Roma contemporanea

By Edmond About

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Title: Roma contemporanea

Author: Edmond About

Release date: June 24, 2025 [eBook #76373]

Language: Italian

Original publication: Milano: Francesco Colombo, 1861

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This book was produced from scanned images of public domain material from the Google Books project.)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK ROMA CONTEMPORANEA ***


                                  ROMA
                             CONTEMPORANEA


                                  PER
                             EDMONDO ABOUT



                                 MILANO
                PRESSO FRANCESCO COLOMBO EDITORE-LIBRAJO
                    Contrada S. Martino, N. 3 rosso
                                  1861




                             TIP. ALBERTARI




                                   A

                            FRANCESCO SARCEY

                              IN ATTESTATO

                     D’ANTICA E FRATERNA AMICIZIA.




PREFAZIONE


_Questo non è nè un libello nè un libro politico. Se il lettore
vi cercasse delle considerazioni generali sul governo del papa, si
vedrebbe deluso nella sua aspettazione._

_Si disse a difesa e contro il potere temporale tutto quanto dirsi
poteva; e quanto a me non ho nè autorità nè libertà sufficiente per
riassumere i dibattimenti. Ho sostenuto una parte troppo attiva e
come accusatore e come accusato, perchè la mia imparzialità non sia
sospetta. La parola tocca al presidente, il quale tace._

_E potrebbe darsi eziandio che il tempo delle discussioni fosse
passato, non meno che il tempo de’ saggi consigli e delle utili
riforme. La questione romana è abbastanza ben chiarita, perchè i meno
perspicaci distinguano il vero, e perchè i più esitanti abbiano preso
una risoluzione. Gli uni si sono decisi per delle ragioni di coscienza,
gli altri per ragioni d’interesse o di politica; ma certo si è che
l’azione è venuta a succedere alla parola._

_Il lavoro adunque che offro al pubblico non è altro che uno studio
letterario sugli Stati del papa: in esso ho raccolto in corpo di volume
tutte le osservazioni che aveva notato durante un viaggio di sei mesi._

_Questi materiali giacquero nel mio scrittojo per ben due anni:
cionullostante mi sembra che siansi piuttosto maturati che non
invecchiati. Roma non si è sensibilmente cambiata sotto un regime che
si fa gloria d’essere immutabile. Bologna ed alcune altre città non
fecero che proclamare una rivoluzione, che era già compiuta da lungo
tempo negli animi e nei costumi._

_Il giorno in cui tutti i sudditi del Santo Padre avranno le medesime
idee, i medesimi costumi ed i medesimi diritti che i Bolognesi nel
1860, il mio libro non sarà altro che una curiosità archeologica; ma
non ne moverò lamento._




VIAGGIO


Dicesi che ogni strada mena a Roma; ma per noi cittadini di Parigi, la
via più breve è quella che passa per Marsiglia.

Perchè il nome della Canebière è comico a Parigi? D’onde procede
che Marsiglia ed i Marsigliesi abbiano ereditato il privilegio di
farci ridere, dacchè la Garonna ed i Guasconi più non ci divertono?
I _sandi!_ ed i _cadedi!_ che sollazzavano i contemporanei di
Molière, sono caduti nel dominio della storia, siccome le facezie
militari scritte sulle pareti di Pompei: più non si ride se non
delle esclamazioni marsigliesi. Ne’ crocchi di giovani, un narratore
che sappia fare da Marsigliese è sicuro di rapire l’uditorio; certe
facezie, accompagnate da certe smorfie e condite da certo accento,
commovono infallibilmente la milza più refrattaria. Tutto è ridicolo in
quel Marsiglia di convenzione che i begli spiriti ci hanno fabbricato:
l’aridità del suolo, il sucidume delle vie, l’infezione del porto, la
rozzezza degli uomini. Il Marsigliese da scherzo è una specie di scimia
burbera che mangia dell’aglio, purga degli olii, vende dei negri, e da
del tu a tutti quanti. E perchè il popolo più attivo e più interessante
della Francia si è tirato addosso questo ridicolo? Perchè i più diretti
discendenti dell’antica Grecia servono di zimbello agli Ateniesi di
Parigi? Perchè tutti questi peccati veniali di lesa maestà contro la
regina del Mediterraneo? Perchè? perchè? perchè?

Perchè Marsiglia regalava ai giornali dì Parigi una dozzina di
compilatori maligni, che un po’ troppo spiritosamente ci fecero gli
onori del loro paese. Non parlo nè di Amedeo Achard, nè di Mery, nè di
Luigi Reybaud, nè di Leone Gozlan, nè di coloro che erano abbastanza
ricchi di loro proprio ingegno per lasciar Marsiglia in pace. Ma
dopo l’emigrazione dei principi è venuta l’emigrazione dei popoli.
Ogni volta che un Provenzaletto, mosso da prurito d’ambizione, povero
d’idee, sbarca negli ufficj d’un giornaletto, il suo articolo d’esordio
è bello e trovato: la Canebière! I primi scherzarono, i seguenti
caricarono la tinta; il comico lasciò il posto al buffone, il buffone
al grottesco, e Marsiglia ricevette dalle mani de’ suoi figli cinque
o sei strati di ridicolo, che non si possono cancellare in un solo
giorno. Essa se ne consola, dicendo: La è colpa mia; non sarei sì
ridicola se non avessi fatto tutti questi uomini di spirito.

Quanto a me, lo confesso umilmente, Marsiglia non mi ha fatto ridere.
È uno spettacolo che dà a pensare. Per poco interesse che si prenda
all’avvenire della Francia, si osserva con curiosità passionata questa
città vivente, che va crescendo ed allargandosi quasi a vista d’occhio,
siccome una pianta de’ tropici; si sospende il proprio respiro per
rimirare correre questo popolo avventuriero, che pazzamente galoppa su
tutte le vie del progresso, a rischio di rompervisi il collo.

Aveva abbandonato Parigi sulla metà di marzo, un gran mese prima della
fine d’inverno. Ma gl’inverni di Parigi sono sì aggradevoli, che un
uomo che sia dedito ad occupazioni non saprebbe rinunciarvi troppo
presto. Me ne andava ben lungi e per lungo tempo, carico di mille
questioni da risolversi, felice d’avere uno scopo, e confortando il mio
rammarico colla speranza di riportarne un libro.

Da Parigi a Marsiglia il viaggio mi parve eterno, poichè presentiva
che in un prossimo avvenire si potrebbe farlo più presto. Senza dubbio
è piacevole l’attraversare la Francia in venti ore, in un’eccellente
carrozza; ma il vapore non mantiene ancora tutto che ci ha promesso.
Quando si viaggia per viaggiare, vale a dire per godere ad ogni passo
della varietà degli oggetti, non saprebbesi andare troppo lentamente;
ma quando si prende la strada ferrata, si è per arrivare, e non
per altro; non saprebbesi dunque andare troppo presto. La strada da
Parigi al Mediterraneo, una delle più perfette che siano in Francia,
si ferma ancora troppo spesso e troppo lungo tempo, quando trasporta
viaggiatori.

Conduce la valigia delle Indie in dodici ore; anzi ne’ giorni passati
fece meglio, poichè una locomotiva spedita da Marsiglia con un
pacchetto dell’amministrazione, è caduta, nove ore dopo, come una
bomba, nella stazione di Parigi. Ecco il vero impiego delle strade
ferrate. Per un semplice passeggio, basta il bordone.


A partire da Lione, dove perdemmo un’ora, il clima si raddolcì, il sole
si fece sentire e gli alberi fiorirono sui lati della strada: avreste
detto che la primavera ci veniva incontro. A Parigi ci avevano dato
de’ scaldatoj, a Valenza ci furono offerti i sorbetti. Questi trapassi
parranno assai più miracolosi, quando potremo addormentarci alla
Bastiglia e svegliarci in vista del castello d’If.

Fra la città d’Arles e lo stagno di Berre, la strada corre lungo
un’immensa pianura, più trista che la landa più desolata. La si chiama
la Crau; la natura s’è data la briga di spargervi de’ sassi con una
prodigalità favolosa. Gli uomini tentarono qua e colà di seminarvi
altra cosa, ma la messe non è ancora comparsa. Quando si misura
coll’occhio quell’estensione di suolo sterile, si rimpiange il tempo
in cui nulla era impossibile alla verga delle fate. Spero che la
chimica industriale, vera maga de’ tempi moderni, saprà far crescere
il grano dai giardini d’Arles fino alle saline di Berre. Il quesito è
posto a studio; ed io conosco un giovane dotto che si vanta di saperlo
risolvere.

Ma perdonatemi cotesta fermata: le strade ferrate ne fanno d’assai più
lunghe.

I viaggiatori che escono dalla stazione discendono a Marsiglia per
larghe vie fiancheggiate da belle case e piantate di vecchi alberi.
È come il vestibolo d’una grande città. La strada si ristringe
bruscamente appiedi della contrada Noailles: si fanno cento passi
all’ombra in una sorta d’angusto corridojo. Ma tutto ad un tratto
l’aria, la luce, lo spazio, tutto abbonda in pari tempo. Ecco aprirsi
intorno a voi una piazza monumentale, mentre due immense vie vi
sboccano, distendendosi a destra ed a sinistra. Dirimpetto una via più
larga, ma infinitamente più corta che la via di Rivoli, vi mostra il
vecchio porto stipato di vascelli: Salutatela! è la strada Canebière!

La Canebière è una porta aperta sul Mediterraneo e sull’universo
intero; poichè la liquida strada che di là move, fa il giro del mondo.
La Canebière vide sbarcare, nel 1856, quattrocento mila viaggiatori
e due milioni di botti di merci, che fanno due mila milioni di
chilogrammi. L’area della Canebière si vende in ragione di mille
franchi al metro quadrato, ossia dieci milioni l’ettaro. La Canebière è
dunque una delle strade più laboriose, più utili, più rispettabili del
mondo incivilito.

Il porto che la chiude, o piuttosto che la continua, le dà una
fisonomia originale. I costumi pittoreschi dell’Oriente la screziavano
ancora, or sono pochi anni, ma questo tempo beato non è più. L’Oriente
più non invia i suoi costumi in capo al mondo, conservando per sè que’
pochi turbanti che ancor gli rimangono, per farsene un onore agli occhi
degli stranieri e mostrar loro che esso è proprio l’Oriente.


Quando si discende verso il vecchio porto seguendo la Canebière, vedesi
a sinistra la città nuova, propriamente in linea retta, su terreno
piano; a destra la vecchia Marsiglia alla rinfusa agglomerata sulla
montagna. La città dell’avvenire è situata più lungi, al di là della
vecchia Marsiglia, lungo i porti della Joliette.

La nuova città è pulita ed anche elegante. Rende imagine d’un piccolo
Parigi, e non è più il tempo in cui i cittadini gettavano giù dalle
finestre il soverchio delle loro case. Tre grandi strade parallele
attraversano la giovane Marsiglia in tutta la sua lunghezza. La strada
di Roma ha qualche apparenza della nostra contrada di Richelieu: e
conviene che la somiglianza sia sensibile, poichè il consigliere De
Brosses l’aveva accennata, or fanno già cento anni. La strada San
Ferreol è una vaga copia della strada Vivienne, benchè la borsa si
tenga nella via del Paradiso. È all’aria aperta, sotto il cielo, che
i Marsigliesi si raccolgono due volte al giorno per trattare i loro
affari. Hanno però un piccolo edifizio di zinco o di cartone per
rifugiarsi in caso di pioggia, ma non vi entrano quasi mai. È usanza
sì radicata, che nel mattino fra le 11-1/2 ed 1 ora, e la sera fra le
4 e le 5, i cocchieri fanno un giro per evitare la via del Paradiso.
Allorquando la nuova Borsa, che si compie sulla Canebière, sarà aperta
ai mercanti ed agli speculatori, non vi verranno se non saranno spinti,
nè vi si fermeranno, se non vi verranno racchiusi.


Marsiglia ha i suoi Campi Elisi. Nelle vicinanze del corso Bonaparte
veggonsi delle contrade intere, delle casette ben costrutte, comode ed
anche ornate con buon gusto. Potrei citarne una, che sarebbe ammirata
dovunque, anche a Parigi. Questa città nuova, che però non manca nè
d’aria nè di luce, si è data il lusso di due grandi passeggi. Uno è
una via tagliata nel masso in riva al mare, ed a rispettabile distanza
dal porto; la si chiama Prado. L’altro è un giardino zoologico,
piacevolmente situato, ricco d’alberi e ornato d’un bella famiglia di
viventi. I teatri, i castelli de’ fiori, i caffè, le statue (poichè
Marsiglia ne ha due), il museo ed il liceo sono nella città nuova, come
ben v’imaginerete.


Quanto alla città antica, vorrei darvene un’idea paragonandola a
qualche quartiere di Parigi; ma, fortunatamente per noi, non abbiamo
più nulla di simile. Cotesta montagna, impraticabile alle carrozze,
inaccessibile alle signore, ributtante agli occhi ed all’olfatto,
sparsa di fetido fango, irrigata da chiaviche simili a torrenti, non
ha nulla di somigliante al mondo, tranne il Ghetto di Roma, che uno
scrittore del secolo XVIII chiamava una archisaloperia. L’industria, la
miseria ed il vizio si disputano cotesto nido di passatempi.

Vi si veggono de’ quartieri considerabili riservati ai divertimenti
de’ marinaj; e, per una tolleranza, di cui non so rendermi ragione, la
bandiera tricolore serve d’insegna al commercio che fa meno onore alla
Francia. Giammai sì nobile vessillo ha servito di coperte a sì abbietta
mercanzia.

Bisogna essere un archeologo ben fanatico per andare in traccia di
perle in quel letamajo. Eppure un bel mattino mi vi cacciai, sotto la
condotta d’un giovane magistrato assai istrutto, il signor Camoin de
Vance. Vi abbiamo ravvisato insieme alcune case del XIII e XIV secolo,
ed una bella facciata a punta di diamante; un palazzo di giustizia,
che non è un capolavoro di architettura, ed un carcere che rassomiglia
a tutti quelli del buon tempo antico. L’albergo di città non manca di
grandezza; si vede alla Consegna una mezza dozzina di quadri mediocri,
ed un eccellente basso rilievo del marsigliese Puget. Il mercato del
pesce merita una piccola sosta per sentirvi a parlare quelle donne: la
rettorica delle nostre venditrici di aringhe è bene fiacca a petto di
quella che colà è in fiore.

Rimane ancora una reliquia dell’antica cattedrale, che i Marsigliesi
chiamano la Maggiore. Questo venerando edifizio era stato costruito
sulle rovine d’un tempio pagano; fu tanto e sì bene diroccato, che più
non serba nulla d’antico nè di moderno, di pagano o di cristiano: non
rimane più nemmeno di che foggiarne una chiesa di villaggio.

Ma due passi più lontano, tra l’antica città che deve sparire, e la
città nascente, che cresce rapidamente, si veggono sorgere da terra le
fondamenta d’una cattedrale che promette assai.

L’antica città ebbe già la sua esistenza; se ne spianeranno non
solamente le bicocche, che vi si accumulano, ma ben anche la montagna
che la sorregge. L’avvenire della Joliette è a questo prezzo, e ben
si potrà comprendere in due parole: Parigi si porterebbe verso i
Campi Elisi, se la montagna Santa-Genoveffa occupasse la piazza della
Concordia?

Per ora i pesci e gli uccelli vanno da Marsiglia alla Joliette più
comodamente che gli uomini. Però la città futura si va fabbricando per
una popolazione numerosa. Ho veduto sette enormi caseggiati, uniformi
e d’un’architettura, a parer mio, troppo lussureggiante. I mercanti
di Cartagine non hanno mai ricoverato le loro balle entro templi sì
magnifici, ed il signor Mires può già eclissar Didone.

La società dei porti di Marsiglia, fondata e battezzata da quel grande
finanziere, ha per iscopo l’utilizzazione di varj ettari di terreno
situati in faccia ai nuovi porti. Essa non ha nulla di comune colla
costruzione dei porti ed i lavori del genio marittimo; esse non apre
un rifugio alle navi balestrate dal maestrale: non è questo il proprio
assunto. I suoi rapporti coi bacini che si vanno costruendo, sono
rapporti di vicinato, ed essa chiamasi Società de’ porti perchè vi
stanzia dappresso.

Nè ciò vale a dire che la speculazione del signor Mires e dei suoi
azionisti sia stata inutile al popolo di Marsiglia, chè la città
aveva de’ terreni da vendere; terreni infetti, paludosi, corrosi dagli
scoli della saponeria, difficili a costruirsi, e per colmo di sventura
esposti a tutti i venti che flagellano il paese. Cotesti difetti sono
compensati dall’immediata vicinanza d’un porto che promette assai;
eppure nessuno degli aspiranti offriva più di venti franchi al metro.
Il signor Mires ne diede cinquanta, onde i Marsigliesi gliene seppero
buon grado stringendogli energicamente la mano.

Attualmente l’affare è buono per la città; e lo sarà un giorno anche
pel signor Mires. La città intasca de’ milioni che non l’imbarazzano,
poichè è indebitata ed intraprendente. Il signor Mires ricupererà il
suo danaro quando i suoi terreni saranno fabbricati, e segnatamente
quando saranno in comunicazione diretta con Marsiglia. L’antica città,
che reca noja a tutti, la reca a lui particolarmente più che a verun
altro. Ond’egli si offre di sradicar la montagna al prezzo più equo.

In questo stato di cose, non mi starò più a sciupar tempo nel
descrivere una città che sarà forse dimani rovesciata. Marsiglia,
al pari di Parigi, non può essere dipinta, se non sotto la pena di
ricominciarne ogni giorno il ritratto. All’incontro scommetterei che
Bordeaux, se n’eccettui qualche ciottolo, è attualmente qual era l’anno
scorso nel mese d’aprile. E vi prometto di farvi un quadro di Roma, che
i nostri pronipoti potranno verificare, parola per parola, purchè la
rivoluzione non vi metta mano.


Il progresso picchia alle vicinanze di Marsiglia non meno che nelle sue
strade; invade in pari tempo la città, i borghi ed il circondario più
remoto. Questa campagna era rinomata altre volte per la sua aridità,
e, Dio me lo perdoni! eccola verde. I Marsigliesi sono andati in
traccia della Duranza, e l’hanno condotta per mano fino in casa loro.
L’acqua circola in tutte le case della città fino ai più alti piani;
essa innaffia le strade, e in questa patria della polvere, feconda i
giardini, e fa crescer l’erba nei prati.

E però non temete che la Provenza diventi una succursale del paese di
Caux; il sole è sempre là. Disegna sull’azzurra superficie del mare
i vaghi profili di Ratonneau, di Pomegue o del castello d’If; indora
graziosamente le belle montagne grigie, che incoronano Montredon;
fa fiorire negli scogli la rosamarina ed il cactus, ed i colossali
gambi dell’aloe; distilla il balsamo penetrante de’ corbezzoli e de’
lentischi.

Ecco ciò che un nuovo pellegrino sbarcando scorge al primo colpo
d’occhio entrando in Marsiglia. Ora, se vi piace, conversiamo un po’
cogli abitanti, i quali non dimandano nulla di meglio.


Coloro che videro Marsiglia nel 1815, ne parlano siccome d’una
succursale del gran deserto. L’unico porto della città era vuoto;
la popolazione saliva appena a 90,000 abitanti, che morivano di
fame. Ora le cose sono ben mutate, segnatamente negli ultimi anni.
Il nuovo censo del 1841 noverava 147000 Marsigliesi; quello del 1856
ne dà 250,000: è un aumento di circa 90,000 anime in quindici anni.
La cifra delle nascite s’è accresciuta d’un ottavo nel 1857, onde si
può calcolare l’aumento d’un ottavo sulla cifra della popolazione, la
quale ascende a 265,000. Aggiungete la popolazione ondeggiante, gli
stranieri non compresi nel ruolo della popolazione, i Francesi ommessi
volontariamente[1] in un interesse locale: vedrete allora che Marsiglia
è città di 290,000 anime. Duecento mila di più che nel 1815!

Non ho bisogno d’aggiungere che cotesti 200,000 Marsigliesi non sono
tutti nati in Marsiglia. L’aumento rapido d’una città non si spiega
punto per la fecondità eccezionale de’ matrimonj. Dovunque v’è danaro
da guadagnarsi, ivi i cittadini accorrono e stanziano; e la popolazione
si accresce, senza che le donne se ne frammischino. Marsiglia cresce
eziandio tutti i giorni per le invasioni interessate del nord e del
mezzodì. Essa racchiudeva, nel dicembre del 1837, più di 18,000 sudditi
Sardi. Gli Italiani, i Greci e gli Spagnuoli sono la stoffa con cui si
foggiano quasi tutti i Marsigliesi.


Malgrado la diversità delle loro origini, hanno una fisonomia
comune e direbbesi quasi una cera di famiglia. Non è già che esista,
propriamente parlando, un tipo marsigliese; ma il sole del mezzodì, la
vita all’aria libera, la preoccupazione degli affari, la moltitudine
delle distrazioni, la continua vicenda del lavoro e del piacere hanno
stampato su que’ volti un’impronta che si riconosce. I Marsigliesi
hanno l’occhio vivace, la parola pronta, il gesto instancabile. Il loro
spirito avventuriero ed il loro temperamento sanguigno gli spingono
alle grandi imprese ed alle grandi follie. Pochi Francesi sono più
lesti a fare o disfare fortuna. In quasi tutti i paesi del mondo il
padre di famiglia accumula i milioni ed il figlio gli spende: ma in
Marsiglia veggonsi degli uomini d’ogni età assumersi la parte insieme
di padre e di figlio. Dopo il guadagno, prodighi del loro tempo e
della loro fatica, soffermansi di tempo in tempo, come lo scojattolo
sul ramo, per divorare il frutto del loro lavoro. La loro vita è
suddivisa ben diversamente che la nostra: noi ci affatichiamo nell’età
de’ piaceri, e cominciamo a darci ai divertimenti allorquando non ne
possiamo più; il Marsigliese non aspetta ad assaggiar la mela quando i
suoi ultimi denti gli siano caduti.

Ha lo spirito aperto, siccome l’orizzonte che lo circonda; ha
viaggiato, ovvero viaggierà: chè il Mediterraneo è un sobborgo di
Marsiglia ch’egli presto o tardi vorrà visitare. Ei pensa che il
Senegal non è poi tanto lontano, e che Parigi è alla sua porta. Se
gli affari lo trattengono nel suo studio, può vedere il mondo senza
escir di casa: e non è forse vero che l’universo intero passa per la
Canebière? Egli ha veduto de’ tipi d’ogni paese; sa un po’ di tutto
senza aver cacciato il naso ne’ libri; si sente in grado di ragionare
su tutte le questioni, benchè di rado si dia la pena d’approfondirne
una sola. La facilità della sua percezione, l’apertura del suo spirito,
la sua prontezza a percorrere la superficie delle cose ne fanno un
ragionatore piacevole, ed ei trova sempre il tempo di conversare.

Quasi tutti i Marsigliesi hanno la medesima dose di spirito naturale ed
il medesimo grado d’istruzione: poco sapere e molte idee. Marsiglia è
appunto la città di Francia dove l’eguaglianza degli uomini rassomiglia
meno ad una chimera. Nessun’ombra di caste: non potrebb’esservi vecchia
nobiltà in una popolazione nuova affatto. I principali abitanti sono
avventurieri fortunati nel senso più onorevole della parola: gli altri
hanno la speranza di far fortuna coll’industria. Ora non ci sono che
due categorie di Marsigliesi: coloro che hanno già fatto fortuna,
e coloro che tentano di farla. La prima classe è meno numerosa di
quel che generalmente si crede, e se n’è già spiegata la causa; ed è
che la smania di godere è più forte che il desiderio di accumulare.
Non vi sono nella città dieci famiglie che contino cinque milioni.
I semplici milionarj, qualora se ne facesse il novero, non sarebbero
più di quaranta. Cotesti favoriti della fortuna non si pavoneggiano
della loro superiorità finanziaria: sia che si rammentino ciò che sono
stati, sia che meditino talora sulla instabilità delle fortune meglio
consolidate, accolgono con bonomia coloro che s’accingono a correre
la sorte. Il Marsigliese, ricco o povero, è innanzi tutto famigliare,
senza cerimonie e di buona pasta. Conosco ben poche città dove sia
più consueto il darsi del tu, dove si faccia minor caso degl’inutili
complimenti: così doveva essere nelle repubbliche commercianti della
Grecia.


Cotesta bonomia non regna solamente nel linguaggio: la si trova nel
costumi, e finanche negli affari. Si diffonde talvolta sì lontana,
che i mercanti del vecchio stampo ne sarebbero assai maravigliati. A’
tempi in cui fiorirono il signor Arnolfo, il degno Orgon e quel buon
signor Dimanche, un mercante che non faceva onore alla sua firma era un
uomo perduto: non aveva che a gettarsi in mare a capo in giù. Questi
principj rigidi vigono ancora in certi dipartimenti della Francia.
Se una crisi commerciale venisse ad interrompere per sei mesi la
prosperità di Rouan, ogni Normando, fondandosi sui proprj diritti e
compreso dalle sue vecchie idee, farebbe spietatamente agire la legge
contro il suo vicino e compare, e dormirebbe senza rimorsi. Ma se per
caso il medesimo fatto avvenisse a Marsiglia, tutto s’accomoderebbe
all’amichevole, e vedreste cinquanta liquidazioni tollerate per un
fallimento dichiarato.

È dessa benevolenza, ovvero previdenza? compassione verso gl’imbarazzi
del prossimo, ovvero riflessione sopra sè medesimo?

Non oso decidere.

Certo è però che a Marsiglia un creditore preferisce incassare dieci
per cento e tacere, anzichè infierire contro il proprio debitore.

Or sono alcuni anni, un Marsigliese che aveva fatto fortuna all’estero,
dopo alcune vicissitudini, legò la propria sostanza alla sua città
natale e stipulò che i redditi sarebbero consacrati a liberare i
prigionieri per debiti. Videsi allora un legatario assai imbarazzato,
ed era il consiglio municipale di Marsiglia. Aveva un bel cercare
prigionieri per debiti, che non se ne faceva in quella città. Poco
mancò che il legato non venisse spedito all’altro mondo siccome
inutile, ingiurioso ed incompatibile colle costumanze attuali. La cosa
era a tal punto allorchè uno scaltro borghese disse al suo vicino:
«Fammi gettar in prigione per debiti; sarò liberato coi denari del
legato di quell’uomo dabbene, e noi spartiremo il danaro.» L’invenzione
parve così saggia, che la prigione trovò alfine qualche inquilino.
Essa non ne avrebbe mai avuto, se non fossevi stato quel benefattore
Marsigliese.


Cotesta tolleranza all’americana, cotesta indifferenza in materia
di religione commerciale, reca delle inconvenienze che non occorre
accennare; tuttavia non è priva di qualche vantaggio. Rallentando la
briglia agli speculatori arditi, infervorando i timidi, essa accelerò
il progresso della città e contribuì alla prosperità della Francia.
So benissimo quanto si può dire giustamente, contro lo spirito
avventuriero, ma quando veggo quale slancio i Marsigliesi diano alla
pubblica ricchezza, con quale impeto si gettino in un affare, con
quale gara essi s’impegnino in un’impresa dacchè loro sembra utile,
quanto audaci siano i loro capitali, pronti a mostrarsi ed inclinati a
moltiplicarsi col movimento, sento una certa secreta smania di scusare
cotesto romanticismo commerciale, che essi neutralizzano tra noi.

È egli necessario aggiungere che la grandezza degl’interessi e
l’ardimento delle imprese li rende larghi, ospitalieri e generosi fino
alla prodigalità? I commercianti della scuola primitiva (se ne trova
ancora qualche tipo a Rouan, a Lione e a Saint-Etienne) sarebbero
maravigliati di vedere come l’oro guizza nelle mani d’un negoziante
marsigliese. Il pezzo di venti franchi non è più timido a Marsiglia
che a Parigi; vi si nasconde sì poco, e vi fa i medesimi salti. Il
lusso, vizio eccellente, salutare e lodevole fra tutti quand’è sorretto
dal lavoro, fiorisce sulla Canebière così baldanzosamente come sui
nostri boulevard. Marsiglia consuma più seterie che Lione e più nastri
che Saint-Etienne; la _Riserva_ vede saltare più turaccioli che il
_Molino Rosso_ od il _Padiglione d’Armenouville_; e per ultimo, cosa
incredibile a dirsi! tutti i palchi del gran teatro sono affittati ad
anno.


Ho passato a Marsiglia una settimana di otto o dieci giorni, durante i
quali gli abitanti mi hanno fatto gli onori del paese e di sè medesimi
con una squisita cordialità. Ho trovato le loro sale ed i loro cuori
aperti, e mi sono convinto che non erano più avari della loro amicizia
che del resto. Quello ch’io conosco de’ loro piccoli difetti, sono essi
che me l’hanno detto; poichè volentieri si confessano.

Confessano che l’amore dell’aria libera e certo spirito di
vagabondaggio gli spingono troppo spesso fuori delle loro dimore. Se
si lasciano trovare due o tre volte al giorno in casa loro, non vi
rimangono però mai. Gli affari, il circolo, il giuoco, il chiasso, il
movimento, il sigaro, certo abbandono di modi, che non si permetterebbe
in casa propria: ecco i vincoli che riuniscono gli uomini in gruppo e
li ritengono lontani dalla casa. Cotesta vita esterna comincia colla
pubertà e si prolunga quanto la vecchiaja. Il matrimonio l’interrompe
per la durata d’una luna di miele, poscia l’abitudine ripiglia i suoi
diritti. Sonvi molte derelitte, le quali per consolarsi si gettano
nelle braccia della religione, e frequentano le chiese. Sarebbe facile
ad esse l’andare più lontano, poichè sono belle, od almeno assai
attraenti. Ma non hanno null’altro di vivace che gli occhi, e ciò è
molto opportuno pei signori mariti.


Ben v’imaginerete che gente sì dedita alla vita attiva non può perdere
gran tempo nella lettura. Divorano i libri, e trovano assai comodo lo
sfogliar i giornali. Se i libraj mi dissero il vero, in quella città
di 290,000 anime non si vendono dieci copie di Molière in un anno,
e, trascorso il tempo delle strenne, non se ne vende più nessuna. I
libraj sono ben informati per cotesto genere di statistica, poichè
s’incaricano di porgere l’alimento agl’intelletti. Cionullostante si
contano in Marsiglia alcuni uomini serii e colti; hanno da 45 a 60
anni, ed è una generazione che sparisce. Vi si noverano ben anche due
dilettanti di pittura, di cui l’uno è inoltre un conoscitore erudito.
Possiede, se ben mi ricordo, cinque quadri, la _Maddalena_ di Van Dyck,
un ammirabile _Cristo_ di Rembrandt, e tre Poussin, di cui uno è un
capo lavoro. Queste cinque tele vengono dal loro padrone conservate con
rispetto religioso in una sala espressamente fabbricata, che riceve la
luce dall’alto: sono idoli in un tempio. L’altra galleria non regge
al paragone, benchè abbia costato assai più, e valga forse non minor
prezzo (circa 150,000 franchi).


La pittura moderna non è in grande onore a Marsiglia, e quando per
avventura vi nasca un artista di genio, bisogna compiangerlo. La fame
lo caccerà verso Lione, verso Parigi, ed anche (s’è visto) fino a
Costantinopoli. Può recare giusta sorpresa che i ricchi negozianti,
quando fabbricano in città od in campagna, prodighino i marmi,
gli stucchi, i metalli, ed i legni preziosi, e siano poi taccagni
unicamente sull’arte, che è il più bel lusso della vita. Ho visitato,
sulla spiaggia del mare, de’ padiglioni assai eleganti, situati a
meraviglia, ben costruiti e mobigliati, tappezzati di piante rare,
circondati da deliziose fontane, popolati d’uccelli miracolosi e
sconciati da affreschi degni di taverna. Un solo milionario ebbe
il coraggio d’introdurre gli artisti nel suo palazzo di Marsiglia e
nella sua villa di Montredon. Questo esempio sarà desso imitato? Lo
desidero, ma non lo spero. Non è impossibile che la nuova generazione
possa lasciarsi innamorare dalle belle arti; ma se presto fede a’ miei
presentimenti, si dedicherà di preferenza ai cavalli, ai cocchi ed a
tutte le inezie della corsa.

La caccia è già in grande onore nelle vicinanze della Canebière, e fa
piacere il sentire i Marsigliesi medesimi burlarsi della loro passione
per quest’esercizio fragoroso. E di vero è più il chiasso che vi fanno
che non la preda, poichè la selvaggina è quasi ignota in quel paese.
Evvi cacciatore che fece ben sette leghe per pigliarsi un’allodola.
Ogni castello, ogni villa, ogni casolare, e finanche la più modesta
capanna è fiancheggiata da un sito per i tordi. Questo sito è una
stanzuccia formata di fogliame, cinta di rami che attendono l’uccello.
Guai al povero volatile che si smarrisce nel dipartimento delle Bocche
del Rodano! Ogni albero su cui tenta posare l’espone al fuoco d’un
nemico. Fugge da sito a sito, in mezzo al piombo, al fracasso ed
al fumo, finchè cade morto: ed ecco cento cacciatori accorrono per
disputarsene la preda. In mancanza di tordi si uccidono merli, ed in
mancanza di questi, passeri e rondinelle. Una rondinella, dicesi, vale
quattro soldi sul mercato. La campagna è spopolata d’uccelli, poichè
i bersaglieri marsigliesi hanno un colpo d’occhio infallibile. Se mai
nella profonda pace d’una notte di primavera, l’usignuolo spiegasse
incautamente la sua bella limpida voce, i cacciatori si porrebbero
subito in campagna, e non lo risparmierebbero di certo.


Io non ho assistito a queste caccie inverosimili, onde in tal proposito
ripeto quanto i miei amici di Marsiglia mi hanno raccontato. Ma
co’ miei occhi ho veduto i Marsigliesi al teatro, ed è sempre uno
spettacolo interessante. Essi sono sinceramente appassionati per la
musica, siccome tutti i popoli meridionali; nè mi si leverà dalla
mente l’idea, che la smania di dilettante nel Nord non proceda un
po’ dall’affettazione. I Marsigliesi amano dunque la musica, e vanno
all’Opera non per altra cosa che per poter dire: «Ci sono andato.»
Sono essi grandi conoscitori? Non lo giurerei. Evvi davvero qualche
pubblico che sia intelligente? Ho sentito jeri sera una platea italiana
applaudire i cantanti ogni volta che gridavano troppo forte; e questo
fenomeno si riproduce ben sovente a Marsiglia. Si applaude al talento
puro e classico di Carolina Duprez; ma quando Armandi è in voce, è
tutt’altra scena! Armandi è un tenore più che mediocre, e s’è veduto
far naufragio all’Opera, nella parte di Roberto. Egli ha preso terra
a Marsiglia, ed ivi, colla bagattella di cinque mila franchi al mese,
suscita alternativamente l’entusiasmo ed il furore del pubblico. Lo
si fischia e lo si applaudisce nel medesimo pezzo; gli si gettano
torsi di cavolo e mazzi di fiori, si porta alle stelle e si minaccia
di sprofondarlo nel porto. L’emblema di quel pubblico dovrebb’essere:
«All’eccesso!»

Si rappresentano drammi e vaudeville in una sala disadorna ma sempre
affollata: ivi è la voga. Ho veduto la prima rappresentazione d’un
dramma inedito di Alessandro Dumas: _I Guardaboschi_. Il lavoro era
improvvisato, ma vi si sentiva in più d’un luogo la mano del maestro.
Il pubblico mostrossi indeciso fino alla fine dell’atto terzo; non
diceva nè si nè no. Sentivasi lusingato dal sapere che un uomo di
talento, una celebrità, fosse venuto espressamente da Parigi per
offrirgli delle primizie, ma nell’ombrosa sua vanità non voleva essere
zimbello accettando roba di scarto. Due o tre scene eccellenti lo
rassicurarono interamente, e gli chiarirono fino all’evidenza che non
si voleva punto burlarsi di lui. Allora cominciò un fremito di gioja,
una furia d’ammirazione, che non erasi ancora calmata tre ore dopo
la calata del sipario. Il nome dell’autore fu proclamato fra mezzo ad
un diluvio di fiori; l’Ateneo operajo slanciò sulla scena una corona
di carta dorata, grande come l’anello di Saturno; il direttore recò
sopra un cuscino di velluto una corona d’argento massiccio, l’autore
trascinato alla ribalta fu accolto con tale salva d’applausi, che lo
fecero quasi cadere a rovescio. Fuggì al suo albergo, ma la folla degli
spettatori ve lo seguì. Si preparò un concerto di stromenti sotto le
sue finestre; e buono o mal grado, ei dovette affacciarsi al balcone,
discendere in istrada, ascoltare delle aringhe, parlare al popolo,
abbracciare la folla: la città non si ridusse al riposo prima delle
tre del mattino. Ecco i Marsigliesi quando vi si mettono! Il giorno
seguente la rappresentazione medesima non ottenne introito; chè i
Marsigliesi avevano fatto le loro riflessioni e pensavano che, tutto
ben ponderato, il dramma che gli aveva fatti fremere, piangere, ridere,
era scritto troppo facilmente. Eppure il cartello del Ginnasio portava
in lettere cubitali: _I Guardaboschi_, di A. Dumas, _membro dell’Ateneo
operajo di Marsiglia_. Nello stesso giorno davasi all’Opera: _Il
Barbiere di Siviglia_, di Beaumarchais e Castilblaze. Beaumarchais mi è
tanto caro.


Voi non conoscereste se non a mezzo il popolo di Marsiglia, se mi
dimenticassi di dirvi che è nemico giurato del popolo d’Aix. Atene
non fu mai tanto animata contro i suoi vicini d’Egina. Aix può dirsi
un’ex-grande città: ha sofferto delle calamità, ma conserva ancora
delle belle reliquie. Le rimane sopratutto una corte imperiale, un
arcivescovado ed una piccola Sorbona, che molto piacerebbero agli
abitanti di Marsiglia, onde si dimandano con qualche dispetto, perchè
mai quelle cose là non si vendano al mercato.

Gli abitanti d’Aix non fanno affari e non guadagnano denaro. Hanno
de’ bei nomi, de’ splendidi palazzi, de’ castelli rispettabili,
aggravati da qualche ipoteca. Guardano dall’alto lo spirito mercantile
e l’attività febbrile de’ Marsigliesi, si dànno vanto di sdegnare
le cose materiali; frequentano le lezioni della Facoltà di Belle
Lettere; il loro regno non è di questo mondo; essi sono puri spiriti,
simili ai gigli delle valli, che non sanno nè filare nè tessere, e
che nullameno indossano candida veste. Se tutte le città di Francia
fossero animate da spirito consimile, noi non saremmo già alla testa
dell’incivilimento.

Bisogna sentire i Marsigliesi sul conto de’ loro vicini! Mi ricordo
che un giorno del mese di marzo eravamo una buona ventina di
chiassosi, dopo pranzo, nella serra d’un castello in riva al mare.
La conversazione aveva già fatto due o tre volte il giro del mondo.
Un commensale ci aveva raccontato siccome certo pascià d’Egitto,
desiderando mettere alla testa del suo esercito una banda europea,
scrisse al suo corrispondente di Marsiglia, che gliene mandasse una.
Il negoziante comprò gli stromenti più perfetti e gl’imbarcò per
Alessandria. Il pascià, lietissimo della bellezza di tutti quegli
oggetti di ottone, subito li fece distribuire ai soldati più vigorosi
del suo esercito, ed ordinò loro, sotto pena del bastone, di suonargli
qualche cosa. Eseguirono essi una tale babelica cacofonia, che furono
subito castigati con una selva di bastonate, e si chiamarono altri
individui. Dopo varj esperimenti del pari inutili, il pascià venne a
dubitare della qualità della merce, che gli era stata spedita, ne mosse
lamento; ma il commissario protestò, che aveva fatto il meglio, e vi
tenne dietro un lungo carteggio. Da ultimo il Marsigliese fecesi a
dimandare al pascià, se aveva de’ suonatori? «E chè!» rispose l’altro,
«se avessi de’ suonatori, non avrei bisogno di musica.»

Un altro ci aveva narrata la storia molto più recente di quel re
del Gabon che scrisse (sempre a Marsiglia) per dimandare delle
corazze. Fatta la consegna, il re medesimo s’accinse a farne la prima
esperienza, radunò il consiglio de’ ministri, di sua mano indossò loro
la corazza, e poi vi sparò contro un cannone carico a mitraglia. Ora
non solamente il negro monarca protestò di lasciare le corazze per
conto, ma reclamò il prezzo di sette od otto Eccellenze uccise dal
cannone.

Anche Aix, alla sua volta, ci fu dipinto sotto colori più bizzarri che
l’Egitto ed il Gabon. Non c’era nessuno che non vi fosse stato, che
non avesse veduto falciar l’erba nelle vie, trovato delle testuggini
in terra sulla piazza grande, incontrato delle portantine, inteso
suonare il coprifuoco a quattr’ore di sera, o strappato qualche grande
ragnatela all’ingresso d’una bottega. Uno degli assistenti si era reso
celebre, or sono alcuni anni, proponendo nel consiglio municipale
di Marsiglia di comprare le case d’Aix per una ventina di milioni e
congedarvi tutti gl’indigeni.

Per tale maniera, l’arcivescovado, la corte imperiale, e le tre
facoltà, per grazia o per forza, avrebbero dovuto trasmigrare a
Marsiglia. Cotest’idea, assai comica in sè stessa, vi parrebbe assai
più ridevole se mi fosse dato di dipingervi i gesti dell’oratore,
la vivacità della sua fisonomia, il fuoco de’ suoi sguardi; e lo
spirito, il brio, la bonomia, e la malizia che leggevansi su tutti i
volti dell’uditorio. Alessandro Dumas è forse il primo narratore della
Francia; ma in quella conversazione ei sostenne quasi la parte d’un
personaggio muto. La facondia marsigliese di Berteaud l’aveva reso
attonito.


L’industria, il commercio e la speculazione si dividono la città di
Marsiglia.

L’industria abitava già tempo la vetta delle montagne, la sponda
de’ torrenti, l’interno delle selve; ora la trovo meglio stanziata
nei porti. Il mare ci reca le materie prime e n’esporta i prodotti
manofatti. Il grande operajo, il motore universale, il carbone che fa
rimbombare i martelli delle officine, si trasporta economicamente sulla
intera superficie de’ mari. Marsiglia in breve tempo diverrà una delle
capitali dell’industria francese, e le sue fabbriche faranno tanto
romore da ridestarne Bordeaux.

Intanto le principali industrie della città occupano ad un dipresso
ventimila operaj. Vi si fabbrica zucchero, olio, sapone, poichè noi
siamo nella metropoli della spezierìa francese.

Lo zucchero di canne ci giunge dalle colonie entro casse o entro
ballotti, sotto forma d’una polve nerastra e grumosa. I raffinatori
marsigliesi lo mescolano, lo fondono, lo cuociono, lo clarificano, lo
disseccano in pani, e di nuovo lo riducono in polve; disseminano su
tutte le coste del Mediterraneo cotesta polve bianca, cristallina e
brillante, di cui i meridionali sono sì ghiotti. La metamorfosi dello
zucchero nero in bianco durava da tre a quattro settimane, a’ tempi
che il tragitto da Marsiglia a Costantinopoli durava tre o quattro
mesi. Attualmente l’onnipotenza del vapore trasforma lo zucchero in
otto giorni, e lo trasporta in una settimana, ed i nostri raffinatori
raddoppiano, per così dire, il loro capitale ad ogni istante. Sopra
cento milioni di chilogrammi che se ne consumano tutti gli anni nel
Mediterraneo, Marsiglia ne somministra venti; i Belgi e gli Olandesi
fanno il resto. Fra vent’anni, a Dio piacendo, tutto il mercato ci
apparterrà, e Marsiglia sarà in grado d’inzuccherare il Mediterraneo
come una semplice tazza di caffè.

Non è già d’olive l’olio che si fabbrica a Marsiglia: toglietevi questo
pregiudizio dal capo. L’olio d’olive si fabbrica in campagna, a poco
a poco, a seconda delle raccolte, sempre scarse; è quasi un’industria
domestica. I mulini della città, che girano ventiquattro ore al giorno,
schiaccerebbero in un momento tutte le olive della Provenza. È un cibo
troppo vuoto da mettere sotto i loro denti; recate loro de’ vascelli
carichi di sesamo, d’arachide o di noci di cocco: ecco il pascolo che
loro si conviene.

_Sesamo, apriti!_ è la parola d’Aladino nel racconto delle _Mille
e una Notti_. A questa magica frase, la caverna de’ tesori si
spalanca. Chi ce l’avrebbe detto, quando eravamo fanciulli, che il
sesamo, fuor d’ogni magia, racchiudesse inesauribili tesori? È un
granello dell’India, piano, bislungo, nerastro; ne ho veduto delle
belle montagne nei magazzini di Marsiglia. Lo si fa passare sotto il
laminatojo: _Sesamo, apriti!_ Ne schizza fuori un olio bianco, limpido,
eccellente a mangiarsi. Lo si porta poscia sotto macine enormi di
granito di Scozia: _Sesamo, apriti!_ Lo si sottopone all’azione di
macchine idrauliche che possono spezzare una colonna d’acciajo siccome
un fanciullo romperebbe una noce: _Sesamo, apriti!_ Lo si schiaccia
a caldo, se ne ritrae dell’olio per la saponeria, dell’olio d’ardere,
e quando si è consumato fino all’ultima stilla, rimane una torta, un
pastone atto ancora ad ingrassare i campi.

Il sesamo d’Aladino è chiamato ai più alti destini. Detronizzerà le
arachidi, le rape, i papaveri, i faggiuoli, le noci e fino le olive,
allorquando il nolo de’ vascelli dell’India sarà meno caro. Granello
che diverrà gigante, quando sarà traforato l’istmo di Suez.

Non voglio abbandonare l’olio e lo zucchero senza parlarvi dello
spettacolo più interessante che mi sia stato mostrato a Marsiglia.
Mi venne fatta vedere, in uno studio fangoso, affumicato, più che
modesto, una vedova ancor giovane, la quale riceveva in abito nero
e colla penna alla mano tutti gli ambasciatori del commercio. Essa
governa e fa prosperare due fabbriche d’olio importanti ed un’enorme
raffineria; compra e suddivide de’ grandi terreni al nord della città,
acquista un possesso d’un milione in un dipartimento vicino, vi scopre
delle miniere di ferro, vi erige alti fornelli, guadagna un milione e
mezzo con processi contro le comuni confinanti, scopre una miniera di
rame, la sola che siavi in Francia, e s’accinge ad utilizzarla; nel
tempo medesimo che alleva diciasette ragazzi, figlie, nipoti, senza
tener conto de’ pronipoti. Cotesta persona straordinaria e per nulla
stravagante, che fa circolare una decina di milioni senza far chiasso,
ha posto da sè medesima le fondamenta della sua fortuna. Ben vedete che
la spezieria è prossima parente della magia. _Sesamo, apriti!_


La fabbricazione de’ saponi non va punto soggetta a progressi, come
quella degli zuccheri e degli olii. Non ha fatto quasi un passo da
duecento anni in qua; era già adulta dalla nascita, siccome Minerva,
sorta bella e armata dal cervello di Giove. Il solo cangiamento
da accennarsi si è, che dopo l’invenzione della soda fattizia, gli
olii di sesamo acquistarono diritto di cittadinanza nel paese della
saponeria. Ma le fabbriche di sapone che infettano di puzzo tutto
un quartiere al sud del vecchio porto, hanno conservato un aspetto
antico e primitivo. Figuratevi un’immensa navata, dove alcune caldaje
ciclopiche, riscaldate da invisibili focolari, bollono e spumeggiano
in silenzio. Un po’ più lontano il sapone si raffredda entro ampj
serbatoj; quindi si taglia in pezzi quadrati, si pesa, s’imballa: il
vapore qui non c’entra. Coteste vaste case sono templi d’industria
patriarcale e di probità ereditaria. Il fabbricatore si studia di
conservare la riputazione del suo marchio, e non è cosa facile, mentre
la minima falsificazione negli olii che compra può guastare un’intera
partita di sapone. È sopratutto in causa della saponeria, che Marsiglia
meritava per lo passato la sua fama d’infezione e di sudiciume. Nulla
è più sporco del sapone, quando lo si sta facendo, mentre lascia
dietro di sè dei residui liquidi e solidi, che i Marsigliesi dell’età
dell’oro deponevano alla loro porta, o lasciavano sgorgare nel porto.
L’amministrazione non permette coteste licenze: si fanno gettare
le acque lorde lontano dal porto, e le terre fetide lontano dalla
città. Forse un giorno ogni industria saponaria si trasferirà ne’
sobborghi. I fabbricatori, se si decideranno ad emigrare ad alcuni
chilometri, economizzeranno le spese di trasporto ed il dazio consumo
che pesano sui loro prodotti; essi restituiranno alla popolazione
agiata di Marsiglia un bel quartiere ben tracciato e ben costrutto,
reso inabitabile dalla puzza. Potranno stabilirsi nelle vicinanze delle
fabbriche di soda, dove mille operaj lavorano per essi.

Non mi allontanerò troppo dalla spezieria dicendo, che si trovano a
Marsiglia diciotto raffinerie di zolfo e quaranta fabbriche di paste
d’Italia. Vi si preparano quelle confetture del mezzodì che hanno
fatto a Castelmuro una rinomanza europea. Ma il canale della Duranza,
fecondando un suolo polveroso, ha aumentato la bellezza dei frutti a
scapito del loro sapore. Se ne raccolgono in maggior quantità e sono
molto più grossi dappoichè sono meglio nutriti, ma hanno perduto quella
quintessenza d’aridità che li distingueva dagli altri. I frutti sono
come gli uomini: un po’ di miseria li rende migliori.

Mi fu mostrata a Marsiglia una piccola officina, veramente curiosa e
che, se non erro, è unica nel suo genere. È una fabbrica di turaccioli
di sughero ove tutto si fa a vapore. Avevo visto altre volte un operajo
abile, armato d’un coltello ben affilato, tagliar fuori dei turaccioli
dalla scorza della quercia-sughero, e mi sembrava impossibile che una
forza cieca e priva d’intelligenza eseguisse un lavoro sì dilicato. Ma
la macchina che mi si fece vedere ha dello spirito come una persona
e della destrezza come una fata. Il fabbro o piuttosto bigiottiere
che l’ha costrutta, sarebbe nel novero degli Dei, se avesse avuto la
precauzione di nascere due o tre mila anni più presto. Vorrei poter
mostrarvi quelle piccole mani d’acciajo liscio che afferrano il sughero
greggio, lo volgono, lo rivolgono, lo tagliano in forma cilindrica, lo
assottigliano a guisa di cono, si fermano per tastare se va bene, lo
gettano nello scarto se va male, lo ritoccano se occorre, e lo gettano
finalmente in una cesta nello stato di turacciolo finito sotto gli
occhi del capo-fabbrica. È un piacere il sorvegliare questi operaj
metallurgici, che lavorano dalla mattina alla sera senz’altro stimolo
che un colpo di stantuffo, con una goccia d’olio per tutto alimento.
Mi si disse che le piccole mani della macchina guastavano un po’ più
di sughero di quelle dell’uomo. Stento a crederlo, ma in ogni caso
l’economia della mano d’opera compensa largamente il calo.

Non vi dirò nulla delle macine di Marsiglia, abbenchè impieghino
più di 1100 operaj, nè delle concie di pelli, nè delle ferriere, nè
delle fonderie, nè di quegli ammirabili cantieri della Ciotat, ove si
costruiscono le navi. Basta che abbiate visto da ciò che precede, che i
Marsigliesi hanno il buon senso di far camminare insieme il commercio e
l’industria. Parliamo di commercio.


Il vecchio porto di Marsiglia è eccellente; il nuovo è discretamente
buono; il terzo che si sta costruendo sarà passabile. La città
possederà ben presto una superficie d’acqua al sicuro, valutata a 160
ettari. Non occorre molto di più per ricoverare tutto il commercio
marittimo del Mediterraneo. I privilegi del porto sono abbastanza
seducenti per attrarre i navigatori e fare concorrenza alle franchigie
di Trieste. Le navi estere che si fermano a Marsiglia sono esenti da
ogni diritto di navigazione; i bastimenti francesi non sono sottoposti
che ai diritti fissati per il rilascio degli atti di nazionalità
francese e di congedo. Le merci importate che pagano un diritto
principale minore di 15 franchi per 100 chilogrammi sono esenti dalla
sopra tassa del 10 p. %, allorquando sono importate da Marsiglia.
L’emporio fittizio, che dappertutto altrove è d’un anno, qui è di due
anni e può essere prorogato.

Questi piccoli favori producono grandissimi risultati. L’emporio di
Marsiglia ha ricevuto, nel 1836, otto milioni e mezzo di quintali
metrici rappresentanti un valore di 479 milioni di franchi. Sono
all’incirca 4/9 di tutto ciò che la Francia ha ricevuto nei suoi
emporj. Lo stesso anno Marsiglia figurava per più di 36 milioni e
mezzo nei redditi delle dogane. Essa possedeva, al 31 dicembre, 882
bastimenti a vela di 101242 tonnellate. Ma la sua più bella ricchezza
ed il suo avvenire più brillante stavano già nella navigazione a
vapore.


Vi farei stupire assai, se vi facessi le confidenze d’una compagnia
modestissima e niente affatto numerosa, che ha i suoi uffici a
Marsiglia, i suoi battelli alla Joliette e i suoi cantieri alla Ciotat.
Essa maneggia un capitale di trenta milioni, trasporta due cento trenta
mila passaggeri, sessantasette mila tonnellate di mercanzie e percorre
trecento mila leghe senza tamburo nè trombetta. Si avrà un’idea della
moltiplicità e della varietà delle sue operazioni, quando dirò, che
a Marsiglia soltanto essa riceve tutti gli anni quarantamila lettere
al suo indirizzo. È la compagnia delle Messaggerie imperiali che si è
slanciata in mare l’8 luglio 1851.

Il trasporto dei dispacci, dei passaggeri e delle merci nel
Mediterraneo era stato fino allora un privilegio dell’amministrazione
delle poste. Le sue navi, che camminavano lentamente, percorrevano
novanta mila leghe incirca, ed ebbero a soffrire nel 1847 un deficit
annuale di quattro milioni e mezzo non comprese le spese generali,
l’interesse del capitale impiegato, l’assicurazione ed il deperimento
del materiale. Non trasportavano più di ventisette mila passaggeri
e novemila tonnellate di merci. La legge 8 luglio sostituendo
l’attività degl’interessi personali alla freddezza d’un’amministrazione
disinteressata, ha quasi decuplato il movimento dei viaggiatori e delle
mercanzie, e questo miracolo si è compito in due anni.

Io ho viaggiato sette anni sono, sui bastimenti della compagnia,
e posso misurare il progresso che hanno fatto. I vecchi carcami
lasciati dall’amministrazione delle poste furono scartati. I cinquanta
bastimenti che solcano il Mediterraneo compongono una flotta che sta
bene. Non fanno cinque leghe all’ora come _il Valetta_ ed _il Vectis_
della compagnia Peninsulare, ma svolgono correttamente i loro dieci
nodi all’ora, qualunque sia il carico della nave e la resistenza del
mare. Il passaggero vi trova tutti i comodi della vita e sopratutto
quella nettezza francese che si apprezza immensamente quando si ha
fatto un viaggio o due sotto bandiera estera; e poi i comandanti sono
gente di questo mondo, e non lupi di mare. La compagnia, che pensa a
tutto, impiega i bastimenti a elice per i trasporti diretti, e delle
navi a scale per le passeggiate a vapore lungo le coste. I viaggiatori
premurosi hanno meno paura del moto del vascello; le giovani coppie,
che vanno da Marsiglia a Genova, da Genova a Livorno, da Livorno a
Civitavecchia e a Napoli sotto i raggi argentei della luna di miele
s’addormentano in un equilibrio più stabile fra le larghe ruote del
battello.

La rapidità dei trasporti ha dato delle ali al commercio di Marsiglia.
Il vapore usurpa di giorno in giorno il cabotaggio del Mediterraneo
che diventa un lago marsigliese. Io non m’incarico di enumerare qui
le mercanzie che la città esporta in Oriente; otto pagine di giornale
non basterebbero forse alla lista. Preferisco dirvi in succinto che
i commissionarj di Marsiglia vendono di tutto. Essi importano in
iscambio i prodotti greggi del Mediterraneo e del Mar Nero, le raccolte
dell’America, della costa d’Africa e dell’India; i cotoni, le cuoja,
gli alcool, gli zuccheri, ma anzi tutto e sopratutto le granaglie
d’ogni sorta.

Io vi ho fatto cenno delle sementi oleose, vi sarebbe da fare un libro
sull’importazione delle granaglie. La Francia ha fatto cinque raccolte
meschinissime dal 1832 al 1857. Chi è che ci ha nutriti? Marsiglia.
La Canebière ha visto sfilare in sei anni più di 13 milioni di carichi
di grano che fanno più di venti milioni di ettolitri. Al principio del
1836, quando le raccolte della Russia erano bloccate nel mare d’Azof,
quando i prezzi correnti dei nostri mercati andavano di rialzo in
rialzo, i Marsigliesi correvano a Napoli e ad Alessandria, e vuotavano
i granaj d’Egitto e di Sicilia.


In mezzo ad un aumento di cui nessuno prevedeva un termine, la
speculazione prese uno slancio pericoloso. Un negoziante andava a
cercare il grano alla sua fonte, lo comperava a qualunque prezzo,
sicuro di rivenderlo con guadagno. In fatti intanto che il bastimento
veleggiava col vento in poppa verso Marsiglia, era richiesto sulla
piazza, venduto, rivenduto sempre con aumento, e cambiava venti volte
di padrone prima d’entrare in porto. Fra i compratori ed i venditori
circolava il sensale, uomo esperto interessato a far crescere e
moltiplicare gli affari. Si sono visti dei carichi passare per tante
mani, che il valore del grano bastava appunto a pagare le senserie. Si
è visto il sensale primario di Marsiglia, un giovane che ha veramente
il genio dell’intromissione, guadagnare 1,200000 in un anno!

Questa foga temeraria de’ Marsigliesi avrà gettato qualche imbarazzo
nei loro affari, ma non dimentichiamo che essi ci hanno dato del pane.

Era impossibile che il ritorno dell’abbondanza ed il ribasso di tutte
le derrate non colpisse all’improvvista qualche speculatore. Le crisi
finanziarie che cagionano certi disastri privati, sono una conseguenza
inevitabile dello sviluppo del credito. I nostri padri non lo
conoscevano, ma conoscevano la carestia.

La speculazione sui fondi pubblici e sugli effetti industriali è
un frutto nuovo a Marsiglia. Si stima però che, dal 1.º gennajo
1855 al 1.º gennajo 1858, i Marsigliesi hanno comperato della carta
per un centinajo di milioni; intendo della carta solida qual è la
rendita dello Stato, le azioni di strade ferrate e le obbligazioni
garantite[2].

Fin allora _il parquet_ faceva un lavoro piuttosto ingrato; negoziava
delle azioni locali di poco valore, per conto di speculatori senza
denaro. Si trafficava su delle miniere dubbiose, delle torbiere
incerte, e delle banche mal piantate. Il capitale si nascondeva in un
buco, allorchè vedeva passare un agente di cambio. A dir il vero, la
compagnia degli agenti mal reclutata non offriva delle guarentigie
molto solide. Le cariche erano offerte a 50000 franchi senza
acquirenti; dieci agenti sopra venti erano stati obbligati a vendere
il loro studio. A lato del _parquet_, una _coulisse_ imponente s’era
costituita in regola, con Sindaco e camera sindacale. Il pubblico
che non sospetta alcun male negli affari di borsa, s’era avvezzato a
riguardare i _Coulissiers_ come altrettanti agenti di cambio. Questa
confusione non era di natura a lusingare gli agenti perchè vedevano in
mezzo a’ loro compagni degli uomini screditati, pieni di debiti fino
agli occhi e sopracarichi di condanne giudiziarie.

Fortuna volle che la camera sindacale nominata a quell’epoca prendesse
a cuore gl’interessi e la riputazione della piazza. In quanto al
sindaco, sig. Paolo Blavet, era giovine ed aveva la smania di far
bene. Si gettò sui _Coulissiers_ come una tigre e li trascinò dinanzi
al procuratore imperiale. Il tribunale li condannò tutti, come un
sol uomo; la corporazione degli agenti fu liberata da una concorrenza
parassita e compromettente.

Alla dispersione dei _Coulissiers_ successe la convenzione dei sensali
intrusi. Il terribile sindaco diresse i suoi attacchi contro gli agenti
non patentati che facevano da mediatori di effetti commerciabili.
Questa categoria si componeva in generale d’uomini serii avvezzi al
lavoro, discretamente provvisti di denaro e di clienti, e ammessi
nelle migliori case. Si diede loro la caccia, ma urbanamente onde
costringerli a mettersi in regola. Ognuno d’essi si rifugiò in una
delle piazze d’agente di cambio che si trovavano vacanti, ed il
_parquet_ si trovò costituito solidamente.

Gli uomini serii apportarono gli affari serii; i valori locali furono
proscritti dalla lista dei prezzi a termine, e non figurarono più che
per memoria su quella dei prezzi a contanti. Gl’impieghi di denaro si
fecero sui grandi valori come alla Borsa di Parigi. Le transazioni sui
titoli presero di giorno in giorno un nuovo sviluppo e le piazze di
agente di cambio, che si offrivano non ha guari a 50000 franchi, sono
ricercate in oggi con offerte di 120 a 150000 franchi.


Basta attraversare Bordeaux, Lione, o Marsiglia per vedere che i
_parquet_ di provincia, sotto l’influenza di sindacati intelligenti,
tendono a discentralizzare il mercato dei fondi pubblici. Altre
volte Parigi era il solo mercato, la Francia intiera vi dirigeva i
suoi ordini di compra o di vendita. Gli agenti di provincia erano
stati Istituiti per la trasmissione degli effetti di commercio e
delle cambiali, come i sensali per la trasmissione delle mercanzie,
e la prova è che sono ancora assimilati ai sensali e posti come
essi sotto la dipendenza del ministro del commercio. Gli agenti di
Parigi, soli incaricati della vendita e della compra dei fondi erano
sottoposti ad un’organizzazione speciale e collocati sotto la mano del
ministro delle finanze. Allorchè un privato di Marsiglia, di Bordeaux
o di Lione voleva vendere o comperare della rendita, si dirigeva
al ricevitore generale, che faceva fare l’operazione a Parigi col
mezzo di un agente. Ma dopo che i _parquet_ di provincia funzionano
regolarmente, la rendita si vende e si compra a Marsiglia senza fare
il viaggio di Parigi; i negozianti di Bordeaux o di Lione speculano
sul rialzo o sul ribasso col mezzo dei loro agenti, senza dir nulla al
ricevitore generale. Questa rivoluzione nelle abitudini della provincia
è più importante e più utile che non si suppone al primo colpo
d’occhio. Allorchè tutti gli affari affluiscono allo stesso mercato,
la concorrenza di tutti gli ordini di vendita che si concentrano
simultaneamente sopra una sola piazza in tempo di crisi politica
o finanziaria, contribuisce a deprezzare il credito e precipita il
ribasso. Quando i mercanti di provincia sono là per diminuire l’urto,
il ribasso si sente meno perchè resta ripartito.


Or fa appunto un anno che sgridavo con tutte le mie forze il consiglio
municipale di Bordeaux, rimproverandolo d’essere ricco e cattivo; ricco
di risparmiare un po’ spilorciamente le rendite d’una città grande e
potente, e di camminare senz’entusiasmo in quella via di lusso e di
progresso in cui la Francia intiera galoppa ad esempio di Parigi. È
certo che l’economia è la più sciocca e la più sterile di tutte le
virtù. Allorchè una spesa è utile, la si deve fare senza mercanteggiare
e senz’aspettare. Io conosco un uomo che viaggia sei mesi dell’anno,
e che ha per principio di non pagar nulla troppo caro; l’abitudine di
mercanteggiare gli risparmia una dozzina di franchi per giorno, e gli
toglie per più di cento franchi di piaceri. Il mio avolo era un degno
paesano, ma prudentissimo per sua e nostra disgrazia. Egli possedeva
sotto il Terrore dodici mila franchi in oro e sei figli. Sì presentò
l’occasione d’acquistare il castello del villaggio e un dominio che
vale un milione. Il mio avolo non era sì pazzo! Egli conservò il suo
denaro per prudenza e quando morì nel 1845 si ritrovarono i dodici mila
franchi nel suo baule! Io stesso, che non sono più economo di un altro,
ho trovato per caso in questi giorni in una bottega di Roma un pugnale
di Trivulzio, un capo autentico del massimo interesse. Il fodero d’osso
lungo un mezzo metro porta il nome del possessore, il suo ritratto,
il ritratto di Luigi XII, e il ritratto d’una donna ignota ch’io non
ho ancora incontrato nella storia. Questa bell’arme era da vendersi
per 150 franchi: essa ne vale quattro volte tanto; me la sono lasciata
portar via da un mercante d’anticaglie di Parigi. Che cosa volete? Ho
aspettato, ho fatto come il mio avolo, con questa differenza che i 150
franchi non si troveranno nella mia eredità.

Nessuno penserebbe a fare dei risparmi, se fosse ben penetrato
di questa verità incontrastabile; l’oro e l’argento ribassano
impercettibilmente tutti i giorni, nel mentrechè l’arte ed il lavoro
dell’uomo aumentano tutti i giorni. I sette napoleoni e mezzo che io
ho bestialmente conservato nel mio scrigno valgono già qualche cosa
meno della settimana passata; ed il pugnale del Trivulzio fra quattro o
cinquecento anni varrà dieci volte tant’oro quanto pesa.

Se l’economia è assurda nei privati essa è quasi colpevole in coloro
che governano. La ricchezza e la grandezza di un paese non derivano
già dal denaro messo a parte dai sovrani, ma da quello che essi hanno
sborsato a proposito. Il denaro speso è il solo che resta, quello
risparmiato finisce sempre per iscomparire. Le assemblee cittadine non
sono di questo parere, perchè esse sono della scuola di mio avolo;
esse fanno delle spilorcerie al presente, senz’alcun profitto per
l’avvenire.

L’abitudine di assottigliare il _budget_ e specialmente di differire
sistematicamente delle opere riconosciute necessarie, è costata
carissima alla Francia. Se la strada ferrata da Parigi a Marsiglia
fosse stata costrutta alcuni anni prima, il porto di Trieste non
avrebbe fatto fortuna a nostre spese. Gli allargamenti che si fanno
rapidamente nei quartieri più ingombri di Parigi, avrebbero costato
la metà di meno nel 1758. Essi costerebbero dieci volte di più se uno
spirito di temporeggiamento parlamentare li differisse d’anno in anno
fino al 1958. Ne consegue da ciò, che per tutte le opere d’utilità o di
splendore pubblico, nulla è più prudente che la fretta, e nulla è più
economico quanto la spesa.

La storia che giudica i governi in ultima istanza non resta loro molto
obbligata dei milioni che hanno messo nella cassa di risparmio. Essa
considera Galba come un ladro, e non ha Vespasiano in odore di santità.
Le magnificenze di Luigi XIV ancorchè un poco personali hanno lasciato
un miglior ricordo che le spilorcerie di Luigi XI. Perciò se noi
vogliamo essere benedetti dai nostri figli e ammirati dalla posterità
spendiamo tutti i nostri redditi in imprese grandi ed utili; è il
miglior impiego.

Noi dicevamo dunque che la città di Bordeaux prendeva troppo poco
sui suoi redditi per farsi bella. È vero che i secoli precedenti le
hanno lasciato poco da fare. In quanto ai Marsigliesi, che hanno tutto
da creare, si dibattono come diavoli per la maggior gloria del loro
paese. Essi non differiscono nulla all’indomani, intraprendono dieci
cose in una volta, e fanno camminare insieme l’utile, il piacevole
ed il maestoso. Due porti, un canale, un palazzo di giustizia, una
residenza imperiale, una borsa, una cattedrale, un giardino zoologico!
Non dimentico io nulla? no, nulla tranne l’allargamento della contrada
Noailles, e della contrada d’Aix. È una bagatella di nove milioni per
la prima, e diciassette milioni per l’altra; ventisei milioni affinchè
le vetture circolino più comodamente all’ingresso della città. Luigi
XI e tutti i suoi simili deciderebbero all’unanimità, che coloro sono
pazzi.

Confesso che al primo colpo d’occhio questo furore d’intraprendere
mi aveva quasi spaventato; ho chiesto a me stesso, se questa giovine
ed impetuosa Marsiglia non isprecava storditamente i suoi ben nati e
nascituri; se non conveniva di darle un consiglio giudiziario invece
d’un consiglio municipale; il budget della città mi ha risposto:
le spese le più enormi e le più folli in apparenza si riducono a
nulla allorquando colui che le fa è in via di prosperità, allorchè
tutto gli va a seconda e che il denaro gettato dalla finestra
rientra immediatamente per la porta seguito da grossi interessi. Gli
stabilimenti privati che fioriscono a Marsiglia provano abbondantemente
questa verità. L’amministrazione dei teatri paga 75,000 franchi
all’anno di pigione; essa dà 500 franchi al mese al suo primo tenore;
2,500 franchi al suo basso; 4000 franchi alla sua prima cantante, e
tutto nella stessa proporzione. Eppure i direttori hanno incassato
75,000 franchi di guadagno netto nel 1857. I caffè dove si canta, del
Casino e dell’Alcazar sfoggiano un lusso quasi ridicolo che stupirebbe
gli abitanti di Parigi; ma più spendono, più guadagnano e la follia
dei loro sborsi gli arricchisce in pochissimo tempo. Gli azionisti del
giardino zoologico hanno acquistato il loro terreno nel 1855. Era un
affare di 118,000 franchi senza contare le costruzioni e le bestie. Ma
il solo introito del 1857 ascende a 95660 franchi. La raccolta di un
anno copre quasi il capitale, come nella cultura del lino.

Passate dal piccolo al grande, e i risultati sono gli stessi. Le spese
della città aumentano tutti gli anni. Esse vanno con passo rapido, ma
che importa? Se i redditi hanno sempre uno o due milioni d’avanzo! Si
sborsano circa dieci milioni nel 1855, e se ne incassano più di dodici.
L’anno seguente per undici milioni spesi se ne introitano tredici.
Nel 1857, si fanno delle follie: diciotto milioni e mezzo. L’introito
giunge quasi a venti milioni. Sapete voi che vi sono degli Stati in
Europa il cui budget non ascende a tanto? Comunque sia non ne conosco
alcuno la cui prosperità si sviluppi così rapidamente.

Si ha tanta fiducia nei destini di Marsiglia, si conoscono tanto
bene le sue entrate, la si crede tanto solvibile, che può tôrre ad
imprestito ciò che le piacerà. Tutti i prestiti che ha aperto furono
sottoscritti immediatamente dai cittadini della città all’interesse il
più moderato, cioè per la maggior parte al 4-1/2 %.

Il suo bilancio può compilarsi con poche righe; esso prova la saviezza
dei suoi amministratori. La città è autorizzata con diverse leggi
a prendere ad imprestito 43,250,000 franchi. Essa ha realizzato
35,750,000 franchi e ne ha di già rimborsati 8,900,000. Sono dunque
26,850,000 franchi di cui è debitrice, una bagattella! Un uomo
che ha 20,000 franchi di rendita e che ne spende 12,500 può fare
27,000 franchi di debiti senza incorrere nell’interdizione. Gli si
permetterebbe d’indebitarsi del triplo, se sperasse nell’avvenire
qualche buona eredità. Ora la mia Marsiglia è figlia del commercio e
dell’industria, ha quindi nell’avvenire un’eredità illimitata e delle
speranze incalcolabili.

La sua spesa principale è stata la costruzione del canale della
Duranza, che costa circa 35 milioni e mezzo, ma la vendita delle acque
produce già 450,000 franchi all’anno, senza parlare della salubrità
acquistata dalla città, della polvere compressa, e della campagna
trasformata. La costruzione dei porti è intrapresa a spese comuni dalla
città, dal dipartimento e dallo Stato. È la città che ne raccoglierà i
primi frutti. La cattedrale costerà cara. Quanto? Nessuno può dirlo.
Il preventivo dei fondamenti è di circa 1,300,000 franchi. Ma era
impossibile che il vescovo di Marsiglia officiasse più a lungo in
una chiesa di villaggio. Lo Stato ha sottoscritto per due milioni e
mezzo, la città ne darà quattro; uno sul suo _budget_, tre sui terreni
della Joliette che ha venduti. Il palazzo di giustizia costerà quattro
milioni, ma è il dipartimento che paga. La borsa ne costerà sei e
mezzo, ma è la camera di commercio che fa quasi tutte le spese. La
città fornirà una sovvenzione di 600,000 franchi pagabili in dieci
anni; essa ha ceduto il suolo delle strade.

Si va a construire una residenza imperiale al sud del vecchio porto,
sull’area della riserva vicino, a quel villaggio dei Catalani che
Monte-Cristo ha reso celebre. Già da molto tempo il villaggio dei
Catalani non è più che un’ombra. Questa repubblica di pescatori,
portata dall’emigrazione, si è messa di nuovo ad emigrare. È per odio
della coscrizione marittima, od è forse perchè il pesce manca sulle
nostre coste? Non si sa. Intanto il fatto è che il piccolo porto si fa
deserto e che le celle imbiancate colla calce sono quasi vuote. È molto
se odesi in quella solitudine il suono gutturale d’una frase spagnuola:
bisogna errare molto tempo fra le ruine prima d’incontrare sulla soglia
d’una porta aperta una vecchia donna col volto abbronzito che pulisce
la testa del suo nipotino.


I Marsigliesi spendono il loro reddito comune da uomini intelligenti,
non dico da artisti. Gente di spirito fin che si vorrà; io sono pronto
ad esagerare ancora tutti i superlativi delle lodi, ma in materia
d’arti non è ad essi che io domanderò parere. Il saper discernere il
bello è un frutto dell’educazione piuttosto che un dono di natura, ed i
Marsigliesi non hanno ancora vôlto la loro mente da quella parte. Manca
loro quella tradizione d’arte che si è conservata qua e là in alcune
città di Francia, a Lilla, a Valenciennes, a Digione, a Grenoble, a
Lione e direi perfino a Bordeaux. I nuovi edifizj di Marsiglia non
s’annunziano come capi lavori di architettura: si fanno ugualmente bene
a Washington e a Cincinnati. Dinanzi la nuova borsa, che è decisamente
brutta, si vede un carnefice che mostra al popolo una testa tagliata
di fresco. È la statua di Puget martellata da Ramus, e offerta in dono
alla città da un gran signore di Gerusalemme. Il museo non manca di
buoni quadri, ma non sono nè ben collocati, nè bene conservati, nè
ben mantenuti. Egli è qui che mi disgusto col consiglio municipale
di Marsiglia. È spiacevole che di due sale di pittura la prima sia
mal rischiarata e la seconda non lo sia affatto. Si deplora di veder
sedere in trono al posto d’onore cinque o sei scarabocchi della scuola
moderna, quando il _Mercurio_ di Raffaello copiato alla Farnesina dal
sig. Ingres è collocato sotto la soffitta, nell’angolo più oscuro d’una
camera tetra. Infine i ristauratori del paese sono quasi altrettanto
imprudenti quanto i nostri vandali di Parigi.


Di tutti i privilegi municipali sapete voi qual è quello che si ama
di più in provincia? quello di cui si è più fieri? quello che si
difende con maggiore ostinazione contro le usurpazioni della capitale?
È il diritto di demolire un bel fabbricato per erigerne uno brutto;
di scegliere una cattiva statua fra dieci di buone, di fare la notte
e il giorno in un museo, e di eleggere un professore di disegno che
non sappia disegnare. Questo furore non è esclusivamente francese;
si può osservarlo a bell’agio in tutta l’Europa incivilita, ed esso
contribuisce, da un certo numero d’anni, alla decadenza che vediamo.
In ogni città di dieci mila anime i notabili dicono unanimemente: Noi
abbiamo il diritto per il nostro denaro di proteggere le arti a nostro
modo; nessun potere umano non può impedirci di condurre la barca di
traverso, attesochè il carico è nostro.

Un Bavarese che abita in Roma, mi raccontava questi giorni passati
l’aneddoto seguente, che trascrivo per intero, quantunque non concerna
nè l’Italia, e neanche Marsiglia. Ma esso tocca un punto che interessa
le anime più nobili di tutto il paese. Ascoltatelo dunque attentamente;
è il mio Bavarese che parla:

Sono nativo di Niguenau, città di dodici mila anime, situata a sessanta
miglia da Monaco, e capoluogo della provincia. Si può dire che i miei
concittadini siano ricchi, essi fecero fortuna fabbricando tessuti di
cotone e bambole di porcellana. Il loro massimo piacere è di mangiar
salami, bevendo birra del paese, che è eccellente; non conoscono
nulla di meglio nè di più degno d’un uomo incivilito che la birra
ed i salami. Tuttavia siccome le belle arti sono, da qualche anno
in poi, di moda in Baviera, e siccome a Monaco v’ha chi se ne occupa
attivamente, così le persone più distinte di Niguenau, per conservare
il loro grado nel regno, consacravano tutti gli anni qualche migliajo
di fiorini alla coltura delle arti. Mantenevano un architetto giurato
allo scopo di ristaurare gli edifizj municipali e di ridipingerli in
rosso. Possedevano un museo composto a caso, ma il caso ha talora la
mano fortunata. E da ultimo nudrivano alla buona di Dio un maestro di
pittura. Il maestro, il conservatore e l’architetto erano tre figli
del paese, conformemente a quel principio municipale: «Non date ad uno
straniero il denaro del comune». Questi tre personaggi ricevevano il
loro assegno dal borgomastro, e per conseguenza obbedivano a lui solo.
Ora il borgomastro era un uomo eccellente, un medico abilissimo ed una
delle persone più spiritose di Niguenau; ma in materia d’arte, era un
asino. Ei si mostrava tanto più geloso della sua prerogativa, e gli
argomenti d’arte erano i soli sui quali ei non intendeva ragione.

«L’amministratore (o prefetto) della provincia era un intelligente
illuminato dai viaggi, dalla vita di Monaco e dal consorzio de’
grandi artisti. E perciò ogni suo consiglio era cansato, e quando
officiosamente ne dava alcuno savio, il borgomastro si raccoglieva
nella sua toga con sussiego municipale, e rispondeva con impertinente
civiltà: «Il signor prefetto se n’intende meglio di noi, e noi siamo
gente da prender abbagli; ma Niguenau è abbastanza ricca da pagare i
nostri errori, e non ne costerà un soldo al governo».

«Quando trattossi di rifabbricare il palazzo del comune che cadeva in
rovina, il borgomastro e l’architetto acconciarono insieme un piccolo
progetto di tempio greco, sormontato d’un campanile gotico e circondato
d’un ballatojo alla Svizzera. Il prefetto vide per caso i disegni di
quell’ibrido edifizio, e non potè trattenere qualche esclamazione di
sorpresa. Gli fu risposto, ch’era la città che pagava».

Verso il medesimo tempo, il conservatore del museo, che non aveva
mai toccato pennello in vita sua, soffermossi dinanzi al quadro del
Perugino, solo che noi avessimo, ma che era la perla del museo. Cotesto
animale (mi si perdoni il nome, ma non ne trovo di più civile) si ficcò
in capo, che il dipinto era troppo giallo, e s’accinse a raschiarlo
con una lama finchè scoperse il legno. S’accorse allora che aveva fatto
un po’ troppo la tela rasa, e, per riparare allo sconcio, distese uno
strato di bitume sullo spazio che aveva raschiato. Ma essendosi molto
a proposito ricordato che il quadro primitivo aveva certe parti nella
luce, e certe altre nell’ombra, graffiò via il bitume colla punta
d’un temperino dovunque gli piacque di porre de’ lumi. Il prefetto lo
sorprese durante quell’operazione, e gettò un grido di collera, e stava
sulle prime per fulminarlo con un calcio, ma si limitò a provocarne il
licenziamento. «Ci perdonerete, rispose il borgomastro, poichè costui è
pagato sul nostro budget».

«Il maestro di pittura alla scuola comunale venne a morire. Non aveva
saputo nulla in tutta la sua vita, e per ben vent’anni insegnava
alla gioventù di Niguenau una certa pittura a pastello, che formava
l’ammirazione de’ genitori. Ora il prefetto si persuase che quella
fortunata morte avrebbe salvato il buon gusto nella città, e voleva
chiamarvi da Monaco un uomo maturo, pieno di talento, lodato nelle
esposizioni, onorato di varj premj, ed abbastanza modesto da preferire
un posto fisso in provincia alla vita militante della capitale. Ma il
borgomastro ed i consiglieri avevano un altro candidato, un giovane del
paese che si era fatto conoscere con felici saggi fino dall’età d’anni
dodici.

Era stato mandato a Monaco con una pensione di trecento fiorini,
sperando che s’acquistasse il premio di Roma e che facesse onore
alla città di Niguenau. Aveva concorso per tutto il tempo che l’età
sua gli permetteva, vale a dire fino al trentesimo anno, e non aveva
nemmeno riportato un secondo premio. Non già ch’ei dipingesse a
pastello, ma egli disegnava i suoi quadri colla punta d’un chiodo.
Fu eletto all’unanimità dal consiglio municipale, ed il borgomastro
si fece un dovere d’informarne il prefetto. «La signoria vostra,
gli disse, apprezzerà i sentimenti da cui siamo stati mossi. Siamo
noi che abbiamo spinto questo giovane nella carriera della pittura,
somministrandogli i mezzi di studiare. Poichè non è riescito, è dover
nostro di procacciargli i mezzi di sussistenza. — Ma che? ripigliò
l’amministratore intelligente, appunto perchè questo giovane ha
dimostrato la sua incapacità a Monaco, voi gli conferite il posto
d’un uomo capace! Voi non conoscete tutto il male che un professore
di disegno può fare in un paese, e quale deplorabile influenza egli
eserciti sul gusto del pubblico. — Ciò facciamo a nostro rischio e
pericolo, rispose il borgomastro; d’altronde siamo noi che paghiamo. —
E chè! per Dio! un uomo avrà egli il diritto d’avvelenare i suoi figli,
sotto pretesto che ha pagato il veleno?»

«Così l’architetto, il conservatore ed il maestro trionfavano nella
nullità loro, a dispetto dell’amministratore, quando capita di quelle
parti il re. Era un principe dolce, come è noto, ma artista passionato
ed intrattabile nelle questioni di gusto. Ei fece chiamare al palazzo
della prefettura il borgomastro ed i consiglieri, e disse loro: «Buona
gente, voi credete d’avere il diritto di fabbricare degli edifizj
ridicoli, di rovinare i quadri del vostro museo e corrompere il gusto
de’ figli vostri; e ciò perchè il maestro di disegno, il conservatore
del museo e l’architetto della città sono pagati sul vostro budget.
Cotesto pregiudizio è radicato in tutti i capoluoghi del mio regno;
ond’è che non ho dieci persone di buon gusto fuori di Monaco. È ormai
tempo di cambiar sistema. Voglio che tutti gli edifizj pubblici siano
costrutti da’ miei architetti, che i conservatori di tutti i musei
abbiano fatto i loro esperimenti nella capitale, e che i maestri di
pittura siano scelti dal mio ministro siccome i professori di greco
e di latino che insegnano nei collegi reali. Voi potete opporre che
cotesti signori sono di vostra nomina, perchè sono al soldo vostro:
è di legge. — Ma la legge dice eziandio che, quando un impiegato è
stipendiato dallo Stato e dalla città, la nomina allora spetta al
governo. Ond’è che, a datare da questo giorno, io contribuirò per un
fiorino all’anno all’assegno dell’architetto, del conservatore e del
maestro di disegno di Niguenau; ma non verranno nominati che da me».

«Dopo quest’atto d’autorità reale, venne fabbricato a Niguenau un
palazzo di città semplice e di gusto irreprensibile: gli allievi della
scuola di belle arti più non dipingono a pastello, nè più disegnano con
un chiodo; il museo è ben illuminato, ben conservato e messo in ordine.
Sotto ogni quadro si veggono il nome dell’autore e l’indicazione del
tempo in cui viveva; i capolavori sono collocati in posti d’onore, onde
il pubblico sia istrutto di ciò ch’ei può ammirare a colpo sicuro; e se
la nostra collezione non è delle più ricche, è però d’un buon esempio
al pari di quella di Monaco».

Cotesto discorso, tradotto dal tedesco, ci ha trasportati sì lontano da
Marsiglia, che, in fede mia, ho quasi voglia di non farvi più ritorno.
Così pure, noi abbiam veduto ogni cosa, se son venuto a capo di
mostrarvi in poche pagine ciò che ho studiato in dieci giorni. E dissi
ciò che penso de’ Focesi, in bene ed in male, e converrete certamente
con me, che la somma del bene supera d’assai quella del male.

Ora, se vi piace, andremo a Roma, e vi entreremo d’un salto. Se
avessi percorso la via di pellegrino, col sacco in ispalla, siccome
gli artisti dei buon tempo antico, avrei molti paesaggi da descrivere
e delle scene d’albergo da raccontare. Ma, essendo partito sopra
un vapore delle Messaggerie, a dieci ore di sera, ora militare, fui
sbarcato a Civitavecchia trent’ore dopo, senza aver avuto il mal di
mare. Ecco tutti gl’incidenti del mio viaggio. Il paesaggio non variò
un istante, azzurro dovunque. Potrei farvi il ritratto e la storia de’
miei compagni di tragitto, ma non potrei dirvene che bene, d’altronde,
non essendo persone note, non vi possono interessare.

Eravene uno però, di cui mi ricordo con troppo piacere, perchè non
abbia a farne parola: è il signor Bailliencourt, colonnello del 40.º
di linea, uno degli uomini più amabili e più leali ch’io m’abbia mai
conosciuto.

Ho sempre amato i soldati. Strano gusto, dirà taluno, in uno scrittore
che puzza di filosofia. Per bacco! So bene anch’io, al pari di voi,
che l’uomo non è su questa terra per uccidere gli altri uomini.
L’attività, il coraggio e l’intelligenza hanno mille modi più utili
e più sublimi in cui possono esercitarsi; su tal proposito non voglio
movere disputa. Ma io amo i soldati, e questa passione è più forte di
me. Gli amo colle loro doti, coi loro difetti, colla loro istruzione
e colla loro ignoranza, colla loro grandezza d’animo e colle loro
contrarietà, e segnatamente con quell’eterna gioventù di cuore che
li distingue da noi. Ciò che piace alle governanti di fanciulli, alle
modiste e talvolta alle nobili signore, è l’uniforme. Ciò che mi seduce
nel soldato, di qualunque grado, è certa onesta ingenuità, una generosa
ignoranza del male, una semi-verginità d’anima, che si conserva sotto
l’uniforme fino ad un’età assai matura.

Il mio onorevole compagno di viaggio è ancor giovane, e credo che sia
uscito dal collegio di Saint-Cyr nello stesso tempo che il maresciallo
Canrobert. Eppure è già un vecchio soldato. Egli ama l’esercito come
una patria, il reggimento come una famiglia, la bandiera come un
campanile. Un numero scritto sui bottoni d’una tunica gli fa battere il
cuore, sicchè, sbarcando a Civitavecchia, ha gettato un grido di gioja
ravvisando un uomo del suo reggimento. Mi racconta, accarezzandosi i
mustacchi con gioja commovente, che si verrà domattina, colla banda, a
presentargli la bandiera.

Quest’uomo di buona famiglia aveva chiesto congedo d’un mese per
rivedere i suoi dopo un’assenza di parecchi anni; ed or ritorna al
reggimento, prima dello spirare del congedo, essendosi sentito compreso
dalla nostalgia della bandiera.


A Civitavecchia ho preso la posta siccome personaggio di vaglia.
Essa costa due o tre franchi di meno, quando si conosce il modo di
valersene, e si arriva assai più presto. Io credo, Dio mel perdoni, che
abbiamo compito il viaggio in sette ore. I miei quattro cavalli hanno
attraversato la Città Eterna facendo echeggiare i loro sonagli, e gli
ho congedati sulla piazza di Spagna. Era in casa mia, od almeno non mi
rimanevano che tre o quattrocento gradini da salire.




ROMA.




I.

IL MIO ALBERGO.


Carlomagno era alloggiato nel palazzo de’ Cesari, sul monte Palatino.
Questo albergo imperiale, dai barbari rispettato fino all’anno 800, non
è più attualmente abitato, anzi non vi rimangono che rovine, entro cui
i gufi medesimi trovano difficilmente un comodo nido.

Carlo VIII, nella sua irruzione trionfale, abitava in capo al Corso
quel gigantesco palazzo di Venezia, sì deforme e sì nero, dove il conte
Colloredo dà le più belle feste di Roma.

Montaigne andò a stanziare all’albergo dell’Orso: ora non vi si trovano
più pedanti, essendo ricetto de’ cocchieri.

Il nostro divino Rabelais alloggiava sotto la medesima insegna, ma poco
mancò, che non gli venisse accordato gratis il più bell’appartamento
del forte Sant-Angelo. Il padre dello spiritoso francese sarebbesi
trovato bene colà, per ragionare a suo bell’agio sui costumi e le
usanze dell’isola Sonnante.

Nicola Poussin viveva poco lontano, rimpetto alla chiesa della Trinità
de’ Monti, a due passi dal bell’affresco di Daniele di Volterra, da
lui tanto apprezzato, e cui il governo francese sperò un istante di
collocare nel Louvre.

Il presidente De Brosses, a’ tempi ch’era consigliere e che mostrava sì
strane figure sulla portiera della sua carrozza, abitava sulla piazza
di Spagna. Chateaubriand si era annidato presso l’ambasciatore di
Francia, e la Stael nelle nubi.

Ma io meschinello sono meglio alloggiato che non tanti Francesi
illustri, e dalle due finestre del mio osservatorio veggo le cose da un
punto assai più sublime.

Ho appena rinoverato i gradini che mi sollevano al di sopra della
piazza di Spagna, dove gli stranieri si danno convegno. Sono 327, nè
più nè meno: mettetene 135 per giungere al livello dell’Accademia di
Francia; aggiungetene 77 fino al suolo del giardino, che è al primo
piano, siccome nel palazzo di Semiramide. Da ultimo, doveste anche
metter fuori la lingua, salirete ancora 115 gradini prima d’entrare
nella camera turca, che è la mia.

Non potreste sbagliare l’uscio: siamo in capo alla scala a chiocciola,
sul vertice della torricella destra dell’edifizio: i soli inquilini che
mi signoreggiano di tempo in tempo sono le cornacchie, annidate sul
tetto. Una mezza luna di ferro, tracciata sopra la mia serratura, vi
accenna ch’entrate in Turchia, e che questa mia porta è una cugina in
terzo grado della Porta Sublime.

Un O ed un V, disegnati sulla chiave, vi chiariscono che l’operajo l’ha
fatta per Orazio Vernet.

Poichè anche il mio albergo ha alloggiato ospiti illustri, essendo
nientemeno che l’antica villa de’ Medici. Galileo vi fu racchiuso, se
la tradizione non erra; e la prigione del grande astronomo è una stanza
assai bella e maravigliosamente situata. Auguro siffatto carcere a
tutti i martiri della verità.

Nel 1803 l’Accademia di Francia, fondata dalla munificenza di Luigi
XIV, erasi trasportata lontano dal tumulto delle vie, nella villa
Medici. Dopo quel traslocamento, quasi tutti i grandi artisti del
nostro paese hanno abitato quel palazzo e meditato sotto quelle belle
pianto. David, Pradier, Delaroche, Ingres e Vernet vi hanno scritto i
loro nomi sulle pareti.

Il primo aspetto del palazzo è grande, maestoso, ma senza molti
ornamenti. Veggonsi da lontano e sopra la porta gli stemmi e la
bandiera di Francia. Il solo lusso dell’entrata consiste in un viale
di querce verdi ed in un getto d’acqua cadente in una larga vasca. Si
passa fra due colonnette di marmo antico rarissimo e bellissimo, ma
assai modesto; non ve n’è là che superi il valore di sei mila franchi.

Il portinaio è degno d’essere rimirato siccome uno de’ più bei tipi
della razza romana. Grande, dal torso largo, ben fatto, ha faccia
pienotta, con barba a ventaglio, porta maestosamente il bastone di
capotamburo e de’ guardaportoni delle case principesche. È un uomo di
certa importanza, ed ha proprj domestici; suo figlio gli bacia le mani
ogni volta che rientra od esce. Nei dì festivi quando si veste in gran
livrea sulla soglia dell’Accademia, i sempliciotti gli fanno cerchio
intorno e lo stanno ammirando. Ei li lascia giungere vicini, ma per
tratti, per evitare la confusione. Di cinque in cinque minuti, gli
allontana dolcemente col suo bastone e loro dice con tuono paterno:
«Basta! voi avete già goduto il colpo d’occhio; lasciate che si
avvicinino gli altri.»

Il primo piano è occupato dagli appartamenti di ricevimento, vasti,
magnifici, ornati de’ capolavori de’ Gobelins, e degni per ogni
rispetto della grandezza della Francia. Viene poscia e per dipendenza
un vestibolo ammirabile, ornato di colonne antiche e di statue foggiate
anch’esse all’antica. Ma il lato più appariscente della casa è la
facciata posteriore, la quale può noverarsi tra i capolavori del
Rinascimento. Si direbbe che l’architetto ha esaurito una miniera di
bassorilievi greci e romani per tappezzarne il suo palazzo. Il giardino
è dell’epoca medesima, e data dal tempo in cui l’aristocrazia romana
professava il più profondo disprezzo pei fiori. Non vi si veggono che
de’ gruppi di verdura, allineati simmetricamente con cura scrupolosa.
Sei prati, cinti da siepi all’altezza della mano, si distendono dinanzi
la villa, e lasciano correre la vista fino al monte Soratte, che chiude
l’orizzonte. A sinistra, quattro volte quattro pezzi quadrati di zolla
s’incorniciano entro alte muraglie di lauri, di bossi giganteschi e
di verdi querce. Queste mura d’alberi si riuniscono in fascio in cima
ai viali e gli avviluppano d’un’ombra fresca e misteriosa. A dritta
una terrazza di stile elegante raccoglie un boschetto di querce verdi,
contorte e rese cave dal tempo. Mi vi reco talora a scrivere all’ombra;
e la merla e l’usignuolo fanno a gara i loro gorgheggi sopra il mio
capo, in quel modo che un bel cantore di villaggio può rivaleggiare con
Mario o Roger. Un po’ più in là, una rozza vite si estende fino alla
porta Pinciana, dove si dice che Belisario abbia mendicato. Vi si vede
almeno una pietra ornata del celebre motto: _Date obolum Belisario_. I
giardini piccoli e grandi sono sparsi di statue, d’ermeti e di marmi
d’ogni specie. L’acqua sgorga nei sarcofagi antichi, ovvero zampilla
entro vasche di marmo: marmo ed acqua sono i due oggetti di lusso di
Roma; noi, a Parigi, non li conosciamo che per fama.

Questo bel possesso della Francia è appoggiato in tutta la sua
lunghezza ai bastioni della città. Confina da un lato col passeggio del
Pincio, dall’altro col convento francese della Trinità. Domina tutta
Roma, ed ha il vanto di abbracciarla d’un solo colpo d’occhio.

L’Accademia esercita generosamente l’ospitalità. I suoi giardini sono
pubblici, le sue gallerie di studio e le sue sedute di modello sono
accessibili ai giovani artisti d’ogni paese; le sue sale si aprono
una volta alla settimana a tutti i Francesi dì condizione civile; il
suo territorio è un asilo inviolabile dove la polizia romana non ha il
diritto d’inseguire un accusato.


Gli artisti che al concorso ottengono il diritto di compirvi i loro
studj, non hanno tutti il medesimo talento, sebbene tutti abbiano
riportato il medesimo premio. Se ognuno d’essi ritornasse in Francia
nella condizione d’uomo di genio, la Francia più non saprebbe dove
collocarli, e l’eccesso della nostra gloria ci cagionerebbe grave
imbarazzo. Ma si può francamente affermare che un soggiorno di alcuni
anni in una tale dimora ed in un paese di tal natura, non è mai stato
inutile allo sviluppo d’un uomo. Una vita modesta, ma senza il pensiero
del pane quotidiano, l’obbligo stretto di lavorare unito all’assoluta
libertà del lavoro stesso, lo spettacolo de’ più bei paesaggi, de’
più grandi edifizj e delle popolazioni più pittoriche, la vicinanza di
ricche collezioni, il contatto perpetuo colle memorie d’un passato più
vivo che il presente, tutto ciò forma dell’Accademia l’abitazione più
sana che sia in tutto il mondo. E bisogna ch’io ne sia ben convinto, se
vi ritorno a mettermi in pensione.

A tutti i vantaggi enumerati aggiungete la calma insinuante, che
emana dalla Città Eterna, certo spirito di pace e d’armonia, d’ordine
e dignità, che s’impossessa all’insaputa d’ogni cervello il più
disturbato. In questa solitudine abitata che si estende da S. Pietro
a S. Giovanni di Laterano, le memorie della vita militante ci appajono
da lontano siccome sogni d’una notte procellosa. Chi vede l’agitazione
di Parigi senza prendervi parte, prova il medesimo stupore, lo stesso
malessere e lo stesso sdegno che s’ei vedesse un vortice di danzanti
aggirarglisi intorno in un ballo di carnevale, senza sentire i violini.

I giornali ciarlieri che assordano i Parigini non giungono sino a Roma;
i mascalzoni più celebri e più temuti dagli artisti non vi sono nemmeno
conosciuti; e gli arzigogoli della stampa minuta non vi sarebbero
nemmeno compresi. Vi si lavora in pace, in un onesto raccoglimento,
senza curarsi delle dicerie, de’ passaggeri capricci del pubblico,
cogli occhi rivolti alternativamente alla natura ed ai maestri.

Roma è forse, dopo Atene, la città dove meno si diverte. Eppure gli
stessi giovani confessano che non ve n’è altra di più attraente. Il
primo movimento de’ pensionisti dell’Accademia è d’annojarsi come ad un
còmpito, e di noverare i giorni che li separano ancora da Parigi; essi
se ne vanno poi tutti con rammarico o piuttosto con dolore.


Si può dire di Roma, ciò che un critico diceva del più grande poeta
dell’antichità: _C’est avoir profité que de savoir s’y plaire_.

Il piacere elevato che la grande città ci procura non si può
già provare in capo ad otto giorni. Mi fu mostrato un esemplare
del Guido-Giovanni, arricchito di note manoscritte d’un commesso
viaggiatore. Cotesto bell’uccello di passaggio aveva scritto in margine
all’articolo S. Pietro di Roma: «Ho veduto qualche cosa di meglio di
ciò.» Io non so bene ove potesse aver veduto di meglio; ma scuso i
falli d’un viaggiatore di otto giorni.

Papa Gregorio XVI, ch’era un vecchio spiritoso, accordava volentieri
udienze ai viaggiatori stranieri. Dimandava a tutti da quanto tempo
erano in Roma. Quando gli si rispondeva: «da tre settimane» ei
sorrideva maliziosamente, e diceva: «andiamo avanti! Addio.» Ma se il
viaggiatore aveva passato tre o quattro mesi in città, il santo padre
allora gli diceva: «A rivederci!»

E di fatti, tutti coloro che conobbero Roma per un tempo sufficiente
da saperne gustare il bello sentono il bisogno di ritornarvi, come se
vi avessero dimenticato qualche cosa loro appartenente. Si riconoscono
tra loro, od almeno si ravvisano dopo pochi minuti di conversazione.
Si danno una buona stretta di mano, siccome uomini che abbiano amato
una medesima persona ad alcuni anni di distanza, e che ne siano stati
egualmente ben trattati. E finalmente si danno convegno al Foro, al
Vaticano, o sull’eterna piazza di Spagna.

Il direttore attuale dell’Accademia, signor Vittore Schnetz, vi si è
recato per la prima volta nel 1816; è quasi mezzo secolo! Aveva fatto
il viaggio a piedi, secondo l’eccellente abitudine degli artisti di
que’ tempi. Dopo il giorno del suo arrivo, ei non lasciò più la città
se non colla speranza di ritornarvi. Vi ha vissuto ventiquattro anni, e
crede che sia poco. Ha 72 anni, ma ne dimostra non più di 60. Il clima
di Roma è tanto favorevole ai pittori quanto alle pitture. Quell’uomo
eccellente ha conservato tutto il vigore del suo corpo e del suo
spirito; passeggia con passo sicuro tra le rovine e le memorie della
città. Nessun Francese conosce meglio di lui i Romani, e ne è meglio
conosciuto. La nobiltà indigena lo considera siccome sua creatura, ed
ei gode di considerazione eguale a quella de’ principi e de’ cardinali.
La sua vita privata, tranne i giorni di gala, è d’una semplicità
affatto romana. Io asciolvo con lui, e pranzo coi pensionisti; la sola
differenza tra il suo pranzo e quello degli allievi, è che l’uno viene
servito al primo piano e l’altro nel mezzanino.


Forse è tempo di farvi entrare nella mia camera. Non è la più grande
della casa, ma posso farvi sette passi in linea retta, ed è quanto
mi basta per lavorare. La cupola che v’è in essa, è abbastanza alta,
sicchè l’aria non manchi a’ miei polmoni. Orazio Vernet l’ha fatta
dipingere in uno stile orientale sopra disegni copiati in Algeria. La
tradizione vuole, che gli uccelli d’ogni colore, che svolazzano sopra
il lampadario, siano di mano stessa del maestro. Se ciò fosse vero,
la rondinella del caffè Foy troverebbe qui una sorella. Le pareti
sono coperte di majolica dipinta, la cui freschezza mi reca gran noja.
L’ingresso dell’alcova si spartisce alla moresca, fra due enormi mazzi
di fiori fantastici. Sonvi poi iscrizioni arabe sopra al letto, sulla
porta e sulle finestre. Venite pure a coricarvi, se vi piace, sul
tappeto, ad adagiarvi sopra uno de’ miei due divani, od a sprofondarvi
entro la sedia a bracciuoli; ma non toccatemi quel mio tavolino: è
sopra di esso che compongo la mia prosa, rimpetto a Monte Mario.

Non saprei perchè mi sono accovacciato a questa piuttosto che
all’altra finestra: probabilmente perchè il sole vi si mostra più
tardi. L’altra è quasi a mezzodì, questa è quasi ad occidente. Veggo i
sedici praticelli dell’Accademia entro il loro cerchio d’alberi verdi;
poscia viene il Pincio, quindi la verde campagna, il fulvo Tevere ed
una serie di collinette. Monte Mario è coperto d’alberi, paragonabili
ad ombrelle: la più parte aperte, ed i cipressi ad ombrelle chiuse.
A destra veggo parte della villa Borghese, ed a sinistra l’obelisco
della piazza del Popolo. Riepilogando, poca parte di Roma e molta della
sua campagna. Tuttavia quando il sole si corica entro nubi nerastre
screziate di grandi macchie sanguigne, rimpiango che non siano qui con
me a vederlo tutti quanti gli amici.

Quando mi affaccio all’altra finestra, veggo quattro quinti della
città, numero le sette colline, percorro le strade regolari che si
distendono fra il corso e la piazza di Spagna, faccio il novero de’
palazzi, delle chiese, delle cupole e de’ campanili; mi smarrisco
entro il Ghetto e nel Transtevere, non veggo rovine più di quel che
bramerei: esse stanno ammucchiate là in fondo, nelle vicinanze del
Foro. Però veggo presso noi la colonna Antonina e la Mole di Adriano.
La prospettiva viene poi gradevolmente chiusa dai pini della villa
Pamfili, che riuniscono le loro ampie ombrelle e formano quasi una
tavola da mille piedi per un banchetto di giganti. L’orizzonte si perde
a sinistra a distanze infinite; la pianura è nuda, ondosa ed azzurra
siccome il mare. Ma se vi mettessi in presenza d’uno spettacolo così
immenso e diverso, un solo oggetto attirerebbe gli sguardi vostri, uno
solo colpirebbe la vostra attenzione: non avreste occhi che per San
Pietro. Quel mio commesso viaggiatore aveva veduto alcun che di meglio;
ebbene io lo sfido d’aver veduto alcun che di sì grande.

Dal punto più lontano d’onde si scorge Roma, è San Pietro che si
disegna all’orizzonte, la sua cupola è parte nella città, parte in
cielo. Quando apro la mia finestra, verso le cinque ore del mattino,
veggo Roma immersa nelle nebbie della febbre: sola la cupola di San
Pietro è vestita della rosea luce del sol nascente. Mi ricordo che,
recandomi un giorno da Scira a Malta, vidi la Sicilia alla distanza di
quaranta leghe: era un tempo magnifico, al cader del giorno. Tuttavia
mi fu mostrata un’ampia ed eccelsa montagna che sembrava spingere le
sue radici nel mare. Era l’Etna che sorge sopra il suolo di Sicilia,
siccome San Pietro al di sopra di Roma. Noi non distinguevamo la
Sicilia, ma vedevamo l’Etna.


Un giorno di grande solennità (credo nella settimana santa), mi sono
imbattuto in un uomo assai scandalizzato. Era un dabben Normando,
pacifico per indole ed educazione, ed antico consigliere municipale
della città d’Avranches. Come lo vidi alzar le spalle, dimandar il sole
a testimonio, non potei trattenermi dal dirgli: «Che avete?»

— Che ho? Sono ormai due ore e più, che quivi entra un’onda di gente,
eppure nella chiesa non v’è folla. L’edifizio è troppo vasto. Questa
gente non ha criterio ed esagera in tutto.

— Ohimè! Signore, gli diss’io, che direste del presbitero? Questo
Vaticano, che è un’appendice della chiesa, è stato costrutto colla
medesima esagerazione. Non vi si contano meno di dodici mila sale,
trenta corti, e tre cento scale.

— Assurdo, davvero! È come quella chiesa, che mi venne mostrata a due o
tre chilometri di qua.

— San Paolo fuor delle mura?

— Appunto. Essa è troppo grande e fuor di proporzione coi bisogni della
località.

— Lo credo benissimo! difatti la parrocchia si compone d’un albergo e
di due trattorie.

— E noi, signore, quando abbiamo fabbricato la nuova chiesa
d’Avranches, abbiamo preso sì bene le nostre misure, che non s’è speso
un centesimo di più in pura perdita.

— Me ne congratulo con voi. Ma bisogna dire, a giustificazione de’
Romani, che essi hanno costrutto, in San Pietro e San Paolo, non
già delle chiese private, come quella d’Avranches, ma le parrocchie
centrali di tutto il popolo cattolico.


Per bella che sia Roma, quale la veggo dalla mia finestra, m’imagino
ch’essa era ancor più sorprendente or sono tredici secoli. San Pietro
non era ancora fabbricato, nè alcuno degli edifizj, che noi ora tanto
ammiriamo; ma l’antichità era vivente e florida, malgrado le invasioni
de’ barbari ed i saccheggi d’Alarico. Secondo una statistica del secolo
VI, scoperta dal cardinal Mai e citata da Ampère, la gran città contava
ancora:

380 strade larghe e spaziose;

46603 case;

17097 palazzi;

13052 fontane;

31 teatri;

11 anfiteatri;

2 campidogli;

9025 bagni;

5000 fosse comuni;

2091 carceri;

8 grandi statue dorate;

66 statue d’avorio;

3785 statue di bronzo;

82 statue equestri di bronzo;

2 colossi.

Se v’ha taluno che supponga inverosimili queste cifre, sarà certo
perchè non conosce i Romani, nazione eccessiva in tutte le cose, e più
esagerata nelle sue azioni, che non fossero i Greci stessi nelle loro
parole.

Sonvi de’ giorni in cui, per quanto osservi fuori delle mie finestre,
non veggo altro che pioggia e nubi. Il cattivo tempo è qui peggiore che
altrove. Quando il vento di sud-ovest, il maledetto scirocco, comincia
a soffiare, lunghe nubi grigiastre s’addensano all’occidente, e gli
uomini non meno che le bestie vengono assaliti da uno strano malessere.
Sulle uniformi superfici del mare e della terra, il vento d’Africa
spira tumultuosamente senza trovar ostacoli; Roma è la prima resistenza
ch’ei trova per ora, onde s’aggira in vortice intorno ai sette colli,
e direbbesi che a quell’urto le case scrollino dalle fondamenta. Le
nubi si addensano le une sulle altre, siccome montagne sovraposte da
un Titano, fino alla sommità della volta celeste. Ed in breve più non
formano che una massa compatta, che oscura la luce del giorno. Quindi
si spalancano quelle nubi siccome cataratta, ed ecco un torrente
fitto, uniforme, inestinguibile si scatena allora fragorosamente sulla
città. Il vento continua a spirare, accumula nuove nubi, e riempie di
nuovo i serbatoj atmosferici, prima che siano vuotati. Qualche volta
il tuono si fa compagno, e l’acqua, il vento, i lampi, le scosse che
fanno traballare la mia stanza, mi rendono perfetta imagine d’una nave
sbattuta dalla procella.

Talora l’uragano minaccia, passa e scompare senza lasciar traccia,
siccome un re che fosse atteso in una città, e che non vi si fermasse
che il tempo di cambiare i cavalli.


Si bussa alla porta del mio osservatorio: è una visita. È persona
sensata e spiritosa, sebbene non vada esente da pregiudizj
aristocratici. S’installa, forma sigaretti di tabacco turco, fuma una
buona mezz’ora senza dir sillaba.

La sua conversazione mi ha recato piacere e paura in pari tempo,
offrendosi d’insegnarmi tutto quanto sa intorno all’Italia, ma in pari
tempo mi sfida a scrivere un libro che abbia il senso comune.

«Se mi credete, disse egli, consacrerete tre o quattro mesi nello
studiare Roma, senza osservare nè quadri, nè rovine, nè nulla di
quanto gli stranieri vengono qui a vedere. Voi senza dubbio non
avete l’intenzione di ripetere ciò che tutti i viaggiatori hanno
scritto; e d’altronde l’Italia contemporanea non ha nulla di comune
coll’antichità, col medio evo o col rinascimento. Limitatevi all’esame
delle instituzioni, de’ costumi e de’ caratteri; ne avrete per molto
tempo, se cercate la verità. Studiatevi di veder tutto da voi; non fate
conto nè sui Francesi nè sugl’Italiani per aver notizie, chè i Francesi
osservano poco, e la divisione militare occupante, di cui ho l’onore
di far parte, non si compone di filosofi. Noi Francesi vi diremo molto
bene o molto male degl’Italiani, a norma della casa dove ciascuno di
noi è alloggiato. Vi diremo anche qualche sciocchezza. Uno de’ nostri
soldati, parlando ad un Italiano, e furibondo per non essere inteso,
esclamava mostrandogli il pugno: «E che? poltrone! Sono oramai nove
anni che noi siamo qua, e tu non sai ancora il francese?» Noi tutti, di
tratto in tratto, ricadiamo nel ragionamento di questo soldato. Parlate
cogl’italiani nella loro lingua, quand’anche sapessero esprimersi
nella vostra. La nobiltà romana, cominciando dal papa e dal cardinal
Antonelli, sa il francese quasi così bene come voi; epperò anche il più
dotto Italiano, quando non parla la sua lingua, non è del tutto nel
proprio elemento. E d’altronde perchè vorreste privarvi del piacere
di ascoltare questa bella lingua armoniosa? Venire in Italia per
conversare in francese, è come andare all’opera senza sentir la musica.
Passeggiate a piedi per le strade, e badate di non conoscere la strada;
il caso vi condurrà nei luoghi migliori.

Se entrate in una chiesa, non osservate solamente ciò che v’è; ma
osservate eziandio ciò che vi si dice e ciò che vi si fa. Impegnate
la conversazione con tutti coloro che incontrerete. Non siete già
in Inghilterra: non istate ad aspettare d’essere presentato ad un
muratore per poterlo interrogare. Parlategli, e vi risponderà. Non vi
garantisco che vi abbia a dire la verità, nè egli nè altri: chè tutti
gl’italiani, ricchi e poveri, sono diffidenti per natura, essendo stati
quasi sempre ingannati. Non vi sarà agevole il cavare un sì od un no
dai vostri interlocutori. Non istate a scoraggiarvi se vi si guarda con
inquietudine, e se vi si dà una risposta evasiva quando dimanderete che
ora è.

«La società romana è divisa in tre classi: nobiltà, plebe e ceto medio,
che si move fra le due. La nobiltà è ospitaliera, e vi riceverà, se
lo bramate: ma v’è poco a dire. I principi della Chiesa ed i principi
romani hanno da lungo tempo rinunciato al sistema del nipotismo e del
cicisbeismo. I cardinali sono poveri, e le più nobili signore vanno nel
mondo senza amante.

«La plebe è più interessante da studiarsi, ma è già nota per gli studj
degli artisti. Essi s’abbatterono nel lato pittorico de’ costumi,
mentre andavano in traccia del pittorico de’ volti e delle foggie.

Il ceto medio è quello che inspira maggior interesse ed è meno
conosciuto. Si stende ben lontano, abbracciando tutto che non è nobile
nè mendico, da più modesti mercanti del corso, fino agli antichi
ministri del 1848. Tutti gli avvocati, i medici, gl’impiegati e lo
stesso ministro, quando per avventura non appartenga alla prelatura,
formano parte di questo mondo intermediario, che non ha alcun contatto
col grande. È il ceto medio che lavora, progredisce, si agita e
minaccia. Esso ha fatto la rivoluzione del 1849, potrebbe far meglio,
potrebbe far peggio, essendovi molto a sperare e molto a temere da
gente siffatta. Dove li trovereste? Vivono tra loro, in casa loro;
buona parte di essi passa metà dell’anno nei campi, e chiamansi
mercanti di campagna. Coltivano le terre de’ grandi signori, pagano
fitti enormi, e fanno fortuna, senza darsene il vanto. Mi si accerta
che parecchi di costoro sono assai intelligenti ed onesti, ma dubito
che la loro compagnia vi sia aggradevole, poichè hanno poche idee
comuni da scambiare con voi. Supponendo che il vero mondo vi permetta
di frequentare quello là; supponendo che il medio mondo consenta a
ricevervi, vi sarà più che difficile di frequentarli entrambi alla
volta; chè essi non fanno nulla nel medesimo modo, nè nelle ore
medesime.

«Nondimeno voglio supporre che abbiate la pazienza, il talento
e la felicità necessaria per approfondire la società romana: non
avrete ancora fatto grandi passi. Roma è città d’eccezione, che non
rassomiglia a verun’altra; nè convien giudicare l’Italia su quello
stampo, e nemmanco lo Stato romano. È un saggio magnifico, ma la pezza
è d’altra stoffa.»

— Non importa, risposi. Cominciamo dal conoscer Roma. Parmi che se
esco di qua a mia gloria, il resto procederà da sè e mi costerà pochi
sforzi.»




II.

LA PLEBE.


I nobili stranieri che visitarono Roma in calesse conoscono poco, o
male, il piccol mondo di cui sto per parlare. Si ricordano d’essere
stati importunati da facchini chiassosi e da mendicanti instancabili,
non videro altro che mani aperte per ricevere, non intesero che voci
stridule per chiedere l’elemosina ad alte grida.

Dietro questo sipario di mendicità si celano ben centomila persone
pressochè indigenti, senz’esser oziose, e che guadagnano a stenti
il loro pane quotidiano. I giardinieri ed i vignajuoli che coltivano
parte della cerchia di Roma, gli operaj, i manovali, i domestici, i
cocchieri, i modelli, i merciajuoli girovaghi, i vagabondi onesti,
che aspettano per cenare un miracolo della Provvidenza, ovvero un
terno al lotto, compongono la maggioranza della popolazione. Vivono
discretamente d’inverno, quando gli stranieri seminano la manna
sul paese; si stringono poi le visceri d’estate. Molti sono troppo
fieri per dimandarvi cinque soldi; ma nessuno è abbastanza ricco da
rifiutarli, se gli vengono offerti. Ignoranti e curiosi, ingenui
e perspicaci, suscettibili all’eccesso senza soverchia dignità,
prudentissimi d’ordinario e capaci delle più sanguinose imprudenze;
fanatici nella devozione e nell’odio; facili a commoversi, difficili
a convincersi; più accessibili ai sentimenti che non alle idee; sobrj
per abitudine, terribili nell’ubbriachezza; sinceri nelle pratiche
di divozione la più eccessiva, ma prontissimi benanche ad irritarsi
contro i santi siccome contro gli uomini; persuasi che hanno poco a
sperare sulla terra, confortati di tempo in tempo dalla speranza d’un
mondo migliore, vivono in una rassegnazione alquanto ringhiosa, sotto
un governo paterno che loro dà del pane quando ne ha. L’ineguaglianza
delle condizioni, più evidente a Roma che a Parigi, non gli stimola
punto all’odio.

Si sono accomodati alla modestia della loro condizione, si rallegrano
che vi siano de’ ricchi, affinchè il povero possa trovare de’
benefattori. Nessun popolo è meno capace di guidarsi da sè; e perciò
il primo arrivante può agevolmente condurlo. Costoro rappresentarono
la parte di comparse in tutte le rivoluzioni di Roma, più d’uno si è
ben battuto senza comprendere la commedia che si rappresentava. Essi
credevano sì poco alla repubblica, che in assenza di tutte le autorità,
allorquando il santo padre ed il sacro Collegio si erano rifuggiti
a Gaeta, ben trenta famiglie plebee si erano accampate in casa del
cardinale Antonelli senza rompervi un bicchiere. Il ristabilimento
del papa sotto la protezione d’un esercito straniero non gli ha per
nulla sorpresi: essi l’aspettavano siccome un felice avvenimento ed il
ritorno della tranquillità pubblica. Vivono in pace coi nostri soldati,
quando questi non s’intromettano nelle loro famiglie, e l’occupazione
non li contraria, se non allorquando ne sono personalmente incomodati;
e non temono d’immergere il loro coltello nell’uniforme d’un
conquistatore, ma potrei accertare ch’essi non celebreranno mai de’
Vespri siciliani.

Si vantano di discendere in linea retta dai Romani della Roma antica
gloriosa, e cotesta innocente pretensione mi sembra assai bene fondata.
E di vero essi sono divoratori di pane, e avidissimi di spettacoli;
trattano le loro donne siccome fantesche, non lasciano loro l’arbitrio
d’un centesimo, e fanno la propria spesa essi medesimi: ciascun d’essi
è cliente del cliente d’un patrizio. Sono ben tarchiati, robusti, e
capaci di dare un colpo di collare, che sbalordirebbe i buffali; ma
non ve n’ha alcuno che non studii la maniera di vivere senza lavorare.
Operaj eccellenti quando non posseggono un soldo, impossibili a
rintracciare quando hanno in tasca uno scudo; buoni diavoli, famigliari
e semplici di cuore, ma convinti della loro superiorità sul resto degli
uomini; economi all’ultimo segno, finchè trovino un’occasione solenne
di divorare in un giorno le loro economie, raccolgono, soldo a soldo,
dieci scudi nell’anno per prendere a nolo il palco d’un principe nel
carnevale o per mostrarsi in carrozza alla festa dell’Amor Divino:
ed è così che la plebe di Roma dimenticava il passato e l’avvenire
nei Saturnali. L’imprevidenza ereditaria da cui sono padroneggiati
si chiarisce per l’irregolarità de’ loro mezzi di sussistenza, la
periodicità degli scioperi, e l’impossibilità di giungere senza
miracolo ad una condizione superiore. Mancano loro non poche virtù, e
tra le altre la delicatezza, la quale però non entrava nel retaggio de’
loro antenati.

Ciò che loro non manca è la conservazione ed il rispetto di sè stessi.
Essi non si abbandonano nè alle basse facezie, nè agli abbietti
bagordi. Non li vedrete mai insultare gratuitamente un signore che
passi per via, o slanciare una parola sconcia in faccia ad una donna.
Cotesta classe d’uomini vili, che chiamasi canaglia, è qui affatto
sconosciuta: i tratti ignobili non sono merce romana.

Ho passata l’intera giornata d’jeri nel mondo plebeo; era domenica.
Mentre scendeva la scala dell’Accademia, ho incontrato un frate
questuante, vera plebe della Chiesa. Ei mi salutò cortesemente,
ignorando ch’io fossi della casa, e soffermossi per aprirmi la sua
tabacchiera.

«Mille grazie, gli dissi, non prendo tabacco».

Risposemi egli sorridendo: «Tanto peggio!»

— E perchè?

— Perchè se aveste accettato la mia presa, mi avreste regalato qualche
soldo, pel mio convento».

Sorrisi anch’io, e gli dissi: «Ciò non fa caso. Vi darò ciò che
vorrete, ma ad una condizione.

— Dite.

— Che mi conduciate fino alla piazza Farnese, rispondendo alle mie
interrogazioni.

— Volentieri; non ho più nulla a fare prima di asciolvere.

— Ho portato or ora qui l’ultima mia insalata.

— Quale insalata?

— Quella che sta sera mangerà il direttore dell’Accademia.

— E che! reverendo, voi vendete l’insalata!

— No, ma ne dono ai benefattori del nostro ordine. L’Accademia, siccome
tutte le grandi case, ci fa un’elemosina al mese, ed in ricambio di tal
bontà noi le portiamo un’insalata ogni domenica».

Strada facendo mi narrò tutte le piccole professioni ch’egli esercitava
gratuitamente, a vantaggio dei benefattori dell’ordine. Strappava i
denti con certa destrezza, prestavasi per modello degli artisti per
la testa e la barba; seguiva col cereo in mano i funerali de’ grandi
personaggi. Il mestiere di questi frati mendicanti non è già d’essere
oziosi: essi sono famigliari ed amici dei piccoli, umilissimi e
devotissimi servi de’ grandi, il popolo gli ascolta volentieri perchè
sono popolo. Predicano nel Colosseo, sulle piazze, nelle strade, in
lingua veramente del volgo, colla mano sui fianchi, ed alla buona di
Dio. Se qualche parolona può dare più di nerbo alla loro rettorica,
essi la slanciano con tutta naturalezza. «Ecco come siamo noi altri,
dicevami il mio compagno di passeggio: non siamo dotti; non conosciamo
nè telegrafo, nè gaz, nè vapore; ma ne sappiamo abbastanza per dare un
buon parere.»

Una vecchia gli si fece incontro chiamandolo per nome. «Padre» gli
disse «il mio terno non è sortito. Datemene un altro. È sabbato a
mezzodì che si fa l’estrazione di Roma».

Ei la respinse colla mano, dicendole: «Andate a spasso! Non sarebbe
egli meglio, quando per caso aveste dieci soldi, di comprare un pane
ed una bottiglia di vino, che vi darebbe forza, anzichè perder tutto al
lotto?»

La vecchia rispose: «Scusatemi. Quando avrò mangiato il pane e bevuto
il vino, la fame e la sete mi nasceranno subito; mentre che, col mio
viglietto in tasca, io sono ricca fino a sabbato».

Il cappuccino le volse le spalle senza aprir bocca.

«Signore, mi disse, ripigliando i passi ed il discorso, non si può
levar di mente a coteste creature, che noi abbiam mano in pasta nella
lotteria. Se volessi fabbricare de’ terni per tutti coloro che me ne
dimandano, non me ne rimarrebbe più veruno per me».

M’accinsi ad interrogarlo sui redditi del suo ordine e su quanto un
cappuccino può procacciarsi in un giorno. A ciò egli rispose ad un bel
circa come il ciabattino di Lafontaine: «Or più or meno. Altre volte,
mi disse egli, io era in un convento di Tivoli, mendicava nelle case
de’ contadini, e riceveva le elemosine in natura. In questo genere di
viaggio, bisogna portarsi ben lontano e sudar molto per guadagnar poco.
Faceva quattro questue all’anno nell’ordine delle raccolte. Nel primo
viaggio riceveva del grano e dei bozzoli; nel secondo del formentone
e delle fave; nel terzo del vino, e nel quarto dell’olio. In ogni
villaggio il benefattore del nostro ordine mi offriva l’ospitalità
e custodiva la mia piccola provvista, che veniva poi ritirata
dall’economo del convento. A Roma le elemosine che ci si danno sono
quasi sempre in danaro. Quando sono invitato da un pittore a far da
modello, mi viene data una mercede per seduta. Quando strappo un dente,
le persone generose mi regalano una moneta di dieci soldi; quando seguo
un convoglio funebre di qualche gran signore, ricevo cinque soldi ed
una candela di cera; allorchè un artista desidera la mia bella corona
del rosario fatta di bosso, è ben di rado ch’io non ritorni al convento
con uno scudo. Da ultimo, quando impiego il mio scarso ingegno per uno
straniero pio e caritatevole, sono ben certo ch’ei porrà venti soldi
nel salvadanajo che qui vedete».


La mendicità è, e deve essere florida nella capitale del mondo
cristiano. Non la si può nè intendere, nè frenare, essendo essa un
invito perpetuo ad esercitare una delle virtù cardinali. Ogni appello
alla carità vi è permesso fino dai primi tempi della Chiesa; lo zoppo
ha diritto di mostrare ai passaggieri la compassionevole nudità delle
sue gambe. I Romani, stimolati da ogni parte, soddisfanno tutti,
nell’esercizio de’ loro mezzi, al precetto dell’elemosina. Ricchi e
poveri danno molto; e senza dubbio l’ostentazione prende parte nella
pratica d’una virtù sì costosa, ma la bontà naturale del popolo vi si
presta spontaneamente.

Di tutti i mendicanti che pullulano nella città, i più onesti e
più utili sono senza dubbio i frati questuanti. Ma si dà per certo,
che essi hanno la cattiva abitudine di entrare dovunque senza farsi
annunciare, di penetrare _ex abrupto_ nelle stanze posteriori delle
botteghe, e mendicare con tuono di autorità che imbarazza i timidi ed i
piccoli.


Ritorniamo, se vi piace, alla piazza Farnese, dove mi ha lasciato
il mio dispensatore d’insalata. I viaggiatori che sono bramosi di
contemplare la mole imponente del palazzo Farnese, la sua cornice
disegnata da Michelangelo e le due belle fontane che zampillano
dinanzi alla facciata, possono farvisi condurre in ogni tempo; ma è
alla mattina che io preferisco di recarmivi. La domenica è il giorno
in cui i contadini arrivano a Roma. Quelli che cercano l’impiego delle
loro braccia vengono ad accordarsi cogli affittajuoli per lavorare a
giornata. Quelli che sono già in servizio, e lavorano fuori delle mura,
vengono a fare i loro affari e rinnovare le loro provvigioni. Entrano
in città allo spuntar del giorno dopo aver camminato buona parte della
notte. Ogni famiglia mena un asino che porta il bagaglio. Uomini, donne
e fanciulli, spingendo l’asino davanti a loro, vanno a prostrarsi in un
angolo della piazza Farnese o della piazza Montanara. Per un privilegio
speciale le botteghe vicine restano aperte fino a mezzodì. Si va, si
viene, si compra, poi v’ha chi si accoscia in un angolo per contare
le monete di rame. Intanto gli asini si riposano sulle loro quattro
gambe vicino alle fontane. Le donne vestite d’una giubba a foggia di
corazza, d’un grembiale rosso e d’una veste rigata, incorniciano la
loro faccia con un panneggiamento di stoffa candidissima. Esse sono
tutte, senz’eccezione, da dipingere; quando non è per la bellezza dei
loro lineamenti, lo è per l’eleganza ingenua dei loro atteggiamenti.
Gli uomini hanno il mantello lungo cilestre ed il cappello acuto; al
disotto i loro abiti di lavoro spiccano meravigliosamente abbenchè
logori dal tempo e diventati color di pernice. Il costume non è tutto
uguale; si vede più d’un mantello color d’esca rappezzato d’azzurro
vivace o di rosso simile alla robbia. Il cappello di paglia abbonda
in estate. La calzatura è assai capricciosa; scarpe, stivali e
sandali calpestano successivamente il selciato. Quegli scalzi trovano
qui vicino delle botteghe grandi e profonde ove si vendono delle
robe usate. Vi sono delle scarpe d’ogni sorta di cuojo, e di tutte
le epoche: in questi tesori della calzatura frugandovi bene vi si
troverebbero forse dei coturni dell’anno 500 della repubblica. Ho
testè appunto veduto un povero diavolo che provava un pajo di stivali a
trombini. Dessi vanno bene alle sue gambe come una piuma all’orecchio
di un porco; ed era un piacere il veder le smorfie che faceva ogni
volta che posava il piede a terra; ma il mercante lo confortava con
buone parole, dicendogli: non aver paura, tu soffrirai per cinque o
sei giorni, e poi non ci penserai più. Un altro mercante vende dei
chiodi a peso; l’avventore li conficca lui stesso nelle sue suole,
al qual uopo vi sono dei banchi appositi. Lungo i muri cinque o sei
sedie di paglia servono di bottega ad altrettanti barbieri all’aria
aperta. Si paga un soldo per tagliare una barba di otto giorni; il
paziente, tutto impiastricciato di sapone, volge gli occhi al cielo
con aria rassegnata; il barbiere gli tira il naso, gli mette le dita
nella bocca, s’interrompe per affilare il rasojo sopra una coramella
attaccata alla spalliera della sedia, o per morder via un pezzetto di
focaccia biscotta che pende dal muro. Eppure l’operazione è fatta in un
momento; lo sbarbificato si alza, e il suo posto è già occupato da un
altro. Potrebbe andare a lavarsi alla fontana, ma trova più semplice di
asciugarsi col rovescio della sua manica.

Gli scrivani pubblici si alternano coi barbieri. Si portano loro le
lettere che si sono ricevute; le leggono e vi fanno la risposta. Spesa
totale, tre soldi. Appena un contadino si avvicina alla tavola per
dettare qualche cosa, cinque o sei curiosi si riuniscono officiosamente
intorno a lui per sentir meglio. Vi è una certa bonarietà in questa
indiscrezione, chè ognuno vi mette la sua parola, ognuno dà un
consiglio. Dovresti dir questo. — No — dì piuttosto quello. — Lascialo
parlare, grida un terzo, egli sa meglio di te ciò che vuole far
scrivere.

Alcune vetture cariche di focaccie biscotte d’orzo e melgone girano
in mezzo alla folla. Un venditore di limonea munito d’una molla di
legno, spreme i limoni nei bicchieri. L’uomo sobrio beve alla fontana
facendo un acquedotto coll’ala del suo cappello. Il ghiotto compera
delle vivande passate in seconda mano ad un banco, ove si rivendono a
spizzico gli avanzi delle cucine. Per un soldo, il venditore riempie di
manzo pesto e di ossa di costoline un brandello di giornale vecchio; un
pizzico di sale aggiunto al tutto condisce mirabilmente la mercanzia.
Il compratore mercanteggia non sul prezzo, che è invariabile, ma sulla
quantità; egli prende dal mucchio alcune bricciole di carne e lo si
lascia fare, poichè nulla si conclude a Roma senza tirarsi di prezzo.

Gli eremiti ed i frati passano di gruppo in gruppo questuando per le
anime del purgatorio. A me pare che questi poveri operaj facciano il
loro purgatorio in questo mondo; e che sarebbe meglio dar loro del
denaro piuttosto che loro chiederne, eppure ne danno e senza farsi
tirare per le orecchie.

Talvolta un bel parlatore si diverte a raccontare una storia; si fa
cerchio intorno a lui, e a misura che l’uditorio s’ingrossa, egli alza
la voce. Io ho visto dei narratori che avevano la fisonomia dilicata e
ben contenta, ma non conosco nulla di più piacevole dell’attenzione del
loro pubblico. I pittori del quindicesimo secolo avranno sicuramente
preso sulla piazza Montanara i discepoli che essi aggruppavano intorno
al Cristo.


La musica mi toglie alla conversazione e corro. Voi sapete forse
che si sente pochissima musica a Roma. La gente del popolo vi canta
altrettanto falso quanto gli Ateniesi, ed è lo stesso suono nasale.
Qui mi trovo dinanzi un chitarrista cieco, un violinista guercio ed
una vecchia _prima donna_ di strada che fanno tanto fracasso come
due organetti di Barberia. Ho comperato la loro canzone, poichè
essa è stampata con superiore autorizzazione. Potrei tradurvela da
un capo all’altro, ma indovinerete la storia quando avrete letto
l’intitolazione:

                              CASO TRAGICO
                          SUCCESSO A BORGOGNA
                                 TOLTO
                      DALL’ISTORIA DI MARGHERITA,
                       REGINA DELLA DETTA CITTÀ.

È superfluo l’aggiungere che si tratta della Torre di Nesle, in
italiano Torre di Nesler. Coloro che credono che Firenze sia in
Inghilterra, perchè gl’Inglesi vengono da Firenze; coloro che domandano
quale dei due sia più grande, se la Francia o Parigi non avranno fatica
a persuadersi che Margherita era regina di una città chiamata Borgogna,
e che suo marito l’ha strangolata l’anno scorso.


Ne ridevo ancora, quando scôrsi presso un banco, ove i mozzi di sigari
si vendono all’ingrosso, un contadino di quarant’anni suonati che
piangeva senza dir motto, nè asciugare gli occhi. Era d’una bruttezza
piuttosto volgare, ed il suo dolore non lo abbelliva. Due o tre uomini
della sua età raccolti intorno a lui procuravano di consolarlo; ei
teneva in mano una lettera aperta. Io mi avanzai verso di lui e gli
domandai che avesse, imperocchè l’indiscrezione di questa buona gente
è contagiosa. Egli mi ascoltò con un’aria stupida senza rispondere;
ma uno de’ suoi vicini mi disse: È una lettera che ha ricevuto da sua
madre.

— Ebbene?

— Ella è morta.

— Imbecille! essa non è morta, perchè scrive.

— Oh signore, interruppe il paziente, è come fosse morta. Leggete
piuttosto.

Mi porse la lettera, e la lessi ad alta voce lentamente, perocchè era
scritta male e piena di errori d’ortografia, ma di uno stile e di una
rassegnazione antica. Il povero diavolo che si era fatto decifrare
quella triste notizia da uno scrivano della piazza, ripeteva meco
ogni parola con un dolore tranquillo e profondo, e le sue lagrime
continuavano a cadere. Ecco ciò che sua madre gli scriveva:

«Figlio mio, io vi scrivo queste righe per farvi sapere che ho
ricevuto il viatico e l’estrema unzione. Affrettatevi di ritornar qua,
affinchè vi veda ancora una volta prima di morire. Se tardaste troppo
trovereste la casa vuota di me. Vi saluto teneramente e vi mando la mia
benedizione materna.»

Che ne dite? Ma io non credo che le eroine dell’antica Roma avrebbero
avuto maggior coraggio dinanzi alla morte! E non crediate già che
questo coraggio sia eccezionale, chè i Romani ravvisano la morte
naturale come un debito da pagare; essi non amano tutto ciò che può
anticiparne la scadenza. Dicono con una ingenuità assai originale:
Io non voglio bagnarmi nel fiume, vi si annega; io non voglio montar
a cavallo, si cade; io non voglio andar alla guerra, vi si ricevono
delle palle. Ma allorquando la vecchiaja o le malattie fanno loro segno
di partire, essi hanno ben presto chiuso la loro borsa da viaggio. Vi
racconterò in proposito delle cose curiose, quando saremo al capitolo
della morte, e vedrete che vi sono delle buone lezioni da prendere in
questo paese.

Ho restituito al mio contadino la lettera di sua madre sdrucciolandogli
nelle mani uno scudo; ei non ha pensato nemmeno a dirmi grazie, e si è
rimesso a considerare attraverso le lagrime quel doloroso scritto che
non sapeva leggere.


Allorchè il cannone del castello di Sant’Angelo ha suonato mezzogiorno,
gli angoli della piazza Montanara erano ingombri di gente che dormiva.
Ogni famiglia forma un mucchio di cenci magnifici, ove un pittore trova
sempre da copiare. I barbieri e gli scrivani pubblici incominciano
ad incrociarsi le braccia, le taverne delle vicinanze si vuotano; i
fornaj, che aveano sempre avuto folla tutta la mattina, si spopolano, e
finalmente si fa un po’ di silenzio dopo tanto rumore. Ma se un prete
viene a passare col corteggio che accompagna il viatico, tutti quelli
che dormono si svegliano di soprassalto, e col cappello in mano si
mettono in ginocchio.


Ho abbandonato la piazza Montanara per fare una visita al Ghetto, ma
non chiedetemi quale strada abbia preso. Vi ho avvertito che io non
sapevo mai la mia strada. Mi pare che la piazza Farnese sia piuttosto
vicina alla cancelleria, ove cadde il povero conte Rossi. Credo esser
sicuro che la piazza Montanara è all’incirca a piedi della Rocca
Tarpeja; il Ghetto costeggia il Tevere in qualche parte; vi sono poche
contrade diritte in Roma, tranne fra il Corso e la piazza di Spagna.
Tutti i rettifili sono a zig-zag, e bisognerebbe demolire metà della
città per tracciarvi una strada di Rivoli. Il Tevere che non ha sponde
abitate serpeggia sì capricciosamente che lo s’incontra dappertutto.
Si scorge la sua acqua gialla, qui attraverso una porta, là nel vano di
una finestra. Voi credete d’avergli volto la schiena! tutt’altro, egli
è là davanti a voi. Cercate una barca, o un ponte, e troverete l’una e
l’altro.

Mercè il sistema ch’io pratico, impiego spesso una mezza giornata a
scoprire la casa ove ho a fare, ma gl’incontri nella strada compensano
il tempo perduto. Ciò che fa di Roma la città più amabile del mondo, e
la migliore da abitare, è che vi si trova sempre del nuovo. I vecchi di
cento anni che non ne sono giammai usciti vi fanno delle scoperte alla
loro porta. La complicazione delle strade, il mistero dei quartieri
aggiungono ad ogni scoperta il prestigio dell’improvviso. Io comincio a
gustare questa leccornia romana che si chiama l’incerto. L’incertezza
è qui la gran molla degli uomini; quanti ve ne sono che non agiscono
che nella speranza dell’incerto! Un domestico preferisce lasciar
diffalcare cento franchi dal suo salario di un anno anzichè rinunziare
ai quaranta o cinquanta franchi di buona mano che compongono l’incerto
delle sue rendite. Un cocchiere non vi conduce già per i quaranta soldi
della corsa, ma per i cinque o sei soldi di mancia che non è certo di
ottenere. Che cos’è la lotteria se non il tempio dell’incerto? allorchè
vengo accostato nelle strade di Roma, io sono quasi sempre nel caso
di rispondere come Esopo: «Non so dove vado.» Però io non manco mai
d’andare al Ghetto perchè lo sento da lontano.


Prima d’ingolfarmi nelle sue strade e nei suoi odori, ho cura di far
colazione. È un’operazione non tanto facile a Roma per mancanza di
trattorie. Vi sono bensì le _tables d’hôte_ dei grandi alberghi e tre
confetturieri, che danno da mangiare quando a loro piace; ma tutti
si trovano intorno alla piazza di Spagna, ed io ne sono ben lontano.
Per bacco, dissi fra me stesso, postochè sono nella plebe fino al
collo, asciolverò alla plebea, e la prima bottega di frittura sarà
il mio trattore. Trovai bentosto quanto mi abbisognava. Alla svolta
della strada, una gran bottega ai quattro venti offriva alla mia
scelta dieci montagne dorate in gran piatti di rame stagnato, coperti
d’inscrizioni gotiche. In una padella enorme bolliva a due passi la
mercanzia; era calda e crocante. Presi una michetta dal fornajo vicino,
un bicchiere di limonata alla fontana la più prossima; dei pesci
fritti, dei carcioffi fritti e delle frittelle, mi composero un pasto
delizioso. Non ho forse mai meglio asciolto a Roma, perchè la frittura
si fa nell’olio, senz’alcuna mistura di quel burro forte che avvelena
tutto. O magnifici armenti della campagna romana, grandi vacche bianche
ombreggiate di grigio, qual burro si fabbrica col vostro latte! Le
cuoche di Parigi dicono che gli spinacci sono la morte del burro; a
Roma, è il burro che è la morte degli spinacci!




III.

IL GHETTO.


Io avevo lavato le mani alla fontana e le asciugavo al sole, allorchè
un mormorio di voci nasali attrasse la mia attenzione. Mi lasciai
guidare dal romore, e giunsi in breve davanti ad una di quelle
innumerevoli madonne, che la divozione dei Romani ha Incastrato
in tutte le muraglie. Quattro uomini del popolo, tre vecchi ed uno
giovane, in ginocchio nella polvere, col naso rivolto verso il muro,
baciavano divotamente le litanie della Vergine. È qui che il rispetto
umano non molesta alcuno, e che le anime cristiane si curano poco dei
pettegolezzi della gente[3].

Un po’ più lontano trovai la strada inondata nel mezzo. Due
manovali lavoravano ad una pompa per tirar l’acqua da una cantina.
Le inondazioni sono altrettanto frequenti a Roma quanto son rari
gl’incendj. Le case non bruciano quasi mai, perchè gli appartamenti
sono grandi e poco ammobigliati e perchè raramente vi si accende fuoco,
fors’anche perchè il piano terreno è inumidito da quelli che passano.
Il terreno sotto la città è attraversato in tutti i versi da migliaja
d’acquedotti che alimentano le fontane private e pubbliche. Le montagne
dei dintorni mandano le loro limpide acque a Roma per la via più
diretta e ciò fino dall’antichità, giacchè la sabbia liquida del Tevere
non è mai stata potabile. L’acqua abbonda sì nelle proprietà private
come sulle piazze pubbliche. Essa si presenta tal fiata in masse sì
imponenti, che rende imagine di torrenti versati nei laghi, come alla
fontana Paolina e alla fontana Trevi. Se Napoli è sur un Vulcano, Roma
è su mille fiumi. Allorchè torno un po’ tardi all’Accademia, io non
sento che il rumore dell’acqua in mezzo al più profondo silenzio; ma
gli acquedotti sono soggetti a delle eruzioni, e quest’è il motivo per
cui vi sono dei pompieri nella città.


Sono entrato nel Ghetto dalla piazza delle Sinagoghe; ve ne sono
cinque installate in due case per i quattro riti in cui si divide la
popolazione israelita. Noi abbiamo il rito italiano, il portoghese, il
catalano ed il siciliano. Le sinagoghe sono pulite e modeste; le loro
parrocchie sono sporche ch’è un orrore.


È certo che l’edilità pubblica lascia molto a desiderare nella capitale
del mondo cristiano. Vi è troppo permesso di lordare nelle strade,
e v’è troppo poca cura di spazzarle. Le finestre vi si aprono troppo
spesso per lasciar cadere delle cose orribili; la quantità di pannilini
che vi si fanno asciugare lungo le case ed i palazzi fanno credere
agli stranieri che si entri nella capitale della lavanderia; ma questi
sono gigli e rose, quando si ritorna dal Ghetto. Nella città cristiana
la pioggia lava le strade, il sole dissecca le immondizie, il vento
porta via la polvere, ma non vi è nè pioggia nè vento nè sole che possa
nettare il Ghetto: abbisognerebbe per purificarlo un’inondazione o un
incendio.

Avrete forse inteso parlare della smania di riproduzione che possede
la razza romana: non s’incontra una donna che non abbia almeno un
fanciullo sul braccio. Ma al Ghetto è tutt’altra cosa. I ragazzi vi
nascono come i funghi ed ogni famiglia compone una tribù. Se devesi
credere all’ultimo censimento, v’erano 4196 Ebrei in questa valle
di fango. Vivono nella strada in piedi, seduti, coricati in mezzo
ai cenci: bisogna ben guardare dinanzi a sè per non commettere un
infanticidio ad ogni passo. Il tipo è brutto, il colorito livido, la
fisonomia degradata dalla miseria. Eppure questi disgraziati sono
intelligenti, atti agli affari, rassegnati, facili a vivere e di
costumi irreprensibili.


L’esistenza di una colonia di Ebrei, a pochi passi dalla sede
apostolica, è un anomalia curiosa. Sarebbe più curioso ancora
ch’essa avesse prosperato, ma ciò non è. Il Ghetto è povero, e vado
a dirvi perchè è povero e lo sarà sempre. Un ebreo non può essere nè
possidente, nè affittajuolo, nè industriale; può vendere della roba
nuova e della roba vecchia; gli è permesso di accomodare la vecchia per
farne della nuova. Ma violerebbe la legge, se fabbricasse una sedia,
un gilet ed un pajo di scarpe. Rinchiusi nel loro commercio gli Ebrei
riescono qualche volta a far fortuna, ma emigrano subito verso un
paese ove le leggi siano più dolci, ed un popolo che li disprezzi meno.
Essi trasportano i loro beni a Livorno: di mano in mano che i privati
s’arricchiscono, il Ghetto s’impoverisce.

Non è già che il governo sia crudele e nemmeno severo. La severità
sta nelle leggi antichissime che il progresso dei costumi e la bontà
del papa correggono un poco tutti i giorni. Il sangue degli Ebrei non
è scorso a Roma durante il medio evo, allorchè inondava la Spagna e
le sue provincie. Il papato conservava gli Ebrei come saggio di un
popolo maledetto, che deve trascinare una vita miserabile fino alla
consumazione dei secoli; si limitava a tenerli ad una certa distanza,
ad umiliarli e spogliarli. Si rinchiudevano nella valle Egeria a più
di due miglia dalla porta San Lorenzo, a più d’una lega dalla città
abitata. Era ben lontano; verso il quattordicesimo secolo, si mitigò
tal rigore e fu loro permesso di abitare il Trastevere. Fra il 1555 e
il 1559 fecero un nuovo passo. Paolo IV gli stabilì al Ghetto. Le porte
della loro prigione si chiudevano tutte le sere, alle dieci e mezzo
in estate, ed alle nove e mezzo nell’inverno. Se qualcuno ritornava
dopo l’ora, non era mai senza pagare la compiacenza del soldato di
guardia. I proprietarj delle case che abitavano erano cattolici
ferventi oppure comunità religiose, che ritenevano fare un’opera
pia scorticandoli senza pietà. Quest’abuso eccitò la compassione
d’Urbano VIII, che credette fare un atto di giustizia e di previdenza
fissando una volta per sempre i prezzi delle pigioni. Tale casa sarà
affittata dieci scudi, tal’altra quindici, mediante un’investitura
di enfiteusi perpetua trasmissibile alla più remota posterità; e
mediante dieci scudi il proprietario sarebbe tenuto a far eseguire
tutte le riparazioni necessarie. Urbano VIII è morto or sono duecento
trentaquattro anni, e la sua bolla imprudente ha sempre forza di legge.
Ne consegue che le pigioni sono aumentate in tutto l’universo, fuorchè
nel Ghetto. Gl’inquilini israeliti vivono letteralmente a spese dei
loro padroni di casa. Me ne fu mostrato uno che è mantenuto da un
convento di Orsoline. Ha in affitto per trenta scudi una casa delle
più grandi e delle più adatte per commercio; ei la subaffitta quindici
volte tanto, vale a dire quattro cento cinquanta scudi. E siccome
il fabbricato non è nuovo, così le Orsoline devono spendere tutti
gli anni cento scudi in riparazioni. Esse sono ridotte a procedere
giudizialmente contro un inquilino sì oneroso, affinchè si accontenti
di tenere a pigione la casa per niente senza pagar fitto, ma senza
pretendere le riparazioni. Il mio Ebreo si difende come un diavolo; la
sua investitura è il patrimonio dei suoi figli, la dote di sua figlia!


Dal 1847 in poi le porte del Ghetto sono demolite, ed alcuna
barriera visibile non separa più gli Ebrei dai Cristiani. Essi sono
autorizzati dalla legge, se non dai costumi, a spargersi nella città,
e ad alloggiare ove loro piace. Taluni si lamentano vedendo che
i proprietarj de’ bei quartieri non vogliono o non osano dar loro
a pigione; si lagnano di essere costretti a restituire in secreto
le libertà che furono loro accordate in pubblico: essi accusano il
governo pontificio di rimpiangere troppo vivamente i beneficj del
1847. Essi domandano il ristabilimento di quelle porte che li rendevano
interessanti, assicurando la loro tranquillità per tutta la notte. I
più saggi d’Israello prendono filosoficamente il loro partito, godono
della semi-gratuità delle pigioni, della modicità delle imposte,
dei beneficj d’un alto protettore straniero che introduce qualche
articolo secreto in loro favore in tutti i trattati di finanza; essi
si sovvengono in fine che, se il purgatorio è a Roma, il paradiso è a
Livorno.

Egli è ancora sotto il regno di Pio IX che Israello ha cessato di fare
le spese del carnevale. Nel medio evo lo pagava colla propria persona;
la municipalità dava al popolo lo spettacolo di una corsa di Ebrei.
Benedetto XIV vi surrogò de’ cavalli liberi che corrono meglio senza
confronto; ma tal cambiamento costò ottocento scudi all’anno al popolo
ebreo. I principali del popolo andavano a portare la somma in gran
cerimonia a casa del Senatore che li riceveva senza complimenti.

— Chi siete voi?

— Ebrei di Roma.

— Non vi conosco; andatevene! A questo discorso così affabile il primo
magistrato municipale aggiungeva inoltre, dieci anni sono, un gesto co’
piedi.

— L’ambasciata così allontanata, se ne andava da uno dei conservatori
della città. «Chi siete voi?»

— Ebrei di Roma.

— Che cosa domandate?

— Noi imploriamo umilmente da Vostra Signoria il favore di dimorare qui
ancora per un anno.

Si accordava loro la permissione, condita da alcune ingiurie, e
in segno di riconoscenza essi offrivano i loro ottocento scudi che
si degnava di prendere. Il sovrano gli ha affrancati dalla spesa e
dall’umiliazione.


Eccone un’altra, da cui non sono ancora esentuati. All’avvenimento di
ogni papa, i deputati del popolo ebreo si collocano sul passaggio del
santo padre vicino all’arco di Tito. Il papa domanda loro che cosa
fanno là. Essi presentano una Bibbia dicendo «Noi chiediamo la grazia
di offrire a Vostra Santità un esemplare della nostra legge». Il papa
accetta dicendo: «Legge eccellente, stirpe detestabile».

Vedrete all’ingresso del Ghetto, in capo al ponte delle quattro Teste,
una chiesetta dove gli Ebrei erano costretti di venire, ogni sabbato
dopo pranzo, in numero di cento cinquanta. Un predicatore, pagato da
essi, regalava loro una buona diatriba contro la loro ostinazione. I
centocinquanta uditori erano puntuali, ed a ragione, perchè la loro
comunità avrebbe dovuto pagare uno scudo per ogni testa assente. Un
vecchio ebreo di mia conoscenza dicevami jeri: «Per venticinque anni,
signore, non ho mancato una volta al sermone». Ma questo popolo ha dura
cervice, nè lo si può costringere a conversione. Pio IX ha dispensato
gli Ebrei dall’omelia, e la chiesuola è diventata deserta; si è tentato
di farvi predicare l’abbate Ratisbonne, ma nessuno volle andarvi a
sentirlo.

Eppure ogni anno, al sabbato santo, si fa una conversione. Il
battistero di Costantino si spalanca a due battenti dinanzi ad una
vecchia ebrea, che guadagna ottanta scudi ed il paradiso. Il popolo
di Roma però non presta troppa fede alla sincerità dei catecumeni: «È
adesso, egli dice, che gli Ebrei si fanno Turchi».


Riepilogando, gli Ebrei di Roma non sono più nè racchiusi di notte,
nè multati nel carnevale, nè catechizzati loro malgrado, e cotesto
triplice beneficio lo debbono a Pio IX: sono amministrati dai loro
notabili ed invigilati dai loro rabbini. Se alcuno di essi manca alla
legge del sabbato, il cardinal vicario lo condanna, è bensì vero, alle
galere, ma a norma di richiesta del rabbino. Nelle inondazioni del
Tevere la municipalità romana fa loro portar de’ viveri, ed usa loro
l’attenzione delicata di mandar loro vivande apprestate a norma del
rito ebraico. Nè si dimentichi che buon numero di essi sono alimentati
dai proprietarj delle loro case. Pagano per tassa generale 450 scudi
da cinque franchi, i quali, ripartiti fra circa 4500 persone, formano
qualche cosa più di 50 centesimi per testa. La contribuzione non è
grave; eppure dopo il 1848 rifiutano di pagare anche questa.

L’origine di questo balzello merita d’essere fatta conoscere. Due o
tre secoli fa, un ebreo si convertì, entrò nel convento de’ neofiti
e nel silenzio della sua cella scrisse un libello contro i proprj
correligionarj, accusandoli, fra l’altre cose, di mangiare dei bambini.
Ora questo suo zelo fu ricompensato, imponendosi al Ghetto di pagare
450 scudi di rendita allo scrittore che sì bene gli aveva dipinti. Il
Ghetto pagò, e la rendita del monaco, com’è naturale, fu devoluta al
tesoro del convento. Ma il neofito, che non era eterno, venne a morire;
onde il convento, che aveva goduto quella somma, e l’aveva trovata
vantaggiosa, non volle rinunciarvi. «È forse colpa nostra, dissero i
frati, se il nostro confratello è morto? Noi l’abbiamo assistito per
bene. Questo reddito era sua sostanza, e noi siamo i suoi eredi. E poi
gli Ebrei hanno preso l’abitudine di pagare questi 450 scudi all’anno,
e Roma è una città d’abitudine».

Attualmente gli Ebrei pretendono che, non avendo pagato nel 1848,
ne hanno perduto ad un tratto l’abitudine, e per nulla al mondo
s’indurrebbero a ripigliarla. Dopo lunghe contestazioni tra essi ed il
convento, il papa finalmente permise loro di liberarsi del passato e
dell’avvenire mediante un quarto della somma reclamata; ma gli Ebrei
fanno il sordo, e preferirebbero non pagar nulla affatto.

Se accettano le condizioni loro offerte, saranno in progresso esenti da
ogni tassa, al pari de’ gentiluomini.


Saranno forse più felici? Chi lo sa? Ho riferito in buona fede tutto
quanto Pio IX aveva fatto in loro vantaggio, ma non posso dissimulare
che la popolazione Israelita va rapidamente decrescendo negli Stati
della Chiesa. Essa era, nel 1842, di 12700 persone sotto il rigido
Gregorio XVI. Undici anni dopo, nel 1853, sotto il paterno regno di Pio
IX, era diminuita di più d’un quarto, e caduta sotto la cifra di 9237
anime.

Cotesta spaventosa diminuzione d’una stirpe naturalmente feconda non
può spiegarsi altrimenti che per l’emigrazione. Ho dimandato notizie,
e venni chiarito, che difatti gli Ebrei disertavano gli Stati del papa
appena che potevano ottenere un passaporto e pagare il viaggio.

Gli sciagurati non vollero, o piuttosto non osarono dirmi qual fosse
la causa che gli scacciava. I più coraggiosi mi supplicarono di non
scrivere nulla in loro favore, se non volevo aggravare i mali onde sono
travagliati. In somma credetti d’aver compreso, che la tolleranza del
governo attuale era unicamente alla superficie, ed ecco un fatto che
convalida la mia ipotesi. Un ebreo di Roma campava la vita coltivando
la terra. Per violare la legge in modo sì flagrante aveva bisogno
d’un complice, onde trovò un cristiano, il quale, mediante un premio,
consentì di prestargli il proprio nome. Ma la canaglia delle vicine
terre non istette lungo tempo ad ignorare che le messi appartenevano
ad un ebreo, onde si pose a saccheggiarle; ed in quello spoglio del
frumento e grano turco dell’ebreo ciascuno credeva far opera meritoria.
Il derubato non osava nè lamentarsi, nè difendersi; ma ben a proposito
si risovvenne che i Francesi erano in Roma, e che esercitavano certa
autorità. Ricorse dunque al generale Goyon per ottenere il favore
di far giurare una guardia, che all’occorrenza avesse a stendere il
processo verbale.

Il conte Goyon, a parte la politica, è un uomo eccellente. Ebbe pietà
di quell’ebreo, e promise di ottenere ciò che dimandava. Anzi fece di
più: andò in persona dal cardinal Antonelli.

Questi non dissimulò ch’era cosa mostruosa il far prestare giuramento
ad un cristiano nell’interesse d’un ebreo. Però, siccome non si poteva
rifiutar nulla al più saldo appoggio della santa Sede, così fu promesso
non solamente di dare una guardia giurata, ma ben anche di sceglierla.

Si prese tempo per fare la scelta; un po’ di tempo, circa un trimestre.
Il saccheggio intanto continuava, l’ebreo non osava più dir parola, ed
il generale, persuaso d’aver fatto una buona azione, dormiva pacifico.
Un bel mattino, una voce timida venne a svegliarlo; dicendogli che non
s’era fatto nulla. Partì rapidamente, e corse di nuovo al Vaticano.
L’autorità, messa alle strette, non osò più resistere, accordò la
guardia promessa; e la nomina fu fatta a tamburo battente. Il generale
Goyon la recò egli stesso, e la consegnò vittoriosamente al proprio
protetto.

L’ebreo proruppe in ringraziamenti, siccome Mosè al capitolo XV
dell’Esodo. Mancò poco che non bagnasse di lagrime il nome benedetto
della guardia che gli si dava. Ma era il nome d’una persona ignota,
scomparsa già da sei anni, e di cui non si aveva più traccia.

Che potevasi fare? Tornar dal generale? Lagnarsi una terza volta?
Dimostrare ad un galantuomo, ad un personaggio rispettabile, che le
autorità romane si erano corbellate di lui? L’ebreo vi pensò veramente.
Ma la polizia, che non dorme giammai, gli ordinava di rimanere in
casa sua, di vivere in pace e contento, sotto minaccia delle pene più
severe.

Quando per avventura i nostri ufficiali l’incontravano, gli dicevano:
«Or bene, voi avete quanto vi occorre. Le vostre messi sono poste al
sicuro. Siete in debito d’una grazia all’esercito francese!» Ed egli
ringraziava prudentemente, sorrideva per necessità, e se ne andava a
piangere in disparte.


Non voglio qui ripetere la storia del fanciullo Mortara. Essa dimostra
che gli uomini più esercitati a dare lo spettacolo della tolleranza
dimenticano qualche volta la loro parte.


Il fatto del signor Padova, meno conosciuto, meritava non minore
celebrità. Sebbene l’abbia già narrato molto tempo fa, non posso
trascurare quest’occasione per ripeterlo.

Il signor Padova, negoziante israelita di Cento, provincia di Ferrara,
aveva moglie e due figli. Un commesso cattolico sedusse la signora
Padova; ma, sorpreso e scacciato dal padrone, fuggissene a Bologna,
dove l’adultera lo raggiunse, traendo con sè i due figli.

Il marito corse a Bologna, e chiese che gli si rendessero almeno i
proprj figli. L’autorità gli rispose che i suoi figli erano battezzati,
non meno che la madre loro, e che perciò eravi un abisso tra lui e la
sua famiglia. Tuttavia gli venne accordato il diritto di pagare una
pensione, colla quale vissero tutti, compreso l’amante della signora
Padova. Alcuni mesi più tardi egli potè assistere al matrimonio della
sua legittima consorte col commesso che l’aveva sedotta. Chi benediceva
le nozze officiando era nientemeno che S. Em. il cardinal Oppizzoni,
arcivescovo di Bologna.


Mi fu riferita la storia d’un ebreo che dalla sua religione seppe
ricavare il più singolar beneficio. Aveva commesso un delitto, quasi
inaudito presso gli Ebrei de’ tempi nostri, aveva cioè assassinato,
e la vittima era suo cognato. La cosa era evidente, ed il fatto
comprovato. Ora ecco la ragione di difesa che venne impiegata dal suo
avvocato:

«Signori, d’onde procede che la legge punisce severamente gli uccisori,
e va talora fino a colpirli colla morte? Egli è che, assassinando
un cristiano, se ne ammazza in pari tempo e il corpo e l’anima. Si
manda al cospetto del giudice supremo una creatura non bene preparata,
che non si è peranco confessata dei suoi falli, che non ne ha quindi
ricevuta l’assoluzione, e che precipita diritta in inferno, od almeno
in purgatorio. Ed ecco perchè l’uccisione d’un cristiano non è mai
soverchiamente punita. Ma che abbiamo noi ucciso? Null’altro, o
signori, che un miserabile ebreo, già predestinato alla dannazione.
Se anche gli fossero stati concessi cento anni per convertirsi,
abbastanza è nota l’ostinazione della sua stirpe, egli sarebbe morto
senza confessione come una bestia. Abbiamo pur troppo, ne convengo,
anticipato d’alcuni anni la scadenza della giustizia celeste; abbiamo
per ciò affrettato un’eternità di pene, che presto o tardi non gli
poteva mancare; ma via, siate indulgenti per una colpa veniale, e
riserbate la vostra severità per coloro che attentano alla vita ed alla
salute d’un cristiano».

Cotesta perorazione sarebbe assurda e ridicola a Parigi; ma era logica
a Roma, dove il reo potè trarsi d’impaccio con alcuni mesi di carcere.


Gli Ebrei sono tollerati in parecchie città dello Stato romano ed in
alcuni villaggi. Abitano in Roma, Ancona, Ferrara, Pesaro, Sinigaglia.
È in Roma che sono trattati con maggior dolcezza; mentre in Ancona,
nell’anno passato, fu rimessa in vigore dal delegato un’antica legge
che proibisce ai cristiani di conversare in pubblico cogli Ebrei.

Il popolo minuto li disprezza, ma non gli odia. Ho veduto un ragazzo
di quindici anni accostarsi ad un vecchio ebreo, dargli un colpo sul
cappello, sicchè glielo cacciò fino sugli occhi, ma non gli avrebbe
fatto alcun male. Ho inteso un contadino dire ad un ebreo: «Voi altri
siete ben fortunati; voi non temete la morte di apoplessia (senza
confessione), poichè non avete, come noi, un’anima da salvare».

I frati, i preti, e generalmente tutto il clero inferiore, circolano
nel Ghetto senza ostensibile ripugnanza; ma il papa, i cardinali, i
vescovi ed i semplici monsignori sono esclusi da questo luogo impuro,
chè degenererebbero dalla loro casta ponendovi il piede.

Però gli ecclesiastici romani pongono molta differenza fra gli Ebrei ed
i Protestanti: se pei primi hanno un po’ di disprezzo, nutrono contro
gli altri un odio implacabile. E n’è causa, che gli Ebrei sono i vinti,
ed i Protestanti sono i ribelli. La Chiesa non ha dimenticato quel
gran principio di politica romana, che Virgilio aveva condensato in un
solo verso, di cui il concetto è _risparmiare i vinti, e debellare i
superbi_.

Permettetemi di citare un fatto all’appoggio del mio asserto. Un
israelita di Parigi, che era venuto a vedere la settimana santa,
aveva preso alloggio in una casa privata. Alcuni giorni dopo Pasqua,
ricevette la visita d’uno dei preti incaricati di raccogliere i
viglietti di confessione e di denunciare alla giustizia chiunque avesse
violato il comando della Chiesa. «Perdonate, signore, rispose l’Ebreo
aprendo la sua porta, io non sono cristiano.

— È Luterano il signore? chiese il prete con più civiltà che tenerezza.

— No, signore; Israelita.

— Ebbene! meno male».


Egli è certo che gli Ebrei, per grande che sia la loro fortuna,
conservano al cospetto della santa sede un’attitudine rispettosa; nè
mai le prestano denaro senza domandarle perdono della gran libertà che
si prendono. Per lo contrario i Protestanti fanno un po’ ostentazione
della loro eresia. Vi è sempre a Pasqua, nella cappella Sistina,
qualche inglese di gigantesca statura, che se ne sta ritto sulle sue
gambe in mezzo alla folla inginocchiata. Lo si potrebbe inutilmente
sradicare, chè ripullulerebbe l’anno appresso.


Ma rientriamo in Ghetto. Questa finestrella, al terzo piano d’una
casa orribile, in una delle vie più luride del quartiere, è celebre
nelle scherzose tradizioni dell’Accademia di Francia. È costume che
i nuovi pensionisti paghino il loro buon ingresso con una giornata di
grandi noje e di mistificazioni talora un po’ forti. Si narra che un
giovane compositore israelita fu avvertito arrivando che avrebbe ad
alloggiare al Ghetto. «Tu potrai mangiar qui, gli fu detto, poichè noi
siamo in un luogo d’asilo; ma bisogna dormire in mezzo al tuo popolo:
su questo proposito la legge romana è inesorabile!» Ei pranzò coi
camerati, e dopo le frutta fu condotto nell’appartamento che era stato
preso a nolo per esso. I mobili erano stati scelti appositamente per
far orrore all’uomo meno dilicato; se il letto posava su tre piedi,
era già di soverchio. L’albergatrice era distinta pel sucidume più
ributtante; però promise al giovane inquilino che lo avrebbe curato
siccome un figlio ed avrebbe per esso mille riguardi. È appunto in
questa prospettiva, dicesi, ch’ei si coricò; e la notte fu sì cattiva,
che il giorno appresso ei parlava di ritornare in Francia. Lo scherzo
però non fu spinto più in là, onde il giovane rientrò all’Accademia,
nella sua stanza legittima, e non vi perdette il tempo. Ma chi sa, se
in progresso, quand’egli scrisse la bella _partizione della Giudea_, le
memorie del Ghetto non gli siano ritornate in mente?


Gli abitanti del Ghetto fanno tutto in istrada, come già si è detto:
forse perchè le loro case non sono sicure. Ciò che ho veduto del loro
interno non mi ha inspirato nessun desiderio di penetrarvi. Mi terrò
pago d’attraversare il quartiere in tutti i sensi, ed ecco in qual
modo m’inizio alle costumanze di questa popolazione. Nella settimana
li veggo vendere e comprare, lavorare pazientemente colle loro mani,
mangiar poco e male. Il regime vegetale cui sono condannati dalla
miseria, aggiunto alla rarità dell’aria respirabile, impoverisce il
loro sangue, e fa deperire la loro salute. Benchè vicini al Tevere,
essi vanno soggetti alla febbre meno che gli abitanti de’ paesi più
elevati; poichè non è già l’acqua del fiume, ma sibbene i miasmi della
campagna apportati dal vento che avvelenano i Romani. Al sabbato
cotesti poveri Ebrei si vestono con abiti festivi per invadere le
sinagoghe. Jeri, ch’era domenica, trattarono affari fino a tre o
quattro ore dopo mezzodì; ma ben presto le botteghe semiaperte si
rinchiusero per intero; il popolo prese la sua ricreazione. Ho trovato
nell’angolo d’ogni via una tavola circondata da dieci a dodici persone
de’ due sessi, con un giuoco di tarocchi nel mezzo. Non sono abbastanza
scienziato per penetrare il mistero di queste carte da zingari, cui il
popolo minuto di Spagna e d’Italia correntemente sa spiegare. Ciò che
ho osservato si è che non v’era denaro sui tavoli, e che nullostante
insorgevano litigi ad ogni tratto.

Credetti un momento che nascesse un parapiglia generale a proposito
d’un asso di spade o d’un sette di bastoni. Uno dei giuocatori gettò
in viso al suo avversario le carte di tarocchi; l’altro rispose
gettandogli il gesso di cui si serviva per segnare i punti. Le
donne s’intromisero fra i combattenti, ma non si potè impedire che
si pigliassero pei capelli. Tutta la contrada prese parte bentosto
alla baruffa, ciascuno parteggiando pei proprj parenti, ed in un
batter d’occhi quelli de’ quartieri vicini affluirono sul campo
di battaglia. I disputanti si scagliarono ingiurie in un dialetto
per me inintelligibile, e gli Italiani, attirati dal rumore, non
vi comprendevano gran cosa. Tuttavia in capo ad un quarto d’ora
tutto ritornò in calma, e poscia seppi che tutto questo tumulto
erasi suscitato per mezzo soldo. Non ridete della somma: conosco
un professore di mandolino, che diede diciassette coltellate al suo
miglior amico per una discussione di cinquanta centesimi.

Mi allontanai colla testa sbalordita. In vita mia non aveva mai inteso
tanto fracasso, tranne forse all’uscita del teatro di Pera, quando la
popolazione delle strade si abbandona a lotte urlanti co’ morsi. Ma
quelle battaglie notturne di Costantinopoli non sono d’uomini.

La mia giornata doveva finire al Transtevere, nel quartiere più romano
di Roma. La popolazione che abita al di là del Tevere è senza dubbio
la più maschia, la più fiera, la più ombrosa e la più onesta della
città. È anche la più bella e la più pittorica: e non s’è detto nulla
d’esagerato in sua lode. I Transteverini hanno senza dubbio lo spirito
meno pronto e meno agile degli abitanti dei monti, ma posseggono
maggior lealtà e coraggio.

Mi sono smarrito per istrada, ed invece d’arrivare al Ponte Rotto, che
m’avrebbe condotto nel cuore del Transtevere, mi ritrovai in mezzo ai
magazzini di fieno ed alle chiese che circondano la Bocca di Verità.
Que’ magazzini erano nel loro migliore aspetto: quaranta carri simili a
montagne quadrate arrivavano in fila, tratti da’ buoi. Sotto l’ultimo
carro vedevasi il buon Sant’Antonio, protettore degli animali. Non ho
veduto nulla di più sano, di più bello e di più odoroso che questi
fieni della campagna di Roma, e non è scarso piacere l’incontrare
in seno ad una grande città i lavori, i costumi e gli odori delle
campagne. Quando Roma non sarà più la prima città del mondo, sarà
ancora il villaggio più pittorico dell’universo.

Cotesta Bocca di Verità, che ho testè nominato, è una curiosa reliquia
del medio evo, serviva ai giudizj di Dio. Figuratevi una ruota di
mulino che somiglia ad un viso di luna: vi si distinguono degli
occhi, un naso ed una bocca aperta, dove l’accusato poneva la mano
per prestare giuramento. Questa bocca mordeva i mentitori, almeno per
quanto la tradizione l’attesta. Vi ho introdotto la mia destra, dicendo
che il Ghetto era un luogo di delizie, e non sono stato morsicato.

È presso la Bocca di Verità, dinanzi il piccolo tempio di Vesta, non
lontano dalla Fortuna Virile, che la giustizia romana manda al patibolo
un assassino sopra cento. Quand’io giunsi sulla piazza, non vi si
ghigliottinava nessuno; ma sei cuciniere, di cui una bella al pari di
Giunone, danzavano la tarantella al suono d’un tamburo da banda. Per
mia sfortuna esse indovinarono ch’io era straniero, e si misero a fare
la polka contro tempo. Fuggii quindi a tutte gambe, e caddi sul ponte
che andava cercando.




IV.

IL TRANSTEVERE.


Il Ponte Rotto è un’opera antica, di cui il Tevere portò via ben due
terzi, e che Pio IX provvisoriamente fece riparare. Un parapetto di
legno, sospeso a fili di ferro, lo congiunge alla sponda sinistra. Si
può fermarsi qualche minuto su quel tremulo impalcato, che la vista
è bella non meno che sul ponte dell’Instituto. Il sole si nasconde
all’in su del fiume dietro la cupola di San Pietro, mentre gli obliqui
suoi raggi si riflettono sull’acqua del fiume che si fa color d’oro.
L’isola sacra si disegna siccome nave fra due ponti che l’uniscono
alla città. Aveva altre volte la forma ed il colore d’una galleria di
marmo; ma i suoi ornamenti se ne sono iti, non so dove. Le case elevate
che fiancheggiano il Tevere sono tappezzate di fichi e di ellera,
ovvero sono cinte da terrazze di limoni in fioritura. Dall’altro lato,
scendendo il fiume, vedete a sinistra l’enorme bocca della cloaca di
Tarquinio: più in su, la graziosa rotonda di Vesta; più in alto ancora,
i conventi, i giardini e le pergole che incoronano il monte Aventino.
A dritta, il Trastevere, che osserverete più davvicino, se mi fate
l’onore di venire a pranzo da me.

Non temete nulla, che non mangeremo troppo male, e non saremo mangiati.
Nella sera si darà forse più d’una coltellata, poichè è giorno festivo;
ma noi godremo dello spettacolo senza correre alcun rischio. Vedete
uomini robusti come tori e non meno irascibili, che scagliano un pugno
colla facilità con che da noi si tracanna un bicchiere d’acqua, e
che nol danno mai senza avere una lama in mano. La polizia non verrà
intorno a noi per proteggervi, chè essa è sempre assente. D’altronde se
offendeste uno di que’ robusti bravacci, ei vi ammazzerebbe anche tra
le braccia de’ gendarmi. Ma voi potete andare e venire in mezzo a loro,
spender molto, pagar in oro, far risuonare la vostra borsa, ed escire
dopo mezza notte nelle vie più oscure, senza timore che venga in mente
ad alcuno d’attentare al vostro danaro. Anzi, può dirsi meglio: questa
gente vi accoglierebbe volentieri e si ristringerebbe per farvi posto.
Non ci osserverebbe come bestie curiose, si presterebbe anzi molto
cortesemente alla nostra curiosità, purchè non sia impertinente. Non
abbiamo a temere che il vicino gli ecciti a provocarsi a liti, ma guaj
a noi, se per disgrazia ci facciamo noi a provocarle! Non hanno il vino
aggressivo, ma lo hanno suscettibile. Il loro amor proprio di osteria
non perdona un’offesa nemmeno involontaria, se questa ha potuto esporli
alle burle de’ loro compagni. Quando vedrete una donna col proprio
marito, od una fanciulla col padre, tenete gli occhi a casa vostra! È
spesso imprudente l’osservare le Transteverine di sottecchi, e potrei
citare più d’un curioso, che ebbe a pagarlo colla vita. Entriamo?
Esitate? Ebbene, addio; entro soletto.

Però non prima d’aver letto quel piccolo cartello che sta inchiodato
sulla porta:

«Fratelli dilettissimi, astenetevi dalle bestemmie e pensate:

«1.º Che Dio vi vede;

«2.º Che Dio vi giudicherà su tutte le vostre parole, e specialmente
sulle bestemmie;

«3.º Che Dio è capace di castigare col fuoco questa lingua, che vi è
stata data per benedirlo e non per offenderlo.»


Il cartello poteva aggiungere senza mentire, che in questo mondo la
bestemmia è talora punita più severamente che non l’assassinio. In un
villaggio delle vicinanze di Roma, due contadini hanno peccato in un
medesimo giorno. Uno ha scagliato una maledizione contro la Madonna,
l’altro ha avvelenato sua madre: il tribunale condannolli entrambi alle
galere, ma il parricida ha scontato la sua pena, ed al bestemmiatore
rimangono ancora degli anni.

Ho trovato l’osteria affollata, chè essa è delle più celebri e più
frequentate. Non vi si va solamente per bere, siccome ne’ piccoli
siti d’egual natura, ma eziandio per mangiare. Anzi il padrone si
spaccia per cuoco, e darebbe una buona coltellata nella pancia a colui
che l’accusasse di lasciar bruciare le frittate. La sua clientela si
compone di cocchieri e d’artisti calzolaj, artisti fonditori, artisti
maniscalchi, artisti filatori di lana. Non vi sono operaj a Roma che
non prendano il nome d’artista, lo che è considerato come un’ingiuria
da pittori e scultori. L’ultimo copiatore di quadri, il minimo
modellatore, il più cattivo suonatore di violino, andrebbe in collera
e diventerebbe tutto rosso se gli diceste che è un grande artista.
«Signore, direbbe seriamente, io sono professore!»

In questi ultimi giorni volevo far attaccare un bottone ad uno
stivaletto. Feci chiamare la moglie di un domestico e le chiesi se
si sentiva capace d’intraprendere un tal lavoro. «Io, mi rispose ella
ringalluzzandosi, io sono figlia dell’arte: mio padre era calzolajo!»

Gli artisti che vengono qui alla domenica, non vi compajono negli
altri giorni della settimana. Essi si nascondono nei loro tugurj per
bere dell’acqua e mangiare dell’insalata. Ma la domenica, quando hanno
economizzato alcuni soldi, reputano ad onore di mostrarsi all’osteria
e di provare all’universo che spendono del danaro. Essi ragionano
all’incirca come i nostri giovinotti della Borsa, che vanno a pranzare
una volta la settimana dal trattore il più caro dei boulevard, affinchè
si vedano entrare ed uscire.

Mi sono seduto a capo di un banco dinanzi ad uno di que’ tavoloni
massicci che circondano la gran sala. La bettola è selciata come
la strada, e quasi altrettanto male scopata; i muri sono dipinti
a traliccio senza alcuna decorazione. La cucina occupa una delle
estremità della sala ed il guattero porta di tanto in tanto una fascina
di canne per tener vivo il fuoco nella stufa. Due lampade a due becchi
illuminano modestamente tutto il recinto, ed una terza arde dinanzi
alla madonna.


Si sente poco rumore in questa assemblea di cinquanta a sessanta
persone. I miei vicini a destra sono cinque giovinotti della stessa
età che sembrano compagni di officina; il colore delle loro mani e
certe tacche mi fanno supporre che lavorino in ferro. Quegli che si
è ritirato per farmi sedere è certamente uno dei più begli uomini che
si possano vedere qui; grande e ben fatto, dal volto lungo, l’occhio
umido, la bocca piccola, le labbra rosse, il naso leggermente curvo, la
barba fina come la peluria d’un cigno nero, rassomiglia piuttosto ad un
tenore dell’opera che ad un garzone di fabbro. I suoi compagni non sono
tutti della stessa stoffa, e vedo proprio in faccia a lui una figura di
_bull-dog_, che non mi piace molto; ma un’allegria franca e tranquilla
presiede al loro piccolo pasto. Il mio bel vicino mi ha presentato un
bicchiere invitandomi a bere; vi ho immerso le labbra per provare che
io conosceva gli usi di Transtevere, e che ero un uomo bene educato.

Alla mia sinistra la tavola vicina è occupata da gruppi svariati, che
non posso discerner bene con una luce torbida e stretta parente della
notte. Vedo bene due giuocatori seduti uno in faccia all’altro; essi
sono vestiti da carrettieri. Vi è un po’ di denaro al giuoco, forse tre
o quattro scudi in moneta spicciola. Il più vecchio dei due avversarj
non deve essere in vena, dacchè getta ogni carta sul tavolo con un
colpo di pugno che lo fa traballare; l’altro guadagna senza ridere
e senza parlare, e beve a centellini. Un po’ più lontano un mugnajo
del Tevere, fatto come l’Ercole Farnese, cena lautamente con sua
moglie e sua figlia. La madre è grossa e triviale, la figlia è bella,
bianca come una Venere. I suoi capelli neri legati in grosse ciocche,
sono tutto ciò che ha in testa. Le fanciulle di Roma, non portano
nè berretto nè cappello; la natura le ha acconciate caldamente per
l’inverno. La mia bella mugnaja in ricambio è un po’ sopraccaricata di
gioje: soltanto colla sua collana e co’ suoi orecchini si pagherebbero
i balzelli della repubblica di S. Marino. Un bel fazzolettino di
merletto s’incrocia sul suo petto, è la moda di Trastevere. Ma la
gonna è forse più gonfia che non si richiederebbe, la crinolina giunge
in barca per guastarci il costume nazionale. È un piacere il vedere
come la madre e la figlia vuotino un bicchier di vino che il padre ha
empito fino all’orlo. I Romani allorchè escono dalle loro abitudini
di sobrietà sono i più formidabili bevitori di tutt’Europa: vi sono
poche Romane che non siano in caso di star a petto agli uomini. La
Trasteverina la più vezzosa assorbirebbe la razione di dodici marinaj,
e non vacillerebbe minimamente lasciando la tavola. È vero che hanno
dei piedi, e che piedi!


Mi perdonerete se dopo questo primo colpo d’occhio intorno alla mia
tavola, la mia attenzione si è concentrata un istante sulla cena che
mi venne servita. Avevo corso tutto il giorno, avevo asciolto sui due
piedi e nel vostro stesso interesse dovevo ristabilire le mie forze.
Ventre affamato non ha più nè occhi nè orecchie, ed un osservatore a
digiuno vi riferirebbe poche cose.

Dapprima mi s’imbandì l’insalata che è il fondamento d’ogni cena
romana: poscia un pezzo di manzo stufato che vi farebbe venir
l’acquolina in bocca, se potessi trovar della poesia nel suo odore
e nella sua broda. Un _gigot_ di capretto è venuto in seguito con
un piatto di piselli. Il piatto di mezzo era composto d’una rotella
di formaggio dolce, fritto in padella, ed ebbi per frutta un gran
piatto di fragole di Albano, squisite in verità. Ecco come si cena
all’osteria per una quarantina di soldi; è vero che negli alberghi e
nei pasticcieri la cucina è altrettanto cara quanto detestabile. Il
vino a Roma non è buono in nessun sito, ma è ancora all’osteria ove si
beve meglio. È alquanto chiaro, limpido, e color d’oro: lo si serve in
bottiglie di vetro bianco leggiere come il soffio, e fragili come la
virtù.


I miei vicini a destra avevano finito di cenare molto prima di me, ma
siccome non avevano finito di bere, così il bel fabbro ha proposta
una _passatella_; che è un giuoco proibito, ma nella città di Roma
niente è permesso e si fa tutto. Ciascuno dei convitati ha dato quattro
soldi e l’oste ha portato cinque fiaschi di vino in mezzo alla tavola.
Ognuno il suo scotto è un motto romano che ho tradotto in francese.
Si estrasse a sorte per sapere a chi toccasse tutto il vino pagato in
comune, e quale dei cinque commensali sarebbe il _padrone del vino_.
Ma nei _pique-nique_ moderni la dignità reale degenera sovente in
tirannia, e provoca delle rivoluzioni sanguinose. Il padrone del vino
fu il mio vicino, il bel fabbro. I privilegi del suo grado consistevano
primieramente in bere fino a sazietà, prima di darne una goccia agli
altri; ed in secondo luogo a scegliere un ministro, che empirebbe ora
un bicchiere ora un altro sempre a beneplacito del re, e non mai senza
il suo consenso.

Pare che il nostro vicino dal muso di _bull-dog_ non fosse molto in
favore, mentre due volte porse il bicchiere per domandare da bere, due
volte il ministro prese una bottiglia per versargli del vino, e due
volte pure il principe leggiadro prese piacere a dire: «Ei non beverà».
sono io che beverò, Ministro, amico mio. Eccellenza del mio cuore, ecco
il bicchiere che bisogna empiere. E si rideva. Il _bull-dog_ era il
signore della trista figura. Aveva pagato, la gola gli pruriva, il vino
gli passava sotto al naso, e i suoi amici si burlavano di lui.

Il vino fu ben presto esaurito ed il _bull-dog_ che aveva da prendere
la sua rivincita propose lui stesso una seconda _passatella_. Che
io sia il padrone del vino! diss’egli al bel fabbro, e vedrai se te
ne do una goccia. — E che cosa m’importa! rispose l’altro ridendo
sgangheratamente, tu vedi bene che non ho più sete. Sete o no, la sorte
gli fu ancora favorevole, e la disposizione del vino gli toccò una
seconda volta. Il _bull-dog_, mezzo serio, mezzo ridente, gli disse:
abbiamo scherzato abbastanza! ci ho messo otto soldi della mia tasca, e
spero che ora mi lascerai bere? È mestieri, replicò il mio bell’amico,
accontentarsi di poco e talvolta di nulla. Sei tu cristiano, sì o no?
esercitati dunque alla virtù della pazienza.

Siccome questi signori parlavano ad alta voce ed i loro vicini si
scompisciavano dalle risa, così l’attenzione di tutta l’osteria si
volse insensibilmente verso di loro. La bella mugnaja gettò un’occhiata
sulla nostra tavola, senza chiedere il consenso dei suoi genitori. I
nostri sguardi s’incontrarono due o tre volte, e credo anzi ch’essa mi
sorridesse francamente con quella facilità delle fanciulle d’Italia,
che si avrebbe gran torto d’interpretare sinistramente.


Il solo uomo che non avesse l’occhio alla _passatella_ era il vecchio
giuocatore della tavola vicina. La fortuna delle carte s’ostinava in
apparenza contro di lui, perocchè dopo cinque o sei giuocate imprudenti
a doppia posta, aveva messo al giuoco il suo orologio d’argento per
perdere tutto o riguadagnar tutto. Prima di levare le carte, andò ad
inginocchiarsi dinanzi alla Madonna dell’osteria, e la supplicò di
restituirgli tutto ciò che avea perduto, con qualche piccolo guadagno,
promettendo di dividere il dipiù con lei e di portare una grossa torcia
di cera alla chiesa di S. Agostino. Intanto il suo avversario si faceva
prudentemente il segno della santa croce, e borbottava senza moversi
dal suo posto una contro-preghiera alla stessa Madonna. La partita
fu animata, ed io la seguii con attenzione. Il vecchio carrettiere
la perdette come tutte le altre. Si alzò da tavola, calcò il suo
cappello sulla testa e ritornò a portarsi in faccia all’imagine che
aveva adorata. Io credeva che si mettesse ad ingiuriare la Madonna,
ma qualche cosa lo trattenne e fece piombare tutta la sua collera sul
divino infante che essa portava nelle braccia. «Miserabile bambino, gli
gridò, ben fece Giuda a venderti». — Così consolato, se ne andò. Il suo
avversario raccolse il suo denaro e l’orologio, domandò un altro fiasco
di vino che bevette lentamente, esaminò la punta del suo coltello,
si fermò all’uscio dell’osteria per vedere se nessuno lo aspettava di
fuori, e partì.


Una terza _passatella_ s’era impegnata alla mia destra e la sorte
caparbia avea ancora favorito il mio bel vicino. Il _bull-dog_ ebbro di
sete e di dispetto gli diceva delle parole ingiuriose, di cui quegli
non faceva che ridere. Egli rispondeva scherzando alle maledizioni
del suo nemico, ed oso dire ch’erano di peso. Ecco un saggio di quelle
litanie:

«Faccia da cane!

«La forca a’ tuoi morti!» vale a dire possano i tuoi antenati esser
periti per la mano del boja!

«Possa tu morire d’accidente a freddo!» L’accidente semplice è
l’apoplessia; l’accidente a freddo è una coltellata.

«E tu, rispondeva il mio vicino, tu morrai d’un accidente a secco».

Questo scherzo provocò un’ilarità generale e il _bull-dog_ ne ebbe un
raddoppiamento di collera.

Io avevo scambiato tanti sguardi colla bella mugnaja che noi eravamo
divenuti, malgrado la distanza, buoni amici. Ella mi fece una cortesia
più diretta, mandando sua madre a chiedermi un bicchier d’acqua di
cui non ve n’era che sulla mia tavola. Mi affrettai di offrirle la
bottiglia e ricevetti due ringraziamenti in una volta. La giovane mi
sorrise più dolcemente che mai, e suo padre mi fece degli occhiacci
terribili.


Più vicino a me il _bull-dog_, stanco di esser oggetto di risa, s’era
ritirato brontolando. Gli altri miei vicini lo seguirono ben presto
e dissi loro addio, non senza offrir loro quattro sigari di fabbrica
romana, un po’ insipidi ma ben fatti e facili da fumare. Il bel fabbro
mi porse la mano ed io gliela strinsi di buon cuore; senza sapere che
non avesse più che due minuti da vivere.

I posti vacanti allato a me furono occupati immediatamente da tre
soldati francesi leggermente ubbriachi. Essi percorrevano in trionfo
tutte le taverne di Transtevere, dopo aver riportato una luminosa
vittoria sopra quattordici soldati del papa. Questi vincitori vuotarono
un fiasco, cantarono una strofa e trasportarono la loro gloria e la
loro allegria in un altro teatro. Furono ben tosto surrogati da tre
soldati pontificii che si vantavano d’avere sconfitto quattordici
Francesi.


Riguardai allora un nuovo venuto che aveva preso posto alla tavola
vicina. Era un vegliardo di sessant’anni suonati, ma ancora vegeto
e robusto. Egli osservava l’assemblea senza parlare, vuotando il suo
bicchiere fino al fondo. Un fazzoletto allacciato intorno ad una gamba
ed una macchia di sangue che traspariva al disotto mi fecero credere
che fosse ferito; ma siccome la sua fisonomia non indicava che fosse in
vena di confidenze, così partii senz’avergli domandato il suo segreto.
Il primo cameriere dell’osteria, che si chiamava il signor principale,
m’indicò un caffè vicino in cui vi era un divertimento di poesia e
di musica. Io ci vado tutte le sere, e son certo che anche voi non
trovereste niente di meglio.

Fui ben presto raggiunto dal mugnajo e da sua moglie, che avevano
ricondotto a casa la loro figlia! Il mugnajo si sedette dirimpetto a
me, ad alcuni tavolini di distanza, e mi guardava ostinatamente in una
maniera che voleva dire: «Tu non sarai mio genero». Era l’ultimo de’
miei pensieri ed io vuotai pacificamente il bicchiere di caffè che mi
era stato portato.

Il pavimento della sala era pulito, e le pareti erano coperte di
percalina bianca con orli rossi a tutti gli angoli. Il mobigliare
si componeva di sedie di paglia e tavole di marmo; i cucchiarini
d’argento erano di forma antica e molto pesanti. Una ventina di operaj
e d’operaje componevano tutto il pubblico; però gente ben educata che
prendeva il suo caffè ed il suo rosolio senza strepito.


Il mio arrivo non avea interrotto una lotta fra virtuosi. Quasi tutte
le domeniche alcuni dilettanti di poesia si riuniscono per improvvisare
dei versi. Si accoppiano a due a due e si disputano a vicenda sopra
un soggetto dato, come i pastori di Virgilio. Il teatro solito delle
loro improvvisazioni è la storia antica o la mitologia. Io non so dove
abbiano fatto i loro studj, ma galoppano senz’inciampare nei campi
della favola e della storia; dal caos fino ai tempi di Nerone. Se si
scandagliassero troppo accuratamente i loro versi si troverebbe forse
qualche anacronismo nelle particolarità, ma la poesia copre tutto col
suo mantello di porpora e d’oro. La prosodia italiana non impone leggi
tanto severe; la rima si trova facilmente in una lingua in cui una
metà delle parole finisce in _O_ e l’altra in _A_. Ma ciò che mi ha più
sorpreso in questi giuochi d’ingegno si è la scelta quasi sempre felice
di una espressione brillante. Il vocabolario poetico, molto diverso
dal linguaggio familiare, si è conservato, non so come, in queste menti
semi-incolte. Un calzolajo che sapeva appena leggere ci ha narrato la
guerra di Troja in uno stile il più pomposo e il più fiorito.

Un mandolino pizzicato discretamente accompagnava la voce del poeta,
poichè i versi si cantano e non si parlano. È una specie di recitativo
misurato, una melopea monotona e romorosa. I Romani hanno la voce alta,
sonora e quasi sempre enfatica. Non vi è una sillaba nei loro discorsi
solenni che non sia accentata dall’orgoglio nazionale. È un piacere
sentire un ragazzotto cantare in istrada.

    Augusto imperator romano.

oppure

    Anderemo al Campidoglio.

La giostra durò un’ora e mezzo, e fui ben dispiacente di non avere
nè penna nè matita per stenografare alcuni versi. Gli applausi
dell’uditorio erano la ricompensa dei vincitori; i fischi e lo
schiamazzo punivano il vinto, non appena la sua lingua incominciava ad
imbrogliarsi. Il calzolajo della guerra di Troja conservò il vantaggio
per qualche tempo, ma poi fu battuto completamente da un conciapelli
del quartiere della _Regola_. Tutto pareva finito, ed il conciapelli
si metteva il suo abito per andar a dormire sui suoi allori, quando
una donna si alzò da una tavola, e si mise dinanzi a lui colle mani sui
fianchi. Era per verità una creatura magnifica, svelta, grande e bella,
quale all’incirca si rappresentano le donne ai tempi dei re. Ho saputo
che essa era una lavandaja e suo marito un soffiatore di vetro.

Voi non ve ne intendete un fico, diss’ella, ed io vi batterò tutti. Tu
prendi il mandolino. Essa cominciò dall’origine del mondo, e proseguì
con passo fermo a traverso l’istoria degli Dei. Quella francona
possedeva la mitologia come Esiodo in persona. Ben presto ella entrò a
piè pari nella guerra di Troja, salvò Enea dall’incendio, lo condusse
nel paese del Lazio, bastonò Turno e tutti gli altri, balzò d’un
salto alla nascita di Romolo, scacciò i re con Lucrezia, condusse gli
eserciti della repubblica alla conquista del mondo, rischiarò il caos
delle guerre civili, applaudì Cicerone, uccise Cesare ai piedi della
statua di Pompeo, mise Augusto sul trono, rovesciò gl’imperatori gli
uni sugli altri come dei cappuccini di carta, e finì con un’invocazione
diretta alla Madonna che le sorrideva dietro una lampada con un infante
in braccio.

Ella tirò sempre dritto, ripigliando talvolta il filo, non fermandosi
mai, surrogando una parola con un’altra, incominciando il passo
applaudito e correggendolo senza pensarvi. I suoi occhi brillavano come
quelli di una pitonessa; la sua voce tremava di piacere; il suo gesto
semplice e un po’ troppo regolare scandeva i versi e appoggiava sulla
frase. Essa fu applaudita come si usa applaudir qui. Nè il calzolajo nè
il conciapelli si provarono a risponderle, ed essa ritornò tutta rossa
presso suo marito, che aveva tenuto il fanciullo durante quel tempo.

Io mi abbandonai al piacere di battere le mani, come ad una prima
recita, allorchè m’accorsi che il mugnajo mi guardava in cagnesco. E
perchè? non saprei davvero, imperocchè io non avevo fatto nulla da
offenderlo. Forse i suoi vicini dell’osteria avranno scherzato sul
prestito della mia bottiglia d’acqua, ma, comunque sia, se era stata
commessa un’incongruenza, non era certo da parte mia. Frattanto egli
borbottava fra i denti ogni sorta di osservazioni riprovevoli sulla
gente che doveva restarsene in casa ed attendere a’ loro affari. Quanto
meno io fingeva di prestar attenzione a’ suoi detti tanto più egli
alzava la voce; era uomo da trattarmi più male, se avessi fatto mostra
di volgergli la schiena. Risolvetti pertanto d’attaccarlo di fronte,
e perciò non ci voleva gran coraggio. Si sa in tutti i paesi del mondo
che «can che abbaja non morde». Io mi alzai repentinamente proprio nel
momento in cui aveva pronunziato la parola «Francese» e mi presentai
dinanzi alla sua tavola dicendo «è con me che l’hai?» Rimase un momento
confuso prima di rispondere. «Ma no, io non l’ho con nessuno, ti sei
ingannato» «Allora contro chi brontoli tu?»

«Contro mia moglie; è una bagascia, un’intrigante, una mezzana, che
voglio bastonare di santa ragione quando torno a casa.»

A ciò non eravi da replicare. Se ognuno è padrone in casa sua, il
mugnajo è padronissimo di battere sua moglie ed il suo asino, quando
gliene viene il capriccio.

Verso le dieci e mezzo il principale che mi aveva servito a pranzo
venne a prender posto accanto a me, vestito come un signore. «Ebbene!
gli dissi, la giornata è finita?»

— Mi rispose a mezza voce: «Sì, signor cavaliere, e temo pur troppo,
finita male per me.

— Come?

— Non dovrei forse raccontarvi l’affare, ma voi siete testimonio, che
io non ho preso alcuna parte alla quistione e nella vostra qualità di
Francese, voi potrete ajutarmi a cavarmela.

— Che cosa diavolo è successo?

— Avete voi rimarcato quel vecchio che aveva un fazzoletto annodato
intorno alla gamba?

— Sì, un ferito.

— Ei non era ferito: era il sangue del giovane; egli l’aveva portato a
casa nelle sue braccia, e ritornava ad aspettar l’altro al varco.

— Qual altro?

— L’uccisore per certo; colui che avea ucciso suo figlio.

— Qual figlio?

— Quello che ha pranzato accanto a voi, l’uomo della _passatella_.

— Il bel fabbro?

— Non era tanto bello. D’altronde aveva torto. Perchè rifiutare da bere
ad un amico, quando ha pagato per questo?

— Ma è impossibile! Non l’hanno ucciso!

— Proprio davanti la nostra porta, Eccellenza, nel momento in cui
usciva.

— Ma i suoi amici erano con lui; avrebbero impedito il delitto!

— Ciascuno per sè in questo basso mondo.

— Com’è che noi non abbiamo sentito niente?

— Non si fa mai rumore. Il giovine è morto; sono andati a dirlo a
suo padre; egli ha portato il corpo in casa sua, poscia è ritornato
a sedere dove l’avete veduto nella speranza che l’altro ripassasse da
noi; ma non è sì gonzo! Ciò che mi rincresce si è che l’altro mariuolo
aveva preso il mio coltello per fare il suo colpo.

— Ma è spaventevole! Ecco come si scannano nel quartiere!

— E che volete? Allorchè un amico vi fa un insulto non si va già a
divertirsi, ad intentargli un processo. Una coltellata nel ventre, e
tutto è finito. Se almeno avesse preso un altro coltello e non il mio!

— Allora voi passate la vostra vita ad assassinare gli amici?

— Non si ha a fare con quelli che non si conoscono; ma voi potete
contare che da noi sopra quattro uomini ve n’è ben uno che ha giuocato
col coltello almeno una volta in sua gioventù.

— E tu? vediamo!

— Oh! io avevo ragione. S’era permesso di gridare ad alta voce che il
nostro vino era manipolato, e che noi avveleniamo la gente. Che avreste
fatto voi al mio posto?»

Io ripresi la strada dell’Accademia, e, alla svolta della contrada,
caddi sopra un gruppo di ragazzi inginocchiati avanti ad una santa
imagine. Essi cantavano all’unissono con voce chiara e quasi in tempo:

      Viva Maria
    E chi l’ha creata?




V.

IL GIUOCO DEI COLTELLI[4].


Se i coltelli romani non fossero giammai usciti da Roma, io ne avrei
detto abbastanza intorno a questa curiosità locale. Ma nello stato
attuale della società, allorchè i rifugiati Italiani abbondano in molti
paesi ed i loro coltelli insanguinano le taverne di Londra come le
bettole di Costantinopoli, credo fare opera di buon cittadino d’Europa
trattando seriamente una quistione di sicurezza europea.

Prima d’ogni altra cosa, e dovesse pure eccitare sorpresa in Francia,
incomincierò a fare un complimento agli assassini di questo paese;
essi non sono ladri. In quasi tutte le grandi città di mia conoscenza
sopra dieci assassinii commessi, ve ne sono sei che hanno il furto
per iscopo. Si uccide un uomo per aver il suo denaro come una volpe
per avere la sua pelle. I Romani considerano il furto con solenne
disprezzo. La loro delicatezza un po’ ottusa non sa schermirsi di
qualche colpo di scaltrezza, di qualche prepotenza pubblica; ma il
furto propriamente detto li ributta. Provatevi a gridare: al ladro!
nelle contrade della città; o che, per esempio, un abitante del
quartiere de’ Monti (sonvene molti che non valgono gran che) si pigli
il divertimento di rubare un fazzoletto da dieci soldi: ebbene la folla
si farà ad inseguirlo con incredibile accanimento. Ora che avverrebbe
se l’avesse ucciso prima di fare il suo colpo? Lo si ammazzerebbe sul
fatto, non v’è punto a dubitarne.

Tengo sotto gli occhi la lista di 247 assassinj commessi nella città,
tra il 1850 ed il 1852; e tra questi sonvene appunto due soltanto che
si spiegano col furto. Tutti gli altri sono conseguenza di dispute
mosse da vanità o da interesse, da rivalità d’amore, da liti al giuoco,
da ingiurie profferite dopo aver bevuto. La violenza del sangue, del
vino e della primavera fu causa di pressochè tutti gli altri delitti.
Per la più parte dei casi che condussero a queste coltellate, un
Francese avrebbe dato un pugno, una stoccata, ovvero un appello alla
giustizia. Ma al popolo di Roma non vanno a sangue nè i pugni, nè i
duelli, nè i processi. I pugni non manifestano abbastanza profondamente
la superiorità del vincitore; il duello espone a perire chi ha dalla
parte sua la ragione; la lunghezza delle procedure, e la venalità di
quasi tutti i giudici inspirano ai cittadini l’orrore de’ processi.
Tutto s’accomoda a coltellate, anche le dissensioni di famiglia. Alla
medesima pagina trovo un fratello colpito dal fratello, un cognato dal
cognato, due generi dai loro suoceri, ed un nipote dallo zio. Uno zio
del Ginnasio sarebbesi accontentato di esclamare: «Briccone di nipote!»


Nel 1853, i tribunali dello Stato Romano punirono 609 delitti contro
le proprietà, e 1344 contro le persone. Nel medesimo anno le Corti
d’Assise giudicavano in Francia 3719 persone accusate di furto, e 1921
incolpale di delitti contro le persone. Se ne potrebbe conchiudere che
i Romani sono più violenti e più onesti di noi.


Desiderate qualche altro frutto più recente? Ecco quanto si è operato
in sei giorni, verso la fine del mese d’aprile 1858. Vedrete che la
primavera si fa sentire in Italia.

«Nella caserma Serristori, il volteggiatore Maurizi ha ucciso con una
coltellata il granatiere Caponia. Affare di giuoco.

«Si è fatto baccano sotto le finestre d’un vecchio, di nome Ferri, che
ammogliavasi in terze nozze.

«Egli ha colpito con un sasso uno de’ chiassosi, detto Bernardini.

«Il vignaiuolo Bravetti è stato ucciso con un colpo di zappa da un
mercante d’insalata, che lo accusava di rubare degli asparagi nella sua
vigna.

«Alcuni giovani, che avevano passato la giornata all’osteria,
attraversano la contrada del Mascarone. Insorge una disputa, uno di
que’ signori entra da un fornajo, prende un coltello, e corre a dare
tre colpi mortali a certo Vaccari di ventun’anni. Va poscia dal padre
del Vaccari e l’uccide.»

Misura di prudenza!

«Carolina Paniccia e suo marito Giovanni escivano da un’osteria dopo
aver cenato, quando si videro assaliti a colpi di coltello da un tal
Pierazzi. La donna è ferita, il marito è morto. Pierazzi era innamorato
della moglie e geloso del marito.

«Il giovane Alfonso Ambrogioni, di 13 anni, ha ucciso sua cognata
tagliandole la carotide. Gli Ambrogioni odiavano quella giovane,
perchè uno di essi, Pietro, era stato costretto a sposarla dopo averla
sedotta.»


Si può asserire senza paradosso che, sopra dieci assassini a Roma,
havvene almeno uno che non avrebbe ucciso se avesse avuto altro mezzo
di farsi rendere giustizia. Ma il denaro, il credito, le protezioni
sono cose sì difficili a superarsi che un poverino, offeso nel proprio
onore o leso nel proprio diritto, non sa rivolgersi ad altro che al
proprio coltello.

Non temo d’affermare, poichè n’ho il destro, che sette od otto uccisori
sopra dieci si guarderebbero ben bene dal cavare il loro coltello, se
sapessero preventivamente che un carnefice taglierebbe loro la testa.
Ma sono quasi così certi dell’impunità, com’essi sarebbero convinti del
castigo in Francia ed in Inghilterra.


Quasi tutti i rapporti di polizia che ho citato or ora, si chiudono
uniformemente con questa frase solenne: «Il colpevole si è sottratto
colla fuga.» Il popolo, anzichè inseguirlo, gli porge ajuto. Agli occhi
suoi, l’assassino ha ragione, e la vittima aveva torto. I nostri Romani
plebei non hanno maggior disprezzo per un assassino, di quello che
i Parigini per un uomo che abbia lealmente ucciso il suo avversario
in duello. E di vero, l’assassinio, quale qui si pratica, è un vero
duello. Allorchè nel calore della disputa due uomini sono venuti a
certe parole, sanno che il sangue deve scorrere tra loro; la guerra è
implicitamente dichiarata; la città intera è il terreno trascelto; la
folla fa da testimonio accettato da ambe le parti, ed i due combattenti
sanno che ad ogni ora del giorno e della notte bisogna stare in
guardia. La plebe crede adunque, nè è pregiudizio facile a sradicarsi,
che l’uccisore è un uomo giusto.

Si protegge la sua fuga. Ma dove troverà ricetto? Non troppo lontano,
poichè la città è piena d’asili. Le ambasciate, l’Accademia di Francia,
le chiese, i conventi, il Tevere sono altrettanti santuarj dove la
legge non penetra. Se un uomo inseguito minaccia di uccidersi, la
polizia è obbligata a lasciarlo fuggire; ed è perciò che il Tevere è
un asilo inviolabile. Si teme che l’accusato non si getti nell’acqua,
e quindi vi perisca senza confessione. Colui che giunge ad afferrare
un frate per l’abito è dichiarato sicuro, come se abbracciasse gli
angoli dell’altare. I gendarmi seguono il frate gridando con voce
supplichevole: «Fraticello, abbandonalo: è un assassino! — Non potrei,
risponde il frate: egli non vuol andarsene!» L’accoltellatore arriva
così fino alla porta del convento.


Alcuni cavalieri della divisione d’occupazione incontrano sulla strada
di _Ponte Molle_ un malfattore inseguito dalla polizia, e si mettono a
dargli la caccia a briglia sciolta. Quell’uomo corre al Tevere, e per
tendere un’insidia all’esercito francese, si annega. Fu quindi un grave
affare, e credo che la diplomazia abbia dovuto occuparsene. I nostri
soldati non avrebbero dovuto mettere un uomo nel cimento di morire
senza confessione.

Il possessore d’un luogo d’asilo è libero di ricevere o d’espellere
i colpevoli. So, per esempio, che all’Accademia di Francia, il signor
Schnetz prende accurate informazioni sugli ospiti che fanno invasione
in casa sua. Se per caso vi capitasse un povero giovane minacciato
di galera per aver messo una figlia nell’imbarrazzo, le porte si
spalancherebbero dinanzi a lui. Ma le ho vedute chiudersi dinanzi ad
uno sfrontato, che ridendo s’accusava d’una cosetta contro natura.

Tra Velletri ed il mare sonvi dieci leghe di paese che sono un luogo
d’asilo. È un vasto territorio che chiamasi la Pianura Morta, ed è
d’una insalubrità comprovata. È noto che gli omicidi non potrebbero
vivervi a lungo, è noto eziandio che gl’innocenti non consentirebbero
di render sano un tal paese. I colpevoli vi restano impuniti ed
occupati in pubblici lavori, finchè la febbre abbia contro di loro
fatto le funzioni di carnefice.

Spesso l’assassino viene sottratto al rigor delle leggi dal delitto
d’un altro assassino. Una figlia cade sotto il coltello a quattr’ore
di sera; ebbene, prima di notte viene raccolto il cadavere del suo
uccisore. Il delitto era già espiato quando la giustizia lo venne a
conoscere. Perciò succede che il colpevole si consegna da sè stesso
per isfuggire alle private vendette, e preferisce la prigione a tutti i
luoghi d’asilo.

Quando la giustizia l’ha côlto, ecco insorgere un’altra serie di
difficoltà. Non si trovano testimonj che depongano contro di lui.
Potreste risuscitare anche il morto, che non direbbe il nome del suo
uccisore. Si raccoglie un uomo ferito a morte sulla strada, ma tuttora
semivivo. «Chi ti ha malconcio in questo modo? — Nessuno; va a cercarmi
un prete, e non parliamo d’altro.» Egli ha regolato i suoi conti con
un amico; ora non pensa più che a regolarli con Dio. Un uomo ne pugnala
un altro: l’uno parte pel carcere, l’altro per l’ospitale. Quando l’uno
sarà liberato e l’altro guarito, si stringeranno la mano senza rancore.
Ma se il ferito avesse confessato dinanzi al giudice d’aver ricevuto
una ferita, nè l’assassino, nè i suoi parenti, nè i suoi amici nol
lascerebbero godere della sua convalescenza.

Il rifiuto di deporre in giudizio è un male talmente incurabile,
che non si trovano testimonj nemmeno contro i ladri. Eppure vi
dissi quanto sono detestati! Li detestavamo anche in collegio, e ci
facevamo parimenti un punto d’onore di non denunciarli. Li mettevamo
in quarantena, li facevamo passare per l’armi, a gran colpi di palla
elastica; ma avremmo creduto di disonorarci da noi stessi consegnandoli
al maestro degli studi. I Romani sono ragazzi in ogni età, siccome noi
lo eravamo a quindici anni.

La loro avversione pei ladri si è manifestata, or sono due o tre anni,
quando ne venne frustato uno sulla piazza del Popolo. Era un certo
Pietro Brandi, se ben mi ricordo. Egli aveva gettato la confusione in
una pubblica festa, per pescare nel torbido e rapire qualche borsa
o fazzoletto da tasca. La sua speculazione aveva costato la vita a
due o tre persone e la salute a parecchie. I giudici lo condannarono
a ricevere 25 colpi di sferza, non già sulla pianta de’ piedi. La
moltitudine accorse al suo supplizio siccome a pubblico spettacolo,
e ad ogni colpo gridava: «Bravo! Più forte!» Mastro Titta, mosso
dall’entusiasmo del popolo, aggiunse un ventesimo sesto colpo per
_buona mancia_; come s’indica in italiano, ciò che noi Francesi
indichiamo _pourboire_.

Nel medesimo paese, presso il medesimo popolo, un contadino s’accorge
che gli fu rubato un majale. Indovina chi sia il colpevole, corre alla
sua casa, e trova ancora l’animale attaccato dinanzi alla porta. «De’
testimoni! esclama egli; Santa Madonna, mandami de’ testimoni!» Alla
fine, passa un uomo; egli lo afferra pel collo: «Vedi tu quel majale?

— Qual majale? dice colui, che subito s’accorse, che trattavasi di fare
da testimonio.

— Per tutti i santi, tu non sei cieco! Osserva là un majale.

— No, non v’è majale.

— Oh! non vedi quel majale, là, dinanzi alla porta?

— Io non veggo majale. Addio, corro a’ miei affari. — »

Il derubato fermò dieci testimonj, l’uno dopo l’altro; ma nessuno
volle vedere il majale. «Poichè tu non vuoi veder nulla, disse egli
all’ultimo, io vado a staccare questa corda ed a riportarla a casa
mia coll’animale che vi è attaccato.» Ed è così ch’egli avrebbe dovuto
cominciare.

I Romani stessi confessano che le leggi penali non furono introdotte
nel loro paese se non sotto il dominio francese. Di que’ tempi il
potere era abbastanza forte per costringere i testimonj a dire ciò
che avevano veduto, e per rassicurarli sulle conseguenze _della loro
deposizione_.

Non è già che manchino i mezzi di repressione al governo pontificio,
mentre ha delle buone carceri e dei bagni in buono stato. La prigione
cellulare esisteva all’ospizio di San Michele cent’anni prima d’essere
inventata dagli Americani. La ghigliottina è una macchina italiana che
data dal tredicesimo o quattordicesimo secolo. Ma quasi tutti i papi si
sono trasmessi, d’età in età, de’ principj di dolcezza e d’indulgenza
senile che disarmano alquanto la legge. Le condanne capitali sono
sempre state soverchiamente rare in questo Stato, dove, a norma della
statistica del 1853, si commettono più di quattro omicidj al giorno.
È difficile che un sovrano invecchiato nell’esercizio d’un ministero
di pace, s’imbarchi un bel mattino in una guerra vigorosa contro le
violenze de’ suoi sudditi. L’educazione della plebe romana resta da
rifarsi, ed occorre raddolcire per forza quelle indoli rozze, cui la
minima contrarietà strascina agli ultimi eccessi. Bisogna insegnar
loro a rispettare la vita umana siccome cosa sacra; bisogna, pel bene
del loro paese e di tutta Europa, modificare forzatamente le loro idee
sull’assassinio. Finchè vi sarà nel mondo incivilito un regno dove si
uccide un uomo come si beve un bicchier di vino, l’incivilimento sarà
in uno stato provvisorio, esposto ad ogni sorta di peripezie.


Non vi sarebbero poi a sparger torrenti di sangue per mettere un
freno definitivo a cotesto giuoco di coltelli. Leone XII non ha già
decimato il suo popolo per guarire la piaga del brigandaggio? e noi
non siamo stati obbligati a spopolare la Corsica per sopprimere i
banditi? Parimenti basterebbe qualche colpo ben applicato, e sopratutto
applicato in tempo utile. Gli animali più nobili non profittano d’una
correzione, se non quando essa segue immediatamente il fallo. E così
i nostri terribili plebei di Roma si trovano quasi nel medesimo caso
che i cavalli di corsa ed i cani di ferma. Se un processo criminale
si potesse condurre a tamburo battente, se l’espiazione seguisse
il delitto a pochi giorni di distanza, il popolo, per cui tutto è
spettacolo, non assisterebbe ad un cattivo esempio senza ricevere
subito una buona lezione. Ma quando un colpevole viene mandato al
patibolo, dieci anni dopo aver commesso il delitto (è quanto avviene)
i testimonj del supplizio non sentono altro che pietà per quella testa
che cade. Si crede che l’omicida sarebbe quasi in diritto d’invocare
la prescrizione, e la sola parola che si sente circolare nella folla è
quella di _poveretto_!

Nel luglio del 1858, il generale conte di Noue, galantuomo quant’altri
mai, e partigiano zelante dell’autorità pontificia, fermossi alcune
settimane a Viterbo. In uno de’ suoi passeggi intese parecchie voci
maschili che cantavano de’ salmi nella prigione della città: cotesti
coristi erano ventidue condannati a morte che da parecchi anni
aspettavano l’ora del supplizio. Il governo stesso si fa quasi un caso
di coscienza di mandare a morte un uomo pentito e forse emendato. Vi
dissi ch’era una bontà e dolcezza paterna, ed avrò più d’una volta
a ripetere lo stesso elogio. Un papa non potrebbe dimenticarsi che
quaggiù rappresenta il Dio di misericordia; il santo padre, chiunque
egli sia, deve sempre aver orrore pel sangue. Ma sembrami giusto che
la misericordia s’applichi dapprima a coloro che vengono assassinati,
ed il primo dovere di chi ha in orrore il sangue è quello di atterrire
coloro che lo spargono.

Or sono quarant’anni, l’uccisore d’un sacerdote veniva squarciato,
siccome un pollo arrostito, sulla piazza del popolo[5].

Non dimando già che si ritorni a questi feroci processi del medio
evo: la soppressione legale d’un uomo è per sè stessa un fatto assai
terribile, senza che la si circondi d’un apparato sì mostruoso. Ma
non mi si leverà di mente, che a Roma sono necessarj degli esempj per
sopprimere quella scuola del coltello, che stabilisce delle succursali
dovunque.


Intanto che si preparano castighi per gli assassini, è costume di
mandarli alle galere. Non posso noverare questo viaggio fra i castighi,
poichè questi condannati non sono da compiangersi. Meglio alloggiati,
meglio vestiti e meglio nodriti che non la più parte delle persone
del popolo, lavorano appena quanto loro piace, ed il loro lavoro
viene retribuito. E da ultimo, ciò che compie l’opera, si è che essi
godono della stima universale. Non esagero: i forzati sono ben veduti;
nè solamente sono compianti, quantunque non siano degni d’esserlo;
non solamente havvi chi si ferma per le vie di Roma a dar loro del
danaro, ma la mano che fa loro l’elemosina non isdegna di stringere
la mano loro. E perchè? la pena non potrebb’essere più vergognosa che
il delitto, ed il popolo non ha una ragione per disprezzare dopo il
giudizio coloro ch’egli quasi ammirava dopo l’assassinio.

Se, malgrado i vantaggi che loro sono assicurati dalla legge e dai
costumi, vengono affetti da noja, non hanno che a dirlo. La libertà
sarà loro restituita un giorno o l’altro, chè la pena de’ lavori
forzati a vita viene agevolmente loro commutata. Venti anni di galera
sono ben presto finiti: innanzi tutto perchè l’anno è di soli otto mesi
al bagno; e poi le limitazioni giungono l’una sull’altra, e se appena
appena v’è qualche protettore, un giorno l’omicida vede aprirsi le
porte del carcere, e, tra contento e rammaricato, ritorna all’esercizio
d’un onesto mestiere, di cui ha perduto l’abitudine.


Non temete che la macchia del suo passato lo esponga al disprezzo del
mondo. Sarebbe troppo strano che un forzato messo in libertà dovesse
essere meno stimato che un forzato in attività di servizio. Lo si
trova un po’ meno interessante, ed ecco tutto. Egli stesso parla delle
sue fatiche siccome un soldato delle sue campagne. Dice con qualche
sentimento d’orgoglio: «Quando mi trovavo laggiù!»

Ne’ giorni scorsi ho trovato a Frascati un eccellente viso di
contadino, che camminava pian pianino sul proprio asino, per una via
piuttosto disagiata. Sua moglie seguivalo un po’ più da lontano,
attesochè portava un armario sul capo. Mi feci ad intavolare
conversazione con questo tipo di marito, e mi piacque la natura del
suo spirito. Il discorso, non so come, venne a toccare il tasto delle
coltellate, essendo che da varj giorni cotesto argomento mi ripassava
pel capo.

«Signore, mi disse egli, ecco ormai più di sei anni che le feste del
nostro villaggio hanno perduto metà del loro prestigio. Quando le
viti non erano ancora ammalate, e che si beveva del vino finchè se
ne voleva, non v’era alcuna fiera, dove non si uccidessero quattro o
cinque uomini. Io stesso, quand’era giovane, ne ho spacciato più d’uno;
ma vennero gli anni, e la è finita. Non si può più essere ed essere
stato.

— E non vi è capitato nulla di male da parte della giustizia?

— Eh! sì; perdonate. Ho fatto due anni a Civitavecchia. Mi fate
risovvenire del più bel tempo di mia vita. Oh! il bagno! Non vi siete
mai andato, Eccellenza, nel vostro paese?»




VI.

IL LOTTO.


Il lotto è la più breve strada che dalla miseria conduca alla
ricchezza. Ve ne sono di più sicure, ma niuna di più diretta. Ed è
perciò che la plebe romana evita le altre e s’accalca su questa. Mi
sono dimandato talora ciò che farei per trarmi d’impaccio se fossimo di
que’ plebei che vivono di giorno in giorno per le strade della grande
città. Ecco dapprima una carriera aperta a tutti, senza distinzione di
nascita o di fortuna: la Chiesa. Nulla di più democratico in fondo di
questo governo assoluto. Ogni uomo intelligente ha il piede in istaffa
dacchè potè varcare la soglia del seminario: è sulla via di salire
alle più sublimi cariche. Anzi dico di più: questa è la sola carriera
in cui la virtù possa tener luogo di scienza, e dove la capacità viene
vantaggiosamente surrogata dall’umiltà. Un uomo dell’infima classe del
popolo, e mediocremente versato nelle lettere, può diventare frate,
priore, generale, vescovo, cardinale e papa, camminare di pari passo
coi grandi sovrani, ed accordare la precedenza ai proprj legati sugli
ambasciatori di tutte le potenze.

Ma è necessaria la vocazione, e noi non l’abbiamo. — Passiamo ad altro.
Gl’impieghi civili? Sono ancora ambiti da alcuni poveri diavoli, ed
ognuno credesi possedere sufficiente talento per occuparli, se trova
credito bastante per ottenerli. Ma per gli uomini da poco siccome noi,
non vi sono che impieghi subalterni. A forza di protezioni potrei
diventare capo d’ufficio; ma se voglio salire più in alto, bisogna
cambiar abito. Aspireremmo alle onorificenze militari? Tutti i plebei
di Roma proromperebbero in risa se udissero siffatta proposizione.
Noi tutti avremo un capitolo su questo proposito. Ora a qual partito
appigliarvi? La letteratura? Nulla. La legge? La medicina? Molta
dipendenza, e poco avvenire. L’istruzione? Osserva come sei vestito,
poverino. Il tuo abito è troppo corto, almeno d’un piede e mezzo.
Ma il commercio? Vi si guadagna di che vivere. L’agricoltura? Vi si
fa fortuna, a patto che vi s’impieghino de’ capitali. Ora la gran
maggioranza de’ plebei romani possiede il capitale dell’Ebreo Errante:
cinque soldi in tasca. Tutto ben ponderato, fanno tutti come la vecchia
di cui l’altro giorno vi parlava: rinunciano al pranzo, e giuocano il
denaro al lotto. Scaglierete loro contro la pietra? Io non avrò mai
coraggio di farlo.


Alcuni viaggiatori d’umor malinconico declamarono contro il popolo che
giuoca, e sopra tutto contro il governo che porge il mezzo di giuocare;
trovando cosa indegna che un’autorità, circondata dal rispetto
dell’universo intero, speculi sui vizj de’ suoi sudditi. Permettetemi
di confutare cotesti lamenti.

Non è già solamente a Roma, è a Napoli, a Firenze, a Venezia, e
sopra tutta l’estensione di questa terra oppressa, che gl’Italiani
giuocano al lotto. Se non vi fossero ufficj appositi in Roma, i Romani
giuocherebbero altrove, e le diligenze di Siena, di Pisa, di Firenze e
di Napoli ritornerebbero cariche di viglietti. Ora, siccome è convenuto
che a questo giuoco diseguale il banchiere guadagna sempre, così la
soppressione del lotto pontificio manderebbe fuori dello Stato da sette
ad otto milioni all’anno; chè tale è approssimativamente l’ammontare
lordo de’ beneficj realizzati dallo Stato. Ma le spese di percezione
nodriscono tanti piccoli impiegati, sicchè il prodotto netto d’ogni
anno non supera il milione e mezzo di franchi. Il lotto è adunque un
tenuissimo frutto per lo Stato ed una massima consolazione pel popolo.
Si fece bene ad abolirlo a Parigi, perchè in uno Stato ben ordinato,
dove il lavoro guida a tutto, il governo deve educare i cittadini a
non far conto che sul loro lavoro. Si avrebbe torto di sopprimerlo
a Roma, perchè quivi il popolo, stanco e demoralizzato, sorretto
nelle sue miserie dalla prospettiva della fortuna, vive specialmente
d’imaginazione e di speranza: privarlo del lotto sarebbe uno spogliarlo
di quel poco che gli rimane.


Sono ormai più di cento venti anni che Clemente XII ha introdotto
questa usanza ne’ suoi Stati, ed il giuoco è sì bene penetrato nel
sangue del popolo, che non solamente i plebei, ma principi eziandio, ed
anche i principi della Chiesa, prendono un viglietto del lotto, siccome
noi prendiamo una tazza di caffè. È da ciò che potrete osservare la
natura e l’educazione differenti degl’Italiani e de’ Francesi. Io ero
fanciulletto allorchè i progressi dello spirito pubblico fecero cadere
il lotto regio, ma mi ricordo che se ne parlava siccome d’un giuoco di
fantesche, e che le persone della classe intelligente procuravano di
non farsi vedere quando mettevano danaro al lotto. Qui per lo contrario
i primi personaggi della nazione trovano naturale di tentare la fortuna
e di urtare co’ gomiti i muratori nelle botteghe del lotto. Da noi
questo giuoco era un vizio; qui per l’opposto non è riputato cattiva
abitudine, e l’approvazione dei Romani è tanto fondata nella ragione,
quanto lo era il nostro biasimo di tempo fa.


Forse non sarà discaro ch’io riassuma in poche parole la teoria di
questo giuoco che gli archeologhi soli ora conoscono in Francia.

Sabbato a mezzodì, dinanzi al ministero delle finanze, sotto gli occhi
del popolo radunato, una commissione, presieduta dal rappresentante
del prelato ministro delle finanze, tira a sorte cinque numeri da una
ruota che ne contiene 90. Fra i giuocatori premurosi che assistono
all’estrazione, taluno ha giuocato il _semplice estratto_, vale a
dire ha scommesso contro il governo che un tal numero sortirebbe fra
i cinque: se il suo numero è sortito, egli ha guadagnato tredici
o quattordici volte il denaro che ha speso. Un altro ha giuocato
l’_ambo_, vale a dire ha scelto due numeri e scommesso che ambidue
sortirebbero dalla ruota. Altri invece ha giuocato il _terno_
scegliendo tre numeri: ei guadagna più di cinque mila volte la propria
messa. Tralascio le altre combinazioni, quali il _primo estratto_,
l’_ambo_, e i _terni_ determinati.

Vi basti il sapere questo: un uomo che sapesse indovinare tre de’
cinque numeri che stanno per sortire, potrebbe con un luigi d’oro
comprare cento mila franchi. Se non m’inganno è il massimo de’ guadagni
possibili. La banca non giuoca somme sì forti; le _quaderne_ e le
_quintine_ non lo sono.

Ciò posto, tutti i miei Romani mettono a tortura il cervello per
prevedere i numeri che sortiranno.

Fino alla mezza notte del giovedì, si stillano il cervello, esauriscono
ogni combinazione cabalistica, dimandano consigli ai loro amici,
implorano inspirazioni celesti. Gli uni interrogano le estrazioni
degli anni precedenti: questo e quell’altro numero hanno l’abitudine di
comparire insieme; sono ormai più di sei mesi che non comparvero, onde
staranno per sortire! Gli altri pescano le loro idee sui muri della
città, e vi si trovano, ad ogni passo, de’ terni begli e fatti, scritti
al carbone da qualche dilettante. Più d’uno ne compone una novena, per
trascegliervi poi i numeri da mettere. Chi ebbe la fortuna di sognarsi
di cani o di gatti, s’affretta a consultare il Libro dei Sogni, dove
tutte le visioni trovano le corrispondenti cifre. La grande, la sola,
l’inseparabile idea di tutti i Romani de’ due sessi è la ricerca dei
buoni numeri.

E non sono già solamente i sogni ch’essi traducono in cifre, ma
bensì tutti gli avvenimenti fortunati o calamitosi perdono il loro
significato reale per passare allo stato di presagio. Un tale si è
annegato. Bene! 88! Mia figlia fu assalita dalla febbre. Bravo! 18,
28, 48! Un marito rientra in casa senza esservi aspettato, sente una
voce d’uomo nella stanza di sua moglie. Dio sia lodato! 90! Discende
i gradini della sua scala a quattro a quattro, e va a prendere il suo
viglietto.

A Roma il figlio d’un carbonajo cade da un primo piano e si fa male
assai. Ora il padre, prima di chiamare il medico, compone un terno
coll’età di suo figlio, l’ora dell’accidente ed il numero 56, che
corrisponde alle cadute dalla finestra. Ei guadagna, il figlio muore, e
più d’un padre ne ha invidia.

Un giovane si asfissia colla sua amante in una casa del Corso; ed il
popolo subito invade le botteghe del lotto per giuocare su quel fatto.
L’amministrazione è costretta di _chiudere_ ossia interdire certi
numeri, sui quali la moltitudine si getta tutta in una volta: l’età di
ciascuno degli amanti, il numero della casa, l’ora in cui sono morti.

A Venezia un soldato austriaco si getta giù da un campanile. Il
popolaccio si scaglia su di lui, dacchè è piombato a terra; si strappa
il numero del suo reggimento, del suo battaglione; si spingono le
avide mani nella sua camicia insanguinata per trovarvi il numero di
matricola. Non v’è nessuno intorno che non consideri quel cadavere
siccome una preda mandata dal cielo.

A Rimini un condannato marcia verso il patibolo frammezzo a due
carnefici. Una vecchia lo segue eroicamente tra la folla, gli parla di
tempo in tempo, e quando non può accostarglisi più davvicino, gli fa da
lontano una smorfia supplichevole. È sua madre? Niente affatto, è una
giuocatrice che gli domanda dei numeri.

A Sonnino, quando ancor vigeva l’abitudine di racchiudere le teste
mozzate in gabbie di ferro, intorno ad una porta del villaggio, le
vecchie lottajuole si portavano a mezzanotte a pregare dinanzi a quelle
orribili reliquie. Pregavano, ma con attento orecchio, spiando ogni più
lieve romore. Il canto d’un gallo, il miagolio d’un gatto, il latrato
d’un cane, il rumore d’una carrozza che passasse di lontano sulla via
erano notati da quelle streghe siccome altrettanti avvertimenti del
cielo. Così gli antichi aruspici interrogavano la volontà degli Dei, in
quell’osservatorio all’aria aperta ch’essi chiamavano un tempio.


Non maravigliatevi di vedere il giuoco e la preghiera confusi insieme,
chè la religione si frammischia a tutti gli atti della vita. I Romani,
in questo commercio famigliare che mantengono colla Divinità, trovano
semplicissimo e naturale di cointeressarla nei loro minuti affari.
Un onorevole sacerdote mi ha raccontato che i suoi parrocchiani gli
offrivano grosse somme, perchè collocasse tre numeri sotto il santo
ciborio durante il sacrificio della messa. Non vale ragionamento a
provar loro, che cotesta soperchieria sarebbe un sacrilegio, e nessuno
potrebbe levar loro dalla mente, che i numeri così raccomandati a Dio
non abbiano a sortire alla prima estrazione.

Mi diverto talora a percorrere le iscrizioni eccitatorie, che
tappezzano le botteghe del lotto. L’una accerta che il giuoco si fa
lealmente, ciò che è vero; un’altra annuncia che le vincite saranno
pagate immediatamente; altra poi, che il vincitore potrà domandare la
moneta che più gli piace.

Ecco un distico di buon augurio, che occupa il posto d’onore in mezzo a
tutte quelle promesse:

    _Piccolo capital fa gran fortuna:_
    _La Madonna v’assista, or via giocate._

Nessuno si aspettava di vedere la Madonna pigliar parte in questo
affare; ma non dimenticatevi che la Madonna agli occhi degl’Italiani
è la più alta potenza del cielo. Essi parlano ben di rado di Dio, e
continuamente della Madonna. Quando si rimanda un povero senza dargli
un soldo, gli si dice: «La Madonna ti protegga!» ed egli ringrazia. Ho
inteso questa conversazione in un’osteria del Transtevere:

«Papà, d’onde vengono gli stranieri?

— Vengono dal paese di _Stranieria_.

— E com’è quel paese?

— V’è gran freddo, case di legno, profonda ignoranza, denaro a mucchi!

— Credono essi in Dio?

— No.

— Ma crederanno almeno nella Madonna?

— No.

— E che! Nemmeno nella Madonna?» Ecco il discorso d’un albergatore di
villaggio, che voleva convertire un giovane Inglese: «Ma, asino che
sei, non vedi dunque che il cielo, la terra, tu stesso, i tuoi abiti,
il pane che mangi, tutto viene dalla Madonna? È dessa che fece il
mondo, e bisogna essere più bestia delle bestie per ignorare tal cosa!»

Se lo spirito forte viene a regnare su questa terra, ei negherà forse
Dio, ma continuerà ad ardere cerei alla Madonna. Quando un uomo sta
per morire, si dice: «Andrà ben presto a veder la Madonna.» Tutti
gli ammalati che vengono a morire sono vittime di quell’_asino di
medico_; tutti coloro che sopravvivono, ne sono debitori alla Madonna.
Stiracchiano sul prezzo delle visite, ma non mercanteggiano la cera
alla Madonna di Sant’Agostino, che è la più venerata tra quelle
che s’implorano nella città. Tutte le colonne della sua chiesa sono
tappezzate d’_ex-voto_ d’oro o d’argento. La sua statua è oppressa
sotto il peso di oggetti preziosi, e possiede scrigni di cui sarebbe
gelosa anche una regina. Si narra che, avendo una ricca signora
offerto alla Madonna tutti i suoi diamanti senza consultarne il marito,
questi andò a lamentarsene dal papa. Trattavasi nientemeno che d’una
sostanza. Il papa autorizzò il reclamante a riprendere il proprio
tesoro, ma a condizione espressa che andrebbe egli stesso a cercarlo,
una domenica, dopo la messa. Ora i diamanti vi sono ancora. La Madonna
di Sant’Agostino ha un piede di bronzo, letteralmente consunto dai baci
della folla, onde bisogna rinnovarlo di tempo in tempo. Migliaia di
quadretti sospesi intorno a lei attestano i miracoli ch’essa ha fatto.
Ho veduto altre volte, entro cornice assai modesta, madama Ristori,
quasi soffocata da un fianco di scenario, e preservata dalla Madonna
di Sant’Agostino. Non so dove sia andato a finire quel quadretto; ma
non lo trovo più. Se la Madonna protesse una sera madama Ristori mentre
rappresentava la commedia, può benissimo arricchire di tempo in tempo
un povero giuocatore di lotto.


Consiglio agli stranieri, che hanno del tempo, d’assistere almeno
una volta all’estrazione di Roma. Vi si veggono delle belle figure
e vi si sentono delle curiose riflessioni. Il giuocatore che stette
sul punto di guadagnare ingiuria i numeri che lo rovinano. «Capite
voi, o signore, perchè siasi estratto il numero 37? Affè di Dio, che
m’importava di cotesto numero! In fede mia, cotesto 37 è un bel numero!
E non sarebbe stato cento volte più bello, più giusto e più cristiano
di cavare il 42? Avrei fatto la mia fortuna».

Un momento prima dell’estrazione tutti erano contenti. «Camerata,
diceva taluno, che bel giorno! — Andiamo a vedere qualche cosa di
nuovo,» rispondeva tal’altro. Ma dopo l’estrazione ambidue lacerano
i loro viglietti ingiuriando la sorte; si esortano scambievolmente a
rinunciare al giuoco, e poi entrano insieme nella bottega più prossima
per comprare altri numeri.

Ho trovato sulla piazza il domestico d’uno de’ miei amici, che sul
volto mostrava evidentemente di non aver guadagnato. «Signore, mi
disse, il mio terno non è sortito; ma non importa, era un bel terno!

— Fammelo vedere.

— Eccolo: 17, 56, 82! Non è egli vero che è un bel terno?»

Io non capiva perchè un terno potesse essere più bello che un altro,
e quel giovane rimase attonito della mia ignoranza. «E come, dissemi,
voi avete tanto studiato e non sentite ancora che 17, 56 e 82 formano
un bel terno?» Credo sul serio, che a forza di rimirare le cifre in
faccia, vi veggano, come Pitagora, ogni sorta di cose che non vi sono.

Un uomo del Transtevere disse al mio interlocutore:

«Io non ho mai giuocato altro che d’ambi, poichè so bene che un terno
non si prenderà la pena di sortire per un povero diavolo al pari di me.
Non desidero altro che guadagnare otto scudi per prender moglie, e la
Madonna me gli ha sempre rifiutati. Vedremo sabbato prossimo».

Eranvi intorno a noi varj Ebrei, dal muso lungo malcontento. «Sapete
perchè? mi disse uno de’ miei vicini: il perchè si è che non sono
sortiti che numeri grossi, e gli Ebrei hanno l’abitudine di giuocare
sui piccoli. Quando sortono cinque cifre al di sotto del trenta, v’è
festa al Ghetto.» Forse gli Ebrei s’imaginano eziandio che i numeri
piccoli siano più propizj alla minuta gente.


I Romani arrischiano piccolissime somme al giuoco, perciò il lotto
non ha mai rovinato nessuno. I più grossi giuocatori sono gl’impiegati
del lotto, che speculano sui viglietti. Profittano della circostanza
che il giuoco si chiude giovedì sera, e talora ventiquattr’ore più
presto, quando il giovedì è festivo. Siccome il pubblico difficilmente
si rassegnerebbe ad attendere fino al mezzodì del sabbato, a braccia
incrocicchiate, senza arrischiare alcuna combinazione, così l’impiegato
del lotto prende a proprio rischio alcune centinaja di viglietti,
e procura rivenderli con vantaggio. Ed è allora che l’interesse
personale, stimolante impareggiabile, s’ingegna d’ornare la bottega e
sedurre i passaggeri. Tutta la mostra è ornata di cifre infallibili. È
il terno della Fortuna; è un ambo sognato da un malato; è un estratto
apparso nelle nubi della sera. Spesso estratto, ambo e terno restano
per conto del mercante; spesso ancora ei si rallegra di non averli
esitati, poichè guadagna all’estrazione. Se perde due o tre volte
di seguito, e si lascia pigliare da dispetto, prenderà il partito di
viaggiare, dopo avere onestamente collocata la chiave sotto la porta.


Gli stranieri che vengono a Roma, cominciano dal biasimare severamente
il lotto. In capo a qualche tempo lo spirito di tolleranza che spira
nell’aria, penetra poco a poco ne’ loro cervelli; scusano quindi un
giuoco filantropico, che somministra al povero popolo sei giorni di
speranza per cinque soldi. E ben presto, per iniziarsi al meccanismo
della lotteria, entrano essi medesimi nella bottega, evitando di farsi
vedere. Tre mesi dopo, s’occupano arditamente d’una dotta combinazione,
e formano una teoria matematica, che volentieri firmerebbero col loro
nome. Danno lezioni ai forestieri sopraggiunti; erigono il giuoco in
principio, e giurano che un uomo è imperdonabile, se non lascia aperta
una porta alla Fortuna.


Ogni estate poi, senza pregiudizio del lotto corrente, si tiene certo
numero di tombole. La tombola è una partita di lotto giuocata all’aria
aperta dalla popolazione intera. Ciascuno prende un cartone, vi scrive
egli stesso quelle cifre che crede migliori. Chierici e laici, ricchi
e poveri, circondano l’ufficio della tombola; e l’estrazione si fa
in quell’amena villa, che il principe Borghese presta graziosamente
al popolo di Roma per passeggiarvi a piedi ed in carrozza. È un
immenso giardino, disseminato di monumenti di tutte sorta, e popolato
da numerosi armenti che vivono ne’ prati. Che vi pare d’un giardino
privato dove si fanno cinquanta mila fasci di fieno all’anno? Un
ippodromo di pietra, due volte più grande che il nostro ippodromo
di legno, serve di teatro alla tombola. Tutta la città vi accorre in
corpo, lasciando agli storpj ed ai paralitici la cura di custodire le
case.

Cotesta festa della Santa Moneta è solenne al pari d’ogni altra, e
più popolare che molte altre. Vi si vedono tanti cappuccini quanti mai
dietro le processioni più frequentate. Il sole, la musica, la toeletta,
l’interesse appassionato degli astanti, tutto vi concorre. Ma, zitti!
Si fa silenzio, il primo numero sta per sortire. Eccolo, proclamato da
una voce sonora, trasmesso di bocca in bocca, da un’estremità all’altra
dell’anfiteatro, mentre su grandi cartelli viene esposto a tutti gli
sguardi. Ognuno tiene il proprio cartone e vi segna i numeri estratti.
Il primo terno, la prima quaderna, la prima quintina subito si
annunciano e vanno a cercare il loro denaro sul palco de’ giudici, al
suono delle trombe. Se qualche stordito s’inganna e reclama il premio
senza averlo guadagnato, ritorna al suo posto in mezzo ad un uragano
di fischi. Il primo cartone tutto riempito guadagna la tombola e mille
scudi.

Il guadagno non è sì grosso nelle rustiche tombole che formano
l’ornamento immancabile di tutte le sagre di villaggio; ma si può
dire che, sia per cento od anche per cinquanta scudi, colui che vince
dimostra altrettanta gioja, ed altrettanta invidia colui che perde.
Guai a chi s’arrischia di guadagnare, se non è della parrocchia dove si
giuoca! Viene accompagnato a casa a sassate, ed il suo danaro gli costa
caro.

Non è molto che in un villaggio della Sabina tal sorte accadde ad un
contadino che abitava tre leghe lontano. Il vincitore era un uomo d’età
matura, dolce, paziente, tranquillo, flemmatico siccome un Normando
del paese di Caux. Ei s’intascò il danaro senza dir nulla, e s’accinse
a portarselo a casa. Ma la florida gioventù del villaggio si pose ad
attraversargli la via, e fu tanto peggio per tutti. Si cominciò con de’
motteggi, poi vennero gl’insulti, poi quell’uomo dabbene venne aggirato
siccome palla elastica. Egli consolavasi però, ricevendo qualche
pugno, poichè sentiva per la scossa suonare in tasca i suoi scudi. La
folla, incoraggita dal suo aspetto impassibile, si fece più audace, a
tal segno che colui fu costretto a rifugiarsi in un’osteria, anzichè
ritornare a casa sua. Fuvvi seguito e sempre perseguitato da grida e da
pugni; ond’egli, quantunque tranquillo e inoffensivo, ne venne al punto
che, avendo visto un coltello aguzzo, lo afferrò. Due minuti più tardi
v’erano nella parrocchia tre morti e quattordici feriti. Il vincitore
si trasse al largo, ed uscì da quella terra un po’ più ricco e molto
meno innocente di quello che vi era entrato. La notte appresso ei non
dormì colla moglie, ma si diresse dalla banda di Velletri, ed andò a
ricoverarsi nella _Pianura Morta_ a vivervi col denaro della tombola.




VII.

IL CETO MEDIO.


Lo si chiami borghesia, terzo Stato o ceto medio, esso è il fondo
medesimo de’ popoli moderni.

I plebei e gli uomini che vivono alla giornata col lavoro delle loro
braccia, sono in ogni paese una forza cieca, che dalla sua ignoranza e
povertà viene esposta a tutte le seduzioni della menzogna ed a tutti
gli eccessi dell’invidia. Quasi da per tutto bisogna fare conto di
questa plebe, ed io non conosco paese dove si possa contare su di essa.
È dovere ed interesse d’un buon governo d’illuminarla coll’istruzione
primaria, e d’interessarla alla pace pubblica, incoraggiandola a
formarsi un capitale. Da un lato le scuole, dall’altro le instituzioni
d’economia e di previdenza, aiutano i plebei a salire di grado ed
a farli entrar nella borghesia. Verrà tempo, siatene sicuri, in cui
non vi saranno più plebei, perchè ogni uomo avrà con sè un’educazione
sufficiente, ed un piccolo avere.

Le nazioni più incivilite sono quelle in cui la plebe più rapidamente
s’immedesima nel ceto medio, che deve assorbire ogni classe. Esso già
assorbe la casta aristocratica, ed è un processo che andrà a compiersi
prima della fine del nostro secolo.

Il feudalismo ha reso eminenti servigi all’Europa, ma ormai ha compito
il suo tempo. Dopo la rovina del mondo romano e l’invasione tumultuosa
de’ barbari, esso aveva creato un ordine fittizio e brutale, ma
regolare.

La monarchia assoluta, ch’era un passo verso il meglio, le diede colpi
vigorosi, che non solamente lo domarono, ma benanche lo trasformarono.
A datare dal secolo XVI la feudalità cambia nome, e chiamasi nobiltà.
Il gentiluomo è ancora superiore al villano, ma resta a cento leghe al
disotto del re. Obbedisce anzichè comandare, e compra a costo delle
più tristi umiliazioni il diritto di umiliare il popolo. Nel 1793 il
popolo, vale a dire il ceto medio, decapita la monarchia e la nobiltà,
e proclama il principio della eguaglianza degli uomini, che sarà poscia
discusso, controverso, eluso, ma non mai abolito.

Basta dare attualmente un’occhiata all’aristocrazia francese, per
convincersi ch’essa si fonde a poco a poco nel ceto medio. Le famiglie
nobili che sopravvissero al Terrore erano spogliate d’ogni patrimonio.
Le restituzioni di Napoleone I, ed i mille milioni degli emigrati
non le hanno rialzate che per poco tempo. Il codice civile, che non
ammette diritto di primogenitura, disfà le più colossali sostanze col
suddividerle. I privilegi da cui potevasi cavare un po’ di danaro sono
aboliti; gl’impieghi pubblici non sono più conferiti alla nascita,
ma al merito ed alla protezione, e se un gentiluomo del 1860 avesse
la pretensione di vivere senza occupazione, siccome i suoi antenati,
condannerebbe la sua posterità a morire di fame. Intanto i bisogni
aumentano, il lusso trascende, ciò che chiamavasi ricchezza cento anni
fa, basta appena al presente a costituire una decente mediocrità. Ora
che rimane all’aristocrazia del nostro paese? Essa si distingue ancora
dalla folla per la purezza di alcuni tipi, l’elevatezza di alcuni
caratteri, l’ostinazione di alcuni pregiudizj; ma è costretta, anche
suo malgrado, a deporre il suo disprezzo ereditario per l’industria, il
commercio e la finanza, ed a consacrarsi alle arti del ceto medio.

Cotesta graduale annessione di tutto un popolo alla classe più
intelligente e laboriosa è una delle cause meno conosciute della
nostra grandezza. Cotesta borghesia, della quale a torto deridiamo le
ridicolaggini e gli equivoci, di cui condanniamo l’egoismo e lo spirito
esclusivo, è però la forza più vivente della nazione francese. Si è
potuto decapitare la nobiltà nel 1793 senza fare gran torto al paese;
ma se la rivoluzione del 1848, com’erasi temuto un istante, avesse
decapitato la borghesia, noi eravamo spacciati. L’impero romano, così
saldamente costituito sotto il dispotismo democratico dei Cesari,
non potè sopravvivere alla distruzione del ceto medio: è perito per
mancanza di borghesia.

Osservate intorno a noi: la Svizzera ed il Belgio, affrancati ad epoche
diverse pel coraggio di alcuni borghesi, formarono due piccole nazioni
assai vigorose, perchè la classe media vi prospera e s’ingrandisce.
Una borghesia ricca e potente è la gran molla dell’Inghilterra,
e move quell’immensa macchina, che colle sue braccia avviluppa il
mondo. L’America del Nord, paese eminentemente borghese, divorerà
senza posa l’America del Sud, popolata da padroni e da schiavi. La
Spagna, degradata all’ultimo segno da’ suoi re e da’ suoi frati, si va
rialzando con rapidità maravigliosa dacchè essa ha un ceto medio. La
Russia col suo territorio, la sua popolazione, i suoi prodotti di ogni
specie, concentrati in una sola mano, sembra minacciar l’Europa, ed
inquieta certi politici; ma non sarà a temersi prima d’un mezzo secolo,
chè non occorre meno per creare, tra i servi ed i signori, un medio
ceto.


In Italia è la classe media che ha preparato la rivoluzione salutare
alla quale assistiamo. I capi del movimento nella pace e nella guerra
sono due uomini di genio, esciti dal medio ceto: Cavour e Garibaldi.
Ciò che ci ha permesso di sperare dal primo giorno che l’Italia
ricupererebbe la sua indipendenza, è lo sviluppo che il ceto medio
aveva preso, ed i progressi che aveva saputo fare, malgrado tutti gli
ostacoli frapposti dall’oppressione.

Se il re Vittorio Emmanuele è il sovrano predestinato della nuova
Italia, non è già solamente perchè è il principe più liberale ed audace
di tutto il paese; ma è sopratutto perchè il ceto medio è più colto,
più preponderante e più forte in Piemonte che altrove. Si trova pure
in Lombardia, in Toscana, negli Stati di Piacenza e di Modena, nelle
Romagne ed anche nel regno di Napoli una plejade d’avvocati, di medici,
d’ingegneri, di professori, d’industriali e di negozianti, i quali
da lungo tempo sognano, procacciano e meritano la libertà della loro
patria.


Roma non potrà essere affrancata che dopo Venezia e tutte le altre
città italiane. La religione e la diplomazia non sono le sole cause
di questo ritardo; si spiega eziandio per l’inferiorità relativa in
cui i padroni della città hanno abbassato e mantenuto il ceto medio.
Questa casta maltrattata si compone d’impiegati laici d’ogni specie, di
ufficiali d’ogni grado, d’avvocati, di bottegai, di medici, d’artisti,
di locatori e mercanti campagnuoli.


Gli uomini di questa categoria vivono fra loro sopra un piede
d’eguaglianza quasi perfetta: il colonnello, il ministro, il mercante
e l’avvocato appartengono al mondo medesimo. Essi sono generalmente
poveri, e quasi sempre dipendenti; la loro istruzione è modesta e la
loro educazione appositamente trascurata. La maggior parte sono clienti
di cardinali o di principi; esercitano alla loro volta una specie di
patronato sui plebei. Prodighi de’ complimenti e delle cortesie, che
sono la moneta corrente di Roma, hanno de’ modi sì rozzi di linguaggio,
che parrebbero intollerabili da noi. Si raccolgono tra loro entro una
specie di taverne, e prima di mettersi a tavola si tolgono volentieri
la loro cravata e depongono il loro abito. Nella loro giovinezza sono
abbastanza leggiadri, e s’abbigliano con civetteria, indossando fin
l’ultimo loro scudo. A quarant’anni si trascurano, prendono tabacco,
portano cravate a nodo fatto, rinunciano ai guanti, ma non già alla
carrozza. Il ventre vien loro facilmente, poichè il pane e le paste
formano il fondo del loro alimento, unitamente ad alcune insalate ed a
molti legumi verdi. Vanno essi medesimi al mercato, e di rado lasciano
alle loro mogli qualche soldo a disposizione.

I loro appartamenti sono più che semplici, il loro mobigliare è raro
e negletto. Non mancano nè d’intelligenza nè di finezza; hanno grandi
vantaggi a ritrarre dal loro spirito, ed inventano le più ingegnose
combinazioni per guadagnare molto danaro senza fatica. Si maritano
giovani, e la Provvidenza manda loro una moltitudine di figli, di cui
non sanno che fare. Religiosi tutti, ma non tutti probi, si lamentano
volentieri del governo, quando non temono d’essere intesi; accarezzano
i prelati, e cercano un’occasione di soppiantarli. Ecco come sono
tutti, o pressochè tutti; sonvi, ben inteso, delle onorevolissime
eccezioni, ma non posso valutarle a più del dieci per cento.

Le loro figlie hanno bei denti, grazie alla purezza dell’acqua ed alla
sua temperatura eguale; occhi grandi, cappelli in quantità prodigiosa,
belle spalle e nuca ammirabile; lineamenti regolari senza molta
finezza, naso ben fatto, labbra un po’ sdegnose, carnagione simpatica,
braccia ben tornite, mano perfetta, corporatura spesso tozza, gamba
pesante, piede troppo grande. È più grato il vederle che l’udirle,
chè spesso hanno la voce virile ed anche rauca. La loro educazione,
cominciata in convento, compita in casa, è ancora più negletta che
quella degli uomini, ignorando esse pressochè tutto quanto dovrebbero
sapere, e sapendo troppo bene delle cose che dovrebbero ignorare.
Diseredate dalle leggi a profitto de’ loro fratelli, bisogna che
adeschino i mariti con altre attrattive che non col danaro. Ricorrono
assai spesso ad una civetteria franca, aperta, seducente, libera,
allegra, niente affatto nebbiosa ed esente da ogni sentimentalismo
germanico. Esse non sanno frenare nè il loro appetito, nè la loro
pinguedine; non sognano al chiaro di luna; dicono altamente che se
l’usignuolo è piacevole a sentirsi gorgheggiare ne’ boschi, non è
pur cattivo a gustarsi cotto in un pasticcio di riso. Piace loro il
romanticismo, e volentieri scoccano qualche occhiata ad un giovane che
passi: s’inchinano qualche volta sul loro balcone, per iscambiarsi
de’ viglietti in cima ad una cordicella; ma cotesta confidenza e
cotesta libertà provano qualche cosa in loro favore. Non suppongono che
s’attenti a conquistare il cuor loro senza aspirare alla loro mano; e
questi amorucci innocenti sono, a’ loro occhi, delle vie di traversa
che guidano al matrimonio. Tanto son facili ad accendersi quanto sono
forti nel sapersi difendere. L’amante più pazzamente riamato non è più
nulla per esse, dacchè perde l’aureola di futuro sposo. Lo piangono
siccome morto, e dopo sei mesi s’accingono ad amarne un altro. Don
Giovanni e Lovelace perderebbero il loro tempo presso queste piccole
fortezze, facili ad investirsi, impossibili a prendersi. Quando poi
vengono sposate, esse recano al loro marito un’innocenza illuminata, un
candore istrutto.

Hanno conservato intatto il tesoro della giovane, tranne l’ingenuità.
Non manca loro nulla, tranne forse la lanuggine delle pesche
sull’albero. Sono come que’ frutti del mercato di Parigi, che sono
passati per sette od otto mani, prima che noi vi mettiamo il dente.


Dopo il matrimonio esse usano di qualche libertà, se la cronaca dice
il vero. Si pretende che i mariti compiacenti siano in gran numero nel
ceto medio, e che molte donne proveggano esse medesime ai bisogni della
loro toeletta; ma io credo che questo rimprovero sia, se non del tutto
ingiusto, almeno assai esagerato. Ecco i figli che vengono in lunga
fila; le prime rughe solcano la fronte, sopraggiungono gli anni, la
donna abdica, succede la madre, la civetteria si spegne, la toeletta
appassisce, e più non rimane che una specie di aja in veste di lana,
che cammina dietro le proprie figlie al passeggio del Pincio.


La borghesia romana rassomiglia sì poco alla nostra, che sarete senza
dubbio curiosi di passarla in rivista più dappresso. Entriamo nelle
file, e cominciamo dalle professioni liberali.

Marchetti, De Rossi, Lunati sono uomini eminenti che farebbero onore
a tutte le avvocature d’Europa; ma il volgo de’ legali è umilissimo,
timidissimo ed assai oscuro. I dibattimenti giudiziarj non sono
pubblici, e quindi non si sente la tentazione di far pompa d’eloquenza,
quando si perora al deserto. Spesso l’avvocato scrive invece di
parlare. Le sue memorie per tale o tale altro cliente sono tirate in
certo numero di esemplari. Se anche avesse l’ingegno di Cicerone, la
sua gloria non oltrepasserebbe quella meta. La sua fortuna procede
lentamente: piccoli onorarj, assegni fissi pagati da tre o quattro
famiglie ricche, che prendono al servizio un uomo di legge. Parecchi
luminari del foro servono di secretari e di consiglieri agli auditori
di rota: riassumono le liti e sviluppano le sentenze della corte
suprema. Ma se l’auditore di rota viene promosso al cardinalato,
il suo dottissimo segretario, il suo consigliere di gabinetto cade
direttamente sul lastrico. L’avvocato Vannutelli ha lasciato una bella
sostanza, ma perchè era l’uomo d’affari della famiglia Bonaparte.
Quanto siamo lontani dall’onnipotenza della tribuna antica ed anche
dalla nobile e brillante indipendenza del foro francese!

Ciò che mi fa sorpresa si è che in questo ceto modesto e subalterno vi
siano degli uomini di scienza e di coscienza.

I medici sono anch’essi del pari dipendenti. In una città, dove le
visite si pagano da venti a trenta soldi, un povero dottore morrebbe
di fame, se non fosse il cliente di qualche casa signorile. Ei riceve
quindi uno scudo al mese di qua, due di là, cinque o sei in altra
famiglia. Per essere al corrente degli affari, ei passa tutte le sere
dal farmacista all’ora dell’_Ave Maria_; poichè è appunto al farmacista
che l’ammalato s’indirizza quando ha bisogno del dottore, mentre il
domicilio del dottore è spesso sconosciuto. Quando passeggiate dinanzi
un farmacista verso le sei della sera, in inverno, vedete una mezza
dozzina di signori che si stringono intorno alla stufa, col cappello
sulla testa: sono altrettanti medici che attendono la clientela!
D’estate stanno sulla soglia, siccome i commissionarj a Parigi.

Sonvene molti che meriterebbero di vivere altrimenti, e potrei citare
certo numero di medici romani, i quali hanno, siccome il celebre
Baroni, onorato l’Italia ed illuminato l’Europa. Ma l’insegnamento è
sì debole, sì imperfetto ed impacciato da pregiudizj cotanto ridicoli,
che la massa de’ medici romani è rimasta in ritardo. Per dieci che
tengon dietro passo passo ai progressi della scienza moderna, se ne
contano trenta, i quali sono ancora alla terapeutica di Purgon. Quasi
tutti gli ammalati sottomessi alle loro cure fanno colazione con una
purga, e pranzano con un salasso. E di vero gli abitanti di Roma sono
i meglio purgati e meglio salassati di tutti i cristiani. Si salassano
quei poveretti che sono assaliti da febbre intermittente fino al giorno
in cui, sfiniti in pari tempo dalla malattia e dal rimedio, scendono
pallidi come larve nel sepolcro.

Alcuni medici di questo paese hanno ancora la jattanza chiassosa
de’ ciarlatani. Spiegano al malato, ad alta voce, e con frasi
inintelligibili, la causa de’ suoi patimenti. «Povera caduca creatura,
è il verme che ti tormenta; tu sei letteralmente vittima dell’_acrastia
vermi_. Per tua fortuna mi hai dimandato a tempo; il verme non è ancora
penetrato nel gran tabernacolo della vita. Vado a fermarlo nel suo
corso con un buon salasso, per tema che non profitti del movimento
della circolazione per avanzarsi di più: procederemo in seguito ad
espellerlo improvvisamente entro il torrente d’una purga detersiva».
Dopo otto giorni di trattamento, l’ammalato, vuote le budella come
un pollo sventrato, finisce per rendere un filamento bianco o rosso,
ed il medico esclama: «Rallegrati d’avere trovato un degno allievo
d’Ippocrate! La scienza ha fatto un miracolo di più; il verme è domato,
tu sei guarito!»

Eppure ho trovato ne’ dintorni di Roma un medico assai più modesto.
Era giovane, ed il farmacista l’aveva mandato in una casa, dove per
avventura mi trovava io pure. L’ammalato gli disse: «Non mi sento bene,
la mia testa è pesante, sono grosso, ho il collo passabilmente corto;
non mi curo di morir d’_accidente_: salassatemi.

— Volentieri, rispose il giovine levandosi l’abito. Il salasso è una
bella operazione, utilissima e facilissima; sì, facile davvero, sebbene
tutti gli uomini non siano egualmente destri. Non avete timore? Oh!
nemmen’io. Che è mai un salasso? Una puntura da farsi ad un braccio.
Ciò che importa è di non tremare.» Tremava però alquanto, ma si fece
coraggio in presenza del pericolo; trasse la sua lancetta, tagliò la
vena, ed ecco ne sprizzò un bel getto di sangue nella tazza. Il dottore
cadde a ginocchi esclamando: «Ringraziamo la Madonna! Questa volta sono
riuscito».

Quand’egli si fu rimesso dalla sua commozione, gli dissi: «Per bacco,
dottore, voi avete la mano franca, ed io stesso voglio confidarmi
alle vostre cure. Cotesto maledetto vento di scirocco, che spira da
due giorni, mi cagiona non so qual malessere, e provo molta fatica a
lavorare.

— Volete che vi purghi?

— Grazie.

— Bramate che vi salassi?

— Oh! mille grazie. Non abusiamo della bontà della Madonna.»

Ei ripigliò con certa esitazione: «E che fareste voi stesso?

— Son d’avviso che prenderei de’ bagni ai piedi, e ben caldi.

— Avete ragione. Sì, fatevi un bagno ai piedi, ve l’ordino. Poi, se
avete fede in me, andate a letto, e fate una preghiera a S. Andrea
Avellino, il cui intervento in questi casi è onnipossente».

La distanza è breve tra questo medico dozzinale ed il bottegajo,
sicchè posso osare il passaggio dall’uno all’altro. I mercanti ed i
bottegaj hanno alquanto cambiato di fisonomia da cento anni in qua.
Altre volte i magazzini del Corso rassomigliavano a bottegucce; ma ora
sono alquanto simili ai magazzini delle nostre città di provincia. Il
venditore ne’ tempi andati rispondeva con aria non curante: «Tengo
ciò che volete, ma ritornate dimani; è troppo caro». Ora mostra
maggior premura, ma la merce non vale di più. Roma non è il centro del
commercio intero, e quasi tutte le città si proveggono direttamente
in Francia od in Germania. La capitale basta a sè medesima con una
fabbricazione ristretta ed una importazione limitata. Gli stranieri di
passaggio vi trovano pressochè tutto, od almeno l’etichetta di tutti
i prodotti del mondo sopra merci falsificate. Il prezzo di tutte le
merci di lusso è esorbitante, la qualità detestabile. E ciò perchè
il mercante paga diritti abbastanza forti, vende poco, e suddivide
il suo guadagno con molte persone. I sensali, i servitori di piazza,
gli officiosi d’ogni specie prelevano una piccola parte. Voi volete
comprare un mobile, or bene il vostro domestico italiano sa dove se ne
vende, onde sarete condotto siccome filo nella cruna dell’ago sino ad
una bottega senza mostra, situata al primo piano d’una casa di magro
aspetto, che da voi stesso non avreste potuto trovare. Dopo che voi
sarete uscito, il mercante divide l’utile colla vostra guida, che dà
qualche cosa al vostro domestico. Pari mistero ad un bel circa copre
i negozianti di commestibili che vi danno da pranzo. A prima giunta
voi credete che vendano de’ giocatoli di carta indorata; poi venite
a sospettare che facciano in secreto il mestiere del confetturiere.
Bisogna dire certe parole perchè vi si mostri un bifteck, che non
è buono. La senseria ha tanta parte ne’ beneficj del commercio,
sicchè la medesima quantità dello stesso olio si vende sei soldi
all’ingrosso e quindici al minuto. Ora giudicate della parte che spetta
agl’intermediarj!


Gli operai romani sono generalmente abili, lavorano adagio adagio,
ma sanno fare certe cose a perfezione. Non vi sono al mondo case più
solidamente costrutte di quelle di Roma. La leggerezza de’ palchi
da costruzione è miracolosa; e non si ripara un edifizio se non
all’estrema necessità, e la vigilia del giorno in cui dovrebbe cadere.
Si toglie un mattone, se ne mette un altro, s’introduce una pietra in
una screpolatura; insomma, dopo alcuni mesi la costruzione si trova
rifatta a nuovo.


Non avete mai inteso la storia di quel calzolajo di Milano, che
fu dimandato da un general francese sotto il primo Impero? «Mio
giovinotto, disse il generale, ho bisogno d’un pajo di stivali fini;
ma non si fanno che a Parigi!» Il calzolajo s’inchinò, prese la
misura ed uscì. Otto giorni dopo ei provava al generale uno stivale
senza difetti, così esatto, elastico e fino siccome guanto. «Corpo
del diavolo! esclamò il vincitore, tu sei un demonio ben destro. Il
tuo stivale mi va benissimo; vediamo l’altro! — L’altro, soggiunse
l’operajo, lo farete fare a Parigi».


Se gli operai romani lavorano più lentamente che i nostri, egli
è sopratutto perchè non hanno danaro. Avevo ordinato un abito ad
un sartorello, la cui bottega prometteva certa agiatezza. Mi fece
aspettare più d’un mese, ed i pretesti che addusse basterebbero a
fornir materia per un atto da commedia. Da ultimo mi venne in mente di
anticipargli qualche scudo, e fui subito servito. Quasi tutti i mastri
muratori, i vetraj, ecc. che s’impiegano all’Accademia di Francia,
lavorano per anticipazioni che loro si fanno.

La mancanza di capitali è appunto quella che fa languire il commercio
e l’industria; ed è per la stessa causa che invano si cerca in Roma
quella borghesia indipendente ed illuminata, che è il più saldo
fondamento di tutte le grandi nazioni. È da credersi che il compimento
delle strade di ferro, facendo convergere verso Roma tutti i frutti
del paese, vi potrà creare un ceto medio degno di tal nome. Si
citano alcuni salsamentari che si sono arricchiti; ma la sola impresa
commerciale in cui siasi fatta una fortuna principesca è quella della
fabbricazione del pane. Vi ho già detto che i Romani erano i più voraci
mangiatori di pane dell’universo incivilito.

Gli operaj e mercanti, per miserabili che siano, non peccano mai per
eccesso di modestia. La loro vanità e la loro imprevidenza pareggiano
talora quella de’ plebei. Spendono tutte le loro economie due volte
all’anno, dapprima in carnevale, poi nel mese d’agosto, durante la
vendemmia. Amano la pompa, portano oro in catene, in anelli e pendenti
d’orecchie. Il nostro falegname, che somiglia appuntino a Calibano,
porta una turchese ad ogni orecchia, siccome i buffali hanno un anello
di ferro nel naso.

Jeri sera, risalendo per la via Frattina, intesi la chiusa d’una
conversazione tra un droghiere ed un legatore, che serravano le loro
botteghe. «E con tutto ciò, diceva il legatore, noi siamo Romani, i
primi del mondo».


L’affitto degli appartamenti mobigliati è stato per molto tempo la
principale industria del ceto medio. Quando bisognava viaggiare per
un mese o due per venire a Roma, gli stranieri non vi si fermavano
otto giorni. Vi passavano l’inverno, ma non all’albergo, chè gli
alberghi sono invenzione moderna. Di quei tempi adunque, una famiglia
romana, che avesse avuto almeno alcuni scudi a disposizione, assumeva
in affitto, di terza o quarta mano, tutto un piano sul Corso,
prendeva a nolo de’ letti per mobigliarlo, e l’offriva poi ai nobili
forestieri che arrivavano colle poste. Potevate avere, per mille
scudi, un appartamento che non ne fruttava cinquanta al proprietario
della casa. Il sopravanzo dividevasi fra il locatore principale, il
sottaffittuario, il mercante di mobili, l’impresario delle stanze
mobigliate, ed il servitore di piazza che vi aveva condotto fino alla
porta. Quest’uso non è scomparso del tutto, poichè varie famiglie, di
certa considerazione, non hanno altri mezzi per vivere. Abitano presso
di voi, in un cantuccio, aprono la porta, ricevono le vostre visite,
e si tengono compiacentemente al vostro servizio. Cotesto semi-grado
di domesticità non ha nulla che gli umilii. Del resto sonvi pochi
Romani del ceto medio che, a dritto od a rovescio, non siano un po’
domestici. Costui è avvocato ed intendente, colui è medico al servizio
d’un principe; questi è droghiere e cameriere, quegli è tabaccaio e
guardaportone d’un cardinale, e quell’altro è cuoco d’un marchese e
trattore. Chi non ha sentito parlare del trattore Lepri? È la taverna
più celebre di Roma, e dove si pranza peggio, ma a buon mercato.
Ecco in qual modo venne fondata. Il marchese Lepri era quasi rovinato
negli averi, quando il suo cuoco si offrì di nutrir lui e tutta la sua
famiglia a cinque soldi a testa. Non dimandava null’altro in compenso
che quello d’aprire una piccola trattoria presso la sua cucina, al pian
terreno del palazzo. Conchiuso il contratto, quel piccolo commercio
crebbe a segno, che il trattore traslocossi altrove, con sè portando il
nome di Lepri, che gli è rimasto. Ma osservate come tutto si altera in
questo mondo! ei s’intitola attualmente trattore della Lepre.


I soli borghesi veramente degni di tal nome, perchè raggiungono fortuna
e indipendenza, sono i mercanti di campagna. La loro industria consiste
nel prendere in affitto una vasta possessione, che coltivano con grande
appoggio di braccia, di bestiame e di capitali.

Se l’industria ed il commercio non brillano in Roma se non per la loro
assenza, l’agricoltura non trovasi nel medesimo caso: la città è come
un gigantesco podere in mezzo alla pianura più fertile del mondo. Il
suolo è si potentemente ferace che, malgrado l’insalubrità dell’aria,
malgrado la consuetudine, lo sciopero, l’insufficienza delle leggi
civili, l’indolenza de’ proprietarj, e la deplorabile distribuzione
de’ possessi, malgrado il pessimo stato delle strade, la capitale
del cattolicismo è attualmente la capitale del grano. Alcuni uomini
intelligenti, sorti dagli strati più modesti della plebe campagnuola,
hanno sparagnato alcuni scudi; i figli loro gli hanno fatti
fruttificare in speculazioni rustiche, i loro nipoti comprano capi
bovini, prendono un’affittanza, pagano cento cinquanta mila franchi
all’anno al principe Borghese, ovvero ad un altro, e ne mettono in
serbo altrettanti. Alla generazione seguente diventano conti, marchesi,
duchi, principi! Comprano il patrimonio, il nome e gli antenati d’una
grande famiglia decaduta, se loro piace discendere dagli eroi di Tito
Livio e non dagli schiavi di Catone.

In attesa di questa metamorfosi, il mercante di campagna abita, in
Roma od a Frascati, una vasta casa modesta e poco mobigliata, con
camere dipinte in calce, dove offre un’ospitalità cordiale, un vino
eccellente, e quattordici piatti di vivande succulenti. E voi mangiate
di tutto, ve ne prego, sotto pena di spiacergli. La sua conversazione
è solida e piena di cose, sopratutto se l’interrogate sui lavori de’
campi. Non è già ch’ei viva sempre nell’orizzonte della campagna
romana; ei viaggia di tempo in tempo. Ha fatto una gita a Londra,
ed una piccola sosta a Parigi; si propone d’andare a vedere suo
fratello, che trovasi a Vienna, e forse spingerà la sua corsa fino a
Costantinopoli. Non confondetelo coi Romani di professione, che non
hanno mai veduto il mare, e che parlano d’Albano per averne inteso
parlare. Il mercante di campagna è di tutti i paesi, siccome il grano,
siccome il danaro. Suo solo difetto è quello di ripetere fino alla
noja: «Siateci indulgenti, noi siamo gente di campagna.» Senza questa
modestia esagerata, si proverebbe un piacere perfetto a conversare
con esso. Ma scusatelo per un istante, bisogna assolutamente ch’egli
vi lasci. Egli ha collocato questa mattina medesima mille e seicento
mietitori in un campo di grano. Permettetegli di montare a cavallo, e
d’andare a vedere co’ propri occhi, se la grandine d’jeri sera gli ha
fatto perdere più di cento mila franchi. I suoi grani sono a due leghe
lontani di qua; fra poco più di un’ora ei sarà di ritorno, e tutto per
voi.


Ve lo mostrerò nell’esercizio delle sue funzioni, se mi fate l’onore di
seguirmi un giorno nella campagna. Per ora, levatevi il cappello, ecco
i signori impiegati.

Che moltitudine, sommi Dei! E chi dunque ci diceva che i laici non
pervenivano agl’impieghi negli Stati del Papa? — Non datevi la briga
di contarli: sono 8500, secondo l’ultimo censo ufficiale. Un uso
inveterato vuole che ogni personaggio importante, cardinale, prelato
o principe, si dia cura di alloggiare i propri clienti ed amici in
qualche posto del governo. La moltiplicità degl’impieghi e la modicità
degli onorarj procedono da ciò, e sono due veri flagelli. Si procura
d’accontentare tutti, senza però dar fondo al tesoro. Tutti cotesti
signori sì ben collocati ricevono assegni molto modesti, ad eccezione
di cinque o sei. La gran maggioranza s’accontenta da venticinque a
cento franchi al mese, e coloro che arrivano a cinquanta scudi sono
personaggi di vaglia. Ecco de’ governatori e vicegovernatori di città,
che amministrano e giudicano, che hanno il diritto di mandar un uomo
alle galere per cinque anni, e percepiscono dall’erario 125, 100, ed
anche 60 soli franchi al mese! Ecco de’ giudici di prima istanza a
100 franchi, de’ consiglieri della corte d’appello a 350. Sono pagati
meno che gl’impiegati del lotto. Se siete curiosi di sapere come
facciano a vivere, è un secreto che posso svelare senza scandalo. Il
capo divisione del ministero delle finanze è in pari tempo incaricato
della tenuta de’ libri d’un mercante di campagna. Non sono due ore
che un domestico del fittajuolo è venuto a pungerlo al suo ufficio per
certe scritture in ritardo. Questo impiegato del Senato discende dal
Campidoglio una volta al giorno per ordinare delle cifre al Ghetto,
nella retro-bottega d’un israelita. Costoro crescono clandestinamente
la propria rendita con qualche _incerto_, che ottengono stendendo la
mano a proposito. Coloro sono troppo altieri per stendere la mano; la
introducono furtivamente nella cassa. Ecco un gruppo di persone oneste,
che servono lo Stato con zelo assiduo, disinteressato, direi quasi
eroico. Può darsi che taluno d’essi arrivi per caso a qualche impiego
elevato; ma la plebe che non stima, se non le grandezze ereditarie
od ecclesiastiche, difficilmente li tratterà con serio riguardo.
Non perdonerà loro nè l’umiltà della sua nascita, nè le funzioni
modeste sostenute. L’aristocrazia lo terrà rigorosamente a distanza
e gli chiuderà le sue sale; il clero vedrà in lui un intruso, che ha
raggiunto il suo scopo per vie tortuose. Alla prima occasione proverà
la sorte del povero Campana. Del resto, debbo confessare, che queste
fortune politiche sono assai rare. Non solamente i cittadini più onesti
e più capaci sono allontanati dagli alti impieghi, ma essi medesimi se
ne tengono lontani e prendono altra via.


L’esercito spetta alla plebe pei soldati, ed al ceto medio per gli
ufficiali; non occupa un grado fra i corpi dello Stato, e non forma,
siccome in Francia od in tutti i paesi militari, una classe distinta
ed onorata. Le menti non sono ancora avvezze a considerare nel soldato
qualche cosa più che un uomo del popolo, e gli spallini d’ufficiale non
sono distintivo di nobiltà, ma sibbene quello d’un impiego come tutti
gli altri. Questa specialità merita un capitolo completo; ed io la
differisco per trattarla a fondo.

Ma non mi congederò dal ceto medio senza farvi osservare quella
piccola schiera di bottegaj in uniforme. Vanno di questo passo al
Vaticano ad occupare la seconda anticamera, fra gli Svizzeri e la
guardia nobile. Si presteranno loro de’ fucili per la giornata, ed
essi li restituiranno all’uscire. Questa guardia nazionale si chiama
la _scelta_. Si veste a proprie spese, ma credo che ciascuno degli
_scelti_ riceva nove scudi all’anno, ed una dote di 300 franchi quando
marita una delle sue figlie.




VIII.

GLI ARTISTI.


Si trova ancora a Roma un certo numero d’artisti distintissimi. Io non
ho la pretesa di far conoscere all’Europa i nomi de’ sig. Tenerani,
Podesti, Calamatta, Mercuri. Ma mi sorprende che questi nomi abbiano
potuto morire in una città, ove l’arte è un ramo d’industria coltivata
da un certo numero di borghesi.

Gli artisti di tutti i paesi appartengono alla classe media, ma è in
Italia solamente ove fanno parte integrante della borghesia. Gli studi
dei pittori hanno nello stesso tempo della fabbrica e della bottega.
I teatri sono magazzini in cui si danno a buon mercato delle derrate
indigene di qualità mediocre e delle merci estere adulterate dai
venditori.

I nostri borghesi di Parigi hanno tutti, secondo la loro età e la loro
educazione, un pregiudizio favorevole o contrario agli artisti. Un
commesso di negozio crede onorarsi bevendo l’acquavite con un buffone
del Palazzo Reale; il padrone dello stesso negozio trova che il suo
commesso si compromette in sì cattiva compagnia. I giovani borghesi che
incontrano un lavapennelli nella contrada dei Martiri, lo considerano
come un essere superiore all’umanità; gli uomini d’una certa età e
d’una certa agiatezza non sono alieni dal vedere in lui una creatura
degradata dall’abuso dei colori forti. Dal canto loro gli artisti
affettano quasi tutti un profondo disprezzo per la casta borghese; che
fa pagar care le pigioni e compra pochi quadri. I commedianti stessi,
che sono mantenuti dalla borghesia, non fanno alcun caso dell’opinione
dei borghesi. Non istimano che gli applausi d’una trentina di persone
che hanno pagato i loro posti. Anche i nostri autori scrivono per
essere ammirati da un piccol numero d’individui che non comprano molti
libri; si fa loro un rimprovero sanguinoso allorchè si accusano di
lavorare per i borghesi. Scrittori, pittori, scultori, compositori,
cantanti e commedianti vivono da noi meglio o peggio, ma per certo in
modo diverso dei fabbricatori di berrette.


Si suppone generalmente in Francia che i difetti e le doti de’
nostri artisti si ritrovino negli artisti italiani con quella dose
d’esagerazione che il clima comporta. Del pari che le piante senz’odore
dei paesi temperati prendono un olezzo violento all’avvicinarsi
dell’Equatore; come i serpenti inoffensivi del Nord fanno delle ferite
mortali nel Mezzodì, così taluni s’imaginano volentieri che i talenti
ed il carattere dell’artista si scaldino e s’irritino ai raggi di un
sole più ardente. Il teatro ed il romanzo francese vengono a cercare
in Italia dei compositori nervosi, dei poeti arsi dalla febbre, dei
pittori ebbri di gloria, delle cantanti di fantasia esaltata, che
fabbricano castelli in aria. Oh! la buona gente che noi siamo!

Cominciamo dalla gente di teatro, e vedrete come rassomiglino poco
ai ritratti che ci furono dati. Il direttore è un uomo che ha poco
denaro da arrischiare. Egli domanda il permesso di rappresentare la
commedia per tre mesi in uno de’ teatri della città; un protettore
risponde della sua moralità, e la polizia consente: eccolo direttore.
L’anno scorso era mercante di campagna; l’anno prossimo speculerà sulle
somministrazioni dell’esercito; nello stesso momento se l’introito
non va bene egli si rifarà sulla pesca delle acciughe di cui ha il
monopolio.

La sala in cui stenderà le sue reti al pubblico è una sorta di pozzo
con dei palchi tutto all’intorno e la platea in fondo. Contate sei file
di palchi tutti uguali e disposti nello stesso ordine delle finestre
di una casa. La platea e l’orchestra sono tutt’uno; vi sono delle
panchette comode, e vi si gira comodamente. I palchi si affittano a
stagione o seralmente a prezzi eccessivamente bassi; essi sono forniti
di sedie di paglia; il locatario è libero di mettervi delle poltrone.
L’illuminazione costa poco, perchè la sala è un po’ meno scura d’un
forno. Le riparazioni consistono in uno strato di pittura a guazzo, che
non si rinnova di sovente.

L’amministrazione si compone di due impiegati, di cui l’uno vende i
biglietti in una bottega vicina, e l’altro li riceve all’entrare in
platea. Non vi è alcuna controlleria, e non vi sono operaje; ognuno
arriva col suo biglietto o colla sua chiave, secondochè va in platea od
in palco. Il vestibolo serve di sala d’aspetto; si può anche passare il
tempo fra un atto e l’altro, passeggiando in istrada.

Se l’impresario giudica a proposito di offrire a questo _rispettabile
pubblico_ una stagione d’opera, egli affigge preventivamente un
proclama a’ suoi _Mecenati_; poi strombetta con grande sfoggio di
elogi i nomi degli autori, dei compositori e degli artisti che ha
scritturato. I primi soggetti sono pagati ragionevolmente, molto meno
che a Parigi, ma hanno di che vivere all’italiana. I coristi ed i
suonatori si raccolgono in un momento, perchè di questa merce ve n’è
sempre abbastanza, e nulla qui abbonda quanto la mediocrità.

La prima cantante assoluta è una buona madre di famiglia; le sue
sei _creature_ hanno avuto l’attenzione dilicata di non guastare
minimamente la voce della loro mamma.

Suo marito è un baritono, talvolta un gentiluomo rovinato ch’essa
mantiene. Non temete ch’ella gli sia infedele; essa ha troppo da fare.
Gli spettacoli, le ripetizioni, i figli, e la cucina assorbono tutta la
sua anima. Però, essendo donna, darà forse un colpo o due di temperino
nel contratto, ma ella non abbandonerà giammai suo marito per cantar
meglio. Vi è molta semplicità, molta bonarietà, e dell’onestà vera in
questa prima donna, semprecchè il lusso di Parigi e di Pietroburgo
non le abbia fatto girare la testa. Suo marito è per essa un mobile
necessario, che la conduce e la riconduce a casa dal teatro, firma le
scritture, guida i piccoli ragazzi alla scuola, e fa le provviste per
la cucina.

I cantanti e le cantanti non sono nè più bene nè più mal visti degli
altri borghesi. I gran signori li ricevono la sera e danno loro del tu.
Hanno dei parenti bottegaj che li riconoscono volontieri. Sono un poco
invidiati allorchè guadagnano molto denaro, e si compiangono quando
trascinano i sandali. Hanno imparato la musica, come avrebbero studiato
la legge, l’arte di cucire, o la medicina. Gli applausi arrecano
loro piacere, e non si suicidano se non quando loro accade d’essere
fischiati. Del resto si applaudiscono ogni volta che lo meritano un
poco. L’Italia è più entusiasta della Francia. Noi siamo gelosi dei
nostri artisti come dei nostri uomini grandi, e noi rimproveriamo loro
gli applausi che ci strappano. L’Italia guasta i suoi. L’abitudine
di richiamarli dopo ogni pezzo è sì forte, che fa mestieri lasciare
un’apertura in mezzo al sipario. Per poco successo che abbiano, non
fanno che entrare ed uscire fino a mezza notte passata. La critica
non impedisce loro giammai di dormire; se un uomo, che ha buon gusto,
avesse qualche buon consiglio da dar loro, sarebbe obbligato di
scriverlo sui muri, e ciò per la semplicissima ragione che non vi sono
giornali.

Ognuno di essi, verso la fine della stagione, dà una recita a suo
beneficio. Va in persona, allungando il collo, a portare le chiavi di
palco ai gran signori. Glielo si paga più caro del prezzo d’affitto
solito, ed egli ringrazia umilmente. All’ora dello spettacolo egli
siede in persona sotto il vestibolo del teatro, dietro un vasojo
d’argento, ove ciascuno getta la sua offerta: egli s’inchina in segno
di ringraziamento per una moneta di venti soldi.

I poveri diavoli dell’orchestra e dei cori fanno tutti qualche altro
mestiere per vivere. Il cumulo è di moda e di necessità nel paese. Ieri
ho preso un calesse da un mercante di sementi che dà legni a nolo, ed
il cocchiere si trovò essere un cantante del teatro Argentina.

Il teatro si apre con un’opera in tre atti, d’un divino maestro, il
cui nome non giungerà fino a Parigi. È maestro di cappella d’un gran
duca microscopico, o cliente di qualche principe romano. S’alza il
sipario, il tenore canta un’aria, il pubblico applaudisce. A questo
segnale si va a cercare entro le scene un omicciatto in paletot
nocciuolo e in cravatta a quadretti. Un artista lo conduce innanzi
la rampa, ed egli saluta profondamente: è l’autore. Lo si richiama ed
ei ritorna. Alla fine di ciascun pezzo, gli applausi lo fanno tornar
fuori, una volta, due volte, tre volte; la sua povera schiena non
ne può più. Questo giuoco in apparenza gli piace, perocchè invece di
togliersi all’affronto di una tal gloria egli si è trattenuto fra le
scene, come un lacchè in un’anticamera, aspettando il beneplacito del
pubblico. Conviene in verità che le sue orecchie sieno ben affamate,
perchè eccolo ora che viene da sè stesso, al primo rumore d’applausi,
senza che un sembiante di violenza scusi un trionfo sì basso. Alla sua
quattordicesima genuflessione un ribrezzo mi assale, ed esco. Il primo
atto era quasi finito.

Ciò che può sembrare inverosimile, è l’entusiasmo d’un uditorio che
paga per un’opera mediocre ed eseguita debolmente. Gli applauditori
non esistono qui; è il vero pubblico che si sfiata a tutta gola a
gridare bravo, e batte le mani fragorosamente. Io non ho osservato se
le persone del bel mondo prendessero i sorbetti o parlassero d’affari
durante la recita. Essi ascoltano con tutte le loro orecchie ed
applaudiscono con tutto il loro cuore. I Romani di Roma fanno gratis
e vigorosamente ciò che i Romani di Parigi fanno mollemente e a prezzo
d’oro.

In capo alla stagione di tre mesi, l’impresario che ha dato tre opere,
compreso una nuova, si ritira con gloria. Egli ha perduto un po’ di
denaro; se ne consola, facendo scolpire sopra una lastra di marmo
alla porta del teatro i successi che ha ottenuto e la riconoscenza del
popolo. Talvolta va a cercar fortuna altrove; alcune volte pure, per
rifarsi, tenta una stagione di drammi e commedie.

Egli ha avuto cura di assicurarsi il concorso di tre o quattro
avvocati; è l’avvocato che scrive le commedie. I poeti della compagnia
sono annunciati sul programma in seguito agli attori. Il più delle
volte questi signori si accontentano di tradurre i drammi ed i
_vaudevilles_ di Parigi. È così che Terenzio e Plauto s’inspiravano
alla commedia greca; ma Terenzio e Plauto non iscrivevano le loro
traduzioni _currenti calamo_. L’autore romano raramente si nega il
piacere di firmare l’opera che ha tradotto; vecchia abitudine d’un
popolo conquistatore. Qualche volta si cancella il nome dell’autore,
e si lascia credere al pubblico che la produzione si è fatta da sè. Il
signor Eugenio Scribe è il solo che abbia il privilegio d’essere sempre
nominato. Il pubblico romano non ama che le produzioni francesi. Vi
piange, vi ride, e vi applaudisce. Ma di quando in quando il suo amor
proprio si ribella contro il suo gusto. «E che! dice la platea, siamo
Romani ed applaudiamo agli autori francesi!» Dopo ciò, si fischia,
solo per dar principio, la produzione che aveva piaciuto di più.
L’anno scorso a quest’epoca il pubblico si mise a fischiare per un
nonnulla il suo autore favorito. Questo giovine comprese subito ciò che
gli si voleva dire. S’incrociò tranquillamente le braccia e rispose:
«Signori, confesso che noi facciamo malissimo a porgervi tutti i giorni
delle derrate estere. Noi c’impegniamo da oggi in avanti a darvi
esclusivamente delle commedie nazionali.... tostochè però i vostri
signori autori si daranno la pena di farne.»

I signori autori vi si accingono di tanto in tanto, ed è allora che
si vedono comparire tante puerilità morali e stiracchiate: _Egoismo e
buon cuore; l’Orfano vendicato; un tardo ravvedimento; gl’inconvenienti
di un temperamento focoso_, ecc. ecc. Il pubblico sbadiglia un poco a
queste rapsodie, ma qualche volta anche vi piange. La sua sensibilità
superficiale si scioglie in acqua, per poco che un padre benedica i
suoi figli, o che un peccatore chiegga perdono de’ suoi falli. Gli
autori che gusta di più sono quelli che mandano fuori una voce sì forte
da far crollare la sala, o che girano due occhiacci bianchi in modo da
farli quasi uscire dalla loro orbita.

Fra i rari scrittori, che lavorano per il teatro, vi sono alcuni
distinti allievi di Goldoni. Moderati nel comico e nel patetico, non
mancano però nè d’invenzione nè d’eleganza. Ma il buon volere della
platea e gli applausi d’un pubblico che non è abbastanza esigente, lo
avvezzano ad accontentarsi di troppo poco. Essi adattano un dialogo
leggero ad un argomento un po’ fiacco; innestano qua e là alcuni
squarci morali o sentimentali, e la commedia è fatta. Un autore inglese
non è contento, se non ha incastrato due o tre azioni nel suo dramma;
i drammaturgi italiani ne prendono a loro piacere, e non temono di
sviluppare in cinque atti un semplice aneddoto. Lo spirito irrequieto,
violento, esorbitante dell’Inghilterra, il genio facile e scorrevole
dell’Italia si tradisce in ciò come in tutto.


La censura è inetta a Roma, come in tutti i paesi afflitti da una
censura. Non vi è nulla di più irriprovevole delle moralità drammatiche
che s’inventano in Italia, e Bossuet stesso farebbe grazia al teatro,
se potesse vedere solamente una volta il _tardo ravvedimento_.

Ma l’uomo a cui si danno le forbici per tarpare le ali al pensiero vuol
guadagnarsi il salario con coscienza. Ei cavilla su delle bagattelle
innocue, ed è dotato d’un olfatto particolare per trovare il pericolo
dappertutto ove non c’è. Si è costretto il traduttore a cangiare il
titolo del _Birrajo di Preston_, perchè _Birrajo_ suonava quasi come
_sbirrajo_. Si dovette adottare nell’interesse della quiete pubblica,
_il Liquorista di Preston_.

Nella traduzione di _Diana de Lys_, si sono tolte queste parole:
_ordinate i cavalli_. Non si ordinano i cavalli, disse il censore,
non si ordinano che i preti. In ricambio, egli lasciò passare delle
indecenze che il pubblico dei Funamboli di Parigi non tollererebbe.


I commedianti di questo paese sono tutti d’una mediocrità tollerabile,
come gli altri artisti; essi non mancano nè d’intelligenza nè di zelo,
e a vederli recitare alla sera, non s’indovinerebbe mai che hanno letto
la parte alla mattina per la prima volta. Li troverete qualche volta
eccellenti nelle commedie familiari di Goldoni, lo Scribe italiano.
Mi sembrarono quasi tutti buoni jeri l’altro nella _Fiammina_ ovvero
_un’espiazione_ commedia anonima. Daniele Lambert e sua moglie non
avevano altro difetto che di fare stralunare gli occhi, ogni qualvolta
la situazione volgeva al patetico. Il solo rimprovero da farsi a
Silvano Duchâteau, è che entrava dappertutto col suo cappello abbassato
fino alle orecchie. Malgrado alcune incongruenze di azione, malgrado il
berretto greco di pittore e il fazzoletto rosso col quale s’asciugava
la fronte, il dramma produceva un’impressione profonda. I gendarmi
di servizio piangevano a calde lagrime. In quanto a me non potei
trattenermi dal ridere vedendo lo scioglimento aggiunto dal traduttore.
Daniele Lambert perdona a sua moglie, le apre le braccia e dice al
giovane Enrico: Noi saremo due ad amarti. Silvano Duchâteau aggiunge
immediatamente: Io e mia sorella, faremo quattro. Il sipario cade su
questa goffaggine: lasciamolo cadere.


Per quanto modesta sia la letteratura drammatica, essa è ancora ciò che
si trova di più brillante in questo paese. Si stampa di tempo in tempo
una dissertazione sulle piaghe di N. S. Gesù Cristo; un’offerta al cuor
di Maria, modello di diacono cristiano; una vita di Santa Geltrude di
Frosinone, oppure del beato Nicola da Velletri; alcune edizioni purgate
di un classico latino, qualche trattato elementare d’astronomia o di
archeologia. La stampa periodica si riduce a due piccoli fogli politici
del formato del Charivari. Essi rendono conto delle cerimonie celebrate
a Roma, e dei grandi avvenimenti accaduti all’estero. S’intitola
_Giornale di Roma_, e l’altro _Il vero amico del popolo_. Dell’uno
e dell’altro si tirano alcune centinaja di copie. Citerò per ricordo
alcune altre pubblicazioni effimere, che tentano di vivere togliendo
dagli altri, e la _Civiltà Cattolica_ che ci onora qualche volta colle
sue ingiurie.


Ne ho detto abbastanza su tal argomento, imperocchè non è nè il teatro
nè la letteratura che attirano i viaggiatori a Roma. Questi sanno
che gli spettacoli vi sono soltanto tollerati, e che da due secoli
non vi si fa nulla per incoraggiare gli scrittori; ma è mio dovere di
combattere un pregiudizio ridicolo di cui gli Americani, gl’Inglesi
ed i Francesi stessi sono le vittime. Si crede ancora a Nuova-York, a
Londra ed a Parigi che i pittori e gli scultori romani siano i primi
del mondo, come ai tempi di Raffaello. Roma possiede un piccolissimo
numero di veri artisti e una plejade di fabbricatori che vivono sulla
riputazione de’ loro antenati. Non v’è ricco viaggiatore che non si
creda obbligato di portar via da Roma una statua, qualche quadro ed un
ritratto. Le fabbricerie delle nostre parrocchie del Mezzodì, quando
hanno da commettere qualche oggetto di marmo, si dirigono volontieri
ad uno scultore Romano. Gli Americani arricchiti dal commercio o da un
fallimento si fanno costruire un tempio greco sull’orlo d’una foresta
vergine; ed affinchè l’interno della casa sia in armonia coll’esterno,
si viene a Roma con gran pompa; si fa man bassa, colla borsa in mano,
in tutti gli studi, e si porta via un assortimento d’oggetti d’arte. Io
ebbi il piacere di accompagnare un gentiluomo di Cincinnati in una di
queste precipitose spedizioni. Egli era venuto a Roma verso la fine di
aprile e non poteva restarvi che tre giorni. Era poco, nonostante trovò
il tempo di vedere la città minutamente, di comperare un centinajo di
quadri e una mezza dozzina di statue, e di farsi fare un busto ed un
ritratto in piedi. «L’occasione è favorevole, mi diceva egli, uscendo
dall’albergo. Secondo le informazioni che ho preso, l’estero ha dato
poco: quest’inverno i magazzini degli artisti sono ingombri: i quadri
sono ribassati del venticinque per cento dall’anno scorso; i marmi sono
più sostenuti, dicesi, eppure le prime marche hanno ceduto da dieci
a quindici per cento dal 1.º marzo in poi.» Ei disse al servitore di
piazza che ci conduceva «Andiamo, giovinotto! dal primo scultore di
Roma!»


Il mariuolo non se lo fece dire due volte; egli era avvezzo a questa
sorta d’ordini, e sapeva la strada di cinque a sei studi ove si danno
le mancie più abbondanti. La carrozza si fermò dinanzi l’insegna d’un
celebre marmorino. Il padrone raschiava negligentemente una figurina
di terra, intanto che venivano gli avventori. Egli ci corse incontro
con lo stesso zelo del miglior capo di negozio in un magazzino di
Parigi. Ciò non accade senza gettar un’occhiata di convenzione col
galantuomo che vi consegnava nelle sue mani. Una volta ch’ebbe preso
possesso delle nostre persone ci fece passeggiare in uno, due, tre,
quattro, e cinque studi successivi; ci spiegò il soggetto di tutte le
sue composizioni, ci fece fermare davanti tutte le statue che aveva
fatto in vita sua, e citò i nomi di tutti i personaggi che ne avevano
commesso una copia. Tale figura era stata venduta successivamente a
dodici stranieri, ed il modello era sempre là, pronto a servire. Se
n’era appunto terminata una copia; un’altra era abbozzata, un’altra
punteggiata. Io ammirava fra me l’ingenuità degli scultori francesi,
che vendono col marmo la proprietà della loro opera. Gl’Italiani non
sono sì pazzi. Allorchè vi danno per 15000 franchi una Psiche od un
Adone, si riservano il diritto di ricopiarli in grande ed in piccolo,
finchè vi saranno degli amatori per prenderli.

Io non avrei voluto prendere nulla in questi magnifici studi,
quand’anche mi si fosse dato tutto per niente. Il cattivo gusto delle
composizioni gareggiava colla trivialità delle figure e la mollezza
della modellatura: sotto la mano di quaranta bravi praticanti il
marmo diventava burro. Il mio Americano per lo contrario era in
estasi. Ciò che gli faceva più meraviglia era la purezza del marmo di
Carrara, bianca come lo zucchero meglio raffinato; era la lisciatura
incomparabile che un operajo armato della _pietra del Bernino_ dava
a questa materia preziosa; era la perfezione colla quale gli allievi
cesellavano gli accessori, attributi, sedie, abiti di seta, merletti,
piume, libri, fibbie di scarpe, bottoni d’abiti. Gli scultori italiani
hanno una superiorità positiva su tutti gli altri in tutto ciò che non
è del dominio dell’arte.

Ci si mostrò dell’antico e del moderno, delle figure mitologiche, una
tomba destinata ad una chiesa di Roma, un monumento ordinato dalla
repubblica di Guatimala; una collezione di busti sempre mediocri,
talvolta ridicoli, in cui la borghesia di tutte le nazioni dell’Europa
sfoggiavano le sue acconciature, le sue ciocche di capelli, i suoi
favoriti, i suoi fiumi di diamanti serpeggianti fra due cavità, le
sue cravatte annodate matematicamente intorno ad un colletto rimesso.
Devo dire che ciò che mi urtava meno, erano le figure allegoriche.
Alcune ricordavano discretamente i capolavori dell’antichità; esse le
ricordavano perfino un po’ troppo. Io salutai qui il braccio della
Venere del Campidoglio, il torso della Venere di Milo; più in là le
gambe della Venere de’ Medici. L’Americano comperò quattro figure
di donna, consegnabili in luglio, però non senza tirare alquanto
di prezzo, benchè stretto dal tempo. Per giunta voleva avere il suo
busto, ma il venditore non volle saperne. Io non vi ho sopraffatto
nel prezzo d’un solo scudo, diceva egli, com’è vero che sono un grande
artista! Quel ch’io guadagno con voi è ben poca cosa; i miei profitti
sono limitati dalla concorrenza, ed io non faccio che cambiare il mio
denaro. Il lavoro di una cava di marmi mi costa un occhio del capo;
perocchè li faccio cavare io stesso, per averli senza difetti. Il
bastimento che li trasporta a Roma è mio, e devo mantenere l’equipaggio
per tutto l’anno. I miei praticanti mi mangiano vivo. I miei studi
rappresentano un capitale di 200,000 franchi, a’ cui interessi vanno
aggiunte le spese generali dello stabilimento; perciò se volete il
vostro busto che sarà certamente un capo-lavoro, aggiungerete tre
mila franchi al totale della commissione. L’Americano si lasciò
convincere. Il padrone fece un segno, e tosto uno de’ suoi allievi si
mise all’opera; scelse fra cinque o sei busti già abbozzati, quello che
rassomigliava di più al mio compagno, prese alcune misure col compasso,
ritoccò la fronte, rotondò il naso, aggiunse i baffi, rinforzò i
favoriti, e dopo una seduta di due ore la parte più importante del
lavoro era fatta. Tornate domani, disse il padrone; sono io che finirò
il ritratto mettendovi la rassomiglianza. Domani sera modelleremo, dopo
domani toglieremo il gesso, e il marmo sarà recato a bordo della nave,
insieme agli altri capi acquistati il 31 luglio. Dopo di ciò il modello
strinse la mano all’artista con un ammirazione sincera ed uscimmo. Ciò
che sopratutto lo lusingava, era di avere a che fare con un uomo che
maneggiava dei grossi capitali.

A Dio piacesse, soggiunsi io timidamente, che maneggiasse ugualmente
bene la terra creta! Tentai di dimostrargli con una critica eloquente,
che il più modesto allievo della nostra scuola di Belle Arti, era un
Michelangelo a petto di tutti questi fabbricatori! Gli spiegai per
qual motivo non avevano inviato nulla all’esposizione universale; egli
è perchè i prodotti toccati e ritoccati delle loro manifatture non
avrebbero potuto essere collocati che come pietre di confine al di
fuori dell’edifizio. Ei si turava ostinatamente la bocca, e cantava
colla sua voce pretta americana. «Roma nutrice delle arti!»


Il servitore di piazza si buscò una seconda mancia conducendoci da
un pittore rinomato. Seppi di poi che non ci avea condotti presso
il peggiore della città, ma il diavolo mi porti se io me n’ero
accorto nello studio! I marmorini romani, per quanto siano mediocri,
devono avere la precedenza sui fabbricatori di pitture. È qui che le
composizioni sono triviali, che la povertà delle idee, la volgarità
del disegno, la semplicità dei colori formano un insieme veramente
insipido. Ma questa volta l’americano fu del mio parere. Non ostante
diede una seduta di due ore, perchè l’artista era compiacente, perchè
gli aveva dato dell’Eccellenza, perchè gli aveva promesso di dipingerlo
in costume di pescatore napoletano, in un campo di cotone colla sua
carabina sulle spalle, e la sua filatura in lontananza.

Ma siccome un ritratto, per quanto sia interessante, non basta per
decorare un palazzo, così ci facemmo condurre da un pittore che copia
i quadri dei maestri per l’esportazione. «Decisamente, mi diceva
l’Americano, preferisco cento copie, a cento originali mediocri. Queste
riproduzioni sospese a tutti i muri del mio palazzo mi ricorderanno i
capi d’opera della scuola italiana che avrò visto, un po’ in fretta,
nei musei e nelle gallerie.»

La gran fabbrica di copie che soddisfa tutta l’Europa non intelligente,
non occupa mai meno di cinquanta operaj. Cinquanta giovani, riuniti
intorno ad un intraprenditore, copiano dalla mattina alla sera delle
copie fatte su altre copie. Una dozzina di quadri, che non sono i
migliori, hanno il privilegio di farsi ricopiare eternamente, ad
esclusione di tutti gli altri. La Cenci di Guido, il Giuocatore di
violino di Raffaello, due Amorini in un quadro di Correggio, una
Erodiade di Guido, un Cristo del Guercino, una Vergine di Carlo Dolci,
una Giuditta di Gherardo delle Notti, e l’Aurora del Guido sopraddetto,
compongono il fondo del magazzino centrale, di cui il soprabbondante,
per certi sbocchi, trascorre in tutte le botteghe della città. Il
mio Americano assaggiò quella merce, si fece un collo di trenta copie
incorniciate, tanto per lui quanto pei suoi vicini. Il più caro di quei
quadri gli costò 250 franchi, compresa la cornice.


Nell’escire dalla officina mi andava comunicando le sue riflessioni.
«Come potete voi negare, mi diceva, che i Romani siano i primi artisti
del mondo? Coteste copie non sono malfatte, ne converrete: riconoscete
dunque in coloro che le fabbricano un’abilità sufficiente, ed ho veduto
tra loro de’ ragazzi. E potete voi credere che i vostri allievi della
scuola di Belle Arti di Parigi saprebbero fornire una merce così ben
condizionata ad un prezzo così basso?

— No.

— I nostri giovani Americani, che non sono sciocchi, lavorerebbero
dieci anni prima di mettere in commercio de’ prodotti di questa
qualità; ed il loro prezzo non potrebbe sostenere la concorrenza. Da
ciò conchiudo che i Romani sono più atti che noi per la pittura.

— Voi avete ragione, ed io non dissi mai il contrario. Se la pittura
è un mestiere, i migliori pittori del mondo nascono a Roma, siccome i
migliori fumisti in Piemonte. I ragazzi romani, cui si cacci in mano un
pennello, imparano, in meno che non si dica, la pratica della pittura.
Un’esercizio di tre o quattro anni li pone in grado di camparsi la
vita; per disavventura, essi non vanno più in là. È colpa loro? No. Io
non accuso che la società in cui sono nati; forse se fossero a Parigi
produrrebbero de’ capi d’opera. Date loro de’ maestri, de’ concorsi,
delle esposizioni, l’appoggio d’un governo, gl’incoraggiamenti d’un
pubblico, i consigli d’una critica intelligente. Tutte queste buone
cose, che abbondano da noi, mancano loro assolutamente; e non le
conoscono se non per fama. Il loro solo incoraggiamento, la loro unica
molla è la fame che gli spinge, e lo straniero che passa. Fanno a chi
fa più presto, vi gettano là una copia in otto giorni, e, quando è
venduta, ne ricominciano un’altra. Se qualche ambizioso intraprende
un’opera originale, a chi dimanderà egli se è bene o mal fatta? La
classe media non se ne intende, ed i principi anch’essi non ne hanno
intelligenza. Il possessore della più bella galleria di Roma, il
principe Borghese, diceva l’altro giorno, nel salone d’un’ambasciata:
«Io non ammiro che il _chic_.» Il principe di Piombino ha comandato una
soffitta al signor Gagliardi; voleva assolutamente pagarlo a giornata.
Il governo ha ben altre cure che l’incoraggiamento delle arti. I pochi
giornaletti che circolano si divertono talora a citare il nome de’
loro amici, ma ciò è per scioccamente piaggiarli. Gli stranieri che
vanno e vengono sono talora uomini di buon gusto, ma non compongono un
pubblico. A Parigi, a Monaco, a Dusseldorf, a Londra, il pubblico è un
vero individuo, un uomo dalle mille teste. Quando un giovane di talento
ha colpito la sua attenzione, lo segue cogli occhi, l’incoraggisce,
lo biasima, lo spinge innanzi, lo riconduce indietro; s’innamora di
questo, si sdegna con quello. S’inganna talora, ha delle parzialità
ridicole e de’ cambiamenti ingiusti, ma vive e dà vita; e si può per
esso lavorare. Se Roma possiede qualche persona di talento nelle arti
secondarie, lo deve al pubblico di Parigi. Mercuri e Calamatta sono
allievi della scuola di San Michele a Roma; ma li vedreste ancora
incidere imagini per l’esportazione, se Parigi non gli avesse adottati.


— Ora, mi disse l’Americano, vorrei comprare dei piccoli ricordi in
marmo per mettere ne’ miei scaffali insieme alle conchiglie ed agli
uccelli impagliati.»

Il servo fedele, che non ci abbandonò mai, ci condusse dai mosaisti,
marmorai, incisori di camei, tornitori in pietre dure. Il mio compagno
fece ampia raccolta di monumenti antichi, ridotti a proporzioni
borghesi. Comprò due Colossei, un arco di Tito, una colonna Trajana,
quattro obelischi ed una tomba degli Scipioni. «Gli architetti romani
sono assai felici, dicevami egli, d’avere senza posa di sì bei modelli
sotto gli occhi.

— Ed è vero, gli risposi; ma non ne profittano. L’architettura, è
un’arte perduta già da cento anni. Gli edifizj degli ultimi due secoli,
in quello stile rococò che porta il nome dei gesuiti, non erano sempre
di buonissimo gusto, ma non mancavano nè di grandezza, nè di ricchezza,
nè di decoro. Vedrete a San Pietro al Gesù, a Sant’Ignazio, alla
Vittoria, delle cappelle un po’ troppo cariche d’ornamenti, ma che si è
costretti d’ammirare, poichè fanno stupore. Nè mai forse l’impiego de’
colori vivaci e delle forme ardite non fu meglio inteso. La scoltura
del Bernino vive, palpita e si agita in mezzo a quell’orgia di bronzo
e di porfido. Ma i nuovi fabbricati sono degni di ricettare quelle
scolture piane, di cui seco voi portate i campioni. La basilica di San
Paolo è assai deforme all’esterno e pulita nell’interno. La cappella
Torlonia, a San Giovanni di Laterano, è decorata a modo d’un caffè.
La colonna che si è innalzata sulla piazza di Spagna somiglia ad un
candelabro di chiesa, o ad un tubo di stufa, se alcuno si ricorda
ancora dell’architettura romana, è certamente l’ingegnere che gettò
un ponte sulla valle dell’Ariccia; ma voi non avete tempo di venire sì
lontano.»


L’Americano intanto non mi ascoltava, tutto inteso com’era a comprar
mosaici. Io m’accinsi a dimostrargli che, se il mosaico è ammirabile
allorchè adorna l’emiciclo delle vecchie basiliche, ovvero copia
i quadri de’ maestri ingrandendoli, per le cappelle di San Pietro;
esso è davvero ridicolo in aghi da cravatta ed in bottoni da gilet.
— Ma quegli riempiva le sue tasche di medagliuzze minute, dove, a
forza d’attenzione, ravvisavansi de’ mazzolini di fiori, delle figure
d’animali e de’ monumenti antichi. Fece poscia una buona provvista
di camei, di sigilli incisi, di coralli cesellati e di malachiti
intorniate a foggia di perle. Così fa ogni forastiero che conosce i
suoi doveri.

Quand’ebbe compiuta la sua provvista, gli dissi: «Avreste mille scudi
ancora da gettar fuori della finestra?»

Mi rispose col sorriso raggiante de’ milionarj:

«Ebbene, seguitemi dal più grande artista che io m’abbia mai scoperto
costì.»

Lo condussi quindi presso la posta francese, dall’uomo che fece
risorgere la giojellerìa romana. La scala, incrostata d’inscrizioni
e di basso-rilievi antichi, gli fece credere che noi entrassimo in un
museo. Ei non s’ingannava di molto, chè un giovane mercante, erudito
al pari degli archeologi, gli fece vedere una collezione d’antichi
giojelli di tutte l’epoche, dalle origini della Etruria fino al secolo
di Costantino. È la fonte da cui Castellani trae gli elementi d’un’arte
nuova, che prima che trascorrano dieci anni detronizzerà il fardelletto
del Palazzo Reale. I nostri piccoli giojelli d’oro arricciati sono
una cosa ben meschina di fronte a quegli ornamenti semplici, larghi,
ingenui e sempre improntati dell’immancabil gusto dell’antichità. Il
mio Americano, ghiotto di pezzi grossi, gettò quanto richiedevasi per
uno scrigno che racchiudeva la toeletta di una dama romana; collana
da bolle d’oro, braccialetti di scarabei, spille da pungere il seno
delle schiave, pettini d’avorio coronati d’oro, agrafi marchiate
d’un’iscrizione di buon augurio, anelli assortiti per tutti i giorni
della settimana, mille civetterie, mille ricchezze, la cui descrizione
riempirebbe un capitolo, se mi lasciassi ridurre a mostrarvele. Gettò
sul tavolo il valore del riscatto di dieci schiavi, e fuggissene,
siccome il ladro di Plauto, col suo tesoro sotto il braccio.


«Eccellenza, gli disse il servitore di piazza, poichè le forti spese
non vi fanno paura, siete forse voi che comprerete il tondo d’Apelle.
Vale cinquanta milioni.»

Io non credeva che i Greci avessero mai dipinto su majolica; tuttavia
la cifra di cinquanta milioni mosse la mia curiosità. Quell’uomo ci
condusse in una botteguccia malconcia, o piuttosto in una trabacca, il
cui padrone era in un canto rannicchiato in tal foggia, che, trovatolo
per via, gli avreste fatto l’elemosina. Ei ci squadrò con tale cera,
che pareva volesse dire: «Se non avete il Toson d’oro in tasca, la
mia merce non è per voi.» Tuttavia degnossi d’aprire una scatola di
legno prezioso, ed io scorsi fra due cuscini di seta bianca un tondo di
Faenza, dipinto da Raffaello, e che a Parigi potrebbe forse valere 4000
franchi. «Eccovi, diss’egli, il prezzo è di 50 milioni. Non mi occorre
dirvi esser questo l’unico capolavoro di Apelle.

— Mio brav’uomo, gli chiesi, sapete voi bene che cosa siano 50 milioni?

— Sì, signore; è poco meno di dieci milioni di scudi romani: voi vi
guadagnate. Dieci milioni di scudi romani farebbero 53,500,000 franchi
a rigor di tariffa.

— Non vi è stato mai detto che il vostro tondo, che è bellissimo,
potrebb’essere semplicemente di Raffaello?

— Di Raffaello! Eccone là di tondi di Raffaello.» Ci fece vedere una
dozzina di tondi consimili, ma opera del secolo passato. «Raffaello non
era un minchione, e vi sarebbero molte cose a dire in sua lode; ma il
solo Apelle, fra tutti gli uomini, ha potuto fare un capolavoro come
questo.

— Supponendo ancora ch’ei fosse d’Apelle, non sarei persuaso che
potesse valere 50 milioni.

— Eppure, nol darò mai a meno.

— Or via, siate ragionevole. Questo signore è uno de’ più ricchi
d’America; ma non credo che possa spendere più d’una trentina di
milioni in un capriccio di fantasia.» Quegli alzò sdegnosamente le
spalle, e borbottò: «Ho fissato quel prezzo e morrò senza diffalcarne
uno scudo.»

E di vero, ei morrà ricco e povero, felice e miserabile, ingolfato
siccome un tacchino nella speranza dell’incerto.




IX.

LA NOBILTÀ ROMANA.


«Nel mezzo del secolo XVII, disse Ranke, si noveravano in Roma circa 50
famiglie nobili, che contavano 300 anni d’esistenza, 35 che ne avevano
200, e 16 che datavano da 100 anni soltanto. Non si voleva riconoscere
quelle che rimontavano più in là, e si attribuiva loro una bassa
origine.» In totale, 101 famiglie patrizie.

Attualmente l’Almanacco romano conta 111 famiglie patrizie, di cui
20 principesche, e 11 ducali. L’effettivo della nobiltà non è dunque
sensibilmente cambiato da due secoli in qua.

La nobiltà romana si può dividere in tre categorie, se queste si
considerano soltanto dalle loro origini.

  I.  Origine feudale.
  II.    »    nipotica.
  III.   »    finanziaria.

Ad ogni signore il proprio onore. Cominceremo, se vi piace, dalla
nobiltà feudale.

I primi successori di S. Pietro, che non esercitavano alcun potere
temporale, non contavano nè nobili nè villani nella loro diocesi.

Fu nel medio evo che il vescovo di Roma si fece accettare siccome
sovrano d’un piccolo impero. Ei dovette uniformarsi alle usanze del
tempo, e riconoscere de’ fatti politici, che non erano conformi nè alla
lettera nè allo spirito de’ libri santi.

In buona logica, era necessario che tutti i sudditi del papa fossero
eguali al cospetto del loro Sovrano, siccome tutti gli uomini lo sono
dinanzi a Dio.

Il blasone non è scienza evangelica, e se gli apostoli hanno convertito
una parte del mondo antico, non è già predicando l’ineguaglianza delle
caste.

Ma il poter temporale, fino dalla sua origine, dovette venir a patti
coll’elemento feudale. Eranvi de’ signori in Roma e vicinanze, siccome
in tutta Europa. Gli uni appoggiarono le pretensioni monarchiche della
Santa Sede; gli altri con ogni mezzo vi si opposero, finanche colle
armi, siccome i Colonna. Nè fu se non dopo lotte interminabili, che i
papi poterono domare l’ultima resistenza ed imporre la loro signoria
alla nobiltà indigena.


Non solamente si fece la pace, ma l’aristocrazia locale finì col
rendere il papato solidale delle sue pretensioni e de’ suoi privilegi.

L’avvenimento successivo di quasi tutte le grandi famiglie al papato
collocò sul trono le idee aristocratiche, e formò tra esso e la nobiltà
de’ vincoli stretti. I Savelli, i Conti, gli Orsini, i Colonna, i
Gaetani portarono la tiara, e regnarono sui Romani prima della fine
del medio evo. I Piccolomini, i Borgia, i Medici, i Della Rovere, i
Farnese, i Boncompagni, gli Aldobrandini hanno poscia inaugurato la
storia moderna.


Fra le antiche famiglie feudali che al papato diedero più di quanto ne
ricevessero, alcune si vantano di risalire ai primi tempi della storia
romana. I Muti discendono da Muzio Scevola, i Santa Croce da Valerio
Publicola, i Massimo da Fabio Massimo, almeno a quanto dicono. In ogni
caso la loro nobiltà è molto antica.

Napoleone interpellò un Massimo con quella ruvidezza che intimidiva
tante persone: È egli vero, gli chiese, che voi discendete da Fabio
Massimo?

— Non potrei chiarirvelo, rispose il nobile romano, ma è fama che corre
già da ben mille anni nella nostra famiglia.


Gli stemmi dei Massimo rappresentano delle tracce di passi
incrocicchiati in tutti i sensi. È un’allusione alle marce e
contromarce del temporeggiatore. Il motto della casa è: _Cunctando
restituit_.


I Gaetani, meno antichi, procedono da un tribuno romano detto Anatolo,
che fu creato conte di Gaeta nel 730 da papa Gregorio II.


Si parla d’un Pietro Colonna, spogliato di tutti i suoi beni nel
1100, da papa Pasquale II. È chiaro che la famiglia doveva essere già
passabilmente antica, poichè le grandi sostanze non si formano in un
giorno.


Gli Orsini, di cui più non rimane che il ramo Orsini-Gravina,
discendono da un senatore dell’anno 1200.


La famiglia Orsini, originaria di Firenze, esisteva prima dell’anno
1300. Ma la ricchezza, lo splendore ed il titolo di principi procedono
da Clemente XII.


I Doria romani sono un ramo staccato della grande famiglia genovese.
I Lante Della Rovere erano consoli a Pisa nel 1190. Un Altieri fu
maggiordomo di Ottone II verso la fine del secolo X.


Si legge nell’inimitabile _Viaggio del consigliere De Brosses_:

«Sonvi quattro grandi case a Roma: Orsini, Colonna, Conti, Savelli.
Ma i Crescenzi, gli Altieri, i Giustiniani, ed altre famiglie, che non
credono esser minori di quelle quattro, non ammetterebbero volentieri
questa distinzione.»

Ebbi la curiosità di rintracciare ciò che rimaneva di queste grandi
famiglie, un secolo dopo il nostro gentil viaggiatore. Non vi sono più
nè Conti, nè Savelli. Gli Orsini hanno cento mila lire di rendita,
i Colonna duecento mila, gli Altieri trentamila. I Crescenzi ed i
Giustiniani sono estinti, come i Savelli ed i Conti, che avevano dato
tanti pontefici alla Chiesa. Sonvene almeno dieci del nome di Conti.


Nel secolo XVII i Savelli esercitavano ancora una giurisdizione
feudale, ed il loro tribunale, regolarmente costituito, chiamavasi
_Corte Savella_. Avevano essi il diritto di liberare da morte un
reo all’anno, diritto di grazia, diritto regale riconosciuto dalla
monarchia assoluta dei papi. Le donne di questa illustre famiglia non
uscivano punto dai loro palazzi, se non in carrozza ben chiusa.

«Gli Orsini ed i Colonna si vantavano che, per de’ secoli, nessun
trattato di pace fosse stato conchiuso fra principi cristiani, in cui
essi non fossero stati nominativamente compresi.» Ranke, _Storia del
Papato_, sfigurata dall’oltremontano Saint-Cheron.


Ma già Roma vedeva prosperare e crescere una nobiltà novella, sorta dal
nipotismo.

Tutti i papi, per umili natali che avessero sortito, si facevano
quasi un dovere di fondare una famiglia. Non contenti di creare un
Cardinal nipote, che usufruisse per sè tutte le prerogative della Santa
Sede, regalavano il titolo di principe ad altro nipote, lo dotavano
riccamente a spese di tutta Italia e dell’universo cattolico, lo
sposavano a qualche erede di ceppo feudale, e costruivano per esso
alcuno di que’ palazzi, di cui ammiriamo ancora l’insolente splendore.

Quest’uso era sì bene stabilito, che il casuista Oliva, gesuita,
dichiarò che Alessandro VII commetteva un peccato lasciando i suoi
nipoti a Siena, invece d’invitarli alla sua Corte. È noto con quale
docilità l’onesto Chigi si sottomise all’obbligo di far germogliare la
sua famiglia.


Questo dilapidamento delle pubbliche entrate a profitto d’alcuni
privati s’appoggiava, non solamente sui consigli di alcuni cortigiani,
ma sugli esempi più augusti.

A non parlare di Alessandro VI, che non trascurò nulla per arricchire
ed accrescere la sua famiglia, erasi veduto l’antico pastore Sisto
V dare ad uno de’ suoi nipoti un reddito ecclesiastico di 300,000
franchi, assicurare all’altro un principato e fondare sopra solide
basi la casa dei Peretti. Clemente VIII non aveva fatto di meno pei
suoi: Gian-Francesco Aldobrandini s’arricchì abbastanza rapidamente
per dare due milioni di dote alla propria figlia. La fortuna dei
Borghese era cresciuta ancor più rapidamente sotto il regno di Paolo
V. Essi ricevettero cinque milioni di franchi, acquistarono i più bei
possessi dello Stato Romano, ed ottennero de’ privilegi signorili
d’un valore incalcolabile. Gregorio XV aveva permesso a suo nipote
Ludovisi di ritirare dall’entrate ecclesiastiche un milione all’anno.
Questo papa, che regnò due anni e cinque mesi, diede alla sua famiglia
quattro milioni di franchi in _luoghi di monte_, che valevano denaro
sonante. Urbano VIII aveva fatto più ancora pei Barberini, i cui tre
fratelli acquistarono tanti beneficj e proprietà, che la loro entrata
annua ascese a 2,500,000 franchi. Se è impossibile il supporre che
i Barberini abbiano accumulato 525 milioni sotto il pontificato del
loro zio, è già molto che gli scrittori o contemporanei abbiano potuto
arrischiare una cifra sì mostruosa.

Sulle traccia di questo esempio, Innocenzo X, fratello di Donna
Olimpia, fu costretto, direbbesi quasi, di fondare la casa Panfili. I
casuisti ed i giureconsulti lo sollevarono dagli scrupoli, provandogli
che il papa era in diritto di economizzare sui redditi della Santa
Sede, per consolidare l’avvenire di sua famiglia. Fissarono, con una
moderazione che fa ribrezzo, la cifra delle liberalità permesse ad
un papa. Secondo essi, il sovrano pontefice poteva, senz’abusare,
fondare un maggiorasco di 400,000 franchi di rendita netta, fondare
una secondo-genitura in favore di qualche parente meno favorito dalla
fortuna, e dare 900,000 franchi di dote a ciascuna delle sue nipoti.
Il P. Vitelleschi, generale de’ gesuiti, approvò questa decisione,
onde Innocente X s’accinse a formare la fortuna della casa Panfili,
a costruire il palazzo Panfili, a creare la villa Panfili, ed a
panfilizzare, finchè potè, le finanze della Chiesa e dello Stato.

Clemente IX, che distribuì tre milioni nei primi mesi del suo regno,
fu accusato di trascurare la sua famiglia: eppure fondò la sorte dei
Rospigliosi. Clemente X non fu già inutile alla grandezza di casa
Altieri. L’austero Innocente XI non impedì i progressi della famiglia
Odescalchi; Clemente XII ajutò i Corsini a formare quella fortuna,
che attualmente è una delle più imponenti di Roma, ed il nipotismo non
iscomparve dalle costumanze pontificie se non dopo il regno di Pio VI e
de’ Braschi.

I papi del periodo del nipotismo non trascuravano verun mezzo per
alleare i loro nipoti alle famiglie più antiche. Ed è perciò che
noi vediamo una casa Doria-Panfili, una Borghese-Aldobrandini,
una Barberini-Colonna, una Pallavicini-Rospigliosi, una
Boncompagni-Ludovisi-Ottoboni.


Il fondatore d’una nuova famiglia procurava d’instituire un
maggiorasco, vale a dire un capitale inalienabile, trasmissibile in
linea maschile, e destinato a perpetuare indefinitamente lo splendore
del suo nome.

Da ciò procede che vedesi qualche casa, ricca in terre, palazzi,
ville e gallerie, ma gravata di debiti, portare stentatamente un nome
illustre privo di sostanza, ed un enorme capitale privo di rendita.
Affinchè tal casa possa liquidare la propria sostanza e soddisfaccia
i suoi creditori colla vendita d’alcuni quadri o di qualche immobile,
occorre un atto speciale dell’onnipotente volontà del pontefice.

È pure il capriccio de’ sovrani pontefici che intruse nell’aristocrazia
romana qualche famiglia plebea dalla sorte arricchita.

Un fornajo di nome Grazioli accumula ricchezze, ed il papa ordina ch’ei
venga inscritto sulla lista del patriziato romano. Compra una baronia,
ed il papa lo crea barone; poi una ducèa, ed eccolo duca Grazioli. Suo
figlio sposa poscia una Lante Della Rovere.


Un antico servitore di piazza, diventato speculatore e banchiere,
compra un marchesato, poscia un principato; crea un maggiorasco per suo
figlio maggiore, ed una secondo genitura in favore dell’altro. L’uno
sposa una Sforza Cesarini, e congiunge i suoi due figli, l’uno ad una
Chigi, poi ad un Ruspoli, e l’altro ad una Colonna Doria. Ed è per
tal maniera che la famiglia Torlonia, per la potenza del denaro ed il
favore del santo padre, si è innalzata quasi d’improvviso all’altezza
delle più grandi case nipotiche e feudali.


Un impiegato alla fabbrica de’ tabacchi fa fortuna, e diventa marchese
Ferrajuoli; un direttore del Monte di pietà s’arricchisce, ed è creato
marchese Campana; così parimenti un mercante di campagna, che viene
creato marchese Calabrini. I Macchi di Viterbo erano mugnai prima
d’essere gentiluomini. Il padre dei conti Antonelli era contadino,
intendente, contabile e monopolista prima d’essere rivestito delle
lettere di nobiltà.


I parenti d’un papa sono tutti nobili di pieno diritto. I cardinali
ed i semplici prelati si sforzano pure d’elevare i loro parenti alla
nobiltà.

Benedetto XIV e Pio IX presero cura di consolidare le barriere che
separano la casta nobile dal _mezzo ceto_. «Considerando, dicon
essi, che la distinzione delle classi è il più bell’ornamento degli
Stati.....»

Sessanta famiglie nobili sono inscritte in Campidoglio. Una
congregazione Araldica, instituita da Pio IX, venne applicata alla
verificazione de’ titoli.

Se il governo pontificio fosse più solidamente stabilito in Italia,
darei un buon consiglio a tutti i nostri favoriti dalla fortuna, sia al
commercio, sia alla borsa.

Invece di usurpare de’ titoli e semititoli, che i tribunali francesi
hanno talora l’impertinenza di toglier loro, non avrebbero che a
trasferirsi negli Stati del papa. In quel piccolo regno sonvi molti
castelli da vendere, senza annoverare i dominii più importanti.

La compra d’una torre cadente può sollevare il contadino al titolo di
principe, se il santo padre non vi si oppone.


Si legge nell’Almanacco romano:

«La famiglia Montholon de Semonville è una delle più illustri di
Francia. Il principe D. Luigi Desiderato, rampollo di questa casa,
comprando il castello del Precetto nell’Ombria, è diventato principe
romano.»

Sento dire intorno a me che, per ottenere il medesimo onore, non si
avrebbe bisogno di discendere da una delle più illustri famiglie di
Francia. Basterebbe di recarsi a Roma con alcuni milioni.


La nobiltà indigena, dopo d’essere stata immensamente ricca, è caduta
in una sorta di mediocrità fastosa. Si posseggono beni immensi, un
magnifico palazzo a Roma, una splendida villa nelle vicinanze, alcuni
castelli nelle provincie, una o due gallerie che formano l’ammirazione
degli stranieri; ma tutti questi averi formano un maggiorasco
inalienabile, cui si è obbligati a mantenere ed anche averne cura. I
redditi, che basterebbero a tutto, sono aggravati da molte ipoteche.
Nè solamente si deve ai creditori, ma benanche agli antenati, per
fondazioni di canonicati, di collegi, di cappelle. Ora la cappella, il
collegio, il capitolo sono altrettanti pesi opprimenti che aggravano
il povero erede. Onde avviene, che l’entrata disponibile delle più
illustri famiglie non è in proporzione coi bisogni del loro grado
sociale.

  I Corsini hanno 500,000 franchi di rendita netta.
  I Borghese, 450,000.
  I Ludovisi, 350,000.
  I Grazioli, 350,000.
  I Doria, 325,000.
  1 Rospigliosi, 250,000.
  I Colonna, 200,000.
  Gli Odescalchi, 200,000.
  I Massimo, 200,000.
  I Patrizi, 150,000.
  Gli Orsini, 100,000.
  Gli Strozzi, 100,000.

Non vi sono che due famiglie, la cui rendita, per così dire, sia
illimitata: la famiglia Torlonia e la famiglia Antonelli. Gli Antonelli
sono i più ricchi, se credesi al principe Torlonia, ma non vogliono
convenirne, ed anzi se ne schermiscono siccome d’un delitto. Non ho mai
potuto conoscerne la causa.


Ricco o povero, un principe romano è costretto a conservare il
proprio grado, poichè suo primo dovere è conservare l’apparenza. È
quindi necessario che la facciata del palazzo sia riparata, che gli
appartamenti di gala mostrino grande lusso, che la galleria non ecciti,
per l’incuria in cui sia lasciata, la compassione degli stranieri.
Bisogna che i servi siano numerosi, che le livree non manchino di
passamani, che le carrozze siano dipinte a nuovo, ed i cavalli ben
nodriti, anche a costo che i padroni rinuncino ad un piatto del loro
pranzo. È necessario che i clienti della casa siano assistiti in caso
di bisogno, e che i mendicanti benedicano la generosità del signore.
È necessario che la toeletta del signore e della signora sia non
solamente elegante, ma anche ricca: poichè in fin de’ conti la nobiltà
non dev’essere confusa col medio ceto. È finalmente necessario, che
tutti gli anni si dia qualche festa nojosa e splendida, che consumerà
in lumi un quarto dell’entrata di tutto l’anno. Se taluno mancasse ad
alcuno di questi obblighi, si cadrebbe nella classe di que’ signori
caduti, che si nascondono e si fanno dimenticare.

Per qual miracolo di secreta economia que’ poveri ricchi vengono a
capo di bilanciare le loro spese coll’entrate? È una storia complicata
e melanconica: è una condanna annuale a sette od otto mesi di
villeggiatura, a vivere con una sobrietà italiana, anche in Roma, in
quel gran palazzo che ha le proprie enormi cucine. Si fa più ancora:
il padrone della casa, l’erede d’una baronia feudale o d’un nipote de’
papi, si fa capo d’amministrazione nella prima casa. Si rinchiude sei
ore al giorno con dei commessi; rivede egli stesso i conti dell’entrate
e delle spese, ritaglia le locazioni, rilegge i titoli, si lorda le
mani nella polve delle pergamene. Per evitare le perdite inevitabili
che esauriscono le più grandi sostanze, ei consuma la vita a verificare
delle addizioni. Eppure tutti lo derubano, ed i medesimi suoi commessi
finiscono per arricchirsi a sue spese, poichè il più delle volte egli
non è nè istrutto nè capace.


E come avrebb’egli imparato a difendere la propria sostanza od a farla
valere? Fu messo da piccoletto ne’ collegi de’ padri Gesuiti, se forse
non fu trovato più nobile di tenerlo in casa propria sotto la sferza
d’un abbate. I suoi precettori o professori gli hanno insegnato il
latino, le belle lettere, la storia santa, il blasone, il rispetto alle
autorità, la sommissione ai voleri della Chiesa, la pratica delle virtù
cristiane, l’odio alle rivoluzioni, la gloria degli avi, ed i privilegi
che deve ereditare per la grazia di Dio. Ei considera le libertà e
le scienze del nostro secolo come invenzioni del demonio. In fine de’
conti egli è buono, dolce, semplice di cuore, più malleabile della cera
e più bianco della neve.

Quando lo si vide grandicello, gli fu dato un cavallo, un orologio di
Ginevra appeso ad una catenella di Mortimer o di Castellani, un abito
nuovo tagliato secondo l’ultimo gusto da Alfredo di Parigi o da Poole
di Londra. Prese l’abitudine di far visite, di passeggiare al Corso od
al Pincio nell’ora in cui il bel mondo vi fa mostra, di frequentare i
teatri e le chiese alla moda. Si è affiliato a due o tre confraternite
religiose, di cui segue assiduamente le riunioni. Non ha viaggiato,
non ha letto nulla, ha potuto sfuggire alle passioni, ai dubbj ed ai
tumulti interni della gioventù. Tra il suo 22.º ed il 23.º anno, la
volontà rispettabile di suo padre l’ha ammogliato senz’amore ad una
giovane di buona famiglia, che esciva di convento, semplicetta ed
ignorante ai pari di lui. Ha molti figli, che educa siccome egli stesso
fu educato. Insegna al primogenito che i suoi fratelli gli debbono
obbedienza, ed ai cadetti, che debbono essere devotissimi servi del
loro primogenito. Mette le proprie figlie nello stesso convento, dove
la loro madre ha appreso l’ignoranza, recita il rosario in famiglia,
tutti i giorni dell’anno, e dimanda al cielo la continuazione d’un
ordine di cose sì felice, sì nobile, sì perfetto.

Nonostante tutti i difetti che l’educazione gli ha dato, ei non manca
nè di bontà nè di grandezza. Dona quanto le sue finanze gli permettono,
ed anche più; tutte le miserie, anche fittizie, commovono il suo cuore,
ed aprono la sua borsa. Non conosce i quadri della sua galleria, ma
tiene aperta la sua galleria al pubblico.

Non sa cavar profitto d’un parco o d’una villa che lo ruinano, ma la
villa ed il parco sono aperti ai Romani ed agli stranieri. Quando
si tratti di rappresentare in un congresso o di festeggiare una
ristaurazione de’ poteri legittimi, ei darà 100,000 franchi al suo
ambasciatore, siccome il principe di Piombino, ovvero offrirà al
popolo di Roma un banchetto di 1,200,000 franchi, siccome il principe
Borghese.


Confesso che la nobiltà è un elemento un po’ caduco nella popolazione
romana. Le sue doti più notevoli sono negative, come la sommissione e
la politezza. Non credo che manchi di coraggio, ma il suo coraggio non
ebbe, da gran tempo, occasione da mettersi alla prova. Eppure essa non
è nè dispregiabile nè odiosa. La rivoluzione italiana avrebbe torto
di fare alcun fondamento sopra una casta stanca e priva di slancio,
ma sarebbe imperdonabile se volesse farle alcun male. Una rivoluzione
simile alla francese del 1793, che le confiscasse i palazzi aperti
ed ospitalieri, meriterebbe il biasimo di tutte le persone oneste
dell’Europa. Un Marat che desse in balia del carnefice quelle belle
teste sorridenti e leggiere sarebbe il più assurdo degli scellerati.

E le donne della nobiltà? V’è poco a dire pro e contro la loro virtù.
Il cicisbeismo, al pari del nipotismo, è passato di moda. La spudorata
dissolutezza che fioriva ne’ primi anni del secolo XIX cedette il posto
a’ costumi più discreti.

Qui, come dovunque, le donne sono migliori dei loro mariti; e non già
perchè leggano di più, nè perchè siano state diversamente educate. Ogni
loro superiorità procede dalla natura, che ha favorito il sesso amabile
a preferenza del sesso virile.


Quasi ogni giorno faccio un passeggio in carrozza che comincia
alla villa Borghese, continua al Pincio e termina sul Corso, dopo
il tramonto del sole. È mio compagno inseparabile un ingegnere
francese, uomo di spirito e perspicace, che abita Roma da gran tempo
e conosce incognito la massima parte dei personaggi della nobiltà.
Non ebbe bisogno di farmi osservare quell’aria di nullità oziosa
e soddisfatta che distingue una buona metà dell’aristocrazia. Ma
quando la nostra attenzione si rivolge verso le donne, noi cambiamo
di tuono. Non solamente esse sono belle ed eleganti, ma i loro occhi,
le loro attitudini, i loro gesti, tutto indica in esse un non so che
d’indomito, ed una secreta ribellione contro il nulla. Povere donne!
Allevate nell’ombra fitta d’un convento, maritate senz’amore a qualche
bel riproduttore, che le opprime di famiglia, sono esse condannate, per
colmo di miseria, ad una vita di parata glaciale, piena di visite, di
riverenze e di cerimonie nojose. Tutto è dovere per esse, finanche il
passeggio quotidiano. Il mestiere di donna del mondo, quale viene loro
imposto, non lascia loro spazio per l’amore e nemmeno per l’amicizia.


Vorrei qui riassumere in poche parole lo spirito delle tre classi che
vivono a Roma sotto il dominio del clero.

Questa popolazione non è nè peggio nata, nè peggio dotata, nè meno
degna di ricuperare la sua indipendenza, che nol sia il resto della
nazione italiana. Ma si ebbe cura di educarla diversamente, e di
sradicarvi siccome da campo bene sarchiato tutte le idee liberali, e
tutti i sentimenti vigorosi che potevano crescere nelle anime. Questa
mala erba rinacque sempre, grazie a Dio, ma sempre più debole e più
grama di quanto non converrebbe. La nobiltà romana è più inetta, la
plebe romana è più povera e più ignorante, il ceto medio medesimo porge
minori mezzi a Roma, che in nessun’altra città d’Italia. Eppure la
classe media è quivi il solo elemento sul quale si possa contare.

D’altronde bisogna dire che la popolazione di Roma, presa in blocco,
non è positivamente contraria al poter temporale. Attualmente, come
sempre, essa ha pel papa un’amicizia ineguale, fantastica, interrotta
da lamenti e da collera; ma i vantaggi reali ch’essa ricava dalla
presenza del santo padre, dalle spese della Corte e dall’affluenza
degli stranieri, controbilanciano spesso a’ suoi occhi lo svantaggio
della servitù. Può darsi benissimo che, trascinata dal movimento
italiano, essa ricominci a’ suoi rischi e pericoli la rivoluzione del
1849; ma non mi stupirei punto ch’essa rimpiangesse i suoi padroni
dopo averli scacciati. Poichè Roma non è solamente la vittima, è anche
complice del poter temporale, ed in ciò ben differente di Ancona, di
Bologna e di tante altre città, che pagarono le spese del dispotismo
senza dividerne i vantaggi. Io penso adunque, che la liberazione di
Roma, quantunque possa essere desiderata da alcuni cittadini, è più
necessaria alla riorganizzazione dell’Italia di quello che conforme ai
voti de’ Romani.


Il suffragio universale ne sa molto più di me su questo dilicato
proposito, ed è quello che vorrei consultare.




X.

L’ESERCITO.


Non dico già che noi siamo tutti eroi, nel nostro caro paese di
Francia; ma credo che noi siamo tutti un po’ soldati.

Si ha un bel dire e fare il filosofo, sostenere che l’uomo non è nato
per uccidere gli uomini, esecrare gli stromenti di distruzione a misura
che diventano più perfetti, ed applaudire alle eccellenti idee di
Cobden; spunta un bel mattino, e si scorge che siamo nati con un pajo
di pantaloni rossi, e che tutti gli altri abiti, che si erano portati,
non erano che travestimenti.

Nel luglio del 1853, io mi credeva pienamente convinto delle idee
predicate dal congresso della pace. Giunsi a Roma, mentre sfilava un
battaglione francese, colla banda in testa, sulla piazza del Quirinale.
L’uniforme, la musica, la bandiera, tutto quell’apparato di guerra,
che non m’aveva mai fatto sensibile effetto, mi scosse allora fino nei
penetrali dell’anima. Erano due anni che aveva lasciato la Francia:
l’imagine della patria m’apparve più che mai vivente, i miei occhi
si turbarono. Guardai la bandiera, e mi parve più risplendente che
il _labarum_ di Costantino. Chinai lo sguardo sul mio pantalone; era
rosso, e d’un sì bel rosso, che vedendolo proruppi in pianto.

Evvi una bandiera pontificia, se non m’inganno, colle chiavi di S.
Pietro nel bel mezzo. È una bandiera ben conservata, in buono stato,
chè nè palle nè bombe non vi fecero fori: ma io sarei davvero attonito,
se mi si dicesse che un Romano, osservandola, ha versato lagrime.

Vi ricordate di quel fico che era del misantropo Timone? Tutti gli
Ateniesi volevano appiccarvisi, perchè già parecchi giovani e robusti
vi si erano appiccati. Ora la bandiera del papa è un fico, su cui
nessuno pensa ad appiccarsi, perchè nessuno ancora vi si è appiccato.

E la ragione è chiara: la coscrizione, che è tanto compenetrata nei
nostri costumi, per lungo tempo non potrà essere costumanza romana. La
Francia può dire ai giovinotti di vent’anni: Venite, estraete a sorte.
Coloro che otterranno un numero basso, conserveranno il loro pantalone
rosso; gli altri saranno autorizzati a prendere il pantalone nero.

I ragazzi di Francia non sono mai sì felici, come quando giuocano al
soldato; i ragazzi romani per lo contrario giuocano a far il prete.
Dicono delle piccole messe, e fanno processioncelle; sono vestiti
da abbatini, que’ che furono savii. I nostri aspettano il primo dì
dell’anno perchè vengono regalati d’uno schioppetto, o d’una sciabola,
od almeno d’un tamburino.

Si dovrà forse conchiudere che i Francesi sono più coraggiosi che i
Romani? No, certamente. La razza italiana, che ha conquistato altre
volte il mondo, è ancora attualmente una delle più maschie ed energiche
d’Europa. I Romani sono Italiani di sì buona stirpe come gli altri, ma
diversamente educati.


Il principe che regna a Roma non dovrebbe aver bisogno di soldati.
Nello spirituale, ei governa pacificamente gli spiriti di 139,000,000
d’uomini, ciò che è assai bello. Nel temporale amministra un dominio
che basta ampiamente a tutti i suoi bisogni. Se cercasse ad estendersi
o arrotondarsi per via di conquista, commetterebbe un peccato mortale,
e si porrebbe nella necessità di dannarsi da sè medesimo. La questione
delle frontiere naturali non gli porgerebbe una scusa sufficiente,
poichè in fin de’ conti il suo regno è formato di donazioni di persone
pie; ed a caval donato non si guarda in bocca.

Il papa non ha bisogno di soldati nè per conquista nè per difesa,
poichè i suoi confinanti sono principi cattolici, che si farebbero
scrupolo di coscienza d’armarsi contro un vecchio inoffensivo.

Ora perchè mai il papa tiene un esercito? Per reprimere il malcontento
de’ suoi sudditi; ma è evidente che i Romani non sarebbero malcontenti,
e che il papa non avrebbe bisogno d’esercito, se governasse i suoi
Stati in modo da render contento il suo popolo.

Se il papa si crede costretto di levare un esercito, è senza dubbio
perchè i Romani sono malcontenti, molto probabilmente è, perchè il
governo del pontefice non fa ciò che è necessario per contentarli.


Suppongo che i Romani siano molto difficili ad essere accontentati,
o che il papa non abbia il tempo di accontentarli, poichè trova più
spiccio e più economico di mantenere un esercito che incuta timore ai
sudditi.


Ma qui sorge un’altra difficoltà. I Romani non sono proclivi a vestire
i pantaloni rossi ed a caricarsi le spalle d’un fucile in servigio
del papa. Perchè? mi chiederete. Precisamente per la ragione che vi ho
detto: perchè sono malcontenti.

Il papa, che è sovrano assoluto, potrebbe decretare la coscrizione;
ma questa novità raddoppierebbe il malcontento, e lo scopo sarebbe
fallito.

D’altronde la coscrizione fa paura al governo pontificio. Un esercito
raccolto con questo mezzo apparterrebbe meno al papa che alla nazione:
ed è ciò che importa d’evitare.


Sessanta franchi di premio a tutti i Romani di buona volontà che
acconsentiranno ad arruolarsi per soldati del papa!

Sessanta franchi, è ben poca cosa: a tal prezzo non si comprano
persone scelte. Se foste garzone d’aratro, o porta mortajo sotto gli
ordini d’un muratore, non preferireste quella libertà relativa alla
servitù dello stato militare? E basterebbero sessanta franchi per far
traboccare la bilancia?

I Francesi si arruolano gratis; anzi veggonsi de’ giovani di buona
famiglia, all’uscire del collegio, piegare il loro diploma di laureato
in legge, chiuderlo nella giberna di soldato, ed andarsene arditamente
colà dove la patria gl’invia. Se si offrissero sessanta franchi, a
coteste volontarie reclute, esse risponderebbero che è troppo, e troppo
poco. Ma noi siamo proclivi alla vita militare, la nostra gioventù ama
la patria siccome un’amante, e non teme di farsi ammazzare pe’ suoi
begli occhi.

La patria, per un Romano di buona nascita, è l’Italia: ora il papa non
è la patria, non è l’Italia. Sonvi di coloro che sarebbero pronti a
farsi soldati d’Italia, ma non consentirebbero ad indossare l’uniforme
per la difesa del papa. Si dice pure, in alcuni circoli, che il papa
e l’Italia non sono i migliori amici del mondo, e che il mettersi
al servizio dell’uno sarebbe rendere cattivo servizio all’altro. È
un errore, ne convengo: un’assurdità, se volete. Ma negli Stati del
santo padre è un articolo di fede, ed agli ufficiali ingaggiatori si
risponde, e la gioventù romana risponde: «Non vendo la mia patria per
dodici scudi!»


Si tratta di portare a 20 scudi il premio d’ingaggio: la è una mezza
misura, un meschino ripiego. Un uomo da 100 franchi non varrà molto più
d’uno da 60.

Se volete creare un esercito, raccogliete gente fra i galantuomini.
In Francia un soldato innanzi tutto debb’essere un uomo onesto. La
più assoluta fiducia regna nelle caserme, dove il minimo furto viene
punito con un rigore saggiamente esagerato. Ed un individuo che abbia
soggiaciuto alla condanna più leggiera, non viene ammesso ad arruolarsi
come soldato.

Il governo pontificio è troppo indulgente sulla virtù delle reclute
volontarie. Si domanda loro, è vero, un certificato di buona condotta
firmato dal curato della loro parrocchia; ma i curati non si fanno
scrupolo di garantire la moralità de’ peggiori sudditi, quando si
tratti di spedirli all’esercito. Una bugietta serve a sbarazzarsene;
quindi i tribunali stessi, se stanno processandone taluno, non vanno
già a pigliarlo sotto le bandiere, onde avviene che uomini malvagi,
recidivi, disonorino l’uniforme.

La gendarmeria si arruola, parte dall’esercito parte dal ceto civile.
Nel civile non è meglio servita che le altre armi; ma nel militare è
peggio, poichè s’invitano gli ufficiali superiori de’ diversi corpi
ad indicare i soldati che meritano di passare gendarmi. E coloro
raccomandano i peggiori soggetti, per potersene liberare.

Non è raro l’udire che un furto è stato commesso da un soldato, ed
anche da un gendarme. Poichè come mai individui di dubbia probità
diverrebbero onest’uomini sotto l’uniforme? Nè la buona condotta, nè il
tempo passato sotto le bandiere, nè le azioni meritorie, nè la coltura
personale servono all’avanzamento. Questo si fa da’ prelati, sopra
raccomandazione d’altri prelati.

Mi venne accertato che nel 1849 eravi più disciplina e probità nelle
schiere rivoluzionarie di Garibaldi, che non nell’esercito regolare del
papa. Il furto d’una collana di coralli, d’un prosciutto, d’un’inezia,
era immediatamente punito colla morte.


Mi sono imbattuto in parecchi gendarmi che non sapevano neppur leggere.

Quando furono ritirati dalla circolazione i pezzi da cinque soldi in
rame, tutto quel cumulo fu diretto verso Roma, ed ogni convoglio era
scortato da una schiera di gendarmi, i quali sventravano alcuni sacchi
ed alleggerivano il carico delle vittime. Ciò mi è stato confessato
appunto da un gendarme.


Può darsi che una cattiva causa raccolga de’ buoni soldati; così il
re di Napoli si è formato un esercito assai rispettabile. Pur troppo
il dovere non è l’unico motore dell’uomo: ne abbiamo di meno nobili e
d’egual potenza, siccome l’orgoglio e l’ambizione. Dovunque i gradi si
accordano al merito, il soldato si studia di acquistarseli.

Nello Stato pontificio il soldato è nulla; anzi è meno di nulla, e
valgano due esempi per mille a chiarirlo. Un cocchiere che conduce il
suo padrone al teatro rompe la propria consegna. La sentinella reclama
invano, poichè il cocchiere sferza i cavalli e passa via dicendo: «Fate
il vostro mestiere di soldato, e lasciate fare a me quello di servo!»
La livrea è più nobile dell’uniforme.

Un modesto borghese di Roma dà una serata. Vi si presenta uno
straniero: è figlio del proprietario, addetto alle guardie di finanza.
Il primogenito va a riceverlo in anticamera, e lo prega di ritornare
il giorno seguente. Sonvi de’ Francesi invitati, v’è gente, e la
famiglia non vuol compromettersi presentando un soldato! Il giorno
appresso cotesto primogenito trova sulla piazza di Spagna un forzato,
e gli porge la mano in pubblico. Onde l’amicizia del condannato è meno
compromettente che non la parentela d’un soldato.


E gli ufficiali? Sono sul medesimo piede degli altri impiegati civili.
Fanno parte del ceto medio, il mondo non li riceve e li tiene in poca
considerazione. Un frate, a qualunque titolo, sarà sempre stimato
superiore ad un colonnello.

Il grado di colonnello è anche attualmente il più elevato
nell’esercito, poichè adempie alle funzioni di generale; si economizza
il titolo, o piuttosto lo si tiene in serbo pei capi dei diversi ordini
religiosi.

È ben mestieri che il santo padre abbia bisogno del suo esercito,
perchè accordi a’ de’ semplici laici questo bel nome di generale, che
viene così fieramente portato da un domenicano, da un certosino, da un
cappuccino.

Il disprezzo dell’aristocrazia e del clero pesano sull’esercito e
soffocano quello spirito militare che non fiorisce se non circondato
da un’aureola di gloria. Ufficiali e soldati vegetano nella _mal’aria
dell’onore_.

Sotto Gregorio XVI un ufficiale si permise di eseguire la sua consegna
fermando la carrozza d’un cardinale: venne punito, nonostante che il
cardinale fosse passato oltre.

A Napoli, per lo contrario, in simile occasione, un semplice soldato
diede un colpo di sciabola al cocchiere d’un vescovo. Ferdinando II,
che pur non era un volteriano, encomiò il soldato. Egli voleva avere un
esercito, mentre il governo pontificio non sa ancora ciò che voglia.


Il ministro delle armi è un prelato, obbedisce al cardinale
segretario di Stato, il quale dipende dal papa. Tre preti alla testa
dell’esercito!

Attualmente (giugno 1858) il ministero delle armi è popolato di vecchi,
o di persone invise, disprezzate, notoriamente colpevoli delle più
gravi abbiettezze. Si confessa la necessità d’una riforma; tuttavia non
se ne fa nulla.


Un onorevolissimo intendente dell’esercito francese, signor Testa,
attende da gran tempo alla riorganizzazione dell’esercito romano. Il
generale Goyon, il generale De la Noue e tutti gli ufficiali generali
da noi spediti a Roma hanno lealmente atteso a porre il papa in istato
di difendersi senza di noi, ma tutto fu inutile, ed io stesso gli ho
uditi confessare la loro impotenza. Il principio del governo, l’ombra
de’ monasteri, l’aria di Roma, tutto si oppone alla creazione d’un
esercito pontificio. I nostri consigli, i nostri esempi, la fatica de’
nostri istruttori, tutto fu gettato al vento.

Tuttavia, debbo render giustizia ad alcuni ufficiali romani, che fanno
sforzi onorevoli, studiando, rivaleggiando nobilmente cogli ufficiali
francesi. Ma a che pro? Ogni promozione, al disopra del grado di
capitano, dipende dal favore.

Le armi speciali contano degli uomini distinti, che potrebbero
conservare ovunque il loro grado. Gli ufficiali del genio sono
teorici eccellenti, mancano soltanto di pratica. Agli ufficiali poi
d’artiglieria non manca nemmeno la pratica. Ma il buon volere ed
il talento di alcuni individui sono forze perdute in un esercito
senz’avvenire, privo di spirito di corpo, di decoro, di zelo, di
fiducia; dove non si può fare assegnamento nè sul vicino, nè sul capo,
nè sulla bandiera.


La scuola de’ cadetti è destinata a formare degli ufficiali. Essa non
è una istituzione aristocratica, come il suo nome farebbe credere; chè
l’aristocrazia romana non pensa a mettere i suoi figli nell’esercito,
più di quello che il sobborgo di San Germano non pensi a gettare i
suoi figli nella Società de’ Diritti Riuniti. I cadetti sono per la più
parte figli di merciajuoli o di ufficiali.

Sono ricevuti senza esame, sulla semplice raccomandazione di qualche
personaggio; e vengono istrutti pienamente, alla romana, sotto l’alta
tutela del cappellano dell’esercito.

Nel 1858 il generale Goyon si compiacque di visitare egli stesso la
scuola dei cadetti; e chiarì che certi allievi non erano in istato
di fare una divisione. Il corso di lingua francese non esisteva che
sui programmi. Il professore di storia, dopo sette mesi di lezioni,
balbettava ancora spiegazioni intorno al quarto o quinto giorno della
creazione del mondo. Il programma poi non faceva alcuna menzione
della storia moderna. La casa era mal tenuta ed in gran disordine.
Gli acquasantini collocati in capo al letto d’ogni alunno erano privi
d’acqua santa, onde il general Goyon, voltosi ad uno degli impiegati,
scherzosamente gli disse: «E che, signore! manca fin l’acqua santa?»
Il poveretto ingenuamente rispose: «Eccellenza, se ne prepara della
fresca.»


I soldati romani portano lo stesso uniforme dei nostri, non essendovi
se non una piccola differenza nel collare, ed una ben grande nella
tenuta.

Talora insorgono alterchi tra gl’individui de’ due eserciti; ma i
nostri generali puniscono severamente queste liti da taverna.

Mi ricordo che un artigliere francese fu assalito da quattro soldati
della fanteria romana. Gli aggressori trovarono ingegnoso di scagliare
contro di lui le loro sciabole per colpirlo da lontano. Quegli raccolse
un’arme da terra, corse contro i nemici, e tagliò una punta di naso
o d’orecchio. Il generale, per atto d’imparzialità forse eccessiva,
condannollo, insieme al ferito, ad un mese di carcere.


L’esercito pontificio costa dieci milioni all’anno e si compone di
circa 15,000 uomini. Ora in Francia questa truppa costerebbe circa
15,000,000; ma noi ne abbiamo pel nostro danaro.


Non ho ancora parlato de’ due reggimenti di fanteria straniera, che
fanno parte dell’esercito romano, e che sono arruolati dovunque,
ma principalmente in Germania. Cotesti mercenarj arrivano nudi,
e disertano ben volentieri quando il papa si è data la pena
d’equipaggiarli. Sono trattati duramente, ed assoggettati al bastone.

Chiunque arriva a Roma con quaranta reclute è ufficiale di pieno
diritto nella fanteria straniera.

Un giovane francese di buona famiglia era caporale nell’esercito
francese. Si condusse così male, e fece tante pazzie, che i suoi
capi pensavano seriamente a scacciarlo dal reggimento. Che fece egli?
Procurossi 40 tedeschi, ed entrò come ufficiale al servizio del papa.




XI.

IL GOVERNO.


Se bramate sapere, miei cari lettori, ciò ch’io pensi del governo
pontificio, la cosa è ben facile. Fate un viaggetto in Svizzera o nel
Belgio, entrate dal primo librajo che trovate e dimandate un volume
intitolato: _La questione romana_. Voi vi vedrete tutta intera la mia
opinione nel classico costume della Verità.

Ciò ch’io stampava nell’aprile del 1859 era vero e lo è ancora: non
ritratto una sillaba, ma la prudenza m’impedisce di ripetere le stesse
cose. Se mi abbandonassi al piacere di darvi qui la seconda edizione
di quell’opuscolo condannato, i magistrati del nostro bel paese
sequestrerebbero _Roma contemporanea_ per leggerla a loro bell’agio. E
forse mi manderebbero in prigione, quantunque la pensino come me.

Perciò m’atterrò alla savia prudenza de’ gatti scottati, i quali
hanno paura anche dell’acqua fredda. Eccovi la copia esatta, e senza
commentarj, de’ dati statistici, che mi furono somministrati nel 1858
da un devoto campione del poter temporale.


Il nostro santo padre papa Pio IX felicemente regnante è il 258.º
successore del principe degli apostoli. È nato a Sinigaglia, il 13
maggio 1792, dalla nobile famiglia de’ conti Mastai Ferretti; fu
assunto al pontificato il 16 giugno 1846, fu coronato il 21 giugno, e
prese possesso del governo l’8 novembre dello stesso anno.

«Da tempo immemorabile, il santo padre è non solamente capo spirituale
della Chiesa cattolica, che comprende 139,000,000 d’anime, ma eziandio
sovrano temporale d’uno Stato italiano, la cui superficie novera
4,129,476 ettari, e la popolazione 3,124,668 anime. Riunisce in sue
mani i poteri del pontefice, del vescovo e del sovrano.

I suoi Stati, che sono la malleveria della sua indipendenza morale, gli
appartengono in proprietà assoluta, e non dipendono che da lui. Egli
è padre de’ suoi sudditi, ed ha sopra di essi i diritti de’ genitori
sulla prole. Ei può fare le leggi, cambiarle, abrogarle, senz’altro
limite che quello ch’ei volesse da sè medesimo imporsi. La sua autorità
è assoluta, e non temperata se non dalla giustizia e dalla bontà del
suo cuore.

«Per l’amministrazione degli affari generali della Chiesa, il santo
padre si consiglia naturalmente col sacro collegio de’ cardinali, i
quali formano intorno a lui diverse congregazioni, ciascuna delle quali
esercita una funzione speciale. Abbiamo: La Santa Inquisizione romana
e universale, la Congregazione concistoriale, la Visita Apostolica, la
Congregazione de’ Vescovi e de’ Regolari, del Concilio di Trento, della
Revisione de’ concilii provinciali, della Residenza de’ Vescovi, dello
Stato de’ Regolari, dell’Immunità ecclesiastica, della Propaganda,
dell’Indice, dei Riti sacri, del Cerimoniale, della Disciplina
regolare, delle Indulgenze e Sante Reliquie, dell’Esame de’ Vescovi,
della Correzione de’ libri della Chiesa d’Oriente, della Venerabile
Fabbrica di San Pietro, di Loreto, degli Affari ecclesiastici
straordinarj, degli studi, della Ricostruzione della Basilica di
San Paolo, della Penitenzieria, della Cancelleria e della Dateria
apostolica.

«Pel governo delle cose temporali, il santo padre si riserva il
diritto di promulgare le sue volontà sotto forma di costituzione,
di motu proprio, di chirografo sovrano, di rescritti, e tutto quanto
egli giudica acconcio a decidersi con forza di legge nel presente e
nell’avvenire. Ma egli suol liberarsi dalla cura degli affari correnti
a profitto d’un cardinale secretario di Stato, primo ministro, amico
e confidente del santo padre, rappresentante del sovrano presso gli
stranieri e presso i sudditi pontificj. Questi nomina e dirige il
personale diplomatico composto di cardinali o di prelati; pubblica
editti cui devesi la più stretta obbedienza, come se emanassero
direttamente dal santo padre; confida, a suo beneplacito, i portafogli
subalterni dell’interno, de’ lavori pubblici, delle finanze e delle
armi. I ministri non sono suoi colleghi, ma suoi impiegati, poichè egli
è cardinale ed essi sono solamente prelati. È egli stesso che nomina i
prelati che debbono amministrare le provincie, siccome i prefetti de’
vostri dipartimenti.

«Nella qualità vostra di Francesi, conoscerete probabilmente
l’organizzazione della Chiesa gallicana, ma essa differisce talmente
dalla nostra, che le mie parole sarebbero per voi lettera chiusa, se
non ponessi qualche parola di spiegazione qui appresso.

«Nel vostro sciagurato paese, balestrato da lunga serie di rivoluzioni,
il clero, spogliato de’ suoi beni e de’ suoi privilegi, dovette
racchiudersi nel dominio spirituale. Un seminarista francese, dopo
aver ricevuto il sacramento dell’ordine, se ne va siccome coadjutore
in qualche meschino villaggio, dove pasce alcune pecorelle in zoccole.
Il governo scettico, che tratta sopra un piede d’eguaglianza perfetta
i ministri di tutte le religioni, inscrive nel budget questo prete del
vero Dio fra il maestro di scuola ed il guardaboschi. In ricambio d’un
gramo salario di 900 franchi, voi esigete che il sacerdote obbedisca
da schiavo a delle leggi atee, e si umilii dinanzi alle autorità
laiche. Se dà saggi di talento e di zelo, lo nominate arciprete o
curato, nella qual carica egli è inamovibile, e prende un onorario da
1200 a 1500 franchi a norma della popolazione; ma non esercita nessuna
autorità legale fuori del santo tempio, ed al pari del primo arrivato
va soggetto alla giurisdizione de’ tribunali laici, e non ha nemmeno il
diritto di far mettere un uomo in prigione! Se per le sue virtù merita
d’essere innalzato all’episcopato, ei non può ottenere l’instituzione
del santo padre, se non dopo d’essere stato nominato dal capo laico
del vostro governo. Così esige il concordato firmato nel 1801 dal papa
Pio VII e dal console Napoleone Bonaparte. Io fremo quando penso,
che l’arcivescovo di Parigi Sibour, che morì da martire appiedi de’
santi altari, era stato nominato dal generale Cavaignac! Nessun fatto
potrebbe mostrare, con più deplorabile evidenza, quanto il potere
spirituale sia tra voi francesi schiavo del temporale.

«Le cose procedono ben altrimenti negli Stati soggetti al santo
padre. Una logica irreprensibile mantiene nel dominio temporale
l’ordine e la gerarchia ecclesiastica. Il santo padre è padrone
assoluto de’ beni e delle persone de’ suoi sudditi, perchè tutto ciò
fu dato incondizionatamente al capo supremo della Chiesa. Dopo di
lui la principale autorità ed i più elevati impieghi appartengono ai
cardinali, e nulla pare più giusto e naturale, poichè i cardinali sono
i principali capi della Chiesa, e ciascuno di loro, coll’ajuto dello
Spirito Santo, può un giorno diventar papa. Dopo i cardinali, principi
tanto dello Stato quanto della Chiesa, si colloca l’alta e rispettabile
nobiltà de’ prelati, i quali tutti sono in via d’essere nominati
cardinali. Il resto segue nel medesimo ordine, e le 38,320 persone,
che compongono il clero secolare e regolare, esercitano nello Stato
un’influenza proporzionata al grado che occupano nella Chiesa. L’ultima
di quelle 38,320 persone è immediatamente superiore al primo dei laici.
E questa gerarchia è così costante agli occhi del governo, come agli
occhi di Dio stesso.

«Nel 1797, prima delle spogliazioni di cui fummo vittima, il clero
romano, tra regolare e secolare, possedeva 214 milioni di franchi in
beni immobili. Attualmente la sua sostanza territoriale è portata al
cadastro per 535 milioni. Ben vedete che ha riparato le sue perdite.
I cardinali romani non ricevono che 20,000 franchi all’anno sulla
cassetta del papa, ma bisogna aggiungere a questa modica somma il
reddito di qualche vescovado, di qualche beneficio, o d’un alto
impiego, scelto fra i più lucrosi. Questa combinazione permette loro
di parer poveri e di esser ricchi. Quando al cospetto vostro venisse
fuori alcuno ad assalire il fasto della corte di Roma, voi potrete
sempre rispondere, col signor Rayneval, che i cardinali non ricevono
se non 4000 scudi all’anno; ma voi avrete abbastanza buon senso per
accorgervi, che la sola loro scuderia divora sovente più di 4000 scudi.

«Il sacro collegio de’ cardinali, il cui numero varia fra 60 e 70,
si forma nella prelatura, instituzione tutta romana, che non trova
analogo riscontro negli altri Stati d’Europa; dacchè anche in Francia
si indicano sotto il nome di prelati i vescovi e gli arcivescovi. È
dessa una specie d’aristocrazia spirituale e temporale eletta dal
santo padre, che le accorda le lettere di nobiltà. È una scuola,
da cui si sale per gradi fino alla dignità di cardinale; ed è una
carriera politica, dove alcuni entrano per ambizione, riservandosi la
facoltà d’escirne per incoraggiamento. I cadetti di buona famiglia,
all’uscire di collegio, possono ottenere ed anche comprare certe
cariche domestiche o giudiziarie, che loro aprono le porte della
prelatura. Da quel punto essi sono come i vostri laureati di Francia,
che hanno il diritto d’aspirare ad ogni impiego. Portano le calze
di color viola, e procedono, così calzati, nella via degli onori.
L’amministrazione, la diplomazia, le alte corti di giustizia, sono il
dominio, o, se meglio vi piace, l’aringo delle corse de’ prelati. I più
destri e meglio pensanti arrivano alla meta prima degli altri, ma sono
necessarii il lavoro, la protezione, la condotta, e sopratutto certo
decoro. Quando un prelato arriva a farsi nominare auditore di ruota,
o chierico di camera, o secretario d’una grande congregazione, può
sperare, senza soverchia presunzione, di morire nella porpora. Colui
che raggiunge uno de’ quattro primarj impieghi della prelatura è sicuro
di riuscire ai sommi gradi, e diverrà cardinale. Questi impieghi,
che si dicono cardinaleschi, sono quelli di governatore di Roma, di
tesoriere generale, di auditore di camera, e di maggiordomo del papa.
I loro titolari fruiscono in anticipazione di alcune delle prerogative
riservate al sacro collegio: bisogna dipingere le loro carrozze in
rosso, e mettere de’ fiocchi di seta rossa sulla testa de’ cavalli.

«Non è mai troppo tardi per entrare nella prelatura, e si è sempre
padroni d’uscirne. Suppongo che un uomo ben pensante, come voi, possa
svegliarsi colla vocazione o l’ambizione di giungere al sacro collegio.
Il santo padre può nominarvi prelato oggi stesso, porterete le calze
color viola, ed apparterrete, _ipso facto_, all’aristocrazia della
chiesa romana, allo stato maggiore del papato, e ciò senza contrarre
alcun impegno religioso. Diverrete cardinale e prenderete le calze
rosse il giorno in cui il santo padre lo crederà opportuno, fra 24
anni e 24 ore. Converrà che negli ultimi momenti vi facciate ordinar
diacono, perchè senza formalità non si potrebbe diventar cardinale. Se
il cappello si fa troppo attendere, se perdete pazienza, se trovate per
via l’occasione d’un matrimonio vantaggioso, non avete nessun ostacolo
che v’impedisca di abbandonare la prelatura. Mettete calze bianche, ed
ecco fatto. Il conte Spada, che era prelato e ministro delle armi, è
uscito dalla prelatura per ammogliarsi. Ma egli non è, e non sarà più
nulla nello Stato, dacchè ha cambiato il color delle calze, sebbene non
siasi fatto nessuno sforzo per ritenervelo.

«Il santo padre, i cardinali ed i prelati governano la nazione con
dolcezza paterna. Hanno ogni riguardo pei privati, pei principi e pei
nobili, non solamente perchè la nobiltà romana è in modo speciale
d’origine pontificia, ma anche perchè la distinzione delle caste è
fondamento degli Stati inciviliti. Tengono in serbo per un principe
romano la carica onorifica di senatore o podestà di Roma. Un altro gran
signore, per privilegio speciale, dirige, senz’obbligo di calze color
viola, l’amministrazione delle poste. Quattro nobili romani, principi,
duchi o marchesi, accompagnano sua santità nelle cerimonie religiose,
sotto titolo di camerieri di cappa e di spada. I cadetti di alcune case
distinte formano la guardia nobile, in abito azzurro: e si può dire in
generale che i figli di famiglia fanno carriera più rapida, che non gli
avventizj nella gerarchia ecclesiastica.

«Il popolo minuto viene trattato dolcemente; viene compianto,
assistito, ricreato. Non si pretende altro se non che viva
cristianamente evitando gli scandali. Lo si vorrebbe più perfetto e
sopratutto meno violento; ma siccome è sottomesso a’ suoi dogmi ed a’
suoi padroni, così si stende un velo indulgente sui suoi peccati, e si
evita più che è possibile di spargere il suo sangue.

«Il ceto medio anch’esso avrebbe torto se osasse lamentarsi. Gli
si permette di coltivare la terra e di dedicarsi al commercio ed
all’industria. Nessuno viene ad angariarlo sulle sue opinioni religiose
e politiche, a patto però che abbia cura di tenerle in sè; non gli si
richiede che l’obbedienza alle leggi e 70 milioni d’imposte, di cui
gli si restituisce qualche particella. Poichè i prelati gli cedono
generosamente una quantità di piccole cariche, colle quali un uomo che
s’accontenti di poco, guadagna agevolmente di che vivere. Ogni borghese
ben pensante e ben appoggiato trova posto in qualche amministrazione,
tribunale, venditorie di tabacco, o bottega da lotto. Il punto
sta nella scelta d’un protettore, nell’obbedirgli in ogni cosa,
nell’accontentarsi d’una condizione umile e modesta, e nella pratica
ostensibile delle virtù cristiane.

«Si può dire, per riepilogo, che gli Stati pontificj furono sempre
governati all’amichevole, da uomini dolci e gentili, già dalla
educazione, dall’abitudine e dalla fede predisposti alla indulgenza. I
principi della Chiesa, umilmente soggetti allo scettro venerabile del
santo padre, si spartiscono quietamente e concordemente un’autorità
secondaria. Cedono un’ampia parte ai principi romani loro alleati
ed ai prelati, loro futuri colleghi. Uno scambio di buoni ufficj,
di raccomandazioni e di concessioni reciproche unisce strettamente
tutti gli uomini che sono qualche cosa nello Stato. Una tradizione di
patrocinio e di clientela, così antica come Roma stessa (poichè ebbe
origine da Romolo), sottomette loro il popolo minuto ed il ceto medio.

«Tutto dunque procederebbe a meraviglia, se lo spirito rivoluzionario,
scatenatosi dagli abissi, non si fosse sparso sull’Europa e sull’Italia
stessa. Già da oltre due secoli alcuni novatori, nemici parimenti della
fede religiosa e della tradizione monarchica, si sforzano d’instillare
nelle menti il così detto principio dell’infallibilità umana. Dopo
avere scalzato le fondamenta dell’autorità clericale, rivendicando a
profitto dell’individuo il discernimento del vero e del falso, del bene
e del male, che non appartiene che alla Chiesa, sono giunti, per una
conseguenza logica del loro sistema, a negare la legittimità d’ogni
potere temporale, ed a mettere i sudditi al disopra dei re. Si videro
de’ milioni d’uomini, trascinati dal torrente d’un comune errore,
affermare che un regno loro appartiene per ciò solo che vi sono nati,
ed abolire o limitare il potere de’ loro principi.

«Cotesto contagio non s’è fermato sui confini del nostro Stato, e
già da parecchi anni il sovrano pontefice ed il sacro collegio sono
costretti a lottare contro le più intollerabili esigenze dell’orgoglio
umano. Senza l’esercito francese che ci difende, il popolo di questi
paesi proclamerebbe la repubblica, o getterebbesi nelle braccia di
qualche principe straniero. Costretto poi a riconoscere l’autorità de’
legittimi suoi padroni, domanda insolentemente di prender parte nel
governo. Non v’ha più nè città nè villaggio, che non reclami il diritto
d’amministrarsi da sè medesimi e di scegliere un corpo municipale. I
laici pretendono usurpare gli alti impieghi riservati alla prelatura e
servire il papa, anche suo malgrado. Gli avvocati vogliono raccogliersi
in assemblea e fabbricar leggi, come se la legge, nello Stato del papa,
potesse essere altra cosa che la volontà del papa medesimo! Finalmente
i contribuenti che debbono pagare a Cesare ciò che è di Cesare, ed a
Dio ciò che è di Dio, non temono di reclamare da noi che si rendano i
conti.

«Si avrebbe a sdegno di rispondere a delle pretensioni sì nuove
e mostruose, se non fossero in qualche modo appoggiate dai nostri
protettori medesimi. Chi lo crederebbe? L’ambasciatore d’un principe
cattolico qualifica del nome d’abuso le instituzioni fondamentali
della nostra monarchia. Lo stesso vostro imperatore, in una lettera
che nessuno di noi prese sul serio, ci consigliava di secolarizzare
l’amministrazione e di adottare il Codice Bonaparte!

«La prudenza ci comandava di obbedire, almeno in apparenza, a consigli
venuti sì dall’alto. Abbiamo quindi promesso ciò che ci si dimandava, e
tracciato sulla carta il piano particolareggiato della nostra ruina. Ma
l’invasione de’ laici negl’impieghi del governo, l’adozione d’un Codice
rivoluzionario, l’emancipazione delle nostre Comuni, la discussione
pubblica dei nostri budget avrebbero trasformato il santo padre in un
re costituzionale. La sua autorità religiosa non avrebbe lungo tempo
sopravvissuto, nello spirito degli uomini, alla sua infallibilità
politica; il papa non sarebbe stato più papa! Ora noi professiamo una
religione che c’interdice il suicidio.»


A questo quadro abbellito, ma però abbastanza esatto, a questo
raziocinio invincibile nelle sue deduzioni, ma fondato sopra assiomi
dubbiosi, non aggiungerò che poche parole.

Il governo del papa, per dare soddisfazione ai desiderj de’ suoi
protettori e de’ suoi sudditi, ha instituito una foggia di regime
rappresentativo. Il santo padre nomina degli elettori comunali
incaricati di nominare in ogni città un consiglio municipale. Ma per
risparmiar loro gl’imbarazzi della scelta, s’incarica egli stesso di
comporre il consiglio.

I consigli municipali, così formati, presentano al santo padre una
lista, su cui sceglie egli stesso i membri dei consigli provinciali.

I consigli provinciali, alla loro volta, presentano al sovrano una
lista, sulla quale egli sceglie i membri della consulta delle finanze.
Il papa aggiunge a questo consiglio, da lui stesso formato, alcuni
prelati da lui medesimo prescelti.

La consulta delle finanze è destinata a porgere il suo parere su tutte
le questioni che interessano il tesoro. Venne instituita nel settembre
del 1849, entrò in carica nel dicembre del 1853. Essa dà il proprio
avviso, e non se ne tiene conto alcuno.


Il sindaco porta il nome di senatore a Roma ed a Bologna, di
gonfaloniere nelle città di minore importanza, e di priore nei
villaggi. Ma senatore, gonfaloniere o priore, ei non è altro che uno
stromento passivo nelle mani dell’autorità ecclesiastica.


Il santo padre può sospendere indefinitamente, con suo chirografo
sovrano, l’esecuzione d’un giudizio regolare, anche in materia civile.
Io non credo che siavi alcun altro sovrano dell’Europa, che domini la
legge così dall’alto.


Si può dire, senza timore d’essere smentiti, che il papa regna e
governa.


Il secretario di Stato, incaricato di difendere all’estero ed
esercitare nell’interno l’autorità assoluta del santo padre, è, già da
dodici anni circa, il cardinale Giacomo Antonelli.




XII.

COSTUMI ROMANI.


Se questo capitolo sarà gremito di enormi contraddizioni, prego
il lettore indulgente di non se ne maravigliare, chè tutto è
contraddizione in Roma, dove il popolo è ben nato, e male allevato,
il governo è pieno di grandezza e di meschinità; dove sono leggi
dolcissime e leggi in massimo grado dispotiche; imposte assai modiche
eppure gravosissime; dove regna un gran fondo di sincerità naturale,
e molta ipocrisia raffinata; dove sono e vita economica e spese pazze;
prudenza meticolosa e collera cieca; abitudine di nascondersi e furor
di comparire; sentimento vivissimo dell’eguaglianza, profondo rispetto
per le ineguaglianze sociali; costituzione abbastanza dispotica
per riunire tutti i poteri nelle mani d’un uomo solo, ed abbastanza
democratica per mettere la corona di re sulla testa d’un cappuccino.

Tutte le statue che si veggono a Roma, sia sulle piazze pubbliche,
sia anche nelle private gallerie, portano una foglia di vite. Furono
coperte d’un mantello di lata le figure allegoriche, le quali
decoravano alcune tombe d’antichi papi. L’artista le aveva fatte
nude, considerando che ai morti non si deve altro che la verità; ma
l’ipocrisia moderna volle rivestirle, mascherarle, soffocarle, come se
una bella statua potesse essere un oggetto di scandalo. In ricambio si
permette ad uomini veramente nudi di bagnarsi nel Tevere, od anche nel
bacino della fontana Paolina. Nessuno sentesi offeso da questa libertà,
nè la polizia, nè il pubblico, nè le donne romane, che vanno e vengono
e lavano i loro panni intorno a quelle statue viventi, senza pensare al
male.


Esco dall’ospitale dello Spirito Santo, stabilimento immenso, che è
il più ricco e meglio dotato di tutti i nostri. Un giovane addetto
mi ricevette alla porta e fecemi passeggiare cortesemente, senza
conoscermi. È un medico od almeno ha sostenuto gli esami del dottorato
teorico. Fra due anni egli passerà gli esami di pratica, ed andrà
ad esercitare la medicina in qualche villaggio. Intanto egli studia,
ma non tutto ciò ch’ei vuole; ed in confidenza mi confessa, che non
ha mai veduto il corpo d’una donna viva. «Ed i parti? — Noi facciamo
partorire de’ fantocci incinti d’una bambola. Ma quando avrò sostenuto
il mio ultimo esame, avrò diritto di assistere ai parti delle donne. —
Compiango la prima che vi toccherà per mano. — Ed io pure.»

Le sale dell’ospitale sono vastissime in lunghezza e larghezza;
contengono quattro ordini di letti senza cortine, capo a capo! I piedi
d’un malato toccano la testa dell’altro. Fu sacrificato l’interesse di
quegli infelici all’aspetto grandioso dell’edifizio.

Un cartello posto al capezzale d’ogni letto indica la dieta prescritta
ad ogni ammalato: «Porzione intera, mezza porzione, minestra ed ova,
viatico.» Quest’ultima parola mi ha fatto rizzare i capelli in testa. —
Poveretti, che 24 ore prima sono condannati a morte!

Si chiama la mia guida per mostrargli il numero 200.º, intanto che
passavano. — Io lo seguo e veggo un corpo agitato dalle convulsioni
dell’agonia. Era un contadino colpito da gastrite acuta per essersi
mal nodrito. Un infermiere distende le sue membra, toglie la camicia,
stende un lenzuolo, accende una lampada. Allora m’accorgo d’altre
cinque o sei lampade accese nella sala: sono altrettanti cadaveri. Il
mio cicerone mi fa osservare, che si ebbe la felice idea d’adattare ad
ogni letto una specie d’anello per la lampada funebre.

Un grasso cappuccino circola nella sala, distribuendo l’assoluzione a
chi la dimanda: sonvi però due grandi confessionali dinanzi la porta
d’ingresso.

Mi viene mostrato un contadino rosso come un pomo d’oro e trasudante
a grosse goccie nel suo letto. È stato morso dalla tarantola, eppure
non v’è nulla nel suo contegno che riveli la passione della danza. Il
mio giovane dottore m’assicura che il morso delle tarantole induce un
movimento di febbre assai gagliarda. Tuttavia ei credette osservare che
la paura entrava in buona parte in questa malattia; tanto che basta
qualche volta un bicchier d’acqua pura, od una pillola di mollica di
pane, per guarirla radicalmente.

Una sala a parte è destinata ai soldati ammalati, che vengono
paternamente assistiti, anche per le malattie irreligiose. Ma in questo
caso speciale il prezzo delle medicine viene dedotto dal loro soldo.
Da ciò nasce, che un soldato ammalato evita l’ospitale, e resta infermo
finchè a Dio piace.

Ho visitato il teatro, il gabinetto d’anatomia, e tutte le collezioni
scientifiche spettanti all’ospitale. Il pezzo più notevole è un
cadavere scorticato, colla foglia di vite per edificazione dei giovani
medici. _Et nunc erudimini!_

L’ospitale dello Spirito Santo, come tutte le proprietà ecclesiastiche,
è un luogo di asilo, dove può guarirvi o morirvi il ladro, il
parricida, l’assassino, sotto lo scudo delle leggi. Alcuni ammalati,
profittando d’una sì dolce impunità, credettero che fosse loro permesso
di rubare e d’uccidere in quel recinto inviolabile. Ma l’autorità
pontificia, considerando che non bisogna abusare degli abusi,
decise che i delitti commessi nell’ospitale non avrebbero diritto
all’impunità. Questa legge, scolpita sopra una lastra di marmo, resta
esposta agli occhi degli ammalati, i quali però non sanno leggere.


L’ospizio de’ Trovatelli, allo Spirito Santo, vide il prologo d’un
piccol dramma, che parrebbe inverosimile, se i tribunali non si fossero
data ogni cura di verificarlo.

Nel 1807, la duchessa X, che aveva già un figlio ed una figlia,
sgravossi clandestinamente d’un terzo figlio, nel palazzo del proprio
marito. Perchè fece essa portare il neonato all’ospizio anzichè
presentarlo al duca X? Forse perchè il duca, già da parecchi anni,
teneva letto separato. Il piccolo Lorenzo X fece il suo ingresso nel
mondo per la porta de’ Trovatelli, senz’altro capitale che la metà d’un
pezzo da 5 soldi appesa ad un filo.

Qualche tempo dopo, la duchessa, che aveva visceri umani, provò che
il pezzo di 5 soldi ed il fanciullo appartenevano a lei. Ripigliò
il suo Lorenzino, lo diede a nutrire ed assegnò una pensione di 26
franchi al mese, che fu scrupolosamente pagata fino all’età maggiore.
Mercè la generosità della madre, Lorenzo non morì di fame ed imparò la
miniatura.

La morte di suo padre e del fratel maggiore venne a stornarlo dalla
sua vocazione. Ei vedeva una bella sostanza, 75,000 franchi circa di
rendita, andarsene dalla principessa T., sua sorella, che non ne aveva
precisamente bisogno. La contessa T. possiede da quaranta a cinquanta
milioni! La fame, l’occasione, il favore pubblico e certi nemici della
famiglia T., spinsero Lorenzo a reclamare il nome ed i beni degli X.

Se qui potessi trascrivere i documenti del processo, che furono riuniti
in un volume, vi trovereste alcuni fatti curiosi. Gli avvocati del
pretendente rinfacciavano alla duchessa d’aver lasciato languire
suo figlio nella miseria, mentre faceva follie per un droghiere di
Frascati. La principessa T.... diceva, per l’organo del suo difensore:
«Questo giovane è figlio di mia madre, sia pure; ma certamente mio
padre non c’entra per nulla. Essa variava all’infinito ne’ suoi gusti.
Se Lorenzo è figlio di qualcuno, lo è probabilmente d’un Russo di nome
M.»

Ma più maraviglioso è quanto ebbe a dichiarare la duchessa. Nel
momento di comparire al cospetto di Dio, cotesta illustre persona non
si vergognò di attestare, per favorire la figlia, che il giovane era
bastardo e quindi inetto a succedere.

Malgrado una testimonianza sì grave, Lorenzo guadagnò il suo processo:
_Is pater est quem justae nuptiae demonstrant_. D’altronde gli avvocati
avevano provato che il defunto duca si era compromesso con tutte le
donne, la duchessa con tutti gli uomini, e per conseguenza il duca
e la duchessa avevano dovuto incontrarsi almeno una volta nelle loro
avventure. Lorenzo, cresciuto nell’avversità, è diventato uno degli
uomini più attivi, più intelligenti e liberali dell’aristocrazia
romana. Lo vedrete alla testa di tutte le imprese che possono favorire
il progresso dell’Italia.

Fa educare i figli in Piemonte, e non concede loro di venire a Roma,
nemmeno nelle vacanze, quasi che l’aria della città Santa potesse loro
avvelenare lo Spirito.

Suo unico difetto è un deplorabile imbarazzo nel maneggio dell’armi da
fuoco.


Altro romanzo. La duchessa A. era rimasta vedova nel 1850, con una
fortuna ancora imponente, benchè d’alquanto scemata, ed uno splendido
palazzo.

Il cielo permise che un reggimento di dragoni francesi fosse
accasermato nelle vicinanze del palazzo A. Tutte le mattine la duchessa
non aveva che a mettersi alla finestra per contemplare l’ordinamento
de’ cavalli, d’onde osservò un giovane sott’uffiziale di bello e nobile
aspetto, benchè sopravegliasse un’operazione abbastanza prosaica. A
forza di vederlo, ella ne fu presa d’amore, e siccome anch’essa non
era fatta per dispiacere, così piacque al giovane. Prese informazioni,
essa venne a sapere che il signor H. apparteneva ad un’onorevolissima
famiglia di coltivatori normandi, ed egli stesso era stimato dai capi e
dai camerati, onde in breve avrebbe ottenuto gli spallini. La duchessa
attese ch’ei fosse uffiziale, persuasa, e non a torto, che ogni
ufficiale francese vale un gentiluomo.

Ora il signor H. ha ottenuto congedo, coltiva le terre di sua moglie
e rialza una fortuna che l’incuria romana aveva lasciato scadere. Sua
moglie non è più duchessa, ma sarà ricca e felice.

Il difficile sarà di persuadere ai domestici di Roma ch’essi debbono
annunciare l’antica duchessa A. sotto il nome di signora H. Quanto ai
contadini delle sue terre, mi dissero ingenuamente: «Il nostro nuovo
padrone si chiama duca A., dacchè ha sposato la signora duchessa.»


Quando l’amore si radica in un cuore romano vi signoreggia da re.
Tutto cede: gl’interessi, i doveri e finanche i pregiudizj. Eccovi un
giovinotto d’età piuttosto matura che corre verso la piazza di Spagna.
È il principe C., che va a baciare la mano d’una giovane droghiera,
di cui è innamorato fino al punto di volerla sposare. E questa follia
non farebbe stupore a nessuno. È però vero che la donna occupa sì poco
spazio nella famiglia, e che si può sceglierla dovunque si vuole, senza
derogare.


Non è già che le donne di Roma siano creature di nessuna importanza;
sonvene di molto spiritose, siccome la principessina C. di S.

Il principe C. di S., morto di vecchiaja nel 1849, aveva sposato nel
1848 una persona assai più giovane di lui. E nello stesso giorno ch’ei
fu seppellito, la vedova dichiarò d’essere incinta, e non fu smentita,
essendosi sgravata d’un maschio proprio al limite legale del tempo, e
la sua presenza di spirito le valse una fortuna. «Questo fanciullo è
nato coll’orologio alla mano,» dicevano i giureconsulti.


L’educazione ha bel fare: si trovano delle romane fierissime e
nobilissime, anche nella nobiltà!

Quella povera Tolla o Vittoria Savorelli, di cui ho pubblicato la
storia or sono alcuni anni, non era certamente un’anima volgare.

Poco dianzi ho incontrato il suo seduttore, uomo pingue e di nessun
merito, che non fu certo dimagrato dai rimorsi, se pur ne ha.

Il signor Savorelli padre si è ingolfato nell’industria, fabbrica
candele steariche e rialza così la fortuna della sua casa. Conserva in
casa un bel busto di sua figlia, scolpito da un fratello di Tolla.

Mi venne mostrata una giovane di buonissima famiglia, che ebbe il
coraggio d’imparare un’arte, la pittura, per isposare un giovane povero
che essa amava. Dopo diciotto mesi di studj, diventò capace, spinta
dall’amore, di dipingere copie così belle come quelle che si vendono
agli stranieri, ma l’amante aveva cessato d’amarla, e ne corteggiava
un’altra.

Quest’eroica giovane non è morta siccome Tolla. Si è poi innamorata
d’uno straniero che non la sposerà, che glielo disse, e ch’essa ama
a dispetto del senso comune. Essa ha rifiutato la mano d’un vecchio
diplomatico potentemente ricco, per restar fedele a questo francese,
che non è nemmeno suo amante.


Il principe T., l’uomo più ricco di Roma, ne è forse il più infelice.
La sua famiglia ha perduto in poco tempo un bel ducato, un’eredità
importante ed un’impresa infinitamente più lucrosa. La moglie è pazza,
i suoi eredi sono ragazze, suo fratello è una nullità, uno de’ suoi
nipoti è idiota e l’altro, che meriterebbe di vivere, non vivrà.
_Sic transit gloria mundi._ Tutta la città compiange sinceramente
il principe T. Ei vende il suo danaro un po’ caro; ma fece del bene,
incoraggiò le arti, e diede delle belle feste.

I suoi due nipoti hanno sposato delle figlie di case illustri, e sono
ambidue belle. La moglie del primogenito è d’un carattere aperto,
leale, appassionato; e resiste energicamente alle soperchierie di sua
cognata, che spende più di politica che non Richelieu e Mazarino, per
confiscare la primogenitura a profitto del proprio consorte.

Questi ultimi giorni, il cardinal Antonelli aveva invitato le dame
della nobiltà romana ad un passeggio colle fiaccole nelle catacombe di
San Pietro. Alla cena che venne appresso, Sua Eminenza si accostò alla
giovane principessa T., moglie del primogenito, e si scusò di non avere
invitato la sua cognata. «Avete fatto assai bene, rispose la fiera
romana. Bisogna saper conservare la distanza fra i primogeniti ed i
cadetti.»


Una romana, una principessa allevata in un convento, ha commesso
qualche imprudenza; la cameriera sa tutto e fa comprendere alla sua
padrona ch’essa potrebbe dir tutto. In simile occasione, quale è la
francese che non avrebbe transatto? La mia Romana dà uno schiaffo alla
impertinente creatura, la getta a terra, la calpesta e la scaccia sul
momento.

Se il nostro povero Stendhal fosse vissuto, avrebbe ammirato quel
tratto di coraggio. Notate, se vi piace, che la principessa non era
già una matrona imponente, ma una donnetta, mingherlina e dilicata. La
fantesca è partita e non ha mai parlato. È l’eroina che ha raccontato
l’avventura al suo _amico_.


Di tutti i nobili romani, il più francese è il principe di S.,
discendente da Valerio Publicola. Ha fatto l’assedio di Roma coi nostri
uffiziali, e s’è meritato il nastro della Legione d’onore. Ho veduto
presso di lui un mobiliare ricco ed anche di buon gusto, ciò che è più
raro. La sua conversazione è solazzevole e svariata, segnatamente prima
di pranzo; egli è quello che a Parigi dicesi buon figliuolo, ma troppo
fanciullo. Jeri egli trovavasi a Rignano, per la solenne investitura
del giovane duca. La municipalità aveva preparato un fuoco d’artifizio;
ma il principe di S. ebbe il capriccio di apporvi il suo sigaro ed
accendere i razzi di bel mezzodì!

Ho talora incontrato al Pincio un altro principe di S., principe
anch’esso al pari del cugino, e ridotto a vivere d’una pensione
di pochi scudi al mese. Questi in paese laico sarebbe stato un bel
soldato: da Nemrod rassegnato, si consola della forzata inazione dando
la caccia ai caprioli ed ai cinghiali.

Sul Pincio egli conduce i suoi cani filosoficamente, nell’ora in cui il
duca Grazioli e tanti altri fornaj arricchiti conducono pomposamente i
loro cocchi.


Roma è piena di cavalli, carrozze, lacchè, livree, stemmi gentilizj;
chè il più meschino parroco pretende il lusso d’un blasone. Nessuno,
tranne i nocchieri di vetture pubbliche, attacca un cavallo solo alla
propria carrozza. Le carrozze poi sono alte, larghe, pompose; e vi si
sale per una scala, siccome pel Paradiso. Ho sempre dimandato a me
stesso, perchè i cardinali e gli altri grandi signori traessero tre
domestici, in piedi sul medesimo banchetto, dietro la loro carrozza,
mentre basterebbe un solo. Comprendo benissimo perchè i Turchi mettono
talora due guardie in una garetta: il tempo della consegna è lungo e
pesante, onde la seconda sentinella potrebbe servire a risvegliare
la prima. Ma tre domestici balestrati al piccolo trotto dietro un
cardinale! Evvi forse in ciò qualche intenzione caritatevole? Il
secondo ed il terzo sono forse messi per impedire che il primo cada? In
tal caso tenetene un solo, e fatelo sedere.


A Roma, il più umile borghese si fa scrupolo di non portar nulla da sè.
I ragazzi che vanno a scuola ravvolgono i loro libri in un fazzoletto e
li dondolano negligentemente. Far vedere che portano da sè i loro libri
alla scuola, sarebbe un confessare che non hanno domestici!


Un notajo di Parigi che aveva studiato questo governo diceva,
rientrando in casa: «Non v’è che un mezzo solo per risolvere la
questione romana. Mettete tutti i laici alla porta, e non lasciate che
i sacerdoti.»

È una misura un po’ violenta, e m’imagino che si potrebbe raggiungere
il medesimo scopo per altra via. Diamo l’Italia agl’Italiani e Roma
al papa. Allora la città eterna non sarà popolata che da persone
tranquille e rassegnate anticipatamente ad una dolce servitù:
cardinali, prelati, preti, frati, principi, clienti, commissarj,
lacchè. In totale, cinquanta o sessanta mila individui, che tutti
hanno sollevato l’obbedienza all’altezza d’un principio. Aggiungete
una popolazione ondeggiante di ventimila stranieri, che verranno ad
ammirare le ruine racchiuse in questa ruina.


I cardinali romani non escono mai a piedi per la città, chè la loro
grandezza esige la carrozza. Coloro poi che provano il bisogno di
fare un po’ d’esercizio, vanno a passeggiare nella villa Borghese, o
piuttosto in un giardino deserto che si stende dietro il Colosseo.
Non mi ricordo d’averne veduto alcuno a passeggiare al Pincio, ma
vi s’incontrano però de’ prelati acconciamente vestiti, baldanzosi e
seguiti da domestici.

Mi viene accertato che i cardinali non possono por piede in una
chiesa senza un certo cerimoniale; ond’è che, se un cardinale fosse
tentato d’aprir la porta e d’andar a pregare come un semplice fedele,
l’etichetta glielo impedirebbe.


Il servitorame di Roma, compreso di rispetto pei cardinali, non è molto
curante verso la dignità episcopale, e ciò pel gran numero di vescovi
che si trovano in Roma. Si narra che, in una di quelle cerimonie che
attraggono la folla, un guardaportone di parrocchia respingeva le
persone a colpi d’alabarda. «Guardatevi! gridò un domestico, vorreste
forse bastonare Sua Eminenza?

— Perdonatemi, esclamò il guardaportone, prostrandosi dinanzi al
cardinale, io credevo che fosse un vescovo!»


Quando un cardinale passa in carrozza dinanzi ad un posto militare, i
soldati vengono fuori e gli presentano le armi. Il cardinale saluta
senza toccare il cappello, alzando leggiermente il vetro della
carrozza. I semplici prelati salutano nello stesso modo.

Un pensionante dell’Accademia francese di Roma, che potrei nominare,
va a visitare un giorno la manifattura dei mosaici. In una delle sale
dello stabilimento, vede un prelato che passeggia col cappello in
testa. Ei crede che si possa restar coperti, e si copre. Il prelato
gli va incontro e con un manrovescio gli fa cadere il cappello.
Quest’aneddoto è del 1858.


Non si fanno più miracoli a Roma, nè nello Stato Pontificio. Alcuni
zelanti tentano bensì di quando in quando, ma il Santo Ufficio gli
arresta subito.

Una giovane morta all’Ospitale San Giovanni conserva per qualche tempo
la faccia vermiglia. Monsignor Tizani grida al miracolo; l’inquisizione
gli ordina di tacere.

A Sezza, or sono quattro o cinque anni, una giovine santa diretta
da due preti si mette a predire il futuro. Il popolo ride di quelle
profezie; il governo fa arrestare la pitonessa ed i suoi due direttori.

Tre anni sono una giovane estatica attira la folla a un miglio da
Rimini. Due ecclesiastici dicevano la messa nella sua stanza; ella
profetizzava con molta facilità; ma tre domenicani accorsero da
Roma, e fecero cessare il miracolo; si investigò l’affare, e dietro
un processo, che durò tre anni, la giovane ed i suoi magnetizzatori
presero la strada delle galere.

Taluni possono forse chiamarsi fortunati che il miracolo sì lucroso
della Salette sia accaduto in Francia. Il Santo Ufficio di Roma è più
severo del clero di Grenoble, o più prudente. Ha paura dello scandalo e
si attiene ai vecchi miracoli.


La legge, od almeno l’uso di Roma, permette ai poveri di rubare una
pagnotta nel cesto del fornajo, se hanno fame.

Io ho visto dei disgraziati affamati che non usavano di questo
privilegio. Un contadino, d’una cinquantina d’anni, passeggiava lungo
il corso, guardando a dritta ed a sinistra con aria d’indifferenza.
All’angolo d’una strada adjacente scorge un enorme torso di cavoli in
mezzo ad un mucchio d’immondizie, vi corre, lo prende e lo mangia con
un’avidità terribile a vedersi.

Aspettate! Allorchè fu saziato o nauseato gettò l’avanzo. Un giovinotto
di vent’anni, che lo seguiva da alcuni minuti, raccoglie quell’avanzo e
se lo divora.

Ecco delle osservazioni che il vero viaggiatore dilettante non farebbe.
Ci vuole il tempo, l’occasione ed un certo genere di curiosità.


Le donne turche dormono tutte pettinate e le greche tutte vestite. Le
romane, i loro mariti, i loro figli, dormono tutti nudi. A Parigi è
una sconcezza il coricarsi colle calze; a Roma è sconcio il tenere la
camicia.

Una dama francese m’aveva incaricato di portare un regalo alla sua
sorella di latte maritata a un fabbro di Borgo. Ci vado la domenica
mattina verso le sette. Batto: «_Chi è?_» risponde una voce d’uomo.
Espongo l’occorrente. «Scusatemi, replicò egli, non sono vestito. Non
importa, risposi. — Allora entrate.»

Entro. Era nudo come un verme, e faceva dei grandi inchini. Mi condusse
fino da sua moglie che era in letto nello stesso costume. Le consegnai
l’orologio d’argento che avevo per essa. Ella mandò un grido di gioja.
— A questo rumore quattro uccelli senza penne si levarono a mezza
vita sopra un letto vicino. Erano i figli della casa; due maschi e due
femmine.


Racconto d’un mio amico artista, giovine di buona fede ed incapace di
mentire.

Allorquando io correva le montagne per studiare i costumi, aveva il
mio quartier generale nel villaggio di.... Il più delle volte io era
guidato nelle mie passeggiate da un buon uomo d’eremita, che questuava
lungo la strada.

Era un degno uomo e piuttosto utile a suoi concittadini, perchè sapeva
cavare i denti. Una sera, ci fermiamo insieme nel borgo di.... Nessun
albergo; entriamo nella casa d’un contadino ove troviamo un’ospitalità
sperticata. Sento due grida: _méé e cuic!_ il primo era di un capretto
che si stava scannando, e l’altro di un pollastro, al quale si serrava
il collo in un tiretto. Dopo cena il contadino mi fa un letto nella sua
stanza. Tu, diss’egli all’eremita, ti coricherai bene con noi. Egli era
ammogliato. Io vado a letto, egli fa altrettanto, dopo avere smorzato
la lampada, la moglie sul davanti, il marito in mezzo e l’eremita in
fondo, tutti e tre nel costume nazionale. Alla mattina prima di giorno
sento un rumore: è il contadino che si alza per andare a’ suoi lavori.
Torna alle otto per preparare la colazione.

Noi stiamo per partire, io voglio pagare. Il paesano rifiuta
seriamente, io insisto, egli va in collera; finalmente dice
all’eremita: «Postocchè questo signore non vuole ch’io vi abbia data
l’ospitalità per niente, prendi i tuoi ferri e cavami un dente; ne ho
qui uno che si guasta; non mi fa male, ma un giorno o l’altro bisognerà
pur levarlo.»


Il popolo delle città e delle campagne, e generalmente tutta la gente
minuta di questo paese, amano i fiori. Vi sono ben pochi contadini che
non mantengano intorno alla loro vigna una siepe di rose. Le donne del
popolo mettono dei fiori ne’ loro capelli; il coltivatore che ritorna
dal campo attacca un mazzolino al suo cappello. Gli amanti perseguitati
corrispondono fra di loro col mezzo di alcuni fiori sparsi sulla
strada; è una scrittura in regola, ove ogni ramoscello dice qualche
cosa. In un villaggio vicino a Roma, le processioni sono esercitate
a disegnare, cammin facendo, un ricco tappeto di fiori. Non è più
di venti anni che la nobiltà romana si distingueva dal volgo per un
disgusto aristocratico, per il puzzo dei fiori. Ciò che mi stupisce
si è, che in un paese ove tutti gli odori naturali, perfino i più
disgustosi, sono sopportati pazientemente, siasi fatta una eccezione
contro le rose, le violette e l’eliotropia.

Da alcuni anni in qua il bel mondo si è convertito a de’ gusti più
naturali. Ho visto alla villa Borghese un’esposizione d’orticoltura che
dimostra un progresso evidente. Ma se percorrete i giardini del secolo
scorso, vedrete che i fiori erano esclusi dal disegno primitivo. Non vi
si volevano che dell’erbetta, della mortella, dei lauri, delle quercie
verdi, dei cipressi, dei pini ombrelliferi e molte pietre da taglio.


Non vi è a Roma uno stabilimento di bagni un po’ ben ordinato. Gli
stranieri si bagnano all’albergo, e i gran signori nel loro palazzo.
Una gran parte della popolazione si priva di questo piccolo piacere,
che d’altronde costa carissimo.

Si lavano i morti nell’acqua calda. Quanti Romani non ebbero che quel
bagno!

«Per chi mi prendete? rispose una giovane Romana, io sono una ragazza
onesta, non immergo il mio corpo nell’acqua!»

Un bagno pubblico tenuto con un po’ di pulizia e messo alla portata
di tutti, ecciterebbe la stessa sorpresa come l’illuminazione a gaz,
il telegrafo elettrico, la prima locomotiva di Frascati, o i primi
fantocci giranti, che hanno attirato la città intiera davanti la
bottega di un parrucchiere del Corso.


Tutti sanno che nello Stato Pontificio un uomo ammogliato non può
far fortuna. Non vi è avvenire che per i celibi. Però la natura ha
tanta forza che i Romani d’ogni classe si ammogliano giovani. Questo
popolo vive con semplicità; i suoi padroni gli permettono poca
ambizione, pochi piaceri, e poche idee; egli si dedica attivamente alla
riproduzione, e Iddio benedice i suoi sforzi. Da ciò quel formicolajo
di ragazzi che coprono il selciato di Roma. Il Sovrano, vale a dire il
clero, non tollera quelle unioni libere che sgraziatamente abbondano
da noi. Allorchè una fanciulla ed un giovane vivono in comunione, la
polizia gli spia, li sorprende, fa venire un prete e infligge loro la
benedizione nuziale.

Tali sorprese vi sembreranno inverosimili; esse sarebbero impossibili
in un paese retto da leggi; ma ricordatevi che a Roma non vi è legge.
Il matrimonio colà non è un atto, ma un Sacramento. I registri dello
stato civile sono tenuti, e tenuti piuttosto male, dai curati. In fatto
di nascita, di matrimonio e di morte l’attestato del curato è il solo
documento che faccia fede.


Se il clero sposa le persone a loro malgrado, gli sposi, per un altro
genere d’abuso, possono strappare la benedizione nuziale e forzare la
mano del curato. Se due giovani, che abbiano risoluto d’unirsi senza il
consenso delle loro famiglie, si recano da un prete, e lo sorprendono
all’uscir dal letto, e l’uno d’essi dice a voce alta ed intelligibile:
«Ecco mia moglie.» l’altra: «Ecco mio marito.» E se il prete ha inteso
le due frasi, è obbligato a benedire i due sposi. Il colpo è fatto,
il matrimonio è indissolubile, come se i podestà dei venti circondari
di Parigi lo avessero sancito. L’autorità potrà procedere con rigore
contro i delinquenti, mettere sotto chiave il giovine per quindici
giorni, rinchiudere la fanciulla in un convento per un mese; ma quando
avranno pagato il loro debito alla giustizia, nulla impedirà loro di
consumare il matrimonio.

Un buon uomo di curato, in una parrocchia delle vicinanze di Roma,
s’era lasciato prendere al laccio, e aveva sposato due giovani suo
malgrado. Il suo vescovo lo accusò di essersi lasciato corrompere, e lo
punì con un mese di ritiro. L’anno seguente, i suoi parrocchiani gli
tesero lo stesso laccio, ma non si lasciò più cogliere. Lo si sveglia
di notte per portare il Sacramento a un ammalato _in extremis_. Si
veste in fretta, accende la sua lucerna, e corre in una casa isolata;
era là che gl’innamorati lo aspettavano. Ma si rimise ben tosto in
guardia, e quando vide con che sorta di ammalati aveva a fare, si
turò le orecchie, cantò, ballò, fece delle giravolte, e finalmente
infilzò la porta, e se ne fuggì a gambe senz’aver udito le due frasi
sacramentali.


Vi è in questo momento a Roma una giovine contadina del regno di
Napoli, che tutti gli artisti conoscono sotto il nome di Stella. Il
pubblico di Parigi, senz’averla mai vista, conosce bene la sua figura
ed il suo costume, avendo essa servito di modello a più d’un pittore
francese. Stella è bellissima e savissima; essa gira impunemente in
tutti gli studj senz’altra custodia che quella di sua sorella minore
Gaetana. Queste due ragazze (la maggiore ha diciott’anni, la minore
nove o dieci) guadagnano insieme una dozzina di franchi al giorno, a
fare il mestiere di modello. Esse servono di modello per la testa ed
il costume. È una fatica penosissima, specialmente le prime volte.
L’immobilità assoluta del corpo in un’attitudine prescritta diventa
gravosa in capo ad una mezz’ora; ed io ho visto dei modelli inesperti
cadere come una massa inerte a metà della seduta.

Stella, ve l’ho detto, è d’una saviezza irriprovevole. Questa giovine,
che non sa leggere, che non ha ricevuto alcuna educazione morale,
che vive tutto il giorno in mezzo ai giovinotti, e che sente le
conversazioni più svariate, non ha giammai dato appiglio alla critica.
Ella fa il suo mestiere con coscienza, accumulando scudo sopra scudo,
fino al giorno in cui sarà bastantemente ricca per comperare nel suo
villaggio una casa, e procurarsi un marito.

Sgraziatamente il villaggio di Stella è sotto il potere del curato. Il
curato ha paura che Stella non si corrompa a Roma; egli ne scrive al
vescovo della provincia, che scrive al prelato incaricato della polizia
pontificia, il quale ordina a Stella di andarsene o di maritarsi.
I pittori gridano altamente e fanno agire delle alte influenze; si
ottiene un mese d’indugio; ma il curato, il vescovo, e la polizia
ritornano alla carica. Si trova un marito per Stella. È un tanghero
delle stesse montagne, brutto, stupido e fannullone. Ei s’incrocicchia
le gambe da un sarto, ma s’incrocicchierà le braccia quando sarà
padrone d’una moglie che guadagna del denaro. L’affare però è ancora in
sospeso; Stella piange, e la Gaetanina promette d’uccidere quell’uomo.


Voi mi chiederete perchè questi onesti ecclesiastici si fanno un dovere
di maritare una povera fanciulla, che non dà fastidio a nessuno. È per
amore della virtù? No, è per l’orrore dello scandalo. La virtù non è
più comune a Roma che nelle altre capitali d’Europa, ma lo scandalo
vi è meglio soffocato. La polizia non permette che una fanciulla abbia
un amante; vi sarebbe scandalo, ma una donna maritata può far traffico
della sua persona; la bandiera copre la merce.


E i mariti, che cosa dicono? Secondo le circostanze. Io incontrai da un
mio amico pittore una giovine donna che non andava da lui certamente
per farsi dipingere. Mi metto a parlare con lei, e mi dice ch’è
maritata ad un calzolaio della via F....; ella si loda di suo marito,
di sua suocera, de’ suoi figli. Ma, gli diss’io, che cosa penserebbe
vostro marito se sapesse ciò che venite a far qui? Egli non troverebbe
mal fatto che io vada a guadagnare un po’ di denaro dalle persone di
garbo. «Ah! se io mi dessi con delle persone della nostra sfera mi
ucciderebbe.» Capite? da una parte la miseria; dall’altra la vanità. Il
senso morale?... manca.


Ecco un tratto più originale. Un giovine di Lione rappresentante di
una casa di commercio, si ferma a Roma e prende un’alloggio vicino
alla Posta, ove riceve la visita d’un mezzano. Questi signori abbondano
nella città, e quando si dà loro cinque franchi vi baciano la mano. Il
mio Lionese, coll’ajuto del mezzano, trova un amante. Essa era maritata
ad un postiglione, uomo onestissimo e molto più geloso del calzolaio
della via F.... Se essa faceva qualche cosa di contrabbando, era
all’insaputa di suo marito. Egli non andava mai dalla sua bella, se non
quando aveva visto il marito uscire a cavallo dalla corte della posta.
Sapeva allora che la lunghezza delle stazioni postali e la necessità
del servizio gli assicuravano cinque o sei ore di perfetta sicurezza.
Un giorno però fu colto. Il marito s’era ben messo in viaggio facendo
scoppiettare la sua frusta, ma a mezza strada s’era sentito male.
Un camerata, che ritornava a Roma, aveva cambiato i cavalli con lui.
Insomma tornò a casa inaspettatamente, e il suo primo moto fu di tirar
fuori il coltello.

Il Lionese si spiegò, pregò, ragionò, fece valere la sua qualità di
Francese, offerse in compenso i cinque o sei scudi che aveva addosso.
Si finì per accettare le sue ragioni ed il suo denaro. «Vestitevi,
disse colui, ma se mai voi raccontate ciò ch’è accaduto qui oggi,
se m’esponete agli scherni della gente del mio mestiere, vi giuro
di uccidervi foste pure in Francia, e appiè degli altari. Buon
viaggio!.... o piuttosto, no; aspettatemi. Vengo con voi.» Ripose in
tasca il suo coltello, rinchiuse sua moglie a doppio giro ed uscì
col Francese più morto che vivo. Il povero giovane raccomandava la
sua anima a Dio, ben convinto che non aveva dieci minuti da vivere.
Tutte le volte che entrava in una strada mal illuminata, diceva fra
sè. È qui. Giunse nullameno senza accidenti alla sua porta, e la sua
terribile guida prese cortesemente congedo da lui. «Or bene, disse
il giovane meravigliato di vivere, perchè vi siete preso l’incomodo
di ricondurmi a casa? Il Romano rispose con una sublime bonarietà; La
città non è sicura, e temevo che vi accadesse qualche disgrazia».

L’eroe di quest’avventura (è il Francese che intendo) è al presente
ammogliato, padre di famiglia e capo d’una delle primarie case di
Lione. Non ha più nulla a temere dal coltello del postiglione romano, e
tuttavia, quando racconta la sua storia, abbassa la voce d’un tuono, e
guarda macchinalmente se la porta è chiusa.


Io ho conosciuto un ufficiale francese, bellissimo giovinotto in fede
mia, ch’era alloggiato in camere mobigliate presso una bella donna di
Roma. Il marito domestico di un cardinale guadagnava una cinquantina
di franchi al mese; la moglie faceva il resto. Cosa strana! questa
creatura aveva concepito una vera passione per il suo amante. Ella gli
faceva talvolta delle scene di gelosia, e l’arrivo del marito non le
chiudeva la bocca. Per Dio, diceva il pover uomo; lasciatemi dunque
cenare in pace! Se non potete vivere senza quistionare, non avete tutta
la giornata in libertà? Questa donna aveva un figlio, dell’età di dieci
anni. Essa non si curava di nascondersi da lui. Però, il fanciullo le
baciava la mano tutte le sere, ed ella gli dava la sua benedizione.


Il popolo di Roma ha delle delicatezze di linguaggio inaudite, e delle
brutalità incredibili. Ei non dirà un _porco_ ma un _animale nero_, per
eufemismo. Al contrario tratta arditamente di _porco_ qualunque essere
umano che gli dispiaccia. Un muratore che entra in una osteria, chiama
il mercante di vino _il signor padrone_, sua moglie _la signora sposa_,
il suo cameriere, il signor primo, il signor principale. Ma se voi
provocate una ragazzina di quattro anni, ella vi dirà delle ingiurie
che lorderebbero la bocca di una donna della feccia del popolo.


Io mi sono trovato in una vettura con un borghese di cinquant’anni ed
una bellissima giovane che era sua figlia. Al primo cambio di cavalli,
il padre disse alla signorina: «Vuoi discendere? — No, papà. — Se hai
da soddisfare a qualche piccolo bisogno, faresti ben male a prenderti
soggezione. Questi signori te lo diranno al pari di me; faresti male.
— Grazie, papà. Ci ho pensato prima di partire.» — Oh, natura! Io ho
addolcito le parole traducendo.


Questo stesso borghese, scrivendo al suo compare, non mancherà di
mettere sull’indirizzo: all’illustrissimo, al pregiatissimo signor
Bortolo.


Nel circondario di Roma i vignaiuoli ci chiamano Eccellenza, e ci danno
del _tu_.


Il signor di Levis fu oltremodo scandalizzato, salendo le scale del
Vaticano, d’incontrare un domestico che porgeva la sua tabacchiera ad
un cardinale, ed un cardinale che vi prendeva una presa di tabacco.
Queste domestichezze si vedono tutti i giorni, in una città ove le
condizioni sociali sono separate da abissi. Visitando gli scavi della
Via Latina io ho visto il cardinale Barberini circondato da prelati,
da preti, da domestici in livrea; i domestici si frammischiavano alla
conversazione, e si fece un cerchio intorno a lui. Il cardinale che era
molto piccolo girava intorno al gruppo, e non vedeva che la schiena de’
suoi domestici.

Monsignor Muti, prelato romano, discende in linea retta da Muzio
Scevola. Taluno gli domandava: «Che cosa fate voi alla sera? non vi si
trova più nel mondo. — Io vivo in casa mia. — Ma dovete annoiarvi? —
No, noi giuochiamo una piccola partita; faccio salire il cuoco, e gli
vinco due o tre scudi».

Quest’aneddoto mi è stato raccontato a Frascati dall’ambasciatore d’una
grande potenza, il sig. De Martino ministro di Napoli a Roma, ed i tre
quarti del corpo diplomatico l’hanno intesa pure al pari di me.

In un piccolo viaggio che ho fatto intorno a Roma in compagnia del
nostro ottimo sig. Schnetz, ho osservato che gli albergatori mettevano
solitamente quattro posate per il nostro pranzo. Noi non eravamo che
due, ma il sig. Schnetz aveva il suo cocchiere ed il suo cameriere, e
si trovava naturalissimo che li facesse sedere a mensa con noi.




XIII.

LA MORTE.


I Romani d’oggidì, come quelli d’una volta, sanno morire. È una
giustizia che bisogna render loro. Essi accettano con indifferenza
filosofica tutte le necessità della vita, compresa quella di morire.
Muojono come mangiano, come bevono, come dormono, come amano;
naturalmente, semplicemente, famigliarmente.

Si è colpiti d’ammirazione, leggendo in Tacito come i grandi cittadini
dell’impero facessero poche cerimonie in presenza della morte. La
rassegnazione degli antichi si spiegava colla speranza logica e
ragionata d’un sonno eterno; forse anche collo spettacolo quotidiano
delle uccisioni nel circo. La rassegnazione dei moderni si spiega
colla speranza d’una vita beata nel mondo ideale, e cogli avvertimenti
reiterati di una religione che dice «bisogna morire».

Tutti i sermoni che ho sentito per lo spazio di cinque mesi contenevano
almeno uno sviluppo sull’imminenza della morte. Tutte le chiese dinanzi
alle quali sono passato, avevano affisso di quelli avvisi sinistri, sui
quali si vede da una parte lo stemma di qualche defunto, e dall’altra
uno scheletro orribile con questa epigrafe: _Hodie mihi, cras tibi_. La
tua volta verrà!

    «Apro le porte del cielo e dell’inferno:
    Per il giusto sono la vita, per il peccatore la morte».

Ho visto perfino a Velletri dinanzi la bottega di un maniscalco lo
scheletro di un cavallo dipinto sull’insegna, per far conoscere agli
animali che devono morire.

E perchè no? Anche gli animali hanno un dovere da adempiere in questo
singolare paese. Vanno tutti gli anni a prendere l’acqua santa nel
giorno di sant’Antonio.


Torniamo alla razza umana. Al domani del giorno di tutti i Santi, in
tutte le chiese si rappresenta qualche scena della Scrittura, come la
morte di Giacobbe o i funerali di Davide. I personaggi sono di cera, da
alcuni anni; non è ancora molto che si adoperavano dei veri cadaveri,
scelti negli ospedali. In quest’occasione, le monache mandano in tutti
i palazzi dei dolci, chiamati ossa di morti, in cui il midollo è fatto
di confettura. Strano espediente per nutrire i Romani del pensiero
della morte!

Chi non ha visto sulla piazza Barberini quell’appartamento dei
Cappuccini dove è tutto morto, anche il mobigliare? È un pian terreno
di otto o dieci stanze che danno sulla corte. Mi sono fermato ad
osservare l’interno, un giorno che tutte le finestre erano aperte
per dar aria al locale. I mobili sono uniformi e gl’inquilini sono
uniformemente vestiti; la tappezzeria è uno strato di scheletri, e
scheletri di cappuccini stanno adagiati su letti di riposo incassati
nel muro. I cappuccini sono coperti della loro tunica, questi ha
ancora la pelle, l’altro la barba. Ghirlande di vertebri abbelliscono
la nudità de’ muri. L’imaginazione capricciosa de’ frati si è sfogata
in mille fantasie funebri: gomiti intralciati, fasci d’ossami d’ogni
foggia, e gambe e cranii acconciati in forme bizzarre.

Il pavimento d’ogni stanza contiene una quindicina di cappuccini,
coricati in due file in bell’ordine. La terra che direttamente li copre
senza avello, è una terra miracolosa, recata dalle crociate. E di vero
è una specie di pozzalana mista d’arsenico, che possiede la virtù di
divorare le carni in pochi giorni, onde in certo modo farebbe l’effetto
del rogo antico.

Noi abbiamo una caserma nello stesso convento; onde i nostri soldati
fumano tranquillamente la loro pipa nella corte davanti a quelle
finestre aperte.

La chiesa della _Buona Morte_ ha la sua sepoltura ornata nello
stile funebre come il convento de’ Cappuccini. Vi si conservano,
colla possibile eleganza, le ossa degli annegati e d’altre vittime
accidentali. La confraternita della _Buona Morte_ va a cercare i
cadaveri; un sacristano, abbastanza ingegnoso, ne dissecca i cadaveri,
e li dispone a forma d’ornamenti. Ho conversato qualche tempo con
cotesto artista: «Signore, mi disse, io non sono felice che qui, in
mezzo al mio lavoro. Non è già pei pochi scudi che guadagno tutti i
giorni mostrando la cappella agli stranieri, no certamente; ma questo
monumento che io conservo, che abbellisco, che adorno col mio talento,
è diventato l’orgoglio e la gioja della mia vita». Mi fece vedere i
suoi materiali, vale a dire alcuni mucchietti d’ossa in un cantuccio,
fece l’elogio della pozzolana, e mostrò il suo disprezzo per la calce.

«La calce strugge le ossa e le riduce in polve. Non si può far nulla di
buono colle ossa che sono state nella calce: sono robaccia».


I funerali in Roma sono veri spettacoli. Al cader del sole, nell’ora
del passeggio, trovate il corso invaso da un esercito di cappuccini.
Due o tre confraternite procedono in lunga fila verso un palazzo
aperto. Entrate arditamente colla folla. La bara, circondata da alcune
torcie, attende il cadavere, portato a braccia: viene posto sopra
una barella, viene coperto d’una strato d’oro o d’argento, e quattro
facchini, travestiti da membri della confraternita, lo prendono sulle
spalle, e procedono innanzi! La processione de’ cappuccini si mette in
marcia, si accendono le torcie, che rischiarano tutta la strada; poi
vengono le confraternite, poscia i preti e il cadavere, poi due casse
piene di cerei, poi le carrozze del defunto tutte vuote.

Che andate cercando cogli occhi? I parenti? Gli amici? Non vi sono. I
parenti pagano le spese dello spettacolo; gli amici vi prendono parte
come voi. Sono là, tra la folla, col sigaro in bocca, ad osservare la
processione de’ cappuccini.

Lungo il corteggio, trottano cinquanta o sessanta monelli, armati di
cornetti di carta, per raccogliere la cera che sgocciola dalle torcie,
ed anche per distaccarne, quando possano, qualche pezzo. Giunti dinanzi
alla chiesa, essi rotolano la cera in pallottole, e giuocano tra
loro quel bottino della serata. Intanto che costoro s’abbaruffano e
s’accapigliano, il cadavere viene deposto in un angolo senza cerimonie,
e ciascuno ritorna a casa.

Si procura sempre di far passare i più splendidi funerali pel Corso,
benchè il defunto avesse abitato all’altra estremità di Roma. Ecco la
smania di figurare!

Se qualche famiglia ebbe la sventura di perdere una figlia leggiadra,
e che dalla morte non sia stata troppo scomposta, si domanda e si
compra il permesso di seppellirla a viso scoperto. La s’imbelletta,
la si mostra, si fa parlare di lei e di sè per ventiquattr’ore. È un
bell’onore.

I nobili vestono a bruno, un lutto di comparsa che li distingue dal
popolo. Il ceto medio ed il popolo minuto non fanno nessun cangiamento
nei loro abiti. Un borghese si vestì da lutto per la morte di sua
madre, ed io intesi su questo proposito la riflessione seguente: «Altre
volte il lutto non era che pei principi; ma ecco ora i vassalli che vi
aspirano. Dove andremo noi a finire?» Notate bene il nome di vassalli.

Nell’aristocrazia un cadetto è tenuto a portare il lutto del
primogenito. Il primogenito poi, se gli aggrada, porterà il lutto pel
cadetto.


Le lettere di partenza sono un uso nuovo, che avrà pena a stabilirsi.
Perchè? Perchè il giorno appresso ai funerali il morto è dimenticato.
È in paradiso, Dio ha ricevuto l’anima sua, e non se ne parla più. Le
visite di condoglianza sono di cattivo gusto, essendo poca creanza il
ricordare alle persone la perdita che hanno fatto.

Un Francese ha danzato qualche volta in una casa di Roma, sente la
morte del padre e crede dover fare una visita alla figlia. Gli si parla
della pioggia e del bel tempo; ma egli affronta di assalto il tristo
soggetto che l’ha quivi condotto. «Madama, diss’egli, ho preso gran
parte al dolore che avete provato. Voi ben sapete se io amava quel
povero conte!

— Finalmente, disse l’orfanella, con un dolce sospiro, egli era ben
vecchio.

— Sì, o signora, ma siccome egli aveva conservato in quella grave età
l’esercizio delle facoltà sue, lo spirito giovane, il carattere intero!

— Oh! sì, tanto intero, ch’ei ci rendeva talora la vita ben dura!

— Ah! com’è così, ripigliò il Francese sopra un tuono affatto nuovo,
io non parlava che per gentilezza e per farvi piacere. Ma in fondo al
cuore me ne rido, e non vedo ragione per cui la morte di vostro padre
debba recare a me maggior dispiacere che non a voi. S’egli è partito,
buon viaggio!»


Le persone illustri vengono sepolte nelle chiese. Usanza malsana;
Voltaire l’ha tanto detto e proclamato, che la legge francese venne
poi a mettervi riparo. La legge romana anch’essa non vuol più che si
alimenti sotto ogni chiesa un fomite di pestilenza. Ma quivi gli abusi
hanno più autorità che non le leggi.

È proibito di seppellire le persone prima che siano trascorse
ventiquattr’ore dopo la loro morte, eppure ho veduto seppellir due
persone morte nella giornata. È proibito seppellire nelle chiese, ma
io posso certificare che nella piccola città di Forlì, tra il 1830 ed
il 1858, questa legge è stata violata ben 1,435 volte. Io stesso ho
computato la cifra sopra i registri ufficiali.

Il clero romano è interessato a fare un carniere di tutte le chiese: fa
pagare una soprattassa per violazione della legge.


Forlì è una piccola città di 17,000 abitanti; Roma ne conta più
di 170,000. Ora calcolate la quantità di carne umana che si deve
accumulare sotto le chiese di Roma!

Eppure noi abbiamo costrutto pei Romani il cimitero di San Lorenzo
fuori delle mura. È un edifizio del 1811, fatto alla romana, per
uniformarci alle costumanze del paese. Figuratevi una cinta quadrata,
con pavimento e riparo di muraglie. Quattrocento larghe pietre,
disposte in triangoli equilateri, formano 400 tombe di 4 metri cubici
cadauna. Ogni sera si leva una pietra, mentre un omnibus reca i
cadaveri della giornata, e vi si rinchiudono dentro l’uno dopo l’altro.
La calce ed i topi divorano ogni cosa in meno d’un anno, e così non si
manca mai di spazio.


Il sig. Tournon ci narra che, a’ suoi tempi, i Romani seppellivano
i morti in un semplice lenzuolo, e con ciò si economizzavano quattro
pezzi di legno di abete.

Ignoro se quest’usanza siasi conservata in Roma. Le tombe di San
Lorenzo e l’uso della calce viva mal s’accorderebbero coll’uso del
feretro.

Ciò che posso affermare si è che a Bologna i poveri vengono sepolti
senza bara, in una fossa che il giardiniere scava colla zappa,
siccome per seminare patate. È lo stesso giardiniere, o sepoltore, di
quell’ammirabile campo santo che me lo ha detto.


Si vede a Roma, nelle vicinanze della piramide di Cestio ed a due passi
della polveriera, un campo di riposo ombreggiato da alcuni alberi
ed ornato di fiori. È desso il cimitero degli _accattolici_, ossia
degli stranieri eretici o scismatici, che la chiesa condanna, ma che
il governo non ardisce espellere da Roma. Sono detti accattolici dai
Romani, per uno sforzo di tolleranza. I Russi, gl’Inglesi, i Tedeschi
della Germania pensante riposano daccanto in quel dolce e melanconico
romitaggio. Sono colà non pochi artisti, che erano venuti a Roma a
cercare il talento e la gloria, e non vi trovarono che la febbre. Quasi
tutte le iscrizioni ripetono quella formola piena di mestizia: _Qui
riposa lungi dalla sua patria_.... Quasi tutti coloro che dormono colà
poterono dire morendo, siccome Sigifredo dei Nibelongi: «Mia madre e i
miei fratelli chi sa fin quando m’attenderanno!»

Un capriccio della fortuna riuniva in un medesimo angolo il figlio di
Goethe ed il figlio di Carlotta, Augusto Kestner, ministro di Annover,
nato nel 1778, morto il 5 marzo del 1853.

Vi troverete le ceneri di Percy Bysshe Shelly, amico di Byron, cuore
de’ cuori, _cor cordium_, dice l’iscrizione; e Keath, quel giovane
poeta disperato, che fece scolpire sulla propria tomba quest’epigrafe
sì straziante:

                               THIS GRAVE
                      CONTAINS ALL THAT WAS MORTAL
                                  OF A
                           YOUNG ENGLISH POET
                                  WHO
                            OH HIS DEATH BED
                     IN THE BITTERNESS OF HIS HEART
                 AT THE MALICIOUS POWER OF HIS ENEMIES
                                DESIRED
              THESE WORDS TO BE ENGRAVED ON HIS TOMB STONE
                             HERE LIES ONE
                    WHOSE NAME WAS WRITTEN IN WATER.
                                  THE
                             FEB. 24, 1821.

E non è qui concentrata, in queste ultime parole, tutta l’amarezza
d’un orgoglio offeso! «_Qui giace un uomo che ha scritto il suo nome
sull’onde!_»

Sull’ingresso di questo cimitero si trova un piccolo padiglione, ben
acconcio, dove emerge la regolarità meticolosa dell’Inghilterra. Vi
lessi:

1.º La tariffa delle spese di sepoltura;

2.º Il catalogo degli oggetti preziosi confidati alla custodia del
guardiano;

3.º I nomi dei morti, incorniciati siccome quelli degl’inquilini alla
porta d’un albergo.


Il medico della comune di Frosinone, villaggio di 3,000 anime, mi ha
fornito i seguenti particolari, che non intendo assumere sotto la mia
responsabilità:

«L’autorità pontificia vuole che noi prescriviamo i sacramenti
all’ammalato, alla seconda visita che gli facciamo; ma io conosco
troppo bene i selvaggi di queste montagne per uniformarmi alla
legge. Dacchè uno d’essi ha ricevuto i sacramenti, più non si pensa a
seppellirlo al più presto. Cessano ogni regime, chiudono le pozioni
negli armadj, strappano via i cataplasmi ed i vescicanti. Se il
paziente chiedesse un bicchier d’acqua, sono gente da rispondergli:
«Berrai in paradiso.»

Per compenso poi vanno a comprar torcie pei funerali, e dimandano
all’infermo se gli pare che si facciano bene le cose.

Gli recano le assi della bara, per convincerlo che l’abete è di
qualità scelta; prendono la misura della camicia funebre, che deve
recar seco nell’altro mondo; preparano l’acqua calda per lavarlo
dacchè sarà morto. Questi preparativi non si fanno senza complimenti
di condoglianza ed esclamazioni commoventi: «Mio povero padre! mio
sventurato fratello! mio infelice cugino!» Dacchè l’agonia comincia,
l’intero villaggio accorre nella camera, e vi rimane fino alla morte,
come richiede la civiltà. Di minuto in minuto si getta dell’acqua
benedetta sulla testa del paziente, per discacciare gli spiriti
maligni. Ad ogni convulsione, i parenti si gettano sul corpo infermo,
prorompendo in alte grida. Non ci vorrebbe nulla di più per uccidere
un uomo sano. I meno dilicati profittano di queste occasioni per
appropriarsi qualche anello o pendente d’orecchi. Quel giovane che
là vedete sulla soglia della bottega, è accorso al letto di morte del
proprio padre con certa chiave falsa in tasca. Spirato il vecchio, quel
figlio mostrò un dolore sì violento, che nessuno potè strapparlo via
dalla casa paterna. Rimasto solo, spogliò la cassetta del morto a danno
degli altri eredi.

Io ho veduto l’estrema unzione produrre un effetto ben curioso sopra
uno de’ miei ammalati. Aveva avuto la vigilia una crisi un po’ forte,
che doveva decidere della sua guarigione. Ma la famiglia, vedendolo
star peggio del solito, gli aveva fatto amministrare gli ultimi
sacramenti fino dal mattino. Trovo il mio paziente sul dorso col
crocifisso in una mano, la madonna nell’altra: premeva le sante imagini
sul suo cuore e mostrava il bianco degli occhi.

« — Ebbene? gli dissi.

« — Ahimè! caro dottore; tutto è finito.

« — Perchè? Ti senti peggio?

« — Nol so; ma tutto è finito.

« — Dammi la mano, affinchè io tasti il polso! Per bacco! non hai più
febbre!

« — Non fa caso, andate pure; tutto è finito.

« — Fammi vedere la tua lingua: è bellissima!

« — Sono ben contento per voi, mio buon dottore; che quanto a me, vi
dico che tutto è finito.»

«Cotesto consulto _in extremis_ dato ad un uomo che stava bene, fu
interrotto per venti volte dagli omei della famiglia e degli amici. Fui
costretto a ricorrere alla forza per discacciare que’ piagnoloni dalla
porta e far sorgere l’ammalato, che era quasi guarito. Due giorni dopo
ei mangiava una libbra di carne; la domenica seguente passeggiava nella
camera ripetendo: «Avete un bel fare, mio dottore, quando un uomo ha
ricevuto i sacramenti, si può dire che per lui tutto è finito.» In capo
ad otto o dieci giorni, ei ritornò tutto dolente a’ suoi ulivi ed alla
sua vigna; aveva ricuperato l’appetito e la forza, mangiava la parte
d’una tigre e lavorava quanto un bue: tuttavia ei non era abbastanza
convinto della sua risurrezione, ed aveva bisogno che gli si facesse
sentire qualche colpo di pugno sulle spalle per convincerlo che non era
tutto finito.

«Se l’ammalato muore, tutte le persone presenti gridano e piangono in
coro: è un dovere di convenienza. Dopo di che si manda a cercare la
confraternita delle Anime del Purgatorio, essendo richiesto dall’usanza
che al giungere della bara si rappresenti una farsa. Una donna della
casa si oppone al trasporto del cadavere, onde si cerca di convincerla,
di persuaderla, finchè essa lasci fare. Talora il cadavere è ancor
caldo, poichè la prescrizione delle 24 ore non esiste che nella legge.

«I parenti e gli amici accompagnano il morto alla chiesa, dove si
lascia in deposito fino a notte. Nessun servizio funebre, non più che a
Roma: ed è tutto dire.

«Il più prossimo parente del defunto conduce seco tutti gli astanti, e
si sforza di consolarli meglio che può.

«Ho visto degli orfanelli sì bene consolati, che ritornavano a casa
allegramente.»

Se l’autore di questa relazione ha esagerato i difetti de’ suoi
concittadini, io ne lascio il carico alla sua coscienza. Ma ciò che ho
veduto nel paese m’induce a credere ch’ei dicesse il vero.


Romani, miei cari amici, io v’amo sinceramente, perchè siete oppressi;
ma credo che tutte le verità sono buone a dirsi, ond’io racconto
senza perifrasi tutto che ho veduto ed inteso attraversando il vostro
ammirabile paese. Se mi tocca di citare qualche tratto d’ignoranza o
di barbarie, guardatevi bene dal supporre ch’io vi stimi ignoranti
e barbari, nè ch’io scriva questo libro contro di voi. Mi adiro
unicamente contro i reggitori del popolo, che lo educano male, e che,
piacendo agli Dei, potremo un giorno cangiare.




XIV.

LE BESTIE.


La campagna di Roma è una vasta prateria interrotta in qualche sito
dall’aratro. È la più bella pianura d’Europa, è anche la più fertile,
la più inculta, la più malsana.

Sei decimi di que’ preziosi terreni sono proprietà di manimorte; tre
decimi appartengono a de’ principi, mentre il decimo restante viene
diviso fra varj privati.

Le terre degl’instituti religiosi e quelle de’ principi sono affittate
in grandi partite a de’ ricchi industriali che si chiamano mercanti di
campagna. Il proprietario consegna loro il suolo nudo, con contratti
a breve scadenza, sicchè l’affittajuolo non ha nessun interesse a
costruire edifizj, nè a piantar alberi, nè a procurare il miglioramento
del suolo.

Alcuni vi seminano grano ed ottengono bei risultati; ma il governo
preleva una tassa fissa del 22 per cento sulla messe. D’altronde le
comunità religiose non mancano d’interdire la coltura delle buone terre
con una clausola espressa del contratto. E ciò fanno per timore che il
suolo non s’impoverisca, ed il reddito degli anni avvenire non ne venga
scemato. Un altro ostacolo alla coltura è il regime vessatorio che
autorizza o proibisce arbitrariamente le esportazioni. Supponete che
un monopolizzatore di grani sia padrone assoluto della Francia e possa
a piacer suo chiudere tutte le nostre frontiere all’uscita del grano,
nessun agricoltore s’esporrebbe a produrre grano oltre i bisogni del
paese.

La coltura del grano esige spese enormi, molte braccia, un materiale
importante, ed un bestiame considerevole: e tutto ciò colla prospettiva
d’un esito incerto. L’allevamento del bestiame occupa poche persone
ed esige poche spese; dà risultati mediocri, ma pressochè sicuri, ed è
l’industria più compatibile coll’insalubrità dell’aria, lo spopolamento
del paese e lo scoraggiamento degli affittajuoli.

Una terra di 184 ettari, se viene coltivata a granaglie, esigerà
13550 giornate d’uomini e costerà 8,000 scudi romani da fr. 5,35. Essa
frutterà, per medio all’anno, 1,300 misure di grano, le quali al prezzo
medio di 10 scudi valgono 13,000 scudi: utile netto, 5,000 scudi, ossia
26,750 franchi. La medesima estensione di terra lasciata alla pastura
non dà che 4,000 o 4,600 franchi di netto ricavo.

Ma è il pascolo che prevale, onde parleremo di esso.

I cavalli romani nascono e vivono all’aria aperta, non essendovi
scuderie in quelle vaste solitudini. Di notte, di giorno, d’inverno,
d’estate, piova o tiri vento, gli animali sono all’erba, sotto la
custodia d’un cavaliere pastore. Uno stallone vive in libertà con venti
o venticinque cavalle; i puledri crescono sotto il cielo, e non ne
soffrono per nulla. Non conoscono altra malattia che il barbone, che
loro viene come la scarlattina, fra l’8.º e il 20.º mese. È un’eruzione
di glandole sotto il collo, e si guarisce con qualche vescicante.

All’età d’un anno, i puledri sono presi al lazzo e marchiati con una
cifra del loro proprietario. A tre anni sono domati, poi venduti,
impiegati.

La razza è bella e buona. Alcuni abili educatori mi dissero che era
poco suscettibile di miglioramento, e che gl’incrociamenti tentati
finora avevano dato scarsi risultati. Il cavallo romano, quale natura
lo ha fatto, è di statura media e di costituzione robusta; vivace,
raramente cattivo, pieno di fuoco, con molta solidità. Si veggono
animali, che non hanno mai mangiato altro che erba e fieno, e non
conoscono il gusto dell’avena, fare gli stessi miracoli del cavallo
meglio allevato.

Perciò il Piemonte, la Lombardia, la Toscana, il regno di Napoli
comprano i loro cavalli nella campagna di Roma, ed ai Romani non resta
che il rifiuto. Uno stallone si vende da 300 a 350 scudi romani; una
cavalla di tre anni vale da 70 a 100 scudi; una bella coppia di cavalli
da carrozza si paga da 300 a 500 scudi; un bel cavallo da sella, da 80
a 150; un cavallo di rimonta, da 80 a 90. Gli animali di minor valore,
che si riservano per l’agricoltura, non costano che 35 o 40 scudi.

Si videro de’ cavalli romani di 25 anni e più rendere ancora de’ buoni
servigi.

Ogni educatore ha la propria razza. Silvestrelli alleva de’ cavalli
baj; Serafini è il proprietario della razza cardinalesca; il principe
Borghese ha ottenuto con degli incrociamenti una razza assai bella, ma
troppo fina e di troppo piccola statura.

Le razze più stimate appartengono ai principi Chigi e Piombino, al duca
Cesarini, ai mercanti di campagna Silvestrelli, Titoni, Piacentini,
Serafini, Senni.


I coltivatori romani non si servono del cavallo pei carri, ed ancor
meno per l’aratro, che i trasporti sono troppo difficili e le strade
troppo cattive. L’aratro esige sforzi prodigiosi, poichè trattasi
sempre di dissodare una prateria; e per sì dure fatiche non vi sono che
i buoi ed i buffali.

Il cavallo s’adopera per brillare il grano.

Terminata la messe, tutti i cavalli disponibili si pongono entro un
chiuso, mentre a cento passi di distanza, sopra un’aja battuta, si
dispongono lo spiche ritte in piedi in covoni. Sei cavalli di fronte si
slanciano al galoppo e girano scalpitando finchè la paglia sia staccata
dal grano. È un’aspra fatica sotto il sole di luglio.

Si ventila il grano subito dopo, lo si ammucchia, lo si mette in
sacchi, lo si spedisce a Roma. La paglia si trasporta o si brucia
sul posto, secondo lo stato delle strade o la vicinanza delle città.
Il campo resta nudo finchè le prime pioggie dell’inverno vi facciano
nascer l’erba: così ritorna prateria e riposa così per sette anni
almeno.


Ho chiesto ai mercanti di campagna perchè non impiegassero la macchina
di battere il grano; e mi hanno risposto, che per essi l’oggetto più
importante era quello di affrettare il ritiro del grano. Essi non hanno
nè granaj, nè ricoveri nella campagna; il paese è malsano, e non si ha
un istante a perdere, che ogni ora di ritardo può costare la vita d’un
uomo. I cavalli galoppano, il grano cade, l’affittajuolo raccoglie la
sua messe, e poi subito fugge.


I Romani del secolo di Catone non conoscevano que’ grandi buoi di color
grigio, che ora abbelliscono la campagna di Roma. La razza indigena era
piccola e di color fulvo, ed aveva corna piccole.

Nelle montagne se ne trovano ancora de’ modelli. Gli armenti dalle
lunghe corna vennero colle invasioni dei Barbari.

Sono abbastanza noti, mercè la pittura, onde non ho bisogno di
descriverli. La loro ammirabile corporatura, l’enorme loro ossatura
fanno di essi de’ maravigliosi stromenti pel lavoro dei campi. Un
educatore normando direbbe a ragione che i Durham sono più acconci alla
macelleria; ma ciò dipende dall’essere il bue in Normandia un essere
predestinato a trasformare il fieno in carne.


Del resto, sì il bue che il vitello che si mangiano a Roma sono di
qualità eccellente.

Il duca di Northumberland ha testè comprato dal signor Titoni mercante
di campagna, quattro vitelle d’un anno e due vitelli della medesima età
per trasportarli in Inghilterra.

Il signor Titoni ha preso in affitto circa 4,400 ettari di praterie
per allevarvi delle bestie cornute. In buon terreno due vacche si
nutriscono assai bene sopra un rubbio, che è circa la metà d’un ettaro.

Le belle razze sono quelle de’ signori Rospigliosi, Graziosi, Titoni,
Silvestrelli, Dantoni, Senni, Grazioli, Floridi, Serafini, Piacentini,
Franceschetti, Rocchi.


Non sono pratico abbastanza per fare giustizia ai meriti che
distinguono le razze romane. Si rassomigliano tutte al primo colpo
d’occhio, e credo che siasi fatto ben poco per migliorarle.

In questo mezzo però si è formata una società di agricoltura, ed ho
assistito alla prima esposizione. Il governo pontificio ha dapprima
interdetto, poi tollerato questa novità, che modestamente traspare
dietro una società d’orticoltura.


I buoi romani sono eccellenti operaj, lavorando essi senza posa dal
sorgere del sole fino a mezzodì. Si prolunga la loro giornata fino
alle 2-1/2 nella stagione d’inverno. Non conoscono altro alimento
che il fieno e l’erba; sono sani e robusti. Si tagliano a tre anni; e
si castrano pure i tori di otto anni per ingrassarli e venderli alla
macelleria.

Un bue di tre anni, già domato, vale da 50 a 60 scudi. Un bue di 11
anni s’ingrassa in tre mesi e si vende da 60 a 75 scudi. Una bella
vacca da macello vale fino a 250 franchi.

Ho veduto 80 aratri tratti da 4 buoi lavorare sopra un medesimo campo;
ed alcuni mesi più tardi ho veduto 1100 operaj occupati a mietere
un fondo. — La coltura romana è una grande industria, e le occorrono
enormi capitali.

La più evidente imagine della brutalità è il buffalo. Le sue forme
pesanti e come sbozzate, il suo lungo collo, la sua testa schiacciata,
il suo largo muso, le nodose corna, il dorso pelato, il muggito feroce,
tutto ci dice che questo mostruoso abitante delle paludi dell’India
è un superstite dell’ultimo diluvio, una reliquia d’una creazione più
remota della nostra, un modello arcaico dimenticato nella rifusione, un
fossile vivente.

Gl’Italiani l’hanno naturalizzato già da oltre 12 secoli, ed esso
è un alleato semi-selvaggio, però contento del poco: Ei si delizia
voluttuosamente ne’ pantani più fetidi, nutrendosi di giunchi e
di canne, felicissimo se può immergersi nel fango fino al collo e
dormirvi.

Porta un anello nel naso, come i Cacichi d’America; e per esso si
guida, se però può dirsi che si lasci guidare. Il suo padrone lo toglie
a prestito dalla natura, allorquando bisogna dare di que’ colpi di
spalle, che spaventano e uomini e cavalli e buoi. Lo si aggioga ad un
masso, ad un albero, ad una montagna, ad una selva intera. Ed egli si
scatena, a testa bassa, allungando il suo collo di serpente, stirando i
suoi muscoli enormi. Tutto cede, tutto viene trascinato da quella forza
prodigiosa, che rovescia ogni cosa sul suo passaggio. Giunto alla meta,
lo si sgioga, ed egli ritorna al suo pantano, e vi si delizia.

Questa belva è dotata di memoria, obbedisce a chi lo chiama per nome.
La si battezza due volte, la prima alla sua nascita, poi all’età di 13
mesi. Il suo secondo nome le resta fino all’età di 11 anni quando viene
mandata al macello.

Spesso nasce lotta fra un buffalo ed il suo pastore. L’animale
furibondo si getta sull’uomo e l’uccide, non a colpi di corna, ma a
colpi di testa. Se il custode è esperto in questo genere di scherma,
si distende in terra col suo coltello sguainato alla mano; e quando il
buffalo, che non è scaltro, viene a cercare la sua vittima a tastoni,
l’uomo gli vibra sei pollici di lama nel muso, ed il mostro si mette
in fuga. È l’unica ragione che intende, perchè i bastoni si spezzano
sul suo dorso siccome zolfanelli, ed un colpo di fucile carico a grosse
palle di piombo gli vellica piacevolmente l’epidermide.

Nelle paludi Pontine una truppa di buffali è incaricata della pulizia
de’ canali. Vengono spinti nell’acqua a gran colpi di pertica, ond’essi
nuotano, si avvoltolano, sradicano le erbe acquatiche, poi fuggono
alfine carichi di fango ed incoronati d’una viscosa verdura.

Rospigliosi ha 1,400 buffali. Cesarini 800, e Caserta 1000. Un buffalo
maschio da 3 anni vale 35 scudi; una femmina 18 o 20; un castrato si
vende fino a 30.

La carne di buffalo è grama cosa, ma i Napolitani se ne accontentano,
ed i Giudei del Ghetto se ne compiacciono.

A Terracina, sui confini degli Stati del Pontefice, si uccide un
buffalo per settimana in settembre, ottobre e novembre. Gl’indigeni
si persuadono che la carne è più dilicata quando l’animale è più
affaticato, onde attaccano una lunga corda alle corna di quella vittima
deforme, e venti robusti terrazzani s’attaccano all’altro capo. Così
accompagnato, si spinge il buffalo attraverso le contrade, e quando
esso ha preso un grande slancio, viene arrestato sul colpo. Poi si
rinnova la spinta, e quand’è in gran foga, lo si ferma di bel nuovo,
finchè conserva le forze. Non riceve il colpo estremo, se non dopo
avere spezzati alcuni alberi, sfondato qualche muro e storpiato qualche
passaggiero.

Spesso avviene che lo si caccia entro una piazza, si chiudono con
sbarre le uscite; quindi i giovani più ardimentosi escono dalle loro
case per stimolarlo, e rientrano al più presto. Un giorno accadde
che un buffalo, stanco d’essere preso a zimbello, sfondò una porta
da cocchio e salì fino al secondo piano. Non si diede mai spettacolo
più burlesco di quello che allora presentava cotesto comico diventato
spettatore. Il solo macellajo potè toglierlo da quel palco.


Questi giuochi crudeli entrano nei gusti del popolo minuto, e mi fa
stupore che un governo sacerdotale non abbia fatto nulla per raddolcire
i costumi. Sui ponti di Roma veggonsi i ragazzi pescare le rondinelle,
mentre nelle vie di Roma alcuni monelli slanciano passeri sugli alberi
come noi gettiamo i sassi, ed altri si percuotono con de’ gattini. Gli
uccellatori della Rotonda vendono cardellini ed altri uccelletti dopo
aver loro cavati gli occhi.

La legge Grammont è di quelle che dovrebbonsi introdurre costì. Ma chi
sa quanti secoli occorreranno prima che sianvi leggi a Roma? Basta! non
bisogna disperare di nulla.


In quel paese incolto che si stende intorno alla città si mantengono
numerose greggie di pecore, di belle razze. Oltre la spagnuola e la
bastarda, si stima assai la sopravissana, da Visso, presso Spoleto.
È una pecora rustica e di sangue vigoroso, che mirabilmente resiste
all’intemperie dell’aria.

La lana indigena si esporta in Francia, in Svizzera ed in Piemonte,
dacchè le fabbriche del paese, che in altri tempi erano numerose e
celebri, più non fanno che panni grossolani.

Le tre prime qualità di lana si vendono da 21 a 31 soldi la libbra,
secondo la dimanda. La quarta e la quinta da 18 a 24 soldi. La nera da
14 a 18 soldi.

La libbra romana è di 339 grammi. Siccome i buoi ed i cavalli, così
le pecore vivono costantemente all’aria aperta, pascolano nove mesi
nella pianura, ed in luglio agosto e settembre vengono condotte alla
montagna.


L’animal nero (è il majale, salvo il rispetto ch’io debbo a’ miei
lettori) è abbandonato ai piccoli proprietarj dell’alto paese.
I montanari l’allevano con premura, poichè non costa nulla per
l’alimento. Vive nella intimità delle famiglie, e si fanno pochi
passeggi senza di esso. Ogni volta che si va nei campi, gli si permette
di guastare un tratto di terreno; di solito lo si caccia in fondo a
qualche fosso.

Le giovinette gli annodano una corda intorno al corpo, e lo guidano qua
e là alla ventura. Ho veduto eziandio più d’una volta, nelle anguste
vie che conducono ai villaggi, un bambino appeso alla coda del suo
majale, siccome un naviglio alla poppa del rimorchiatore. Le persone
più distinte della parrocchia vanno a far visita col loro majale, a
quel modo che io esco col mio cane.

Quest’amico di casa si ammazza nel mese di dicembre.


L’educator di bestiame avrebbe diritto, non dico già alla protezione,
ma per lo meno alla tolleranza del governo, poichè è una delle sorgenti
più feconde della ricchezza nazionale. Mi viene assicurato che gli
allevatori vanno soggetti a delle tasse vessatorie, e che un bue prima
di morire può pagare allo Stato il 20 o 30 per cento del suo valore.

I cavalli che crescono nell’agro romano vengono assoggettati ad una
tassa del 5 per cento ogni volta che cangiano di padrone; di modo che,
se uno d’essi fosse venduto venti volte, il fisco e l’allevatore se ne
dividerebbero il prezzo per metà.


Un romano mi risponderebbe forse che, nei ridenti paesi di Francia,
grazie all’enormità dei diritti di mutazione, il fisco può incassare in
quattro o cinque anni il valor integrale d’un immobile; nè potrà negare
il fatto, essendo vero.


Quasi tutte le cifre esposte in questo capitolo mi furono somministrate
a Roma, da un agricoltore onorevolissimo ed assai competente.

Il povero giovane, ch’era ricchissimo, rammaricavasi di non poter
viaggiare, parendogli cosa vergognosa il non conoscere che Roma e sue
vicinanze, e pronto a spendere molto denaro per ottenere un semplice
passaporto.

Non crediate però che gli venisse rifiutato questo pezzo di carta! Oh!
no, la polizia sa troppo bene il vivere del mondo. Mons. Matteucci,
vice camerlingo della santa Chiesa, direttore della polizia, l’aveva
molto gentilmente rimandato al capo dell’uffizio de’ passaporti, ma
cotesto onorevole impiegato non si poteva mai trovare. E questo giuoco
durò varj anni.

Sento or ora dai giornali, che il mio povero amico ha finalmente
ricevuto il suo passaporto senz’averlo dimandato, come pure il
figlio del grande orefice Castellani e tanti altri concittadini che
formano l’onore di Roma. Non sono esigliati, a vero dire, ma fu loro
consigliato paternamente di non ripatriare.


E probabilmente ripatrieranno.




XV.

PASSEGGIATA NEL MEZZODÌ.


Mi ero ben promesso di non abbandonare gli Stati del papa senz’aver
fatta un’escursione a Sonnino, città di cui tanto mi era stato parlato,
il cui nome tante volte si trova nella storia del brigandaggio. I
pittori hanno sì spesse volte raffigurato i costumi e le imprese
de’ suoi abitanti, ch’io voleva co’ miei occhi vedere il paese e gli
uomini, e rintracciare se rimanesse su quel suolo, o nell’indole degli
abitanti, qualche vestigio del passato. L’assunto era scabroso, non
solamente perchè Sonnino è a tre giornate dal Vaticano, e fuor di mano
delle strade frequentate, ma in modo speciale perchè io era straniero;
ed uno straniero in viaggio non conversa se non cogli albergatori. Un
egregio ed onorevole amico che io aveva in Roma si offerse pronto a
liberarmi dall’impiccio. Mi promise di condurmi a Sonnino nella sua
carrozza, di procurarmi alloggio presso persone di sua conoscenza,
d’introdurmi nella vita intima de’ suoi abitanti. Egli stesso aveva
visitato quel paese, verso l’anno 1830, ed era certo di trovarvi una
vecchia, vedova d’uno o due briganti, da esso altre volte impiegata
siccome modello, e che soccorreva onde avesse mezzo di vivere,
passandole una tenue pensione. Accettai pieno di riconoscenza un invito
sì grazioso, e ci ponemmo in viaggio il 10 giugno 1858.


Albano, l’Ariccia, Genzano e quasi tutti i villaggi di que’ d’intorni
si presentano con aspetto grandioso, essendovi sparsi qua e colà i
palazzi ed i conventi. Le case de’ mercanti di campagna, senza aspirare
al grandioso, sono larghe ed elevate, e recano cert’impronta di
borghesia rustica, senza l’apparenza del ricco avventuriero.

Nelle terre prossime alla capitale, le professioni di macellajo,
di fornajo, di droghiere, ecc., vengono esercitate in virtù d’un
privilegio, siccome pubblici impieghi; onde si ricorre per una patente
di droghiere, siccome per tener bottega da lotto, o vendita di sale e
tabacco.

Il privilegio s’insinua dapertutto negli Stati pontificj. Compagnia
d’assicurazioni, di vetrame, di raffineria, fabbrica di stearina, ogni
industria infine un po’ interessante è fondata sopra un privilegio.
Gli stessi cesti dove si vendono i frutti, sulla piazza Navona, sono
affittati ai mercanti da un impresario privilegiato.

Da Albano a Velletri attraversiamo un certo numero di ponti costrutti
dai papi, siccome rilevasi da varie iscrizioni. Non conosco paese
dove il lusso epigrafico sia spinto più in là. Non si getta un ponte
sopra un ruscello, non si fabbrica la minima caserma per gendarmi,
senza scolpire sopra lastra di marmo il nome del pontefice che si è
illustrato con quel beneficio.

Evvi presso la città eterna una fontana d’acqua minerale, dove i
nipoti di Romolo vanno a bagnarsi per divertimento. Iscrizioni sopra
iscrizioni! Un pontefice è lodato per aver condotto l’acqua, un altro
per aver riparato i condotti o per averli rinnovati.

Questa prodigalità di parole pompose parrà, a primo colpo d’occhio, un
po’ meschina e ridicola; ma è _un uso romano_!

Due parole che spiegano e scusano in pari tempo. È vero però che,
se gli antichi fossero stati più sobrj d’iscrizioni, noi ignoreremmo
molte cose, che ci vengono ricordate dai marmi. L’epigrafe è una delle
sorgenti più limpide, a cui lo storico abbia potuto attingere.

Talora però mentisce, e n’è prova quella inscrizione che attribuisce
a Pio VII gli ammirabili lavori, di cui l’amministrazione francese ha
abbellito il Pincio. I papi cancellarono dovunque le orme del nostro
passaggio, non conservando che i nostri beneficj. I consiglieri di
Pio VII, dopo la ristaurazione, avrebbero voluto sopprimere tutto ciò
che ricordava la Francia: fino al segno che trattavano di togliere
i riverberi, che il generale Miollis ed il signor Tournon avevano
introdotto in Roma.

Non ho trovato che un solo monumento che serbasse il nome di
quell’illustre e coraggioso Miollis. È una piccola lastra di marmo
nascosta nelle grotte di Tivoli.


Durante la rivoluzione del 1849, quando Mazzini regnava in Roma ed il
santo padre a Portici, il bel viadotto che unisce Albano all’Ariccia
rimase forzatamente interrotto. Un semplice fittajuolo delle vicinanze
apri la sua cassa e continuò i lavori a proprio rischio e pericolo.
Nessuna iscrizione ricorda questo bel tratto.


Velletri è un villaggio di 16,000 anime ed è capitale d’una provincia:
ha vescovo e prefetto, come Versailles. Vi si trovano pure de’
briganti, poichè Velletri è tra le montagne, circondata da selve
e boscaglie, ed all’ingresso di quel celebre _Campo Morto_, che
appartiene al capitolo di s. Pietro. Ho già detto perchè la pianura
morta, o _Campo Morto_, era un luogo mal frequentato. Il diritto
d’asilo raccoglie una moltitudine di ladri e d’assassini su quel
territorio insalubre. Il vicinato procura a Velletri una specie
d’insalubrità morale, che si è manifestata non ha guari col delitto di
Vendetta.

Ecco il fatto siccome circola di bocca in bocca nella città e nelle
terre vicine.

Ai piedi di Velletri, verso la porta che conduce a Napoli, si trova
un convento di Gesuiti, i quali tengono scuola. Sentii un bisbiglio
di voci infantili e lessi sopra una porta: _Classis elementaris_. La
loro cappella è una chiesa piuttosto antica, dove ho ammiralo una
bella porta del Rinascimento, una soffitta ricchissima, benchè di
gusto incerto, ed un bell’affresco della scuola del Perugino. Ma il più
prezioso de’ loro tesori è una Madonna miracolosa dipinta da s. Luca.

La storia non dice che l’evangelista s. Luca sia stato nè pittore nè
scultore, anzi è noto ch’egli fu convertito da s. Paolo dopo la morte
di Gesù. Eppure l’ingenuità pubblica si compiace nell’attribuire al suo
nome tutte le antichissime imagini che rappresentano la Vergine ed il
Bambino, sia in pittura sia in scoltura. In pari modo nelle tradizioni
dell’antica Grecia tutti i colpi di clava di certa importanza venivano
attribuiti ad Ercole. Checchè ne sia, l’imagine miracolosa di Velletri
è religiosamente conservata in una nicchia chiusa da imposte, in fondo
ad una cappella difesa da una griglia. Gli abitanti de’ vicini villaggi
professano un culto superstizioso per questa pittura, e tutti gli anni
le portano preziose offerte.

Un oste del _Campo Morto_ soprannominato Vendetta concepì il disegno
d’una speculazione ardita. Già da lungo tempo ei taglieggiava gli
abitanti di Velletri e delle vicinanze, a chi chiedeva due scudi ed a
chi dieci o dodici. Chiunque avesse una vendemmia pronta, degli alberi
carichi di frutti, un fratello in viaggio, pagava senza mercanteggiare
quella strana imposta. Eppure Vendetta da ultimo si annojò di quel
mestiere sì lucroso, lusingandosi di poter ritornare alla vita normale,
con un reddito modesto ed un onesto impiego. Per venire a capo di
siffatto scopo, ei non seppe trovar nulla di più ingegnoso che di
rubare la Madonna di Velletri e deporla in sito sicuro.

Si avvicinava una festa solenne, in cui la Madonna doveva comparire
agli occhi del popolo con tutti i suoi diamanti, allorchè il
sacristano, aperta la nicchia, s’accorse, prorompendo in grida di
dolore, che l’imagine non v’era più. Si cerca d’ogni parte, ma non si
trova nulla.

Intanto il popolo si ammutina, e si propaga un’effervescenza fino
nei prossimi villaggi. Il clero del paese accusa i Gesuiti d’essersi
derubati da sè medesimi; i Gesuiti recriminano contro i preti di
Velletri; ed il convento viene invaso, in ogni parte perquisito,
frugato e messo a soqquadro da una moltitudine idolatra. Finalmente,
la domenica, alla messa solenne, Vendetta, armato d’un pugnale, sale
sul pulpito e si denuncia da sè medesimo. Prega il popolo di accogliere
le sue scuse, e promette di restituire la Madonna, appena che abbia
regolato i suoi conti coll’autorità. Questa tratta con lui da potenza
a potenza; ed egli chiede la propria grazia e quella di suo fratello,
una rendita di certo numero di scudi ed un impiego del governo. Si
promette ogni cosa, ma Roma rinnega i proprj agenti e non vuol sancire
nulla. Intanto la popolazione delle montagne si mette in cammino, ed
una moltitudine di contadini minaccia d’inondare Velletri. Il brigante
cede al numero, rivela il nascondiglio dove ha celato la Madonna,
e si arrende a discrezione. Sarà decapitato, e nessuno ne dubita in
Velletri.

La Madonna viene reintegrata. Una grande affluenza di divoti mi permise
di ravvisare la cappella dov’essa fece tanti miracoli; ma una tendina
azzurra, ricamata col nome di Maria, non mi lasciò vedere il capolavoro
di s. Luca.


Vendetta è un brigante della decadenza, che ebbe il suo momento di
audacia, e quel sermone pronunciato in piena chiesa non è un’azione
volgare. Ma quanto siamo lontani dal Passatore! Ecco un vero grand’uomo
fra gli aggressori di strada!

Il Passatore prese una città di 5000 anime, Forlimpopoli. Tutti gli
ottimati erano raccolti in teatro, quando, al levarsi del sipario,
si vede un coro d’uomini armati, che appuntano i fucili contro
gli spettatori. Arriva il tenore, voglio dire il Passatore, con un
foglio in mano. «Signori, grida egli, tutte le uscite del teatro sono
custodite, la città è in nostro potere, ma noi non abuseremo. Abbiamo
imposto a Forlimpopoli una contribuzione di tanti scudi, ripartiti
come segue. Ciascuno di voi escirà, all’appello del suo nome, ed andrà,
sotto buona scorta, a procacciarsi la somma che ci deve.»

Cominciò il novero, e finì senza confusione, facendosi pagare in tanti
bei contanti la somma pretesa, poi ritirandosi pacificamente con un
ricavo maggiore di quanti mai il teatro avesse prodotto.


Cotesto Passatore, oltre l’audacia e la grandezza, aveva delle doti
speciali, mentre facevasi scrupolo di spogliare un infelice, e più
d’una volta vuotava la propria borsa per empirne una trovata vuota.

Un giorno egli venne ferito gravemente, onde vide necessaria
l’assistenza d’un uomo dell’arte. Ma come supporre che un medico avesse
a venire senz’esservi forzato, a riporsi nella gola del lupo?

Fece quindi rapire il più celebre medico di tutti i paesi circostanti,
e lo tenne custodito finchè ebbe bisogno della sua cura. Quando si
sentì veramente bene, ordinò al proprio tesoriere di rimandare quel
valentuomo dopo averlo pagato: ciò che venne eseguito.

«Quanto gli fu dato? chiese il Passatore.

— Dieci scudi.

— Come? dieci scudi a chi ha salvato la vita all’illustre Passatore!
Sei pazzo? Corri a raggiungerlo, consegnagli cento scudi e non
dimenticarti di dirgli, che non è ancora ben pagato!»

Imaginatevi lo spavento del medico quando si vide raggiunto sulla
strada da un uomo a cavallo che galoppava!

Sei mesi più tardi ei traversava la montagna a passo di mula, allorchè
per caso si trovò faccia a faccia col suo antico ammalato. Il povero
dottore questa volta si pentì d’averlo guarito. Ma il Passatore gli
fece un mondo di cortesie, e conchiuse dimandandogli in quale ora
egli si sarebbe trovato in città. Essendosi accorto che un orologio
d’argento stava nel taschino del suo liberatore, esclamò: «È egli
possibile? Il medico del Passatore non ha che un orologio d’argento!
Dammi il tuo orologio!» Lo gettò contro una rupe, onde andò in frantumi
siccome un uovo. Alcuni giorni dopo il dottore trovò sopra il suo
tavolo un eccellente cronometro fabbricato a Londra, e recato in Italia
da qualche viaggiatore inglese, che forse ancora lo rimpiange.


Questo eroe fu ucciso in una mischia. I pontificj s’impossessarono, è
vero, del suo cadavere, ma la sua fama correva ancora per le montagne,
e la sua masnada studiavasi ancora di far credere ch’ei fosse sfuggito.

Per convincere della identità del cadavere, non si trovò nulla di più
ingegnoso che di mostrarlo alla madre del brigante. Quella vecchia
decrepita attinse nell’odio e nella vendetta tanto coraggio quanto
occorreva per negare. Fu tenuta per un’ora e mezzo in presenza di
quel corpo, ma essa ostinatamente ripetè che non lo riconosceva. La
prova parve concludente, e si permise alla vecchia di andarsene. Ma
a quest’ultimo istante, quando il passo più difficile era fatto, la
natura riprese violentemente i suoi diritti; la madre tornò bruscamente
indietro, abbracciò il cadavere del figlio, lo bagnò di lagrime, e
proruppe in imprecazioni contro i soldati che l’avevano ucciso.

Coloro che non videro le paludi Pontine si rappresentano una vasta
estensione di paludi sterili e fetide, tanto spiacevole alla vista,
quanto ripugnante all’odorato.

Nulla è più lontano dal vero. Le paludi Pontine sono uno de’ più bei
paesi dell’Europa, uno de’ più ricchi e de’ più ameni per tre quarti
dell’anno.

Imaginatevi una lunga pianura, che da un lato confina col mare,
e dall’altro con una catena di montagne pittoresche, coltivate
accuratamente e coperte d’alberi su tutti i loro declivii: è un immenso
giardino sparso d’uliveti, le cui frondi grigiastre sembrano in ogni
stagione bagnate da un vapore mattutino. Le prime falde proteggono
de’ boschi di vecchi aranci floridi. La pianura si divide in foreste,
in praterie ed in coltivi. Le foreste, alte e vigorose, attestano
l’incredibile fecondità d’un suolo vergine. Esse alimentano i più begli
alberi d’Europa, e le liane gigantesche. La vigna selvatica e la rosa
canina colorano e profumano le frondi sempre verdi del sughero.

Le praterie sono coperte da innumerevoli gregge; sì belle che non se ne
troverebbero di uguali che nell’America o nell’Ukrania. Delle frotte di
cavalli semi-selvatici galoppano in libertà entro recinti immensi; le
vacche ed i buffali pascolano in pace l’erba alta e folta. I custodi di
questo bestiame, inchiodati sulla sella dei loro cavalli, col mantello
in groppa, il fucile ad armacollo, la lancia in resta, vestiti di
velluto forte e con uose di cuojo grosso e lucide che arrivano fino al
ginocchio, galoppano intorno ai loro allievi. I giovani puledri ritti
in piedi sulle loro gambe sottili disegnano all’orizzonte la loro ombra
fantastica.

Se i viaggiatori vengono in Italia per ammirare delle città antiche
e magnifiche, dei capo-lavori di scultura e pittura, delle rovine
pittoresche, delle cerimonie religiose d’una magnificenza unica, delle
feste popolari la cui originalità non è ancora scancellata, dei campi
di una fertilità miracolosa, delle belle foreste folte e cupe che
danno la più alta idea della fertilità del suolo, un popolo forte,
abbronzito, vestito di foggie che fanno risaltare l’eleganza naturale
del suo corpo, appagheranno i loro desiderj senza uscire dagli Stati
della Chiesa.

Le paludi Pontine valgono già il viaggio.

Le coltivazioni vi sono rare ma gigantesche. Alla primavera si vedono
fino a cento paja di buoi occupati a lavorare lo stesso campo. Alla
fine di giugno non è raro l’incontrare un campo di grano che indora una
lega di terreno. I frumenti sono belli, i melgoni sono sì grandi che
un uomo a cavallo vi è altrettanto invisibile quanto una pernice nei
nostri solchi. I fieni dappertutto ove l’acqua non fa moltiplicare il
giunco e la carice, sono altissimi, sani e di buon odore. La coltura
paludosa trova perfino un posto in questa fecondità universale. Egli
è nelle paludi Pontine che si coltivano in tratti di molti ettari quei
carcioffi semi-selvatici, di cui il popolo di Roma si nutre in estate.

Un drennaggio a cielo scoperto semplice e poco dispendioso basta a
produrre tutte queste buone cose. Quasi tutti i papi, specialmente
Sisto V e Pio VI, hanno fatto lavorare ai grandi canali collettori.
L’interesse privato ha seguito l’impulso, ogni possidente ha scavato
dei canaletti nel suo campo.

Le paludi Pontine sono sottoposte alle stesse cause di sterilità
insalubre delle nostre lande. Il vento d’ovest che ammassa le dune
sulle nostre spiagge della Guascogna e della Gironda, ingombra
ugualmente di sabbia la costa occidentale dell’Italia, e arresta lo
scolo delle acque. La sola differenza fra queste lande e le nostre è
che qui la terra vegetale è mille volte più abbondante e che non vi è
_alios_. Il calore del sole vi è più cocente e più fecondo.

Però, tutto non à fatto per le paludi Pontine poichè non sono
abitabili. La popolazione che le coltiva scende dalle montagne, lavora,
falcia o miete, e se ne fugge tosto sotto pena di morte.

Egli è anzi tutto, che le acque non iscolano abbastanza presto ed
occorrerebbe qualche canale di più, e poi che i detriti di materie
vegetali che compongono questo suolo fecondo, subiscono nei grandi
calori una fermentazione terribile, se ne sviluppano dei veleni
sottili, che sfuggono all’odorato, ma sono funesti alla salute.
La decomposizione dei prodotti animali è fetida ma innocua e quasi
salubre. Non vi è alcun pericolo ad abitare Monfaucon, nel mentre
che queste praterie imbalsamate generano la peste. Quando il sole di
luglio ha sprigionati i gaz micidiali che covano sotto l’erba di queste
campagne, il vento li porta via ove gli piace, e si vedono, a dieci
leghe di distanza nella montagna, in un paese naturalmente sano, gli
uomini morire avvelenati.

Questo flagello che decima regolarmente gli Stati del santo padre, e
che fa progressi ogni anno, non è però senza rimedio. Basterebbero
buone arature per espellere tutti i veleni dalla terra. Dando aria
alla terra, e aprendo un passaggio ai gaz mortiferi, si renderebbe sano
tutto il paese.

Bisogna rompere coraggiosamente tutte le praterie e seminare del grano.
Io non dispero di veder operare questa rivoluzione che arricchirebbe
i possidenti e popolerebbe la pianura in meno di un quarto di secolo.
Alcuni aratri a vapore basterebbero per questo miracolo. Nessun paese
è più acconcio a questo genere di cultura, perocchè il suolo è piano
e senz’alcun accidente di terreno. Converrebbe che i veri amici del
popolo romano si mettessero a predicare il vapore, come gli apostoli
hanno predicato l’evangelio; ma le menti sono mal preparate ad
accogliere un tal beneficio.


Nulla di più curioso che una masseria nelle paludi Pontine. Voi entrate
in un villaggio semi-abbandonato da tre o quattro mesi. Quasi tutti
gli edifizj appartengono al signore; il suo stemma ducale sta sopra
la porta delle capanne. I granaj che egli ha costrutto, i pozzi che
ha scavati sono altrettanti monumenti che celebrano la gloria del suo
nome. Un’iscrizione pomposa vi prega fieramente di non obbliarlo mai.

Il suo palazzo vasto, quadrato, monumentale, sormontato da una torre
che suona le ore, è il centro del villaggio e dei lavori agricoli.
Quest’edificio non ha mai visto nè il padrone attuale, nè suo padre,
nè il suo avolo; tutt’al più il bisavolo vi si sarà fermato una volta
di passaggio. Il mercante di campagna ha stabilito il suo studio in
questo monumento. Si vede entrare ed uscire come nelle podesterie di
provincia un giovine impiegato, col sigaro in bocca, e la penna dietro
l’orecchio. — Verso sera, i guardiani del bestiame, gl’ispettori dei
lavori, i sorveglianti giurati, ornati d’una piastra d’argento colle
armi ducali, arrivano sui loro cavalli che vanno tra il passo e il
trotto. Alcune carrette trasportano delle derrate al magazzino, o delle
bestie coricate sui fianchi, colle gambe legate e col muso legato
con una corda di fieno. Si registrano i prodotti, e si spediscono a
Roma, dopo aver prelevato ciò che ognuno crede poter prendere senza
pericolo. E pertanto la terra è sì feconda, gli animali eseguiscono
sì vigorosamente la loro opera di riproduzione, che il mercante di
campagna metterà da parte circa dieci mila scudi alla fine della
stagione. In quanto al possidente, al padrone della masseria e del
castello, al duca di Carabas, ei non sentirà mai a parlare di tutta
questa ricchezza. Egli ha esatto alcuni anni anticipati per dar una
festa o per costruire un giardino. Si dice perfino che si trovi in
cattive acque, e che stia per affittare il suo palazzo di Roma, affine
di viaggiare a buon mercato in Francia od in Germania.


Noi abbiamo lasciato la nuova strada da Roma a Napoli, che attraversa
le paludi Pontine in linea retta. I nostri cavalli ascendono
penosamente la strada vecchia, abbandonata dall’amministrazione
delle poste, e perciò assai negletta. Eccoci a Piperno, villaggio di
cinque mila anime, capoluogo di governo nella provincia di Frosinone.
Il nostro albergo, il solo di Piperno è una catapecchia. Bisogna
attraversar la rimessa per salire alle camere del primo piano, e che
camere!

Per lo contrario, la piazza del villaggio è molto pittoresca. Il
mercato lo si tiene all’ombra di dieci begli alberi d’arancio; i
notabili del paese vi si radunano tutti i giorni dinanzi alla bottega
del farmacista. Io feci conoscenza col medico, col chirurgo, col
flebotomo, col notajo e con alcuni consiglieri. Ecco il curato che
giunge; ei si ferma a dieci passi da noi per far mettere due o tre
libbre di ciliegie nel suo moccichino. L’acquacedratajo vicino sospende
delle scorze di limone sul davanti della sua bottega per annunziare
che ha preparato dei sorbetti. Io mi metto a parlare coi notabili,
che mi assicurano che la gente del paese non è infelice; la proprietà
è ragionevolmente divisa, si raccolgono molte olive, l’olio si vende
bene, e nella comune non vi sono nè nobili nè mendicanti.

A due ore e mezzo tutte le case si chiudono, senza eccettuare la
bottega ospitaliera del farmacista. È il momento della siesta; il
villaggio dorme fino alle cinque. Io feci intanto il giro della città
seguendo la strada di cinta. Gli antichi bastioni sono coperti di
giardini abbastanza verdi; gli aranci vi fioriscono dappertutto. Una
iscrizione mi ordina di fermarmi; faccio alto e leggo:

                    FERMATI UN ISTANTE, VIAGGIATORE,
                 QUALUNQUE SIA LA FRETTA CHE TI SPINGE!
                   PRIVERNA, ANTICA CITTÀ DEL LAZIO,
                          CAPITALE DEI VOLSCI,
                           MUNICIPIO ROMANO,
                    VITTIMA DEL FURORE DEI TEUTONI,
                        HA LASCIATO, TU LO VEDI,
                 POCHE TRACCIE NELLE ROVINE CHE COPRONO
                           LA PIANURA VICINA;
                  GLI EDIFIZI NUOVI ERETTI SULLA CIMA
                           DI QUESTA COLLINA
            ATTESTANO IL GRAND’ANIMO E I SENTIMENTI GENEROSI
                        DEI CITTADINI INTREPIDI
              CHE HANNO RISUSCITATO IL NOME E L’ESISTENZA
                       DELLA LORO PATRIA ESTINTA.
          AFFINCHÈ QUESTA GLORIA DI PRIVERNA E DEI PRIVERNATI
                 NON PASSASSE INAVVERTITA DINANZI A TE,
                   IL SENATO E IL POPOLO DI PRIVERNA
                    HANNO INNALZATO QUESTO MONUMENTO
                     L’ANNO DELLA REDENZIONE 1753.
                          RISTAURATO NEL 1845.

I Privernati ci consigliarono di prendere dei cavalli di rinforzo, e
piuttosto tre che due, se volevamo arrivare di giorno a Sonnino. Noi
seguimmo il loro avviso, ed uscimmo dalla capitale dei Volsci per la
via consolare. Una strada laterale si chiama la via Camilla.

Sonnino si vede da lontano sulla cima di una rupe. Gli edifizj sono
uniformemente d’un grigio colore di ruine. Si distingue la base di
alcune torri demolite per metà; è tutto ciò che rimane del recinto
fortificato. Due o tre fabbricati nuovi d’un bianco crudo spiccano nel
paesaggio e guastano l’armonia trista del luogo. La strada stessa mi
parve trista, quantunque fosse tutta fiorita. Gli uliveti, le vigne, le
clematidi, i rovi, le ginestre, fiorivano a gara, i bottoni di mirto
stavano per aprirsi, eppure questo lusso vigoroso d’una primavera
d’Italia non ci parlava nè di amore, nè di piacere. Noi misuravamo la
profondità dei burroni che fiancheggiavano la strada, seguivamo collo
sguardo l’ertezza delle rupi aride, e ci cacciavamo col pensiero nel
folto impenetrabile dei macchioni. Alcuni campi larghi come la mano, ci
spiegavano la vita nuova degli indigeni, il loro lavoro ostinato ed il
magro frutto dei loro sudori. Qua e là usciva dalla terra un pugno di
frumento, d’avena o di melgone, ma la cultura principale è quella degli
ulivi, e l’occhio spazia tristamente sulle loro frondi azzurrognole.


Due conventi di grassi frati contribuiscono colle loro preghiere alla
prosperità di Sonnino. L’uno è situato a un mezzo miglio dalla città,
l’altro se ne sta come un ufficio di dazio consumo sulla porta al
basso della città. Ci fu giuocoforza fermarci al secondo per mettere
la nostra vettura al coperto ed i cavalli in iscuderia. Quei buoni
religiosi vendono l’ospitalità ai cavalli ed agli equipaggi, e la
fanno pagare tanto più cara, in quanto che una carrozza non potrebbe
entrare in città. L’arteria principale è una via, che gli abitanti
chiamano con semplicità _strada di mezzo_. Due porte la terminano;
al basso, la porta s. Giovanni; all’alto, la porta s. Pietro. A dir
vero, questa strada non è che una specie di scala sdrucciolevole, che
passa tra due file di case nere, ineguali, senz’alcun rettifilo. Essa
è ombreggiata di tratto in tratto da vôlte scure come i _tunnel_ delle
strade ferrate. Tre uomini possono camminarvi di fronte; quest’è ciò
che le distingue da tutte le altre, ove non vi è posto che per due. Di
distanza in distanza s’incontra a destra un precipizio spaventevole
colla pianura in fondo; ecco le strade adjacenti. La nostra venuta
era stata annunziata. La vedova dei briganti aveva fissato un alloggio
per noi in casa d’un suo parente, antico brigadiere di gendarmeria e
grosso borghese di Sonnino. Egli ci venne incontro fino alla porta
S. Giovanni, e ci diede cordialmente il benvenuto. Era un uomo
corpacciuto, rubicondo, d’una fisonomia aperta, ma con pochi, o
quasi senza denti, ciò che rendeva la sua conversazione difficile a
comprendersi. Egli ci condusse al suo domicilio e mise la sua casa e
le sue genti a nostra disposizione: la casa che abita è di un piano
difficile a descrivere. Vi si entra dalla strada di mezzo, ma il primo
piano fa un salto e passa in un altro quartiere. Un corridoio a scala
ci condusse in una cucina affumicata, ove se ne stava la padrona di
casa colla sua figlia unica, una bella brunettina di quindici anni.
Dopo i primi complimenti, ci si fece salire per una dozzina di gradini
e ci si mostrò la sala da pranzo. Di là passando io per altri intricati
corridoj, giunsi alla mia camera.


Ben tosto la mia amabile guida mi fece chiamare per presentarmi il suo
antico modello. Io vidi una creatura grande e robusta di cinquanta
a sessant’anni, guercia e quasi cieca, ma piena di buon umore e di
salute. Essa parlava lestamente, con una voce veramente maschia e in
tuono burbero; nonostante mi fece buona accoglienza. L’arrivo del suo
benefattore e del suo antico padrone, che aveva forse qualche cosa di
più per essa, le cagionò una soddisfazione evidente, ma la sua gioja
non aveva nulla di espansivo nè di fragoroso. Si riconosceva nelle
sue maniere quell’impassibilità villereccia, che ha la sua sorgente
nell’abitudine di lavorare e di soffrire. Il suo costume era affatto
moderno e simile a quello delle contadine di Bievre o di Montreuil.
Ella preferiva evidentemente le vesti d’indiana ed i fazzoletti di
Lione agli ammirabili tessuti di lana scura che avea portato in sua
gioventù. «Voglio sperare che avrete portato i vostri vestiti della
festa.» La nostra risposta la contrariò assai. Ella strinse le spalle
e disse: «Non si crederà mai che voi siate signori. Domani è la festa
di sant’Antonio, patrono di Sonnino. Vi sarà processione, corsa di
cavalli, e fuochi d’artificio. La nuova banda suonerà delle arie dalla
mattina fino alla sera; imperocchè noi abbiamo una banda composta dei
migliori giovani del paese. Essi hanno imparato la musica, e hanno
comperato degli stromenti. Che peccato che non abbiate portato i vostri
abiti neri!»

Noi ci scusammo alla meglio, io specialmente, che desideravo ottenere
le sue buone grazie. Le feci tanto bene la corte, che mi promise di
raccontarmi al domani la storia della sua vita. «Ma a che scopo? diceva
ella col suo tuono brusco. Io ho vissuto come le altre, e non mi è
accaduto nulla di straordinario; tutti a quell’epoca erano nella stessa
mia condizione.»


Ci fu servita la cena, ma Maria Grazia non volle parteciparvi; però
ella accettò un bicchiere di vino e ne bevette diversi. «Ciò fa bene,
diceva essa, è molto tempo che non ne avevo bevuto, perchè questa
mercanzia è ad un prezzo eccessivo.»

Il nostro ospite fece togliere le posate dei nostri domestici, allorchè
seppe che non avevamo l’abitudine di mangiare con essi. Ci presentò
il suo futuro genero, un giovane ingegnere che aveva l’aria di un
collegiale.

Io manifestava il mio stupore, che dei ragazzi così giovani si
sposassero per farne degli altri; mi si rispose che era l’uso.

A Sezza, nei paesi malsani, le ragazze si maritano ancora più presto,
e si vedono delle adolescenti di quindici anni passare a terze nozze. I
mariti muojono sì presto intorno alle paludi Pontine!

Il pasto fu buono e soprattutto abbondante. Noi non avemmo a lagnarci
di nulla, fuorchè della cortesia eccessiva dei nostri ospiti. In queste
montagne gli uomini si servono prima delle donne, quando però queste
osano mangiare dinanzi a loro. Ma l’uso impone un grande scialacquo di
complimenti. «Buon appetito. — Grazie. — Voi siete il mio padrone. —
Accomodatevi come vi piace. — Fatemi il favore. — Davvero, è troppo!
Voi mi colmate. Io non saprei come riconoscere. — Con vostro permesso.
— Desidero che questo pasto vi faccia buon pro! Vi sbarazzerò della mia
presenza. — Addio. — Buona sera. — Buona notte. — Dormite bene. — La
Madonna vi accompagni! — E notate bene che al principio il padrone di
casa vi ha detto: Noi vi tratteremo alla buona, senza cerimonie, senza
complimenti.»


Io dormii come si dorme in viaggio. La seguente mattina uscendo dalla
mia stanza, incontrai il giovine ingegnere che si offrì gentilmente
di farmi vedere la città e la fiera, lo che accettai ben volontieri.
Strada facendo lo confessai un poco. Egli aveva fatto i suoi studj a
Roma, e aveva frequentato i corsi della Sapienza. Nel mentre studiava
le matematiche aveva trovato il tempo di leggere alcuni volumi di
Voltaire e di Rousseau; leggeva il francese ma non lo parlava. Rousseau
era il suo favorito e più volte s’era riunito con alcuni camerati per
commentarlo a porte chiuse. Egli giudicava il governo pontificio come
tutti gli uomini della classe media, e sperava di vivere abbastanza per
vederlo rovesciato. Intanto faceva istanza per un impiego nei lavori
pubblici.


La fiera si teneva alle due estremità del villaggio. Io contai una
dozzina di botteghe discretamente mal assortite. S’indovinava al
primo colpo d’occhio, che Sonnino non era la capitale del commercio.
Alcune pezze di tela, alcuni fazzoletti di seta o di cotone, un po’ di
rame da cucina, e delle stoviglie ordinarie, molte corone, e ciliegie
in quantità: ecco tutto ciò che io ho registrato nelle mie memorie.
Aggiungete un fondo di libreria consistente in istorielle da un soldo,
e in lamenti edificanti; infine un carico di assiccelle sottilissime,
che il mercante adatta in un momento per fabbricare sedie, bauletti,
poltrone e perfino dei canapè.

Le strade cominciavano a empirsi di gente; gli uomini erano magri,
grandi, e bruni; le donne leggiadre e dilicate. Il costume nazionale,
che è insieme severo e spiccante, spuntava qua e là, ma le stoffe di
seta moderne che finiranno per tutto invadere, guastano già la toeletta
delle donne. Uomini e donne avevano dei fiori in mano, in bocca, od in
testa.

La folla andava e veniva senza sdrucciolare lungo le scale umide. Di
quando in quando bisognava incollarsi sul muro per lasciare libera la
strada ad un mulo, ad un asino od a qualche piccolo greggie di _animali
neri_; vi ho già spiegato questo eufemismo.

La strada di mezzo s’allarga un poco in certi siti per formare ciò che
si chiama la piazza. Domandai al mio giovine ingegnere, se non era là
che si era piantato il cavalletto sotto il pontificato di Leone XII?
Rispose che non ne sapeva nulla, e si mise a parlar d’altro.

Mi mostrò il palazzo del governo, una vera catapecchia, ove regna un
giudice governatore con settecento franchi al mese, assistito da un
cancelliere con cinquantatre franchi e mezzo.

Io riconobbi la porta s. Pietro per averne udito parlare molte volte.
È quella ove anticamente si appendevano entro gabbie le teste dei
briganti che si erano lasciati prendere. Al dì d’oggi non vi si vede
più che lo stemma del papa. Il mio Cicerone mi assicurò, stringendosi
nelle spalle, che non vi è mai stato appeso altro; io lo pregai di
mostrarmi l’area di qualche casa fatta radere al suolo da Leone XII
per i misfatti del suo proprietario, ma mi disse non aver mai inteso a
parlare di quelle strane esecuzioni.


All’incontro mi fece visitare una casa grande da contadino con
una torre in rovina da un lato. Un custode od intendente che vi
alloggiava, ci condusse in alcune stanze quasi nude, ammobigliate con
sedie di paglia e letti di legno dolce. Cinque o sei mobili dorati
bellissimi, di stile _rococò_, giacevano vergognosamente sul granajo.
S’incontravano qua e là delle imagini volgari, dei Gesù di cera
colorati, delle litografie rustiche. In una specie di sala, un piccolo
s. Pietro di legno intagliato guardava gravemente quattro statuette di
gesso semi-decenti. Era una donna che allaccia il suo busto, un’altra
che annoda la sua giarettiera, un’altra che cerca le pulci nella sua
camicia. In questa casa è nato il più illustre dei figli di Sonnino, e
colui che ha dato le maggiori brighe ai diplomatici dell’Europa: S. Em.
il cardinale Antonelli.

Il custode non ci lasciò partire senza mostrarci il luogo principale
della casa. È un magazzino in cui vi si raccoglie un enorme quantità
d’olio d’oliva in pozzi di muro. La famiglia Antonelli compera
l’olio al minuto dai piccoli coltivatori di Sonnino, per rivenderlo
all’ingrosso ai negozianti di Marsiglia.


Il suono delle campane e la musica della banda ci avvertirono che la
festa religiosa stava per incominciare. Si celebrava una messa grande
in onore di s. Antonio nel convento ove avevamo lasciato i nostri
cavalli. Noi vi giungemmo un momento prima della cerimonia, intanto
che i contadini e le contadine apportavano i loro voti e le offerte ai
piedi del santo. Ciascuno dava ciò che aveva, e domandava ciò che gli
mancava, il tutto ad alte grida. Una madre presentò il suo fanciullo
ammalato, dicendo a s. Antonio: «Guariscilo, o prendilo!»

La messa durò lungo tempo. Quando fu terminata, la processione uscì.
Quasi tutti gli uomini di Sonnino sono inscritti in una confraternita,
di cui portano il mantelletto ed il cappuccio. La confraternita delle
Anime del Purgatorio è la più nobile, vale a dire che si compone del
contadini più agiati. Quelle del Corpo di Gesù e del nome di Maria sono
rivali. Insorse fra loro una disputa per il passo, e vidi il momento in
cui i mazzieri stavano per giuocare di bastone. Tuttavia si limitarono
alle ingiurie, l’ordine fu ristabilito e un lungo corteggio irto di
croci e di stendardi s’innoltrò inciampando nelle contrade della città.
La processione era chiusa da un vitello adorno di nastri, offerta un
po’ pagana, che un possidente aveva fatto a s. Antonio. Il donatore
menava devotamente l’animale, cui teneva con una mano per la testa, e
coll’altra per la coda.

Bene spesso il corteggio si fermava. Ora compariva uno stendardo che
non poteva passare sotto una vôlta, ora un fanciullo che cadeva, ora i
portatori di s. Antonio che si davano il cambio, ora il vitello finale
che rifiutava d’andar più avanti. Ad ogni stazione qualcuno gridava:
Ave Maria! ciò che nello stile di processione vuol dire: fermatevi!

I pochissimi abitanti che erano rimasti in casa, se ne stavano alla
finestra e facevano piovere dei fiori di ginestra o delle foglie di
garofani.


Noi eravamo corsi avanti, e ci eravamo collocati in un angolo
della piazza. Ivi feci conoscenza col medico comunale, che venne a
presentarsi a me senza cerimonie. Il medico comunale è un personaggio
piuttosto importante in queste piccole città. Ha studiato a Roma,
ed ha ottenuto il suo posto al concorso. La comune gli paga sui suoi
redditi un emolumento fisso, affinchè curi gratis i ricchi ed i poveri.
È lo spirito municipale d’Italia che ha creato quest’instituzione, che
meriterebbe di essere introdotta in Francia. Il mio nuovo interlocutore
mi raccontò che riceveva mille seicento cinque franchi all’anno, e
che il suo collega chirurgo era pagato sullo stesso piede. È più che
sufficiente in un paese, ove una casa discreta si affitta sessanta
franchi, e ove una persona sola può nutrirsi con soli dieci soldi
al giorno. Egli mi disse che la municipalità di Sonnino è ricca,
mercè l’estensione del suo dominio comunale. Essa ha novanta mila
franchi di avanzi, che destina a ristaurare il palazzo di governo,
e specialmente a migliorare le strade. Gli abitanti sono assai sobrj
e molto laboriosi. Quasi tutti possedono un piccolo pezzo di terra;
sono poveri, ma non vi è neppur un indigente. La salute pubblica è
abbastanza buona. La febbre vi domina poco o niente; soltanto alcune
gastriti acute cagionate secondo ogni apparenza dalla farina di grano
turco. L’istruzione pubblica non è brillante, poichè sopra trenta
adulti non se ne trova uno che sappia leggere. Ma quaranta fanciulli
del sesso mascolino vi frequentano le scuole: le fanciulle sono in
maggior numero per la semplicissima ragione che desse sono meno utili
nei campi. La cifra esatta della popolazione è di due mila cinque cento
cinquant’otto individui, di cui trenta ecclesiastici.


«Va benissimo, dissi al dottore. Ma parlatemi un po’ del brigandaggio.»
Gettò gli occhi su di me, poi sul mio vicino l’ingegnere, ed un furtivo
sorriso brillò ne’ suoi occhi. Sorriso eminentemente italiano, pieno
di cose, e più istruttivo d’un discorso intero. «Mi chiedete se le
scorrerie guastatrici sono sempre in uso in queste campagne? Pur troppo
sì! I nostri contadini si farebbero scrupolo di rubare un soldo sulla
via, ma considerano quasi siccome un giuoco innocente il furto de’
frutti, dei grani e de’ foraggi. Quanto alle coltellate, non sono nè
più rare nè più comuni qui che altrove. Dipende molto dalle vendemmie.
Si ammazza minor gente quando il vino costa più caro.»

Non era precisamente quello ch’io gli dimandava, ma però non mi
arrischiai a ripetere l’interrogazione. Il giovane ingegnere contava
senza dubbio alcuni de’ suoi antenati fra gli eroi della porta
San Pietro, ed io era già stato abbastanza indiscreto parlando del
brigandaggio in sua presenza.

La processione alfine era passata; i più tardivi raddoppiavano il
passo; il povero vitello, sfinito dalla fatica, s’era da ultimo fatto
portare. Tornammo quindi a casa, dove il pranzo ci aspettava e dove
il nostro ospite ci narrò, che una donna ammalata era spirata appunto
in quel momento che s. Antonio passava dinanzi a lei. I parenti
dell’estinta si consolavano, dicendo che il santo l’aveva presa con sè.

Gli abitanti di Sonnino hanno un passeggio, di cui a buon diritto
vanno superbi. È una strada lunga un miglio, costrutta a forza di
braccia sulla sommità della montagna. Comincia alla porta San Pietro,
e finisce ad un gruppo di verdi querce. Il suolo è abbastanza compatto
da potervisi correre in carrozza; ma sgraziatamente le carrozze non
potrebbero salire fino là su. Vi si fanno correre cavalli nel giorno
della festa, quando la Provvidenza permette che se ne trovino in quel
paese.

La corsa era promessa per le 22 ore, vale a dire doveva cominciare
due ore prima della caduta del giorno. In attesa dello spettacolo, mi
recai da solo nel boschetto delle verdi querce, dove le vacche avevano
lasciato larghe tracce del loro passaggio. Tuttavia mi assisi alla
meglio sopra un tronco, e m’accinsi a notare colla matita ciò che aveva
visto e inteso fino dal giorno precedente. Tutt’ad un tratto il cielo
si offuscò, era un temporale che passava, venendo dalle montagne di
Napoli. La luce scomparve d’improvviso, e la valle si coprì de’ più
fantastici colori. I lampi ed i fulmini si rendevano più frequenti, e
poco dopo credetti sentire il tuono anche sopra il mio capo.

Non potevo ripararmi nel villaggio, senza affrontare per un buon miglio
una grossa pioggia, ed ero vestito con panni leggerissimi. Mi rassegnai
dunque a rimanere dov’ero fino alla fine dell’uragano. Però il cielo
mi mandò compagnia numerosa, chè parecchi pastori, mandriani, custodi
di buffali, di capre e di pecore, vennero a ricoverarsi intorno a me.
Erano inzuppati fino all’ossa, eppure nessuno d’essi pensò ad indossare
il proprio abito, e lo portavano sbadatamente sulla spalla sinistra,
come vuole il costume del paese. Offrii loro de’ sigari, ed essi
volonterosi gli accettarono, per isminuzzarli nelle loro pipe di legno
ornate di chiodi dalla testa di rame. Un giovinotto, per ricambiare
la cortesia, mi regalò delle mele verdi, che avrebbero potuto esser
mature alla fine d’agosto. Aperse poscia un fazzoletto di cotone rosso
nascosto sotto il suo abito e pieno di ciliegie. Ne accettai due o tre
discretamente, ma egli bravamente insistette, dicendo: «Non temete di
divider meco queste ciliegie: non le ho pagate, ma mi appartengono per
diritto di preda. Se non volete prenderne da voi stesso, aspettate, che
andrò a servirvi io medesimo.» — Me ne diede molte sulle prime, poi me
ne caricò fin di soverchio: mi trattò d’Augusto a Cinna; e quando vide
ben chiaro, che ne avevo ad esuberanza, distribuì il resto fra’ suoi
compagni.

Quand’io mi vidi in mezzo a quella buona gente, di cui v’era alcuno
che faceva i primi passi nella vita, mentre altri avevano già varcato
i dodici lustri, mi venne in pensiero di risvegliare in essi le
reminiscenze del brigandaggio. Un solo di essi era stato brigante, e
contava alcuni anni di servizio sotto quel famoso Gasparone, che ho
veduto di poi al bagno di Civita-Castellana. Ricordavasi a meraviglia
del tempo in cui il cavalletto e la sferza di bue erano in permanenza
sulla piazza di Sonnino; ed aveva veduto la porta San Pietro ornata di
18 teste d’uomini, e personalmente aveva conosciuto una mezza dozzina
di quelle persone. Era presente allorchè Giuseppe De Santis morì per
accidente, percuotendo il calcio del suo fucile contro la terra. Il
colpo partì, ed egli ne fu ucciso. Il governatore gli fece recidere il
capo e mettere cogli altri, ma indebitamente, poichè De Santis non era
mai stato preso. Il mio narratore era con Gasparone, allorchè venne a
staccare quella testa, a dispetto del governatore e del presidio, per
dargli sepoltura. Ricordavasi di alcune altre imprese, ma parlava sì
confusamente ed in un dialetto sì napolitano che, malgrado l’attenzione
più fissa, io non poteva tenergli sempre dietro. Il più bel capitolo
della sua epopea era la resistenza che aveva osato fare a Gasparone.
Quel gran capitano l’aveva mandato a far acqua di notte ad una sorgente
che doveva essere sorvegliata. «Rifiutai assolutamente, dissemi egli,
asserendo d’aver risposto: «Mandami a portar via del vino dalla cantina
del governatore, a rapir un bue dai pascoli del Pellegrini, andrò, se
di giorno; ma di notte, in quel sito, ho troppo paura d’un’imboscata.
Ammazzami, se vuoi... E vedi mo’ signore, se avevo ragione! Colui che
andò per comando di Gasparone invece mia ha potuto appena fuggire, con
pericolo della vita, fra cinque o sei palle di fucile.»

Quest’eroe pieno di prudenza era caduto due o tre volte fra le mani
de’ soldati, ma aveva sempre saputo persuader loro che accudiva
onestamente a’ suoi affari. In somma, ei non era stato vero brigante di
professione, poichè il suo mestiere era di custodire i buoi; ma egli
aveva fatto come gli altri, finchè il brigandaggio era stato di moda
nel paese.

E non è a dirsi che gli esempi severi gli fossero mancati, chè anzi
nella sua giovinezza aveva assistito al supplizio di venticinque
masnadieri, presi e fucilati dai Francesi. Il fatto era appunto
accaduto all’ingresso del boschetto, dove ci eravamo ricoverati per la
pioggia; ed i loro cadaveri erano stati gettati in una caverna profonda
e tenebrosa a tre miglia da Sonnino.

Gli chiesi quali fossero le cagioni che avevano fatto cessare il
brigandaggio. «Ciò avvenne perchè il mestiere non era più conveniente
sotto il papa Leone XII. Appena preso un galantuomo, subito lo si
decapitava, e non v’era più nemmeno il tempo di fuggir di prigione.
Ecco come la moda ha cessato.» — Parlava di quell’epoca sanguinosa
colla più bella tranquillità del mondo, senza rimorsi, senza orgoglio,
senza passione, senza rancore; trattando in pari modo i gendarmi ed
i briganti, il delitto e la legge; a quel modo che chi vede giuocare
una partita a scacchi osserva i bianchi ed i neri, o come Macchiavelli
contempla la lotta del bene e del male. I suoi compagni l’ascoltavano
colla stessa imparzialità italiana.

Bramai sapere s’egli rimpiangesse le sue ricreazioni antiche. «Tu sei
mandriano, gli dissi, e guadagni poco. Tu mangi del pane di melgone,
non bevi vino tutte le domeniche. E non rimpiangi dunque il tempo in
cui non avevi che a prendere?

— E davvero, risposemi, ebbi de’ bei momenti, ma ne ho patito di
pessimi. Non eravamo sempre i padroni, ed invece d’inseguire, si
fuggiva. Del resto, non c’è da scegliere, poichè il brigandaggio non è
più di moda.»

La conversazione era a questo punto, quando mi saltò in capo che i
miei nuovi amici avrebbero avuto bel giuoco su me, se avessero amato
il pittoresco al pari de’ padri loro. Spiegai loro il mio pensiero,
per veder meglio come la pensassero. «Buona gente, dissi loro, se
foste come gli antichi abitanti di Sonnino, già da qualche ora avreste
frugato nelle mie tasche: siete dieci contro uno, ad un buon miglio dal
villaggio. Dovete ben supporre che uno straniero, il quale venga fin
qua, debba avere qualche scudo nella sua borsa. Vedete che sono inerme,
mentre voi tutti quanti avete, oltre il bastone, un buon coltello
affilato. Se gridassi ajuto, non sarei inteso; se movessi lamento, non
potrei indicare i vostri nomi, che ignoro. Perchè non mi spogliate?»

L’antico soldato di Gasparone non si scandalizzò della mia dimanda,
e mi rispose con semplicità: «Noi non faremo una cosa simile, poichè
siamo galantuomini.

— Dunque non eri un galantuomo quando correvi la montagna con Gasparone?

— Sì, ero un galantuomo, ma faceva quello che tutti gli altri già
facevano. Era usanza di que’ tempi. Ed anche allora, se tu fossi stato
seduto presso di me, se m’avessi dato de’ sigari, se tu avessi mangiato
con me sulla stessa pietra, io non t’avrei tolto un soldo. Però se tu
avessi avuto del denaro in tasca, e se m’avessi donato un ritrattino
del papa, l’avrei accettato per bere alla tua salute.»

Il temporale era svanito; il sole riapparve; l’ora delle corse si
accostava. Già vedevamo tre cavalli escire dal villaggio ed avanzarsi
di passo verso il nostro boschetto, dove si doveva dare il segnale
della partenza. Intanto che i miei compagni giudicavano i corridori a
distanza, e scommettevano pel bajo scuro, pel bianco, vidi da lungi
un piccolo corteggio di circa dodici persone scendere da Sonnino
per la porta San Giovanni, e procedere di passo verso la chiesa di
Sant’Antonio. «Che è ciò? chiesi al vecchio mandriano. Si direbbe che
portano qualche cosa.

— E di vero, rispose egli, portano a seppellire una donna morta oggi
durante la processione.

— È impossibile!

— E perchè?

— E la legge permette di seppellire le persone quattr’ore dopo la morte?

— Eh! è forse proibito, ma tanto peggio. Da noi non si ha tempo a
perdere, e quando le persone sono morte, si seppelliscono».


La defunta, appena fredda, entrava in chiesa nel momento in cui i tre
cavalli arrivarono a noi. Io non sono grande conoscitore, e non ho mai
appartenuto a società di corse; tuttavia mi fu facile il predire che la
corsa sarebbe mediocre. I tre cavalli inscritti stavano per disputarsi
senza _jockey_ un premio di 10 scudi. Il morso e lo sprone erano
surrogati da alcune palle di piombo armate di punte per istimolarli
ne’ fianchi. Una ventina di mariuoletti gl’inseguirono ad alte grida
ed a sassate: non era già una partenza, ma qualche cosa di simile ad
una spinta in fuga. A mezza strada, le povere bestie, non sentendosi
più inseguite, si misero al passo, nonostante che i proprietarj
accorressero verso di loro per richiamarle al dovere. La folla ebbe un
bel fare a stimolarne l’amor proprio con tutti i projettili che poteva
aver fra mano, la corsa fu compiuta a piccolo trotto, e le tre povere
bestie malgrado loro raggiunsero la meta.

Arrivai io stesso quasi nel medesimo tempo, quantunque non mi venissero
gettati sassi, e vidi uno spettacolo ben curioso. L’autorità locale
rifiutava di aggiudicare il premio, allegando che _corsa_ viene da
_correre_, e che i cavalli non erano corsi. Il proprietario del cavallo
vincitore era abbastanza calmo, ed andava ripetendo ostinatamente: «Ho
guadagnato, datemi dunque dieci scudi». Ma coloro che avevano scommesso
per lui erano meno pacifici, accusavano il popolo di Sonnino, gridavano
al ladro, a rammentavano con allusioni abbastanza vive la vecchia fama
del paese. La cosa sarebbe andata più in là, nonostante l’intervento
della gendarmeria, se il vino fosse stato meno caro.

Una compagnia di suonatori continuava a percorrere le strade, e non
si fermò che alla sera. Aveva salutato l’aurora, annunciato la messa,
accompagnato i canti della chiesa, seguito la processione, aperto e
chiuso le corse. Condusse poi il popolo ai fuochi d’artifizio, e non
tacque se non coll’ultimo razzo. Era la prima volta che i giovani di
Sonnino davano un concerto pubblico, ed è chiaro perciò che più ardente
era il loro zelo, più caldo il loro fanatismo.


Terminata la festa, si accesero alcune centinaja di torcie, e ciascuno
rientrò in casa. Maria Grazia non s’era coricata, e m’aspettava.
«Eccomi, diss’ella, vedendomi a rientrare, vedete ch’io sono di
parola. Vorrei raccontarvi la mia storia, benchè non contenga nulla
di sorprendente: ma a che pro? Che ne farete? A che vi servirà il
conoscerla?

— Maria Grazia, le risposi, quando conoscerò la vostra storia, la
racconterò nel mio libro. Le persone della mia patria videro già il
vostro ritratto; ora conosceranno il nome vostro.»

Un sorriso di compiacenza illuminò il suo vecchio viso. Sedette presso
di me, sul mio baule da viaggio, ed a mezza voce mi raccontò la storia
seguente:


«Sono nata a Sonnino, ne’ tempi del brigandaggio. Debbo avere ad un
bel circa cinquant’anni; bisognerebbe chiederlo al curato. A quindici
anni ho sposato il mio primo marito, bravo giovane, mandriano di
professione, e che possedeva qualche cosuccia. Abbiamo avuto un figlio,
che in progresso è morto. Mio marito ebbe qualche litigio per le prede
insieme al padrino di mio figlio: non saprei dire se fossero olive o
grani che ci avesse preso, ma era una bagattella, non v’è dubbio. Ed
era meglio di perdonargli. Ma mio marito lo denunciò al governatore
e lo fece mettere in prigione per un mese. L’altro minacciò vendetta.
Io credeva che non avrebbe fatto nulla, attesochè era nostro compare
e ci aveva sempre mostrato amicizia. Tuttavia mio marito credette bene
di cambiar paese, ed andossene a custodire i buoi dalle parti di Roma.
Ma anche l’altro vi si recò nell’anno appresso, ed avendo trovato mio
marito che dormiva in un campo, lo uccise con un colpo di coltello.

«Allora feci conoscenza col mio secondo marito, ch’era nato nel regno
(di Napoli), ma abitava a Terracina, dove mi condusse, e ci ponemmo a
lavorare la terra.

«Non era gran tempo ch’io m’era rimaritata, quando mia sorella mi fece
dimandar consiglio per isposare colui che mi aveva ucciso il primo
marito.

«Le faceva la corte, ed essa lo trovava di suo genio. Le risposi che
facesse ciò che le piaceva; che mio marito era morto, ed io non era una
santa per risuscitarlo. Essa sposò quindi l’altro che, come vi dissi,
non era un uom cattivo, e che per noi aveva avuto molta amicizia.

«Io aveva avuto due figli dal mio secondo marito, e viveva felice in
sua compagnia, quando gli accadde un gran disastro. Egli reclamava due
o tre scudi da un uomo pel quale aveva lavorato, ed il suo debitore
rifiutava di pagare, atteso che era ricco e che conosceva il giudice.
Allora mio marito, non potendo ottenere altra giustizia, l’uccise;
quindi il poveretto, dopo quel colpo, non ebbe altro scampo che farsi
brigante e correre la montagna. Capitò dalla banda di Sonnino e si
mise cogli altri. Io ritornai presso i miei parenti, dove ricevevo
spesso sue notizie. Ora ei veniva a trovarmi di nascosto; ora mi faceva
pervenire qualche dono.

«Ma il papa Leone, che aveva risolto di sterminare i briganti, ordinò
che le mogli ed i figli di coloro che correvano per le montagne fossero
condotti per forza a Roma. Fui messa alle Terme insieme a molte altre
donne de’ nostri paesi, e vi trovai mia sorella, il cui marito era
pure alla montagna, e più della metà delle famiglie di Sonnino. Il papa
era salito in tanta collera, che parlava di distruggere il villaggio.
Si erano trasportati de’ cannoni fino sulle montagne che ci dominano,
e non vi vedreste pietra sopra pietra, se il cardinale Consalvi non
avesse intercesso per noi.

«Intanto che noi eravamo alle Terme, i signori e gli artisti venivano
tutti i giorni, gli uni per vederci, gli altri per copiare i nostri
costumi, e fu allora ch’io cominciai a servire di modello pel signor
Schnetz, e mia sorella pel signor Robert. È mia sorella che fa da
tamburino nel quadro della Madonnina dell’Arco. Io poi fui copiata ben
migliaja di volte nel mio costume, e mi fu detto che il mio ritratto
stava nelle chiese e nei palazzi del vostro paese. Eravamo trattati
dolcemente, essendoci permesso d’andare negli studj d’artisti ed anche
di collocarci siccome governanti presso persone rispettabili.

«Ma mio marito, ch’era un brav’uomo, siccome vi dissi, e che mi amava
assai, venne a sapere ch’io era stata arrestata; e, credendo ch’io
fossi infelice in prigione, andò egli stesso a consegnarsi per ottenere
la mia libertà e quella de’ figli. Ora il santo padre aveva promesso
salva la vita e poco tempo di prigione per coloro che volontariamente
facessero la loro sommissione tra le mani del vescovo della loro
provincia.

«Ma il mio povero marito prese abbaglio per ignoranza: invece
di consegnarsi al vescovo di Piperno, che era il nostro, andò a
costituirsi prigioniero a Terracina. E così perdette il benefizio della
legge, e gli fu detto: «Se tu fossi andato a consegnarti a Piperno,
avresti ottenuto la grazia, poichè il papa l’aveva promesso; ma sei
andato a Terracina, tanto peggio per te.» — Fu mandato alle galere del
Porto d’Anzio.

«I signori ch’io conosceva a Roma ebbero pietà del mio dolore, e
domandarono che mio marito fosse rinchiuso in sito più vicino a me,
onde fu trasferito in Castel Sant’Angelo, da cui gli fu anche concesso
di venire qualche volta a vedermi. Il poverello si diportava bene
in carcere, imparava a leggere ed a scrivere, ed era un modello da
imitare, onde gli fu permesso di lasciarsi copiare da’ pittori, e
guadagnò un po’ di danaro. Sopravvennero alcune amnistie, la sua pena
fu diminuita parecchie volte, a segno che in capo a due o tre anni
non gli rimanevano più che 18 mesi di condanna. Eravamo contenti e
pieni di speranza, e facevamo conto di costruire un piccolo albergo
verso la porta Portese e di finirvi tranquillamente la nostra vita;
quand’egli, che era sempre stato così savio in prigione, commise non so
quale imprudenza. Mi pare che, in un momento di collera abbia proferito
qualche villana parola contro i santi. E per tal colpa fu condannato in
vita al bagno di Civitavecchia.

«Vi dissi già ch’egli era il più dolce ed il migliore degli uomini, ma
questa volta fu preso dalla disperazione; chè, quando si è tanto vicini
alla liberazione, non vi si può rinunciare per sempre. Egli quindi
prese concerto con un compagno di pena; ed un giorno ch’erano stati
mandati a far legna fuori della città con un solo soldato per custodia,
essi se ne sbarazzarono. Bisogna che la Madonna gli abbia assistiti
miracolosamente in seguito, perchè abbiano potuto rompere i loro ferri,
cambiar d’abiti, passare il Tevere senza saper nuotare, e pervenire a
Sonnino, che è all’altra estremità del paese.

«Ivi si difesero per più d’un anno contro i soldati dello Stato
(Pontificio) e contro quelli del regno (di Napoli), che da tutte
parti gl’inseguivano. Il santo padre aveva messo a prezzo le teste, in
ragione di cento scudi l’una. Credete che, se resistettero sì lungo
tempo, fu miracolo del loro coraggio, pratica del paese, esperienza
del mestiere, ed onestà de’ buoni pastori del vicinato, che preferivano
denunciar loro i gendarmi anzichè guadagnare cento scudi.

«Ma da ultimo, un traditore scoprì la capanna dove s’erano ritirati a
passare la notte, e furono accerchiati da soldati napoletani. Quando
vollero uscire, era troppo tardi. Il compagno fu ucciso sul colpo, e
mio marito ferito a morte, con una spalla fracassata.

«Sventuratamente per lui e per me, egli non morì subito, ma fu
trasferito dapprima all’ospitale di Terracina, ed i soldati napolitani
lo seguirono per reclamare la somma loro promessa. Ma interrogandolo
s’accorsero che non era suddito del papa, ma del re. Fu dunque
riconsegnato all’autorità napolitana, ed i soldati si mandarono a farsi
pagare a casa loro, ond’essi s’indirizzarono al governatore di Gaeta,
che mandolli al diavolo, attesochè il re non aveva promesso nulla. Così
non furono pagati da nessuno, e sta bene!

«Quanto al mio povero marito, rimase 18 mesi nell’ospitale di Gaeta,
senza decidersi nè a vivere nè a morire. Durante la sua malattia s’era
fatto il suo processo, ed i giudici l’avevano condannato a morte, ma il
carnefice aspettava ch’ei fosse guarito per tagliargli il capo. Perciò
il poverino non aveva coraggio di guarire, ed avrebbe voluto rimaner
malato fino al giudizio universale.

«Tutto ciò era ben affligente per me, tanto più ch’io vedeva mia
sorella felice, e ch’io stessa aveva trovato un’occasione d’esserlo.
Mio cognato, che aveva ucciso il mio primo marito, aveva fatto pace
colla giustizia, e, denunciando alcuni camerati, aveva ottenuto un
posto di carceriere. Guadagnava discretamente, e Teresa non aveva a
lamentarsi di lui. Io poi conosceva a Roma un cappellajo che mi amava
e desiderava sposarmi. Ma non poteva prendere un terzo marito, finchè
non fosse ben morto il secondo. Ora in questa trista condizione, non
essendo, nè nubile, nè moglie, nè vedova, presi il partito di fare
scrivere una petizione al re di Napoli, perchè facesse compiere la
sentenza contro il mio povero marito tal qual era, senza attendere
la sua guarigione. In pari tempo cominciai con mia sorella e col
cappellajo una novena a s. Giovanni decollato. La mia petizione rimase
senza risposta, ma la novena riuscì, poichè mio marito venne a morte,
ben confessato, all’ospitale di Gaeta, ond’io sposai il cappellajo,
ch’era anch’esso un degno uomo ed un marito esemplare. Ne ebbi un
figlio che morì dragone nell’ospitale di Viterbo, mentre il padre morì
a Roma, nella sua stanza, della morte de’ giusti. Anche mia sorella e
mio cognato sono morti. Ho inteso dire che quel povero Robert si era
ucciso per disperazione, in causa d’un quadro. Ed io sto bene, e vivrò
lungo tempo, se piace a Dio, benchè faccia gran freddo a Sonnino, che
ci vegga poco coll’occhio che mi resta, e che il vino sia a sette soldi
il mezzo litro.»


Ci siamo congedati da Maria Grazia e dalla sua troppo celebre patria.
Ora ecco il villaggio di Prossedi, che anch’esso vanta qualche gloria
negli annali del delitto. Gasparone, il gran Gasparone non era di
Sonnino, ma di Prossedi.

È un borgo di 1500 anime popolato di contadini che coltivano gli ulivi
ed i gelsi, e seminano grano per loro consumazione.

Qui l’ignoranza è forse più grande che a Sonnino: non sono più di 15 i
ragazzi che frequentano la scuola. È l’uno per cento della popolazione.

Il villaggio è costrutto di tal modo, che le carrozze non vi potrebbero
penetrare. Il nostro albergo è situato fuori delle porte, dinanzi al
castello dal principe Gabrielli, il quale è proprietario d’una buona
parte delle case. La prigione della città è sua, ed il suo ministro,
ossia intendente, ha due carrozze.

Il comandante di piazza è un brigadiere di gendarmeria.

Gli abitanti in mancanza di carrozze posseggono una grande quantità
d’asini e di muli, chè molti di vero ne occorrono per trasportare nelle
montagne tutte le cose necessarie alla vita.

Le donne sono belle e vezzose, vanno a piedi nudi, e portano enormi
fardelli sul capo, siccome le donne di Sonnino. Il villaggio è tristo e
lurido, e quasi tutte le case avrebbero bisogno d’essere riparate, ma
non lo si fa a cagione della spesa. In compenso non v’è quasi nessuno
degli abitanti, che non abbia fatto scrivere sulla porta: «Viva Gesù!
Viva Maria! Viva il sangue di Gesù! Viva il cuore di Maria!» Cotesto
allagamento d’iscrizioni è frutto d’una missione quinquennale, che
fu fatta nel mese di marzo. Il pittore del villaggio vi fece fortuna,
poichè ogni iscrizione in grandi caratteri gli venne pagata 25 paoli,
ossia franchi 13,40.


Tutti questi villaggi si rassomigliano, onde chi ne ha veduto uno può
dire d’averli veduti tutti, e sarebbe opera perduta il descriverli ad
uno ad uno.

Alla mattina gli uomini vanno nei campi, le donne vanno a prender acqua
e legna. Nell’ore più calde, la piccola città è deserta e come morta.
Verso sera, quando il vento si rinfresca, gl’impiegati escono dai loro
ufficj e vanno a sedere dinanzi al caffè. Se v’ha prelato in alcuno
di questi villaggi, esso comincia il suo passeggio in calze color
viola, accompagnato da due famigliari laici od ecclesiastici e seguito
da un suo lacchè in gran livrea. Al cader del giorno, i mercanti di
verdure dispiegano la loro merce sulla piazza, i contadini rientrano
nel villaggio, carichi de’ loro pesanti arnesi, e comprano qualche
grama provvista per la cena. Le donne ritornano dalla fontana colla
conca piena d’acqua fresca: quindi si cena e si dorme. Qualche volta
parte della notte viene spesa nel sentire una predica in una chiesa
ornata di bagattelle. La fatica del corpo, la sonnolenza dello spirito,
l’ignoranza del passato, le difficoltà del presente, l’incertezza
dell’avvenire ed una certa sonnifera rassegnazione formano il tessuto
della vita di queste povere popolazioni. Una noja glaciale svapora
da quelle mura: vi si lavora, si mangia, si beve, si procrea, e tutto
malinconicamente.

Se Roma venisse inghiottita da un terremoto, i contadini di questi
villaggi continuerebbero a coltivare i loro campi, a consumare le loro
raccolte sul posto ed a vegetare in una miseria abbastanza coraggiosa.
Ogni piccolo municipio vive da sè e per sè sopra un suolo che non
è sterile. Le contribuzioni comunali pagano il medico comunale, il
chirurgo comunale, l’institutore comunale e la riparazione comunque
siasi della strada comunale. Lo Stato preleva una grossa parte sui
redditi d’ogni anno. In cambio dell’imposta, esso manda un giudice
governatore che vende la giustizia. L’agricoltura è la sola carriera
aperta all’attività dell’uomo: non v’è nè commercio, nè industria, nè
affari, nè movimento nelle idee, nè vita politica, nè alcuno di que’
potenti legami che attaccano le provincie alle capitali.


Di tutti gli animali utili, la donna è quello che il contadino romano
impiega con maggior profitto. Essa fa il pane, la pizza, il mortajo;
fila, tesse, cuce; va ogni giorno a cercare le legna a tre miglia, ed
il pane ad un miglio e mezzo. Essa porta sulla sua testa il carico d’un
mulo; lavora dal sorgere al cader del sole, senza ribellarsi ed anche
senza mover lamento. I figli ch’essa mette in luce in gran numero e
che nodrisce essa medesima, sono una fonte preziosa, chè dall’età de’
quattro anni vengono adoperati a custodire altri animali.


Io m’informo in ogni dove del progresso de’ lumi. «Quante persone sono
quivi che sanno leggere? — Pochissime.» — La risposta è uniforme. —
Istruzione primaria.

Quando un albero ha bisogno d’esser tagliato, se ne taglia la testa
a mezzo. Un tratto di sega in linea orizzontale ha ben tosto compito
l’opera. Quando si ha bisogno dell’albero intero, lo si sega ad un
piede dal suolo: la radice ed il resto del tronco imputridiscono sul
posto. — Istruzione professionale.


Le imposte comunali sul vino, sulla carne, sui salumi, ecc., sono
affittate ad impresarj che ne ritraggono ciò che possono e vendono
qualche cosa alla comune. — Scienza amministrativa.

Le tasse comunali sono assai gravi ed il contadino si lamenta d’esserne
oppresso. Nei più modesti villaggi bisogna pagare un soldo di dazio
consumo per 339 grammi di carne o di salumi; da 15 a 30 soldi pel più
piccolo barile d’aceto; un tanto per ogni testa di cavallo, di mulo
o d’asino, un tanto per ogni majale che si fa crescere in casa. Il
focatico si paga da due a cinque scudi: quest’ultima imposta, a quanto
ho potuto giudicare, è progressiva.

Eppure non si può dire che questa brava gente sia miserabile siccome
gl’Irlandesi, per esempio: basti il dire che sono poveri. L’avere
gratis il culto, la scuola, le cure mediche, compensa fino a certo
segno l’enormità de’ loro pesi.

Il loro lavoro sui proprj campi basta a farli vegetare fino alla
vecchiaja, onde passano la vita nel guadagnarsi la vita, e la loro
esistenza somiglia ad un cerchio vizioso.


Si potrebbe forse essere ben attoniti, sentendo che havvi qualche
villaggio di 2000 anime che possiede una trentina di preti, se non si
sapesse in pari tempo che quei preti non gli costano nulla. Posseggono
de’ benefizj, delle dotazioni, delle terre, grazie alla liberalità di
qualche signore del buon tempo. I loro beni sono affittati, ed essi
vivono d’entrata.

Bisogna dunque convenire, che cotesta moltitudine d’ecclesiastici, che
sarebbe onerosa ad ogni altra nazione, costa relativamente ben poca
cosa al popolo romano. Un cardinale, a cagion d’esempio, non percepisce
che 4000 scudi sull’entrate dello Stato; ed il resto delle sue rendite
si compone di alcuni grossi benefizj e soprattutto delle cariche
ch’egli occupa. L’accumulazione è autorizzata, e se ne fa largo uso.


In causa della mal’aria e della poca sicurezza della pianura, furono i
contadini di queste terre costretti a porre le loro abitazioni sopra
rupi aeree e poco accessibili. Questa usanza è antichissima, poichè
buon numero di cittadelle dove noi ci fermammo sono ancora cinte di
mura ciclopiche. Quando la popolazione diminuisce, si lascia cadere in
ruina qualche casa; quando cresce, le persone si racchiudono in maggior
numero nelle case esistenti. Si fabbrica ben poco, per mancanza di
capitali: si ristaura di rado, ed all’ultima estremità. Tutte queste
città hanno l’apparenza d’essere state costrutte nello stesso giorno,
e fatte d’un solo pezzo. Il contadino si accovaccia nel meschino
suo tugurio, tenendo poco conto delle distanze, della ripidezza de’
sentieri, e soprattutto dell’incomodità delle case. La vita si passa
nei campi.


Per questi lavoratori che sudano da mattina a sera sotto un sole
ardente, sopra un suolo riarso, in strade guaste, l’uomo che rimane in
casa senza far nulla, e non esce nemmeno in strada per passeggiare, è
un uomo felice, privilegiato, nobile per eccellenza e prossimo parente
degli Dei immortali.

Io stava sulla piazza del Palazzo, alla porta di Prossedi, e faceva
conversazione con un giovane indigeno. Questi mostravami a qualche
distanza un uomo ben vestito, che veniva costretto da cinque o sei
persone a salire in carrozza. Era una persona distinta della città,
che, avendo smarrito la ragione, veniva condotta all’ospitale di
Perugia. «Ecco, dicevami quel giovane, un uomo che ha passato tutta la
sua vita in casa sua, siccome un principe; non lo si vedeva fuori più
di quattro volte l’anno. Ed ora viaggia sulle pubbliche strade siccome
un semplice contadino.»


Pagliano conta 4250 abitanti, 50 uomini di presidio, 30 carcerieri,
250 detenuti politici, i quali l’anno scorso fecero un tentativo di
evasione. Sei furono uccisi a colpi di fucile, dai tetti; altri sei
saranno assoggettati a giudizio, e potranno essere condannati a morte
in virtù d’un vecchio decreto del cardinal Lante, che venne or ora
rimesso in vigore.


Lo stato delle strade è sì miserabile in queste montagne, e sì grande
la difficoltà de’ trasporti, che non si è stabilito alcun equilibrio
nel prezzo delle derrate. La libbra di pane costa due soldi qui,
e due soldi e mezzo a quattro leghe più lontano. Il trasporto per
queste quattro leghe val dunque mezzo soldo alla libbra. Il vino costa
sette soldi la foglietta (mezzo litro) a Sonnino, e due soldi e mezzo
a Pagliano, dove è buono; mentre a Sonnino è cattivo. Costa dunque
quattro soldi e mezzo per trasportare a 10 leghe un mezzo litro di
liquido.


Jeri, mentre facevamo la _siesta_ a Pagliano, udimmo le campane suonar
per temporale, ed era il quarto che incontravamo dopo la domenica. Però
questa volta ne uscimmo a buon patto; poichè caddero poche goccie di
pioggia sulla fortezza, il tuono romoreggiò da lontano, e noi potemmo
rimetterci in viaggio per Olevano.

Questa mane, andando da Olevano a Palestrina, abbiamo veduto le traccie
d’un turbine spaventoso. I ruscelli gonfiati dalla poggia avevano
invaso i campi vicini; alcune aje erano cadute sulla via con enormi
frane di terra. Ma questi guasti non erano nulla; la gragnuola aveva
fatto peggio: ecco noci flagellate da spesse ammaccature, i germi delle
viti spezzati, le foglie degli alberi gettate a terra. Tutto che era
tenero e verde, tutto che dava promessa o speranza, era perito.

Ci siamo fermati all’albergo di Palestrina. Vedevasi una chiesetta,
dall’altra parte della strada, tutta inondata. Nei villaggio tutti i
vetri infranti, ed i contadini ci si fanno intorno per descriverci la
grossezza della gragnuola ed i guasti del turbine. Direbbesi che il
loro dolore ha bisogno di espandersi; nè si trastullano punto col darci
dell’_Eccellenza_ sotto il naso, ma ci danno del _tu_, e ci chiamano
fratelli.

È cosa volgare il descrivere la miseria del contadino che vede perire
in un istante il frutto di tutte le sue fatiche d’un anno. Quando si
trova questa narrazione in un libro, si è quasi tentati di gridare
contro l’autore: dateci qualche cosa di nuovo, per amor di Dio!
D’altronde noi siamo tanto abituati a veder l’uomo crearsi mille fonti
diverse, senza contare l’agricoltura, che non sappiamo come mai qualche
branco di gragnuola sopra un campo possa rovinare una famiglia intera.
Ma quando si è vissuto per alcuni giorni in mezzo a questi contadini,
quando si sono veduti partire innanzi l’alba per lavorare il loro pezzo
di terra, quando ci è noto che non hanno altro avere al mondo, e che
tutto il loro avere è là, esposto al freddo ed al caldo; e da ultimo,
quando si tocca col dito la distruzione della loro messe, quando si
veggono i loro visi pallidi e bagnati di lagrime veraci, si scorge che
questa descrizione volgare è interessante al pari del dramma più nuovo.
Dimandai ad uno di quei desolati, se gli ulivi della montagna avessero
sofferto quanto i campi di pianura? Alzò le spalle e rispose: «E che
sono gli ulivi? E che è mai la vite? Trattasi delle nostre granaglie,
che sono perdute. Quando non c’è olio, se ne fa senza; quando manca il
vino, si beve acqua; ma quando il grano perisce, non v’è pane, non vi
sono più uomini!»


Mi sono forse un po’ troppo dilungato sopra un viaggietto oscuro,
in cui non ebbi la fortuna nè d’incontrar belle dame, nè avventure
romanzesche. Contadini, e sempre contadini! Ma il nostro diletto
Alfredo Musset, in uno de’ suoi più graziosi capolavori, si è dato la
premura di prepararmi una scusa in rima:

    _Ces pauvres paysans, perdonne-moi, lecteur,_
    _Ces pauvres paysans, je les ai sur le coeur._




XVI.

IL VETTURALE.


I viaggiatori più eleganti nol conoscono che di vista. Se mai
avete percorso l’Italia in legno di posta, vi sarà forse occorso di
vedere qualche vecchia carrozza polverosa, che non è nè _fiacre_ nè
_cabriolet_, ma ha qualche cosa dell’uno e dell’altro, ricolma d’esseri
umani, sopraccarica di valigie e di pacchi. Se mai v’imbatteste
a vederla su strada disagiata, avrete avuto campo ad osservare un
omiciatto in berretto e paletot trottante, colla frusta alla mano, alla
destra de’ cavalli e dicente loro parole consolanti. Questo conduttore
borghese è il vetturale, provvidenza ambulante della classe media
e degli stranieri poveri. Tutti gli artisti dal borsellino leggiero
passarono qualche giornata con lui e conservarono buona memoria della
sua compiacenza.

In questo regno, dove il popolo è povero, e l’attività umana è alquanto
assopita, si viaggia di rado, lentamente ed a piccole giornate. La
classe media non si trasmuta, ma vegeta in quel cantuccio dove il
caso l’ha fatta nascere. Pensate che è impossibile l’uscir da Roma
senza passaporto, e che i passaporti non si danno che alle persone ben
affette, costano cari assai e non servono che per un viaggio. Così
un abitante di Terracina, che fosse costretto a passare cento volte
all’anno la frontiera napolitana, dovrebbe pagare cento volte uno scudo
sia all’ingresso che all’uscita. Aggiungete che non si può traversare
una piccola città, senza sopportar le noje della vidimazione del
passaporto, e senza pagar tributo alla mendicità d’un impiegato. Anche
il più smanioso viaggiatore avrebbe di che scoraggirsi.

Allorchè un modesto borghese di Roma è assolutamente costretto a
mettersi in viaggio, tratta col vetturale: cosa grave, poichè si
discute sulla durata del viaggio, sul numero dei pasti, sul caffè e
latte del mattino, sul prezzo del trasporto, e sulla mancia.

Il vetturale s’impegna d’arrivare a tal sito, in tanti giorni e per tal
via, a prendere quanti buoi e cavalli possano occorrere di rinforzo,
a pagare il passaggio de’ ponti e le barriere che attraversano la
strada, ad alloggiare il suo viaggiatore nei migliori alberghi, ed
a somministrargli un dato numero di pasti. Tutti questi patti sono
descritti in carta, se ne stende un contratto in doppio esemplare,
firmato dalle due parti contraenti.

I prezzi del vetturale sono d’una moderazione favolosa; e, se la
memoria non mi tradisce, un viaggiatore può essere trasportato,
nodrito, alloggiato, servito per una somma di circa sette franchi al
giorno. Ma si va molto più lentamente che non sulle strade ferrate, e
bisogna adattarvisi. I giorni discreti sono quelli da dodici leghe di
viaggio.

Il primo viaggiatore che trattò col vetturale è il padrone del legno,
ed ha voce preponderante nelle dispute che insorgono strada facendo.
Debbo però dire che le dispute sono rarissime, essendo che il vetturale
ed il suo servo sono armati d’una compiacenza inalterabile, ed ho
sempre dovuto ammirare la cortesia degli Italiani che viaggiavano con
noi. Era simpatia pei Francesi? Era semplicemente l’effetto di quel
vecchio pregiudizio romano, che vede in tutti gli stranieri altrettanti
signori? Propendo per la prima ipotesi. Lo stesso vetturale agiva
con noi meno famigliarmente che non co’ suoi compatriotti, e credetti
vedere che negli alberghi avevasi per noi una cura particolare. Eppure
gli albergatori sanno, meglio che ogni altro, che i viaggiatori del
vetturale non sono propriamente signori.

In questo modo ho viaggiato da Roma a Bologna. Eravamo, al momento
della partenza, cinque Francesi ed un giovane avvocato romano. Quattro
nella carrozza, e due sull’imperiale: questi, ogni volta che si
sentivano oppressi dal caldo, dimandavano di cambiar posto.

Cotesti miei compagni erano un giovane dilettante di viaggi dotato
di molto spirito, il signor Dugué De la Fauconnerie, un pittore
dell’accademia di Roma di nome Giacometti, due altri artisti, Pradier
figlio dell’illustre statuario, e Giulio David nipote del gran pittore,
e cugino germano del mio buon amico barone Gerolamo David. Non mi
ricordo il nome del giovane avvocato, ma era un uomo dolce e benevolo.
Mancava forse di _quel non so che_, che fra noi è il distintivo delle
persone ben educate. Però noi eravamo quasi dispettosi di vedere che
il vetturale lo trattava quasi in tuono di perfetta eguaglianza. Noi
eravamo d’un paese, dove la distanza è enorme fra un conduttore di
diligenze ed un dottore in legge.


Non conosco nulla di più desiderabile nè di più dilettevole che la
buona compagnia. Però quando viaggerete collo scopo d’istruirvi, io vi
consiglio d’andar solo. Dall’ora in cui il vetturale venne a prenderci
facendo risuonare i campanelli de’ suoi tre cavalli, fino alla città di
Foligno, dove io dissi addio a’ miei amici, osservai ben poche cose. Lo
confesso a mia vergogna, ma non senza certo piacere retrospettivo, la
conversazione non fu altro che un continuo scoppio di risa.

La campagna triste e desolata intorno a Roma cangiò di faccia a misura
che ci allontanavamo dalla città. È un fatto da me già notato varie
volte sui miei ricordi, che Roma è forse la sola grande città senza
distretto, la sola che sia circondata d’una zona incolta. Bisogna
escirne e viaggiare molto tempo prima di trovare le strade ben
conservate, la circolazione romorosa, la coltura attiva e prospera.
Quanto più si allontana dalla capitale, tanto più si trova il paese
vivo ed il popolo felice. Concludo da questo fenomeno unico nel suo
genere, che Roma sarà forse un giorno la capitale d’Italia, ma che al
giorno d’oggi non è la capitale degli Stati romani.


A Civita-Castellana, il vetturale vende i suoi cavalli, avendo trovato
occasione di fare un buon mercato, ed ei non è uomo da trascurare i
suoi affari. «Ma e di noi che sarà? — Eh! che! risponde egli con un
sorriso filosofico. La Madonna non ci lascerà in istrada.»

Fatto sta che la mattina seguente la carrozza era pronta tirata da tre
ronzini, così deformi, arditi e strepitanti, quanto i primi.

Ecco l’ordine e la marcia invariabile del vetturale. Al primo albore
egli sveglia i suoi viaggiatori e fa caricare i bagagli. Un caffè
s’apre a dieci passi dall’albergo, ed il vetturale ci conduce colà
e ci fa apprestare la prima colazione. Si comincia a trottare verso
l’ora fresca, e si continua fin verso le dieci ore del mattino. Allora
è il momento della fermata, e si depongono i bagagli pel caso in cui
qualche viaggiatore avesse il capriccio di cambiar abiti. Ci viene
servito un pranzo modesto, ma solido, condito con un po’ di vino del
paese. Quindi si fa una corsa a visitare il paese, mentre i più pigri
hanno diritto di chiedere una camera e di fare la _siesta_. Fra le due
e le tre ore si risale in vettura e si trotta, sempre piano piano,
fino alle sei: allora i bagagli sono di nuovo scaricati, i cavalli
vanno nella scuderia, ed i viaggiatori passeggiano fino all’ora della
cena. Tutto ciò è sì ben regolato, si ben convenuto, che cinque o sei
vetturali possono viaggiare di conserva senza mai perdersi di vista.
Il nostro giovane avvocato raccontò la storia d’uno de’ suoi amici che
si ammogliò da un vetturale all’altro. Egli osservò nel primo giorno di
viaggio una bella fanciulla, che co’ suoi parenti andava a raccogliere
una modesta eredità; la riconobbe il giorno appresso, le sorrise
il dì seguente, nel quarto giorno le parlò, nel quinto la chiese in
matrimonio, e l’ottenne in capo alla settimana, grazie ad una bottiglia
di Montepulciano, che il padre aveva imprudentemente accettato.

Non dipenderebbe che da noi il giuocare al medesimo giuoco, poichè
ecco un vetturale che ci segue passo a passo, come per raccogliere la
nostra polve. Cinque figlie da marito! ed abbastanza belle, in fede
mia. Ed il naso rubicondo del loro signor padre attesta, ch’ei non
avrebbe a schifo il vino di Montepulciano. Ma nessuno di noi pensa al
matrimonio[6].

È nel bagno di Civita-Castellana che il famigerato Gasparone espia
dolcemente i suoi delitti. Ero debitore d’una visita a quel grand’uomo,
ed ora gliel’ho fatta. Si può dire letteralmente ch’ei regna in quel
bagno di terra ferma, poichè 13 o 14 antichi banditi gli compongono una
corte, ed il governo gli assegnò una lista civile di 5 soldi al giorno
per le spese di rappresentanza; mentre gli stranieri che vengono a
vederlo gli pagano tributo.

Questo monarca in vita mi ricevette in una cameraccia che gli serve di
sala del trono; fece tre passi incontro a me, e mi stese la mano con
un sorriso di protezione. Le persone della sua corte ed alcuni gendarmi
fecero cerchio intorno a noi.

Gasparone è un vecchio grande, d’una bellezza notevole, d’alta e nobile
statura, e lineamenti maschi e regolari, di guardatura sfavillante.
Porta una lunga barba bianca, e reca in viso una miriade di macchiette
azzurrognole segni della esplosione d’un fucile carico a polvere.
Indossa un abito di panno grossolano, costume di contadino agiato; e fu
dispensato dal portare la livrea de’ forzati, così pure dalla costoro
compagnia. Vive solo, circondato da suoi antichi compagni, e distratto
dalla noja per mezzo delle frequenti visite degli stranieri.

Delle native montagne egli non ha conservato che l’accento e la
calzatura. Mi fece vedere i suoi sandali attaccati alla gamba con
funicelle di cuojo, e mi disse con una modestia alquanto orgogliosa:
«Perdonatemi se non parlo il romano; io sono nato ciocciaro e così
morrò.» Cotesto titolo di ciocciaro, ossia portatore di cioccie
(sandali) è adoperato in Roma siccome termine di sprezzo. Il cardinal
principe Altieri nel calore di una disputa contro il secretario di
Stato, non s’astenne dal lanciargli in faccia l’epiteto di ciocciaro. È
positivo che il cardinal Antonelli, al pari di tutti i figli di Sezza,
di Prossedi e di Sonnino, ha portato le cioccie in sua giovinezza.

Gasparone mi domandò se io ero romano? Era evidentemente un complimento
sul modo con cui io parlavo italiano. Lo ringraziai, dicendogli ch’ero
francese. «Or bene! ripigliò egli sorridendo, conducetemi con voi in
Francia.»

M’ingegnai di persuaderlo, che un uomo della sua condizione non
troverebbe ad occuparsi in un paese come la Francia. I gendarmi che ci
ascoltavano alzarono le spalle in segno d’incredulità, quando dissi che
il brigandaggio era impossibile da noi.

E di vero il brigandaggio, sì bene sradicato nelle montagne di Sonnino,
era allora floridissimo nelle Marche e nelle Romagne. Si parlava d’un
possidente assediato in sua casa alle porte stesse di Rimini.

Si narrava la storia d’una prigione evasa in massa, detenuti e
carcerieri, per mettere a contribuzione la campagna.

Gasparone non manca di certa bonomia; però mi parve alquanto sostenuto
e preoccupato dell’idea di sostenere il suo grado. Egli stava in piedi,
e noi pure. Mi ricorse involontariamente al pensiero la memoria di
quel principe romano, che diceva nella sua altiera boria: «Non mi sono
mai seduto dinanzi a persona del ceto medio, poichè avrei forse dovuto
farla sedere a me vicino.» Però allorquando parlai di Sonnino, di Maria
Grazia, e delle montagne che avevo visitato, il vecchio brigante se ne
compiacque e cedette al piacere di parlare. Raccontò varj episodj della
sua vita attiva e specialmente l’ultimo, ch’egli ha sempre in cuore.
Protestò contro l’illegalità della sua prigionia. «Poichè al fine,
diss’egli, i gendarmi non mi hanno preso, ed io non mi sono arreso; fui
preso a tradimento. Avevo accettato un abboccamento per trattare col
governo, e si è violato il diritto delle genti coll’impadronirsi della
mia persona.»

I gendarmi l’ascoltavano con rispettosa ammirazione, ed uno d’essi
gli disse: «E di che ti lamenti? Tu hai fatto la guerra, e noi non
la faremo mai: tu non mancasti di nulla, e noi manchiamo di tutto. Tu
sei stato capitano, ed io, che ti custodisco, non sarò probabilmente
nemmeno sergente, poichè non ho nè moglie nè figlia che sollecitino pel
mio avanzamento!»

Dopo una buona mezz’ora di conversazione, presi commiato. Gasparone
voleva assolutamente che portassi meco una sua memoria, onde mi
offrì la lista manoscritta de’ suoi omicidj, in numero di 197, se non
m’inganna la memoria. Aggiunse che gl’Inglesi non mancavano mai di
prenderla.

Che strana bestia è l’uomo! Questa lista mi fece orrore, e rifiutai
di prenderla. Avevo stretto senza ribrezzo la mano che aveva commesso
tanti delitti, ed ora il foglio di carta su cui erano descritti
m’inspirava orrore! Dissi addio al grand’uomo, che ne aveva ammazzati
tanti piccoli, e gli diedi una mancia, ch’egli accettò siccome farebbe
un semplice capo d’ufficio.

Il suo onorario era già di dieci soldi; ma da qualche anno fu ridotto a
cinque. È un lagno che non dimentica mai in conversazione.


L’albergo di Civita-Castellana è il tipo de’ grandi alberghi italiani,
siccome si trovano nei romanzi. Balconi, terrazze, fiori del mezzodì,
grandi corse aperte alle sedie di posta, nulla vi manca. È però debito
di verità il dire che Civita-Castellana trovasi sulla classica strada
di Firenze a Roma.


Ciò che mi urta al massimo grado è la mendicità importuna e continua,
che ci perseguita. Negli alberghi più agiati il cameriere stende la
mano, il facchino che vi porta il baule stende la mano, il garzone di
scuderia stende la mano, e qualche volta lo stesso albergatore ci fa
l’onore di dimandarci l’elemosina. Lungo il cammino, allorquando il
vetturale prende de’ buoi o de’ cavalli di rinforzo, l’uomo che gli
ha noleggiati, e che riceve il suo salario, ci tira per la manica e ci
sveglia, al bisogno, per una comunicazione importante. Che vuol egli?
Una piccola moneta per comprar del pane. Se il pane fosse raro o caro,
questa importunità sarebbe forse scusabile; ma la messe è magnifica,
come ne convengono gli stessi coltivatori, allorchè si staccano dal
loro lavoro per venire a stenderci la mano. È chiaro che quelle persone
non hanno bisogno de’ pochi soldi che ci dimandano, ma vanno mendicando
per principio, per onor del governo e del paese.

Quanto si può esser fieri d’esser Francesi! Eppure debbo confessare
che la mendicità è ancora più arrogante e più inescusabile a Parigi.
Un cocchiere romano, a cui non si dia nulla di mancia, s’accontenta
di maledirvi nel secreto dell’animo suo; mentre un cocchiere di Parigi
v’ingiuria e talora fa peggio. Abbiamo sui boulvard di Parigi qualche
caffè, che in capo ad un anno raccoglie più di cento mila franchi in
elemosine. I domestici di quello stabilimento, che non hanno altro
salario, suddividono questa enorme somma col proprietario, che è
stupidamente ricco, e si veggono delle locazioni di 60,000 franchi
pagate coll’elemosina forzata de’ poveri consumatori.

A Narni, il vetturale ci vende ad uno de’ suoi confratelli, che
s’incarica di trasportarci alle medesime condizioni fino al termine del
nostro viaggio.

Le cascate di Terni sono fatte di mano dell’uomo, non meno che quelle
di Tivoli; e così l’arte diede mano alla natura. Fu sviato un fiume dal
suo letto per precipitarlo giù dalle rupi.

Quivi i contadini industriosi hanno costrutto cento diverse chiuse
ne’ dintorni della cascata, e ciascun d’essi preleva una tassa sulla
curiosità de’ viaggiatori.

A Foligno dissi addio a miei amabili compagni, i quali si diressero
verso Perugia, che non era ancora stata saccheggiata dalle bande
mercenarie tedesche del colonnello Schmidt. Ho fatto la salita degli
Appennini per una strada nuda e triste assai; ora eccomi sul pendio
dell’Adriatico, nelle provincie meno soggette al dominio pontificio.
Serravallo, Tolentino, Macerata, Recanati, prime città e primi villaggi
della marca d’Ancona, hanno una fisonomia affatto nuova. Siamo ben
lungi da Roma e dalla sua desolata campagna! Qui le vie ampie e ben
conservate sono coperte di pedoni e di carrozze, e fiancheggiate da
fertili campagne. Non ho veduto le pianure di Lombardia, ma dubito che
possano essere meglio coltivate di quest’ammirabil paese. La proprietà
è suddivisa, e la popolazione non va più timidamente a rannicchiarsi
entro i villaggi, che da tutte le parti si veggono abitazioni rurali in
buono stato.

Vi ho spiegato come la coltura non fosse altro che un accidente
passaggiero nella campagna di Roma. Si traggono de’ buoi e degli
aratri sopra un prato, poscia si ara, si semina, si sarchia, si miete
in fretta, quindi la terra rientra nel suo riposo per un periodo di
ben sette anni. Qui per lo contrario la coltura è lo stato normale
della terra, essendo essa piantata d’alberi e lavorata, zappata ed
ingrassata. Ho visto spesso nella medesima pertica di terreno un cumulo
di foglie di gelso, una vendemmia appesa a’ tronchi d’alberi, ed una
messe color d’oro ai loro piedi. La vite si marita all’olmo, al salice
ed al pioppo. Le foglie dell’olmo sono un eccellente foraggio pei buoi,
che le mangiano verdi.

Quasi quasi mi dimenticavo che eravamo nello Stato pontificio, ma ecco
la santa città di Loreto, che mi richiama alla realtà.

Loreto, che ha dato il suo nome ad una delle classi più floride della
popolazione parigina, è una città di 5,470 anime; deve la sua esistenza
ad una serie di miracoli troppo noti, perchè sia necessario di qui
raccontarli. Nessun cattolico può ignorare, che la casa della Santa
Vergine Maria, lunga metri 10,60, larga 4,36, ed alta 6, fu trasportata
da Nazaret tra le braccia degli angeli nella notte del 12 maggio 1291.
Fece una prima fermata in Dalmazia, dove soggiornò circa tre anni
e mezzo. Il 9 dicembre 1294, essa attraversò l’Adriatico e venne a
cercare in Italia un posto adattato. Errò per qualche tempo nelle selve
vicine a Loreto, e fermossi definitivamente a tre chilometri dal mare.

La Santa Casa non ha che le quattro mura, poichè gli angeli lasciarono
in Palestina il pavimento e le fondamenta; ma trasportarono i vasi di
terra, in cui la Vergine Maria preparava gli alimenti pel suo divin
figliuolo.

Nulla di più povero di questa casa, costrutta con pietruzze rossastre,
come se ne trovan molte nel paese; e nulla di più ricco e magnifico
degli ornamenti onde fu abbellita. Il contrasto è pur sì grande tra
l’umile capanna ed il tempio che la racchiude, quanto tra l’apostolo
Pietro e papa Leone X. Essa è sì poco riconoscibile sotto i suoi
rivestimenti di marmo, quanto la morale evangelica sotto la poesia del
cardinal Bembo.

Questa casa miracolosa è proprietaria della città di Loreto e di tutto
l’orizzonte che la circonda. Possiede 400,000 franchi di reddito in
beni immobili, senza tener conto del reddito eventuale, che è enorme.
Giudicatene dalla vendita delle corone e d’altri oggetti di divozione,
che fruttano agli abitanti di Loreto un beneficio di circa 500,000
franchi all’anno. Questo commercio non giova se non indirettamente
alla Santa Casa, ma diventa fonte di migliaja di offerte. Così, ho
veduto una signora di Dublino occuparsi per un lungo quarto d’ora nel
far benedire mille coserelle: anelli, medaglie, corone e campanelli
contro il fulmine. Un sacerdote, di cui ho ammirato la pazienza, ha
segnato per lei una ventina d’imagini, ne ha suggellato venti altre,
aggiungendo a ciascuna un pezzetto di velo nero; ha santificato
parecchi giojelli facendoli passare nella scodella entro cui mangiava
il bambino Gesù: dopo di che, la buona signora depose un’offerta, che
pareggiava almeno il valore di tutte quelle compre.

Non parlo delle offerte più preziose, che vengono inviate da principi
e da grandi della religione cattolica. Sonvene di ridicole, siccome i
calzoni del re di Sassonia; e di magnifiche, ond’è che il tesoro della
Santa Casa ha riparato le spogliazioni del 1797.

La statua della Vergine, scolpita dall’inimitabile S. Luca, è
letteralmente coperta di pietre preziose. Quella figurina di legno
nero, che per qualche tempo fece soggiorno nel gabinetto delle medaglie
della Biblioteca imperiale, possiede uno scrigno più ricco di quello di
qualsivoglia principessa d’Europa.


Il cicerone che mi condusse è nel medesimo tempo garzone d’albergo
e sacristano della Santa Casa; del resto non poco incredulo, e
preoccupato soprattutto di statistica e di finanze. Mi assicura,
che la Santa Casa è circondata di 120 altari, dove 120 sacerdoti
celebrano ogni giorno la messa. Mi fa osservare i confessionali, dove
de’ penitenzieri di tutte le lingue sentono la confessione di delitti
speciali, che un semplice sacerdote non potrebbe assolvere. «Tutto ciò,
diss’egli prosaicamente, frutta molto danaro. Noi siamo qui più di 300
impiegati, che riceviamo ciascuno due litri di vino e due libbre di
pane al giorno. Le nostre finanze vennero scompigliate recentemente
da Monsignor Narducci, che lasciava in cassa un defecit di 300,000
franchi. Per la qual causa fu rivocato.

— E che si fece di lui?

— Fu nominato amministratore dell’ospizio dello Spirito Santo, a Roma,
senza dubbio perchè lo Spirito Santo è più ricco e più difficile a
ruinarsi.»


I viaggiatori ch’entrano nella chiesa dove è racchiusa la Santa Casa,
scorgono sulla dritta un collegio de’ Padri Gesuiti, a sinistra il
palazzo Apostolico dove risiede il successore di Mons. Narducci. È
un palazzo discretamente conservato, dove si veggono troppe donne
in bianco soprabbito di mattina, e sono senza dubbio le mogli
degl’impiegati subalterni. Per lo contrario bisogna confessare che il
collegio de’ Gesuiti, visto dall’esterno, imprime negli animi anche
più insensibili una specie di rispetto. Ha un aspetto severo e bene
ordinato, che impone.


Ne’ sotterranei del palazzo Apostolico si ammira una bella farmacia,
di cui tutto il vasellame è in vera majolica di Faenza, eseguita sui
disegni de’ più grandi maestri.


Ho passato tutto il giorno nella chiesa, la quale è un vero museo, e
vi sarei stato veramente felice, se non fossevi stata l’importunità
de’ cani, de’ mendicanti, de’ ciceroni e di alcune vecchie, le
quali volevano ostinatamente far il giro della Santa Casa sulle loro
ginocchia, col mio consenso ed a mie spese.

Questi piccoli pellegrinaggi salariati non si fanno solamente in
Italia. Conobbi a Vergaville, paese natio della mia avola, una vecchia,
pellegrina di professione, che si portava, mediante una rimunerazione,
alle cappelle più celebri, e che guadagnava di che vivere acquistando
indulgenze. Credo però che questo mestiere sia più lucroso a Loreto che
a Vergaville.

Gl’Italiani dicono talora: «Bestia come un Inglese.»

Questa locuzione mi è sempre parsa, non solamente viziosa, ma anche
inesplicabile; mentre tutta Italia sa benissimo per esperienza, che
i suoi amici Inglesi non sono bestie. Un abitante d’Ancona, che aveva
incontrato a Loreto, mi ha dato la spiegazione di quel pregiudizio. «Il
popolo, mi disse egli, comprende sotto la denominazione d’Inglesi tutti
gli abitanti delle isole Britanniche, ma in realtà questo epiteto di
bestia non s’appartiene che agl’Irlandesi. Essi accolgono sì ciecamente
tutti i miracoli già screditati tra noi, digeriscono con tale appetito
le stolidezze più incredibili, che si prende per difetto d’intelligenza
ciò che non è altro che un eccesso di fede.»


Mi ritrassi inorridito vedendo in una cappella laterale il cadavere
d’un fanciullo e la sua faccia coperta di mosche. Il povero bambinello
era vestito da abbatino, secondo un’usanza abbastanza diffusa. Ora
andavo pensando, come mai una famiglia poteva così abbandonare le
reliquie mortali della sua progenitura, ma in un batter d’occhio
m’accorsi che il bambino non era solo, poichè un incaricato, pagato a
giornata per custodire il cadavere e tener lontane le mosche, dormiva
in un angolo della cappella. Quella trista scena guastò per me il
piacere della giornata, e quando una mosca della chiesa veniva a
collocarsi sul mio volto e sulla mia mano, io la discacciava con una
specie di ribrezzo; parendomi che que’ schifosi insetti fossero quelli
che si erano raggruppati intorno alle nari ed agli occhi del povero
bambino.


Un romor di passi mi trasse fuori di chiesa, ed io vidi una processione
di ciocciari a piedi nudi. I miseri erano così venuti fino dalle
montagne degli Abruzzi: uomini e donne tenevano in mano il bastone
de’ pellegrini, ed erano guidati da un capo, tarchiato e robusto,
che portava un mantello ornato di conchiglie. Il sudore e la polve
sgocciolavano insieme, a modo di fango, dai loro visi abbrustoliti;
essi cantavano a piena gola un inno in volgare. A venti passi dalla
soglia della chiesa e da quelle mirabili porte di bronzo, caddero a
ginocchi, e v’entrarono carponi. Parecchi d’essi, i più fervorosi,
baciarono il pavimento dalla porta fino alla Santa Casa, che sta
in fondo alla chiesa. Colà giunti, gettarono alte grida, gli uni
accusandosi de’ loro falli, gli altri domandando alla Madonna la
grazia speciale ch’eran venuti a chiedere. Una fanciulla piuttosto
brutta implorava la liberazione d’un condannato che le stava a cuore;
un marito sollecitava la guarigione di sua moglie, mentre una moglie
domandava per suo marito qualche cosa, non però buona, poichè lo
denunciava alla Madonna, e lo colmava delle più strane ingiurie.
Quand’ebbero compiuto il loro primo sfogo, ripresero il cantico
interrotto. Il veterano che custodisce, colla sciabola nuda in mano,
i diamanti della Madonna, canterellava macchinalmente con loro. Non
la finirei per lungo tempo, se volessi enumerare le genuflessioni, le
adorazioni, gli amplessi, di cui que’ miseri mi diedero spettacolo.
Bisogna compiangere gli artisti, che esposero de’ capolavori di marmo
alla divozione troppo fervente de’ ciocciari. Mi ricordo d’un basso
rilievo della flagellazione, dove Cristo è letteralmente consunto dagli
acidi baci di que’ divoratori d’aglio.


La città di Loreto non è altro in fondo che un gran bazar dove si
vendono corone. Essa mi parve piuttosto addormentata pel momento,
perchè eravamo nel massimo calore dell’estate. I mercanti ch’io
interrogai si lamentavano della stagnazione degli affari, e
maledicevano il gran caldo.

Tuttavia, verso sera, la strada si andò animando alquanto. Vidi passare
de’ grandi carri tirati da buoi e carichi di sacchi di grano. Ciascuno
d’essi portava il monogramma della società di Gesù.

Gli abitanti più agiati ed i ricchi mercanti cominciarono ad uscire
dalla città per prendere il fresco. Incontrai, in un cocchio, un
prelato romano, che aveva alla sua destra una signora attempata, e
dinanzi due giovinetti. Qui si fermarono le mie osservazioni, poichè
il vetturale attaccò i suoi cavalli e ci condusse fino alle porte di
Ancona.


Ci fermammo fuori della città, perchè essa ha i privilegi d’un porto
franco, ed all’uscita bisognerebbe assoggettarsi alla visita dei
doganieri: questi però ci visitarono il dimani l’altro, a due o tre
chilometri da Ancona. Era per conservare il principio, ovvero, per dir
meglio, per la buona mano.

Ho passato una giornata intera in quella grande città, e non vi
rinvenni nulla di ciò ch’io cercava. Il commercio languiva, le
sentinelle austriache facevano buona guardia intorno ai forti, la
polizia austriaca sfogliava minutamente il passaporto del più umile
pedone all’ingresso della città, mentre gli ufficiali austriaci
giuocavano agli scacchi nei caffè. Questi amabili Austriaci fucilarono
ben sessanta persone in sette anni nella città d’Ancona; ma siccome ne
fucilarono 190 in Bologna nel medesimo intervallo di tempo, così Ancona
avrebbe torto di lagnarsi.


In Ancona sono tollerati 1800 Israeliti. Bisogna pur fare qualche cosa
pel commercio. Il quartier degli Ebrei è il peggiore; ma la popolazione
che l’abita mi ha sorpreso per la bellezza del tipo. Le ebree poi sono
qui tanto belle, quanto sono brutte a Roma; ed è molto dire, e coloro
che conoscono il ghetto romano mi accuseranno forse di esagerazione.

Perchè mai la stirpe medesima è qui florida, e là tanto degenerata?
È certamente perchè l’oppressione religiosa è meno pesante a 210
chilometri dal Vaticano.


Sono arrivato a Sinigaglia il giorno della fiera. È dessa una città
di 12,950 abitanti, ma la sua popolazione si raddoppia quasi tra il
20 luglio e l’8 agosto. Tutte le case si trasformano in botteghe;
il commercio invade, trasmuta e vivifica la piccola città, che
d’ordinario è tranquilla. Sgraziatamente per me, la più parte
delle botteghe era ancora da affittarsi; i commercianti arrivati
cominciavano appena allora a sballare i loro colli, onde la fiera di
Sinigaglia rassomigliava ad una esposizione dell’industria, nel giorno
dell’apertura solenne.


D’altronde mi si accerta, che questa solennità mercantile perde ogni
anno di sua importanza e splendore. Così avviene a Beaucaire, a Lipsia
ed in tutti i paesi inciviliti; ed è naturale, mentre dove il commercio
à attivo tutto l’anno, le fiere non servono più a nulla.

Un fabbricatore di pettini, detto Alberto Mastai, lasciò Brescia, sua
patria, sulla metà del secolo XVI, e stanziò a Sinigaglia. Vi fece
fortuna, e la sua famiglia vi prosperò sì bene, che potè insinuarsi
nella nobiltà della provincia. Gian Maria Mastai ottenne la mano d’una
Ferretti d’Ancona, e grazie a quell’alto parentado, ei divenne conte
Mastai Ferretti. Da questo felice ceppo nacque nel 1799 Gian Maria
Mastai, che regna in Vaticano sotto il venerato nome di Pio IX.


Le città delle Marche e delle Romagne non sono tutte ricchissime, ma ve
ne sono poche, le quali non posseggano un teatro. Il gusto per le arti,
e specialmente per la musica, è molto più sviluppato sul pendio degli
Apennini, che non dall’altra parte. A Pesaro, a Rimini, a Forlì, a
Faenza ed in quasi tutte le città, i muri stessi attestano il fanatismo
della popolazione. I dilettanti fanno dipingere sulla loro casa il nome
del maestro o degli artisti alla moda. Si legge in ogni parte: Viva
Verdi! Viva la Ristori! Viva la Medori, la Corvetti, la Lotti! Viva
Panciani, Ferri, Cornago, Rota, Mariani!

Mi sembra che i missionari non combattano attivissimamente contro
questa influenza. Senza dubbio essi sono tutti occupati nel pendio
opposto, predicando ai marinai del Mediterraneo, che non hanno bisogno
d’essere convertiti; ed abbandonano i cittadini dell’Adriatico alle
loro passioni mondane.

Però ho veduto sopra alcune case di Faenza il monogramma de’ Gesuiti
dipinto sul muro appresso ad una piccola Vittoria nuda, che sospendeva
una corona sopra il nome della Ristori.


I teatri di queste piccole città sono tutti grandi e magnifici, comodi
assai, e vorrei bene che i nostri lo fossero del pari.


Non v’è teatro a San Marino, ma vi sono molti frati, molti mendicanti,
non pochi ignoranti e ben poco incivilimento. Questo singolare Stato di
9500 abitanti, che in mezzo alla monarchia assoluta del papa conserva
il nome di repubblica, mi arieggia un ghetto rurale. Mi convinco che i
successori di s. Pietro l’hanno rispettato a bella posta, per chiarire
ai loro sudditi, quanto la monarchia sia superiore alla repubblica.
Ed è perciò che da tanti secoli fanno vegetare un miserabile branco di
Ebrei, per far risaltare la superiorità del cattolicismo.


Fu molto decantata, in Francia, la costituzione politica di San Marino,
l’equilibrio del suo _budget_, il disinteresse de’ suoi cittadini, di
cui nessuno, per lo spazio di 14 secoli, non tentò farsi tiranno. Io
non voglio già scagliare la prima pietra contro questo piccolo popolo
interessante, se non per le sue virtù, almeno per la sua debolezza. Ma
sinceramente, come al solito, narrerò ciò che ho veduto ed inteso sul
territorio di San Marino.

Avevo lasciato Rimini sotto una pioggia dirotta, sopra una carrettella,
sospesa appena quanto bastava per non rompermi le ossa. Il mio
cocchiere era figlio dell’albergatore, mariuolo di 14 anni al più,
ateo siccome una serpe. Scandagliai, strada facendo, il fondo della sua
filosofia, ed egli sbrigliò dinanzi a me cotesto spaventoso aforismo:
«Dio? Credo bene che, se ve n’è uno, sarà un prete come gli altri.»

Quell’amabile ragazzo m’indicò col dito il termine che separa lo Stato
pontificio dalla terra repubblicana. Non mi parve che il sole divenisse
più splendido, nè il suolo più florido, nè meno insipida la pioggia.
Tuttavia respiro ben volentieri l’aria delle repubbliche. Il paese
squallido, la coltura per nulla maravigliosa. Un piccolo villaggio, a
mezza strada, mi parve malinconico e sudicio.

La città ed il borgo sono situati sopra una scoscesa montagna, da
cui si domina una bella estensione di paese, quando però non piove
a torrenti. Il borgo è appiedi della montagna, la città poggia sulla
cima.

Il borgo è mal costrutto, mal lastricato e lasciato in disordine. La
principale industria che vi si coltiva, e probabilmente la sola, è la
fabbricazione delle carte da giuoco, che si esporta di contrabbando.
Mi posi in cerca d’un cicerone, e pensando che il meglio sarebbe
di prendere a caso il primo paesano in cui m’imbattessi, entrai da
un artista; e mi offersi di pagargli la sua giornata, se voleva
passeggiare con me per alcune ore. Ei non si fece pregare, ed io
m’accorsi, dopo pochi minuti, che avrei potuto capitar peggio. Il
buon uomo era ciarliero e compiacente, e tosto mi narrò la storia d’un
medico comunale, perito a colpi di fucile, sulla piazza pubblica. Il
fatto aveva due anni di data, e gli assassini erano stati condannati a
due anni d’esiglio.

L’organizzazione della giustizia a San Marino è affatto elementare. Non
si hanno nè leggi, nè tribunali, ma si fa venire da Roma o da Firenze
un magistrato seguito da quattro gendarmi, il quale è pagato dalla
repubblica, e giudica alla meglio gli affari civili e criminali. La
pena di morte non viene mai applicata, ma si hanno le galere. Quando un
individuo è condannato ai lavori forzati, lo si manda a qualche bagno
del papa o del granduca di Toscana, e la repubblica vi paga la sua
pensione.

Dalla questione giudiziaria noi siamo naturalmente passati alla
politica. Un consiglio sovrano di 60 individui dirige gli affari
dello Stato. Venti consiglieri sono scelti fra la nobiltà, venti fra
la borghesia e gli altri venti fra i contadini: ond’emerge che San
Marino è una repubblica leggermente aristocratica. Chi lo crederebbe?
V’è una nobiltà a San Marino! In questa repubblica fondata da un
muratore, che si era fatto eremita, ho ravvisato l’esistenza d’una
classe privilegiata. Ero curioso di conoscere da qual fonte emanasse
la nobiltà del paese, ed il mio cicerone mi assicura che i nobili di
San Marino ammettevano di tempo in tempo qualche borghese nella loro
illustre casta.

Il potere esecutivo è confidato a due capitani, che durano sei
mesi nelle loro funzioni, nè possono essere rieletti se non dopo un
intervallo di tre anni. Ricevono un emolumento di 25 scudi romani, un
po’ più di 125 franchi, pei loro sei mesi d’esercizio. La moneta che
corre nel paese è quella del papa.

La forza armata consta d’una sessantina di guardie nazionali. Grazie
alla generosità d’un benefattore straniero, hanno delle uniformi,
ma l’uomo che le comanda è alla borghese. Una trentina di suonatori
completano l’effettivo. In caso di bisogno, la repubblica potrebbe
mettere circa seicento uomini sotto le armi.

Le finanze non sono mai in deficit, poichè, propriamente parlando,
non vi sono finanze. Il popolo non paga contribuzioni dirette, la
principale entrata dello Stato si compone dei sali o dei tabacchi,
che il papa permette d’introdurre senza dazio. Lo Stato è dunque non
solamente protetto, ma eziandio beneficato dal santo padre. A questi
prodotti s’aggiunge quello d’una imposta sulla carne. Il consumatore
paga due scudi e mezzo per un bue, 25 soldi per un majale, e soldi
7-1/2 per un montone. Le derrate necessarie alla vita sono a buon
mercato: la carne costa otto soldi la libbra, il litro di vino si vende
da 3 a 5 soldi, e per un soldo si comprano otto oncie di pane.

L’istruzione pubblica è pressochè nulla: una ventina di piccoli
repubblicani vanno alla scuola dai preti.

I monumenti pubblici sono una fortezza in ruine, ed una chiesa deforme,
ma in buono stato. Quattro prigionieri sono detenuti nella fortezza, ed
io ho passato una mezz’ora con essi. Sono rei di furti campestri, così
frequenti costì siccome negli Stati del pontefice. I miseri aspettano
impazientemente che siano mandati alle galere; ma ci vorrà molto tempo,
chè il giudice è morto ed il successore non è ancora nominato. Uno di
quest’infelici ebbe rotta la gamba, e soffre crudelmente sul miserabile
suo giaciglio.

Si vede nella chiesa la tomba che S. Marino si è scavato da sè
medesimo, e la lastra di marmo dedicata dalla repubblica ad Antonio
Onufrio, _patri patriae_, dice l’inscrizione. Cotest’Onufrio era
l’incaricato d’affari della repubblica presso l’Imperator dei Francesi.
Il mio cicerone parla di questo grand’uomo colle lagrime agli occhi:
«Ei parlava a Napoleone come io a voi; faceva la corte all’Imperatrice;
egli era davvero il padre della patria!»

Al di sotto della chiesa, una gran casa civile è abitata dal dotto
numismatico Borghesi. La mia guida pretende, che questo corrispondente
dell’Instituto lavori ogni giorno fino all’ora della cena, e poscia
si ubbriachi; ma io credo che il mio degno cicerone calunnia la sola
gloria del suo piccolo paese.

Il mariuolo s’è ben guardato dal narrarmi un fatto ch’io conosceva, e
che è noto a tutta l’Italia. Nel 1849, dopo la presa di Roma, Garibaldi
e le reliquie del suo esercito si rifugiarono sul territorio di San
Marino. Ora que’ repubblicani comprarono a vil prezzo i cavalli,
gli arnesi, le armi e tutti gli effetti preziosi ch’erano rimasti
ai proscritti: dopo di che gli esortarono a cercarsi un altro asilo.
Questa reminiscenza è forse la causa del mio rigore verso gli abitanti
di San Marino. D’altronde, quando sono acciecato dalla pioggia, non so
veder le cose sotto bell’aspetto; e d’altra parte il lettore è libero
d’addolcire a suo buon grado l’amarezza di questo giudizio.


Se la repubblica di San Marino dovesse un giorno essere assorbita in
qualche grande monarchia, gli archeologi della politica esclamerebbero
versando lagrime amare: «È dunque perito quel baluardo della libertà!»
Rimane a sapersi, se un popolo rozzo, feroce, avido e miserabile,
merita il nome di popolo libero.


Coloro che si occupano di statistica commerciale hanno osservato, che
il piccolo commercio diminuisce di giorno in giorno. Ne’ tempi andati
le nostre città erano piene di botteghe grandi come la mano, dove una
famiglia di borghesi ignoranti vegetava fino alla morte. La commandita
s’è impadronita degli affari, i capitaletti si sono riuniti per formare
de’ milioni; si sono affittate delle case enormi, comprati de’ mucchi
di merci, e si è trattato il commercio sopra una grande scala. È una
intera rivoluzione, mercè la quale il capitalista accresce e raddoppia
la sua fortuna, i commessi, senz’arrischiare un soldo, intascano de’
buoni assegni, ed il pubblico compra a miglior mercato.

Io non sono lontano dal credere, che in politica si farà un giorno un
cangiamento analogo. I piccoli Stati sono condannati a vegetare siccome
le botteguccie. Se io fossi re di Piemonte, o re di Prussia, fonderei
un vasto stabilimento col capitale di 20 o 25 milioni d’uomini, e
sarei ben presto in grado di dare la pace, la sicurezza, l’agiatezza e
l’istruzione pubblica al 30 per cento al disotto del corso.


Le Romagne.... ma perdòno. È ormai lungo tempo che abbiamo abbandonato
gli Stati del papa.


  FINE




TAVOLA DELLE MATERIE


  VIAGGIO. 

  _Marsiglia e suoi abitanti. — Lentezza delle strade ferrate.
  — La Canebière. — La città nuova. — I Campi Elisi. — La città
  antica. — La Major. — La città futura. — Il signor Mirès ed i
  porti di Marsiglia. — Il canale della Duranza. — 1815 e 1858. — I
  Marsigliesi. — Carattere, costumi e difetti della popolazione. —
  Perchè i Marsigliesi non falliscono mai. — Lusso e lavoro. — La
  caccia. — Il teatro. — Una prima rappresentazione di Alessandro
  Dumas. — La necropoli d’Aix in Provenza. — Le corazze d’un re del
  Gabon e la musica del bascià d’Egitto. — Industria, commercio e
  speculazione. — Lo zucchero, l’olio ed il sapone di Marsiglia.
  — Elogio del Sesamo. — Fabbrica di turaccioli. — I porti. — La
  compagnia delle Messaggerie imperiali. — Speculazione. — Agenti
  di cambio. — Storia maravigliosa d’un giovane sindaco. — Lavori
  pubblici. — Reminiscenza di Bordeaux. — Mio avo ed il pugnale del
  Triulzio. — Elogio della follia. — Budget municipale di Marsiglia.
  — Progetto di residenza imperiale. — I Catalani. — La questione
  delle belle arti. — Un privilegio assurdo. — Racconto d’un
  Bavarese. — Tragitto da Marsiglia a Civitavecchia. — Il colonnello
  Bailliencourt, attualmente generale di brigata. — Arrivo in posta_
  Pag. 9

  I. MIO ALBERGO. 

  _Carlomagno, Carlo VIII, Montaigne, Rabelais, Poussins, Carlo de
  Brosses, Chateaubriand, la Stael. — Abito il nido di Orazio Vernet.
  — Trecento ventisette gradini da salire. — Il carcere di Galileo. —
  Memorie della villa Medici. — Il portinajo. — I giardini. — L’obolo
  di Belisario. — Ospitalità dell’Accademia di Francia. — I premj di
  Roma. — Bel motto di Gregorio XVI. — Vittore Schnetz, direttore
  dell’Accademia. — La mia camera. — Paesaggio. — San Pietro. —
  Opinione d’un consigliere municipale di Avranches. — Roma 1300
  anni fa. — Lo scirocco. — Una visita. — Perchè è sì difficile lo
  studiare Roma contemporanea?_ Pag. 47

  II. LA PLEBE. 

  _I viaggiatori dilettanti non la conoscono, o la conoscono male.
  — Carattere del popolo minuto di Roma. — Reminiscenza della
  rivoluzione del 1849. — I plebei accampati presto il cardinale
  Antonelli. — Un plebeo della Chiesa, frate questuante. — Sua
  industria; sue risorse. — Commercio delle insalate, estrazione dei
  denti, modello degli artisti, composizione di terni. — Entrate d’un
  mendicante. — La mendicità è una delle basi dello Stato. — Quadro
  della piazza Farnese e della piazza Montanara la domenica mattina.
  — I contadini a Roma. — Commercio di calzature. — Barbieri all’aria
  aperta. — Cibi d’occasione. — Margherita di Borgogna. — Commercio
  di sigari mozzi. — Scrittori pubblici. — Lettera d’una contadina
  moribonda. — Colazione de’ poveri. — Burro di Roma_ Pag. 59

  III. IL GHETTO. 

  _Divozione del popolo minuto. — Sentimento del principe di Santa
  Croce sui buoni esempi. — Zappatori-pompieri adoperati a lottare
  contro l’inondazione. — Piazza delle Sinagoghe. — Gli Ebrei di
  Roma. — Censimento. — Perchè ci sono Ebrei nella capitale del mondo
  cristiano. — Due parole di storia. — Affitti di enfiteusi perpetua.
  — Imprudente generosità di Urbano VIII. — Un ebreo mantenuto dalle
  Orsoline. — Le porte del Ghetto sono demolite, grazie alla bontà di
  Pio IX. — Profitto che n’ebbero gli Ebrei da questo cangiamento. —
  Il carnevale di Roma. — Imposta modificata. — Gli Ebrei surrogati
  da cavalli. — L’arco di Tito e la Bibbia. — Gli Ebrei al sermone. —
  Conversioni solenni e grandi vittorie della Chiesa romana. — Storia
  d’una piccola imposta di 450 scudi — Prodigiosa diminuzione della
  popolazione ebrea. — Storia d’un protetto del conte Goyon. — Non
  più del figlio Mortara. — Affare Padova. — Assoluzione d’un omicida
  che non aveva ucciso altro che un ebreo. — Fromental Halevy al
  Ghetto di Roma. — Baccano. — La Buca della Verità_ Pag. 70

  IV. IL TRANSTEVERE. 

  _Il Ponte-Rotto. — L’osteria. — Elogio dei Transteverini. —
  Iscrizione edificante e avviso ai bestemmiatori. — Avventori di una
  bettola del Transtevere. — Gli artisti di Roma. — Miei vicini. — La
  cena. — La passatella. — Il padrone del vino ed il suo ministro.
  — Il mugnajo e sua figlia. — Due giocatori di carte. — Amenità di
  linguaggio. — Dramma tragico. — L’uomo dal fazzoletto. — Un caffè
  del Transtevere. — Lotta di virtuosi. — Improvvisatori su tema
  classico. — Ritorno aggressivo del mugnajo. — Il principale. —
  Catastrofe_ Pag. 83

  V. GIUOCO DE’ COLTELLI. 

  _Opinione de’ Romani sul furto e sull’assassinio. — I ladri
  sprezzati e odiati; omicidi stimati e protetti. — Due parole di
  statistica criminale. — Perchè l’omicidio è sì frequente in Roma.
  — Storia di sei giornate. — Ciascuno si fa giustizia da sè, in
  un paese dove non c’è giustizia. — Fuga degli uccisori. — Luoghi
  d’asilo. — Ambasciate, chiese, conventi, poderi ecclesiastici,
  Accademia di Francia, sponde del Tevere. — Campo Morto tra Velletri
  ed il mare. — Difficoltà della procedura criminale. — Discrezione
  ostinata de’ testimonj. — Curiosa storia d’un majale. — Castigo di
  Pietro Brandi._ — La buona mano. — _Le leggi penali non vennero
  applicate se non durante l’occupazione francese. — I mezzi di
  repressione non mancherebbero al governo, se volesse valersene. —
  La ghigliottina e la prigione cellulare sono invenzioni italiane. —
  Condotta energica di Leone XII. — Orribile supplizio di Ludovico.
  — Le galere, luoghi di ricreamento. — Incontro d’un forzato che
  rimpiange il suo buon tempo_ Pag. 96

  VI. IL LOTTO. 

  _Moralità, utilità e necessità assoluta di quella filantropica
  instituzione. — I poveri romani non hanno altro mezzo per fare
  fortuna. — Confutazione di dicerie; elogio del governo pontificio.
  — Il lotto sarebbe immorale a Parigi e a Londra; ma è lodevole
  nella capitale dei papi. — Storia. — Teoria del giuoco. —
  Preoccupazione continua dei Romani. — Calcolo dell’ambo e del
  terno; incetta de’ buoni numeri. — Libro de’ sogni; manuale del
  giuocatore. — Disgrazie fortunate. — Un padre di famiglia che perde
  un figlio e guadagna un terno. — Storia d’un soldato austriaco. —
  Due amanti asfissiati. — Un condannato di Rimini. — Le streghe di
  Sonnino. — Il giuoco e la preghiera. — Intervento della Madonna.
  — Digressione sulla Madonna. — L’estrazione di Roma. — Gli Ebrei
  ed i numeri bassi. — Speculazione de’ lottajuoli. — Opinione
  degli stranieri. — Le tombole. — Estrazione alla villa Borghese.
  — Avventura d’un contadino che uccise tre uomini e ne ferì
  quattordici, dopo aver guadagnato la tombola_ Pag. 106

  VII. IL CETO MEDIO. 

  _Definizione. — Progressi del ceto medio, che va crescendo in
  tutti gli Stati d’Europa. — La sua storia è la storia medesima
  dell’incivilimento. — Servigi da esso resi all’Inghilterra,
  all’America, alla Francia, all’Italia. — I capi della rivoluzione
  italiana sono due uomini del ceto medio. — Disgrazia di Roma.
  — La capitale de’ papi manca di borghesia. — Il ceto medio vi
  è povero, timido, oppresso e quasi degenerato. — Gli uomini. —
  Le donne. — I costumi. — Avvocati romani; loro incarico, loro
  importanza, loro risorse. — Medici. — Bottegaj. — Operaj. —
  Rimembranza del calzolaio di Milano che fece uno stivale a Murat.
  — Miserie de’ mercantelli e degli operai da bottega. — Locazione
  degli appartamenti mobigliati, industria romana. — I soli borghesi
  degni di tal nome sono i mercanti di campagna. — Elogio di questa
  bella professione. — Gl’impiegati civili. — La guardia nazionale
  nell’anticamera del Vaticano_ Pag. 116

  VIII. GLI ARTISTI. 

  _L’arte e l’industria si confondono in questo paese. — Distinzione
  chiara presso noi, confusa presso i Romani. — Errore de’ nostri
  romanzieri intorno agli artisti d’Italia. — Il teatro. — La
  sala. — L’amministrazione. — L’opera. — La prima donna e la
  sua famigliuola. — Entusiasmo del pubblico. — Modestia degli
  artisti. — Miseria de’ coristi. — Il compositore. — Una prima
  rappresentazione a Roma. Abusi del richiamo sulla scena. — I
  trionfi. — La comedia. — Gli scrittori. — Esito delle composizioni
  francesi. — Siamo traditi così a Roma come a Londra, ma in uno
  spirito differente. — La censura. — Due inezie fra mille. — La
  Fiammina. — Letteratura romana. — La stampa periodica, nessun
  giornale. — Pittura e scultura. — Celebrità della fabbrica di
  Roma. — Visito alcuni studi in compagnia d’un ricco Americano. —
  Commercio de’ marmi scolpiti. — Confezione d’un busto. — Visita ad
  un pittore celebre. — Commissione d’un ritratto. — Manifattura di
  copie per l’importazione. — Riflessioni filosofiche sulla decadenza
  della scuola romana. — Attitudine de’ giovani artisti; educazione
  deplorabile; mancanza d’ogni critica e d’ogni incoraggiamento. —
  Architettura. — Oreficeria. — Gli studi dell’illustre Castellani,
  il più grande di tutti gli artisti romani. — Curiosità. — Un tondo
  di 50 milioni_ Pag. 130

  IX. LA NOBILTÀ ROMANA. 

  _Com’era due secoli fa. — Com’è attualmente. — Sue origini. —
  Nobiltà feudale. — Nobiltà nipotica. — Nobiltà finanziaria. —
  Antica alleanza della nobiltà e del papato. — I Savelli, i Conti,
  gli Orsini, i Colonna, i Gaetani ottengono la tiara. — Nobiltà
  d’origine più antica e meno autentica: i Muti, i Santa Croce, i
  Massimo. — Risposta d’un Massimo all’imperator Napoleone. — Dati
  attinti nel carteggio di Carlo de Brosses. — Creazione della
  nobiltà nipotica, covata sotto la veste de’ papi. — I Chigi, i
  Peretti, gli Aldobrandini, i Borghese, i Ludovici, i Barberini, i
  Panfili, i Rospigliosi, gli Altieri, gli Odescalchi, i Corsini, i
  Braschi. — Maggioraschi, secondogeniture, doti di nipoti, milioni
  donati brevi manu. — Nobiltà del denaro: i Grazioli, i Torlonia,
  i Ferrajuoli, i Campana, gli Antonelli, ecc. ecc. — Redditi scarsi
  dell’antica nobiltà. — Dati precisi sulle grandi fortune di Roma. —
  Due famiglie godono d’un reddito illimitato. — Doveri d’un principe
  romano, ricco o povero. — Spese alle quali viene condannato. —
  Lavori penosi e quasi umilianti. — Educazione de’ nobili romani.
  — Loro virtù e attitudini. — Le donne nobili; spirito della
  popolazione romana presa in massa. — Opinione di tutte le classi
  della società sul poter temporale del papa_ Pag. 146

  X. L’ESERCITO. 

  _Come i cittadini francesi sono tutti più o meno soldati. —
  Incontro d’una bandiera tricolore sulla piazza del Quirinale.
  — L’imagine della patria. — Il calzone rosso. — Il fico del
  misantropo Timone e la bandiera del papa. — Il papa dovrebbe
  essere abbastanza forte per far senza di soldati. — La coscrizione
  impossibile. — Sistema d’ingaggio. — Cattiva composizione
  dell’esercito. — Disciplina impossibile. — Furti commessi da
  gendarmi. — Di chi la colpa? — Deplorabile educazione degli
  uomini. — Il soldato umiliato. — I domestici stimati più che i
  militari. — Si prova rossore d’aver un fratello all’esercito, e non
  di stringere la mano ad un forzato. — Gli ufficiali. — Mal’aria
  dell’onore. — Prelati alla testa dell’esercito. — Disegni di
  riforma, fatti dal signor Testa. — Scuola de’ cadetti. — L’acqua
  santa degli ufficiali. — Risse tra Romani e Francesi. — Spesa
  dell’esercito. — Reggimenti stranieri_ Pag. 158

  XI. IL GOVERNO. 

  _Gravi considerazioni che mi vietano di criticarlo. — Non
  giudichiamo per non essere giudicati. — Scrivo sotto la dettatura
  d’un amico del papa. — Il santo padre. — I suoi Stati ed i
  suoi sudditi sono sua proprietà. — Può far leggi e violarle. —
  Interessi generali della Chiesa; amministrati da congregazioni. —
  Governo temporale. — Il cardinal segretario di Stato. — I ministri
  subalterni. — Gerarchia romana. — Beni del clero: 535 milioni in
  beni immobili. — Il sacro collegio. — I prelati. — Vantaggi delle
  calze color viola. — Distribuzione degl’impieghi. — Patronato e
  clientela. — Invasione dello spirito rivoluzionario, che minaccia
  di turbare un ordine sì perfetto. — Mostruose pretensioni de’
  popoli. — Incredibile complicità di alcuni sovrani. — Semplici
  osservazioni dell’autore. — Sistema di rappresentanza nazionale. —
  Il cardinal Antonelli_ Pag. 166

  XII. COSTUMI ROMANI. 

  _Avviso importante. — Contraddizioni necessarie. — La foglia di
  vite ed il governo pontificio. — L’ospitale Santo Spirito. — Uno
  scorticato di buon esempio. — Ospizio de’ trovatelli. — Un duca
  romano abbandonato da sua madre. — Matrimonio d’una duchessa e
  d’un sergente. — Il principe e la droghiera. — Un fanciullo nato
  coll’orologio alla mano. — Tolla. — L’amor pittore. — Le disgrazie
  del principe T. — Principessa e cameriera. — Due discendenti
  di Valerio Publicola. — Cavalli, carrozze e lacchè. — Opinione
  d’un notajo di Parigi. — I cardinali esclusi dalle chiese. — Il
  guardaportone ed il vescovo. — Salvezza d’un cardinale. — Insolenza
  d’un monsignore. — Non più miracoli! — I taumaturgi in galera.
  — La Salette. — Furto permesso. — Miseria. — I Romani dormono
  nudi. — Ospitalità montanara. — Una famiglia ed un romito nello
  stesso letto. — I fiori. — I bagni di Roma. — Matrimonii forzati.
  — Storia d’un curato di villaggio. — Orrore per lo scandalo. — La
  moglie del calzolaio. — Il Lionese ed il postiglione. — Avventure
  d’un ufficiale dell’esercito francese. — Gli eufemismi romani e le
  parolaccie. — Il signor Levis. — Monsignor Muti ed il suo cuoco_
  Pag. 175

  XIII. LA MORTE. 

  _I Romani sanno morire. — Tacito ed il Vangelo. — I sermoni._ —
  Hodie mihi, cras tibi. — _Lo scheletro d’un cavallo. — Le ossa
  de’ morti. — Il cimitero de’ cappuccini. — Chiesa della_ Buona
  Morte. — _Un artista. — I funerali di Roma. — Il lutto. — Sepoltura
  nelle chiese. — Soprattassa. — La fossa comune. — Cimitero
  degli_ accattolici. — _Tomba di Shelly. — Il figlio di Goethe. —
  Tariffa inglese. — Indiscrezione d’un medico comunale. — Un morto
  benestante. — Addio ai Romani_ Pag. 193

  XIV. LE BESTIE. 

  _La campagna di Roma. — Coltura del grano. — Pascoli. — I cavalli.
  — Razze migliori. — La_ trita. — _I buoi. — Grande coltura. — Il
  buffalo. — I canali delle paludi Pontine. — Giuochi del popolo. —
  Le pecore. — L’animal nero. — Incoraggiamenti. — I passaporti_ Pag.
  202

  XV. PASSEGGIATA NEL MEZZODÌ. 

  _Albano e le vicinanze. — Privilegi in ogni parte. — Le iscrizioni.
  — Il ponte dell’Ariccia. — Velletri. — Furto d’una Madonna. —
  Vendetta. — Un brigante in pulpito. — S. Luca. — Il Passatore. —
  Il teatro di Forlimpopoli. — L’orologio d’un Inglese. — Il cadavere
  d’un brigante. — Le paludi Pontine. — Concimazione a ciel aperto. —
  Una fittarezza. — La piazza di Piperno. — Iscrizione modesta. — La
  strada di Sonnino. — I nostri cavalli in convento. — Una città del
  medio evo. — Maria Grazia. — Cena. — Un giovane ingegnere. — Festa
  campestre. — La casa degli Antonelli. — La banda. — Processione.
  La piazza pubblica. — Il medico comunale. — Corsa di Cavalli.
  — Pastori e predoni. — Memorie de’ buoni tempi. — Funerali nel
  villaggio. — Storia di Maria Grazia. — Leopoldo Robert. — Prossedi.
  — La donna. — Ignoranza. — Tasse municipali. — Trenta sacerdoti per
  un villaggio. — Pagliano ed i prigionieri politici. — Olevano. —
  Palestrina. — Temporale e grandine. — Vincolo comune. — Due versi
  di Musset_ Pag. 211

  XVI. IL VETTURALE. 

  _Suo aspetto, suo costume, sua professione. — Miei compagni di
  viaggio. — Civita Castellana. — I nostri cavalli venduti. — L’amore
  sulle strade grosse. — Gasparone. — Visita a quel re decaduto. —
  Opinione d’un gendarme sul brigandaggio. — 127 omicidj registrati.
  — Albergo italiano. — Mendicità in Italia ed in Francia. — Narni.
  — Siamo venduti. — Le cascate di Terni. — Foligno. — Loreto e la
  Santa Casa. — La più fruttifera di tutte le leggende. — Monsignor
  Narducci. — Castigo d’un prevaricatore. — I gesuiti. — La farmacia
  apostolica. — La chiesa di Loreto. — Pellegrinaggio. — Bestia
  come un Inglese. — Il cadavere d’un fanciullo. — Le mosche. —
  Processione di ciocciari. — Commercio de’ rosarj. — Ancona. — Gli
  Ebrei. — Sinigaglia patria di Pio IX. — I teatri. — San Marino. —
  Un ateo di 14 anni. — Quadro d’una repubblica. — Utopia_ Pag. 244


  FINE DELLA TAVOLA.




NOTE:


[1] Sonvi certe tasse che crescono colla popolazione delle città,
ond’è che le città sono interessate a dissimulare una parte della
loro popolazione. Conosco un borgo di Lorena, che conta più che
4000 abitanti e non ha mai voluto confessarne più di 3999. Quando il
progresso della popolazione sarà diventato troppo evidente, essa farà
un salto da 3999 a 4999, siccome quelle donne che aspirano ancora alla
galanteria, e che passano in un giorno dai ventinove ai trentanove
anni.

[2] Per rendere più agevole l’intelligenza di questo periodo ai
lettori italiani, si crede necessario di dar il valor convenzionale
de’ vocaboli francesi _parquet, coulisse, coulissier_, allorchè si
applicano al commercio. _Parquet_ significa il luogo dove stanno i
commercianti, banchieri ed agenti di cambio a discutere i loro affari.
— _Coulisse_, è luogo di riunione dei negozianti di cambio alla borsa
fuor delle ore in cui vi lavorano gli agenti. _Coulissier_, sono
negozianti che trattano affari alla _coulisse_.

[3] Uno scrupolo mi trattiene al momento in cui rileggo questa frase,
ed ecco che un altro ricordo mi ricorre alla mente.

Una bella sera del mese di maggio all’ora dell’_Ave Maria_ incontrai
una processione di gente del popolo e del ceto medio in numero di
diciotto o venti. Essi cantavano a tutta gola un cantico italiano
in onore della Santa Vergine. Intanto ch’io ammirava nel mio interno
quest’atto di divozione spontanea, fui urtato da un uomo sdegnato, che
gesticolava energicamente; era il principe Publicola di Santa Croce.
«Che impudente canaglia! diceva ad alta voce. Cesseranno infine di
rompervi il capo. Non hanno già ben guadagnato i trenta soldi che la
parrocchia dà loro per edificare i forestieri?»

[4] Questo capitolo, che manca assolutamente d’attualità, fu scritto
alcuni mesi dopo l’attentato del 14 gennajo 1858. Io lo conservo qui
per i particolari curiosi e autentici che vi sono contenuti; ma ognuno
sa che un anno dopo tutti gl’Italiani degni di questo nome hanno
lasciato il coltello per prendere la spada.

[5] Ludovico montò la scala del palco. Il carnefice lo fece
inginocchiare, ponendogli la mano sulla spalla ed obbligandolo a
piegare le ginocchia. Ludovico obbedì, senza piangere, invocando con
voce soffocata i proprj figli e la propria moglie, e senza pregare.
Il prete, sempre borbottando il latino ad un uomo che sapeva appena
il dialetto romano, s’allontanò alquanto, mentre il carnefice, detto
Mastro Titta, rimase in piedi di fianco al condannato.

La moltitudine tratteneva quasi il respiro; gli uomini avrebbero potuto
contare le pulsazioni del cuore delle donne loro vicine.

Mastro Titta trae dal disotto della sua casacca rossa un grosso bastone
piombato ed accuratamente lo esamina, poi lo fa girare siccome un
capotamburo farebbe colla sua lunga canna dal pomo d’argento, o come
un giocoliere farebbe colle sue bacchette magiche. Da ultimo lo afferra
ben saldo, lo fa girare due volte intorno alla sua testa, e colpisce il
condannato sulla tempia sinistra.

Un grido d’orrore sorge dalla folla. La vittima cade siccome un bue,
ed il suo corpo comincia a dibattersi nell’agonia. Ma la giustizia
del Vicario di Cristo non è ancora soddisfatta, non ancora completo il
supplizio.

Mastro Titta getta lungi da sè il suo bastone, in mezzo alla gente
affollata; afferra di nuovo la sua vittima, trae dal suo fianco un
coltellaccio da beccajo, e la sgozza.

Poi col coltello medesimo le fa un cerchio profondo intorno al collo,
come per tracciare la linea, e taglia poscia la testa, che mostra al
popolo. Il sangue di quel teschio arrossa il carnefice, mentre due
fontanelle di sangue sprizzano dal collo staccato, e vanno ad inondare
la tunica del prete. Credereste che il sacrificio fosse finito? No.
— Mastro Titta taglia le due braccia alla clavicola, le due gambe
al ginocchio del cadavere, e raccogliendo, co’ piedi e colle mani,
braccia, gambe, testa, e tronco, li getta insieme in una cassa appiè
del palco, mentre cavasi di tasca un fazzoletto e si forbisce il naso.

Non è a dirsi l’orrore del popolo alla vista di questa spaventosa scena.

Un grido unanime di maledizione irresistibilmente proruppe da tutta
quell’onda di gente un’ora prima sì allegra: e ciò malgrado la truppa,
i gendarmi, la polizia.

Il prete sul palco annasava tranquillamente a prese il suo tabacco.

Leone XII non si scosse per nulla, credendo aver adempito il suo dovere.

[6] E difatti de’ quattro miei compagni, due sono ancora celibatarj.
Settembre 1860.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK ROMA CONTEMPORANEA ***


    

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Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg™

Project Gutenberg™ is synonymous with the free distribution of
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computers including obsolete, old, middle-aged and new computers. It
exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations
from people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s
goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will
remain freely available for generations to come. In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg™ and future
generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see
Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org.

Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification
number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by
U.S. federal laws and your state’s laws.

The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West,
Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up
to date contact information can be found at the Foundation’s website
and official page at www.gutenberg.org/contact

Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread
public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine-readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment. Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States. Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements. We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance. To SEND
DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state
visit www.gutenberg.org/donate.

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg web pages for current donation
methods and addresses. Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations. To
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Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works

Professor Michael S. Hart was the originator of the Project
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freely shared with anyone. For forty years, he produced and
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