Project Gutenberg's La Divina Commedia di Dante: Inferno, by Dante Alighieri
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Title: La Divina Commedia di Dante: Inferno
Author: Dante Alighieri
Posting Date: December 8, 2014 [EBook #1009]
Release Date: August, 1997
First Posted: September 4, 1997
Language: Italian
*** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK DIVINIA COMMEDIA DI DANTE: INFERNO ***
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LA DIVINA COMMEDIA
di Dante Alighieri
INFERNO
Inferno Canto I
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
Tant è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben chi vi trovai,
dirò de laltre cose chi vho scorte.
Io non so ben ridir com i vintrai,
tant era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.
Ma poi chi fui al piè dun colle giunto,
là dove terminava quella valle
che mavea di paura il cor compunto,
guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite già de raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle.
Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor mera durata
la notte chi passai con tanta pieta.
E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a lacqua perigliosa e guata,
così lanimo mio, chancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.
Poi chèi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che l piè fermo sempre era l più basso.
Ed ecco, quasi al cominciar de lerta,
una lonza leggera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;
e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi mpediva tanto il mio cammino,
chi fui per ritornar più volte vòlto.
Temp era dal principio del mattino,
e l sol montava n sù con quelle stelle
cheran con lui quando lamor divino
mosse di prima quelle cose belle;
sì cha bene sperar mera cagione
di quella fiera a la gaetta pelle
lora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che mapparve dun leone.
Questi parea che contra me venisse
con la test alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che laere ne tremesse.
Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,
questa mi porse tanto di gravezza
con la paura chuscia di sua vista,
chio perdei la speranza de laltezza.
E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne l tempo che perder lo face,
che n tutti suoi pensier piange e sattrista;
tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove l sol tace.
Mentre chi rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.
Quando vidi costui nel gran diserto,
«Miserere di me», gridai a lui,
«qual che tu sii, od ombra od omo certo!».
Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patrïa ambedui.
Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto l buono Augusto
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.
Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol dAnchise che venne di Troia,
poi che l superbo Ilïón fu combusto.
Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
chè principio e cagion di tutta gioia?».
«Or se tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?»,
rispuos io lui con vergognosa fronte.
«O de li altri poeti onore e lume,
vagliami l lungo studio e l grande amore
che mha fatto cercar lo tuo volume.
Tu se lo mio maestro e l mio autore,
tu se solo colui da cu io tolsi
lo bello stilo che mha fatto onore.
Vedi la bestia per cu io mi volsi;
aiutami da lei, famoso saggio,
chella mi fa tremar le vene e i polsi».
«A te convien tenere altro vïaggio»,
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
«se vuo campar desto loco selvaggio;
ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo mpedisce che luccide;
e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo l pasto ha più fame che pria.
Molti son li animali a cui sammoglia,
e più saranno ancora, infin che l veltro
verrà, che la farà morir con doglia.
Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapïenza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.
Di quella umile Italia fia salute
per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute.
Questi la caccerà per ogne villa,
fin che lavrà rimessa ne lo nferno,
là onde nvidia prima dipartilla.
Ond io per lo tuo me penso e discerno
che tu mi segui, e io sarò tua guida,
e trarrotti di qui per loco etterno;
ove udirai le disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
cha la seconda morte ciascun grida;
e vederai color che son contenti
nel foco, perché speran di venire
quando che sia a le beate genti.
A le quai poi se tu vorrai salire,
anima fia a ciò più di me degna:
con lei ti lascerò nel mio partire;
ché quello imperador che là sù regna,
perch i fu ribellante a la sua legge,
non vuol che n sua città per me si vegna.
In tutte parti impera e quivi regge;
quivi è la sua città e lalto seggio:
oh felice colui cu ivi elegge!».
E io a lui: «Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
acciò chio fugga questo male e peggio,
che tu mi meni là dov or dicesti,
sì chio veggia la porta di san Pietro
e color cui tu fai cotanto mesti».
Allor si mosse, e io li tenni dietro.
Inferno Canto II
Lo giorno se nandava, e laere bruno
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io sol uno
mapparecchiava a sostener la guerra
sì del cammino e sì de la pietate,
che ritrarrà la mente che non erra.
O muse, o alto ingegno, or maiutate;
o mente che scrivesti ciò chio vidi,
qui si parrà la tua nobilitate.
Io cominciai: «Poeta che mi guidi,
guarda la mia virtù sell è possente,
prima cha lalto passo tu mi fidi.
Tu dici che di Silvïo il parente,
corruttibile ancora, ad immortale
secolo andò, e fu sensibilmente.
Però, se lavversario dogne male
cortese i fu, pensando lalto effetto
chuscir dovea di lui, e l chi e l quale
non pare indegno ad omo dintelletto;
che fu de lalma Roma e di suo impero
ne lempireo ciel per padre eletto:
la quale e l quale, a voler dir lo vero,
fu stabilita per lo loco santo
u siede il successor del maggior Piero.
Per quest andata onde li dai tu vanto,
intese cose che furon cagione
di sua vittoria e del papale ammanto.
Andovvi poi lo Vas delezïone,
per recarne conforto a quella fede
chè principio a la via di salvazione.
Ma io, perché venirvi? o chi l concede?
Io non Enëa, io non Paulo sono;
me degno a ciò né io né altri l crede.
Per che, se del venire io mabbandono,
temo che la venuta non sia folle.
Se savio; intendi me chi non ragiono».
E qual è quei che disvuol ciò che volle
e per novi pensier cangia proposta,
sì che dal cominciar tutto si tolle,
tal mi fec ïo n quella oscura costa,
perché, pensando, consumai la mpresa
che fu nel cominciar cotanto tosta.
«Si ho ben la parola tua intesa»,
rispuose del magnanimo quell ombra,
«lanima tua è da viltade offesa;
la qual molte fïate lomo ingombra
sì che donrata impresa lo rivolve,
come falso veder bestia quand ombra.
Da questa tema acciò che tu ti solve,
dirotti perch io venni e quel chio ntesi
nel primo punto che di te mi dolve.
Io era tra color che son sospesi,
e donna mi chiamò beata e bella,
tal che di comandare io la richiesi.
Lucevan li occhi suoi più che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
con angelica voce, in sua favella:
O anima cortese mantoana,
di cui la fama ancor nel mondo dura,
e durerà quanto l mondo lontana,
lamico mio, e non de la ventura,
ne la diserta piaggia è impedito
sì nel cammin, che vòlt è per paura;
e temo che non sia già sì smarrito,
chio mi sia tardi al soccorso levata,
per quel chi ho di lui nel cielo udito.
Or movi, e con la tua parola ornata
e con ciò cha mestieri al suo campare,
laiuta sì chi ne sia consolata.
I son Beatrice che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio;
amor mi mosse, che mi fa parlare.
Quando sarò dinanzi al segnor mio,
di te mi loderò sovente a lui.
Tacette allora, e poi comincia io:
O donna di virtù sola per cui
lumana spezie eccede ogne contento
di quel ciel cha minor li cerchi sui,
tanto maggrada il tuo comandamento,
che lubidir, se già fosse, mè tardi;
più non tè uo chaprirmi il tuo talento.
Ma dimmi la cagion che non ti guardi
de lo scender qua giuso in questo centro
de lampio loco ove tornar tu ardi.
Da che tu vuo saver cotanto a dentro,
dirotti brievemente, mi rispuose,
perch i non temo di venir qua entro.
Temer si dee di sole quelle cose
channo potenza di fare altrui male;
de laltre no, ché non son paurose.
I son fatta da Dio, sua mercé, tale,
che la vostra miseria non mi tange,
né fiamma desto ncendio non massale.
Donna è gentil nel ciel che si compiange
di questo mpedimento ov io ti mando,
sì che duro giudicio là sù frange.
Questa chiese Lucia in suo dimando
e disse:Or ha bisogno il tuo fedele
di te, e io a te lo raccomando.
Lucia, nimica di ciascun crudele,
si mosse, e venne al loco dov i era,
che mi sedea con lantica Rachele.
Disse:Beatrice, loda di Dio vera,
ché non soccorri quei che tamò tanto,
chuscì per te de la volgare schiera?
Non odi tu la pieta del suo pianto,
non vedi tu la morte che l combatte
su la fiumana ove l mar non ha vanto?.
Al mondo non fur mai persone ratte
a far lor pro o a fuggir lor danno,
com io, dopo cotai parole fatte,
venni qua giù del mio beato scanno,
fidandomi del tuo parlare onesto,
chonora te e quei chudito lhanno.
Poscia che mebbe ragionato questo,
li occhi lucenti lagrimando volse,
per che mi fece del venir più presto.
E venni a te così com ella volse:
dinanzi a quella fiera ti levai
che del bel monte il corto andar ti tolse.
Dunque: che è? perché, perché restai,
perché tanta viltà nel core allette,
perché ardire e franchezza non hai,
poscia che tai tre donne benedette
curan di te ne la corte del cielo,
e l mio parlar tanto ben ti promette?».
Quali fioretti dal notturno gelo
chinati e chiusi, poi che l sol li mbianca,
si drizzan tutti aperti in loro stelo,
tal mi fec io di mia virtude stanca,
e tanto buono ardire al cor mi corse,
chi cominciai come persona franca:
«Oh pietosa colei che mi soccorse!
e te cortese chubidisti tosto
a le vere parole che ti porse!
Tu mhai con disiderio il cor disposto
sì al venir con le parole tue,
chi son tornato nel primo proposto.
Or va, chun sol volere è dambedue:
tu duca, tu segnore e tu maestro».
Così li dissi; e poi che mosso fue,
intrai per lo cammino alto e silvestro.
Inferno Canto III
Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne letterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto fattore;
fecemi la divina podestate,
la somma sapïenza e l primo amore.
Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi chintrate.
Queste parole di colore oscuro
vid ïo scritte al sommo duna porta;
per chio: «Maestro, il senso lor mè duro».
Ed elli a me, come persona accorta:
«Qui si convien lasciare ogne sospetto;
ogne viltà convien che qui sia morta.
Noi siam venuti al loco ov i tho detto
che tu vedrai le genti dolorose
channo perduto il ben de lintelletto».
E poi che la sua mano a la mia puose
con lieto volto, ond io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose.
Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per laere sanza stelle,
per chio al cominciar ne lagrimai.
Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti dira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle
facevano un tumulto, il qual saggira
sempre in quell aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira.
E io chavea derror la testa cinta,
dissi: «Maestro, che è quel chi odo?
e che gent è che par nel duol sì vinta?».
Ed elli a me: «Questo misero modo
tegnon lanime triste di coloro
che visser sanza nfamia e sanza lodo.
Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.
Caccianli i ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
chalcuna gloria i rei avrebber delli».
E io: «Maestro, che è tanto greve
a lor che lamentar li fa sì forte?».
Rispuose: «Dicerolti molto breve.
Questi non hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che nvidïosi son dogne altra sorte.
Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa».
E io, che riguardai, vidi una nsegna
che girando correva tanto ratta,
che dogne posa mi parea indegna;
e dietro le venìa sì lunga tratta
di gente, chi non averei creduto
che morte tanta navesse disfatta.
Poscia chio vebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi lombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto.
Incontanente intesi e certo fui
che questa era la setta di cattivi,
a Dio spiacenti e a nemici sui.
Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
erano ignudi e stimolati molto
da mosconi e da vespe cheran ivi.
Elle rigavan lor di sangue il volto,
che, mischiato di lagrime, a lor piedi
da fastidiosi vermi era ricolto.
E poi cha riguardar oltre mi diedi,
vidi genti a la riva dun gran fiume;
per chio dissi: «Maestro, or mi concedi
chi sappia quali sono, e qual costume
le fa di trapassar parer sì pronte,
com i discerno per lo fioco lume».
Ed elli a me: «Le cose ti fier conte
quando noi fermerem li nostri passi
su la trista riviera dAcheronte».
Allor con li occhi vergognosi e bassi,
temendo no l mio dir li fosse grave,
infino al fiume del parlar mi trassi.
Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: «Guai a voi, anime prave!
Non isperate mai veder lo cielo:
i vegno per menarvi a laltra riva
ne le tenebre etterne, in caldo e n gelo.
E tu che se costì, anima viva,
pàrtiti da cotesti che son morti».
Ma poi che vide chio non mi partiva,
disse: «Per altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare:
più lieve legno convien che ti porti».
E l duca lui: «Caron, non ti crucciare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».
Quinci fuor quete le lanose gote
al nocchier de la livida palude,
che ntorno a li occhi avea di fiamme rote.
Ma quell anime, cheran lasse e nude,
cangiar colore e dibattero i denti,
ratto che nteser le parole crude.
Bestemmiavano Dio e lor parenti,
lumana spezie e l loco e l tempo e l seme
di lor semenza e di lor nascimenti.
Poi si ritrasser tutte quante insieme,
forte piangendo, a la riva malvagia
chattende ciascun uom che Dio non teme.
Caron dimonio, con occhi di bragia
loro accennando, tutte le raccoglie;
batte col remo qualunque sadagia.
Come dautunno si levan le foglie
luna appresso de laltra, fin che l ramo
vede a la terra tutte le sue spoglie,
similemente il mal seme dAdamo
gittansi di quel lito ad una ad una,
per cenni come augel per suo richiamo.
Così sen vanno su per londa bruna,
e avanti che sien di là discese,
anche di qua nuova schiera sauna.
«Figliuol mio», disse l maestro cortese,
«quelli che muoion ne lira di Dio
tutti convegnon qui dogne paese;
e pronti sono a trapassar lo rio,
ché la divina giustizia li sprona,
sì che la tema si volve in disio.
Quinci non passa mai anima buona;
e però, se Caron di te si lagna,
ben puoi sapere omai che l suo dir suona».
Finito questo, la buia campagna
tremò sì forte, che de lo spavento
la mente di sudore ancor mi bagna.
La terra lagrimosa diede vento,
che balenò una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun sentimento;
e caddi come luom cui sonno piglia.
Inferno Canto IV
Ruppemi lalto sonno ne la testa
un greve truono, sì chio mi riscossi
come persona chè per forza desta;
e locchio riposato intorno mossi,
dritto levato, e fiso riguardai
per conoscer lo loco dov io fossi.
Vero è che n su la proda mi trovai
de la valle dabisso dolorosa
che ntrono accoglie dinfiniti guai.
Oscura e profonda era e nebulosa
tanto che, per ficcar lo viso a fondo,
io non vi discernea alcuna cosa.
«Or discendiam qua giù nel cieco mondo»,
cominciò il poeta tutto smorto.
«Io sarò primo, e tu sarai secondo».
E io, che del color mi fui accorto,
dissi: «Come verrò, se tu paventi
che suoli al mio dubbiare esser conforto?».
Ed elli a me: «Langoscia de le genti
che son qua giù, nel viso mi dipigne
quella pietà che tu per tema senti.
Andiam, ché la via lunga ne sospigne».
Così si mise e così mi fé intrare
nel primo cerchio che labisso cigne.
Quivi, secondo che per ascoltare,
non avea pianto mai che di sospiri
che laura etterna facevan tremare;
ciò avvenia di duol sanza martìri,
chavean le turbe, cheran molte e grandi,
dinfanti e di femmine e di viri.
Lo buon maestro a me: «Tu non dimandi
che spiriti son questi che tu vedi?
Or vo che sappi, innanzi che più andi,
chei non peccaro; e selli hanno mercedi,
non basta, perché non ebber battesmo,
chè porta de la fede che tu credi;
e se furon dinanzi al cristianesmo,
non adorar debitamente a Dio:
e di questi cotai son io medesmo.
Per tai difetti, non per altro rio,
semo perduti, e sol di tanto offesi
che sanza speme vivemo in disio».
Gran duol mi prese al cor quando lo ntesi,
però che gente di molto valore
conobbi che n quel limbo eran sospesi.
«Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore»,
comincia io per voler esser certo
di quella fede che vince ogne errore:
«uscicci mai alcuno, o per suo merto
o per altrui, che poi fosse beato?».
E quei che ntese il mio parlar coverto,
rispuose: «Io era nuovo in questo stato,
quando ci vidi venire un possente,
con segno di vittoria coronato.
Trasseci lombra del primo parente,
dAbèl suo figlio e quella di Noè,
di Moïsè legista e ubidente;
Abraàm patrïarca e Davìd re,
Israèl con lo padre e co suoi nati
e con Rachele, per cui tanto fé,
e altri molti, e feceli beati.
E vo che sappi che, dinanzi ad essi,
spiriti umani non eran salvati».
Non lasciavam landar perch ei dicessi,
ma passavam la selva tuttavia,
la selva, dico, di spiriti spessi.
Non era lunga ancor la nostra via
di qua dal sonno, quand io vidi un foco
chemisperio di tenebre vincia.
Di lungi neravamo ancora un poco,
ma non sì chio non discernessi in parte
chorrevol gente possedea quel loco.
«O tu chonori scïenzïa e arte,
questi chi son channo cotanta onranza,
che dal modo de li altri li diparte?».
E quelli a me: «Lonrata nominanza
che di lor suona sù ne la tua vita,
grazïa acquista in ciel che sì li avanza».
Intanto voce fu per me udita:
«Onorate laltissimo poeta;
lombra sua torna, chera dipartita».
Poi che la voce fu restata e queta,
vidi quattro grand ombre a noi venire:
sembianz avevan né trista né lieta.
Lo buon maestro cominciò a dire:
«Mira colui con quella spada in mano,
che vien dinanzi ai tre sì come sire:
quelli è Omero poeta sovrano;
laltro è Orazio satiro che vene;
Ovidio è l terzo, e lultimo Lucano.
Però che ciascun meco si convene
nel nome che sonò la voce sola,
fannomi onore, e di ciò fanno bene».
Così vid i adunar la bella scola
di quel segnor de laltissimo canto
che sovra li altri com aquila vola.
Da chebber ragionato insieme alquanto,
volsersi a me con salutevol cenno,
e l mio maestro sorrise di tanto;
e più donore ancora assai mi fenno,
che sì mi fecer de la loro schiera,
sì chio fui sesto tra cotanto senno.
Così andammo infino a la lumera,
parlando cose che l tacere è bello,
sì com era l parlar colà dov era.
Venimmo al piè dun nobile castello,
sette volte cerchiato dalte mura,
difeso intorno dun bel fiumicello.
Questo passammo come terra dura;
per sette porte intrai con questi savi:
giugnemmo in prato di fresca verdura.
Genti veran con occhi tardi e gravi,
di grande autorità ne lor sembianti:
parlavan rado, con voci soavi.
Traemmoci così da lun de canti,
in loco aperto, luminoso e alto,
sì che veder si potien tutti quanti.
Colà diritto, sovra l verde smalto,
mi fuor mostrati li spiriti magni,
che del vedere in me stesso messalto.
I vidi Eletra con molti compagni,
tra quai conobbi Ettòr ed Enea,
Cesare armato con li occhi grifagni.
Vidi Cammilla e la Pantasilea;
da laltra parte vidi l re Latino
che con Lavina sua figlia sedea.
Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino,
Lucrezia, Iulia, Marzïa e Corniglia;
e solo, in parte, vidi l Saladino.
Poi chinnalzai un poco più le ciglia,
vidi l maestro di color che sanno
seder tra filosofica famiglia.
Tutti lo miran, tutti onor li fanno:
quivi vid ïo Socrate e Platone,
che nnanzi a li altri più presso li stanno;
Democrito che l mondo a caso pone,
Dïogenès, Anassagora e Tale,
Empedoclès, Eraclito e Zenone;
e vidi il buono accoglitor del quale,
Dïascoride dico; e vidi Orfeo,
Tulïo e Lino e Seneca morale;
Euclide geomètra e Tolomeo,
Ipocràte, Avicenna e Galïeno,
Averoìs, che l gran comento feo.
Io non posso ritrar di tutti a pieno,
però che sì mi caccia il lungo tema,
che molte volte al fatto il dir vien meno.
La sesta compagnia in due si scema:
per altra via mi mena il savio duca,
fuor de la queta, ne laura che trema.
E vegno in parte ove non è che luca.
Inferno Canto V
Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia
e tanto più dolor, che punge a guaio.
Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne lintrata;
giudica e manda secondo chavvinghia.
Dico che quando lanima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata
vede qual loco dinferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa.
Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:
vanno a vicenda ciascuna al giudizio,
dicono e odono e poi son giù volte.
«O tu che vieni al doloroso ospizio»,
disse Minòs a me quando mi vide,
lasciando latto di cotanto offizio,
«guarda com entri e di cui tu ti fide;
non tinganni lampiezza de lintrare!».
E l duca mio a lui: «Perché pur gride?
Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».
Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote.
Io venni in loco dogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.
La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.
Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina.
Intesi cha così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.
E come li stornei ne portan lali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li spiriti mali
di qua, di là, di giù, di sù li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.
E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga,
così vid io venir, traendo guai,
ombre portate da la detta briga;
per chi dissi: «Maestro, chi son quelle
genti che laura nera sì gastiga?».
«La prima di color di cui novelle
tu vuo saper», mi disse quelli allotta,
«fu imperadrice di molte favelle.
A vizio di lussuria fu sì rotta,
che libito fé licito in sua legge,
per tòrre il biasmo in che era condotta.
Ell è Semiramìs, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra che l Soldan corregge.
Laltra è colei che sancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo;
poi è Cleopatràs lussurïosa.
Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse, e vedi l grande Achille,
che con amore al fine combatteo.
Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,
chamor di nostra vita dipartille.
Poscia chio ebbi l mio dottore udito
nomar le donne antiche e cavalieri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.
I cominciai: «Poeta, volontieri
parlerei a quei due che nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggeri».
Ed elli a me: «Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno».
Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: «O anime affannate,
venite a noi parlar, saltri nol niega!».
Quali colombe dal disio chiamate
con lali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per laere, dal voler portate;
cotali uscir de la schiera ov è Dido,
a noi venendo per laere maligno,
sì forte fu laffettüoso grido.
«O animal grazïoso e benigno
che visitando vai per laere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
se fosse amico il re de luniverso,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi chai pietà del nostro mal perverso.
Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che l vento, come fa, ci tace.
Siede la terra dove nata fui
su la marina dove l Po discende
per aver pace co seguaci sui.
Amor, chal cor gentil ratto sapprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e l modo ancor moffende.
Amor, cha nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non mabbandona.
Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte.
Quand io intesi quell anime offense,
china il viso, e tanto il tenni basso,
fin che l poeta mi disse: «Che pense?».
Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!».
Poi mi rivolsi a loro e parla io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo di dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri?».
E quella a me: «Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa l tuo dottore.
Ma sa conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fïate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disïato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».
Mentre che luno spirto questo disse,
laltro piangëa; sì che di pietade
io venni men così com io morisse.
E caddi come corpo morto cade.
Inferno Canto VI
Al tornar de la mente, che si chiuse
dinanzi a la pietà di due cognati,
che di trestizia tutto mi confuse,
novi tormenti e novi tormentati
mi veggio intorno, come chio mi mova
e chio mi volga, e come che io guati.
Io sono al terzo cerchio, de la piova
etterna, maladetta, fredda e greve;
regola e qualità mai non lè nova.
Grandine grossa, acqua tinta e neve
per laere tenebroso si riversa;
pute la terra che questo riceve.
Cerbero, fiera crudele e diversa,
con tre gole caninamente latra
sovra la gente che quivi è sommersa.
Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
e l ventre largo, e unghiate le mani;
graffia li spirti ed iscoia ed isquatra.
Urlar li fa la pioggia come cani;
de lun de lati fanno a laltro schermo;
volgonsi spesso i miseri profani.
Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,
le bocche aperse e mostrocci le sanne;
non avea membro che tenesse fermo.
E l duca mio distese le sue spanne,
prese la terra, e con piene le pugna
la gittò dentro a le bramose canne.
Qual è quel cane chabbaiando agogna,
e si racqueta poi che l pasto morde,
ché solo a divorarlo intende e pugna,
cotai si fecer quelle facce lorde
de lo demonio Cerbero, che ntrona
lanime sì, chesser vorrebber sorde.
Noi passavam su per lombre che adona
la greve pioggia, e ponavam le piante
sovra lor vanità che par persona.
Elle giacean per terra tutte quante,
fuor duna cha seder si levò, ratto
chella ci vide passarsi davante.
«O tu che se per questo nferno tratto»,
mi disse, «riconoscimi, se sai:
tu fosti, prima chio disfatto, fatto».
E io a lui: «Langoscia che tu hai
forse ti tira fuor de la mia mente,
sì che non par chi ti vedessi mai.
Ma dimmi chi tu se che n sì dolente
loco se messo, e hai sì fatta pena,
che, saltra è maggio, nulla è sì spiacente».
Ed elli a me: «La tua città, chè piena
dinvidia sì che già trabocca il sacco,
seco mi tenne in la vita serena.
Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:
per la dannosa colpa de la gola,
come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.
E io anima trista non son sola,
ché tutte queste a simil pena stanno
per simil colpa». E più non fé parola.
Io li rispuosi: «Ciacco, il tuo affanno
mi pesa sì, cha lagrimar mi nvita;
ma dimmi, se tu sai, a che verranno
li cittadin de la città partita;
salcun vè giusto; e dimmi la cagione
per che lha tanta discordia assalita».
E quelli a me: «Dopo lunga tencione
verranno al sangue, e la parte selvaggia
caccerà laltra con molta offensione.
Poi appresso convien che questa caggia
infra tre soli, e che laltra sormonti
con la forza di tal che testé piaggia.
Alte terrà lungo tempo le fronti,
tenendo laltra sotto gravi pesi,
come che di ciò pianga o che naonti.
Giusti son due, e non vi sono intesi;
superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville channo i cuori accesi».
Qui puose fine al lagrimabil suono.
E io a lui: «Ancor vo che mi nsegni
e che di più parlar mi facci dono.
Farinata e l Tegghiaio, che fuor sì degni,
Iacopo Rusticucci, Arrigo e l Mosca
e li altri cha ben far puoser li ngegni,
dimmi ove sono e fa chio li conosca;
ché gran disio mi stringe di savere
se l ciel li addolcia o lo nferno li attosca».
E quelli: «Ei son tra lanime più nere;
diverse colpe giù li grava al fondo:
se tanto scendi, là i potrai vedere.
Ma quando tu sarai nel dolce mondo,
priegoti cha la mente altrui mi rechi:
più non ti dico e più non ti rispondo».
Li diritti occhi torse allora in biechi;
guardommi un poco e poi chinò la testa:
cadde con essa a par de li altri ciechi.
E l duca disse a me: «Più non si desta
di qua dal suon de langelica tromba,
quando verrà la nimica podesta:
ciascun rivederà la trista tomba,
ripiglierà sua carne e sua figura,
udirà quel chin etterno rimbomba».
Sì trapassammo per sozza mistura
de lombre e de la pioggia, a passi lenti,
toccando un poco la vita futura;
per chio dissi: «Maestro, esti tormenti
crescerann ei dopo la gran sentenza,
o fier minori, o saran sì cocenti?».
Ed elli a me: «Ritorna a tua scïenza,
che vuol, quanto la cosa è più perfetta,
più senta il bene, e così la doglienza.
Tutto che questa gente maladetta
in vera perfezion già mai non vada,
di là più che di qua essere aspetta».
Noi aggirammo a tondo quella strada,
parlando più assai chi non ridico;
venimmo al punto dove si digrada:
quivi trovammo Pluto, il gran nemico.
Inferno Canto VII
«Pape Satàn, pape Satàn aleppe!»,
cominciò Pluto con la voce chioccia;
e quel savio gentil, che tutto seppe,
disse per confortarmi: «Non ti noccia
la tua paura; ché, poder chelli abbia,
non ci torrà lo scender questa roccia».
Poi si rivolse a quella nfiata labbia,
e disse: «Taci, maladetto lupo!
consuma dentro te con la tua rabbia.
Non è sanza cagion landare al cupo:
vuolsi ne lalto, là dove Michele
fé la vendetta del superbo strupo».
Quali dal vento le gonfiate vele
caggiono avvolte, poi che lalber fiacca,
tal cadde a terra la fiera crudele.
Così scendemmo ne la quarta lacca,
pigliando più de la dolente ripa
che l mal de luniverso tutto insacca.
Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa
nove travaglie e pene quant io viddi?
e perché nostra colpa sì ne scipa?
Come fa londa là sovra Cariddi,
che si frange con quella in cui sintoppa,
così convien che qui la gente riddi.
Qui vid i gente più chaltrove troppa,
e duna parte e daltra, con grand urli,
voltando pesi per forza di poppa.
Percotëansi ncontro; e poscia pur lì
si rivolgea ciascun, voltando a retro,
gridando: «Perché tieni?» e «Perché burli?».
Così tornavan per lo cerchio tetro
da ogne mano a lopposito punto,
gridandosi anche loro ontoso metro;
poi si volgea ciascun, quand era giunto,
per lo suo mezzo cerchio a laltra giostra.
E io, chavea lo cor quasi compunto,
dissi: «Maestro mio, or mi dimostra
che gente è questa, e se tutti fuor cherci
questi chercuti a la sinistra nostra».
Ed elli a me: «Tutti quanti fuor guerci
sì de la mente in la vita primaia,
che con misura nullo spendio ferci.
Assai la voce lor chiaro labbaia,
quando vegnono a due punti del cerchio
dove colpa contraria li dispaia.
Questi fuor cherci, che non han coperchio
piloso al capo, e papi e cardinali,
in cui usa avarizia il suo soperchio».
E io: «Maestro, tra questi cotali
dovre io ben riconoscere alcuni
che furo immondi di cotesti mali».
Ed elli a me: «Vano pensiero aduni:
la sconoscente vita che i fé sozzi,
ad ogne conoscenza or li fa bruni.
In etterno verranno a li due cozzi:
questi resurgeranno del sepulcro
col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi.
Mal dare e mal tener lo mondo pulcro
ha tolto loro, e posti a questa zuffa:
qual ella sia, parole non ci appulcro.
Or puoi, figliuol, veder la corta buffa
di ben che son commessi a la fortuna,
per che lumana gente si rabbuffa;
ché tutto loro chè sotto la luna
e che già fu, di quest anime stanche
non poterebbe farne posare una».
«Maestro mio», diss io, «or mi dì anche:
questa fortuna di che tu mi tocche,
che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?».
E quelli a me: «Oh creature sciocche,
quanta ignoranza è quella che voffende!
Or vo che tu mia sentenza ne mbocche.
Colui lo cui saver tutto trascende,
fece li cieli e diè lor chi conduce
sì, chogne parte ad ogne parte splende,
distribuendo igualmente la luce.
Similemente a li splendor mondani
ordinò general ministra e duce
che permutasse a tempo li ben vani
di gente in gente e duno in altro sangue,
oltre la difension di senni umani;
per chuna gente impera e laltra langue,
seguendo lo giudicio di costei,
che è occulto come in erba langue.
Vostro saver non ha contasto a lei:
questa provede, giudica, e persegue
suo regno come il loro li altri dèi.
Le sue permutazion non hanno triegue:
necessità la fa esser veloce;
sì spesso vien chi vicenda consegue.
Quest è colei chè tanto posta in croce
pur da color che le dovrien dar lode,
dandole biasmo a torto e mala voce;
ma ella sè beata e ciò non ode:
con laltre prime creature lieta
volve sua spera e beata si gode.
Or discendiamo omai a maggior pieta;
già ogne stella cade che saliva
quand io mi mossi, e l troppo star si vieta».
Noi ricidemmo il cerchio a laltra riva
sovr una fonte che bolle e riversa
per un fossato che da lei deriva.
Lacqua era buia assai più che persa;
e noi, in compagnia de londe bige,
intrammo giù per una via diversa.
In la palude va cha nome Stige
questo tristo ruscel, quand è disceso
al piè de le maligne piagge grige.
E io, che di mirare stava inteso,
vidi genti fangose in quel pantano,
ignude tutte, con sembiante offeso.
Queste si percotean non pur con mano,
ma con la testa e col petto e coi piedi,
troncandosi co denti a brano a brano.
Lo buon maestro disse: «Figlio, or vedi
lanime di color cui vinse lira;
e anche vo che tu per certo credi
che sotto lacqua è gente che sospira,
e fanno pullular quest acqua al summo,
come locchio ti dice, u che saggira.
Fitti nel limo dicon: Tristi fummo
ne laere dolce che dal sol sallegra,
portando dentro accidïoso fummo:
or ci attristiam ne la belletta negra.
Quest inno si gorgoglian ne la strozza,
ché dir nol posson con parola integra».
Così girammo de la lorda pozza
grand arco tra la ripa secca e l mézzo,
con li occhi vòlti a chi del fango ingozza.
Venimmo al piè duna torre al da sezzo.
Inferno Canto VIII
Io dico, seguitando, chassai prima
che noi fossimo al piè de lalta torre,
li occhi nostri nandar suso a la cima
per due fiammette che i vedemmo porre,
e unaltra da lungi render cenno,
tanto cha pena il potea locchio tòrre.
E io mi volsi al mar di tutto l senno;
dissi: «Questo che dice? e che risponde
quell altro foco? e chi son quei che l fenno?».
Ed elli a me: «Su per le sucide onde
già scorgere puoi quello che saspetta,
se l fummo del pantan nol ti nasconde».
Corda non pinse mai da sé saetta
che sì corresse via per laere snella,
com io vidi una nave piccioletta
venir per lacqua verso noi in quella,
sotto l governo dun sol galeoto,
che gridava: «Or se giunta, anima fella!».
«Flegïàs, Flegïàs, tu gridi a vòto»,
disse lo mio segnore, «a questa volta:
più non ci avrai che sol passando il loto».
Qual è colui che grande inganno ascolta
che li sia fatto, e poi se ne rammarca,
fecesi Flegïàs ne lira accolta.
Lo duca mio discese ne la barca,
e poi mi fece intrare appresso lui;
e sol quand io fui dentro parve carca.
Tosto che l duca e io nel legno fui,
segando se ne va lantica prora
de lacqua più che non suol con altrui.
Mentre noi corravam la morta gora,
dinanzi mi si fece un pien di fango,
e disse: «Chi se tu che vieni anzi ora?».
E io a lui: «Si vegno, non rimango;
ma tu chi se, che sì se fatto brutto?».
Rispuose: «Vedi che son un che piango».
E io a lui: «Con piangere e con lutto,
spirito maladetto, ti rimani;
chi ti conosco, ancor sie lordo tutto».
Allor distese al legno ambo le mani;
per che l maestro accorto lo sospinse,
dicendo: «Via costà con li altri cani!».
Lo collo poi con le braccia mi cinse;
basciommi l volto e disse: «Alma sdegnosa,
benedetta colei che n te sincinse!
Quei fu al mondo persona orgogliosa;
bontà non è che sua memoria fregi:
così sè lombra sua qui furïosa.
Quanti si tegnon or là sù gran regi
che qui staranno come porci in brago,
di sé lasciando orribili dispregi!».
E io: «Maestro, molto sarei vago
di vederlo attuffare in questa broda
prima che noi uscissimo del lago».
Ed elli a me: «Avante che la proda
ti si lasci veder, tu sarai sazio:
di tal disïo convien che tu goda».
Dopo ciò poco vid io quello strazio
far di costui a le fangose genti,
che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.
Tutti gridavano: «A Filippo Argenti!»;
e l fiorentino spirito bizzarro
in sé medesmo si volvea co denti.
Quivi il lasciammo, che più non ne narro;
ma ne lorecchie mi percosse un duolo,
per chio avante locchio intento sbarro.
Lo buon maestro disse: «Omai, figliuolo,
sappressa la città cha nome Dite,
coi gravi cittadin, col grande stuolo».
E io: «Maestro, già le sue meschite
là entro certe ne la valle cerno,
vermiglie come se di foco uscite
fossero». Ed ei mi disse: «Il foco etterno
chentro laffoca le dimostra rosse,
come tu vedi in questo basso inferno».
Noi pur giugnemmo dentro a lalte fosse
che vallan quella terra sconsolata:
le mura mi parean che ferro fosse.
Non sanza prima far grande aggirata,
venimmo in parte dove il nocchier forte
«Usciteci», gridò: «qui è lintrata».
Io vidi più di mille in su le porte
da ciel piovuti, che stizzosamente
dicean: «Chi è costui che sanza morte
va per lo regno de la morta gente?».
E l savio mio maestro fece segno
di voler lor parlar segretamente.
Allor chiusero un poco il gran disdegno
e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada
che sì ardito intrò per questo regno.
Sol si ritorni per la folle strada:
pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai,
che li ha iscorta sì buia contrada».
Pensa, lettor, se io mi sconfortai
nel suon de le parole maladette,
ché non credetti ritornarci mai.
«O caro duca mio, che più di sette
volte mhai sicurtà renduta e tratto
dalto periglio che ncontra mi stette,
non mi lasciar», diss io, «così disfatto;
e se l passar più oltre ci è negato,
ritroviam lorme nostre insieme ratto».
E quel segnor che lì mavea menato,
mi disse: «Non temer; ché l nostro passo
non ci può tòrre alcun: da tal nè dato.
Ma qui mattendi, e lo spirito lasso
conforta e ciba di speranza buona,
chi non ti lascerò nel mondo basso».
Così sen va, e quivi mabbandona
lo dolce padre, e io rimagno in forse,
che sì e no nel capo mi tenciona.
Udir non potti quello cha lor porse;
ma ei non stette là con essi guari,
che ciascun dentro a pruova si ricorse.
Chiuser le porte que nostri avversari
nel petto al mio segnor, che fuor rimase
e rivolsesi a me con passi rari.
Li occhi a la terra e le ciglia avea rase
dogne baldanza, e dicea ne sospiri:
«Chi mha negate le dolenti case!».
E a me disse: «Tu, perch io madiri,
non sbigottir, chio vincerò la prova,
qual cha la difension dentro saggiri.
Questa lor tracotanza non è nova;
ché già lusaro a men segreta porta,
la qual sanza serrame ancor si trova.
Sovr essa vedestù la scritta morta:
e già di qua da lei discende lerta,
passando per li cerchi sanza scorta,
tal che per lui ne fia la terra aperta».
Inferno Canto IX
Quel color che viltà di fuor mi pinse
veggendo il duca mio tornare in volta,
più tosto dentro il suo novo ristrinse.
Attento si fermò com uom chascolta;
ché locchio nol potea menare a lunga
per laere nero e per la nebbia folta.
«Pur a noi converrà vincer la punga»,
cominciò el, «se non . . . Tal ne sofferse.
Oh quanto tarda a me chaltri qui giunga!».
I vidi ben sì com ei ricoperse
lo cominciar con laltro che poi venne,
che fur parole a le prime diverse;
ma nondimen paura il suo dir dienne,
perch io traeva la parola tronca
forse a peggior sentenzia che non tenne.
«In questo fondo de la trista conca
discende mai alcun del primo grado,
che sol per pena ha la speranza cionca?».
Questa question fec io; e quei «Di rado
incontra», mi rispuose, «che di noi
faccia il cammino alcun per qual io vado.
Ver è chaltra fïata qua giù fui,
congiurato da quella Eritón cruda
che richiamava lombre a corpi sui.
Di poco era di me la carne nuda,
chella mi fece intrar dentr a quel muro,
per trarne un spirto del cerchio di Giuda.
Quell è l più basso loco e l più oscuro,
e l più lontan dal ciel che tutto gira:
ben so l cammin; però ti fa sicuro.
Questa palude che l gran puzzo spira
cigne dintorno la città dolente,
u non potemo intrare omai sanz ira».
E altro disse, ma non lho a mente;
però che locchio mavea tutto tratto
ver lalta torre a la cima rovente,
dove in un punto furon dritte ratto
tre furïe infernal di sangue tinte,
che membra feminine avieno e atto,
e con idre verdissime eran cinte;
serpentelli e ceraste avien per crine,
onde le fiere tempie erano avvinte.
E quei, che ben conobbe le meschine
de la regina de letterno pianto,
«Guarda», mi disse, «le feroci Erine.
Quest è Megera dal sinistro canto;
quella che piange dal destro è Aletto;
Tesifón è nel mezzo»; e tacque a tanto.
Con lunghie si fendea ciascuna il petto;
battiensi a palme e gridavan sì alto,
chi mi strinsi al poeta per sospetto.
«Vegna Medusa: sì l farem di smalto»,
dicevan tutte riguardando in giuso;
«mal non vengiammo in Tesëo lassalto».
«Volgiti n dietro e tien lo viso chiuso;
ché se l Gorgón si mostra e tu l vedessi,
nulla sarebbe di tornar mai suso».
Così disse l maestro; ed elli stessi
mi volse, e non si tenne a le mie mani,
che con le sue ancor non mi chiudessi.
O voi chavete li ntelletti sani,
mirate la dottrina che sasconde
sotto l velame de li versi strani.
E già venìa su per le torbide onde
un fracasso dun suon, pien di spavento,
per cui tremavano amendue le sponde,
non altrimenti fatto che dun vento
impetüoso per li avversi ardori,
che fier la selva e sanz alcun rattento
li rami schianta, abbatte e porta fori;
dinanzi polveroso va superbo,
e fa fuggir le fiere e li pastori.
Li occhi mi sciolse e disse: «Or drizza il nerbo
del viso su per quella schiuma antica
per indi ove quel fummo è più acerbo».
Come le rane innanzi a la nimica
biscia per lacqua si dileguan tutte,
fin cha la terra ciascuna sabbica,
vid io più di mille anime distrutte
fuggir così dinanzi ad un chal passo
passava Stige con le piante asciutte.
Dal volto rimovea quell aere grasso,
menando la sinistra innanzi spesso;
e sol di quell angoscia parea lasso.
Ben maccorsi chelli era da ciel messo,
e volsimi al maestro; e quei fé segno
chi stessi queto ed inchinassi ad esso.
Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
Venne a la porta e con una verghetta
laperse, che non vebbe alcun ritegno.
«O cacciati del ciel, gente dispetta»,
cominciò elli in su lorribil soglia,
«ond esta oltracotanza in voi salletta?
Perché recalcitrate a quella voglia
a cui non puote il fin mai esser mozzo,
e che più volte vha cresciuta doglia?
Che giova ne le fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
ne porta ancor pelato il mento e l gozzo».
Poi si rivolse per la strada lorda,
e non fé motto a noi, ma fé sembiante
domo cui altra cura stringa e morda
che quella di colui che li è davante;
e noi movemmo i piedi inver la terra,
sicuri appresso le parole sante.
Dentro li ntrammo sanz alcuna guerra;
e io, chavea di riguardar disio
la condizion che tal fortezza serra,
com io fui dentro, locchio intorno invio:
e veggio ad ogne man grande campagna,
piena di duolo e di tormento rio.
Sì come ad Arli, ove Rodano stagna,
sì com a Pola, presso del Carnaro
chItalia chiude e suoi termini bagna,
fanno i sepulcri tutt il loco varo,
così facevan quivi dogne parte,
salvo che l modo vera più amaro;
ché tra li avelli fiamme erano sparte,
per le quali eran sì del tutto accesi,
che ferro più non chiede verun arte.
Tutti li lor coperchi eran sospesi,
e fuor nuscivan sì duri lamenti,
che ben parean di miseri e doffesi.
E io: «Maestro, quai son quelle genti
che, seppellite dentro da quell arche,
si fan sentir coi sospiri dolenti?».
E quelli a me: «Qui son li eresïarche
con lor seguaci, dogne setta, e molto
più che non credi son le tombe carche.
Simile qui con simile è sepolto,
e i monimenti son più e men caldi».
E poi cha la man destra si fu vòlto,
passammo tra i martìri e li alti spaldi.
Inferno Canto X
Ora sen va per un secreto calle,
tra l muro de la terra e li martìri,
lo mio maestro, e io dopo le spalle.
«O virtù somma, che per li empi giri
mi volvi», cominciai, «com a te piace,
parlami, e sodisfammi a miei disiri.
La gente che per li sepolcri giace
potrebbesi veder? già son levati
tutt i coperchi, e nessun guardia face».
E quelli a me: «Tutti saran serrati
quando di Iosafàt qui torneranno
coi corpi che là sù hanno lasciati.
Suo cimitero da questa parte hanno
con Epicuro tutti suoi seguaci,
che lanima col corpo morta fanno.
Però a la dimanda che mi faci
quinc entro satisfatto sarà tosto,
e al disio ancor che tu mi taci».
E io: «Buon duca, non tegno riposto
a te mio cuor se non per dicer poco,
e tu mhai non pur mo a ciò disposto».
«O Tosco che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco.
La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patrïa natio,
a la qual forse fui troppo molesto».
Subitamente questo suono uscìo
duna de larche; però maccostai,
temendo, un poco più al duca mio.
Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai?
Vedi là Farinata che sè dritto:
da la cintola in sù tutto l vedrai».
Io avea già il mio viso nel suo fitto;
ed el sergea col petto e con la fronte
com avesse linferno a gran dispitto.
E lanimose man del duca e pronte
mi pinser tra le sepulture a lui,
dicendo: «Le parole tue sien conte».
Com io al piè de la sua tomba fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?».
Io chera dubidir disideroso,
non gliel celai, ma tutto gliel apersi;
ond ei levò le ciglia un poco in suso;
poi disse: «Fieramente furo avversi
a me e a miei primi e a mia parte,
sì che per due fïate li dispersi».
«Sei fur cacciati, ei tornar dogne parte»,
rispuos io lui, «luna e laltra fïata;
ma i vostri non appreser ben quell arte».
Allor surse a la vista scoperchiata
unombra, lungo questa, infino al mento:
credo che sera in ginocchie levata.
Dintorno mi guardò, come talento
avesse di veder saltri era meco;
e poi che l sospecciar fu tutto spento,
piangendo disse: «Se per questo cieco
carcere vai per altezza dingegno,
mio figlio ov è? e perché non è teco?».
E io a lui: «Da me stesso non vegno:
colui chattende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno».
Le sue parole e l modo de la pena
mavean di costui già letto il nome;
però fu la risposta così piena.
Di sùbito drizzato gridò: «Come?
dicesti elli ebbe? non viv elli ancora?
non fiere li occhi suoi lo dolce lume?».
Quando saccorse dalcuna dimora
chio facëa dinanzi a la risposta,
supin ricadde e più non parve fora.
Ma quell altro magnanimo, a cui posta
restato mera, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa;
e sé continüando al primo detto,
«Selli han quell arte», disse, «male appresa,
ciò mi tormenta più che questo letto.
Ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell arte pesa.
E se tu mai nel dolce mondo regge,
dimmi: perché quel popolo è sì empio
incontr a miei in ciascuna sua legge?».
Ond io a lui: «Lo strazio e l grande scempio
che fece lArbia colorata in rosso,
tal orazion fa far nel nostro tempio».
Poi chebbe sospirando il capo mosso,
«A ciò non fu io sol», disse, «né certo
sanza cagion con li altri sarei mosso.
Ma fu io solo, là dove sofferto
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
colui che la difesi a viso aperto».
«Deh, se riposi mai vostra semenza»,
prega io lui, «solvetemi quel nodo
che qui ha nviluppata mia sentenza.
El par che voi veggiate, se ben odo,
dinanzi quel che l tempo seco adduce,
e nel presente tenete altro modo».
«Noi veggiam, come quei cha mala luce,
le cose», disse, «che ne son lontano;
cotanto ancor ne splende il sommo duce.
Quando sappressano o son, tutto è vano
nostro intelletto; e saltri non ci apporta,
nulla sapem di vostro stato umano.
Però comprender puoi che tutta morta
fia nostra conoscenza da quel punto
che del futuro fia chiusa la porta».
Allor, come di mia colpa compunto,
dissi: «Or direte dunque a quel caduto
che l suo nato è co vivi ancor congiunto;
e si fui, dianzi, a la risposta muto,
fate i saper che l fei perché pensava
già ne lerror che mavete soluto».
E già l maestro mio mi richiamava;
per chi pregai lo spirto più avaccio
che mi dicesse chi con lu istava.
Dissemi: «Qui con più di mille giaccio:
qua dentro è l secondo Federico
e l Cardinale; e de li altri mi taccio».
Indi sascose; e io inver lantico
poeta volsi i passi, ripensando
a quel parlar che mi parea nemico.
Elli si mosse; e poi, così andando,
mi disse: «Perché se tu sì smarrito?».
E io li sodisfeci al suo dimando.
«La mente tua conservi quel chudito
hai contra te», mi comandò quel saggio;
«e ora attendi qui», e drizzò l dito:
«quando sarai dinanzi al dolce raggio
di quella il cui bell occhio tutto vede,
da lei saprai di tua vita il vïaggio».
Appresso mosse a man sinistra il piede:
lasciammo il muro e gimmo inver lo mezzo
per un sentier cha una valle fiede,
che nfin là sù facea spiacer suo lezzo.
Inferno Canto XI
In su lestremità dunalta ripa
che facevan gran pietre rotte in cerchio,
venimmo sopra più crudele stipa;
e quivi, per lorribile soperchio
del puzzo che l profondo abisso gitta,
ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio
dun grand avello, ov io vidi una scritta
che dicea: Anastasio papa guardo,
lo qual trasse Fotin de la via dritta.
«Lo nostro scender conviene esser tardo,
sì che sausi un poco in prima il senso
al tristo fiato; e poi no i fia riguardo».
Così l maestro; e io «Alcun compenso»,
dissi lui, «trova che l tempo non passi
perduto». Ed elli: «Vedi cha ciò penso».
«Figliuol mio, dentro da cotesti sassi»,
cominciò poi a dir, «son tre cerchietti
di grado in grado, come que che lassi.
Tutti son pien di spirti maladetti;
ma perché poi ti basti pur la vista,
intendi come e perché son costretti.
Dogne malizia, chodio in cielo acquista,
ingiuria è l fine, ed ogne fin cotale
o con forza o con frode altrui contrista.
Ma perché frode è de luom proprio male,
più spiace a Dio; e però stan di sotto
li frodolenti, e più dolor li assale.
Di vïolenti il primo cerchio è tutto;
ma perché si fa forza a tre persone,
in tre gironi è distinto e costrutto.
A Dio, a sé, al prossimo si pòne
far forza, dico in loro e in lor cose,
come udirai con aperta ragione.
Morte per forza e ferute dogliose
nel prossimo si danno, e nel suo avere
ruine, incendi e tollette dannose;
onde omicide e ciascun che mal fiere,
guastatori e predon, tutti tormenta
lo giron primo per diverse schiere.
Puote omo avere in sé man vïolenta
e ne suoi beni; e però nel secondo
giron convien che sanza pro si penta
qualunque priva sé del vostro mondo,
biscazza e fonde la sua facultade,
e piange là dov esser de giocondo.
Puossi far forza ne la deïtade,
col cor negando e bestemmiando quella,
e spregiando natura e sua bontade;
e però lo minor giron suggella
del segno suo e Soddoma e Caorsa
e chi, spregiando Dio col cor, favella.
La frode, ond ogne coscïenza è morsa,
può lomo usare in colui che n lui fida
e in quel che fidanza non imborsa.
Questo modo di retro par chincida
pur lo vinco damor che fa natura;
onde nel cerchio secondo sannida
ipocresia, lusinghe e chi affattura,
falsità, ladroneccio e simonia,
ruffian, baratti e simile lordura.
Per laltro modo quell amor soblia
che fa natura, e quel chè poi aggiunto,
di che la fede spezïal si cria;
onde nel cerchio minore, ov è l punto
de luniverso in su che Dite siede,
qualunque trade in etterno è consunto».
E io: «Maestro, assai chiara procede
la tua ragione, e assai ben distingue
questo baràtro e l popol che possiede.
Ma dimmi: quei de la palude pingue,
che mena il vento, e che batte la pioggia,
e che sincontran con sì aspre lingue,
perché non dentro da la città roggia
sono ei puniti, se Dio li ha in ira?
e se non li ha, perché sono a tal foggia?».
Ed elli a me «Perché tanto delira»,
disse, «lo ngegno tuo da quel che sòle?
o ver la mente dove altrove mira?
Non ti rimembra di quelle parole
con le quai la tua Etica pertratta
le tre disposizion che l ciel non vole,
incontenenza, malizia e la matta
bestialitade? e come incontenenza
men Dio offende e men biasimo accatta?
Se tu riguardi ben questa sentenza,
e rechiti a la mente chi son quelli
che sù di fuor sostegnon penitenza,
tu vedrai ben perché da questi felli
sien dipartiti, e perché men crucciata
la divina vendetta li martelli».
«O sol che sani ogne vista turbata,
tu mi contenti sì quando tu solvi,
che, non men che saver, dubbiar maggrata.
Ancora in dietro un poco ti rivolvi»,
diss io, «là dove di chusura offende
la divina bontade, e l groppo solvi».
«Filosofia», mi disse, «a chi la ntende,
nota, non pure in una sola parte,
come natura lo suo corso prende
dal divino ntelletto e da sua arte;
e se tu ben la tua Fisica note,
tu troverai, non dopo molte carte,
che larte vostra quella, quanto pote,
segue, come l maestro fa l discente;
sì che vostr arte a Dio quasi è nepote.
Da queste due, se tu ti rechi a mente
lo Genesì dal principio, convene
prender sua vita e avanzar la gente;
e perché lusuriere altra via tene,
per sé natura e per la sua seguace
dispregia, poi chin altro pon la spene.
Ma seguimi oramai che l gir mi piace;
ché i Pesci guizzan su per lorizzonta,
e l Carro tutto sovra l Coro giace,
e l balzo via là oltra si dismonta».
Inferno Canto XII
Era lo loco ov a scender la riva
venimmo, alpestro e, per quel che ver anco,
tal, chogne vista ne sarebbe schiva.
Qual è quella ruina che nel fianco
di qua da Trento lAdice percosse,
o per tremoto o per sostegno manco,
che da cima del monte, onde si mosse,
al piano è sì la roccia discoscesa,
chalcuna via darebbe a chi sù fosse:
cotal di quel burrato era la scesa;
e n su la punta de la rotta lacca
linfamïa di Creti era distesa
che fu concetta ne la falsa vacca;
e quando vide noi, sé stesso morse,
sì come quei cui lira dentro fiacca.
Lo savio mio inver lui gridò: «Forse
tu credi che qui sia l duca dAtene,
che sù nel mondo la morte ti porse?
Pàrtiti, bestia, ché questi non vene
ammaestrato da la tua sorella,
ma vassi per veder le vostre pene».
Qual è quel toro che si slaccia in quella
cha ricevuto già l colpo mortale,
che gir non sa, ma qua e là saltella,
vid io lo Minotauro far cotale;
e quello accorto gridò: «Corri al varco;
mentre che nfuria, è buon che tu ti cale».
Così prendemmo via giù per lo scarco
di quelle pietre, che spesso moviensi
sotto i miei piedi per lo novo carco.
Io gia pensando; e quei disse: «Tu pensi
forse a questa ruina, chè guardata
da quell ira bestial chi ora spensi.
Or vo che sappi che laltra fïata
chi discesi qua giù nel basso inferno,
questa roccia non era ancor cascata.
Ma certo poco pria, se ben discerno,
che venisse colui che la gran preda
levò a Dite del cerchio superno,
da tutte parti lalta valle feda
tremò sì, chi pensai che luniverso
sentisse amor, per lo qual è chi creda
più volte il mondo in caòsso converso;
e in quel punto questa vecchia roccia,
qui e altrove, tal fece riverso.
Ma ficca li occhi a valle, ché sapproccia
la riviera del sangue in la qual bolle
qual che per vïolenza in altrui noccia».
Oh cieca cupidigia e ira folle,
che sì ci sproni ne la vita corta,
e ne letterna poi sì mal cimmolle!
Io vidi unampia fossa in arco torta,
come quella che tutto l piano abbraccia,
secondo chavea detto la mia scorta;
e tra l piè de la ripa ed essa, in traccia
corrien centauri, armati di saette,
come solien nel mondo andare a caccia.
Veggendoci calar, ciascun ristette,
e de la schiera tre si dipartiro
con archi e asticciuole prima elette;
e lun gridò da lungi: «A qual martiro
venite voi che scendete la costa?
Ditel costinci; se non, larco tiro».
Lo mio maestro disse: «La risposta
farem noi a Chirón costà di presso:
mal fu la voglia tua sempre sì tosta».
Poi mi tentò, e disse: «Quelli è Nesso,
che morì per la bella Deianira,
e fé di sé la vendetta elli stesso.
E quel di mezzo, chal petto si mira,
è il gran Chirón, il qual nodrì Achille;
quell altro è Folo, che fu sì pien dira.
Dintorno al fosso vanno a mille a mille,
saettando qual anima si svelle
del sangue più che sua colpa sortille».
Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle:
Chirón prese uno strale, e con la cocca
fece la barba in dietro a le mascelle.
Quando sebbe scoperta la gran bocca,
disse a compagni: «Siete voi accorti
che quel di retro move ciò chel tocca?
Così non soglion far li piè di morti».
E l mio buon duca, che già li er al petto,
dove le due nature son consorti,
rispuose: «Ben è vivo, e sì soletto
mostrar li mi convien la valle buia;
necessità l ci nduce, e non diletto.
Tal si partì da cantare alleluia
che mi commise quest officio novo:
non è ladron, né io anima fuia.
Ma per quella virtù per cu io movo
li passi miei per sì selvaggia strada,
danne un de tuoi, a cui noi siamo a provo,
e che ne mostri là dove si guada,
e che porti costui in su la groppa,
ché non è spirto che per laere vada».
Chirón si volse in su la destra poppa,
e disse a Nesso: «Torna, e sì li guida,
e fa cansar saltra schiera vintoppa».
Or ci movemmo con la scorta fida
lungo la proda del bollor vermiglio,
dove i bolliti facieno alte strida.
Io vidi gente sotto infino al ciglio;
e l gran centauro disse: «E son tiranni
che dier nel sangue e ne laver di piglio.
Quivi si piangon li spietati danni;
quivi è Alessandro, e Dïonisio fero
che fé Cicilia aver dolorosi anni.
E quella fronte cha l pel così nero,
è Azzolino; e quell altro chè biondo,
è Opizzo da Esti, il qual per vero
fu spento dal figliastro sù nel mondo».
Allor mi volsi al poeta, e quei disse:
«Questi ti sia or primo, e io secondo».
Poco più oltre il centauro saffisse
sovr una gente che nfino a la gola
parea che di quel bulicame uscisse.
Mostrocci unombra da lun canto sola,
dicendo: «Colui fesse in grembo a Dio
lo cor che n su Tamisi ancor si cola».
Poi vidi gente che di fuor del rio
tenean la testa e ancor tutto l casso;
e di costoro assai riconobb io.
Così a più a più si facea basso
quel sangue, sì che cocea pur li piedi;
e quindi fu del fosso il nostro passo.
«Sì come tu da questa parte vedi
lo bulicame che sempre si scema»,
disse l centauro, «voglio che tu credi
che da quest altra a più a più giù prema
lo fondo suo, infin chel si raggiunge
ove la tirannia convien che gema.
La divina giustizia di qua punge
quell Attila che fu flagello in terra,
e Pirro e Sesto; e in etterno munge
le lagrime, che col bollor diserra,
a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo,
che fecero a le strade tanta guerra».
Poi si rivolse e ripassossi l guazzo.
Inferno Canto XIII
Non era ancor di là Nesso arrivato,
quando noi ci mettemmo per un bosco
che da neun sentiero era segnato.
Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e nvolti;
non pomi veran, ma stecchi con tòsco.
Non han sì aspri sterpi né sì folti
quelle fiere selvagge che n odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi cólti.
Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno.
Ali hanno late, e colli e visi umani,
piè con artigli, e pennuto l gran ventre;
fanno lamenti in su li alberi strani.
E l buon maestro «Prima che più entre,
sappi che se nel secondo girone»,
mi cominciò a dire, «e sarai mentre
che tu verrai ne lorribil sabbione.
Però riguarda ben; sì vederai
cose che torrien fede al mio sermone».
Io sentia dogne parte trarre guai
e non vedea persona che l facesse;
per chio tutto smarrito marrestai.
Cred ïo chei credette chio credesse
che tante voci uscisser, tra quei bronchi,
da gente che per noi si nascondesse.
Però disse l maestro: «Se tu tronchi
qualche fraschetta duna deste piante,
li pensier chai si faran tutti monchi».
Allor porsi la mano un poco avante
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?».
Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?
Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi».
Come dun stizzo verde charso sia
da lun de capi, che da laltro geme
e cigola per vento che va via,
sì de la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ond io lasciai la cima
cadere, e stetti come luom che teme.
«Selli avesse potuto creder prima»,
rispuose l savio mio, «anima lesa,
ciò cha veduto pur con la mia rima,
non averebbe in te la man distesa;
ma la cosa incredibile mi fece
indurlo ad ovra cha me stesso pesa.
Ma dilli chi tu fosti, sì che n vece
dalcun ammenda tua fama rinfreschi
nel mondo sù, dove tornar li lece».
E l tronco: «Sì col dolce dir madeschi,
chi non posso tacere; e voi non gravi
perch ïo un poco a ragionar minveschi.
Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sì soavi,
che dal secreto suo quasi ogn uom tolsi;
fede portai al glorïoso offizio,
tanto chi ne perde li sonni e polsi.
La meretrice che mai da lospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio,
infiammò contra me li animi tutti;
e li nfiammati infiammar sì Augusto,
che lieti onor tornaro in tristi lutti.
Lanimo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.
Per le nove radici desto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu donor sì degno.
E se di voi alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
ancor del colpo che nvidia le diede».
Un poco attese, e poi «Da chel si tace»,
disse l poeta a me, «non perder lora;
ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace».
Ond ïo a lui: «Domandal tu ancora
di quel che credi cha me satisfaccia;
chi non potrei, tanta pietà maccora».
Perciò ricominciò: «Se lom ti faccia
liberamente ciò che l tuo dir priega,
spirito incarcerato, ancor ti piaccia
di dirne come lanima si lega
in questi nocchi; e dinne, se tu puoi,
salcuna mai di tai membra si spiega».
Allor soffiò il tronco forte, e poi
si convertì quel vento in cotal voce:
«Brievemente sarà risposto a voi.
Quando si parte lanima feroce
dal corpo ond ella stessa sè disvelta,
Minòs la manda a la settima foce.
Cade in la selva, e non lè parte scelta;
ma là dove fortuna la balestra,
quivi germoglia come gran di spelta.
Surge in vermena e in pianta silvestra:
lArpie, pascendo poi de le sue foglie,
fanno dolore, e al dolor fenestra.
Come laltre verrem per nostre spoglie,
ma non però chalcuna sen rivesta,
ché non è giusto aver ciò chom si toglie.
Qui le strascineremo, e per la mesta
selva saranno i nostri corpi appesi,
ciascuno al prun de lombra sua molesta».
Noi eravamo ancora al tronco attesi,
credendo chaltro ne volesse dire,
quando noi fummo dun romor sorpresi,
similemente a colui che venire
sente l porco e la caccia a la sua posta,
chode le bestie, e le frasche stormire.
Ed ecco due da la sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
che de la selva rompieno ogne rosta.
Quel dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!».
E laltro, cui pareva tardar troppo,
gridava: «Lano, sì non furo accorte
le gambe tue a le giostre dal Toppo!».
E poi che forse li fallia la lena,
di sé e dun cespuglio fece un groppo.
Di rietro a loro era la selva piena
di nere cagne, bramose e correnti
come veltri chuscisser di catena.
In quel che sappiattò miser li denti,
e quel dilaceraro a brano a brano;
poi sen portar quelle membra dolenti.
Presemi allor la mia scorta per mano,
e menommi al cespuglio che piangea
per le rotture sanguinenti in vano.
«O Iacopo», dicea, «da Santo Andrea,
che tè giovato di me fare schermo?
che colpa ho io de la tua vita rea?».
Quando l maestro fu sovr esso fermo,
disse: «Chi fosti, che per tante punte
soffi con sangue doloroso sermo?».
Ed elli a noi: «O anime che giunte
siete a veder lo strazio disonesto
cha le mie fronde sì da me disgiunte,
raccoglietele al piè del tristo cesto.
I fui de la città che nel Batista
mutò l primo padrone; ond ei per questo
sempre con larte sua la farà trista;
e se non fosse che n sul passo dArno
rimane ancor di lui alcuna vista,
que cittadin che poi la rifondarno
sovra l cener che dAttila rimase,
avrebber fatto lavorare indarno.
Io fei gibetto a me de le mie case».
Inferno Canto XIV
Poi che la carità del natio loco
mi strinse, raunai le fronde sparte
e rendele a colui, chera già fioco.
Indi venimmo al fine ove si parte
lo secondo giron dal terzo, e dove
si vede di giustizia orribil arte.
A ben manifestar le cose nove,
dico che arrivammo ad una landa
che dal suo letto ogne pianta rimove.
La dolorosa selva lè ghirlanda
intorno, come l fosso tristo ad essa;
quivi fermammo i passi a randa a randa.
Lo spazzo era una rena arida e spessa,
non daltra foggia fatta che colei
che fu da piè di Caton già soppressa.
O vendetta di Dio, quanto tu dei
esser temuta da ciascun che legge
ciò che fu manifesto a li occhi mei!
Danime nude vidi molte gregge
che piangean tutte assai miseramente,
e parea posta lor diversa legge.
Supin giacea in terra alcuna gente,
alcuna si sedea tutta raccolta,
e altra andava continüamente.
Quella che giva ntorno era più molta,
e quella men che giacëa al tormento,
ma più al duolo avea la lingua sciolta.
Sovra tutto l sabbion, dun cader lento,
piovean di foco dilatate falde,
come di neve in alpe sanza vento.
Quali Alessandro in quelle parti calde
dIndïa vide sopra l süo stuolo
fiamme cadere infino a terra salde,
per chei provide a scalpitar lo suolo
con le sue schiere, acciò che lo vapore
mei si stingueva mentre chera solo:
tale scendeva letternale ardore;
onde la rena saccendea, com esca
sotto focile, a doppiar lo dolore.
Sanza riposo mai era la tresca
de le misere mani, or quindi or quinci
escotendo da sé larsura fresca.
I cominciai: «Maestro, tu che vinci
tutte le cose, fuor che demon duri
cha lintrar de la porta incontra uscinci,
chi è quel grande che non par che curi
lo ncendio e giace dispettoso e torto,
sì che la pioggia non par che l marturi?».
E quel medesmo, che si fu accorto
chio domandava il mio duca di lui,
gridò: «Qual io fui vivo, tal son morto.
Se Giove stanchi l suo fabbro da cui
crucciato prese la folgore aguta
onde lultimo dì percosso fui;
o selli stanchi li altri a muta a muta
in Mongibello a la focina negra,
chiamando Buon Vulcano, aiuta, aiuta!,
sì com el fece a la pugna di Flegra,
e me saetti con tutta sua forza:
non ne potrebbe aver vendetta allegra».
Allora il duca mio parlò di forza
tanto, chi non lavea sì forte udito:
«O Capaneo, in ciò che non sammorza
la tua superbia, se tu più punito;
nullo martiro, fuor che la tua rabbia,
sarebbe al tuo furor dolor compito».
Poi si rivolse a me con miglior labbia,
dicendo: «Quei fu lun di sette regi
chassiser Tebe; ed ebbe e par chelli abbia
Dio in disdegno, e poco par che l pregi;
ma, com io dissi lui, li suoi dispetti
sono al suo petto assai debiti fregi.
Or mi vien dietro, e guarda che non metti,
ancor, li piedi ne la rena arsiccia;
ma sempre al bosco tien li piedi stretti».
Tacendo divenimmo là ve spiccia
fuor de la selva un picciol fiumicello,
lo cui rossore ancor mi raccapriccia.
Quale del Bulicame esce ruscello
che parton poi tra lor le peccatrici,
tal per la rena giù sen giva quello.
Lo fondo suo e ambo le pendici
fatt era n pietra, e margini dallato;
per chio maccorsi che l passo era lici.
«Tra tutto laltro chi tho dimostrato,
poscia che noi intrammo per la porta
lo cui sogliare a nessuno è negato,
cosa non fu da li tuoi occhi scorta
notabile com è l presente rio,
che sovra sé tutte fiammelle ammorta».
Queste parole fuor del duca mio;
per chio l pregai che mi largisse l pasto
di cui largito mavëa il disio.
«In mezzo mar siede un paese guasto»,
diss elli allora, «che sappella Creta,
sotto l cui rege fu già l mondo casto.
Una montagna vè che già fu lieta
dacqua e di fronde, che si chiamò Ida;
or è diserta come cosa vieta.
Rëa la scelse già per cuna fida
del suo figliuolo, e per celarlo meglio,
quando piangea, vi facea far le grida.
Dentro dal monte sta dritto un gran veglio,
che tien volte le spalle inver Dammiata
e Roma guarda come süo speglio.
La sua testa è di fin oro formata,
e puro argento son le braccia e l petto,
poi è di rame infino a la forcata;
da indi in giuso è tutto ferro eletto,
salvo che l destro piede è terra cotta;
e sta n su quel, più che n su laltro, eretto.
Ciascuna parte, fuor che loro, è rotta
duna fessura che lagrime goccia,
le quali, accolte, fóran quella grotta.
Lor corso in questa valle si diroccia;
fanno Acheronte, Stige e Flegetonta;
poi sen van giù per questa stretta doccia,
infin, là ove più non si dismonta,
fanno Cocito; e qual sia quello stagno
tu lo vedrai, però qui non si conta».
E io a lui: «Se l presente rigagno
si diriva così dal nostro mondo,
perché ci appar pur a questo vivagno?».
Ed elli a me: «Tu sai che l loco è tondo;
e tutto che tu sie venuto molto,
pur a sinistra, giù calando al fondo,
non se ancor per tutto l cerchio vòlto;
per che, se cosa napparisce nova,
non de addur maraviglia al tuo volto».
E io ancor: «Maestro, ove si trova
Flegetonta e Letè? ché de lun taci,
e laltro di che si fa desta piova».
«In tutte tue question certo mi piaci»,
rispuose, «ma l bollor de lacqua rossa
dovea ben solver luna che tu faci.
Letè vedrai, ma fuor di questa fossa,
là dove vanno lanime a lavarsi
quando la colpa pentuta è rimossa».
Poi disse: «Omai è tempo da scostarsi
dal bosco; fa che di retro a me vegne:
li margini fan via, che non son arsi,
e sopra loro ogne vapor si spegne».
Inferno Canto XV
Ora cen porta lun de duri margini;
e l fummo del ruscel di sopra aduggia,
sì che dal foco salva lacqua e li argini.
Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,
temendo l fiotto che nver lor savventa,
fanno lo schermo perché l mar si fuggia;
e quali Padoan lungo la Brenta,
per difender lor ville e lor castelli,
anzi che Carentana il caldo senta:
a tale imagine eran fatti quelli,
tutto che né sì alti né sì grossi,
qual che si fosse, lo maestro félli.
Già eravam da la selva rimossi
tanto, chi non avrei visto dov era,
perch io in dietro rivolto mi fossi,
quando incontrammo danime una schiera
che venian lungo largine, e ciascuna
ci riguardava come suol da sera
guardare uno altro sotto nuova luna;
e sì ver noi aguzzavan le ciglia
come l vecchio sartor fa ne la cruna.
Così adocchiato da cotal famiglia,
fui conosciuto da un, che mi prese
per lo lembo e gridò: «Qual maraviglia!».
E io, quando l suo braccio a me distese,
ficcaï li occhi per lo cotto aspetto,
sì che l viso abbrusciato non difese
la conoscenza süa al mio ntelletto;
e chinando la mano a la sua faccia,
rispuosi: «Siete voi qui, ser Brunetto?».
E quelli: «O figliuol mio, non ti dispiaccia
se Brunetto Latino un poco teco
ritorna n dietro e lascia andar la traccia».
I dissi lui: «Quanto posso, ven preco;
e se volete che con voi masseggia,
faròl, se piace a costui che vo seco».
«O figliuol», disse, «qual di questa greggia
sarresta punto, giace poi cent anni
sanz arrostarsi quando l foco il feggia.
Però va oltre: i ti verrò a panni;
e poi rigiugnerò la mia masnada,
che va piangendo i suoi etterni danni».
Io non osava scender de la strada
per andar par di lui; ma l capo chino
tenea com uom che reverente vada.
El cominciò: «Qual fortuna o destino
anzi lultimo dì qua giù ti mena?
e chi è questi che mostra l cammino?».
«Là sù di sopra, in la vita serena»,
rispuos io lui, «mi smarri in una valle,
avanti che letà mia fosse piena.
Pur ier mattina le volsi le spalle:
questi mapparve, tornand ïo in quella,
e reducemi a ca per questo calle».
Ed elli a me: «Se tu segui tua stella,
non puoi fallire a glorïoso porto,
se ben maccorsi ne la vita bella;
e sio non fossi sì per tempo morto,
veggendo il cielo a te così benigno,
dato tavrei a lopera conforto.
Ma quello ingrato popolo maligno
che discese di Fiesole ab antico,
e tiene ancor del monte e del macigno,
ti si farà, per tuo ben far, nimico;
ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi
si disconvien fruttare al dolce fico.
Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;
gent è avara, invidiosa e superba:
dai lor costumi fa che tu ti forbi.
La tua fortuna tanto onor ti serba,
che luna parte e laltra avranno fame
di te; ma lungi fia dal becco lerba.
Faccian le bestie fiesolane strame
di lor medesme, e non tocchin la pianta,
salcuna surge ancora in lor letame,
in cui riviva la sementa santa
di que Roman che vi rimaser quando
fu fatto il nido di malizia tanta».
«Se fosse tutto pieno il mio dimando»,
rispuos io lui, «voi non sareste ancora
de lumana natura posto in bando;
ché n la mente mè fitta, e or maccora,
la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora
minsegnavate come luom setterna:
e quant io labbia in grado, mentr io vivo
convien che ne la mia lingua si scerna.
Ciò che narrate di mio corso scrivo,
e serbolo a chiosar con altro testo
a donna che saprà, sa lei arrivo.
Tanto vogl io che vi sia manifesto,
pur che mia coscïenza non mi garra,
cha la Fortuna, come vuol, son presto.
Non è nuova a li orecchi miei tal arra:
però giri Fortuna la sua rota
come le piace, e l villan la sua marra».
Lo mio maestro allora in su la gota
destra si volse in dietro e riguardommi;
poi disse: «Bene ascolta chi la nota».
Né per tanto di men parlando vommi
con ser Brunetto, e dimando chi sono
li suoi compagni più noti e più sommi.
Ed elli a me: «Saper dalcuno è buono;
de li altri fia laudabile tacerci,
ché l tempo saria corto a tanto suono.
In somma sappi che tutti fur cherci
e litterati grandi e di gran fama,
dun peccato medesmo al mondo lerci.
Priscian sen va con quella turba grama,
e Francesco dAccorso anche; e vedervi,
savessi avuto di tal tigna brama,
colui potei che dal servo de servi
fu trasmutato dArno in Bacchiglione,
dove lasciò li mal protesi nervi.
Di più direi; ma l venire e l sermone
più lungo esser non può, però chi veggio
là surger nuovo fummo del sabbione.
Gente vien con la quale esser non deggio.
Sieti raccomandato il mio Tesoro,
nel qual io vivo ancora, e più non cheggio».
Poi si rivolse, e parve di coloro
che corrono a Verona il drappo verde
per la campagna; e parve di costoro
quelli che vince, non colui che perde.
Inferno Canto XVI
Già era in loco onde sudia l rimbombo
de lacqua che cadea ne laltro giro,
simile a quel che larnie fanno rombo,
quando tre ombre insieme si partiro,
correndo, duna torma che passava
sotto la pioggia de laspro martiro.
Venian ver noi, e ciascuna gridava:
«Sòstati tu cha labito ne sembri
esser alcun di nostra terra prava».
Ahimè, che piaghe vidi ne lor membri,
ricenti e vecchie, da le fiamme incese!
Ancor men duol pur chi me ne rimembri.
A le lor grida il mio dottor sattese;
volse l viso ver me, e «Or aspetta»,
disse, «a costor si vuole esser cortese.
E se non fosse il foco che saetta
la natura del loco, i dicerei
che meglio stesse a te che a lor la fretta».
Ricominciar, come noi restammo, ei
lantico verso; e quando a noi fuor giunti,
fenno una rota di sé tutti e trei.
Qual sogliono i campion far nudi e unti,
avvisando lor presa e lor vantaggio,
prima che sien tra lor battuti e punti,
così rotando, ciascuno il visaggio
drizzava a me, sì che n contraro il collo
faceva ai piè continüo vïaggio.
E «Se miseria desto loco sollo
rende in dispetto noi e nostri prieghi»,
cominciò luno, «e l tinto aspetto e brollo,
la fama nostra il tuo animo pieghi
a dirne chi tu se, che i vivi piedi
così sicuro per lo nferno freghi.
Questi, lorme di cui pestar mi vedi,
tutto che nudo e dipelato vada,
fu di grado maggior che tu non credi:
nepote fu de la buona Gualdrada;
Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita
fece col senno assai e con la spada.
Laltro, chappresso me la rena trita,
è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce
nel mondo sù dovria esser gradita.
E io, che posto son con loro in croce,
Iacopo Rusticucci fui, e certo
la fiera moglie più chaltro mi nuoce».
Si fossi stato dal foco coperto,
gittato mi sarei tra lor di sotto,
e credo che l dottor lavria sofferto;
ma perch io mi sarei brusciato e cotto,
vinse paura la mia buona voglia
che di loro abbracciar mi facea ghiotto.
Poi cominciai: «Non dispetto, ma doglia
la vostra condizion dentro mi fisse,
tanta che tardi tutta si dispoglia,
tosto che questo mio segnor mi disse
parole per le quali i mi pensai
che qual voi siete, tal gente venisse.
Di vostra terra sono, e sempre mai
lovra di voi e li onorati nomi
con affezion ritrassi e ascoltai.
Lascio lo fele e vo per dolci pomi
promessi a me per lo verace duca;
ma nfino al centro pria convien chi tomi».
«Se lungamente lanima conduca
le membra tue», rispuose quelli ancora,
«e se la fama tua dopo te luca,
cortesia e valor dì se dimora
ne la nostra città sì come suole,
o se del tutto se nè gita fora;
ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duole
con noi per poco e va là coi compagni,
assai ne cruccia con le sue parole».
«La gente nuova e i sùbiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni».
Così gridai con la faccia levata;
e i tre, che ciò inteser per risposta,
guardar lun laltro com al ver si guata.
«Se laltre volte sì poco ti costa»,
rispuoser tutti, «il satisfare altrui,
felice te se sì parli a tua posta!
Però, se campi desti luoghi bui
e torni a riveder le belle stelle,
quando ti gioverà dicere I fui,
fa che di noi a la gente favelle».
Indi rupper la rota, e a fuggirsi
ali sembiar le gambe loro isnelle.
Un amen non saria possuto dirsi
tosto così com e fuoro spariti;
per chal maestro parve di partirsi.
Io lo seguiva, e poco eravam iti,
che l suon de lacqua nera sì vicino,
che per parlar saremmo a pena uditi.
Come quel fiume cha proprio cammino
prima dal Monte Viso nver levante,
da la sinistra costa dApennino,
che si chiama Acquacheta suso, avante
che si divalli giù nel basso letto,
e a Forlì di quel nome è vacante,
rimbomba là sovra San Benedetto
de lAlpe per cadere ad una scesa
ove dovea per mille esser recetto;
così, giù duna ripa discoscesa,
trovammo risonar quell acqua tinta,
sì che n poc ora avria lorecchia offesa.
Io avea una corda intorno cinta,
e con essa pensai alcuna volta
prender la lonza a la pelle dipinta.
Poscia chio lebbi tutta da me sciolta,
sì come l duca mavea comandato,
porsila a lui aggroppata e ravvolta.
Ond ei si volse inver lo destro lato,
e alquanto di lunge da la sponda
la gittò giuso in quell alto burrato.
E pur convien che novità risponda,
dicea fra me medesmo, al novo cenno
che l maestro con locchio sì seconda.
Ahi quanto cauti li uomini esser dienno
presso a color che non veggion pur lovra,
ma per entro i pensier miran col senno!
El disse a me: «Tosto verrà di sovra
ciò chio attendo e che il tuo pensier sogna;
tosto convien chal tuo viso si scovra».
Sempre a quel ver cha faccia di menzogna
de luom chiuder le labbra fin chel puote,
però che sanza colpa fa vergogna;
ma qui tacer nol posso; e per le note
di questa comedìa, lettor, ti giuro,
selle non sien di lunga grazia vòte,
chi vidi per quell aere grosso e scuro
venir notando una figura in suso,
maravigliosa ad ogne cor sicuro,
sì come torna colui che va giuso
talora a solver làncora chaggrappa
o scoglio o altro che nel mare è chiuso,
che n sù si stende e da piè si rattrappa.
Inferno Canto XVII
«Ecco la fiera con la coda aguzza,
che passa i monti e rompe i muri e larmi!
Ecco colei che tutto l mondo appuzza!».
Sì cominciò lo mio duca a parlarmi;
e accennolle che venisse a proda,
vicino al fin di passeggiati marmi.
E quella sozza imagine di froda
sen venne, e arrivò la testa e l busto,
ma n su la riva non trasse la coda.
La faccia sua era faccia duom giusto,
tanto benigna avea di fuor la pelle,
e dun serpente tutto laltro fusto;
due branche avea pilose insin lascelle;
lo dosso e l petto e ambedue le coste
dipinti avea di nodi e di rotelle.
Con più color, sommesse e sovraposte
non fer mai drappi Tartari né Turchi,
né fuor tai tele per Aragne imposte.
Come talvolta stanno a riva i burchi,
che parte sono in acqua e parte in terra,
e come là tra li Tedeschi lurchi
lo bivero sassetta a far sua guerra,
così la fiera pessima si stava
su lorlo chè di pietra e l sabbion serra.
Nel vano tutta sua coda guizzava,
torcendo in sù la venenosa forca
cha guisa di scorpion la punta armava.
Lo duca disse: «Or convien che si torca
la nostra via un poco insino a quella
bestia malvagia che colà si corca».
Però scendemmo a la destra mammella,
e diece passi femmo in su lo stremo,
per ben cessar la rena e la fiammella.
E quando noi a lei venuti semo,
poco più oltre veggio in su la rena
gente seder propinqua al loco scemo.
Quivi l maestro «Acciò che tutta piena
esperïenza desto giron porti»,
mi disse, «va, e vedi la lor mena.
Li tuoi ragionamenti sian là corti;
mentre che torni, parlerò con questa,
che ne conceda i suoi omeri forti».
Così ancor su per la strema testa
di quel settimo cerchio tutto solo
andai, dove sedea la gente mesta.
Per li occhi fora scoppiava lor duolo;
di qua, di là soccorrien con le mani
quando a vapori, e quando al caldo suolo:
non altrimenti fan di state i cani
or col ceffo or col piè, quando son morsi
o da pulci o da mosche o da tafani.
Poi che nel viso a certi li occhi porsi,
ne quali l doloroso foco casca,
non ne conobbi alcun; ma io maccorsi
che dal collo a ciascun pendea una tasca
chavea certo colore e certo segno,
e quindi par che l loro occhio si pasca.
E com io riguardando tra lor vegno,
in una borsa gialla vidi azzurro
che dun leone avea faccia e contegno.
Poi, procedendo di mio sguardo il curro,
vidine unaltra come sangue rossa,
mostrando unoca bianca più che burro.
E un che duna scrofa azzurra e grossa
segnato avea lo suo sacchetto bianco,
mi disse: «Che fai tu in questa fossa?
Or te ne va; e perché se vivo anco,
sappi che l mio vicin Vitalïano
sederà qui dal mio sinistro fianco.
Con questi Fiorentin son padoano:
spesse fïate mi ntronan li orecchi
gridando: Vegna l cavalier sovrano,
che recherà la tasca con tre becchi!».
Qui distorse la bocca e di fuor trasse
la lingua, come bue che l naso lecchi.
E io, temendo no l più star crucciasse
lui che di poco star mavea mmonito,
tornami in dietro da lanime lasse.
Trova il duca mio chera salito
già su la groppa del fiero animale,
e disse a me: «Or sie forte e ardito.
Omai si scende per sì fatte scale;
monta dinanzi, chi voglio esser mezzo,
sì che la coda non possa far male».
Qual è colui che sì presso ha l riprezzo
de la quartana, cha già lunghie smorte,
e triema tutto pur guardando l rezzo,
tal divenn io a le parole porte;
ma vergogna mi fé le sue minacce,
che innanzi a buon segnor fa servo forte.
I massettai in su quelle spallacce;
sì volli dir, ma la voce non venne
com io credetti: Fa che tu mabbracce.
Ma esso, chaltra volta mi sovvenne
ad altro forse, tosto chi montai
con le braccia mavvinse e mi sostenne;
e disse: «Gerïon, moviti omai:
le rote larghe, e lo scender sia poco;
pensa la nova soma che tu hai».
Come la navicella esce di loco
in dietro in dietro, sì quindi si tolse;
e poi chal tutto si sentì a gioco,
là v era l petto, la coda rivolse,
e quella tesa, come anguilla, mosse,
e con le branche laere a sé raccolse.
Maggior paura non credo che fosse
quando Fetonte abbandonò li freni,
per che l ciel, come pare ancor, si cosse;
né quando Icaro misero le reni
sentì spennar per la scaldata cera,
gridando il padre a lui «Mala via tieni!»,
che fu la mia, quando vidi chi era
ne laere dogne parte, e vidi spenta
ogne veduta fuor che de la fera.
Ella sen va notando lenta lenta;
rota e discende, ma non me naccorgo
se non che al viso e di sotto mi venta.
Io sentia già da la man destra il gorgo
far sotto noi un orribile scroscio,
per che con li occhi n giù la testa sporgo.
Allor fu io più timido a lo stoscio,
però chi vidi fuochi e senti pianti;
ond io tremando tutto mi raccoscio.
E vidi poi, ché nol vedea davanti,
lo scendere e l girar per li gran mali
che sappressavan da diversi canti.
Come l falcon chè stato assai su lali,
che sanza veder logoro o uccello
fa dire al falconiere «Omè, tu cali!»,
discende lasso onde si move isnello,
per cento rote, e da lunge si pone
dal suo maestro, disdegnoso e fello;
così ne puose al fondo Gerïone
al piè al piè de la stagliata rocca,
e, discarcate le nostre persone,
si dileguò come da corda cocca.
Inferno Canto XVIII
Luogo è in inferno detto Malebolge,
tutto di pietra di color ferrigno,
come la cerchia che dintorno il volge.
Nel dritto mezzo del campo maligno
vaneggia un pozzo assai largo e profondo,
di cui suo loco dicerò lordigno.
Quel cinghio che rimane adunque è tondo
tra l pozzo e l piè de lalta ripa dura,
e ha distinto in dieci valli il fondo.
Quale, dove per guardia de le mura
più e più fossi cingon li castelli,
la parte dove son rende figura,
tale imagine quivi facean quelli;
e come a tai fortezze da lor sogli
a la ripa di fuor son ponticelli,
così da imo de la roccia scogli
movien che ricidien li argini e fossi
infino al pozzo che i tronca e raccogli.
In questo luogo, de la schiena scossi
di Gerïon, trovammoci; e l poeta
tenne a sinistra, e io dietro mi mossi.
A la man destra vidi nova pieta,
novo tormento e novi frustatori,
di che la prima bolgia era repleta.
Nel fondo erano ignudi i peccatori;
dal mezzo in qua ci venien verso l volto,
di là con noi, ma con passi maggiori,
come i Roman per lessercito molto,
lanno del giubileo, su per lo ponte
hanno a passar la gente modo colto,
che da lun lato tutti hanno la fronte
verso l castello e vanno a Santo Pietro,
da laltra sponda vanno verso l monte.
Di qua, di là, su per lo sasso tetro
vidi demon cornuti con gran ferze,
che li battien crudelmente di retro.
Ahi come facean lor levar le berze
a le prime percosse! già nessuno
le seconde aspettava né le terze.
Mentr io andava, li occhi miei in uno
furo scontrati; e io sì tosto dissi:
«Già di veder costui non son digiuno».
Per chïo a figurarlo i piedi affissi;
e l dolce duca meco si ristette,
e assentio chalquanto in dietro gissi.
E quel frustato celar si credette
bassando l viso; ma poco li valse,
chio dissi: «O tu che locchio a terra gette,
se le fazion che porti non son false,
Venedico se tu Caccianemico.
Ma che ti mena a sì pungenti salse?».
Ed elli a me: «Mal volontier lo dico;
ma sforzami la tua chiara favella,
che mi fa sovvenir del mondo antico.
I fui colui che la Ghisolabella
condussi a far la voglia del marchese,
come che suoni la sconcia novella.
E non pur io qui piango bolognese;
anzi nè questo loco tanto pieno,
che tante lingue non son ora apprese
a dicer sipa tra Sàvena e Reno;
e se di ciò vuoi fede o testimonio,
rècati a mente il nostro avaro seno».
Così parlando il percosse un demonio
de la sua scurïada, e disse: «Via,
ruffian! qui non son femmine da conio».
I mi raggiunsi con la scorta mia;
poscia con pochi passi divenimmo
là v uno scoglio de la ripa uscia.
Assai leggeramente quel salimmo;
e vòlti a destra su per la sua scheggia,
da quelle cerchie etterne ci partimmo.
Quando noi fummo là dov el vaneggia
di sotto per dar passo a li sferzati,
lo duca disse: «Attienti, e fa che feggia
lo viso in te di quest altri mal nati,
ai quali ancor non vedesti la faccia
però che son con noi insieme andati».
Del vecchio ponte guardavam la traccia
che venìa verso noi da laltra banda,
e che la ferza similmente scaccia.
E l buon maestro, sanza mia dimanda,
mi disse: «Guarda quel grande che vene,
e per dolor non par lagrime spanda:
quanto aspetto reale ancor ritene!
Quelli è Iasón, che per cuore e per senno
li Colchi del monton privati féne.
Ello passò per lisola di Lenno
poi che lardite femmine spietate
tutti li maschi loro a morte dienno.
Ivi con segni e con parole ornate
Isifile ingannò, la giovinetta
che prima avea tutte laltre ingannate.
Lasciolla quivi, gravida, soletta;
tal colpa a tal martiro lui condanna;
e anche di Medea si fa vendetta.
Con lui sen va chi da tal parte inganna;
e questo basti de la prima valle
sapere e di color che n sé assanna».
Già eravam là ve lo stretto calle
con largine secondo sincrocicchia,
e fa di quello ad un altr arco spalle.
Quindi sentimmo gente che si nicchia
ne laltra bolgia e che col muso scuffa,
e sé medesma con le palme picchia.
Le ripe eran grommate duna muffa,
per lalito di giù che vi sappasta,
che con li occhi e col naso facea zuffa.
Lo fondo è cupo sì, che non ci basta
loco a veder sanza montare al dosso
de larco, ove lo scoglio più sovrasta.
Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso
vidi gente attuffata in uno sterco
che da li uman privadi parea mosso.
E mentre chio là giù con locchio cerco,
vidi un col capo sì di merda lordo,
che non parëa sera laico o cherco.
Quei mi sgridò: «Perché se tu sì gordo
di riguardar più me che li altri brutti?».
E io a lui: «Perché, se ben ricordo,
già tho veduto coi capelli asciutti,
e se Alessio Interminei da Lucca:
però tadocchio più che li altri tutti».
Ed elli allor, battendosi la zucca:
«Qua giù mhanno sommerso le lusinghe
ond io non ebbi mai la lingua stucca».
Appresso ciò lo duca «Fa che pinghe»,
mi disse, «il viso un poco più avante,
sì che la faccia ben con locchio attinghe
di quella sozza e scapigliata fante
che là si graffia con lunghie merdose,
e or saccoscia e ora è in piedi stante.
Taïde è, la puttana che rispuose
al drudo suo quando disse Ho io grazie
grandi apo te?: Anzi maravigliose!.
E quinci sian le nostre viste sazie».
Inferno Canto XIX
O Simon mago, o miseri seguaci
che le cose di Dio, che di bontate
deon essere spose, e voi rapaci
per oro e per argento avolterate,
or convien che per voi suoni la tromba,
però che ne la terza bolgia state.
Già eravamo, a la seguente tomba,
montati de lo scoglio in quella parte
cha punto sovra mezzo l fosso piomba.
O somma sapïenza, quanta è larte
che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo,
e quanto giusto tua virtù comparte!
Io vidi per le coste e per lo fondo
piena la pietra livida di fóri,
dun largo tutti e ciascun era tondo.
Non mi parean men ampi né maggiori
che que che son nel mio bel San Giovanni,
fatti per loco di battezzatori;
lun de li quali, ancor non è molt anni,
rupp io per un che dentro vannegava:
e questo sia suggel chogn omo sganni.
Fuor de la bocca a ciascun soperchiava
dun peccator li piedi e de le gambe
infino al grosso, e laltro dentro stava.
Le piante erano a tutti accese intrambe;
per che sì forte guizzavan le giunte,
che spezzate averien ritorte e strambe.
Qual suole il fiammeggiar de le cose unte
muoversi pur su per la strema buccia,
tal era lì dai calcagni a le punte.
«Chi è colui, maestro, che si cruccia
guizzando più che li altri suoi consorti»,
diss io, «e cui più roggia fiamma succia?».
Ed elli a me: «Se tu vuo chi ti porti
là giù per quella ripa che più giace,
da lui saprai di sé e de suoi torti».
E io: «Tanto mè bel, quanto a te piace:
tu se segnore, e sai chi non mi parto
dal tuo volere, e sai quel che si tace».
Allor venimmo in su largine quarto;
volgemmo e discendemmo a mano stanca
là giù nel fondo foracchiato e arto.
Lo buon maestro ancor de la sua anca
non mi dipuose, sì mi giunse al rotto
di quel che si piangeva con la zanca.
«O qual che se che l di sù tien di sotto,
anima trista come pal commessa»,
comincia io a dir, «se puoi, fa motto».
Io stava come l frate che confessa
lo perfido assessin, che, poi chè fitto,
richiama lui per che la morte cessa.
Ed el gridò: «Se tu già costì ritto,
se tu già costì ritto, Bonifazio?
Di parecchi anni mi mentì lo scritto.
Se tu sì tosto di quell aver sazio
per lo qual non temesti tòrre a nganno
la bella donna, e poi di farne strazio?».
Tal mi fec io, quai son color che stanno,
per non intender ciò chè lor risposto,
quasi scornati, e risponder non sanno.
Allor Virgilio disse: «Dilli tosto:
Non son colui, non son colui che credi»;
e io rispuosi come a me fu imposto.
Per che lo spirto tutti storse i piedi;
poi, sospirando e con voce di pianto,
mi disse: «Dunque che a me richiedi?
Se di saper chi sia ti cal cotanto,
che tu abbi però la ripa corsa,
sappi chi fui vestito del gran manto;
e veramente fui figliuol de lorsa,
cupido sì per avanzar li orsatti,
che sù lavere e qui me misi in borsa.
Di sotto al capo mio son li altri tratti
che precedetter me simoneggiando,
per le fessure de la pietra piatti.
Là giù cascherò io altresì quando
verrà colui chi credea che tu fossi,
allor chi feci l sùbito dimando.
Ma più è l tempo già che i piè mi cossi
e chi son stato così sottosopra,
chel non starà piantato coi piè rossi:
ché dopo lui verrà di più laida opra,
di ver ponente, un pastor sanza legge,
tal che convien che lui e me ricuopra.
Nuovo Iasón sarà, di cui si legge
ne Maccabei; e come a quel fu molle
suo re, così fia lui chi Francia regge».
Io non so si mi fui qui troppo folle,
chi pur rispuosi lui a questo metro:
«Deh, or mi dì: quanto tesoro volle
Nostro Segnore in prima da san Pietro
chei ponesse le chiavi in sua balìa?
Certo non chiese se non Viemmi retro.
Né Pier né li altri tolsero a Matia
oro od argento, quando fu sortito
al loco che perdé lanima ria.
Però ti sta, ché tu se ben punito;
e guarda ben la mal tolta moneta
chesser ti fece contra Carlo ardito.
E se non fosse chancor lo mi vieta
la reverenza de le somme chiavi
che tu tenesti ne la vita lieta,
io userei parole ancor più gravi;
ché la vostra avarizia il mondo attrista,
calcando i buoni e sollevando i pravi.
Di voi pastor saccorse il Vangelista,
quando colei che siede sopra lacque
puttaneggiar coi regi a lui fu vista;
quella che con le sette teste nacque,
e da le diece corna ebbe argomento,
fin che virtute al suo marito piacque.
Fatto vavete dio doro e dargento;
e che altro è da voi a lidolatre,
se non chelli uno, e voi ne orate cento?
Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!».
E mentr io li cantava cotai note,
o ira o coscïenza che l mordesse,
forte spingava con ambo le piote.
I credo ben chal mio duca piacesse,
con sì contenta labbia sempre attese
lo suon de le parole vere espresse.
Però con ambo le braccia mi prese;
e poi che tutto su mi sebbe al petto,
rimontò per la via onde discese.
Né si stancò davermi a sé distretto,
sì men portò sovra l colmo de larco
che dal quarto al quinto argine è tragetto.
Quivi soavemente spuose il carco,
soave per lo scoglio sconcio ed erto
che sarebbe a le capre duro varco.
Indi un altro vallon mi fu scoperto.
Inferno Canto XX
Di nova pena mi conven far versi
e dar matera al ventesimo canto
de la prima canzon, chè di sommersi.
Io era già disposto tutto quanto
a riguardar ne lo scoperto fondo,
che si bagnava dangoscioso pianto;
e vidi gente per lo vallon tondo
venir, tacendo e lagrimando, al passo
che fanno le letane in questo mondo.
Come l viso mi scese in lor più basso,
mirabilmente apparve esser travolto
ciascun tra l mento e l principio del casso,
ché da le reni era tornato l volto,
e in dietro venir li convenia,
perché l veder dinanzi era lor tolto.
Forse per forza già di parlasia
si travolse così alcun del tutto;
ma io nol vidi, né credo che sia.
Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto
di tua lezione, or pensa per te stesso
com io potea tener lo viso asciutto,
quando la nostra imagine di presso
vidi sì torta, che l pianto de li occhi
le natiche bagnava per lo fesso.
Certo io piangea, poggiato a un de rocchi
del duro scoglio, sì che la mia scorta
mi disse: «Ancor se tu de li altri sciocchi?
Qui vive la pietà quand è ben morta;
chi è più scellerato che colui
che al giudicio divin passion comporta?
Drizza la testa, drizza, e vedi a cui
saperse a li occhi di Teban la terra;
per chei gridavan tutti: Dove rui,
Anfïarao? perché lasci la guerra?.
E non restò di ruinare a valle
fino a Minòs che ciascheduno afferra.
Mira cha fatto petto de le spalle;
perché volle veder troppo davante,
di retro guarda e fa retroso calle.
Vedi Tiresia, che mutò sembiante
quando di maschio femmina divenne,
cangiandosi le membra tutte quante;
e prima, poi, ribatter li convenne
li duo serpenti avvolti, con la verga,
che rïavesse le maschili penne.
Aronta è quel chal ventre li satterga,
che ne monti di Luni, dove ronca
lo Carrarese che di sotto alberga,
ebbe tra bianchi marmi la spelonca
per sua dimora; onde a guardar le stelle
e l mar non li era la veduta tronca.
E quella che ricuopre le mammelle,
che tu non vedi, con le trecce sciolte,
e ha di là ogne pilosa pelle,
Manto fu, che cercò per terre molte;
poscia si puose là dove nacqu io;
onde un poco mi piace che mascolte.
Poscia che l padre suo di vita uscìo
e venne serva la città di Baco,
questa gran tempo per lo mondo gio.
Suso in Italia bella giace un laco,
a piè de lAlpe che serra Lamagna
sovra Tiralli, cha nome Benaco.
Per mille fonti, credo, e più si bagna
tra Garda e Val Camonica e Pennino
de lacqua che nel detto laco stagna.
Loco è nel mezzo là dove l trentino
pastore e quel di Brescia e l veronese
segnar poria, se fesse quel cammino.
Siede Peschiera, bello e forte arnese
da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi,
ove la riva ntorno più discese.
Ivi convien che tutto quanto caschi
ciò che n grembo a Benaco star non può,
e fassi fiume giù per verdi paschi.
Tosto che lacqua a correr mette co,
non più Benaco, ma Mencio si chiama
fino a Governol, dove cade in Po.
Non molto ha corso, chel trova una lama,
ne la qual si distende e la mpaluda;
e suol di state talor essere grama.
Quindi passando la vergine cruda
vide terra, nel mezzo del pantano,
sanza coltura e dabitanti nuda.
Lì, per fuggire ogne consorzio umano,
ristette con suoi servi a far sue arti,
e visse, e vi lasciò suo corpo vano.
Li uomini poi che ntorno erano sparti
saccolsero a quel loco, chera forte
per lo pantan chavea da tutte parti.
Fer la città sovra quell ossa morte;
e per colei che l loco prima elesse,
Mantüa lappellar sanz altra sorte.
Già fuor le genti sue dentro più spesse,
prima che la mattia da Casalodi
da Pinamonte inganno ricevesse.
Però tassenno che, se tu mai odi
originar la mia terra altrimenti,
la verità nulla menzogna frodi».
E io: «Maestro, i tuoi ragionamenti
mi son sì certi e prendon sì mia fede,
che li altri mi sarien carboni spenti.
Ma dimmi, de la gente che procede,
se tu ne vedi alcun degno di nota;
ché solo a ciò la mia mente rifiede».
Allor mi disse: «Quel che da la gota
porge la barba in su le spalle brune,
fuquando Grecia fu di maschi vòta,
sì cha pena rimaser per le cune
augure, e diede l punto con Calcanta
in Aulide a tagliar la prima fune.
Euripilo ebbe nome, e così l canta
lalta mia tragedìa in alcun loco:
ben lo sai tu che la sai tutta quanta.
Quell altro che ne fianchi è così poco,
Michele Scotto fu, che veramente
de le magiche frode seppe l gioco.
Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente,
chavere inteso al cuoio e a lo spago
ora vorrebbe, ma tardi si pente.
Vedi le triste che lasciaron lago,
la spuola e l fuso, e fecersi ndivine;
fecer malie con erbe e con imago.
Ma vienne omai, ché già tiene l confine
damendue li emisperi e tocca londa
sotto Sobilia Caino e le spine;
e già iernotte fu la luna tonda:
ben ten de ricordar, ché non ti nocque
alcuna volta per la selva fonda».
Sì mi parlava, e andavamo introcque.
Inferno Canto XXI
Così di ponte in ponte, altro parlando
che la mia comedìa cantar non cura,
venimmo; e tenavamo l colmo, quando
restammo per veder laltra fessura
di Malebolge e li altri pianti vani;
e vidila mirabilmente oscura.
Quale ne larzanà de Viniziani
bolle linverno la tenace pece
a rimpalmare i legni lor non sani,
ché navicar non ponnoin quella vece
chi fa suo legno novo e chi ristoppa
le coste a quel che più vïaggi fece;
chi ribatte da proda e chi da poppa;
altri fa remi e altri volge sarte;
chi terzeruolo e artimon rintoppa:
tal, non per foco ma per divin arte,
bollia là giuso una pegola spessa,
che nviscava la ripa dogne parte.
I vedea lei, ma non vedëa in essa
mai che le bolle che l bollor levava,
e gonfiar tutta, e riseder compressa.
Mentr io là giù fisamente mirava,
lo duca mio, dicendo «Guarda, guarda!»,
mi trasse a sé del loco dov io stava.
Allor mi volsi come luom cui tarda
di veder quel che li convien fuggire
e cui paura sùbita sgagliarda,
che, per veder, non indugia l partire:
e vidi dietro a noi un diavol nero
correndo su per lo scoglio venire.
Ahi quant elli era ne laspetto fero!
e quanto mi parea ne latto acerbo,
con lali aperte e sovra i piè leggero!
Lomero suo, chera aguto e superbo,
carcava un peccator con ambo lanche,
e quei tenea de piè ghermito l nerbo.
Del nostro ponte disse: «O Malebranche,
ecco un de li anzïan di Santa Zita!
Mettetel sotto, chi torno per anche
a quella terra, che nè ben fornita:
ogn uom vè barattier, fuor che Bonturo;
del no, per li denar, vi si fa ita».
Là giù l buttò, e per lo scoglio duro
si volse; e mai non fu mastino sciolto
con tanta fretta a seguitar lo furo.
Quel sattuffò, e tornò sù convolto;
ma i demon che del ponte avean coperchio,
gridar: «Qui non ha loco il Santo Volto!
qui si nuota altrimenti che nel Serchio!
Però, se tu non vuo di nostri graffi,
non far sopra la pegola soverchio».
Poi laddentar con più di cento raffi,
disser: «Coverto convien che qui balli,
sì che, se puoi, nascosamente accaffi».
Non altrimenti i cuoci a lor vassalli
fanno attuffare in mezzo la caldaia
la carne con li uncin, perché non galli.
Lo buon maestro «Acciò che non si paia
che tu ci sia», mi disse, «giù tacquatta
dopo uno scheggio, chalcun schermo taia;
e per nulla offension che mi sia fatta,
non temer tu, chi ho le cose conte,
perch altra volta fui a tal baratta».
Poscia passò di là dal co del ponte;
e com el giunse in su la ripa sesta,
mestier li fu daver sicura fronte.
Con quel furore e con quella tempesta
chescono i cani a dosso al poverello
che di sùbito chiede ove sarresta,
usciron quei di sotto al ponticello,
e volser contra lui tutt i runcigli;
ma el gridò: «Nessun di voi sia fello!
Innanzi che luncin vostro mi pigli,
traggasi avante lun di voi che moda,
e poi darruncigliarmi si consigli».
Tutti gridaron: «Vada Malacoda!»;
per chun si mossee li altri stetter fermi
e venne a lui dicendo: «Che li approda?».
«Credi tu, Malacoda, qui vedermi
esser venuto», disse l mio maestro,
«sicuro già da tutti vostri schermi,
sanza voler divino e fato destro?
Lascian andar, ché nel cielo è voluto
chi mostri altrui questo cammin silvestro».
Allor li fu lorgoglio sì caduto,
che si lasciò cascar luncino a piedi,
e disse a li altri: «Omai non sia feruto».
E l duca mio a me: «O tu che siedi
tra li scheggion del ponte quatto quatto,
sicuramente omai a me ti riedi».
Per chio mi mossi e a lui venni ratto;
e i diavoli si fecer tutti avanti,
sì chio temetti chei tenesser patto;
così vid ïo già temer li fanti
chuscivan patteggiati di Caprona,
veggendo sé tra nemici cotanti.
I maccostai con tutta la persona
lungo l mio duca, e non torceva li occhi
da la sembianza lor chera non buona.
Ei chinavan li raffi e «Vuo che l tocchi»,
diceva lun con laltro, «in sul groppone?».
E rispondien: «Sì, fa che gliel accocchi».
Ma quel demonio che tenea sermone
col duca mio, si volse tutto presto
e disse: «Posa, posa, Scarmiglione!».
Poi disse a noi: «Più oltre andar per questo
iscoglio non si può, però che giace
tutto spezzato al fondo larco sesto.
E se landare avante pur vi piace,
andatevene su per questa grotta;
presso è un altro scoglio che via face.
Ier, più oltre cinqu ore che quest otta,
mille dugento con sessanta sei
anni compié che qui la via fu rotta.
Io mando verso là di questi miei
a riguardar salcun se ne sciorina;
gite con lor, che non saranno rei».
«Trati avante, Alichino, e Calcabrina»,
cominciò elli a dire, «e tu, Cagnazzo;
e Barbariccia guidi la decina.
Libicocco vegn oltre e Draghignazzo,
Cirïatto sannuto e Graffiacane
e Farfarello e Rubicante pazzo.
Cercate ntorno le boglienti pane;
costor sian salvi infino a laltro scheggio
che tutto intero va sovra le tane».
«Omè, maestro, che è quel chi veggio?»,
diss io, «deh, sanza scorta andianci soli,
se tu sa ir; chi per me non la cheggio.
Se tu se sì accorto come suoli,
non vedi tu che digrignan li denti
e con le ciglia ne minaccian duoli?».
Ed elli a me: «Non vo che tu paventi;
lasciali digrignar pur a lor senno,
che fanno ciò per li lessi dolenti».
Per largine sinistro volta dienno;
ma prima avea ciascun la lingua stretta
coi denti, verso lor duca, per cenno;
ed elli avea del cul fatto trombetta.
Inferno Canto XXII
Io vidi già cavalier muover campo,
e cominciare stormo e far lor mostra,
e talvolta partir per loro scampo;
corridor vidi per la terra vostra,
o Aretini, e vidi gir gualdane,
fedir torneamenti e correr giostra;
quando con trombe, e quando con campane,
con tamburi e con cenni di castella,
e con cose nostrali e con istrane;
né già con sì diversa cennamella
cavalier vidi muover né pedoni,
né nave a segno di terra o di stella.
Noi andavam con li diece demoni.
Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa
coi santi, e in taverna coi ghiottoni.
Pur a la pegola era la mia ntesa,
per veder de la bolgia ogne contegno
e de la gente chentro vera incesa.
Come i dalfini, quando fanno segno
a marinar con larco de la schiena
che sargomentin di campar lor legno,
talor così, ad alleggiar la pena,
mostrav alcun de peccatori l dosso
e nascondea in men che non balena.
E come a lorlo de lacqua dun fosso
stanno i ranocchi pur col muso fuori,
sì che celano i piedi e laltro grosso,
sì stavan dogne parte i peccatori;
ma come sappressava Barbariccia,
così si ritraén sotto i bollori.
I vidi, e anco il cor me naccapriccia,
uno aspettar così, com elli ncontra
chuna rana rimane e laltra spiccia;
e Graffiacan, che li era più di contra,
li arruncigliò le mpegolate chiome
e trassel sù, che mi parve una lontra.
I sapea già di tutti quanti l nome,
sì li notai quando fuorono eletti,
e poi che si chiamaro, attesi come.
«O Rubicante, fa che tu li metti
li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!»,
gridavan tutti insieme i maladetti.
E io: «Maestro mio, fa, se tu puoi,
che tu sappi chi è lo sciagurato
venuto a man de li avversari suoi».
Lo duca mio li saccostò allato;
domandollo ond ei fosse, e quei rispuose:
«I fui del regno di Navarra nato.
Mia madre a servo dun segnor mi puose,
che mavea generato dun ribaldo,
distruggitor di sé e di sue cose.
Poi fui famiglia del buon re Tebaldo;
quivi mi misi a far baratteria,
di chio rendo ragione in questo caldo».
E Cirïatto, a cui di bocca uscia
dogne parte una sanna come a porco,
li fé sentir come luna sdruscia.
Tra male gatte era venuto l sorco;
ma Barbariccia il chiuse con le braccia
e disse: «State in là, mentr io lo nforco».
E al maestro mio volse la faccia;
«Domanda», disse, «ancor, se più disii
saper da lui, prima chaltri l disfaccia».
Lo duca dunque: «Or dì: de li altri rii
conosci tu alcun che sia latino
sotto la pece?». E quelli: «I mi partii,
poco è, da un che fu di là vicino.
Così foss io ancor con lui coperto,
chi non temerei unghia né uncino!».
E Libicocco «Troppo avem sofferto»,
disse; e preseli l braccio col runciglio,
sì che, stracciando, ne portò un lacerto.
Draghignazzo anco i volle dar di piglio
giuso a le gambe; onde l decurio loro
si volse intorno intorno con mal piglio.
Quand elli un poco rappaciati fuoro,
a lui, chancor mirava sua ferita,
domandò l duca mio sanza dimoro:
«Chi fu colui da cui mala partita
di che facesti per venire a proda?».
Ed ei rispuose: «Fu frate Gomita,
quel di Gallura, vasel dogne froda,
chebbe i nemici di suo donno in mano,
e fé sì lor, che ciascun se ne loda.
Danar si tolse e lasciolli di piano,
sì com e dice; e ne li altri offici anche
barattier fu non picciol, ma sovrano.
Usa con esso donno Michel Zanche
di Logodoro; e a dir di Sardigna
le lingue lor non si sentono stanche.
Omè, vedete laltro che digrigna;
i direi anche, ma i temo chello
non sapparecchi a grattarmi la tigna».
E l gran proposto, vòlto a Farfarello
che stralunava li occhi per fedire,
disse: «Fatti n costà, malvagio uccello!».
«Se voi volete vedere o udire»,
ricominciò lo spaürato appresso,
«Toschi o Lombardi, io ne farò venire;
ma stieno i Malebranche un poco in cesso,
sì chei non teman de le lor vendette;
e io, seggendo in questo loco stesso,
per un chio son, ne farò venir sette
quand io suffolerò, com è nostro uso
di fare allor che fori alcun si mette».
Cagnazzo a cotal motto levò l muso,
crollando l capo, e disse: «Odi malizia
chelli ha pensata per gittarsi giuso!».
Ond ei, chavea lacciuoli a gran divizia,
rispuose: «Malizioso son io troppo,
quand io procuro a mia maggior trestizia».
Alichin non si tenne e, di rintoppo
a li altri, disse a lui: «Se tu ti cali,
io non ti verrò dietro di gualoppo,
ma batterò sovra la pece lali.
Lascisi l collo, e sia la ripa scudo,
a veder se tu sol più di noi vali».
O tu che leggi, udirai nuovo ludo:
ciascun da laltra costa li occhi volse,
quel prima, cha ciò fare era più crudo.
Lo Navarrese ben suo tempo colse;
fermò le piante a terra, e in un punto
saltò e dal proposto lor si sciolse.
Di che ciascun di colpa fu compunto,
ma quei più che cagion fu del difetto;
però si mosse e gridò: «Tu se giunto!».
Ma poco i valse: ché lali al sospetto
non potero avanzar; quelli andò sotto,
e quei drizzò volando suso il petto:
non altrimenti lanitra di botto,
quando l falcon sappressa, giù sattuffa,
ed ei ritorna sù crucciato e rotto.
Irato Calcabrina de la buffa,
volando dietro li tenne, invaghito
che quei campasse per aver la zuffa;
e come l barattier fu disparito,
così volse li artigli al suo compagno,
e fu con lui sopra l fosso ghermito.
Ma laltro fu bene sparvier grifagno
ad artigliar ben lui, e amendue
cadder nel mezzo del bogliente stagno.
Lo caldo sghermitor sùbito fue;
ma però di levarsi era neente,
sì avieno inviscate lali sue.
Barbariccia, con li altri suoi dolente,
quattro ne fé volar da laltra costa
con tutt i raffi, e assai prestamente
di qua, di là discesero a la posta;
porser li uncini verso li mpaniati,
cheran già cotti dentro da la crosta.
E noi lasciammo lor così mpacciati.
Inferno Canto XXIII
Taciti, soli, sanza compagnia
nandavam lun dinanzi e laltro dopo,
come frati minor vanno per via.
Vòlt era in su la favola dIsopo
lo mio pensier per la presente rissa,
dov el parlò de la rana e del topo;
ché più non si pareggia mo e issa
che lun con laltro fa, se ben saccoppia
principio e fine con la mente fissa.
E come lun pensier de laltro scoppia,
così nacque di quello un altro poi,
che la prima paura mi fé doppia.
Io pensava così: Questi per noi
sono scherniti con danno e con beffa
sì fatta, chassai credo che lor nòi.
Se lira sovra l mal voler saggueffa,
ei ne verranno dietro più crudeli
che l cane a quella lievre chelli acceffa.
Già mi sentia tutti arricciar li peli
de la paura e stava in dietro intento,
quand io dissi: «Maestro, se non celi
te e me tostamente, i ho pavento
di Malebranche. Noi li avem già dietro;
io li magino sì, che già li sento».
E quei: «Si fossi di piombato vetro,
limagine di fuor tua non trarrei
più tosto a me, che quella dentro mpetro.
Pur mo venieno i tuo pensier tra miei,
con simile atto e con simile faccia,
sì che dintrambi un sol consiglio fei.
Selli è che sì la destra costa giaccia,
che noi possiam ne laltra bolgia scendere,
noi fuggirem limaginata caccia».
Già non compié di tal consiglio rendere,
chio li vidi venir con lali tese
non molto lungi, per volerne prendere.
Lo duca mio di sùbito mi prese,
come la madre chal romore è desta
e vede presso a sé le fiamme accese,
che prende il figlio e fugge e non sarresta,
avendo più di lui che di sé cura,
tanto che solo una camiscia vesta;
e giù dal collo de la ripa dura
supin si diede a la pendente roccia,
che lun de lati a laltra bolgia tura.
Non corse mai sì tosto acqua per doccia
a volger ruota di molin terragno,
quand ella più verso le pale approccia,
come l maestro mio per quel vivagno,
portandosene me sovra l suo petto,
come suo figlio, non come compagno.
A pena fuoro i piè suoi giunti al letto
del fondo giù, che furon in sul colle
sovresso noi; ma non lì era sospetto:
ché lalta provedenza che lor volle
porre ministri de la fossa quinta,
poder di partirs indi a tutti tolle.
Là giù trovammo una gente dipinta
che giva intorno assai con lenti passi,
piangendo e nel sembiante stanca e vinta.
Elli avean cappe con cappucci bassi
dinanzi a li occhi, fatte de la taglia
che in Clugnì per li monaci fassi.
Di fuor dorate son, sì chelli abbaglia;
ma dentro tutte piombo, e gravi tanto,
che Federigo le mettea di paglia.
Oh in etterno faticoso manto!
Noi ci volgemmo ancor pur a man manca
con loro insieme, intenti al tristo pianto;
ma per lo peso quella gente stanca
venìa sì pian, che noi eravam nuovi
di compagnia ad ogne mover danca.
Per chio al duca mio: «Fa che tu trovi
alcun chal fatto o al nome si conosca,
e li occhi, sì andando, intorno movi».
E un che ntese la parola tosca,
di retro a noi gridò: «Tenete i piedi,
voi che correte sì per laura fosca!
Forse chavrai da me quel che tu chiedi».
Onde l duca si volse e disse: «Aspetta,
e poi secondo il suo passo procedi».
Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta
de lanimo, col viso, desser meco;
ma tardavali l carco e la via stretta.
Quando fuor giunti, assai con locchio bieco
mi rimiraron sanza far parola;
poi si volsero in sé, e dicean seco:
«Costui par vivo a latto de la gola;
e se son morti, per qual privilegio
vanno scoperti de la grave stola?».
Poi disser me: «O Tosco, chal collegio
de lipocriti tristi se venuto,
dir chi tu se non avere in dispregio».
E io a loro: «I fui nato e cresciuto
sovra l bel fiume dArno a la gran villa,
e son col corpo chi ho sempre avuto.
Ma voi chi siete, a cui tanto distilla
quant i veggio dolor giù per le guance?
e che pena è in voi che sì sfavilla?».
E lun rispuose a me: «Le cappe rance
son di piombo sì grosse, che li pesi
fan così cigolar le lor bilance.
Frati godenti fummo, e bolognesi;
io Catalano e questi Loderingo
nomati, e da tua terra insieme presi
come suole esser tolto un uom solingo,
per conservar sua pace; e fummo tali,
chancor si pare intorno dal Gardingo».
Io cominciai: «O frati, i vostri mali . . . »;
ma più non dissi, cha locchio mi corse
un, crucifisso in terra con tre pali.
Quando mi vide, tutto si distorse,
soffiando ne la barba con sospiri;
e l frate Catalan, cha ciò saccorse,
mi disse: «Quel confitto che tu miri,
consigliò i Farisei che convenia
porre un uom per lo popolo a martìri.
Attraversato è, nudo, ne la via,
come tu vedi, ed è mestier chel senta
qualunque passa, come pesa, pria.
E a tal modo il socero si stenta
in questa fossa, e li altri dal concilio
che fu per li Giudei mala sementa».
Allor vid io maravigliar Virgilio
sovra colui chera disteso in croce
tanto vilmente ne letterno essilio.
Poscia drizzò al frate cotal voce:
«Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci
sa la man destra giace alcuna foce
onde noi amendue possiamo uscirci,
sanza costrigner de li angeli neri
che vegnan desto fondo a dipartirci».
Rispuose adunque: «Più che tu non speri
sappressa un sasso che da la gran cerchia
si move e varca tutt i vallon feri,
salvo che n questo è rotto e nol coperchia;
montar potrete su per la ruina,
che giace in costa e nel fondo soperchia».
Lo duca stette un poco a testa china;
poi disse: «Mal contava la bisogna
colui che i peccator di qua uncina».
E l frate: «Io udi già dire a Bologna
del diavol vizi assai, tra quali udi
chelli è bugiardo, e padre di menzogna».
Appresso il duca a gran passi sen gì,
turbato un poco dira nel sembiante;
ond io da li ncarcati mi parti
dietro a le poste de le care piante.
Inferno Canto XXIV
In quella parte del giovanetto anno
che l sole i crin sotto lAquario tempra
e già le notti al mezzo dì sen vanno,
quando la brina in su la terra assempra
limagine di sua sorella bianca,
ma poco dura a la sua penna tempra,
lo villanello a cui la roba manca,
si leva, e guarda, e vede la campagna
biancheggiar tutta; ond ei si batte lanca,
ritorna in casa, e qua e là si lagna,
come l tapin che non sa che si faccia;
poi riede, e la speranza ringavagna,
veggendo l mondo aver cangiata faccia
in poco dora, e prende suo vincastro
e fuor le pecorelle a pascer caccia.
Così mi fece sbigottir lo mastro
quand io li vidi sì turbar la fronte,
e così tosto al mal giunse lo mpiastro;
ché, come noi venimmo al guasto ponte,
lo duca a me si volse con quel piglio
dolce chio vidi prima a piè del monte.
Le braccia aperse, dopo alcun consiglio
eletto seco riguardando prima
ben la ruina, e diedemi di piglio.
E come quei chadopera ed estima,
che sempre par che nnanzi si proveggia,
così, levando me sù ver la cima
dun ronchione, avvisava unaltra scheggia
dicendo: «Sovra quella poi taggrappa;
ma tenta pria sè tal chella ti reggia».
Non era via da vestito di cappa,
ché noi a pena, ei lieve e io sospinto,
potavam sù montar di chiappa in chiappa.
E se non fosse che da quel precinto
più che da laltro era la costa corta,
non so di lui, ma io sarei ben vinto.
Ma perché Malebolge inver la porta
del bassissimo pozzo tutta pende,
lo sito di ciascuna valle porta
che luna costa surge e laltra scende;
noi pur venimmo al fine in su la punta
onde lultima pietra si scoscende.
La lena mera del polmon sì munta
quand io fui sù, chi non potea più oltre,
anzi massisi ne la prima giunta.
«Omai convien che tu così ti spoltre»,
disse l maestro; «ché, seggendo in piuma,
in fama non si vien, né sotto coltre;
sanza la qual chi sua vita consuma,
cotal vestigio in terra di sé lascia,
qual fummo in aere e in acqua la schiuma.
E però leva sù; vinci lambascia
con lanimo che vince ogne battaglia,
se col suo grave corpo non saccascia.
Più lunga scala convien che si saglia;
non basta da costoro esser partito.
Se tu mi ntendi, or fa sì che ti vaglia».
Levami allor, mostrandomi fornito
meglio di lena chi non mi sentia,
e dissi: «Va, chi son forte e ardito».
Su per lo scoglio prendemmo la via,
chera ronchioso, stretto e malagevole,
ed erto più assai che quel di pria.
Parlando andava per non parer fievole;
onde una voce uscì de laltro fosso,
a parole formar disconvenevole.
Non so che disse, ancor che sovra l dosso
fossi de larco già che varca quivi;
ma chi parlava ad ire parea mosso.
Io era vòlto in giù, ma li occhi vivi
non poteano ire al fondo per lo scuro;
per chio: «Maestro, fa che tu arrivi
da laltro cinghio e dismontiam lo muro;
ché, com i odo quinci e non intendo,
così giù veggio e neente affiguro».
«Altra risposta», disse, «non ti rendo
se non lo far; ché la dimanda onesta
si de seguir con lopera tacendo».
Noi discendemmo il ponte da la testa
dove saggiugne con lottava ripa,
e poi mi fu la bolgia manifesta:
e vidivi entro terribile stipa
di serpenti, e di sì diversa mena
che la memoria il sangue ancor mi scipa.
Più non si vanti Libia con sua rena;
ché se chelidri, iaculi e faree
produce, e cencri con anfisibena,
né tante pestilenzie né sì ree
mostrò già mai con tutta lEtïopia
né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe.
Tra questa cruda e tristissima copia
corrëan genti nude e spaventate,
sanza sperar pertugio o elitropia:
con serpi le man dietro avean legate;
quelle ficcavan per le ren la coda
e l capo, ed eran dinanzi aggroppate.
Ed ecco a un chera da nostra proda,
savventò un serpente che l trafisse
là dove l collo a le spalle sannoda.
Né O sì tosto mai né I si scrisse,
com el saccese e arse, e cener tutto
convenne che cascando divenisse;
e poi che fu a terra sì distrutto,
la polver si raccolse per sé stessa
e n quel medesmo ritornò di butto.
Così per li gran savi si confessa
che la fenice more e poi rinasce,
quando al cinquecentesimo anno appressa;
erba né biado in sua vita non pasce,
ma sol dincenso lagrime e damomo,
e nardo e mirra son lultime fasce.
E qual è quel che cade, e non sa como,
per forza di demon cha terra il tira,
o daltra oppilazion che lega lomo,
quando si leva, che ntorno si mira
tutto smarrito de la grande angoscia
chelli ha sofferta, e guardando sospira:
tal era l peccator levato poscia.
Oh potenza di Dio, quant è severa,
che cotai colpi per vendetta croscia!
Lo duca il domandò poi chi ello era;
per chei rispuose: «Io piovvi di Toscana,
poco tempo è, in questa gola fiera.
Vita bestial mi piacque e non umana,
sì come a mul chi fui; son Vanni Fucci
bestia, e Pistoia mi fu degna tana».
E ïo al duca: «Dilli che non mucci,
e domanda che colpa qua giù l pinse;
chio l vidi uomo di sangue e di crucci».
E l peccator, che ntese, non sinfinse,
ma drizzò verso me lanimo e l volto,
e di trista vergogna si dipinse;
poi disse: «Più mi duol che tu mhai colto
ne la miseria dove tu mi vedi,
che quando fui de laltra vita tolto.
Io non posso negar quel che tu chiedi;
in giù son messo tanto perch io fui
ladro a la sagrestia di belli arredi,
e falsamente già fu apposto altrui.
Ma perché di tal vista tu non godi,
se mai sarai di fuor da luoghi bui,
apri li orecchi al mio annunzio, e odi.
Pistoia in pria di Neri si dimagra;
poi Fiorenza rinova gente e modi.
Tragge Marte vapor di Val di Magra
chè di torbidi nuvoli involuto;
e con tempesta impetüosa e agra
sovra Campo Picen fia combattuto;
ond ei repente spezzerà la nebbia,
sì chogne Bianco ne sarà feruto.
E detto lho perché doler ti debbia!».
Inferno Canto XXV
Al fine de le sue parole il ladro
le mani alzò con amendue le fiche,
gridando: «Togli, Dio, cha te le squadro!».
Da indi in qua mi fuor le serpi amiche,
perch una li savvolse allora al collo,
come dicesse Non vo che più diche;
e unaltra a le braccia, e rilegollo,
ribadendo sé stessa sì dinanzi,
che non potea con esse dare un crollo.
Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi
dincenerarti sì che più non duri,
poi che n mal fare il seme tuo avanzi?
Per tutt i cerchi de lo nferno scuri
non vidi spirto in Dio tanto superbo,
non quel che cadde a Tebe giù da muri.
El si fuggì che non parlò più verbo;
e io vidi un centauro pien di rabbia
venir chiamando: «Ov è, ov è lacerbo?».
Maremma non cred io che tante nabbia,
quante bisce elli avea su per la groppa
infin ove comincia nostra labbia.
Sovra le spalle, dietro da la coppa,
con lali aperte li giacea un draco;
e quello affuoca qualunque sintoppa.
Lo mio maestro disse: «Questi è Caco,
che, sotto l sasso di monte Aventino,
di sangue fece spesse volte laco.
Non va co suoi fratei per un cammino,
per lo furto che frodolente fece
del grande armento chelli ebbe a vicino;
onde cessar le sue opere biece
sotto la mazza dErcule, che forse
gliene diè cento, e non sentì le diece».
Mentre che sì parlava, ed el trascorse,
e tre spiriti venner sotto noi,
de quai né io né l duca mio saccorse,
se non quando gridar: «Chi siete voi?»;
per che nostra novella si ristette,
e intendemmo pur ad essi poi.
Io non li conoscea; ma ei seguette,
come suol seguitar per alcun caso,
che lun nomar un altro convenette,
dicendo: «Cianfa dove fia rimaso?»;
per chio, acciò che l duca stesse attento,
mi puosi l dito su dal mento al naso.
Se tu se or, lettore, a creder lento
ciò chio dirò, non sarà maraviglia,
ché io che l vidi, a pena il mi consento.
Com io tenea levate in lor le ciglia,
e un serpente con sei piè si lancia
dinanzi a luno, e tutto a lui sappiglia.
Co piè di mezzo li avvinse la pancia
e con li anterïor le braccia prese;
poi li addentò e luna e laltra guancia;
li diretani a le cosce distese,
e miseli la coda tra mbedue
e dietro per le ren sù la ritese.
Ellera abbarbicata mai non fue
ad alber sì, come lorribil fiera
per laltrui membra avviticchiò le sue.
Poi sappiccar, come di calda cera
fossero stati, e mischiar lor colore,
né lun né laltro già parea quel chera:
come procede innanzi da lardore,
per lo papiro suso, un color bruno
che non è nero ancora e l bianco more.
Li altri due l riguardavano, e ciascuno
gridava: «Omè, Agnel, come ti muti!
Vedi che già non se né due né uno».
Già eran li due capi un divenuti,
quando napparver due figure miste
in una faccia, ov eran due perduti.
Fersi le braccia due di quattro liste;
le cosce con le gambe e l ventre e l casso
divenner membra che non fuor mai viste.
Ogne primaio aspetto ivi era casso:
due e nessun limagine perversa
parea; e tal sen gio con lento passo.
Come l ramarro sotto la gran fersa
dei dì canicular, cangiando sepe,
folgore par se la via attraversa,
sì pareva, venendo verso lepe
de li altri due, un serpentello acceso,
livido e nero come gran di pepe;
e quella parte onde prima è preso
nostro alimento, a lun di lor trafisse;
poi cadde giuso innanzi lui disteso.
Lo trafitto l mirò, ma nulla disse;
anzi, co piè fermati, sbadigliava
pur come sonno o febbre lassalisse.
Elli l serpente e quei lui riguardava;
lun per la piaga e laltro per la bocca
fummavan forte, e l fummo si scontrava.
Taccia Lucano ormai là dov e tocca
del misero Sabello e di Nasidio,
e attenda a udir quel chor si scocca.
Taccia di Cadmo e dAretusa Ovidio,
ché se quello in serpente e quella in fonte
converte poetando, io non lo nvidio;
ché due nature mai a fronte a fronte
non trasmutò sì chamendue le forme
a cambiar lor matera fosser pronte.
Insieme si rispuosero a tai norme,
che l serpente la coda in forca fesse,
e l feruto ristrinse insieme lorme.
Le gambe con le cosce seco stesse
sappiccar sì, che n poco la giuntura
non facea segno alcun che si paresse.
Togliea la coda fessa la figura
che si perdeva là, e la sua pelle
si facea molle, e quella di là dura.
Io vidi intrar le braccia per lascelle,
e i due piè de la fiera, cheran corti,
tanto allungar quanto accorciavan quelle.
Poscia li piè di rietro, insieme attorti,
diventaron lo membro che luom cela,
e l misero del suo navea due porti.
Mentre che l fummo luno e laltro vela
di color novo, e genera l pel suso
per luna parte e da laltra il dipela,
lun si levò e laltro cadde giuso,
non torcendo però le lucerne empie,
sotto le quai ciascun cambiava muso.
Quel chera dritto, il trasse ver le tempie,
e di troppa matera chin là venne
uscir li orecchi de le gote scempie;
ciò che non corse in dietro e si ritenne
di quel soverchio, fé naso a la faccia
e le labbra ingrossò quanto convenne.
Quel che giacëa, il muso innanzi caccia,
e li orecchi ritira per la testa
come face le corna la lumaccia;
e la lingua, chavëa unita e presta
prima a parlar, si fende, e la forcuta
ne laltro si richiude; e l fummo resta.
Lanima chera fiera divenuta,
suffolando si fugge per la valle,
e laltro dietro a lui parlando sputa.
Poscia li volse le novelle spalle,
e disse a laltro: «I vo che Buoso corra,
com ho fatt io, carpon per questo calle».
Così vid io la settima zavorra
mutare e trasmutare; e qui mi scusi
la novità se fior la penna abborra.
E avvegna che li occhi miei confusi
fossero alquanto e lanimo smagato,
non poter quei fuggirsi tanto chiusi,
chi non scorgessi ben Puccio Sciancato;
ed era quel che sol, di tre compagni
che venner prima, non era mutato;
laltr era quel che tu, Gaville, piagni.
Inferno Canto XXVI
Godi, Fiorenza, poi che se sì grande
che per mare e per terra batti lali,
e per lo nferno tuo nome si spande!
Tra li ladron trovai cinque cotali
tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
e tu in grande orranza non ne sali.
Ma se presso al mattin del ver si sogna,
tu sentirai, di qua da picciol tempo,
di quel che Prato, non chaltri, tagogna.
E se già fosse, non saria per tempo.
Così foss ei, da che pur esser dee!
ché più mi graverà, com più mattempo.
Noi ci partimmo, e su per le scalee
che navea fatto iborni a scender pria,
rimontò l duca mio e trasse mee;
e proseguendo la solinga via,
tra le schegge e tra rocchi de lo scoglio
lo piè sanza la man non si spedia.
Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò chio vidi,
e più lo ngegno affreno chi non soglio,
perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
mha dato l ben, chio stessi nol minvidi.
Quante l villan chal poggio si riposa,
nel tempo che colui che l mondo schiara
la faccia sua a noi tien meno ascosa,
come la mosca cede a la zanzara,
vede lucciole giù per la vallea,
forse colà dov e vendemmia e ara:
di tante fiamme tutta risplendea
lottava bolgia, sì com io maccorsi
tosto che fui là ve l fondo parea.
E qual colui che si vengiò con li orsi
vide l carro dElia al dipartire,
quando i cavalli al cielo erti levorsi,
che nol potea sì con li occhi seguire,
chel vedesse altro che la fiamma sola,
sì come nuvoletta, in sù salire:
tal si move ciascuna per la gola
del fosso, ché nessuna mostra l furto,
e ogne fiamma un peccatore invola.
Io stava sovra l ponte a veder surto,
sì che sio non avessi un ronchion preso,
caduto sarei giù sanz esser urto.
E l duca che mi vide tanto atteso,
disse: «Dentro dai fuochi son li spirti;
catun si fascia di quel chelli è inceso».
«Maestro mio», rispuos io, «per udirti
son io più certo; ma già mera avviso
che così fosse, e già voleva dirti:
chi è n quel foco che vien sì diviso
di sopra, che par surger de la pira
dov Eteòcle col fratel fu miso?».
Rispuose a me: «Là dentro si martira
Ulisse e Dïomede, e così insieme
a la vendetta vanno come a lira;
e dentro da la lor fiamma si geme
lagguato del caval che fé la porta
onde uscì de Romani il gentil seme.
Piangevisi entro larte per che, morta,
Deïdamìa ancor si duol dAchille,
e del Palladio pena vi si porta».
«Sei posson dentro da quelle faville
parlar», diss io, «maestro, assai ten priego
e ripriego, che l priego vaglia mille,
che non mi facci de lattender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna;
vedi che del disio ver lei mi piego!».
Ed elli a me: «La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però laccetto;
ma fa che la tua lingua si sostegna.
Lascia parlare a me, chi ho concetto
ciò che tu vuoi; chei sarebbero schivi,
perch e fuor greci, forse del tuo detto».
Poi che la fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi:
«O voi che siete due dentro ad un foco,
sio meritai di voi mentre chio vissi,
sio meritai di voi assai o poco
quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma lun di voi dica
dove, per lui, perduto a morir gissi».
Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica;
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse: «Quando
mi diparti da Circe, che sottrasse
me più dun anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enëa la nomasse,
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,
vincer potero dentro a me lardore
chi ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per lalto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.
Lun lito e laltro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e lisola di Sardi,
e laltre che quel mare intorno bagna.
Io e compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov Ercule segnò li suoi riguardi
acciò che luom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da laltra già mavea lasciata Setta.
O frati, dissi che per cento milia
perigli siete giunti a loccidente,
a questa tanto picciola vigilia
di nostri sensi chè del rimanente
non vogliate negar lesperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza.
Li miei compagni fec io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra poppa nel mattino,
de remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stelle già de laltro polo
vedea la notte, e l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo.
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ntrati eravam ne lalto passo,
quando napparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte lacque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com altrui piacque,
infin che l mar fu sovra noi richiuso».
Inferno Canto XXVII
Già era dritta in sù la fiamma e queta
per non dir più, e già da noi sen gia
con la licenza del dolce poeta,
quand unaltra, che dietro a lei venìa,
ne fece volger li occhi a la sua cima
per un confuso suon che fuor nuscia.
Come l bue cicilian che mugghiò prima
col pianto di colui, e ciò fu dritto,
che lavea temperato con sua lima,
mugghiava con la voce de lafflitto,
sì che, con tutto che fosse di rame,
pur el pareva dal dolor trafitto;
così, per non aver via né forame
dal principio nel foco, in suo linguaggio
si convertïan le parole grame.
Ma poscia chebber colto lor vïaggio
su per la punta, dandole quel guizzo
che dato avea la lingua in lor passaggio,
udimmo dire: «O tu a cu io drizzo
la voce e che parlavi mo lombardo,
dicendo Istra ten va, più non tadizzo,
perch io sia giunto forse alquanto tardo,
non tincresca restare a parlar meco;
vedi che non incresce a me, e ardo!
Se tu pur mo in questo mondo cieco
caduto se di quella dolce terra
latina ond io mia colpa tutta reco,
dimmi se Romagnuoli han pace o guerra;
chio fui di monti là intra Orbino
e l giogo di che Tever si diserra».
Io era in giuso ancora attento e chino,
quando il mio duca mi tentò di costa,
dicendo: «Parla tu; questi è latino».
E io, chavea già pronta la risposta,
sanza indugio a parlare incominciai:
«O anima che se là giù nascosta,
Romagna tua non è, e non fu mai,
sanza guerra ne cuor de suoi tiranni;
ma n palese nessuna or vi lasciai.
Ravenna sta come stata è molt anni:
laguglia da Polenta la si cova,
sì che Cervia ricuopre co suoi vanni.
La terra che fé già la lunga prova
e di Franceschi sanguinoso mucchio,
sotto le branche verdi si ritrova.
E l mastin vecchio e l nuovo da Verrucchio,
che fecer di Montagna il mal governo,
là dove soglion fan di denti succhio.
Le città di Lamone e di Santerno
conduce il lïoncel dal nido bianco,
che muta parte da la state al verno.
E quella cu il Savio bagna il fianco,
così com ella sie tra l piano e l monte,
tra tirannia si vive e stato franco.
Ora chi se, ti priego che ne conte;
non esser duro più chaltri sia stato,
se l nome tuo nel mondo tegna fronte».
Poscia che l foco alquanto ebbe rugghiato
al modo suo, laguta punta mosse
di qua, di là, e poi diè cotal fiato:
«Si credesse che mia risposta fosse
a persona che mai tornasse al mondo,
questa fiamma staria sanza più scosse;
ma però che già mai di questo fondo
non tornò vivo alcun, si odo il vero,
sanza tema dinfamia ti rispondo.
Io fui uom darme, e poi fui cordigliero,
credendomi, sì cinto, fare ammenda;
e certo il creder mio venìa intero,
se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!,
che mi rimise ne le prime colpe;
e come e quare, voglio che mintenda.
Mentre chio forma fui dossa e di polpe
che la madre mi diè, lopere mie
non furon leonine, ma di volpe.
Li accorgimenti e le coperte vie
io seppi tutte, e sì menai lor arte,
chal fine de la terra il suono uscie.
Quando mi vidi giunto in quella parte
di mia etade ove ciascun dovrebbe
calar le vele e raccoglier le sarte,
ciò che pria mi piacëa, allor mincrebbe,
e pentuto e confesso mi rendei;
ahi miser lasso! e giovato sarebbe.
Lo principe di novi Farisei,
avendo guerra presso a Laterano,
e non con Saracin né con Giudei,
ché ciascun suo nimico era cristiano,
e nessun era stato a vincer Acri
né mercatante in terra di Soldano,
né sommo officio né ordini sacri
guardò in sé, né in me quel capestro
che solea fare i suoi cinti più macri.
Ma come Costantin chiese Silvestro
dentro Siratti a guerir de la lebbre,
così mi chiese questi per maestro
a guerir de la sua superba febbre;
domandommi consiglio, e io tacetti
perché le sue parole parver ebbre.
E poi ridisse: Tuo cuor non sospetti;
finor tassolvo, e tu minsegna fare
sì come Penestrino in terra getti.
Lo ciel poss io serrare e diserrare,
come tu sai; però son due le chiavi
che l mio antecessor non ebbe care.
Allor mi pinser li argomenti gravi
là ve l tacer mi fu avviso l peggio,
e dissi: Padre, da che tu mi lavi
di quel peccato ov io mo cader deggio,
lunga promessa con lattender corto
ti farà trïunfar ne lalto seggio.
Francesco venne poi, com io fu morto,
per me; ma un di neri cherubini
li disse: Non portar: non mi far torto.
Venir se ne dee giù tra miei meschini
perché diede l consiglio frodolente,
dal quale in qua stato li sono a crini;
chassolver non si può chi non si pente,
né pentere e volere insieme puossi
per la contradizion che nol consente.
Oh me dolente! come mi riscossi
quando mi prese dicendomi: Forse
tu non pensavi chio löico fossi!.
A Minòs mi portò; e quelli attorse
otto volte la coda al dosso duro;
e poi che per gran rabbia la si morse,
disse: Questi è di rei del foco furo;
per chio là dove vedi son perduto,
e sì vestito, andando, mi rancuro».
Quand elli ebbe l suo dir così compiuto,
la fiamma dolorando si partio,
torcendo e dibattendo l corno aguto.
Noi passamm oltre, e io e l duca mio,
su per lo scoglio infino in su laltr arco
che cuopre l fosso in che si paga il fio
a quei che scommettendo acquistan carco.
Inferno Canto XXVIII
Chi poria mai pur con parole sciolte
dicer del sangue e de le piaghe a pieno
chi ora vidi, per narrar più volte?
Ogne lingua per certo verria meno
per lo nostro sermone e per la mente
channo a tanto comprender poco seno.
Sel saunasse ancor tutta la gente
che già, in su la fortunata terra
di Puglia, fu del suo sangue dolente
per li Troiani e per la lunga guerra
che de lanella fé sì alte spoglie,
come Livïo scrive, che non erra,
con quella che sentio di colpi doglie
per contastare a Ruberto Guiscardo;
e laltra il cui ossame ancor saccoglie
a Ceperan, là dove fu bugiardo
ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo,
dove sanz arme vinse il vecchio Alardo;
e qual forato suo membro e qual mozzo
mostrasse, daequar sarebbe nulla
il modo de la nona bolgia sozzo.
Già veggia, per mezzul perdere o lulla,
com io vidi un, così non si pertugia,
rotto dal mento infin dove si trulla.
Tra le gambe pendevan le minugia;
la corata pareva e l tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia.
Mentre che tutto in lui veder mattacco,
guardommi e con le man saperse il petto,
dicendo: «Or vedi com io mi dilacco!
vedi come storpiato è Mäometto!
Dinanzi a me sen va piangendo Alì,
fesso nel volto dal mento al ciuffetto.
E tutti li altri che tu vedi qui,
seminator di scandalo e di scisma
fuor vivi, e però son fessi così.
Un diavolo è qua dietro che naccisma
sì crudelmente, al taglio de la spada
rimettendo ciascun di questa risma,
quand avem volta la dolente strada;
però che le ferite son richiuse
prima chaltri dinanzi li rivada.
Ma tu chi se che n su lo scoglio muse,
forse per indugiar dire a la pena
chè giudicata in su le tue accuse?».
«Né morte l giunse ancor, né colpa l mena»,
rispuose l mio maestro, «a tormentarlo;
ma per dar lui esperïenza piena,
a me, che morto son, convien menarlo
per lo nferno qua giù di giro in giro;
e quest è ver così com io ti parlo».
Più fuor di cento che, quando ludiro,
sarrestaron nel fosso a riguardarmi
per maraviglia, oblïando il martiro.
«Or dì a fra Dolcin dunque che sarmi,
tu che forse vedra il sole in breve,
sello non vuol qui tosto seguitarmi,
sì di vivanda, che stretta di neve
non rechi la vittoria al Noarese,
chaltrimenti acquistar non saria leve».
Poi che lun piè per girsene sospese,
Mäometto mi disse esta parola;
indi a partirsi in terra lo distese.
Un altro, che forata avea la gola
e tronco l naso infin sotto le ciglia,
e non avea mai chuna orecchia sola,
ristato a riguardar per maraviglia
con li altri, innanzi a li altri aprì la canna,
chera di fuor dogne parte vermiglia,
e disse: «O tu cui colpa non condanna
e cu io vidi su in terra latina,
se troppa simiglianza non minganna,
rimembriti di Pier da Medicina,
se mai torni a veder lo dolce piano
che da Vercelli a Marcabò dichina.
E fa saper a due miglior da Fano,
a messer Guido e anco ad Angiolello,
che, se lantiveder qui non è vano,
gittati saran fuor di lor vasello
e mazzerati presso a la Cattolica
per tradimento dun tiranno fello.
Tra lisola di Cipri e di Maiolica
non vide mai sì gran fallo Nettuno,
non da pirate, non da gente argolica.
Quel traditor che vede pur con luno,
e tien la terra che tale qui meco
vorrebbe di vedere esser digiuno,
farà venirli a parlamento seco;
poi farà sì, chal vento di Focara
non sarà lor mestier voto né preco».
E io a lui: «Dimostrami e dichiara,
se vuo chi porti sù di te novella,
chi è colui da la veduta amara».
Allor puose la mano a la mascella
dun suo compagno e la bocca li aperse,
gridando: «Questi è desso, e non favella.
Questi, scacciato, il dubitar sommerse
in Cesare, affermando che l fornito
sempre con danno lattender sofferse».
Oh quanto mi pareva sbigottito
con la lingua tagliata ne la strozza
Curïo, cha dir fu così ardito!
E un chavea luna e laltra man mozza,
levando i moncherin per laura fosca,
sì che l sangue facea la faccia sozza,
gridò: «Ricorderati anche del Mosca,
che disse, lasso!, Capo ha cosa fatta,
che fu mal seme per la gente tosca».
E io li aggiunsi: «E morte di tua schiatta»;
per chelli, accumulando duol con duolo,
sen gio come persona trista e matta.
Ma io rimasi a riguardar lo stuolo,
e vidi cosa chio avrei paura,
sanza più prova, di contarla solo;
se non che coscïenza massicura,
la buona compagnia che luom francheggia
sotto lasbergo del sentirsi pura.
Io vidi certo, e ancor par chio l veggia,
un busto sanza capo andar sì come
andavan li altri de la trista greggia;
e l capo tronco tenea per le chiome,
pesol con mano a guisa di lanterna:
e quel mirava noi e dicea: «Oh me!».
Di sé facea a sé stesso lucerna,
ed eran due in uno e uno in due;
com esser può, quei sa che sì governa.
Quando diritto al piè del ponte fue,
levò l braccio alto con tutta la testa
per appressarne le parole sue,
che fuoro: «Or vedi la pena molesta,
tu che, spirando, vai veggendo i morti:
vedi salcuna è grande come questa.
E perché tu di me novella porti,
sappi chi son Bertram dal Bornio, quelli
che diedi al re giovane i ma conforti.
Io feci il padre e l figlio in sé ribelli;
Achitofèl non fé più dAbsalone
e di Davìd coi malvagi punzelli.
Perch io parti così giunte persone,
partito porto il mio cerebro, lasso!,
dal suo principio chè in questo troncone.
Così sosserva in me lo contrapasso».
Inferno Canto XXIX
La molta gente e le diverse piaghe
avean le luci mie sì inebrïate,
che de lo stare a piangere eran vaghe.
Ma Virgilio mi disse: «Che pur guate?
perché la vista tua pur si soffolge
là giù tra lombre triste smozzicate?
Tu non hai fatto sì a laltre bolge;
pensa, se tu annoverar le credi,
che miglia ventidue la valle volge.
E già la luna è sotto i nostri piedi;
lo tempo è poco omai che nè concesso,
e altro è da veder che tu non vedi».
«Se tu avessi», rispuos io appresso,
«atteso a la cagion per chio guardava,
forse mavresti ancor lo star dimesso».
Parte sen giva, e io retro li andava,
lo duca, già faccendo la risposta,
e soggiugnendo: «Dentro a quella cava
dov io tenea or li occhi sì a posta,
credo chun spirto del mio sangue pianga
la colpa che là giù cotanto costa».
Allor disse l maestro: «Non si franga
lo tuo pensier da qui innanzi sovr ello.
Attendi ad altro, ed ei là si rimanga;
chio vidi lui a piè del ponticello
mostrarti e minacciar forte col dito,
e udi l nominar Geri del Bello.
Tu eri allor sì del tutto impedito
sovra colui che già tenne Altaforte,
che non guardasti in là, sì fu partito».
«O duca mio, la vïolenta morte
che non li è vendicata ancor», diss io,
«per alcun che de lonta sia consorte,
fece lui disdegnoso; ond el sen gio
sanza parlarmi, sì com ïo estimo:
e in ciò mha el fatto a sé più pio».
Così parlammo infino al loco primo
che de lo scoglio laltra valle mostra,
se più lume vi fosse, tutto ad imo.
Quando noi fummo sor lultima chiostra
di Malebolge, sì che i suoi conversi
potean parere a la veduta nostra,
lamenti saettaron me diversi,
che di pietà ferrati avean li strali;
ond io li orecchi con le man copersi.
Qual dolor fora, se de li spedali
di Valdichiana tra l luglio e l settembre
e di Maremma e di Sardigna i mali
fossero in una fossa tutti nsembre,
tal era quivi, e tal puzzo nusciva
qual suol venir de le marcite membre.
Noi discendemmo in su lultima riva
del lungo scoglio, pur da man sinistra;
e allor fu la mia vista più viva
giù ver lo fondo, la ve la ministra
de lalto Sire infallibil giustizia
punisce i falsador che qui registra.
Non credo cha veder maggior tristizia
fosse in Egina il popol tutto infermo,
quando fu laere sì pien di malizia,
che li animali, infino al picciol vermo,
cascaron tutti, e poi le genti antiche,
secondo che i poeti hanno per fermo,
si ristorar di seme di formiche;
chera a veder per quella oscura valle
languir li spirti per diverse biche.
Qual sovra l ventre e qual sovra le spalle
lun de laltro giacea, e qual carpone
si trasmutava per lo tristo calle.
Passo passo andavam sanza sermone,
guardando e ascoltando li ammalati,
che non potean levar le lor persone.
Io vidi due sedere a sé poggiati,
com a scaldar si poggia tegghia a tegghia,
dal capo al piè di schianze macolati;
e non vidi già mai menare stregghia
a ragazzo aspettato dal segnorso,
né a colui che mal volontier vegghia,
come ciascun menava spesso il morso
de lunghie sopra sé per la gran rabbia
del pizzicor, che non ha più soccorso;
e sì traevan giù lunghie la scabbia,
come coltel di scardova le scaglie
o daltro pesce che più larghe labbia.
«O tu che con le dita ti dismaglie»,
cominciò l duca mio a lun di loro,
«e che fai desse talvolta tanaglie,
dinne salcun Latino è tra costoro
che son quinc entro, se lunghia ti basti
etternalmente a cotesto lavoro».
«Latin siam noi, che tu vedi sì guasti
qui ambedue», rispuose lun piangendo;
«ma tu chi se che di noi dimandasti?».
E l duca disse: «I son un che discendo
con questo vivo giù di balzo in balzo,
e di mostrar lo nferno a lui intendo».
Allor si ruppe lo comun rincalzo;
e tremando ciascuno a me si volse
con altri che ludiron di rimbalzo.
Lo buon maestro a me tutto saccolse,
dicendo: «Dì a lor ciò che tu vuoli»;
e io incominciai, poscia chei volse:
«Se la vostra memoria non simboli
nel primo mondo da lumane menti,
ma sella viva sotto molti soli,
ditemi chi voi siete e di che genti;
la vostra sconcia e fastidiosa pena
di palesarvi a me non vi spaventi».
«Io fui dArezzo, e Albero da Siena»,
rispuose lun, «mi fé mettere al foco;
ma quel per chio mori qui non mi mena.
Vero è chi dissi lui, parlando a gioco:
I mi saprei levar per laere a volo;
e quei, chavea vaghezza e senno poco,
volle chi li mostrassi larte; e solo
perch io nol feci Dedalo, mi fece
ardere a tal che lavea per figliuolo.
Ma ne lultima bolgia de le diece
me per lalchìmia che nel mondo usai
dannò Minòs, a cui fallar non lece».
E io dissi al poeta: «Or fu già mai
gente sì vana come la sanese?
Certo non la francesca sì dassai!».
Onde laltro lebbroso, che mintese,
rispuose al detto mio: «Tramene Stricca
che seppe far le temperate spese,
e Niccolò che la costuma ricca
del garofano prima discoverse
ne lorto dove tal seme sappicca;
e trane la brigata in che disperse
Caccia dAscian la vigna e la gran fonda,
e lAbbagliato suo senno proferse.
Ma perché sappi chi sì ti seconda
contra i Sanesi, aguzza ver me locchio,
sì che la faccia mia ben ti risponda:
sì vedrai chio son lombra di Capocchio,
che falsai li metalli con lalchìmia;
e te dee ricordar, se ben tadocchio,
com io fui di natura buona scimia».
Inferno Canto XXX
Nel tempo che Iunone era crucciata
per Semelè contra l sangue tebano,
come mostrò una e altra fïata,
Atamante divenne tanto insano,
che veggendo la moglie con due figli
andar carcata da ciascuna mano,
gridò: «Tendiam le reti, sì chio pigli
la leonessa e leoncini al varco»;
e poi distese i dispietati artigli,
prendendo lun chavea nome Learco,
e rotollo e percosselo ad un sasso;
e quella sannegò con laltro carco.
E quando la fortuna volse in basso
laltezza de Troian che tutto ardiva,
sì che nsieme col regno il re fu casso,
Ecuba trista, misera e cattiva,
poscia che vide Polissena morta,
e del suo Polidoro in su la riva
del mar si fu la dolorosa accorta,
forsennata latrò sì come cane;
tanto il dolor le fé la mente torta.
Ma né di Tebe furie né troiane
si vider mäi in alcun tanto crude,
non punger bestie, nonché membra umane,
quant io vidi in due ombre smorte e nude,
che mordendo correvan di quel modo
che l porco quando del porcil si schiude.
Luna giunse a Capocchio, e in sul nodo
del collo lassannò, sì che, tirando,
grattar li fece il ventre al fondo sodo.
E lAretin che rimase, tremando
mi disse: «Quel folletto è Gianni Schicchi,
e va rabbioso altrui così conciando».
«Oh», diss io lui, «se laltro non ti ficchi
li denti a dosso, non ti sia fatica
a dir chi è, pria che di qui si spicchi».
Ed elli a me: «Quell è lanima antica
di Mirra scellerata, che divenne
al padre, fuor del dritto amore, amica.
Questa a peccar con esso così venne,
falsificando sé in altrui forma,
come laltro che là sen va, sostenne,
per guadagnar la donna de la torma,
falsificare in sé Buoso Donati,
testando e dando al testamento norma».
E poi che i due rabbiosi fuor passati
sovra cu io avea locchio tenuto,
rivolsilo a guardar li altri mal nati.
Io vidi un, fatto a guisa di lëuto,
pur chelli avesse avuta languinaia
tronca da laltro che luomo ha forcuto.
La grave idropesì, che sì dispaia
le membra con lomor che mal converte,
che l viso non risponde a la ventraia,
faceva lui tener le labbra aperte
come letico fa, che per la sete
lun verso l mento e laltro in sù rinverte.
«O voi che sanz alcuna pena siete,
e non so io perché, nel mondo gramo»,
diss elli a noi, «guardate e attendete
a la miseria del maestro Adamo;
io ebbi, vivo, assai di quel chi volli,
e ora, lasso!, un gocciol dacqua bramo.
Li ruscelletti che di verdi colli
del Casentin discendon giuso in Arno,
faccendo i lor canali freddi e molli,
sempre mi stanno innanzi, e non indarno,
ché limagine lor vie più masciuga
che l male ond io nel volto mi discarno.
La rigida giustizia che mi fruga
tragge cagion del loco ov io peccai
a metter più li miei sospiri in fuga.
Ivi è Romena, là dov io falsai
la lega suggellata del Batista;
per chio il corpo sù arso lasciai.
Ma sio vedessi qui lanima trista
di Guido o dAlessandro o di lor frate,
per Fonte Branda non darei la vista.
Dentro cè luna già, se larrabbiate
ombre che vanno intorno dicon vero;
ma che mi val, cho le membra legate?
Sio fossi pur di tanto ancor leggero
chi potessi in cent anni andare unoncia,
io sarei messo già per lo sentiero,
cercando lui tra questa gente sconcia,
con tutto chella volge undici miglia,
e men dun mezzo di traverso non ci ha.
Io son per lor tra sì fatta famiglia;
e mindussero a batter li fiorini
chavevan tre carati di mondiglia».
E io a lui: «Chi son li due tapini
che fumman come man bagnate l verno,
giacendo stretti a tuoi destri confini?».
«Qui li trovaie poi volta non dierno»,
rispuose, «quando piovvi in questo greppo,
e non credo che dieno in sempiterno.
Luna è la falsa chaccusò Gioseppo;
laltr è l falso Sinon greco di Troia:
per febbre aguta gittan tanto leppo».
E lun di lor, che si recò a noia
forse desser nomato sì oscuro,
col pugno li percosse lepa croia.
Quella sonò come fosse un tamburo;
e mastro Adamo li percosse il volto
col braccio suo, che non parve men duro,
dicendo a lui: «Ancor che mi sia tolto
lo muover per le membra che son gravi,
ho io il braccio a tal mestiere sciolto».
Ond ei rispuose: «Quando tu andavi
al fuoco, non lavei tu così presto;
ma sì e più lavei quando coniavi».
E lidropico: «Tu di ver di questo:
ma tu non fosti sì ver testimonio
là ve del ver fosti a Troia richesto».
«Sio dissi falso, e tu falsasti il conio»,
disse Sinon; «e son qui per un fallo,
e tu per più chalcun altro demonio!».
«Ricorditi, spergiuro, del cavallo»,
rispuose quel chavëa infiata lepa;
«e sieti reo che tutto il mondo sallo!».
«E te sia rea la sete onde ti crepa»,
disse l Greco, «la lingua, e lacqua marcia
che l ventre innanzi a li occhi sì tassiepa!».
Allora il monetier: «Così si squarcia
la bocca tua per tuo mal come suole;
ché, si ho sete e omor mi rinfarcia,
tu hai larsura e l capo che ti duole,
e per leccar lo specchio di Narcisso,
non vorresti a nvitar molte parole».
Ad ascoltarli er io del tutto fisso,
quando l maestro mi disse: «Or pur mira,
che per poco che teco non mi risso!».
Quand io l senti a me parlar con ira,
volsimi verso lui con tal vergogna,
chancor per la memoria mi si gira.
Qual è colui che suo dannaggio sogna,
che sognando desidera sognare,
sì che quel chè, come non fosse, agogna,
tal mi fec io, non possendo parlare,
che disïava scusarmi, e scusava
me tuttavia, e nol mi credea fare.
«Maggior difetto men vergogna lava»,
disse l maestro, «che l tuo non è stato;
però dogne trestizia ti disgrava.
E fa ragion chio ti sia sempre allato,
se più avvien che fortuna taccoglia
dove sien genti in simigliante piato:
ché voler ciò udire è bassa voglia».
Inferno Canto XXXI
Una medesma lingua pria mi morse,
sì che mi tinse luna e laltra guancia,
e poi la medicina mi riporse;
così od io che solea far la lancia
dAchille e del suo padre esser cagione
prima di trista e poi di buona mancia.
Noi demmo il dosso al misero vallone
su per la ripa che l cinge dintorno,
attraversando sanza alcun sermone.
Quiv era men che notte e men che giorno,
sì che l viso mandava innanzi poco;
ma io senti sonare un alto corno,
tanto chavrebbe ogne tuon fatto fioco,
che, contra sé la sua via seguitando,
dirizzò li occhi miei tutti ad un loco.
Dopo la dolorosa rotta, quando
Carlo Magno perdé la santa gesta,
non sonò sì terribilmente Orlando.
Poco portäi in là volta la testa,
che me parve veder molte alte torri;
ond io: «Maestro, dì, che terra è questa?».
Ed elli a me: «Però che tu trascorri
per le tenebre troppo da la lungi,
avvien che poi nel maginare abborri.
Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi,
quanto l senso singanna di lontano;
però alquanto più te stesso pungi».
Poi caramente mi prese per mano
e disse: «Pria che noi siam più avanti,
acciò che l fatto men ti paia strano,
sappi che non son torri, ma giganti,
e son nel pozzo intorno da la ripa
da lumbilico in giuso tutti quanti».
Come quando la nebbia si dissipa,
lo sguardo a poco a poco raffigura
ciò che cela l vapor che laere stipa,
così forando laura grossa e scura,
più e più appressando ver la sponda,
fuggiemi errore e cresciemi paura;
però che, come su la cerchia tonda
Montereggion di torri si corona,
così la proda che l pozzo circonda
torreggiavan di mezza la persona
li orribili giganti, cui minaccia
Giove del cielo ancora quando tuona.
E io scorgeva già dalcun la faccia,
le spalle e l petto e del ventre gran parte,
e per le coste giù ambo le braccia.
Natura certo, quando lasciò larte
di sì fatti animali, assai fé bene
per tòrre tali essecutori a Marte.
E sella delefanti e di balene
non si pente, chi guarda sottilmente,
più giusta e più discreta la ne tene;
ché dove largomento de la mente
saggiugne al mal volere e a la possa,
nessun riparo vi può far la gente.
La faccia sua mi parea lunga e grossa
come la pina di San Pietro a Roma,
e a sua proporzione eran laltre ossa;
sì che la ripa, chera perizoma
dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto
di sovra, che di giugnere a la chioma
tre Frison saverien dato mal vanto;
però chi ne vedea trenta gran palmi
dal loco in giù dov omo affibbia l manto.
«Raphèl maì amècche zabì almi»,
cominciò a gridar la fiera bocca,
cui non si convenia più dolci salmi.
E l duca mio ver lui: «Anima sciocca,
tienti col corno, e con quel ti disfoga
quand ira o altra passïon ti tocca!
Cércati al collo, e troverai la soga
che l tien legato, o anima confusa,
e vedi lui che l gran petto ti doga».
Poi disse a me: «Elli stessi saccusa;
questi è Nembrotto per lo cui mal coto
pur un linguaggio nel mondo non susa.
Lasciànlo stare e non parliamo a vòto;
ché così è a lui ciascun linguaggio
come l suo ad altrui, cha nullo è noto».
Facemmo adunque più lungo vïaggio,
vòlti a sinistra; e al trar dun balestro
trovammo laltro assai più fero e maggio.
A cigner lui qual che fosse l maestro,
non so io dir, ma el tenea soccinto
dinanzi laltro e dietro il braccio destro
duna catena che l tenea avvinto
dal collo in giù, sì che n su lo scoperto
si ravvolgëa infino al giro quinto.
«Questo superbo volle esser esperto
di sua potenza contra l sommo Giove»,
disse l mio duca, «ond elli ha cotal merto.
Fïalte ha nome, e fece le gran prove
quando i giganti fer paura a dèi;
le braccia chel menò, già mai non move».
E io a lui: «Sesser puote, io vorrei
che de lo smisurato Brïareo
esperïenza avesser li occhi mei».
Ond ei rispuose: «Tu vedrai Anteo
presso di qui che parla ed è disciolto,
che ne porrà nel fondo dogne reo.
Quel che tu vuo veder, più là è molto
ed è legato e fatto come questo,
salvo che più feroce par nel volto».
Non fu tremoto già tanto rubesto,
che scotesse una torre così forte,
come Fïalte a scuotersi fu presto.
Allor temett io più che mai la morte,
e non vera mestier più che la dotta,
sio non avessi viste le ritorte.
Noi procedemmo più avante allotta,
e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle,
sanza la testa, uscia fuor de la grotta.
«O tu che ne la fortunata valle
che fece Scipïon di gloria reda,
quand Anibàl co suoi diede le spalle,
recasti già mille leon per preda,
e che, se fossi stato a lalta guerra
de tuoi fratelli, ancor par che si creda
chavrebber vinto i figli de la terra:
mettine giù, e non ten vegna schifo,
dove Cocito la freddura serra.
Non ci fare ire a Tizio né a Tifo:
questi può dar di quel che qui si brama;
però ti china e non torcer lo grifo.
Ancor ti può nel mondo render fama,
chel vive, e lunga vita ancor aspetta
se nnanzi tempo grazia a sé nol chiama».
Così disse l maestro; e quelli in fretta
le man distese, e prese l duca mio,
ond Ercule sentì già grande stretta.
Virgilio, quando prender si sentio,
disse a me: «Fatti qua, sì chio ti prenda»;
poi fece sì chun fascio era elli e io.
Qual pare a riguardar la Carisenda
sotto l chinato, quando un nuvol vada
sovr essa sì, ched ella incontro penda:
tal parve Antëo a me che stava a bada
di vederlo chinare, e fu tal ora
chi avrei voluto ir per altra strada.
Ma lievemente al fondo che divora
Lucifero con Giuda, ci sposò;
né, sì chinato, lì fece dimora,
e come albero in nave si levò.
Inferno Canto XXXII
Sïo avessi le rime aspre e chiocce,
come si converrebbe al tristo buco
sovra l qual pontan tutte laltre rocce,
io premerei di mio concetto il suco
più pienamente; ma perch io non labbo,
non sanza tema a dicer mi conduco;
ché non è impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto luniverso,
né da lingua che chiami mamma o babbo.
Ma quelle donne aiutino il mio verso
chaiutaro Anfïone a chiuder Tebe,
sì che dal fatto il dir non sia diverso.
Oh sovra tutte mal creata plebe
che stai nel loco onde parlare è duro,
mei foste state qui pecore o zebe!
Come noi fummo giù nel pozzo scuro
sotto i piè del gigante assai più bassi,
e io mirava ancora a lalto muro,
dicere udimi: «Guarda come passi:
va sì, che tu non calchi con le piante
le teste de fratei miseri lassi».
Per chio mi volsi, e vidimi davante
e sotto i piedi un lago che per gelo
avea di vetro e non dacqua sembiante.
Non fece al corso suo sì grosso velo
di verno la Danoia in Osterlicchi,
né Tanaï là sotto l freddo cielo,
com era quivi; che se Tambernicchi
vi fosse sù caduto, o Pietrapana,
non avria pur da lorlo fatto cricchi.
E come a gracidar si sta la rana
col muso fuor de lacqua, quando sogna
di spigolar sovente la villana,
livide, insin là dove appar vergogna
eran lombre dolenti ne la ghiaccia,
mettendo i denti in nota di cicogna.
Ognuna in giù tenea volta la faccia;
da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo
tra lor testimonianza si procaccia.
Quand io mebbi dintorno alquanto visto,
volsimi a piedi, e vidi due sì stretti,
che l pel del capo avieno insieme misto.
«Ditemi, voi che sì strignete i petti»,
diss io, «chi siete?». E quei piegaro i colli;
e poi chebber li visi a me eretti,
li occhi lor, cheran pria pur dentro molli,
gocciar su per le labbra, e l gelo strinse
le lagrime tra essi e riserrolli.
Con legno legno spranga mai non cinse
forte così; ond ei come due becchi
cozzaro insieme, tanta ira li vinse.
E un chavea perduti ambo li orecchi
per la freddura, pur col viso in giùe,
disse: «Perché cotanto in noi ti specchi?
Se vuoi saper chi son cotesti due,
la valle onde Bisenzo si dichina
del padre loro Alberto e di lor fue.
Dun corpo usciro; e tutta la Caina
potrai cercare, e non troverai ombra
degna più desser fitta in gelatina:
non quelli a cui fu rotto il petto e lombra
con esso un colpo per la man dArtù;
non Focaccia; non questi che mingombra
col capo sì, chi non veggio oltre più,
e fu nomato Sassol Mascheroni;
se tosco se, ben sai omai chi fu.
E perché non mi metti in più sermoni,
sappi chi fu il Camiscion de Pazzi;
e aspetto Carlin che mi scagioni».
Poscia vid io mille visi cagnazzi
fatti per freddo; onde mi vien riprezzo,
e verrà sempre, de gelati guazzi.
E mentre chandavamo inver lo mezzo
al quale ogne gravezza si rauna,
e io tremava ne letterno rezzo;
se voler fu o destino o fortuna,
non so; ma, passeggiando tra le teste,
forte percossi l piè nel viso ad una.
Piangendo mi sgridò: «Perché mi peste?
se tu non vieni a crescer la vendetta
di Montaperti, perché mi moleste?».
E io: «Maestro mio, or qui maspetta,
sì chio esca dun dubbio per costui;
poi mi farai, quantunque vorrai, fretta».
Lo duca stette, e io dissi a colui
che bestemmiava duramente ancora:
«Qual se tu che così rampogni altrui?».
«Or tu chi se che vai per lAntenora,
percotendo», rispuose, «altrui le gote,
sì che, se fossi vivo, troppo fora?».
«Vivo son io, e caro esser ti puote»,
fu mia risposta, «se dimandi fama,
chio metta il nome tuo tra laltre note».
Ed elli a me: «Del contrario ho io brama.
Lèvati quinci e non mi dar più lagna,
ché mal sai lusingar per questa lama!».
Allor lo presi per la cuticagna
e dissi: «El converrà che tu ti nomi,
o che capel qui sù non ti rimagna».
Ond elli a me: «Perché tu mi dischiomi,
né ti dirò chio sia, né mosterrolti,
se mille fiate in sul capo mi tomi».
Io avea già i capelli in mano avvolti,
e tratti glien avea più duna ciocca,
latrando lui con li occhi in giù raccolti,
quando un altro gridò: «Che hai tu, Bocca?
non ti basta sonar con le mascelle,
se tu non latri? qual diavol ti tocca?».
«Omai», diss io, «non vo che più favelle,
malvagio traditor; cha la tua onta
io porterò di te vere novelle».
«Va via», rispuose, «e ciò che tu vuoi conta;
ma non tacer, se tu di qua entro eschi,
di quel chebbe or così la lingua pronta.
El piange qui largento de Franceschi:
Io vidi, potrai dir, quel da Duera
là dove i peccatori stanno freschi.
Se fossi domandato Altri chi vera?,
tu hai dallato quel di Beccheria
di cui segò Fiorenza la gorgiera.
Gianni de Soldanier credo che sia
più là con Ganellone e Tebaldello,
chaprì Faenza quando si dormia».
Noi eravam partiti già da ello,
chio vidi due ghiacciati in una buca,
sì che lun capo a laltro era cappello;
e come l pan per fame si manduca,
così l sovran li denti a laltro pose
là ve l cervel saggiugne con la nuca:
non altrimenti Tidëo si rose
le tempie a Menalippo per disdegno,
che quei faceva il teschio e laltre cose.
«O tu che mostri per sì bestial segno
odio sovra colui che tu ti mangi,
dimmi l perché», diss io, «per tal convegno,
che se tu a ragion di lui ti piangi,
sappiendo chi voi siete e la sua pecca,
nel mondo suso ancora io te ne cangi,
se quella con chio parlo non si secca».
Inferno Canto XXXIII
La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a capelli
del capo chelli avea di retro guasto.
Poi cominciò: «Tu vuo chio rinovelli
disperato dolor che l cor mi preme
già pur pensando, pria chio ne favelli.
Ma se le mie parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor chi rodo,
parlar e lagrimar vedrai insieme.
Io non so chi tu se né per che modo
venuto se qua giù; ma fiorentino
mi sembri veramente quand io todo.
Tu dei saper chi fui conte Ugolino,
e questi è larcivescovo Ruggieri:
or ti dirò perché i son tal vicino.
Che per leffetto de suo mai pensieri,
fidandomi di lui, io fossi preso
e poscia morto, dir non è mestieri;
però quel che non puoi avere inteso,
cioè come la morte mia fu cruda,
udirai, e saprai se mha offeso.
Breve pertugio dentro da la Muda,
la qual per me ha l titol de la fame,
e che conviene ancor chaltrui si chiuda,
mavea mostrato per lo suo forame
più lune già, quand io feci l mal sonno
che del futuro mi squarciò l velame.
Questi pareva a me maestro e donno,
cacciando il lupo e lupicini al monte
per che i Pisan veder Lucca non ponno.
Con cagne magre, studïose e conte
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
savea messi dinanzi da la fronte.
In picciol corso mi parieno stanchi
lo padre e figli, e con lagute scane
mi parea lor veder fender li fianchi.
Quando fui desto innanzi la dimane,
pianger senti fra l sonno i miei figliuoli
cheran con meco, e dimandar del pane.
Ben se crudel, se tu già non ti duoli
pensando ciò che l mio cor sannunziava;
e se non piangi, di che pianger suoli?
Già eran desti, e lora sappressava
che l cibo ne solëa essere addotto,
e per suo sogno ciascun dubitava;
e io senti chiavar luscio di sotto
a lorribile torre; ond io guardai
nel viso a mie figliuoi sanza far motto.
Io non piangëa, sì dentro impetrai:
piangevan elli; e Anselmuccio mio
disse: Tu guardi sì, padre! che hai?.
Perciò non lagrimai né rispuos io
tutto quel giorno né la notte appresso,
infin che laltro sol nel mondo uscìo.
Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso,
ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando chio l fessi per voglia
di manicar, di sùbito levorsi
e disser: Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia.
Quetami allor per non farli più tristi;
lo dì e laltro stemmo tutti muti;
ahi dura terra, perché non tapristi?
Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a piedi,
dicendo: Padre mio, ché non maiuti?.
Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid io cascar li tre ad uno ad uno
tra l quinto dì e l sesto; ond io mi diedi,
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, più che l dolor, poté l digiuno».
Quand ebbe detto ciò, con li occhi torti
riprese l teschio misero co denti,
che furo a losso, come dun can, forti.
Ahi Pisa, vituperio de le genti
del bel paese là dove l sì suona,
poi che i vicini a te punir son lenti,
muovasi la Capraia e la Gorgona,
e faccian siepe ad Arno in su la foce,
sì chelli annieghi in te ogne persona!
Che se l conte Ugolino aveva voce
daver tradita te de le castella,
non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.
Innocenti facea letà novella,
novella Tebe, Uguiccione e l Brigata
e li altri due che l canto suso appella.
Noi passammo oltre, là ve la gelata
ruvidamente unaltra gente fascia,
non volta in giù, ma tutta riversata.
Lo pianto stesso lì pianger non lascia,
e l duol che truova in su li occhi rintoppo,
si volge in entro a far crescer lambascia;
ché le lagrime prime fanno groppo,
e sì come visiere di cristallo,
rïempion sotto l ciglio tutto il coppo.
E avvegna che, sì come dun callo,
per la freddura ciascun sentimento
cessato avesse del mio viso stallo,
già mi parea sentire alquanto vento;
per chio: «Maestro mio, questo chi move?
non è qua giù ogne vapore spento?».
Ond elli a me: «Avaccio sarai dove
di ciò ti farà locchio la risposta,
veggendo la cagion che l fiato piove».
E un de tristi de la fredda crosta
gridò a noi: «O anime crudeli
tanto che data vè lultima posta,
levatemi dal viso i duri veli,
sì chïo sfoghi l duol che l cor mimpregna,
un poco, pria che l pianto si raggeli».
Per chio a lui: «Se vuo chi ti sovvegna,
dimmi chi se, e sio non ti disbrigo,
al fondo de la ghiaccia ir mi convegna».
Rispuose adunque: «I son frate Alberigo;
i son quel da le frutta del mal orto,
che qui riprendo dattero per figo».
«Oh», diss io lui, «or se tu ancor morto?».
Ed elli a me: «Come l mio corpo stea
nel mondo sù, nulla scïenza porto.
Cotal vantaggio ha questa Tolomea,
che spesse volte lanima ci cade
innanzi chAtropòs mossa le dea.
E perché tu più volentier mi rade
le nvetrïate lagrime dal volto,
sappie che, tosto che lanima trade
come fec ïo, il corpo suo lè tolto
da un demonio, che poscia il governa
mentre che l tempo suo tutto sia vòlto.
Ella ruina in sì fatta cisterna;
e forse pare ancor lo corpo suso
de lombra che di qua dietro mi verna.
Tu l dei saper, se tu vien pur mo giuso:
elli è ser Branca Doria, e son più anni
poscia passati chel fu sì racchiuso».
«Io credo», diss io lui, «che tu minganni;
ché Branca Doria non morì unquanche,
e mangia e bee e dorme e veste panni».
«Nel fosso sù», diss el, «de Malebranche,
là dove bolle la tenace pece,
non era ancora giunto Michel Zanche,
che questi lasciò il diavolo in sua vece
nel corpo suo, ed un suo prossimano
che l tradimento insieme con lui fece.
Ma distendi oggimai in qua la mano;
aprimi li occhi». E io non gliel apersi;
e cortesia fu lui esser villano.
Ahi Genovesi, uomini diversi
dogne costume e pien dogne magagna,
perché non siete voi del mondo spersi?
Ché col peggiore spirto di Romagna
trovai di voi un tal, che per sua opra
in anima in Cocito già si bagna,
e in corpo par vivo ancor di sopra.
Inferno Canto XXXIV
«Vexilla regis prodeunt inferni
verso di noi; però dinanzi mira»,
disse l maestro mio, «se tu l discerni».
Come quando una grossa nebbia spira,
o quando lemisperio nostro annotta,
par di lungi un molin che l vento gira,
veder mi parve un tal dificio allotta;
poi per lo vento mi ristrinsi retro
al duca mio, ché non lì era altra grotta.
Già era, e con paura il metto in metro,
là dove lombre tutte eran coperte,
e trasparien come festuca in vetro.
Altre sono a giacere; altre stanno erte,
quella col capo e quella con le piante;
altra, com arco, il volto a piè rinverte.
Quando noi fummo fatti tanto avante,
chal mio maestro piacque di mostrarmi
la creatura chebbe il bel sembiante,
dinnanzi mi si tolse e fé restarmi,
«Ecco Dite», dicendo, «ed ecco il loco
ove convien che di fortezza tarmi».
Com io divenni allor gelato e fioco,
nol dimandar, lettor, chi non lo scrivo,
però chogne parlar sarebbe poco.
Io non mori e non rimasi vivo;
pensa oggimai per te, shai fior dingegno,
qual io divenni, duno e daltro privo.
Lo mperador del doloroso regno
da mezzo l petto uscia fuor de la ghiaccia;
e più con un gigante io mi convegno,
che i giganti non fan con le sue braccia:
vedi oggimai quant esser dee quel tutto
cha così fatta parte si confaccia.
Sel fu sì bel com elli è ora brutto,
e contra l suo fattore alzò le ciglia,
ben dee da lui procedere ogne lutto.
Oh quanto parve a me gran maraviglia
quand io vidi tre facce a la sua testa!
Luna dinanzi, e quella era vermiglia;
laltr eran due, che saggiugnieno a questa
sovresso l mezzo di ciascuna spalla,
e sé giugnieno al loco de la cresta:
e la destra parea tra bianca e gialla;
la sinistra a vedere era tal, quali
vegnon di là onde l Nilo savvalla.
Sotto ciascuna uscivan due grand ali,
quanto si convenia a tanto uccello:
vele di mar non vid io mai cotali.
Non avean penne, ma di vispistrello
era lor modo; e quelle svolazzava,
sì che tre venti si movean da ello:
quindi Cocito tutto saggelava.
Con sei occhi piangëa, e per tre menti
gocciava l pianto e sanguinosa bava.
Da ogne bocca dirompea co denti
un peccatore, a guisa di maciulla,
sì che tre ne facea così dolenti.
A quel dinanzi il mordere era nulla
verso l graffiar, che talvolta la schiena
rimanea de la pelle tutta brulla.
«Quell anima là sù cha maggior pena»,
disse l maestro, «è Giuda Scarïotto,
che l capo ha dentro e fuor le gambe mena.
De li altri due channo il capo di sotto,
quel che pende dal nero ceffo è Bruto:
vedi come si storce, e non fa motto!;
e laltro è Cassio, che par sì membruto.
Ma la notte risurge, e oramai
è da partir, ché tutto avem veduto».
Com a lui piacque, il collo li avvinghiai;
ed el prese di tempo e loco poste,
e quando lali fuoro aperte assai,
appigliò sé a le vellute coste;
di vello in vello giù discese poscia
tra l folto pelo e le gelate croste.
Quando noi fummo là dove la coscia
si volge, a punto in sul grosso de lanche,
lo duca, con fatica e con angoscia,
volse la testa ov elli avea le zanche,
e aggrappossi al pel com om che sale,
sì che n inferno i credea tornar anche.
«Attienti ben, ché per cotali scale»,
disse l maestro, ansando com uom lasso,
«conviensi dipartir da tanto male».
Poi uscì fuor per lo fóro dun sasso
e puose me in su lorlo a sedere;
appresso porse a me laccorto passo.
Io levai li occhi e credetti vedere
Lucifero com io lavea lasciato,
e vidili le gambe in sù tenere;
e sio divenni allora travagliato,
la gente grossa il pensi, che non vede
qual è quel punto chio avea passato.
«Lèvati sù», disse l maestro, «in piede:
la via è lunga e l cammino è malvagio,
e già il sole a mezza terza riede».
Non era camminata di palagio
là v eravam, ma natural burella
chavea mal suolo e di lume disagio.
«Prima chio de labisso mi divella,
maestro mio», diss io quando fui dritto,
«a trarmi derro un poco mi favella:
ov è la ghiaccia? e questi com è fitto
sì sottosopra? e come, in sì poc ora,
da sera a mane ha fatto il sol tragitto?».
Ed elli a me: «Tu imagini ancora
desser di là dal centro, ov io mi presi
al pel del vermo reo che l mondo fóra.
Di là fosti cotanto quant io scesi;
quand io mi volsi, tu passasti l punto
al qual si traggon dogne parte i pesi.
E se or sotto lemisperio giunto
chè contraposto a quel che la gran secca
coverchia, e sotto l cui colmo consunto
fu luom che nacque e visse sanza pecca;
tu haï i piedi in su picciola spera
che laltra faccia fa de la Giudecca.
Qui è da man, quando di là è sera;
e questi, che ne fé scala col pelo,
fitto è ancora sì come prim era.
Da questa parte cadde giù dal cielo;
e la terra, che pria di qua si sporse,
per paura di lui fé del mar velo,
e venne a lemisperio nostro; e forse
per fuggir lui lasciò qui loco vòto
quella chappar di qua, e sù ricorse».
Luogo è là giù da Belzebù remoto
tanto quanto la tomba si distende,
che non per vista, ma per suono è noto
dun ruscelletto che quivi discende
per la buca dun sasso, chelli ha roso,
col corso chelli avvolge, e poco pende.
Lo duca e io per quel cammino ascoso
intrammo a ritornar nel chiaro mondo;
e sanza cura aver dalcun riposo,
salimmo sù, el primo e io secondo,
tanto chi vidi de le cose belle
che porta l ciel, per un pertugio tondo.
E quindi uscimmo a riveder le stelle.
- - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - -
TAVOLA DEI CARATTERI SPECIALI
TABLE OF SPECIAL CHARACTERS
à = a grave
è = e grave
ì = i grave
ò = o grave
ù = u grave
é = e acute
ó = o acute
ä = a uml
ë = e uml
ï = i uml
ö = o uml
ü = u uml
È = E grave
Ë = E uml
Ï = I uml
« = left angle quotation mark
» = right angle quotation mark
= left double quotation mark
= right double quotation mark
= left single quotation mark
= right single quotation mark
= em dash
= middot
. . . = ellipsis
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Dante Alighieri
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