Lo Stato e l'istruzione pubblica nell'Impero Romano

By Corrado Barbagallo

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Title: Lo Stato e l'istruzione pubblica nell'Impero Romano


Author: Corrado Barbagallo

Release date: February 8, 2024 [eBook #72900]

Language: Italian

Original publication: Catania: Battiato, 1911

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LO STATO E L'ISTRUZIONE PUBBLICA NELL'IMPERO ROMANO ***


                           CORRADO BARBAGALLO


                                LO STATO
                                   E
                         L’ISTRUZIONE PUBBLICA
                          _NELL’IMPERO ROMANO_



                                CATANIA
                      FRANCESCO BATTIATO, EDITORE
                                  1911




                          PROPRIETÀ LETTERARIA

               CATANIA, Stab. Tip. Cav. S. DI MATTEI & C.




INTRODUZIONE


L’istruzione pubblica in Europa è tutta creazione italica. Il
più geniale dei filologi francesi, Gastone Boissier ha illustrato
mirabilmente, da par suo, questo grandissimo, tra i meriti della
nostra stirpe, nella storia della civiltà umana: «Appena gli eserciti
romani erano penetrati nei paesi sconosciuti, vi si fondavano scuole;
i retori vi giungevano dietro le orme del generale vincitore, portando
seco la civiltà. La prima cura di Agricola, appena ebbe pacificata la
Britannia, fu di ordinare che ai figli dei capi s’insegnassero le arti
liberali.»

«Appena i Galli furon vinti da Cesare, si aperse la scuola di Autun.
Per farci intendere che presto non vi saranno più barbari e che gli
estremi paesi dal mondo si inciviliscono, Giovenale dice che nelle
più remote isole dell’Oceano, perfino a Thule, si pensa di far venire
un retore. La retorica conquistava il mondo nel nome di Roma, e i
Romani sentivano di doverle una grande riconoscenza e che l’unità del
loro impero si era fondata nella scuola. Popoli, che differivano fra
loro per l’origine, per la lingua, per le abitudini, per i costumi,
non si sarebbero mai così fusi insieme se l’educazione non li avesse
raccostati e riuniti. Ed essa vi riuscì in modo mirabile. Nell’elenco
dei professori di Bordeaux, quale Ausonio ce l’ha tramandato, noi
vediamo figurare insieme e vecchi romani e figli di Druidi e sacerdoti
di Beleno, l’antico Apollo gallico, che insegnano tutti, come gli
altri, grammatica e retorica. Le armi li avevano mal sottomessi;
l’educazione li ha interamente domati»[1].

Non ostante così grande merito, la letteratura storica del nostro paese
è forse l’unica, che non possegga una sola monografia sulla forma e
sullo svolgimento della istruzione pubblica nell’evo antico. Ma tale
considerazione, per quanto grave, non potrebbe, forse, giustificare
del tutto un nuovo studio sull’argomento. La cultura moderna, che ha
come suo carattere la internazionalità, riesce a prevenire, il più
delle volte, il desiderio, o il bisogno, di una produzione nazionale
su determinati oggetti d’interesse generale. E precisamente, nel caso
nostro, nonostante la mancanza di lavori italiani, nonostante che
anche la letteratura francese, ch’è stata in ogni secolo un mezzo
maraviglioso di diffusione delle idee, non ce ne porga compenso
adeguato, potremmo pur dire di avere molto da attingere, dalla
produzione storico-pedagogica dei popoli dell’Europa non latina,
specie, come sempre, dalla grande nazione tedesca e un po’ anche (chi
l’avrebbe mai detto?) da quella delle nazioni slava e ungherese[2].

Ma tutti questi scritti, che, salvo poche eccezioni, riescono quasi
inaccessibili alla maggior parte dei lettori e degli studiosi italiani,
sono macolati in genere da due difetti organici. L’uno è ch’essi
fondono insieme la trattazione della istruzione pubblica romana con
quella greca,[3] il che, a sua volta, produce due conseguenze fatali:
la negligenza dello studio dell’istruzione pubblica nel mondo latino,
la cui importanza viene, praticamente, rimpicciolita ed oscurata, e
la confusione di tipi, di istituti e di condizioni, che, se hanno fra
loro innegabili rapporti di analogia e di parentela, rimangono pure
profondamente distinti. L’altro difetto è che tutte le monografie,
esistenti sulla istruzione pubblica nel mondo romano, o romanizzato, si
sono esclusivamente limitate a dare un’idea — sia pure esatta e minuta
— del meccanismo interiore della scuola a tipo classico. Or bene, di
questo noi siamo oggi perfettamente informati, e non mette in verità
conto proseguire ad occuparcene. Ma ciò non significa punto che si
possegga — o si sia fornito — un adeguato concetto della diffusione, e
delle condizioni della istruzione pubblica, nel mondo romano.

Questo concetto può solo scaturire dall’esame degli istituti
scolastici, nei vari paesi dominati da Roma; ma è appunto tale studio
che può dirsi manchi interamente alla letteratura pedagogica europea.

Inoltre, da questa insistenza delle varie monografie a dissertare del
funzionamento della scuola greca e romana, consegue un difetto ancor
più grave per il nostro studio: la trascuranza delle sue specifiche
condizioni durante l’età imperiale. Infatti, poichè il generale
ordinamento interno della scuola romana, nel massimo fiorire della
repubblica, differisce assai poco da quello della medesima nell’età
successiva, è chiaro che chi ha illustrato la prima non ha poi creduto
necessario ripetere il lavoro per la seconda, nella quale tuttavia
gl’istituti di istruzione pubblica raggiunsero il loro più notevole
sviluppo.

Da queste premesse il lettore può in anticipazione rappresentarsi alla
mente le linee generalissime del lavoro, che crediamo debba ancora
essere tentato dagli studiosi europei, e specialmente dagli italiani.
Esso dovrebbe riuscire da un lato alla illustrazione di tutti gli
elementi specifici, apportati da l’impero romano nell’istruzione
pubblica del mondo da esso dominato; dall’altro, a una serie di
monografie sulle condizioni, le vicende, lo svolgimento di questa
istruzione, nei varii paesi, che soggiacquero alla dominazione romana.
Appunto perciò la prima parte di uno studio, quale noi lo concepiamo,
deve essere dedicata a chiarire la natura dei rapporti tra il governo
centrale e la istruzione pubblica, e a dare l’idea dello svolgimento
di questa forma della politica imperiale; perchè la caratteristica
dell’istruzione pubblica nell’impero, quella che tutte le altre
accoglie e subordina, fu appunto l’ingerenza del potere centrale, che
concluse con la creazione di quella istruzione di stato, ch’è oggi il
tipo più universale, quella anzi che noi siamo indotti a identificare
con l’istruzione pubblica propriamente detta.

Tale l’indagine storica, che oggi presento ai lettori, e che mi
è riuscita meno agevole di quanto la natura del soggetto farebbe
supporre, sopra tutto a motivo della incertezza dei suoi mutevoli
confini, che ho dovuti a ogni passo rimettere in discussione. Infatti,
con la parola _istruzione_, io non volli intendere soltanto la coltura
intellettuale, ma anche l’educazione morale; nè l’una e l’altra volli
identificare con certe categorie determinate, oggi a noi più familiari,
dell’insegnamento, ma le sorti di entrambe ricercare attraverso
tutte le varie, impreviste forme, in cui si esplicò l’azione dei
principi e dei governi, che furono intenti ad istruire e ad educare.
Era per ciò facile — e quindi pericoloso — che il nostro studio
storico sull’istruzione pubblica si tramutasse in un saggio sulla
cultura intellettuale del tempo, o, peggio, in una dissertazione sul
mecenatismo dei principi romani. Ma, per quanto, all’atto pratico, le
varie distinzioni non riescano agevoli, tuttavia io mi sono sempre
guardato dal cadere in siffatti equivoci, e, se di cultura o di
mecenatismo ho qualche volta discorso, è stato solo per mettere uno
sfondo al quadro, o una premessa alla dimostrazione.

Ugualmente facile (o pericoloso?) era venire a discorrere di certe
forme d’istruzione speciale, che vantò anche l’impero romano e di
cui possono indicarsi, quali esempi, le scuole d’armi, le scuole dei
gladiatori etc. Ma è parso a me evidente che questi e simili istituti
non rientrassero nel concetto generale d’istruzione pubblica, a cui
pure viene subordinata, per certi caratteri di universalità, anche
l’istruzione professionale, e ho tralasciato questa parte, che forse,
anche, avrebbe richiesto per se sola tutta una speciale trattazione.

Ma tali gravi difficoltà nel fissare i limiti del mio compito sono
piccole e scarse rispetto alle numerose, suscitate dall’esame dei mille
argomenti e dei mille svariatissimi problemi, coi quali il soggetto
del presente studio va indissolubilmente congiunto. Moltissimi invero
tra questi non hanno ancora avuto una trattazione o una soluzione
definitiva; molti non ne hanno avuta nessuna, e io mi sono, caso
per caso, dovuto accingere a fornirne qualcuna. Non mi illudo di
avere sempre colto nel segno; sarebbe presunzione eccessiva. Sono
però convinto d’avere sempre, nei limiti delle mie forze, compiuto
il mio dovere di ricercatore e sopra tutto di avere soddisfatto a
quell’obbligo, che è sommo per chiunque, e che il più grande storico
dell’arte antica incideva in una frase scultoria dell’opera sua
maggiore, l’obbligo cioè di ogni studioso «di non mai paventare la
ricerca del vero, anche se a pregiudizio della propria estimazione»,
chè «i singoli debbono errare, affinchè i molti procedano verso la
verità»[4].




CAPITOLO I.

Gli Imperatori di casa Giulio-Claudia e l’istruzione nell’Impero Romano.

(30 a. C.-68 d. C.)

  I. La politica scolastica degli Imperatori di casa Giulio-Claudia.
  I privilegi di Augusto ai _praeceptores._ Una scuola di stato per
  la nuova aristocrazia imperiale. — II. Le biblioteche pubbliche
  augustee. — III. Il governo di Augusto e la custodia delle opere
  d’arte. — IV. Augusto e l’immunità dai carichi pubblici ai medici
  e ai docenti di medicina. — V. Augusto e la nuova educazione della
  gioventù. — VI. Contenuto religioso e morale di questa educazione.
  — VII. Augusto istituisce un ufficio di sovrintendenza generale
  su l’istruzione e l’educazione della gioventù romana. — VIII.
  Augusto e l’istruzione pubblica nelle provincie; la biblioteca del
  SEBASTEUM; l’amministrazione e la direzione del MUSEO alessandrino.
  — IX. L’istruzione pubblica e il governo centrale da Augusto a
  Nerone. Caligola e i concorsi di eloquenza. Il MUSEUM CLAUDIUM.
  — X. La corte e la sua influenza sulla nuova aristocrazia. I
  concorsi di eloquenza istituiti da Nerone e l’incremento degli
  studi di retorica. Il governo di Nerone e gli studi di filosofia.
  — XI. Le immunità agli insegnanti datano probabilmente da Nerone.
  — XII. Rassegna e ampiezza di queste immunità. — XIII. Casi di
  immunità speciali a favore degli insegnanti primarii. — XIV. Nerone
  e l’ellenizzarsi dell’educazione fisica in Roma. — XV. Nerone
  e l’incremento dell’istruzione musicale. — XVI. I successori
  di Augusto e le organizzazioni giovanili a Roma e in Italia. —
  XVII. Nerone ricompone le biblioteche perite nell’incendio del
  64. — XVIII. Gli Imperatori di casa Giulio-Claudia e gli studi di
  giurisprudenza. — XIX. Il nuovo regime e l’istruzione pubblica.


I.

Ebbero, e praticarono, gl’imperatori della casa Giulio-Claudia
quella che oggi si direbbe una politica scolastica loro propria?
Chi scorra, anche con diligenza, le trattazioni esistenti sulla
storia dell’istruzione e dell’educazione nel mondo romano non
può non rispondere negativamente. Il governo di quegli imperatori
sembra rimanere estraneo a tutta l’operosità ufficiale svoltasi in
questo campo durante il primo secolo di C. Eppure, è ben difficile
dire se altre dinastie abbiano, nello svolgimento dell’istruzione
e dell’educazione nazionale, esercitato un’influenza pari a quella
dei Giulio-Claudii, come è altrettanto difficile indicare i principi
romani, che ne abbiano, in maniera egualmente larga, affrontato il non
agevole problema.

Fra essi, al posto di onore, va, come era prevedibile, collocato
Augusto. Tre sono i provvedimenti, che di lui si sogliono ricordare,
e che, direttamente e indirettamente, si connettono alle cure
dell’istruzione pubblica: 1) un privilegio concesso ai docenti
nell’occasione di una grande carestia; 2) l’istituzione di una scuola
pei principi; 3) l’istituzione di pubbliche biblioteche.

Augusto continuò il concetto e la politica di Cesare. Per lui, come per
il suo grande predecessore, i maestri delle scuole elementari, medie
e superiori, erano, nella vita dello stato, non quantità ingombranti,
ma elementi di forza e di benessere sociale. Così, nell’occasione
di una grande carestia in Roma, probabilmente quella del 10 di C.,
egli fu costretto a ordinare lo sfratto di tutte le ciurme di schiavi
trasportati a Roma per la vendita, di tutte le bande di gladiatori,
persone, come si vede, destinate a uffici, o esercenti mestieri, dei
cui vantaggi il pubblico romano nè soleva, nè sapeva, privarsi. Il
decreto di sfratto fu esteso a buona parte degli schiavi addetti ai
servizii domestici e pubblici in Roma — si voleva, pare, diminuire ad
ogni costo il numero delle bocche — nonchè a tutti i forestieri. Chi
ha un’idea di quello che sogliono essere le città capitali, specie
se città cosmopolite, può formarsi una lontana idea degli effetti di
quest’ultima parte del decreto imperiale. Chè Roma non era soltanto una
capitale; era, in quel tempo, la capitale del mondo, era l’universal
porto di mare, era la città, che, come si esprimevano i suoi poeti,
sarebbe cessata di vivere, se gli stranieri non l’avessero colmata
di loro stessi[5]. Privarla di tutti i forestieri era lo stesso che
mutilarla di una parte viva del suo organismo. Tra quei forestieri
numerosissimi erano i greci, anzi gli abitatori di tutto il mondo
ellenizzato, e, quindi, i pedagoghi, i _litteratores_, i _grammatici_,
i _rhetores_[6]. Con la loro espulsione Roma sarebbe rimasta priva di
una buona metà di coloro che v’impartivano l’istruzione. E due sole
eccezioni Augusto fece: l’una per i _praeceptores_,[7] l’altra per i
medici, maestri anch’essi, come vedremo;[8] e il privilegio accordato
significò che, per il primo degli imperatori romani, ridurre al popolo
il pane della scienza era più dannoso del lasciarne ridurre il pane
quotidiano.

Di Augusto — dicemmo — si rammenta altresì l’istituzione di una scuola
pei principi. Svetonio, esponendo la biografia del grammatico Verrio
Flacco, narra che, «scelto da Augusto quale precettore ai suoi nipoti,
egli passò nel palazzo imperiale con tutta la sua scuola ma con
l’impegno di non ammettervi più alcun altro discepolo. Ivi egli fece
lezione nell’atrio della _domus Catilinae_, che era allora una parte
del palazzo imperiale, con lo stipendio annuo di 100,000 sesterzi»[9].
(L. 25,000 circa).

Qualche storico[10] ha raccostato tale fatto al provvedimento
dell’imperatore Vespasiano, di cui avremo a suo tempo ad occuparci,
pel quale taluni dei retori greci e latini furono stipendiati a
spese pubbliche.[11] Evidentissimamente, il paragone non regge: i
due atti sono di natura essenzialmente diversa. Vespasiano, col suo
provvedimento, metterà a disposizione del pubblico dei buoni maestri,
reggenti scuole pubbliche, e porrà, accanto alle altre, una scuola di
paragone, di cui toccava allo stato scegliere gl’insegnanti. Augusto
invece confiscava a beneficio di una ristretta classe di persone una
scuola aperta per l’innanzi al pubblico. E il suo tentativo, se a
qualcosa, accenna, non già all’avocazione della scuola allo stato,
bensì al regime della istruzione domestica.

Ma senza dubbio una scuola esclusivamente domestica la sua non fu. I
cittadini e i residenti in Roma mandavano i loro figliuoli ad istituti
di vario merito e di vario nome. È quello che accade in ogni tempo
per le scuole rette da privati. Ogni cittadino sceglie il maestro più
consono al suo modo di vedere in fatto di questioni morali, politiche,
didattiche, e più acconcio alle proprie risorse economiche. Ogni
classe sociale ha quindi gli istituti privati, in cui preferisce
mandare i suoi figli. La scuola di Verrio Flacco dovette essere quella
dell’aristocrazia romana. Augusto vi mandò i suoi nipoti, e ne chiuse
l’accesso ad elementi estranei, e stipendiò, a compenso dei danni
eventuali, nonchè a garanzia propria, il maestro. Egli alimentò così la
scuola della nuova aristocrazia romana imperiale.

Ma fece anche di più: «educò ed istruì, insieme con i propri, i
figliuoli di molti principi alleati di Roma»[12].

Egli dunque, mentre da un lato alimentava una scuola per l’aristocrazia
romana, dall’altro voleva che quella scuola fosse un corso speciale
per l’istruzione dei principi romani e di quelli, che con Roma
vivevano (ed egli desiderava vivessero) in rapporti amichevoli. Per
tal via la scuola di Verrio Flacco assumeva un chiaro intendimento
politico, Augusto mirava a consolidare e a conquistare, con la voluta
somiglianza dei costumi e dell’indirizzo educativo, con l’intimità
dei rapporti personali, i buoni rapporti internazionali dello Stato
romano. L’opera saggia, ma di un carattere affatto diverso da quella
che inizierà Vespasiano, è dunque, sopra tutto, un’opera personale
di Augusto. E onere suo personale fu con certezza lo stipendio
fornito a Verrio Flacco, che non gravava sul bilancio dello Stato,
bensì sulla cassa privata del principe. Questo particolare però non
deve avere l’importanza, che potrebbero farvi attribuire analogie
contemporanee. È notorio: nell’impero romano i confini tra la cassa
privata dell’imperatore e il bilancio dello Stato, fra le attribuzioni
personali dell’imperatore e quello del governo centrale, furono sempre
assai incerti, e le istituzioni ed erogazioni del principe potevano
bene — nel loro valore politico — apparire — od essere — un atto dello
Stato, come ogni pubblica iniziativa assurgere — nel suo merito — a
iniziativa personale dell’imperatore.


II.

Più notevole, nei rapporti con l’istruzione pubblica, si fu
l’istituzione di pubbliche biblioteche. Questo era stato uno dei
propositi migliori di Giulio Cesare;[13] uno dei tanti, che il pugnale
dei congiurati aveva spezzato con la sua vita.

In sui primi anni dell’êra cristiana, l’idea veniva ripresa da un
privato cittadino, C. Asinio Pollione, e da lui attuata con l’apertura
al pubblico di una biblioteca greco-latina[14]. Augusto collaborò da
par suo all’opera di Pollione.

La prima biblioteca augustea fu la _Palatina_, fondata nel 28 a. C.
nel luogo stesso, in cui la casa di Augusto era stata colpita dal
fulmine, perchè ivi — gli aruspici avevano spiegato — Apollo reclamava
l’erezione di un suo tempio. E sorse il tempio, e, col tempio, un
portico, nonchè una biblioteca greco-latina[15].

La seconda biblioteca, fondata da Augusto, fu l’_Ottaviana_ (25
a. C.)[16]. L’incarico di ordinarla venne affidato al grammatico
Caio Melisso[17], un personaggio del circolo di Mecenate; e come la
precedente, anzi, come tutte le biblioteche del tempo, essa ebbe al
solito due sezioni: una greca e una latina.

Quanto al mantenimento e al personale delle due biblioteche, noi
non possediamo nessuna precisa notizia dell’età di Augusto, o almeno
nessuna, riferibile a questo tempo. Ma, dall’analogia dei decenni più
prossimi, possiamo trarre la conclusione che il personale, almeno
nei gradi più elevati, fu allora, per la _Palatina_, reclutato tra
gli ufficiali della casa e gli addetti alla cancelleria del principe,
e che il mantenimento gravò sul _fiscus_ imperiale[18]. Quanto alla
_Ottaviana_, in epoca impossibile a determinare, noi troviamo codesto
istituto di proprietà municipale[19]. Se quindi essa venne fondata
dall’imperatore appositamente per il municipio di Roma, il personale
e il suo mantenimento dovettero, fin da Augusto, gravare solo
sull’_aerarium_ cittadino, senza che la cassa speciale del principe
si addossasse altre spese all’infuori di quelle della fondazione. Se
invece tale trapasso avvenne in età più tarda, la sua sorte, durante
il regno di Augusto, dovette essere identica a quella della _Palatina_
e perciò la biblioteca dipendere direttamente dal governo centrale.
Come che sia, anche a proposito delle biblioteche di Augusto, ha pieno
valore il rilievo, che credemmo opportuno fare discorrendo della scuola
dei principi. In questi primi albori del governo imperiale, noi non
riesciamo a distinguere esattamente quanto merito spetti alla persona
dell’imperatore, quanto alle iniziative del governo, quali e quanti
carichi si addossi il primo, quali e quanti tocchino al secondo. Ma
noi dobbiamo, egualmente, soggiungere quello che allora dicevamo.
«Nell’impero romano, i limiti fra la cassa privata dell’imperatore e
il bilancio dello Stato, fra le attribuzioni personali dell’imperatore
e quelle del governo centrale, furono sempre assai incerti, e ogni
istituzione od erogazione del principe poteva bene — nel suo valore
politico — apparire, od essere, un atto dello Stato, così come
ogni pubblica iniziativa assurgere — nel suo merito — a iniziativa
personale dell’imperatore». E questo criterio, a motivo della natura
del servizio, cui ora più specialmente ci riferiamo, va affermato con
maggiore intenzione di quello che nel precedente paragrafo non facemmo.


III.

Come per la fondazione delle prime pubbliche biblioteche, il governo di
Augusto va segnalato per la inaugurazione dei primi Musei e delle prime
pubbliche Pinacoteche.

L’amore e la ricerca delle opere d’arte datava in Roma da molti
anni, e fin da Cesare noi notiamo quella che sarà la caratteristica
dell’impero: la trasformazione dei templi da luoghi di religione in
luoghi effettivamente destinati al pubblico culto dell’arte, i cui
monumenti vi si potessero da chiunque conoscere ed ammirare[20]. Ma
quivi, come nei luoghi pubblici, non si accoglieva, almeno per ora,
che una piccola parte di tutto ciò che l’aristocrazia romana era
andata acquistando, o depredando, in Grecia ed in Oriente. La maggiore
rimaneva ancora nelle case dei privati, che vi destinavano gallerie
apposite, loro dominio e loro geloso godimento. Era chiaro come tutto
ciò fosse in contrasto col desiderio delle classi popolari e con gli
intendimenti di un governo, che voleva essere democratico. E colui che
raccolse il pensiero dei più, il pensiero del governo, e lo espresse
pubblicamente all’aristocrazia romana, fu M. Vipsanio Agrippa.

A grippa, sebbene Plinio lo dica uomo, per cui la vita rude riusciva
preferibile alla trionfante mollezza del suo secolo,[21] fu uno dei
più squisiti amatori delle belle arti, che vanti la storia del mondo
civile. Di capolavori artistici ne acquistò molti in Oriente; alla sua
edilità si deve la ricostruzione di gran parte di Roma, ch’egli aveva
trovato di mattoni e lasciava di marmo. Il suo amore per l’abbellimento
edilizio ed artistico non si limitò alla capitale, ma si prodigò
anche a favore di altri municipii italici e provinciali[22]. Ed egli,
in Roma, non sappiamo in quale occasione della sua fervida attività
politica, forse nella circostanza della inaugurazione del Pantheon,[23]
pronunziò un discorso, col quale esortava vivamente l’aristocrazia ad
aprire al pubblico i proprii musei e le proprie pinacoteche[24].

Noi non sappiamo quanti accogliessero la esortazione, che egli
lanciava, non tanto come suo pensiero personale, quanto come pensiero
del governo. Sappiamo però di certo che l’accolse colui che già era
stato il fondatore della prima pubblica biblioteca in Roma, C. Asinio
Pollione, e che ora aperse egualmente al pubblico la sua galleria ed il
suo museo[25].

Ma l’esortazione imperiale, che fu tanto efficace da scuotere uno
dei più irosi repubblicani del tempo, dovette venire assai più
diligentemente raccolta, e meditata, dalla aristocrazia di recente
formazione, devota al nuovo regime, e così pedissequa imitatrice, come
instancabile ricercatrice, di ogni desiderio che accennasse dall’alto.
Sopra tutto è presumibile, anche in mancanza di notizie positive e
specifiche, che la pubblicità fosse subito data alle opere d’arte
contenute nei musei e nelle pinacoteche imperiali.

Come dunque delle private collezioni di libri greci e latini, così il
governo di Augusto è da presumersi autore diretto, e indiretto, della
prima esposizione al pubblico delle principali opere d’arte, che sino
a quell’ora i felici della capitale del mondo serbavano gelosamente
custodite al proprio esclusivo godimento spirituale. Da quest’inizio
si svolgerà il piccolo nucleo dell’amministrazione delle belle arti
in Roma, che, come vedremo, sarà uno dei meriti della politica degli
imperatori del II. secolo dell’êra volgare.


IV.

Ma un atto di Augusto, che sarà il primo anello di una lunga
tradizione, un atto che avrà tangibili effetti immediati, non suole
essere minimamente ricordato dagli storici dell’istruzione pubblica.
Nel 23 a. C. Augusto, guarito da grave malattia, faceva conferire, dal
senato, una piena immunità da ogni carico pubblico al medico orientale,
che l’aveva salvato e ai suoi colleghi di professione, nè solo ai
viventi, ma eziandio ai futuri[26].

Già vedemmo di un privilegio concesso ai medici in occasione della
carestia del 10 di C. L’una e l’altra concessione hanno per noi
un’importanza notevolissima, in quanto che esse non andavano soltanto
a favorire l’esercizio materiale della professione, ma eziandio
l’insegnamento medico, creatore a sua volta di nuovi professionisti. Di
che, a parte la naturalezza della cosa, abbiamo la esplicita riprova
in talune più tarde _costituzioni_ degli imperatori di questo e dei
due secoli successivi, nelle quali, ai medici, esentati dai carichi
pubblici, si riconosce anche un ufficio insegnativo, ed essi, nella
loro qualità di «_magistri_», vengono collocati accanto ai retori, ai
grammatici ed ai filosofi[27].

Nel mondo greco ed orientale, infatti, fiorivano da secoli illustri
scuole di medicina. Ne fiorivano ad Atene, a Cirene, ad Alessandria,
in Asia Minore, nelle isole dell’Arcipelago, in Bodi, a Marsiglia,
nella Magna Grecia, e in altri luoghi ancora[28]. Scuole private
fiorivano anche in Roma, specie dopo la concessione della cittadinanza,
appositamente largita da G. Cesare ai medici,[29] e quivi ognuno di
essi aveva numerosi apprendisti, che egli, dietro onorario, istruiva
e conduceva seco al letto dei malati[30]. E in Roma, insieme con
l’insegnamento privato, i più famosi medici davano, in luoghi pubblici,
conferenze, esperimenti, e si esponevano anche a discussioni, venendo
con questa loro attività a costituire un vero e vivo focolare di
istruzione medica[31].

A tutti costoro Augusto largiva la esenzione dagli oneri pubblici, e
non soltanto alle loro persone, ma anche a quelle dei successori.[32]
Si beneficava così, per la prima volta, tutto un genere di insegnamento
professionale, ai cui seguaci, pel fatto solo di scegliere una
determinata professione, che esentava da numerosi carichi, si veniva
a concedere un utile materiale quotidiano[33]. Gli effetti della
liberalità di Augusto li rileveremo tra qualche secolo. Il numero degli
esercenti la medicina si sarà allora così moltiplicato da imporre una
qualche restrizione delle godute liberalità.

Quali fossero intanto gli oneri, da cui i medici, sia nella loro
qualità di esercenti che d’insegnanti, venivano, pel momento e
per l’avvenire, esentati, noi specificheremo più innanzi, là dove
la concessione largita diventerà comune ad altre categorie di
«_magistri_», ed avrà assunto, progredendo, tratti più decisi.


V.

Ma la grande riforma, iniziata da Augusto nell’istruzione e nella
educazione della gioventù, la riforma tutta sua, che da sola basta a
fargli assegnare un posto eminente nella storia della civiltà italica,
si svolge su altro terreno, con altri mezzi, ed è assai strano che
gli storici dell’educazione e dell’istruzione nell’impero romano o non
ne abbiano tenuto il conto che si doveva, o ne abbiano assolutamente
taciuto. Intendo accennare alla prima organizzazione della gioventù
italica in quelle associazioni, che saranno i _collegia iuvenum_ romani
e municipali.

Le fonti letterarie e storiche ci dànno con sufficiente ampiezza
un’idea dei criterii, che, secondo Augusto, avrebbero dovuto informare
l’educazione della nuova gioventù romana. Era il ritorno all’antico,
all’esercizio fisico, alla vita militare, all’apprendimento e alla
pratica della religione dei padri. Orazio, uno dei migliori interpreti
del pensiero di Augusto e dei più efficaci diffonditori delle sue idee
politico-sociali, cantava:

«Bisogna svellere i germi di ogni tendenza malvagia e temprare le
infrollite menti a studii più aspri. I giovinetti inesperti non sanno
stare a cavallo e han paura di esercitarsi alla caccia, troppo esperti
invece, sia che si invitino al greco giuoco del paleo, sia a quello dei
dadi vietati dalle leggi».[34] «Il giovinetto, ingagliardito dall’aspra
milizia, apprenda invece a tollerare lietamente l’austera povertà, e,
cavaliere temuto, tormenti coi colpi della sua lancia i Parti, e viva
sotto l’aperto cielo, nell’ansietà dei cimenti»[35].

Dione Cassio, in una, storicamente famosa, allocuzione ad Augusto,
ch’egli mette in bocca a Mecenate, ripete fedelmente, sebbene più
prosaicamente: «Che i fanciulli dell’ordine senatorio ed equestre
frequentino le scuole, e, appena divenuti adolescenti, apprendano
a cavalcare e si addestrino nelle armi, avendo all’uopo maestri
stipendiati dallo Stato per l’uno e per l’altro insegnamento[36]. Così
essi, sin da fanciulli, saranno atti a sè e a ogni cosa, e capaci
di fare quanto è necessario che facciano gli adulti, sia per averlo
appreso che per averlo praticato»[37].

L’idea radiosa era nel pensiero e nel cuore di tutti i poeti
civili del tempo, nel cuore degli amici e dei frequentatori del
circolo di Augusto. Con quale compiacenza Virgilio non descrive le
_exercitationes_ e i _ludi campestres_ della antica gioventù latina!
«E già i giovani al termine della via vedevano le torri e le alte case
dei Latini, e si accostavano al muro. Innanzi alla città, fanciulli
e giovinetti si esercitavano a montare a cavallo, a reggere carri
nell’arena, a tendere gli archi difficili, a vibrare dardi, e si
sfidavano alla corsa ed al getto».[38] «Siamo noi una gente vigorosa
fin dalla nascita. Noi portiamo ai fiumi i fanciulli appena nati e
li tempriamo nelle acque gelide. I fanciulli frequentano le cacce e
percorrono le selve; è loro giuoco domare i cavalli e tendere le saette
su l’arco corneo. I giovani poi, tolleranti della fatica e contenti di
un parco vitto, o lavorano il suolo, o battono in guerra le fortezze.
Ogni età si esercita nelle armi, e l’asta rovesciata è il pungolo pei
nostri giovenchi»[39].

E con quale compiacenza, a vieppiù esaltarli, non vi contrapponeva
egli i costumi e la vita del mondo greco-orientale! Il mondo, in cui
si vestono abiti tinti di croco e di porpora, ove la vita scorre tra
gli ozii, i piaceri, le danze. Il mondo, in cui si portano turbanti
intricati di nastri, e tuniche con maniche che impacciano; il mondo,
ove non si conosce che il frastuono dei timpani e delle bifori tube
di Cibele![40]. Oh, strappare la gioventù, e non la sola gioventù
romana, alla perdizione, cui la guidavano gli invadenti costumi
greco-orientali, ricondurla all’antico, e renderla gagliarda e sana
di corpo e di spirito, gagliarda come l’antico figliuolo del suo
progenitore,[41] infonderle il sentimento del dovere, della sua
partecipazione alla vita dello Stato, renderla capace e degna della
difesa e della gloria della patria!

Così Augusto disciplinò in quadri ufficiali la gioventù romana,
rinnovò la consuetudine dell’antica educazione fisica, creò e organizzò
un’efebia italica. Egli, sulle orme del padre suo, richiamò a certa
vita l’antico equestre _lusus Troiae_ per i fanciulli[42] e i _ludi
sevirales_ per i _tirones_, i giovinetti dai quindici ai diciasette
anni[43], che dovevano anche partecipare ad altri giuochi ginnastici, a
corse di carri, a cacce di bestie feroci nel circo[44].

Così essi, ora, come ai begli anni della storia romana,[45] tornano —
prima del servizio militare — a esercitarsi quotidianamente al campo di
Marte, marciano, cavalcano, nuotano, lottano, s’addestrano nel maneggio
delle armi, nel getto del disco, dei dardi[46]. E come gli efebi greci
riconoscevano, suprema autorità, il cosmeta, così i nuovi efebi romani
riconoscono, quale loro cosmeta, l’imperatore. Come, in Grecia, la
vita, gli studii, gli esercizii ginnastici e militari degli efebi erano
guidati dai παιδορίβαι, in Roma, i fanciulli e gli efebi hanno i loro
maestri: i _magistri_ dei _lusus Troiae_, i _magistri iuventutis_,[47]
i _seviri equitum._ E come la gioventù di ogni città greca aveva avuto
un magistrato onorario, l’ἅρχων ἐφήβων,[48] così tutta la _iuventus
romana_ ha, quale magistrato onorario, il _princeps iuventutis_, che di
consueto è un membro della famiglia imperiale.[49]


VI.

Ma la nuova organizzazione della gioventù non doveva — dicemmo — essere
solo una federazione ginnastica.

Augusto voleva animarla spiritualmente, gettarvi dentro un contenuto
religioso. Augusto — è noto — fu un riformatore, anzi un restauratore,
anche in religione. Augusto ricostruisce templi andati in dimenticanza,
rimette sugli altari culti e riti obliati, ne introduce di nuovi,
che più intimamente si legavano alla nuova vita sociale del tempo,
palesando in tal guisa di volere, così, fare della religione un
elemento integrante e vivo della società[50]. _In primis venerare
Deos!_ E il poeta, che così parlava, è quello stesso che meglio intuì,
e propagò, i disegni di rigenerazione sociale di Augusto,[51] quello
stesso, che ci diede, nel maggior poema epico latino, il più grande
poema religioso della romanità[52].

Il tempio, sacro alla gioventù, del nuovo culto religioso; il tempio,
in cui la religione non si insegnava; ma si viveva, si praticava,
si respirava nell’aria, come nell’opera, dovevano essere le nuove
associazioni giovanili. Augusto aveva ristabilito il culto delle
antiche divinità latine, e i collegi giovanili municipali avranno, nel
loro seno, speciali _sacerdotes_,[53] e si intitoleranno ad Ercole,
Giove, Giunone, Diana, Marte, Minerva, all’Onore, alla Virtù, divinità,
che in sè recano tutto lo spirito militare e arcaicizzante delle
riforme di Augusto. «Già — aveva cantato il coro dei giovani e delle
giovinette nel _Carme secolare_ di Orazio — «già ritornano la Fede, la
Pace e l’Onore e il Pudore antico e la negletta Virtù e l’Abbondanza
beata col pieno corno. L’Augure Apollo» «sospinge la potenza di Roma e
il Lazio felice verso un’altra età sempre migliore. Diana, che tiene
l’Aventino e l’Algido, cura le preghiere dei Quindecemviri e ascolta
benigna i voti dei fanciulli. Noi, esperti nel celebrare le lodi di
Febo e di Diana, sentiamo che questo è il pensiero di Giove e di tutti
gli Dei»[54].

La partecipazione di quei giovinetti e di quelle fanciulle a quella
festa pubblica ed ufficiale, come, nel 2 a. C., all’altra per la grande
ricorrenza della ricostruzione del tempio a Marte Ultore,[55] non era
circostanza trascurabile; era invece un punto del programma sociale di
Augusto.

Così le nuove associazioni giovanili sono eziandio — e in Roma e fuori
— associazioni con carattere religioso. Esse offrono corone agli Dei,
celebrano feste pubbliche, partecipano, in tutta la pompa della loro
giovinezza, alle processioni religiose e ai pubblici spettacoli in
onore degli Dei, protettori della patria e della vita civile. Così,
nel pensiero di Augusto, la spirituale rinnovazione religiosa e la
nuova educazione fisica andavano legate ad un alto intendimento morale
e sociale. Così Augusto intendeva rifare lo spirito, i costumi, le
tendenze delle future generazioni italiche.

L’opera del primo imperatore della casa Giulia si limitò a Roma, o si
esercitò anche in altri municipii italici, per lo meno nei municipi
limitrofi del Lazio, nella cui vita interna egli aveva, altre volte,
esercitato un’azione diretta?

Noi non possediamo di ciò alcuna prova positiva, ma tutto induce a
pensare che così sia stato, che cioè, conforme al suo piano, Augusto
abbia creato, o ricreato a nuova vita, altre associazioni giovanili
municipali. Dati i suoi scopi di rinnovamento fisico, militare e
morale dell’Italia; data la natura delle molteplici associazioni
giovanili italiche del I. secolo di C., di nessuna delle quali tuttavia
riesce possibile rintracciare la precisa cronologia dell’origine, noi
sentiamo che egli non poteva (e non dovette!) limitarsi a influire
sull’aristocrazia romana,[56] come a questa, del resto, non si
limitarono, animati da assai più tepidi spiriti, i successori. Per
tal guisa l’organizzazione ed i nuovi compiti assegnati alla gioventù
italica furono la grande scuola nazionale suscitata da Augusto, da
germi forse esistenti, con le aggiunte e le correzioni, che suggerivano
al suo pensiero l’esempio di altri paesi o le esigenze della vita
nuova circostante. E i primi gloriosi secoli della storia militare
dell’impero romano saranno una delle maggiori fra le sue benemerenze.


VII.

Ad Augusto medesimo deve risalire la creazione di un nuovo ufficio a
corte, il cui reggente avesse l’alta sorveglianza della educazione
della gioventù, nonchè della istruzione pubblica in Roma, tenesse
l’imperatore al corrente delle vicende dell’una e dell’altra, e gli
fornisse all’uopo consigli e suggerimenti.

Gli elementi di fatto, che ci inducono in tale opinione, sono
parecchi. Nella immaginaria allocuzione ad Augusto, che Dione Cassio
mette in bocca a Mecenate, quest’ultimo esorta il principe a creare
un magistrato, tratto dal più eccelso ordine sociale romano, e
destinato a sorvegliare le famiglie, l’uso ch’esse facevano delle
proprie sostanze, i costumi dell’aristocrazia romana — senatori e
cavalieri, uomini e donne, adulti _e fanciulli_ — sulla quale egli
avrebbe esercitato un diretto controllo morale, come di tutto avrebbe
riferito al monarca[57]. Un magistrato, fornito di codeste competenze,
esisteva di fatto nel III. secolo di C., giacchè noi sappiamo che
l’imperatore Eliogabalo aveva, al suo posto, nominato un istrione[58].
Ma i critici del passo di Dione sono corsi troppo oltre il segno,
supponendo che il _subcensore_, l’ὑποτιμητὴς tratteggiato da Mecenate,
fosse soltanto l’ingenua anticipazione di una carica del secolo III.,
e nell’identificare quel personaggio con un altro ufficiale romano di
quell’età, l’_a censibus._

Viceversa, dal regno di Claudio fino a mezzo circa il secolo IV.,
noi possediamo tutta una lunga serie di epigrafi, le quali ci dànno
l’indicazione precisa di un nuovo funzionario del gabinetto imperiale,
l’_a studiis_, il quale, dapprima semplice liberto, andrà poco a poco
accrescendo e l’importanza del suo ufficio e il grado sociale fino a
che, nel II. secolo, la sua carica sarà costantemente occupata da un
cavaliere[59], tale e quale, secondo Dione Cassio (e sarà stata questa
l’unica sua prolepsi) l’avrebbe voluto Mecenate.

Ma ciò, che forse ha impedito agli studiosi di rettamente interpretare
Dione e di assegnare ad Augusto l’iniziativa che gli spettava, è stata
la grande incertezza, in cui essi sono rimasti circa le competenze
dell’_a studiis_, le cui attribuzioni non ci sono mai, da nessun
genere di informazioni, direttamente definite, incertezza, la quale ha
fatto sì che intorno alla natura loro moltiplicassero le ipotesi più
diverse.[60]

Se non che, a parte il fatto suggestivo che l’_a studiis_ è, sotto
i migliori imperatori, un dotto e, con preferenza, un dirigente
grandi istituti di studio, come le biblioteche romane e il _Museo_
Alessandrino[61], un’epigrafe ostiense del II. secolo ci porge la
traduzione greca, anzi una esegesi in greco del nome dell’ufficio,
e questo è ivi illustrato come una sovrintendenza sull’istruzione
e sulla educazione, forse in tutto l’impero, forse nella sola Roma.
Infatti, ivi, Giulio Vestino, _a studiis_ e _a libellis_ di Adriano,
è detto ἐπιστάτης ἐπί τῆς παιδείας Ἀδριάνου καὶ ἐπιστολεὺς τοῦ αὐτοῦ
αὐτοκράτορος.[62]

La glossa è troppo eloquente perchè abbia ad essere trascurata, come
fin’ora è stato fatto, ed essa ci pone in grado di fermare il nucleo
principale delle attribuzioni dell’_a studiis_, che sono quelle
precedentemente indicate. Un tale funzionario è dunque molto più degno
di essere identificato con l’altro, della cui reale esistenza noi
abbiamo un positivo accenno sotto Eliogabalo, di quel che non fosse
l’_a censibus._ Ma sarebbe ancora un errore supporre che la sua carica
dati solo dal regno dell’imperatore Claudio, sotto cui null’altro che
una fortuita combinazione ci fornisce il primo indizio.

Da Augusto a Claudio invero nè l’amministrazione imperiale subì
alcuna sensibile modificazione, nè le sorti della istruzione pubblica
in Roma, o nell’impero, offrirono novità tali da reclamare un nuovo
funzionario. Fino a Nerone, la tradizione augustea imperò sovrana
su tutto il governo dei quasi sempre inetti successori col fascino
di un’eredità intangibile, con l’autorità di un organismo giudicato
perfetto e quindi inviolabile. Ma, come se questo non bastasse, chi ben
guarda si accorge agevolmente che la carica dell’_a studiis_ noi non
la troviamo istituita da Claudio; la troviamo solo fornita di numeroso
personale[63].

Non si era dunque agli inizi, e il merito di ciò spetta, come per
tutto il resto del governo dei Giulio-Claudii, al primo loro grande
predecessore, ad Ottaviano Augusto, che, fin dal suo tempo, largì
allo Stato romano un ufficio consultivo e ispettivo, forse anche
elementarmente direttivo, sulle cose della pubblica istruzione ed
educazione in Roma, anzi, più precisamente — conforme ai limiti, entro
cui egli operò le sue riforme — sulla educazione e sulla istruzione
delle due classi della nobiltà romana del tempo: l’aristocrazia
senatoria e l’aristocrazia equestre.


VIII.

Ma, nella sua molteplice operosità, Augusto — fatto veramente
singolare, se si considera la politica di tutti gli imperatori fino
al II. secolo — rivolse anche le sue cure alla istruzione pubblica
nelle provincie. E la provincia privilegiata fu — lo si poteva in
anticipazione giurare — quella, che maggiormente seppe conquistarsi le
sollecitudini della sua imperiale amministrazione: l’Egitto.

Quivi egli trovava le arti e le lettere già onorate da due suoi
predecessori, lo zio Giulio Cesare e il rivale Marco Antonio. Ed era
previdibile, che, se l’esempio del primo avrebbe dovuto incoraggiarlo
a continuarne l’opera, i grandi donativi del secondo alle pubbliche
biblioteche di Alessandria dovevano costituire un amaro termine
di paragone, che Augusto sarebbe stato tratto a voler offuscare e
superare.

Perciò egli cominciò con l’allogare nel _Sebasteum_, il tempio, che,
lui vivo, fu eretto al suo culto divino in Alessandria, una biblioteca
meravigliosa,[64] rivale delle altre due esistenti nel _Serapeum_ e
nell’antico _Museo_ alessandrino.

La biblioteca era ancora nella pienezza della sua magnificenza sotto
Caligola, ma, dopo questo tempo, sembra che la sua ripercussione
sulla vita intellettuale alessandrina sia, per motivi ignoti, andata
divenendo scarsissima, e che il suo ricordo e la sua presenza siano
stati ricacciati nell’ombra da un altro istituto rivale, il _Museo._

Ma fu appunto al famoso _Museo_ alessandrino, che accoglieva in sè
la maggior gloria dell’antichità, che vennero rivolte le maggiori
sollecitudini di Augusto, il quale ne dette per primo l’esempio a tutti
i successori.

Che cosa si fosse il _Museo_ non è agevole spiegare, date le
associazioni mentali, di cui oggi possiamo disporre. Conteneva sale di
anatomia, un osservatorio astronomico, giardini per acclimatazione di
piante esotiche, parchi di animali di specie rare, una meravigliosa
biblioteca, il tutto, sotto il patronato delle Muse, a cui vi era
stato eretto un tempio apposito. E ivi lavoravano letterati, poeti,
scienziati, eruditi, filosofi. Vi conducevano ricerche, isolatamente
o in comune, discutevano, poetavano, componevano, tenevano, non si
sa bene, se corsi ufficiali o liberi, per giovani e per giovanetti.
Qualcosa dunque tra il tempio, l’accademia, l’università, il museo
(secondo la moderna significazione di tale vocabolo), il laboratorio,
il seminario filologico; in ogni caso, un istituto con proprio
indirizzo, il quale nulla ha più oggi di simile, ma in cui lo studio
e l’istruzione venivano praticati con l’antica indipendenza da ogni
stereotipia burocratica.[65]

Il _Museo_ era stato fondato dai primi due Tolomei, e, finchè questi
vissero e governarono, la monarchia egiziana si era addossato il carico
del suo mantenimento e della sua amministrazione, come quei sovrani,
il diritto di nominarvi gli scienziati e i letterati, che avrebbero
avuto a farne parte, ad esservi alloggiati e mantenuti, nonchè quello
di mettervi a capo persona di loro nomina e di loro fiducia. I suoi
locali si trovavano anzi nel cuore del Palazzo reale, e la politica
dei Tolomei era stata così sottile da imporre, a quel massimo fra
gl’istituti di cultura del regno, la sovrintendenza, non già di un
dotto, ma di un uomo politico e straniero per giunta, un greco, come
greci erano i dominatori[66].

Ma i mezzi indiretti di addomesticamento e di coercizione usati dai
Tolomei non furono questi soltanto. L’inframmettenza del Re giunse
talora fino a sospendere, e pei motivi più futili, lo stipendio dei
dotti del Museo[67]. Gli è perciò che un poeta satirico chiamava il
_Museo_, anche quando esso era nel suo periodo migliore, non il tempio,
ma «la gabbia» o «la stia delle Muse,»[68] intendendo significare con
questo che i costosi volatili, nudriti in quella reale uccelliera, non
avevano precisamente agio di cantare in qualunque tono avessero voluto.

Se dunque la politica dei Tolomei non aveva imposto una filosofia,
una storia e una poesia ufficiale, aveva fissato, per tutte queste
discipline, dei limiti invalicabili, aveva reso loro necessaria una
speciale _tournure_, che, nella storia della letteratura greca, ha ben
una denominazione particolare, l’_alessandrinismo_, e quegl’illustri
pensionati regi sarebbero stati male ispirati, ove si fossero accinti
a dissertare sul miglior governo possibile, a discutere gli atti del
sovrano, a scriverne la storia con imparzialità, a mettere in questione
gli Dei e, più specialmente, quel culto dei sovrani, che mai forse i
Greci erano riusciti a pigliare sul serio.[69].

Or bene, estinta la casa dei Tolomei, costituito l’Egitto in provincia
romana, gl’imperatori del mondo avrebbero potuto interrompere le
liberalità e la politica dei predecessori, avrebbero, come faranno i
principi cristiani, nei riguardi di altri famosi istituti d’istruzione
pubblica, potuto abbandonare alle sue sole risorse la vita del
_Museo_, avrebbero magari, nella migliore ipotesi, potuto continuare
automaticamente, svogliatamente, l’antica tradizione. Viceversa,
Augusto volle che l’impero avesse per il _Museo_ alessandrino le
stesse cure della monarchia tolomaica. Egli ne addossò al pubblico
tesoro il gravame del mantenimento, e, come i Tolomei, aggiunse la
carica e il nome del sovrintendente del _Museo_ al non breve elenco dei
grandi funzionari imperiali. Anzi, quasi non gli bastasse la diretta
influenza, che egli avrebbe potuto esercitare su quel funzionario, in
un paese, ove il carattere della amministrazione imperiale fu sempre
così strettamente personale, la sovrintendenza del _Museo_ rimase
uno dei pochi ufficii della provincia d’Egitto, del cui titolare
l’imperatore volle riserbata a se stesso la nomina[70]. Una sola
modificazione venne apportata dal nuovo governo, modificazione, che ci
è, in modo positivo, testimoniata relativamente tardi,[71], ma che si
deve presupporre datante da quei primi anni: a sovrintendente supremo
del _Museo_ non fu più scelto un greco, ma un romano.

Gl’intendimenti politici, che avevano guidato i Tolomei in quel
campo della loro politica, continuano dunque ad ispirare adesso, con
ugual metro, gl’imperatori romani, i quali appaiono consapevoli della
gravità dei motivi, che li determinavano. Ed essi non ristanno dal
far gravare sul più notevole centro della produzione intellettuale di
quel tempo l’uggia di quell’invisibile trama di lacci d’oro, fatta di
protezione scientifico-letteraria, ma in pari tempo di inquisizione
politico-religiosa, che era stata così mirabilmente intessuta dai
Tolomei.


IX.

Dal primo imperatore di casa Giulia, fino a Nerone, l’incuria del
governo romano verso l’istruzione pubblica fu certamente assai grave.
Anzi — fenomeno interessante poichè riguarda uomini differentissimi
per indole, per attitudini politiche e per metodi di governo — dopo
Augusto, la politica imperiale, nei rispetti della istruzione, tornerà
a farsi valere soltanto con Nerone.

Dell’opera di Tiberio, noi abbiamo a ricordare soltanto l’istituzione
di una terza biblioteca nel così detto _Nuovo tempio_ di Augusto[72],
giacchè l’elevamento al grado di senatore, avvenuto, durante il suo
governo, di un maestro elementare, un semplice _litterator_, non fu
certamente segno delle buone disposizioni dell’imperatore verso i
rappresentanti la scuola primaria, ma soltanto del favore del suo
ministro Seiano verso un disonesto[73].

Di Caligola si può ricordare il periodico concorso di eloquenza greca e
latina, da lui istituito, verso il 39 o 40 di C., a Lione, e che vi si
celebrava alla ricorrenza annua del _concilium_ delle Gallie, intorno
all’Ara, sacra al culto di Augusto, ed era periodica occasione di
convegno dei retori di tutto il paese[74].

Forse più degna di nota, è, nella sua modestia, l’opera dell’imperatore
Claudio.

Claudio fu solo tra gli imperatori romani a concepire un disegno, che
arieggiasse alla lontana il pensiero dei remoti Tolomei nel fondare
il Museo alessandrino. All’antico egli aggiunse un nuovo collegio di
dotti, che installò in un secondo _Museo_, il quale dovette elevarsi
nel quartiere, che si diceva di _Rhacotis_, o, come il Museo tolomaico,
in quello del _Bruchion_ — i soli occupati dai Cesari e dai loro
luogotenenti — e che prese nome dal principe, che ne era stato il
fondatore[75].

Sulle particolarità della nuova fondazione noi sappiamo assai poco, e
assai poco, quindi, sui suoi rapporti di somiglianza e di differenza
dalla precedente. Pare però che la prima origine debba ricercarsene nel
seguente fatto.

Aveva Claudio scritto venti libri di storia degli Etruschi e otto di
storia dei Cartaginesi. Or bene, la principale clausola, ch’egli impose
ai membri del sodalizio beneficiario del nuovo Museo, fu la pubblica
lettura annua, in giorni stabiliti, della sua duplice istoria. Ma
questo compito non fu loro speciale, chè obbligo analogo Claudio impose
ai loro colleghi dell’antico Museo alessandrino, sì che gli uni e gli
altri avrebbero dovuto leggere, nei rispettivi locali, alternativamente
e ad epoca fissa, i suoi 20 libri della _Storia degli Etruschi_ e gli 8
della _Storia dei Cartaginesi_[76].

Tale originario intendimento si ricollega alla usanza delle letture
pubbliche, assai diffusa in Roma in quel tempo, e, sotto tale
aspetto, il _Museo Claudio_ avrebbe potuto definirsi l’_auditorium_
alessandrino delle recitazioni imperiali. Ma questa consuetudine,
voluta da un principe romano in un istituto suscitato in mezzo ai
dotti di Alessandria, conteneva il germe di una notevole innovazione.
C’era anzi tutto, fin da ora, in Alessandria, un nuovo _Museo_ e una
scuola rivale dell’antica; poi l’eccitamento ad ambedue di occuparsi,
ed in maniera speciale, di studi e di ricerche storiche. E di quale
storia! La storia delle due più grandi nazioni dell’evo antico vinte e
soggiogate da Roma; la storia dell’Etruria, madre di buona parte delle
istituzioni primitive di Roma, e patria di una grande religione e di
un’altrettanto grande civiltà; la storia di Cartagine, che tutto aveva
colonizzato l’Occidente e dato vita a tanta parte della sua storia
futura. L’Etruria e Cartagine riconducevano all’Oriente e alla Grecia.
Le opere dunque, e le innovazioni di Claudio, aprivano il più vasto
campo possibile alle investigazioni del passato e facevano, dei due
Musei, due speciali seminarii di storia e di antichità classiche ed
orientali. Era facile prevederlo: negli anni di poi, i dotti dell’uno e
dell’altro non si sarebbero più limitati alla lettura in pubblico delle
opere dell’imperatore, ma avrebbero intrapreso, in giorni determinati,
la lettura di opere proprie, frutto di lungo e difficile lavoro.[77]

L’oscurità grande, che incombe sulle sorti future del _Museo Claudio_,
non ci dà agio di determinare fino a qual segno le speranze del
principe e dei suoi consiglieri siano state esaudite. Certo si è che
un’indicazione, posteriore di ben due secoli, non solo ce lo mostra
ancora in vita, ma già trasformato in sede di studio, in laboratorio
letterario e filosofico, con apposita biblioteca, nel quale cioè i suoi
dotti pensionati si occupavano di quegli studi misti di grammatica, di
retorica e di filosofia, tanto in voga in quel tempo[78].

Se non a tutti, il _Museo Claudio_ rispondeva dunque al fondamentale
tra gli scopi dei Musei ellenici[79]. E appunto per questo non è
piccolo il valore della sua fondazione, nuovo segno delle cure della
politica imperiale verso l’istruzione pubblica nelle provincie.


X.

Ma per una di quelle apparenti anomalie, di cui anche l’impero romano
dà esempio, assai più grande fu, sulla istruzione, sulla coltura,
sulla educazione pubblica, l’influenza del governo del più matto e
del più feroce tra gli imperatori, Nerone. Come sempre, nelle grandi
monarchie assolute, così ora, ognuna delle molle della vita della
nuova aristocrazia imperiale, sparsa per l’Italia e per le provincie,
è retta dalle influenze della Corte e del principe. La Corte reagiva
sui costumi e su tutto il tenore della vita sociale. Le idee, i gusti,
le manie personali dell’imperatore, dei membri della sua famiglia, dei
suoi favoriti divenivano per essa regola e legge. Essa si plasmava
a immagine e somiglianza del principe,[80] e la propria sembianza
mutava, senza esitazione e senza riserbo, a seconda delle mutazioni
che in alto avvenivano. «Noi ci pieghiamo — scriverà Plinio nel suo
_Panegirico a Traiano_ — per qualunque verso il principe voglia; noi
siamo in una parola i suoi imitatori. Noi vogliamo riuscirgli graditi;
noi ne desideriamo l’approvazione, che si spererebbe invano, se se ne
fosse diversi. E siamo giunti a tale continua e rispettosa imitazione,
che quasi tutti viviamo secondo i costumi di un solo». «La vita del
principe è una vera censura, una censura perpetua, che è la nostra
regola e la nostra mèta»[81].

La severità dei costumi della aristocrazia italica e provinciale,
dopo Vespasiano, è quindi un riflesso del nuovo regime della Corte
imperiale.[82] Il buon mercato a Roma va e torna coll’andare e col
tornare delle abitudini parsimoniose degli imperatori.[83] Come il
Nazareno moltiplica i pani, così Marco Aurelio moltiplica i saggi e i
filosofi.[84] I cibi favoriti dell’imperatore popolano le tavole dei
ricchi, il sistema dei suoi medicinali invade e dispare con la sua
vita, con le sue abitudini, col mutare anzi delle sue abitudini. I
principi amanti della musica fanno i musicisti; i principi amanti delle
lettere, i letterati; i principi amanti dell’agonistica, i ginnasti.

È chiaro perciò quale profonda influenza sulla coltura nazionale doveva
esercitare un monarca come Nerone, che volle apparire, quale realmente
non era, un intellettuale, e tanto amò di essere imitato.

Già fin da Augusto era penetrata nella sezione occidentale dell’impero
la consuetudine, perfettamente greca, dei concorsi poetici, e noi,
sotto quel primo imperatore, come sotto Claudio, ne troviamo istituiti,
e celebrati, in Roma ed a Napoli.[85] Caligola — vedemmo — aggiunse,
alle gare poetiche, dei concorsi di eloquenza. Nerone, conforme
al carattere ellenizzante della parte più intellettuale della sua
politica, non poteva dimenticare, nè dimenticò, questi ultimi, e uno
dei punti del programma delle solenni _Neronee_, da lui istituite nel
60 di C., furono le gare oratorie, a cui egli non mancò di partecipare
in persona.[86] Ma nè fu quella soltanto la pubblica esibizione, che,
della propria valentia, Nerone fece in concorsi del genere,[87] nè
altre solennità, celebrate sotto il suo regno, dovettero mancare di
questa specie di concorsi tanto rispondenti alle personali velleità
dell’imperatore[88].

Il fatto era stato straordinario, ma non meno inevitabile fu il
contagio dell’esempio. A tali gare partecipò buona parte degli
aristocratici del tempo[89]. Tutta l’attività, che i contemporanei
della repubblica avevano svolta nel foro e nei comizi, fu adesso
impiegata nello sforzo (ahi quanto spesso vano!) di conseguire la
perfezione nell’arte oratoria, e torrenti di eloquenza sgorgarono dalle
mille penne e dalle mille bocche degli aristocratici del tempo. E a
Roma affluì nuova ingente copia di maestri e di dottori di retorica,
e le scuole moltiplicarono, e l’incanto, che faceva ancora giudicare
tale professione tra le più umili, fu rotto, e molti di bassa fortuna
salirono al vertice della piramide sociale, e l’unico maestro senatore
di Tiberio vide moltiplicare i suoi colleghi sugli scanni del primo
consesso del mondo[90].

In maniera analoga, il fatto che Nerone aveva avuto una speciale
istruzione filosofica, che anzi l’aveva ricevuta da due stoici, il
fatto di un imperatore, che, dopo i pasti, si dilettava di assistere
a dispute filosofiche, più o meno sincere e calorose,[91] dette un
considerevole impulso alla cultura filosofica dell’aristocrazia romana,
e, insieme con gli oratori e coi retori, moltiplicarono i precettori di
filosofia, le scuole e l’amore della saggezza.

La grande copia di nomi di stoici, venuti in fama, a Roma, nell’età di
Nerone, e l’abbondanza e la precisione delle notizie ad essi relative,
che appaiono meravigliose al paragone degli anni precedenti, non sono
indice insignificante. Nelle case degli aristocratici si accolgono
circoli di filosofi, che divengono guide spirituali dei componenti
quella classe. Rubellio Plauto, già presso a morire, ascolta i consigli
di Cerano e di Musonio Rufo: Trasea Peto, in identiche condizioni,
conversa col cinico Demetrio; Barea Sorano ha maestro l’infido Egnazio
Celere[92].

Gli aristocratici mostrano così di avere ognuno nelle proprie case, un
saggio, un precettore di filosofia, mescolato alla lor vita intima,
consigliere in ogni repentaglio dell’esistenza[93]. E, come se
questo non bastasse, essi si recano a compiere studii più dispendiosi
all’estero, in Gallia, in Grecia, in Asia[94].

Dell’età di Nerone si tramandano per l’Italia nomi di scuole di
filosofia famose: quella di Anneo Cornuto, sui cui banchi sedevano, fra
gli altri, Persio e Lucano;[95] quella di Musonio Rufo,[96] quella di
Metronatte. Ed esse non sono soltanto popolate di giovani, sono anche
frequentate da persone di età matura[97].

Ma se riprova occorresse del fatto (che si dovrebbe, anche _a priori_,
assumere come non dubbio) del prodigioso incremento degli studi
filosofici dopo l’avvento al trono di Nerone — essa sarebbe certamente
la degenerazione dell’amore della filosofia nella moda, nella mania
della medesima,[98] e quella corruzione dell’ufficio e del ministero
dei maestri, che, flagellata più tardi dai poeti satirici,[99] maturava
già fin dagli anni del principe lottatore, oratore e filosofo,[100] e
che, come ogni corruzione, era segno di raggiunta pienezza di sviluppo.


XI.

Di così improvviso rigoglio di studi di retorica e di filosofia era
stato artefice Nerone. Ma io sono fermamente convinto che a lui, ed
a questo tempo, si debba ricondurre un assai notevole provvedimento
legislativo, che sarà più tardi constantemente ripetuto dagli
imperatori romani. Intendo accennare alle immunità largite ai pubblici
docenti. Un passo del _Digesto_ infatti, discorrendo di una concessione
di Vespasiano e di Adriano, parla di _magistri qui civilium munerum
vacationem habent_[101]. L’esenzione aveva dunque dietro di sè una
consuetudine. Ma questa non era stata certamente iniziata da nessuno
degli imperatori, che regnarono fra Augusto e Nerone, e in questo
convincimento ci induce anche una superficiale conoscenza della loro
politica e delle loro cure. Che vi abbia dato principio Augusto è
possibile, non probabile, chè altrimenti o ne avremmo menzione in
quella autobiografica rassegna dei più cospicui fra gli atti di lui,
che fu il _Monumentum Ancyranum_, o troveremmo tanta innovazione
esaltata dai suoi numerosi apologisti, per lo meno a proposito
dell’analoga immunità da lui concessa ai medici.

Se quindi escludiamo dalla nostra considerazione Augusto, l’unico,
tra questo principe e Vespasiano, su cui sia lecito soffermarsi, può
essere solo Nerone, il grande protettore degli esercizi di retorica,
il discepolo di due filosofi, di cui uno era a sua volta figlio di un
retore, e fu il consigliere e l’ispiratore di una buona parte della
politica imperiale. Onde a Nerone io penso si possa con tranquilla
coscienza ricondurre l’origine di una consuetudine di governo, che,
salvo lievi variazioni, dominerà tutta la politica scolastica dello
impero, la consuetudine — dico — di largire ai maestri di grammatica,
di retorica, di filosofia, quanto Augusto, aveva largito ai medici
nella esultanza della convalescenza: la immunità dai carichi pubblici e
dalle pubbliche funzioni.

Tale concessione del governo romano non fu esclusivo privilegio delle
su citate categorie di professionisti, nè può dirsi ch’essa, per ora,
sia più che ai suoi inizii. Man mano che la costituzione politica
e l’organismo fiscale dell’impero si rinsalderanno, la teoria delle
immunità riceverà sempre più larghe applicazioni per divenire, negli
ultimi secoli, una delle molle necessarie al funzionamento dello stato.

Essa infatti consisteva nell’eccitare gli individui di determinate
classi a fornire alla società l’opera loro (di cui questa aveva
assolutamente bisogno) in cambio della esenzione di una, più o meno
larga, serie di oneri, gravanti sul resto dei cittadini. Fra codesti
oneri rientrano poco a poco le pubbliche funzioni, gli _honores_, i
quali così vanno via via assumendo il carattere di _munera_, imposti
dallo stato ai suoi sudditi, per fini a lui propri — quali che possano
essere i sentimenti e le convenienze dei sudditi stessi — il che veniva
a sancire quell’assimilazione dell’_honor_ al _munus_, che fu certo
uno dei tratti più caratteristici del diritto pubblico nell’impero
romano[102].

Or bene, tra le categorie di persone, di cui lo stato fin d’ora
dichiara di avere assoluto bisogno ed a cui offre, in ricambio dei loro
servigi, l’esenzione di parecchi carichi, sono i ministri del pubblico
insegnamento, dichiarato così anch’esso — implicitamente — funzione
essenziale della società e della vita civile.

Abbiamo noi mezzo di stabilire fin d’ora la portata ed i limiti di
quella esenzione? Quali tra i professionisti dell’insegnamento ne
godettero? Da quali carichi andarono essi esenti?

Il _Digesto_, riferendosi all’età, che precede Adriano e ai _magistri_,
che allora godevano della _vacatio civilium numerum_, ne specifica[103]
le varie categorie in _medici, grammatici, oratores_ (cioè: _retori_)
e _philosophi._ I maestri elementari, i _litteratores_, sono quindi,
fin d’adesso, come, per regola generale in seguito, esclusi da ogni
immunità. Viceversa, il beneficio non dovette limitarsi solo a Roma.
Se Augusto aveva privilegiato tutti i medici esercenti dell’impero,
i privilegiati d’adesso non avrebbero potuto essere soltanto romani,
o, se così fosse stato, se cioè la riconferma del privilegio avesse
contenuto qualche restrizione, lo si sarebbe certamente dichiarato.

Questa considerazione è ribadita dalla parola stessa del _Digesto_:
«Il Divo Vespasiano e il Divo Adriano — s’esprime un giurista —
dichiararono in un rescritto che agli insegnanti, i quali hanno
l’immunità dai pubblici oneri, e cioè i grammatici, i retori, i medici
e i filosofi, gli imperatori avevano implicitamente largito l’esenzione
dall’obbligo di _hospites recipere_[104]». E altrove: «È inserito
nelle _costituzioni_ dell’imperatore Commodo il passo di un’epistola
di Antonino Pio, nel quale si dice che anche i filosofi sono esentati
dall’obbligo della tutela. Le parole son queste: — Del pari a tutti
costoro il Divo mio padre, salendo al trono, con una costituzione
_confermò i precedenti onori_ e le _preesistenti immunità_, sancendo
che i filosofi, i retori, i grammatici ed i medici sono esenti dalla
ginnasiarchia, dalla agoranomia, dai sacerdozii, dall’obbligo della
ospitalità, dall’obbligo della _sitonia_ e della _elaionia_, e che non
possono essere costretti a fungere da giudici o da ambasciatori, o a
prestar servizio militare, o a sottostare a qualunque altro carico —
»[105].

Una così ampia e universale concessione di immunità, che, come si
dichiara, precede Adriano e Vespasiano, mentre da un lato ribadisce
la interpretazione che le immunità ai _magistri_ dovettero varcare
la cerchia delle mura di Roma e i confini d’Italia, assicura eziandio
dall’altro che esse furono comuni a tutti i restanti paesi dell’impero.


XII.

Ma l’epistola di Antonino Pio ci dà anche l’elenco degli oggetti, su
cui queste immunità ai _magistri_ vertevano prima di Adriano, e (noi
possiamo pensare) vertevano a un di presso sin dalla loro origine.

I grammatici, i medici, i retori e i filosofi erano, secondo la parola
della _costituzione_ riconfermata da Adriano, esenti dall’ufficio:
1) di γυμνασιαρχοι 2) di ἱερεῖς; 3) dall’obbligo della ἑπισταθμία; 4)
dall’ufficio di σιτῶναι, 5) di ἐλαιῶναι, 6) di κριταί, 7) di πρέσβεις,
8) di στρατιῶται e da ogni altro carico di qualsiasi genere[106].

Non sarà male, piuttosto che tradurre verbalmente, chiarire,
specificando, l’importanza di ciascuna di codeste esenzioni.

L’espressione _gymnasiarchia_ ci richiama anzi tutto al mondo
greco. Ivi, nel periodo classico, essa era stata una liturgia, forse
identificabile con la _lampadodromia_,[107] e tale rimaneva ancora,
nel periodo romano, non ostante avesse, qua e là, assunta la forma
di magistratura. Perciò il _gymnasiarca_ offriva agli efebi vesti,
forniva olio per il ginnasio, dedicava stabilimenti di bagni, accudiva
alla celebrazione di sacrifici e di festività, acquistava le vittime
all’uopo richieste, provvedeva all’allestimento dei banchetti, che
seguivano i sacrifizi, costituiva a sue spese il fondo per i premi
richiesti dai vari concorsi, innalzava pubbliche costruzioni. Era
dunque il suo, specie se, come talora avveniva, si cumulava con quello
di _agonoteta_, un ufficio terribilmente dispendioso[108].

Ma il concetto di _gymnasiarchia_, contenuto nel paragrafo del
_Digesto_, che qui interpretiamo, non può, come talora è stato
fatto,[109] riferirsi specificatamente alla liturgia o alla speciale
magistratura greca, che portava codesto nome. Deve invece riferirsi
alla cura in genere dei pubblici spettacoli, a quel _ludorum publicum
regimen_, che, nel mondo greco, spettava, come abbiamo visto, al
_gymnasiarca_; in Roma, nell’età imperiale, al pretore[110]; nei
rimanenti municipii, agli edili;[111] o, nell’una e negli altri, a
_curatores_ speciali[112]. E quanto gravoso fosse codesto onere si può
convincersene, rammentando che in Roma erano proverbiali i dispendii,
a cui gli edili soggiacevano, durante la celebrazione di determinate
festività, e che assai spesso i magistrati desideravano andarne esenti.

L’ἀγορκνομία è una magistratura notissima nel mondo greco ed
ellenistico. Ma la nostra fonte giuridica, se si esprime in greco, non
si riferisce unicamente al mondo ellenico, sibbene, al solito, rende,
con la parola greca, un concetto, che, negli altri municipii, specie in
quello di Roma, corrispondeva a magistrature rette da funzionarii, che
portavano altri nomi.

L’_edile_ della repubblica romana era stato infatti per eccellenza
_agoranomo_: aveva sempre provveduto a che i viveri, specie il
frumento, non subissero rincari esagerati, aveva impedito, e mitigato,
anche con largizioni proprie, gli effetti delle carestie, sorvegliato
i pesi e le misure. Nell’età dell’impero, l’ufficio di _curator_
dell’ànnona in Roma, era stato assunto da speciali magistrati, ma
nei municipii italici esso era, di regola, rimasto còmpito precipuo
dell’edile[113].

Anche il _sacerdozio_ (ἱεροσύνη) rientrava, come i due uffici
precedenti, nella categoria degli _honores._ Nell’impero romano
esistettero sacerdoti urbani e sacerdoti provinciali. Ma quell’onore
si traduceva, pur troppo, in un vero e proprio carico patrimoniale,
giacchè chi lo rivestiva soggiaceva a pesi determinati, all’obbligo
di donativi in danaro per pubblici edifici, e l’ufficio aveva rapporti
molteplici e costosi con i giuochi dei gladiatori e con le cacce degli
animali feroci[114].

Viceversa, l’ἐπισταθμία era un carico esclusivamente patrimoniale.
Essa consisteva nell’obbligo dei proprietari di case di ospitare, a
turno, magistrati e funzionari, viaggianti o in missione, insieme con
il loro seguito, a cui bisognava pure fornire alloggio, letti, legna,
sale, fieno per le bestie[115]. E, se si fosse trattato di _hospitium
militare_, tutti indistintamente gli abitanti di un paese sarebbero
stati tenuti a fornire, ai soldati in marcia, alloggio, fuoco e quanto
costoro avessero potuto chiedere o desiderare[116].

Le rimanenti immunità riguardano dei _munera personarum._ Le σιτωνίαι
e le ἐλαιωνίαι (_emptiones frumenti et olei_) si riconnettono al
problema della cura dell’annona urbana, che fu tra i più tormentosi
dell’antichità. Si trattava di fare delle grandi provviste di grano e
di olio pei bisogni del mercato, in parte con le entrate dello Stato,
in parte con volontarie contribuzioni. Delle prime venivano, in Grecia,
incaricati appositi magistrati, i σιτῶναι, una delle cariche del paese
più onorifiche e delicate;[117] delle seconde, gli ἐλαιῶναι[118]. Nei
municipii non ellenici si curano di ciò per adesso gli _edili_; più
tardi, vi troveremo addetti appositi _curatores_[119].

L’ufficio di κριτὴ (_munus iudicandi_) corrispondeva all’esercizio
delle funzioni di giudice (_iudex, recuperator_) nei processi civili.
Finalmente il πρεσβεύειν (_munus legationis_) era l’obbligo della
_legatio_, cioè di assumere la carica di _legatus_ delle varie città
presso l’imperatore, il senato, i patroni residenti in Roma; e l’εἰς
στρατείαν καταλέγεσθαι (_munus militiæ_) corrispondeva a l’obbligo di
soggiacere al servizio militare, tanto per conto dello stato come dei
municipii[120].

Da tutti questi onori e da questi carichi venivano adesso esentati i
docenti di arti liberali. Ma, nonostante così ampio esonero, l’immunità
dei privilegiati non si sarebbe potuta dire completa. Noi sappiamo
infatti che altre categorie di sudditi godevano esenzioni da altri
numerosi gravami[121], di cui, a proposito dei maestri, non si fa,
nei documenti che abbiamo riferito, specificatamente parola. Onde
l’autore della su citata _costituzione_ Adrianea sentiva il bisogno
di completarne il dispositivo, chiudendo con l’ampia dichiarazione di
esonero da qualsiasi altro carico, dando così alla concessione quel
carattere di universalità, che vi sarà concordemente riconosciuto dai
giuristi maggiori dell’evo imperiale[122].

La liberalità dello Stato non poteva essere più completa. Il linguaggio
ufficiale degli anni successivi definirà questa come una immunità
realmente illimitata[123]. Ma il suo merito non risale, come a
un’indagine superficiale potrebbe apparire, ai principi dell’ultima,
sibbene a quelli della prima età dell’impero, al paragone dei quali i
successori non procederanno sempre nella via delle larghezze.

Ci rimane a rispondere a un’ultima domanda: Quale fu l’ampiezza
cronologica, che l’imperatore volle donare alle sue immunità? Si
limitavano esse ai professionisti viventi sotto il suo regno, o anche
ai futuri?

Su ciò — per ora — non può illuminarci che l’analogia della immunità
concessa ai medici da Augusto, che riguardò esplicitamente, non
solo i viventi, ma anche gli altri che sarebbero sopravvenuti[124].
Era veramente un impegnare un po’ troppo l’avvenire, e le conferme,
che i successori riterranno opportune, e le limitazioni, ch’essi vi
arrecheranno, sono prova sicura del fatto che, se nella ingenua, o
buona, volontà di ciascuno dei largitori il beneficio non doveva aver
limiti di tempo, nel concetto dei principi successivi, le liberalità
concesse erano in vigore solo fino al giorno, in cui non fossero state
abrogate o confermate[125].


XIII.

Abbiamo nel paragrafo precedente discorso delle immunità dei
grammatici, dei retori e dei filosofi, e abbiamo soggiunto che di
regola codesto privilegio non si estendeva ai maestri elementari,
i _ludi magistri._ Ed infatti il silenzio, serbato su di loro
dai documenti di questa prima età, ci verrà confermato da altri
posteriori del secondo e del terzo secolo, i quali dichiareranno come
gli imperatori non credano che le immunità debbano applicarsi agli
insegnanti primarii[126].

Tuttavia tale divieto risponde solo a una disposizione generalissima;
e, come la dispensa delle immunità conteneva clausole particolari,
rispondenti alle condizioni e alla natura dei singoli luoghi,[127]
così le sue norme generali potevano spesso, anche per volontà
dell’imperatore, subire delle gravi deroghe. È quello che noi troviamo
accadere a proposito dei _ludi magistri._ Si davano infatti dei casi,
in cui anche questi docenti erano, per volontà imperiale, dichiarati
immuni da determinati oneri. Ce ne informa una delle scoperte
epigrafiche più importanti, la così detta _Tabula Vipascensis_, una
iscrizione latina del Portogallo, nella quale, per esprimerci nei
termini più generici, si regolavano le cose del distretto minerario di
Vipascum, appartenente al fisco imperiale, e si fissava l’ordinamento
del borgo formatosi intorno al territorio della miniera.

Or bene, in uno dei capitoli di detta legge, è stabilita l’immunità dei
_ludi magistri_ del borgo[128].

A noi importa mediocremente la cronologia del documento. Lo si è,
dai suoi editori, con sorprendente unanimità, pensato della fine del
I. secolo di C., ma può dirsi che un argomento convincente a favore
di questa cronologia non esista. Si erano invocati la paleografia e
lo stile[129]. Ma, quasi non bastasse la nota scarsa sicurezza, che
indici del genere offrono, specie a proposito di documenti ufficiali,
è sopravvenuta la scoperta di un nuovo regolamento minerario della
stessa località — forse uno dei frammenti, che ancora si attendevano,
dell’epigrafe vipascense — in cui, non ostante l’identità della
grafia,[130] la datazione è sicura: il governo di Adriano.

Ma la _Tabula Vipascensis_ non contiene l’originale di un contratto
intercesso tra il fisco e una compagnia di appaltatori; è invece la
forma generale, il tipo tradizionale dei capitolati dell’appalto delle
miniere[131]; per cui rimane esclusa ogni possibilità di assegnare
a quelle norme generiche una definitiva cronologia. Gli è per questi
motivi che noi non esitiamo a discorrere fin d’ora della epigrafe e
delle disposizioni, che vi si contenevano relative ai _ludi magistri_,
preferendo collegarle con tutta la materia delle immunità, di cui
abbiamo precedentemente trattato.

Il testo dunque è — verbalmente — chiarissimo: «_ludi magistros a
procuratore metallorum immunes ess(e placet)_». E che vi si trattasse
delle consuete immunità dai _munera civilia e pubblica_, o, almeno,
soltanto dai primi, era stato ammesso da tutti gli studiosi della
epigrafe[132]. Ne aveva dubitato uno solo, il quale aveva sospettato
si trattasse, non della immunità _a muneribus_, sibbene della sanzione
di una indipendenza dei _ludi magistri_ dalla autorità straordinaria
e speciale del distretto minerario, il _procurator metallorum_, per
cui i primi non avrebbero potuto essere citati dinnanzi al tribunale
del procuratore, ma solo a quello dei giudici ordinarii. Tale
significato della frase della legge egli trovava eziandio in un passo
di un’orazione di Cicerone (_Pro Font._ 12, 27). E forse — aveva ancora
opinato — il fisco, redigendo il modulo di concessione, che costituisce
la materia dell’epigrafe, aveva voluto eccettuare l’insegnamento
elementare dal monopolio, cui erano soggette altre professioni,
esercitate nel distretto, quella di calzolaio, di barbiere, di
lavandaio, di banditore, di proprietario di bagni etc. etc.[133]

Noi dobbiamo dichiarare che, se anche tali sospetti e tale
interpretazione fossero legittimi, ci troveremmo del pari dinnanzi a
un atto notevole, compiuto dall’autorità imperiale nei riguardi degli
insegnanti elementari, atto, che, per gli scopi del nostro studio,
avrebbe importanza pari alla concessione della consueta immunità _a
muneribus._ Se non che, a chi ben guardi, quell’ipotesi non è la più
probabile.

Anzi tutto, i casi di analogie, citati dal nostro critico, non hanno
il valore che egli vi pretende. Nella orazione _Pro Fonteio_, Cicerone
esprime un concetto affatto diverso di quello che si richiederebbe,
giacchè ivi dice soltanto, e nei termini più generali, che la Gallia
vedeva nella rovina di Fonteio «quasi la propria immunità e la propria
libertà.»[134] Ma, come che sia, per la esenzione dell’insegnamento
elementare dal monopolio, cui altri impieghi soggiacevano, non vi
era punto bisogno di un capitolo speciale dell’epigrafe. Bisognava
soltanto non farne menzione, chè la _lex Vipascensis_ non istabiliva
un monopolio universale, ma un monopolio per mestieri e per professioni
determinate.

Quanto poi alla supposta esenzione dall’autorità del _procurator_
imperiale, sfugge a noi ogni motivo del privilegio conferito ai _ludi
magistri_ e — quel che più importa — soltanto ad essi. Il _procurator_
fa a Vipascum le veci dell’autorità municipale[135]. Perchè mai
dunque la esenzione dei _ludi magistri_, e di loro soltanto, dalla sua
giurisdizione?

Ci pare dunque assai preferibile l’interpretazione, più comune, di
una esenzione _a muneribus._ Ma si trattava di esenzione dai carichi
comunali o da tutti i carichi pubblici imposti dallo Stato? È probabile
che, su questo punto, una esenzione limitata ai primi risponda
maggiormente a verità.[136] Una _immunitas a procuratore metallorum_
deve più probabilmente riguardare soltanto i carichi dipendenti dalla
autorità del procuratore, e, in tal caso, solo i _munera civilia_, i
carichi comunali, che quegli imponeva in virtù degli stessi diritti,
per cui, nei municipii, li imponevano la curia e i magistrati locali.

Noi veniamo intanto a sapere che una di quelle condizioni speciali, che
spingevano il governo ad accordare ai maestri la immunità dai pubblici
oneri, quella immunità, che ad essi di regola non si largiva, era la
singolarità dell’aggregato sociale, tra cui si sarebbe desiderato si
svolgesse l’opera loro. Nel distretto minerario di Vipascum, s’era
formata, o si sarebbe andata formando, una popolazione composta dei
minatori e delle loro famiglie, che il bisogno o l’allettamento del
guadagno avrebbe potuto stabilmente trattenervi. Per creare questa
condizione di cose, da cui appunto dipendeva la vita della miniera,
occorreva offrire, più che fosse possibile, sicuramente ed a buon
mercato, qualcuno dei più importanti servizii. Il desiderio di
raggiungere tale scopo avea fatto creare dei monopolii, che da un lato
garantivano la bontà del servizio, dall’altro la suscettibilità del
consumatore contro pretese eccessive.[137] Queste stesse cause e queste
stesse preoccupazioni davano origine al privilegio in favore degli
insegnanti elementari, i quali, in quella rara oasi, avrebbero trovato
quella esenzione _a muneribus_, che, soli fra i pubblici docenti
dell’impero, ignoravano, e che li avrebbe fatti accorrere numerosi
a diffondere l’istruzione, ciò che precisamente lo Stato mirava a
conseguire.

Quello che accadeva a Vipascum doveva accadere in tutti i distretti
minerarii, che si trovavano in pari condizioni territoriali; doveva
accadere in tutte quelle circostanze, in cui gli agglomeramenti di
sudditi dello impero, su cui il governo aveva interesse di rivolgere la
sua attenzione, presentavano analoghi caratteri. Le fonti non ci hanno
specificato tutti i casi, in cui il provvedimento ebbe a ripetersi, ma
noi abbiamo, ugualmente, il pieno diritto di non presumere isolata la
franchigia dei maestri di Vipascum.


XIV.

Ma la impronta caratteristica, che il governo di Nerone lasciò nella
storia dell’istruzione pubblica, non si rintraccia nelle scuole
primarie o in quelle di retorica o di filosofia.

L’originalità del suo governo consistette invece nella introduzione di
una nuova forma di educazione fisica nel piano generale dell’istruzione
e della vita romana, non che il decisivo trionfo del culto
dell’istruzione musicale: due fatti, che reagirono contro tendenze
tradizionali, subirono discussioni e contrasti vivaci, e furono tutta
opera personale del principe.

Lo spirito dell’educazione fisica romana era stato in categorico
contrasto con quello dell’educazione fisica greca, e il costume
ellenico, che aveva fatto schiava e prigione Roma in tutti i gradi e
in tutte le forme dell’istruzione e della educazione intellettuale,
era rimasto irrimediabilmente escluso dai termini dell’educazione
fisica. Un frammento del _De Republica_ di Cicerone rivela tutto
l’orrore romano contro l’educazione fisica a tipo ellenico, arte
ch’era fine a se stessa, suscitata da un desiderio di bellezza,
che, come l’arte propriamente detta, prescindeva da ogni altra
considerazione. L’esercizio a corpo nudo è, per il buon romano, una
lesione del fondamento stesso della vita morale e civile[138]. «Quanto
non è assurda, scrive Cicerone, l’educazione fisica dei giovani
nei _gymnasia_, quanto fatua la milizia degli efebi greci! A quanti
contatti e a quanti liberi amori non dà essa luogo!»[139].

L’uso degli esercizii fisici a corpo nudo avrebbe tratto i Greci alla
mollezza e al servaggio. «Erano stati — si pensava — i _gymnasia_ e
le palestre a portare in copia nelle città l’inerzia e l’ozio, cattivo
consigliero, e la consuetudine della omosessualità, e la corruzione dei
giovani. Tutti dediti a dormire, a passeggiare, a regolare la vita e i
movimenti, i Greci avevano poco a poco abbandonato l’uso delle armi,
e, senza avvedersene, preferito essere agili e bei ginnasti, anzichè
opliti e cavalieri valenti»[140].

E come, per il buon romano antico, l’educazione fisica doveva
limitarsi, e subordinarsi, ai ristretti scopi della milizia e alle
modeste esigenze della sanità del corpo[141], per il romano più
intellettuale dell’età dell’impero, essa poteva al più, oltre che
a questo,[142] tendere a completare le qualità del buon oratore,
regolandone i gesti e i movimenti, aggraziandone l’attitudine e il
passo, tramutandosi in una chironomia[143].

Le riforme augustee nell’educazione dei giovani non avevano derogato
da codesti criteri. Era riserbato a Nerone sconvolgere, o iniziare lo
sconvolgimento, di tanto salda ideologia e di tanta tradizione. «Nel
suo quarto consolato, narrano Tacito e Svetonio, consoli lo stesso
Nerone e Cornelio Cosso, egli istituiva in Roma, per la prima volta,
una festa quinquennale, le cui norme furono appunto ricalcate su
quelle della corrispondente solennità ellenica»[144]. Furono queste le
_Neronee._ Si ebbe perciò, per la prima volta, in Roma, una solennità
con gare di corsa di carri e di ginnastica, da rinnovarsi ogni cinque
anni, a spese, non più dei magistrati preposti a quell’ufficio, ma
dello Stato. E a tali concorsi — qui appunto risiedeva la innovazione,
fonte di tanto scandalo — avrebbero dovuto partecipare, come vi
parteciparono in grande copia, cittadini dell’aristocrazia romana,
spettatrice tutta la loro classe, che avrebbe assistito al grande agone
in costume greco.

La rara, periodica solennità richiedeva — ed era naturale —
l’addestramento e l’allenamento dei partecipanti al concorso. E Nerone
provvide, ed edificò in Roma, insieme con le sue terme, un _gymnasium_,
l’edificio, presso i Greci, sacro all’educazione e all’allenamento
fisico dei giovani, dei cittadini, degli atleti. E, nell’inaugurarlo,
distribuì _graeca facilitate_ l’olio ai senatori e ai cavalieri, segno
indubbio degli scopi dell’istituto e delle classi sociali, a cui, nel
suo pensiero, veniva destinato[145].

Erano i primi passi, ma passi decisivi, verso quella glorificazione
dell’educazione fisica greca, che altri imperatori continueranno. Ne
era anzi la consacrazione ufficiale, ed è facile, dalle lamentele degli
scrittori contemporanei, o immediatamente successivi, intravedere tutta
la efficacia di quel tentativo. L’amore dell’esercizio fisico viene
infatti all’ordine del giorno. Nelle case, in locali appositi, dei
maestri, dei _palaestrici_ — gente grossolana, che gli intellettuali
del tempo disprezzavano cordialmente, giacchè, a loro dire, passavano
tutto il giorno a ingollare vino, a ungersi di olio e a riversar sudore
— impartivano, come i retori e i grammatici, lezioni di ginnastica ad
uomini, ed anche, fin d’allora, a donne[146].

L’educazione fisica entra così a parte dei programmi di educazione
e di istruzione generale, e l’opinione comune tenta di collocarla a
fianco delle arti liberali, insieme con la filosofia, la grammatica, la
retorica[147]. Perciò essa ridesta tutta l’avversione dei conservatori
romani e alimenta largamente la protesta delle persone così dette
autorevoli[148].

Ma anche questa volta, così come contro più antiche recriminazioni,
il nazionalismo ebbe la peggio. E, nonostante le lamentele dei circoli
conservatori romani, l’amore dell’educazione fisica, regolata secondo
i criterii, cui si era ispirata in Grecia, sia pure inclinando verso
quelle forme, che costituiscono la sua degenerazione, come l’atletica
e l’acrobatica[149], nessuno, per lungo tempo, ebbe più mezzo di
svellere.


XV.

Quello che è a dirsi delle sorti dell’istruzione fisica, sotto l’ultimo
degli imperatori Claudii, non differisce — lo accennammo — gran fatto
da ciò che sarebbe a dire dell’istruzione musicale.

È noto come, già fin dal II. secolo a. C., la musica greca fosse
prevalsa assolutamente sulla romana, e come, fin da quel tempo,
lentamente, ma tenacemente, l’amore della sua cultura si diffondesse
per l’Italia romana[150]. È evidente in che alta misura il nuovo
regime imperiale dovesse favorire l’amore degli spettacoli musicali
e l’apprendimento delle discipline che vi si riferiscono. La
cresciuta ricchezza, la pace interna, lo sfarzo naturale delle
corti principesche, che le classi aristocratiche, avrebbero voluto
imitare, il contatto con nuove e antichissime civiltà e con società,
squisitamente dotate di senso musicale, tutto contribuiva a tale
risultato.

Come invero la conquista della Grecia aveva, nella società romana,
portato la diffusione della musica greca, così la conquista
dell’Egitto determinò in Occidente l’invasione del ballo e della musica
istrumentale alessandrina.

L’età di Augusto inaugura infatti l’êra delle pantomine, genere di
spettacolo ancora ignoto ai Romani, costituito da una schiera di
ballerini e da accompagnamento di canti corali e di musica orchestrale,
che di lì a poco occuperà nella vita antica lo stesso posto, che nella
nostra occupa l’_opera_[151]. Cotali orchestre dettero man mano luogo
a veri e propri concerti — pubblici e privati — indipendenti da ogni
rappresentazione teatrale, e fu questa una delle grandi manìe della
corte e delle case aristocratiche sin dai primi anni dell’impero[152].

Alle rappresentazioni filodrammatiche ed ai concerti, gli imperatori
aggiunsero i concorsi musicali. A perpetuare il ricordo di Azio,
Augusto istituì a Nicopoli — nella _Città della vittoria_ — gare
di musica, che presero regolarmente posto accanto ai quattro agoni
tradizionali. Lo stesso egli fece a Pergamo;[153] e a Roma, nel 17 a.
C., la celebrazione di quei _ludi saeculares_, dei quali — nel suo
pensiero — nulla più grande l’umanità aveva veduto e mai più doveva
rivedere[154], fu coronata da uno spettacolo prettamente musicale,
il _Carmen saeculare_, dettato da Orazio e cantato da un coro di 27
fanciulli e 27 fanciulle romane[155].

Degli imperatori, che succedettero ad Augusto e dei principi di
casa Giulio-Claudia, parecchi protessero, e coltivarono apertamente,
l’arte musicale: Caligola, Tito, Britannico[156], Claudio; e i _ludi
saeculares_, celebrati da quest’ultimo, ebbero anche i trattenimenti
musicali, che avevano allietato quelli di Augusto[157]. Ma chi dà il
maggiore degli impulsi a quell’arte e alla sua cultura fu, come per
altre cose, Nerone.

Nerone non amava passare per dilettante, pretendeva essere un artista
di valore. Appena sul trono, chiamò il famoso citaredo Terpino e studiò
disperatamente canto e musica. Nel 59 si produce, come poeta e come
citaredo, nelle feste _Iuvenalia_, da lui istituite;[158] nel 60,
bandisce i giuochi neroniani, le cui gare musicali formavano uno dei
punti più importanti del programma;[159] nel 64, a Napoli, debutta in
teatro, cantando sulla cetra una melodia greca, e il suo entusiasmo,
quel giorno, è tale da non fargli interrompere la festa, neanche al
sopravvenire di un terremoto[160]; nel 65, si produce in Roma, nel
teatro di Pompeo, nell’agone quinquennale da lui stesso istituito[161];
nel 66, intraprende la sua grande _tournée_ artistica in Grecia, ove
allieta, e onora, del suo canto Olimpia, Delfo, i giuochi istmici[162].
E già, in fin di vita, fa voto di celebrare la vittoria contro Galba
con giuochi, in cui avrebbe suonato l’organo, la cornamusa, cantato
in coro e rappresentato per ultimo, in pantomima, il _Turnus_ di
Virgilio.[163].

Quale fosse l’impulso, che Nerone e i suoi predecessori erano così
venuti a dare alla musica e alla istruzione musicale della gioventù,
noi lo possiamo constatare fin da questo tempo. Ci limiteremo a
fornire, fra le tante, qualche prova.

Nerone volle che i componenti l’aristocrazia partecipassero alle
rappresentazioni teatrali, come attori, e allorquando — narra un
contemporaneo alquanto misoneista — Nerone istituì i suoi _Iuvenalia_,
«_tutti i cittadini indistintamente_ vi si inscrissero. Nè la nascita,
nè l’età, nè il riguardo di antichi onori rivestiti impedirono ad
alcuno di esercitare il mestiere di istrione greco o latino, e di
imitarne i gesti e i canti meno degni di uomini. Perfino delle donne
illustri per nascita si compiacquero esercitarsi in simili sconcezze».
«Di là si diffusero la sregolatezza e l’infamia, nè mai altra volta
i già corrotti costumi furono più gravemente sommersi in tanta
vergogna.[164]» E meditando, e rimpiangendo, sulla decadenza effettiva
degli studii filosofici, uno stoico, e non dei più rigidi, esclama:
«Ma quante cure invece perchè il nome di un qualunque pantomimo non
perisca! La dinastia dei Pilade e dei Batillo sta salda nei successori.
Di queste arti sono numerosi i cultori, numerosi i maestri. Ogni casa
ha un palcoscenico, e questo risuona continuamente di danze, a cui
partecipano, e in cui gareggiano, individui di ambo i sessi».[165]

Roma è già in questi anni invasa di frenesia per l’apprendimento della
musica, della danza, del canto, e ad essa, da ogni angolo della Grecia
e dell’Asia ellenizzata, affluiscono musici e virtuosi. Le scuole di
musica sono tra le più frequentate[166]. Eccellono per zelo le signore
dell’aristocrazia, e, allorquando l’autore dell’_Apocalisse_ vorrà, in
quel tempo, lanciare, come il suo angelo, la peggiore delle qualifiche
contro la città maledetta, la definirà senz’altro città di musicanti,
di citaredi, di suonatori di flauti e di trombettieri.[167]


XVI.

Col nuovo grandioso impulso, dato da Nerone alla consuetudine della
ginnastica e alla passione della musica, si lega la sua riforma
di quelle associazioni giovanili, che erano state la gloria del
governo di Augusto, e di cui Nerone fu, tra i Claudii, il più felice
diffonditore.[168] È sopra tutto per loro mezzo che l’istruzione
musicale e l’educazione fisica, improntata ai criteri greci, hanno
presa sulla gioventù e penetrano vittoriose nel programma generale dei
suoi studi.

Noi abbiamo elementi per assicurare che l’organizzazione, fondata da
Augusto, era continuata non ingloriosamente sotto i successori fino a
Claudio. Caligola anzi aggiunge alle feste dei _Saturnali_ un giorno,
che disse _Iuvenalis_, nel quale, naturalmente, dovevano aver luogo i
_ludi iuventutis_,[169] e dà giuochi, ai quali partecipava specialmente
la gioventù senatoria, con le note cacce, con il _lusus Troiae._[170].

Altri dati, e non meno significativi, si riferiscono al governo di
Claudio.[171] L’istituzione, voluta da Augusto, è dunque salva. E noi
siamo anche sicuri che fin da questo tempo le associazioni giovanili
erano già uscite da Roma e penetrate in altre cittadine italiche,
specie nel Lazio.[172]

Ma in Nerone — vedemmo — all’amore per le gare ginniche si accompagnava
l’altro, ancora più ardente, per la musica e per le rappresentazioni
sceniche. I suoi esercizi fisici furono quindi tosto sopraffatti
dalla frequenza delle rappresentazioni musicali, e a queste, cui egli
partecipò direttamente, volle, per amore o per forza, partecipassero
anche quei _iuvenes augustiani_, quella guardia del corpo, che,
seguendo l’esempio delle corti ellenistiche, l’imperatore si era
formata tra i giovani _tirones_ provenienti dalle due classi della
nobiltà romana[173]. Fu la circostanza, in cui si determinò il nuovo
indirizzo delle associazioni giovanili. E nel 53, cioè a dire nel
giorno della sua assunzione della toga virile, egli inaugurava i
_Iuvenalia._ Il loro nome rammenta Caligola e l’interesse di lui per
l’antica istituzione. In quello stesso tempo, nei municipii italici,
il culmine delle feste giovanili era precisamente il _lusus iuvenalis_,
consistente in cacce di fiere, gare di scherma e lotte nell’arena[174].
Nerone non poteva fare, e non sembra abbia fatto, a meno di ciò;[175]
ma per lui gli esercizii sportivi non bastarono, ed egli vi aggiunse
danze, canti _a solo_, canti corali, non che rappresentazioni
sceniche[176]. Nessuna di queste cose poteva darsi senza un precedente
tirocinio, e sorsero quindi all’uopo apposite scuole preparatorie —
scuole di musica e di ginnastica — con speciali maestri[177]. Anche
Nerone ebbe i suoi, Seneca e Burro, che dovettero accompagnarlo sulla
scena[178].

Com’è palese, l’indirizzo militare e civico, con iscopo patriottico e
contenuto religioso, della educazione augustea aveva deviato. E noi ora
veniamo invece a trovarci di fronte ad una educazione, tra sportiva e
teatrale, con contenuto e pura forma greca.

Più grave appare la deviazione dall’antico, pel fatto stesso che
Nerone, come abbiamo accennato, si formò, della organizzata gioventù
romana, una vera e propria guardia del corpo: se nella prima parte
della sua riforma può ben dirsi che egli seguisse un suo più largo e
nuovo ideale di educazione, nella seconda, egli realmente indirizzava
ad altri scopi le antiche associazioni giovanili, e questi non
costituivano più un organico sviluppo degli intendimenti della riforma
di Augusto.


XVII.

Innanzi di lasciare per sempre il governo di Nerone, è nostro debito di
storici rivendicare a lui alcuni altri atti, concernenti le sorti della
pubblica istruzione in Roma, che si sogliono in genere attribuire a
merito dell’ultimo imperatore Flavio, Domiziano, la ricostruzione cioè
e la ricomposizione di talune delle biblioteche, fondate dai precedenti
imperatori e perite nel terribile incendio del 64. Ed invero, se il
così detto _Tempio nuovo_ di Augusto è già restaurato nel gennaio del
69[179], è quasi certo che codesta cronologia sia stata preceduta dalla
restaurazione della biblioteca, di cui Tiberio l’aveva arricchito[180].
Anche anteriore è la riattazione del tempio ad Apollo,[181] ed è
probabilissimo che con esso Nerone abbia ricomposto l’ancor più
gloriosa biblioteca, che Augusto vi aveva aggregata. Ma poichè gli
istituti di tal genere, periti nel 64, non dovettero essere quelli
soltanto — la Biblioteca della _Domus tiberiana_, che sorgeva anch’essa
sul Palatino[182], non potè certamente sfuggire alla quasi universale
rovina — e, poichè questi ed altri accenni tendono a dimostrare
come Nerone abbia mirato a restaurare tutto quanto l’incendio aveva
distrutto, è lecito supporre che i suoi restauri non si limitarono
alla _Palatina_ e alla _Biblioteca_ del _Tempio nuovo_, ma sovvennero
anche le altre, che, nell’incendio del 64, avevano subito una sorte
egualmente infelice. Cosicchè Domiziano, di cui un biografo[183]
dirà avere egli avuto il grande merito di restituire le biblioteche
precedentemente distrutte, dovette esercitare la sua liberalità verso
quelle sole tra esse ch’erano perite negli incendi avvenuti tra la fine
del regno di Nerone e l’esordio del suo governo[184].


XVIII.

Ci rimane a dire qualcosa dei rapporti intercessi, sotto gli
imperatori di casa Giulio-Claudia, tra lo stato e l’insegnamento della
giurisprudenza, già così evoluto e così prossimo alla ufficialità in
sullo scorcio della repubblica[185].

Secondo i più autorevoli storici del medesimo, l’impero avrebbe
compiuto, nel campo dell’istruzione giuridica, una vera e propria
rivoluzione. Esso, cioè, sarebbe riuscito a possedere quello che la
repubblica non aveva mai conosciuto, delle vere e proprie scuole
giuridiche di stato, e tale rivolgimento sarebbe, a loro dire,
interamente palese sotto Antonino Pio, o fors’anco sotto Adriano,
come proverebbe un classico passo di Gellio, nel quale si accenna
esplicitamente, come a fatto ovvio ed universale, a scuole, numerose in
Roma, di _ius pubblice docentium_[186].

Ma la misura di codesto rivolgimento, nel campo dell’istruzione
giuridica in Roma, è assolutamente esagerata, e la sua importanza
viene attenuata da quanto più recenti studi han potuto ricostruire
circa i limiti e la natura dell’istruzione giuridica nell’età
repubblicana.[187] È perciò più esatto asserire che, da questo tempo
a quello degli Antonini, si rileva solo un notevole _crescendo_
dell’istruzione giuridica, un regolarizzarsi e un perfezionarsi delle
forme, in cui essa veniva impartita, senza che questo nulla abbia a
vedere con una vera e propria rivoluzione, più che con un naturale
svolgimento di condizioni preesistenti. Il nostro compito deve
quindi limitarsi a indagare la parte, che, in codesto incremento e
svolgimento, abbiano avuto gli imperatori di casa Giulio-Claudia.

Come narra l’unico antico sistematico espositore della storia
e dell’insegnamento del diritto nella repubblica e nell’impero
romano, Pomponio, uno dei principali doveri dei Pontefici, e poi dei
giureconsulti romani, era stato, fin dall’età repubblicana, quello dei
_responsa_, cioè a dire delle consultazioni giuridiche a magistrati e a
privati, che fossero venuti a richiederneli.

Tale ufficio aveva una grande, e grave, ingerenza nelle controversie
giudiziarie. Il compito di giudice, nella vita sociale romana, era
stato facile finchè gli atti giuridici si erano apprezzati, dirò così
materialmente, senza alcuna ricerca delle intenzioni delle parti,
e fino al giorno, in cui il diritto non era divenuto una scienza
indipendente, la quale, oltre alla pratica del foro, reclamava uno
studio speciale. Ma più tardi, in mancanza di una apposita classe di
giudici professionisti, era invalsa man mano la consuetudine che essi
si circondassero di un consiglio di gente sperimentata e che le parti
comunicassero loro, quale argomento decisivo, l’avviso, il _responsum_,
di giureconsulti autorevoli, per quanto legalmente estranei alla
causa[188].

Ma se, fino ad Augusto, il dare _responsa_ dipendeva dal buon volere
dei giureconsulti, dalla loro capacità, dalla fiducia che altri
riponeva in loro, da Augusto invece si ebbero dei _ius respondentes_
patentati[189].

Sotto questo imperatore, venne stabilita una differenza tra i
_responsa_ e il loro valore effettivo, sì che, mentre, fin allora,
dei pareri, esibiti dalle parti, poteva non tenersi alcun conto,
il giudice, adesso, qualora il responso fosse opera di un giurista,
specialmente patentato, era moralmente tenuto a riconoscerlo, perchè
esso era stato formulato in nome del principe; costituiva cioè delle
emanazioni della di lui sovrana autorità.

Tale innovazione non subì alcuna interruzione sotto i successori
di Augusto — patentarono giuristi Tiberio, Caligola, e altri[190] —
ed essa, col rialzare notevolmente il prestigio di questa classe di
studiosi, era fatale avesse delle ripercussioni sull’insegnamento e
sulla diffusione della cultura giuridica. Darsi agli studi del diritto,
praticarne l’insegnamento era adesso un mezzo con cui raccogliere la
fiducia dei principi; _respondere populo_, con tanta efficacia pratica,
era anche fonte di lucro. Massurio Sabino ne aveva dato l’esempio e
provato i beneficii: egli, consultore pubblico, patentato da Tiberio,
inaugurò la serie dei professori di giurisprudenza retribuiti di
regolare onorario dai loro _auditores_[191].

È possibile che gli imperatori della casa Giulio-Claudia abbiano
fatto anche qualcosa di più. Come il governo repubblicano aveva,
ad un pontefice, assegnato un alloggio sulla _Via Sacra_ per le sue
pubbliche consultazioni,[192] sembra che analogo provvedimento si sia
ora adottato a vantaggio delle nuove scuole dei giuristi. La cosa può
dirsi fuori dubbio per l’età di Adriano,[193] ed è probabile anche per
quella immediatamente precedente. Allora gli _auditoria_ dei giuristi
e dei loro scolari avranno sede nelle biblioteche di fondazione
imperiale[194]. Ma è legittimo supporre che l’usanza fosse cominciata
anche prima. Le biblioteche dell’età di Traiano e di Adriano non sono
che ricostruzioni di istituti rispondenti a l’idea, che Augusto ne
aveva avuta, e, come, nella prima metà del II. secolo di C., erano in
esse delle intere sezioni giuridiche[195], altre analoghe ne avevano
contenute le biblioteche augustee, sì che, secondo l’esagerazione di
uno scoliasta di Giovenale, Augusto avrebbe, nel tempio di Apollo
Palatino, inaugurato un’intera biblioteca di diritto civile.[196]
Perchè dunque l’ipotesi che qualcuna delle sale di tali biblioteche
fosse ritrovo dei giuristi e dei loro discepoli, non dovrebbe convenire
anche alla prima metà del I. secolo di C.? Perchè non riconoscerla
legittima se la ufficialità è nell’intima essenza dell’istruzione
giuridica romana e se la sua pubblicità è perciò, non solo da intendere
nel senso che tutti potevano goderne, ma in quello ch’essa veniva
impartita col consenso, o con la sottintesa iniziativa, del potere
centrale?[197].

Fu questa l’opera e furono questi gli atti, con cui, inconsapevolmente,
e consapevolmente, gli imperatori della casa Giulio-Claudia promossero
l’istruzione giuridica. Pur troppo, la natura stessa del nuovo potere
assoluto era tale da ridurre di parecchio gli effetti di così benevoli
intendimenti.


XIX.

Noi abbiamo ora sott’occhio tutto il quadro della politica degli
imperatori di casa Giulio-Claudia, nei rispetti dell’istruzione
nazionale. E possiamo senza esitazione affermare ch’esso occupa un
posto eminente nella storia della civiltà umana. Noi vi notiamo da
un canto il grande impulso dato allo studio di talune discipline, la
inestimabile iniziativa della fondazione di pubbliche biblioteche,
lo stabilirsi di una condizione privilegiata ai precettori delle
arti liberali. Noi vi notiamo l’introduzione di elementi fin ora
ignorati e trascurati: l’educazione fisica a tipo greco, l’istruzione
musicale, e — ciò che è assai più importante — fin da Augusto, un piano
sufficientemente completo di educazione ufficiale della gioventù.

Assai strano è intanto constatare come i maggiori propulsori
dell’istruzione pubblica romana, in questa età, siano stati due uomini,
due principi, le mille miglia lontani l’uno dall’altro per indole e
per politica: Augusto e Nerone, sì che, nel I. secolo dell’impero, la
istruzione e l’educazione delle classi elevate ondeggino tra questi due
poli: l’indirizzo Augusteo e l’indirizzo Neroniano.

Ma più importante è un’altra constatazione, che ci è imposta dalle
vicende della storia politica dell’impero romano e che dà la chiave
dell’enigma delle strane sorti della produzione intellettuale nei
secoli venturi. L’impero perfeziona e moltiplica gli strumenti
esteriori e materiali del progresso, ma fin d’adesso — ugualmente — la
scuola comincia ad essere vuotata della sua anima, della sua libertà
formatrice d’intelletti e di coscienze e cessa di produrre tutti i
suoi frutti. Le scuole di retorica moltiplicano sin da Nerone, ma
non formano più oratori, formano dei retori. Le scuole di filosofia
dilagano, ma il filosofare diviene d’ora innanzi un pericolo, e sola
filosofia possibile non è più quella che scandaglia per tutti i recessi
dell’abisso profondo, dove, come s’esprimeva Seneca, giace la verità,
ma l’altra, che si cristallizza in una secca e vuota ermeneutica
dei più celebri autori dei secoli trascorsi o che si deforma in una
sofistica arguta e sottile, che insegna meno a vivere, a sentire, a
pensare, di quello che a disputare e a schermagliare.[198] La stessa
educazione fisica va man mano smarrendo il proprio scopo e cede il
posto all’atletica e all’acrobatica. La cultura e la scienza divengono
così ornamento mnemonico o intellettuale, non creano, nè ricreano
l’uomo. Questo non fu per certo conseguenza di volontà colpevole di
individui; fu bensì effetto di tempi mutati, fu derivazione necessaria
di istituti politici, che svolgevano tutte le deleterie influenze, a
cui l’intima capacità li costringeva, e sospingeva, ma di cui non meno
gravi saranno le fatali ripercussioni.




CAPITOLO II.

Gl’imperatori di casa Flavia e l’istruzione nell’impero romano.

(69-96)

  I. Vespasiano e la fondazione di nuove biblioteche. — Riconferma
  delle immunità ai maestri di grammatica, retorica e filosofia.
  — Stipendio ai principali insegnanti di retorica in Roma. — Non
  si tratta di una statizzazione delle scuole di retorica. — II.
  Motivi della innovazione. Condizioni economiche dei maestri di
  retorica. — Il provvedimento di Vespasiano quale misura della
  considerazione sociale dei retori. — III. Trascuranza del governo
  imperiale verso i grammatici e gli insegnanti elementari; loro
  condizioni economiche. — IV. Rapporti amministrativi e giuridici
  dei retori stipendiati con lo stato. Giudizio dei contemporanei.
  — V. Quintiliano primo retore stipendiato, come maestro e come
  pedagogista. — VI. Tito rimane fedele alla politica scolastica
  del padre. Domiziano riedifica le biblioteche distrutte. La
  ripercussione della operosità imperiale sulla diffusione e sul
  regime delle biblioteche. — VII. Domiziano e il trionfo della
  educazione fisica a tipo ellenico. Vespasiano, Domiziano e
  l’istruzione musicale. — Il nuovo indirizzo dei collegi giovanili.
  — IX. Il rovescio della medaglia: Vespasiano contro le scuole
  filosofiche ateniesi. — X. Il governo dei Flavii e l’istruzione
  pubblica nell’impero romano.


I.

Buona parte dell’opera, che il primo imperatore di casa Flavia svolse
nel campo della istruzione pubblica, ricalca fedelmente le orme del
passato.

Anche Vespasiano fu, probabilissimamente, un felice inauguratore di
pubbliche biblioteche. Nel _Templum Pacis_, da lui fondato, Gellio e
Galeno menzionano una biblioteca omonima,[199] e, sebbene questo nuovo
istituto non sia esplicitamente indicato come sua opera, è in tutto
verisimile che autore ne sia stato lo stesso Vespasiano, il quale, come
era avvenuto di altre biblioteche, l’avrebbe aggregata al tempio da lui
stesso edificato[200].

In maniera analoga, come i suoi predecessori, egli mantenne inviolate
le esenzioni dai pubblici carichi, concesse fin allora ai grammatici,
ai retori e ai filosofi, e riconfermò esplicitamente la loro immunità
dall’_ius recipiendi_, civile e militare,[201] di cui abbiamo
discorso,[202] e che, probabilmente per poca chiarezza delle precedenti
ordinanze imperiali, o per altri motivi, era contestata da funzionarii
o da generali viaggianti.

Ma, se qui si fosse arrestata, l’opera di Vespasiano avrebbe avuto
scarsa originalità, e la politica scolastica degli imperatori di casa
Flavia si sarebbe adagiata negli stessi confini dei predecessori
di casa Giulio-Claudia. Se non che uno degli anni del governo di
Vespasiano, fra il 70 e il 79 di C., segna il principio di una
rivoluzione profonda nei rapporti dell’istruzione pubblica col governo
centrale romano.

In uno di questi dieci anni, l’imperatore, tra le svariate cure, di cui
ebbe ad onorare i poeti e gli artisti,[203] deliberò di stipendiare
a spese del fisco, cioè di quella parte delle entrate dell’impero,
amministrata direttamente dall’imperatore, i maestri di retorica
greca e latina, fissando loro una retribuzione annua di 100,000
sesterzi,[204] pari a L. 25,000 circa.

Dai sommarii accenni delle fonti noi riusciamo malamente ad avere
un’idea dei particolari della riforma, che lascia adito a molti dubbi
e a molte interrogazioni. Furono stipendiati tutti i retori greci e
latini dell’impero, o almeno d’Italia, o soltanto quelli di Roma? E,
se la riforma venne limitata a Roma, furono stipendiati tutti i retori
romani, o solo i più famosi? Quali furono i rapporti, che d’ora innanzi
si stabilirono fra questi nuovi professori ufficiali e l’insegnamento
libero?

Svetonio, che è la fonte principale, non risponde alla prima nostra
domanda, ma ad essa rispondono chiaramente gli informatori di un più
tardo storico, Zonara, il quale avverte che si trattò (ed era pel
momento naturale) di una riforma limitata esclusivamente alla capitale
del mondo[205].

Che non si trattasse poi di tutti i retori di Roma, ma solo di qualcuno
tra i più famosi, si può rilevare da un fatto e da una considerazione:
il fatto che noi, in realtà, non conosciamo che un solo retore
stipendiato, Quintiliano, e la considerazione, che, in tanta copia
di scuole romane di retorica, ogni più liberale innovazione avrebbe
imposto alle finanze dello stato un aggravio non trascurabile, che un
principe quale Vespasiano, tacciato persino di avarizia, non avrebbe
mai consentito.

Ma, da quanto precede, risulta ancora che l’innovazione non può
essere definita una _statizzazione delle scuole di retorica_[206].
L’insegnamento privato rimane ugualmente, come per l’innanzi, libero
e preponderante, incoraggiato, per giunta, dalla realtà, o dalla
speranza, di un assegno annuo da parte del fisco. Ed invero, gli stessi
maestri di retorica stipendiati furono degli insegnanti liberi; libera
rimase la loro scuola da ogni influenza dello Stato, che non impose
alcun programma o alcun controllo; liberi i maestri di richiedere, come
richiesero, da ciascuno dei discepoli, un onorario, che costituiva il
loro maggiore provento. Anzi, siccome il fatto stesso di uno stipendio
imperiale, elevava le pretese dei retori, che lo godevano, e la classe
sociale degli alunni, che ne ricercavano le scuole, esso dovette
altresì, per un consueto fenomeno di livellamento economico, accrescere
i proventi di tutti i loro colleghi, e, insieme, le pretese di una
classe di persone, la cui dignità morale veniva anch’essa tangibilmente
esaltata.

L’insegnamento privato non riceve dunque alcun danno. Solo, per la
liberalità di Vespasiano, lo Stato, scegliendo fra i molti, indica e
sussidia alcuni pochi istituti, che si potrebbero definire istituti di
paragone. Il vantaggio della coltura era tanto palese, quanto palese
che le intenzioni del legislatore rimanevano lungi da ogni idea di una
scuola di Stato, e persino di una scuola ordinata e controllata dallo
Stato. Se non che — ed era fatale — al di là delle intenzioni degli
inconsapevoli iniziatori, la scuola di Stato dell’avvenire si sarebbe
svolta dal germe seminato dal primo degli imperatori Flavii.


II.

Quali poterono essere intanto le ragioni, che indussero Vespasiano a
tentare ciò che tentò?

Gli storici moderni, più malevoli degli antichi, hanno, con
rara facilità, visto nel suo atto un machiavellico ritrovato di
addomesticamento dei retori e delle loro scuole,[207] anzi, più ancora,
un felice espediente, per il quale egli intendeva schierarli intorno al
proprio carro, a difesa degli attacchi dei filosofi.

In verità, i limiti e la natura della riforma escludono assolutamente
la possibilità del conseguimento di tale scopo, ed escludono perciò
che Vespasiano non vedesse — il che era agevolissimo — la inanità dei
mezzi, che vi avrebbe adoperati. A chi ben guardi, anzi, la limitazione
del sussidio dello Stato a determinati retori era un motivo atto a
raggiungere effetti opposti alle intenzioni attribuite all’imperatore.
Chi non vede a quante gelosie, gare, disillusioni e recriminazioni, non
doveva quella scelta dar luogo? E, al tempo stesso, a quanti attacchi
contro l’imperatore e contro i suoi ministri? Poteva ciò essere un
mezzo di corruzione di tutta la classe? Questo non vuol dire che il
privilegio inaugurato da Vespasiano non si volesse anche interpretato
come un onore concesso all’insegnamento della retorica e ai suoi
ministri, come una lontana _captatio benevolentiae._ Come abbiamo
accennato, Vespasiano tenne sempre a ostentare un tal quale mecenatismo
verso le scienze e le arti, nonchè verso coloro che le professavano. E
in tal senso egli potè mirare a passare eziandio come un protettore,
tra i più benemeriti, delle scuole di retorica. Il mecenatismo era
la malattia aulica del secolo, e non per nulla la nuova munificenza
fu direttamente prelevata sugli introiti dell’impero a disposizione
dell’imperatore.

Ma, per Vespasiano, di peso assai grande dovette essere la conoscenza
delle condizioni economiche della classe dei retori — condizioni
sempre tristi, nonostante gli onori e le esenzioni, di cui essi erano
stati oggetto. Noi non abbiamo notizie relative ad età precedenti;
ma, nell’età di Traiano[208], in cui, dopo il privilegio, concesso dal
primo dei Flavii, la dignità di quell’insegnamento doveva essersi di
molto elevata, Giovenale traccia un quadro miserando della vita dei
retori e dei grammatici. «Tu insegni a declamare, o Vezio. Tu hai dei
polmoni di ferro». «Tutto quello che poco prima avevi letto, stando
a sedere, tu dovrai ripeterlo in piedi, e negli stessi termini. Il
ripetere fino alla sazietà uccide il disgraziato maestro. Giacchè tutti
vogliono conoscere quale sia il colorito da dare a una discussione,
quale il genere di una causa, ove ne risieda il punto fondamentale,
quali possano essere le varie obbiezioni. Salvochè nessuno vuol pagare
l’onorario. Ti si rinfaccia: — Tu chiedi il pagamento dell’onorario?
E che cosa ho io appreso? — La colpa, naturalmente, dovrà essere del
maestro, se non c’è un briciolo di anima in questo giovane arcade.
Ogni giorno mi ha rotto i timpani col suo _dirus Hannibal_, il quale
discute (che so io!) se dopo Canne debba recarsi a Roma, o se, più
prudente, debba, dopo una tempesta ripiegare sulle città vicine. Quanto
vuoi fissare (io sborso subito la somma) perchè suo padre lo stia ad
ascoltare tante volte quante è toccato a me? — Così protestano altri
sei o più maestri», e «la loro ricompensa maggiore è l’importo di una
tessera per frumento a buon mercato. Indaga invece presso i citaredi
Crisogono e Pollione quanto renda loro l’insegnamento ai fanciulli
ricchi.... Tu sfogli invece il manuale del retore Teodoro....

«Si spenderanno seicentomila sesterzi a costruire dei bagni, e più,
per un portico, nel quale il signore si faccia portare a passeggio
quando piove (dovrebbe forse attendere il sereno, o lasciare che i suoi
cavalli siano spruzzati di mota recente?)». «Altrove egli edificherà
una sala da pranzo con eccelse colonne di marmo numida e che sia
tutta esposta al sole invernale. Conforme alla dignità della casa, gli
occorreranno cuochi di svariate abilità. Fra questi dispendii, due mila
sesterzi saranno di troppo per un Quintiliano. Così ad un padre niente
costerà meno di un figliuolo.»[209]

E nulla in realtà poteva costar meno. Dal fugace accenno dello stesso
Giovenale, l’onorario mensile dei retori, che corrispondeva all’importo
di una tessera per frumentazioni, non giungeva, a quel tempo, a
superare i 20 sesterzi, in cifra tonda L. 5 al mese per alunno[210]....
Due secoli dopo, in tanto più elevato tenor di vita, l’onorario dei
maestri di retorica si aggirava intorno alle L. 6,25 mensili per
alunno[211]. L’amaro accenno di Giovenale doveva dunque essere l’eco di
una protesta generale. Che cosa sarebbe avvenuto delle migliori scuole
di retorica, qualora fossero state abbandonate al proprio destino? Era
possibile che un governo di Mecenati proteggesse i musici, o gli attori
celebri, e trascurasse i maestri, formatori e creatori delle coscienze
e delle intelligenze romane? Poteva esso trascurarli, quando, per di
più, dal gesto di protezione, che loro avrebbe rivolto, era lecito
sperare un compenso di gloria e, magari, di gratitudine avvenire?

Quale fu intanto il rapporto, in cui codesto sussidio stette con
la considerazione, che i retori godevano in Roma, e presso i poteri
centrali?

Taluni moderni hanno, anche qui, malevolmente, confrontato lo stipendio
assegnato a quelli da Vespasiano con i premii da lui largiti ad
altri professionisti, e ne hanno tirato delle gravi conclusioni circa
la scarsa stima sociale dei retori. Se non che balza evidente agli
occhi di ogni spassionato osservatore l’impossibilità del confronto.
Nell’un caso, si tratta di stipendio annuo, nell’altro, di sussidi una
volta tanto. Se un confronto si voleva istituire, esso doveva farsi
con altri funzionari stipendiati. Tra questi si potevano scegliere
i _procuratores_ imperiali. Siamo nel I. secolo di Cristo, e noi ne
conosciamo due sole categorie, i _ducenarii_ e i _centenarii_[212],
stipendiati cioè, i primi, a 200.000, i secondi, a 100.000 sesterzi
annui. Noi non possiamo dire, per ora, quali _procuratores_ si
trovassero nell’una, quali nell’altra condizione; ma, di qui a poco più
di un mezzo secolo, saranno procuratori _centenarii_ i governatori di
parecchie provincie e certi funzionarii urbani e provinciali, come il
_procurator alimentorum_, il _procurator aquarum_, il _procurator ludi
magni_, il _procurator operum publicorum_, ed altri ancora, fra cui
il _procurator bibliothecarum_[213]. Or bene, accanto a tutti costoro,
vanno, per considerazione sociale, allogati i _centenarii_ insegnanti
di retorica. Vero è che, in questo ulteriore periodo, i _procuratores
centenarii_ rappresentavano il più basso ordine dei tre, che allora di
codesta classe esistevano; ma non si può negare che non sempre, anche
in tempi più civili, il maestro di retorica si è trovato in così buona
compagnia tra i funzionarii dello Stato.


III.

Ma, dopo quanto precede, noi non possiamo trascurare di porci un’ultima
domanda. Perchè Vespasiano limitò i suoi favori ai maestri di retorica,
e non li estese anche ai _litteratores_ e ai _grammatici_, maestri,
rispettivamente, della scuola primaria e media inferiore?

Eppure, se i retori stavano male, i precettori di grammatica e i
_litteratores_ stavano peggio. Dei primi — l’abbiamo accennato —
ci informa lo stesso Giovenale: «E il maestro di grammatica? Quale
guadagno ritrae dal suo lavoro il maestro di grammatica? Il suo
salario è inferiore a quello del retore, ma, per miserando che esso
sia, ne detraggono una parte lo scempio pedagogo e l’amministratore.
Ma, povero Palemone, tollera anche questa ritenuta, come un qualsiasi
mercante di stuoie invernali e di bianchi cortinaggi, purchè non
invano tu ti sii levato all’ora della notte, in cui nè il fabbro
ferraio, nè il cardatore di lana sono in piedi!» «Chè il salario tu
l’otterrai di rado senza ricorrere al tribuno. Eppure voi, o genitori,
esigete che un precettore conosca le leggi del linguaggio, che conosca
tutta la storia, tutti gli autori a mena dito, cosicchè, interrogato
all’improvviso, mentre si reca alle Terme o ai bagni di Apollo, sappia
dire chi fu la nutrice di Anchise e il nome e la patria della matrigna
di Anchemolo e quanti anni visse Alceste e quante urne di vino siculo
donò ai Frigii. Eppure, voi esigete che egli plasmi le tenere menti,
come altri foggia con la cera un volto umano, esigete che egli faccia
da padre e impedisca che i fanciulli amino le cose turpi e non le
pratichino insieme. Non è cosa da nulla sorvegliare tante mani e tanta
mobilità di occhi. Questo tu devi curare, e al termine dell’anno
ricevi pure i cinque _aurei_, che il popolo reclama per l’atleta
vincitore»[214].

La concorrenza doveva infatti essere grandissima, e, se, in sullo
scorcio della repubblica, Roma contava oltre venti scuole di
prim’ordine[215] di grammatici, codesta cifra era naturale si fosse
ormai più che quadruplicata. Ove poi volessimo avanzare di qualche
secolo fino all’età di Luciano, noi apprenderemmo che tutto il provento
dei grammatici bastava appena a pagare il sarto, il medico e il
calzolaio.[216] E, nell’editto dioclezianeo _de pretiis rerum venalium_
del 302 di C., troveremmo che il maestro di grammatica, greco o
latino, veniva in media pagato con 200 _denarii_ (L. 4.50) mensili per
scolaro[217].

Se questo è a dire dei _grammatici_, peggio ancora è a ripetere dei
_litteratores._ Durante la fanciullezza di Orazio, i fanciulli delle
più ricche famiglie romane corrispondevano loro mensilmente una
retribuzione, che si aggirava intorno agli otto assi, cioè a dire
a circa quaranta o cinquanta centesimi al mese.[218] Nell’età di
Diocleziano, la tariffa era salita a L. 1,25, o poco più, al mese.[219]
Si sottraggano i tre o quattro mesi di vacanza,[220] e si vedrà che la
vita non sarebbe stata possibile, se i maestri — con quanto vantaggio
dell’insegnamento è facile comprendere — non avessero pensato di
sopperire con dei mestieri accessori[221]. Parrebbe evidente da tutto
ciò che i _grammatici_ e i _litteratores_ dovessero attendersi dalle
cure imperiali parecchio di più di quello che l’impero concedeva
alle scuole di retorica. Invece la realtà parla in senso opposto. E
la ragione è crudele: lo stato romano promuoverà, e curerà, quasi
esclusivamente, gli istituti ed i gradi superiori dell’istruzione
pubblica, e seguirà per tal guisa un criterio di amministrazione,
che sarà, pur troppo, anche nel più lucido avvenire, difficilmente
sorpassato. Noi avremo di ciò una conferma nei provvedimenti di ordine
didattico e scientifico degli imperatori, ma possiamo subito ricordare
qualche fatto, che riguarda anch’esso le sorti economiche dei maestri.
Antonino Pio tornerà a regolare la materia delle immunità, ma da esse
saranno esplicitamente esclusi gli insegnanti elementari: per questi
il governatore doveva curare soltanto che non fossero sovraccarichi
di oneri..... Più tardi, apprenderemo che la regolarità dei salari
ai maestri verrà garantita dallo Stato; ma, se tale garanzia era da
questo riconosciuta come un suo debito preciso verso i retori, essa
veniva largita come un mero favore ai grammatici ed ai _litteratores_,
i quali, sostiene il relativo documento ufficiale, abusavano, in tale
pretesa, dell’analogia della loro funzione con quella dei retori.[222]

Evidentemente, per lo Stato romano, curante solo gli interessi delle
classi superiori, non esisteva che un’unica forma d’istruzione da
privilegiare e da garantire: l’istruzione media di secondo grado e
quella superiore, talora anche l’istruzione professionale. La primaria
e la media inferiore dovevano invece abbandonarsi a tutte le sorti
della concorrenza, a tutti i colpi del destino.


IV.

Una questione, che potrebbe sembrare — ma non è — più difficile, perchè
non possediamo intorno ad essa alcun ragguaglio positivo, è quella
che concerne i rapporti — diremo così — amministrativi e giuridici (ai
rapporti didattici abbiamo accennato) dei nuovi retori stipendiati con
lo Stato.

Come se ne fece in quel tempo la selezione? Quali obblighi venivano
essi ad assumere verso il governo? Anzi, esistevano degli obblighi
in proposito? Rappresenta l’innovazione di Vespasiano un’ufficiale
istituzione di cattedre, o solo un beneficio a reggenti cattedre, che
già esistevano, e che erano legate soltanto alla loro opera e alla loro
persona?

Circa il primo punto la risposta è prevedibile. La scelta, sebbene la
responsabilità ne risalisse all’imperatore, dovette, per ora, essere
soltanto compito di persone di fiducia del capo dello Stato. Ma di
obblighi è possibile non se ne sia imposto alcuno. Come il programma
dell’insegnamento non subì nè coercizioni, nè controlli, così nessuna
codificazione dovette farsi di quello che oggi si direbbe il contratto
d’impiego. I retori stipendiati non erano — è bene ripeterlo — dei
funzionarii dello Stato; erano delle persone benemerite sussidiate.

Può, a tale veduta, fare ostacolo la dichiarazione di Quintiliano,
che egli avrebbe avuto bisogno di _impetrare_, dopo venti anni
d’insegnamento, il favore d’essere messo a riposo?[223] Evidentemente,
no. Qui non si tratta di obbligo, che lo Stato avrebbe potuto
continuare ad addossargli, nè di un esonero, che egli avrebbe _dovuto_
chiedere, ma di un onore, che il governo avrebbe desiderato l’illustre
maestro continuasse a largire alla città, e di una cortesia, che traeva
il retore a chiedere al principe quella licenza morale, cui i lunghi
anni di godimento del sussidio e la fiducia imperiale l’obbligavano.

E neanche la risposta all’ultima delle nostre domande può — a nostro
modo di vedere — essere dubbia. L’imperatore Vespasiano non istituisce
alcuna ufficiale cattedra di retorica in Roma. Egli non si preoccupa
della stabilità dell’insegnamento di quella disciplina. Le scuole
dei retori erano tante, che una simile preoccupazione sarebbe stata
fuori di luogo. Egli si limita soltanto a istituire uno stipendio _ad
personam_ in favore di taluni retori. Quando questi fossero morti o si
fossero ritirati, il beneficio poteva passare ad altri; ma le antiche
cattedre non rimanevano scoperte; cessavano semplicemente del tutto. Di
qui si svolgerà più tardi la pratica dell’istituzione di vere e proprie
cattedre di retorica o d’altra disciplina; ma, per adesso, Vespasiano
non pensa a un così regolare procedimento.

E la modestia della innovazione, negli intendimenti di coloro che
l’operavano, e l’assenza di ogni intendimento rivoluzionario ci sono
confermate dall’impressione dei contemporanei, che non videro in essa
più di quanto il principe aveva voluto metterci.

Videro anzi qualcosa di meno: non un favore verso l’istituzione,
o verso i migliori che la rappresentavano; ma un favore verso le
persone — in quanto persone — che il provvedimento imperiale veniva
a beneficare. E il beneficato per eccellenza appare uno solo:
Quintiliano. Un ex-senatore, decaduto, per sue personali traversie,
a insegnar retorica in Sicilia, inaugurava il suo corso, esordendo
nella prolusione con una frase, che si può ritenere quasi testuale:
«Ecco i tuoi giuochi, o fortuna! Tu fai senatori dei maestri, e fai
maestri dei senatori!»[224] Quintiliano era allora stato insignito
degli ornamenti consolari[225]. E il fatto meraviglioso del retore
di Calagurris divenuto console fu, per tutti i suoi contemporanei,
un esempio palmare della cecità della fortuna, un motivo frequente
di recriminazioni a suo carico. «Passiamo sopra», esclama Giovenale
nello scritto dianzi citato, «a questo strano esempio dei favori del
destino. Se si è fortunati, si ha la bellezza e il coraggio; se si è
fortunati, si è sapienti, nobili e generosi»; «se si è fortunati, si
è anche grandi oratori e motteggiatori; se assiste la fortuna, magari
colpiti da raffreddore, si canta bene ugualmente. Importa molto invero
il genere di stelle, sotto cui si mandano i primi vagiti, sudici
ancora del sangue materno. _Se la fortuna vuole, si diviene da retore
console._...»[226].


V.

Ma la verità era che ben difficilmente il pensiero di Vespasiano
poteva essere tradotto nella pratica in modo più degno di quello che fu
realmente, per opera dell’uomo, che, ricolmo dell’onore del principe,
salì primo in Roma la cattedra di retorica: Quintiliano.

Quintiliano fu veramente un grande maestro. La cattedra, ch’egli tenne
in Roma per venti anni, lasciò nella storia dell’istruzione pubblica
e della letteratura romana una traccia, che mai più avrebbe potuto
cancellarsi. Il maestro modello, che Vespasiano col suo atto indicava
alla cittadinanza, volle che anche i lontani ed i posteri avessero
nozione del suo insegnamento e del suo pensiero, e, ritiratosi dalla
cattedra, concepì il disegno di raccogliere in un solo volume tutta la
fine teorica del suo magistero.

Era quanto mille desiderii tesi verso di lui chiedevano istantemente.
Quando egli attendeva ancora all’insegnamento, i suoi scolari, «_nimium
amantes_», avevano pubblicato le sue lezioni e le avevano fatte
passare come veri e proprii trattati di retorica. Il maestro, pieno
d’indulgenza, non sconfesserà quell’indiscrezione, ma vorrà darci
ben altra cosa: il libro, il vero e solo libro, a cui le sue lezioni
avrebbero potuto dare origine, cioè i suoi precetti per la formazione
dell’oratore e la teorica della sua pratica pedagogica. Questa fu la
sua _Institutio oratoria_, che egli pubblicò negli ultimi anni del
secolo I. di C.

In questo suo libro, che accoglieva il meglio del suo pensiero e della
sua esperienza, Quintiliano non si palesa, come potrebbe attendersi, un
severo e radicale novatore. La nuova scienza, officialmente favorita,
non rivela in lui un indirizzo sconosciuto, o una riforma _ab imis_
dell’antico. Numerose e fiere erano già in quel tempo le accuse contro
le scuole dei retori e contro la loro vanità:[227] accuse, che hanno
traversato i secoli con una tenacia solo pari all’altra, con cui quel
tanto combattuto indirizzo pedagogico è rimasto tenacemente radicato
nell’insegnamento secondario. Forse, se non è fattura d’altri, nel
suo scritto su _Le cause della corrotta eloquenza_, Quintiliano aveva
ribadito anche lui, e in maniera più esplicita, quelle accuse. Certo,
altri prima di lui, e con lui, le avevano lanciate. Ma adesso, dal
sommo della gloria e della lunga esperienza, Quintiliano può meglio
comprendere e giudicare e misurare il valore delle accuse e delle
difese e le esigenze della realtà. I suoi rari appunti sono incidentali
e sono esposti in forma oggettiva:[228] piccoli e lievi colpi, che,
nella costruzione del suo edificio, egli è costretto a dare contro
alcuni particolari, che mal si adattano all’architettura dell’insieme.
Il suo compito è un’altro: è anzitutto quello di rendere sano, pratico,
perfetto l’indirizzo esistente. La sua opera riesce così mirabilmente
architettonica, pensata, martellata, come un mosaico, fin nei minimi
particolari, e fondata sur una conoscenza inappuntabile delle teoriche
esistenti su ciascuna speciale questione. Per questa parte, i suoi
successori non avranno per lungo tempo altro ad aggiungere od a creare:
avranno soltanto a spiegare e a commentare Quintiliano. Ma assai più
mirabile per ogni età sarà il principio informatore, che anima l’opera
sua, principio creatore della pedagogia stessa. Egli concepisce il
suo compito, non già come una comunicazione d’insegnamenti addizionali
ed esteriori, ma come un’opera di formazione interiore del fanciullo
e dell’adolescente, dai primi anni fino all’età matura, all’uomo
che si sarebbe dovuto plasmare. La grande virtù dell’oratore non
sarà, per Quintiliano, la schermaglia vana, che sprizza dall’abilità
disonesta del cavillatore, ma il pensiero compiutamente reso, perchè
compiutamente maturato; e l’oratore romano è, per lui, grande oratore,
solo in quanto sia veramente uomo e cittadino.

Per tale rispetto, Quintiliano è il sommo tra gli scrittori latini di
cose pedagogiche[229].

Ma, anche in quella sua esposizione, il maestro si rivela assai
più grande del teorico. Gli ammonimenti, le osservazioni sagaci, le
riflessioni particolari mostrano in lui una capacità insegnativa di
prim’ordine, l’uomo che sa intendere, prendere e maneggiare i giovani
secondo una propria idea, secondo una sua propria intenzione[230]. E a
compiere questo miracolo didattico non avrebbero mai posseduto virtù
sufficiente nè l’invidia dei colleghi meno fortunati, nè la rabbia
malevola dei poeti satirici.


VI.

Gli elementi originali della politica degli imperatori Flavii sono
pressochè tutti contenuti nell’opera di Vespasiano. I suoi due
figli, durante il loro regno, non fecero che rispettarli e lasciarli
immutati, senza dar mano ad alcuna aggiunta, senza tentare alcuna
sostanziale innovazione. Che questo fosse avvenuto sotto Tito, noi
lo apprendiamo da una notizia assai esplicita. Tito confermò tutti i
benefici e i privilegi concessi dai predecessori.[231] Con lui dunque
furono ripetute le immunità ai maestri di grammatica, di retorica,
di filosofia; con lui fu ripetuto lo stanziamento in bilancio di
una retribuzione per i retori; sotto di lui, Quintiliano continuò a
dettar lezioni dalla sua cattedra, protetta dal favore del principe;
e continuò, per i letterati e gli artisti, a spirare il benessere del
governo di Vespasiano.

Lo stesso noi dobbiamo dire di Domiziano. Quintiliano infatti proseguì,
fino all’88, le sue lezioni, percependo dallo Stato il sussidio
consueto[232], e poco di poi veniva dal principe invitato a colmare i
propri ozii con l’occuparsi dell’educazione dei suoi nipoti.[233] In
compenso di questo e dei lunghi servigi resi all’istruzione pubblica,
egli riceveva la prima onorificenza, con cui il governo del nostro
paese avrebbe onorato il riposo ufficiale dei suoi maestri, il grado e
le insegne consolari[234].

Ma, nei rispetti dell’istruzione pubblica, il governo di Domiziano è
assai notevole per tre altri ordini di fatti: in primo, l’operosità sua
a vantaggio delle biblioteche romane; in secondo, la restituzione delle
antiche gare oratorie; in terzo, i nuovi impulsi dati all’educazione
fisica e musicale.

Narra invero il biografo dei primi Cesari, Svetonio, che Domiziano,
«senza badare a spese», fece costruire, e ricostruire, le biblioteche
perite negli incendi precedenti, chiedendo per ogni parte nuovi
manoscritti e mandando persino ad Alessandria persone, che li
collazionassero ed emendassero, servendosi degli esemplari contenuti
in quella biblioteca.[235] Si tratta, com’è facile intendere dalla
diligenza, dai criteri e dalla difficoltà del lavoro, di un disegno
di prim’ordine, che merita tutta la riconoscenza dei posteri. Quali
siano state le biblioteche da Domiziano ricostituite, riesce a noi
ben difficile indicare con sicurezza. È possibile che egli stesso
abbia rifatto l’_Ottaviana_ bruciata sotto Tito[236] e che ritroviamo
menzionata più tardi[237], ma è impossibile tanto essere sicuri di
singoli riferimenti, quanto completare l’elenco delle ricostruzioni,
che dovettero essere molteplici[238].

Più interessante è invece porre in rilievo il fatto che tanta operosità
imperiale, in rapporto alla fondazione e alla restituzione di pubbliche
biblioteche, dovette, fin da questo momento, avere la prevedibile e
consueta ripercussione nel campo dell’opera privata e comunale, in Roma
e fuori. Numerose collezioni di libri dovettero, fin d’ora, aprirsi
al pubblico, in Roma, in Italia e in provincia. Singoli privati, come
poco di poi faranno il console Giulio Aquila Polemano, per Efeso,[239]
Plinio il giovane, per Como[240], e, non sappiamo quando, un ignoto
donatore, per Volsinii, cominciarono a legare ai municipii delle somme
per la fondazione e il mantenimento di pubbliche biblioteche[241]. Le
stesse collezioni private appalesano fin d’ora una grandiosità e una
ricchezza, che suscitano commenti e censure, come quelle, in cui lo
scopo della cultura appariva subordinato al lusso ed alla vanità[242].
Ma, come a siffatta bibliomania noi dobbiamo la conservazione di buona
parte della produzione classica, così i dotti del tempo dovettero
all’esempio, che veniva dall’alto, l’agevolezza, che fu ormai una
consuetudine, di servirsi delle collezioni private dei loro doviziosi
amici o mecenati, e, quindi, di istruirsi e di lavorare, il che, in
circostanze diverse, non sarebbe certamente avvenuto. Per identico
tramite, dovette, durante questo tempo, introdursi, nel regime delle
pubbliche biblioteche, tutta la serie di liberalità[243], tendenti
a soddisfare le esigenze dei lettori e degli studiosi, che sono oggi
patrimonio universale di quei nostri istituti di cultura. Ed anche di
questo noi dobbiamo essere, sopra ogni altro, riconoscenti all’ultimo
degli imperatori Flavii.


VII.

Dicemmo che un secondo provvedimento, caratteristico del governo di
Domiziano, fu la istituzione di nuovi concorsi di eloquenza in Roma.
Abbiamo visto come su questo campo egli fosse stato preceduto da
Nerone, ma la grande reazione politica, seguita alla fine della casa
Claudia, aveva interrotto la prosecuzione di quell’istituto[244].
Domiziano torna a provvedervi in modo più serio, più solenne e, forse,
anche più fortunato.

Nell’88 di C., egli istituiva il tanto celebrato _Agone Capitolino_,
un nuovo cimento olimpico, come iperbolicamente fu definito dai
contemporanei[245], una festa quinquennale in onore di Giove
Capitolino, in cui, fra l’altro, furono rinnovati dei concorsi, che
si dissero, anche questa volta, musicali, ma che compresero delle gare
poetiche ed oratorie[246]. La festa era celebrata con solennità rara e
grandiosa, e un’apposita giurìa assegnava i premi ai vincitori, i quali
ricevevano dalle mani stesse dell’imperatore il segno della vittoria,
una corona di quercia.[247]

Noi non possediamo notizie distinte di ciascuno dei due concorsi
oratorii e poetici. Ma, se anche i primi non ebbero, come taluno ha
pensato, la lunga vita dei secondi,[248] la gloria, o la solennità,
ne fu, finchè esistettero, di poco minore. Del pari che pei concorsi
poetici, le previsioni sul loro esito dovettero, ogni volta, essere
oggetto delle più appassionate discussioni dei circoli romani. I
candidati vi accorrevano numerosi, e il conseguirvi vittoria rimase
per parecchio tempo uno degli scopi più alti e più gelosi dei letterati
dell’impero.

Ma, insieme con questa gara solenne, in Roma, Domiziano ne istituì
una seconda più modesta, in Albano. Richiamò egli quivi un vecchio
culto romano a Minerva, protettrice della poesia e della letteratura,
dal quale ufficio ella era stata, da circa un secolo, fugata da
Apollo[249], e vi istituì un collegio religioso, avente, fra l’altro,
l’incarico di organizzare concorsi oratorii, oltre che poetici, da
celebrarsi ogni anno, il 19 marzo, in onore della Dea. Anche qui era
una giurìa, anche qui erano assegnate, quali premi ai vincitori,
corone auree di ulivo.[250] Ma, probabilmente, meno fortunati, i
concorsi albani si spensero prima degli altri, romani e capitolini, di
eloquenza.[251]


VIII.

Ci resta a discorrere dei mezzi, con cui Domiziano promosse il culto
dell’educazione fisica a tipo greco in Roma. Domiziano fu un principe
essenzialmente imitatore. Dopo aver imitato il padre, dopo avere,
nell’amore e nella cura delle pubbliche biblioteche, imitato Augusto,
egli entrò in gara con Nerone.

Ed invero, l’_Agone Capitolino_, da lui istituito, comprese eziandio
una prova equestre (ἀγῶνες ἱππικοί) ed una ginnastica (ἀγῶνες
γυμνικοί). Tra i concorsi ginnici — pretta imitazione ellenica — a
cui pigliavano parte fanciulli romani liberi, si diedero, sull’esempio
della antica Sparta, anche gare di corsa di fanciulle. E come Nerone
aveva costruito un ginnasio per gli esercizi fisici, Domiziano
costrusse al Campo di Marte, per le gare ginniche ed equestri, uno
stadio[252] capace di oltre 30 mila spettatori. Il carattere ellenico
della festa fu anche nell’apparato esteriore. Presiedeva l’imperatore
in veste purpurea e assistevano, e giudicavano, il _Flamen Iovis_,
nonchè i membri del collegio Flavio, vestiti anch’essi in costume
greco[253].

I giuochi capitolini sopravvissero fino agli ultimi confini
dell’antichità romana, e ad essi sopratutto si deve se gli spettacoli
atletici divennero fin da allora comuni in ogni genere di spettacoli
in Roma. Ma quello che a noi più importa è che, in Roma, fin dall’età
di Domiziano, si nota una sicura e decisa prevalenza dei fautori della
educazione fisica greca, che penetra ormai vittoriosa, così nella
consuetudine, come nel quadro della educazione italica dei fanciulli
liberi di ambo i sessi[254].

Al nuovo indirizzo della educazione fisica vanno congiunti gli impulsi,
non meno efficaci, dati alla istruzione musicale. Anche su questo
terreno, la politica dei Flavii si era sperimentata fin da Vespasiano.
L’antico soldato aveva reagito contro il gusto degli ultimi Cesari,
rimettendo in onore il culto dell’antica musica classica.[255] Ma non
era andato più oltre; aveva anzi continuato a profondere ricompense
ai virtuosi dell’arte musicale: 400 mila sesterzi a un cantor tragico;
200 mila a due citaredi; 140 mila ad altri, e corone d’oro a iosa. Il
ritorno all’antico non osava più violare i confini di una assennata
disciplina dell’avvenire, e il nuovo era accettato, e ratificato, in
tutto quello che esso aveva avuto di rivoluzionario e che aveva di
novatore.

Identica può sembrare la contraddizione, in cui si avvolge Domiziano,
ma quest’ultimo dei Flavii, che sembra nato per far riscontro
all’ultimo dei Claudii, riesce a decidere delle sorti dell’educazione
e dell’istruzione musicale, nella società romana. Domiziano comincia
con l’abolire le pantomime pubbliche.[256] Si è detto che facesse ciò
per gelosia della moglie e per avere subìta una sgradevole esperienza
domestica.[257] La spiegazione è certo insufficiente, e il divieto,
che fu limitato alle pantomime recitate in pubblico, non la rende
davvero più attendibile. Rimosse poscia, dal Senato, Cecilio Rufino,
solo perchè amator della danza.[258] Ma, nello stesso tempo, Domiziano
inaugurava, nell’_Agone Capitolino_, il più grande e il più felice
concorso musicale dell’età imperiale, in cui si distribuivano premi
per la citaredia, per la citaristica, per gli _a solo_ di flauto, per
la corocitaristica, e a cui accorrevano artisti di ogni paese,[259]
ed egli stesso costruiva appositamente, per gli spettacoli musicali,
l’_Odeon_, al Campo di Marte, capace di contenere circa 10 mila
spettatori.[260] Era quanto di più grandioso e di più onorifico fosse
stato concesso, fin allora, al culto di Euterpe, in Roma, e subito se
ne videro tangibilmente gli effetti. Nelle case dei ricchi, i maestri
di musica divennero più ricercati dei loro colleghi di retorica.
Nell’età di Giovenale, i citaredi Crisogono e Pollione sono divenuti
dei signori, al confronto di Vezzio, il precettore di retorica.[261]
Non più i poeti, ma i citaredi hanno fortuna;[262] e Marziale,
consigliando un amico intorno alla carriera, cui avviare il proprio
figliuolo, scrive: «Fuggi per carità e grammatici e retori!» «Fa versi?
Caccia di casa il poeta!» «Intende imparare un’arte lucrativa? Che egli
divenga citaredo o coraulo!»[263].

Noi possiamo da tutto ciò prevedere quale sia stata l’opera dei Flavii
circa l’educazione della gioventù nei collegi giovanili. Vespasiano
era rimasto nell’orbita della schietta tradizione augustea,[264] ma
Domiziano svolge e integra, come nel resto, il programma di Nerone.
Egli istituisce — questa volta ne siamo informati in maniera positiva
— anche fuori di Roma, dei _Iuvenalia_, cui prendono parte i suoi
_iuvenes augustales_,[265] e fonda _collegia iuvenum_, con appositi
maestri, i quali danno caccie di bestie feroci, rappresentazioni
sceniche, e gareggiano in concorsi di poesia e di eloquenza.[266]
Con Domiziano dunque si consolida, e trionfa, l’indirizzo educativo
Neroniano.


IX.

La luccicante medaglia ha anch’essa il suo rovescio. E non vogliamo con
questo accennare alle persecuzioni, così frequenti in quest’età, contro
qualche retore, o contro schiere di filosofi, colpevoli di opinioni
antidinastiche, persecuzioni le quali ricadevano fatalmente sulle loro
scuole e sulla pratica libertà dell’insegnamento. Gl’imperatori Flavii
possono allegare a loro parziale discolpa la pur dubbia attenuante
di avere avuto in questo dei predecessori tra gli imperatori Claudii.
Intendiamo invece accennare a qualche specifico provvedimento ai danni
delle scuole esistenti nell’impero romano, e precisamente delle scuole
filosofiche di Atene, ch’era allora la capitale intellettuale di tutto
l’Occidente.

È nota la violenta reazione di Vespasiano contro le libertà municipali,
già restituite alla Grecia da Nerone, e a Vespasiano, o al suo governo,
deve riferirsi una misura, la cui paternità non possiamo, con uguale
verisimiglianza, attribuire ad alcuno dei successori, e che noi
conosciamo solo attraverso un rescritto di Adriano, che ne interruppe
definitivamente l’applicazione.

È noto come i creatori delle varie scuole filosofiche greche avessero
fondato in Atene delle comunità di studiosi, per la diffusione della
loro rispettiva filosofia. Ciascuno di essi aveva trasmesso, per
testamento, la propria carica ed il proprio ufficio alla persona, che
aveva creduto più indicata, e questa, a sua volta, ne aveva seguito
l’esempio[267]. Ma Vespasiano, nella sua avversione alla filosofia, e
nei pericoli politici, di cui la credeva capace, intervenne a limitare
la facoltà dei testatori. Secondo una sua prescrizione, gli scolari di
ciascuna scuola filosofica dovevano essere cittadini romani, nè essi
potevano nominare successori che non rivestissero tale qualità[268].

I motivi di siffatta disposizione si possono facilmente immaginare.
Vespasiano aveva voluto, per quanto sapeva e poteva, garantire
se stesso e lo Stato contro la potenzialità rivoluzionaria della
filosofia, e rendere questa politicamente innocua col farla impartire
da cittadini romani. Ma altrettanto prevedibili sono gli inconvenienti
di quel sistema. La scelta del successore era, ogni volta, dipendente,
non già dalle degnità e dal merito, e neanche dalla maggiore fedeltà
dell’eligendo alle idee del maestro, sibbene dalla condizione esteriore
della sua cittadinanza. Veniva così, in una città e in un paese tanto
poco romanizzato, come la Grecia, chiusa la via alle iniziative del
genio locale, che aveva dato al mondo i pensatori ed i filosofi più
illustri, e quella via si apriva invece al privilegio della breve
schiera dei cittadini romani, professanti colà discipline filosofiche.
E la libera scelta del successore, preclusa una prima volta allo
scolarca, tornava a chiudersi ugualmente, più tardi, alla comunità
degli studiosi, qualora essi, conforme alla consuetudine, avessero
voluto correggere la nomina e procedere a una nuova elezione[269].

Era un viluppo di ostacoli, che ledeva necessariamente la libertà
e l’efficacia dell’insegnamento filosofico in Atene. E i maestri
e i discepoli tollerarono, per anni, duramente, quel freno; per
anni cercarono di romperlo. Finchè, interceditrice una principessa
imperiale, il più greco degli imperatori avrà, come noteremo, l’onore
di esaudire il semisecolare desiderio.


X.

Tale la politica degli imperatori Flavii.

A quest’opera loro, in rapporto all’istruzione pubblica, suole, nella
storia della medesima, riconoscersi un’importanza decisiva. I Flavii
— si dice — avrebbero deposto la prima pietra di quell’edifizio, che
l’avvenire dedicherà solennemente alle cure della istruzione pubblica.

La disamina, che noi abbiamo precedentemente tentata, non ci consente
un giudizio così entusiasta. L’opera di quei tre imperatori non
contiene, salvo una sola eccezione, alcun elemento, che già non fosse
stato posto dagli imperatori della casa Giulio-Claudia. Per qualche
parte, anzi, il lavoro dei predecessori non è continuato; per qualche
altra, l’opera stessa dei Flavii è demolita da un’insanabile intima
contraddizione.

L’unico tratto originale è rappresentato dalla concessione dello
stipendio ai maestri di retorica. A parte però il brevissimo àmbito
di persone e di ordini di scuole, cui essa ebbe a riferirsi, è
necessario, per poterla valutare, distinguere la portata e l’importanza
del provvedimento, considerato isolatamente, dalla idea che esso ne
induce nel pensiero degli storici moderni. Noi oggi non riusciamo più
a concepirlo fuori dagli svolgimenti, che più tardi ne derivarono,
e siamo costretti a scorgervi il primo consapevole passo verso
quella statizzazione delle scuole primarie, medie e superiori, cui
mirò la civiltà posteriore, e verso cui tende la civiltà attuale.
Ma Vespasiano e i suoi ministri rimasero le mille miglia lontani
da tanta preveggenza. Uno stipendio annuo a qualche retore — come
le ingenti somme prodigate ai poeti, agli scultori, ai musicisti
— non costituivano per loro una rivoluzione, non ebbero, per loro,
l’importanza, ch’esso assume presso i tardi storici dell’avvenire.
Vespasiano intese porgere — a chi lo meritava — nulla più e nulla meno
di un principesco incoraggiamento, e sarebbe oggi meravigliato nel
vedersi attribuire un più vasto pensiero.

Ma il merito, che certamente spetta agli imperatori Flavii, è di aver
condotto alla perfezione e al trionfo parecchi dei nuovi elementi e
dei nuovi indirizzi, introdotti nella politica scolastica dello Stato,
dai loro immediati predecessori. L’educazione della gioventù, voluta
da Augusto e da Nerone, riesce ora soltanto, in Roma e in Italia,
a prevalere su le avverse intransigenze. La cura delle pubbliche
biblioteche ha, con Domiziano, uno dei momenti migliori nella storia
dell’amministrazione imperiale; ed uno dei punti fondamentali del
programma scolastico dei ministri di Augusto — quello dei maestri
pubblicamente retribuiti — si traduce in atto per la prima volta con
Vespasiano.

E poichè la storia non è fatta soltanto di grandi, originali
iniziative, ma del lavoro paziente della revisione e della perfezione,
il merito della dinastia dei Flavii, nei rispetti della istruzione
pubblica, se non deve esagerarsi, non deve neanche essere apprezzato al
di sotto del suo giusto valore.




CAPITOLO III.

Gl’imperatori da Nerva a M. Aurelio e l’istruzione pubblica nell’impero
romano.

(96-180)

  I. Reazione di Nerva e di Traiano alla politica dei Flavii;
  gli stipendi ai retori interrotti; esitanze nella riconferma
  delle immunità. — II. Reazione all’educazione fisica e musicale
  ellenizzante. — III. La biblioteca Ulpia-Traiana. — IV. I _pueri
  alimentarii_ e i provvedimenti relativi in Roma, in Italia e nelle
  province. — V. Traiano e i maestri; rifiorimento della coltura.
  — VI. P. Elio Adriano. — VII. Adriano, le immunità, gli onori e i
  beneficii largiti ai maestri. — VIII. L’_Athenaeum_ e la biblioteca
  Capitolina. Adriano e gli studi di giurisprudenza. — IX. Adriano e
  l’istruzione pubblica nelle provincie; riforme nelle scuole degli
  Epicurei; innovazioni nel Museo Alessandrino. — X. Le nuove norme
  di Antonino Pio circa le immunità dei maestri. — XI. Antonino
  Pio non inaugura scuole di Stato in provincia, ma vi promuove
  l’istituzione di scuole municipali di retorica e di filosofia. —
  XII. Marco Aurelio e la fondazione delle prime cattedre imperiali
  universitarie in Atene. — XIII. I concorsi universitarii. — XIV. Le
  cattedre di fondazione imperiale nell’_Athenaeum_ romano. XV. Gli
  Antonini, le istituzioni alimentari e l’istruzione primaria. — XVI.
  Gli imperatori da Traiano a Marco Aurelio e l’istruzione musicale.
  — XVII. Il governo ed i collegi giovanili. La cura delle belle
  arti. L’amministrazione delle biblioteche. L’età degli imperatori
  da Nerva a Traiano, e la scuola e la coltura nell’impero romano.


I.

Il periodo, che intercede da Nerva a Marco Aurelio, pur attraverso
cautele e riserve, tendenti a non ferire interessi temibili o diritti
costituiti, rappresenta — è noto — una reazione all’indirizzo politico
della dinastia Flavia; reazione, che si appalesa più stridente quanto
meno ci allontaniamo dall’ultimo imperatore di questa casa[270]. A
tale tendenza non doveva, nè poteva sfuggire la politica scolastica dei
nuovi principi. Ed invero, da Nerva ad Antonino Pio, forse anche fino a
Marco Aurelio, noi non troviamo più menzione di insegnanti di retorica
stipendiati dal fisco. Di retori illustri, in questo tempo, vissero
parecchi, e P. Annio Floro e Polemone e Dionigi di Mileto e Lolliano
e Favorino e Castricio e Aristocle di Pergamo e Rufo di Perinto e
Paolo e Adriano di Tyro e Demetrio di Alessandria e non pochi altri
ancora;[271] ma a nessuno toccò l’ambito onore, che già un terzo di
secolo prima era toccato a Quintiliano.

Nè del silenzio delle fonti si può tener responsabile una casuale
dimenticanza. Il governo e la politica di Traiano vantano un
descrittore e un apologista, che nulla di ciò avrebbe trascurato,
se lo avesse potuto. Intendo accennare a Plinio il Giovane e al suo
_Panegirico._ Eppure, mentre, in un capitolo, che riguarda appunto
l’opera dell’imperatore nei rispetti della scuola e dei maestri, il
suo autore elogia il principe per l’onore, in cui teneva i docenti
di retorica e di filosofia, studii e discipline, che quasi poteva
dirsi tornassero dall’esilio — nè qui, nè altrove, accenna che tanta
degnazione fosse accompagnata da vere e proprie largizioni di utili
materiali, e chi da questo passo ha concluso diversamente non ha certo
interpretato con esattezza le parole del suo autore[272].

Sembrerebbe contraddire alla nostra ipotesi un editto di Nerva, che
possediamo nel suo testo, il quale riconfermava i privilegi di coloro,
che avessero — pubblicamente, o privatamente — ricevuto beneficii
dai suoi predecessori[273]. La induzione però sarebbe, a mio credere,
alquanto audace. Nell’editto di Nerva si ha un esempio di quello che
oggi si direbbe un mantenimento di diritti acquisiti. Ma questi diritti
dovevano essere già in godimento, e, come abbiamo notato, lo stipendio
ai retori, se per taluno (noi conosciamo il solo Quintiliano) era già
una realtà, per molti altri, era rimasto un principio teorico, di cui
non s’era mai fatta la pratica applicazione. Se, quindi, i maestri
nelle condizioni di Quintiliano conservarono, anche sotto Nerva, il
loro antico stipendio, tutto ciò non costituì menomamente un impegno
verso i futuri retori non stipendiati, e l’assenza di ogni notizia su
persone, che in questo tempo si trovino in tale condizione, anzi di
ogni notizia in proposito, riesce — lo ripetiamo — gravemente decisiva.

Del resto, non poteva avvenire diversamente. Inteso in una forma più
estensiva, il mantenimento dei privilegi accordati si sarebbe tradotto
nell’irrigidimento del governo di ciascun imperatore entro lo schema
tracciato dai predecessori. Anche i delatori ufficiali ed ufficiosi,
privilegiati da Domiziano, subiranno un trattamento opposto sotto Nerva
e Traiano, e quest’ultimo, con precauzione voluta, non confermerà nè
esplicitamente, nè sempre, in tutti i loro particolari, i beneficii,
privati e pubblici, conferiti dai predecessori[274]. Ed invero,
potevano i principi rispettare gli interessi personali e i diritti
in godimento dei beneficati dai loro predecessori; ma, qualora non
lo avessero creduto, non era punto ragionevole che continuassero ad
applicare a nuove persone i vecchi beneficii.

Siamo quindi sicuri che nuovi conferimenti di stipendio a retori
o a grammatici, sotto i primi imperatori così detti senatorii, non
ne avvennero. Rimasero però in vigore quelle esenzioni dai pubblici
carichi a retori, grammatici, filosofi, medici, che datavano da molti
anni più innanzi?

Un rescritto di Traiano riguarda precisamente una questione del
genere. Un Flavio Archippo aveva chiesto di essere dispensato del
sedere giudice in grazia della sua qualità di filosofo, e aveva
anche allegato un editto e un’epistola di Nerva, che, a suo parere,
gliene confermavano il diritto. Taluno avea invece osservato che
egli, non che dispensato, doveva essere escluso dal numero dei
giudici e sottoposto all’espiazione di una condanna precedentemente
riportata[275]. L’editto o l’epistola, di Nerva, trattandosi questa
volta di un diritto acquisito, indurrebbero nella persuasione del
mantenimento di quelle tali immunità, che Vespasiano per ultimo aveva
così solennemente ripetute, ma il rescritto di Traiano sorvola su
codesto punto. Flavio Archippo — esso lascia intendere — può, per mera
opportunità, non essere costretto ad espiare la sua condanna. Se debba
però essere esentato dal suo obbligo di giudicante, non dice; e, quel
che più monta, anche il governatore, che l’aveva interpellato, rimane
esitante.[276]

Probabilmente, anche a tale proposito, Traiano non aveva voluto
impegnarsi con formule generiche, e aveva al solito preferito che,
tacitamente, se un diritto acquisito esisteva, i suoi sudditi, medici,
grammatici, oratori, filosofi, continuassero a goderne. Per sentire
invece ripetere esplicitamente qualcuna di codeste esenzioni, bisognerà
che la reazione passi e che si giunga ad Adriano.


II.

Viceversa, segni di esplicita reazione ci vengono, col governo di
Traiano, segnalati nei due campi della istruzione pubblica, dove più
s’era industriata l’attività dell’ultimo dei Flavii: l’istruzione
fisica su modello greco e l’istruzione musicale.

È lo stesso Plinio il Giovane ad avvisarcene. In una sua lettera egli
riferisce le vicende di una seduta del Consiglio della corona, nella
quale si era discusso della soppressione o meno di un _agon gymnicus_
a Vienne, nella Gallia. Nel Consiglio si erano scontrate le due
tendenze del tempo: la conservatrice e la novatrice. Al momento dei
voti, uno dei consiglieri aveva dichiarato di votare contro il concorso
ginnastico in discussione, e protestato altresì contro la tolleranza di
simili spettacoli a Roma. A consiglio finito, l’imperatore pronuncia la
reclamata soppressione a Vienne[277].

Rispettivamente, nel suo _Panegirico di Traiano_, Plinio accenna alla
soppressione in Roma, per ordine imperiale, delle pantomime in pubblico
pur consentite da Nerva. Evidentemente, l’imperatore avea ceduto agli
attacchi della parte più conservatrice della cittadinanza romana, che
accusava quegli spettacoli di effeminatezza e di sconvenienza[278].

Contraddice a tutto questo la fugace notizia, che ci viene da un più
tardo storico, della costruzione in Roma, ordinata dall’imperatore,
di un _Gymnasium_ e di un _Odeon?_[279]. Non parrebbe; anzitutto,
perchè non dovette trattarsi di una costruzione _ex novo_, ma di una
riattazione o ricostruzione;[280] in secondo luogo, perchè il ginnasio
e l’_Odeon_, come gli _Odea_ e i ginnasi già costruiti, avevano un
valore per sè stante di edifici pubblici, e riattarli non era soltanto
un giovare all’incremento della ginnastica o della musica, ma eziandio
un curare le sorti della pubblica edilizia. Per giunta, il ginnasio
romano non serviva solo all’educazione e all’allenamento fisico dei
cittadini romani, ma sovratutto agli esercizii degli atleti alla
vigilia delle gare e dei pubblici spettacoli. Finchè questi non fossero
soppressi, era risibile sopprimerne il mezzo, quasi necessario, alla
celebrazione. E l’imperatore, che, per iscarso spirito di resistenza
verso la nuova opinione pubblica, o per altro motivo, non giungeva fin
là, non poteva esimersi dal voler preparato degnamente uno spettacolo,
di cui l’ufficio, ch’egli rivestiva, faceva risalire a lui ogni
responsabilità.


III.

Se non che i motivi di questa benefica reazione erano di tale natura
da non impedire che Traiano continuasse la politica dei predecessori,
là dove la bontà dell’opera loro era evidentissima, o dove questa
non recava alcuna speciale impronta dei suoi autori. Così anche
Traiano continuò ad ornare Roma di quella costellazione di pubbliche
biblioteche, la quale, nonchè dell’evo antico, potrebbe tornare a
vanto dell’evo moderno. Egli fondò la biblioteca _Ulpia Traiana_
nel foro omonimo, che sopravvisse probabilmente fino all’età di
Diocleziano.[281] In essa si conservava tutta la collezione dei
libri così detti _lintei_, che pigliavan nome dalla tela di lino su
cui erano scritti, e, con essa, gli _elephantini_, o tavolette di
avorio, rilegate in volumi, le quali contenevano atti ufficiali. Ma,
più notevole ancora, la sezione latina di questa biblioteca conteneva
scritti giuridici di non piccolo valore: tutti gli editti fin allora
promulgati[282], che formeranno il materiale, su cui verrà compilato
l’_Edictum perpetuum_ adrianeo.

Ma se fin qui l’importanza dell’opera scolastica di Nerva e di Traiano
non supera quella dei predecessori, anzi ne rimane forse inferiore,
un istituto affatto nuovo, di cui incalcolabili furono le conseguenze
sull’incremento della istruzione e dell’educazione della gioventù,
impone che si assegni ai due primi imperatori, così detti senatorii,
un posto segnalato nella storia della coltura e della civiltà romana.
Intendo riferirmi all’istituto dei _pueri alimentarii._


IV.

Si conoscono due specie di _pueri alimentarii_, a seconda che si tratti
di Roma, o dell’Italia e delle province.

I _pueri alimentarii romani_ sono tutto merito di Traiano. Fino
a Traiano, i fanciulli erano esclusi dalle _frumentationes_
ordinarie,[283] il che produceva, fra le famiglie povere, gli identici
effetti che oggi, in Italia, la mancanza della così detta refezione
scolastica. I poveri, piuttosto che mandare i loro figliuoli a scuola,
li impiegavano in qualsiasi mestiere, nominabile ed innominabile,
purchè materialmente fruttifero.

Traiano inscrisse i fanciulli di origine libera — non meno di 5000
— nelle tribù, ed essi ebbero così il vantaggio di partecipare alle
distribuzioni frumentarie, non che alle altre distribuzioni del tempo
e di avere in parte assicurata l’alimentazione durante la loro prima
età[284].

Il _Panegirico_ di Plinio celebra l’innovazione, cogliendone appieno
il grande valore sociale. «Tutti i fanciulli romani», egli esclama
rivolgendosi all’imperatore, «sono stati per Tuo ordine accolti e
inscritti nelle tribù. Così, fin dalla infanzia, essi, che per tal
guisa hanno potuto ricevere un’educazione, sanno per prova d’avere un
pubblico genitore. Crescono a Tue spese coloro che crescono per Te;
nutriti da Te, pervengono all’età della milizia, e tutti debbono a
Te solo quello che ciascuno dovrebbe ai suoi genitori. Tu hai fatto
egregiamente, o Cesare, ad alimentare tanti fanciulli, speranze del
popolo romano[285]. Essi sono allevati a spese dello Stato per esserne
il sostegno in guerra, l’ornamento nella pace; ed apprendono così ad
amare la patria, non solo come patria, ma come propria genitrice»[286].

Ma la liberalità e la previggenza di Traiano non sarebbero state
complete se si fossero limitate a Roma. Fuori di Roma era l’Italia,
era l’impero romano. Quante miserie da lenire, quante giovani vite da
consacrare al bene e alla forza dello Stato! E come Traiano aveva,
per Roma, curato la partecipazione dei fanciulli alle pubbliche
frumentazioni, così, per l’Italia, egli, seguendo l’esempio del
predecessore, istituì, dove potè, e come potè, delle vere e proprie
fondazioni alimentari, destinando gli interessi di capitali, variamente
investiti, al mantenimento di determinati contingenti di fanciulle
e di fanciulli. Ci informano della cosa monumenti epigrafici e
artistici importantissimi.[287] Sappiamo così, positivamente, di due
istituzioni del genere, l’una a Velia presso Piacenza[288], l’altra,
presso i Liguri Bebiani[289], a Campolattaro nel Sannio. Ma istituzioni
alimentari dovettero aversi, fin da Traiano, in ogni regione d’Italia,
e di esse troviamo incaricati _praefecti, procuratores, quaestores_ e
altri ufficiali minori[290].

Come sempre, l’iniziativa imperiale, esercitò una larga influenza
sulla iniziativa privata. Mentre, fino a questo tempo, noi non abbiamo
esempio che di una sola munificenza del genere[291], d’ora innanzi
esse moltiplicano di numero e d’importanza, onde l’azione imperiale
riceve largo ausilio dal concorso dell’aristocrazia dell’impero.
Avremo infatti fin d’ora istituzioni alimentari private a Como,[292]
a Florentia,[293] a Tarracina,[294] a Ostia,[295] a Hispalis,[296] a
Sicca Veneria[297] e in molti altri luoghi.


V.

L’opera di Traiano, che, direttamente e indirettamente, ma
sostanzialmente sempre, si connette con l’istruzione pubblica, è
coronata da una personale sollecitudine dell’educazione della gioventù,
da una personale attenzione a l’opera dei maestri.

I precettori di eloquenza e di filosofia sono tornati in onore, sono
tornati nella più squisita considerazione del principe[298]. Essi
trovano facile, anzi libero accesso presso di lui, così che questi,
dalla sua reggia, ha, senza parere, ma pur sempre consapevolmente, la
direzione spirituale della gioventù romana[299].

Quale sia stato l’effetto di tutto ciò noi non possiamo non presentire.
Le nostre fonti non ci forniscono prove della ripercussione di
ciascuno degli atti, che abbiamo enumerati, sulla istruzione pubblica
nell’impero romano. Tali prove — trattandosi di un fenomeno tanto
complesso nelle sue cause — sarebbero state forse impossibili. Ma il
rifiorimento della coltura sotto Traiano è palese, e fu sentito, e
dichiarato, dagli stessi contemporanei.

In una lettera di Plinio il Giovane, che può riferirsi alla fine del
I. secolo[300], questi celebra la resurrezione degli studi liberali
in Roma, di cui numerosi potrebbero essere gli esempi[301]. L’ultimo
imperatore di casa Flavia aveva cacciato in esilio retori, oratori,
filosofi; aveva, insieme con essi, bandite le loro discipline, i
più cari studi professati. Ora questi studi riacquistano la loro
patria, risorgono rianimati, vivificati; il loro culto si svolge
quotidianamente sotto gli occhi del principe, alla portata delle
sue orecchie, dei suoi occhi, del suo esempio[302]. E il mondo
intellettuale romano torna ad essere quale il principe dimostra
nuovamente di volerlo.


VI.

Successore di Traiano fu, com’è noto, P. Elio Adriano. È ben difficile
forse trovare in tutta la storia romana un uomo politico, il quale,
come Adriano, chiuda nel proprio pensiero un senso ed un concetto
della vita, in cui insieme, e quasi organicamente e perfettamente, si
fondano l’ideale della vita greca e quello della vita romana, l’anima
pagana e l’anima cristiana, le tendenze spirituali dell’età vecchia
e quelle dell’età nuova; un uomo, che egualmente abbia unito in sè la
molteplicità dei più svariati talenti.

Poeta e prosatore, latinista e grecista, pittore e cultore di arti
plastiche, filosofo e oratore, artista e scienziato, mistico e
realista, superstizioso e scettico, generoso e implacabile, uomo di
pensiero e uomo d’azione, egli fermò il piede su tutti i campi dello
scibile, accolse e subì tutte le suggestioni, di cui è capace la grande
anima umana, e da ogni disciplina, da ogni ispirazione, scoccò una
scintilla per il suo ingegno, rilevò un tratto per la sua complessa
personalità.[303]

Chi dunque meglio di lui, chi meglio dell’imperatore letterato[304],
rappresentante del genio greco del tempo — genio letterario, oratorio,
didascalico, filosofico — chi meglio di Adriano avrebbe potuto fissare
uno scopo sovranamente pedagogico al suo governo? Chi meglio di lui
avrebbe potuto proporsi quella creazione spirituale delle generazioni
future, ch’era l’ideale sommo degli antichi politici greci? Chi non
attenderebbe da lui un’orma assai più profonda, o pari almeno a quella,
che, nella storia della educazione nazionale romana e italica, avevano
lasciata e Augusto e Domiziano e lo stesso Nerone? Eppure, quando noi
ci rechiamo sott’occhio tutto il quadro della politica scolastica di
Adriano, troviamo che, se essa perfezionò l’opera dei predecessori
e ne colmò le lacune, non può tuttavia aspirare a quel merito, che
dall’uomo, che la curava, ci saremmo attesi, poichè riesce a stento ad
assumere una figura sua propria.


VII.

Aurelio Vittore, nelle sue biografie dei Cesari, narra che Adriano,
paragonabile in ciò ai grandi statisti della Grecia, fu il primo
ad inaugurare, in Roma, dei locali per l’educazione fisica e a
interessarsi dei maestri di discipline intellettuali[305].

Come abbiamo visto, tale opera ha ben altri precursori e, per quanto
grande possa essere stato il merito di Adriano, esso certamente non
può dirsi originale. Ma questo non significa punto che noi non dobbiamo
soffermarci a studiare i particolari di questo frammento dell’opera di
lui.

Una sua _costituzione_ assai notevole, che ci viene in parte riferita
in un’altra di Commodo, regola in tutti i particolari la materia
delle immunità ai retori, ai grammatici, ai filosofi, etc. Di essa
non torneremo ora ad occuparci, essendocene lungamente intrattenuti
in molte pagine di uno dei precedenti capitoli[306], e basterà solo
rilevare come la caratteristica delle disposizioni ivi contenute
fosse quella di specificare minutamente la portata di una concessione,
che aveva già una esistenza e che vantava un’anteriore cronologia di
origine, probabilissimamente fin dall’ultimo degli imperatori Claudii.

Ma l’onore, accordato da Adriano agli uomini di lettere e di scienze,
non si limita alla riconferma delle immunità. Le frasi, che il
_Panegirico_ di Plinio adoperava per definire il mecenatismo di
Traiano, sono da altri scrittori ripetute in forma poco diversa, per
Adriano. Egli ebbe in sommo onore e in somma intimità ogni genere
di dotti: filosofi, grammatici, retori, matematici, poeti, pittori,
astrologi[307], e raramente, come sotto Adriano, il mecenatismo
esercitò sì largo campo di influenze e di azione; raramente i detti
occuparono in tanto numero le maggiori cariche dello Stato[308].

Ma fece anche l’imperatore qualcosa di più, come taluno ha
ritenuto?[309] Istituì cioè delle cattedre pubbliche di retorica, di
grammatica, di filosofia, etc.? O, per lo meno, estese ad altri maestri
ciò che Vespasiano aveva largito ad uno o a più retori? L’autore
della biografia di Adriano nella _Historia Augusta_ accenna a due
generi di atti, cioè ad onori resi da Adriano ai grammatici, ai retori
e agli oratori, anzi a _tutti i docenti, che egli avrebbe eziandio
arricchiti_, e al provvedimento, ancora più salutare, di avere esentato
dall’insegnamento, anzi di avere vietato l’insegnamento ai maestri,
che, per età o per malattia, ne apparissero ormai incapaci[310].

Or bene, da questi due passi, sembra sufficientemente chiaro che non
si tratta di istituzione di cattedre ufficiali, ma, nella migliore
ipotesi, di stipendi vitalizii a maestri di grammatica, di retorica,
di filosofia etc., o anche, semplicemente, di larghi donativi del
principe, e di assegni straordinari, conferiti loro, specie all’istante
del collocamento a riposo. Nè tale interpretazione manca dall’essere
confermata da un passo delle _Biografie dei sofisti_ greci di
Filostrato, il quale, in una lunga narrazione, che pur si occupa, e
di proposito, dei professori di eloquenza e della istituzione delle
relative cattedre ufficiali in Grecia, dice, di Adriano, soltanto che
egli «fu fra gli antichi imperatori il più disposto _ad incoraggiare_
il merito»[311].

Ma un altro più grave motivo ci induce a non attribuire a questo
principe quell’istituzione di cattedre pubbliche, che si è pensata. Se
così egli avesse fatto, se cioè i suoi «_incoraggiamenti_» a filosofi,
grammatici, retori, matematici, pittori, astrologi etc., fossero da
identificarsi con la istituzione di cattedre ufficiali, queste non
potrebbero limitarsi alla retorica e alla filosofia, come è stato
fatto da chi ha accolto tale interpretazione, ma dovrebbero riguardare
eziandio la grammatica, l’astrologia, la matematica, la pittura,
tutti cioè gli insegnamenti, che, noi positivamente sappiamo, furono
protetti da Adriano[312] — ipotesi questa assolutamente inverosimile,
come l’ulteriore svolgimento della politica scolastica degli imperatori
assicura senza lasciare alcun dubbio.

Adriano dunque sarebbe stato il grande incoraggiatore degli studii
e dei loro diffonditori, avrebbe, a più riprese, specie nel caso di
incapacità ad un ulteriore lavoro, sovvenuto largamente i maestri più
bisognosi e più meritevoli; ma nulla induce a pensare che egli sia
stato l’autore di provvedimenti, con cui si istituivano in Roma, o
altrove, delle cattedre pubbliche per le discipline più notevoli, che
erano allora oggetto di insegnamento.

La sua opera rimane così limitata entro la cerchia delle idee e delle
misure adottate dal primo dei Flavii. Vespasiano, infatti, dicemmo, non
istituì una o più cattedre di retorica in Roma, ma solo uno stipendio
personale e vitalizio in favore di taluni retori. Coi successori la
sua iniziativa aveva subito un improvviso arresto. Con Traiano, par
certo, gli assegni vitalizi _ad personam_ non andarono più a favore di
alcuno. Ora Adriano — saggiamente — ne riprende l’idea, che i bisogni e
le circostanze stesse imponevano, e la riprende con i ritocchi e nella
misura, che la nuova politica e la interrotta tradizione imponevano.
Egli estende il beneficio ad altri insegnanti, che non fossero soltanto
quelli di retorica; sostituisce talora, all’assegno vitalizio,
incoraggiamenti, più o meno larghi, più o meno ripetuti, ma sempre
irregolari; ne mette a parte anche i docenti delle province;[313]
fissa quelli che oggi si direbbero dei limiti di età alla carriera
dei maestri, o, piuttosto, dei limiti di carriera, quando l’età aveva
fatto manifesta l’insufficienza didattica dell’insegnante, e, in tal
caso, assicura ai maestri la restante esistenza con abbondanti assegni
vitalizii. Tutto questo è certamente meritorio, e costituisce un
progresso di fronte a Vespasiano; ma non è ancora la istituzione di
vere e proprie cattedre pubbliche, che andassero a formare un primo
nucleo di scuole medie, o superiori, o primarie, nelle varie località
dell’impero.


VIII.

Invece di una pubblica scuola, Adriano creò per essa, in Roma, un
grande locale apposito. Fin allora, grammatici, retori e filosofi erano
costretti ad appigionare dei locali, ove impartire l’insegnamento. Solo
forse i giureconsulti — come a suo luogo accennammo — avevano a propria
disposizione dei locali pubblici forniti dallo Stato.

Egualmente, i conferenzieri, i poeti, i tragici, tutta l’innumerevole
serqua dei lettori pubblici dell’età imperiale, erano, volta per
volta, costretti anch’essi a procurarsi il locale necessario alla loro
pubblica produzione letteraria. Adriano ebbe in animo — e l’ispirazione
venne a lui certamente dal mondo ellenico ed ellenistico — di innalzare
un tempio dell’insegnamento e della pubblica coltura. In Atene,
esistevano parecchi locali destinati all’insegnamento superiore:
l’_Accademia_, lo _Stoa_, il _Palladion_, l’_Odeion_, il _Lyceion_, il
_Cynosarges_, il _Diogeneion_, il _Ptolemaion._[314] In Alessandria,
due almeno delle sale dei due Musei erano destinate a lezioni e a
conferenze scientifiche. Come mai Roma avrebbe potuto mancarne? Sorse,
così, da questa ispirazione e con questo intendimento, l’_Athenaeum
romanum_, un _ludus ingenuarum artium_, una scuola delle discipline
destinate all’istruzione dei liberi in Roma.[315]

Era desso un ampio _auditorium_ in forma di anfiteatro,[316] eretto
probabilmente sul Campidoglio,[317] che i letterati trovavano a loro
disposizione per leggervi pubblicamente i propri scritti, e i maestri,
per impartirvi le loro lezioni.

Ma quali categorie di maestri? Tutti i passi della _Historia Augusta_,
che accennano all’_Athenaeum_, discorrono di letture di poeti o di
lezioni di retori greci e latini[318].

Ma quell’_auditorium_ non poteva essere aperto a questi soli docenti.
Un antico — abbiamo visto — lo chiamava _ludus ingenuarum artium._
A suo dire, dunque, tutte le arti libere avrebbero potuto trovarvi
accesso, e la retorica e la grammatica e la musica e la filosofia. Ma
sarebbe inesatto dire che la natura dell’_Athenaeum_ ci permetta una
così larga interpretazione. L’_Athenaeum_, attraverso tutta la sua
storia, ci appare invece come un edificio destinato a conferenze e a
lezioni, di cui il grande pubblico dei giovani e degli adulti avesse
potuto fruire. Come tale, noi dobbiamo escludere dal novero delle
arti liberali, che vi avevano accesso, la musica, che in pubblico
non poteva dar luogo a lezioni, ma solo a concerti, istrumentali
e vocali, e verso cui grandi erano le ripugnanze della pedagogia
romana, la geometria, che in Roma aveva uno scopo strettamente
professionale,[319] ed era, non già insegnamento fondamentale, ma una
disciplina sussidiaria — lontanamente sussidiaria — di quell’arte, che
assommava in sè quasi tutti gli scopi e gli sforzi della pedagogia,
l’oratoria,[320] e da ultimo, forse, o almeno per ora,[321] la
grammatica, disciplina, che si rivolgeva soltanto a dei giovanetti e
faceva parte di quell’insegnamento secondario, che non può occupare
l’attenzione dei più. L’_Athenaeum_, qualche cosa tra l’_Università
popolare_ moderna e la sala di conferenze, doveva rimanere estraneo a
tutto ciò; doveva, specie nelle sue origini, essere luogo di coltura
pubblica, generalissima, non istituto di insegnamenti speciali o
d’insegnamenti secondarii inferiori, ma, sopratutto, un luogo, in
cui si dispensava quella cultura, che, senza essere impartita per
ufficiale volontà superiore, era tuttavia, da numerose condizioni,
tratta ad apparire, e ad essere, oggetto di insegnamento ufficiale.
Ed è appunto perciò che noi, sebbene le fonti, di cui disponiamo, non
ce ne parlino, dobbiamo supporre che fin da Adriano, nell’_Athenaeum_,
insieme con l’insegnamento della retorica, venissero impartiti quelli
della filosofia e della giurisprudenza, della quale ultima, del resto,
vedremo anche più innanzi.

È assai probabile che, all’_Ateneo_, Adriano abbia aggregato una
biblioteca. Forse poche circostanze erano state altrettanto favorevoli
all’idea di una simile fondazione. Un locale di istruzione pubblica,
ove si adunavano discenti e maestri, non avrebbe potuto rispondere
degnamente al suo ufficio senza una collezione di libri a portata di
mano e a disposizione degli studiosi. E poichè grande è il numero delle
biblioteche pubbliche romane, di cui non riusciamo a rintracciare i
fondatori o la cronologia della fondazione, e poichè noi possediamo
esplicita menzione di una biblioteca _Capitolina_[322], di una
biblioteca, cioè, avente sede negli stessi paraggi dell’_Athenaeum_,
la sua origine può, fra le tante ipotesi che si sono fatte, essere
preferibilmente riferita al regno di Adriano.[323]

Ma la politica di Adriano arrecò del pari nuovo incremento allo
studio del diritto. La carriera dei giuristi acquista fin d’ora un
valore assai maggiore che non nel passato. Anzitutto le prerogative e
l’efficacia dei _responsa_ dei giuristi patentati crescono ancora di un
grado. Questi non hanno più un peso soltanto morale. I _responsa_, se
concordi, assumono valore di leggi[324], e, solo in caso di disparità
di pareri, l’imperatore si riserva di giudicare e decidere egli stesso
con l’assistenza del suo _Concilium._ Ma è noto quale innovazione
questo _Concilium principis_ avesse subìto ai tempi di Adriano. Esso,
che fin allora era stato in maggioranza un consiglio di senatori,
delegati dal senato, accoglie ora, stabilmente, nel suo seno, quali
membri ordinarii, dei giureconsulti[325].

La carriera giuridica aperse così i migliori orizzonti ai giovani
studiosi di Roma e delle provincie, come la produzione dei giuristi
riscosse, dal governo centrale, una sollecitudine e, direi, un
incoraggiamento maggiore che nel passato. Esistevano già in Roma (e
il grammatico Gellio, riferendosi alla sua giovinezza, ne parla come
di consuetudine saldamente costituita) _delle stationes ius publice
docentium aut respondentium_[326]. Come è stato notato, anche il
vocabolo _statio_ suole indicare località pubblica ed ufficiale.
Esse erano quindi località, non private, ma proprietà del _populus
o del princeps_[327]. Al tempo dunque di Adriano, ve n’era un gran
numero. Ma questi — naturalmente — dovette pensare ad assegnare,
anche ai giuristi, l’uso del nuovo stabilimento, il grande _Athenaeum_
imperiale, nè, per concludere in tal senso, fa bisogno di attendere una
diretta testimonianza delle fonti.


IX.

La fondazione dell’_Athenaeum_ è certamente il tratto più
caratteristico dell’opera di Adriano, nei rapporti con l’istruzione
pubblica. Ma nello stesso campo un’altra parte della sua attività è
anche notevole, specie in quanto essa riguarda i primi provvedimenti
imperiali, che si interessino sul serio dell’istruzione pubblica nelle
province.

Fino a quel giorno, per questo riguardo, la politica imperiale cadeva
ancora sotto la censura formulata nell’epistola di un filosofo, diretta
a dei magistrati romani: «Dei porti, degli edifici, dei portici, dei
passeggi pubblici taluno di Voi ha avuto cura; ma dei fanciulli, che
sono nelle città, o dei giovani, o delle donne, nè Voi, nè le leggi
romane s’interessano»[328]. Adriano fu il primo a rompere questa
tradizione di noncuranza verso tutto ciò che non riguardasse la vita
esteriore e materiale delle città sparse nelle provincie. Ma, come
sempre in tutti gli esordi delle opere umane, ciò ch’egli fece valse
meno a creare degli utili effettivi, che ad aprire una via, che i
successori avrebbero largamente percorsa.

Le sue cure si rivolsero all’ordinamento scolastico e agli istituti di
istruzione pubblica nei due centri maggiori del mondo intellettuale di
quel tempo: Atene ed Alessandria.

In Atene, Adriano raccolse, e fondò, una splendida biblioteca, che
aggiunse all’altra del _Ginnasio di Tolomeo_, nonchè un nuovo Ginnasio,
la cui importanza maggiore non consiste nelle cento colonne di pietra
libica, di cui ci discorrono i _touristes_ dell’antichità,[329] ma nel
fatto che uno dei ginnasii greci, divenuti ormai istituti d’educazione
intellettuale, oltre che fisica[330], sorgeva, questa volta, per le
cure del governo romano.

Ma Adriano fece anche di più e di meglio: s’ingerì, con intenzioni
benevole e benefiche, nelle vicende dell’insegnamento superiore
privato di quel tempo. Conosciamo infatti, attraverso un’epigrafe,
da noi precedentemente richiamata, che rimonta al 121 di C.,[331] un
notevole provvedimento da lui adottato a favore della scuola filosofica
degli Epicurei, e che può dirsi tornasse eziandio a vantaggio
dell’insegnamento filosofico in genere.

Accennammo a suo luogo all’altro provvedimento di Vespasiano, con
cui si vietava che dei cittadini non Romani coprissero l’ufficio di
scolarchi nelle varie scuole filosofiche ateniesi, e ne segnalammo le
deplorevoli conseguenze[332].

Or bene, nel 121, la madre adottiva di Adriano, Plotina, intercede
caldamente, esponendone le ragioni, affinchè il figliuol suo liberi
la scuola epicurea, di cui ella si palesa seguace, da ogni pastoia,
e conceda allo scolarca ateniese del tempo, e ai suoi successori, di
poter testare — ed in lingua greca[333] — a favore anche di stranieri;
l’imperatore, se mai, avrebbe potuto riserbarsi il diritto di approvare
e ratificare tali scelte _ex lege_[334].

E la sua intercessione fu fortunata: l’epigrafe, che contiene la
lettera commendatizia dell’imperatrice, contiene anche il rescritto
dell’imperatore, che, esaudendo, in tutto e per tutto, l’istanza,
rendeva intera la libertà della scienza e dell’insegnamento alla
filosofia epicurea in Atene.

Fu poscia analoga liberalità largita da Adriano, o dai successori,
alle altre scuole filosofiche? Noi l’ignoriamo. Ma quello che a me
sembra certo si è che non possiamo, con i pochi e dubbi elementi di
due o tre epigrafi, affermare, come si è fatto,[335] che gli scolarchi
delle altre scuole filosofiche ateniesi continuassero, anche più
tardi, a scegliersi tra i cittadini romani. La serie anzi dei nomi
dei titolari delle future cattedre di fondazione imperiale darebbe,
forse, a pensare l’opposto; e ad un opposto convincimento induce più
ancora la considerazione, che altri imperatori, successi immediatamente
ad Adriano, non potevano certamente desiderare che la scuola degli
Epicurei fosse lasciata in una relativa condizione di privilegio.


Sollecitudini maggiori Adriano dedicò al Museo alessandrino. Da lunghi
anni quell’istituto sembrava vegetare, anzichè vivere, e il più eccelso
favore, che gl’imperatori romani vi usavano, era di continuare gli
assegni necessari al mantenimento suo e dei suoi pensionati.

Adriano, per quella predilezione, che sempre nudrì verso l’Egitto e
verso quel centro sovrano di cultura intellettuale, che fu Alessandria,
cominciò col curarsene direttamente. Anzitutto vi pose a capo una delle
persone più competenti, il sofista L. Giulio Vestino, autore di opere
filologiche e poscia procuratore delle biblioteche di Roma[336]. Ma
questo fu il meno. Vi apportò eziandio una riforma fondamentale. Fin
allora il Museo era stato un’accolta di dotti, che ivi lavoravano, ivi
erano alimentati, e forse anche abitavano. Adriano largì a parecchi
altri letterati dell’impero, specie greci, il titolo onorifico di
membri del Museo e una pensione relativa, corrispondente all’utile
materiale, di cui la lontananza da Alessandria veniva a privarli. Tra
i favoriti, gli antichi ricordano il sofista Polemone,[337] il sofista
Dionigi di Mileto,[338] il poeta egizio Pancrate,[339] il filosofo Elio
Dionigi di Alicarnasso[340] e altri ancora.[341]

I posti del Museo sono ora dunque soltanto pensioni, e la sua
mensa, mentre prima serviva ai reali bisogni dei dotti residenti in
quell’istituto, diviene un più o meno lauto stipendio agli uomini,
per speciali meriti illustri, di tutte le parti del mondo,[342] o a
coloro (e qui risiedeva l’inevitabile pericolo dell’innovazione), che
l’imperatore avesse voluto giudicare tali. Ma fu questo certamente un
progresso. I vantaggi materiali del Museo andavano così a prodigarsi a
una più larga cerchia di persone, la libertà di scelta fu maggiore, e
maggiore il contributo, che, in seguito a codesti benefici, i dotti del
mondo sarebbero stati in grado di arrecare alla scienza.


X.

Assai interessante riesce seguire passo passo, atto per atto, lo
svolgersi e il perfezionarsi degli istituti sociali, attraverso l’opera
di uomini, che ne furono al tempo stesso gli artefici ed i pazienti.
Da Adriano, anzi da Vespasiano a Marco Aurelio, è tutta una lenta
incrostazione di provvedimenti diversi, di cui ciascuno completa,
o modifica insensibilmente, il precedente, la quale alla fine darà
il fatto nuovo, con fisonomia e individualità propria, la specifica
creazione scolastica dell’impero, che sarà l’ordinamento ufficiale
dell’istruzione superiore.

In questo lento, insensibile lavoro, assai più di Adriano, Antonino Pio
ha segnato il suo posto ed il suo ufficio.

La sua opera si inizia con la regolamentazione delle immunità ai
docenti, che raggiunge con lui una precisione ignota negli anni
trascorsi. Probabilmente, le città avevano rilevato degli inconvenienti
nell’ampiezza delle immunità ai sofisti, ai grammatici, ai filosofi
in genere. Probabilissimamente, ogni volenteroso di quel privilegio
era ormai solito dichiarare, senza eccessivo scrupolo di esattezza, la
qualità e la condizione sociale più acconcia a farglielo conseguire.
Probabilissimamente, il numero dei maestri di grammatica, di retorica,
di filosofia e d’altre discipline era, anche in virtù delle esenzioni
tradizionali, cresciuto in misura da arrecare dei danni sensibili
all’erario delle varie comunità. E con ogni probabilità noi dobbiamo
alle loro rimostranze lo schema delle norme, con cui Antonino Pio ebbe
a regolare tale materia, schema pervenutoci attraverso l’intelligente
e autorevole compendio di una _costituzione_ imperiale, lasciatoci dal
giurista Modestino[343].

Quella _costituzione_ stabiliva che, nelle piccole città, le immunità
dovessero _al massimo_ estendersi a 5 medici, 5 sofisti (maestri
di retorica),[344] e 3 grammatici; nelle medie, a 7 medici, 4
sofisti e 4 grammatici; nelle grandi città, a 10 medici, 5 sofisti
e 5 grammatici. Dei filosofi, Antonino Pio non stabiliva il numero
dei privilegiandi,[345] ma questo — e lo desumiamo da ciò che egli
s’affretta a soggiungere — non dipendeva da una maggiore liberalità,
che egli avesse voluto usare verso quella categoria di professionisti,
sibbene dalla loro scarsezza numerica. «Io penso», egli avvertiva, «che
i filosofi ricchi offriranno volentieri alla patria le utilità, che
loro derivano dalle ricchezze; chè se, invece, cavillando, mostrassero
di fare troppo conto dei beni materiali, questo solo basterebbe a
provare che essi non sono filosofi.»[346].

Insieme con tali norme noi possediamo di Antonino Pio altre
disposizioni, relative alla immunità dei docenti, di cui talune sono
frammenti della sopra riferita costituzione, altre sono clausole
speciali, che ne dipendono o la illuminano, cioè: _a_) che il diritto
alle immunità era strettamente legato al paese di origine del docente,
sì da andare perduto per chi professasse altrove;[347] _b_) che però
tale disposizione era passibile di eccezione pei docenti insigni, anche
in soprannumero ed esercenti altrove;[348] _c_) che la specificazione
degli oneri, o degli onori, da cui si aveva diritto di andare esenti,
rimaneva sempre quella amplissima, già fissata da Adriano;[349] _d_)
che gli insegnanti primarii, di qualunque specie e grado, dovevano
andare esclusi da ogni immunità;[350] e forse, da ultimo, anche la
norma che, fra i docenti discipline speciali, quelli di calligrafia
(_librarii_), i quali preparavano ad uffici di segretari, copisti etc.,
tanto richiesti dalle amministrazioni pubbliche e private del tempo,
godevano la esenzione dagli oneri più gravi[351].

Il documento principale si riferiva, in modo speciale, alla
provincia di Asia. Ma è chiaro ch’esso doveva idealmente far parte, e
organicamente connettervisi, di quella larga serie di provvedimenti,
di cui Antonino Pio fu così liberale verso le provincie. Non vi sarebbe
stata coerenza logica a stabilire per l’Asia delle restrizioni e delle
norme in materia di immunità, che poi non dovessero essere ripetute,
o non fossero già state stabilite per altre provincie dell’impero,
o, almeno, per quelle, che uguale necessità ne risentivano. Questo
è infatti il pensiero del giurista, che ci tramanda la costituzione
antonina[352]; questa, l’opinione, che deve tenersi come in generale
applicabile.

Qualche dubbio invece lascia la qualità delle persone, su cui l’antico
privilegio e le sue recenti limitazioni andavano a raccogliersi.

Si tratta di insegnanti pubblici, ufficiali, sia di retorica che di
grammatica, o di insegnanti privati?

La prima ipotesi è stata fatta, ed è stata portata a sostegno
dell’assunto, che già, con Antonino Pio, si avesse in Atene
quell’abbastanza regolare assetto degli studii superiori, che
chiaramente troviamo dopo Marco Aurelio;[353] ma essa è certamente
infondata. Ed invero, noi siamo assolutamente sicuri che, sotto
Antonio Pio, nella migliore ipotesi, non ci fu in Atene che un solo
ufficiale docente di sofistica, Lolliano,[354], la cui cattedra
però, come a suo a tempo diremo, non dovette essere di istituzione
imperiale, e che uno egualmente ce ne fu sotto Marco Aurelio.[355] Or
bene, pur volendo rammentare che Antonino Pio, nella sua costituzione,
fissava dei massimi, noi, seguendo l’ipotesi sopra esposta, verremmo
ad ammettere che, nel centro maggiore di studii dell’Oriente (se ne
togli Alessandria), là dove la fioritura dei maestri di retorica fu
sterminata, e la ressa dei candidati notoriamente grande, il numero dei
docenti ufficiali di retorica era inferiore perfino a quello supposto
pei più piccoli centri dell’impero. Per quali casi avrebbe dunque
Antonino Pio fissato le sue cifre iperboliche e considerato financo la
probabilità che codesti massimi fossero raggiunti,[356] senza che per
questo esaurissero la serie degli aspiranti al privilegio?

D’altro canto, di cattedre ufficiali di grammatica, in Atene, non
abbiamo — almeno per ora — nessuna menzione; forse di istituite
dagli imperatori non ve ne furono mai.[357] Eppure, secondo
l’interpretazione, dianzi accennata, della costituzione di Antonino
Pio, al suo tempo, Atene avrebbe dovuto contarne tante quante ne
contava di retorica!

E che dire dei docenti di filosofia, che la costituzione di Antonino
Pio farebbe evidentemente supporre inferiori di numero ai sofisti e ai
grammatici, mentre poi, sotto Marco Aurelio, ne troviamo probabilmente
due per ogni scuola, e cioè otto nella sola Atene?[358].

L’ipotesi dunque che i docenti, immuni da oneri, siano stati professori
ufficiali riesce, sotto ogni rapporto, insostenibile.

Ma v’è proprio necessità d’identificare i privilegiati della esenzione,
con dei professori ufficiali? Tra le immunità e l’insegnamento
ufficiale non esiste nessun legame diretto, e come, fin da Augusto, noi
abbiamo assistito a una dispensa notevole di immunità, senza che per
questo le persone, che via via avevano a goderne, fossero menomamente
fornite di incarichi ufficiali, così ora possiamo con sicurezza
concludere che, quando Antonino Pio limita il numero dei docenti
beneficiati, egli non si riferisce all’insegnamento ufficiale, ma
all’insegnamento in genere,[359] e che la limitazione sua è provocata
soltanto dal danno, che l’erario delle singole città risentiva dalla
pletora dei privilegi.

Un altro problema, dinanzi a cui ci pone la su riferita costituzione
imperiale è quello del criterio occorrente per classificare le città
dell’impero in città di primo, di secondo, di terzo grado. Ce ne
dà la soluzione il commento del giureconsulto Modestino, il quale
informa come città di primo grado fossero le μητροπόλεις τῶν εθνῶν,
cioè, sin dal II. secolo, le principali città delle province, onorate
ufficialmente del titolo di metropoli;[360] di secondo grado, le sedi
di un _conventus iuridicus_ (αὶ ἔχουσαι ὰγορὰς δικῶν); di terzo, tutte
le altre. E questa interpretazione, fornitaci da un antico, è, per
molte ragioni, tra cui questa ch’essa proviene da un’età, in cui le
norme di Antonino Pio erano ancora in vigore la più accettabile sovra
ogni altra.

Ma la limitazione, introdotta dal principe nel numero dei privilegiati,
insinua un concetto giuridico affatto nuovo nei rapporti tra questi
e il governo, che privilegiava. In realtà, non siamo più dinanzi a
un onore conferito _ad personam_, e neanche dinanzi a un privilegio
conferito ad una classe di persone; _siamo dinanzi a un privilegio
conferito a delle comunità_, che sole possono esentare da determinati
oneri un certo numero di persone, le quali le ricambiano di determinati
utili, morali o materiali[361].

Con tutto questo concorda perfettamente un’altra disposizione —
che però non è chiaro se Modestino ce la riferisca come ordinata,
anch’essa, da Antonino Pio, o come una sua propria illazione — secondo
cui il Senato locale, se non poteva accrescere il numero degli esenti,
poteva però, con una sua disposizione interna, fissare un massimo
inferiore a quello stabilito dall’imperatore.[362] Di guisa che, per
l’ammissione al privilegio, non sarebbe bastata più la dichiarazione
della professione, ma occorreva invece un decreto del Senato,
dichiarante che, date le oggettive condizioni volute dalla disposizione
imperiale — accolta integralmente, o limitata, da un successivo
provvedimento interno — la persona o le persone, che avevano avanzato
domanda di immunità, potevano essere ammesse a goderne[363].

Quali criteri si seguissero in caso di eccesso di domande; in base
a quali elementi i rimandati di oggi venissero, alla prima vacanza,
ripresi in considerazione, è assai difficile dire, nell’assenza di
ogni indicazione che ci illumini. I criteri potevano essere parecchi:
o l’ordine delle domande, o l’anzianità, o il merito speciale, o un
criterio misto, che tenesse conto dei varii elementi. Ma, in rapporto
a tutte le nuove norme seguite da Antonino Pio, s’impone un quesito
pregiudiziale. Eran desse delle clausole, per cui si richiedeva
un’applicazione immediata, o delle disposizioni generali, che dovevano
applicarsi gradualmente? In una parola (ed è qui l’importanza della
questione) i diritti acquisiti sarebbero stati rispettati, anche se
venivano, in tutto o in parte, a urtare contro le nuove disposizioni?

La risposta, a mio avviso, non può essere che positiva.

A parte il principio, costantemente seguito dalla legislazione
imperiale, di non arrecar mai detrimento ai diritti acquisiti,[364]
troppo grave sarebbe stata la lesione degli interessi individuali
e collettivi, qualora i nuovi criterii si fossero voluti imporre
immediatamente, turbando tutti gli antichi rapporti. Ma, a parte
questo e a parte il valore di precedente, che ogni beneficio accordato
recò per il successore, noi sappiamo che taluni maestri ebbero adesso
ripetute dall’imperatore in persona le antiche immunità,[365] e che
altri non ismarrirono quel diritto.[366] Le disposizioni di Antonino
Pio si sarebbero dunque applicate gradualmente, e sarebbero entrate in
pieno vigore solo alla morte di tutti quelli, che fin allora avevano
conservato l’antico privilegio.


XI.

Quale fu l’opera di Antonino Pio riguardo alla statizzazione
dell’insegnamento privato nelle città dell’impero? Eccoci dinanzi a
uno dei più tormentosi problemi del suo governo. La biografia sua,
contenuta nella Historia Augusta, narra che egli «conferì _onori_
(_honores_) e _stipendi_ (_salaria_) ai retori e ai filosofi residenti
nelle provincie».[367] Non ostante la organica fallacia della fonte,
da cui si è costretti ad attingere,[368] la notizia, per quella
parte che possiamo controllare su altri elementi, è esatta. Ed invero
gli _honores_, accordati da Antonino Pio, furono, in massima parte,
le esenzioni dai pubblici carichi, di cui abbiamo precedentemente
discorso, che vennero largite ai retori, ai grammatici e ai medici. Ma
è la notizia ugualmente esatta per la parte che riguarda gli stipendi,
fossero pure limitati, come la nostra fonte li vuole, ai retori e ai
filosofi? Le ragioni del dubbio esistono, sebbene i moderni studiosi
dell’argomento, intenti piuttosto a seguire lo sviluppo della scuola,
che a indagare quanta parte di merito, o di responsabilità, risalga a
questo o a quell’imperatore, abbiamo preferito sorvolarvi.

Ed invero, mentre nessuna fonte discorre di filosofi nominati
e stipendiati da Antonino Pio, dall’elenco dei retori, i quali
insegnarono in Atene, per tutta l’età degli Antonini, che si ricava
dalla _Biografie dei sofisti_ di Filostrato — opera tanto più
attendibile della _Historia Augusta_ — noi apprendiamo che il _primo_
insegnante, il quale, stipendiato dall’imperatore, abbia salito la
cattedra di retorica in Atene, fu il sofista Teodoto, nominato, non già
da Antonino Pio, ma dal suo successore, Marco Aurelio.[369]

Tale notizia contraddice categoricamente al passo della _Historia
Augusta_ dianzi citato. Se non che, quasi tale contraddizione non
bastasse, lo stesso Filostrato, altrove, informa che il primo a salire
la cattedra di retorica in Atene fu invece Lolliano di Efeso[370], il
quale fiorì sotto Antonino Pio — essendo stato scolaro di Iseo, sotto
Traiano,[371] e maestro di Teodoto — e raggiunse la pienezza della sua
gloria sotto Marco Aurelio[372].

Per uscire da questa e dalle precedenti difficoltà, si sono tentate
parecchie vie. Non si è certamente potuto supporre che, a proposito di
Lolliano, si parli di una cattedra privata, giacchè, in tal caso, non
lo si sarebbe detto «il primo maestro di retorica in Atene», ma si è
pensato che egli ricoprisse una cattedra ufficiale senza stipendio,
e che Marco Aurelio avesse per primo applicato in Atene delle
disposizioni, che Antonino Pio avrebbe emanate per tutte le provincie,
relative agli stipendi dei retori e dei filosofi[373].

La prima parte dell’ipotesi è per se stessa risibile: una cattedra
ufficiale senza stipendio è un non senso, e, in ogni modo, essa
contraddice all’introduzione dei _salaria_, vantata dal biografo
di Antonino Pio. Nè più valida è la seconda. O il provvedimento di
Antonino Pio fu tradotto parzialmente in pratica, e nessuna città
poteva essere da lui presa in considerazione prima di Atene, o non
lo fu, ed allora tanto la dizione della _Historia Augusta_, quanto il
passo di Filostrato contraddicono all’assunta interpretazione.

Eppure, è assai più difficile pensare che Filostrato, avendo
sott’occhio fonti abbastanza prossime agli avvenimenti illustrati,
abbia errato e si sia grossolanamente contradetto, anzichè ammettere
che noi ci sbagliamo nell’interpretare la sua compendiosa esposizione,
tanto più facilmente intelligibile ai suoi contemporanei. E, se
Filostrato non ha errato, la soluzione, o mi inganno, non può essere
che quella sola, la quale parmi risulti anche dal confronto dei suoi
due passi in discorso: il sofista Teodoto fu il primo ad ascendere
una cattedra ufficiale, _istituita e stipendiata dall’imperatore,
dietro nomina imperiale_; Lolliano, invece, fu il primo a salire una
cattedra, anch’essa ufficiale, ma non di fondazione imperiale, _bensì
di fondazione comunale_[374].

Così noi siamo in grado di conciliare i due passi di Filostrato fra
loro e con quello della _Historia Augusta_, interpretando da un lato
che fu solo Marco Aurelio il primo a istituire delle cattedre sovvenute
dallo Stato, e sulle quali più direttamente si esercitò l’ingerenza del
principe; dall’altro, che Antonino Pio impose a talune città il dovere,
o concesse la facoltà, di istituire un certo numero di cattedre e di
stipendiare all’uopo dei retori e dei filosofi, come ci dicono e la sua
biografia e la biografia di Lolliano in Filostrato.

Cotale imposizione di cattedre, in qualche municipio, era certamente
nelle normali attribuzioni dell’imperatore, ma spettava egualmente a
lui concedere ai municipii di istituirne delle altre. Come troveremo
più tardi chiaramente formulato per legge,[375] i comuni non erano
autorizzati a spese, che non fossero consentite dal governo centrale.
Siffatta impacciante tutela era per essi cominciata fin dal regno di
Traiano, e il suo sistema si affinò ancor più sotto Antonino Pio.
Quando per ciò gli storici lodano questo imperatore di avere, nei
rispetti della pubblica istruzione, praticato, per le provincie, gli
stessi criteri che per Roma e di avere conferito stipendi ai retori
ed ai filosofi colà residenti, essi fanno uno dei migliori elogi
dell’amministrazione provinciale di Antonino Pio, che per la prima
volta avrebbe iscritto, come spese obbligatorie, nei bilanci comunali,
quelle relative al mantenimento delle scuole.

Ma la nostra interpretazione ci conduce a risolvere un altro problema,
che il succinto e fugace accenno della _Historia Augusta_ poneva: i
_salaria_, istituiti fin da Antonino Pio, furono prelevati sul _fisco_
imperiale — come un tempo, sotto Vespasiano, lo stipendio ai retori di
Roma — o sul bilancio delle singole città?

Le due opinioni sono state ugualmente sostenute.[376] Ma ciascuna
di esse risponde soltanto a una parte della verità. I _salaria_
furono, attraverso la loro non breve istoria, prelevati ora sul
fisco imperiale, ora sull’erario delle singole città. Ma, nell’età
di Antonino Pio, non ci troviamo ancora di fronte a delle istituzioni
imperiali, onde, a sopportare il peso di quegli stipendii, dovettero
essere appunto gli erarii comunali. Tutt’al più, specie dato il grande
interessamento del principe per il benessere delle provincie e per la
cultura dell’impero, egli potè, con le risorse del fisco, sovvenire
talora i bilanci, esigui o stremati, dei singoli municipii.


XII.

Ciò che Vespasiano aveva appena iniziato, ciò, a cui taluno ha
creduto che Adriano e Antonino Pio avessero dato mano, in Roma e nelle
provincie, o in qualcuno dei centri più notevoli dell’impero, ha la sua
piena attuazione con Marco Aurelio.

Di lui narrano i suoi biografi com’egli ripetesse sovente il detto
di Platone che le città sarebbero state fiorenti solo quando avessero
regnato i filosofi, o quando i principi fossero stati filosofi[377].
Come tutte le anime profondamente intellettuali, egli nudrì infatti
una grande fiducia, e una più grande illusione, nella potenza della
ragione, nell’opera educativa della scienza, nell’efficacia pratica del
magistero dell’insegnamento. Questa sua fede è anzi tutto palese dal
culto, ch’egli ebbe per coloro, che l’avevano educato ed istruito. Egli
amò di un amore infinito il suo maestro Frontone, spirito mediocre,
moralmente e intellettualmente, e a lui, come segno tangibile di quel
ricordo, consacrò una statua nei locali del Senato. Elevò Procolo
alle supreme cariche del governo, e onorò di ricordi marmorei Giunio
Rustico, altro suo intimo, spirituale confidente. Di tutti Marco
Aurelio custodiva le immagini fra quelle dei suoi Penati, e a loro,
quando essi non furono più, offeriva voti e sacrifici.[378] Ma il più
durevole monumento, in loro onore, è consegnato nelle pagine dei suoi
_Pensieri_, ove egli scolpì nell’oro della prosa, moralmente più bella
di tutta l’antichità classica, le virtù e gl’insegnamenti, di cui essi
gli erano stati esempio e maestri[379].

Di un principe, che così fortemente sentiva la virtù dell’insegnamento,
dovevano attendersi grandi rinnovamenti nel campo della pubblica
istruzione. Nè l’aspettativa dei contemporanei rimase delusa.

Sino a Marco Aurelio, dall’età gloriosa di Atene, l’insegnamento
superiore era quivi rimasto cosa privata, in mano di privati scolarchi,
nel cui magistero lo Stato entrava solo per offrire il luogo di
convegno necessario alle lezioni. Ma nel 176, narra lo storico Dione
Cassio, Marco Aurelio, venuto in Atene, dopo essersi iniziato nei
Misteri Eleusinii, vi istituì cattedre ufficiali, con docenti pubblici
per ogni disciplina, retribuiti di regolare stipendio annuo[380].
La data è forse inesatta. Nel 176, Marco Aurelio aveva certamente
istituito, già da tempo, una cattedra di retorica, ed egli, venuto in
Atene, aveva potuto intrattenersi in dotte dispute col retore, che
allora l’occupava, e che non era il primo. La cronologia va dunque
spostata a qualche anno innanzi[381]. Ma non è neanche esattissimo
il riferimento di cattedre istituite _per ogni disciplina_ (ἐπὶ πάσης
λόγων παιδείας), di cui è fonte lo stesso Dione.

Noi sappiamo in verità di cattedre imperiali di retorica e di
filosofia, inaugurate in Atene da Marco Aurelio e continuate dai
successori. Ma nè di lui nè degli altri ci rimane menzione alcuna
di cattedre di grammatica, di medicina, di musica etc., quali noi
aspetteremo dalla dizione dello storico romano. Sebbene non sia sempre
prudente concludere da un argomento _ex silentio_, è tale, nel caso
presente, la copia delle circostanze favorevoli, e la natura delle
altre fonti sussidiarie, che noi possiamo essere sicuri che quelle due
soltanto furono le discipline, per cui Marco Aurelio ebbe ad istituire
in Atene delle cattedre imperiali.

La cattedra di retorica, istituita dall’imperatore, fu una sola, e
primo titolare, da lui direttamente nominato, fu il sofista Teodoto.
Ma ebbe questi l’incarico di insegnare tutta la materia, che vi si
atteneva, o non piuttosto una parte di essa, la materia pertinente
all’oratoria civile e giudiziaria, a quello, che si diceva il λόγος
πολιτικὸς e δικανικὸς?[382]

Questa seconda opinione, accolta dai più, è, secondo il mio modo di
vedere, l’effetto di un equivoco nell’interpretazione di Filostrato.
Filostrato, invero, dice che l’imperatore «propose ai giovani Teodoto
per la sua celebrità, dichiarandolo atleta τῶν πολιτικῶν λόγων», ma
lo dice anche «_decoro dell’arte retorica_»[383], e soggiunge che
Teodoto visse altri cinquanta anni, tenne la cattedra per due, e,
quanto all’arte del dire, riuscì pari così nel genere giudiziale
(τοῖς δικανικοῖς) come nel più alto genere sofistico (καὶ τοῖς
ὐπερσοφιστεύουσιν). Or bene, da questo — o io m’inganno — consegue
chiaramente che la cattedra, il θρόνος, occupato da Teodoto, non fu
soltanto un θρόνος λόγων πολιτικῶν, ma un θρόνος σοφιστικὸς nel più
largo senso della parola.

Ma la cattedra di retorica non fu la sola, nè la più importante
tra quelle istituite dal secondo degli Antonini. La vera, la grande
innovazione riguarda invece l’insegnamento della filosofia. Marco
Aurelio istituì parecchie cattedre di questa disciplina; quante con
precisione non è noto; ma la cifra più ragionevole è ancora quella
di otto,[384] due per ciascuno dei quattro principali indirizzi
filosofici del tempo, il peripatetico, il platonico l’epicureo, lo
stoico. Ed invero, poichè, per queste scuole soltanto, noi sappiamo
che furono nominati dei docenti ufficiali,[385] poichè sappiamo che
di peripatetici ve ne furono precisamente due,[386] non è possibile
pensare, come si è fatto, che Marco Aurelio avesse reso ai restanti
indirizzi filosofici (tra cui era anche lo stoico, quello al quale egli
stesso aveva consacrato la sua vita) meno onore che al peripatetico.
Se anzi una diversa illazione fosse da ricavare, essa sarebbe questa:
che le cattedre imperiali di filosofia, in Atene, potevano magari, per
qualche scuola, essere superiori a due, e, nella loro cifra totale,
superiori ad otto.

Era ben difficile che il regno di Marco Aurelio, quel suo governo,
che fu definito di filosofi, avesse una più tangibile espressione
della sua intima essenza. L’Università ateniese, così come egli ebbe
a concepirla, fu quasi interamente una facoltà filosofica. Secondo il
suo pensiero, i giovani dovevano essere anzitutto largamente istruiti
nelle discipline filosofiche; solo in via secondaria, nelle discipline
puramente letterarie; lo scopo professionale, poi, non doveva trovarvi,
come non vi trovava, quartiere.

Gli stipendi assegnati dall’imperatore furono, per la cattedra di
retorica, 10.000 dramme,[387] e 10.000 dramme ancora per ciascuna delle
varie cattedre di filosofia[388]. Indubbiamente, queste somme venivano
prelevate dal fisco imperiale, e di ciò, non solo ci avverte la natura
particolare dell’istituto, che è tutta una personale volontaria
creazione dell’imperatore, ma lo dichiarano eziandio le fonti da
noi conosciute, e in una maniera così esplicita da non dar luogo a
discussioni o a diversità d’interpretazione[389].


XIII.

La prima nomina dei docenti di retorica e di filosofia in Atene era
stata fatta dall’imperatore, o direttamente o per mezzo di persona di
sua fiducia, che, in quel caso speciale, fu il celebre sofista Erode
Attico, a cui appunto era stata delegata la scelta dei primi maestri
ufficiali di filosofia[390]. Ma subito dopo erano state redatte
delle norme definite, il primo regolamento per le prime ammissioni
nell’insegnamento superiore, la cui importanza è, fra l’altro,
notevole, per essere rimasto, nei secoli di poi, la pietra angolare
di tutti i giudizii del genere, e perchè i suoi criterii fondamentali
restano saldi ed immutati ancor oggi.

Di tutto questo ci informa un brillante dialogo di Luciano; ma nè
questo, nè altro ci specifica quale sia stato l’atto imperiale,
che quelle norme aveva fissate ed imposte. Era stato un editto, un
rescritto, una circolare (_mandatum_)? Di ciò non possediamo, pur
troppo, nessuna particolare indicazione, e sappiamo solo che, vivente
ancora Marco Aurelio, in seguito alla morte di uno dei due filosofi
peripatetici, erano già state iniziate le operazioni per la nomina del
successore, ed era stato bandito quello che precisamente si dice oggi
un concorso.

La commissione giudicatrice — informa Luciano — era composta «dei
migliori fra i personaggi più anziani e più sapienti di Atene».[391]
Si trattava dunque di tutti «_i migliori_» (nel senso classico della
parola)? O, in caso diverso, quali ne erano le limitazioni, e chi aveva
regolato, e regolava, la cernita?

È legittimo presumere che la lista degli ἄριστοι, i cittadini, cioè,
in quel tempo, in Atene, eleggibili alle pubbliche cariche, non
coincidesse perfettamente con l’elenco dei membri della commissione
giudicatrice, alla quale spettava il giudizio in merito al valore dei
concorrenti. Una cernita tra gli ἅριστοι ateniesi era probabilissima,
e la condizione dell’età e della capacità dei giudicanti (πρεσβύτατοι
καὶ σοφώτατοι) è proprio — o io mi inganno — nel passo di Luciano, il
criterio limitativo del numero degli ottimati. Ma, se questo imponeva
una riduzione, mi sembra ancor più probabile che il loro numero
venisse d’altra parte accresciuto con quello di tutti i competenti, che
risiedevano da tempo nella città (σοφώτατοι τῶν ὲν τῆ πόλει) e ch’erano
ormai considerati come degni e capaci di portare i loro lumi nel
giudizio[392].

La Commissione giudicatrice sarebbe stata dunque formata dei cittadini
più anziani dell’aristocrazia del censo e dell’intelligenza ateniese e
avrebbe compreso anche i pubblici e privati professori della città. Vi
era, fra quelli e questi, fra i cittadini non docenti e gli altri, una
diversità o un diverso grado di funzioni, diremo così, giudicatrici?

Un acuto storico delle scuole filosofiche ateniesi, lo Zumpt,[393] ha
pensato che i secondi non avessero che un voto meramente consultivo
perchè, in caso contrario, — egli ragiona — ci troveremmo dinnanzi
all’assurdo di filosofi, giudicanti candidati di scuole contrarie alla
loro.

Tale obbiezione è, in verità, infondata, prima di tutto perchè a
scuole contrarie potevano appartenere anche i σοφώτατοι non docenti; in
secondo, perchè tale appartenenza non mutava il valore del giudizio,
in quanto — come vedremo a momenti — nel concorso, non si trattava
di valutare il merito delle dottrine di una scuola in confronto di
quelle d’un’altra, ma solo il merito di ciascuno dei concorrenti di una
stessa scuola. Ma ciò che decide in modo assoluto è il testo medesimo
di Luciano. Per l’umorista greco, i δικαστα ψηφοφοροῦντες sono tutti
insieme οί ἅριστοι καὶ πρεσβύτατοι καὶ σοφώτατοι[394], e i diritti
dell’intero corpo giudicante non vengono menomamente graduati in due
ordini diversi.

Ma chi fissava, volta per volta, il numero e le persone? A chi spettava
il diritto della scelta? Chi presiedeva la commissione giudicatrice?
Neanche di tutto questo siamo direttamente informati. Ma, se la
scelta delle persone doveva dipendere da uno di questi tre enti, o il
governatore della provincia o l’Areopago o il Senato, dal primo, come
rappresentante l’imperatore, dagli altri, come delegati dal primo,
in grazia di una tradizione, che ne faceva i due corpi cittadini,
supremi sorveglianti della educazione e della istruzione pubblica
ateniese,[395] la presidenza della commissione giudicatrice di un
concorso, per ogni cattedra imperiale, non poteva spettare che al
governatore della provincia.

Passando ora dai giudici ai giudicandi, notiamo subito che la schiera
di questi soggiaceva ad assai minori limitazioni dei primi. Anzi non
ne conosceva che una sola: l’omogeneità delle dottrine con il filosofo
estinto da surrogare. Non limiti di età, non limiti di condizioni
sociali, neanche forse di sesso,[396] e neanche, per ora, requisiti
morali e fisici imprescindibili.[397] Tutto questo poteva essere un
elemento negativo o positivo, che entrava a pesare, favorevolmente
e sfavorevolmente, nel giudizio dei commissarii, non mai condizione
assoluta d’incapacità, d’indegnità, d’inammissibilità. E di tanta
liberalità è anche prova il comico caso, che dà materia al dialogo di
Luciano, la fonte precipua di queste nostre informazioni.

La prova pubblica del concorso consisteva in una discussione tra i
candidati, interrotta probabilmente da interrogazioni ed osservazioni
dei commissarii, nella quale ciascuno dimostrava la propria perizia
nelle dottrine di quella scuola, per cui si ricercava il titolare.[398]
Finita la prova, la Commissione discuteva, e alla discussione seguiva
il voto. Non doveva essere necessaria la unanimità, ma, qualora i
giudici si fossero trovati dinanzi a casi e a condizioni impreviste,
qualora i pareri fossero stati molto varii e divisi, o, insieme con
i due fondamentali dell’approvazione e della disapprovazione, altri
minori se ne fossero tenacemente manifestati, il giudizio veniva
sospeso e rimesso in definitiva all’imperatore.[399]

La esposizione del processo, che abbiamo tentato, è, nonostante le
inevitabili lacune, abbastanza completa. Solo ci rimane qualche lieve
dubbio. Anche in caso normale di giudizio compiuto e di proposte
concrete della Commissione, era riserbato all’imperatore un ulteriore
giudizio e piena libertà di scegliere e di deliberare, anche in senso
contrario alle designazioni della Commissione giudicatrice? Aveva,
oltre l’imperatore, anche la città dei diritti sulla nomina del
titolare a qualche determinata cattedra, fondata dal governo centrale?
Le norme, che finora abbiamo esposte, erano limitate ai filosofi, o si
adattavano, anche in quest’età, ai sofisti? E quali variazioni subivano
in tal caso? A queste domande, per quanto la tradizione taccia, noi
possiamo fornire risposte abbastanza sicure e definitive.

Il giudizio ultimo dell’imperatore è da ammettersi assolutamente.
In realtà, la Commissione non ha poteri, se non in quanto essa ne è,
volta per volta, investita. L’imperatore potrebbe anche farne a meno
(i successori di Marco Aurelio, anche i più costituzionali, faranno
talora così), e nulla impone il convincimento che Marco Aurelio, appena
agli inizii della pratica dei concorsi, dovesse rinunziare a cotale sua
prerogativa. Viceversa, per queste cattedre di fondazione imperiale,
noi ignoriamo assolutamente, e potremmo anzi escluderla, l’esistenza di
diritti speciali della città.

D’altra parte, le clausole fissate da Marco Aurelio, fermo restando
ogni privilegio dell’imperatore, devono potersi applicare anche ai
sofisti. Astrazion facendo dalla analogia con l’età immediatamente
successiva[400], ce lo suggerisce la verisimiglianza intrinseca della
cosa. Perchè un concorso per i filosofi e non anche per i sofisti?
Come avrebbe altrimenti l’imperatore potuto giudicare e scegliere,
ove le domande fossero venute anche da concorrenti stranieri, di pari
grido e valore, o magari da ateniesi a lui ignoti? Per i sofisti però,
stante la diversa natura dell’insegnamento, non doveva trattarsi di
una discussione fra i candidati, ma di una o più prove oratorie su temi
determinati da svolgere, estemporaneamente o in seguito a preparazione,
esperimento questo, per cui gli ἄριστοι πρεσβύτατοι σοφώτατοι ateniesi
erano allora, a dir vero, più competenti che non a giudicare di
dibattiti filosofici[401].


XIV.

Tutto questo, e cioè l’istituzione di cattedre imperiali, la
regolarizzazione delle nomine dei docenti, fu fatto solo in Atene, o
fu da Marco Aurelio ripetuto in altre città, già fiorenti e gloriose
per studii, tanto quanto la capitale della Grecia? Ad onta della
verisimiglianza di questa seconda ipotesi, a noi non è rimasta la
menoma menzione di un tal fatto. Ciò che di certo sappiamo si è che,
parallelamente alla gloria della scuola ateniese, s’accresce in questo
tempo il prestigio e l’importanza dell’_Athenaeum_ romano. Esso è ormai
il luogo, dove impartiscono regolarmente lezioni i docenti di Roma e,
con uguale frequenza, docenti venuti, talora chiamati, dall’estero,
specie dalla Grecia, i quali ultimi non si può perciò dubitare che
godessero ormai di uno stipendio fisso da parte dell’imperatore.

Dobbiamo quindi supporre, anche nell’_Athenaeum_, una costellazione
di cattedre ufficiali. Quante per adesso, e con quali stipendii,
l’ignoriamo. Certo, quelle cattedre, almeno per la retorica, sono
considerate come superiori alle corrispondenti ateniesi, e, dei
migliori insegnanti, che di là, o d’altrove, sono chiamati a coprirle,
si dice appunto che si recano a occupare una cattedra «_superiore_»
(ὁ ἄνω θρόνος). Non sappiamo però se anche per Roma occorresse alle
varie nomine un concorso, o se queste della capitale dell’impero
dipendessero, per ora almeno, direttamente dall’imperatore.
Nell’assoluta mancanza di dati, ogni soluzione sicura è impossibile.
Forse però, non soltanto il luogo di residenza dell’istituto, che
si trovava sotto la diretta sorveglianza del principe e dei suoi
ministri, ma anche il fatto che quelle cattedre venivano occupate da
insegnanti già sperimentati in concorsi, e, per lo più, già provetti
nell’insegnamento ufficiale, rende maggiormente probabile l’ipotesi di
una diretta e immediata nomina dell’imperatore.

Grande dunque è stata la via percorsa fin da Vespasiano, e dallo stesso
Adriano, a Marco Aurelio. Da uno o più stipendi largiti in Roma a
determinate persone, i due principali centri di cultura dell’impero
possono ora vantare cattedre d’istituzione imperiale o municipale,
insegnanti di retorica, di filosofia, di giurisprudenza, forse di
grammatica. Abbiamo, in Atene e in Roma, tutta una serie ufficiale
di cattedre, anzi, in Atene, una vera e propria facoltà filosofica,
e nell’una, se non nell’altra città, un apposito istituto per il
libero insegnamento, superiore o medio-superiore. Possiamo con questo
dire di trovarci dinnanzi al fatto compiuto di una statizzazione
dell’istruzione pubblica? Nulla di più errato di tale affermazione.
Dall’insegnamento ufficiale sfuggono interamente e l’insegnamento
medio inferiore e il primario. Lo stesso insegnamento superiore e
il medio-superiore contano un numero esiguo di cattedre ufficiali,
rispetto all’abbondanza degl’insegnanti e delle cattedre private[402].
Mentre oggi, nel nostro paese, le Università libere e le così dette
Università popolari rappresentano l’eccezione, queste, nell’età di
Marco Aurelio, sono ancora la regola. Solo l’imperatore, scegliendo
dalla grande folla, ha assegnato dei docenti di più scrupolosa elezione
e godenti la sua fiducia, a una serie di cattedre, le quali recavano
seco la stabilità, che proveniva dalla loro natura e dalla loro
origine.

Ma, a rigore di termini, non si può neanche, per ora, parlare di
Università, e neanche, forse, di vere Facoltà universitarie. Cotali
nostri istituti presuppongono necessariamente un piano didattico e
amministrativo, che presieda al loro funzionamento, un insegnamento
integrale ed organico, un vincolo collegiale. Nulla di tutto questo
troviamo, almeno per adesso, in Atene od in Roma. Ci sono cattedre,
ci sono insegnanti; manca la scuola; o, se scuola c’è, la determina
la tradizionale, non l’ordinamento imperiale. Nessun rapporto lega
fra loro i maestri, nessun obbligo gli scolari. La scuola pubblica,
in quanto organicamente costituita, non esiste, e la sua impronta
ufficiale si farà attendere ancora per oltre un secolo.


XV.

Questo per l’insegnamento superiore e medio superiore. Meno liete
rimanevano ancora le condizioni dell’insegnamento primario. Ma, se
l’impero non vi imprime ora, come non vi imprimerà mai, alcun suggello
ufficiale, se anzi avrà quasi cura di tenerlo lontano da ogni contatto
di ufficialità, gli Antonini proseguono a favorirlo indirettamente,
calcando le tracce dei due immediati predecessori in quella parte della
loro amministrazione, che riguardò le fondazioni alimentari.

Sotto Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio, quest’istituto riceve
un assai notevole incremento.[403] Si fondano speciali corporazioni
di fanciulli beneficati,[404] se ne avvantaggiano numerosi municipii
italici, se ne regola con maggiore studio il funzionamento e si creano
all’uopo speciali magistrati[405].

Troviamo così fondazioni alimentari in Liguria, in Lombardia, nel
Veneto, nel Piceno, nell’Umbria, nel Lazio, nei Bruzii, in Lucania, in
Apulia, nel Sannio, in Campania e altrove. Adriano assegna l’ufficio di
_praefectus alimentorum_ ai _curatores viarum Italiae_, dando così a
vedere che di _pueri alimentarii_ ve n’era per tutte le regioni della
penisola. Marco Aurelio nomina dei _praefecti alimentorum_ di rango
consolare e dei _procuratores ad alimenta_, risedenti in Roma, creando
così un’amministrazione centrale per quel ramo[406], mentre, sin dal
suo regno, altri _procuratores_ appaiono come funzionari subordinati
e coadiutori dei prefetti distrettuali[407]. L’esempio, che veniva
così copioso e così efficace dall’alto, è ora più che mai fecondo
di benefiche conseguenze. Di quest’età noi abbiamo tracce di vistose
fondazioni private in Grecia[408] in Spagna,[409] in Africa[410]. E il
buon volere riceve un grande impulso dalle nuove garanzie e dalle nuove
disposizioni, relative all’amministrazione dei municipii, che tendono
altresì a salvaguardarne gli interessi e ad assicurare loro i beneficii
dei doni e dei lasciti per istituzioni alimentari fatti da ricchi
cittadini.[411]

Ma quanto grande sia la importanza e il peso di cotali norme
legislative, nei rispetti dell’istruzione primaria, lo prova ancor
più il fatto che i lasciti dei ricchi privati, non soltanto andavano
a favorirne la diffusione, indirettamente, per mezzo delle istituzioni
alimentari, ma più volte vi concorrevano direttamente col mantenimento
di scuole municipali primarie e secondarie. Talora essi sono
indirizzati, come è detto, a vantaggio della istruzione dei fanciulli
(_eruditione puerorum_)[412]. Ed anche questi lasciti, con siffatta
speciale destinazione, ricevono fin d’ora, e solo da questo momento, il
beneficio della sicurezza e della tutela dello Stato.


XVI.

In questo periodo, in cui così forti sono gli scambi spirituali col
mondo greco, in cui noi vediamo, in assai maggior misura che nei
secoli trascorsi, trapiantati in Roma metodi e istituti di istruzione
ellenica, in questa, che è l’età di Adriano e di Marco Aurelio, noi
non possiamo non aspettarci — quello che realmente si ebbe — un più
vigoroso incremento dell’istruzione musicale. Il II. secolo di C. è
veramente l’età più gloriosa della musica romana. Le compagnie liriche
e drammatiche — i così detti _sinodi dionisiaci_ — raggiungono ora il
culmine della gloria e della considerazione universale. Le epigrafi
esibiscono, in questa età la maggior copia di agoni, di giuochi e di
premii. I concorsi Pitici ed Olimpici divengono universali; ogni città
di mediocre importanza ha i suoi; ne sorgono di nuovi, si fregiano dei
nomi degli imperatori o dei loro favoriti: _Traiani, Adriani, Antinoi._
La mania universale invade anche i privati, che dispensano alle città
grandi somme per giuochi in proprio onore.[413] Si dispiega alla luce
della storia tutta una ricca, inaudita fioritura di studii musicali,
e questi sono gli anni, che tramandano la maggiore, e la miglior parte
dei trattati teorici di musica dell’evo antico[414].

Ma dal giorno, in cui gli autori lirici, o drammatici, avevano cessato
di essere anche autori della musica, che accompagnava le loro opere,
lo sviluppo di quest’arte, ormai indipendente da ogni altra, era stato
rapidissimo.[415] Era quindi divenuto urgente e difficile il problema
di un’istruzione musicale, che valesse a creare dei virtuosi, che
avrebbero poi dato prova di sè, avanti al gran pubblico, ed in ampie
rappresentazioni.

A risolverlo, avevano, fin dall’età alessandrina, cercato di provvedere
i su riferiti sinodi dionisiaci, divenendo ogni giorno più scuole
pratiche, sia pure ametodiche, di musica e di recitazione[416]. Uno
dei più famosi fu allora quello numerosissimo di Teo, che, ai primi
dell’età imperiale romana, trasporterà la sua sede in Lebedo[417]. E
non senza rapporti fra loro debbono essere state la presenza del sinodo
in quel paese e l’accurata istruzione musicale, che troviamo impartita
ai fanciulli ed agli efebi del luogo. Noi conosciamo ciò che oggi si
direbbe il programma di questa educazione. Si insegnava ai fanciulli e
ai giovani a suonare gli istrumenti musicali, salvo (strana eccezione!)
gli istrumenti ad aria; si insegnava il canto, la composizione musicale
e l’arte della recitazione. E, insieme con questo, si impartivano loro
nozioni di coltura generale, di letteratura, di pittura etc.[418].

Questo di Teo non restò l’unico sodalizio del genere[419].
Or bene, gl’imperatori cosidetti senatorii, che furono grandi
fautori e suscitatori di celebri compagnie drammatiche,[420] erano
implicitamente, e necessariamente, portati a essere promotori, e
protettori, delle scuole professionali di musica, che in quelli si
venivano, o si erano venute, nel progresso dei tempi, formando.

Ma il culto della persona degli Augusti, che in questo periodo
si diffonde per tutto l’impero e che così largamente è provocato
dall’azione individuale degli imperatori, suscita al tempo stesso
una vasta fioritura di speciali collegi di artisti lirici, che, più
naturalmente e direttamente dei sinodi dionisiaci, ricordano le antiche
corporazioni degli aedi vaganti, e d’insegnamenti musicali prodigati a
giovani ed a fanciulli. Ne abbiamo in Asia minore, a Smirne, a Pergamo,
ad Efeso, in Tracia, in Roma,[421] con appositi maestri di musica,
di canto, di danza, cose tutte che dovevano certamente a loro volta
sollecitare un incremento grande della istruzione musicale, diretta
a scopi meramente professionali. E non si può quindi fare a meno di
pensare che la larga messe dei teorici studi di musica di questo e del
secolo successivo fiorisse da un terreno regolarmente apparecchiato,
nella cui preparazione l’opera e la politica degli imperatori avevano
avuto non piccola parte.


XVII.

Ma della istruzione musicale, promossa, non già per iscopi
professionali, sibbene quale elemento necessario di cultura generale,
segno preciso è ora la rigogliosa fioritura dei _collegia iuvenum_,
che, fin da Traiano dopo aver popolato tutta l’Italia, penetrano
anche nella vicina Gallia,[422] e il cui sviluppo, per quanto possa
magari ritenersi di autonoma origine municipale, pure non avrebbe mai
raggiunto tanto rigoglio senza il favore del governo.

Parecchi monumenti artistici e numismatici del tempo[423] ci mettono
sott’occhio _iuvenes_ e _ludi iuveniles_; Antonino Pio inaugura dei
periodici _ludi decennales_,[424] e tutto l’ingranaggio dinastico degli
Antonini richiama l’ordinamento Augusteo della gioventù equestre nei
suoi rapporti con la famiglia imperiale[425].

Ma questa età, così feconda in provvedimenti, che, direttamente o
indirettamente, influirono sui vari rami dell’istruzione pubblica, vide
compiersi un che di più nuovo, di più significativo e di più singolare.
Fu dessa l’età, in cui, nella nuova estrema rinascenza dell’arte
antica, trovò posto, fra gl’ingranaggi dell’amministrazione imperiale,
qualcosa che oggi corrisponderebbe a una sovrintendenza generale delle
belle arti.

La cura delle _opera pubblica_, si era, fino a questo tempo, tradotta
in un insieme di funzioni indistinte, sia che riguardassero costruzioni
e lavori pubblici, non escluse le _aedes sacrae_, sia che riguardassero
antichità e belle arti. Ora essa comincia per la prima volta a
differenziarsi nei suoi varii elementi. Due epigrafi del regno di
Antonino Pio parlano esplicitamente, l’una, di un _procurator Augusti
a pinacothecis_[426], l’altra, di un _procurator moniment[or]um terra
(?) imaginum_[427]. I due _procuratori_ avevano alle loro dipendenze
un personale subalterno, degli _adiutores_ destinati a coadiuvarli
nell’ufficio,[428] forse anche appositi operai e laboratori per la
costruzione, la riattazione, la riproduzione delle opere d’arte poste
sotto la loro sorveglianza[429]. Su che cosa invero il _procurator a
pinacothecis_ e il procurator _monimentorum terra imaginum_ dovessero
esercitare il loro ufficio, a me par chiaro. Per certo, sulle opere
architettoniche, le statue, le pitture, collocate nei palazzi imperiali
od esposte in luoghi pubblici, al cui riguardo quelli dovevano avere
buona parte delle attribuzioni, che ora, presso di noi, possiede, ad
esempio, la direzione generale delle belle arti. Essi venivano così,
come dicemmo, a gerire la sovrintendenza generale delle pubbliche
gallerie, dei musei, delle opere di plastica o di pittura, contenute
nei templi ed altrove, dei monumenti artistici, in una parola, della
capitale del mondo; e, probabilissimamente, non solo in quello che
riguardava la loro custodia, la loro collocazione, o la relativa
conservazione, ma eziandio in tutto ciò che riguardava la ricerca,
l’acquisto, la riproduzione delle opere d’arte.

Ma le sollecitudini di Antonino Pio non si limitarono alla capitale
dell’impero. In quella copia di disposizioni, che l’imperatore emise
per concorrere all’incremento della vita municipale, noi ne troviamo
talune, che riguardano precisamente le opere d’arte in Italia e nelle
provincie. Gli abitanti dei municipii solevano spesso legare o donare
per fidecommisso dei fondi destinati a lavori d’arte (_statuas vel
imagines ponendas_). Ebbene, Antonino Pio stabilisce delle norme assai
severe, perchè il malvolere degli eredi non venga a defraudarne le
città: «Se il testatore non ha fissato il giorno per la consegna delle
statue e delle _imagines_ lasciate in eredità, il governatore della
provincia ne fisserà uno, e, se gli eredi non soddisferanno al loro
obbligo, pagheranno, per i primi sei mesi, un interesse inferiore al
6%. Se invece il testatore ha fissato il giorno della consegna, gli
eredi dovranno soddisfare puntualmente al loro obbligo, e, se essi
pretendono di non trovare le statue, o fanno difficoltà per il loro
collocamento, dovranno pagare subito gli interessi del 6%»[430].

Spesso i privati s’impegnavano di concorrere, a profitto dello Stato o
di una città, alla manutenzione e all’abbellimento di opere esistenti.
Antonino Pio prescrive: «Se una città ha monumenti artistici in copia,
ma denaro non sufficiente alla loro manutenzione, i fondi lasciati in
eredità per opere nuove debbono impiegarsi alla manutenzione di quelle
esistenti»[431].

Così la sorveglianza imperiale sulle opere d’arte si estende, da
Roma, all’Italia; dall’Italia, alle provincie, e si costituisce la
prima molecola di organismi, che tanto maggiore sviluppo assumeranno
negli Stati più civili del mondo moderno. Così, ancora una volta, i
nostri migliori istituti, in fatto di pubblica istruzione, tornano a
collegarsi alla politica degli ottimi fra gli imperatori romani del I.
e del II. secolo.

Da questa stessa età, e precisamente del governo di Antonino Pio, ha
origine anche una complicazione nel servizio delle biblioteche.

Fin ora, a capo di queste, noi conoscevamo solo il _procurator
bibliothecarum_, o _procurator Augusti a bibliothecis_, funzionario
della seconda o della terza classe dei procuratori[432]. Adesso
cominciamo a conoscere anche un _procurator bibliothecarum
sexagenarius_[433], funzionario di quarta classe, stipendiato cioè
con soli 60,000 sesterzi (L. 15,000) annui, ch’è un impiegato
inferiore[434], probabilmente addetto soltanto alla parte
amministrativa dei singoli istituti[435].

Possiamo ora giudicare tutto il valore dell’opera degli Augusti, che
tennero l’impero da Nerva a Marco Aurelio, in fatto d’istruzione
pubblica. Esso può dirsi semplicemente inestimabile. Se l’impero
romano non avesse avuto quei principi, le successive vicende politiche
avrebbero ritardato di oltre un secolo quelle forme, che l’istruzione
pubblica andò con loro assumendo. Ma essi non si limitarono a creare
gli organi materialmente adatti; essi posero eziandio le condizioni
necessarie per il lavoro dell’intelligenza; essi, con le loro opere
e le loro iniziative, diffusero dappertutto l’amore della cultura e
la cultura stessa. «L’impero è tutto pieno di scuole e di discenti»,
esclamano insieme il retore greco Aristide e il poeta romano
Giovenale[436]. La letteratura, la filosofia, la scienza, cessano di
essere proprietà riservate di cenacoli e di spiriti colti, e divengono
popolari. La coltura non è la più profonda, ma è la più universale;
l’attività dello spirito, non la più ferace, ma la più diffusa; la
scienza, non la più pura, ma la più popolare[437]. Assai di rado, nella
storia del mondo, ricorse l’esistenza di una società così appassionata
di tutte le manifestazioni dell’intelligenza. Questo per certo non
si deve esclusivamente all’opera del governo; ma ben di rado un
governo interpretò, con altrettanta fedeltà, le condizioni del secolo
che passava, e tutti i mezzi, di cui disponeva, tutte le condizioni
favorevoli offerse alla soddisfazione dei vari bisogni intellettuali,
o quei bisogni suscitò dove e quando essi sonnecchiavano latenti o
inconsapevoli.




CAPITOLO IV.

Lo Stato e l’istruzione pubblica da Commodo all’abdicazione di
Diocleziano.

(180-305)

  I. La cultura e l’istruzione pubblica in questo periodo. —
  II. Il nuovo carattere militare dei _collegia iuvenum_ sotto i
  Severi. — III. La nuova legislazione a tutela dei maestri e degli
  studenti. Il governo centrale e l’istruzione pubblica nei comuni.
  — IV. Le nuove istituzioni scolastiche di Alessandro Severo. —
  V. La decadenza delle istituzioni alimentari nel III. secolo. La
  politica del governo e l’istruzione pubblica da Alessandro Severo
  a Diocleziano. La imposta municipalizzazione delle scuole di
  Antiochia. — VI. Diocleziano e l’insegnamento del diritto. L’editto
  _de pretiis rerum venalium_ e gli onorari degli insegnanti. —
  VII. La soppressione delle cattedre di astrologia. La distruzione
  delle biblioteche cristiane. — VIII. Costanzo Cloro e l’istruzione
  pubblica nelle Gallie. Le Gallie nel III. e nel IV. secolo. La
  nomina del retore Eumenio in Augustodunum.


I.

Fu veramente il III. secolo, come suole di consueto giudicarsi, un
periodo di regresso per la coltura nelle varie provincie dell’impero?

Per chi guardi senza preconcetti la storia della civiltà dei popoli,
che componevano l’impero romano, codesta domanda deve avere una
risposta negativa. Con la serie degli imperatori senatorii, non muore
la virtù spirituale del mondo romano; muore soltanto una sua fase
contingente, quella della cultura esclusivamente greco-romana. D’ora
innanzi le varie provincie assumono coscienza del proprio genio civile,
e questo s’impone, e riesce a farsi valere, nella vita ufficiale dello
Stato. Antiche forme di pensiero e di espressione, con cui usavamo
identificare la civiltà romana si esauriscono; se ne disegnano altre,
nuove, inattese, cui sarà riserbata la conquista dell’avvenire.[438] E
tutto ciò si opera, non solo a dispetto delle contingenze politiche del
secolo, ma in parte con il loro ausilio. L’avvento al trono delle nuove
dinastie di principi africani ed orientali può ben contrariare la lunga
serie dei _laudatores temporis acti_, ma queste hanno, nella storia
della civiltà dell’impero romano, anzi nella storia della civiltà
umana, un peso e un merito non minore di quelle dei principi, che le
avevano preceduto.

Ed invero, limitandoci, come è nostro compito, ai rapporti del governo
con l’istruzione pubblica, dobbiamo notare anzitutto che nessuno degli
elementi di progresso, tramandatici dal passato, viene ora meno o cade
in dimenticanza.

L’insegnamento pubblico in Roma e in Atene permane, sì che Dione
Cassio, discorrendone verso il 229, non ha bisogno (come sarebbe
certamente avvenuto nel caso contrario) di deplorarne la fine o la
decadenza; anzi esso riscuote sollecitudini non minori del passato, e
noi conosciamo dei sofisti, che sono al tempo stesso docenti imperiali
nell’una o nell’altra città, e possiamo anzi rilevare, la diretta,
talora eccessiva e personale, ingerenza dei principi nel fatto della
loro scelta[439]. La protezione, gli onori e le agevolezze ai pubblici
e privati insegnanti, di cui, fra l’altro, sono segno le così dette
immunità, vengono prodigati con larghezza pari a quella degli anni
trascorsi,[440] e, come altrove accennammo, noi conosciamo una delle
fondamentali leggi di Adriano in proposito, solo in grazia di una
_costituzione_ di Commodo, che la riproduce[441]. L’impulso, dato
dagl’imperatori del II. secolo alla coltura musicale, prosegue con
l’antico vigore. Caracalla tiene a continuare il mecenatismo degli
Antonini verso le compagnie drammatiche[442]; Commodo istituisce nuovi
concorsi musicali,[443] e i privati gareggiano nell’assecondare le
iniziative, che vengono dall’alto[444]. La coltura giuridica acquista
ancora nuovo incremento, dopo la nuova riforma, che, fin da Commodo,
si opera del _concilium principis_, i cui membri della sezione
permanente si trasformano in funzionarii stipendiati,[445] e dopo
la instaurazione, da parte di Diocleziano, di nuovi vasti congegni
burocratici. Commodo stesso[446] e Gordiano I. — quest’ultimo anche
innanzi la sua assunzione all’impero[447] — rinnovano i _iuvenalia_ di
Nerone e di Domiziano, il che equivale a proseguire, intensificandola,
quella forma di educazione e di istruzione della gioventù, per cui i
primi imperatori romani vanno benemeriti. L’amore e la consuetudine
della educazione fisica si diffondono nelle province, che più n’erano
rimaste estranee, e i privati vi prodigano tutto il favore, che da loro
poteva attendersi[448]. Persino la filosofia continua a ritrovare, sul
trono, dei Mecenati. Plotino vanterà, fra le sue più illustri amicizie,
quella dell’imperatore Gallieno, che, se non fosse stata l’avversione
di qualche cortigiano, avrebbero dato vita all’eterno sogno platonico
di una città di filosofi, da edificare in Campania, ove maestri e
discepoli avrebbero potuto vivere insieme, e dove ad altre leggi
non si sarebbe obbedito fuor che a quelle emanate dal Divino Maestro
ateniese[449].

Talora, a tratti, tanta prosecuzione di iniziative è interrotta dalla
stranezza di qualcuno dei bizzarri imperatori, di cui il secolo
III. di Cristo non andò privo. Così Caracalla, un giorno, per un
suo fatto personale con gli alessandrini, e in modo speciale con gli
aristotelici, brucia i libri di Aristotele e sopprime a quei filosofi
tutti i beneficii del Museo di Alessandria, di cui essi godevano[450].
Così egli stesso, un altro giorno, ferito dalla incapacità oratoria
di un retore ateniese, priva senz’altro, delle immunità da lustri
godute, lui e tutti i retori dell’impero[451]. Ma come tale divieto
veniva, dal suo stesso autore, poco dopo, revocato, così questo ed
altri atti consimili rimangono opera personale — tosto cancellata — di
singoli imperatori. La politica generale dei principi del III. secolo,
nei rispetti dell’istruzione pubblica, è invece tutta sulla grande
via maestra dei loro predecessori immediati, la cui opera, spesso, o
rimaneggiano secondo vedute proprie, o completano e perfezionano con
istituti, che sono nuove creazioni.

Gli imperatori, sotto i cui nomi possiamo riassumerla sono tre, due
della dinastia dei Severi, Settimio ed Alessandro, e il vero fondatore
della monarchia assoluta nell’impero romano, Diocleziano, così come la
loro attività può compendiarsi:

1. nei nuovi ritocchi all’indirizzo dei _collegia iuvenum_ e, quindi,
della educazione giovanile;

2. nella varia opera legislativa a tutela dei docenti;

3. nell’istituzione di nuove cattedre e nella largizione di nuovi
ausilii all’istruzione pubblica.


II.

Cominciamo dall’illustrare il primo punto.

Sotto i Severi, l’educazione fisica dei giovani e la natura dei
_collegia iuvenum_ subiscono un ricorso verso l’originario indirizzo
augusteo, o, piuttosto, una intensificazione della parte propriamente
militare dei loro vari caratteri, riforma questa, che era invocata
a gran voce dalle nuove sorti dell’impero e dalla politica della
casa regnante. I giuochi militari, che Settimio Severo dava nella
ricorrenza del natalizio di Geta,[452] non possono certamente, come
talora è stato creduto, considerarsi quale segno del nuovo allenamento
militare della gioventù. Essi non riguardavano la gioventù romana,
ma soltanto i soldati. Se non che quella singolare celebrazione
natalizia fa presupporre tutta una serie nuova di consuetudini di
governo e fa pensare a nuove istituzioni, tendenti a identico scopo,
o alla trasformazione in questo senso di antichi istituti. Infatti,
l’altro figlio di Severo, Caracalla, aveva, come pochi principi
ereditari, ricevuto una perfetta istruzione ginnico-militare[453].
E, poichè, nella qualità di erede al trono, i rapporti suoi con
l’aristocrazia equestre romana sono, come sempre, durante i primi tre
secoli dell’impero, intimissimi; e poichè egli, come, del resto, anche
l’infelice fratello suo, fu _princeps iuventutis_[454], la gioventù
equestre romana non potè esimersi dal seguirne le tendenze e i metodi
di educazione.

Ma, se questo accadeva in Roma, un più chiaro indizio della riforma
accennata dànno i collegi giovanili provinciali. Essi, in questo tempo,
si tramutano in vere e proprie milizie del territorio[455], entrano a
far parte degli eserciti locali in piede di guerra, e di essi pigliano
tutti i costumi e tutti i caratteri.


III.

Ma la prima metà del III. secolo, da Settimio ad Alessandro Severo,
è tanto ricca di operosità militare, come di operosità giuridica.
Da questo tempo provengono gli scritti degli autori più famosi, che
fornirono materia al _Digesto_ giustinianeo, Ulpiano, Paolo, Modestino,
i quali tutti avevano occupato a corte uffici notevoli. In questo
periodo, quindi, noi abbiamo una più completa elaborazione delle norme
precedenti, relative alle immunità, e l’emanazione di norme nuove
su questa materia e su altre affini, concernenti gli insegnanti e
l’insegnamento nell’impero romano.

Secondo infatti c’informa il giureconsulto Modestino, nella prima metà
del III. secolo, la serie delle immunità, concesse dai Giulio-Claudii,
e le limitazioni numeriche, fissate da Antonino Pio, che sono ancora
pienamente in vigore,[456] vengono, dal governo dei Severi, integrate
con ulteriori disposizioni, che saranno più tardi ribadite da
Diocleziano e dal suo collega. Viene così stabilito che non si poteva
godere della immunità nei varii municipii, se non dietro decreto del
Senato, il quale anche (e questo criterio morale è veramente nuovo)
avrebbe indagato se il docente adempieva o no con diligenza al proprio
ufficio[457].

Ma l’importanza di questo ritocco è certamente inferiore a quella
di qualche altra disposizione, che troviamo in vigore sin da questo
tempo. I retori, che professano in Roma l’insegnamento, sia stipendiati
pubblicamente, sia liberi professionisti, sono, da Settimio Severo e
da Caracalla, esentati da ogni onere, anche se non romani; Roma anzi
non soggiace più alle limitazioni numeriche fissate dal primo degli
Antonini[458]. Era questa una vera e propria eccezione alle norme
di Antonino Pio, che legavano strettamente l’utile dell’immunità al
corrispettivo servizio, che il retore forniva alla propria patria, ed
un notevole ampliamento della eccezione ai dotti più cospicui, che
Antonino stesso aveva formulata. La ragione pratica della cosa deve
ricercarsi in una liberalità speciale, che l’imperatore intendeva
largire ai suoi sudditi nella capitale del mondo, ove tanti retori si
affollavano, ove si poteva non guardare per il sottile alle necessità
dell’erario, ove i postulanti avevano più diretta possibilità di
sollecitare l’imperatore. La ragione teorica è indicata da Modestino
stesso: Roma è la patria comune dei sudditi dell’impero, e chi vi
fornisce degli utili acquista diritti pari a chi li rende alla patria
propria.[459]

Analogamente, chi insegna in Roma diritto civile, è ora esente da ogni
onere, mentre non lo è invece chi insegna in provincia[460]; la quale
disposizione, oltre a riuscire di giovamento ai giureconsulti, doveva
più specialmente tendere a richiamare in Roma i migliori maestri di
diritto dell’impero e a mettervi l’insegnamento della giurisprudenza in
una condizione assoluta di favore.

Viceversa, ora, per la prima volta, vengono apportate delle limitazioni
alla sconfinata immunità serbata ai filosofi, al confronto dei
medici e dei professori di arti liberali. Nel III. secolo, infatti,
i filosofi sono dichiarati immuni dal carico delle tutele e da ogni
onere personale, ma non più dagli oneri, che avrebbero gravato sulle
loro sostanze. «Infatti», spiega, o ripete, un giureconsulto di questa
età, «i veri filosofi disprezzano il danaro, e, qualora mostrassero di
tenervi, dimostrerebbero eziandio che le loro affermazioni teoriche non
sono che vuota ipocrisia»[461].

Le immunità ai maestri vengono ora estese — fatto assai significativo
— anche agli studenti, e, nell’età dei Severi, sono privilegiati gli
studenti, venuti in Roma a frequentarvi i corsi di giurisprudenza,[462]
il che ribadisce l’interpretazione, che testè demmo delle ragioni
dell’analoga liberalità ai loro maestri.

Insieme con tutto questo è, ai maestri, riconosciuto diritto a ricorso
contro i compensi mancati, che a loro si dovessero per prestazione di
opera; anzi codesto diritto a ricorrere è formulato come un privilegio
ammesso soltanto per talune categorie di maestri e per pochi altri
professionisti. Autorità competente all’uopo è fatto il governatore
della provincia[463]. I maestri, che possono esperirne il tribunale,
sono quelli delle arti liberali: i retori, i grammatici, i matematici
(_geometrae_) e con essi i medici. Ne sono invece esclusi gli
insegnanti di filosofia e quelli di diritto; gli uni, perchè il primo
merito della loro opera è — si dice — l’esercizio gratuito; gli altri,
perchè — si soggiunge — la controversia e i calcoli di un pubblico
giudizio ne degraderebbero il ministero.[464] Agli insegnanti primarii
poi, sebbene — si osserva — non _professori_, pure, in ossequio alla
consuetudine, è fatta ugualmente grazia del diritto di ricorso, per
mancato compenso, al governatore della provincia. E analoga concessione
si ripete per due categorie di maestri, il cui insegnamento aveva uno
scopo specialmente professionale, i maestri di calligrafia (_librarii_)
e quelli di stenografia (_notarii_)[465].

Con questa serie di norme, che completano e regolano la materia delle
immunità e quello che oggi si direbbe il contratto di impiego o di
lavoro dei maestri, altre, pure di questo periodo, segnano le prime
tracce di una diretta ingerenza del governo nel funzionamento delle
scuole municipali.

Anzi tutto, nel nuovo sistema di intervento dell’autorità imperiale
per entro l’amministrazione finanziaria dei comuni, che datava dai
primi anni del II. secolo, era stato stabilito, come norma generale,
che i loro Consigli non potessero disporre a piacimento delle
pubbliche finanze. Or bene, adesso, è, a questo, fatta una esplicita
e nobile eccezione, ed essa riguarda gli stipendi dei maestri e le
cattedre delle discipline liberali[466]. In secondo, un rescritto di
uno dei tre Gordiani informa che i consigli municipali, che avevano
nominato i maestri del luogo, grammatici o retorici, sono, in caso
di legittimi motivi, investiti anche della facoltà di sospenderli o,
semplicemente, di revocarli dall’ufficio[467]. Per ultimo, al pari
dei privati, i comuni, che non corrispondono ai maestri gli stipendi
dovuti, sono giudiziariamente tenuti a rispondere del loro fallo
dinnanzi al governatore provinciale[468]. Più tardi, vedremo che il
governo centrale, per mezzo dell’autorità provinciale, si curerà di
richiamare in anticipazione al proprio dovere i municipi cronicamente
insolventi[469], ma ora — gli è evidente — abbiamo un primo accenno
verso cotesto metodo, che, se non previene, mira certamente a
reprimere, quando fosse occorso, la loro noncuranza o il loro mal
volere.


IV.

Ma gli atti più notevoli del governo dei Severi, nei rispetti della
pubblica istruzione, riguardano la parte propriamente scolastica di
questa materia. Il merito è tutto del più greco di quegli imperatori,
Alessandro Severo. I suoi biografi, con l’iperbole che è loro consueta,
ma a cui pure risponde una grande parte di verità, ce lo descrivono
come un nuovo Adriano: latinista e grecista anche lui, prosatore e
poeta, provetto nella musica e nel canto, pittore, matematico, dotto
in astrologia e in aruspicina[470]. E da tanta pienezza di cultura,
che lasciava anche supporre un pari apprezzamento del merito di
questa, derivò, in assai maggior copia che in Adriano, l’ispirazione
a curare la scuola e le condizioni pratiche della sua efficacia.
Le cattedre di fondazione imperiale erano finora, in Roma, limitate
alla retorica, e, sull’analogia di Atene, possiamo supporre, ve ne
fossero anche di filosofia. Ora, Alessandro ne istituisce altre di
grammatica, di medicina, di aruspicina, di astrologia, di ingegneria
e di architettura[471]. Queste ultime discipline non facevano parte
delle arti liberali, e questa sola infrazione alla tradizionale
politica scolastica romana, come è segno dei tempi nuovi, è anche
indice della importanza della riforma di Alessandro Severo. Specie
per ciò che riguarda l’aruspicina e l’astrologia. Gli astrologi erano
stati fin allora tanto ansiosamente ricercati in segreto, quanto
ufficialmente perseguitati[472]. Contro di loro, la giurisprudenza
aveva foggiato apposite disposizioni punitive[473], e fin nell’età
più recente, Settimio Severo, che pure di quelle scienze era stato un
caldo amatore e un profondo conoscitore[474], aveva sigillato nella
tomba di Alessandro Magno tutti i libri di astrologia del suo tempo,
e aveva avuto mano in quelle sanzioni penali a carico degli studiosi
di aruspicina e di astrologia, di cui un suo illustre prefetto del
pretorio ci ha lasciato menzione[475].

Alessandro Severo si dimostra invece di opinione affatto contraria,
ed egli innalza quelle due discipline alla dignità di scienza e agli
onori dell’insegnamento. Agirono in lui due diversi moventi: la sua
coltura intellettuale, non che lo spirito del secolo, tutto dedito a
questioni trascendenti la materia; ma dovette ugualmente influirvi la
preoccupazione di avere un’aruspicina e un’astrologia controllate e
disciplinate dallo Stato e di potere riserbare a questo il monopolio
di tutti i loro pericolosi segreti[476]. Gli aruspici, gli astrologi
e le rispettive scienze costituivano una perenne minaccia, politica e
dinastica, un eccitamento a sedizioni e a congiure[477]. Come sarebbe
stato opportuno creare un’aruspicina e un’astrologia ufficiale, con
cattedre e docenti propri agli stipendi e alla dipendenza del principe!
Era stato il sogno segreto, dormiente in fondo alla contradittoria
politica astrologica degli imperatori. E questo, insieme con la grande
voga di quelle discipline, e con la grande richiesta di quella speciale
coltura, di che era prova vivente la persona del principe, sospinse,
nel III. secolo di C., il governo romano alla sua rivoluzionaria
innovazione.

Non meno significativa è la istituzione di scuole di Stato per la
medicina e per l’architettura.

Fino a quel giorno, l’esercizio dell’una e dell’altra disciplina era
stata prerogativa degli stranieri, e, precisamente, dei Greci e degli
Orientali[478]. In questo momento, invece, lo Stato fonda apposite
scuole, cui convengono insieme schiavi, liberti, clienti, liberi di
ogni paese, ma, naturalmente, in modo speciale, di Roma e d’Italia.

Tutta la riforma poi è d’ispirazione greca. Alessandria era uno dei
centri di studii di medicina e di matematica più famosi dell’antichità,
e lo Stato ne favoriva e sovvenzionava le scuole; Atene aveva cattedre
semiufficiali di medicina, di astronomia e di astrologia; Efeso
aveva medici stipendiati da un _Museo_ cittadino, e tutte in genere
le numerose scuole di medicina, esistenti nelle province orientali,
facevano parte di più larghi istituti di cultura, mantenuti dai Comuni
o dallo Stato[479]. Onde è evidente come siano stati questi i paesi, da
cui Alessandro Severo, il più ellenizzante dei principi romani, abbia
tratto l’esempio ed i suoi modelli.

Alessandro però non dovette porre gli insegnamenti, per cui
istituiva nuove cattedre, alla pari con gli altri, più antichi,
delle tradizionali arti liberali romani. E di tale distinzione
si trova, a mio avviso, conferma nella erezione in Roma di nuovi
locali scolastici[480]. Noi conoscevamo soltanto l’_Athenaeum_, sede
dell’insegnamento della retorica, del diritto, della filosofia; adesso
invece si erigono nuovi _auditoria_, e questi, naturalmente, sono
la sede delle scuole, nelle quali cominciano a impartirsi le nuove
discipline.

Ma la più importante tra le riforme scolastiche di Alessandro Severo fu
quella, tutta pervasa di spirito moderno, che riguardò la fondazione
di un certo numero di borse di studio, da corrispondere in natura
(_annonae_) ai discepoli poveri di qualsiasi disciplina, purchè
di nascita libera[481]: innovazione, la quale veniva a favorire il
diffondersi della coltura media e superiore (cui si concedeva per ciò
un beneficio, fin allora riservato alla istruzione primaria) e che era
segno preciso della grande importanza, che il suo possesso aveva per le
menti dei contemporanei, nonchè del grande interessamento del principe
a suo riguardo.


V.

Uno solo dei mezzi, con cui gli imperatori del II. secolo avevano
promosso le sorti della pubblica istruzione, rimase talora gravemente
negletto dai principi, che loro immediatamente succedettero nell’età,
di cui, in questo capitolo, ci occupiamo. Intendo accennare alle
fondazioni alimentari. Commodo infatti trascurò per ben nove anni di
destinarvi la rendita che vi spettava, e il successore, ritenendo
impossibile, od oneroso, mettersi in pari, interruppe senz’altro
quella liberalità[482]. L’istituto viene ristabilito, e con generosa
larghezza, da Didio Giuliano[483]. Ma, ecco, subito dopo, Settimio
Severo e Caracalla sottoporre i lasciti privati per istituzioni
alimentari al diffalco della legittima agli eredi[484], e le iscrizioni
continuare, ancor sotto Eliogabalo, a menzionare rarissimamente
funzionarii con uffici connessi all’istituto degli _alimenta._ Solo con
Alessandro Severo, questi ripigliano l’antico vigore. Vengono fondati
nuovi ordini di _puellae_ e di _pueri alimentarii_;[485] vengono
richiamate in vigore le migliori disposizioni dell’età di Adriano e
dei primi Antonini,[486] e le epigrafi tornano, come per incanto, a
ripopolarsi di accenni relativi a quel genere di fondazioni[487].

Ma la morte di Alessandro Severo segna, come è noto, un ritorno
all’anarchia politico-militare, che aveva caratterizzato i trent’anni
immediatamente precedenti al governo dei Severi. All’anarchia interna
si aggiungono anzi le pericolose aggressioni barbariche. Tale crisi
si prolunga sino all’ultimo quarto del secolo III., sino all’avvento
di Diocleziano. Fino a quel giorno, l’attività politica dell’impero
non può, salvo rari momenti, che rivolgersi ad imprese di guerra, e le
opere della pace e l’istruzione pubblica esulano dalle preoccupazioni
dei governi, successivamente e rapidissimamente alternantisi.

Noi non abbiamo nessun elemento per pensare all’abbandono o alla
soppressione di qualcuno degli istituti e delle riforme scolastiche
dei due ultimi secoli; ma abbiamo motivo di sospettare che gravi danni
derivassero indirettamente dal nuovo stato di cose[488], e che poco
di nuovo, o di utile, la politica dei nuovi imperatori abbia aggiunto
all’edifizio del passato.

E di questi sparsi frammenti dell’opera loro, che richiamano in
modo speciale alle glorie passate, noi dobbiamo segnalarne uno, che,
quantunque isolato, è di importanza veramente eccezionale. Noi troviamo
registrato da un cronista bizantino come l’imperatore Probo, il quale
regnò tra il 276 e il 282, ordinasse, con un editto imperiale, le già
fiorenti scuole di Antiochia.

Questa città era allora uno dei principali centri di studio
dell’Oriente ellenizzato, e contava numerosi docenti di lingua e
letteratura greca, di eloquenza, di filosofia e di diritto[489].
Ma tali scuole non erano mantenute dalla città, e le condizioni
economiche dei maestri ne erano assai tristi[490]. L’imperatore Probo
volle che della spesa necessaria all’istruzione media e superiore,
fin allora impartita, si incaricasse la città, e che questa fornisse
degli stipendi in natura ai maestri, nonchè un’istruzione gratuita
agli scolari[491]. Fissò anch’egli la misura di tali stipendi, come da
altri imperatori vedremo praticare fra non molto? Noi non lo sappiamo,
e non è forse probabile; giacchè anche più tardi udremo le lamentele
dei retori contro l’insufficienza delle condizioni economiche, il che
non accadde in nessuna parte dell’impero per stipendii fissati dal
governo centrale. La misura, in cui questi sarebbero stati corrisposti,
dovette dunque, con maggiore probabilità, essere lasciata interamente
alla coscienza degli amministratori locali. Ma l’iniziativa di Probo
non ha per questo un minor valore; essa prosegue la politica, a cui,
nelle pagine precedenti, abbiamo accennato, e che trovammo per la
prima volta documentata in sullo scorcio della metà di questo stesso
secolo, politica fatta di una sempre maggiore ingerenza dello Stato
nell’amministrazione dell’istruzione pubblica spettante ai comuni, e
questa consuetudine noi potremo seguire, in tutte le sue fasi, negli
anni di poi.


VI.

Nuove condizioni favorevoli di vita tornano a riaversi con l’età di
Diocleziano e col nuovo ordinamento, che questi volle dare all’impero.

Una delle tendenze più significative del nuovo governo è il
favore accordato allo studio della giurisprudenza, l’insegnamento
professionale maggiormente richiesto dall’assetto politico, che ha
principio appunto con Diocleziano.

I Severi avevano esentato dagli oneri pubblici i giovani, che
frequentavano i corsi di diritto in Roma. Diocleziano curerà l’altro
centro di studii giuridici dell’impero, la siria Berito, che solo ora
vediamo venire in piena luce, e concederà che i giovani dell’Arabia,
colà studenti, specie se di diritto, non ne siano distolti fino al
venticinquesimo anno di età, e vengano, fino a quel tempo, esentati
da ogni carico personale[492]. La quale concessione mostra quanta
importanza l’imperatore assegnasse alla frequenza degli studii, da
parte della gioventù, al confronto del loro obbligo verso il disimpegno
dei pubblici doveri.

Ma il provvedimento più notevole, per quanto vano e fugace del governo
di Diocleziano, e che — insieme con tante altre cose — riguardò anche
l’istruzione pubblica, fu il suo _Editto_ del 301, sui prezzi delle
cose venali, nel quale era anche ufficialmente tassato l’onorario dei
pubblici docenti[493].

Il compilatore dell’_Editto_ distingueva le seguenti categorie di
insegnanti:

1. insegnanti di ginnastica (_ceromatitae_);

2. pedagoghi (_paedagogi_);[494]

3. maestri elementari di lettura e scrittura (_magistri institutores
litterarum_);

4. maestri elementari di aritmetica (_calculatores_);[495]

5. insegnanti di stenografia (_notarii_);

6. insegnanti di calligrafia (_librarii sibe antiquarii_);[496]

7. insegnanti di lingua e letteratura greca e latina (_grammatici
graeci sibe latini_);

8. insegnanti di geometria (_geometrae_);

9. insegnanti di retorica (_oratores sibe sophistae_);

10. insegnanti di architettura (_architecti magistri_).

Oltre dunque a un insegnamento apposito per l’educazione fisica, e
oltre al pedagogo, l’editto considerava una e, forse, due specie di
maestri appartenenti alla istruzione elementare (gli _institutores
litterarum_ e i _calculatores_); ne considerava due per l’istruzione
media (i _grammatici_ e i _geometrae_); due per l’insegnamento
superiore (gli _oratores_ o _sophistae_ e gli _architect_i), e due per
insegnamenti speciali (i _notarii_ e i _librarii_).

L’onorario di questi insegnamenti, espresso nell’editto, in _denarii_
dioclezianei, era, tenuto conto del valore di quella moneta[497],
rispettivamente, per mese e per alunno, il seguente:

  1.  insegnanti di ginnastica           L.  1,00  _ca._
  2.  pedagoghi                           »  1,00    »
  3.  maestri di lettura e scrittura      »  1,00    »
  4.  maestri elementari di aritmetica    »  1,50    »
  5.  insegnanti di stenografia           »  1,50    »
  6.  insegnanti di calligrafia           »  1,00    »
  7.  insegnanti di lingua e letteratura
      greca e latina                      »  4,00    »
  8.  insegnanti di geometria o di
      matematica                          »  4,00    »
  9.  insegnanti di retorica              »  5,00    »
  10.  insegnanti di architettura         »  2,00    »

Un insegnante di lingua e di letteratura latina avrebbe così, per
una scolaresca di 50 alunni, percepito L. 200 mensili; un insegnante
di retorica, L. 250, e così via, onorarii questi di entità media,
che, confrontati con quelli dei secoli precedenti, dànno (e fu questo
merito del legislatore) l’impressione di segnare cifre proporzionali al
fabbisogno dei docenti.

Gl’insegnanti, considerati dall’editto, prestano un servizio in iscuole
aperte al pubblico. Di questo ci avverte il fatto che a tutti, non
escluso il _paedagogus_, era fissato un onorario mensile per discepolo,
il che impone si presupponga una collettività di discepoli[498]. Se
non che la tassazione non doveva valere soltanto nei rispetti delle
scuole di fondazione privata, ma eziandio (o specialmente?) in quelli
delle scuole municipali e delle scuole dello Stato. Tale convinzione
discende dal carattere di universalità dell’editto stesso, dall’equità
dello stipendio calcolato, nonchè dalla mancanza, pur fra tanta cura di
dettagli, di un capitolo speciale per le retribuzioni degli insegnanti
municipali e imperiali, che invece dovevano essere state le prime a
fermare l’attenzione del governo. In tal caso, i pagamenti avrebbero
dovuto farli, non più i privati, ma il governo o gli enti municipali,
e il metodo della liquidazione degli stipendi, proporzionali al numero
dei discepoli, sarebbe dovuto essere molto simile a quello che oggi
si adotta per le libere docenze universitarie. Ciò, evidentemente,
avrebbe, alla prova, portato delle complicazioni e la necessità, fino
ad allora non sentita, di una più numerosa burocrazia addetta a quel
servizio. Ma l’editto, come accennammo, venne, subito dopo la sua
promulgazione, abrogato,[499] onde le sue clausole rimasero senza
nessuna pratica influenza sulle sorti della istruzione pubblica nei
secoli successivi.


VII.

Ciò non ostante, il governo di Diocleziano palesa eziandio chiari
segni di reazione contro l’indirizzo di qualcuno dei principi, che
più avevano curato le vicende dell’istruzione pubblica nell’impero;
nè manca di un rovescio, che ne attenua gravemente i meriti verso le
sorti della cultura in quell’età e nei secoli successivi. Diocleziano
e Massimiano riprendono l’antica tradizione di provvedimenti contro
l’astrologia e le scienze affini. Essi vengono così a demolire buona
parte dell’opera di Alessandro Severo: «È d’interesse pubblico» — suona
un loro editto — «apprendere ed applicare la matematica; è al contrario
condannabile ed interdetto l’apprendimento dell’astrologia»[500].

Contemporaneamente, Diocleziano faceva bruciare tutti i libri egiziani
e persiani, che trattavano di alchimia, non tanto forse perchè
quell’insegnamento non aprisse — come fu detto — filoni di nuovi
tesori ai popoli che ne usavano,[501] quanto per obbedire a un’ostile
prevenzione comune al suo tempo. Ma evidentemente, così legiferando,
Diocleziano e Massimiano, mentre ribadivano la necessità e la dignità
delle cattedre ufficiali di matematica, sopprimevano recisamente le
altre di astrologia, nonchè di aruspicina, istituite da Alessandro
Severo. E tale soppressione sarà, pur troppo, definitiva.

Ma più gravi certamente furono le conseguenze di un altro provvedimento
di Diocleziano, che, nella mente del suo autore, doveva tuttavia
avere uno scopo meramente politico. Intendo accennare alla grande
persecuzione del 303 contro i Cristiani. Uno degli articoli
dell’editto, che l’ordinava, portava, questa volta, la clausola della
distruzione di tutte le biblioteche cristiane.[502] Noi possiamo da
vari indizi arguire quale fosse il contenuto di queste collezioni.
Le biblioteche cristiane possedevano gli scritti del _Nuovo_ e del
_Vecchio_ Testamento, notevoli sovratutto per i voluminosi commentari
che li accompagnavano, lunghe serie di libri necessari alla liturgia,
le opere dei primi autori cristiani, biografie di santi e di martiri,
scritti didascalici, panegirici, inni religiosi,[503] tutte copiose e
interessantissime collezioni, che venivano ora sacrate allo sterminio.

La persecuzione fu universale, sebbene non esercitata dovunque con
eguale rigore. Ma fierissima essa fu là dove, a prescindere dalle
intenzioni, più gravi si potevano prevedere gli effetti, negli Stati
cioè del secondo Augusto, che comprendevano la Spagna, l’Italia e
l’Africa: l’Italia, con Roma, sede delle più importanti biblioteche
cristiane, che vi erano proprietà del governo centrale della Chiesa,
e l’Africa, nelle cui città si conservavano i manoscritti biblici
più preziosi e più copiosi,[504] i quali, in parte rintracciati
dai funzionari imperiali, in parte consegnati dai proprietari o
dai depositari infedeli, vennero, senza eccezione, rigorosamente
distrutti[505].

Noi possediamo ancora taluni resoconti di quelle perquisizioni e
di quelle consegne, e vogliamo qui riferirne dei brani, che più ci
interessano e che fanno parte del verbale redatto da un Munazio Felice,
flamine perpetuo e Curatore della Colonia di Cirta in data del 19
maggio 303: «Quando — riferisce quel verbale — si fu arrivati alla
casa, nella quale si riunivano i cristiani, Felice, flamine perpetuo
e curatore, disse al vescovo Paolo: — Portateci le _Scritture_ della
vostra legge e tutti gli altri scritti che qui avete, e obbedite così
agli ordini dell’imperatore. — Il vescovo Paolo rispose: — Le Scritture
non le abbiamo; le hanno i lettori; ma noi vi daremo tutto quello che
abbiamo. — Il flamine Felice replicò: — Indicaci i lettori o manda
a cercarli. — Il vescovo Paolo disse: — Voi li conoscete tutti.... —
Si recarono quindi nella biblioteca, ma gli armadi erano vuoti.... Il
flamine perpetuo e curatore Felice disse: — Portaci le _Scritture_,
che tu possiedi, e obbedisci così agli ordini imperiali. — Catulino
consegnò un grosso volume. Il flamine perpetuo e curatore Felice chiese
a Marcuclio e a Silvano: — Perchè avete dato un solo volume? Portate le
_Scritture_ che possedete. — Catulino e Marcuclio risposero: — Noi non
ne abbiamo altri perchè siamo subdiaconi; i volumi li hanno i lettori.
— Il flamine perpetuo e curatore Felice disse allora a Marcuclio e a
Catulino: — Indicateci i lettori. — Marcuclio e Catulino risposero: —
Noi non sappiamo dove abitano. — Felice replicò: — Se non sapete dove
abitano, dateci almeno i loro nomi. — Catulino e Marcuclio risposero:
— Noi non siamo dei traditori; facci piuttosto uccidere. — E il flamine
perpetuo e curatore: — Che essi siano tratti in arresto! —

«Quando furono arrivati alla casa di Eugenio [uno dei lettori], il
flamine perpetuo e curatore Felice gli disse: — Dacci le _Scritture_
che tu possiedi, e mostra così la tua obbedienza. — Questi gli portò
quattro volumi. Il flamine perpetuo e curatore Felice disse a Silvano
e a Caroso: — Fate conoscere gli altri lettori! — Silvano e Caroso
risposero: — Il vescovo vi ha già dichiarato che gli uscieri Edusio e
Giunio li conoscono tutti; fatevi indicare da costoro le loro case. —
Gli uscieri Edusio e Giunio dissero: — Noi te le indicheremo, signore.
— E, quando si fu alla casa del mosaicista in marmo, Felice, questi
consegnò cinque volumi. Quando si fu arrivati a quella di Proiecto,
questi mise insieme cinque grossi volumi e due piccoli. Quando si
fu alla casa del grammatico Vittore, il flamine perpetuo e curatore
Felice gli disse: — Dacci le _Scritture_, che tu possiedi, e mostrati
così ossequente. — Il grammatico Vittore consegnò due volumi e quattro
quaderni. Il flamine perpetuo e curatore Felice disse: — Porta le
_Scritture_; tu ne hai ancora. — Il grammatico Vittore rispose: — Se ne
avessi ancora, le avrei consegnate. —

«Quando si fu giunti alla casa di Euticio di Cesarea, il flamine
perpetuo e curatore Felice gli disse: — Obbedisci e consegna le
_Scritture_, che tu possiedi. — Euticio rispose: — Io non ne ho. — Il
flamine perpetuo e curatore Felice disse: — La tua risposta sarà messa
a verbale. — Quando si fu alla casa di Codeone, la di lui moglie portò
sei volumi. Il flamine perpetuo e curatore disse: — Cercate, se ne
avete altri ancora e portateli. — La donna rispose: — Io non ne ho più.
— Il flamine perpetuo e curatore Felice disse allora a Bos, schiavo
pubblico: — Entra e cerca se essa ne possiede degli altri. — Lo schiavo
pubblico disse: — Ho cercato e non ne ho trovati. — Il flamine perpetuo
e curatore Felice disse a Vittorino, Silvano e Garoso: — Se voi non
avete fatto tutto ciò che avreste dovuto, ne sarete tenuti responsabili
— »[506].

Questi pochi brani di un processo verbale forniscono una chiara
idea della diligenza e della durezza della ricerca, nonchè del
danno, che alla cultura del tempo e a quella dei secoli successivi
dovette arrecare la persecuzione di Diocleziano. Si salvarono le sole
biblioteche di Gerusalemme e di Cesarea, e, per l’astuzia del vescovo,
un po’ quella di Cartagine[507]. Altrove la devastazione fu ovunque
gravissima, e tutto il patrimonio della cultura cristiana dei primi
tre secoli, insieme con quello delle civiltà, che vi avevano attinenza,
andarono miseramente perduti.


VIII.

Ma, se così tristi furono le sorti della cultura cristiana, la mancanza
di guerre estere e la nuova tranquillità, che, col governo della
Tetrarchia, si era andata ovunque diffondendo, non avevano mancato,
e non mancavano, di produrre, come sempre, i loro benefici effetti,
specie in quelle provincie dell’impero, che godevano dei principi più
tolleranti e più illuminati.

Un altro sopravvenuto motivo di bene era adesso il frazionamento
dell’impero in quattro governi sufficientemente autonomi. Questa
nuova condizione politica si traduce in un vivo stimolo ad occuparsi,
ciascuno, dei territori, sottoposti alla sua giurisdizione, con quella
sollecitudine, che mai non aveva potuto usare l’accentrato governo
di Roma. Da questo momento perciò si hanno i più significativi indizi
della cura imperiale, intesa ad estendere in Oriente e in Occidente la
lingua latina e a far fiorire ovunque tutti i più svariati generi di
studi[508].

Il mezzo è triplice: l’assunzione, quasi esclusiva, di dotti e
di letterati alle supreme magistrature; l’eccitamento ai singoli
comuni alla fondazione di nuove scuole; l’invito a maestri famosi di
trasferire colà le loro cattedre. Così il retore Eumenio è subito
nominato _magister memoriae_ del reggente delle Gallie;[509] così
Diocleziano chiama a Nicomedia il grammatico Flavio e il retore
Lattanzio;[510] così Costanzo Cloro, vero «_princeps iuventutis_»,
come lo definisce un suo apologista,[511] sceglie ufficialmente per
Augustodunum, il maggior centro intellettuale delle Gallie, quello
stesso Eumenio, che già aveva chiamato al suo gabinetto imperiale.

Ma questa ultima nomina ha per noi assai più valore di quello che
l’atto materiale non possa significare.

Le Gallie toccavano ormai, nel IV. secolo di C., la pienezza della loro
civiltà e della loro romanizzazione. L’opera, iniziata fin da Augusto,
aveva maturato i suoi frutti migliori. In circa tre secoli, esse si
erano dappertutto popolate di scuole famose, da Autun (Augustodunum)
a Vienne, da Arles a Tolosa, da Lione, a Bordeaux, da Poitiers ad
Angoulème, da Besançons a Treveri.

Ma a questa germinazione spontanea, nella quale, se facili a supporsi,
difficili a precisarsi erano, fino ad ora, i meriti ufficiali, si
aggiungono, nel IV. secolo, gli sforzi assidui e diretti del governo
imperiale.

La Gallia aveva molto sofferto durante il secolo precedente: era stata
teatro di guerre civili fra gli autocandidati a l’impero, teatro di
invasioni di Franchi e di Alemanni, aveva subito gli assedii e la
distruzione di parecchie città, era stata devastata da insurrezioni
di contadini e da scorrerie di briganti. Essa ben meritava dunque le
cure speciali del nuovo governo, di cui, per giunta, era divenuta una
delle residenze privilegiate. E quelle cure, come a tutto il resto, si
volsero alla restaurazione degli istituti scolastici.

Augustodunum aveva più di ogni altro sofferto dei torbidi precedenti.
Le sue scuole e i suoi monumenti erano stati devastati e saccheggiati;
il titolare di quella cattedra di eloquenza, che l’aveva sin allora
resa la regina delle Gallie, era morto, e Costanzo Cloro, intervenendo
per la prima volta in un campo di amministrazione, che, fino a
questo momento, era rimasto, in Gallia, dominio privato o municipale,
sceglieva uno dei più insigni maestri del tempo, allora addetto alla
sua cancelleria imperiale, il retore Eumenio[512].

La lettera di nomina, che noi conosciamo, è uno dei documenti più
significativi dell’interessamento del principe verso gli uomini di
studio e le cose dell’intelligenza, e, se fa onore a chi la ricevette,
ne fa altrettanto a chi ebbe ad inviarla[513]. Ma Eumenio stesso,
che più ne era in grado, come quegli, il quale avea occupato uno
dei più eccelsi uffici a corte, illustra, in una sua orazione, gli
intenti sociali e politici, che ispirarono quella manifestazione della
politica imperiale. «Gl’imperatori», egli dice, «si sono curati della
sorte delle lettere, con sollecitudine pari a quella fino ad ieri
usata nell’amministrazione militare. Essi hanno stimato loro obbligo
provvedere a che la scuola avesse un maestro, affinchè coloro, i quali
occorreva formare all’arte della parola o alle cariche delle _sacrae
cognitiones_ o ai _magisteria Palatii_», «ricevessero una acconcia
preparazione»[514].

Secondo Costanzo, dunque, spettava alla scuola media e superiore del
tempo preparare alle professioni liberali e ai più alti uffici nello
Stato. Ma lo studio delle lettere, non ha — per lui — soltanto uno
scopo professionale; ne ha uno più elevato e spirituale.

«Le lettere, spiega l’antico _magister memoriae_ di Costanzo, sono
la base di tutte le virtù; sono maestre della continenza, della
vigilanza, della pazienza. Esse, allorquando hanno piegato lo spirito
fin dalla più tenera età, lo rendono atto a tutti gli uffici della
vita, anche a quelli della milizia, che ne sembrano in più categorica
opposizione...... Esse preparano le menti dei giovani ad amare un
genere migliore di vita....»[515].

L’insegnamento è dunque una scuola di morale civile. Ma è anche scuola
di patriottismo. I giovani imparano dai maestri «a celebrare le gesta
dei Principi più illustri — (quale ufficio migliore potrebbe infatti
spettare all’eloquenza?)». «Essi, nei locali scolastici, vedono, e
ammirano, ogni giorno, le carte, in cui sono segnati tutti i paesi,
tutti i mari, tutte le città, le genti, le nazioni, che gl’invitti
Principi romani proteggono con il loro amore, avvincono con la loro
virtù, tengono schiave col terrore»[516].

Per tali motivi, o anche per essi, è bene che l’istruzione sia
impartita pubblicamente, e non privatamente. «Importa molto alla
gloria dei Principi romani» «che i giovani, i quali sono istruiti per
celebrarne le virtù, sentano il grande palpito, che li accompagna dal
cuore di tutta la nazione»[517].

Ma non sono questi soltanto i particolari, che interessano di quella
elezione. Fatto, per noi egualmente notevole, è che l’imperatore
destini un pubblico docente ad una cattedra istituita, non già dal
governo centrale, ma dalla città, e che tale circostanza non gli vieti
di nominarvi egli stesso il titolare, nè di fissare il suo stipendio.
Continuiamo, secondo si vede, a procedere per la china delle ingerenze
imperiali nella istruzione pubblica municipale. Già dai Severi era
stato concesso — come qualcosa che s’aveva diritto a concedere — la
facoltà di destinare una parte dei redditi locali agli stipendii dei
maestri; con i Gordiani, il principe stesso deferisce ai Consigli dei
municipi le attribuzioni disciplinari su quei docenti; quaranta anni di
poi, l’imperatore Probo municipalizza le scuole di uno dei centri più
notevoli dell’impero; ora, il principe stesso impone il titolare di una
cattedra comunale, e ne fissa il relativo stipendio.

Uno stipendio tutt’altro che trascurabile e il cui ammontare ha un
ben alto significato! Esso fu di _sexcena milia nummum_,[518] pari,
giacchè l’atto è posteriore alla riforma monetaria dioclezianea,
a L. 15.000[519]. Or bene, quando noi pensiamo che Eumenio aveva,
fino a quel momento, occupato uno dei maggiori uffici dello Stato,
quello di _magister memoriae_[520], il quale era retribuito in
misura elevata al confronto di parecchi altri;[521] e che, ciò non
ostante, il suo stipendio di insegnante di retorica ad Augustodunum ne
rappresenta una cifra precisamente doppia, possiamo ben farci un’idea
del favore, di cui Costanzo volle circondare la restaurazione della
scuola di Augustodunum, e, in buona parte anche, dell’importanza,
che, nella società e nella politica del tempo, riscoteva il ministero
dell’insegnamento medio e superiore.

Tuttavia è bene subito soggiungere che lo stipendio di Eumenio, a
cui raramente si accostarono quelli dei suoi colleghi dell’Oriente e
dell’Occidente, deve pur sempre considerarsi come un’eccezione, anzi
propriamente come uno stipendio _ad personam._ Egli aveva occupato
un ufficio notevolissimo nel gabinetto imperiale; e, quando aveva
abbandonato quel posto per fare la volontà del suo sovrano, andando
a dirigere una modesta scuola di provincia, era ragionevole, non solo
che egli non vedesse assottigliato il proprio utile, ma che ricevesse
un’indennità compensatrice. Ciò che, naturalmente, fu, a suo vantaggio,
ordinato.




CAPITOLO V.

L’istruzione pubblica nell’impero romano, Costantino il Grande e i suoi
figli.

(312-361)

  I. La monarchia Dioclezianea — Costantiniana e il trasporto della
  capitale a Costantinopoli. Ripercussione di ciò sulle sorti della
  istruzione pubblica nell’impero. — II. Costantino e la coltura.
  L’Università Costantinopolitana. — III. Una nuova biblioteca
  pubblica. Costantino e l’istruzione professionale. L’istruzione
  primaria; fine delle fondazioni alimentari. — IV. Privilegi e
  garanzie ai docenti privati e pubblici nelle città di provincia.
  — Ampliamento delle _immunità_ e suoi motivi. Immunità ai
  professionisti delle arti edilizie e industriali. — V. Costantino
  e la cura delle opere d’arte. — VI. I figli di Costantino ne
  continuano la politica; gl’imperatori, il Senato e i governatori
  nella scelta dei maestri. Riforme nell’Università Ateniese.
  Dichiarazione dei nuovi criterii di governo in fatto d’istruzione
  pubblica. — VII. I figli di Costantino e probabile limitazione
  delle _immunità._


I.

La nuova riforma dello assetto politico dello Stato, che, iniziata
sotto Diocleziano, ebbe a consolidarsi definitivamente con Costantino,
e la fondazione di una seconda capitale in Oriente, la quale veniva
ad accrescere il lustro e le esigenze di quest’altra vasta porzione
dell’impero, sono le due grandi determinanti di quel meraviglioso
progresso delle sorti dell’istruzione pubblica, di cui il primo
imperatore cristiano si rese benemerito nella storia della civiltà.
Queste due condizioni bastarono perchè quest’uomo, che consacrò la
nuova fede con la più solenne delle approvazioni, dovesse poi, in
tutta la sua vita, in tutta la pratica di ogni giorno, negarne il
principio fondamentale: il regno degli uomini non essere di questo
mondo, e il regno di questo mondo volesse adorno di tutte le grazie più
squisitamente pagane.

Già avvertimmo che la nuova e macchinosa burocrazia, le cui sorti
andavano strettamente connesse alle recenti riforme politiche,
richiedeva, in modo indispensabile, un più diretto e palese intervento
dello Stato nelle cose dell’istruzione pubblica. Il governo ormai,
per funzionare, aveva bisogno di uomini, che sapessero, e potessero,
starne a capo[522]; meglio ancora, aveva bisogno di produrli. La
responsabilità di questa produzione come del funzionamento dello Stato,
era passata, da un’anonima classe sociale, nella persona stessa del
dirigente supremo. Onde tutta quella serie di insegnamenti, che, fin
allora, parevano risolversi soltanto nell’utile di privati, e di cui
solo i più chiaroveggenti scorgevano l’intimo rapporto con la vita
pubblica e sociale, diventavano ora insegnamenti professionali di prima
necessità. E fra essi il posto di onore doveva toccare all’insegnamento
indispensabile per dei buoni amministratori: la giurisprudenza. Tutto
ciò — ripetiamo — maturava da tempo, senza aver potuto determinare
una crisi risolutiva di effetti; ma ecco, avvenire con Costantino,
la fondazione della nuova città, che doveva essere anche la città
capitale. Tutto quanto in Roma, od altrove, l’opera dei secoli aveva
lentamente formato, dovea quivi essere creazione immediata del governo
centrale. Onde, come tutto il resto, bisognava — e bisognò — suscitare
nella nuova metropoli, sin dai più elementari, tutti gli organi della
pubblica istruzione; il che bastava a far sì che questa creazione
_ex novo_ non fosse ritardata dalla tradizione, ma si adattasse
immediatamente ai sopravvenuti bisogni, alle sopravvenute influenze
dell’ambiente sociale.

Ma il fatto stesso della nuova città, che si fondava, si popolava e si
abbelliva, richiese tutta un’altra serie di cure per altri ordini di
insegnamenti, esclusivamente professionali, a cui, fino a quel giorno,
quasi nessun imperatore aveva pensato. Bisognò all’uopo evocare tutte
le energie delle industrie del tempo; e questo, Costantino, nei limiti
delle sue forze, e a seconda delle circostanze, non esitò a tentare
gloriosamente.

I nuovi rivolgimenti dovevano provocare altri effetti sull’equilibrio
della cultura nell’impero romano. Ed essi furono gli stessi, che,
nell’ordine politico, avrebbe arrecato la fondazione di Costantinopoli
e la residenza, che ivi, stabilmente, fisseranno, gl’imperatori. Il
mondo civile avrà ora due soli, uno, pallido, del tramonto, l’altro,
luminoso e fulgido, dell’oriente; ed esso si volgerà con preferenza a
quest’ultimo. In Costantinopoli, e non più in Roma, preferiranno d’ora
innanzi accorrere i più illustri dottori del tempo; in Costantinopoli,
dove essi, sotto gli occhi imperiali, potranno più facilmente sperare
onori e ricompense. Ma il danno, che per ciò stesso ne consegue
all’antica metropoli, torna eziandio a vantaggio di altre città di
provincia. L’incantesimo del suo monopolio intellettuale è rotto, e la
nuova capitale irradia della sua luce anche altri centri di cultura.
Gli studii, fino ad ora ristretti e raccolti in una sola città, si
spargono intorno. I dotti non disdegnano rimanere nella breve patria
provinciale; onde, insieme con la decadenza di una città, si assiste
allo spettacolo di altri fari luminosi, che le si accendono intorno —
da presso e da lungi — effetti imprevisti di cause inconsapevoli e di
atti compiuti con intendimenti diversi.


II.

Costantino il Grande, che aveva iniziato la sua carriera imperiale tra
le battaglie e le vittorie, non fu solamente un guerriero valoroso;
non soltanto quel grande uomo politico, che ebbe agio di rivelarsi in
parecchie delle più difficili circostanze; fu egualmente — ed in pari
misura — persona colta ed amante d’ogni disciplina intellettuale. Il
padre suo Costanzo Cloro, aveva cominciato a praticare, nel seno della
sua stessa famiglia, quel culto dell’istruzione, che aveva ispirato
buona parte della sua amministrazione. E Costantino adolescente
aveva frequentato un corso regolare di studii letterari e vi si era
distinto fra i coetanei. Gli amori dei primi anni non lo abbandonarono
facilmente. E adulto e glorioso, aveva proseguito a coltivare le
lettere, aveva amata la compagnia dei filosofi, aveva, come Augusto,
gradito la conversazione delle Muse e gli omaggi dei poeti, e, come
Augusto, s’era compiaciuto di asserire (e di darne la prova!) che i
poeti e gli scrittori del suo secolo avevano sempre trovato presso di
lui il più benevolo ascolto, come gli studiosi, l’adeguata ricompensa
del loro valore.[523]

Nè le tempestose vicende del primo periodo della sua vita avevano
mancato dal confermarlo in questa tendenza politica. Il suo più fiero
avversario, Licinio, era stato un barbaro infesto alle lettere,[524]
onde un’elementare opportunità di governo obbligava l’antagonista a
brillare per qualità opposte.

Così Costantino, primo imperatore cristiano, il quale teneva mostrarsi
soltanto alla Croce debitore di ogni suo trionfo, e che alla gloria di
questa aveva innalzato una nuova capitale nell’impero, non tralasciò
per tutta la vita di onorare al tempo stesso quell’Atene, che rimaneva
ancora l’invitta e sdegnosa cittadella del disprezzato Paganesimo,
dichiarando che egli, imperatore universale, preferiva a tutti gli
onori e a tutte le cose l’umile carica di stratego ateniese e il
modesto ricordo, che di lui quella città aveva voluto scolpire nella
pietra.[525] Così le virtù della guerra e la saviezza dell’opera
legislativa egli aveva voluto alternare con le opere della cultura, e
fare in modo che gli imparziali avessero a tramandare ai posteri il suo
nome come quello di uno dei principi romani, che più, e meglio, avevano
favorito il progresso delle lettere e delle discipline liberali[526].

Grandi cose erano dunque da aspettarsi da quest’uomo, appena le cure
materiali e più urgenti del governo gli avessero dato pace. Il che
doveva avvenire (ed avvenne) subito dopo la guerra con Licinio e la
edificazione di Costantinopoli.

Alessandria aveva il suo Museo, Roma il suo Ateneo; era pur necessario,
e non soltanto per desiderio di simmetrie architettoniche, che la
nuova capitale del mondo possedesse qualche cosa di corrispondente
all’uno od all’altro, od all’uno ed all’altro insieme. E Costantino
vi provvide. Non certo con l’erezione di quell’edifizio, che dal
numero de’ suoi portici venne denominato _Ottagono_, e che i cronisti
bizantini[527], insieme con la maggior parte degli storici moderni,
s’accordano ad attribuire a Costantino ed anche a definirlo un
istituto pubblico destinato all’istruzione superiore dei cittadini
constantinopolitani[528]. Questo locale, ove — secondo ci si informa —
abitavano, mantenuti a spese pubbliche, un collegio di religiosi, non
era che un seminario teologico[529] e, quindi, una scuola, espressione
di assai più matura fase della civiltà cristiana ed orientale[530].
Ma la vera e propria _Università_ constantinopolitana doveva sorgere
altrove.

E sorse, infatti, in quella, che le fonti bizantine denominano la
_Basilica_, e che noi rimaniamo dubbiosi se sia da identificare con la
Βασιλικὴ Κινστέρνα o non piuttosto con altro edifizio omonimo, situato
sul Campidoglio, nell’ottava Regione costantinopolitana, là dove, più
tardi, una _costituzione_ di Teodosio II. ci additerà la sede ufficiale
dei docenti le principali discipline, che, al suo tempo, si impartivano
alla gioventù della metropoli[531]. Ma, al pari della Κινστέρνα[532], è
quasi certo che la seconda _Basilica_ sia stata costruita da Costantino
il Grande,[533] sì che l’uno o l’altro edifizio troviamo destinato
al pubblico insegnamento già fin dalla giovinezza dell’imperatore
Giuliano, che lo frequentava coi suoi condiscepoli e col suo pedagogo,
durante il suo primo, breve soggiorno a Costantinopoli[534].

I docenti, che vi insegnavano, non erano certamente dei privati. Ce
lo dice, oltre l’analogia con Roma e la universale consuetudine del
tempo, il fatto che noi, sin da questo momento, troviamo dei professori
ufficiali a Costantinopoli e anche la succennata _costituzione_ di
Teodosio II. — la quale regolava definitivamente un assetto di cose,
che esisteva da molti anni[535] — da cui si desume come i maestri di
discipline liberali, nell’apposito pubblico edifizio sul Campidoglio,
fossero degli stipendiati del governo.

Quali discipline insegnassero, noi lo ricaviamo da varie fonti.
Giuliano vi cominciò i corsi di grammatica (lingua e letteratura)
greca e di retorica;[536] un epigramma dell’_Antologia_ parla a
chiare note dell’insegnamento del diritto;[537] i docenti ufficiali,
che noi andiamo fin d’ora conoscendo in Costantinopoli, sono maestri
di retorica latina;[538] e dal ruolo dei professori, fissati da
Teodosio II., come da qualche altra minore disposizione,[539] si
desume l’esistenza di cattedre di lingua e letteratura greca e latina,
di retorica, di filosofia e di giurisprudenza, di cui almeno quelle
fondamentali dovevano avere avuto principio con Costantino.

Chi nominava questi insegnanti?

Sotto Teodosio II. sarà investito di tale diritto ed ufficio il
senato;[540] ma tale consuetudine, che già da tempo troviamo in vigore
nelle città di provincia, si deve, nella nuova capitale, ritenere
sincrona della prima istituzione di quella Università, sincrona quindi
del governo del primo Costantino.


III.

Abbiamo così un corpo organico d’istituti imperiali per l’istruzione
media e superiore della gioventù. È, dopo questo, supponibile che
Costantino non avesse pensato a edificare, in Costantinopoli, almeno
una pubblica biblioteca, che facesse degno riscontro alle ventotto, che
in quel tempo adornavano la consorella dell’Occidente?[541] Può anzi
supporsi che, a Costantinopoli, i giovani, i quali subito vi accorsero
numerosi,[542] riuscissero a dedicarsi alle varie discipline, e i vari
ordini di docenti, ad attendere al culto della scienza, senza l’ausilio
di biblioteche? E poichè una pubblica biblioteca[543] esisteva nella
_Basilica_ antonomastica, di cui discorrono le fonti, e che oggi noi
non sappiamo se identificare con la _Basilica Cisterna_, o con i locali
dell’Università, sul Campidoglio, e poichè, come in Roma, essa era
annessa al massimo istituto cittadino di istruzione, la sua origine si
lascia facilmente ricondurre al primo fondatore di quell’edificio e di
quell’istituto.

.

Fin qui noi troviamo le sollecitudini di Costantino quasi
esclusivamente limitate agli insegnamenti tradizionali nell’impero
romano, cioè a quella cultura umanistica, che tutti i secoli precedenti
e tutti i centri principali dell’impero avevano conosciuta. Ma, come
accennammo, il solo fatto della fondazione di Costantinopoli mise
subito in evidenza le lacune di un tale ordinamento, e — maggiore fra
tutte — quella degli insegnamenti professionali, pressochè ignorati
nell’impero romano. E in verità, l’impero, che sapeva dare al mondo
filosofi ed oratori, non era in grado di fornire, o di fornire a
sufficienza, uomini, che potessero dirigere e compiere il lavoro di
edificazione e d’ornamentazione di una sola città. Perciò, in una
sua lettera al Prefetto d’Italia, la cui giurisdizione si estendeva
anche all’Africa, Costantino raccomanda di tentare ogni mezzo,
perchè, nella grande deficienza d’architetti, si stabilissero, nelle
provincie africane, delle scuole con appositi professori e vi si
istituissero premii e privilegi, che valessero ad eccitare allo studio
dell’architettura quanti più giovani, già istruiti nelle discipline
liberali, si potesse. Uno dei mezzi, atti a raggiungere tale scopo,
doveva essere perfino lo stanziamento di annue borse di studio.[544]

Tale circolare non fu forse l’unica diramata a tale scopo, nè l’Italia,
o l’Africa, le sole regioni, in cui Costantino ebbe a curare la
fondazione di vere e proprie scuole professionali.[545] Viceversa,
come sempre, come sotto i precedenti imperatori, il governo centrale
continuò, anche adesso, a trascurare le sorti della istruzione
elementare, e tale condizione viene forse con Costantino ad aggravarsi,
in quanto con lui si chiude la tradizione delle istituzioni elementari,
così felicemente inaugurate da Traiano.

Costantino — è noto — compie a tale proposito una radicale riforma,
inaugurando un’opera di sovvenzione universale dell’indigenza, i cui
particolari furono profondamente pervasi di spirito cristiano[546].
Ma appunto per questo, la sua opera benefica divorzia — nei risultati
e negli scopi — quasi interamente, dalle sorti dell’istruzione
elementare. Costantino non offre, a una parte qualsiasi della società
romana, costantinopolitana, o di altre città, i mezzi per educare e
istruire la propria prole. Egli, invece, con i nuovi provvedimenti,
disperde per tutto l’impero, nei mille rivoli di una saltuaria
beneficenza individuale, gran parte delle pubbliche entrate. Per tal
guisa, la sua opera porta seco tutte le caratteristiche, tutta la
vanità, tutti i disinganni di quelli che ora possono dirsi i vecchi
sistemi della carità cristiana, i quali nè elevavano le classi sociali,
nè assicuravano l’avvenire dei singoli, ma fugacemente sanavano le
occasionali strettezze — e, fra queste, le peggiori soltanto — di
qualche individuo, in qualche ora del tempo.


IV.

La legislazione di Costantino non poteva andare disgiunta da
provvedimenti speciali, che riconfermassero gli atti degli imperatori
precedenti o regolassero i nuovi emergenti rapporti amministrativi e
sociali. E le costituzioni sue su questa materia furono animate da uno
spirito veramente rivoluzionario.

Una legge del 321[547] conferma anzitutto le immunità godute dai
medici, dai grammatici e dai restanti professori di lettere nelle città
dell’impero; viene quindi a porre le persone dei docenti al riparo
da eventuali procedimenti giudiziarii, sancendo ch’essi non possano
venir tradotti in giudizio, al riparo da qualsiasi ingiuria avesse
mirato colpirli, sia per parte di schiavi che di liberi, fissando
all’uopo delle gravi pene contro i colpevoli e contro i magistrati,
che non avessero ottemperato alla legge; e richiama, infine, i privati
ed i municipii alla osservanza del pagamento degli onorarii o degli
stipendii (_mercedes et salaria_) ai docenti, professanti nelle varie
città.

Con questa legge, il principe, se, da una parte, vuole sottrarre le
persone, in essa nominate, ai _munera publica_ e _civilia_, nonchè ai
pubblici soprusi, dall’altra, vuole che le città e i privati, oltre
che a pagare i maestri, siano tenuti a rispettarli: alle quali due
cose si doveva da tempo, spesso, mancare, forse anche a motivo della
sopravvenuta intolleranza dei municipii cristiani contro i docenti, che
erano in genere pagani o usciti da scuole pagane[548].

Ma una seconda legge di Costantino del 326[549] largisce, e specifica,
una nuova serie di immunità — forse implicite nelle antiche formule
generiche, certo non mai così solennemente dichiarate — a favore dei
medici e agli ex-medici di corte, nonchè — fatto più notevole — delle
famiglie dei privilegiati. E, finalmente, un’ultima legge del 333,[550]
confermando i precedenti beneficii ai medici e ai professori di
lettere, li estende, anche per queste due categorie, alle loro mogli ed
ai loro figliuoli.

Le tre leggi dànno luogo a qualche non trascurabile osservazione. La
immunità infatti, largita da Costantino, è la più ampia che si conosca
nelle serie delle concessioni imperiali. Essa per la prima volta
oltrepassa le persone stesse dei docenti e si estende ai componenti le
loro famiglie. Meglio ancora, essa abroga le gravi limitazioni fissate
da Antonino Pio, e rimaste in vigore fino a questo tempo, e parifica
i diritti delle città di provincia con quelli delle capitali, ove i
maestri da tempo non soggiacevano più alle restrizioni imposte al loro
privilegio fin dalla metà del II. secolo di C.

Se non che, ad osservare con attenzione, tali leggi impressionano meno
per il grande numero di persone, che esse beneficano, di quello che per
la loro intima liberalità. Infatti, secondo le clausole della prima
costituzione, sono, fra l’altro, concesse, ai medici e ai docenti,
una forma e una misura d’inviolabilità, che oggi, nei nostri regimi
costituzionali, non godono neanche i rappresentanti politici della
nazione, ed è forse unicamente riservata al sovrano: l’inviolabilità
cioè da ogni procedimento giudiziario, concretata nel divieto di
tradurre i privilegiati in giudizio.

Evidentemente, se questa è la esatta interpretazione di una delle
clausole della legge, noi ci troviamo al cospetto di un beneficio
— il così detto privilegio del ἱερᾶσθαι — che pel passato era stato
concesso solo in via eccezionale a qualcuno dei più illustri maestri
dell’impero,[551] e che, reso così universale, sembrerebbe dovesse
abbattersi contro la impossibilità di una pratica applicazione. O la
legge dunque doveva, sia nel pensiero dei delegati ad applicarla, sia
nella parola di altre disposizioni, essere temperata da consuetudini e
da norme complementari; o essa doveva rispondere a una straordinaria
condizione del momento. Ma può darsi anche che noi non siamo più in
grado di interpretare rettamente il passo, e che si tratti dell’antico
diritto dei medici e dei docenti di non fungere da giudici, o di
una nuova facoltà di non comparire personalmente in giudizio, e di
potervisi fare rappresentare da procuratori — un che di simile ai
privilegi concessi per le testimonianze giudiziarie ai nostri così
detti grandi ufficiali dello Stato — nel quale caso, Costantino o nulla
di nuovo, o nulla d’incredibile avrebbe accordato.

Ma, a parte codesta clausola, impressiona il fatto che in quelle
leggi, anche nelle due (la prima e la terza) in cui più si sarebbe
attesa, manca una esplicita menzione dei docenti di filosofia, sebbene
costoro godessero da tempo gli stessi privilegi dei grammatici, dei
medici e dei retori. L’omissione è difficilmente concepibile, e bisogna
ben ammettere che con la dizione generica di _professores litterarum
artium_ si accenni anche agli insegnanti di filosofia. Infatti, nella
più tarda legge del 333, in cui si dichiarava di confermare i beneficii
largiti dai predecessori, le _litterae_ sono identificate con gli
_studia liberalia_, e, in una costituzione di Teodosio II.,[552] la
quale ripristina questa di Costantino, i filosofi sono esplicitamente
elencati insieme con i loro colleghi.

Ma la soluzione, relativa ai professori di filosofia, non può
adottarsi, come forse si attenderebbe, per quelli di giurisprudenza:
i giurisperiti, i quali non possono comprendersi fra i _professores
litterarum artium,_ rimangono, non ostante tutto, esclusi ancora dal
beneficio di ogni immunità,[553] e tali rimarranno sino a Giustiniano.

Quali furono intanto i motivi delle nuove, e certo gradite, liberalità?

Ce li illustra la chiusa della terza legge. Essa spiega che tanta
generosità era mossa dal desiderio che i beneficati si dedicassero
largamente all’insegnamento, e formassero quindi il maggior numero
di discepoli.[554] Il che, mentre da un lato avverte che i medici,
gli _archiatri_ e gli _ex-archiatri_, a cui Costantino si riferisce
sono favoriti delle immunità, non solo in quanto medici curanti, ma
altresì in quanto docenti di medicina, dimostra che lo scopo delle
tre leggi rientra interamente nei rapporti del pubblico insegnamento,
e che, favorendo i docenti, si voleva appunto favorire la più grande
diffusione della coltura e rendere più frequente l’esercizio di
carriere determinate.

Tutto questo per i docenti di arti liberali. Ma come Costantino aveva
curato con provvedimenti diretti l’insegnamento professionale, così
altri beneficii escogitò a favore di coloro, che avrebbero dovuto
esserne i promotori ed i maestri.

Una sua legge, promulgata dopo la di lui morte, largisce l’immunità
dai pubblici oneri a tutta una lunga serie di professionisti, specie
di arti edilizie, perchè — dice il dispositivo — coloro che avranno a
goderne, abbiano agio di dedicarsi a quelle arti, «_e ne diventino più
esperti essi stessi, ed esperti ne facciano i propri figliuoli_».[555]
La lunga serie dei beneficati, che avrebbero potuto risiedere in
qualunque città dell’impero, riguarda i seguenti ordini di persone:
architetti, costruttori di soffitte, stuccatori e intonicatori,[556]
falegnami, medici (?),[557] tagliapietre, lavoratori dell’argento,
muratori, veterinari, scalpellini, inargentatori e indoratori,[558]
costruttori di pavimenti o di scale (_scasores_ o _scansores_),
pittori, scultori, trapanatori, di pietre e di metalli preziosi,
intagliatori, statuari, mosaicisti, lavoranti in bronzo, ferro,
marmo, doratori, fonditori di metalli, lavoranti in fino di metalli o
tintori in rosso di seta (_bractearii_ o _blattiarii_), lastricatori
di pavimenti, orafi, costruttori di specchi, carpentieri, conduttori
d’acque, vetrai, lavoratori dell’avorio, lavandai, stovigliai,
lavoratori del piombo, pellicciai.[559]

La portata della legge è chiara. Costantino, che aveva dovuto
sperimentarlo nella costruzione della nuova metropoli, aveva notato
nell’impero romano una grande deficienza di esercenti professioni
speciali, segnatamente professioni meccaniche, e voleva ad ogni costo
provvedervi. Il suo editto al Prefetto del pretorio d’Italia, circa le
nuove scuole d’architettura, ne era stato un primo segno. Adesso, egli
trovava necessario formare, non soltanto degli architetti, ma tutta la
serie di artisti, di meccanici e di artefici, richiesta da una società
civile, e agli uni e agli altri largiva, per la prima volta, una
serie di immunità, come, fino a quel tempo, si era solo usato verso i
rappresentanti le professioni liberali. E questo era il primo vigoroso
affermarsi di quelli, che oggi si direbbero i diritti dell’insegnamento
professionale.


V.

L’opera di Costantino a vantaggio della coltura e dell’istruzione
pubblica è coronata da nuovi provvedimenti, tendenti alla difesa e alla
conservazione delle opere d’arte, ch’erano state tramandate dall’evo
antico.

Già notammo come, fin da Adriano e dai primi due Antonini, alla cura
semplicemente edilizia delle città si era accompagnata l’altra delle
loro opere d’arte. Ma adesso ci troviamo in un tempo, in cui più
vivi e numerosi dovevano essere i motivi di una tale preoccupazione.
La storia del periodo, che adesso s’inizia, segnala il disastro
di demolizioni inconsulte, per opera di privati o di imperatori,
gli uni e gli altri, sospinti da zelo religioso, da ignoranza, da
misoarcaismo. La preoccupazione degli eccessi di tale andazzo è palese
nelle costituzioni de _operibus publicis_, che si succedono fin da
Costantino, e in esse è degno di rilievo l’insensibile sfumare della
cura edilizia in quella delle antichità e delle belle arti, sì che
difficile riesce segnarne il preciso confine.

Ma, in questa medesima età, dopo i lunghi torbidi di oltre un secolo,
riappare altresì quella forma specifica di sorveglianza delle opere
d’arte, che, creata dagli Antonini, assume via via nuove denominazioni.
Troviamo ora, in Roma, un _curator statuarum_, addetto alla erezione
e alla manutenzione delle statue urbane,[560] e, poco dopo, ma quale
magistratura già da tempo in vigore, un centurionato _rerum nitentium_,
a cura e tutela degli oggetti d’arte, nonchè dell’abbellimento dei
pubblici monumenti della città[561]. E tutte queste non piccole
preoccupazioni di un imperatore, sospinto dall’ironia della sorte a
difendere, contro le ingiurie del tempo e le intransigenze dei seguaci
della religione favorita, i segni superstiti del passato, che così
vigorosamente egli aveva cooperato ad abbattere, devono andare, non
soltanto a discarico di quella minima parte dell’opera sua, che fu
accusata di irriverente iconoclastia artistica,[562] ma a merito grande
— e positivo — della sua amministrazione.


VI.

I figli e gli eredi di Costantino proseguono, con diligenza unica più
che rara, l’opera del padre nel campo della pubblica istruzione, e,
sebbene, nel loro legiferare su questa materia, nulla di caratteristico
li distingua dai predecessori, pure le disposizioni particolari, da
essi emanate, sono la più meritoria esecuzione di ciò che quelli, fin
allora, avevano creato e immaginato.

Verso il 342 o 343, Costante chiamava a insegnare a Treviri — uno dei
maggiori centri di studio della Gallia — il più celebre sofista del
tempo, Proeresio, e lo faceva suo commensale. Di qua, per esaudire
un di lui desiderio, lo manda a Roma a impartire il suo insegnamento
dalla maggior cattedra del mondo. E da Roma il fratello suo e collega,
Costanzo II., colui che tra breve raccoglierà ancora una volta tutto
l’impero nelle sue mani, gli concede di trasferirsi in Atene, e lo
colma di doni regali, e lo nomina _stratopedarca_, incaricando al tempo
stesso il prefetto dell’Illiria di celebrare il giorno del conferimento
di tanta dignità con una solenne gara di eloquenza nella Università
ateniese.[563]

Nel 344, Costanzo II. e Costante insieme largiscono una serie di
immunità agli ingegneri, agli architetti, agli _aquae libratores_, e,
per la prima volta, ai matematici, i quali, benchè la loro disciplina
rientrasse nel circolo delle arti liberali, erano, fin a quel tempo,
rimasti esclusi da ogni esenzione.[564]

E la determinante della liberalità — si dichiara — è ancora una volta
quella, che aveva sospinto Costantino il grande: il bisogno di persone
adatte alle professioni edilizie, cui quei beneficati attendevano,
e, quindi, il desiderio di moltiplicarne il numero e di migliorarne
la specie,[565] come in verità doveva essere richiesto dal nuovo
incremento edilizio di Costantinopoli, di Antiochia e di altre città
orientali.

Lo stesso Costanzo si cura di rifornire copiosamente, ed a proprie
spese, la pubblica biblioteca di Costantinopoli, che sembra solo ora
assurgere a quel grado di importanza, che nella nuova capitale si
richiedeva,[566] non che di fornire Costantinopoli dei migliori maestri
del mondo. Ed invero, nel 342, noi vi troviamo un retore di Cappadocia,
fattovi appositivamente venire dall’imperatore,[567] e, nel 351, questi
vi chiamava da Nicomedia, Libanio — uno tra i più insigni maestri di
retorica di quell’età — nominandolo pubblico docente di sofistica
con uno stipendio vistosissimo, e facendolo segno alle maggiori
dimostrazioni di stima.[568]

E, come sempre avviene in questi casi, l’esempio del principe provoca
l’emulazione fra le maggiori autorità dello Stato. Vediamo, in questo
tempo, e il Senato e i governatori gareggiare di zelo per le sorti
della istruzione pubblica nelle varie città e nelle varie province.
Ciò che una volta era stato detto a carico del governo romano: ch’esso
non si curava d’altro se non dei porti, degli edifici e dei pubblici
passeggi, non solo sarebbe adesso contrario a verità, ma suonerebbe
come audace calunnia. Per decidere sui problemi, relativi alla pubblica
istruzione, le città si rivolgono ora ai governatori, che dispensano
consigli, avanzano proposte e intervengono con le loro iniziative.
Il retore di Cappadocia, che noi troviamo nel 342 a Costantinopoli,
era stato, prima che dal principe, richiesto insistentemente dal
Senato;[569] Libanio stesso si era recato a professare a Nicomedia,
invitatovi dal pretore di Bitinia, che n’era stato sollecitato dalle
preghiere di quella popolazione[570]. Nel 351, l’anno del ritorno
di Libanio, quale pubblico docente a Costantinopoli, vive pratiche
del Senato e del pretore di Bitinia avevano preceduto l’intervento
imperiale.[571] E poco dopo, agli Ateniesi, preoccupati della decadenza
della loro Università, il luogotenente imperiale della Grecia,
Strategio, rispondeva, formulando acconce proposte, e consigliandoli
a invitarvi sofisti valorosi di altre città. Libanio ci ha conservato
un passo di quella risposta: «Voi», aveva detto Strategio, «che avete
fama universale di inventori e di maestri dell’agricoltura, non trovate
nulla di disonorevole a cibarvi di grano importato dall’estero; se
faceste lo stesso per la istruzione pubblica, credete forse che la
vostra gloria ne sarebbe compromessa?»[572] Ed anche ad Atene era stato
chiamato Libanio.

«I Romani volevano», scrive uno degli antichi espositori della vita
scolastica ateniese in questa età, «i Romani volevano che ad Atene ci
fossero numerosi sofisti e numerosi scolari.»[573] E noi abbiamo gravi
motivi per non dubitare di una riforma, quivi compiuta dal governo,
verso il 340, alla morte di un altro fra i titolari di quella cattedra
di retorica, il sofista Giuliano. Quando questi spirò, si ebbe una
vera e propria ressa di concorrenti alla successione. Le brighe fra i
candidati e le lotte tra i commissarii giudicanti e i senatori ateniesi
dovettero essere vivacissime. Ne seguì la proposta di ben sei titolari,
e il governatore romano non esitò a ratificarla. Così, invece di una,
si ebbero sei cattedre ufficiali di eloquenza greca.

Per tal guisa, Atene potè godere largamente della munificenza dei
dominatori. E non Atene soltanto. Accorreva quivi tutta la gioventù
della Grecia, dell’Oriente, dell’Asia, dell’Asia Minore, dell’Arabia
e dell’Egitto. Atene era il maggior centro intellettuale di una buona
metà dell’impero, e su tutto questo paese, nella pienezza della sua
civiltà, venivano adesso a diffondersi i benefici della innovazione del
governo romano.

Ma, assai più significativa di queste indicazioni isolate, noi
possediamo di Costanzo una lettera ufficiale, concernente la nomina
di un filosofo, Temistio, a membro del senato di Costantinopoli, in
cui si contengono quelli che oggi si direbbero i criteri informatori
di un programma di governo nei rispetti dell’istruzione pubblica,
lettera, per cui può affermarsi che da questo momento, non solo nella
tacita pratica di ogni giorno, ma nelle più solenni teoriche ufficiali,
bandite dai gradini del trono, le armi hanno definitivamente ceduto
alle toghe.

«L’uomo — scrive l’imperatore — che queste mie parole esaltano, non
professò una filosofia insocievole; ma quella dottrina, che egli
apprese con fatica, ora, fattosi banditore dell’antica sapienza e
sacerdote dei sacrarii e dei templi della filosofia, con maggior fatica
impartisce a chi la ricerca». «Egli, per quel che può, guida ciascun
uomo, affinchè curi di vivere secondo ragione e sapienza».

«Niuna, invero, tra le cose umane, può riuscire a buon fine senza
l’ausilio della virtù, nè nella vita domestica, nè in quella cittadina;
onde i filosofi, che educano ed esercitano in questa i giovani,
potrebbero bene essere detti padri comuni. Essi, ai padri appunto,
insegnano i compiti della educazione, ai figli, quali cure debbano
avere verso i padri. Ma son queste piccole cose; _la verità è che
giudice e rettore universale è il filosofo. Egli è colui che insegna
quali siano i doveri verso il popolo, quali verso i governanti: è
insomma la regola infallibile di tutta la vita civile. Così che, se
accadesse che tutti gli uomini sapessero operare da filosofi, la loro
vita sarebbe liberata da ogni malvagità, verrebbe a togliersi ogni
pretesto alla iniquità e cesserebbe il bisogno delle leggi, giacchè
quelle cose, da cui ora gli uomini si rattengono per timore, essi
allora abborrirebbero spontaneamente._»

«Io, essendomi sempre adoperato con zelo perchè la filosofia risplenda
dovunque, voglio che essa fiorisca sopratutto nella nostra città.
Questo io so appunto che le tocca ora per merito di Temistio, e che per
lui Costantinopoli va gloriosa del concorso di tanti giovani, amatori
della filosofia, ed è già divenuta sede universale della dottrina,
così che tutte le altre accordano ad essa di buon grado la palma del
sapere e riconoscono che dalla nostra città, come da pura fonte, si
diffondono per ogni dove i dettami della virtù». «E se circondare la
città di mura, se adornarla di edifizi, se la sua popolosità sono
segni dell’affetto del principe, quanto non ne sarà segno maggiore
accrescere il Senato di un tanto uomo, che renderà migliori le anime di
quelli che vi abitano, e, fra gli altri edifici, innalzerà il Ginnasio
della virtù! _Chi a una città appresta gli altri doni, largisce i beni
migliori, ma chi ha cura della sua saggezza e della sua coltura, quegli
le porge il bene più prezioso, che molti agognano e che soltanto pochi
conseguono._»[574].

Così, ispirandosi a Platone ed a Marco Aurelio, scriveva al senato
di Costantinopoli Costanzo II., in onore di Temistio. E questi, che,
sebbene di opposta fede religiosa, fu il migliore interprete del di lui
pensiero e della di lui politica, così, in altra occasione, commentava,
sia pure con l’enfasi e con l’iperbole consuete alla letteratura
del suo tempo, i meriti di Costanzo verso l’istruzione pubblica in
Costantinopoli: «Fin ora, in questa città, gli uomini godevano solo
della sua bellezza, perchè vi si portavano i prodotti di tutta la
terra, ma niente se ne poteva esportare, salvo che sabbia e immondizie.
Ora invece si può trafficare ed esportare da Voi, non oro o legname,
o porpora, come da una miniera o da una foresta, o da una tintoria, e
neanche vino, o legumi, o frutta (tutte queste cose, io penso, anche
gente migliore può convenientemente ritrarle da gente peggiore), ma
le due grandi mercanzie del nuovo emporio, che il principe volle a Voi
fornire: la virtù e la saggezza.»

«E qui verranno a Voi, o cittadini di Costantinopoli, non già
mercatanti o marinai, o volgare plebaglia, ma gli eletti, i cittadini
d’ogni città, i più amanti della dottrina, il fiore della Grecia,
e saran merci solo la dottrina e l’istruzione. Credete dunque che a
torto le Muse si compiacciano di andare al campo, a fianco del nostro
imperatore, e di procacciargli luminose vittorie, nelle quali nulla
Marte ebbe che vedere?»[575].


VII.

Nonostante così largo e così illuminato mecenatismo, è pure probabile
che i tre figli di Costantino abbiano infirmato quell’ampiezza di
esenzione dai pubblici oneri, goduta da professori e da medici, che noi
vedemmo concessa dal padre loro con la più sconfinata liberalità. Ce ne
fa nascere il dubbio il confronto di una legge del successore, Giuliano
l’Apostata,[576] la cui politica fu sostanzialmente una reazione al
governo precedente, il confronto — dico — di quella legge con parecchie
altre dei figli di Costantino.[577]

In essa, come è stato osservato,[578] Giuliano, riconfermando le
immunità largite ai medici dal fondatore di Costantinopoli, invoca
il precedente, non già dei figli di Costantino, ma dei _veteres
principes_, mette in vistoso rilievo la equità e la liberalità sua di
donatore, e conclude, facendo notare che così i beneficiati avrebbero
potuto passare tranquillamente «_il resto della loro vita._»

La legge, come si vede, ha una intonazione polemica, e sembra
accennare a una ripresa, più che alla semplice stereotipa conferma
di un privilegio. E in tale opinione veniamo a confermarci, quando
consideriamo che le altre costituzioni, testè richiamate, dei figli
di Costantino, escludono assolutamente dall’esenzione degli oneri
pubblici tutte le persone fornite di dignità onorarie, fossero
quella di _curiale_, di _senatore_, di _conte_, di _preside_ o
di _perfettissimo._ E poichè queste dignità erano, più o meno
strettamente, legate alla persona dei medici e dei professori,[579]
s’impone la probabilità dell’ipotesi che, per ragioni a noi ignote
(forse anche perchè degli uomini d’intelletto e di valore non
mancassero di prestare l’illuminata opera loro nell’esercizio delle
pubbliche cariche) i figli di Costantino avessero ristretto, a loro
danno, i privilegi concessi dal padre.

Il governo di Costanzo II. ha fine con l’autunno del 361. Ancora pochi
mesi, e il mondo assisterà, se non alla più grande, certo alla più
tempestosa riforma scolastica, che mai imperatore romano aveva fin
allora intrapreso.




CAPITOLO VI.

Le innovazioni scolastiche di Giuliano l’Apostata.

(361-363)

  I. Giuliano e gli atti più notevoli della sua legislazione
  scolastica. Reintegrazione dell’antica larghezza di _immunità_; sua
  bibliofilia. La legge del 362 su l’insegnamento pubblico e privato.
  — II. L’editto circa l’insegnamento classico. Un secondo editto?
  — III. Giudizio sulla legge del 362. Gli antichi e l’editto;
  l’approvazione dei cristiani intransigenti; la disapprovazione dei
  cristiani moderati, dei pagani e degli indifferenti. — IV. Giudizio
  dei moderni. — V. Il merito e la portata de l’editto. — VI.
  L’applicazione e gli effetti. — VII. Disegni di nuove scuole e di
  riforme a vantaggio dell’istruzione classica e musicale. Giuliano
  e il favore accordato ai retori e ai filosofi. Il valore dell’opera
  dei Constantiniani nei rispetti della istruzione pubblica.


I.

L’ultimo dei discendenti della casa di Costantino, Giuliano l’Apostata,
è uno dei pochi imperatori di questa estrema età, che siano riusciti
a divenir popolari; certo è il solo, di cui oggi — anche all’infuori
della breve cerchia degli studiosi — si conoscano i tratti più
caratteristici della politica scolastica.

L’opera scolastica di Giuliano appartiene al secondo anno del suo
impero. Di questo tempo ci è anzi tutto pervenuta una legge, in cui
Giuliano conferma ai medici il privilegio, concesso dai predecessori,
di non essere tenuti all’obbligo di gerire i pubblici uffici e di
subirne gli oneri conseguenti.[580] Ma, se è soltanto probabile che,
con tale legge, egli volesse eliminare una restrizione imposta dai
figli di Costantino il grande,[581] è certo che egli mirò con essa a
favorire, non solo l’arte della medicina, ma anche l’insegnamento di
questa, che aveva già assunto una notevolissima importanza, e di cui
grande è la stima che Giuliano dimostra di fare.[582]

Forse, in quello stesso anno, Giuliano fondava in Costantinopoli, nel
_Portico regio_, una nuova biblioteca, nella quale trasferiva tutti i
libri di sua privata proprietà, ma che non pare egli abbia aperta al
pubblico.[583]

L’amore di Giuliano pei libri, pur fra le logoranti cure del suo
governo, fu indicibile. Secondo la sua stessa espressione, il suo
amico migliore era lo schiavo bibliotecario,[584] e noi abbiamo delle
informazioni sui mezzi, forse eccessivi, cui talora egli dette di
piglio, per impedire che talune collezioni di opere andassero sperdute,
e affinchè venissero invece raccolte nelle pubbliche biblioteche
dell’impero.[585]

Ma fin qui nulla di rivoluzionario e di caratteristico. Noi siamo
sull’antica via, battuta dai predecessori. Gli atti caratteristici del
suo governo, e che tanto incendio di odii e di entusiasmi destarono
tra i contemporanei, e, più di censure che di lodi, tra i posteri,
riguardano un’altra cosa; riguardano l’insegnamento pubblico e privato.
La prima disposizione in proposito è contenuta in una legge, anch’essa
del 362. Questa stabiliva, per chiunque avesse voluto professare
l’insegnamento, la necessità dell’autorizzazione, sia da parte delle
autorità municipali, sia da parte del potere centrale; autorizzazione,
per rilasciare la quale si sarebbero dovute pigliare in considerazione
così le qualità morali, come i meriti scientifici e didattici del
richiedente. La legge diceva con precisione: «È necessario che i
maestri eccellano prima per costumi, poi per eloquenza. Ma giacchè Io
non posso trovarmi a giudicare nelle singole città, ordino che chiunque
voglia insegnare non vada d’un tratto, e audacemente, a quell’ufficio,
ma ottenga l’approvazione dell’ordine dei curiali e ne sia autorizzato
da un loro decreto, dietro parere d’una Commissione di competenti.
Il decreto sia quindi passato a Me, per un ulteriore esame, affinchè
l’interessato acceda all’insegnamento, rivestito — dopo il Nostro
giudizio — di un più alto onore.»[586]

La prima questione, che tale legge solleva è relativa alla
qualità delle persone, cui essa si indirizzava. Si indirizzava ai
docenti d’ogni grado, o, soltanto, a quelli dei gradi superiori
dell’insegnamento?

Il quesito a me sembra venga sciolto dal primo periodo della legge
stessa, per cui i docenti avrebbero dovuto eccellere, oltre che
per costumi, «per eloquenza». È noto come tale requisito non poteva
ricercarsi negli insegnanti primarii, i _litteratores._ La legge dunque
non poteva riferirsi ad essi, ma ai grammatici, ai retori, ai filosofi;
e tale ipotesi viene confermata dalla idea, che ormai possiamo esserci
formata, della varia cura, che lo Stato nutrì verso i tre gradi
dell’istruzione impartita ai fanciulli ed ai giovani.

D’altra parte, si riferiva la legge a tutti i docenti pubblici e
privati, o a quelli soltanto? La più comune è — inesplicabilmente
— la prima delle due ipotesi.[587] Se non che essa riesce, a mio
parere, insostenibile. Che i docenti pubblici, i docenti cioè nelle
cattedre comunali venissero nominati dietro giudizio e decreto dei
curiali era norma antica, consueta e costante. Ma, nella legge di
Giuliano, la novità, che si impone, è appunto tale decreto, giacchè
la ratifica del principe — per chi legga senza preconcetti — rimane
come un’aggiunta trascurabile, sulla quale non si mostra neanche
l’intenzione di calcare. Basterebbe questo solo per convincere che la
legge doveva riguardare anzi ogni altro i docenti privati. Ma non è
tutto: se si volesse vedere, come s’è veduta, un’intenzione malevola
nella tinta anodina dell’ultima clausola; se si volesse supporre la
legge creata apposta per quell’epilogo, che avrebbe nascosto nelle
pieghe un tranello — l’espulsione dei Cristiani dall’insegnamento — e
se si connettesse perciò alla legge come anche è stato fatto — [588]
un editto dello stesso imperatore, che esamineremo più innanzi, il
quale illustra l’incompatibilità della fede cristiana con l’ufficio
d’insegnante nelle scuole a tipo classico, la nostra opinione sui
riferimenti della legge ne verrebbe assolutamente confermata, in quanto
l’editto parla di docenti in genere, non di pubblici docenti soltanto,
e stabilisce una contraddizione, non già tra la qualità di Cristiani
e i doveri verso lo Stato pagano, ma fra la fede Cristiana e una certa
forma d’insegnamento.

Per ultimo, noi sappiamo che la legge di Giuliano venne indubbiamente
abrogata da un’altra di due anni dopo, a firma degli imperatori
Valentiniano e Valente. Or bene, la dizione di quest’ultima è tale da
escludere ogni volontà di riferirla alle sole scuole municipali: «A
coloro, i quali, vuoi per dignità di vita come per eloquenza, sono
pari all’ufficio di istruire i giovani, si dà facoltà di aprire una
nuova scuola, o di riaprire l’antica, che eventualmente avessero dovuto
chiudere»[589].

Si trattava dunque di scuole tenute da privati e da Comuni, e,
quindi, di una misura, che non aveva precedenti. Fino a quel tempo,
l’insegnamento era stato libero, e solo la legge della concorrenza
aveva regolato la buona o la cattiva sorte delle numerose scuole
dell’impero. Certo, violazioni di questa libertà c’erano state, anzi
— l’abbiamo visto — non così di rado come taluni storici hanno amato
supporle; ma erano rimaste misure straordinarie di repressione, non
mai forme legali di prevenzione, con cui si fossero applicate agli
insegnanti privati le specie di autorizzazione, allora in uso per le
cattedre mantenute a spese pubbliche, e per cui si fosse riservata ai
consigli comunali ed al principe la facoltà di dispensarle. Ora siamo
appunto a questo;[590] l’insegnamento privato è colpito, e l’unica
sua forma, che poteva rimanere, e che certo rimase, immune da tale
controllo, sia per la difficoltà della verifica, sia perchè ad essa
non sembra abbia mirato una legge del tenore, che abbiamo riferito, era
ormai solo quella dell’insegnamento privato domestico.


II.

La _costituzione_ di Giuliano non dovette dunque mancar di produrre la
generale impressione di una novità rivoluzionaria. Ma, oltre ad essa,
ce n’è pervenuta una seconda, che suole impropriamente chiamarsi, e
chiameremo anche noi, _editto_, che i successori esclusero dai codici
ufficiali e che ci è quindi unicamente serbata nella raccolta delle
lettere di lui,[591] con cui si vieta ai Cristiani, e pel presente
e per l’avvenire, l’insegnamento nelle scuole di retorica e di
grammatica. È desso un documento polemico di tale importanza, che mette
ben conto riferirlo per intero: «Noi pensiamo che una sana istruzione
ed educazione non consistano nell’accurata euritmia dalle parole o
dell’eloquio, ma nella disposizione di una mente sana e che abbia
un verace concetto del bene e del male, dell’onesto e del disonesto.
Per la qual cosa chi ha un’opinione e ne insegna un’altra diversa è
tanto lontano dall’impartire ciò che si dice una educazione, quanto
dall’essere una persona dabbene. Se il disaccordo tra il pensiero e la
parola si limita a cose di piccola importanza, egli arrecherà del male,
sebbene in misura tollerabile. Ma, se, in questione di grandissima
importanza, egli pensasse in un modo e insegnasse il contrario di
quello che pensa, il suo sarebbe certamente un agire da mercanti, non
dico onesti, ma pessimi. Infatti, al pari di costoro, tali maestri
insegnerebbero specialmente ciò che specialmente giudicassero falso,
ingannando e adescando coloro, ai quali vogliono — o io m’inganno —
vendere le loro cattive merci, che coprono di elogi.[592]

«Occorre perciò che tutti coloro, i quali aspirano all’insegnamento
siano di retti costumi, e non nutrano opinioni in contrasto con
quelle professate in pubblico. Ma io penso ciò imprescindibile per
quelli che insegnano ai giovani, illustrando le opere degli antichi,
in qualità di grammatici, di retori e, più ancora, di sofisti, i
quali ultimi tengono, al confronto degli altri, ad essere, non solo
maestri di eloquenza, ma eziandio di morale, e sostengono che spetti
ad essi la filosofia del vivere civile. Se questo sia vero o meno,
io ora non discuto; ma, pur lodandoli per le loro aspirazioni a così
nobili dottrine, li loderei di più se non mentissero, e se non si
condannassero da sè, insegnando cose diverse da quelle che realmente
pensano.

«Ma come? Omero, Esiodo, Demostene, Erodoto, Tucidide, Isocrate e Lisia
stimano che gli Dei debbano ispirare e guidare tutta la educazione;
di essi, taluni si credevano sacerdoti di Mercurio, altri delle Muse,
e non sarà dunque assurdo che coloro, i quali ne illustrano le opere,
vituperino gli Dei da quelli onorati?

«Tuttavia, non perchè giudico assurdo tutto questo, io dico necessario
ch’essi mentiscano dinanzi ai giovani, ma io li lascio liberi di non
insegnare ciò che non reputano conveniente, e richiedo che, se vogliono
insegnare, insegnino prima con l’esempio e convincano i discepoli che
nè Omero, nè Esiodo, nè alcuno di quegli autori, ch’essi illustrano,
e dei quali hanno condannato l’empietà, la stoltezza e le aberrazioni
religiose, sono realmente empii o stolti. Altrimenti, poichè essi sono,
come maestri, alimentati dai salarii, che ricavano in grazia degli
scritti di quelli, confesserebbero di essere sordidamente ingordi e
capaci di subordinare tutto a poche dramme di guadagno.

«Fino ad oggi molte cause impedivano di frequentare i tempii, e il
terrore, che incombeva d’ogni parte, li scusava di nascondere le loro
vere opinioni in fatto di religione. Ma poichè gli Dei ci concessero
la libertà, mi sembra assurdo che s’insegnino dottrine giudicate
erronee. Se i maestri pensano che furono sapienti gli autori, che
essi ora illustrano e di cui quasi seggono interpreti, li imitino
anzi tutto nella pietà verso gli Dei. Ma se invece pensano che quelli
abbiano errato circa le Divinità, che dovrebbero essere più sacre,
vadano nelle chiese dei Galilei e interpretino Matteo e Luca, i quali
impongono — e Voi, maestri cristiani, ne ripetete il precetto — che si
debba astenersi dalle cerimonie sacre pagane. Quanto a me, io vorrei
che le Vostre orecchie e la Vostra lingua — userò di una delle Vostre
espressioni — _si rigenerassero_ in quelle dottrine, alle quali io mi
auguro sempre di rimanere fedele, come lo auguro a chiunque pensa e
opera cose a me gradite.

«Questa legge riguarda gli educatori e i maestri; chiunque invece
dei giovani vuol frequentare le scuole non ne è escluso. Infatti non
è ragionevole chiudere la via migliore ai fanciulli, ancora ignari
dell’indirizzo da scegliere, o condurli, per timore, nolenti, alle
patrie consuetudini. Forse sarebbe logico curarli, anche contro lor
voglia, come si curano i deliranti; ma noi tollereremo in tutti questa
malattia, giacchè io penso che sia d’uopo istruire, non mai punire,
coloro che riteniamo in errore.»

Tale il famoso editto di Giuliano sulle scuole pubbliche e private
dell’impero, editto repressivo e preventivo ad un tempo, in quanto esso
riguardò i maestri in funzione ed i maestri futuri. Vi seguì qualcosa
di più grave?

Tutti gli scrittori cristiani delle cose di questo tempo affermano,
con quasi invariata stereotipia, che Giuliano vietò anche ai Cristiani
di apprendere le lettere greche e latine e di frequentare le scuole
pagane.[593] Se non che, nonostante l’ampiezza della testimonianza
non si può con tranquilla coscienza pensare ad una seconda legge,
od editto, di quest’imperatore, che avessero il contenuto che vi si
attribuisce.

Quel contenuto anzitutto sta in categorica contraddizione con la parola
e con lo spirito delle disposizioni precedenti. Il primo editto invero
concludeva: «Questa legge riguarda gli educatori e i maestri; chiunque
invece dei giovani vuol frequentare le scuole non ne è escluso. Infatti
non è ragionevole chiudere la via migliore a fanciulli, ancora ignari
dell’indirizzo da scegliere, o condurli, per timore, nolenti, alle
patrie consuetudini. Forse sarebbe giusto curarli, anche contro lor
voglia, come si curano i deliranti; ma noi tollereremo in tutti questa
malattia, giacchè io penso che sia d’uopo istruire, non punire, coloro
che riteniamo in errore.»

Ma non basta: un divieto del genere supposto dagli oratori e dagli
storici ecclesiastici è per sè stesso inammissibile.

Giuliano bramava che la cultura classica raggiungesse tutta la sua
piena efficacia; era questo uno dei suoi pensieri dominanti; per questo
egli la voleva impartita da credenti pagani; ma egli, per ciò stesso,
non poteva volerne esclusi i giovani cristiani, anzi aveva motivo di
volere ch’essi accorressero numerosi a riceverla.

Infine, il silenzio di tutte le fonti di ogni altro genere (che
non siano le cristiane) sul divieto, imputato all’imperatore,
dell’istruzione classica ai giovani cristiani, mentre sappiamo che esse
sono assai ben informate intorno all’attività politica di lui, deve
gravemente impensierire. E significativa sopratutto è la mancanza,
nelle stesse fonti cristiane, di un diretto accenno a due leggi, o
a due editti distinti, di cui il secondo contenga le disposizioni
incriminate, che pur si desidererebbe conoscere. Le fonti cristiane
accusano in genere l’imperatore del tenore dell’opera sua, ma passano
assolutamente sotto silenzio il testo, anzi la sola specificazione,
di un secondo editto, che le loro accuse lascerebbero supporre[594].
È chiaro dunque come debba trattarsi di un equivoco e di una infedele
relazione del contenuto dell’unico divieto esistente. E di tale fatto
noi siamo in grado di rintracciare la genesi. Giuliano aveva vietato
ai maestri cristiani l’insegnamento; e gli oratori sacri del tempo
tuonarono che i cristiani venivano perciò esclusi dal diritto comune
di apprendere le lettere e l’eloquenza greca e latina. Tutti gli
altri ripeterono quella imaginosa informazione, e la calunnia amara
traversò i secoli, divenendo l’arme peggiore ai danni della reputazione
dell’imperatore filosofo.


III.

Le più notevoli disposizioni di Giuliano circa l’insegnamento si
possono quindi limitare a due: il controllo dell’autorità municipale
e imperiale sui titoli di coloro, che aspiravano ad insegnare, e
il divieto relativo ai Cristiani. Ma la vivacità delle polemiche,
che intorno vi si sono agitate, impone ora anche a noi di riandarle
ampiamente e di esprimere in proposito un qualunque giudizio.

La prima legge di Giuliano non ha nulla di men che ragionevole.
La quasi sconfinata libertà d’insegnamento, lasciata fin allora
dal governo romano ai singoli docenti, se era un bene, in quanto —
teoricamente almeno — non insidiava, nè meccanizzava, il contenuto o i
metodi dei singoli docenti, poteva tradursi in un danno pubblico tutte
le volte che l’insegnamento veniva accaparrato da maestri ignoranti
od inetti. Ed invero, il fatto della concorrenza, che in parte valeva
ad impedire ciò, si combatteva, non soltanto nel campo del merito,
ma anche in quello dell’economia, e il maestro di minor merito, ma
più a buon mercato, poteva conseguire maggior fortuna e maggior
numero di scolari di altri, più degni e più meritevoli. Riusciva
quindi, nell’interesse pubblico, necessaria una disamina preventiva
della capacità dei docenti, e, siccome dubitare della imparzialità
dei Consigli municipali non era certamente cosa temeraria (ne aveva
dubitato anche l’insospettabile Costantino con una sua citata legge
del 321), l’imperatore poteva ben a ragione volervi aggiunto il
controllo del governo centrale. L’una e l’altra di queste due ingerenze
corrispondono perfettamente a quanto oggi si pratica nella maggior
parte delle nazioni civili.

Rimane l’editto, che — si è detto — veniva a limitare la libertà
d’insegnamento.

Le censure della grande maggioranza dei cristiani di quel tempo sono
in verità assai poco persuasive; tradiscono anzi la propria debolezza,
rivolgendosi, come esse fanno, non contro l’editto, ma contro una
sua equivoca interpretazione, secondo cui Giuliano avrebbe vietato,
non già ai maestri Cristiani, l’insegnamento, ma ai giovani di quella
fede, l’apprendimento delle lettere e dell’eloquenza greca e latina.
Certo, in tal caso, il provvedimento di Giuliano sarebbe stato
gravemente deplorevole; per fortuna, si trattò di ben altra cosa, e
questa soltanto sarebbe bisognato discutere, e, se fosse stato d’uopo,
censurare.

Non è però da credere che i più che rari scrittori cristiani, i
quali con maggior verità accennano al provvedimento, che fu realmente
adottato da Giuliano, lo definiscano in modo benevolo. Tutt’altro!
Essi, come era costume di quel tempo, agitato da grandi passioni
politiche e religiose, corsero all’eccesso opposto, e S. Giovanni
Crisostomo, che non fu l’ultimo tra quei Cristiani, rendendo il
pensiero, che doveva essere della maggioranza, definisce senz’altro
l’editto «una mala azione»[595].

Ma non tutti i credenti nella nuova religione accolsero con egual
sentimento i divieti imperiali. Una piccola parte tra essi ne fu
soddisfatta. Questi — erano i più intransigenti — approvarono,
esultanti. Finalmente veniva rotto ogni pericoloso contatto con la
coltura classica, diffonditrice dell’aborrito politeismo! Finalmente il
Cristianesimo si sarebbe servito di mezzi e di forme proprie, nè più si
sarebbe contaminato con il pensiero e con il sentimento pagano![596]

Ma, se così esplicito fu il giudizio dei cristiani, transigenti ed
intransigenti, non altrettanto possiamo dire dei pagani. Esultarono
essi dell’editto? Non v’ha, nelle nostre fonti, nessun elemento,
nessuna traccia che ci autorizzi ad affermarlo. Ma questo silenzio
è di quelli, che recano in se stessi un grave significato. È infatti
impossibile immaginare che, in tanto fervore di polemiche, i Cristiani
avessero obliato quella, che certamente, se ci fosse stata, avrebbero
definito con le frasi più atroci: la demoniaca esultanza degli
avversarii trionfatori; è inconcepibile che questi, se tale esultanza
avessero provata, non fossero anch’essi entrati in polemica.

Ma della noncuranza, anzi forse del biasimo dei pagani, noi abbiamo
una diretta riprova nel giudizio aspro, che Ammiano Marcellino dà
dell’editto, ch’egli definisce «misura degna d’essere sepolta sotto un
perenne silenzio».

Come assai giustamente è stato notato, Ammiano Marcellino fu un
onesto ed imparziale narratore, ma uno spirito mediocre, il quale
non prese interesse, non che alle questioni religiose, ad alcuna
delle grandi questioni ideali del tempo, di che la sua _Storia_ ci
fa fede piena. Egli, specie dopo l’insuccesso, non poteva quindi
non deplorare che un principe, tanto prode come Giuliano, si fosse
impelagato nei flutti insidiosi delle dispute teologiche[597]. Se
non che, tale stato di animo, tale indifferenza, tale mediocrità di
pensiero e di sentimento dovevano essere comuni alla grande maggioranza
dei pagani del tempo, come sono, del resto, in ogni tempo, comuni
alla grande maggioranza degli uomini. Da siffatta constatazione ebbe
anzi a provare le maggiori amarezze l’imperatore filosofo, nella sua
vanamente tentata riforma spirituale. Il suo editto aveva parlato di
cristiani; ma quanti maestri pagani non tradivano ugualmente, dalla
cattedra, la loro missione rigeneratrice, quale la concepiva Giuliano!
E che veniva, per essi, ormai blaterando costui, in un editto, odiosa
preparazione, e conseguenza insieme, di tante altre sue fastidiose
riforme e velleità? Cotale irritazione sorda, cui l’insuccesso diede la
baldanza e l’insolenza della viltà, è consegnata nella frase di Ammiano
Marcellino, e risponde all’atteggiamento spirituale della grande
maggioranza dei pagani.

Solo qualche spirito eletto intese il pensiero imperiale: qualcuno di
quei nobili sognatori, che insieme con lui si affaticavano invano a
fermare l’ora del tempo, che mai non s’arresta; qualcuno dei migliori
tra i filosofi o i retori, in corrispondenza con lui, forse Massimo,
forse Prisco, l’amico, più che il protetto di Giuliano, che alla
fine di lui e del suo sogno di risurrezione del paganesimo, nascose
l’infinita amarezza dell’anima, e seppellì, come si esprime un suo
biografo, la lunga vecchiezza negli antichi templi della Grecia;[598]
forse Libanio, che con grande finezza spiegava come l’imperatore
«ritenesse indissolubili l’eloquenza e il culto degli Dei.»[599] Ma che
valor politico poteva avere, che efficace conforto poteva arrecare la
tacita o aperta approvazione di qualche isolato?


IV.

Gli storici moderni non sono potuti essere, nè sono stati, più
imparziali o più benevoli degli antichi. Per inevitabile caso,
la maggior parte di coloro, che hanno studiato l’opera del grande
Apostata, sono stati dei cristiani; taluni, dei ferventi cristiani.
Questa condizione vietava loro di essere imparziali, e li sospingeva
a precipitare là, dove conduce la più triste delle cecità, la cecità
di parte religiosa. Ma sarebbe ciò stato possibile anche nel caso,
non dirò di un opposto indirizzo, ma di una maggiore remissività di
tendenze? È pur troppo da disperarne! La Chiesa, il Cristianesimo sono
cose troppo intime, troppo connesse con la civiltà di cui viviamo,
occupano troppa parte nella nostra vita d’ogni giorno, perchè con tutto
il buon volere possiamo giudicare all’infuori delle nostre passioni
e delle nostre prevenzioni. Specie poi in argomento come questo, che,
con facile equivoco, tende a risuscitare le preoccupazioni di tutta la
civiltà moderna pro o contro l’insegnamento così detto confessionale,
pro o contro l’insegnamento così detto laico. In tali condizioni, la
vantata imparzialità dello storico si riduce a ben piccola cosa: alla
sua onestà nel servirsi delle fonti, alla cautela e al valore delle sue
personali opinioni. Questo è tutto quanto gli si può richiedere. Ma è
di questo, pur troppo, che gli storici di Giuliano hanno, nella grande
maggioranza, mancato!

Spigolando infatti tra i giudizii meno remoti e più autorevoli,
troviamo anzitutto che gli ortodossi espositori delle relazioni
fra la Chiesa e lo Stato, nel IV. secolo di C., hanno definito
con frasi durissime l’atto legislativo di Giuliano. L’editto, le
cui parole apparirebbero imbevute di fiele e di vanità letteraria,
rappresenta per loro, addirittura, il denudarsi sfacciato del suo
odio anticristiano.[600] L’editto, ciecamente intollerante, sarebbe un
misto di violenza e di astuzia settaria[601], il cui fine era soltanto
quello di precipitare nell’ignoranza e nel disprezzo i Cristiani[602].
C’erano state persecuzioni più brutali, non mai persecuzione più
irritante[603].

I tiepidi hanno scritto che l’editto fu un’iniquità, una misura
insidiosa, illegale (??), intollerante, ben meritevole dell’aspra
censura ch’ebbe a colpirla; che il moralista vi si appalesa un
cavilloso azzeccagarbugli, e che il lettore non può non associarsi alla
giusta ira di Gregorio Nazianzeno.[604] Hanno scritto che le vedute
pedagogiche dell’editto di Giuliano sono da condannarsi da un punto
di vista semplicemente umano, e che il diritto alla cultura ellenica è
diritto sulla lingua e sull’eloquio greco, ma che esso è indipendente
da qualsiasi più intima connessione con quella civiltà....[605]
Giuliano avrebbe detto brutalmente, sia pure in veste filosofica: «O
la mia scuola, o l’ignoranza», e avrebbe dato il primo crudo esempio
di ulteriori dilemmi, coi quali altri Stati cercheranno di imporre la
propria scuola ed i propri maestri.[606]

Finalmente, i più benevoli nel giudicare l’opera di Giuliano, quando
non si sono accodati alle due categorie precedenti di censori,[607]
non hanno sempre osato giudicare l’editto, e giustificarlo, senza
reticenze, senza ambagi, parlando come forse pensavano. Hanno detto
invece che l’opinione di Giuliano sul diritto degli studiosi e dei
maestri a servirsi della cultura greca era, per il suo tempo, tanto
giustificata quanto l’opinione degli avversarii; ma che oggi noi
possiamo dire che la ragione stava dalla parte di questi ultimi, e che
il giudizio di Ammiano Marcellino può ben meritare di essere a cuor
tranquillo confermato.[608] Hanno spiegato che Giuliano concepiva la
lotta fra la civiltà greca e la cristiana così come i cristiani più
intransigenti, sicchè per lui nessuna conciliazione poteva supporsi fra
l’una e l’altra, e bisognava che, in quel duello, ciascuna si avvalesse
delle risorse e dei mezzi proprii e non tentasse trionfare con le armi
dell’avversaria.[609] Ma hanno al tempo stesso avuto cura di premettere
che, solo da tale punto di vista, tutto sociale dell’imperatore, e nel
cui merito essi si sono ben guardati di entrare, i suoi provvedimenti
potevano dirsi logici e giustificabili. Hanno soggiunto che Giuliano
era più chiaroveggente dei suoi censori, giudicando impossibile l’uso
equo e rispettoso degli autori pagani nelle scuole tenute da Cristiani,
ma che sarebbe stato ancor più chiaroveggente, qualora avesse
compresa, e non già respinta, la inevitabile, graduale infiltrazione
di elementi ellenici nel cristianesimo. Che, ad ogni modo, si può
disapprovare la sua politica, ma non disapprovare la sua indignazione
contro i tentativi operati dai Cristiani a danno delle letterature
classiche[610].

Solo fra i moderni, quasi ricollegandosi, non nel tenore dei giudizii,
ma nelle audacie dell’indipendenza, agli Enciclopedisti e ai filosofi
del secolo XVIII., i quali si erano sforzati di rivendicare il pensiero
e la figura dell’imperatore Apostata, un italiano, Gaetano Negri,
non storico di professione, ma fine osservatore ed uomo politico,
ha discusso la non difficile questione con maggiore originalità e
senno di ogni altro; e, movendo da considerazioni indubbiamente più
elevate, ha giudicato che Giuliano era nel suo pieno diritto, allorchè
esigeva il consenso dei maestri alle opinioni degli autori classici,
oggetto del loro insegnamento. E poichè, dopo questo, egli rimandava i
Cristiani ai libri genuini del Cristianesimo e i Pagani, ai libri del
Paganesimo, egli non veniva con ciò — menomamente — ad infirmare la
libertà religiosa dei suoi sudditi, nè tanto meno ad offendere quella
che suol dirsi la libertà dell’insegnamento. Giuliano avrebbe, nella
sua legislazione scolastica, applicato quella stessa teorica, che, nel
grave dibattito dei diritti e dei doveri dello Stato, il Negri sceglie
e fa, per suo conto, propria, la teorica, la quale riconosce che,
in fatto di disciplina sociale, lo Stato è un interessato, il quale,
come ha il diritto di difendere la propria organizzazione, ha anche
il dovere di imporre — _ai docenti che esso istituisce_ — una propria
dottrina morale.[611]

Come avremo a vedere, le giustificazioni del Negri non sono sempre
esattissime, ma egli è certo, fra i moderni, l’unico che abbia
cercato di giudicare con criteri, che non fossero nè frutto di volgare
empirismo, nè stereotipe ripetizioni di perifrasi altrui.


V.

Esaminiamo ora, per nostro conto, pacatamente, l’editto nelle
motivazioni, che il suo autore ce ne porge, e nella sua intima essenza.

In esso, noi possiamo anzi tutto costatare che, se c’è qualcosa, da cui
Giuliano mostra di rifuggire con tutte le forze dell’animo, qualcosa,
anzi, che egli avversa con tutto lo sdegno della sua passione, è quella
che noi diciamo la scuola secondaria _neutra_, quella scuola, in cui,
pur aspirandosi alla educazione morale e intellettuale dei giovani,
non si formano nè convinzioni, nè sentimenti determinati circa la vita
ed il mondo, quella scuola, in cui le discipline che si insegnano, gli
autori che si illustrano hanno il più estrinseco valore formale, e non
solo nessun valore scientifico, ma nessun valore, nessuna efficacia
formativa. La scuola è, per lui, generatrice o _rigeneratrice_ di
anime, e, per lui, «una sana istruzione ed educazione non consistono
nella accurata euritmia delle parole e dell’eloquio, ma nella
disposizione di una mente, che abbia un verace concetto del bene e
del male, dell’onesto e del disonesto». E questa condizione, se egli
riteneva opportuna per ogni forma e grado dell’insegnamento, diceva di
ritenere «imprescindibile» — richiamo le sue stesse parole — per coloro
che insegnano ai giovani, per coloro, che dicono di voler essere, non
solo maestri d’eloquenza, ma eziandio di morale e di vita civile. È
noto quali per gli Elleni si fossero il bene ed il male, il lecito e
l’illecito, l’onesto e il disonesto. Il mondo classico nutriva fede
indomita nella potenza della ragione, esaltava il valore della bellezza
sensibile, la giocondità della vita, la energia superba dell’azione.
Tutto ciò costituiva la sua caratteristica, la sua forza, la sua
gloria, ciò che bisognava amare, e far amare, ed apprezzare.

Era questo il compito dei professori di letteratura. Esercitare
un’azione morale sui giovani, dirigerne lo spirito, ciò che, a detta
del grande Platone, i genitori richiedevano più ancora della scienza
delle lettere e dell’arte della cetra[612], spettava agli illustratori
della poesia e dell’arte antica, la grande, e, per lungo tempo, unica
scuola del dovere, l’istitutrice per eccellenza della vita. Ma tutto
ciò, come gli ideali dell’anima pagana, come la legittimità di dirigere
a tale scopo la lettura dei poeti, dei prosatori, dei filosofi antichi,
era — ed è stato in ogni momento della storia — recisamente negato
dalla Chiesa cristiana.

Se però la censura e il pensiero di Giuliano riguardavano direttamente
la scuola media del tempo, quella che appunto si diceva scuola del
grammatico, essi non ismarrivano alcun che della loro efficacia, quando
venivano ad applicarsi — come era pur detto — a uno degli insegnamenti
superiori dell’antichità, quello della retorica. Non solo, invero,
le differenze costitutive fra questi due gradi di istruzione, per
cui oggi la prima si vuole essenzialmente educativa, la seconda,
essenzialmente scientifica e professionale, non trovano esatta
rispondenza nell’antichità, in cui, per limitarmi a un solo esempio,
la scuola del retore continuava ad essere per buona parte una scuola
formativa del gusto e del pensiero del discente. Ma, come se questo non
bastasse, le esercitazioni, che la occupavano, erano, per loro essenza,
le più lontane dallo spirito cristiano. La retorica, maestra della
scienza oratoria, non poggiava infatti sulla verità assoluta, o su
quella che tale si fosse creduta, ma sulla minore o maggiore capacità
polemica degli argomenti, che essa porgeva a seconda delle circostanze.
Suo punto d’onore era fornire gli espedienti, per cui si riesce a
imporre, non già la convinzione del vero e la confutazione del falso,
ma, indifferentemente, l’accoglimento dell’uno o dell’altro. Il retore,
in quanto tale, non ha perciò opinioni o passioni; tutte le passioni
e tutte le opinioni gli rimangono estranee. Egli non va a fondo di
nessuno dei problemi del mondo e della vita; per lui, tutto sta nella
maniera, con cui abbellire, e far passare, qualsiasi opinione; ed è
noto, infatti, come il culto della forma per la forma, e la negligenza
del contenuto, in quanto contenuto, sono giunti a noi dalle scuole
di retorica dell’antichità.[613] Or bene, questo, nel piano generale
della vita e dell’educazione pagana, aveva il suo scopo, il suo merito,
come aveva anche i suoi pericoli. Ma che di più antitetico, di più
contradditorio con lo spirito cristiano, e come mai dei Cristiani
avrebbero potuto farsene maestri?

Ma, a parte tali considerazioni, come non sentire, e non prevedere,
che il grammatico e il retore, che di cristiano non avessero soltanto
il nome, erano naturalmente portati a opporre un’altra teologia a
quella dei filosofi, che facevano studiare, a dare un senso nuovo alle
leggende dei poeti, ad attenuare con delle riserve, a neutralizzare,
non soltanto l’efficacia logica di quell’insegnamento, ma la stessa
sua efficacia educativa, a spianare ad ogni istante le pieghe, ch’esso
imprimeva nell’animo dei discenti. Tutto ciò equivaleva a cancellare
il più che si poteva, a distruggere forse, l’efficacia di quella stessa
scuola, di cui i docenti erano i ministri e i sacerdoti.

Ma se a questo si fosse limitato, il loro metodo avrebbe potuto
costituire un male rispetto alle finalità della scuola, in cui
insegnavano, ma in fondo, entro modestissimi confini, esso avrebbe
pure potuto dar vita ad altre forme d’insegnamento e di educazione
spirituale. Ma tutto ciò non facevano, nè potevano fare, che i
migliori; i più dovevano vuotare la scuola classica di tutto il suo
spirito, senza nulla collocare al suo posto; dovevano farla degenerare,
come più tardi degenerò, in un esercizio, in una meccanicità, non
si sa bene, se più risibile, o più colpevole. Sarà questo infatti
il carattere generale dell’insegnamento classico in tutte le scuole
cristiane, specie in quelle rette da religiosi; di qui avrà origine
l’idea delle edizioni espurgate degli autori antichi[614], e Giuliano
era perfettamente nel vero, quando voleva fin da principio impedire il
consolidarsi di una tale deformità didattica.

L’insegnamento, dunque, che egli condannava, subiva la sorte meritata,
non in quanto era impartito da una certa categoria di persone, più
che da una altra; non in quanto contraddiceva alle idealità della
società pagana, ma in quanto esso contraddiceva agli elementi oggettivi
fornitigli dalla scuola, in cui s’impartiva, in quanto repugnava agli
istrumenti, di cui si serviva, in quanto — peggio ancora — si tramutava
nella negazione di se stesso. E la condanna di Giuliano, quali che
ne fossero stati i primi eccitamenti personali, conteneva in sè un
alto valore didattico ed educativo, come la tendenza, a cui le volute
riforme rispondevano, era la sola capace di restituire alla scuola
la virtù del docente, la sua efficacia, quale plasmatore di anime e
di intelligenze, tutto ciò, infine, per cui la parola e il concetto
di scuola han valore. Richiamando e grammatici e retori alla coerenza
con se stessi, Giuliano restaurava l’uomo nel docente, e in quel suo
richiamo era tanto di verità quanto difficilmente si sarebbe potuto
trovare in una concezione opposta, magari liberata dagli errori, di cui
l’imperatore avea potuto macolare la propria.

Non basta! Quest’idea centrale, profondamente sana, dell’illustrazione,
che Giuliano premette al dispositivo del suo editto, non induce
Giuliano, come si è pensato, al divieto assoluto dell’insegnamento ai
Cristiani; lo fa invece concludere con la imposizione che esso sia
da loro tentato con mezzi e con ispirito proprio. «Se [i maestri]
pensano che furono sapienti gli autori, ch’essi ora illustrano, e
di cui quasi seggono interpreti, li imitino anzi tutto nella pietà
verso gli Dei. Ma, se invece pensano che quelli abbiano errato circa
le Divinità, che dovrebbero essere più sacre, vadano nelle chiese
dei Galilei e interpretino Matteo e Luca, i quali impongono, e Voi,
maestri cristiani, ne ripetete il precetto, che si debba astenersi
dalle cerimonie pagane.» E quanto ai giovani scolari, essi sono,
nell’editto, dichiarati esplicitamente liberi di frequentare le scuole
dei Cristiani o pure quelle dei grammatici e dei sofisti pagani, «chè
non è ragionevole — continua l’editto — chiudere la via migliore a
fanciulli, ancora ignari dell’indirizzo da scegliere, o condurli per
timore nolenti alle patrie consuetudini»; «occorre, infatti, istruire,
non punire, coloro che riteniamo in errore».

Dell’esigenza di una conformità tra le opinioni dei maestri e lo
spirito pubblico non v’è dunque alcuna traccia; e così l’accusa,
rivolta a Giuliano, di avere, con la sua legge e col suo editto, offeso
la libertà dell’insegnamento, e di avere formulato l’una e l’altro
solo allo scopo di apparecchiare la cieca e partigiana esclusione dei
Cristiani dalle scuole, può dirsi tranquillamente, e in modo assoluto,
infondata e suggerita o da partigianeria, o da esagerato ossequio alla
tradizione, o da incompiuto esame dei fatti.[615]

Ma, se la libertà d’insegnamento non riceve nessuna violenza, è forse
l’editto ispirato a una determinata teorica, concernente il diritto
dello Stato d’imporre le proprie dottrine morali, e di escludere le
altre, come taluno dei migliori fra i critici moderni ha pensato?[616]

Neanche questo. Giuliano non faceva una questione di privilegio per le
dottrine dello Stato, _ma una questione sostanzialmente pedagogica_,
quali che ne fossero state le ispirazioni politiche e morali, che ve
lo avevano determinato, quali le ripercussioni, sociali e politiche,
che potevano attendersene. O, se esercizio di prerogative dello Stato
è nel suo editto a riconoscere, si tratta di ben altra cosa, non
sufficientemente constatata; si tratta di una più intima ingerenza del
potere centrale nelle faccende relative all’istruzione pubblica. Ma,
per questo rispetto, l’imperatore nulla innovava; continuava bensì la
politica, ormai da circa un secolo e mezzo inaugurata dai predecessori,
politica che, incensurati o lodati, i suoi successori cristiani
spingeranno a più estreme conseguenze[617], e che, in ogni modo, a
torto o a ragione, è, dal progresso della civiltà, riconosciuta ovunque
legittima.

Tutto questo non intesero gli scettici del tempo, anche se pagani;
questo non volle intendere, o non intese, la maggior parte dei
Cristiani, vuoi perchè le leggi emanate dai principi, debbono sempre,
a ragione od a torto, combattersi dai loro avversarii, vuoi perchè la
società cristiana si trovava allora già avviata in una pericolosa china
di adattamento con la massa, o pagana o incredula, dei contemporanei,
adattamento, da cui non ebbe mai più la possibilità di ritrarsi. Questo
invece — l’abbiamo visto — intesero i pochi Cristiani intransigenti
superstiti[618]. Nella loro ignoranza, essi forse non ricordavano che
il problema dell’educazione, anzi il problema della incompatibilità
dell’insegnamento pagano con la fede cristiana, era stato già dibattuto
fin dalle origini del Cristianesimo, e che allora appunto i Cristiani
l’avevano risolto come ora lo risolveva Giuliano. Ma la fede viva
e pura fece loro intravedere ugualmente la occasione propizia di
una rottura completa con le vecchie ideologie, e la continuazione,
nella scuola, di una propaganda spirituale, che avrebbe ricollocato
il mondo su nuove basi morali. Ed essi soltanto resero giustizia
all’Apostata.[619]

Ma i critici antichi e recenti di Giuliano sono in certo modo
giustificabili pel fatto che neanche l’imperatore intese tutta la
portata del principio, da cui moveva, o, se la intese, non l’applicò in
tutta la sua pienezza e in tutte le sue conseguenze.

Nell’editto, invero, il consenso intimo, che si richiede tra
docenti e insegnamento, si limita solo alla fede dei primi e alle
opinioni teologiche degli autori, strumenti del loro ministero. E
mentre la scuola deve, non già infondere delle nozioni teologiche,
ma determinare, in chi apprende, uno _stato morale_ nei rispetti
della vita, che ogni giorno si vive; mentre il difetto, constatato
dall’imperatore — l’assenza dell’uomo nel maestro — inquinava
la educazione del tempo, che s’era andata vuotando di qualsiasi
contenuto spirituale e — peggio ancora — sterilmente meccanizzando,
le perturbatrici prevenzioni religiose arrestarono e limitarono i
provvedimenti di Giuliano a qualcosa, che parve, e in minima parte
potè essere, rappresaglia religiosa e politica. Ciò che l’avrebbe —
irrimediabilmente — perduto nel giudizio dei futuri.


VI.

Quali furono, intanto, o si possono calcolare, le conseguenze pratiche
della legge del 362 e dell’editto?

Uno storico, dianzi citato, scriveva: «Il colpo ebbe una grande eco.
Non ci fu una città di studio, con scuole, che non entrasse d’un subito
in orgasmo. Dappertutto erano professori cristiani. Cosa avrebbero
fatto? E gli allievi si sarebbero costretti a non ascoltare e a
non seguire che un insegnamento, condannato ormai, senza contrasto,
all’errore?»[620]

Anzitutto — è bene metterlo ancora in rilievo, poichè non è mai stato
fatto a sufficienza — il divieto di Giuliano non riguardava tutti
gli ordini e tutte le specie di scuole. L’insegnamento elementare
rimaneva estraneo alle considerazioni dell’editto. E non questo solo.
Le scuole di filosofia, di giurisprudenza, di scienze esatte, le
scuole professionali, già incoraggiate da Costantino I. e dai suoi
figli, rimanevano anch’esse aperte a maestri cristiani e a pagani.
Tutta l’istruzione primaria, quella professionale e una buona parte
dell’insegnamento superiore non avevano dunque conosciuto ancora alcun
limite alla propria indipendenza. L’editto era stato la traduzione del
preciso intendimento di Giuliano di sottrarre ai Cristiani le scuole
aventi come precipuo scopo la formazione spirituale dell’uomo e del
cittadino nella società pagana, le scuole cioè di cultura media e
media superiore a tipo esclusivamente classico, e non si era occupato
di altro. Or bene, che, nelle scuole di grammatica e di retorica,
stessero ad insegnare dei Cristiani è noto, ma essi costituivano una
piccolissima frazione del corpo dei docenti.

Si dovette dunque trattare di poche dimissioni e di qualche
destituzione. Gli storici rammentano le due più famose. A Roma, il
retore Vittorino preferì abbandonare quella scuola, com’egli la
diceva, smerciatrice di ciarle, anzichè la fede di quel Dio, che
rende eloquenti i fanciulli appena nati e vuole ch’essi sappiano fare
a meno dell’insegnamento della retorica.[621] Tali dimissioni furono
certamente un atto lodevole; ma il volgare concetto, che quel maestro
aveva dei fini e dei mezzi del proprio ufficio, bastano da soli a
fare gravemente meditare sull’opportunità dell’editto imperiale, che
liberava la scuola di uomini, i quali spiritualmente l’avevano da
tempo disertata e da tempo avevano smarrito la divina virtù del proprio
magistero. Più vivaci commenti della dimissione di Vittorino dovette
destare quella di Proeresio, il retore, che abbiamo visto chiamato in
Gallia e poi a Roma, ove una statua, innalzatagli nel foro, recava
la scritta: «_Al re dell’eloquenza, Roma, regina del mondo._»[622]
Egli, nel 362, insegnava in Atene, dove, insieme con due tra i più
illustri Padri della Chiesa, S. Gregorio Nazianzeno e S. Basilio,
aveva già avuto discepolo anche l’imperatore Giuliano. Giuliano altra
volta aveva esaltato l’eloquenza di lui, l’aveva proclamato rivale di
Pericle e l’aveva invitato a divenire suo storiografo[623]. E, memore
del passato, egli tentò di usare verso il maestro tutte le indulgenze,
di cui, nonostante l’editto, la sua potestà imperiale era capace.
Gli concesse infatti di continuare a insegnare retorica ai giovani
cristiani[624]. Ma Proeresio rifiutò la concessione ed abbandonò
sdegnosamente la cattedra[625].

Nessun altro nome ci viene fatto dagli antichi. Questo non vuol
dire che i destituiti e i dimissionarii si limitassero a due soli.
La schiera dei colpiti dovette essere più numerosa, e ad essa va
aggiunta l’altra — che le fonti cristiane amano dire insignificante
— [626]degl’imbelli, che dichiararono di convertirsi, pur di serbare
la cattedra. Ma, dato il complesso di tutte le nostre informazioni,
sebbene questa volta ci troviamo dinnanzi a dei narratori, interessati
alla parzialità, possiamo ben affermare che le conseguenze di questa
così detta persecuzione furono assai minori di quelle, che sotto
altri principi, avevano per l’innanzi subìto, non dirò i Cristiani,
ma gli stessi filosofi pagani. L’esempio inoltre della generosità,
voluta usare nei riguardi di Proeresio, è assai significativo, e
poichè il giudicare spettava, volta per volta, al principe, noi
possiamo pensare che la sua pratica dovette informarsi al criterio di
escludere dall’insegnamento solo quei Cristiani, che l’incapacità e
l’intransigenza, o l’una e l’altra insieme, rendevano inconciliabili
col loro ministero[627].

Un gravissimo turbamento, dunque, nel personale insegnante dell’impero,
non dovette avvenire. Se ne verificò uno tra i giovani cristiani,
che sino ad allora avevano seguito le lezioni di grammatica e di
sofistica dei maestri cristiani? Il divieto di insegnare si tradusse,
direttamente, e maggiormente — come è stato asserito — [628] in una
morale impossibilità, da parte dei giovani, di frequentare le scuole
dei pagani?

Questa seconda ipotesi è ancor meno ammissibile della precedente. E
prima e dopo i divieti di Giuliano, i giovani cristiani frequentavano
indifferentemente maestri cristiani e maestri pagani, o, se una scelta
essi fecero, fu soltanto tra maestri celebri e maestri ignoti. I
più famosi oratori e teologi del tempo si erano sobbarcati a lunghi
viaggi, a strettezze e a dispendii, pur di ascoltare i più rinomati
maestri pagani del tempo. S. Gregorio Nazianzeno e S. Basilio erano
andati, dimorandovi per parecchi anni, a studiare e perfezionarsi in
quel centro di cultura pagana, che era Atene. Giovanni Crisostomo e
Teodoro di Mopsuesto seguivano, in Antiochia, le lezioni di Libanio,
l’apologista per eccellenza della reazione politica di Giuliano.
Diodoro di Tarso, il fondatore della scuola ascetica di Antiochia,
frequentò, e qui e in Atene, le scuole dei maestri pagani. E tutto ciò
era perfettamente conforme alla bizzarra teorica dei Cristiani del
tempo, secondo cui lo studio delle letterature classiche non doveva
avere più di un semplice valore formale: insegnamento di parole, di bei
costrutti e di null’altro.

I divieti di Giuliano, se dunque poterono irritare delle suscettibilità
o sollevare delle indignazioni, non produssero praticamente alcun
effetto deleterio nella cultura dei Cristiani, e i giovani allievi
non ne subirono alcun sensibile turbamento. Ma noi, se ben guardiamo
a fondo e scorriamo tutti i fatti, che sono indizio delle vicende del
tempo, abbiamo anche la prova di due altre circostanze, trascurate
dagli storici moderni: l’una, che l’editto, se chiuse le scuole dei
Cristiani, docenti discipline classiche, non chiuse punto le altre
dei Cristiani, docenti discipline cristiane, o, meglio, quelle scuole,
in cui, attraverso la letteratura cristiana, si intendeva conseguire
quegli identici effetti, che altri Cristiani dicevano di attendere
dallo studio degli autori classici; l’altra, che, se la legislazione
di Giuliano non fosse stata di così breve durata, avrebbe dato luogo
a tutta una nuova letteratura scolastica e a una completa istruzione
cristiana.

Ed infatti gli storici ecclesiastici narrano che due cristiani del
tempo, uno, insegnante di retorica, l’altro, di grammatica, vollero
attingere alle _Sacre Scritture_ la materia di un insegnamento
scolastico, e rifecero i _Salmi_ in odi pindariche, i libri di Mosè, in
esametri, e composero comedie e tragedie d’argomento sacro[629], tutti
strumenti di una nuova scuola e di una nuova cultura. Certo, il metodo
dei loro tentativi era sbagliato e doveva mettere capo a lavori, che
sarebbero precipitati nell’oblìo, appena, con l’abrogazione dei divieti
di Giuliano, essi fossero entrati in concorrenza con i modelli delle
letterature classiche. Ma non per questo il criterio ispiratore era
meno vero, e, sopra tutto, non perciò quei tentativi ci avvertono meno
della libertà, rimasta inviolata, dell’insegnamento cristiano, purchè
fosse stato condotto con mezzi e con ispirito proprio, purchè non
venisse alla contraffazione della parola e dello spirito delle antiche
letterature classiche, quale appunto non lo voleva Giuliano.


VII.

L’editto, che si legava alla legge del 362, rappresentava la parte
negativa, il _rovescio_ — diremo così — dell’opera, che Giuliano
intendeva dedicare alla istruzione e alla educazione pubblica. Vedemmo
come suo criterio dominante fosse quello di ridurre la scuola classica,
da maestra di parole, come il tempo e gli uomini l’avevano resa,
a diffonditrice di determinate ideologie. Un divieto non bastava a
raggiungere tale scopo; occorreva un’azione positiva, e Gregorio di
Nazianzo informa che Giuliano «aveva in mente di edificare conventi e
monasteri», luoghi di ritiro e di studii religiosi, lontani dal mondo
e dalle sue impurità. Meglio ancora, egli «si era accinto a fondare
scuole in ogni città e a istituire cattedre di vario genere, dalle
quali si spiegassero e si bandissero i principii fondamentali del
Paganesimo e di cui talune avessero, come contenuto, un insegnamento
morale; altre, delle materie più difficili e di indole specialmente
teorica»[630].

È ben difficile, da una fonte, quale, a tale proposito, è la nostra —
la violenta requisitoria di S. Gregorio di Nazianzo contro Giuliano
— che accenna, più che non chiarisca, e la quale, per gli scopi
che animavano il suo autore, tende, non tanto a spiegare, quanto ad
annebbiare e a screditare i progetti di Giuliano; è ben difficile
— dico — formarsi una chiara idea delle istituzioni vagheggiate da
quest’ultimo. Tuttavia sembra che egli, per mezzo di un’istruzione,
per natura sua più intima o meno esteriore di quella delle scuole
del tempo, abbia pensato di tentare un ravvicinamento spirituale dei
contemporanei all’anima della religione, della filosofia e della morale
ellenica. Dalla scuola, così rinnovata, sarebbero dovuti escire i
migliori sacerdoti e i maestri migliori delle nuove generazioni. Alla
propaganda spirituale del Cristianesimo Giuliano intendeva contrapporre
una propaganda spirituale dell’Ellenismo. Ed egli preparava le persone
acconce a tale ufficio e s’accingeva a mandarle fra gli uomini,
apostoli di un’idea, di una certa concezione della vita.

Quale che sia la fede religiosa dell’osservatore, è d’uopo convenire
che il disegno era veramente nobile e grande e non meritava davvero
le derisioni e le invettive, di cui il Nazianzeno l’ha ricoperto.
Forse, anzi, la sua stessa bellezza era tanta da costituire una tra
le condizioni negative della sua attuabilità; certo, la brevità del
governo di Giuliano impedì che se ne sperimentassero i primi effetti.

Ma qui non si arresta la serie delle riforme vagheggiate da Giuliano.

Ammiano Marcellino e Giuliano stesso ci segnalano, in questa età, una
vera e propria frenesia per la musica, ma insieme una decadenza del
buon gusto e di quest’arte medesima. «Le poche case — scrive quello
storico — un tempo celebrate per serietà di studi, ora sono invase dal
gusto dei piaceri proprii della torpida ignavia, e risuonano senza
interruzione di canti e del dolce tinnir delle cetre...... Non si
fabbricano che organi idraulici e lire enormi come carrozze, tibie
e strumenti di sesquipedali dimensioni, che servono ad accompagnare
le pantomime»[631]. Giuliano, discorrendo di Antiochia, la città
ellenistica per eccellenza, ribadisce queste accuse[632]. Ed egli
stesso pensò, nei limiti delle sue forze, di ricondurre la musica
verso la buona scuola del buon tempo antico. Esiste in proposito una
ufficiale lettera di lui al prefetto d’Egitto, Edicio: «Conviene —
scrive l’imperatore — se di cosa alcuna, curarsi della musica sacra.
Tu dunque scegli, tra gli Alessandrini, fanciulli di buona famiglia,
e ordina che siano loro fornite ogni mese due artabe[633] di frumento,
olio e vino, e che i sovrintendenti dell’erario forniscano loro anche
una veste. Questi fanciulli siano scelti per la loro voce, e quelli,
che conseguiranno la perfezione nell’arte del canto e della musica,
sappiano che Noi abbiamo stabilito per essi ricompense non piccole....
Quanto poi ai discepoli del musico Dioscoro, fa che apprendano con
cura la musica: Noi siamo pronti ad aiutarli in tutto ciò che essi
vorranno.»[634] Giuliano, dunque, e proponeva sussidii, e istituiva
borse di studio, e prometteva premii ai giovani, che si fossero resi
provetti nell’arte del canto e della musica, materia, della cui cura
egli faceva ai monarchi un preciso dovere. Ebbe egli la fortuna di
vedere realizzato il suo sogno? O la brevità del suo governo troncò
insieme e la sua vita e le sue speranze?

Anche questa volta noi restiamo nella più assoluta incertezza. Ma è
così per la massima parte dell’opera di quel principe disgraziato.
Se un simbolo volesse tutta esprimerla con un segno solo, non
potrebb’essere che quello stesso, che gli uomini pongono sulle tombe
di coloro, i quali morirono giovani, perchè cari al cielo: il tronco di
una breve colonna infranta; onde ciò che di vivo e di perenne resta di
lui è solo, per noi, il senso dell’ardore, non mai placato, col quale
egli amò quegli ideali, di cui non era destinato a vedere la gloria.

E di questo amore l’unica forma tangibile, in cui egli riuscisse a
tradurlo praticamente, fu il favore largamente accordato ai dotti
del tempo. Tornò con lui — si disse — il regno dei retori e dei
filosofi, e gli uomini della città, che Giuliano amò di amore umano,
i rappresentanti dell’Università di Atene — sentinelle morte di un
passato irrevocabile — egli volle, nei brevi mesi della sua vita
di monarca, colmare di ogni favore ed innalzare a suoi ispiratori
quotidiani. «Fratello desideratissimo ed amatissimo», scriveva un
giorno a Prisco, «io ti giuro, per l’Autore e per il Conservatore di
tutti i miei beni, che, se io desidero vivere, è solo per essere a Voi
utile; e, quando io dico _Voi_, intendo i veri filosofi, tra i quali
sei tu[635].»

E attorno a sè egli chiamò, appena imperatore, il retore Mamertino, il
sofista Imerio, i filosofi Massimo, Crisanzio, Eustazio, Aristosseno
e Prisco stesso. Di simili inviti sono piene quelle sue lettere, che
documentano l’attiva sua corrispondenza con gli uomini maggiori per
intelletto e per cultura del tempo, con i succitati, con Temistio,
con Sallustio, con Proeresio, con Evagrio, con Ermogene, con Libanio,
con Eugenio, con Oribasio, con Elpidio, forse con Giamblico,[636], e
con altri ancora. E come sono calde le sue esortazioni! Come egli,
ch’è pur l’imperatore, mostra di sentirsi al disotto degli scalini
del trono, che innalzano a ogni lor fedele la cultura e la scienza!
Come sono teneri gli accenti, ch’egli trova per i suoi genitori
spirituali, per i suoi maestri d’elezione! Libanio è «il suo fratello
amatissimo.»[637] A Giamblico scrive: «Allorchè riconobbi il tuo messo,
io corsi di un balzo a lui, lo abbracciai e piansi dalla gioia di avere
tue lettere.... O nobile anima, tu, che sei il salvatore riconosciuto
dell’ellenismo, tu devi scrivermi spesso, tu devi sorreggermi,
eccitarmi, incoraggiarmi quanto più puoi.... Una tua lettera vale
per me tutto l’oro della Lidia.»[638] Ad Aristosseno scrive: «Alcuno
chiederà come mai noi possiamo essere amici, pur non conoscendoci
di persona. Ma io chiedo a mia volta come mai amiamo quelli, che
vissero mille o due mila anni prima di noi. Certo, li amiamo perchè
furono valenti ed ottimi. Desideriamo dunque di essere tali anche noi,
sebbene dall’esserlo realmente, almeno per parte mia, siamo le mille
miglia lontani.... Ma a che mi perdo in parole? Se, perchè tu venga,
occorre che non ti chiami, tu verrai certamente; se attendi una mia
esortazione, ecco, io ti esorto. Vieni dunque a me!....»[639].

A Massimo scrive: «Se vuoi che la tua conversazione epistolare mi tenga
luogo della tua presenza, scrivi, scrivi spesso, o, piuttosto, in nome
degli Dei, vieni, e tieni per fermo che, fino a che starai lontano, io
non potrò dire di vivere, se non in quanto mi è concesso di leggere le
tue lettere.[640]».

Ecco in qual modo Ammiano Marcellino racconta l’episodio dell’arrivo
di Massimo a Corte. Giuliano era intento a giudicare taluni processi,
quando fu annunziato l’arrivo del filosofo. Egli balzò improvvisamente
dal suo seggio, dimentico d’ogni riguardo, e gli corse incontro,
fuori dal vestibolo, ad abbracciarlo e a baciarlo, e lo condusse seco
trionfalmente nella sala[641].

E, come Massimo, tutti i retori, i sofisti, i filosofi, i dotti del
tempo, sia che venissero a lui, sia che preferissero rimanere lungi
dalla corte, ricevettero gli onori attesi e promessi. Mamertino, in un
solo anno, percorse la scala di tutte le onorificenze; e fu intendente
del tesoro, prefetto del pretorio d’Illiria, console; Temistio è
prefetto; Aurelio Vittore è nominato consolare della seconda Pannonia
e onorato di una statua di bronzo; Imerio, Prisco, Massimo occupano
a Corte il primo posto tra gli amici e i consiglieri del principe.
Crisanzio, che preferì non venire, è nominato gran sacerdote della
Lidia; la sua consorte, sacerdotessa. E, quando Proeresio, in forza di
un editto del principe, che non riguardava la sua persona, ma la classe
in genere dei sofisti cristiani, rischiò di essere deposto dalla sua
cattedra. Giuliano, memore, volle — sia pure invano — stabilire per
lui un’eccezione. La religione li aveva divisi; l’amore della scienza
antica li univa ancor più indissolubilmente.

La gioia di prodigare il suo amore alla cultura e agli uomini, che
la impersonavano, la gioia di esserne ricambiato fu una delle poche,
che Giuliano godesse nel triste viaggio della sua esistenza, l’unica,
che lo accompagnasse fino all’ultimo respiro. E, nella notte tragica,
in cui egli moriva sulle sabbie ardenti dell’Asia inospitale, il
suo letto di morte era circondato dagli amici filosofi, coi quali
egli s’intrattenne a lungo, conversando, come Socrate fra i suoi
discepoli. E le ultime sue parole furono raccolte ed incise sulle
tavolette di cera da colui, che doveva essere il suo futuro storico,
Ammiano Marcellino; e l’anima sua, che fuggiva, sfiorò, passando, le
fronti di Prisco e di Massimo, veglianti tra la febbre e lo spasimo
a un capezzale, ove si spegneva infranta la vita dell’ultimo degli
Elleni[642].

Così, nonostante il gran discutere degli antichi e dei moderni, chi
adesso abbracci con uno sguardo tutta l’opera scolastica di Giuliano,
deve rilevare che le sue riforme, come non sono macolate dalle colpe,
che si è amato ascrivervi, nè ebbero il valor pratico di altre, che le
avevano precedute o che le seguiranno, nè lasciarono traccia durevole
nella storia dell’istruzione pubblica nell’impero romano. La morte
interruppe l’esecuzione dei suoi disegni migliori, e il poco, che egli
fece o tentò, si spense con la sua vita.

Ma chi da Giuliano volga lo sguardo a tutti i principi, che ressero lo
Stato romano durante la seconda metà del IV. secolo di C., non può non
convenire che questi furono anni veramente meravigliosi. Noi assistiamo
alla creazione di un nuovo centro di studii medii e superiori, a una
nuova germinazione degli studii liberali nell’Oriente, a nuovi impulsi,
dati a tutti gli indirizzi della cultura, anche a quelli più remoti
dall’antico pensiero classico, a un nuovo elevamento delle condizioni
sociali dei maestri, ciò che costituisce l’indice migliore della
civiltà d’uno Stato.

A tutto questo, che fu merito precipuo della casa di Costantino,
corrispose un periodo di splendore nelle produzioni dell’ingegno greco
e romano. Ma, poichè il ciclo di tale fenomeno si compirà alla fine del
IV. secolo, noi attenderemo quel momento per considerarlo e descriverlo
con ampiezza maggiore del cenno fugace, che qui, adesso, ne facciamo.




CAPITOLO VII.

La dinastia valentiniana e l’istruzione pubblica nell’impero romano.

(364-383)

  I. La reazione alla politica scolastica di Giuliano — II. Un
  regolamento disciplinare per gli studenti stranieri in Roma — III.
  Valentiniano riconferma le immunità; nuove immunità ai maestri di
  pittura — IV. Valente e la biblioteca costantinopolitana; Valente
  contro l’astrologia; distruzione di opere scientifiche classiche;
  giudizio che di lui fa Temistio — V. Le riforme scolastiche di
  Graziano; l’ordinamento delle scuole in Gallia — VI. Valentiniano,
  Graziano e i medici di Roma e della Corte; la cura dei monumenti
  antichi e delle opere d’arte — VII. La rinascita intellettuale in
  tutto l’impero.


I.

Le sorti dell’istruzione pubblica nell’impero romano non ebbero
a risentire grave danno del trapasso dei Costantiniani. La nuova
dinastia, cui fu capostipite un generale, acclamato imperatore durante
la seconda sosta funebre di quello stesso esercito, che Giuliano
aveva condotto alla infelice spedizione persiana, segue fedelmente la
tradizione dei predecessori.

Era tuttavia prevedibile che l’indirizzo, propugnato da Giuliano in
fatto di istruzione pubblica, dovesse, alla sua morte e all’avvento dei
nuovi principi cristiani, subire una vigorosa reazione. Il breve regno
di Gioviano non aveva potuto iniziarla; ma, tostochè il successore ebbe
dato assetto agli affari maggiori del governo, appena ne ebbe divise
le attribuzioni con il fratello Valente, venne, dal proprio volere,
da quello della corte, dall’opinione pubblica, sospinto a portare le
necessarie innovazioni anche nel campo della scuola.

I bersagli della reazione cristiana furono la legge e l’editto del
362. Contro l’una e contro l’altro tuonavano gli oratori sacri,
scrivevano e parlavano i retori, brigavano gli uomini politici. Ad essi
dovevano dunque mirare i primi atti dell’imperatore. Esiste tuttavia
— ed è troppe volte a constatarsi nella storia e nella vita politica
— una muta solidarietà tra gli uomini, anche di parti opposte, che
assumono il potere; essi si contraddicono, ma non si smentiscono
clamorosamente. E tipico esempio di un tale fenomeno fu la legge di
Valentiniano I., con la quale si abrogava l’altra aborrita di Giuliano
del 362 e l’editto relativo. La concisione è ivi pari alla misura e
alla circospezione necessaria a non trascurare alcun riguardo verso
l’imperatore estinto. La legge, indirizzata al prefetto del pretorio
dell’Italia, e, quindi, dell’Illirio e dell’Africa, dice: «A coloro,
i quali, vuoi per dignità di vita, vuoi per eloquenza, si dimostrano
pari all’ufficio di istruire i giovani, viene data facoltà di aprire
una scuola, o di riaprire l’antica, che eventualmente avessero dovuto
chiudere.»[643] È questa l’abrogazione della legge di Giuliano? È
l’abrogazione di altra legge? È un provvedimento estraneo a qualsiasi
abrogazione? Sarebbero tutte domande lecite e dubbii assillanti,
se noi, per valutare ed intendere, non dovessimo tener conto delle
ferree esigenze della ragion di Stato, e cogliere, non solo ciò che il
documento dice, ma, più ancora, ciò che esso accenna.

La nuova legge, dunque, voleva essere la cassazione pura e semplice
dei due atti più notevoli di Giuliano, in fatto di istruzione pubblica.
Ma, a chi ben guardi, la reazione di Valentiniano non fu così radicale
come il carattere anodino delle parole potrebbe fare supporre. Noi
possediamo, di qualche anno dopo, un’altra costituzione dello stesso
imperatore, che si riferisce agli insegnanti di filosofia, ed essa
ci parla, come di norma in vigore, dell’approvazione dei «competenti»
(_a probatissimis adprobati_), cui quelli sarebbero da tempo costretti
a soggiacere. Ma, poichè tale approvazione non poteva essere chiesta
direttamente, nè tali commissioni di competenti funzionare all’infuori
dell’iniziativa della locale autorità, noi dobbiamo ritenere che essa
corrispondeva a quel parere, che, secondo la legge di Giuliano, i
Consigli comunali invocavano prima di rilasciare le autorizzazioni
all’insegnamento. In tale forma, la legge di Giuliano rimase infatti in
vigore sino a più tarda età;[644] onde l’abrogazione di Valentiniano
ne riguardò solo una parte: non quella, concernente l’autorizzazione
dei Consigli municipali, ma l’altra, che si riferiva alla ulteriore
conferma del principe, in cui, a torto o a ragione, il passato lasciava
temere si annidasse il veleno politico della precedente riforma.

Ma arrecava inconvenienti più gravi un’altra condizione di cose, che,
se si era originata via via durante l’impero, si era specialmente
acuita sotto il governo di Giuliano,[645] l’eccessivo numero di coloro,
che, spacciandosi per maestri di filosofia, venivano a godere della
esenzione delle pubbliche cariche e dei pubblici oneri.

Noi vedemmo a suo tempo quali norme Antonino Pio avesse introdotte
riguardo agli altri ordini di docenti; quali limitazioni avesse
arrecate al numero di coloro, che delle immunità avrebbero goduto, e
notammo ancora come egli avesse escluso da tali restrizioni i filosofi,
contando sulla loro scarsità e sulla autoefficacia delle loro dottrine
morali. Vedemmo le nuove limitazioni, poste al diritto di insegnare da
Giuliano, con la legge del 362. Ma la copia dei docenti di filosofia si
era andata spaventevolmente accrescendo, sì che il regno di Giuliano,
come quello di Marco Aurelio, era stato detto, e sul serio, e per
derisione, l’impero dei filosofi, e le inibizioni morali non avevano
impedito gli abusi nella caccia audace dei privilegi. Valentiniano I.
volle provvedere, e forse, provvedendo, cedette, anche in questo, alla
reazione cristiana del suo tempo, e scrisse al prefetto del pretorio
d’Italia, Illirio ed Africa, ordinando che «chiunque, indebitamente
e sfrontatamente, dichiarasse di professare l’insegnamento della
filosofia, venisse tosto rimandato in patria», giacche «è vergognoso
che chi si vanta di tollerare anche i colpi della fortuna dica di
non potere sottostare agli oneri imposti dalla propria patria». Una
sola eccezione era fatta — l’abbiamo dianzi accennata — e riguardava
i docenti di filosofia, i quali, su parere di commissioni competenti,
fossero stati autorizzati all’insegnamento.

Non si trattava con ciò, come malamente anche questa volta è stato
detto, di una statizzazione dell’insegnamento; ma per certo, con
codesta disposizione, si abrogava, o limitava, qualche altra da
tempo in vigore, e si poneva termine ad una consuetudine trionfante,
che aveva finito per risolversi in un abuso. Si abrogava cioè la
disposizione, per cui non esistevano limiti nel numero dei filosofi
dell’impero, aventi diritto al godimento delle immunità, e si limitava
la consuetudine di considerare costoro come una classe privilegiata
dalla saggezza, e perciò esente dagli obblighi della vita municipale.


II.

Fin qui i ritocchi e gli emendamenti al passato; ma, nei rispetti
dell’istruzione pubblica, il regno di Valentiniano è ancor più notevole
per un regolamento disciplinare, emanato nel 370, che riguardò i
giovani, i quali dall’estero accorrevano a studiare nell’Ateneo
romano,[646] e della cui applicazione venne incaricato il prefetto di
Roma.

Valentiniano stabiliva che chiunque si fosse recato nella Città
eterna per istudiare, dovesse anzi tutto presentarsi al _magister
census_, e presentargli la relativa autorizzazione, rilasciatagli dal
governatore della provincia, donde veniva. Tale autorizzazione doveva
contenere, chiaramente specificati, il luogo di provenienza, il nome
della città natale e gli eventuali titoli onorifici della famiglia
dello studente. In secondo luogo, la nuova legge richiede che i
giovani facciano una immediata dichiarazione del genere di discipline,
a cui intendono dedicarsi, e dell’abitazione, in cui vanno ad
installarsi, affinchè l’ufficio del _magister census_ possa agevolmente
sorvegliarli, consigliarli, e verificare se, e come, attendano agli
studi dichiarati. Lo stesso ufficio doveva curare: 1) che, nelle
pubbliche riunioni, i giovani si dimostrassero persone dabbene; 2)
che rifuggissero dal far parte di associazioni, la cui natura e i
cui intendimenti fossero in certo modo sospettabili[647]; 3) che non
frequentassero eccessivamente pubblici spettacoli, e non partecipassero
intempestivamente a pubblici banchetti. Qualora gli studenti avessero
contravvenuto a tali prescrizioni, e si fossero comportati in modo
diverso da quello richiesto dalla dignità degli studii, era concesso al
_magister census_, o ai suoi agenti, di infligger loro la pena della
pubblica flagellazione, e, magari, di rimpatriarli. Gli studenti,
invece, i quali avessero diligentemente seguito il corso degli studii,
avrebbero avuto facoltà di dimorare, a tale scopo, in Roma, fino al
ventesimo anno. Ma, scaduto questo termine, sarebbero dovuti tornare
sollecitamente in patria, a meno che non si fossero inscritti in
qualcuno dei _corpora_ romani[648]; e chi avesse contravvenuto a questa
disposizione, o non si fosse così garantito, avrebbe potuto essere
rimpatriato d’ufficio, per ordine del prefetto della città. Affinchè
poi tutte queste prescrizioni fossero osservate diligentemente,
l’imperatore incaricava il prefetto della città di sollecitare
l’ufficio censuale a tenere appositi, ordinati registri mensili,
in cui si segnassero i nomi degli studenti, che arrivavano, la loro
provenienza, non che i nomi di quelli, che, scaduto il termine concesso
al soggiorno in Roma, erano in obbligo di ripartire. I varii registri
sarebbero ogni anno dovuti inviarsi al gabinetto dell’imperatore,
affinchè questi avesse avuto notizia delle buone o cattive note degli
studiosi e avesse potuto servirsi di loro per le eventuali necessità di
governo.[649]

Risalta facilmente agli occhi del lettore il carattere poliziesco del
nuovo regolamento.

Questa sorveglianza così intima sulla vita degli studenti e, per
giunta, sugli studenti forestieri, quali che siano stati i motivi, con
cui la si sia voluta dissimulare, era in buona parte una sorveglianza
politico-religiosa, e le pene minacciate erano quelle stesse, in
cui incorrevano i colpevoli di manifestazioni politiche, le quali
turbassero ciò che soleva, e suole in ogni tempo, dirsi l’ordine
pubblico. Meglio ancora lo provano le gelose e sicure informazioni, che
l’imperatore richiede di tutta la carriera degli studenti. Certo, uno
degli scopi di tali richiesta era il bisogno di scegliere tra essi,
in modo illuminato, i funzionari dell’impero, i pubblici insegnanti,
gl’impiegati del suo gabinetto. Ma, in tale scelta, è evidente,
avrebbero dovuto pesare le informazioni riservate del prefetto della
città e ad esse, quindi, oltre ai meriti, non sarebbero potuti rimanere
estranei gli elementi della religione e della politica.

Ultimo, ma pur significativo, particolare, il limite di età, già
consentito ai giovani, come termine massimo, per attendere alla loro
istruzione superiore, è ridotto di ben cinque anni. Dai Severi gli
studenti di giurisprudenza in Roma erano stati esentati dalla tutela,
carico, che colpiva i cittadini venticinquenni. Da Diocleziano, tutti
gli studenti di Berito, e, quindi, _a potiori_, di Roma, furono in
modo identico riservati agli studii fino ai 25 anni e, fino a questa
età, esentati da ogni gravame personale. Adesso si vuol tagliar fuori
dalle Università il corpo migliore, gli studenti maggiorenni, che
avevano formato la gloria degli antichi Atenei, come lo formeranno di
quelli medievali, ma che certamente erano anche la popolazione meno
maneggevole e più ribelle dei grandi centri di studio. E questa — gli è
chiarissimo — non era una previggenza scolastica, ma una precauzione di
politica o, forse meglio, di polizia.

Tutto questo però non vuol dire che le intenzioni inquisitorie
fossero state le sole a determinare il pensiero del legislatore. Non
è questa l’occasione per intrattenerci diffusamente su la vita e su
la condotta degli studenti nel mondo antico; ma noi abbiamo su ciò,
da altre fonti, informazioni, che riguardano i principali centri
di studio della Grecia, dell’Africa e dell’Oriente,[650] e possiamo
ben giudicare come fosse veramente nell’interesse, così dell’ordine
pubblico, come degli stessi giovani, disciplinare le loro troppo
spesso eccessive manifestazioni. Or bene, tutto quello che avveniva
ad Atene, a Cartagine, a Costantinopoli, doveva ripetersi, poco più,
poco meno, a Roma, città cosmopolita per eccellenza, ove affluivano,
e si mescolavano insieme, genti di ogni ceto, di ogni paese, di
ogni intenzione, per cui anche molte volte la qualifica di studenti
doveva essere una simulazione legale. Tenere il più che possibile
i giovani lontani da costumanze torbide, da distrazioni pericolose,
non significava soltanto provvedere all’ordine pubblico; significava
giovare agli studiosi stessi, alla loro istruzione, e il meccanismo,
escogitato dai funzionarii del gabinetto imperiale a disciplinare
l’anarchia precedente, fu certo — e i fatti lo provarono — in buona
parte — acconcio a raggiungere un tale scopo. Allorquando, circa un
lustro di poi, S. Agostino lascerà Cartagine per venire ad insegnare
a Roma, dichiarerà di averlo fatto solo a motivo dell’assai maggiore
disciplina, che era fama contenesse gli studenti della capitale del
mondo, e che in realtà regnava tra loro.[651]


III.

Ma Valentiniano stesso ripete, come oramai da tempo era in uso,
le concessioni di immunità dei precedenti imperatori. In una legge
del 370,[652] forse emanata durante i preparativi militari di una
spedizione all’estero, egli dichiara di riconfermare le concesse
immunità ai docenti di Roma «perchè le loro consorti siano esenti da
ogni preoccupazione, essi stessi, liberi di tutti i pubblici oneri, nè
mai tenuti al servizio o all’obbligo dell’acquartieramento militare».

La legge non ha alcun valore speciale: o essa è una ripetizione
pura e semplice, o forse, come la sua dicitura farebbe sospettare,
essa conferma, con qualche restrizione, le precedenti liberalità
di Costantino il Grande, che aveva esteso la esenzione del servizio
militare dalla persona dei privilegiati a quella dei loro figliuoli.

Ma la concessione di privilegi veramente notevole del regno di
Valentiniano I. riguarda i maestri di pittura africani.[653] Una sua
legge del 374, con audacia di novità non mai tentata, stabilisce
che i _professores picturae_ di nascita libera siano esenti: 1)
dalla _capitatio_, imposta, che colpiva la loro persona e quella
dei componenti le loro famiglie; 2) dalla dichiarazione censuale dei
propri servi barbari; 3) dalla _negotiatorum collatio_[654], qualora
fondamento ne fosse il traffico delle loro opere; 4) da ogni fitto
per le botteghe e i così detti _studii_ di pittura in luoghi pubblici,
che avessero dovuto adibire per la loro professione; 5) dall’obbligo
dell’_hospitium_; 6) dalla soggezione all’autorità dei giudici
_pedanei_; 7) dall’obbligo di un domicilio fisso e determinato; 8)
dall’obbligo di soggiacere alle requisizioni di cavalli, per esigenze
militari; 9) dall’obbligo di fornire gratuitamente l’opera propria
per determinati lavori, attinenti alla professione e che i governatori
solevano imporre.

Questa legge ha un’importanza e un significato veramente eccezionali.
Essa è, con qualche altra di Alessandro Severo e di Costantino, una
delle pochissime emanate dagli imperatori romani, le quali stiano a
significare un interessamento dello Stato per rami dell’istruzione
pubblica diversi dalle classiche tre o quattro discipline liberali. E
certamente, per ispiegare l’iniziativa di Valentiniano, che in tutta
la sua legislazione, se dà prove di coerenza alla tradizione, non ne
dà veramente di grande audacia novatrice, fa d’uopo richiamare le sue
speciali attitudini in pittura e scultura, di cui è testimone qualcuno
degli storici del suo tempo[655].

Ma la legge porge occasione ad altri rilievi. Essa è diretta al
governatore dell’Africa. Si tratta dunque di un nuovo favore largito a
quella provincia, che, come sembra, dava all’impero anche i migliori,
e più numerosi, professionisti e maestri di pittura. E poichè i suoi
privilegi riguardano solo i liberi, noi possiamo scoprirvi l’altro
intendimento di promuovere, presso costoro, lo studio e l’esercizio di
quell’arte.

Ma, poichè gli artefici erano già esenti _ab omnibus muneribus_, la
speciale esenzione ai pittori, come quelle precedenti in favore degli
ingegneri, degli architetti e degli _aquae libratores_ sotto Costanzo
significa solo che si voleva esentare questi da carichi speciali o che,
ad essi, in rapporto alla loro professione, riuscivano soverchiamente
gravosi. Le solite immunità sono perciò accompagnate da altre non
mai concesse. Così i pittori non avrebbero più soggiaciuto alla
_negotiatorum collatio_; non più all’obbligo, tassativo nella legge
romana, di un domicilio fisso e determinato, che contrastava con le
esigenze della professione. Non più sarebbero stati costretti a fitti
gravosi per provvedersi di uno studio o di una bottega, ove attendere
alle loro occupazioni, ove esporre e smerciare le proprie opere. Non
più sarebbero stati tenuti a compiere lavori notevoli, per ordine del
governatore, senza congruo compenso, e così via. Ma con i privilegi,
che si traducevano immediatamente in utili materiali, se ne notano
degli altri, che rialzavano moralmente il credito e la dignità della
professione, mettendola alla pari delle più onorate dell’impero. E tra
queste sono significative le due concessioni, che ritroviamo soltanto
a questo proposito, la prima dalle quali rendeva i maestri di pittura
indipendenti dalla giurisdizione dei _iudices pedanei_ — una specie di
giudici conciliatori del tempo — [656] e li sottoponeva esclusivamente
all’autorità dei magistrati maggiori, mentre l’altra esentava i maestri
di pittura dall’obbligo di denunciare i barbari trapiantati sul suolo
romano e impiegati in qualità di loro coloni, perchè, come tutti gli
altri cittadini romani, soggiacessero al controllo esercitato dallo
Stato sugli schiavi, posseduti da ciascun proprietario[657].

Ma più notevole ancora è, riguardo alla considerazione morale, che
i maestri di pittura venivano ad acquistare, la natura della pena
minacciata a coloro, che la legge e i conferiti privilegi avessero
violato: la pena, senz’altro, del sacrilegio. Ciò non ostante, non
può non apparirci strano il silenzio sullo scopo della legge stessa.
Allorquando Costantino aveva privilegiato gli architetti, egli aveva
dichiarato il suo intendimento, ch’era di promuovere la produzione
professionale; allorquando aveva privilegiato tutta un’altra serie di
professionisti di varie arti, egli aveva ripetuto la ragione del suo
atto[658]. Questa volta, non una parola di tutto ciò. L’imperatore
benefica una certa categoria di persone, ma non esprime i motivi, che
avevano determinato la sua volontà. I quali, tuttavia, non rimangono
per questo meno chiari come non meno evidente ne riesce il nesso con le
sorti dell’istruzione pubblica del tempo. Promuovere la pratica della
pittura non era soltanto promuovere un mestiere od un’arte mercenaria;
era far convergere verso quell’attività, con effetti inattesi, energie
distratte altrove, era elevare la dignità degli _studii_ dei pittori,
tramutarli in focolari di arte pura, era farvi accorrere, assai più che
nel passato, giovani volenterosi di seguirne le tracce e raggiungere la
gloria; era creare la scuola d’arte, dove prima non aveva dominato che
il mestiere.

La legge è del 374. Un anno dopo, Valentiniano I. moriva
improvvisamente, interrompendo così la sua politica scolastica, come
la sua tenace difesa dell’impero Occidentale dalle sempre incalzanti
scorrerie dei Germani. Ma di lui rimane imperituro l’elogio, che,
dirigendosi al giovane successore, ebbe a dettarne Temistio: «Sotto
quale imperatore — egli esclamerà — le Muse ebbero tanto splendore e
tanto fiorirono, come sotto il tuo genitore? Chi altrettanto sollecitò
gli animi dei giovani verso l’istruzione e verso la cultura? Chi vi
propose eguale copia di premi? Chi, come lui, onorò gli illustri per
eloquenza tanto quanto gli illustri in armi? A chi la filosofia —
arditamente — rese più insigne testimonianza di onore?»[659]. Parole,
che, toltene le iperboli consuete al genere di componimento adottato,
ben si attagliano a l’opera di un principe, che aveva avuto la fortuna,
o la sciagura, di vivere, e, insieme, il merito di saggiamente regnare,
in un’età agitata da grandi passioni sociali.


IV.

Insieme con Valentiniano I. era, nel 364, salito al governo dell’impero
il fratello di lui, Valente. Egli aveva con lui sottoscritto tutte le
leggi, che riguardavano l’Occidente, come altre ne sottoscriverà, che
discenderanno dall’iniziativa del suo futuro collega; ma la sua opera
personale, si riguardi nel suo complesso, o in ciò che specialmente
concerne i problemi della pubblica istruzione, ci appare, al confronto,
assai più fiacca e più scarsa. Ed invero, quantunque più zelante del
fratello per le sorti della religione cristiana, egli non ha l’energia
di abrogare, nella sezione dell’impero affidata alle sue cure, la legge
e l’editto di Giuliano, relativi ai maestri di discipline liberali,
ch’egli preferisce lasciar cadere in dimenticanza, e l’atto di lui
più notevole, di cui ci sia rimasta menzione, può dirsi sia una breve
_costituzione_ riguardante la biblioteca Costantinopolitana.

Vedemmo infatti come Costantino il grande e il figlio di lui Costanzo
avessero lavorato a formare, nella capitale dell’Oriente, ampie
raccolte di libri classici. Valente stabilisce, per la pubblica
biblioteca costantinopolitana, un ruolo apposito di _antiquarii_
(trascrittori e curatori di codici) quattro per la sezione greca, e
tre per quella latina,[660] da stipendiarsi in natura[661] sul fondo
destinato alle _annonae populares_ di Costantinopoli, consistenti
in forniture di pane, olio, carne, vino, vesti e frumento.[662]
Contemporaneamente, provvede alla custodia della biblioteca ed ordina
che vi siano adibiti dei _conditionales_, cioè degli schiavi, legati
per la vita alla loro condizione ed al loro ufficio.

Se non che, mentre in tal guisa Valente curava la conservazione delle
opere degli antichi, riusciva fatale alla cultura del tempo, anzi, un
poco, alle sorti di tutta la cultura avvenire, attraverso una serie di
eventi, che sembrò dapprima nulla vi avessero di comune. Valente non
era un imperatore tollerante, come Costantino e come qualche altro dei
successori del primo principe cristiano. Era un seguace della dottrina
di Ario, e come perseguitò spietatamente l’ortodossia cristiana, non
palesò una meno vivace ostilità contro i seguaci dell’antico culto e
delle antiche ideologie. Un episodio, avvenuto durante il suo regno,
bastò a farlo prorompere in eccessi veramente deplorevoli. Nel 371,
s’imbastiva un enorme processo a carico d’individui, denunziati come
rei di magia, per aver tentato di sapere chi mai sarebbe stato il
successore di Valente. Le prigioni rigurgitarono per lungo tempo di
accusati; poi, dopo il processo e la conseguente condanna, si ebbe
un’esecuzione in massa degli indiziati e, insieme, dei complici,
diretti e indiretti, nonchè di coloro, che l’operazione magica
avrebbe lasciati supporre eredi del trono di Costantinopoli. Gli
accusati e gli uccisi furono, com’era naturale, per la più parte, dei
neoplatonici, anzi dei filosofi pagani in genere.[663] Una strage
così grande fece per lunghi anni vuote le cattedre e le aule delle
scuole dell’impero. Ma il principe e i suoi ministri non si limitarono
ad infierire sulle persone. Essi istituirono, in quel triste quarto
d’ora, in Costantinopoli, dei veri e propri tribunali di inquisizione,
sequestrarono nelle biblioteche private, e a maggior ragione in
quelle pubbliche, le opere più sospette dell’antica cultura, e tutte
abbandonarono alla distruzione. Si trattò, dice, forse esagerando e
con qualche inesattezza, uno storico pagano, di mucchi di codici e di
volumi di discipline scientifiche e di opere giuridiche[664], bruciati
in enormi _falò_, sotto gli occhi impassibili dei giudici.[665] Era la
scienza la forma più odiata dell’antica cultura, quella che racchiudeva
e sviluppava le più stridenti dottrine teologiche e cosmologiche, ed
era ormai scoccato per essa l’istante della persecuzione.

Tuttavia, la intransigente ortodossia non spinse l’imperatore ad
avversare _a priori_ ogni forma della cultura classica. Il filosofo
pagano Temistio, che fu uno dei suoi favoriti e che più volte enumera
i principi, che a loro volta avevano giovato al progresso della
filosofia, pone anche Valente tra i primi insieme con Valentiniano I.
e con Costanzo II. «Tu apprezzi», aveva detto una volta, rivolgendosi
a lui, «la filosofia più della retorica»; «tu chiami a Te i filosofi
dubitosi, e Tu occupi in esercizi di cultura la parte dell’anno, nella
quale sei costretto a rimanere presso di noi. Tu tieni in pari onore
gli uomini di guerra e gli uomini di pensiero; sì che ti cinge della
migliore difesa, non la sola scorta della potenza, ma, insieme con
essa, quella della saggezza».[666]

E gli elogi di quest’uomo, che non era nè un ariano, nè un cristiano,
nonostante la consueta esagerazione ufficiale e personale che li
inquina, hanno tuttavia un peso che non può essere misconosciuto.


V.

Ma le deficienze e le mende, che noi siamo costretti a notare
nel governo di Valente, nei rispetti della pubblica istruzione,
vengono largamente colmate dal suo collega dell’Occidente, il
figlio e successore di Valentiniano I., Graziano. L’opera di costui,
nella sezione dell’impero assegnata alle sue cure, è veramente di
prim’ordine.

A una sua prima legge del 376,[667] diretta al _praefectus praetorio_
delle Gallie, va legato tutto l’ordinamento e l’incremento della
pubblica istruzione in quel paese durante i secoli successivi. In tale
legge, Graziano prescriveva che, nelle città principali della Gallia,
venissero nominati dei maestri di grammatica e di retorica latina e
greca, stipendiati dagli enti locali. La elezione di tali maestri è
dall’imperatore lasciata ai Consigli municipali delle varie città; ma
la sua legge ha cura di soggiungere che tale libertà non si estendeva
alla misura degli stipendi. Questi, a parte la regolarità, con cui
dovevano essere corrisposti, sono fissati in ragione di 24 annone per
i retori, e di 12 per i grammatici greci e latini, in ciascuna delle
città in cui esistevano, o si istituivano, le nuove scuole municipali.
In Treviri poi, capoluogo della provincia e sede della casa regnante,
Graziano crede opportuno stabilire un trattamento speciale. Il maestro
di eloquenza avrebbe dovuto percepirvi 30 annone; il grammatico
latino, 20 annone; il grammatico greco, «se qualcuno degno se ne poteva
trovare», 12 annone.[668]

Siamo già, come si vede, nel cuore di quel periodo della storia
romana, in cui le imposte e gli stipendii non si pagano più in
denaro, ma in natura, e in cui il regresso materiale dell’impero
riconduce a forme da tempo trapassate di economia naturale.[669]
Come che sia, l’annona rappresentava il fabbisogno individuale d’una
persona, e comprendeva pane, frumento, olio, vino etc. Ma, se questo
è fuori dubbio, non è cosa facile stabilire a quanto con precisione
ascendesse, in questo tempo, un’annona in Gallia. Nel 445, per una
metà dell’Africa settentrionale, l’imperatore aveva fissato un’annona
militare in 4 _solidi_ annui (L. 60 circa).[670] Ma le circostanze, in
cui tale provvedimento venne preso, furono eccezionali, e non è lecito
generalizzare a tutto l’impero quella equivalenza. Un secolo dopo, per
l’Africa settentrionale in genere, il _Codice Giustinianeo_ fisserà
l’equivalenza di un’annona annua in 5 _solidi_ (L. 75 circa)[671],
secondo cui 12 annone annue sarebbero state pari ad uno stipendio di
L. 900; 24, a uno di L. 1800; 20, a uno di L. 1500, e 30 annone, ad
uno di L. 2250. Ma, a parte che non sappiamo affatto quali rapporti di
somiglianza intercedessero fra le condizioni economiche della Gallia,
in sulla fine del IV., e dell’Africa, in sulla prima metà del VI.
secolo di C., un semplice calcolo matematico, che poggi su un diverso
procedimento, mostra quanto incerta debba essere l’attendibilità di
ogni equivalenza fondata su così fragili e fuggevoli elementi.

Noi sappiamo infatti che, secondo l’_Editto_ dioclezianeo _de pretiis
rerum venalium_, un moggio ordinario di frumento doveva, nei primi del
quarto secolo, costare, ed essere, in tutto l’impero, venduto, per
circa L. 1,00[672]. Sappiamo ancora che, nell’età imperiale romana,
l’annona frumentaria mensile era di 5 _modii_,[673] e, calcolando su
questi elementi, abbiamo, per 12 annone annue di solo frumento, L. 720;
per 24, L. 1440; per 20, L. 1200; per 30 L. 1800. A queste bisogna
aggiungere le annone, che non si percepivano in frumento. Di esse le
più onerose, quelle che realmente portavano un aggravio allo Stato,
erano le annone di olio. Temistio, che è proprio di questa età e che
in una sua orazione discorre dei contemporanei pagamenti in natura,
usati a Costantinopoli, informa che, per un medimno di frumento, si
dava un’anfora di olio.[674] Per un moggio, quindi, (pari a 1/6 circa
di medimno) si sarà corrisposto solo 1/6 di anfora (_l._ 4. o poco
più), e perciò, per 12; 24; 20; 30 annone annue, rispettivamente, _l._
2880; _l._ 5760; _l._ 4800; _l._ 7200. Il prezzo dell’olio comune,
secondo l’_Editto_ dioclezianeo, era di 12 _denarii_ (L. 0,25) per
un _sextarius_ italico[675] (_l._ 0,546), cioè di L. 0.45 circa al
litro. Calcolando su codesto prezzo, abbiamo una spesa annua per
fornitura d’olio alle quattro categorie di docenti stipendiati dallo
Stato di circa L. 1300, L. 2600, L. 2150, L. 3350, secondo che quelli
percepivano 12, 24, 20, 30 annone. Sommando tali cifre a quelle
ricavate pel frumento, è facile avvedersi come si pervenga a resultati
di gran lunga diversi dagli altri, conseguiti, ragguagliando, per
la Gallia del IV. secolo, un’annona a 5 _solidi._ Tutto ciò, senza
tener conto delle annone vinarie, il cui importo non doveva essere
esiguo,[676] e delle elargizioni accessorie.

Ma, non ostante la impossibilità di raggiungere cifre concrete, noi
siamo sempre in grado di formarci una idea generale del valore di
quegli stipendii. I resultati dianzi esibiti, anche se incompleti,
assicurano che essi rappresentano cifre inferiori allo stipendio,
fissato da Vespasiano per il professore di eloquenza latina in Roma,
cifre inferiori a quelle, fissate da Marco Aurelio, pei docenti di
filosofia in Atene, cifre inferiori all’ammontare dello stipendio di
Eumenio in Augustodunum. Ma ciò non vuol dire che quegli stipendi
debbano considerarsi come insufficienti. Infatti, nel passo dianzi
citato, Temistio, dichiarava di percepire, non s’intende bene a quale
titolo,[677] l’emolumento privilegiato di 200 medimni l’anno, cioè di
1200 _modii_ di grano. Ma 1200 _modii_ stanno a rappresentare 20 annone
annue, quante ne spettavano al professore di lingua e di letteratura
latina a Treviri, e poco meno di quante avrebbero dovuto percepire
i professori di eloquenza nelle altre città. E, se a quest’argomento
si aggiunge la testimonianza di uno dei docenti stessi della Gallia,
il retore e poeta Ausonio, il quale, nelle sue commemorazioni
dei professori di Bordeaux (_Burdigala_) non accenna mai a tristi
condizioni economiche dei suoi defunti colleghi, noi possiamo dire di
possedere una riprova, sufficientemente valida, della nostra opinione.

Ma Ausonio medesimo ci previene di non errare, generalizzando
eccessivamente, che la condizione dei grammatici greci, retribuiti con
sole 12 annone annue, non doveva essere lieta.

Discorrendo infatti di questa categoria di docenti, egli accenna alla
modestia dei loro utili e alla ingloriosa arte loro.[678] Accenna
ancora alla indifferenza della gioventù gallica verso l’apprendimento
della lingua e della letteratura, di cui essi tenevano cattedra. I
redditi dunque dei grammatici greci, non arrotondati da alcun privato
provento, dovevano limitarsi alle 12 annone annue dei municipii,
e queste, secondo Ausonio, erano uno stipendio esiguo per una vita
mediocremente agiata. Se poi i grammatici latini, anch’essi retribuiti
dovunque, salvo che in Treviri, in pari misura, non versavano in eguali
strettezze, ciò si doveva a compensi estranei al loro insegnamento
ufficiale.

In ogni modo però l’ammontare degli stipendii, fissati dall’imperatore,
non può concepirsi che come la designazione di un _minimum_
invalicabile, e senza dubbio i singoli municipii potevano, a seconda
delle proprie risorse, elevarli a cifre maggiori, ed è a credere
che qualcuno di essi abbia tradotto in realtà una così gradita
aspettazione.


VI.

Il governo dei Valentiniani è notevole ancora per qualche provvedimento
di minore importanza, che, direttamente, o indirettamente, può dirsi in
relazione con le sorti della pubblica cultura.

Valentiniano I., con due successive leggi, del 368 e del 370, regolò
e migliorò le condizioni economiche e morali dei medici condotti in
Roma[679], ed egli stesso e Graziano riconfermarono, specificandole, le
antiche immunità, e di nuove ne concessero, ai medici di Roma e della
Corte[680].

Gli è evidente come questi favori dovessero al solito promuovere
l’esercizio della medicina e, quindi, diffondere tra i giovani
il desiderio e l’interesse del suo studio. Ma alle su citate
si accompagnano ancor più notevoli disposizioni, riguardanti la
conservazione degli antichi monumenti artistici dell’impero.

Già con Valentiniano I. si era, nel 365, avuta una _costituzione_,
comminante delle pene ai magistrati dell’impero, i quali avessero
seguito la mala consuetudine di abbellire le maggiori città, non solo
trasportandovi statue di altre minori (il che sarebbe stato un lieve
inconveniente) ma adoperando ad altri scopi la materia prima di antiche
opere d’arte[681].

Graziano redige, in forma di missiva al senato, una nuova legge,
che si limita a Roma, ma che è assai più energica e più decisa della
precedente. Essa, dopo aver ripetuto che nè ad alcun prefetto di Roma,
nè ad alcun prefetto del pretorio, era d’ora innanzi lecito costruire
edifici o monumenti nuovi, dovendo curare invece la conservazione
degli antichi, soggiunge — ed è questa la clausola più notevole — che
chiunque tra i privati voglia in Roma costruire possa farlo, ma a patto
di rispettare scrupolosamente le tracce dell’arte antica. «Chiunque
— si esprime testualmente l’imperatore — vuole costruire in Roma, lo
faccia a sue spese e con materiali propri, senza invadere gli edifici
antichi, senza demolire le fondamenta di costruzioni celebri, senza
servirsi di materiali venuti in luce, senza spogliare altri edifici e
asportarne via i marmi»[682].

Nella storia di questo tempo, i due divieti di Valentiniano I. e del
figlio suo sono una nobile eccezione, ed essi riescono per noi ancora
più interessanti quando si riflette che non erano stati determinati
da quello zelo religioso, che aveva guidato, e guiderà, le precedenti
e successive demolizioni ordinate dagli imperatori cristiani, o che
avrebbe potuto guidare le ricostruzioni di principi pagani, ma da
uno schietto intendimento d’arte e di coltura. Ed invero, l’ultimo
provvedimento di Graziano era, come del resto tutte le sue leggi,
relative a cose dell’istruzione pubblica, uscito dalla ispirazione di
un letterato, di un poeta, e, quindi, di un estimatore dell’antichità
classica, il suo maestro Ausonio, colui che, chiamato da Valentiniano
I. alla corte quale precettore del principe ereditario, venne da costui
elevato alla prefettura d’Africa, d’Italia e delle Gallie; e, quindi,
agli onori del consolato; colui, che Graziano amò dell’amore più
squisito e più tenero di discepolo.[683]


VII.

Con Graziano noi siamo ormai al colmo della rinascita intellettuale,
iniziatasi fin da Costantino. «Nel IV. secolo» scrive un moderno
storico della letteratura greca «appare d’un tratto come una nuova
rinascenza. Di nuovo noi incontriamo, nella società classica, degli
oratori famosi». «Accanto all’eloquenza pagana, e ad essa di gran
lunga superiore, sorge una potente eloquenza cristiana, quella degli
Atanasio, dei Basilio, dei Gregorio di Nazianzo, dei Crisostomo. E
se noi guardiamo intorno ad essi, l’aspetto dell’Oriente greco è ben
diverso che nel secolo precedente. Mentre allora il movimento delle
idee sembrava nullo fuori delle scuole, ora al contrario l’agitazione
è dappertutto. Grandi dibattiti eccitano e appassionano gli spiriti;
grandi correnti di opinioni si formano e poi si urtano fragorosamente.
La parola e il pensiero ritornano ciò che da secoli avevano cessato di
essere, gli strumenti del pensiero e dell’azione.»[684]

Nè tale fenomeno è limitato alla cultura greca. È questa l’ora, in
cui veramente la lingua e la cultura latina conquistano l’Europa
occidentale,[685] e sembrano vincere la gara di concorrenza con
le lettere greche, che da gran tempo sembrava irrimediabilmente
perduta.[686] «Da Costantino» «il deserto comincia a ripopolarsi»; «le
lettere si rianimano; gli scrittori di prose e di versi divengono più
copiosi, e un gran secolo letterario incomincia». Sorgono «poeti, come
Ausonio, Paolino da Nola, Prudenzio, Claudiano; poligrafi, come Simmaco
e S. Girolamo; oratori, come S. Ambrogio e S. Agostino». «Le lettere
profane sono in progresso come le sacre: è un risveglio universale
della letteratura»[687].

Da circa sessant’anni gli oratori, quali che siano le simpatie e
gli attaccamenti personali, sono costretti a celebrare l’amore che
gl’imperatori del tempo dimostrano verso la coltura. Perciò Temistio
celebra Costanzo, Gioviano, Valentiniano, Valente, e proclama che
la dottrina e le lettere riscuotono ormai a Corte un favore eguale a
quello delle armi.[688] Non è stereotipa e insignificante adulazione,
come taluno ha pensato; è constatazione di un nuovo indirizzo. L’amore
della coltura trionfa ancora di ogni divario di fedi e di opinioni
religiose.

Per certo, tale risveglio non fu, neanche questa volta, opera esclusiva
della scuola o dello Stato. Il risorgimento intellettuale di un popolo
non è mai elaborazione burocratica od aulica. Ma lo Stato può porgerne
o contrastarne i mezzi, può favorirlo od avversarlo. E i principi
romani dei primi quattro quinti del IV. secolo furono — sia gloria
a loro! — tra i più consapevoli, che la storia rammenti, dei proprii
doveri verso l’istruzione e verso la pubblica coltura.




CAPITOLO VIII.

La dinastia dei Teodosii e la istruzione pubblica.

(383-450)

  I. La reazione cattolica di Teodosio I. e l’istruzione pubblica: la
  soppressione degli stipendi ai docenti pubblici in Roma e in Atene.
  — II. Eccezioni a favore dei medici; cura delle opere d’arte.
  Ripresa della decadenza intellettuale del III. secolo. — III. I due
  figli di Teodosio continuano la politica del padre. — IV. Teodosio
  II. riconferma le immunità ai maestri. I provvedimenti di Teodosio
  relativi alla Università Costantinopolitana. — V. Carattere di
  quest’opera. L’università Costantinopolitana e quella ateniese.
  La distribuzione delle cattedre. L’abolizione dell’insegnamento
  privato pubblico. VI. — Il nuovo ordinamento e le altre scuole
  medie e superiori, create dallo Stato. — VII. Teodosio conferma
  di nuovo le immunità ai maestri. La compilazione del _Codex
  Theodosianus_; la scienza e l’insegnamento giuridico.


I.

La prima interruzione di tanto favore, che per oltre mezzo secolo
era disceso dall’alto del trono imperiale sulle sorti della cultura
dell’impero, si ha con Teodosio il grande.

Teodosio I. inizia l’allegra vendetta di Giuliano. Egli incarna la
prima grande reazione cristiana, anzi cattolica, contro la società
pagana del tempo, le sue passioni, i suoi gusti, i suoi amori. Si era
fatta colpa a Giuliano di aver voluto ridar vita a un grande passato,
che tramontava, ed ecco ora Teodosio sospingere, con pari violenza,
fino alla vittoria più schiacciante il presente, che già aveva
trionfato. Si era accusato Giuliano, o i suoi governatori, di avere
demolito qualche tempio, cristiano e Teodosio ordina una sistematica e
regolare crociata contro i templi e i monumenti dell’antichità pagana.
Si era accusato Giuliano di avere rotto, a favore del paganesimo, la
perfetta equanimità dell’_Editto_ di Milano, e Teodosio, assai più
violento, la distrugge senz’altro a favore del cristianesimo, anzi del
solo cattolicesimo. Si era accusato Giuliano di legare le sorti della
cultura a quelle della sua religione preferita, ed ecco Teodosio far
coincidere la politica più antipagana[689] con la negligenza più palese
e con l’avversione, più manifestamente dichiarata, alla buona sorte
della istruzione pubblica nell’impero romano!

Il suo regno quasi ventennale — quello di Costantino I. aveva in realtà
toccato appena i tre lustri — ebbe dei periodi di guerra, come ognuno
dei brevi governi dei predecessori aveva avuti, ma godette eziandio di
lunghi periodi di pace incontrastata, e Teodosio I. fu, con Teodosio
II. e con Giustiniano, uno degli ultimi imperatori, che di fatto, oltre
che di diritto, riunirono ancora una volta nelle proprie mani le due
sezioni dell’impero. Ma, durante così felice governo, non un solo atto
di lui viene segnalato, che promuova le sorti dell’istruzione pubblica,
non una scuola che si apra, non una biblioteca che si eriga, non un
docente o una classe di docenti che si favorisca.

Noteremo anzi qualche provvedimento di tenore e di effetti opposti.
Ma la politica di Teodosio, anche considerata nelle sue linee più
generali, doveva, nei rispetti della pubblica coltura, andare incontro
a degli effetti disastrosi. Noi abbiamo infatti con Teodosio I. il
tentativo della distruzione di ogni traccia superstite del culto
antico. Forse sin dal 384 egli aveva ordinato la chiusura di tutti i
santuari pagani; ma già, nel 391, egli proscriveva assolutamente ogni
sacrificio, ogni atto di adorazione degli antichi Dei, e iniziava una
guerra regolare contro la incolumità dei loro templi, per applicare,
poi, nel 392, ai violatori del suo editto, le gravi pene dei reati di
lesa maestà.[690]

Era la fine della religione, delle feste, dei giuochi, delle
processioni, delle cerimonie, dei teatri, delle immagini degli Dei, in
cui viveva tanta parte della poesia e dell’arte antica. Come avrebbe il
tronco potuto reggere, colpito così fieramente nei rami, nelle fronde,
nelle radici?

Ma agli effetti imprevisti si accompagna un’opera meditata contro la
coltura. Nel 383, una legge, diretta al prefetto dell’Oriente,[691]
viene a limitare le immunità dei docenti. Già con altre sue
disposizioni Teodosio I., da quel zelante e rude amministratore
ch’egli fu, aveva più volte cercato di limitare o il numero delle
persone, aventi facoltà di sottrarsi ai pubblici oneri e alle
pubbliche cariche, o la portata della loro immunità,[692] movendo
dal criterio che l’immediato interesse pubblico doveva prevalere su
quello individuale[693]. Ma, fino al 383, dei maestri non si era fatta
esplicita menzione. Adesso, il loro nome viene pronunziato; i maestri
vengono sottoposti alla regola comune, che imponeva di ottemperare ai
_munera civilia_, e, insieme con essi, i loro figli, già esentati dalle
leggi di Costantino.

Ma — fatto ancora più grave — noi rileviamo da una lettera di Simmaco,
che, in un certo anno del regno di Teodosio I., gli stipendi ai
maestri dell’Ateneo romano vennero improvvisamente soppressi[694]. «La
tua partenza — scrive Simmaco a un amico — porta con sè un seguito
di coorti di letterati, e come taluni sogliono recarsi in Atene, o
visitare i luoghi, sacri alle Muse, così, tratti dal desiderio, essi
seguono le tue peregrinazioni. Nè a te, cui affluiscono copiosi gli
appannaggi, che si legano alla tua carica militare, riesce gravoso
tanto accompagnamento di amici. Sii lieto dunque di mantenere i dotti
con le ricchezze, che ti provengono dal tuo ufficio, e spera che più
numerosi accorrano tosto a te gli ospiti, _dacchè sono stati soppressi
gli stipendii ai maestri della gioventù romana._...»

E, dopo questa constatazione, dopo avere cioè rilevato come, sotto
Teodosio I., venissero rotti i vincoli, che legavano la prima
Università del mondo alle iniziative dello Stato, riesce forse troppo
cervellotica — come potrebbe a prima vista apparire — l’ipotesi,[695]
che altrettanto fosse accaduto a qualche altra, pur famosa, Università
dell’impero, la quale, agli occhi del principe intransigente, doveva
apparire ancor più macchiata di paganesimo, che non quella di Roma?
È cervellotico supporre che Teodosio I. abbia soppresso il contributo
imperiale, corrisposto fin da Marco Aurelio all’Università ateniese,
abbandonandola alle sole risorse delle sue rendite private? O,
piuttosto, non è ragionevole ammettere che la sorte di questa dovette
essere identica all’altra di Roma?

Sola, fra tutte, l’Università costantinopolitana, sia per la natura
speciale di scuola, in cui le tinte classiche erano notevolmente
sfumate, sia per il rispetto verso la città, in cui sorgeva, potea
attirare gli sguardi e le sollecitudini imperiali. Ma Teodosio, in
altre faccende affaccendato, non ebbe agio o volontà di curarsi neanche
di quella, e preferì trapassare ai posteri trionfante per gloria di
armi e per fede di cristiano, anzichè per eccellenza di amore verso la
pubblica coltura.


II.

Due soli atti di lui noi possiamo lodare come giovevoli alla coltura
del tempo: tre leggi, concedenti nuovi favori ai medici di corte
(gli _archiatri sacri Palatii_),[696] e una quarta, che coincide,
secondo che sembra, con un fuggevole, lucido intervallo delle tendenze
politico-religiose del governo di Teodosio, relativa alle antiche opere
d’arte dell’impero[697].

Le tre prime leggi, anzi, poichè coloro, che ne vennero favoriti,
vi si denominano _medicinae professores_, sono state da taluno
considerate[698] come riguardanti veri e propri docenti di medicina.
Ma, pur troppo, codesta seducente interpretazione non è che un inganno.
La qualità di medici di Corte basterebbe ad escludere la possibilità
della loro condizione di pubblici o privati docenti di medicina; ma
ancor più, agli scopi della nostra dimostrazione, giova il confronto
tra quelle leggi e un passo di una lettera di Simmaco,[699] in cui lo
scrittore chiama _medicinae professore_, i medici condotti di Roma,
significando con ciò che tale denominazione si attagliava, oltre che
a dei docenti, a dei comuni professionisti della medicina. Ad ogni
modo, questi nuovi privilegi, accrescendo onori ed utili a quell’arte,
dovevano, come al solito, invogliare molti al suo apprendimento, e,
quindi, concorrere indirettamente a intensificarne la cultura e lo
studio.

La quarta legge, da noi segnalata ad onore di Teodosio I., riguarda,
come accennammo, la cura delle opere di arte. Pur troppo, non ostante i
divieti di Valentiniano e di Graziano, le provincie romane continuavano
ad essere bersaglio della meno perdonabile devastazione artistica
per opera, e questo, per eccitamento, di privati, di sodalizi,
di autorità. Ma sembra che lo zelo dei credenti sia stato ancora
maggiore di quello del nuovo monarca, che pur non era piccolo, e che
i loro eccessi abbiano, come sempre, oltrepassato i limiti di ogni
discrezione e provocato una reazione nel seno stesso del _concilium
principis._ Certo, nel 382, Teodosio I., pur ripetendo gli antichi
divieti circa il culto pagano, ordinava la riapertura al pubblico di
uno dei più famosi templi dell’Oriente, un tempio nella Mesopotamia,
e, più precisamente, nella Ostroena,[700] ricchissimo di preziose opere
d’arte. Teodosio stesso ha cura di far rilevare che tale deliberazione,
la quale abroga ogni altra precedente, era stata presa dietro ampia
discussione e maturo consiglio (_publici consilii auctoritate_); che
anzi ogni disposizione precedente doveva considerarsi come carpita
alla distrazione del potere esecutivo (_obreptivum oraculum_). Ed
egli stesso sentenzia altresì che le opere d’arte debbono essere
apprezzate per il loro intrinseco valore, e non già per il culto, a
cui si riferiscono, e che si ha quindi il diritto di volerle esposte
pubblicamente.

Era questo per certo un atto veramente encomiabile. Ma esso, che risale
ai rosei esordi del governo di Teodosio, fu subito dopo sopraffatto da
disposizioni di tenore diverso od opposto, nè poteva, in ogni modo,
avere la forza di contrastare alla generale decadenza, la quale ora
ripiglia trionfalmente il suo fatale andare. A questa età infatti, e
non ad altra, si riferisce Ammiano Marcellino in quel suo quadro delle
condizioni morali e intellettuali di Roma, da lui conosciuta solo dopo
il regno di Valente, e che è disegnato nel libro decimoquarto delle sue
_Istorie_[701]. Egli vi deplora la decadenza degli studii di filosofia
e di eloquenza: «Le poche case, un tempo celebrate per la serietà degli
studii, che vi si coltivavano, ora sono affaccendate nelle occupazioni
più molli e più oziose.... Ai filosofi si preferiscono i cantanti;
agli oratori, i maestri di musica. Le biblioteche[702] sono chiuse
a mo’ di sepolcri», «e a tal punto di indegnità s’è arrivati, che,
recentissimamente, nell’imminenza d’una carestia, sono stati espulsi
precipitosamente gli stranieri, e, quindi benchè pochi, tutti coloro
che coltivavano le discipline liberali, senza neanche lasciare ad essi
il tempo di pigliar fiato».[703]

Così, per la prima volta, dopo Augusto, gli studiosi e i maestri
tornano, nella capitale dell’impero romano, ad essere considerati quale
materiale ingombrante, quale zavorra da buttar via, a cautela della
sicurezza annonaria dei dominatori del mondo!


III.

I primi tredici anni del regno dei figliuoli di Teodosio non hanno, per
l’argomento che c’interessa, maggiore, o diversa, importanza del regno
paterno.

I soli tra i loro atti, che fermino in certo modo la nostra attenzione,
riguardano anch’essi quella che noi abbiamo definito la cura dei
monumenti e delle antiche opere d’arte.

In due editti dei primi del 398,[704] Onorio ripete, per tutta
la prefettura delle Gallie,[705] il divieto ai governatori — già
emanato da Valentiniano I. e da Graziano — con cui si comminavano
loro determinate pene, se avessero asportato le opere di arte o gli
ornamenti della città alla loro dipendenza, o li avessero semplicemente
accolti in dono dalla servilità adulatrice dei Consigli municipali, che
si dichiara di ritenere in ugual misura responsabili.

E l’anno successivo, con due nuovi editti, concernenti, oltre le
Gallie, l’Africa e la Spagna,[706] Onorio riconferma la sua intenzione
di salvare dalla rovina universale gli antichi templi insieme con le
opere d’arte, che essi custodivano.

Questa tendenza dell’imperatore romano appare in categorico contrasto
con la politica del collega e fratello suo in Oriente. Quivi, infatti,
ove tuttavia erano i maggiori tesori dell’arte ellenica, nè Arcadio
emana alcun editto, che mostri di volerli salvaguardare, o, se qualcuno
di sua iniziativa ne venne pubblicato, esso fu lungi da ogni pietà per
i monumenti del culto antico[707].

Tale differenza di vedute politiche doveva, fra l’altro, dipendere
dalle opposte influenze, che gravavano sulle due Corti e sugli uomini,
che ne guidavano l’azione. E di ciò, se ve ne fosse bisogno, abbiamo
una prova in quella polemica in versi di Prudenzio contro Simmaco,
composta, per ragioni politiche, proprio in questo giro di tempo,[708]
nella quale il poeta riferisce, o formula lucidamente, la teorica,
che la custodia dei resti dell’arte antica debba considerarsi come un
pubblico dovere.

    Marmora tabenti respergine tincta lavate,
    o proceres, liceat statuas consistere puras,
    artificum magnorum opera; haec pulcerrima nostrae
    ornamenta fuant patriae nec decolor usus
    in vitium versae monumenta coinquinet artis.[709]

Questi e simili concetti Prudenzio aveva dovuto molte volte udire, o
leggere, espressi dagli uomini politici contemporanei, dal cui circolo
d’influenza dovevano essere usciti i citati provvedimenti di Onorio. Ma
l’Oriente non aveva avuto la fortuna di tanta moderazione. Quivi, ove
la civiltà e lo spirito pagano si erano dispiegati con maggior fasto ed
orgoglio, la reazione cristiana, come era più vigile, voleva eziandio
essere più crudele, e la Corte di Costantinopoli non può, in questo
breve giro di anni, vantare, agli occhi dei posteri, neanche le piccole
glorie, di cui, non ostante tutto, il governo imperiale romano riusciva
a farsi benemerito in Occidente.


IV.

Nel 408, saliva al trono il figliuolo di Arcadio, il giovane Teodosio.

Teodosio II. è, tanto nella storia politica, come in quella
dell’istruzione pubblica del V. secolo, uno dei personaggi più notevoli
dell’età sua.

Egli aveva ricevuto a Costantinopoli una educazione e un’istruzione
accuratissime, nelle quali, nonostante le prevenzioni religiose della
Corte, dovettero — come richiedevano la prammatica e la necessità del
tempo — occupare il primo posto le discipline liberali dell’antichità
classica.[710] La sua cultura e il suo amore agli studii sono
iperbolicamente celebrati da Sozomeno nella dedica, che questi gli
fece della sua _Historia ecclesiastica._ E la buona memoria di tale
insegnamento e degli uomini, che glielo avevano impartito, fece sì
che, appena salito al trono, egli tornasse a rinnovare, in favore dei
docenti, quei privilegi, che i suoi predecessori erano stati soliti
concedere o ribadire.

Noi abbiamo infatti del 414, e dello stesso giorno, due sue leggi,
le quali trattano appunto di questo,[711] ed esse sono o una piena e
vigorosa conferma delle immunità precedentemente accordate ai medici,
ai grammatici, ai retori e ai filosofi, in genere a tutti i professori
di arti liberali, o una specificazione di determinati casi particolari,
in cui quelle immunità dovevano applicarsi — e non sempre venivano
applicate — conforme al testo del loro dispositivo.

Ma i buoni genii ispiratori di Teodosio II. non furono soltanto, come
per il primogenito di Valentiniano I., i suoi maestri. Nel 421, egli
celebrava un ben bizzarro matrimonio: sposava una greca, Atenaide,
figliuola di un sofista dell’Università Ateniese, giovane tanto bella e
colta, quanto modesta di fortuna. La influenza di un così intellettuale
coniugio doveva tosto manifestarsi nell’amministrazione dell’impero,
e se, quattro anni dopo, vediamo Teodosio II. dar mano a una delle
opere più nobili, alla più notevole, forse, delle sue iniziative,
noi dobbiamo pensare che ciò non accadde senza la cooperazione o
l’ispirazione dell’Augusta consorte.

Nel 425, infatti, egli assegnava nuovi locali, e dava un nuovo regolare
assetto, alla Università costantinopolitana. Di ciò si occupano due sue
_costituzioni_, una del febbraio 425, pervenutaci in due diversi titoli
del _Codice Teodosiano_, e una del marzo,[712] le quali, adoperando
un termine consueto alle Università medievali, si potrebbero definire
come i fondamenti statutarii di quell’Ateneo. Con la prima legge,
Teodosio II. assegna ai pubblici docenti costantinopolitani nuove sale
(_exedrae_) nei portici del Campidoglio. Queste egli distingue in due
gruppi: le _exedrae_ del portico settentrionale, vaste, arieggiate
e luminose, per le quali non sarebbe occorso alcun restauro, e le
_exedrae_ dei lati orientale e occidentale, anguste e mancanti di
sbocco, che avrebbero dovuto essere ampliate, aggregandovi i vani delle
abitazioni e delle botteghe limitrofe. A tale scopo la _costituzione_
ordina che questi locali siano espropriati a spese pubbliche e per la
pubblica utilità.

Assegnato per tal guisa un edificio, quale richiedeva l’incremento
della Università Costantinopolitana, Teodosio II., viene a stabilire
un punto, che è fondamentale nel nuovo ordinamento della medesima.
Egli prescrive che cotali locali debbano esclusivamente considerarsi
riservati ai professori pubblici, regolarmente eletti, e che a
ciascuno, per evidentissime ragioni disciplinari, si assegni un’aula
distinta e speciale. L’Università, quindi, avrebbe dovuto avere il
seguente ruolo d’insegnanti: 1) tre professori di eloquenza latina;
2) dieci professori di lingua e di letteratura latina (_grammatici_);
3) cinque professori di eloquenza greca (_sophistae_); 4) dieci di
lingua e di letteratura greca; 5) un professore di filosofia; 6) due
professori di giurisprudenza.

Tali disposizioni fondamentali vengono accompagnate da altre, non
meno notevoli, sebbene contenute poco ordinatamente nella stessa
_costituzione_ e nell’altra successiva del marzo, che può dirsi formino
il breve nucleo di una legge sullo stato giuridico dei professori
dell’Università Costantinopolitana.

Teodosio infatti dispone: _a_) che la nomina degli insegnanti ufficiali
della Università venga fatta dal Senato, che avrebbe proceduto
all’esame dei titoli e della condotta morale dei candidati, e quindi —
se lo avesse creduto — alla proposta della nomina;[713]

_b_) che i docenti così nominati debbano sottostare al divieto
assoluto dell’insegnamento privato, sia pubblico, sia domestico, pena
l’esclusione dai privilegi per loro appositamente stabiliti;

_c_) che, dopo venti anni di lodevole insegnamento e di lodevole
condotta morale, i docenti della Università ricevano il titolo di
conti — la onorificenza della così detta _Comitiva primi ordinis_ —
che li avrebbe, senz’altro, fatti entrare nei quadri della nobiltà
dell’impero;

_d_) che ogni insegnamento pubblico, impartito da altri maestri, anche
se in locali estranei a quelli universitarii, sia severamente proibito,
pena la nota d’infamia e persino l’espulsione dei contravventori;

_e_) che, viceversa, sia ai professori, estranei alla Università,
consentito l’insegnamento privato, ma nella sola forma d’insegnamento
domestico.


V.

I provvedimenti, adottati da Teodosio II., dànno luogo a parecchie
considerazioni.

Anzi tutto, dall’insieme delle due _costituzioni_, risulta confermato
che non si tratta, come talora si è creduto, di una fondazione
_ex novo_, ma solo di un riordinamento. E questo si desume in modo
indubitabile dalla struttura delle due leggi, le quali accennano per
incidenza a disposizioni, che sono veramente fondamentali, anzi ne
tralasciano alcune importantissime (ad esempio quelle relative allo
stato economico fatto ai docenti), e invece pongono in rilievo, come
disposizioni, che delle due leggi formino l’obbietto precipuo, altre,
assolutamente secondarie. Il che, mentre significa che l’innovazione si
limitava a queste ultime, significa eziandio che l’Università non si
istituiva allora — il fondatore invero n’era stato Costantino I. — ma
soltanto si riordinava, moralmente e materialmente.

Ma, se la prima fondazione dell’Ateneo costantinopolitano può sollevare
il dubbio di pregiudizi, indirettamente arrecati all’antica Università
ateniese, il grandioso riordinamento, escogitato da Teodosio II.,
ritorna a imporci più insistentemente tale quesito. Veniva ora a
costituirsi una concorrenza pericolosa per quell’altra Università,
ove aveva insegnato e forse — (chi sa?) — insegnava tuttora il
padre dell’imperatrice? Anzi, la riforma era stata forse tentata per
affrettare la rovina di quel glorioso centro di studii, che era Atene?

Queste due opinioni, condivise da parecchi storici,[714] riescono,
a mio parere, assolutamente insostenibili. Anzi tutto, le Università
di Atene e di Costantinopoli avevano caratteri assolutamente diversi.
In Atene preponderavano le cattedre di filosofia; mancavano quelle di
letteratura e di eloquenza latina; le altre di giurisprudenza erano
tenute in una considerazione assai scarsa, e, in compenso, vi erano
dei corsi di discipline speciali, come la medicina, l’astronomia etc.
A Costantinopoli, invece, la cura per lo studio delle lettere e della
eloquenza latina pareggia all’incirca quella per l’eloquenza e per le
lettere greche; si hanno ben due cattedre di giurisprudenza, e minima
è l’importanza data all’insegnamento della filosofia, cui si riserbava
una sola cattedra.

Nessuna possibilità, dunque, di concorrenza. E, se tale presunzione non
bastasse, noi ne abbiamo la riprova nel fatto. In questo tempo, non si
ribadisce la decadenza, che, da qualche secolo, travolgeva l’Università
ateniese; questo tempo coincide invece col culminare della rinascita
di quell’istituto nella così detta _Seconda scuola ateniese_, la cui
esistenza prosegue fino a Giustiniano.[715]

Ma, se il riordinamento di Teodosio II. non potè esercitare, ai danni
di Atene, l’influenza deleteria, che vi si attribuisce, tanto meno è
possibile che siffatta influenza vi si fosse voluta consapevolmente
esercitare.

A parte il grave dubbio che l’esecuzione dell’Università ateniese
non si sarebbe potuta compiere senza il consenso e la complicità
dell’imperatrice, Teodosio II. non aveva creato un nuovo istituto; ne
aveva semplicemente riordinato uno antico, e tale riordinamento, come
era obbligo di principe oculato, rimaneva estraneo a qualsiasi velleità
di rappresaglia o di reazione cristiana, escludeva ogni malevola idea
di concorrenza distruttrice.

A considerazioni di maggior rilievo dà luogo la natura e la
distribuzione delle cattedre. Quella che si è detta la Università
Costantinopolitana era in realtà un istituto unico di istruzione media
di secondo grado e d’istruzione superiore. Noi vi notiamo infatti,
oltre alle discipline, attinenti oggi all’insegnamento superiore, tutte
le numerose cattedre di lingua e di letteratura latina e greca, che
allora facevano parte dell’insegnamento secondario più elevato. D’altra
parte, se l’istituzione di cinque cattedre di eloquenza greca, contro
tre di eloquenza latina, corrispondeva esattamente alla preferenza,
fatta alla lingua greca, come strumento della vita pubblica,[716] la
parità delle cattedre delle due lingue e delle due letterature, fondate
nella capitale dell’Oriente, rilevava la ferma volontà imperiale che il
latino fosse uno degli elementi essenziali della cultura degli uomini
di governo e della burocrazia.

Passando ora agli insegnamenti propriamente superiori, colpiscono
subito l’attenzione di chi osserva i ruoli degli insegnanti di
filosofia e di scienze giuridiche.

La filosofia è quasi abolita: l’Università costantinopolitana non ne
conta che una sola cattedra, e questo era atto di pieno ossequio ai
dettami della religione cristiana, per cui l’insegnamento filosofico
o doveva essere conglobato con quello teologico, o doveva considerarsi
come nemico della vera sapienza[717].

Viceversa, il numero delle cattedre di giurisprudenza è
raddoppiato,[718] e la scienza del diritto, fino a ieri relativamente
trascurata come insegnamento superiore, viene adesso a tenere, nel
nuovo ordinamento, un posto di onore e di privilegio.

Ma ecco un carattere nuovo dell’Ateneo costantinopolitano. Noi altrove,
d’istituzione imperiale, abbiamo trovato solo delle cattedre, o, al
più, qualcosa, che oggi si potrebbe paragonare alle nostre _Facoltà_
universitarie, accanto alle quali altre cattedre si reggevano o per
virtù della iniziativa cittadina, o per volontà degli studiosi. Il
pieno organismo di una intera Università non era mai stato concepito
dal governo imperiale. Ciò accade ora, per la prima volta, in
Costantinopoli. Qui solo si ammira una completa Università, tutta
proporzionata nelle sue parti, foggiata secondo un certo disegno
pedagogico, senza _Facoltà_ ipertrofiche, ma senza dannose deficienze.
Erano questi i vantaggi arrecati dalla sua origine, che non era stata
elaborata dalle cieche energie della storia, ma affidata al diretto
intervento di un’intelligenza consapevole; ma, pur troppo, a motivo di
tale sua natura, quell’istituto, insieme con il valore, avrà tutti i
difetti, che sono propri delle costruzioni artificiali: la mancanza di
rigoglio e la brevità della vita.

Ma il particolare più notevole delle due _costituzioni_ teodosiane,
il particolare, che segna un vero e proprio rivolgimento della
politica scolastica dell’impero, è la fine decretata dell’insegnamento
privato-pubblico.

Questo è il primo momento, in cui, può dirsi, si inaugura, sia pure
per una sola città, il monopolio ufficiale dell’insegnamento medio e
superiore, e in cui, per la prima volta, lo Stato reclama per sè il
diritto esclusivo della pubblica istruzione. È difficile dire quali
fossero le cause di tanta risoluzione. Si potrebbe — con un po’ di
malevolenza — intravedervi la volontà dell’imperatore di scegliere
maestri di sentimenti consoni agli spiriti religiosi suoi e della
Corte. Ma tale ipotesi, io credo, non regge al cimento dei fatti.
Nonostante l’imperversare della reazione cristiana, che si esercitava
sui templi, sugli idoli, sulla pratica dei sacrifizi, anche sotto
Teodosio II., come sotto il suo grande omonimo, la erudizione e
l’ingegno ebbero sempre piena tolleranza e reverenza. Ed infatti,
qualcuno dei nomi di docenti pubblici, onorati nella legge del marzo
425, ci richiama a dei fedeli credenti nel paganesimo, a dei profughi
di terre, donde li aveva scacciati l’intransigenza cristiana,[719]
che pure, in Costantinopoli, erano divenuti docenti ufficiali e
venivano ora, da Teodosio II., rivestiti di una delle maggiori dignità
dell’impero, nonchè riconosciuti uomini di vita lodevole e di costumi
immacolati.

Non dunque, a tali considerazioni, aveva dovuto ispirarsi quel
principe. Ma è più probabile che il suo divieto mirasse unicamente
a salvaguardare la dignità e la serietà stessa dell’insegnamento.
I metodi, infatti, consueti ai docenti pubblici e privati per
accaparrarsi discepoli — lo deplorano tutti gli scrittori del
tempo[720] — costituivano un avvilimento quotidiano della dignità del
maestro agli occhi dei suoi scolari ed è possibilissimo che Teodosio
II. abbia voluto eliminare questa iattura, dettando i suoi voleri
in quella forma aspra, che la sua prima legge palesa e proibendo
ai docenti ufficiali dell’Ateneo costantinopolitano di attendere
a procacciarsi discepoli, da cui avessero potuto ritrarre privati
guadagni.

Gl’inconvenienti deplorati, e cercati di evitare, si sarebbero al
certo ripetuti presso gl’insegnanti privati, ma Teodosio, questa
volta, provvede, riducendone al minimo l’importanza nell’insegnamento
cittadino e limitando la loro eventuale attività a quella di ripetitori
domestici.

Il trionfo dell’insegnamento ufficiale era assicurato. Se non che la
liberalità di questo nuovo monopolio emerge luminosa dal fatto che
esso si riduce alla scelta dei maestri e al divieto dell’insegnamento
privato-pubblico. Ma gl’insegnanti ufficiali conservano piena la
libertà di dettare ciò che vogliono e come vogliono. Non programmi,
non norme costrittive, non sorveglianze più o meno rigorose.
L’imperatore non legifera in alcun modo per menomare la indipendenza
dell’insegnamento ufficiale. E anche questo può dimostrare che
non erano stati dei motivi politici o religiosi a consigliare il
rivolgimento, di cui egli si rese responsabile dinanzi al giudizio dei
contemporanei, e a quello, di consueto assai più grave e inappellabile,
della storia.


VI.

Le norme generali delle due costituzioni, riguardanti l’ordinamento
interno della Università costantinopolitana, di cui la prima, nella
collezione legislativa pubblicata da Teodosio II., si ritrova fra
le misure relative all’ordinamento degli studii in Roma, oltre
che in Costantinopoli (_De studiis liberalibus Urbis Romae et
Costantinopolitanae_), si riferiscono solo a questa seconda città, e
non anche all’antica capitale del mondo, la metropoli dell’Italia?

Il motivo, che ha indotto qualche studioso[721] a sostenere questa
seconda opinione, poggia forse sur un equivoco, giacchè la identità
della rubrica del titolo, sotto cui l’una e l’altra sono elencate,
si può spiegare anche col fatto che la sua prima parte contiene la
_costituzione_ di Valentiniano I. sulla disciplina degli studenti, che
si riferiva appunto a Roma[722].

Ma vi è qualche altro particolare, il quale ci induce a sospettare
che più tardi taluna delle norme, emanate da Teodosio II. per
l’Università costantinopolitana, si applicasse anche all’Ateneo
romano. Quivi, infatti, in questo e nel secolo successivo, sarà in
vigore il conferimento della _Comitiva primi ordinis_, la quale —
vedemmo — era un’onorificenza che Teodosio II. concedeva ai professori
di Costantinopoli, dopo un ventennio di lodevole insegnamento. Noi
possediamo anzi il documento della prima concessione di codesta dignità
in Roma, in un’epigrafe, che anche altri indizii palesano del secondo
quarto del secolo V., secondo la quale il felice privilegiato fu un
cristiano insegnante di retorica.[723] Codesto punto delle innovazioni
di Teodosio II. o trovò dunque la sua applicazione in Occidente dopo
il 438, allorchè il _Codice teodosiano_ cominciò ad entrare in vigore
anche in questa parte dell’impero, o Roma ne godette nello stesso tempo
che Costantinopoli.

Ma tale rivelazione, che concerne una delle riforme scolastiche di
Teodosio, solleva in noi il sospetto che altrettanto fosse avvenuto di
parecchie delle rimanenti.

Chi infatti si dia la pena di scorrerle trova manifesto che la
maggior parte non hanno nulla di peculiare per la giovane capitale
dell’Oriente. La forma della nomina ufficiale dei maestri, il divieto
fatto loro dell’insegnamento pubblico ai maestri privati, sono tutte
norme, di cui talune — la prima ad esempio — troviamo più tardi
osservate anche fuori di Costantinopoli, e le altre, nulla esclude
lo siano state, egualmente, altrove. Nella tendenza, che ormai aveva
assunto l’impero romano, di disciplinare e di accentrare ogni cosa,
e nell’occasione, che si porse, per l’ultima volta, a Teodosio II.,
di reggere nelle sue mani i destini di ambedue le sezioni, orientale
ed occidentale, tutto lascia agevolmente supporre che l’ordinamento,
da lui imposto agli studi medii e superiori di Costantinopoli, fosse,
subito dopo, applicato anche a Roma.

E, forse, non a Roma soltanto. Non le sole due capitali dell’impero
ebbero scuole di Stato. L’impero altra volta statizzò determinati
insegnamenti, affidandoli a determinate città.[724] Perchè mai non si
sarebbero, anche per queste, ripetute le misure preventive, che, nel
pensiero del governo, valevano a salvaguardare la serietà e la dignità
dell’insegnamento secondario e superiore di Costantinopoli? Come si
vede, tutti i criterii di verisimiglianza ci inducono a propendere
verso quest’ultima opinione.


VII.

Nel 427,[725] Teodosio II. riconfermava gli antichi privilegi, già
confermati ai maestri con la costituzione del 414. Era il periodico
bisogno di richiamare in vita disposizioni obliterate o male applicate.
Ma, due anni dopo, egli si accingeva ad un’opera ancor più duratura nei
riguardi della civiltà, e che indirettamente, ma in modo decisivo, si
sarebbe ripercossa sur una delle varie forme d’insegnamento impartito
nelle scuole del tempo, l’insegnamento giuridico.

Dall’età repubblicana a quella imperiale, grande era stato il
rivolgimento subìto dalla pura scienza del diritto. Fino al primo
secolo di Cristo, il diritto aveva avuto, come suo esclusivo
fondamento, le _Dodici Tavole_, qua e là lievemente ritoccate o dalla
consuetudine, o da deliberazioni popolari, o da _senatus consulta_,
o dagli editti dei pretori. Ma, con l’impero, si erano introdotte
nuove classi di fonti giuridiche: le costituzioni del principe sotto
forma di _edicta_, _mandata_, _decreta_, _rescripta_, e fino al
secolo IV.,[726] i _responsa_ dei giuristi. Anzi, col procedere del
tempo, le _costituzioni_ imperiali erano moltiplicate di numero e
di importanza, e, nel secolo IV., in quel notevole mutamento, che
la religione cristiana, salita per la prima volta al trono, arrecò
nelle antiche consuetudini civili, e in cui, a parte la religione, era
scoccata l’ora critica del distacco di un nuovo mondo da quello antico
pagano, esse erano divenute profondamente novatrici, anzi, addirittura,
rivoluzionarie.

Giungiamo così all’età di Teodosio II., nella quale lo stato delle
fonti giuridiche era il seguente. In teoria, avevano vigore i
dispositivi degli antichi plebisciti, i _senatus consulta_, gli editti
dei magistrati; le _costituzioni_ imperiali, e la consuetudine;
in pratica, si ricorreva solo alle opere dei giureconsulti, o
alle _costituzioni_ imperiali, trascurando affatto le fonti prime
ed originarie. Se non che, gli scritti dei giureconsulti erano
numerosissimi, rari, costosi, peggio ancora contradittorii; le
_costituzioni_, infinite, emanate in circostanze e in tempi diversi,
sperdute per gli archivi dei Prefetti del Pretorio e dei governatori
delle provincie, difficili a possedere in raccolte complete[727].

Appunto per ciò, nonostante le due collezioni, che allora esistevano
— un _Codex Gregorianus_ e un _Codex Hermogenianus_[728] — il bisogno
di un testo unico, che fissasse e ordinasse, in forma definitiva
e ufficiale, tutte le leggi e le loro interpretazioni fin dall’età
repubblicana, era, al tempo di Teodosio II., vivissimo. Ne risentivano
la necessità, non solo i funzionari dell’impero, non solo i giudici,
ma gli studiosi di giurisprudenza. Dove attingere tutta la materia
da consultare? Come avere tra mano, senza inutili pleonasmi, senza
ripetizioni, senza lacune, e in un testo unico, tutto quanto occorreva
al magistero giuridico?

In questo disordine del materiale, gli scrittori del IV. secolo
credevano appunto di ritrovare la cagione della incontrastabile
decadenza della scienza giuridica[729]. Essa da tempo veniva stimata
mestiere degno solo di liberti.[730] Da tempo, gli studiosi, atterriti
dalla inestricabile confusione e dalla copia delle leggi — «un
carico da cammelli» — si volgevano a discipline, il cui apprendimento
riescisse più tollerabile, ragione per cui la giurisprudenza restava in
mano di maestri ignoranti e di volgari azzeccagarbugli, di cui Ammiano
Marcellino, nel IV. secolo,[731] e Giustiniano, nel VI., faranno il
giudizio che essi meritavano[732].

Ma il rapporto, che intercedeva fra tale stato di cose la scienza e
la scuola, non isfuggiva neanche all’imperatore. «Perchè — si chiede
egli, nella _costituzione_, che sanzionerà l’autorità del nuovo
_Codice_ — perchè, pur essendo proposti tanti premi a coloro, che
coltivano le arti e le scienze, sono tuttavia solo pochi quelli, che
si possono veramente dire ricchi di sapienza giuridica? Perchè, in
tanta miseria di questo genere di produzione, appena uno o due è lecito
giudicare realmente forniti di solida dottrina?»[733] Ed anch’egli
crede di trovare la ragione del fatto nel gran disordine del materiale
legislativo, anch’egli pensa che, da un generale riordinamento, grande
vantaggio sarebbe derivato alla scuola e al progresso delle scienze
giuridiche. Fu appunto a tale impresa che si accinse Teodosio II.[734].

Il 16 marzo 429, egli nominava una commissione, composta di magistrati,
di addetti al gabinetto imperiale, di giuristi, con l’incarico
di raccogliere in un corpo unico le _costituzioni_ emanate degli
imperatori, fino dall’età di Costantino il grande[735].

La Commissione incaricata non aveva ancora, nel decembre 435, ultimato
i suoi lavori, e l’imperatore, con una seconda ordinanza, investendola
di poteri maggiori di quelli che non convenissero a semplici
raccoglitori, colmava le lacune, in quel frattempo operatesi tra i
commissarii, e ne accresceva notevolmente il numero e l’autorità.[736]
Questa seconda commissione pare avesse nel suo seno un professore di
diritto (_doctor iuris_), un Erozio. Così ampliata, essa era, due anni
dopo, in grado di fare prevedere imminente la pubblicazione del nuovo
_Codice_, che veniva poi fatta nelle due sezioni dell’impero, entro il
438, dieci anni dopo l’inizio dell’impresa.

Non può essere questo certamente il luogo per un esame critico del
valore letterario, giuridico e politico dell’opera. Essa fu certamente,
sotto tali rispetti, notevolissima, e Teodosio stesso ebbe cura di
metterlo in evidenza[737]. Ma a noi basta far notare la sua grande
efficacia nei riguardi della scienza e dell’insegnamento giuridico. Era
quella la più completa e la prima ufficiale collezione delle leggi e
dei decreti, emanati nell’impero romano, da oltre un secolo.

Forse, anzi, il paragone, che noi abbiamo invocato, non riesce a
rendere con esattezza la natura dei _Codici_ ufficiali del tempo. Le
nostre raccolte di leggi e decreti rispondono solo a una parte di ciò
che il _Codice Teodosiano_ fu, giacchè in esso rientrava anche quanto
oggi siamo costretti a ricercare nelle raccolte di sentenze emanate dai
supremi corpi giudicanti.

In un paese, ed in un’età, in cui il commercio intellettuale era
ostacolato fortemente dall’assenza di mezzi rapidi di trasmissione,
è facile intendere l’efficacia e l’impulso, che l’opera di Teodosio
dovette esercitare sulla diffusione della cultura giuridica. Eppure,
essa non rispondeva certamente a tutto il complesso genere di lavoro,
cui si sarebbe dovuto dar mano. Circa un secolo dopo, noi udiremo dalla
bocca stessa di un successore di Teodosio, dalla bocca di Giustiniano,
la enumerazione di tutto quello che ancora sarebbe stato necessario
fare, delle lacune che sarebbe stato d’uopo colmare, e vedremo quanto
egli stesso tenterà.

Sarà questo il compito di un altro tempo e di altri uomini. Ma l’opera
di Giustiniano nè cancellerà l’importanza di quella di Teodosio II.,
nè può, ai nostri occhi, menomarla. Nonostante il futuro _Codice
Giustinianeo_, quello _Theodosiano_, che lo precede di circa un secolo,
rimane per noi il più saldo e il più sicuro contrafforte, tra le cui
difese la scienza e la cultura giuridica del mondo antico seppero
sfidare i secoli per giungere fino a noi.




CAPITOLO IX.

L’impero e l’istruzione pubblica dalla morte di Teodosio II. alla fine
del governo di Giustiniano.

(450-565)

  I. Necessità di estendere il presente studio fino VI. secolo. —
  II. Il governo di Teodosio, la coltura e l’istruzione pubblica
  in Italia. — III. Prosecuzione della politica di Teodorico sotto
  Atalarico e Teodato. Atalarico e le scuole di Roma. — Rinascita
  intellettuale. — IV. Giustiniano, la sua reazione cristiana; il
  divieto d’insegnamento ai pagani. — V. Soppressione dell’università
  ateniese. — VI. Sospensione degli stipendii ai docenti di arti
  liberali. — VII. La compilazione del _Codex iustinianeus_, del
  _Digestum_ e delle _Institutiones._ — VIII. Scopi e vantaggi di
  tale opera rispetto alla scuola e all’insegnamento. — Riduzione
  delle scuole di giurisprudenza; aumento del personale insegnante
  in Costantinopoli e in Berito; immunità ai professori di
  giurisprudenza; prolungamento del corso; la disciplina degli
  studenti. — IX. I nuovi programmi per l’insegnamento della
  giurisprudenza. — X. Giustiniano e l’istruzione pubblica negli
  ultimi anni del suo governo.


I.

Teodosio II. moriva nel 450. In quell’anno stesso, spirava l’ultima
figliuola di Teodosio il grande, colei, che, per circa cinque lustri,
aveva, quale reggente di Valentiniano III., tenuto il governo della
sezione occidentale dell’impero. Nel 451, Attila invadeva coi suoi Unni
l’Europa; nel 452, penetrava in Italia, e non è del tutto inaccettabile
la tradizione che, in quella sua corsa rovinosa attraverso la
penisola, egli vi abbia vagheggiato un piano radicale di distruzione
del romanesimo[738]. Nel 455, invadevano l’Italia e Roma stessa i
Vandali d’Africa. Dal 455 al 476 si susseguivano otto imperatori,
eletti e deposti, con alterna ironia, da generali barbari — figure
senza energia, strumenti di volontà non proprie. Così si giunge al 476,
l’anno in cui suole segnarsi la fine dell’impero romano d’Occidente. Ma
questa data, che ha un mero valore cronologico, non può essere quella,
a cui debbono arrestarsi le nostre ricerche sui rapporti tra lo Stato e
l’istruzione pubblica nell’impero romano. Allorquando Odoacre assumerà
il governo d’Italia e rimanderà la porpora e il diadema all’imperatore
dell’Oriente, tacito invito a un governo nominale sull’Occidente,
l’autorità di questo principe, su questa parte dell’Europa, non
cesserà, ma continuerà nella identica misura, in cui da parecchi lustri
essa si esercitava. E, subito dopo, Teodorico, re degli Ostrogoti,
venuto a spodestare Odoacre, dichiarerà di compiere l’impresa in
nome dell’imperatore di Oriente, e lascerà intatto l’ordinamento
dell’Italia, e gl’imperatori lo nomineranno loro luogotenente,
confermandone gli atti suoi e dei successori, e continueranno a
legiferare per l’una e l’altra sezione dell’impero, come su proprio
immutato possesso[739]. Meglio ancora, qualcuno tra essi tornerà a
tenere, per non brevi anni, nel suo pugno, le sorti di tutto l’impero.

Fino a Giustiniano, dunque, l’unità ideale e politica dell’impero
romano non è rotta teoricamente, e, praticamente, essa lo è tanto, o
tanto poco, quanto sin dalla morte di Teodosio il grande. Ancora nei
secoli V. e VI., Roma è uno dei due centri, donde irraggia, sui resti
dell’impero occidentale romano, tutta l’autorità, di cui un tempo
disponevano gl’imperatori; e i re barbari, soggiornanti in Italia,
avranno cura di proseguirne scrupolosamente la politica.

Ma se questo si può dire dell’Occidente, ancora più forti sono le
ragioni, che ci inducono a inoltrarci fin nel secolo VI. della
storia dell’Oriente. Il regno di Giustiniano è l’ultimo grande
atto della portentosa trilogia della vita ideale di Roma, e le sue
vicende scolastiche vi assegnano un’importanza capitale nella storia
dell’insegnamento. Giustiniano, come vedremo, applica, anche a questo
campo dell’amministrazione, tutti i criterii dominanti la politica
generale dello Stato e porta alle estreme conclusioni quelle tendenze,
che, nei rapporti della istruzione pubblica, si erano da tempo
manifestate e avevano, con Teodosio II., avuto una così significante
espressione. Riesce dunque impossibile allo storico, che si occupi
dei fenomeni, che noi andiamo in queste pagine rievocando, arrestarsi
alle soglie del secolo VI. Ma, se così evidenti sono i motivi che
ci sospingono a penetrare fin nel cuore del VI. secolo della storia
dell’impero romano d’Oriente, non altrettanto invincibili sono
quelli, che ci inducono ad arrestarci a questo momento. La barriera
cronologica, che si suole fissare alla morte di Giustiniano, non
poggia sulla realtà dei fatti; essa corrisponde solo a una inveterata
distinzione fra storia del pensiero greco e storia del pensiero
bizantino, anch’essa sprovvista di ogni valore ideale[740]. Ma la forza
della consuetudine e le sue esigenze sono ormai troppo grandi, perchè
sia lecito violarle in una trattazione d’argomento così particolare, e
questa ragion pratica è la sola ad impedire che la nostra esposizione
prosegua, per l’Oriente, oltre la seconda metà del VI. secolo di
Cristo, oltre cioè la fine del governo di Giustiniano.


II.

È noto il grande rispetto, che agli istituti del passato portarono i
due re barbari, i quali governarono l’Italia innanzi la restaurazione
di Giustiniano. E tale tendenza, ch’è in germe nella politica e nel
fugace governo di Odoacre, si dispiega intera con Teodorico. Tutta la
parte più intellettuale della politica di questo principe fu ispirata
da uno dei più grandi dotti romani del tempo, il senatore Cassiodoro,
figlio di un altro Cassiodoro, che Odoacre aveva levato alle più
alte dignità e nipote di uno dei personaggi più illustri dell’età
immediatamente precedente[741]. Ed egli stesso ce ne lasciò documento
in quelle sue preziose Variae, che sono una delle fonti più notevoli
della storia del governo di Teodorico.

Alla corte del monarca ostrogoto, Cassiodoro percorse tutta la scala
degli onori: fu questore, patrizio, console, senatore, _magister
officiorum_[742]. Ma più delle dignità esteriori, è per noi
significativa la natura dei suoi rapporti col principe. Cassiodoro
stesso ci informa come, non ostante la rozzezza della sua cultura,
il re aveva colloqui frequenti con i dotti; colloqui, che volgevano
spesso su problemi di filosofia, di scienze naturali, di astronomia.
«Teodorico — scrive Cassiodoro — libero dalle cure del suo governo,
ascoltava i dotti, perchè voleva, con le proprie opere, uguagliare gli
antichi, e si informava del corso degli astri, della configurazione dei
mari, delle sorgenti meravigliose, con tanto zelo, che, a vederlo così
scrutare nei misteri della natura, l’avresti detto, non un monarca, ma
un filosofo rivestito della porpora»[743].

Interpretando il desiderio e la volontà del re, Cassiodoro, nelle
lettere e negli editti, che stendeva in suo nome, non tralascia
occasione per lodare i letterati e i filosofi dei tempo e per mettere
in rilievo i meriti intellettuali di coloro, che il principe nominava
ai più alti uffici dello Stato.[744] Tanto pregio della cultura e dei
dotti fa sì che Teodorico intervenga a curare direttamente le scuole
del paese ch’egli governa. È stato scritto e ripetuto ch’egli vietasse
ai Goti di frequentare le pubbliche scuole. Probabilmente, si tratta
di una esagerazione o di un equivoco,[745] in fondo ai quali, di vero
non c’è che l’adulazione di un settatore del generale greco, futuro
trionfatore dei Goti, e la volontà di Teodorico che la grande massa del
suo popolo custodisse un vigoroso allenamento militare[746]. Diversa è
invece l’educazione, che egli volle per i figliuoli e per i congiunti.
La figlia Amalasunta è da lui fatta diligentemente istruire in tutte
le discipline liberali,[747] ed il nipote Teodato, riceve un’istruzione
romanamente perfetta[748]. Non si poteva attendere nulla di diverso da
un principe, che tanto sospirò il possesso di quella cultura, di cui
egli mancava. E quando Amalasunta volle educare il proprio figliuolo
alle arti liberali romane, il che doveva — disgraziatamente — fruttarle
buona parte della sua sciagura, si può ritenere ch’ella seguisse, e
interpretasse, il più sincero sentimento del padre suo.

In ogni modo, qualunque sia stato il pensiero di quel principe circa
l’educazione da impartire ai Goti, i suoi intendimenti, nei riguardi
della popolazione romana, non si scostarono di un pollice da quanto
avevano giudicato i migliori tra i suoi predecessori imperiali.

Egli infatti, più benevolo e più zelante di Valentiniano I., pose
sotto la sorveglianza speciale del prefetto di Roma — «la città delle
lettere», «la madre feconda dell’eloquenza», «il tempio di tutte le
virtù», com’egli soleva chiamare questa metropoli — i figliuoli o i
congiunti di quegli stranieri, i quali amavano che i loro giovani
connazionali frequentassero le scuole della Città eterna[749]. E,
per giunta, il re accompagnava il suo permesso con la clausola che
nè i giovani lasciassero Roma, nè i parenti li ritirassero, finchè
quelli non avessero ultimato gli studii e non ne avessero realmente
profittato, il che, come egli stesso aggiungeva, non sarebbe dovuto
spiacere ai maggiori interessati[750].

Oltre che agli studiosi, Teodorico pensa ai docenti. Quegli stipendii o
quelle annone, che da Adriano si solevano corrispondere ai professori
dell’Ateneo romano, e che vedemmo soppressi sotto Teodosio I., sono
da Teodorico ripristinati, e corrisposti, con lodevole precisione
amministrativa. I beneficati sono i docenti di grammatica, di retorica,
di giurisprudenza, di medicina. E ad informarcene è precisamente un
paragrafo della _Prammatica Sanzione_ di Giustiniano,[751] il quale, a
Teodorico appunto dovrà ispirarsi per mitigare le sue leggi contrarie
alla diffusione dell’istruzione classica nell’impero.

Ma di un altro ramo della pubblica istruzione ebbe anche a curarsi
Teodorico, come di rado si erano curati i suoi predecessori. Intendo
accennare alla conservazione delle antiche opere d’arte. Nelle _Variae_
di Cassiodoro si discorre spesso di tale soggetto. «Assai acerbo è pel
nostro animo», scrive una volta Teodorico, «constatare che, mentre
noi cerchiamo ogni giorno di accrescere la bellezza della città, i
monumenti antichi vengano quotidianamente a perire.»[752] «A nulla
giova fermare i principii delle cose, se poi si distrugge ciò che si
è incominciato». «Solo è durevole ciò che la prudenza incomincia e
la cura custodisce; maggiormente perciò si deve badare a conservare,
anzichè ad iniziare.»[753]

E in Roma e in Italia egli ripara, a proprie spese, mura, edifici
pubblici, canali, terme, teatri[754]; nomina appositi architetti[755],
crea la carica della _comitiva romana_, che richiama la _cura
statuarum_ del II. secolo e il tribunato _rerum nitentium_ del IV., con
l’incarico di invigilare sulla sicurezza e sulla incolumità delle opere
d’arte esposte pubblicamente in Roma[756]. E uno scrittore del tempo
nota, pieno di maraviglia e di ammirazione, che con Teodorico risorgono
a nuova vita Roma e l’Italia intera[757].


III.

L’opera e l’indirizzo politico di Teodorico non si interrompono con la
sua morte. Atalarico e Teodato continuano nella via tracciata dal nonno
e dallo zio[758].

Con essi anzi, il mecenatismo di Teodorico si fa più intenso e più
frequente: Cassiodoro assurge alla prefettura del pretorio;[759]
l’«eloquente» Aratore viene nominato _Conte dei Domestici_;[760] il
retore Felice, _questore del sacro palazzo_[761]. E, durante il loro
governo, le sorti dell’istruzione pubblica nella capitale del regno
vengono prese a cuore in modo ancora più energico che nel passato.

Ebbe, invero, Atalarico la fortuna, non comune, di Graziano e di
Teodosio II. insieme, di avere al suo fianco due rari genii ispiratori,
la madre Amalasunta e il ministro Cassiodoro[762]. E di lui noi
possediamo il testo di una relazione al senato, che vale la pena di
riprodurre per apprendere dalla sua stessa bocca come, pur esprimendosi
ne l’orribile prosa del tempo, pensava quest’ultimo fra i Romani:
«È noto, — egli scrive — che Noi lasciamo a buon diritto ai padri
le questioni, che riguardano i figliuoli, perchè essi sentano il
dovere di curare il profitto di questi, ai quali interessa il sempre
migliore ordinamento degli studii in Roma. Non è perciò da credere
che Voi possiate non essere solleciti verso le cose, da cui deriva e
ornamento alla Vostra stirpe, e, con l’assiduo insegnamento, consiglio
a tutta la società. Or bene, recentemente (poichè le cure Vostre
toccano anche Noi) abbiamo appreso che i professori di eloquenza in
Roma non riscuotono le ricompense fissate all’opera loro, e che, per
il mercanteggiare di taluni, accade spesso che essi vedano ridursi le
somme destinate ai pubblici docenti. Ora, poichè è chiaro che le varie
discipline sono alimentate dalla speranza dei relativi compensi, noi
giudichiamo sommamente colpevole sottrarre alcunchè ai maestri della
gioventù, i quali invece sono piuttosto da eccitare alla gloria degli
studii, con l’accrescerne gli agi, di cui ora godono.

«La scuola di grammatica è infatti il fondamento migliore delle
lettere, la madre gloriosa della eloquenza, ciò che insegna a
nobilmente pensare e a parlare impeccabilmente. La scuola di grammatica
insegna ad aborrire gli errori del discorrere, nella stessa guisa,
in cui il buon costume aborre dalla colpa. E come il musico sa
foggiare una dolcissima melodia con cori fra di loro intonati, così il
grammatico sa recitare, disponendo convenientemente i varii accenti.
La grammatica è maestra della parola, abbellatrice del genere umano;
essa, mettendoci in grado di leggere le opere mirabili degli antichi,
viene ad offrirci l’ausilio della loro saviezza. De’ suoi beneficii
non godono i re barbari; essa — è noto — rimane esclusivo privilegio
dei principi legittimi. Qualunque persona infatti può possedere le
armi: solo l’eloquenza favorisce i re dei Romani. Con essa contendono
gli oratori civili; da essa procede la nobiltà del dire, per cui vanno
onorati tutti i sommi, e, volendo omettere il resto, è per essa che noi
siamo in grado di parlare.

«Per questo, o senatori, Noi deferiamo volentieri a Voi e la
cura e l’autorità necessaria perchè coloro, che via via succedono
all’insegnamento, quando vengano riconosciuti idonei all’ufficio,
e in questo confermati da un decreto del senato, siano grammatici,
siano retori, siano giuristi, riscuotano, da chi spetta, senza alcuna
menomazione, gli utili goduti dai predecessori, nè alcuno di loro abbia
a correre il rischio di vedersi le annone stornate e ridotte, ma tutti,
dietro Vostro ordine e con la Vostra garanzia, godano sicuramente
quello che loro compete.

«Il prefetto della città è incaricato dell’esecuzione di ciò che Voi
avrete stabilito. E affinchè nulla debba restare alla mercè di chi è
deputato al pagamento[763], Noi ordiniamo che, appena scorso il primo
semestre dell’anno, i maestri riscuotano la metà dello stipendio
fissato, e il secondo semestre non si chiuda senza il dovuto saldo
delle annone». «È tanto Noi vogliamo che tali norme siano osservate
rigorosissimamente, che, se qualcuno di coloro, a cui tocca, stimerà
di differire questa funzione, che gli incombe come l’adempimento di
un dovere, se, per deplorevole cupidigia, egli defrauderà dei dovuti
vantaggi coloro che lavorano meritoriamente, soggiaccia al pagamento
degli interessi secondo le norme consuete. Se Noi largiamo le nostre
ricchezze in spettacoli teatrali, per diletto del popolo, e ne facciamo
con ogni scrupolo godere persone, che non sono stimate così necessarie,
quanto maggiormente, e senza indugi, non dobbiamo far ciò a vantaggio
di coloro, che alimentano gli onesti costumi e forniscono gli uomini
dell’intelletto e di eloquenza alla nostra corte?

«Quest’altro Nostro proposito ordiniamo che Voi comunichiate alla
benemerita classe degli attuali docenti di lettere: sappiano essi
che Noi siamo solleciti del loro utile, ma siamo assai più esigenti
del profitto dei giovani. Non abbia ormai più ragion d’essere
quell’opinione, ripetuta da queruli poeti satirici, che cioè l’umano
intelletto non deve essere impegnato in due cure diverse. Oggi
essi godono di un trattamento non disprezzabile; abbiano dunque
un’unica cura e si dedichino con tutto l’animo agli studii delle arti
liberali.»[764]

Così, romanamente, nel 534 di C., parlava Atalarico al senato di Roma,
e l’ascoltavano i superstiti di quello, che per dieci secoli era stato
il più grande consesso del mondo.

Una traccia, così dei nuovi provvedimenti, come del nuovo benessere,
di cui, per circa mezzo secolo, ebbe a godere tutta la nazione (che fu
anch’esso merito dei principi seguìti all’ultimo imperatore romano) noi
possiamo ritrovare in quella estrema rinascita della cultura italica,
che è contemporanea ai primi lustri del VI. secolo di C.

Il regno di Teodorico e dei suoi successori immediati è l’età di
Boezio e di Cassiodoro, due nomi che basterebbero da soli a onorare
tutta un’età, ed è anche quella di Ennodio, di Massimiano, di Fausto,
di Avieno, di Aratore, di Simmaco, Festo, Probino, Cetego, Agapito,
Probo, Olibrio[765]. Adesso si coltivano con ardore gli studii classici
di ogni specie,[766] e la società colta romana è invasa da una vera e
propria febbre di umanesimo. Si trascrivono e correggono codici greci
e latini, si fanno nuove edizioni di vecchi testi[767]. Cassiodoro,
ritirandosi dal mondo e abbracciando la vita monastica, impone,
come una delle principali regole ai suoi confratelli di clausura,
l’illustrazione, la ricerca e la trascrizione dei codici antichi[768].
Sì che, quando di lì a otto secoli, la Rinascenza leverà alla luce
del giorno tutta la gloria dell’antichità, reagendo, o credendo di
reagire, contro la secolare barbarie medievale, essa non avrà fatto che
ripigliare il lavoro cominciato sotto il secondo dei principi barbari
in Italia.

Ma Teodorico era morto nel 526; Atalarico moriva nel 534, e già, nel
536, la dominazione, o la luogotenenza degli Ostrogoti in Italia
agonizzava. Un tentativo di reazione antiromana da parte di quei
barbari aveva pôrto la sospirata occasione, perchè l’imperatore
d’Oriente, Giustiniano, intervenisse, e ordinasse al suo miglior
generale la conquista dell’Italia. Ventisette anni dopo, questa era
già un fatto definitivamente compiuto, e un legittimo imperatore
aveva ripreso nelle sue mani il governo di tutto l’orbe conquistato
dall’antica capitale del Lazio.


IV.

Giustiniano assomma nella propria persona il tipo ideale di monarca
cristiano assoluto,[769] che l’impero e la nuova religione erano andati
insieme creando. Il concetto della potestà imperiale non ha per lui
confini, ed egli crede a sè riserbato il diritto, anzi il dovere, di
fondere in una massa unica tutto l’impero, di cancellarne le varietà,
di creare uno Stato, in cui i sudditi non professino che due soli
culti: quello dell’autorità del principe e l’altro della religione
ufficiale. Dell’antico impero romano Giustiniano non ammira, e non
vuol restaurato, che il potere delle armi e l’autorità delle leggi.
Anche nel riconoscimento di queste ultime, egli formula, per vero,
delle riserve, e la sua giurisprudenza non sarà precisamente quella
repubblicana o dei primi secoli dell’impero. Ma di tutto il resto egli
pensava dovesse farsi senz’altro man bassa, specie della religione.
Tutti i membri del gran corpo dovevano essere pervasi da un solo
spirito, da una sola fede.

Tutto quello, che ricordava l’indipendenza o le incertezze del passato,
doveva essere distrutto. Così Giustiniano fu, quale era voluto essere,
il Luigi XIV. dell’Oriente e dell’impero romano, nel VI. secolo di
Cristo; così il suo governo segnò l’ultima grande persecuzione contro i
resti del paganesimo sopravvissuto.

Giustiniano, infatti, interdice ogni riunione di dissidenti, ogni
atto di religione pagana, pena la morte; esclude i pagani e i loro
figliuoli da tutte le pubbliche funzioni, anche dalle più libere,
come l’avvocatura; destituisce dai varii impieghi i sudditi tenaci
nell’antica eresia, e istituisce pei funzionari il giuramento
sull’Evangelo.

Come se ciò non bastasse, esclude i pagani da ogni atto della vita
civile. Il pagano non può amministrare i propri beni, non disporne;
i suoi figliuoli, se seguono la fede del padre, sono privati della
eredità e sostituiti con i discendenti ortodossi. Il pagano non può
testimoniare, non possedere uno schiavo pagano. I suoi figli, che si
convertono al cristianesimo, sono sottratti alla sua potestà di padre
e privilegiati in confronto dei loro fratelli non ortodossi. Tutte le
donazioni e i legati, fatti allo scopo di sostenere l’antico culto,
sono nulli, e quelli, che tentassero simulatamente di raggiungere un
tale scopo, soggetti a confisca.

Era molto, ma non era tutto. Il paganesimo resisteva ancora.
Bisognava raggiungerne e stroncarne le estreme radici. Così ogni
pagano convertito, che tornava alla fede dei padri, venne senz’altro
predestinato alla pena capitale; gli altri furono invitati a darsi
in nota ai poteri dello Stato, per fare pubblica professione di fede
ortodossa e battezzarsi al più presto, a meno che non avessero voluto
incorrere in pene gravissime, specificate. Il cittadino non fu più
soltanto responsabile di se stesso, ma anche della fede della propria
moglie, dei propri figliuoli, dei propri servi. Egli deve convertire
anche questi, pena la destituzione, se è pubblico ufficiale, o la
confisca dei beni, se è un privato. I pagani non possono avere diritto
che a una sola cosa — e anche questa è graziosa liberalità del principe
— alla vita.[770]

Tanta reazione è portata nella scuola. La vendetta di Giuliano
può dirsi ora completa. E come questi aveva proibito ai retori e
ai grammatici cristiani l’insegnamento nelle scuole classiche del
tempo, così Giustiniano proibisce qualsiasi forma d’insegnamento,
da parte dei pagani superstiti. Noi possediamo il testo preciso del
divieto: «Coloro, i quali sono affetti dalla insania del paganesimo,
nè entrino nella milizia, nè godano di alcuna pubblica carica, nè,
sotto l’apparenza di insegnare una qualche disciplina, sia loro lecito
trascinare le anime semplici ai propri errori, e renderli in tal modo
più tepidi verso la vera e pura fede ortodossa»[771]. E, in altra
occasione, l’imperatore ripete: «Noi proibiamo che l’insegnamento di
alcuna disciplina sia impartito da coloro, che sono travagliati dalla
insania del paganesimo, affinchè in tal guisa simulando di istruire
coloro, che, pur troppo, li frequentano, non corrompano le anime
dei discepoli. Nè alcuna annona ricevano essi dal fisco, essi, che,
nè in virtù delle lettere sacre, nè delle forme prammatiche, hanno
alcun che di simile a reclamare. E, se taluno, nella capitale o nelle
province, si troverà in tali condizioni, e, insieme con la moglie e coi
figliuoli non si affretterà a recarsi nelle nostre sante chiese, egli
andrà soggetto alle pene sopra specificate, le sue sostanze saranno
confiscate, ed egli stesso verrà mandato in esilio.»[772]


V.

Eppure era entro i confini dell’impero una cittadella inviolata
del pensiero antico, un istituto di istruzione pubblica, cui non
avevano attentato, od osato attentare, nè i figli di Costantino,
nè i Valentiniani, nè i Teodosiani: l’Università ateniese. Ma ora
l’intransigenza religiosa di Giustiniano la vince trionfalmente su ogni
scrupolo.

Narra Zosimo che, nella sua invasione in Grecia, Alarico, dinanzi
alle mura di Atene, la Città eterna dell’Ellenismo, era stato colpito
dalla visione della vergine Pallade in armi, quale la statua colossale
dell’Acropoli la figurava, pronta a piombare sugli assalitori e a
sterminarli, e che, a quella vista, egli si sarebbe arrestato[773]. Ma
il fascino che l’antichità greco-romana aveva, od avrebbe, secondo il
racconto dello storico pagano, esercitato sul barbaro invasore, nulla
potè contro l’imperatore romano. Nel 529, due anni dopo il suo avvento
al trono, Giustiniano iniziava la esecuzione dell’Università ateniese,
sopprimendo l’insegnamento della filosofia[774], che, in quel giro
di anni, costituiva la sola sua gloria, anzi la sua ragion d’essere;
e, forse, devolveva ad altri usi le rendite private, destinate al
mantenimento di quelle cattedre[775].

Ma ormai non si trattava soltanto di una soppressione d’insegnamenti.
Rotto l’incantesimo, che aveva fin allora cinto della sua difesa
la grande città, i docenti di Atene si trovarono esposti a tutti i
colpi della nuova reazione religiosa. Come altri loro connazionali,
come altri fedeli osservanti del culto antico, essi ora avrebbero
corso il rischio della confisca dei beni, dell’arresto, dell’esilio,
della morte. Su di loro incombeva l’interdizione dai pubblici uffici,
l’interdizione dal diritto comune dei cittadini; incombeva, anche se la
legge ne taceva, il divieto di avere libri, di produrre, di studiare,
di pensare[776]. Essi erano ormai insidiati nei loro possessi più
cari e più gelosi. Era la fine della loro vita. Parte di quei filosofi
emigrarono, e le vicende di quell’esilio volontario hanno qualcosa che
stringe il cuore.

Nel 531, il re Cosroe era salito al governo della lontana Persia. Si
diceva che egli amasse le lettere e conoscesse Aristotele meglio di un
greco, che leggesse quotidianamente i dialoghi di Platone, che fosse
esperto in tutte le arti e in tutte le scienze, che fosse anzi il più
sapiente e il più saggio di tutti coloro, i quali avevano coltivato la
filosofia. In quell’impero di principe-filosofo, i sudditi erano buoni
e modesti. Non furfanti o predoni battevano le vie; non si commettevano
reati; ognuno poteva lasciare ovunque incustodite le masserizie sue più
preziose: era il regno della giustizia, della moderazione, della virtù.
Fu allora che l’ultimo dei neoplatonici della Università ateniese,
Damascio di Siria, con i suoi colleghi, un Simplicio, un Eulamio, un
Prisciano, un Ermia, un Diogene e un Isidoro, «il fiore dei filosofi
del tempo», venne, per sè e per i suoi compagni, a invocare dall’erede
dei Sassanidi, dal monarca dei soli invitti nemici dello Stato romano,
quella protezione, che essi più non trovavano nell’impero e nella
patria loro. Furono ben ricevuti, ma l’Eldorado platonico, che avevano
sognato, differiva assai dalla realtà. I nobili del paese erano — come
dovunque — superbi; i cortigiani, adulatori e servili; i magistrati,
iniqui; i sacerdoti bacchettoni e intolleranti; il saggio principe,
un uomo vano, crudele, ambizioso. Disillusi e scoraggiati, essi
domandarono di partire. Meglio chiudere gli occhi nel paese natale,
che restare, colmi di onori e di doni, fra stranieri, egualmente
disistimati! E Cosroe condiscese al loro desiderio, e fece anche di
più: impetrò — ed ottenne — per essi, da Giustiniano, la concessione
di poter custodire la fede avita e di morire indisturbati nel suo
seno[777].

Ciò accadeva nel 532 o 533[778]. In quello stesso anno, una nuova
ordinanza di Giustiniano sopprimeva la facoltà giuridica di Atene[779],
abbattendo in tal guisa l’ultimo angolo della superstite grandezza
intellettuale della vetusta metropoli.

Era la fine di quella Università ateniese. L’astro della scienza, che,
secondo l’iperbole di Giuliano, non avrebbe potuto mai tramontare
dal cielo purissimo della Grecia, come giammai le fonti del Nilo
possono esaurirsi e disseccarsi,[780] fuggiva, oscurando la sua patria
terrena, per tanti secoli illuminata. Costantinopoli poteva finalmente,
e sul serio, vantare il monopolio incontrastato dell’insegnamento
delle discipline liberali nella sezione orientale dell’impero, e un
epigrammista avrebbe potuto ben irridere: «Voi altri Ateniesi avete
sempre in bocca i vostri filosofi antichi, i Platoni, i Socrati, i
Senocrati, gli Epicuri, i Pirroni, gli Aristoteli, ma in realtà non
avete che l’Imetto e il suo miele, le tombe dei vostri morti e le ombre
dei vostri saggi. È qui a Costantinopoli che ormai albergano la fede e
la sapienza.»[781]


VI.

Si ebbe ancora di peggio? La reazione antipagana, sotto Giustiniano,
si congiunse ad una vera e propria persecuzione contro qualsiasi
forma dell’insegnamento classico? È quello che noi siamo costretti
a chiederci, scorrendo qualcuno dei più notevoli storiografi
contemporanei di quelle vicende. Secondo infatti la _Historia arcana_
di Procopio, Giustiniano avrebbe ordinato la soppressione di tutte
le annone corrisposte dallo Stato e dai municipii ai medici e ai
professori di discipline liberali[782].

Noi abbiamo oramai un’idea esatta circa l’attendibilità di
quell’anonimo _pamphlet_, che fu il su citato scritto di Procopio,
con cui il suo autore credette di pigliarsi vendetta allegra di
un imperatore, che aveva altrove, anche smaccatamente, elogiato, e
che riteneva forse fallito alle sue migliori speranze. È dunque da
ammettere _a priori_ ch’egli, in questa parte del suo racconto, abbia
esagerato, come esagerò in molte altre[783]. Tuttavia l’esagerazione
ha anch’essa bisogno di un appiglio, nè, guardando con attenzione, è
difficile rintracciare la realtà, che questa volta vi corrisponde.
Ed invero ciò che, secondo Procopio, Giustiniano avrebbe tentato
non sarebbe un fatto nuovo: sarebbe la continuazione dell’opera del
più ortodosso fra i suoi predecessori, Teodosio I. Per l’uno e per
l’altro, la cultura a tipo classico si confondeva con il paganesimo; il
filosofo, il retore, il maestro d’ogni arte liberale, con il pagano.
Che vi sarebbe di assurdo se, intendendo colpire quest’ultimo, l’uno
e l’altro avessero colpito anche i primi, come infatti vedemmo farsi
da Teodosio? Che di strano se, per estirpare i riti del paganesimo,
Giustiniano avesse estirpato, o tentato di estirpare, le scuole
dei retori, dei filosofi, tutte in una parola, le scuole romane
tradizionali, tanto più che, di fatto, in un gran numero di casi, forse
nel maggiore, i titolari delle cattedre, relative a queste discipline,
erano ancora pagani? Che di strano nel pensare e nell’affermare che
Giustiniano preferisse, fin dove poteva, che le risorse dello Stato e
dei municipi andassero prodigate, e consacrate, a scopi più utili che a
lui non parevano quelli dell’insegnamento classico?

E che Procopio dica il vero noi ne abbiamo conferma in quel capitolo
degli _Annali_ di un più tardo storico bizantino, Zonara, ove si
discorre di Giustiniano e del suo governo. Anche Zonara parla della
soppressione degli stipendi ai docenti di arti liberali e della seguìta
decadenza delle scuole dell’impero. Ma egli dimostra, dal contesto
del suo racconto, di seguire una fonte diversa di Procopio, fonte a
noi sconosciuta, ma che, da altri particolari, sembra essere stata
veramente ottima[784]. Or bene, egli spiega che Giustiniano ebbe,
per la riattazione e la fabbrica di nuove chiese, bisogno di danaro,
di molto danaro, e che perciò, dietro consiglio del prefetto di
Costantinopoli, soppresse le annone dei maestri in tutte le città,[785]
abbandonando le scuole al loro destino. La narrazione di Procopio non
può dunque essere rigettata o trascurata, come, pur troppo, hanno fatto
anche storici autorevolissimi. L’esagerazione sua sta solo nel non
avere — per vieppiù colorire le tinte del racconto — voluto distinguere
tra la soppressione degli stipendi ai maestri pagani e quella degli
stipendi a tutti gli altri; sta — più ancora — nell’avere generalizzato
il provvedimento così nello spazio come nel tempo.

Gli ordini di Giustiniano, infatti, non dovettero esser tanto
universali quanto il nostro storico ce li farebbe temere. Noi non
possiamo concepire che tutte le scuole pubbliche dell’impero, ove
s’impartivano discipline liberali, fossero state soppresse. Lo potevano
mai essere quelle di Costantinopoli? Ed esiste un documento, il quale,
forse, comprova in modo diretto come tale eccezione non sia stata
l’unica. Nel 554, Giustiniano, riconfermando, con la sua _Prammatica
Sanzione_, gli atti di Teodorico e del suo immediato successore, non
che gli stipendi ai grammatici, agli oratori, ai medici e ai professori
di giurisprudenza, in Roma, che quei principi solevano pagare loro,
lascia intravedere che tale encomiabile consuetudine rispondeva a un
privilegio da lui stesso accordato. «L’annona — egli s’esprimerà — che
Teodorico era stato solito dare, e che _Noi consentimmo ai Romani_,
ordiniamo che sia anche data per l’avvenire, _come del pari_ gli
stipendi, che si era soliti corrispondere ai grammatici, ai retori,
ai medici e ai giurisperiti.»[786] Questo dunque, che egli concedeva
a Roma, città regia sì, ma cittadella anch’essa del paganesimo, perchè
non dobbiamo supporlo concesso anche ad altre città e ad altre scuole?
Ad ogni modo, la soppressione non dovette oltrepassare i confini di
una misura transitoria; e di questo convince il racconto, veramente
prezioso, di Zonara, secondo cui gli stipendi e le immunità sarebbero
state sospese perchè, in vista di determinati scopi, occorreva
temporaneamente del denaro.

La cronologia del provvedimento non si può desumere che per via
indiretta. La ricostruzione o la edificazione _ex novo_ delle chiese,
di cui parla, avvenne poco dopo la tremenda insurrezione del 432, che
distrusse buona parte di Costantinopoli. La sospensione delle annone ai
maestri delle arti liberali dovette dunque accadere verso quegli anni.
Ma, comunque, ciò che Giustiniano ebbe per tal guisa a tentare non fu
cosa di piccolo momento.

Da quando lo Stato romano aveva concesso ai comuni il privilegio di
disporre delle proprie entrate, anche a vantaggio dell’istruzione
pubblica, il suo diritto d’ingerenza nelle amministrazioni comunali non
si era mai esercitato a loro danno, a loro deminuzione. E l’istruzione
comunale si era diffusa largamente in ogni luogo. Per giunta, una
società ricca, fiorente, vigorosa può fare a meno della iniziativa
pubblica, può crearsi essa stessa le scuole che le occorrono, ma una
società, come quella dell’impero romano, nel VI. secolo di Cristo,
era mestieri venisse, dalla soppressione di Giustiniano, condannata
all’ignoranza e alla estinzione spirituale. Per buona fortuna,
ripetiamo, come gli ordini di Giustiniano non dovettero essere tanto
universali quanto il suo storico ce li fa temere, così non era facile
imporne dappertutto — e violentemente — la esecuzione; meno facile
ancora, impedirne la contravvenzione.


VII.

Ma vi era un altro insegnamento, un insegnamento penetrato un po’
tardi nel programma dell’istruzione pubblica dei cittadini dell’impero,
una disciplina non contemplata nel novero delle arti liberali romane:
la giurisprudenza. Ad essa rimangono estranee la maggior parte delle
ordinanze precedenti, e alla riforma di questo insegnamento si lega
la sola opera positiva, un’opera veramente grandiosa, compiuta da
Giustiniano nei rispetti della pubblica istruzione.

Egli cominciò col proseguire l’iniziativa di Teodosio II. La deficienza
di coltura giuridica era ancora la regola del tempo, ed essa era tanto
manifesta, anche presso coloro, che, per ragioni di ufficio, meno
avrebbero dovuto esserne colpevoli, che il Governo aveva, sino dalla
seconda metà del V. secolo, dovuto provvedere in via legislativa.
Noi possediamo infatti due costituzioni imperiali, rispettivamente
del 460 e del 505, nelle quali si prescriveva che niuno potesse
esercitare l’avvocatura senza che si fosse ufficialmente constatato
avere egli compiuto il corso legale degli studi,[787] e senza che egli
avesse superato un esame speciale presso un’apposita commissione di
giurisperiti[788].

Il bisogno di un più razionale e più completo riordinamento del
materiale legislativo era di bel nuovo grandissimo, e grandissimo
il bisogno di uno svolgimento e di una interpretazione teorica, che
rendessero quel materiale praticamente e scientificamente utilizzabile.

A soddisfare tali esigenze Giustiniano ordinò, e condusse a termine,
fra il 528 e il 533, la compilazione del _Codice_, che portò il suo
nome — opera ancora più grandiosa di quello _Teodosiano_ — nonchè di
quel mirabile trattato di scienza giuridica dell’antichità, che fu il
_Digesto_[789]. Se però il _Codice Giustinianeo_ conservava tutto ciò,
che ancora valeva la pena di conservare delle costituzioni imperiali
fin dall’epoca di Adriano; se il _Digesto_ era, come si espresse
l’imperatore, «il tempio sacro della giustizia romana,»[790] nè l’uno
nè l’altro potevano davvero dirsi quell’agevole manuale pratico,
che i giovani studenti di giurisprudenza, come gli studenti di ogni
tempo, desideravano[791]. Ma anche il manuale per la scuola aveva
voluto apprestare Giustiniano e aveva anche di questo incaricato il
suo ministro, il giureconsulto Triboniano, e due tra i professori, che
avevano collaborato alle raccolte precedenti. E tale opera, intrapresa
col _Digesto_, ultimata un mese prima, veniva pubblicata insieme con
questo, in quattro libri, i libri delle _Istituzioni._


VIII.

Giustiniano ebbe invero piena coscienza dei varii scopi, che egli
avrebbe raggiunto con l’opera propria: uno scopo propriamente
giuridico, in quanto sostituiva dei testi precisi all’arbitrio dei
magistrati; uno scopo scientifico, in quanto salvava tutta la scienza
antica, raccogliendola come in un’arca santa, capace di traversare
l’oceano del tempo; uno scopo pratico, in quanto, in luogo della
farraggine disordinata dei vecchi testi, egli offriva leggi brevi,
precise, accessibili a tutti,[792] e che, quindi, ogni cittadino
poteva, in ogni occasione, recarsi comodamente sotto occhio. Ed egli
intese anche perfettamente il valore, che la nuova legislazione recava
nei rapporti della scuola e dell’insegnamento. Le sue _Istituzioni_
sono dedicate ai giovani e, nell’_Avvertimento_ che vi precede,
Giustiniano, dopo avere anzi tutto affermato che «la maestà imperiale
romana deve essere, non solo ornata di armi, ma anche armata di
leggi»,[793] soggiunge di avere ordinato la compilazione di quel
manuale affinchè i giovani «possano apprendere i primi rudimenti
della giurisprudenza, non dalle antiche favole, ma da un solenne
testo ufficiale e affinchè gli animi e le orecchie loro non ascoltino
dissertazioni inutili e disordinate, ma discussioni, che riguardino il
nocciolo stesso dei varii problemi». «Quelle costituzioni imperiali —
egli continua — che i Vostri antenati riuscivano appena a leggere in
un quadriennio, Voi ora potete apprendere in sull’inizio dei vostri
studii. Voi avete avuto la fortuna e l’onore di veder procedere dalla
voce del principe il principio e la fine dell’istruzione legale.»[794]
«Accogliete pertanto con fervore e con alacre studio queste nostre
leggi, e mostratevi tanto dotti, da potere lietamente sperare che,
compiuto il corso di giurisprudenza, abbiate a governare il nostro
impero negli uffici, che a Voi si dovessero un giorno affidare.»[795]

Anche nella prefazione al _Digesto_, Giustiniano torna a rivolgersi
agli studenti, dichiarando di avere fornito loro i mezzi per diventare
eloquenti oratori, insigni giuristi, ottimi avvocati e magistrati.[796]
Ma non era tutto; questa volta egli accompagnava la sua opera giuridica
con notevoli provvedimenti, relativi all’insegnamento del diritto, che
sarà opportuno passare singolarmente in rassegna.

Anzi tutto, Giustiniano sopprime le scuole giuridiche, vigenti in
parecchie città dell’impero, e prescrive che scuole ufficiali, o,
almeno, riconosciute, di giurisprudenza sono da considerare soltanto
quelle delle due città regie: Roma e Costantinopoli, nonchè quella di
Berito «altrice di leggi.»[797]

Così egli prescriveva nel 533, allorchè Roma, sebbene fuori del suo
governo effettivo, veniva considerata in diritto come l’altra capitale
dell’impero. Ed egli specifica le ragioni del nuovo divieto: «Noi
abbiamo saputo» «che alcuni ignoranti si sono sparsi anche nella
splendida città di Alessandria, in Cesarea e in altri luoghi,[798]
e che insegnano ai discepoli una scienza adulterata. Noi vietiamo
assolutamente un siffatto tentativo, ordiniamo che i colpevoli, i
quali oseranno persistervi e insegnare fuori delle due città regie e
di Berito, siano condannati a una multa di dieci libbre d’oro e siano
espulsi da quella città, nella quale non insegnano, bensì violano le
nostre leggi.»[799]

Ma tale limitazione circa il numero delle scuole nell’impero portò seco
un aumento nel numero delle cattedre e dei professori. Noi dobbiamo
ritenerlo provato dal proemio al _Digesto_, quella _costituzione_ così
detta, dalla sua parola introduttiva, _Omnem_, la quale si rivolge
ai professori di diritto dell’impero, che sono elencati appunto in
numero di otto. E poichè non si deve ammettere — ciò che non sembra
punto verosimile — che Berito ne avesse da sola sei, per riserbarne
appena due a Costantinopoli, e poichè la distribuzione dei programmi
era tale da richiedere, nell’una e nell’altra università, _almeno_
tre professori per i primi tre anni di corso,[800], è mestieri pensare
che i docenti di diritto in Costantinopoli fossero ora saliti almeno
a quattro, a un numero cioè uguale a quello, che se ne suppone per
Berito.[801]

Non basta: il numero di quattro, per quest’ultima città, sembra che
segni anch’esso un aumento sulla serie delle cattedre, ivi, fin allora,
esistenti. Dall’elenco, infatti, dei professori di diritto chiamati
in ciascuna delle svariate Commissioni, di cui Giustiniano ebbe a
valersi, noi rileviamo che essi furono scelti in pari numero tra
Berito e Costantinopoli[802]. Questa parità numerica dei Commissarii,
tratti dalle due Università, fa pensare a un egual numero di cattedre
in esse esistenti; e poichè, prima del VI. secolo, in Costantinopoli,
ve n’erano solo due, due soltanto deve supporsene fin allora anche
in Berito, che Giustiniano avrà, durante il suo governo, raddoppiate,
nell’una e nell’altra città.

Ottennero ora tutti questi docenti le immunità e i privilegi, di
cui già godevano i professori di diritto in Roma, e da cui tutti
gli altri erano rimasti esclusi per lo specioso pretesto, recato
da Ulpiano, che la cultura giuridica è cosa troppo sacra, perchè si
debba degradarla, valutandola in denaro? Sotto un governo, non più di
retori o di filosofi, ma di giureconsulti, con un ispiratore quale era
Triboniano, non sarebbe dovuto accadere diversamente, nè diversamente
consentiva accadesse, la nuova condizione di Costantinopoli, capitale
privilegiata dell’impero, e la perfetta equiparazione dei diritti di
Costantinopoli e di Berito a quelli di Roma, rispetto al magistero
della giurisprudenza. Ma, pur troppo, non abbiamo nessun dato positivo,
che risponda alla nostra aspettativa, se ne togli una _variante_,
da noi a suo luogo citata, che si ritrova in qualche manoscritto
del _Codice Giustinianeo_, a un passo di un editto di Costantino,
la quale può interpretarsi come una delle non sempre scrupolose, ma
sempre intenzionate, interpolazioni di Triboniano e dei suoi colleghi
alle antiche costituzioni imperiali. Se tale, infatti, fu il loro
arbitrio, noi possiamo constatare ed indurre che essi, riproducendo,
nel _Codice giustinianeo_, la terza delle _costituzioni_ costantiniane
sulle immunità dei medici e dei professori, aggiunsero a questi i
«_doctores legum_», volendo così creare una progenitura a una novità,
ch’era propria del loro tempo, e di cui essi erano stati certamente gli
ispiratori.

Ciò stabilito per le cattedre e per i maestri, Giustiniano veniva ad
occuparsi degli studenti.

Le innovazioni per questa parte non erano numerose. L’imperatore cambia
anzi tutto la consueta denominazione degli studenti del primo anno.
Essi erano, fino a quel tempo, chiamati _Dupondii._ Ma questo titolo
sembra a lui «frivolo e ridicolo», nè confacente alla serietà del nuovo
materiale legislativo,[803] ed egli lo vuole, non solo, rigorosamente
abolito ma mutato in un altro, che ricordi quello del principe; egli
vuole che, per ora e per l’avvenire, gli studenti del primo anno
portino il nome di _Iustiniani novi._

Con maggiore serietà di osservazione e d’intendimenti, il corso
degli studi giuridici è da lui accresciuto di un anno e fatto perciò
di cinque. Cominciava esso allora, come in Berito, ai tempi di
Diocleziano, a 21 anni, oppure, come l’aveva ridotto Valentiniano I.,
per Roma, a 17, sì che ora l’ingresso nelle facoltà di giurisprudenza
sarebbe stato consentito appena a 16 anni? È problema, su cui la parola
dell’imperatore non riesce ad illuminarci.

È chiaro invece che gli studii dell’ultimo biennio non erano più, come,
per l’innanzi, quelli del quarto anno, degli studii privati. Fin allora
— secondo Giustiniano si esprime — gli studenti di quell’ultimo corso
«_studiavano da sè_» i _Responsa_ del giureconsulto Paolo;[804] adesso,
invece, persino la materia del quinto anno doveva essere illustrata
dalla parola stessa degli insegnanti,[805] sì che all’apprendimento e
alla iniziativa personale privata dei giovani non rimanevano che le due
ultime parti del _Digesto._[806]

Ma nella citata _costituzione_, Giustiniano, come già, un secolo e
mezzo innanzi, Valentiniano I., regola anche — e con maggiore severità
che pel passato la disciplina degli studenti, e sopra tutto mira a
reprimere, e a prevenire, gli abusi, consuetudinarii nel mondo antico,
e un po’ in quello moderno, degli studenti anziani contro i loro
compagni matricolini: «A nessuno di coloro — egli scrive — che si
dedicano agli studii del diritto, sia lecito tentare giuochi e scherzi
indegni o di pessimo gusto, che unicamente si converrebbero a degli
schiavi, e il cui solo effetto è di fare il male o commettere altri
reati, contro i professori e i loro compagni, specialmente contro
quelli, che, ancora inesperti, si accingono allo studio delle leggi.»
«Noi non tollereremo ciò a nessun patto, sia perchè vogliamo stabilire
il buon ordine negli studii, per il presente e per l’avvenire, sia
perchè siamo convinti che, innanzi di essere dotti, occorre essere
moralmente degni.[807]» E di tale sorveglianza sulla scolaresca
Giustiniano incaricava, per Costantinopoli, il prefetto della città, e,
per Berito, il prefetto della Fenicia marittima, nonchè il vescovo e lo
stesso corpo accademico di quella Università.[808]


IX.

Ma la grande, la rivoluzionaria novità della sua riforma è la
pubblicazione — che avviene ora per la prima volta — di un corpo di
istruzioni e di programmi relativi all’insegnamento universitario del
diritto, che vale la pena di riferire largamente.

La costituzione che li contiene, è sempre quella, che testè
menzionammo, rivolta, e dedicata, ai professori di diritto in
Costantinopoli e in Berito, e la breve introduzione ne illustra
la ragione e lo scopo. «Poiché — essa s’esprime — a Voi, pubblici
professori di diritto, era mestieri conoscere quali cose, e in qual
tempo, Noi pensiamo sia necessario insegnare ai giovani studiosi,
perchè possano divenire onesti ed eruditi, reputiamo opportuno
rivolgervi il presente discorso, affinchè tanto Voi, quanto i
Vostri successori, osserviate le Nostre norme, e tutti possiate così
gloriosamente percorrere le vie della giurisprudenza.

«Per il passato, come Voi ben sapete, della grande moltitudine di opere
giuridiche[809] esistenti — circa duemila volumi e tre milioni di righi
— gli studenti non apprendevano, dalla viva voce del maestro, che sei
libri soltanto, i quali, per giunta, peccavano di confusione, e solo
di rado contenevano nozioni giuridiche utili. I rimanenti, caduti in
desuetudine, venivano da tutti trascurati.

«Fra questi sei libri, erano le _Institutiones_ del nostro Gaio
e quattro _libri singulares_, il primo, famoso, _de re uxoria,_
il secondo, _de tutelis_, il terzo e il quarto _de testamentis_ e
_de legatis_, i quali però non si studiavano per intero, ma se ne
tralasciavano molte parti reputate superflue. Per giunta, questa
materia, che si svolgeva nel primo anno, veniva impartita, non secondo
la progressione dell’_Edictum perpetuum_, ma disordinatamente e
confusamente, mescolando l’utile all’inutile, anzi assegnando maggior
tempo alle cose inutili.

«Nel secondo anno, senza ordine fisso, si insegnava la _Prima pars
legum_, salvo taluni _titoli_, poichè sarebbe stata cosa enorme che,
dopo le _Institutiones_, si leggesse qualcosa di diverso di ciò che,
per la sua natura, ebbe il nome di _Prima parte._ E dopo questo
insegnamento, che anch’esso non si faceva continuatamente, ma in
esposizioni staccate, e che s’indugiava in questioni per gran parte
inutili, s’illustravano ai giovani altri _titoli_, tra cui quelle parti
del comentario dell’_Editto_,[810] che si denominano _de iudiciis_,
i quali del pari non si esponevano di seguito, ma saltuariamente
(come se tutto il resto del volume fosse costituito da informazioni
inutili), e i sette libri _de rebus_, omettendo anche di questi molte
parti, che gli insegnanti trascuravano, in quanto non acconce alla
cultura giuridica. Nel terzo anno, poi, i giovani apprendevano quanto
di questi due libri non era stato fin allora insegnato, e ciò, secondo
l’alternazione dei due volumi, che questa materia contengono. Si apriva
così, per i giovani, la via al sommo Papiniano e ai suoi _Responsa._
Ma di questa materia dei _Responsa_, che si conteneva in 19 libri,
essi apprendevano otto libri soltanto, e neanche per intero, ma pochi
e brevi frammenti, sicchè ne venivano staccati, ancora desiderosi di
apprendere. «Delle altre opere di Papiniano gli studenti leggevano,
nel terzo anno, solo poche parti, tra le molte, e, per giunta,
saltuariamente.»[811]

«Apprese solo queste cose dai professori, i giovani studiavano da sè
i _Responsa_ di Paolo, ma neanche questi per intero (appena 18 libri
in tutto),[812] imperfettamente e, secondo la mala consuetudine,
inorganicamente. Tale era, nel quarto anno, la fine di tutta l’antica
sapienza giuridica. Chi vorrà fare il conto di tutto quello che si
insegnava troverà che, di tanta copia di opere giuridiche, i giovani
apprendevano a mala pena solo circa 60 mila righi; il resto era da loro
trascurato, o ignorato, e solo si pensava che si dovesse studiare, in
piccolissima parte, qualora a ciò avessero costretto le esigenze dei
procedimenti giudiziarii, o Voi stessi, o Maestri, Vi foste affrettati
a scorrerne qualche punto, per avere una cultura un po’ superiore a
quella degli scolari.

«Questa era la condizione della vecchia istruzione giuridica, siccome
anche Voi potete testimoniare.»[813]

Dopo questa vivace critica dei metodi e dei vecchi programmi, relativi
a l’insegnamento superiore della giurisprudenza, Giustiniano viene a
parlare dei proprii meriti e delle proprie innovazioni.

«Noi, avendo trovato tanta penuria di raccolte di leggi, e stimando
questa, cosa veramente miserevole, abbiamo aperto ai volenterosi i
tesori della giurisprudenza, che, distribuiti con misura dalla Vostra
sapienza, potranno fare i Vostri discepoli dottissimi oratori e
valorosi giurisperiti.

«Nel primo anno, dunque, apprenderanno i giovani le nostre
_Institutiones_, che sono state raccolte da quasi tutto il corpo delle
vecchie _Institutiones_ e, come in liquido stagno, derivate da molte
torbide fonti. Nel resto dell’anno, poi, secondo l’ordine migliore, Noi
vogliamo che sia insegnata quella prima _pars legum_, che con vocabolo
greco si chiama πρῶτα, cui nulla può precedere, perchè quello che è
primo non può avere altro innanzi a sè. Questo sia tutto il programma
del primo anno».

«Nel secondo anno, poi, Noi decretiamo che i giovani apprendano
i sette libri _de iudiciis_ e gli otto _de rebus_, e ciò, secondo
la consuetudine, che vogliamo conservare immutata. Ma questi libri
apprendano per intero, e organicamente, senza alcuna omissione, poichè
la nuova redazione è bella e non vi è nulla di inutile, nulla di vieto.
All’uno o all’altro di codesti libri _de iudiciis_ o _de rebus_, Noi
vogliamo che, nel programma del secondo anno, siano aggiunti quattro
_libri singulares_, che abbiamo ricavati da quattordici libri, cioè
uno dai tre volumi che abbiamo composto sulla materia delle doti, uno
dai due, che abbiamo composti sulla tutela, uno dai due volumi sui
testamenti, uno dai sette sui legati, sui fidecommessi e questioni
analoghe. Solo dunque questi quattro libri, che si trovano in principio
di ciascuna delle opere succitate, Noi ordiniamo che siano da Voi
insegnati ai giovani; gli altri dieci saranno da riserbarsi per un
tempo più opportuno, essendo impossibile lo studio e la spiegazione
scolastica di questi quattordici libri nel solo secondo anno.

«Nel terzo anno, si tenga l’ordine seguente: si facciano
studiare i libri _de iudiciis_ o quelli _de rebus_, secondo
richiederà l’alternarsi delle materie, insegnate precedentemente.
Contemporaneamente, si studino tre trattati di leggi speciali e, anzi
tutto, il libro, che riguarda la formula ipotecaria, che Noi abbiamo
posto a suo luogo, dove si discorre delle ipoteche, perchè, avendo
la formula ipotecaria grande affinità con le azioni dipendenti dal
contratto di pegno, che stanno nei libri _de rebus_, vertendo l’una
e le altre pressochè sulla stessa materia, quella non doveva starne
discosta.

«Dopo questo libro, venga impartita la materia del l’altro libro
dell’_Editto degli edili_ intorno all’azione redibitoria, alle
_evictiones_, nonchè sulla _stipulatio dupla._ E, poichè le garanzie
legali delle compere e delle vendite sono contenute nei libri _de
rebus_ e tutti poi i capitoli, di cui parlammo, erano stati posti
nell’ultima parte del primo editto, abbiamo dovuto metterlo più
innanzi, affinchè non fossero troppo discosti dal contratto di vendita,
di cui sono quasi come gli strumenti.

«E abbiamo messo l’insegnamento di questi tre libri con quelli
dell’acutissimo Papiniano. Il sommo Papiniano somministrerà materia
notevolissima d’insegnamento, non solo dai suoi 19 libri di _Responsa_,
ma anche dai 37 libri di _Quaestiones_, dai due intorno alle
_Definitiones_, dal trattato _De adulteriis_ e da quasi tutto ciò che
di lui abbiamo riportato in varii luoghi dei nostri _Digesta._

«Con lui, dunque, si chiuda il programma del terzo anno.

«Gli studenti del quarto, invece dei _Responsa_ del sapientissimo
Paolo, curino di studiare i dieci libri _singulares_, superstiti dei
quattordici, che dianzi abbiamo elencato, e siano certi di conseguire,
dallo studio di questi, molto maggiore e più vasta cultura, che dai
_Responsa._ Così sarà loro impartita la materia dei _libri singulares_,
da noi rielaborati e distribuiti in diciassette libri, e in due parti
del _Digesto_, cioè nella quarta e nella quinta, seguendo la divisione
in sette parti. Così apparirà vero ciò che Noi dicevamo con le prime
parole di questo Nostro discorso, che cioè, con lo studio di 36[814]
libri dei _Digesta_, i giovani possono istruirsi completamente ed
essere preparati a qualunque lavoro giuridico e riuscire non indegni
del nostro secolo. Le due altre parti, cioè la sesta e la settima
dei nostri _Digesta_, divise in quattordici libri, sono state qui
aggregate, non perchè siano illustrate pubblicamente, ma perchè i
giovani possano studiarle da sè e citarle nei giudizi.

«Dopo aver bene assimilato i _Digesta_, gli studenti del quinto anno,
cureranno di conoscere e di analizzare il _Codice delle costituzioni._
Così ad essi non mancherà la nozione di alcuna parte della
giurisprudenza, ma le avranno tutte percorse e abbracciate. Così, tra
le restanti discipline, le quali, anche se di molto inferiori, mancano
tuttavia di confini, questa sola scienza, per opera Nostra, potrà ora
vantare dei limiti fissati invariabilmente.»[815]


X.

Tutto ciò veniva ordinato e compiuto nel 533. Il governo di
Giustiniano, che aveva determinato una grave crisi nelle antiche scuole
di retorica e di filosofia dell’impero, erigeva invece, alla istruzione
e alla cultura giuridica, il più grandioso monumento, che principe
abbia mai concepito. Ma degli ultimi anni di quel regno, noi possediamo
il testo di un curioso documento, relativo agli affari della istruzione
pubblica in Costantinopoli, che ci dà indirettamente la prova di
qualcos’altro: la prova del mutato atteggiamento dell’imperatore nel
considerare il valore sociale di quelle discipline, così fieramente
avversate in su gli esordii del suo governo.

Si tratta del decreto di nomina di un pubblico insegnante a
Costantinopoli, in persona di quel mediocre autore di opere storiche,
astronomiche, ed antiquarie, che fu Giovanni Lorenzo Lido. Il
documento[816] risale al 551 circa[817], e in esso l’imperatore, dopo
avere esaltato il valore letterario del nominato, continua, dicendo
essere sua ferma intenzione che questi possa attendere con pieno agio
agli studii, e proclamando che sarebbe indegno dei tempi lasciare
inonorato un uomo così meritevole. Sì che, mentre promette maggiori
ricompense, gli assegna un pubblico stipendio, e dichiara che sarebbe
molto lieto, se egli volesse dedicarsi a comunicare altrui la propria
cultura. In osservanza di questa lettera, narra il beneficato medesimo,
il prefetto di Costantinopoli dispose che gli venisse assegnato un
locale nella Università, ove pare egli abbia tenuto cattedra di lingua
e letteratura latina[818].

Adesso, dunque, l’imperatore dichiara essere indegno di sè e del
suo secolo lasciare senza onore i meriti letterarii e la cultura dei
sudditi più eminenti. Siamo dunque dinanzi a una concezione parecchio
lontana da quella, con cui egli aveva inaugurato il suo regno. Gli
anni e l’esperienza avevano, anche a lui, insegnato quello, di cui,
già da tempo, i suoi predecessori si erano convinti,[819] che, se
nessun governo si regge, trascurando le sorti della pubblica cultura,
o partendo in guerra contro di essa, tanto meno lo poteva il governo
romano in Oriente; ed egli, al pari dei rappresentanti la religione
cristiana, di cui era voluto essere il braccio secolare, aveva dovuto
fare dei notevoli strappi alle estreme conseguenze del suo pensiero di
credente.

Ancora tre anni, e, nella _Prammatica Sanzione_, riguardante l’Italia,
l’imperatore si compiacerà, e ne sarà lieto, di mantenere gli stipendii
per tutte le cattedre dell’Ateneo romano. Era la smentita di tutto il
suo remoto passato, e ad essa non possiamo assistere senza provare un
senso di amarezza e (perchè non dirlo?) anche d’esitanza. Erano questi
atti conformi a una rinnovata opinione teorica o si trattava di un
nuovo espediente di governo?

Frattanto le rovine del passato non si risollevavano. L’ultima gloria
ateniese era precipitata, le scuole dell’impero erano intristite, gli
ultimi argini contro il Medioevo irrompente erano stati strappati e
travolti. Chi avrebbe avuto cuore di assolvere il responsabile, anche
dopo la conversione?




CONCLUSIONE

  I. La politica scolastica della repubblica e dell’impero. Il
  governo centrale e le scuole di Stato. — II. Il governo e le
  scuole municipali e private. — III. Lo Stato, i maestri, gli
  studenti; la libertà dell’insegnamento. — IV. Lo Stato e gli
  insegnamenti professionali. — V. Le biblioteche pubbliche e loro
  amministrazione. — VI. Lo Stato, le Accademie, i Musei; la cura
  delle opere d’arte. — VII. L’imperatore, il Senato e la suprema
  direzione della istruzione pubblica. — VIII. L’amministrazione
  centrale e provinciale. — IX. Gli impulsi indiretti del governo
  alla istruzione pubblica; il tentativo d’una educazione ufficiale;
  lo Stato e l’educazione fisica. — X. La decadenza intellettuale, e
  la vanità effettiva dell’opera dello Stato.


I.

Io mi propongo di tracciare, in questo capitolo, le linee generali
della politica dello Stato romano verso l’istruzione pubblica durante
i primi secoli dell’êra cristiana, e, fondandomi sugli elementi
successivamente sottoposti all’intelligenza del lettore, esporre
in una sintesi conclusiva, e in modo sistematico, il meccanismo —
(e i principii direttivi del suo funzionamento) — in quegli anni
messo in opera, a vantaggio della pubblica istruzione. La politica
dell’impero verso l’istruzione pubblica è un naturale svolgimento di
quella dell’età repubblicana, e, come questa, non mira all’attuazione
di un piano determinato _a priori_, ma procede a tentoni, per mille
imprevisti casi ed atti, fino a terminare, nei secoli V. e VI., con
l’inaugurazione di una vera e propria scuola di Stato.

Ma se la pratica è conseguente, le teoriche espresse dalle due età
sono l’una diametralmente opposta all’altra. Si voglia codesta teorica,
per il primo periodo della storia romana ritrovare tutta intera, e in
modo assoluto, nelle parole de _La repubblica_ di Cicerone, là dove si
afferma che nelle buone tradizioni nazionali romane non trovava posto
alcun sistema di educazione pubblica ed uniforme per tutti i fanciulli
di nascita libera;[820] o si vogliano le parole di Cicerone, come
è forse più probabile,[821] interpretare con discrezione e cautela
maggiori del consueto, l’impero può in ogni modo contrapporre ad
esse una molto diversa teorica. Che, se Costanzo II, in un documento
ufficiale dirà, che il primo merito di un governo e di un principe è
quello ch’egli si conquista verso la pubblica istruzione,[822] Simmaco,
uno dei più grandi personaggi del secolo IV. ribadirà, rivolgendosi al
primo magistrato romano, che «la prova della floridezza di uno Stato
_si desume dallo stanziamento di cospicue retribuzioni ai pubblici
docenti_»[823].

Ci troviamo dunque, come si vede, in aere e dinnanzi a concepimenti
assai diversi. Per l’impero romano, lo Stato ideale è quello che
largisce a sue spese la pubblica istruzione; per la repubblica, ogni
paese civile poteva serenamente prescindere da siffatte preoccupazioni.

Per quali vie s’era compiuta tanta rivoluzione? La risposta non
riesce difficile a chi con noi ha seguito, passo passo, lo svolgersi
dell’amministrazione scolastica dello Stato romano.

Questa parte della sua attività si esplica sotto tre forme: creazione
di scuole pubbliche ed ufficiali; regolamenti sull’istruzione
municipale; vigilanza sull’istruzione privata.

Quanto alle scuole di Stato, duplice fu la via, che noi abbiamo vista
seguire dal governo romano. Da un canto, esso istituisce delle cattedre
di discipline, preferibilmente attinenti all’insegnamento superiore.
Ciò avvenne dapprima nella capitale del mondo, nella città regia per
eccellenza, in Roma; poscia, nelle città più notevoli per il loro
passato, letterario e scientifico, e perciò più degne delle cure
imperiali, quale, ad esempio, Atene.

Tale istituzione non importava di necessità che lo Stato si arrogasse
il diritto della nomina del docente. In genere — almeno nel rito
esteriore — essa era lasciata al Consiglio municipale, cioè al
senato del luogo; importava bensì che lo Stato si addossasse l’onere
dello stipendio del docente. Ma insieme con questo procedimento
l’impero amò seguirne un altro. Esso preferì talvolta avocare a se
stesso determinati insegnamenti, designando una città come loro sede
officiale, imponendovi, più o meno rigorosamente, i suoi programmi,
facendone la depositaria responsabile, spesso liberandola da ogni
concorrenza. Fu il caso della facoltà giuridica di Berito con
Giustiniano e coi suoi predecessori, sin forse da Diocleziano.[824]
Questa volta siamo dinnanzi ad un’investitura morale, non già ad una
creazione ex novo di cattedre, e lo Stato rimane estraneo sia alla
nomina dei docenti, sia alla retribuzione dell’opera loro.

Fra l’una e l’altra forma di scuola di Stato, fra le due età, in
cui ciascuna viene incarnata, noi assistiamo al primo sorgere,
su modello appositamente scelto di una completa Università, che
raccoglie nel suo seno l’insegnamento delle varie discipline,
ritenute fondamentali e necessarie. È questa l’ora della fondazione
dell’Ateneo Costantinopolitano, e sarà anche questo il momento, in
cui l’autorità del potere centrale, così solennemente affermatasi,
libererà l’Università ufficiale da tutte le altre forme di
insegnamento, che fino allora le erano fiorite accanto, e ne darà
a quella l’assoluto monopolio. Ancora un altro secolo, infatti, e
ciò che Teodosio II., integrando l’opera di Costantino I., aveva
disposto per la sola Costantinopoli, sarà da Giustiniano ripetuto
per altre scuole o cattedre dell’impero — private, municipali,
imperiali — e dell’organismo dell’istruzione dello Stato, saranno, pur
disciplinandole scrupolosamente, mantenute solo quelle parti, che il
governo riterrà opportuno mantenere.

Ma tanta operosità non riguarda tutte le forme dell’antico
insegnamento; l’istruzione elementare rimane ancora estranea a ogni
iniziativa dello Stato, e le cattedre, che questo curò e raccolse,
quali sedi di insegnamenti ufficiali, corrisposero invece alle sole
contemplate dal nostro insegnamento superiore e dal nostro insegnamento
medio di secondo grado.

Le discipline fondamentali — qua e là ce ne poterono essere anche
delle altre — oggetto del primo, furono la eloquenza greca e latina,
la filosofia, più tardi, la giurisprudenza; le discipline, oggetto
dell’insegnamento secondario superiore: la lingua e la letteratura
latina. E se, come taluno ha asserito, la denominazione di _Università_
non si attaglia perfettamente agli istituti d’istruzione pubblica,
sorti in Roma, in Atene, in Costantinopoli e nelle altre città, che
quegli insegnamenti raccolsero in un corpo unico, l’eccezione ha valore
sopra tutto, in quanto dei programmi di codeste scuole facevano parte
anche quelle discipline, che oggi costituiscono il nostro insegnamento
secondario superiore.

Ma la cura e la sorveglianza del governo centrale sulle scuole di Stato
non si limita a largire uno stipendio ai docenti, a raccogliere questi
ultimi in un istituto unico, a pareggiare, a quelle di fondazione
imperiale, alcune scuole, che tali non erano state, a coordinarne
l’opera, sia pure entro gli incerti confini, che abbiamo segnati.
Vedemmo, dall’esempio di Roma e di Costantinopoli, come lo Stato
fornisse i locali; ma esso curava ancora la disciplina degli studiosi,
sì che l’autorità, che oggi viene divisa fra il rettore dell’istituto,
il corpo accademico e l’autorità politica, veniva dal governo centrale
assegnata solo a quest’ultima. Era questa la conseguenza necessaria
dell’acefalia della scuola, ove, se c’erano degli insegnanti, non
c’era un ufficio direttivo. E noi vediamo che, sotto Valentiniano
I., nella mancanza dell’organo necessario per la disciplina, le
scuole venivano governate dal prefetto della città, in Roma e —
si può presumere — anche in Costantinopoli, e dalle altre autorità
provinciali più immediate, nelle quattro prefetture dell’impero, come,
più tardi, insieme con queste, dalle supreme autorità ecclesiastiche
del luogo.[825] Un dirigente d’istituto di nomina imperiale non
esiste,[826] e il collegio dei professori o non è investito di alcun
potere, o ne ha uno assolutamente subordinato, e solo sussidiario, a
quello dell’autorità civile e religiosa.

Ma tale delegazione all’autorità politica dei poteri disciplinari,
che non è un male, come potrebbe temersi, giacchè quella si limitava
esclusivamente a sorvegliare la parte più esteriore, e meno intima,
della condotta degli studenti, dipende anche dalla concezione
dell’insegnamento, che lo Stato romano ereditò — e mantenne fedelmente
— dalla repubblica. Per esso, fu l’insegnamento un’attività liberissima
tra le libere; per esso, l’insegnante dovea farsi valere con la
sua capacità; lo scolaro apprendere per il bisogno intellettuale
o professionale, che lo sospingeva[827]. Il fallo scolastico non è
quindi contemplato; esistono solo dei reati comuni, e di reprimerli è,
naturalmente, incaricata l’autorità civile o giudiziaria.

Questo è il fondo teorico della pratica seguita dall’impero romano in
fatto di disciplina scolastica. Va da sè che esso era troppo bello,
per tradursi senza alterazioni nella realtà; e, infatti, provvedimenti
speciali di questo o di quell’imperatore ne ombrarono la classica
purezza. Ma essi non riuscirono mai a intaccare vitalmente il sistema,
che rivivrà più tardi, attraverso i più celebri istituti d’istruzione
pubblica del Medioevo.


II.

Tali le norme, che regolarono le scuole di Stato. Ma queste non furono,
nel concetto, che i Romani ebbero della loro importanza, paragonabili
alle nostre scuole regie, secondarie e superiori. Per i Romani, fino
almeno a Giustiniano, la scuola di Stato fu un istituto di lusso, una
speciale degnazione del superiore governo verso determinate città;
fu una scuola modello, non la scuola ministra quotidiana e ordinaria
del sapere e della cultura. Quella invece, che, per valor sociale,
nel concetto degli uomini politici di quel tempo, avrebbe potuto
paragonarsi alle nostre, fu la scuola municipale, ed a questa si deve
la romanizzazione del mondo conquistato.

Delle sue sorti, vedemmo, il governo imperiale comincia ad occuparsi
fin da Antonino Pio. Quest’imperatore inscrive, per il primo, fra
le spese obbligatorie di parecchi Comuni dell’impero, anche quella
per il mantenimento di determinate cattedre, ed autorizza altri,
che lo chiedevano, ad aprire pubbliche scuole. E la sua iniziativa è
proseguita ininterrottamente fino all’ultima età. Il governo imperiale
investe ufficialmente i Consigli comunali della nomina dei maestri,
stabilisce appositi concorsi, li fa sorvegliare e, in taluni casi,
infligge, o fa infliggere loro, punizioni determinate e perfino la
destituzione[828]. Viceversa, impone ai Comuni dei privilegi a favore
dei maestri, non che l’esenzione dai carichi locali, e richiede da essi
la scrupolosa osservanza del pagamento degli stipendi[829].

Vi è un certo momento anzi — fu questo il biennio del governo di
Giuliano — in cui lo Stato giunge ad arrogarsi il diritto di conferma
delle nomine dei maestri municipali, di cui vuol controllare il merito
scientifico ed il valore morale. Ma, se questa particolare ingerenza
cessa con la morte di quel principe, lo Stato non consente mai che
si rallenti la sorveglianza dei Comuni sulle loro scuole, e sempre si
conduce come se pensasse che quelli non fanno che operare in nome ed in
rappresentanza del governo centrale[830].

Appunto per questo, esso crede talora di potere senz’altro nominare
direttamente gl’insegnanti comunali — è il caso di Proeresio a Treviri,
di Flavio e di Lattanzio a Nicomedia, di Eumenio ad Augustodunum —;
esso crede di poter fissare, ed imporre, la misura degli stipendii — è
il caso dell’ordinamento dato da Graziano all’istruzione pubblica nelle
Gallie —; esso crede di poter direttamente destituire dei maestri, o
sopprimere, sia pure temporaneamente, delle scuole; così fanno Giuliano
e Giustiniano. Solo, da tanta cura, rimane, anche sotto l’impero, di
bel nuovo, esclusa ogni forma di istruzione primaria.

Verso l’istruzione privata le pretese, gli atteggiamenti, del governo
centrale sono assai più rimessi e modesti, nè le condizioni, in cui
tale forma d’istruzione suole in ogni tempo vivere, consentono che
sia fatto in modo diverso. Tutto l’insegnamento privato domestico fu
dunque libero da ogni sorveglianza e da ogni controllo. Anche quando
Giustiniano opererà i suoi tagli cesarei nell’organismo delle scuole
dell’impero, egli non colpirà che l’istruzione impartita pubblicamente,
e con lui, e dopo, perfino in Atene, l’insegnamento domestico, se non
prospererà, non cesserà di sopravvivere.

Non basta. Nella stessa istruzione privata, impartita pubblicamente,
lo Stato non cura, nè sorveglia, che una sola forma: l’istruzione
media e superiore a tipo classico, quella, che metteva capo alla così
detta scuola di grammatica, greca e latina, a quella di retorica,
di filosofia e delle restanti discipline, contemplate nel quadro dei
programmi scolastici consuetudinari.

Quasi tutte le altre specie di insegnamento, che non riguardavano le
discipline canonizzate dalla tradizione — come le scuole professionali,
le scuole cristiane, catechetiche, teologiche etc. — rimangono estranee
all’invadenza del governo centrale.

Ben diversamente procedevano le cose nei rispetti dell’istruzione
privato-pubblica di tipo classico. Giuliano vuole che gli insegnanti
abbiano la ratifica dei Consigli municipali e la propria. I successori
si contenteranno della prima soltanto, ma talora, per evitare una
spesso temibile concorrenza, seguiranno l’esempio di Teodosio II., e
preferiranno vietare in modo assoluto, sotto la minaccia di gravi pene,
ogni insegnamento pubblico-privato.

Ma, com’è nella sua natura, questa forma d’insegnamento, sfidò anche
allora, ogni controllo e contravvenne ad ogni divieto. Morto Giuliano,
si constata che l’impero è pieno di docenti di filosofia, sprovvisti
di autorizzazione, e, sotto Giustiniano, i volontari docenti di
giurisprudenza riescono ugualmente pericolosi sia per la loro ignoranza
come per il loro numero.[831]


III.

Ma chi voglia frugare in fondo ai criteri, che ispirarono lo
Stato romano nei riguardi dell’istruzione; chi voglia intenderne
compiutamente il principio animatore non può sottrarsi ad un’assai
significativa constatazione, che s’impone al confronto delle cure e
della sorveglianza, che lo Stato antico ebbe, ed esercitò, con quelle,
avute ed esercitate, dagli Stati moderni.

Noi ci occupiamo della scuola e crediamo di operare al suo effettivo
incremento, sovvenendola, o correggendola, nei suoi elementi oggettivi
e impersonali; l’impero romano si occupò sovra tutto dell’elemento
soggettivo, del maestro e dello scolaro, e fu elevandone la condizione,
materiale e morale, ch’esso credette giovare alla scuola e agli
studii. Perciò noi ritroviamo, fino dai primi tempi dell’impero,
quella copia di immunità dai pubblici carichi e di altri privilegi,
di cui ad ogni passo sono onorati gl’insegnanti — persino, qualche
volta, gli eterni dimenticati, i maestri elementari. Perciò noi li
vediamo, nelle costituzioni imperiali del IV. secolo, parificati,
in onorificenze, ai più grandi dignitari dello Stato. Perciò il
loro ufficio, riguardato dapprima con disdegno e con diffidenza,
tocca rimunerazioni elevatissime, come, ad esempio quella assegnata
ad Eumenio in Gallia. Perciò, poco a poco, i maestri divengono gli
ispiratori della politica imperiale, e si dànno dei lunghi periodi,
come sotto Marco Aurelio, sotto Alessandro Severo, sotto Giuliano,
in cui essi possono ben dirsi i principi dello stato, dopo l’unico
principe effettivo. Perciò, dal II. secolo ai primi anni del IV., si
suscita, e fiorisce, quell’ampia distesa di istituzioni alimentari,
che costituiranno il terreno fecondatore della istruzione pubblica in
questa età, nella quale, allorchè non infieriranno eventi contrari, la
coltura pubblica raggiungerà il massimo della sua diffusione. Perciò,
sin dal III. secolo, noi vedremo assegnati dei privilegi e delle borse
di studio ai giovani studenti di questa o di quella disciplina, o di
tutte le discipline insieme. Conforme a tali criterii, conforme cioè
al criterio che il bene della scuola non si raggiunge con riforme di
programmi e di ordinamenti scolastici, ma con il merito e l’eccellenza
dei maestri, con il benessere degli scolari, l’insegnamento rimane
libero da ogni imposizione ufficiale. Il controllo dello Stato, o che
lo Stato richiede dai Comuni, si limita alla verifica della capacità,
della diligenza e della dignità della vita degl’insegnanti. Tutto
il resto, programmi, orarii, metodi, tutto, nello Stato antico, è di
esclusiva spettanza del maestro. E come l’insegnante, esente da ogni
imposizione, è responsabile solo degli effetti dell’opera sua, così
manca ogni responsabilità collettiva ed ogni forma di accordo didattico
fra i vari docenti di un unico istituto. Le scuole dell’antichità, che
non conferivano diplomi o attestati, che non conoscevano l’umiliante
soggezione degli esami, non avevano neanche bisogno di imporre e di
promuovere con artifici la diligenza dei maestri e l’efficacia del loro
insegnamento. La scuola allora poteva bene avere un’anima, e fu vero
peccato che, per la mancanza di questa intima virtù, che non infondono
nè la scienza, nè l’ufficio, ma l’indole personale dei maestri e la
vita storica circostante; per questa deficienza spirituale, che tanto
faceva fremere Giuliano, i docenti abbiano, da così grande libertà,
ritratto una copia sempre minore di vantaggi effettivi.

Venne l’ora, in cui tutto questo ebbe termine, o si volle almeno che
avesse termine. Quando, in una grigia giornata invernale, Giustiniano
fissò schematicamente i programmi delle poche scuole riconosciute di
giurisprudenza, inaugurò quell’obbligo, di cui grandissimi, sono,
insieme con i pregi, i difetti, e che impera tuttavia nelle scuole
pubbliche dei paesi latini e degli altri che hanno avuto la malinconia
di imitarli, l’obbligo — dico — di una scuola, la cui essenza più
intima e più gelosa si sia voluta ufficialmente plasmare.


IV.

Come abbiamo dianzi affermato, quasi tutti gli insegnamenti di
discipline, che non fossero quelle giudicate fondamentali, rimasero
nell’impero romano estranei ad ogni cura ed a ogni ingerenza imperiale.
Qualche tentativo in senso contrario ebbe tuttavia luogo, e fu più o
meno audace, a seconda dei tempi e dei principi.

Il momento più propizio fu il regno di Alessandro Severo. Egli
istituì — lo vedemmo — in Roma, cattedre ufficiali di medicina, di
astrologia, di aruspicina, di ingegneria, di architettura, cattedre
cioè di discipline, scientifiche o pseudoscientifiche, attinenti
all’insegnamento superiore e improntate all’esempio di altre esistenti,
per iniziativa privata o municipale, nelle provincie, nonchè cattedre
d’insegnamenti schiettamente professionali. È nota la miseranda
fine delle scuole d’astrologia, e, da quanto noi conosciamo, è
facile dedurre eziandio l’abbandono, in cui i successori lasciarono
precipitare le cattedre di materie scientifiche, istituite da
Alessandro Severo, che rimasero interamente escluse dal quadro tipico
della Università costantinopolitana.

Ma l’insegnamento professionale venne allora favorito con altri mezzi,
che non fossero quelli diretti della istituzione di scuole apposite in
qualche città dell’impero. Le scuole vennero lasciate all’iniziativa
privata; soltanto, esse furono, più o meno interrottamente, protette
e sussidiate, i giovani vennero eccitati con vantaggi tangibili, e
per essi vennero posti in condizione privilegiata coloro, che tali
scuole avrebbero tenute. Furono questi i criterii seguiti per le
scuole di musica da Adriano; poi, per queste e per altre professionali
da Costantino I., da Giuliano, dai Valentiniani; e, se è soltanto
probabile che essi siano riusciti più proficui di quelli, che avevano
ispirato Alessandro Severo, è certo che la loro applicazione ne fu più
continua e più duratura.


V.

Le esigenze della pubblica istruzione furono, dal governo dell’impero,
non soltanto soddisfatte con la creazione di un più perfetto organismo
scolastico, ma altresì con la istituzione di biblioteche, e con
l’istituzione, e il mantenimento, di accademie, di musei, di gallerie.

La fondazione di pubbliche biblioteche fu una lodevole iniziativa, che
rimonta al I. secolo di Cristo. Essa, come le scuole di Stato, venne
dapprima limitata a Roma, ma più tardi, si eressero e si fondarono
biblioteche pubbliche e semipubbliche anche altrove, ad esempio, in
Alessandria, in Atene e in Costantinopoli. E, se dapprima il loro unico
tipo fu quello di istituti di coltura generale, in cui si accoglieva
tutta la produzione letteraria, greca e latina, allora esistente, è
probabile che, in seguito si siano andate man mano specializzando.
Così, se noi non siamo sicuri di imbatterci in raccolte speciali di
libri scientifici, le antiche collezioni giuridiche delle biblioteche
greco-latine dovettero col tempo trasformarsi in biblioteche autonome o
in sezioni di biblioteche quasi indipendenti.

Le nostre notizie sul personale e sul reggimento delle biblioteche
pubbliche, se non tali e così copiose come le desidereremmo, non sono
però eccezionalmente scarse. Dall’età di Claudio — potrebbe anche dirsi
da Augusto — e certamente per tutto il primo secolo, l’amministrazione
delle biblioteche imperiali romane fu affidata ad un _procurator
bybliothecarum_ o ad un _procurator Augusti a bibliothecis._[832]

I _procuratores_ erano in genere degli affrancati, addetti al servizio
personale dell’imperatore, e questo li soleva contraddistinguere dai
_procuratores Augusti_, membri dell’ordine equestre e depositarii
di una più larga e diretta autorità dello Stato nel disimpegno dei
pubblici servizi.[833] Noi troviamo infatti, nell’amministrazione
delle biblioteche, taluni _procuratores_, che sono esplicitamente detti
liberti imperiali,[834] ma, poichè di altri questo deve escludersi[835]
e poichè ci furono veri e proprii _procuratores Augusti_, deve
inferirsi che la procura delle biblioteche, e, perciò, il servizio ad
esse relativo, siano da considerarsi quali uffici e servizi di Stato,
e non già impieghi o servizi privati della Corte imperiale. Nel II.
secolo, i _procuratores_ sono due, di diverso ruolo, uno, l’antico
_procurator bybliothecarum_, l’altro, un _procurator sexagenarius_,
stipendiato cioè con soli 60.000 sesterzii annui, e, forse, addetto
soltanto alla parte amministrativa dei singoli istituti. Ebbe tutto
ciò a mutare nel III. secolo, nel quale un’epigrafe ci addita un
_procurator rationum summarum privatarum bybliothecarum Augusti
nostri_,[836] secondo cui il servizio delle biblioteche imperiali
parrebbe tornato a carico della cassa privata dell’imperatore?
Questa ipotesi, che pure ha avuto dei sostenitori, non è certo la
più probabile. Anzi tutto, l’epigrafe può comportare interpretazioni
e riferimenti diversi dai consueti: essa può intendersi riferita
alla biblioteche private dell’imperatore, che neanche in Roma o in
Costantinopoli alcuna sufficiente ragione riesce ad escludere[837],
e può il nostro _procurator_ del III. secolo essere stato soltanto
l’amministratore di quella parte di patrimonio privato, con cui
l’imperatore avrebbe accresciuto il non lauto fondo destinato alle
biblioteche, specie a costituirne di nuove. Ma la considerazione
più grave, che vale ad escludere l’ipotesi di un regresso delle
biblioteche, da istituti pubblici a proprietà private del principe,
muove dall’indirizzo generale dell’amministrazione dell’impero, che coi
secoli andò, in tutti i suoi rami, perdendo ogni carattere di servizio
personale per convertirsi man mano, più saldamente, in servizio di
Stato.

Questo per il personale superiore delle biblioteche. Quello subalterno
appare, fin dal I. secolo di C., composto di liberi, di liberti
imperiali e di schiavi, che, nel IV. secolo e in Costantinopoli,
si preferirono pubblici, e furono, come tanti altri funzionari,
stipendiati su le _annonae populares_[838].


VI.

Di Accademie, fondate dagli imperatori, non ve n’è che una sola,
il _Museo Claudio_, sede di studio, laboratorio di scienze e di
letteratura, _auditorium_ destinato a pubbliche conferenze. Ma
gl’imperatori romani continuarono nel mantenimento e nella direzione
dell’antico _Museo alessandrino_, di cui, a suo tempo, notammo i tratti
caratteristici. Noi vedemmo, anzi, come gli imperatori abbiano col
tempo reso più universali i benefici di quella Accademia, facendone
partecipi i dotti di altre provincie dell’impero, e fornendo loro,
ovunque risiedessero, delle congrue pensioni, che ne garantissero
l’agio dell’esistenza.

Ma certo assai più interessante ed efficace, nei riguardi della cultura
pubblica, fu la sollecitudine del governo imperiale pei monumenti
antichi ed artistici di Roma, di Costantinopoli e di altre città
d’Italia e delle provincie, che contribuì non poco a formare quel gusto
della scultura, della pittura e dell’architettura, così esiguo durante
il periodo repubblicano, e a salvare più tardi, al culto dei posteri,
gli ormai pericolanti resti dell’arte greco-romana.

Ed infatti, nell’età imperiale, noi assistiamo alla ordinata
conversione in pubblici di parecchi musei e gallerie, esistenti
nella capitale del mondo, e alla formazione di un primo nucleo di
amministrazione centrale e provinciale delle belle arti. La serie dei
magistrati, che l’avrebbero costituita, porta nomi diversi attraverso i
tempi. Da un _procurator a pinacothecis_ e da un _procurator moninentum
terra_ (?) _imaginum_ dell’età degli Antonini noi passiamo, nel IV.
secolo, a imbatterci in un _curator statuarum_ e in un _centurio_
o _tribunus_ o _comes rerum nitentium._ Noi non siamo sempre in
grado di distinguere le attribuzioni di ciascuno; non siamo neanche
in grado di distinguere cronologicamente il tempo, in cui il loro
ufficio si volgeva soltanto alla città capitale, da quello, in cui
cominciò a esercitarsi nella città di provincia. Ma sappiamo tuttavia
di essere certamente dinanzi a una consuetudine e a un ordinamento
così notevoli, che, attraverso le disavventure dei tempi, rimarranno
ancor saldi durante il governo del secondo Re barbaro in Italia.
E sappiamo ancora che cotali magistrati, quando non dipendevano
direttamente dall’imperatore, stavano alle dipendenze delle varie
autorità provinciali (_praefecti praetorio, vicarii, duces_) o della
suprema autorità cittadina delle due metropoli regie, il _praefectus
urbi_, e che essi furono altre volte, da apposite costituzioni
imperiali, direttamente incaricati della custodia, della manutenzione,
dell’esposizione e dell’apertura al pubblico di opere e di edifici,
considerati monumenti nazionali[839].


VII.

Le due autorità, che, durante l’impero, quasi sino all’ultimo,
si ripartirono la direzione degli affari concernenti la pubblica
istruzione, furono l’imperatore e il senato, ciascuno, naturalmente,
con il diverso, effettivo potere, di cui disponeva, nelle nuove
invalse consuetudini della politica generale dello Stato. E può dirsi
recisamente che i poteri del senato, infinitamente minori di quelli
dell’imperatore, andassero man mano assottigliandosi, per restare da
ultimo limitati all’ordinamento della istruzione pubblica in Roma
e in Costantinopoli. Fu questo un processo di involuzione, analogo
a quello, che le attribuzioni del senato ebbero a subire in tutti i
campi dell’amministrazione; onde quel consesso, che, sotto Augusto,
aveva cominciato col largire l’immunità a tutti i medici e i docenti
dell’impero, terminò, nei secoli V. e VI. di Cristo, con l’assumere il
modesto carattere di minuscola, subordinata autorità municipale.

In Roma e in Costantinopoli, dunque, il senato sceglie i pubblici
docenti,[840] ne fissa gli stipendii,[841] conferisce loro nuove
immunità[842] e propone per essi le onorificenze contemplate dalla
legge,[843] provvede alla custodia dei monumenti e delle opere
d’arte,[844] mantiene, in una parola, la generale sorveglianza sulle
cose attinenti alla cultura e alla pubblica istruzione, ed è tramite
necessario tra il pensiero o il volere imperiale e i maestri delle due
città[845].

Ben altra, conforme alla natura del nuovo regime, fu l’autorità legale
ed effettiva dell’imperatore!

Come monarca assoluto, come responsabile di ogni atto e di ciascuna
delle norme regolatrici del suo governo, egli, nell’àmbito della
pubblica istruzione, non soggiace ad alcuna norma superiore, che diriga
o limiti la sua potestà. Le regole generali e particolari della sua
amministrazione egli le crea saltuariamente, volta per volta, e l’unico
termine di appello a qualche cosa di costante è la tradizione dei
predecessori.

Così l’imperatore fonda cattedre, stipendia pubblici insegnanti, crea
_ex novo_, o sopprime, interi istituti di istruzione, riordina le
scuole provinciali, legifera sull’insegnamento privato, conferisce
immunità e privilegi ai docenti e ai discenti, fonda biblioteche,
musei, accademie, stabilisce le norme fondamentali dell’educazione
dei giovani, promuove speciali rami d’istruzione, investe di tutte
coteste competenze la burocrazia dell’impero, ha, in una parola,
potere sovrano su tutte le cose, dalle massime alle minime, che alla
pubblica istruzione si riferiscono. Ma non solo egli può tutto quello,
che gli altri insieme non riescono a potere; egli è altresì ognora
in diritto di strappare oggi quello che ieri poteva aver voluto e
fissato. Così, ad esempio, benchè la scelta dei docenti, anche nelle
scuole di Stato, tocchi ai Comuni, dove esse risiedono, il principe,
talora, tralasciando di consultarli, non si fa scrupolo di arrogarsene
direttamente la facoltà, e non già solo in circostanze eccezionali, per
soddisfare a urgenti necessità di servizio, come può dirsi avvenisse
per le prime cattedre di filosofia in Atene, ma anche in tempi normali,
anche per rendere dei favori[846] o soddisfare il capriccio personale,
il che non viene punto giudicato un arbitrio, ma un atto di legittimo
imperio, spesso un segno solenne di sovrana degnazione. Così, benchè
le leggi, via via emanate, stabiliscano e specifichino le immunità e
i privilegi consentiti, i principi son sempre in facoltà di conferirne
_motu proprio_, a singoli maestri, di nuovi e di speciali,[847] perfino
di ereditarii,[848] come di togliere loro quelli conferiti dalle
leggi comuni[849]. Così, sebbene nessuna legge generale ne dia loro il
diritto, gli imperatori possono mettere a riposo maestri in servizio,
come possono, qualora lo vogliano, destituirli improvvisamente, ciò
che, ad esempio, vedemmo avvenire sotto Adriano[850] e sotto Giuliano.


VIII.

Dietro il Senato e l’imperatore, che rappresentano i due poteri
dirigenti, noi ne aspetteremmo ancora altri, quali esecutori della loro
rispettiva volontà, nel campo della pubblica istruzione. Se non che, a
reggere il nuovo organismo amministrativo, che si era venuto formando,
lo Stato non sentì vivo il bisogno di destinarvi un apposito congegno
burocratico.

I nuovi uffici, creatisi a corte in quell’età dell’impero romano, in
cui l’autorità assoluta del principe cominciò a farsi valere anche
nelle forme esteriori, differiscono dai nostri, in quanto riguardano,
non un genere di lavoro determinato, ma la forma comune di lavori
diversi, non assolutamente separati nè distintamente assegnati. È
questo il motivo, per cui noi non troviamo, in questo tempo, un nucleo
di amministrazione centrale, che degnamente risponda al nuovo servizio
e, meno ancora, delle apposite amministrazioni provinciali per la
pubblica istruzione.

L’unico ufficio infatti, che, nella vecchia capitale dell’impero, ci
apparisca fornito di tali caratteri, è quello dell’_a studiis_, ma,
se l’oscurità, che avvolge le sue funzioni direttive scolastiche, è
prova della sua scarsa importanza, almeno al confronto delle nostre
aspettative, è altresì degno di rilievo il fatto che l’_a studiis_ non
incombeva soltanto sulle cose della pubblica istruzione, nè la durata
della sua carica oltrepassò il regno di Costantino[851]. Nel momento
cioè, del maggiore sviluppo della politica scolastica dell’impero,
l’unico ufficio, che direttamente la riguardava, dispare[852] o si
confonde con altri di specie diversa,[853] e la direzione suprema delle
cose della pubblica coltura rimane alla mercè dei mutevoli suggerimenti
e dell’opera di questo o di quel ministro, qualunque carica essi
rivestano, sì che, allorquando Giustiniano sopprimerà buona parte delle
scuole dell’impero, noi apprenderemo con meraviglia che consigliere
di quel gravissimo provvedimento era stato soltanto il prefetto di
Costantinopoli[854].

In modo analogo, fuori della Corte ci troviamo dinanzi a una serie
di attribuzioni scolastiche, assegnate a questo o a quel magistrato
civile, non dinanzi a una vera e propria amministrazione scolastica.
Le persone, incaricate della cura e della trattazione degli affari,
relativi all’istruzione pubblica, furono i _praefecti urbi_, coi
loro dipendenti nelle due città regie, esecutori tanto della volontà
dell’imperatore come di quella del senato[855], i governatori, col
personale loro dipendente, nelle provincie, o, più tardi, nelle
prefetture; talora, anche, in qualche sede speciale, per l’ultima età
dell’impero, le autorità ecclesiastiche[856].

Questi sono i naturali destinatari, delle numerose _costituzioni_
imperiali, relative ai professori, agli studenti e alle cose
dell’istruzione pubblica in genere. Ma una distinzione di attribuzioni
tra il _praefectus urbi_ e le autorità provinciali o il prefetto
del pretorio non esiste. Ciò che determina la differenza delle loro
funzioni è solo il diverso àmbito territoriale, su cui si esplicano
le rispettive competenze amministrative. Il _praefectus urbi_ si
incarica della sorveglianza disciplinare sui maestri, di Roma e di
Costantinopoli, cui ha facoltà di infliggere pene determinate;[857]
si incarica della manutenzione degli edifici scolastici di proprietà
dello Stato; dell’assegnazione a ciascun docente di un determinato
locale nell’università cittadina;[858], e, forse, dopo Giustiniano,
del regolare svolgimento dei loro programmi. Consiglia l’imperatore
nei suoi provvedimenti scolastici;[859] sorveglia il pagamento
degli stipendi;[860] cura che i maestri siano informati delle
onorificenze[861] e delle immunità concesse, o ridotte, o negate;
esegue e garantisce l’applicazione delle leggi relative, sia per parte
dello Stato che dei municipi; invigila sulla condotta degli studenti,
dentro e fuori la scuola, per il che mette in opera l’attività del
dipendente ufficio censuale. Infine, come governatore di ciascuna
delle due metropoli, che sono anche i centri maggiori della pubblica
istruzione, provvede talora di pubblici docenti le città di provincia,
che ne abbisognano[862], e, almeno fin dal IV. secolo, raccoglie nelle
proprie mani l’amministrazione generale delle biblioteche di ciascuna
delle due città[863].

Analogamente, i governatori provinciali o i prefetti del pretorio,
ciascuno nel proprio àmbito territoriale, sorvegliano l’apertura
e la chiusura delle scuole pubbliche e private ed i maestri che le
dirigono;[864] ne impongono di nuove, o ne regolano il mantenimento
insieme con la nomina, lo stipendio dei docenti[865] e, dopo
Giustiniano, forse anche l’insegnamento. Al pari del _praefectus
urbi_, informano i docenti delle immunità concesse, o ridotte, o
negate, e ne eseguono e garantiscono, l’applicazione, non solo per
parte dello Stato, ma anche per parte dei municipi; rimpatriano i
docenti, che aspirano a torto a determinate immunità, cercando così
di sottrarsi ai loro obblighi sociali[866]; curano che i municipi
osservino gli altri privilegi, dall’imperatore stabiliti pei
maestri, sia di arti liberali che di altre discipline, e infliggono
ai violatori le penalità comminate;[867] bandiscono e corrispondono
borse di studio agli studiosi; sorvegliano la disciplina, e la
condotta extrascolastica, degli scolari, rilasciano loro il permesso
di recarsi altrove a studiare[868]. Nè questo è tutto. Le notizie
pervenuteci sulle scuole ateniesi, che sono le più abbondanti, ci
dànno qualche altro particolare prezioso. I governatori provinciali
nominano, o fanno nominare dai Consigli municipali, le Commissioni
di concorso, le presiedono, decidono sulle loro proposte, sui reclami
dei candidati, convocano i professori e gli studenti a gare solenni,
premiano i vincitori, propongono quesiti, sentenziano nelle contese,
sospendono, destituiscono, reintegrano, richiamano al dovere i maestri,
che disertano la cattedra, inducono le città a determinate scelte,
inviano all’imperatore rapporti sullo stato delle scuole; sono in una
parola, fin dal IV. secolo, i veri e propri curatori dell’andamento
delle scuole, almeno delle principali, collocate entro la loro
giurisdizione[869].


IX.

Oltre al nuovo organismo scolastico creato dallo Stato e
all’assoggettamento dell’istruzione municipale e privata al governo
centrale; oltre, e all’infuori di ciò che questo poteva operare per
tal via, noi abbiamo dovuto notare come ugualmente grandi — sebbene
meno direttamente apprezzabili — fossero gli impulsi, che, da varie
forme dell’attività, o del capriccio imperiale, derivarono a parecchie
e corrispondenti forme della cultura sociale. L’incremento degli studi
filosofici, musicali e giuridici non si deve ad altro. Ma di questi
impulsi indiretti, venuti dallo Stato all’istruzione e alla educazione
pubblica, è sovra ogni altra cosa degna di rilievo la concezione di
quel piano generale di educazione delle classi dominanti, che Augusto
elaborò e che, per circa due secoli, s’impose in Italia e nelle
provincie.

Noi vedemmo a suo luogo quali ne fossero stati i criterii ispiratori —
criterii morali, politici, civili e religiosi — e indicammo anche, con
sufficiente ampiezza, quali istituti e quali consuetudini si fossero
creati o fatti rivivere. Ma occorre che ora c’indugiamo alquanto a
chiarire i rapporti dei collegi giovanili italici e provinciali (che
dell’esecuzione di tale disegno furono lo strumento migliore) coi
poteri centrali e locali dello Stato.

Che quelli fossero associazioni meramente private fu opinione
un tempo divisa dagli studiosi, ma che è oramai da abbandonare
definitivamente[870]. Esse invece costituirono uno degli ingranaggi
della vita dello Stato romano nei secoli II. e III. di C. L’effigie
dell’imperatore che ritroviamo in talune tessere plumbee, non prova
in modo incontrastabile, il carattere ufficiale dell’istituto,[871]
ma è, ciò non ostante, fuori dubbio che, come quei collegi furono più
volte fondati dagli imperatori, la loro vita rimase sempre sotto gli
auspici dell’unico o del maggiore magistrato dell’impero[872]. Altra
volta, gli stessi municipii domandano il riconoscimento legale di un
collegio giovanile. Verso il 130, Cizico ne chiede l’autorizzazione
al Senato romano,[873] segno questo evidentissimo del loro carattere
pubblico, e, nella stessa Africa, la corporazione giovanile è una
suddivisione della curia municipale[874]. Egualmente significativa è la
considerazione, di cui essi godono nella vita dei municipii: i collegi
giovanili vantano il primo posto tra gli altri della città, e lo cedono
soltanto, e di rado, agli _Augustales_ e ai _Seviri._ I loro magistrati
poi hanno strette relazioni con le autorità municipali, talora con
le autorità militari, e queste — come se si trattasse di _collegia_
propriamente militari — vanno ad istruirvi i giovani e a sorvegliarne
la disciplina[875]. I _collegia iuvenum_ non furono dunque istituzioni
private, ma istituti pubblici, voluti e favoriti dallo Stato romano,
che ne ebbe tutto il merito; e, sia per la loro importanza come
per l’efficacia sociale, esercitata durante tre secoli, possono
ben definirsi la più originale e fortunata creazione della politica
scolastica imperiale romana.

E con impulsi indiretti, più che con le sollecitudini, usate verso
quelli, che si consideravano gli elementi integranti dell’istruzione
scolastica, noi ritroviamo favorito dal governo di Roma ciò che, nel
mondo ellenico, era stato il primo punto dei programmi scolastici:
l’educazione fisica degli adolescenti e dei giovani.

Noi non sappiamo se in Roma (o anche altrove) lo Stato stipendiasse
all’uopo dei maestri; noi ignoriamo affatto la condizione dei
_magistri_ dei _ludi Troiae_ e dei _magistri iuventutis_, esistenti fra
i giovani dei vari collegi giovanili dell’impero; ma noi sappiamo che
dallo Stato erano, per l’educazione fisica della gioventù, assegnati
locali appositi, e che ivi i maestri potevano insegnare e i giovani
esercitarsi ed allenarsi.


X.

Ebbero la progrediente cura dello Stato, verso l’istruzione pubblica, e
il perfezionarsi degli istituti ufficiali d’insegnamento una efficacia
decisiva sulle opere dell’intelletto? La risposta, per chi scorra la
produzione letteraria della repubblica e dell’impero, non può essere
che negativa, e la constatazione, a cui si è costretti, rompe contro un
vecchio pregiudizio della chiesa cattolica e, insieme, della democrazia
moderna, che cioè la scuola abbia la virtù di creare la società e la
vita, più di quanto non ne sia essa medesima influenzata e soggiogata;
che sia insomma la scuola, e non la società tutta, a determinare il
valore dell’insegnamento e a renderlo operoso e fecondo. Pur troppo, la
scuola ufficiale non è sempre, o soltanto, un mezzo d’apprendimento e
di diffusione della cultura; non soltanto lo strumento di preparazione
a determinati uffici o professioni, reclamato da una società, che si
trova al colmo della sua floridezza intellettuale e materiale; essa è,
assai più spesso, l’espediente escogitato per sanare un male, arrestare
un regresso, promuovere artificialmente una serie di effetti, che, per
altra via, non sembrava possibile conseguire. La scuola ufficiale è
dunque, assai di consueto, l’indice di una società, che organicamente
decade. E, se essa può, per un certo tempo, reagire contro questo
fatale andare, ne è a sua volta, alla fine, sopraffatta e soffocata. La
società male assestata, la società, distratta da altre cure, inquina
e corrompe la scuola, la disordina, la piega, la deforma a scopi, che
quella non può avere, la isola, la diserta, ne isterilisce ogni buon
effetto. È ciò che noi vediamo seguire negli ultimi secoli dell’impero,
ciò che noi vedremo ripetersi nell’ultima fase delle Università
medievali.[876]

Durante questo periodo, la scuola, che ammanisce tutte le specie del
sapere, che prepara a tutte le attività intellettuali, non produce più
nè prosatori, nè scienziati, nè filosofi, nè giuristi, nè letterati;
nè riesce a fermare l’ignoranza, che sale, o a chiudere le porte
all’invadente Medioevo dell’intelletto.

Ma la specifica vanità dell’opera della scuola ufficiale, dell’opera
dello Stato, rispetto alla produzione intellettuale, è forse ancora più
sensibile nei periodi felici dell’impero romano, ad esempio, nell’età
degli Antonini. La società ci offre allora il curioso spettacolo di
un appassionarsi a tutte le manifestazioni dell’intelligenza, per cui
la letteratura, la filosofia, la scienza si diffondono per le varie
classi sociali e si fanno popolari. Ma quella società ha acquistato in
cultura tutto ciò che ha perduto in qualità e in potenza di pensiero,
e la scienza e l’arte vi hanno guadagnato in estensione e in diffusione
tanto quanto hanno perduto in virtù ed in profondità. Non è più questa,
pur troppo, l’êra della grande arte e della grande speculazione.
Mancano all’uopo la capacità individuale e la collettiva, che non
si possono creare per sapienza di reggimento scolastico. Ciò che il
retore Materno aveva, con profondo pessimismo, sostenuto nell’immortale
dialogo _Degli oratori_, è, in tesi generale, intimamente vero, per
la sorte di tutte le discipline dell’intelletto: «L’arte, della quale
parliamo non è amica del riposo e della pace, non ama la probità e la
moderazione..... Essa è figlia della licenza, che gli stolti chiamano
libertà, è compagna e ispiratrice dei rivolgimenti pubblici: senza
rispetti, incapace di servire, ribelle, temeraria, arrogante, tale da
non poter fiorire in una città bene ordinata..... La vegetazione più
vigorosa è figlia della terra, che non ha mai subìto l’aratro...»[877].




SOMMARIO


  INTRODUZIONE                                               pag.   5

  CAPITOLO I. — =Gli imperatori di casa Giulio-Claudia e
  l’istruzione nell’Impero Romano (30 a. C. — 68 d. C.)=     »    11

  I. La politica scolastica degli Imperatori di casa
  Giulio-Claudia. I privilegi di Augusto ai _praeceptores._
  Una scuola di Stato per la nuova aristocrazia imperiale —
  II. Le biblioteche pubbliche augustee. — III.
  Il governo di Augusto e la custodia delle opere
  d’arte. — IV. Augusto e l’immunità dai carichi
  pubblici ai medici e ai docenti di medicina. — V.
  Augusto e la nuova educazione della gioventù. — VI.
  Contenuto religioso e morale di questa educazione. — VII.
  Augusto istituisce un ufficio di sovrintendenza
  generale su l’istruzione e l’educazione
  della gioventù romana. — VIII. Augusto e l’istruzione
  pubblica nelle provincie: la biblioteca del SEBASTEUM;
  l’impero assume l’amministrazione e la
  direzione del MUSEO alessandrino. — IX. L’istruzione
  pubblica e il governo centrale da Augusto a Nerone.
  Caligola e i concorsi di eloquenza. Il MUSEUM CLAUDIUM. —
  X. La Corte e la sua influenza sulla nuova
  aristocrazia. I concorsi di eloquenza istituiti da Nerone
  e l’incremento degli studi di retorica. Il governo di
  Nerone e gli studi di filosofia. — XI. Le immunità
  agli insegnanti datano probabilmente da Nerone. — XII.
  Rassegna e ampiezza di queste immunità. — XIII.
  Casi di immunità speciali a favore degli insegnanti
  primarii. — XIV. Nerone e l’ellenizzarsi della
  educazione fisica in Roma. — XV. Nerone e l’incremento
  dell’istruzione musicale. XVI. — I successori
  di Augusto e le organizzazioni giovanili a Roma e
  in Italia. — XVII. Nerone ricompone le biblioteche
  perite nell’incendio del 64. — XVIII. Gli imperatori
  di casa Giulio-Claudia e gli studii di giurisprudenza. —
  XIX. Il nuovo regime e l’istruzione pubblica.

  CAPITOLO II. — =Gl’imperatori di casa Flavia e
  l’istruzione nell’Impero romano (69-96)=                    »    81

  I. Vespasiano e la fondazione di nuove biblioteche.
  Riconferma delle immunità ai maestri di grammatica,
  di retorica e di filosofia. Stipendio ai principali
  insegnanti di retorica in Roma. Non si tratta di una
  statizzazione delle scuole di retorica. — II. Motivi
  della innovazione. Condizioni economiche dei maestri
  di retorica. Il provvedimento di Vespasiano quale
  misura della considerazione sociale dei retori. — III.
  Trascuranza del governo imperiale verso i grammatici
  e gli insegnanti elementari; loro condizioni
  economiche. — IV. Rapporti amministrativi e giuridici
  dei retori stipendiati con lo Stato. Giudizio
  dei contemporanei. — V. Quintiliano primo retore
  stipendiato, come maestro e come pedagogista. — VI.
  Tito rimane fedele alla politica scolastica del
  padre. Domiziano riedifica le biblioteche distrutte.
  La ripercussione della operosità imperiale sulla
  diffusione e sul regime delle biblioteche. — VII.
  Domiziano inaugura nuovi concorsi di eloquenza. — VIII.
  Domiziano e il trionfo della educazione fisica
  a tipo ellenico. Vespasiano, Domiziano e l’istruzione
  musicale. Il nuovo indirizzo dei collegi giovanili. — IX.
  Il rovescio della medaglia: Vespasiano contro
  le scuole filosofiche ateniesi. — X. Il governo dei
  Flavii e l’istruzione pubblica nell’impero romano.

  CAPITOLO III. =Gli imperatori da Nerva a M. Aurelio
  e l’istruzione pubblica nell’Impero romano (96-180)=       »   113

  I. Reazione di Nerva e di Traiano alla politica
  dei Flavii; gli stipendi ai retori interrotti; esitanze
  nella riconferma delle immunità. — II. Reazione
  all’educazione fisica e musicale ellenizzante. — III. La
  biblioteca Ulpia Traiana. — IV. I _pueri alimentarii_
  e i provvedimenti relativi in Roma, in Italia e nelle
  province. — V. Traiano e i maestri; rifiorimento
  della coltura. — VI. P. Elio Adriano — VII. Adriano,
  le immunità, gli onori e i benefici largiti ai maestri. —
  VIII. L’ATHENAEUM e la biblioteca Capitolina. Adriano
  e gli studii di giurisprudenza. — IX. Adriano e
  l’istruzione pubblica nelle provincie: in Atene; riforme
  nella scuola degli Epicurei; innovazioni nel
  MUSEO alessandrino. — X. Le nuove norme di Antonino
  Pio circa le immunità dei maestri. — XI. Antonino
  Pio non inaugura scuole di Stato in provincia, ma vi
  promuove l’istituzione di scuole municipali di retorica
  e di filosofia. — XII. Marco Aurelio e la fondazione
  delle prime cattedre imperiali universitarie in Atene. —
  XIII. I concorsi universitarii. — XIV. Le cattedre
  di fondazione imperiale nell’Athenaeum romano. — XV.
  Gli Antonini, le istituzioni alimentari e la
  istruzione primaria. — XVI. Gli imperatori da Traiano
  a Marco Aurelio e l’istruzione musicale. — XVII. Il
  governo ed i collegi giovanili. La cura delle belle
  arti. L’amministrazione delle biblioteche. L’età degli
  imperatori da Nerva a Traiano, la scuola e la coltura
  nell’impero romano.

  CAPITOLO IV. — =Lo Stato e l’istruzione pubblica da
  Commodo all’abdicazione di Diocleziano (180-305)=          »   177

  I. La cultura e l’istruzione pubblica in questo
  periodo — II. Il nuovo carattere militare dei _collegia
  iuvenum_ sotto i Severi. — III. La nuova legislazione
  a tutela dei maestri e degli studenti. Il governo
  centrale e l’istruzione pubblica nei comuni. — IV.
  Le nuove istituzioni scolastiche di Alessandro Severo. —
  V. La decadenza delle istituzioni alimentari
  nel III. secolo. La politica del governo e l’istruzione
  pubblica da Alessandro Severo a Diocleziano. La
  imposta municipalizzazione delle scuole di Antiochia. —
  VI. Diocleziano e l’insegnamento del diritto.
  L’editto _de pretiis rerum venalium_ e gli onorari degli
  insegnanti. — VII. La soppressione delle cattedre
  di astrologia. La distruzione delle biblioteche
  cristiane. — VIII. Costanzo Cloro e l’istruzione pubblica
  nelle Gallie. Le Gallie nel III. e nel IV. secolo. La
  nomina del retore Eumenio in Augustodunum.

  CAPITOLO V. — =L’istruzione pubblica nell’Impero
  romano, Costantino il Grande e i suoi figli (312-361)=      »   211

  I. La monarchia Dioclezianea-Costantiniana e il
  trasporto della capitale a Costantinopoli. Ripercussione
  di ciò sulle sorti della istruzione pubblica nell’impero.
  — II. Costantino e la coltura. L’Università
  Costantinopolitana. — III. Una nuova biblioteca
  pubblica. Costantino e l’istruzione professionale.
  L’istruzione primaria; fine delle fondazioni alimentari.
  — IV. Privilegi e garanzie ai docenti privati
  e pubblici nelle città di provincia. Ampliamento
  delle immunità e suoi motivi. Immunità ai professionisti
  delle arti edilizie e industriali. — V. Costantino
  e la cura delle opere d’arte. — VI. I figli
  di Costantino ne continuano la politica; gl’imperatori,
  il Senato e i governatori nella scelta dei
  maestri. Riforme nell’Università ateniese. Dichiarazione
  dei nuovi criterii di governo in fatto di
  istruzione pubblica. — VII. I figli di Costantino e
  probabile limitazione delle immunità.

  CAPITOLO VI. — =Le innovazioni scolastiche di Giuliano
  l’Apostata (361-363)=                                       »   239

  I. Giuliano e gli atti più notevoli della sua
  legislazione scolastica. Reintegrazione dell’antica
  larghezza di immunità; sua bibliofilia. La legge del 362
  su l’insegnamento pubblico e privato. — II. L’editto
  su l’insegnamento classico. Un secondo editto? — III.
  Giudizio sulla legge del 362. Gli antichi e l’editto;
  l’approvazione dei cristiani intransigenti; la
  disapprovazione dei cristiani moderati, dei pagani e
  degli indifferenti. — IV. Giudizio dei moderni. — V. Il
  merito e la portata dell’editto. — VI. L’applicazione e
  gli effetti. — VII. Disegni di nuove scuole e di riforme
  a vantaggio dell’istruzione classica e musicale. Giuliano
  e il favore accordato ai retori e ai filosofi. Il valore
  dell’opera dei Costantiniani nei rispetti della
  istruzione pubblica.

  CAPITOLO VII. — =La dinastia Valentiniana e l’istruzione
  pubblica nell’Impero romano (364-383)=                      »   281

  I. La reazione alla politica scolastica di Giuliano. —
  II. Un regolamento disciplinare per gli
  studenti stranieri in Roma — III. Valentiniano riconferma
  le immunità; nuove immunità ai maestri
  di pittura. — IV. Valente e la biblioteca
  costantinopolitana; Valente contro l’astrologia;
  distruzione di opere scientifiche classiche; giudizio che
  di lui fa Temistio. — V. Le riforme scolastiche di
  Graziano; l’ordinamento delle scuole in Gallia; gli
  stipendii dei maestri. — VI. Valentiniano, Graziano e
  i medici di Roma e della Corte; la cura dei monumenti
  antichi e delle opere d’arte. — VII. La rinascita
  intellettuale in tutto l’impero.

  CAPITOLO VIII. — =La dinastia dei Teodosii e la
  pubblica istruzione (383-450)=                              »   309

  I. La reazione cattolica di Teodosio I. e l’istruzione
  pubblica: la soppressione degli stipendi ai
  docenti pubblici in Roma e in Atene. — II. Eccezioni
  a favore dei medici; cura delle opere d’arte.
  Ripresa della decadenza intellettuale del III. secolo. —
  III. I due figli di Teodosio continuano la politica
  del padre. — IV. Teodosio II. riconferma le
  immunità ai maestri. I provvedimenti di Teodosio relativi
  alla Università costantinopolitana. — V. Carattere
  di quest’opera. L’Università costantinopolitana
  e quella ateniese. La distribuzione delle cattedre.
  L’abolizione dell’insegnamento privato-pubblico. — VI.
  Il nuovo ordinamento e le altre scuole medie
  e superiori, creato dallo Stato. — VII. Teodosio conferma
  di nuovo le immunità ai maestri. La compilazione
  del _Codex Theodosianus_; la scienza e l’insegnamento
  giuridico.

  CAPITOLO IX. — =L’impero e l’istruzione pubblica
  dalla morte di Teodosio II. alla fine del governo di
  Giustiniano (450-565)=                                      »   337

  I. Necessità di estendere il presente studio fino
  al VI. secolo. — II. Il governo di Teodorico, la
  cultura e l’istruzione pubblica in Italia. — III.
  Prosecuzione della politica di Teodorico sotto Atalarico
  e Teodato, Atalarico e le scuole di Roma. Rinascita
  intellettuale. — IV. Giustiniano, la sua reazione
  cristiana, e il divieto d’insegnamento ai pagani. — V.
  Soppressione dell’Università ateniese. — VI. Sospensione
  degli stipendi ai docenti di arti liberali. — VII.
  La compilazione del _Codex iustinianeus_, del
  _Digestum_ e delle _Institutiones._ — VIII. Scopi e
  vantaggi di tale opera rispetto alla scuola e
  all’insegnamento. Riduzione delle scuole di
  giurisprudenza dell’impero; aumento del personale
  insegnante in Costantinopoli e in Berito; immunità ai
  professori di giurisprudenza; prolungamento del corso; la
  disciplina degli studenti. — IX. I nuovi programmi per
  l’insegnamento della giurisprudenza. — X. Giustiniano
  e l’istruzione pubblica negli ultimi anni del
  suo governo.

  CONCLUSIONE                                                 »   379

  I. La politica scolastica della repubblica e dello
  impero. Il governo centrale e le scuole di Stato. — II.
  Il governo e le scuole municipali e private. — III.
  Lo Stato, i maestri, gli studenti, la libertà
  dell’insegnamento. — IV. Lo Stato e gl’insegnamenti
  professionali. — V. Le biblioteche pubbliche e loro
  amministrazione. VI. Lo Stato, le accademie, i musei; la
  cura delle opere d’arte. — VII. L’imperatore, il senato,
  e la suprema direzione dell’istruzione pubblica. — VIII.
  L’amministrazione centrale e provinciale. — IX.
  Gli impulsi indiretti del governo alla istruzione
  pubblica; il tentativo di una educazione di Stato;
  l’educazione fisica. — X. La decadenza intellettuale e la
  vanità effettiva dell’opera dello Stato.




INDICE ANALITICO — ALFABETICO


A CENSIBUS, 31; 32-33; (V. CENSUS).

ADRIANO, A. e l’istruzione pubblica in genere, 124-126; 127; A. e le
immunità agl’insegnanti, 49-50; 50 sgg.; conferisce stipendii agli
insegnanti di Roma e delle province, 129-130; fissa per loro dei limiti
di età e delle pensioni, 127-128; 130; costruisce in Roma un edifizio
per il pubblico insegnamento, 130 sgg.; fonda la Biblioteca Capitolina,
133; A. e lo studio del diritto, 133-135; A. fonda un Ginnasio in
Atene, 136; A. e la scuola Epicurea di Atene, 136-137; A. e il MUSEO
alessandrino, 138-139.

AGONE CAPITOLINO, 103; 105; 106-107.

AGRIPPA (M. V.), Suo amore per la coltura, 19; esorta l’aristocrazia
romana ad aprire al pubblico i suoi Musei e le sue pinacoteche, 20.

AGRICOLA, e l’istruzione pubblica in Britannia, 5.

ALESSANDRIA, Scuole di medicina, 22; di musica, 275; di giurisprudenza,
365; il MUSEO di A. 34 sgg.; 131; 138-139; il MUSEO CLAUDIO, 39 sgg.;
il SEBASTEUM, 34.

ALESSANDRO SEVERO, Sua coltura, 187-188; fonda in Roma cattedre di
grammatica, medicina, aruspicina, astrologia, ingegneria, architettura,
188-191; 390-391; erige in Roma nuovi edifici scolastici, 191;
istituisce borse di studio per gli alunni poveri, 191; A. S. e le
istituzioni alimentari, 192.

ALIMENTARI (ISTITUZIONI), (V. PUERI ALIMENTARII).

ANNONAE (borse di studio), 191; 275; 403; (V. STIPENDI).

ANTIOCHIA, Scuole di A., 193.

ANTIQUARII, (V. LIBRARII).

ANTONINI, GLI A., e le istituzioni alimentari, 165-167; e l’istruzione
musicale, 167-170; e i _collegia iuvenum_, 170; e la cura delle opere
d’arte, 171-173; gli A. e l’insegnamento medio-superiore, 163-165; la
politica scolastica degli A., 174-175; (V. ANTONINO PIO; MARCO AURELIO;
CARACALLA).

ANTONINO PIO, e le immunità agli insegnanti, 50 sgg.; 140 sgg.; e
l’insegnamento municipale, 150-152; 385; e la cura delle opere d’arte,
171-173; e il governo delle biblioteche, 173-174.

ARCHITETTI, 188, n. 2; 196; immunità agli A., 226; 230; ARCHITECTI
MAGISTRI (professori di architettura) e loro onorario, 196-197.

ARCHITETTURA, Scuole di A. in Roma, 188; 188, n. 2; 390; 391; in
Africa, 220-221; professori di A. (V. ARCHITECTI MAGISTRI).

AREOPAGO, L’A. ateniese e l’istruzione pubblica, 158, n. 1; 159.

ARUSPICINA, L’A. e la politica romana, 189; Scuole di A. in Roma, 188;
390-391.

ASIA MINORE, Scuole di medicina, 22.

ASTROLOGIA, L’A. e la politica romana, 188-189; Settimio Severo e l’A.,
189; pene contro l’esercizio dell’A., 188-189; Alessandro Severo e
l’A., 189-190; scuole di A. in Roma, 188; 390-391.

A STUDIIS, 30 sgg.; 400.

ATALARICO, Sua politica scolastica, 345-348; A. e le scuole di Roma,
346 sgg.

ATENE, Scuole di medicina, 22; 190; di astronomia e di astrologia,
190; le scuole filosofiche di A. e Vespasiano, 108-110; Adriano
e la Scuola Epicurea, 136-138; locali scolastici universitari,
130-131; Adriano fonda in A. una biblioteca e un Ginnasio, 136; M.
Aurelio vi fonda cattedre di retorica e di filosofia, 153-156; A. e
Costantino, 215; l’Università di A. nel IV. secolo di C., 232-233;
Giuliano e l’Università di A., 276; Teodosio I. e l’Università di A.,
213; L’Università di A. e quella di Costantinopoli, 323 sgg.; fine
dell’Università di A., 353-357.

ATHENAEUM, 130-133; 135; l’A. sotto gli Antonini, 162-163; l’A. e
Teodosio I., 312-313; e Teodosio II., 329-331; e Teodorico, 343.

ATTILA, e l’insegnamento del gotico in Italia, 338, n. 1.

AUGUSTO, Privilegi concessi ai maestri, 12-13; fonda in Roma una scuola
per la nuova aristocrazia dell’impero, 14-16; fonda le biblioteche
Palatina e Ottaviana, 16-18; fa aprire al pubblico taluni privati Musei
e Pinacoteche, 18-21; A. e le immunità ai medici, 21-22; e i _collegia
iuvenum_, 23 sgg.; e l’_a studiis_, 30 sgg.; e l’istruzione pubblica
nelle province, 34 sgg.; e il MUSEO alessandrino, 37-38; e l’arte
musicale, 67; A. patenta dei _ius respondentes_, 76.

AUGUSTODUNUM AUTUN, Scuole, 5; 204; 205; 208; 386.

AURELIO (MARCO), Sua fede nella efficacia della scuola, 152-153; fonda
cattedre di retorica, 153-156; norme pei concorsi alle cattedre di
filosofia e di retorica in Atene, 157-162.

AUSONIO, 302; 305.

BELLE ARTI, Augusto e la cura dello opere d’arte, 18-21; gli Antonini,
171-173; Costantino, 228-229; magistrati preposti alla cura delle opere
d’arte, 395-396; il Senato e le B. A., 397; (V. VALENTINIANO I; ONORIO;
ARCADIO; TEODORICO; COMITIVA ROMANA; CURATOR STATUARUM; PROCURATORES;
VICARII; DUCES; PRAEFECTVS).

BERITO, Scuole, 195; sede ufficiale per l’insegnamento della
giurisprudenza, 364; 382; numero dei professori di giurisprudenza,
360-366.

BIBLIOTECHE, G. Cesare e le B. pubbliche, 16; Asinio Pollione rende
pubblica la sua B., 16; Augusto e le B. romane, 16 sgg.; la _Palatina_,
16-17; 73; la _Ottaviana_, 17; 101; la B. del SEBASTEUM, 34-35; del
Museo alessandrino, 35; del Nuovo Tempio di Augusto, 39; 73; la B.
_Domus Tiberianae_, 39, n. 1; 73; le B. pubbliche e le scuole di
giurisprudenza, 77-78; _Biblioteca Pacis_, 82; Domiziano fa ricostruire
le B. romane incendiate, 101; le B. municipali e private dopo
Domiziano, 101-102; il servizio interno delle B., 102; Traiano fonda
la B. Ulpia-Traiana, 119-120; Adriano fonda la B. Capitolina in Roma e
una B. pubblica in Atene, 133; 136; distruzione delle B. cristiane nel
303, 199 sgg.; B. di Costantinopoli, 219; 231; 295-296; B. privata di
Giuliano in Costantipoli, 240; B. generali e speciali, 392; Personale
delle B., 173-174; 392-394; le B. private sulla fine del IV. secolo
di C., 316; B. imperiali private, 393 e n. 4; le B. pubbliche e il
_Praefectus Urbi_, 402.

BORSE DI STUDIO, (V. ANNONAE).

BURDIGALA (BORDEAUX), I professori delle scuole di B., 6; loro
condizioni economiche, 302.

CALCULATORES, 195; 195, n. 4; 196.

CALIGOLA, istituisce a Lione un concorso di eloquenza, 39; protegge
l’arte musicale, 67; patenta dei _ius respondentes_, 76.

CAPITOLINA (BIBLIOTECA), 133.

CARACALLA, Sua educazione ginnico-militare, 182; suo mecenatismo verso
le compagnie drammatiche, 179; brucia i libri di Aristotile ed esclude
gli Aristotelici dal Museo Alessandrino, 180; C. e le immunità, 181;
184; e le istituzioni alimentari, 192.

CASSIODORO, 341; 345; 349.

CENSUS, _a censibus_, 31; 32-33; _magister_ C., 286.

CENTURIO RERUM NITENTIUM, 229.

CEROMATITAE, 195; 196.

CESARE (C. G.), La politica scolastica di C., 12-13; C. e la prima idea
delle pubbliche biblioteche in R., 16.

CESAREA, Scuole di giurisprudenza, 365.

CIRENE, scuole di medicina, 22.

CLAUDIO, e l’_a studiis_, 31; 33; il MUSEUM CLAUDIUM, 39 sgg.; C.
protegge l’arte musicale, 67.

CODEX GREGORIANUS, 332.

CODEX HERMOGENIANUS, 332-333.

CODICE GIUSTINIANEO, 362; 366.

CODICE TEODOSIANO, 334-336.

COLLEGIA IUVENUM, sotto Augusto, 23 sgg.; da Augusto a Nerone, 70; nel
Lazio, 70-71; sotto Nerone, 71-72; sotto Domiziano, 107-108; nel II.
secolo di C., 170; nel III. secolo, 181-183; sono istituti pubblici,
404-405; i _C. I._ e le autorità municipali e militari, 405; (V.
MAGISTRI).

COMITIVA ROMANA, 344-345.

COMITIVA PRIMI ORDINIS, 322; 329-330.

COMMODO, C. e le immunità degli insegnanti, 50 sgg.; istituisce
nuovi concorsi musicali, 179; rinnova i _Iuvenalia_, 179-180; C. e le
istituzioni alimentari, 191-192.

CONCORSI, di eloquenza, 39; 103-104; di poesia e musica, 43-44; 67-69;
103-104; 179; C. per l’insegnamento superiore, 157-162; i C. e le
autorità provinciali, 159; 403.

CONDITIONALES, 296.

CONSIGLI MUNICIPALI, I C. M. e la nomina degli insegnanti, 159;
159, n. 2; 241; 250; 283; 381; 385; e la concessione delle immunità
agli insegnanti, 146; 183-184; e le spese per l’istruzione pubblica,
186-187; e il governo delle scuole, 187; 385-386; I C. M. responsabili
degli stipendii non pagati agli insegnanti, 187.

CORNUTO (A.), Sua scuola, 46.

COSTANTE, C. e Proeresio, 230; C. elargisce l’immunità agli ingegneri,
architetti etc., 230.

COSTANTINIANI, Gl’imperatori C. e l’istruzione pubblica, 229 sgg.;
probabile limitazione delle immunità degli insegnanti, 236-237.

COSTANTINO, e l’istruzione pubblica, 211 sgg.; fonda l’Università
Costantinopolitana, 216-217; fonda una biblioteca pubblica in
Costantinopoli, 219; C. e gl’insegnamenti professionali, 220; 226-228;
abolisce le istituzioni alimentari, 221-222; C. e le immunità degli
insegnanti, 222-228; e le belle arti, 228-229.

COSTANTINOPOLI, La fondazione di C. e l’istruzione pubblica, 211-212;
213-214; l’OTTAGONO, 216-217; l’Università, 217-219; 320 sgg.; 323-326;
la biblioteca pubblica, 219; 231; C. sede ufficiale dell’insegnamento
della giurisprudenza, 364.

COSTANZO CLORO, nomina Eumenio professore di retorica ad
_Augustodunum_, 204; 205; C. C. e l’istruzione pubblica, 205-208.

COSTANZO II., e Proeresio, 230; C. largisce l’immunità agli ingegneri,
architetti etc. 230; rifornisce la biblioteca di Costantinopoli,
231; sue dichiarazioni circa i doveri dello Stato verso l’istruzione
pubblica, 233-235.

CRISTIANI, Gli insegnanti C. e Giuliano, 243; 247; 248; 268-270; i
giovani C. e Giuliano, 248-249; 270-271; giudizii dei C. su l’editto
di Giuliano circa l’insegnamento classico, 251-252; i giovani C. e le
scuole pagane, 270-271.

CURATOR STATUARUM, 229.

DIDIO GIULIANO, e le istituzioni alimentari, 192.

DIOCLEZIANO, e le scuole di Berito, 195; e gli onorari e gli stipendi
degli insegnanti, 195-198; D. sopprime le cattedre di astrologia e di
aruspicina di Roma, 198; D. e i libri egiziani di alchimia, 198-199;
distrugge le biblioteche cristiane, 199 sgg.; chiama a Nicomedia il
grammatico Flavio e il retore Lattanzio, 204.

DOMIZIANO, e Quintiliano, 100; fa ricostruire le biblioteche romane
incendiate, 101; istituisce in Roma l’Agone capitolino, 103-104;
istituisce in Albano dei concorsi oratorii e poetici, 104; promuove
l’educazione fisica a tipo greco, 104-105; D. e l’istruzione musicale,
106-107; D. e i collegi giovanili, 107-108.

DONNE, Le D. e l’educazione fisica al tempo di Nerone, 65; e
l’istruzione musicale, 69; Le D. possono aspirare all’insegnamento,
160.

DIRITTO, (V. GIURISPRUDENZA).

DUCES, I D. e la cura delle belle arti, 396; e il regime
dell’istruzione pubblica, 402-403.

EDUCAZIONE FISICA, in Roma e in Grecia, 62-63; l’E. f. e Nerone, 63
sgg.; l’E. f. sotto i Flavii, 104-105; nel III. secolo di C., 180;
181-182; (V. PALAESTRICI; CEROMATITAE).

ELIOGABALO, e l’_a studiis_, 31.

EPICUREI, La scuola filosofica degli E. e Vespasiano, 109-110; e
Adriano, 136-137.

EUMENIO, E. _magister memoriae_ di Costanzo Cloro, 204; professore di
retorica ad _Augustodunum_, 204; 205; Suo stipendio, 208-209; 389.

FILOSOFIA, Insegnanti di F. in Roma, 45-46; incremento degli studii
di F. sotto Nerone, 45-46; sotto M. Aurelio, 43; le scuole di F. in
Atene, 108-110; 136-138; 155-156; 325; 354; concessione dello immunità
agl’insegnanti di F., 185; gli insegnanti di F. e il diritto a ricorso,
186; Valentiniano I. e gli insegnanti di F., 284-285.

FLAVII, Gli imperatori F. e la loro politica scolastica, 110-112.

GALLERIE, (V. MUSEI; PINACOTECHE).

GALLIE, (V. AUGUSTODUNUM; BURDIGALA; LIONE; MARSIGLIA; TREVIRI); Scuole
nelle G., 5; 204; Ordinamento dato da Graziano all’istruzione pubblica
nelle G., 298 sgg.; 386.

GALLIENO, e la filosofia, 180.

GEOMETRAE, (V. MATEMATICI).

GINNASIO, Il G. di Nerone, 64; di Traiano, 118; di Adriano in Atene,
136.

GINNASTICA, (V. EDUCAZIONE FISICA).

GIULIANO, e le immunità degli insegnanti, 236-237; 240; G. fonda
una biblioteca imperiale privata in Costantinopoli, 240; sua legge
circa l’insegnamento pubblico e privato, 241-244; 250-251; 387; suo
editto circa l’insegnamento classico, 244 sgg.; 259 sgg.; giudizi
degli antichi e dei moderni su l’editto, 251-258; nessun divieto ai
giovani cristiani di apprendere le lettere greche e latine, 248-249;
conseguenze dell’editto, 267 sgg.; disegni di G. per la propaganda
dell’Ellenismo, 273-274; G. e le scuole di musica, 274-275; G. e i
maestri, 276-279; la politica scolastica di G., 279-280.

GIULIO-CLAUDII, Gl’imperatori G. C. e la loro politica scolastica,
78-80.

GIURISPRUDENZA, Insegnamento della G. nella repubblica romana, 74-75;
77; l’insegnamento della G. e gl’imperatori Giulio-Claudii, 76 sgg.;
scuole di G., 74; 75-77; gli studii di G. nel I. secolo di C., 76-77;
Adriano e di studii di G., 133-135; lo studio della G. sotto Commodo e
Diocleziano, 179; nel III. secolo di C., 183; immunità ai professori
di G. in Roma, 184-185; i professori di G. esclusi dal diritto di
ricorrere per compensi mancati, 186; studenti di G. in Berito, 195; le
fonti del diritto nella repubblica e nell’impero, 331-333; collezioni
giuridiche, 333 sgg.; 361-363; la G. nel IV. secolo, 333-334; nei sec.
V.-VI., 370-372; riforme di Giustiniano nelle scuole di G., 363-376.

GIUSTINIANO, Carattere del suo governo, 350-351; politica religiosa,
351-353; politica scolastica, 339-340; 352-353; 376-378; G.
sopprime l’Università ateniese, 353-357; riduce le scuole municipali
dell’impero, e ne incamera le rendite, 357-361; G. e le collezioni
giuridiche del VI. secolo, 361-363; G. e l’insegnamento della
giurisprudenza, 363 sgg.

GORDIANO I., rinnova i _Juvenalia_, 180.

GRAMMATICI, (V. INSEGNANTI SECONDARI; GRAMMATICA; IMMUNITÀ; SCUOLE).

GRAMMATICA, Scuole di G. in Roma, 13; 188; l’Ateneo romano e
l’insegnamento della G. 132; cattedre di G. nell’Università
costantinopolitana, 218; 325.

GRAZIANO, e l’istruzione pubblica nelle Gallie, 298 sgg.; 386; G. e i
medici di R. 303; e la cura delle opere d’arte, 304-305.

GREGORIO DI NAZIANZO (S.), 256; 256, n. 2; 269; 271; 273; 274; 306.

IMMUNITÀ agli insegnanti secondari e superiori, 47 sgg., ai medici,
21-23; 49; 222-223; 240; 303; 320; Vespasiano, Adriano, e le I.,
49-50; Antonino Pio limita le I. degli insegnanti, 140 sgg.; le I.
nel III. secolo di C., 183-185; Costantino e le I., 222 sgg.; I. ai
professionisti di arti meccaniche, 226-228; agli ingegneri etc., 230;
riduzione delle I. dei maestri sotto i figli di Costantino, 236-237;
Giuliano e le I., 240; Valentiniano I. e le I., 290; I. ai maestri
di pittura africani, 290-294; Teodosio I. limita di nuovo le I. degli
insegnanti, 311-312; Teodosio II. riconferma le I. degli insegnanti,
319-320; I. ai professori di giurisprudenza, 366-367; chi conferisce
le I. 397; 398-399; I. del ἱεράσθαι, 224; 398, n. 2; chi garentisce
l’osservanza delle I., 401-402; 402-403.

IMPERATORE, Poteri dell’I. nel campo della istruzione pubblica, 397-399.

IMPERO, La politica scolastica dell’I. romano, 379-381; l’I. romano
e le scuole di Stato, 381-383; e le scuole elementari, 382-383; e le
scuole medie e superiori comunali, 385-386; e l’istruzione privata,
386-388; e l’istruzione scientifica e professionale, 390-391; l’I.
e i maestri e i discepoli, 388-389; e la coltura in genere, 404; e
l’educazione fisica, 405; l’I. non ha una speciale amministrazione
per l’istruzione pubblica, 399 sgg. (V. a Studiis); suo metodo di
amministrare le cose relative all’istruzione pubblica, 400-403.

INGEGNERI (MECHANICI), 188, n. 2.

INGEGNERIA, Scuole di I. in Roma, 188; 188, n. 2; immunità agli
ingegneri (_mechanici_), 230.

INSEGNAMENTO, I. professionale, (V. LIBRARII; NOTARII; CALCULATORES;
MATEMATICI; ASTROLOGIA; ARUSPICINA; PITTURA; PROFESSIONISTI; SCUOLE
PROFESSIONALI); Libertà d’I., 384-385; 389.

INSEGNANTI, privilegiati da Augusto, 12-13; onorati da Traiano,
123-124; onorati e beneficati da Adriano, 127-130; autorizzati a
ricorrere contro i compensi mancati, 185-186; 187; gli I. pubblici e
privati e Teodosio II., 321-322; 326-328; onorificenze agli I., 322 (V.
STIPENDII; IMMUNITÀ); I. di ginnastica, 64-65; 195; 196; I. primarii
(_litteratores; ludi magistri_); numerosi in Roma, 13, esclusi in
genere dalle immunità, 49; casi in cui ne venivano beneficati, 56-61;
gli I. primari e il _procurator metallorum_, 58 sgg.; condizioni
economiche, 92; 196; I. secondari (_grammatici_) numerosi in Roma,
13; condizioni economiche, 90-92; 197; nomina, 381; 386; 397; 398;
gli I. secondari, lo Stato, e i Comuni, 385-386; e il _Praefectus
Urbi_, 401-402; e il _Praefectus praetorio_, 402-403; e i governatori
provinciali, 402-403; (V. IMPERO; CONSIGLI COMUNALI; SENATO); I.
superiori di retorica (_rhetores; sophistae_) numerosi in Roma, 13;
condizioni economiche, 86-90; stipendiati da Vespasiano, 83 sgg.;
abolizione degli stipendii degli I. di retorica da Nerva ad Adriano,
114-115; I. di giurisprudenza, (V. GIURISPRUDENZA); di filosofia, (V.
Filosofia); di architettura, (V. ARCHITETTURA); Adriano e gli stipendi
agli I. superiori, 127-130; altri beneficii di Adriano, 127-130; gli I.
superiori dell’Università costantinopolitana, 321-322; nomina degl’I.
superiori, 381; 385; 386; 307; 398; gli I. superiori, lo Stato e i
Comuni, 385-386; e il _Praefectus Urbi_, 401-402; e il _Praefectus
praetorio_, 402-403; e i governatori provinciali, 402-403; (V. IMPERO;
PITTURA; CONSIGLI MUNICIPALI; SENATO).

INSTITUTIONES, Le I. di Giustiniano, 363-364.

ISTRUZIONE, I. privata, 322; 327-328; 386; 386-388; (V. IMPERO;
INSEGNANTI; PRAEFECTUS; VICARII; DUCES; SCUOLE).

IUS RESPONDENTES, prima e dopo Augusto, 75-76; _Responsa_ dei I. R.,
134; 332; _Stationes_ dei I. R., 134.

IUVENALIA, 68-69; 71; 108.

IUVENTUS, 23 sgg.; 27; (V. COLLEGIA IUVENUM; LUDII MAGISTRI; PRINCEPS
IUVENTUTIS).

LIBANIO, 231; 232; 254; 271; 277.

LIBRARII (= ANTIQUARII), 142; 186; 196; 295.

LIDO (G. L.), professore a Costantinopoli, 376-377.

LIONE, concorso di eloquenza greca e latina, 39.

LITTERATORES, (V. INSEGNANTI PRIMARII).

LOLLIANO, 149; 150.

LUDI MAGISTRI, (V. INSEGNANTI PRIMARII).

LUDI, _sevirales_, 26; _iuventutis_, 70; 170; _decennales_, 170; (V.
LUSUS).

LUSUS TROIAE, 26; 27; 70; _iuvenalis_, 71.

MAESTRI, (V. INSEGNANTI).

MAGNA GRECIA, Scuole di medicina, 22.

MARSIGLIA, Scuole di medicina, 22.

MAGISTRI, dei _lusus Troiae_, 27; 405-406; _iuventutis_, 27; 405-406;
_census_, 286; (V. LUDI MAGISTRI).

MATEMATICA (GEOMETRIA), 132; (V. MATEMATICI).

MATEMATICI (GEOMETRAE), 186; 196-197.

MECHANICI, 188, n. 2.

MEDICI, Privilegiati da Augusto, 13; 226; non stipendiati da
Vespasiano, 84, n. 1; immunità ai M., 21-22; 141; 222-223; 226;
236-237; 240; 303-304; 314.

MEDICINA, Scuole di M., 22; 190; in Roma, 188; 190; 390-391.

METRONATTE, Sua scuola di filosofia, 46.

MUSEI, I M. privati in R., 19; Augusto e i primi M. pubblici, 18-20; M.
V. Agrippa e i primi M. pubblici, 20; Asinio Pollione apre al pubblico
il proprio M., 20; gli Antonini e la cura dei M., 171-172; lo Stato
romano e i M., 391; 396-396.

MUSEO ALESSANDRINO, 35 sgg.; 394-395; i Tolomei e il M. A., 36-37;
Augusto e il M. A., 37-38; riforme di Adriano, 138-139.

MUSEO CLAUDIO, 39 sgg.; 394.

MUSICA, La M. greca in Roma, durante l’età repubblicana, 65-66; nel
primo secolo di C., 66-67; 69; concorsi poetico-musicali, 43-44;
67-69; la M. e i _collegia iuvenum_, 71-72; scuole di M., 69; 72;
168-170; 275; la M. sotto i Flavii, 106-108; coltura musicale sotto
gli imperatori senatorii, 167-170; 391; la decadenza della M. nel IV.
secolo, 274; Giuliano e la coltura musicale, 275.

NERONE, e i concorsi di eloquenza, di poesia e di musica, 43-44; e
gli studii di retorica, 44-45; di filosofia, 45-46; e le immunità agli
insegnanti, 46-49; e l’educazione fisica romana, 61 sgg.; istituisce le
NERONEE, 44; 63-64; fonda in Roma un Ginnasio, 64; N. e l’istruzione
musicale, 67 sgg.; e i _collegia iuvenum_, 70 sgg.; e le Biblioteche
pubbliche, 72-74.

NERONEE, 63-64.

NERVA, Abolisce gli stipendii ai retori di Roma, 114-116; N. e le
istituzioni alimentari, 122.

NOTARII, 186; 196.

ONORIO, e la cura delle opere d’arte, 317-318.

ONORARII, (V. STIPENDI).

ONORIFICENZE, agli insegnanti, 237; 397; 401; (V. COMITIVA PRIMI
ORDINIS).

OTTAVIANA, la biblioteca O., 17-18; 101.

PALAESTRICI, 64-65.

PALATINA, La biblioteca P., 16-17; 73; collezione giuridica in essa
contenuta, 77.

PEDAGOGHI, 13; 195; 195, n. 3; 196; 197.

PINACOTECHE, Le P. private in Roma, 19; Augusto e le prime P.
pubbliche, 18-20; Asinio Pollione apre al pubblico la propria P.,
20; gli Antonini e la cura delle P., 171; _Procurator Augusti a
pinacothecis_, 171-172; 395; lo Stato romano e le P., 391; 395-396.

PITTURA, Costantino e i maestri di P., 226-227; Valentiniano I. e i
maestri di P., 290 sgg.

POLLIONE (C. A.), apre al pubblico la sua biblioteca, 16; il suo museo
e la sua pinacoteca, 20.

PRAECEPTORES, (V. _Insegnanti_).

PRAEFECTI, Il _P. Urbi_ e gli studenti stranieri, 287; 343; e gli
studenti in genere, 369; e i professori 347; 377; 400-402; e la cura
delle belle arti, 396; il _P. praetorio_ e il governo delle scuole,
402-403; e la cura delle belle arti, 396.

PRINCEPS IUVENTUTIS, 27.

PROBO, municipalizza le scuole di Antiochia, 193-194.

PROCURATORES, Il _P. metallorum_ e gli insegnanti primari, 58 sgg.;
il _P. Augusti a pinacothecis_, 171-172; il _P. monimentorum terra
(?) imaginum_, 171-172; i _P. bibliothecarum_, 173-174; 392-394; (V.
CURATOR; PUERI ALIMENTARII).

PROERESIO, 230; 269; 270; 277; 386.

PROFESSIONISTI, I P. di arti meccaniche e loro immunità, 226-227;
Avvocati, 361-362; (V. MEDICI).

PUERI ALIMENTARII, in Roma, 120-121; fondazioni alimentari imperiali,
122; 165; 389; private, 122-123; 166; 192; sotto gli Antonini, 165-166;
_praefectus alimentorum_, 165-166; _procuratores ad alimenta_, 166.

QUINTILIANO, 84; 94; 95; 96; 100; Q. maestro, 96-99.

REPUBBLICA, La politica scolastica della R. romana, 379-381.

RESPONSA, 75-77; 134; (V. IUS RESPONDENTES).

RETORI, (V. IMMUNITÀ; INSEGNANTI SUPERIORI; SCUOLE).

RODI, Scuole di medicina, 22.

ROMA, Scuole di grammatica, 13; 188; di retorica, 13; 83; di medicina,
22; 188; di aruspicina, astrologia, ingegneria, architettura, 188;
biblioteche, 16-18; 72-73; 82; 101-102; 119; 133; pinacoteche e
musei pubblici, 18-21; i _pueri alimentarii_ romani, 120-121; R. sede
ufficiale dell’insegnamento giuridico, 364; (V. ATENEO).

SCUOLE, elementari, 13; 56 sgg.; 268; 382-383; S. di grammatica e
di retorica in Roma, 13, 188; S. pei principi istituita da Augusto,
14-15; S. di medicina, 22; 188; di filosofia, 46; di ginnastica, 71,
n. 4; 72 (V. PALAESTRICI); di musica, 69; 72; 275; di giurisprudenza,
74 sgg.; 168-170; di aruspicina, di astrologia, di architettura, 188;
S. di Stato, 381-385; S. comunali, 385-386; S. private, 386-388; S.
scientifiche e professionali, 390, 391; S. cristiane, 271-272; della
S. non c’è un ufficio direttivo, 383-384; governo delle S., 384;
fondazioni scolastiche, 166-167; la S. e la politica romana, 1-2.

SEBASTEUM, Biblioteca del S., 34.

SENATO, (V. CONSIGLI MUNICIPALI); Il S. di Costantinopoli e
l’istruzione pubblica, 231-232; e la nomina degli insegnanti della
Università costantinopolitana, 321-322; il S. di Roma e gli insegnanti
nell’Ateneo, 346-348; poteri del S. di Roma e di Costantinopoli nei
rispetti dell’istruzione pubblica, 396-397.

SETTIMIO SEVERO, e l’istruzione pubblica, 181 sgg.; e l’immunità dei
retori, 184; e l’astrologia, 188-189; e le istituzioni alimentari, 192.

SEVERI, L’educazione fisica e i _collegia iuvenum_ sotto i S., 181-182;
la tutela giuridica dei professori e degli studenti, 183 sgg.; (V.
ALESSANDRO e SETTIMIO SEVERO).

SEVIRI EQUITUM, 27.

SINODI DIONISIACI, I. S. d. e l’istruzione musicale, 167 sgg.

SOPHISTAE, (V. INSEGNANTI SUPERIORI).

STIPENDI e ONORARI, degli insegnanti, 14; 83; 88; 91; 92; 127-130; 156;
195-198; 208-209; 301-302; 397; in natura (_annonae_), al personale
della biblioteca di Costantinopoli, 295-296; 394; agli insegnanti,
299 sgg.; 344; 359-360; Teodosio I. sopprime gli S. agli insegnanti
delle Università romana e ateniese, 312-313; Teodorico li ripristina
agl’insegnanti di Roma, 344; Atalarico e gli stipendii dei professori
dell’Ateneo romano, 346-348; il _Praefectus; Urbi_, i _Praefecti
praetorio_ e gli S., 401-402.

STOICI, in Roma, 45-46.

STUDENTI, Immunità agli studenti, 185; 195; borse di studio, 191;
275; gli S. cristiani e l’editto di Giuliano, 248-249; 270-271; e
le scuole pagane, 270-271; regolamento disciplinare per gli S. di
Roma, 285 sgg.; Teodorico e gli studenti stranieri in Roma, 343; il
regime disciplinare degli S., 383-384; gli S. e i _Praefecti Urbi_, i
_Praefecti Praetorio_, e le restanti autorità provinciali, 402; 403;
_consociationes_ di S., 286; 286, n. 1; scarsa disciplina degli S.
universitari, 289-290; Giustiniano e gli S. in giurisprudenza, 363-364;
367-369; gli S. e gli studii di giurisprudenza nei secoli V.-VI, 370
sgg.

TEODORICO, e la coltura, 341; e la istruzione dei Goti e dei membri
della sua famiglia, 342-343; T. e gli studenti stranieri in Roma, 343;
ripristina gli stipendi agli insegnanti dell’Ateneo romano, 344; T. e
la cura delle opere d’arte, 344-345.

TEMISTIO, 233-236; 277; 294; 297-298; 300-301; 302; 307.

TEO, Il Sinodo dionisiaco di T., 168; l’istruzione musicale in T.,
168-169.

TEODOSIO I., Reazione cristiana, 309-311; T. limita le immunità
degli insegnanti, 311-312; sopprime gli stipendii ai professori delle
Università romana e costantinopolitana, 312-313; T. e i medici, 314; e
la cura delle opere d’arte, 314-315; decadenza della coltura sotto T.,
315-316.

TEODOSIO II., Sua educazione, 319; riconferma le immunità agli
insegnanti, 319-320; 331; T. e il riordinamento della Università
costantinopolitana, 320 sgg.; T. e l’insegnamento privato-pubblico,
322; istituisce la _Comitiva primi ordinis_, 322; le riforme di
T. nelle scuole medie e superiori dell’impero, 329-331; il _Codice
teodosiano_, 334-336.

TEODOTO, 149; 154.

TIRONES, 26.

TITO, favorisce l’arte musicale, 67; segue la politica scolastica del
padre, 100.

TIBERIO, fonda in Roma una biblioteca, 38-39; nomina senatore un
maestro elementare, 39; patenta dei _ius respondentes_, 76.

TRAIANO, Abolisce gli stipendi ai retori di Roma, 114-117; reagisce
contro l’educazione fisica a tipo greco, 117-118; contro l’istruzione
musicale, 118; fonda la biblioteca Ulpia-Traiana, 119-120; T. e le
istituzioni alimentari, 120-123; T. e le sue cure per l’istruzione
pubblica, 123-124.

TREVIRI, Scuole, 204; 303; 386.

ULPIA-TRAIANA, La biblioteca U.-T., 119-120.

UNIVERSITÀ, Caratteri delle U. antiche, 164; 325; 383; 389-390; (V.
ROMA; ATENE; COSTANTINOPOLI).

Ὑποτιμητής, 31.

VALENTE, e la biblioteca di Costantinopoli, 295-296; V. contro
l’astrologia e la coltura classica, 296-297; la politica scolastica di
V., 295; 297-298.

VALENTINIANO I., Abroga la legge e l’editto di Giuliano sulle
scuole, 282-283; V. e i professori di filosofia, 284-285; regolamento
disciplinare relativo agli studenti di Roma, 285 sgg.; V. e le immunità
degl’insegnanti, 290; e i maestri di pittura, 290-294; e i medici di
Roma, 303; e la cura delle opere d’arte, 304-305; l’opera scolastica di
V., 294.

VALENTINIANI, Gl’imperatori V. e l’istruzione pubblica, 305-307.

VERRIO FLACCO, 14; 15.

VESPASIANO, e le immunità degl’insegnanti, 49-50; 82; fonda la
_Biblioteca Pacis_, 82; fissa una retribuzione annua ai più illustri
retori di Roma, 83 sgg.; motivi di tale provvedimento, 85 sgg.;
sua portata, 93-96; V. e l’istruzione musicale, 106; e le scuole
filosofiche ateniesi, 108-110.

VESTINO (G.), 32; 138.

VICARII, I. V. e la cura delle Belle arti, 396; e l’amministrazione
della istruzione pubblica, 402-403.

VIPASCUM, 57 sgg.

VITTORINO, 268-269.




ERRATA — CORRIGE


Segno qui taluna delle sviste tipografiche più gravi, nelle quali si
è incaduto durante la stampa e che rischiano di alterare il senso. Le
altre correggerà da sè, benevolmente, il lettore.

  p. 39, r.  1,  seconda biblioteca  leggi:  terza biblioteca
  »  39, n.  1,  _Tiberiana_           »     _Tiberianae_
  » 148, n.  1,  SCLUHZ                »     SCHULZ
  » 180, r. 16,  avrebbe               »     avrebbero
  pp. 193-194. La n. 1 di p. 194 va apposta come n. 4 all’ultimo
    rigo di p. 193.
  pp. 282-283. La n. 1 di p. 283 risponde al richiamo[1] di p. 282.
  p. 284, r.
          ultimo, rimandando          leggi:  rimandato
  » 333, n.  3,  _lat._ 11             »     LAT. 11, 20
  » 349, r.  1,  di più                »     il più
  » 352, La prima annotazione rimasta senza numero è richiamata
    al r. 14.
  p. 354, n.  3,   Ἔλλ. ἔθους         leggi:   Ἔλλ. ἔθνους
  » 393, n.  2,   _CIL._ 10, 75. 848    »      _CIL._ 7580
  » 403, n.  1,   _CI._ 10, 53, 6, 4,   »      C. I. 10, 53, 6) 4, 1;
                    1)                           2




DELLO STESSO AUTORE


  1.  Il _=Senatus consultum ultimum=_; studio di
        storia e di diritto pubblico romano,
        Roma, E. Löscher, 1900, pagine IX-137           L. 3
  2.  Le relazioni politiche di Roma con l’Egitto
        dalle origini al 50 a. C., Roma, E. Löscher,
        1901, pp. IX-195                                »  4
  3.  La fine della Grecia antica, Bari, G. Laterza,
        1905, pp. XVI-531                               »  5
  4.  Contributo alla storia economica dell’antichità,
        pp. VII-87, Roma, E. Löscher, 1907              »  3




NOTE:


[1] BOISSIER, _La fin du paganisme_, Paris, 1891, I, 228 sgg.

[2] Cito ad esempio LAZIC, _Ein Blick auf die Schule und die
Stellung d. Lehrer bei den Römern_, Karlovitz, 1901 (progr.) — SZABO,
_L’educazione presso i Romani_, Raab, 1877 (progr.) (in ungherese).

[3] È questo il difetto fondamentale dello studio, anch’esso
fondamentale, del GRASBERGER, _Erziehung u. Unterricht im klass.
Alterthum_, Würzburg, 1864-81.

[4] «Man muss sich nicht scheuen die Wahreit auch zum Nachtheile seiner
Achtung zu suchen, und Einige müssen irren damit Viele richtig gehen»
(WINKELMANN, _Gesch. d. Kunst d. Altertums_, in _Werke_, VI, 1825, p.
366.)

[5] LUCAN. _Phars._ 7, 404-405.

[6] HORAT. _Epist._ 2, 1, 156-157. Pel cinquantennio di poi cfr. IUV.
3, vv. 60 sgg.

[7] SVET. _Aug._ 42.

[8] Cfr. pp. 21 sgg. del presente scritto.

[9] SVET. _de gramm._ 17.

[10] DURUY, _Hist. des Romains_, Paris, 1843-1885, IV, 183, _n._ 3.

[11] SVET. _Vesp._ 17-18; cfr. Cap. II, § I sgg. del pres. scritto.

[12] SVET. _Aug._ 48; cfr. _CIL._ 6, 8980 e FRIEDLÄNDER, _Darstellungen
aus der Sittengeschichte Roms in d. Zeit von August bis zum Ausgang d.
Antonine_, I^6, pp. 147-148.

[13] SVET. _Caes._ 44 — ISID. _Orig._ 6, 5, 1 — LANGIE, _Les
bibliothèques publiques dans l’ancienne Rome et dans l’empire romain_,
Fribourg, 1908, pp. 40-41.

[14] PLIN. _N. H._ 7, 115 — ISID. _Orig._ 6, 5, 2.

[15] SVET. _Aug._ 29.

[16] IHM, _Die Bibliotheken in alten Rom, in Centralblatt für
Bibliothekswesen_, 1893, p. 510. Tale cronologia non è però
sicurissima; cfr. LANGIE, _o. c._ 54-55.

[17] _Svet._ _de gramm._ 21.

[18] Cfr. LANGIE, _o. c._ pp. 137 sgg.

[19] _CIL._ 6, 2347; 5192: i suoi impiegati sono _servi publici._

[20] PLIN. _N. H._ 35, 26 — CURTIUS, _Kunstmuseen_, Berlin, 1870,
pp. 14-15 Primo esempio tipico del genere fu il tempio di Apollo sul
Palatino.

[21] PLIN. _l. c._

[22] HIRT, _M. Agrippa als Kunstfreund in Musaeum d.
Alterthumswissenschaft_, I 1807, pp. 233 sgg. — FRANDSEN, _M. V.
Agrippa_, Altona, 1836, pp. 139, sgg. — GARDTHAUSEN, _Augustus u. seine
Zeit_, I, 2, Leipzig, 1896, 749 sgg.

[23] GARDTHAUSEN, _o. c._ I, 2, 750.

[24] PLIN. _l. c._

[25] PLIN. _N. H._ 36, 33.

[26] DIO CASS. 53, 30 — ZONAR. _Ann._ 10, 30 (_P. I._ 534).

[27] _Digest._ 50, 4, 18, 30.

[28] FUCHS, _Gesch. d. Heilkunde bei den Griechen_, in _Handb. d.
Gesch. d. Medic._ di NEUBURGER u. PAGEL, Jena, 1902, pp. 192-193 —
BLOCH, _Ubersicht über d. ärztl. Ständesverhältnisse in d. west-und
öström. Kaiserzeit_, ibid. I, 571. — REINACH, _Medicus_, in DAREMBERG
ET SAGLIO, _Dictionnaire des antiquités grecques et romaines_, III, 2,
1673 sgg. — NEUBURGER, _Gesch. d. Medicin_, Stuttgart, 1906, I, pp. 164
sgg.

[29] SVET. _Caes._ 42.

[30] HAESER, _Gesch. d. Medicin_, Jena, 1875, I^3, 85-86 — PUSCHMANN,
_Geschichte d. Medicinischen Unterrichts_, Leipzig, 1889, p. 83.

[31] FRIEDLÄNDER, _o. c._ I^6, 347-348.

[32] DIO. CASS. 53, 30.

[33] Il BOZZONI (_I medici e il diritto romano_, Napoli, 1904, p. 140)
e il POHL (_De graecorum medicis publicis_, Berolini, 1905, p. 40)
opinano si tratti solo dei medici di Roma, ma tale restrizione non
poggia su nessun fatto e su nessun argomento.

[34] _Carm._ 3, 24, _vv._ 51 sgg.

[35] _Carm._ 3, 2, 1 sgg.

[36] Non mi pare che l’accenno ai maestri stipendiati dallo stato debba
necessariamente interpretarsi (come fa ad es. il MEYER, _De Maecenatis
oratione a Dione habita_, Berolini, 1891, p. 6) come un suggerimento,
che lo storico accoglie dalla pratica del secondo secolo di C.

[37] DIO CASS. 52, 26, 1 sgg.

[38] _Aen._ 7, _vv._ 160 sgg.

[39] _Aen._ 9, _vv._ 603 sgg.

[40] _Aen._ 9, vv. 614 sgg.

[41] VIRG. _Aen._ 4, vv. 156 sgg.

[42] SVET. _Aug._ 43 — DIO CASS. 49, 43. 51, 22. 53, 1. 54, 26. I _ludi
puerorum_, descritti da Virgilio (_Aen._ 5, vv. 548 sgg.) come avvenuti
in età preistorica, hanno rapporto con le riforme di Augusto (NORDEN,
_Vergils Aeneis im Lichte ihrer Zeit_, in _N. Jahrb.; für klass.
Altert._, 1901, 1, 263).

[43] SVET. _Aug._ 43 — DIO CASS. 53, 1 — ROSTOWZEW, _Römische
Bleitesserae_, Leipzig, 1905, p. 62.

[44] SVET. _Aug._ 43 — DIO CASS. 53, 1. 54, 26. 55, 10.

[45] CICER. _Pro Coel._ 11.

[46] HORAT. _Carm._ 1, 8, rr. vv. 3 sgg.; _Ep._ 2, 3, vv. 161 sgg.;
379-381 — STRAB. 5, 3. 8.

[47] ROSTOWZEW, _Tesserar. plumbear. Romae et suburbi Sylloge_,
Petersbourg, 1903, _n.ri_ 834-836; 838.

[48] Saranno tali, fin da Augusto, Caio e Lucio Cesare.

[49] ROSTOWZEW, _o. c._ 68; 71.

[50] BOISSIER, _La religion romain d’Auguste aux Antonins_, Paris,
1874, I, 75 sgg.

[51] BOISSIER, _o. c._ I, 248 sgg.

[52] BOISSIER, _o. c._ I, 258 sgg.

[53] JULLIAN, _Iuventus_ in DAREMBERG ET SAGLIO, _o. c._ III, 1, 783 e
fonti ivi citate.

[54] HORAT. _Carm. saec._, vv. 57 sgg.

[55] DIO CASS. 55, 10.

[56] Cfr. ROSTOWZEW, _o. c._ 90-91.

[57] DIO CASS. 52, 21: cfr. 33.

[58] HERODIAN. 5, 7, 7.

[59] FRIEDLÄNDER, _o. c._ I^6, 109. — HIRSCHFELD, _Kaiserliche
Verwaltungsbeamte bis auf Diocletian_, 2ª ed., 333-334. Il MOMMSEN,
in GEBHARDT u. HARNACK, _Texte u. Untersuchungen zur Gesch. d.
altchristlichen Litteratur_, N. S. 1903 (9) 3, pp. 112, crede che,
sebbene nessuna notizia ce ne informi direttamente, quell’ufficio sia
proseguito anche oltre il IV. secolo.

[60] Cfr. CUQ, _Le Conseil des empéreurs_, in _Mémoires de l’Academie
des Inscriptions et Belles lettres_, Paris, 1884, pp. 373 sgg. —
HIRSCHFELD, _o. c._ Iª ed., pp. 210-11, n. 2; 2ª ed., p. 333, n. 1. —
LIEBENAM, _Beiträge zur Verwaltungsgeschichte d. röm. Kaiserreichs_,
Jena, 1886, p. 57, n. 3. — FRIEDLÄNDER, _o. c._ I^6, 109 e n. 10. —
MOMMSEN, in GEBHARDT u. HARNACK _o. c._ pp. 111-12.

[61] CIG. 5900 (=IG. 14, 1085).

[62] IG. _l. c._; cfr. FRIEDLÄNDER, _o. c._ I^6, 186.

[63] Cfr. _CIL._ 6, 8637. Se nel passo di FILONE (_Legat. ad Caium_ 39
= 591 M.) si potesse con sicurezza vedere un accenno a una carica di _a
studiis_, si avrebbe una prova positiva della tesi, che qui sosteniamo,
che cioè essa datava dal regno di Augusto.

[64] PHIL. _Legat. ad Caium_, 22. Sulla cronologia del tempio, che
l’accoglieva, cfr. LUMBROSO, _L’Egitto dei Greci e dei Romani_, Roma,
1895, pp. 187-188.

[65] Sul _Museo_ alessandrino, cfr. PARTHEY, _Das alexandrinische
Museum_, Berlin, 1838. — MATTER, _Hist. de l’école alexandrine_, Paris,
1840-1848, specie il vol. I. — LUMBROSO, _Recherches sur l’économie
politique de l’Égypte sous les Lagides_, Turin, 1870, pp. 276-277. —
GÖLL, _Kulturbilder aus Hellas u. Rom_, Leipzig u. Berlin, 1880, II,
242 sgg. — COUAT, _La poésie alexandrine sous les premiers Ptolémées_,
Paris, 1882, 9 sgg. — BOUCHÉ-LECLERQ, _Hist. des Lagides_, Paris, 1903,
I, 128 sgg.; 217 sgg.

[66] STRAB. 17, 8. Sulle varie opinioni intorno all’ἐπιστάτης del
Museo, cfr. LETRONNE, _Recueil des inscriptions grecques et latines de
l’Égypte_, Paris, 1842, I, 278 sgg. — LOMBROSO, _L’Egitto dei Greci
e dei Romani_, 2ª ed., pp. 129 sgg. — OTTO, _Priester u. Tempel im
hellenistischen Aegypten_, Leipzig u. Berlin, 1905, I, p. 58 sgg.; 166
sgg.

[67] BOUCHÉ-LECLERQ, _o. c._ I, 217 sgg.

[68] τάλαρος Μουσέων, in ATHEN. I, pp. 22 _d._

[69] Cfr. LETRONNE, _o. c._ I, 361-362. — LUMBROSO, _o. c._ 130-131.

[70] MARQUARDT, _Röm. Staatsverwaltung_, I^2, 443.

[71] STRAB. l. c.

[72] SVET. _Tib._ 74. — PLIN. _N. H._ 34, 43; cfr. GARBELLI, _Le
biblioteche in Italia all’epoca romana_, Milano, 1894, pp. 146 sgg. —
IHM, _o. c._ 519. — LANGIE, _o. c._ 63. Essa forse costituì più tardi
il fondo della biblioteca così detta _Domus Tiberianae_, su cui cfr.
GELL. _N. A._ 13, 19, 1. — (_H. A._) _Vita Probi_ 2, 1.

[73] TAC. _Ann._ 3, 66.

[74] SVET. _Cal._ 20 e le osservazioni del LAFAYE, _De poëtarum et
oratorum certaminibus apud veteres_, Lutetiae Parisiorum, 1883, pp. 93
sgg.

[75] SVET. _Claud._ 42. Cfr. IUV. _Sat._ I, 44 — MATTER, _o. c._ I,
64 — ZIEGLER, _Die politische Seite d. Regierung Kaisers Claudius I_,
Linz, III (1881), p. 21 (progr.).

[76] SVET. _Claud._ 42 — MATTER, _o. c._ I, 257-258.

[77] Cfr. MATTER, _o. c._ I, 258 sgg.

[78] ATHEN. 6, p. 240 c. — MATTER, _o. c._ I, 262-263.

[79] Cfr. BAUMSTARK, _Museum_ in PAULY, REALENCYKLOPÄDIE etc., V, 271
sgg. — COUAT, _o. c._ 12-13, non che WEINBERGER, in _Jahrbücher f.
class. Philol._ 1892, pp. 268 sgg.

[80] CLAUDIAN. _Paneg. de IV cons. Honorii, vv._ 296-302.

[81] PLIN. _Paneg. ad Traian._ 45.

[82] TAC. _Ann._ 3, 55.

[83] (_H. A._) _Pertin._ 8, 10-11.

[84] (_H. A._) _Ant. Phil._ 23, 9.

[85] LAFAYE, _o. c._, pp. 49 sgg.

[86] SVET. _Nero_ 12; _de rhet._ 1.

[87] TAC. _Ann._ 14, 20-21.

[88] SCHILLER, _Nero_, Berlin, 1872, p. 549.

[89] TAC. _l. c._

[90] SVET. _de rhet._ 1.

[91] TAC. _Ann._ 14, 16.

[92] TAC. _Ann._ 14, 59; _Hist._ 4. 10.

[93] Cfr. RÉNAN, _Marc Aurèle_, Paris, 1882, 40 sgg.

[94] SCHILLER, _o. c._, p. 566.

[95] HIERON. _ad. a._ 67 p. C. (II, p. 157 ed. SCHÖNE) — _Vita Persii_,
in SVET. _Reliquiae_, p. 73, ed. REIFFERSCHEID.

[96] Sulla scuola di Musonio Rufo, cfr. FRONTO, _Ad Verum ep._ I, 1 p.
115, ed. NABER — MUSONII, _Reliquiae_, ed. HENSE, XXIII sgg.

[97] Cfr. SEN. _Ep._ 76, 1 sgg.

[98] SEN. _Ep._ 108, 5 sgg.

[99] IUVEN. _Sat._ 2, 65 e _scolio._

[100] Cfr. GENTILE, _Studii sullo stoicismo romano nel I. secolo di
C._, Trani, 1904, pp. 32-33.

[101] _Dig._ 50, 4, 18, 30.

[102] Cfr., su questa teorica, KUHN, _Die städtische u. bürgerliche
Verfassung d. röm. Reichs_, Leipzig, 1864, I, 40 sgg. e il bellissimo
studio del PLATON, _La démocratie et le droit fiscal à Athènes, à Rome
et de nos jours,_ Paris, 1899, pp. 189 sgg. e _passim._

[103] Nel _Dig._ 50, 4, 18, 30 è detto: _magistris qui civilium munerum
vacationem habent_, item _grammaticis_ etc. L’_item_ deve essere un
_idest_, o equivalervi; cfr. KUHN, _o. c._ I, 83.

[104] _Dig._ 50, 4, 18, 30.

[105] _Dig._ 27, 1, 6, 8.

[106] _Dig._ 27, 1, 6, 8.

[107] BÖCKH — FRÄNKL, _Staatshaltung d. Athener_, I, 548 sgg — DUMONT,
_L’éphébie attique_, Paris, 1876, I, 219 sgg. — GLOTZ, _Gymnasiarchia_
in DAREMBERG ET SAGLIO, _o. c._ II, 2, 1675.

[108] GLOTZ, _o. c._ in DAREMBERG ET SAGLIO, _o. c._ II, 2, 1676 sgg.

[109] KUHN, _o. c._ I, 105-106.

[110] VAGLIERI, _Aedilis_, in DE RUGGIERO, _Diz. epigr._ I, 241.

[111] VAGLIERI, _o. c._ I, 262.

[112] DE RUGGIERO, _Curator_, in _o. c._ II, 1329; 1341.

[113] VAGLIERI, _o. c._ I, 259 sgg. — DE RUGGIERO, _Annona_, in _o. c._
I, 485.

[114] KUHN, _o. c._ I, 106 sgg.

[115] KUHN, _o. c._ I, 61. — LECRIVAIN, _Hospitium_, in DAREMBERG ET
SAGLIO, _o. c._ III, 1, 299.

[116] CAGNAT, _Hospitium militare_, in DAREMBERG ET SAGLIO, _o. c._
III, 1, 302-303.

[117] BÖCKH-FRÄNKEL, _o. c._ I, 111 sgg. e n. 153. — GILBERT, _Handbuch
d. griechischen Staatsalterthümer_, Leipzig, 1881, 205.

[118] GILBERT, _o. c._ I, 250; 183. — _IG._ 3, 1, 38 _ll._ 9-11; cfr.
PLIN. _Ep. ad Traian._ 23, 1-2.

[119] HUMBERT, _Curatores annonae_ in DAREMBERG ET SAGLIO, _o. c._ I,
2, 1614.

[120] LECRIVAIN, _Munus_ in DAREMBERG ET SAGLIO, _o. c._ III, 2, 2041;
2042-2043.

[121] KUHN, _o. c._ I, 35 sgg. — DAREMBERG ET SAGLIO, _o. c._ III, 2,
2041 seg.

[122] _Dig._ 27, 1, 6, 8.

[123] _Cod. th._ 13, 3, 1; 3.

[124] DIO CASS. 53, 30: «οὐκ ὄτι τοῖς τότε οὖσιν, ὰλλὰ καὶ τοῖς ἔπειτα
ἐσομένοις.»

[125] SVET. (_Tit._ 8) mette a riscontro l’età precedente il governo
di Tito con quella successiva, in cui gl’imperatori avrebbero ritenuto
validi i privilegi, anche se non esplicitamente riconfermati. Come
vedremo, tale diversità di criteri non risponde a realtà.

[126] _Dig._ 50, 4, 11, 4. 50, 5, 2, 8.

[127] _Dig._ 50, 6, 6, 1.

[128] _CIL._ 2 suppl. 5181, _l._ 57.

[129] SOROMENHO, _La table de bronze d’Aljustrel; rapport adressé à M.r
le Ministre par l’Intérieur_, Lisbonne, 1877, p. 5 — HÜBNER, in _Eph.
ep._ 3, 170 — RE, _La Tavola vipascense_, in _Archiv. giuridico_, 1879
(23), p. 334.

[130] CAGNAT, in _Journal des Savants_, 1906, p. 671.

[131] RE, _o. c._ 335; cfr. HÜBNER, in _Deutsche Rundschau_, III, fasc.
11, 201 — MISPOULET, _Le régime des mines à l’époque romaine etc._ in
_Nouv. revue hist. du droit français et etr._ 1907, p. 350.

[132] HÜBNER, in _Eph. ep._ 3, p. 185 — MOMMSEN, in _Eph. ep._ 3,
187-188 — FLACH, in _Nouvelle revue hist. du dr. français et étranger_,
1878, p. 686.

[133] RE, _o. c._ pp. 385-386.

[134] 12, 27: «..... _ex Fontei calamitate in qua illa provincia prope
suam immunitatem et libertatem positam esse arbitratur._»

[135] FLACH, _o. c._ 686.

[136] FLACH, _o. c._ 686. Si potrebbe tuttavia pensare che fosse il
_procurator_ imperiale ad applicare nel distretto gli _onera publica_
stabiliti dalla legge provinciale o a garantirne la esenzione.

[137] FLACH, _o. c._ 278-279.

[138] Cfr. CIC. _Tusc._ 4, 70.

[139] CIC. _de rep._ 4, 4.

[140] PLUT. _Q. R._ 40.

[141] CIC. _de offic._ 1, § 130; _de fin. bon. et mal._ 5. § 35.

[142] SEN. _Ep._ 15, 4 — PLIN. _Ep._ 3, 1, 4 sgg.; cfr. KRAUSE, _Die
Gymnastik u. Agonistik d. Hellenen_, Leipzig, 1811, 293-294.

[143] QUINT. _Inst. orat._ 1, 11, 16-17.

[144] TAC. _Ann._ 14, 20 — SVET. _Nero_ 12; cfr. DIO CASS. 61, 21 e
FRIEDLÄNDER, _o. c._ II^6, 480.

[145] SVET. _Nero_, 12 — TAC. _Ann._ 14, 47. Sul _gymnasium_ neroniano,
cfr. RICHTER, _Topographie d. Stadt Rom_, München, 1901, 246.

[146] SEN. _Ep._ 15, 3 — QUINT. _Inst. or._ 1, 11, 15 — JUV. 2, 53 —
MART. _Epigr._ 7, 32, 5 sgg.

[147] SEN. _Ep._ 88, 18.

[148] SEN. _Ep._ 88, 18. 15, 2-3 — TAC. _Ann._ 14, 20 — PLIN. _N. H._
35, 168 — [TAC.] _de orat._ 29.

[149] GRASBERGER, _o. c._ III, 493.

[150] MACROB. _Sat._ 3, 14 (= 2, 10), 6 sgg. — GEVÄRT, _Hist. et
théorie de la musique dans l’antiquité_, Gand, 1875-81, II, 601-602.

[151] GEVÄRT, _o. c._ II, 605. Sulle pantomine romane, cfr.
FRIEDLÄNDER, _o. c._ II^6, 450 sgg.

[152] GEVÄRT, _o. c._ 607-608.

[153] _CIG._ 3208 — GEVÄRT, _o. c._ II, 586.

[154] ZOSIM. 2, 5, 1.

[155] Il programma di quella festa ci è conservato in una lunga
epigrafe (_Eph. ep._ 8, pp. 227 sgg.), che il MOMMSEN (_ibid._, pp. 234
sgg.) ha illustrata.

[156] GEVÄRT, _o. c._ II, 610-611 e fonti ivi cit.

[157] PLIN. _N. H._ 7, 159.

[158] FRIEDLÄNDER, _o. c._ III^6, 356.

[159] SVET. _Nero_, 12 — TAC. _Ann._ 14, 20; cfr. LAFAYE, _o. c._ 56
sgg.

[160] SVET. _Nero_, 20.

[161] TAC. _Ann._ 16, 4 — DIO CASS. 62, 29. — SVET. _Nero_, 21.

[162] SVET. _Nero_, 22. sgg. — GEVÄRT, _o. c._ II, 613.

[163] SVET. _Nero_, 54.

[164] TAC. _Ann._ 14, 15.

[165] SEN. _Qu. Nat._ 7, 32, 3; cfr. SEN. _Contr._ 1 _praef._ 8.

[166] COLUM. _De re rust., praef._ 5.

[167] 18, 22.

[168] Cfr. ROSTOWZEW, _Sylloge_, _nu._ 836, 837, 870, 874, 875, e,
con minor sicurezza, ROSTOWZEW ET PROU, _Catalogue des plombs de la
Bibliothèque nationale_, Paris, 1900, p. 92, n. 8.

[169] ROSTOWZEW, _Bleitesserae_, 72 — SVET. _Cal._ 17.

[170] SVET. _Cal._ 18.

[171] SVET. _Claud._ 21; _Nero_, 7 — TAC. _Ann._ 11, 11.

[172] _CIL._ 14, 2592, 2631, 2635, 2640 e 2121 (cfr. ROSTOWZEW,
_Bleitesserae_, pp. 81-83) — TAC. _Hist._ 2, 62.

[173] TAC. _Ann._ 14, 14-15; _Hist._ 3, 62 — SVET. _Nero_, 20 —
ROSTOWZEW, _Bleitesserae_, 74 e note; 78; _Sylloge, nu._ 839, 847.

[174] ROSTOWZEW, _Bleitesserae_, 87 sgg.

[175] DIO CASS. 61, 19, 2: «_Infatti tutti si esercitavano in ciò che
potevano e come potevano, e furono aperte scuole, che frequentarono gli
aristocratici, uomini, donne, fanciulle, fanciulli, vecchie, vecchi._»

[176] DIO CASS. 61, 19 — TAC. _Hist._ 3, 62.

[177] DIO CASS. _l. c._

[178] DIO CASS. 61, 20.

[179] _CIL._ 6, 2051, _vv._ 14-15.

[180] PLIN. _N. H._ 31, 43. Plinio compose la sua grande opera dal 41
al 71, pur continuando a ritoccarla qua e là fino alla sua morte, che
del resto precede il regno di Domiziano.

[181] TAC. _Hist._ 1, 27.

[182] LANGIE, _o. c._ 63-64.

[183] SVET. _Dom._ 20.

[184] Un elenco di codesti incendii è in WERNER, _De incendiis urbis
Romae aetate imperatorum_, Lipsiae, 1906, pp. 28-32.

[185] _Dig._ 1, 2, 35-38 — JÖRS, _Rom. Rechtswissenschaft zur Zeit d.
Republik_, Berlin, 1888, pp. 29 sgg.; 76 sgg.

[186] _N. A._ 13, 13, 1 — PUCHTA-KRÜGER, _Institutionen_, 1^9, 274 sgg.

[187] JÖRS, _o. c._ pp. 231 sgg. Per l’impero, cfr. anche le savie
osservazioni del BREMER, _Die Rechtslehrer u. Rechtsschulen_, Berlin,
1868, pp. 47 sgg.; 7 sgg.

[188] CUQ, _Instit. jurid. des R._, Paris, 1902, II, 35-36.

[189] _Dig._ 1, 2, 49.

[190] _Dig._ 1, 2, 50 sgg.

[191] _Dig._ 1, 2, 50 — BREMER, _o. c._ 48.

[192] _Dig._ 1, 2, 37.

[193] Cfr. § IX. del Cap. III. del pres. scritto.

[194] BREMER, _o. c._ 13 — FRIEDLÄNDER, _o. c._ I^6, 21.

[195] GELL. _N. A._ II, 17, 1.

[196] _Schol._ ad IUV. 1, 128: «_bibliothecam iuris civilis...... in
templo Apollinis Palatini dedicavit Augustus._»

[197] KARLOWA, _Römische Rechtsgeschichte_, Leipzig, 1885, I, 673.

[198] MEINERS, _Storia della decadenza dei costumi, delle scienze e
della lingua dei Romani nei primi secoli dopo la nascita di Cristo_,
(trad. it.), Milano, 1833, pp. 315 sgg.

[199] GELL. _N. A._ 5, 21, 9; 16, 8, 2 — GALEN. _de compos. farm._ 1,
1; _de antid._ 1, 13 (XIV, ed. KUHN).

[200] GARBELLI, _o. c._ 152-153. — IHM, _o. c._ 520; cfr.
JORDAN-HÜLSEN, _Topographie der Stadt Rom im Altertum_, Berlin, 1907,
I, 3, p. 4, n. 8; 6, n. 12 — LANGIE, _o. c._ 68-69.

[201] _Dig._ 50, 4, 18, 30.

[202] Cfr. pp. 49; 53 del pres. scritto.

[203] SVET. _Vesp._ 17-19.

[204] SVET. _Vesp._ 18 — ZONAR. 11, 17 e (= _P. I._ 577) — HIERON. _ad
a._ 88 (ed. SCHÖNE, II, 161).

[205] 11, 17 c: διδασκάλους ὲν τῆ Ρώμη κτλ. Il REINACH (_Medicus_ in
DAREMBERG ET SAGLIO, _Dictionnaire_ etc. III, 2, 1674), il BRIAU, il
JACQUEY (_De la condition juridique des médecins privés et officiels
dans l’empire romain_, Nancy, 1877, p. 112) e altri hanno opinato che
Vespasiano retribuisse anche i docenti di medicina, e ne allegano
a prova il passo del _Dig._ 50, 4, 18, 30, in cui essi sono, coi
grammatici, coi retori e coi filosofi resi immuni dai carichi pubblici.
Ma da questa comunanza di immunità non è lecito inferire una comunanza
di pubblica retribuzione.

[206] Così la definisce il PETER, _Die geschichtliche Litteratur über
die römische Kaiserzeit_, Leipzig, 1897, I, 41.

[207] PETER, _l. c._

[208] I versi, di Giovenale, che qui riferiamo, riguardano uno stato
di cose anteriore al governo di Adriano; cfr. l’edizione di Giovenale
del FRIEDLÄNDER, _Introd._ 10-11 — DÜRR, _Die zeitgeschichtlichen
Beziehungen in den Satiren Iuvenals_, Cannstadt, 1902, pp. 20-21.

[209] 7, _v._ 150 sgg.

[210] Sui prezzi del grano a Roma nel I. secolo dell’impero, cfr.
BARBAGALLO, in _Riv. di st. ant._ 1905, pp. 39 sgg. Una tessera
importava 5 _modii_ di frumento.

[211] È la tariffa dell’editto di Diocleziano _de pretiis rer. ven._ 7,
71, ed. MOMMSEN-BLÜMNER.

[212] HIRSCHFELD, _o. c._, 433-434.

[213] HIRSCHFELD, _o. c._ 439-440 — CAGNAT, _Procurator_, in DAREMBERG
ET SAGLIO, _o. c._ IV, 1, 664.

[214] 7, 216 sgg. Ho, nella traduzione, sostituito ad _aurum_
(_mercede_) del v. 241 del testo, il suo riferimento, acconcio alla
circostanza — cinque _aurei_ (L. 125 ca.) — dato dallo _scolio_;
cfr. anche (_H. A._) _Anton. phil._ 11, 4. Evidentemente, qui non si
tratta di un onorario annuo per alunno, ma del provento annuo medio
complessivo del _grammaticus._

[215] SVET. _de gramm._ 3.

[216] LUCIAN. _de merc. cond._ 38. Sulle condizioni economiche
dei grammatici, cfr. BERGMANN, _Zur Gesch. d. socialen Stellung d.
Elementarlehrer u. Grammatiker_, Leipzig, 1877, pp. 45 sgg.

[217] 7, 70.

[218] HOR. _Sat._ 1, 6, 75, ove, secondo i migliori codici, si
legge: _pueri..... ibant octonos referentes Idibus aeris_; cfr. anche
BECKER-GÖLL, _Gallus_, II, 88 sgg.; 91-92.

[219] _Ed. de pretiis_, etc., 7, 66.

[220] MART. _Epigr._ 10, 62, 6 sgg.

[221] Cfr. _CIL._ 10, 3969, _l._ 5. Sulle condizioni economiche dei
maestri elementari, cfr. BERGMANN, _o. c._ 8 sgg.

[222] _Dig._ 50, 13, 1, 6.

[223] _Inst. orat._ 1 _prooem._

[224] PLIN. _Ep._ 4, 11, 2.

[225] AUSON. _Gratiar. actio_, 7, 31.

[226] IUV. _Sat._ 7, 189-198.

[227] CUCHEVAL, _L’éloquence romaine depuis la mort de Cicéron_ etc.,
Paris, 1893, I, 230 sgg.

[228] _Inst. or._ 2, 1, 8; 5, 2, 10-11; 8, 6; 10, 3; 11, 1 e _passim._

[229] KÄMMEL, _Quintilianus_ in SCHMID, _Encyklopädie d. gesamten
Erziehungs- u. Unterrichtswesen_, VI^2, 565 sgg.

[230] LOTH, _Die paedagog. Gedanken d._ Inst. orat. _Quintilians_,
Leipzig, 1898, pp. 13-15 — CUCHEVAL, _o. c._ II, 187 sgg.
Sull’indirizzo pedagogico di Quintiliano confronta anche le sensate
osservazioni del MONROE, _Source book of the history of education
for the greek and roman period_, London, 1902, 447 sgg. È nota
poi la straordinaria influenza di Quintiliano sulla pedagogia del
Rinascimento.

[231] SVET. _Tit._ 8 — DIO CASS. 66, 19.

[232] HIERON. _ad a._ 88 (ed. SCHÖNE, II, 161).

[233] QUINT. _Inst. or._ 4 _prooem._ 2.

[234] AUSON. _Gratiar. actio_ 1, 31.

[235] SVET. _Dom._ 20.

[236] DIO CASS. 66, 24.

[237] Così opinano anche il GARBELLI (_o. c._ p. 131), l’IHM (_o. c._
518), il WERNER (_De incendiis urbis Romae_, p. 32). il LANGIE (_o. c._
55).

[238] SVET. _Dom._ 20.

[239] Cfr. HEBERDEY, in _Jahreshefte d. österreich. arch. Institutes in
Wien_, 1905, p. 234.

[240] PLIN. _Ep._ 1, 8, 2 — _CIL._ 5, 5262, _ll._ 14-15.

[241] _CIL._ 11, 2704.

[242] SUID. _Epaphr._ — SENEC. _de tranquill. animi_, 9, 4 sgg. —
LUCIAN. _Adversus indoctum, passim._

[243] Cfr. LANGIE, _o. c._ 150 sgg.

[244] FRIEDLÄNDER, _o. c._ II^6, 481.

[245] _CIG._ 2810 _b., l._ 29.

[246] SVET. _Dom._ 4, 4 — LAFAYE, _o. c._ 64-69; 70 sgg.

[247] VISCONTI, _Il sepolcro del fanciullo Q. Sulpicio Massimo_, Roma,
1871, p. 7.

[248] FRIEDLÄNDER, _o. c._ III^6, 426 sgg. — LAFAYE, _o. c._ 87 sgg.

[249] Cfr. JAHN, in _Berichte d. sächs Ges. d. W._ 1856, p. 299.

[250] SVET. _Dom._ 4 — MART. _Epigr._ 4, 1, 5. 9, 23; 24; 35, 9 —
STAT. _Silvae_ 3, 5, 28. 4. 2, 62. 5, 3, 227 — LAFAYE, _o. c._ 62-64. —
FRIEDLÄNDER, _o. c._ III^6, 428.

[251] FRIEDLÄNDER, _l. c._

[252] SVET. _Dom._ 5 — _Chronograph._ del 354, ed. MOMMSEN in _Abh. d.
sächs. Gesellschaft_, I, 646.

[253] SVET. _Dom._ 4 — FRIEDLÄNDER, _o. c._ II^6, 481 sgg.

[254] MART. _Epigr._ 7, 32, 6 sgg.; 7, 57 — IUV. _Sat._ 6. 352 sgg. —
FRIEDLÄNDER, _o. c._ II^6, 489-90.

[255] SVET. _Vesp._ 19.

[256] SVET. _Dom._ 7.

[257] GEVÄRT, _o. c._ II, 614, n. 4.

[258] DIO CASS. 67, 13.

[259] SVET. _Dom._ 4 — _CIG._ 1720. _l._ 9; 2810 _b. add. l._ 29;. cfr.
GEVÄRT, _o. c._ II, 614-615.

[260] _Chronogr. l. c._ — SVET. _Dom._

[261] IUV. _Sat._ 7, _vv._ 175-177 e prec.

[262] MART. _Epigr._ 3-4, _vv._ 7-8.

[263] 5, 56, 3 sgg.

[264] ROSTOWZEW, _Bleitesserae_, p. 75, n. 2.

[265] IDEM,_ o. c._ p. 75; _Sylloge, n._ 847.

[266] SVET. _Dom._ 4 — DIO CASS. 67, 14 — FRONTO, _Ad M. Caes._ 5,
22-23 (37-38).

[267] ZUMPT, _Über Bestand d. philosophischen Schulen in Athen u.
die Succession d. Scholarchen_, in _Abhandl. d. Konigl. Akademie d.
Wissenschaft zu Berlin_, 1842, pp. 30 sgg.

[268] _CIL._ 3, 2 _suppl._ 12283, _ll._ 4 _sgg._ L’epigrafe parla solo
degli Epicurei, ma il divieto si può supporre esteso alle altre scuole.

[269] Tale sistema troviamo indicato dalla epigrafe stessa (_ll._ 8-10)
ed era in vigore in altre età; cfr. _Index Academ. philos., col._ 6-7
(pp. 38-39 ed MEKLER).

[270] Cfr. SVET. _Dom._ 23.

[271] Cfr. GRÄFENAM, _Gesch. d. klas. Philolologie_, III, 134; 137 sgg.

[272] Così ad es. il Rossi, _L’istruzione pubblica nell’antica Roma_,
Siena, 1892, p. 50.

[273] PLIN. _Ep._ 10, 66, 7 sgg.; 10.

[274] Cfr. PLIN. _Ep._ 10, 58; 60.

[275] PLIN. _Ep._ 10, 58, 2.

[276] PLIN. _Ep._ 10, 60.

[277] PLIN. _Ep._ 4, 22.

[278] PLIN. _Pan._ 46. Le pantomime, di cui PLINIO parla altrove (_Ep._
7, 24, 4 sgg.), sono spettacoli privati. D’altra parte, la reazione
contro l’istruzione musicale è limitata al mondo romano. A Smirne,
Traiano fondava agoni musicali (_CIG._ 3208, _ll._ 11).

[279] DIO CASS. 69, 4.

[280] RICHTER, _Topographie d. Stadt. Rom_, München, 1901, p. 246-247.

[281] GARBELLI, _o. c._ 157-159.

[282] GELL. _N. A._ 11, 17, 1 — FRANCKE, _Gesch. Trajans_, Leipzig,
1840, p. 615 e fonti ivi cit.

[283] SVET. _Aug._ 41; cfr. CARDINALI, _Frumentatio_, in DE RUGGIERO,
_Diz. ep._ 3, 254 sgg.

[284] PLIN. _Pan._ 26; 28. A fanciulli beneficati del _publicum
frumentum_ si riferiscono le epigrafi _CIL._ 6, 10220; 10221; 10222;
10224 _b_; 10226 e qualche altra. Sulla loro cronologia non abbiamo
però alcuna precisa informazione.

[285] PLIN. _Pan._ 26.

[286] PLIN. _Pan._ 28.

[287] Sulle istituzioni alimentari di Traiano, cfr. FRANCKE, _o.
c._ 377 sgg. — DE LA BERGE, _Essai sur le règne de Trajan_, Paris,
1877, pp. 110 sgg. — HIRSCHFELD, _o. c._ 212 sgg. — DE MARCHI, _La
beneficenza in Roma antica_, Milano, 1899, pp. 34 sgg. — LALLEMAND,
_Hist. de la charité_, Paris, 1902, I, 162 sgg.

[288] _CIL._ 11, 1127.

[289] _CIL._ 9, 1455.

[290] DE RUGGIERO, _Diz. ep._ I, 406 sgg.

[291] _CIL._ 10, 5056.

[292] PLIN. _Ep._ 48; 7, 18 — _CIL._ 5, 5262.

[293] _CIL._ 11, 1602.

[294] _CIL._ 10, 6328.

[295] _CIL._ 14, 350.

[296] _CIL._ 2, 1174.

[297] _CIL._ 8, 1641.

[298] PLIN. _Pan._ 47 — PHILOSTR. _V. S._ 1, 25, 5. 2, 25, 5.

[299] PLIN. _Pan._ 47: «_quid vitam, quid mores iuventutis, quam
principaliter formas!_»

[300] Sulla varia cronologia, che vi è stata assegnata, cfr. SCHANZ,
_Gesch. d. röm. Litteratur_, II^2, 2, 273.

[301] 1, 10.

[302] PLIN. _Pan._ 47.

[303] Sui gusti intellettuali e su l’atteggiamento spirituale di
Adriano, cfr. il saggio, sempre vivo e vero, del SAINTE-CROIX, _Sur
le goût de l’empéreur Hadrien pour la philosophie, la jurisprudence,
la littérature et les arts_ in _Mémoires de littérature tirées des
Régistres de l’Académie Royale des Inscriptions et Belles-lettres_,
1808 (49), pp. 405 sgg.

[304] È la definizione, di cui lo contrassegna il suo successore,
GIULIANO (_Caesares_, p. 311 _d_).

[305] _Caes._ 14, 1-3.

[306] Cfr. pp. 49 sgg. del pres. scritto.

[307] (_H. A._) _Hadr._ 16, 10 — GELL. _N. A._ 13, 22 (21). 1 — IUV.
_Sat._ 7, 1 sgg.

[308] Si guardi solo alla serie degli _a libellis_ di Adriano, elencati
in FRIEDLÄNDER, _Sittengesch._ etc. I^6, 185 sgg.: lo storico Svetonio,
i retori Eliodoro, Vestino, Celere, il _procurator bibliothecarum_
Eudemone.

[309] ZUMPT, _o. c._ 44 — WEBER, _De Academia litteraria atheniensi
seculo secundo p. C. constituta_, Marburgi, 1858, pp. 3-4 — ZELLER,
_Phil. d. Griechen_, III^3, p. 683-684 e n. 3.

[310] «_omnes professores et honoravit et divites fecit_»; «_doctores
qui professioni suae inhabiles videbantur dilatos honoratosque a
professione dimisit_».

[311] 1, 24, 5.

[312] (_H. A._) _Hadr._ 16, 10.

[313] PHIL. _V. S._ 1, 24, 5; 25, 5 sgg.

[314] PLUT. _de exil._ 14 — STRAB. 8, p. 396; cfr. AHRENS, _De
Athenaeum statu politico et litterario_, Gottingae, 1829, p. 76 —
DUMONT, _o. c._ I, 241; 207 sgg.

[315] AUR. VICT. _Caes._ 14, 3.

[316] SIDON. APOLL. 9, 14, 2.

[317] JORDAN, _o. c._ I, 2, 61 — GILBERT, _Gesch. u. Topographie d.
Stadt Rom im Alterthum_, 3^3, 337.

[318] (_H. A._) _Pertin._ 11, 3; _Al. Sev._ 35, 2; _Gordian._ 3, 4.

[319] SENEC. _Ep._ 88, 10. sgg; cfr. MÜLLER, _Quam curam respublica
apud Graecos et Romanos literis doctrinisque colendis et promovendis
impenderit, quaeritur_, Gottingae, 1837, pp. 43-44. — BOISSIER, _Fin du
paganisme_, I, 183.

[320] QUINT. _Inst. or._ 1, 10, 35 agg.

[321] Allorchè, nel V. secolo, Teodosio II. riordinerà l’Ateneo
Costantinopolitano, noi vi troveremo delle cattedre ufficiali di
grammatica, che probabilmente erano state istituite da Costantino.

[322] EUS. _Chron._ (II, p. 174, ed. SCHÖNK) — OROS. _Adv. paganos_, 7,
16, 3.

[323] Cfr. TIRABOSCHI, _Storia della letteratura italiana_, Milano,
1822-1826, II, 370 — PRELLER, _Die Regionen d. Stadt Rom_, Jena, 1846,
p. 220; 170 e nota — GILBERT, _o. c._ III. p. 340.

[324] GAIUS, I. 7, ed. KRÜGER-STUDEMUND — CUQ, _Le Conseil des
empéreurs_, pp. 335-336; _Les institutions juridiques des Romains_, II,
p. 37.

[325] CUQ, _Le Conseil des empéreurs_, pp. 328 sgg.

[326] _N. A._ 13, 13, 1.

[327] KARLOWA, _o. c._ 1, 673.

[328] APPOLL. TYAN. _Ep._ 54. ed. KAYSER.

[329] Sul ginnasio e la biblioteca di Adriano, cfr. PAUSAN. 1, 18, 9
— EUS. _Chron._ II., 166; HIERON. _Chron._ II, 167, ed. SCHÖNE. Sugli
scavi recenti eseguiti nei locali, che ne furono sede, cfr. _Athen.
Mittheil._ 1896, pp. 463-464 — JUDRICH, _Topographie von Athen_,
München, 1905, pp. 334 sgg.; 337; 373 — WACHSMUTH, in PAULY-WISSOWA,
_RE._ (suppl.): _Athenai_, pp. 186-187.

[330] Cfr. DUMONT, _o. c._ I, pp. 240 sgg.

[331] _CIL._ 3, 2 _suppl._, 12283. Cfr. anche gli _Oesterr.
Jahreshefte_, II. 271-272.

[332] Cfr. il. §. IX del prec. capitolo.

[333] _ll._ 7-8: «_ut illi permittatur a te graece [t]estari circa
ha[n]c partem iudiciorum suorum, quae a[d] diadoches ordinationem
pertinet_»; cfr. DARESTE, in _Nouv. Revue du droit français et
étr._, 1892, p. 623. Il _graece testari_ può però — a mio avviso —
interpretarsi anche come facoltà di testare a seconda del diritto
etnico del testatore.

[334] _l._ 9: «_s[i i]ta suaserit profectus personae_»; cf. DARESTE,
_o. c._, p. 624.

[335] Cfr. ad esempio il DIELS, in un suo interessante studio
sull’epigrafe (in _Archiv für Geschichte d. Philosophie_, 4, (1891), p.
490) e il commento all’epigrafe in _CIL._ 3, 2 _suppl._, p. 2078.

[336] SUID. _Vestinus_ — _CIG._ 5900 (= _IG._ 14, 1085).

[337] PHIL. _V. S._ 1, 25, 5.

[338] PHIL. _V. S._ 1, 22, 5.

[339] ATHEN. 15, p. 677 _e._

[340] _BCH._ 4, pp. 405-406.

[341] Cfr. PARTHEY, _o. c._ 93-94.

[342] Cfr. PHIL. _l. c._

[343] _Dig._ 27, 1, 6, 2 sgg.

[344] KUHN, _o. c._ I, 90-92.

[345] _Dig._ 27, 1, 6, 7.

[346] È però possibile che il chiarimento non sia di Antonino Pio, ma
di Modestino (cfr. LACOUR-GAYET, _Antonin Le Pieux_, Paris, 1888, 315
n. 4).

[347] Cfr. _Inst._ 1, 25, 15 — _Dig._ 27, 1, 6, 9. In questo passo,
la disposizione è attribuita a Settimio Severo o a Caracalla, ma
tutto il contesto mostra che essa rimonta ad Antonino Pio. Forse ciò
che si attribuisce a S. Severo e a Caracalla è solo l’applicazione o
l’esemplificazione di quella norma generale.

[348] _Dig._ 27, 1, 6, 10.

[349] _Dig._ 27, 1, 6, 8; cfr. pp. 50 sgg. del pres. scritto.

[350] _Dig._ 50, 4, 11, 4 — _C. I._ 10, 58, 4; questa costituzione si
riferisce ai _calculatores_ (insegnanti primari di aritmetica).

[351] _Dig._ 50, 6, 7. Il giureconsulto, che ci informa di tale
disposizione, è TARRUNTENO PATERNO, vissuto sotto Marco Aurelio e
Commodo.

[352] _Dig._ 27, 1, 6, 2; cfr. KUHN, _o. c._ I, 83.

[353] WEBER, _o. c._ p. 8, e n. 51 — WACHSMUTH, _Die Stadt Athen
im Alterthum_, Leipzig, 1874, I, 699 — RAUSCHEN, _Das griechisch —
römische Schulwesen zur Zeit des ausgehenden antiken Heidentums_, Bonn,
1900, p. 21.

[354] PHIL. _V. S._ 1, 23, 1; cfr. il paragrafo seguente del pres.
capitolo.

[355] PHIL. _V. S._ 2, 2, 1-2.

[356] _Dig._ 27, 1, 6, 10.

[357] WEBER, _o. c._ 34-35 — ZUMPT, _o. c._ 53 e n. 2.

[358] PHIL. _V. S._ 2, 2, 2. — LUCIAN. _Eun._ 3 — PORPH. _Vita Plot._
20.

[359] A identica conclusione viene recisamente il MOMMSEN, _Röm.
Gesch._ (Berlin, 1885), V, 303, n. 1.

[360] MARQUARDT, _Staatsverwaltung_, I^2, 343-344 — LACOUR-GAYET, _o.
c._ 229-230.

[361] KUHN, _o. c._ I, 520.

[362] _Dig._ 27, 1, 6, 3.

[363] Cfr. _Dig._ 27, 1, 6, 4.

[364] CIC. _In Verr._ 1, 42 — _Cod. th._ 1, 1, 3 — _C. I._ 1, 11, 7.

[365] ARISTID. _Orat._ 50. 75, ed. KEIL. Sulla cronologia, cfr.
LETRONNE, _Recherche pour servir à l’histoire de l’Égypte_, Paris,
1823, p. 253.

[366] Cfr. PHIL. _V. S._ 2, 25, 5 insieme con 1, 25, 5.

[367] _Ant. Pius._ 11, 3.

[368] Quella fonte è sempre sospetta, ma sui dubbi, che questo speciale
paragrafo solleva, cfr. SCHULZ, _Das Kaiserhaus d. Antonine u. der
letzte Historiker Roms_, Leipzig, 1907, p. 21.

[369] PHIL. _V. S._ 2, 2, 1-2.

[370] PHIL. _V. S._ 1, 23, 1.

[371] SUID. _Lollianus._

[372] PHIL. _V. S._ 2, 2, 2; cfr. ZUMPT, _o. c._ 47-48.

[373] WEBER, _o. c._ 19, n. 38.

[374] Su tale questione e risoluzione, cfr. ZUMPT, _o. c._ 48-50 —
BERNHARDY, _Grundriss d. griech. Litteratur_, I^4, 608 — KUHN, _o. c._
1, 91 — ROHDE, _Der griechische Roman_, 2ª ed. (1900), p. 324.

[375] _Cod. th._ 12, 2, 1, (= _C. J._ 10, 37); _Dig._ 50, 9, 4, 1-2.

[376] MÜLLER, _Quam curam_ etc. p. 14 e n. 30 — ZUMPT, _o. c._ 45.

[377] (H. A.) _M. Ant. phil._ 27, 7.

[378] (_H. A._) _Ant. phil._ 2, 2 segg. — PHIL. _V. S._ 2, 10, 7. Sui
rapporti tra il giovane Marco Aurelio e i suoi maestri, cfr. il bel
saggio del BOISSIER, _La Jeunesse de Marc Aurèle_, in _Revue des deux
mondes_, 1868, pp. 671 sgg.

[379] 1, 5 sgg.

[380] DIO CASS. 71, 31, da cui derivò ZONARA, 123 (=_P. I._ 596 c.).

[381] AHRENS, _o. c._ p. 71 — ZUMPT, _o. c._ 51.

[382] AHRENS, _o. c._ p. 72 — KAYSER, _P. H. Lollianus_, Heidelberg,
1841, p. 10. Sulla differenza tra il λόγος πολιτικὸς e il λόγος
σοφιστικὸς, cfr. BRANDSTÄTTER, _De notionum_ πολιτικὸς _et_ σοφιστὴς
_usu rhetorico_, in _Leipz. Stud._ 15 (1893), Cap. 1 (pp. 133 sgg.).

[383] PHIL. _V. S._ 2, 2, 2.

[384] AHRENS, _o. c._ 70 — MÜLLER, _o. c._ p. 15; 42 — GRÄFENHAN, _o.
c._ III, 29 — ZELLER, _o. c._ III^3, 1, 686.

[385] PHIL. _V. S._ 2, 2, 2 — LUCIAN. _Eun._ 3.

[386] LUCIAN. _l. c._

[387] PHIL. _V. S._ 2, 2, 1.

[388] LUCIAN. _Eun._ 3, 8 — TATIAN. _Orat. ad Graecos_ 19, ed. OTTO.
Quest’ultimo, che, con certezza, si riferisce a Marco Aurelio, parla,
in cifra approssimativa, di 600 _aurei._

[389] TATIAN. _l. c._ — LUCIAN. _l. c._ — PHIL. _V. S._ 2, 2, 2.

[390] PHIL. _V. S._ 2, 2, 2.

[391] LUCIAN. _Eun._ 2; δίκη δὲ ὅμως συνειστήκει καὶ δικασταὶ
ψηφοφοροῦντες ἧσαν οί ἄριστοι καὶ πρεσβὺτατοι καὶ σοφώτατοι τῶν ἐν τῇ
πόλει.

[392] L’AHRENS (_o. c._ 74), distingue gli ἅριστοι, che, secondo il suo
pensiero, sarebbero stati gli _Areopagiti_ o i _Buleuti_, dai σοφώτατοι
(i professori e gli studiosi di filosofia e di letteratura). Ma, se la
sintassi, del periodo imponesse una distinzione, questa dovrebbe essere
triplice: ἅριστοι; πρεσβύτατοι; σοφώτατοι.

[393] _o. c._ p. 52.

[394] LUC. _Eun._ 2; 11.

[395] Su queste attribuzioni dell’Areopago, cfr. PLUT. _Cie._ 24, 3 —
_Actus Apost._ 17, 19 — DIOG. LAËRT. 5, 38. In occidente, nomineranno i
maestri pubblici, i Consigli municipali.

[396] LUC. _Eun._ 7. Cfr. CHIAPPELLI, in _Saggi e note critiche_,
Bologna, 1895, pp. 105 sgg.

[397] LUC. _Eun._ 5-6; 10.

[398] LUC. _Eun._ 4.

[399] LUC. _Eun._ 12.

[400] Cfr. AHRENS, _o. c._ p. 74.

[401] Il procedimento dei concorsi per le cattedre di sofistica è
ricostruito ampiamente in HERTZBERG, _Geschichte Griechenlands unter d.
Römern_, Halle, 1875, 3, 315 sgg.

[402] Cfr. AHRENS, _o. c._ p. 68.

[403] DESJARDINS, _De tabulis alimentariis_, Parisiis, 1854, pp. 28
sgg. — DE CHAMPAGNY, _Les Antonins_, Paris, 1875, 3, 422-423.

[404] _IG._ 14, 1127; cfr. LACOUR-GAYET, _Antonin le Pieux_, p. 212.

[405] DE RUGGIERO, in _Dis. ep._ 1, 406 sgg.

[406] HIRSCHFELD, _o. c._ 217 sgg.

[407] IDEM, _o. c._ 221-222.

[408] _IG._ 3, 1, 61.

[409] _CIL._ 2, 1174.

[410] _CIL._ 8, 1641.

[411] MANCINI, _Curator reipublicae_ in DE RUGGIERO, _Diz. ep._ II,
1347.

[412] _Dig._ 30, 117.

[413] FOUCART, _De collegiis scenicor. artificum apud Graecos_, 1873,
pp. 93 sgg. — POLAND, _De collegiis artificum Dionysiacorum_, Dresden,
1895, pp. 19-21; _Gesch. d. griechischen Vereinwesens_, Leipzig, 1909,
47; 143 sgg.

[414] GEVAERT, _o. c._ I, 57; II, 615.

[415] PLUT. _de musica_ 30 — REISCH, _De musicis graecorum
certaminibus_, Vindobonae, 1885, pp. 28 sgg.

[416] Cfr. HORAT. _Epist._ 2, 3, 414-415 — GEVÄRT, _o. c._ II, 583.

[417] STRAB. 14, 29 (= p. 643); cfr. LÜDERS, _o. c._ pp. 85 sgg.

[418] _CIG._ 3088; cfr. 3059; 3060. — DITTENBERGER., _Sylloge inscr.
graec._ II^2, 523, ll. 15 sgg. Taluni hanno creduto che qualcuna di
queste epigrafi si riferisca appunto alla scuola del sinodo (LÜDERS,
_o. c._ 135 sgg. — GEVAERT, _o. c._ II, 583-584); per l’opinione
opposta, cfr. MÜLLER, _Griechische Bühnenalterthümer_, Freiburg, 1886,
p. 395, n. 4 — POLAND, _De collegiis_ etc. p. 13, n. 68.

[419] POLAND, _o. c._ 8 sgg.; _Gesch. d. Wereinsw._ 129 sgg.

[420] POLAND, _De collegiis_, etc. pp. 20 sgg.

[421] POLAND, _Griechische Vereinswesen_, 46 segg. — _Österr. Jahresh._
1908, p. 106.

[422] ROSTOWZEW, _o. c._ 82 e n. 10 con le fonti ivi citate.

[423] Sono elencati e illustrati in ROSTOWZEW, _o. c._ 69 sgg. Cfr.
anche PETERSEN, _L’arco di Traiano a Benevento_, in _Rom. Mittheil._,
1892, pp. 248 sgg.; 259 sgg. — DRESSEL, _Ludi decennales_ in
HIRSCHFELDS _Festschrift_, pp. 280 sgg.

[424] DRESSEL, _loc. cit._ — COHEN, _Médailles impériales_, II^2, 337,
nn. 667 R; 673 R.

[425] DIO CASS. 71, 35 — (_H. A._) _Ant. phil._ 6, 3.

[426] _CIL._ 6, 10.234, _l._ 2.

[427] _CIL._ 6, 9007, _ll._ 3-4. Si è pensato ad emendare in
_procurator monument[or]um [statuarum] imaginum_ ma non pare vi si
possa contar troppo. Sarebbe audace pensare a un _terra[e] imaginum_?

[428] _CIL._ 6, 10.234, _ll._ 2-3 e fors’anche _CIL._ 6, 31053, _l._ 4
_[adi]u[tor] rat[ionis] stat[uarum]._

[429] _CIL._ 6, 2270, _ll._ 2-3 (_a._ 199), che dà anche un _libertus
Augusti officinator a statuis._

[430] _Dig._ 50, 10, 5.

[431] _Dig._ 50, 10, 7.

[432] HIRSCHFELD, _o. c._ 439-440.

[433] _CIL._ 10, 7580.

[434] Infatti, a differenza di altre iscrizioni precedenti, il titolo
di _procurator bibliothecarum_ viene questa volta in coda a parecchi
altri.

[435] LACOUR-GAYET, _o. c._ 318.

[436] _Sat._ 15, _vv._ 110-112. È questa una delle ultime satire del
poeta, certo posteriore al 127; cfr. FRIEDLÄNDER, _o. c._ pp. 573-574
nella sua edizione di Giovenale.

[437] LACOUR-GAYET, _o. c._ 351 — DE CHAMPAGNY, _o. c._ II, 215.

[438] RÉVILLE, _La réligion à Rome sous les Sévères_, Paris, 1886, 11
sgg.

[439] PHIL. _V. S._ 2, 12, 4. 2, 30, 1 e _passim._

[440] Cfr. PHIL. _Apoll._ 1, 3; _V. S._ 2, 30, 1-2.

[441] _Dig._ 27, 1, 6, 8.

[442] _CIG._ 6829, _l._ 12 e il commento del BÖCKH.

[443] _CIG._ 1720, _l._ 10.

[444] FOUCART, _De collegiis_ etc., pp. 98-99.

[445] CUQ, _Le Conseil des empéreurs_, pp. 352 sgg.

[446] DIO CASS. 72, 17, 1 sgg. — _(H. A.) Commod._ 8, 5.

[447] _(H. A.) Gordiani tres_, 4, 6.

[448] _CIL._ 8, 895; 1353; 1577 e, forse anche, 1501 e 1858.

[449] PORPH. _Vita Plot._ 12.

[450] DIO CASS. 77, 7. La persecuzione di Caracalla non involse, come
in genere si è pensato, tutti i dotti del Museo, o, tanto meno, tutti
gl’istituti di istruzione pubblica alessandrini (cfr. MATTER, _o. c._
I, 295 sgg.).

[451] PHIL. _V. S._ 2, 30, 2.

[452] (_H. A._) _Maxim. duo_, 2, 4 sgg.

[453] SCHILLER, _Gesch. d. Kaiserzeit_, Gotha, 1883-1887, I, 2, 740 e
fonti ivi cit.

[454] COHEN, _Médailles impériales_, IV^2: _Geta_ 156 — ECKHEL,
_Doctrina nummorum_, 7, 229 — DE FOVILLE, in _Revue numismatique_,
1903, p. 275.

[455] MOMMSEN, _Die Schweiz in römisch. Zeit_, pp. 20-21 — CAGNAT, _De
municipalibus et provincialibus militiis_, Lutetiae-Parisiorum, pp.
81-82 — KORNEMANN, _Zur Städteentstehung in den ehemals keltischen u.
germanischen Gebieten des Römerreichs_, 1898, pp. 51-52 — ROSTOWZEW,
_Bleitesserae_, pp. 77; 90.

[456] Si rileva dal _Dig._ 27, 1, 6, 1 sgg.

[457] _Dig._ 27, 1, 6, 4 — _C. I._ 10, 53, 5.

[458] _Dig._ 27, 1, 6, 11.

[459] _Dig._ 27, 1, 6, 11; cfr. KUHN, _o. c._ 1, 120-121.

[460] _Dig._ 27, 1, 6, 12.

[461] _Dig._ 50, 5, 8, 4.

[462] _Fragm. vat._ 204, ed. MOMMSEN.

[463] _Dig._ 50, 13, 1.

[464] _Dig._ 50, 13, 1, 4-5.

[465] _Dig._ 50, 13, 1, 6.

[466] _Dig._ 50, 9, 4, 1-2.

[467] _C. I._ 10, 53, 2.

[468] _Dig._ 50, 13, 1.

[469] _Cod. th._ 13, 3, 1-2.

[470] (_H. A._) _Al. Sev._ 27, 5-9.

[471] (_H. A._) _Al. Sev._ 27, 5. 44, 4-5. Traduco con _ingegneria_
ed _architettura_ le denominazioni delle due cattedre, che il biografo
di Alessandro Severo fa, rispettivamente, tenere, da _mechanici_ e da
_architecti._ Su queste due denominazioni, cfr. PROMIS, _Gli architetti
e l’architettura presso i Romani_, Torino, 1871, pp. 7 sgg.; 12 sgg.
Analoga distinzione fa il _Cod. th._ 13, 4, 3.

[472] MEINERS, _o. c._ 343 sgg.

[473] BERTHELOT, _Origines de l’alchimie_, Paris, 1885, pp. 13-14 —
BOUCHÉ-LECLERQ, _L’astrologie grecque_, Paris, 1899, 560 sgg.

[474] MAAS, _Die Tagesgötter in Rom und den Provinzen_, Berlin, 1902,
pp. 142 sgg.

[475] PAUL. _Sententiae_, 5, 21, 1-3.

[476] BOUCHÉ-LECLERQ, _o. c._, pp. 559, n. 4.

[477] PAUL. _Sententiae_ 5, 21, 3.

[478] PROMIS, _o. c._ 7 sgg. — ALBERT, _Les médecins grecs à Rome_, pp.
IX-X.

[479] WEBER, _o. c._ 34-35 — HÄSER, _Lehrbuch d. Gesch. d. Medicin_,
I^3, 391 sgg. — KEIL, _Arteninschriften aus Ephesos_, in _Oesterr.
Jahreshefte_, 1905, 135 sgg. — BLOCH, _Übersicht über d. ärzt.
Standesverhältnisse_ etc. in _Handb. d. Medicin_ I, 571.

[480] (_H. A.)_ _Al. Sev._ 44, 4.

[481] (_H. A._) _Al. Sev._ 44, 4.

[482] _(H. A.) Pertin._ 9, 3.

[483] _(H. A.) Did. Iul._ 2, 1.

[484] _Dig._ 35, 7, 89.

[485] _(H. A.) Al. Sev._ 57, 7.

[486] _Dig._ 34, 1, 14, 1.

[487] Sulle vicende degli istituti alimentari nel III. secolo, cfr.
DESJARDINS, _o. c._ 30-31.

[488] Gravi, ad esempio furono i danni subìti da tutti gl’istituti di
coltura in Alessandria (AMM. MARC. 22, 16, 15 — EUSEB. _Chron. ad. a._
272 (II, p. 182 ed. SCHÖNE) — EUSEB. _H. E._ 7, 21 — MATTER, _o. c._ I,
300 sgg.)

[489] BERNHARDY, _Grundriss d. griech. Litteratur_, I^4, 662-664.

[490] Cfr. SIEVERS, _Libanius_, Berlin, 1868, pp. 38 sgg.

[491] MALAL. 12_O_ 400 _cd._

[492] C. I. 10, 50, 1.

[493] 7, 64; 65; 66; 67; 68; 69; 70; 71; 74, ed. MOMMSEN-BLÜMNER.

[494] Anche il pedagogo, che non solo accompagnava gli alunni in
classe, ma assisteva alle lezioni, rivedeva i loro compiti, e li
riprendeva e castigava, partecipava all’ufficio della istruzione.

[495] In verità, quello dei _calculatores_, era un insegnamento
intermedio fra l’elementare, il secondario ed il professionale (cfr.
ISID. _Orig._ 1, 3, 1).

[496] Essi, come i loro discepoli, erano richiesti per uffici di
segreteria, per trascrizione di documenti, di codici etc. etc.

[497] Il _denarius_ dioclezianeo valeva poco più di L. 0,02 (cfr.
MOMMSEN, _Das diocletianische Edict über die Waarenpreise_, in
_Hermes_, 1890, p. 26).

[498] Il _pedagogo_ doveva perciò prestare servizio presso parecchie
famiglie.

[499] [LACTANT.] _De mortib. persec._ 7 _A._

[500] _C. I._ 9, 18, 2.

[501] SUID. _Diocletianus — Acta S. Procopii_, Bollandisti, _Iulii_,
II, 557 _A_; cfr. BERTHELOT, _Les origines de l’alchimie_, Paris, 1885,
pp. 47; 72-73.

[502] EUS. _H. E._ 8, 2.

[503] Cfr. MARIN, _Les moines de Constantinople_, Paris, 1897, pp. 403
sgg.

[504] DE ROSSI, _La biblioteca della sede Apostolica_, in _Studi e
documenti di storia e diritto_, 1884, p. 334 — ALLARD, _La persécution
de Dioclétien_, Paris, 1890, I, 183-185 — GRISAR, _Le bibliotheche
nell’antichità classica e nei primi tempi cristiani_, in _Civiltà
cattolica_, 1902 (8), pp. 464-465.

[505] ALLARD, _o. c._ I, 191 sgg. — LECLERQ, _Bibliothèques_ in DOM
CABROL, _Dictionn. d’archéol. chrétienne, de liturgie_ etc. fasc. XIV,
col. 859-860.

[506] _Gesta apud Zenophilum consularem_, (seguito di S. AUG. _Opera_,
IX, 1106-1107, ed. GAUME).

[507] LECLERQ, _o. c._ col. 859; 862 — ALLARD, _o. c._ I, 201-202.

[508] _Paneg. lat._ 4, 5.

[509] _Paneg. lat._ 4, 11.

[510] HIERON. _de vir. ill._ 80 — LACT. _div. Inst._ 5, 2.

[511] _Paneg. lat._ 4, 6.

[512] EUMEN. _Pro rest. schol._ (in _Paneg. lat._ 4) 6; 11. Su Eumenio
e gli scritti suoi, o a lui attribuiti, cfr. BRANDT, _Eumenius von
Augustodunum_, Freiburg, 1887.

[513] EUMEN. _o. c._ 44. Il SEEK (_Studien sur Gesch. Diocletians u.
Constantius_, in _Jahrbücher für classische Philologie_ del FLECKEISEN,
1888 (137) p. 720) opina a ragione che il documento fosse controfirmato
dagli altri tre imperatori del tempo.

[514] _Paneg._ 4, 5; cfr. 7, 23.

[515] _Paneg._ 4, 3; 14.

[516] _Paneg._ 4, 10; 20.

[517] _Paneg._ 4, 9. Cfr. su tutto ciò anche PICHON, _Les derniers
écrivains profanes dans les Gaules_, Paris, 1906, pp. 27 sgg.; 74 sgg.

[518] EUMEN. _o. c._ 11; 14.

[519] Il _nummus_ è pari al nuovo _denarius_ di rame (EUMEN. _o.
c._ 5; 11; 14), che valeva poco più di L. 0,02. Non si può tentar di
ridurre, come pare è stato fatto, la somma a _sexaginta milia nummum_,
perchè essa, dice Eumenio, era doppia del suo stipendio di _magister
memoriae_, pari a 300.000 nummi (EUM. _o. c._ 11). Cfr. su questo anche
MOMMSEN, in _Hermes_, 1890, p. 27.

[520] EUMEN. _o. c._ 6.

[521] CUQ, _Le Conseil des empereurs_, 473.

[522] Lo notarono anche i contemporanei; cfr. EUMEN. _o. c._ 5 — IOANN.
CHRYS. _De vita monast._ 3, 5.

[523] Cfr. le due lettere di Ottaziano Porfirio e di Costantino in
OPTAT. PORFIR. _Carmina_, ed. MÜLLER, pp. 3, 4.

[524] AUR. VICT. _Epit._ 41, 8.

[525] IULIAN. _Orat._ 1, 8 c., ed. HERTLEIN.

[526] AUR. VICT. _Epit._ 41, 14.

[527] CODIN. _Antiqu. const._ P. 42 d. — ANON. _Ant. const._ 1, 31
(in BANDURIUS, _o. c._ I, 3, p. 12). Veramente; l’uno e l’altro dicono
soltanto che la successione dei maestri, adibitivi all’insegnamento,
durò 414 anni, fino al 10º dell’impero di Leone Isaurico. La fondazione
sarebbe dunque avvenuta nel 313 di C., innanzi cioè quella di
Costantinopoli.

[528] GRÄFENHAN, _o. c._ III, 30 — CHRIST. _Griech. Litter._ 809, (4ª
ed.) — BYSANTIOS, Κωνσταντινόπολις, Atene, 1890, I, 458.

[529] ANON. _o. c._ I, 31 — CODIN. _o. c._ P. 42 d. — ZONAR. 15, 3,
13-16 (= _P. II._ 104 _b. c._) — CEDREN. _P._ 454 _c. d._

[530] Cfr. MANSO, _Ueber das rhetorische Gepräge d. römischen
Litteratur_, in _Vermischte Abhandlungen u. Aufsätze_, Breslau, 1821,
p. 83, n. _x._

[531] _Notitia urbis constantinopolitanae_, 9, 10 (_in Notitia
dignitat._ ed. SEEK). — _Cod. th._ 14, 9, 3. Sulla _Basilica
Capitolina_, cfr. _Anth. pal._ 9, 660 — BANDURIUS, _o. c._ II, 853 —
BYSANTIOS, _o. c._ I, 283.

[532] ANON. _Enarr. Chronogr. antiqu. Constant._ 296 (in BANDURIUS _o.
c._ I, 103).

[533] Cfr. HERTZBERG, _Die Geschichte d. Griechenland unter d.
Herrschaft. d. Römer_, Halle, 1875, III, 494. — GÜLDENPENNING,
_Geschichte d. öströmischen Reiches unter den Kaisern Arcadius u.
Theodosius II.,_ Halle, 1885, p. 275.

[534] SOCRAT. _H. E._ 3, 1 _b._

[535] Cfr. il cap. VIII del pres. scritto.

[536] SOCRAT. _l. c._

[537] _Anth. pal._ 9, 660.

[538] HIERON. _Chronicon_ (ed. SCHÖNE, II, 195) — AUSON. XVI, 2, 4
— THEMIST. _Or._ 23, p. 292 _a_ sgg. Cfr. MONNIER, _De rhetoricae
discipulis atque magistris per Orientem in IV. Cristiani aevi saeculo_,
Parisiis, 1866, pp. 41-42.

[539] _Cod. th._ 14, 9, 3. 6, 21, 1.

[540] _Cod. th._ 6, 21, 1.

[541] _Curiosum Urbis_ e _Notitia_ (in RICHTER, _Topographie d. Stadt
Rom_, p. 375)

[542] THEMIST. _Orat._ 23, p. 294 _b._

[543] SUID. _Malchus._

[544] _Cod. th._ 13, 4, 1.

[545] Se noi fossimo sicuri che non ci sia errore materiale in una
delle nostre fonti, potremmo anche discorrere di una vera e propria
biblioteca di libri di meccanica raccolta da Costantino in un apposito
edificio, i Μάγγανα, ch’era altresì un arsenale di macchine e di
materiali di guerra (GLYC. _Ann._ 3, _P._ 252 o un codice de l’ANON.
_Antiqu. constant._ 2, 69 in BANDURIUS, _o. c._ II, 606). Ma è lecito
sospettare che il testo originario, in luogo di βίβλοι μηχανικαὶ, abbia
discorso di ὕλαι μηχανικαὶ (cfr. BANDURIUS, _l. c._).

[546] Cfr. _Cod. th._ 11, 27, 1-2.

[547] _Cod. th._ 13, 3, 1.

[548] Cfr. il commento del GOTHOFREDUS alla legge.

[549] _Cod. th._ 13, 3, 2.

[550] _Cod. th._ 13, 3, 3.

[551] Cfr. PHIL. _V. S._ 2, 25, 5 e GOTHOFREDUS (V, 29) nel suo
commento al _Cod. th._ 13, 3, 1. — KEUFFEL, _Historia originis ac
progressus scholarum inter Christianos_, Helmstadi, 1743, pp. 41 sgg.

[552] _Cod. th._ 13, 3, 16.

[553] Di tale fatto ci fornirebbe un’indiscutibile riprova una
variante, che del passo della legge ci è offerta in alcuni mss. del _C.
I._ 10, 53, 6, dove essa verrà riprodotta e dove, insieme con gli altri
beneficati, si elencano i _doctores legum_, se però quella variante
potesse sicuramente interpretarsi come una meditata interpolazione dei
giurecousulti compilatori del _C. I._ Cfr. DERNBURG, _Die Institutionen
d. Caius_, Halle, 1869, p. 8, n. 14.

[554] _quo facilius liberalibus studiis et memoratis artibus multos
instituant._

[555] _Cod. th._ 13, 4, 2 (= _C. I._ 10, 66, 1).

[556] Il _Cod. th._ ha _albarii_; il _C. I._, _albini_ e _dealbatores._

[557] I codici hanno _medici_, ma l’inclusione dei medici tra questi
professionisti non si spiega, e deve trattarsi di un errore.

[558] Per indicare gli _indoratori_, il testo adopera _barbaricarii_ e
_deauratores._ Sulla differenza di significato tra questi due sinonimi,
cfr. BÖCKING, _Adnot. ad Notit. dignitat._, Bonnae, 1839-1853, II, 1,
pp. 364-365.

[559] Il _C. I._ (_l. c._) aggiunge: gli scavatori di pozzi (o
_lectarii, fabbricatori di letti_?), i magnani, i cocchieri (o
_costruttori di quadrighe_?), i _fabri_ (_meccanici_?), i sarti, i
piumai (o _ricamatori_?), i coniatori, i lavoratori di lino. Ma sul
valore e la paternità di queste aggiunte del _C. I._, data la grande
libertà e varietà di criteri, cui si attennero i compilatori, non
possiamo dire nulla di sicuro.

[560] _CIL. 6_, 1708 — _Notitiadignit. occid._ 4, 14; cfr. HIRSCHFELD,
o. c. p. 272 — DE RUGGIERO, _Diz._ ep. II, 1327.

[561] AMM. MARC. 16, 6, 2; cfr. WINCKELMANN, _Gesch. d. Kunst_, in
_Werke_, Donaueschingen, 1825, VI, 346-348.

[562] Cfr. BERNHARDY, _Grundriss der griech. Literatur_, I^4, 656.

[563] EUNAP. _V. S._ p. 492, ed. BOISSONADE.

[564] _Fragm. vat._ 150, ed. MOMMSEN.

[565] _Cod. th._ 13, 4, 3 (= _C. I._ 10, 66, 2) e commento del
GOTHOFREDUS.

[566] THEMIST. _Or._ 4, 59 d. sgg. Non si tratta di una nuova
pubblica biblioteca, come pure è stato creduto. Il passo di TEMISTIO
non autorizza in nessun modo a ritenerlo, e il _Cod. th._ 14, 9,
2, come SUID. _Malchus_, parlano di una sola pubblica biblioteca
costantinopolitana.

[567] LIBAN. _Or._ 1, p. 27, ed. REISKE.

[568] LIBAN. _Or._ 1, pp. 52-54; 58; 126.

[569] LIBAN. _Or._ 1, p. 27.

[570] LIBAN. _Or._ 1, p. 36.

[571] LIBAN. _Or._ 1, p. 52 sgg.

[572] LIBAN. _Or._ 1, p. 58.

[573] EUNAP. _V. S._ p. 487 — PETIT DE IULLEVILLE, _L’école d’Athènes_,
Paris, 1868, pp. 29; 33-34.

[574] CONSTANT. _Oratio ad Them._ (in THEMIST. _Orationes_, ed.
DINDORF, p. 21 sgg.) pp. 20 _a_-21 _c._

[575] THEMIST. _Or._ 4, 61 _a-b._; cfr. anche p. 54 _d._

[576] _Cod. th._ 13, 3, 4.

[577] _Cod. th._ 12, 1, 36; 41; 42; 44.

[578] Cfr. il commento del GOTHOFREDUS a _Cod. th._ 13, 3, 4.

[579] _Cod. th._ 13, 3, 2; cfr. 6, 21, 1.

[580] _Cod. th._ 13, 3, 4; cfr. il commento del GOTHOFREDUS — IULIAN.
_Ep._ 26, ed. HERTLEIN.

[581] Cfr. pp. 236-237 del pres. scritto.

[582] KUHN. _o. c._ I, 89 — IULIAN. _Ep._ 45.

[583] ZOSIM. 3, 11, 3.

[584] IULIAN. _Epist. ad S. P. Q. Athen._ p. 277 c.

[585] IULIAN. _Ep._ 9; 36.

[586] _Cod. th._ 13, 3, 5. Nel _C. I._ 10, 53, 7, che la riproduce,
manca, grazie alla libertà dei compilatori, l’ultima parte, relativa
all’autorizzazione del principe.

[587] NEGRI, _Giuliano l’Apostata_, Milano, 1902, 2ª ed., p. 327 —
ALLARD, _Julien l’Apostat_, Paris, 1903; II, 354 e _passim_, e così
la maggior parte degli storici. Fra le poche eccezioni parmi debbano
annoverarsi il MÜCKE, _Flavius Claudius Julianus_, Gotha, 1867-1869, 2,
81 sgg. e il GOTHOFREDUS nel suo commento.

[588] Il RODE,_ Gesch. d. Reaction Kaiser Iulianus_ etc., Jena, 1877,
p. 64 — LARGAIOLLI, _Della politica religiosa di G. imperatore_,
Piacenza, 1887, pp. 110-111. — NEGRI, _o. c._ p. 329.

[589] _Cod. th._ 13, 3, 6.

[590] MÜCKE, _o. c._ 2, 81.

[591] IULIAN. _Ep._ 42; cfr. anche AMM. MARC. 22, 10, 7-25, 4, 20.

[592] Questa mi pare la più ragionevole interpretazione di questo
passo, che vedo invece reso da altri diversamente: πῶς οὐ τοῦτο ἐκεῖνο
καπήλων ἐστὶν, οὔτι χρησῶτν, ἀλλὰ παμπονήρων ἀνθρώπων, οἴ μάλιστα
παιδεύουσι ὄσα μάλιστα φαῦλα νομίζουσι, ἐξαπατῶντες καὶ δελεάζοντες
τοῖς ἐπαίνοις εὶς οὕς μετατιθέναι τὰ σφέτερα ἐθέλουσι οἴμαι κακά.

[593] GREG. NAZ. 4, 5-6; 101 sgg. — AUGUST. _De civ. Dei_, 18, 52 —
RUFIN. _H. E._ 10, 33, ed MOMMSEN — SOCRAT. _H. E._ 3, 16 _c._ — SOZOM.
5, 18 _b._

[594] Cfr. su ciò anche RODE, _o. c._ 66, n. 8.

[595] κακουργία (_In Iuvent. et Maxim._ 1).

[596] SOCRAT. _H. E._ 3, 16.

[597] NEGRI _o. c._ p. 335.

[598] EUN. _V. S._ p. 482, ed. BOISSONADE: τοῖς τῆς Ἑλλάδος ἱεροῖς εῖς
μακρὸν τι γῆρας ανύσας.

[599] _Or._ 18, p. 574.

[600] DE BROGLIE, _L’Église et l’empire romain au IV. siècle_, Paris,
1862, IV, pp. 209-210; 213; 217.

[601] ALLARD, _o. c._ II, 357 agg.

[602] HERGENRÖTHER-KIRSCH, _Storia universale della Chiesa_, (trad.
it.), Firenze, 1904, I, 14.

[603] DE BROGLIE, _o. c._ IV, 217.

[604] LARGAIOLLI, _o. c._ 110-111.

[605] GIBBON, _The history of decline and fall of the roman
Empire_, 1829, IV, pp. 92 sgg. — BARTENSTEIN, _Zur Beurteilung d.
Kaisers Iulianus_, Bayreuth, 1891 (progr.) 23-24. È questa la tesi
ampiamente svolta da S. Gregorio di Nazianzo (_Or._ 4, 5, sgg.), il
teologo di quel tempo più violento contro Giuliano. Ma — (singolare
contradizione!) — le due orazioni di S. Gregario contro Giuliano sono
per buona parte un attacco vivacissimo contro la cultura classica e la
immoralitè dell’insegnamento, che è possibile ritrarre dagli scrittori
pagani.

[606] DE MARCHI, _La libertà di riunione; di associaz._ etc. in
_Rendiconti dell’Istituto lombardo di sc. e lett._, 1900, p. 851.

[607] Ad es. il MARTHA, _Études morales_, Paris, 1883, p. 294.

[608] MÜCKE, _o. c._ 2, 84.

[609] NAVILLE, _Julian l’Apostat et sa philosophie du polythéisme_,
Paris, 1877, pp. 170-172.

[610] GARDNER, _Iulian philosopher and Emperor_, New-York, 1895, p.
239-240.

[611] NEGRI, _o. c._ 344 sgg.

[612] PLAT. _Protag._ 15.

[613] Sui criteri pedagogici, informatori delle scuole di retorica,
cfr. BOISSIER, _Fin du paganisme_ I, 218 sgg. e le acute osservazioni,
di cui è cosparso uno scritto, che gli storici di solito non leggono,
SOREL, _La ruine du monde antique_, Paris, 1901, pp. 69 sgg.

[614] Per le scuole famose di Port-Royal, cfr. CARRÉ, _Les pédagogues
de Port-Royal_, Paris, 1887, pp. XVII-XVIII; 60-61; 61, nn. 1 e 2; 272
sgg.

[615] Si potrebbe dire di più: il passo dell’editto di Giuliano
(_Ep._ 42 c.), che richiedeva che i maestri non nudrissero opinioni
contrarie a quelle da loro professate in pubblico (μὴ μαχόμενα τοῖς
δηποσίᾳ τὰἐν τῇ ψυχῇ φέρεν δοξάσματα) è stato con cecità partigiana,
anche dai migliori (cfr. ALLARD, _o. c._ II, 357), interpretato come
recante l’imposizione di una conformità di vedute tra i maestri e
l’opinione pubblica. Tale interpretazione, se stenta ad accordarsi
con la grammatica, termina certamente per attribuire a Giuliano il più
illogico e il più sbagliato dei ragionamenti.

[616] NEGRI, _o. c._ 344 sgg.

[617] Cfr. i Cap. VIII e IX del pres. scritto.

[618] SOCRAT. _H. E._ 3, 16.

[619] È stato da più di un moderno ricordato che, anche ai nostri
giorni, degli ecclesiastici hanno chiesto il bando degli autori
classici dalle scuole (BOISSIER, _o. c._ I, 353). Ma essi non hanno
rilevata la singolare, ma non istrana, coincidenza, per cui le scuole
cattoliche, che sono tutte confessionali, e il cui grande pregio
è di inculcare una fede, e di farne il fuoco centrale ispiratore
dell’educazione e dell’insegnamento, ripetono, con le opportune, o
necessarie, mutazioni di mezzi e di fini, la loro natura dal criterio
fondamentale dell’editto di Giuliano.

[620] DE BROGLIE, _o. c._ IV, 213.

[621] AUG. _Confess._ 8, 5, 10.

[622] EUN. _V. S._ p. 492.

[623] IULIAN. _Ep._ 2.

[624] HIERON. _Chron. ad. a._ 366 (II, 196 ed. SCHÖNE).

[625] HIERON. _l. c._ — EUN. _V. S._ p. 493. Non ho potuto vedere
il LALANNE, _Influence des Pères de l’Église sur l’éducation_, ove,
secondo trovo riferito, si sostiene che Proeresio non sarebbe stato
cristiano.

[626] OROS. 7, 30, 3 — IOANN. CHRYS. _In Iuv. et Maxim._ 1.

[627] MÜCKE, _o. c._ 2, 82 — BARTENSTEIN, _o. c._ 22.

[628] DE BROGLIE, _o. c._ IV, 216 e n. 1 — GIBBON, _Decline and fall
of the rom. empire_, IV, 93 — LASAULX, _Der Untergang d. Hellenismus_,
München, 1854, p. 64, n. 184 — RODE, _o. c._ 66 — ALLARD, _o. c._ II,
363-364.

[629] SOCRAT. _H. E._ 2, 46, 3, 16 _a_ — SOZOM. _H. E._ 5, 18 _c._

[630] GREG. NAZ. _Orat._ 4, 111-112; cfr. SOZOM. _H. E._ 5, 16.

[631] 14, 6, 18.

[632] Cfr. anche HARRENT, _Les écoles d’Antioche,_ Paris, 1898, 114 sgg.

[633] pari a _ca. l._ 64. Sull’arruffata questione della capacità
dell’artaba, nell’età imperiale romana, cfr. HULTSCH, _Beiträge zur
Aegyptischen Metrologie_, in _Archiv f. Papyrusforschung_ etc. II,
283 sgg. — GRENFELL-HUNT, in _Tebt. Pap._ I, 232-233 — BARBAGALLO,
_Contributo alla storia economica dell’antichità_, Roma, 1907, pp.
57-59.

[634] _Ep._ 56.

[635] _Ep._ 71.

[636] Com’è noto, l’autorità delle lettere di Giamblico a Giuliano
è stata più volte posta in dubbio (SCHWARCZ, _De vita et scriptis
Iuliani imperatoris_, Bonn, 1888, pp. 23 sgg. — ZELLER, _o. c._ III^4,
2, 736-8, n. 3); ma quei dubbi non hanno in verità fondamenta troppo
solide (CROISET, _Hist. de la litter. grecque_, Paris 1899, V, 888 e n.
1 — NEGRI, _o. c._ 451, n. 1).

[637] _Ep._ 3.

[638] _Ep._ 40.

[639] _Ep._ 4.

[640] _Ep._ 15.

[641] 22, 7, 3, — cfr. LIBAN. _Or._ 18, p. 574.

[642] AMM. MARC. 25, 3, 15 sgg.

[643] _Cod. th._ 13, 3, 6.

[644] Così mutilata la ritroviamo nel _C. I._ 10, 53, 7.

[645] AMM. MARC. 23, 5, 11.

[646] _Cod. th._ 14, 9, 1.

[647] Queste _consociationes_ debbono essere state le corporazioni
degli studenti, i cui atti — talora criminosi — sono più volte
censurati dagli scrittori contemporanei.

[648] I _corporati_ erano persone, facenti parte di associazioni
speciali, riconosciute dallo Stato, le quali, nel IV. e nel V.
secolo di C., ebbero una importanza massima nella vita dell’impero,
segnatamente in Roma e in Costantinopoli, e vennero incaricate di
speciali servizi pubblici, in cambio dei quali godevano determinati
privilegi; cfr. WALTZING, _Les corporations professionelles chez les
Romains_, Louvain, 1896, II, 139 sgg.; 193 sgg. e _passim._

[649] Cfr., oltre a quello del GOTHOFREDUS, il bel commento alla legge
del CONRING, in DE SALLENGRE, _Novus thesaurus antiquitatum_, III,
Venetiis, 1735, pp. 1199-1232, nonchè le osservazioni del KRUFFEL, o.
c. § 12-16 e del VIGNEAUX, _Essai sur l’histoire de la_ praefectura
urbis _à Rome_, Paris, 1896, pp. 305; 118.

[650] Le fonti sono Libanio, S. Gregorio di Nazianzo, S. Agostino. Per
un quadro generale di quella vita e di quell’ambiente, cfr. HERTZBERG,
_o. c._ III, 349 sgg. — HARRENT, _Les écoles d’Antioches_, pp. 205 sgg.
— MONCEAUX, _Les Africains_, Paris, 1894, 66 sgg. — RAUSCHEN, _o. c._
29.

[651] AUG. _Confess._ 5, 8, 14: _quietius studere adulescentes et
ordinatiore disciplinae coercitione sedari._

[652] _Cod. th._ 13, 3, 10.

[653] _Cod. th._ 13, 4, 4. Il testo dà _picturae professores._
Tale epiteto non basterebbe a designare dei maestri. Ma la legge è
richiamata in un’altra di Teodosio II. (_Cod. th._ 13, 3, 18; cfr.
_C. I._ 12, 40, 8), rubricata sotto il titolo _de professoribus_, che
questa volta sono realmente insegnanti pubblici e privati.

[654] Era un’imposta che gravava sui mercanti.

[655] AMM. MARC. 30, 9, 4.

[656] MOMMSEN, _Röm. Strafrecht_, Leipzig, 1899, 249-250.

[657] Questa è la più probabile interpretazione della seconda tra
le clausole da noi enumerate della legge di Valentiniano. Essa
dette luogo a un’interessante discussione tra il SAVIGNY (_Römische
Steuerverfassung unter d. Kaisern in Verm. Schriften_, II, 83-84) e
lo ZACHARIAK VON LIEDENTHAL (_Zur Gesch. d. röm. Steuerwesen in d.
Kaiserzeit_, estr. dalle _Mémoires de l’Académie imper. des sciences de
S. Pétersbourg_, 1863, pp. 5 sgg). Cfr. anche PLATON, _o. c._ 95 sgg.

[658] _Cod. th._ 13. 4, 1; 2.

[659] _Orat._ 9, p. 123 _b._

[660] _Cod. th._ 14, 9, 2.

[661] Era questa la forma di rimunerazione, adottata ora anche per i
pubblici docenti; cfr., ad es., THEMIST. _Or._ 23, p. 292 _a_ sgg.

[662] CARDINALI, in DE RUGGIERO, _Diz. ep._ III, 282 sgg.

[663] ZOSIM. 4, 14-15.

[664] AMM. MARC. 29, 1, 41. Perchè, ad es., i libri di diritto?

[665] Cfr. anche SOZOM. _H. E._ 6, 35 e BERNAYS, _Ueber die Chronik d.
Sulpicius Severus_ in _Gesammelte Abhandlungen_, Berlin, 1885, II, 102.

[666] _Orat._ 10, p. 129 _d_-130 _a._

[667] _Cod. th._ 13, 3, 11.

[668] Questa singolare modestia di stipendio del grammatico greco di
Treviri si può spiegare col fatto che, in questa città, l’uso del greco
era raro, l’apprendimento svogliato (cfr. AUSON. 16, 9 ed. SCHENKL) e
l’insegnamento, quindi, negletto come cosa superflua.

[669] BUCHER, _Die Diokletianische Taxordnung vom Jahre 301_, in
_Zeitschrift für die gesammte Staatswissenschaft._ 1894, p. 197 —
MEYER, _Die wirtschaftl. Entwickelung_ etc. in _Jahrb. f. N. Ö._ 1895,
p. 742 e nota.

[670] _Leges novellae ad Theodosianum pertin._; Val. 13, 3, ed
MOMMSEN-MEYER; cfr. BARBAGALLO, in _Vierteljahrschrift für Social — u.
Wirtschaftsgesch._ 1906, pp. 659 sgg.

[671] I, 27, 1, 22 sgg.

[672] _CIL._ 3 _suppl._ 2, p. 2358^28, _l._ 1 _a._

[673] GRAN. LIC. p. 34, ed. FLEMISCH.

[674] THEMIST. _Or._ 23, p. 292 _a._

[675] _Edict. de pretiis_ etc. 3, 3, ed MOMMSEN-BLUMNER.

[676] Secondo l’_Edictum de pretiis_ (2, 1 sgg.), il vino, nell’impero
romano, era uno dei prodotti più costosi.

[677] Cfr. CARDINALI, in DE RUGGIERO, _Diz. ep._ III, 285 sgg.

[678] 16, 9, 6: _fructus exilis tennisque sermo._

[679] _Cod. th._ 13, 3, 8 (= _C. I._ 10, 53, 9); 9 — SYMMACH. _Ep._ 10,
27 (= 10, 40= 10, 47) 2 sgg. — VERCOUTER, in _Revue arch._ 1880 (39) p.
355 sgg.

[680] _Cod. th._ 13, 3, 10; 12.

[681] _Cod. th._ 15, 1, 14. Cfr. AMM. MARC. 27, 3, 10.

[682] _Cod. th._ 15, 1, 19.

[683] AUSON. _Gratian act._ 17 e _passim._ Su Ausonio precettore di
Graziano, cfr. IULLIAN, _Ausone et son temps_, in _Revue histor._ 1891
(47) 256 sgg.

[684] CROISET, _Hist. de la litt. grecque_, V, p. 863.

[685] BOISSIER, _Fin du paganisme_, II, 209-210.

[686] Così suona il lamento degli Ellenofili; cfr. LIBAN. _Orat._ 1, p.
133.

[687] BOISSIER, _o. c._ II, 437.

[688] THEMIST. _Or._ 5, p. 63 _c_; 9, p. 123.

[689] Sulla reazione religiosa di Teodosio, cfr. LASAULX _Der Untergang
d. Hellenismus_, München, 1854, pp. 98 sgg. — SCHULTZE, _Gesch. d.
Untergangs d. Heidentums_, Jena, 1887, I, 257 sgg.

[690] SCHULTZ, _o. c._ I, 259; 276 sgg. e fonti ivi cit.

[691] _Cod. th._ 12, 1, 98 (= _C. I._ 10, 32, 35).

[692] _Cod. th._ 12, 1, 86; 87; 90; 91; 93; 94.

[693] _Cod. th._ 12, 1, 98: _ne quid patriae periisse videatur._

[694] SYMMACH. 5, 35 (= 33). Noi conosciamo il destinatario solo
attraverso le poche lettere indirizzategli da Simmaco, che vanno dal
382 al 389. D’altra parte, fino al 380, il diritto a cotali stipendii
non era stato messo in discussione (cfr. SYMM. 1, 79 (= 73).)

[695] Cfr. PETIT DE JULLEVILLE, _L’école d’Athènes_, p. 128.

[696] _Cod. th._ 13, 3, 13; 14; 15.

[697] _Cod. th._ 16, 10, 8.

[698] Ad es. il MÜLLER, _o. c._ p. 47.

[699] _Ep._ 10, 27 (= 40 = 47).

[700] Il GOTHOFREDUS e, sulla sua fede, anche lo SCHULTZE (_o. c._
I, 256 e n. 1) pensa sia stato un tempio della metropoli di quella
regione, Edessa, quello stesso, che Libanio celebra nella sua orazione
_Pro templis_, 10. Il DUCHESNE (_Hist. ancienne de l’Église_, Paris,
1906-07, II, 631, n. 2) pensa che si tratti invece della città di
Harran, l’antica _Charrae._

[701] AMM. MARC. 14, 6, 12 sgg. Ammiano compose le sue _Istorie_ verso
il 390; cfr. TEUFFEL, _Gesch. d. röm. Litt._, II^5, 1093.

[702] Intendi le biblioteche private, come il testo chiarisce.

[703] AMM. MARC. 14, 6, 18-19.

[704] _Cod. th._ 15, 1, 37 (= _C. I._ 8, 11, 13) — _C. I._ 1, 24, 1.

[705] I due editti sono indirizzati a un Teodosio, allora _praefectus
praetorio_ delle Gallie (CLAUDIAN. 17, vv. 50 sgg.).

[706] _Cod. th._ 16, 10, 15; 18 (= _C. I._ 1, 11, 3). Circa i paesi,
cui il primo si riferirà, cfr. il commento del GOTHOFREDUS.

[707] _Cod. th._ 16, 10, 16.

[708] EBERT, _Histoire générale de la littérature du Moyen âge en
Occident_ (trad. fr.) Paris, 1883, I, 298.

[709] _Advers. Symmachum._ I, vv. 501-505.

[710] GREGOROVIUS, _Atenaide, storia di un’imperatrice bisantina_
(trad. it.), Torino, 1882, pp. 47 sgg.; 55 sgg. — GULDENPENNING,
_Geschichte d. öström. Reiches_, II, 223.

[711] _Cod. th._ 13, 3, 16 (= _C. I._ 10, 53, 11); 17.

[712] _Cod. th._ 15, 1, 53. 14, 9, 3 (= _C. I._ 11, 19, 1-2). 6. 21, 1
(= _C. I._ 12, 15, 1).

[713] Ciò è detto implicitamente nella legge del marzo (_Cod. th._ 6,
21, 1 — _C. I._ 12, 15, 1). Per la emendazione dei passi corrotti di
questo testo, ho seguito le ipotesi del GOTHOFREDUS, accolte anche dal
MOMMSEN, nella sua edizione del _Codex Theodosianus._

[714] HERTZBERG, _Gesch. Griechenlands unter d. Herrschaft d. Römer_,
III, 272 — GULDENPENNING, _o. c._ 275 — BUTY, _A history of later roman
Empire from Arcadius to Irene_, London, 1889, I, 128. Il GREGOROVIUS
(_o. c._ 120-121) oscilla fra le due opinioni.

[715] SIMON, _Hist. de l’école d’Alexandrie_, Paris, 1845, II, 371 sgg.
— VACHEROT, _Hist. critique de l’école d’Alexandrie_, Paris, 1846, II,
192 sgg. — PETIT DE JULLEVILLE, _o. c._ pp. 129 sgg. — ZELLER, _o. c._
III^4, 2, 805 sgg.

[716] GULDENPENNING, o. c. 278.

[717] GREGOR. TURON. _Mirac._ 1 _praef._ — ENNOD. CDXXXVIII, 10 (p.
301-302), ed. VOGEL; cfr. GULDENPENNING, _o. c._ 277-278.

[718] Si desume, confrontando il _Cod. th._ 6, 21, 1 con il _Cod. th._
14, 9, 3.

[719] Tale infatti fu Elladio, un dotto, che aveva risieduto in
Alessandria fino al 381, ove, per giunta, era stato sacerdote di Giove
(SOCRAT. _H. E._ 5, 16 _a_).

[720] HARRENT, _o. c._ 234-235; 240 sgg. e fonti ivi cit.

[721] Cfr. PRELLER, _Die Regionen d. Stadt Rom_, p. 170, n. *.

[722] Cfr. SAVIGNY, _Storia del diritto rom. nel M. E._ (trad. it.),
Torino, 1854, I, 262, n. _c._; 263, n. _i._

[723] _CIL._ 6, 9858, illustrata in _Boll. crist._ 1863, p. 14. Sul
retore privilegiato nel VI. secolo, cfr. JAHN, in _Berichte über die
Verhandlungen d. Königlich-Sächsischen Gesellschaft d. Wissenschaft zu
Leipzig, Phil.-hist. Classe_, 1851, pp. 351-352.

[724] Cfr. il Cap. IX. del pres. scritto.

[725] _Cod. th._ 13, 3, 18 (= _C. I._ 12, 40, 8).

[726] CUQ, _Institutions_, II, 777, n. 2.

[727] Cfr. SAVIGNY, _o. c._ I, 20 sgg. — GIBBON, _o. c._ VIII, 1 sgg. —
CUQ, _o. c._ II, 777 sgg.

[728] Su questi due codici, cfr. KARLOWA, o. c. I, 941 sgg. — KRÜGER,
_Hist. des sources du droit romain_, trad. fr., Paris, 1894, pp. 381
sgg. — COSTA, _Storia delle fonti del diritto romano_, Torino, 1909,
pp. 114-116 e la bibliografia ivi citata.

[729] AMM. MARC. 30, 4, 3 sgg.; 11: _iuris professi scientiam
repugnantium sibi legum abolevere discidia._

[730] PANEG. LAT. 11, 20.

[731] AMM. MARC. 30, 40, 8 sgg.

[732] (_Digest._) _Const. Omnem_, 1 sgg.

[733] _Nov. Theod._ 1, 1 sgg.

[734] Su l’opera giuridica di Teodosio II., cfr. KARLOWA, _o. c._ I,
943 sgg.

[735] _Cod. th._ 1, 1, 5.

[736] _Cod. th._ 1, 1, 6.

[737] _Nov. Theod._ 1; cfr. KARLOWA, _o. c._ 1, 943 sgg.

[738] Si tratta di una curiosa tradizione, che vale proprio la pena
di riferire. PIETRO ALCIONIO, un letterato della prima metà del sec.
XVI., fa, in un suo scritto (_De exilio, Lipsiae_, 1707, pp. 213-214),
raccontare dal cardinal Giovanni de’ Medici, che, nella di lui
biblioteca, era un libro di autore greco _de rebus a Gothis in Italia
gestis_, in cui si diceva che Attila, allorquando ebbe invaso l’Italia,
ordinò che niuno adoperasse più il latino e chiamò anzi dal suo paese
maestri perchè insegnassero il gotico agli Italiani. Il TIRABOSCHI (_o.
c._ II, 587-588) obbietta che Attila non poteva considerare l’Italia
come cosa sua, e, quindi, legiferare secondo l’ALCIONIO riferirebbe. In
verità, l’obbiezione non è insuperabile. Piuttosto, si potrebbe notare
la stranezza del fatto che Attila avrebbe imposto il gotico, anzichè
l’unno, come lingua ufficiale. Ma ne anche a questa seconda obbiezione
è impossibile replicare.

[739] _Const. Omnem_ 7 — _Cod. iust._ 1, 17, 1, 10.

[740] Ha dato di ciò una magistrale dimostrazione il Krumbacher,
_Gesch. d. byzant. Litteratur_, München, 1897, 2ª ed., _Einl._ 1 sgg.
Sui problemi di classificazione cronologica dell’antichità e del Medio
Evo, discussi in questo breve paragrafo, cfr. GUTSCHMID, _Die Grenze
zwischen Altertum u. Mittelalter_, in _Kleine Schriften_, Leipzig,
1894, V., 393 sgg.

[741] USENER, _Anecdota Holderi_, Bonn, 1877, p. 67 — MOMMSEN,
_Prooemium alle Variae_ di CASSIOD., SENAT. p. VIII.

[742] USENER, _o. c._ 68 sgg. — MOMMSEN, _o. c._ IX sgg.

[743] _Var._ 9, 24, 8.

[744] _Var._ 2, 3, 1 sgg.; 15, 4. 3, 33, 1 sgg. 10, 7, 2 sgg. etc.

[745] La fonte è PROCOPIO (_De bello goth._ 1, 2), il quale però non
riferisce la cosa come un fatto, della cui constatazione egli assuma
la responsabilità, ma come un argomento dei nazionalisti Goti contro la
figlia di Teodorico, Amalasunta.

[746] Cfr. CASSIOD. _Var._ 1, 24.

[747] CASSIOD. _Var._ 10, 4, 6.

[748] PROCOP. _de bello goth._ 1, 3.

[749] CASSIOD. _Variae_ 1, 39, 4, 6 e, fors’anche, 2, 22. Cfr. MAUSO,
_Gesch. d. öst-gothischen Reiches in Italien_, Breslau, 1824, p. 132,
n. v.

[750] CASSIOD. _Var._ 5, 22. 4, 6.

[751] in _Nov. App._ 7, 22.

[752] CASSIOD. _Var._ 2, 35.

[753] IDEM, _Var._ 1, 25.

[754] CASSIOD. _Chron. ad a._ 500.

[755] IDEM, _Var._ 1, 25; 28. 2, 7; 34; 39. 3, 29, 31. 4, 51. 7, 15.

[756] CASSIOD. _Var._ 7, 13.

[757] ENNOD. _Paneg. Theod._ 56 e CDXXXVIII; cfr. MAUSO, _o. c._ 124
sgg.; 136 sgg.

[758] CASSIOD. _Var._ 8, 29; 30, 10, 30.

[759] CASSIOD. _Var._ 9, 24, 11.

[760] CASSIOD. _Var._ 8, 12, 8.

[761] CASSIOD. _Var._ 8, 18, 4.

[762] PROCOP. _de b. g._ 1, 2; cfr. HODGKIN, _Italy and her invaders_,
Oxford, 1885, III, 585 sgg.

[763] Debbono essere gli impiegati dell’_officium a rationibus_, cui
spettava la cura suprema del _fiscus_; cfr. ROSTOWZEW, _Fiscus_ in DE
RUGGIERO, _Diz. ep._ III, 133 sgg. — HIRSCHFELD, _Untersuchungen_ etc.,
pp. 29 sgg.

[764] CASSIOD. _Var._ 9, 21.

[765] ENNOD. CDLII, 18, sgg. Fra i personaggi più colti
dell’aristocrazia romana del tempo erano anche delle donne.

[766] ENNOD. _Paneg. Theod._ 2; 76 — CASSIOD. _De inst. dir. praef._

[767] TIRABOSCHI, _o. c._ III, 51 sgg.

[768] IDEM, _o. c._ III, 35 sgg. — MONTALEMBERT, _Les moines
d’Occident_, Paris, 1860, II, 79-81.

[769] AGATH. (5, 14) si esprime testualmente: «_Di quanti regnarono in
Costantinopoli egli fu il primo sovrano assoluto, così di fatto, come
di nome_».

[770] Sulla politica religiosa di Giustiniano, cfr. LASAULX, _o. c._
144 sgg. — SCHULTZE, _o. c._ I, 437 sgg. — DIEHL, _Justinien et la
civilisation byzantine au VI. siècle_, Paris, 1901, 552 sgg.

[771] _Cod. iust._ 1, 5, 18, 4.

[772] _Cod. iust._, 1, 11, 10, 2-3.

[773] ZOSIM. 5, 5.

[774] MALAL. 18, _O_ 187 _d-e._

[775] Su questo particolare, cfr. GREGOROVIUS, _Gesch. d. Stadt d.
Athen_, I, 55-56 e 56, n. 1. Non mi è stato possibile avere tra mano
il PAPERREGOPULOS (Ἱστορία τοῦ Ἔλλ. ἔθνους, 1887), ove, secondo trovo
indicato, si nega la realtà delle soppressioni avvenute nel 529, tesi
questa, che però non è stata accolta dai più recenti storiografi di
quell’età.

[776] AGATH. 2, 30 — MAL. 18, _O_ 237-238.

[777] AGATH. 2, 28; 30-31. Sulla fine della Università ateniese, cfr.
anche ZUMPT, _o. c._ 59 sgg.

[778] ZUMPT, _o. c._ 63 — ZELLER, _o. c._ III^4, 2, 917, n. 1.

[779] MALAL. 18, _O_ 187 _d-e._ Il cronista fa tale divieto
contemporaneo all’altro dell’insegnamento della filosofia. Ma questo
è impossibile. Nel 529 Giustiniano aveva già riconosciuto quelle
scuole (MALAL. 18, _O_ 183). L’ordine della chiusura della facoltà di
giurisprudenza deve essere quindi contemporaneo alla pubblicazione del
_Digesto_ (_Const. Omnem_ 7).

[780] IULIAN. _Or._ 3, p. 153.

[781] CRAMER, _Anecd. graeca e Codd. Paris._ IV, 315.

[782] PROCOP. _H. A._ 26 (= _P._ 74 _c-d_).

[783] Su Procopio, quale fonte della storia di Giustiniano, cfr. HAURY,
_Zur Beurtheilung d. Geschichtsschreibers Procopius_, Munich, 1896 —
BRÜCKNER, _Zur Beurtheil. Procopius_, Ansbach, 1896, CROISET, _o. c._
V, 1018-1019 — KRUMBACHER, _o. c._ I^2, 230-237 — BURY, _o. c._ I, 359
— DIEHL, _o. c._ XII sgg.

[784] KRUMBACHER, _o. c._ I^2, 373.

[785] ZONAR. 14, 6, 31-32 (= _P._ 2. II. 63, b.)

[786] in _Nov. App._ 7, 22.

[787] _Cod. iust._ 2, 7, 22, 4-5; 24, 4-5.

[788] _Cod. iust._ 2, 7, 11, 1 sgg.

[789] Sull’opera giuridica di Giustiniano, cfr. GIBBON, _o. c._ VIII,
30 sgg. — KARLOWA, _o. c._ I, 1003 sgg. — KRUGER, _o. c._ p. 431 sgg.
— DIEHL, _o. c._ 250 sgg. — COSTA, _o. c._ 130 sgg., ove, assai più del
testo è pregevole il copioso apparato bibliografico.

[790] _Const. Deo auctore_ 5.

[791] _Const. Tanta_, 11.

[792] Const. Tanta 13.

[793] _Const. Imper. maiest._, _praef._; cfr. _De Iust. cod. conf.
praef._

[794] _Const. Imper. maiest._ 3.

[795] _Ibid._ 7.

[796] _Const. Imper. maiest._ 3.

[797] _Const. Omnem_ 7. Giustiniano (_ibid._) soggiunge che tale
investitura ufficiale fu, dai suoi predecessori, data anche a Berito, a
Roma e a Costantinopoli, _ma non ad altri luoghi._ Egli dimentica però
le _costituzioni_ imperiali, cui si riferisce un passo del _Digesto_
(27, 1, 6, 12), secondo cui i principi riconoscono l’insegnamento della
giurisprudenza _nelle province_, pur non onorandone i maestri delle
consuete immunità: «_qui ius civile docent in provincia vacationem non
habent, Romae docentes habent._»

[798] Cotali sedi di scuole giuridiche non dovevano essere poche; cfr.
_Dig._ 27, 1, 6, 12 e BREMER, _Rechtslehrer u. Rechtsschulen_, 71 sgg.

[799] _Const. Omnem_ 7.

[800] Cfr. il § IX. del pres. capitolo.

[801] Cfr. SAVIGNY, _o. c._ I, 263 n. _a._ — KARLOWA, _o. c._ I, 1023.
A Berito dovevano esservene certamente più di due. Durante i lunghi
anni di compilazione delle _Pandette_, noi troviamo nella Commissione
due professori di Berito, i quali, naturalmente, erano costretti a
soggiornare a Costantinopoli. Se a Berito non ve ne fossero stati
altri, quella gloriosa facoltà giuridica sarebbe rimasta senza maestri.

[802] Per la compilazione della prima edizione del _Codice_ v’è solo
un professore di Costantinopoli; per la seconda, solo uno di Berito;
per le _Pandette_, due di Costantinopoli e due di Berito; per le
_Istituzioni_, uno di Costantinopoli e uno di Berito.

[803] Significava _Dupondii_ studenti da due dramme? E in che modo a
codesto nome si convenivano le critiche imperiali? Cfr., su codesta
oscura, questione, PERNICE, _Miscellanea_, I, 107 sgg. — RUDORFF, in
_Zeitschrift f. Rechtsgeschichte_, III, 38.

[804] _Const. Omnem_ 1.

[805] _Const. Omnem_ 7.

[806] _Const. Omnem_ 5.

[807] _Const. Omnem_ 9-10.

[808] _Const. Omnem_ 10. Non è inopportuno rilevare l’analogia di
queste disposizioni con quelle che regolano le Università medievali, di
cui fu modello Bologna (SAVIGNY, _o. c._ I, 556-557).

[809] Il testo, come in altri punti della _costituzione_, ha _leges_,
ma sul significato della parola, cfr. KRÜGER, _o. c._ 468, n. 1.

[810] Giustiniano dice _partes legum_, ma cfr. KRUGER, _l. c._ —
KARLOWA, _o. c._ I, 1026.

[811] _Const. Omnem_, 1; 4.

[812] _Ibid._ 1; 5.

[813] _Const. Omnem_ 1.

[814] Sul probabile valore simbolico di questa, come di parecchie altre
cifre, contenute in questi programmi, cfr. BURY, _o. c._ I, 368-369.

[815] _Const. Omnem_ 2 sgg.

[816] IOANN. LYDUS, _De magistr._ 3, 29.

[817] HASE, _Commentarius de Ioanne Laurentio Lydo_, p. IX,
nell’edizione Bonnense delle opere di Lido.

[818] _l. c._ L’HASE rimane incerto fra la lingua greca e la latina,
ma il testo del decreto fa propendere per quest’ultima: Giustiniano lo
lodava per la sua perizia nella ρωμαίων φωονὴ (LYD. _De magistr._ 3,
29).

[819] Cfr. AUR. VICT. _Caes._ 10, 1.

[820] CIC. _De rep._ 4, 3, 3.

[821] Cfr. BARBAGALLO, _Scuola, Stato e politica in Roma repubblicana_,
in _Riv. di filol. class._, 1910, fasc. 4º.

[822] Δημηγωρία etc. (in THEMIST. _Orationes_, ed. DINDORF) p. 21 _b-c._

[823] SYMMACH. _Ep._ 1, 79.

[824] _Const. Omnem_, 7.

[825] _Const. Omnem_ 10.

[826] Cfr. HARRENT, _o. c._ 227 e sgg. — GRUPP, _Kulturgesch. d.
Kaiserzeit_, Stuttgart, 1903, I, 141.

[827] Cfr. PETIT. _o. c._ 84.

[828] _C. I._ 10, 53, 2.

[829] È tipica la legge del _Cod. th._ 13, 3, 1.

[830] Cfr. _Cod. th._ 12, 2, 1 (= _C. I._ 10, 37 (36)).

[831] _Const. Omnem_ 7.

[832] _CIL._ 8, 20.684.

[833] Cfr. CAGNAT, _Procurator_ in DAREMBERG ET SAGLIO, _Dict. d’ant.
class._ 4, 1, p. 662.

[834] _CIL._ 10, 1739.

[835] Cfr. in ispecie il _CIL._ 10, 7580; 14, 2916.

[836] _CIL._ 6, 2132.

[837] Così hanno opinato, contro il MOMMSEN (in HARNACK U. GEBHARDT,
_Texte u. Unters._ etc. 1903, 111-112), l’HIRSCHFELD, _o. c._ 305 nota
e il LANGIE, _o. c._ 140-141. Ma, fuori di Roma, gli imperatori avevano
certamente biblioteche private — ne è prova quella greco-latina,
collocata da Adriano nella sua villa a Tivoli —, e, se questo accadeva
fuori di Roma, doveva _a potiori_ avvenire in Roma e in Costantinopoli.

[838] _CIL._ 6, 4233; 5188; 5190; 5884; 8679; 8743 — _Cod. th._ 14, 9,
2.

[839] _Cod. th._ 15, 1, 14. 16, 10, 15 ( = _C. I._ 1, 11, 3); 10,
18 etc. Circa la sorveglianza del _praefectus urbi_ sui monumenti
pubblici, cfr. VIGNEAUX, _o. c._ 323 sgg.

[840] _Cod. th._ 6, 21, 1; cfr. LIBAN. 1, pp. 27; 51-52, ed. REISKE.

[841] Cfr. anche SYMM. 1, 79.

[842] Cfr. DIO CASS. 53, 30.

[843] _CIL._ 6, 9888.

[844] _Cod. th._ 15, 1, 19.

[845] CASSIOD. _Variae_, 9, 21, 9.

[846] PHILOSTR. _V. S._ 2, 12, 4; 30, 1-2.

[847] Traiano e Adriano dànno al sofista Polemone e ai suoi successori
la facoltà di viaggiare in franchigia, il diritto di portare la
_praetexta_, il privilegio del ιερασθαι (PHIL. 1, 25, 5. 2, 25, 5);
Marco Aurelio dà al sofista Adriano, oltre a doni ricchissimi, mensa
quotidiana a spese dello Stato, un posto riservato in pubblico, il
privilegio del ιερασθαι e tutti gli onori, cui può ambirsi da un libero
(PHILOSTR. 2, 10, 7). Cfr. su ciò anche WEBER, _o. c._ 21 sgg.

[848] PHILOSTR. _V. S._ 2, 25, 5.

[849] PHILOSTR. _V. S._ 2, 20, 2; 30, 1.

[850] _H. A. Hadr._ 16. 11.

[851] _CIL._ 6, 1704 e MOMMSEN, in _N. Memorie dell’Istit. di corr.
arch._, 1865, pp. 328-329.

[852] HIRSCHFELD, _o. c._ p. 334.

[853] MOMMSEN, in _N. Memorie_, 1865, p. 329, in HARNACK U. GEBHARDT,
_o. c._ 1903(9) 3, p. 112.

[854] ZONAR. 14, 6, 31-32 (= _P. II_ 63 _b_).

[855] Cfr. SYMM. 1, 79 — CASSIOD. _Variae_, 9, 21.

[856] Cfr. _Const. Omnem_ 10.

[857] _Cod. th._ 14, 9, 3 (= _C. I._ 11, 19, 1-2) — _Const. Omnem_
7. L’esecutore di questa clausola non può, in Costantinopoli, essere
altri che il _praefectus urbi_, così come, nelle città di provincia, i
governatori del luogo.

[858] _Cod. th._ 16, 1, 53. 14, 9, 3 — IOANN. LYD. _De magistr._ 3, 29.

[859] SYMMACH. _Ep._ 10, 5 — ZONAR. 14, 6, 31-32 (= _P. II_ 63 _b_).

[860] SYMMACH. 1, 79 — CASSIOD. 9, 21.

[861] _Cod. th._ 6, 21, 1 (= _C. I._ 12, 5. 1).

[862] AUGUST. _Confess._ 3, 13, 1.

[863] _Cod. th._ 14, 9, 2; cfr. MOMMSEN, in HARNACK U. G. _Texte u.
Unters._ 1903, 3, 111.

[864] _Cod. th._ 13, 3, 6 — _Const. Omnem_ 7.

[865] _Cod. th._ 13, 3, 1; 11.

[866] Cfr. _Cod. th._ 13, 3, 7 (= _C. I._ 10, 53, 9).

[867] _Cod. th._ 13, 3, 1 (= _C. I._ 10, 53, 6) 4, 1; 2 (= _C. I._ 10,
66, 1); 3 (= _C. I._ 10, 66, 2).

[868] _Cod. th._ 13, 4, 1. Circa il destinatario, cfr. il commento del
GOTHOFREDUS al _Cod. th._

[869] Cfr. WEBER, (_o. c._ 7-8; 15), che tuttavia non ha sempre inteso
rettamente le fonti consultate e riferite — PETIT, _o. c._ 30; 33 sgg.;
39; 41; 70 — HERTZBERG, _o. c._ III, 312 sgg.

[870] ROSTOVZEW ET PROU, _o. c._ 91.

[871] Così pensarono il ROSTOWZEW ET PROU, _o. c._ 94; 100 e lo stesso
ROSTOWZEW, _R. Bleitesserae_, pp. 59; 86.

[872] Cfr. ROSTOWZEW, _o. c._ 59; 86.

[873] _Eph. epigr._ 3, 156 — _CIL._ 3 _suppl._ 7060.

[874] CAGNAT, in _Année épigr._ 1896, N. 32 — ROSTOWZEW, _o. c._ 92, n.
2.

[875] ROSTOWZEW ET PROU, _o. c._ 94-95; 97 — ROSTOWZEW, _o. c._ 86.

[876] Cfr. SAVIGNY, _o. c._ I, 546-547.

[877] [TAC.] _De orator._ 40.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.

Le correzioni indicate a pag. 431 (Errata-corrige) sono state riportate
nel testo.

La notazione ^ indica che il carattere seguente è in apice.




        
            *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LO STATO E L'ISTRUZIONE PUBBLICA NELL'IMPERO ROMANO ***
        

    

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