The Project Gutenberg eBook of Delle speranze d'Italia This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Delle speranze d'Italia Author: conte Cesare Balbo Release date: August 26, 2025 [eBook #76738] Language: Italian Original publication: Venezia: Tip. repubblicana di Teresa Gattei, 1848 Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK DELLE SPERANZE D'ITALIA *** DELLE SPERANZE D’ITALIA DI CESARE BALBO Porro unum est necessarium (LUC., X, 42). VENEZIA TIP. REPUBBLICANA DI TERESA GATTEI 1848 A VINCENZO GIOBERTI DEDICA PRIMA Pochi anni sono io scrissi sulla storia d’Italia e sugli insegnamenti pratici a trarne, un libro ch’io serbava a rivedere e pubblicare in altri tempi. — Ma ora voi. Signore ed Amico, trattando quasi il medesimo assunto nel vostro libro del Primato, avete fatte inutili molte parti del mio. A che ridire men bene tante cose magnificamente dette da voi, e nelle quali consentiamo? A che, per le poche nelle quali dissentiamo, ripor io con fatica quelle fondamenta dei diritti e dei doveri pubblici italiani, da voi poste, a parer mio, irrevocabilmente? A che ricominciar sempre, rinnegando i predecessori, per profferir sè solo capo di scuola e d’idee, come fanno taluni a grave danno delle scienze, e, che è peggio, delle pratiche più importanti? — Meglio edificare sull’edificato da voi; accettar da voi ciò che mi par dirittamente sancito dalla vostra eloquenza ed autorità; e partir indi per progredire, se mi sia possibile, poi. Così ho tentato fare. E non, riprendendo e troncando il mio libro or invecchiato, ma facendone uno nuovo, che mi parve meno ingrata fatica, non, del resto, riferendomi di continuo a voi, in quella forma polemica che suol riuscir poco grata a’ leggitori, per l’obbligo imposto loro di tener a mente due libri insieme; ma facendone uno che possa star da sè, e sia piuttosto una sintesi delle mie idee, che non un’analisi di quelle di nessuno. Ad ogni modo questo libro ebbe occasione ed origine da voi; e mi venne incominciato con impeto, appena io m’ebbi in quattro o cinque dì, studiato, annotato, e, come si suol dire, divorato il libro vostro; e incominciai riconoscendo ed avvertendo tale origine. Ma finito ora, e sperando non aver offeso nel dissentire voi, che stimo, venero ed amo in vostra persona, ed aver espressa la mia ammirazione per tante parti de’ vostri scritti, ho pensato dedicarvi questo come protesta di tali mie intenzioni e speranze. Novembre 1843. CESARE BALBO. A VINCENZO GIOBERTI DEDICA SECONDA Quando voi, Signore ed Amico, mi faceste il favore di accettar la mia prima dedica, voi mi esprimeste il generoso timore che il vostro nome «recasse forse pregiudizio nel concetto di alcuni alle pagine mie». Ma uno più grave e più certo io ne previdi loro, dall’aver io mirato a moderazione politica non dissimile dalla vostra. È naturale, immanchevole: non si può camminar diritto in mezzo ad una via accalcata, senza urtare di qua e di là, dalle due parti, a destra ed a sinistra, bianchi e neri. E questa è anzi la bellezza, questa la fortezza della vera moderazione politica: che, mentre le parti estreme non si propongono se non un avversario a rimuovere e combattere, la nostra se ne propone due. Noi dunque (se mi concediate continuar a mettere in queste cose il nome mio dopo il vostro), noi non abbiamo raccolto qui se non ciò che seminammo; non abbiamo se non la guerra che movemmo. Se non l’avessimo preveduta, noi avremmo avuta poca cognizione degli affari umani; se ce ne meravigliassimo ora, avremmo senno poco costante; se ci fermassimo o, peggio, ci arretrassimo, poco cuore. In tutti i paesi dove duran parti (e patenti o latenti elle durano all’età nostra dappertutto), molti sono i quali amano la patria meno che non una frazione di essa, men che la parte o talora il ceto proprio; molti che amano la stessa parte propria, meno che non odiano gli avversari; molti che pretendono tutto conservare, e molti che tutto mutare, e molti che vorrebbero non solamente conservazioni o mutazioni, ma rivoluzioni od all’indietro od all’innanzi; e queste stesse, men come mezzi di profitti patrii, che di propri, profitti chi di roba, chi di gloria, chi di vendette. E a tutti questi è bello, è santo l’opporsi di qua e di là, il porsi fortemente in mezzo, in tutti i paesi del mondo. — Tuttavia, in quelli dove sono patenti le parti, dove apertamente si può combattere, e per esse e contro ad esse, è minore il pericolo senza dubbio, e per ciò la fortezza de’ moderati. Colà essi possono colla parola, cogli scritti, colle azioni quotidiane e pubbliche, dimostrare la sincerità e virtù della propria moderazione; possono distinguersi da tutti quegli uomini deboli, dubbi o doppi, che sono gl’impostori della parte moderata, il pervertimento della virtù della moderazione; e se non possono scartar tutta la noia vegnente loro e dagli avversari e dalla «compagnia empia e malvagia», che è in qualunque parte, anche buona, essi possono pur prevedere non lontano l’accrescimento, ed in ultimo la vittoria della propria. Colà essi hanno compenso alle ingiustizie presenti, nella certa e non lontana giustizia de’ posteri. Ma non così ne’ paesi dove le parti latenti s’esagerano in quel segretume, che diventa lor necessità e natura. Sotto tal velo e scudo sorgono di qua e di là quelle, come che si chiamino, leghe difensive od offensive, ma principalmente esclusive, che si rivolgono poi con ardore contra a chiunque lor non si affratella e le sdegna, contro a chiunque parla chiaro e pubblicamente; sorgono quelle purificazioni sempre stolte anche quando son fatte dalle parti vittoriose, più stolte quando dalle parti ancora combattenti, stoltissime quando non è instaurato nemmeno un aperto combattimento. Qui ogni anima sdegnosa, respingendo i segretumi, riman respinta da quasi tutti; rimane non solamente, come altrove, poco accompagnata, ma quasi solitaria; non ha per difendersi in suo modo aperto nè le opere, che le sono vietate sia che soverchi l’una o l’altra parte estrema, nè le parole, che non vi son pubbliche mai; se scrive, ella ha contra sè non una, ma due censure, quella pubblica della parte soverchiante, e quella segreta della parte compressa; quella che sembra voler conservar tutto, anche gli stranieri, e quella che tutto mutare, anche gli strumenti da cacciar gli stranieri; volendo serbarsi pura secondo la propria coscienza, riman dichiarata impura di qua e di là; rimane quasi _exlege_, fuor delle caste onnipotenti, senza speranza di vincere vivendo la doppia guerra arditamente bandita, senza speranza di niuna giustizia di posteri vicini. — Non è dubbio; in tali paesi sono peggiori che altrove le condizioni de’ moderati; maggiori le difficoltà, i pericoli loro. E maggiore quindi il merito, la fortezza della moderazione. Peggio ancora ne’ paesi (come Italia) dove durando da lungo tempo la compressione e i segretumi, le parti estreme abbian fallito più volte l’una e l’altra nell’imprese che pretesero fare per la patria. Allora, provata da sè, dimostrata altrui, la propria impotenza, esse sogliono attribuirla alla patria; allora molti di coloro di qua e di là a cui questa non diede retta, sorgono ad impedire che ella la dia a nessuno; allora di qua e di là si rivolgono molti non solamente contra chiunque fa o dice diverso da essi (caso consueto dappertutto), ma contra chiunque fa o dice qualunque cosa in qualunque modo (caso eccezionale in questi infelicissimi paesi); allora sorge e si spande non solamente la generazione degli indifferenti (caso consueto anche questo), ma la generazione de’ disperanti (caso eccezionale e pessimo fra tutti). Perciocchè è vero che alcuni disperanti talor si veggono anche ne’ paesi di parti patenti[1]; ma in quelli essi sono sempre pochi al paragone, non si moltiplicano, non fanno schiatta; nè il possono, spinte innanzi come sono ivi le parti dalle discussioni quotidiane. Ma ne’ paesi di parti compresse, latenti e fallite, si moltiplicano, di qua e di là ed anche in mezzo, i disperanti. E si dividono e suddividono allora in generi e specie numerose. V’è quello che si potrebbe chiamare il disperante truce; quello che ripete il detto classico «unica salvezza essere il disperare», che si rallegra ad ogni male sopravegnente, ad ogni nuova inimicizia, ad ogni turbamento scoppiato, perchè son tanti passi alla desiderata disperazione universale. V’è all’incontro il disperante languido, il quale langue a tutto ciò che desta l’altro, a tutto ciò che desta chicchessia; langue a tutti i fatti, a tutte le occasioni, a tutte le speranze; e quest’è la specie più numerosa e più volgare di qua e di là. E v’è di qua e di là il disperante importante, che della sua disperazione s’è fatta un’autorità, una abilità, o, come si suol dire, una posizione; dalla quale poi egli guarda di su in giù, gravemente sorridendo, a chiunque non dispera sapientemente con esso. E vi sono i disperanti allegri, che si dan buon tempo; e i disperanti speciali, che non veggono speranza se non nella loro specialità (i men cattivi forse, perchè almeno operano in essa); e perfino i disperanti pretendenti religione, pretendenti smettere ogni pensiero della patria, verso cui è pure uno de’ primi doveri della cristiana carità. Tutti questi insieme poi fanno una massa, una pluralità, una generazione fatale alla nazione intiera, che incoraggiano allo scorarsi; fatale specialmente a chiunque fa, scrive o parla per incuorare; più fatale a chi incuora a ciò che sia da fare moderatamente, cioè immediatamente, continuamente, universalmente. — E in tal paese dunque è più bello che in qualunque altro il porsi forte contro ai disperanti di qua e di là, ed anche di mezzo. E ciò avete fatto voi, Signore ed Amico, indubitabilmente nel vostro libro del Primato; ciò spero anch’io, or seguendovi ed ora osando scostarmi da voi. E quindi non è la dedica, è il titolo stesso quello che potè nuocere al libro mio; è quella parola di Speranze sollevata contro a tutti i disperanti d’Italia. Ed io la sollevai, confesserollo, con imprudenza compiuta; non pensai, nè incominciando, nè inoltrando, ai disperanti. Mi rivolsi, incominciando, contra a coloro che trovan tutto bene in Italia, e non pensai a coloro che trovano tutto male; mi rivolsi, inoltrando, contro a coloro che han troppe speranze, e non pensai a coloro che non ne hanno nessuna: non pensai vivesse uno che disperasse intieramente di una nazione di venti e più milioni d’anime in questa età progressiva, in questa operosità universale. Stolto io! or m’avveggo, ne sono molti: alcuni alti ed altissimi, alcuni bassi e bassissimi; alcuni dentro, alcuni fuori; alcuni bianchi, alcuni neri; moltissimi. Delle Paure, e non Delle Speranze d’Italia, avrei dovuto intitolare e fare il libro mio per costoro; e lusingando negli uni la paura dello spauracchio nero, negli altri la paura dello spauracchio bianco, avrei servito a tutte le paure; servito forse a quelle persecuzioni ed a quegli apparecchi di vendette che sono sole ed impotenti operosità degli uni e degli altri disperanti; servito almeno all’ozio universale, figliuol consueto delle reciproche paure. Peccato ch’io non abbia pensato in tempo a tutti costoro, a tutto ciò! Ma ora non v’è rimedio: il libro è fatto, ed è lì; manifesto di speranze moderate, co’ suoi tre capitoli rivolti contro a quelle di tutto mutare, e co’ suoi dieci contro a quelle di tutto conservare; ondechè il meglio che se ne possa fare oramai è compararlo, co’ manifesti delle due parti estreme. Perciocchè molti di questi furono fatti da gran tempo; e si possono fare facilmente da destra e da sinistra tutto dì, che che si dica in contrario. Que’ di destra si possono fare e pubblicare più facilmente in Italia, que’ di sinistra più facilmente fuori, che non si potè da me. Il mio libro ebbe incontro a sè quelle due censure, la pubblica e la segreta, testè dette; mentre i libri estremi non avrebbero se non l’una o l’altra. Ma il fatto sta che non sono queste censure altrui l’impedimento massimo a far libri di parti estreme; è la censura propria, è l’impossibilità di far gravi, sinceri, leggibili o almeno durevolmente letti tali libri. Di corsa, in segreto, tra pochi, tra consenzienti e confratelli tutto è facile ad esprimersi, tutto facile ad esagerarsi; e l’una esagerazione s’accavalla anzi sull’altra continuamente. Ma in iscritto, ma in istampa, in un libro che pretenda a qualche gravità, crescono per le mani poi le difficoltà, e talora le impossibilità intrinseche agli scrittori estremi, ma sinceri. Ed a questi è che io dico: vogliate prendere la penna in mano, e distribuir capitoli ed argomenti, e pesar ragioni l’une con le altre, e cassare contraddizioni, ed aggiungere complementi; e vedrete quali libri usciranno dalle esagerazioni, o piuttosto vedrete che non farete libri o che vi modererete da voi. — In tutto il corso del presente scritto io ho fatto poco conto di letterati e di libri, e il rifò; perchè un libro è in somma poca cosa dappertutto, pochissima in Italia, dove colle due censure un libro di interessi italiani è ingrato a fare, difficile a pubblicare, impossibile a diffondersi, ondechè non può avere se non effetto minimo sull’opere nazionali. Ma i libri, inutili sempre a chi non li legge, poco utili talora a chi li legge, hanno almeno questo di buono per chi li fa: che non si posson fare se non più moderati di gran lunga che non i semplici detti, e talor che le azioni; hanno questo vantaggio, di non potersi scrivere da niun uomo sincero senza moderar le proprie opinioni. Ei fu già osservato e detto da gran tempo: che la pratica degli affari pubblici suol moderar gli uomini più estremi; che le opposizioni venute al governo si moderano naturalmente. Ma la pratica dello scrivere modera e deve moderare anche più: chi scrive non ha nè verso altrui, nè verso la propria coscienza la scusa qual che ella sia delle passioni momentanee[2]. — E fu pur detto che la carta tollera tutto; ed è vero; ma quella che tollera troppo, riesce poi intollerabile, e non è a lungo tollerata. Ma andiamo più oltre, ed aggiungiamo arditamente che fra speranze destre, sinistre e moderate, queste hanno pure più probabilità di adempimento, non solo ne’ paesi dove sono costituite e patenti le parti, ma in quegli stessi dove elle sono latenti. In politica come in meccanica due forze perfettamente eguali ed opposte producono immobilità senza dubbio; ma per poco che sieno disuguali, l’una avanza moderata dall’altra, e per poco che sieno non opposte del tutto, ne risulta in mezzo una forza diagonale. Non chiamerò a testimonianza tutte le età, per non rifare di que’ sommari storici, in che (cedendo forse troppo agli abiti dell’arte mia) io abbondai. Bastino pochi esempi contemporanei, più alla mano per gli uomini di pratica, e più convincenti per tutti. — Cinquanta ed alcuni anni fa incominciarono in Francia le due parti estreme che volean tutto mutare e tutto conservare, e quella di mezzo che mutar solamente il necessario. E vinse prima quella del tutto mutare: e si mutò tutto, repubblicanamente prima, imperialmente poi; essendo fatale che chi muta tutto sia tutto mutato, facilmente e sovente. Poscia vinse la parte del tutto o almen troppo conservare. Ma si tornò in ultimo al mutare ciò all’incirca che avevan desiderato i moderati primitivi del 1789. — In Inghilterra, già costituite e patenti e combattenti da cento anni alla medesima epoca le parti mutatrice e conservatrice, erano molto meno estreme tutte e due; e tuttavia anche fra queste sorse una parte di mezzo moderatrice. E chi vinse anche là? Anche questa indubitabilmente. E quanto alle mutazioni che pur vi si desiderano di qua, e si respingon di là, ogni probabilità è, che elle si faranno di nuovo moderatamente. — In Ispagna, all’incontro, dove non era stato mutato nulla da secoli, sorsero intorno al 1809 molto estreme le due parti mutatrice e conservatrice; tanto che non sorse o si ridusse a pochissimi scelti (quasi a due, un Jovellanos ed un Saavedra) la parte moderatrice. E quindi molte vittorie di esagerati si contano, o sono innumerevoli ne’ trentacinque anni corsi d’allora in poi; tantochè quella si potrebbe dire a’ nostri dì la terra classica delle esagerazioni e di lor conseguenze, le rivoluzioni, le purificazioni, le persecuzioni. E tuttavia (contro all’affettata commiserazione d’alcuni) in quel tempo comparativamente breve de’ trentacinque anni, quella nobile e troppo disprezzata nazione sembra giunta alla vittoria de’ moderati. Che anzi un grande insegnamento esce da queste vicende spagnuole. Questo periodo de’ trentacinque anni è la media contata da tutti per la mutazione d’una generazione in un’altra; e questo è forse appunto il normale, a compiere colla moderazione una rivoluzione incominciata dalle parti estreme, perchè è il periodo necessario a mutar le vite, a mutar gli esagerati primitivi in moderati nuovi, una nazione vecchia in una giovane: chi nasce in una nazione invecchiata, è sopra ogni cosa ferito dai vizi vecchi, e per rinnovarla vi fa rivoluzioni; ma chi nasce in mezzo a queste, è ferito dai vizi nuovi, e le fa cessare. Noi avemmo nomi ed imposture di giovani Francie, giovani Germanie, giovani Italie esagerate; ma tutte queste giovani sono ora vecchie; e il progresso naturale della nostra età fece nascere una giovine Spagna moderata. Ma un altro esempio mi si affaccia qui così bello, che, quantunque antichissimo, non so trattenermi dal ricordarlo per dimostrare: antico essere questo costume della Provvidenza di mutar le generazioni per adempiere i suoi disegni. Quando il popolo di Dio giunse la prima volta all’orlo della terra a lui promessa, molti furono che vollero contro ai divini cenni immediatamente progredire, e molti che, spaventati dagli stranieri occupatori di quella terra, vollero all’incontro indietreggiare. E i primi, acceleratori de’disegni di Dio, furono puniti da Lui colla sconfitta; Dio parve unirsi ai propri nemici. Ma contro ai dubitatori di sua onnipotenza e provvidenza, Dio si rivolse in modo speciale, e, se sia lecito esprimerci così; inventò allora questo modo, consueto poi, di rinnovar le generazioni. «Vivo Io», diceva divinamente eloquente il Signore: «vivo Io, e della gloria Mia si empirà tutta la terra. Ma tutti costoro che videro la Mia Maestà e i segni ch’Io diedi in Egitto e nella solitudine, e tentarono Me già dieci volte, e non obbedirono alla voce Mia, non vedranno la terra per cui giurai a’padri loro, nè la vedrà nessuno di coloro che da Me detrasse.... In questa solitudine giaceranno i cadaveri vostri; di tutti voi quanti siete, di venti anni e sopra, e mormoraste contra Me.... I vostri pargoli, di cui diceste che sarebbon preda de’nemici, questi introdurrò Io, affinchè veggano la terra che a voi dispiacque. I cadaveri vostri giaceranno nella solitudine[3]». — Che più? Mosè, il duce del popolo, Aronne, il gran sacerdote, che s’eran tenuti fermi contro a quelle prime dubitazioni, dubitarono una volta della provvidenza divina; ne dubitarono un sol momento, e così tacitamente, che non è nemmeno chiaramente espressa nella storia! E duce e gran sacerdote trassero pure contro a sè la medesima riprovazione: «Perchè non fidaste tanto a Me da santificarmi dinanzi ai figli d’Israello, non introdurrete voi questi popoli nella terra ch’Io darò loro[4]». — L’esempio mi sarà scusato naturalmente non solo da voi, sacerdote, a cui mi rivolgo; ma da tutti que’leggitori i quali pur credono duri quella medesima Provvidenza; e quanto agli altri è inutile ch’io mi scusi; siamo troppo discosti per intenderci mai. E ritorno ai nostri tempi, alla patria. Cinquanta e più anni fa si progrediva, si mutava troppo lentamente (a parer mio), ma in somma moderatamente in Italia. E fatto a cui mi son riferito parecchie volte, e che è ad ogni modo incontrastabile a chiunque abbia qualche memoria o lettura del secolo scorso. Di fuori ci vennero le due parti estreme, del tutto mutare, e del tutto conservare; nativa italiana è la sola parte moderata; e ciò è naturale, perchè l’Italia è antica, è la primogenita tra le nazioni moderne in quella civiltà, che è sopra ogni cosa moderatrice. Ma mosse di fuori, soverchiarono le due parti estreme a vicenda per molti anni; sieno trenta o quaranta, che non mi fermerò a disputare; ma in somma da dieci o quindici o più, è innegabile la ripresa delle mutazioni lente (troppo lente e troppo poche pure, a parer mio), ma ad ogni modo reali e moderate; ed è innegabile l’accrescimento che si fa della parte moderata a spesa e diminuzione delle due estreme. — Lasciamo dire, lasciamo tentar di fare. Anche qui, anche nella misera e dipendente Italia vien meno la generazione degli esagerati, sorge dopo una giovine Italia esagerata, una più giovane moderata. E quindi anche qui, a malgrado gli svantaggi e gli accoramenti presenti, può, deve sorgere a’moderati una speranza di giustizia ultima, più o men lontana. Saranno essi ascoltati? riusciranno a distorre la patria da quelle due male vie che conducono del paro a rivoluzioni, e quindi inevitabilmente a delitti, vergogne e danni? Allora que’ moderatori che abbiano dinanzi a sè una vita sufficientemente lunga, vedranno forse sè stessi giustificati come accennatori della buona via da’contemporanei riconoscenti; ed essi e i troppo vecchi morranno almeno colla certezza d’essere così giustificati da’posteri. — Non saranno eglino all’incontro ascoltati, seguiti? Le esagerazioni originariamente straniere riprenderanno elle forze da noi? Allora, oh allora sì, più certamente che mai, i loro nomi saranno giustificati pur troppo da’rincrescimenti, da’ patimenti di coloro che patiranno or nell’una, or nell’altra delle due male vie. — Quale delle due giustificazioni è più probabile? Se guardiamo al passato, certo l’ultima ed infelice; se al progresso presente, universale ed italiano, forse la prima e felice. Ma pronta o tarda, felice od infelice, la giustificazione de’moderati è immanchevole anche in Italia. Cioè a coloro che si sieno assicurati l’attenzione dei posteri. Perciocchè, guai ai poco attesi; meglio era per loro essere dimenticati. Chi non fa nulla ed è dimenticato, non ha almeno bisogno di giustificazione; ma chi fa poco, ed oscuramente, sia scrittore, uomo di stato o principe, egli avrebbe bisogno di giustificazioni sovente, e negletto, non le suole ottenere. Una grande azione o almeno un grande scritto si vuole aver fatto, o almeno una grande ingiustizia sofferta, per isperare attenzioni e giustificazioni da’posteri. E voi, Signore ed Amico, vi siete già assicurata tale attenzione co’vostri lavori filosofici e co’politici, e principalmente (se mi concediate scegliere tra’vostri scritti) con quella _Teorica del Soprannaturale_, di che avete dimostrata la necessità nella filosofia, e con quel libro su’destini di Italia, che aprì una carriera nuova di moderazione politica agli scrittori italiani. E voi siete de’maggiori e più generosi di quella letteratura italiana esterna, che mi pare una delle più vicine e più feconde speranze italiane; ondechè siete voi stesso una di queste nostre speranze. E voi, giovane e forte ancora, avete, così Dio voglia, lunghi anni da emulare e superare voi stesso; e così (se di nuovo mi facciate lecito esprimervi un voto di molti amici vostri), così lasciando i vostri avversari, voi vogliate rivolger tutta a nostro pro quella vostra forza e potenza. E ad ogni modo, e per quel che farete, e per quello che avete fatto, non può mancare a voi morto la gloria, a’voi morente la coscienza d’aver bene e grandemente operato per la patria. — Vecchio combattitore di parte moderata, e per ciò appunto cacciato già dalla vita attiva, ed entrato tardi in quella di scrittore, io non lascerò nome che giunga al tempo della tarda giustizia. Ma che importa, se avrò anch’io, a difetto del talento, moltiplicato l’obolo commessomi? se avrò recato, secondo mie forze, un sasso all’edifizio, un rivo al fiume, un seme al campo? se avrò la coscienza che quel sasso è «tetragono», quell’acqua è limpida, quel seme non è di danni, infamie o delitti alla patria nostra? Del resto, ho parlato qui di quelli fra gli avversari vostri e miei, che sono avversari della moderazione politica in generale; perchè mi parve degno assunto da trattare in capo a un libro fatto appunto per istudiare in che stia ora da noi questa moderazione. Ma di rivolgermi poi agli avversari particolari del libro mio, alle critiche più o men generose mossemi, io non mi sento nè voglio farlo; salvi pochi luoghi ove il pensier mio mi pare gravemente alterato, e dover restituirlo. E queste stesse risposte ho fatte in note a’lor luoghi, affinchè sien men noiose a chi voglia pur leggerle; ovvero, anche meglio, sien facilmente tralasciate. — Andiamo avanti, anzichè tornar su’nostri passi; non rimaneggiam le idee già espresse, cerchiamone piuttosto delle ulteriori; ed anzichè disputare, correggiamo ed accresciamo. Ciò ho tentato fare nella presente edizione. Così possa ella aggiugnere a quel poco di bene che voi ed alcuni altri buoni speraste dalla prima. — Uno di questi ne giudicava già colle poche parole: _Gutta cavat lapidem_. Io accetto il giudicio e l’augurio; e continuo. 5 luglio 1844. OCCASIONE DI QUESTO SCRITTO § 1.º Come il sanno oramai tutti i colti italiani e non pochi stranieri, il Gioberti è uno de’ filosofi principali della Cristianità. Fattosi conoscere ed ammirare a un tratto colla _Teorica del soprannaturale_, egli pubblicò successivamente parecchie altre opere, con quella fecondità che è prima virtù e primo segno di grandezza. E, filosofo cattolico, egli è uno de’ maestri senza dubbio (giudichi altri de’gradi) in quella scuola italiana che si distingue dalle simili per una cattolicità, una teologia più esatta o sola esatta. — Ma l’assunto mio non è filosofico. Il Gioberti, abitatore di paesi stranieri, aveva da questa sua situazione una libertà di scrivere che non è nella penisola italiana. Ed il Gioberti non era uomo da non valersene. Italiano sviscerato, e, se fosse lecito dire, esagerato, frammischiò in tutte le sue speculazioni di filosofia non poche considerazioni di storia, ed anche di pratica italiana; e, lasciando ora, non il genio, ma la forma filosofica, facendo di ciò che era accessorio nell’altre, assunto principale di una nuova opera sua, ei ci ha dati testè due importantissimi volumi _Del Primato morale e civile dell’Italia_. § 2.º Questo titolo è molto indeterminato. Di qual primato vuol parlare l’autore? Di quei due che furono tenuti già dall’Italia romana e dall’Italia del medio evo tra il secolo XI e il XVI? Ma questi sono noti e conceduti da tutti gli uomini di qualche coltura; nè, spogliati di narrazione e ridotti a discorso, sarebbero stati degno assunto del potentissimo scrittore. — Ovvero, il primato rivendicato sarebb’egli uno presente? Ma questa sarebbe illusione così contraria pur troppo ad ogni fatto, che niuno amor patrio, per quanto accecato egli sia, non se la può fare; ondechè nemmen questo non sarebbe stato assunto concordante coll’incontrastabile sincerità dell’autore. — Quindi fin dal titolo, il leggitore entra naturalmente in pensiero, che il primato così asserito da tale scrittore sia piuttosto un primato futuro, in potenza, in isperanza, e da procacciarsi per opera di coloro che tengono in mano i patrii destini. E tale mi pare in fatto il primato di che si discorre nella parte incomparabilmente maggiore dell’opera[5]. § 3.º E quest’è che distingue l’autore da quel volgo o gregge di scrittori i quali assonnan l’Italia, rimescolandole passato, presente e futuro. Del passato, dei due primati veri e certi di lei, costoro le parlano a quella guisa che i servi adulatori a’nobili e degeneri padroni; vantando le glorie antiche quasi presenti, le azioni degli avi quasi dispensa d’azione ai nepoti, la nobiltà quasi non memoria, ma eredità dì virtù. Non contenti delle glorie vere, costoro ne inventano delle false; perchè, a modo d’ogni avvilito piaggiatore, o non capiscono le prime, o sanno di farsi più merito colle seconde. Così è, che all’Italia, dominatrice già di tutto il mondo occidentale, riunitrice di tutte le maggiori civiltà antiche, serbatrice poi delle reliquie di esse, centro predestinato della religione cristiana, ordinatrice prima e rinnovatrice poi della disciplina ecclesiastica, rinnovatrice ed accrescitrice dei Comuni, rinnovatrice della civiltà e di tutte le colture, all’Italia, scopritrice dell’Asia Orientale e dell’America, all’Italia, madre, oltre ai Latini, di Gregorio VII, di Marco Polo, di Dante, di Raffaello, di Michelangelo, di Colombo, di Galileo e di Volta, costoro vanno dissotterrando tuttodì non so quali glorie ignote, non so quanti grandi uomini oscuri, non so quali disputabili princìpi di qualsivoglia scoperta straniera. — Peggio assai quando costoro toccano al presente. Qui è il campo degli adulatori; qui versano consolazioni, incoraggiamenti agli ozi, ai vizi, al beato far nulla, al far male. Non siamo noi felici, operosi, gloriosi quanto ogni altro? Quai campi più colti, quali città più crescenti, quali popoli più sapienti o più virtuosi, quali aure (perciocchè del clima stesso fan meriti), qual clima, qual cielo, qual paradiso? Quante opere soprattutto e quanti uomini utili, grandi, immortali? I quali si ringrazino dunque e si benedicano essi prima a essersi fatti immortali: ma se ne ringrazino poi anche il principe, i mecenati, il buon popolo, il paese, tutti quanti. Chiaro è: non è nulla da fare, nulla da rifare o mutare; nulla se non vivere gaudenti. — E chiaro è massimamente poi: non è da far nulla per il futuro. Anzi, di questo, meglio è non parlare, non fiatare, non nominarlo. Chi ne parla, chi vi fruga, chi ne spera o teme o s’inquieta, è uomo inquieto, pericoloso, perseguitabile, sotto i nomi nefandi di progressista, liberale, rivoluzionario e repubblicano. § 4.º A chiunque abbia per poco conosciuto o letto il Gioberti, non è mestieri dire che egli è scrittore opposto a costoro. Non entro a cercare s’ei distingua sempre con sufficiente precisione il passato, il presente e il futuro italiano; se nel suo labile argomento egli eviti sempre la esagerazione delle lodi; se le témperi colla virile comparazione dei biasimi; se, virile uomo quanti altri mai, ei sia sempre virilmente severo, come quei Dante ed Alfieri, da lui meritamente lodati. Quando il Gioberti fosse caduto in questi ed altri difetti, essi sarebbero un nulla rispetto ai meriti. E non dico de’letterarii, non della lingua facile e pura di tutte le pedanterie, non della ammirabile eloquenza, nè della sapienza; il merito sommo di lui è l’aver parlato di quel futuro della patria, di che tanto si parla in altre patrie, di che tanto si tace nella nostra; d’averne parlato, egli apertamente, egli più grandemente e più moderatamente che nessuno de’predecessori; ondechè, contro all’aspettazione forse di alcuni derisori, ne parlò egli filosofo, in modo molto più pratico, che non fecero que’ pochi storici od uomini pratici, i quali toccarono timidamente il pericoloso assunto. Questo fa del libro di lui più che un libro, un’azione; ed un’azione che non può se non giovare alla patria. Il tema è oramai riaperto. Seguiranno altri, criticando, correggendo; scemando, ampliando. Il tema sarà sempre stato riaperto da lui; le discussioni non faranno se non aggiungere al merito ed all’utile di colui che lo trattò in modo da metterlo in mente e in cuor di tutti. § 5.º Io non sono se non uno di questi che verranno, così voglia Iddio, numerosi sulle pedate del Gioberti. Se così fo, egli è perchè, consentendo in grandissima parte co’ pensieri di lui, pur mi scosto o mi pare scostarmi da parecchi, che sono o mi paiono importanti alla nostra patria comune. Se la gravità dell’argomento potesse lasciar luogo qui alle vanità letterarie, io non vorrei correre nè il pericolo di essere confrontato, nè quello d’essere contraddetto da uno scrittore così potente. Ma da ogni confronto spero mi salvino la forma e la mole stessa del mio scritto; e quanto alla contraddizione, ella mi si rivolgerebbe in onore scendendo da uno scrittore maggiore. — Del resto, attendendo io a discutere le opinioni pubbliche diffuse nella patria nostra, anzichè non quelle personali del Gioberti o di nessun altro, se nominerò lui più che altri, egli è perch’ei mi pare scrittore più importante; ma nol nominerò nè dappertutto dove abbiamo pensieri comuni, nè dappertutto dove diversi; ondechè io prego i leggitori di non applicare a lui niuna critica dov’io nol nomini, siccome quella la quale o non volli applicare a lui, ovvero applicherei con riserve e spiegazioni, nelle quali non posso entrare in così breve scritto. § 6.º Niuna patria è più amata che la nostra da’ figliuoli. Ma, colpa delle rare e difficili discussioni degli interessi di lei, colpa del non poterci intendere, niuna è forse più diversamente amata; ed è grande sventura. Non perdiamo il tempo almeno in discussioni, nomi ed interessi personali. E del resto, qualunque protesta mia d’avere scritto con animo libero, ma moderato, d’aver cercato il ben della patria, ma non il mal di nessuno, nemmeno degli avversari di lei, sarebbe inutile qui a chi non abbia letto; e non sono senza speranza che abbia ad esser anche più inutile poi, a chi avrà letto con pari intenzioni. DELLE SPERANZE D’ITALIA CAPO PRIMO. L’ORDINAMENTO POLITICO PRESENTE DELL’ITALIA NON È BUONO 1. Io parto dal fatto che l’Italia non è politicamente ben ordinata, posciachè ella non gode tutt’intiera di quello che è primo ed essenziale fra gli ordini politici, quello che anche solo procaccia tutti gli altri buoni necessarii, quello senza cui tutti gli altri buoni son nulli o si perdono, la indipendenza nazionale. Se tal fosse fra’ miei leggitori, a cui l’arguzia dell’ingegno, l’abito soverchio del distinguere, o qualunque altro più o men sincero motivo persuadesse che l’Italia ha quest’indipendenza politica; ovvero che senz’averla ella possa essere e dirsi ben ordinata, tant’è ch’ei non continui. Questo scritto si appoggia tutto sulla incontrastabilità e sulla importanza di quel fatto; non si rivolge se non a coloro che prendendo la parola d’indipendenza nel senso comune, accettato dentro e fuori, credono che una gran parte d’Italia non l’ha; e che una nazione di cui gran parte non l’ha, non è nè può dirsi politicamente ben ordinata. 2. E continuando dunque con questi, osserverò soprabbondantemente: che la dipendenza di una provincia nostra dallo straniero, non solamente distrugge ogni bontà, ogni dignità dell’ordinamento in quella provincia; ma guasta, fa men degni gli ordini dell’altre provincie; non lascia compiutamente indipendenti nemmeno i veri stati, i principati italiani. Gli esempi di ciò sarebbero facili a darsi, e moltiplici; ma forse noiosi ed odiosi. Ed io me ne rimetto a tutti gli Italiani, e più ai più informati, a quelli che son più su ne’ segreti e nelle pratiche de’ nostri governi. Niuno di essi negherà che nei disegni, nei fatti, sovente nelle massime, talor nelle minime azioni governative, si senta, sia grave, sia più grave che qualunque altra potenza straniera, quella che signoreggia una provincia italiana. Non parlo di forme, e nemmeno di trattati; i quali so che riconoscono le nostre indipendenze come assolute. Ma non son eglino altri trattati che le infermino? E dove non sien questi, non è egli il fatto, l’abito, la prepotenza inevitabile nelle discussioni tra più e men forti? Ma, non che contraddirmi, io credo che questi uomini di governo sorrideranno, e fors’anco si sdegneranno che facciasi questione di ciò che è difficoltà: scusa loro quotidiana e grande; che non si tenga conto di lor condizione, la quale implica scusa di ciò che non fanno, lode di ciò che riescono a fare, ingiustizia in chiunque li giudica senza tenere tal conto. In tutti i paesi, in tutte le età del mondo, noi governati parlammo, giudicammo de’ governanti; or tanto più che se ne parla e giudica pubblicamente in molti paesi; e molto più male ne’ paesi dove non se ne parla così. Se fosse una pubblica tribuna in Italia, il primo che vi salisse, vi salirebbe probabilmente ad accusare i nostri governi; ma il secondo a scusarli colla dipendenza, in mezzo a cui essi vivono. Ed ho fede nel senno italiano, che, ammessa in generale tale scusa, non si disputerebbe d’altro se non del sapere se sia sufficiente in ogni caso particolare. Finchè non è discussione pubblica, è naturale che si passi da molti il segno della critica; è naturale, dico, nel volgo; ma non ne’ mediocremente informati e che vogliano esser retti. Questi non hanno scusa mai, di non ammettere, di non cercare essi stessi le scuse altrui. 3. Nè voglio entrare nell’altra trista e lunga enumerazione di quegli impedimenti a’ nostri commercii, alle nostre industrie, alle nostre arti, alle nostre lettere, a tutte le operosità anche private, che vengono dalla dipendenza diretta di una gran provincia, dalla indiretta de’ principati d’Italia. Non è peggior impegno che volere spiegare a chi non vuole intendere, o a chi intende e non conviene; e chi intende ed è sincero sa molto bene che nelle nazioni come negli uomini non suole esser compiuta operosità, senza compiuta indipendenza. — Non darò dei danni della dipendenza se non un esempio. Il papa è papa, e sarà papa non solamente durante la preponderanza austriaca presente, ma quand’anche questa s’accrescesse e diventasse usurpazione universale, come furono quelle di Napoleone e di alcuni imperadori del medio evo. Ma finchè dura quella preponderanza, finchè il papa principe italiano è sotto la dipendenza dell’Austria più che di Francia, Spagna, Portogallo o Baviera, grandi potenze cattoliche, e più che d’Inghilterra, di Prussia o d’altre potenze non cattoliche, non è dubbio che il papa non può fare il papa così bene, come farebbe se avesse nome ed effettività di principe del tutto indipendente; non è dubbio che non può fare il capo spirituale effettivo della Cattolicità, il capo in isperanza dell’intiera Cristianità, così felicemente, come farebbe se ogni governo, cattolico o non cattolico, fosse persuaso della compiuta indipendenza, della probabile imparzialità di tal capo. Certo in ogni caso, quali che sieno i decreti della Provvidenza, ogni buon cattolico tiene il papa per papa; non può essere quistione di ciò. Ma può essere: quanti buoni cattolici saranno in tale o tal caso? E posta la questione, se sian probabili più numerosi cattolici nel caso del papa tenuto per indipendente, o del papa tenuto per dipendente, non parmi che lo scioglimento sia dubbio; ognuno risponderà: certo più nel caso che il papa sia indipendente. 4. Ma io mi vergogno di trattenermi in siffatte generalità; d’aver fatto un capitolo quantunque breve sur una proposizione così ovvia e in che convengono tutti. Ed io dico che in essa convengono non solamente i governati che criticano bene o male, e i governanti ingiustamente o giustamente criticati dei principati italiani, e tanto più i sudditi degli stranieri; ma dico che vi convengono pure gli stessi stranieri signoreggianti, quanti sono fra essi di qualche buona fede, di qualche buon giudizio; e più i più alti, anche qui. Questi stranieri di alto affare, questi uomini di stato dell’impero austriaco sono nella medesima condizione che quegli uomini di stato francesi ed inglesi i quali continuamente e dalle loro pubbliche tribune professano di attendere agli interessi loro nazionali sopra tutti gli altri, ma che pur mostrano d’intendere molto bene anche quelli dell’altre nazioni, e scusano od anzi approvano ciascuna di promuovere i proprii. Gli uomini di stato austriaci professano il medesimo, benchè non da una pubblica tribuna, che non hanno; il professano come possono privatamente; veggono quant’ogni altro, più forse che ogni altro, il non buono ordinamento della penisola italiana; ma, ministri dello stato austriaco, tengono primi i loro doveri austriaci, e provvedono al mantenimento della grandezza della potenza austriaca. E, siamo giusti se vogliamo essere utili: essi hanno ragione; può esser questione del modo di adempiere tal dovere, non, che sia dover loro. Ma insomma anch’essi, a modo loro, convengono nella proposizione troppo ribattuta oramai: che l’ordinamento politico dell’Italia non è buono per l’Italia. CAPO SECONDO. DI QUATTRO ORDINAMENTI SPERATI — E PRIMA DEL REGNO D’ITALIA 1. E quindi ei parrebbe a cercare prima, come rimuovere il vizio manifesto dell’ordinamento presente. Ma, questo sarebbe procedere a modo de’ sovvertitori di tutti i tempi; i quali di qualunque cattivo ordinamento s’adirino, non pensano se non a sovvertirlo, senza aver pensato prima all’ordine nuovo che avranno a porre in vece. La massima contadinesca di non mettere il carro innanzi a’ buoi, è buona a seguirsi, principalmente in politica: ei si vuol pensare a’ conducenti prima che al carro condotto; e quindi all’ordine nuovo da stabilirsi, prima che al vecchio da abbandonare, allo scopo cui arrivare, prima che alla via da scegliere. 2. Ma lasciamo le idee, i disegni, le speranze troppo antiche: il principe di Machiavello, il papa de’ Guelfi, l’imperator de’ Ghibellini, e la monarchia di Dante. Tutti questi furono poco più che sogni a’ loro tempi, ed or sono sogni antiquati. Volendo fermarci a sogni, parliamo di quelli dei nostri dì. Non risaliamo oltre al 1814; ci basterà e soverchierà, anche ridotto così l’argomento. — Io crederei che il primo e più frequente sogno fatto intorno a quell’epoca sia stato quello d’una monarchia comprendente tutta la penisola, d’un _Regno d’Italia_. Nome e idea erano conseguenti a tutto ciò in mezzo a cui eravamo stati allevati. Il più potente uomo di nostra età (e di molte altre) aveva anch’egli fatto un gran sogno della monarchia universale, un sogno minore del regno d’Italia. Chè anzi questo esisteva già di nome, in cominciamento: eravi un regno d’Italia, corrente dall’Alpi agli Abbruzzi, e comprendente così quasi tutta la penisola orientale. — A che tal forma, informe, longitudinale, lunga e stretta? Io non credo che il possa dire nessuno, nemmeno dopo aver letto ciò che ne dice Napoleone ne’ suoi dettati di Sant-Elena. Tutto ciò è una solenne impostura. Che l’Italia s’avesse a tagliare in lungo e non in largo, e dividerla per educarla ad unità od a non so che, sono sofismi tali, che non potevano venire in capo se non a chi, avvezzo a tiranneggiare coll’opera, sperava tiranneggiare collo scritto; non pensando che, se là giova la forza, qua non serve se non la ragione. Io crederei che se Napoleone sognava una riunione d’Italia, ei sognasse quella all’imperio francese; che il suo regno d’Italia fosse destinato a sorte pari a quella del suo regno d’Olanda, e Napoli a quella d’Amburgo; che quell’ordinamento napoleonico d’Italia non fosse in somma se non ciò che chiamavasi nella lingua franca allor corrente, _una organizzazione interinale o provvisoria_. — Ma ad ogni modo n’eran rimasti il bel nome, la bella idea di un regno d’Italia. Il napoleonico era stato parziale, e manco male, il nuovo sognossi intiero; il napoleonico era stato dipendente, e manco male, il nuovo sognossi indipendente; il napoleonico era stato sotto un principe straniero, e il nuovo sognossi sotto uno nazionale, o che diventasse nazionale, qualunque fosse, o, per servirci della frase allor volgare, «fosse il diavolo» purchè fosse re d’Italia. E fu sognato di siffatto regno da non pochi. Prima da Gioachino Murat e suoi partigiani nel 1814 e 1815; e quasi nel medesimo tempo da’ Milanesi sollevati il dì della morte di Prina, e dai deputati che furono mandati a Parigi; poi, da altri congiurati del 1815; poi, da tutti quelli del 1820 e 1821. E ne fu sognato allora e poi, non solo da congiurati e società segrete, ma da uomini di governo e di stato; e non solamente da quelli che ebber nome di amici, ma da quelli che l’ebbero di nemici a siffatte novità. Nè di tuttociò mancheranno agli storici futuri citazioni e documenti. Ma io scrivo a’ contemporanei; i quali sanno quanto o meglio di me, che il sogno del regno d’Italia fu se non universale, molto frequente a quell’epoca. 3. E che fosse sogno basterebbe forse a dimostrarlo, il fatto che non s’effettuò. Accenniamone tuttavia le ragioni, chiare ora. Principi, uomini di governo, popolani, congiurati, e sudditi varii, volevano il regno, ognuno a modo suo: i congiurati, i popolani non tanto il regno, quanto gli ordini sognati liberi nel regno sognato, un sogno allora aggiunto all’altro, la libertà all’indipendenza. I principi avrebbon voluto indipendenza, ma non guari libertà. I grandi, nobili, ricchi, notabili d’ogni maniera volevano aristocrazie; i non distinti per nulla, democrazie, secondo il solito. E secondo il solito Napoli s’avventava; e contro al solito Milano aspettava, Torino si muoveva; con una differenza, un disaccordo di mosse, da far presagire un disaccordo anche maggiore di scopo, quando fosse venuto a palesarlo ciascuno. Ed Austria era lì a valersi del disaccordo; Francia non v’era ad opporsi; Inghilterra ed altri non se ne curavano. Gli assennati l’avevan preveduto; alcuni generosi si eran sacrificati; molti ambiziosi s’eran perduti. E n’erano usciti grandi insegnamenti, non nuovi per vero dire, ma sempre utili a ritrovare: che non si debbono frammischiar le imprese di libertà e d’indipendenza; che questa deve passare prima di quella, e sopra tutto che il regno di Italia è cosa impossibile in tanta varietà di opinioni, di disegni, di provincie. 4. Del resto, fatti antichi e ragioni perpetue concordano a ciò provare. Niuna nazione fu riunita in un corpo men sovente che l’italiana. L’Italia anteriore a’ Romani fu divisa tra Tirreni, Liguri, Ombroni, Fenici, Pelasgi, Greci, Galli e forse altre genti, concorse nella nostra penisola, occidentale rispetto al mondo d’allora, a quel modo che si concorse poi nell’America moderna, o si concorre ora nell’Oceania. — I Romani riunirono sì la penisola a poco a poco, ma posero a ciò non meno tempo che a conquistare l’intiero mondo lor noto; la conquista de’ Salassi fu l’ultima fatta da Augusto prima dì chiudere il tempio di Giano, prima di fermare i limiti, e lasciar come _arcano d’imperio_ il non oltrepassarli. Ei non fu dunque, se non insieme con tutto un mondo, che l’Italia rimase riunita sotto l’Imperio. E così poi di nuovo, insieme con molte altre provincie, sotto Teodorico, per una trentina di anni. E quindi, se si voglia parlare d’un regno d’Italia propriamente detto, dell’Italia riunita in sè senz’altre appendici, non se ne troverà in tutta la storia se non un esempio, intermediario tra la distruzione dell’imperio e Teodorico, un periodo di tredici o quattordici anni sotto Odoacre. Dopo Teodorico l’Italia si ridivise tra Goti e Greci: i Greci la riunirono per altri dieci anni; ma come provincia di lor imperio lontano. Poi fu divisa tra Greci e Longobardi; poi tra Longobardi Beneventani, Franchi e Greci; poi tra Beneventani, Imperatori Franchi, Borgognoni, Tedeschi o Italiani, Saracini e papi; poi tra Sassoni, Beneventani, Saracini e papi; poi variamente ad ogni anno, ad ogni mese, tra imperatori, papi; comuni guelfi, comuni ghibellini, Normanni, Angioini, Aragonesi; poi tra Francia ed Austria e stati come poterono indipendenti; poi Spagna e stati; poi Francia, Austria e stati; poi Francia sola, e residui di stati; ed ora Austria e stati. Io non so per vero dire qual possa dirsi sogno politico, se non dicasi questo: d’un ordinamento, che non ha nella storia patria se non un esempio di quattordici anni, e che non sarebbe se non restaurazione di un regno barbaro di millequattrocento anni fa. 5. Ma si potrebbe fare ciò che non si fece mai, diranno gl’immaginosi. — E risponderanno coloro che per parlar di cose future vogliono partire almeno da fatti presenti: Torino, Milano, Firenze, Roma, Napoli, Parma e Modena sono sette città capitali al dì d’oggi (senza contar Lucca, destinata a riunirsi con Toscana); in sei di quelle regnano sei principi; ed uomini, città o stato non diminuiscono di condizione mai se non per forza, non mai per accordo, di buon volere, nè per uno scopo eventuale. Sogno è sperar da una sola città capitale, che voglia ridursi a provinciale; maggior sogno che sei si riducano sott’una; sogno massimo che s’accordin le sei a scegliere quell’una. — E tanto più che ciò non è desiderabile, nè per le sei sceglienti, nè per l’una prescelta, nè per la nazione intiera. Si grida in tutt’Europa (bene o male, non importa), si grida ora quasi unanimemente dappertutto contro alle grandi capitali, contro a ciò che si chiama centralizzazione de’ governi, degli interessi, delle ricchezze, contro alla spogliazione delle provincie. E chi ha sette capitali si ridurrebbe a spogliarne sei a vantaggio d’una? Lo sperarlo sarebbe non più sogno, ma pazzia; sarebbe un voler fare all’opinione ciò che è più contrario all’opinione presente; ciò è impossibile quanto evitabile, evitabile quant’è impossibile; è, diciam la parola vera, puerilità, sogno tutt’al più da scolaruzzi di retorica, da poeti dozzinali, da politici di bottega. 6. E poi, quando non fosse sogno per tutte queste ragioni, tal rimarrebbe per quest’una. Che diventerebbe il papa in un regno d’Italia? Re esso? Ma ciò non è possibile, non si sogna da nessuno. Suddito? Ma allora sì, che ei sarebbe dipendente; e non solo come al peggior tempo del medio evo, suddito dubbioso del monarca universale, ma suddito certo d’un re particolare. Ciò non sarebbe tollerato dalle altre nazioni cattoliche; non sarebbe dalle stesse acattoliche; ciò anderebbe contro a tutti gl’interessi, tutti i destini della Cristianità, ciò non sarebbe tollerato da una parte della nazione stessa italiana, che nol tollerò nel medio evo. E v’ha chi dice che ciò fu male, e chi che ciò fu bene. Io dico che ad ogni modo ciò fu, ciò sarebbe in simili occasioni; ondechè il tentarlo o solamente proporlo sarebbe dividere e non riunire la nazione nostra, sarebbe quindi non migliorare, ma peggiorare le nostre condizioni. — Ed io mi vergogno d’aver fatto un altro capitolo inutile. CAPO TERZO. DI UN REGNO D’ITALIA AUSTRIACO 1. Ed io sono per farne uno, che spero sia il più inutile di tutti. Ma volendo noverar tutti i sogni moderni fatti sull’Italia, accennerò anche questo; il quale del rimanente non è se non una modificazione di quello testè detto. — Alcuni sono così innamorati del regno d’Italia, che vorrebbero vedere tutta la penisola soggiogata agli stranieri i quali ne tengono una parte; colla speranza, che così riunita, ella fosse per liberarsi poi tutta da sè, ovvero (non avendo io verificato qual dei due si speri più) che ella sia liberata spontaneamente dagli stessi stranieri. 2. Questo è sogno rinnovato dall’antico ghibellino. E quindi io chiamerei neo-ghibellini siffatti sognatori; se non che nè essi, nè i Neo-Guelfi, nè in generale le parti e le condizioni politiche da gran tempo cadute e mal cadute, non si restaurano. Il sogno ghibellino non s’effettuò, nemmen quando l’Italia era abbandonata a Germania da tutte le altre potenze cristiane; quando Germania era tenuta per posseditrice legittima d’Italia, e Italia scotente il giogo, per provincia sollevata: quando non uno o due scrittori, non alcuni congiurati, non alcuni impazienti, ma quasi tutti i principi, e la buona metà dei popoli nostri eran ghibellini; quando rimaneva talor sola a propugnar l’indipendenza or Milano, or Alessandria, or Ancona, più sovente Firenze o Roma; ondechè non è probabile nè possibile che riesca il sogno neo-ghibellino, ora che ha ed avrà contra sè tutti i principi italiani, tutti i popoli loro, e della provincia straniera, e poi Francia, Spagna, e Germania stessa, ed intiera la Cristianità. Il neo-ghibellinismo è una illusione o delusione simile a quella di tutti i sovvertitori, quando vogliono sacrificare il presente al futuro. Il Gioberti è ammirabile in questo particolare, e sarebbe tutto danno mio il voler insistere su ciò che è così ben provato da lui: che le rivoluzioni imaginate da’ pochi non si fanno da’ molti; i quali non ne fanno mai se non per oltraggi presenti e gravissimi. Ma fra le rivoluzioni non fattibili, la men fattibile fu sempre quella che sacrifichi l’indipendenza presente per una eventuale. Lo sanno adulti e bambini, che ciò che si prende non si rende, se non per forza; ondechè la proposizione del lasciar prendere sulla speranza che sarà reso, è, a malgrado di qualunque gran nome bene o male invocato di Napoleone, Machiavello o Dante, proposizione da uomini rimbambiti oltre il bamboleggiare dei bimbi. — Ma aggiugniamo per amor di giustizia verso l’età nostra progredita, che tal sogno non è fatto oramai se non da pochissimi Italiani, e non è nemmen sogno de’ nostri signori stranieri. Il neo-ghibellinismo non è, che io sappia, nè proposto, nè promosso, nè accettato, nè sofferto nemmeno da niuno di essi; se non sia stato forse da qualche capitano di bersaglieri di presidio in qualche terricciuola di Romagna, e divisante col capo-popolo di colà sulle sorti italiane future. 3. Non credendo io nè buona nè possibile nella storia l’imparzialità tra coloro che fecero meglio o peggio in ogni età, se io scrivessi storie italiane del medio evo, io starei molto più sovente per li Guelfi, che mi paiono (a malgrado i loro numerosissimi errori) la parte senza paragone migliore, più assennata, più politica, più virtuosa, più italiana. Se fosse possibile che si restaurassero mai parti simili in Italia, che i nomi di neo-guelfi e neo-ghibellini si avessero ad applicar non ad alcuni sognatori solamente, ma a due parti combattenti in Italia; io vorrei, secondo il precetto antico, combattere per la men cattiva, e combatterei per la neo-guelfa. Ma prego Dio che ci salvi da queste stoltezze di più; ed ho fermissima fiducia che ce ne salverà; non veggo possibilità nè all’adempimento di tali sogni, nè alla formazione di tali parti; non veggo di qua come di là, se non rari ed impotenti sognatori. Guardiamoli e passiamo[6]. CAPO QUARTO. DELLE REPUBBLICHETTE 1. Temo sia molto più diffuso quest’altro sogno tutt’opposto: lasciarsi dividere la penisola in una moltitudine di tanti stati popolari, quanti ne risultassero di mezzo ad una sollevazione d’Italia. Fu sogno di coloro che il buono e sincero sognatore Carlo Botta[7] chiama gli _utopisti_ del nostro secolo incipiente; fu, od apparve, sogno de’ sollevati romagnoli del 1830, dei congiurati con essi, e di quelli che chiamaronsi Giovine Italia. 2. Sogno di stolte restaurazioni anche questo! sogno partorito dalla monomania greco-romana che corse tra gli anni 1790 e 1800; sogno fomentato dalla monomania del medio evo, che corse tra gli anni 1814 e 1830; monomanie, fissazioni, mode, serbate, come avviene troppo sovente, in Italia, quand’erano già vilipese e derise altrove. Le repubblichette italiche e greche dell’antichità, le repubblichette italiane del medio evo furono l’une e l’altre molto belle e buone a’ lor tempi; furono l’une e l’altre princìpi di due magnifiche civiltà. Ma progredite queste, le repubblichette greche soggiacquero lene lene al regno semibarbaro macedonico, poi sotto l’ombra di questo a’ Romani; le repubblichette italiche, pur ai Romani, e le repubblichette italiane del medio evo, agli Angioini, a’ re francesi, agli imperadori tedeschi, a casa d’Austria, a Napoleone, senza tener conto che anche prima di morire elle stettero il più del tempo di lor breve vita sotto ai tiranni. E quindi ei mi pare che, quando anche fosse buono in sè, non varrebbe la pena di stabilire un tale ordinamento, il quale da ogni esempio antico o nuovo è mostrato così poco durevole, così incompatibile colle civiltà progredite. 3. Ma, quando anche potesse durare, non sarebbe buono nè desiderabile. Come? si scioglierebbero gli Stati che han costato l’opera di tante generazioni? si ridividerebbe ciò che s’è unito? si distruggerebbero questi, che sono pure edifizii della presente civiltà? si farebbe campo nudo di tutto ciò per riedificarvi le macerie del medio evo, o le pelasgiche o ciclopee? E questo si chiamerebbe liberalità, e progresso? Ma il progresso e la liberalità vanno innanzi e non indietro, edificano e non distruggono, si giovano di ciò che è, per aggiungervi ciò che manca; capiscono ogni bellezza, riconoscono ogni bontà, e fan virtù del conservarle ed accrescerle. Pogniamo che si sciolgano gli Stati italiani presenti, per esempio Toscana nelle repubblichette antiche di Firenze, Siena, Pisa, Pistoia, e nella nuova di Livorno, che ben vi potrebbe pretendere. Non sarebbe egli gran peccato veder disfatto quel bello e lieto stato di Toscana? e morte le speranze delle vie moltiplicate, del commercio accresciuto, dell’arti, delle lettere riunite in grandi studi, speranze che non possono effettuarsi oramai se non per le forze congiunte di tutte quelle città? Non parlo dell’agguerrito Piemonte, e di Napoli che s’agguerrisce. S’intende che si scioglierebbono quegli eserciti italiani ed or esistenti, che non si accrescerebbero quell’armate navali or nascenti, che si tornerebbe alle milizie ed alle navi municipali del medio evo. Se non che, ai nostri dì nè milizie nè navi non si hanno se non dagli Stati ricchi, e non sono più ricchi se non i grandi; ondechè le restaurazioni delle milizie o delle navi comunali sarebbero il più ineffettuabile fra’ sogni fatti per restituir potenza all’Italia. Quanto agli stati del papa, io non ho accertato se le repubblichette da restaurarsi sarebbono quelle di Veio, Tarquinio od Alba-Lunga? ovvero, quelle di Tivoli, Spoleto e Perugia coll’accompagnamento de’ Crescenzi, de’ Frangipani, degli Orsini e Colonna, e sotto a un Arnaldo, o ad un Cola? ovvero la repubblica romana e suoi consoli dell’anno 1799? Ed io so bene che ad alcuni tutto ciò parrebbe pur meglio che i frati, i preti, i cardinali ed il papa. Ma io non temo per costoro; non vi è pericolo; ei sono molto bene difesi dal nostro Gioberti, e si difenderanno del resto da sè[8]. 4. Ma poniamo che le repubblichette paressero autorizzate dalla storia, e desiderabili; elle sarebbero pure l’ordinamento più impossibile ad effettuarsi. Pensare che col discredito, col ribrezzo, colla paura, esagerata o no, che s’ha in tutta Europa delle repubbliche, si tollerassero in Italia dalle potenze straniere, le quali hanno quelle paure; pensare che i principi italiani, che i lor aderenti soffrissero la propria distruzione, non provvedessero a quella conservazione di sè, che è primo istinto, prima forza, primo diritto e dovere d’ogni persona individuale o complessa; pensare che la pluralità della nazione italiana si lasciasse far legge da pochi i quali, sani od insani, spensierati o provvidi, si farebbero ad ogni modo sovvertitori di tutti gl’interessi, di tutti i diritti, di tutti i doveri presenti: sarebbe pensare che noi non siamo nel secolo XIX, in un secolo di civiltà progredita, cioè appunto di quegli interessi, que’ diritti e que’ doveri meglio sentiti, e più rivendicati da ciascuno; sarebbe pensare che si possa tornare ai tempi barbarici; sarebbe anzi inventare una barbarie non mai veduta, posciachè nemmeno ai tempi barbarici non si fece mai tale astrazione da ogni fatto e diritto attuale, tal campo raso. — E il vero è che tutti quanti questi sogni, se non fossero più sogni, se potessero passare ad esecuzione, sarebbero scelleratezze, _delitti di lesa civiltà_. CAPO QUINTO. DELLA CONFEDERAZIONE DEGLI STATI PRESENTI 1. Ma il fatto sta che tutti questi o rimasero puri sogni ineseguiti, o passarono tutt’al più ai primi e vani atti d’esecuzione; che la loro stessa moltiplicità e la loro non riuscita provano il piccol numero di chi s’abbandonò a ciascuno, o forse a tutti insieme; che la grandissima pluralità degl’Italiani, tutti quelli di qualche pratica o di qualche senno, non tennero nè tengono per possibile nè desiderabile nè niuno sminuzzamento nè niuna riunione universale degli Stati esistenti; e che non desiderano, non sono pronti a promuovere di lor concordia, se non quel progredir dalle cose presenti alle future, il quale fu sempre il solo giusto, e il più util modo di mutazione, ed è desiderio, vanto, carattere, virtù speciale dell’età nostra. 2. Ora, quando un’opinione si vien facendo universale, ella non tarda a trovare un interprete. E questa dell’ordinare sul presente il futuro della nostra Italia, ne ha trovato uno eloquentissimo, il Gioberti. Noi riconoscemmo già in lui il merito d’aver parlato il primo opportunamente delle cose future italiane. Riconosciamogliene ora un altro; d’averne parlato secondo giustizia, fondando le speranze future su’ diritti e doveri presenti, proponendo una confederazione degli Stati ora esistenti. 3. Le confederazioni sono l’ordinamento più conforme alla natura ed alla storia d’Italia. L’Italia, come avverte molto bene il Gioberti, raccoglie da settentrione a mezzodì provincie e popoli quasi così diversi tra sè, come sono i popoli più settentrionali e più meridionali d’Europa; ondechè fu e sarà sempre necessario un governo distinto per ciascuna di tutte o quasi tutte queste provincie. E come in Europa rimasero, salvo le brevi eccezioni, quasi sempre distinte quelle sue divisioni di Britannia, Gallia, Spagna, Germania, Italia e Grecia; così nell’interno della penisola nostra rimasero quasi sempre distinte; la punta meridionale, la valle Tiberina co’suoi monti e sue maremme, il bel seno dell’Arno, e l’Italia settentrionale divisa o non divisa in occidentale ed orientale; la Magna-Grecia o Regno di Napoli, il Lazio o Roma, l’Etruria o Toscana, la Liguria o Piemonte, la Insubria o Lombardia, con nomi e suddivisioni varie, ma tornanti alle primarie. Ma ei vi sono pure somiglianze in queste varietà; unità in queste divisioni; comunanze di schiatte, di lingua, di costumi, di fortune, di storie, d’interessi e di nome tra queste provincie italiane; è una antica ed incontrastabile Italia. E quanto men sovente queste comunanze si manifestarono in produrre uno stato universale italiano, tanto più sovente elle produssero confederazioni or provinciali or nazionali. — Nella storia primitiva è sola illustre la confederazione delle città etrusche; ma quanto più si va studiando, tanto più si trova il medesimo ordinamento comune tutto all’intorno. Non sono dubbie oramai una confederazione latina, una sannite, una gallocisalpina; e sono poco men che certe una sabina, una umbra, una ligure, una veneta e forse altre. Delle quali non so veramente se gli storici antiquari troveranno monumenti sufficienti a dimostrarle; ma so bene che, senza supporle, gli storici filosofi o spiegatori non ispiegheranno mai nulla dell’Italia anteriore ai Romani, e poco forse della romana. — Ad ogni modo, riunite e poi sciolte dall’Imperio, le città italiane non tardarono a rifar confederazioni. L’indipendenza serbata da Roma, da Venezia, dalle città dell’Esarcato e da parecchie meridionali per due secoli contro a’ Longobardi così forti e così vicini, non si spiega con gli aiuti dei Greci deboli e lontani; non si può spiegare se non colla esistenza di confederazioni, quali che fossero, simili a quella accennata indubitabilmente dal nome della _Pentapoli_. E se così fu, si potrebbe forse far risalire a Gregorio Magno la rinnovazione delle confederazioni italiane. Ma io crederei che debbasi tal somma gloria a quel Gregorio II, il quale sin dal principio del secolo VIII riunì, sotto la presidenza sua, una confederazione di città poco diversamente indipendenti quinci e quindi da’ Longobardi e da’ Greci; quel Gregorio II, che aspetta solamente uno storico o biografo o monografo, per esser posto pari a qualunque de’ maggiori papi politici. I successori del quale poi, lasciate improvvidamente le confederazioni, chiamati i Franchi ed avutane signoria su Roma ed altre città, serbarono queste più o meno indipendenti parecchi secoli, non con altro modo se non tornando alle confederazioni. E Gregorio VII, in mezzo a tutte le sue grandezze, fu grandissimo confederatore di città; intorno a Roma, in Toscana, in Puglia, intorno a Milano. Ma il confederatore massimo fu Alessandro III, la confederazione grandissima fu la lega di Lombardia; quella che essa pure (vergogna nostra) aspetta uno storico. Dall’elezione di Gregorio VII alla pace di Costanza, dal 1073 al 1183 corre un lungo secolo, solo o sommo della virtù politica italiana, il secolo ove nacquero que’ comuni, quella indipendenza, quel primato di civiltà e coltura, onde poi la civiltà e la coltura di tutta la Cristianità. Che se non furono ben ordinati que’ comuni, non compiuta quella indipendenza, non durevole quel primato nostro, colpa fu, colpa sola, ma incommensurabile, di non avere allora fatta continua ed universale in Italia quella confederazione temporaria di Lombardia. Ma che? non eran maturi i tempi; era appena nascente la civiltà; non si sapeva quel sommo dogma politico che la indipendenza si vuol compiere prima di tutto; non s’immaginava nemmeno una indipendenza compiuta dall’imperatore romano. Sciolsesi la lega in parte fin dalla tregua di Venezia, sciolsesi del tutto nella pace di Costanza; pattuironsi, ottenersi i troppo esclusivamente desiderati diritti regali dai comuni; ma ottenendoli ad uno ad uno, si sciolse la lega, si perdette il più bel frutto della vittoria. E corsi dieci altri anni, i grandi propugnatori della indipendenza, il gran comune centrale, il capo già della lega, Milano, troppo stolta, festeggiava con applausi e solennità di che restano deplorabili descrizioni, quel matrimonio di Arrigo VI di Svevia con la erede di Puglia e Sicilia; che fece impossibile per gran tempo il compimento d’indipendenza, irremediabilmente perduta per molti secoli l’occasione. — E sorsero poi una seconda lega lombarda, una toscana e forse altre; ma tutte minori, anche meno pretendenti, anche meno fruttifere, e talor dannose; leghe di parti, più che nazionali, fin verso il fine del secolo XV. — Quando, Lorenzo dei Medici (quel Lorenzo che alcuni osano mettere in fascio e vituperare insieme co’ Medici del degenere _Seicento_), il magnifico Lorenzo imaginò, trattò e adempì la più ampia confederazione che sia stata mai di Stati italiani. E non durò il grande esempio, pur troppo: un decennio all’incirca. Ma questo non è distante da noi, se non di tre secoli e mezzo, non è di età e d’uomo barbaro; è dell’età e dell’uomo più civile e più colto che sia stato mai in Italia e forse altrove. — Morto lui, e surto Ludovico Sforza il gran traditore, disceso Carlo VIII, e seguendo i secoli delle preponderanze straniere, si spense ogni uso di confederazioni, non fecersi quasi nemmeno alleanze italiane. Anteponevansi da ciascuno le straniere, o come più forti, o come meno invidiose. 4. E quindi non parrà strano ormai, ciò che ridico: che la proposizione d’una nuova e continua confederazione italiana, la proposizione di fare compiutamente e durevolmente colla civiltà adulta ciò che la fanciulla non seppe se non incompiutamente e temporariamente, è più che un evento letterario, è un fatto nazionale. Non importa che altri possa pretendere d’aver avuta od anche espressa la medesima idea. Delle idee come dell’invenzioni ha men merito chi le concepisce o le accenna adombrate, che chi le svolge in modo da divulgarsi ad utile comune. Nè importerà che l’idea proposta sia criticata, migliorata o guastata da altri poi; egli è appunto da tali incontri che può venir la luce, da tali discussioni l’opinione, dall’opinione universale la possibilità dell’esecuzione. Ed aggiugnerei, che non è se non dal passar così ne’ tre gradi di discussione, opinione ed esecuzione, che può venire il sommo grado di gloria al proponitore; se non che, volendo disporre un Gioberti a tollerare contraddizione, mi paiono più a proposito argomenti di patria utilità che non di propria gloria. Egli non ha voluto senza dubbio dare un’idea morta, ma una viva; non una immobile, ma una capace di progredire; non un’utopia da rimaner proprietà dell’autore, ma un gran pensiero da diventar nazionale, e sopratutto efficace. 5. Epperciò noterò arditamente una che mi pare esuberanza, ed una che mi pare deficienza nella proposizione di lui. — Quando d’un ordinamento proposto sono incerti il tempo, l’occasione in che si eseguirà, e chi, quali e quanti la eseguiranno, quali interessi lo moveranno e vorranno essere rispettati, quale opinione pubblica regnerà allora, l’aggiugnere particolari parmi esuberanza, difficoltà aggiunta alle difficoltà naturali. Non che questo preveder lungo sia (come dicono alcuni) quasi usurpazione d’uffizio contro alla Provvidenza. Lunganime è la Provvidenza, nè si offende di chi con animo sincero e rispettoso tenta indovinarle gli arcani; il nostro Dio è Dio geloso contro a chi il tradisce, non contro a chi si addentra in lui con amore e fiducia. Ma più gelosi sono gli uomini, e fra tutti, gli uomini di stato; e lasciano bene, talora, che noi uomini di penna spaziamo sulle generalità; ma se scendiamo ai particolari, di che pretendono essi la privativa, allora ei sono pronti a farci mal viso, a rimandarci al nostro mestiero, ad annientare di un tratto l’idea proposta, sotto i nomi d’idea da scrittore, da filosofo, da sognatore. È noto il detto usuale di Napoleone, che qualunque idea non gli andasse a grado, o s’opponesse alla pratica sua, la tacciava d’_Idealismo_. E molti uomini di pratica, senza esser Napoleoni, hanno preso il modo di lui; e perchè non quadra alla pratica un particolare aggiunto all’idea della confederazione italiana, diranno o dicono: filosofia! e passan oltre. A me par più giusto dire: è idea senza paragone più vicina a pratica che niuna delle proposte finora, salvo forse un solo particolare, che convien dunque esaminare. 6. L’idea di dar fin d’ora al papa la presidenza della confederazione futura, è senza dubbio una magnifica idea; fu idea, fu fatto incontrastabile del medio evo. E questo fatto, oggetto già di scorno in bocca a storici e filosofi volontariamente od involontariamente ignoranti, è col progresso della scienza diventato oggetto dell’ammirazione e della gratitudine di molti scrittori più sinceri o meglio informati. Ma potrà egli mai restaurarsi tal fatto? E quello del terzo gran primato d’Italia, sperato insieme come conseguenza? Io dirò schietto e con molti: crediam difficili e l’una e l’altra restaurazione. Difficili sono per sè le restaurazioni tutte. Di cento ideate s’arriva appena a tentarne dieci; di dieci tentate se ne compie una; e quest’una compiuta non suol durare senza modificazioni, rimane men restaurazione, che mutazione nuova ella stessa. La confederazione sarebbe pur essa restaurazione; già difficile dunque per sè, in generale; non v’aggiungiamo la difficoltà maggiore dell’imitazione più particolare. Quando quei Gregori I, II e VII, ed Alessandro III, ed Innocenzo III restaurarono le confederazioni italiane, essi non imitarono già così particolarmente i modi delle antiche, nè Lorenzo imitò i modi di quelle non antiche ma già antiquate; tutti questi ne inventarono delle nuove, secondo i tempi. Imitiamo anche noi, o i nostri nepoti, non i particolari, ma gli autori delle opere grandi; quella è, in ogni cosa, imitazione sempre servile, questa sola talora grande. — Del resto noi crediamo, che nè il sommo pontefice il quale regna ora con quel nome ben augurato de’ Gregori, nè i successori di lui, nè i buoni e sodi servitori di essi, non desiderano nè desidereranno mai più siffatte presidenze; come i sodi Italiani non desiderano all’Italia quel gran primato, che pur fu, ma non può esser più nemmen esso, in niun futuro prevedibile. Non sono più i tempi delle dispute di _Egemonia_ fra quelle repubblichette greche in cui era raccolto tutto il fior d’una nuova e stretta civiltà; non più i tempi delle dispute d’imperio tra Roma e Cartagine, che si dividevano quella civiltà cresciuta e pur limitata ancora; non più i tempi delle contese tra la monarchia universale affettata dagli imperatori germanici, e la monarchia ecclesiastica tenuta dai papi; non più i tempi che una sola nazione cristiana raccoglieva in sè quasi tutta la cristiana civiltà, e ne teneva quindi incontrastabilmente il primato; non più tempo nemmeno delle guerre che si chiamavan d’equilibrio e furono di preponderanza europea tra Francia e Spagna, Francia ed Austria, Francia ed Inghilterra. Ora son tempi felicemente diversi; ora è forse men sogno sperare una indipendenza universale, una guarentigia reciproca di tutti gli stati cristiani, che non nè una monarchia universale, nè una preponderanza, nè un primato durevole, nè uno stesso equilibrio; men sogno l’indipendenza reciproca delle due potenze temporali e spirituali, che non una temporal presidenza della spirituale. — Accettiamo dunque il gran pensiero del Gioberti; trattiamo della confederazione italiana in generale, senza scendere a’ particolari nè della presidenza, nè delle leggi e dei patti di essa, nè del numero e qualità dei confederati eventuali. Anche ridotta alle generalità, la questione è ispida di difficoltà, per la lontananza e le incertezze d’esecuzione. Non accresciamo quelle difficoltà collo scendere ai particolari incertissimi d’un ordinamento già incerto. Lasciamo ai posteri qualche cosa da fare; ai contemporanei dell’evento qualche libertà d’esecuzione. — Se Dio voglia, se mai venga il gran dì della confederazione, i confederati pongano essi patti, limiti e presidente. 7. Ed all’incontro parmi sia da scendere ai particolari del primo eseguimento; sia da trattare almeno della prima e più ovvia difficoltà. Non facciam dire ai soliti derisori: «Tutto ciò è bello e buono. Tutto ciò starebbe bene. Ma a tutto ciò è un ostacolo grave, attuale, irremovibile; il sappiam noi che non iscriviamo, ma operiamo, noi che siamo all’opera, alla guerra effettiva, alla breccia. Sogno, sogno anche questo; scrittura, filosofia, idealismo». — Ma anche qui parrebbemi più giusto dire: l’ostacolo vi è, l’ostacolo non fu considerato sufficientemente, consideriamolo; vi fu deficenza nella proposizione, facciamo un supplemento o complemento. Il rimanente della breve opera mia non sarà altro oramai. CAPO SESTO. LA CONFEDERAZIONE È IMPOSSIBILE FINCHÈ UNA GRAN PARTE D’ITALIA È PROVINCIA STRANIERA 1. L’ostacolo, unico, ma gravissimo a qualunque confederazione italiana, è quella signoria straniera che penetra nel fianco della penisola, che soverchia in potenza e popolazione italiana, quattro de’ sei principati italiani; e che li soverchia tutti insieme poi come parte d’un imperio più grande che non la penisola intiera[9]. Finchè dura tal condizione, non è possibile niuna confederazione, niun ordinamento, niun equilibrio italiano, non è possibile se non una preponderanza di quell’imperio sugli stati italiani. Quando Napoleone, ordinata Francia sotto il suo consolato, volle ordinare Italia, ognun sa ch’ei chiamò a sè molti notabili italiani in quell’adunanza, a cui rimase il nome di _Consulta di Lione_. Fra i primi o primo era Melzi. Il quale entrato in discorso, e buono Italiano ed alto uomo di stato com’era, proponendo che l’Italia settentrionale fosse riunita sotto una sola dizione, ed assentendo fin lì pur Napoleone, proseguì il Melzi a cercare qual casa di principi si potesse chiamare a sì bello stato, e nominò Casa Savoia. Sorrise allora malcontento Napoleone. Ed insistendo Melzi a mostrare come ciò converrebbe insieme all’equilibrio d’Italia e a quel d’Europa: — «Ma chi vi parla d’equilibrio?» riprese vivamente Napoleone. — E Melzi, stato alquanto sopra sè: «Or intendo. M’ingannai. Io doveva parlare di preponderanza». — «Così è, or vi apponete», riprese Napoleone; e di preponderanza o prepotenza od onnipotenza fu l’ordinamento effettuato. — E finchè sotto diversissima signoria dura pur un simile ordinamento, ei si può ben soffrire e rassegnarsi o gridare; ma niun equilibrio, niun ordine vero sarà mai in Italia, od anzi niuna vera Italia nell’equilibrio d’Europa. 2. E niuna confederazione buona in Italia. Io credo che ciò sia chiaro a chiunque abbia ombra di senno. Ma discorriamone; posciachè siamo a discorrere. — Io dico che la confederazione italiana non è desiderabile nè possibile, se v’entra la potenza straniera; e che sarebbe desiderabile forse, ma così difficile, che monta ad impossibile, senza la potenza straniera. 3. Presieduta dal papa o da qualunque altro, ed ordinata in qualsiasi modo che lasci entrare la potenza straniera, la confederazione non può più essere desiderabile a nessun Italiano. Quando si pattuisse e giurasse che il papa sarebbe presidente, il papa nol sarebbe; anzi sarebbe meno indipendente, meno principe, in men buona situazione di papa che non è ora. E così di ogni altro principe che fosse bonario tanto da accettare un nome, un’impostura di presidenza. Ma il fatto sta che nemmeno il nome non sarebbe conceduto dalla potenza straniera a nessun altro se non a sè; ch’ella s’arrogherebbe titolo, grado ed effettività di presidente; che n’avrebbe buon pretesto dalla superiorità di sua potenza; e che quando mancassero ragioni, pretesti o patti, verrebbe la forza a decidere o la questione in generale o le questioni eventuali quotidiane; che in somma d’un modo o d’un altro ella la potenza straniera sarebbe prima, sarebbe prepotente, sarebbe tutto. E così pure senza gran diversità se s’imaginasse di non avere presidente, se si pattuisse una diplomatica eguaglianza o reciprocità; questa diventerebbe in breve ciò che sogliono le eguaglianze pattuite, ma non reali, le perfette reciprocità in diplomazia; parole, finzioni legali, cerimonie, e non più. — E quindi, se non si volesse supporre che si perdesse il senno dai principi italiani, e da tutti i lor ministri e consiglieri, non è possibile ch’essi si riducan mai a tal errore, a tal viltà, di farsi volontariamente così, più dipendenti, più servi che non sono. 4. Forse è più difficile a dimostrare la seconda asserzione che non sia possibile la confederazione senza lo straniero. E per vero dire, se i sei o sette principi italiani, convenendo un bel dì insieme tra sè o per ambasciatori, pattuissero, firmassero e ratificassero un trattato di confederazione, io non so chi potrebbe, chi ardirebbe opporsi a tal trattato; legittimo senza dubbio, poichè in legge essi sono principi indipendenti e compiuti, e che una inalienabil prerogativa di tal principato è quella di poter fare trattati d’alleanza, secondo l’utile o piacer proprio. Se la potenza straniera vi si opponesse, il torto di lei sarebbe così chiaro, che probabilmente la confederazione italiana sarebbe aiutata da altre potenze straniere secondo l’occorrenza; nè in tal caso io sarei di quelli che con soverchio orgoglio nazionale consigliassero di rigettar tali aiuti. Ed anche senza aiuti (perchè, uniti che fossero i principi, s’unirebbero con essi e tra sè molto volentieri i popoli a tale scopo), io confiderei che resisterebbero facilissimamente alla potenza straniera, anche aiutata da una o due altre, ma impacciata più che mai da’ suoi sudditi italiani. — Ma il difficile è appunto quell’accordo dei principi. Siamo compiutamente sinceri; veggiamo ciò che è; non ciò che dovrebb’essere, o potrebb’essere se fosse come non è; parliamo dei principi, degli uomini come sono, di quelli che sono ora, o son probabili per l’avvenire, ne’ secoli come corrono, nell’Italia com’è ridotta. E poniamone uno od anche due uomini grandi, arditi e quasi avventati, come avrebbero ad essere per proporre e firmar quel trattato, tali non sarebbero gli altri cinque, o almeno quattro o tre o due od uno; non essendo probabile nè possibile che tra sei o sette uomini quali ch’ei sieno, principi o no, si incontrin mai sei o sette uomini grandi, arditi e generosi; e bastando uno o due che mancassero, a fare quasi nullo l’effetto dell’ideata confederazione. — Due sorta di possibilità sono negli affari umani: la condizionale e la assoluta. Ma finchè rimane impossibile la condizione della prima, questa rimane impossibilità pari alla seconda; e non val la pena di fermarci a considerare l’una più che l’altra. Io vorrei averne smentita dal fatto: io auguro alla patria mia sei o sette principi capaci d’ideare, trattare, firmare e mantenere tal atto, come sarebbe una confederazione italiana senza stranieri. 5. All’incontro, facciam l’ipotesi che non fosse più la provincia straniera. In qualunque maniera ne rimanesse divisa l’Italia, quanti e quali che fossero i principati risultanti, la confederazione sarebbe fattibile, facile a farsi, tutta fatta. La differenza stessa delle situazioni e delle potenze vi aiuterebbe. La comunanza degli interessi vi moverebbe. Il fatto della confederazione precederebbe i patti. — Il solo ostacolo è la potenza straniera. Ciò è chiaro, patente, saputo da tutti, è una di quelle verità volgarissime e di senso comune, delle quali avendo io già dette ed essendo per dire parecchie, mi vergognerei di farne un libro; se non che, elle sono quelle appunto le quali, meno splendide, si sogliono scriver meno, e le quali tuttavia gioverebbe più spandere e far penetrare nella politica di qualsivoglia nazione, in quella sopratutto della più immaginosa fra le nazioni. CAPO SETTIMO. BREVE STORIA DELL’IMPRESA D’INDIPENDENZA PROSEGUITA SEMPRE, NON COMPIUTA MAI PER XIII SECOLI 1. Così noi siamo ritornati ora a ciò che dicevamo in sul principio del Capo II, all’ostacolo straniero. Ma ei ci corre questa differenza, che noi abbiamo ora accettata da un nobilissimo scrittore l’idea di ciò che sarebbe a fare quando fosse rimosso l’ostacolo. Or dunque è tempo di rivolgerci a questo; e volgendovici, di guardarlo in faccia, qual è, in tutta l’estensione e la potenza che ha. 2. L’ostacolo è antico ed antico il tentativo di rimuoverlo; antica la grande impresa dell’indipendenza italiana. Quando fosse compiuta tale impresa, quando si potesse fare una storia revoluta, del principio, delle vicende e del termine di lei, certo è che riuscirebbe la più bella che possa essere al mondo; una storia di costanza italiana, da disgradarne la famosa di Spagna nella cacciata de’ Mori. — Potrebbero allora introdurre a tale storia forse un’antichissima impresa dei Tirreni contro all’altre genti primitive; e certamente poi quella impresa di Roma contro ai Galli, che incominciò di mezzo alla città stessa già perduta tutta, salvo il Campidoglio; quando un fuoruscito, il più grande de’ fuorusciti, il grandissimo Camillo, tornò nella patria occupata, e liberolla; e respinti quinci gli stranieri, continuò a respingerli più e più su, ed ordinò Roma, e fecela capo a ciò di quella penisola inferiore, dove era nato il santo nome d’Italia. E fu perdurando poi quattro secoli in quell’impresa, che Roma si fece capo a poco a poco di tutta la penisola, e riunilla, e comunicolle quel nome; il quale ricorda dunque l’origine, l’impresa e la propagazione dell’antica nostra indipendenza. 3. Ma lasciamo l’Italia antichissima, e la romana repubblicana e l’imperiale, e veniamo a quella che, soggiaciuta ai Barbari insieme con ogni altra nazione europea, tentò sola liberarsene; un vanto che non fu forse avvertito abbastanza, nemmeno dai nostri adulatori. Ad ogni modo incomincia l’impresa d’indipendenza se non già fin dalla venuta di Teodorico, chiamato o mandato in nome dell’Imperio, certo almeno fin dagli ultimi anni di lui, e così fin dalla prima metà del VI secolo, XIII secoli dunque prima di noi. Incontrastabile documento ne è allora quella accusa (di che dubita la storia, ma non importa qui se fosse giusta od ingiusta) che fu data a Boezio ed altri Italiani di _macchinar la restaurazione dell’Imperio romano_. E ne sono documenti ulteriori e fatti incontrastabili, le crudeltà che ne seguirono e in mezzo a cui finì quel barbaro, ma grande e un dì mitissimo Teodorico; e le raccomandazioni di concordia troppo tardi fatte da lui morente a’ nobili goti e italiani; e le favole popolari con che fu perseguitata la memoria di lui; e poi le discussioni surte in breve tra Goti ed Italiani per l’educazione del successore, le vicende d’Amalasunta e di Teodato; che chiamarono finalmente i Greci, restauratori pretesi dell’Imperio. Ma, tristo risultato di quelle chiamate, i Greci non restaurarono l’imperio italiano, estesero solamente il greco; ed Italia, già capo, diventò provincia. — Ond’esce un grande, quantunque notissimo, insegnamento: che le restaurazioni d’indipendenza non si vogliono domandare a stranieri; e quest’altro poi, ch’elle non si vogliono complicare di altre restaurazioni. 4. L’imperio greco durò un venti anni a ristabilirsi sull’intiera provincia italiana, un dieci altri a stentarvi e cader poi sotto a’ Longobardi. Allora la penisola fu divisa per non riunirsi forse mai più, tenendo i Greci tutta la parte orientale con Roma, i Longobardi quasi tutta la occidentale. Ma gl’Italo-Greci, o Imperiali, o come si dicevano Romani, furono senza paragone più indipendenti che non gl’Italo-Longobardi. Avevano esarchi, duchi, governatori greci, stranieri, cattivi; ma obbedivano loro poco e di rado, obbedivano piuttosto a’ papi, a’ loro vescovi, a’ loro magistrati cittadini; erano già veri comuni, a modo de’ lombardi e toscani di cinque secoli appresso; non tenevano conto dell’imperadore greco lontano, se non come questi poi degli imperadori tedeschi vicini od anche meno; e come questi, così quelli fecero le leghe e confederazioni già da noi accennate. E questa è la vera e bellissima origine della potenza temporale dei papi; origine pari in antichità, superiore in vera legittimità a quella di qualunque regno europeo; scusa od anzi merito e virtù del loro costante resistere ai Longobardi; gloria di Gregorio Magno, che prese primo la difesa di quel che restava d’indipendenza; gloria maggiore di Gregorio II, che la difese contro i Longobardi e l’accrebbe contro ai Greci con una bella confederazione nazionale, e senza aiuti stranieri; scusa dei papi successori di lui, che, pressati da’ nemici vicini, abbandonati da’ signori lontani, ricorsero men vilmente che imprudentemente ed infelicemente all’aiuto dei Franchi, stranieri novelli. — E il risultato e l’insegnamento furono i medesimi che due secoli prima. Rimasero signori i nuovi chiamati. 5. Nè questo fu tutto; in breve rifecesi l’altro e forse maggiore errore di restaurare un nuovo preteso imperio romano. E siccome il primo restaurato era stato non italiano, ma greco, così questo fu franco. Errore, preoccupazione, cecità, smania, stoltezza, impostura quasi inconcepibile a noi, questa di restaurare l’Imperio! Nè par vero che sia durata tanti secoli, mille e più anni, dall’800 al 1805. Tanto può una memoria, una parola! Ma, non ci si venga a dire a noi Italiani, che quest’imperio romano fu una grande idea di Carlo Magno, una gran bellezza del medio evo, una gran fortuna della Cristianità, a cui furono dati così un gran centro temporale, e un gran centro spirituale, due grandi capi, l’imperatore e il papa. Io non so se tutto ciò, quantunque cantato da un vero poeta, sia poesia; ma non è storia di niuna maniera. Grande sì fu l’ambizione, ma non l’idea di Carlo Magno; non dovendosi dir grande niuna idea che tanto scemi passando a realità. Certo, l’imperio ideato da Carlo Magno, cioè la supremazia d’uno dei re sugli altri, non durò incontrastato se non 14 anni, quanto il fondatore; nè tra molti e gravi contrasti, se non 88, assai meno che non la schiatta carolingia, di cui fu rovina; ondechè si vede essere stata piccola e cattiva idea. E quanto a quella bellezza dell’edifizio della Cristianità posta in bilico su due centri, io non so guari veder nulla di tutto ciò; posciachè in somma il centro imperiale non durò se non quegli 88 od anzi quei 14 anni, dopo i quali ogni re fece il re da sè, senza curarsi dell’imperatore più che di qualunque altro re. I due centri o perni esistettero sì veramente, ma per l’Italia sola; dove l’imperiale fu non fortuna ma sventura grandissima e moltiforme. Perciocchè prima, fu causa che dovendo l’imperatore esser re d’Italia, tutti i re carolingi vollero quel regno e così sel disputarono e l’invasero. Poi fu causa che i pochi principi italiani, due Berengarii, un Guido, e un Arduino riusciti a farsi re d’Italia, non poterono rimaner tali come altri principi rimasero re di Francia, di Spagna e di Germania; il che, sia o non sia da lamentare per li tempi seguenti, certo fu gran danno per quelli, nei quali l’Italia ne riuscì più invasa, più avvilita, più corrotta che non sia stata mai ella o niuna nazione cristiana. Perciocchè certo furono molto avviliti quei re che sottoposero la corona italiana alla tedesca; avviliti tutti quegli altri principi italiani che non traevan potenza se non dalle intervenzioni straniere; avvilite quelle principesse meretrici che la traevan dalle libidini nazionali e straniere; avviliti gli ecclesiastici ravvolti in tutto ciò, compratori e venditori delle sedie vescovili e della stessa romana; avvilita la nazione intiera la quale chiamò più stranieri in quel secolo e mezzo che non facesse mai, e la quale alla morte di Arrigo Sassone giunse al segno di accattare padroni in tutta Europa, Francia, Germania e Castiglia, e di far rifiutar sua servitù da tutti, salvo che dai Tedeschi, che non la rifiutarono mai. E so che que’ nostri inalterabili piaggiatori i quali quando non ci possono lodare ci scusano, e quando non ci possono scusare ci consolano col paragone de’ vizi altrui, diranno qui che quel secolo d’intorno al 1000 fu secolo di avvilimento a tutta la cristianità, ai signori nostri come a noi servi, ai compratori come ai venditori della nostra indipendenza. Ma io dico che in tali contratti, i venditori son sempre di molto più avviliti che non i compratori; chi si fa servo, che non chi si fa padrone. E confermo e conchiudo: che la nazione italiana cadde allora più basso che non fosse mai ella o niuna cristiana; e che fu effetto di quel mal sogno del Primato italo-imperiale. — Onde mi sembrano uscir poi due insegnamenti: che prima di mirare a primati si vuol arrivare a parità, e che la prima delle parità colle nazioni indipendenti, è l’indipendenza. 6. MA LE NAZIONI CRISTIANE POSSONO AMMALARE, NON MORIRE, dice ammirabilmente il nostro Gioberti[10]. E la storia del secolo XI non solo prova la verità, ma dà le ragioni di tal fatto, accenna i modi del risanamento delle nazioni cristiane. Il rimedio che queste hanno e le antiche non avevano, è la Chiesa cristiana; la quale, incorruttibile essa, basta a preservarle da mortal corruzione, basta a preservare la virtù, la operosità cristiana risanatrice. Pareva allora corrotta la stessa Chiesa, ma non era. Incorrotti molti membri di essa, si ritrassero dal mondo, ne’ monasteri. Fondaronsi quelli di Cluni, di Cisterzio, della Certosa, di Camaldoli, di Vallombrosa e molti altri; il cui merito massimo non fu, come si suol dire troppo umilmente, l’aver serbati i manoscritti o le lettere o l’agricoltura, ma la virtù; dico la severa e cristiana virtù. La storia di quei chiostri d’intorno al 1000 è una meraviglia, un miracolo continuo. Un uomo, un santo sdegnavasi contro al secolo (quel secolo da fulminare allora veramente), contro ai costumi secolari, ecclesiastici, monacali. Quindi facea disegno di fondar un monastero nuovo, di restituire in esso la disciplina; fondavalo con due o tre compagni; l’estendeva a qualche centinaio di monaci; fondavane altri all’intorno, e tutto insieme chiamavasi una _riforma_. Talora, morto appena il riformatore, talora anche prima, la riforma cadeva nella corruzione universale; tal forza era in questa! Ma allora risorgeva un altro riformatore, un altro monastero, un’altra riforma; e ricorrotta questa, un’altra ed un’altra, finchè durò la corruzione universale, ed anche oltre. Intanto, or nell’uno or nell’altro chiostro, la virtù s’era serbata; e n’uscì intorno alla metà del secolo uno stuolo, una schiera di uomini, che io non so come io chiami: grandi santi, grandi filosofi, grandi riformatori ecclesiastici, o grandi politici, perciocchè furono tutto ciò; Pier Lombardo, Lanfranco, sant’Anselmo da Aosta, uno o due altri Anselmi, san Pier Damiano, Annone di Colonia, e finalmente Ildebrando, cioè san Gregorio VII. Il quale fu il più grande, ma non il solo grande, fu il principe di quello stuolo già formato, fu il raccoglitore e propagatore delle frutte seminate da altri; grande ingegno senza dubbio, ma più gran coscienza, gran politico, ma pontefice anche più grande. Ed egli e tutti gli altri insieme furono i risanatori della corrotta Cristianità in generale, ma della corrottissima Italia in particolare; non solamente perchè dall’Italia nacquero i più di essi (come è facile vedere dai nomi citati), ma sopratutto perchè a risanar Roma, a restituir ivi primamente la disciplina e l’indipendenza ecclesiastica attesero unanimi; e perchè da queste appena incominciate a restituirsi, seguì, quasi conseguenza naturale, l’indipendenza italiana. Invano si disputa di questa o quella minuzia di libertà da attribuirsi o no ai vescovi ed agli ecclesiastici nella fondazione dei comuni; invano si allega che i comuni sorsero talora non a favore nè con aiuto, ma contra i vescovi. La virtù fece i comuni italiani; e la virtù di quel secolo fu incontrastabilmente d’origine ecclesiastica; anche quella che in parecchi luoghi si risolve contro ai corrotti ecclesiastici. — E quindi esce l’insegnamento, che la virtù fa l’indipendenza; e quest’altro, che niuno forse può tanto sulle virtù nazionali quanto gli ecclesiastici. 7. E quindi dal pontificato di Gregorio VII (an. 1073) incomincia quel lungo secolo che dicemmo il più bello della storia d’Italia; non per altro se non perchè fu il solo bello nella storia dell’indipendenza, il secolo della conquista fattane da’ comuni. Ed incomincia insieme e s’accompagna il secolo de’ maggiori papi politici che sieno stati. E primo dunque Gregorio VII, di cui non è facilmente finito di dire, che fu pure inventor delle crociate, difensor di popoli e principi oppressi, stabilitor del solo vero centro politico che sia stato nel medio evo; esagerator forse di questa centralità; usurpator forse di alcuni diritti temporali, e di ciò vituperato già, lodato ora sovente, mentre si dovrebbe forse solamente scusare; Gregorio VII, combattitor lunganime per tutte queste imprese, e che morì fra esse, esule, martire, vantandosene e tramandandole ai successori. I quali furono tra gli altri un Urbano II, adempitor del pensiero delle crociate, Calisto II, adempitor della indipendenza ecclesiastica, Alessandro III, il gran confederato dei comuni italiani. Del resto tutti questi papi non furono già essenzialmente capi di una parte italiana contro all’altra; e nemmeno capi della nazione contro agli stranieri. Tali furono sì occasionalmente, temporariamente; ma in essenza, in continuazione ed in somma, furono ciò che dovevano, capi della Cristianità, non meno e non più. E se attendendo a tutti gl’interessi cristiani, promovendoli tutti, que’ d’Italia si trovarono più promossi, ei non fu se non perchè questi erano allora de’ maggiori. La grandezza temporale dei papi e l’indipendenza d’Italia crebbero insieme e s’aiutarono senza dubbio a vicenda. Ma inducono in grave errore coloro che non sanno narrare se non l’una o l’altra impresa, e fanno così que’ papi più italiani o quegli italiani più papalini, che non furono. Ei non fu se non Alessandro III che s’unisse veramente all’impresa d’indipendenza; e non vi si unì forse intieramente se non quando Federigo Barbarossa ebbegli contrapposto un antipapa, e così più per gl’interessi del papato che non dell’indipendenza. Nè egli o i predecessori sono a biasimare, o tener in minor conto perciò. Chi oserebbe biasimare, ed anzi non lodare coloro che fecero il proprio ufficio prima che quel degli altri, il loro ufficio maggiore prima che il minore; e che avendo in mano gl’interessi dell’intiera Cristianità e quelli d’un principato od anche di una parte italiana (chè di tutte non l’ebber mai), attesero a quelli sopra questi? In somma, questa fu appunto una delle cause che quella magnifica guerra d’indipendenza, quella guerra così giustamente incominciata, così costantemente sostenuta, così mirabilmente condotta alla confederazione, così felicemente vinta a Legnano, si terminasse colle paci inadeguate di Venezia e Costanza. Anche Alessandro III, il massimo fra’ papi aiutatori d’indipendenza, riconosciuto che fu papa, lasciò l’impresa, abbandonò i comuni vincitori; ed io non so chi oserebbe dire che facesse male, o che egli avrebbe dovuto rigettare dalla comunione della Chiesa l’imperatore e mezza cristianità per gl’interessi d’Italia. E se si dicesse ch’egli avrebbe dovuto far cessar lo scisma come papa, e continuar la guerra come principe, si farebbe una distinzione impossibile forse a mantenersi in qualsiasi tempo, ma certamente in quello. Non era nemmeno proprio di quel tempo, già il dicemmo, che si cercasse l’indipendenza compiuta dall’imperatore; ed ottenutone quel tanto per cui s’era combattuto, si sciolse la lega. — E da tutti questi fatti uscirebbono poi numerosissimi insegnamenti; ma due sopra tutti: che le confederazioni sono senza dubbio il miglior mezzo di conquistare l’indipendenza; ma che senza indipendenza compiuta non si sogliono nè si possono conservare confederazioni; e che i papi, grandi aiutatori, non possono essere buoni capi a tali imprese. 8. Dalla pace di Costanza (anno 1183) alla venuta di Carlo VIII (anno 1494) corrono poi quei tre secoli della gioventù, dello splendore e dell’incontrastabil primato d’Italia, da cui sorgono sperimenti e insegnamenti innumerevoli oramai; secoli di minor virtù che non il precedente, colsero i frutti seminati da’ padri, tranne uno che non seppero maturare. Non seppero compiere la indipendenza; allettati che furono dall’altra opera più immediatamente piacevole, di compiere ed esagerare la libertà interna. Dimenticarono l’imperatore per volgersi contro a questo o quel tirannuccio vicino, contro ai nobili grandi o minori, contro agli stessi popolani maggiori o grassi, o viceversa; con perpetue vicende, con ispensieratezza che anch’essa pare inconcepibile a nostra età, con un eccesso di licenza che servì poi d’argomento agli avversari non solo de’governi popolareschi, ma d’ogni libertà. Ma ciò non ostante il vero è che in que’ tempi del sistema feudale, cioè dell’aristocrazia più ristretta e più oppressiva, dell’ordinamento più mal ordinato che sia stato mai, il disordine, la licenza stessa, ogni eccesso popolaresco erano ancora un vantaggio, facevan della nostra nazione mal libera e male indipendente, una nazione meglio condizionata di gran lunga che non le feudali. Questo fu il vantaggio d’Italia, questa la causa del primato di lei lungo i tre secoli; vantaggio e primato che cessarono poi naturalmente da sè, quando, scemato lo svantaggio degli ordini feudali nell’altre nazioni, l’Italia non si trovò più al paragone se non collo svantaggio proprio e massimo della indipendenza incompiuta. — Intanto fin dal primo de’ tre secoli, tra que’ governi popolari nuovi, i dialetti diventaron lingua; lingua poetica, politica, nazionale, servente a tutte le colture. E sorsero o s’accrebbero le industrie, le navigazioni, i commerci, le ricchezze, tutte l’arti; in cima a cui, come sogliono, quelle che si chiamano arti belle, e potrebbon chiamarsi arti somme. Quindi quel primato di coltura, che riman più incontrastabile che non quello di civiltà, potendo rimaner dubbio di questa in coloro che tengono per sommo pregio di essa la indipendenza. — Ad ogni modo corre su questi tre secoli una grande illusione. Que’ comuni popolarmente retti chiamaron sovente sè stessi repubbliche; e repubbliche furon chiamati poi da parecchi scrittori, e ultimamente dal Sismondi in quella storia intitolata appunto _Delle Repubbliche italiane_, che è uno dei più leggibili e più letti, e letterariamente uno de’ più bei libri di nostra storia. Ma se si conservi a quel nome di repubblica il senso etimologico ed universalmente accettato, di cosa pubblica, cioè tutto lo stato, cioè lo stato indipendente pubblicamente amministrato; ei si vedrà che di tutte le così dette repubbliche italiane del medio evo, una sola fu repubblica vera, quella di Venezia; e nemmen questa dal tempo di sua nascita o di sua gioventù favolosa, ma solamente da quando essendosi disputato de’ limiti tra l’imperio carolingio e il greco, ella era rimasta in mezzo, indipendente. Tutte l’altre città nostre rimaser comuni e non più; comuni dipendenti, in diritto sempre; in fatto, tutte le volte che un imperatore potè far valere il diritto. E questo fu il grave vizio, che viziò le variatissime costituzioni, i fatti, la vita, la intiera civiltà di quei comuni. E quindi tutti i vizi minori, tutte le sventure, tutte le incapacità, e la mala riuscita ultima di que’ tre secoli. — E prima le due parti guelfa e ghibellina, le quali (tanto era il vizio di mirare nelle cose italiane non all’Italia ma fuori, ma all’imperio, il vizio imperiale) prendendo nome da due famiglie che si disputarono l’Imperio poco dopo la pace di Costanza, rimasero in breve, la ghibellina parte imperiale, la guelfa parte papalina e dei comuni; parte, così, incomparabilmente più nazionale. Strano, assurdo a vedersi ora, dopo l’evento! che fosse tale una parte, non la nazione intiera; che una parte sola sapesse e volesse seguire quell’andamento così naturale in tutte le imprese di indipendenza, di compierla dopo una prima vittoria; che un’altra parte fosse a voler fermare od anche far indietreggiare l’impresa. Ma tant’è; in tutt’i tempi, fra tutte le imprese, sono di questi fermatori ed indietreggiatori; buoni senza dubbio se l’impresa è cattiva, ma pur senza dubbio cattivi se l’impresa è buona, come era certamente questa dell’indipendenza. Quindi per un secolo all’incirca, tra le contese d’imperio che seguirono la morte d’Arrigo VI di Svevia, e la lunga minorità di Federigo II, e le vicende di questo forse più immaginoso che grande imperatore, e le nuove dispute d’imperio alla morte di lui, e sotto la condotta di nuovi grandi papi politici, inferiori solamente ai grandissimi del secolo precedente, la parte guelfa crebbe, potè molto più che non la ghibellina. E sotto la sana ombra di lei nacquero, crebbero i padri di tutte le grandezze italiane: san Francesco, la gran carità, san Bonaventura e san Tommaso, la gran filosofia teologica italiana; il Compagni, i Villani, che si dicon grandi cronichisti, ma che in virtù sono forse i più grandi storici italiani; Dante, Petrarca e Boccaccio, la gran poesia italiana non arrivata, non arrivabil forse mai più; i Pisani, Cimabue, Giotto, frate Angelico, Arnolfo di Lapo, i padri dell’arte italiana. E andiam pure più oltre: guelfe furono la maggior parte delle grandezze italiane anche posteriori al secolo guelfo: guelfe in corpo tutte le grandezze papali; guelfe tutte le ecclesiastiche; guelfe tutte quelle di Venezia, che senza il nome ebbe più che nessuna l’essenza guelfa, ebbe e serbò ciò che i Guelfi desideravano, la compiuta indipendenza; guelfe in corpo tutte le grandezze di quella Firenze, la quale non per altro fu la prima, la più gentile, la più civile, se non perchè fu la più costantemente guelfa tra le città italiane; la quale fu l’Atene d’Italia, perchè, come la greca, fu la innamorata dell’indipendenza. 9. Ma pur troppo, verso il fine del secolo XIII, i Guelfi (come succede fra’ trionfi a tutte le parti) caddero in gravissimi errori. E prima in quello già accennato di esagerare, purificare le democrazie. Meno male! quando la democrazia ha spenta un’aristocrazia, ella se ne fa una nuova, inevitabilmente; la quale può ben essere meno splendida, non ricordar co’ nomi i fatti antichi, destar minori ammirazioni ed invidie; ma che in somma, nata che è, rifà l’ufficio essenziale d’ogni aristocrazia, l’ufficio di adoperare nel governo della patria chiunque non ha necessità d’adoperarsi per le proprie sostanze. Ma l’irremediabil errore guelfo fu quello fatto per un’ira di parte, anzi per una di quelle prolungazioni d’ira, che son fatali dopo cessati i motivi e i pericoli antichi, perchè distraggono da’ pericoli presenti; per una di quelle intolleranze che sviano dallo scopo. I Guelfi del mezzodì non vollero tollerare l’ultimo resto dell’odiata schiatta sveva, Manfredi re di Puglia e Sicilia; il quale, non imperatore, non pretendente all’Imperio come i maggiori, era il solo Svevo da tollerarsi, e sarebbe diventato poi egli o i figli re indipendente ed italiano. Per ciò i Guelfi rinnovaron l’errore antico di chiamare i Francesi; e con tanto minore scusa allora, che avevano cinque secoli di ulteriore sperienza, e di cresciuta civiltà. E l’errore produsse il danno solito. Carlo d’Angiò, e gli Angioini suoi discendenti, e i Francesi suoi parenti diventarono essi signori di parte guelfa, ne tolsero il capitanato ai papi, trassero ed esiliarono questi ad Avignone, e ponendo sè stessi, sè stranieri in lor luogo, snaturaron la parte, la fecero scender da parte sola nazionale, a non altro che parte degli uni stranieri contra gli altri. — Allora salì d’altrettanto la parte ghibellina; d’allora in poi diventarono grandi alcuni Ghibellini; e allora Dante, il grandissimo guelfo, diventò il gran ghibellino. Dico che questo spiega, non iscusa, e tanto meno non fa bello, non imitabile il mutar parte di Dante. Io credo amar Dante quanto l’ami qualunque Italiano. Ma più che lui quell’Italia, che egli amò pur errando; ed ammaestrato co’ miei contemporanei da cinque nuovi secoli succeduti, amo sopra ogni uomo o cosa italiana l’indipendenza d’Italia. E dico che il mutar parte è sempre grande infelicità a chicchessia; che tuttavia non è colpa, anzi è virtù mutar da una più cattiva ad una più buona, o men cattiva, ma che è infelicità e colpa il mutar alla più cattiva, quand’anche l’altra abbia fatto errori, sciocchezze o delitti; bastando allora separarsi in ciò, od in tutto da essa, senza unirsi alla peggiore. E Dante si vantò di tal moderazione, si vantò d’aver «fatto parte da sè stesso»; ma nol fece, ma cadde in quella parte peggiore. Pur troppo è dimostrato irreparabilmente, a chiunque non abbia il vizio di non veder vizi negli oggetti del proprio amore, da quell’incredibil libro _Della Monarchia_, che è più colpevole, più fuorviato, più mediocre che non le stesse mediocrità e sciocchezze guelfe, perseguite con tanti disprezzi da Dante. E molti pur troppo fecero come lui; molti si ritrassero dalla parte guelfa diventata non meno straniera che la ghibellina, si ritrasser da’ papi diventati stranieri. Vedesi nell’opere degli altri due padri di nostra lingua, Petrarca e Boccaccio; e vedesi nel fatto de’ Vespri Siciliani, e in quel di Cola di Rienzi, e in tutti quelli italiani fino al ritorno dei papi. La parte guelfa aveva perduta la sua virtù primitiva. Ma la ghibellina non ne aveva guari acquistata, perchè non n’era in sua natura; perchè non ne può essere in niuna parte contraria all’indipendenza nazionale. 10. Dal ritorno de’ papi fino alla morte di Lorenzo il Magnifico, è la decadenza dei comuni italiani, è quel secolo XV, tanto inferiore in virtù politiche al XII e al XIII, in lettere al XIV e XVI; quel _Quattrocento_, che, salve l’erudizioni e l’arti, si potrebbe ricordare all’ingrosso col nome di secolo di mediocrità. I papi reduci di quel soggiorno di Avignone che fu chiamato cattività di Babilonia, non ritrovarono nè il capitanato di parte guelfa nè quasi parte guelfa. Le parti, snaturate, cadono da sè. E tra la guelfa non più buona, e la ghibellina non istata buona mai, non rimase più parte nazionale nessuna. Vera e compiuta nazionalità italiana non era stata mai; ma in mancanza di quella aveva giovato la parte nazionale. Or, mancando questa, mancò tutto; la virtù, l’ambizione stessa, l’ispirazione nazionale. E questa è la causa dell’essersi fermato il progresso delle lettere, e dell’armi nel _Quattrocento_. Nate le lettere, sempre continuano ad essere letterati; nate le milizie, condottieri, uffiziali. Ma quando manca l’ispirazione i letterati non si fanno autori, i condottieri non capitani. Che se poi nel _Cinquecento_ si rividero autori ma non capitani italiani, egli è che a rifar quelli bastano talora le speranze, ma a questi è necessaria la realità della nazionalità e dell’indipendenza; e che a questa riacquistare la misera Italia mancò intanto una delle più belle occasioni che le sieno mai state apparecchiate dalla benigna Provvidenza. — Era il tempo che cresceva con ammirabile intelligenza degli interessi proprii e di tutti i germanici la casa d’Absburgo, la gran casa d’Austria. Fin dal nascere, fin dal suo grandissimo fondatore Rodolfo, ella s’era scostata dalle vane ambizioni italiche degli antichi imperadori sassoni, franconi e svevi; aveva inventata, proseguita, ampliata, satisfatta una nuova ambizione nazionale germanica. E quindi, se ci si conceda una volta dir grandi i principi, non in ragione di ciò che ambirono, ma di ciò che fondarono, grandi noi diremo questi, che posero le fondamenta della grandezza austriaca lungo le falde settentrionali dell’Alpi, su quel Danubio dove sono oggi ancora la sedia e i destini di lei. Quinci era bella all’Italia l’occasione di conquistar quel poco che le mancava d’indipendenza; di far passare in diritto ciò che ella aveva quasi intiero in fatto. Ma ella si contentò di godere ciò che n’aveva senza cercare il rimanente. Nè i papi talor grandi, nè Cosimo e Lorenzo de’ Medici, i più grandi uomini di stato di quel secolo, non pensarono guari all’avvenire della patria. Lorenzo stesso, l’autore della confederazione da noi lodata, non pensò a compiere nulla, ma solamente a conservare; e non pensò che non si conserva mai nulla bene, che non sia perfetto. L’Italia dopo due secoli di coltura, dopo quattro d’indipendenza quasi compiuta, non s’era maturata a compierla, a carpirne l’occasione. E l’indipendenza incompiuta, lasciò l’Italia aperta a qualunque nuova, ed anche menoma intrusione straniera. 1. La venuta di Carlo VIII sovvertì l’Italia al momento in che, sgombra di stranieri e confederata, ella potea parer più vicina a condizione di vera e grande nazione. E quindi sono giuste, naturali, e volgari le invettive contro a quel re di mente ed ambizioni leggiere, contro a’ Francesi che leggiermente il seguirono, contro agli Italiani che lo chiamarono scelleratamente. Ma si vorrebbon pure rivolger l’ire contro a tutta quella generazione d’Italiani più colti e più eleganti che non forti, più corrotti che inciviliti, i quali soffrirono così facilmente quella conquista così leggera. Del resto questa passò in poco più di un anno; e passarono poi parecchie altre francesi, spagnuole e tedesche, con vergogne e danni nostri crescenti senza dubbio. Ma il danno maggiore e durevole ci venne da questi ultimi e soliti stranieri. L’Imperio, il funesto imperio romano-tedesco fu quello che ci perdette questa volta come l’altre; le ragioni dell’Imperio furon quelle che fecero dar prima al Moro traditore, poi rivendicare all’Imperio, e serbarsi finalmente da casa d’Austria quella Lombardia che è di lei ancora; l’Imperio che spalancò tutte le porte d’Italia a Carlo V; l’Imperio che, già infermo di tutti que’ mali fra cui prolungò poi sua decrepitudine, sostituì a sè, nel possesso della misera Italia, le due case austriache, spagnuola e tedesca. L’Imperio e l’elegante corruzione furon quelli che in poco più di sessant’anni fecer passare l’Italia dalla più lieta alla più trista, dalla più libera alla più servil condizione in che sia stata mai. — Ma ammiriamo anche di mezzo ai nostri dolori le vie della Provvidenza. Tutti quegli stranieri accorsi a straziarci, Spagnuoli, Francesi e Tedeschi, riportarono a casa alcune parti della nostra già vecchia coltura; e così questo secolo, già terzo della nostra, fu tenuto primo di tutte l’altre, e v’ha nome di _secolo di risorgimento_. E diciam pure, che noi soffrimmo dunque per tutti. Ma sappiam confessare che non soffrimmo senza colpa; sappiam vedere che tutto quel nostro primato di coltura od anche di civiltà, non ci servì nulla, nè a compiere nè a serbar nemmeno ciò che avevamo d’indipendenza, nulla a salvarci nè da lunghi strazi nè dall’ultima abiezione. — La quale fu confermata poi nel 1559 per quella pace di Cateau-Cambresis, che lasciò Sicilia, Napoli, Sardegna e Milano in mano a casa d’Austria spagnuola, e l’Italia imbrancata così da due estremi. Quando sarà che si osi fare una storia di questi sessanta sei anni, così splendidi e così tristi, da Carlo VIII a Filippo II, da Machiavello al Tasso, da Raffaello ai Caracci, da Lorenzo Magnifico a Cosimo granduca? e che si faccia non coll’animo elegantemente indifferente di Machiavello o Guicciardini, ma con uno artisticamente sensitivo ed insieme virilmente giudice delle rade virtù, degli innumerevoli vizi, delle varie ma vane meraviglie di quella generazione italiana? A scrivere e far leggere in patria una tale storia, la minor difficoltà verrebbe forse dalle censure: sarebbe cibo da forti palati, da generazioni avvezze o almeno adulte all’indipendenza. 12. Da quella nuova e pessima condizione fatta all’Italia, incomincia quel periodo troppo più lungo che un secolo, il quale è svergognato in tutte le memorie italiane sotto il nome di Seicento; periodo della dipendenza diretta più estesa, dell’indiretta più grave, della nazionalità più ridotta che sieno state mai; periodo che rimane quindi per natural conseguenza povero d’ogni operosità e virtù ispiratrice, ricco d’ozi, di vizi e di corruzioni, nelle lettere, nelle arti, negli ordini civili e nell’armi. Questa opinione del nostro _Seicento_ fu già universale, ed era non meno sana che giusta. Giusto era e sano, che un periodo di dipendenza si tenesse per periodo d’abiezione, e l’abiezione per corruzione; giusto e sano, che posto questo nostro secolo XVII col X, si vedesse che da qualunque grado di coltura e civiltà, una nazione può precipitare in dissimili ma pari abiezioni e corruzioni. Ma ora, corre un modo pessimo di storie; una ricerca di erudizioni recondite, di filosofie storiche rovesciate; una smania di negare tuttociò che il senso comune delle generazioni aveva fatto passare in certezze universali; una pretensione di trovare ed insegnare ciò che non fu mai nè insegnato nè saputo. È semplice ambizione di novità? ovvero forse applicazione lata di quel metodo storico, che incominciò colla negazione delle verità, delle tradizioni più universali e più importanti? Io non entro in intenzioni, e lascio ciascuno decidere inappellabilmente delle proprie. Ma discuto i fatti e lor importanze; ed importantissimo affermo, che si serbi la salutare infamia del _Seicento_. Invano ci si cita per redimerlo la grandezza di Galileo. Galileo fu primo, buono, grande e pratico avviatore delle scienze materiali tutte quante, in quel metodo dello sperimento, che Bacone non fece se non raccomandare quand’era già incominciato a praticarsi. E quindi è buona la rivendicazione di questa vera e grande gloria italiana; buono l’osservare la inesauribile fecondità dell’ingegno italiano, il quale, troncategli tutte l’altre vie, seppe pur trovarne a sè ed altrui una nuova e magnifica. Ma le scienze materiali hanno questa, che non so s’io chiami virtù o vizio: che elle non sono quanto l’altre, dipendenti dalle virtù, dalle condizioni nazionali; che elle possono allignare e fiorire anche in nazioni servili e corrotte; benchè poi non vi fruttifichino a lungo nemmen esse. E il vero è che la vita di Galileo è prova ella stessa della dappocaggine de’suoi contemporanei. Non è il papa, non la curia romana, contro cui si voglian rivolgere l’ire principali per le persecuzioni fatte a Galileo. La curia romana non fece forse, ella, di quella questione di scienza, una questione di teologia. Galileo, egli il primo la fece tale, con imprudenza e zelo senza dubbio molto perdonabile; ma perdonabile è pure l’imprudenza e lo zelo contrario della curia romana. Ondechè il più imperdonabile in tutto ciò fu la dappocaggine del gran duca, e degli altri protettori, e di molti amici, cioè in somma de’ contemporanei di Galileo. Ma peggio assai è quando, a redimere il _Seicento_, ci citano un Masaniello, un Bruno, un Campanella; un pescator capopopolo impazzito tra gli otto dì d’una sollevazione vilissimamente poi terminata; e due frati, nelle opere di cui si ritrovano non so quali semi di alcune idee filosofiche, che si trovano (siccome insiste nella natura umana) quasi dovunque si frughi; ma le cui opere e la cui vita furon certamente men di buoni filosofi, che di cattivi teologi, e talora di sciocchissimi astrologi. Meglio citato è Vico, filosofo nuovo e grande senza dubbio, il quale scrisse tra il finir del _Seicento_ e il principio del _Settecento_; ma l’assoluta trascuranza in che fu tenuto da’ contemporanei, prova la nullità ed abiezione prolungata fino a questi. Nè servirebbe citare un Alessandro Farnese, un Piccolomini, due Villa, Montecuccoli o il principe Eugenio; tutti insigni ed alcuni grandi guerrieri, ma guerrieri di ventura fuor di patria. Le grandezze fuor di patria dimostrano sì, che, secondo la frase d’Alfieri, la pianta uomo nasce vigorosa in Italia; ma dimostrano insieme che l’aria vi è sovente cattiva; che per allevarsi grande, la buona pianta ha talor bisogno d’essere trapiantata; e che l’arie straniere le sono talora pur troppo più amiche. Tutti questi guerrieri senza possibilità di guerreggiare per l’Italia e guerreggianti fuori, mostrano quanto fossero mutate le condizioni nostre da que’ tempi, in che almeno assoldavamo noi gli stranieri, non mandavamo a soldo altrui i nostri capitani di ventura. — Se si voglia riposar l’occhio su qualche vero resto di virtù italiana esercitata in Italia, forza è rivolgersi a quelle province che, dipendenti dalla preponderanza, erano almeno indipendenti dalla diretta signoria straniera, Roma, Venezia, il Piemonte. Ma quali indipendenze, quali virtù anche queste, se vogliamo una volta guardare e vedere? Di Roma e de’ papi dell’ultima metà del _Cinquecento_ e di tutto il _Seicento_, abbiamo da un Tedesco ed acattolico una recentissima storia, la quale descrive la magnifica resistenza fatta da que’ papi coll’aiuto di parecchi nuovi e giovani ordini religiosi, contro all’eresie giovani e forti ancor esse. E v’abbiamo pur degnamente lodati alcuni fatti civili di alcuni di que’ papi, sopra tutti di Sisto V. Ma questi furono pure i tempi di quei nipotismo menomato e più vile, che non potendo più dar province e città, dava poderi e danari; e non aveva quindi nemmen la scusa di accrescere la potenza, diminuiva solamente la ricchezza della Santa Sede[11]. E questi sono i tempi che Francia, esclusa dalla penisola, non aveva nemmen bisogno di scendere per tiranneggiare Roma, e farsi fare scusa d’aver resistito alle proprie insolenze; i tempi in cui bastava un confessor di Ludovico XIV a turbar la quiete della curia romana. — E Venezia poi era indipendente; ma come usava l’indipendenza? Contro ai Turchi. Ed era bene senza dubbio, e le imprese di Candia e di Morea possono servire di consolazione a coloro che ne voglion trovare ad ogni modo. Ma queste imprese tanto vantate furono, o di conquiste mal assicurate e in breve lasciate, o di difese lunghe, ma finite coll’abbandono; ondechè in somma elle dimostrano non altro che impotenza. La quale poi è confermata dalla sofferenza della repubblica in quella congiura, che più si spiega, più è brutta per Venezia; come la crescente e già incancherita corruzione di lei è confermata poi da tutti i particolari di quelle guerre, di quella congiura, e di tutta la storia di que’ tempi. Ora è un’altra moda, di esaltar Venezia, e dir immeritate le miserie di lei, e chiamar insulto il palesarne le cause. Ma a me pare che il peggior insulto che si possa fare ad una generazione presente, sia il crederla incapace di sentir le colpe e le corruzioni degli avi. Venezia del _Seicento_ fu corrotta un po’ più, un po’ meno, come l’altre proviuce italiane. Tanto facilmente, io stava per dire tanto giustamente, s’attacca la corruzione dalle dipendenti alle indipendenti che soffrono tal vicina. — Non è dubbio: la men corrotta come la men dipendente fra le province italiane incominciò allora ad essere il Piemonte; grazie ai principi antichi e all’armi proprie che serbò. Io non temetti poc’anzi di sfogliare una corona, la quale si suole por fra l’altre sul capo de’ reali di Savoia; non fuggii dal dir principio o conferma della servitù italiana quel trattato di Cateau-Cambresis, che fu principio o conferma della potenza di quella casa. I fatti parlano, e la verità è sola utile, e sola rispettosa; ed a quali si vorrebbe servir più, a tali si debbe, non potendo altro, far omaggio al meno di essa qual si vede da ciascuno. Emmanuele Filiberto, spoglio del suo stato da Francia, è, per il primo e sommo diritto di propria conservazione, scusabile di aver offerto, nobile e gran guerriero, i suoi servigi a Spagna; d’aver combattuta e vinta la giornata di S. Quintino, imposto il trattato di Cateau-Cambresis. Ma Emmanuel Filiberto è senza riserva ammirabile poi fin dal domani del trattato. Appoggiandosi da quel dì a Francia contro a Spagna, non puerilmente o poeticamente nemico, ma politicamente e secondo utilità or avversario or alleato d’ogni straniero, subito intese la nuova situazione di sua casa; subito ne fondò la politica; la naturale, la inevitabile, la giustissima politica di giovarsi, tra due vicini soventi prepotenti, di quello che fa meno prepotenze in ciascuna occasione; e per ciò, per poter offerire quinci un alleato, quinci un avversario valutabile, tener sull’armi unito, tranquillo e quanto può felice, il popol suo. Del resto, il maggior esempio che lasciasse Emmanuel Filiberto a’ successori fu quello di far italiana la sua potenza. Fino a lui quei principi s’eran tenuti come a cavallo dell’Alpi; egli posesi di qua, dimorò nella italianissima Torino, stanziovvi la corte e il governo, fortificolla e incamminolla a gran città, gran capitale; intendendo subito e molto bene (all’incontro di alcuni moderni) che negli stati italiani più che negli altri, la capitale è quasi tutto. Così pure chiamò letterati e incamminò lettere italiane in quella terra sua, che fu creduta gran tempo Beozia, ed era piuttosto Macedonia nostra. Nel che e nel resto fu imitato poi da ciascuno de’ successori più o men bene, secondo le capacità. Ma non è vero che questi tenessero fin d’allora, come si suol dire, le chiavi d’Italia. Le quali se avesser eglino tenute, le avrebber tenute molto male, aprendo ad ogni vegnente; e il vero è che senza Saluzzo e Monferrato essi non avevan forze da ciò, ed atteser anzi a rafforzarsi con queste nuove province in Italia, a lasciar per esse parte delle francesi, a chiuder a poco a poco quelle porte. E così in somma, continuando l’opera di Emmanuel Filiberto, e quasi soli fra gl’Italiani, guerreggiando, e soli serbando le conquiste, soli si posson dire aver serbate armi e virtù italiane, mentre gli altri pultrivano; soli essere progrediti, mentre tutti gli altri retrocedevano. E così arrivarono essi soli degnamente alle nuove occasioni. — Ed anche del _Seicento_ sarebbe utile una storia, severa. Se non che, quale storia farebbe dimenticare quella, difettosa sì ma inarrivabilmente splendida del Botta? quale poi principalmente arriverebbe alla piacevole ma terribile, immaginosa ma veritiera descrizione che ce n’ha data il Manzoni? 13. Ma diciamo una seconda volta qui al secolo XVIII, come il dicemmo all’XI: LE NAZIONI CRISTIANE POSSONO AMMALARE MA NON MORIRE; e non possono dunque, quando sono inferme se non guarire. E così, dopo aver notata nel _Seicento_ una gran dipendenza e corruzione italiana, noi abbiamo a notar nel secolo seguente un secondo risorgimento d’indipendenza e di virtù. Il risorgimento è indubitabile; e, noto già a’ più veggenti, fu fatto chiaro e volgare dai due nostri grandi storici moderni, Botta e Colletta. Ai quali rimandando per li fatti, basterà a noi fermarci alle cause principali. — E la prima fu la medesima che quella di sette secoli addietro: la incorruttibilità cristiana. Ma questa operando sempre, opera con mirabile ed inesauribile varietà, secondo i tempi. Nel secolo XI, corrotta la intiera cristianità, non poteva essere se non la chiesa stessa, il fonte dell’incorruttibilità che risanasse il resto; ed ella risanò prima la nazione circondante il centro suo, la italiana. Ma progrediti i tempi, le corruzioni generali diventarono e rimangono impossibili quanto le barbarie; e ad ogni modo fino ad ora non se ne rividero più. Quando l’Italia, che aveva tenuto il lungo primato, ma che non l’aveva stabilito sulla compiuta indipendenza, lo perdette poi colla corruzione, il primato passò di mano in mano all’altre nazioni cristiane. Ebbelo prima, dopo l’Italia, la penisola iberica, operosa e virtuosa in navigazioni, conquiste, missioni, diffusioni, arti e lettere lungo tutto il secolo XVI e parte del XVII. E vuolsi egli vedere come fa a passare il primato? Italiano era stato Marco Polo scopritore e descrittore dell’ultimo oriente; italiano tutto quello studio di questo, italiano quel disegno di giungervi da occidente, che furono così bene illustrati dall’Humboldt; italiano Colombo, che adempiè il disegno; italiano Amerigo, che gli diè nome. Ma memorie, studii ed uomini proprii furon negletti dall’Italia non più operosa; e così tutto il frutto ne passò a Spagna operosa, e questo frutto trasse seco il primato. E corrottasi Spagna rapidamente fra i rapidi trionfi, il primato passò poi a Francia. Se non che questo passare i primati dall’una all’altra nazione cristiana, ci pare fatto così importante a ciascuna (ed alla nostra principalmente, dopo quello che chiameremmo il magnifico error del Gioberti) che trattandone espressamente altrove, noi il lasciamo qui non più che accennato. — Ad ogni modo, al finir del _Seicento_, al principio del secolo XVIII l’Italia giaceva in condizioni inferiori a quelle di una o due, o quasi tutte le nazioni cristiane. Un caso, una fortuna (uno di que’ fatti che più indipendenti dalle cause umane, sono, anche dagli uomini men credenti, attribuiti alle superiori, e detti così provvidenziali) il finir della schiatta austriaca spagnuola, rimescolò le nazioni cristiane, e le ricondusse, siami lecito dire felicemente per questa volta, in Italia. Una sola provincia, un solo principe si trovò pronto alla occasione; e tanto bastò a determinare un risorgimento d’indipendenza, e quindi di operosità, di civiltà, di colture, di virtù italiane. Aprissi nel 1700 la successione di Spagna; un buon terzo d’Italia trovavasi, quasi podere, compreso in essa; gli abitatori del podere non si mossero, non s’aiutarono; fu naturale, eran sudditi stranieri da cencinquant’anni. Ma un principe italiano, Vittorio Amadeo II di Savoia, pretendeva parte pur egli a quel retaggio; e se la fece dare, tra per l’operosità e virtù propria, e quella del parente, il principe Eugenio, e quella serbata da’ suoi maggiori a’ suoi popoli (tanto quest’arte di serbar l’operosità de’ popoli è arte utile ai principi); e così n’uscì col titolo e la realità di re, e con Sicilia aggiunta al suo stato più che mai italiano; e così rimase scemata di tanto la parte straniera. — Ciò fin dalla pace di Utrecht nel 1714. E rimanevano province tedesche il resto del Regno e Milano, e spagnuola Sardegna. Ma in breve, surte due altre occasioni simili, le due successioni di Polonia e della casa d’Austria tedesca, e rimescolatasi similmente due volte la Cristianità primachè il secolo fosse a mezzo, si concentrò e s’accrebbe di nuovo lo stato Italiano di Piemonte lasciando Sicilia per Sardegna, ed acquistando a brano a brano buona parte di Lombardia; e il regno di Napoli e Sicilia finalmente restaurato passò a un ramo di casa di Francia, che diventò prontamente italiano; e passò Parma a un altro simile; e Toscana a un ramo della nuova casa austriaca, che pur diventò italianissimo. E così accresciuti, rinnovati quasi tutti i principati italiani, non rimase straniera se non Milano con una striscia di Lombardia. E allora di nuovo si toccò in altro modo all’indipendenza compiuta; la seconda metà del secolo XVIII somigliò alla seconda metà del XV; con questo vantaggio di più, che nel primo l’Italia era sul retrocedere, in questo era tutta sul progredire. — Nè furon soli a venirci così di fuori i risorgimenti civili. Io scongiuro gli scandali; e noto subito che questo era in quasi tutta Europa il tempo di una perdutissima filosofia; ma era pur il tempo di progressi incontrastabili in molte arti, ne’ commerci, in tutte le scienze materiali, in molte civili. E l’Italia ebbe allora il gran senno di prendere molto di questi, e poco di quella; prese il buono e lasciò il cattivo degli stranieri; seguì quell’esempio de’ propri maggiori, i Romani, che è più di niun altro degno di tramandarsi a’ nepoti. Ed io pur m’affretto a spiegare, per coloro che contro ai fatti generali più chiari hanno il vizio d’addurre le eccezioni particolari, non mai mancanti, che qualche male fu preso, qualche bene lasciato senza dubbio. Ma in somma, questi furono i tempi in Napoli di Carlo Borbone, in Firenze di Leopoldo, in Milano del conte di Firmian, ed in Piemonte di Vittorio Amedeo II e Carlo Emmanuele III; i tempi che il Piemonte fatto entrare da Emmanuel Filiberto nella politica, entrò finalmente pure nella coltura d’Italia, e v’entrò coi due gran nomi di Lagrangia e d’Alfieri. I miei leggitori hanno già potuto vedere che io non do importanza ai fatti letterarii sopra quelli di civiltà o di virtù nazionale; ma questo dell’essere entrata una gran parte d’Italia nella comunanza de’ pensieri italiani mi sembra fatto più che letterario, e che fu e può essere fecondo di civiltà e virtù. Quelle rinnovazioni che accennammo venir naturalmente dall’una all’altra nazione cristiana, sono forse anche più facili e più felici dall’una all’altra provincia d’una medesima nazione. E così (aggiugnendosi al Parini, il grande derisore dell’effeminatezze ereditate dal _Seicento_) il piemontese Alfieri fu il gran rinnovatore di virilità nelle lettere, e per le lettere nell’opinioni italiane. E così gli ozi e vizi scemati, le operosità e virtù cresciute corrispondevano alla cresciuta, alla quasi compiuta indipendenza. 14. Ma qui si vede più che mai, che non è fatto nulla finchè questa non è compiuta. Fu veduta da’ nostri padri, e udita da noi tutti in quegli anni di puerizia o gioventù le cui impressioni non si cancellano per prolungar di vita ne’ superstiti, e fu tramandata ai posteri dal Botta e dal Colletta, la trista ma utile storia degli errori, delle impotenze italiane in quella ultima e grande occasione. — Francia anch’essa aveva avuta dopo il suo primato la sua corruzione, il suo _Seicento_; dopo il secolo XVII e Ludovico XIV, il secolo XVIII e Ludovico XV. La corruzione francese fu diversa dalla nostra, secondo la diversità dei tempi e delle nazioni; fu minore nelle condizioni politiche e civili, uguale forse nei vizi, molto minore in lettere, molto maggiore in teorie e filosofie; ma in somma fu pur grande corruzione. E scoppiata in sovvertimento della intiera nazione, minacciò sovvertire l’altre cristiane. Sollevaronsi quasi tutte queste contra Francia, Francia contra esse; e ne seguirono invasioni di qua, invasioni di là, tentativi di repubbliche, tentativi di monarchia universale; ma all’ultimo (tal è la virtù intima, la vitalità della Cristianità) ne risultarono il fine di quell’impostura, durata 1005 anni, dell’Imperio romano, Francia tornata ne’suoi limiti e riordinata sotto alla sua schiatta regia, Germania meglio ordinata, Spagna diminuita, ma ridestata, le colonie spagnuole salite a indipendenza; salita Inghilterra a quella grandezza che veggiamo; la Cristianità, a malgrado i difetti di quell’ordinamento, più che mai costituita addentro, più che mai trionfante fuori a tutti i limiti suoi. — Ma l’Italia? Non facciamo su di essa ipotesi retrospettive, non perdiamoci in rincrescimenti troppo discosti dal fatto; non cerchiamo qual parte avrebbe potuta prendere alle pugne od ai profitti, se ella si fosse trovata indipendente e confederata. Ma abbandoniamoci pure al rincrescimento, che potrebbe esser utile un dì: ch’ella non siasi trovata pronta alla grande e nuova occasione di compiere quel poco che le mancava d’indipendenza; che quel risorgimento durato già da quasi un secolo non fosse giunto a tanto da riunir tutte le opinioni, tutti gli animi in questo solo pensiero. Pur troppo quel risorgimento d’origine straniera aveva coi beni incontrastabili portati seco alcuni mali che divisero la nazione. E poi tutte quelle case di principi straniere, già allora italiane nuove, non erano ancora tanto progredite in nazionalità da sentire od ispirar fiducia, non erano italianizzate abbastanza. Ma soprattutto ed al solito, il gran danno fu lo straniero, dico lo straniero piccolo allora dentro Italia, ma sproporzionatamente grande fuori; e che entrato quindi con tal superiorità a trattare e difendere gli interessi italiani, li fece diventar in breve tutto suoi. Così avvenne che quella pugna durata 25 anni in Italia non fu un momento mai pugna italiana, ma solamente tra lo straniero stanziato e l’invasore, tra Austria e Francia. Noi ricordiamo ancora quegli anni in che non era nulla così odiato da Austriaci o Francesi e talora (vergogna!) da Italiani, nulla così sospetto, o perseguitato, o proibito, come l’interesse, come il nome stesso d’Italia. Non poteva venir bene ad una nazione così mal progredita per anco, così male apparecchiata. — E di fatti Piemonte, assalito primo, gridò, chiamò confederazione, ma invano. Napoli mandò due reggimenti di cavalli, e credette aver mandato degno aiuto. Austria sì mandò; ma altro che aiuto! un esercito d’occupazione. E tra l’armi proprie e il mal aiuto, Piemonte si difese pur bene tre anni; ma poi tra l’uno e l’altro passò Bonaparte battendo di qua, battendo di là, che non avrebbe battuto forse (come disse pochi anni dopo un suo intrinseco a un ambasciadore piemontese a Parigi) se avesse avuto dinanzi solamente o gli uni o gli altri; o piuttosto, direi io, se avesse avuti solamente Italiani, soli interessati vivamente a non lasciar passare. Ma aperta allora la penisola, fu corsa poi a vicenda da Francesi, Austriaci, Tedeschi di ogni sorta, Ungheri, Slavi, Inglesi e fin Turchi per 18 anni; provate repubbliche, provato un regno d’Italia, provate divisioni nuove in lungo ed in largo, sollevate parti nuove, parte francese, parte austriaca, parte regia, parte popolare, parte di chiesa, parte filosofica, tutte le parti, salvo parte italiana; un _Cinquecento_ novello, meno l’eleganza, le lettere e le arti. E i risultati ultimi e sommari furono: cessato il grande incomodo dell’Impero romano, grandissima fortuna! cessate le decrepite aristocrazie di Genova e Venezia, pochissimo danno! Genova riunita a Piemonte in uno stato irrevocabilmente italiano, gran fortuna anche questa, che sarà ogni dì più sentita! Lucca ed altri territori minori riuniti ai principati maggiori, fortune simili. Ma Venezia riunita a Lombardia in provincia straniera, più ampia, più compatta, più fortemente tenuta; innegabile ed incompensato peggioramento delle condizioni italiane. 15. E quindi, che fu d’allora in poi? Che è per noi quest’età allora incominciata? Qual nome avrà in Italia questo secolo XIX in che inoltriamo? Forse nuovo e peggior _Seicento_? Secolo indietreggiato a quella o peggior dipendenza, a quella o peggior corruzione? Ovvero all’incontro continuazione del risorgimento del secolo precedente? — Certo, se s’attenda a quella parte tanto cresciuta dello straniero, si può temere d’esser tornati ad una dipendenza poco minore di quella del _Seicento_, si posson temere simili conseguenze, di impedimenti, d’inoperosità, di ozi e vizi servili. Nè mancherebbon pur troppo indizi di tali danni. — Ma forse, a chi attenda meglio, a chi si volga alla parte italiana d’Italia, i timori si volgeranno in isperanze. Quell’essere finalmente liberati i principati italiani dallo spauracchio del falso Imperio romano, è pure un gran chè, un gran progresso. I principati italiani, non sono abbastanza, non intieramente indipendenti in fatto; ma egli è pure un gran chè l’essere diventati tali in diritto incontrastato. Il diritto può ricondurre al fatto; e tanto più nelle presenti condizioni di civiltà, di Cristianità. Non solamente non sarebbero più tollerate le usurpazioni materiali della potenza straniera sulle italiane; ma nemmeno le prepotenze morali, le intrusioni gravi, scandalose, patenti. Non solamente sono guarentite dall’intiera Cristianità e fanno parte del diritto pubblico europeo le indipendenze de’ principati italiani; ma sono desiderate da quasi tutti, sono riconosciute di diritto quasi naturale le indipendenze d’ogni grande ed antica nazione cristiana. Si tende a fare entrar tutte queste nella gran repubblica, nel grande stato degli stati; s’intende ciò essere interesse, ciò forza, ciò felicità universale. — Ed aiutati o spinti così, dall’universale opinione, i principi italiani han pure ricominciato a progredire da sè. Qual più, qual meno, ma quasi tutti. Hanno ordinati eserciti quali non furon mai in Italia. Han rinnovate leggi accostandole ai tempi e le hanno ordinate in codici, progresso immenso per sè. E se s’accingono lenti a secondar i progressi della marineria, delle comunicazioni, de’ commerci, ed in generale di tutti quegli interessi materiali che disprezzan forse troppo, ei vi si sono pur accinti, e qui forse più che in niuna cosa il principio importa seguito. Se non han data nè lasciata alle colture quella spinta, quella ispirazione nazionale, che sola fa di esse un fatto importante; essi non le hanno poi nemmeno fatte nè lasciate cadere in corruzione e viltà; vi hanno promossa quella sodezza che è vicina a virilità; e noi siam lungi dalle effeminatezze e dalle puerilità del _Seicento_, e da alcune stesse del _Settecento_[12]. E si aiutano pur da sè i popoli italiani; non solamente secondando e chiamando tutti que’ progressi di lor governi, ma entrando spontanei in quelli che non posson venire se non dall’opinione, dalle virtù di ciascuno. Noi siamo lungi dal _Seicento_, e forse dal _Settecento_, ne’ costumi anche più che non nelle colture. E noi ritorneremo pur su questa, che è una delle migliori Speranze italiane. Qui ci basta l’osservare che, incontrastabilmente, noi non siamo ricaduti per ora, in una terza corruzione italiana; che siamo nella continuazione dell’opera del secolo scorso, in quel risorgimento che parve, ma non fu arrestato, dall’invasione straniera; che noi uscimmo di questa con vantaggi i quali supereranno, se Dio voglia, i danni; con innegabili progressi nell’operosità, nella virtù, nel sentimento di nazionalità, nel desiderio d’indipendenza. — La storia dell’impresa incompiuta in XIII secoli, è, intanto che diventi gloriosa, lunga e trista pur troppo; trista sopratutto per tante occasioni perdute. Ma la nazione italiana sembra educarsi a non perderle più. Ed è quindi tempo molto opportuno di cercare quali sieno probabili, come possiamo giovarcene. Dal passato brevemente percorso, facciam dunque ritorno al futuro, oggetto solo ed importante del nostro studio. CAPO OTTAVO. EVENTUALITÀ FUTURE DELL’IMPRESA 1. Siami lecito domandare qui a’ miei leggitori un raddoppiamento di tolleranza. Io sono per dir verità o che almeno mi paiono tali, più ingrate forse che non le dette; per eliminare speranze più care forse che non le eliminate finora. Ma le verità ingrate sogliono essere le meno dette, epperciò le più utili a dire: e non è se non colla eliminazione delle speranze false, che si può giungere al risultato delle vere. Conscio io di dispiacere a molti, forse ai più (terribil pensiero) de’ miei compatriotti, non ne avrei probabilmente il coraggio, se credessi di poter mai giovar loro coll’opere, se temessi troncarmivi la via colle parole. Ma non potendo far loro tributo se non di queste, tant’è ch’io il faccia tutt’intiero. 2. Quando si parla di futuro, ei ne sono a distinguer due. Uno lontano, separato dal presente per una serie indeterminata di tempi e di fatti, e che si può quindi chiamare futuro imprevedibile. E questo è quello di che abusano i sognatori, tutti coloro che immaginano cose nuove impossibili ad effettuarsi, o cose antiche impossibili a restaurarsi. Non serve dimostrare a costoro le improbabilità. Con ostinatezza che scambiano per costanza ei ti rispondono sempre i medesimi «Chi sa? Verrà un giorno. Non bisogna disperare». Non è da discorrer con costoro, nè con nessuno del futuro imprevedibile. Nè è per tal futuro o per le poche speranze implicate in esso che si vuole adempiere niun dovere; ma per il dovere nudo, avvengane che può. Quando la impresa d’indipendenza, durata XIII secoli, avesse a durarne altri XIII, o XXVI, o infiniti, senza compiersi, ella dovrebbe pur proseguirsi senza speranza; perch’è dovere d’ogni nazione; perchè val più una nazione che prosegua quell’impresa tra una servitù interminabile, che non una che alla servitù si adatti, che se ne consoli. E detto ciò a tal nazione sarebbe detto tutto. 3. Ma ei vi ha, grazie al Cielo, un altro futuro, un futuro prevedibile per l’Italia. Il quale è per vero dire incerto anch’esso, come è ad ogni uomo ogni ora, ogni momento, oltre il presente, ma a cui più o meno vicino arrivano pure le conseguenze dei fatti presenti, arrivano le deduzioni che se ne posson trarre, arriva la previdenza umana. E di questo non è vero, come dicono alcuni storici impuntati sul passato od alcuni pratici impuntati sul presente, che non si possa parlare. Si può, si deve, e si fa continuamente da tutti gli uomini di pratica che sanno governar gli affari umani e non lasciarsene governare; si fa da molti grandi ed anche piccoli scrittori; si fa quotidianamente da numerosissimi scrittori quotidiani; e quando si fa colla pretensione non di pronunciar profezie, ma di discutere probabilità, si fa bene o male, ma legittimamente da ciascuno. Dicemmo gloria del Gioberti l’aver primo forse discorso in tal modo di questo nostro futuro prevedibile. E di questo solo e in tal modo intendiamo discorrere anche noi; restringendoci anzi a ciò che tocca all’indipendenza, alle eventualità della antica impresa italiana. 4. Incominceremo colle solite e pompose frasi. Sappiamo anche noi che una nazione di 23 milioni d’uomini che voglia liberarsi, si libererebbe quando avesse contra sè l’universo mondo. Sappiamo che una tal nazione può mettere in campo uno, due, tre milioni di combattenti, e che il mondo moderno non può nè vuole metterne contra essa la metà altrettanti. E sappiamo che quando fosse all’opposto, quando stessero mezzo milione od anche meno di combattenti per l’indipendenza, due o tre milioni di combattenti all’incontro, la vittoria non sarebbe dubbia; perchè la virtù d’una causa contò sempre molto, ed ora conta forse tutto; e se non su un campo di battaglia, certo su un campo di guerra, fa all’ultimo valer per dieci ogni difensor della causa virtuosa, riduce a un decimo del valor suo naturale ogni difensor della cattiva. — Ma qui sta il punto, qui la difficoltà: unire in campo quelle poche centinaia di migliaia di combattenti, unire all’impresa la nazione intiera. La difficoltà mi par grave; e valer la pena d’esser esaminata adagio, e facendo tutti i casi. 5. L’unione all’impresa d’indipendenza, ci pare non poter venire se non 1.º o spontaneamente da principi italiani, 2.º o spontaneamente da una sollevazione nazionale, 3.º o per mezzo di una chiamata di nuovi stranieri, 4.º ovvero finalmente per qualche occasione che si afferrasse meglio che non fu fatto finora. Sono quattro speranze, o disegni. Esaminiamole ad una ad una. 6. SPERANZA 1.ª — DAI PRINCIPI. Questi non si possono unire se non o per mezzo di una confederazione che avessero già stretta, in che continuassero, e che volgessero allo scopo speciale dell’indipendenza; ovvero per una che facessero apposta. — Ma la prima, già difficile per sè, come dicemmo, sarebbe impossibile poi a rivolgere allo scopo d’indipendenza. Quand’anche i principi italiani fossero stati da tanto, di far la confederazione continua senza lo straniero (come vorrebb’essere naturalmente per poterla rivolger contra lui), e questo fosse stato così dappoco da lasciarla fare, egli è poi più che mai improbabile che fossero quelli tanto dappiù, e questo tanto dammeno che si potesse fare quel rivolgimento. Il timor del quale è quello appunto che non lascerà far mai la confederazione continua, quantunque innocua in apparenza. — E quanto poi a far d’un colpo, partendo dal nulla, una lega di indipendenza, ella può ben succeder nel futuro imprevedibile, ma non in niuno di che io sappia prevedere o discorrere. In fondo ad ogni pensiero di confederazione per l’indipendenza, è sempre un circolo vizioso; la confederazione per l’indipendenza non si può fare, o almeno non si può sperare che si faccia, se non coll’indipendenza. Questa speranza mi sembra poco da valutare per sè stessa indipendentemente dall’altre. Dato che i sei o sette principi italiani facciano mai una lega per l’indipendenza, ei non la faranno se non aiutati da’ popoli o dagli stranieri o da una occasione, o da tutto insieme. Ondechè all’ultimo le speranze da considerare sono le tre rimanenti. 7. Vengo dunque alla SPERANZA II.ª — DA UNA SOLLEVAZIONE NAZIONALE. Ma io penso che nessuno mi vorrà udir discorrere d’una sollevazione che si facesse per un moto spontaneo e concorde da Susa a Reggio. L’accordo dei 23 milioni di uomini sarebbe più impossibile che non quello de’ sei principi. Questi moti spontanei non si sono veduti guari in niuna gran nazione, ma solamente in qualche gran città, o tutt’al più in conseguenza di qualche atto immane di tirannia che unisse tutti gli animi in uno sdegno[13]; due casi diversi dai nostri prevedibili. Nè potrebb’essere il caso di quel modo di sollevazione recentemente inventato o perfezionato in Irlanda, e chiamato _per agitazione_. Qual che abbia ad essere il frutto di questo modo, ei non può usarsi se non in paesi già molto liberi, e in che si voglia più libertà o indipendenza; ma in quelli così tenuti che v’è difficile ogni menomo movimento, è impossibile il movimento massimo dell’agitazione. — Quanto alle sollevazioni non universali, ma parziali, non della nazione, ma d’una città od anche di uno intiero degli stati italiani, ho io bisogno di ridire che elle sono un nulla, o peggio che nulla allo scopo unico, alla indipendenza nazionale? di rammentare gli sperimenti fattine? o fermarmi a dimostrare che il frutto delle imitazioni sarebbe simile a quello degli esempi? Che sarebbe frutto di dipendenze vecchie accresciute, e di nuove aggiunte? Ma io farei ingiuria ad ogni lettore assennato con fermarmi a tutto ciò. — Io scrittore, avendo nel 1814 avuto l’onore d’essere presentato ad uno de’ maggiori uomini di stato dell’Imperio austriaco, al dì che giunse in Parigi la nuova della sollevazione de’ Milanesi (la qual fu pure diretta allo scopo unico dell’indipendenza, più che niuna delle fatte poi); e scandalezzandosi chi mi presentava ed era gran conservatore, all’udir quella sollevazione, quel tumulto popolare: «Oh! ma!» riprese l’Austriaco, «è sollevazione tutta a favore di casa d’Austria». E il detto mi s’infisse per non uscirne più mai, nella mente giovanile; fu uno di quelli che la conformarono fin d’allora a queste opinioni, che vengo or vecchio promovendo. — Quanto poi a quella osservazione volgare, che anche questi moti parziali, ed anche falliti, giovano a tener vivo il fuoco sacro della libertà, risponderò brevemente (e credo basti ai sinceri) che giovano anzi a tener vivo il fuoco empio delle divisioni e delle vendette. E finisco con dire ai governanti: »Deh non date occasioni»; ed ai governati: »Deh non prendetele quand’anche vi son date, a queste sollevazioni parziali. Dove che sia la prima, dove che resti la colpa ultima, è men colpa degli uni verso gli altri, che non verso la patria comune e straziata». — Ma se la sollevazione universale contro agli stranieri è poco men che impossibile, ed una parziale è nociva, ei ci resta ad esaminare se non sarebbe il caso poi di una sollevazione generale, che si preparasse e facesse con quelle congiure o società segrete, che son tutt’uno comunque si chiamino, e qual che sia vessillo esse innalzino. E di queste poi non mi fermerò a dire tutte le bruttezze; non prenderò a mostrare che l’essenza loro, il segreto accettato prima di conoscerlo, l’obbedienza a un capo ignoto, la tendenza a un ignoto scopo, sono servitù moralmente peggiori di gran lunga che non qualunque servitù anche allo straniero; che a tenere e promuovere tali secreti, la dissimulazione si volge necessariamente in simulazioni, inganni e tradimenti; che non solo la bontà dello scopo non iscusa la malvagità de’ mezzi, ma questa deturpa e perde quella, dichiarandone l’impostura, e che quindi quanto è più legittimo e santo uno scopo, tanto più son condannabili ed empi i cattivi mezzi; tutto ciò è chiaro a chi esamini la quistione di moralità. — Ma perchè sono e saran sempre molti che non esaminano se non la quistione di utilità, a questa dunque ci fermeremo. E diciamo risolutamente, che le congiure sono il mezzo meno utile, di non probabile riuscita in qualunque impresa di una grande nazione. Le congiure non riuscirono guari mai; se non di pochi e contro a pochi. Se son di molti suol mancare in alcuni o la segretezza o la temerità parimente necessarie. Se sono contro a molti suol rimanere ad alcuni la potenza d’impedire la riuscita. E quindi le congiure riuscirono ne’ serragli dei despoti asiatici, ne’ palazzi degli imperatori romani, degli autocrati russi, e dei tiranni del medio evo, dove tolto di mezzo uno o due uomini, era mutato tutto. E riuscirono per la medesima ragione talora nelle repubblichette antiche o del medio evo, che erano in mano a pochi cittadini. Ma negli stati grandi e civili, sieno più o men liberi, più o men pure monarchie, le congiure poterono riuscir sì ad una scelleratezza od a un ammazzamento, ma non allo scopo di mutare lo stato; perchè l’ordine dello stato non vi dipende in realtà da un sol uomo, ma da molti, dall’abito, dall’opinione universale. Noi dicemmo le sollevazioni difficili; ma le congiure son molto più; e molte che han nome di congiure non furono se non sollevazioni. È naturale i perdenti non confessino queste, perchè il confessarle implicherebbe confessione d’essere stati o tanto scellerati da darne causa, o tanto sciocchi da non vederne i segni che sogliono esser pubblici; mentre il dirle congiure li scusa da tirannia e da sciocchezza tutto insieme. E così è che quanto più si studia storie, tanto meno congiure si trovano; e le trovate, si trovano essere state poco men che inutili al fatto già compiuto dalle sollevazioni. A ciò son ridotte quelle due famose del Rutli e di Giovanni da Procida[14]. Del resto, quando si volesse vedere nelle storie più congiure riuscite che non ne so vedere io, tale riuscita si è fatta e si fa più difficile ogni dì nella crescente civiltà. È parte importante e bellissima del progresso presente, che l’arte della difesa dello stato sia progredita più che non quella dell’offesa. E il vero è, che fra tante congiure minacciate, temute, apparecchiate, rotte, scoperte, svelate od anche momentaneamente riuscite ai nostri dì, due sole si possono dire essere state vere congiure, ed essere riuscite a vero e durevole effetto; quella di Germania contro a Napoleone, e quella dell’esercito spagnuolo contro a Ferdinando VII. Ma lasciando questa, perchè fu congiura d’esercito più che di nazione, ed a scopo di libertà, non d’indipendenza, fermiamoci all’altra che è più citata e più somigliante a quella di che parliamo. 8. Ma, salva la somiglianza dello scopo, io non saprei scorgere se non differenze. 1.º Fosse virtù propria o di quegli anni, i Tedeschi non impacciarono lo scopo; non incominciarono dalla libertà interna quando mancava loro la esterna. All’incontro, è vizio antico italiano l’abbandonare questa per quella. Soli non vi caddero i collegati di Lombardia, che presero consoli, podestà, qual che lor s’offrisse governo interno, e seppero giovarsene contro allo straniero; e perciò riescirono. Ma pochi anni appresso vedemmo già così distrarsi miseramente tutta Italia, i Guelfi stessi. E così fino al fine delle repubbliche, così ne’ 25 anni francesi moderni, così ne’ sollevamenti parziali d’intorno al 1820 ed al 1830. Molti di questi furono vere comedie politiche; da passare, se fosse stato possibile nelle condizioni nostre, sulle scene; ma che, innalzate all’incontro dalla persecuzione a dignità tragica, rimangon pur troppo tanto più profferite alle future imitazioni. E questo che è gran pericolo d’ogni impresa d’indipendenza, sarebbe grandissimo poi di qualunque si facesse per congiure e società segrete; le quali per lor natura e lor forme si fanno quasi scuole, o prime prove non solamente di libertà, ma di licenza. E deh fosse vivo uno, di che mi vanto essere stato non meno amico privato che avversario politico! Il quale, duce sincero ed ardito di siffatti convegni, io invocherei volentieri a riattestare «la compagnia empia e malvagia» ch’io gli udii già lamentare. — 2.º La nazione tedesca è per tutte le sue qualità e per tutti i suoi difetti, la più propria che sia a far congiure. È grave, soda, pensierosa, d’ingegno più profondo che vario, più tenace che pronto, più ragionatore che imaginoso; è operosa, ma lentissimamente, segreta, confidente, semplice di costumi. All’incontro, che che si dica da molti stranieri a vituperio o da alcuni nostri a vanto, la nazione italiana è la nazione del mondo men capace di congiure; è quella che le fece sempre men bene. Gl’ingegni vi son pronti e mutabili, forse oltre ad ogni prontezza greca o francese, sono varii, distraentisi ad arti, lettere, scienze materiali o spirituali o miste, tutto a vicenda e talor tutto insieme. E tuttavia l’ingegno v’è men pronto che la fantasia, e la fantasia men che le passioni. Molto si parlò di ciò che possono e fanno gli odii e le vendette, ma non forse abbastanza di ciò che può e fa o non lascia fare l’amore in Italia. In fatto di costanza poi, noi ammirammo quella della nostra impresa d’indipendenza; ma è lamentabile l’incostanza de’ mezzi tentati. Il segreto ci è antipatico; la confidenza nostra suol essere abbandono; e i tradimenti ci vengono a ciascuno, più sovente da sè stesso, che non da altri. Tutte queste non sono qualità da congiuratori, certamente. E s’io non temessi di stancare colle rassegne della storia d’Italia, io ne farei una delle _Congiure italiane_; e mostrerei che in proporzione al gran numero degli stati nostri noi ne facemmo meno, e peggio, che niuna altra nazione, men che Francia ed Inghilterra in particolare, i cui scrittori ce le rimproverano. — 3.º Finalmente poi e principalmente, riuscì a bene la congiura d’indipendenza tedesca per questa ragione: che lo straniero v’era non solo grave, ma opprimente, non solo incomodo, ma disperante, non solo usurpator di provincie, ma delle sostanze e delle persone, turbator delle famiglie, delle vite, tiranno vero. Ora, ei si sa (e fu molto bene e facondamente detto dal Gioberti) che a far buone rivoluzioni ei ci vuol buona tirannia; ma a far congiure ei ci vuol tirannia buonissima. Questa era in Germania; epperciò la congiura riuscì e diventò rivoluzione. Ma in Italia è tutt’all’opposto. Ei può rincrescere, ma così è: la tirannia non v’è. Sugli stati italiani non è se non preponderanza, grado infimo di oppressione; la quale si fa sentir più a’ governanti che a’ governati; più nell’impedire il bene che in procacciar mali. Il popolo, la plebe dei principati italiani, che come ogni plebe ha a pensare alla vita quotidiana, non pensa al popolo delle provincie straniere; e gli uomini colti e pensanti pensano a non perdere l’indipendenza qual ch’ella sia che pur hanno essi, prima che a darla ai fratelli; pensano, e non si può dir che facciano male, ai doveri presenti verso il principe, verso lo stato proprio, primachè ai doveri eventuali verso i sudditi altrui. E tanto più che nemmen questi non vi pensan tutti. Io credo bene che colà gli uomini di coltura e pensiero pensino la vergogna della soggezione, la miseria dell’inoperosità, il danno de’ vizi fomentati dallo straniero; ma nemmen là tutto ciò non si fa sentire al popolo intiero, al volgo basso od alto, a cui non sono impediti nè i bisogni nè i piaceri quotidiani. Virtù e vizi di quel governo concorrono là alla quietudine. Giustizia civile e criminale, amministrazione, strade, imprese pubbliche, stabilimenti di beneficenza, interessi privati, studi elementari, tutto il sufficiente, è protetto, è promosso là, sufficientemente. Si traggon ricchezze; ma ne restano. V’è poca coltura alta; ma v’è la bassa. Non si provvede all’operosità, si promuove l’ozio, forse il vizio; ma l’ozio ed anche il vizio sono piacevoli ai più, e chi pur cadendovi se ne sdegna, n’è tuttavia fatto incapace di sdegnarsene efficacemente. Pochi sono, dappertutto, gli uomini che si serbin vergini dagli effetti di qualunque servitù; ma più pochi, di una mitissima. «Tant’è l’un basto quanto l’altro», dicono con parole degne del senso. E così in somma nè negli stati italiani nè nelle province straniere, non è materia da congiura che possa diventar rivoluzione d’indipendenza; non è probabilità che tal sia data dai tempi i quali diventano via via più miti, più civili; non è a far tal congiura una nazione naturalmente capace di congiurare; se si facesse, sarebbe guasta probabilmente dall’antica preoccupazione di libertà cresciuta a’ dì nostri; sarebbero difficili, impossibili ad unire in essa principi e popoli, grandi e piccoli, provincie e provincie. Deh non si faccia! deh tolga la Provvidenza il funesto pensiero dalle menti, dalle fantasie italiane! 9. SPERANZA III.ª — DA UNA CHIAMATA DI STRANIERI. Ma ciò che non è possibile per ispontanee confederazioni di principi o congiure di popoli italiani, non sarebb’egli forse chiamando stranieri, i quali procurerebbero l’unione impossibile tra noi soli? Posto fuori un centro qualunque, un punto di convegno, non vi si riannoderebbe egli ciascuno? S’io credessi buono tal convegno, sarei il primo a confortarvi i miei compatriotti; per l’impresa d’indipendenza non è a fuggir niuna speranza che non sia colpevole. Ma non è speranza buona nemmen questa. Qui si versa più piena la facondia del Gioberti. E noi stessi ricordammo testè i danni di tutte quelle chiamate, di Greci contra Goti, Longobardi contra Greci, Franchi contra Longobardi, Tedeschi contra Franchi; un re francese ed uno spagnuolo invano chiamati, i Tedeschi chiamati, e venuti; e fra questi una casa opposta all’altra, parenti a parenti, talora figli a padri; ed Angioini contra Svevi, Aragonesi contra Angioini, Francesi contra Aragonesi, Austriaci contra Francesi, Francesi contra Austriaci ripetutamente, senz’altro frutto che di servitù mutate, pessime delle servitù. — Ma, io intendo venire, deh si tolleri, a recente e maggior vergogna. In tutta quella lunga serie di chiamate antiche non è se non una rimasta inesaudita; salvo quella, i chiamati venner sempre. All’incontro, negli ultimi anni, dal 1815 in poi, già sono parecchie chiamate italiane, a cui non fu dato retta. Ondechè, se elle si dovean già fuggire per le due buone ragioni, che elle furon sempre inutili e sovente nocive, or s’è aggiunta una terza e più vergognosa, che elle si sono fatte molto più difficili ad essere esaudite. E così sarà, secondo ogni probabilità, anche per l’avvenire. Parliamo chiaro, e dando ad ognuno il nome suo. Quando si tratta di chiamare contro a Germania, s’intende che si tratta di Francia. Francia fu sempre chiamata contro Germania, come Germania contra Francia; e l’una val l’altra quanto al pericolo di mettercele sul collo, a vicenda; benchè la vicenda di Germania sia durata sempre più a lungo che non quella di Francia. Ma insomma Francia è quella ch’or ci toccherebbe chiamare; e chiamata ultimamente, non venne; e se si chiamasse di nuovo, verrebbe anche meno. Tutto è mutato rispetto a noi, dalle condizioni civili mutate in Francia. I re francesi già assoluti, e principi belligeri d’una belligera nazione, avean bel gioco in ispingerla fuor di casa ad imprese di lor ambizioni od interessi personali o famigliari. Poteva sì venir in mente a qualche consigliero o cortigiano di rara rettitudine, il porre innanzi l’interesse di Francia non concordante con gli interessi del Valois o dei Borboni, ma quelli non erano uditi; e i più degli affollati attorno al trono non tenean conto se non degli interessi di chi vi si sedeva. Il medesimo e peggio fu sotto a Napoleone. E peggio sotto alla repubblica democratica, intermediaria: le democrazie sono anche più facili ad adulare, più interessate e più ambiziose che non niuna famiglia di principi. Ma dove prendon parte alle deliberazioni pubbliche più o meno tutte le classi educate o colte d’una nazione, queste non si lasciano facilmente trarre all’imprese indifferenti ad esse; nè per far un nome al principe, nè per dar un trono ad un cadetto i cui figliuoli dimenticherebbono l’origine e le gratitudini; nè per congiungere al territorio una provincia, se non sia veramente preziosa od alla difesa, od alla ricchezza nazionale. E so bene che mi si opporrà l’esempio d’Inghilterra; la quale con tal governo ha pure fatte e fa latissime conquiste. Ma queste non che infermare, confermano anzi la proposizione mia. Le conquiste inglesi si fanno tutte per l’interesse del commercio nazionale, computato, spiluccato a lire, soldi e danari; e qual non presenta vantaggio, o non si fa, ovvero è riprovata, od anche, come vedemmo ultimamente, abbandonata. Di che sarebbe ad aggiunger molto ed inutilmente per coloro i quali non abbiano contezza della storia inglese da un secolo in qua; ma basta e soverchia quel che n’è detto a coloro che l’abbiano[15]. E dico poi che le conquiste in Italia non sono di quelle che presentino a Francia utilità nazionali. Gl’interessi, le ambizioni stesse francesi non han che fare in Italia; arrivano all’Alpi, e non più. Di qua ritroverebbero più tombe che trofei; quante venute, tante cacciate, e non è più il tempo che una nazione si consoli per un bel detto del suo re: «tutto è perduto fuor che l’onore». Ora, conquistando, non si vuol perdere nè onor nè roba, nè quasi vite; e perchè le conquiste metton sempre tutto ciò a gran rischio, perciò si fanno e faran più rare ogni dì. Niuna provincia italiana di qua dall’Alpi non è a Francia continuazione di territorio per arrivare a un limite che sia o si pretenda naturale, non a sponde, non a foci di fiumi francesi; non è scalo a niuna colonia francese presente nè prevedibile; e se tal è quel Levante che Francia pretese testè, è scalo così vicino alla partenza, che non ha pregio di vero scalo; oltrechè quella pretensione già abbandonata ora, sarà abbandonata più che mai, quanto più s’assoderà, per opera di sua costituzione, la ambizione di Francia. E quindi ei si può prevedere per l’avvenire ciò che vedemmo negli ultimi anni: che alcuni politici avventati di Francia, alcuni di quelli che per aver meditato troppo sugli eventi della repubblica o dell’imperio non sanno vedere la gran differenza che corre ora, alcuni di quella parte che si spaccia per progressiva, ed è retrograda o almeno tardigrada, alcuni di tutti questi Francesi sogneranno conquiste e propagazioni di lor pazzie in Italia; e che alcuni Italiani lor simili daran retta forse a quei sogni, credendoli sogni di tutta Francia, poi l’incolperanno di non averli effettuati. Ma quella nazione, quel governo, or assodati, lasceranno sognare i sognatori francesi ed italiani; e si contenteranno di far ciò che han fatto, d’impedire che l’Austria non s’accresca in Italia; e ciò stesso faranno con rispetti infiniti all’Austria, già emula e nemica, or l’alleata più naturale che si abbian essi sul continente. Del che io sono per dire più largamente fra poco. — Del resto tolta di mezzo così la chiamata di Francia, non dimorerò a far il medesimo su quelle che s’imaginassero di Spagna od Inghilterra, o d’altre potenze più lontane. Le medesime condizioni politiche farebbono su quelle due il medesimo effetto di non lasciarvi ascoltare le nostre chiamate; e quanto alle più lontane e di condizioni opposte, io credo bene che nessuno vi pensi. — Ma io protesto che di tutte queste e di Francia non volli escludere se non le chiamate propriamente dette, e le venute simili alle antiche; dico le chiamate fatte da una parte italiana, e le venute intraprese o con animo di aiutare quella parte, o peggio a fine di conquiste. Chè quanto allo escluder le alleanze che si facessero da’ nostri principi con qualunque di quelle potenze straniere o per iscemar preponderanza della potenza straniero-italica, od anche meglio per aiutarci in qualunque occasione d’indipendenza; siffatta esclusione sarebbe tale stoltezza, tale esagerazione di principii, tal esaltazione puerile di vanità nazionali, da non supporsi in niun adulto leggitore. Del resto siffatte alleanze non si sogliono fare, se non in e per occasioni determinate. Ondechè questa Speranza si implica nella seguente. 10. SPERANZA IV.ª — DALLE OCCASIONI. Una delle maggiori vanità in che sogliamo cadere noi scrittori, è quella di attribuire ai disegni degli uomini più potenza, alle occasioni men potenza che non avviene in realtà. I poeti tragici sono i divulgatori di quest’errore perchè han bisogno di magnificar gli uomini, e di rappresentare in essi tutta una età. Gli altri poeti e i novellanti traggon lor dietro per una quasi ugual necessità. Seguono molti filosofi per una simile; e seguono molti biografi, ed anche storici che si dilettano in ritratti ed orazioni da porre in bocca a lor personaggi. Chi non ha letto i disegni di conquistare il mondo attribuiti a que’ Romani primitivi, i quali stentarono pure 400 anni entro al cerchio di 10 miglia intorno alla città? E quell’altro di estendere la potenza temporale sull’universo mondo, attribuito a que’ papi che stentavano contro a Tivoli, o a’ Crescenzi, o agli Arnaldi, od ai Colonna, od agli Orsini? O quelli quasi creati di un colpo e proseguiti con regolarità, che s’attribuiscono ad ogni conquistatore quantunque surto da infimi principii? Gli uomini pratici non cadono almeno in tale errore. Ei sanno molto bene che i disegni ideati troppo lunghi, riescono corti all’eseguimento; epperciò cadono talora nel vizio contrario d’idearli troppo corti. La buona pratica sta in mezzo; prende scopi lontani anzichè disegni lunghi; e il tempo e l’attenzione che soglion perdersi dai più a fantasticare su questi disegni, ella li adopra a discernere ed accertar le occasioni. Quindi noi avremmo forse potuto ridurre a queste le ricerche nostre. Riduciamovici ora ad ogni modo. 11. Noi non sapremmo vedere se non tre occasioni che possono giovare all’impresa di nostra indipendenza. 1.º Qualche conflagrazione democratica. 2.º Qualche tentativo di monarchia universale. 3.º Qualche partizione di stati, più o meno simile a quelle che diedero le occasioni del secolo scorso. Ma anche queste tre occasioni, non ci paiono probabili tutte; ondechè sovr’esse pure noi continuiamo la nostra opera d’eliminazione. 12. E per vero dire, la conflagrazione democratica, quantunque molto minacciata e molto temuta a’ nostri dì, ci par fatta improbabile dai progressi che veggiamo appunto nella presente democrazia. Noi non ci vanteremo, come fanno alcuni tuttavia, d’essere o non esser del popolo, gentiluomini o non gentiluomini. Passato ci sembra il tempo dell’uno e dell’altro vanto; non è più quello nè della superbia feudale, nè della plebea; il nome nobile o non nobile può essere illustre parimente; e il nome illustre procaccia attenzione, non rispetto a chi il porta, ondechè è vantaggio o danno secondo che è portato bene o male; e in somma non si tratta più per ciascuno di essere o no gentiluomo, ma uomo gentile, persona educata. — E questo, delle persone educate, è il ceto che s’accresce ogni dì più, di qua e di là, dalle reliquie, a detrimento dei due o tre e non so quanti ceti che erano. I quali dunque scemano tutti d’altrettanto; e fra gli altri scema la democrazia propriamente detta, distinta, odiante, usurpante, conflagrante[16]. Quegli stessi che eran di essa ieri, non ne sono più oggi; quelli che avrebbero aiutato ieri alla conflagrazione, l’impedirebbero oggi; quelli che ieri avrebbon versate fiamme, porterebbon oggi l’acqua per estinguerle. Gli studi stessi progrediti hanno scemate le distinzioni de’ ceti antichi e nuovi. Le democrazie antiche, tanto ammirate mezzo secolo fa, sono sotto la critica presente diventate quasi tutte aristocrazie; le pretese dispute tra aristocrazie e democrazie sono quasi tutte diventate contese fra le schiatte sovrapposte dalla conquista sul medesimo suolo; ondechè cade da sè ogni invito alle imitazioni presenti, impossibili in condizioni troppo diverse di società. Del resto l’antichità continua ad ammirarsi in molte parti, ma non si propone più a niuna stolta imitazione. E il medio evo, succeduto per pochi anni in quelle ammirazioni usurpate, non si vuol ammirar più, nè tanto meno imitare da nessuno nè nella feudalità nè nei comuni. Quanto alle democrazie che sopravvivono in qualche angolo di Europa, o nelle vastità americane, le loro condizioni già tanto vantate, sono ora troppo note anch’esse per invaghire gl’imitatori. In alcune la democrazia è tirannica e sconforta quindi ogni altro ceto; in alcune s’assoggetta ella stessa alla aristocrazia; nelle più scomparisce entro al gran ceto delle persone educate. — Ei me ne duole per li pochi democratici puri che rimangono; uomini stantii non meno che i più stantii aristocratici, rimasti addietro nel progresso universale, escludenti sè stessi dal ceto crescente degli uomini gentili, educati e veramente liberali, non che formare o muover masse come sperano, non che esser capaci di far conflagrazioni come temon altri, non avranno in breve o già non hanno compagni o consolatori, se non fra le rade file di que’ poveri sansimonisti, owenisti, o fourrieristi, a cui parrebbemi tempo perduto il fermare i leggitori. La conflagrazione democratica può continuare ad essere alcun tempo paura di polizie, o speranza di società segrete, ma non può entrare in conto di niun futuro prevedibile, non può essere eventualità, occasione da calcolarsi in niuna impresa importante. 13. Nè sarebbe da tener maggior conto di un tentativo di monarchia universale che si supponesse da qualche potenza europea. Questo, quantunque sia stato sogno recente, od anzi appunto perchè fu dimostrato sogno da’ fatti recenti, non è probabile che si rinnovelli. Chi oserebbe ritentar ciò, in che fallì Napoleone? Certo, Francia ne fu troppo ammonita per ritentarlo. Inghilterra non ne sognò, nè per sua situazione ne potrà sognar mai. Prussia, quantunque grande, è troppo piccola per ciò; ed Austria, non che avere spiriti a tale impresa, non ne ha nemmeno a quelle più facili che le si parano innanzi. Non sarebbe dunque a temerne o sperarne se non da Russia. Ma il vero è che nemmen questa nè gl’imperadori di lei non sono così barbari da non conoscere quella gran civiltà europea che hanno all’incontro, o da disprezzarla a modo de’ loro avi antichissimi. Ei sanno molto bene di non aver davanti a sè niun imperio romano invecchiato da conquistare facilmente; sanno d’aver anzi all’incontro quattro grandi nazioni, Germania, Francia, Inghilterra e Spagna, rinnovellate dagli sforzi fatti al principio del secolo, per asserir ciascuna la propria indipendenza; più una quinta, Italia, che desidera quest’indipendenza, tanto più quant’è più sola nella vergogna di non averla; sanno in somma che una invasione a modo dei Finni o de’ Mongolli non riuscirebbe; e non han poi nè volere nè potere di far tali invasioni. Quei loro eserciti che sono così sterminati sui prospetti, o forse anche realmente tra le loro steppe, nelle loro colonie militari, o nei campi di esercizi, li abbiam veduti noi, a che fossero ridotti quando giugnevano sul Po e su la Senna! e dicesi che fossero anche men grossi quando scesero sul Bosforo, od oltrepassarono il Caspio. Nella presente civiltà le invasioni di nuovi barbari son sogni che quando fosser fatti da’ Russi sarebbon brevi; ma i Russi non li fanno. Il sogno che fanno non è di monarchia universale, ma solamente di preponderanza europea; e questo stesso nol fanno in generale, non isperano adempierlo in tutti i casi, ma in una eventualità, in una occasione sola che prevedono molto bene e preparano. Altro che barbari! essi sono anzi di que’ buoni pratici, che dicemmo saper prefiggersi uno scopo lontano, ed aspettarne i mezzi dall’occasione. E l’occasione che prevedono è la caduta dell’Imperio ottomano; e la preponderanza che sperano è dall’occupare quelle bocche del Danubio dove metterà capo un dì o l’altro il commercio europeo, dall’occupar quel Bosforo e quell’Ellesponto onde il dominerebbono. Questa è la preponderanza che sarà sogno o realtà, secondo che saprà ordinarsi a resistenza l’Europa incivilita. E perchè appunto una resistenza qualunque si farà, qualche compenso si vorrà, qualche spoglia del medesimo imperio si pretenderà pur dall’altre potenze cristiane, un dì o l’altro del futuro prevedibile, questa sarà a noi pure occasione buona probabilmente; ma occasione che si riduce alla terza di quelle dette, all’occasione di una partizione di Stati. 14. Nè sorgerà probabilmente niun’altra simile. Niun’altra partizione, niun’altra caduta, niuna gran successione non è a prevedersi in Europa; se mai sorgesse, ella sarebbe regolata dalla presente civiltà; sarebbe ridotta a quistione diplomatica od interna, non sarebbe grande occasione per noi. E quindi senza rigettarne niun’altra se mai venisse, e tenendoci anzi apparecchiati a tutte, fermiamoci a quella che ci par la più probabile fra le favorevoli, la più favorevole fra le probabili, la più promettitrice d’ogni maniera. CAPO NONO. L’EVENTUALITÀ PIÙ PROMETTITRICE Es gibt keine Propheten mehr. Die Wahrsager, welche unsere beschrænkte Zeit gebiert, müssen sich, ob Mangel an gœttlicher Inspiration, ihre Kunde aus eigener Anschauung holen; und nicht aus den Linien der Hand, nicht aus den Konjuncturen der Sterne kœnnen sie vorder das Schicksel der Menschen weissagen, sondern aus der Kenntniss seiner jetzigen Zustandes, und seiner bisherigen Geschichte. _Oesterreich und dessen Zukunft_, s. 143. 1. Ed ora, d’eliminazione in eliminazione noi siamo giunti finalmente ad una che ci pare eventualità, speranza buona. Terminata la parte ingrata dell’assunto nostro, noi entriamo nella più lieta, ma forse più difficile. Facile è sempre il distruggere, difficile il riedificare; facile il dimostrare gli errori altrui, difficile il non cadere in nuovi, e talora peggiori; facile la parte negativa, difficile la positiva d’ogni scienza, d’ogni studio. Facile ci fu l’accennare che non sono probabili nè desiderabili nè il regno d’Italia, nazionale o straniero, nè le repubbliche, nè niuno ordinamento, in somma, che non sia progresso de’ presenti; nè probabile la confederazione stessa finch’è tra noi lo straniero. È facile il dimostrare che l’impresa di liberarcene, durata già XIII secoli, non può nel futuro prevedibile compiersi nè per unioni spontanee di principi, nè per ispontanee sollevazioni di popoli, nè per chiamate nè per alleanze di altri stranieri, senza qualche buona occasione; e che non sono tali poi niuna conflagrazione democratica, niun tentativo di monarchia universale, niuna successione o caduta di regni, se non una. — Ma ora, mutato ufficio, abbiamo a dimostrare che questa è veramente occasione e speranza buona; e qui sta la difficoltà. Abbiamo contro a noi i nostri stessi leggitori che disponemmo al dubbio fin qui; abbiamo in particolare tutti coloro di cui dicemmo sogni le speranze, e che saran disposti a dir pur sogni le nostre[17]; ed abbiamo più che mai gli uomini pratici, indisposti dalle utopie fatte e rifatte sulla divisione dell’Imperio ottomano. Nè ci varrebbero proteste. Non può valere se non la nostra attenzione a tenerci anche qui ne’ limiti del prevedibile. Se così faremo, e se, fra’ primi a trattar dall’aspetto italiano l’assunto tanto trattato altrove[18], noi riusciremo a fermarvi l’attenzione di coloro che hanno in mano i nostri destini, l’opera presente non sarà del tutto perduta. E se in così arduo argomento noi pure erreremo, essi giudichino, essi ci correggano, ma ci ascoltino; ovvero anche senza ascoltarci altrimenti, vogliano pensare essi a questa che, qualunque sia, è pur la meno improbabile e la meno sfavorevole delle occasioni; a questa che, mal apparecchiata o mal usata, non ci lascerebbe forse se non il dovere del perseverare senza sperare. 2. L’eventualità di che trattiamo consta di due fatti: la caduta dell’Imperio ottomano, e la mutazione che ne avverrà nella Cristianità. — Ma a dimostrare la probabilità del primo, non mi par necessario nè far una lunga storia della decadenza maomettana in generale o della ottomana in particolare, nè dimostrare la gran differenza che è fra tali decadenze vere e le apparenti cristiane. Le due civiltà maomettana e cristiana si trovarono l’una e l’altra in presenza, giovane la maomettana, vecchia già la cristiana, or sono più di mill’anni alla battaglia Poitiers. E vittoriosa la cristiana continuò poi a sorgere e crescere fino alla onnipotenza presente; mentre la vinta stette prima, e decadde poi fino alla presente impotenza. Era naturale: questa non ebbe nè avrà mai i rimedii della civiltà cristiana; non quello primario della incorruttibile religione, non quelli che ne vengono della virtù, della operosità rinascenti ora in tutto il corpo, ora in alcune parti della cristianità. La decadenza ottomana o turca in particolare, incominciò dalla presa stessa di Costantinopoli, dallo stanziamento della gente in quella sede costante di corruzioni; e continuò colla cacciata de’ Mori dalla Spagna, colla sconfitta di Lepanto, e a poco a poco colle respinte da tante provincie europee ed affricane; e dura così da IV secoli. S’adduce è vero l’esempio dell’Imperio greco, il quale durò cadente XII secoli nella medesima Costantinopoli, per dimostrare che l’ottomano vi può durare altrettanti. Ma l’Imperio greco non era circondato, assalito, battuto in rovina se non da genti piccole e più barbare che non esso; l’Imperio ottomano è ora battuto di fuori da nazioni più grandi e molto più incivilite che non esso; ed è travagliato addentro poi, e corroso da genti varie che tendono a libertà e civiltà maggiori. Nè del resto è mestieri di niuna di queste comparazioni, nelle quali è difficile tener conto di tutte le somiglianze e differenze, e che per ciò soglion portar più convincimento in alcune menti solitarie e meditatrici che non in quelle degli uomini pratici. Bastano a questi oramai gli eventi quotidiani per tener indubitabile la caduta, irremediabile l’infermità dell’Imperio ottomano. Molti e varii rimedii furono tentati o si tentano ogni dì; ma sempre invano. Furono eglino tentati sinceramente? Non importa. La mala riuscita dimostra o l’inefficacia de’ rimedii, o l’insincerità de’ rimedianti, o l’irremediabilità dell’infermo, o tutti insieme questi malanni, e il pronostico riman lo stesso. Non è confessato negli atti pubblici diplomatici, nè nei pubblici dibattimenti parlamentari cristiani. È naturale, e fino a un certo punto conveniente. La civiltà pubblica si è imposti all’incirca i medesimi doveri, che la privata. Le nazioni cristiane stanno al letto di morte dell’Imperio ottomano a guisa di medici, o piuttosto d’eredi, i quali non vi parlano della morte nè del retaggio. Ma ne parla il pubblico; e tanto più quanto più s’appressa il fine ed è più grande il retaggio. Fu una vera comedia udire i medici-eredi dirsi via via: proviamo questo rimedio ancora, o quest’altro; cercando ingannarsi a vicenda, per rimaner ciascuno solo o con pochi all’ultima cura, ed alle prime spoglie. Se non che, durando troppo la comedia, pare che se ne sieno stancati essi stessi; e guardatisi in viso e ridendone tacitamente, lascino ora fare il suo corso alla agonia, tenendosi convenientemente da parte, ed apparecchiati. 3. Più sincero, più ardito, più grande d’ogni maniera fu già Alessandro, imperator delle Russie; il quale professò vedere, non solamente la caduta ottomana, ma le mutazioni che ne succederebbero all’intiera Cristianità. Ne’ suoi giorni più belli, in quei giorni sereni, quando, difesa ammirabilmente l’indipendenza della patria sua, ammirabilmente rivendicata l’indipendenza d’Europa, avea riposta in pace la Cristianità, egli vide subito, e primo, che ci voleva pure una grande operosità alla Cristianità pacificata, un grande scopo a questa operosità; e vide lo scopo dover essere l’Oriente. E questo fu gran mente, senza dubbio; ma fu gran cuore, l’avere, esso autocrate delle Russie, esso nipote di Caterina e pronipote di Pietro, chiamata a parte di quel pensiero e quell’operosità russa l’intiera Cristianità. Tuttociò è evidente ad ogni spregiudicato in quel trattato supplementare, ch’egli Alessandro fece firmare e chiamare _della Santa Alleanza_; non importando che coloro che il firmarono con lui ed egli stesso poi ne mutassero le tendenze, lo scopo, l’essenza. Ma Alessandro rientrato nella sua patria tanto meno incivilita che non lui, Alessandro, o mutabile per natura o mutato dagli eventi, non fu più l’Alessandro protettore della civiltà cristiana, innalzatosi ad una intelligenza di essa cui non arrivò forse nessun principe del tempo suo. Intanto la civiltà cristiana proseguì da sè l’opera così ben preveduta. La proseguì per quell’intima ed invincibile operosità che è natura sua; la proseguì e per le spinte stesse date e non potute ritirare da Alessandro, e per le ambizioni russe un momento generose, poi di nuovo ristrette; e la proseguì come conseguenza inevitabile delle conquiste inglesi nell’Oriente ulteriore. Soggiogato questo alla Cristianità, non era già possibile che ella si fermasse per via; o piuttosto, arrivata ad una parte lontana della via, non era più possibile che ella non tentasse aprirsi il tratto intermedio. Giunta all’Oriente ulteriore, doveva aprirsi il citeriore, il Levante. Ed apertoselo in varii modi, per varii aditi, vi si precipitò, ne sboccò, ne ritornò, se li allargò; ondechè è ora una fiumana, una innondazione, che niuna potenza umana non può fermare, niuna umana cecità negare. — E lodiamone la Provvidenza, quanti siamo a non chiuder gli occhi alla oramai chiara opera di Lei: la diffusione della Cristianità, che sarà quando che sia seguita da quella del Cristianesimo. E lodino il Cielo anche coloro che vantan nome di uomini positivi. Positivamente, questa gran diffusione, questo quasi trasporto ad Oriente è quello che occupa ed occuperà per molti anni e forse secoli la pace; che sazia e sazierà l’operosità; che contenta e contenterà gl’interessi anche materiali di tutte le nazioni europee. Calunnisi il gran movimento, riducasi da opera provvidenziale a industriale; neghisi o riducasi il motore, mutisi nome a chi si muove. Il risultato riman lo stesso; e noi diciamo: _eppur si muove_. 4. Ma, i due fatti oramai certi della caduta ottomana e del movimento cristiano all’Oriente sono eglino legittimi? Lo scrupolo si propone per lo più da tali che non ne mostran guari poi in lor opere; da tali che non ne hanno nel sollevare popoli contra governi, o governi contra popoli; nel sagrificar le generazioni presenti a’ lor sogni sul futuro od ai loro sogni dal passato; da tali che accumulando tutte le legittimità, tutti i diritti in sè soli, se son popolo, mettono fuor di legge i principi e chiunque dicono non popolo, se son principi, il popolo e chiunque non è principe. Costoro compiangono, gli uni la civiltà, gli altri la legittimità turca. Ma noi non sappiamo veder colà nè buona civiltà, nè legittimità, per vero dire. Non buona civiltà, chè non ci par tale nessuna oramai se non la cristiana; non legittimità che non sappiam vedere in una dominazione rimasta straniera, anzi d’una gente soprapposta all’altre, barbara, despotica. E noi veggiamo anzi diritti molto probabili nelle popolazioni cristiane di liberarsi da quella verissima tirannia; diritti e talor doveri negli stati cristiani d’aiutarli; diritto e dovere nella civiltà e nel Cristianesimo d’estendersi. E questi diritti e doveri, noi li veggiamo riconosciuti da gran tempo dai teologi, da’ filosofi e dagli uomini di stato egualmente; da’ teologi che da Gregorio VII ed Urbano II in qua sollevarono la Cristianità non solo alle difese, ma all’offese contro a’ Maomettani; da’ filosofi che spingono innanzi la civiltà nostra e le debbon quindi concedere le conquiste sulle civiltà minori ed inconvertibili; dagli uomini di stato che veggiamo avanzarsi e fermarsi secondo le convenienze de’ propri stati, ma non finora per nessuno di questi scrupoli. — Ancora, quanto a certo altro scrupolo del _non intervenire_, parmi che dacchè fu posto ei non sia stato seguito guari, se non quando tornò a conto seguirlo. Tornò a conto negli affari interni delle nazioni cristiane: perchè fu scoperto che queste s’assestano molto più presto e meglio senza intervenzioni; e quindi non s’intervenne, e riuscì. Ma colla nazione turca non è il caso; che intervenendo o no, sempre avverrà la caduta di lei; e non intervenendo si lascerebbero cadere con essa e spegnersi le nazioni cristiane implicate in essa. Ondechè, diritto e fatto, tutto chiama le intervenzioni; le quali, se non sieno false, non traditrici, se facciansi anzi apertamente e fortemente, possono dunque in molti casi essere legittime, in molti necessarie e di stretto dovere. — Finalmente, per torci una volta tutti gli scrupoli, si allega da alcuni il tristo esempio della divisione di Polonia. Ma in nome della verità, qual somma, qual total differenza! La nazione polacca era, è nazione cristiana; è di quelle che non possono perire. E mirate il fatto; divisa, oppressa, dispersa come nessuna mai è ella perita? O non anzi forse progredita in virtù, in prudenza? E i suoi tre rottami non sono eglino piaghe in corpo alle tre potenze, che se li aggiunsero? e più a ciascuna, secondo che più vuol distruggere la indestruttibile nazionalità? Ma chi può sognare d’una nazionalità turca risorgente mai, quando fosse dispersa? O chi paragonare l’immanità di aver voluto spegnere una nazione cristiana, alla necessità di lasciare spegnersi spontaneamente una maomettana, o piuttosto al prevedere ch’ella si spegnerà, al raccorne le spoglie quando sarà spenta? — Perciocchè in somma tutti questi son discorsi inutili. Dei due fatti che noi consideriamo, il primo, la caduta, non può esser nè legittimo nè illegittimo, nè oggetto di scrupoli alla Cristianità; è fatto estrinseco ad essa, che si compie senz’essa. Non può esser questione se non dell’occupar l’una civiltà le regioni abbandonate dall’altra, del raccor l’eredità lasciata vacua. E questa stessa questione seconda è poi già decisa dal fatto. Le spoglie son già incominciate a dividersi. Russia n’ha già raccolte parecchie, incorporandosi le sponde settentrionali ed orientali del mar Nero, e prendendo i tre protettorati di Moldavia, Valachia e Servia nel cuore stesso dell’Imperio. Grecia è un’altra di tali spoglie, ed Algeri un’altra. Altro che scrupoli! noi ne siam lungi; non n’è più tempo. Smembrato, screditato, infiacchito uno stato non è più conservabile. La questione è stata decisa quando s’incominciò lo smembramento; e nuovamente ad ogni volta che si continuò. La inarrestabile civiltà cristiana la decise; o piuttosto la Provvidenza, destinando questi popoli asiatici come già gli americani a ritirarsi e forse spegnersi a poco a poco, per lasciar luogo alle generazioni cristiane. E in giustizia? Ma chi l’osa dire? Sarebbe della Provvidenza; come sarebbero state quelle adempiute altrove. Diciamo meglio: è uno di que’ misteri che son nella storia come in tutte le scienze umane. La civiltà progredita può bensì addolcire i mezzi, evitar le ingiustizie particolari, salvar qualche popolazione men restìa: ma quanto a fermare la Provvidenza o fermar sè, che è tutt’uno, la civiltà cristiana non vuole e nol può. E se taluno venisse a dirci ch’ella il vuole, il può, o il fa, noi risponderemmo di nuovo: _eppur si muove_. 5. Ma lasciamo una volta i prolegomeni, vegniamo ai due fatti non che probabili, principali: che l’Imperio ottomano cade, e che la Cristianità sottentra e sottentrerà, quandochesia, comechesia. E cerchiamo questo quando e questo come, il tempo e il modo. Ma del tempo non dimentichiamo, che è il maggiore de’ secreti riservatisi dalla Provvidenza in tutti gli eventi umani futuri. Molti sono prevedibili, anzi certi, ma di che resta incertissimo il tempo. Quando Gregorio VII ideò primo un’invasione della Cristianità sull’Islamismo, ei non la potè ideare se non prevedendole un buon fine, e previde bene. Ma s’ei previde che avverrebbe in tanti anni o secoli, ei previde male. Quando dopo sette secoli e più, Alessandro imperatore ideò nuovamente tale invasione, ei previde con molta più probabilità il fine più prossimo; ma s’ei previde un’epoca vicina, ei previde pur male; non poteva prevedere nè la propria incostanza, nè le distrazioni proprie e delle nazioni cristiane in interessi minori, nè le alleanze parziali e variabili che succederebbero a quella universale ideata da lui. La descrizione di queste alleanze sarà un dì uno dei più singolari episodii della storia diplomatica. Ora sarebbe prematura, quando n’avessimo luogo. E basterà quindi accennare l’unione che si mantenne alcuni anni, quasi reliquia della santa Alleanza tra Russia, Inghilterra e Francia; e l’indipendenza della Grecia che ne risultò, quasi arra d’acquisti futuri alla Cristianità. Poi, Russia e Francia unite innaturalmente: e frutti tuttavia della mala unione gli acquisti russi sul mar Nero, l’acquisto francese d’Algeri: nuove arre. Poi Francia ed Inghilterra unite molto più naturalmente, ma con sospetti reciproci, e maggiori, come suole, per parte della potenza che era in minor fortuna; onde il gran rifiuto di rompere i Dardanelli, che ritardò chi sa di quanto tempo lo scioglimento della questione. E quindi l’unione più innaturale, più feconda di sospetti, più infeconda di veri risultati, più breve che niun’altra, tra Russia ed Inghilterra. E finalmente, Austria entrata in mezzo a fermar tutto, a metter tutti d’accordo nel far nulla per ora. Ma siamo giusti, pro come contro ai nostri avversari. Questo ritardo operato dall’Austria fu gran beneficio alla Cristianità, al genere umano tutto intiero, all’Italia in particolare; perchè con que’ sospetti che duravano tra Francia ed Inghilterra, e le occupazioni indiane e cinesi di questa, era impossibile allora quell’unione delle due con essa Austria, quel triumvirato, onde solo può venire qualunque buono scioglimento. Ondechè se si conceda ad un osservator solitario il classificare le azioni di uno degli uomini di stato che ne adempiè più ne’ nostri tempi, io direi ch’egli non ne adempisse niuna mai, le cui conseguenze sieno per essere più durevoli o più felici, niuna quindi che meriti rimanere a lui più gloriosa, fin ora. Così, mutate ora le posizioni, gli interessi, le possibilità universali, e le proprie sue, ei ne adempisse ancor una, la quale soverchierebbe in vera e durevole utilità, e perciò in gloria, tutte le adempiute, non solamente da lui, ma da tutti gli uomini di stato dell’età sua. Ad ogni modo quanto all’Italia, qual che abbia ad esser il profitto che saprem trarre un giorno dalla grande occasione, certo è che non eravam pronti in questi anni scorsi a trarne nessuno. Ma ora, la Cristianità si trova in un intervallo di riposo tra fatti e fatti; si trova meglio che non fu da trent’anni in qua, riunita in una quasi alleanza, o men disunita. Quindi è momento favorevole ad esaminar la questione. Approfittiamone anche noi, per cercare non il tempo assoluto del termine, ma quello relativo, dico il tempo che durerà incominciata che sia la gran mutazione. I tempi di mutazioni o rivoluzioni sono sempre pericolosi e dolorosi; ed incominciati che sono, quanto più si abbreviano, tanto è meglio. Ma ei si può osservare in ogni storia e dedur da ogni ragione, che le rivoluzioni non sogliono finire, se non quando si sono satisfatti gli interessi veri di coloro che le incominciarono; tantochè si potrebbe dire che le brevità delle rivoluzioni stanno in ragione diretta di questa satisfazione. E lasciando gli esempi che s’affollerebbero qui, e venendo al fatto nostro, facile è vedere fin d’ora: che qual che sia per essere il dì della caduta ottomana, se le nazioni cristiane si moveranno secondo gl’interessi universali della Cristianità, che è quanto dire gli interessi ben intesi di ciascuna, la mutazione fatta così non avrà bisogno di rifarsi, sarà più breve, più facile, men pericolosa e men dolorosa; e che all’incontro, se ognuno tira dalla parte sua, senza rispetto degli interessi altrui, e con mancante intelligenza dei propri, la mutazione fatta non potrà non rifarsi, una, due, o molte volte, e durerà ed occuperà male per secoli e secoli l’operosità, i dolori della Cristianità. Noi siamo in una età, non ostanti le grandi differenze, simile in ciò a quella quando le genti germaniche precipitarono sull’Imperio romano. Non intesesi, non potutesi intendere (chè non era proprio di tal civiltà), strapparono ciascuna un pezzo della gran preda, e poi sel disputarono fra due, fra tre; e tutti i pezzi passarono di zanna in zanna, finchè non cessò per stanchezza lo strazio reciproco; e cessò, osservisi bene, colle divisioni naturali, inalterabili del territorio europeo. Sarà egli tal esempio di tali barbari imitato ora da una civiltà così progredita, come si vanta ed è la presente? Sembra potersi sperare l’opposto. — Del resto, io prego non mi si faccia forse più sperante, più utopista, che non sono. Certo sarebbe desiderabile un trattato di alleanza che provvedesse a tutti i casi. Ma questo nol dico probabile, nè forse possibile. I casi sono troppi; e suddividendosi ciascuno in parecchi, le combinazioni di essi diventano incalcolabili. L’accordo non può venir da un trattato universale, ma forse da uno tra due o tre o quattro delle potenze più similmente interessate; e intanto e ad ogni modo dall’opinione universale de’ principi, degli uomini di stato, degli uomini politici di tutta la Cristianità. Nè questo poi è impossibile nelle condizioni presenti di civiltà, di pubblicità. E quindi sarebbe molto desiderabile, che l’assunto si trattasse apertamente ne’ pubblici parlamenti da uno di quegli uomini che, aggiungendo all’autorità delle ragioni l’autorità del proprio nome, possono soli riunire i loro pari in una opinione universale. Ma questo è difficile per ora, come accennammo. L’argomento non può esser trattato pubblicamente e convenientemente nè in tali luoghi nè da niuno di quegli uomini di pratica ai quali noi l’abbandoneremmo volentieri. E poichè così è, e non abbiamo a chi riferirci, ei ci è forza esaurir noi da noi anche questa parte inevitabile del nostro assunto. Forse, contro al dir degli isolatori d’ogni sorta, noi troveremo che gli interessi italiani non sono altro che gl’interessi di tutti. Ma ei si può intanto asserire, ch’essi ne dipendono almeno; che lo studio delle speranze nostre, o si riduce a quello o s’implica in quello di quegli interessi universali. 6. È egli interesse della Cristianità che si compia la liberazione parziale delle province ottomane passando sotto la protezione russa? Questa è senza dubbio la prima questione da porsi; perchè s’aggira su un fatto presente e pressante. Moldavia, Valachia e Servia son già passate sotto a quel gran protettorato; Grecia sotto quello, mal equilibrato da due altri[19]; ondechè già non rimangono, se non le quattro altre provincie; Bulgaria che dicesi già apparecchiata, Bosnia che si dispone al medesimo passaggio, Albania, e finalmente Costantinopoli. Ma pogniamo che queste quattro non passate ancora, passassero, grazie agli sforzi della diplomazia, come Grecia, sotto a qualche protezione complessiva; che sarà, che diventerà questa, daccanto o frammezzo a’ protettorati puramente russi? Che, in nome del buon senso e dello sperimento, se non un nido, un vespaio di difficoltà, di contese, di guerre, d’invasioni, di miserie locali, e di miserie di tutta la Cristianità, per anni ed anni e forse secoli? Non par possibile, che una generazione civile, forte, previdente, e che dovrebb’essere provvida come la nostra, apparecchi tal destino alle generazioni venture. Così si è fatto per vero dire fino a ieri, così si fa oggi; perciocchè sono di ieri o d’oggi le ultime prepotenze russe nella Servia, la continuazione di questo modo di protettorati semplici o complessi. Ma non è poi possibile, che non venga dalla continuazione stessa qualche maggior prepotenza, qualche intollerabile usurpazione, per parte del protettore principalissimo, la quale desti finalmente l’attenzione universale. E allora qualche alleanza si farà, qualche modo si troverà senza dubbio di fermare, od anche di far indietreggiare l’invasione russa. Questa è la sola che si faccia al presente; e quindi ella pare sola probabile, sola possibile ai veggenti poco lontano. Ma ella non può essere se non un modo transitorio, non può di niuna maniera essere modo ultimo e definitivo della gran mutazione; ella lascia intiera la questione di ciò in che debba accordarsi un giorno o l’altro, a che tendere al più presto la cristianità. 7. Quest’interesse ultimo sarebb’egli che si innalzi sulle rovine dell’Imperio ottomano un Imperio qualunque cristiano? — Ma ciò sarebbe porre uno stato debole per novità in luogo d’uno debole per vecchiezza; sarebbe impacciarsi della tutela di quello stato cristiano, come s’è impacciati ora di quella del mussulmano; sarebbe un’altra mutazione transitoria. Lo sperimento dello stato greco è conchiudente. Un Imperio greco a Costantinopoli non sarebbe se non un ingrandimento del regno greco presente. Nè, per passar questo da regno a imperio, o per fondarsene uno simile avrebbonsi condizioni diverse. Le genti state lungamente serve possono bensì ricevere la indipendenza e la libertà, ma non la sapienza o la potenza di ben usarne. Il nuovo stato cristiano sarebbe, or russo, or austriaco, or francese, or inglese, come sono l’ottomano e il greco presenti; e potrebbe bene essere quindi accresciuta la dignità, ma non la tranquillità, non il buon ordine della Cristianità. Le stesse genti così raccolte a forza non ne vantaggerebbero guari. Le schiatte, le religioni diverse vi pugnerebbero tra sè; ed appoggiandosi ciascuna all’una o all’altra delle schiatte e delle religioni europee, nutrirebbero, accrescerebbero più che mai la propria e l’altrui confusione. Evidentemente dunque, un nuovo Imperio greco sarebbe contrario all’interesse universale della Cristianità. Ma non ce ne inquietiamo: più evidentemente ancora egli sarebbe contrario all’ambizione di parecchie nazioni cristiane. Ondechè in somma o per la ragione buona o per la cattiva, anche questo modo di mutazione non par destinato ad effettuarsi, ed anche meno a durare; non sarebbe in ogni caso se non un modo transitorio ancor esso. — E di nuovo rimane intiera la quistione definitiva. 8. Un giorno o l’altro, in un modo o nell’altro sarà forza probabilmente tornare all’idea semplice e primitiva, della partizione intiera o poco meno che intiera dell’Imperio ottomano in provincie delle nazioni presenti cristiane. E del resto pogniamo che si spartisse non in provincie, ma in protettorati cristiani; la questione riman la stessa: fra chi si spartiranno? — Ora, non sono limitrofi all’Imperio ottomano cadente, non possono prendere parte diretta alle spoglie europee, se non due potenze cristiane, Austria e Russia. E quindi quando si venga all’inevitabile divisione delle provincie o de’ protettorati, ella non potrà farsi se non tra Russia ed Austria; tutto ciò che non diventerà in qualunque modo russo, diventerà in qualunque modo austriaco, tutto ciò che non diventerà austriaco, diventerà russo. Le ambiguità dureranno anni, secoli; ma cesseranno all’ultimo, per lasciar luogo a que’ fatti semplici e naturali, che sono come le constanti della storia. E venutosi a ciò, che le spoglie ottomane europee diventino in qualunque modo accrescimento russo od austriaco, io lo domando poi a qualunque uomo italiano, francese, inglese, tedesco, spagnuolo, od anche russo spregiudicato: quale può essere l’interesse cristiano maggiore? Che s’accresca la Russia? ovvero l’Austria? Che s’accresca di tanto, e si porti a mezzodì ed occidente quell’imperio così oltrepotente già, così ambizioso, così affettante preponderanza universale, come è Russia? Ovvero che s’accresca un imperio tanto meno potente, tanto meno (salvo in Italia) prepotente, così poco ambizioso di conquiste, che indugia quelle stesse che le sono inevitabili, come Austria? — Che si lascino le bocche del Danubio a chi non ne ha nè può aver mai il corso germanico, a chi non v’ha nè può avere interesse se non di chiuderlo? che si sottomettano al capriccio russo, tutti i progressi commerciali della Germania? Ovvero che si diano quelle bocche e il corso inferiore di quella gran comunicazione germanica ed europea a chi ne ha già tutto il corso superiore, a chi ha interesse a trarne tutto il profitto possibile per sè, e per altrui? — Che si aggiungano per contrafforte alle chiuse del Danubio le chiuse del mar Nero, e si faccia di questo un lago, una darsena, un _dock_ russo, dove s’esercitino e progrediscano tranquille le armate navali di quella potenza, per iscendere in poco più d’un dì nel Mediterraneo, e cadere in tre sul gran passaggio orientale di Alessandria e di Suez, e in dodici o quindici su qualunque altra stazione navale greca, austriaca, italiana, inglese, francese o spagnuola? Ovvero che, sottoposti Bosforo e Dardanelli insieme colla costa occidentale ad Austria, non solo si confermi l’utile che verrebbe alla Cristianità dall’apertura del Danubio, ma si divida così il mar Nero tra due grandi potenze, non si lasci esser lago di nessuna esclusivamente, non occasione ed aiuto ad affettar niun imperio nel Mediterraneo? — E, che si lascino poi tutti questi accrescimenti ad una potenza, la quale non avrebbe se non un compenso occidentale da dare, ma che non vuole e dichiara non volerlo dare? Ovvero che si concedano ad una, la quale ha compensi numerosi a dare ad Ouest, a Sud-Ouest, a Nord-Ouest; e la quale per esempi antichi e moderazione presente si deve credere disposta a que’ cambiamenti di territorii a che ella s’adattò sempre? — E mi si rinfacci pure, ch’io fo gli interessi italiani, desiderando tali compensi. Certo sì, ch’io li fo. Nè scrivo di tutto ciò se non appunto, perchè tutto ciò fa gl’interessi italiani. Ma non ne scriverei se non li credessi insieme italiani ed universali; se non credessi che abbiano a parer tali a qualunque sincero leggitor mio, italiano o straniero. Certo è interesse italiano, ma è pur universale cristiano che s’accresca Austria, Austria sola od almeno principalmente, Austria direttamente facendo provincie sue, o almeno indirettamente facendo protettorati suoi delle spoglie europee ottomane; perchè non è destinazione durevole di quelle spoglie se non questa; perchè Austria, salvaguardia e palladio d’Europa per il presente, sarà tale molto più per l’avvenire; perchè tutte l’esitazioni, tutti i ritardi succeduti fin qui nello scioglimento della gran questione, non sorsero se non dallo esitare dell’Austria stessa; e perchè secondochè durerà o cesserà quest’esitazione durerà a danno o finirà a pro di tutti la gran rivoluzione orientale. Io son lontano dagl’Italiani pregiudicati, gretti, odiatori ed isolanti. Ma tant’è ch’io li abbandoni del tutto. Essi avranno da gran tempo già abbandonato me e il mio libro. 9. Ma passiamo dagli interessi generali della cristianità a quelli particolari d’ognuna delle potenze cristiane. E prima cerchiamo se tutto ciò che abbiam detto in favor d’Austria sia veramente interesse austriaco? E se, quando sia, cesseranno pure le esitazioni austriache? — Andiamo adagio. Sono due questioni differenti. Rischiariamole, se sia possibile l’una, poi l’altra. — Che sia interesse vero dell’Austria il trasportare la propria potenza principalmente sul Danubio, è riconosciuto da molti e buoni, s’io non m’inganni, di quella corte, di quella cancelleria, di quell’aristocrazia viennese, la quale non è solamente molto nobile e molto elegante, ma molto civile, ed anche colta; ed è riconosciuto principalmente dall’aristocrazia, e da tutta la nazione ungarese. E fu riconosciuto da gran tempo, fu progetto di quel principe Eugenio di Savoia, che rimane senza dubbio uno de’ maggiori uomini di stato di quella monarchia[20]. La quale ha per natura sua di potersi mutare, ha per virtù di traslocarsi secondo i tempi, senza gran difficoltà e senza pregiudizi. È la sola monarchia, che non consti essenzialmente d’una nazione; che sia durata e duri, sempre la stessa, mutando sudditi. Vi fu, vi è una monarchia austriaca, non una nazione austriaca. Quelle popolazioni che ne portan nome, non fanno una decima parte dei sudditi. Tedeschi Austriaci, Tedeschi non Austriaci, Slavi Boemi, Slavi Moravi, Slavi Polacchi, Slavi Illirici, Magiari, resti d’Unni, senza contare altri resti, formano ora quella monarchia. E furono già in essa pure Olandesi, Francesi e Belgi. E mirate com’ella se ne sia lasciata spogliare, o quasi spogliata da sè senza mutar natura, ed anzi migliorandola col concentrarsi da occidente ad oriente! Ed ora il nuovo movimento non sarebbe se non continuazione di quelli fatti già, continuazione del movimento orientale, continuazione della concentrazione di luoghi, di schiatte e d’interessi. Slave sono tutte le schiatte delle provincie turche; Moldavi, Valachi, Bulgari, Serbi, Albanesi e Bosniaci, tutti, tranne forse i Greci della Romelia e del Fanar. E gl’interessi di tutti questi si concentran tutti su quel Danubio, dove già sono gl’interessi ungaresi, viennesi, austriaci propriamente detti, austriaci tedeschi e boemi, cioè tutti quelli della monarchia austriaca presente, salve le provincie italiane e polacche. E quindi, lasciando queste fuor della monarchia come sono fuor degl’interessi, e concentrando l’una e gli altri insieme sulle provincie slave danubiane, non è dubbio che ne riuscirebbe il più bello, il più gran concentramento che siasi fatto mai nè da quella nè da niun’altra monarchia. Il movimento slavo, quel movimento che s’annunzia e minaccia o fa sperare da ogni parte, può riuscire a pro d’Austria, più facilmente forse che a pro di Russia. E lo stato che ne risulterebbe sarebbe uno de’ più omogenei, de’ più naturali, de’ più conformati a difesa, a commercii, a conservazione ed a progressi, che sieno in Europa o sulla terra; sarebbe non solo l’antemurale presente di Europa, ma, se non ingannino tutte le probabilità cristiane, sarebbe un giorno o l’altro il nodo della Cristianità europea colla asiatica. — Sogni forse, utopie, ordinamenti fatti sulle carte geografiche? Certo sì, se si fissi un’epoca; certo no, se si lasci indeterminata. L’esecuzione è difficile, io lo concedo; ma è inevitabile, io non temo affermarlo. Certo, un tal cambiamento d’una tal monarchia non è mutar casa d’un privato. Certo, il movimento orientale, il concentramento sul Danubio implicano abbandoni di provincie occidentali discoste; e tali abbandoni non si farebbono saviamente senza assicurazione di compensi. Ei bisogna tornare a ciò che dicemmo fin da principio; gli uomini di stato austriaci hanno doveri speciali austriaci, e presenti; e qualunque bene sia per avvenire alla Cristianità od alla stessa Austria futura dal movimento accennato, essi debbono attendere molto meno all’una o all’altra, che non all’Austria presente. Austria non deve nè può abbandonare nulla senza assicuranza dei compensi; nè questa le può forse venire da un trattato, da un’alleanza sola; ma sì da molte e successive; da molti e successivi fatti. Ma Austria può, deve tendere a ciò senza dubbio; perchè se ella vi tende ella seguirà sua natura, adempirà suoi destini, otterrà suoi progressi; perchè se non vi tende, ella si apparecchia una lunga, una inevitabile serie di esitazioni, di contrasti e indebolimenti; perchè ella verrà un giorno o l’altro a ciò, cui avrebbe potuto e dovuto venir fin da principio; e perchè poi finalmente, quando non vi si muova da sè, ella vi sarà spinta e sforzata dalle nazioni cristiane che le stanno a spalle, da quelle che le stanno nel corpo mal connesso, dall’intiera Cristianità, che gravita su lei, che ha bisogno, dovere, destino di compiere essa tutta il suo movimento orientale[21]. 10. E la prima e principale spinta verrà probabilmente da Germania. Chiusa nel cuor d’Europa, con una sola piaggia marittima, e questa povera di grandi aditi e lontanissima da ogni comunicazione coll’Oriente, la nazione germanica non può prender parte al gran movimento, se non spingendo innanzi Austria e Prussia in quella direzione; cioè per parlar chiaro, Austria sulle provincie turche, Prussia sulle polacche. — E questo è sollevare un’altra gran questione, io lo so; e so che alcuni sorrideranno più che mai. Ma è forse il caso d’avventurare il proverbio volgare; riderà bene chi ultimo. Perciocchè di nuovo, non parlo di anni o lustri o nemmen secoli. Lascio il tempo intieramente; parlo d’un futuro indeterminato, ma pur prevedibile; e ne parlo solamente a chi non sia così _impressionabile_ al presente da non saper mirare al futuro. Io m’ero messo in animo principiando, di non complicare la questione italiana colla polacca, quantunque simile. Ma che? come bugia trae bugia, così verità verità, e sincerità sincerità; ed io m’avveggo di non poter trattare una questione compiutamente senza l’altra. Polonia e Italia sono le due nazioni oppresse, ma non perite, non periture; le quali si voglion quindi costituire, anzichè non niuno stato nuovo, niun imperio greco o slavo o che che fosse; se pur si voglia dar costituzione, ordinamento, stanziamento, pace durevole, conservazione e progresso alla Cristianità. Polonia è molto più giù che Italia: non ha principati nazionali come noi; non ha solamente un quinto di provincie straniere, le ha tutte. Ma Polonia ha una nazionalità più recentemente perduta, e, diciam tutto, molto meglio difesa. Polonia ha ammirabili memorie recenti, ha le simpatie e i voti di tutta la Cristianità. Non importa che sembri ora vicina a distruzione, più lontana che mai da ogni risurrezione. Le nazioni cristiane non possono perire; nè perì Irlanda per sette secoli d’una oppressione che potè anche essa parer distruzione. Irlanda ne va sorgendo a nostri dì, usando i mezzi lasciatile da una servitù che si può dir libertà al paragone[22]; Polonia ne sorgerà fra uno, due, sette o più secoli co’ mezzi, coll’ire di una servitù più barbara, più compiuta, che nessuna. Ma Polonia sorgerà? se ella pure prende le occasioni, se ella pure guarisce le proprie infermità, se abbandona i propri pregiudizi, se dismette gl’isolamenti, e si affratella colle nazioni cristiane, e principalmente colla sua nobil vicina Germania. Le nazioni slave invasero già barbaramente le germaniche; e si incastrarono, si frammischiarono l’une coll’altre. Difficile oramai o piuttosto impossibile sarebbe il disgregarle. Fu già un regno polacco-prussiano; forza è che sia un regno prussiano-polacco. Le congiunzioni innaturali non durano; ma le naturali si rinnovellano. E chi non volesse tollerar queste, sarebbe destinato a patir quelle perpetuamente. Polonia ebbe re tedeschi, ma disgiunti, e non fu nulla; quando abbia re tedeschi congiunti sarà tutto quel che può essere, sarà l’altro antemurale, l’altra potenza intermediaria tra l’Europa e l’Asia della futura Cristianità. Austria non può avanzarsi orientalmente senza che s’avanzi Prussia; la nazione germanica spinge a spalle l’una, a spalle l’altra. E la nazione germanica è ab antico invincibile nelle sue spinte. Barbara, invase il mezzodì. Incivilita, invaderà quell’oriente d’Europa che dal Baltico all’Adriatico scarseggia di popolazioni. Anni sono, il fatto della popolazione crescente a dismisura nell’occidente europeo fu molto ben veduto da tutti, non economisti come economisti. E sorse uno di questi, il Malthus, non solamente a dimostrare ciò che sapevan tutti, ma a proporre esso, o sua scuola, un rimedio che nessuno sognava; proposero che ciascuno non facesse se non un numero determinato di figliuoli; e la media stabilita fu 3-1/2, o 3-1/4 se ben mi sovviene. Stoltezze! La civiltà, cioè la Provvidenza, diede ella, dà il rimedio: le terre vacue, che son molte sull’orbe, le colonizzazioni, il trasporto delle popolazioni addensate tra le rare. Mezzo antichissimo per vero dire, ed a cui pure non pensò abbastanza la scuola malthusiana, cattiva in economia pubblica, peggiore in istoria. Da Dublino a Cadice, a Sardegna, a Grecia, a Slesia, a Stoccolma, le popolazioni hanno trascurato il rimedio malthusiano, hanno preso il mezzo provvidenziale. E Germania l’ha preso come può, colle trasmigrazioni marittime; ma non le bastano queste già, e le basteranno meno ogni dì. Trasporto continentale le si vuole; il solo trasporto che possa bastare oramai a’ bisogni propri e dell’Europa; un trasporto che si faccia con tutti i mezzi dell’industrie, de’ commerci, dell’armi, dell’agricolture. Finchè i parlamenti e gli uomini di stato scenderanno a discutere rimedi parziali e piccoli, saranno non più che nuovi Malthusiani; provvederanno per tre o quattro anni, per una provincia o una città; ma ricadranno poi in quelle che chiamano crisi commerciali, crisi agricole, crisi proletarie, crisi democratiche, e son crisi di addensata popolazione che non ha mezzi sufficienti di diradarsi. Aprite le valvole dell’Oriente alle popolazioni europee, questo è ufficio vostro; è ufficio d’uomini di stato che non si contentino di grandezze e glorie vitalizie; il resto lo faranno le popolazioni da sè. Basta all’acque per equilibrarsi che s’aprano loro gli sbocchi; ma se lor si tengano chiusi, esse li rompono malamente, fan danno dove avrebbero fatto servigio. Non è utopia questa, che Germania abbia a popolare l’oriente d’Europa; è utopia all’incontro il pensare che si possa popolare l’oriente d’Europa fuorchè da’ Germani vicini; utopia il credere di poter fondar stati nuovi e rari di popolazioni, là così appresso a stati che ne sovrabbondano; utopia massima il credere che basti niuna potenza umana a fermare il gran movimento orientale, e peggio che mai a farne uno di direzione opposta. Può succedere che si tenti, può succedere che s’incontrino le due onde, i due cavalloni, e sarebbe urto e tempesta grande senza dubbio, e può succedere che vinca una o più volte l’onda che viene d’Oriente. Ma quella d’Occidente, l’onda condensata di cencinquanta milioni d’uomini inciviliti che han bisogno di spandersi, non può non vincere all’ultimo l’onda rara di cinquanta milioni sparsi, che ha bisogno di condensazioni. L’utopia non è di quelli che prevedono la continuazione di un movimento già principiato e progrediente; ma di quelli che sperano poter tramutare tale e tanto movimento[23]. 11. Del resto se fosse possibile che Germania non movesse Austria, Francia moverebbe Germania. — Ma avendo a parlar di Francia in Italia, e non potendo quindi schivar d’offendere alcuni che mi paiono pregiudizi, or sinceri, ora no, ma sempre molto dannosi; tanto è che mi vi opponga direttamente. Incominciarono gli odii, i rancori, i rimprocci esagerati contro a Francia, al tempo che essa ci tiranneggiava. Ed erano naturali e scusabili allora; è naturale e scusabile passar il segno della giustizia, giudicando de’ propri tiranni; e tanto più che, salve le eccezioni (notate sovente dal Botta), i Francesi non ci mandavano allora se non la feccia di Francia, come sogliono tutti i signori stranieri. Ma il pregiudizio avrebbe dovuto cessare, e, per quanto è lecito dire d’un pregiudizio, avrebbe dovuto rivolgersi altrove, quando passò altrove la signoria. Non cessò tuttavia; e le ire compresse scoppiarono anzi allora senza rischio, non senza viltà, nè senza adulazioni ai signori novelli. Povero Alfieri! gli si fece prender indegna parte a tutto ciò, pubblicando postumo, d’ogni maniera, quel _Misogallo_ ch’aveva scritto egli contra una viva tirannia. I buoni, i retti, i generosi, cioè, che che si dica, la pluralità degli Italiani, torsero il viso a tali eccessi; e il pregiudizio non passò dalle corti ai popoli. Ma in breve le dissensioni, le peritanze, le variazioni, le debolezze del nuovo governo e del nuovo parlamento di Francia screditarono la nazione intiera presso a molti non abbastanza sodi di mente o di coltura, per vedere che questi eran vizi non di quella nazione in particolare, ma d’ogni rivoluzione in generale; che eran fiotti cessanti a poco a poco dopo la tempesta. Vennero poi quelle rivoluzioni fallite in Italia, a cui speraronsi aiuti di Francia, e non si ottennero se non mali consigli ed impotenti promesse di pochi rivoluzionari francesi; e così scese il pregiudizio dalla parte cortigiana alla popolana; e l’opinione italiana, sviata di su e di giù, si riunì quasi tutta contro Francia. Allora fu uno scatenarsi, un apparente ragionare, e un effettivo ingiuriare che non è finito per anche. Alzaronsi le grida a gara da tutte bande. I letterati italiani, negletti in Francia come in Inghilterra e talora in Germania, per la buona ragione che quanto più si scrive liberamente in que’ paesi, tanto meno vi si attende a ciò che si scrive altrove non liberamente; i letterati italiani, poco informati delle altre letterature, e così dell’altre trascuranze straniere, ma offesi dì per dì delle francesi, furono de’ primi, e saran forse degli ultimi a gridare contra la ignoranza, o la leggerezza francese. I classicisti sopratutti (dico, non quelli che, studiata la maravigliosa arte antica, se ne san valere come fecero gli antichi de’ più antichi, secondo i bisogni del proprio tempo; ma coloro che non sanno uscir essi o vogliono almeno impedire altrui d’uscire dalla imitazione materiale e ristretta), i classicisti esagerati, che s’eran provati contro a un Manzoni, ed avevan sollevata l’opinione italiana non contra lui, ma contra sè, diedersi bello e facil gioco contro gli scrittori stranieri; e confondendo in questi l’uso e l’abuso della indipendenza letteraria, confondendo romantici moderati ed esagerati, tedeschi, inglesi e francesi, affettarono ed affettano un disprezzo, un’ira speciale contro agli ultimi, più noti; senza tener conto che quella letteratura è in tutto la più classica fra le moderne; che là più che altrove si grida contro a quelle novità e quelle esagerazioni; e che v’è finita o finisce quella moda contro a cui romponsi ancora inutilmente tante lance italiane. Poi s’aggiunsero i filosofi, giustamente sdegnati contro alla mala filosofia francese del secolo scorso e contro alla insufficientemente corretta del secolo presente; e s’aggiunsero i teologi, i buoni cristiani e buoni cattolici, pur giustamente rivolti contro all’empietà degli uni, e contro alla nuova e non retta cattolicità degli altri, ma senza avvertire che anche tutti questi sono errori finienti, ritorni incipienti a verità. E s’aggiunsero finalmente molti Italiani generosamente innamorati della patria, generosamente assumenti l’impegno di difenderla contro alle calunnie, e di restituirle il sentimento della propria nazionalità; ma che non tennero bastante conto nè di quanto può essere accusa vera tra le calunnie, nè di ciò che è ora la buona nazionalità; non avvertirono esser natura delle nazioni cristiane incivilite, non gli odii, ma gli amori, non le accuse reciproche, ma le scuse, non gli isolamenti, ma le congiunzioni, non quell’esaltar sè ed abbassare altrui che era proprio delle civiltà antiche, ma il pregiar ciascuna delle nazioni cristiane secondo l’operosità sua nella Cristianità, ma l’accomunar gl’interessi, i vanti, le cognizioni, l’operosità tutte in una sola[24]. E sarebbe pur tempo, sarebbe pur necessario che si distruggessero tutti questi pregiudizi. Perciocchè insomma non potendosi fare sparir dalla terra, nè allontanar da noi questa Francia così odiata[25], sarebbe pur bene giudicarne assennatamente, computare tranquillamente le probabilità di lei per vedere quale abbia ad essere buona o rea, ma inevitabile l’influenza di lei sulle probabilità italiane. Non serve dire che non si vuol tale influenza, che non si vuol far dipendere il nostro avvenire dall’avvenir di Francia; come se l’avvenire d’ogni nazione cristiana non dipendesse da quel di tutte, e più delle più vicine! come se la vicinanza di Francia fosse un fatto che si potesse tor di mezzo con gli odii o i disprezzi! Non è più Francia l’avversaria contro a cui si voglian rivolgere, non dico gli odii, che non si vogliono rivolger contro nessuno, ma gli sforzi. Francia non è nè sarà più mai signora nostra, ha interesse a scemar la signoria straniera, ad accrescere le signorie italiane in Italia, è l’alleata nostra più naturale, l’adiutrice principale all’occasione, e tal sarà quanto più s’assoderà. Anche a Francia si vorrebbe applicare il bel principio, che le nazioni cristiane non possono morire, e che debbono dunque guarire. E guardando allor bene ed amorevolmente a Francia, si vedrebbe che la guarigione è là molto più avanzata che non si dice da noi; e che tornando ella a quegli abiti di civiltà e religione in che risplendette già tanto, ella va ora prendendo quegli altri di sodezza che sono immancabili in qualunque nazione chiamata a discutere i propri interessi. Del resto, io non posso accennar qui tutte le guarigioni, tutti i passi fatti là in pochi anni, e mi restringo a quelli che vi si van facendo nella questione orientale. — Pochi anni sono, già l’accennammo, Francia fu innaturalmente alleata russa, poi sospettosamente alleata inglese; ma ella è ora tornata dall’uno e l’altro errore. Dal primo assolutamente; sia merito di lei, od anzi dei disprezzi russi. Dal secondo, non forse abbastanza, essendo Francia non già leggera, ma anzi, come Italia, ostinata nelle antipatie nazionali. Ma Francia sembra almeno aver ora abbandonato il pensiero di porsi essa, invece d’Inghilterra, in quell’Egitto il quale non può aver gran valore nè per l’una nè per l’altra parte se non come passaggio all’Oriente ulteriore; e ne ha quindi tanto più per l’Inghilterra, quanto son più le Indie inglesi che non i microscopici stabilimenti francesi di Borbone, Pondichéry, Chandernagor e Mahé. Certo Inghilterra vi sarebbe perita tutta intiera, anzichè cedere su tal questione, che è vitale per lei, e secondaria od anzi di pura vanità per la Francia; ondechè è grandissimo progresso in questa l’avere tralasciata la inutile ed impossibile competenza. Ed io crederei ch’ella venga poi abbandonando a poco a poco anche quell’altro errore dell’isolarsi, in che ella cadde testè, e di che ella diede così l’idea a’ nostri scrittori non inventori. Perciocchè questa è vana idea anche a Francia, quantunque tanto più potente, e che parrebbe potere star da sè. L’isolamento può durare o piuttosto può affettarsi un anno o due, per contentare alcuni politici popolareschi. Ma in realtà, in mezzo a questo secolo XIX un isolamento vero non può durare nemmen due anni; e i Francesi, pronti al tornar dall’errore come al corrervi, son già tornati da questo pure. E pronti come sono d’intendimento, essi intenderanno presto o già intendono, che lor vero interesse nella questione orientale non è di avanzarvisi nè isolati, nè alleati russi, nè forse inglesi, ma austriaci principalmente. Prima, perchè a Francia più che a nessuno importa che non s’accresca ad occidente Russia, sua nemica naturale ed antipatica; ondechè importa a lei aiutar Austria a prender quanto più può, affinchè Russia prenda tanto meno. Poi, perchè Russia non si potrà mai persuadere a dar compensi occidentali, se non per forza, e non si potrà per forza se non col mezzo d’Austria. Poi, perchè ne darà più facilmente Austria, che v’è avvezza da gran tempo, e n’ha parecchi a dare a parecchie potenze intermediarie le quali ne darebbero a Francia. Poi, perchè sarebbe vantaggio speciale francese, che surgesse una potenza navale austriaca nel mar Nero; la quale sarebbe seconda in quel mare e quarta nel Mediterraneo, e farebbe tanto più difficile che quello o questo diventino mai tutto d’una. E finalmente, perchè quell’interesse dell’independenza d’Italia che noi cerchiamo è pur interesse di Francia; la quale è e sarà sempre la gran potenza che raccorrà intorno a sè le minori occidentali, e che non potendole temere emule, ha interesse a farle forti alleate. Francia attende ora troppo poco a Italia, ma non può non vedere tosto o tardi il suo interesse. Neghi chi vuole a Francia ogni amor disinteressato di civiltà o di cristianesimo, ogni generosità, ogni virtù; ma non le si neghi almeno quella prontezza d’ingegno e d’operosità che basta a vedere e proseguire i propri interessi. Le passioni, miseri resti di tutte le rivoluzioni, poterono turbarle la vista sì alcuni anni, ma ella s’allontana da sue rivoluzioni, ma ella si libera da sue male passioni, ma ella s’assoda ogni dì e si rischiara sui veri interessi suoi, che sono gli europei ed italiani[26]. E Francia ha già avuta sua spoglia diretta ed oltremarina dell’imperio ottomano; le altre simili sarebbon poco men che nulla al paragone; Algeri le basta, e soverchia, le sue ambizioni ulteriori non possono se non essere continentali. E queste ambizioni, spingendo Italia ed Austria e Prussia ad Oriente, sono buone all’Europa in generale, all’Italia in particolare. Gli interessi francesi non meno che gli austriaci sono oramai gli italiani; ma con questa differenza: che i francesi sono tali fin d’ora, mentre gli austriaci non saran tali che quando ella si sarà mossa o per sè o per impulso altrui. — E Italia vedrà, seguirà pur essa i veri interessi suoi verso Francia, quando vi sia condotta o da uno di que’ grandi principi, o da uno di que’ grandi scrittori che han potenza, non solamente d’innalzarsi sopra le opinioni volgari ma di mutarle. 12. Ma se tutto questo è interesse di Francia e di tutti, non vi s’incontrerà ella l’opposizione d’Inghilterra? Non sorgerà ella, la tiranna dei mari, la ambiziosa, la avara, la perfida Albione, ad impedir secondo il solito il ben di tutti, per far monopolio di tutto ella stessa? Singolare pregiudizio, anche questo! il quale si congiunge in alcuni con quell’altro contra Francia, e si fa tuttavia venire di Francia od anzi da quanto vi è in Francia di men colto e men progredito. Poco si legge d’Inglese in Italia; e quel poco, per la diversità di quel governo, e la peculiarità di quella lingua o gergo parlamentare, s’intende da pochissimi. Ai quali tuttavia io me ne rimetto, non volendo fare una nuova digressione, per persuadere contra i giornali francesi, a’ miei compatrioti: che le conquiste inglesi nell’Indie, simili per l’illegittimità a tutte le conquiste, furono molto più civilmente fatte che non le portoghesi, spagnuole, francesi ed inglesi anteriori; che furono le sole fra le moderne di che i conquistatori abbiano avuto a rendere conto (più o men severo, non importa) a un pubblico tribunale; che furono costantemente vietate prima e disapprovate poi dalla compagnia mercantile dell’India, più avida di _dividendi_ che non di conquiste; ondechè elle furono fatte più per necessità od ambizioni private de’ governatori, che non della nazione intiera; che si può creder quindi, che questi governatori, tanto riaccostati alla madre patria dal passaggio per l’Egitto, non ne potranno più far così a lor talento, o le dovranno lasciare, come si è già veduto del Cabulistan; che la guerra della Cina non fu fatta per avvelenare i Cinesi coll’opio, ma all’occasione dell’opio per rompere finalmente il corso di que’ barbari usi commerciali, troppo a lungo sofferti da tutte le nazioni cristiane, o piuttosto per l’inevitabile irrompere d’una civiltà maggiore su una tanto minore; e che l’abolizione della schiavitù dei negri imposta per forza dal Wilbeforce e da altri buoni cristiani e filosofi al governo ed alla nazione inglese, e costata un bilione, non fu nè potè esser mai speculazione commerciale o politica; e via via. Più lungo e più difficile ancora sarebbe capacitare i nostri dispregiatori di tutto ciò che chiamano oltremonti ed oltremare: che questa potenza, la quale ha senza dubbio anche essa le sue piaghe, saprà guarirsene probabilmente molto prima che non ciascuna altra potenza delle proprie. Io lascio tutto ciò, e vengo al medesimo argomento finale, che feci per Francia. Credasi pure interessatissima Inghilterra; ma credasi interessata almeno secondo quella intelligenza di civiltà che non le si può negare. — E ciò posto, osserviamo prima quell’impulso britannico a tutti i venti, il quale, piangane o l’invidii chi vuole, è pur certamente spettacolo pieno di speranze a tutta la Cristianità. Ma osserviamo poi, che di tutti questi impulsi, il principale senza paragone è all’Oriente. Là sono oltre a cento milioni di sudditi inglesi, là la consumazione principale delle proprie merci, là la produzione di quelle più consumate e adoperate in Inghilterra, là gl’interessi principali del commercio, della potenza, della gloria delle schiatte britanniche. E quindi quella necessità dell’Imperio britannico d’aprirsi la via tanto più corta di Egitto, e la certezza che egli serberà a qualunque costo quella via, e la probabilità che egli se l’assicurerà ed aprirà ognor più. Questo è di gran lunga il maggior interesse britannico nella questione turca. A petto di questo, tutte le conquiste o i protettorati che ella potrebbe pretendere sono un nulla; sono di quelle cose in che un ambasciadore, un ammiraglio, od anche un console possono bene porre ambizione od impegno, ma in che non ne pongono il governo e la nazione, ondechè si sogliono poi abbandonare. L’Inghilterra ha più conquiste, che non desidera; ella incomincia a sentir il peso dell’imperio suo. Ha più regioni vacue che non ne può popolare; ha più colonie che non profitti da esse; ha forse più posti navali che non le son necessari a mantenere la sua prepotenza marittima, e se alcuno le ne manca, ella il prenderà probabilmente senza scrupolo, ma lo prenderà quanto più ristretto affinchè le costi quanto meno, come si vede aver fatto in Aden e in varii altri ultimi acquisti. E quindi può ben essere che tra le ruine turche ella si approprii qualche dì o l’Egitto o qualche stazione in esso o vicina ad esso; ma non niuna altra parte notevole dell’Imperio, non sopratutto niuna provincia europea. E questo non voler conquistar essa, fa senza dubbio dell’Inghilterra una potenza meno impellente alle conquiste altrui, una potenza conservatrice nella questione turca, e tanto più quando ella è retta dai propri _conservatori_. Ma ella suol dimenticare i riguardi, quand’è retta dalla parte opposta; e li dimentica ogni dì più, quanto più ella s’avanza sotto gli uni o gli altri in quella carriera di progressi, in che non suol nessuno fermarsi ed ella non mai. Quando la caduta e la divisione turca fosser fatti imminenti, ella non sarebbe ultima a vederli, nè ad accettarli. Tal non fu finora ad ogni stadio della questione; la quale, se Francia avesse corrisposto, sarebbe ora avanzata di molto colla rottura dei Dardanelli, proposta da Inghilterra. Quando si venga di nuovo a ciò, quando là, nel mar Nero, sia ricondotta e ridiventata importante la contesa, allora gl’interessi britannici si troveranno così evidentemente identici con quelli universali, che sarebbe stolta ipotesi quella, che ella non li saprà vedere; o vedendoli, non avanzarli; od avanzandoli, non deciderli, non tenervi il posto suo presente di duce della Cristianità. L’Inghilterra dissoda il terreno alla Cristianità in tutte le regioni; fa ad essa l’ufficio di quegli abbattitori di selve e dissodatori di terreno (_pioneers_) che sgombran la via a’ coloni americani. Ella il farà nel Levante come l’ha fatto nell’Oriente ulteriore; e il farà per l’interesse britannico come per il comune. È interesse particolare britannico come comune, che il mar Nero non sia lago russo; e quindi che Austria abbia la parte maggiore possibile di quelle marine. È interesse britannico come comune, che una sola potenza abbia le bocche e il corso del Danubio; e che le bocche del mar Nero sieno più o men direttamente di chi abbia utilmente le bocche e il corso del Danubio. È interesse britannico particolare, che Francia abbia compensi continentali, affinchè ella non ne pretenda de’ marittimi in Levante, in Siria, nell’isole imminenti all’Egitto, dove Britannia ha diritto, dovere e volere di signoreggiare. Ed è interesse britannico più che di niun’altra nazione cristiana, che l’Italia diventi quanto prima nazione indipendente e nazionalizzata; perchè Britannia, che è la nazione più progredita in industrie e commerci, è quella che trae sempre i primi vantaggi delle nazioni nuovamente progredite in indipendenza e nazionalità. Che se è interesse francese che sieno nel Mediterraneo parecchie potenze navali oltre Britannia; non è minor interesse britannico che vi sieno tali potenze oltre Francia. Gli assennati di là come di qua hanno dismessi tutti que’ sogni del Mediterraneo lago francese o lago inglese. Ei sanno che il Mediterraneo non fu lago mai di nessuno, se non d’Italia due volte; una volta nell’antichità ed una nel medio evo, quando le civiltà e le colture universali furono italiane. Ma dacchè la civiltà non può più essere dell’una o dell’altra sola fra le nazioni cristiane, quando ella non può aver nome nè realtà se non di civiltà cristiana, non è più possibile che quel Mediterraneo, su cui mettono tante di quelle nazioni, diventi mai lago esclusivo di nessuna. Fidiamocene pure a quel senno, a quella lenta, ma continua forza progrediente, a quella intelligenza quasi perfetta degl’interessi propri ed universali, che è già vecchia e pur s’accresce ogni dì nella schiatta britannica. Non è essa che abbia voluti sempre gl’indugi, che siasi impuntata nello _statu quo_ della questione turca; ella non li volle, se non quando vide probabili i profitti di Russia, sua rivale vera e perpetua. Veda probabili i profitti d’Austria, alleata sua naturale e riconoscente, e di Francia e Italia, alleate sue naturali quantunque sconoscenti: ed accertiamoci pure ch’ella non mancherà l’occasione di assicurar loro questi profitti. Se non fosse altro, per non lasciar durare il rischio che diventino profitti russi. 13. La vera opponitrice agl’interessi universali, la dividitrice della Cristianità, quella che sta sola da una parte, contra tutte le altre nazioni cristiane, è la Russia. Un atteggiamento politico, che non è senza apparenza di grandezza; e che ella quindi accetta tacitamente per lo più, altamente talora. — E tuttavia anche là, se fossero intesi bene gl’interessi particolari, ei non s’opporrebbero agli universali. I più grandi autocrati dal principio del secolo scorso furono tre: Pietro, Caterina, Alessandro. E Pietro fu veramente grande, rivolgendo la sedia, le ambizioni, la vita russa ad Occidente. Era necessario per incivilire quel popolo; senza volgersi ad Occidente, all’Europa, alla Cristianità, Russia non poteva incivilirsi, rimaneva potenza asiatica e barbara. Pietro ebbe così la sola che sia grandezza vera, quella che sorge dalle condizioni ben intese e ben avanzate del proprio tempo, quella che si potrebbe dire grandezza opportuna. Nè trascurò egli gl’interessi orientali; ma non essendo questi maturi, sacrificolli agli occidentali, più urgenti. — E maturato poi l’Oriente, precipitante già l’imperio turco, Caterina vi si rivolse, opportunamente; ma con più pompa che vera grandezza; non virilmente, come pretendeva; nè con quella intuizione semplice femminile, che sopravanza talora le previsioni nostre, ma che non è data guari se non alle donne semplici, diverse da lei; non con quella fermezza di mente che vede il vero campo di una grandezza ed abbandona gli altri; non senza distrarsi ad Occidente, non senza dividere l’impulso e sminuzzar l’ambizione russa. Il pensiero di Polonia nocque fin d’allora al pensiero di Turchia; la divisione di Polonia ritardò chi sa per quante generazioni, guastò chi sa fino a qual segno la divisione di Turchia. — Finalmente Alessandro, mente e cuor più semplice, più largo d’assai, ma educato fra’ pericoli, tra le vicende, tra gli affetti e le tradizioni occidentali, ebbe sì quel dì che dicemmo di grande intuizione, quel dì di grande intelligenza degl’interessi russi e cristiani presenti, degl’interessi orientali; ma al domani o alla sera di quel dì, si lasciò distrarre dagl’interessi occidentali, da quella stessa Polonia la quale salvò così una seconda volta Turchia. Non volle egli, non credette distrarsi; credette anzi avere stanziata Polonia in una limitatissima libertà. Come se si potesse stanziare in questa! come se una libertà limitata non fosse una incipiente, e non chiamasse il seguito! come se, dove non è indipendenza, la libertà potesse valere ad altro che ad acquistarla! Alessandro pose in terreno fecondo i semi d’un frutto amaro per lui; pose le fondamenta, e lasciò l’addentellato d’un edifizio difficile ad abbandonarsi, impossibile a compiersi da’ successori, la preponderanza occidentale di Russia. — Non vegniamo più giù; serbiamci puri d’ingiurie; e non esprimiam nemmeno una indegnazione espressa da tutti[27]. Osserviamo solamente che la distrazione, l’impedimento, la piaga occidentale s’è più che mai accresciuta ed inasprita negli ultimi anni. Ma non è del tutto utopia veder possibile anche là un progresso dell’opinione pubblica che invada un dì anche quel governo, quella corte, quella famiglia imperiale, e, perchè no? quello stesso imperadore. Sono famose là le mutazioni subitane di politica; un fatto patente, una felice ispirazione, un pensiero del principe, basta là più che altrove, senza aspettare le naturali, e sopratutto senza desiderar le scellerate mutazioni del principe, pur troppo frequenti colà. Que’ principi sogliono essere gli uomini del loro imperio più avanzati in civiltà; tantochè sono fino a persecuzione gelosi di tal primato. Ma questo può in somma trarre il principe ad uno di que’ pensieri che fanno a un tratto d’un uomo e d’una nazione sviata un uomo e una nazione grande; che farebber là un quarto grande autocrate, anzi il maggiore di tutti. Sarebbe, è vero, necessario perciò il vedere, ma pare impossibile che non si vegga anche là un dì o l’altro: che i tempi presenti ed avvenire sono differentissimi, sono contrari a quelli di Pietro; che se era grande allora il volgersi ad Occidente per chiamarne la civiltà, sarebbe più grande ora il volgersi ad Oriente per portarvela; che Inghilterra e Russia sono a’ nostri dì le due sole potenze che possono operare in grande la diffusione orientale della civiltà cristiana, ma che questo gran destino ed ufficio naturale della Russia non si può adempier da lei insieme con quello innaturale della diffusione, della preponderanza occidentale; che queste due diffusioni sono localmente impossibili a farsi insieme o a vicenda, per essere insieme l’Oriente e l’Occidente della Russia così distanti da non potervisi fare que’ trasporti di eserciti, di navi, di forze e di attenzione stessa, i quali son vantaggi della posizione centrale ne’ paesi più piccoli; che è dunque da sciegliere inevitabilmente tra la diffusione della civiltà russa all’Oriente, e quella della preponderanza russa ad Occidente; cioè tra un’impresa legittima, santa, applaudita, aiutata da tutti, ed una scellerata, empia, maledetta e contrastata da tutto il resto della Cristianità. — Sembra un gran chè per vero dire, una impossibilità, che si fermi, che retroceda in qualunque direzione un tale imperio. Ma retrocesse il romano sotto Augusto da’ disegni di Cesare, sotto Adriano da que’ di Traiano, e durò secoli per queste retrocessioni. E retrocesse, invito dapprima, adattatovisi meravigliosamente poi, l’imperio britannico in America; e cominciò da quel dì il suo secolo di vera preponderanza, d’incontrastabil primato. Polonia è piaga insanabile nel corpo russo; non sette, non tredici secoli domeranno quella, più che Irlanda o Italia. L’identità delle schiatte non è rimedio, ma esacerbazione della piaga, mantenuta dalla differenza delle religioni, ed incancherita oramai da ingiustizie, da crudeltà non dimenticabili. Russia è più inferma che nol si crede, e non ha forse rimedio se non l’amputazione del membro piagato. Russia n’è certo almeno fatta fiacca, incapace, impotente; e il provò ad Andrinopoli sul Bosforo, a Khiva e in Circassia, quantunque postasi a cimento non più che or d’un imperio cadente, or della diplomazia europea, or d’un kan, or d’una gente barbarica. I limiti fatti naturali oramai alla Russia dagli odii reciproci, i limiti che dovrebb’essere _arcanum imperii_ il porre e sancire sono: a Nord-Ouest, là dove più o meno incomincia Polonia; a Sud-Ouest, là dove incomincia Ungheria, la sorella di Polonia, là dove estendendosi Russia abbraccerebbe Ungheria ed Austria, che non possono lasciarsi così abbracciare ed irretire. Niuno, quantunque grande, non deve durare in imprese impossibili a compiersi, niuno, quantunque costante, deve tardare a lasciarle volontariamente; sotto pena di lasciarle poi per forza, con vergogna e danno. — Il dì poi che fosse, non dico fatto, ma deliberato o solamente ammesso come possibile il gran sacrificio, diventerebbero semplici e facili i destini di Russia. Fermati i limiti occidentali, rimarrebbero tanto più aperti gli orientali a duplici e triplici compensi. Perciocchè, pogniamo che sieno or russe intieramente, non solo Polonia, ma Valachia e Servia, che non sono pur tali di nome e forse meno di fatto. Sarebber tuttavia più che compensate tutte queste province europee che si lasciassero, da quelle asiatiche che si prendessero, da Sinope od anche Scutari fino ad Erivan od all’angolo occidentale od anche all’orientale del Caspio. Turche o persiane, queste provincie giacciono lì a’ piè di Russia, che ha poco più a fare che abbassarsi per raccoglierle. Gli Armeno-Turchi e gli Armeno-Persiani chiamano i Russi, soli cristiani chiamabili, soli possibili colà. Non ostano se non due imperii impotenti, sconfitti quando furon soli, e che ora sono appunto soli, e non possono avere aiuti di nessuna potenza cristiana gelosa. Inghilterra non anderà mai a ficcarsi così addentro alle terre, nè partendo dall’Indo, nè dal fondo del golfo Persico, nè dal fondo del mar Nero. Inghilterra ha sperimentato ultimamente essa stessa nel Cabul, e veduto sperimentare da Russia sulla via di Khiva que’ deserti che dividono, per secoli e secoli o forse per sempre, India da Russia. Ed Inghilterra sa che un altro tal deserto è tra India e Persia settentrionale; ondechè gli Inglesi sodi e informati non han guari più paura di niuna di quelle discese russe nell’Indie che furon tema negli anni scorsi di utopie napoleoniche e continentali. Quegli Inglesi sanno la storia dell’Indie un po’ meglio che non la sapesse probabilmente Napoleone; e che non la sappiano poi certamente que’ giornalisti i quali, avendo osservato che le invasioni all’India venner tutte dall’Indo-Kutsch, dal Nord-Ouest della penisola, ed osservando poi sulla carta che al Nord-Ouest di quel Nord-Ouest si trova Russia, ivano profetando una discesa di questa dalla Neva o dalla Moskova all’Indo e al Gange. Quegli Inglesi sanno molto bene che tutte quelle invasioni vennero sì da quel primo Nord-Ouest, ma non mai dal secondo; che vennero da genti numerose, e grandi imperii stanziati là vicino a Cabulo Ghiznè, o tutt’al più nella Transoxiana od in Persia, ma non mai da imperii più lontani; tantochè nè gli antichissimi re dei regi persiani, nè Alessandro macedone, nè Gengiskan non posero mai piè in ciò che è India, imperio britannico presente[28]. Se verrà mai a questo qualche pericolo esterno, non verrà da niun imperio lontano che abbia a passare mezzo mondo per capitare poi ad uno dei due deserti prima che all’Indo superiore; ma piuttosto da qualche imperio nuovo che sorgesse più vicino dalle rovine turche, persiane od anche russe. Ed Inghilterra provvederebbe a ciò senza dubbio, se venisse il caso; Inghilterra non lascerà mai più sorgere nè risorgere niun grande imperio asiatico; e si è veduto già che non ne vuol nemmeno niun affricano vicino all’Asia. Inghilterra ha quindi anzi interesse che le provincie turco-asiatiche sieno tolte dall’eventualità degli imperii asiatici vicini per essere aggiunte al lontanissimo russo. Ma se pur non vedesse tal interesse proprio, certo ella vedrebbe oramai con indifferenza che Russia s’estendesse fino a mezzodì del mar Nero od anche del Caspio, che sarebbe ancora un sedici gradi lontano dall’Indo, co’ deserti frammezzo. E se anche questa estensione le paresse un tal qual pericolo, certo le parrebbe pericolo minore che non l’altra estensione russa sulla sponda occidentale del mar Nero o sul Bosforo; ondechè ella darebbe le mani a quella per impedire e far indietreggiar questa. — Ed a Russia poi, qual differenza immensa, totale! Le provincie occidentali, Polonia, quando anche non fosse piaga, le provincie danubiane, quando non fossero per essere pietra di scandalo, _casus belli_ perpetuo con Austria, il Bosforo stesso, quando nol fosse coll’intiera Cristianità, non sarebbero mai stromenti di vero progresso, di vera potenza interna russa; non sarebbono mai se non istrumenti a quell’edifizio di preponderanza occidentale che non può compiersi. All’incontro, le sponde meridionali del mar Nero aggiunte alle settentrionali ed orientali, facendo della metà orientale di questo un vero lago russo possibile, chiuso da Sinope e Sebastopol, aprirebbero le bocche di tutti i fiumi russi ad un commercio orientale perpetuo, ed indipendente dal Bosforo. E il grande istmo del Caucaso, già russo di nome, ma che non sarà tale di fatto mai finchè non sien russe le sponde Sud-Est del mar Nero e Sud-Ouest del Caspio, accrescerebbe ancora questo commercio russo-asiatico. Le sponde meridionali del Caspio per sè stesse poi, aprirebbero nuova via, nuove comunicazioni alla Russia europea ed all’asiatica insieme. E questo sì che può e debbe un giorno o l’altro esser tutto intiero lago russo, senzachè nessuno lo possa impedire nè disfare mai più. Là avrebbesi un campo inesauribile di progressi. Nè dicasi utopia, perchè è campo così trascurato finora, perchè così lontano, perchè russo. Cinquant’anni fa avrebbe potuto parer maggior utopia il voler solcar coi numerosi piroscafi i laghi Ontario od Erie, il Mississipi o il Missouri, che son pur solcati; e venti anni fa quando le strade di ferro non parevano adattarsi se non all’interno di qualche _dock_ o di qualche manifattura inglese, sarebbe paruta utopia, volerne far una tra le due capitali russe, tra cui pure si fa. Certo, quando Russia s’aggregasse tutte queste provincie asiatiche-meridionali, quando s’aprissero tutte queste comunicazioni commerciali, il profitto primo ne verrebbe alla Russia europea, ma a poco a poco pure all’asiatica. Nè questa poi potrà mai progredire altrimenti. Non serve mandar guerrieri, preti, principi e principesse, polacchi e russi, insieme con ladri ed assassini a popolar Siberia; non serve attirarvi qualche sparso colono. Ma chi ardirebbe fissare limiti a quelle popolazioni e a quella civiltà, quando non più limiti, ma mezzi di esse fossero il Caspio, il Volga e l’Ural, Astrakan, Casan ed Oremburgo?[29] Anni sono, notarono alcuni viaggiatori che le condizioni de’ paesi ultimi settentrionali i quali giacciono verso le bocche dell’Obi, del Jenisei e della Lena, si muterebbero notabilmente se si corressero que’ fiumi con pochi piroscafi a portarvi più brevemente e più regolarmente le poche merci necessarie ai pochissimi abitatori. Ma senza concedere nè negare le possibilità di que’ progressi estremi, chi vorrebbe dire impossibili quelli dei paesi tanto più temperati che giacciono alle latitudini di Vienna, Parigi o Londra? Non son queste le utopie, ma quella della preponderanza russa occidentale; non il progresso dell’Asia, ma il regresso dell’Europa; ed utopia massima quella di condurre insieme le due imprese incompatibili. 14. Ma rivolgiamoci alla patria. Alla quale tornando in qualunque maniera, anche in iscritto, sembra ritrovare una cotale assicuranza che non si sentiva tra gli stranieri. Io non so come faccian altri che parlano e sparlano di questi così facilmente; ma io mi sento di mal agio in tali discorsi, non v’ho fiducia di poter essere utile lodando nè biasimando. Ed all’incontro, per quanto piccolo uno si ritrovi in casa, sembra pur ritrovarvi la signoria de’ propri pensieri, più facile, più consenziente l’udienza, più intese le spiegazioni, più diritto, più dovere di parlare, più speranze che non sien tutte parole vane quelle che si rivolgano con sincerità ed amore ai compatriotti. — E così, dopo molta via percorsa, dopo molti casi posti, riducendoci ai nostri, ci pare poterli determinare molto più precisamente, e che sieno tre soli. — 1.º O le grandi potenze cristiane, lasciando cader l’imperio turco quando che sia, ne raccoglieran le spoglie secondo gl’interessi universali; e la questione così sciolta porterà naturalmente da sè l’inorientarsi d’Austria, l’abbandonar essa l’Italia, il farci quasi dono dell’indipendenza, cioè la più bella e più facile delle occasioni per noi. — 2.º Ovvero le grandi potenze cristiane, pur lasciando cadere quell’Imperio, lo spartiranno tra sè od in frazioni e stati nuovi, con, o senza protettorati, in qualunque guisa, ma senza rispetto agl’interessi, alla spinta, alle necessità della Cristianità; ed allora sarà un lungo fare e disfare, una inevitabil serie di contese, di guerre, di mutazioni, la quale sarà pur serie di occasioni all’Italia. — 3.º Ovvero (che parrà a molti il caso più probabile, perch’è il presente) si continuerà a tener su un imperio fattizio, una rovina, raccogliendone un dì l’uno, un dì l’altro uso, ora una provincia o una colonia di uno stato europeo, ora uno stato sotto tre protettori, ora sotto due, sotto uno, in varie guise, secondo le occasioni; e la serie delle occasioni sarà quindi men buona sì, ma più lunga che mai per l’Italia. — Quale avverrà più probabilmente de’ tre casi? Nol sappiamo e non ce ne curiamo per ora. Uno de’ tre avverrà. La massima di tutte le utopie non è quella della pace perpetua, ma d’una pace perpetua, che offendesse tutti gl’interessi universali, che fermasse tutti gli andamenti della Cristianità. Una pace buona satisfarà anche a noi; una cattiva non durerà; e qualunque guerra grande darà occasioni, non importa quali, quante o quando sien per essere; l’interesse, il dovere di valercene per acquistar l’indipendenza riman lo stesso. Nel primo caso del buono ordinamento della Cristianità, non solamente sarebbe vergogna a noi l’accettare, ma è improbabile che ci si faccia il dono dell’indipendenza, intieramente gratuito ed immeritato. Nel secondo e nel terzo caso delle moltiplici occasioni, niuna di queste rimarrebbe occasione ad oziosi. Dicemmo che Austria è quella la quale può sola spingersi innanzi per posizione, quella che si vuole spingere per l’interesse universale; ma diciam ora ed è chiaro per sè, che è sopratutto interesse italiano. E dicemmo che Austria, lentissima per sè, sarà lentamente spinta da Inghilterra, e più fortemente da Germania e da Francia. Ma diciam ora che può e deve essere spinta principalmente da noi, più interessati che nessuno. A Germania e Francia l’inorientarsi di Austria darebbe accrescimenti, sfoghi commerciali o di popolazione; ma a noi darebbe il bene che li passa tutti, l’indipendenza. E noi siamo poi in tal condizione, che, quantunque minori che non Francia o Germania, noi possiam pur dare ad Austria la spinta maggiore di gran lunga. Alcuni di noi siamo la piaga maggiore che ella abbia in corpo; alcuni altri siamo i più pericolosi vicini di lei. A noi sta farle sentire l’acerbità della piaga, affinchè ella pensi a’ rimedii; farle sentire crescente il pericolo della vicinanza, affinchè ella pensi al proprio trasporto. La corona lombardo-veneta è troppo bella corona, perchè si lasci o si muti volontariamente del tutto; un po’ d’aiuto vi si vuole; un po’ di fatti i quali provino che il cambio non è lasciato a pieno arbitrio di lei; che non si tratta per lei dell’alternativa di tener Po o prender Danubio, ma di prendere o non prendere Danubio, come compenso al Po da perdersi un dì o l’altro ad ogni modo. Austria vive alla giornata, profittando delle occasioni per continuar come sta, perchè sta bene; viviamo se si voglia alla giornata anche noi, ma pur valendoci delle occasioni per mutar ciò che non istà bene per noi. Aspettiamo sì le occasioni con longanimità, ma prendiamole poi con prontezza. Troppe passarono già. Tredici secoli è già durata l’impresa. E i secoli son pur preziosi a una nazione; e se è stoltezza anticiparli, è viltà il perderli. In politica come in guerra, tutto il resto dell’arte è un nulla rimpetto al saper cogliere il tempo. Il quale incominciò dalle prime divisioni fatte, dalle prime spoglie raccolte dell’imperio destinato a riordinare cadendo la Cristianità. La Provvidenza ci fu così propizia che ritardò a nostro pro gli ultimi atti di quella mutazione, che ci concedè nuovo respiro ad apparecchiarci. Ma se continuassimo a rimaner disapparecchiati, disattenti, non curanti, oziosi, allora, vergogna, danno e colpa nostra, si deciderà di noi, senza noi, e contro a noi. I figli nostri malediranno i padri di non aver fatto nulla, non essere stati nulla a’ dì dell’occasioni, che non si ritroveranno più. — Ma speriamo, desideriamo, facciamo che non avvenga così; e veggiam quindi fin d’ora come apparecchiarci alla occasione, che non può non risorgere un dì o l’altro, e può da un giorno all’altro. CAPO DECIMO. COME VI POSSONO AIUTARE I PRINCIPI ITALIANI Iis quidem qui _secundum patientiam boni operis_, gloriam et honorem et _incurruptionem_ quærunt. (Paul. _ad Rom._, I, 47). 1. Qui incomincia adunque la parte pratica dell’assunto nostro; quella perciò in che mi duol più di non aver credito che d’oscuro scrittore su coloro che tengono in mano i nostri destini; quella in che vorrei sapere entrar meglio in lor ragioni, in lor difficoltà, le quali sono gravissime senza dubbio. Ma ei mi par pure che sia toccata loro in tutto una invidiabile opera. Certo, sono al mondo principi più potenti, uomini di stato in situazioni più clamorose, che non i nostri. Ma niuno è che abbia dinanzi a sè un’impresa così grande ed all’ultimo così gloriosa, come quella della indipendenza patria. Passano le conquiste d’una in altra parte, e lodate dagli uni, sogliono essere maledette dagli altri; e le legislazioni stesse mutano progrediendo; ondechè dubbie ed instabili sono quelle glorie de’ conquistatori e de’ legislatori che il nostro Machiavello e tanti altri pongono in cima all’umane. Ma le glorie de’ procacciatori e degli apparecchiatori d’indipendenza sono le più pure, le più sante e le più benedette finchè ella dura; e non che cessare se mai ella cessa, elle soglion ricevere nuovo splendore dai desiderii stessi che allor ritornano di lei, e dagli sforzi per ricuperarla. Ma non dimoriamo in esortazioni, le quali sogliono essere inefficaci su coloro che abbiano il cuore incallito, e inutili a coloro che l’abbiano innalzato dalla pratica de’ pubblici affari. 2. Ed inutili a tutti sarebbero i particolari di ciò che sia da fare quando venisse la grande occasione. Non sapendo nè quando nè come verrà, sarebbe tutto utopia il disegnare fin d’ora confederazioni di due o tre o tutti i principi italiani, od alleanze con gli stranieri, e peggio che mai divisioni da patteggiare prima o dopo l’evento. Io so che siffatti particolari sono i gioielli più cercati ne’ libri politici, dai politici principianti e dilettanti. Ma a costoro, io mi son già forse fermato troppo; e mi vi vorrei fermare meno che mai in questo capitolo, che di natura sua s’indirizza agli uomini di pratica. — Due sole avvertenze generali paiono poter farsi fin d’ora. La prima è di quella moderazione che deve trovar luogo dappertutto, anche in un’impresa d’indipendenza. Il grande scrittore a cui noi facciamo sempre supplemento, e talora opposizione, aspira ad una indipendenza così compiuta d’Italia, che comprenderebbe non solamente la penisola e l’isole presentemente italiane, ma anche la Corsica, che non è tale ora. E certo questa pure sarebbe desiderabile. Ma è ella sperabile? Certo, Corsica fu Italia e vi rimangono italiane la lingua e le schiatte; ed italiana la famiglia stessa di Napoleone. Ma questi appunto fece la patria sua francese irrevocabilmente. È puerilità quella questione posta in termini generali: se Napoleone fosse italiano o francese? Veniamo sempre ai fatti, al senso comune, alla voce universale. Napoleone fu Italiano di schiatta, di sangue, d’ingegno naturale; ma fu Francese di educazione, d’idee, di disegni, di interessi, di vita, di gloria; e, nè i Francesi si lasceranno spogliar mai di questa gloria, nè i Corsi separarsene. E poi, italiane sono pure le lingue e in gran parte le schiatte di Malta, di Fiume, di Spalatro, di Ragusi. E vorremmo noi per questo ambire tutto ciò? Noi miseri, che non possiamo se non da lungi ambire Venezia stessa e Milano? E non solamente ci metteremmo contro, nella grande impresa, Francia ed Inghilterra (quel poco!); ma, che è forse peggio, faremmo impossibile ogni consenso, ogni adattarsi d’Austria ai compensi? pretenderemmo a quelle coste orientali dell’Adriatico, che dan valore a quei compensi, che son quelle che le possono far desiderar le provincie danubiane? Queste sono generose ambizioni senza dubbio, e da piacere al volgo; ma da far sorridere quanti uomini di pratica restin pure da noi. Ondechè questa ci pare di quelle quistioni, che basta esporle chiaramente per torle di mezzo. 3. Ma più importante è forse quest’altra. Quella situazione e quella conformazione ammirabili che fecero l’Italia atta a tante e così varie grandezze lungo i secoli, hanno pure questo grande inconveniente: che v’è naturale e quasi irremediabile la divisione di essa in due parti distinte: l’Italia settentrionale o val di Po sino agli Appennini, e la meridionale al di là. La meridionale, fin da quando ella diede il nome a tutta la penisola, fu anticamente la parte principale, quella che diede la civiltà e la vita alla parte settentrionale, e che per essa le fece passare a tutto il mondo antico, a tutto il moderno e cristiano. Ma ciò è mutato da due o tre secoli in qua: da quando la civiltà è uguale o maggiore fuori che dentro Italia. D’allora in poi crebbe la civiltà, la importanza della parte settentrionale, e come notammo, quella del Piemonte in particolare. Io sono, come s’è veduto già, poco ambizioso di primati. Nè vorrei pretenderne nessuno definitivo per l’Italia settentrionale sulla meridionale. Ma finchè non è compiuta l’impresa d’indipendenza, due primati sono, che non si posson tôrre all’Italia settentrionale: quello dei pericoli, e quello poi degli accrescimenti. Quando e come che sieno per venire le occasioni dell’impresa, questa si farà senza dubbio dalla e nella Italia settentrionale principalmente; e il risultato necessario sarà una riunione di essa, uno inorientarsi, un accrescersi la monarchia di casa Savoia. Ella sola ha i compensi occidentali da dare; ella sola si trova vicina alle province italo-straniere; ella sola può farle diventare italiane, che è la somma dell’impresa. Tantochè è quasi dir lo stesso impresa di indipendenza italiana, o fondazione di un gran regno ligure-lombardo. Parma e Modena tutt’al più potrebbon prender parte a quegli accrescimenti; ma nulla o quasi nulla Toscana, nulla Roma, nulla Napoli. E quindi è forse il pericolo, l’ostacolo maggiore all’unione de’ principi italiani: che i più, non prevedendo aver parte agli acquisti, non prendano interesse nè parte all’impresa, e dimentichino che è impresa non d’acquisti, ma d’indipendenza. — Napoli specialmente è così lontana, che, oltre al non avere speranze di futuri accrescimenti, ella può immaginarsi di non aver nemmeno pericoli dallo straniero. Eppure vegniamo sempre ai fatti. Dal 1814 in qua, Piemonte, così vicino ad ogni straniero, non soffrì se non una occupazione, e Napoli, così lontana, ne soffrì due. E se noi risaliamo più e più su, Piemonte soffrì sì molti passaggi, ma due sole occupazioni lunghe e vere, nel cinquecento e a’ nostri dì, e non mai una mutazione di dinastia; la quale anzi uscì sempre da’ pericoli accresciuta di potenza. Napoli, all’incontro, soffrì mutazioni numerosissime e così durevoli, che diventarono mutazioni dello stato e delle dinastie; Longobardi, Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi, Francesi, Spagnuoli, Austriaci, Borboni. E quindi, se si lascino le apparenze vane de’ luoghi e si guardi alla realità della storia, se anche in politica si segua il metodo comune a tutte le scienze di giudicare dei fatti incogniti da’ cogniti, di trar le regole dagli sperimenti, noi avremo a dire che Napoli e Sicilia sieno quella parte d’Italia che ha più a temere delle invasioni straniere. Nè diremo con parecchi che sia colpa irremediabile del molle clima, delle molli schiatte. No, in nome della patria comune; noi non accettiamo nè per essa intiera nè per niuna parte di lei queste necessità, queste perennità, queste naturalezze d’ozi o di vizi, smentite dalle storie. Il clima di Italia è quello de’ Romani; il clima del Regno è quello in che si fecero famosi in guerra Siculi, Sanniti, Normanni; e se la degenerazione fu più frequente in quella che nell’altre provincie italiane, ella è forse dovuta meno al clima, che a quell’inganno della situazione estrema, il quale le fa parer lontani i pericoli, e inutili le preparazioni a difesa; onde poi le facili, le frequenti invasioni, onde le mutazioni, onde le corruzioni, effetti prima e nuove cause poi. Ma insomma e per qualunque ragione, delle dieci mutazioni portate dagli stranieri all’Italia, otto o nove toccaron sempre a Napoli; ondechè quel popolo e quella dinastia sono di gran lunga i più interessati a tener lontani quegli stranieri, epperciò a veder compiuta l’impresa d’indipendenza; e se non avranno a questa interesse d’accrescimento, essi v’avranno l’interesse maggiore di conservazione e d’assicurazione. — Nè mancherà loro ultimamente l’accrescimento stesso. Quando Italia fosse indipendente, quando avesse satisfatta quella necessità a che ella deve attendere tutta intiera prima che a niun’altra, sorgeranno per l’Italia quell’altre dell’estendersi, dell’inorientarsi o immeridionarsi, che sono sentite da tutte le nazioni cristiane. Ed allora Napoli, se avrà saputo far bene l’ufficio di potenza seconda nell’impresa di indipendenza, sarà chiamata all’ufficio di potenza prima nell’impresa di estensione. Sarà a Tunisi, a Tripoli, o in qualche isola o parte di continente orientale? Non importa; sarebbe puerilità cercarne ora. Per qualunque scalo, in qualunque modo, Napoli è destinata a diventar l’anello di congiunzione dell’Italia colla Cristianità orientale, ed aver quindi i maggiori profitti ultimi; ma a condizione d’essere stata disinteressata ne’ primi, generosamente operosa nell’acquisto fondamentale. Noi accennammo che l’impresa d’indipendenza non vuol esser guastata da niuna di libertà interna; ma aggiugniam qui, da niun’altra nemmeno. Una sola conquista è in somma necessaria; la conquista delle provincie straniere. A chiunque venga il profitto apparente, quello effettivo sarà di tutti i principi, di tutti i popoli italiani. — E se taluno mi dicesse che io mi scopro Piemontese parlando così, io risponderò che poco importa pur ciò. Que’ nostri compatriotti meridionali, qualunque difetto abbiano, non han certo quello del poco ingegno. E gli uomini ingegnosi, non solamente soglion intendere ed apprezzar le ragioni onde ch’elle vengano, senza tener conto della poca autorità di chi le espone; ma non sogliono nemmeno aspettar che sieno loro esposte, le trovano da sè. La filosofia storica è colà sul terreno suo nativo; ed ella serve, quand’è buona, ad intendere non che il passato, pur l’avvenire; e ad apparecchiarlo. 4. Ma Napoli e Toscana non potrebbero esse pure aver subito lor profitti, prendendoli sulle provincie adriatiche del papa? e queste provincie, che sono elle insomma se non un’appendice quasi innaturalmente congiunta con Roma? E concedendo la convenienza e la necessità che il papa per essere indipendente sia signor temporale della sedia sua, queste provincie non son elle inutili a tale indipendenza? e non mostrarono elle più volte già il loro desiderio di non rimaner papaline? E quindi in un riordinamento definitivo d’Italia non sarebbe egli desiderabile di scioglierle in qualunque modo dal giogo ingrato? E se il papa non le vorrà sciogliere, non sarà egli il vero e grande ostacolo di qualunque buono ordinamento futuro? come il furono i predecessori? — Ma, rispondiam noi, se così fu, se i papi furono o posson essere ostacolo, togliam dunque di mezzo l’ostacolo, ma togliamolo nel modo che è più facile. E non dunque togliendo il papa, che non si può tôrre, nè interessandolo contro al buono ordinamento; ma anzi interessandolo ad esso, facendo che egli pure vi trovi il vantaggio massimo ed universale dell’indipendenza, e non vi trovi lo svantaggio particolare, materiale e per così dire palpabile della diminuzione di stato. Se non fosse della solita ragione di brevità, io m’impegnerei a mostrare che l’indipendenza d’Italia dovette ai papi più beni che mali; più spinte che ostacoli, più comodi che incomodi; ma pogniamo che, pieni di pregiudizi storici guelfi, io e i miei simili o i dappiù di me, un Manzoni, un Troya, un Gioberti, c’inganniamo del tutto; pogniamo che, rifatto bene il conto ai papi da Gregorio Magno a Gregorio XVI, s’abbiano a dire essi definitivamente inconvenienti; essi resterebbono pure inconvenienti terribilmente antichi, terribilmente radicati da XII secoli, e che bisognerebbe quindi dire irremovibili, e che sarebbe utopia il voler rimuovere, e che è necessità, trista o lieta non importa, di sapervi adattare i nostri disegni. — Ancora, che sia necessità non trista, ma lieta necessità che si congiunge con tutti i destini più lieti, più grandi della nostra patria; che l’Italia, prescelta a sedia del capo, a centro della cristianità, sia interessata non solamente alla indipendenza, ma alla dignità, allo splendore, alla potenza di quel capo; che non solamente l’albergarlo, ma il difenderlo e glorificarlo sia il gran destino d’Italia ne’ secoli futuri, tutto ciò è così ben esposto non solo nell’ultima, ma anche nell’altre opere di Gioberti, e queste opere hanno e sono per aver tal popolarità (dico il popolo de’ colti e sordi) in Italia, che sarebbe stoltezza in me il volervi aggiungere nulla. E s’io ne detrassi anzi alcun che, se dissi prematura la quistione della presidenza del papa in una confederazione italiana, ed esagerata l’idea del primato così assoluto, così quasi universale come sembra sperato dal Gioberti, io pur ammetto un primato speciale presente e futuro d’Italia; il primato che le viene, e non le si può tôrre, dall’essere albergatrice, circondatrice e difenditrice della sedia pontificale. Questo primato non implica tutti gli altri, anzi ammette che ognuno degli altri sia tenuto dall’una o l’altra nazione cristiana. La sola differenza (se forse io non mi inganni, ed anche egli non l’intenda così) che è qui tra Gioberti e me, è che egli spera un primato italiano universale o quasi universale in ogni cosa, ed io non ne spero e direi quasi non ne desidero se non uno speciale, sperando e desiderando che ogni nazione cristiana n’abbia pur uno speciale suo[30]. E i fatti passati mi paiono confermare questa speranza, dei moltiplici primati. Nell’antichità i primati erano assoluti, universali; perchè la civiltà e la coltura cadendo allora prontamente in ogni nazione, passavano tutt’intiere dall’una all’altra. Ma oramai, la civiltà e la coltura sono comuni a tutta la Cristianità, il vede ognuno; civiltà e coltura si diffondono via via dall’una all’altra nazione cristiana senza che si perdano in nessuna; e quindi i primati si fanno via via meno assoluti, meno universali; ogni nazione serba un brano del primato universale, serba un primato particolare suo. Il primato italiano dalla fine del secolo XI alla fine del XV si accostò ad universalità, perchè fu de’ primi. Ma ei si fecero via via meno universali, e così si fanno e faranno. Forse, conservandosi quello della potenza e delle diffusioni marittime da una nazione che il tiene ora con tanti altri, un’altra nazione cristiana salirà al primato della diffusione asiatica continentale, un’altra a quello della diffusione affricana[31], un’altra a quello della produzione industriale, e chi sa quali altre ai primati variabili delle lettere, delle scienze, delle arti. Ma in mezzo a tutti questi primati speciali, quello d’Italia è più assicurato che niun altro. Vorrebbe ella non tenerne conto? non farlo valere tutto il valor suo? e di ciò che è aiuto o vantaggio suo far impaccio? e non correre ardita tutto il destino suo? od avendone uno bello, grande e naturale, proporsene qualunque altro fattizio, innaturale? — L’arte del governare consistette dal principio del mondo sempre in due parti: conservare e progredire; conservare ciò solo, ma ciò tutto ch’è buono ed opportuno, progredire in tutto il resto, ch’è quindi pur buono ed opportuno a mutare. Quelle nazioni in che la Provvidenza pose due forze, l’una conservatrice, l’altra progreditrice, furono le più grandi, le più utili al genere umano. Le monarchie asiatiche ebbero lor forza progreditrice da principio epperciò crebbero; ma soverchiò in esse la forza conservatrice, epperciò, non bastando questa da sè, caddero tutte, salvo tre, che veggiam languir moribonde; Turchia, Persia e quella Cina ch’è esemplar massimo della conservazione pura. Ma Grecia con la sua forza dorica conservatrice e la ionica progreditrice, e co’ suoi due centri di Sparta ed Atene, fu la gran maestra antica di civiltà e coltura. E tal fu Roma poi colla sua forza conservatrice aristocratica e la sua progreditrice democratica. E tale Italia nel medio evo, colla sua forza conservatrice ghibellina, e la sua progreditrice guelfa. Se non che erano male adattate al loro ufficio queste due; la conservatrice ghibellina perchè straniera, la progreditrice guelfa perchè capitanata dai papi che erano di natura loro men progressivi che conservatori; ondechè ben poterono essere due, tre, dieci papi progressivi finchè ebbero ad ultimar le libertà ecclesiastiche, ma appena ottenutele diventarono troppo conservatori come Innocenzo III durante la minorità di Federico II, ed Alessandro III nei negoziati della tregua di Venezia. E per ciò più che per ogni altra cosa, si arrestò il progresso italiano, e poi cadde. Spagna non aveva forza progreditrice intrinseca, ma solamente una occasionale, la diffusione americana; e passata questa, decadde. Francia fu grande, finchè durò l’equilibrio tra il suo governo monarchico conservatore e l’ingegno eminentemente progressivo della nazione; ma quando soverchiò questo, ella prevaricò, gettò un lampo meraviglioso, e decadde. Inghilterra straziò sè stessa per secoli nella contesa delle due forze; ed equilibratele all’ultimo meravigliosamente, ridottele tutte due a contendere pacificamente, crebbero in un secolo, quasi da nulla a tutto. Ed appunto perchè la contesa si fa ivi sotto gli occhi di tutti, tutti san vedere e dire d’Inghilterra, che la grandezza di lei dura e durerà, secondo che vi si saprà mantener l’equilibrio e non lasciar soverchiar nè l’una nè l’altra forza. Ma il medesimo si può e deve dire di tutte le altre grandezze, sieno esistenti da conservare o cadute da risollevare. E principalmente d’Italia. Nella quale, cadute da gran tempo felicemente le due forze ghibellina e guelfa, i due uffici di progresso e di conservazione finiranno, se Dio voglia, con esser esercitati molto più naturalmente; il progressivo dagli stati secolari e principalmente da Piemonte e Napoli, e il conservatore dai papi. Non bisogna giudicare da ciò che è momento, a ciò che è età vera nella storia. Pare a molti che Piemonte e Napoli progrediscano lentamente, che non facciano guari ufficio di elemento progressivo in Italia. Ma concedendo questo, a chi la colpa? Agli stranieri, che li trattengono. Tolti i quali, non è possibile che Piemonte, così circondato da quanto è più progressivo sul continente, e che Napoli, che si trova in mezzo a tutto il movimento marittimo orientale, non finiscano nel muoversi con animo tanto più pronto quanto meno stanco. E allora gioverà quella forza conservatrice del papa, e gioverà tanto meglio, ch’ella non può all’ultimo esser troppo conservatrice, tratta come è fin d’ora da quella necessità sua ecclesiastica di ammetter come figliuole egualmente tutte le nazioni della Cristianità, in qualunque forma, da qualunque forza governate. — E tutto ciò è futuro molto prevedibile a parer mio. Ma non vuolsi egli ammettere? Sia pure. Allora noi ricadiamo nel presente; e la gran necessità del presente è di non guastare con nessuna inutile difficoltà la già difficile impresa d’indipendenza; di non cacciare fuori di questa e non por contro questa uno de’ principi italiani più potenti territorialmente, quello che è poi il più potente per le due autorità unite in esso; di partire dallo _statu quo_ dell’Italia, per non mutarvi se non ciò che è indispensabile all’impresa[32]. 5. Ma lasciamo tutto ciò che sarà da fare al dì che venga l’occasione, e passiamo a ciò che è da fare fin d’oggi per apparecchiarla e pressarla. Sarà questa, nella parte pratica, la più pratica del nostro discorso. Il primo degli apparecchi è senza dubbio quel dell’armi. Ciò è chiaro agli occhi di tutti; salvi forse alcuni gretti economisti, i quali in Italia, come altrove, si fanno difensori degli _interessi materiali_, in che fanno bene; ma difensori esclusivi, in che fanno male certamente. Costoro soglion guardar quasi con invidia a que’ tanti milioni adoprati intorno agli eserciti, e gridano contro a queste che chiamano _spese improduttive_, e si fanno una dolce utopia dei _disarmamenti_. Ma ei mi pare che incominci a passare quel gergo delle spese improduttive, e s’ammettano oramai, anche dagli economisti più esclusivi, le spese improduttive materialmente, ma moralmente produttive; e che incominci pure ad abbandonarsi quell’utopia del disarmamento, la quale è figlia o sorella di quell’altra della pace perpetua. Ma, lasciando quanto è fuori del fatto nostro, io dico che in Italia, al dì d’oggi, non è spesa così ben fatta, come quella che si fa da due principi italiani per tener su due eserciti nazionali. E non solo perchè sarebbono necessari all’occasione, che sarebbe ragione sufficientissima quantunque lontana[33]; ma per quest’altra presente e non meno importante, che gli eserciti sono uno de’ migliori o forse il miglior modo di conservare ed accrescere l’operosità, d’impedire l’ozio italiano, di salvarci da un nuovo _Seicento_. Eccettuando nelle professioni materiali quella degli agricoltori, e nelle intellettuali il sacerdozio (che non è professione, ma altissimo ufficio umano, e non devesi prendere per fruire la vita terrena, ma per condur sè ed altrui alla ulteriore); di tutte le altre professioni materiali ed intellettuali, la militare è forse la più sana al corpo insieme ed all’animo. Delle professioni industriali è noto che sono quasi tutte mal sane, più o meno sedentarie, più o meno corrompitrici, o almeno indebolitrici. E quindi alcuni anni di milizia sono il miglior rimedio che possa essere a tali vizi corporali ed intellettuali; il solo mezzo di scemarli nelle generazioni presenti, e d’impedirli di passare nelle future. E quanto alle professioni della magistratura, dell’avvocatura, dell’amministrazione pubblica, della diplomazia, delle lettere, delle scienze e delle arti, cioè quanto alle professioni liberali od intellettuali, tutte sono buone e necessarie senza dubbio, e tutte possono essere e sono sovente virtuose; ma tutte esaltando l’intelletto e tenendo in ozio il corpo, sono malsane a questo, e per questo sovente a quello, e così in somma all’uomo intiero, all’uomo qual è quaggiù, anima e corpo. E se taluno pur riesce a non lasciarsi effemminare ed infiacchire da queste occupazioni sedentarie ed ombratili, è caso raro e da lodarsi tanto più, ma è più raro che non si tramandi il vizio alle schiatte; ondechè in somma è interesse nazionale che non si moltiplichino tutte queste professioni oltre il bisogno. E poi, tutte richieggono disposizioni speciali, e facoltà oltre il comune; e coloro che le esercitano senza tali facoltà vi fan più male che bene. E poi, anche quando si lasciassero moltiplicare oltre il bisogno e le convenienze, elle occuperebbero pure un numero relativamente piccolo di persone nello stato. La sola professione militare può tenere operosi i molti e d’ingegno comune. Mirate i paesi dov’ella non è; e senza uscir d’Italia fate il paragone co’ paesi dov’ella è. In quelli, le capitali ed anche le cittaduzze ed i borghi sono ripieni di una classe che si chiama alta, ma non è tale sovente se non come le materie impure che salgono a galla ne’ liquori fermentati; una classe di giovani oziosi e corrompitori, di vecchi oziosi e corrotti, figliuoli cattivi, mariti peggiori e cittadini pessimi. All’incontro, ne’ paesi dove i giovani sono occupati nell’armi, i più colti in quelle che si chiaman dotte, e quasi tutti nell’altre, l’ozio ed il vizio non avendo agio a moltiplicarsi nell’età e nella condizione corruttrici, non ne scendono con tanta forza sull’altre, e vi sono in tutto incomparabilmente più rari. E quindi, persistete voi a tor dieci, venti o cinquanta milioni dal capitolo _guerra_ del bilancio dello stato? Sia pure. Ma riponeteli nel capitolo _pubblica operosità_, dalla quale dipende poi il serbar ciò che ci resta, il riacquistar ciò che ci manca di tutte le virtù nazionali. — Esaminate dunque, correggete, perfezionate gli ordini della milizia, togliete le spese inutili a questa operosità; ma serbate, accrescete questa; lasciate che coloro a’ quali non bastano gli esercizi militari, possan prendere parte alla realità delle belle guerre di diffusione che va facendo da tutte parti la Cristianità; e in nome dell’Italia, benedite insomma que’ principi nostri che ci serban l’armi italiane, e confortate gli altri, quantunque piccoli, ad imitarli. Gli aiuti italiani d’ogni provincia, quando anche non accrescesser molto il numero, la potenza materiale degli eserciti italiani, accrescerebbero molto la loro potenza morale al dì d’adoprarli. Ed intanto negli stati piccoli come ne’ grandi l’esercizio dell’armi serberà più sani i corpi e gli animi di tutti, massime nelle condizioni naturalmente inoperose. Nè dicasi forse ciò che era vero nel secolo scorso, ma sarebbe falso a’ nostri dì: che i militari sogliono essi stessi essere uomini di poca moralità, di molto ozio, viziosi, corrompitori. Per poco che uno abbia atteso, non dico alle scienze militari or così progredite e moltiplici, ma agli esercizi stessi che si fanno in piazza nei paesi militari italiani o non italiani, ognun sa che il mestier dell’armi è tutt’altro oramai, anche in pace, che mestiere ozioso; e che quindi non può esser vizioso. Io non vorrei offendere, di niuna maniera, niuna dell’altre professioni liberali; e meno che niuna quella di scrittore che io sto facendo; ma se proseguissi il paragone, io non potrei se non essere dell’opinione d’alcuni vecchi della operosissima generazione or finiente, i quali avendo avuto in sorte d’esercitar parecchie di quelle professioni insieme od a vicenda, pretendono aver ricevuti incomparabilmente più esempi e conforti di virtù nella militare che non in nessun’altra. 6. Del resto, tuttociò s’applica a quell’altra professione della marineria, la quale, anche la non militare, ha tutti i vantaggi morali, tutta la operosità della milizia terrestre, od anche più. E quindi io non mi fermerò ad essa se non per far osservare, che è gran danno ch’ella non sia promossa al paro della milizia nei due grandi e militari principati italiani, ed anche meno negli altri. Forse, la non buona direzione che fu data alle nostre marinerie fin da’ primi anni dopo le restaurazioni, è quella che, avendole fatte quasi inutili in così poco tempo, le fa ora trascurate. Fin da quegli anni uno de’ primi uomini di mare inglesi, che era pure uno de’ più pratici del Mediterraneo, dava consiglio che le nostre marinerie si componessero principalmente od unicamente di navi piccole atte a costeggiare e correre in tutti gli angoli de’ nostri mari. E nota che non erano allora quasi usate ancora quelle navi a vapore, e non inventate quelle lunghe e grosse artiglierie, che hanno ultimamente dato tanto vantaggio alla marineria numerosa e piccola sulla grossa e rara, per la maggior parte delle operazioni navali nel Mediterraneo; e s’era lontani dagli esempi di Beyruth e di San Giovanni d’Acri; ondechè se il consiglio era buono allora, ei sarebbe ottimo adesso[34]. E tuttavia ei non fu seguito nè allora nè adesso; non allora, per isfiducia, vanità, trascuranza od amor degli usi vecchi; non adesso, perchè i nostri erarii non sono tali da poter rifare una marineria nuova oltre l’antica, come van facendo Inghilterra e Francia. Ma non potrebbesi almeno trarre tutta a noi ed ampliare quella navigazione tra una parte e l’altra della nostra penisola, la quale si fa in parte su navi e da compagnie straniere? Non potrebbero sorgere più compagnie nazionali? O a lor difetto i governi? Certo questa è di quelle industrie le quali si dovrebbon tenere e dire _governative_ o _politiche_, perchè è interesse non solamente economico, ma politico de’ governi che s’esercitino da’ nazionali; ondechè è il caso di promuoverle ed esercitarle i governi a difetto delle compagnie. Ei non si dovrebbe perder di occhio mai a quell’avvenir piuttosto certo che probabile, quando le operosità del commercio, della guerra, delle diffusioni d’ogni sorta, quasi tutte le operosità cristiane ripasseranno per il Mediterraneo, a modo del medio evo. Nel medio evo l’Italia ne aveva il primato, quasi il monopolio. E, poeticamente, oratoriamente, sarebbe più bello dire: riconquistiamolo; ed altri forse il direbbe. Ma io non dico nemmeno: facciamoci eguali a Francia od Inghilterra. Questa eguaglianza potrebbe sì ottenersi un dì; ma ora ne siamo così lontani, che io dirò solamente; prendiamo pure una parte minore, ma notevole e proporzionata. La gran vergogna è non averne quasi nessuna; veder passare e ripassare nuvoli di navi straniere intorno alle nostre marine, noi collocati così favorevolmente in mezzo al mare che fu già tutto nostro, ed or sembra di tutti, fuorchè di noi. Pochi anni sono, quando le navi austriache aiutavano le inglesi sulle coste di Siria a decidere uno degli episodi più importanti della questione orientale, italiane erano per la maggior parte quelle navi, ed italiani que’ marinari. Ma non fu egli vergogna e danno, che non fossero se non sotto bandiera straniera? E senza dubbio, in uno o in altro modo, o tosto o tardi, risorgeranno guerre non dissimili. Non risorgeranno allora navi e marinai italiani a prendervi parte sotto bandiera italiana? Certo, se Napoli e Piemonte, emulando sè stessi, apparecchiassero marinerie come eserciti, e gli altri principi italiani emulassero quei due nell’una e l’altra di quelle forze materiali, il complesso di queste sarebbe tale da pesar gravemente nella decisione di quella gran questione cristiana; e da preponderar poi nella speciale italiana, che ne sarà dipendenza necessaria. 7. Ma passiamo a quelle forze morali le quali all’occasione accrescono le materiali, quasi allo infinito. In quelle è il gran vantaggio de’ principi nazionali sullo straniero. Certo i miei leggitori, certo tutti coloro che volgono l’attenzione a queste speranze, a queste cose italiane, certo tutti i veri Italiani anteporrebbono qualunque anche men buono governo nazionale a qualunque anche ottimo straniero. Ma pur troppo, e già il notammo, sono pure Italiani così avviliti, da non desiderar se non un governo dolce e buono, qualunque sia del resto, onde ch’ei venga. E questi avviliti sono pur troppo tante forze morali ed anche materiali tolte all’Italia, all’occasione, e fin d’ora; e questi sono che vorrebbonsi racquistare, affinchè sorga una vera e grande opinione nazionale; questi che non si possono riconquistare se non facendo i governi italiani incontrastabilmente migliori, più desiderabili e più desiderati che non lo straniero. Niuna nazione è, anche nella presente civiltà e coltura cristiana, che compongasi unicamente di generosi e di colti; in tutte sono molti incapaci, molti ineducati a quel vero amor patrio, che come tutti gli amori vive di sacrifici; e ne sono tanto più nelle nazioni dipendenti. Non è colpa loro non essere stati educati; perdoniamo e cerchiamo educarli quanto sia possibile; epperciò facciamo loro invidiar le condizioni de’ sudditi italiani. — Nè questo è difficile. Io non salirò in cattedra a voler insegnare quella scienza del buon governo, la quale non è recondita oramai, è alla mano di qualunque uomo di sincera volontà. Io suppongo l’una e l’altra ne’ miei leggitori, e vengo al caso speciale nostro. — Il governo buono è facilissimo a’ principi nazionali, in paragone ai signori stranieri, a cui è difficile naturalmente, e può diventar impossibile. Un principe nazionale ha molti timori di meno, che non uno straniero; e i timori sono il vero fonte d’ogni mal governo. Tra un principe nazionale e sua nazione è molta più fiducia, che non tra il principe straniero e la nazione non sua; e la fiducia reciproca è il vero fonte di ogni buon governo. Un principe nazionale non ha bisogno di comprare amici: tutti i sudditi gli sono tali naturalmente; e se mai ha nemici, può largheggiare con essi in clemenza e rifarseli amici, mentre lo straniero non può, o non gli serve. Quest’è la somma di tutto quel libro del _Principe_ di Machiavello, il quale letto o non letto, è naturalmente messo più o meno in pratica sempre da qualunque straniero. Un principe nazionale può andar più ardito perchè quand’anche egli erra, gli errori non gli sono imputati dal popol suo, come sarebbono ad uno straniero. Quando eccedesse in levar eserciti, i soldati che restano nel paese e tornan sovente alle famiglie, vi si adattano facilmente; mentre quelli d’un principe straniero tratti fuori e lontano, gliel perdonano difficilmente. Se il principe nazionale eccede in levar tasse o tributi, spendendoli ei li restituisce al paese, mentre lo straniero portandoli via l’impoverisce. Se il principe nazionale fa scelte buone, egli contenta tutti i sudditi; se erra, malcontenta i migliori, ma contenta pure alcuni, ed è meno danno. Ma il principe straniero malcontenta tutti eleggendo stranieri anche buoni; e potendo difficilmente eleggere nazionali buoni, che non soglion servirlo, malcontenta di nuovo tutti eleggendone de’ cattivi. Se si eccettuino quegli eccessi di tirannia, i quali ondechè vengano sollevan tutti per vero dire, ma che si fanno ogni dì più rari; gli arbitrii stessi di qualunque governo assoluto, ma nazionale, offendon meno e son più rimediabili che gli arbitrii di uno straniero. Nel primo, la vittima dell’arbitrio può trovar almeno ne’ parenti, negli amici, ne’ compatriotti qualche difensore, e quindi qualche giustizia almeno arbitraria; ma ne’ secondi non è nemmeno questo rimedio, questo temperamento. Il quale è quello poi che fa dar nomi di _paterni_ a parecchi governi nazionali; ma inapplicabile il temperamento, inapplicabile è il nome a’ governi stranieri. E in somma non è opera buona che non si conti le cento volte più, non errore che non si conti le cento volte meno in un principe nazionale, che in uno straniero; ondechè di tali differenze farebbesi facilmente un volume speciale; e noi non ci fermerem quindi se non a due o tre delle più importanti. 8. Un gran vantaggio de’ principi nazionali è in quella che dicemmo somma arte del governare in tutte le età, e principalmente nella nostra; l’arte dell’opportuno conservare ed opportuno progredire. Tale arte non può esercitarsi bene mai da niun governo in una provincia straniera; e v’è fittizio e falso il nome stesso di conservatori che vi prendono alcuni. Non sogliono, non possono esservi tali, o se sono, è danno loro. Se conservano le leggi, gli usi, le feste pubbliche, i nomi, la lingua, qualunque cosa patria, ei fanno errore contra sè e contra la propria conservazione; non possono conservare sè e la nazionalità insieme, che sono cose antipatiche; non possono essere sinceri conservatori. Ed all’incontro, qualunque cosa patria sia conservata dal principe nazionale, è tutto vantaggio della nazionalità; ondechè, non è dubbio, ei deve conservare quanto più può, quanto non è utile mutare. — Peggio poi nel progredire. Al principe straniero ogni progresso è tanto più pericoloso, quanto più è buono; al principe nazionale è utile ogni buono. Se io scrivessi di filosofia od anche di politica generale, mi crederei in debito di fermarmi qui a discernere i progressi buoni, indifferenti e cattivi, cioè i progressi veri, quelli che si credon tali e non sono nulla, e quelli che son regressi. Ma lasciando le generalità e non parlando se non di progressi veri, e nemmen di questi non potendo fare un’esposizione o lista compiuta, io mi contenterò di pochi esempi. Pogniamo uno de’ progressi che sembrano potersi fare con più parità dai principi nazionali e dallo straniero, un progresso non più che materiale, l’agevolamento delle vie d’ogni sorta tra l’una e l’altra parte della penisola. L’agevolar siffatte comunicazioni materiali è un agevolar quelle degli ingegni e de’ costumi, un riunirli, un accomunarli in tutta la nazione. Ma la comunanza degli ingegni e de’ costumi non può se non far sentire la comunanza degli interessi, e quindi il pregio della nazionalità e dell’indipendenza; le quali dovendosi proseguire dai principi italiani, ma fuggire dallo straniero, ne resulta che il progresso, così innocuo in apparenza delle comunicazioni materiali, è buono ai primi e nocivo ultimamente al secondo. E così di tutte l’altre comunanze, dei commerci, delle poste, delle monete, dei pesi e misure. E così di quelle leghe doganali che ognuno sa quanto potente strumento di nazionalità elle sieno altrove, e che tali potrebbono essere anche in Italia. Perciocchè in queste non sono le difficoltà della confederazione politica, nè lo straniero le potrebbe impedire ai principi italiani. — I governi italiani dovrebbono capacitarsi di ciò: che quantunque di gran lunga men forti in guerra che non il governo straniero, essi non sono tali, ma puri, finchè duri la pace, e non si sieno legati sotto lui con una confederazione politica. In tempo di pace, nelle condizioni presenti della repubblica cristiana, le dipendenze indeterminate, le preponderanze non dichiarate ne’ trattati, non sono dipendenze nè preponderanze, se non per coloro che se ne lascian fare spauracchio. Riducasi al fatto la superiorità di potenza; è più uomini e più danari; gran superiorità per vero dire in guerra; ma un nulla finchè non si viene a guerra: alla quale poi non si può venire dalla potenza prepotente, finchè la inferiore non fa che porre in opera i diritti della sua indipendenza riconosciuta. Io vorrei vedere qualche gran principe italiano fare per l’indipendenza ciò che fa il famoso cittadino irlandese più veramente per la libertà che per la indipendenza; usare i diritti, tutti i diritti propri fino all’ultimo limite. L’impresa nostra sarebbe tanto più bella, e più universalmente applaudita, che i diritti d’indipendenza sono più larghi e più chiari nella repubblica europea, che non quelli di libertà nello stesso imperio britannico; e, che de’ diritti di libertà interna si disputa e si disputerà finchè sarà mondo, ma dell’indipendenza nazionale, convengon tutti a lodarne la legittimità, la virtù, la santità, il diritto e il dovere di compierla[35]. 9. Un altro gran vantaggio che hanno i principi nazionali sullo straniero è nella protezione delle colture. Perciocchè anche queste giovano all’unione, sono forse il massimo stromento di unione in qualunque nazione di lingua comune e stati diversi; e giovando all’unione, giovano dunque ai principi nazionali, e nocciono agli stranieri. Questi non dovrebbero promuover mai le lettere italiane, e se fosse possibile non dovrebbero soffrirle; ed io mi meraviglio di quel tanto di sofferenza che dan loro. Le lettere anche compresse, anche attuate, censurate od evirate, non possono non mantenere e promuovere la nazionalità. La lingua è segno, suggello principale di essa; la storia anche nuda ne tien vive le memorie; la storia virilmente scritta nota gli errori fatti contr’essa, e ciò che sia da imitare, ciò che da fuggire, ciò che da soffrire per essa; la filosofia storica mostra come nasca, come si perda, come si recuperi; la filosofia generale ne fa veder la virtù, vi conforta la ragione umana; la poesia, le arti vi concitano le passioni; le scienze materiali stesse, a malgrado della loro apparente innocuità, vi contribuiscono di molte maniere, e se non altro coll’accrescimento della gloria nazionale. Niuna coltura è innocua agli stranieri, niuna dunque inutile a’ principi nazionali, niuna non promovibile da essi. — Ma per promuoverle sarebbe prima d’ogni cosa necessario rendersi conto, e compiuto del loro stato presente. E qui è dove fan più danno non solo i lodatori insinceri e prevaricatori, ma gli stessi sinceri esagerati. Con queste lusinghe che ci si danno, con questi paragoni che si fan di noi scrittori italiani con gli stranieri, e si terminano troppo sovente a nostro onore e gloria, non si fa altro che tener nel sonno noi scrittori da una parte, e i governi patrii dall’altra. Le lettere del secolo XIX non han bisogno veramente di quelle protezioni, di que’ mecenati, di quelle pensioni che eran magnificenze e miserie dell’età de’ Medici e di Ludovico XIV. Ma le lettere presenti e future han bisogno di facilità, e, diciam pure la vera parola, di libertà. Ed il lodar esageratamente noi scrittori di quella che usiamo, e i governi di quella che ci danno, è un dire che l’una e l’altra bastano, è un impedire quel progresso dell’una e dell’altra, che gioverebbe a’ nostri principi, e nocerebbe solamente ai nostri stranieri. Non entrerò ne’ particolari della censura preventiva e repressiva; so che l’ultima non può essere se non ne’ governi liberi, perchè il censurar repressivo, cioè ne’ pubblici giudizi, è un ammettere od anzi accrescere quella pubblicità compiuta, che non può essere se non de’ governi liberi. Ma anche nella censura preventiva sono gradi diversissimi di facilità e libertà; e i governi nazionali possono lasciar il massimo, mentre lo straniero non può nemmeno il minimo. Questa virtù, per esempio, ch’io lodo della indipendenza nazionale si può certo, e mi pare si debba lasciar lodare negli stati nazionali; ma non si può nè si debbe tollerare dagli stranieri. Se questi fossero assennati non dovrebbero lasciar lodare niuna virtù; perciocchè tutte, anche le più umili in apparenza, danno forza, e la forza della nazione, sempre utile a’ governi nazionali, è sempre dannosa agli stranieri. — Del resto anche a’ nostri dì, sono uomini di scienze e di lettere o d’arti, a cui è indispensabile una protezione più sostanziale, che non quella della libertà. Coloro a cui l’insegnamento o l’esercizio delle proprie cognizioni sono professione, possono accettar siffatte protezioni senza avvilirsi, se non le accettino con condizioni avvilitrici. E qui pure tutto il vantaggio è de’ principi nazionali. Questi non hanno interesse ad impor di quelle condizioni nè a professori nè a scolari; non hanno interesse a menomare, ma ad accrescer l’insegnamento, a far fiorire gli studi, le università, a spingerle quanto più possano a quel grado a cui son giunte in Germania, e in altri paesi anche non liberi. Quando i principi italiani non si lasciassero far paure inutili, non osterebbe la piccolezza dei loro Stati e la povertà de’ loro erarii. Non son più grandi nè più ricchi parecchi di quei principi tedeschi presso cui splendono università numerose e potenti. E se si riducesse a calcolo ciò che costerebber di più cinque e sei professori de’ primi della penisola, da aggiugnere a quelli di ciascun paese, ei si vedrebbe che basterebbero e soverchierebbero quaranta o cinquantamila lire a dare splendore sommo a qualunque delle nostre università, a qualunque delle capitali letterarie italiane già esistenti. Nè questo tornerebbe solamente a gloria di quel principe o di quella città. Sarebbe gran profitto letterario, ed anche politico. Che se giova alle lettere l’essere coltivate in parecchi luoghi, l’aver parecchi centri, giova lor pure avere un centro principale; nè senza questo elle risplendettero molto mai in niuna nazione. E politicamente poi, se la potenza delle lettere non è da paragonare a quella dell’armi in tempi di guerra, nè a quella dell’istituzioni civili in tempo di pace, non è dubbio ch’ella è la principale dopo quelle due, che è il più gran supplemento a tutte e due. I poveri letterati sogliono essere la ricchezza più a buon prezzo, e nelle condizioni presenti della Italia sarebber forse la più profittevole di tutte ad un principe italiano. Certo, il fare è più che dire; certo, le virtù civili, politiche e militari son dappiù che non le letterarie; ma finchè non si possono bene esercitar quelle, son da pregiare e promuover queste pure, che possono ridestar quelle. Un principe italiano che sapesse far di sua capitale la capitale della coltura, darebbe un centro all’opinione italiana; e da quel centro la moverebbe poi facilmente. Prussia ebbe tal arte in Germania. 10. Ma tutto ciò è un nulla, rispetto agli ordini propriamente detti del governo. Qui è il massimo fra’ grandi vantaggi de’ principi nazionali sullo straniero. Qui i primi possono tutto, qui lo straniero non può nulla, senza pericolo. Io non mi ricordo più chi abbia inventato quel nome di _governi consultativi_, che è usato poi dal Gioberti, per accennare i nostri governi, e distinguerli di qua e di là dai veramente assoluti e dai deliberativi. Ad ogni modo è nome molto bene inventato ed usato, se si dia non solamente ai governi italiani presenti, ma ancora ad altri simili e stranieri e più antichi, a quasi tutti in generale i governi cristiani europei, come uscirono di mezzo al disordine feudale. In tutti, la potenza suprema fu temperata da consigli più o men bene ordinati, più o meno indipendenti; e questi furono che distinsero quasi tutte le monarchie europee e cristiane da quasi tutti i dispotismi orientali; molto meglio, che non que’ due principii dell’onore e del timore, troppo leggermente o forse non sinceramente predicati dall’altronde grande Montesquieu. I governi consultativi che rimangono in Italia, in Austria ed in Prussia, sono più o meno reliquie di quelli che esistevano già dappertutto; benchè quello dell’ultima sia forse anche passaggio al deliberativo. — Ma che che s’abbia a pensare dell’opportunità e della durevolezza di tali governi, non è dubbio ch’ei possono essere molto più buoni e più sinceri sotto i principi nazionali, che non sotto allo straniero. Sotto i primi, i consiglieri possono essere di buona fede, il principe li può ascoltar con fiducia; perciocchè l’interesse degli uni e dell’altro è quello d’un medesimo stato. Ma i consiglieri d’un principe straniero, o sono stranieri ancor’essi ed allora hanno col principe un interesse contrario a quello della provincia governata, in parecchie questioni importanti, o almeno in quella importantissima dell’indipendenza; ondechè nè sono veri consiglieri di tutto lo stato, nè temperamento del vizio massimo delle diverse nazionalità. Ovvero ei sono nazionali nostri, ed allora io domanderei loro: a chi attendono, a chi mirano, a chi servono? Al principe, cui han fatto giuramento? o alla patria, cui sono astretti senza giuramento? Alla fedeltà contratta, od alla naturale? Come si salvano dalla doppiezza? Come dallo scrupolo, dalla vergogna, dal delitto di tradimento, inevitabile dall’una parte o dall’altra? E il principe crederà egli a tali consiglieri, che nol possono consigliare se non eleggendo fra due tradimenti, che nol consiglierebbono se fosser uomini semplici e retti? E così è che un governo consultativo a casa propria non rimane sinceramente tale in casa d’altri; è insincero ed assoluto in Italia. — All’incontro, i principi nazionali possono non solo avere consigli veri, ma estenderne l’importanza. Io so d’un principe italiano al quale, salito al trono, furono proposte varie forme di consigli; ed egli, lasciate tutte quelle, ne imaginò una nuova e bellissima, una che io direi la forma più perfetta del governo consultativo, quella che più s’accosta ai vantaggi, quali che sieno, de’ governi deliberativi. Sarebbe questa forma novissima consistita di consiglieri perpetui e quasi centrali, e consiglieri annui e provinciali. I quali gli uni e gli altri sarebbero stati (certo senza pericoli) promovitori di quelle due forze indispensabili ad ogni governo, la conservatrice e la progressiva. Ed avrebbero poi tenuto conto opportuno degli interessi universali dello stato e dei particolari delle provincie; molto meglio forse che non i consigli provinciali prussiani. Dalla potenza dei quali, più o men buona colà, Dio voglia salvar l’Italia. Chè le provincie italiane non han bisogno d’essere disgiunte, ma unite; l’unione delle provincie in ciascuno dei principati italiani, è l’interesse, il rimedio, la speranza d’Italia dipendente, intanto che sien possibili le riunioni degli stati nell’Italia indipendente. 11. Ma procediamo, e cerchiamo tutto quanto possa esser pericolo dello straniero, epperciò vantaggio de’ principi nostri, cerchiamo se tal potrebbe essere un governo anche più largo o deliberativo. Nè perdiamoci tuttavia a discutere in teoria la bontà più o men grande, o le forme diverse di questi governi, quali si trovano in parecchie monarchie europee. Anni sono, portavasi a cielo or l’una, or l’altra forma, e predicavasi ciascuna, quasi panacea universale, libertà somma. Ora s’è passato all’eccesso opposto; si dispregiano da alcuni, quasi illusorie ed insufficienti tutte. Forse non si scosterebbe dal segno chi dicesse: essenza di que’ governi, la pubblicità; e dovunque sia questa, essere a’ nostri dì libertà sufficiente. E quindi ai più sperimentati, le forme varie sembrano ora meno importanti che non parvero già; e il più importante essere il non mutarne sovente, il fuggire le rivoluzioni. Ad ogni modo e tenendoci all’Italia, non è dubbio, benchè non abbastanza noto, che vi sono pur troppo, molto sparsi ancora (come erano altrove pochi anni fa) que’ desiderii di libertà. Pur troppo dico, anche de’ desiderii moderati; perchè io vorrei, non rimanesse luogo a niun desiderio se non a quello d’indipendenza; perchè nelle nazioni come in ogni uomo, due desiderii son men forti che uno, e l’uno guasta l’altro, e rimangono per lo più ineffettuati ambedue. Pur troppo sopra tutto, se questi desiderii si proseguano o senza o contra i principi; perchè allora sono disunioni, e non unioni, rischi presenti per eventualità future, pericoli e vantaggi a rovescio di quelli che cerchiano noi, pericolo a noi, vantaggio allo straniero, regresso, e non progresso verso lo scopo grande. Di che vidersi da poco più che venti anni in qua due esempi molto diversi: uno men cattivo, in cui speravasi la libertà vegnente dai principi, o tutt’al più senza i principi; ed uno peggiore, in che sperossi contra; e tuttavia tutti e due terminarono con invasioni d’uno ed anche due stranieri, con diminuzioni d’indipendenza. — Che le grandi mutazioni dello stato si faccian male e con pericolo dai molti, e sia necessario rimettersene ai pochi, anche quando non è il pericolo dello straniero, fu saputo molto bene da quegli antichi, anche repubblicani democratici, i quali quando avevano a mutare lo stato il mettevano in mano di pochi o d’un solo, un Licurgo, un Solone, i decemviri, un dittatore. E seppelo, e notollo Machiavello. E sel sapevano gl’Italiani del medio evo, i quali pure a pochi o ad uno davan balia per le mutazioni. Ondechè si vede che fu vera invenzione retrograda, quella moderna delle assemblee costituenti o _convenzioni_, che ognuno vide poi a quali e quanto lunghi turbamenti riuscissero, massime ne’ paesi dove la impresa di libertà si complicò con quella d’indipendenza, come in Ispagna. E quindi io non posso se non tornare a quell’esempio tanto più bello, di che già accennai; a quegli Irlandesi i quali nella loro impresa, comunque chiamisi e sia di libertà o d’indipendenza, si sono fatti quasi un dittatore od un principe, e ne seguono i cenni, a lui se ne rimettono, intorno a lui si serbano unanimi epperciò forti, con sapienza che è insieme veramente antica e cristiana. Ciò che fa la forza (innegabile ora, a che che ella riesca) della impresa irlandese, è la perfetta legalità con cui si prosegue da quella nazione, da quel dittatore uniti. Ciò che può fare la forza dell’impresa nostra è quella simile o maggior legalità, la quale possiamo aver senz’essi. E non dicasi che i ribelli fortunati fanno poi nuovi diritti, nuove legalità. È vero, ma a carico d’esser fortunati. Se nol sono, e finchè nol sono, son ribelli, han contro a sè tutti i migliori, nazionali o stranieri. Chi, all’incontro, segue il diritto presente, la legalità, la legittimità (tutti sinonimi) in una impresa buona ha buoni dunque il fine e i mezzi; ha per sè la propria coscienza, la propria alacrità, che è gran forza; ha tutti i buoni, ha la pubblica opinione, che è forza grandissima; ha il tempo, non dipende dalla fortuna, può aspettarla, che è la maggior delle forze in una lunga impresa. Io non saprei augurar maggior ventura, maggior forza o virtù alla patria mia. — Ma ridotta così ai principi la decisione del passare o no a un governo deliberativo, sarebbe egli utile passarvi? Parliamo schietto: anche presa dai principi può esser decisione piena di pericoli, feconda di disunioni, distraente dall’impresa d’indipendenza, nociva dunque. Le assemblee deliberative o parlamenti vivono delle opinioni diverse e divise. Queste sono loro essenza. E se è così nei parlamenti vecchi, nelle nazioni educatevi e sperimentatevi, tanto più nelle ineducate e nuove. Francia e Spagna ne han dati esempi numerosi e terribili; senza contar i pochi e piccoli italiani. La virtù prima di que’ governi è la sodezza; virtù seconda, la tolleranza reciproca. Sono elle virtù nostre? — Ma, dicesi, se nol sono, diventerebbono. Sta bene; ma intanto? Durante l’impresa d’indipendenza, tanto più importante? — Ma, dicesi ancora, vi si potrebbe educar la nazione nelle assemblee consultative. Sta benissimo; ma questo apparecchio riconduce di natura sua ad aspettar tutto dal principe; posciachè dal principe dipende, nel principe si concentra qualunque governo consultativo, ed al principe lascerebbe la decisione dell’opportunità e del modo di passare al governo deliberativo. — E so che può parer noioso agli affrettati. Ma che farvi? Sia inconveniente; è necessità. Chi non è lunganime, rinunci alla pratica, ai pensieri stessi di politica. Chi non voglia ammettere il tempo in qualunque calcolo, non faccia calcoli. Chi ha fretta, tenga pure sè stesso incapace di quella libertà che desidera. 12. Ma, posta la mutazione fatta da qualche principe italiano, forte d’animo esso, forte della fede antica e provata de’ suoi popoli, forte degli apparecchi legislativi, e dello sperimento del governo consultativo; e postala fatta a tempo, fatta bene, fatta felicemente; non è dubbio che quel principe avrebbe messo mano al massimo strumento di popolarità e di unione italiana; non è dubbio che sarebbe da quel dì incomparabilmente accresciuto il pericolo, inasprita la piaga, incominciata a sonar l’agonia dello straniero in Italia. Consideriamo posatamente le conseguenze varie che glie ne verrebbero. — O non vorrebbe egli soffrire novità, e ne farebbe lamenti, gride, negoziati, minaccie. Ma a tuttociò sarebbe facile rispondersi dal principe italiano allo straniero: io son sovrano quanto te, e fo quel che mi pare a casa mia. — Se allora a tal risposta si rompessero negoziati, si ritirassero ambasciadori di qua, si ritirerebbero ambasciadori di là, e si vivrebbe senza. Ei s’è veduto ch’io non sono per la politica dell’isolarsi, non credo che vi si abbia a ricorrere spontaneamente; ma, se venga dagli altri, l’isolamento è forse meno a lamentarsi nelle potenze piccole, già quasi isolate dalla diplomazia or corrente in Europa. Ognuno sa d’un piccolissimo principe italiano, il quale da 13 anni in qua s’è isolato da tutta la politica europea, e non glie n’è pur occorso nessun male. Ondechè ciò che quello fece per una ragione, si potrebbe fare da altri per una tutto diversa, pur senza pericolo. E ad ogni modo l’isolamento di che parliamo sarebbe tutt’altro che compiuto, si ridurrebbe ad una o due potenze, e sarebbe compensato dal riaccostamento ad una o due altre. E farebbesi guerra per ciò? Non è probabile di niuna maniera. Non si fa guerra oramai con un torto così evidente, come sarebbe quello d’una potenza che volesse impedir un’altra, sovrana com’essa, di far da sovrana in casa propria. Contro a tal potenza si solleverebbero tutte le opinioni di tutta Europa, i biasimi di tutte le parti, le armi di tutte le potenze interessate a mantener l’indipendenza italiana, almeno qual è, od anzi di tutte le interessate a mantener la compiuta sovranità degli stati sovrani. E se la guerra si facesse poi con tanto torto, con tanti biasimi e tanti avversari da una parte, tanto diritto, tanti voti e tanti aiuti probabili dall’altra, facessesi pur quando che sia; chè non sarebbe Italiano, suddito o non suddito, il quale ricusasse morirvi e mandarvi a morire tutti i figliuoli per il principe liberatore, nè sarebbe dubbia la riuscita d’una tal guerra nazionale. — Ma la probabilità, di gran lunga maggiore, è che non si farebbe; che dopo gli scritti e i fatti diplomatici, anche lo straniero tollererebbe ciò che non potrebbe impedire. E ciò sarebbe poi ad ogni modo il principio del fine suo. Perciocchè, od imiterebbe o non imiterebbe la mutazione. Ma l’imitarla sarebbe per lui pazzia; chè se i governi deliberativi fanno troppa paura a’ principi nazionali, ei non ne possono far troppa mai ad uno straniero. Ei non è forse se non un esempio di un governo deliberativo durato senza grandi pericoli sotto un principe straniero; Ungheria sotto casa d’Austria. Ma la sede di questa è così vicina, che si può dire addentro all’Ungheria; e si aggiunge ora l’antichità del fatto, che porta rimedio a tutto. Ma credere che durasse non dico secoli, ma nemmen dieci anni casa d’Austria in Lombardia con un governo deliberativo, sarebbe stoltezza che non può venir in mente a quel governo prudentissimo, e che se venisse produrrebbe il suo effetto naturale. La più probabile è dunque l’ultima supposizione, che lo straniero non imiterebbe l’esempio italiano; che, vedendo di non poter risanare, si ridurrebbe a prolungare la vita sua presso a noi. Ma questa sarebbe breve allora, colla vicinanza d’un governo nazionale, che tirasse a sè l’attenzione e i voti di tutti gl’Italiani, che facesse invidiare ai sudditi stranieri quella libertà e quell’operosità che vi sarebbero naturali; che alzasse una di quelle tribune, una di quelle pubblicità, una di quelle opinioni universali contro a cui non può resistere niuna grande ingiustizia, e men di tutte la massima di tutte, la dominazione straniera. E ciò sa, ciò sente lo straniero. Epperciò è così risoluto, così acre contro questo suo pericolo sommo; perciò usa tutta la sua prepotenza sui principi italiani per impedir loro di apparecchiarsi, di lasciarci sperare o parlare; perciò in parecchi casi particolari gli astrinse di promesse. Ma siffatte promesse non possono averli obbligati, sempre, per tutti i casi; non possono aver distrutti gli inalienabili diritti di lor sovranità; non possono aver ridotta questa a vassallaggio feudale, imponendole una condizione perpetua; non possono reggere contro al diritto di piena potenza di essi universalmente statuito e riconosciuto. Fra due diritti o doveri ripugnanti ma egualmente riconosciuti, il massimo distrugge il minimo. Un principe riconosciuto sovrano da un altro, non può esser astretto a non fare nell’interno dello stato suo, nell’esercizio della sovranità sua, ciò che creda utile al popol suo. È finita l’impostura del sacro Imperio romano; è finita la feudalità; son finite le graduazioni di sovranità. 13. Ma di nuovo, ed in generale, di tutto ciò che trattammo nel presente capitolo de’ principi, lascinsi giudici i principi soli. Io son per dire di ciò che possano gl’Italiani non principi; ma io volli dir fin d’ora ciò che non possano e non debbano, per distinguer subito i diritti d’ognuno, que’ diritti esistenti, da cui è dovere d’ogni uomo retto partir sempre, e dovere più speciale degli amici di libertà, la quale insomma non è altro che rispetto ai diritti[36]. — Per poco che facciano i principi nostri, se facciano un passo di più che lo straniero nella via de’ progressi veri, materiali, intellettuali, di governo consultativo, deliberativo o che che sia, essi sono sulla buona via, sono anzi al lor posto nella buona via. Ma quel posto all’innanzi, quel passo di più è l’essenziale; per poco che sia in apparenza, egli è molto, egli è tutto in conseguenza. O lo straniero si fermerà in quella situazione inferiore, e sarà continuo svantaggio a lui, continuo vantaggio a noi; ovvero vorrà far egli un passo ulteriore, ed allora, purchè facendone un altro, noi serbiamo il posto, ei si può condurre a quello che per lui è precipizio. In ciò sta tutt’intiero il pensier mio. Il quale, ben so che ad alcuni parrà troppo ardito, ed a molti all’incontro troppo timido. Ma io non sono senza speranza che possa parer moderato e giusto a coloro che, senza debolezza, doppiezza, nè dubbiezza, sieno moderati e giusti essi stessi. E se paresse ad alcuni che queste sarebbono state cose da dirsi sommessamente all’orecchio di qualche principe italiano, anzichè pubblicamente, io risponderei: che se le avessi credute cattive, io non le avrei volute dire di niuna maniera; e se buone e da restar segrete, non le avrei dette nemmeno, non avendo orecchio di principe a cui dirle così. Ma io credo anzi, che questi segretumi, questi misteri politici sien cose vecchie, e da sorriderne ai tempi presenti. Ora è il tempo delle arti aperte, delle politiche schiette, pubbliche, forti. Tal credo questa, e perciò l’esposi, che è poco merito. Il vero e solo merito, il merito della fortezza, sarà di colui, nato o da nascere, che ponga in opera ciò che è facile vedersi e dirsi, ed è oramai veduto e detto da moltissimi. Perciocchè anche in Italia, grazie al Cielo, sta crescendo questa somma fra le virtù politiche, la forte moderazione. CAPO UNDECIMO. COME VI POSSONO AIUTARE TUTTI GL’ITALIANI Iis quidem qui _secundum patientiam boni operis_, gloriam et honorem et _incorruptionem_ quærunt. (Paul. _ad Rom._, II, 7). 1. Noi abbiamo fatta parte grossa a’ nostri principi nell’impresa d’indipendenza, per una buona ragione: che essi hanno una parte più che grossa, hanno tutta la potenza de’ nostri stati. Coloro che pretendono escludere i principi dalle speranze, dai disegni nazionali italiani, sono come certi storici, i quali, noiati, dicono, che la storia moderna sia stata ridotta troppo sovente a’ principi, affettano l’eccesso opposto di scrivere quella de’ popoli soli; quasi le azioni degli uni e degli altri si potessero disgiungere, quasi fosser fattibili due storie distinte, quasi fosse negabile la parte maggiore della storia a coloro che ebbero la parte maggiore dell’opere. Ma costoro poi, o non tengono la promessa e fanno storie poco dissimili da tutte l’altre, ovvero le fanno così spoglie di fatti, così piene di generalità che non sono più storie, e ritraggono peggio che mai la vita de’ popoli stessi. E come la vita passata, così è poi la vita futura di questi; non vi si possono considerar soli i principi, nè soli i popoli in qualunque luogo ove sia principe; ma men che mai dove, piaccia o non piaccia, sia bene o male, il fatto onde è forza partire, il fatto presente è, che i principi hanno tutta la potenza. — Nè perciò resta piccola la parte di tutti gli altri. Non ci è pericolo; non resta piccola per questa medesima ragione, che le azioni de’ principi, appena passano dal disegno al fatto, diventano azioni della nazione; che se i popoli non possono nulla senza i principi, i principi non posson nulla senza i popoli, non sono principi se non perchè fanno operar popoli; che è una corrispondenza, una vicenda, un circolo or vizioso, or virtuoso, ma continuo di opinioni, di azioni dagli uni agli altri, il quale non si può interrompere per niun disprezzo, niun pregiudizio di qua, niuno di là. In qualunque stato, ogni uomo ha pure in fatto e in diritto una qualunque operosità. La quale se si volga a buon fine, ma oltre ai propri diritti, oltre alla propria natura, guasta il fine, fa più mal che bene, produce contrasti e disunioni. Se poi si volga da ciascuno, secondo buon diritto, a buon fine, diventa operosità buona di tutti, diventa operosità, moto, forza nazionale irresistibile. L’Italia ha per le mani un’impresa indubitabilmente giusta nel fine; aggiungiamovi una indubitabil giustizia di mezzi, e non dubitiamo allora della buona riuscita. Le due giustizie unite sogliono ottener questa dalla Providenza più sovente che non si crede anche negli affari privati, ma più sovente, ed io crederei sempre, nelle imprese di molti, nelle imprese nazionali. 2. La operosità, la vita d’ogni uomo sarà considerata da noi o come pubblica, o come sacerdotale, o come letteraria, o come privata. 3. La vita pubblica italiana si riduce a quella de’ ministri o consiglieri maggiori o minori dei principi. Da noi il principe essendo lo stato, non vi possono essere servitori dell’uno e servitori dell’altro. È bene o male? Così è; e chi vuol far la distinzione, fa sogni e non realtà, e guasta tutto. Ei sono alcuni che, prendendo nelle gazzette di fuori quelle gelosie, que’ disprezzi che i consiglieri della nazione (cioè gli oratori dei parlamenti) muovono contro ai consiglieri della corona, le applicano poi a’ consiglieri che qui sono necessariamente della corona e dello stato e della nazione tutt’insieme. E quindi viene una affettazione d’indipendenza personale, una condanna dell’ambizione governativa, che può stare in que’ paesi dove si può servire politicamente la nazione senza il principe; ma che è molto risibile e dannosa dove, non potendosi far tal distinzione in realtà, tutto quello che è di buono e di bello nel desiderio di servir lo stato può essere nel desiderio di servire il principe. Quella sì, che è idea straniera da non prendersi, nel caso nostro. Hai tu, credi tu avere indipendente, generoso, forte animo in te? Servi il principe, o lo stato, o la nazione, come vorrai dire, che è tutt’uno. Non s’adonta altrove nessuno di servire la nazione. Non è ragione di adontarsene qui. Non è onta, fuorchè nel modo, qui come là; e qui come là vi può essere, vi è indipendenza. Qui come là questa vuole essere duplice: indipendenza dagli errori del popolo e da quelli del principe; e la sola differenza è che là è forse più difficile l’una, qui l’altra. Ma ad un animo veramente indipendente, importan poco le varietà di difficoltà; ei sa vincere l’una e l’altra o le due insieme del paro. — Niun principe, per assoluto che egli sia, non può saper nè fare tutto da sè; e quindi niuno nega aver consiglieri e ministri. La differenza tra il principe assoluto e il principe in governo consultativo, e il principe in governo deliberativo, è che il primo prende consigli senza niuna regola da chi gli capita in mente ogni volta, il secondo da consiglieri ordinati ed eletti da sè, il terzo da questi consiglieri propri, e da altri ordinati ed eletti dal popolo. E la differenza è grande senza dubbio, perchè i consigli dati dagli eletti dal popolo diventano poco men che obblighi al principe ed a’ consiglieri di lui. Ma in somma quanto più un principe è assoluto, tanti più uffici sono raccolti nei consiglieri di lui; e così tanti più doveri. Essi da una parte soli esecutori, soli interpreti, sola coscienza delle volontà del principe, che rappresenta qui la volontà nazionale; e dall’altra, essi soli interpreti de’ bisogni, de’ desiderii della nazione appresso alla volontà del principe. Essi, se non sola, certo la più breve via della pubblica opinione; essi, soli oratori nazionali. Essi, solo anello di quell’unione tra principi e popolo, la quale, utile e desiderabile dappertutto, è indispensabile ad una nazione che stia in presenza d’uno straniero, e più ad una che intenda liberarsene. — Del resto, detto così della importanza e dignità de’ servitori de’ nostri principi, contro all’opinione di coloro che non si contentano di giudicarne le azioni, ma ne dispregiano stoltissimamente l’ufficio, perchè non risplende come in altri paesi pubblicamente (mancanza di incoraggiamenti, che accresce anzi il merito di coloro che sappiano esser buoni così); io non mi fermerò a ciò che possano eglino fare in particolare, per la indipendenza. Prima, perchè naturalmente essi possono, ciascuno nel proprio ufficio, tutto ciò che dicemmo potersi dai principi, ch’essi servono ed informano in tutto. Poi quanto ai particolari ulteriori, perchè, oltre all’essere questi infiniti e fuor di luogo qui, essi non sarebbero probabilmente attesi da coloro a cui si rivolgessero. I ministri, talora i maggiori, ma più i minori ed i minimi soglion esser gelosi di tali particolari, che sono opera loro, molto più che non sogliano i principi delle opere loro più grandi. I principi, avvezzi a farsi dar cooperazioni e consigli da alcuni, non si offendono che sien lor dati da altri; come se n’offendon coloro che, quanto più scendono, tanto più sono avvezzi a far tutto l’ufficio proprio da sè. E i principi hanno più pratica, più amore a quei grandi interessi di che parliamo; i quali all’incontro sono talor disprezzati da coloro che sogliono versar tutta la vita tra le minuzie, e le chiamano soli affari del mondo. E i principi, posti sopra a tutte le condizioni de’ loro sudditi, non hanno interesse poi a mantenere viva quella distinzione, che è gloria, diletto e talor sicurezza di alcuni uomini di piccoli affari, la distinzione tra la pratica e la teorica, tra la potenza e la scienza, tra la capacità di operare e quella di pensare. — Nè saremo noi così illiberali. Noi ammettiamo con piacere che parecchi Italiani sanno innalzarsi dal merito di semplici amministratori a quello di veri uomini di stato, dalla pratica vagante degli affari pubblici ad ogni buono ed alto scopo di essi, dalle preoccupazioni quotidiane a quelle cure del futuro, che sono comuni oramai a principi, uomini di stato ed anche scrittori di qualche polso, o piuttosto a tutte le persone educate e generose. Ed a questi veri uomini di stato italiani si rivolgono, dopo i principi, le nostre maggiori speranze; a questi i nostri detti, i nostri desiderii di saperli persuadere. 4. Ma passiamo da coloro che servono i principi nazionali, a quelli che sono così infelici da servire lo straniero. De’ maggiori fra’ quali già dicemmo non esser possibile nè che il principe abbia fede in essi, nè che essi la serbino insieme al principe e alla patria. Qui è tutto a rovescio che negli stati italiani, dove i doveri non fanno se non uno, e chi serve bene al principe serve bene allo stato, all’Italia intiera. Qui son due doveri diversi, opposti, inconciliabili. Chi si voglia mettere a tal conciliazione vi perderà o la pace o la integrità di sua coscienza; vivrà combattendola, finchè non l’abbia fatta tacere; miserando dapprima, più miserando in appresso. — Ma io crederei che sia molto diverso il caso de’ ministri minori, di tutti quelli a cui il piccolo impiego è professione importante ad essi, ma non alla patria. Questi non fan guari nè bene nè male, seguendo una professione che non ha potenza sui destini della patria, ma tutt’al più su una provincia; la quale è poi interesse della patria sia bene amministrata, si serbi quanto più prospera per il dì che diventerà provincia italiana. — Nè tal distinzione è nuova o mia. Quando l’immortal Pio VII, il più forte Italiano de’ tempi suoi, fu indegnamente spogliato de’ suoi stati, uno dei ministri dello spogliatore pregava uno dei ministri dello spogliato di voler continuar nel suo ufficio importantissimo nello stato. E tacerò il nome del primo, ma dirò del secondo, che fu monsignor Lante, allora tesoriere. Il quale, rigettando quella brutta continuazione nell’ufficio: «E che», diceva l’altro, «che sono queste rinunzie, queste congiure, questi ordini del papa di lasciar gli uffici? Certo ei provvede male al popolo suo. Oggi voi, monsignor tesoriere, a rinunziare; saran domani i vostri primi capi d’ufficio; doman l’altro i secondi; e via via, così sarà abbandonato il tesoro, saranno mal governate le pubbliche entrate da noi mal pratici, non apparecchiati a supplirvi». E monsignor Lante: «Il santo padre non ha dati siffatti ordini; non a me, che non ne ho mestieri per sapere che non posso nè debbo servir voi, non agli impiegati minori, dei quali l’impiego è professione e vitto, e che continueranno». Ed insistendo l’altro tra minaccia e celia a dire: «Ma voi vogliamo, voi sopra tutti, monsignore; e chi non ubbidisce a noi... voi sapete...» (E voleva accennar Fenestrelle o l’altre fortezze di Francia, ove si conducevano i resistenti). — «Io», riprendeva il Lante sorridendo, «son pronto. Partendomi di casa per venir da voi, feci ogni mio apparecchio. Ho giù il legno». E così lasciò il celiatore celiato, e non ne fu fatto altro. — Ancora e tanto più, è a fare la medesima riflessione pei militari italiani serventi lo straniero: gli uni levati a forza, che sono moltissimi, gli altri volontari, che son pochi. Ma de’ primi il voler dire che non dovrebbero servire, tanto sarebbe come dire che dovrebbero resistere alla levata, come dire che facessero uno di quei sollevamenti che dicemmo quasi sempre illeciti e dannosi, ed ora certamente inopportuni. Oltrechè sarebbe pur gran danno che un terzo delle popolazioni italiane, che una delle più belligere si disavvezzasse di nuovo dall’armi, e non si trovasse apparecchiata il dì quando potrà diventar debito ed opportuno che tutta Italia in sull’armi dica allo straniero: o con voi o contra voi, secondo che volete diventar amici o rimaner avversari della patria nostra. E quindi mi paiono da lodar gli stessi volontari; e da desiderare che fossero più numerosi, massimamente in quelle classi di persone che quando non militano sogliono poltrire. Noi dicemmo già con piena sincerità, e così ridiciamo qui, che in ogni altra cosa che l’Italia, sono identici gl’interessi italiani ed austriaci, che fuor d’Italia sono alleati naturali Austria ed Italia. Tutte le guerre che avrà a fare Austria a settentrione ed oriente saranno guerre italiane. Il maggior servigio che si possa fare all’Italia, è di far vittoriosa, conquistatrice l’Austria in quelle parti. Salvo l’arciduca Carlo vivente, quasi tutti i grandi capitani di casa d’Austria furono italiani; Alessandro Farnese, Spinola, Piccolomini, Montecuccoli, e sopra tutti il principe Eugenio di Savoia. Così ne nascesse uno tale a far trionfare Austria sul Baltico e sul mar Nero! Così tutta la gioventù italiana aiutasse Austria a tali conquiste; chè avrebbe avanzata di tanto quella dell’indipendenza nostra, e col mostrarsene ella degna, e coll’averne preparato il prezzo. Nè vorrebbesi tale intenzione tenere vilmente segreta; ma professarsi pubblicamente, onoratamente, militarmente. Verrebb’egli poscia il gran dì? o quello che ne sarebbe vigilia, d’una guerra contro a un principe italiano? Non sarebbe nemmen mestieri di seguir l’esempio (pur lodato) d’Austria e Baviera e Sassonia quando si rivolsero dall’uno all’altro campo, sul campo stesso di guerra o di battaglia. Basterebbe quella resistenza passiva, più conveniente all’onor militare: il posare l’armi senza rivolgerle, le demissioni, se si concedessero; ovvero il rimaner prigioni, che non è se non disgrazia volgare in qualunque guerra. Ma lo straniero non verrebbe a ciò probabilmente. Il grande impaccio di esso quando s’appressino i tempi, sarà il corpo d’esercito italiano, tanto più grande quello, quanto più grande esercitato questo. 5. È vera fortuna mia che il libro del Gioberti mi dispensi dal parlar compiutamente dell’operosità sacerdotale. I sacerdoti sono anche più gelosi delle cose proprie, che non i principi e i ministri de’ principi. Ed a ragione. La vita, i pensieri, le leggi del sacerdozio sono un mondo da sè, tutto diverso dal secolare; quasi un mondo intermediario tra terra e cielo. Chi non ha vivuto e non vive in quello ne discorre male; ondechè i sacerdoti non han fiducia se non ne’ sacerdoti. Ad essi è utile specialmente il libro del Gioberti. E così tutti gli altri di lui, e così quelli pure dell’avversario di lui, il Rosmini. Tutti e due hanno ridesta nel sacerdozio italiano quell’operosità del pensiero, che è forse più necessaria in quella altissima, che non in niun’altra delle condizioni umane; tutti e due hanno sentita e fatta sentire quella necessità, che il sacerdozio cattolico accresca la propria coltura quanto più ad esso ritorna l’opinione universale; tutti e due hanno collocato il sacerdozio italiano, forse al primo, certo ad uno de’ primi posti, in questa buona e gran via. Io non so s’io mi inganni; ma io non vedo guari che due Inglesi, il Wiseman e il Lingard, che possano in promovimento di coltura star a petto dei due Italiani. E quindi io non so trattenermi dal ripetere, ancor che fosse a rischio di dispiacere e al Gioberti e al Rosmini: quando vedremo darsi la mano da due tali cristiani, due cattolici, due sacerdoti, due Italiani? Certo le divisioni sono utili talora, come uno dei mezzi usati dalla Provvidenza a far risorgere ogni buona operosità. Ma non son elle tutte le divisioni e massime le ecclesiastiche, quelle di che pur è detto, guai a chi le desti? Nè cercherò io profano, chi abbia destata od a chi tocchi finir questa, nè se si possa. Ma ei mi par di poter dire, che sarebbe bello a qualunque dei due; e, riducendomi al mio assunto italiano, che sarebbe bello e buono specialmente per l’Italia, a cui tutte le divisioni nuove son dannose, tutte le buone riunioni necessarie. — Ad ogni modo tutti e due ci dimostrano che sarebbe gran danno, se si escludessero gli ecclesiastici dalla discussione delle cose temporali, e si riducessero alle spirituali, come vorrebbero alcuni. Nè ciò è possibile. Dov’è il limite tra l’une e l’altre? Chi lo porrebbe? Chi n’ha autorità sulla terra? Il capo degli ecclesiastici e della Chiesa può bene dir di questo o quello che ha passato i limiti dell’ufficio, della dignità sua, in ogni caso particolare. Ma è impossibile determinare que’ limiti esattamente, per tutti i casi. Il medio evo ne disputò e combattè secoli intieri; la civiltà progredita lascia più latitudine in questa come in altre cose, e non s’oppone se non all’usurpazioni evidenti. E le ecclesiastiche poi sono a temer ora men che mai. Il chiasso che si fa di qualunque menoma sorga qua o là, basterebbe a provare la impossibilità che se ne faccian delle grandi; ondechè il temerne gravemente oramai, non è da conoscitori della presente civiltà, ma da rimasti addietro in tal cognizione, ed in emulazioni, odii e paure. E così pure il desiderarne. Alcuni sono, dentro e fuori d’Italia, che chiamano sulla cattedra di Gregorio XVI un Gregorio VII. Ma ei non vedranno mai più, nè uno tale, nè un Alessandro III, nè gl’Innocenzi, nè un Giulio II. La differenza de’ tempi è troppa, anche contando da quest’ultimo. Dal quale in poi, oltre le nuove eresie, sorsero tutte le civiltà oltramontane ed oltramarine europee e non europee. Finito è il tempo della tutela temporale della Cristianità; ella è uscita de’ minori, ella governa i suoi affari temporali da sè; e se ne farà forse tanto più docile alla tutela spirituale. A’ nostri stessi dì è avvenuto un fatto importante e non avvertito abbastanza. Pio VII sarà grande nella storia dei papi non solamente per il fatto immortale della sua resistenza, ma per la causa ultima di essa: il rifiuto da lui fatto a Napoleone di entrare nella lega contro Inghilterra. Con tal rifiuto e coi patimenti sofferti per esso, Pio VII abdicò in gran parte quell’ingerenza negli affari politici della Cristianità, in che risplendettero pur tanti de’ suoi predecessori. Non rinnegolli, ma fece diverso, secondo i tempi; diè un esempio, incominciò una età novella per il papato; non rese impossibili, ma difficili, ma rare quell’ingerenze; e rese impossibile sopratutto, se già non era, il farsi essi papi, capi d’imprese politiche, temporali, ed in particolare di quell’impresa d’indipendenza in che fallirono quantunque grandi i papi stessi del medio evo. — Nè è a lamentare o a tentare vanamente di mutare quel fatto oramai adempiuto. Lasciamo e il papa e il sacerdozio tutt’intiero a quegli alti e numerosi uffici più o meno spirituali, che chiamano la loro opera a’ nostri dì. Essi hanno a compiere la sconfitta (incominciata da altri) d’ogni anticristiana filosofia, hanno a vincere i vincitori del secolo XVIII; hanno a rivolgersi, non più inutilmente contro a’ materialisti o sensisti di quel secolo, nè forse contro agli incerti e vergognantisi panteisti del nostro, ma contro a quei razionalisti che sono il vero pericolo, il pericolo preveduto già ed or ultimo. Ed hanno così quella magnifica opera della riunione de’ dissidenti al cattolicismo, la quale sembra apparecchiarsi in tanti modi diversi secondo i luoghi; là cogli studi teologici e il ritorno all’autorità, là con gli studi storici e il ritorno all’unità, là con la povertà, e là con le persecuzioni ben sofferte; dappertutto con le controversie, con le predicazioni opportune. Ed in ciò abbiamo un bell’esempio italiano, se sia vera la notizia di numerose conversioni fatte dai sacerdoti rosminiani in Inghilterra; tanto più bello che là sono le più prossime speranze, le maggiori importanze delle conversioni. Perciocchè hanno i sacerdoti cattolici dinanzi a sè quell’altra anche più ampia opera della conversione degl’infedeli; quell’opera in che da secoli pareva non rimaner a’ missionari altro profitto a trarre se non quello del proprio martirio, e di poche conversioni individuali; ma a che la civiltà cristiana ha aperte tante vie nuove, agevolate tante antiche, e in che il massimo di tutti i passi sarebbe fatto quando con vantaggio reciproco si riunissero o almeno s’aiutassero l’Inghilterra e il Cattolicismo. — Ma tutte queste sono opere, occupazioni che gli ecclesiastici nostri hanno in comune cogli stranieri. Opera poi particolarmente italiana, e ben che indirettamente, pur molto utile alla impresa d’indipendenza, sarebbe ed anzi è quella di tutti i nostri ecclesiastici, i quali o coll’esempio o colle parole accrescano l’esercizio di qualunque virtù della nostra nazione. Io sono per dire frappoco della importanza delle virtù private, e per porle sopra qualunque degli stromenti d’indipendenza. So anch’io che le predicazioni degli ecclesiastici debbono avere scopo più alto che non questa stessa, più alto che non tutta la vita terrena degli uomini o delle nazioni; ma le virtù conducenti ai due scopi sono le medesime, e chi le promuove serve insieme all’uno ed all’altro. Il maggior ausiliare del liberatore irlandese, è il padre Matthews, predicatore, non di politica, non di libertà nè d’indipendenza, ma di privata _temperanza_, di astinenza da’ liquori inebbrianti. Colà que’ meditatori ed operatori veramente grandi della grande impresa nazionale intesero bene la gran forza motrice essere la virtù, la gran debolezza essere il vizio; e attaccarono il vizio nazionale. Da noi non è quello; ma ne son altri e non pochi. Gli ecclesiastici sono meglio che niun altro in situazione di saper quali sieno, di studiarli, di perseguirli, di correggerli; gli ecclesiastici sono i più efficaci maestri di morale; sono maestri della morale più perfetta che sia stata o possa esser mai. Lasciamoli, preghiamoli di far ciò, liberamente, largamente, con reciproca fiducia, senza paure, senza troppe distrazioni; essi avran fatto più per la indipendenza, avran fatta opera più nazionale e più ecclesiastica, che non se avessero combattuto come i frati spagnuoli, o negoziato e governato come gli Alberoni, i Fleury, i Mazarini o i Richelieu de’ secoli scorsi, o cercato dominar tutto come i grandi papi del medio evo. Ogni età ha i modi suoi; la nostra ha quello che noi lodammo già, di far ognuno l’officio suo, di operar ciascuno nel cerchio della propria operosità. — Del resto, s’io avessi a dire qual condizione d’uomini in Italia paiami adempier meglio gli uffici, la operosità sua speciale e presente, quale esser più apparecchiata per l’occasioni, io non dubiterei di rispondere, gli ecclesiastici; e rammenterei la fortezza mostrata da essi dal 1808 al 1814. Certo niuna provincia, niun ceto d’uomini italiani, non furono allora così forti come questi preti, non tenuti da tanto. Ed io so di taluno a cui, giovanissimo allora, tale spettacolo, tal sorpresa, tal paragone, tali ammirazioni e vergogne furon semi di quelle opinioni papaline o guelfe o come che si voglian dire, onde egli fu poi accusato da molti, ma in che ei si confermò sempre, quanto più venne studiando e ripensando. 6. Ed ora, venendo a noi altri letterati, ei mi pare sopratutto necessario guardarci da quella esagerazione della propria importanza, nella quale cadono sovente non solo gli uomini di piccola pratica, ma quelli pure di piccola teorica. L’innamorarsi esclusivamente del proprio mestiere, è vizio di tutti gli uomini di mente miope, i quali non veggono se non ciò che hanno molto vicino. Si dice che le lettere son creatrici delle idee, le quali creano i fatti; maestre degli uomini, duci dell’opinione, onnipotenti nelle società. Ma io non so se elle abbiano avute mai tutte queste potenze; se non sieno stati per lo più all’incontro i fatti, quelli che fecer sorgere le idee; la società, le opinioni, quelle che guidarono le lettere; gli uomini operanti, veri maestri o almeno signori degli scriventi; e la verità è che s’avvicendarono continuamente le potenze degli uni e degli altri. — E si suol dir poi, che la potenza delle lettere s’è accresciuta nella nostra età, per la moltiplicazione degli scrittori e degli scritti. Ma gli scritti sono come tutte l’altre merci, che moltiplicandosi s’inviliscono. La facilità di scrivere, di stampare senza spesa o con profitto, ha fatti diventare scrittori molti, che avean poca o niuna facoltà naturale di scrivere, molti che non l’hanno accresciuta cogli studi, molti che non elaborando lor produzioni, non usano tutta quella che hanno, o non meditandole, l’usan male; e quindi la merce, già invilita per troppa quantità, s’invilì di nuovo per mala qualità. Il vero è, che si fanno ogni dì più rari, quinci quegli ampii e studiati lavori letterari che furono frequenti nei due o tre secoli scorsi; e quindi più ancora quella universale attenzione che si soleva concedere loro. Sminuzzati si sono a’ nostri dì i grossi libri, i lunghi studi, le grandi riputazioni. Nè tuttavia vorrei troppo lamentarmene, come fanno alcuni; o compatir la intiera società di questo accrescersi il numero, e diminuirsi il credito degli scrittori. Io crederei che la società vi abbia forse guadagnate più numerose verità; che queste, più discusse, si sien fatte più chiare; che la coltura latamente sparsa sia da preferire alla coltura più altamente insegnata; che sia la più assurda e la più tirannica a voler restaurare, l’aristocrazia delle lettere; e che insomma sia accresciuta la potenza della coltura in generale, e sopratutto della buona coltura. Ad ogni modo, non è dubbio, resta scemata la potenza di ciascuno scrittore, di ciascun scritto in particolare; a guisa appunto che in un esercito tutto vittorioso, non conta guari niun guerriero privato, quantunque prode, il quale avrebbe contato molto in uno nuovo o sconfitto. — Ma questa potenza degli scrittori è scemata poi, e va scemando, più che altrove, in Italia; e scemerà ogni dì più, finchè dureranno le condizioni presenti. Gli scrittori italiani non hanno solamente a vincere gli emuli, diventati più numerosi; hanno a vincer emuli posti in condizione più vantaggiosa. Chi scrive colla paura delle censure, chi è sforzato a calcolare, a misurare, a lisciar ogni frase o parola per farla, come si dice, _passare_, chi ammorbidisce le proprie idee, non potrà mai emular felicemente gli scrittori che scrivono schietto senza tanti riguardi. Non serve dire agli Italiani: leggete italiano, leggeteci noi, non ricorrete agli stranieri; gli Italiani ricorreranno sempre agli stranieri; più chiari, più facili, più piacevoli, più utili a leggersi, finchè più liberi. Noi ammettemmo già, parlando dei principi nostri, che una censura preventiva è forse necessità politica dei loro governi. Ma è ad ogni modo infelicità, impotenza letteraria, la quale è giusto notare dove si parla di ciò che possano o non possano gli scrittori italiani. Veggiamo il fatto com’è, una volta. Studio precipuo degli stranieri è porger chiaro, limpido il loro pensiero. Studio precipuo degl’Italiani scriventi in Italia è velarlo più o meno. Ne’ primi anni del secolo, restaurate le censure sotto Napoleone e i successori (e restaurate con severità tanto maggiore, che i tempi parevan più pericolosi), coloro che avrebbon voluto scrivere, sdegnarono adattarsi, e non iscrissero o scrisser pochissimo. Poi verso il quarto del secolo, si girò, come succede, intorno all’ostacolo che non si potea vincere; ognuno cercò adattarsi, si usò l’artifizio contro alla forza. Gli scriventi s’accorsero che ci era modo di dir molto, anche colla censura. Le pieghevolezze della parola sono infinite. A un nome particolare rigettato si sostituì uno generale, un sinonimo accettato; a una idea compiuta, una in germe; ad una precisa, una involta; ad una chiara, una annuvolata. Si fece conto sulla intelligenza del discreto leggitore, si sperò che questi intenderebbe. E così avvenne per lo più; l’acutezza italiana, l’identità degli interessi, la universalità di molte opinioni fecero nascere uno stile adattato, convenzionale, quasi un gergo, tra scrittori e leggitori. Artifizio illecito senza dubbio se ad esprimere cose illecite, e lecito pure se a lecite. Ma l’artifizio anche lecito è sempre infelicità. Non è bella se non la parola compiuta e limpida. Talora, ingannando il censore, s’inganna il leggitore; talora vien meno tra l’uno e l’altro la consueta intelligenza del gergo; e da tutto questo adattarsi, nasce una letteratura adattata, oscura, men bella, men utile, e talora nociva; si trattano più i generi nei quali si può parlare apparentemente d’una cosa, e realmente d’un’altra, i generi oscuri; la confusione de’ pensieri, la insincerità di espressioni diventano vizi della parola, e minaccian diventare delle azioni nazionali. Gl’Italiani che scrivono e stampano fuori sono i soli che possano uscir di tali difficoltà, correggerci di tali vizi, rivendicarci da tali pericoli, da tali vergogne, fondare una letteratura italiana esterna e non adattata, all’incontro dell’adattata; far per la patria nostra altrettanto o forse più che non gli stranieri per le loro. Così sappiano valersi di tal potenza e valersene con quella moderazione ch’è dovere tanto più stretto ai più liberi; così lavorare essi almeno con quell’alacrità che non s’ha se non isfogando tutte le proprie facoltà; così non dimenticar la patria antica per le nazioni che sono nobili e generose ospiti a tanti di essi[37]. — Ma Dio mi liberi dallo scoraggiar nemmeno coloro che scrivono e stampano in patria. Non volli se non toglier di mezzo qui come altrove, quelle false speranze, le quali non adempiute lasciano poi, alla prova, il male incoraggiato più scoraggiato che mai. Io temo sia avvenuto a parecchi de’ nostri scrittori anche dei primi, anche di quelli le opere di cui ebbero maggior potenza in Italia, che comparato tal effetto colle fatiche fatte, colle difficoltà sofferte, quest’effetto parve loro poco al paragone e si lasciaron quindi cader di mano la penna, la quale avrebbe pur potuto esser utilissima ancora alla patria. Nè sarebbe forse avvenuto tal danno, se fin dal principiare avessero ben preveduta la pochezza di questo effetto. I nostri più alti ingegni scriventi tra lo svantaggio delle condizioni d’Italia, si trovan nel caso degli scrittori stranieri di secondo o terz’ordine; i quali sanno bene di non potere acquistarsi gloria, nè produrre effetti pari a quelli d’un Byron, d’un Walter-Scott, d’un Goëthe, d’un Alfieri o d’un Chateaubriand, ma che perseverano ciò non di meno; o perchè par loro pregiabile anche una buona riputazione in mancanza di una gran gloria, o meglio perchè par loro dovere adoperare ognuno a pro della patria le facoltà quali che sieno, ricevute dalla Provvidenza. E così i nostri. Non possono eglino scrivere chiaramente, limpidamente, con parole proprie? scrivano oscuro. Non possono scrivere liberi? scrivano impacciati. Non possono scriver tutto? scrivano la metà, il quarto, ciò che lor si conceda. Dei tre precetti di scrivere la verità, nulla se non la verità, tutta la verità, i due primi si posson seguir sempre, anche da noi; e seguiamo il terzo quanto possiamo. Il pietoso Iddio in cielo, e i nostri compatriotti in terra ci terran conto un dì di questa vita così angustiata, così tormentata, così ricca d’interni strazii, così povera di esterni compensi com’è la vita dello scrittore italiano. Tolti uno o due fra noi scriventi al presente in Italia, noi tutti gli altri avremo probabilmente presso i posteri, come abbiamo presso gli stranieri, poco merito di lettere; ma forse ci si concederà tanto più merito di virtù. E poi, non importa ciò che ci si conceda, purchè adempiamo anche noi il nostro ufficio verso la patria. 7. Di gran lunga più felice vita vivon da noi gli scienziati, gli artisti, tutti coloro che adoprano lor facoltà in materie lontane dalla politica, dalla storia e dalla filosofia. Questi si trovano più o meno nelle medesime condizioni addentro come fuori d’Italia; e se essi pure hanno a patire della moltiplicità degli emuli, non patiscono almeno di niuna condizione particolarmente italiana. E tutti questi possono giovare alla patria, forse più che non credono. Prima colla loro gloria personale, la quale sempre ritorna alla patria, e di che le sarà tenuto conto al gran dì, quando i destini di lei dipenderanno da tutto insieme il rispetto ch’ella avrà saputo acquistarsi. Noi vedemmo Grecia aver dovuta la indipendenza sua, in gran parte, alla propria gloria antica, alla gratitudine delle nazioni che riconoscono da lei una civiltà, una coltura, quantunque lontane di tanti secoli, quantunque spente. È forse vergogna per la nostra età, che siasi tenuto conto di quella gloria antica, più che non della qualità di cristiani ai Greci presenti. Ma ad ogni modo le medesime nazioni europee avrebbero pure un altro simile e più vicino debito a pagare all’Italia; il debito della civiltà e della coltura moderne e cristiane. Nè il negano, che che si dica da molti di noi. Negano le esagerazioni che ne facciamo; negano i falsi e piccoli primati che pretendiamo sovente oltre al vero e grande che avemmo; negano sopratutto la continuazione presente o probabile futura. Noi siamo verso di esse come i benefattori ricordanti ed esageranti i propri benefizi, o come i nobili ricordanti ed esageranti la propria nobiltà, che ne fan venir noia a ciascuno. Non predichiamo i benefizi e la nobiltà nostra, e questa e quelli ci saran più facilmente riconosciuti; non vituperiamo nelle nazioni sorelle le educate da’ nostri maggiori; non ci mostriam sopra tutto troppo degeneri da questi, e verrà dì che raccoglieremo anche noi i frutti della gloria italiana e della gratitudine straniera. — Del resto, anche direttamente, tutte l’arti, tutte le scienze possono giovare alla patria, avanzarla verso i destini futuri. Perciocchè tutte possono servire a quelle virtù, che serviranno a que’ destini. Io non so se non volendo estendermi, saprò far capire il mio pensiero. Ma ei mi pare che sia pure una musica virtuosa ed una no, e così una pittura, una scoltura, e direi per fino una architettura. Della musica non può esser dubbio. Esprimendo essa gli affetti, i sentimenti dell’animo, ella può esprimere i virtuosi e i viziosi; ed è quindi virtuosa se fa piacere i primi, dispiacere i secondi, viziosa se alletta tutto all’incontro; nè più nè meno che la poesia, o le lettere. E così pure la pittura e la scoltura. Da alcuni anni in qua si sono venuti scegliendo soggetti patrii più vicini a noi che non gli antichi greci e romani. Ma sarebbe da fare anche più sovente che non si fa e da’ committenti e dagli artisti. E sarebbe poi da progredire nella scelta di tali soggetti. Non basta venirci ritraendo qualche fatto del medio evo, insigne per le vesti, i rasi, i velluti o l’armi che vi si introducano. Dovrebbonsi scegliere fatti insigni per virtù, insigni per quelle principalmente dell’unione e dell’indipendenza, insigni non solamente per la provincia, ma per tutta la patria, tutta la nazione. Certo si troverebbero in que’ XIII secoli che durò finora la impresa, in quello principalmente da Gregorio VII alla pace di Costanza, che dicemmo il più bello della storia italiana. Lettere, scienze, arti, tutte le colture dovrebbero cercare quanto possa ricordare, lodare, far risorgere e progredire, esaltare e scoppiare le due virtù, dell’unione e dell’indipendenza; dovrebbero farle entrare per tutti i sensi negli animi italiani, per tutti i sensi importunarne gli stranieri. 8. Ma ei v’è più. Ciò sta in mano non solamente di tutti coloro che hanno una operosità, una vita eccezionale, principi, uomini di stato, sacerdoti, scrittori, scienziati od artisti, ma di ciascuno anche privato italiano. Qui è dove desidererei ingegno ed autorità da persuadere, non più alcuni, ma tutti i compatrioti miei. Qui li conforterei a contarsi, qui a conchiudere che una nazione di venti e più milioni d’uomini è invincibile, se unanime e virtuosa. Unanimità e virtù sono i due desiderati dell’indipendenza. Virtù senza unanimità; unanimità senza virtù non servirebbono. — E l’unanimità è più avanzata che non si crede. Noi disdegnammo i varii sogni italiani, perchè son da disdegnare finchè ne resterà un’ombra; ma li dicemmo, secondo credemmo e crediamo, sogni di pochi, sogni vicini a svanire, anche senz’opera nostra o di altri scrittori, anche lasciando fare il semplice senso comune italiano ridesto dagli ultimi sperimenti. E svaniti i sogni resterà necessariamente la verità nuda ed una, l’unanimità. La quale non è impedita nemmeno dalla divisione territoriale d’Italia. Due terzi di questa sono indipendenti abbastanza perchè vi sien nati e cresciuti l’idea, l’amore, il desiderio, la volontà dell’indipendenza compiuta; perchè si persuada ogni suddito di principe italiano che non sarà compiuta per essi e lor principi se non quando sarà comune a tutti i sudditi dello straniero; perchè ognuno vi professi apertamente, altamente tale opinione; perchè propagandola, tramandandola intorno e dopo sè, ella penetri ne’ consigli dei principi e ne’ principi; se già non l’abbian questi dalla propria natura generosa. — E quanto alle province straniere, lodiamo pure i fratelli nostri. Uomini e donne, vecchi e giovani, colti o solamente educati vi sono anche più unanimi che non i sudditi de’ principi italiani. È naturale; provan da vicino ed addosso, non alcune, ma tutte quelle spine della dipendenza che son martirii a qualunque animo colto ed educato, e che passano da questi poi a farsi sentire agli incolti ed ineducati. Segno, fatto, protesta di quell’unanimità è colà il tenersi discosti quasi tutti dal governo, dalla corte straniera, da quella famiglia imperiale, quantunque stimata come sovrana a casa sua, quantunque ammirata come famiglia privata dappertutto; discosti tutti e ciascuno da tutti e ciascuno di quegli stranieri, quantunque pregevoli personalmente. Segni, fatti e proteste sono, le antipatie a quella nazione germanica, che per la sua natural bontà, per la sua pacatezza, per il suo intelligente amore dell’arti sarebbe la più simpatica, sarebbe sorella dell’italiana: e segni, fatti, proteste sono tutte quelle rinunzie ad ogni operosità pubblica e militare, che dolgon certo a que’ nostri compatrioti, naturalmente operosi, e che, se sono, com’io le credo, esagerate, provano tanto più l’abborrimento della dipendenza. Tuttociò in Lombardia. Ma dicono, non sia altrettanto nella vicina Venezia. Sarebbe egli vero che un popolo, indipendente già per mill’anni, abbia in meno di cinquanta imparata la dipendenza? Se è, sarebbe gran prova della corruzione di quell’antico governo che avrebbe infracidito a tal segno que’ popoli; sarebbe gran ragione di non lamentarne la caduta; di volgersi dal passato ad un migliore e tutto diverso avvenire. Ma noi non crediamo a tale avvilimento di niun popolo italiano; non crediamo in ogni caso che possa durare così, in mezzo all’unanimità italiana, vicino alla stupenda protesta lombarda. — E queste proteste poi, questa unanimità hanno in sè ben altra efficacia che non le società segrete, le congiure, o i sollevamenti. Le società segrete si vincono colle pulizie, le congiure co’ supplizi, i sollevamenti colla forza; ma qual forza, quali supplizi, quali pulizie bastano a vincere una resistenza passiva, unanime, quotidiana, in tutti i luoghi pubblici o privati, di ogni nazionale che dica ad ogni straniero: «Voi siete persone di conto, stimate, amate, felici nelle vostre case, nel vostro paese; voi siete qui e sarete in perpetuo rigettati dalla società, lasciati soli tra voi, mostrati a dito, disprezzati più che esecrati; come ciechi e servili esecutori d’una flagrante ingiustizia, di una che è stoltezza nell’interesse stesso del vostro padrone?» Nè io son solo ad ammirare siffatte proteste. Le ammirano Italia, Europa tutta. Le ammirano, e stupiscono forse che non abbiano prodotto ancora maggior effetto. 9. E perchè nol producono? perchè si tiene così poco conto di questa unanimità? Perchè appunto ella non basta senza la virtù. Le nazioni sono tra sè come gli uomini, i quali non tengon conto delle proteste nè delle minacce se non dei forti, degli operosi, de’ virtuosi. Non è verace quella distinzione di Montesquieu, che la virtù sia necessità, principio delle repubbliche sole; se così fosse, questa sarebbe la sola forma buona e possibile in ultimo di governare. Ma il vero è, che tutte le nazioni, sotto qualunque forma governate, han bisogno di virtù; che la virtù è principio di ogni buon governo alle nazioni indipendenti, principio d’indipendenza alle dipendenti; ondechè ella è necessaria a queste sopra tutte. E non è vero poi, come dicono Montesquieu e tanti altri, che sien due virtù, la pubblica e la privata; sono due forme, o meglio due applicazioni della medesima virtù. La virtù pubblica non si può esercitare se non da pochi in qual siasi nazione, da pochissimi nelle non libere, da più pochi ancora nelle dipendenti; e non si suole esercitar poi quasi da nessuno nelle sue parti difficili, quando sono facili i tempi. Ma la virtù privata è accessibile a tutti, sotto tutti i governi, in tutti i tempi, e più ne’ facili e tranquilli. La virtù nazionale si compone delle due sorta di virtù, pubbliche e private; ondechè può essere una nazione che non possa avere quasi nessuna virtù pubblica, ma che avendone molte private abbia una somma di virtù nazionali maggiore che non altre dove sieno più delle prime; e la somma, comechè fatta, delle virtù nazionali, è quella all’ultimo che impone altrui ammirazione o paura, secondo le occorrenze. In Italia, a’ tempi nostri, le virtù pubbliche non possono se non esser rare; quindi tanta più necessità di accrescere, di moltiplicare le private, se vogliamo una somma vantaggiosa, un totale che imponga. E quindi debb’essere l’oggetto più importante, non dirò di questi nostri pensieri, poveri, pochi, ed approssimantisi a lor fine, ma di tutti quelli di qualunque buon Italiano: cercare se sieno o no queste virtù private in Italia; e se non sieno, come si possono procacciar da ciascuno co’ propri mezzi; colle leggi, se è principe od uomo di stato; colle predicazioni, se sacerdote; colle produzioni dell’ingegno, se è uomo di coltura; ma sopra ogni cosa coll’esempio, che è il mezzo più efficace, e che sta in mano di qualunque privato. Ma qui è, che s’io dirò intiero il pensier mio, sarò chiamato moralizzante, austero, pedante, uom di mal umore, bacchettone, o (col modo di dire di Botta) cappuccino, o che so io? E peggio che tutto ciò, sarò detto forse non amator della patria, se veggo e confesso i vizi di lei. So anch’io che il chiuder gli occhi ai vizi, il non veder se non le virtù e le bellezze è il più facil modo di farsi amare. Ma da chi? Da quella qualità di persone a cui Dante coll’autorità propria e la rozzezza de’ tempi osava paragonare pur troppo l’Italia; ma a cui non crederei giusto oramai il paragonarla, ondechè spero ella non brami essere amata così. E poi, se questo è il più facile modo di farsi amare, non è il buono d’amare, non è amar l’amata più che sè, amar sè in lei e per lei; non è amor vero e virile di niuna maniera. Nè così amarono Dante o gli altri due, Alfieri e Parini; ed io, incapace d’imitarli nell’ingegno, vorrei imitarli almeno nell’amore. — E dico dunque, che non è oramai la unanimità, non sono le opinioni, non quanto dipenda dall’ingegno, non i consigli, non forse i duci all’opera quelli che manchino all’Italia; manca, se non assolutamente, certo comparativamente, la virtù severa, forte e sufficiente. Io dico che ella ci manca in paragone di altre nazioni cristiane contemporanee nostre; forse d’Inghilterra quantunque non cattolica, forse di Francia quantunque uscente di rivoluzione, forse di Germania stessa signora nostra, che è il gran danno. Io non mi porrò a ragguagliare e discuter fatti, che sarebbe da non finire. Ma non mi si venga a dire con finto scandalo e pervertitrice compunzione che non possono essere più virtuose di noi, nè virtuose di niuna maniera quelle nazioni eretiche o quella rivoluzionaria. Le nazioni eretiche sono eretiche ne’ dogmi o in qualche punto di morale, ma hanno in somma quasi tutto quel tesoro di moralità cristiana che è principio di ogni virtù, di ogni civiltà, d’ogni coltura e d’ogni progresso. E quanto alle rivoluzioni, io dico che sono immorali le nazioni che v’entrano, o che dan retta a chi ve le vuol fare entrare, non quelle che ne sanno uscire. Ed io n’appello poi a tutti quegli Italiani che conoscono quelle tre nazioni straniere, non per avervi viaggiato correndo, ma per avervi esulato o vivuto di qualunque maniera lungamente, posatamente, nelle capitali, nelle provincie e tra le famiglie. I quali, mal grado il desiderio della patria lor negata, ci narrarono e narrano con santa invidia la moralità, la unione di quelle famiglie, la severità, la operosità, la fortezza di quei costumi. E n’appello poi per il confronto coll’Italia, a quegli stranieri che scrivono di noi; e non già a quelli che ci scrivon contro, anzi a quanti son più per noi, e si mostrano più innamorati di noi; un Goëthe, una Staël, un Byron, un Lamartine ed altri tali. I quali, come ne sono eglino innamorati di questa che chiaman terra _degli ulivi e degli aranci_? di questo bel cielo, delle belle donne, delle molli aure d’Italia? Ne sono innamorati, la lodano appunto, vergogna! quasi regione apparecchiata a’ loro riposi quando sono stanchi de’ loro gravi pensieri settentrionali; quasi luogo da piaceri e sollazzi, quasi giardino, passeggio, o che so io, pubblico a chicchessia. E talora ei ci lodan pure per vero dire del nostro ingegno facile, vario, mutabile, rivestente nuove forme; ed han ragione. Ma delle virtù nostre, chi ne parla? chi non ne tace? anche fra questi nostri innamorati? E il tacer della virtù esaltando l’ingegno, che altro è se non o la più perfida delle calunnie, o la più mordente dell’accuse? Ma è accusa pur troppo verosimile, quando si fa da chi gode le bellezze e le piacevolezze della mal lodata, quando questa accetta vergognosamente tali lodi, quando se ne compiace, sfuggendo ella stessa l’ingrato assunto della virtù. Nè ciò fa, tutta la patria nostra, per vero dire. Ma il fanno per lei i piaggiatori di lei, che, allargandosi su tutti gli altri pregi nostri, non trovano talor a fare un periodo di lor panegirici sulle nostre forti e virili virtù. Che più, che più? La stessa lingua nostra se n’è guastata! e virtuoso fu chiamato da’ nostri classici Cesare Borgia; virtuoso, l’Aretino; e virtuose chiamiamo anche oggi, non più le madri di famiglia o le vergini italiane, ma quelle che servono sulle scene a’ diletti nostri e d’Europa. — Ma lasciamo i paragoni. Purchè abbiamo una virtù sufficiente! diranno parecchi, e direi pur io. Ma sufficiente a che? A vivere di giorno in giorno per le bisogne nostre presenti, in pace e tranquillità, senza curarci dell’avvenire? Certo abbiamo virtù sufficiente a ciò. Ma se tal sia de’ miei leggitori che consenta meco nella probabilità o solamente nella possibilità di un progresso qualunque della patria, e sopratutto del progresso d’indipendenza, a questo io domanderò: abbiamo noi virtù sufficienti all’occasione, quandochesia che ella venga? Le avremmo noi se venisse domani? Saremmo noi apparecchiati dalla severità di nostra vita privata, alla severità di quella vita pubblica che allora incomincierebbe? Alla continua, alla faticosa, alla dura operosità? ai sagrifici delle superflue, delle necessarie sostanze? a quello della persona? Ed a que’ sacrifici morali, tanto più ardui che non tutti questi? Di nuovo n’appello a’ sinceri e buoni. Non dunque a quelli che scusano le mollezze col clima, i turpi amori coll’ozio, l’ozio colla servitù, la servitù colla forza ch’ei chiamano maggiore; non a quelli che piangono i carnovali, le maschere, i casini di Venezia o d’altre città, quasi istituzioni nazionali perdute, i piaceri, le spensieratezze del secolo scorso, e i cavalier serventi, quai esempi de’ maggiori. Con tutti questi non ci cale d’intenderci mai. Ma rivolgendoci per parlar di virtù a coloro che abbiano almeno, come noi, desiderio di virtù, questi conforteremo a quella verità che è primo principio di virtù; a volere quindi guardare e vedere quali virtù ci manchino, in quali noi siamo superati dagli stranieri, quali ci abbisognino a diventare nazione stimata, rispettata, ed all’occasione temuta. Se dopo tali riscontri sinceramente fatti, si trovi che noi siamo, come io temo veramente, superati, non ci diam pace, emuliamoli, travagliamo noi stessi, finchè siamo almeno lor pari in virtù, chè senza tal parità, non avremo mai parità d’indipendenza. E se, come desiderio, io m’ingannassi, se non avessimo bisogno d’emulare gli stranieri, tanto meglio! emuliamo, superiamo allora noi stessi. — Accresciamo ad ogni modo le nostre virtù. Elle non saranno mai troppe per l’impresa che abbiamo alle mani, non massimamente per il gran dì del compierla. 10. Ma sia pur vero, dicono alcuni, che la virtù produrrebbe indipendenza; intanto la dipendenza produce vizio, il quale mantiene dipendenza. — Costoro hanno ragione; questo è il circolo vizioso ond’è difficile uscire. Negli stessi stati italiani l’operosità nazionale è compressa dalla dipendenza indiretta; ma è incomparabilmente più dalla diretta nelle provincie straniere. Là sono da compatire senza dubbio que’ giovani a cui non è possibile nè bella niuna operosità pubblica, a cui è così ingrata qualunque militare, così impedita qualunque letteraria. Ma ei sono da compatire, non da scusare nemmen là, se si abbandonano. Qualche operosità rimane ad essi pure; una principalmente, quella a cui sono chiamati tutti, che non si può togliere a nessuno, l’operosità della vita privata, della famiglia. Qui sta il punto, qui il rimedio. La famiglia a chi la accetta come fonte di operosità, è fonte quasi inesauribile. Al giovane la cura, l’aiuto, l’osservanza verso i parenti, allo sposo il primo amor della donna, i primi passi dei figliuoli; all’adulto l’educazione, le speranze, i timori e il retaggio di essi; all’invecchiante tutte queste cure moltiplicate e complicate; al vecchio il tesoro delle memorie; ed ecco occupazioni più che bastanti non solamente a fuggir ozi e vizi, ma ad esercitare virtù; quelle virtù, dico, le quali chi l’abbia serbate entro le mura domestiche può esser chiamato un dì ad esercitarle anche moribondo a pro della patria, o che tramanderà almeno incolumi ai nepoti. Quasi tutti possono aver tal campo di operosità, se spoglino vanità, pregiudizio, pretensioni. Nè ai pochi cui manchi o non basti, mancherebbe quella che è supplemento e rimedio a tutto nella civiltà cristiana, l’operosità della carità. — In somma, il gran circolo vizioso si vuol rompere in qualche maniera da tutti se vogliamo servire alle speranze nazionali. E non ci sono se non due modi di romperlo; od acquistando prima l’indipendenza per venire da essa poi alla virtù, od acquistando prima questa per venir a quella. Ma il primo modo non istà in noi, il secondo sì. Afforziamoci a questo virilmente, resistiamo a quell’arti corruttrici ch’io non credo scientemente usate se non forse da alcuni vili subalterni, ma che s’usano senza rendersene conto anche da’ maggiori e migliori stranieri; resistiamo a quell’arti con cui ci si profonde l’ozio, la spensieratezza, la facile, l’inutil vita, la nullità. Qui sia guerra aperta tra gli stranieri e noi; gli stranieri corrompano, noi resistiamo. Non è grado di corruzione onde non si possa guarire. Diciamo una ultima volta col nostro gran compatriota: LE NAZIONI CRISTIANE POSSONO AMMALARE, NON MORIRE. — Uno straniero, non de’ nostri molli innamorati, ma de’ nostri amici severi, un’illustre Tedesco settentrionale, trovandosi una sera fra parecchi non del tutto indegni Italiani, e conversando con amore delle condizioni, della virtù e delle speranze d’Italia, mordeva pure amaramente i men buoni costumi d’una delle province soggette allo straniero. Sorgevano gl’Italiani a compatire, a scusar i fratelli, ad accusarne i corruttori. «Avete ragione» rispondeva quegli con sua freddezza e sua pronuncia tedesca; «avete ragione; ma una nazione che non vuol lasciarsi corrompere, non si lascia corrompere». — Ed insistendo noi, e citando fatti e nomi, e gli esuli là ripatriati, a cui fu raccomandato _divertirsi_; e i giovani che presentandosi con un manoscritto alla censura ricevetter risposta, esser peccato che uomini di famiglia e di speranze si perdessero in letteratura; ed altri non dissimili fatti: «Avete ragione», riprendeva il duro Tedesco: «ma una nazione che non vuol lasciarsi corrompere, non si lascia corrompere». — Ed infiammandosi la disputa e venendosi alle grida e al domandare: «Come si fa? chi ci può? che ne sarà?» — «Avete ragione, avete ragione», ripigliava colui, e nol potemmo trar mai di sua costanza tedesca, «avete ragione, ma UNA NAZIONE CHE NON VUOL LASCIARSI CORROMPERE, NON SI LASCIA CORROMPERE». — Così è. Ed una nazione che non si lasci corrompere, fa tal atto che è già virtù, che è già apparecchio all’indipendenza. 11. Ma non sarebbe compiuto nè verace il nostro discorrere della virtù privata italiana, se dopo aver detto che ella è impari pur troppo a parecchie straniere, ed alle speranze nazionali, noi non dicessimo, che ella è pure notevolmente progredita dai secoli ultimi al presente. — Noi osservammo altrove, che dal principio del secolo scorso è chiaro un progresso di tutte le condizioni d’Italia, il quale continuò poi e continua indubitabilmente a’ nostri dì. Ma fra tutte l’altre, la condizione morale è certamente la più progredita. E ciò parmi da osservare non solamente a vana lode, ma a conforto della nazione in generale, ed a quello in particolare de’ nostri governanti. Perciocchè, capacitandosi essi d’aver intorno e dietro sè una nazione progredita e progrediente in virtù, essi ne potranno andar tanto più arditi ad adoprar tal nazione, a cimentar tal virtù. Ei vi ha un libro, non buono, non forte, non puro in virtù, per vero dire, ma pur consolante in sommo grado a qualunque italiano. Son due volumi d’appunti fatti dal Baretti (Italiano come ognun sa, dimorante in Londra nella seconda metà del secolo scorso) contra un viaggiatore e scrittore inglese, molto severo o forse impertinente verso l’Italia. Ed è a vedere nel Baretti quel generoso, ma smoderato impegno di difendere le cose nostre, che è diventato così volgare a’ nostri dì. Il Baretti mordentissimo in patria, come ognun pur sa, si faceva, se non adulatore, avvocato generale d’Italia fuori patria. E tuttavia pur difendendoci così, pur volendo far le scuse nostre in ogni cosa, egli si lascia sfuggire o piuttosto profonde le confessioni de’ nostri ozi e vizi in tal modo, da vergognarcene per quell’età così vicina, ma da consolarcene per la nostra, che si vede tutta mutata. Bisogna vedere, ora scusate ora no, ma in somma confessate, le impertinenze signorili, le tolleranze popolari di que’ tempi: le corruzioni non solamente delle classi infime, locandieri, doganieri, gondolieri e via via, ma delle medie, dell’alte e delle sante stesse; e la vita scioperata di tutti quanti, principalmente in Venezia; e la mollezza dei costumi e delle vesti, e i travestimenti, e quel bamboleggiar di ninfe e pastori che era, per vero dire, universale allora anche fuori d’Italia, ma che in Italia erasi costituito nell’Accademia dell’Arcadia, e nelle numerose _colonie_ di lei. Ed è a vedere il Baretti, l’autor già della _Frusta letteraria_, scusare e lodar tutto ciò, e fare quelle lunghe liste di pretesi illustri Italiani, che non servono nè a mettere quei nomi nella memoria degli stranieri, nè a serbarli in quella de’ posteri, ma talor solamente a farne ridere i concittadini. Ancora, potrebbero esser prova della leggerezza insieme dell’età e dell’autore, quelle lodi dell’ingegno italiano che egli trae dall’abilità del giocar a carte ed a tarocchi; e quelle poi della sapienza politica dei Romani contemporanei suoi, ch’egli pone sopra qualunque altra; e quelle del commercio italiano comparato in isperanze al francese ed inglese; e quelle delle razze de’ nostri buoi, nostri cavalli, e nostri asini, e via via; ridicolezze, puerilità, illusioni, inganni, pazzie, ora a noi evidenti. Ma la più curiosa difesa e la più vergognosa confessione è quella de’ cicisbei e delle cicisbee, i quali, se i miei giovani leggitori nol sapessero, furon coloro che si chiamarono poi _il cavalier servente e la dama_, poi abbreviatamente il cavaliere o il servente e la donna, poi l’amico e l’amica; cioè per parlar chiaro l’adulterio sfacciato, pubblico, regolarizzato dall’usanza. Qui s’allarga, qui si compiace lo scusatore; dà l’etimologia della bella parola; vanta l’origine antica dalla cavalleria e dalla filosofia, spiega, ingentilisce, innalza l’usanza ad amor platonico, immateriale, o che so io. Ed era pur surto già, ed aveva scritto il Parini; ed egli il Baretti cita lui e la immortal satira di lui! Tanto, per dar lodi immeritate, si sogliono trascurar le meritate! Tanto questa buona intenzione dello scusare acceca su’ progressi già incominciati; fa rimaner indietro de’ propri tempi anche coloro che sono per natura e furono altrove scrittori progredenti, virili e severi! — Ad ogni modo tutti questi usi, ozi e vizi di settanta anni fa (il libro è del 1769), sono pur così diversi da’ nostri, che paiono discosti di secoli e secoli, e che non possono nemmeno più esser soggetti di sdegni, ma di risa. Notevole sopra tutto è la differenza dei costumi delle famiglie, delle donne italiane. Certo sono anche ora, e saran sempre donne e famiglie scostumate, in Italia e dappertutto. Ma n’è scemato il numero, scemata la sfacciataggine; che sono due miglioramenti, grandi ciascuno per sè, e prove l’un dell’altro. L’usanza, la moda era allora l’adulterio, il vero o almeno il finto; il vizio o l’affettazione del vizio; l’ozio, la mollezza, ad ogni modo; ed eccezione era la costumatezza, eccezione rarissima la costumatezza professata. Or tutto all’incontro; la virtù e il vizio han ripreso ciascuno loro luogo naturale; regola e moda è la virtù, eccezione il vizio; si professa quella, si cela questo. È vero che da alcuni ostinati ammiratori del buon tempo antico, tutto ciò si chiama peggioramento ed ipocrisia. E tra l’ipocrisia della virtù e l’ipocrisia del vizio io non saprei, per vero dire, qual sia peggiore o minore per l’ipocrita; ma per la società, ma come segno di pubblica moralità, certo è migliore l’ipocrisia della virtù; la quale mostra almeno che la virtù è più pregiata, più in autorità, più vantaggiosa ad affettarsi che non il vizio. Io non cercherò qual parte abbiano avuta gli stranieri in questo sommo progresso italiano; se le invettive di Napoleone non v’abbiano forse operato più che non quelle dello stesso Parini; se forse non v’abbiano potuto anche più il ridicolo, e più i disturbi recati in questi quasi matrimoni dagli stessi scostumati stranieri; e se pur vi potessero le lettere, gli stessi romanzi stranieri, non nemici certamente di ogni mal costume, ma nemici incompatibili di questo; ovvero se più la civiltà, le leggi mutate, la distruzione delle primogeniture, il numero scemato de’ celibi e cadetti, e le operosità cresciute, principalmente ne’ principati italiani. Forse tutte queste cause insieme hanno cooperato alla mutazione; ma la mutazione, il progresso è certo, evidente a tutti. Le donne italiane amano od affettano amare i mariti; amano od affettano amare i figliuoli; attendono all’educazione di questi, al governo della famiglia, a’ lavori femminili, alla casa, quel santuario di lor virtù. E perchè come vizio fa vizio, così virtù fa virtù, l’educazione delle fanciulle, che non si soleva nè si poteva fare in case disoneste, or si può e si suol fare in casa dalle madri; e se per isventura non si può, si fa pur meglio ne’ conservatorii e ne’ monasteri, di gran lunga migliorati; e dove che facciasi, si rivolge allo scopo di allevar donne di famiglia, anzichè di mondo, o, come si diceva, di _talento_ od _eleganti_. In tutto, le donne italiane sembrano esser progredite più che non gli uomini, tantochè se continuano, sarà di esse il vanto di aver risollevati questi a lor dignità ed operosità. Certo, odo dire di una e parecchie città italiane dove molti giovani son ridotti a lasciar le case, le conversazioni di lor donne, troppo superiori ad essi per esser loro piacevoli; a cercarsi donne più pari ad essi. E di ciò pure piangono i piagnoni, ed alcuni altri a cui par minore il vizio se sia ingentilito, o come dicono in buona società. Ma a me pare che non sia mai a dir buona società quella in cui si professin vizi; che essendo condizione umana che sempre sorgano virtù e vizi, sia molto bene che si separino i due campi, che faccian vita diversa, che sia esiliato questo da quello. E se continuino così, non dubitino le donne italiane di riavere in breve reduci e degni di esse quegli uomini stessi a cui non manca forse per esser lor pari se non d’aver trovata pari operosità. — Perciocchè, siamo giusti; questo è più difficile agli uomini, che non alle donne. Basta ad esse la operosità della famiglia; non sempre agli uomini; anzi tanto meno quanto più ne lasciano alle donne. Ma queste gioveranno forse a quelli con gli esempi e i conforti e la stessa moda. E il vero è, che colla moda femminile del governo della famiglia, incomincia per gli uomini quella del governo delle sostanze private. Lo sciuparle, il non attendervi, il rimettersene a segretari è passato di moda; non par più vezzo nè obbligo signorile. Ora si curano le campagne, s’abbelliscono le ville, si accumulano nelle case que’ comodi, quelle pulitezze, quelle eleganze che chiamansi con voce straniera, ma bellissima ed anche italiana, di _conforti_. La quale è eleganza non che sana, ma quasi virtuosa, è minimo grado di operosità, ma pure operosità; tanto migliore, che di natura sua vuol essere continua. E vi s’aggiungono quell’altre mode ed eleganze degli esercizi della persona, e sopratutto del cavalcare, dell’allevar cavalli e delle corse; a cui i nostri puristi di nazionalità fanno il mal viso, perchè le dicono eleganze straniere, ma che sono italiane antichissime, passate fuori già come tante altre ed ivi progredite, ed indi tornate, e che non è vergogna riprendere o prendere, come che sia. La vergogna sarebbe di non prenderle intiere, in quanto hanno di migliore; il guidar per esempio i tiri a quattro o a sei comodamente, invece del cavalcare; il cavalcar tranquillo, a diporto, in vece del virile e difficile, invece del domar cavalli, o montarli alle caccie, alle _corse al campanile_, e via via. Il Baretti vanta le caccie alle reti, ai _roccoli_; io vanterei anzi tutte, quelle che si fan coll’armi e sui cavalli; le quali se per la diversa natura de’ paesi non son possibili tutte le medesime che altrove, come quelle della volpe e del cervo o del capriolo, ne son altre proprie all’Italia e che sarebbe bello mettere alla moda, come quelle dei cignali nelle nostre macchie, e de’ camosci e degli stambecchi e degli orsi stessi nelle nostre Alpi. Le quali poi furono troppo cantate forse come difesa, ma certo son bellezza peculiare di nostra Italia, e potrebbero essere palestra di variissime operosità alla gioventù italiana. Certo è vergogna che, così vicine a noi, così nostre, elle sieno tentate, superate, corse, studiate, descritte d’ogni maniera da tutti, salvo che da noi. Non è forse un Italiano che abbia vanto d’una di quelle prime ascensioni sulle somme Alpi, che si notano quasi a modo delle scoperte transatlantiche o polari. In quelle stesse liste annue dell’ascensioni al Monbianco che si van facendo così numerose, raro è che tra gli Inglesi, Russi o Svedesi si trovi (come pur trovossi in quest’anno) un nome italiano. Questi son viaggi in che all’allettamento, all’esercizio della operosità, s’aggiungono l’allettamento e l’esercizio del pericolo; e che brevi e facili del resto ai giovani ed arditi, non possono essere impediti loro nè dalle loro occupazioni abituali, nè da scarsezza di fortuna, nè da gelosia de’ governi. — Ma è egli poi vero che sieno loro impediti i viaggi più lontani? Che duri nelle province straniere quella proibizione di uscir dall’imperio, che sarebbe per questo una così candida confessione di non voler esser paragonato con altri paesi più inciviliti? una confessione da doversi lasciare ai barbari? Ad ogni modo, non è fatta niuna tal proibizione da principi italiani; ed i sudditi loro hanno ed esercitano l’operosità del viaggiare, non solamente in Europa, ma in tutto il globo. E se ai vecchi il viaggiare è sovente ozio o inganno d’ozio, ai giovani e ardenti ad imparare è operosità e nuova educazione. Alcuni ne sono, per vero dire, che tornan da’ paesi più colti e più operosi del mondo, dicendoci che vi si sono noiati. Lo credo anch’io; non ci è maggior noia che parer noioso, che l’essere sfaccendato tra gente affaccendatissima. Ma vi tornino buoni, se non altro, a desiderare operosità, e ne saran contentati da quelle medesime genti che trovan tempo a tutto, fuorchè alla noia. Io mi meraviglio di nuovo, che non facciasi una qualità di viaggi che pur avrebbero il doppio allettamento dell’operosità e de’ pericoli; dico il viaggiare o piuttosto il guerreggiar volontario ne’ paesi dove sono le belle guerre di conquiste cristiane. Questo sì che sarebbe un diretto apparecchiarsi a quell’altre guerre, onde sorgeranno le migliori speranze nostre. Noi abbiamo una di tali guerre tutt’all’incontro d’Italia; ed è colà men bello che altrove, che si veggano volontari di tutti i paesi cristiani e lontani, e non del nostro, così vicino. — Ma io non finirei, se volessi dire di tutte le operosità che in questa operosissima età si parano innanzi a qualunque privato anche italiano; e che abbracciate già da parecchi (lodevolissimi in tal precedenza), si può sperare sieno a poco a poco abbracciate da molti, e secondo le condizioni di ciascuno, finalmente da tutti. Hannosi tutte quelle società ed imprese pubbliche, le quali, se non accrescono sempre la fortuna de’ socii, accrescono almeno il capitale, il progresso della patria, ondechè dovrebbero essere speculazioni de’ ricchi principalmente. Io non parlo dei commerci propriamente detti, perchè questi, come le arti e gli studi liberali, sono operosità speciali, più che non comuni a tutte le persone private, di che parliamo qui. — Ma mi rivolgo a lodare e benedire ultimamente quella che noi chiamammo già operosità supplementare di tutte l’altre, e che chiameremo qui operosità antica e nazionale italiana, l’operosità della carità. Io crederei che non sia modo o forma di essa, fiorente a’ nostri dì, della quale non si trovino principii in qualche istituzione italiana antichissima. Ondechè io mi meraviglio che i reclamatori perpetui delle priorità italiane, non si sien data ancora la pena di cercare quei principii nelle memorie di nostra patria. Ed io, che tengo poco conto de’ principii non progrediti, il terrei pure di questi; perchè appunto non furono semplici nè improduttivi principii, ma progrediron molto nel medio evo, e lasciarono esempi e modelli poco superati. Ma quello di che è da rallegrarci più è il veder continuati e moltiplicati ora siffatti progressi dall’un capo all’altro d’Italia. Questa è operosità buona a tutto ed a tutti; buona come operosità cristiana, il che è saputo da chicchessia, ma buona pure come operosità pubblica, e buona come privata. Come operosità pubblica, la carità è scioglimento ultimo forse di quei grandi problemi economici, del massimo accomunamento delle sostanze, del massimo ravvicinamento delle condizioni estreme, di una quasi legge agraria del mondo cristiano. Ed in Italia particolarmente, oltre al vanto del continuar l’opera de’ maggiori, la carità ha il gran merito di essere la virtù più riunitrice di natura sua, vincolo di tutte le qualità di persone, di tutte le opinioni. Principi, grandi e popolo, ricchi, mediocri e poveri, uomini, donne, vecchi, fanciulli, sani, infermi, sacerdoti e secolari, tutto si riunisce nell’esercizio della carità, e talora in una sola casa di carità. Là si apparecchia quanto è sano ed utile alla patria; popolazione salvata, educazione allargata, generazioni apparecchiate, moralità serbata o corretta, ordine, obbedienza, regolarità, amore. Nulla di cattivo, nulla almeno di peggiorato non ne suole uscire. E come operosità privata poi, la carità è il modo più certo e più in mano a ciascun privato di far bene alla patria ed a sè, tutto insieme; è il modo di tener vive in sè più virtù, più virili virtù; è operosità del corpo, dell’ingegno e di tutto l’animo; è fatica, pericolo, sacrificio. Hai tu un’altra operosità speciale, obbligatoria dalla tua condizione? Sei tu principe, uomo di stato, sacerdote, professore, artista, artefice, commerciante, padre, madre o figliuol di famiglia, occupato ne’ tuoi doveri dati da Dio? Segui quelli prima; prima i doveri imposti dalla Provvidenza, poi gli scelti da te. Se no, saresti appunto come coloro che fan mendica la famiglia per arricchire un ospedale. E tanto più che, anche nell’esercizio de’ tuoi doveri, puoi, anzi devi esercitare la medesima carità. Ma non hai tu operosità pubblica, nè speciale, nè privata? Ovvero non ne hai tu una bastante a riempiere la vita tua, a farti fuggir gli ozi? E vuoi tu salvar te e i tuoi, e quanti più puoi, l’intiera patria dalla corruzione? e così giovarle quant’è in te in un modo sicuro? Fa allora ciò che fecero tanti nostri maggiori, ciò che fanno tanti nostri contemporanei; datti alla carità, e lascia dire; tu ti sarai dato alla patria. E lascia che altri si scusi degli ozi, accusando la patria, i principi, i tempi, gli stranieri. Niuno di questi, nemmeno gli ultimi, non ti posson rapire il gran supplemento a tutte le operosità; non ti posson rapire questo esercizio delle due virtù, di che più abbisogna ed abbisognerà ogni patria, ma più la nostra sempre e più finchè si apparecchia all’impresa, e più che mai quando venga l’occasione: le due virtù, dell’operosità e de’ sacrifici. 12. Ma stando già in sul finire, io temo mi si domandi forse chi son io che tanto predico virtù? qual diritto, qual missione ho a ciò? e se ho io tal virtù? Ed io risponderò prima, che poco importa chi io mi sia; che la mia missione, io la tengo dal mio amore alla patria, il quale inspira a me a dir ciò che sarà da altri chiamato austerità, come ispira altrui a dir ciò che chiamo io adulazione; e poi che se queste mie si chiaman prediche, io reclamo il diritto e dovere di dire con ogni predicatore: guardate a quel che dico, e non a quel che fo, io vi parlai di virtù, non di mie virtù, e quelle studio e desidero in generale, appunto perchè sento il bisogno di farle mie. — E se mi si dicesse poi ch’io ho percorsa e fatto percorrer gran via, per riuscir a cose, non che private, volgari, alla virtù dei padri e delle madri di famiglia, de’ _fratelli ignorantelli_ o delle _suore di carità_, io risponderei che noi abbiam percorsa gran via per riuscire a ciò: che ogni virtù pubblica e privata è indispensabil mezzo a raggiungere lo scopo altissimo dell’indipendenza, a rivolgere i sogni in isperanze, e le speranze in realità. — E se mi si dicesse finalmente, che la somma di quanto io seppi proporre non è altro che rassegnazione, virtù dei miseri e deboli, io risponderei che la somma di quanto propongo è appunto la rassegnazione, virtù degli infelici, ma forti; quella rassegnazione che non è rinuncia, ma nuova direzione d’operosità, quella che è volontaria accettazione di quanto non si può virtuosamente mutare, per progredir tanto più alacri a tutto ciò che si può e si deve virtuosamente mutare[38]. — Di che poi, e di tutto lo scritto fin qui, fo il sunto in due parole: un solo scopo, L’INDIPENDENZA; un solo mezzo, LA VIRTÙ. CAPO DUODECIMO. BREVE STORIA DEL PROGRESSO ITALIANO L’azione incivilitrice dell’Evangelio è tuttavia ne’ suoi principii. (GIOBERTI, _Del Buono_, Avvert., XX). 1. Ora è finito il mio libro, quale mi proposi di scriverlo, rispettando, quanto più potessi, senza tradire i miei pensieri, quella esagerata opinione di nazionalità che parmi molto sparsa nella patria nostra. Ogni opinione patria mi sembra rispettabile fino a questo segno, che chi crede doverla combattere, il faccia, come figliuolo, colla speranza d’ingannarsi sugli errori de’ genitori; col desiderio almeno di trovarne le scuse. Ma in una nazione che non ha nazionalità compiuta, è poi particolarmente scusabile qualunque esagerazione del sentimento di nazionalità. Quindi, volendo dire delle speranze d’Italia, io m’attenni a quelle speciali di lei; e se talvolta per necessità io toccai pure alle straniere, io m’affrettai di rivarcar l’Alpi, e porle quasi fra noi e l’universo mondo; e se talvolta non potei evitare la parola e l’idea di progresso cristiano universale, io mi affrettai, mio malgrado, a lasciarla. — Ma il mio libro è finito; e non so trattenermi dal pensare che sien pur molti Italiani d’animo più largo e veramente liberale; i quali, anche tra le condizioni men liete della patria, sappiano vedere e fruire le condizioni lietissime della Cristianità, e trar da esse volontieri nuove e maggiori speranze. Questa virtù del sapere nella minor ventura, od anche tra le sventure proprie, rallegrarsi allo spettacolo delle fortune altrui, è una delle più necessarie virtù private senza dubbio; è quella che dà forza a qualunque sventurato di adempiere i doveri e gli affetti a lui restanti. E così è delle nazioni. Ad esse come agli uomini l’invidia è colpa; l’invidia è pervertimento del dolore, destinato a migliorare, non a guastare; l’invidia è ultimo grado della miseria. Ed alle nazioni più che non agli uomini il saper partecipare alle letizie altrui è talor fonte di letizie novelle; perchè non si rinnovella la vita negli uomini, ma sì nelle nazioni. — A coloro adunque fra’ miei compatrioti che sien capaci di questa virtù io rivolgo il presente supplemento o complemento del mio libro; rivolgo quest’altre poche pagine per chiarir quell’idea del progresso universale, la quale è oramai inevitabile a chiunque attenda ad una delle tre scienze che trattano dei destini umani, la storia, la politica e la filosofia. Giusta o fallace, buona o cattiva, utile od inutile, quest’idea preoccupa gran parte della nostra generazione. Non sarà quindi tempo perduto quello adoprato in chiarircene ciascuno. — E non sarà perduto particolarmente per niun Italiano. Siamo sinceri. Molte, forse tutte le speranze speciali fin qui proposte a’ nostri compatrioti, scendono da quella somma, che progredisca la Cristianità in mezzo al genere umano, l’Italia in mezzo alla Cristianità. Se fosse fallace la speranza somma, sarebbe fallace la nostra speciale. Se è verace quella all’incontro, non importerebbe ch’io mi fossi ingannato sulle minori od eventuali; invece d’una occasione venuta meno, ne sorgerebbero parecchie altre. Il progresso cristiano è il fonte di tutte. E val dunque la pena di risalire ad esso. — Ma, naturalmente, non può essere se non brevissimo questo supplemento a breve libro; e non può pretendere quindi nè a persuadere gli invecchiati in opinioni contrarie, nè ad insegnar le nostre a coloro che vi sien nuovi del tutto. Ei non può essere se non reminiscenza, o, tutt’al più, ordinamento d’idee già concepite; discorso tra consenzienti o poco dissenzienti. 2. L’idea del progresso del genere umano non è nuova. Io crederei che sia surta in mente a molti, ogni volta che surse una gran nazione, un grande imperio, un gran conquistatore; a cui gli adulatori dissero probabilmente, incominciar quindi una nuova era di riunione e di felicità universale. Così, senza cercarne altri esempi, avvenne a’ tempi di Augusto; la famosa egloga di Virgilio ed altre simili adulazioni ne sono chiari documenti. — E tutte queste si trovarono, per vero dire, fallaci profezie. Ma altre se ne fecero già tutto diverse; e non a niun conquistatore, a niun imperio, a niuna nazione da poeti o panegiristi, ma alla Cristianità primitiva da’ santi Padri, dagli apologisti, dagli apostoli e da san Paolo principalmente, anzi dal divino autore del Cristianesimo; e risalendo più su da’ profeti, dai salmisti e dagli scrittori sacri fino alla Genesi, i quali congiunsero colla promessa del Redentore, la promessa d’una nuova luce, d’una nuova via, d’una nuova verità, d’una nuova unione di tutto il genere umano. Confusa in coloro che non avevano se non i lumi della ragione o delle tradizioni mal serbate, più chiara in coloro che erano rischiarati dalla rivelazione, l’idea d’un progresso universale futuro è ad ogni modo antica quanto il mondo; l’idea precisa d’un progresso già incominciato e futuro è antica quanto la Cristianità. 3. I filosofi del secolo scorso, a cui ella si suole attribuire, non fecero se non nominarla e determinarla. Bene o male? Qui è grave questione. — Vedendo il progresso vero e grande che facevasi a lor tempo in tutte le scienze materiali, sperarono e promisero farne fare essi uno simile nelle spirituali, annunciarono un progresso universale presente e futuro; e quindi a poco a poco innamorandosi, come succede, della propria idea, e retrocedendo al passato, protestarono che tal progresso era già antico, antichissimo, coevo col mondo, perpetuo, connaturale al genere umano. L’uomo fu definito animal progressivo; progressiva la ragione, la natura umana per sè; quanto fu, quant’è o sarà buono nel genere umano, effetto di tal virtù progreditrice; quanto è cattivo, eccezione. — Una difficoltà rimaneva: gli storici avean notato sempre, gli uomini pratici e politici osservavano ogni dì nazioni salenti, nazioni scendenti in fortuna e virtù; e gli storici universali e i filosofi avevano anzi osservati periodi di tempi in che parve retrocedere non solamente una o più nazioni, ma il genere umano tutt’intiero; e ciò avrebbe distrutta fin dalle fondamenta la nuova e lieta idea del progresso perpetuo. Ma non si arrestarono perciò i filosofanti; non potendo co’ fatti nè quindi co’ ragionamenti, ei si salvarono con un paragone; paragonarono il progresso umano a quello d’una spirale che ad ogni giro sembra retrocedere e pure avanza; e con questo, senza chiarire se i regressi umani sieno stati apparenti o no, e quanti e quali, tennero satisfatti sè stessi e distrutta la difficoltà. — Un’altra, per vero dire, ne sorse. In quell’idea del progresso perpetuo fin dal principio, era implicata l’idea che il Cristianesimo, quell’innegabilmente sommo de’ progressi umani, non fosse se non un progresso umano, naturale; che quindi fosse possibile, probabile, certo, imminente un altro progresso simile e per conseguenza maggiore il quale poi fosse la filosofia. E questa era, per vero dire, gran difficoltà per li sinceri cristiani, i quali non ammettono nè che il Cristianesimo sia un progresso naturale, nè che ne possa succedere uno superiore. Ma nè perciò si arrestarono que’ filosofi. Posta evidente la caduta del Cristianesimo, e disprezzando poi e commiserando tutti coloro che non la vedevano, non tennero di questi, cioè di tutti i cristiani, niun conto; separarono in questa come in altre questioni i due campi della religione e della filosofia; dismessero le discussioni sul passato, sull’intiera storia del genere umano; la dichiararono inesplicabile, la lasciarono inesplicata; e rifuggirono al futuro, facile sempre a spiegare, malleabile a conformare per tutti coloro che non si prendon cura di farlo concordar col passato. 4. Ma a costoro, il tempo suol dar pronte e solenni smentite; e diedene una tale a’ nostri dì. Quel futuro così mal preveduto da’ filosofi delle ultime generazioni è diventato presente nostro; e noi veggiamo il Cristianesimo più fiorente che mai. E quindi men che mai, noi cristiani studiosi di filosofia, di storia o di politica, non accettiam nessuno di siffatti compatimenti, non abbiam bisogno nè di separare i campi della filosofia e della religione, della ragione e della rivelazione, nè di rimettercene al futuro incerto; bastaci il passato e il presente, la storia, qual l’abbiamo, compiuta dal principio del mondo fino a noi. — Per noi questa si divide in due sole parti principali, due serie d’eventi spartite da uno massimo, la venuta del Redentore. Per noi la serie antica è regrediente; la cristiana è progrediente. Per noi il progresso presente del genere umano è evidente e certo; ma non incomincia dal principio del mondo, non dal primo uomo, non naturalmente; incomincia soltanto col Cristianesimo, dalla venuta del Redentore, dalla ultima gran rivelazione, e così soprannaturalmente. E per noi in somma il Cristianesimo, fu, è, non solamente progresso massimo, ma causa del progresso; e non progredì egli stesso in sua intima virtù, la quale dovette essere e fu perfetta fin da principio, poichè divina; ma progredì negli effetti di quella virtù, in tutti gli effetti umani suoi, fece progredire tutti gli uomini in che si diffuse, la società cristiana, la Cristianità. Tutto ciò fino a noi, certamente; tutto ciò molto probabilmente in tutto il futuro a noi prevedibile; rinunciando noi per il futuro lontano a sapere quanto non ce n’è rivelato; e così a quasi tutto, salvo che la chiesa cristiana durerà in qualunque condizione, quanto il genere umano. — E veggiam ora le prove sommarie di tutto ciò. 5. Le prove del regresso del genere umano fino al mezzo de’ tempi sono a noi evidenti da tutti insieme i libri sacri e profani. I primi (che sono solo chiaro, solo tollerabile documento per li tre o quattro primi millennii fino a Ciro), ci ritraggono il genere umano due volte surto da una famiglia, due volte incipiente dall’adorazione del Dio vero ed unico e dalla vita semplice patriarcale, e due volte scostatosi dalla verità e dalla virtù, due volte caduto in que’ politeismi e in quell’idolatrie moltiplici e corruttrici, che si son fatte quasi inconcepibili a noi oramai. — Nè contraddicono le stesse storie profane; se non sieno interpretate, come pur troppo si fa talora, con quella pedanteria, con quella scienza affettata ed ignoranza effettiva, che non lascia libera la mente a niun concepimento di realtà. Fuori d’una cronaca cinese, il _Shu-King_, ed una di Cashmir, io non conosco libro profano anteriore ad Erodoto, che meriti nome di storico, che non sia assurdamente mitico e poetico. E questi due libri, non discordi in nulla dalla narrazione biblica, ma poveri poi nell’altre notizie, non sono noti se non, il primo da men d’un secolo, il secondo da una decina d’anni. Tutti gli altri storici, compreso Erodoto, che han nome d’antichi, non ci ritraggono se non gli ultimi sei secoli, fra i quaranta o cinquanta della storia antica; e questi sei sono quelli di quell’arti e quelle lettere greco-romane, le quali furono apice delle antiche. Quindi l’illusione. Dico, l’illusione di coloro che attendendo a quell’arti e quelle lettere, e non sapendo vedere più in là nè più su, quando veggono un progresso di coltura, lo dicon progresso di civiltà, e dimenticando poi i due maggiori bisogni, i due più essenziali progressi umani, quelli della verità e della virtù, danno ai due altri minori il nome di progresso universale del genere umano, o con parola propria loro _umanitario_. Se questa non è pedanteria, cioè preoccupazione, anzi restrizione e studio incompiutissimo della propria scienza, io non so che cosa sia. Non s’avrebbe se non a studiar meglio tutti quegli storici antichi, così facili del resto e piacevoli per l’arte ammirabile colla quale scrissero, e congiungere lo studio de’ poeti e de’ filosofi e di tutti gli altri scrittori non meno ammirabili di quell’età, per vedere: 1.º Che tutti quanti, ma più i più alti d’antichità e d’ingegno, Erodoto e Platone sopra tutti, e poi Senofonte, Livio, Cicerone, Tacito, e poi tutti in corpo i poeti della età colta antica, ricordarono continuamente non una sola, ma parecchie età anteriori e migliori, e in capo a tutte una età dell’oro, cioè un’età di pensieri e costumi semplici, di vita patriarcale, e d’adorazione unica. 2.º Che tutti, ma principalmente i filosofi, e sopratutti Platone, non fecero già quella distinzione dei due campi della filosofia e della religione, che è novissima de’ nostri dì; ma cercarono anzi come potevano co’ lumi uniti della loro ragione potentissima ed avanzatissima, e delle loro tradizioni all’incontro perdutissime, le reliquie di quelle credenze e que’ costumi primitivi che volevano restituire. 3.º E che in somma, non pedanti, non preoccupati essi dallo splendore della loro coltura ed anche meno della loro civiltà, confessarono, professarono, proclamarono vivere in una età corrotta e retrograda, ed aspirarono (quantunque invano, come si vide in breve) a quello che sarebbe stato progresso primo incipiente da essi. Non è colpa loro se i moderni, non credendo alle loro stesse parole, lodandoli di ciò di che non lodavano sè stessi, e commentatori simili a tanti altri, aggiungendo ciò che non era nei testi, fecero una storia antica in veste moderna, ad uso delle moderne opinioni, e contraddicente a tutte l’antiche; nè se poi alcuni scrittori di storie moderne, aggiungendo alla stretta scienza la stretta imitazione, ingioiellarono le narrazioni dei tempi nostri con que’ piangistei sulla decadenza del genere umano, i quali erano gravi di spontanea verità negli storici antichi, ma sono in essi risibile e bugiarda copiatura. 6. Ma lasciamo la storia antica; e della moderna stessa non prendiamo se non ciò che sia necessario al nostro assunto. — La storia della Cristianità è per noi nè più nè meno, che storia del progresso; lo comprende tutto, vi è compresa tutta; le due sono contemporanee, parallele, identiche. Pare a molti impossibile a provarsi, lo so; pare che in parecchi secoli, in quelli specialmente detti della barbarie, sia impossibile a scorgersi un progresso qualunque. Ma se qui pure noi lascerem da banda, noi scrittori o leggitori, ogni preoccupazione del nostro mestiero di letteratura, se ci sapremo innalzare a considerare come prime necessità, prime condizioni, primi scopi della vita in ogni uomo e nel genere umano la verità e la virtù, non ci sarà difficile scorgere il progresso del genere umano nel progresso della Cristianità, e questo poi lungo tutti i secoli cristiani, anche in quelli detti oscuri o barbari. — Considerata la questione nella sua generalità, nel suo complesso, dal suo principio a noi, nel suo risultato presente, ella non può essere, io non credo che sia, dubbiosa a nessuno. Non dubita nessuno che sia ora progredita la Cristianità, non dubita nessuno che la Cristianità sia sola delle grandi società umane, progrediente oggidì; non dubita nessuno che sieno o stazionarie od anzi in regresso le società maomettane, le bramaniche, le buddiste, la cinese, e i resti delle altre idolatre. Gran prova sommaria per vero dire, e che basterebbe a dimostrare la virtù progressiva insita esclusivamente nella Cristianità; gran presunzione che questa abbia dovuto progredir continuamente. Ma lascisi pure, come troppo breve, tal prova; noi non fuggiam l’esame consecutivo de’ varii secoli, e non abbiamo altro rincrescimento se non di non potere scender qui ai più minuti particolari, i quali dimostrerebbero sempre più la nostra proposizione. 7. Le divisioni sono nella storia, come nell’altre scienze, molto importanti, dipendono dal concepimento giusto e complessivo nell’autore, e il producono nel leggitore. Ma, perchè parecchi concepimenti giusti di qualunque scienza possono essere nella mente umana, che non arriva al concepimento infinito, perciò parecchie divisioni possono esser buone, perciò qualunque divisione è sempre più o meno arbitraria. Dopo tal protesta su tutte le divisioni, pongo qui questa della storia del Progresso Cristiano. — Età I.ª dalla nascita del Redentore alla distruzione dell’Imperio romano (anni 1-476); età della coltura e civiltà antica cadente, e delle cristiane sorgenti; età intermediaria tra il mondo antico e il rinnovato. — Età II.ª dalla distruzione dell’Imperio romano fino a Gregorio VII (anni 476-1073); età che si potrebbe forse dividere in due, prima e dopo Carlomagno; ma che noi comprendiamo in una sola, per chiamarla Età del Primato Germanico. — Età III.ª da Gregorio VII al gran rimescolamento degli stranieri in Italia (anni 1073-1494); età incontrastabile di Primato Italiano. — Età IV.ª da quel rimescolamento della Cristianità fino a noi; la quale, per non suddividere troppo secondo i primati più brevi che succedettero, noi chiameremo Età de’ varii Primati Cristiani. — Come si vede, noi accettiamo dal Gioberti il nome e l’idea d’un Primato tenuto finora da una nazione cristiana sull’altre; ma scostandocene in ciò che crediamo non sia stato tenuto da una sola sempre, ma sia passato dall’una all’altra parecchie volte. Delle idee dei grandi pensatori, sempre si serba molto da coloro che vi contraddicono non per ismania di novità, ma per istudio di verità. 8. Nella I.ª età (dall’anno 1 al 476) non ha guari bisogno di dimostrazione il progresso cristiano in mezzo alla decadenza greco-romana. Qui si trovarono in presenza i due mondi, l’antico e il nuovo; qui furono contemporanee, qui spiccarono al paragone le due serie d’eventi, regredienti gli uni, progredienti gli altri; qui precipitarono del paro i due moti contrari. — All’anno 1.º la coltura antica era al suo apice; l’antica civiltà ci si credeva; e la religione, non quella del volgo per vero dire, ma quella de’ filosofi e di tutti i colti, si sforzava di risalire alla semplicità ed unità abbandonata da molti secoli. All’anno 476 poi la coltura aulica erasi spenta già tutta da sè, a poco a poco, per vizio, per impotenza propria; la civiltà, qualunque fosse stata, era passata per tutti gli eccessi della tirannia imperiale, ed era giunta al disordine più compiuto che sia stato mai; e quella religione filosofica, la quale si era potuta credere tanto più vicina al trionfo, che era sulla via della verità in mezzo agli errori universali, la religione filosofica non era tuttavia progredita per quella via; non era stata capace di farvi entrare nè l’Imperio, nè una provincia, nè una città, nè una condizione, nè una società d’uomini qualunque; non era stata capace di formare società di quei pochi filosofi; non nemmeno di riconoscere la religione, la società veramente filosofica, veramente risalente ad unità, che le sorgeva daccanto. — E la società cristiana all’incontro, incominciata da pochi uomini del più disprezzato volgo nella più disprezzata fra le provincie romane; dimorata pochi anni in quella e nelle provincie greche circondanti; portata in breve a Roma ed ivi subito propagatasi a segno da trar l’attenzione e le persecuzioni imperiali; e propagatasi quindi tutto all’intorno, a malgrado di quelle persecuzioni, a malgrado della guerra mossale da tutta la filosofia, da tutta la cultura, a malgrado della guerra ch’ella moveva a tutti i costumi del tempo, e, non come tutti gli altri progressi secondando l’opinione e secondatane, ma a malgrado di essa; tanto crebbe, tanto potè in tre secoli, da salir sul trono imperiale e diventare religione dello Stato, da creare un gran principio di coltura propria, di propria civiltà, da porsi in somma essa sola in luogo di tutta la società greco-romana. — E questa era stata, per vero dire, la più splendida, la più progredita fra le antiche; ma ne rimanevan pur altre, fra cui due grandi, l’indiana e la cinese. E tutte due, chiamisi caso o disposizione della Provvidenza, tutte due trovaronsi appunto intorno al medesimo anno 1.º al loro sommo, tutte due quasi nel medesimo fiore che la società occidentale greco-romana; anzi in quella medesima condizione di filosofie ricercanti la religione primitiva. E tutte e due dimostrarono a lor modo la medesima impotenza; e la dimostrarono tanto più, quanto più diversamente. Non decaddero, o decadder poco; rimasero stazionarie; stazionarie allora; stazionarie poi fra molte vicende, lungo molti secoli, fin presso a noi che le veggiamo cadere. E stazionarie rimasero allor pure le reliquie della società e della religione antichissima de’ Persiani o de’ Magi; stazionarie le società e le religioni varie e moltiplici di barbari settentrionali e meridionali, Germani, Scandinavi, Finni, Sciti, Tartari, Arabi, Affricani; e stazionarie come si trovarono poi le società e religioni americane. Certo non sarebbe mestieri venir più giù nella storia della Cristianità; basterebbe fermarci a questa prima età di lei per dimostrare 1.º che è in lei infusa una virtù del progresso; 2.º che non è infusa in nessun’altra società umana; 3.º che è dunque infusa in lei, non per natura umana, ma da fuori, soprannaturale. — E l’accenno a scanso di ogni scandalo; certo di tal soprannaturalità sono altre prove che la filosofia della storia; ma la filosofia della storia, come tutte l’altre filosofie, ha e dà la prova sua, e deve darla; la grande idea del progresso cristiano non sarebbe compiuta senza quella dell’origine soprannaturale di esso. 9. Ma lasciata l’età della chiesa primitiva, or perseguitata, or trionfante, l’età degli apostoli, dei primi apologisti e de’ santi Padri, della quale non può essere nè è contrastato il progresso; entriamo in quella seconda, della barbarie, che è il campo eletto da’ negatori di esso. — Dal 476 al 1073 sono sei secoli, ne’ quali tu non trovi un grande scrittore, non un grande artista, non una scienza, non una coltura fiorente. Nè io disputerò facendo liste di grandi uomini ignoti; non solamente ammetto, ma propugno io stesso quella oscurità; quella barbarie di coltura. E ammetto e propugno la contemporanea barbarie di civiltà. — Ma che perciò? Ritorniamo a ciò un altra volta: viviamo noi quaggiù per iscrivere o dipingere, od anche governare ed essere governati? Ovvero, non si scrive egli e dipinge, e promuove le colture, tutte, e non si governa egli e non si è governati, per viver buoni, per la virtù? Qual è la somma (io do il problema ai filosofi non teologi o puri, non meno che a’ nostri), qual è la somma, la risultante delle vite di qualunque generazione, quando lascia luogo alla successiva? La somma de’ libri e de’ quadri e delle leggi, ovvero quella delle virtù? E se, come io credo, non solamente tutti i filosofi, ma tutti gli uomini di senso comune convengano in ciò, che la somma, lo scopo delle vite umane sia la virtù; certo, una età che sia progredita in virtù si dovrà dire progredita in generale, quand’anche non sien progrediti tutti quegli accessorii od amminicoli di virtù. Ora, così appunto avvenne, che questa età, caduta di coltura e civiltà, progredì in virtù; che al difetto di que’ soliti e minori amminicoli supplì e soverchiò quello maggiore del Cristianesimo; che continuando a decadere o rimanendo stazionarie la coltura e la civiltà, continuò a progredire in somma totale la Cristianità. — L’Imperio romano diventando cristiano era senza dubbio progredito in virtù o piuttosto aveva corretto molti vizi suoi. Ma questi erano stati così estremi, che anche scemati rimanevano grandissimi, così grandi che abbondano le testimonianze dei sudditi imperiali desideranti passare sotto i barbari invasori. I quali poi erano poveri di virtù, ricchi di vizi pur essi; di che pure abbondano le testimonianze. E il fatto sta che, viziosissime le due società civili le quali si rimescolarono a quel tempo, non era virtù se non nella società religiosa, nella Cristianità; e che il solo che potesse essere progresso di virtù, era dunque il progresso di essa. Il quale poi è innegabile. Progredì la Cristianità in diffusione, dall’interno dell’Imperio, dov’era stata rinchiusa (salve poche eccezioni), tutt’allo intorno, ma principalmente nelle schiatte germaniche, invaditrici od invase. Come? non sarebbe stato progresso questo accedere d’una grande e numerosissima nazione da’ culti di Odino, di Teuth e di Erta e da’ sacrifici umani, al culto del Dio Uno, al sacrificio di Gesù Cristo? Ma, ei si conta pur per progresso l’antico accedere de’ Romani alle arti ed alle lettere greche! I due casi sono simili: i vincitori romani preser dai vinti le colture greche, i vincitori germanici preser la religione cristiana. Chi prese più? Di nuovo, io do la questione a’ filosofi purissimi. Nè credo che osi uno negare che presero più gli ultimi; che fu maggiore, e, per dire a modo di quelli, più _umanitario_ progresso, il germanico. E se uno l’osasse, io l’inviterei a guardare ai due risultati, la corruzione romana dall’arti greche, l’incivilimento germanico dal Cristianesimo. Quest’età fu destinata all’incristianirsi, all’incivilirsi, al progredire delle genti germaniche; il progresso germanico fu il grande ufficio di quest’età; e quest’età tutt’insieme fu quindi età di Primato Germanico, prima e dopo Carlomagno, da Odoacre a Gregorio VII. — Uno de’ più illustri e degli ultimi filosofi della scuola pura, Hegel, nella sua filosofia storica dataci postuma, chiama Età Germanica, Mondo Germanico tutte quante le età della storia cristiana. Esagerazione anche questa! ma in cui pure è un nocciolo di verità. Non fu mai mondo germanico, nè come li chiama il medesimo Hegel, Mondo Orientale, Mondo Greco, Mondo Romano. Ma primeggiarono fra le antiche già, e fra le cristiane poi alcune nazioni indubitabilmente; con questa essenzial differenza, che i primati antichi riuscirono tutti a cadute, i primati cristiani a progressi e della nazione primeggiante e delle primeggiate. Questa parmi la realtà della storia contro alle due esagerazioni simili, del primato germanico e dell’italiano. Nè l’un nè l’altro non durarono lungo tutte le età cristiane; nè l’un nè l’altro nè nessuno non fu nè potè essere destinato a durar sempre, in una società destinata ad essere universale, cattolica, cristiana. — Ma il primato germanico ne’ sei secoli di che parliamo è incontrastabile. Primeggiarono i Germani coll’armi, primeggiarono stanziando ne’ governi, nelle case, nei campi de’ vinti, propagandosi nelle schiatte, nelle generazioni; e primeggiarono forse nella coltura (così povera del resto a quell’età, che quasi non conta) e certo nella operosità universale, che era grande dappertutto, e in che furono essi grandissimi. Ed il primato germanico fu il primo in tempo fra’ primati cristiani; e fu il più lungo, durò dai primi stanziamenti di quelle genti in mezzo alla Cristianità d’intorno alla metà del secolo V, fino alla cessazione della tirannia degli imperadori germanici sulla Chiesa romana, e per essa su tutta la Chiesa, cioè fino a Gregorio VII, dopo la metà del secolo XI, sei secoli in tutto. Il tentativo, l’imperio di Carlomagno non fu, se si consideri bene, se non un evento di quel primato, il più grande per vero dire; quello per cui ei si volle, ma non si potè fare perpetuo; quello per cui si divide la barbarie, in barbarie propriamente detta, e barbarie feudale; barbarie germaniche tutte e due ad ogni modo. 10. Nè il progresso di diffusione fu il solo fatto dalla Cristianità in quell’età; un altro non meno importante e non abbastanza avvertito fu pur fatto da lei contemporaneamente: un progresso di riunione. La Cristianità dell’Imperio romano, sia la primitiva e soffrente, sia più quella poi trionfante, era stata divisa da innumerevoli eresie. Quella moltiplicazione di errori che, annunciata così arditamente da Bossuet due secoli fa, noi osserviamo così indubitabilmente effettuata a’ nostri dì, fu già pari e quasi identica al secolo V; tanto che non è forse un’eresia presente che non potesse, volendo, prendere il nome d’una di quelle antiche. E (magnifico augurio per vero dire!) tutte queste cessarono, si spensero da sè, nel corso del secolo VI; ricominciò in questo l’unione di tutta la cristianità, che durò poi senza grandi eccezioni non solamente lungo tutta l’età barbara, ma lungo tutta la seguente. Sarebb’egli a farne onore alla semplicità, al buon senso della schiatta germanica primeggiante? Io crederei che sì; e che questo sia poi buon augurio a quella stessa schiatta, sviata sì più che l’altre da tre secoli in qua, ma che dagli intensi e sinceri suoi studi storici sembra essere ricondotta all’imitazione de’ suoi maggiori. — Ad ogni modo, è indubitabile questo progresso di riunione nella Cristianità dell’età barbara o germanica. 11. Ma un altro grand’evento successe intanto sui limiti della Cristianità (non succedendo niun altro tale più in là, durando colà più o meno stazionarie le religioni, le civiltà, le colture indiane e cinesi, e l’altre minori); sorse il Maomettismo. — Fu progresso o regresso questo? Certo fece perdere alla Cristianità non poche provincie, alcune asiatiche, tutte l’affricane, e quasi tutte le iberiche; e quindi nuovo argomento a coloro che vogliono vedere regressi in questa età. Ma prima, questa diminuzione di sudditi meridionali fu più che compensata alla Cristianità dall’accrescimento che dicemmo nelle schiatte settentrionali. E poi questo stesso Maomettismo, il quale si può considerare e si considera da parecchi quasi non più che una setta, un’eresia semirazionalista cristiana; questo Maomettismo non fu forse gran regresso dalle incerte e miste religioni arabiche, e fu poi certamente un progresso vero dovunque sottentrò alle idolatrie moltiplici e vagabonde, cioè nei tre quarti dell’immenso territorio su cui s’estese. Se per esempio si consideri il Teismo maomettano nelle sue conquiste indiane, nella sua guerra contro quell’idolatrie che si potrebbero dire le più perfette perchè appunto le più inoltrate nel proprio principio della moltiplicità; certo egli è a considerare come un ravvicinamento alla verità, come un miglioramento. E così dove ei distrusse od asservì il Magismo persiano, e i Feticismi delle genti vaganti asiatiche od affricane. — Noi non possiamo sapere ancora, quali saranno le vie della Provvidenza nelle future ampliazioni della Cristianità e del Cristianesimo che sembrano annunziarsi da tutte le parti; nè se si convertiranno, ovvero si perderanno, come in America, le schiatte non cristiane in mezzo alle cristiane; nè se, succedendo larghe e nazionali conversioni, elle succederanno dalla religione maomettana più che dall’altre. Ma considerando questa in sè e ne’ suoi primi secoli non è negabile, non è negato, ed è anzi esagerato da parecchi il fatto che ella fu e produsse progresso. — La storia dell’Islamismo è un magnifico assunto, il quale non è maturo per quella sorte di storici che pretendono narrare tutto, ambiscono erudizioni recondite, veggono tutta l’importanza nei documenti inediti, e che direbbono quindi impossibile una storia maomettana senza compulsar di nuovo gli archivi di Simanca, ed aver aperti quelli di Costantinopoli, e ritrovar quelli di Bagdad, di Brussa, di Ghiznè, di Bokara o di Samarcanda. Ma a coloro che, senza disprezzare i fatti e le rettificazioni minute, non danno grande importanza se non a’ grandi fatti, e credono che la storia sia oramai più saputa che intesa e volgarizzata, e attendono perciò a spiegarla e diffonderla; a costoro basterebbon certo i fatti maomettani noti, per comporne una storia e direi quasi un poema vario, piacevole, utile, ed oramai compiuto. Incominciando da Maometto e l’egira, intorno al seicento, e venendo fino a noi, sono dodici secoli in tutto; quattro di gioventù e d’ingrandimento, quattro di stazione o compensi tra il perduto e il nuovo conquistato, e quattro oramai di decadenza; tre età meravigliosamente corrispondenti alle tre cristiane da noi poste, quantunque diversissime ne’ due andamenti. Ma basti a noi l’osservar qui, che la prima di quelle età maomettane, l’età della gioventù, delle conquiste dilatate di qua fino ed oltre i Pirenei, di là fino ed oltre all’Indo, l’età d’un incivilimento poco minor del cristiano contemporaneo, d’una coltura forse superiore, fu dunque un’età di progresso incontrastabile per tutte quelle immense regioni; e che quindi questo progresso maomettano, si consideri o no come conseguenza del cristiano, entra ad ogni modo nel conto del progresso universale di questa età. In tutto, gli storici che vogliono abbassar il Cristianesimo, che vogliono dare la virtù progreditrice alla natura, alla ragione umana, alla filosofia, al Maomettismo, a checchessia, purchè non al Cristianesimo, non sapendo dei XIX secoli nostri trovarne altri in cui il progresso cristiano sia stato così piccolo come in questi sei, s’impuntano, si compiacciono in questi, per dimostrarvi la quasi nullità della coltura e della civiltà cristiana, e la superiorità della maomettana. Noi all’incontro veggiamo nella Cristianità di questi sei secoli, prima due chiari, due grandi progressi, uno di diffusione nelle schiatte germaniche, ed uno di riunione nella chiesa cattolica. Poi, potendo forse reclamare tutto il progresso maomettano, come fatto che non sarebbe succeduto senza il Cristianesimo, e perciò come conseguenza di esso, noi non insistiamo tuttavia in tal pretensione; e scegliamo anzi di considerar il maomettano come ultimo progresso tentato fuori della Cristianità, come uno simile agli antichi, ed a guisa di quelli incapace di durare o progredire ulteriormente, destinato a mostrare la incapacità di tutti fuori della Cristianità. Ma, dei due modi di vedere, noi lasciamo volontieri la scelta a ciascuno: tutti due risultano a gloria esclusiva del progresso cristiano. 12. E passando quindi alla III.ª delle età che ponemmo da Gregorio VII (1072) alla fine del secolo XV, e che chiamammo età del Primato Italiano, noi saremo più brevi, e perchè già abbiam toccato di tale età scorrendo le vicende della nostra indipendenza, e perchè poi sono notissimi e conceduti da tutti e il gran progresso di questa età, e il primato tenutovi dall’Italia. Perciocchè io credo che in questo convengano non solamente i miei compatrioti, ma anche gli stranieri; men gelosi, men bugiardi e meno ignoranti che non si dicono da alcuni di noi. Gli stranieri non ci negano se non le esagerazioni, il prolungamento, la perennità del nostro primato; ma il primato vero de’ quattro secoli e più, io non saprei straniero colto che ce lo neghi; e parecchi di essi resergli anzi l’ossequio più reale che sia, e che pur troppo non sapemmo o potemmo rendergli noi, quello di studiare e descrivere quei tempi, quelle cose, quegli uomini nostri. Chi ci diede la storia delle repubbliche italiane? chi le vite distese di Silvestro II, di Gregorio VII, di Innocenzo III, di Cola di Rienzi, del Poggio, di Lorenzo de’ Medici, di Colombo, di Leon X e di Raffaello? Le quali se non ci contentano del tutto, sono pure ciascuna o la migliore, o la sola opera che abbiamo su ciascuno di questi assunti; e provano ad ogni modo il rispetto, la riconoscenza di quegli stranieri per quell’età nostra, che studiarono tanto. Quella stessa impresa della lega di Lombardia la quale è vanto e dovrebb’essere studio precipuo nostro, chi la studiò più? Noi vincitori od anzi i Tedeschi vinti nostri quella volta? Certo le opere del Raumer, del Voigt, del Kortüm e del Leo non hanno satisfatto al grande e nazionale assunto; ma certo pure non ne fu fatto nè tentato altretanto, non ne fu tentato nulla in Italia. Un Francese dedicò già gravissimi studi al Petrarca; ed un Francese, parecchi Tedeschi ed un Americano vivente ne dedicano de’ più gravi a Dante. Certo tutti questi non sono disprezzi di stranieri contra noi. Nè furonvi, alla grande età nostra, disprezzi d’Italiani contra stranieri. Que’ nostri maggiori, che eran duci della civiltà pubblica universale, e che fecero già una parola sola di essa e della civiltà privata o personale (notevole e bella povertà della lingua nostra!), non che predicare invidiuzze od isolamenti, predicavano e praticavano unione, larghezza, liberalità universale. Pier Lombardo, Lanfranco, sant’Anselmo, Ildebrando, Alessandro III, san Tommaso, Dante, Petrarca e Boccaccio, i più grandi della nostra grande età, tutti impararono, o insegnarono, o rifuggirono presso a quegli stranieri. Cinquecento anni fa e più oltre, gl’Italiani riconoscevano una sola ed universal civiltà cristiana; ed era ciò naturale; la conducevan essi. Or la riconoscono gli altri, fattisi nuovi duci; e riconoscono insieme il ducato o primato nostro antico. Noi soli, negando i progressi e i primati succeduti, neghiamo parte di nostre glorie, neghiam le conseguenze dell’opera de’ nostri maggiori. — Io non saprei guari niun contradittore del nostro primato del medio evo, se non gli esageratori del primato maomettano. Nacque questa esagerazione nel secolo scorso da coloro che dicemmo aver voluto torre ogni gloria, ma sopra tutte quella del progresso, alla Cristianità. Dissero e dicono che la resurrezione della coltura cristiana nel secolo XI, l’architettura così detta gotica, la poesia provenzale, e le scienze matematiche sopra tutto, furon dovute alla coltura maomettana. Ma della architettura, ei bisogna non aver veduto nè i monumenti nè i disegni, per poter confondere o creder venuti l’un dall’altro i due stili gotico e moresco; e tutti gli studi moderni concorrono poi a dimostrare normanna o sassone o longobarda e ad ogni modo germanica l’origine di quell’architettura gotica, od anche meglio la lenta trasformazione dell’architettura ultima romana. Quanto alla poesia provenzale, noi concederemo che, derivando dalle due spagnuole, catalana e castigliana, ella derivasse dalla moresca indirettamente. E così concederemo la terza e più certa derivazione delle scienze matematiche; cioè (esclusa forse l’astronomia poca, o guasta dall’astrologia maomettana e cristiana di quel tempo) la numerazione decimale e i segni algebraici. Ma fatte tali concessioni, è a dire di queste due colture straniere nella Cristianità ciò che delle tre grandi invenzioni pure straniere, pur importate durante questa età; la bussola, la polvere da guerra, e la stampa. Tutte e tre furono probabilmente importazioni fatte a poco a poco dalla Cina nell’Oriente indiano, nel Levante maomettano, nella Cristianità; o, se mai furono invenzioni nostre, furono invenzioni che erano state fatte fuori molto prima. Ma che? Qui risplende la capacità progreditrice della Cristianità, la incapacità di tutte l’altre civiltà o colture non cristiane. Tutte queste invenzioni, e così la poesia, così le scienze matematiche, erano antiche di secoli e secoli in quelle colture non cristiane, eran passate dall’una all’altra; e tuttavia nè nelle loro culle, nè nel corso delle loro migrazioni non avean trovato campo buono a crescervi, fiorirvi e fruttificarvi, finchè non giunsero sul campo cristiano! Che vuol dir ciò, in nome della verità? Che? Se non ch’erano inopportuni, naturalmente infecondi, mal apparecchiati tutti que’ campi? solo fecondo, ed apparecchiato il cristiano? dove e le tre invenzioni e la poesia crebbero rapidissimamente appena nate durante il primato italiano; e le scienze matematiche più lentamente sì, ma pur in pochi secoli, rispetto a quelli che eran durate stazionarie altrove. Noi lasciamo a’ filosofi la questione del come o perchè, la questione della connessione che è tra la verità universale o religiosa, e le verità o le scoperte particolari e materiali che ne paiono indipendenti. Ma sfidiamo storici e filosofi a negare il fatto e la importanza del fatto: che queste tre invenzioni massime e con esse poi parecchie altre (come le chimiche) di poco minori, possedute prima, possedute secoli e millennii[39] dall’altre colture, non fruttificarono se non quando per importazione o reinvenzione diventarono cristiane. E ciò posto, lasciam pure attribuire a Maomettani, Indiani o Cinesi quanto si voglia. Quanto più se ne dia loro, tanto più sarà vergogna della loro incapacità, vanto della nostra capacità di progresso. La quale si dimostrò, si svolse in tanti modi, sotto tante forme poi, libertà civile, arti governative, carità, eloquenza, poesia, storia, musica, pittura, scoltura, architettura, teologia, economia pubblica, arte militare, commerci, navigazioni, scoperte terrestri e marittime, durante tutta quest’età del primato italiano; che il volerne dar le prove sarebbe inutile opera da retore, e il volerne dar la descrizione, assunto di una lunga storia tutt’intiera. Ci sarà ella data anche questa da qualche straniero? 13. Ora, venendo all’età che dicemmo IV.ª, dal principio del secolo XVI in poi, un grande evento, una gran questione ci si affaccia: qual parte abbia avuta nel progresso cristiano, quella separazione che fu chiamata Riforma della Chiesa. Ei ci pare che una parte molto troppo larga le sia stata fatta dagli amici, e quasi conceduta da molti nemici di lei. Errore, per vero dire, non insueto e ne’ politici contemporanei e negli storici speciali di ogni grande evento; i quali, preoccupandosene unicamente, ne esagerano l’importanza, e lo dicono non mai veduto, non da vedersi più, principio di nuova età, causa universale di quanto avviene, di quanto avverrà; ond’è poi principale ufficio della storia universale, restituir l’importanze giuste ad ogni evento, comparandolo con quelli dell’altre età, e richiamando ad esame gli effetti esagerati dalle speranze e dalle paure contemporanee. Della riforma, noi accennammo già, che ella fu poco più che rinnovazione di tutte le eresie primitive della Chiesa, alle quali ella non aggiunse nulla guari se non l’inimicizia al papa, e gli argomenti tratti dalle condizioni mutate della coltura. Ma lasciando tal comparazione, che sarebbe lunga a proseguire, ed a cui saremmo insufficienti noi, ci contenteremo di osservare le esagerazioni degli effetti della riforma. Gli amici la dissero termine del medio evo, emancipazione della ragione umana, madre d’ogni libertà di coscienza, da cui disser figliata la libertà civile, da cui ogni civiltà, ogni coltura, ogni progresso presente. E i nemici, non so s’io dica troppo incauti o troppo impauriti, od anzi, come succede, incauti e impauriti insieme, i nemici della riforma, le concedettero troppo sovente tutte queste importanze, tutte queste figliazioni; si contentarono di mutar loro i nomi da buoni a cattivi, e di porre invece di emancipazione e libertà, ribellione e licenza. Ma il vero è che non sono storiche tutte queste figliazioni nè sotto l’un nome nè sotto l’altro. La ragione non aveva bisogno nè d’essere emancipata nè di ribellarsi al secolo XVI, dopo i quattro della coltura italiana, dopo un san Tommaso, un Dante e un Machiavello, per non dir di tanti altri. Nè la libertà o la licenza civile avevan bisogno di essere figliate dalla libertà o dalla licenza di coscienza, non avevano a nascere nè l’una nè l’altra, eran vecchie già tutte e due di quei quattro secoli medesimi nei comuni, nelle repubbliche italiane. La riforma fu senza dubbio ribellione e licenza religiosa, ribellione dall’originaria autorità stabilita nella Chiesa, licenza della ragione umana; ma fu non più che una delle tante ribellioni e licenze che avvennero ed avverran forse; non principio di nuova età, non fine di medio evo, nè di oscurità nè di barbarie, le quali eran finite a poco a poco sin dal secolo XI, se non altrove, certo in Italia. Io non so che cosa s’abbiano in mente tutti questi discorritori di storia, i quali dimenticano così tanti fatti, tanti effetti di quattro tali secoli. Non così alcuni eletti contemporanei, Erasmo e Tommaso Moro[40] principalmente; i quali giudicarono fin d’allora la riforma per quello che fu veramente, per quello ch’è ora più chiaro e sarà senza dubbio ogni dì più; non ispinta e aiuto, e tanto meno causa o madre di niun gran progresso; ma distrazione, impiccio, fermata, ritardamento di esso in tutte le nazioni dove allignò e potè. — La Germania, dove la riforma potè più, non entrò allora, nè per due altri secoli, nel progresso universale; non fiorì in niuna di quelle colture ch’ella, una delle due vicine e l’antica signora d’Italia, n’avrebbe potuto riportare più facilmente che niun’altra nazione. In lettere parve fuori d’Europa, fuori della coltura universale. In arti ricadde dallo splendore che parevale promesso allora da Alberto Durero ed Holbein, in una nuova oscurità. In quelle sole scienze le quali son sempre le più indipendenti dalle condizioni nazionali, nelle sole scienze matematiche sorsero due Tedeschi, Keplero e Leibnizio, ad emulare il grande Italiano e il grande Inglese. Ma la vera e gran coltura germanica non sorse se non quando, corso un lungo secolo di divisioni e guerre religiose, ed un altro di riposi e nullità, furono cessati quello zelo e quella grettezza di spiriti, quella inimicizia a tutti gli antecedenti cristiani, quell’avversione quasi iconoclasta all’arti, tutti quegli odii, e, per chiamarle col loro nome, tutte quelle illiberalità che la riforma suscitò e nodrì, rinfacciandole alla cattolicità. E forse a chi ben consideri e compari, nemmeno il sommo fiore presente delle colture germaniche non sembrerà pari a quelli che furon sommi in ciascuna dell’altre nazioni cristiane; e questa inferiorità sembrerà da attribuirsi alla inferiorità religiosa di lei, e non rimediabile se non quando sarà rimediata la causa. — E così della nazione britannica, che fu seconda nel calor della riforma. Certo a chi ben consideri la storia di lei, parrà chiaro che dovette esservi ritardato ogni progresso e dalle tirannie neroniane di Arrigo VIII, e dalle tiberiane d’Elisabetta, e dalle vanità teologiche di Giacomo I, e da tutte insieme quelle guerre civili fino al 1688 che vennero dalla riforma. Nè osteranno gli stessi grandissimi nomi di Shakespear, di Milton, di Newton, o le forme così avanzate ora di quella civiltà. Perciocchè di que’ tre grandi, due furono negletti e poco meno che sconosciuti in patria per gran tempo, e il terzo, quantunque lodatissimo, non vi ebbe grande schiera di emuli o seguaci contemporanei; ondechè essi, se niuno mai, si hanno a dire ingegni solitari ed eccezionali; e il fatto sta che il gran fiore, l’apice, l’universalità, il primato della coltura britannica non avvenne se non più tardi, a’ nostri dì, quando furono cessati pur là lo zelo, l’ispirazione, la illiberalità della riforma. E quanto alla civiltà, ella pure non incominciò a fiorir là se non dal 1688; e se ella vi crebbe d’allora in poi a quella potenza che ognuno le riconosce al presente, non è dubbio pure che i vizi rimanenti in lei, e massime i tre principali (la carità pubblica mal costituita, la proprietà territoriale tiranneggiante, e le ingiustizie accumulate sull’Irlanda), sono funeste reliquie della riforma: ma: ondechè anche là ei si dee credere che quella nazione sia stata ritardata già nel suo fiore, e non sia per risplendere in tutto quello a lei possibile se non quando abbia sgombrate quelle reliquie, abbia ricalcati tutti i passi mal fatti sotto la mala guida. — Finalmente, Francia, che fu terza in calor di riforma, fu pur terza in disturbi di coltura e civiltà. Al secolo XVI ella era una delle nazioni più frammiste all’italiana, era di quelle che ne riportarono più spoglie di coltura e civiltà; aveva uno de’ principi più amici di queste, più progressisti che non sieno stati mai, Francesco I; e questi, e i suoi successori, e Caterina de’ Medici, nuora di lui, trassero in Francia più artisti e letterati italiani che non ne andassero in tutto il rimanente della Cristianità. E tuttavia lo splendore della coltura e della civiltà non incominciarono in Francia se non sotto Ludovico XVI; impedite che furono anche là un secolo e più dalle preoccupazioni e dalle guerre della riforma. — Io non so, nè mi curo verificare, se io dica qui cose nuove, ovvero già avvertite da altri e solamente poco note; ma verrà tempo che il progresso degli studi storici le farà volgari. Non è possibile che resti sempre inavvertito questo gran fatto: che dal principio del secolo XVI fino a noi, le tre nazioni che progredirono più, ed ottennero i tre primati del progresso cristiano, gli ottennero appunto nell’ordine inverso a quello che ebbero nella riforma, e così prima Spagna, pura di essa, poi Francia, poi Inghilterra. Incontrastabil prova, che ella non fu aiuto a progresso; prova, parmi, che fu impedimento. 14. Ad ogni modo, l’ordine de’ primati tenuti dalle nazioni cristiane in questi tre secoli fino a noi, fu quello. — Il primato iberico è incontrastabile dalla metà del secolo XVI alla metà del XVII. Spagna e Portogallo furono le prime a prenderci i primati delle lettere e dell’arti. Ma elle preserci ben altro; preserci tutt’intiero il commercio orientale, quel commercio che è sempre il massimo dell’orbe; e preserci quello spirito che non so com’io chiami di venture o di scoperte o meglio di propagazioni cristiane, in che noi pure eravamo stati primi tre secoli addietro, e saremmo rimasti allora, se non avessimo disprezzato il maggior uomo di quel progresso, il nostro Colombo. Ma eran passati per l’Italia i tempi di tener conto degli uomini grandi suoi, passato il tempo di adoprar la propria virtù. Ed era passata questa all’Iberia, esercitatavi e cresciutavi negli otto secoli della sua impresa d’indipendenza. Il fatto ci è, non solamente dimostrato, ma particolarmente narrato, e quasi messo in iscena dalla storia, più epica e più drammatica qui che non possa essere niun dramma o poema. Perciocchè ei fu all’assedio di Granata e dinanzi a Ferdinando d’Aragona ed Isabella di Castiglia, all’ultimo atto, e dinanzi ai due protagonisti del dramma precedente d’indipendenza e riunione iberica, che si presentò Colombo, il grande Italiano disprezzato in patria, a propor loro l’America, il gran campo della futura operosità, del futuro primato. E l’accettarono Ferdinando ed Isabella, da Colombo. E tutti e tre lo tramandarono poi quasi compito a Carlo V, Tedesco d’origine e d’educazione, ma Spagnuolo poi d’operosità e d’abiti e di cooperatori lungo tutta sua vita. Chè Spagnuoli furono i suoi guerrieri e ministri principali (salvo uno o due italiani), que’ suoi Palatini quasi simili e forse più reali che non quelli di Carlomagno. E Spagnuolo si professò egli; e vide in Ispagna, che lasciò al figliuolo, egli Augusto al suo Tiberio, l’importanza della sua successione. Ed a Filippo II, senza dubbio (perchè la natura del principe è quasi tutto in un regno assoluto, e più in uno grande) si deve attribuire la prima decadenza del primato iberico, la perdita delle Fiandre, il dismetter le imprese contro a’ Maomettani, Turchi e Barberi, quantunque vinti, il non chiamare a niuna operosità, il fare o lasciar poltrire e infracidire le province italiane, la grettezza, i sospetti, le precauzioni, le spie, i supplizi posti in vece della larga ed operosa tirannia del padre. Ma molto pure di quella decadenza deve attribuirsi alla natura stessa di quel primato iberico, il quale era fondato e mantenuto principalmente dalle conquiste, dalle colonie transatlantiche. Le colonie, quando sono grandi, hanno questo inconveniente, di esaurire l’operosità della madre patria, chiamando a sè quanti uomini sono naturalmente arditi e venturieri. Peggio poi, quando, come in Ispagna, queste colonie arricchiscono facilmente e in pochi anni i venturieri; perciocchè allora esse esauriscono l’operosità di questi stessi, rimandando in patria oziosi e viziosi quelli che ne erano usciti tutto diversi. E peggio ancora quando alle colonie lontane s’aggiungono paesi di conquista vicini; come furono a Spagna quelli di Napoli e Milano; i quali corrompono anche più facilmente più numerosi ministri, grandi e piccoli, tutta quella caterva d’impiegati stranieri che vengono a ingrassare, viziare e viziarsi. E insomma tra il tiranneggiare e il poltrire dei tristi successori di Carlo V, e la corruzione delle colonie americane e de’ governi italiani, il primato spagnuolo, che aveva raccolto in sè tutto l’iberico, precipitò il termine suo, e durò appena 100 anni. 15. Sottentrò Francia non immeritamente, non senza causa nemmen essa. Perciocchè essa pure s’era apparecchiata al primato, come già Italia e Spagna, con una lunga e felice guerra d’indipendenza. Vinta la quale sotto Carlo VII, e riunitasi sotto Ludovico XI, ella trovossi sotto Carlo VIII, Ludovico XII e Francesco I molto bene apparecchiata ad accedere ad ogni progresso trovato in Italia; e v’accesse subito e lo svolse poi, quando, come accennammo, furono cessati in lei gl’impedimenti delle divisioni religiose e della grettezza riformatrice. Fatti cessare questi da Arrigo IV, sgombratane ogni reliquia da Ludovico XIII e Richelieu, Ludovico XIV colse finalmente i frutti di tutte le unioni nazionali. E allora incominciò quel primato francese, che vorrebbesi invano negare o menomare. Coloro che ciò tentano, sogliono disputare della grandezza personale di quel principe; e giudicandolo poi, or secondo la inalterabile severità cristiana, or secondo la progredita severità della pubblica opinione, hanno facil trionfo per vero dire. Ma prima per giudicare della grandezza d’un principe, ei si vorrebbe comparare sempre ai principi dell’età sua; ed io crederei che così facendo, Ludovico XIV se n’accrescerebbe più che mai. E poi, nemmen Leon X, nè Lorenzo de’ Medici, nè Augusto, nè Pericle non furono uomini incolpevoli; nè produssero essi le grandezze de’ secoli a cui pur diedero il nome; e tutti, come Ludovico XIV in Francia, così quelli in Firenze e Roma e Grecia, nascendo a’ tempi di raccoglier le frutte, seppero coglierle e non mancare a’ loro tempi, che è pur virtù non volgare. Ma lasciando la persona di Ludovico XIV, e venendo al primato francese incominciato sotto lui e durato fino a’ nostri dì, io crederei che il negarlo taluni sia meno effetto d’ignoranza che non di quella sorta di vendetta, o, come si suol dire, reazione, solita farsi contro a tutte le dominazioni ne’ primi tempi dopo ch’elle son finite, e da coloro che ne sono usciti. Ma, corso qualc’altro tempo e surte nuove generazioni, suol ritornare poi quella moderazione di giudizio che non è nè servilità nè reazione. Tornata quella, giudicherà probabilmente ognuno, il primato francese essere consistito molto meno in grandi diffusioni, simili alle ultime spagnuole, che non in un progresso di tutte le scienze di guerra e di pace, un progresso somigliante al penultimo italiano. Nell’arte del governo incominciò o crebbe almeno sotto Ludovico XIV quell’ordine centrale e quella divisione di ministeri non secondo le provincie, ma secondo le materie governative, che si sparsero poi e sono universali ora in Europa; e che criticate più o men giustamente ne’ loro eccessi, sono pure per ogni dove un certissimo progresso. Nell’arti belliche Condè, Turenna, Lucemburgo e Vauban, per lasciar gli altri, inventarono e praticarono quella tattica e quella strategica le quali, superate o no da’ loro emuli Eugenio e Malborough, durarono fino a Federico e Napoleone. Nelle sole scienze naturali e matematiche, Francia, a malgrado del suo Descartes e del suo Fermat, rimase inferiore, non produsse per allora progressi da compararsi a quelli fatti in Italia, Germania ed Inghilterra, da Galileo, Keplero, Leibnizio e Newton. Ma questo non fu se non un indugio; e quell’inferiorità fu compensata poi da que’ Lavoisier, Laplace, Cuvier e tanti altri che risplendettero nell’ultima generazione del primato francese. Quanto alla letteratura francese, chiamisi primato o dominazione o tirannia quello che si sopportò già con tanta servilità da tutta Europa per 150 anni, egli è confermato dalle grida stesse che si muovono contro, da quelle tardive proteste, da quelle oramai inutili esortazioni che si fanno a liberarcene. S’accusa ora quella letteratura d’essere stata ella stessa servile imitazione dagli antichi; e s’accusa insieme d’aver ritratto troppo i tempi, la nazione, la corte, i principi suoi. Ma l’una accusa distrugge l’altra; e fa vedere che l’imitazione classica francese (dico quella fatta da’ buoni al tempo di Ludovico XIV principalmente) non fu servile, fu ciò che l’imitazione romana antica, e l’italiana del buon tempo, ciò che dovrebbe essere sempre ogni imitazione classica o non classica, imitazione adattata a’ propri tempi, alla propria lingua, alla propria patria. E quanto alla filosofia poi, se, rimosso ogni zelo di nazione o di scuola, si consideri che i filosofi antichi non furono forse grandissimi, se non perchè meditarono e scrissero al lume naturale di lor ragione in tempi e luoghi dove quello soprannaturale della tradizione e della rivelazione era inferiore ed oscuratissimo; e che all’incontro ai filosofi moderni, meditanti, e scriventi in mezzo alla luce della tradizione restituita e della rivelazione accresciuta, non fu, non è, nè sarà conceduto mai più uno splendore uguale (perchè qual più vuole innalzarsi in filosofia, o incontra il campo della teologia, ed ha nome poi di teologo più che di filosofo, ovvero, per tenersene fuori, si svia irremediabilmente); se, dico, si consideri questa menomata condizione della filosofia in mezzo alla Cristianità, forse che quel gran filosofo storico di Bossuet, e quegli altri metafisici Descartes e Malebranche, sembreranno nella loro semplicità e ritenutezza più vicini a verità, che non molti lor successori francesi scozzesi e tedeschi. E quindi forse, diciamolo passando, questo sarà il merito della scuola italiana presente, ricondurre la filosofia a quella modestia che sola le si addice in seno al Cristianesimo; così sappiano i maestri non distrarsi da quell’alto ufficio loro, non perdersi in analisi non necessarie oramai, e produr quelle sintesi potenti, di che si mostraron essi capaci più volte, e che sole asseriscono la capacità ultima di qualunque scuola. — Ad ogni modo, questo fu il grande inciampo del primato francese: che i successori di que’ primi filosofi ritenuti, facendosi via via più arditi, infelicemente logizzando a modo de’ più infelici dialettici del medio evo, arrivarono a poco a poco dall’analisi del pensiero ad una stolta analisi dello spirito umano; ed inevitabilmente poi, ovvero alla circoscrizione e materializzazione di esso, al materialismo; ovvero all’infinito estendimento di esso, al farlo onnipotente e quasi Iddio, al razionismo o razionalismo. E quindi, effetto o causa non so, od anzi effetto e causa a vicenda, l’altro pervertimento dei costumi; quella corruzione mal elegante nella corte di Ludovico XIV, dissoluta in quelle del Reggente e di Ludovico XV, e che passò quindi alla città, alle provincie, a tutti i ceti della nazione. Allora, spoglia di verità e virtù, fu perduta Francia e cadde in quegli eccessi che ognun sa, in quella perdizione di civiltà e coltura che certo fu delle massime in che sia caduta mai niuna nazione cristiana. — Ma questo è quasi privilegio di Francia, dovuto alla prontezza degli ingegni suoi, o piuttosto a quella virtù dell’operosità ch’ella non perdette mai fra tante perdizioni: che gli errori, prontissimi a spargervisi, son prontissimi a correggervisi. E così dopo un dieci anni o poco più, la civiltà e la religione vi furono ravviate da Napoleone, le lettere cristiane da Chateaubriand, le cristiane scienze da Cuvier; un triumvirato per vero dire, che, a malgrado gli errori di quei grandi, rimarrà immortale nelle storie, non solamente nel progresso francese, ma dell’universale cristiano. E così ravviato, il primato francese risplendette di un nuovo ed ultimo lampo. Dopo aver primeggiato colla coltura, primeggiò Francia coll’armi. Ma durata poco in tal fortuna, ritornò ella poi ed ora sta negli antichi limiti; forte della memoria dell’antiche e nuove glorie; guarita di molti errori, ed accresciuta in civiltà, restituentesi in coltura, in filosofia, in religione; non più prima per vero dire, a malgrado del vanto che le ne danno taluni per abito, ma non seconda se non ad una sola altra nazione, tutt’al più. Così si salvi essa pure da tali pretensioni retrospettive a quel primato, a cui non è probabile risalga ella, più che niuna nazione che l’ha perduto! Così sottentri in lei la pretensione a quella parità che è destino probabile delle maggiori e più virtuose nazioni cristiane! E così voglia Iddio, pietoso per essa e per noi! Perciocchè, posta come ella è, in mezzo a Spagna, Inghilterra, Germania e Italia, le altre quattro grandi nazioni della Cristianità, non è nazione le cui sorti buone o cattive si facciano sentir più a tutti, sia ch’ella primeggi, sia che soggiaccia o pareggi. 16. Ed ora, giunti ai tempi che viviamo, noi faremo per la storia generale del progresso cristiano una questione simile a quella che facemmo per la storia particolare italiana: quali sono, come s’hanno a nominare questi tempi? semplice continuazione dell’età precedente? età di progresso simile, o poco diverso? ovvero età diversa, novella, età di _transizione, Era umanitaria_ come la chiamano alcuni, or vantandola, or esecrandola? — Ma confesserollo: io non ho capite mai queste due denominazioni, le quali mi paiono dettate dalla solita preoccupazione magnificatrice delle cose presenti, dimenticatrice delle passate. Qui è dove ci potrà forse giovare l’aver raccolte in poco spazio e quasi comprese in una idea, le vicende di molte età; la sola salvaguardia dall’esagerazioni è la comparazione. Della quale chi si giovi vedrà facilmente: che tutte le età di che abbiano discorso sono state età intermediarie tra una di minore ed una di maggior progresso, età dunque di transizioni nè più nè meno che la presente; ondechè tal nome non può distinguere nessuna età, od anzi non significa nulla, essendo inevitabilmente ogni età, età di transizione tra una che precedette, ed una che seguirà. E quanto all’altro nome d’Era umanitaria, se si voglia dire che questa nostra è età in che diventano più universali gli interessi di ogni nazione e si confondono in quello del genere umano, ciò è vero, ciò è certo, ciò non sarà negato da noi. Ma se si voglia dire che questo sia fatto, o principio di fatto nuovo, progresso in senso diverso da’ precedenti, altro in somma che continuazione del progresso cristiano di XVIII secoli; noi negheremmo, per vero dire, tal novità; noi sapremmo immaginare quale possa essere, come venire questo progresso diverso, non sapremmo indovinare niuna significazione a quel nome di progresso umanitario diverso dal passato e cristiano. E vi ha più. Noi, tanto credenti e speranti nel progresso presente, non sappiam tuttavia vederlo maggiore che i passati, se non come è sempre naturalmente maggiore degli anteriori ogni progresso ulteriore; non veggiamo che i passi facentisi ora, sieno più grandi che quelli fatti parecchie altre volte. Certo è grande il progresso di propagazione che si fa ora in Asia e s’incomincia in Affrica dalla Cristianità; ma sarebbe lungo a disputare e difficile a determinare, se più grande che il progresso simile fatto sotto il primato iberico e in quella medesima Asia, e di più nelle due Americhe. Certo sarebbe gran rivoluzione, gran progresso quello che sembra apparecchiarsi al commercio, nel mutargli le vie dai due gran capi d’Affrica e America ai passaggi di Suez e di Panama; ma è difficile a determinare se sarebbe mutazione e progresso maggiore che quello il quale si fece tutt’all’incontro, dal Mediterraneo a quelle due grandi circumnavigazioni. Certo è grande il progresso delle scienze, delle lettere e della pubblicità ai nostri dì; ma resta molto disputabile se non più grande quello che si fece nel mezzo secolo della invenzione e propagazione della stampa. E certo poi è grande il progresso della età presente in tornare dalle false filosofie, e sarà più grande se le distrugga, e più grande se distrugga le eresie, e grandissimo se distrugga l’erede di tutte le filosofie false e dell’eresie, il razionalismo; ma quando ciò facesse, non perciò l’età nostra o niuna futura sarebbe a comparare mai a quell’età, mezzo dei tempi, nella quale furono fatte cadere d’un colpo non alcune, ma tutte le false e tutte le insufficienti filosofie dell’antichità; d’un colpo non alcune eresie, ma tutte le false religioni. — Sappiam comparare se vogliam giudicare; se vogliamo non esser noi giudicati fanciulli da coloro che, quanto più noi progrediamo, tanto più saran essi progrediti. 17. E così dunque comparando e giudicando, ei ci parrà che l’età comprendente il tempo presente e il futuro vicino è prevedibile, sia per essere nè meno nè più che un’età di continuato progresso cristiano, età o porzione d’età simile a quella che dicemmo del primato iberico e del francese, età o porzione d’età che si potrà chiamare molto probabilmente del primato britannico. — Perciocchè dolga ad alcuni Francesi, dolga a Spagnuoli od Italiani o Tedeschi, detronati dai primati, dolga ai pretendenti nuovi o a chicchessia, sono fatti chiari a qualunque sincero e mediocremente informato: 1.º Che ora, al finir dell’anno 1843, la nazione che comprende Inghilterra, Scozia ed Irlanda e noi chiamiamo non propriamente, ma abbreviatamente britannica, è prima delle nazioni cristiane nell’opera delle conquiste della Cristianità, bella e grande essendo senza dubbio, ma non comparabile fin ora, la parte che vi prende Francia nell’Affrica; e non bella nè grande la parte che vi prende Russia, sviata dall’Asia. 2.º Che la nazione britannica è prima delle presenti, in quella propagazione della propria schiatta, e così di una di quelle schiatte cristiane, le quali (giudicando da tutti gli esempi anteriori, e da quello massimamente dell’America) sembrano destinate a succedere a tutte l’altre, a popolar tutto l’orbe, ad essere il terribil mezzo della Provvidenza alla propagazione del Cristianesimo. 3.º Che la nazione britannica è ora prima in quella propagazione di commerci, la quale è mezzo a quell’altre due più importanti. 4.º Che ella è prima in tutte quelle operosità industriali, in tutte quelle applicazioni scientifiche, in tutti insomma que’ progressi materiali che sono mezzi al mezzo commerciale, e per esso alle due grandi propagazioni; e che perciò, a malgrado di tanti stolti disprezzi, sono e saranno l’occupazione, l’oggetto di operosità, la via di molti nobili intelletti presenti e futuri. — Se tutto ciò non si voglia chiamar primato, io non so quale possa o potrà esser chiamato mai. Non quello germanico, che non fu guari se non propagazione e prepotenza della propria schiatta fra le cristiane; non l’italiano, che fu pari o più grande del britannico presente in colture, in industrie, in commerci, ma molto minore e quasi nullo in conquiste per la Cristianità, ed in propagazione di schiatte cristiane; non l’iberico, che fu grande in queste propagazioni, ma non in tutte le colture; non il francese, che fu all’incontro e di nuovo, come l’italiano, grande nelle colture, ma poco potente nelle propagazioni. — È buono o cattivo, giusto od ingiusto, utile o dannoso il primato britannico? Sono questioni diverse dalla questione del fatto, e poco meno che vane. Nè le facemmo per gli altri primati; o piuttosto noi ne prendemmo gli scioglimenti dalla Provvidenza e dagli effetti adempiuti, ed in ciascuno di questi riconoscemmo le vie di Lei. Confidiamo pure in Lei per gli effetti del primato britannico presente; e lasciamo ai nepoti la descrizione che ne potran fare essi soli. — E così lasciam loro le due altre quistioni se questo primato sarà durevole, e se sarà ultimo. Della durata, noi non possiamo guari scorgere se non che ella dipenderà probabilmente dal saper la nazione britannica vincere non tanto le difficoltà esterne, come le interne, quelle tre grandi piaghe del pauperismo, della prepotenza aristocratica, e della prepotenza inglese in Irlanda; che il gran rimedio alle tre, ed a quest’ultima principalmente, sarebbe senza dubbio il ritorno alla cattolicità, a cui sembra tendere la nazione tutt’intiera; e che quando fosse compiuta od avanzata tale opera, quando alle missioni infruttuose degli acattolici succedessero le fruttuose cattoliche, allora solamente si potrebbe sperare quell’incristianirsi dell’Asia, il quale solo sarebbe avanzamento definitivo colà della civiltà cristiana, conferma e guarentigia forse dell’imperio britannico in quelle regioni. Del resto, nulla d’umano dura perpetuo quaggiù; e gl’inglesi più colti, più dotti in istorie ed in pratica che nessun altro, sanno molto bene che il loro imperio asiatico, da cui dipende il loro primato, non durerà sempre; e tal professione si trova, se non nei documenti governativi, certo in molti degli innumerevoli libri di storie e di descrizioni indiane, che dimostrano la pubblica opinione. La quale professa sì volere e dover tener quell’imperio e quel primato quanto più si possa, e trarne intanto il maggior profitto in tributi e commerci; ma tende a far più legittimi, men gravosi ai popoli questi profitti; e prevede un tempo in che rimarrà forse profitto solo la propagazione delle schiatte e del nome e della civiltà britannica, e tien conto di tal profitto come grande anche ai nepoti, a quel modo che tien gloria ed utilità britannica presente l’imperio-anglo-americano, quantunque diviso. E questo è senza dubbio, alto e veramente liberale e cristiano modo di considerare il presente e il futuro, l’operosità, la virtù, i doveri e il destino delle nazioni cristiane. Una nazione in cui tale opinione è, se non universale, certo pubblica e frequente, non ha forse bisogno di altro per asserire il proprio primato; e può ben lasciare a’ nepoti le questioni della durata di esso; ferma essa nella coscienza o almeno nel desiderio di ben usarlo finchè durerà[41]. — E noi ci metteremo anche meno poi in quell’altre questioni di più lontano scioglimento, se qualche altra nazione succederà alla britannica nel primato cristiano, se il riacquisterà alcuna delle nazioni che già l’ebbero, o s’ei passerà ad alcun’altra dell’antico o del nuovo continente, ovvero se dal vedersi men chiari, meno assoluti, men durevoli quanto più si succedono i primati, si possa argomentare, che essi vengono cessando e cesseranno quasi assolutamente per l’avvenire, e che così sorgerà più o meno tardi una età novella in che le nazioni cristiane non proseguano più se non quella parità, che si può fin d’ora giudicare la più utile a tutti, la più utile forse a ciascuna, la sola giusta, la sola legittima, la sola compiutamente cristiana. — Certo, a chi ha fede nel progresso, a chi partendo dal presente, ne scorge immanchevole uno ulteriore nel corso de’ secoli, niuna speranza può parer troppa. Ma noi lasciamo queste e l’altre simili, le quali appartengono a quel futuro lontano che continuiamo a chiamare imprevedibile; e ci contenteremo di dar un ultimo sguardo a quel progresso presente, che congiunge le men discoste speranze dell’universa cristianità con quelle particolari della patria nostra. CAPO DECIMOTERZO. IL PROGRESSO CRISTIANO PRESENTE ED ACCRESCIMENTO CHE NE VIENE A TUTTE LE SPERANZE ITALIANE _Lo que ha de ser, no puede faltar_. — C’est là un fatalisme particulier à l’Espagne, un fatalisme religieux qui repugne aux lâchetés Épicuriennes, comme aux stériles vertus du Stoïcisme. DURIEU, _Revue des deux Mondes_, 15 _juin_ 1844, _p_. 972. 1. Noi nol celammo già, ma gli opponenti cel fan ripetere deliberatamente qui: Se le Speranze che noi venimmo esponendo della patria nostra fossero isolate, se noi sperassimo un progresso di virtù e d’opinione nel popolo nostro, un progresso d’unione tra popolo e principi, un progresso di territorio ad uno o parecchi principati, un progresso d’indipendenza a tutta l’Italia, senza sperarne altri simili o maggiori dell’universa cristianità; tutte quelle Speranze nostre ci parrebbero mal sode a noi stessi; noi ci sottoporremmo satisfatti al giudicio di coloro che le dissero più virtuose forse, ma non meno vane che le rigettate da noi, sogni nuovi posti invece di sogni vecchi. Ma qui sta, diciamo noi, la differenza; qui, se si voglia, la sola, ma qui, il pretendiamo, la total differenza; che le speranze da noi rigettate sono appunto contrarie, che le presentate da noi sono concordi, col progresso universale della Cristianità. — E quindi è che, svolta oramai la serie di questo per li XIX secoli suoi, noi ci fermiamo a cercare posatamente, partitamente, qual sia esso a’ nostri dì; e quali poi le prove, gli accrescimenti che ne vengono alle Speranze italiane. Se oltrepassando qui il nostro primo disegno, noi cadrem forse in alcune ripetizioni, noi ne rigettiam la colpa sui disperanti. — I quali, non abbiam fiducia per vero dire di persuader tutti; non quelli certamente che invecchiati in lor disperanze ed adattatavi da gran tempo lor vita, non vorranno disturbarne i resti per le nostre o per niune ragioni. Ma molti sono pure che non hanno ancora adattata lor vita; molti giovani che cercano adattarla alle speranze della patria, che cercano quindi candidamente, spregiudicatamente quali sieno più probabili, cercan vivere, cercan morire per l’adempimento, od anche per l’avanzamento di queste. Ed a tali giovani, alla vera e sincera giovane Italia de’ nostri dì, noi rivolgiamo, non senza fiducia, il nostro discorso. — Ad ogni modo, noi prendiamo a dimostrare qui 1.º che la Cristianità presente è in progresso di dilatazione, 2.º che è in progresso di unione, 3.º in progresso di civiltà, 4.º in progresso di coltura, 5.º in progresso di virtù; e che ciascuno di questi progressi accresce le speranze italiane, ne fa, non che probabili, ma in un modo o in un altro, una volta o l’altra, e per quanto possa qualunque cosa umana, certi gli adempimenti. 2. Io dico che la Cristianità presente è ora evidentemente in PROGRESSO DI DILATAZIONE. — Tutta l’Europa senza eccezioni, tutta l’America con così poche che già non contano e finiscono, sono cristiane; ed in esse, e qua e là nel resto dell’orbe, cristiani sono da dugento milioni d’uomini, tra il quarto e il quinto del genere umano. Ed ora (ei fu già osservato da altri) non istà all’incontro niun’altra società religiosa comprendente un numero così grande d’uomini; non la Bramanica, che comprende solamente una parte degli Indiani; non la Buddica, che comprende l’altra parte degli Indiani, ed una di Cinesi; non l’antico Teismo, che dura nell’altra parte di questi. Ma noi aggiugniamo poi, che, fatta in tal modo la comparazione delle forze cristiane colle non cristiane, ella è molto incerta e poco significante. Ogni calcolo di forze umane non può esser giusto, se vi si tenga conto solamente del numero delle anime, se non si tenga pure dell’impulso che le muove; le forze umane, come le materiali, constano di due elementi, la massa e la velocità. Ed introdotto quest’elemento della velocità, dell’impulso, la comparazione delle forze cristiane con ciascuna delle acristiane non rimarrebbe dubbio per vero dire. Ma noi andiamo più in là; noi accettiamo e provochiamo una comparazione più svantaggiosa: la comparazione delle Cristianità con tutto il resto del mondo; la comparazione delle forze dei 200 milioni di cristiani, con quelle degli 800 che concederemo de’ non cristiani. Quest’è la divisione del genere umano che incominciò al dì che incominciò la Cristianità; al dì che erano contro l’universo mondo 70 cristiani o poco più. — E così instituito il paragone, diciamo che que’ 70 essendo diventati 200 milioni in XVIII secoli, è molto probabile che questi diventin mille milioni in pochi secoli; diciamo che la massa de’ 200 milioni moltiplicata per l’impulso presente cristiano è una forza che ci par molto grande, ma che noi lascerem supporre mediocre, o piccola, o piccolissima; perciocchè ad ogni modo ella sarà sempre maggiore che non la forza la quale, constando della massa degli 800 milioni acristiani, moltiplicata per la velocità zero dell’impulso loro presente, risulta quindi zero ad ogni modo. — E che poi sieno zero al dì d’oggi tutti gl’impulsi religiosi non cristiani, io non credo che ne possa dubitare nessuno, il quale v’attenda pur un momento. Lasciamo le religioni anticamente cadute, guardiamo sole le superstiti. Io crederei che il Teismo Cinese sia antico quanto il mondo postdiluviano; che fosse simile, fosse parte del teismo primitivo, prima buono, in breve sviato; e si propagasse quindi colle genti primitive, e durasse presso le cinesi forse meno sviato, forse quasi solo, lunghi secoli certamente, intorno a 2,500 anni. Ma ad ogni modo il suo trionfo, il suo imperio esclusivo cessava già intorno al secolo VI prima di nostra era; e d’allora in poi fu combattuto, fu ristretto, fu alterato dal Tao-teismo, dal Buddismo antico, dal Shamanismo successivo; ondechè è ridotto oramai a non molti in quell’imperio, e quell’imperio è il più misto di religioni, od anzi, al dir di tutti, il più privo di religione che sia al mondo; ondechè in somma l’impulso, la forza di quel teismo si vede cessata da ventiquattro secoli oramai. — Ed io crederei che il Bramanismo primitivo sia parimente antico, parimente originario dal Teismo; ma sviatosene più prontamente, ei si costituì ad ogni modo qual è nei Vedi duemila anni incirca prima di G. C. E fiorì, ebbe un primo periodo di propagazione, un primo impulso fino intorno al medesimo secolo VI avanti G. C. Ma allora ebbe ad emulo il Buddismo, e ne fu vinto in parte fino ai primi secoli dopo G. C.; e il rivinse poi, ed ebbe così un secondo periodo di vittoria, un secondo impulso indubitabilmente. Ma questo durò molto meno che il primo; e intorno all’anno 1000 il Bramanismo fu assalito e vinto dal Maomettismo, e durò schiavo di esso dapprima, schiavo poscia ed ora della Cristianità; ondechè in somma sono otto secoli ch’egli è schiavo, otto secoli che è cessato ogni impulso suo. — Ed io crederei che anche il buddismo primitivo fosse quasi contemporaneo alle prime genti postdiluviane. Ma checchesia di tal opinione, certo è che il buddismo, vincitor del Bramanismo, non risale nemmen esso oltre al secolo VI avanti G. C.; che il Buddismo Lamaico è posteriore di parecchi secoli a questa nostra era; che l’impulso e la propagazione di lui cessarono all’incirca alla medesima epoca ed allo stesso modo che l’impulso bramanico, per le vittorie orientali del Maomettismo; cioè da’ medesimi otto secoli. — E l’impulso, la propagazione di questo poi, durò (non disputiamo nè distinguiamo qui, e concediamo quanto si possa pretendere) durò presso a mille anni, dall’Egira fino all’assedio di Vienna. Ma da due secoli in qua, non solamente ogni impulso suo è cessato, non solamente è chiara a tutti la sua decadenza, ma la sua caduta a precipizio; perdè la signoria dell’Indie, perdè molte provincie asiatiche ed europee conquistategli dalla Russia, fu cacciato intieramente di Valachia, Moldavia e Servia, perdè Grecia ed Algeri; ondechè la cessazione del suo impulso, quantunque molto meno antica, è più evidente a ciascuno, che non quelle stesse del Teismo Cinese, o del Bramanismo e del Buddismo. — Ed ora supponiamo (ciò che tuttavia è assurdo) che si congiungessero tutti questi acristiani e di più tutti gli altri del mondo contra i cristiani, gli 800 milioni d’uomini senza impulso contra i 200 milioni più o meno impulsi, la vittoria, il risultato ultimo non resterebbe dubbio; non è possibile che questi non finiscano per vincere, conquistare ed asservire o spegner quelli, in un modo o in un altro, quandochesia. — Ma questo impulso cristiano poi non è vero che sia piccolo; è grandissimo, è patente da tutte le parti, su tutti i limiti della Cristianità. Tre secoli fa ella incominciò a spandersi in Occidente; ed ora è finito quell’impulso per una buona ragione, perchè è finito il terreno da conquistare, sono conquistate o spente tutte quelle schiatte d’uomini. Ora è la vicenda dell’Oriente e del Mezzodì; e ad Oriente è conquistato da un secolo un imperio intiero, il vero imperio di mezzo dell’Asia, tutte le Indie: ed indi raggiando, la Cristianità, condotta dall’Inghilterra, domina più o meno già su tutta l’Asia meridionale; mentre Russia regna su tutta la settentrionale; e s’incontrano le due preponderanze nell’Asia centrale, ondechè non è libera della preponderanza cristiana niuna terra asiatica, se non la Cina e il Giappone, o forse già questo solo. E l’Affrica è da gran tempo cinta da una corona d’isole e di porti continentali cristiani, ed è ora intaccata gravemente nell’Algeria, ed è ultimamente assalita a Marocco; e la lontana Oceania è invasa nelle sue isole maggiori e minori tutta quanta oramai. È egli probabile, non dico che dia indietro, ma che si fermi tal impulso, tal progresso di dilatazione, il quale dura vittorioso così da tre secoli, crebbe e cresce fino a ieri ed oggi? O non anzi, che cresciuto si acceleri; e che fra altrettanti o meno secoli diventin cristiani o almen soggetti a’ cristiani quei rimasugli di terre e di schiatte non cristiane? No, no; non è profetare, non è se non umano od anzi volgarissimo prevedere questo, che fra pochi secoli non rimarranno sul globo se non iscemate e sparse, e suddite nostre, e nascondentisi ne’ deserti le genti acristiane; a quel modo che poco dopo i tre primi secoli rimanevano sparsi e nascosti ne’ _pagi_ più oscuri que’ pochi idolatri dell’Imperio romano, che ne preser nome di pagani. — Al secolo scorso, nel calor della smania anticristiana si accusava il Cristianesimo di essere propagandista; ed alcuni cristiani erano così semplici da volerlo scusare di tale imputazione. Ma questa era pur giusta; e fu sempre ed è ora più che mai provata dal fatto. Propagandista si mostra il Cristianesimo da tutte parti; propagandista fu lungo tutti i secoli suoi; propagandista fin dal nascere suo, per istituzione, per la natura sua soprannaturale. Il Cristianesimo non è altro che propagazione; è verità, epperciò si propaga. E se noi scrivessimo qui di teologia o filosofia, noi invertiremmo l’argomento, e diremmo: si propaga solo e dappertutto, ei debbe essere dunque verità. Ma noi scriviamo di storia e politica; e notiamo solamente il fatto: si propaga in tutto l’orbe. 3. Ed ora scendiamo da queste evidenti certezze generali alle speranze italiane. — Noi dimorammo già non poco tratto a dimostrare la probabilità che cada l’Imperio ottomano, sedia principale del Maomettismo, e che, cadendo, lasci luogo alle nazioni cristiane. Ma ora, considerata nel suo impulso presente, in quello dei tre ultimi o, per dir meglio, dei XVIII secoli suoi la cristianità; la questione turca s’impicciolisce a tal segno da non parer più degna forse nemmeno dello studio che vi ponemmo; da parere non più che parte della certezza della propagazione universale cristiana. Quell’Imperio è ad uno dei limiti dell’Europa, della madre patria della Cristianità, della sedia ov’ella è compressa, ristretta, confinata contro tutti i bisogni presenti suoi, contro a tutti i suoi destini futuri; è al limite orientale, verso a dove si volge l’impulso presente di lei; è sulla via, primo sulla via ond’ella ha a passare; ed è non solamente imperio stazionario, ma cadente, ma già scemato, ma già incominciato a spartirsi tra la Cristianità. Se dunque non mutino tutte le proprietà, tutti gli andamenti di lei, se non cessi a un tratto tutto l’impulso cristiano, contro tutti i fatti precedenti, senza ragione presente, senza annunzi, senza cenni, senza probabilità nè possibilità avvenire, se non si volgano a rovescio i secoli e il genere umano, quell’imperio è destinato a finir di cadere, a lasciarci luogo, a darci spazio. — Se fosse possibile che la Cristianità non passasse per quella via, ella passerebbe per qualunque altra; e la propagazione sarebbe la medesima; e medesimi sarebbero all’incirca i risultati per la Cristianità in generale, per l’Italia in particolare. Supponiamo che la Cristianità non passi per la sua via naturale, da Occidente ad Oriente, che incominci dal Mezzodì, dall’Oriente, dal Settentrione; supponiamo (improbabilissimo) che l’Imperio turco duri come già l’Imperio greco a Costantinopoli, intanto che Inghilterra e Russia lo spoglierebbero delle sue provincie asiatiche. Ma un dì o l’altro ei sarebbe spogliato pure delle sue provincie europee, pur di Costantinopoli. E allora, risorgerebbero le medesime eventualità, le medesime occasioni, i medesimi tre casi di spartimento che ponemmo. Ridico che non è possibile che avvenga tal ritardo; ma poniamolo, non è che ritardo; e sempre si verrebbe a’ tre casi già considerati. Di qua non s’esce; qualche nazione cristiana passerà o sorgerà, un dì o l’altro, nelle provincie europee dell’Imperio turco; ed, o vi passerà l’Austria, o vi passerà la Russia, che sono le due sole potenze limitrofe; o sorgeranno stati nuovi delle popolazioni cristiane che vi si trovano or rare e serve. Ma nel 1.º caso (il più conveniente, dicemmo e confermiamo, a tutta la Cristianità) l’Austria s’accrescerà a segno da non poter nè essa conservare, nè esser sofferta di conservare le sue provincie occidentali straniere; e queste non possono se non ridiventar italiane, compiere finalmente la nostra indipendenza, in qualunque modo. Nel 2.º caso, se la Russia fosse quella che sottentrasse all’Imperio turco, ciò sarebbe segno, sarebbe effetto d’una decadenza, d’un ozio, d’un avvilimento, d’una nullità dell’Austria molto peggiori che non le presenti stesse; e ciò sarebbe occasione, ciò speranza, grandissima oltre ogni altra, all’Italia. Quella viltà, quella nullità esterne sarebbero pur interne; sarebbero scioglimento di quell’imperio; sarebbero sorgimento d’indipendenza nuova e compiuta agli Ungaresi, ai Boemi, a tutti gli Slavi. E non sarebbero all’Italia? Non è probabile. L’indipendenza è desiderata dalle popolazioni austro-lombarde, più che non dall’austro-ungaresi, od austro-slave; e queste non hanno principi connazionali vicini, da aiutar quell’indipendenza, da approfittarne. Certo sì: lo scioglimento dell’Imperio austriaco sarebbe l’occasione la più propizia per l’Italia; e se i nostri desiderii fossero italiani gretti, non italo-europei od anzi italo-cristiani, noi non desidereremmo mai altra occasione. E finalmente il 3.º caso, che sorgessero stati cristiani dalle provincie turche, non può succedere forse, se non col medesimo od un poco minore avvilimento dell’Austria, e di più, con uno simile della Russia; e ad ogni modo dall’instabilità, dalla debolezza, dalle dispute interne ed esterne di questi stati nuovi sorgerebbero tali e tanti turbamenti in tutta la Cristianità, che sarebbero non più un’occasione, ma una lunga serie di occasioni favorevoli alla indipendenza d’Italia. — Ma si vuol egli fare un 4.º caso? uno composto de’ tre primi? il caso che qualche cosa sia presa dall’Austria, qualche cosa da Russia, qualche cosa da stati nuovi indipendenti? Sia pure: in tal caso le nostre occasioni sarebbero pur composte delle tre occasioni, le nostre speranze delle tre speranze particolari; noi avremmo occasioni e speranze dall’inorientarsi d’Austria, e dall’avvilimento di essa, e da’ turbamenti che nascerebbero. — Ovvero ancora, vuol egli farsi un 5.º caso? che tutto ciò avvenga a poco a poco, pacificamente, diplomaticamente? Sia pure anche ciò; ma sorgerebbero almeno occasioni diplomatiche, speranze quindi da’ nostri principi che possono e debbono entrare in tali diplomazie, speranze dai nostri popoli che vi possono incorare, spingere i nostri principi. Perciocchè, già s’intende, che tutto ciò non succederebbe se mancassimo noi stessi a noi, all’Europa, alla Cristianità. Già s’intende, che non è speranza a chi non prenda le occasioni, a chi non s’aiuti quando Dio l’aiuta. Non è che un caso contro a noi: il caso che poi rimaniamo oziosi nell’occasione. Ma questo stesso, grazie a Dio, non è probabile. Noi non siamo in un seicento. Noi valiamo più che al principio del secolo XVIII. E allora bastò l’occasione della successione di Spagna per rialzar l’Italia. Ben altra successione ci si apparecchia; e noi siamo di gran lunga meglio apparecchiati a valercene. No, non è sogno questo; sogno è quello de’ disperanti; ed alla moltiplicazione di essi si riduce il solo caso che abbiamo contra noi. Deh non date lor retta, o miei compatrioti. 4. Ma andiamo innanzi; passiamo ad altri progressi della cristianità, ad altri accrescimenti di speranze nostre. — La Cristianità è in PROGRESSO D’UNIONE. Comparisi quella che è ora, con quella che era, o tre secoli fa, al principio della riforma, ovvero due, al costituirsi di essa, ovvero uno, al suo lasciar luogo alla filosofia del secolo XVIII, ovvero al principio del secolo presente, ovvero dieci anni fa, come si voglia, come paia più svantaggioso al tempo presente. Non importa; riman favorevole qualunque di questi paragoni. — E non è bisogno di spiegare che quand’uno, quantunque piccolo, di noi cattolici parla di riunione, ei non intende altro se non il riaccostamento degli altri a noi; noi non ammettiamo se non una verità in teoria, una chiesa in istoria ed in pratica. Ma questa chiesa nostra è quella appunto che veggiamo, ora più che mai, in progresso di dilatazione, a detrimento continuo di tutte l’altre parti della Cristianità. Facciamo anche qui arditamente la divisione de’ due campi; mettiamoci anche qui, noi da una parte, e tutti gli altri dall’altra. Sarà paragone pieno di letizia e speranza, qui più che mai; qui abbiam per noi i due coefficienti della forza, la massa e l’impulso. De’ duecento milioni di Cristiani, cento all’incirca son cattolici; tutti gli altri, divisi in parti innumerevoli, arrivano appena insieme all’altra metà; ogni parte è una frazione piccola; è peggio, è una quantità indeterminata, variabile di dì in dì. — Ma prendiamoli pur tutt’insieme; tutta intiera la riforma, come se facesse corpo; ella non ha più impulso, noi l’abbiam conservato e rinnovato. Da trecent’anni e più ch’ella sorse, ella progredì poco più di cinquanta[42], ma poniamo cento; e rimase stazionaria, pogniam cento altri; certo poi da cento in qua, quel suo dividersi, ridividersi, disordinarsi, discostituirsi, sminuzzarsi, prova che non ha più impulso, che non è più essa, non è più riforma; nè quasi eresia, nè quasi Cristianesimo; che ella è regredita a quel dubbio del Cristianesimo, a quel razionalismo, il quale sotto varie forme e varii nomi, ma sotto quello sopratutti di Arianismo fu antichissimo sì, ma quasi spento per un intervallo di mille anni. Giunta a tal condizione la riforma, è egli sperabile per lei, temibile per noi, ch’ella ricalchi le vie sue, che si riordini e ricostituisca per progredire di nuovo? Che faccia ciò che non ha fatto essa mai, ciò che non fecero le eresie primitive? O non anzi, che succeda a lei ciò che a quelle? che si spenga, si perda a poco a poco, insensibilmente, da sè? E tanto più, che ella non pretende più a propagarsi nella Cristianità; che ella ci ha lasciato il vizio stesso, o virtù del propagandismo, che ella si vanta di non averlo, che ella l’ha cancellato da’ suoi dogmi. — E noi, all’incontro, l’abbiam serbato; e siam tornati a più arditezza nel professarlo. Non parlo dell’uno e dell’altro caso speciale; non entro in dispute nè particolari di teologia. Ma sono campo della storia oramai quella liberazione dall’antica servitù religiosa di sette milioni d’irlandesi ed uno d’Inglesi, che vedemmo inaugurarsi or son poc’anni, e vedremo compiersi probabilmente fra pochi altri; e il riaccostarsi della scuola teologica _puseista_ e di altre inglesi e germaniche; e il progresso di quegli studi storici germanici e francesi, che non possono non ricondurre alla sola chiesa che sia storica, alla sola che non presenti l’intervallo dei mill’anni. La storia universale bene studiata non può non fare ciascuno cristiano; bastando il paragone di tutte l’altre religioni antiche o nuove a dare un infinito vantaggio al Cristianesimo. Ma la storia moderna non può non fare ciascuno cattolico; dando un vantaggio simile alla chiesa cattolica su tutte le altre[43]. E sono campo della storia, sono progressi cattolici tutti que’ progressi della filosofia che la conducono a riconoscere la propria insufficienza nel capire, e più nel diffondere e più nel ridurre in pratica universale le grandi verità che ella contempla; ed a riconoscere quindi la necessità, e quindi la realità della rivelazione, e quindi della conservazione e continuazione di essa in una chiesa, la cattolicità, il cattolicismo. Qui pure, le generalità della filosofia conducono al Cristianesimo, le particolarità al cattolicismo. — Certo rimase e forse rimarrà il gran residuo della riforma, anzi di tutte le eresie, il gran residuo della filosofia del secolo XVIII, anzi di tutte le grette e incompiute filosofie antiche o moderne, la filosofia escludente la contemplazione del soprannaturale, la filosofia razionalista; certo questa è e forse sarà gran tempo e forse sempre l’avversaria vera del cattolicismo; certo ella è da combattersi molto più che non quel materialismo e quel panteismo duranti in pochi, rinnegati da questi stessi. Ma il razionalismo stesso può combattersi oramai da’ nostri, come da vittoriosi, con alacrità, senza timore; il razionalismo non è per natura sua se non filosofia, non fu nè può essere religione mai, non credenza popolare nè molto sparsa, non culto, non fede, non amore, non fiducia compiuta nel Creatore, che sono pure qualità intime della natura umana; non è nemmeno satisfazione compiuta alla ragione: non può essere opinione nè dei pochi sommi, nè dei molti piccoli; non è nè sarà mai se non errore di pochissimi intermedii. Ne’ quali duri più o meno tempo, egli è ad ogni modo ultimo stadio di tutto ciò che si scosta dalla cattolicità; comprenderà in breve quanto non è cattolico nella cristianità; ondechè, riducendosi a questi necessariamente pochi il campo opposto, si accrescerà il nostro di altrettanto. — Del resto, io non profeto, non parlo di una riunione pronunciata, d’un ritorno dichiarato de’ dissidenti, lascio nelle incertezze del futuro imprevedibile la forma, la quantità, la compiutezza delle conversioni. Ma questo veggo ed affermo con tutti (con gli stessi dissidenti sinceri e colti), che la dissidenza o riforma è in disordine e in regresso; che è in regresso ogni filosofia acristiana, in progresso ogni cristiana; che la cattolicità è in progresso; ch’è quindi in progresso d’unione la Cristianità tutt’intiera. Un fatto solo è all’incontro; una disunione sola è crescente; quella della Russia, o per dir meglio del governo, o forse solamente dell’autocrata russo. Ponga, chi vuole, tal regresso al paragone di tutti i progressi. Io non so se non compiangerlo, ma contarlo per piccolo, e probabilmente di poca durata. 5. Ed anche qui da questo progresso d’unione cristiana sorgono begli accrescimenti di speranze italiane. Unendosi la Cristianità nella cattolicità, ella non può unirsi se non intorno al centro di questa; ed essendo tal centro, d’instituzione sua, italiano, non può se non accrescerne l’interesse universale per quell’indipendenza d’Italia che è così necessaria all’indipendenza del centro, del capo della Cattolicità; e tale interesse universale accresciuto non può se non accrescere gli amici, far più sinceri, più efficaci gli aiuti, scemare, scoraggiare gli avversari e le resistenze a quella indipendenza. — E vegniam pure ai particolari. Tre grandi potenze sono nella cattolicità, Francia, Spagna, Austria. Francia è la massima; Francia fu la istitutrice del dominio temporale dei papi sotto i Carolingi; Francia fu più o meno il sostegno loro contro agli imperatori germanici fino a Filippo il Bello; e Francia fu poi lor rivale per vero dire, od anzi lor tiranna per un secolo e più, grazie alle emulazioni per il dominio d’Italia; ma Francia fu di nuovo lor protettrice più o men buona, ma sola contro alla preponderanza di Carlo V e delle due case d’Austria spagnuola e tedesca lungo il seicento; Francia la distruggitrice di tal prepotenza, e così la restauratrice d’indipendenza della Santa Sede nel secolo XVIII; e Francia fu poscia e colle sue opinioni e coll’armi la principal nemica di quella Sedia per vero dire; ma quell’opinione e quell’armi le son tutt’altro che nemiche oramai; e senza voler nè lodar nè scusare l’ultima mossa di quell’armi in Italia, di che tanto si scandalezzano alcuni, elle paiono a me, e credo pur ad altri devoti della Santa Sede, essere state molto meno antipapali che antiaustriache, e men dannose al papa che a tutti i nemici di lui. Ad ogni modo Francia, non più ostile al papa, è ridiventata di natura sua la potenza maggiore, epperciò, politicamente, la potenza duce della Cattolicità; serba in questa il primato suo. Del quale poi, lungi dal far disprezzo o scherno come al secolo scorso, ella si rifà gloria e potenza; e l’esercita molto volontieri e apertamente, dentro e fuori d’Europa; e l’esercita ogni dì più, quanto più ella s’assoda; tantochè un suo ministro protestante, perchè è uom sodo e progressivo, è quello fra tutti il quale lo esercita più apertamente. — E Francia sarà in ciò aiutata ogni dì più da Spagna, pur riassodata, pur riaccostata alla Santa Sedia. Bisogna conoscere quella nazione così intimamente cattolica, per capire come le alleanze inglesi, che vi dovrebbero essere favorite da tante gratitudini e da tanti interessi, vi sieno pur sempre brevi e mal ferme, per la sola dissidenza od anzi avversione religiosa; e come, all’incontro, vi si torni sempre all’alleanza francese, che ha pur contro a sè tanti interessi e tante memorie, per ciò solo che non ha quel vizio intrinseco, e che è rifugio dall’antipatica alleanza inglese. E ad ogni modo ogni progresso spagnuolo è progresso cattolico, progresso papalino, progresso da diventar utile un dì o l’altro all’Italia[44]. — Ma Austria fu ed è buona cattolica, eppur non fu guari papalina mai, e men che mai da Giuseppe II in qua. Molti lo dicono; e parecchi ne la lodano, e si trovò un Italiano il quale ci confortò ad imitare l’Austria in ciò, anzi ad accostarci all’Austria per ciò; il quale ci volle far credere che l’essere essa antipapalina riscatta tutti gl’inconvenienti, tutti i difettucci che potrebbe aver per noi la dominazione di essa. Ma chi gli diè retta? Lasciamo in pace i morti dimenticati; e tanto più uno che errò senza malizia. E passiamo ad osservare che l’antipapalismo austriaco va cessando come tutti gli altri; che il progresso dell’opinione cattolica riconduce anche l’Austria a maggior rispetto, a maggior interesse verso la Santa Sede; che se fosser possibili a lei quegli antichi disegni di dominazione universale della penisola, ella non li adempirebbe forse per quel rispetto; che ella rigetterà certo tutte le stoltezze, non sue, dei neo-ghibellini; e che in tutte le eventualità future, ella s’accosterà probabilmente a qualunque disegno si faccia dall’altre potenze cattoliche ad onore e pro della Santa Sedia. E non mi si faccia dir poi che Austria ci darà l’indipendenza, si ritrarrà d’Italia per amore alla Santa Sedia; chè io non dico questo, anzi dico che l’Austria non si ritrarrà mai per amor di nessuno se non di sè stessa, e farà in ciò come fan tutti. Ma dico che se l’Austria vedrà l’interesse suo vero, che è di portar altrove la sua potenza, ella lo farà in modo che non ne scapiti la potenza, la dignità del papa; e che intanto nè Austria, nè Francia, nè Spagna, nè l’altre potenze che sono e saran cattoliche non aderiranno a niun altro detrimento di esso; e dico che tal fatto, e la persuasione di tal fatto, debb’essere ed è una causa d’unione, epperciò una nuova fortuna una nuova speranza all’Italia. — E dico poi che questa, anche da sè, anche indipendentemente d’ogni paura od influenza straniera, anche per interno effetto del progresso cattolico, anderà smettendo nell’avvenire tutte quelle opinioni, e quei tentativi antipapalini che guastarono da secoli e secoli, fino a ieri od oggi la nostra impresa d’indipendenza. — Pochi mesi sono, io m’interrompeva in quest’ultime pagine per deplorare uno di tali tentativi; ma corso quel poco tempo, il tentativo è già finito. E deh nota ciò, ti piaccia o dispiaccia, o leggitore italiano. Un venti e più anni fa una sollevazione di quelle medesime provincie fu impedita da una grande invasione austriaca; rimedio all’antica. Un dieci anni fa un’altra sollevazione vi fu in parte repressa da una invasione austriaca minore, in parte impedita da una contro-invasione francese; rimedio già nuovo e che si potrebbe dir di transizione. L’anno scorso una terza sollevazione succede; e non fa più bisogno nè di grande nè di piccola invasione austriaca, nè di contro-invasione francese; l’opinione nazionale assodata la riduce a nulla da sè, fa che bastano poche armi, le armi del papa, a spegnerla del tutto; rimedio novissimo, e almeno nazionale. E quindi, io vo incontro a tutto ciò che mi si apporrà qui; vo incontro alle risposte che mi si faranno a ciò che dico e non dico; e chiamo progresso e grandissimo progresso siffatto assodamento dell’opinione italiana. — E spero che si accrescerà ancora. Io dissi già, doversi lasciare ai principi italiani la decisione delle mutazioni da farsi ne’ loro governi; e quindi al papa, che è uno di questi principi. Ma aggiungo qui, che il governo di lui è il più difficile a mutare, è quello ove le mutazioni fatte per forza trarrebbero intervenzioni o forse invasioni dell’universa cattolicità; e che è quindi gran fortuna, non si facciano così, e ne cessino i tentativi; e che cessando, elle si faranno più facilmente, da chi solo le può fare utilmente, che sarà nuova fortuna. E mi si rimproveri pure di non entrare in particolari; io non entrerovvi qui più che altrove; e v’entrerei anche meno. Chè le costituzioni mi paion già puerili a far così, _a priori_, da lungi, sulla carta e non sul terreno, anche per li principati secolari e volgari; ma per quel principato eccezionale, unico in sua specie, e duplice in sua natura come è il papato, io riderei di me stesso se mi vi arrischiassi. Del resto, la unione crescente della cristianità, raccogliendo nel centro più opinioni, più aiuti, più consigli di tutti i cattolici, non può se non servire al progresso del governo temporale del papa; non può se non accrescere anche questa grande speranza italiana. 6. E quindi siam condotti molto naturalmente a considerare il terzo progresso della Cristianità, il PROGRESSO DI CIVILTÀ. I passi fatti in essa sono quelli che si sogliono riconoscere con minore unanimità da’ contemporanei, perchè non si posson fare senza distruggere privilegi ed ingiustizie; senza far passare dall’une alle altre mani, o almeno senza allargar parecchi diritti civili; senza che rimangano malcontenti molti di coloro che furono spogliati, molti a cui pare spogliazione l’allargamento de’ loro diritti, e molti a cui non paiono acquisto i diritti che hanno in comune cogli antichi possessori; la numerosa caterva degli illiberali. La ricognizione de’ progressi civili non si suol fare se non quando, cessata la generazione degli spogliati e degli spogliatori, e sentito poi universalmente il beneficio della più larga ripartizione; e questa ricognizione è allora suggello dei progressi avvenuti, gran progresso ella stessa. — Ora, io crederei che non siamo discosti da questo; che sia incominciato il giudizio de’ posteri sulle mutazioni fatte nella civiltà cristiana dal principio nel nostro secolo; che già non si neghi loro il nome di progressi, se non forse da coloro a cui ripugna, in odio degli autori, men l’idea, che non la parola. Ed alcuni di questi sogliono torle quella macchia o correggerla, chiamando _ben intesi_ i progressi riconosciuti da loro. A me parve migliore e più determinata correzione, chiamar _cristiani_ tali progressi che veggiamo estendersi più o meno su tutta la Cristianità, e non estendersi se non sulla Cristianità; ma se più piaccia dirli ben intesi od anche più timidamente, miglioramenti, ordinamenti o che si voglia, sia pure; purchè si riconoscano come beneficii della Provvidenza alla Cristianità de’ nostri tempi, come arra di continuazione probabile ai tempi prossimi venturi. — Ma poveri uomini di stato, poveri uomini di studio, poveri cristiani vogliono essere coloro che non professino tal gratitudine per lo sgombramento fattosi quasi dappertutto degli ultimi resti di quella feudalità che fu resto ella stessa degli antichi e gentili diritti di conquista, che non fu mai sistema od ordine, ma mancanza d’ogni ordine, che fu la più mal costituita fra le aristocrazie; aristocrazia nemica al principe ed al popolo, stato nello stato, felicità ed operosità di pochi a spese di molti, eccezione anticivile ed anticristiana, e non più. E poveri uomini di stato o di studio, poveri cristiani vogliono essere coloro che non professino gratitudine per l’allargamento e l’agguagliamento de’ diritti civili a tutte le condizioni dei cittadini; per la semplificazione e l’ordinamento in codici delle leggi di quasi tutti gli stati; per quell’abolizione della schiavitù la quale fu proseguita dalla Cristianità fin dalla prima età sua, ma non fu avanzata mai come alla nostra; per l’abolizione di tutti quegli usi che nelle successioni, nelle fortune di mare, nella punizione dei delitti, separavano l’una dall’altra le nazioni cristiane; e per la diminuzione di quelle gelosie commerciali che le separavano anche più, ed erano quasi guerre continuate in tempi di pace; e così poi per tutti que’ commerci allargati e tutte quelle comunicazioni materiali ed intellettuali agevolate, che fanno più che mai quasi una repubblica, uno stato degli stati, una società non solamente religiosa, ma civile dell’intiera Cristianità. E poveri uomini di stato e di studio voglion esser coloro i quali non riconoscano un immenso progresso civile, in quel progresso della carità, che è universale ne’ paesi cristiani, ma sopratutti ne’ cattolici presenti; e che dicemmo già, e (con gran rincrescimento di non poterci estendere in prove) confermiamo, esser massimo possibile scioglimento delle ultime, delle vere e sublimi questioni della pubblica economia. E finalmente, poveri uomini di stato e di studio e poveri cristiani voglion esser coloro i quali non riconoscano il beneficio di quel riaccostamento delle parti, che noi, nati nel secolo scorso, abbiam veduto avvenire durante il corso di nostra vita. Erano nell’ultimo decennio di quel secolo divise le nazioni tutte della Cristianità in due parti, non che diverse, assolutamente avverse, in due campi, non che ostili, mortalmente nemici; repubblicani gli uni, regii o realisti gli altri, quelli chiamavan questi tiranni e vili servi, e come tali li trattavano; e questi chiamavano e trattavano quelli come scellerati, ribelli e ladroni. Ora all’incontro pochi, sparsi, non influenti, non istimati e cessanti, sono coloro che usino tuttavia que’ nomi, che serbino in cuore quegli odii invecchiati. Pochi sono, che che si dica, gli assoluti repubblicani, pochi gli assoluti realisti, nel cuor d’Europa e della civiltà cristiana. Le differenze tra le parti son diventate piccole al paragone; son mezze tinte rispetto ai colori urtanti di cinquanta anni fa. In Inghilterra, Francia e Spagna e parte di Germania dove son governi deliberativi, già non si parteggia se non tra il più o meno conservare o progredire nella libertà ivi definita; e nel resto d’Europa non si parteggia se non tra chi vuol governi più o men consultativi, e chi deliberativi; ondechè in somma sono dappertutto e indubitabilmente riaccostate le parti. E se questo non si dica progresso o miglioramento di civiltà, io non so più veramente che sia civiltà o miglioramento. 7. E da tal progresso universale, è venuto, viene e verrà immanchevolmente un progresso importante italiano. Ei s’ha un bel dire da’ parteggianti estremi di qua e di là, e talor pure da alcuni intermedii, che non bisogna prender nulla dagli stranieri, nulla dall’opinione fuor di patria, nulla da oltremonti ed oltremare. Le parti, le opinioni patrie lascian dire, e continuano a prendere, e prender molto. Nè questa è novità; ei fu così dal principio del mondo; ed io conforterei questi gravi politici e scrittori a studiar su ciò un po’ più di storia; a studiarla non ne’ compendiuzzi, ma ne’ monumenti originali e contemporanei ad ogni età antica ed antichissima. E vedrebbono che, a malgrado delle comunicazioni poco frequenti, od anzi perchè queste comunicazioni furono fin d’allora molto più frequenti che non si dice, le forme de’ governi, le civiltà furono pur molto più simili, e furon dunque molto più prese che non si crede, da un paese all’altro; che all’origine fu universale un cotal governo misto naturalmente di regno, aristocrazia e democrazia, il quale durò poi nelle genti germaniche fino a Cesare e Tacito, che lo descrissero; che dopo questo fu sparso in tutta l’Asia quel governo che si suol chiamare de’ grandi despoti orientali, e fu più propriamente di re grandi imperianti sui piccoli, il governo dei Re de’ Re, dei Melek-malachim, dei Shahin-sha, dei Kakan, dei Maharadja; che fu al medesimo tempo o poco dopo universale nell’Europa meridionale Grecia, Italia, e forse Iberia e Gallia, il governo delle repubblichette federative; che furono soggette poi Asia ed Europa insieme sotto un solo imperio; e che, caduto questo, fu universale il governo dei regni barbarici, alla tedesca, di nuovo misto dei tre elementi primitivi; ed universale poi la feudalità od usurpazione aristocratica; universale poi (salva l’Italia) la riunione de’ re e de’ popoli contro a quell’aristocrazia; universali quindi i regni consultativi, cadenti in assoluti; ed universale ai nostri dì il sollevamento estremo contro a questi, e finalmente il ritorno moderato a’ regni consultativi e deliberativi. — E si crederebbe tener l’Italia isolata da queste universalità? Ai nostri dì? Ma non è possibile quando fosse bene; non sarebbe bene quando fosse possibile. L’Italia non è isolata nè isolabile; non è per la natura sua, colle sue frontiere, che non la dividono da due grandi nazioni progredienti, colle sue marine, che la riaccostano a tutte l’altre; e tal sarà men che mai, ora che l’universa Cristianità si porta nel Mediterraneo. È bene o male? Così è. Ma non è poi male certamente, posciachè le opinioni europee si son moderate, non è male che noi siam ridotti a prendere tal moderazione. Io credo che l’Italia sia ancora il paese dove rimangono più repubblicani; è bene grande che noi prendiamo dal resto della Cristianità europea le opinioni antirepubblicane. L’Italia è, tranne Russia, il paese dove sono meno ordinati i governi a consultativi o deliberativi; è bene che si prenda l’uno o l’altro ordinamento. L’Italia è il paese dove le due parti sono per anco più discoste; è bene grande che prendiam di fuori il riaccostamento. Quando i repubblicani nostri sieno diventati non più che partigiani dei governi deliberativi, e gli assolutisti non più che partigiani del governo consultativo, le dissensioni saranno diventate molto meno acerbe, la divisione meno larga; le parti meno ostili; e le unioni tra principi o popoli, tra governanti e governati, tra nobili e plebei, tra stato e stato molto più avanzate. Prendiam pure di fuori gli esempi d’unioni; non possiam prender nulla di migliore in generale, nulla di più necessario in particolare all’Italia. E confortiamoci pur del pensiero che non è possibile che noi prendiamo. L’utopia, il sogno non è, nemmen qui, la partecipazione nostra futura a’ progressi della civiltà cristiana; è che noi possiam tenercene isolati; o che il possa chicchessia. 8. Ancora, la Cristianità è in PROGRESSO DI COLTURA. — E ciò pure è negato da parecchi. Innocentissimi alcuni, per vero dire; i quali in qualche angolo della Cristianità, da quello del loro studio o del loro giornale, a cui non penetrano i frutti della coltura universale, giudicano di questa da ciò che li circonda e che solo veggono; ondechè, anche giudicandone sinceramente, ne giudicano per ignoranza insufficientemente. Lasciamo costoro nella loro innocua impotenza; i loro piagnistei non possono guari far danno, se non appunto intorno a quegli angoli, dove non abbiam agio ad andarli cercare. — Ma altri sono, i quali pur vedendo ed ammirando i progressi della coltura cristiana, si meravigliano e si dolgono che non sorga di mezzo ad essa niuno di que’ grandi ingegni i quali risplendettero già nelle passate età; che la coltura più sparsa, sia quasi meno alta; ondechè dubitano se abbiano o no a dirla progredita. Questo è dubbio molto più grave, e che può sorgere non solo negli ingegni ben informati, ma forse tanto più ne’ più alti, portati dalla loro altezza a non tener conto se non dei loro pari. Ma a questi pure ci sembra aver già risposto in parte, dove dicemmo: che la diffusione stessa della coltura, la moltiplicazione degli scrittori, degli artisti e degli scienziati, e l’agevolamento delle pubblicazioni, sieno quelli che lasciano men comparire ciascun autore, ciascuna opera. E noi anderemo più oltre qui: confesseremo che i progressi precedenti di tutte le colture sono quelli che impediscono i presenti. Nè le lettere, nè le arti, nè le scienze umane non hanno campi infiniti; molto limitati sono tutti all’incontro; e quanto più è stato coltivato ciascuno, tanto meno ne resta a coltivare. Nelle lettere, quando una lingua ha avuti da due o tre grandi epici, due o tre grandi tragici o lirici, od oratori, egli è molto difficile che sorgano altri eguali. Se imitano que’ primi, è lor difficile non cader nelle stentatezze dell’imitazione; se cercano scostarsene, nelle affettazioni della novità. E quindi si cerca quel rimedio di imitare gli stranieri; che sembra salvare, ma non salva sempre dalle due difficoltà, e v’aggiugne quella di adattare alla patria pensieri ed imagini che non sono intesi da lei. E così nell’arti. Ei fu molto più facile esser buon pittore o buono scultore, ma forse molto più difficile esser grande dopo Raffaello o Michel Angelo. E quindi è, che anche i più ardenti nelle speranze del progresso universale, ne sogliono escludere le lettere e le arti; riconoscendo che giunte a una cotal altezza, elle non possono innalzarsi più, elle ricadono necessariamente per risalire poi. Ma io crederei che siasi per arrivare alla medesima conchiusione, anche rispetto a quelle scienze materiali e spirituali che furono dette campo di progresso indefinito. Certo nelle materiali, dopo i grandi inventori vengono gli applicatori delle invenzioni; i quali appunto stanno ai primi, come gli imitatori in letteratura ai grandi ed originali scrittori. E quindi dopo due secoli d’un progresso scientifico che non fu veduto mai l’uguale, dopo que’ sommi inventori, Galileo, Newton, Leibnizio, Herschel, Lavoisier, Volta, e Cuvier, venne l’età degli applicatori; grandi e poco minori che gli inventori, i primi; ma via via minori quelli che seguono in questo campo, esso pure non infinito, esso pure preoccupato. Quanto poi a quelle scienze che hanno per oggetto o l’uomo materia e spirito, ovvero lo spirito solo, politica, economia, storia e filosofia; elle sono, in che i progressi anteriori impediscono forse più gli ulteriori. Tutte queste scienze più o meno spirituali partecipano a un tempo alla incapacità delle scienze materiali, ed a quella delle lettere; perchè procedendo talora per invenzione, è inevitabile che dopo gl’inventori vengano gli applicatori; e procedendo pure per esposizione letteraria, è inevitabile che dopo i grandi ed originali scrittori vengano gli imitatori. Ondechè in somma, nelle lettere, e nelle arti, e nelle scienze materiali, e nelle miste, e nelle spirituali, noi sembriamo giunti a quella età degli imitatori ed applicatori, che non può se non parere inferiore a quella degli scrittori spontanei e degli inventori. — Ma conceduto od anzi professato tutto ciò, ei non parmi che sia per ciò a dir men progrediente la nostra età o quella che prevediamo vicina. Due sono i progressi della coltura; è progresso in lei l’innalzarsi, ma è pur progresso il dilatarsi. Non istanchiamoci di tornare a ciò: che le lettere non sono fatte per i letterati, nè le arti per gli artisti, nè le scienze per gli scienziati; ma quelli e questi per il pubblico, per l’universale, per il genere umano. E il genere umano approfitta forse più dell’estesa che dell’alta coltura; o piuttosto, approfitta di tutte e due a vicenda; ha bisogno che s’innalzino, ma pur che s’estendano le idee; e il più grand’uomo del mondo, venuto all’età dell’estensione non farà se non estenderle, perchè i grandi sono appunto quelli che fanno ciò che è fattibile, ciò che giova più alla loro età. Il voler restringere la grandezza agli inventori, il voler far privilegio od aristocrazia della coltura fu ed è pretensione di alcuni; ma è la più stolta delle pretensioni, è quella molto ben derisa col nome di pedanteria. I veri dotti non hanno scopo nè piacere di lor dottrina se non l’utile universale. Certo è un piacer solitario nell’imparare, nello scoprire, nello scrivere stesso; ma non dura tal piacere, se non colla speranza di comunicarlo altrui e di farlo diventar utilità; ed io non so se si direbbe più pazzo o più cattivo colui che chiudesse in sè il frutto dei propri studi. L’incertezza di quest’utilità è quella che più tormenta qualunque buono e sincero studioso; è quella che gli pone in mano la penna, e glie la fa cadere a vicenda; come la certezza o la speranza d’aver diffusa qualche verità, è la sola degna ricompensa di lui. Non abbassiamo noi stessi il mestiero; non ne facciamo una speculazione di gloria o vanità, poco migliore che quella de’ danari; e, non solamente consoliamoci, ma rallegriamoci che i nostri nomi sieno oscurati fra molti pari o maggiori. Spogliamoci d’ogni invidia, e confesseremo facilmente i progressi altrui, e quindi il progresso universale. — E quindi confesseremo novelle universali speranze. Come dopo l’età di spontaneità e d’invenzione è venuta quella di imitazione e d’applicazioni, così dopo questa tornerà una di quelle probabilmente. Ei si sono già avuti parecchi esempi parziali di siffatti ritorni. Due ne furono dati dall’Italia; quando dopo l’imitatore quattrocento, sorse il cinquecento, di nuovo inventore; e quando dopo il seicento sorse il settecento, dico il settecento perdentesi nell’ottocento, l’età di Parini, Alfieri, Lagrangia, Volta, Canova e Manzoni. Ed Inghilterra pure, dopo l’età degli imitatori francesi, ebbe l’età di Byron e Scott. Nè è improbabile, quandochesia, un simile rinnovamento delle lettere cristiane tutte intiere. È appena incominciata la liberazione di esse dalla vana imitazione antica; e se, come quasi ogni liberazione al suo principio, questa fu licenza, già si ritorna dall’esagerazioni, e se rimarranno opportunamente cristiane le lettere della Cristianità. Ancora, la comunicazione reciproca delle varie letterature nazionali, e lo spandersi di tutte in nuove regioni, e l’arricchirsi esse quindi di nuove immagini e nuovi fatti, sembrano dover produrre un accomunamento e una moltiplicazione d’idee, che sarà ricchezza e novità delle lettere e dell’arti future. Ancora, benchè sia più difficile a prevedere il futuro delle scienze materiali, non è improbabile nemmeno in esse, che, esauste le applicazioni, moltiplicati i fatti e gli sperimenti, sorga qualche nuovo ingegno, ricco di quella facoltà sintetica che è somma delle scientifiche, a raccorre insieme i fatti ed a creare alcuna di quelle teorie le quali sogliono disprezzarsi dagli ingegni minori, ma essere scopo de’ maggiori. Qui come altrove non è se non il volgo che dica non rimaner nulla o poco a fare; non è se non il volgo a cui la difficoltà di capire tutto ciò che è fatto tolga la facoltà e il desiderio di far più. Qui come altrove i grandi ingegni si fanno scala dal fatto al fattibile; ed io odo alcuni di essi aspirare a quella teoria della materia imponderabile, la quale se sarà data al genere umano, incomincierà una nuova Età scientifica pari a qualunque delle maggiori. Ad ogni modo già certo e incominciato è il progresso di tutte quelle scienze che noi chiamammo spirituali miste, e spirituali pure. In tutte queste il più grande de’ progressi è la moderazione, è il vedere i propri limiti, il restringersi in essi; è il non tentar l’inarrivabile, l’infinito, l’assoluto. E questo progresso si va facendo incontrastabilmente. Non ha guari si cercava l’ottimo de’ governi, la forma unica di libertà; or si viene da tutti i pratici e sapienti a riconoscere una varietà troppo grande nelle condizioni nazionali, perchè non sia utile pure una varietà nelle forme de’ governi; ed è messo in cima del grande e cristiano governare piuttosto l’estendere la libertà, che non il tendere ad una quantità o qualità determinata di essa; piuttosto il conservare e progredir bene insieme, che il progredir sempre, o solo, o netto. Pocanzi gli economisti davan le ricchezze come scopo di loro scienza; e chi le vedeva nella terra sola, chi nel solo commercio, chi nell’industria, chi meglio nel lavoro. Ma or meglio ancora, si viene a prendere per iscopo delle ricchezze e di ogni operosità, il buon costume, la virtù. E gli storici (non dico i parolai, che proseguon l’arte, non la scienza) pretendevano a una quasi indipendenza della scienza loro da tutte l’altre, pretendevano a trovar nelle azioni umane le cause e il fine di esse, isolavano il genere umano dal mondo superiore, il riponevano (quasi rinnegando Copernico e Galileo) al centro dell’universo, od anzi (rinnegando Cristo e la Provvidenza) facevano dell’uomo un essere indipendente, una non-creatura, quasi un Dio; e chi ne faceva poi un Dio stolto, andante a caso, senza ragione, e chi peggio, un Dio sempre ragionante nelle azioni sue. Ora poi, già si ritorna a riammettere una Provvidenza, una Cristianità, una direzione superiore alla terrena; or la storia si va rifacendo sorella dell’altre scienze spirituali, della filosofia cristiana. E questa finalmente, è risorta a quella sua moderazione nativa che sta appunto nel riconoscere nel mondo un ordine di fatti soprannaturali, nello spirito un ordine d’idee inarrivabili alla ragione pura, arrivabili alla ragione illuminata dalle comunicazioni con Dio, dalla rivelazione. Questo progresso sommo della filosofia è tutto contrario a quello annunciato da lei pocanzi, a quel progresso che doveva consistere nel por sè in luogo della rivelazione, nell’eliminar i fatti, le idee soprannaturali. E il fallimento di queste speranze è quello appunto che conduce, e, come par che Dio voglia, condurrà ogni dì più alla restaurazione della vera filosofia. Già una volta, all’ultima delle età antiche, la filosofia pura d’ogni soprannaturalità dimostrò la propria insufficienza; in Grecia e Roma, nell’India, nella Cina; e la dimostrò tanto più, che erano pur grandi i filosofi greco-romani, indiani o cinesi. Ora un’altra volta, quella medesima pura e razional filosofia prova e dimostra la propria insufficienza; e la dimostra tanto più, che grandi pure furono gli ultimi filosofi francesi, inglesi e tedeschi. Dopo due tali prove (perciocchè anche l’ultima par finita, e confessata oramai col silenzio di molti filosofi puri, e col ritorno di altri alla filosofia soprannaturale), dopo due tali prove sembra impossibile che il ritorno principiato alla vera filosofia non prosegua ed acceleri il corso suo. I nostri due gran filosofi, Rosmini e Gioberti, non hanno solamente, come credono alcuni, mantenuta sana la filosofia nazionale; hanno innalzata la filosofia universale a ciò che è oramai il sommo ufficio di lei, a ritrovare i nessi tra la ragione pura e la rivelazione. Schelling, il gran filosofo tedesco, si rivolse a ritrovar più o men bene altri di questi nessi, che sono infiniti. E Cousin, il gran ravviatore della filosofia in Francia, accennò già quello che è il più chiaro, il più stretto, il più fermo de’ nessi, il nesso storico; e compierà egli forse un dì la magnifica opera sua a pro della filosofia universale, o se non la compierà, ella non può tardare ad essere compiuta da alcuno de’ suoi scolari o seguaci o successori. — Ad ogni modo e di nuovo, se questo, qual è già, non si vuol dire progresso e cristianissimo progresso, ei bisogna inventar parole nuove e rinnegar le antiche più unanimemente intese in lingua italiana e in qualunque altra. 9. Ed a questi progressi universali della coltura partecipa e parteciperà certamente l’Italia. La partecipazione reciproca, l’accomunamento delle colture, è fatto anch’esso più antico che non si crede. Ma, ei raddoppiò di forza poi, al dì che fu inventata la stampa; niuno è che il debba saper meglio che gl’Italiani, i quali ebbero fino a quel dì e perdettero d’allora in poi quel primato che era quasi monopolio di tutte le colture. Da quattro secoli le colture s’accomunarono così, che or corre in esse molto minor differenza tra l’una e l’altra nazione cristiana europea od anche americana, che non corresse tra l’una e l’altra provincia, o talor tra l’una e l’altra città italiana del medio evo; corre meno differenza tra la coltura presente di Parigi e New-York, che non corresse tra Milano e Torino. Eppure io crederei che quest’effetto della stampa, venutosi accrescendo per i quattro secoli passati, s’accrescerà ancora negli avvenire. Non fu fatta ai nostri dì, per vero dire, niuna invenzione ulteriore che possa parere così grande o aver tanto nome come quella della stampa; ma ne furono fatte parecchie piccole, che tutte insieme valgono una grande. Il torchio a macchina e che stampa doppio, la stereotipia, la politipia, la fabbricazione agevolata della carta, oltre poi alle leggi ed ai trattati della proprietà letteraria, oltre a’ trasporti accelerati ed agevolati, fanno e faranno i libri molto più volgari che non fosse fatto quattro secoli fa dalla grande invenzione. — E, a malgrado di ciò, vorrebbesi da alcuni mantenere isolate le colture nazionali! E si ha fiducia nelle linee doganali e nelle critiche per escludere le colture straniere! Ma questi sì che son sogni in qualunque paese d’Europa si facciano, e, più che altrove, nell’Italia, così aperta a tante introduzioni. Noi il dicemmo, l’industria letteraria è soggetta alle medesime leggi che ogni altra; e quanto più si scema la qualità e la quantità di questa produzione nazionale, tanto più si moltiplicano le domande di produzioni straniere; e moltiplicate che sono tali domande, ei si ha un bel chiuder le vie, e raddoppiar i posti o le linee doganali, le produzioni molto domandate trovan sempre aditi tra posto e posto, ed attraverso a quante linee si voglian porre. Peggio poi avviene a que’ censori dilettanti che vorrebbono escludere le imitazioni straniere col logoro strumento di lor critica letteraria. Questi, non avendo a lor servigio impedimenti materiali, non fanno assolutamente nulla colle loro esortazioni contrarie all’andamento universale; fanno così nulla, che t’accade di veder continuamente, non dico il compagno o l’amico di uno di tali censori, ma esso stesso il censor dilettante, colui che grida come critico, come giornalista contro all’introduzioni, essere poi grande introduttore di modi e idee straniere nelle sue prose o poesie; e, che più è, far prose e poesie lodate; e, che è più, a ragione lodate, appunto per ciò. Deh che non si mettono in pace costoro? Perchè non s’adattano a ciò che, sia fortuna o sventura, è invincibile? A ciò che ha vinti essi stessi? Perchè non volgono l’ingegno dalle inutilissime generalità, a quelle che sarebbero utili distinzioni? Dal vituperare in corpo le cose straniere al distinguere ciò che vi sia da imitare, ciò che da fuggire? Perciocchè le lettere straniere sono come le nazionali nostre, le moderne come l’antiche, le romantiche come le classiche; vi è da imitare e da fuggire in tutte; e i buoni ed utili critici son quelli che prendon la fatica di tutto ciò distinguere, non quelli che facilmente e pigramente gridano in corpo contro questo o quel genere o quel paese, o quell’età. — Del resto questa grettezza è particolare di noi letterati. Gli scienziati non l’hanno; danno e prendon fuori, senza conto reciproco. E gli artisti stessi, quegli artisti italiani che avrebbon forse tanta più ragione di non prender nulla di fuori, gli artisti nostri essi pure danno e prendono senza conto. Sarebb’egli che gli scienziati e gli artisti nostri si sentano meno inferiori? Certo, chi tanto fugge i paragoni mostra temerli. E ben so che mi si dirà qui, dovere le lettere di natura loro rimaner più nazionali che non le scienze e l’arti. Ed io aderirò fino a un certo punto a tal sentenza. Assomigliando alle scienze, tutte quelle parti delle lettere che s’aggirano su qualche parte di scienza, la storia, la filosofia, la politica, l’economia pubblica, le quali debbon dare e prendere esse pure non meno fuori, che in patria; concederò che quelle le quali si soglion chiamar propriamente belle lettere, le poesie, i romanzi e le orazioni, debbano serbar più nazionalità, più specialità, più di quello che con parola nuova si suol chiamar color locale. È naturale: lo stile e la lingua fanno il merito principale di queste composizioni; e le lingue debbono tenersi pure, rimaner differenti l’una dall’altra anche in mezzo all’accomunamento delle colture. Ma primamente, ridotta a ciò, ridotta alla lingua, alle parole, l’esclusione delle cose straniere, ella rimarrebbe men difficile e men dannosa senza dubbio. Ma poi, è egli ben certo che anche nella lingua non sia niun progresso, niun esempio buono a prender di fuori? Che, per esempio, quel modo così semplice di costruir la frase naturalmente, senza inversioni, senza periodoni, il quale è seguito oramai universalmente in tre lingue, l’inglese, la francese e la spagnuola, e che incomincia ad accettarsi anche nella tedesca, non possa, non debba forse accettarsi da tutte, e principalmente dalla nostra? Ma io mi fermo; chè non ho luogo di entrare in particolari; di spiegare come quella costruzione, sola naturale, non sia contro al detto da molti, noiosa mai; come essendo sola logica, ella sia destinata a passare in tutte le letterature dove si voglia pur logizzare; come, essendo sola chiara, ella sia destinata a passare dovunque si possa e voglia parlar chiaro; come il Botta, che tanto loda le inversioni e i periodoni, ne faccia pochissimi, e come pochi ne facessero i nostri trecentisti. E ben so di scandalezzare i nostri puristi di lingua e nazionalità, con tali proposizioni non ispiegate; ma io scandalizzerei forse più se le spiegassi. E ad ogni modo il mio intento qui non fu se non d’accennare che nella lingua stessa e nelle opere di bella letteratura, e più nelle lettere più scientifiche, e più nelle scienze propriamente dette, e nell’arti, e in tutte insomma le colture, ei si darà e prenderà ogni dì più dagli uni agli altri; e così si riunirà, si rinforzerà e si dilaterà quella che è già detta da gran tempo repubblica letteraria della universa Cristianità, nella quale entrerà pur ella la patria nostra. — Nè (siamo sinceri od anzi umili noi altri letterati), nè questo è il progresso di lei sul quale si fondino le maggiori nostre speranze. Ma anche questo vi può conferire. L’entrar meglio nella repubblica delle lettere, può aiutarci a tener meglio il nostro luogo nella repubblica delle nazioni cristiane. 10. Ma di ben altra importanza è l’ultimo dei progressi della Cristianità che noi abbiam presi ad esaminare; IL PROGRESSO DI VIRTÙ. — E questo è, per vero dire, il più negato fra tutti, dai disperanti e piagnoni del secolo nostro. Concedono essi sovente i progressi materiali, e concedono talor tutti quelli della coltura od anche della civiltà, e dell’unione o della dilatazione della Cristianità; ma si tengon fermi a negare che ella sia progredita in virtù; asseriscono che questa è uguale in tutti i secoli[45], od anche peggio, che è cadente, caduta nel secolo nostro, destinata a cadere ulteriormente ne’ secoli futuri. Che anzi; alcuni sono, che di tal questione, tutta storica o politica, pretendono fare una questione religiosa; e, mal imitando l’eloquenza dei pulpiti e delle cattedre cristiane, affettano di piangere o tuonare essi pure contro al secolo ed al mondo, e si profferiscon così, non chiamati, ad aiutare i predicatori veri della nostra chiesa. Ma questa è una grande illusione, od una grande arroganza e un grande abuso; corre tra i predicatori ecclesiastici, e questi secolari dilettanti, una grandissima, una radical differenza. I predicatori veri, i chiamati e mandati, hanno dinanzi a sè continuamente un’idea, anzi un modello reale e divino di virtù; al quale essi han missione di far riaccostar gli uomini perpetuamente, al quale gli uomini non arriveranno mai, al quale dunque essi hanno ed avranno perpetuamente ragione, diritto e dovere di sgridar gli uomini di non accostarsi più e più; ragione, diritto e dovere di riprendere il secolo qualunque sia, e il mondo perpetuamente. Ma il caso è tutto diverso per que’ moralisti o filosofi o storici o politici od oratori o discorritori profani, i quali, instituendo il paragone degli uomini presenti, non col modello divino inarrivabile, ma solamente con gli uomini di altri secoli, non han ragione nè diritto di dirli peggiori o migliori se non confrontando conscienziosamente e scientemente (perciocchè la scienza diventa dovere nelle discussioni scientifiche), confrontando dico, i fatti umani de’ diversi secoli, tra sè. Benchè, anche prima d’istituir qualsivoglia confronto, questi e qualsiasi cristiano han ragione di credere ed asserire che il Cristianesimo, instituito per ben degli uomini, deve pure, non può non aver prodotto, sopra ogni altro, il progresso di virtù. Tutti gli altri progressi, di coltura, di civiltà, di unione, di dilatazione del Cristianesimo, sono un nulla, non avrebbono servito a nulla senza questo; non possono avere avuto nella mente divina altro scopo che questo, del progresso di virtù. Sappiamo innalzarci una volta, e non lasciamo che l’eccesso del rispetto ci impedisca di guardare alle verità conceduteci, ci impedisca di sentire tutta la gratitudine che dobbiamo al divin fondatore del Cristianesimo; interniamoci anche noi uomini di quaggiù in quell’idea divina che è forse chiara agli spiriti superiori, ma che è anche a noi conceduta. A che avrebbon servito dagli apostoli fino ai presenti i predicatori veri, sacri, e mandati, se non avessero prodotto d’allora in poi il solo frutto degno di lor missione, il frutto di virtù? Il frutto stesso di verità sarebbe stato inutile senza il frutto di virtù; nè col lume naturale della nostra ragione, nè molto meno con quello soprannaturale della rivelazione, noi non possiamo concepire un Dio che si fosse contentato di spandere tra gli uomini una verità sterile, improduttiva di virtù. Lascino dunque costoro la questione religiosa, la quale troppo facilmente si scioglie contra essi; e riducendola poi a storica, prendansi la poca fatica di aprir qualche storia, qualche raccolta di fatti. — E quindi, io li conforterei prima ad aprire alcune di quelle descrizioni che sono numerose a’ nostri dì, delle nazioni acristiane, e non dico delle più barbare o selvagge, ma delle asiatiche più incivilite, Turchia, Persia, India o Cina. Ivi, oltre alle innegabili decadenze, alle imminenti cadute di quegli imperi, di quelle civiltà e di quelle religioni, essi vedranno tali particolari di costumi e vizi d’ogni sorta da farli a un tratto rivolgersi, se pur sien cristiani, a benedir la Provvidenza di essere nati cristiani; da farli prostrare, se sien umili cristiani, a benedirla di non trovarsi in mezzo a tali pericoli; da persuaderli una volta dell’immensa differenza che è tra la virtù cristiana e non cristiana, e quindi dell’innegabil progresso fatto fare agli uomini da questa. Ma non basta loro e vogliono essi particolari? Aprano qualunque libro un po’ particolarizzato di storie o memorie di qualunque nazione cristiana, nell’età barbare, o in quella della feudalità, o in quella di Carlo V o di Ludovico XIV, o di Ludovico XV, di Federigo e Catterina; e paragonino di nuovo que’ costumi, que’ vizi, quegli scandali coll’età presente; e ne risulterà di nuovo in ogni sincero la medesima persuasione. E finalmente, se sono della generazione de’ vecchi, si ricordino, e se son giovani, credano a noi od alle numerose memorie de’ nostri coetanei; e vedranno quali innegabili progressi di virtù siensi fatti, all’età nostra stessa: in Francia dai costumi pubblici e privati del Direttorio o dell’Imperio a quelli della Restaurazione e della Rivoluzione del 1830; in Inghilterra dal principe e la principessa di Galles a Vittoria Regina; in Ispagna da Carolina e il Principe della Pace a quanti vi si vide anche in mezzo agli ultimi pervertitori turbamenti; e così poi in Portogallo, in Italia, in Prussia, in Austria, in tutta Germania, e fino in Russia. Tutti questi son fatti chiari, a cui sopravviviamo noi testimoni a migliaia; son fatti che fanno evidente la menzogna, l’error colpevole per volontà o per ignoranza di coloro che vituperano i costumi, la virtù del secolo nostro in paragone degli altri. — Certo questa non è perfetta; nè tal sarà quella di niun secolo mai, certo sono e saran passioni sempre, e colpe e delitti; certo i governi n’avranno a punir sempre; e certo i veri predicatori avranno a predicar sempre contro essi, ma mente contro alle nostre rimembranze, mente alla storia di tutti i secoli, mente al paragone della virtù cristiana con tutte l’altre, ed oserei dire che mente all’istituzione stessa del Cristianesimo, chi nega al Cristianesimo l’efficacia della virtù, alla Cristianità il progresso di virtù. — Ed anche qui vorrei avere spazio da estendermi; vorrei poter comparare le esagerate virtù antiche colle presenti; vorrei rispondere a coloro che si scandalezzano del lusso presente, quasi avesse a far nulla con quello degli antichi; a coloro che non capiscono quale immensa differenza sia surta tra i due dall’abolizione della schiavitù e dalla introduzione della carità. Vorrei premunire i leggitori contro a quella esagerazione, men cattolica che protestante, la quale per ricondurci agli usi, alle discipline della chiesa primitiva, deprime troppo gli usi, le discipline, i costumi della chiesa e di tutto il secolo presente. Vorrei premunire contra altri simili confronti che si fanno col secolo XIII, o coll’XI, o con non so quali altri del medio evo, i quali, dicesi, ebber più santi; quasi le virtù eroiche di que’ santi non provassero appunto che era necessario l’eroismo per mantenersi allora nelle virtù, fatte tanto più facili ai dì nostri. Ma parecchi di questi assunti toccano appunto a quelle scienze ecclesiastiche di che io mi tengo lontano, per non cader ne’ vizi e negli errori di que’ predicatori dilettanti i quali presero o si fecero dare il nome assurdo di neocattolici. E del resto, tutto ciò sarebbe di tale importanza da sforzarci non che ad uno, ma a parecchi trattati speciali. Ondechè, contentandoci della proposizione generale, che crediamo non sia dubbia a niuno assennato e sincero cristiano, aver il Cristianesimo fatto progredire ed essere per far progredire la Cristianità in virtù, noi passiamo a considerare l’accrescimento ultimo e massimo che ne viene a tutte le speranze italiane. 11. E portiamoci, a un tratto, in mezzo al punto essenziale della questione. Il vizio essenziale della patria nostra è l’ozio; l’ozio, a cui siamo invitati dal dolce clima, dal bel paese nostro; a cui fummo avvezzi più o meno da tre secoli; in cui siamo mantenuti dalla natura de’ nostri governi, che non chiamano il comune degli uomini a niuna deliberazione; a cui siamo sforzati dall’oppressione straniera, che c’impedisce tante operosità incompatibili colla dipendenza. L’ozio, il beato far niente, od anzi (come udii riprendere sè stesso un uom di stato italiano) il _beatissimo far niente_; la massima (che fu d’un altro, il quale sarebbe stato grande fuor d’Italia), la massima che _il mondo va da sè_, sono il gran vizio italiano. Popolani piccoli, popolani _grassi_, commercianti, nobili o grandi, uomini di stato e di chiesa, e principi, quasi tutti cadono più o meno in questo vizio. Non è vizio nativo, naturale, posciachè noi fummo la nazione più operosa del mondo; ma è oramai vizio vecchio, nazionale. Non è ozio del seicento, perciocchè già da un secolo e mezzo ne andiamo uscendo un poco; ma è grande ozio tuttavia, al paragone della operosità contemporanea del resto della Cristianità. Non è ozio all’Orientale, ma è ozio ancora anticristiano. — Ma la grande operosità altrui è quella appunto che ci debbe dare speranze. Qui men che altrove non servono isolamenti e dogane; l’operosità cristiana c’invaderà (s’intende se l’aiutiamo) sempre più. Gli stranieri ci venner già oppressori o corruttori, o l’uno e l’altro insieme. E di tali ci restano in seno molti pur troppo; e di tali ce ne arrivan talora. Ma sappiam distinguer da questi, tutti coloro che ci recano, il rimedio a tutte le corruzioni, le loro operosità; scienziati, artisti, commercianti, uomini di mare e militari, tutti quelli specialmente che ci dan l’esempio e la spinta in mezzo al nostro Mediterraneo, e verso quell’Oriente, onde ci ha a ritornare riaccresciuta la nostra operosità. Apriam pure le porte a siffatti stranieri; concediam loro quell’ospitalità italiana, già troppo facilmente conceduta agli oziosi e corruttori, già troppo male lodata da costoro. Facciamo a casa nostra ciò che fanno essi alle loro; non accettiam guari altre lettere di raccomandazione o d’introduzione se non il merito di ciascuno, il capitale d’opere o almen d’idee ch’ei viene aggiugnere alle nostre. — E non contentiamoci poi di accogliere e lodar tali ospiti. Aiutiamoli ed imitiamoli. — Epperciò non solamente accresciamo l’operosità nostra, ma volgiamola nella sola direzione che sia buona oramai; in quella del progresso cristiano. Questo aiutiamo; di questo aiutiamoci; epperciò sappiam vederlo, confessarlo, professarlo ed anche nominarlo. I nomi, le parole anche esse sono doni di Dio; e il rinnegare quelle che sono universalmente accettate in ogni secolo è, se non colpa, gran pericolo; è quasi rinnovamento della confusione babelica, è diminuzione delle idee acquistate dalla propria generazione. E quindi parvemi accettare quella di progresso; senza badare agli abusi fatti di essa, come di tante altre scientifiche, politiche ed anche religiose, le quali non si rigettarono perciò. Ma m’inganno io forse? E la parola progresso è ella più abusata che ben usata, più da rigettarsi che da accettarsi, non corretta, non determinata abbastanza dicendo cristiano quel progresso? Trovisi qualunque altra da uno di que’ tanti che son vaghi di novelle nomenclature, e le prendono o danno per invenzioni; trovisi qualunque altra per esprimere la serie di memorie, di fatti presenti e di speranze che noi abbiam comprese sotto il nome di progresso cristiano. Ma questa serie è importante il nominarla, e più il confessarla e professarla colle opere, coll’intiera vita. È importante a’ principi, uomini di stato, scrittori, scienziati, artisti ed anche privati di qualsiasi nazione; perchè quanto operano ed opereranno in tal senso dell’operosità universale rimarrà, aiutato da questa, a gloria loro, e, che è più, ad utile del genere umano; quanto operano ed opereranno in senso contrario sparirà, sarà nullo, o non rimarrà se non più o men compatito, come sprecamento di opere fuor delle vie della Provvidenza. — Ma più che ad ogni uomo è importante ad ogni nazione; perchè ogni uomo può sì esser virtuoso, seguendo quei semplici precetti che son compresi in qualunque dottrina cristiana, senza rendersi conto della alta mira, anche terrena, di essi; ma a congiungere le operosità, le virtù personali in nazionali, sono necessari uno scopo materialmente visibile, una via largamente aperta; il quale e la quale poi non possono essere oramai se non lo scopo e la via della cristiana operosità. Questa fu sempre la principale, ma ora è la sola sull’orbe, non lascia luogo a nessun’altra; fuor di questa non è salvezza, nemmen terrena; qualunque nazione non entri in questa, non vi prenda l’ufficio suo, non ne troverà altro; cadrà in inoperosità, in vizi, sventure e vergogne. E badivisi bene poi; ogni nazione ha dalla natura, dalla situazione sua, di necessità, l’ufficio suo nella Cristianità. Son passate o presso a passare le età de’ primati comprendenti quasi tutte le operosità, de’ primati onnipotenti ed onnioperanti. Incomincia o sta per incominciare l’età, che ogni nazione cristiana potrà e varrà secondo il proprio ufficio, non primeggerà se non nel cerchio di esso, lasciando primeggiare ogni altra nel suo; e l’ufficio, il primato parziale di ciascuna si fa più chiaro, ogni dì. La nazione britannica può più ch’ogni altra, e primeggia su quasi tutti i limiti della Cristianità, in diffusione di territori, di schiatte, di commerci, di civiltà cristiane. La nazione francese può e primeggia in diffusione religiosa e civile al limite affricano, e in diffusione di colture nell’interno della Cristianità. La nazione germanica può e primeggia nell’ufficio di distruggere tutte le reliquie de’ primati universali, s’accosta in industrie alla britannica, in civiltà alla britannica e francese, le supera in liberalità di commerci, le agguaglia o supera in intensità di studi; ha forse ufficio di ricondurre essa a quell’unione religiosa da lei distrutta or son tre secoli; e non può se non essa aver l’ufficio d’inorientare il territorio europeo della Cristianità. La russa non può se non essa aver l’ufficio d’inorientarla ulteriormente; avrebbe quello di ripopolar di cristiani tante regioni già fiorenti, or deserte in temperatissimi climi, e quello di popolare le settentrionali estreme. Ed a Polonia, a Grecia, a Spagna pure, si faranno chiari i propri uffici, quando escano, la prima da quella dipendenza assoluta che non ne lascia adempier nessuno, e la seconda e la terza da que’ noviziati d’indipendenza e libertà, che li lasciano adempiere male. E così tutti gli stati americani, pur novizi; e così quanti altri cristiani sorgessero. A tutti, o quando entrano nella gran società, o quando rientrano nella grande operosità, è forse inevitabile un tempo di noviziato; ondechè la grand’arte agli entranti o rientranti è abbreviare il noviziato, entrare o rientrar pronti ed alacri nell’operosità, nell’ufficio. — E così sia a noi, o miei compatrioti principalmente; sia arte e virtù nostra, il rientrar pronti ed alacri nell’operosità, nel progresso universale; epperciò vedere, riconoscere, accettare ed adempiere i nostri uffici in essa; tutti gli uffici nostri, non meno e non più. I quali, mutate le età, non sono nè possono esser più nè di riunire il mondo occidentale, riunito da XIX secoli, nè di far sorgere la civiltà e la coltura cristiana, surte da IX; non sono nè posson essere di restaurar il primo nè il secondo primato nostro, nè d’instaurarne niuno simile, assoluto, universale. Ma sono pur belli e grandi, e da contentare qualunque ambizione nazionale gli uffici a che possiamo e dobbiam pretendere tuttavia. Noi possiamo primeggiare in quell’arti liberali che sono uno dei più bei fiori della civiltà e della coltura, e nelle quali non sorse mai nazione, non la greca stessa, pari a noi, e in alcune delle quali noi serbiamo oggi ancora, perduti gli altri, il primato. Noi possiamo forse primeggiare di nuovo, ma possiam certo pareggiar chicchessia in quelle lettere a cui strumento abbiamo una delle più belle lingue che sieno state mai. E noi possiamo primeggiare o pareggiare in quelle scienze in cui primeggiò primo fra’ moderni Galileo, ed in cui Lagrangia e Volta pareggiarono testè i più grandi. E noi potremmo e dovremmo non rimaner secondi a nessuno in quelle industrie, in quei commerci in che primeggiammo già finchè lor vie furono per il nostro Mediterraneo, in che scademmo per non aver seguite le vie mutate, ma in che dobbiamo poter di nuovo, or che si riconducono quelle tutto intorno alle nostre costiere, tutt’attraverso alle nostre acque. E possiamo e dobbiamo poi primeggiare in quell’ufficio massimo di circondar noi immediati la sede centrale della Cristianità, di difenderla, di tenerla e farla compiutamente indipendente. Quest’è il principale ufficio nostro (svelato, dichiarato, fatto incontrastabile in tutte l’opere del Gioberti); quest’è l’ufficio il quale, piaccia o dispiaccia, paia piccolo o grande, accettisi ringraziando o rassegnandosi, è incontrastabile, è naturale, è costituzionale a noi, dura e durerà quanto la Cristianità; l’ufficio per cui adempiere i migliori dei nostri padri spesero il sangue di generazioni e generazioni; per cui non dovremmo negar noi il nostro, se non che noi avremo a spendervi probabilmente meno sangue che virtù. — Ma sangue o virtù, noi dobbiamo spendere quanto è nostro nell’adempimento di questi uffici nostri, epperciò di quell’indipendenza che n’è indispensabil mezzo. In età barbare od uscenti di barbarie, poteva bastare l’indipendenza incompiuta, col desiderio di compierla. Ma in età progredite, non serve se non la compiutissima; perchè l’altre nazioni che l’han compiuta ci soverchiano con ciò in modo da umiliarci, se non opprimerci, e che agli umiliati non meno che agli oppressi non può restar capacità di adempiere bene niun ufficio. Le arti non possono sollevarsi, le lettere non possono esistere, le scienze stesse patiscono; i commerci non si svolgono per gli umiliati dalla dipendenza, in mezzo alla quale è poi del tutto impossibile adempier l’ufficio di ben circondare la sede centrale della Cristianità. L’indipendenza è un dovere a tutte le nazioni senza dubbio; ma all’altre è uno di quei doveri verso sè stesse, nel cui adempimento non ha ad entrar altri a giudicare e meno ad operare. Ma a noi è dovere non solo verso noi, ma verso l’universa Cristianità, cioè, ormai verso l’intiero genere umano; od anzi dover più che umano, verso il divin fondatore e mantenitore della Cristianità. Stima degli uomini, aiuti di Dio, non si ottengono, se non adempiendo ciascuno, uomo o nazione, il proprio dovere. Fu così sempre; ma or tanto più quanto più progredisce il genere umano; perchè quanto più progredisce in esso ciascuno, tanto più ha bisogno per adempiere il dover proprio, che ciascun altro adempia il suo. Non adempiremo noi il nostro o per ignoranza o per negligenza, per non sapere o per non voler riconoscere le condizioni universali della Cristianità? Allora (io lo protestai già, e non vi fu atteso dai disperanti, a cui giovava affiggermi il ridicolo predicato di speranzoso), allora, io lo protestai e lo riprotesto, tutte le speranze che io sono venuto moderatamente svolgendo, e tanto più quelle più magnifiche presentate da altri, e quante altre sieno state o possano esserci presentate mai, saranno vane. Sprecando in operosità dipendenti o troncate, od in vane, od in ree, i doni fatti da Dio larghissimamente all’Italia, continuando sogni, _mutando lato_ nel letto d’infermità, nel gran circolo vizioso in che giacciamo da secoli, farem non più che mutar dipendenze e sventure e vergogne; e dipendenze, sventure e vergogne ci terranno afferrati nell’ozio, l’ozio ne’ vizi, ed ozi e vizi ci apparecchieranno nuovi ferri. Adempiremo noi, o almeno proseguiremo noi, o solamente incomincieremo noi a proseguire i nostri doveri nella Cristianità? Allora, mentre cadranno da sè tutte le vane, tutte le ree speranze, cresceranno d’altrettanto tutte le buone. Tutte le occasioni perdute da’ maggiori non ci sgomenteranno più, quando ci paia naturale che si perdessero nella barbarie o nella mezza civiltà o nella corruzione, ma naturale che non si perdano più in mezzo alla civiltà presente. La grande occasione della caduta e della divisione dell’imperio ottomano, che ci parve probabile e buona studiandola in sè, ci parrà tanto più probabile e più buona considerandola come uno degli eventi necessari all’avanzamento della Cristianità. Se mancasse quell’occasione, noi vedremo immanchevole qualche altra simile ed equivalente. Se si facesse aspettare oltre ogni giusta previsione, non perciò dimenticheremo o guasteremo l’impresa nostra precipitandola. Gli aiuti esterni, già a ragione temuti, si temeranno meno venendo dalla Cristianità progredita, a noi progrediti. Le unioni interne tra principi e principi, principe e popolo, grandi e piccoli, tutte le unioni italiane, già così rare e corte, si faranno più frequenti e più durevoli in mezzo alla progredita Italia. E la virtù, quel sommo o solo mezzo che dicemmo all’indipendenza, la virtù nostra ci sarà agevolata dagli esempi e conforti altrui, quando li sappiamo accettare; in vece di cercar esempi e consolazioni ai vizi dal paragone dei vizi. — Noi compendiamo già il discorso nostro sulle speranze speciali della patria, proferendo un solo scopo, l’indipendenza; un solo mezzo la virtù. Ma ampliate ora le osservazioni nostre all’intiera Cristianità, ed accresciuteci le speranze dalle crescenti condizioni di lei, aggiugniam pure arditi: che l’indipendenza arrivata ci si farà mezzo a virtù ulteriori. Siffatto circolo virtuoso è immanchevole, non meno che il vizioso opposto. Così voglia il pietoso Iddio dar forza all’Italia d’uscir da questo, per rientrare in quello finalmente; forza di cercar virtù come mezzo necessario d’indipendenza, indipendenza come mezzo necessario di virtù. CONCHIUSIONE Io ho posta e cercata sciogliere nel presente libro la sola questione: QUALI ABBIANO AD ESSERE LE SPERANZE D’ITALIA. Ora un’altra, il riconosco, una forse di più concitante interesse, sarebbe a porre e sciorre; QUANTO GRANDI POSSANO ESSERE QUESTE SPERANZE. Ma tale scioglimento sarebbe, a parer mio, molto più difficile e molto meno importante. — Sarebbe più difficile, perchè a determinare la quantità delle speranze, ci si vorrebbe prima poter determinare la quantità delle virtù nazionali, proporzionali essendo sempre le due. Chi dice speranze, dice probabilità, non certezze; dice fatti eventuali, non adempiuti; dice potere, non volere; dice cause, e non effetti; vuol ispirare il sentimento delle cause presenti, affinchè producano effetti avvenire. E quindi s’intende da sè (tranne da coloro che, per non intendere, mutan senso alle parole d’uno scrittore, o peggio, mutano, combattendolo, le idee di lui), s’intende da sè che il passaggio d’una causa presente ad effetto avvenire, dipende poi da ciò che i filosofi direbbero attuazione o virtù efficace, e noi dicemmo più semplicemente virtù. E s’intende da sè che questa, or progrediente, può continuare ad accrescersi, può fermarsi e può retrocedere, e s’intende da sè che ciò dipende poi principalmente da que’ pochi uomini i quali si trovan ora duci della nazione, duci de’ fatti nostri, duci delle nostre speranze; que’ pochissimi il cui sommo privilegio è che le loro virtù personali valgano per migliaia e centinaia di migliaia, nella somma totale delle virtù nazionali. E queste virtù personali sono, non che difficili, impossibili a conoscersi, a valutarsi da niun uomo al mondo; sono anch’esse uno de’ segreti della Provvidenza. Tal uomo che pareva aver in serbo grandi virtù non ne produce poi una mai, tal altro non pareva averne nemmeno il germe, e dà frutti inaspettati all’occasione, e tal fa nascere egli stesso le occasioni, spinto com’è da quella virtù ch’era in lui, nascosta a tutti, salvo a Dio ed a lui, o nascosta talora ad esso stesso. Ma, grazie a Dio, tutto questo calcolo della quantità delle speranze, della quantità delle virtù nazionali e personali, non è poi importante, non è almeno se non a’ timidi ed oziosi. Questi soli han bisogno per entrare in una buona impresa, di sapere quanta sia la probabilità della riuscita, quanto lunga la via; i codardi chiedono al mattino della battaglia il calcolo delle probabilità della vittoria. I forti e costanti non soglion chiedere quanto fortemente nè quanto a lungo, ma come e dove abbiano a combattere, non han bisogno se non di sapere in qual posto, per qual via, a quale scopo; e sperano poi, ed operano, e combattono, e soffrono ivi fino al fine della giornata, lasciando a Dio gli adempimenti. — Facciam ciascuno l’ufficio nostro, a nostro posto, fino all’ultimo di nostra potenza; lasciamo alla Provvidenza l’ufficio suo. Anche in condizioni peggiori, con probabilità, con isperanze minori che non le nostre, un caso, un uomo, risollevarono sovente le nazioni cadute, ma avviate a virtù. — Od anzi, un caso, un uomo non mancarono loro mai. — Od anzi, non vi sono casi al mondo; una Provvidenza regna, e regnò quaggiù in tutti i secoli della lunga vita del genere umano, e quella Provvidenza non ha, non può avere altro scopo quaggiù se non la virtù; non mancò mai ad aiutarvi chi vi s’aiuti, promise anche un angelo a salvar un giusto, e non negherà un uomo, un’occasione a salvar una nazione virtuosa; non negherà il grande strumento d’operosità e virtù, ad una nazione che voglia veramente entrare a far l’ufficio, tutto l’ufficio suo nella Cristianità. APPENDICE. SE E COME SIA SPERABILE UNA LEGA DOGANALE IN ITALIA 1. L’idea d’una lega doganale italiana si è certo presentata molte volte alla mente non solo degli uomini di stato, ma di quanti commercianti e viaggiatori italiani o stranieri sentono ogni dì i danni materiali del nostro sminuzzamento. E probabilmente molti di questi ultimi accusano i primi di negligenza o d’incapacità, perchè non fanno ciò che si vede così felicemente fatto altrove. Ma il vero è, che se è talor questione difficile a sciogliere, quella dell’accessione di un semplice stato germanico alla lega già esistente colà e fiorente; molto più difficile è quella della costituzione di qualunque nuova lega, e difficilissima poi per le sue complicazioni quella d’una lega italiana. Ne fu trattato da non pochi scrittori[46]. Ma perchè gli stranieri non possono preveder tutte quelle complicazioni, e i nazionali non ne possono discorrere, ei non fu forse distinto finora sufficientemente tra le varie leghe immaginabili, quali sieno possibili, quali desiderabili, nè come desiderabili. Per intendersi bisogna distinguere. Ciò tento fare, brevemente, secondo le convenienze di questo libro, epperciò supponendo nei miei leggitori, non solamente la cognizione delle scienze economiche in generale, ma quella in particolare del fatto e de’ risultati della lega doganale germanica. Lasciamo i grossi libri a coloro che voglion rimuovere il secolo dalle sue vie; chi accetta queste, può esser breve, riducendosi a cercare come entrarvi, come seguirle più opportunamente in ciascuna opportunità. 2. Due casi s’affacciano nel primo mirare alla questione. La lega italiana potrebbe esser fatta, o tra i principati italiani soli, o comprendendovi l’Austria. Ma questa può comprendervisi per le provincie italiane sole, ovvero per tutto l’Imperio. E, considerato poi che in quest’Imperio austriaco è surta la questione dell’entrar esso nella lega doganale germanica, sorge il nuovo caso che l’Imperio austriaco acceda con tutta questa alla italiana. Ondechè sono in tutto quattro casi, quattro modi immaginabili; cioè, procedendo dal più lato a’ più stretti: I.º Una lega germanico-italica; II.º Una lega austro-italica; III.º Una lega compiutamente italica; IV.º Una lega de’ soli principati italiani. 3. La I.ª, la lega germanico-italica sarebbe, per vero dire, magnifica idea, magnifica combinazione. Tutta la media Europa collegata insieme. Un moderatore tra l’Occidente e l’Oriente contrappesanti. Inghilterra, Francia e Spagna tendono ad unirsi con o senza una gran lega occidentale; non prossima per certo, ma non impossibile forse un dì o l’altro. Ma anche senza tener conto di siffatta eventualità, anche senza uscir del presente, non è dubbio che i grandi e veri interessi commerciali dell’Europa media, dal Baltico al Mediterraneo, sono molto simili; e che sarebbero quindi ben promossi da quest’unione economica di tutte le popolazioni comprese tra i due mari. Queste unioni economiche son talora più profittevoli che le stesse comunicazioni materiali; le producono, o vi suppliscono. A coloro poi che sieno entrati nell’idee del nostro libro, questa riunione di tutta Italia con tutta Germania parrà anche più importante; la questione, od anzi tutte le questioni orientali si scioglierebbero molto più facilmente, se queste due nazioni si potessero intendere come due uomini. Ei s’è usato ed abusato di quell’espressione, del _sollevarsi le nazioni come un uomo_. Non si potrebb’ella mettere in uso pur quest’altra, _d’intendersi come due uomini?_ In ciò non sarebbe da temere, non possibile niun abuso. E quanto all’Italia in particolare, non è mestieri dire che la lega germanico-italica sarebbe desiderabile. La preponderanza austriaca vi sarebbe compensata dalla prussiana; l’interesse italiano dell’inorientar Austria, sarebbe rinforzato dall’interesse germanico dell’inorientar Austria e Prussia; la spinta italiana dalla spinta germanica; la molle operosità nostra da quella fortissima; le lontane speranze italiane da tutte le più prossime germaniche. — Tutto ciò è vero e certo. Ma pur ciò all’incontro: che per ora e gran tempo le nazioni in generale non s’intendono come due uomini; che qui in particolare bisognerebbe supporre di animo larghissimo e previdentissimo, supporre spregiudicati sugli interessucci passeggeri, ma presenti, tutti i principi, tutti gli uomini di stato tedeschi e italiani, cioè una trentina di principi, alcune centinaia di ministri, e consiglieri o deputati a’ parlamenti. Non dico nel futuro imprevedibile, ma non volendo parlar mai se non del prevedibile, tale accordo si può arditamente pronunciare impossibile. Oltrechè, ei sarebbe forse a dubitare che Prussia promuova mai sinceramente niuna accessione alla lega germanica cui presiede ella, d’un’altra grande potenza, la quale le torrebbe quella presidenza. Non ci inganniamo diplomaticamente, noi non diplomatici. La presidenza o precedenza o preponderanza doganale è a Prussia potente strumento di preponderanza politica; ed ella rinuncierà a questa difficilmente. Tuttavia, quella potenza è così sinceramente progressiva, così intelligente de’ suoi veri interessi presenti, e così previdente de’ futuri universali, che non è impossibile ch’ella rinunciasse alla propria situazione vantaggiosa particolarmente in Germania, per prenderne una forse più vantaggiosa generalmente in Europa. Ma tal non è l’Austria; la quale rinuncierebbe certo difficilmente alla sua preponderanza politica in Italia, ammettendo il contrappeso della Prussia. Ciò che giova ed è desiderabile a noi, sarebbe, a parer mio, desiderabile pur all’Austria, se intendesse bene, compiutamente, grandemente gl’interessi suoi; ma ella non li intende così: è fatto attuale e probabile per gran tempo. Ondechè in somma a questa lega doganale germanico-italica sono tali difficoltà che parrà chiara a ciascuno la conchiusione: essere essa molto desiderabile sì, ma molto improbabile. 4. Caso II.º; la lega austro-italica ossia dei principati italiani e di tutto l’imperio austriaco. Se noi attendiamo a ciò, che fra le pubblicazioni citate in capo a quest’appendice, tutte quelle fatte in paesi e da persone più o meno dipendenti dall’Austria, promuovono questa lega di tutta Italia con tutto l’Imperio austriaco, ei parrà confermato a ciascuno il fatto, per sè stesso altronde probabile, che tal lega sarebbe desiderata dall’Austria. E noi non siamo di quelli che vogliam conchiudere a un tratto: se è desiderata dall’Austria, non è desiderabile da noi. Noi torniamo sempre a ciò, che i veri interessi futuri dell’Austria e dell’Italia sono identici. Ma di nuovo e sempre; il male è, che per ora, e probabilmente per a lungo, l’Austria non li intende così. Ella è, più che noi, che li separa, che li contrappone; ma in somma, finchè è così, noi non possiamo promuovere gl’interessi di lei, intesi tutt’all’incontro de’ nostri. — Pogniamo fatta la lega austro-italica, che ne avverrebbe ora, economicamente, politicamente? Economicamente, noi ci uniremmo al sistema austriaco vecchio, proibitivo, protettorale; noi ci separeremmo dal sistema più largo, men protettorale, più liberale, che viene e verrà promosso dalla lega germanica principalmente, dall’Inghilterra a poco a poco, e dalla Francia probabilmente. Se Austria volesse entrare in questo, ella entrerebbe nella lega germanica, ella promoverebbe la lega germanico-italica, e non la austro-italica; ondechè, finch’ella promuove questa sola, è probabile ch’ella non vuol entrare nel sistema largo, solo conveniente all’Italia. Noi torneremo frappoco alla necessità di questa larghezza. Ma è facile ad intendersi fin di qua sommariamente: che l’Italia entra ora in una nuova età commerciale; che, ricondotto il commercio orientale nel Mediterraneo, ella può e deve riprendere gran parte a quel commercio, se non vi ponga ostacoli ella stessa; che non ha nemmeno bisogno qui, nè di grand’arte, nè di grande operosità; che per lei più che per nessuno l’economia politica si ridurrà al lasciar fare e lasciar passare; ma che se ella s’aggiungesse a un sistema economico proibitivo, o solamente protettivo, o di preferenze, contra Francia ed Inghilterra, le due nazioni più passanti e ripassanti per le sue acque, l’Italia troncherebbe da sè tutte le sue migliori speranze commerciali; cadrebbe non solamente nel fallo di trascurare le occasioni, ma in quello di opporsi ad esse; non sarebbe solamente neghittosa, ma avversaria de’ propri interessi, a pro de’ propri avversari. Napoli e tutta la parte meridionale della penisola, e le due isole Sardegna e Sicilia, vi perderebbero evidentemente; siccome quelle che per la loro situazione sono prime e principalmente destinate a’ profitti di quel nuovo passaggio del commercio orientale. Ma la parte settentrionale della penisola, o almeno la parte nord-ouest, il Piemonte vi perderebbe per altre ragioni forse più. Finora il Piemonte fu disgiunto da Francia, da un muro commerciale, per così dire, ferreo; era pregiudizio politico ed economico insieme. Ma, non è forse paese al mondo in che i pregiudizi cadendo lentamente, cadano all’ultimo più certamente; e v’è incominciato a cadere questo del muro commerciale. Un primo trattato è stato fatto testè tra Piemonte e Francia, ed alcuni cenni fanno da credere che si potrà estendere quandochesia; e senza entrare qui nel merito, nè de’ trattati di commercio in generale, nè di questo in particolare, questo è senza dubbio principio ed arra di più larghe comunicazioni, cioè, a parer di tutti oramai i migliori economisti, di miglioramenti commerciali. A’ quali tutti dovrebbe dunque rinunciar l’Italia occidentale, rientrando nel sistema vecchio, facendosi economicamente austriaca. Nè le stesse provincie orientali o lombardo-venete ne vantaggerebbero. Noi ci riferiamo pur qui a ciò che crediamo aver dimostrato altrove; tutti i veri e buoni interessi futuri austriaci sono sul Danubio e non sul Po; ondechè quanto più s’intenderanno in Austria gl’interessi austriaci, quanto più progrediranno quell’imperio, que’ popoli, quegli uomini di stato, quella corte e cancelleria, tanto più sempre sarà sagrificato il Po al Danubio. Qui il fallo fatto una volta non avrebbe nemmeno il rimedio che è a tutti gli altri; non che scemare, accrescerebbesi il danno in ragione del progresso avvenire. — E politicamente poi? I leggitori informati delle cause, delle vicende e degli effetti di quella lega doganale germanica, che è finor solo esempio di tali istituzioni, sanno il grande accrescimento di preponderanza politica venutone a Prussia, che si trova potenza principale in quella lega. Vorremmo noi procacciar simile situazione, simile preponderanza all’Austria? Io credo che niun principe, niun uomo di stato, niun uomo pensante e senziente in Italia abbia tal desiderio; e che se qualche Italiano pur si trovò a promuover la lega austro-italica ei fu per un’illusione fattasi troppo semplicemente, per vero dire, a sè stesso: che non fosse per succedere in Italia ciò che successe così evidentemente altrove. Ma speriamo che i molti, i più, o tutti si atterranno a quel modo più naturale di ragionare, il quale argomenta da simili cause a simili effetti, dal passato all’avvenire, dai fatti alle probabilità; e che quando fra cento di queste, ne fosse una sola di accrescere la dipendenza degli stati italiani, quand’anche invece di vantaggi commerciali probabili dalla lega austro-italica, basterebbe quell’uno pericolo a farla rigettare. Gli stati, le persone morali non hanno doveri dissimili dalle individuali; e se ad ogni uomo è dovere (ed all’ultimo utile) il rigettar qualunque vantaggio di fortuna acquistato con una viltà, tal è pure agli stati, alle nazioni[47]. — E conchiudiamo, sperando assenso unanime italiano, la lega austro-italica sarebbe, quanto a difficoltà esterna, fattibilissima; ma ella non è desiderabile, è assolutamente rigettabile da tutti i princi italiani. 5. Caso III.º: lega italica compiuta, ossia de’ principati italiani e delle provincie austro-italiche. — Questa può essere desiderabile o no per noi, secondo che ne’ particolari ella si scosterebbe o s’accosterebbe alla precedente. Chiaro è: se l’unione delle provincie austro-italiche co’ principati italiani fosse solamente un nome, una finzione; e se la separazione tra quelle provincie e le germanico-austriache fosse un’altra finzione o si riducesse ad una linea doganale di più tra l’une e l’altre; e se quell’unione implicasse come nel caso precedente, accettazione per noi del sistema economico austriaco, antiquato e stretto, tal unione non sarebbe desiderabile da noi nè economicamente nè politicamente. Non economicamente, traendoci a’ medesimi falli, alle medesime rinuncie di speranze che denunciammo testè; non politicamente, perchè questi falli ci trarrebbono a separazione anche politica dalle altre nazioni europee, ed a maggior unione (che sarebbe maggior dipendenza) colla potenza già troppo signora nostra. — Se all’incontro i negoziati che s’intavolassero per la lega italica, e il trattato che ne risultasse fossero tali di far entrar le provincie austro-italiche in quella larga economia politica italiana da cui dipendono tutte le nostre speranze commerciali; se così le provincie austro-italiche si educassero ad una futura unione anche politica con gli stati italiani, non è dubbio che tal lega sarebbe non solamente molto, ma la più desiderabile di tutte per l’intiera Italia; sarebbe arra dataci dall’Austria, del suo rivolgersi dalla mala politica sua occidentale a quella nuova e buona orientale, la quale ci farebbe a un tratto da avversari amici ed alleati naturali. — Ma non c’inganniamo; niun fatto, niun principio di fatto, niun cenno è di tal rivolgimento; e quanto più la lega esclusivamente italica s’accosterebbe a buona per noi, tanto più è improbabile ch’ella fosse accettata dall’Austria presente; quanto più qualunque lega italica sarebbe proposta od accettata dall’Austria, tanto più probabilmente ella sarebbe dannosa all’Italia. — E quindi di questa lega comprendente i principati italiani e le provincie austro-italiche, ei ci pare, senza fermarvici altrimenti, poter conchiudere: che ben fatta, ella sarebbe senza dubbio la più desiderabile, ma è la più improbabile; e che mal fatta, non sarebbe desiderabile; ovvero più brevemente, che la probabilità vi sta in ragione inversa della bontà. 6. E veniam dunque alla IV.ª ed ultima delle leghe accennate, a quella de’ principati italiani soli fra sè. — E di essa diciam subito, che difficilissima in apparenza, ella non è tale in realtà; se non si tenga forse per irrealtà, impossibilità, supposizione assurda, quella che i principi italiani abbiano il volgar coraggio di non veder pericolo dove non è. Io direi anzi che sarebbe ingiustizia non isperar tal coraggio da due o tre di questi principi; i quali unendosi potrebbon fare il nocciolo, a cui si unirebbon gli altri, come avvenne in Germania. Qui è luogo da ridere: che in tempo e per le opere di pace i principi piccoli son potenti (grazie alle condizioni della presente civiltà cristiana) quanto i più grandi. Siami lecito recar un esempio che mi par quadrare al caso. In quegli anni che seguirono la restaurazione di Ferdinando VII di Spagna, e che la nazione spagnuola, insuperbita della recente difesa, e credendo aver essa liberata l’Europa, anzichè essere stata liberata da nessuno, trattava verso l’altre nazioni grandi o piccole con una superbia che è rimasta famosa nella diplomazia, trovossi un giovane diplomatico incaricato colà degli affari di una potenza italiana. Ed avvenendogli d’incontrare difficoltà, e non potersi far render giustizia negli affari commerciali che sorgevano ogni dì, zelante siccome novizio ch’egli era, ei se ne veniva rammaricando con un altro diplomatico sperimentatissimo in quella corte, e che degnamente rappresentava colà una delle principali potenze europee. Ma questi «Che volete? fate come fo io. Prendete pazienza». — «E che?» ripigliava il novizio. «Vi avverrebbono essi anche a voi di questi incontri?» — E l’altro «Certo sì; ogni dì; a me, ed a tutti, quanto a voi». — «Ma come lo soffrite voi, rappresentanti di grandi potenze, che potreste d’un cenno annientar questa superbia spagnuola?» — «Noi?» ripigliava l’assennato e sperimentato. «Nol possiam noi più che voi. Noi abbiamo più navi, più armi, più eserciti, e forse più coraggio che non costoro, è vero; ma finchè non si viene all’usar tutto ciò, finchè non ci è guerra, e in tutti gli affari di che non si vuole nè può fare un caso di guerra, una potenza piccola vale una grande, Spagna, qual è ridotta quanto noi fiorentissimi, e voi quanto noi verso essa. Questi Spagnuoli non sono stolti, sanno ciò, sanno di poter quanto noi in tutto ciò che non è caso di guerra, ed usano ed abusano di questa situazione di pace, sempre favorevole ai piccoli». — E il diplomatico novizio se ne capacitò tanto più, ch’era massima buona a riportar a casa; e ne conchiuse fin d’allora: che i principi piccoli italiani possono molto più che non si suol credere, in tempo di pace; e tanto più poi, che non solamente per le cose dappoco, ma nemmeno per le dappiù, non torna conto all’Austria il romper guerra. — E difatti, facciamo il caso (minore, ma simile ad un altro posto già nel testo del libro) che due o tre principi italiani consentissero un bel dì nella opportunità d’una lega doganale, e che tenendo giusto conto degli immensi interessi meridionali, e dei minori, ma pur grandi settentrionali, facessero cedere questi a quelli (all’incontro di ciò che vedemmo doversi fare nell’impresa eventuale dell’indipendenza), e che convenissero i due o tre nelle condizioni principali, e che accedendovi gli altri più o meno, una lega doganale qualunque si conchiudesse e firmasse; io lo chiedo a’ più prudenti od anche timidi, che ne avverrebbe o duranti le trattative o conchiuso il trattato? Molto probabilmente, il confesso, che Austria s’opporrebbe. Ma di nuovo, che vorrebbe dire, che sarebbe questa opposizione di lei? Che darebbe note, od anche farebbe proteste, od anche (benchè non è probabile) che interromperebbe le relazioni diplomatiche, e più probabilmente che chiuderebbe più che mai suoi limiti, aggraverebbe suoi dazi, separerebbe dalla restante Italia le sue provincie italiane. Ma tutto ciò, nemmen questa separazione, non sarebbe gran danno economico nè politico; e quando fosse, sarebbe largamente compensato dai vantaggi economici e politici della lega. E quanto a guerra, le sarebbe impossibile; o, se mai, le sarebbe immanchevolmente funesto. Se i principi italiani proseguissero tranquillamente il fatto loro, nè Austria, nè nessuno non potrebbe nè impedir loro d’adempiere l’ideato, nè far loro disfare il già fatto. E non vi si vorrebbe nemmen segreto; alla faccia di tutta Europa si vorrebbe provare una volta se sieno o no indipendenti secondo i trattati questi principi italiani: alla faccia d’Europa tutta, e coll’aiuto di mezza, si vorrebbe rivendicare ciò che ce ne fosse imprudentemente negato. Le seccature, i disturbi, le cattive ragioni, le minacce, non son pericoli; son parole, e nulla più. E se n’avrebbono in abbondanza senza dubbio, ma non altro; ondechè, in somma, a far la lega che diciamo, ci si vorrebbe men coraggio, che operosità, meno uscir di timori, che di pigrizia. — E ne varrebbe la fatica per li grandi vantaggi che ne risulterebbono. Politicamente, una lega doganale non val per certo una politica, e tanto meno una confederazione stabile. Ma ella varrebbe molto più che non tutti insieme quei mezzi vantati di unire e nazionalizzare nostra nazione; più che non i trattati tipografici, e i congressi scientifici, e i comizi agricoli e via via; che son pur unioni buone, ma minori. Lo sperimento di Germania è evidente; e quest’evidenza è quella appunto che farebbe quindi l’opposizione dell’Austria, e quinci il merito de’ principi italiani di non lasciarsene spaventare. E il medesimo sperimento fa evidente l’utilità economica. L’Italia si trova in condizioni simili alla Germania; sminuzzata anch’essa in parecchi Stati, intermediaria tra l’Oriente e l’Occidente, con interessi provinciali non tanto simili da nuocersi colla concorrenza, non tanto diversi da non potersi accordare; ondechè non è dubbio che una lega simile fatta con principii similmente larghi, produrrebbe senza dubbio simili effetti, simili vantaggi. Se non che anzi la situazione dell’Italia in mezzo al Mediterraneo, cioè alla via probabile di tutto il gran commercio avvenire, è molto più felice che non quella della Germania; ondechè si potrebbono prevedere risultati anche maggiori. E conchiudiam pure: che, dato solamente nei principi il coraggio bastante a non veder pericolo dove non è, la lega de’ principati italiani sarebbe possibile e vantaggiosa tutt’insieme. 7. Ricapitoliamo dunque il paragone delle quattro leghe: La germanico-italica sarebbe forse la più desiderabile, ma è la più difficile di tutte ad effettuarsi; La austro-italica sarebbe la più facile, ma non è desiderabile, non è accettabile assolutamente da niuno stato italiano; La italica compiuta, non sarebbe facile se desiderabile, non desiderabile se facile; ondechè insomma, nelle condizioni presenti, non è desiderabile nè facile; La sola lega de’ soli stati italiani (impossibile in apparenza a’ paurosi od inoperosi) è di fatto possibile e desiderabile. E lascio trar la conchiusione a ciascuno; che la trarrà buona, in ragione inversa della propria paura e pigrizia. 8. Eppure qualche cosa è da fare. Lasciando la questione politica e riducendoci all’economia, apparirà evidente a ciascuno la necessità d’una lega doganale italiana, e d’una fatta su larghi principii commerciali, e d’una fatta prontamente. — E prima, è principio, dogma economico universalmente accettato, che quando molte nazioni vicine entrano in un gran progresso commerciale, quella che rimane stazionaria cade nel danno di retrocedere, non solo comparativamente, ma positivamente. Se questo principio avesse bisogno di dimostrazione, la storia nostra ce la darebbe. Al sorgere del secolo XVI il commercio italiano era ancora il principale di tutti; ma Portogallo e Spagna, poi Inghilterra, Olanda e Francia essendosi aperte nuove vie e nuovi mercati, l’Italia, che non seppe prendervi parte, non solamente decadde dalla sua condizione relativa, ma dalla sua positiva, da quasi tutta la sua navigazione, da quasi tutte le sue industrie, e, se non decadde, rimase stazionaria nella sua agricoltura. — Ora, a’ nostri dì, non solamente molte nazioni europee hanno un’operosità commerciale superiore all’italiana, ma hanno ogni probabilità di accrescerla tuttavia; Inghilterra con essersi procacciati nuovi mercati alla Cina e nell’Oceania, e con essersi aperta la nuova via del Mediterraneo e dell’Egitto a tutti gli immensi mercati suoi orientali nuovi o vecchi; Francia col suo muoversi alacramente a que’ mercati ed a questa via; Olanda per il progresso continuante nelle sue colonie cinesi, e perchè pur si approfitterà della Cina e del Mediterraneo; Germania colla sua lega e con sua liberalità commerciale; e forse in breve Spagna, se, uscendo da sua mala operosità politica, entrerà (come succede) con pari ardore in una nuova operosità commerciale, valendosi della medesima nuova via del Mediterraneo. È evidente: tutti han progredito o minacciano progredire. Se non progrediamo noi pure, ci avverrà una seconda volta di peggiorare nelle nostre condizioni relative; e quindi secondo ogni probabilità anche nelle positive; qual che sia la nostra operosità presente noi perderemo anche questa, tutta o in gran parte. — E come poi possiam noi progredire? Certo, non conquistando anche noi grandi colonie, chè non n’abbiam forza; non aprendoci nuovi mercati orientali, dove saranno non solo ultimi, ma sconosciutissimi; non isperando competere co’ nostri prodotti industriali, troppo rimasti indietro, nè co’ nostri agricoli, troppo scarsi e cari al paragone. Noi non abbiamo speranza buona di progressi commerciali, se non dalla nostra mirabile situazione in mezzo a quel Mediterraneo, attraverso a cui s’è ricondotta, senza fatica nè merito nostro, la via del commercio universale. Per noi han lavorato, e lavorano tutti questi che riconducono il commercio europeo-asiatico (il massimo de’ commerci del mondo), nel nostro mare. Chi va e chi viene ci passa in vista, solca nostre acque, tocca o vede i nostri porti. — Ma non c’inganniamo; veggiamo i vantaggi di questa nostra situazione quali sono, nè più nè meno. Essi non ci possono venire se non dalla vicinanza, che può fare i nostri prodotti più facili a spacciare in Oriente, i prodotti orientali più facili a spacciar da noi, e i porti nostri, scali o depositi a chi va e viene; vantaggi dunque di esportazioni, di importazioni, di scali. Ma fra questi tre, il vantaggio solo dell’esportazioni si potrebbe forse serbare da’ paesi piccoli e disgiunti della nostra Italia; i due altri dell’importazioni e degli scali non si possono nè serbare nè accrescere se non invitando co’ mercati grossi e con gli approdi facili; i quali poi nè gli uni nè gli altri non possono essere se non in paesi grandi, ovvero in piccoli congiunti da una lega. Agli stranieri niun porto nostro non è mercato nè scalo necessario, non è se non facoltativo, e non sarà adoprato se non sarà mercato grosso e approdo facile; ed ai nazionali stessi, cui i porti nostri son mercati e approdi necessari, essi non saran buoni se non colle medesime condizioni. Finchè Otranto o Napoli non saranno se non mercati del Regno, finchè Ancona o Civitavecchia non saranno se non degli stati del papa, Livorno di Toscana, Genova del Piemonte, niuna spedizione grossa si farà mai da o per Otranto, Napoli, Ancona, Civitavecchia, Livorno o Genova. Ma se ognuna di queste potesse essere mercato, deposito, transito di tutta o molta Italia, certo vi moltiplicherebbe l’invito, l’approdo e per le navi straniere e per le nazionali; e moltiplicherebbero quindi, non solo le industrie, i commerci propri de’ luoghi di scalo o di transito, ma per effetto immanchevole, tutte le produzioni dell’industria e dell’agricoltura nazionale. Il fermarsi nelle prove di ciò sarebbe non altro che pedanteria, sarebbe ripetizione inutile di ciò che è saputo da qualunque mediocremente informato delle scienze e de’ fatti della pubblica economia[48]. 9. Ne è dubbio a questi informati: che la legge dovrebbe esser fatta su principii commerciali larghissimi. — Ognun sa che i vantaggi della lega doganale germanica furono effetto, meno forse del fatto stesso della lega, che non della larghezza de’ principii su cui ella sorse e crebbe. Non solamente in Germania, ma in Inghilterra, in Francia, in Italia, e dappertutto, la scienza è unanime nel tener come dogma quella larghezza o liberalità. I pratici soli se ne scostano; e non già, negando que’ principii, ma solamente la possibilità di questa o quella applicazione; non combattendo i dogmi, ma introducendo eccezioni. Nè sarebbe forse difficile mostrare la vanità di quasi tutte queste eccezioni in tutti i paesi dove si van facendo. Ma riduciamoci all’Italia e veggiamo se l’apertura de’ nostri porti, l’abolizione de’ dazi protettori, le larghezze commerciali nocerebbero o gioverebbero alle nostre navigazioni, alle nostre industrie, alle nostre agricolture. I.º Contro alla libera navigazione, ei si suol citar quell’atto di navigazione inglese che, escludendo o svantaggiando le straniere, dicesi aver promosso la nazionale. Ma in questa citazione ei mi par che sia un cumulo d’errori gli uni sugli altri. Perciocchè non è provato che quell’atto restrittivo sia stato quello che fece crescere la navigazione nazionale; questa crebbe per la situazione dell’Inghilterra, intermedia a molte nuove vie, a molti nuovi mercati aperti nel 1500; come è intermedia ora la situazione dell’Italia alle vie riaperte ora. Poi, la nostra navigazione non è in su suoi principii com’era allora l’inglese; è anzi decadente o almeno stazionaria; non si tratta di insegnarci a costrur navi o a condurle, ma a costrurle e condurle al par degli emuli, a che anzi ci può giovar l’emulazione, ci debbono nuocere i privilegi. E finalmente e principalmente, Inghilterra ha ora abbandonate queste strettezze; e ci insegna così, non a prenderle, ma appunto ad abbandonarle; Inghilterra conosce l’età nostra commerciale; noi dobbiam seguire non gli usi che lascia, ma quelli che prende. Quando finirem noi di prendere gli abiti fuor d’uso agli altri? — Ma lasciando gli esempi bene o mal citati, ci si permetta porre a dirittura una alternativa conchiudente. Ovvero le nuove facilità accresceranno effettivamente il numero delle navi straniere sulle marine italiane; ovvero no. Se no, le condizioni delle navi italiane rimarran le stesse che sono ora, quanto a concorrenza; ed elle si miglioreranno inoltre di tutte le facilità di che non si saran voluti valere quegli stranieri. Se all’incontro se ne varranno gli stranieri ed accresceranno la navigazione sulle nostre marine; così pure ce ne potremo valer noi, ma con tutto il vantaggio (immenso, come sa chiunque abbia per poco atteso a questi studi) che ha sempre la navigazione piccola ma vicina, breve, ripetuta, e moltiplice, il cabotaggio e il quasi cabotaggio, sulla navigazione grande, ma lunga e rara. Apransi i porti italiani; chi se n’approfitterà più? Certo non le navi in corso lontano, e massime non quelle che abbiano approdi propri; certo le navi italiane che han tempo a far tre viaggi, mentre l’altre uno, ed a cui gli approdi nostri sono gli unici e naturali. — Ora, mentre scriviamo, non è forse gran porto italiano dove non sia qualche navigazione straniera più privilegiata in qualche rispetto, che non qualche altra navigazione italiana. È vergogna, è danno grave. Ma, vergogna e danno maggiore, il governo di Roma propose già di equiparare alla propria le navigazioni di tutti quegli altri stati italiani che volessero corrispondere con simile liberalità; ed a tal liberal proposizione non corrispose finora niuno stato italiano! II.º Quanto alle industrie, quali sono, in nome della verità, quelle che si vogliono proteggere colle chiusure o colle strette aperture? Le industrie del cotone, o de’ ferri, o delle canape, o dei lini, o delle sete, o di che? Non n’è una ora (anno 1843) che superi le straniere, che abbia primato su’ mercati europei od ultra-europei. Le stesse seterie di Genova, di Firenze e di Torino, già famose, sono un nulla ora su que’ mercati; e quanto all’altre, ei si può dire, relativamente parlando, che non esistono. Non servono esposizioni pubbliche, non medaglie d’incoraggiamento, non statistiche comparative degli accrescimenti annui. Fate statistiche comparative con le produzioni inglesi, germaniche ed anche francesi, e tirate le conseguenze vere, sinceramente, senza voler trovare ciò che non è, per adulare principi di qua, o popoli di là; e vedrete che bello avvenire industriale s’apparecchi all’Italia? Tanto brutto, tanto nullo, che basterebbe tal nullità a conchiudere: facciamo tutto a rovescio di quel che facemmo finora; noi non potremmo fare se non meglio; poichè le chiusure ci portarono qui, apriamo per Dio una volta per provare; peggio di ciò che è, o ci si apparecchia, non potrà esser mai. — Benchè anzi molto miglioramento si potrebbe sperare quando i principi italiani, colti come sono i più (che non parrà adulazione), applicassero francamente, tutti o quasi tutti d’accordo, quel gran principio del lasciar fare e lasciar passare, a cui niuna nazione si trova forse apparecchiata quanto l’Italia. La pochezza delle industrie esistenti scemerebbe il danno inevitabile della concorrenza ammessa. E poi, noi abbiamo avuta più volte l’occasione di osservarlo: l’ingegno italiano è sopratutti meraviglioso in varietà, in adattamenti. Varierà, s’adatterà anche in ciò. Cadranno le industrie men potenti, men naturali; ma sorgeranno le naturalmente più potenti. Se gli uomini di stato che si occuperanno in ciò, pretenderanno a un calcolo minuto di tutte le importazioni od esportazioni, utili a concedersi per le industrie italiane ad una ad una, ei vi perderanno probabilmente l’ingegno e la fatica, come avvenne a tanti altri; ma se se ne rimetteranno all’ingegno vecchio ed all’operosità nuovamente eccitata degli Italiani, ei ci è novanta per cento di probabilità, che questa, compressa com’è in tante altre parti, si precipiterà tutta nel nuovo sbocco, e vi farà miracoli. Possibile che noi, produttori di tante sete, non arriviamo ad operarle quanto i Francesi e i Tedeschi? Possibile che nell’operare i cotoni egiziani così vicini non abbiam parità con coloro che li tessono in mezzo al continente europeo? Perciocchè mal si dice che la natura ci ha negate tali competenze, negandoci il carbon fossile, epperciò le macchine a vapore. Sono elle messe in opera tutte l’acque italiane? Non confondiamo; l’acque non valgono il vapore per le strade a vapore; ma per le industrie non locomotrici, le acque che, fatte cadere una volta opportunamente, cadon sempre, valgon più che non il vapore; e finchè rimane in Italia un fiume o un rivo non usato nella sua caduta, non abbiam occasione di accusar la Provvidenza, nè di affettare una rassegnazione, la quale non è in somma se non pigrizia. Non è il carbone che ci manchi, ma l’operosità; e all’operosità non manca se non la competenza; la competenza dico, che farà danno ai pigri senza dubbio, ma profitterà agli operosi, che sono quelli soli onde si può approfittar la nazione. Se ne capacitino gl’Italiani tutti, ma sopratutti i principi: i nemici della loro gloria, del loro pro, della loro potenza, sono i pigri, i gaudenti, tutta quella genia degli ostinati nel far nulla, degli invidiatori ed impeditori di chiunque fa. Quando alcuni o molti di costoro scapitassero all’operosità altrui, poco male; il mal de’ tristi risulta sempre dal ben de’ buoni, e non si vuol fermar questo per quello. III.º Del resto dicono alcuni che le industrie italiane sono e saran per l’avvenire sempre un nulla rimpetto all’agricoltura. Io nol crederei; ma pogniamo che così sia, che le speranze materiali italiane debbano venir unicamente dalla agricoltura. Ad ogni modo queste speranze si accrescerebbono incalcolabilmente per una lega doganale che si facesse su principii larghi. Grani, risi, canapi, lini, olii, vini, pascoli e sete sono i principali prodotti agricoli nostri. Ma questi tutti (salvo i pascoli) sono prodotti pure di tutti i paesi circondanti il Mediterraneo; e prodotti che si può preveder forse si moltiplicheranno, quali in un paese, quali in altro, a segno da diventar là più a vil prezzo che in Italia. Niun metodo nuovo, niune società agricole, niuni incoraggiamenti governativi, non possono impedir tal danno. Tutti questi sono rimedi piccoli microscopici. Niun rimedio grande può essere, se non, o la chiusura assoluta, che lasci i mercati nostri esclusivamente a’ nostri prodotti, o l’assoluta apertura, che li equilibri agli stranieri, che, facendo abbandonare le produzioni svantaggiose, promova d’altrettanto le vantaggiose. Ma il primo di questi due rimedi grandi è difficile, forse impossibile ad applicarsi, ognuno il sa, in un paese così vario, così sulla via universale, così facile al commercio illegale com’è l’Italia; e poi non servirebbe se non a dar vantaggio su’ mercati nazionali, e crescerebbe lo svantaggio sugli stranieri. Ondechè il secondo rimedio, l’apertura, che equilibra tutte le produzioni, ed accresce le più naturali, è solo proficuo e possibile all’ultimo; epperciò tant’è volgervisi quanto prima. Non sono i metodi di colture quelli che si debban mutare, ma le colture stesse; i metodi nostri son buoni da secoli e secoli, e poco o quasi nulla v’è d’aggiungere; ma le colture si debbono mutar di secolo in secolo secondo le condizioni nuove, e quest’è che non abbiam fatto, e dobbiam fare. Noi eccettuammo testè i pascoli da quelle colture italiane che hanno a temer competenze. E difatti, se si giri tutt’intorno al Mediterraneo, ei non si troverà forse regione che sia comparabile per essi a tutta l’Italia settentrionale e a molte parti della meridionale. E quindi ei si può prevedere: che quelle regioni non arriveranno forse mai, e certo non per grandissimo tempo a competer con noi per li pascoli, e perciò per li bestiami e i latticinii: che quindi, quanto più la competenza scemerà la produzione de’ grani, tanto compenso e forse vantaggio noi potrem trovare nella produzione de’ pascoli, de’ bestiami, de’ latticini: che accrescendosi la abitazione, e quindi il lusso dell’altre coste del Mediterraneo, s’accrescerà la richiesta di questi nostri prodotti; e tanto più che son prodotti di natura loro cercati sempre ne’ luoghi più vicini; e quindi in ultimo, che l’Italia è destinata ad accrescere molto, immensamente, questa produzione sua, a rivolgere in pascoli tutte le terre sue che ne sien capaci, a valersi per ciò di tutti i suoi corsi d’acqua e di tutti i lavori accumulativi da parecchie generazioni, e ad accrescerli di gran lunga, che è in somma un avvenire speciale suo e fecondissimo di operosità e ricchezze d’ogni sorta. — Questa è la nostra speranza agricola principale senza dubbio. Ma non è la sola. I nostri risi pure sono fin ora senza competenza nelle ragioni circum-mediterranee, i nostri oli han sostenuto fin qui, o poco meno, tutte le competenze; e se i nostri vini non lo sostengono, la potrebbero sostenere quando s’introducessero perfezionamenti ed incoraggiamenti in questa industria, che n’è forse sola capace fra le nostre. Anche questi prodotti si accresceranno probabilmente, per la vicinanza nostra a tutte quelle immense regioni che sono in progresso probabile. Qui più che altrove i progressi altrui aiutano e quasi sforzano i nostri. La nostra pigrizia sola li potrebbe impedire. Non sarebbe se non nel caso che non volessimo produr noi quanto ci domanderà ogni dì più tutt’all’intorno, che le domande si rivolgerebbero altrove, e forse per sempre. Se noi ci ostiniamo a voler produr grani come nel mezzodì della Russia, od in Barberia, o in Egitto, a confondere (come fanno troppi agricoltori, amministratori ed economisti) l’agricoltura in generale con la coltura de’ grani; se in un’età di comunicazioni infinite ci ostiniamo a voler produr tutto, o a tener più necessaria la produzione de’ grani; se sagrifichiamo a questa le produzioni che ci daran ricchezze da comprarne, armi e navi da procacciarcene sempre, allora questa vecchia preferenza ci farà mancar l’occasione, e l’Italia non solo scaderà una seconda volta dai suoi commerci, ma scaderà dalla sua agricoltura, che sarà ultimo danno materiale. — E il danno materiale porterà seco quelli morali anche maggiori, della inoperosità e de’ vizi che l’accompagnan sempre. Ne’ secoli scorsi l’operosità non cessò quasi, se non nelle così dette classi alte, o tutt’al più nell’industriali; l’agricoltura, progredita lungo i grandi secoli italiani e serbatasi lungo i piccoli, salvò l’operosità in una gran parte della nazione. Ma guai se, cessando anche in questa parte, tutta la nazione nostra cadesse mai in inoperosità, a’ tempi appunto che i popoli circondanti, od anzi tutti i cristiani, accrescono la loro operosità. Allora sarebbe colma la misura de’ nostri danni; allora non servirebbero se non quegli estremi rimedii, che la Provvidenza permette bensì, ma che debb’essere studio d’ogni buon evitar sempre, quanto più sia possibile, in ogni cosa. 10. Epperciò qualunque cosa si voglia e possa fare, facciasi quanto prima. Qui non è solamente necessità; è urgenza. In questi anni dintorno alla metà del secolo XIX, forse in questi pochi che restano del quinto decennio di esso, si deciderà il nostro avvenire commerciale industriale ed agricola, per secoli e secoli. Questi sono gli anni climaterici dell’economia pubblica di tutte le nazioni europee, ma più dell’Italiana. Li trascureremo noi? Il commercio universale prenderà altre abitudini; ed ognun sa, quanto le abitudini commerciali sieno poi difficili a mutarsi. Ci varremo noi all’incontro di questa nuova e grande e forse ultima occasione dataci dalla Provvidenza? Di questa nostra magnifica situazione in mezzo al Mediterraneo? Di questo nostro trovarci prima nazione europea sulla via riaperta all’Oriente? E, parliam chiaro, ce ne varrem noi più largamente, più arditamente che non le altre nazioni circum-mediterranee? Faremo noi i nostri sbocchi, i nostri approdi, più facili che gli altri? Allora le nazioni più lontane che non hanno scali nel Mediterraneo, Olanda, Germania, Svezia, America, se ne varranno molto; e se ne varranno talor anche quelle stesse che v’hanno scali o coste, Inghilterra, Francia e Spagna, se sappiam precederle in quelle liberalità. E prese allora quelle abitudini, elle continueranno poi anche quando Inghilterra e Francia e Spagna entrassero in quella via dove noi le avremmo precedute. Ma capacitiamocene bene; qui si tratta di una corsa; qui d’arrivar primi; qui di prendere il solo vantaggio che ci rimanga a prendere. Altre nazioni hanno altri vantaggi, altre precedenze, più navi, più industrie, più mercati; noi non li possiam tôrre ad esse; non possiam prendere se non ciò che non han saputo esse finora: le liberalità de’ commerci. — Io fo tutt’uno in somma, fo una sola ipotesi della lega doganale italiana, e della liberalità e della prontezza di essa. La liberalità senza lega, o la lega senza liberalità, o la lega e la liberalità senza prontezza, non gioverebbero. Pogniamo che Napoli (la meglio situata) entrasse sola nella liberalità; questa non darebbe mercato grosso senza la lega, la nave straniera o nazionale approdata ne’ porti napoletani dovrebbe spacciar tutto il suo carico nel Regno, o portarlo via in altri porti italiani, dove nuovi dazi, nuove leggi l’aspetterebbero. Ingannata, non tornerebbe quella, nè altra; non s’avrebbero grandi approdi, nè gran commercio di niuna maniera. Ed all’incontro poniamo fatta la lega, ma non liberalmente, non servirebbe a nulla; le abitudini straniere ed anche nazionali continuerebbero a pro de’ più liberali. E pogniamo in ultimo fatta la lega, e fatta liberalmente, ma quando (fra pochi anni probabilmente) saran venute le altre nazioni circum-mediterranee a quella liberalità; allora di nuovo non servirà a nulla. Preceduti, non arriveremo mai più. — Il so anch’io, che è dogma di buona economia politica, far a poco a poco le novità. Ma è pur dogma di buona economia politica, che vi sono eccezioni a tutti i dogmi. E qui è il caso d’eccezione al dogma dell’_a poco a poco_. Il nuovo commercio ultra-orientale, e il cinese sono in sui lor principii; ma fra dieci anni al più essi avran prese probabilmente tutte le loro abitudini. La via d’Egitto è in sui suoi principii; ma fra dieci anni ella avrà prese forse tutte le sue agevolezze. Questi pochi anni in che si stanzieranno quelle abitudini e quelle agevolezze, sono gli irremediabili. Passati questi, non ci sarà nulla a fare, nulla a sperare più, per l’accrescimento de’ nostri commerci, nostre industrie e nostre agricolture; cioè per le nostre grandi operosità nazionali. Altro che primati, o nemmen parità! Se non vi provvediamo a tempo, noi siamo forse per cadere in una inferiorità non mai veduta; inferiorità a tutti gli altri, che son sulle mosse d’una non mai veduta operosità; inferiorità a noi stessi, che non avemmo mai una occasione così bella a prendere, così brutta a perdere. Ma Dio ci salvi da ogni infausta previsione! Dio spiri forza ne’ petti in cui sta salvar la generazione presente italiana dai disprezzi, dall’esecrazione de’ nipoti. A che servirebbe che adulassimo o tacessimo noi? Costoro sogliono essere inesorabili poi; e tanto più nel giudicar di ciò che fu alterato o taciuto da’ contemporanei. NUOVA APPENDICE. A MOLTE CRITICHE UNA RISPOSTA: FATTI NUOVI. 1. Il volgo e i naturalisti antichi credevano a certe serpi, che col guardo affascinate tirasser giù tra’ raggiri di loro annella e a poco a poco in lor bocca, gli uccelli che le guardavano imprudenti e reluttanti dal nido. Questa favola è rigettata dalla scienza moderna, ma può servire a un paragone. Non dissimili mi paiono la polemica personale e gli scrittori, i quali, quantunque avversi, si lasciano trarre al fascino di essa. E poco mancò che mi vi lasciassi trarre io pure, quantunque avversissimo. 2. Il presente libro, primo da parecchi o molti anni che sia surto d’Italia a discorrere apertamente di politica italiana, primo che l’abbia rivolta tutta intiera allo scopo dell’indipendenza, doveva suscitare e suscitò fin dall’apparire non poche critiche. Ma io dissi già brevemente di quelle che precedettero la seconda edizione; qui dirò più brevemente di quelle che seguirono da dieci mesi in qua. Continuarono a venirmene da destra e da sinistra. Ma le prime a voce, in opera, senza pubblicazioni, nè pubblicità. I destri (dico d’Italia) sdegnano l’opinione, e ciò che la fa; sdegnano gli scritti altrui e lo scrivere essi; son conseguenti. E conseguenti sono i sinistri, quando scrivono il più che possono. — Ma in Italia, proibito più o meno severamente ed efficacemente il libruccio dappertutto, ei non potè, naturalmente, esser criticato, nè menzionato, nè annunciato da niun giornale. Due soli scrittori, ch’io sappia, ne fecero cenno pubblico in Toscana, citandone onorevolmente alcuni squarci a proposito di strade ferrate; e due altri poi fecero altrove il medesimo al medesimo proposito in lor relazioni d’ufficio, non pubbliche. Nè io saprei dire quale dei due mi sia più incoraggiante pensiero; d’aver potuto servire così o all’opinione pubblica, o ai governi della patria nostra; motrice quella o aiutatrice massima, effettuatori questi necessari, di qualunque buona impresa italiana. — In Germania, parecchi giornali, mi fu detto, raccomandarono il mio scritto a quella grande e lenta, ma sempre progrediente ed a noi preziosa opinione pubblica. Ma io ne vidi uno solo; e perchè egli mi propose molto cortesemente due questioni supplementari, cercai scioglierle in due lettere pubblicate sotto il titolo _Della fusione delle schiatte in Italia_. Ed un illustre scrittor di colà diede poi un sunto onorevole ed amichevole del libro mio, nel suo libro sulle condizioni presenti d’Italia. — Dall’Inghilterra non ho notizia, che d’un articolo della rivista più antica e più grave fra le _Tories_, la quale mi assalì con pensieri e frasi che mi paiono, per vero dire, molto diverse da quella opinione, e ad ogni modo coll’allegazione d’un fatto inesatto; ed io le risposi per rettificare una volta di più quel fatto a me importante[49]. — E finalmente, poche lodi pubbliche, e parecchi attacchi mi venner di Francia; alcuni da Francesi propriamente detti, i più da nostri compatrioti. Nè celerò che in tali attacchi mi fu amara, oltre a ciò che mi ero aspettato o preparato, una cosa: che si continuasse talora a travisare le opinioni mie. Già s’era fatto, ma s’insistè; e ciò mi dolse tanto più, che più mi duole essere travisato presso a quegli stranieri, i quali non prenderan probabilmente la fatica di confrontare le opinioni allegate con quelle che io scrissi; e tanto più che quel paese è pur quello la cui opinione, la cui politica mi parve più importante a noi fra tutte le straniere; e quello poi, a cui dopo la patria io sono personalmente più stretto, quello che fu a me pure largo di ospitalità da 47 anni oramai, quello che fu a me pur rifugio nell’esiglio, quello della mia più dolce e più sacra memoria, quello di molti preziosi affetti privati che mi vi rimangono. E quindi parevami l’occasione da dover rispondere, protestare; e più volte presi la penna a ciò; ma ne fui ad ogni volta trattenuto dagli amici di qua o di colà in varii modi. Ho io fatto bene o male di arrendermivi, di non insistere? Certo mi pena ancora, per me, di lasciarmi giudicare colà su quei rendiconti; per la patria, di lasciar cadere colà la discussione sulle cose italiane. Io aveva sperato che questa discussione politica incominciata da un Italiano di fuori, proseguita da un Italiano d’addentro, con serietà, con sincerità, con moderazione (o almen lo spero), fosse continuata di nuovo da fuori al medesimo modo, e continuata colà con più vantaggio; e che continuandosi così, potesse uscire o dalle speranze massime del Gioberti, o dalle già minori mie, o se mai da altre minori ancora, una politica nazionale italiana; una di quelle politiche che non è dato a nessuno, e a me certo men che a niun altro, di fondar solo; ma una di quelle politiche che, fondate dalla discussione sull’opinione dei più di una nazione, e non discordantemente dall’opinione della civiltà universale cristiana, non possono a meno di non condurre una nazione qualunque; a tutti i suoi qualunque sieno, più o men buoni destini. Disgraziatamente, non fu così; e dopo pochissime discussioni d’opinioni (di che ringrazio sinceramente), la polemica si ridusse ad appormi opinioni non mie, e sarebbesi così ridotta per me a protestare: io non ho detto questo o quest’altro. E questa non sarebbe più stata polemica utile, buona a nulla; e fatta tra Italiani, dinanzi a stranieri, e «In Francia, dove in pregio è cortesia,» sarebbe probabilmente stata nociva[50]. E quindi in tutto non so se io abbia fatto bene a farne il sacrificio, o se io n’abbia fatto uno utile alla patria; ma mi perdoni ella d’aggiugnere che credo averne fatto uno non lieve. 3. Ad ogni modo, tra tutti questi attacchi prodigiati di fuori al presente libro, e la pubblicazione impeditane addentro a tal segno da non potersi più quasi dir pubblicazione[51], 3000 esemplari o poco meno ne corsero di mano in mano e in un anno sul suolo italiano; qui dov’è in somma il corpo, la gran pluralità di miei compatriotti, la vera, la grande opinione italiana. Quindi (per non parlare di alcune simpatie a me preziose, ma che espressemi in modo privato o meno esplicito, io non debbo, miseria patria palesare ulteriormente) quindi quel poco incoraggiamento che può venire in Italia ad uno scrittore sincero; e quindi poi l’occasione della presente edizione terza. Ma quindi pure un nuovo dubbio in me: se avessi in questa ad aggiugnere nuove note, come feci nella seconda, ai due intenti 1.º di rispondere alle nuove critiche; 2.º di accennare i nuovi fatti surti a conferma delle speranze accennate. Ma quanto alle risposte, non so se io mi sia lasciato persuadere di nuovo dalla mia pigrizia, ma in somma mi persuasi: che il rispondere a tutti i nuovi criticanti avrebbe fatto oramai di questo libretto un volumaccio tempestato di note, e quasi di un commento perpetuo, a modo d’un libro d’erudizione; che il rispondere ad alcuni solamente, avrebbe fatto dire che tralasciavo i più forti opponenti; che del resto, alle poche critiche vere, ai principii diversi io aveva risposto già o primitivamente nel testo, o nelle note alla seconda edizione, le quali serbo in questa, ondechè le risposte nuove sarebbero state ripetizioni; e che finalmente le proteste di non aver detto questo o quest’altro, se potevano aver qualche vantaggio dinanzi a un pubblico che non mi conosce, e non ha od ha poco il mio libro in mano, elle sarebbero inutilissime in Italia, dove il libro è volgare oramai, e massime a coloro che, tenendo appunto il libro in mano, possono vedervi da sè ciò che v’è o non v’è[52]. All’incontro, quanto alle conferme, a’ fatti nuovi avvenuti da dieci mesi in qua, essi mi parvero di tale importanza da non poterne discorrere adeguatamente in note, e da star meglio collocati qui in calce tutti insieme. E quindi in somma lasciai testo e note come nella seconda edizione, riducendomi alla sola presente aggiunta de’ fatti nuovi. — I quali, per vero dire, se io non m’inganni sovr’essi, se sieno per parer tali altrui come paiono a me, serviranno di risposta sommaria, e la migliore che possa essere alle critiche sincere. Certo, se in così poco tempo, e, pur troppo, con così poca opera nostra, le nostre speranze si sono tuttavia accresciute veramente e notevolmente; ei bisogna pur dire che sia nell’andamento universale di questa civiltà cristiana in cui viviamo, una spinta irresistibile la quale arrivi fino a noi; ei bisogna dire che le speranze tratte dalla certezza di quel gran movimento, non sieno sogni; ei bisogna dire che gl’Italiani speranti abbiano, in generale, ragione contro ai disperanti d’ogni luogo o qualità. E poco importerebbe allora a me, nulla, alla patria, che io, sperante particolare, abbia più o men bene esposte quelle speranze. Torniamo oramai, e sotto rinnovati auspici, al modo nostro; lasciamo le persone, la polemica, le cose dette; andiamo avanti, colla patria; ed anzi, se ci riesca, spingiamola avanti. 4. Del resto, è vero che il tempo, il gran giudice delle politiche proposte ed anche delle effettuate, è lento al solito a pronunciare il giudicio suo; e che quindi può parere presunzione il pretendere che l’abbia pronunciato così prontamente. Ma, altronde, il tempo nostro, non c’inganniamo, è tempo di operosità esaltata, accelerata. Perchè non vi son guerre grandi, non rivoluzioni, quasi nemmeno più parti estreme, contese aspre o pericolose; perciò pare ad alcuni disattenti che noi siamo in un tempo pigro, ozioso, quasi d’aspetto. Ma il fatto sta, che l’opera del nostro tempo è appunto tanto più pronta, più efficace, che ella è men contrastata. Di due persone che vadano, l’una correndo, ma sovente fermata e fatta dar indietro dagli opponenti sulla via, e l’altra stampando i passi giusti, contati, con pochi contrasti, e così sempre all’innanzi, la seconda fa più via, arriva più lungi, naturalmente. E il nostro secolo, nel suo primo terzo si può assomigliare a quella prima persona, d’allora in poi alla seconda. E se continua così, quali speranze, quali disperazioni non s’apparecchiano per la gran metà del secolo ancor restante? Speranze a coloro che prenderan parte al moto; disperazioni a coloro che vorranno pazzamente contrastargli, o stoltamente tenersene discosti? È detto, è fatto, più che a mezzo già nella minor metà: il secolo XIX non sarà solamente, è già secolo di progressi, grandi in sè, grandi al paragone de’ precedenti: se non sorge qualche ritorno proporzionatamente grande all’indietro, che non è probabile di niuna maniera, sarà secolo grandissimo, sarà, è già era di molti fatti nuovi a tutto il mondo futuro. Altro che secolo di transazioni, di dubitazioni, di mediocrità, come dicevano taluni! La transizione è finita, le dubitazioni si mutano in certezze, la mediocrità rimane a quegli uomini, alti o bassi, così mediocri da non prender parte alle grandezze che lor si svolgono all’intorno. Ma volete voi ridurvi a’ fatti presenti, compiuti? Sia pure. Da un dodici o quindici anni in qua, l’Europa, la cristianità camminò forse più che ne’ trenta precedenti; ogni anno vale ora secoli. E così è che, in un anno ed anche meno, poteron sorger fatti confermanti le previsioni, così poterono udirsi giudizi già pronunciati dal tempo. — Del resto, i soli operosi di fatti o almeno di pensieri, capiscono il tempo operoso, accettano i giudizi di lui; gli oziosi non li odono nemmeno, o se li odono, non li intendono, ed anche intendendoli, li ricusano come troppo incomodi; e quindi noi lascierem questi; e co’ primi soli esamineremo, trascurando parecchi eventi minori, due fatti nuovi italiani, e due o tre stranieri. E per non far un altro libro appiccicato al primo, saremo più brevi che mai. Gli operosi che ci abbian letti fin qui e si degnino continuare, ci capiranno in poche parole. Gli oziosi non ci capirebbono in molte, e non saranno arrivati fin qui. Il mio libro, il mio stile non son molli, nè forse facili, lo so. Ma chi m’insegna il modo di dir mollemente, facilmente, di tante cose, nuove ancora in nostra lingua? La novità produce moltiplicità; la moltiplicità, brevità; e la brevità inevitabilmente oscurità, o almeno difficoltà. Lo stile politico moderno, è, esso stesso, da formare in Italia. Nè ho la pretensione di formarlo io. In ciò, come nel resto, desidero essere, non che accompagnato, superato; ed è certamente molto facile. Ma finchè son lasciato solo o poco meno, io imploro questa scusa della solitudine. Chi parla solo, suol parlar tronco, ruvido od anche rozzo. Mi serva di scusa appresso ai compatrioti; i quali non vorrei prendessero per frutto d’impertinente negligenza ciò che è all’incontro di felice od infelice, ma perdurante lavoro. 5. Il I.º FATTO NUOVO italiano da notare è negativo. È, che da un anno in qua cessarono i moti, anzi le minacce di moti (diciam la parola usuale) rivoluzionari. Così continuò a decrescere la serie decrescente notata nel testo più volte. Nel 1.º decennio del secolo: continuazione della rivoluzione massima e pessima incominciata nel secolo scorso: servitù straniera. Nel 2.º decennio: rivoluzione minore e migliore; si passa di sotto alla servitù assoluta ad una servitù minore, a semplice preponderanza straniera. Nel 3.º decennio (incominciando dal secondo semestre 1820): prove di rivoluzioni nazionali, poche e povere in sè, grandi al paragone delle seguenti. Nel 4.º decennio: prove minori. Nel 5.º, ove siamo: prove minime. E noi possiam quindi indurre una speranza che si continui così; che l’ingegno sempre risorgente, che l’operosità indestruttibile italiana si rivolgano da queste prove (buone o cattive, non ne rifarem questione, certo infelici) alla prova nuova e migliore, delle mutazioni a poco a poco, de’ miglioramenti universali, dell’unione tra l’opinion nazionale e il poter de’ governi, della creazione d’una politica, d’una operosità universale. Se continua siffatto rivolgimento dell’operosità sprecata ad operosità efficace, è impossibile ch’ei non produca l’effetto suo. Egli invaderà le amministrazioni, i consigli, i ministeri de’ principi, anche più oziosi e lenti; e gli operosi, invece d’ostacoli ed ostilità, troveranno aiuti. E principi e popoli, divisi già in operosità contrarie, troveranno l’operosità comune, che è il più grande, anzi il solo buono fra gli stromenti di unione. 6. II.º FATTO NUOVO. L’operosità comune è incominciata. Negativamente e positivamente. Negativamente quel disegno di lega doganale dei principati italiani colla provincia straniera, che preoccupava pubblico e governi italiani un anno fa, è caduto. La lega de’ principati soli continua sì ad esser difficile, a parere impossibile. Ma il tempo giudicherà di tale impossibilità; ed è un gran passo intanto, che paia più impossibile la lega colla provincia straniera, quale è[53]. — Positivamente poi, pubblico e governi italiani si sono destati, finalmente, al desiderio, al bisogno, al fatto delle strade ferrate. Gran danno che sia un po’ tardi! maggiore, che ci sia venuto dallo straniero. Ma meglio tardi che mai, ed onde che ci venga, il bene. E questo fatto serve già di suggello a ciò che dicemmo sovente; che lo straniero stesso sarà sforzato a farci del bene, a prepararci le vie, la via sino al fine, allo scopo. E questo fatto, questo progresso è immenso. 1.º Egli torrà di mezzo, probabilissimamente (io m’avventuro forse; ma più penso, più confido) i tentativi di rivoluzioni. Quali potranno riuscire, quando potranno i principi in poche ore mandar milizie, portarsi di lor persona sul punto sollevato o minacciante? quando si potranno aiutare essi a vicenda, senza chiamata di stranieri? Od anzi qual tentativo o minaccia seria si farà, quando le popolazioni non sieno più inoperose, oziose, tormentate da quel non saper che fare del proprio ingegno ed animo, il quale nella condizione presente della società, è il gran motore delle rivoluzioni? 2.º Ed all’incontro, le strade ferrate, cioè le comunicazioni agevolate, accelerate, moltiplicate non possono non conferir molto, tutto, alla formazione della politica nazionale, dico la politica di principi e popoli, popolo grande e piccolo insieme, tutta la nazione. Relazioni frequenti, opinione universale, politica nazionale: sinonimi. Questa politica si formerà a poco a poco, allora che si provin comuni gli interessi materiali, gli intellettuali. Lo straniero porrà ostacoli? Saranno incitamenti al desiderio d’indipendenza. Continuerà a dar aiuto a queste comunicazioni di merci, di mode, di usi, di costumi, d’idee? Saranno aiuti a comunanze, e le comunanze aiuti a indipendenza. Nè mi si dica che io sono imprudente, che rivelo pericoli allo straniero. Egli li vede, ma li vede doppi, e non può uscir dall’ambage. 3.º E quindi non disputeremo qui, quali sieno utili di tali comunicazioni nuove. Tutte sono utili più o meno. Prime forse, quelle che uniscano le capitali, le sedi de’ principati, i centri d’operosità e d’idee italiane, i centri d’idee, or più, or meno diverse, da riaccostare. Seconde, quelle che uniscano i grandi approdi nostri coll’interno o coll’estero; e così Genova con Torino, Francia e Svizzera occidentale; Genova con Torino e Svizzera orientale; Genova con Milano e Germania; Livorno con Firenze; Adriatico con Firenze; Ancona e Civitavecchia con Roma; Napoli ed Otranto coll’interno del Regno. Terze, tutte quante le comunicazioni terziarie tra quelle primarie e secondarie. Ed io voleva dire più a lungo di tutte queste. Ma molti ne dicono; ed è un bene, un progresso pur questo, che i nostri governi ne lascin più o meno dire. Pochi anni fa, una cosa qualunque, anche materiale, che fosse caduta sotto l’opera o il solo pensiero de’ governi nostri, era vietata alla discussione pubblica; or questa si soffre e talor si eccita. Quindi tra le infinite cose da dire, ne scelgo una non o men detta; tra tante strade ferrate di che si parla molto e bene, parlerò io di una sola, che comprenderebbe tutte le prime e gran parte delle seconde sopra accennate, e ne accrescerebbe l’importanza di gran lunga. — Se il principe italiano dell’Italia settentrionale, e il principe italiano dell’Italia meridionale s’intendessero (e non v’è nessuno al mondo che possa impedirli d’intendersi) a fare, il primo la strada che forando l’Alpi mettesse da Torino a Francia, e il secondo la strada che varcando o forando l’ultimo Appennino mettesse da Napoli ad Otranto, queste due strade sarebbero i due sommi capi di quella che riunendo tutte le capitali italiane percorrerebbe tutta la longitudine della longitudinale penisola nostra; e tutta questa strada insieme libererebbe i principati italiani d’ogni loro dipendenza commerciale germanica, e farebbe poi dell’Italia la via più lunga in terra, più breve in tutto, tra l’Occidente d’Europa e l’Asia intiera. Molto probabilmente questa strada torrebbe di mezzo ogni altra concorrenza, rimarrebbe la migliore, la preferita per quella comunicazione, che fu, che sarà sempre la massima di tutte sul nostro pianeta. Le comunicazioni per terra, per istrade ferrate, si preferiscono già, e, perfezionandosi, si preferiranno sempre più alle comunicazioni per mare; le quali per quanto si perfezionino mai, rimarran sempre soggette ed alcune fortune di mare. Guardate la carta; la via diritta tra Londra e Suez attraversa la penisola nostra da Susa ad Otranto. Da Otranto non riman più Golfo di Lione, non Adriatico da navigare; non riman più che il Jonio, un mar solo, che è gran vantaggio a non correre due fortune, due incertezze. Questa via farebbe guadagnare su quella di Marsiglia una giornata forse, la sicurezza certo. Chi può dubitare che il commercio e i due governi di Francia e Inghilterra, i quali pagano così caro la sicurezza e il tempo, ne approfitteranno? — Ma volete voi creder pure che rimarran preferite le vie per Marsiglia o Venezia o Trieste per li loro corrieri? Ammettiamolo, benchè io nol creda. Ma rimarrà quella fila, quella folla di ufficiali pubblici francesi ed inglesi che faranno il passaggio in Levante ed Oriente, e poi quell’altra fila o folla di viaggiatori scientifici, letterari ed oziosi, che ne faranno, come si dice, il giro, e che facendo quel passaggio o quel giro preferiranno senza niun dubbio far per via il passaggio o il giro d’Italia. E questa folla, già grande oggidì, già pur importante che non si pensa, s’accrescerà così certamente, ad uno o più doppi. Io mi meraviglio (se forse non m’inganno per ignoranza) che non siasi fatto un computo, facilissimo, dell’importanza di quella folla presente, e della presumibile in avvenire. Poniamo che vengano da 40,000 stranieri all’anno in Italia[54]. Poniam che la media del soggiorno di tutti sia sei mesi, anzi solamente 180 giorni. E poniam finalmente che spendano (voglio porre sempre poco) 10 lire al giorno. Saranno 10 × 180 × 40,000 = 72,000,000. E notate ciò: questi sono settantadue milioni quasi netti portati in Italia, guadagnati dall’Italia. Siano pur servitori di piazza, facchini, postiglioni, vetturini, locandieri che ne guadagnino il più; ma tutti questi si provvedono da agricoltori, fruttaiuoli, fabbricanti e mercanti d’ogni sorta. E poi vi guadagnano direttamente tutti questi fabbricanti e mercanti, e i banchieri, e i padroni di case, e gli artisti, in somma chiunque lavora e guadagna nella penisola. E questi settantadue milioni, ripeto, sono guadagno quasi netto[55]; ed equivalgono perciò a quello che in qualunque altro commercio sarebbe solamente guadagno definitivo, risultato ultimo di esso, dopo dedotti i consumi proprii e i profitti stranieri. Ora poniamo (per por sempre tutto contro al calcolo nostro) che il guadagno netto degli altri commerci sia di dieci per cento, che un commercio sia il cento per dieci del suo guadagno netto; resta chiaro, che il guadagno datoci dagli stranieri viaggianti in Italia equivale a quello di qualunque altro commercio che fosse stimato a 720 milioni. Ei non s’è forse badato abbastanza a questo computo; il quale spiega, come siasi così poco impoverita la così oziosa, così poco produttrice Italia. Noi viviamo del benefizio del Cielo, e dell’opera de’ nostri maggiori[56]. Essi lavorarono per noi; noi raccogliamo ancor le frutte seminate da essi. I lor monumenti, le opere di lor mani e lor ingegni ci fanno vivere. Noi siamo come i nobili degeneri, che mangiano e bevono sul reddito dei capitali messi insieme da’ maggiori. Sappiamo almeno non far come quelli, che trascurano perfino di migliorare que’ redditi, secondo le opportunità dei tempi. — Poca fatica ci vuole a raddoppiarli, triplicarli, od anche più. Chi può prevedere il totale degli stranieri i quali passerebbono, girerebbero e soggiornerebbero in Italia, quando agli allettamenti del nostro cielo, di nostre campagne, di nostre città, di nostri monumenti, di nostre memorie, s’aggiugnesse quello d’essere il nostro suolo la via più breve tra tutta l’Europa Occidentale e l’Asia, tra le due nazioni più operose del pianeta, e il maggior campo di lor operosità? Io credo esagerare in meno, portando il guadagno nostro probabile in tal caso sotto al triplo del guadagno presente, a incirca 200 milioni all’anno, equivalenti al guadagno d’un commercio di due bilioni[57]. Tanto che questo solo guadagno nostro eguaglierebbe quello delle nazioni più produttrici o più commercianti! Tanto che io non m’inquieterei che d’un solo inconveniente, della facilità di tal guadagno, e così dell’allettamento all’ozio che ne verrebbe ai nipoti! Ma incominciamo con essere operosi noi, e non inquietiamoci troppo dei nipoti; li avremo incamminati pure essi. Incamminiamo l’operosità; l’operosità saprà trovare nuove vie. Elle sono infinite. — Che le comunicazioni a vapore, strade e navi combinate insieme, sieno per mutare forma al mondo incivilito, ed anche poi al non incivilito; che ne abbiano a sorgere condizioni, relazioni nuove a tutte le nazioni; è oramai un assioma non più scientifico, ma volgare in tutta la cristianità. Saremmo noi soli a non vederlo? o se il veggiamo, a non farlo entrar nella politica, nella pratica nostra? O se v’entra, a non dargli tutta quella efficacia, tutti quegli svolgimenti di che è capace, e che gli si danno altrove? Se così fosse, allora sì che sarebbe convinta d’incapacità la nazione nostra, o chi per essa; ed alla faccia di tutte l’altre nazioni incivilite, libere, men libere, od anche serve, e tra la servitù trovanti pur modo a questa almeno fra le grandi operosità. Alla fine del secolo, od anche prima, i gradi di civiltà delle nazioni diverse si segneranno probabilmente sulla scala di proporzione delle popolazioni ai miriametri di strade accelerate che esse possederanno. — Materialità, diranno alcuni! E materialità risponderemo noi! Ma materialità come quella d’un corpo sano e ben disposto, il quale serve all’animo, all’intelligenza, ed anche alla virtù. 7. III.º FATTO NUOVO. Ora usciamo d’Italia, e veggiamo se quelle speranze che notammo, or fa un anno, e furono derise, in versi e in prosa da alcuni nostri compatrioti ed anche amici (non meno rimastici amici perciò), sieno pur di quei sogni che si dileguano coll’andare del tempo e della realità. Io parlo della speranza che ci viene, come fu detto, da Turchi, o per parlar sul serio dalle inevitabili mutazioni di quell’imperio, di tutta la civiltà Maomettana. — Questa civiltà è una, è solidaria più o meno, dall’Indo all’Atlantico. Nel qual grande spazio, tre imperii maomettani sono od erano: il Persiano, il Turco e Marocco. Vero è che questo era da gran tempo più supposto, che effettivo; ma appunto in quest’anno, ne’ pochi mesi scorsi, apparve, fu dichiarata a tutti la supposizione. Io notava già timidamente: ecco Francia postasi in contatto, entrata in relazioni sforzate con Marocco. Mal detto, mal preveduto, timidità mia, esitazione ne’ miei proprii principii! Con un grado ulterior di fiducia, io avrei detto fin d’allora: Francia entra a buttar giù l’imperio di Marocco, a far comparir quel sogno, quella bugia. Ad ogni modo, così fu. Una battaglia, due bombardamenti marittimi, bastarono a dileguare lo spauracchio di que’ vincitori di D. Sebastiano, di quella gloria antica, di quel deserto, di quelle nubi di cavalieri, di quell’imperatore. Quell’imperio giace lì, preda disputabile forse tra Francia, Inghilterra, od altri; preda insomma a’ Cristiani, quando che sia che s’accordino in prenderlo; come i due altri imperii di Turchia e Persia. I tre, tutto l’islamismo, giacciono ora nella medesima condizione; sopravvivon per grazia della cristianità; grazia momentanea, fatta loro fino a che ella non abbia tempo od ozio a rivolgervisi, finchè pensa ed opera in altro, finchè non le giova ritirar la grazia, finchè a tutti o molti, od anche a due o ad uno de’ forti popoli cristiani non venga una necessità, una occasione, un piacere, un capriccio di levarsi l’incomodo. — E già è minacciata un’altra parte, già l’istmo di Suez è un incomodo. Chi può credere che rimarrà gran tempo, mal aperto com’è? Che quando sieno moltiplicate, agevolate le comunicazioni in tutta Europa e tutto il Mediterraneo di qua, nell’Indie, e tra l’India e la Cina, e tra l’India e Suez al di là, l’istmo di Suez rimanga a lungo, quasi un’interruzione, abbandonato alle comunicazioni patriarcali sui cameli? Ma, mentre io scrivo, o prima che il mio scritto diventi stampa, sarà forse incamminato il progresso primo; e i cameli saran per diventare locomitivi, e in breve le locomitive accresceranno il tragitto, e il tragitto accresciuto domanderà un canale, e il canale sforzerà a guarentigie, e le guarentigie a nuovi gradi di preponderanze, dominazioni o dominii cristiani. — Ancora, da una terza parte, Grecia s’educa ogni dì (più o men lentamente) a costituzione, a libertà, a pubblicità, ad operosità; Grecia, già quasi tutto russa, si fa or russo-inglese, or russo-francese; finirà con essere anglo-francese in diplomazia, e greca solamente, ma compiutamente in interessi, in parole, in opere. Gli _Status quo_ son buoni per alcuni anni, o lustri. Ma secoli? Chi il può pensare? Chi può credere che resti per secoli un milione di Greci liberi daccanto a quattro o cinque milioni di Greci schiavi, senza che quelli chiamino questi a libertà? Sono sogni buoni tutt’al più per qualche novizio di diplomazia, tutto ancora rispettoso ai protocolli; ma non per chi rammenti la storia de’ protocolli moderni od antichi, da quelli di Londra risalendo su fino a quelli per cui Atene e Sparta riconobbero la dipendenza sotto al gran re delle città grecopersiane; quelle medesime città, le quali elle aiutarono tuttavia in breve a liberarsi, a vendicarsi, a distruggere il gran re. Ei s’ha un bel dire; ma la storia, sovente mal intesa, serve pure talvolta; quando se ne ragioni tenendo conto della natura umana, immutabile in condizioni simili. Una nazione nuova e libera, ficcata in fianco a un imperio vecchio ed assoluto, non può non tendere a distruggerlo. Una nazione libera che ha fratelli schiavi, non può non tentar di liberarli. Sol che l’Europa lasciasse fare a Grecia, Grecia basterebbe probabilmente alla caduta dell’Imperio ottomano. E se l’Europa vi porrà le mani, la caduta sarà forse più lenta, ma tanto più certa e più a profitto di tutti, o di molti, e per nostro, se non teniam noi nostre mani alla cintola. — E tanto più, che oltre queste nuove spinte interne o vicine, una o due altre van pur incalzando da più lontano. 8. IV.º FATTO NUOVO, ma dubbio, e così posto qui solamente per memoria. Pochi mesi sono noi dicevamo impossibile che l’Europa in generale, che la nazione Germanica in particolare ed in vangardia, non s’inorientino un giorno o l’altro in qualche modo; e che l’inorientarsi di Germania non sia inorientarsi d’Austria e Prussia. Ma, un gran dubbio ci rimaneva; come faranno a inorientarsi quelle due potenze assolute, fra que’ popoli slavi che mostrano tante voglie di libertà? Delle tre potenze assolute, Russia, Prussia ed Austria, Russia è la più forte, la più operosa e la più omogenea agli Slavi orientali; ondechè, finchè le tre non adoprano se non mezzi pari, mezzi da potenze assolute, tutto il vantaggio è dell’ambizione russa. Quindi alle due altre non resta se non una speranza: adoprar mezzi diversi, mezzi di libertà; non hanno che la libertà da opporre all’omogeneità di lingua e di religione. Ma questa libertà, nè l’Austria nè Prussia non parevano, pochi mesi sono, volerla offerire, adoprare. Delle due, Austria pareva quasi la meno discosta da tal mezzo; Austria dico, che è pure Ungheria. Ma ecco che, quando meno vi ci aspettavamo (almen noi altri Italiani, mal informati sempre d’ogni cosa straniera, e massime settentrionale), ecco, dico, rumori, parole che annunciano più o meno di libertà politica in Prussia, in quella parte di Germania che è duce di Germania. Saran false, quest’altra volta, siffatte voci? Sia allora per non detto. — Ma sarebbon elle vere? Oh, allora io credo che ei si vorrà esser ciechi, e volontariamente ed assolutamente ciechi per non vedere che questa pure sarà una gran mutazione per tutti gli affari d’Europa, ma principalmente per quelli d’Oriente. Prussia assoluta, o mezzo libera solamente, non ha nulla ad offerire a quelle popolazioni slave, che sono oltre ogni cosa al mondo vaghe, o se si voglia pazze, di libertà. Prussia assoluta non ha di che trarre quelle popolazioni dalla Russia a sè. Può dir loro tutt’al più: non ho Siberia ove mandarvi. Tra Russia slava e Prussia tedesca, e ambe non libere, la scelta degli Slavi sarebbe sempre per Russia slava. All’incontro, se e quando sia libera Prussia, se e quando la scelta sia per gli Slavi, tra l’essere Slavi, servi di Slavi, ovvero Slavi liberi con Tedeschi, io non credo poter ingannarmi, benchè scrivente da lungi, benchè straniero, benchè non informato, dicendo che la scelta degli Slavi non rimarrà dubbia un momento. E so che la scelta di una nazione serva e dispersa non conta molto da principio, o in un’occasione, in un tempo determinato. Ma so pure, che alla lunga, ed a tempo determinato, la scelta di tutta una nazione pazza di libertà, non è, non può essere nulla. E massime in questo secolo; e massime quando quel voto d’una nazione, gloriosamente caduta, consuoni con quello della universa cristianità, simpatizzante; e massime quando questa troverebbe il suo utile a tal mutazione. Io non fo se non tornar al mio dir primo delle precedenti edizioni, ma vi torno con isperanze confermate: il buon ordinamento e la potenza ulteriore della Cristianità dipendono dall’ordinamento reciproco, dalla fusione progrediente delle due grandi schiatte centrali, germanica e slava. — La schiatta, o come si dice ora, il mondo slavo si divide in tre parti: Slavi germanici, Slavi russi, Slavi turchi. Questi tendono a sciogliersi della signoria turca. Rimarran essi indipendenti, o s’accosteranno ad una delle due signorie, russa o germanica? Se si attenda a’ fatti prossimi passati si crederà che diventeran Russi; se alle voci, alle tendenze presenti si crederà che diventeranno indipendenti; ma se a’ grandi insegnamenti della storia antichissima, antica, moderna ed alle grandi previsioni avvenire ed agli stessi destini asiatici, incivilitori, cristiani dell’Imperio russo, si argomenterà che è più naturale insieme e più desiderabile qualche fusione nuova delle due grandi schiatte germanica e slava[58]. — E lascio poi un altro grande effetto che verrebbe da questa mutazione prussiana; effetto sul resto di Germania; effetto forse su Austria stessa; effetto sulle relazioni del governo di lei con le provincie sue, colle stesse provincie italiane. Chi può dire ove giungerà tal effetto? O se s’avrà a dir felice od infelice? Felice per quelle provincie italo-austriache immediatamente? Infelice perchè ne sarebbero italo-austriache per sempre o almen per secoli? Per ora non v’è pericolo, è vero. Ma col tempo? chi può giurare, che come furono introdotte da quegli stranieri parecchie novità, non sarà introdotta anche questa? E allora? 9. V.º FATTO NUOVO; e questo adempiuto, indubitabile a parer mio; l’unione confermata delle due politiche francese ed inglese. Pochi mesi sono, erano flagranti una occasione grande e due minori di disunione; il Marocco, Taíti, e il diritto di visita. Ora delle tre la 1.ª e la 2.ª son composte, e la 3.ª si compone. Ma separiam primamente le due ultime, noi che non abbiamo a farne questioni di ministeri o d’opposizioni; noi osservatori stranieri e disinteressati in que’ risultati personali, benchè poi interessantissimi come tutta la cristianità progrediente, più interessati che niun altri come Italiani, all’unione dei due popoli duci di quel progresso. Agli occhi nostri, quelle due questioni minori od altre simili, non fecero, non faranno mai guari pericolare l’unione, non faranno se non tutt’al più mutar ministeri di qua e di là; ed ora nel 1845, di tutti i ministeri probabili o possibili, francesi od inglesi, non è uno che voglia veramente distruggere o menomare l’unione, non ne è uno il cui desiderio, la cui gloria non sia, o non sia per essere, di accrescerla. Uno di questi giorni, il nuovo presidente degli Stati-Uniti diceva con magnificenza; esser salito esso al maggior carico che sia sulla terra. Ma, se mi si faccia lecito dire, io crederei che le due maggiori potenze sulla terra sieno alla nostra età quelle dei due uomini i quali abbiano fra le mani la direzione dei due popoli inglese e francese. Tenendo conto del numero e dell’impulso, queste due potenze sono le maggiori del globo; ed unite, soverchiano forse tutte l’altre insieme; e non è se non divise che possono trovar contrapeso, controstacolo, tra sè. Ed ora, credete voi, o compatrioti, che gli uomini i quali si trovano in sì alta potenza, in sì gran facilità di raddoppiarla, non sentano, non capiscano tal magnifica situazione? Ma se non la sentissero, non vi sarebbero probabilmente arrivati, tra tanti concorrenti che se n’ispirano; e sentendola, non è probabile che vogliano guastarla di tanto, ridurla a metà per niuna causa men grande. Nè tal grandezza è men sentita da coloro che l’invidiano e fanno quelle opposizioni, le quali montano a dire: togliti di lì che mi vi metta io. Essi (anche quelli che son men creduti tali) vi si vorrebber mettere per fare il medesimo, od anche più, nel medesimo senso; i più prudenti per evitare meglio, a creder loro, i pericoli di disunione; i più arditi per troncarli forse d’un tratto, facendo assumere insieme alle due nazioni qualche grande scopo di comune operosità. Io udii già lamentare, compatire la situazione di que’ ministri combattenti colà per que’ sommi luoghi della potenza umana; da alcuni politici od anche letterati di altri paesi. Ma costoro misuravan coloro alla loro spanna, alle facoltà o forse solamente all’abito di lor minute ambizioni; mentre per ambizioni personali, ma ingrandite dal gran campo, od anche (perchè calunniar sempre la natura umana?), od anche per ambizioni patrie più generose, tutti quegli uomini di stato sentono e professano il piacere, la gloria di combattere per le due somme tra le potenze umane, il piacere, la gloria principalmente di tenerle unite. — Ma (insisteran forse i politici minori), ma se gli uomini di stato francesi ed inglesi son per l’unione, le due nazioni sono, od una almeno è per la disunione, per la rinnovazione delle antiche rivalità. Illusione anche questa, a parer mio! La rivalità tra quelle due nazioni non è, come ci dicevano le gazzette dell’Imperio, nè immemoriale, nè incessabile, nè naturale. Antichissimamente per li quattro o cinque mila anni primi del genere umano non esistette; anzi le due nazioni sursero delle medesime schiatte, celtiche, cimbriche, teutoniche. Non è tra Inghilterra e Francia niuna di quelle situazioni reciproche le quali fanno le inimicizie naturali, perpetue; come tra le genti dell’Asia settentrionali e la Cina, tra quelle dell’Asia centrale e l’Indie, tra qualunque signor dell’Asia occidentale e l’Egitto, e tra le nazioni germaniche e l’Italia, le quattro seconde sempre facilmente invase ed assoggettate dalle quattro prime. La più antica grande invasione, e nimicizia e rivalità che si sappia tra Inghilterra e Francia, venne da questa a quella da Normani del 1066. E, nota ciò, il peggior frutto della conquista ricadde in breve su’ conquistatori, riconquistati in gran parte. E allora sì fu bella, fu ragionevole e giusta la rivalità, magnifica la difesa di Francia, che durò tre secoli e più, e finì colla cacciata ultima dello straniero. Poscia, dalla metà del secolo XV fino alla metà del XVII succedette un secondo periodo di rivalità, è pur vero; ma rivalità non più ragionevole, non più avente niuno scopo grande e bello, prolungazione, reminiscenza della rivalità passata, rivalità di vicinato tutt’al più; prolungazioni, rivalità da medio evo, da età male uscite ancora di barbarie. E successe poscia, dalla metà del secolo XVII al principio del XIX fino al 1815, un terzo periodo di rivalità più reale, una rivalità d’interessi, ciò che gli antichi chiamavano una guerra d’imperio, ciò che or direi di primato. E il primato rimase in ultimo all’Inghilterra, e questo inasprisce Francia, per vero dire. Ma, prima, non inasprisce Inghilterra, a cui poca generosità si vuole per non serbar rancori; ed è già molto, quando tra due disputanti, uno voglia cessar di disputare. E poi, quanto a Francia stessa, chi crederà da senno, che una nazione così avanzata nella cognizione e nel proseguimento de’ propri interessi, com’è ora Francia, sia per fare quell’errore da medio evo, di continuare la rivalità, in qualunque modo terminata, ma senza scopo oramai? Perciocchè il primato inglese, qualunque egli sia altrove, non è europeo, non offende nè onore, nè interessi, nè speranze francesi sul Continente, ed anzi le può e dee promuovere; e fuor d’Europa poi, negli spazi de’ mari, il primato inglese è giunto a segno da non potersi estendere, da dover limitarsi da sè, da dover ammettere per interesse proprio altre potenze, ed ammette Francia, come l’ha dimostrato testè nell’Oceania e nella Cina. Ondechè in somma, nel nostro secolo XIX, in mezzo alla nostra civiltà, e nella situazione che vi tengono con profitto e gloria ed orgoglio reciproco Francia ed Inghilterra, non è probabile che si dividano e si guerreggin le due per niuna ragione che di grandi interessi; e niun tale interesse, niun gran _casus belli_ è al presente o si può preveder tra le due, se non fosse forse l’imperio del Mediterraneo. 10. Ma egli è appunto per questo, che fu un gran fatto, un gran progresso il trionfo su Marocco ottenuto da Francia, tollerato da Inghilterra. Quel trionfo è conferma, ultimazione della conquista dell’Algeria; e la conquista ultimata dell’Algeria è divisione irremediabile dell’imperio del Mediterraneo tra Francia ed Inghilterra; è limite posto anche qui al primato dell’ultima. Un anno fa si poteva credere che questa non tollererebbe tal limite postole dalla rivale antica, tal divisione di sì bell’imperio. Ora non è possibile dubitarne, è fatto compiuto, non è possibile credere che Inghilterra l’abbia veduto e voglia tornarne indietro, nè ora nè poi, finchè durerà quella sua mirabil saviezza di stato, che non le è negata oramai se non da’ meno informati di infimo grado. Inghilterra non è così stolta da volere oramai contrastare ad una parità da lei acconsentita, quando poteva impedirla; Francia, assodata ed assodatesi, non così stolta da non soddisfarsene. E Francia ed Inghilterra terranno insieme volentieri il primato del Mediterraneo, perchè elle non hanno solamente intenzione e poter di serbarlo, ma di svolgerlo; e che a svolgerlo, elle sentono, elle sanno di dover rimaner unite; e che in tale svolgimento elle sentono, elle sanno essere le maggiori speranze loro. Così sapessimo noi che ivi pure sono le nostre! Così si lasciassero da tutti noi tutti i pregiudizi contro quelle due nazioni d’oltremonte e d’oltremare, nella cui opera unita è il principio d’ogni nostro buon avvenire! Così i nostri uomini di stato volgessero là la nostra politica, i nostri scrittori la pubblica opinione! Oh un po’ esser giovane e forte e dedicar alla prima o almeno alla seconda di quell’opere, la vita italiana! — Un magnifico libro sarebbe da fare e intitolare IL MEDITERRANEO. Nell’antichità mitologica il Mediterraneo tirreno, fenicio, pelasgo ed ellenico; nell’antichità storica il Mediterraneo romano; nell’età de’ Barbari il Mediterraneo greco ed arabo; nel medio evo dal 1000 od anche prima fino al 1500, il Mediterraneo per la seconda o terza volta lago Italiano; dal 1500, dalla scoperta del giro d’Affrica e dell’America, il Mediterraneo scaduto, quasi insolcato, impoverito, ridotto a cabottaggi e piraterie, quasi inutile, fino al 1814 od anche al 1821; dal 1821, dal grido d’indipendenza levato in Grecia, e traente a sè l’attenzione, le simpatie, le armi, le navi, l’operosità, le nuove invenzioni, la potenza delle nazioni cristiane, il Mediterraneo risalente a sua importanza naturale, quell’importanza che non può indietreggiare, che non può non accrescersi di dì in dì e chi sa fino a qual segno? E questo segno, questo avvenire sarebbe pur bello a prevedere, e ben prevedendo, a preparare per quanto possibile. A niuno più che a un Italiano si converrebbe tale opera di scritto; niuna nazione più che l’Italia ha interesse a quell’avvenire; ha interesse che le due potenze primarie intendano i loro interessi veri, non lottanti, e li svolgano concordemente; Inghilterra nel Mediterraneo orientale principalmente, ond’è il suo passaggio al suo grand’imperio; Francia in quella metà occidentale dove ella imperia di qua e di là, oramai indistruttibilmente; e tutte due insieme, poi opponendosi all’avanzamento della sola potenza che può far pericolare tutti i destini del Mediterraneo, dirigendo e determinando tutte le mutazioni inevitabili de’ popoli ripuarii orientali, da cui que’ destini dipendono in somma. Certo, Francia ed Inghilterra non han lezioni di politica a prender da noi! Noi così piccoli oramai, noi al paragone così poveri di operosità, di potenza, di esperienza, di riputazione politica. Ma, noi siamo più che nessuni sul luogo, noi in mezzo a quel campo marittimo de’ primati altrui. E noi non siamo tuttavia senza qualche ingegno naturale che possa vedere e dire se si lascia dire; siffatto ingegno è la sola facoltà che ci resti; e forse egli acquisterebbe qualche attenzione, quando studiasse gl’interessi propri, così identici con gli altrui. Perocchè in somma, sia io pure accusato dagli uni come troppo speranzoso, dagli altri come sacrificante le speranze del primato italiano, io non mi rimarrò dal notarlo e protestarne: tutte le speranze italiane mi sembrano oramai confermarsi ed unirsi in questa unione delle due potenze più grandi, più incivilite, più progredienti, e così primeggianti nel Mediterraneo. — E v’ha più. Un’ultima speranza mi sembra compresa in quella: la speranza che una terza potenza del Mediterraneo, che l’Austria, s’aggiunga un giorno o l’altro ad Inghilterra sua vecchia alleata, a Francia, più nuova. Il dì che si segnasse la triplice alleanza noi potremmo diventar alleati commerciali od anche politici dell’Austria stessa. Ma intanto o a difetto della alleanza triplice, perchè non accostarci alla duplice? commercialmente e politicamente, per adesso subito, e massime per l’avvenire qualunque alleanza nostra con quelle due potenze ci varrebbe tanto e più che non qualunque lega doganale tra noi. Mentre approfitteremmo di quell’unione, noi la stringeremmo coll’accedervi. E notate come ciò concordi con ciò che accennammo dell’avvenir possibile delle strade ferrate. Tutto concorda in un avvenire operoso. L’essenziale è l’entrarvi; e francamente, alacremente[59]. 11. Ed ora, accennati questi quattro o cinque fatti nuovi, e abbandonandone le conseguenze ulteriori a chi legga e pensi, e passando a conchiudere, mi si conceda servirmi perciò di due parole italiane d’un mio critico francese, le quali mi vengono molto in acconcio. Questo scrittore, avverso a quasi tutte le mie opinioni, ma pur cortese, e che mi fece l’onor di combattermi dopo Manzoni e Pellico, e con Rosmini, Gioberti e Troya, «Sì ch’io fui sesto tra cotanto senno»; questo eloquente professore riprova tutte quelle speranze italiane ch’egli chiama cancelleresche, e termina poi una concitata esortazione agli Italiani, con queste parole in lingua nostra: _ci vuole il ferro_. Ma queste parole, mi perdoni egli, son troppo indeterminate, troppo oscure, troppo abusate, o almeno troppo abusabili tra noi. Certo in bocca di lui, quel ferro non può voler dire se non un nobil ferro, la spada, od anzi le spade italiane, nazionali, levantisi, raccoglientisi un dì o l’altro, all’occasione, contro allo straniero. Ma queste spade io pur le lodai, od anzi, di esse sole lodai esplicitamente due soli de’ nostri principi; e vi confortai gli altri, e tutta la nazione, come a speranza, a ragione ultima delle nazioni; ondechè egli, mostrando opporsi a me o andar più oltre, parrebbe chiamar altri ferri, men nobili, che non fu certamente intenzione di lui. Meglio dunque disse già delle nostre speranze politiche un valoroso amico mio: che elle stanno pur bene, ma ci vorranno un dì o l’altro _grandi sciabolate_. Qui almeno, non è equivoco il ferro, qui l’objezione è più determinata, meglio formulata. Ma ad essa pure rispondo primamente: che appunto a far dar grandi ed utili e numerose e concordanti sciabolate all’occasione, tendono gli scritti, tendono le buone e sincere discussioni, tendono le politiche nazionali dove sono. — Ma poi, da un anno in qua, dopo i quattro o cinque fatti nuovi, ei parmi che un gran cambiamento sia avvenuto; che si sieno allontanate le occasioni, scemate le speranze dell’armi; che siensi accresciute all’incontro di gran lunga le speranze della politica di pace. È bene o male, guadagno o perdita per noi? Chi lo sa, chi lo può dire fuorchè la Provvidenza, la quale sola sa quel che sarebbe stato, se fosse ciò che non è? Per noi, son tempo sprecato queste supposizioni del passato. Supponiam piuttosto il futuro, i casi probabili di esso. Il futuro è un mare che ad ogni modo forza è solcare; e che giova studiare per avere i casi a seconda. — Le probabilità di guerra hanno, dal 1830 in qua, seguito il medesimo andamento che le probabilità di rivoluzioni; sono venute scemando via via: grandi ne’ primi anni, e poi sostanti; poi rinnovatesi nel 1840, ma minori; poi rinnovatesi nel 1844, ma anche minori; ed ora dopo quelle tre prove minori che mai. Sarò io accusato di predir la pace perpetua? Certo sì, posciachè ne fui accusato già, a malgrado le mie proteste raddoppiate, che è inutile quindi triplicare. Dirò dunque semplicemente, che io non credo all’abolizione della guerra; ma che credo, prima ad una minor frequenza di essa, come avvenne sempre ai tempi di gran civiltà; e poi, ad una quasi trasformazione di essa, come sempre dopo le grandi invenzioni, la polvere, la stampa, ed or il vapore. E la trasformazione farà, come le precedenti, le guerre sempre più corte e grosse (come già prevedeva Machiavelli), e perciò più terribili, epperciò di nuovo più rare. E ciò non vuol dire di non apparecchiarvici; anzi di apparecchiarvici tanto più. Ma vuol dire insieme, di non veder tutti noi leggermente, quasi giovinotti al primo dì che cingon le sciabole, speranze di guerra tutto dì; vuol dire di attendere quindi tanto più alle speranze di pace, di raccoglierci intorno a queste, queste studiare, di queste far profitto, queste svolgere agli ultimi termini loro. E questo in somma è ciò che si chiama formarsi una politica nazionale; quest’è che fecero sempre, e fanno ora le nazioni più civili; quest’è, mi scusino coloro a cui appartiene, quest’è che non fa, che non mostra voler fare, nè intendere, la nostra nazione. Noi andiamo via facendo progressi particolari, parziali, ed io li notai senza esagerazione, spero nè detrazione. Ma questi progressi sono sconnessi fin ora, non formano, non accennano una politica nazionale ferma, franca, soda, forte; e quest’è, che lamento per la patria italiana tutt’intiera, per ciascuno de’ principati di lei, popoli e principi, non disgiunti da me mai. — M’inganno io su quella probabilità di pace non perpetua ma durevole? Verrà ella pronta qualche guerra a troncare le quistioni inevitabili oramai allo svolgimento della civiltà cristiana universale? Quella guerra andrà a profitto delle nazioni che avranno apparecchiate non solamente l’armi, ma le politiche guidatrici? Ovvero quelle questioni saranno elle sciolte dalla politica? Allora tanto più ci sarà, ci è necessario averne anche noi una nazionale. E in un modo o nell’altro, in pace o in guerra, ci è necessario, pressante costituir tal politica: Questa è l’opera, questo il lavoro del dì d’oggi, ogni dì ha il suo. 12. Il volgo è il più sapiente, e il più ignorante insieme de’ politici. Ha un barlume di certe verità che potrebbe insegnare a’ maggiori uomini di stato; ma sovente, invece di svolgerle, egli le avvolge così, che ne fa errori manifesti. Il volgo antico e nuovo parlò sempre di politiche nazionali, politica romana antica, politica romana dei papi, politiche inglese, russa, austriaca, prussiana, francese de’ nostri dì. Fin lì sta bene; vi furono, vi sono politiche nazionali importantissime; il volgo l’indovina. Ma egli pensa talora, che queste sieno profondità, oscurità, arcani inventati, tramandati, serbati da pochi quasi iniziati; mentre elle sono tutt’all’opposto; sono, dove sono, prodotto, espressione dell’opinione universale, pubblica, volgare. E così il volgo calunnia sè stesso o i volghi pari suoi; non sa vedere la propria parte nelle politiche nazionali; se n’esclude mal a proposito. E volgo sono alcuni politici, che credono, o voglion far credere a questi arcani. E volgo alcuni storici, che cercano esclusivamente, chi fondasse le arcane politiche nazionali, e da chi si serbassero. La politica dell’imperio di Roma si attribuisce fino a Romolo, o Numa; la politica de’ papi a Gregorio VII, ad Innocenzo III, a Bonifazio VIII od a Giulio II; la politica francese si attribuì gran tempo a Richelieu, poi ad una infelice regina, poi a questo o quell’altro uomo della rivoluzione, e via via; la politica inglese, già a Guglielmo III, poi a Pitt; la russa a Catterina, l’austriaca a Kaunitz già, come ora al successore di lui. E tutti questi contribuirono certo a tutte queste politiche nazionali. Ma dove furono o sono politiche nazionali, elle son frutto non d’una testa, ma di molte, non di un pensiero, ma d’infiniti, non di un giorno, ma di secoli; sono nè più nè meno che L’INTELLIGENZA UNIVERSALE DEGLI _interessi universali_; la quale fu che, chiunque si trovi al regno, a’ ministeri, al governo si promuovono pur sempre i medesimi interessi. Ma questa intelligenza universale, non è poi nè facile, nè frequente. Vi sono nazioni che non l’hanno avuta per secoli e secoli; distratte le une da lor male passioni interne; altre dall’esterne, altre impedite da cattive costituzioni, altre fatte del tutto incapaci dalla servitù. La formazione d’una politica nazionale buona, è un prodotto raro di molte circostanze felici, ma principalmente della possibilità di discussione. Qualunque forma prenda questa, ella serve; più o meno, senza dubbio, secondo che è più pubblica, più libera; ma servono anche le forme meno buone a difetto delle migliori. Che cosa principalmente fece l’Inghilterra riuscire a bene, al proprio pro, al proprio accrescimento, sopra ogni nazione nemica od alleata, nella lunga guerra universale dal 1792 al 1815? l’aver avuta fin dal principio una politica nazionale, già figlia vecchia della discussione; l’averla continuata, migliorata lung’anni per mezzo della pubblica discussione. Perciocchè di questa, Inghilterra aveva allora la privativa; in Francia non n’era, se non or l’abuso, ora l’ombra; altrove, nemmen questa. Inghilterra sola discuteva, e sceglieva la sua politica; e qualunque avesse scelta, anche men buona, la proseguiva ed avanzava poi con costanza, con unanimità o poco meno, con ispirito ed operosità nazionale; questo vantaggio almeno le rimaneva. Le politiche discusse, diventate nazionali, hanno questi tre vantaggi; l’uno probabile d’esser migliori; i due altri certi, di esser più costanti e meglio propugnate. Ed in Inghilterra godete de’ tre vantaggi, se non esclusivamente, ma con pochi, di nuovo dopo il 1815, per più anni. Ora son comuni a molti, e si vanno accomunando ad altri. Dove, come in Prussia, la politica nazionale non si discute finora ne’ Parlamenti, ella si discute almeno ne’ libri, che certo è meno, ma è pure alcun che. E Prussia (dico il governo, il principato stesso di Prussia) sente il desiderio, il bisogno di afforzare questo suo strumento d’azione, questo aiuto ad una gran politica nazionale; non è altra maggior ragione alle voci presenti, a’ fatti che s’apparecchiano colà. Ma fin d’ora, dalla Vistola in qua, l’Italia è la sola nazione che non discuta la propria politica, la sola non incamminata a formarsene una nazionale. Ed ammirate di nuovo la sapienza del volgo, delle lingue, di tutti insieme. Fra mezzo a tutte quelle espressioni che sono in tutte le bocche, di politica inglese, francese, russa, prussiana, austriaca, non s’ode, non si dice, da nessuno, _Politica italiana_. Famosa (bene o male?) or son pochi secoli, essa non esiste più nemmen nelle lingue. E i principi si lagnano d’aver popoli politicamente mal educati! E i popoli d’aver principi poco politici! Lo credo anch’io. Nè principi, quando fosser Napoleoni, nè popoli, quando fossero pari al popolo romano antico ed all’inglese moderno, non possono farsi nè restar politici senza discussione. Il popolo romano nol restò, toltagli quella; Napoleone nol restò, abolitala. Se i principi voglion popoli educati, che li capiscano e li secondino quando fan bene, che sieno lor grati quando l’han fatto o incominciato, concedan loro l’educarsi, il discutere. Non credono eglino concedere la discussione più efficace, più autorevole, deliberativa? Concedan la consultativa almeno; o la letteraria almeno almeno. E voi, popoli italiani, volete voi principi che pur vi capiscano, vi guidino, operosamente, politicamente? Invece di scostarvi da essi, invece di fremere, parlate loro, a stampa, per iscritto, a voce, e con gli applausi, e i silenzi, in ogni modo, ad ogni ora. — La politica nazionale, difficile a formarsi dappertutto, più difficile dove vi è poca discussione, e difficilissima dove sia una nazione divisa. Tutte queste difficoltà non si posson vincere che a forza di perseveranza, di operosità, di amore; a forza di: I. Formarsi ciascuno la sua politica personale; sincera, spoglia di vili e di amare passioni, spoglia di amareggianti memorie, non intesa che al futuro della patria: II. Studiare questo futuro, sugli esperimenti datici dalla storia sì, ma sopratutto sulle condizioni presenti e crescenti delle nazioni circondanti, su quelle della cristianità tutt’intiera: III. Questa politica, che così concepita e studiata non può non riuscir moderata, procurar di darla ciascuno ai vicini, agli amici, ai piccoli, ma sopratutto ai potenti, più potenti e potentissimi: IV. E per ciò fare, a ciò riuscire, dismettere non che le ostilità, ma i modi ostili, i minaccevoli, i pedanti; assumer modi amorevoli, o meglio amorevolezza, amore: V. Non adular principi, ma non popoli: VI. E questa politica schietta, virtuosa, moderata, scriverla, se si ha facoltà: VII. Pubblicarla, se si ha possibilità: VIII. E dettala, o scrittala, o pubblicatala il meglio che sappia e possa ciascuno, perdonare, dimenticare non solamente i dissenzienti, che è facile, ma i malevoli, gli sprezzatori, i derisori, gli storpiatori delle nostre parole, che è più difficile, ma che è pur necessario a non prolungare o moltiplicar divisioni. — Così facendo non uno o due, ma molti, e ciascuno secondo il poter suo, faremo il più che sia fattibile, adesso, per la patria; faremo a poco a poco una politica nazionale, penetrante nell’opera di que’ governanti, che s’arruolan pure, non possono non arruolarsi ne’ governati. La politica che io sono venuto esponendo lungo tutto il libro mio, e svolgendo ulteriormente qui, non par ella buona? Se ne proponga, se ne svolga un’altra, e un’altra, sinceramente, seriamente, sufficientemente, finchè la patria n’abbia scelta una, abbia incominciato a metterla in opera. Ma una buona politica italiana, così messa in opera, ei è oramai indispensabile ad ogni caso, lieto o tristo, in cui sia avvolta la patria; indispensabile a mantenere ed accrescere la nostra prosperità materiale, le arti, gli apparecchi di pace, finchè dura la pace, i ferri, i legittimi, i pubblici ferri al dì della guerra; indispensabile, cadano i Turchi o non cadano, a qualunque occasione, qualunque vento, qualunque tempo. — Non sapremo noi all’incontro fermarci in una politica nazionale? Allora non ci serviranno memorie, vanti, nobiltà, primati antichi; non l’indestruttibile ingegno italiano; non l’arti di pace promosse, non l’armi stesse apparecchiate, non la stessa libertà quando l’avessimo. Ricordate ciò che fece Polonia d’una libertà non politicamente ordinata, d’una libertà senza politica! Senza questa, senza un’opinione pubblica formata, i principi continueranno a lagnarsi dei popoli, i popoli dei principi, i nobili dei plebei, i plebei de’ nobili, i secolari degli ecclesiastici, gli ecclesiastici de’ secolari, i Toscani, i Romani, i Napoletani, i Lombardi, i Piemontesi gli uni degli altri, gli Italiani di dentro di quei di fuori, quei di fuori di que’ d’addentro, e tutti gli Italiani degli stranieri, e gli stranieri degl’Italiani, a vicenda, alla ventura. Ed alla ventura s’anderà — come s’andò gran tempo — non a perdizione, che è impossibile oramai a niuna nazione cristiana — ma in continuazione di quella mediocrità così vecchia da noi, che sembra esserci diventata normale. — Oh Italiani noi mediocri! 15 Aprile 1845. FINE INDICE Pag. 5 — DEDICA PRIMA. 7 — DEDICA SECONDA. 19 — OCCASIONE DI QUESTO SCRITTO. 1. Il Gioberti. 2. Il libro del _Primato morale e civile_ _d’Italia_. 3. Primati mal predicati dai piaggiatori. 4. Il Gioberti tutto diverso da costoro. 5. Ciò che sia il mio libro rispetto a quello. 6. Necessità d’intenderci e discutere in Italia. 27 — CAPO I. L’ordinamento politico presente dell’Italia non è buono. 1. Non può esser tale, non essendo indipendente. 2. È provato soprabbondantemente anche per li principati italiani. 3. Esempio. 4. Convengono in ciò gli stessi uomini di stato stranieri. 32 — CAPO II. Di quattro ordinamenti sperati — e prima del regno d’Italia. 1. Si sospende la discussione del come rimuovere il vizio manifesto. 2. Si procede ad esaminare i sogni fattine, e prima quello di un regno d’Italia. 3. Prove moderne, che fu sogno. 4. Prove storiche. 5. Prove dalla costituzione materiale della penisola. 6. Prova da un fatto speciale. 39 — CAPO III. Di un regno d’Italia austriaco. 1. È modificazione del sogno precedente. 2. È sogno neo-ghibellino. 3. I Neo-Guelfi migliori che i Neo-Ghibellini; ma non valgon nulla nè gli uni nè gli altri. 43 — CAPO IV. Delle repubblichette. 1. Fu sogno degli utopisti di Botta, ed altri simili. 2. È sogno di restaurazioni antistoriche. 3. E non desiderabili. 4. Ed impossibili ad effettuarsi. 48 — CAPO V. Della confederazione degli Stati presenti. 1. Sola buona mutazione è il progredir dalle cose presenti alle future; 2. proposta dal Gioberti primo. 3. La confederazione è l’ordinamento alla natura ed alla storia d’Italia. 4. E fu pur proposta dal Gioberti. 5. Ma due vizi sono nella proposizione di lui. Uno è d’esuberanza. 6. Ed è quello di propor la presidenza del papa. 7. Uno è di deficienza, e si riserba al capo seguente. 58 — CAPO VI. La confederazione è impossibile finchè una gran parte d’Italia è provincia straniera. 1. La potenza straniera ficcata in Italia rende impossibile qualunque equilibrio in essa. 2. E qualunque confederazione. 3. Sia che vi si comprenda quella potenza. 4. Sia che no. 5. All’incontro, sarebbe bell’e fatta se non avessimo più lo straniero. 64 — CAPO VII. Breve storia dell’impresa d’indipendenza, proseguita sempre, non compiuta mai per XIII secoli. 1. Or si riprende la questione del come rimuovere l’ostacolo straniero. 2. Epperciò si accenna la storia della nostra impresa d’indipendenza. 3. Nell’Italia antica, fino alla caduta dell’Imperio. 4. Fino a Carlomagno. 5. Fino al secolo XI. 6. Lungo questo secolo. 7. Nel gran secolo da Gregorio VII alla pace di Costanza. 8. Da questa a Carlo d’Angiò. 9. Da questo al ritorno de’ papi da Avignone. 10. Da questo a Carlo VIII. 11. Da questo alla pace di Cateau-Cambresis. 12. Nel lungo seicento. 13. Nel secolo XVIII. 14. Dal 1789 al 1814. 15. Condizione presente. 103 — CAPO VIII. Eventualità future dell’impresa. 1. Doppia tolleranza domandata a’ leggitori. 2. Il futuro imprevedibile. 3. Il prevedibile. 4. Frasi solite in tali materie. 5. Quattro casi o speranze. 6. Speranza I., dai principi italiani. 7. e 8. Speranza II., da una sollevazione nazionale. 9. Speranza III., da una chiamata di stranieri. 10. Speranza IV., dalle occasioni. 11. Le quali sono tre principali. 12. Di una conflagrazione democratica, che è improbabile. 13. Di un tentativo di monarchia universale, pur improbabile. 14. E di una partizione di Stati, che è probabile. 127 — CAPO IX. L’eventualità più promettitrice. 1. Eliminate le speranze che ci paion vane, noi accediamo a quelle che ci paion buone. 2. Certezza dei due fatti, della caduta dell’Imperio ottomano, e delle mutazioni che ne avverranno. 3. Veduti bene da Alessandro imperatore. 4. Obiezioni, scrupoli. 5. Incerti sono il tempo e il modo in che s’adempiranno. 6. Ma certo, non può essere interesse della Cristianità che s’adempiano sotto il protettorato russo. 7. Nè colla creazione d’un nuovo imperio cristiano. 8. È interesse che la maggior parte delle provincie turco-europee passi in qualsiasi forma ad Austria. 9. È interesse d’Austria. 10. E di Germania tutta. 11. E di Francia. 12. E di Inghilterra. 13. E di Russia stessa. 14. Ma naturalmente e sopratutto d’Italia. 182 — CAPO X. Come vi possano aiutare i principi italiani. 1. Qui incomincia la parte pratica del libro. 2. Epperciò si tace di ciò che sarebbe a fare al dì troppo lontano; si avverte solamente di non ambir acquisti fuor della penisola. 3. E di non ambirli tutti nemmen dentro. 4. E nessuno a spese del papa. 5. Apparecchi che si posson subito; e prima l’armi de’ principati italiani. 6. E lor marinerie. 7. E lor governi interni. 8. E il conservare e progredir opportuni. 9. E le colture. 10. E gli ordini consultativi. 11. e 12. Ed anche i deliberativi. 13. Ma dell’operabile da’ principi lascinsi giudici i principi. 224 — CAPO XI. Come vi possano aiutar tutti gli Italiani. 1. Cooperazione necessaria de’ principi e de’ popoli. 2. Le quattro operosità, o vite italiane, che considereremo. 3. La vita pubblica ne’ principati. 4. E nella provincia straniera. 5. La vita sacerdotale. 6. e 7. La vita letteraria. 8. e 9. La vita privata. 10. Una grave obiezione, e risposta. 11. Le virtù private crescenti in Italia. 12. Obiezioni minori; e sunto del fin qui detto. 273 — CAPO XII. Breve storia del progresso cristiano. 1. Questo studio è complemento necessario al libro. 2. Antichità dell’idea del progresso. 3. Come la svolgessero i filosofi del secolo XVIII. 4. Come la intendano i filosofi cristiani. 5. Cenno del regresso (non in coltura, ma forse in civiltà, certo in religione e in virtù) del genere umano prima di G. C. 6. Cenno e prova generale del progresso cristiano. 7. Le quattro età del progresso cristiano. 8. Età I., intermediaria tra il mondo antico e il cristiano (anni 1-476). 9. e 10. Età II., del primato germanico (anni 476-1073). 11. Progresso laterale o dipendente, dell’Islamismo. 12. Età III., o del primato italiano (anni 1073-1494) 13. Età IV., o de’ primati varianti (anni 1494-1814) Questione se la riforma abbia promosso o ritardato il progresso cristiano. 14. Primato iberico. 15. Primato francese. 16. Il tempo presente; non si debbe chiamare _Età di transizione, Era umanitaria_. 17. E porzione dell’età de’ primati varianti; è tempo del primato britannico. 319 — CAPO XIII. Il progresso cristiano presente, ed accrescimento che ne viene a tutte le speranze italiane. 1. Tutti i progressi della cristianità accrescono le speranze italiane. 2. e 3. Progresso di dilatazione. 4. e 5. Progresso di unione. 6. e 7. Progresso di civiltà. 8. e 9. Progresso di coltura. 10. e 11. Progresso di virtù. 12. CONCHIUSIONE: la qualità e la quantità delle speranze. 375 — APPENDICE. Se e come sia sperabile una lega doganale in Italia. 1. Stato presente della questione. 2. Le quattro leghe immaginabili. 3. I. Lega germanico-italica. 4. II. Lega austro-italica. 5. III. Lega italica compiuta. 6. IV. Lega dei soli principati italiani. 7. Recapitolazione. 8. Eppure, qualche cosa è da fare. 9. Ma liberalmente. 10. E prontamente. 405 — NUOVA APPENDICE. A molte critiche una risposta: fatti nuovi. 1. La polemica. 2. Quella fattami. 3. Quella che son per fare. 4. I giudizi del tempo. 5., 6., 7., 8., 9., 10. Quattro o cinque fatti nuovi. 11., 12. Conclusione: Guerra, e pace; politica nazionale. NOTE: [1] _M.r Guizot has, in one of his admirable pamphlets, happily and justly described M.r Lainé, as «an honest and liberal man discouraged by the revolution.» This description at the time when M.r Dumont’s Memoirs were written_ (_an_. 1799), _would have applied to almost every honest and liberal man in Europe; and would beyond all doubt have applied to M.r Dumont himself_ (Macaulay’s Essays. Paris, Baudry, 1843, p. 183). [2] _It is a fine and true saying of Bacon: that reading makes a full man, talking a ready man, and writing an exact man_ (Macaulay’s Essays. Paris, Baudry, 1843, p. 378). [3] Num. XIV, 21, 32. [4] Num. XX, 12. [5] Il fecondo Gioberti ha pocanzi pubblicato un nuovo volume _del Buono_. E in esso parlando _del Primato_, egli lo dice «un’opera indirizzata a nudar le piaghe della mia infelice patria e a proporre i rimedi». Pag. LXXXV. [6] Alcuni moti, alcune voci sorte da pochi mesi che scrissi ciò paiono ad alcuni dar maggior importanza ai sogni neo-ghibellini. Io, deplorando tali novità, non so dare loro tale importanza; epperciò non muto nè allargo ciò che mi venne detto dapprima. Nota della prima edizione. A malgrado quanto precede contro alla resurrezione delle due parti neo-ghibellina e neo-guelfa, uno scrittore della _Revue des deux mondes_, 15 _mai_ 1844, pagine 678, 679, mi fa esclamare a proposito di una confederazione italiana che comprendesse il principe straniero: «_Ce serait renouveler le saint Empire en Italie; ce serait de la folie. S’il y a des neo-gibelins, je serai néo-guelfe_»; tutto ciò, _sic_, virgolato, quasi fossero parole mie riferite testualmente. Eppure, io ricercai invano nel testo mio; e concedendo che la prima frase è implicata in altre mie (principalmente CAPO VI, § 3), io nego aver detto mai, voler esser neo-guelfo in niun caso. Anzi quant’è sopra esprime disapprovazione, respinta, disprezzo delle due parti, o piuttosto dei due nomi vani di neo-ghibellini e neo-guelfi; anche di questi, per li quali dico che combatterei come meno cattivi e se facesser parte; ma i quali dunque io dichiaro cattive e non facenti parte. Quindi se quello scrittore degni attendere un po’ seriamente al libro mio, o almeno a un capitolo, o almeno alle frasi da cui egli trae la sua citazione virgolata, ei troverà naturale ch’io respinga la ridicola qualità di _le plus noble et le plus chevaleresque des Guelfes_; — come poi la supposizione ch’io abbia scritto _au point de vue_ di qualsiasi corte. Io avrei creduto che la dedica e la prefazione, nelle quali narrai l’origine del mio scritto, e parecchi, anzi molti passi di esso, e il nome mio apertamente postovi, ed anzi l’intiero libro, scritto se non altro con ispontaneità d’opinioni e di stile, farebbon chiara a chicchessia la spontaneità, anzi l’indipendenza del mio _point de vue_. Il punto di vista in che mi posi e tenni non è quello di nessuna corte, anzi nemmeno di nessun principato particolare italiano, ma di tutti; perchè lo credo il solo punto di vista italiano contro al punto di vista straniero. — Del resto continuin altri Italiani a dare agli stranieri il non bello spettacolo delle supposizioni ingenerose contro a chiunque fa o scrive qualche cosa in Italia. Io non iscenderò mai, se Dio mi sorregga, nel campo, facile, delle recriminazioni. — E nemmeno in quello del suddividere e moltiplicare le parti in Italia. Io non veggo con quello scrittore quattro parti: liberali, assolutisti, ghibellini e guelfi; nè altrettali con altri. Più guardo e studio, più veggo due sole parti essere grandi ed importanti in Italia (come sono due soli grandi punti di vista, due soli grandi interessi nella sua politica; come due sole specie di territori nella sua geografia, territori italiani e territori stranieri, principati indipendenti e provincia dipendente); dico che sono due soli grandi parti, la nazionale e la straniera; quella di coloro che disperano dell’indipendenza e s’adattano alla dipendenza; e quella di coloro che sperano e promuovono la liberazione. E chiamo poi, secondo natura ed etimologia, liberale chiunque si vuol liberare in qualunque modo; non veggo nei modi diversi, se non diversità interne della gran parte consenziente nel gran principio; e tutto il libro mio (prima e seconda edizione) non è se non discussione di famiglia tra tali consenzienti. Tutti gli altri sono per me _profanum vulgus, et arceo_. Nota della seconda edizione. [7] Vedi il sogno particolare di lui, un governo tribunizio, in fine della _Storia dal 1789 al 1814_. Al quale, quantunque di tanto scrittore, non volli fermarmi, siccome quello che non passò, ch’io sappia, da sogno privato a pubblico, di molti, e nemmen di parecchi. [8] Ultimamente, mentre io scriveva così d’Arnaldo, uno dei primi ingegni d’Italia pubblicava una tragedia con documenti, nella quale ei tentava ridestar interesse per quel capo-popolo romano. Forse l’interesse sarebbe riuscito più poetico, se si fosse fatto il protagonista vittima solamente dell’accordo tra un principe italiano e lo straniero; senza rifarlo eretico nella tragedia, dopo averlo difeso dall’eresia nella vita preposta. Ma questo stesso interesse poetico sarebbe egli stato storico? Certo i documenti allegati (e notissimi) confermano che Arnaldo fu sollevator de’popolani romani contra il papa, al momento che popolo e papa avrebber dovuto riunirsi co’ Lombardi alla difesa dell’indipendenza; che Arnaldo fu causa o almen occasione (non iscusa) al papa di riunirsi all’imperatore; che fu dunque disturbator di quella difesa, e ritardatore di quanto fu fatto pochi anni appresso da’ Lombardi con un altro papa. Senza Arnaldo la immortal confederazione di Pontida sarebbesi forse fatta, la vittoria ultima di Legnano sarebbesi conseguita parecchi anni prima e meglio; la gloriosissima guerra lombarda sarebbe stata più grossa e più corta, più gloriosa, più italiana, più efficace. Non basta recar documenti, bisogna interpretarli; i documenti non sono storia per sè; la storia, come ogni scienza, è interpretazione de’ fatti. — La quale poi pur troppo si può fare, con sincerità ed eguale amor patrio, diversamente; ondechè parmi a lasciare quell’accusa di _moda straniera_, d’imitazione da’ Francesi e Tedeschi, che l’autore fa a noi, dissenzienti da lui. Noi potremmo ribatter l’accusa, e dire che, se noi seguiamo la moda straniera del secolo presente, egli segue la moda straniera ed invecchiata del secolo scorso; che un Manzoni, un Pellico, un Rosmini, un Cantù, un Gioberti, ed altri forse hanno fatta italiana la moda nostra da un vent’anni, cioè prima che fosse straniera; che gli scritti di tutti questi (e spero anche questo mio) palesano almeno un lungo e indigeno studio delle cose patrie; e che del resto straniera più d’ogni altra, e straniera volgare, è la moda d’accusarsi di stranierume tra dissenzienti sulle cose patrie. Gli alti ingegni in tutti i tempi, di tutti i paesi, e gl’Italiani principalmente, fecero proprio sempre quanto trovaron buono fuori di patria; e gl’ingegni buoni dissenzienti van pur gridando: «pace, pace, pace». E noi teniamo fra’ più degni d’accettare e ribatter tal grido l’illustre autore dell’Arnaldo. [9] Ho introdotta qui nel testo una giusta correzione fattami dal mio traduttore in francese (_Paris, Didot_, 1844). E da una statistica del 1839 da lui recata (_ivi_, p. 92), e da altri dati più recenti partecipatimi gentilmente da uno scrittore italiano di queste cose, traggo poi il seguente specchio approssimativo della popolazione di varii stati italiani, nel quale trascuro (come mi par si debba) le cinque ultime cifre, e così le poche migliaia d’abitanti di Monaco e San Marino; ed ometto le popolazioni italiane della Corsica, della Svizzera, del Tirolo, delle provincie Illiriche, e delle Isole Jonie. _Principati italiani._ Regno delle Due Sicilie 8,000,000 Regno di Casa Savoia 5,000,000 Stati del papa 2,700,000 Toscana, compresa Lucca 1,700,000 Parma 500,000 Modena 400,000 —————————— Totale 18,300,000 _Provincia straniera._ Regno Lombardo Veneto 4,700,000 —————————— Totale generale 23,000,000 Nota della seconda edizione. [10] _Del Primato_, ec., t. II, p. 337. [11] Vedasi la storia scritta dal cardinal Pallavicini, e recentemente pubblicata, di papa Alessandro VII. [12] Io mi sono udito e veduto criticar qui e altrove per non aver parlato degli errori particolari di questo o quello o di tutti i principi italiani. Ed io mi sono pur udito generosamente difendere coll’osservazione sommaria: che ad ogni modo da trenta o quarant’anni in qua nessuno scrisse così liberamente ed apertamente in Italia. Ed io ringrazio di vero cuore questi generosi di tale osservazione, e me ne vanto. Ma non posso in coscienza usurparla qui in iscusa; perchè in coscienza sento o almeno spero che, quand’anche avessi scritto fuori, e fuoruscito od esule o fatto straniero, io avrei scritto al medesimo modo, senza entrare più di quello che ho fatto in quegli errori o colpe: e I. Perchè ciò non entrava nell’assunto, nel cerchio, nel titolo del libro mio, che è delle Speranze, e non dei timori o dei malanni d’Italia; che non è storia o raccolta di fatti presenti, ma congetture di fatti avvenire. II. Perchè quanto più liberamente io scrissi, tanto meno volli cedere a quel vizio o prurito d’uscir dal proposito, e ficcar critiche fuor del proposito, che mi par solamente perdonabile ai libri scritti a dispetto delle censure. III. Perchè questi errori o colpe, quali che sieno, possono bensì mutare l’epoca d’adempimento, ma non le conchiusioni generali dalle speranze da me presentate; non fanno per esempio che questo nostro secolo XIX somigli o tenda a un nuovo _Seicento_; non fanno che non siasi ripreso il progresso del secolo XVIII; non fanno che non bisogni dunque spignere, pressar questo, ed aiutarvi i principi nostri. IV. Perchè, se avessi scelto fra quegli errori o colpe, e avessi rammentate quelle d’un principe tralasciando quelle d’un altro, ciò non sarebbemi paruto nè bello nè giusto. V. Perchè, se le avessi messe tutte, ei mi si sarebbe potuto rispondere troppo facilmente coll’osservazione, che queste colpe de’ governanti procedono talora da altre de’ governati, e che questi vi ebbero sovente l’iniziativa. VI. E perchè dunque, ed insomma, e principalmente questo modo di scrivere o dentro o fuori, o dove che sia, m’avrebbe fatto servire a quelle recriminazioni, a quell’ire reciproche, a quelle divisioni le quali fu, e sarà scopo mio tor di mezzo, o almeno scemare, a tutta possa mia, finch’io scriva o parli. — Io volli andar avanti, o almeno mutar modi; n’ebbi, n’ho la pretensione, il confesso; questi rifrugamenti di torti reciproci m’avrebbon ricacciato nel modo retrogrado, o almeno vecchio. Io non mi vi lasciai trarre; ne ringrazio Iddio. Non mi vi lascerò, ne lo prego. Ognuno a modo suo. Facciano altri ciò che non voglio far io. Nota della seconda edizione. [13] Tal fu il caso della sollevazione degli Spagnuoli contra Napoleone nel 1808; l’invasione perfida e nuova sollevò gli animi di tutti. Ma sarebbe stoltezza sperare che un’invasione antichissimamente adempiuta, e lungamente tollerata, producesse a un tratto il medesimo scandalo, le medesime ire, il medesimo accordo. Nota della seconda edizione. [14] Vedi la recente e bellissima _Storia de’ Vespri Siciliani_ dell’Amari; benchè questi abbia forse passato il segno, non in propugnare meglio che i predecessori l’importanza della sollevazione, ma in iscemare i fatti della quasi inutile sì, ma certa e grande o almen larga congiura. Ed io lo noto, perchè quanto più larga fu questa, tanto più urgente rimane l’insegnamento della inutilità di lei. — Su quella poi della Svizzera io accennerei a’ leggitori non tanto Müller, Zschokke o niun altro storico, come Schiller nell’immortale _Guglielmo Tell_. Questa sì che è poesia, storia, politica, filosofia, tutto insieme. [15] Non paia semplice vanto se noterò qua e là alcune conferme date dai fatti alle opinioni mie, ne’ pochi mesi dacchè le scrissi e le stampai. — La destituzione di lord Ellemborough pronunciata con esempio raro (od unico?) dalla _Corte dei direttori della compagnia delle Indie_, senza partecipazione dell’_ufficio di Controllo_, in seguito delle conquiste, giudicate inutili del Sind e di Gwalior, è splendido commento a quanto sopra. Nota della seconda edizione. [16] Il traduttor mio (Paris, Didot, 1844) mi permetta di protestar qui contro alla interpretazione data da lui alla frase qui sopra. Egli traduce _la classe démocratique, classe distincte, haineuse, usurpatrice, incendiaire_; e così aggiungendo, e massime ripetendo la parola _classe_, egli estende al tutto, ciò che io intesi dite, e mi pare aver detto evidentemente, della parte cattiva della democrazia. Chi facesse tale aggiunta in qualunque frase simile, chi per esempio traducesse _gli Angeli ribelli_, con _la classe degli Angeli, classe ribelle_ rovescierebbe, come si vede, ogni senso. — E quindi cade da sè la postilla fattami. Io ammetto come democrazie, così aristocrazie distinte, odianti, usurpanti, conflagranti. Ma io parlava qui della sola conflagrazione democratica, perchè sola temuta o sperata ai nostri dì; ed io credeva del resto essermi fatto conoscere abbastanza, anche in questo libretto, per non cader nel sospetto d’aver voluto stoltamente ingiuriare niuna classe intiera della società. — Ad ogni modo la frase non è ella abbastanza chiara? Si muti così: _quella democrazia, propriamente detta, che vuol rimaner distinta, odiante_, ec. Nota della seconda edizione. [17] Così mi avvenne; la mia speranza sull’_eventualità più promettitrice_ mi fu rimproverata come sogno dagli uni non senza amarezza, e li lascio; da altri non senza sale e lepidezza, e ne fo partecipi i leggitori. Anche in materia grave può aver luogo la celia. Ecco dunque un EPIGRAMMA. Italia mia, non è, s’io scorgo il vero, Di chi t’offende il difensor men fero, Grida il Gioberti, che tu se’ una rapa Se tutta non ti dai in braccio al papa. E il Baldo grida: dai Tedeschi lurchi Liberar non ti possono che i Turchi. Forse il Gioberti ed io potremmo dire di non aver detto precisamente così. Ma per celia non mi par cattiva; e chi si mettesse a rispondere alle interpretazioni stirate anche sul serio, non la finirebbe mai più. Sappiam donare _hanc veniam_, senza domandarla a vicenda per noi. Nota della seconda edizione. [18] Vedi G. B. Marocchetti, _Indépendance de l’Italie. Paris_, 1830, — che è ristampa ed ampliazione d’un altro scritto pubblicato fin dal 1826. L’autore mi par cadere nel solito vizio de’ particolari troppo minuti: ma, tolti questi e parecchie differenze di opinioni generali, io ho la fortuna d’incontrarmi sovente con questo scritto, che non conoscevo quando scrissi io. [19] Qui più che altrove, poche settimane corse dacchè lo scriveva, recarono mutazioni importanti. — E vorrebbesi pure supporre che non si mutasse più! — Qual è utopia? il supporre una subitanea immobilità in mezzo a un moto continuante fin ora; o il prevedere e discuter il moto probabile? Nota della prima edizione. E pochi altri mesi corsi recarono mutazioni anche più importanti. L’essere passata definitivamente Grecia a un governo deliberativo, nazionale e pubblico, è fatto fecondo di conseguenze; non solamente perchè ridurrà forse il protettorato da triplice a duplice, ma perchè ad ogni modo la libertà e la pubblicità son pessime vicine ad ogni dominazione straniera. Nota della seconda edizione. [20] Citiamo un’altra autorità, un politico meno puro, ma non meno previdente che il principe Eugenio. Quando Napoleone dopo Ulma ed Austerlitz ebbe in mano i destini dell’Austria, Talleyrand, ancora ministro degli affari esteri e consigliero principale di lui, gli consigliò di spogliarla sì delle province italiane ed anche di altre occidentali; ma «_après avoir dépouillé l’Autriche sur un point, il l’agrandissait sur un autre, et lui donnait des compensations territoriales proportionnées à ses pertes.... Où étaient placées ces compensations? Dans la valée même du Danube, qui est le grand fleuve autrichien. Elles consistaient dans la Valachie, la Moldavie, la Bessarabie, et la partie la plus septentrionale de la Bulgarie. — Par là, disait-il, les Allemands seront pour toujours exclus de l’Italie, et les guerres que leurs prétentions sur ce beau pays avaient entretenues pendant tant de siècles, se trouveraient à jamais éteintes; l’Autriche possédant tout le cours du Danube, et une partie des côtes de la mer Noire, serait voisine de la Russie et dès lors sa rivale, serait éloignée de la France et dès lors son alliée,.... les Russes, comprimés dans leurs déserts, porteraient leur inquiétude et leurs efforts vers le midi de l’Asie_». (_Notices et Mémoires historiques par M.r Mignet_. Paris, 1843, tome I, pag. 129, 130). — E l’idea di Talleyrand fu in parte l’idea di Napoleone senza dubbio: è provato dall’occupazione militare, e senza riunione a niuno Stato, delle provincie Illiriche, che egli destinava ultimamente ed evidentemente all’Austria. Quali ostacoli impedirono allora l’eseguimento? I due medesimi che l’impediscono ora, e l’impediranno forse alcun tempo, ma non sempre. Il fatto che le provincie danubiane non erano nè sono disponibili; che erano e sono in mano del Turco, e ne’ desiderii del Russo. Ma l’interesse universale della Cristianità rimuoverà il primo ostacolo per forza, e il secondo per persuasione o per forza, come che sia, quando che sia. «_Le grand mérite de M. de Talleyrand fut de prévoir un peu plutôt ce que tout le monde devait vouloir un peu plus tard_». (_Ibid._, pag. 159). — «_Il y a quelqu’un_, diceva egli, _qui a plus d’esprit que Voltaire, plus d’esprit que Bonaparte, plus d’esprit que chacun des Directeurs, que chacun des ministres passés, présents et à venir: c’est tout le monde_». (_Ibidem_, pag. 135). Nota della seconda edizione. [21] Mentre io scrivea così dell’Austria sono uscite alla luce due opere importanti, e che confermano in molte parti le mie opinioni; benchè nè l’una nè l’altra non entrino nella questione orientale, che è pur la più essenziale a quella potenza. — _Des finances et du crédit public de l’Autriche, de sa dette, de ses ressources financières, et de son système d’impositions avec quelques rapprochements entre ce pays, la Prusse et la France, par M. L. Tegoborski, conseiller privé au service de S. M. l’empereur de Russie, auteur de l’ouvrage sur l’instruction publique en Autriche. Paris,_ 1843, 2 _vol. in_ 8. — _Oesterreich und ihre Zukunft. Amburg_, 1843; breve libretto, già tradotto in francese, e che è importante, anche per provare la spinta che viene ad Austria da Germania. [22] Veggansi gli altri passi dove parlo dell’Irlanda per non interpretare con taluno ch’io desideri o creda nemmen desiderata dagli Irlandesi, la separazione di lei. Nota della seconda edizione. [23] Io aveva incominciata qui un’appendice sul futuro della nazione slava, su quello che ne’ discorsi politici presenti si suol chiamare il mondo, il movimento slavo. Ed a quest’aggiunta fui provocato pure dal mio traduttore. Ma che? accintomi all’opera, nemmeno qui tal provocazione non mi parve opportuna. E, in chi prende a trattare un argomento, un primo pensiero, una misura, un tutto, che si suol di rado oltrepassare o rompere convenientemente. — Quando parlo di cose italiane, io ho, confesserollo, se non qualche autorità presso ai miei compatrioti, ma almen qualche fiducia in me stesso, e l’appoggio a venti anni di studi solitari e sinceri sulla storia di Italia. Studi non interrotti se non una volta per forza, e da cui sorsero, a cui si riferirono, cui confermarono quanti altri feci di altre storie. Ma nè autorità nè fiducia io mi sentirei parlando di cose altrui; parlando a, e di una nazione la quale ha scrittori come il Mickiewicz ed altri, liberi, generosi e numerosi. — Io veggo per vero dire, dall’autocrate russo fino agli aristocrati boemi ed ai democrati polacchi, tutti prevedere, annunciare, sperare o temere il movimento slavo; e credo perciò che qualche tal movimento si farà; ma credo che complicandosi con quello di tutta l’Europa occidentale e della nazione tedesca in particolare verso l’Oriente, ne sorgano per la nazione slava in generale, e per la polacca in particolare, probabilità tutte diverse dall’italiane: credo insomma che le probabilità slave sieno che s’unirà una gran parte di quella nazione colla tedesca, mentre le nostre sono che ce ne separeremo. Queste probabilità slave sono elle men belle? l’indipendenza che ne risulterebbe sarebb’ella men compiuta che l’italiana? sarebbe immeritato da quella nobile, generosa, operosa nazione. E tuttavia, se fossero veramente probabilità, sopra esse dovrebbero fondarsi le speranze slave; perciocchè chi dice speranze, dice desiderii di probabile adempimento. — Ma di nuovo come osar uno straniero discutere tali interessi, proporre tali speranze diminuite a stranieri stimatissimi? Ingrato e forse inutile ufficio, io lo provo, è scemar le speranze, anche a compatrioti, anche ad una parte de’ compatrioti; ma più ingrato e più inutile sarebbe rivolgendosi a stranieri. — Teniamci dunque stretti al nostro assunto italiano, e facciam solamente aggiunta di questa osservazione: che in qualunque modo si prosegua, si adempia e si complichi coll’inorientarsi d’Europa il movimento slavo, ei sarà all’Italia occasione nuova, od accrescerà l’occasione della caduta turca; ch’egli accresce dunque le nostre speranze. Nota della seconda edizione. [24] Qui il mio traduttore, postillandomi, dice: _nous ne voyons véritablement pas sur quels témoignages l’auteur pourrait appuyer l’assertion d’une si forte inimitié entre les deux pays_. — Ed io rispondo, che non ho parlato di niuna tale inimicizia tra i due paesi; che quanto a Francia io non credo che ella pur vi pensi, ond’io neppur pensai a parlarne; e quanto a Italia io parlai di pregiudizi e non di nimicizie nazionali. E non so se altrui, ma a me par grande la differenza delle due parole, non credendo che la nazione italiana sia tutta composta di uomini pregiudicati. — Che esista poi, pur troppo, tal pregiudicio antifrancese in Italia, ei mi è non solamente testimoniato, ma provato: 1. dal mio postillatore, il quale narra che un nostro grande scrittore suole esclamare in mezzo alla penisola. _La haine pour la France! pour cette France illustrée par tant de génie et par tant de vertus! d’où sont sorties tant de vérités et tant d’exemples! pour cette France que l’on ne peut voir sans éprouver cette affection qui ressemble à l’amour de la patrie, et que l’on ne peut quitter sans qu’au souvenir de l’avoir habitée il ne se mêle quelque chose de mélancolique et de profond, qui tient des impressions de l’exil!_ Certo tutto ciò prova almeno che l’illustre italiano qui citato vede, com’io, i pregiudizi di molti nostri compatrioti, e com’io pure, li combatte. 2. da non pochi squarci molto diversi, se non opposti, di un altro nostro scrittore (altronde grande anch’esso), il Gioberti. 3. e da innumerevoli squarci di molti piccoli e piccolissimi, dei quali è più bello tacere. — I pregiudizi vi sono pur troppo; e non bisogna negarli, ma combatterli: giova più agli Italiani, e ciò è l’essenziale; e credo che piaccia anche più ai Francesi, i quali han troppo ingegno per non vederli, e non prevedere che cesseranno alla prima occasione vera. Nota della seconda edizione. [25] Qui fu tradotto inesattamente _odiata_ con _odieuse_. Nota della seconda edizione. [26] Continuo a notare i fatti nuovi avvenuti in pochi mesi da che scrissi. S’è inasprita in Francia la disputa tra una parte del clero e l’università. Ma, già sono surti non pochi cenni che fanno sperare una soda soluzione di quelle gravi difficoltà. A’ paurosi un venticello par tempesta. [27] Qui pure ho ad accennare un’opera pubblicata mentre scrivo, _La Russie en 1839, par le marquis de Custine. Paris_, 1843; quattro volumi in 8. [28] Nuovo commento a tutto ciò: ultimamente i giornali francesi minacciano una gran confederazione russo-asiatica. E i giornali inglesi ne tacciono o sorridono. Come di cosa non vera, o non importante? — In ogni caso, Russia e Inghilterra s’accozzerebbero nel mar Nero, prima che nelle gole del Kiber o sulle sponde dell’Indo, certamente. E ne sarebbero molto appressate quelle occasioni che paiono così lontane ad alcuni Italiani. Nota della seconda edizione. [29] Si può vedere nel libro testè citato, quanto fattizia e probabilmente temporaria capitale sia Pietroburgo. Mosca crebbe e cresce d’importanza dal 1812 in poi. Odessa è surta in questo secolo. Ma quando Russia si rivolgesse a’ suoi destini orientali, è probabile che ella stanzierebbe il nerbo di sua potenza in quel triangolo tra Mosca, Astrakan e Asof (la Tana del medio evo), onde ella dominerebbe i veri mari, i veri fiumi, i veri commerci moscoviti. [30] Il Gioberti ha dichiarato accostarsi all’opinione mia (ma non mi sembra intieramente) in una sua lettera alla _Revue des deux Mondes_. — _Bruxelles_, 19 _mai_ 1844. Nota della seconda edizione. [31] Conferma recentissima: Francia è tratta a nuova guerra, nuovi negoziati, nuove relazioni con Marocco. Nota della seconda edizione. [32] Questo paragrafo di non fondar niuna speranza italiana sulla diminuzione degli stati del papa, fu, s’io non m’inganno, il più criticato direttamente o indirettamente di tutto il libro mio. Ma più lo ripiglio ad esaminare, men trovo a scemarne, più ad aggiungervi. Potrei chiamar l’attenzione de’ miei leggitori su quell’opinione cristiana e cattolica che si ridesta in tutta la civiltà presente; — sulla probabilità quindi che qualunque cosa si facesse contro al capo del Cattolicismo, urterebbe, solleverebbe contro a sè quell’opinione universale della Cristianità; di che abbiam tanto bisogno in qualunque impresa d’indipendenza italiana; — sulla probabilità di urtare, di sollevar pur così contra questa, forse la massima, probabilmente almeno una gran parte, e certo poi una parte qualunque dell’opinioni, delle cooperazioni italiane; — sulla utilità, sulla necessità di non guastare un’impresa santa con nulla che sia o paia men santo, un’impresa legittima con nulla d’illegittimo, un’impresa nazionale con una provinciale; — sulla probabilità, sulla certezza che i principi e i popoli italiani, i papi e i papalini come gli altri, liberati che fossero dallo straniero, converrebbero più facilmente, più pacificamente, più opportunamente ne’ propri interessi reciproci od anzi comuni, od anzi identici; — e intanto ad ogni modo sull’opportunità, sulla necessità, sul dovere che incombe a ciascuna provincia, a ciascuna popolazione italiana di sacrificarsi, se sia il caso, se sia d’uopo al ben di tutti, al bene sommo per tutti, all’indipendenza. — E mi si conceda ripetere il grido antico italiano, con un’aggiunta: pace, pace, pace, tra noi. Nota della seconda edizione. [33] I derisori e disperanti non han forse badato a ciò: che questi due eserciti italiani sommano ad oltre 200,000 uomini: e che 200,000 uomini sono pure una bella somma d’esercito in tutti i paesi in tutti i tempi; e che fra essi, i 100,000 che si troverebbero naturalmente in prima linea in qualunque guerra d’indipendenza, sono appunto di quelli del cui valore non dubitò la storia mai, nè dubita l’opinione presente; che la seconda linea sarebbe di quelli dei quali (parliamo schietto) si dubitò per vero dire, ma i quali appunto perciò sono forse i più ardenti; e che dopo queste due prime linee, ne sarebber pure una terza ed una quarta de’ principati minori, e de’ provinciali dello straniero. Nota della seconda edizione. [34] All’autorità del vecchio ammiraglio inglese, si può aggiunger ora quella recentissima d’un giovane contrammiraglio francese, il duca di Joinville, nella memoria _Sur les forces navales de la France_. Nota della seconda edizione. [35] Vedi l’appendice in calce all’opera. [36] Dell’idee di libertà qui esposte io ebbi a soffrire due critiche, secondo al solito contrarie, dalle due parti opposte. — Dall’una fui biasimato d’aver presentate tali idee, quasi elle sieno pericolose a que’ principi italiani ch’io pur desidero aiutare, quasi ridestanti que’ turbamenti ch’io pur desidero tor di mezzo, quasi almeno riscaldanti (per servirmi d’una frase udita) i giovani e gli inesperti. Ma io rispondo in poche parole, che i giovani e gl’inesperti trovano ed assorbiscono tali idee, a malgrado tutte le censure e le proibizioni, in ben altri libri che il mio; e ve le trovano ben altrimenti promosse ed esagerate; onde tanto è, od anzi è bene, che le trovino pur una volta moderate dalle due riserve da me fatte, del _sottoporre ogni speranza di libertà a quella d’indipendenza_, e perciò di _lasciar gli adempimenti di libertà a giudicio de’ principi_. — Ed appunto di queste due riserve io fui biasimato dall’altra parte. Ma quanto alla prima sarebbe vano volerla difendere ulteriormente qui: perciocchè ella è principio, corpo e fine di tutto il libro mio, e proposta fin dal titolo nell’epigrafe; e da chi non l’ammetta io m’era già separato implicitamente fin dal primo paragrafo del primo capitolo della prima edizione, e mi separai in questa poi anche più chiaramente nella nota al § 3, capo 3; e mi separo soprabbondantemente e per sempre qui. — Resta dunque ch’io difenda ulteriormente la sola riserva seconda, contro a coloro che, posponendo meco la libertà all’indipendenza, pensano pur meco che la libertà può condurre all’indipendenza; ma diversamente da me pensano, che ella dovrebbesi o potrebbesi procacciare anche a malgrado de’ principi. Ed a questi consenzienti meco nel gran principio, a questi non più divisi nello scopo, ma solamente sui mezzi delle buone speranze italiane, io mi rivolgo, non senza fiducia, per supplicarli di ben considerare: 1.º Che la libertà così acquistata servirebbe male all’impresa d’indipendenza; perchè lascerebbe semi, anzi frutti di divisione tra principi e popoli; lascerebbe quelle gravi e lunghe diffidenze reciproche, quelle contese che sono consuete in ogni libertà nuova ed acquistata per forza; lascerebbe preoccupazioni di cose presenti, immediate, appassionanti, le quali farebbero posporre o dimenticare l’impresa d’indipendenza, e ne scemerebber l’impeto e la forza, se pur si facesse; — 2.º poi e principalmente, che ora, qui, non si tratta di libertà acquistate, ma tutt’al più acquistabili; non di divisioni che rimarrebbero dopo l’acquisto fatto per forza, ma di quelle molto maggiori che sorgerebbero immanchevolmente e per natura stessa di tal acquisto per forza. Perciocchè qui sta il punto, tutto il punto di difficoltà: i cospiratori, le società segrete, considerano sempre i lor disegni come «cosa fatta che capo ha»; non considerano che prima d’esser cosa fatta e d’aver capo o realità, ei s’ha a passare per tutti i pericoli, non dico i personali, ma della patria, a cui non è forse lecito a nessuno, non è certamente a chi non vi ha ufficio, esporre la patria, quando ella ha per le mani il gran dovere a compiere dell’indipendenza. — Insomma io ridico ai principi: Deh pensate e provvedete voi a quella libertà che, data, sarebbe forse strumento massimo; io dico ai popoli: Non isprecate pensieri, e meno fatti, in quella libertà che, presa, e peggio nel prendersi da voi, sarebbe impedimento massimo all’indipendenza. Ed io rigrido pace, pace, pace, tra noi. Nota della seconda edizione. [37] Anche di questa _letteratura esterna_, che è specialità italiana già antica, ma più che mai splendida a’ nostri dì, io intendevo fare un’appendice. Ma è materia così ricca, che non ho tempo a colorire il mio disegno nella presente edizione. Suppliscano pochi cenni. — Più largo e magnifico assunto sarebbe una _Storia degl’Italiani fuor d’Italia_. Oltre ai crociati e ai missionari, che abbiam comuni coll’altre nazioni, niuna diede agli stranieri un così grande scopritore di terre incognite come Colombo; niuna poi tanti capitani e ministri quanti furono gl’Italiani. Ma quest’assunto così allargato servirebbe più alla gloria passata, che all’utilità presente della patria nostra. Non c’inganniamo: lo spirito di nazionalità s’è destato e ingelosito presso a tutte le nazioni, e più nelle più libere, in tal modo che sono e saranno ogni dì più rari gli esempi de’ grandi capitani o grandi uomini di stato stranieri in qualunque nazione. Io vorrei che fossero molti Italiani così giunti a potenza presso agli stranieri; perchè io non dubito che essi volgerebbero sempre quella potenza a pro della patria, e che al gran dì imiterebbero l’esempio di quel Capo-d’Istria, il quale non solamente la rivolse così, ma l’abbandonò poi per andar a combattere sulla breccia aperta nel suo paese. Ma il ripeto, i tempi son mutati e si mutano; e queste imitazioni si fanno impossibili. — E tutto all’incontro è poi delle colture. Queste tendono ad accomunarsi in tutta la cristianità; ondechè di qualunque paese sia un grande scrittore di scienze o lettere, od un grande artista, egli è facilmente adottato dovunque; ed entrando nella coltura straniera, non esce dalla nazionale sua, e potendo fuori, continua a potere in patria. Quindi (anche lasciando l’arti, e restringendo il tema alle lettere ed alle scienze, che si posson comprendere sotto il nome di Letteratura) un trattato storico e pratico della Letteratura italiana esterna sarebbe tema ricco non solamente di esempi antichi, ma di applicazioni presenti e future. — Potrebbe la parte storica incominciare fin dal primo risorger delle lettere, da Carlomagno; e con quel Paolo Diacono, Longobardo prigione in corte di lui, il quale scrisse forse colà quella storia che è unico monumento di fatti di sua nazione. E s’interrompe od oscura per vero dire la letteratura italiana esterna, come l’interna, come tutte l’altre, verso il fine del secolo IX e lungo tutto il X. Ma risorge di nuovo colla letteratura italiana interna e coll’universale verso la metà del secolo XI; e, come queste, così quella non cessa più di allora in poi. Nell’ultima metà del secolo XI e nel XII, studiarono, od insegnarono, o scrissero, o in somma fiorirono più o meno, fuor d’Italia, Gregorio VII, Lanfranco, Pier Lombardo, S. Anselmo d’Aosta. Nel secolo XIII S. Tommaso e S. Bonaventura. Nel secolo XIV Dante e Boccaccio per poco tempo, Petrarca per quasi tutta la vita sua. Nel XV Cristina del Pisano, il Poggio e parecchi minori. Nel XVI Amerigo, Davila, Alciato. Nel XVII Montecuccoli, Marino, e quelli che furono per vero dire oscuri a’ tempi loro, e si risuscitano ora a troppo onore, ma che insomma furono scrittori italiani esterni, i Socini, Diodati, Telesio, Radicati, Olimpio Morata, Celio Secondo Curione ed altri tali. Ma sorge a vero splendore la letteratura italiana esterna nel secolo XVIII, e vi si potrebbe noverare forse Alfieri, e si debbono certamente Lagrangia, Denina, Baretti, l’ab. Guasco, Algarotti, Metastasio, Galliani, Goldoni, per non iscendere a Casanova e Cagliostro. E continua poi incontrastabilmente e s’accresce quello splendore nel secolo nostro per opera di Botta, Foscolo e Pecchio, e de’ viventi Amari, Arrivabene, Berchet, Calleri, Collegno, Ferraris, Gioberti, Gorresio, Libri, Mamiani, Rossetti, Rossi, Ugoni, e d’alcuni altri, a cui si potrebbero aggiugner coloro che come Colletta, scrissero addentro, ma furono pubblicati fuori. E certo di tali scrittori e loro opere consta una letteratura _sui generis_, qual non è posseduta da niuna altra nazione antica e moderna. — E quindi, lasciando la storia e i vanti, e venendo all’utile presente e futuro, quindi sorge una speranza, e se non si guasti, io direi una delle maggiori speranze nostre. Che non potranno tutti questi Italiani scriventi di fuori, se sapientemente e virtuosamente studiando quegli esempi antichi, sappiano ben discernere quelli da imitare e quelli da fuggire; se, smentendo ciò che ne disse Machiavello, vogliano o sappiano, quantunque di fuori, conoscere lor paese qual è, qual mutossi dopo ch’essi lo lasciarono; se, ricordando gli amori, dimenticando gli odii lasciati in patria, uniti essi tra sè, uniti co’ fratelli rimasti addentro, si faccian centro d’una opinione italiana libera e moderata, forte e costante? E non pochi sono de’ nominati e non nominati che adempiono, a lor possa, siffatti uffici verso la patria. Ma non sarebber forse possibili più unioni, più aiuti, più tolleranze reciproche? E quindi più operosità comune, più efficacia? E ciò che poterono altri nobili fuorusciti, i Polacchi sopratutti, convenire in pubblicazioni periodiche, alzar cattedre di lettere e storie nazionali, non sarebbe egli possibile a quella famiglia di fuorusciti italiani la cui nobiltà supera in antichità e gloria tutte l’altre simili senza dubbio? — Ma io mi fermo per forza. E lasciando e pregando si lascin sospetti, io rivolgo verso colà pure, e per quanto io possa valere, il grido mio, il grido antico: pace, pace, pace, tra noi. Nota della seconda edizione. [38] Io non m’ingannai prevedendo l’accusa e rispondendovi preventivamente. In un articolo della _Revue des deux mondes_ 1.r _juillet_ 1844, _p._ 133, dopo aver lodata tutta la parte del libro mio che annulla speranze, lo scrittore prosegue: _Jusque là tout va bien, et M.r Balbo a raison; mais lorsque, après avoir fait table rase des idées des autres, il produit les siennes, le publiciste sensé cède sa place à l’utopiste. L’A. des Esp. d’It. base_ TOUS _ses plans sur_ UNE _éventualité_ (lo scrittore s’inganna qui su quanto dissi in parecchi luoghi); _il prévoit la chûte de l’empire Ottoman, il le_ DÉPÈCE _à sa guise_ (s’inganna di nuovo), _et donnant le Danube à l’Autriche, il lui enlève le Pô avec le_ CONSENTEMENT (s’inganna più che mai) _de toutes les puissances Européennes. Cela fait, M.r B. prend la Lombardie dans sa main; il l’offre à la Savoie, et voilà un royaume Lombardo-Ligurien_ (concedo, ricusando solamente il merito d’invenzione, la quale è antica). _Mais quand les Russes seront-ils à Costantinople?_ (Questa è grossa! È l’opposto di tutte le mie speranze italiane, cristiane, universali. Lo scrittore sembra non aver letto il mio libro). _C’est le secret de l’avenir. M.r B. ne le connoit pas; il conseille seulement aux Italiens de se tenir prêts à tout événement_ (e n’indico a mia possa i modi); _quoiqu’il soit possible que l’heure attendue ne sonne que pour les générations futures. Cela n’est guère encourageant_ (la realità non è tale pur troppo per noi; ma è molto meno, lodar i capitoli che tolgono speranze, e pronunciar utopia tutti quelli che ne accennano, senza accennarne niun’altra poi; onde verrebbe la conchiusione che non v’è speranza): _et en conscience, le livre da M.r B. au lieu de s’appeller Des Espérances, devrait s’appeller De la résignation de l’Italie_. — In coscienza la rassegnazion del «progredir alacri a tutto ciò che si può e si deve virtuosamente mutare», è rassegnazione che chicchessia può confessar senza vergogna, ed io la confesso. Del resto vedi nel medesimo fascicolo ciò che è molto ben detto di quella ch’io chiamai solamente l’eventualità più promettitrice. _Si l’Espagne avait conservé quelque chose de son génie primitif, si l’anarchie qui la dévore n’avait arrêté chez elle ce mouvement d’expansion qui fit sa gloire en d’autres temps, elle aurait à remplir au Maroc une oeuvre analogue à celle que nous exécutons si laborieusement en Algérie. Dans cette dissolution universelle du monde musulman, qui frappe aujourd’hui tous les yeux, sa part et sa mission sont indiquées et la force des choses l’amenera à s’y devouer, lorsqu’elle sera rentrée au nombre des nations régulièrement constituées, et dès qu’elle aura pris possession de son avenir_ (_ibi_, p. 146). Questo è quasi _verbatim_ ciò che io dissi dell’avenir d’Italia; è la miglior risposta ch’io possa fare all’accusa di utopia. — Ma come si fa egli che quella _Revue_ così ben informata e grave sulle cose di Spagna (vedi varii articoli dei signori Lavergne e Durieu), sia poi così sovente diversa sulle cose d’Italia? Nota della seconda edizione. [39] Vedi per l’antichità dell’ago calamitato risalente a 2,000 anni avanti G. C., l’ultima opera dell’Humboldt sull’Asia; e per la chimica la storia di quella scienza del Dumas; e per le matematiche quella del Libri. [40] Vedi la vita dell’ultimo nella raccolta del Lardner. [41] Una nuova opera è uscita alla luce sulle Indie Inglesi, la quale come in lingua francese sarà probabilmente letta in Italia molto più che non le numerosissime inglesi sul medesimo assunto: _L’Inde Anglaise par le C. Edouard de Warren. Paris_, 1844, 2 vol. _in_-8. Ed a difetto di quelle, io conforterei i miei compatrioti a leggere questa; io vorrei portar in qualunque modo la loro attenzione all’Oriente. Ma mi si conceda notare: che quanto è cristiano, liberale, generoso in quest’opera francese, fu già più o men bene detto da parecchi Inglesi, principalmente dai Whigs della _Edimburg Review_; e che il progetto militare di conquista russa, il quale termina l’opera, mi pare uno de’ più strani e più incredibili frutti di quel pregiudizio anti-inglese risorto pur troppo e non cessato in Francia dal 1840 in qua. Del resto i leggitori vi troverebbono numerose conferme di fatti da me allegati: la assoluta incapacità delle missioni protestanti; la capacità piccola ora, ma che crescerebbe se non fosse compressa, delle missioni cattoliche; la diminuzione forse inevitabile delle schiatte native, etc., etc. Nota della seconda edizione. [42] Io trovo a questo mio calcolo storico una così notevole conferma in uno scrittore protestante, che non so trattenermi dal notarla. _In fifty years from the day in which Luther publicly renounced communion with the Church of Rome, and burned the bull of Leo before the gates of Witemberg, Protestantism attained its highest ascendancy — an ascendancy, which soon lost, and which it never regained_. — Macaulay’s Essays Paris, Baudry, 1845, p. 405. — E vedi poi, pp. 415 e 250, la conferma delle molte speranze cattoliche, delle nulle protestanti. [43] Mi par notevole questo fatto: non vi fu forse fra’ protestanti niun grande storico zelante protestante; all’incontro, parecchi storici protestanti si fecero cattolici: W. Schlegel, Stolberg, ed ultimamente Hurter, etc. [44] Vedasi _Situation politique et littéraire de l’Espagne_ nella _Revue des deux Mondes_, 15 _juin_ 1844; ed un articolo di poco anteriore sulla poesia spagnuola moderna. [45] Io stesso, in non so quale degli scritti miei, caddi in questa prima proposizione; la quale, ripensando, or dichiaro erronea ed antistorica. [46] Vedi _Letture popolari_. Torino, 12 dicembre 1840. — La Nourrais et Bères: _L’association des Douanes Allemandes, son passé, son avenir_. Paris, 1841. — Petitti: _Considerazioni sulla Lega Doganale Germanica_, nel Giornale Agrario Toscano, n.º 61, A. II.º, Unione Italiana. — Petitti: _Delle associazioni Doganali fra varii stati_; letto all’Accademia de’ Georgofili in dicembre 1841. Firenze, 1842, § II.º, Unione Italica. — _Allgemeine Zeitung_, 23 april, 2 junius 1842. — _Annali universali di statistica_; marzo e novembre 1843, articoli di L. Serristori; settembre e ottobre 1843, articoli di L. Serristori; settembre e ottobre 1843, articoli di Gaetano Recolci. — Portula, _Dizionario di diritto e di economia commerciale_. [47] Desidero andar incontro alle false applicazioni che si facessero de’ principii, ch’io son costretto a porre troppo brevemente talora. Non vorrei, s’applicasse quant’è sopra, contro alle strade di ferro. Queste sono agevolamenti di comunicazione come le leghe doganali; ma non portan seco (quando anche si facciano tra i principati italiani e la provincia straniera) i due pericoli di quelle; non l’economico, nè il politico. — Non l’economico, perchè non ci farebbero entrare nelle strettezze del sistema austriaco; non il politico, perchè non le darebbero preponderanze, ci lascerebbero nella condizione relativa presente; o se mai, darebbero preponderanza a noi, complesso di principati, preponderanti in territorio e popolazione. Le comunicazioni agevolate che non portan seco danno speciale, anderanno sempre a pro della nazionalità italiana. — E così abbiansi i nostri voti e la nostra gratitudine quanti principi e ministri e capitalisti promovano o promoveranno queste imprese veramente nazionali. Così veggiamo la penisola solcata in lungo ed in largo da quante _linee_ sieno o si faccian possibili nello stato presente o futuro della scienza; così prima d’ogni altre noi veggiamo riunite Genova e Torino, e quella diventar porto di questa, e questa quasi avanzarsi di tanto nella penisola; e pur riunite Torino, Milano e Venezia, e Torino, Parma, Modena e la Romagna! E così Firenze e Livorno; Firenze, Roma, Napoli e al di là; e riuniti se sia possibile in uno o più luoghi i due mari italiani! Tutte e qualunque di queste riunioni materiali, aiuterebbero a quelle intellettuali e morali; le quali ne riprodurrebbero a vicenda altre nuove materiali. — Ma mi si conceda aggiugnere, non è forse paese in Europa, dove il commercio presente possa meno supplire esso solo a tali opere; dove queste abbiano più necessità dell’intervenzioni de’ principi; e dove questi poi sieno per trarne più profitto diretto ed indiretto. Negli altri paesi le strade ferrate sono strumenti necessari alle prosperità commerciali esistenti; in Italia elle sono strumenti necessari a far risorgere tal prosperità, e sarebbero di soprapiù strumenti politici a tutte le buone riunioni. Non può rimaner dubbio a chi v’attenda: parecchi principati italiani sono, a cui l’uno od anche il due o il tre per cento perduto in apparenza, sarebbero cento ed anche dugento o mille riguadagnati od in contanti, od in potenza. Nota della seconda edizione. [48] Io non conosco se non un’operetta stampata a Livorno su quest’assunto, pur così importante, degli interessi italiani nel commercio orientale. Tanto più ragione di lodarla; e confortare l’autore a migliorarla ed estenderla. Nota della seconda edizione. [49] Torino, 19 febbraio 1845. _Signore_, Nella corrispondenza estera della vostra Rivista (gennaio 1845, p. 526) io trovo sul mio libro _Delle Speranze d’Italia_ le seguenti parole: «La prima circostanza da osservare rispetto alla pubblicazione del libro del signor Balbo è che _esso non è proibito nei dominii del re di Sardegna_.» — Lo scrittore fu mal informato. Il libro _Delle Speranze_ fu e rimane proibito qui fino a questo punto, che non si vende pubblicamente, non s’annunzia, non si dà se non a chi ne fa richiesta per iscritto, o come si dice qui _sotto cautela_. In una parola, il mio libro si tollera qui, come i fatti stessi recati dal vostro corrispondente provano che è o fu tollerato in Toscana; come fu ivi tollerato il libro del Niccolini. E come questi colà, così io pure son lasciato vivere tranquillo qui. Tutti coloro che conoscono la mia posizione sociale, ed, oso dire, il mio carattere personale, sanno ch’io non son guari uomo a cui si comandi od ispiri un libro. E tuttavia se un principe italiano avesse comandato un tal libro com’è il mio, io l’avrei scritto molto volentieri; ma avrei professato di così scriverlo; e parecchi milioni d’italiani si sarebbero, credo, rallegrati che un principe italiano avesse così professato egli stesso, voler preparare il giorno dell’indipendenza, e nel modo da me accennato, camminando nelle vie del progresso universale, e camminandovi sempre all’innanzi dello straniero, e non temendo camminarvi fino alla politica libertà. Ma pur troppo non fu così; il mio libro non fu nè comandato nè ispirato, ma solamente tollerato. — Bensì, il mio è il primo libro di politica seria e presente che dal 1814 in qua siasi scritto sul suolo d’Italia, da uno scrittore continuante a vivervi. Ed io non so se ciò torni a qualche lode per lo scrittore tollerato, ma certo torna a quella del principe tolleratore. Del resto nel mio libro io non proposi all’Italia nè quello nè nessun altro principe a «Capitano delle Speranze di Lei». Nè, io o niuno scrittore per quanto maggiore di me, avremmo tale autorità. Sola l’opinione universale potrebbe far tal proposizione o dichiarazione; e le farà, io non ne dubito, a gloria immortale di qualsivoglia de’ nostri principi s’avanzi mai primo ed arditamente sulle vie ch’io accennai, ma che tutti veggono. — Ma io anderò qui più in là che nel mio libro; io confesso desiderare, che tal sia, tal s’avanzi oltre agli altri il mio principe; e perchè egli è principe mio, e perchè egli è meglio collocato a ciò che nessun altro. Ed a compiere tal desiderio, io verserei volentieri, non che le mie povere e talor male interpretate parole, ma tutto il sangue mio, ma tutto quello de’ sei figliuoli miei. Signore, il mio libro, di cui a mal grado le difficoltà di su e di giù, sono sparsi ormai presso a 3000 esemplari in Italia, non potè essere nè criticato nè menzionato ne’ giornali italiani. Al di fuori, parecchi miei compatrioti colà viventi mi assalirono vivamente, men per ciò che io dissi, che per ciò che io non dissi, ed anche per ciò ch’io dissi tutt’all’opposto. Io ringrazio delle prime critiche; la franca e leal discussione è utile alla patria nostra; e fu uno de’ miei scopi eccitarla. Alle altre avrei forse risposto già, per farne apparir le inesattezze, ne’ medesimi giornali; se non fosse che alcuni di questi non ne valevan la pena, ed altri hanno il mal uso di non accettar discussione sugli articoli da essi inseriti. Ma la vostra rivista è grave ed importante in tutta Europa; e gli usi e l’onor britannico mi fanno sperare che non vorrete ricusare questa mia risposta, la quale non può trovare luogo in nessuna pubblicazione della mia patria. E con tal fiducia ho l’onore di protestarmi Vostro obbligatissimo servitore C.e CESARE BALBO. La presente risposta fu inserita nel fascicolo immediato (aprile 1845) di _Quarterly Review_. [50] Del resto: «On a beau dérober les principes que j’ai établis, en ayant l’air de les combattre: tous les faux semblants ne servent de rien; suivre des règles posées par un autre, jusqu’à les compromettre par une application outrée, ce n’est point les inventer» (Cousin, _Des Pensées de Pascal_. Paris, 1844, p. 11). [51] S’ingannerebbe chi applicasse a’ tempi nostri il detto vecchio, che le proibizioni aiutano lo spaccio d’un libro. Anche ciò è mutato. Quando le pubblicazioni non si facevano se non ponendo in vendita un libro nella botteguccia d’un solo libraio, o talor muricciolaio, senza annunzi o con pochi, l’allettamento innegabile delle proibizioni poteva agguagliare o superar quello vegnente da tale ristretta offerta. Ma ora che s’è perfezionato di tanto l’artifizio di queste offerte, cogli annunzi ne’ giornali, ne’ cataloghi, sulle coperte de’ libri, e sui cartelli e cartelloni d’ogni sorta, gli allettamenti così procacciati superano di gran lunga quello delle proibizioni. Vedansi sull’importanza degli annunzi, le liti mosse in Francia dagli autori agli editori, per isforzarli ad usare, secondo i patti o il costume, questo gran mezzo di spaccio. E quindi io stimo (e sarà poi detta vanità mia in causa propria) che lo spaccio d’un libro proibito, ma non annunciato, possa essere così le cinque o sei volte minore di ciò che sarebbe stato se si fossero usati que’ mezzi. — Ma non si ingannino quindi troppo candidamente le censure sulla propria efficacia. Possono colle proibizioni di diminuir lo spaccio d’un dato libro; ma prima non ne diminuiscon guari la cognizione; perchè in tal caso ogni compratore impresta il suo esemplare a quattro o cinque altre persone per l’appunto. E poi le censure accrescono così e sovente esagerano l’importanza, l’autorità del libro proibito. Ed impediscono che capiti alle mani di molti buoni; i quali se il libro è buono, son pur quelli che ne approfitterebber più, perchè i troppo dissenzienti da un libro non ne approfittan mai; e se il libro è cattivo, son quelli che gli risponderebbon meglio per iscritto od a voce. E poi a voler giudicar l’effetto delle proibizioni non su un libro determinato, ma su tutti insieme, ei bisogna tener conto di quell’assioma economico, che, in fatto di merci proibite, sempre il contrabbando fa entrare le qualità più fine; perchè a far entrar queste il pericolo è uguale, mentre il profitto è molto maggiore. E in fatto di libri proibiti, ognun sa che cosa sieno le qualità più fine. — Del resto, dicesi che parecchi alti e gravi sudditi austriaci abbian fatti ricorsi al loro governo per ottener rimessioni dalla severità delle censure. Speriamo sieno ascoltati benignamente. — Ma, ho io detto, speriamo? E non debb’egli anzi dirsi timore, quello che ci venga anche questo miglioramento o addolcimento dal signore straniero? E non gli sarà tolta, chiaramente, incontrastabilmente tolta, tal precedenza almeno da alcuno de’ nostri principi? [52] Noterò una sola di queste alterazioni delle mie parole; per l’importanza che ha forse una osservazione ivi aggiunta — Io dissi al Capo IV, § 1, «che il sogno delle repubblichette _fu od apparve_ sogno de’ sollevati Romagnoli del 1830, de’ congiurati con essi, e di quelli che chiamaronsi _Giovine Italia_». Ora uno scrittore (_Revue Indépendante_, juin, 1844, p. 567), dice: «M. Balbo _affirme_ que ce rêve fut celui des insurgés de la Romagne en 1830, et de ceux qui ont fait partie de la Jeune Italie». — Come ognun vede, l’alterazione è un po’ forte; dir _fu od apparve_ è tutt’altro che _affermare_. Ma andiamo avanti. Lo scrittore prende a dire: «Ce qu’elle (_la Giovine Italia_) voulait alors, ce qu’elle veut aujourd’hui c’est l’indépendance et l’unité italienne reposant sur la liberté et l’égalité pour tous. Son rêve, puisque M. Balbo l’appelle ainsi, serait de voir l’Italie non fédérée, mais une, n’ayant ni barrières ni _États distincts_; étant enfin ce que sont aujourd’hui la France, l’Espagne, et la Belgique». — È egli così? in tal caso non fo che rimandare questi miei infelici, e pur troppo sempre sognanti compatrioti miei dal Capo IV al Capo II, dalle osservazioni sulle repubblichette, a quelle sul regno unico; pur riconfortandoli a lasciar questi o quegli altri sogni del paro, ed a volgere essi pure la loro migliorata operosità allo scopo effettivo (arrivabile a parer mio) del progresso universale e della indipendenza d’Italia. [53] Nell’_Appendice I.ª_, su queste leghe, io toccai a un punto d’economia ed agronomia italiana, che mi pare importante; alla opportunità di estendere la coltura de’ pascoli, anche a diminuzione di quella delle biade. Tal proposizione scandalezzò alcuni teorici ed alcuni pratici. E di essa pure è uscita o almeno annunziata una notevole conferma. Vedi ne’ rendiconti dell’Accademia delle Scienze di Parigi le ricerche storiche e pratiche del signor Dezeimeris. Sarebbe desiderabile una pronta traduzione di tale opera appena pubblicata. [54] Dicesi che quasi altrettanti forestieri sieno talora in Roma sola per la settimana santa. È vero che gran parte di questi sono nazionali, forestieri, e non istranieri. Ma, ponendo il medesimo numero per l’Italia intiera, parmi (a difetto di più esatte notizie) vi abbia ad essere più che compenso. [55] Il Say (_Écon. polit._, liv. I, ch. XX (4. Éd.), T. I, p. 315) sembra d’opinione contraria. Ma si legga attentamente e non servilmente, e si vedrà da quella disquisizione stessa: 1. che dal totale del capitale innegabilmente portato e speso in un paese qualunque dagli stranieri, è a dedurre solamente il consumo fatto da essi; 2. che in questo stesso consumo non è da contare il consumo del lavoro nazionale pagato da essi, il quale non si sarebbe prodotto senza essi (massime in Italia); 3. che non v’è a contare nemmeno il consumo di parecchi prodotti materiali rozzi, i quali parimenti non si sarebbero prodotti senza gli stranieri; 4. che quindi il consumo a dedursi dal capitale portato e speso, si riduce a consumo di poche e rozze tra le materie che paiono e si soglion dir consumate; 5. e che insomma è calcolarlo alto, il porlo in media a un 8 o 10 milioni in tutto. — I quali poi io non deduco dal calcolo mio totale perchè li credo più che compensati dall’altre cifre, tenute tutte basse. Ma chi li voglia dedurre, riduca i 72 milioni a 60; e rimarranno grandi tuttavia i risultati. — Del resto sarebbe un trattato intiero e speciale a far su ciò. E dal Davanzati e Botero o forse dal Pandolfini fino al recentissimo Scialoja, l’Italia fu ed è pur patria dell’Economia politica bene e liberalmente scritta. Così vogliano gli scrittori di essa prendere ad esaminare, ed applicare la questione qui accennata, importantissima certamente per la patria comune. [56] Due capitali innegabili e pur non ammessi (almeno il primo) da parecchi economisti. Anche fuor d’Italia, a Hières, all’isola di Whigt, a quella di Madera, ec., l’aria sana e dolce trae stranieri o forestieri, che producon guadagni. L’aria buona può dunque essere, è un capitale; morto in molti luoghi sì, ma produttivo in parecchi. [57] Che è, se non m’inganno, all’incirca il totale del Commercio estero francese, l’esportazione ed importazione insieme, nell’anno 1844. [58] Io mi scosto così del tutto da una serie di articoli inseriti nella _Revue des deux mondes_ sul risorgimento del così detto mondo slavo. Io l’avverto per gli ammiratori di quella riputatissima raccolta; affinchè forse non mi rispondano con mandarmi ad essa. Bene o male, io rispondo qui già agli argomenti là usati. [59] Mentre rivedevo la presente appendice, un nuovo fatto avvenne, che, quantunque letterario, non è pur senza importanza per noi; la pubblicazione della _Storia del Consolato e dell’Imperio_. La quale, per bello e gran libro che sia, non è nel resto d’Europa e in Francia stessa se non un libro di più, fra moltissimi: ma in Italia, tra la povertà di libri nostrali, e la varietà degli stranieri, da cui risulta tanto vagar delle nostre opinioni, l’apparizione d’un libro così impazientemente aspettato, così universalmente già letto, e, parlando in generale, così sodo e moderato, non può avere una vera ed utile importanza. — La storia precedente del medesimo scrittore ne ebbe già una contraria, in Italia come in Francia e dappertutto. Quella indifferenza ai grandi delitti politici, quella maniera dì presentarli come necessari, epperciò o più o meno scusabili o non delitti, spingeva a imitazioni, peggiori in Italia, che in qualunque altro luogo. Ora l’autore ha felicemente mutato modo; è tornato a quello di tutti i grandi storici antichi o nuovi, a quel modo che usa la storia non solamente _ad narrandum_, ma anche _ad probandum_, al modo di giudicare narrando. Qui l’autore giudica il suo eroe continuamente. Non sempre bene, a parer mio, ma il giudica; e il giudicio di lui esercita il giudicio politico de’ leggitori, che è un gran bene, dappertutto, ma principalmente in Italia, dove sono così poche occasioni a tal esercizio. L’autore (fin da’ tre volumi or pubblicati) giudicò bene e in parecchi luoghi l’errore di Napoleone di non aver tenuto bastante conto dell’opinione, della libertà del popolo conquistatore o francese. Ma ciò non basta; sarebbesi dovuto notare anche l’error secondo (e che diventò poi forse sommo per le conseguenze) di non aver tenuto bastante conto de’ popoli conquistati; errore incominciato a farsi verso l’Italia fino dalla Consulta di Lione, e da quelle male ripartizioni delle provincie italiane, che dividevano peggio che mai, non formavano nè educavano un popolo italiano; errore ripetuto poi ed aggravato verso Germania, e Spagna, e Polonia. E al dì delle sventure, Napoleone ebbe Spagna e Germania contro a lui, Polonia incapace di nulla per lui, Italia incapace insieme e indifferente a lui. E questa indifferenza non si suol notare tra le cause della caduta di Napoleone; non si suol notare Italia mai per nulla nelle grandi mutazioni d’Europa. Eppure, se l’opinione d’Italia fosse stata per Napoleone, nè Murat avrebbe immaginato di rivolgergliesi contro, nè Beaurharnais avrebbe fatto sì incerta quantunque sì nobil difesa; e la guerra vivamente nodrita in Italia avrebbe forse impedita o trattenuta la invasione in Francia; e ad ogni modo, uno Stato di più, un secondo regno sarebbe probabilmente rimasto a’ Napoleonidi in Italia, e due tali regni rimastivi sarebbero probabilmente stati durevoli. — Tutto ciò, veduto senza dubbio da ogni Italiano, sarà, se continua al medesimo modo, rimproverabile da essi alla _Storia del Consolato e dell’Imperio_. Ma qual libro moderno tien conto sufficiente di noi? E a chi la colpa? E ad ogni modo, lasciata la parte italiana, o forse altre straniere, resta sempre un grand’utile a trarre dagli esempi di operosità di quell’uomo e quel tempo; e dalla sodezza, dalla moderazione, dalla dottrina, dalle particolarità delle narrazioni e delle discussioni dell’autore. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK DELLE SPERANZE D'ITALIA *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. 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Many small donations ($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt status with the IRS. The Foundation is committed to complying with the laws regulating charities and charitable donations in all 50 states of the United States. Compliance requirements are not uniform and it takes a considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up with these requirements. We do not solicit donations in locations where we have not received written confirmation of compliance. To SEND DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state visit www.gutenberg.org/donate. While we cannot and do not solicit contributions from states where we have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition against accepting unsolicited donations from donors in such states who approach us with offers to donate. International donations are gratefully accepted, but we cannot make any statements concerning tax treatment of donations received from outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff. Please check the Project Gutenberg web pages for current donation methods and addresses. Donations are accepted in a number of other ways including checks, online payments and credit card donations. To donate, please visit: www.gutenberg.org/donate. Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works Professor Michael S. Hart was the originator of the Project Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be freely shared with anyone. For forty years, he produced and distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of volunteer support. Project Gutenberg™ eBooks are often created from several printed editions, all of which are confirmed as not protected by copyright in the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper edition. Most people start at our website which has the main PG search facility: www.gutenberg.org. This website includes information about Project Gutenberg™, including how to make donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation, how to help produce our new eBooks, and how to subscribe to our email newsletter to hear about new eBooks.