissena, intenerita, accorata. — Coraggio,
Annibale.....

Il viso del conte si contrasse tutto a queste parole, egli non rispose,
e come vinto dal bisogno di piangere, uscì dalla stanza a precipizio.




XIX.


Massimo, avvertito da sua madre di prepararsi a partire per Robelletta,
la pregò di differire.

Avuto il consenso, si chiuse nel suo quartierino per meditare in pace.
Il suo spirito da prima svolazzava leggero sopra la gravi cose su cui
voleva fermarlo, poi si posò.

Il dolore e l’umiliazione di quelli che vivevano con lui, intorno a
lui, lo toccavano bensì, ma non bastava; avrebbe voluto soffrir più
direttamente, più attivamente. Era convinto che il 3 di luglio, giorno
fissato per la cessione della Cittadella, sarebbe accaduta qualche gran
cosa. Si eccitò, si esaltò pensando ai _Vespri siciliani_, alle _Pasque
veronesi_.

— Ah! — diceva egli, serrando i denti e stringendo i pugni — dopo
aver vinto, volete stravincere, voialtri francesi? Abbiamo patito
abbastanza. Badate: si può trovare chi vi renderà lacrimevole la
vittoria; chi cova un’ira, che repressa, scoppierà più micidiale!

E cominciò a far disegni, che tutti avevano più o meno dell’assurdo;
poi ad un tratto, non potendo più stare alle mosse, uscì e si recò al
caffè dove era certo di trovare altri giovani della sua condizione.

Vide appunto da lontano, fermi sulla porta, Di Capolea e Spadafora, che
discorrevano animatamente fra loro.

— Appunto — disse Massimo, accostandosi: — ho bisogno di voi.

— Un duello? — esclamò Di Capolea.

— Saprete poi. Vi aspetto fra mezz’ora a casa mia. Chi c’è dentro?

— La Torretta e Di Cimalta che giuocano al biliardo, Violant che dorme.

— Avvertite anche La Torretta e Di Cimalta. Violant lasciatelo dormire.

La curiosità fece quasi esatti i quattro giovani: tre quarti d’ora dopo
erano tutti accomodati sul canapè e sulle poltrone della saletta di
Massimo.

Il contino prese subito a parlare, ma senza ordine, e balbettando
alquanto, come gli accadeva quando era sopraffatto da grave passione. —
Per Dio! Si stupiva di vederli così tranquilli alla vigilia d’un fatto
incredibile, intollerabile: la perdita della Cittadella di Torino!
Era pronto a scommettere che adesso anche quelli che propendevano alle
dottrine repubblicane, anche i patriotti più ardenti, non approvavano
un’esigenza così mostruosa; non potevano non sentirsi avviliti
nel considerare, nel toccare con mano gli effetti della prepotenza
straniera.

— Il sentimento della nazionalità è indelebile, ha prevalenza sulle
opinioni acquistate... Diavolo! L’integrità del suolo patrio è
condizione principale, vitale dell’esistenza di un popolo... Cominciamo
a esistere, ad avere un terreno su cui mettere i piedi, un terreno
nostro, e poi...

— Benissimo — interruppe Di Cimalta, alzandosi. — Ma le conosci le
condizioni dell’occupazione? Prima di tutto essa non durerà che un paio
di mesi, salvo ulteriori accordi fra S. M. e il Direttorio. Le truppe
passeranno per la porta di soccorso, senza attraversar la città; non
potranno disporre di nulla; lascieranno viver tranquillo il parroco...

— E cosa m’importa! — gridò Massimo. — A che serve lo stabilir
condizioni con gente assuefatta a non rispettarle?... E poi, insomma,
è impossibile che i torinesi non si commovano al veder sventolare
su quelle muraglie la bandiera esecrata. Il primo rullo dei tamburi
francesi può essere il segnale di una sollevazione terribile. Faremo
anche qui, e con miglior fortuna, quello che si è fatto in tanti altri
luoghi.

— Claris ha ragione — disse Di Capolea, pieno di simpatia per l’amico
ardimentoso.

— Santo Dio! — esclamò Spadafora. — Cosa volete che faccia la
popolazione se non può far niente il Governo?

— Ma le notizie che vengono dal Genovesato sono molto migliori —
osservò Di Capolea. — Nei giorni scorsi i nostri hanno riacquistato
terreno a furia; una parte della frontiera è nelle nostre mani,
parecchie terre si sono sottomesse. I prigionieri genovesi sono
molti e tra questi tanti ufficiali superiori; si sono prese bandiere,
cannoni, mortai, fucili... Mi maraviglio che non si pensi a far qualche
dimostrazione di gioia.

— Per me — disse La Torretta rivolgendosi a Massimo — sono qui,
figurati! Nel ’93, i La Torretta erano undici al servizio; ora non
siamo più che due: mio cugino Vittorio ed io! Tutti gli altri hanno
lasciato l’ossa sulle nostre montagne!... Insomma non è la buona
volontà che mi manca... Piuttosto bisognerebbe trovar qualche persona
autorevole che si mettesse alla testa. Allora sì. Un uomo come Brunel,
per esempio; quello è muso quanto chiunque. Se lui ci dicesse: —
Ragazzi, son qua io. — Chiudo gli occhi e avanti a capo sotto.

— Anch’io! Anch’io! Anch’io! — gridarono gli altri.

— Proviamo a rivolgerci a Brunel — disse Massimo. — Chi va a trovarlo?

— Tu! — rispose Spadafora.

— Io solo?

— Prendi con te Di Capolea. E a rivederci più tardi.

Brunel stava nel palazzo del conte di Masino, isola di San Giuseppe.

I due giovani, concertati i termini della proposta che avevano da
fare, salirono al modesto quartiere abitato dal barone, e spinsero
leggermente l’uscio che era socchiuso. Entrarono in una piccola
anticamera; dopo aver aspettato un poco, non vedendo comparir nessuno,
si avanzarono con certa temenza verso un altr’uscio spalancato che
avevano di contro. Metteva in un salotto oscuro; l’attraversarono,
si trovarono in una camera grande e sfogata, e videro — che vista fu
quella per loro! — quattro ceri accesi intorno al cadavere di Brunel.

Un vecchio colonnello di cavalleria, seduto sur un seggiolone accanto
al letto, era così assorto, così abbattuto, che non alzò nemmeno il
viso per guardar chi entrava. Due altri militari, ritti nel vano d’una
finestra, non fecero alcun movimento; solo un servitore, che parlava
sommessamente con un legnaiuolo, volse ai giovani uno sguardo che
pareva dire:

— Oh, signori miei, non mi so dar pace neppur io!

Quando finalmente Massimo e Di Capolea furono persuasi della realtà
di ciò che avevano sott’occhio, si avvicinarono insieme al letto,
e inginocchiati l’uno accanto all’altro, rimasero così il tempo
di recitare un _De profundis_. Stettero poi ancora un momento a
contemplare, con l’animo pieno di sincero dolore, quei lineamenti
marmorei non più conturbati da alcuna passione terrena, già affinati e
addolciti dal riposo assoluto, che cominciato da poche ore, non doveva
cessare mai più.

Nell’anticamera ritrovarono il servitore, che aveva già congedato
l’artigiano. Ebbero da colui tutti i particolari della fine improvvisa.
Il barone si alzava, andava, veniva, mangiava, ma non parlava più
da due giorni. La sera prima, tornato a casa, come al solito, sul
far della notte, s’era ritirato in camera, e sedutosi alla scrivania
aveva cominciato a rivedere, ordinare e distruggere le sue carte. Il
servitore aveva vegliato fin dopo le undici, poi non sentendolo muover
più, pensando che egli si fosse posto a letto, era andato anche lui
tranquillamente a dormire. La mattina di poi, entrando nella stanza
per portargli il caffè, lo aveva trovato steso sul letto senza vita, in
grande uniforme, con la spada al fianco e la croce di San Maurizio sul
petto. Il medico, chiamato subito, l’aveva dichiarato morto di morte
semplice e naturale.

I due amici ridiscesero nella strada e tornarono senza quasi parlare al
palazzo Claris. Entrati sotto l’atrio, Massimo si fermò:

— Adesso sì — diss’egli — che mi sento anch’io scoraggito,
disanimato... Va, di’ agli altri quello che hai visto; di’ loro che
domani starò tutto il giorno in casa: se mai qualcuno avesse un’idea...
E dopo domani mi troverò per tempissimo all’ingresso della Cittadella,
presso lo stecconato a diritta, e starò là, pronto a unirmi al primo
che griderà: viva il Re! morte ai francesi!

— Ci sarò anch’io! — esclamò Di Capolea, prendendogli affettuosamente
la mano. — Mi vuoi, eh?


La mattina del 3 luglio, la contessa Claris, che non aveva chiuso
occhio tutta la notte, discese per la scaletta nell’appartamento di suo
figlio.

Era molto presto, egli aveva il lume e stava scrivendo. Vedendo entrar
sua madre, fece un atto di maraviglia e lacerò il foglio.

— Perchè? — domandò la contessa.

— Meglio così — rispose il giovane.

— Vai laggiù, eh?

— Sì, signora madre.

— Chiamami mamma. Sei armato?

— Sì, mamma...

— Cosa speri?

— Niente.

Non articolarono sillaba per qualche momento; si parlavano con gli
occhi. Poi s’avviarono l’uno al fianco dell’altra verso l’uscio.

Vi giunsero.

— Aspetta — ripigliò la contessa, staccando la mano di suo figlio
dalla gruccia dorata. E gettandogli le braccia al collo gli disse
all’orecchio con una tenerezza, un affanno, uno struggimento
indicibile:

— Torna, sai.

Tacque ancora, forse per richiamare a sè con uno sforzo tutto il vigore
dello spirito, poi soggiunse con maggior fermezza:

— Va, va; sta quanto vuoi, sta sino all’ultimo, se occorre. Dio sia con
te!

Ella risalì nelle sue stanze, con queste domande angosciose nel cuore:
— Quando tornerà? Come vivere tutte queste ore? Che può succedere?
Devo sperare, augurare che succeda qualche cosa? Per Massimo no.
Per la causa del Re, per l’onor del Piemonte, forse sì. — Rammentava
che Saint-André, governatore di Torino, aveva pubblicato un editto
per sedare l’irritazione dei cittadini: dunque c’era realmente la
probabilità d’un conflitto?

Il chiarore andava a poco a poco crescendo. Aprì la finestra: il cielo
terso, profondo prometteva una bella giornata. La strada sottostante,
poco frequentata nel buon del giorno, era in quel momento affatto
deserta, ma alla svolta si distingueva gente che si moveva tutta
insieme frettolosa. Pensò di farsi portare in carrozza verso la
Cittadella, e collocarsi in luogo donde potesse veder bene quello
che accadeva. Pensò d’andar a piedi subito, sola, in abito dimesso; e
penetrare nella folla, cercare il figlio e metterglisi al fianco. Come
mai non le era venuto in mente d’accompagnarlo addirittura, vestita
d’altri panni? Il tempo presente comportava cose ed azioni che in
addietro sarebbero parse stranissime. Poco più d’un mese prima, una
certa Angela Ponzani, per ottenere la grazia di suo marito, condannato
a morte dopo la rotta di Ornavasso, era venuta a Torino, ed aveva
saputo, trasfigurata così da esser presa per un ufficiale, entrare
nel palazzo del Re, ed arrivare supplicante ai suoi piedi... Ma era
tardi; queste non erano più che fantasie inutili e vane. Si rammaricò
di non aver pensato a informarsi dell’ora, del modo con cui si sarebbe
compiuta l’occupazione abominata.

Uscì di camera, si aggirò un poco nelle altre stanze. Perchè il conte
la lasciava sola? Perchè l’abbandonava così? Tornò stanca, spossata
donde era uscita, si mise a sedere e chiuse gli occhi.

Che orrenda visione! — I francesi trionfanti in marcia verso i vecchi
baluardi incontaminati. La folla cupa, fremente, raccolta in sè come
una fiera pronta allo slancio. Massimo la dominava da un punto elevato.
Egli alzava la mano, gittava un grido fortissimo. Seguiva un urlìo
di morte. La turba si agitava, si avventava furibonda contro gli
stranieri..... Massimo era in terra travolto, ammaccato, schiacciato da
migliaia di piedi.

Una voce le ripeteva nell’anima le parole d’un prete emigrato, l’abate
Frainier: — Vedete, la rivoluzione è una prova dell’ira santa di Dio;
ira che vuol essere placata con sangue. — Se n’era versato già tanto,
ma occorreva precisamente ancor quello di suo figlio per colmar la
misura...

Si alzò sconvolta e si affacciò di nuovo alla finestra. Tornò a sedere
e a tender l’orecchio. Poi si provò a leggere, si provò a pregare, ma
ogni poco si sentiva mancare il respiro, come se aspettasse l’imminente
scoppio d’un fulmine.

Quanto tempo le sia trascorso così, non lo seppe mai. Alla fine ode un
rumore di passi lontani, che però le pare venga dalle stanze, non dalla
strada. Vuol balzare in piedi, e le gambe le si ripiegano sotto, mentre
un flutto di idee ancor più disperate e più lugubri le invade la mente;
ricade seduta, si sente quasi svenire, quando è riscossa dalla voce di
suo fratello.

— È finita; sono entrati...

— E Massimo?

— È venuto a casa con me. Si è fermato in basso a posar le pistole.

La contessa giunse le mani, le alzò al cielo, ma non pronunziò una
parola.

Massimo entrò di lì a un momento e venne a sedere in silenzio vicino a
sua madre. Era pallido, aveva il viso contratto, come di chi ricaccia
dentro l’anima un sentimento potente, pronto a manifestarsi. Violant,
vedendoli quieti, prese a raccontare alla sorella com’erano andate le
cose.

— L’avanguardia francese, comandata da Kister, si è presentata alla
porta di soccorso alle cinque; l’hanno lasciata entrare appena compiute
le formalità d’uso. Poi sono arrivati Ginguené e il generale Collin
alla testa di due mila e più uomini. Il governatore, marchese di
Ciriè, ed il comandante, cavalier di Nichelino, essendo ammalati,
toccò a Casanova, colonnello del reggimento Monferrato, il delizioso
incarico di fare la consegna. Qualcuno ch’era presente, mi disse che
gli ufficiali ed i soldati facevano pietà. Chi sa quanti fra essi si
saranno trovati a Cosseria! E dover sfilare, rendere gli onori militari
al gran conquistatore Ginguené...

— Basta! — interruppe Massimo, con una voce rauca diversa dalla sua
solita.

— Abbi pazienza, ho finito — seguitò il marchese. — Adesso si è
rinforzata la guardia della porta, e Saint-André ha invitato a pranzo
Collin e gli ufficiali superiori...

— E la gente? — domandò la contessa.

— La gente andò a vedere. La mattina era bella e lo spettacolo nuovo.
Che volete? La buona città di Torino, contessa di Grugliasco, signora
di Beinasco, adesso la prende così, sul principiare del secolo
l’avrebbe presa in altro modo.

Il marchese sospirò, tentennò ancora un po’ il capo, poi fatto con la
destra un saluto alla sorella e un altro al nipote, si avviò lentamente
verso l’uscio.

Appena lo vide fuor della soglia, Massimo afferrò la mano di sua madre,
abbassò il viso sulla palma, se la strinse sulla fronte, sugli occhi,
sulle labbra.

— Mamma — mormorò egli: — partiamo, partiamo, andiamo via, non ne posso
più!




XX.


In tutto il mese di giugno, il cavaliere Telemaco Mazel non era andato
che quattro volte in casa Claris e sempre di sera. Egli si veniva
mutando, e sfuggiva la luce del giorno per non impressionare l’amica.
Soffriva incomodi, i quali tanto o quanto alteravano la sua sanità, e,
guardandosi nello specchio, vi si vedeva giallo, con le pesche agli
occhi, il collo che andava diventando color di nocciola e grinzoso
come quello delle testuggini. Avrebbe voluto dar la colpa di tutto
questo al caldo, alla stagione e sopra tutto agli eventi, così infausti
per tutti coloro che si conservavano fedeli al Re; ma a queste idee
si sostituiva, ahimè! sempre più molesta ed insistente, quella della
vecchiaia vicina, inevitabile, accompagnata dalla bruttezza, dagli
acciacchi, dalle malattie.

Aveva consultato successivamente Garonis e Ambelli; tutti e due
lo avevano dichiarato guaribile, mediante una cura non lunga, non
difficile, ma esatta.

Egli ebbe l’avviso che la contessa stava per partire appunto un giorno
in cui si sentiva più indisposto e più scuro che mai. Pensò da prima
d’andare in bussola al palazzo e chiederle scusa di non poter servirle
di scorta come tutti gli altri anni; poi invece le scrisse ch’era
malato, a letto, ma pronto ad alzarsi, a far ciò che considerava come
un dovere. Non pensava alla possibilità d’un aggravamento, al pericolo
di restar per istrada; lo inquietava, lo turbava l’idea di arrivare a
Robelletta nè vivo nè morto, l’idea di averle a cagionar noie, pene,
disturbi.

La lettera ottenne l’effetto ch’egli aspettava e bramava. La contessa
rispose subito, pregandolo di non muoversi e d’attendere a curarsi ed a
guarire.

Mazel riscrisse confuso, umiliato, compunto, ringraziando come avesse
ottenuto una grazia, un grandissimo favore. Prometteva di raggiungerla
appena avesse potuto reggersi in piedi.

Così una bella sera, mentre il sole declinando verso occidente
arricchiva d’oro e di porpora le nuvolette vaganti per il cielo
tranquillo, gli abitanti di Robelletta videro entrar nel viale la
carrozza della loro signora e osservarono con molta sorpresa che non
era nè preceduta, nè seguìta dall’antico cavaliere.

La contessa Polissena riprese subito il tenor di vita di tutti gli
altri anni: leggeva, scriveva lettere, faceva e riceveva qualche
visita. Nei primi giorni non si occupò affatto di suo figlio: lo vedeva
a desinare, lo vedeva a cena, ma non gli domandava mai come avesse
passato il suo tempo.

Però un dopo pranzo, mentre passeggiavano discorrendo in un viale, ella
credette d’accorgersi che Massimo andava diventando un po’ irrequieto,
come se desiderasse, ma non osasse lasciarla.

— Vuoi andare? — diss’ella, pacatamente. — Va pure.

— Oh signora madre...

— Va, va in pace. Ricordati, passando in casa, di mandarmi madamigella.
E... buona fortuna.

Massimo che aveva già fatto due o tre passi, si voltò a guardarla.

La contessa sorrise:

— M’hanno detto che la signora Ughes esce tutti i giorni con suo padre
e con te...

— È verissimo.

— Bisognerà che tu me la faccia conoscere questa sirena. Vuoi?

— Scusi, signora madre, ma io non capisco...

La contessa non rispose, si fece grave, pensò un momento.

— Domani — riprese poi — farò probabilmente una visita al santuario
della Madonna. Fa di trovarti con loro da quella parte, verso
sera. Bada però che l’incontro deve parer casuale, perciò non devi
avvertirli, non devi dir niente. M’hai inteso?

Massimo promise e si allontanò rapidamente, ma giunto sulla strada
che metteva a Murello, sentì ad un tratto venir meno ogni volontà di
andarvi. Entrò in un prato e si gettò sull’erba, nell’ombra di certi
alti pioppi.

Che significava questo desiderio di sua madre? Doveva rallegrarsene?
Accettarlo come un augurio? Era possibile che ne derivasse un
bene qualsiasi? — E fantasticò fino a tardi senza venire ad alcuna
conclusione, senza intravvedere un punto chiaro, uno spiraglio sereno
nella densa caligine che gli nascondeva l’avvenire.

Tutta quella sera, e la notte, e il giorno seguente, finchè non venne
l’ora di andare in casa Ughes egli si sentì amaramente tribolato da
un pensiero: — E se Liana non riuscisse simpatica alla contessa? Se
questa trovasse ch’egli aveva collocato male il suo amore? — E il
dubbio, senza che egli sapesse come, nè perchè, andò sempre crescendo
e prendendo un’importanza che gli pareva foriera di nuovi e gravi
avvenimenti.

Massimo entrò in casa Ughes mentre battevano le quattro. Liana lavorava
nel salottino, vicino ad una finestra; l’avvocato dormicchiava sul
sofà. Egli si rizzò subito all’apparire del contino e ordinò ad alta
voce, in modo d’essere udito dalla cucina: vino bianco, sciroppo di
ribes, frutta e ciambelle.

Aveva fatto una buona sfogata di chiacchiere col parroco e col notaio
al mattino, desinato con buon appetito, digerito bene: era quindi di
ottimo umore.

— Adesso si beve — diss’egli, — e poi si va a spasso.

— Possiamo andar fino alla Madonna — suggerì Massimo, quasi sottovoce.

— Eh — fece l’avvocato — quella è sempre una passeggiata amena e
piacevole.

V’era stato la sera prima ed avrebbe preferito rivolgersi a tutt’altra
parte, ma perchè contrariare sor contino?

Quel giorno, come sempre, Liana sarebbe rimasta volentieri a casa, sola
con i propri pensieri, ma sapeva di far piacere a suo padre, di far
piacere a Massimo, venendo con loro, e cedeva. L’impeto di speranza
che l’aveva spinta a partir per Murello era caduto; il nuovo periodo
di attesa febbrile interamente finito. I giorni si succedevano tutti
uguali, in una quiete sorda, piena d’incertezza.

Massimo, comparso all’improvviso una bella mattina, era stato ricevuto
dalla signora con tranquilla amabilità, senza esclamazioni, senza
alcuna dimostrazione di maraviglia, come si fossero lasciati da poche
ore, non da quasi tre mesi. Continuava a frequentare la casa, ad
accompagnarla fuori: pago di notare nel contegno di lei, nei suoi modi
una affabilità semplice, costante, sicuro indizio che la sua compagnia
non le era sgradita.

Uscirono e presero la strada che metteva al santuario. Liana camminava
silenziosa fra i due uomini. Oliveri recitava ad alta voce una
poesia giocosa che gli aveva mandato l’avvocato Bottalla per il suo
compleanno. Massimo guardava avanti, si voltava indietro, sperando e
temendo ad ogni momento di scorgere la carrozza di sua madre. Respirò
vedendo deserto il piazzale davanti alla cappella: meno male, erano i
primi, la contessa non aveva dovuto aspettare.

Sedettero sur una panchina; e Oliveri, invaso, infiammato dall’estro,
cominciò a improvvisare un sonetto in risposta all’amico. Voleva anche
appiccarci la coda, quando Massimo lo interruppe stendendo il braccio
ed esclamando:

— Mia madre!

— Oh, oh! — fece l’avvocato, chetandosi subito e palpandosi la
parrucca, la gala del petto, i manichini. Soggiunse poi piano, mentre
la carrozza arrivava sul piazzale: — Signor conte, mi dica lei come
devo comportarmi.

La contessa discese, s’avviò con la testa alta e gli occhi bassi verso
la porta della chiesetta, vi entrò.

— Bisognerà ch’io faccia il mio dovere in qualche modo — seguitava a
dire Oliveri, già in piedi. — Credo conveniente, indispensabile qualche
segno di rispetto, di ossequio. Si tratta della madre di chi ci onora,
si può dire ogni giorno... E capirà... Insomma, adesso vedremo.

Massimo cercava invano qualche parola per disporre la signora Ughes
alla presentazione; la vedeva seria, indifferente; temeva di trovarla
poi fredda e riluttante quando fosse giunto il momento. Così intanto
egli taceva, fissando con un po’ di batticuore la porta socchiusa,
presso la quale adesso stava di piantone un lacchè.

Dopo pochi minuti, che parvero secoli al giovane, la contessa
ricomparve, e dalla soglia girò con gli occhi il piazzale. Mentre
un altro lacchè, ritto accanto al legno, s’affrettava a spalancar lo
sportello, Massimo e Oliveri si scoprivano il capo, e Liana si alzava.

La contessa li vide; si mosse bel bello guardando Liana e sorridendo
a fior di labbra. Incontrandoli, fu la prima a parlare, e lo fece
graziosamente. — Aveva sentito dire tante belle cose di loro da suo
figlio! Massimo si mostrava così soddisfatto d’averli per vicini,
affermava di trovarsi così bene in loro compagnia, che aveva destato in
lei una curiosità grande, un vivo desiderio di conoscerli. Era proprio
contenta di trovar finalmente una buona occasione.

Liana aveva appena cominciato a proferire alcune parole gentili, quando
Oliveri la interruppe. — Diamine, toccava a lui di rispondere! A lui
padre, avvocato, poeta! — E lo fece con una dozzina di frasi ampollose,
gonfie d’una rettorica ricercata, stantia ed anche un pochino servile.

Si avviarono poi tutti a piedi verso Murello: le signore davanti, gli
uomini dietro. Fatto così un breve tratto, la gentildonna si fermò, si
accomiatò e risalì nel legno, che li aveva seguiti di passo.

Massimo riaccompagnò a casa l’avvocato e sua figlia, poi pigliò per le
scorciatoie: non vedeva l’ora di essere a Robelletta, di sapere quale
impressione avesse ricevuto sua madre, che cosa pensasse di Liana.

Trovò la contessa in piedi, presso la finestra del salotto terreno,
interamente assorta nella lettura d’una lettera. Egli tornò nel cortile
e andò su e giù per dieci minuti, finchè un servitore venne sull’uscio
e fece un inchino.

Entrò nella sala da pranzo. La contessa e la vecchia damigella erano
già a tavola; don Bonhomine stava per sedere.

La cena fu silenziosa. La contessa aveva l’occhio freddo, la fronte
un po’ corrugata. Non era sdegno, ma poteva esser peggio. Massimo si
sentiva gelare, mangiò poco e non fiatò mai.

Don Bonhomine e sora Teresa, come la chiamavano i servitori, si
ritirarono appena preso il caffè. La contessa si alzò, passò nel
salotto, seguìta dal figlio, e se lo fece sedere accanto sur un piccolo
sofà.

— Ecco — diss’ella, — leggi questa lettera.

Massimo, un po’ inquieto, prese il foglio che gli porgeva sua madre, vi
diede un’occhiata e si riconfortò subito non vedendovi nè il suo nome,
nè quello di Liana.

Era l’abate Arbaudi che scriveva da una sua villa vicino ad
Alessandria. Anche in quella città i malintenzionati, indettati e
diretti dal generale Ménard, comandante della Cittadella, avevano
formato un comitato e cominciato a macchinare ed a corrispondere con
gli altri comitati impiantati qua e là.

Per farsi un’idea chiara dei loro disegni, don Castellani, amico
dell’abate, prete ardito ed accorto, s’era governato in modo da
trovarsi presente ad una conventicola segreta e decisiva. Aveva visto
allora che il caso era gravissimo.

I repubblicani, rioccupato Carosio, pensavano di approfittare
dell’agitazione che poteva produrre la dedizione della Cittadella di
Torino, per tentar nientemeno che un colpo di mano contro Alessandria.
Contavano naturalmente sulla cooperazione dei soldati francesi, e
speravano che il moto si propagasse per tutto il Piemonte. Non c’era
tempo da perdere; la bomba doveva scoppiare il 5 luglio: non si
trattava di giorni, ma di ore.

Il governatore Solaro fu subito avvertito e prese le sue misure. Mezzo
squadrone di Piemonte reale alla Cascina grossa; un distaccamento
di Peyer-im-hoff alla Spinetta; uno di Saluzzo a Marengo e uno di
guastatori a Castel Ceriolo. D’Osasco poi, all’alba del 5, era in
battaglia tra porta Ravanale e porta Marengo, con trecento soldati,
parte di Saluzzo e parte guastatori, e con ottanta dragoni. Il conte
Alciati, partito dal Bosco con quattrocento uomini di Savoia e di
Stettler, e cento di cavalleria, era giunto alle quattro e tre quarti
alla Spinetta. I contadini della Fraschea avevano ricevuto anch’essi
istruzioni, incoraggiamenti, armi e munizioni.

Poco dopo le cinque, un ufficiale, postato in avanti, aveva veduto
spuntare sulla strada di Marengo una colonna di circa mille uomini, con
bandiere e cannoni. Era l’_Armata infernale_, partita allegramente da
Serravalle, passata senza trovar impedimenti presso Tortona, e quasi
sicura di arrivare pacificamente fino ad Alessandria.

L’ufficiale, lasciati scaricare ai suoi i fucili, aveva ordinato
la ritirata senz’altro. E i repubblicani subito dietro a furia,
spensierati e baldanzosi.

Ma ad un tratto: — Avanti! avanti! — ecco a sinistra una forte schiera
di soldati lanciati alla baionetta. I rivoltosi li avevano accolti a
fucilate e a cannonate; ma poi, sentendosi galoppare Piemonte reale
e altra cavalleria alle spalle, s’erano buttati disordinatamente
nelle boscaglie e nei campi. La battaglia sarebbe finita così, appena
incominciata, con pochissimo spargimento di sangue, se non fossero
saltati fuori strepitando e sparando i frascheruoli appiattati fra i
cespugli, dietro gli alberi, nei fossati. Ufficiali e soldati avevano
fatto quanto umanamente si poteva per strappare i vinti dalle mani di
quegli arrabbiati; ma la carneficina era stata lunga ed orrenda.

Due giorni dopo la caccia all’uomo durava ancora, s’udivano ancora
schioppettate, strida, gemiti, bestemmie...

Quando fu a questo punto della lettera, Massimo, disgustato e
attristato, lasciò di leggere, sebbene vi fosse ancora tutta una
pagina.

— L’abate ha ragione — disse la contessa, credendo ch’egli fosse
arrivato fino in fondo: — Se tutti i nostri contadini odiassero i
francesi e i patrioti come quelli della Fraschea, le cose andrebbero
assai diversamente.

— Sì, ma che orrore, signora madre! Che tempi!

— Eh già! Non son tempi da idillio, figliuol mio.

Massimo si morse il labbro e si alzò.

— Permette? — diss’egli. — Vado un po’ fuori.

— Va pure — rispose la contessa. Ma subito lo richiamò con la voce e
col gesto: — No! Aspetta; vieni qui, siedi. Sta a sentire. Garonis mi
parlò una volta d’una malattia molto strana e terribile. Ne ho scordato
il nome, ma i sintomi sono questi: chi n’è colto sente le ossa diventar
molli come le carni, le carni diventar flaccide e come stemperate nel
sangue e negli umori; tutti i congegni del corpo si rilassano, le forze
si riducono a niente... Io provo questo, ma nello spirito. Non ho più
vigore, non ho più coraggio, non son più padrona di me, non posso più
adoperar la volontà in nessuna maniera... Mi par di vedere intorno
molti e molti ridotti così. È un’influenza che colpisce, gli uni dopo
gli altri, tutti quelli del nostro ceto. Tu l’hai addosso, come mio
fratello, come Mazel, come tanti dei nostri amici... L’epidemia non ha
risparmiato nè la Corte, nè i ministri. I nostri avversari hanno saputo
impossessarsi della nostra forza morale e se ne valgono, e ne abusano.
Ci sono anche altre cose che non so discernere, e che pure...

S’interruppe, poi riprese tosto con accento di rammarico grave:

— La fortuna sorride alle forze soverchianti dei novatori. Essi sono
padroni del campo, o lo saranno presto. Si combatte ancora, ma i
colpi sono sempre più radi, sempre più lenti... Ma non bisognerebbe
lasciar niente d’intentato, niente. Lottare, lottare con coraggio, con
pertinacia animosa per risparmiarsi almeno i rimorsi. Sentiamo un po’,
credi tu d’aver fatto tutto quel che potevi?... No, no, no! E continui
a startene colle mani alla cintola!

— Cosa devo fare? — chiese Massimo, cupo.

— Fa.

— Almeno mi dica...

— Puoi cominciar domani, puoi metterti in giro, andar nelle città
più vicine, nei villaggi, nelle ville, nei castelli, puoi visitare
gli amici, i conoscenti, sentir le loro idee, far qualche proposta...
stringer altre relazioni.

— Se la nobiltà è moribonda, crede lei ch’io possa prolungarle la vita?

— Chi ti dice che sia moribonda? Ti sembra così facile distruggere il
passato, cancellare la storia, annientare tanti ricordi di gloria,
di onore, di lealtà?... Oh Massimo, Massimo, almeno provare! Vuoi?
Mettiamoci tutti d’accordo. Stringiamoci insieme. Arbaudi accenna
nella chiusa della sua lettera a cose che non può spiegare: chi sa
che il fuoco non sia già avviato in qualche altra parte! I piemontesi
sono sempre stati fedeli, devoti al Re; adesso poi sono oltraggiati,
minacciati, oppressi... Bisognerebbe incorarli, sostenerli, spingerli
ad un grand’impeto eroico... Pensa, Massimo, pensaci, sai. Io spero
molto in te... Tu poi devi confidare in me. Ho veduto la signora Ughes.
La rivedrò. Non ti lascierò dimenticare da lei, sta tranquillo. Credo
che sia appunto venuto il momento di diventar più prezioso, di farti
desiderare. Non c’è niente che renda tanto pregevole e cara alcuna cosa
come il vederla pronta a sfuggirci. Questo lo sai anche tu.

Massimo pensava che dovesse e potesse fare. Non gli riusciva più di
spiccicare parola.

— Ora va — riprese poi la contessa, dopo un lungo silenzio. — Stasera
abbiamo parlato abbastanza. Va e che la notte ti porti consiglio.

Massimo salì in camera e si affacciò alla finestra per rinfrescare e la
fronte e la mente all’alito tranquillo della notte. Non c’era luna; la
pianura si stendeva nereggiante e sterminata sotto il gaio scintillar
delle stelle. Vi affissò gli occhi: gli parve di vederla brulicar
tutta di fantasime armate. Stette un poco sospeso, immobile, come se
aspettasse di sentirsi sfavillare nell’animo un’aspirazione bellicosa.
Nulla!

— No — pensò egli, — non sono nè un prode, nè un eroe, sono un povero
ufficiale che ha fatto quel che ha potuto, quand’era tempo... Dovrei
provarmi a dar fuoco alla polveriera, a suscitar la guerra civile; una
guerra da selvaggi, da cannibali... Io? Per l’amor di Dio, scusate se è
poco!




XXI.


Massimo si svegliò però risoluto di accontentare in qualche modo
sua madre. Appena alzato, fece attaccare e si recò col calessino a
Monasterolo, ove sapeva di trovare un antico compagno d’armi, suo
coetaneo.

Il commilitone lo accolse a braccia aperte; gli fece esaminare,
ammirare, provare i suoi cavalli e non lo lasciò parlar d’altro in
tutto il giorno. A sera poi, al momento di separarsi, promise di venire
una volta o l’altra a Robelletta, e Massimo partì soddisfatto come se
fosse già riuscito ad avviar la faccenda.

Il giorno dopo, altra gita. Massimo si ricordò d’un vecchio parente
di sua madre, che viveva in un castelluccio, su quel di Villafranca.
Vi andò a cavallo; fu ricevuto con cordialità dignitosa, trattenuto a
desinare, provvisto d’uno schioppo e condotto in giro fino a notte nei
campi e nei boschi.

Il gentiluomo accettò poi con molto gradimento l’invito di venire a
cacciar sulle terre di Robelletta e fissò anche il giorno.

— E due! — pensava Massimo, ritrottando verso casa. — Neppure costui
non mi ha lasciato parlare, ma forse è meglio. Quello che non ho fatto
io, lo farà mia madre. Ella ha le idee chiare, sa quel che vuole. Per
ora si contenti di avere in me un buon ufficiale d’ordinanza.

Giudicando che il suo mandato consistesse nel richiamare quanti più
nobili poteva a Robelletta, egli continuò ad adempierlo scrupolosamente
a piedi, in legno, a cavallo, senza badare nè a distanze, nè a fatiche.

Egli era sempre stato un po’ ritroso, un po’ orso; adesso, col doversi
presentare a persone per lo più indifferenti, col dover cercare di
allargare il cerchio delle sue conoscenze, si trovava obbligato a
mutar abitudini, a combattere continuamente le sue inclinazioni, gli
pareva perciò di far molto e cominciava a sperare in un risultato
corrispondente allo sforzo.

Vedeva Liana assai più di rado e solo quando, andando o venendo, poteva
passar per Murello; ma trovava un certo compenso nel sapere che sua
madre la vedeva pur qualche volta. Sentendo pronunziare da lei il
caro nome, provava un compiacimento nuovo, singolarmente profondo e
squisito.

La contessa, che usciva spesso verso sera in carrozza, ordinava
di fermare ogni qual volta incontrava Liana e suo padre; e avendo
cominciato ad andare la domenica a messa cantata a Murello, prima di
ripartire, si tratteneva sempre qualche momento con loro.

Ella menava una vita relativamente attiva e occupata. Si faceva
condurre sovente, per diporto, ai villaggi ed alle cittadette
circonvicine; percorreva a piedi i dintorni della sua villa; e mentre
invitava e riceveva in casa gente di qualità assai più che negli altri
anni, praticava volentieri con gli inferiori, trattandoli come li aveva
sempre trattati, cioè con quell’alterezza signorile, che non esclude
l’affabilità e tanto differisce dall’alterigia. Non tralasciava poi
alcuna occasione di alleviare le miserie dei suoi contadini.

Verso la fine di agosto l’avvocato Oliveri fu riassalito dalla podagra
e dovette tenere il letto. Questa volta l’insulto invece di limitar
la sua durata a tre o quattro giorni, si prolungò, suddividendosi in
piccoli accessi più o meno gagliardi, con remissioni intermedie.

La contessa lo seppe; mandò da prima a prendere notizie, poi, un dopo
pranzo venne ella stessa in carrozza e invitò Liana a fare una trottata
per prendere aria e svagarsi un tantino.

La inopinata, graziosissima offerta, se inorgoglì il padre, maravigliò
e confuse molto la figlia. Liana lì per lì non seppe, non potè trovare
una scusa e dovette accettare.

Pochi giorni dopo la contessa tornò; e poichè l’avvocato, sentendosi
meglio, era andato a far una partita a tarocchi in casa Arignani,
riprese Liana con sè. D’allora in poi, o per mantenere la promessa
fatta a suo figlio, o perchè veramente la giovane signora le era
simpatica, o perchè forse le pareva anche utile farsi vedere con lei,
continuò a volerla per compagna nelle sue passeggiate. Così a poco a
poco le due donne vennero in maggior dimestichezza, i loro colloqui si
fecero sempre più facili e schietti.

Nei primi tempi non parlarono di Ughes nè l’una, nè l’altra, come per
comune accordo; poi un giorno, di punto in bianco, la contessa cominciò
a interrogare, e Liana a rispondere; la sparizione del giovane divenne
un argomento da cui non si uscì quasi più.

La gentildonna esaminava e riesaminava il caso con acume, con
cognizione di causa ed anche con una certa effusione d’affetto. —
Ah sì! compiangeva sinceramente la povera signora, onesta e bella,
la quale non sapeva se doveva considerarsi come vedova o no. Una
condizione insopportabile, inverosimile. Siamo tutti mortali e dobbiamo
piegarci al destino: dopo aver assistito alla morte d’uno dei nostri,
o almeno dopo aver acquistata la certezza che non è più quaggiù, si
spasima, si piange, ma poi viene la rassegnazione. Il pensiero prende
una forma, una direzione precisa. In terra tutto è finito, ma ci rimane
la speranza di andare un giorno là dove ci aspettano le nostre care
anime; e lo strazio si cambia in una dolce, malinconica attesa.

Ma così no, così si soffre sempre e non si va avanti. Questo dover
cercar per il mondo, con la mente, una persona; immaginarsela viva,
immaginarsela morta; e qui, e là, e in cento luoghi, doveva essere una
cosa da far veramente ammattire.

E Liana ascoltava con la testa reclinata sul petto, in silenzio.

Così la contessa continuava, senza avere in mente alcun disegno
determinato, a cercar di occupare e distrarre suo figlio, e nello
stesso tempo a mostrarsi disposta a far del bene a colei, da cui
avrebbe voluto staccarlo.

La corrispondenza tra Torino e Robelletta era attivissima. Il conte
mandava di quando in quando alla moglie qualche biglietto sul fare di
questo:

«Sono sempre alla Florita, ma vado qualche volta in città. Tutto va
male, malissimo. Beati quelli che sono caduti pugnando colla santa
illusione di versare utilmente il loro sangue. Non vedono ciò che
vediamo noi. Invidiamoli».

Ma le lettere di Violant, di Mazel e di altri parenti ed amici
spesseggiavano. La contessa era informata sempre e minutamente di
quanto accadeva alla capitale.

Ginguené continuava a vedere in tutti e da per tutto nemici acerrimi
del nome francese. Tutto intorno a lui si lavorava, si macchinava
per far nascere dissapori, malumori, rancori tra il popolo piemontese
ed i soldati di Francia. Poveretti! Questi si avventuravano inermi,
mansueti, fiduciosi nelle strade della città, ed erano insultati,
picchiati, trucidati. E quasi non bastasse, anche calunniati. I preti
del contorno non li accusavano forse di far la caccia alle contadinotte
e di portarle volenti o nolenti in Cittadella?

In Torino, in Asti, in molti altri luoghi i malviventi erano cercati,
blanditi, prezzolati e trasformati in sicari.

Pubblica e libera la vendita dei coltelli e dei pugnali; pubblica e
libera la diffusione di stampe inique, vituperose, fatte per eccitare
all’odio ed alla rivolta. L’ambasciatore non si attentava di incolpare
il Re ed i ministri, ma sì tutti quelli che tenevano i maggiori uffizi
nella gerarchia ecclesiastica e civile, e nell’esercito. Egli si
lagnava incessantemente; presentava note, proteste, richiami.

«Per mettere un po’ in chiaro le cose — scriveva Violant a sua sorella,
— e anche per vedere d’intendersi, Priocca ha chiesto un convegno a
Ginguené. Questi l’ha ricevuto in una sala del palazzo dell’Ambasciata.
Avevano appena cominciato a discorrere quando: patatrac! l’uscio si
spalanca, entra il segretario di legazione Marivault e, con certe mosse
grottescamente tragiche, si avanza e mette sulla tavola un involto
con entrovi stili e stiletti d’ogni misura. Erano armi destinate
all’eccidio dei francesi, sequestrate e portate giusto in quel punto
all’Ambasciata. Eh? Quando si dice il caso!... Ginguené guarda Priocca.
Priocca zitto: non ha niente da dire. Ginguené aspetta un altro poco,
poi si volta al segretario gabbacristiani e gli mostra la porta. Meno
male, stavolta!

«Il risultato dell’abboccamento fu questo: l’ambasciatore s’impegnò a
provar fondate tutte le sue accuse. E qui viene il bello, Polissena
mia. Ecco i fatti prodotti: — Gli ufficiali dei cacciatori (che i
repubblicani chiamano spiritosamente: _scannatori_) hanno comprato e
fatto affilare non so quante centinaia di coltelli da un tale che tiene
bottega accanto alle Tre Corone. Infaticabili arrolatori di barbetti
sono certi Rey e Toselli, tutti e due agli ordini di David, creatura
di Castellengo; quartiermastro dei banditi, un certo Genesio. V’è
pure un capo militare, ma il Governo l’ha sott’occhio, quindi inutile
fare il suo nome. (Sai tu chi sia? Io no). Il cavaliere Lascaris ha
pur egli voce in capitolo tra i masnadieri attruppati nei dintorni
di Torino. Per munire quelli che lavorano sui confini del Nizzardo
si spediscono armi dal nostro Arsenale. L’operazione è fatta da un
certo Magna, che affida le casse al vetturale Gioccolaro. — Di’ quel
che vuoi, non si può essere meglio informati! Andiamo innanzi. — Il
padre dei due famigerati Ferruzza è venuto espressamente a Torino per
toccar denari dall’erario. Sui primi di luglio quaranta accoltellatori
hanno banchettato tutta una notte all’albergo del Gallo, poi giurato
sui coltelli il solito sterminio di tutti i francesi. Un cordaio di
Borgo Po è incaricato di iscrivere gli operai e gli artigiani disposti
a pigliar parte all’eccidio... E via discorrendo, chè poi non ti
voglio seccare. Debbo però aggiungere che l’ambasciatore chiede la
destituzione, o qualche cosa di simile, del conte Thaon di Saint-André,
governatore di Torino; del cavaliere Di Revel, suo figlio, governatore
d’Asti; del conte Solaro, governatore d’Alessandria; del conte di
Castellengo, vicario di Torino, e del suo segretario; del conte Adami,
presidente del Senato; del cavaliere di San Réal, intendente d’Aosta,
tutti segreti aiutatori di congiure e capi di assassini.

«E vorrebbe anche l’allontanamento del reggimento cacciatori.

«Roba da chiodi, sorella mia.

«S’io poi ti nominassi tutti quelli che i rivoluzionari accusano
di assoldar furfanti, la lista riescirebbe lunghetta. Ci troveresti
tutti noi che frequentiamo il casino dei nobili, e molti e molti altri
ancora.

«Se ti dico che Cicognara osa affermare che in Torino si fabbricano più
pugnali che scarpe!»

In un’altra lettera il marchese riferiva alla sorella quanto si era
trovato in seguito a minute e diligenti ricerche ordinate dal Governo.

«1º Il coltellinaio, dal quale gli ufficiali avrebbero preso i
coltelli, non fabbrica più che cesoie, e da un pezzo. 2º I soldati e
gli arcieri fatti uscir di notte da Torino e mandati a frugar nelle
bettole, nelle catapecchie, nei fienili indicati come nascondigli dei
barbetti, non hanno scovato che merciaiuoli, vagabondi e accattoni.
3º Nessuna traccia di armi uscite dall’Arsenale, nessuna traccia del
vetturale Gioccolaro. 4º La sala da pranzo dell’albergo del Gallo è
capace appena di otto o dieci persone. 5º Il cordaio non è depositario
di alcuna lista. — Insomma allo stringer dei nodi: niente o quasi, che
fa lo stesso.

«Anzi a forza d’insistere, si finì per far confessare ad un tal
Richini, detto _Contin_, arrestato appunto come capo di malandrini
stipendiati, ch’egli fermava e predava bensì i convogli che portavano
danari in Francia, ma sempre avvertito da alcuni commissari francesi,
coi quali spartiva puntualmente il bottino. Bisognerebbe anche ridere,
eh, Polissena? Ma come si fa?»

Il cavaliere Mazel, nelle sue lettere, dava notizie sempre migliori
della sua salute. S’avvicinava il giorno in cui, terminata la cura,
dichiarato guarito dai medici, sarebbe partito per Robelletta. Come
sospirava, come anelava di rivedere l’amica! La parola umana non
bastava ad esprimere le torture della lontananza. Ad una pagina o due
piene di svenevoli dichiarazioni d’affetto, seguivano sempre altre
pagine dolenti ed austere. I raggiri, le prepotenze, le bizze, le
spavalderie di Cicognara e di Ginguené non occupavano più il cavaliere,
egli si mostrava impensierito dal procedere ognor più minaccioso ed
invadente dei francesi.

Il 14 luglio essi avevano solennizzato con manovre a fuoco, spari
di cannone, danze e gozzoviglie, la festa della Federazione. Il
10 agosto celebrato con maggior pompa e clamore l’anniversario
dell’imprigionamento di re Luigi; e pareva si preparassero ad una serie
illimitata di esultanze e di trionfi.

In quelle limpide sere d’estate, i padroni della Cittadella si
raccoglievano sui bastioni a godersi l’aura leggiera e refrigerante
che scende dalle montagne. La banda militare suonava le sue arie
repubblicane; e negli intermezzi i soldati intonavano canzoni guerriere
e rivoluzionarie, con accompagnamento di sghignazzate, ritornelli, e
grida di:

— _Vive la République! — A bas le Roi des marmottes!_

La folla, che si accalcava al di sotto, era composta di sfaccendati
indifferenti o curiosi, di patrioti giubilanti e plaudenti, di
realisti indignati e imprecanti, e di soldati fedeli mandati a mantener
l’ordine... ed a mangiarsi le dita.

Di tanto in tanto s’udiva qualche fischio, qualche grido di: — Viva il
Re! — lanciato animosamente come una sfida e seguìto da fremiti, da
lunghi susurri, che parevano da un momento all’altro doversi mutare
in ruggiti. Il governatore Saint-André, paventando il turbine d’ira
e d’odio che si veniva addensando, cercava saviamente d’indurre il
generale Collin a mettere in freno l’intollerabile oltracotanza dei
suoi. Questi ora evitava di rispondere, ora negava che si eccedesse.
Intanto si faceva ogni dì più sfacciata e palese la sua intenzione di
offendere e incitare a rivolta i buoni torinesi.

«Ieri — scriveva Mazel, il 4 settembre — i francesi hanno festeggiato
l’anniversario del 18 fructidor, giorno in cui il Direttorio scampò
alle trame dei suoi nemici. Hanno cantato, ballato, sguazzato tutto
il santo giorno. La sera baldoria nelle taverne, nei caffè e in tutti
i luoghi ove si può stare allegri. Vi furono risse; corsero pugni,
scappellotti, coltellate, si sarà forse anche trovato qualche morto
nei sobborghi. I popolani si consumano di rabbia, e si sfogano come
possono. Credo fermamente che se la Corte lasciasse fare, succederebbe
qui, quello che avvenne a Genova nel ’46».


Il cavaliere Mazel arrivò inatteso a Robelletta il 18 settembre, sul
far della sera. Baciò e ribaciò la mano alla contessa, abbracciò
Massimo, poi entrato nel salotto, ne fece due o tre volte il giro
toccando pareti, mobili, oggetti, come per persuadersi ch’era proprio
desto. Assaporata così la gioia ineffabile di quei primi momenti, diede
libero corso alle parole. — Cospetto! era venuto via senza salutare
quasi nessuno, senza neppur avvertire Garonis e Ambelli che lo avevano
guarito.

— Ma non ne potevo più! Bisogna vedere cos’è diventata Torino in
questi mesi, da che la Cittadella fa, si può dire, parte del territorio
francese... L’altro ieri poi, domenica, è successo un fatto inaudito.
Il tempo era magnifico, nè caldo, nè freddo, quello che ci vuole
adesso per me. Sono uscito verso le quattro e andato pian piano fino ai
viali della Cittadella. Ero lì che guardavo passare la gente, quando
sento vociare: — La Corte! la Corte! — Che Corte d’Egitto! Erano tre
carrozze che parevano venir diritto dalla fortezza. Per un momento non
raccapezzai niente, poi vidi che si trattava d’una mascherata fuor di
stagione. Nelle carrozze c’erano vivandiere, o peggio, camuffate da
dame di Corte, e ufficiali in abito nero, parrucca a borsa, cappello
sotto il braccio, spada al fianco, tutto appuntino. Avevano lacchè,
corrieri, usseri di scorta, e non so che seguito. — Uhm! — dissi fra me
— vedo bene chi volete schernire. Purchè il gioco, duri poco. — Invece
durò, e come! Andarono fino al Valentino; tornarono per San Salvario,
scompigliando brutalmente la gente che aspettava la benedizione davanti
alla chiesa; si fecero vedere da per tutto, sempre più infervorati
nel loro bel divertimento. Intanto era nato un po’ di subbuglio in
piazza Paesana. Alcuni soldati francesi, venuti a parole con operai
piemontesi, avevano messo mano alle sciabole; erano sopravvenuti altri
operai, poi entrato in ballo anche qualche soldato dei nostri. La
voce dell’alterco si sparse in un battibaleno, arrivò esagerata sui
viali della Cittadella, proprio nel momento in cui la mascherata vi
faceva ritorno. Gli usseri ed i corrieri, trovando chiusa la strada
dalla gente agitata, cominciarono a regalar sciabolate e mazzate. Vi
furono subito dei contusi, degli ammaccati, dei feriti... Intanto,
lassù sui bastioni, la musica suonava a gloria. Mi ero avviato verso
casa, per non farmi schiacciare inutilmente le costole, quando ad un
tratto sento uno sparo, poi un altro e un altro, dopo pochi minuti
divennero scariche. Cospetto! pareva una vera battaglia, non mancava
più che il cannone. Però dopo un poco tutto si chetò come per incanto,
e alle otto di sera la città pareva un camposanto. Ieri chi diceva
che la guardia avanzata francese, vedendo crescere il fermento nel
popolo, avesse chiusa la barriera e cominciato il fuoco prima contro
i cittadini inermi, poi contro i soldati accorrenti; chi asseverava
che il primo colpo era stato tirato da una sentinella piemontese
contro due repubblicani che la volevano disarmare, e che tutto il
resto non era venuto che in conseguenza di questo. Comunque sia,
il pericolo d’un grosso conflitto fu imminente e gravissimo. Se non
scoppiò si deve a Saint-André, che riuscì a far sgombrare presto i
viali e, secondato da molti ufficiali, a far rientrare nelle caserme
i soldati. Si deve al generale Mesnard o... Ménard, venuto per caso
da Alessandria a Torino, che corse in Cittadella ai primi rumori,
trattenne Collin, che sbraitava come un ossesso, esortò, comandò,
minacciò, impedì che si facesse una sortita, e sopra tutto non lasciò
che si toccassero i cannoni. A sentire Violant però la faccenda sarebbe
ancor più grave e più complicata. Cicognara, Collin e compagni, facendo
assegnamento sulla complicità vera o presunta dei reggimenti svizzeri
e di uno o due squadroni di cavalleria, avrebbero voluto provocare
realmente un tumulto, per potere intervenire e ristabilir l’ordine,
cioè proclamar la repubblica. In fatti si sa di certo che tra gli
ufficiali mascherati, v’era il vicereggente ed il segretario di Collin,
e dietro le carrozze, un codazzo di giacobini con armi nascoste.
Il colpo sarebbe fallito per causa del generale... Ménard, che, non
informato, si frappose nel momento decisivo; e per causa di Ginguené,
il quale andò in villa, invece di restare a Torino a soffiar nel fuoco
anche lui. Basta, è un caos, un caos politico, un nero miscuglio di
sotterfugi, d’intrighi, di perfidie, di... porcherie. Vedremo cosa ne
uscirà.

— Ecco il male! — esclamò la contessa, concitata. — Si sta a vedere,
mentre è tanto terribilmente tempo di agire. Vi ostinate a restar in
città, soffocati, ridotti all’impotenza da un’atmosfera di infamie e
di brutture, invece di uscire, di gettarvi nelle campagne, dove se non
altro si respira; dove forse si può ancor far qualche cosa!

Più tardi, dopo cena, ella espose lungamente le sue idee, le sue
intenzioni, le sue speranze. Il cavaliere, seduto di fronte, la mirava
come rapito in estasi; ascoltava con un dondolio della testa, quasi la
voce di lei fosse una musica e se ne potessero segnar le battute.

Salì poi alla camera che aveva sempre occupato, si mise a letto; dormì
fino a tardi, e discese riposato, ripicchiato, e pronto a riprendere le
sue antiche abitudini ed il dolce servizio.

Egli sperava di riveder subito l’amica, dovette invece impiegare a
leggicchiare ed a fantasticare il resto della mattina, poichè ella non
comparve che per mettersi a tavola.

La gentildonna si ritirò poi di nuovo subito dopo desinare, per
finire, a quanto disse, una lettera; e Mazel, ritornato in camera,
si appisolò sopra l’ampio e soffice canapè coperto di raso giallo a
righe alternativamente opache e lucide, sul quale aveva, in quelle ore,
schiacciati tanti bei sonnellini.

Vi stava da poco più che mezz’ora, quando Fiordelis venne ad avvertirlo
che la contessa lo aspettava per la passeggiata.

— Ma come! È già in basso? — chiese egli, scuotendosi.

— Sì, signore.

— Cospetto! Ma che ora è?

— Son le tre e mezzo.

— Non capisco.... Una volta non si usciva mai prima delle quattro.....
anzi tra le quattro e le cinque.....

Discese subito. La contessa era già in carrozza; i cavalli focosi
scalpitavano sbuffando.

— Dove si va? — chiese Mazel, accomodandosi accanto alla dama.

— Prima a Murello, poi vedremo — rispose la contessa asciutta.

— Ha la luna — pensò il cavaliere. — Non c’è che star cheto e aspettare
che passi.

Ma giunti alle prime case del paese, sentendo fermare e vedendo un
lacchè saltar a terra e prender frettoloso una stradetta laterale,
dimenticò il proponimento e domandò dove andasse.

— Ad avvisar la signora Ughes — disse la contessa.

— Oh! La moglie del..... E viene con noi?

— Naturalmente.

Liana, seguìta dal lacchè, si avvicinava con passo leggiero, dignitoso,
elegante.

— Che linee! — osservò Mazel sottovoce. — L’attaccatura del collo
magnifica, le anche solide e snelle.... E che occhi! Cospetto, che
occhi!

La signora Ughes giunse alla carrozza; salutò la contessa sorridendo;
accettò, ringraziando e arrossendo, il posto che Mazel le cedette.

Si ripartì. Nessuno parlò finchè il legno non ebbe attraversato il
villaggio; riusciti all’aperto, la contessa si volse a Liana e le
domandò con amorevolezza che cosa avesse fatto in quei due o tre giorni
in cui non si erano vedute.

— Ho pensato molto a quello che lei mi ha detto — rispose Liana.

La gentildonna riflettè un momento.

— Ah! — disse poi — ho capito. Sentiamo come la pensa il cavaliere.

Liana, già pentita d’aver dato appicco al discorso che presentiva,
le rivolse uno sguardo quasi supplichevole. La contessa non le badò e
riprese:

— Mazel, voi sapete in che condizione singolare si trova la signora
Ughes? Ve ne ho parlato? Bene. L’altro giorno le ho chiesto se non
avesse notato qualche fatto strano, raccolto qualche indizio misterioso
e tale da poter essere interpretato come un avviso.... Poichè insomma
a me pare impossibile che due persone innamorate e unite da un vincolo
indissolubile, possano dividersi... e non saper mai più niente l’una
dell’altra!

— Mah! — fece il cavaliere, con un sospiro.

— E le ho raccontato il caso di madame de Saint-Floret. Vi ricordate?

— Quella vecchia signora emigrata che veniva in casa vostra?

— Appunto, morta nel ’96. Poveretta, aveva sposato un cugino, maggiore
nel reggimento d’Anjou. Costui, dopo averle fatto perdere quant’ella
possedeva, era andato in America con La Fayette. Ella non seppe più
nulla di lui, non lo rivide più che una volta in sogno, cadavere
sformato e disfatto, impigliato fra l’alghe nel fondo d’un fiume. Mi
diceva esserle rimasta di questo sogno un’impressione così forte,
lucida e viva, da non poter dubitare ch’egli fosse morto realmente
così.

— Euh! — esclamò Mazel. — Un sogno! Se ne fanno di così strampalati!

— Eppure c’è chi vi crede, e tanto fra i contadini, come fra i signori;
tanto fra gl’ignoranti, come fra le persone più culte.

— Vi è anche chi crede agli spiriti, alle ombre, ai fantasmi. Eppure io
non ho mai visto niente, non ho mai avuto a che fare con loro...

— Lasciamo stare i fantasmi. Non è forse accaduto tante volte di veder
verificati eventi previsti e predetti...

— Uhm! Già, già... Cose che si raccontano. Cose che turbano, ma non
persuadono. Casi, coincidenze, illusioni, allucinazioni, amica mia.
E la fantasia non la contate per niente? Vi par piccolo il piacere
di abbellire o d’imbruttire, secondo i casi? Il piacere di esagerare,
accomodare, trasformare? Mentre si parla, il cervello lavora. La prima
volta si riferisce un fatto esattamente com’è accaduto, ma la seconda,
la terza, la quarta, ehm!... E più si va avanti, più l’immaginazione
si mescola alla memoria. Non avete mai notato le alterazioni a cui va
soggetta la più semplice delle notizie, solo nel passar di bocca in
bocca? Vediamo bene tutti i giorni quel che vale la testimonianza d’un
uomo, o d’una donna, a proposito di cose di nessuna importanza e che
nessuno avrebbe interesse a svisare?

Ogni tanto la contessa guardava il cavaliere di sbieco, stringendo le
labbra; quand’egli ebbe finito, non replicò, si volse a Liana:

— Nel maggio del ’58, mio marito, allora assai giovane, aveva ottenuto
da sua madre il permesso di passare qualche giorno alla Florita, per
riposarsi dallo studio e svagarsi. Una sera, andato in camera per
porsi a letto, e messa la candela sul tavolino, vide a un tratto la
fiammella vacillare, farsi piccola piccola e spegnersi. La riaccese,
guardò, cercò intorno: le finestre e l’uscio erano chiusi, non si
sentivano correnti d’aria, nè soffi di vento, nulla insomma che potesse
giustificare il fenomeno. Un’ora dopo arrivò un uomo a cavallo con la
notizia che la contessa madre era morta...

Liana rabbrividì; Mazel non si attentò di far altre osservazioni.

La conversazione languì durante il resto della passeggiata; languì
anche più quando, riaccompagnata la signora Ughes a Murello, la
contessa e Mazel rimasero soli.

Massimo aveva lasciato Robelletta da quattro giorni. Egli si era
accordato di ritrovarsi a Centallo con alcuni amici, in apparenza per
cacciare nei dintorni, in realtà per affratellarsi e cercare i mezzi di
rendere sempre più larga ed efficace la propaganda anti-francese.

La contessa Polissena, che aspettava con certa ansietà una sua lettera,
non trovandola, entrò in pensiero; parlò pochissimo durante la cena, e
subito dopo scomparve.

Il cavaliere ne fu quasi contento: era persuaso che l’amica fosse
adirata con lui per le idee manifestate e sostenute poc’anzi,
perciò non faceva altro che immaginare e temere lagnanze e rampogne,
preparare e masticare le scuse. Andò a letto molto presto, ma almanaccò
lungamente prima di poter prender sonno.

— È permalosa così, ma è buona — diceva tra sè — e domani mattina
non se ne ricorderà nemmeno più. Non capisco però dove abbia preso
certe ubbie; una volta non le aveva. Può darsi ch’ella finga soltanto
di credere, per qualche suo pensiero nascosto. Ma allora perchè
non dirmelo? O che mi tiene incapace di inventare qualche fanfaluca
ingegnosa? Vuol vedere commossa, turbata, atterrita, spiritata, basita
la sua nuova amica? Son qua io; siamo sempre in tempo!... Un fine lo
deve avere, altrimenti non mi saprei spiegare tanta dimestichezza con
la moglie d’un fanatico morto. Ci sarebbe mai qualche attinenza fra
questo e quell’altro affare ch’ella dice di avere avviato? Polissena
ha il pensier lungo, penetrare nei segreti della sua politica non è
cosa facile... E se invece si trattasse semplicemente di ammansare la
giacobina, e renderla docile e meno scontrosa con Massimo? Anche questo
è possibile... Cospetto! ma io comincio a capirlo l’invescamento di
Massimo: quella donna è piacente, seducente, attraente e... pericolosa.
Pericolosa sì, perchè senza fine desiderabile.

Egli pensò poi al modo di rientrare nelle grazie della sua dama,
senza venire a spiegazioni fastidiose. Bastava tornare destramente
sul discorso che li aveva divisi ed esprimere idee affatto diverse.
In quella ch’egli stava appunto cercando di accozzarne qualcuna, gli
balenò nella mente il ricordo d’un fatto singolare, similissimo a
quelli che la contessa aveva allegati.

Nella primavera del ’94, egli andava spesso a tener compagnia ad una
vecchia parente, la marchesa di Cereseto, il cui figlio Cesare era
capitano nel quinto battaglione dei granatieri, che sotto il comando
del conte d’Andezeno guardava un punto molto importante sulla linea
militare detta della Roja. Una mattina d’aprile egli l’aveva trovata
tutta sgomentata e piangente, perchè poco prima, venendo per caso
a passar nella stanza dov’era il ritratto di suo figlio, l’aveva
visto pencolare, poi staccarsi dalla parete e battere in terra. Ella
presentiva una disgrazia, e non si ingannava: precisamente quel giorno,
precisamente in quell’ora, Cesare era morto, fulminato da una palla nel
cuore.

L’avvenimento allora gli era parso semplicemente fortuito, ora
si sentiva inclinato a trovarlo anche strano. Ad ogni modo il
rammentarsene a tempo gli risparmiava la fatica di lambiccarsi più
oltre il cervello.

Aspettò l’ora della passeggiata con impazienza quasi giovanile; e sentì
poi un certo compiacimento quando potè, presente Liana, dichiarare
all’amica che dopo profonda meditazione su quanto s’era detto il giorno
innanzi, egli aveva mutato parere.

Raccontò quanto era accaduto alla marchesa di Cereseto; ampliando, ben
inteso, un po’ il fatto, fregiandolo con quei particolari che giudicava
atti a renderlo più pauroso ed arcano.

— Davvero — continuò egli — non so spiegare come tutto questo mi sia
uscito di mente. Certo che se me ne fossi ricordato ieri, non mi sarei
mostrato nè così fatuo, nè così corrivo nel negare. Del resto chi sa
quanti altri casi consimili rimangono ignorati! Quelli a cui capitano,
spesso non ne avvertono, non ne comprendono l’importanza... oppure
tacciono per timor del ridicolo. Quelli che ne hanno notizia, o non
credono, o fanno... come ho fatto io.

— Ecco — mormorò la contessa, — in questo genere di dispute è troppo
facile cavarsela con un sorriso ironico, con un frizzo, o stringendosi
nelle spalle. Ma non è ragionare.

— Giustissimo, cara contessa, ma ormai ho confessato il mio torto!...
Via, volete che vi dica di più? Ieri si era anche cominciato a parlar
di apparizioni, di spettri. Io dicevo... Non so più quel che dicevo
ieri, ma la mia opinione schietta e sincera eccola qui. Cos’è un
fantasma? Un’immagine, una figura umana che va e viene, discorre,
gestisce, e non ha corpo. Una cosa strana, inconcepibile. Eppure da
che mondo è mondo se n’è sempre parlato; vi sono memorie, osservazioni,
tradizioni, leggende. Vi si credeva e se ne aveva paura una volta, vi
si crede e se ne ha paura anche adesso. Perciò... Eh, cosa vi pare?

— Avanti — disse la contessa.

— Perciò non mi meraviglierei che anche in questo vi fosse qualche cosa
di vero.

La contessa non aprì bocca. Liana girava gli occhi senza sguardo
sulla campagna; voleva contenersi, raccogliersi, e sentiva sorgere
dall’intimo una bramosia disperata di saper altro, di approfondire
subito quanto aveva inteso. Ecco, la speranza di riveder Luigi vivo
si andava affievolendo, ma l’anima si apriva a nuove impressioni;
queste venivano da lontano, arrivavano a lei attraverso molti e
molti ostacoli, suscitavano immagini vaghe, idee indeterminate,
lampeggiamenti rapidissimi che parevano rischiarare abissi tenebrosi
e profondi. In certi momenti credeva perfino di afferrare un nesso fra
questo stato di esaltazione mentale ed un fatto che doveva sicuramente
accadere.

Ad un tratto si volse a Mazel e lo pregò, lo scongiurò di parlare, di
dirle tutto quello che sapeva. — Dio, Dio! era dunque possibile che una
parte dell’essere umano, una parte di noi continuasse a vivere oltre la
tomba?

Il cavaliere, così incredulo il giorno prima, non voleva poi neanche
mostrarsi troppo credulo adesso; riflettè perciò un buon poco prima di
rispondere.

— Mah! — cominciò poi — questa è una matassa molto intricata, non si
può nè dipanare, nè tagliare, bisogna lasciarla qual è. Non è possibile
di parlare del soprannaturale, senza stabilire bene i confini del
naturale; i limiti di ciò che è naturalmente possibile. E come si fa?
Noi non conosciamo che una minima parte dei segreti di questo mondo.
Certo che del cammino se n’è fatto da Adamo in poi, ma chi sa che
cosa ci rimane ancor da scoprire! In fatto di rimedi, per esempio! Chi
sa che non venga un giorno in cui ogni male avrà il suo specifico, e
l’uomo non morrà più che di vecchiaia. Peccato che noi non ci saremo
più!

Egli continuò così a saltar di palo in frasca, a passar da un
ragionamento all’altro, finchè venne il momento di separarsi da Liana.

A Robelletta la contessa trovò la tanto attesa lettera del figlio. La
lesse, la fe’ leggere al cavaliere, e commentarono insieme le notizie
vaghe e confuse che conteneva. Non pensarono più nè l’una nè l’altro ai
discorsi fatti con la signora Ughes.

Ma Liana invece vi tenne fissa la mente con tenacia e costanza tutta
quella sera, e la notte, e nei due giorni di pioggia che seguirono.
Al terzo, l’azzurro tornò sorridere ai campi. Nel pomeriggio Liana si
ritrovò in carrozza con le due nobili persone e chiese loro apertamente
se credessero alla possibilità di comunicare in qualche modo con gli
estinti. Mazel, preso all’improvviso, balzò sopra il cuscino, poi disse
con la faccia nebulosa e la voce sottile che, essendo la domanda assai
complicata, doveva ponderare bene la risposta.

Ma la contessa non gliene lasciò il tempo e prese francamente la parola.

— L’interrogazione della signora Ughes è giusta — diss’ella, — e mi
par meritevole di molta considerazione. Però io direi piuttosto così: —
Credete voi che le anime dei nostri cari possano mettersi in relazione
con noi? — Allora risponderei: — Sì, e per mezzo dei sogni. Il sogno
ha già in sè qualche cosa di così misterioso, non è vero? Il corpo
giace come morto, intanto l’anima veglia. Io m’immagino che l’anima,
trovandosi in uno stato direi quasi di libertà, possa intrattenersi con
altri spiriti vaganti intorno a noi, invisibili perchè spogliati d’ogni
forma, perchè sciolti da ogni legame materiale. Noi non ci badiamo
perchè troppo occupati e distratti, ma chi sa quante ispirazioni di
quelle che noi diciamo felici, non sono altro che suggerimenti di
persone che abbiamo perdute e che continuano a volerci ed a farci del
bene! Quante volte non accade di addormentarci dubbiosi, perplessi,
angustiati e di svegliarci risoluti e tranquilli!

Ella tacque un momento come se esitasse a continuare. Gli occhi di
Liana brillavano; desiderii tormentosi e impazienze compresse le
scorrevano sul volto e per le spalle e nelle mani, scosse a quando a
quando da tremori violenti.

— Oh signora! — mormorò ad un tratto. — Dica tutto ciò che sa, tutto
ciò che pensa, per amor di Dio!

— Vi sono di quelli che vanno anche oltre — ripigliò la gentildonna. —
Quelli che asseverano si possa sentir la presenza, l’influenza degli
esseri sovrumani, chiamiamoli così, anche nello stato di veglia... È
un’impressione delicata, leggiera come un alito. Provate una commozione
inopinata, inesplicabile, trovate inaspettatamente la spiegazione d’un
fatto lungamente cercata, ricevete a tempo un consiglio, un aiuto, un
impulso... Non dico sempre, ma in certi casi, non potrebbe l’amore
essere più forte della morte? Forse, perchè il miracolo avvenga, è
indispensabile che chi sopravvive continui a pensare molto a colui che
se n’è andato...

Qui la contessa si voltò a Mazel:

— Sapete con chi parlo spesso di queste cose? Con Garonis. Lo
credereste? Eppure... Egli ha avuto la disgrazia di perdere un
figlio, nel quale aveva collocate tutte le sue speranze, tutta la sua
ambizione. L’ho udito affermare tante volte ch’egli continua a vivere
spiritualmente con lui. Il suo Ottavio aveva poco più che vent’anni,
non poteva superarlo nello studio e nell’esperienza, ma mostrava
un’inclinazione straordinaria per la medicina. Orbene, a sentire il
povero padre, la maggior parte delle guarigioni ch’egli ottiene son
dovute ai suggerimenti del figlio. Esagerazioni certo, ma belle, sante,
consolanti esagerazioni!

Liana ascoltava sempre avidamente, tutta vibrante di una commozione
senza nome. Di tanto in tanto domandava a sè stessa se non avesse mai
provato nulla di simile. In sogno sì: sognava spesso Luigi... vivo e
sano però. D’ora in poi sarebbe stata più attenta, pronta ad afferrare
le sensazioni più fuggevoli e confuse. Ecco, questo doveva essere
oramai il suo pensiero, la sua occupazione costante. Non vedeva l’ora
di ritrovarsi a casa per chiudersi nella sua cameretta, ed attendere
nel silenzio e nell’ombra. Ad un tratto fu presa da singhiozzi
convulsi, senza lacrime. Subito la contessa e il cavaliere cercarono di
consolarla, di rincorarla. Ella scoteva il capo, cercava di sorridere,
stringeva fortemente una mano della gentildonna fra le sue. Dopo un
poco riuscì a vincersi, si acquietò, si rianimò, cominciò a scusarsi.

La contessa la considerava amorevolmente; Mazel cercava cortesemente di
tagliar corto.

— Eh no, eh no! Non occorrono scuse. È naturale, si capisce...
Cospetto! si capisce...

E per non cambiar troppo bruscamente discorso venne a parlare di una
dottrina che, a quanto aveva letto, era stata molto in voga presso gli
antichi. Aveva anche un nome lungo, mezzo greco e mezzo latino che non
ricordava. Secondo questa, l’anima appena uscita dal corpo dell’uomo,
entrava in quello d’un animale qualunque, e non ne usciva più per un
lungo volger di secoli.

— Ciò obbligava naturalmente i credenti a non mangiare carne, per
scansare il pericolo d’ingoiare inconsideratamente qualche buon
antenato.

Mazel, esilarato, prese poi ad assegnare facetamente una anima a tutte
le bestie che vedeva. Uno svago facile e che pure gli dava il mezzo
di mostrarsi molto arguto. Egli lo prolungò durante il resto della
passeggiata, e vi tornò nelle successive ogni qual volta si trattava
di evitare un discorso troppo grave od attristante. Cospetto! Questo
non era più andare a spasso, tanto valeva assistere tutti i giorni,
per gusto, a un funerale! La presenza di Liana cominciava a diventare
per lui, non noiosa, ma un pochino superflua. Troppo seria, via...
Non badava a ciò ch’egli diceva, mai non c’era modo di vederle i
dentini, di strapparle una risatina. Diavolo! una donna bella deve
sapersi mostrare sotto tutti gli aspetti: oggi mesta, domani gaia...
ma più spesso gaia che mesta. Così si fa, quando si vuol piacere! Ma
la signora Ughes non si curava affatto di piacergli, e questa era una
novità che lo maravigliava e lo indispettiva.

La contessa poi continuava a non palesar le sue intenzioni, e,
da quel gentiluomo educato e discreto ch’egli era, si guardava
dall’interrogarla.

— È chiaro — pensava: — ella fa di tutto per persuadere la giacobina
che suo marito è andato tra i più. Perchè? Forse per un fine pietoso.
La carità non si fa solamente con pane, e Polissena è virtuosa. Ma
la strada che ha presa può essere fastidiosa e lunghetta. A parer
mio bisognerebbe finirla d’un colpo. Un bel finale come si vede nei
romanzi... E dire che io l’avrei quasi trovato!

In quei giorni Mazel piantava spesso gli occhi in faccia a Fiordelis,
o lo guardava attentamente da capo a piedi, poi aggrottava le ciglia
come se facesse mentalmente un raffronto. Il cameriere non tardò ad
accorgersene, immaginò subito che il suo signore avesse bisogno di
lui per qualche servizio insolito, segreto, scabroso, ed esitasse a
parlargliene per mancanza di fiducia. Cominciò, mentre lo abbigliava
al mattino, mentre lo aiutava a spogliarsi la sera, a far cadere
il discorso sui vari padroni con cui era stato ed a far sentire
scaltramente come tutti lo avessero più o meno adoperato in negozi che
non avevano niente a che fare con le sue occupazioni giornaliere.

Mazel lo squadrava, lo sbirciava e lasciava dire. Ma una sera, dopo
aver posato sul tavolino l’orologio, la tabacchiera, la borsa, gli
domandò a bruciapelo se volesse guadagnare onestamente due luigi.

— Si figuri! — rispose Fiordelis — Anche quattro, anche sei!...




XXII.


— Brava Menica! — esclamò Oliveri, entrando nel salottino e vedendo
la tavola illuminata ed apparecchiata per la cena. — Cosa c’è di buono
stasera?

— Zuppa _alla savoiarda_ — rispose la donna.

— Bene, e poi?

— Ah, poi vedrà.

L’avvocato si sentì venir l’acquolina in bocca: quando voleva, Menica
faceva certi manicaretti ch’erano un desìo.

— E la signora? — domandò egli poi, sedendo al suo posto e cominciando
a sbocconcellare un po’ di pane. — Spero in Dio che non sarà mica fuori
con questo buio d’inferno?

— Madama è in camera, e la chiamo subito.

Così dicendo la serva uscì; dopo un poco tornò con la zuppiera, e
seguìta da Liana.

L’avvocato accolse con un sorriso la figlia, diede una fregatina di
mani, e gustò subito ghiottamente la minestra.

— Ebbene? — domandò Menica, che aspettava il giudizio.

— Buona — rispose l’avvocato, nettandosi le labbra col tovagliuolo, —
ma...

— Cosa?

— Sente il lardo.

— Bisogna che lo senta, caro lei; se non lo sentisse, non varrebbe
niente.

— Sì, ma non troppo, non troppo, non troppo.

Menica andò via brontolando. Ricomparve con una pietanza di carne,
e ripigliò tosto la difesa della sua zuppa. L’avvocato replicò; la
disputa continuò monotona e ostinata finchè non fu sparecchiato.

Quando la donna si fu ritirata in cucina, Oliveri si alzò e andò a
prendere un libro che stava con altri sul piano del camino. Tutte le
sere, prima d’andar a dormire, egli usava leggere un poco ad alta voce,
sia per tenersi in esercizio, sia perchè credeva con questo di agevolar
la digestione. Se poi si trovavano presenti il parroco, il notaio, il
chirurgo, egli si animava ai passi più eloquenti, e, chiuso il libro,
seguitava a memoria; oppure anche recitava squarci maravigliosamente
lunghi di classici, o prendeva a dissertare acutamente sopra un tema
qualunque, come colui che versatissimo era in siffatte materie. Ma
quella sera, non trovando tosto la pagina che cercava, s’impazientì e
cambiò idea.

— E così — diss’egli a sua figlia — sei andata a spasso?

— No, babbo — rispose Liana, — non sono uscita.

— La contessa non è venuta?

— Non è venuta.

— Sono tre o quattro giorni che non si fa vedere!

— Appunto; tre o quattro giorni.

— E il contino?

— Non ho più visto neanche il contino.

Liana rispondeva a mezza voce, con l’accento di chi non attende affatto
a quel che gli si dice; mirava una piccola farfalla grigia, che ora
roteava affannosamente intorno al lume, or si trascinava sulla tovaglia
come sfinita. Oliveri, seccato, allungò la mano, appuntando l’indice
per ischiacciarla.

— No! — esclamò Liana, opponendosi — è una crudeltà.

— Caspita, che parolona!

— Lasciala vivere, babbo, te ne prego.

— Sta a vedere che ti metti a piangere. Ecco che incominci a fare i
lucciconi! Oh questa è bella! Questa è bella!

Oliveri lasciò la farfalla, si rizzò e andò a rimettere il libro dove
l’aveva preso. Stette poi alquanto appoggiato al camino, sogguardando
sua figlia e dondolando la testa. Gli pareva ch’ella si venisse
mutando, ma non sapeva se in bene od in male. Il viso aveva sempre
un contorno grazioso e delicato; non era più così pallido come in
addietro, tinto anzi sulle gote d’un leggiero incarnato... Ma gli
occhi lo inquietavano soprammodo: sembravano più grandi che mai e
insieme meno espressivi, con un non so che di fisso, di attonito, di
abbagliato.

— Basta — diss’egli dopo un poco, stringendosi nelle spalle come chi
rinunzia a risolvere un problema; — tu hai dato la lingua al fabbro, ed
io me ne vado a letto.

Prese una candela, l’accese, e se ne andò senza che Liana mostrasse
d’accorgersene. Ma ella si scosse subito, appena dileguato per le scale
il rumore dei passi di suo padre; chiamò Menica, che girava per la
cucina rimaneggiando le stoviglie e seguitando a brontolare, e le disse
che poteva andare a dormire.

— Vado subito, ma chi chiude? Chi spranga gli usci? Chi...

— Farò tutto io, va pure.

La donna uscì senza aggiunger altro.

Liana rimase sola; teneva le braccia posate, abbandonate sulla tavola,
ed ora chinava la faccia pensosa, afflitta da un’intensa malinconia,
ora la rilevava rasserenata, quasi si sentisse sorgere in cuore
un’improvvisa ed arcana speranza. Ella aspettava un ricordo, una
sensazione che doveva infallibilmente venire, e ad un tratto se ne
sentì piena la mente. — Era in quella medesima stanza, a quel posto,
lavorando o leggendo con le spalle voltate alla porta che metteva in
giardino... Luigi entrava pian piano, in punta di piedi, rattenendo il
respiro; veniva a lei, le prendeva la testa e rovesciandola verso di
sè, la baciava sulla bocca. Questo era avvenuto non una, ma più volte
nei primi tempi ch’essi si trovavano insieme a Murello. Le salì al viso
una vampa; chiuse gli occhi, porse le labbra, stringendo le braccia
alla vita, come per tener ferme e raccolte tutte le potenze dell’animo.
Ecco: egli veniva, accorreva da lontano, nella notte oscura, ebbro di
gioia, di desiderio, d’amore. Ella lo chiamava, lo invocava, tutti i
sensi tesi in un’aspettazione ineffabile, ardendo nelle membra e nel
cuore. Dio, Dio, come lo amava! Stringerlo ancora, una volta ancora tra
le braccia, e morire!

Nulla si moveva nel silenzio ampio e profondo. Continuò ad immaginare
appassionatamente. Un brivido repentino le corse le vene: le pareva di
sentir tentar l’uscio. Si alzò, si voltò: era chiuso. Andò ad aprire
come avrebbe aperto ad un amante.

La luna falcata, velata di vapori, spargeva sul giardino un fioco
lume d’argento. S’udiva in distanza il mormorìo dell’acqua corrente al
mulino.

Liana rientrò subito, delusa; tornò a sedere dov’era prima. Passò
mezz’ora, forse più. Un cane abbaiò minaccioso in una cascina posta
lungo la strada di Racconigi; altri cani risposero mugolando qua e là
nel paese. L’orologio della chiesa battè parecchi tocchi. Liana non
contò che i primi...

Il tumulto confuso de’ sentimenti a poco a poco si era acquietato;
ma ora le pareva di venir perdendo il lume degli occhi, ora che ogni
cosa si movesse in giro; poi cominciò a provar la sensazione strana di
scender lentamente, inesorabilmente in una profondità gelida e tetra...
All’improvviso si trovò in piedi senza saper nè come, nè perchè: la
stanza era chiara, ogni cosa al suo posto ed in ordine; ma il senso
di freddo durava, come se una brezza rigida e maligna le battesse sul
collo e sulle spalle.

Dianzi, scendendo, aveva portato con sè il suo scialletto. Diede
un’occhiata in giro per cercarlo, e fu così che vide ritto sulla
soglia, distintamente, un uomo alto, pallidissimo, con l’abito aperto
e orrendamente chiazzato di sangue sul petto. Ella cacciò un urlo e si
buttò avanti, stendendo le braccia, rovesciando la seggiola.

Fuori era buio fitto: ora i vapori occultavano la luna, però le parve
di scorgere una figura che voltava a man destra dietro l’angolo
della casa. Si slanciò gridando: — Luigi! Luigi! Luigi! — Giunse
correndo fino alla siepe dell’orto e tosto, tirata da nuovi e più
furiosi latrati del cane, si gittò nella piccola strada che sboccava
in quella di Racconigi. Tornò presto indietro e prese ad aggirarsi
pel giardino all’impazzata, balzando dal fango dei viali nell’erba
fradicia dei prati, sdrucciolando, incespicando, urtando nei tronchi,
quasi colta dalla brama di perdersi anch’essa nelle ombre ove pareva
si fosse disciolta la larva di suo marito. Passò una, due, tre volte
davanti al cancelletto che metteva al piazzale della parrocchia; alla
fine si accostò e ricominciò a chiamare con voce sommessa, accorata,
supplichevole: — Luigi! Luigi! Luigi!... — Egli era certo lì oltre;
non lo vedeva ma lo sentiva. Subitamente scosse la testa con veemenza,
come per cacciarla tra gli stecconi; vi si attaccò con forza, scrollò,
squassò, lottò a lungo freneticamente, ammaccandosi le mani, rompendosi
le unghie nell’ostacolo inanimato. E fu vinta: in un istante ogni
pensiero scomparve dalla sua mente; prima ella rimase immobile come
irrigidita, poi allentò le braccia, piegò la persona, e si prostrò.

Oliveri, riscosso dall’urlo istantaneo, acutissimo, era saltato dal
letto e, infilata la veste da camera, sceso giù tentoni nel salottino.
Stava là, mezzo basito, mirando la sedia caduta e l’uscio spalancato,
senza saper cosa fare o cosa immaginare, quando udì un passo misurato
e pesante che si avvicinava dalla parte del cortile; si rianimò, corse
fuori e vide Gabriel col suo schioppo in una mano e nell’altra una
lanterna ciondolante a fior di terra.

— Cos’è? cos’è stato? — domandò ansiosamente Oliveri.

— Non so niente — rispose il colono.

— Ma mia figlia... Dov’è andata mia figlia?

— Sua figlia?!

— Ma cos’hai visto? Cos’hai sentito? Cosa credi?

— Cosa credo? Ho paura dei francesi, io. Ne fanno di tutti i colori.
Rubano tutto, portano via tutto: cavalli, vacche, pecore, porci,
galline... E, quando possono, anche le donne. Si faccia animo, venga
con me.

E passando in giardino, entrò nel viale che conduceva al cancelletto.

Oliveri gli venne dietro brancolando, tutto affannato. Non si
raccapezzava. Quel che diceva Gabriel gli pareva un’assurdità
addirittura, pure vi andava raziocinando sopra angosciosamente.

— Faccia presto — susurrava il colono, — faccia presto!...

— Faccio quel che posso — rispose Oliveri a un certo punto; — ma vorrei
pur sapere dove si va.

— Alla campana, non glie l’ho detto?

— Alla campana? Ma vuoi metter sossopra tutto il paese?

— Lasci fare a me.

— Un momento, un momento! E cosa dirò a quelli che accorreranno? Amici,
ho perduto mia figlia...

— Ecco; sì signore.

— Ma e poi... Se provassimo a cercarla prima un poco noialtri? Dentro e
fuori di casa, nel cortile, nel giardino... Perchè immaginar subito una
cosa così grossa? I francesi, i francesi, subito i francesi!... A meno
che tu non abbia visto proprio... Di’, senti... Oh santo Dio! fammi il
piacere Gabriel... Gabriel!

Ma Gabriel accelerava sempre più il passo. Improvvisamente si arrestò.

— Maria Santissima! — esclamò alzando la lanterna.

— Cosa c’è? cosa c’è? — domandò l’avvocato ansante.

— È qui! La guardi qui lunga distesa.

— Misericordia! Morta?

— Euh! morta no, diavolo! Adesso presto, mi dia una mano... o piuttosto
tolga su, mi faccia lume.

Messo lo schioppo ad armacollo, consegnata la lanterna all’avvocato,
sollevò Liana adagio adagio, e la portò verso casa.

— Coraggio, coraggio — diceva egli, parlandole come a un bambina; —
siamo qui noi adesso. Più niente paura. Siamo qui noi.

Sentendoli tornare, Menica discese anche lei, affibbiandosi ancora il
busto, interrogando, piagnucolando e balbettando giaculatorie. Poi
si acquetò e cominciò ad affaccendarsi premurosamente intorno alla
padrona.

Quando fu nel letto e scaldata, Liana aprì languidamente gli occhi,
mise un gemito e ricadde tosto senza sentimenti.

Quanto durò così? Non lo seppe mai. Le pareva ogni tanto di risentirsi,
e si trovava in regioni caliginose, piene di forme stravaganti e
terribili. Poi cominciò una specie di sogno lento, continuato. Era in
letto, nella sua stanza illuminata dal sole. Non si sentiva afflitta
da veruna malattia, avrebbe voluto alzarsi e non poteva. Ed ecco che
l’uscio si apriva a metà; suo marito le parlava, la chiamava senza
mostrarsi. Ella rispondeva, faceva forza per correre a lui, ma altri
esseri invisibili, che le stavano intorno, la tenevano come conficcata
nel fondo del letto. Altre volte scorgeva repentinamente il suo
Luigi ritto accanto a lei, vicinissimo; ella apriva le braccia e le
richiudeva vuote; si metteva a piangere a calde lagrime, e intanto il
fantasma impallidiva, si dissolveva, si dileguava.

Tutto questo si ripeteva, si prolungava quasi non dovesse finire mai
più; poi un bel giorno ella ripigliò il senso davvero. Fece un leggiero
movimento e girò lentamente lo sguardo all’intorno.

— La vede — disse a Oliveri un vecchietto rinfagottato in un pastrano
verde-bottiglia, — la vede l’intelligenza che ritorna? Cosa le avevo
detto? Adesso l’arte medica non ha più che da aiutar la natura.

Liana richiuse le palpebre subito, stanca come dopo una grave fatica,
e si riassopì. Ma più tardi si accorse benissimo che la luce veniva
mancando e provò un certo sollievo quando Menica le portò un lume.

Cominciò poi a distrigare, a riordinare a poco a poco pazientemente
i propri pensieri, cercando di discernere quel che c’era di vero
nella farraggine delle cose vaneggiate. In quel miscuglio confuso
di fantasmi, di reminiscenze, di sogni, un fatto emergeva limpido
e chiaro: la morte di Luigi. No, no, no, non doveva più metterla in
dubbio, nè conservare un fil di speranza: era venuto egli stesso ad
avvertirla, l’aveva visto! Del resto, anche senza la visione, che
cosa poteva significare questa calma, questa pace dopo tanti disperati
pensieri, se non che tutto era finito e bisognava rassegnarsi ai voleri
di Dio?

Luigi era morto. Ma dove? Come? Quando? Il suo pensiero si arrestava su
queste domande e rimaneva a lungo inerte e come annientato. Di più, ad
ogni sforzo di memoria, seguiva un’oppressione singolare di cervello,
accompagnata spesso dal sonno o da una completa dimenticanza di tutte
le cose.

Un giorno, rinvenendo appunto da una specie di lungo letargo, ella
scorse Massimo vicino al letto, precisamente dove tante volte
aveva creduto di vedere Luigi. Questo ridestò in lei il ricordo
dell’impossibilità in cui s’era trovata di fare il più piccolo moto
verso l’immagine cara. Sorrise e, quasi inavvertentemente, levò una
mano. Il giovane non osò toccarla, ma, chinandosi subito, la sfiorò con
le labbra.

Ella ricominciò a parlare una sera in cui si trovò sola con suo padre.

— Babbo — diss’ella pacatamente, — lo sai che son vedova?

L’avvocato si scosse, le fe’ segno di chetarsi.

— Dormi, cara, è ora di dormire.

— Luigi è venuto...

— Va bene, ne discorreremo.

— L’ho veduto...

— Lo so, me l’hai già detto. Ma è stata un’illusione.

— No, babbo.

— Dirò meglio: un’allucinazione.

— No, no, no!

— Ehm!... senti, cara, tu hai avuto una grossa febbre, una febbre
violenta, una specie di febbre cerebrale. Ti dava il delirio, e che
delirio! Pare però che questo sia stato uno sfogo: la malattia fisica
ha impedito, ha allontanato la malattia morale da cui eri minacciata.
Moschetti, il medico nuovo qui di Murello, e il dottor Pomba di
Villanova, ti considerano come entrata in convalescenza; ma dicono che
sarà lunga, che ci vuole un gran riguardo, altrimenti... uhm! Guai
se ti ritornasse il male addosso! Le ricadute sono peggiori delle
malattie.

Liana finse di capacitarsi e non tornò più sull’argomento. A che
insistere? Sapeva bene che il pensiero del genero non occupava più
nè la mente nè il cuore di Oliveri. Oltre a ciò la stancava tanto
discutere! Era ancor così abbattuta, così spossata!

Pareva difficile, a chi la vedeva in quei giorni, ch’essa potesse
riaversi mai più; pure ella continuava gradatamente a risorgere, e
venne il momento in cui il medico le permise d’alzarsi.

Ella cominciò a passar le ore che non stava in letto adagiata in un
seggiolone vicino alla finestra. Gli alberi del giardino, spogliati
d’ogni verdura, le lasciavano vedere tutto il castello, la parte
posteriore della parrocchia, col piccolo cimitero circostante; e più
lontano, oltre la strada di Racconigi, la campagna squallida sotto il
sereno delicatamente sbiadito.

Assistette così alla lenta e placida agonia di quell’autunno. Vide il
cielo venirsi coprendo di nebbia, e rabbuiandosi sempre più, farsi
tutto livido e basso. Bastò una nottata per imbiancare i tetti e le
piante e quanto poteva abbracciar l’occhio.

Oliveri teneva compagnia a sua figlia; venivano a visitarli Arignani,
don Prato, e talvolta Massimo, sempre grave e sopra pensieri. Liana
seppe da lui che la contessa passava l’inverno a Robelletta; ella però
non si curò di domandare alcun schiarimento, poichè si trovava ancora
in uno stato d’indifferenza e d’incuriosità singolare, non pareva aver
più alcun desiderio vivo, di nulla le importava, parlava, operava, ma
non si scuoteva.

Intorno a lei i discorsi si aggiravano sulla scarsezza grande di tutte
le cose necessarie al vitto, sul rincaro delle granaglie, sul freddo
che anticipava, e specialmente sur un lupo enorme che andava vagando
nei dintorni. Di tempo in tempo l’avvocato s’intabarrava stretto
e andava a passare un’oretta nel piccolo caffè ove si riparavano
i migliori del paese. Tornato a casa riferiva a Liana tutte le
chiacchiere che si erano fatte intorno alla mala bestiaccia.

Per consiglio del medico, egli s’ingegnava di distrarre la mente di
sua figlia, senza affaticarla di troppo. E un dopo pranzo le menò su
in camera il procaccio Gioanni Capello, detto _Giantermo_, ancor tutto
scombussolato per aver dovuto contrastar con la belva quella stessa
mattina.

Menica portò una bottiglia; e, dopo un paio di bicchieri, il poveraccio
si trovò in grado di ripetere, più ordinatamente che non avesse ancor
fatto, la sua storia paurosa.

— Ah! — diss’egli — stamattina me la sono vista proprio brutta! Tornavo
da Racconigi col sacchetto delle lettere e fischiettavo senza pensare a
male, quando voltandomi per caso indietro, cosa vedo? nientemeno che il
lupo! Ecco lì: prima mi sono sentito mancare le gambe, poi via! a tutta
corsa, come un’anima persa. Cosa vuole? sor avvocato e la compagnia,
sentivo il tlic tlic delle unghie sulla neve ghiacciata: lui mi dava
dietro di trotto serrato e se cascavo, ehi! ero servito. Perchè quelle
bestie lì non attaccano l’uomo finchè è dritto, ma aspettano che la
fatica e lo spavento lo buttino giù, e allora gli saltano addosso e lo
sbranano. Io correvo, e lui correva. Volevo gridare, chiamar aiuto, ma
non avevo il fiato da spegnere un lume. Tutto in un momento mi ricordai
di essere nato a Murello, e che i murellesi sono soprannominati i
_testardi_. Credo sia stata una ispirazione della nostra Madonna degli
Orti. Basta, fatto sta che mi fermai su due piedi, e fronte! col mio
bastone per aria. Il lupo si ferma anche lui, mi mostra i denti e la
lingua, mi guarda fisso come un cane da caccia che punta, e poi frrt!
salta a sinistra, nel campo. Dico fra me: — l’ha capita! — Oh sì,
storie! Mi accompagnava di fianco, invece di starmi alle calcagna, e
me lo vedevo lì, alto, magro, sfiancato, col muso nero e le mascelle
grigie; e quando alzavo il bastone per fare il mulinello, grugniva
come un porco e digrignava, talmentechè di dentro mi sentivo morire,
benchè fossi deciso di difendermi finchè potevo. Basta, per tagliar
corto, finalmente ho visto le muraglie della cascina Nuova, lei sa
dov’è, e subito mi son sentito tornare il coraggio e il fiato e tutto,
e mi son messo a mugliare come un toro. Cosa crede? Che il lupo se
ne sia andato? Neppur per sogno, aspettò di veder arrivare quei della
cascina con le forche e i tridenti, per darsela a gambe. Guardi un po’
che demonio! Basta, sor avvocato e la bella compagnia, adesso andrò
ad attaccare il mio bastone sotto l’immagine della Madonna, per grazia
ricevuta, che se la Madonna non mi salvava, ora sarei nella pancia del
lupo, col sacco delle lettere, calzato e vestito.

Il caso occorso al procaccio fu argomento di molti discorsi, poi si
seppe che la fiera era stata ammazzata presso Cavallerleone, e non se
ne parlò più.

Nei primi giorni di dicembre, Liana si accorse che suo padre aveva
un aspetto cogitabondo affatto insolito in lui, e tanto il parroco,
quanto il notaio, parevano agitati da qualche cura grave e travagliosa.
Si mise in pensiero, interrogò, s’informò; le fu risposto con parole
atte a rassicurarla. Allora non s’inquietò più, anzi fu contenta
d’esser lasciata spessissimo sola, poichè questo le dava modo di
vivere tranquilla e taciturna, come desiderava. Era una strana vita la
sua, tutta contemplativa, tutta ristretta allo spazio che raccoglieva
nello sguardo. Poche e semplici le cose di cui si compiaceva o che le
servivano di svago: la solitudine, la quiete, il suono delle campane,
un filo azzurro di fumo uscente da questa o da quella rocca di camino,
il passaggio d’uno stormo di corvi, le passere svolazzanti a branchi,
collegate contro il gelo e la fame, ma pronte a battersi ferocemente
tra loro per una magra formica assopita tra le rughe d’un ramo, o per
un bacherozzolo rannicchiato sotto una foglia aggrinzita. Talora le
pareva pure di avvertire fremiti, vibrazioni, palpiti di vita lontana,
trasvolanti sul manto immenso che difendeva le sementi e le piante dal
gelido vento di tramontana.

Una mattina, invitata da un pallido raggio di sole che rigava il
pavimento, ella s’era levata prima del solito, e seduta nel seggiolone,
tutta chiusa nel suo scialletto, guardava il castello, pensando
vagamente al destino di quelle antiche muraglie, possesso, a quanto si
diceva, prima dei Templari, poi dei Cavalieri di San Gioanni, dimora un
tempo dei Maestri Commendatori di Murello, divenute dal mese di maggio
1798, la casa del timido don Prato e dell’umile sua serva.

In un subito, ella vide irrompere nel cortile una frotta di contadini,
e riconobbe in colui che li conduceva Bechio, lo speziale, con
un berretto rosso in testa e una sciabola al fianco. Vociavano,
gesticolavano, si consultavano tumultuariamente. Bechio si fece alla
porta e bussò. Il parroco comparve come uno scatto di molla a una
finestra, parlamentò un momento, poi discese ed aprì. Lo speziale entrò
seguìto da cinque o sei altri. Intanto il movimento era cresciuto: la
gente portava assi, corde, abetelle, scale a piuoli, e buttava tutto
per terra a pie’ del torracchione.

Liana, spaurita, volle alzarsi e chiamare Menica, Gabriel, saper subito
quello che accadeva. Una mano le si posò dolcemente sopra la spalla;
ella si voltò, si trovò accanto suo padre. Oliveri era smorto, con le
gote cascanti, con un non so che di irrequieto nelle labbra e nelle
palpebre, che indicava un grave turbamento interiore.

— Ah! — fec’egli — vuoi saper cosa fanno? Si preparano a rizzar un
ponte contro il muro di ponente, per raschiar via le armi gentilizie
dei Commendatori che ebbero la signoria di Murello. Perchè? Perchè
siamo in repubblica, figlia mia. Siamo in repubblica, in repubblica, in
repubblica!

Liana girò a lui il viso stupefatto:

— Oh! — diss’ella — e il Re?

Gli occhi di Oliveri si velarono: — Il Re? Eh, poveri noi, chi sa dov’è
il nostro Re a quest’ora!




XXIII.


La contessa Polissena volle aver frequenti notizie di Liana, durante
tutta la malattia, ma non trovò mai il tempo d’andarla a vedere. Il
cavaliere Mazel se ne informava di tanto in tanto, con cera sbadata,
guardandosi le unghie o baloccandosi con gli anelli. Massimo affannato,
accorato, trepidante, nei primi giorni correva a Murello a levata di
sole, e non tornava a Robelletta che a sera avanzata. A poco a poco,
col diminuir del pericolo, si venne acquietando; e quando Liana fu
entrata in convalescenza, ricominciò a dedicare tutto il suo tempo
all’opera antirepubblicana.

La strada ch’egli batteva non era sparsa di fiori, bensì d’arbusti
pungenti e di viluppi prunosi. Lasciando a parte le difficoltà
materiali, quel dover oggi cercar di persuadere uno scettico o
stimolare un neghittoso, domani ammonire un imprudente o frenare
un avventato, e ascoltar ciance, sproloqui, millanterie, e discuter
con calma disegni evidentemente ineseguibili, e prevenire insidie,
destreggiarsi, aver occhio a questo, a quello, a tutti e a tutto, era
cosa da stancar chiunque non avesse sentito come lui, dopo un lungo
periodo d’inazione, un fermento di vigore, una sovrabbondanza di vita,
una vera smania di attività tempestosa.

Egli trovava anche un certo compenso nell’amicizia, nella stima,
nell’aiuto del conte Di Rivas, uomo maturo d’anni e di senno, e che si
poteva dire di ferro schietto anima e corpo.

Adoperandosi continuamente, alacremente, in quei pochi mesi essi
erano riusciti a procurarsi la cooperazione di parecchie altre persone
fervidamente fedeli alla monarchia, e queste pure attendevano a far
partigiani. Si veniva così formando una lega d’una certa estensione,
ma senza affiliazioni, senza giuramenti, senza segni o parole per
riconoscimento, senza nulla di ciò che qualifica le società segrete.
Bastava una semplice adesione e la promessa verbale di rispondere
prontamente ad ogni chiamata.

Oltre a questo si erano contratte pratiche e avviate corrispondenze coi
più caldi realisti di altre parti del Piemonte. A Saluzzo, a Pinerolo,
a Ivrea questi dovevano contrastar fieramente coi rivoluzionari
preponderanti, ma in molti altri luoghi il popolo si conservava tuttora
devoto al Re, ai preti ed ai nobili e avverso a tutte le novità.

Da Alessandria, per esempio, l’abate Arbaudi mandava notizie
entusiastiche. I contadini non aspettavano che il momento d’insorgere.
Gli bastava l’animo di capitanarli egli stesso, sicuro com’era di
essere validamente secondato in tutto ciò che concerneva la condotta
e le operazioni della guerra, da amici ch’egli metteva alla pari con
Delbée, con Bonchamp, con Charette, con La Rochejaquelein e con tutti
gli altri famosi capi vandeesi.

I principali cospiratori si radunavano di tempo in tempo a Robelletta
e vi tenevano consiglio. Don Macari, a cui era affidata la propaganda
tra i preti e i frati delle terre vicine, veniva spesso a conferire
con la contessa. Talvolta poi vi arrivavano uomini stanchi, infangati,
diversi dai contadini della pianura d’abiti come d’aspetto. Erano tosto
introdotti alla presenza dei signori, consegnavano le lettere di cui
erano latori, e divorata in cucina, sotto la cappa del camino, una
buona scodella di minestra, andavano a riposar sul fienile.

Il conte Annibale rendeva spesso consapevole sua moglie di quanto
succedeva a Torino. Là i patrioti amnistiati levavano il capo più
che mai, andavano attorno baldi e sicuri, spargendo ovunque le loro
dottrine, e tanto liberamente e tanto efficacemente, da guadagnar
anche l’animo di personaggi potenti e di gran conto. Il concorso
dei francesi, la loro influenza aumentavano di giorno in giorno.
Essi continuavano a non rispettar gli accordi, a seminar zizzania,
obbligando il Governo a vigilar senza posa acciocchè i cittadini offesi
ed esasperati non pigliassero qualche estremo partito.

L’ambasciatore della Repubblica francese, il ministro della Cisalpina,
i generali stanziati in Piemonte, i loro ufficiali, tutti si mostravano
d’un’inesauribile fecondità nell’inventare sempre nuove accuse e nuove
liti da muovere al Re ed ai ministri. E poichè nelle città, nei borghi,
nelle campagne di tanto in tanto accadevano risse e baruffe tra i
francesi, che davano noia alle donne e la facevano da prepotenti, e i
popolani e i contadini indignati, coloro moltiplicando ed esagerando
questi fatti a dismisura, prorompevano nei più alti vituperi e tiravano
in campo l’insulsa, la rancida novella del tramato sterminio di tutti i
repubblicani.

Era divenuto ormai impossibile raccapezzarsi tra le recriminazioni
puerili, le esigenze imperiose, le meditate bugie, le perversità palesi
o nascoste, quando il Direttorio inopinatamente sostituì Ménard a
Collin, richiamò Ginguené e nominò l’ex-conte Eymar al suo posto, poi
mandò Joubert a comandare l’esercito d’Italia in luogo di Brune.

A questi mutamenti seguì un periodo d’insperata quiete.

Il Re ricevette le più ampie assicurazioni d’amicizia. Si vide
nel disbrigo degli affari un certo studio per scansare gli urti, i
malintesi, i contrasti; parve si comprendesse che c’era pericolo a
ferire più profondamente i sentimenti dei nobili e dei militari.

Sulla fine d’ottobre il conte Annibale consigliò alla contessa
la pronta sospensione d’ogni movimento ostile ai francesi per non
fornire, con qualche avventatezza, un pretesto a nuove questioni. In
novembre egli tornò più volte sull’argomento, raccomandando sempre
la prudenza, la moderazione, l’astensione da ogni eccesso non solo
negli atti, ma nelle parole; sugli ultimi di quel mese scrisse anche
a suo figlio. Russia e Inghilterra s’erano di nuovo collegate contro
Francia, aderivano le Corti di Vienna e di Napoli. Le cose potevano
mutar da un momento all’altro, ma appunto per questo bisognava armarsi
di pazienza e aspettare. Vincevano i francesi? Nulla essendosi fatto
per inasprirli, tutto rimaneva invariato. Vincevano gli alleati? Essi
dovevano pur sapere che il Re, non essendo più padrone in casa sua, non
poteva prender l’armi in lor favore.

Predicava a un convertito. Massimo, anche se avesse voluto, non avrebbe
potuto disubbidire. A poco a poco, invece di badare alla qualità degli
aderenti, non si era più cercato che la quantità, e appunto in quei
giorni erano nati attriti, malumori, scissure e si venivano formando
due diverse correnti. I giovani, i bollenti volevano fare al più presto
un tentativo un po’ ardito, non fosse altro che per esperimentar le
loro forze: proponevano si ragguagliasse di quanto si era fatto il duca
di Aosta, nemico irreconciliabile del nome francese, e gli si offrisse
senza più l’alta direzione dell’impresa. V’erano quelli che trovavano
invece tutto fuor di tempo e inclinavano a lasciar maturare le cose.

La domenica 2 dicembre la contessa ricevette una lettera del marchese
Violant che diceva così:

                                         «Torino, 30 novembre 1798.

      «Sorella carissima,

  «Sono stato alla finestra senza cappello, ho presa una solenne
  infreddatura con tosse, fiocaggine ed anche un poco di febbre.
  Garonis vuole ch’io mi metta a letto subito. Ho tante cose da dirti
  e non posso che mandarti alcune notizie asciutte asciutte. Devi
  sapere: 1º che il Re di Napoli ha cominciato le ostilità; 2º che al
  comando della ex nostra Cittadella non c’è più Ménard ma Grouchy;
  3º che ieri, 29, l’ambasciatore Eymar, accompagnato da un aiutante
  generale, si presentò a Priocca e chiese al Governo, in nome
  della Repubblica, otto mila uomini a piedi, mille a cavallo, una
  cinquantina di cannoni, l’approvvigionamento di tutte le fortezze
  per quattro mesi e la consegna dell’Arsenale. Il contingente
  militare, il vettovagliamento delle fortezze, non c’è che dire,
  sono cose pattuite, ma la consegna dell’Arsenale è contraria al
  trattato... Come vedi torniamo alle solite. Scusa se non scrivo di
  più. Subito che starò bene sarò lungo quanto potrò.

  «Addio. Saluta Mazel e abbraccia il contino.

                                                         «TRAIANO».

La settimana intera passò senza che si sapesse più altro. La posta del
mercoledì non portò che una gazzetta; quella del sabato mancò affatto.
Il lunedì, 10 dicembre, Massimo doveva trovarsi a convegno con Di Rivas
e due o tre altri amici sulla sponda della Varaita, presso la chiatta
di Ruffia. Egli vi andò, ma aspettò inutilmente tutto il giorno.

Però una nuova che passava di paese in paese, di bocca in bocca arrivò
anche a Robelletta. Un contadino, di ritorno da Racconigi, riferì
d’aver udito dire che il Re non era più a Torino e che i francesi
avevano messo al suo posto il principe di Carignano. Fiordelis, che,
finito il suo servizio, andava nella stalla a far il cascamorto con una
certa contadinotta, raccolse la voce e la ripetè al padrone la mattina
di poi.

Mazel, non uso a dar importanza alle chiacchiere del volgo, lì
per lì stimò inutile di parlarne alla contessa. Ma più tardi, poco
avanti buio, trovandosi con lei e con Massimo nel salotto, davanti al
caminetto ove ardeva un buon fuoco, raccontò in tono molto leggiero
quanto aveva inteso dal suo cameriere.

— E mi dite questo ridendo! — esclamò la contessa turbata.

— Ma se è una voce! — rispose Mazel — niente più che una voce. Se ve
lo dicessi in altro modo mostrerei di credere una cosa impossibile, una
cosa che non sarà mai.

— Domattina andrò a Racconigi — disse Massimo risoluto. — E se occorre
anche a Torino... — S’interruppe, porse l’orecchio e soggiunse: — Una
carrozza!

Infatti in quel subito i cani abbaiarono, s’udì cigolare il cancellone,
strider la ghiaia sotto ruote pesanti.

La contessa e il cavaliere si alzarono in piedi, guardandosi muti
ed ansiosi. Massimo balzò nella stanza d’ingresso, corse all’uscio,
si trovò faccia a faccia con lo zio Violant; il quale, gettato il
ferraiuolo a un servitore, consegnato il cappello a un altro, abbracciò
il nipote; passò avanti, abbracciò la sorella, abbracciò il cavaliere,
e andò a porsi con la schiena al fuoco senza proferir parola.

La contessa lo seguì, gli si piantò di fronte tremante e palpitante.

— Presto! — diss’ella — parlami del Re.

Il povero marchese, che aveva le carni paonazze e batteva i denti,
alzò gli occhi al cielo, agitò le mani come per raccomandar calma e
pazienza, poi si mise a tossire, a tossire, a tossire.

La contessa tutt’a un tratto fu come presa dalla paura d’udir la
risposta; andò a rifugiarsi in un angolo scuro, si lasciò cadere sopra
una poltrona, nascose il viso tra le mani.

Per un poco si udì soltanto il rumore che faceva Massimo movendosi
smaniosamente per la stanza; poi Violant si rivolse a Mazel, che gli
era rimasto vicino.

— Ma voi — domandò con voce roca, — cosa sapete voialtri?

— Noi? Noi non sappiamo niente.

— Peggio che peggio... Speravo di trovarvi già un poco informati...
Basta, cari miei, vi dirò quello che ho sentito e visto. Dimenticherò
certo moltissime cose, ma come si fa?... Altre poi non le posso sapere,
perchè non le saprà mai altri che Dio. Ultimamente non si capiva più
niente, non si vedeva più dove si andava. È ciò che ci ha perduti,
perchè Joubert il suo disegno l’aveva e ben chiaro in mente; e Eymar
e Grouchy e tutti gli altri avevano pure le loro brave istruzioni
limpide e precise. Sentirete. Povero Re, povero Carlo Emanuele IV, come
aveva ragione di dire, quando venne al trono, che si metteva in testa
una corona di spine! La settimana scorsa è stata la sua settimana di
passione. Dunque, tanto per cominciare, dal 30 novembre a tutto il 5
dicembre non ho visto niente: ero in letto con febbre, tosse secca,
mille altri incomodi. Seppi solamente che in Cittadella si tenevano i
fuochi accesi durante tutta la notte, che le sentinelle della cinta
esterna erano triplicate, raddoppiati i cannoni che guardano verso
la città, i ponti alzati come se il nemico circondasse la piazza.
E siccome non si capiva il perchè di tutti questi provvedimenti,
i cittadini si mostravano anche alquanto agitati. La mattina
del 6 Giacinto uscì verso le dieci, ma tornò subito a casa molto
impressionato. In città correva voce che Eymar e Cicognara si fossero
ritirati in Cittadella durante la notte, accompagnati da un branco di
patrioti. Infatti non si vedevano più gli stemmi sulle loro case... Mi
alzai subito, m’imbacuccai bene e mi feci portare in bussola al palazzo
reale.

Quello che aveva inteso dir Giacinto era vero; tutto annunziava vicino
il cominciare delle ostilità, nessuno ne sapeva la ragione e, a sentir
ciò che fu risposto a Castelborgo mandato a chiedere schiarimenti, si
sarebbe detto che la ignoravano anche Grouchy e i suoi amici.

A Corte si teneva consiglio, quantunque il Re si sentisse peggio
del solito. Erano presenti i principi, il presidente del Senato, i
ministri Priocca e San Marzano, che, come saprete, ha preso il posto
di Cravanzana alla guerra. Mi fermai più d’un’ora nella sala che è
dopo l’anticamera di parata, seduto sur uno sgabello nel vano del
finestrone, poi, sentendo suonar mezzogiorno, pensai di tornarmene
a casa... Stavo per uscir dal portone, quando vidi arrivare la
principessa di Carignano tutta frettolosa. Figuratevi ch’era a piedi,
scarmigliata, scompigliata...

— Euh! — fece Mazel scandalizzato — l’etichetta, cospetto! E
l’etichetta?

— Veniva, secondo quello che poi mi fu detto, a portare una lettera
ch’essa aveva ricevuta; una lettera anonima nella quale le si
prometteva molte e grandi cose quando fosse riuscita a indurre il
Re a rinunziare alla corona. Uno dei tanti pasticci della cucina
repubblicana... Heheh! Cosa volete? ultimamente il palazzo Carignano
era divenuto il centro dell’infezione giacobina, come diceva
spiritosamente Garonis. Il principe s’è portato valorosamente quand’era
maggior generale sotto Strasoldo, ma poi... Quanto alla principessa
è una certa testolina che non metterà giudizio mai. Basta, passiamo
oltre. Più tardi si seppe che in consiglio era prevalsa la risoluzione
di tener fermo: infatti si fecero venire a Torino le guardie che
erano alla Veneria, i dragoni della Regina passarono da Stupinigi al
Valentino, e si postarono i cacciatori al Parco. Naturalmente tutto
questo fece crescere il fermento, si cominciò a creder possibile
un conflitto fra la città e la fortezza, tanto più che Grouchy, pur
chiamando precauzioni le misure formidabili che aveva preso, giurava
di metter tutto a ferro e fuoco, di non lasciar pietra su pietra ove
si fosse attentato alla libertà d’un solo dei suoi benamati patrioti.
Il governatore pubblicò un manifesto: raccomandava la tranquillità e
la calma, assicurava che non c’era niente a temere dai nostri fedeli
alleati. S’era appena finito di attaccarlo alle cantonate, quando si
divulgò la notizia che Chivasso era stato preso da trecento soldati
francesi, usciti la mattina dalla Cittadella, senza che si potesse
saper dove andavano. Il giorno dopo, ecco una pioggia di novelle
consimili: i comandanti delle fortezze già occupate dai repubblicani,
s’erano impadroniti improvvisamente anche delle città, arrestando i
governatori e disarmando le guarnigioni. Così Rey ora aveva in mano
Susa, Casabianca Cuneo, Montrichard Alessandria. Costui, dopo aver
occupato anche Asti, s’avanzava a marcia forzata per accamparsi a
Superga. Due altre colonne, passato il Ticino sotto gli ordini di
Dessolles e di Victor, erano già entrate chi diceva in Novara e chi
in Vercelli. Nel consiglio reale Priocca fece tre proposte che furono
subito accettate: 1ª pubblicazione d’un buon proclama; 2ª una lettera
al generale in capo; 3ª preghiera al ministro di Prussia d’interporre
i suoi buoni uffici. Poi si tornò a parlare dei mezzi di difendersi;
ma il Re si dichiarò subito contrario a ogni spargimento di sangue, si
alzò, uscì e fu colto immediatamente dal suo solito mal nervoso. Quando
tornò in sè volle aver nella stanza il SS. Sudario, e pregò tutto il
giorno... Verso sera uscì la protesta di Priocca. Vi si diceva... Vi
si dicevano tante cose giuste, vere, sacrosante, con dignità e con
energia, perchè Priocca è un grandissimo uomo dabbene, di quei tali
che si accoppano, ma non si vincono, e bastano talvolta essi soli a
ritardare la rovina d’uno Stato...

Violant s’interruppe, chinò il capo per raccogliere i pensieri, per
rimettersi in filo.

— Tralascio molte cose — ripigliò subito — per non allungarla troppo,
ve le dirò poi man mano che me ne ricorderò. Così siamo arrivati a
sabato 8, la giornata fatale, in cui Grouchy doveva sgrillettare tutte
in una volta le armi che aveva in mano. Quali fossero non si saprà
forse mai esattamente nemmeno da quelli che scriveranno la storia.
Vorrei ingannarmi, ma credo che il generale fosse riuscito a farsi
amici e devoti, con l’arte e con larghe promesse, personaggi aventi
uffici importanti, e a incaricarli di convincere il Re che non v’era
più resistenza possibile. Il teologo Tempia fu tra i tentati, e so che
rispose sdegnosamente. In tutta questa faccenda si vede poi chiaro
il proposito di far comparir volontario il partito preso dal Re,
mentre era più che forzato. E infatti se si pensa che non c’era stata
dichiarazione di guerra... Basta, tiriamo via.

Sabato mattina venne in scena l’avvocato Bertoliati. Io non l’avevo
mai sentito nominare, e voi? Anche non vi saprei dire perchè sia stato
scelto costui, repubblicano sfegatato, creatura di Cicognara, a far
da mediatore tra la Corte e Grouchy. San Germano lo fece chiamare e lo
pregò di recarsi in Cittadella per saper una buona volta cosa diavolo
si chiedesse; ma l’avvocato volle avere il mandato direttamente dal
Re. Lo ebbe, andò, tornò di lì a poco molto spaurito dell’accoglienza
troppo soldatesca che aveva ricevuta. Gli si accordò mezz’oretta per
riprender animo, poi gli si rinnovò l’invito di presentarsi a Grouchy
a fine di ottener proposte esplicite e scritte. Grouchy lo guardò
in cagnesco, disse brutalmente che non aveva facoltà di dar consigli
di sorta: Sua Maestà si trovava negli imbrogli? Si levasse da sè. E
mostrò la porta, esortando l’inviato a non venirgli più tra i piedi.
Queste brevi risposte furono soggetto di lunghe discussioni, ma
oramai diveniva evidente che non c’era più da scegliere che tra due
partiti: la resistenza a oltranza o l’abdicazione. Il duca d’Aosta,
da quel franco signore ch’egli è, si mostrava così risoluto a non
lasciarsi sopraffare, che il Re, accennando la Regina, gli disse
queste testuali parole: — Volete proprio mandar al patibolo me e questa
santa donna? — Poichè il generale non voleva saperne di scrivere, si
sperò volesse almeno piegarsi a leggere, e il buon avvocato ripartì
munito d’un foglio. Stavolta il francese saltò in bestia, annunziò
prossimo l’arrivo delle colonne ch’erano in marcia, mostrò un proclama
arrogante, insultante e minaccioso di Joubert, dichiarò che _le moment
de la vengeance était venu_, che alla famiglia reale non rimaneva più
alcun mezzo di fuga, che la città era circondata da tutte le parti, che
infine bisognava finirla. In un quarto ed ultimo viaggio Bertoliati
non ebbe più che l’incarico di domandar l’invio d’un ufficiale per
trattare. L’aiutante generale Clausel cominciò ad andare e venire dalla
Cittadella al palazzo e dal palazzo alla Cittadella alle sette di sera,
e terminò alle due dopo mezzanotte. Domandò, o per dir meglio impose,
prima di tutto che le truppe, state introdotte in città, sgombrassero
subito e che la guarnigione fosse ridotta al minimum come in tempo di
pace completa. Il Re firmò l’ordine e lo mandò ai vari corpi. Poi si
esaminarono e si discussero tutti gli articoli... E sono questi, cari
miei: Sua Maestà rinunzia a ogni potere. Ordina ai sudditi di obbedire
al Governo provvisorio, e all’esercito piemontese di considerarsi come
parte integrale dell’esercito francese. Ordina al cavalier Damiano di
Priocca di consegnarsi come ostaggio e sconfessa la protesta da lui
pubblicata. Ordina al governatore della città di Torino di ricevere
e far eseguire i comandi e le disposizioni del generale francese
concernenti il mantenimento della tranquillità pubblica... Il culto
cattolico rimane tal e quale. Rispettate le persone, rispettata la
proprietà. I piemontesi che volessero espatriare, come quelli che
volessero rimpatriare, possono farlo liberamente e agevolmente.
Nessuno sarà più ricercato per scritti, detti o fatti politici
anteriori all’atto. Piena facoltà al Re di passare con la famiglia
in Sardegna. Piena facoltà al principe di Carignano di starsene
tranquillamente a Torino... San Germano e Clausel sottoscrissero, il
Re ratificò. Un articolo chiedeva la consegna del duca d’Aosta, fu il
solo rigettato; ed egli acconsentì poi a scrivere a piè del trattato:
— _Je garantis que je ne porterai aucun empêchement au présent acte._
— L’aiutante generale si fece regalare l’_Idropica_ di Gérard Dow,
uno dei capilavori della scuola fiamminga, che aveva già fatto gola a
Bonaparte...

Massimo, che si era buttato sopra una sedia, si rizzò, si asciugò le
lacrime che gli scendevano sulle gote, sul petto.

— Ecco! — esclamò — avevo ragione io quando dicevo e sostenevo che
bisognava mettere il duca d’Aosta alla testa del nostro partito, e
provar se ci riusciva...

— Sua Maestà non voleva che si spargesse sangue — disse Mazel. — Non
hai sentito? Si ricordava d’esser cristiano...

— Ma si scordava d’esser Re!

Violant sospirò. La contessa mostrò appena con un moto del volto di
disapprovare le parole di suo figlio, poi riabbassò le ciglia e tacque.
Ma il cavaliere s’impermalì.

— Cospetto, in che chiave la prendi! Parli senza riflettere, tu. Non
nego che si potesse cadere con un po’ più di... Ma bisogna anche
ammettere ch’era difficile, nelle circostanze in cui si trovava
Carlo Emanuele IV, non aver presente Luigi XVI. E la Regina! Ti par
ch’ella potesse non pensare al martirio dei suoi, la Regina? Cospetto,
cospetto!

— Io penso ai soldati, io! — gridò Massimo. — Penso ai valorosi a cui
s’impone di giurar obbedienza ai francesi, dopo quello che si è fatto
sulle Alpi e sugli Apennini per la casa di Savoia, per la bandiera, per
il paese!... Ah lei non nega che si potesse cadere con maggior dignità?
Per Dio! Dopo tanti secoli, dopo tanta gloria...

— Basta — disse la contessa, severa.

Il giovane morse furiosamente il fazzoletto che aveva in mano, lo
squarciò, lo gettò sul fuoco e ammutì.

Un servitore aperse l’uscio pian piano e annunziò la cena.

La contessa non diede segno d’aver inteso.

— E poi? — domandò Mazel a Violant, dopo qualche momento di silenzio.

Il marchese, che contemplava la fiamma, alzò il capo.

— Dov’eravamo rimasti? — diss’egli. — Basta, non importa. Io, che
avevo passata la notte al palazzo reale con parecchi altri signori,
ne uscii sulla prim’alba. Cominciava già la baraonda, lo scatenamento
degli interessi. Tutto andava all’aria, bisognava profittarne. Chi
ha tempo non aspetti tempo. Ognuno pigliava e metteva in salvo le
robe sue, le più o meno sue... quadri di valore, carte segrete,
suppellettili preziose... Gli ebrei devono aver fatti affaroni in
questi giorni. Giunto a casa, mi gittai vestito sul letto. Naturalmente
non mi riuscì di chiudere gli occhi. A giorno chiaro mandai fuori
tre o quattro servitori a vedere che cosa succedeva. Era domenica,
la città aveva l’aspetto ordinario. Più tardi uscii con Giacinto.
Le cose erano cambiate. Si sapeva che nella notte era arrivato il
generalissimo Joubert con nuove truppe e che il Re si preparava a
partire. Vivessi cent’anni, non dimenticherò mai le facce, i discorsi.
V’erano di quelli che non sarebbero rimasti più sbalorditi se
avessero veduto il campanile di San Giovanni levarsi a volo. Di questo
sbalordimento generale, Grouchy si valse con molta accortezza. Egli
uscì tranquillamente dalla Cittadella verso le dieci, alla testa d’una
colonna di granatieri e di _chasseurs à cheval_, si recò all’Arsenale
e comandò ai soldati piemontesi di sgombrare immediatamente e di
rientrare nei quartieri... Fu obbedito. Dopo, con un’altra colonna,
andò ad occupare porta Susina; quindi, accompagnato da un capitano,
scortato da pochi _chasseurs_, e seguìto da una folla di monelli e
di curiosi, per Dora grossa, piazza Castello e contrada di Po, arrivò
alla porta ov’erano i volontari torinesi. Egli annunziò con enfasi che,
fidando nella loro lealtà, nel loro affetto per gli amici francesi,
lasciava continuassero a tenere quel posto, di più li incaricava
formalmente di mantener la quiete all’interno. Come resistere a un
oratore di così gran persuasiva? I militi gridarono: — Viva la Libertà!
— e si dichiararono felici. Del resto il Re mandava già attorno i suoi
ufficiali a ordinare ai soldati di metter su la coccarda tricolore.
Tutto il giorno si videro in giro pattuglie, e veicoli pieni di gente
che partiva. I repubblicani vecchi e nuovi brulicavano, sguazzavano
in quel disordine come i vermi nell’acqua corrotta. Priocca fece
testamento, si confessò, si comunicò, poi andò placidamente a piedi, a
costituirsi prigioniero in Cittadella. La gente che lo vedeva passare
credeva ch’egli se ne andasse a spasso. La famiglia reale partì la
sera, verso le dieci. Carlo Emanuele era tranquillo, ma aveva avuto
male fino a poco prima. Giù per lo scalone, al lume vacillante dei
candelabri, pareva un morto disotterrato; Maria Clotilde una santa
avviata al martirio. Uno dei principi piangeva. Uscirono dalla porta
che dà nel giardino. Era buio fitto, il vento spingeva di traverso
un’acquerugiola ghiacciata. Non vedrò niente di più funereo, di più
lugubre in mia vita: la lunga fila delle carrozze nere, le torce a
vento dei dragoni di scorta, ottanta francesi e ottanta piemontesi...
Mi sentivo schiantar l’anima. Eh, diavolo! Dopo mille anni di dominio,
come diceva Massimo poco fa, dopo una così maravigliosa seguenza
di antenati!... Il convoglio s’era appena incamminato adagio adagio
adagio, che già i rimasti cacciavano fuori le famose coccarde. Tutti
i legami che tenevano uniti al Re i suoi famigliari, s’erano già
spezzati. Continuò il _si salvi chi può_ cominciato al mattino. Puah!
I reali hanno lasciato indietro tutto, assolutamente tutto: le gioie
della Corona, le argenterie, settecento e più mila lire in doppie d’oro
ch’erano nelle casse. Adesso comincieranno le dilapidazioni private e
governative; figuratevi che bazza! La _curée_, insomma. Io ho dovuto
snocciolare parecchie migliaia di lire, la mia parte d’una taglia di
due milioni posta sui ricchi... Son venuto in campagna per respirare
un poco; laggiù mi pareva di sentire nell’aria un puzzo insopportabile,
un’esalazione pestilenziale, un fetore d’avello. Volevo condurre con me
anche Giacinto, ma...

— E Annibale? — domandò la contessa, accostandosi a suo fratello.

Il marchese si battè la fronte.

— Toh! — diss’egli — guardate che testa! Annibale è stato sempre con
me in tutti questi giorni, poi stamattina è partito per la Toscana. Non
sapeva ancora se avrebbe accompagnato o seguito Sua Maestà in Sardegna.
Si governerà secondo le circostanze.

Si trasse di tasca due lettere, ne porse una alla sorella, l’altra al
nipote, soggiungendo:

— Queste son per voi.

La contessa prese la sua e uscì dalla stanza. Massimo sedette al
tavolino, su cui era la lucerna, spiegò il foglio, lo spianò e cominciò
a leggere.

Violant e Mazel erano sempre davanti al caminetto.

— Già — fece il cavaliere, dopo un poco, — credo che la contessa non si
lascierà rivedere.

— Capacissima — rispose il marchese.

— Mi par che ci abbiano chiamati a tavola, no?

— Sì, mezz’ora fa.

— Avrete bisogno di ristorarvi, eh?

— Peuh! Una tazza di brodo la prenderei volentieri.

— E anche qualcos’altro?

— E anche, e anche.

— E tu, Massimo, non vuoi cenare?

Massimo alzò il viso, guardò trasognato, poi voltò silenziosamente la
pagina.

— Bene — mormorò Mazel: — quando non si ha fame, meglio non mangiare.

E passò col marchese nella sala da mensa.




XXIV.


La lettera che il conte Annibale scriveva a sua moglie era assai breve.
Ella sapeva quali erano i suoi sentimenti, com’egli fosse dei primi tra
i fedeli sudditi del Re, tanto per dovere sacro di religione, quanto
per l’affetto e dedizione che ben di cuore aveva giurato alla casa di
Savoia. Non aveva perciò bisogno ch’egli le enumerasse le ragioni della
risoluzione da lui presa. Le spiegava in succinto le condizioni della
loro fortuna, molto diminuita dalle vicende di quegli anni; indicava
il modo di condursi durante la sua assenza che poteva esser lunga,
anzi lunghissima, e terminava con alcune frasi molto ben tornite e
squisitamente cortesi.

Le quattro pagine di gran formato dedicate al figlio racchiudevano una
quantità di insegnamenti politici astrusi e trascendentali, corredati
da esempi tolti alla storia greca ed alla romana. Norme pratiche e di
applicazione diretta e immediata, nessuna.

Massimo s’alzò a giorno, montò a cavallo e si recò alla tenuta del
conte Di Rivas. Questi si era appunto abboccato poco prima con alcuni
gentiluomini del loro partito.

Tutti avevano convenuto con lui che per il momento non c’era nulla da
fare; bisognava star cheti, rodere il freno, fingersi morti e lasciar
svampare i primi furori repubblicani; dopo si sarebbe veduto. Massimo
non fece alcuna obbiezione; stabilì con l’amico le cifre da usarsi ove
accadesse di dover corrispondere per lettera, fissò il luogo ove queste
sarebbero lasciate e prese da uomini accorti e fidati, e tornò che il
sole scendeva verso occidente.

Cammin facendo, ripensava alle cose udite e scrollava il capo.
Procedere con cautela, fingersi morti, lavorar di politica... Dio!
quanto lo seccavano tutti questi indugi! Non s’era mai sentito così
pieno di forza, di ardire. Il suo cuore palpitava, acceso da un
desiderio intenso di compiere qualche bel fatto.

— Farò io — diceva tra sè. — Farò da me; sarà poco, ma dal poco viene
il molto. Dalle piccole cose nascono talvolta le grandi.

E con quest’idea fissa in mente, con l’impaziente speranza di veder
scoppiare improvvisamente qualche sommossa favorevole alla sua parte,
si mise in moto, e ora a piedi, ora a cavallo, sempre solo e senza una
paura al mondo, cominciò ad assistere ai festeggiamenti repubblicani
che avevano luogo nei villaggi e nelle città circonvicine.

Da per tutto i realisti sopportavano non rassegnati, ma come
istupiditi, il nuovo ordine di cose. Alcuni lasciavano il Piemonte,
per fuggir cielo e luoghi divenuti odiosi; altri vivevano prudentemente
nascosti; altri invece andavano attorno incerti e avviliti, mescolati
nella turba che faceva galloria.

Massimo si trovò presente all’erezione di parecchi alberi della
Libertà. Ora era un pioppo, ora una quercia; mentre si piantava,
mentre si adornava, era un batter di mani e di piedi, un frastuono di
mille grida di gioia e di trionfo; e una volta su, quando sulla cima
rosseggiava il berretto a cono ritorto, quando dai fianchi pendevano
le bandiere, le iscrizioni, gli emblemi, quando al piede sorgeva
la ringhiera, cominciavano le poesie declamate con enfasi pazza, i
discorsi vociati con la schiuma alla bocca, le canzoni grottesche e
scurrili in italiano, in francese, in dialetto. E quando tutto questo
cominciava ad annoiare, si attaccava la _Carmagnola_, la ridda bacchica
e sfrenata, nella quale si gittavano contadini, borghesi, preti, frati,
monelli, sgualdrine.

Spesso Massimo non poteva reggere udendo le villanie, le turpitudini,
i vituperi scagliati contro Carlo Emanuele e la sua famiglia, contro
quelli del ceto a cui egli apparteneva; vedendo far a brani i ritratti
ad olio dei reali, sparare a bersaglio nei loro busti, appiccare,
decapitare, fracassare le loro statue, si allontanava fremendo,
rodendosi, maledicendo nemici ed amici; poi, attirato da un senso di
curiosità irresistibile, dalla seduzione del tumulto, tornava. E, cosa
strana, a poco a poco egli quasi si abituò a questi spettacoli.

Le scene non mutavano, gli attori erano sempre gli stessi, e ripetevano
frasi e gesti con lacrimevole e nauseante insistenza. Quella folla
briaca ed urlante non pareva mossa da alcuna idea chiara e determinata,
da una commozione politica sincera e profonda. Era un delirio
transitorio, una forma di pazzia rimasta latente, che i mutamenti
avvenuti avevano maturata e fatta scoppiare. La follia dell’imitazione
trasformava temporariamente quel branco di pecore e di maiali, in
un branco di animali selvaggi. La tempesta, che per lui non aveva
mai avuto nulla di grande nè di terribile, perdette anche ciò che
poteva avere di serio; in certe ore egli inclinava quasi a credere
si trattasse di una finzione, d’un enorme strattagemma per ingannare,
addormentar gl’invasori e dar loro addosso alla prima opportunità.

Violant riceveva frequenti lettere di suo figlio. Il povero marchesino
non sapeva più in che mondo vivesse. Il nuovo Governo aveva aboliti
subito tutti i titoli, tutte le distinzioni, proibiti gli stemmi e
le livree. I soprusi continuavano e si aggravavano; erano cominciati
i depredamenti. I francesi si portavano come in paese di conquista.
Sott’ufficiali e soldati entravano nelle osterie, negli alberghi,
nei caffè e altrove: volevano mangiare, bere, dormire, divertirsi
senza costo di spesa; contrariati, menavan le mani e fracassavano
le masserizie. Grouchy aveva preso per sè i migliori cavalli delle
scuderie reali; i suoi si servivano a piacimento nelle scuderie dei
privati. Due ufficiali di stato maggiore avevano occupato tutto il
palazzo Lascaris. Un capitano dei _chasseurs à cheval_ aveva voluto per
sè il miglior appartamento di casa Osasco. Il capo di battaglione Dieu
comandava a bacchetta nel palazzo Violant.

Si faceva man bassa su tutto quel che poteva esser ridotto a moneta: la
statua d’argento della Madonna della Consolata, quelle della Madonna
della Concezione, del Beato Amedeo, i più preziosi arredi della
cappella del S. Sudario, compresa la stupenda cassetta in cui questo
era chiuso, si trovavano già alla Zecca. E mentre si procedeva allo
spogliamento dei palazzi e delle ville reali con grande alacrità e
senza interruzione, veniva tolto dai musei, dalle biblioteche, dagli
archivi tutto ciò che poteva arricchire e adornare Parigi.

Si diceva che Joubert, il quale serbava le mani nette, fosse fieramente
indignato, e cercasse il modo di tener in freno tanta rapacità, di
metter fine a tanti vituperi.

Il 23 dicembre, a sera inoltrata, mentre la contessa, suo figlio, e
gli ospiti stavano per ritirarsi nelle loro stanze, arrivò un messo
portatore d’un letterone di Giacinto.

— Ahi! ahi! ahi! — esclamò il marchese, facendosi presso al lume, — che
diavolo sarà successo?

Il Governo provvisorio «considerando che il vuoto delle casse proveniva
unicamente dal regime della tirannide che coi sudori del popolo
arricchiva i sedicenti privilegiati» poneva su questi una nuova tassa
straordinaria da pagarsi in tre rate: la prima in moneta d’oro e
d’argento nelle ventiquattr’ore, la seconda fra otto giorni, la terza
fra quindici.

Violant doveva sborsare settantacinque mila lire. Suo figlio lo pregava
di andar subito a Torino per provvedere.

— Io andare a Torino! — gridò il marchese infuriato, dopo aver letto
e stracciato lo scritto, — io andar a vedere come ci hanno cucinati?
Neppur per sogno. Non mi muovo di qui, io. È il momento di scappar
lontano, di farsi dimenticare, non di mettersi in mostra. Dev’essere
una Babilonia, laggiù, un arruffio dell’altro mondo. Son gente da farti
qualunque tiro. Quel testardo di mio figlio non la vuol capire, eppure
scommetto che se fosse stato qui, nemmeno si sarebbero ricordati di
noi. Ma adesso la faccio finita: gli indico il modo di procurarsi il
denaro; paghi, lasci star le amorose e venga via subito. Oh, per Bacco!

I giorni passavano. Da che era partito, il conte Annibale non aveva
ancora scritto e non si sapeva più nulla del fatto suo. La contessa
stava in pensiero, ne parlava spesso, sempre conchiudendo:

— Iddio non voglia che sia capitato male!

Alla fine, la mattina di domenica 30 dicembre, mentre i signori di
Robelletta stavano aspettando nelle stanze a terreno che si sonasse
a messa, il maestro di casa entrò portando una lettera sur una
guantierina d’argento. La contessa la prese palpitando. Era di suo
marito. Apertala, vide con maraviglia grandissima che veniva da Torino.

Il conte, la Dio grazia, era vivo e sano. Aveva ricevuto a Parma una
missiva del generale Grouchy, contenente l’ordine espresso di recarsi
a Grenoble. Conservava il possesso e il godimento dei suoi beni, ma
aveva l’obbligo di dimorare nel luogo indicato e mandare al Governo
provvisorio l’attestazione di quella Municipalità.

Egli era tornato a Torino, aveva protestato energicamente contro questa
manifesta rottura dei patti concordati nell’atto d’abdicazione del Re,
non riuscendo però ad altro che ad ottenere di ritardare il viaggio
fino a primavera.

I condannati alla deportazione come lui erano circa trenta; tra
questi il cavaliere di Priocca, il quale, secondo l’assicurazione di
Joubert, doveva esser prosciolto subito dopo la partenza del Re. Molto
probabilmente il nuovo Governo avrebbe continuato a liberarsi nello
stesso modo di tutti i patrizi ch’erano rimasti devoti alla monarchia.

Il conte avvertiva tranquillamente la moglie ch’egli aveva fatto un
nuovo scapito di sessanta mila lire, che di tanto era stato tassato
pochi giorni prima; ma poteva dirsi fortunato, poichè se certe famiglie
dovevano contribuire men della sua, certe altre erano costrette a
pagare smoderatamente di più. Consigliava poi tanto lei quanto il
figlio a rimanere in campagna, se non altro per non vedere a che fosse
ridotta la città che aveva sostenuto così virtuosamente l’assedio del
1706.

Giuseppe Giacinto Violant arrivò a Robelletta sul cadere d’un triste
giorno di gennaio. Scese dal legno tutto rabbuffato e col muso lungo
un braccio; si lasciò stringere al seno dal padre, baciò la mano alla
zia, salutò distrattamente il cavaliere Mazel e il cugino Massimo.
Dichiarò subito che aveva fatto un viaggio eterno, ignobile, umiliante;
si sentiva tutte l’ossa sconquassate dal calessaccio infame. E poi, due
brenne scellerate e un vetturino imbecille che non sapeva neppure da
qual parte si tenesse la frusta.

— Eeh! ho dovuto prendere quello che ho trovato — continuò sbuffando.
— Perchè bisogna saper una cosa, bisogna sapere che tutti i possessori
di cavalli da carrozza e di lusso hanno dovuto mandarli al Valentino
per uso del Governo e d’ordine della Municipalità: quel bel miscuglio
di avvocati, di medici, di banchieri, di mercanti, di calzolai, di
sellai... Naturalmente il giorno dopo la consegna tutti i cocchieri
erano a spasso. Ed ecco venir fuori un gran manifesto del capo della
polizia, nel quale si ravvisava contraria ai sentimenti di umanità
e di giustizia la perfida e barbara condotta di tutti i padroni, e
si decretava a nome del Governo dovessero continuare a mantenere i
cocchieri e pagarli non so per quanti mesi. Ora domando io se queste
non son prepotenze? E siamo appena in principio, le persecuzioni sono
appena cominciate. Voglia Dio che non s’abbia a vedere la ghigliottina
in piazza Castello!

— Euh! — fece il marchese, che si sentì correre un freddo per le
braccia e per la schiena.

— Signor padre, lei non sa ancora che la marchesa di San Marzano è
stata arrestata a Costigliole d’Asti e condotta a Torino?

— Gabriella? — esclamò la contessa dolorosamente.

— Sicuro. Lei e il prevosto del paese.

— E perchè? — chiese Mazel.

— Sono accusati d’aver sollevato i contadini.

— Ma come! — gridò Massimo — c’è stato un sollevamento? Dove? Quando?

— Nelle provincie di Alba e di Asti, dove i commissari, mandati dal
Governo a installare le Municipalità, hanno voluto proibire, proprio la
vigilia di Natale, che si andasse a messa di mezzanotte, e ordinato per
di più che si celebrasse la festa con l’innalzamento del solito albero.

— Oh testa sventata! — esclamò il marchese, volgendosi crucciato verso
suo figlio, — perchè non ci dicesti questo appena arrivato, invece di
infastidirci con l’affare dei cavalli. E dopo?

— In seguito a questo — continuò Giacinto, senza scomporsi, — gli
uomini di Costigliole, di Calosso, d’Isola e di altri luoghi hanno
cominciato a mormorare; poi a gridare che si voleva offendere la
religione; poi, prese le armi, al suono delle campane, si mossero
verso Alba. Furono dispersi dai patriotti coll’aiuto efficace e
forse indispensabile di alcune compagnie di Piemonte Reale. Pare che
dalla parte di Asti il moto sia stato anche più grave e la resistenza
maggiore, ma non conosco i particolari. Conseguenze di tutto questo:
alcune fucilazioni, la distruzione delle campane, il disarmo dei
comuni, le taglie di guerra e una pioggia di bandi e di proclami. D’ora
in avanti, ogni comune dove l’albero sarà abbattuto o mutilato, o dove
si darà campana a martello, verrà assoggettato a una contribuzione
dieci volte maggiore dell’ordinaria. Se vi si sarà versato il sangue
d’un francese o d’un patriotto, incendio e distruzione. Tutti gli
attruppamenti saranno attaccati subito, arrestati quelli che li
comporranno, i capi giudicati da una commissione militare e passati per
le armi ipso facto... La stessa pena per chiunque, nelle provincie di
Asti e d’Alba, sarà trovato in possesso d’uno schioppo, d’una pistola o
di munizioni da guerra...

— Ma insomma — interruppe Mazel — la marchesa corre un vero pericolo?

Giacinto si strinse nelle spalle.

— Questo — rispose egli — non lo posso sapere.

Tutti, abbassato il viso e lo sguardo, rimasero muti e pensosi per
qualche minuto. Intanto era venuta l’ora in cui per costume della
famiglia si faceva in comune la preghiera della sera. La contessa
si alzò e, seguita dai quattro signori, si avviò alla cappella, dove
aspettava già don Bonhomine. I servitori e i contadini vennero subito e
s’inginocchiarono taciti e riverenti.

Gli usci e le finestre erano chiusi, ma il vento gelido cigolava negli
spiragli, alitava sull’impiantito, s’aggirava intorno all’altare:
ove le fiammelle rossiccie dei candelieri or piegandosi accennavano
a spegnersi, or rialzandosi si ravvivavano, e gettavano sprazzi e
creavano più qua e più là ombre improvvise, oscillanti e mostruose.

Si recitò prima il rosario, quindi le litanie della Madonna con grave
e misurata lentezza. I contadini, i servitori uscirono cheti cheti,
in punta di piedi. Dopo un poco, la contessa che teneva il viso fra le
palme, lo alzò e voltandosi ai suoi:

— Preghiamo — disse col pianto nella voce — preghiamo ancora per la mia
povera amica...

L’altera gentildonna passò giorni e nottate di vera ed amara tristezza.
Il pensiero del pericolo da cui era minacciata la marchesa prigioniera
divenne tormentoso ed incessante. Cercava invano di farsene un’idea.
Mazel e Violant, interrogati, non davano che risposte evasive,
indeterminate, o sospiravano alzando gli occhi al cielo.

Il conte Annibale confermò in una sua lettera quanto aveva raccontato
Giacinto; aggiungendo essere veramente impossibile di fare presagi.
Il mal animo contro i nobili durava sempre grandissimo. Nei proclami,
nei bandi, nei discorsi venivano chiamati: ministri arrabbiati del
fanatismo, satelliti nefandi del dispotismo, razza d’uomini orgogliosi,
prepotenti, lascivi, oppressori del genere umano, mostri infami,
sanguinari, snaturati, sbucati nei secoli d’ignoranza dalle tane del
feroce settentrione. Erano accusati di cospirare contro la Libertà,
di diffondere il malcontento nelle campagne, di nutrire un odio
implacabile contro il nuovo Governo.

V’era chi cercava continuamente di aizzar contro di loro l’ira e il
disprezzo del popolo, e per comprendere quanto bene ci riuscisse,
bastava sentire con che risate, con che battimani venissero accolti
dal pubblico dei teatri certi sconci motteggi, certe insolenti beffe
degli attori. Le cose erano andate tant’oltre che Boutroue, comandante
della piazza di Torino, aveva pubblicato un avviso nel quale era detto
che tutti coloro i quali appartenevano a classi svanite coll’estinto
Governo, quando rispettassero le leggi, dovevano egualmente essere
da esse protetti; e dichiarava che nel momento stesso in cui la
tranquillità pubblica fosse intorbidata e un cittadino insultato, gli
autori, istigatori, fautori e complici sarebbero arrestati e puniti
secondo il rigor delle leggi.

Tutto questo era triste e sopra tutto fastidioso; però finora se le
parole erano violenti ed esorbitanti, fortunatamente non si poteva
dire altrettanto dei fatti. In molte cose poi si sarebbe detto che i
governanti invece di ragionare, farneticassero. E citava il decreto 31
dicembre, col quale si chiamavano a parte dell’universale esultazione
anche que’ rei di meno gravi eccessi, i quali, sebbene non detenuti,
erano stati costretti a lasciare la patria, o vivevano tuttora in
seno ad essa incerti della loro sorte. E questi erano i parricidi,
gli uxoricidi, i fratricidi, gl’infanticidi, gli assassini, gli
avvelenatori, gli incendiari, i falsari!

Un’altra cosa a giudizio del conte più da mentecatti che da ribaldi,
era la decisione presa, ma non ancora eseguita, di trasformare
la Basilica di Superga nel Tempio della Riconoscenza. Si trattava
di togliere dal sotterraneo tutti gli emblemi e le iscrizioni che
rammentassero l’origine, _mondarlo_ dalle ceneri dei re e dei principi,
e mettervi quelle dei patriotti morti per la Libertà, e degli uomini
illustri che ottenessero dai rappresentanti della Nazione favorevole
voto. Il conte Annibale chiudeva la sua lettera promettendo di non
tardar troppo a mandare altre notizie.

Egli fu di parola. Pochi giorni dopo riscrisse brevemente e lietamente,
annunziando che il Consiglio di guerra permanente della Divisione del
Piemonte con sentenza del 29 nevoso, anno settimo, aveva dichiarato
all’unanimità non colpevoli: la cittadina Gabriella Asinari Caraglio,
detta San Marzano, ex-marchesa, il cittadino Giovanni Lorenzo Pola,
prevosto, e il cittadino Luigi Crova, ex-barone, tutti e tre accusati
d’essere gli autori dell’insurrezione scoppiata nella provincia d’Asti.

«Ringraziamo Iddio — scriveva poi — che molto si abbaia, ma poco si
morde. Auguriamoci che si vada avanti così. Intanto Torino si prepara
a solennizzare clamorosamente il 2 pluvioso (21 gennaio v. s.) giorno
in cui cadde la testa dell’ultimo tiranno della Francia: Luigi XVI.
Interverranno i generali francesi, gli agenti civili del Direttorio,
i governanti in pompa magna; si brucieranno ai piedi dell’albero
pergamene, diplomi, documenti, carta monetata; si pronunzieranno i
soliti discorsi, non so se più stupidi o più feroci».

Le lettere del conte non somigliavano più a quelle d’un tempo; il suo
stile troppo studiato era divenuto naturale, spontaneo; egli raccontava
quanto accadeva bonariamente, semplicemente, aggiungendo pensieri e
riflessioni e lasciando a parte e gli esempi e le reminiscenze greche
e romane. Ognuna di esse letta, riletta e commentata, alimentava i
discorsi fino all’arrivo della posta seguente.

Le nuove che si avevano dalle terre circonvicine erano sempre della
stessa natura, e oramai attedianti. A Villanova la Municipalità aveva
fatto aprire da un fabbro le porte del castello del cittadino Solaro e
ne aveva preso possesso. A Vigone s’era obbligato un povero agostiniano
a salire sopra una carretta tirata da due asini, ed a girar le strade
ludibrio di tutti. A Racconigi, un somarello vestito da nobile, carico
di pergamene e di ciondoli, era stato condotto lungamente attorno, poi
spinto, fra uno schiamazzo infernale, su per le scale del marchese di
Priè.

À Robelletta si conduceva vita quieta e malinconica. La mattina si
assisteva alla messa di don Bonhomine, poi si pregava lungamente per il
Re, per la famiglia reale, per quanti soffrivano nel presente regime.
Dopo desinare la contessa si ritirava nelle sue stanze; Violant e
Mazel giocavano alle carte, ai tarocchi, agli scacchi. Giacinto si
appisolava accanto al fuoco, girellava svogliato per la casa o usciva
a tirare alle passere nel giardino con lo schioppo di Massimo. Questi,
stanco d’andar da luogo a luogo senza profitto e senza scopo, non si
allontanava più: passava le ore del pomeriggio sotto la tettoia che
fiancheggiava l’aia, ove gli uomini validi della cascina si radunavano
per suo ordine e si addestravano a maneggiare le armi, a marciare
regolarmente, a imparar movimenti utili o necessari in guerra, sotto la
direzione di Giacomo Devalle, ex-sergente nel reggimento di Pinerolo.

Il verno era aspro. Ogni tanto il tempo si intorbidava, si rabbruscava;
ricominciava a nevicare a fiocchi serrati, un nuovo strato bianco
veniva silenziosamente a soprapporsi all’antico. Oramai più nulla
traspariva della bruna superficie terrestre, nessuna traccia di
sentiero o di solco, leggiere gibbosità, ampie onde immobili variavano
appena l’uniformità immacolata del piano, rivelavano sole la struttura
del suolo. I tetti, i muri, le siepi, gli alberi parevano oppressi da
tutto quel candore; i grossi rami piegavano e talora, vinti dal peso,
precipitavano schiantati in un polverio di foglie morte, di ramoscelli,
di diacciuoli.

Il cielo si rasserenava. La campagna lieta, finchè il sole l’irradiava
dall’alto, si vestiva di mestizia a poco a poco, diventava immensamente
tetra e paurosa dopo il tramonto.




XXV.


Il marchesino Giuseppe Giacinto Violant saliva alla sua stanza da letto
con intenzione di riposare un pochino. Egli andava su lemme lemme,
dondolandosi ad ogni scalino, canterellando a mezza voce, col far di
chi è indicibilmente annoiato. Nel momento in cui toccava il secondo
pianerottolo, il grande orologio fisso nel muro, suonò gravemente
le quattro; Giacinto, quasi in risposta, si stirò e sbadigliò
rumorosamente. L’uscio della camera a destra si spalancò, e ne balzò
fuori Fiordelis con una spazzola in mano e una giubba sul braccio.

— Madonna! — esclamò — che spavento ho avuto.

Il marchesino non degnò rispondere ed entrò in un altro uscio a
sinistra.

Il cameriere lo seguì pian pianino e si fermò sulla soglia:

— Mi era parso di sentire uno strepito, temevo fosse caduto. Guardi,
ieri io sdrucciolai proprio dov’era lei, e rischiai di slogarmi un
piede. Si sarà spaventato?

Giacinto s’accomodava mollemente sul letto.

— Se le occorre qualche cosa — continuava Fiordelis, col suo fare
insinuante, — comandi. Vuole una tazza di caffè come lo so far io?
Vedrà come le rimette lo stomaco.

— Non ho bisogno di rimettermi niente, seccatore! — esclamò Giacinto. —
Cosa c’è? Sono smorto, sono brutto?

— Oh oh! Lei brutto? Un po’ pallido, ecco: ma il pallore non le dice
male, tutt’altro. E poi, gli uomini pallidi son quelli che fanno
furore; lei lo saprà per prova molto meglio di me. Del resto se pare
andato un po’ giù, è perchè qui le mancano i divertimenti. Anch’io, sa,
dopo un mese ch’ero qui, ne avevo piene le tasche; poi ho cominciato a
parlare alla Rosina, e allora... Anche lei, non per darle un consiglio,
ma se si facesse un’amorosa...

— Un’amorosa? E come si fa a stamparla qui per qui?

— Basta sapere contentarsi dell’onesto.

— E la tua, dove l’hai pescata la tua?

— La mia? Nella cascina. È una bella biondona, col naso piccolo e la
bocca larga...

— Non mi piacciono le bionde.

— Ha ragione; piacciono meno delle brune anche a me. Ma come si fa?
Quando non c’è da scegliere! Certo che vi sono delle brune che valgono
cento bionde, mentre è difficile trovare una bionda che... La Carolina,
per esempio, quella che chiamano la bella Carolina, moglie del
caffettiere di Murello, quella può già dirsi un bel tipo, ohe! Capelli
neri, ricciuti, certi occhioni ladri, che è impossibile non sentirsi
frigger l’anima. Lei che se ne intende, mi capisce. In fatto di belle
donne, a Murello c’è anche la vedova del medichino, quello che è andato
via senza dir niente e non è mai più tornato; ma anzitutto non è bruna,
poi, ehm! lei saprà, caccia riservata...

Il signorino, che giaceva sulla schiena, si girò sul fianco.

— Su via, dimmi, com’è questa Carolina? Un po’ ben fatta? Un po’ civile?

— Eh diavolo! — esclamò Fiordelis con un sogghigno impudente — se non
fosse così, non gliene avrei parlato. È un vero peccato ch’essa sia
condannata a vivere in quel paesucolo. Una creatura che, gliel’assicuro
io, farebbe onore a chi volesse occuparsi di lei, e sarebbe altra
maggior cosa che non tutte quelle sguaiate che vanno a spasso sotto i
portici della Fiera. Non ha che un difetto, è così fantastica che non
si sa mai come pigliarla. Questo rende la cosa difficile; ma alle cose
facili un par suo non ci si mette. Dico bene?

Giacinto rispose con un breve grugnito e si rimise supino.

— L’essenziale è far conoscenza — riprese il cameriere, movendosi verso
l’uscio.

— Naturalmente. Uno di questi giorni andrò a Murello, entrerò nel
caffè...

— Sicuro, non c’è altra via. Mi permetta però di darle ancora un
piccolo avviso. Vada sempre dopo le tre, prima di quell’ora può
accadere di trovare lo speziale e tre o quattro altri scannapagnotte
riuniti a consiglio intorno a una bottiglia di acquavite; non è un
pericolo, ma una seccatura. A proposito di pericolo, non so se sappia
che a Racconigi due intere compagnie hanno fatto rivolta, cercando
di disarmare i loro ufficiali. Le campagne sono piene di disertori, e
si sa che costoro alle volte son peggio degli assassini di mestiere.
Sarebbe bene che lei si facesse accompagnare da qualche persona fidata.
Se mi vuole son pronto. Io potrò anche servirla tastando il terreno,
arrischiando magari una parolina...

Il marchesino, che s’era acconciato sul guanciale e aveva chiuso gli
occhi, fece un moto d’impazienza.

— Non vedi che ho sonno, imbecille? Vattene e chiudi ben l’uscio.

Fiordelis s’inchinò fino a terra e uscì a ritroso.

Giacinto si svegliò ch’era quasi ora di scendere a cena; saltò dal
letto, contento d’aver ammazzato più tempo che non avesse sperato,
accese un lume per rimettersi alquanto in assetto. Intanto pensava:
— Sicuro che a non voler crepar di seccaggine in questo mortorio
bisognerà aiutarsi in qualche modo, trovare un passatempo, una femmina
qualunque, senza guardarla nel sottile, bionda, bruna, rossa, castagna:
si chiami Caterina, Maddalena o Sofonisba. Ha ragione quel birbante:
quando non c’è scelta! Vedremo questa Carlotta o Carolina che sia. Chi
sa che il caso non mi prepari una dolce sorpresa...

Quando il giorno appresso Massimo vide il marchesino e il cameriere
confabulare insieme e, malgrado la distanza ch’era tra loro, mostrar
d’intendersela a maraviglia, pensò, senza tema di calunniare nessuno
dei due: — Per Bacco, non ci sono che i discoli per indovinarsi alla
prima!

Poi, siccome aveva il capo a tutt’altro, non s’occupò più di loro.
Ma un dopo pranzo in cui, piantato sulle due gambe un poco aperte,
intrecciate le braccia al petto, assisteva tranquillamente agli
esercizi dei suoi uomini, scorse Giacinto uscir di casa, aprir
pianamente il cancellone e prendere il viale.

— Senza invidia — diss’egli tra sè, conoscendo il debole del
cugino e immaginando si recasse a qualche appuntamento, procacciato
dall’officioso e scaltro Fiordelis. Gli tenne però dietro con l’occhio
e gli dispiacque vederlo voltar verso Murello.

— Un appuntamento, un appuntamento... ma con chi? Con una contadina?
Adagio un poco: è credibile che un giovane superbioso e schifiltoso
come Giacinto si degni di amoreggiare con una contadina, anche giovane,
anche bella?

Ad un tratto gli corse per la mente un sospetto. Appunto per
l’antipatia ch’egli sentiva per il cugino, non badava mai a lui, non
s’impacciava dei fatti suoi, non si curava affatto di sapere com’egli
impiegasse il suo tempo.

Ora non era possibile che colui si fosse recato altre volte a Murello
appunto in quei giorni? Non poteva aver visto la signora Ughes, già
osservata e ammirata a Torino? Non poteva aver cominciato a ronzare
intorno alla sua casa, od esservisi fors’anche già introdotto? In che
modo?... E che importava il modo!

Combattè, respinse vigorosamente tutte queste idee moleste; ma dopo
un momento tornarono; cacciate di qui ricomparvero di là, e non
lasciarono più di saettarlo, per modo che presto s’accorse essergli
ormai impossibile di prestar attenzione a quanto si faceva sotto i suoi
occhi. Voltò le spalle senza dir nulla, e passo innanzi passo uscì nei
campi dalla parte dell’orto.

Che cosa significava questo travaglio, questa febbre, questo diavolo
che gli entrava addosso così all’improvviso? Dianzi era pur così
quieto! Non era più andato a Murello da parecchi giorni, non pensava
punto d’andarci, ed ecco che... Per Dio! Non si raccapezzava più.
Erano molte le ragioni che l’avevano tenuto lontano e tutte importanti,
ora gli parevano divenute subitamente deboli e poche. Nei giorni che
seguirono la dipartita del Re, i pensieri che gli avevano agitata la
mente erano stati troppi e troppo potenti perch’egli avesse campo
di dar retta ad altro. Diceva sovente a sè stesso: — Animo, animo!
adesso bisogna farla finita con le fanciullaggini; mi convien tenere
il cervello a casa, star pei fatti miei e non aver più il capo ad
avventure da commedie, da romanzi... Bisogna guarire da questa pazza e
inutile malattia... Ho sofferto e soffro ancora per Liana, ma a fronte
dei mali immensi che sovrastano alla terra dove son nato, il mio non è
più niente. Questo è tempo d’ardito e franco operare, come direbbe mio
padre, non di querimonie e di sospiri.

La sua immaginazione poi gli dipingeva la moglie del medico
repubblicano esultante per il trionfo del partito; provava uno strano,
un inesplicabile godimento nel farla complice di quanto accadeva; vi
erano ore e giornate in cui gli pareva sinceramente d’odiarla...

Ed ecco che oggi i suoi propositi svanivano in un soffio, i sentimenti
mutavano: egli tornava struggersi di rivederla. E tutto questo per un
improvviso, irragionevole moto di gelosia!

Andava qua e là senza saper dove da alcuni minuti, quando in un subito,
fatto un animo risoluto balzò nel sentiero che correva le praterie
verso Murello. Supponendo che il cugino avesse seguito la strada del
sale col passo con cui s’era incamminato, egli affrettando il suo per
quella scorciatoia, poteva ancora arrivare al paese prima di lui. Per
il momento non voleva altro; là avrebbe visto come doveva governarsi.
Ma tirando innanzi e sempre riflettendo, invece di calmarsi si veniva
agitando sempre di più. La prima risoluzione ne generò presto una
seconda: andare in casa Ughes, senz’altro. Bisognava però preparare
subito qualche cosa da dire, giustificare in qualche modo il suo strano
procedere. Cercava d’immaginare come sarebbe stato accolto. Se avesse
trovato la signora assolutamente cambiata? Se avesse visto Giacinto
ricevuto senza cerimonia, affiatato, famigliare con l’avvocato e con
Liana, diventato insomma l’amico di casa? Gli pareva così lontano, così
annebbiato il giorno in cui era venuto per l’ultima volta! Quante cose
non potevano essere accadute d’allora in poi! Era uno stordimento a
pensarci. E... se invece di Giacinto avesse trovato Ughes? Nientemeno
che Ughes, o tornato sano e salvo da volontario esilio, o liberato
dalla segreta in cui giaceva ignorato, o sbucato da una caverna, da un
sotterraneo, da un rifugio qualunque, poichè il gran sogno d’un tempo
era divenuto realtà. E questo non sarebbe stato il più strano fra i
casi che venivano accadendo in quei giorni.

Quand’egli giunse all’ingresso della stradetta che metteva a casa
Ughes, l’immagine tragica del medico aveva fugata quella effeminata del
marchesino; ma fatti ancora alcuni passi e scoperto il tetto rossiccio
fra il bruno degli alberi, dimenticò l’uno e l’altro e non sentì
più che la smania d’uscire in qualsiasi modo da quell’insopportabile
angustia.

Entrò nel cortile con un battito tale che il cuore pareva gli volesse
scoppiare nel petto. Don Prato, che usciva in quel momento dalla porta
di casa, si levò il cappello e gli disse in fretta in fretta:

— Vada pur su. L’avvocato è nello studio: l’ultima stanza in fondo
all’andito.

E fatta un’altra scappellata, seguì la sua via.

— E dir che una volta non la finiva più coi salamelecchi! — pensò
Massimo, avanzando verso la soglia. Egli vi si soffermò, aspettando di
veder comparire la serva; indugiò ancora alquanto a piè della scala,
poi si decise a salire.

Oliveri era seduto in un’ampia sedia a bracciuoli, col piede sinistro
fasciato e posato sur uno sgabello; aveva accanto un tavolino, su cui
erano alcuni libri, un campanello e tutto l’occorrente per scrivere.

— Avanti — diss’egli, sentendo un passo che si avvicinava nell’andito,
— avanti, cittadino, chiunque tu sia.

Raffigurando poi l’ex-contino, alzò le mani e gli fece festa col viso.

— Lei! — esclamò. — Un redivivo! Come sono mai contento di rivederla.
Si accomodi, prego. Io non mi alzo perchè, come vede, ne sono impedito.

Massimo, assai sollevato da quell’accoglienza così sinceramente
cordiale, si mise sulla sedia che l’altro gli indicava, e chiese
notizie della signora Liana.

— Mia figlia sta benone. Io no, io sono rovinato. Guardi: non posso più
reggermi in piedi.

— Che male si sente? — domandò Massimo, distratto.

— Tutti i mali del mondo, proprio tutti. Ho anche un monte di
sopraccapi, tante incertezze, tanti dubbi, tante cose che mi
amareggiano. La discrepanza fra i miei più antichi amici, per
esempio. Chiovetti è rimasto realista, Aquilante e Bottalla son
diventati repubblicani, capisce. L’uno mi scrive di non muovermi, di
aspettare tempi migliori in campagna; gli altri mi consigliano di
tornare in città. Par che si pensi a riabilitare e risarcire tutti
quelli che hanno avuto a soffrire sotto l’antico Governo. Ho qui una
filza di nomi: Picco e Pelisseri, impiccati in effigie, sono stati
nominati il primo giudice del tribunale di alta polizia, il secondo
sotto-segretario generale del Governo; sotto-segretario anche Ghione,
che è stato a lungo in carcere per i fatti d’Asti del ’97; Faustini è
sovrintendente al Vicariato; il fratello di Boyer commissario sopra le
arti; alla madre di Berteu e alla vedova Junod fu dato un sussidio; la
sorella di Tenivelli è ricoverata alla Provvidenza; la Patria adotta
per figlia la vedova Arò, eccetera, eccetera, che non la finirei più.
Bottalla e Aquilante affermano che mi sarebbe facile ottenere per mia
figlia, anch’essa verosimilmente vittima della crudeltà dell’espulso
tiranno, un simile onorifico decreto. Figuriamoci! Ed è per questo che
dovrei tornare a Torino!...

Battè insieme le palme e alzandole congiunte, esclamò:

— Signor Iddio! Sarei pur contento di svegliarmi una di queste mattine
in contrada Nuova, e vedere ancora una volta piazza San Carlo, piazza
Castello, San Giovanni, e la nostra torre della Città, così alta e così
svelta, col suo globo e il bel toro di bronzo in cima. Ma questo non è
più possibile: Torino _fuit_ per me, _fuit, fuit, fuit!_

— Come? — disse Massimo.

— Non capisce? Voglio dire che per me è finita, non tornerò più, mai
più a Torino.

— Oh! — fece il giovane, col viso di chi ode la maggior stravaganza del
mondo.

— È così: certe cose si sentono, ma non si spiegano. Amen! D’una sola
cosa mi dolgo: non lasciar ai posteri una grande, una bell’opera
d’inchiostro. Sarà superbia, ma credo che avrei potuto far anch’io
qualche lavoretto non affatto cattivo. Al mio _Eugenio_, non è più il
caso di pensare; piuttosto vorrei provarmi a comporre qualche cosetta
di sacro. Don Prato mi ha suggerito un argomento, e più ci penso,
più mi va a genio: la storia del Santuario di Murello e delle grazie
particolari dovute al patrocinio della Beata Vergine degli Orti. Ho
già in testa l’ordinamento, la distribuzione delle parti. Parte prima:
i fatti che riguardano l’antico tabernacolo, in cui è dipinta a buon
fresco l’incoronazione della Madonna; seconda: i fatti che riguardano
la graziosa cappelletta, a cui il tabernacolo servì, per così dire,
di nocciolo; terza: i fatti che riguardano l’attuale graziosissima
chiesa, nella quale il vetusto dipinto è parte ed ornamento dell’altare
maggiore. Tre parti, tre epoche, tre età: il nostro Santuario infante,
adolescente, adulto. Cosa ne dice?

— Bene, molto bene — rispose Massimo, tanto per mostrare d’aver
ascoltato, ma di questa ultima parte del discorso di Oliveri non
aveva inteso neppur una sillaba. Egli stava in orecchi, aspettando
ansiosamente d’udire una voce, un passo, un indizio qualunque della
presenza di Liana.

L’avvocato rimase un momento in silenzio come per raccogliere le idee,
poi ripigliò.

— Don Prato ha promesso di fornirmi altre notizie ed altri particolari,
ma ehm! li vedo e non li vedo, che quel poveretto in questi giorni non
può proprio attendere di proposito a niente, tanto è continuamente e
scelleratemente tribolato da quella canaglia di Bechio. Colui vorrebbe
vederlo sul pulpito con accanto la bandiera tricolore, come il parroco
di Cavallermaggiore; vorrebbe ch’egli non spiegasse altro che i
_Diritti dell’uomo_, o certe sue pappolate repubblicane; lo accusa
d’aver conservato tutti i pregiudizi d’un prete realista sol perchè
non si pianta in testa il berretto frigio, non indossa la carmagnola,
non va a ballar la monferrina e a baciucchiare le belle intorno
all’albero della Libertà... Se sapesse come quel birbante spadroneggia
e detta la legge in paese! Bisogna sentire con che sicumera egli va
spargendo intorno le sue bestialità: finito il tempo dei balzelli e
dei privilegi, libera la caccia, libera la pesca, libero il commercio;
aperta a chiunque la via per diventar magistrato, ministro, generale,
vescovo, cardinale; pane, vino, sale gratis et amore; lavoro per
tutti; eguaglianza, fratellanza, abbondanza e felicità. E questi
poveretti senza malizia abboccano e batton le mani; s’accorgeranno
poi dell’inganno, ma sarà tardi. Senta, io credo che i nostri posteri
dureranno una bella fatica a credere vere le cose che vediamo coi
propri occhi in questa nostra età. Chiovetti scrive che a Torino c’è
fermento, disordine, una confusione babelica: chi vuol esser francese,
chi italiano; quelli che vorrebbero restar piemontesi, non contano più
un’acca. Lei è informato, eh? Sa che ha vinto il partito di coloro
che preferiscono star con chi comanda piuttosto che con chi deve
ubbidire? Saprà anche che ci sono commissari che girano nelle provincie
a far gli squittini per l’unione con la Francia? Chi mi avesse detto
che dovevo finire infrancesato!... Si va a cavar fuori che un tempo
eravamo Galli anche noi!... Ah sì? Giuro a Dio, che non me ne ricordo!
Mi ricordo d’un altro tempo, io: di quello in cui il nostro Piemonte
poteva amoreggiare allegramente con la Francia, la Spagna, l’Austria
e l’Inghilterra; le quali tutte, per Giove! si mostravano ottimamente
disposte all’amplesso.

Massimo aspettava che l’avvocato facesse una pausa, per dar una voltata
al discorso e ricondurlo a Liana; intanto crollandosi sulla sedia,
diceva tra se: — Che diavolo fa la signora? Se è in casa perchè non
viene? Se è fuori dove può essere andata? Possibile ch’ella non sappia
ch’io sono qui? Possibile che non m’abbia sentito?

E non potendo più raffrenare la sua impazienza, cominciò dall’alzarsi
e si venne contorcendo or sur un piede, ora sull’altro, finchè Oliveri
cessò di parlare; allora gli stese la mano.

— Vuol andare? — domandò questi. — Tornerà presto, eh? Non mi
abbandoni; c’è poca gente con cui io stia volentieri come con lei.

E così dicendo scosse il campanello ch’era sul tavolino.

— Grazie, prego — susurrò Massimo, uscendo dalla stanza, — conosco la
strada.

In tre salti fu al basso; fece alcuni passi nel cortile, poi si fermò
su due piedi, già pentito d’esser venuto via così bruscamente, cercando
un pretesto per tornar su non fosse che un momento.

E stando così immobile con la mano al mento e l’occhio a terra fisso
e pensoso, sentì improvvisamente aprirsi una finestra; si voltò: vide
Liana che faceva capolino sorridendo e un poco arrossita.

— Vengo giù — diss’ella; — mi vuol aspettare?

Massimo rispose con un atto che significava grandissimo consentimento,
ma non potè formar parola o frase nessuna, tanto fu potente il senso di
gioia che lo invase. La finestra fu richiusa; passarono pochi minuti,
che al giovane parvero eterni, e, quando cominciava quasi a dubitare
d’aver traveduto o sognato, Liana ricomparve e si approssimò. Il suo
volto non era nè ilare, nè serio; la persona e le movenze rivelavano
che la salute e il vigore erano pienamente tornati.

— Esco a far due passi — diss’ella, — fino alla strada di Racconigi.
Non oltre, perchè la donna è fuori e non voglio lasciar troppo solo mio
padre.

Diede con tranquilla dimestichezza la mantiglia a Massimo perchè
gliel’adattasse sulle spalle, intanto soggiunse:

— Come lo ha trovato?

Massimo, che si disponeva a render conto della sua assenza, non capì.

— Le domando come ha trovato mio padre? — ripetè Liana con dolcezza.

— Ah! bene, assai bene... Fuorchè il piede, naturalmente.

— Quello del piede è un male immaginario, una fissazione dalla quale
non si rimuove, ma il medico assicura ch’egli potrebbe camminare, anche
uscire, se volesse. Ciò che m’impensierisce è lo stato d’inerzia in cui
lo vedo caduto. Gli ho proposto più volte di tornare in città; geme,
sospira, ma non risponde. Vi sono giorni in cui si direbbe ch’egli
è nell’impossibilità di fare nulla, di parlar di nulla, di pensare a
nulla. — S’interruppe, poi ripigliò con accento costernato: — anche la
sua mente non mi par più lucida come in addietro.

— No? — esclamò Massimo — di questo non mi sono proprio accorto. Oggi
mi ha parlato con entusiasmo d’un lavoro che sta per intraprendere;
pareva felice d’aver trovato un bel soggetto, e si esprimeva molto
sensatamente, con molta chiarezza.

— Dio voglia ch’egli torni presto quel di prima!... Io lo vedo anche
così invecchiato, così affralito!

— È il primo inverno ch’egli passa in campagna, lontano dai suoi amici;
forse si annoia.

— È verissimo; la mia compagnia non gli può bastare, e di tutti quelli
che venivano in casa nostra, il parroco solo ci è rimasto fedele.

— Questa viene a me — disse Massimo in cuor suo; e subito, ad alta
voce: — anch’io mi son reso troppo invisibile, conosco il mio torto, ma
se sapesse! Non ho più avuto un momento di quiete, di riposo, in questi
ultimi tempi. Tanti pensieri, tante cose! Poi sempre in moto... M’abbia
per iscusato.

Erano giunti dove metteva capo la piccola strada; Liana si fermò senza
far cenno d’aver inteso e volse l’occhio in giro sulla campagna spenta,
sull’orizzonte pieno di vapori, nei quali moriva il disco solare
abbacinato e sanguigno.

Massimo, un po’ ferito dal silenzio di Liana, si turbò forte vedendo
già venuto il momento di separarsi da lei; diceva in segreto a sè
stesso: — Ecco che non dovevo venire, dovevo resistere a quel primo
impeto sciocco, mi sarei acquietato, a quest’ora non ci penserei
forse più. Invece chi sa che diavoleria mi sentirò addosso stasera,
stanotte, domani! — La rimembranza delle sofferenze altra volta
provate, destò nel suo animo un vero sgomento, e una non so qual
rabbia di riscattarsi in qualche modo; sentendosi affatto disarmato di
fronte all’indifferenza di lei, gli parve un sollievo tornare ai suoi
propositi di fuga. Cercò col pensiero, trovò, e, guardando in alto,
prese a dire con voce non troppo sicura:

— Ecco un cielo sotto il quale mi par proprio di non respirar più.
Oramai non resta altro che seguir l’esempio di tanti fra i miei
antichi commilitoni che hanno preso servizio in Austria, in Russia,
in Inghilterra. Sto appunto bilanciando il pro e il contro. La cosa
mi sembra utile e bella... Ma a primo aspetto non sempre si giudica
bene... Sentiamo un po’: lei che mi direbbe di fare?

— Io? — esclamò Liana, inarcando le ciglia.

— Sì, signora.

Ella pensò un momento, poi rispose con un sorriso:

— Perchè non si consiglia coi suoi?

— Mi son già consigliato.

— E allora?

— Non basta: voglio anche il suo parere.

— È una questione troppo grave.

— Appunto perchè grave.

— Non posso... anzi, credo che non devo risponderle.

— Oh perchè non mi dice addirittura: faccia quanto le pare e piace, che
per me è tutt’uno?

Tacque, vedendo stendersi come un’ombra sulla fronte pura e serena di
Liana.

— Avanti! — diss’ella, con un’improvvisa energia di voce. Poi vedendo
ch’egli, incerto e titubante, si mordeva il labbro e non sapeva che
dire, ripigliò:

— È chiaro che se lei parte io perdo un amico...

— Ah! — interruppe il giovane con fuoco: — dunque lo sa che sono un
amico?

— Non ne ho mai dubitato.

— Grazie! E allora mi dica: quest’amicizia ha qualche valore per lei? È
una domanda insulsa, lo so, però la prego di rispondermi.

— No insulsa, inutile.

— Perchè?

— Basta così; bisogna ch’io torni.

E si fece alquanto indietro.

Massimo si riaccostò subito, tanto che potè vedere come un leggier
tremito nelle mani di lei, una leggiera inquietudine nelle labbra e
nelle ciglia.

— Non mi lasci in questo modo — riprese egli; — non sente che è una
durezza, una crudeltà? Non le domando che una parola, mi dica che
sarebbe spiacente di sapermi lontano, ed io non parto più.

— Noi stiamo celiando, e mio padre è solo.

— Celiando? Lei non sa che momento è questo per me! Ho bisogno,
ho necessità d’una sua parola. Vorrei anche dirle perchè mi è
indispensabile, ma non so come esprimermi. È una cosa tanto dolorosa
questa di non sapersi spiegare! Una cosa dolorosa, opprimente,
terribile.

Ella tornava verso casa passo passo; egli la seguiva parlando sempre,
sempre più eccitato.

— Non mi so spiegare, ma mi dovrebbe comprendere. Dovrebbe anche aver
indovinato. È tanto tempo che non ho più in cuore altra immagine fuor
della sua; che non capisco vi sia al mondo altra donna se non lei sola!
Non vi è più niente per me. Niente assolutamente, non v’è che lei.

Ella si voltò con impeto, stringendosi nervosamente la mantiglia sul
petto.

— Parte stasera?

— No.

— Domani?

— No, no...

— Bene... Non stia più un secolo senza venire a Murello.

E si allontanò rapida, infinitamente leggiadra.




XXVI.


I furori repubblicani potevano oramai dirsi interamente sbolliti; il
malcontento cresceva a dismisura. Gli abbienti erano sdegnatissimi
contro il Governo, il quale, con provvedimenti finanziari aspri ed
inconsulti, li aveva fatti scapitare per modo che molti fra loro erano
veramente caduti in miseria. I non abbienti, che per le suggestioni dei
patrioti s’erano assuefatti ad attribuire all’antico reggimento i mali
passati, si mostravano coerenti attribuendo al nuovo i mali presenti,
e cominciavano a fremere vedendo, dopo tante magnifiche promesse, la
moneta effettiva sempre più ridotta, il credito dei biglietti divenuto
illusorio, i guadagni diminuiti, il commercio incagliato, i filatoi
chiusi e il pane e la carne rincarare tutti i giorni.

Intanto nelle campagne l’epizoozia si estendeva, i prodotti del suolo
non bastavano al pagamento delle imposte; e i francesi requisivano
cavalli, muli, strami, foraggi, vuotavano i pollai e le cantine, si
facevano consegnar le armi, lasciando i contadini senza difesa contro
le audaci e numerose bande di ladroni che andavano attorno.

I soldati piemontesi non potevano piegarsi a considerar come amici
quelli con cui eran venuti tante volte al paragone dell’armi, contro
i quali avevano nutrita tanta animosità per l’addietro, e che ora
li trattavano non come camerati, ma come vinti. Di qui indisciplina,
diserzioni, ammutinamenti.

L’erario, già scarso negli ultimi tempi della monarchia, s’era venuto
esaurendo in seguito alle continue estorsioni dei generali e dei
commissari francesi. I governanti, che dovevano pur pensare ai bisogni
urgentissimi dello Stato, s’erano ben presto avveduti esser cosa
impossibile sottoporre a nuovi aggravi un popolo già oppresso da tanti
pesi, percosso da tante terribili sciagure. Dichiarati appartenenti
alla Nazione gli arredi delle chiese, santuari, confraternite,
conventi, sinagoghe; proclamati benemeriti della patria tutti
quelli che offrissero doni; ricorso, per far denaro, a non so quanti
espedienti vessatorj, tirannici, gretti, puerili, fra cui quello di
recidere dai pubblici trattati, contenuti negli archivi, i sigilli di
metallo prezioso e perfino i cordoncini che apparissero contesti d’oro
o d’argento: alla fine, sentendosi soli, esautorati, assolutamente
impotenti di fronte ai mali che incalzavano, vedendosi giunti a tale da
non saper neppur più di che natura fosse l’esistenza politica del paese
di cui reggevano le sorti, avevano deciso di chiedere l’unione colla
Repubblica francese, e possibilmente d’indurre il popolo a domandarla.

Le voci per l’annessione non oltrepassarono le centoventicinquemila,
e tosto per Cuneo, per Fossano, per parecchie altre città si levò un
gran bolli bolli; a Torino comparvero novissime coccarde e bandiere,
alle cantonate si videro affissi incitanti il popolo a levarsi contro i
francesi, si dovettero sciogliere assembramenti con la forza, arrestare
i cittadini più notoriamente avversi all’unione. Nei villaggi si
vociferò che tra poco la carta monetata sarebbe stata abolita senza
alcun compenso, il culto cattolico rigorosamente vietato, i parroci
cacciati dalle loro chiese, i giovani tutti mandati a militare oltre i
monti. In alcuni comuni si diede nelle campane all’annunzio che schiere
immaginarie si avvicinavano per procedere alla leva forzata. Frotte di
contadini, armati di bastoni, entrarono sul far della notte in Torino
dalla porta di Po e da porta Palazzo, e si aggirarono vociando per
le strade, senza trovare nè appoggio nè contrasto. Si videro apparire
segni precursori di movimenti insurrezionali in luoghi molto distanti
fra loro: nei paesi intorno a Savigliano, nel cuore della valle
d’Aosta. Ben presto seguirono casi gravissimi.

Avendo gli uomini di Rivalta cacciato in mal modo il commissario,
quei di Strevi credettero bene di seguirne l’esempio, maltrattando
i municipali e abbattendo l’albero della Libertà. Monsignor vescovo
della Torre andò per chetarli, e vi riusciva, quando arrivò sul luogo
il capitano Blayat, comandante la piazza d’Acqui, con un distaccamento
della 29ª mezza brigata d’infanteria leggiera. Non si badò più al
buon prelato che continuava a predicar pace; si venne alle mani; i
_chasseurs_ ebbero la peggio: sette di essi rimasero feriti, ferito un
ufficiale, morto il capitano.

Gli strevini, imbaldanziti fuor di modo dalla vittoria, s’avviarono
tumultuariamente verso Acqui, vi giunsero ingrossati, e non trovando
resistenza, nominarono una Municipalità, un intendente, alcuni
comandanti, poi cominciarono a dar la caccia ai giacobini e il sacco
alle botteghe degli ebrei.

Frattanto il medico Porta ed il procuratore Laneri, che facevano
in certo modo da capi, continuavano a raccoglier gente, mandavano
circolari ai comuni vicini per invitarli a unirsi e ad aiutare
gagliardamente quel moto. Tutto all’intorno s’udiva uno scampanìo
furibondo ed incessante; i terrazzani si armavano ed accorrevano
a furia, quasi sicuri di farsi in breve tempo padroni dell’intero
Piemonte. La rabbia e il disordine erano tali, che don Bruno, arciprete
di Montechiaro, venne freddato mentre s’ingegnava di far intender
ragione ai suoi parrocchiani.

Quando parve tempo a chi era alla testa, la rustica falange si mosse
per far sua Alessandria. Si gridava: — Viva Strevi! Viva Acqui! Viva
la nostra faccia! Viva noi! — Alcuni gridavano: — Viva il Re! — E
quei pochi che sapevano come gli austriaci ingrossassero sull’Adige,
gridavano pure: — Viva l’Imperatore! — Procedevano bestialmente
fidenti, urlando, sbravazzando, accogliendo con schiamazzi festosi
quelli che si univano a loro e svillaneggiando e malmenando i
renitenti.

Sostarono per tentar Nizza della Paglia; che, cinta d’un vecchio muro,
resistè bravamente; inviarono da Cantalupo un messo al comandante di
Alessandria per intimargli la resa; infine dilagarono davanti alla
città in numero di otto o novemila. Erano le sette mattutine del giorno
2 di marzo.

Mentre ronzavano come mosconi, aspettando che almeno una parte dei
cittadini si movesse in loro favore, questi si apparecchiavano alla
difesa; e il comandante francese Mail ordinava si sparasse a mitraglia.
Dopo una prima scarica, il marchese Colli di Felizzano, il quale viveva
privatamente in città, consigliò di mandar fuori una semplice compagnia
della prima mezza brigata piemontese, un battaglione della quale stava
nella fortezza, persuaso che quei soldati, non invisi agl’insorti,
sarebbero riusciti a disperderli senza grave spargimento di sangue.
E così avvenne: i piemontesi uscirono, agguantarono Porta, che s’era
fatto avanti chiedendo di parlamentare; poi, sfoderate le sciabole,
presero a piattonare senza misericordia. Gli urli, le strida andarono
alle stelle; la ciurmaglia tentennò, si sgominò, si ruppe in torme
fuggenti pei campi e pei prati.

Intanto Grouchy, sollecitamente informato, aveva mandato ordine
all’aiutante generale Seras, comandante della Divisione di Mezzogiorno,
di portarsi con un buon nerbo di gente in Alba e spingersi, ove
occorresse, nella valle della Bormida, verso Bubbio e Monastero;
all’aiutante generale Molard, comandante della Divisione del Nord, di
guernire fortemente Crescentino, Casale e altri luoghi, per impedire
che l’insurrezione si estendesse in quelle parti; aveva spedita da
Torino una schiera in Asti, affinchè sotto gli ordini del comandante
Flavigny marciasse su Alessandria; poi s’era mosso egli stesso con un
reggimento di cavalleria e due battaglioni di fanteria. Non trovò più
che branchi di fuggiaschi vaganti per la campagna; entrò in Acqui da
una parte, mentre la colonna di Flavigny entrava dall’altra, reduce
da Strevi incendiato, ma non saccheggiato. Venivano insieme, gloriosi
e trionfanti, i patrioti di Alessandria e di parecchi altri luoghi, e
un corpo di cavalleria mandato da Tortona; avevano trucidato, cammin
facendo, circa quattrocento infelici.

Grouchy ordinò immediatamente l’arresto di quarantasei cittadini:
quattordici per aver accettato uffizi dai rivoltosi, undici perchè non
godevano la pubblica fiducia, ventuno perchè gravemente indiziati di
complicità nei tumulti. Furono tutti condotti in Alessandria: i primi
venticinque come ostaggi, gli altri per esser giudicati dal Tribunale
di alta polizia. Furono tolte le armi ai comuni che non avevano cercato
di far ostacolo all’insurrezione; imposte taglie onerose e spezzate le
campane a quelli che vi avevano preso parte.

Il generale francese si mostrò in certo qual modo mite; più miti di
lui i cittadini Colla e Avogadro incaricati dal Governo di riassettare
le cose. Flavigny invece lasciò risaccheggiare Acqui, e si servì, nel
pacificar la provincia, dei mezzi ahi! tanto esperimentati in Vandea.

Il 6 di marzo il conte Annibale avvisò i suoi che pregassero per la
salvezza dei conti Lupi, Scati, Piuma, Radicati, del barone e del
capitano Accusani tutti detenuti in Alessandria, e raccomandassero a
Dio l’anima dell’abate Giuseppe Domizio Arbaudi, passato per le armi
come il medico Porta e venticinque o trenta altri ribelli.

Leggendo il biglietto di suo marito, la contessa Polissena si sentì
agghiacciare il sangue. Massimo, informato dell’agitazione che regnava
in quel di Fossano, era partito appunto il giorno avanti, risoluto
di tener dietro e partecipare a qualunque novità fosse per farsi. Il
cavaliere Mazel e il marchese Violant avevano cercato di dissuaderlo,
affermandosi ormai convinti che tutte quelle imprese spicciolate,
arrischiate, malcondotte, non servivano ad altro che a dar lavoro al
boia. Ma ella, sebbene sentisse che la ragione stava dalla parte loro,
non aveva fatto nulla per trattenere suo figlio, ed ora si pentiva
fortemente d’averlo lasciato andare.

Mentre Mazel, Violant e Giacinto commentavano le poche righe del
conte, ed ora commiseravano l’abate, ora ne facevano l’elogio, ora lo
tacciavano d’imprudente per essere entrato in quel gran ginepraio, la
contessa si aggirava per la casa e per il giardino cercando schermo
contro la sua viva ansietà. Quando i tre gentiluomini si avvidero dello
stato in cui ella si trovava, s’ingegnarono di farle coraggio.

— Sta tranquilla — le diceva il marchese, — non accadrà nulla. Adesso
che i monferrini le hanno toccate, chi vuoi che abbia tanto fegato da
ritentare la prova? Sta tranquilla, ti dico.

— Per amor di Dio! — susurrava il cavaliere — non vi tormentate così.
Sentite, sono qui: non avete che da parlare. Volete ch’io vada a
cercar Massimo? Lo troverò fosse anche in capo al mondo... Solamente
bisognerebbe saper bene la direzione ch’egli ha preso. Cos’ha detto?
Che voleva spingersi fin verso Fossano, mi pare? Uhm! E se invece
d’andar diritto, avesse piegato a destra o a sinistra? Sappiamo bene
com’è fatto quel bravo figliuolo!

Diceva poi in segreto al marchese:

— A quest’ora sarei già per istrada se non fosse d’un certo dubbio.
Siamo poi proprio sicuri che Massimo sia andato dove ha detto d’andare?
Cospetto! Sapete cosa voglio dire? Chi sa che non gli occorresse un
pretesto per passare una notte o due fuori di casa. Siamo stati giovani
anche noi. Certi maneggi, certi sotterfugi li conosciamo, non è vero?

La grave giornata passò, venne la notte. La contessa volle vegliare
fino a tardi nel salotto terreno, in compagnia dell’amico, del
fratello, del nipote; i quali, avendo detto ormai tutto ciò che
sapevano per confortarla, tacevano assonnati e immelensiti; poi salì in
camera e postasi a un inginocchiatoio, sul quale stava un crocifisso
con la croce d’ebano e il Cristo d’avorio, eccellente opera d’antico
artista, si sforzò invano di concentrarsi con la mente in pensieri
di devozione; si sentiva turbata, sconvolta da mille strane ed enormi
immaginazioni, per le quali le pareva di vedersi sfilar dinanzi forme
fugaci ed orrende, che la colmavano d’un indicibile terrore. Dopo un
poco si alzò, si mise sul letto vestita e aspettò il nuovo sole in
quello stato di tensione nervosa, per la quale ogni piccolo rumore che
venga improvviso fa dare un balzo ed accelera il battito.

Mancava un’ora all’incirca al far del giorno ed ella, cedendo alla
stanchezza, cominciava a velare un po’ gli occhi, quando udì nascer
lontano lo strepito d’un cavallo che batteva la terra di trotto. Pensò
tosto: — Sarà Massimo? — E rizzandosi a sedere e giunte le mani, pregò
brevemente, affannosamente Iddio che le risparmiasse una delusione
troppo amara.

Il cavallo venne innanzi, voltò nel viale. La contessa balzò fuori
della stanza, sul pianerottolo; stette in ascolto. Per alcuni minuti
non sentì che il battere interno, quasi convulso del suo cuore, poi le
parve di scorgere un’ombra, una figura umana a piè della scala.

— Massimo! — diss’ella.

Massimo rispose con un’esclamazione inarticolata; in un lampo fu su,
nelle braccia di sua madre, che se lo tirò in camera senza aprir bocca.

— Come mai? — diceva il giovane sottovoce. — È già alzata, oppure...?
Dica la verità: lei è stata in pensiero per me? Santo Dio, se avessi
saputo!

— Sarai stanco, eh?

— No, perchè non ho fatto niente; meno che niente, ho chiacchierato.

— Dove? Con chi? Raccontami tutto.

Massimo prese due sedie, le accostò davanti al cassettone su cui ardeva
la lucerna.

— Lei si ricorda — diss’egli, come si furono messi a sedere, — che son
partito di qui deciso d’andar direttamente a Fossano?

— Mi ricordo.

— Bene; ma poi per istrada pensai: chi sa come si sarà dato attorno
Di Capolea in questi ultimi giorni per procurarsi nuove, mandarne,
abboccarsi coi principali del nostro partito! Andiamo a prender
lingua. E svoltai verso la tenuta. Fui ricevuto con moltissime feste
tanto dal cavalierino, come da sua sorella. Egli mi disse che non
potevo capitar più a tempo: stava giust’appunto per mandare un uomo
ad avvertirmi d’una gran radunanza che si doveva fare in casa sua il
giorno appresso, per vedere se non fosse il caso di tentare un gran
colpo, mentre buona parte delle truppe della Divisione di Mezzogiorno
si trovava ancora in Alba. Soggiunse esser quasi certo che Di Rivas
sarebbe venuto quella sera stessa, per ordinare e stabilire il disegno
di guerra. Fu la speranza di veder Di Rivas che m’indusse a fermarmi.
Ma egli non comparve; arrivarono invece, poco prima di cena, San
Giorgio e Francastel, e la mattina di poi, prima di mezzogiorno:
D’Altapenna, Della Rivarola, Nizzati, Canalis e Gausier il giovane. Si
desinò, poi si cominciò a discorrere. Di Capolea propose la questione
in questi termini: — Dobbiamo sì o no dar l’andare al movimento? E
quando? — Sul primo punto, tutti d’accordo; sul secondo, tanti cervelli
tanti pareri. Chi indicava un giorno, chi un altro; chi voleva agir
subito, chi aspettare un mese, due, tre; insomma non c’era verso
d’intendersi. Io ero stufo e me la sarei battuta molto volentieri; il
cavalierino andava dall’uno all’altro tutto scalmanato, cercando di
conciliarli... Il sole era andato sotto da un pezzo, quando si vide
entrare nella sala Clemente Di Rivas. Era ansante, sudato, infangato
fino alla collottola, e grave e addolorato nell’aspetto. Disse, nel
suo solito modo tronco ed adirato, che non era per annunziare gran
che di buono. Gli accentramenti che si venivano formando nei dintorni
della Maddalena, e più qua e più là sulla riva sinistra della Stura,
erano stati sciolti prima che avessero tempo a collegarsi. Seras aveva
fatto marciare contro di loro, divisi in varie colonne, il battaglione
Christ ed un distaccamento de’ carabinieri piemontesi scelti, guidati
da un giovane aggiunto allo Stato Maggiore della Divisione, il capitano
Monthouxe. Risultato dell’azione: paesani morti circa quaranta,
quaranta prigionieri; bruciate due case presso Santa Maria, dalle quali
erano stati sparati colpi di fucile che avevano ferito gravemente due
carabinieri ed ammazzato un cavallo. Aggiunse che adesso si stavano
pigliando le solite misure militari contro dodici comuni, e che più
nessuno osava fiatare. Ci consigliò poi, anzi quasi ci ordinò, di
tornar subito tutti alle nostre case e di star sull’avviso. Io uscii
con gli altri, ma sbagliai strada e andai, non so come, a riuscire
sulla riva di Macra...

La contessa, che si era alzata, andò lentamente a prendere una carta
sur un tavolino e la mise sottocchio a suo figlio.

— Come! — esclamò questi, dopo aver data una rapida occhiata al breve
scritto, — anche l’abate Arbaudi... Oh poveri noi!

Tacque un momento, poi riprese con voce spossata:

— Quanto sangue sprecato! Quante cose pazze ed atroci! In che tristi
tempi ci tocca vivere, mamma! Non pare anche a lei di sentirsi come
condannata ad espiare errori, colpe, delitti che non ha commesso?
Io vorrei tornar indietro, tornar bambino, non saper più niente, non
capir più niente. Non ho la forza di svincolarmi da queste strette di
scoraggiamento penoso. Mi sento stanco stanco, non ne posso più!

— Va a dormire — disse la contessa sorridendo a fior di labbra, — va a
dormire, povero figliuolo, che tu ne devi aver bisogno.

Era in piedi davanti a lui: gli posò una mano sul capo, prese ad
accarezzargli amorosamente i capelli, guardando il color di perla
gentile che veniva nascendo col giorno sull’invetriata.

— E a Murello — soggiunse poi sottovoce — non ci vai proprio più?




XXVII.


La stagione si riabboniva ogni dì più; la primavera si annunziava nel
turchino limpido e lucente del cielo; nella atmosfera pura e sottile,
che lasciava discernere le lontanissime cose; nell’acqua increspata da
dolcissimi aliti; nelle piante che si rivestivano di foglie e di fiori;
nei prati, ove tra l’erbe avvizzite, spuntavano innumerevoli i teneri
fili; nella campagna tutta, che germogliava e verzicava festeggiante,
premurosa di rinascere, promettitrice d’un’annata mirabilmente prospera
e feconda.

Liana anch’essa si sentiva commossa dalla divina effervescenza che si
veniva producendo all’intorno. Usciva di casa molte volte al giorno,
certa di ritrovar sempre maraviglia nuova e nuovo piacere: poichè il
giardino e i dintorni variavano in cento grate maniere aspetto e colore
al variare del cielo e delle ore. Godeva camminare sotto il sole,
temperatamente caldo, fra le carezze dell’aria salubre e olezzante;
un profondo e largo respirare che a quando a quando le si apriva dal
cuore, pareva le portasse via a nuvoli i foschi pensieri, che per tanto
tempo avevano pesato su di lei. Rideva di rado, ma sorrideva sovente,
anche da sola, mentre la sua fantasia andava mollemente vagando di
sogno in sogno. Pensava ancora assai spesso a Luigi; si affissava
talvolta nel ritratto di lui, e si accorgeva con stupore, con rammarico
che non solamente non si sentiva più schiantar dentro dalla passione
come in addietro, ma non riusciva più a rendere col pensiero a quelle
morte fattezze la vita.

La blanda commozione del giorno diveniva vera agitazione la sera.
Appena salita in camera cominciava a provare un’ansia, un misto
incomprensibile di desiderio, di dubbio, d’impazienza. Spalancava la
finestra sentendosi soffocare, e tendeva l’orecchio e aguzzava la vista
e scrutava affannosamente le tenebre, quasi attendesse un fatto ignoto
e misterioso che doveva colmarla d’una gioia ineffabile. Sovente si
trovava come travolta da un turbine di rimembranze che aveva creduto
cancellate per sempre; e talor anche le si presentava repentinamente
al pensiero lo sguardo pieno d’amore di Massimo, e certe sue parole
passate volando confusamente fra l’altre, e che tornavano spiccate,
e suonavano espressive, eloquenti, penetranti così ch’ella si sentiva
accendere il viso e balzare il cuore.

Il giovane aveva ricominciato a venire metodicamente ogni giorno,
subito dopo pranzo. Tenevano compagnia a Oliveri in quell’ora Liana,
don Prato e qualche rara volta anche Arignani.

L’avvocato, il quale, a ragione od a torto, stimava che una buona
chiacchierata aiutasse la digestione, non si chetava mai. Tutto gli
serviva per conseguire lo scopo: lettere, notizie, fantasie, ricordi.

— Venga qui, venga qui! — esclamava vedendo entrar Massimo, e
mostrandogli un foglio gualcito: — senta questa roba che mi è stata
mandata da Torino. Sono versi, con cui un mio egregio collega,
l’avvocato Nocenzo Amedeo, accompagna una spada, due fibbie e tre altri
minuti pezzi d’argento che offre in dono alla Nazion Piemontese:

    Io mi disarmo il fianco,
      Mi disadorno il piede
      Qual Cittadin non vede
      Che più non posso far?
    Ex-nobile non sono
      Ricco giammai son stato,
      Son debole Avvocato,
      Vivo del mio lavor...

Tralascio il resto. Anche il cittadino Ferrero Leonardo regala alla
patria un paio di fibbie e un parto del suo ingegno. Le fibbie son
d’argento e di forma così emblematica che tempo fa essendosi recato con
quelle ai piedi dal governatore, o, come dice Leonardo, dal Pascià di
Vercelli, s’ebbe la più acerba e minaccevole sgridata ch’egli udisse
mai. Il parto è questo:

    Nel Governo atrabilare,
      Dell’estinta monarchia
      Questa forma equiangolare
      Destò questa gelosia.
      Or che un piano regolare
      Succedette a tirannia,
      Della Patria sull’Altare
      Quest’emblema d’armonia
      Io consacro a chi ci dà
      Uguaglianza, e Libertà.

E avanti: musica! Che Dio ci guardi, scampi e liberi, perchè io prevedo
un diluvio di sì fatte rimacce!

Molto spesso Oliveri pescava a caso nel mare magno dei suoi ricordi e,
mentre don Prato cominciava, per esempio, a parlare delle biade che
davano indizio di non voler far la riuscita che si era sperata, lo
interrompeva di punto in bianco per chiedergli:

— Ma lei, sor parroco, non li ha visti gli emigrati?

E come il buon prete stava a bocca aperta a guardarlo, egli ripigliava
immediatamente:

— Ah non parlo dei primi, intendiamoci, di quei petulanti spensierati
che vennero col conte d’Artois e che vollero far di Torino il quartier
generale dell’emigrazione e d’altre cose ancora, tanto che si trovò
il motto: «_Augusta Taurinorum, refugium peccatorum_». No, no, voglio
parlare degli altri, di quelli che furono sbalzati di qua dall’Alpi
dalle successive scosse del formidabile terremoto. Sono questi che
bisognava vedere per farsi un’idea di quanto possa il capriccio di
madama Fortuna; chi non le ha viste, non può immaginar cosa fossero
quelle miserande comitive, composte di persone nate così in alto e
precipitate così in basso. Che miscuglio! Che guazzabuglio! Poveri
_hobereaux_ ignoranti che non avevano forse mai varcato i confini
del loro dominio, cortigiani leziosi _qui embaumaient Versailles_,
capitani illustri, invecchiati nelle armi, magistrati austeri, avvezzi
a ministrar la giustizia nei primi tribunali del grande reame, degni
e santi prelati, e nobilissimi principi, duchi, marchesi, conti,
visconti, baroni, vidami; tutta gente che avrebbe piuttosto creduto
all’estinzione del sole, che alla caduta dell’antico regime. E le
donne? Le _douairières_, le _chanoinesses_, le dame titolate di ogni
sorta e d’ogni età, quali incinte, quali con la loro creatura al petto
o in collo; e fanciulle, giovinetti, bambini coi loro fardelletti in
mano o sulle spalle, venuti a piedi o in ruvidi veicoli, stracchi,
smunti, affamati, vaganti per le strade in cerca d’asilo... Ti
ricordi, eh Liana, di quel cavaliere di Saint-Louis, che una sera
abbiamo trovato sfinito sugli scalini di San Filippo, e che fu
nostro ospite per qualche giorno? Si chiamava monsieur de Riberac, un
bellissimo tipo di gentiluomo francese, ex-ufficiale nel reggimento
Enghien (_premier au feu, dernier au pain_, come diceva egli stesso).
Poveretto, era imbecillito dalla forte sciagura, e mi rammento che
a tavola ciarlava continuamente, passando da una cosa a un’altra,
come se voltasse i fogli d’un memoriale pieno zeppo di cose slegate,
futili, morte. Cominciava, verbigrazia, a parlarci dei malumori tra
non so che cancelliere e madame Dubarry, roba di vent’anni prima;
poi del marquis de Fénille, _qui s’était rendu si célèbre dans l’art
de découper à table_; poi del _joli petit vicomte de_... vattel’a
pesca, _qui ne montait jamais à cheval sans avoir mis du rouge_. Oh!
mi par ancora di sentirlo: — _Nous avons déjeûné a Ville d’Avray...
J’ai dîné chez la belle comtesse de... Roncerolles. J’ai soupé chez
mademoiselle Clairon_... Oppure: _la parade n’a été ni plus longue, ni
plus brillante qu’à l’ordinaire: une ligne d’habits bleus, une ligne
d’habits rouges, le salut des espontons, et marche à la caserne!_...
Quand’era, o si credeva solo, moveva prestissimamente le labbra,
facendo gesti or con una mano, or con l’altra, e pareva ragionasse tra
sè. Poi un giorno scomparve e non ho mai più avute notizie di lui.
Ho sempre pensato che il cervello gli avesse dato volta del tutto
e che fosse finito nel Po, perchè quello non era uomo da andarsene
insalutato ospite; fosse stato un sergentaccio austriaco, non voglio
dire, ma un cavalier francese! La _politesse_, per Bacco!... Eh eh
eh! Gli austriaci! i nostri buoni alleati! Se chiudo gli occhi vedo
anche quelli: vedo le facce grinzose e le sordide divise dei veterani
di guarnigione, mandati come complemento del corpo ausiliario. Bravi
soldati, cred’io, ma al tempo dei tempi. A Torino non facevano altro
che dar noia alle pizzicagnole, andando alla piazza; o stavano
a grattarsi la pancia, a leccar sego ed untumi, ad intrecciarsi
reciprocamente il codino sui muricciuoli o sulle panchine dei viali.
Che porcaccioni!

Suonavano le tre; Oliveri prendeva la penna, don Prato se ne andava pei
fatti suoi, e Liana passava nella stanza attigua insieme con Massimo.
Sedevano davanti alla finestra, da una parte e dall’altra d’un piccolo
tavolino rotondo; ella cominciava a lavorare, ed egli impadronendosi
scherzosamente dell’astuccio col necessario ai lavori donneschi, stava
attento a porgerle quanto le bisognava; intanto si veniva baloccando
coll’agoraio, col ditale, con le cisoine: provando nel palpare quegli
oggetti, maneggiati e rimaneggiati da lei, un godimento fine, squisito,
che gli rinfrescava il sangue e gli allargava il cuore.

Parlavano per lo più sommessamente per non disturbare Oliveri, sia
che scrivesse o meditasse o sonnecchiasse. E questa abitudine e lo
intendersi scambievole senza bisogno di dirsi scolpitamente le cose o
condurre a capo ogni frase, pareva dovesse accrescere e stringere vie
più l’antica famigliarità. Infatti Massimo sempre si partiva convinto
d’aver fatto un altro piccolo passo verso la meta cui tendevano tutte
le sue speranze; ma il dì seguente, appena si ritrovava solo con
Liana, tornava a sentire l’invisibile, misterioso ostacolo che li
teneva divisi. Si accingeva sùbito con timidità scorata a riacquistar
pianamente quanto credeva di avere perduto; e vi riusciva. Vi riusciva
perchè anch’essa accortamente lo aiutava a cercare un tema di discorso,
su cui, come su un campo neutrale, le loro menti potessero scorrere
libere e sciolte, senza la compagnia di gravi o pungenti pensieri.

Altri momenti fuor di modo molesti per Massimo erano quelli nei quali
la signora, lasciando il lavoro, si abbandonava sulla spalliera della
sedia e si concentrava in sè stessa. Egli soffriva di queste assenze
mentali come avrebbe sofferto se, trovandosi insieme a passeggio, ella
si fosse spiccata da lui all’improvviso, senza dir motto. Allora si
metteva a contemplarla, la involgeva tutta del suo sguardo desioso,
combattuto dalla bramosia di buttarsi perdutamente ai suoi piedi e
lasciar irromper l’onda tanto contenuta della sua immensa passione, e
dal profondo rispetto ch’ella gli aveva sempre ispirato. S’immergevano
così nel silenzio. Ad un tratto Liana, scossa come dal tocco di una
mano invisibile, si rivolgeva: provavano allora per un istante l’arcano
rapimento che dà il guardarsi dentro le pupille. Ella ripigliava il suo
lavoro, e Massimo, quasi spossato da quello sforzo di adorazione muto
ed ardente, prendeva commiato.

Spesso però non si partiva che a notte. Quando l’ombra cominciava
a invader la stanza, essi acquistavano a poco a poco la nozione
dell’ampia quiete diffusa all’intorno; il lento morir della luce, la
dolcezza dell’atmosfera, le voci e i rumori lontani, l’aroma dell’erbe
e dei fiori recato dal venticello vespertino che entrava per la
finestra spalancata, innalzavano, dilettavano l’anima, pervenivano a
scuotere le scintille occulte della più delicata sensibilità.

— Povero amico! — diceva Liana tra sè, quando il giovane se n’era
andato. — Come mi ama! Chi sa? s’io volessi, potrei essere forse ancora
felice...

Perchè non voleva? — Piuttosto che cercar la risposta a una tale
domanda, ella resisteva alla tentazione del fantasticar molle, al
languor placido che s’impossessava di lei, balzava in piedi risoluta,
scendeva ed accudiva alla casa.

Ma ormai era inutile negarlo: ella non riusciva più a riconnettere i
pensieri, i casi della vita passata col suo stato presente. Si sentiva
mutata nel carattere, nelle idee, in tutto l’esser suo; si sentiva
rinnovata, ringiovanita, diventata un’altra. Aveva struggimenti di
tenerezza indefinibili, sentimenti nuovi, misti di giocondità e di
temenza, un puerile bisogno di rivolgersi a cose inanimate e gentili
per interrogarle, consultarle, trarne induzioni e pronostici.

Era dunque vero? La stessa forza ignota, le stesse sensazioni che un
giorno l’avevano spinta verso Ughes, ora la spingevano verso Massimo. E
così la fatica di combattere contro il bisogno di amare diveniva sempre
più ardua, si cangiava a grado a grado in tormento.


Ora avvenne che in uno di quei pomeriggi, mentre Oliveri, confitto
nel suo seggiolone come un mollusco nel suo nicchio, leggeva e
dormicchiava, Menica battesse all’uscio che metteva nell’andito.
L’avvocato gridò:

— Avanti!

E Menica entrando disse:

— Sor padrone, c’è qui lo speziale che cerca di lei.

Oliveri fece l’atto impaziente di chi ode cosa che gli dà noia; chiuse
subito il libro e abbrancò una penna.

— Lavoro — brontolò egli, — digli così che lavoro e che quindi...

Ma Bechio era già sulla soglia, tronfio, pettoruto, con la destra nel
panciotto tricolore, la sinistra sul pomo della sciabola enorme.

— Salute e fratellanza, cittadino Oliveri.

— Buon giorno — rispose l’avvocato. — In che posso servirvi?

Bechio aspettò che Menica se ne fosse andata pei fatti suoi, poi si
accomodò, trasse di petto un foglio e lo spiegò pianamente.

— Ecco qui — diss’egli, — questo è un discorsetto che ho scritto io per
l’inaugurazione del circolo patriottico di Murello. Non son malcontento
tutt’insieme del modo col quale l’ho combinato, ma vorrei farvi entrare
un po’ più di mitologia, e in questa non sono mai stato forte; perciò,
cittadino letterato, son venuto a pregarti...

— Ho capito — interruppe Oliveri — date qui, ce ne metterò tanta che
sarete contento.

— Un momento! — rispose Bechio, tenendo sempre in mano il suo foglio, —
vorrei ancora il vostro avviso sul mio modo di porgere.

E rizzatosi e atteggiata la persona a maestà, cominciò con voce alta e
stridente:

— Cittadini, la face della Libertà, che l’invincibile Nazione francese,
calando giù dalle montagne, venne ad accendere in Piemonte, giunse
ad illuminare anche questo nostro piccolo comune, che, appena visti
i mirifici raggi, subito ravvisò estinta l’idra della tirannide e
il drago dell’aristocrazia. Oh Libertà! da questi malnati mai sempre
combattuta e depressa, quanto sei amabile! Oh felici e beati voialtri
che avete la bella sorte di possederla! Mi raccomando, fate di non
perderla più. E voi, voi tutti barbarissimi despoti, crudelissime
sanguisughe dei popoli, tremate! Oh Murellesi! Io non offenderò le
vostre patriottiche orecchie coi nomi esecrandi dei Bertoldi, degli
Emanueli, dei Filiberti, dei Vittori, degli Amedei; non nominerò che
un Carlo, l’ultimo, il più feroce di tutti. Egli portava l’abitino del
Carmine al collo, sentiva tutti i giorni la messa, recitava sovente
il rosario, aveva ottenuto dal Papa un’immensa quantità di feste
per tutti i suoi Stati, faceva raccolta di reliquie, era ascritto a
tante confraternite, teneva, fra il lusso asiatico della sua camera
d’udienza, un gran crocifisso, di cui baciava ad ogni momento le
piaghe, insomma non la finirei più se volessi enumerare eloquentemente
tutte le infinite devozioni che praticò. Ebbene, voi avete visto le
sue truppe a Racconigi tirare a mitraglia contro povera gente, che
spietatamente oppressa, gridava: Libertà! Libertà! Libertà! E vive
ancora quel mostro; e la terra lo regge, e il cielo lo copre...

— Basta! — esclamò Oliveri, ch’era venuto sbarbicando minutamente la
sua penna, — leggete così che farete furore.

— E finirei con due versi:

    Viva Eguaglianza e viva
    Virtude e Libertà!

— Benissimo, benissimo.

— Perchè già io credo che non si possa far a meno d’un circolo
patriottico anche qui. Non fosse che per corrispondere con quelli di
Saluzzo, di Cuneo, di Pinerolo. Io penso che ogni villaggio dovrebbe
avere il suo, come ogni città. Tutti dobbiamo tener gli occhi addosso
ai governanti, vedere se si mantengono puri e degni del mandato che
hanno ricevuto. Senza i circoli, l’opinione pubblica non avrebbe modo
di farsi sentire; essi sono le bocche da cui tuona la voce del popolo.
Smascheriamo gli ipocriti, cittadino, smascheriamo gli ipocriti!

L’avvocato non rispose, dimenava nervosamente le ginocchia guardando il
soffitto.

— Io son contento — ripigliò Bechio, dopo una pausa, — perchè vedo che
siamo pienamente d’accordo.

Oliveri voltò la testa, lo interrogò con lo sguardo.

Lo speziale continuò tranquillamente:

— Dirò dunque agli altri municipalisti che noi due abbiamo deliberato
di fondare subito una società patriottica, e che...

— Noi?! — esclamò l’avvocato. — Come c’entro io? No, no, no, fondate
tutto quel che volete, ma lasciatemi stare.

— Ehe, cittadino, certo che potrei far benissimo senza di te. Non è
l’autorità che mi manca. Il mio partito è forte in paese. I contadini
sono quasi tutti dalla mia, e finora li ho condotti sempre dove ho
voluto... Però, ti voglio parlar chiaro: in questa faccenda ci sono
due o tre che nicchiano. Già sai chi sono: il parroco, il notaio, il
chirurgo... Ma quando sapessero che siamo concordi, eh! allora... Hai
capito? Perdiana! fra due anime come tu ed io, che vogliamo fermamente
la stessa cosa, sarà gran che se non ci vien fatta!

Oliveri diceva di no colla testa, e si andava scontorcendo sempre più.

Bechio si accostò, gli posò una mano sull’omero:

— Ma insomma, sei o non sei un buon patriotta?

— Son quel che sono, santo Iddio!

— Che Dio d’Egitto! L’_Être suprême_, caro te! E andiamo avanti. Ma
vedete un po’? io che credevo di farti un piacere, un onore!

Si allontanò a lenti passi; giunto in mezzo alla stanza, levò le mani
in alto e cominciò con enfasi:

— Oh spirito sublime, sublimissimo di Luigi Ughes, tu che siedi
immortale nel regno dell’eterna felicità, fra i Junod, i Chantel, i
Boyer, i Berteu, i Tenivelli, i Paroletti, i Buglioni, e fra gli altri
innumerevoli subalpini, strenui difensori dell’eccelsa causa della
nostra Libertà e vittime della savoiarda barbarie, guarda in giù, e
vedrai il suocero tuo che rifiuta di seguire le orme tue gloriose...

— Alle corte: volete denari?

— Denari! — esclamò lo speziale, continuando a scrollare il capo verso
i martiri invisibili. — Lo sentite? Voi avete dato il sangue, o grandi
anime politiche, e costui offre denari! — Incrociò le braccia e guardò
l’avvocato con piglio severo: — È una gran fortuna per te, ch’io sia
solo a conoscere il tuo procedere incivico.

Oliveri alzò sdegnosamente le spalle.

— Ehee! — fece Bechio, tenendogli addosso gli occhi irritati, — questo
non è tempo da motteggi. Per viver tranquilli, bisogna rigar diritti.

— Di ciò lasciatene il pensiero a me.

— Uomo avvisato, mezzo salvato.

— Va bene, va bene.

— E vuoi sapere cosa si dirà?

— Non me ne importa un cavolo!

— Si dirà che tu regoli le tue opinioni sugli amori di tua figlia.

L’avvocato die’ un balzo, impugnò, strinse i bracciuoli del seggiolone,
voltò verso l’omiciattolo la fronte in burrasca.

— Non capisco — balbettò, — non capisco proprio...

— Eh via! — ripigliò lo speziale, strascicando le parole, —
figuriamoci! Quando tua figlia viveva col medico, tu eri repubblicano;
adesso che è l’amorosa d’un nobile, tu sei realista!

Oliveri allungò rapidamente la mano, afferrò il calamaio che aveva
davanti e glielo scaraventò addosso di tutta forza. Bechio cacciò un
singhiozzo rabbioso, diè un passo indietro e si guardò il panciotto
sconciamente sbrodolato di nero.

— Giuraddio! — imprecò poi, facendo l’atto di sfoderare la sciabola. —
Adesso vedremo un bel giuoco...

Non aveva finito di dire, che l’uscio della stanza contigua fu aperto
di colpo; Massimo si slanciò fuori, pigliò lo speziale per il petto, lo
squassò, lo ributtò, sparì con lui nell’andito.

Rientrò dopo un momento, raccolse e gettò dalla finestra il berretto
del repubblicano rimasto in terra, poi stette a capo basso, finchè non
ebbe udita un’usciata violenta e lontana.

— Bene — diss’egli, — se n’è andato.

Oliveri, dinoccolato nel suo seggiolone, soffiava come un mantice;
Liana, curva sopra di lui, gli domandava premurosamente come si
sentisse e se volesse prendere qualche cosa. Ma ci volle del buono e
del bello prima di ottenere una risposta.

— Camomilla, camomilla; ma più tardi, non adesso... Lasciami riprender
fiato... Ooh! l’ho fatta grossa. Uscir dai gangheri a questo modo, alla
mia età! È la prima volta in vita mia, e mi sarà fatale. Il cuore mi
dice che avremo dei guai, dei guai, dei guai; ed ho sempre veduto che
certi presentimenti non isbagliano.

Massimo si accostò per cercar di acquietarlo.

— Anche lei — proseguì Oliveri, — anche lei... Cosa diavolo le è venuto
in mente di saltare in bestia anche lei? Non bastava quel che avevo
fatto io?

— Senta — osservò il giovane, — colui era armato, io no: se avesse
voluto...

— Bella ragione! Cosa voleva fare, in nome di Dio? Venir a singolar
certame qui in questa stanza? Non ci sarebbe mancato altro. Lei poi non
conosce Bechio, se lo crede uomo da stare a tu per tu con qualcuno.
Scappa, sguscia di mano, ma poi... poi si vendica. Non ha pensato
che poteva metter su tutto il paese? Scommetto che a quest’ora è in
giro a far gente. Ci vuol poco, nei tempi in cui siamo, a scatenar
la plebaglia. Basta una calunnia, un’insinuazione, una favola; basta
una scintilla per dar fuoco a una mina. Chi sa mai cosa inventerà
quel birbante matricolato! Oh Liana, figlia mia, ch’io abbia a veder
questa casa distrutta a furia di popolo! Che sarà di noi? Cittadino!...
No, voglio dire signor cont... signor Massimo, insomma, creda a me,
l’abbiam fatta grossa!

Allora il giovane, per rassicurarlo alla meglio e per lasciare che
il suo corruccio finisse di sbollire, si profferse d’andar a dare
un’occhiata al paese.

— Per carità! — esclamò Liana, e voleva continuare, pregarlo di non
esporsi in nessun modo, ma l’avvocato le ruppe le parole in bocca:

— Ecco, sì, per carità! badiamo di non far altre imprudenze.

— Stia tranquillo — rispose Massimo, un po’ asciutto.

Liana gli porse la mano.

— Torni presto — diss’ella.

— Subito, tornerò subito a riferire.

Così dicendo Massimo uscì rapidamente. S’avviò verso la strada
principale; non incontrò anima vivente fino alla cantonata, ma là,
essendosi fermato per guardare a destra e a sinistra, si vide salutato
molto rispettosamente da due contadini seduti sullo scalino d’un
portico, poi da altri parecchi che facevano cerchio a un merciaiuolo;
una ragazzotta molto fatticcia chinò il capo sorridendo nel passargli
davanti; anche un cane sdraiato in mezzo alla strada si alzò, si
stirò e venne, scodinzolando, a fiutargli la tromba degli stivali.
Nel villaggio tutto era come all’ordinario; s’avvicinava l’Avemaria;
la chiesa della Confraternita di San Giuseppe, il campanile, le case
vicine spiccavano sul cielo color d’opale, screziato d’oro qua e là.
Era una fine di giorno dolcissima, foriera d’una placidissima notte;
non era possibile immaginar nulla di fosco o di triste, non si vedeva
alcun segno precursore di guai: il gran palo piantato davanti alla casa
del comune, il famoso albero della Libertà, col suo berrettaccio in
punta e le rozze bandiere fuor di simmetria, pareva nulla più che uno
smisurato spauracchio.

Oliveri intanto aveva bevuta una buona infusione di camomilla, ma si
sentiva ancor tutto conturbato.

— Ah sì? — diss’egli, quando Massimo ebbe affermato con sicurtà che
di fuori tutto era tranquillo. — Bene bene, tanto meglio; ma vedremo
stanotte... Quella gente lì lavora di notte, come le jene e le volpi;
astuzia e ferocia, ecco. Oh figuratevi un po’ se non so con chi ho da
fare!... Ohi, ohi! Cos’è questo?

— Suonano l’Avemaria, caro babbo — rispondeva Liana.

— Ne sei sicura? Però senti che colpi staccati, che martellate
tremende; non si direbbe che quell’asino d’un campanaro ha la febbre?
Sentite, sentite!... Ad ogni modo bisognerà vedere più tardi. E se
accade qualche cosa, che farò io, un uomo solo con sulle braccia due
donne?

— Abbiamo Gabriel — osservò Liana.

— Gabriel! Chi lo vede mai Gabriel? Chi ci può contare sopra? Poi
cosa vuoi che facciano due uomini, per quanto animosi, contro cento o
duecento o trecento, chi può sapere?

Massimo si fece avanti e dichiarò che sarebbe rimasto con loro fino al
mattino.

— Come! — esclamò l’avvocato — vuole star qui tutta la notte?

— Sicuro; e non farò che il mio dovere, poichè in questa faccenda ci ho
pure la mia parte di colpa.

— Saremo tre, dunque. Meno male. Mi sento già un po’ più tranquillo.

— Però — suggerì Liana, che evitava studiosamente d’incontrar gli occhi
di Massimo, — bisognerebbe avvertire la signora contessa; non vedendo
tornar suo figlio, si metterà in apprensione...

— Niente di più facile! — interruppe Oliveri. — Il signor Massimo
scrive un biglietto, e noi lo facciamo recapitare dal nipote di Menica.
Non è un affare di Stato!

Massimo scrisse a sua madre due righe, che gli parvero atte a
rassicurarla; e Liana, fatto chiamare il garzoncello, gliele affidò.

A cena l’avvocato mangiò con la consueta ingordigia, interrompendo ogni
tanto l’atto del masticare per stare in ascolto.

Nè Massimo, nè Liana avevano desiderio di cibo. Egli sentiva vivamente
la fuggevolezza di quei momenti e cercava di afferrare, di assaporare
tutta la sensazione inebriante della presenza di lei. Ella non avrebbe
saputo dire a che cosa pensasse. Mai come in quella sera aveva avuto
coscienza della propria gioventù, della propria forza, delle proprie
attrattive. Una voce misteriosa le ripeteva all’orecchio: — Hai patito,
è pur vero, ma l’ora della ricompensa è vicina. La vita è lunga, e può
essere ancora divinamente bella per te.

E più Liana cercava di scacciare queste idee, che le parevano folli e
inopportune, e più la voce insisteva lusinghiera, insidiosa, soave.

Dopo le frutta Oliveri si alzò e andò a gettarsi sul canapè: già
era inutile ch’egli salisse in camera, non volendo dormire e nemmen
coricarsi. I due giovani rimasero a tavola, seduti di fronte, senza
levar più gli occhi, perchè lo sguardo del vecchio pesava loro addosso
e li intimidiva. Essi sentivano, in quel silenzio, un’impazienza
tentarli, l’impazienza di chi, avendo bisogno di aria e di moto, deve
frenarsi in un indugio noioso.

Alla fine Massimo si alzò e rivolgendosi all’avvocato, disse sorridendo
che, da buon capitano, andava ad esplorare le mosse del nemico. Oliveri
non rispose che con un leggiero abbassamento delle palpebre, e di
seduto ch’egli era, si lasciò andar supino.

Liana, com’ebbe udito perdersi i passi del giovane dalla parte della
parrocchia, andò a prendere un libro sul piano del camino. Aveva per
titolo: — _Versi di Diodata Saluzzo fra gli Arcadi Glaucilla Eurotea._
— Aprì inconsapevolmente il volume a pagina 264, senza ricordare
in quell’ora quante volte avesse cercato con le lagrime agli occhi
il poemetto IV: — _Alla marchesa Cristina Morozzo Tapparelli nella
supposta morte del marchese Cesare Tapparelli d’Azeglio suo consorte._
— Cominciò a leggere con certa attenzione:

    Era la Notte, ed il suo cieco errore
    Avviluppava una metà del mondo:
    Pingea la luna candido pallore
    Specchio all’altro maggior auriga biondo:
    In manto negro trasvolando l’ore
    Cadean d’eternità nel sen profondo,
    E lentamente tra quel cupo speco
    Piangeva ’l gufo, rispondeva l’eco.

Qui alzò il viso e tese l’orecchio: strano caso, s’udiva realmente a
quando a quando il lamento d’un gufo sul cipresso ch’era dietro alla
casa. Riprese la lettura, ma accorgendosi che avrebbe quasi potuto
seguitare a memoria, passò oltre, arrivò a pagina 291, al poemetto
VI: — _Penelope. Alla marchesa Cristina Morozzo Tapparelli nel ritorno
del suo consorte._ — Aveva un bel configgere gli occhi nel libro, non
riusciva più a dimenticarvisi dentro come nel passato; non comprendeva
nemmeno più: l’assenza come la presenza di Massimo la rendevano
ugualmente distratta. Si voltò a guardar suo padre: aveva gli occhi
chiusi, dalla bocca semi-aperta usciva un soffio lento ed uguale.

— Dorme — pensò Liana rizzandosi, — per il momento non ha bisogno di me.

E si fece pian piano alla soglia.

La notte era bella, mirabilmente serena; la via lattea traversava
il campo infinito come un seminato di diamanti; v’era nell’aria una
soprabbondanza di vita, che penetrando nel petto ad ogni inspirazione,
parea trasformarsi sull’atto in forza ed in letizia. Dopo un poco
ella uscì avidamente in giardino, e stette attenta con la vista e
con l’udito. Il viale che metteva alla parrocchia si apriva nero come
la gola d’un antro mitologico, pure, sembrandole di sentir cigolare
il cancelletto ch’era in fondo, ed immaginando fosse Massimo che
ritornasse, vi si avviò.

Non si era forse ancor inoltrata un dieci passi, quando si trovò
assalita da un senso inesplicabile di spavento: non c’era dubbio,
qualcuno la seguiva da vicino, le stava alle spalle; ella non poteva
più nè indietreggiare, nè voltarsi, senza urtarlo od averlo di contro.

Si arrestò, cercando vincere il ribrezzo che dall’animo si estendeva
rapidamente al corpo per soggiogarlo. Riuscì a rimanere immobile,
mentre negli oscuri abissi della memoria si destavano, ribelli alla
ragione, tutte le obliate paure infantili, tutte le più antiche
reminiscenze di cose soprannaturali lette, udite, immaginate o
sognate. Ogni minuto parea mille; e subitaneamente quell’ostinazione di
resistenza mancò: Liana sentì di nuovo l’imperio violento, vertiginoso
del terrore, cedette ad un folle impulso di corsa.

Massimo, riaprendo il cancelletto, se la trovò di fronte tutta
tremante, quasi convulsa.

— Cos’è stato? — esclamò sbigottito. — Le è succeduto qualche cosa?

Liana gli prese il braccio e vi si appoggiò, continuando ad ansimare,
crollando il capo ad ogni domanda ch’egli le veniva facendo.

— Oh! — rispose poi, com’ebbe ripreso fiato — mio padre dorme
tranquillo; non mi è accaduto niente, assolutamente niente. Mi sono
intimorita così tutt’a un tratto, non so perchè, non so di che... Sono
una sciocca, ecco tutto.

— Coraggio, dunque! Stia di buon animo. Il villaggio non potrebbe
essere più quieto. Le assicuro che non c’è veramente nulla da temere.

Ella ritirò il braccio e si mosse verso casa. Egli la seguì da vicino,
e fatti pochi passi le tastò leggermente, timidamente una spalla.

— Come! Perchè è uscita così, senza uno scialle, senza una mantiglia?
Perchè?...

— Perchè non ho freddo — rispose la signora, — anzi... Non sente che fa
quasi caldo?

No, egli non sentiva che l’emanazione viva e fresca del bellissimo
corpo di lei; la sentiva intorno e dentro di sè, nel volto, nel
cervello, nel cuore.

Giunsero nel più folto del viale; egli le prese una mano.

— È qui che lei ha avuto paura?

— Non so... Sì, forse è qui.

— È passata?

— Certo... poichè son con lei...

Ella guardava intorno quasi cercando nel buio la causa occulta dello
spavento provato.

— Dunque — ripigliò il giovane, con voce più bassa e tremante, — dunque
lo sa che le voglio bene? N’è pienamente persuasa, non è vero? S’ella
volesse affidarsi al mio amore... saprei trovare forza e coraggio in
ogni caso della vita travagliosa cui ci facciamo incontro, in questi
tempi di rabbia, di sciagure, di sangue...

Tacque subitamente: la sua spalla era a contatto con quella di Liana,
ed ella non si ritraeva... Stese il braccio e le cinse dolcemente la
vita; poi chinò il viso e trovò i capelli, la fronte, le labbra!




XXVIII.


— Notizie! notizie! — esclamò Arignani, entrando col parroco nello
studio, ove Oliveri dormicchiava nel suo seggiolone.

— E buone — aggiunse don Prato. — Almeno speriamo...

L’avvocato aprì gli occhi, li alzò senza muover la testa, poi mormorò
sottovoce:

— Seggano, prego.

— Non le par di respirare meglio? — domandò Arignani.

Oliveri crollò il capo.

— No — mormorò, — proprio no.

— Ah vede! — ripigliò l’altro — perchè non sa che la bottega di Bechio
è chiusa, e che lui è di nuovo partito.

— Volato via — confermò don Prato, — sparito!

— Dove sia andato poi nessuno lo sa — riprese il notaio; — chi dice
a Saluzzo, chi a Torino. I suoi aderenti vanno spargendo ch’egli ha
ricevuto un incarico segreto e che sta per diventare qualche cosa di
grosso. Diventi magari un elefante, purchè non ritorni mai più.

— Però — disse don Prato — io non mi sento troppo tranquillo. Ho una
gran paura che sia andato a commettere qualche birbonata, a denunziare
qualcheduno. Ieri l’altro gridava in piazza che Robelletta è un nido
di vipere, e che bisognerebbe distruggerlo col ferro e col fuoco...
Sarebbe forse bene avvertire il contino.

Arignani alzò le spalle.

— Oh Dio! — diss’egli — mettiamo pure che sia andato a Torino per
questo. Laggiù hanno altro per il capo in questi giorni. Se non son
curioso, sor avvocato, la posta di stamattina le avrà portato le nuove?

— Niente — rispose Oliveri: — chi si ricorda più ch’io sia ancora al
mondo!

— Ma guardi un po’! Ebbene avrei creduto... Basta, non importa,
dirò quello che ho sentito. Lei sa che il Direttorio ha mandato un
commissario, che so io? un amministratore... Come no? Non si ricorda
più? Ma è roba di un mese o quasi.

— Non so più niente — brontolò Oliveri, tentennando il capo, — non so
più niente.

Il notaio e il parroco si guardarono in faccia.

— Le ho parlato io — disse il parroco — di questo Musset; anzi mi
ricordo d’averle detto ch’era un ex-prete, un ex-curato, uno dei
Convenzionali che avevano votata la morte del re Luigi... Poi le ho
raccontato che, appena arrivato, aveva sciolto il Governo provvisorio,
abolito il Senato e la Camera dei conti, diviso il Piemonte in quattro
dipartimenti: Eridano, Stura, Tanaro e Sesia, che...

— Basta — interruppe il notaio, — roba passata anche questa. Musset ha
alzato i tacchi; gli amministratori adesso sono quattro: Pelisseri,
Rossignoli, Geymet e Capriata. Ma gli affari vanno male, male per i
francesi, i quali, a quanto si dice, hanno perduto una nuova battaglia;
viene avanti un tempo nero, che da un giorno all’altro può portar qui
una grandine di palle.

— Che Dio ci scampi e liberi! — disse don Prato.

— Perchè? — esclamò il notaio, pieno d’ardor bellicoso.

— Gli austriaci e i russi vengono per rimettere sul trono Casa Savoia,
alla fin dei conti. Per questo bisogna cacciare i francesi, e non si fa
la frittata senza romper le uova. Quando si potrà gridar di nuovo: viva
il Re! non voglio far altro tutto un giorno, dalla mattina alla sera.
Chi mi avesse detto che prima di morire avrei visti i cosacchi.....

— Gli sciti! — susurrò Oliveri, animandosi tutt’a un tratto, — gli
sciti!... Io non li vedrò.

— Come non li vedrà? Si dice perfino che siano già entrati in Milano!

— Bisognerebbe che arrivassero qui stasera o domani.

Arignani fece una risatina. Don Prato invece prese la mano di Oliveri,
la palpò, poi gli tastò il polso.

— Se non si sente bene — diss’egli, serio, — perchè non manda a
chiamare il medico?

— Se sapeste — esclamò l’avvocato, come se non avesse inteso, — quanto
mi ha tribolato la podagra in questo maledetto mese! Non ne posso più.
Questa volta mi ha trovato esausto d’ogni vegeto e salutar vigore che
la respingesse, la fissasse in alcune delle parti esterne, perciò...
Ma non m’importa niente... Però avrei voluto veder il 1800. Questo
sì!... Pazienza! Ho sempre creduto che la forza morale sola ci aiutasse
a considerar tranquillamente la morte; invece no, signori. Ciò che ci
prepara meglio di tutto è un certo stato fisico, del quale non si ha
idea quando si è sani.

— Male — brontolò il notaio, — lei fa male a mettersi in capo queste
malinconie; certi pensieri bisogna cacciarli subito, appena si
presentano, non lasciare che s’impadroniscano del cervello, se no
guai. Sa cosa facciamo? È ancor presto: vado a casa, attacco il mio
cavallotto alla scorratta e andiamo a sentir le nuove a Racconigi.
Vuole?

Oliveri non rispose, si volse al prete.

— Son pronto — diss’egli, — proprio pronto. La vita futura non mi mette
punto terrore; non so che crederne... So però di certo che non ho mai
fatto male a nessuno, ed è l’essenziale.

Arignani guardava il soffitto; don Prato stringeva una mano coll’altra,
gli pareva d’aver tante cose da dire e non sapeva come principiare.

In quella entrò Liana; tutti e due si alzarono per salutarla; poi, dopo
qualche minuto, se ne andarono via mogi e taciturni.

— Cosa c’è? — domandò Liana a suo padre. — Hanno l’aria così
mortificata, così compunta....

Invece di rispondere l’avvocato le prese le mani, la guardò con
un’espressione d’intensa tenerezza, quasi nuova in lui.

— Cattivo, eh, quel signor contino che quest’oggi non s’è fatto vedere!
— disse poi bonariamente: — Tu l’hai aspettato, di’ la verità?

— Sì, babbo — rispose Liana serenamente, — l’ho aspettato.

— Non sei mica inquieta?

— No, babbo.

— Brava, non aver paura. Bella faccia il cuore allaccia. Sei di nuovo
bella, sai? Sì, sì, di nuovo bella... E sei anche buona... Sei sempre
stata buona; ringrazio e benedico Dio d’avermi data una figliuola come
te. Ti sarò sembrato un po’... un po’ egoista, un po’ freddo, un po’
cane... ma... ma... ma non per questo tu devi credere che... Sicuro.

Liana sedette vicino, raccolse a sè le mani di lui, lo guardò
fissamente. Diceva con voce accorata:

— Cos’hai? Dimmi che cos’hai, te ne prego.

Oliveri col capo basso, col petto ansante, lacrimava senza piangere;
ma a poco a poco l’espressione del suo viso si venne mutando, egli
sorrise, poi rise forte, nervosamente.

— Che cosa ho? Comincio a rimbecillire, a rimbambire, ecco tutto...
Basta così... ma non lasciarmi; oggi ti prego di star con me,
lavoreremo insieme, mi aiuterai.

Passò il resto della giornata e la sera a rivedere ed esaminare le
carte contenute nel cassetto del tavolino, ordinando e classificando le
une, distruggendo le altre.

Liana, messa alquanto in apprensione dall’impeto di angoscia che aveva
assalito suo padre, si rassicurò gradatamente, vedendolo ritornare
sereno e quieto.

Egli si mostrò ancor tale la mattina dopo, quando discese a far
colazione. S’era fatta la barba e messo un abito chiaro e leggiero
che lo ringiovaniva. Fece venir Menica e ordinò un desinare di suo
gusto; poi dichiarò a Liana che voleva passeggiare in giardino tutta la
mattinata per risvegliare l’appetito.

Infatti egli uscì franco, impettito e senza zoppicare come era solito.

Liana, affacciandosi all’uscio, sempre lo vedeva or in questo or in
quel viale, che andava e veniva con le mani congiunte sul dorso. Ella
ne provava un compiacimento inestimabile. La salute scossa, malferma
di suo padre ormai era il solo pensiero che le pesasse sull’anima.
Quel giorno pareva tornato miracolosamente vegeto come una volta.
Subitamente l’assalì il timore che egli trasmodasse, e stancandosi
troppo, finisse per farsi più male che bene. Girò con gli occhi il
giardino: non scorgendolo alla prima, uscì per andare in cerca di lui.
Lo trovò subito: era lì dietro casa, seduto sotto il cipresso, curvo
sulle ginocchia accavalciate.

— È niente — diss’egli, vedendola, — poco fa mi prese freddo, ho voluto
riscaldarmi camminando ancora, ed ho fatto male; avrei dovuto rientrare
e coprirmi...

— Ma come ti senti?

— Peuh, peuh, peuh!

— Faresti bene a metterti a letto.

— Se mi metto a letto, non mi alzo più.

— Oh babbo! Che ti viene in mente!

Oliveri tornò in casa appoggiato al braccio di sua figlia.

Passò il resto della giornata nel suo seggiolone, battendo la febbre.

A sera Liana mandò a cercare il medico.

Gabriel tornò accompagnato dal notaio che aveva incontrato per caso.
Questi non volle salire per non disturbare l’avvocato, e raccontò
a Liana che il dottor Moschetti, ardente realista, era andato a
Carmagnola per unirsi ad una grossa banda che si veniva formando.

— Par che si voglia cominciare a gridare: viva il Re! e dar adosso ai
francesi, senza aspettare gli austro-russi. E non solo a Carmagnola, ma
un po’ da per tutto... Mandi a Villanova, il medico Pomba è vecchio e
quieto... Disponga di me, e faccia coraggio all’avvocato, vedrà che non
sarà niente.

Più tardi la febbre declinò. Oliveri, che non aveva preso nulla, volle
assolutamente una gran tazza di cioccolata.

Nella notte sopraggiunsero fierissimi dolori viscerali. Liana mandò
Gabriel in tutta fretta a Villanova. Il medico arrivò a levata di sole,
diede al malato dell’oppio, ordinò bagni e vescicatorj alle gambe. I
dolori si fecero meno forti, poi cessarono affatto.

Il medico se ne andò, promettendo di tornar nel dopo pranzo. Oliveri
sorrideva alla figlia, chiedeva or questa, or quella medicina, si
rammaricava con voce sommessa, masticava parole vaghe come chi non
arriva a raccapezzarsi, e ogni tanto ripeteva i primi versi d’un
sonetto che un amico gli aveva mandato nella primavera del ’93.

    All’ombra assiso del Sabaudo ulivo
    Credea varcar la mia carriera in pace
    Ma, ma... ecco Bellona... ecco Bellona...

E non riusciva a rammentare il resto.

La mattinata passò. Verso mezzogiorno si acquietò, cessò di parlare; ma
sorrideva sempre a Liana, ogni volta che i loro occhi s’incontravano.
Ella gli chiese se volesse sentir leggere qualche cosa; rispose di no
con un comico gesto d’orrore. Allora ella andò ad avvicinare le imposte
e tornò a seder presso al letto.

Passò mezz’ora. Il malato giaceva supino, tranquillo. Pareva a Liana
che il respiro gli si facesse frequente, un po’ affannoso, ma non osava
muoversi per non destarlo se mai dormisse.

Improvvisamente Oliveri sobbalzò, fece l’atto di puntare i gomiti per
alzarsi a sedere.

— Babbo — mormorò Liana, — vuoi qualche cosa?

Non ebbe risposta.

— Si è riaddormentato — diss’ella tra sè, — meno male, riposerà tutto
il giorno, tutta la notte, e domattina sarà guarito.

Un bambino frignava nella via, noiosamente; una gallina chiocciava
nell’aia di Gabriel; le mosche imprigionate tra i vetri e le imposte
ronzavano rabbiose. Un momento prima Liana non li avvertiva tutti
questi rumori, e adesso... Guardava sempre suo padre. In un subito le
parve che il pallor della pelle fosse divenuto più livido, più livide
anche le labbra; poi vide, vide distintamente le pupille errar vitree
negli occhi semiaperti, e sparir sotto le palpebre. Balzò in piedi,
toccò il corpo, posò la mano sul cuore, la ritrasse tosto gettando un
grido soffocato. Cercò il campanello, gridò forte, più forte...

Menica arrivò su ansante, s’accostò al letto, poi corse a spalancar le
finestre e chiamò Gabriel.

— Sì, sì — ripeteva Liana, — Gabriel, Gabriel... e il medico anche, il
medico subito. Fate presto, per carità!

Con Gabriel entrarono nella stanza il parroco e il notaio, venuti
semplicemente per prender notizie.

La povera Liana si volgeva a questo, si volgeva a quello, smarrita,
trepidante, chiedendo consigli, rimedi, soccorso.

Si adoperarono tutti, sollecitamente. La testa di Olivieri fu coperta
di compresse, gli si fecero frizioni con panni caldi sul petto, gli si
mise sotto al naso ogni sorta di boccette e di vasetti.

— È andato in paradiso, è andato in paradiso! — mormorava Menica,
quando la signora non poteva udirla.

Infatti ogni speranza era perduta, ma nessuno osava nè desistere, nè
ritrarsi, per riguardo a Liana.

Quand’ella, voltandosi per prendere un tovagliuolo inzuppato dalle mani
di Menica, vide entrare il dottore, gli si slanciò contro con un grido
acuto, quasi giulivo:

— Bravo! venga, venga. Non c’è modo di farlo rinvenire. Guardi un po’
lei. È uno svenimento, eh? Dormiva tranquillo, stava meglio, molto
meglio, la mattina è stata eccellente... Ma senta com’è freddo! Non c’è
modo di ridestare il calore vitale; è questo, vede, è questo che mi fa
pena...

Il medico considerava il volto sbiancato, placidissimo del povero
avvocato e non osava aprir bocca. Alla fine susurrò:

— Bisogna che lei si faccia animo, cara signora, perchè... perchè...

— Perchè è andato in paradiso — interruppe Menica; — a quest’ora è già
lassù, insieme a sor Battista e a... tanti altri.

Liana si lasciò cader ginocchioni a piè del letto e non articolò più
sillaba.

Anche don Prato s’inginocchiò. Menica mise due candele sul comodino, le
accese; quindi, aiutata da Gabriel, cominciò a dar ordine alla stanza
mortuaria. Il medico ed il notaio si ritrassero a parlar sottovoce
nella finestra, poi sparirono tutti e due.

Dopo un poco Liana si alzò per baciare suo padre; don Prato le si
accostò, le prese le mani, le parlò lungamente, dolcemente. Ella
non comprendeva assolutamente nulla e non faceva alcun sforzo per
comprendere.

Si riscosse quando tutti l’ebbero lasciata; s’accorse che dal momento
in cui suo padre era spirato, dovevano essere passate più ore, poichè
la luce del crepuscolo veniva scemando. Sedette di nuovo, considerò il
volto del babbo, il crocifisso posato sul petto, fra le mani fredde
ed inerti. Oh quelle mani! Non mai ella aveva avuto di quelle mani
un tal sentimento! L’avevano sorretta bambina, l’avevano accarezzata
fino all’ultimo giorno. Le pareva di veder rotto tra quelle l’ultimo
filo che la congiungeva ancora a tante care e perenni memorie. Queste
arrivavano a folate impetuose, venivano da lontano, dai tempi della
prima fanciullezza e si perdevano come in una foltissima nebbia.
Apparivano in quel turbinio volti, persone, cose e luoghi ch’ella aveva
conosciuto, che aveva dimenticato. Le pareva che la morte del babbo
separasse nettamente il passato dall’avvenire. Ancor poche ore, poi non
vedrebbe più le sue fattezze, i suoi gesti; non udrebbe più nè la sua
voce, nè il rumor de’ suoi passi; sarebbe sola!

Si strinse le tempie fra le palme e rimase sotto l’impressione oscura
di quel pensiero: era sola! Era sola e doveva mutare la sua esistenza,
mutarne le forme. Nella sua mente continuavano a vagare immagini e
pensieri indeterminati e confusi, e subitamente si sentì soprappresa da
una forte ansietà: — Perchè Massimo non s’era fatto vedere neppure quel
giorno? Egli ignorava dunque tutto, poichè altrimenti non l’avrebbe
abbandonata in una tal circostanza. Non poteva non voler anche bene al
padre di colei ch’egli amava; di quella perdita avrebbe sofferto anche
lui...

Il buon babbo accoglieva sempre così festosamente il contino! Mostrava
di vederlo così volentieri! Sorrideva ogni qual volta li mirava vicini
e pareva chiuderli, stringerli quasi insieme con lo sguardo!

Adesso ella cercava di leggere sulla fronte marmorea che le stava
dinanzi la traccia d’un pensiero che certo vi aveva soggiornato;
e improvvisamente s’accorse che desiderava troppo la presenza del
giovane; che un sentimento di tenerezza, ricreatrice sì ma inopportuna,
s’impossessava a poco a poco dell’animo suo. Ne risentì come uno
spavento; cominciò a lottare a lottare per veder le cose nella vera
luce, per giudicarle con calma e con fermezza, per raccogliersi, per
ponderare, per decidere.

— Oh babbo, caro babbo! — diceva ella, piangendo a calde lacrime. —
Verremo a vedere tutti i giorni il luogo ove sarai... Parleremo sempre
di te...

Ora Menica, ora Gabriel si affacciavano all’uscio, davano un’occhiata
in giro e sparivano. Sulla prim’alba la serva si accostò alla padrona,
la pregò di prendere qualche cosa, d’andare a riposare un pochino.
Intanto le porgeva un biglietto:

— Questo l’han portato ieri sera sul tardi. L’avevo messo sulla madia
per non dimenticarlo, e invece... Abbia pazienza.

Liana prese il biglietto, si appressò alle fiammelle che le stavano
davanti immobili e ritte. Lesse, si strofinò gli occhi, guardò intorno
e rilesse parola per parola:

      «Amica carissima.

  «Due uomini, arrivati adesso a spron battuto, mi portano l’ordine
  di partire nelle ventiquattr’ore per Grenoble. L’ordine è firmato
  da Grouchy. Non ho modo nè di sottrarmi, nè di resistere. Parto
  subito e mi porto la vostra immagine nel cuore. Parto col dolore di
  non aver osato dirvi apertamente: Liana, volete essere mia moglie?
  Potrò dirvelo un giorno? Quando? Pregherò Iddio che lo faccia venir
  presto questo giorno. Oh se potessi credere che lo pregherete anche
  voi!

                                                         «MASSIMO».

— Guardi — susurrò Menica, che contemplava il defunto, — guardi se non
par proprio che dorma e che faccia un bel sogno!




XXIX.


Condotto via Massimo, la contessa si dispose subito febbrilmente
a lasciar Robelletta. Mazel, Violant e Giacinto, che dovevano
accompagnarla, ebbero un bel pregarla e ripregarla di aspettar almeno
fino alla mattina, ella volle partire la sera stessa. Che le importava
di viaggiar di notte! Che le importava che le strade fossero infestate
dai banditi e dai disertori! Ella non rispondeva, forse non udiva
nemmeno: anelava d’essere a Torino per consigliarsi con suo marito.
Le pareva probabile che il conte, essendo rimasto sempre in città,
conoscesse chi stava al governo in quei giorni. Era uomo pratico,
accorto, sagace; avrebbe saputo parlare, adoperarsi, ottenere che si
revocasse il provvedimento preso contro il figlio... Occorrendo si
sarebbe offerto danaro, molto denaro, destramente, occultamente...
Questo pensiero, questa speranza l’occupò tutta, durante tutto il
viaggio, sicchè ella si trovò a Torino, al suo palazzo quasi senza
accorgersene.

Il conte Annibale aveva ricevuto il giorno prima l’ordine di recarsi in
Cittadella, e quei di casa non sapevano più nulla di lui.

La povera contessa rimase come annientata. Ella passò il resto della
notte in camera, sopra una sedia, immobile, inerte, con gli occhi
spalancati sopra una torbida seguenza di visioni le une più crudeli
delle altre. Il cavaliere, il marchese e il marchesino, dormicchiavano
quale sul canapè, quale su una poltrona, nella stanza vicina.

Fattosi giorno, uscirono tutti e tre per raccoglier notizie,
promettendo di ritornare più tardi.

Mazel ricomparve solo, verso mezzodì.

— Dunque? — domandò la contessa, ansiosa. — Cosa avete saputo?

— Bisogna star di buon animo... — rispose il cavaliere, dopo averle
baciato la mano.

— Avanti, per amor di Dio!

— Annibale è in viaggio per Grenoble, anche lui.

— Come! — esclamò la contessa, riscotendosi. — Ne siete sicuro? Ma...
allora si troverà con Massimo?

— Non so, ma è probabile. È probabile che Massimo raggiunga quelli che
sono partiti prima di lui, la gran comitiva. Questa volta i deportati
non devono esser meno di sessanta. V’è il principe di Carignano, il
principe della Cisterna, il marchese Alfieri e suo figlio, i marchesi
di Priè, di Caluso, del Borgo, i conti di Polonghera, di Scalenghe,
di Piossasco, di Gattinara, di Casanova... una sessantina insomma.
La scorta è comandata dal banchiere... dal banchiere... dal banchiere
Arvel.

— E vanno tutti a Grenoble?

— A Grenoble, ove saranno custoditi come ostaggi.

— Andrò anch’io! — esclamò la contessa con energia.

— Ed io vi accompagnerò... Ma non subito, eh? Bisogna aspettare che
siano arrivati. Ci faranno saper certo qualche cosa; scriveranno,
m’immagino. Adesso quel che più importa è non mettersi in vista...
Quanto mi sentirei più tranquillo se foste rimasta a Robelletta!

— Perchè?

— Perchè qui si continua ad abbaiar contro i nobili che è un piacere.
Questi signori che comandano adesso, sentendosi sempre più deboli,
vorranno parer sempre più forti, e chi sa cosa diamine inventeranno!
Son figuri da fare qualunque brutto tiro. Non potendo accoccarla agli
austriaci ed ai russi, l’accoccheranno a noi, che Dio ci scampi e
liberi!... Stamattina ho sentito raccontar cose... Quelli che hanno
avuto nelle mani l’amministrazione militare e civile si sono tutti
talmente ben impinguati, che adesso le casse sono vuote; manca il
denaro per pagar gl’impiegati, il nostro popolo langue nella miseria,
i soldati francesi soffrono privazioni inaudite, i generali chiedono
danaro, cavalli, carri, letti, fieno, paglia: e non trovando più
niente, urlano, tempestano, minacciano di mandar tutto a ferro e
fuoco!... Insomma le cose vanno male e finiranno peggio. Presto il
paese sarà diventato ingovernabile... Ed eccoci proprio nella bocca del
lupo!

A questo punto s’accorse che essendo venuto col proposito di
racconsolare l’amica, faceva precisamente l’opposto.

— Basta — riprese dopo un breve silenzio, — stamattina corre anche voce
che Suwarow sia entrato in Piemonte.

La contessa giunse le mani:

— Signore, vi ringrazio!... Perchè non me l’avete detto subito?

— Perchè... perchè... non so nemmeno io. Ho detto che le cose vanno
male, ma debbo anche dirvi che la città, i cittadini si mantengono
relativamente tranquilli. Dunque non temete di nulla. State in casa,
fate tener chiuso il portone, e chiuse le finestre che guardano in
istrada. Io tornerò stasera, tornerò domani. V’informerò esattamente di
tutto; lasciate fare a me.

Il 30 di aprile erano arrivati a Torino, scortati da due o tre
squadroni di cavalleria, i direttori della Cisalpina, e con loro tutti
quelli che avevano fatto parte del Governo repubblicano, o che avevano
qualche ragione di paventare la rabbia degli austriaci. Ogni giorno si
vedevano comparir truppe lacere, malconcie, spossate, smunti i visi,
torvi ed umiliati gli sguardi; venivano ambulanze, barocci e carrette
di feriti, munizioni, armi, bagagli a rifascio: eppure si parlava
sempre di vittorie francesi, di mosse strategiche maravigliose, di
ridotti e di fortini imprendibili, di acque inguadabili, di battaglie
definitive.

I patrioti girondolavano per le strade coi capelli tagliati _à la
Brutus, à la Titus_, o arricciolati _à la Caracalla_; con cappelli
tondi e berretti frigi, la carmagnola, e i calzoni lunghi. Cantavano,
bestemmiavano, chiedevano armi e bandiere, per correre a salvar la
Repubblica o morire.

Avevano ottenuto dal generale Grouchy il permesso di incominciare
una coscrizione volontaria. La sala del Liceo Nazionale rintronava
di evviva e di grida bellicose. Il presidente Bonvicino vi pronunziò
una concione che principiava così: «Non è, e non sarà giammai estinto
negli animi dei Piemontesi il sacro amor della Patria. L’entusiasmo
della libertà, che non conosce alcun ostacolo, gli infiamma, e sanno
essi emulare li gloriosi esempi dei valorosi Repubblicani, opponendo
alle mercenarie falangi squadre invincibili di energici difensori della
libertà.

«Ombre dei nostri Amici, e Compagni Martiri della Libertà, esultate.
L’ardore, che vi ha animati, infiamma li nostri cuori, e le bandiere
Repubblicane acquistano nuovi seguaci».

E terminava invitando i cittadini, che non conoscevano altra gloria che
l’amor della patria, ad accorrere. La coscrizione essendo volontaria,
nessun coscritto sarebbe stato astretto a seguitar le bandiere. «L’onta
sola di aver simulati sentimenti gloriosi, seguirà coloro, che si
ritireranno!»

Mentre i realisti della capitale fremevano e stavano sull’aspetto,
mentre nel Consiglio di amministrazione della guardia nazionale
si cominciava con prudenza a pensare al modo di consegnar Torino
all’esercito confederato, quando se ne presentasse l’opportunità, nelle
provincie si operava molto gagliardamente.

A quella parte del clero regolare e secolare che aveva aderito al nuovo
ordine di cose, succedeva quella che lo abominava. Nei conventi non
si ballava e non si banchettava più; non si vedevano più frati giudici
del Tribunale di alta polizia, o capitani della guardia nazionale; non
si vedevano più canonici e parroci inneggiare ai generali francesi,
folleggiare per le vie e per le piazze, e mescolarsi ai patrioti per
far galloria nei clubs e nelle feste, dichiarandosi liberi, uguali,
repubblicani e fratelli.

Adesso i preti ed i frati, non contenti di fomentar l’odio e di gridar
sacrilegamente dall’altare o dal pulpito che l’ammazzar francesi
era un dover religioso, davano di piglio agli schioppi e diventavano
capibanditi. Guai ai patrioti che cadevano nelle loro mani! Guai ai
francesi che viaggiavano alla spicciolata! Guai ai poveri soldati
sbandati o smarriti! — Adesso il vescovo d’Alba prendeva il titolo di
_Comandante dell’armi_, e capitanava gl’insorti della sua diocesi. Il
vescovo d’Asti faceva imprigionare il suo vicario, perchè repubblicano
fervente, e perseguitava acerrimamente i patrioti. Il vescovo d’Acqui
li cacciava nei sotterranei del seminario.

— Vi ricordate, amica mia, del cavaliere di Vonzo? — chiedeva
Mazel alla contessa. — Sapete bene: Pietro Cordero di Vonzo, antico
ufficiale, quello che chiamano il _Santo_? Ebbene, egli e un certo
Cerrina o Cerigna, chirurgo, con un pugno di villani, hanno costretto a
capitolare il forte di Ceva. Un bel fatto, eh?

— A Mondovì i rivoltosi hanno fatta prigioniera la guarnigione
— raccontava Violant. — E gli uomini di Caraglio, di Busca, di
Costigliole si sono uniti e minacciano Saluzzo. A Ivrea poi i patrioti
sono affrontati, assaliti e ammazzati come cani. L’affare cammina.

L’affare infatti camminava speditamente e ferocemente.

  «Popolo di Torino — diceva il generale Fiorella, comandante della
  piazza e della Cittadella, — uomini ingannati dai tuoi più crudeli
  nemici vorrebbero portare la desolazione, il terrore, e la morte
  nel seno del tuo Paese; ma tu conosci l’onore, tu sei alleato
  di una Nazione, che ti stima, che t’ama, e che ha fatto tremare
  l’Europa. Ella ha giurato di sostenerti, e tu fai parte di coloro,
  che la compongono. Osserva i tuoi giuramenti, ed io t’accerto di
  far trionfare la causa della Libertà.

  «Richiàmati alla memoria gli orrori della Vandea, allorquando
  scellerati venduti ai Tiranni dell’Europa scorrevano in quelle
  deplorabili contrade, assassinando i vecchi, le donne, ed i
  fanciulli, servendosi del pretesto di fanatismo per compiere i loro
  fini.

  «Io ho la più grande confidenza in voi, bravi Cittadini, che
  componete la Guardia Nazionale, io conto sul vostro zelo, sulla
  vostra attività; voi siete destinati per essere l’onore della
  vostra Patria.

  «Ricordatevi che non ha gran tempo, che tutti i re dell’Europa
  hanno chiesta la pace al Governo Francese, che due milioni d’uomini
  son pronti a mettersi in marcia, se fossero necessarj, e che
  seicento mille già si avanzano per sostenere la causa comune. Il
  grido _all’armi_ si è fatto sentire; li vostri nemici vanno ad
  essere annientati, come il sole del mezzogiorno fa scomparire le
  nebbie del Nord.

  «Guai ai fanatici; guai agli assassini. Li Repubblicani saranno
  inesorabili.

  «Torino, ai 19 fiorile anno 7º della Repubblica Francese una ed
  indivisibile.

                                                        «FIORELLA».

I quattro amministratori generali che Moreau, passando per Torino,
aveva creati e sostituiti a Musset, sentendosi ogni dì più esautorati,
si trasferirono a Pinerolo: di dove, nell’imminenza del pericolo,
riusciva facile riparar prima nelle valli Valdesi, abitate da gente
quieta, e quindi in Francia.

Villafranca, Airasca, Piscina, luoghi vicini alla sede del Governo,
insorsero e atterrarono gli alberi della Libertà. Gli abitanti di
Piscina, visti avvicinarsi i soldati mandati a ristabilir l’ordine,
li lasciarono entrare nel paese senza far dimostrazioni di sorta; poi
subitamente presero a tirar dalle finestre e dagli abbaini, uccisero il
capitano e parecchi soldati, diedero addosso agli altri obbligandoli a
piegare verso Scalenghe.

Da Pinerolo accorsero il colonnello Maranda e il commissario civile
Rossignoli con mille tra patrioti e valdesi. Trovarono il villaggio
deserto. Finirono un disertore ferito, che scovarono in un fienile,
abbruciarono la parrocchia e alcune case.

Il generale Delaunay si ritirava a Cuneo, scortato da due o trecento
uomini. Giunto al borgo Salsasio, presso Carmagnola, si trovò così
improvvisamente e furiosamente aggredito da una torma d’armati, che
si salvò per miracolo, lasciando indietro tutto il bagaglio e un certo
numero di morti, di feriti, di prigionieri.

L’aiutante generale Frassinet si mosse da Moncalieri con le truppe
mobili repubblicane, mentre da Pinerolo partivano il commissario
Rossignoli e il cittadino Trombetta, _Capo ed organizzatore della
seconda Mezza-Brigata Leggiera Patriotica Piemontese d’Infanteria_.

Arrivato Frassinet nelle vicinanze di Carmagnola, mandò avanti un
parlamentario per persuadere gli abitanti a rientrare nell’ordine.
Scriveva loro: «Sono sotto le vostre mura con una colonna di sei mila
uomini avvezzi alla vittoria. Ascoltando i sensi d’umanità, che nutro
in cuore, v’invito a rendervi ed affidarvi alla lealtà Francese. Molto
siete colpevoli, ma non sono chiusi alla clemenza i cuor nostri.
Deponete le armi, consegnate in mio potere gli uomini perfidi, che
v’hanno traviati; voi salverete numerose vittime, che sarebbero
immolate.... Non aspettate che la mia Artiglieria riduca in cenere i
vostri Borghi, e le Case vostre, mi costa il combattere contro padri
di famiglia. Ascoltate un uomo d’onore, che vi parla. Rinasca la pace
nelle vostre abitazioni; noi non facciamo guerra che contro ai ladri,
ed i briganti; questi mostri desolatori dell’umanità deggion solo
perire. I bravi Piemontesi conoscon troppo l’onore, perchè io sia
deluso della mia aspettazione.

«Rendo risponsabili le Municipalità ed i Preti dei Villaggi, dove si
suonerà campana a martello; saranno questi luoghi sul campo abbruciati,
e gli autori di tante calamità saranno risponsabili del sangue che
faranno versare. Ascoltate la voce della ragione, e se io posso essere
assai felice per ricondurvi ad essa, sarà questo il più bel giorno
della mia vita.

«Saluto Repubblicano.

                                                         «FRASSINET».

«P. S. Attendo immantinenti la vostra risposta, ed i Francesi, che voi
avete fatti prigioni».


Ma la Municipalità trattenne il parlamentario e mandò la seguente
risposta:

  «Primo. Dovrà il Corpo Francese deporre le armi, e consegnarle a
  chi sarà deputato dal Popolo per ritenersele.

  «Secondo. Dovranno consegnare cinque Officiali in ostaggio, acciò
  il Popolo non sia più inquietato.

  «Terzo. Non vi passerà più alcun Corpo Francese colle armi in
  Carmagnola.

  «Quarto. Se alle volte vi fossero prigionieri stati fatti jeri
  l’altro, si dovranno immediatamente consegnare, e lo stesso si farà
  da noi.

                                            «IL POPOLO PIEMONTESE».

Mentre l’aiutante generale disponeva i suoi all’attacco, gli insorti,
ingrossati dagli uomini delle cascine circonvicine e condotti dal
canonico Filippone, presero l’offensiva.

Rotti al ponte di Carignano, continuarono a combattere accanitamente,
divisi in piccole bande, sparse nello spazio di quattro miglia. Caddero
in numero di quattrocento. I francesi morti non furono che trenta.

Il borgo Salsasio fu ridotto in cenere; fucilate ventitre persone e i
cadaveri lasciati per quattro giorni insepolti.

La sera stessa, da Carmagnola abbandonata e divenuta suo quartier
generale, Frassinet si rivolgeva di nuovo agli abitanti:

  «Voi potete rientrare nei vostri fuocolari; io vi invito, e vi
  tratterò come fratelli, ed amici.

  «Abitanti delle campagne siate pacifici, la vostra felicità da voi
  dipende, io vi proteggerò, vi soccorrerò, ma non fate ulteriormente
  la guerra ai Francesi. Il combattimento che ha avuto luogo è
  stato terribile..... ma io non ho cosa alcuna a rimproverarmi.
  Il mio parlamentario questa mattina non vi lasciava cosa alcuna
  a desiderare, io vi offeriva l’olivo della Pace, Voi mi avete
  risposto _la Guerra_, son vostro vincitore, e vi offro nuovamente
  la Pace.

                                                       «FRASSINET».

Ma il giorno seguente egli mutava subitamente linguaggio:

  «Io vi intimo, Cittadini, di farmi contare per il bisogno della
  mia truppa ventimila lire di Piemonte, le quali saranno fornite
  particolarmente dai Frati di Sant’Agostino, ed altre dai Canonici.
  Il termine ch’io vi dò a farmele tenere si è fino alle ore sette di
  domani mattina, ora, alla quale farò, in caso contrario, abbruciare
  i conventi.

  «I conventi suddetti e i Canonici forniranno inoltre venti cavalli
  da tiro per la mia artiglieria, e cinquanta buoi per il bisogno
  della guernigione di Torino».

Probabilmente tutta Carmagnola sarebbe stata messa a fuoco e fiamma, se
l’Amministrazione generale non avesse scritto al commissario Rossignoli
che abbandonasse bensì alla vendetta nazionale il borgo che aveva preso
le armi, ma risparmiasse la città, sia per lasciare un ricovero ai
borghigiani, sia per aver donde cavar ancora denaro.

E nei giorni che seguirono, le richieste e le esigenze dei vincitori
divennero enormi.

Il 9 maggio, quattro giorni prima della strage di Carmagnola, anche
Asti si era sollevata. Una turba di campagnuoli, stimolati dai loro
curati, condotti da un tal Battista Mo, nativo della Cisterna, erano
entrati in città, gridando: — Viva la fede! viva San Secondo!

Il padre guardiano dei Cappuccini, accompagnato dai suoi frati e
preceduto dal crocifisso, s’era recato sulla piazza maggiore e vi
aveva fatto una efficacissima predica, seguìta tosto dal saccheggio del
palazzo municipale, della chiesa del Carmine, ov’era la cassa militare
dei francesi, e di parecchie case dei così detti giacobini.

I francesi, tirate prima alcune cannonate dal castello, poi usciti
contro i rivoltosi, già sprovvisti di munizioni per il lungo sparare
all’impazzata, ne avevano trucidati molti e ributtato il resto fuor di
città.

Il generale Meusnier, venuto sagrando e rapinando da Alessandria,
trovato il paese quieto, era ripartito lasciando al comandante Flavigny
l’incarico di ricercare e punire i colpevoli.

Niente di più facile: Flavigny fece agguantare a caso novantacinque
persone e ordinò all’avvocato Doglio di istruire prontamente il
processo. Se la cosa era semplice per il Mo e per pochi altri rei
convinti, non lo era affatto per i molti che si gridavano innocenti
come bambini di fascia. Il comandante accordò all’avvocato, per cavarsi
d’imbroglio, tutta la giornata del 14 maggio; ma la mattina del 15
perdè la pazienza, esaminò egli stesso gli arrestati, ne liberò nove e
ne trattenne ottantantasei.

A questi si fece tosto sapere che sarebbero giudicati in Alessandria, e
si distribuì loro una razione di pane per il viaggio. Verso sera furono
condotti e fatti fermare in piazza d’armi.

Discorrevano tranquillamente tra loro, ed alcuni avevano anche accanto
amici e parenti venuti a salutarli, quando si vide arrivar Flavigny col
pennacchio al vento, la divisa sbottonata, accesa la faccia per l’ira e
fors’anche per il buon vino d’Asti, ch’egli usava bere fuor di misura.
Come si fu avvicinato, impose ai prigionieri di raccomandarsi a Dio.
Quelli che non intesero subito, capirono poi udendo rullare i tamburi,
vedendo i soldati muoversi, attorniarli, chiuderli tutti contro il muro
ch’era in fondo. Vi fu un istante di sbalordimento mortale; poi grida,
poi urli; un urtarsi, un dibattersi, un nascondersi gli uni dietro gli
altri; chi tentava fuggire alla disperata, chi si atteggiava follemente
a resistere, chi cercava nel muro freneticamente coll’unghie un’uscita;
parecchi si abbandonavano in terra come stracci; i più vicini ai
soldati stendevano loro le braccia, chiedevano pietà piangendo,
gemendo, strillando.

Un altro rullo; poi uno strepito orrendo, il fragore d’un gran drappo
violentemente squarciato. Una nube grigia ravvolse i condannati, e
subito cominciò a diradare. Non erano tutti morti, no: più qua e più là
alcuni barcollavano come ebbri o si trascinavan carponi; il resto era
tutto un ammasso, un viluppo di corpi sussultanti, di membra agitate
e convulse. Ancora un comando, e la cavalleria si slanciò menando le
sciabole; passò schiacciando, stritolando, schizzando in giro la lurida
melma sanguigna...

A Torino fioccavano gli ordini, i decreti, i proclami. Fiorella
minacciava di continuo, e insisteva perchè la Municipalità minacciasse.
Il generale in capo dell’esercito d’Italia, rinnovandogli ordini già
dati, ingiungeva: «Ai Generali Comandanti le divisioni dell’Annata di
far fucilare alla testa delle Colonne, e nei villaggi li più adatti,
qualunque contadino rinvenuto armato di stiletto, o di fucile, e che
farà fuoco sulle Truppe Francesi, e qualunque individuo armato che
sarà arrestato in un attruppamento, che non faccia parte della Guardia
Nazionale approvata dalle Autorità costituite, e senza la coccarda
Francese.

«Qualunque casa, dalla quale si farà fuoco sui Francesi, sarà
consegnata alle fiamme».

Il cittadino Carlo Luigi Buronzo Del-Signore, arcivescovo di Torino,
pubblicava lettere pastorali per raccomandare la pace, la concordia,
l’amor del prossimo, la sommissione all’autorità e il rispetto alle
leggi.

L’Amministrazione generale poi, considerando gli sforzi che per ogni
dove facevano i nemici della Libertà ad oggetto di distruggere il
Governo repubblicano e ristabilire la tirannia, considerando che
quanto era grande la loro rabbia e livore contro i repubblicani,
altrettanto validi e pronti dovevano essere i mezzi onde contenerli,
ecc., ecc., decretava che si punisse di morte chiunque fosse convinto
di aver ordito macchinazioni contro il Governo repubblicano, o contro
la sicurezza e la vita dei francesi o dei repubblicani di qualunque
nazione, o ad oggetto di ristabilire la monarchia; chiunque gridasse
viva il Re, o viva qualunque altra potenza in guerra contro la
Repubblica; chiunque fosse convinto d’aver suonato o istigato altrui a
suonare campana a martello per attruppare il popolo contro il Governo
repubblicano o contro i repubblicani; chiunque distribuisse armi,
viveri o denaro all’oggetto di promuovere insurrezioni contro le truppe
francesi o altra qualunque forza armata per la difesa della Repubblica;
chiunque fosse convinto di aver portato le armi contro le truppe
repubblicane.

Decretava che si dichiarassero nemici della patria e si punissero
di morte gli ecclesiastici convinti d’essere stati promotori di
attruppamenti sediziosi.

Decretava che tutti i comuni, nell’abitato dei quali rimanessero
uccisi, od arrestati o spogliati soldati francesi o piemontesi
accorrenti alla difesa della Repubblica od in viaggio pei loro
rispettivi corpi, o patrioti di qualunque nazione, fossero assoggettati
al quadruplo delle imposizioni ordinarie, qualora non svelassero gli
autori di tal delitto e non somministrassero le necessarie prove; che
tutti i comuni nei quali rimanessero uccisi popolarmente o con tumulto
soldati francesi, piemontesi o patrioti di qualunque nazione fossero
immediatamente incendiati ed atterrati fino alle fondamenta.....

I torbidi crescevano, si estendevano, e il sangue scorreva, scorreva,
scorreva.

Ciravegna, primo granatiere di Piemonte, ferito a Tolone, quindi,
dopo l’armistizio di Cherasco, sottotenente negli usseri di Condè,
tornava in patria, si recava a Narzole, dove era nato, a Bene, dove
aveva amici, e raccoglieva un corpo d’uomini arrischiati e feroci come
lui. Il 12 maggio, assalito il presidio di Cherasco, lo discacciava
furiosamente; il 23 riusciva a respingere il generale Partonneau, che
gli veniva contro con tremila uomini.

Il generale Delaunay, giunto a Cuneo, smanioso di vendicarsi in qualche
modo dell’insulto e del danno patito a Carmagnola, s’era portato con un
nervo spedito d’uomini contro Mondovì, ma aveva ricevuta la sconfitta e
la morte.

Moreau, poichè gli austro russi s’avanzavano sempre con somma
prosperità a destra e a sinistra del Po, si ritirava pure a Cuneo.
Aveva aperta, verso Francia, la strada di Tenda e dell’Argentera,
ma parendogli utile di ripigliar Mondovì, inviò Garrau e Frassinet,
ai quali si unì pure Seras, che tornava da castigar Busca. Avevano
ottomila fanti, quattrocento cavalli, e otto cannoni.

I sollevati, sotto il comando del conte di Germagnano, del cavaliere
di Vonzo e di Giacinto di Montezemolo, confortati da don Marengo,
elemosiniere del reggimento Mondovì, resistettero per quattro lunghe
ore. Ma poi, essendo i cavalieri di Garrau riusciti a guadare il
torrente che serviva loro di riparo, a impadronirsi dei loro quattro
pezzi e a rompere i quadrati, morto per di più Montezemolo, la
battaglia si cambiò in sanguinoso, orribile macello.

Era appena mezzodì.

Quei di Mondovì avevano inondati i campi, sbarrate le porte e
aspettavano dietro le loro vecchie mura, rincorandosi con esortazioni
scambievoli. Frassinet mandò un ussero a intimare la resa; prometteva
di contentarsi del pagamento di una certa somma. Si rispose con un
rifiuto, ed essendo cominciato subito il fuoco, l’ussero cadde.

L’aiutante generale annunziò ai soldati che dava la città in loro piena
balìa. L’amor della patria, delle mogli, dei figliuoli, delle sostanze
infiammava i cittadini contro gli assalitori e predatori; la bramosia
di spuntarla, la riputazione che acquisterebbero con impadronirsi della
città, la speranza e la cupidigia d’un grosso bottino stimolavano i
soldati.

I monregalesi, tenendosi sicuri e scorgendo i francesi avanzare sotto
una grandine impetuosa di palle, nell’acqua giallastra che in molti
luoghi giungeva alla cintola, davano loro la minchionella, e chi
faceva un verso e chi un altro, chiamandoli ranocchi, ranocchioni. Ma
bentosto vedendo più qua e più là arder le case tocche dalle granate,
cominciarono prima pochi, poi molti, a lasciare le mura per correre
a spegnere gl’incendi; mentre i francesi, offrendosi anche a loro il
destro di cuculiare, lo facevano in dialetto, con parole imparate dai
molti piemontesi militanti con Seras, e gridavano con quanto ne avevano
in gola: — _Babi cheuit! babi cheuit! babi cheuit!_ — vale a dire rospi
cotti.

Scemata l’efficacia della difesa, i tre rioni furono subito invasi:
Seras irruppe in Carassone, Frassinet in Breo, Garrau in Piazza.
Tre colonne, tre masnade di assassini senza fede, senza legge, senza
misericordia. In un momento le strade, le case, le chiese, i monasteri,
i conventi furono pieni di grida forsennate, di risa feroci, di
urli, di pianti, di lamenti. I cittadini, sbalorditi, esterrefatti,
non facevano più fronte in alcun modo. I vincitori si cacciavano da
per tutto avidi di preda, sitibondi di sangue, briachi di furore;
distruggendo, stuprando, gavazzando senza ritegno. Di che fossero
capaci lo seppero i preti, lo seppero le monache, lo seppero tanto
i realisti, quanto i repubblicani. In sì duro frangente tutti si
dichiaravano patriotti: dunque a che distinguere, a che indugiare?

La città perdette circa mille dei suoi abitanti, e fu danneggiata per
ben tre milioni. Passando poi Moreau là vicino per ridursi in Liguria,
la fece riprendere dalla divisione Grouchy; e l’esercito, negli otto
giorni in cui stette accampato in quei luoghi, bruciò Rocca de Baldi,
Morozzo, la Margherita, tutte le cascine dei dintorni, e commise
nefandezze d’ogni specie.


La città di Torino era oramai circondata, bloccata dai briganti,
come chiamavansi i contadini. Questi adesso avevano un capitano:
Brandalucioni, Branda-Lucioni o Branda de’ Lucioni, antico ufficiale
austriaco in riposo. Era con lui, qual luogotenente, un conte Oddone
Arnaud di San Salvatore; gli facevano da segretari due cappuccini; da
stato maggiore preti e frati d’ogni risma; lo seguiva una turbaccia,
una genìa sanguinaria, abbietta e sciagurata. Aveva cominciato a far
gente nel Novarese e nel Vercellese, al grido di: Viva il Re! Viva
l’Imperatore! Viva Gesù! Viva Maria! ed a muoversi verso Torino. Nei
villaggi sostituiva una croce all’albero della Libertà, s’inginocchiava
e pregava; talvolta anche si confessava e comunicava; poi mangiava
e beveva, sopra tutto beveva saporitissimamente, e allora diventava
oratore facondo e agitatore bollente dell’accozzaglia armata, alla
quale aveva dato il nome di Massa cristiana. Conosceva personalmente
Gesù Cristo e i maggiori santi del paradiso, che tutti lo amavano,
lo consigliavano, lo favorivano; perciò era sicuro di riuscire a
purificare dai repubblicani non solo Torino, ma Parigi, ma tutta quanta
la Francia.

I detti erano buffi, i fatti atroci. Egli ed i suoi parlavano di
religione, e rapinavano nelle chiese; di morale, e commettevano le
più turpi violenze; di legge, e mettevano tutto a soqquadro. Facevano
guerra ai giacobini, e giacobini erano per loro tutti quelli che si
potevano spogliare; case di giacobini tutte quelle a cui si poteva
dare il sacco. La diversità di opinione era il migliore, il più comodo
dei pretesti, e sempre adoperabile. Serviva a mettere nelle mani
degli antichi condannati i giudici antichi; a far cadere in balìa
dei più sozzi ribaldi donne e fanciulle onorate. Poteva dirsi perduto
chiunque avesse interessi opposti o lite con qualcuno della banda. I
cristiani della Massa riuscivano infesti a tutti: agli agricoltori,
ai quali rubavano bestiame e derrate; agli artigiani, turbati da
continui terrori; ai mercanti, poichè privavano d’ogni sicurezza le
strade. Erano i degni fautori, la degna avanguardia di quegli altri
difensori e ristoratori della religione cattolica, gli austro-russi,
che s’inoltravano da conquistatori bastonando, malmenando e trucidando
i parroci che non volevano o non potevano dar loro danaro; che
involavano i vasi sacri e si ungevano gli stivali con l’olio santo;
che atterravano le porte delle chiese in cui si rifugiavano donne, e
strappavano loro le orecchie o mozzavano le dita, per aver quanto vi
brillava: oro od argento; che facevano con le baionette le vergini atte
a quanto ancora impediva natura; che legavano ai tronchi i mariti, per
farli assistere al disonore delle mogli...

In quel dolcissimo mese, in quelle giornate luminose e fragranti,
per le verdi campagne innamorate scorrazzavano le bande scapigliate e
violenti. Branda avanzava spiantando gli alberi, piantando le croci, si
batteva il petto, infiammava le turbe con la sua eloquenza incalzante
e avvinazzata, e non si chetava che per digerire. La bordaglia
accorreva; ed egli, sentendosi sempre più forte, stabiliva il suo
quartier generale a Chivasso, faceva incursioni nelle terre vicine, e
taglieggiava i villaggi.

A Leynì, Caselle, San Maurizio, Ciriè che rifiutavano di sottomettersi
e di riconoscere in lui l’inviato di Dio e del Re, rispondeva
che presenterebbe le sue credenziali al chiarore delle loro case
incendiate.

Entravano alcuni dei suoi in Superga e toglievano tutto quel che
restava del ricco tesoro.

A un certo punto la capitale stessa si sentì o si credette minacciata;
furono collocati cannoni sul ponte di Dora, e Fiorella mandò un
proclama ai cittadini amministratori dei comuni piemontesi:

«Uno schiavo, un satellite di un despota, un uomo, che si fa chiamare
_Branda Lucioni_, e si dice Comandante dalla parte dell’Imperatore la
_Massa Cristiana_, alla testa di alcuni briganti, li quali cercano di
portare la desolazione, il terrore, e la morte nel seno delle vostre
famiglie; ardisce ciascun giorno mandar lettere alle Comuni vicino a
Chivasso per far insorgere il Popolo contro i Francesi.

«Guai a coloro, che ascolteranno le sue minaccie, o le sue promesse
bugiarde; restino le Comuni calme e pacifiche; a me solo egli
deve indirizzarsi, io gl’insegnerò in qual maniera li Repubblicani
assuefatti alla vittoria, sanno dissipare, ed annientare li briganti;
io li conosco troppo vili, perchè ardiscano di mostrarsi nelle nostre
vicinanze.

«Io vi ordino in conseguenza di trasmettermi subito qualunque sorta
d’intimazione che egli potesse spedirvi, e di parteciparmi tutte le sue
operazioni.

«Io confido nel vostro zelo, e nel vostro patriottismo, per
l’esecuzione di questa misura, che può assicurare la tranquillità, di
cui gode la vostra Comune, prevenendovi, che in caso contrario voi ne
sarete personalmente risponsali.

«Li nuovi successi dell’armata Francese, li rinforzi che ella
ha ricevuto; mi metteranno ben presto nel caso di far rientrare
nell’ordine tutti coloro, che possono essere caduti in inganno, e di
punire rigorosamente li capi della rivolta».

Sei giorni dopo, cioè il 27 fiorile (16 maggio), la Municipalità di
Torino si rivolgeva ai concittadini:

«La pubblica tranquillità turbata nelle circonvicine Comuni da gente
ingannata e sedotta dalle lusinghe, e dalla malizia del sedicente
Comandante la Massa Cristiana, _Branda de Lucioni_, e da’ nemici di
ogni ordine sociale, produce una funesta reazione perfin in questa
Comune. Gli oggetti di sussistenza, d’industria, che a larga copia il
resto del Piemonte ci somministra nei tempi tranquilli, cominciano a
venir meno: il commercio e le comunicazioni, che florida rendevano la
terra Piemontese, sono interrotte, ed una fatale inazione incaglia
ogni sorta di affari. Un tale stato di cose non deve maggiormente
prolungarsi, ed il Generale Comandante questa Piazza, e Cittadella, sta
prendendo le più energiche misure per portarvi un riparo.

«La Municipalità di Torino, nell’annunziarvi queste provvide intenzioni
del Generale Fiorella, in esecuzione degli ordini dal medesimo
trasmessi a questa Amministrazione con lettera del giorno d’oggi,
invita tutti i Cittadini, che volessero concorrere alla spedizione
militare, che si sta a tale oggetto preparando, di tenersi pronti per
mettersi in marcia unitamente alle Truppe di linea al primo segnale.

«Tutti i bravi Repubblicani, che vorranno far parte di questa
spedizione acquisteranno un diritto alla pubblica riconoscenza,
avranno la gloria di aver contribuito a restituire la calma all’agitata
nostra Patria, e di aver fatto sparire da questo suolo i nemici della
Religione, della libertà, e della prosperità Nazionale».

E il 29 fiorile, il Generale Comandante tornava ad insistere:

«Malgrado il terribile castigo, che hanno già provato alcune Comuni,
malgrado li sentimenti che ho dimostrato ne’ miei Proclami, veggo
con dolore, che esistono ancora uomini assai perfidi per propagare
l’insurrezione, e che si sforzano d’ingannare li bravi abitanti
d’alcuni villaggi.

«Una Colonna mobile di Truppe Francesi, e di molti Patriotti desiderosi
di sterminare questi ribelli va a riunirsi a Chivasso. Bravi abitanti
delle Comuni sareste voi meno avidi di gloria dei vostri Concittadini?
Potreste voi allontanarvi senza vergogna da quest’armata, mentre
scellerati saccheggiano, e derubano le vostre proprietà, senza
risparmiare le vostre mogli, ed i vostri figliuoli?

«Riunitevi dunque ai bravi, che si portano a Chivasso. La Patria
riconoscente aspetta da voi gli sforzi i più generosi, e voi avete un
doppio interesse, poichè la vostra Comune è già stata minacciata da
questi briganti.

«Vi prevengo infine, che tre altre Colonne sono in marcia per
sottomettere li ribelli d’Asti, d’Alba, Cherasco e Mondovì.

«Vi ripeto per l’ultima volta, RICONOSCETE IL VOSTRO ERRORE, O VOI
SIETE PERDUTI SENZA ALCUN RIPARO».

Intanto si viveva nell’aspettativa e nell’apprensione. I patrioti più
ardenti continuavano a correre le vie gridando: — Repubblica o morte! —
a far adunanze e discorsi, parlando di Sparta, Roma, Atene, Cartagine;
a far proclami per invitare i concittadini a scuotersi, ad arruolarsi,
a formare una Legione Sacra ed invincibile. I più tepidi nicchiavano,
tornavano pianamente alle foggie antiche, compravano parrucca e codino,
e pensavano al modo di mettersi in salvo il più presto possibile.

I realisti stavano sull’intesa, fremevano e si agitavano ansiosi.
Mentre la guardia nazionale vegliava sulle persone e sulle proprietà,
il Consiglio di amministrazione apriva segrete pratiche con Branda
Lucioni. L’Amministrazione generale, stabilita in Pinerolo, decretava
che tutti coloro i quali avevano un patrimonio maggiore di cento mila
lire, fossero obbligati, sotto pena dell’esecuzione militare, a dare,
sia in denaro, sia in grano, come taglia anticipata ed entro il termine
di due giorni, il due per cento del capitale posseduto. E Fiorella
metteva il: _Visto ed approvato_.

Passavano di bocca in bocca voci sempre nuove, che la Municipalità,
d’accordo col buon comandante, si affrettava a smentire. Il
parlamentario austriaco, che si diceva si fosse introdotto in città,
non era che un emigrato, il quale sarebbe stato esaminato a tenor delle
leggi. Non era vero che il generale pensasse ad abbandonare la città
al saccheggio: anzi assicurava i cittadini tutti della più sincera
sollecitudine a loro vantaggio. Non era vero che le provvigioni d’ogni
genere che entravano in Cittadella per la porta detta della Città,
uscissero poi per quella di soccorso...

Ma il popolo non badava più nè ai decreti, nè ai proclami; non
potendo altro si sfogava con le chiacchiere, e vedeva con la fantasia
i cosacchi che si avvicinavano alle mura sui loro cavallucci,
saltabeccando e caracollando.




XXX.


Il 25 maggio le porte di Torino, che dal principio del mese si
chiudevano alle sette, furono chiuse improvvisamente alle due dopo
mezzodì; e tutt’a un tratto si udì tuonare il cannone sul monte dei
Cappuccini.

La Massa cristiana? I briganti? Diavolo, non si sapeva che avesser
cannoni! Gli austro-russi forse?... Le persone competenti giudicavano
trattarsi di artiglieria non grossa, ma da guerra sciolta: l’esercito
confederato doveva disporre di ben altri ordigni.

Il fuoco durò quasi innocuo per qualche tempo; dalle mura si rispondeva
pigramente; poi tutto parve finito.

Verso sera un ufficiale superiore — non si sapeva se russo od austriaco
— s’avvicinò al borgo del Pallone alla testa d’una colonna, e intimò
inutilmente la resa.

Venne la notte. Grosse pattuglie giravano, cercando e ricercando tutte
le strade, tutti i chiassi. Le luci che trasparivano più qua e più là
dagli spiragli; certe voci sorde, certi cupi rumori assai mostravano
che l’ombra era per i torinesi piena di sospetti e di apparecchi, e che
tutti sentivano intensamente l’inquietudine del domani sconosciuto.

L’alba temuta, desiderata, spiata apparve alla fine, si diffuse,
penetrò nelle case; si spensero i lumi, si aprirono le porte e le
finestre, i cittadini cominciarono a darsi attorno per vedere di
scoprir paese.

Il generale che aveva piantato le sue batterie sul monte dei Cappuccini
si chiamava Wukassovich, e comandava l’avanguardia imperiale. Alla casa
municipale si ricevette assai per tempo una sua lettera.

                                 «Dal Borgo di Po, 26 maggio 1799».

  «Mi è noto, che i pacifici abitanti di codesta Città di Torino non
  hanno preso le armi, che per difendere le loro proprietà in queste
  critiche circostanze, e non giammai per servirsene inutilmente
  contro di noi. Invito dunque codesta Municipalità, e tutta la
  Guardia nazionale in nome della proposta sua salvezza d’indurre
  il Comandante francese ad abbandonare subito queste mura. La
  disfatta della sua armata, e la debolezza della sua guernigione,
  non gli permettono sicuramente di sostenersi a fronte delle nostre
  armi vittoriose. Procuri, che questa città sia resa colla più
  grande celerità possibile, servendosi ove sia d’uopo di quella
  fermezza, che la caratterizza, senza del che, il rigore militare mi
  obbligherà di cangiare in severità i riguardi particolari, e quella
  stretta disciplina, che io, e le mie Truppe desidererebbero offrire
  a codesti abitanti come un segno di quell’unione perfetta, che ci
  lega a tutti i popoli Piemontesi.

  «Attendo una risposta nel termine di due ore, e sono colla più
  verace stima.....»

E la risposta era stata questa:

  «La Municipalità, e Guardia nazionale di Torino al signore B.
  Wukassovich Generale Comandante della Vanguardia Imperiale.

  «Avete ben giudicato, signor Generale Comandante, dei sentimenti
  di questa Municipalità, e della Guardia nazionale pel maggior
  bene de’ cittadini di questa Comune. Essendo noi interessati a
  mantenere l’interna sua tranquillità, ed a tale unico oggetto
  essendo diretta l’istituzione della Guardia nazionale, dovettimo
  senza dubbio rivolgerci, come avete preveduto, al Generale Fiorella
  Comandante di questa città e cittadella, e lo abbiamo fatto con
  ispeciale deputazione di quattro dei nostri membri per indurlo a
  non permettere, che sia danneggiata la città, e gli suoi abitanti
  dalle armi Imperiali. Quanto trovò egli adattato al nostro posto
  il nostro zelo, altrettanto ci fece sentire con calore vivissimo,
  che non stava a noi d’ingerirci nella resa della città; che erano
  in sua mano le porte e che al primo affronto alle truppe, che le
  difendevano, avrebbe corrisposto coll’incenerire dalla cittadella
  in poche ore questa città da lui dichiarata in istato d’assedio;
  che egli per fine secondo le regole di guerra non mai avrebbe
  permessa la resa della città, senzachè prima si vedesse forzato da
  un numero imponente di forze, e dalla superiorità dell’assediante.

  «Furono vane ogni nostre rimostranze in contrario, e lo sdegno del
  Generale alle parole di resa ci obbligò ad un ingrato silenzio, ma
  necessario per il riflesso, che è in suo potere di rendere infelici
  presso a centomila innocenti qui abitanti.

  «Eccovi, signor Comandante Generale, il risultato della nostra
  ambasciata: essa ci ha convinti che il Generale Francese riserva
  a sè solo la cognizione di questo affare. Non vogliate voi però
  ascrivere a difetto di fermezza in noi l’inutilità di questo passo,
  speriamo anzi, che l’umanità vostra, e la grandezza d’animo, che
  regna fra i vostri, vi consiglieranno tutti i maggiori riguardi
  verso di cittadini tranquilli, ed inermi, e meritevoli di non
  sentire i furori della guerra. Vi porgiamo a quest’effetto le più
  calde nostre instanze, assicurandovi della riconoscenza nostra e
  del rispetto, con cui siamo.

  «P. S. Vi preghiamo per la nostra tranquillità, e giustificazione
  di farci tenere la ricevuta di questo foglio».

Ormai non c’era più dubbio: la capitale era circondata, investita
da ogni parte. Nelle vie l’agitazione ora cresceva, ora scemava. La
gente passava alternativamente dal timore alla speranza, dall’ardire
allo scoramento. Correvano di bocca in bocca i nomi dei generali, dei
personaggi che erano o si supponeva fossero sotto le mura: Suwarow
Kimniski, feld-maresciallo, il principe Bagration, il marchese di
Chasteler, il barone De Melas..... Tutti signori ben intenzionati,
venuti per rimetter tutto in assetto, e perciò appunto non bisognava
farli aspettare. Non bisognava anche dimenticare che fra i loro
soldati, sedicenti difensori della religione cattolica, v’erano
luterani, calvinisti, greci scismatici e maomettani..... Sa Iddio a
qual rovina sarebbe stata condotta la città, se Fiorella si ostinava
veramente a resistere! Si sapeva che egli aveva risposto picche la
sera prima, picche quella stessa mattina. Bisognava vedere come aveva
rimpolpettato i quattro municipalisti mandati a fargli la commissione:
— _Ah çà!_ che cosa significava questo ingerirsi, questo ficcare il
naso nei suoi affari? Le cannonate vi dànno fastidio? _Hé! mes amis,
c’est la guerre. Vos rois, vos ducs l’ont voulue; allez vous plaindre
auprès d’eux!_ — E buona notte.

Parecchi cittadini che erano addentro nelle cose del Consiglio
di amministrazione della guardia nazionale, avevano cominciato a
rassicurare i parenti, gli amici, comunicando loro notizie segrete e
importanti. Il Consiglio e la Municipalità non erano stati in ozio
quella notte! Non solo avevan cercato di venire agli accordi con
Wukassovich, ma anche mandato il conte Adami e gli avvocati Settime e
Berta a Suwarow, per trattare la resa. Prima di sera si sarebbe visto
probabilmente un bel gioco. — Ma zitti, eh! monsù Fiorella non deve
saper niente, Dio liberi! — E di parente in parente, d’amico in amico
il segreto girava, si divulgava; i realisti credevano, si rincoravano,
si rallegravano; i patrioti alzavan le spalle.

A mezza mattina Fiorella pubblicò un proclama:

      AGLI ABITANTI DELLA COMUNE DI TORINO.

  «Voi avete potuto vedere quale sia la debolezza delle forze
  de’ nemici, e con quale astuzia cercano d’incutervi timore. Non
  contenti di aver radunati briganti a devastare le vostre proprietà,
  ebbero il folle orgoglio di ridurre la Città di Torino con pezzi
  di campagna, che non possono nemmeno imporne ad un piccolo posto.
  Sgraziati ed insensati! e come hanno potuto dimenticarsi, che
  Repubblicani difendono questa Piazza.

  «Bravi abitanti di questa Comune siate tranquilli, e senza timore
  sulla vostra sorte; la Città non sarà giammai resa a forze sì
  deboli, ed a bravate sì sconsigliate; e voi, Cittadini, che
  componete la Guardia Nazionale, che col vostro zelo, ed attività
  di servizio del giorno di jeri mi avete dimostrato, che i vostri
  sentimenti non sono dissimili da’ miei, continuate colla stessa
  attività, e premura a servire il vostro paese; che tremino i
  malevoli, che abbiano potuto introdursi fra di voi, la onta, ed
  il castigo gli attende, e tostochè voi me gli farete conoscere,
  saranno abbandonati alla vendetta Repubblicana».

                                                        «FIORELLA».

Verso mezzogiorno ne pubblicò un altro:

  «Stante l’avvicinamento del nemico riunito ad una massa di
  briganti, il quale si è permesso sconsigliatamente di farmi
  una sommazione; gli abitanti sono prevenuti, che io dichiaro in
  questo momento la Città in istato d’assedio. Le Autorità civili
  continueranno le loro funzioni ordinarie. L’Alta Pulizia essendomi
  privativamente riservata, io solo rispondo della difesa, e
  sicurezza della Piazza».

                                                        «FIORELLA».

Ma tutte le menti erano volte al di fuori; tutti stavano in attenzione
per aver nuove, comprendere ciò che avveniva, e che piega pigliavano le
cose oltre le mura. Non potendo far altro, gli uomini girondolavano per
le strade; le donne, i vecchi, gl’infermi, i fanciulli guardavano dalle
finestre, dai terrazzini, tendendo l’orecchio ai rumori vagabondi.

La giornata era fulgida, già quasi estiva; candide nuvole veleggiavano
alte nell’azzurro, nel sole. Le Alpi biancheggiavano circonfuse di
vapori lattati; la collina verzicava lussureggiante.

Un po’ dopo il tocco, il marchese Violant andò per dar qualche
ragguaglio alla sorella e la trovò che scendeva lo scalone al braccio
del fido Mazel. Al solito ella non usciva che la mattina a buon’ora
o verso sera per recarsi alla vicina chiesa di San Filippo; ma quel
giorno s’era sentita presa dall’impazienza, dalla febbre di sapere,
di vedere, di agire. Il cavaliere che la conosceva, non aveva nemmeno
cercato d’opporsi.

Il marchese dichiarò ch’ella commetteva un’imprudenza, uno sproposito,
poichè il cannoneggiamento stava per ricominciare. Egli sapeva da
fonte sicura che Suwarow aveva ordinato l’assalto per le due, e veniva
appunto per dirglielo... Ma vedendo che continuava a discendere, la
seguì brontolando e, giunti al basso, le si pose a fianco.

La contessa Polissena voltò senza esitare verso contrada di Po.

Nella strada e sotto i portici c’era folla; una folla composta d’uomini
d’ogni età e d’ogni stato; una folla che aveva un aspetto quasi festivo
e serviva come di spettacolo a sè stessa, ma che di quando in quando
pareva attraversata, scossa da un gran brivido, quasi si sapesse
minacciata da un pericolo oscuro, contro il quale non conosceva difesa.
Brulicava senza andar nè innanzi, nè indietro, e si apriva per lasciar
passare gli ufficiali francesi che trottavano verso la Cittadella, e
certi gruppi di popolani scuri in viso e taciturni, avviati verso porta
di Po.

Nella strada e sotto i portici, conoscenti ed estranei si riunivano in
crocchi, si formavano cerchietti intorno a quelli che erano o parevano
meglio informati, che avevano più chiara e spedita la favella.

Davanti a San Francesco da Paola era più che altrove accalcata la
gente, e dal centro d’un nodo di patrioti sorgeva un bel giovane bruno
che parlava forte, gesticolando animatamente.

Quando la contessa ed i suoi due compagni giunsero a portata della sua
voce, diceva, terminando una frase della quale non avevano udito il
principio:

— ..... _la royauté, l’esclavage, tous les anciens abus qui naguère
pesaient sur vos têtes. Ils veulent les gabelles, la chasse, la dîme,
la corvée. Ils veulent vous attacher de nouveau à la terre..... Nous,
au contraire, que voulons-nous? Nous voulons que tous les hommes
soient égaux; qu’ils soient aussi libres que l’air qu’ils respirent. La
République passe avant tout. Vive la République! Vaincre ou mourir!_

— _Vivent les défenseurs de Turin!_ — gridò una damina galante e
attillata.

L’oratore saltò a terra, e sulla scranna, presa in qualche bottega
vicina, salì un ometto sbilenco, di cui non si vedeva che la testa
enorme, tosata _à la Brutus_.

— Cittadini! — incominciò — piemontesi buoni guerrieri e coraggiosi,
soffrirete voi che i barbari del nord, spinti dalla rabbia dei loro
tiranni, vengano a saccheggiare le vostre case, insultare le vostre
mogli, scannare i vostri figli? Soffrirete voi che il vostro onore
sia macchiato da quelli che non sanno neanche che cosa sia l’onore?...
Sapete voi cosa vogliono questi stranieri venuti dal fondo dei paesi
più gelati? Vogliono, come diceva adesso l’amico Michel, ristabilire la
nobiltà a danno delle povere brache di tela. Vogliono incatenar daccapo
il popolo. Bisogna scacciarli, o dovrete pagar di nuovo le decime,
andare ai forni ed ai mulini forzati... Sarete di nuovo malmenati dalla
cavalleresca alterigia e dalla gotica ignoranza; le nostre donne non
avranno più difesa contro la lubricità dei potenti; i nostri valorosi
soldati saranno di nuovo soggetti al bastone dei duri ufficiali... Io
non sono che un campagnuolo, ma vi potrei raccontare...

Qui, scorgendo nella folla la contessa, Mazel e Violant, che si erano
avvicinati, s’interruppe, spalancò gli occhi infocati e contrasse le
grinze del viso a un sogghigno di compiacenza diabolica.

— Io non sono che un modesto speziale di campagna — ripigliò tosto, —
ma so che il buon cittadino è tenuto a denunziare chiunque attenta alla
sicurezza dello Stato libero. Avendo scoperto, laggiù dalle mie parti,
un nido di biscie e di serpenti, sono venuto a Torino subito, a fare il
mio dovere. Credevo che li avessero pigliati tutti, invece no: io vedo
lì, in mezzo a voi, la contessa di Robelletta, con suo fratello, col
suo ganzo. E sapete cosa aspettano? Amici, io ve lo dirò...

In questo momento i cannoni del monte cominciarono a tonare,
risvegliando echi da tutte le parti. Si vide la turba agitarsi,
dividersi, ravvolgersi in sè stessa; tutti s’alzavano sulla punta dei
piedi, sporgevano il viso a porta di Po, mirando certe nuvolette dense,
color di perla, che si formavano e si dissolvevano.

— Laggiù, neh? — Ci siamo, ci siamo! — Madonna degli Angeli, aiutateci
voi! — I cannoni, eh? — Cannoni, mortai, un po’ di tutto. — C’era da
aspettarselo. — La mitraglia! la mitraglia! — Che mitraglia? tirano
a palle infocate. — Son granate reali. — Son bombe, son bombe! — È
l’assalto generale. — È il bombardamento. — Te l’avevo detto, eh,
stamattina? — Siamo serviti! — Siamo morti! — _Vive la République!_
— Va all’inferno! — Oh Signore! cos’è che brucia là a destra? — È a
sinistra che brucia: è casa Bellotti. — Misericordia! già una casa
incendiata!

Queste ed altre infinite parole formavano un suono rumoroso simile al
gorgogliare d’una grossa acqua corrente, un suono strano, interrotto
tratto tratto da subitanei silenzi, da brevi momenti di attesa
opprimente, acutissima. Dopo un poco la gente non fece più alcun
caso dei colpi, divenuti numerosi e frequenti: guardava il fumo nero
che, avvolgendosi in globi ed allargandosi, saliva a confondersi con
quello che già insudiciava il cielo; guardava la pioggia minuta delle
scintille, e le fiamme voraci che uscendo dalle finestre dell’ultimo
piano, leccavano il tetto. Un odore acre di polvere e di bruciaticcio
scendeva a grandi ondate. In quel pigia pigia i borsaiuoli, i
pelamantelli facevano ottimi affari.

Inopinatamente il fragore delle artiglierie cessò; s’udirono invece
molte grida confuse e qualche sparo di fucile.

— Cospetto! — esclamò Mazel — si battono intorno alla porta. Sentite:
fanno alle fucilate. Una sortita!

— E se fosse invece un’entrata? — disse Violant, con voce tremula,
piena di bramosia.

— Non è possibile — mormorò la contessa, stretta alla gola dalla
commozione. — Sarebbe troppo bello!

Un luogotenente della guardia nazionale, che guardava da una finestra
con un canocchiale, urlò tutt’a un tratto: — Viva il Re!

Dieci voci, poi cinquanta, poi cento, fatte ardite dall’esempio,
ripeterono con entusiasmo quel grido.

— Ma dunque son proprio entrati? — diceva la contessa, attaccandosi
al braccio di suo fratello. — Son proprio entrati? — Le mancavano le
ginocchia, le si appannava la vista; si fece forza, guardò intorno. Il
gruppo dei repubblicani s’era sciolto. Le parve di veder uscir dalla
chiesa l’omiciattolo che l’aveva insultata, tutto stravolto, con in
testa una grossa parrucca. Volle parlare, indicarlo a quelli ch’erano
con lei, ma in quel punto chi interrogava aveva bell’interrogare, chi
rispondeva aveva bel rispondere, che il tuono stesso non si sarebbe
sentito: un applauso, un clamore, un ah! ah! ah! continuato e crescente
veniva su facendo rintronare formidabilmente la strada; usci e finestre
parevano sbatacchiati dal vento; molte vetrate saltavano in frantumi.

La contessa, il marchese, il cavaliere furono urtati, spinti nel mezzo
della via da quelli che si cacciavano avanti; ributtati indietro subito
da un’altra corrente: la folla si rimescolava, si divideva, acclamando
sempre più freneticamente.

Passò di gran carriera un bellissimo uomo, col corpetto celeste e
i calzoni bianchi, che brillava tutto; poi altri, poi altri, tutti
col _schako_ a pennacchio, con la _sabretache_ e col _doliman_;
rispondevano agli applausi brandendo le sciabole e vociando a
sguarciagola.

— Ma chi sono? Chi sono? — ripeteva la contessa ansiosa, volgendosi ora
al fratello, ora al cavaliere; i quali erano rimasti come estatici.

Sopraggiunse il dottor Garonis, vestito da capitano della guardia
nazionale.

— Chi sono, dottore? Chi sono?

— Gli usseri di Meshco, contessa, — rispose Garonis.

— Ma son proprio entrati? — chiese ancora Violant, che non poteva
credere ai suoi occhi.

— Per Bacco! Non ha visto? — continuò il dottore esultante. — La
cavalleria è passata al galoppo, adesso viene la fanteria al passo
di carica. Le più belle truppe d’Europa. I russi sono bellissimi a
vedere, tutti alti, quadrati di spalle, di portamento diritto, coloriti
vivamente nel viso; portano in capo una specie di mitra; hanno certi
zimarroni che non finiscono più. Siamo noi che li abbiamo fatti
entrare, noi della guardia. È andata benone, proprio secondo l’intesa.
Dopo i primi colpi, Brunet, Boccione e parecchi altri salirono sui
bastioni e, colto il momento, saltarono addosso ai cannonieri francesi
e strapparono loro le miccie di mano. Quelli di noi ch’erano di guardia
alla porta, l’aprirono subito, abbassarono i ponti, fecero i segnali,
tutto a un puntino. Mi rincresce che si dovette maltrattare un pochino
il capitano Barucchi, il quale non sapeva niente o non voleva saperne.
Quanto al conte Ghigliossi, l’ex-ufficiale d’artiglieria, non è colpa
nostra se l’hanno ammazzato. Voleva opporsi con la forza! Un matto che
ha sempre cercato le brighe col lumicino. Con permesso; devo andare al
Municipio. Viva! Viva! Viva i nostri liberatori!

Ed il gridìo gaudioso continuava; spesseggiavano gli evviva al Re,
alla casa di Savoia; da per tutto sventolavano bandiere, sciarpe,
fazzoletti, o si agitavano cappelli e berretti; le trombe squillavano
sonore, i tamburi rullavano alla gagliarda, le campane di molte chiese
suonavano a distesa; ed il picchetto di guardia al quartiere, essendo
venuto a schierarsi davanti a San Francesco, cominciò a far una lieta e
strepitosa gazzarra.

Violant, assordato dal frastuono, si chinò verso la sorella.

— Santo Dio! — diss’egli — a casa delle anime dannate forse non si
sente la metà di quel che si sente qui. Credi a me, andiamo via. Io
ti riaccompagno, poi vado a cercar mio figlio, che non ho più visto da
ieri. Oramai sappiamo che Torino non è più in poter di Francia... e mi
par già di respirare un’altr’aria. Andiamo via.

Uscirono dalla calca a gran fatica.

Le strade vicine a contrada di Po avevano un aspetto più scompigliato
che festoso. Chi traeva al rumore, chi se ne allontanava; le botteghe
si serravano; le insegne repubblicane sparivano; le coccarde tricolori
galleggiavano allegramente nelle zanelle veloci. Si vedevano fuggire
i soldati francesi verso la Cittadella, e i popolani inseguirli come i
cani alla lepre.

Giunti al palazzo Claris, il marchese si allontanò, promettendo di
tornare appena avesse rintracciato Giacinto; la contessa e Mazel
salirono lo scalone, entrarono nella sala rossa, si affacciarono al
terrazzino.

Passarono a briglia sciolta su piccoli cavalli selvaggi e criniti,
venti o trenta ceffi di ribaldi, con mantelli rossi, e berretti di
pelle d’agnello su gl’occhi. Uno di questi dal naso camuso, dai lunghi
baffi pendenti, alzò una pistola verso Mazel, urlando: — Jacob! Jacob!
— con la bocca aperta fino alle orecchie; poi trascorse con gli altri,
cacciando una risata che parve un nitrito.

— I panduri! — mormorò il cavaliere, che aveva fatto il viso come la
cenere. — Questi sono certo i panduri...

Il droghiere, che teneva bottega dirimpetto al palazzo, tornava a casa
frettoloso, conducendosi dietro la moglie e due figliuoletti.

— Ah! signora contessa — gridò da basso — scusi la libertà, ma faccia
serrare. Le Masse cattoliche, i briganti sono entrati anche loro, e
fanno il diavolo. Facce che in Torino non si sono mai vedute. Hanno già
saccheggiato casa Ferrero e casa Miroglio; adesso mettono sottosopra
il caffè Scanz. Vogliono mangiare, vogliono bere, e si ficcano da per
tutto per cercare i giacobini... Faccia serrare, per carità!

Due o tre servitori, ch’erano nell’atrio, chiusero il portone senza
aspettar l’ordine. S’udiva un urlìo, un rombazzo sguaiato e brutale che
cresceva e si avvicinava.

Guardando verso il crocicchio, la contessa ed il cavaliere videro
passare un gentiluomo con la spada nuda in mano, poi un domenicano
con un crocifisso, poi una spingarda sur una carretta tirata da un
asino, e dietro la torbida fiumana del contadiname ebbro di rabbia, di
fanatismo, di vino.

Il ringorgo buttò una parte di costoro contro il palazzo; si
attrupparono sotto il terrazzino, gridando tutti insieme che volevano
far merenda. Erano armati in varie e strane guise, portavano abiti
d’ogni foggia e d’ogni colore, avevano braccialetti, anelli, ciondoli,
orecchini. Mazel osservò un pezzo d’omaccio, pieno di sudiciume e
di strambelli, che si soffiava il naso in un gentilissimo fazzoletto
guernito di trina.

La contessa, stomacata dall’odor di bestiame che saliva fino a lei,
rientrò in sala; trovò il maestro di casa pallido e senza fiato, e gli
ordinò di distribuir pane, vino, companatico dalle finestre terrene,
senza aprire il portone. Quando si riaffacciò, una specie di porcaio
aveva cacciato fuori un piffero e ne traeva di tanto in tanto qualche
fischio; un gaglioffaccio, avvolto in un andrienne da gran dama, con un
berretto da granatiere in capo ed un forcone in mano, gettava un grido,
e tutti gli altri lo ripetevano saltando e facendo il chiasso:

— _Un saut per l’Imperator, ch’as farà sempre onor! — Un saut per
i russi, ch’an levran prest dai crussi! — Un saut per la mort dii
giacobin, ch’na faroma prest la fin! — Un saut per’l prevost, cha sarà
sempre nost!_....

— Che fate, figliuoli? — gridò il cavalierino Di Capolea, giungendo
sopra un muletto. — Non è qui che dovete stare: andate in piazza
Castello, abbattete l’albero, poi chiedete e domandate, ci sarà d’ogni
ben di Dio... Correte, correte!...

I contadini lo guardarono a bocca aperta, poi si mossero in frotta, e
scantonarono schiamazzando.

— Tutto il mio rispetto, contessa — ripigliò Di Capolea, ridendo. —
Come va, cavaliere?... Questi cialtroni di contadini non sanno far
altro che rubare e mangiare. Ma l’affare cammina. Il maggior Meshco del
settimo ussari, il luogotenente colonnello Ettingshausen d’Erdôdy, il
conte di Neigper, l’aiutante Wukassovich, il capitano Veczey si sono
messi alla testa dei diversi pelottoni di cavalleria ed hanno caricato
magnificamente il nemico. Molti morti, molti prigionieri. Fiorella
l’ha scampata bella. Parlo anche in rima, eh? Si figuri, contessa,
ch’egli stava desinando al caffè Catlina, quel caffè che è sull’angolo
dell’ultima casa della contrada di Santa Teresa. Vide passare i primi
usseri a tutta briglia, poi li vide tornare subito indietro; allora
lui via a gambe verso la Cittadella... Fece alzare i ponti e girare
un pezzo in modo da spazzar la contrada. Ma noi passeremo ugualmente.
Sentite, sentitelo che dispensa le sue grazie!... La divisione Kaim è
già entrata tutta da porta Nuova..... Con permesso, contessa.

Alla cantonata, un personaggio in bianca assisa, con l’Ordine di Maria
Teresa al collo, guardava intorno dubbioso; gli ufficiali del seguito,
ben vestiti, ben armati, con dei bei cavalli sotto, discorrevano
sommessamente.

— A destra, a destra! — esclamò Di Capolea, spronando verso di loro.
— Voltare a destra, signori, per andare alla Cittadella, voltare a
destra...

Mentre Mazel teneva lor dietro con l’occhio, la contessa rientrò di
nuovo in sala e andò a gettarsi in una poltrona.

Alla vista del cavalierino, s’era fatto nella sua mente come un
tumulto; il ricordo dell’assenza dei suoi, soffocato da tante
sensazioni presenti, era ritornato distinto ed amaro.

— Il giorno della purificazione è venuto — pensava, coprendosi il viso
con le mani: — rivedremo il nostro Re; tutto tornerà come prima, ma
Annibale e Massimo saranno lontani, saranno ancor nelle mani dei nostri
nemici, irritati dalle sconfitte, fatti spietati dalla bramosia di
vendicarsi, di ricattarsi comunque sia. Chi sa che rappresaglie! Chi
sa, chi sa come me li maltratteranno d’ora in poi!... A Grenoble!...
Come può esser Grenoble?

Cercava d’immaginare, e non riusciva che a vedere una piccola città
gelida e tetra, una specie di fortezza, oppressa da un cielo di piombo,
perduta in una solitudine immensa e desolata....

E l’aria rimbombava sempre di grida, di colpi, di mille suoni lugubri
e confusi. Ad ogni scoppio, nella sala e nelle stanze vicine tutto
vibrava, tutto si scuoteva; i muri tremavano come percossi da un ariete
invisibile.

All’improvviso Mazel balzò dentro: i suoi occhi brillavano, gesticolava
come un burattino, tutta la sua persona esprimeva il desiderio
cieco di far presto, presto, presto; spinse l’uscio che rispondeva
nell’anticamera e scomparve.

La contessa si sentì rimescolare. Che cos’era accaduto? Che accadeva?
Si mise attenta: udì il portone aprirsi e richiudersi. Suo fratello,
forse? Il marchese che ritornava... No, no, no, sentiva bene che non
era il marchese. Dunque chi?

Passarono alcuni minuti d’un’attesa acuta, indicibile; poi le venne
all’orecchio uno stropiccio di piedi, e una voce...

— Diavolo! — diceva quella voce — com’è possibile che non abbiate
ricevuto la mia lettera?

— Massimo! Massimo! — gridò la contessa, alzandosi precipitosamente. —
Sono qui, sono qui, sono qui!




XXXI.


— Ma tuo padre... dove hai lasciato tuo padre? — disse la contessa a
suo figlio, passato il primo sfogo di abbracciamenti e di lagrime.

Massimo rimase sbalordito: credeva il conte in casa, in un’altra
stanza, stava appunto per domandare di lui. Quando Mazel gli ebbe
raccontato, molto in succinto, quant’era accaduto, si battè con la
palma la fronte.

— Ora capisco! — esclamò. — Ma da uomo d’onore non sapevo nulla. Se mi
fosse balenato in mente che mio padre poteva essere fra i così detti
ostaggi, mi sarei condotto diversamente. Povera mamma, lei ci credeva
insieme, eh?

La contessa fece di sì con la testa.

Il giovane stette un momento immobile come per raccogliere le idee, poi
ripigliò:

— Dirò così in compendio quello che mi accadde, senza fermarmi su tutti
i particolari... Dunque da Robelletta fui condotto a Torino, anzi
diritto diritto in Cittadella. Quando si giunse era notte avanzata.
Smontato da cavallo fui chiuso in una stanzetta terrena nel palazzo
del comandante, e lasciato con un lumicino. Dopo pochi minuti entrò un
ussero, un ufficialetto pallido e bruno, il quale mi domandò seccamente
perchè avessi fatto tardi; poi, senza aspettar la risposta, mi disse
che dovevo dispormi a ripartire subito per raggiungere il grosso dei
deportati già in cammino. Passò mezz’ora, un’ora, forse più: l’uscio
si riaprì, l’ufficiale ricomparve e mi accennò di seguirlo. Trovai sul
piazzale, dinanzi al mastio, un piccolo drappello ordinato in battaglia
su due file. Montato anch’io a cavallo, sentii che non avevo più sotto
il mio Frontino... In quel momento mi si indebolì l’anima, mi parve
d’essere già lontano lontano, tutto solo... Una sciocchezza, ma non
bisogna che ci pensi... Povero Frontino! Quello si chiamava cavallo!
Non ne avrò più un altro che lo valga... Basta, lasciamo questo.
Si venne alla porta di soccorso, si uscì alla campagna, procedendo
verso Rivoli. Una invincibile tristezza mi mangiava vivo, ma neppure
_messieurs les hussards_ non erano allegri: si sentivano in paese
nemico; infatti, a giorno chiaro, quando ebbi veduto come li guatavano
i campagnuoli ed i viandanti che si venivano incontrando, compresi
che avevano ragione di star in guardia. Giunti a Rivoli, si seppe dal
maestro di posta che la comitiva degli ostaggi aveva già continuato
la sua via. Me l’aspettavo, ma l’ufficialetto diede in escandescenze,
inveì di nuovo contro di me, giurando che non sarebbe andato oltre
Avigliana, che là avrebbe provvisto lui a modo suo, eccetera,
eccetera... Forse non diceva così che per sfogarsi e per farmi un po’
di paura. Io feci come se non intendessi nè il francese, nè l’italiano
infrancesato, e me ne stetti in silenzio. Dopo aver messo sottosopra la
casa, l’ammazzasette ordinò la partenza. Le strade erano quasi deserte,
ma quando fummo per uscir dall’abitato, ci trovammo chiuso il passo da
un attruppamento di gente varia di età e di sesso, che pareva starsene
lì in ozio. Alle intimazioni che venivano fatte di aprirsi, di dar
luogo, si rispondeva con baie, con qualche risata, e nessuno si moveva.
L’uffiziale non sapeva che partito prendere; guardandolo, pensavo
che ne’ suoi panni mi sarei trovato anche più impacciato di lui. Che
fare? Adoperar la forza, cioè buttarsi avanti e rompere e rovesciare,
era cosa piena di pericolo: nella folla c’era un numero considerevole
d’uomini; armi propriamente non ne portavano in vista, ma potevano
averne sotto, e a un bel momento mettersi a lavorar coi coltelli e
con gli stili. Indietreggiare non si doveva, e star fermi neppure:
l’immobilità e l’irrisolutezza potevano sembrare paura. Oltre a ciò
i soldati cominciavano a disordinarsi, a sparpagliarsi, a trovarsi in
certo modo a discrezione della turba. Io non avevo più accanto che un
sott’ufficiale, un veterano con un grosso codino grigio, con due palle
di moschetto appese alle _cadenettes_; mi guardava in cagnesco, e vi
fu un momento in cui credetti ch’egli avesse l’istruzione di bruciarmi
le cervella senza cerimonie, perchè lo vidi abbassar pianamente la
mano sulla fonda... Formavo il centro d’un gruppo di giovanotti che,
senza proferir parola, s’ingegnavano di spingere il mio cavallo verso
l’imboccatura d’una stradicciuola che era lì presso... Vi arrivai; chi
si tirò indietro da una parte, chi dall’altra, ed io mi trovai libero
affatto.

— Prenda a mancina; dopo gli orti, troverà i campi. — Si ficchi
nel bosco. — Scappi, scappi! — Buon viaggio, monsù. — Grazie tante,
figliuoli, ci rivedremo a miglior tempo.

Può immaginare, signora madre, come lavorai di sproni! Cinque
minuti prima non avevo neppur l’ombra d’una speranza di uscir da
quell’unghie!... Quando mi parve d’esser lontano abbastanza, rallentai
il corso, e cominciai a fare i miei conti. Per tagliar corto, pensai
d’indirizzarmi verso Pianezza e ricoverarmi nella villa del barone
Avenati, che è ancora nostro parente e uomo dabbene, benchè passi per
matto. Non sapevo così su due piedi trovar luogo nè migliore, nè più
sicuro... Dopo cortesi, ma brevi accoglienze, Avenati mi condusse a
vedere la sua collezione di mosconi, di bacherozzi, di scarafaggi;
poi, sentiti i miei casi, mi mostrò con molte parole che assolutamente
non mi conveniva tornare a Torino, dove chi mi voleva male avrebbe con
facilità potuto trovarmi ed emendare il colpo fallito: — Sta qui con
me; andremo a caccia d’insetti, t’insegnerò la storia naturale, e ci
guadagnerai un tanto, capisci. Scrivi subito ai tuoi, penso io a far
ricapitare. — Io scrissi e gli diedi la lettera: scommetto che l’ha
ancora in tasca! Può pensare in quale agitazione mi trovai poi. Non
sapevo più nulla dei miei, nè di nessuno. Le notizie che giungevano
alla villa erano fatte da chi le portava sempre così fantastiche, e con
tante favole tra mezzo che non potevo in esse distinguere cosa buona.
Or mi risolvevo di venire in città di nascosto, travestito; or di
muovere incontro agli austro-russi... Ma il barone, con buone maniere,
seppe sempre tormi giù da ogni risoluzione. Intanto nelle campagne
cresceva il rumore; ed alla fine la vanguardia di Rosenberg, comandata
da Bagration, arrivò da Montanaro, e per Caselle e Pianezza, si spinse
fino a Rivoli. Mi mossi anch’io. Ieri vidi piantar le batterie contro
porta Nuova e contro porta Susina... Ed oggi sono qui.

La contessa alzò in viso al figlio gli occhi luccicanti, e gli stese la
mano.

Il giovane la baciò teneramente, la strinse tra le sue.

— Bisogna farsi animo, signora madre — diceva. — Vede che son pur
ritornato: ritornerà anche il babbo. Forse è più vicino che non si
crede. Deve sapere che il marchese di Saint-André, il quale era pure
tra gli ostaggi, è stato anche lui liberato sulla strada di Susa da
alcuni galantuomini che avevano servito sotto i suoi ordini. Egli
poi ha trovato il modo d’andar ad incontrare Suwarow a Castelnuovo di
Scrivia... Quello che è seguìto al marchese ed a me, può essere seguìto
ad altri. Dunque chi sa!... Si può sperare, no?

— Oh sì! — rispose la contessa. — Dio non nega favore alla giustizia.

— Ostaggi, ostaggi! — brontolava Mazel, che andava e veniva dal
terrazzino, soffiandosi il naso a ogni momento. — Che ostaggi d’Egitto!
Pegni, cioè. Ma ci può esser pegno dove non c’è fede? Sono ostaggi come
quelli che predano i corsari d’Algeri, i pirati di Tunisi, i ladroni di
mare, insomma; pegni di un riscatto, ecco. Ma adesso lo pagheremo in
piombo, il riscatto; in piombo e in ferro, ma non in oro e nemmeno in
argento. Cospettone!

Cominciava a farsi notte; ma nè la contessa, nè quelli che erano con
lei, parevano avvedersi della semi-oscurità in cui era la sala, che
in tutt’altro momento li avrebbe avvertiti di provvedersi d’un lume.
A poco a poco i tiri erano divenuti meno frequenti; poi erano cessati
affatto.

Entrava dal terrazzino l’aria fresca della sera, e un rumore cupo e
continuato, ronzìo e calpestìo ad un tempo.

Ad un punto un servitore venne a posare una lucerna sur un tavolino, e
intanto annunziò il marchesino Violant.

Questi non tardò a comparire pomposo e trionfante. Baciò
rispettosamente la mano alla zia, salutò familiarmente il cavaliere
e dette in un oh! di grandissima meraviglia vedendo il cugino; ma poi
non si curò di chiedergli per qual prodigio si trovasse a Torino invece
che a Grenoble. Domandò di suo padre, e inteso che o prima o poi doveva
venire, si accomodò in un seggiolone.

— Sono stanco che non ne posso più — diss’egli. — Non per vantarmi,
ma credo di aver cooperato anche un pochetto al buon esito delle
cose. Sono io che ho aperto porta Palazzo in barba ai francesi. I
quali non scherzavano, ve lo dico io. Le baionettate fioccavano. Un
sergente della guardia nazionale, che mi prestava qualche aiuto, ne
toccò una nel petto, ma per buona sorte forò solamente l’abito. Poi ho
condotto sui bastioni e nel giardino reale il capitano Zundeler, per
mostrargli dov’erano collocati i cannoni. Poi, tornato alla porta, ho
avuto l’onore di abbracciare e baciare S. E. il marchese di Chasteler.
C’erano anche il cavaliere Derossi ed alcuni altri signori. Di là
siamo andati tutti all’Arsenale. Trecento ottantadue cannoni, quindici
mortai, ventimila fucili, munizioni in abbondanza, ecco quel che
abbiamo trovato, ecco quel che si può chiamare il nostro bottino di
guerra.

In quella entrò il marchese. Si rallegrò vedendo suo figlio, trasecolò
raffigurando il nipote.

— Insomma questo è il giorno dei portenti! — esclamò, stringendolo al
seno. — Mi spiegherai poi come va questa faccenda. Ma non adesso, che
non ho più testa.

Ascoltò però con gran compiacenza il racconto delle prodezze di
Giacinto. Si vedeva che non capiva in sè dalla gioia.

— Oggi — diceva — è stato giorno di gloria per il Piemonte e per noi.
E, se Dio vuole, sarà principio di gloria maggiore. Rimetteremo tutto
nell’ordine antico. È finito il tempo in cui i religiosi si chiamavano
_fanatici_, i ladri _patrioti_; in cui il disordine era _legge nuova_,
il libertinaggio _libertà_, la miseria universale _uguaglianza_. Tutte
le distinzioni, titoli, ordini, collegi e divise sono ristabilite
sul piede in cui erano sotto il regno di S. M. il Re di Sardegna.
La città di Torino s’intitolerà nuovamente contessa di Grugliasco e
signora di Beinasco; piazza Castello non sarà più piazza Nazionale.
Ho avuto il piacere di veder atterrare a furia di popolo il maledetto
albero della Libertà e ridurre in pezzi il piedestallo, i trofei, le
iscrizioni. Ho avuta la consolazione di veder l’ingresso di S. A. il
signor conte Suwarow Kimniski, feld maresciallo di S. M. l’Imperatore
Apostolico e di S. M. l’Imperatore di tutte le Russie, Gran Croce di
tutti gli Ordini Militari, commendatore dell’Ordine di Malta, conte
dei due Imperi, e Generale in capite delle Armate combinate. Aveva da
una parte il principe Costantino, dall’altra il suo cappellano; era
in grand’uniforme, con un caschetto di marrocchino verde ornato d’un
bel pennacchio di penne di gallo; inforcava un cavallino tartaro la
cui bardatura alla cosacca non vale uno scudo. S’inchinava a destra,
s’inchinava a sinistra; e la gente parevan tutti matti, baciavano la
spada, gli stivali, tutto quel che arrivavano; ho visto io una dama
chinarsi in fretta, raccogliere ed involtare nel fazzoletto certa
roba (scusate) che il cavallo perdeva alzando la coda. Suwarow andò
diviato a San Giovanni. È là che ho potuto esaminarlo da vicino e con
comodo. È un uomo che non m’arriva al petto, ma ha un braccio che dove
tocca lascia il segno. E che gambe, anche! Gli occhi paiono carboncini
accesi; il naso è corto, con un bitorzolino da una parte; la bocca
larga come un forno, con tutti i suoi denti. Andò avanti come si
accingesse a ballare, si buttò giù con la fronte a terra, si rialzò,
corse all’altar maggiore, baciò e ribaciò la mensa. Poi, dopo aver
pregato un buon poco, porse all’arcivescovo due cordoni dell’Ordine
di Maria Teresa perchè li benedicesse, e ne diede graziosamente uno a
Melas e l’altro a Chasteler.... Il maggiore Inglesio, che serve già da
qualche tempo in qualità di volontario sotto di lui, mi narrava che per
Suwarow ogni battaglia è una festa. Bisogna vederlo, pare un demonio
scatenato, qualche volta si spoglia perfino in camicia e combatte agile
e destro, con nastri, croci e patacche di brillanti sul petto. Mangia
carne cruda; dorme sulla terra dei campi, o nudo nella paglia o nel
fieno che fa ammucchiare in mezzo alla camera. Aborre gli specchi e
si diverte a mandarli in frantumi. Sa armare, esercitare, ordinare,
disciplinare a maraviglia i soldati; e si dice anche che faccia
propinar veleno ai malati per disbrigarsene, ma via, questa mi pare un
po’ grossa. Però, osservandolo, si capisce che è un tartaro, un mezzo
selvaggio!

— Cos’importa? — esclamò Mazel. — Purchè mantenga la parola, e ci
ristori di tutti i danni sofferti.

— A me basta ch’egli venga a rimetter sul trono il mio Re — disse
magnanimamente Giacinto.

— Bravo! — ripigliò il marchese. — E adesso bisogna andare a casa.
Ho invitato a cena il capitano Kapzermet del quinto Bannat, ed il
luogotenente Benizki del settimo usseri. E poi dobbiamo far accendere
i lumi, per Bacco! Non sapete? La città di Torino ha stabilito che per
tre sere, a cominciar da questa, tutti gli abitanti debbano dimostrare
il loro giubilo con l’illuminazione delle proprie case.

Infatti mentre Violant, Giacinto e Mazel prendevano congedo dalla
contessa e da Massimo, s’udì sotto le finestre passar correndo una
frotta d’uomini e una voce gridare:

— Fuori i lumi! fuori i lumi! Viva il Re! Morte ai giacobini!

I servitori, sotto la direzione del maestro di casa, si affaccendavano
già intorno alle finestre ed ai terrazzini; in poco d’ora il palazzo
Claris scintillava da cima a fondo, come le case vicine.

Madre e figlio stettero ancora un po’ insieme, poi si separarono.
Entrambi sentivano bisogno di riposo; bisogno sopra tutto di
rinfrancare gli spiriti, di ricuperare le forze della mente. La
contessa passò nelle sue stanze; Massimo discese nel quartierino
terreno, pieno per lui di tante memorie, le une dolci, le altre amare.
Si spogliò, entrò nel letto, e presto si addormentò.

Dormì d’un sonno continuo, perfetto fin verso le due; poi si risentì,
si rizzò a sedere e tese l’orecchio. La città pareva tranquilla,
immersa nel sonno. I cittadini, stanchi di festeggiare, di tripudiare,
d’andar a sollazzo per le strade, riposavano. Ma dove s’era raccolto il
canagliume di Branda Lucioni? Che facevano i croati, i panduri, tutta
l’immonda genìa soggetta a Melas? Che facevano racchiusi in Cittadella
i francesi vinti, furenti di rabbia? La fantasia gli dipingeva la
fortezza paurosa e formidabile come un vulcano assopito. Gli pareva
d’aver sentore d’un pericolo enorme che si venisse approssimando
nell’ombra, e provava una inquietudine, un batticuore, una smania tanto
insopportabile, che a un certo punto, buttate le gambe fuor del letto e
messosi indosso un poco di veste, andò alla finestra e l’aprì.

La notte era pura, il silenzio profondo; fin dove arrivava lo sguardo,
non appariva indizio di persona vivente. Sentì tosto salir dal petto
più libero il respiro e svanire in parte quel terrore indefinito con
cui l’animo combatteva. Ma ecco che nell’atto in cui si appoggiava coi
gomiti sul davanzale, udì distintamente una detonazione lontana, più
forte assai d’un colpo di fucile. Finì in fretta di vestirsi, discese,
attraversò l’atrio, uscì in istrada.

Ora le esplosioni si ripetevano a brevi intervalli.

Il giovane si soffermò un momento per guardare a destra e a sinistra;
poi corse alla cantonata e voltò risolutamente verso piazza San Carlo.
Porte e finestre si aprivano e si serravano a gran furore, il bisbiglio
cresceva, e tra mezzo qualche urlo, qualche strido. Una campana
cominciò a sonare a stormo, poi due, poi molte altre. Spesseggiavano
i sibili; le bombe scorrevano per l’aria, lasciando dietro lunghe
striscie di luce; tremolavano su su tra le stelle e cadendo a piombo,
ruzzolavano frusciando per le strade, per le piazze, per i cortili;
o sfondando tetti e soffitti, scoppiavano nelle stanze, fulminando e
fracassando ciò che trovavano.

Mentre Massimo arrivava sulla piazza, sboccava dalla contrada di
Santa Teresa una turba di fuggenti. Uomini e donne semi-nudi; mariti
che spingevano e tiravano le mogli, mogli aggrappate convulsamente ai
mariti; fratelli con le sorelle in collo; padri e madri che stringevano
in braccio o trascinavano per mano i figliuoli, tutti correvano
rovinosamente a rifugiarsi sotto i portici. Massimo notò un uomo in
livrea che ne portava un altro ravvolto in una veste da camera; tre
monache coi crocifissi in mano; un vecchio militare, senza cappello e
senza parrucca, che gridava disperatamente: — al fuoco! al fuoco! al
fuoco! — Ad un punto si abbattè in una signora scarmigliata e discinta,
che prese a raccontargli, brancicandogli la giubba, come mentre si
affacciava al terrazzo, le fosse passata presso al viso una palla da
cannone che le aveva levato il respiro, e come non sapesse più che cosa
fare per riaverlo...

Una voce sonora proferiva parole tedesche di comando verso il mezzo
della piazza. Massimo si mosse per avvicinarsi, si trovò attorniato da
una frotta di soldati che schiamazzavano tutti insieme:

— Neh, che flagello! — Assassini, tirano e cantano. — Già la
_Marseillaise_, la _Marseillaise_. — Senti, i nostri battono la
generale. — È un’ora fa che dovevano batterla. — Se almeno ci fosse
la luna. — Cosa vuoi far della luna? Hai le stelle filanti. — Ohe ohe,
senti questa come gnaula! Viene qui! — Attenti! — A terra! a terra! —
Giù tutti!

Il punto sfavillante rompeva l’aria fischiando acutamente. Massimo si
trovò bocconi fra gli altri. Udì un tonfo; poi un crepito sottile, che
non aveva nulla d’inquietante; non guardava, eppure vedeva il globo
nero girar fumicando. Subitamente si sentì mancare l’anelito, gli parve
di struggersi, di spappolarsi in un sudore ghiacciato.

— Non sogno — pensava — son qui... sono io. Ho fatto male a non
avvertire, a non salutare mia madre. Perchè non ho scritto a Liana?...
Purchè io non abbia a soffrire...

Poi si vide piccolino in una carrozzetta tirata da due capre... Si
rammentò che voleva comprarsi un cavallo... Non sapeva perchè fosse
uscito di notte, così, senza bastone...

— Non scoppierà più — susurrò un soldato steso ai suoi piedi: — la
spoletta...

Ma in quell’istante Massimo fu come percosso da una forza subitanea
ed impetuosa, e insieme assordato da uno strepito orrendo, simile al
frangersi d’un immenso cristallo; una schizzata di fuoco, di terra,
di ferro, di ciottoli volò stridendo sopra la sua testa. Saltò su
quasi senza volerlo e si gettò contro il muro. Piovevano a scroscio
calcinacci, scheggie e rottami; d’innanzi a lui, dal fumo crasso, dal
polverìo denso uscivano gemiti, voci lamentose, grida soffocate. Gli
tornò a mente sua madre e prese a correre verso casa.

Il frastuono continuava. L’Angelo della morte continuava a svolazzar
per le strade all’impazzata. Davanti alla chiesa di San Filippo, una
palla da cannone cadde stanca vicino a Massimo, e rimbalzando andò a
colpir nelle reni un povero operaio.

Adesso il giovane andava innanzi senz’ombra di paura; provava il
compiacimento ineffabile dell’uomo uscito illeso da un gran pericolo;
si sentiva sano, vigoroso, invulnerabile; gli pareva quasi di esser
rinato.

Giunto al palazzo, trovò la contessa nell’atrio, in accappatoio,
in pianelle, che domandava e ridomandava affannosamente di lui ai
servitori sbalorditi.


Alle cinque il bombardamento restò. Massimo e la contessa, seduti in
sala sul sofà, si riscossero e si guardarono in viso.

— Un armistizio! — esclamò il giovane, movendosi verso l’uscio. — Forse
una tregua.

— Aspetta! — disse la contessa, con accento supplice. — Non lasciarmi
più. Manderemo qualcuno a vedere.

E suonò il campanello.

Il maestro di casa, che si presentò subito, ricevette l’ordine d’andare
a prendere ragguagli circa quanto accadeva.

— Dovrò andare in piazza Castello — osservò Gringia; — forse fino al
palazzo di Città.

— Va dove vuoi — rispose Massimo; — ma fa di tornare con notizie
chiare, precise.

Passò un’ora. Massimo ogni tanto si affacciava al terrazzino; sentiva
un ronzìo lontano che indicava un certo movimento; abbasso giravano
coppie e brigatelle di soldati stranieri, e grossi branchi di villani;
i cittadini andavano diritto per la loro strada, e nell’andatura di più
d’uno si vedeva facilmente un non so che di stanco e di spaurito.

La contessa suonò di nuovo. Comparve un altro servitore, ed a questo
ella ordinò di scendere e d’andare un po’ attorno, senza allontanarsi
troppo dal palazzo.

— Tornerai fra un quarto d’ora, fra mezz’ora al più tardi, e ci dirai
quel che avrai visto e sentito.

Mezz’ora dopo l’uomo venne a riferire che la gente lavorava a riparare
i danni fatti dai proiettili alle case, ai palazzi, alle chiese, ed
a combattere il fuoco, che serpeggiava qua e là; impresa tutt’altro
che facile, perchè quel birbante di Fiorella aveva fatto portare in
Cittadella le trombe idrauliche, le scale portatili, le secchie di
cuoio, tutto quanto insomma serviva a spegnere gl’incendi.

Intanto russi ed austriaci cominciavano a far i prepotenti: volevano
pane, vino, carne, riso, grano, fieno, biada; entravano nelle case
e nelle botteghe e si servivano senza metter mano alla borsa. Gli
straccioni e gli scamiciati rubavano scopertamente senza suggezione di
alcuno.

— Sa, signora contessa, di che cosa ho paura? — si arrischiò a
conchiudere il buon servitore: — che tutti costoro finiscano per
sgraffignare ancora quel poco che gli altri ci hanno lasciato.

Alle otto e tre quarti arrivò il cavaliere Mazel molto brutto e tutto
disfatto. Cospetto! non gli era riuscito di chiudere un occhio in
tutta la notte, non a cagione degli spari, oibò! ma per un’emicrania,
un dolore vivo e lancinante che gli occupava metà della testa. Non
reggendosi in piedi, non aveva potuto venire subito al palazzo, come
sarebbe stato suo sacro dovere.

Raccontò poi, dopo un poco, che nell’uscir di casa s’era imbattuto in
due robusti mascalzoni avvolti in un palandrano e con un berretto di
cuoio in capo; i quali, chiedendogli l’uno l’ora, l’altro una presa,
gli avevano poste le mani ai taschini, privandolo a un tempo della
tabacchiera, della ripetizione e di tutti i gingilli.

— Non so capacitarmi — diceva, — mi pare impossibile che fossero
tedeschi. Sarebbe grave. Li credo francesi, piuttosto, due francesi
travestiti.

Il marchese Violant venne a mezza mattina.

— Non posso fermarmi — diss’egli, soffiando. — Son qui per dirvi di
viver tranquilli. So da fonte sicura che Suwarow ha fatto scrivere
di buon inchiostro a Fiorella, dal principe Gortschakoff. La lettera
suona press’a poco così: «Ah! voi minacciate di voler ridurre in
cenere la città? Ah! voi volete far cadere sopra cittadini pacifici
le conseguenze di un combattimento al quale non parteciparono? Ebbene
se voi, contro tutte le costumanze delle nazioni civili, continuate
a bombardare, io vi avverto, caro il mio signor generale, che ne
soffriranno i francesi fatti prigionieri. Io li schiererò tutti di
fronte alla spianata della Cittadella e ve li lascierò per tutto il
tempo che continuerete a far fuoco. Lascio poi al vostro giudizio di
valutare l’impressione che il vostro contegno produrrà sui popoli, ai
quali i francesi promettono protezione e fraternità». Bene, eh? Questo
si chiama parlare. Diavolo! Bisogna vedere quel che hanno sofferto
la pubblica torre e certe chiese e certi palazzi; sentir quanti
sono i morti, i feriti, gli stroppiati! Basta, domani alle dieci si
canterà un _Te Deum_ a San Giovanni con l’intervento di tutti i Corpi
sì regolari, che secolari, del Corpo Reale dei volontari, eccetera,
eccetera. Poi pranzo di gala, serata di gala al Teatro Regio, salve di
gioia intorno alle mura... Presto i cavalieri di Malta andranno a far
visita a Suwarow, e sarebbe bene che tutti i nobili... Insomma vedremo,
riparleremo, in qualche modo faremo. Intanto su via, allegri! allegri!

Il maestro di casa non tornò che verso mezzodì. Venne dinanzi ai
padroni tutto mortificato e compunto, con un abito nero non tagliato al
suo dosso, e senza fibbie alle scarpe. Trovandosi fuori, aveva pensato
d’andar a vedere se non era accaduto niente ad una sua sorella che
abitava in fondo alla contrada de’ Guardinfanti. Ma a un dato punto tre
casacche bianche e due mantelli rossi, sbucati da una bettola, gli si
erano avventati contro, ingiungendogli di scoprirsi. Poi gridandogli
nelle orecchie: — Porche tosate, ti star giacobine! — e levandogli di
dosso chi una cosa, chi un’altra, per poco non l’avevano lasciato in
camicia.

Nel pomeriggio la città prese l’aspetto degli altri giorni. Il
droghiere, il vermicellaio, la modista, che stavano dirimpetto al
palazzo, aprirono pian pianino le loro botteghe. Non si udivano più
grida, nè rumori violenti. Nella strada passavano carrozze, portantine,
gente affaccendata e signori a diporto.

Massimo indusse sua madre a prendere un po’ di riposo; intanto egli
uscì. Bramava di persuadersi vie meglio che le cose erano veramente
cambiate.

Sulle cantonate i nuovi affissi coprivano già largamente i rimasugli
dei vecchi. Il giovane si pose a leggerli prima distrattamente, poi
con attenzione. V’era il manifesto col quale S. E. il signor conte
Suwarow ristaurava il sistema di Governo dell’8 dicembre 1798 e creava
un Consiglio Supremo. V’era l’ordine della città di Torino concernente
l’illuminazione. Per parte poi del Comando austriaco, si ordinava:
«al Capitano della sesta Compagnia, Battaglione primo della Guardia
nazionale di comandare in suo nome a tutta la Guardia nazionale,
di continuare il suo servizio in questa Capitale per mantenervi la
tranquillità, e di accompagnare alla Municipalità tutti i Francesi che
s’incontreranno, proteggendoli da ogni insulto».

Tutta questa roba aveva la data del giorno antecedente: 26 maggio; ma a
lato v’erano parecchi fogli ancor più recenti. Massimo diede una rapida
occhiata a due nuovi manifesti di Suwarow agli abitanti del Piemonte,
l’uno pieno di lodi, d’incitamenti bellicosi e di promesse, l’altro
riguardante provvedimenti diversi. Considerò invece i seguenti:

                                 AVVISO
                     AGLI ABITANTI DI QUESTA CITTÀ.

  «Il Governo di Torino resta informato, e deve perciò annunziare
  agli abitanti della Città, che il nemico non farà più fuoco sopra
  di essa, che S. A. il Maresciallo Conte di Suwarow Kymniski per il
  bene dell’umanità ha consentito alla dimanda del Generale Francese
  di non attaccare la Cittadella dalla parte della Città, e per
  conseguenza gli abitanti devono essere in piena sicurezza, e si
  ordina pure a tutti gli artefici d’immediatamente aprire le loro
  botteghe, e ripigliare tranquillamente i loro lavori.

      «Torino li 27 maggio 1799.

                                     «LAVOOFF, _Colonnello di S. M.
                                         l’Imperatore delle Russie,
                            e Cavaliere dei suoi Ordini militari_».

                           L’AMMINISTRAZIONE
                         DELLA CITTÀ DI TORINO.

  «Già alle ore dieci di questa mattina d’ordine dell’Illustrissimo
  signor Lavooff Colonnello di S. M. l’Imperatore delle Russie e
  Cavaliere dei suoi Ordini militari si è reso noto al Pubblico, che
  S. A. il Maresciallo Conte di Suwarow Kymniski aveva acconsentito
  di non attaccare la Cittadella dalla parte della Città; ora alle
  due dopo il mezzodì S. E. il Marchese di Chasteler ebbe la bontà
  di notificare, che viene d’essere segnata tra lui, e il Comandante
  Francese la convenzione, colla quale questi si sottomette di non
  più far fuoco verso la Città.

  «L’Amministrazione della Città di Torino nell’annunziare questa
  fausta nuova ai Torinesi, fa loro osservare che questa segnalata
  prova d’affezione ai Piemontesi costerà alla brava Armata
  Austro-Russa maggior tempo, maggiori difficoltà, e maggior sangue
  per potersi impadronire della Cittadella, e che li sentimenti
  di riconoscenza devono essere proporzionati a un tanto e sì raro
  benefizio.

  «L’Amministrazione stessa invita di nuovo gli artefici e negozianti
  a riaprire con confidenza le loro botteghe, e a riassumere li
  soliti loro lavori; e si persuade, che dopo le prese misure
  all’oggetto di assicurare la pubblica tranquillità, se ne farà
  ognuno un premuroso dovere per non incorrere coll’oprare altrimenti
  nella ben meritata indegnazione del Generale.

      «Torino li 27 maggio 1799.

                                   «BONVICINO _degli Amministratori
                                         dell’Illustrissima Città_.

                                           «FRANCHI, _Segr. agg._».

                          LA CITTÀ DI TORINO.

  «D’ordine di S. A. il signor Conte di Suwarow Kymniski Generale
  in Capo dell’Armata Austro-Russa si comanda a tutti gl’individui
  componenti la Massa Cristiana comandata dal signor Maggiore Branda
  de Lucioni, ed altri Contadini, che si ritrovano in questa Città
  armati, ed oziosi, di uscire da detta Città prima di mezzogiorno, e
  portarsi li primi nel luogo di Pecetto loro quartiere, e gli altri
  restituirsi alle loro rispettive case, ed in caso contrario saranno
  arrestati, e tutti coloro, che si permetteranno insulti agli
  abitanti, o tenteranno di saccheggiare, od introdursi nelle case,
  saranno senza formale procedimento fucilati.

  «Si ordina pure a tutti gli abitanti, eccettuati li Pichetti, che
  restano al loro posto, e Corpi di Guardia Nazionale, di restare
  alle loro case, e non uscire armati per evitare uno spiacevole
  arresto dalle pattuglie di cavalleria, e fanteria, che scorrono la
  Città per mantenere la tranquillità e sicurezza.

      «Dal Palazzo di Città li 27 maggio 1799.

                              «CONTE DELLA VILLA, _Amministratore_.

                                           «FRANCHI, _Segr. agg._».

                          LA CITTÀ DI TORINO.

  «D’ordine di S. A. il signor Conte di Suwarow Kymniski Generale in
  Capo dell’Armata Austro-Russa intima a tutti gli abitanti di questa
  Città, che hanno ricoverati Francesi di qualunque sorta nelle loro
  case, di darne avviso all’Ufficio di Pulizia fra ore tre dopo la
  pubblicazione del presente, sotto pena del saccheggio delle loro
  case.

      «Dal Palazzo di Città li 27 maggio 1799.

                                      «BONVICINO, _Amministratore_.

                                           «FRANCHI, _Segr. agg._».

— In complesso — disse Massimo tra sè, quand’ebbe finito di leggere, —
le cose si mettono bene. Ci resta a espugnar la Cittadella. Sta bene,
all’occorrenza darò anch’io una mano, ma prima... Oh! prima...

E tornando verso il palazzo, sporgeva innanzi il labbro inferiore, e
tentennava il capo ogni tantino, come chi sta pensando e discutendo fra
sè stesso un importante disegno.

Giunto nel suo quartierino, staccò dalla parete, esaminò e caricò
accuratamente i due _Kuchenreuter_, le sue pistole predilette; poi,
lasciandole sul cassettone, uscì di nuovo e andò nella scuderia.
Accostatosi al cavallo che i francesi gli avevano dato in cambio di
Frontino, vide che essendo stato in riposo e ben pasciuto nei giorni
passati a Pianezza, mostrava il fianco assai tondo, il pelo lucido e
liscio, e pareva gli fosse entrato addosso un certo brio, che prima
proprio non aveva.

— Non sei Frontino — diceva Massimo, passandogli la mano sul collo e
sulle spalle e battendolo leggermente, mentre l’animale abbassava le
orecchie, scrollava la testa e faceva l’atto di mordicchiare. — Non
sei Frontino, e non gli somiglierai mai, povera bestia, ma pazienza!
portami dove voglio andare domani, e saremo amici in eterno. —
Volgendosi poi allo stalliere, soggiunse: — E tu non lasciargli mancar
niente, fa che abbia da mangiare quanto vuole; e vedi anche come gli
stiano i ferri.

Mezz’ora dopo, uscendo dalle sue stanze, la contessa trovò suo figlio
che camminava innanzi e indietro per la sala, serio e pensieroso.

— Non sei uscito? — diss’ella.

— Sì — rispose Massimo. — E lei ha riposato? Ha dormito?

— Ho dormito quasi due ore e mi sento bene, mi sento tutta rinvigorita.
Dunque, sentiamo, che cosa hai visto?

Massimo riferì in compendio quanto aveva letto negli affissi, poi
continuò infervorandosi a poco a poco:

— Insomma, presto tutto sarà accomodato, e può darsi che i dispiaceri
si volgano in allegrezza. Sarebbe tempo. Facciamo i conti: siamo
nel ’99, i francesi hanno cominciato a vessarci nel ’92: sett’anni
e parecchi mesi. Finalmente se ne sono andati. Non tengono più che
questa benedetta Cittadella; un osso duro a rodere, ma non importa, ne
verremo a capo o prima o poi. Si apriranno le trincee, si cominceranno
gli approcci... Io vedo già una bella prima parallela da San Salvario
a porta Susa, una seconda, una terza... Vedo già i russi coi grandi
elmi che copron le spalle, coi guanti lunghi a uncini, con le scale
in pronto... Però bisognerà fare il possibile per facilitare loro
l’impresa; trovar buoni lavoratori per i trasporti di terra, per gli
scavi... Le pare?

La contessa, ritta in mezzo alla sala, stava attenta per veder
dove andasse a parare; quel calore, quell’entusiasmo le sembravano
leggermente fittizi.

— Anzi — ripigliò Massimo, componendo il volto a un mezzo sorriso: —
stavo appunto pensando se non fosse opportuno d’andare domani fino a
Robelletta, e tornar doman l’altro con una buona squadra di contadini
volenterosi, muniti di vanghe, zappe, picconi. Se ne potrebbero far
venire alcuni anche dalla Florita. Sarebbe dare il buon esempio... Son
certo che presto si pubblicheranno inviti, circolari...

— E naturalmente — disse la contessa sottovoce — darai una scappata
anche a Murello?

Massimo arrossì, esitò un istante, poi ruppe in una furia di gesti
scomposti.

— Ebbene sì. Andrò anche a Murello. Non so più niente da tanti giorni.
Son tribolato da troppe paure. Ho un bel volermi persuadere che
Liana... che la signora Ughes sta bene, che non le è accaduto nulla
di sinistro, non ci riesco. Sarà un’idea mia, sarà una immaginazione,
ma... Santo Dio! dopo tutto questo trambusto... E avrei tanto bisogno
di un po’ di pace! Lei lo sa, lei lo vede, lei che mi vuol bene. Non è
vero che mi vuol bene? Signora madre, permette, acconsente che io vada?
Guardi, mamma, ho sofferto abbastanza, ho sofferto abbastanza!

La contessa aveva posato una mano sulla spalliera di un seggiolone,
e la stringeva nervosamente, come per prender vigore e preparare la
risposta. Pareva volesse pur soffocare qualche cosa che le si ribellava
nel petto.

Massimo la guardava fisso, studiando la sua fisonomia, cercando
leggervi anticipatamente quello che ella stava per dire.

— Vieni qui — disse la contessa, dopo un momento di silenzio. — Dimmi:
tornerai presto?

— Subito — rispose Massimo, con quel respiro che vien prodotto dal
batticuore, — subito; glielo prometto.

— Dio dunque vi benedica e vi renda felici... Ma adesso non parlarmene
più, te ne prego; non parliamo più di questo.




XXXII.


Non parliamo più di questo.....

E Massimo ossequente, timoroso, non osò quasi aprir bocca in tutta
la sera. Andò a letto presto; dormì poco e si alzò all’alba, deciso
di mettersi senza indugio in cammino. Nell’atto in cui adattava nelle
fonde della cintura le sue pistole, gli parve di non essersi congedato
abbastanza affettuosamente da sua madre; ne sentì rimorso; pensò che
sarebbe stato bene rinnovarle la promessa di tornare senza fallo il
giorno appresso, e... domandarle anche, arditamente, se non fosse il
caso d’indurre l’avvocato Oliveri a venire subito con la figlia in
città.

— Qualche cosa dovrà rispondere — diceva egli tra sè. — E forse
forse verrò a conoscere che cosa ha voluto dire con quel suo: Dio vi
benedica...

Egli aveva meditato tanto quella notte, su quelle parole: «Dio vi
benedica e vi renda felici!» Che cosa potevano significare?... Che
la contessa si arrendeva, si piegava, lo lasciava libero di star
con Liana; che non intendeva più di frapporre ostacoli alla loro
unione, anzi augurava loro ogni prosperità... Il senso della frase era
questo; ma riafferrando l’atto, la voce, lo sguardo con cui era stata
pronunziata, si sentiva cader dal cielo e sprofondare nel dubbio.
Era dunque un destino? Egli non sarebbe proprio mai arrivato nè a
comprendere, nè a farsi comprendere in questo mondo indiavolato?...

Battè i piedi con impazienza: per parlar con la contessa, bisognava
aspettare che si fosse svegliata... Essa era andata a letto stanca,
spossata; chi sa fino a che ora avrebbe dormito! Come impiegar questo
tempo? Come vincere l’inquietudine che lo torturava? E se in quel
mentre Liana fosse in pericolo? Che pericolo? Ne vedeva tanti, ne
vedeva troppi, era uno sgomento, una scurità, una cosa orrenda a
pensarci!

Passeggiò un poco, triste e scontento; poi tornò a battere i piedi,
e uscì in cortile per dar un’occhiata al cavallo. Il cavallo era in
punto; con un salto fu in sella, e alcuni minuti dopo era a porta
Nuova. Là egli dovette fermarsi per lasciar entrare una lunga, esotica
schiera di fanti, preceduta da tamburi e da pifferi, seguita da una
specie di ospedal volante, e da un guazzabuglio di bagagli, vivandiere,
animali, monelli.

Un colpo di canna ch’egli vide piombar sulle spalle di un tenente, lo
sdegnò per modo che, rivolgendosi al comandante percussore, gli disse
in faccia, a tutta voce, che le bastonate si davano ai cani e non agli
ufficiali d’onore. Colui non intese o non volle intendere, e tirò via
senza rispondere.

Uscito all’aperto, Massimo s’accorse subito che non avrebbe potuto nè
riposar l’animo, nè ricreare la vista. Il suo occhio veniva ad ogni
momento rattristato da oggetti dolorosi. Più qua e più là, nei campi
che non imbiondivano ancora, si vedevano branchi di cavalli pascenti.
Squadriglie di cosacchi barbuti, con le lancie attaccate dietro le
spalle, andavano attorno, unicamente intenti a frugare, a razzolare,
a carpire. Le cascine avevano un aspetto desolato e silenzioso,
quasi fossero tutte vuote di abitatori; le ville, le case padronali
mostravano gli usci sforzati o sconficcati, le imposte sgangherate
o pendenti, le invetriate rotte; ogni cosa guasta, fracassata dalla
soldatesca o dai briganti che le avevano invase e spogliate.

Dov’era gente, ivi erano luridi cenci e miseria ammontata. Vecchi,
donne, fanciulli alzavano i visi estenuati, e le mani scarne e tremanti
verso il giovane, il quale raccapricciava pensando che, mentre quelli
si rammaricavano e piagnucolavano accovacciati contro i muri delle loro
casupole, altri a cui il digiuno aveva già levato le forze, morivano
nell’interno lentamente di fame.

Massimo raccapricciava e soffriva; quel giorno la sensibilità dei
suoi nervi era tanta e così squisita, che ogni minimo urto dato dalle
cose esteriori, gli faceva fare lo sbalzo istintivo d’un uomo punto
in una parte vitale. Mentre un pensiero fisso lo occupava tutto, lo
travagliava di continuo, impressioni fugaci, sinistre, attraversavano a
quando a quando il suo spirito, turbandolo e contristandolo.

Si fermò a Carignano sol quanto bastava per ristorarsi e per lasciar
riposare il cavallo; poi si rimise in viaggio e per il Ceretto,
Campagnino, Lombriasco, giunse ove doveva varcare il Po.

La chiatta si staccava in quel momento dall’altra riva.

— Ho già dato una voce — disse un uomo di mezza età, magro e cencioso,
ritto accanto a un somarello carico di pentole, pentoli e pentolini. —
Ho già dato una voce ed è là che viene.

Massimo scavalcò e aspettò stropicciando nervosamente la rena col piede.

— Lei — riprese il pentolaio, dopo averlo squadrato: — viene magari già
dalla capitale, eh?

Il contino accennò di sì con la testa.

— Feste anche là, eh? — continuò l’altro. — Purchè la duri. La
settimana passata la gente non ha fatto altro che correre incontro agli
alemanni. Ne ho sentite delle campane! Ne ho visti degli stendardi, e
dei San Rocchi, dei Sant’Antoni, dei San Giovanni in processione! Ma,
dicevo io a quelli con cui parlavo, non sapete che gli alemanni vengono
di fuorivia ed hanno un’altra religione? Cosa volete che ne facciano
dei nostri santi, se non li conoscono? Se non rispettano nè i preti,
nè la roba dei preti. Don Castagna, prevosto di Settimo, si lagnava
con uno di questi generaloni che i corazzieri gli avessero rubata una
pisside e pizzicata a fondo la serva. Ero presente, monsù, sa cosa ho
sentito rispondere?... Vada, vada, reverendo, vada in chiesa, canti un
_Te Deum_ e non mi rompa l’anima. Precise parole.

— Ohe! — fece il chiattajuolo, approdando, — sei qui, buona lana? Cosa
ne facciamo dei tuoi cocci? Buttali in Po.

Massimo passò prestamente col cavallo sul tavolato; il pentolaio lo
seguì. Il chiattajuolo, un vecchio nero e peloso come un caprone, con
una guardatura di ribaldo matricolato, cominciò a manovrare; ripeteva
sempre:

— Buttali in Po, buttali in Po.

— La solita cantilena! — esclamò il pentolaio.

— Non abbiamo più niente da metterci dentro!

— Colpa tua! Dovevi far salsiccia dei tanti francesi che hai pigliati e
freddati.

— Non ho mai freddato nessuno in vita mia.

— Hum! Va là che i pesci del Po devono aver inghiottito dei gran bei
bocconi; dì la verità!

— Guarda come parli, linguaccia! Non mi muovo mai di qui, cosa vuoi
che io sappia? Son quindici giorni che non ho più visto francesi, e
gli ultimi due... Oh questa te la voglio contar subito. Sai che il
Po è stato grosso dal principio fin quasi alla metà di questo mese?
Bene. Dunque tenevo qui per aiuto anche mio figlio. Una mattina, non
era ancor giorno chiaro, Cecco mi dice: — Ehi! guardate un po’ là! —
Mi volto, e vedo una barca che veniva giù, proprio nel filo. Saltiamo
nella nostra; quattro remate e ci siamo. Da lontano pareva vuota, ma da
vicino... Indovina un po’ cosa c’era?

— Su su, tira via.

— C’erano due uomini nudi come vermi, e inchiodati come due Cristi nel
fondo; uno era già stecchito, l’altro boccheggiava come un barbio fuor
d’acqua.

— Madonna! Due francesi, eh? E cos’hai fatto?

— Cosa vuoi che facessi? Se la barca fosse stata vuota l’avrei fermata,
ma essendoci gente...

— Non ti sei voluto impicciare? Hai fatto benissimo. Non è vero, monsù?

Il contino, scuro in viso, guardava fissamente la riva che pareva venir
loro incontro.

— La guerra è guerra! — riprese subito quel delle pentole. — Però
che matti! Pensar che in fin dei conti si ammazzano per un po’ di
terra. Andate là che n’avremo tutti quanto basta da coprirci, quando
sarà tempo! Heheh! tre tappe: prima a Mortara, poi a Fossano, poi a
Marsiglia: si muore, si va giù nella fossa, poi si marcisce. Dico bene,
monsù?

Massimo aveva già pagato il passo, in un lampo fu in sella e prese, di
mezzo galoppo, la via di Casalgrasso.

La molestia interiore cresceva così fieramente, che a un certo punto
pensò di lasciar la strada e d’arrivar per i campi a Robelletta;
si contenne ricordando che assai fossi e paludacci pericolosi
attraversavano tutto il paese, e potevano forzarlo a girar largo, a
perder tempo invece di guadagnarne.

Giunse a Polonghera senz’accidenti; passò oltre; si trovò nella strada
del sale. Cominciò a guardare con la testa per aria dalla parte ov’era
la villa. Non vedeva che cime fronzute, mosse dolcemente dal vento.
Quante rimembranze! Che miscuglio confuso di tenerezza, di accoramento,
di desiderio! Era ancor presto: non si sarebbe fermato a Robelletta
che pochi minuti, il tempo di dar al gastaldo Devalle gli ordini
riguardanti la squadra dei lavoratori, che voleva condurre a Torino,
poi... Oh poi sarebbe stato libero, libero fino alla mattina seguente!
Si vedeva arrivare a Murello, entrava nel cortile della casa di Liana,
era sulla scala, cercava d’immaginare una scena, la scena... Qui la
visione s’intorbidava repentinamente, le paure risorgevano a furia e
l’ansia cresceva a tal punto, che gli pareva di soffocare.

È al Colombetto. Avanti, avanti. Ecco là il bosco di Riochiaretto,
a sinistra; Robelletta è a destra. Un falco, bellissimo a vedersi,
si librava nell’aria, roteando; attorno gli volava un branco di
storni. Questo vedeva Massimo, e non le due ventaruole così note!
Non pertanto eran là, dietro quegli alberi... Avanti dunque, per Dio!
Ecco il giardino: l’integrità delle forme vegetali è completa. Ma le
ventaruole? Ma il tetto? Ma il tetto?

Il sangue gli si mosse tutto e con tant’impeto, che, snervato com’era,
credette di smarrire le forze e di cascar da cavallo.

Un contadinello, che veniva dal viale, scorto il padrone, voltò
indietro e fuggì a tutta corsa. Il cancellone era spalancato; la
rimessa, la tettoia, la casa rustica erano là, quali Massimo le aveva
sempre vedute; la casa signorile non sembrava più che uno scheletro
informe.

Il contino smontò macchinalmente in mezzo al cortile, e guardò.
Provava la sensazione di chi, vedendosi in sogno sull’orlo d’un
abisso, vorrebbe ritrarsi, e sente come una mano enorme che gli calca
le spalle, e lo spinge, lo spinge... Mille domande, mille enigmi
sorgevano, si confondevano tumultuariamente nel suo cervello. Come
poteva accadere che una casa restasse così senza tetto? E la camera
della contessa dov’era? E la sua? E quella dove dormiva Mazel? E le
altre, le altre? Com’era possibile che quelle pareti fra le quali
avevano vissuto tante persone si fossero trasformate in quel modo?
Quattro muri disgregati e anneriti, poche travi ridotte in carbone,
e cenere e polvere e macerie. Tutto perduto insomma, tutto consumato,
sfumato, sparito, come le gioie, i dolori, i fastidi, le speranze, i
rimpianti d’un tempo!

In un angolo del cortile v’era un mucchio di mobili, un arruffio di
suppellettili salvate o risparmiate dal fuoco. Che roba era quella?
Perchè era lì?... Ad un tratto egli riconobbe una veste di mussolina
trapunta d’oro, che era l’abito favorito di sua madre; ebbe al cuore un
sussulto, e alzò la testa come se si svegliasse.

Il gastaldo teneva per la briglia il cavallo; era allibito e pareva di
sasso. Quattro o cinque contadini, che stavano presso al portone, si
fecero avanti in punta di piedi.

— Che disgrazia, neh! — mormorò il più vecchio.

— È stata una gran brutta faccenda — disse subito un altro.

— Io non ho più potuto nè mangiare, nè bere — susurrò un terzo.

Il contino si buttò sur una seggiola tutta bruciacchiata, ch’era lì a
due passi.

— A te! — diss’egli, volgendosi a Devalle. — Parla.

— Oh Signore! — esclamò questi — creda che mi par d’aver tutto il mondo
addosso. Proprio tutto... Non sapeva niente?

— E che vuoi ch’io sapessi?

— Ho mandato un uomo apposta stamattina. Non l’ha incontrato? Veramente
avrei dovuto mandar ieri, ma, come le ho detto, mi par d’aver tutto il
mondo addosso...

— Avanti, avanti...

— Dunque oggi ne abbiamo 28, eh? Il 25 a sera è capitato qui un
signore, un signorino anzi; si vedeva che veniva da lontano: la sua
bestia, un muletto, era coperta di schiuma e teneva la testa bassa...
Mi domandò se la signora contessa era a Robelletta. Risposi che non
c’era nessuno. — Non c’è rimedio — mi disse — dormirò sul fieno.
Così sia. — Io... Ah! badi che la sua faccia non m’era nuova; quel
giovinotto lì è già stato qui a pranzo e a cena, e più d’una volta.
Dunque io ho creduto bene di dirgli che avevo le chiavi e che se voleva
un letto... Ho fatto male, ho fatto malissimo, e mi pentissi tanto dei
miei peccati quanto d’aver fatto quell’offerta...

— Com’era?

— Chi? Il giovinotto? Pareva non potesse star nella pelle, ecco.

— Ma...

— Del resto sano, svelto, denti di lupo, naso da aquilotto... Basta,
accettò la camera, accettò anche qualche coserella per cena che
gli portò mia moglie; poi andò a letto dicendo che voleva ripartire
prestissimo per arrivar a Torino a buon’ora... Infatti andò via che era
ancor notte. Cinque minuti dopo abbiamo visto le fiamme. Bisognerebbe
essere un astrologo per saper com’è successo, ma io son sicuro che non
l’ha fatto con malizia, e dove non è malizia non è peccato...

— Ma insomma?...

— Insomma: mettiamo che il signorino abbia riacceso il lume per
vestirsi, e che nella fretta del partire l’abbia dimenticato vicino
alla cortina; mettiamo anche un po’ di vento, una corrente tra l’uscio
e la finestra, e capirà...

Massimo balzò in piedi e si accostò alle rovine.

— Se sapesse — soggiunse il gastaldo — come ho dovuto lavorare per
salvar la cascina!

— Una fatica da cani! — esclamò il vecchio.

— Uf! — fece un altro — io ero sul tetto...

— Ehi! — gridò Devalle. — Cosa sono queste ciance? Chi v’insegna? Via
subito! Ringraziate il padrone che è venuto a trovarci e via tutti!
Tutti meno Carlino. To’ la briglia. — Si avvicinò poi al contino e
ripigliò commosso: — È vero, sa; lei ci ha fatto proprio una bella
improvvisata. Si diceva che l’avessero menato lontano... Le nostre
donne pregavano tutte...

— Il paese — domandò il contino, — com’è il paese?

— Ehm! così così.

— A Murello... nessuna disgrazia?

— Disgrazie grosse no, ch’io sappia. La Pagliazza ha partorito due
gemelli. È morto Masoero, ma aveva novantasette anni. C’è morto
anche... ma di questo lei sarà stato subito informato.

— Informato di che?

— Della morte del forestiero... di quel signore grasso e rosso...
dell’avvocato Oliveri.

— Oliveri! Lui? Ma come? Ma quando? È morto, oppure è stato...?

— Ammazzato? No signore! È morto da cristiano, nel suo letto, d’un
accidente, credo.

Massimo corse al cavallo, afferrò il crine e l’arcione di dietro, mise
il pie’ nella staffa, fu su. Prima di moversi fece il gesto di chi è
invaso a un tratto da una nuova idea.

— Senti — disse a Devalle, indicandogli la rimessa, — farai cavar fuori
e dar una buona ripulita alla carrozza vecchia, poichè posso averne
bisogno stasera o domani. E quanto ai cavalli...

— Quanto ai cavalli, se si contenta del Moro e del Grigio, li ho tutti
due in stalla.

Massimo assentì, spronò, e un momento dopo era scomparso.




XXXIII.


Quel giorno, verso sera, il notaio Arignani venne a far visita a Liana,
e la trovò più pallida, più mesta del solito. Le comunicò le notizie
della capitale; quand’ebbe finito, si rifece da capo e raccontò di
nuovo tutto, interrompendosi ogni poco come chi segue, oltre le sue
parole, un pensiero non espresso.

Alla fine si alzò e si mosse. Liana lo accompagnò nel cortile, poi alla
porta che metteva in istrada. E fu là che Arignani concluse:

— Basta — diss’egli, — ora che la Dio mercè ricomincia miglior serie di
cose, anzi un’epoca veramente felice, ora che sia il Bechio di Murello,
sia i Bechi di tutto il Piemonte, sono o scappati, o nascosti, o in
gabbia, o all’inferno, e non possono più nuocere, lei deve tornare
in città. Cosa vuol far qui sola soletta? Lei è troppo giovane, lei è
troppo... bella per vivere in un luogo così fuor di mano. Tanto vale
ritirarsi in un convento. In un convento almeno ci sono le monache,
tante monache; la compagnia è una gran cosa. Qui non ci siamo più che
noi: don Prato ed io, due vecchi barbogi. A Torino troverà parenti,
amici, amiche... gente del suo ceto insomma. L’avvenire è nelle mani di
Dio, e chi sa che Dio non le prepari qualche gran novità. Io le auguro
tutte le felicità che può desiderare. Lo dicevo con don Prato ieri
sera.

— Grazie! — rispose Liana — ma non posso partir così subito...

— Ah subito no! Nè subito, nè sola. Bisogna aspettar qualche giorno. Io
andrò di sicuro a Torino per il ritorno del Re, che sarà presto, spero.
Parlerò con gli amici del paese, con gli amici dei contorni; e quando
saremo una comitiva, non avremo più nessuna paura. Lei, l’avviserò tre
o quattro giorni prima, caso mai volesse approfittar dell’occasione. Va
bene così?

Liana fece nuovi ringraziamenti al buon notaio, poi, quando se ne fu
andato, passò in giardino. Un gran nuvolo nascondeva il sol cadente;
l’ombra densa pareva pesar sul villaggio, si estendeva fin sopra la
casa. Liana la sentiva sul cervello, la sentiva sul cuore. Prese a
camminare sotto gli alberi senza alcun pensiero determinato.

Ad un tratto la campana della parrocchia rintoccò; ella si scosse,
uscì dal cancelletto, attraversò il piazzale, discese nel cimitero.
Inginocchiata sulla tomba del povero avvocato Oliveri, ella pregò a
lungo. Si rivolse prima supplichevole a Dio, poi a suo padre. Applicò
tutta la sua mente a evocarlo e presto venne nella persuasione che il
defunto l’udiva. Udiva, sorrideva, le leggeva nel pensiero: — Ah tu
vuoi un consiglio, eh? Tu vuoi un consiglio? Eccomi, vengo a te. Ma
non alzare la testa, non cercar di vedermi. — Ella si coprì gli occhi
con una mano e tosto si sentì come sotto un’influenza magnetica, sotto
un fascino soprannaturale. Sì, suo padre le era vicino. Ma come? In
ispirito, o quale l’aveva sempre veduto da vivo? Cosa strana: ella non
riuscirà a rappresentarselo alla fantasia sotto nessuna forma.

— Eppure — pensava — per me egli esiste, per me esisterà sempre. — E
tendeva ansiosamente l’orecchio.

Continuava a sentirne la presenza, e pianamente, soavemente, quasi come
un’emanazione di questa, le tornavano alla memoria, le penetravano in
cuore le parole pronunciate da Arignani.

Era dunque questa la risposta di suo padre? Anche lui la consigliava a
partire, a lasciar quella specie di vita claustrale?

Si alzò commossa alle lacrime; tornò meditando donde era venuta.

Il nuvolone aveva invaso tutto quanto il cielo. La luce spariva. Le
raganelle gracidavano di foga, così che il giardino ne pareva pieno.

Liana andò a seder sotto il cipresso. Nei giorni addietro, quel giorno
stesso, fino a mezz’ora prima, le principali occupazioni dell’animo suo
erano il rammarico incessante di aver perduto il padre, l’aborrimento
dello stato presente e un vagar faticoso dietro a mille aspirazioni
indefinite. Ed ecco che il cuore, che le pareva d’aver gonfio e
pesante, era tornato subitamente leggiero. Il sangue non scorreva
più nelle vene con veemenza febbrile, generando ardore, fastidio,
inquietezza insoffribili, ma irradiava per tutto il corpo, per tutte le
fibre uno spirito di refrigerio e di dolcissima attesa.

Era seduta sotto il cipresso e respirava con la bocca semi aperta e
gli occhi chiusi, l’aria soave, resa olezzante dall’adulta primavera.
Aveva dinanzi la casa; qualcuno discorreva con la serva in cucina, e
alla fine il mormorìo richiamò la sua attenzione. Un limpido gorgheggio
sur un albero lì presso le impedì d’intendere una domanda fatta da una
voce maschile, ma poichè l’usignuolo si tacque, udì distintamente la
risposta di Menica:

— No, signore, non può tardare; glie l’ho già detto. Ma vada ancor a
vedere in parrocchia. Non l’ha trovata nè in casa, nè in giardino, la
troverà in parrocchia.

— Chi può cercar di me a quest’ora? — pensò Liana. — Don Prato forse?

Trattenne il respiro... Più nulla? Sì, sì, un passo. Il piede è agile,
leggiero. Non può essere il prete. E poi, e poi... Dio che batticuore!
Volle alzarsi, andar incontro a colui che stava per comparire, ma le
ginocchia non la ressero; ricadde e si sentì alla nuca, alle gote, alle
tempie quel sottil gelo che annunzia lo smarrimento dei sensi.

Si riebbe subito. Massimo era lì, curvo sopra di lei e le parlava, e
le diceva tante tante cose con voce vibrata, con pause brevi, profonde,
più espressive d’ogni parola. Ella rimaneva seduta, palpitando sempre,
palpitando forte, mormorando interrottamente:

— Sì, sì... Ma basta, basta! So tutto. Non mi dica più niente...
Aspettavo... Desideravo anch’io... lo ammetto, lo confesso. Cosa vuole
di più?

Ma egli non ascoltava, non badava; egli non pregava, non implorava;
egli non pareva più quel d’una volta: aveva espressioni ardite, accese,
quasi insensate, espressioni piene d’un’arcana forza persuasiva, e
alzava ancora, alzava sempre la voce.

Alla fine, vedendo che non riusciva più a chetarlo, Liana scosse da sè
ogni languore, gli gittò le braccia al collo e gli chiuse le labbra con
un lungo bacio mordente.


La vecchia carrozza massiccia procedeva lentamente, tirata da Grigio e
da Moro guidati da Devalle. Seguiva un gruppo di dieci contadini con
fardelli, bisacce, arnesi rurali in ispalla. Massimo aveva lasciato
il cavallo a Robelletta, e camminava a piedi, baldo e leggiero, ora a
destra or a sinistra del legno.

Adempiva la promessa fatta alla madre: tornava a Torino, ma aveva
con sè l’amica sua, poteva mirarla, parlarle, sorriderle. Il sogno
inenarrabile, al quale non aveva mai osato aprire interamente il suo
cuore, si stava avverando. La sera prima aveva parlato lungamente,
ferventemente con Liana del loro avvenire, trasvolando su tutte le
circostanze che potevano ritardare ancora la loro unione. In due cose
s’erano trovati d’accordo: il gran bisogno di quiete che sentivano
entrambi, la necessità di non separarsi più a nessun costo.

E Liana aveva consentito a partire. Rincantucciata in fondo al
legno, contraccambiava le parole colle parole, i sorrisi coi sorrisi;
frattanto si provava a investigare il passato, ma si trovava impedita
da una specie d’abbagliamento che le pareva d’aver dentro la fronte.
Le cose erano cambiate per volere di Dio: credeva di scorgere nella
serie dei tanti accidenti avvenuti come una traccia disposta da Lui
per congiungerla a quello che doveva renderla pienamente felice. Ma
lo era pur stata tanto nel breve tempo che aveva vissuto con Ughes!...
L’effetto che questo nome le cagionava nello spirito era inesprimibile.
Rabbrividiva pensando che si sarebbe sempre trovata senza difesa contro
il ridestarsi improvviso di certe memorie. Eppure non aveva alcuna
ragione di stimarsi colpevole. Tornando a grado a grado alla serenità
normale, passando a un altro amore, ella non aveva fatto che obbedire a
una legge naturale, forse a una legge conservatrice del mondo... Perchè
struggersi in un lento martirio, mentre si sentiva un tesoro d’affetti
nel cuore, mentre aveva tanta tanta sete di vita?... Così ragionava;
ma intanto la sua coscienza continuava ad attristarsi d’un indefinibil
rimorso. Perchè, perchè questo turbamento crescente? V’era dunque
un’affinità, una rispondenza occulta tra l’anima sua e il tempo che si
veniva spaventosamente rabbuiando? La burrasca imminente le annunziava
forse una nuova sciagura?

Indietro il cielo era sgombro e sereno; davanti tutto occupato da
lunghi nuvoli, che in alto figuravano come una immensa chioma grigia,
tormentata gagliardamente dal vento, in basso finivano in una linea
nera, quasi parallela all’orizzonte. Da questa scendevano grandi
striscie di pioggia, plumbee sur un campo livido. Il tuono rumoreggiava
irosamente; le vette degli alberi oscillavano al vento, che or si
quetava, ora soffiava più forte, portando da lontano un grave odor
lutulento.

Passate le prime case di Lombriasco, l’acqua cominciò a venir con
furore, mista con grandine. Bisognò riparare in un’osteria. Massimo
fece portar da bere ai suoi uomini, poi entrò con Liana nella cucina,
che era insieme la sala. Si misero a sedere uno in faccia all’altra ad
un tavolino; e, mentre Liana pensierosa volgeva l’occhio ora sul palco
affumicato, ora sulle pareti scalcinate, Massimo le veniva comunicando
nuovi disegni e nuove speranze. Arrivando a Torino, egli l’avrebbe
condotta all’Albergo Reale, e cercato quindi il modo di farla trovare
con la contessa. Niente di più facile, a parer suo, che guadagnarne
l’animo interamente, definitivamente. Il suo cuore presentiva anche
prossimi la liberazione e il ritorno del conte. E lui pure, vedendo
Liana, non avrebbe potuto tenersi d’aprirle le braccia.

— Diavolo! — esclamava, battendo il pugno sulla tavola. — Ne abbiam
passate delle brutte, n’è vero? Delle bruttissime n’abbiam passate; ora
che si respira, ora che la va benone, tutti devono voler vivere d’amore
e d’accordo e in allegria.

Liana taceva, si sentiva l’anima come ammollita, come intorpidita. Or
le pareva d’esser diventata molto molto vecchia, così che non metteva
conto di pensare al futuro; ora invece provava l’impressione d’aver già
vissuto quei momenti. Ma quando? Si rammentava confusamente d’essersi
trovata un altra volta in una luce grigia e sinistra, attediata dallo
stroscio dell’acqua che veniva alla dirotta. Forsechè s’era fermata
in quel luogo con Ughes, al tempo del loro primo passaggio? Si sentì
dentro come una scossa, una traffitta che le tolse il lume degli occhi.
No, no, no: quel giorno c’era il sole, un bel sole, ed avevano passate
l’ore del rinfresco a Carignano. Che significava questo garbuglio
d’idee, questa sequela di reminiscenze ottenebrate? Perchè tutte
o quasi tutte si riferivano ad Ughes? Possibile ch’ella lo amasse
ancora? Ma se in quel momento stesso, mentre pensava a lui, riposava
teneramente il suo sguardo su Massimo!

Intanto il tempo passava. Finalmente Devalle venne a dire che si poteva
andare, che anzi conveniva rimettersi subito in viaggio.

Trovarono la strada fangosa da per tutto, guasta ed allagata in più
punti. L’andatura dei cavalli diventò ancor più lenta e affaticata.
Appena a Carignano, Massimo, vedendo ch’era ormai impossibile arrivare
a Torino prima di notte, stette in fra due di fermarsi addirittura
a pernottare dov’erano, o di pigliare un calessino e proseguir solo
con Liana. Ma poi, riflettendo meglio, rammentando la sua promessa,
pensando ai malviventi che andavano attorno, decise di non fare nè una
cosa, nè l’altra. Rimanendo avrebbe scontentata e tenuta in apprensione
sua madre; lasciando indietro i suoi veniva a privarsi, in caso di
pericolo, d’un aiuto valido e pronto. Del resto poi si sentiva pieno di
fidanza nelle proprie forze, nel proprio destino; pieno d’una volontà
lieta ed intrepida che tutto abbelliva.

Si avviarono di nuovo, appena ripreso vigore. Adesso avevano dalla loro
anche il tempo: le nuvole s’erano alzate e attenuate per modo che per
tutto traspariva il sereno; le piante, lavate e riavute dall’acqua,
verzicavano più belle di prima; sulle foglie e sui rami, le gocciole,
tocche dal sole che piegava al tramonto, brillavano di tutti i colori
dell’iride.

Di mano in mano però che andavano avanti, trovavano la strada men
malagevole, e i cavalli procedevano con passo più libero e sicuro. I
contadini, ai quali il padrone aveva fatto per due volte buonissime
spese, cominciarono a motteggiare, e facevano a chi le diceva più
belle. Dopo un poco Massimo aprì lo sportello, montò lesto e si
accomodò accanto a Liana. Dubitava di non essersi spiegato ancora
abbastanza, di non aver saputo esprimere efficacemente come, quanto
l’amava. Voleva ripeterle che si sentiva consumato, divorato dentro
dalla brama di appartenerle, di consacrarle tutti i suoi pensieri,
tutto il suo tempo, di darsi interamente e con tutta l’anima a lei. Non
riesciva neanche più a comprendere come avesse potuto viver lontano!...
Pensava che avrebbero poi fatto bene, a suo tempo, a ritirarsi in
campagna, in qualche luogo appartato, remoto, ove però vi fosse modo
di adoperarsi anche un poco in altrui servizio e vantaggio. Del resto
si rimetteva, si affidava in lei pienamente. Stava in lei il decidere.
D’ora in poi ella doveva comandare, egli ubbidire. E seguitando a
dichiarare il suo amore, cercava di rannodare alla meglio i pensieri,
i casi della vita passata con l’insperata fortuna presente: dando o
chiedendo timidamente spiegazioni di parole, d’atti, d’inezie rimaste
oscure e dimenticate, e che ora rinascevano, si ravvivavano a furia.
Egli veniva mettendo tra mezzo alle sue frasi, quasi inconsapevolmente,
qualche soavissimo nome d’amore; e, quando il cuore provava troppo più
che non potesse esprimere, le baciava le mani, le gote, i capelli.

Liana commossa, sopraffatta, rispondeva sommessamente come per non
essere udita da chi era fuori; non ricambiava le carezze, ma non le
sfuggiva e non faceva alcuna forza per tener lontano l’amante.

Di repente ella gli si svincolò dalle braccia con un gemito sordo, con
un moto convulso di tutte le membra; poi, chinato il capo, si strinse
le tempie fra le palme e rimase alcuni istanti come presa da timor
panico, incapace d’articolare parola.

— Che c’è? — domandò Massimo, turbato. — Che cos’hai? Cos’hai visto?

— Niente — rispose Liana. — M’è venuto un capogiro... Cioè no, è stato
un abbaglio: ho creduto di vedere comparire un uomo allo sportello, e
non c’è nessuno. Non è vero? Non c’è nessuno.

Massimo si sporse, guardò, crollò il capo. Tacquero tutti e due. Dopo
un poco Liana aperse le labbra con impeto, poi si contenne.

— Liana? — disse il giovane, con maggior passione che mai.

Ella esitò un istante, e ripetè piano:

— Non c’è nessuno, e non ci può esser nessuno: la persona che ho
creduto di vedere, non è più di questo mondo.

Massimo aspettava ch’ella si spiegasse; ma ella pareva non potesse
aggiunger parola.

Nel silenzio s’udiva una voce alta e sforzata al possibile:

    La luna lisi, fa bel camminare
      È questa l’ora di rubar li doni;
      Rubar li doni non si chiama ladro,
      Si chiama cavalier di buon soldati.

D’improvviso la carrozza si fermò. In quel punto la strada maestra era
raggiunta da un’altra che moveva direttamente da una cascina lontana
un cento passi. Il lume del crepuscolo fece vedere a Massimo e a Liana
un uomo ritto al bivio, con uno schioppo lungo come una pertica ad
armacollo.

— Chi viva? — gridò costui.

— Viva il Re! — rispose Devalle.

— Già — ripigliò l’uomo: — viva il Re! Adesso gridano: viva il Re anche
quelli che la settimana passata gridavano: viva la Repubblica.

Massimo saltò a terra.

— Cosa c’è? — domandò. — Cosa volete?

— Di qui non si passa, senza il permesso dei superiori.

— E chi sono i tuoi superiori?

Colui, invece di rispondere, cacciò un fischio. Nella cascina si levò
un ronzìo come in un nido di calabroni. Cinque, sei, otto ombre nere
sbucarono dal portone, arrivarono correndo alla maledetta.

Massimo accennò prestamente ai suoi di serrarsi alla carrozza.

— Cosa c’è? — domandò a quel dello schioppo, una specie di frate, con
le maniche rimboccate fino al gomito, la tonaca tirata su, e un antico
spadone al fianco.

— Giacobini che scappano — rispose l’altro.

— Ma non vedi che vado verso Torino?! — esclamò Massimo.

Si sentiva bollire il sangue nelle vene; si pentiva già amaramente di
non aver presa una risoluzione rapida, immediata. Bisognava slanciarsi
sull’uomo di piantone, senza lasciargli fare un sol gesto, afferrarlo
per il collo, atterrarlo, imbavagliarlo, e tirare di lungo. E anche
adesso, se fosse stato solo...

Girò l’occhio intorno, mordendosi il dito: i briganti erano almeno una
trentina, e ne comparivano altri che parevano balzar di sotterra.

Un brutto figuro vestito di rosso, con un gran tricorno di sotto
al quale uscivano i capi d’un cencio che gli fasciava le tempie, si
accostò a Massimo e lo pregò, con fare sdolcinato, di pazientare un
pochino, e l’accertava che l’indugio non sarebbe stato lungo. Gli altri
si misero a ridere sguaiatamente.

Il figuro intonò un suo turpe ritornello; e subito alla sua voce
s’accompagnarono parecchie altre. Poi si gridò:

— Il maggiore! Il maggiore!

Il maggiore, un bell’uomo alto e ben fatto, era in grande uniforme da
ulano, ma aveva in testa un berretto da notte; fumava una lunga pipa,
e camminava a braccetto con un prete; lo seguiva una specie di guardia
del corpo: sei o sette uomini, con lancie, spuntoni, e falci immanicate
al rovescio.

— Senta — gli gridò Massimo da lontano, — sono stato fermato,
trattenuto non so con che diritto... Mi faccia il piacere...

— Un momento — rispose molto garbatamente il maggiore: — mi favorisca
il suo nome.

— Sono il conte Claris, e vado a Torino per...

— Scusi, il conte Claris è in Francia. Lo so di sicuro.

— Ma io sono suo figlio...

— È vero! — esclamò il prete che stava accanto al maggiore. — E io che
non lo riconoscevo! È perchè ha la voce un pochino alterata. Sono io,
sor contino, sono don Macari.

— Meno male! — ripigliò Massimo. — Sa che è una bella storia, questa!
Mi raccomando a lei.

— Si figuri!

E il prete si voltò verso il maggiore, che mostrò d’assentire con un
cenno. Massimo ringraziò don Macari, salutò, si ricacciò nel legno. I
cavalli si mossero.

— I miei ossequi all’illustrissima signora contessa — aggiunse ancora
il prete.

— È lì anche lei — susurrò una voce: — è lì dentro rimpiattata in un
angolo.

— Ohe! ohe! — gridò più di uno. — Bisogna vedere, bisogna vedere...
Alto! Alto là!

Liana afferrò il braccio di Massimo, glielo serrò forte:

— Siamo perduti! — mormorò. — Sei armato. Promettimi, giurami di non
lasciarmi diventar preda di costoro...

— Silenzio! Coraggio! — rispose il giovane con i denti stretti.

— La lanterna! — ordinò il maggiore. — Su, alzate la lanterna!

Un raggio insolente ferì Liana dirittamente nel viso.

— Avanti! — urlò Massimo. — Devalle avanti, per Dio!

S’udirono battimani, voci e risa beffarde. In quel momento i cavalli
staccati, bastonati, punzecchiati, trottavano pesantemente, l’un dietro
l’altro, verso la cascina.

— Massimo! Massimo! — supplicava Liana raccapricciando. — Non lasciarmi
cader nelle loro mani. Non voglio. Pensa!... Massimo, viva no in quelle
mani, viva no! Sono tua, uccidimi tu. Moriamo insieme.

E gli si stringeva sempre più addosso; egli la respingeva
inconsapevolmente per guardar da una parte, per guardare dall’altra,
quasi sperasse di scorgere un rifugio, un asilo, una via aperta alla
fuga per virtù di un miracolo. A un tratto tornò a urlare:

— Devalle! Alesso, Giberto, Barbero, aiuto, per Cristo!

Ed ecco il legno urtato, spinto, trascinato avanti di qualche passo.
Eccolo di nuovo arrestato. Ecco correre all’intorno un calpestio
furibondo, un’agitazione frenetica di corpi; e urli, rantoli, gemiti,
bestemmie: voci e strepiti d’uomini ferocemente alle prese. Massimo,
quasi fuori di sè, volle buttarsi giù a corpo perduto. Non potè aprire,
non potè smontare. Cacciò fuori le pistole, imprecando, fremendo,
digrignando: aveva in pugno la vita di due uomini, ma eran tanti! eran
tanti!

Ricadde seduto. Liana, con le mani giunte dinanzi alle labbra, ripeteva
sempre:

— Moriamo anche noi, moriamo anche noi...

— Prega! — rispose il giovane.

— Il cocchiere! Il cocchiere! — Si vociava al di fuori. — Il signor
conte ha chiamato il cocchiere!

Una cosa rotonda, scarmigliata, grondante cadde nel legno.

Liana gettò un grido terribile; risposero sconcie parole, sconcie
risate.

— La giacobina! La giacobinetta! Fuori, fuori! Giù la giacobina!

I due sportelli furono aperti con impeto; mani violente ed oscene
abbrancarono la giovane signora per i piedi, per le gambe, per le
vesti.

Ella si avvinghiò a Massimo alla disperata.

Egli ruggì:

— Andiamo!

E per due volte, la carrozza s’empì di fiamma, di fragore, di fumo.


Una pura, ridente, splendida aurora. Non una nuvola in alto; appena un
roseo, leggierissimo velo di vapori fermo a mezz’aria, lungo il corso
del Po.

Stefano Bechio, uscito da Torino quella notte, fuggiva come avesse i
panduri alle spalle. Soffiava come un istrice, era senza cappello,
e levava e rimetteva un parruccone arruffato, color biondo-lino.
Si soffermava pure ogni tanto, per guardare indietro con quei suoi
occhi sgranati, non esprimenti una perfetta lucidità cerebrale; per
minacciare, scotendo rabbiosamente il dito, or Torino invisibile, ora
il real castello di Moncalieri, ritto sulla falda, vestita di case e di
torri.

Subitamente, passata una curva, si vide dinanzi un legno sconquassato,
inzaccherato e piegato fortemente sur un fianco; intorno intorno il
terreno era tutto orme e traccie sanguigne. Più oltre si vedevano forme
umane abbandonate e giacenti.

— Alla larga! — brontolò lo speziale, saltando nel campo.

Fatti due o tre passi, si fermò, aguzzò l’occhio da cui tralucevano
insieme la curiosità e il terrore; e invece di allontanarsi, si
approssimò pian pianino. Intravvedeva due altri corpi irrigiditi sui
cuscini.

— Uh! — fec’egli — stecchiti anche questi. Tutti morti! Tutti morti!

Non osando toccarli, si protese: non distingueva le fattezze di Liana
sotto il fiume dei capelli disciolti; inopinatamente raffigurò il
contino.

— Ah! — esclamò chinandosi, mettendogli il viso sul viso con uno
stralunamento d’occhiacci rotanti: — Viva la Libertà!





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.

*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA BUFERA ***

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