Delle speranze d'Italia

By conte Cesare Balbo

The Project Gutenberg eBook of Delle speranze d'Italia
    
This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and
most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions
whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms
of the Project Gutenberg License included with this ebook or online
at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States,
you will have to check the laws of the country where you are located
before using this eBook.

Title: Delle speranze d'Italia

Author: conte Cesare Balbo

Release date: August 26, 2025 [eBook #76738]

Language: Italian

Original publication: Venezia: Tip. repubblicana di Teresa Gattei, 1848

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK DELLE SPERANZE D'ITALIA ***


                                 DELLE

                           SPERANZE D’ITALIA


                                   DI

                              CESARE BALBO


                                           Porro unum est necessarium
                                                       (LUC., X, 42).



                                VENEZIA
                   TIP. REPUBBLICANA DI TERESA GATTEI
                                  1848




A

VINCENZO GIOBERTI




DEDICA PRIMA


Pochi anni sono io scrissi sulla storia d’Italia e sugli insegnamenti
pratici a trarne, un libro ch’io serbava a rivedere e pubblicare
in altri tempi. — Ma ora voi. Signore ed Amico, trattando quasi il
medesimo assunto nel vostro libro del Primato, avete fatte inutili
molte parti del mio. A che ridire men bene tante cose magnificamente
dette da voi, e nelle quali consentiamo? A che, per le poche
nelle quali dissentiamo, ripor io con fatica quelle fondamenta dei
diritti e dei doveri pubblici italiani, da voi poste, a parer mio,
irrevocabilmente? A che ricominciar sempre, rinnegando i predecessori,
per profferir sè solo capo di scuola e d’idee, come fanno taluni
a grave danno delle scienze, e, che è peggio, delle pratiche più
importanti? — Meglio edificare sull’edificato da voi; accettar da voi
ciò che mi par dirittamente sancito dalla vostra eloquenza ed autorità;
e partir indi per progredire, se mi sia possibile, poi.

Così ho tentato fare. E non, riprendendo e troncando il mio libro or
invecchiato, ma facendone uno nuovo, che mi parve meno ingrata fatica,
non, del resto, riferendomi di continuo a voi, in quella forma polemica
che suol riuscir poco grata a’ leggitori, per l’obbligo imposto loro
di tener a mente due libri insieme; ma facendone uno che possa star da
sè, e sia piuttosto una sintesi delle mie idee, che non un’analisi di
quelle di nessuno.

Ad ogni modo questo libro ebbe occasione ed origine da voi; e mi venne
incominciato con impeto, appena io m’ebbi in quattro o cinque dì,
studiato, annotato, e, come si suol dire, divorato il libro vostro; e
incominciai riconoscendo ed avvertendo tale origine. Ma finito ora, e
sperando non aver offeso nel dissentire voi, che stimo, venero ed amo
in vostra persona, ed aver espressa la mia ammirazione per tante parti
de’ vostri scritti, ho pensato dedicarvi questo come protesta di tali
mie intenzioni e speranze.

  Novembre 1843.

                                                        CESARE BALBO.




A

VINCENZO GIOBERTI




DEDICA SECONDA


Quando voi, Signore ed Amico, mi faceste il favore di accettar la
mia prima dedica, voi mi esprimeste il generoso timore che il vostro
nome «recasse forse pregiudizio nel concetto di alcuni alle pagine
mie». Ma uno più grave e più certo io ne previdi loro, dall’aver
io mirato a moderazione politica non dissimile dalla vostra. È
naturale, immanchevole: non si può camminar diritto in mezzo ad una
via accalcata, senza urtare di qua e di là, dalle due parti, a destra
ed a sinistra, bianchi e neri. E questa è anzi la bellezza, questa la
fortezza della vera moderazione politica: che, mentre le parti estreme
non si propongono se non un avversario a rimuovere e combattere, la
nostra se ne propone due. Noi dunque (se mi concediate continuar a
mettere in queste cose il nome mio dopo il vostro), noi non abbiamo
raccolto qui se non ciò che seminammo; non abbiamo se non la guerra che
movemmo. Se non l’avessimo preveduta, noi avremmo avuta poca cognizione
degli affari umani; se ce ne meravigliassimo ora, avremmo senno poco
costante; se ci fermassimo o, peggio, ci arretrassimo, poco cuore.

In tutti i paesi dove duran parti (e patenti o latenti elle durano
all’età nostra dappertutto), molti sono i quali amano la patria
meno che non una frazione di essa, men che la parte o talora il ceto
proprio; molti che amano la stessa parte propria, meno che non odiano
gli avversari; molti che pretendono tutto conservare, e molti che
tutto mutare, e molti che vorrebbero non solamente conservazioni o
mutazioni, ma rivoluzioni od all’indietro od all’innanzi; e queste
stesse, men come mezzi di profitti patrii, che di propri, profitti chi
di roba, chi di gloria, chi di vendette. E a tutti questi è bello, è
santo l’opporsi di qua e di là, il porsi fortemente in mezzo, in tutti
i paesi del mondo. — Tuttavia, in quelli dove sono patenti le parti,
dove apertamente si può combattere, e per esse e contro ad esse, è
minore il pericolo senza dubbio, e per ciò la fortezza de’ moderati.
Colà essi possono colla parola, cogli scritti, colle azioni quotidiane
e pubbliche, dimostrare la sincerità e virtù della propria moderazione;
possono distinguersi da tutti quegli uomini deboli, dubbi o doppi, che
sono gl’impostori della parte moderata, il pervertimento della virtù
della moderazione; e se non possono scartar tutta la noia vegnente
loro e dagli avversari e dalla «compagnia empia e malvagia», che è in
qualunque parte, anche buona, essi possono pur prevedere non lontano
l’accrescimento, ed in ultimo la vittoria della propria. Colà essi
hanno compenso alle ingiustizie presenti, nella certa e non lontana
giustizia de’ posteri.

Ma non così ne’ paesi dove le parti latenti s’esagerano in quel
segretume, che diventa lor necessità e natura. Sotto tal velo e scudo
sorgono di qua e di là quelle, come che si chiamino, leghe difensive od
offensive, ma principalmente esclusive, che si rivolgono poi con ardore
contra a chiunque lor non si affratella e le sdegna, contro a chiunque
parla chiaro e pubblicamente; sorgono quelle purificazioni sempre
stolte anche quando son fatte dalle parti vittoriose, più stolte quando
dalle parti ancora combattenti, stoltissime quando non è instaurato
nemmeno un aperto combattimento. Qui ogni anima sdegnosa, respingendo
i segretumi, riman respinta da quasi tutti; rimane non solamente,
come altrove, poco accompagnata, ma quasi solitaria; non ha per
difendersi in suo modo aperto nè le opere, che le sono vietate sia che
soverchi l’una o l’altra parte estrema, nè le parole, che non vi son
pubbliche mai; se scrive, ella ha contra sè non una, ma due censure,
quella pubblica della parte soverchiante, e quella segreta della
parte compressa; quella che sembra voler conservar tutto, anche gli
stranieri, e quella che tutto mutare, anche gli strumenti da cacciar
gli stranieri; volendo serbarsi pura secondo la propria coscienza,
riman dichiarata impura di qua e di là; rimane quasi _exlege_, fuor
delle caste onnipotenti, senza speranza di vincere vivendo la doppia
guerra arditamente bandita, senza speranza di niuna giustizia di
posteri vicini. — Non è dubbio; in tali paesi sono peggiori che altrove
le condizioni de’ moderati; maggiori le difficoltà, i pericoli loro. E
maggiore quindi il merito, la fortezza della moderazione.

Peggio ancora ne’ paesi (come Italia) dove durando da lungo tempo
la compressione e i segretumi, le parti estreme abbian fallito più
volte l’una e l’altra nell’imprese che pretesero fare per la patria.
Allora, provata da sè, dimostrata altrui, la propria impotenza, esse
sogliono attribuirla alla patria; allora molti di coloro di qua e di
là a cui questa non diede retta, sorgono ad impedire che ella la dia
a nessuno; allora di qua e di là si rivolgono molti non solamente
contra chiunque fa o dice diverso da essi (caso consueto dappertutto),
ma contra chiunque fa o dice qualunque cosa in qualunque modo (caso
eccezionale in questi infelicissimi paesi); allora sorge e si spande
non solamente la generazione degli indifferenti (caso consueto anche
questo), ma la generazione de’ disperanti (caso eccezionale e pessimo
fra tutti). Perciocchè è vero che alcuni disperanti talor si veggono
anche ne’ paesi di parti patenti[1]; ma in quelli essi sono sempre
pochi al paragone, non si moltiplicano, non fanno schiatta; nè il
possono, spinte innanzi come sono ivi le parti dalle discussioni
quotidiane. Ma ne’ paesi di parti compresse, latenti e fallite, si
moltiplicano, di qua e di là ed anche in mezzo, i disperanti. E si
dividono e suddividono allora in generi e specie numerose. V’è quello
che si potrebbe chiamare il disperante truce; quello che ripete il
detto classico «unica salvezza essere il disperare», che si rallegra ad
ogni male sopravegnente, ad ogni nuova inimicizia, ad ogni turbamento
scoppiato, perchè son tanti passi alla desiderata disperazione
universale. V’è all’incontro il disperante languido, il quale langue a
tutto ciò che desta l’altro, a tutto ciò che desta chicchessia; langue
a tutti i fatti, a tutte le occasioni, a tutte le speranze; e quest’è
la specie più numerosa e più volgare di qua e di là. E v’è di qua e
di là il disperante importante, che della sua disperazione s’è fatta
un’autorità, una abilità, o, come si suol dire, una posizione; dalla
quale poi egli guarda di su in giù, gravemente sorridendo, a chiunque
non dispera sapientemente con esso. E vi sono i disperanti allegri, che
si dan buon tempo; e i disperanti speciali, che non veggono speranza se
non nella loro specialità (i men cattivi forse, perchè almeno operano
in essa); e perfino i disperanti pretendenti religione, pretendenti
smettere ogni pensiero della patria, verso cui è pure uno de’ primi
doveri della cristiana carità. Tutti questi insieme poi fanno una
massa, una pluralità, una generazione fatale alla nazione intiera, che
incoraggiano allo scorarsi; fatale specialmente a chiunque fa, scrive
o parla per incuorare; più fatale a chi incuora a ciò che sia da fare
moderatamente, cioè immediatamente, continuamente, universalmente. — E
in tal paese dunque è più bello che in qualunque altro il porsi forte
contro ai disperanti di qua e di là, ed anche di mezzo.

E ciò avete fatto voi, Signore ed Amico, indubitabilmente nel vostro
libro del Primato; ciò spero anch’io, or seguendovi ed ora osando
scostarmi da voi. E quindi non è la dedica, è il titolo stesso quello
che potè nuocere al libro mio; è quella parola di Speranze sollevata
contro a tutti i disperanti d’Italia. Ed io la sollevai, confesserollo,
con imprudenza compiuta; non pensai, nè incominciando, nè inoltrando,
ai disperanti. Mi rivolsi, incominciando, contra a coloro che trovan
tutto bene in Italia, e non pensai a coloro che trovano tutto male;
mi rivolsi, inoltrando, contro a coloro che han troppe speranze, e
non pensai a coloro che non ne hanno nessuna: non pensai vivesse uno
che disperasse intieramente di una nazione di venti e più milioni
d’anime in questa età progressiva, in questa operosità universale.
Stolto io! or m’avveggo, ne sono molti: alcuni alti ed altissimi,
alcuni bassi e bassissimi; alcuni dentro, alcuni fuori; alcuni bianchi,
alcuni neri; moltissimi. Delle Paure, e non Delle Speranze d’Italia,
avrei dovuto intitolare e fare il libro mio per costoro; e lusingando
negli uni la paura dello spauracchio nero, negli altri la paura dello
spauracchio bianco, avrei servito a tutte le paure; servito forse a
quelle persecuzioni ed a quegli apparecchi di vendette che sono sole ed
impotenti operosità degli uni e degli altri disperanti; servito almeno
all’ozio universale, figliuol consueto delle reciproche paure. Peccato
ch’io non abbia pensato in tempo a tutti costoro, a tutto ciò!

Ma ora non v’è rimedio: il libro è fatto, ed è lì; manifesto di
speranze moderate, co’ suoi tre capitoli rivolti contro a quelle di
tutto mutare, e co’ suoi dieci contro a quelle di tutto conservare;
ondechè il meglio che se ne possa fare oramai è compararlo, co’
manifesti delle due parti estreme. Perciocchè molti di questi furono
fatti da gran tempo; e si possono fare facilmente da destra e da
sinistra tutto dì, che che si dica in contrario. Que’ di destra si
possono fare e pubblicare più facilmente in Italia, que’ di sinistra
più facilmente fuori, che non si potè da me. Il mio libro ebbe incontro
a sè quelle due censure, la pubblica e la segreta, testè dette; mentre
i libri estremi non avrebbero se non l’una o l’altra. Ma il fatto
sta che non sono queste censure altrui l’impedimento massimo a far
libri di parti estreme; è la censura propria, è l’impossibilità di far
gravi, sinceri, leggibili o almeno durevolmente letti tali libri. Di
corsa, in segreto, tra pochi, tra consenzienti e confratelli tutto è
facile ad esprimersi, tutto facile ad esagerarsi; e l’una esagerazione
s’accavalla anzi sull’altra continuamente. Ma in iscritto, ma in
istampa, in un libro che pretenda a qualche gravità, crescono per le
mani poi le difficoltà, e talora le impossibilità intrinseche agli
scrittori estremi, ma sinceri. Ed a questi è che io dico: vogliate
prendere la penna in mano, e distribuir capitoli ed argomenti, e pesar
ragioni l’une con le altre, e cassare contraddizioni, ed aggiungere
complementi; e vedrete quali libri usciranno dalle esagerazioni, o
piuttosto vedrete che non farete libri o che vi modererete da voi.
— In tutto il corso del presente scritto io ho fatto poco conto di
letterati e di libri, e il rifò; perchè un libro è in somma poca
cosa dappertutto, pochissima in Italia, dove colle due censure un
libro di interessi italiani è ingrato a fare, difficile a pubblicare,
impossibile a diffondersi, ondechè non può avere se non effetto minimo
sull’opere nazionali. Ma i libri, inutili sempre a chi non li legge,
poco utili talora a chi li legge, hanno almeno questo di buono per chi
li fa: che non si posson fare se non più moderati di gran lunga che
non i semplici detti, e talor che le azioni; hanno questo vantaggio,
di non potersi scrivere da niun uomo sincero senza moderar le proprie
opinioni. Ei fu già osservato e detto da gran tempo: che la pratica
degli affari pubblici suol moderar gli uomini più estremi; che le
opposizioni venute al governo si moderano naturalmente. Ma la pratica
dello scrivere modera e deve moderare anche più: chi scrive non ha
nè verso altrui, nè verso la propria coscienza la scusa qual che
ella sia delle passioni momentanee[2]. — E fu pur detto che la carta
tollera tutto; ed è vero; ma quella che tollera troppo, riesce poi
intollerabile, e non è a lungo tollerata.

Ma andiamo più oltre, ed aggiungiamo arditamente che fra speranze
destre, sinistre e moderate, queste hanno pure più probabilità di
adempimento, non solo ne’ paesi dove sono costituite e patenti le
parti, ma in quegli stessi dove elle sono latenti. In politica come
in meccanica due forze perfettamente eguali ed opposte producono
immobilità senza dubbio; ma per poco che sieno disuguali, l’una avanza
moderata dall’altra, e per poco che sieno non opposte del tutto, ne
risulta in mezzo una forza diagonale. Non chiamerò a testimonianza
tutte le età, per non rifare di que’ sommari storici, in che (cedendo
forse troppo agli abiti dell’arte mia) io abbondai. Bastino pochi
esempi contemporanei, più alla mano per gli uomini di pratica, e più
convincenti per tutti. — Cinquanta ed alcuni anni fa incominciarono
in Francia le due parti estreme che volean tutto mutare e tutto
conservare, e quella di mezzo che mutar solamente il necessario. E
vinse prima quella del tutto mutare: e si mutò tutto, repubblicanamente
prima, imperialmente poi; essendo fatale che chi muta tutto sia tutto
mutato, facilmente e sovente. Poscia vinse la parte del tutto o almen
troppo conservare. Ma si tornò in ultimo al mutare ciò all’incirca che
avevan desiderato i moderati primitivi del 1789. — In Inghilterra,
già costituite e patenti e combattenti da cento anni alla medesima
epoca le parti mutatrice e conservatrice, erano molto meno estreme
tutte e due; e tuttavia anche fra queste sorse una parte di mezzo
moderatrice. E chi vinse anche là? Anche questa indubitabilmente. E
quanto alle mutazioni che pur vi si desiderano di qua, e si respingon
di là, ogni probabilità è, che elle si faranno di nuovo moderatamente.
— In Ispagna, all’incontro, dove non era stato mutato nulla da
secoli, sorsero intorno al 1809 molto estreme le due parti mutatrice
e conservatrice; tanto che non sorse o si ridusse a pochissimi scelti
(quasi a due, un Jovellanos ed un Saavedra) la parte moderatrice. E
quindi molte vittorie di esagerati si contano, o sono innumerevoli
ne’ trentacinque anni corsi d’allora in poi; tantochè quella si
potrebbe dire a’ nostri dì la terra classica delle esagerazioni e di
lor conseguenze, le rivoluzioni, le purificazioni, le persecuzioni. E
tuttavia (contro all’affettata commiserazione d’alcuni) in quel tempo
comparativamente breve de’ trentacinque anni, quella nobile e troppo
disprezzata nazione sembra giunta alla vittoria de’ moderati. Che anzi
un grande insegnamento esce da queste vicende spagnuole. Questo periodo
de’ trentacinque anni è la media contata da tutti per la mutazione
d’una generazione in un’altra; e questo è forse appunto il normale,
a compiere colla moderazione una rivoluzione incominciata dalle parti
estreme, perchè è il periodo necessario a mutar le vite, a mutar gli
esagerati primitivi in moderati nuovi, una nazione vecchia in una
giovane: chi nasce in una nazione invecchiata, è sopra ogni cosa ferito
dai vizi vecchi, e per rinnovarla vi fa rivoluzioni; ma chi nasce in
mezzo a queste, è ferito dai vizi nuovi, e le fa cessare. Noi avemmo
nomi ed imposture di giovani Francie, giovani Germanie, giovani Italie
esagerate; ma tutte queste giovani sono ora vecchie; e il progresso
naturale della nostra età fece nascere una giovine Spagna moderata.

Ma un altro esempio mi si affaccia qui così bello, che, quantunque
antichissimo, non so trattenermi dal ricordarlo per dimostrare: antico
essere questo costume della Provvidenza di mutar le generazioni per
adempiere i suoi disegni. Quando il popolo di Dio giunse la prima volta
all’orlo della terra a lui promessa, molti furono che vollero contro
ai divini cenni immediatamente progredire, e molti che, spaventati
dagli stranieri occupatori di quella terra, vollero all’incontro
indietreggiare. E i primi, acceleratori de’disegni di Dio, furono
puniti da Lui colla sconfitta; Dio parve unirsi ai propri nemici. Ma
contro ai dubitatori di sua onnipotenza e provvidenza, Dio si rivolse
in modo speciale, e, se sia lecito esprimerci così; inventò allora
questo modo, consueto poi, di rinnovar le generazioni. «Vivo Io»,
diceva divinamente eloquente il Signore: «vivo Io, e della gloria Mia
si empirà tutta la terra. Ma tutti costoro che videro la Mia Maestà e
i segni ch’Io diedi in Egitto e nella solitudine, e tentarono Me già
dieci volte, e non obbedirono alla voce Mia, non vedranno la terra
per cui giurai a’padri loro, nè la vedrà nessuno di coloro che da Me
detrasse.... In questa solitudine giaceranno i cadaveri vostri; di
tutti voi quanti siete, di venti anni e sopra, e mormoraste contra
Me.... I vostri pargoli, di cui diceste che sarebbon preda de’nemici,
questi introdurrò Io, affinchè veggano la terra che a voi dispiacque.
I cadaveri vostri giaceranno nella solitudine[3]». — Che più? Mosè,
il duce del popolo, Aronne, il gran sacerdote, che s’eran tenuti
fermi contro a quelle prime dubitazioni, dubitarono una volta della
provvidenza divina; ne dubitarono un sol momento, e così tacitamente,
che non è nemmeno chiaramente espressa nella storia! E duce e gran
sacerdote trassero pure contro a sè la medesima riprovazione: «Perchè
non fidaste tanto a Me da santificarmi dinanzi ai figli d’Israello,
non introdurrete voi questi popoli nella terra ch’Io darò loro[4]».
— L’esempio mi sarà scusato naturalmente non solo da voi, sacerdote,
a cui mi rivolgo; ma da tutti que’leggitori i quali pur credono duri
quella medesima Provvidenza; e quanto agli altri è inutile ch’io mi
scusi; siamo troppo discosti per intenderci mai.

E ritorno ai nostri tempi, alla patria. Cinquanta e più anni fa si
progrediva, si mutava troppo lentamente (a parer mio), ma in somma
moderatamente in Italia. E fatto a cui mi son riferito parecchie
volte, e che è ad ogni modo incontrastabile a chiunque abbia qualche
memoria o lettura del secolo scorso. Di fuori ci vennero le due parti
estreme, del tutto mutare, e del tutto conservare; nativa italiana è la
sola parte moderata; e ciò è naturale, perchè l’Italia è antica, è la
primogenita tra le nazioni moderne in quella civiltà, che è sopra ogni
cosa moderatrice. Ma mosse di fuori, soverchiarono le due parti estreme
a vicenda per molti anni; sieno trenta o quaranta, che non mi fermerò
a disputare; ma in somma da dieci o quindici o più, è innegabile la
ripresa delle mutazioni lente (troppo lente e troppo poche pure,
a parer mio), ma ad ogni modo reali e moderate; ed è innegabile
l’accrescimento che si fa della parte moderata a spesa e diminuzione
delle due estreme. — Lasciamo dire, lasciamo tentar di fare. Anche qui,
anche nella misera e dipendente Italia vien meno la generazione degli
esagerati, sorge dopo una giovine Italia esagerata, una più giovane
moderata.

E quindi anche qui, a malgrado gli svantaggi e gli accoramenti
presenti, può, deve sorgere a’moderati una speranza di giustizia
ultima, più o men lontana. Saranno essi ascoltati? riusciranno a
distorre la patria da quelle due male vie che conducono del paro
a rivoluzioni, e quindi inevitabilmente a delitti, vergogne e
danni? Allora que’ moderatori che abbiano dinanzi a sè una vita
sufficientemente lunga, vedranno forse sè stessi giustificati come
accennatori della buona via da’contemporanei riconoscenti; ed essi e i
troppo vecchi morranno almeno colla certezza d’essere così giustificati
da’posteri. — Non saranno eglino all’incontro ascoltati, seguiti? Le
esagerazioni originariamente straniere riprenderanno elle forze da
noi? Allora, oh allora sì, più certamente che mai, i loro nomi saranno
giustificati pur troppo da’rincrescimenti, da’ patimenti di coloro che
patiranno or nell’una, or nell’altra delle due male vie. — Quale delle
due giustificazioni è più probabile? Se guardiamo al passato, certo
l’ultima ed infelice; se al progresso presente, universale ed italiano,
forse la prima e felice. Ma pronta o tarda, felice od infelice, la
giustificazione de’moderati è immanchevole anche in Italia.

Cioè a coloro che si sieno assicurati l’attenzione dei posteri.
Perciocchè, guai ai poco attesi; meglio era per loro essere
dimenticati. Chi non fa nulla ed è dimenticato, non ha almeno bisogno
di giustificazione; ma chi fa poco, ed oscuramente, sia scrittore,
uomo di stato o principe, egli avrebbe bisogno di giustificazioni
sovente, e negletto, non le suole ottenere. Una grande azione o almeno
un grande scritto si vuole aver fatto, o almeno una grande ingiustizia
sofferta, per isperare attenzioni e giustificazioni da’posteri. E voi,
Signore ed Amico, vi siete già assicurata tale attenzione co’vostri
lavori filosofici e co’politici, e principalmente (se mi concediate
scegliere tra’vostri scritti) con quella _Teorica del Soprannaturale_,
di che avete dimostrata la necessità nella filosofia, e con quel libro
su’destini di Italia, che aprì una carriera nuova di moderazione
politica agli scrittori italiani. E voi siete de’maggiori e più
generosi di quella letteratura italiana esterna, che mi pare una delle
più vicine e più feconde speranze italiane; ondechè siete voi stesso
una di queste nostre speranze. E voi, giovane e forte ancora, avete,
così Dio voglia, lunghi anni da emulare e superare voi stesso; e così
(se di nuovo mi facciate lecito esprimervi un voto di molti amici
vostri), così lasciando i vostri avversari, voi vogliate rivolger
tutta a nostro pro quella vostra forza e potenza. E ad ogni modo, e per
quel che farete, e per quello che avete fatto, non può mancare a voi
morto la gloria, a’voi morente la coscienza d’aver bene e grandemente
operato per la patria. — Vecchio combattitore di parte moderata, e per
ciò appunto cacciato già dalla vita attiva, ed entrato tardi in quella
di scrittore, io non lascerò nome che giunga al tempo della tarda
giustizia. Ma che importa, se avrò anch’io, a difetto del talento,
moltiplicato l’obolo commessomi? se avrò recato, secondo mie forze,
un sasso all’edifizio, un rivo al fiume, un seme al campo? se avrò la
coscienza che quel sasso è «tetragono», quell’acqua è limpida, quel
seme non è di danni, infamie o delitti alla patria nostra?

Del resto, ho parlato qui di quelli fra gli avversari vostri e miei,
che sono avversari della moderazione politica in generale; perchè mi
parve degno assunto da trattare in capo a un libro fatto appunto per
istudiare in che stia ora da noi questa moderazione. Ma di rivolgermi
poi agli avversari particolari del libro mio, alle critiche più o men
generose mossemi, io non mi sento nè voglio farlo; salvi pochi luoghi
ove il pensier mio mi pare gravemente alterato, e dover restituirlo. E
queste stesse risposte ho fatte in note a’lor luoghi, affinchè sien men
noiose a chi voglia pur leggerle; ovvero, anche meglio, sien facilmente
tralasciate. — Andiamo avanti, anzichè tornar su’nostri passi;
non rimaneggiam le idee già espresse, cerchiamone piuttosto delle
ulteriori; ed anzichè disputare, correggiamo ed accresciamo. Ciò ho
tentato fare nella presente edizione. Così possa ella aggiugnere a quel
poco di bene che voi ed alcuni altri buoni speraste dalla prima. — Uno
di questi ne giudicava già colle poche parole: _Gutta cavat lapidem_.
Io accetto il giudicio e l’augurio; e continuo.

  5 luglio 1844.




OCCASIONE DI QUESTO SCRITTO


§ 1.º Come il sanno oramai tutti i colti italiani e non pochi
stranieri, il Gioberti è uno de’ filosofi principali della Cristianità.
Fattosi conoscere ed ammirare a un tratto colla _Teorica del
soprannaturale_, egli pubblicò successivamente parecchie altre opere,
con quella fecondità che è prima virtù e primo segno di grandezza. E,
filosofo cattolico, egli è uno de’ maestri senza dubbio (giudichi altri
de’gradi) in quella scuola italiana che si distingue dalle simili per
una cattolicità, una teologia più esatta o sola esatta. — Ma l’assunto
mio non è filosofico. Il Gioberti, abitatore di paesi stranieri,
aveva da questa sua situazione una libertà di scrivere che non è
nella penisola italiana. Ed il Gioberti non era uomo da non valersene.
Italiano sviscerato, e, se fosse lecito dire, esagerato, frammischiò
in tutte le sue speculazioni di filosofia non poche considerazioni di
storia, ed anche di pratica italiana; e, lasciando ora, non il genio,
ma la forma filosofica, facendo di ciò che era accessorio nell’altre,
assunto principale di una nuova opera sua, ei ci ha dati testè due
importantissimi volumi _Del Primato morale e civile dell’Italia_.

§ 2.º Questo titolo è molto indeterminato. Di qual primato vuol parlare
l’autore? Di quei due che furono tenuti già dall’Italia romana e
dall’Italia del medio evo tra il secolo XI e il XVI? Ma questi sono
noti e conceduti da tutti gli uomini di qualche coltura; nè, spogliati
di narrazione e ridotti a discorso, sarebbero stati degno assunto del
potentissimo scrittore. — Ovvero, il primato rivendicato sarebb’egli
uno presente? Ma questa sarebbe illusione così contraria pur troppo
ad ogni fatto, che niuno amor patrio, per quanto accecato egli sia,
non se la può fare; ondechè nemmen questo non sarebbe stato assunto
concordante coll’incontrastabile sincerità dell’autore. — Quindi fin
dal titolo, il leggitore entra naturalmente in pensiero, che il primato
così asserito da tale scrittore sia piuttosto un primato futuro,
in potenza, in isperanza, e da procacciarsi per opera di coloro che
tengono in mano i patrii destini. E tale mi pare in fatto il primato di
che si discorre nella parte incomparabilmente maggiore dell’opera[5].

§ 3.º E quest’è che distingue l’autore da quel volgo o gregge di
scrittori i quali assonnan l’Italia, rimescolandole passato, presente
e futuro. Del passato, dei due primati veri e certi di lei, costoro
le parlano a quella guisa che i servi adulatori a’nobili e degeneri
padroni; vantando le glorie antiche quasi presenti, le azioni degli
avi quasi dispensa d’azione ai nepoti, la nobiltà quasi non memoria,
ma eredità dì virtù. Non contenti delle glorie vere, costoro ne
inventano delle false; perchè, a modo d’ogni avvilito piaggiatore,
o non capiscono le prime, o sanno di farsi più merito colle seconde.
Così è, che all’Italia, dominatrice già di tutto il mondo occidentale,
riunitrice di tutte le maggiori civiltà antiche, serbatrice poi delle
reliquie di esse, centro predestinato della religione cristiana,
ordinatrice prima e rinnovatrice poi della disciplina ecclesiastica,
rinnovatrice ed accrescitrice dei Comuni, rinnovatrice della civiltà
e di tutte le colture, all’Italia, scopritrice dell’Asia Orientale
e dell’America, all’Italia, madre, oltre ai Latini, di Gregorio VII,
di Marco Polo, di Dante, di Raffaello, di Michelangelo, di Colombo,
di Galileo e di Volta, costoro vanno dissotterrando tuttodì non so
quali glorie ignote, non so quanti grandi uomini oscuri, non so quali
disputabili princìpi di qualsivoglia scoperta straniera. — Peggio assai
quando costoro toccano al presente. Qui è il campo degli adulatori;
qui versano consolazioni, incoraggiamenti agli ozi, ai vizi, al beato
far nulla, al far male. Non siamo noi felici, operosi, gloriosi quanto
ogni altro? Quai campi più colti, quali città più crescenti, quali
popoli più sapienti o più virtuosi, quali aure (perciocchè del clima
stesso fan meriti), qual clima, qual cielo, qual paradiso? Quante
opere soprattutto e quanti uomini utili, grandi, immortali? I quali si
ringrazino dunque e si benedicano essi prima a essersi fatti immortali:
ma se ne ringrazino poi anche il principe, i mecenati, il buon popolo,
il paese, tutti quanti. Chiaro è: non è nulla da fare, nulla da rifare
o mutare; nulla se non vivere gaudenti. — E chiaro è massimamente
poi: non è da far nulla per il futuro. Anzi, di questo, meglio è non
parlare, non fiatare, non nominarlo. Chi ne parla, chi vi fruga, chi ne
spera o teme o s’inquieta, è uomo inquieto, pericoloso, perseguitabile,
sotto i nomi nefandi di progressista, liberale, rivoluzionario e
repubblicano.

§ 4.º A chiunque abbia per poco conosciuto o letto il Gioberti, non
è mestieri dire che egli è scrittore opposto a costoro. Non entro a
cercare s’ei distingua sempre con sufficiente precisione il passato,
il presente e il futuro italiano; se nel suo labile argomento egli
eviti sempre la esagerazione delle lodi; se le témperi colla virile
comparazione dei biasimi; se, virile uomo quanti altri mai, ei
sia sempre virilmente severo, come quei Dante ed Alfieri, da lui
meritamente lodati. Quando il Gioberti fosse caduto in questi ed
altri difetti, essi sarebbero un nulla rispetto ai meriti. E non dico
de’letterarii, non della lingua facile e pura di tutte le pedanterie,
non della ammirabile eloquenza, nè della sapienza; il merito sommo
di lui è l’aver parlato di quel futuro della patria, di che tanto si
parla in altre patrie, di che tanto si tace nella nostra; d’averne
parlato, egli apertamente, egli più grandemente e più moderatamente
che nessuno de’predecessori; ondechè, contro all’aspettazione forse
di alcuni derisori, ne parlò egli filosofo, in modo molto più pratico,
che non fecero que’ pochi storici od uomini pratici, i quali toccarono
timidamente il pericoloso assunto. Questo fa del libro di lui più
che un libro, un’azione; ed un’azione che non può se non giovare
alla patria. Il tema è oramai riaperto. Seguiranno altri, criticando,
correggendo; scemando, ampliando. Il tema sarà sempre stato riaperto
da lui; le discussioni non faranno se non aggiungere al merito ed
all’utile di colui che lo trattò in modo da metterlo in mente e in cuor
di tutti.

§ 5.º Io non sono se non uno di questi che verranno, così voglia
Iddio, numerosi sulle pedate del Gioberti. Se così fo, egli è perchè,
consentendo in grandissima parte co’ pensieri di lui, pur mi scosto o
mi pare scostarmi da parecchi, che sono o mi paiono importanti alla
nostra patria comune. Se la gravità dell’argomento potesse lasciar
luogo qui alle vanità letterarie, io non vorrei correre nè il pericolo
di essere confrontato, nè quello d’essere contraddetto da uno scrittore
così potente. Ma da ogni confronto spero mi salvino la forma e la
mole stessa del mio scritto; e quanto alla contraddizione, ella mi
si rivolgerebbe in onore scendendo da uno scrittore maggiore. — Del
resto, attendendo io a discutere le opinioni pubbliche diffuse nella
patria nostra, anzichè non quelle personali del Gioberti o di nessun
altro, se nominerò lui più che altri, egli è perch’ei mi pare scrittore
più importante; ma nol nominerò nè dappertutto dove abbiamo pensieri
comuni, nè dappertutto dove diversi; ondechè io prego i leggitori di
non applicare a lui niuna critica dov’io nol nomini, siccome quella
la quale o non volli applicare a lui, ovvero applicherei con riserve e
spiegazioni, nelle quali non posso entrare in così breve scritto.

§ 6.º Niuna patria è più amata che la nostra da’ figliuoli. Ma, colpa
delle rare e difficili discussioni degli interessi di lei, colpa del
non poterci intendere, niuna è forse più diversamente amata; ed è
grande sventura. Non perdiamo il tempo almeno in discussioni, nomi
ed interessi personali. E del resto, qualunque protesta mia d’avere
scritto con animo libero, ma moderato, d’aver cercato il ben della
patria, ma non il mal di nessuno, nemmeno degli avversari di lei,
sarebbe inutile qui a chi non abbia letto; e non sono senza speranza
che abbia ad esser anche più inutile poi, a chi avrà letto con pari
intenzioni.




DELLE

SPERANZE D’ITALIA




CAPO PRIMO.

L’ORDINAMENTO POLITICO PRESENTE DELL’ITALIA NON È BUONO


1. Io parto dal fatto che l’Italia non è politicamente ben ordinata,
posciachè ella non gode tutt’intiera di quello che è primo ed
essenziale fra gli ordini politici, quello che anche solo procaccia
tutti gli altri buoni necessarii, quello senza cui tutti gli altri
buoni son nulli o si perdono, la indipendenza nazionale. Se tal fosse
fra’ miei leggitori, a cui l’arguzia dell’ingegno, l’abito soverchio
del distinguere, o qualunque altro più o men sincero motivo persuadesse
che l’Italia ha quest’indipendenza politica; ovvero che senz’averla
ella possa essere e dirsi ben ordinata, tant’è ch’ei non continui.
Questo scritto si appoggia tutto sulla incontrastabilità e sulla
importanza di quel fatto; non si rivolge se non a coloro che prendendo
la parola d’indipendenza nel senso comune, accettato dentro e fuori,
credono che una gran parte d’Italia non l’ha; e che una nazione di cui
gran parte non l’ha, non è nè può dirsi politicamente ben ordinata.

2. E continuando dunque con questi, osserverò soprabbondantemente:
che la dipendenza di una provincia nostra dallo straniero, non
solamente distrugge ogni bontà, ogni dignità dell’ordinamento in quella
provincia; ma guasta, fa men degni gli ordini dell’altre provincie; non
lascia compiutamente indipendenti nemmeno i veri stati, i principati
italiani. Gli esempi di ciò sarebbero facili a darsi, e moltiplici; ma
forse noiosi ed odiosi. Ed io me ne rimetto a tutti gli Italiani, e più
ai più informati, a quelli che son più su ne’ segreti e nelle pratiche
de’ nostri governi. Niuno di essi negherà che nei disegni, nei fatti,
sovente nelle massime, talor nelle minime azioni governative, si senta,
sia grave, sia più grave che qualunque altra potenza straniera, quella
che signoreggia una provincia italiana. Non parlo di forme, e nemmeno
di trattati; i quali so che riconoscono le nostre indipendenze come
assolute. Ma non son eglino altri trattati che le infermino? E dove non
sien questi, non è egli il fatto, l’abito, la prepotenza inevitabile
nelle discussioni tra più e men forti? Ma, non che contraddirmi,
io credo che questi uomini di governo sorrideranno, e fors’anco si
sdegneranno che facciasi questione di ciò che è difficoltà: scusa
loro quotidiana e grande; che non si tenga conto di lor condizione,
la quale implica scusa di ciò che non fanno, lode di ciò che riescono
a fare, ingiustizia in chiunque li giudica senza tenere tal conto.
In tutti i paesi, in tutte le età del mondo, noi governati parlammo,
giudicammo de’ governanti; or tanto più che se ne parla e giudica
pubblicamente in molti paesi; e molto più male ne’ paesi dove non se
ne parla così. Se fosse una pubblica tribuna in Italia, il primo che
vi salisse, vi salirebbe probabilmente ad accusare i nostri governi; ma
il secondo a scusarli colla dipendenza, in mezzo a cui essi vivono. Ed
ho fede nel senno italiano, che, ammessa in generale tale scusa, non
si disputerebbe d’altro se non del sapere se sia sufficiente in ogni
caso particolare. Finchè non è discussione pubblica, è naturale che si
passi da molti il segno della critica; è naturale, dico, nel volgo; ma
non ne’ mediocremente informati e che vogliano esser retti. Questi non
hanno scusa mai, di non ammettere, di non cercare essi stessi le scuse
altrui.

3. Nè voglio entrare nell’altra trista e lunga enumerazione di quegli
impedimenti a’ nostri commercii, alle nostre industrie, alle nostre
arti, alle nostre lettere, a tutte le operosità anche private, che
vengono dalla dipendenza diretta di una gran provincia, dalla indiretta
de’ principati d’Italia. Non è peggior impegno che volere spiegare a
chi non vuole intendere, o a chi intende e non conviene; e chi intende
ed è sincero sa molto bene che nelle nazioni come negli uomini non
suole esser compiuta operosità, senza compiuta indipendenza. — Non
darò dei danni della dipendenza se non un esempio. Il papa è papa, e
sarà papa non solamente durante la preponderanza austriaca presente, ma
quand’anche questa s’accrescesse e diventasse usurpazione universale,
come furono quelle di Napoleone e di alcuni imperadori del medio evo.
Ma finchè dura quella preponderanza, finchè il papa principe italiano è
sotto la dipendenza dell’Austria più che di Francia, Spagna, Portogallo
o Baviera, grandi potenze cattoliche, e più che d’Inghilterra, di
Prussia o d’altre potenze non cattoliche, non è dubbio che il papa non
può fare il papa così bene, come farebbe se avesse nome ed effettività
di principe del tutto indipendente; non è dubbio che non può fare il
capo spirituale effettivo della Cattolicità, il capo in isperanza
dell’intiera Cristianità, così felicemente, come farebbe se ogni
governo, cattolico o non cattolico, fosse persuaso della compiuta
indipendenza, della probabile imparzialità di tal capo. Certo in ogni
caso, quali che sieno i decreti della Provvidenza, ogni buon cattolico
tiene il papa per papa; non può essere quistione di ciò. Ma può
essere: quanti buoni cattolici saranno in tale o tal caso? E posta la
questione, se sian probabili più numerosi cattolici nel caso del papa
tenuto per indipendente, o del papa tenuto per dipendente, non parmi
che lo scioglimento sia dubbio; ognuno risponderà: certo più nel caso
che il papa sia indipendente.

4. Ma io mi vergogno di trattenermi in siffatte generalità; d’aver
fatto un capitolo quantunque breve sur una proposizione così ovvia e in
che convengono tutti. Ed io dico che in essa convengono non solamente
i governati che criticano bene o male, e i governanti ingiustamente o
giustamente criticati dei principati italiani, e tanto più i sudditi
degli stranieri; ma dico che vi convengono pure gli stessi stranieri
signoreggianti, quanti sono fra essi di qualche buona fede, di qualche
buon giudizio; e più i più alti, anche qui. Questi stranieri di
alto affare, questi uomini di stato dell’impero austriaco sono nella
medesima condizione che quegli uomini di stato francesi ed inglesi
i quali continuamente e dalle loro pubbliche tribune professano
di attendere agli interessi loro nazionali sopra tutti gli altri,
ma che pur mostrano d’intendere molto bene anche quelli dell’altre
nazioni, e scusano od anzi approvano ciascuna di promuovere i proprii.
Gli uomini di stato austriaci professano il medesimo, benchè non
da una pubblica tribuna, che non hanno; il professano come possono
privatamente; veggono quant’ogni altro, più forse che ogni altro,
il non buono ordinamento della penisola italiana; ma, ministri dello
stato austriaco, tengono primi i loro doveri austriaci, e provvedono al
mantenimento della grandezza della potenza austriaca. E, siamo giusti
se vogliamo essere utili: essi hanno ragione; può esser questione
del modo di adempiere tal dovere, non, che sia dover loro. Ma insomma
anch’essi, a modo loro, convengono nella proposizione troppo ribattuta
oramai: che l’ordinamento politico dell’Italia non è buono per
l’Italia.




CAPO SECONDO.

DI QUATTRO ORDINAMENTI SPERATI — E PRIMA DEL REGNO D’ITALIA


1. E quindi ei parrebbe a cercare prima, come rimuovere il vizio
manifesto dell’ordinamento presente. Ma, questo sarebbe procedere a
modo de’ sovvertitori di tutti i tempi; i quali di qualunque cattivo
ordinamento s’adirino, non pensano se non a sovvertirlo, senza aver
pensato prima all’ordine nuovo che avranno a porre in vece. La massima
contadinesca di non mettere il carro innanzi a’ buoi, è buona a
seguirsi, principalmente in politica: ei si vuol pensare a’ conducenti
prima che al carro condotto; e quindi all’ordine nuovo da stabilirsi,
prima che al vecchio da abbandonare, allo scopo cui arrivare, prima che
alla via da scegliere.

2. Ma lasciamo le idee, i disegni, le speranze troppo antiche:
il principe di Machiavello, il papa de’ Guelfi, l’imperator de’
Ghibellini, e la monarchia di Dante. Tutti questi furono poco più che
sogni a’ loro tempi, ed or sono sogni antiquati. Volendo fermarci a
sogni, parliamo di quelli dei nostri dì. Non risaliamo oltre al 1814;
ci basterà e soverchierà, anche ridotto così l’argomento. — Io crederei
che il primo e più frequente sogno fatto intorno a quell’epoca sia
stato quello d’una monarchia comprendente tutta la penisola, d’un
_Regno d’Italia_. Nome e idea erano conseguenti a tutto ciò in mezzo
a cui eravamo stati allevati. Il più potente uomo di nostra età (e
di molte altre) aveva anch’egli fatto un gran sogno della monarchia
universale, un sogno minore del regno d’Italia. Chè anzi questo
esisteva già di nome, in cominciamento: eravi un regno d’Italia,
corrente dall’Alpi agli Abbruzzi, e comprendente così quasi tutta
la penisola orientale. — A che tal forma, informe, longitudinale,
lunga e stretta? Io non credo che il possa dire nessuno, nemmeno dopo
aver letto ciò che ne dice Napoleone ne’ suoi dettati di Sant-Elena.
Tutto ciò è una solenne impostura. Che l’Italia s’avesse a tagliare
in lungo e non in largo, e dividerla per educarla ad unità od a non
so che, sono sofismi tali, che non potevano venire in capo se non a
chi, avvezzo a tiranneggiare coll’opera, sperava tiranneggiare collo
scritto; non pensando che, se là giova la forza, qua non serve se non
la ragione. Io crederei che se Napoleone sognava una riunione d’Italia,
ei sognasse quella all’imperio francese; che il suo regno d’Italia
fosse destinato a sorte pari a quella del suo regno d’Olanda, e Napoli
a quella d’Amburgo; che quell’ordinamento napoleonico d’Italia non
fosse in somma se non ciò che chiamavasi nella lingua franca allor
corrente, _una organizzazione interinale o provvisoria_. — Ma ad ogni
modo n’eran rimasti il bel nome, la bella idea di un regno d’Italia.
Il napoleonico era stato parziale, e manco male, il nuovo sognossi
intiero; il napoleonico era stato dipendente, e manco male, il nuovo
sognossi indipendente; il napoleonico era stato sotto un principe
straniero, e il nuovo sognossi sotto uno nazionale, o che diventasse
nazionale, qualunque fosse, o, per servirci della frase allor volgare,
«fosse il diavolo» purchè fosse re d’Italia. E fu sognato di siffatto
regno da non pochi. Prima da Gioachino Murat e suoi partigiani nel 1814
e 1815; e quasi nel medesimo tempo da’ Milanesi sollevati il dì della
morte di Prina, e dai deputati che furono mandati a Parigi; poi, da
altri congiurati del 1815; poi, da tutti quelli del 1820 e 1821. E ne
fu sognato allora e poi, non solo da congiurati e società segrete, ma
da uomini di governo e di stato; e non solamente da quelli che ebber
nome di amici, ma da quelli che l’ebbero di nemici a siffatte novità.
Nè di tuttociò mancheranno agli storici futuri citazioni e documenti.
Ma io scrivo a’ contemporanei; i quali sanno quanto o meglio di me,
che il sogno del regno d’Italia fu se non universale, molto frequente a
quell’epoca.

3. E che fosse sogno basterebbe forse a dimostrarlo, il fatto che non
s’effettuò. Accenniamone tuttavia le ragioni, chiare ora. Principi,
uomini di governo, popolani, congiurati, e sudditi varii, volevano
il regno, ognuno a modo suo: i congiurati, i popolani non tanto il
regno, quanto gli ordini sognati liberi nel regno sognato, un sogno
allora aggiunto all’altro, la libertà all’indipendenza. I principi
avrebbon voluto indipendenza, ma non guari libertà. I grandi, nobili,
ricchi, notabili d’ogni maniera volevano aristocrazie; i non distinti
per nulla, democrazie, secondo il solito. E secondo il solito Napoli
s’avventava; e contro al solito Milano aspettava, Torino si muoveva;
con una differenza, un disaccordo di mosse, da far presagire un
disaccordo anche maggiore di scopo, quando fosse venuto a palesarlo
ciascuno. Ed Austria era lì a valersi del disaccordo; Francia non v’era
ad opporsi; Inghilterra ed altri non se ne curavano. Gli assennati
l’avevan preveduto; alcuni generosi si eran sacrificati; molti
ambiziosi s’eran perduti. E n’erano usciti grandi insegnamenti, non
nuovi per vero dire, ma sempre utili a ritrovare: che non si debbono
frammischiar le imprese di libertà e d’indipendenza; che questa deve
passare prima di quella, e sopra tutto che il regno di Italia è cosa
impossibile in tanta varietà di opinioni, di disegni, di provincie.

4. Del resto, fatti antichi e ragioni perpetue concordano a ciò
provare. Niuna nazione fu riunita in un corpo men sovente che
l’italiana. L’Italia anteriore a’ Romani fu divisa tra Tirreni, Liguri,
Ombroni, Fenici, Pelasgi, Greci, Galli e forse altre genti, concorse
nella nostra penisola, occidentale rispetto al mondo d’allora, a
quel modo che si concorse poi nell’America moderna, o si concorre ora
nell’Oceania. — I Romani riunirono sì la penisola a poco a poco, ma
posero a ciò non meno tempo che a conquistare l’intiero mondo lor noto;
la conquista de’ Salassi fu l’ultima fatta da Augusto prima dì chiudere
il tempio di Giano, prima di fermare i limiti, e lasciar come _arcano
d’imperio_ il non oltrepassarli. Ei non fu dunque, se non insieme con
tutto un mondo, che l’Italia rimase riunita sotto l’Imperio. E così poi
di nuovo, insieme con molte altre provincie, sotto Teodorico, per una
trentina di anni. E quindi, se si voglia parlare d’un regno d’Italia
propriamente detto, dell’Italia riunita in sè senz’altre appendici,
non se ne troverà in tutta la storia se non un esempio, intermediario
tra la distruzione dell’imperio e Teodorico, un periodo di tredici o
quattordici anni sotto Odoacre. Dopo Teodorico l’Italia si ridivise
tra Goti e Greci: i Greci la riunirono per altri dieci anni; ma come
provincia di lor imperio lontano. Poi fu divisa tra Greci e Longobardi;
poi tra Longobardi Beneventani, Franchi e Greci; poi tra Beneventani,
Imperatori Franchi, Borgognoni, Tedeschi o Italiani, Saracini e papi;
poi tra Sassoni, Beneventani, Saracini e papi; poi variamente ad
ogni anno, ad ogni mese, tra imperatori, papi; comuni guelfi, comuni
ghibellini, Normanni, Angioini, Aragonesi; poi tra Francia ed Austria
e stati come poterono indipendenti; poi Spagna e stati; poi Francia,
Austria e stati; poi Francia sola, e residui di stati; ed ora Austria e
stati. Io non so per vero dire qual possa dirsi sogno politico, se non
dicasi questo: d’un ordinamento, che non ha nella storia patria se non
un esempio di quattordici anni, e che non sarebbe se non restaurazione
di un regno barbaro di millequattrocento anni fa.

5. Ma si potrebbe fare ciò che non si fece mai, diranno gl’immaginosi.
— E risponderanno coloro che per parlar di cose future vogliono partire
almeno da fatti presenti: Torino, Milano, Firenze, Roma, Napoli,
Parma e Modena sono sette città capitali al dì d’oggi (senza contar
Lucca, destinata a riunirsi con Toscana); in sei di quelle regnano
sei principi; ed uomini, città o stato non diminuiscono di condizione
mai se non per forza, non mai per accordo, di buon volere, nè per uno
scopo eventuale. Sogno è sperar da una sola città capitale, che voglia
ridursi a provinciale; maggior sogno che sei si riducano sott’una;
sogno massimo che s’accordin le sei a scegliere quell’una. — E tanto
più che ciò non è desiderabile, nè per le sei sceglienti, nè per l’una
prescelta, nè per la nazione intiera. Si grida in tutt’Europa (bene o
male, non importa), si grida ora quasi unanimemente dappertutto contro
alle grandi capitali, contro a ciò che si chiama centralizzazione de’
governi, degli interessi, delle ricchezze, contro alla spogliazione
delle provincie. E chi ha sette capitali si ridurrebbe a spogliarne
sei a vantaggio d’una? Lo sperarlo sarebbe non più sogno, ma pazzia;
sarebbe un voler fare all’opinione ciò che è più contrario all’opinione
presente; ciò è impossibile quanto evitabile, evitabile quant’è
impossibile; è, diciam la parola vera, puerilità, sogno tutt’al più da
scolaruzzi di retorica, da poeti dozzinali, da politici di bottega.

6. E poi, quando non fosse sogno per tutte queste ragioni, tal
rimarrebbe per quest’una. Che diventerebbe il papa in un regno
d’Italia? Re esso? Ma ciò non è possibile, non si sogna da nessuno.
Suddito? Ma allora sì, che ei sarebbe dipendente; e non solo come al
peggior tempo del medio evo, suddito dubbioso del monarca universale,
ma suddito certo d’un re particolare. Ciò non sarebbe tollerato dalle
altre nazioni cattoliche; non sarebbe dalle stesse acattoliche;
ciò anderebbe contro a tutti gl’interessi, tutti i destini della
Cristianità, ciò non sarebbe tollerato da una parte della nazione
stessa italiana, che nol tollerò nel medio evo. E v’ha chi dice che ciò
fu male, e chi che ciò fu bene. Io dico che ad ogni modo ciò fu, ciò
sarebbe in simili occasioni; ondechè il tentarlo o solamente proporlo
sarebbe dividere e non riunire la nazione nostra, sarebbe quindi non
migliorare, ma peggiorare le nostre condizioni. — Ed io mi vergogno
d’aver fatto un altro capitolo inutile.




CAPO TERZO.

DI UN REGNO D’ITALIA AUSTRIACO


1. Ed io sono per farne uno, che spero sia il più inutile di tutti.
Ma volendo noverar tutti i sogni moderni fatti sull’Italia, accennerò
anche questo; il quale del rimanente non è se non una modificazione di
quello testè detto. — Alcuni sono così innamorati del regno d’Italia,
che vorrebbero vedere tutta la penisola soggiogata agli stranieri i
quali ne tengono una parte; colla speranza, che così riunita, ella
fosse per liberarsi poi tutta da sè, ovvero (non avendo io verificato
qual dei due si speri più) che ella sia liberata spontaneamente dagli
stessi stranieri.

2. Questo è sogno rinnovato dall’antico ghibellino. E quindi io
chiamerei neo-ghibellini siffatti sognatori; se non che nè essi, nè
i Neo-Guelfi, nè in generale le parti e le condizioni politiche da
gran tempo cadute e mal cadute, non si restaurano. Il sogno ghibellino
non s’effettuò, nemmen quando l’Italia era abbandonata a Germania
da tutte le altre potenze cristiane; quando Germania era tenuta
per posseditrice legittima d’Italia, e Italia scotente il giogo,
per provincia sollevata: quando non uno o due scrittori, non alcuni
congiurati, non alcuni impazienti, ma quasi tutti i principi, e la
buona metà dei popoli nostri eran ghibellini; quando rimaneva talor
sola a propugnar l’indipendenza or Milano, or Alessandria, or Ancona,
più sovente Firenze o Roma; ondechè non è probabile nè possibile che
riesca il sogno neo-ghibellino, ora che ha ed avrà contra sè tutti i
principi italiani, tutti i popoli loro, e della provincia straniera,
e poi Francia, Spagna, e Germania stessa, ed intiera la Cristianità.
Il neo-ghibellinismo è una illusione o delusione simile a quella di
tutti i sovvertitori, quando vogliono sacrificare il presente al
futuro. Il Gioberti è ammirabile in questo particolare, e sarebbe
tutto danno mio il voler insistere su ciò che è così ben provato da
lui: che le rivoluzioni imaginate da’ pochi non si fanno da’ molti; i
quali non ne fanno mai se non per oltraggi presenti e gravissimi. Ma
fra le rivoluzioni non fattibili, la men fattibile fu sempre quella che
sacrifichi l’indipendenza presente per una eventuale. Lo sanno adulti e
bambini, che ciò che si prende non si rende, se non per forza; ondechè
la proposizione del lasciar prendere sulla speranza che sarà reso, è,
a malgrado di qualunque gran nome bene o male invocato di Napoleone,
Machiavello o Dante, proposizione da uomini rimbambiti oltre il
bamboleggiare dei bimbi. — Ma aggiugniamo per amor di giustizia verso
l’età nostra progredita, che tal sogno non è fatto oramai se non da
pochissimi Italiani, e non è nemmen sogno de’ nostri signori stranieri.
Il neo-ghibellinismo non è, che io sappia, nè proposto, nè promosso, nè
accettato, nè sofferto nemmeno da niuno di essi; se non sia stato forse
da qualche capitano di bersaglieri di presidio in qualche terricciuola
di Romagna, e divisante col capo-popolo di colà sulle sorti italiane
future.

3. Non credendo io nè buona nè possibile nella storia l’imparzialità
tra coloro che fecero meglio o peggio in ogni età, se io scrivessi
storie italiane del medio evo, io starei molto più sovente per li
Guelfi, che mi paiono (a malgrado i loro numerosissimi errori) la parte
senza paragone migliore, più assennata, più politica, più virtuosa,
più italiana. Se fosse possibile che si restaurassero mai parti simili
in Italia, che i nomi di neo-guelfi e neo-ghibellini si avessero ad
applicar non ad alcuni sognatori solamente, ma a due parti combattenti
in Italia; io vorrei, secondo il precetto antico, combattere per la men
cattiva, e combatterei per la neo-guelfa. Ma prego Dio che ci salvi da
queste stoltezze di più; ed ho fermissima fiducia che ce ne salverà;
non veggo possibilità nè all’adempimento di tali sogni, nè alla
formazione di tali parti; non veggo di qua come di là, se non rari ed
impotenti sognatori. Guardiamoli e passiamo[6].




CAPO QUARTO.

DELLE REPUBBLICHETTE


1. Temo sia molto più diffuso quest’altro sogno tutt’opposto: lasciarsi
dividere la penisola in una moltitudine di tanti stati popolari,
quanti ne risultassero di mezzo ad una sollevazione d’Italia. Fu sogno
di coloro che il buono e sincero sognatore Carlo Botta[7] chiama gli
_utopisti_ del nostro secolo incipiente; fu, od apparve, sogno de’
sollevati romagnoli del 1830, dei congiurati con essi, e di quelli che
chiamaronsi Giovine Italia.

2. Sogno di stolte restaurazioni anche questo! sogno partorito dalla
monomania greco-romana che corse tra gli anni 1790 e 1800; sogno
fomentato dalla monomania del medio evo, che corse tra gli anni 1814
e 1830; monomanie, fissazioni, mode, serbate, come avviene troppo
sovente, in Italia, quand’erano già vilipese e derise altrove. Le
repubblichette italiche e greche dell’antichità, le repubblichette
italiane del medio evo furono l’une e l’altre molto belle e buone a’
lor tempi; furono l’une e l’altre princìpi di due magnifiche civiltà.
Ma progredite queste, le repubblichette greche soggiacquero lene
lene al regno semibarbaro macedonico, poi sotto l’ombra di questo a’
Romani; le repubblichette italiche, pur ai Romani, e le repubblichette
italiane del medio evo, agli Angioini, a’ re francesi, agli imperadori
tedeschi, a casa d’Austria, a Napoleone, senza tener conto che anche
prima di morire elle stettero il più del tempo di lor breve vita
sotto ai tiranni. E quindi ei mi pare che, quando anche fosse buono in
sè, non varrebbe la pena di stabilire un tale ordinamento, il quale
da ogni esempio antico o nuovo è mostrato così poco durevole, così
incompatibile colle civiltà progredite.

3. Ma, quando anche potesse durare, non sarebbe buono nè desiderabile.
Come? si scioglierebbero gli Stati che han costato l’opera di tante
generazioni? si ridividerebbe ciò che s’è unito? si distruggerebbero
questi, che sono pure edifizii della presente civiltà? si farebbe
campo nudo di tutto ciò per riedificarvi le macerie del medio evo, o le
pelasgiche o ciclopee? E questo si chiamerebbe liberalità, e progresso?
Ma il progresso e la liberalità vanno innanzi e non indietro, edificano
e non distruggono, si giovano di ciò che è, per aggiungervi ciò che
manca; capiscono ogni bellezza, riconoscono ogni bontà, e fan virtù
del conservarle ed accrescerle. Pogniamo che si sciolgano gli Stati
italiani presenti, per esempio Toscana nelle repubblichette antiche
di Firenze, Siena, Pisa, Pistoia, e nella nuova di Livorno, che ben
vi potrebbe pretendere. Non sarebbe egli gran peccato veder disfatto
quel bello e lieto stato di Toscana? e morte le speranze delle vie
moltiplicate, del commercio accresciuto, dell’arti, delle lettere
riunite in grandi studi, speranze che non possono effettuarsi oramai
se non per le forze congiunte di tutte quelle città? Non parlo
dell’agguerrito Piemonte, e di Napoli che s’agguerrisce. S’intende che
si scioglierebbono quegli eserciti italiani ed or esistenti, che non si
accrescerebbero quell’armate navali or nascenti, che si tornerebbe alle
milizie ed alle navi municipali del medio evo. Se non che, ai nostri dì
nè milizie nè navi non si hanno se non dagli Stati ricchi, e non sono
più ricchi se non i grandi; ondechè le restaurazioni delle milizie o
delle navi comunali sarebbero il più ineffettuabile fra’ sogni fatti
per restituir potenza all’Italia. Quanto agli stati del papa, io non ho
accertato se le repubblichette da restaurarsi sarebbono quelle di Veio,
Tarquinio od Alba-Lunga? ovvero, quelle di Tivoli, Spoleto e Perugia
coll’accompagnamento de’ Crescenzi, de’ Frangipani, degli Orsini e
Colonna, e sotto a un Arnaldo, o ad un Cola? ovvero la repubblica
romana e suoi consoli dell’anno 1799? Ed io so bene che ad alcuni
tutto ciò parrebbe pur meglio che i frati, i preti, i cardinali ed il
papa. Ma io non temo per costoro; non vi è pericolo; ei sono molto bene
difesi dal nostro Gioberti, e si difenderanno del resto da sè[8].

4. Ma poniamo che le repubblichette paressero autorizzate dalla storia,
e desiderabili; elle sarebbero pure l’ordinamento più impossibile
ad effettuarsi. Pensare che col discredito, col ribrezzo, colla
paura, esagerata o no, che s’ha in tutta Europa delle repubbliche, si
tollerassero in Italia dalle potenze straniere, le quali hanno quelle
paure; pensare che i principi italiani, che i lor aderenti soffrissero
la propria distruzione, non provvedessero a quella conservazione di
sè, che è primo istinto, prima forza, primo diritto e dovere d’ogni
persona individuale o complessa; pensare che la pluralità della nazione
italiana si lasciasse far legge da pochi i quali, sani od insani,
spensierati o provvidi, si farebbero ad ogni modo sovvertitori di tutti
gl’interessi, di tutti i diritti, di tutti i doveri presenti: sarebbe
pensare che noi non siamo nel secolo XIX, in un secolo di civiltà
progredita, cioè appunto di quegli interessi, que’ diritti e que’
doveri meglio sentiti, e più rivendicati da ciascuno; sarebbe pensare
che si possa tornare ai tempi barbarici; sarebbe anzi inventare una
barbarie non mai veduta, posciachè nemmeno ai tempi barbarici non si
fece mai tale astrazione da ogni fatto e diritto attuale, tal campo
raso. — E il vero è che tutti quanti questi sogni, se non fossero più
sogni, se potessero passare ad esecuzione, sarebbero scelleratezze,
_delitti di lesa civiltà_.




CAPO QUINTO.

DELLA CONFEDERAZIONE DEGLI STATI PRESENTI


1. Ma il fatto sta che tutti questi o rimasero puri sogni ineseguiti,
o passarono tutt’al più ai primi e vani atti d’esecuzione; che la loro
stessa moltiplicità e la loro non riuscita provano il piccol numero di
chi s’abbandonò a ciascuno, o forse a tutti insieme; che la grandissima
pluralità degl’Italiani, tutti quelli di qualche pratica o di qualche
senno, non tennero nè tengono per possibile nè desiderabile nè niuno
sminuzzamento nè niuna riunione universale degli Stati esistenti; e che
non desiderano, non sono pronti a promuovere di lor concordia, se non
quel progredir dalle cose presenti alle future, il quale fu sempre il
solo giusto, e il più util modo di mutazione, ed è desiderio, vanto,
carattere, virtù speciale dell’età nostra.

2. Ora, quando un’opinione si vien facendo universale, ella non
tarda a trovare un interprete. E questa dell’ordinare sul presente
il futuro della nostra Italia, ne ha trovato uno eloquentissimo, il
Gioberti. Noi riconoscemmo già in lui il merito d’aver parlato il primo
opportunamente delle cose future italiane. Riconosciamogliene ora un
altro; d’averne parlato secondo giustizia, fondando le speranze future
su’ diritti e doveri presenti, proponendo una confederazione degli
Stati ora esistenti.

3. Le confederazioni sono l’ordinamento più conforme alla natura ed
alla storia d’Italia. L’Italia, come avverte molto bene il Gioberti,
raccoglie da settentrione a mezzodì provincie e popoli quasi così
diversi tra sè, come sono i popoli più settentrionali e più meridionali
d’Europa; ondechè fu e sarà sempre necessario un governo distinto per
ciascuna di tutte o quasi tutte queste provincie. E come in Europa
rimasero, salvo le brevi eccezioni, quasi sempre distinte quelle sue
divisioni di Britannia, Gallia, Spagna, Germania, Italia e Grecia; così
nell’interno della penisola nostra rimasero quasi sempre distinte; la
punta meridionale, la valle Tiberina co’suoi monti e sue maremme, il
bel seno dell’Arno, e l’Italia settentrionale divisa o non divisa in
occidentale ed orientale; la Magna-Grecia o Regno di Napoli, il Lazio
o Roma, l’Etruria o Toscana, la Liguria o Piemonte, la Insubria o
Lombardia, con nomi e suddivisioni varie, ma tornanti alle primarie.
Ma ei vi sono pure somiglianze in queste varietà; unità in queste
divisioni; comunanze di schiatte, di lingua, di costumi, di fortune,
di storie, d’interessi e di nome tra queste provincie italiane; è una
antica ed incontrastabile Italia. E quanto men sovente queste comunanze
si manifestarono in produrre uno stato universale italiano, tanto più
sovente elle produssero confederazioni or provinciali or nazionali.
— Nella storia primitiva è sola illustre la confederazione delle
città etrusche; ma quanto più si va studiando, tanto più si trova il
medesimo ordinamento comune tutto all’intorno. Non sono dubbie oramai
una confederazione latina, una sannite, una gallocisalpina; e sono
poco men che certe una sabina, una umbra, una ligure, una veneta e
forse altre. Delle quali non so veramente se gli storici antiquari
troveranno monumenti sufficienti a dimostrarle; ma so bene che, senza
supporle, gli storici filosofi o spiegatori non ispiegheranno mai
nulla dell’Italia anteriore ai Romani, e poco forse della romana. — Ad
ogni modo, riunite e poi sciolte dall’Imperio, le città italiane non
tardarono a rifar confederazioni. L’indipendenza serbata da Roma, da
Venezia, dalle città dell’Esarcato e da parecchie meridionali per due
secoli contro a’ Longobardi così forti e così vicini, non si spiega
con gli aiuti dei Greci deboli e lontani; non si può spiegare se non
colla esistenza di confederazioni, quali che fossero, simili a quella
accennata indubitabilmente dal nome della _Pentapoli_. E se così fu,
si potrebbe forse far risalire a Gregorio Magno la rinnovazione delle
confederazioni italiane. Ma io crederei che debbasi tal somma gloria
a quel Gregorio II, il quale sin dal principio del secolo VIII riunì,
sotto la presidenza sua, una confederazione di città poco diversamente
indipendenti quinci e quindi da’ Longobardi e da’ Greci; quel Gregorio
II, che aspetta solamente uno storico o biografo o monografo, per
esser posto pari a qualunque de’ maggiori papi politici. I successori
del quale poi, lasciate improvvidamente le confederazioni, chiamati
i Franchi ed avutane signoria su Roma ed altre città, serbarono
queste più o meno indipendenti parecchi secoli, non con altro modo se
non tornando alle confederazioni. E Gregorio VII, in mezzo a tutte
le sue grandezze, fu grandissimo confederatore di città; intorno a
Roma, in Toscana, in Puglia, intorno a Milano. Ma il confederatore
massimo fu Alessandro III, la confederazione grandissima fu la lega di
Lombardia; quella che essa pure (vergogna nostra) aspetta uno storico.
Dall’elezione di Gregorio VII alla pace di Costanza, dal 1073 al 1183
corre un lungo secolo, solo o sommo della virtù politica italiana, il
secolo ove nacquero que’ comuni, quella indipendenza, quel primato
di civiltà e coltura, onde poi la civiltà e la coltura di tutta la
Cristianità. Che se non furono ben ordinati que’ comuni, non compiuta
quella indipendenza, non durevole quel primato nostro, colpa fu,
colpa sola, ma incommensurabile, di non avere allora fatta continua ed
universale in Italia quella confederazione temporaria di Lombardia. Ma
che? non eran maturi i tempi; era appena nascente la civiltà; non si
sapeva quel sommo dogma politico che la indipendenza si vuol compiere
prima di tutto; non s’immaginava nemmeno una indipendenza compiuta
dall’imperatore romano. Sciolsesi la lega in parte fin dalla tregua
di Venezia, sciolsesi del tutto nella pace di Costanza; pattuironsi,
ottenersi i troppo esclusivamente desiderati diritti regali dai
comuni; ma ottenendoli ad uno ad uno, si sciolse la lega, si perdette
il più bel frutto della vittoria. E corsi dieci altri anni, i grandi
propugnatori della indipendenza, il gran comune centrale, il capo già
della lega, Milano, troppo stolta, festeggiava con applausi e solennità
di che restano deplorabili descrizioni, quel matrimonio di Arrigo VI di
Svevia con la erede di Puglia e Sicilia; che fece impossibile per gran
tempo il compimento d’indipendenza, irremediabilmente perduta per molti
secoli l’occasione. — E sorsero poi una seconda lega lombarda, una
toscana e forse altre; ma tutte minori, anche meno pretendenti, anche
meno fruttifere, e talor dannose; leghe di parti, più che nazionali,
fin verso il fine del secolo XV. — Quando, Lorenzo dei Medici (quel
Lorenzo che alcuni osano mettere in fascio e vituperare insieme co’
Medici del degenere _Seicento_), il magnifico Lorenzo imaginò, trattò e
adempì la più ampia confederazione che sia stata mai di Stati italiani.
E non durò il grande esempio, pur troppo: un decennio all’incirca. Ma
questo non è distante da noi, se non di tre secoli e mezzo, non è di
età e d’uomo barbaro; è dell’età e dell’uomo più civile e più colto che
sia stato mai in Italia e forse altrove. — Morto lui, e surto Ludovico
Sforza il gran traditore, disceso Carlo VIII, e seguendo i secoli delle
preponderanze straniere, si spense ogni uso di confederazioni, non
fecersi quasi nemmeno alleanze italiane. Anteponevansi da ciascuno le
straniere, o come più forti, o come meno invidiose.

4. E quindi non parrà strano ormai, ciò che ridico: che la proposizione
d’una nuova e continua confederazione italiana, la proposizione di
fare compiutamente e durevolmente colla civiltà adulta ciò che la
fanciulla non seppe se non incompiutamente e temporariamente, è più
che un evento letterario, è un fatto nazionale. Non importa che altri
possa pretendere d’aver avuta od anche espressa la medesima idea. Delle
idee come dell’invenzioni ha men merito chi le concepisce o le accenna
adombrate, che chi le svolge in modo da divulgarsi ad utile comune. Nè
importerà che l’idea proposta sia criticata, migliorata o guastata da
altri poi; egli è appunto da tali incontri che può venir la luce, da
tali discussioni l’opinione, dall’opinione universale la possibilità
dell’esecuzione. Ed aggiugnerei, che non è se non dal passar così ne’
tre gradi di discussione, opinione ed esecuzione, che può venire il
sommo grado di gloria al proponitore; se non che, volendo disporre
un Gioberti a tollerare contraddizione, mi paiono più a proposito
argomenti di patria utilità che non di propria gloria. Egli non ha
voluto senza dubbio dare un’idea morta, ma una viva; non una immobile,
ma una capace di progredire; non un’utopia da rimaner proprietà
dell’autore, ma un gran pensiero da diventar nazionale, e sopratutto
efficace.

5. Epperciò noterò arditamente una che mi pare esuberanza, ed una che
mi pare deficienza nella proposizione di lui. — Quando d’un ordinamento
proposto sono incerti il tempo, l’occasione in che si eseguirà, e
chi, quali e quanti la eseguiranno, quali interessi lo moveranno e
vorranno essere rispettati, quale opinione pubblica regnerà allora,
l’aggiugnere particolari parmi esuberanza, difficoltà aggiunta alle
difficoltà naturali. Non che questo preveder lungo sia (come dicono
alcuni) quasi usurpazione d’uffizio contro alla Provvidenza. Lunganime
è la Provvidenza, nè si offende di chi con animo sincero e rispettoso
tenta indovinarle gli arcani; il nostro Dio è Dio geloso contro a
chi il tradisce, non contro a chi si addentra in lui con amore e
fiducia. Ma più gelosi sono gli uomini, e fra tutti, gli uomini di
stato; e lasciano bene, talora, che noi uomini di penna spaziamo sulle
generalità; ma se scendiamo ai particolari, di che pretendono essi
la privativa, allora ei sono pronti a farci mal viso, a rimandarci al
nostro mestiero, ad annientare di un tratto l’idea proposta, sotto i
nomi d’idea da scrittore, da filosofo, da sognatore. È noto il detto
usuale di Napoleone, che qualunque idea non gli andasse a grado,
o s’opponesse alla pratica sua, la tacciava d’_Idealismo_. E molti
uomini di pratica, senza esser Napoleoni, hanno preso il modo di lui; e
perchè non quadra alla pratica un particolare aggiunto all’idea della
confederazione italiana, diranno o dicono: filosofia! e passan oltre.
A me par più giusto dire: è idea senza paragone più vicina a pratica
che niuna delle proposte finora, salvo forse un solo particolare, che
convien dunque esaminare.

6. L’idea di dar fin d’ora al papa la presidenza della confederazione
futura, è senza dubbio una magnifica idea; fu idea, fu fatto
incontrastabile del medio evo. E questo fatto, oggetto già di scorno
in bocca a storici e filosofi volontariamente od involontariamente
ignoranti, è col progresso della scienza diventato oggetto
dell’ammirazione e della gratitudine di molti scrittori più sinceri o
meglio informati. Ma potrà egli mai restaurarsi tal fatto? E quello
del terzo gran primato d’Italia, sperato insieme come conseguenza?
Io dirò schietto e con molti: crediam difficili e l’una e l’altra
restaurazione. Difficili sono per sè le restaurazioni tutte. Di cento
ideate s’arriva appena a tentarne dieci; di dieci tentate se ne compie
una; e quest’una compiuta non suol durare senza modificazioni, rimane
men restaurazione, che mutazione nuova ella stessa. La confederazione
sarebbe pur essa restaurazione; già difficile dunque per sè, in
generale; non v’aggiungiamo la difficoltà maggiore dell’imitazione
più particolare. Quando quei Gregori I, II e VII, ed Alessandro III,
ed Innocenzo III restaurarono le confederazioni italiane, essi non
imitarono già così particolarmente i modi delle antiche, nè Lorenzo
imitò i modi di quelle non antiche ma già antiquate; tutti questi
ne inventarono delle nuove, secondo i tempi. Imitiamo anche noi, o i
nostri nepoti, non i particolari, ma gli autori delle opere grandi;
quella è, in ogni cosa, imitazione sempre servile, questa sola talora
grande. — Del resto noi crediamo, che nè il sommo pontefice il quale
regna ora con quel nome ben augurato de’ Gregori, nè i successori
di lui, nè i buoni e sodi servitori di essi, non desiderano nè
desidereranno mai più siffatte presidenze; come i sodi Italiani non
desiderano all’Italia quel gran primato, che pur fu, ma non può esser
più nemmen esso, in niun futuro prevedibile. Non sono più i tempi
delle dispute di _Egemonia_ fra quelle repubblichette greche in cui era
raccolto tutto il fior d’una nuova e stretta civiltà; non più i tempi
delle dispute d’imperio tra Roma e Cartagine, che si dividevano quella
civiltà cresciuta e pur limitata ancora; non più i tempi delle contese
tra la monarchia universale affettata dagli imperatori germanici, e
la monarchia ecclesiastica tenuta dai papi; non più i tempi che una
sola nazione cristiana raccoglieva in sè quasi tutta la cristiana
civiltà, e ne teneva quindi incontrastabilmente il primato; non più
tempo nemmeno delle guerre che si chiamavan d’equilibrio e furono di
preponderanza europea tra Francia e Spagna, Francia ed Austria, Francia
ed Inghilterra. Ora son tempi felicemente diversi; ora è forse men
sogno sperare una indipendenza universale, una guarentigia reciproca
di tutti gli stati cristiani, che non nè una monarchia universale, nè
una preponderanza, nè un primato durevole, nè uno stesso equilibrio;
men sogno l’indipendenza reciproca delle due potenze temporali e
spirituali, che non una temporal presidenza della spirituale. —
Accettiamo dunque il gran pensiero del Gioberti; trattiamo della
confederazione italiana in generale, senza scendere a’ particolari nè
della presidenza, nè delle leggi e dei patti di essa, nè del numero e
qualità dei confederati eventuali. Anche ridotta alle generalità, la
questione è ispida di difficoltà, per la lontananza e le incertezze
d’esecuzione. Non accresciamo quelle difficoltà collo scendere ai
particolari incertissimi d’un ordinamento già incerto. Lasciamo ai
posteri qualche cosa da fare; ai contemporanei dell’evento qualche
libertà d’esecuzione. — Se Dio voglia, se mai venga il gran dì della
confederazione, i confederati pongano essi patti, limiti e presidente.

7. Ed all’incontro parmi sia da scendere ai particolari del primo
eseguimento; sia da trattare almeno della prima e più ovvia difficoltà.
Non facciam dire ai soliti derisori: «Tutto ciò è bello e buono.
Tutto ciò starebbe bene. Ma a tutto ciò è un ostacolo grave, attuale,
irremovibile; il sappiam noi che non iscriviamo, ma operiamo, noi
che siamo all’opera, alla guerra effettiva, alla breccia. Sogno,
sogno anche questo; scrittura, filosofia, idealismo». — Ma anche
qui parrebbemi più giusto dire: l’ostacolo vi è, l’ostacolo non fu
considerato sufficientemente, consideriamolo; vi fu deficenza nella
proposizione, facciamo un supplemento o complemento. Il rimanente della
breve opera mia non sarà altro oramai.




CAPO SESTO.

LA CONFEDERAZIONE È IMPOSSIBILE FINCHÈ UNA GRAN PARTE D’ITALIA È
PROVINCIA STRANIERA


1. L’ostacolo, unico, ma gravissimo a qualunque confederazione
italiana, è quella signoria straniera che penetra nel fianco della
penisola, che soverchia in potenza e popolazione italiana, quattro
de’ sei principati italiani; e che li soverchia tutti insieme poi
come parte d’un imperio più grande che non la penisola intiera[9].
Finchè dura tal condizione, non è possibile niuna confederazione,
niun ordinamento, niun equilibrio italiano, non è possibile se non una
preponderanza di quell’imperio sugli stati italiani. Quando Napoleone,
ordinata Francia sotto il suo consolato, volle ordinare Italia, ognun
sa ch’ei chiamò a sè molti notabili italiani in quell’adunanza, a cui
rimase il nome di _Consulta di Lione_. Fra i primi o primo era Melzi.
Il quale entrato in discorso, e buono Italiano ed alto uomo di stato
com’era, proponendo che l’Italia settentrionale fosse riunita sotto una
sola dizione, ed assentendo fin lì pur Napoleone, proseguì il Melzi a
cercare qual casa di principi si potesse chiamare a sì bello stato, e
nominò Casa Savoia. Sorrise allora malcontento Napoleone. Ed insistendo
Melzi a mostrare come ciò converrebbe insieme all’equilibrio d’Italia
e a quel d’Europa: — «Ma chi vi parla d’equilibrio?» riprese vivamente
Napoleone. — E Melzi, stato alquanto sopra sè: «Or intendo. M’ingannai.
Io doveva parlare di preponderanza». — «Così è, or vi apponete»,
riprese Napoleone; e di preponderanza o prepotenza od onnipotenza fu
l’ordinamento effettuato. — E finchè sotto diversissima signoria dura
pur un simile ordinamento, ei si può ben soffrire e rassegnarsi o
gridare; ma niun equilibrio, niun ordine vero sarà mai in Italia, od
anzi niuna vera Italia nell’equilibrio d’Europa.

2. E niuna confederazione buona in Italia. Io credo che ciò sia chiaro
a chiunque abbia ombra di senno. Ma discorriamone; posciachè siamo a
discorrere. — Io dico che la confederazione italiana non è desiderabile
nè possibile, se v’entra la potenza straniera; e che sarebbe
desiderabile forse, ma così difficile, che monta ad impossibile, senza
la potenza straniera.

3. Presieduta dal papa o da qualunque altro, ed ordinata in qualsiasi
modo che lasci entrare la potenza straniera, la confederazione non
può più essere desiderabile a nessun Italiano. Quando si pattuisse
e giurasse che il papa sarebbe presidente, il papa nol sarebbe; anzi
sarebbe meno indipendente, meno principe, in men buona situazione di
papa che non è ora. E così di ogni altro principe che fosse bonario
tanto da accettare un nome, un’impostura di presidenza. Ma il fatto
sta che nemmeno il nome non sarebbe conceduto dalla potenza straniera
a nessun altro se non a sè; ch’ella s’arrogherebbe titolo, grado
ed effettività di presidente; che n’avrebbe buon pretesto dalla
superiorità di sua potenza; e che quando mancassero ragioni, pretesti
o patti, verrebbe la forza a decidere o la questione in generale o le
questioni eventuali quotidiane; che in somma d’un modo o d’un altro
ella la potenza straniera sarebbe prima, sarebbe prepotente, sarebbe
tutto. E così pure senza gran diversità se s’imaginasse di non avere
presidente, se si pattuisse una diplomatica eguaglianza o reciprocità;
questa diventerebbe in breve ciò che sogliono le eguaglianze pattuite,
ma non reali, le perfette reciprocità in diplomazia; parole, finzioni
legali, cerimonie, e non più. — E quindi, se non si volesse supporre
che si perdesse il senno dai principi italiani, e da tutti i lor
ministri e consiglieri, non è possibile ch’essi si riducan mai a tal
errore, a tal viltà, di farsi volontariamente così, più dipendenti, più
servi che non sono.

4. Forse è più difficile a dimostrare la seconda asserzione che non sia
possibile la confederazione senza lo straniero. E per vero dire, se i
sei o sette principi italiani, convenendo un bel dì insieme tra sè o
per ambasciatori, pattuissero, firmassero e ratificassero un trattato
di confederazione, io non so chi potrebbe, chi ardirebbe opporsi a tal
trattato; legittimo senza dubbio, poichè in legge essi sono principi
indipendenti e compiuti, e che una inalienabil prerogativa di tal
principato è quella di poter fare trattati d’alleanza, secondo l’utile
o piacer proprio. Se la potenza straniera vi si opponesse, il torto di
lei sarebbe così chiaro, che probabilmente la confederazione italiana
sarebbe aiutata da altre potenze straniere secondo l’occorrenza; nè
in tal caso io sarei di quelli che con soverchio orgoglio nazionale
consigliassero di rigettar tali aiuti. Ed anche senza aiuti (perchè,
uniti che fossero i principi, s’unirebbero con essi e tra sè molto
volentieri i popoli a tale scopo), io confiderei che resisterebbero
facilissimamente alla potenza straniera, anche aiutata da una o due
altre, ma impacciata più che mai da’ suoi sudditi italiani. — Ma il
difficile è appunto quell’accordo dei principi. Siamo compiutamente
sinceri; veggiamo ciò che è; non ciò che dovrebb’essere, o
potrebb’essere se fosse come non è; parliamo dei principi, degli uomini
come sono, di quelli che sono ora, o son probabili per l’avvenire,
ne’ secoli come corrono, nell’Italia com’è ridotta. E poniamone uno
od anche due uomini grandi, arditi e quasi avventati, come avrebbero
ad essere per proporre e firmar quel trattato, tali non sarebbero
gli altri cinque, o almeno quattro o tre o due od uno; non essendo
probabile nè possibile che tra sei o sette uomini quali ch’ei sieno,
principi o no, si incontrin mai sei o sette uomini grandi, arditi
e generosi; e bastando uno o due che mancassero, a fare quasi nullo
l’effetto dell’ideata confederazione. — Due sorta di possibilità sono
negli affari umani: la condizionale e la assoluta. Ma finchè rimane
impossibile la condizione della prima, questa rimane impossibilità pari
alla seconda; e non val la pena di fermarci a considerare l’una più che
l’altra. Io vorrei averne smentita dal fatto: io auguro alla patria mia
sei o sette principi capaci d’ideare, trattare, firmare e mantenere tal
atto, come sarebbe una confederazione italiana senza stranieri.

5. All’incontro, facciam l’ipotesi che non fosse più la provincia
straniera. In qualunque maniera ne rimanesse divisa l’Italia, quanti e
quali che fossero i principati risultanti, la confederazione sarebbe
fattibile, facile a farsi, tutta fatta. La differenza stessa delle
situazioni e delle potenze vi aiuterebbe. La comunanza degli interessi
vi moverebbe. Il fatto della confederazione precederebbe i patti. —
Il solo ostacolo è la potenza straniera. Ciò è chiaro, patente, saputo
da tutti, è una di quelle verità volgarissime e di senso comune, delle
quali avendo io già dette ed essendo per dire parecchie, mi vergognerei
di farne un libro; se non che, elle sono quelle appunto le quali, meno
splendide, si sogliono scriver meno, e le quali tuttavia gioverebbe
più spandere e far penetrare nella politica di qualsivoglia nazione, in
quella sopratutto della più immaginosa fra le nazioni.




CAPO SETTIMO.

BREVE STORIA DELL’IMPRESA D’INDIPENDENZA PROSEGUITA SEMPRE, NON
COMPIUTA MAI PER XIII SECOLI


1. Così noi siamo ritornati ora a ciò che dicevamo in sul principio del
Capo II, all’ostacolo straniero. Ma ei ci corre questa differenza, che
noi abbiamo ora accettata da un nobilissimo scrittore l’idea di ciò che
sarebbe a fare quando fosse rimosso l’ostacolo. Or dunque è tempo di
rivolgerci a questo; e volgendovici, di guardarlo in faccia, qual è, in
tutta l’estensione e la potenza che ha.

2. L’ostacolo è antico ed antico il tentativo di rimuoverlo; antica la
grande impresa dell’indipendenza italiana. Quando fosse compiuta tale
impresa, quando si potesse fare una storia revoluta, del principio,
delle vicende e del termine di lei, certo è che riuscirebbe la più
bella che possa essere al mondo; una storia di costanza italiana, da
disgradarne la famosa di Spagna nella cacciata de’ Mori. — Potrebbero
allora introdurre a tale storia forse un’antichissima impresa dei
Tirreni contro all’altre genti primitive; e certamente poi quella
impresa di Roma contro ai Galli, che incominciò di mezzo alla città
stessa già perduta tutta, salvo il Campidoglio; quando un fuoruscito,
il più grande de’ fuorusciti, il grandissimo Camillo, tornò nella
patria occupata, e liberolla; e respinti quinci gli stranieri, continuò
a respingerli più e più su, ed ordinò Roma, e fecela capo a ciò di
quella penisola inferiore, dove era nato il santo nome d’Italia. E fu
perdurando poi quattro secoli in quell’impresa, che Roma si fece capo
a poco a poco di tutta la penisola, e riunilla, e comunicolle quel
nome; il quale ricorda dunque l’origine, l’impresa e la propagazione
dell’antica nostra indipendenza.

3. Ma lasciamo l’Italia antichissima, e la romana repubblicana e
l’imperiale, e veniamo a quella che, soggiaciuta ai Barbari insieme
con ogni altra nazione europea, tentò sola liberarsene; un vanto che
non fu forse avvertito abbastanza, nemmeno dai nostri adulatori. Ad
ogni modo incomincia l’impresa d’indipendenza se non già fin dalla
venuta di Teodorico, chiamato o mandato in nome dell’Imperio, certo
almeno fin dagli ultimi anni di lui, e così fin dalla prima metà del
VI secolo, XIII secoli dunque prima di noi. Incontrastabile documento
ne è allora quella accusa (di che dubita la storia, ma non importa qui
se fosse giusta od ingiusta) che fu data a Boezio ed altri Italiani di
_macchinar la restaurazione dell’Imperio romano_. E ne sono documenti
ulteriori e fatti incontrastabili, le crudeltà che ne seguirono e in
mezzo a cui finì quel barbaro, ma grande e un dì mitissimo Teodorico;
e le raccomandazioni di concordia troppo tardi fatte da lui morente a’
nobili goti e italiani; e le favole popolari con che fu perseguitata
la memoria di lui; e poi le discussioni surte in breve tra Goti ed
Italiani per l’educazione del successore, le vicende d’Amalasunta e
di Teodato; che chiamarono finalmente i Greci, restauratori pretesi
dell’Imperio. Ma, tristo risultato di quelle chiamate, i Greci non
restaurarono l’imperio italiano, estesero solamente il greco; ed
Italia, già capo, diventò provincia. — Ond’esce un grande, quantunque
notissimo, insegnamento: che le restaurazioni d’indipendenza non si
vogliono domandare a stranieri; e quest’altro poi, ch’elle non si
vogliono complicare di altre restaurazioni.

4. L’imperio greco durò un venti anni a ristabilirsi sull’intiera
provincia italiana, un dieci altri a stentarvi e cader poi sotto a’
Longobardi. Allora la penisola fu divisa per non riunirsi forse mai
più, tenendo i Greci tutta la parte orientale con Roma, i Longobardi
quasi tutta la occidentale. Ma gl’Italo-Greci, o Imperiali, o come
si dicevano Romani, furono senza paragone più indipendenti che non
gl’Italo-Longobardi. Avevano esarchi, duchi, governatori greci,
stranieri, cattivi; ma obbedivano loro poco e di rado, obbedivano
piuttosto a’ papi, a’ loro vescovi, a’ loro magistrati cittadini;
erano già veri comuni, a modo de’ lombardi e toscani di cinque secoli
appresso; non tenevano conto dell’imperadore greco lontano, se non
come questi poi degli imperadori tedeschi vicini od anche meno; e
come questi, così quelli fecero le leghe e confederazioni già da noi
accennate. E questa è la vera e bellissima origine della potenza
temporale dei papi; origine pari in antichità, superiore in vera
legittimità a quella di qualunque regno europeo; scusa od anzi merito
e virtù del loro costante resistere ai Longobardi; gloria di Gregorio
Magno, che prese primo la difesa di quel che restava d’indipendenza;
gloria maggiore di Gregorio II, che la difese contro i Longobardi e
l’accrebbe contro ai Greci con una bella confederazione nazionale, e
senza aiuti stranieri; scusa dei papi successori di lui, che, pressati
da’ nemici vicini, abbandonati da’ signori lontani, ricorsero men
vilmente che imprudentemente ed infelicemente all’aiuto dei Franchi,
stranieri novelli. — E il risultato e l’insegnamento furono i medesimi
che due secoli prima. Rimasero signori i nuovi chiamati.

5. Nè questo fu tutto; in breve rifecesi l’altro e forse maggiore
errore di restaurare un nuovo preteso imperio romano. E siccome il
primo restaurato era stato non italiano, ma greco, così questo fu
franco. Errore, preoccupazione, cecità, smania, stoltezza, impostura
quasi inconcepibile a noi, questa di restaurare l’Imperio! Nè par
vero che sia durata tanti secoli, mille e più anni, dall’800 al 1805.
Tanto può una memoria, una parola! Ma, non ci si venga a dire a noi
Italiani, che quest’imperio romano fu una grande idea di Carlo Magno,
una gran bellezza del medio evo, una gran fortuna della Cristianità,
a cui furono dati così un gran centro temporale, e un gran centro
spirituale, due grandi capi, l’imperatore e il papa. Io non so se tutto
ciò, quantunque cantato da un vero poeta, sia poesia; ma non è storia
di niuna maniera. Grande sì fu l’ambizione, ma non l’idea di Carlo
Magno; non dovendosi dir grande niuna idea che tanto scemi passando
a realità. Certo, l’imperio ideato da Carlo Magno, cioè la supremazia
d’uno dei re sugli altri, non durò incontrastato se non 14 anni, quanto
il fondatore; nè tra molti e gravi contrasti, se non 88, assai meno che
non la schiatta carolingia, di cui fu rovina; ondechè si vede essere
stata piccola e cattiva idea. E quanto a quella bellezza dell’edifizio
della Cristianità posta in bilico su due centri, io non so guari veder
nulla di tutto ciò; posciachè in somma il centro imperiale non durò
se non quegli 88 od anzi quei 14 anni, dopo i quali ogni re fece il
re da sè, senza curarsi dell’imperatore più che di qualunque altro
re. I due centri o perni esistettero sì veramente, ma per l’Italia
sola; dove l’imperiale fu non fortuna ma sventura grandissima e
moltiforme. Perciocchè prima, fu causa che dovendo l’imperatore
esser re d’Italia, tutti i re carolingi vollero quel regno e così sel
disputarono e l’invasero. Poi fu causa che i pochi principi italiani,
due Berengarii, un Guido, e un Arduino riusciti a farsi re d’Italia,
non poterono rimaner tali come altri principi rimasero re di Francia,
di Spagna e di Germania; il che, sia o non sia da lamentare per li
tempi seguenti, certo fu gran danno per quelli, nei quali l’Italia ne
riuscì più invasa, più avvilita, più corrotta che non sia stata mai
ella o niuna nazione cristiana. Perciocchè certo furono molto avviliti
quei re che sottoposero la corona italiana alla tedesca; avviliti
tutti quegli altri principi italiani che non traevan potenza se non
dalle intervenzioni straniere; avvilite quelle principesse meretrici
che la traevan dalle libidini nazionali e straniere; avviliti gli
ecclesiastici ravvolti in tutto ciò, compratori e venditori delle sedie
vescovili e della stessa romana; avvilita la nazione intiera la quale
chiamò più stranieri in quel secolo e mezzo che non facesse mai, e la
quale alla morte di Arrigo Sassone giunse al segno di accattare padroni
in tutta Europa, Francia, Germania e Castiglia, e di far rifiutar sua
servitù da tutti, salvo che dai Tedeschi, che non la rifiutarono mai.
E so che que’ nostri inalterabili piaggiatori i quali quando non ci
possono lodare ci scusano, e quando non ci possono scusare ci consolano
col paragone de’ vizi altrui, diranno qui che quel secolo d’intorno
al 1000 fu secolo di avvilimento a tutta la cristianità, ai signori
nostri come a noi servi, ai compratori come ai venditori della nostra
indipendenza. Ma io dico che in tali contratti, i venditori son sempre
di molto più avviliti che non i compratori; chi si fa servo, che non
chi si fa padrone. E confermo e conchiudo: che la nazione italiana
cadde allora più basso che non fosse mai ella o niuna cristiana; e
che fu effetto di quel mal sogno del Primato italo-imperiale. — Onde
mi sembrano uscir poi due insegnamenti: che prima di mirare a primati
si vuol arrivare a parità, e che la prima delle parità colle nazioni
indipendenti, è l’indipendenza.

6. MA LE NAZIONI CRISTIANE POSSONO AMMALARE, NON MORIRE, dice
ammirabilmente il nostro Gioberti[10]. E la storia del secolo XI non
solo prova la verità, ma dà le ragioni di tal fatto, accenna i modi del
risanamento delle nazioni cristiane. Il rimedio che queste hanno e le
antiche non avevano, è la Chiesa cristiana; la quale, incorruttibile
essa, basta a preservarle da mortal corruzione, basta a preservare
la virtù, la operosità cristiana risanatrice. Pareva allora corrotta
la stessa Chiesa, ma non era. Incorrotti molti membri di essa, si
ritrassero dal mondo, ne’ monasteri. Fondaronsi quelli di Cluni, di
Cisterzio, della Certosa, di Camaldoli, di Vallombrosa e molti altri;
il cui merito massimo non fu, come si suol dire troppo umilmente,
l’aver serbati i manoscritti o le lettere o l’agricoltura, ma la
virtù; dico la severa e cristiana virtù. La storia di quei chiostri
d’intorno al 1000 è una meraviglia, un miracolo continuo. Un uomo, un
santo sdegnavasi contro al secolo (quel secolo da fulminare allora
veramente), contro ai costumi secolari, ecclesiastici, monacali.
Quindi facea disegno di fondar un monastero nuovo, di restituire in
esso la disciplina; fondavalo con due o tre compagni; l’estendeva
a qualche centinaio di monaci; fondavane altri all’intorno, e tutto
insieme chiamavasi una _riforma_. Talora, morto appena il riformatore,
talora anche prima, la riforma cadeva nella corruzione universale;
tal forza era in questa! Ma allora risorgeva un altro riformatore,
un altro monastero, un’altra riforma; e ricorrotta questa, un’altra
ed un’altra, finchè durò la corruzione universale, ed anche oltre.
Intanto, or nell’uno or nell’altro chiostro, la virtù s’era serbata; e
n’uscì intorno alla metà del secolo uno stuolo, una schiera di uomini,
che io non so come io chiami: grandi santi, grandi filosofi, grandi
riformatori ecclesiastici, o grandi politici, perciocchè furono tutto
ciò; Pier Lombardo, Lanfranco, sant’Anselmo da Aosta, uno o due altri
Anselmi, san Pier Damiano, Annone di Colonia, e finalmente Ildebrando,
cioè san Gregorio VII. Il quale fu il più grande, ma non il solo
grande, fu il principe di quello stuolo già formato, fu il raccoglitore
e propagatore delle frutte seminate da altri; grande ingegno senza
dubbio, ma più gran coscienza, gran politico, ma pontefice anche più
grande. Ed egli e tutti gli altri insieme furono i risanatori della
corrotta Cristianità in generale, ma della corrottissima Italia in
particolare; non solamente perchè dall’Italia nacquero i più di essi
(come è facile vedere dai nomi citati), ma sopratutto perchè a risanar
Roma, a restituir ivi primamente la disciplina e l’indipendenza
ecclesiastica attesero unanimi; e perchè da queste appena incominciate
a restituirsi, seguì, quasi conseguenza naturale, l’indipendenza
italiana. Invano si disputa di questa o quella minuzia di libertà da
attribuirsi o no ai vescovi ed agli ecclesiastici nella fondazione dei
comuni; invano si allega che i comuni sorsero talora non a favore nè
con aiuto, ma contra i vescovi. La virtù fece i comuni italiani; e la
virtù di quel secolo fu incontrastabilmente d’origine ecclesiastica;
anche quella che in parecchi luoghi si risolve contro ai corrotti
ecclesiastici. — E quindi esce l’insegnamento, che la virtù fa
l’indipendenza; e quest’altro, che niuno forse può tanto sulle virtù
nazionali quanto gli ecclesiastici.

7. E quindi dal pontificato di Gregorio VII (an. 1073) incomincia quel
lungo secolo che dicemmo il più bello della storia d’Italia; non per
altro se non perchè fu il solo bello nella storia dell’indipendenza,
il secolo della conquista fattane da’ comuni. Ed incomincia insieme
e s’accompagna il secolo de’ maggiori papi politici che sieno stati.
E primo dunque Gregorio VII, di cui non è facilmente finito di dire,
che fu pure inventor delle crociate, difensor di popoli e principi
oppressi, stabilitor del solo vero centro politico che sia stato nel
medio evo; esagerator forse di questa centralità; usurpator forse di
alcuni diritti temporali, e di ciò vituperato già, lodato ora sovente,
mentre si dovrebbe forse solamente scusare; Gregorio VII, combattitor
lunganime per tutte queste imprese, e che morì fra esse, esule,
martire, vantandosene e tramandandole ai successori. I quali furono tra
gli altri un Urbano II, adempitor del pensiero delle crociate, Calisto
II, adempitor della indipendenza ecclesiastica, Alessandro III, il
gran confederato dei comuni italiani. Del resto tutti questi papi non
furono già essenzialmente capi di una parte italiana contro all’altra;
e nemmeno capi della nazione contro agli stranieri. Tali furono sì
occasionalmente, temporariamente; ma in essenza, in continuazione ed
in somma, furono ciò che dovevano, capi della Cristianità, non meno e
non più. E se attendendo a tutti gl’interessi cristiani, promovendoli
tutti, que’ d’Italia si trovarono più promossi, ei non fu se non
perchè questi erano allora de’ maggiori. La grandezza temporale dei
papi e l’indipendenza d’Italia crebbero insieme e s’aiutarono senza
dubbio a vicenda. Ma inducono in grave errore coloro che non sanno
narrare se non l’una o l’altra impresa, e fanno così que’ papi più
italiani o quegli italiani più papalini, che non furono. Ei non fu se
non Alessandro III che s’unisse veramente all’impresa d’indipendenza;
e non vi si unì forse intieramente se non quando Federigo Barbarossa
ebbegli contrapposto un antipapa, e così più per gl’interessi del
papato che non dell’indipendenza. Nè egli o i predecessori sono a
biasimare, o tener in minor conto perciò. Chi oserebbe biasimare, ed
anzi non lodare coloro che fecero il proprio ufficio prima che quel
degli altri, il loro ufficio maggiore prima che il minore; e che avendo
in mano gl’interessi dell’intiera Cristianità e quelli d’un principato
od anche di una parte italiana (chè di tutte non l’ebber mai), attesero
a quelli sopra questi? In somma, questa fu appunto una delle cause che
quella magnifica guerra d’indipendenza, quella guerra così giustamente
incominciata, così costantemente sostenuta, così mirabilmente condotta
alla confederazione, così felicemente vinta a Legnano, si terminasse
colle paci inadeguate di Venezia e Costanza. Anche Alessandro III,
il massimo fra’ papi aiutatori d’indipendenza, riconosciuto che fu
papa, lasciò l’impresa, abbandonò i comuni vincitori; ed io non so chi
oserebbe dire che facesse male, o che egli avrebbe dovuto rigettare
dalla comunione della Chiesa l’imperatore e mezza cristianità per
gl’interessi d’Italia. E se si dicesse ch’egli avrebbe dovuto far
cessar lo scisma come papa, e continuar la guerra come principe, si
farebbe una distinzione impossibile forse a mantenersi in qualsiasi
tempo, ma certamente in quello. Non era nemmeno proprio di quel
tempo, già il dicemmo, che si cercasse l’indipendenza compiuta
dall’imperatore; ed ottenutone quel tanto per cui s’era combattuto,
si sciolse la lega. — E da tutti questi fatti uscirebbono poi
numerosissimi insegnamenti; ma due sopra tutti: che le confederazioni
sono senza dubbio il miglior mezzo di conquistare l’indipendenza;
ma che senza indipendenza compiuta non si sogliono nè si possono
conservare confederazioni; e che i papi, grandi aiutatori, non possono
essere buoni capi a tali imprese.

8. Dalla pace di Costanza (anno 1183) alla venuta di Carlo VIII (anno
1494) corrono poi quei tre secoli della gioventù, dello splendore
e dell’incontrastabil primato d’Italia, da cui sorgono sperimenti e
insegnamenti innumerevoli oramai; secoli di minor virtù che non il
precedente, colsero i frutti seminati da’ padri, tranne uno che non
seppero maturare. Non seppero compiere la indipendenza; allettati che
furono dall’altra opera più immediatamente piacevole, di compiere ed
esagerare la libertà interna. Dimenticarono l’imperatore per volgersi
contro a questo o quel tirannuccio vicino, contro ai nobili grandi o
minori, contro agli stessi popolani maggiori o grassi, o viceversa; con
perpetue vicende, con ispensieratezza che anch’essa pare inconcepibile
a nostra età, con un eccesso di licenza che servì poi d’argomento
agli avversari non solo de’governi popolareschi, ma d’ogni libertà. Ma
ciò non ostante il vero è che in que’ tempi del sistema feudale, cioè
dell’aristocrazia più ristretta e più oppressiva, dell’ordinamento più
mal ordinato che sia stato mai, il disordine, la licenza stessa, ogni
eccesso popolaresco erano ancora un vantaggio, facevan della nostra
nazione mal libera e male indipendente, una nazione meglio condizionata
di gran lunga che non le feudali. Questo fu il vantaggio d’Italia,
questa la causa del primato di lei lungo i tre secoli; vantaggio
e primato che cessarono poi naturalmente da sè, quando, scemato lo
svantaggio degli ordini feudali nell’altre nazioni, l’Italia non si
trovò più al paragone se non collo svantaggio proprio e massimo della
indipendenza incompiuta. — Intanto fin dal primo de’ tre secoli, tra
que’ governi popolari nuovi, i dialetti diventaron lingua; lingua
poetica, politica, nazionale, servente a tutte le colture. E sorsero o
s’accrebbero le industrie, le navigazioni, i commerci, le ricchezze,
tutte l’arti; in cima a cui, come sogliono, quelle che si chiamano
arti belle, e potrebbon chiamarsi arti somme. Quindi quel primato
di coltura, che riman più incontrastabile che non quello di civiltà,
potendo rimaner dubbio di questa in coloro che tengono per sommo pregio
di essa la indipendenza. — Ad ogni modo corre su questi tre secoli una
grande illusione. Que’ comuni popolarmente retti chiamaron sovente
sè stessi repubbliche; e repubbliche furon chiamati poi da parecchi
scrittori, e ultimamente dal Sismondi in quella storia intitolata
appunto _Delle Repubbliche italiane_, che è uno dei più leggibili e
più letti, e letterariamente uno de’ più bei libri di nostra storia.
Ma se si conservi a quel nome di repubblica il senso etimologico ed
universalmente accettato, di cosa pubblica, cioè tutto lo stato, cioè
lo stato indipendente pubblicamente amministrato; ei si vedrà che di
tutte le così dette repubbliche italiane del medio evo, una sola fu
repubblica vera, quella di Venezia; e nemmen questa dal tempo di sua
nascita o di sua gioventù favolosa, ma solamente da quando essendosi
disputato de’ limiti tra l’imperio carolingio e il greco, ella era
rimasta in mezzo, indipendente. Tutte l’altre città nostre rimaser
comuni e non più; comuni dipendenti, in diritto sempre; in fatto, tutte
le volte che un imperatore potè far valere il diritto. E questo fu il
grave vizio, che viziò le variatissime costituzioni, i fatti, la vita,
la intiera civiltà di quei comuni. E quindi tutti i vizi minori, tutte
le sventure, tutte le incapacità, e la mala riuscita ultima di que’
tre secoli. — E prima le due parti guelfa e ghibellina, le quali (tanto
era il vizio di mirare nelle cose italiane non all’Italia ma fuori, ma
all’imperio, il vizio imperiale) prendendo nome da due famiglie che
si disputarono l’Imperio poco dopo la pace di Costanza, rimasero in
breve, la ghibellina parte imperiale, la guelfa parte papalina e dei
comuni; parte, così, incomparabilmente più nazionale. Strano, assurdo
a vedersi ora, dopo l’evento! che fosse tale una parte, non la nazione
intiera; che una parte sola sapesse e volesse seguire quell’andamento
così naturale in tutte le imprese di indipendenza, di compierla dopo
una prima vittoria; che un’altra parte fosse a voler fermare od anche
far indietreggiare l’impresa. Ma tant’è; in tutt’i tempi, fra tutte
le imprese, sono di questi fermatori ed indietreggiatori; buoni senza
dubbio se l’impresa è cattiva, ma pur senza dubbio cattivi se l’impresa
è buona, come era certamente questa dell’indipendenza. Quindi per
un secolo all’incirca, tra le contese d’imperio che seguirono la
morte d’Arrigo VI di Svevia, e la lunga minorità di Federigo II, e
le vicende di questo forse più immaginoso che grande imperatore, e
le nuove dispute d’imperio alla morte di lui, e sotto la condotta di
nuovi grandi papi politici, inferiori solamente ai grandissimi del
secolo precedente, la parte guelfa crebbe, potè molto più che non la
ghibellina. E sotto la sana ombra di lei nacquero, crebbero i padri
di tutte le grandezze italiane: san Francesco, la gran carità, san
Bonaventura e san Tommaso, la gran filosofia teologica italiana;
il Compagni, i Villani, che si dicon grandi cronichisti, ma che in
virtù sono forse i più grandi storici italiani; Dante, Petrarca e
Boccaccio, la gran poesia italiana non arrivata, non arrivabil forse
mai più; i Pisani, Cimabue, Giotto, frate Angelico, Arnolfo di Lapo,
i padri dell’arte italiana. E andiam pure più oltre: guelfe furono
la maggior parte delle grandezze italiane anche posteriori al secolo
guelfo: guelfe in corpo tutte le grandezze papali; guelfe tutte le
ecclesiastiche; guelfe tutte quelle di Venezia, che senza il nome
ebbe più che nessuna l’essenza guelfa, ebbe e serbò ciò che i Guelfi
desideravano, la compiuta indipendenza; guelfe in corpo tutte le
grandezze di quella Firenze, la quale non per altro fu la prima, la più
gentile, la più civile, se non perchè fu la più costantemente guelfa
tra le città italiane; la quale fu l’Atene d’Italia, perchè, come la
greca, fu la innamorata dell’indipendenza.

9. Ma pur troppo, verso il fine del secolo XIII, i Guelfi (come succede
fra’ trionfi a tutte le parti) caddero in gravissimi errori. E prima
in quello già accennato di esagerare, purificare le democrazie. Meno
male! quando la democrazia ha spenta un’aristocrazia, ella se ne fa
una nuova, inevitabilmente; la quale può ben essere meno splendida,
non ricordar co’ nomi i fatti antichi, destar minori ammirazioni
ed invidie; ma che in somma, nata che è, rifà l’ufficio essenziale
d’ogni aristocrazia, l’ufficio di adoperare nel governo della patria
chiunque non ha necessità d’adoperarsi per le proprie sostanze. Ma
l’irremediabil errore guelfo fu quello fatto per un’ira di parte, anzi
per una di quelle prolungazioni d’ira, che son fatali dopo cessati i
motivi e i pericoli antichi, perchè distraggono da’ pericoli presenti;
per una di quelle intolleranze che sviano dallo scopo. I Guelfi del
mezzodì non vollero tollerare l’ultimo resto dell’odiata schiatta
sveva, Manfredi re di Puglia e Sicilia; il quale, non imperatore,
non pretendente all’Imperio come i maggiori, era il solo Svevo da
tollerarsi, e sarebbe diventato poi egli o i figli re indipendente ed
italiano. Per ciò i Guelfi rinnovaron l’errore antico di chiamare i
Francesi; e con tanto minore scusa allora, che avevano cinque secoli
di ulteriore sperienza, e di cresciuta civiltà. E l’errore produsse
il danno solito. Carlo d’Angiò, e gli Angioini suoi discendenti, e
i Francesi suoi parenti diventarono essi signori di parte guelfa,
ne tolsero il capitanato ai papi, trassero ed esiliarono questi ad
Avignone, e ponendo sè stessi, sè stranieri in lor luogo, snaturaron la
parte, la fecero scender da parte sola nazionale, a non altro che parte
degli uni stranieri contra gli altri. — Allora salì d’altrettanto la
parte ghibellina; d’allora in poi diventarono grandi alcuni Ghibellini;
e allora Dante, il grandissimo guelfo, diventò il gran ghibellino. Dico
che questo spiega, non iscusa, e tanto meno non fa bello, non imitabile
il mutar parte di Dante. Io credo amar Dante quanto l’ami qualunque
Italiano. Ma più che lui quell’Italia, che egli amò pur errando; ed
ammaestrato co’ miei contemporanei da cinque nuovi secoli succeduti,
amo sopra ogni uomo o cosa italiana l’indipendenza d’Italia. E dico che
il mutar parte è sempre grande infelicità a chicchessia; che tuttavia
non è colpa, anzi è virtù mutar da una più cattiva ad una più buona,
o men cattiva, ma che è infelicità e colpa il mutar alla più cattiva,
quand’anche l’altra abbia fatto errori, sciocchezze o delitti; bastando
allora separarsi in ciò, od in tutto da essa, senza unirsi alla
peggiore. E Dante si vantò di tal moderazione, si vantò d’aver «fatto
parte da sè stesso»; ma nol fece, ma cadde in quella parte peggiore.
Pur troppo è dimostrato irreparabilmente, a chiunque non abbia il vizio
di non veder vizi negli oggetti del proprio amore, da quell’incredibil
libro _Della Monarchia_, che è più colpevole, più fuorviato, più
mediocre che non le stesse mediocrità e sciocchezze guelfe, perseguite
con tanti disprezzi da Dante. E molti pur troppo fecero come lui;
molti si ritrassero dalla parte guelfa diventata non meno straniera
che la ghibellina, si ritrasser da’ papi diventati stranieri.
Vedesi nell’opere degli altri due padri di nostra lingua, Petrarca e
Boccaccio; e vedesi nel fatto de’ Vespri Siciliani, e in quel di Cola
di Rienzi, e in tutti quelli italiani fino al ritorno dei papi. La
parte guelfa aveva perduta la sua virtù primitiva. Ma la ghibellina non
ne aveva guari acquistata, perchè non n’era in sua natura; perchè non
ne può essere in niuna parte contraria all’indipendenza nazionale.

10. Dal ritorno de’ papi fino alla morte di Lorenzo il Magnifico, è
la decadenza dei comuni italiani, è quel secolo XV, tanto inferiore
in virtù politiche al XII e al XIII, in lettere al XIV e XVI; quel
_Quattrocento_, che, salve l’erudizioni e l’arti, si potrebbe ricordare
all’ingrosso col nome di secolo di mediocrità. I papi reduci di quel
soggiorno di Avignone che fu chiamato cattività di Babilonia, non
ritrovarono nè il capitanato di parte guelfa nè quasi parte guelfa.
Le parti, snaturate, cadono da sè. E tra la guelfa non più buona, e
la ghibellina non istata buona mai, non rimase più parte nazionale
nessuna. Vera e compiuta nazionalità italiana non era stata mai; ma
in mancanza di quella aveva giovato la parte nazionale. Or, mancando
questa, mancò tutto; la virtù, l’ambizione stessa, l’ispirazione
nazionale. E questa è la causa dell’essersi fermato il progresso
delle lettere, e dell’armi nel _Quattrocento_. Nate le lettere,
sempre continuano ad essere letterati; nate le milizie, condottieri,
uffiziali. Ma quando manca l’ispirazione i letterati non si fanno
autori, i condottieri non capitani. Che se poi nel _Cinquecento_ si
rividero autori ma non capitani italiani, egli è che a rifar quelli
bastano talora le speranze, ma a questi è necessaria la realità della
nazionalità e dell’indipendenza; e che a questa riacquistare la misera
Italia mancò intanto una delle più belle occasioni che le sieno mai
state apparecchiate dalla benigna Provvidenza. — Era il tempo che
cresceva con ammirabile intelligenza degli interessi proprii e di
tutti i germanici la casa d’Absburgo, la gran casa d’Austria. Fin dal
nascere, fin dal suo grandissimo fondatore Rodolfo, ella s’era scostata
dalle vane ambizioni italiche degli antichi imperadori sassoni,
franconi e svevi; aveva inventata, proseguita, ampliata, satisfatta
una nuova ambizione nazionale germanica. E quindi, se ci si conceda una
volta dir grandi i principi, non in ragione di ciò che ambirono, ma di
ciò che fondarono, grandi noi diremo questi, che posero le fondamenta
della grandezza austriaca lungo le falde settentrionali dell’Alpi,
su quel Danubio dove sono oggi ancora la sedia e i destini di lei.
Quinci era bella all’Italia l’occasione di conquistar quel poco che
le mancava d’indipendenza; di far passare in diritto ciò che ella
aveva quasi intiero in fatto. Ma ella si contentò di godere ciò che
n’aveva senza cercare il rimanente. Nè i papi talor grandi, nè Cosimo
e Lorenzo de’ Medici, i più grandi uomini di stato di quel secolo, non
pensarono guari all’avvenire della patria. Lorenzo stesso, l’autore
della confederazione da noi lodata, non pensò a compiere nulla, ma
solamente a conservare; e non pensò che non si conserva mai nulla
bene, che non sia perfetto. L’Italia dopo due secoli di coltura, dopo
quattro d’indipendenza quasi compiuta, non s’era maturata a compierla,
a carpirne l’occasione. E l’indipendenza incompiuta, lasciò l’Italia
aperta a qualunque nuova, ed anche menoma intrusione straniera.

1. La venuta di Carlo VIII sovvertì l’Italia al momento in che, sgombra
di stranieri e confederata, ella potea parer più vicina a condizione
di vera e grande nazione. E quindi sono giuste, naturali, e volgari
le invettive contro a quel re di mente ed ambizioni leggiere, contro
a’ Francesi che leggiermente il seguirono, contro agli Italiani che lo
chiamarono scelleratamente. Ma si vorrebbon pure rivolger l’ire contro
a tutta quella generazione d’Italiani più colti e più eleganti che non
forti, più corrotti che inciviliti, i quali soffrirono così facilmente
quella conquista così leggera. Del resto questa passò in poco più
di un anno; e passarono poi parecchie altre francesi, spagnuole e
tedesche, con vergogne e danni nostri crescenti senza dubbio. Ma il
danno maggiore e durevole ci venne da questi ultimi e soliti stranieri.
L’Imperio, il funesto imperio romano-tedesco fu quello che ci perdette
questa volta come l’altre; le ragioni dell’Imperio furon quelle che
fecero dar prima al Moro traditore, poi rivendicare all’Imperio, e
serbarsi finalmente da casa d’Austria quella Lombardia che è di lei
ancora; l’Imperio che spalancò tutte le porte d’Italia a Carlo V;
l’Imperio che, già infermo di tutti que’ mali fra cui prolungò poi
sua decrepitudine, sostituì a sè, nel possesso della misera Italia,
le due case austriache, spagnuola e tedesca. L’Imperio e l’elegante
corruzione furon quelli che in poco più di sessant’anni fecer passare
l’Italia dalla più lieta alla più trista, dalla più libera alla più
servil condizione in che sia stata mai. — Ma ammiriamo anche di mezzo
ai nostri dolori le vie della Provvidenza. Tutti quegli stranieri
accorsi a straziarci, Spagnuoli, Francesi e Tedeschi, riportarono
a casa alcune parti della nostra già vecchia coltura; e così questo
secolo, già terzo della nostra, fu tenuto primo di tutte l’altre, e
v’ha nome di _secolo di risorgimento_. E diciam pure, che noi soffrimmo
dunque per tutti. Ma sappiam confessare che non soffrimmo senza colpa;
sappiam vedere che tutto quel nostro primato di coltura od anche di
civiltà, non ci servì nulla, nè a compiere nè a serbar nemmeno ciò
che avevamo d’indipendenza, nulla a salvarci nè da lunghi strazi nè
dall’ultima abiezione. — La quale fu confermata poi nel 1559 per quella
pace di Cateau-Cambresis, che lasciò Sicilia, Napoli, Sardegna e Milano
in mano a casa d’Austria spagnuola, e l’Italia imbrancata così da due
estremi. Quando sarà che si osi fare una storia di questi sessanta sei
anni, così splendidi e così tristi, da Carlo VIII a Filippo II, da
Machiavello al Tasso, da Raffaello ai Caracci, da Lorenzo Magnifico
a Cosimo granduca? e che si faccia non coll’animo elegantemente
indifferente di Machiavello o Guicciardini, ma con uno artisticamente
sensitivo ed insieme virilmente giudice delle rade virtù, degli
innumerevoli vizi, delle varie ma vane meraviglie di quella generazione
italiana? A scrivere e far leggere in patria una tale storia, la minor
difficoltà verrebbe forse dalle censure: sarebbe cibo da forti palati,
da generazioni avvezze o almeno adulte all’indipendenza.

12. Da quella nuova e pessima condizione fatta all’Italia, incomincia
quel periodo troppo più lungo che un secolo, il quale è svergognato
in tutte le memorie italiane sotto il nome di Seicento; periodo
della dipendenza diretta più estesa, dell’indiretta più grave, della
nazionalità più ridotta che sieno state mai; periodo che rimane quindi
per natural conseguenza povero d’ogni operosità e virtù ispiratrice,
ricco d’ozi, di vizi e di corruzioni, nelle lettere, nelle arti, negli
ordini civili e nell’armi. Questa opinione del nostro _Seicento_ fu già
universale, ed era non meno sana che giusta. Giusto era e sano, che un
periodo di dipendenza si tenesse per periodo d’abiezione, e l’abiezione
per corruzione; giusto e sano, che posto questo nostro secolo XVII
col X, si vedesse che da qualunque grado di coltura e civiltà, una
nazione può precipitare in dissimili ma pari abiezioni e corruzioni.
Ma ora, corre un modo pessimo di storie; una ricerca di erudizioni
recondite, di filosofie storiche rovesciate; una smania di negare
tuttociò che il senso comune delle generazioni aveva fatto passare in
certezze universali; una pretensione di trovare ed insegnare ciò che
non fu mai nè insegnato nè saputo. È semplice ambizione di novità?
ovvero forse applicazione lata di quel metodo storico, che incominciò
colla negazione delle verità, delle tradizioni più universali e più
importanti? Io non entro in intenzioni, e lascio ciascuno decidere
inappellabilmente delle proprie. Ma discuto i fatti e lor importanze;
ed importantissimo affermo, che si serbi la salutare infamia del
_Seicento_. Invano ci si cita per redimerlo la grandezza di Galileo.
Galileo fu primo, buono, grande e pratico avviatore delle scienze
materiali tutte quante, in quel metodo dello sperimento, che Bacone
non fece se non raccomandare quand’era già incominciato a praticarsi.
E quindi è buona la rivendicazione di questa vera e grande gloria
italiana; buono l’osservare la inesauribile fecondità dell’ingegno
italiano, il quale, troncategli tutte l’altre vie, seppe pur trovarne
a sè ed altrui una nuova e magnifica. Ma le scienze materiali hanno
questa, che non so s’io chiami virtù o vizio: che elle non sono quanto
l’altre, dipendenti dalle virtù, dalle condizioni nazionali; che
elle possono allignare e fiorire anche in nazioni servili e corrotte;
benchè poi non vi fruttifichino a lungo nemmen esse. E il vero è che
la vita di Galileo è prova ella stessa della dappocaggine de’suoi
contemporanei. Non è il papa, non la curia romana, contro cui si
voglian rivolgere l’ire principali per le persecuzioni fatte a Galileo.
La curia romana non fece forse, ella, di quella questione di scienza,
una questione di teologia. Galileo, egli il primo la fece tale, con
imprudenza e zelo senza dubbio molto perdonabile; ma perdonabile è pure
l’imprudenza e lo zelo contrario della curia romana. Ondechè il più
imperdonabile in tutto ciò fu la dappocaggine del gran duca, e degli
altri protettori, e di molti amici, cioè in somma de’ contemporanei
di Galileo. Ma peggio assai è quando, a redimere il _Seicento_, ci
citano un Masaniello, un Bruno, un Campanella; un pescator capopopolo
impazzito tra gli otto dì d’una sollevazione vilissimamente poi
terminata; e due frati, nelle opere di cui si ritrovano non so quali
semi di alcune idee filosofiche, che si trovano (siccome insiste
nella natura umana) quasi dovunque si frughi; ma le cui opere e
la cui vita furon certamente men di buoni filosofi, che di cattivi
teologi, e talora di sciocchissimi astrologi. Meglio citato è Vico,
filosofo nuovo e grande senza dubbio, il quale scrisse tra il finir del
_Seicento_ e il principio del _Settecento_; ma l’assoluta trascuranza
in che fu tenuto da’ contemporanei, prova la nullità ed abiezione
prolungata fino a questi. Nè servirebbe citare un Alessandro Farnese,
un Piccolomini, due Villa, Montecuccoli o il principe Eugenio; tutti
insigni ed alcuni grandi guerrieri, ma guerrieri di ventura fuor di
patria. Le grandezze fuor di patria dimostrano sì, che, secondo la
frase d’Alfieri, la pianta uomo nasce vigorosa in Italia; ma dimostrano
insieme che l’aria vi è sovente cattiva; che per allevarsi grande,
la buona pianta ha talor bisogno d’essere trapiantata; e che l’arie
straniere le sono talora pur troppo più amiche. Tutti questi guerrieri
senza possibilità di guerreggiare per l’Italia e guerreggianti fuori,
mostrano quanto fossero mutate le condizioni nostre da que’ tempi,
in che almeno assoldavamo noi gli stranieri, non mandavamo a soldo
altrui i nostri capitani di ventura. — Se si voglia riposar l’occhio
su qualche vero resto di virtù italiana esercitata in Italia, forza
è rivolgersi a quelle province che, dipendenti dalla preponderanza,
erano almeno indipendenti dalla diretta signoria straniera, Roma,
Venezia, il Piemonte. Ma quali indipendenze, quali virtù anche
queste, se vogliamo una volta guardare e vedere? Di Roma e de’ papi
dell’ultima metà del _Cinquecento_ e di tutto il _Seicento_, abbiamo
da un Tedesco ed acattolico una recentissima storia, la quale descrive
la magnifica resistenza fatta da que’ papi coll’aiuto di parecchi
nuovi e giovani ordini religiosi, contro all’eresie giovani e forti
ancor esse. E v’abbiamo pur degnamente lodati alcuni fatti civili di
alcuni di que’ papi, sopra tutti di Sisto V. Ma questi furono pure
i tempi di quei nipotismo menomato e più vile, che non potendo più
dar province e città, dava poderi e danari; e non aveva quindi nemmen
la scusa di accrescere la potenza, diminuiva solamente la ricchezza
della Santa Sede[11]. E questi sono i tempi che Francia, esclusa
dalla penisola, non aveva nemmen bisogno di scendere per tiranneggiare
Roma, e farsi fare scusa d’aver resistito alle proprie insolenze; i
tempi in cui bastava un confessor di Ludovico XIV a turbar la quiete
della curia romana. — E Venezia poi era indipendente; ma come usava
l’indipendenza? Contro ai Turchi. Ed era bene senza dubbio, e le
imprese di Candia e di Morea possono servire di consolazione a coloro
che ne voglion trovare ad ogni modo. Ma queste imprese tanto vantate
furono, o di conquiste mal assicurate e in breve lasciate, o di difese
lunghe, ma finite coll’abbandono; ondechè in somma elle dimostrano
non altro che impotenza. La quale poi è confermata dalla sofferenza
della repubblica in quella congiura, che più si spiega, più è brutta
per Venezia; come la crescente e già incancherita corruzione di lei
è confermata poi da tutti i particolari di quelle guerre, di quella
congiura, e di tutta la storia di que’ tempi. Ora è un’altra moda,
di esaltar Venezia, e dir immeritate le miserie di lei, e chiamar
insulto il palesarne le cause. Ma a me pare che il peggior insulto che
si possa fare ad una generazione presente, sia il crederla incapace
di sentir le colpe e le corruzioni degli avi. Venezia del _Seicento_
fu corrotta un po’ più, un po’ meno, come l’altre proviuce italiane.
Tanto facilmente, io stava per dire tanto giustamente, s’attacca
la corruzione dalle dipendenti alle indipendenti che soffrono tal
vicina. — Non è dubbio: la men corrotta come la men dipendente fra
le province italiane incominciò allora ad essere il Piemonte; grazie
ai principi antichi e all’armi proprie che serbò. Io non temetti
poc’anzi di sfogliare una corona, la quale si suole por fra l’altre
sul capo de’ reali di Savoia; non fuggii dal dir principio o conferma
della servitù italiana quel trattato di Cateau-Cambresis, che fu
principio o conferma della potenza di quella casa. I fatti parlano,
e la verità è sola utile, e sola rispettosa; ed a quali si vorrebbe
servir più, a tali si debbe, non potendo altro, far omaggio al meno
di essa qual si vede da ciascuno. Emmanuele Filiberto, spoglio del
suo stato da Francia, è, per il primo e sommo diritto di propria
conservazione, scusabile di aver offerto, nobile e gran guerriero,
i suoi servigi a Spagna; d’aver combattuta e vinta la giornata di
S. Quintino, imposto il trattato di Cateau-Cambresis. Ma Emmanuel
Filiberto è senza riserva ammirabile poi fin dal domani del trattato.
Appoggiandosi da quel dì a Francia contro a Spagna, non puerilmente o
poeticamente nemico, ma politicamente e secondo utilità or avversario
or alleato d’ogni straniero, subito intese la nuova situazione di sua
casa; subito ne fondò la politica; la naturale, la inevitabile, la
giustissima politica di giovarsi, tra due vicini soventi prepotenti,
di quello che fa meno prepotenze in ciascuna occasione; e per ciò,
per poter offerire quinci un alleato, quinci un avversario valutabile,
tener sull’armi unito, tranquillo e quanto può felice, il popol suo.
Del resto, il maggior esempio che lasciasse Emmanuel Filiberto a’
successori fu quello di far italiana la sua potenza. Fino a lui quei
principi s’eran tenuti come a cavallo dell’Alpi; egli posesi di qua,
dimorò nella italianissima Torino, stanziovvi la corte e il governo,
fortificolla e incamminolla a gran città, gran capitale; intendendo
subito e molto bene (all’incontro di alcuni moderni) che negli stati
italiani più che negli altri, la capitale è quasi tutto. Così pure
chiamò letterati e incamminò lettere italiane in quella terra sua,
che fu creduta gran tempo Beozia, ed era piuttosto Macedonia nostra.
Nel che e nel resto fu imitato poi da ciascuno de’ successori più o
men bene, secondo le capacità. Ma non è vero che questi tenessero
fin d’allora, come si suol dire, le chiavi d’Italia. Le quali se
avesser eglino tenute, le avrebber tenute molto male, aprendo ad ogni
vegnente; e il vero è che senza Saluzzo e Monferrato essi non avevan
forze da ciò, ed atteser anzi a rafforzarsi con queste nuove province
in Italia, a lasciar per esse parte delle francesi, a chiuder a poco
a poco quelle porte. E così in somma, continuando l’opera di Emmanuel
Filiberto, e quasi soli fra gl’Italiani, guerreggiando, e soli serbando
le conquiste, soli si posson dire aver serbate armi e virtù italiane,
mentre gli altri pultrivano; soli essere progrediti, mentre tutti
gli altri retrocedevano. E così arrivarono essi soli degnamente alle
nuove occasioni. — Ed anche del _Seicento_ sarebbe utile una storia,
severa. Se non che, quale storia farebbe dimenticare quella, difettosa
sì ma inarrivabilmente splendida del Botta? quale poi principalmente
arriverebbe alla piacevole ma terribile, immaginosa ma veritiera
descrizione che ce n’ha data il Manzoni?

13. Ma diciamo una seconda volta qui al secolo XVIII, come il dicemmo
all’XI: LE NAZIONI CRISTIANE POSSONO AMMALARE MA NON MORIRE; e non
possono dunque, quando sono inferme se non guarire. E così, dopo aver
notata nel _Seicento_ una gran dipendenza e corruzione italiana,
noi abbiamo a notar nel secolo seguente un secondo risorgimento
d’indipendenza e di virtù. Il risorgimento è indubitabile; e, noto
già a’ più veggenti, fu fatto chiaro e volgare dai due nostri grandi
storici moderni, Botta e Colletta. Ai quali rimandando per li fatti,
basterà a noi fermarci alle cause principali. — E la prima fu la
medesima che quella di sette secoli addietro: la incorruttibilità
cristiana. Ma questa operando sempre, opera con mirabile ed
inesauribile varietà, secondo i tempi. Nel secolo XI, corrotta la
intiera cristianità, non poteva essere se non la chiesa stessa, il
fonte dell’incorruttibilità che risanasse il resto; ed ella risanò
prima la nazione circondante il centro suo, la italiana. Ma progrediti
i tempi, le corruzioni generali diventarono e rimangono impossibili
quanto le barbarie; e ad ogni modo fino ad ora non se ne rividero
più. Quando l’Italia, che aveva tenuto il lungo primato, ma che
non l’aveva stabilito sulla compiuta indipendenza, lo perdette poi
colla corruzione, il primato passò di mano in mano all’altre nazioni
cristiane. Ebbelo prima, dopo l’Italia, la penisola iberica, operosa
e virtuosa in navigazioni, conquiste, missioni, diffusioni, arti e
lettere lungo tutto il secolo XVI e parte del XVII. E vuolsi egli
vedere come fa a passare il primato? Italiano era stato Marco Polo
scopritore e descrittore dell’ultimo oriente; italiano tutto quello
studio di questo, italiano quel disegno di giungervi da occidente,
che furono così bene illustrati dall’Humboldt; italiano Colombo, che
adempiè il disegno; italiano Amerigo, che gli diè nome. Ma memorie,
studii ed uomini proprii furon negletti dall’Italia non più operosa; e
così tutto il frutto ne passò a Spagna operosa, e questo frutto trasse
seco il primato. E corrottasi Spagna rapidamente fra i rapidi trionfi,
il primato passò poi a Francia. Se non che questo passare i primati
dall’una all’altra nazione cristiana, ci pare fatto così importante a
ciascuna (ed alla nostra principalmente, dopo quello che chiameremmo
il magnifico error del Gioberti) che trattandone espressamente
altrove, noi il lasciamo qui non più che accennato. — Ad ogni modo,
al finir del _Seicento_, al principio del secolo XVIII l’Italia
giaceva in condizioni inferiori a quelle di una o due, o quasi tutte
le nazioni cristiane. Un caso, una fortuna (uno di que’ fatti che più
indipendenti dalle cause umane, sono, anche dagli uomini men credenti,
attribuiti alle superiori, e detti così provvidenziali) il finir
della schiatta austriaca spagnuola, rimescolò le nazioni cristiane,
e le ricondusse, siami lecito dire felicemente per questa volta, in
Italia. Una sola provincia, un solo principe si trovò pronto alla
occasione; e tanto bastò a determinare un risorgimento d’indipendenza,
e quindi di operosità, di civiltà, di colture, di virtù italiane.
Aprissi nel 1700 la successione di Spagna; un buon terzo d’Italia
trovavasi, quasi podere, compreso in essa; gli abitatori del podere
non si mossero, non s’aiutarono; fu naturale, eran sudditi stranieri
da cencinquant’anni. Ma un principe italiano, Vittorio Amadeo II di
Savoia, pretendeva parte pur egli a quel retaggio; e se la fece dare,
tra per l’operosità e virtù propria, e quella del parente, il principe
Eugenio, e quella serbata da’ suoi maggiori a’ suoi popoli (tanto
quest’arte di serbar l’operosità de’ popoli è arte utile ai principi);
e così n’uscì col titolo e la realità di re, e con Sicilia aggiunta
al suo stato più che mai italiano; e così rimase scemata di tanto la
parte straniera. — Ciò fin dalla pace di Utrecht nel 1714. E rimanevano
province tedesche il resto del Regno e Milano, e spagnuola Sardegna.
Ma in breve, surte due altre occasioni simili, le due successioni di
Polonia e della casa d’Austria tedesca, e rimescolatasi similmente due
volte la Cristianità primachè il secolo fosse a mezzo, si concentrò
e s’accrebbe di nuovo lo stato Italiano di Piemonte lasciando Sicilia
per Sardegna, ed acquistando a brano a brano buona parte di Lombardia;
e il regno di Napoli e Sicilia finalmente restaurato passò a un ramo
di casa di Francia, che diventò prontamente italiano; e passò Parma
a un altro simile; e Toscana a un ramo della nuova casa austriaca,
che pur diventò italianissimo. E così accresciuti, rinnovati quasi
tutti i principati italiani, non rimase straniera se non Milano con
una striscia di Lombardia. E allora di nuovo si toccò in altro modo
all’indipendenza compiuta; la seconda metà del secolo XVIII somigliò
alla seconda metà del XV; con questo vantaggio di più, che nel primo
l’Italia era sul retrocedere, in questo era tutta sul progredire. — Nè
furon soli a venirci così di fuori i risorgimenti civili. Io scongiuro
gli scandali; e noto subito che questo era in quasi tutta Europa il
tempo di una perdutissima filosofia; ma era pur il tempo di progressi
incontrastabili in molte arti, ne’ commerci, in tutte le scienze
materiali, in molte civili. E l’Italia ebbe allora il gran senno di
prendere molto di questi, e poco di quella; prese il buono e lasciò
il cattivo degli stranieri; seguì quell’esempio de’ propri maggiori,
i Romani, che è più di niun altro degno di tramandarsi a’ nepoti. Ed
io pur m’affretto a spiegare, per coloro che contro ai fatti generali
più chiari hanno il vizio d’addurre le eccezioni particolari, non
mai mancanti, che qualche male fu preso, qualche bene lasciato senza
dubbio. Ma in somma, questi furono i tempi in Napoli di Carlo Borbone,
in Firenze di Leopoldo, in Milano del conte di Firmian, ed in Piemonte
di Vittorio Amedeo II e Carlo Emmanuele III; i tempi che il Piemonte
fatto entrare da Emmanuel Filiberto nella politica, entrò finalmente
pure nella coltura d’Italia, e v’entrò coi due gran nomi di Lagrangia
e d’Alfieri. I miei leggitori hanno già potuto vedere che io non do
importanza ai fatti letterarii sopra quelli di civiltà o di virtù
nazionale; ma questo dell’essere entrata una gran parte d’Italia nella
comunanza de’ pensieri italiani mi sembra fatto più che letterario,
e che fu e può essere fecondo di civiltà e virtù. Quelle rinnovazioni
che accennammo venir naturalmente dall’una all’altra nazione cristiana,
sono forse anche più facili e più felici dall’una all’altra provincia
d’una medesima nazione. E così (aggiugnendosi al Parini, il grande
derisore dell’effeminatezze ereditate dal _Seicento_) il piemontese
Alfieri fu il gran rinnovatore di virilità nelle lettere, e per le
lettere nell’opinioni italiane. E così gli ozi e vizi scemati, le
operosità e virtù cresciute corrispondevano alla cresciuta, alla quasi
compiuta indipendenza.

14. Ma qui si vede più che mai, che non è fatto nulla finchè questa
non è compiuta. Fu veduta da’ nostri padri, e udita da noi tutti in
quegli anni di puerizia o gioventù le cui impressioni non si cancellano
per prolungar di vita ne’ superstiti, e fu tramandata ai posteri dal
Botta e dal Colletta, la trista ma utile storia degli errori, delle
impotenze italiane in quella ultima e grande occasione. — Francia
anch’essa aveva avuta dopo il suo primato la sua corruzione, il suo
_Seicento_; dopo il secolo XVII e Ludovico XIV, il secolo XVIII e
Ludovico XV. La corruzione francese fu diversa dalla nostra, secondo
la diversità dei tempi e delle nazioni; fu minore nelle condizioni
politiche e civili, uguale forse nei vizi, molto minore in lettere,
molto maggiore in teorie e filosofie; ma in somma fu pur grande
corruzione. E scoppiata in sovvertimento della intiera nazione,
minacciò sovvertire l’altre cristiane. Sollevaronsi quasi tutte queste
contra Francia, Francia contra esse; e ne seguirono invasioni di qua,
invasioni di là, tentativi di repubbliche, tentativi di monarchia
universale; ma all’ultimo (tal è la virtù intima, la vitalità della
Cristianità) ne risultarono il fine di quell’impostura, durata 1005
anni, dell’Imperio romano, Francia tornata ne’suoi limiti e riordinata
sotto alla sua schiatta regia, Germania meglio ordinata, Spagna
diminuita, ma ridestata, le colonie spagnuole salite a indipendenza;
salita Inghilterra a quella grandezza che veggiamo; la Cristianità,
a malgrado i difetti di quell’ordinamento, più che mai costituita
addentro, più che mai trionfante fuori a tutti i limiti suoi. — Ma
l’Italia? Non facciamo su di essa ipotesi retrospettive, non perdiamoci
in rincrescimenti troppo discosti dal fatto; non cerchiamo qual
parte avrebbe potuta prendere alle pugne od ai profitti, se ella si
fosse trovata indipendente e confederata. Ma abbandoniamoci pure al
rincrescimento, che potrebbe esser utile un dì: ch’ella non siasi
trovata pronta alla grande e nuova occasione di compiere quel poco che
le mancava d’indipendenza; che quel risorgimento durato già da quasi un
secolo non fosse giunto a tanto da riunir tutte le opinioni, tutti gli
animi in questo solo pensiero. Pur troppo quel risorgimento d’origine
straniera aveva coi beni incontrastabili portati seco alcuni mali che
divisero la nazione. E poi tutte quelle case di principi straniere, già
allora italiane nuove, non erano ancora tanto progredite in nazionalità
da sentire od ispirar fiducia, non erano italianizzate abbastanza.
Ma soprattutto ed al solito, il gran danno fu lo straniero, dico lo
straniero piccolo allora dentro Italia, ma sproporzionatamente grande
fuori; e che entrato quindi con tal superiorità a trattare e difendere
gli interessi italiani, li fece diventar in breve tutto suoi. Così
avvenne che quella pugna durata 25 anni in Italia non fu un momento mai
pugna italiana, ma solamente tra lo straniero stanziato e l’invasore,
tra Austria e Francia. Noi ricordiamo ancora quegli anni in che non
era nulla così odiato da Austriaci o Francesi e talora (vergogna!)
da Italiani, nulla così sospetto, o perseguitato, o proibito, come
l’interesse, come il nome stesso d’Italia. Non poteva venir bene ad
una nazione così mal progredita per anco, così male apparecchiata. —
E di fatti Piemonte, assalito primo, gridò, chiamò confederazione,
ma invano. Napoli mandò due reggimenti di cavalli, e credette aver
mandato degno aiuto. Austria sì mandò; ma altro che aiuto! un esercito
d’occupazione. E tra l’armi proprie e il mal aiuto, Piemonte si difese
pur bene tre anni; ma poi tra l’uno e l’altro passò Bonaparte battendo
di qua, battendo di là, che non avrebbe battuto forse (come disse pochi
anni dopo un suo intrinseco a un ambasciadore piemontese a Parigi) se
avesse avuto dinanzi solamente o gli uni o gli altri; o piuttosto,
direi io, se avesse avuti solamente Italiani, soli interessati
vivamente a non lasciar passare. Ma aperta allora la penisola, fu corsa
poi a vicenda da Francesi, Austriaci, Tedeschi di ogni sorta, Ungheri,
Slavi, Inglesi e fin Turchi per 18 anni; provate repubbliche, provato
un regno d’Italia, provate divisioni nuove in lungo ed in largo,
sollevate parti nuove, parte francese, parte austriaca, parte regia,
parte popolare, parte di chiesa, parte filosofica, tutte le parti,
salvo parte italiana; un _Cinquecento_ novello, meno l’eleganza, le
lettere e le arti. E i risultati ultimi e sommari furono: cessato il
grande incomodo dell’Impero romano, grandissima fortuna! cessate le
decrepite aristocrazie di Genova e Venezia, pochissimo danno! Genova
riunita a Piemonte in uno stato irrevocabilmente italiano, gran fortuna
anche questa, che sarà ogni dì più sentita! Lucca ed altri territori
minori riuniti ai principati maggiori, fortune simili. Ma Venezia
riunita a Lombardia in provincia straniera, più ampia, più compatta,
più fortemente tenuta; innegabile ed incompensato peggioramento delle
condizioni italiane.

15. E quindi, che fu d’allora in poi? Che è per noi quest’età allora
incominciata? Qual nome avrà in Italia questo secolo XIX in che
inoltriamo? Forse nuovo e peggior _Seicento_? Secolo indietreggiato
a quella o peggior dipendenza, a quella o peggior corruzione? Ovvero
all’incontro continuazione del risorgimento del secolo precedente? —
Certo, se s’attenda a quella parte tanto cresciuta dello straniero,
si può temere d’esser tornati ad una dipendenza poco minore di
quella del _Seicento_, si posson temere simili conseguenze, di
impedimenti, d’inoperosità, di ozi e vizi servili. Nè mancherebbon
pur troppo indizi di tali danni. — Ma forse, a chi attenda meglio,
a chi si volga alla parte italiana d’Italia, i timori si volgeranno
in isperanze. Quell’essere finalmente liberati i principati italiani
dallo spauracchio del falso Imperio romano, è pure un gran chè, un gran
progresso. I principati italiani, non sono abbastanza, non intieramente
indipendenti in fatto; ma egli è pure un gran chè l’essere diventati
tali in diritto incontrastato. Il diritto può ricondurre al fatto; e
tanto più nelle presenti condizioni di civiltà, di Cristianità. Non
solamente non sarebbero più tollerate le usurpazioni materiali della
potenza straniera sulle italiane; ma nemmeno le prepotenze morali, le
intrusioni gravi, scandalose, patenti. Non solamente sono guarentite
dall’intiera Cristianità e fanno parte del diritto pubblico europeo
le indipendenze de’ principati italiani; ma sono desiderate da quasi
tutti, sono riconosciute di diritto quasi naturale le indipendenze
d’ogni grande ed antica nazione cristiana. Si tende a fare entrar tutte
queste nella gran repubblica, nel grande stato degli stati; s’intende
ciò essere interesse, ciò forza, ciò felicità universale. — Ed aiutati
o spinti così, dall’universale opinione, i principi italiani han pure
ricominciato a progredire da sè. Qual più, qual meno, ma quasi tutti.
Hanno ordinati eserciti quali non furon mai in Italia. Han rinnovate
leggi accostandole ai tempi e le hanno ordinate in codici, progresso
immenso per sè. E se s’accingono lenti a secondar i progressi della
marineria, delle comunicazioni, de’ commerci, ed in generale di
tutti quegli interessi materiali che disprezzan forse troppo, ei vi
si sono pur accinti, e qui forse più che in niuna cosa il principio
importa seguito. Se non han data nè lasciata alle colture quella
spinta, quella ispirazione nazionale, che sola fa di esse un fatto
importante; essi non le hanno poi nemmeno fatte nè lasciate cadere in
corruzione e viltà; vi hanno promossa quella sodezza che è vicina a
virilità; e noi siam lungi dalle effeminatezze e dalle puerilità del
_Seicento_, e da alcune stesse del _Settecento_[12]. E si aiutano pur
da sè i popoli italiani; non solamente secondando e chiamando tutti
que’ progressi di lor governi, ma entrando spontanei in quelli che
non posson venire se non dall’opinione, dalle virtù di ciascuno. Noi
siamo lungi dal _Seicento_, e forse dal _Settecento_, ne’ costumi
anche più che non nelle colture. E noi ritorneremo pur su questa, che
è una delle migliori Speranze italiane. Qui ci basta l’osservare che,
incontrastabilmente, noi non siamo ricaduti per ora, in una terza
corruzione italiana; che siamo nella continuazione dell’opera del
secolo scorso, in quel risorgimento che parve, ma non fu arrestato,
dall’invasione straniera; che noi uscimmo di questa con vantaggi i
quali supereranno, se Dio voglia, i danni; con innegabili progressi
nell’operosità, nella virtù, nel sentimento di nazionalità, nel
desiderio d’indipendenza. — La storia dell’impresa incompiuta in XIII
secoli, è, intanto che diventi gloriosa, lunga e trista pur troppo;
trista sopratutto per tante occasioni perdute. Ma la nazione italiana
sembra educarsi a non perderle più. Ed è quindi tempo molto opportuno
di cercare quali sieno probabili, come possiamo giovarcene. Dal passato
brevemente percorso, facciam dunque ritorno al futuro, oggetto solo ed
importante del nostro studio.




CAPO OTTAVO.

EVENTUALITÀ FUTURE DELL’IMPRESA


1. Siami lecito domandare qui a’ miei leggitori un raddoppiamento di
tolleranza. Io sono per dir verità o che almeno mi paiono tali, più
ingrate forse che non le dette; per eliminare speranze più care forse
che non le eliminate finora. Ma le verità ingrate sogliono essere
le meno dette, epperciò le più utili a dire: e non è se non colla
eliminazione delle speranze false, che si può giungere al risultato
delle vere. Conscio io di dispiacere a molti, forse ai più (terribil
pensiero) de’ miei compatriotti, non ne avrei probabilmente il
coraggio, se credessi di poter mai giovar loro coll’opere, se temessi
troncarmivi la via colle parole. Ma non potendo far loro tributo se non
di queste, tant’è ch’io il faccia tutt’intiero.

2. Quando si parla di futuro, ei ne sono a distinguer due. Uno lontano,
separato dal presente per una serie indeterminata di tempi e di fatti,
e che si può quindi chiamare futuro imprevedibile. E questo è quello
di che abusano i sognatori, tutti coloro che immaginano cose nuove
impossibili ad effettuarsi, o cose antiche impossibili a restaurarsi.
Non serve dimostrare a costoro le improbabilità. Con ostinatezza
che scambiano per costanza ei ti rispondono sempre i medesimi «Chi
sa? Verrà un giorno. Non bisogna disperare». Non è da discorrer con
costoro, nè con nessuno del futuro imprevedibile. Nè è per tal futuro
o per le poche speranze implicate in esso che si vuole adempiere niun
dovere; ma per il dovere nudo, avvengane che può. Quando la impresa
d’indipendenza, durata XIII secoli, avesse a durarne altri XIII, o
XXVI, o infiniti, senza compiersi, ella dovrebbe pur proseguirsi senza
speranza; perch’è dovere d’ogni nazione; perchè val più una nazione che
prosegua quell’impresa tra una servitù interminabile, che non una che
alla servitù si adatti, che se ne consoli. E detto ciò a tal nazione
sarebbe detto tutto.

3. Ma ei vi ha, grazie al Cielo, un altro futuro, un futuro prevedibile
per l’Italia. Il quale è per vero dire incerto anch’esso, come è ad
ogni uomo ogni ora, ogni momento, oltre il presente, ma a cui più o
meno vicino arrivano pure le conseguenze dei fatti presenti, arrivano
le deduzioni che se ne posson trarre, arriva la previdenza umana. E di
questo non è vero, come dicono alcuni storici impuntati sul passato
od alcuni pratici impuntati sul presente, che non si possa parlare.
Si può, si deve, e si fa continuamente da tutti gli uomini di pratica
che sanno governar gli affari umani e non lasciarsene governare; si fa
da molti grandi ed anche piccoli scrittori; si fa quotidianamente da
numerosissimi scrittori quotidiani; e quando si fa colla pretensione
non di pronunciar profezie, ma di discutere probabilità, si fa bene o
male, ma legittimamente da ciascuno. Dicemmo gloria del Gioberti l’aver
primo forse discorso in tal modo di questo nostro futuro prevedibile.
E di questo solo e in tal modo intendiamo discorrere anche noi;
restringendoci anzi a ciò che tocca all’indipendenza, alle eventualità
della antica impresa italiana.

4. Incominceremo colle solite e pompose frasi. Sappiamo anche noi
che una nazione di 23 milioni d’uomini che voglia liberarsi, si
libererebbe quando avesse contra sè l’universo mondo. Sappiamo che una
tal nazione può mettere in campo uno, due, tre milioni di combattenti,
e che il mondo moderno non può nè vuole metterne contra essa la metà
altrettanti. E sappiamo che quando fosse all’opposto, quando stessero
mezzo milione od anche meno di combattenti per l’indipendenza, due
o tre milioni di combattenti all’incontro, la vittoria non sarebbe
dubbia; perchè la virtù d’una causa contò sempre molto, ed ora conta
forse tutto; e se non su un campo di battaglia, certo su un campo
di guerra, fa all’ultimo valer per dieci ogni difensor della causa
virtuosa, riduce a un decimo del valor suo naturale ogni difensor
della cattiva. — Ma qui sta il punto, qui la difficoltà: unire in campo
quelle poche centinaia di migliaia di combattenti, unire all’impresa
la nazione intiera. La difficoltà mi par grave; e valer la pena d’esser
esaminata adagio, e facendo tutti i casi.

5. L’unione all’impresa d’indipendenza, ci pare non poter venire se
non 1.º o spontaneamente da principi italiani, 2.º o spontaneamente
da una sollevazione nazionale, 3.º o per mezzo di una chiamata di
nuovi stranieri, 4.º ovvero finalmente per qualche occasione che si
afferrasse meglio che non fu fatto finora. Sono quattro speranze, o
disegni. Esaminiamole ad una ad una.

6. SPERANZA 1.ª — DAI PRINCIPI. Questi non si possono unire se non
o per mezzo di una confederazione che avessero già stretta, in che
continuassero, e che volgessero allo scopo speciale dell’indipendenza;
ovvero per una che facessero apposta. — Ma la prima, già difficile
per sè, come dicemmo, sarebbe impossibile poi a rivolgere allo scopo
d’indipendenza. Quand’anche i principi italiani fossero stati da
tanto, di far la confederazione continua senza lo straniero (come
vorrebb’essere naturalmente per poterla rivolger contra lui), e questo
fosse stato così dappoco da lasciarla fare, egli è poi più che mai
improbabile che fossero quelli tanto dappiù, e questo tanto dammeno che
si potesse fare quel rivolgimento. Il timor del quale è quello appunto
che non lascerà far mai la confederazione continua, quantunque innocua
in apparenza. — E quanto poi a far d’un colpo, partendo dal nulla, una
lega di indipendenza, ella può ben succeder nel futuro imprevedibile,
ma non in niuno di che io sappia prevedere o discorrere. In fondo ad
ogni pensiero di confederazione per l’indipendenza, è sempre un circolo
vizioso; la confederazione per l’indipendenza non si può fare, o almeno
non si può sperare che si faccia, se non coll’indipendenza. Questa
speranza mi sembra poco da valutare per sè stessa indipendentemente
dall’altre. Dato che i sei o sette principi italiani facciano mai una
lega per l’indipendenza, ei non la faranno se non aiutati da’ popoli
o dagli stranieri o da una occasione, o da tutto insieme. Ondechè
all’ultimo le speranze da considerare sono le tre rimanenti.

7. Vengo dunque alla SPERANZA II.ª — DA UNA SOLLEVAZIONE NAZIONALE.
Ma io penso che nessuno mi vorrà udir discorrere d’una sollevazione
che si facesse per un moto spontaneo e concorde da Susa a Reggio.
L’accordo dei 23 milioni di uomini sarebbe più impossibile che non
quello de’ sei principi. Questi moti spontanei non si sono veduti
guari in niuna gran nazione, ma solamente in qualche gran città, o
tutt’al più in conseguenza di qualche atto immane di tirannia che
unisse tutti gli animi in uno sdegno[13]; due casi diversi dai nostri
prevedibili. Nè potrebb’essere il caso di quel modo di sollevazione
recentemente inventato o perfezionato in Irlanda, e chiamato _per
agitazione_. Qual che abbia ad essere il frutto di questo modo, ei non
può usarsi se non in paesi già molto liberi, e in che si voglia più
libertà o indipendenza; ma in quelli così tenuti che v’è difficile ogni
menomo movimento, è impossibile il movimento massimo dell’agitazione.
— Quanto alle sollevazioni non universali, ma parziali, non della
nazione, ma d’una città od anche di uno intiero degli stati italiani,
ho io bisogno di ridire che elle sono un nulla, o peggio che nulla
allo scopo unico, alla indipendenza nazionale? di rammentare gli
sperimenti fattine? o fermarmi a dimostrare che il frutto delle
imitazioni sarebbe simile a quello degli esempi? Che sarebbe frutto
di dipendenze vecchie accresciute, e di nuove aggiunte? Ma io farei
ingiuria ad ogni lettore assennato con fermarmi a tutto ciò. — Io
scrittore, avendo nel 1814 avuto l’onore d’essere presentato ad uno
de’ maggiori uomini di stato dell’Imperio austriaco, al dì che giunse
in Parigi la nuova della sollevazione de’ Milanesi (la qual fu pure
diretta allo scopo unico dell’indipendenza, più che niuna delle fatte
poi); e scandalezzandosi chi mi presentava ed era gran conservatore,
all’udir quella sollevazione, quel tumulto popolare: «Oh! ma!» riprese
l’Austriaco, «è sollevazione tutta a favore di casa d’Austria». E il
detto mi s’infisse per non uscirne più mai, nella mente giovanile;
fu uno di quelli che la conformarono fin d’allora a queste opinioni,
che vengo or vecchio promovendo. — Quanto poi a quella osservazione
volgare, che anche questi moti parziali, ed anche falliti, giovano a
tener vivo il fuoco sacro della libertà, risponderò brevemente (e credo
basti ai sinceri) che giovano anzi a tener vivo il fuoco empio delle
divisioni e delle vendette. E finisco con dire ai governanti: »Deh
non date occasioni»; ed ai governati: »Deh non prendetele quand’anche
vi son date, a queste sollevazioni parziali. Dove che sia la prima,
dove che resti la colpa ultima, è men colpa degli uni verso gli altri,
che non verso la patria comune e straziata». — Ma se la sollevazione
universale contro agli stranieri è poco men che impossibile, ed una
parziale è nociva, ei ci resta ad esaminare se non sarebbe il caso poi
di una sollevazione generale, che si preparasse e facesse con quelle
congiure o società segrete, che son tutt’uno comunque si chiamino, e
qual che sia vessillo esse innalzino. E di queste poi non mi fermerò a
dire tutte le bruttezze; non prenderò a mostrare che l’essenza loro, il
segreto accettato prima di conoscerlo, l’obbedienza a un capo ignoto,
la tendenza a un ignoto scopo, sono servitù moralmente peggiori di gran
lunga che non qualunque servitù anche allo straniero; che a tenere e
promuovere tali secreti, la dissimulazione si volge necessariamente in
simulazioni, inganni e tradimenti; che non solo la bontà dello scopo
non iscusa la malvagità de’ mezzi, ma questa deturpa e perde quella,
dichiarandone l’impostura, e che quindi quanto è più legittimo e santo
uno scopo, tanto più son condannabili ed empi i cattivi mezzi; tutto
ciò è chiaro a chi esamini la quistione di moralità. — Ma perchè
sono e saran sempre molti che non esaminano se non la quistione di
utilità, a questa dunque ci fermeremo. E diciamo risolutamente, che
le congiure sono il mezzo meno utile, di non probabile riuscita in
qualunque impresa di una grande nazione. Le congiure non riuscirono
guari mai; se non di pochi e contro a pochi. Se son di molti suol
mancare in alcuni o la segretezza o la temerità parimente necessarie.
Se sono contro a molti suol rimanere ad alcuni la potenza d’impedire
la riuscita. E quindi le congiure riuscirono ne’ serragli dei despoti
asiatici, ne’ palazzi degli imperatori romani, degli autocrati russi,
e dei tiranni del medio evo, dove tolto di mezzo uno o due uomini,
era mutato tutto. E riuscirono per la medesima ragione talora nelle
repubblichette antiche o del medio evo, che erano in mano a pochi
cittadini. Ma negli stati grandi e civili, sieno più o men liberi,
più o men pure monarchie, le congiure poterono riuscir sì ad una
scelleratezza od a un ammazzamento, ma non allo scopo di mutare lo
stato; perchè l’ordine dello stato non vi dipende in realtà da un sol
uomo, ma da molti, dall’abito, dall’opinione universale. Noi dicemmo
le sollevazioni difficili; ma le congiure son molto più; e molte che
han nome di congiure non furono se non sollevazioni. È naturale i
perdenti non confessino queste, perchè il confessarle implicherebbe
confessione d’essere stati o tanto scellerati da darne causa, o tanto
sciocchi da non vederne i segni che sogliono esser pubblici; mentre il
dirle congiure li scusa da tirannia e da sciocchezza tutto insieme. E
così è che quanto più si studia storie, tanto meno congiure si trovano;
e le trovate, si trovano essere state poco men che inutili al fatto
già compiuto dalle sollevazioni. A ciò son ridotte quelle due famose
del Rutli e di Giovanni da Procida[14]. Del resto, quando si volesse
vedere nelle storie più congiure riuscite che non ne so vedere io,
tale riuscita si è fatta e si fa più difficile ogni dì nella crescente
civiltà. È parte importante e bellissima del progresso presente, che
l’arte della difesa dello stato sia progredita più che non quella
dell’offesa. E il vero è, che fra tante congiure minacciate, temute,
apparecchiate, rotte, scoperte, svelate od anche momentaneamente
riuscite ai nostri dì, due sole si possono dire essere state vere
congiure, ed essere riuscite a vero e durevole effetto; quella di
Germania contro a Napoleone, e quella dell’esercito spagnuolo contro a
Ferdinando VII. Ma lasciando questa, perchè fu congiura d’esercito più
che di nazione, ed a scopo di libertà, non d’indipendenza, fermiamoci
all’altra che è più citata e più somigliante a quella di che parliamo.

8. Ma, salva la somiglianza dello scopo, io non saprei scorgere se
non differenze. 1.º Fosse virtù propria o di quegli anni, i Tedeschi
non impacciarono lo scopo; non incominciarono dalla libertà interna
quando mancava loro la esterna. All’incontro, è vizio antico italiano
l’abbandonare questa per quella. Soli non vi caddero i collegati di
Lombardia, che presero consoli, podestà, qual che lor s’offrisse
governo interno, e seppero giovarsene contro allo straniero; e
perciò riescirono. Ma pochi anni appresso vedemmo già così distrarsi
miseramente tutta Italia, i Guelfi stessi. E così fino al fine
delle repubbliche, così ne’ 25 anni francesi moderni, così ne’
sollevamenti parziali d’intorno al 1820 ed al 1830. Molti di questi
furono vere comedie politiche; da passare, se fosse stato possibile
nelle condizioni nostre, sulle scene; ma che, innalzate all’incontro
dalla persecuzione a dignità tragica, rimangon pur troppo tanto
più profferite alle future imitazioni. E questo che è gran pericolo
d’ogni impresa d’indipendenza, sarebbe grandissimo poi di qualunque
si facesse per congiure e società segrete; le quali per lor natura
e lor forme si fanno quasi scuole, o prime prove non solamente di
libertà, ma di licenza. E deh fosse vivo uno, di che mi vanto essere
stato non meno amico privato che avversario politico! Il quale, duce
sincero ed ardito di siffatti convegni, io invocherei volentieri
a riattestare «la compagnia empia e malvagia» ch’io gli udii già
lamentare. — 2.º La nazione tedesca è per tutte le sue qualità e per
tutti i suoi difetti, la più propria che sia a far congiure. È grave,
soda, pensierosa, d’ingegno più profondo che vario, più tenace che
pronto, più ragionatore che imaginoso; è operosa, ma lentissimamente,
segreta, confidente, semplice di costumi. All’incontro, che che si dica
da molti stranieri a vituperio o da alcuni nostri a vanto, la nazione
italiana è la nazione del mondo men capace di congiure; è quella che
le fece sempre men bene. Gl’ingegni vi son pronti e mutabili, forse
oltre ad ogni prontezza greca o francese, sono varii, distraentisi ad
arti, lettere, scienze materiali o spirituali o miste, tutto a vicenda
e talor tutto insieme. E tuttavia l’ingegno v’è men pronto che la
fantasia, e la fantasia men che le passioni. Molto si parlò di ciò che
possono e fanno gli odii e le vendette, ma non forse abbastanza di ciò
che può e fa o non lascia fare l’amore in Italia. In fatto di costanza
poi, noi ammirammo quella della nostra impresa d’indipendenza; ma è
lamentabile l’incostanza de’ mezzi tentati. Il segreto ci è antipatico;
la confidenza nostra suol essere abbandono; e i tradimenti ci vengono
a ciascuno, più sovente da sè stesso, che non da altri. Tutte queste
non sono qualità da congiuratori, certamente. E s’io non temessi di
stancare colle rassegne della storia d’Italia, io ne farei una delle
_Congiure italiane_; e mostrerei che in proporzione al gran numero
degli stati nostri noi ne facemmo meno, e peggio, che niuna altra
nazione, men che Francia ed Inghilterra in particolare, i cui scrittori
ce le rimproverano. — 3.º Finalmente poi e principalmente, riuscì a
bene la congiura d’indipendenza tedesca per questa ragione: che lo
straniero v’era non solo grave, ma opprimente, non solo incomodo, ma
disperante, non solo usurpator di provincie, ma delle sostanze e delle
persone, turbator delle famiglie, delle vite, tiranno vero. Ora, ei
si sa (e fu molto bene e facondamente detto dal Gioberti) che a far
buone rivoluzioni ei ci vuol buona tirannia; ma a far congiure ei ci
vuol tirannia buonissima. Questa era in Germania; epperciò la congiura
riuscì e diventò rivoluzione. Ma in Italia è tutt’all’opposto. Ei può
rincrescere, ma così è: la tirannia non v’è. Sugli stati italiani non
è se non preponderanza, grado infimo di oppressione; la quale si fa
sentir più a’ governanti che a’ governati; più nell’impedire il bene
che in procacciar mali. Il popolo, la plebe dei principati italiani,
che come ogni plebe ha a pensare alla vita quotidiana, non pensa al
popolo delle provincie straniere; e gli uomini colti e pensanti pensano
a non perdere l’indipendenza qual ch’ella sia che pur hanno essi,
prima che a darla ai fratelli; pensano, e non si può dir che facciano
male, ai doveri presenti verso il principe, verso lo stato proprio,
primachè ai doveri eventuali verso i sudditi altrui. E tanto più che
nemmen questi non vi pensan tutti. Io credo bene che colà gli uomini
di coltura e pensiero pensino la vergogna della soggezione, la miseria
dell’inoperosità, il danno de’ vizi fomentati dallo straniero; ma
nemmen là tutto ciò non si fa sentire al popolo intiero, al volgo basso
od alto, a cui non sono impediti nè i bisogni nè i piaceri quotidiani.
Virtù e vizi di quel governo concorrono là alla quietudine. Giustizia
civile e criminale, amministrazione, strade, imprese pubbliche,
stabilimenti di beneficenza, interessi privati, studi elementari, tutto
il sufficiente, è protetto, è promosso là, sufficientemente. Si traggon
ricchezze; ma ne restano. V’è poca coltura alta; ma v’è la bassa.
Non si provvede all’operosità, si promuove l’ozio, forse il vizio; ma
l’ozio ed anche il vizio sono piacevoli ai più, e chi pur cadendovi se
ne sdegna, n’è tuttavia fatto incapace di sdegnarsene efficacemente.
Pochi sono, dappertutto, gli uomini che si serbin vergini dagli
effetti di qualunque servitù; ma più pochi, di una mitissima. «Tant’è
l’un basto quanto l’altro», dicono con parole degne del senso. E così
in somma nè negli stati italiani nè nelle province straniere, non è
materia da congiura che possa diventar rivoluzione d’indipendenza; non
è probabilità che tal sia data dai tempi i quali diventano via via più
miti, più civili; non è a far tal congiura una nazione naturalmente
capace di congiurare; se si facesse, sarebbe guasta probabilmente
dall’antica preoccupazione di libertà cresciuta a’ dì nostri; sarebbero
difficili, impossibili ad unire in essa principi e popoli, grandi
e piccoli, provincie e provincie. Deh non si faccia! deh tolga la
Provvidenza il funesto pensiero dalle menti, dalle fantasie italiane!

9. SPERANZA III.ª — DA UNA CHIAMATA DI STRANIERI. Ma ciò che non
è possibile per ispontanee confederazioni di principi o congiure
di popoli italiani, non sarebb’egli forse chiamando stranieri, i
quali procurerebbero l’unione impossibile tra noi soli? Posto fuori
un centro qualunque, un punto di convegno, non vi si riannoderebbe
egli ciascuno? S’io credessi buono tal convegno, sarei il primo a
confortarvi i miei compatriotti; per l’impresa d’indipendenza non è a
fuggir niuna speranza che non sia colpevole. Ma non è speranza buona
nemmen questa. Qui si versa più piena la facondia del Gioberti. E noi
stessi ricordammo testè i danni di tutte quelle chiamate, di Greci
contra Goti, Longobardi contra Greci, Franchi contra Longobardi,
Tedeschi contra Franchi; un re francese ed uno spagnuolo invano
chiamati, i Tedeschi chiamati, e venuti; e fra questi una casa opposta
all’altra, parenti a parenti, talora figli a padri; ed Angioini contra
Svevi, Aragonesi contra Angioini, Francesi contra Aragonesi, Austriaci
contra Francesi, Francesi contra Austriaci ripetutamente, senz’altro
frutto che di servitù mutate, pessime delle servitù. — Ma, io intendo
venire, deh si tolleri, a recente e maggior vergogna. In tutta quella
lunga serie di chiamate antiche non è se non una rimasta inesaudita;
salvo quella, i chiamati venner sempre. All’incontro, negli ultimi
anni, dal 1815 in poi, già sono parecchie chiamate italiane, a cui
non fu dato retta. Ondechè, se elle si dovean già fuggire per le due
buone ragioni, che elle furon sempre inutili e sovente nocive, or s’è
aggiunta una terza e più vergognosa, che elle si sono fatte molto più
difficili ad essere esaudite. E così sarà, secondo ogni probabilità,
anche per l’avvenire. Parliamo chiaro, e dando ad ognuno il nome
suo. Quando si tratta di chiamare contro a Germania, s’intende che
si tratta di Francia. Francia fu sempre chiamata contro Germania,
come Germania contra Francia; e l’una val l’altra quanto al pericolo
di mettercele sul collo, a vicenda; benchè la vicenda di Germania
sia durata sempre più a lungo che non quella di Francia. Ma insomma
Francia è quella ch’or ci toccherebbe chiamare; e chiamata ultimamente,
non venne; e se si chiamasse di nuovo, verrebbe anche meno. Tutto è
mutato rispetto a noi, dalle condizioni civili mutate in Francia.
I re francesi già assoluti, e principi belligeri d’una belligera
nazione, avean bel gioco in ispingerla fuor di casa ad imprese di
lor ambizioni od interessi personali o famigliari. Poteva sì venir
in mente a qualche consigliero o cortigiano di rara rettitudine, il
porre innanzi l’interesse di Francia non concordante con gli interessi
del Valois o dei Borboni, ma quelli non erano uditi; e i più degli
affollati attorno al trono non tenean conto se non degli interessi di
chi vi si sedeva. Il medesimo e peggio fu sotto a Napoleone. E peggio
sotto alla repubblica democratica, intermediaria: le democrazie sono
anche più facili ad adulare, più interessate e più ambiziose che non
niuna famiglia di principi. Ma dove prendon parte alle deliberazioni
pubbliche più o meno tutte le classi educate o colte d’una nazione,
queste non si lasciano facilmente trarre all’imprese indifferenti
ad esse; nè per far un nome al principe, nè per dar un trono ad un
cadetto i cui figliuoli dimenticherebbono l’origine e le gratitudini;
nè per congiungere al territorio una provincia, se non sia veramente
preziosa od alla difesa, od alla ricchezza nazionale. E so bene che
mi si opporrà l’esempio d’Inghilterra; la quale con tal governo ha
pure fatte e fa latissime conquiste. Ma queste non che infermare,
confermano anzi la proposizione mia. Le conquiste inglesi si fanno
tutte per l’interesse del commercio nazionale, computato, spiluccato
a lire, soldi e danari; e qual non presenta vantaggio, o non si fa,
ovvero è riprovata, od anche, come vedemmo ultimamente, abbandonata. Di
che sarebbe ad aggiunger molto ed inutilmente per coloro i quali non
abbiano contezza della storia inglese da un secolo in qua; ma basta
e soverchia quel che n’è detto a coloro che l’abbiano[15]. E dico poi
che le conquiste in Italia non sono di quelle che presentino a Francia
utilità nazionali. Gl’interessi, le ambizioni stesse francesi non han
che fare in Italia; arrivano all’Alpi, e non più. Di qua ritroverebbero
più tombe che trofei; quante venute, tante cacciate, e non è più il
tempo che una nazione si consoli per un bel detto del suo re: «tutto
è perduto fuor che l’onore». Ora, conquistando, non si vuol perdere nè
onor nè roba, nè quasi vite; e perchè le conquiste metton sempre tutto
ciò a gran rischio, perciò si fanno e faran più rare ogni dì. Niuna
provincia italiana di qua dall’Alpi non è a Francia continuazione di
territorio per arrivare a un limite che sia o si pretenda naturale,
non a sponde, non a foci di fiumi francesi; non è scalo a niuna colonia
francese presente nè prevedibile; e se tal è quel Levante che Francia
pretese testè, è scalo così vicino alla partenza, che non ha pregio
di vero scalo; oltrechè quella pretensione già abbandonata ora, sarà
abbandonata più che mai, quanto più s’assoderà, per opera di sua
costituzione, la ambizione di Francia. E quindi ei si può prevedere
per l’avvenire ciò che vedemmo negli ultimi anni: che alcuni politici
avventati di Francia, alcuni di quelli che per aver meditato troppo
sugli eventi della repubblica o dell’imperio non sanno vedere la gran
differenza che corre ora, alcuni di quella parte che si spaccia per
progressiva, ed è retrograda o almeno tardigrada, alcuni di tutti
questi Francesi sogneranno conquiste e propagazioni di lor pazzie
in Italia; e che alcuni Italiani lor simili daran retta forse a quei
sogni, credendoli sogni di tutta Francia, poi l’incolperanno di non
averli effettuati. Ma quella nazione, quel governo, or assodati,
lasceranno sognare i sognatori francesi ed italiani; e si contenteranno
di far ciò che han fatto, d’impedire che l’Austria non s’accresca
in Italia; e ciò stesso faranno con rispetti infiniti all’Austria,
già emula e nemica, or l’alleata più naturale che si abbian essi sul
continente. Del che io sono per dire più largamente fra poco. — Del
resto tolta di mezzo così la chiamata di Francia, non dimorerò a far
il medesimo su quelle che s’imaginassero di Spagna od Inghilterra, o
d’altre potenze più lontane. Le medesime condizioni politiche farebbono
su quelle due il medesimo effetto di non lasciarvi ascoltare le nostre
chiamate; e quanto alle più lontane e di condizioni opposte, io credo
bene che nessuno vi pensi. — Ma io protesto che di tutte queste e di
Francia non volli escludere se non le chiamate propriamente dette,
e le venute simili alle antiche; dico le chiamate fatte da una parte
italiana, e le venute intraprese o con animo di aiutare quella parte, o
peggio a fine di conquiste. Chè quanto allo escluder le alleanze che si
facessero da’ nostri principi con qualunque di quelle potenze straniere
o per iscemar preponderanza della potenza straniero-italica, od anche
meglio per aiutarci in qualunque occasione d’indipendenza; siffatta
esclusione sarebbe tale stoltezza, tale esagerazione di principii, tal
esaltazione puerile di vanità nazionali, da non supporsi in niun adulto
leggitore. Del resto siffatte alleanze non si sogliono fare, se non in
e per occasioni determinate. Ondechè questa Speranza si implica nella
seguente.

10. SPERANZA IV.ª — DALLE OCCASIONI. Una delle maggiori vanità in
che sogliamo cadere noi scrittori, è quella di attribuire ai disegni
degli uomini più potenza, alle occasioni men potenza che non avviene
in realtà. I poeti tragici sono i divulgatori di quest’errore perchè
han bisogno di magnificar gli uomini, e di rappresentare in essi
tutta una età. Gli altri poeti e i novellanti traggon lor dietro per
una quasi ugual necessità. Seguono molti filosofi per una simile; e
seguono molti biografi, ed anche storici che si dilettano in ritratti
ed orazioni da porre in bocca a lor personaggi. Chi non ha letto i
disegni di conquistare il mondo attribuiti a que’ Romani primitivi,
i quali stentarono pure 400 anni entro al cerchio di 10 miglia
intorno alla città? E quell’altro di estendere la potenza temporale
sull’universo mondo, attribuito a que’ papi che stentavano contro a
Tivoli, o a’ Crescenzi, o agli Arnaldi, od ai Colonna, od agli Orsini?
O quelli quasi creati di un colpo e proseguiti con regolarità, che
s’attribuiscono ad ogni conquistatore quantunque surto da infimi
principii? Gli uomini pratici non cadono almeno in tale errore. Ei
sanno molto bene che i disegni ideati troppo lunghi, riescono corti
all’eseguimento; epperciò cadono talora nel vizio contrario d’idearli
troppo corti. La buona pratica sta in mezzo; prende scopi lontani
anzichè disegni lunghi; e il tempo e l’attenzione che soglion perdersi
dai più a fantasticare su questi disegni, ella li adopra a discernere
ed accertar le occasioni. Quindi noi avremmo forse potuto ridurre a
queste le ricerche nostre. Riduciamovici ora ad ogni modo.

11. Noi non sapremmo vedere se non tre occasioni che possono giovare
all’impresa di nostra indipendenza. 1.º Qualche conflagrazione
democratica. 2.º Qualche tentativo di monarchia universale. 3.º
Qualche partizione di stati, più o meno simile a quelle che diedero
le occasioni del secolo scorso. Ma anche queste tre occasioni, non
ci paiono probabili tutte; ondechè sovr’esse pure noi continuiamo la
nostra opera d’eliminazione.

12. E per vero dire, la conflagrazione democratica, quantunque molto
minacciata e molto temuta a’ nostri dì, ci par fatta improbabile dai
progressi che veggiamo appunto nella presente democrazia. Noi non ci
vanteremo, come fanno alcuni tuttavia, d’essere o non esser del popolo,
gentiluomini o non gentiluomini. Passato ci sembra il tempo dell’uno e
dell’altro vanto; non è più quello nè della superbia feudale, nè della
plebea; il nome nobile o non nobile può essere illustre parimente; e
il nome illustre procaccia attenzione, non rispetto a chi il porta,
ondechè è vantaggio o danno secondo che è portato bene o male; e in
somma non si tratta più per ciascuno di essere o no gentiluomo, ma
uomo gentile, persona educata. — E questo, delle persone educate, è
il ceto che s’accresce ogni dì più, di qua e di là, dalle reliquie,
a detrimento dei due o tre e non so quanti ceti che erano. I quali
dunque scemano tutti d’altrettanto; e fra gli altri scema la democrazia
propriamente detta, distinta, odiante, usurpante, conflagrante[16].
Quegli stessi che eran di essa ieri, non ne sono più oggi; quelli
che avrebbero aiutato ieri alla conflagrazione, l’impedirebbero oggi;
quelli che ieri avrebbon versate fiamme, porterebbon oggi l’acqua per
estinguerle. Gli studi stessi progrediti hanno scemate le distinzioni
de’ ceti antichi e nuovi. Le democrazie antiche, tanto ammirate
mezzo secolo fa, sono sotto la critica presente diventate quasi
tutte aristocrazie; le pretese dispute tra aristocrazie e democrazie
sono quasi tutte diventate contese fra le schiatte sovrapposte dalla
conquista sul medesimo suolo; ondechè cade da sè ogni invito alle
imitazioni presenti, impossibili in condizioni troppo diverse di
società. Del resto l’antichità continua ad ammirarsi in molte parti, ma
non si propone più a niuna stolta imitazione. E il medio evo, succeduto
per pochi anni in quelle ammirazioni usurpate, non si vuol ammirar più,
nè tanto meno imitare da nessuno nè nella feudalità nè nei comuni.
Quanto alle democrazie che sopravvivono in qualche angolo di Europa,
o nelle vastità americane, le loro condizioni già tanto vantate, sono
ora troppo note anch’esse per invaghire gl’imitatori. In alcune la
democrazia è tirannica e sconforta quindi ogni altro ceto; in alcune
s’assoggetta ella stessa alla aristocrazia; nelle più scomparisce
entro al gran ceto delle persone educate. — Ei me ne duole per li
pochi democratici puri che rimangono; uomini stantii non meno che i
più stantii aristocratici, rimasti addietro nel progresso universale,
escludenti sè stessi dal ceto crescente degli uomini gentili, educati
e veramente liberali, non che formare o muover masse come sperano, non
che esser capaci di far conflagrazioni come temon altri, non avranno
in breve o già non hanno compagni o consolatori, se non fra le rade
file di que’ poveri sansimonisti, owenisti, o fourrieristi, a cui
parrebbemi tempo perduto il fermare i leggitori. La conflagrazione
democratica può continuare ad essere alcun tempo paura di polizie, o
speranza di società segrete, ma non può entrare in conto di niun futuro
prevedibile, non può essere eventualità, occasione da calcolarsi in
niuna impresa importante.

13. Nè sarebbe da tener maggior conto di un tentativo di monarchia
universale che si supponesse da qualche potenza europea. Questo,
quantunque sia stato sogno recente, od anzi appunto perchè fu
dimostrato sogno da’ fatti recenti, non è probabile che si rinnovelli.
Chi oserebbe ritentar ciò, in che fallì Napoleone? Certo, Francia ne fu
troppo ammonita per ritentarlo. Inghilterra non ne sognò, nè per sua
situazione ne potrà sognar mai. Prussia, quantunque grande, è troppo
piccola per ciò; ed Austria, non che avere spiriti a tale impresa, non
ne ha nemmeno a quelle più facili che le si parano innanzi. Non sarebbe
dunque a temerne o sperarne se non da Russia. Ma il vero è che nemmen
questa nè gl’imperadori di lei non sono così barbari da non conoscere
quella gran civiltà europea che hanno all’incontro, o da disprezzarla
a modo de’ loro avi antichissimi. Ei sanno molto bene di non aver
davanti a sè niun imperio romano invecchiato da conquistare facilmente;
sanno d’aver anzi all’incontro quattro grandi nazioni, Germania,
Francia, Inghilterra e Spagna, rinnovellate dagli sforzi fatti al
principio del secolo, per asserir ciascuna la propria indipendenza;
più una quinta, Italia, che desidera quest’indipendenza, tanto più
quant’è più sola nella vergogna di non averla; sanno in somma che una
invasione a modo dei Finni o de’ Mongolli non riuscirebbe; e non han
poi nè volere nè potere di far tali invasioni. Quei loro eserciti che
sono così sterminati sui prospetti, o forse anche realmente tra le
loro steppe, nelle loro colonie militari, o nei campi di esercizi,
li abbiam veduti noi, a che fossero ridotti quando giugnevano sul Po
e su la Senna! e dicesi che fossero anche men grossi quando scesero
sul Bosforo, od oltrepassarono il Caspio. Nella presente civiltà le
invasioni di nuovi barbari son sogni che quando fosser fatti da’ Russi
sarebbon brevi; ma i Russi non li fanno. Il sogno che fanno non è di
monarchia universale, ma solamente di preponderanza europea; e questo
stesso nol fanno in generale, non isperano adempierlo in tutti i casi,
ma in una eventualità, in una occasione sola che prevedono molto bene
e preparano. Altro che barbari! essi sono anzi di que’ buoni pratici,
che dicemmo saper prefiggersi uno scopo lontano, ed aspettarne i mezzi
dall’occasione. E l’occasione che prevedono è la caduta dell’Imperio
ottomano; e la preponderanza che sperano è dall’occupare quelle bocche
del Danubio dove metterà capo un dì o l’altro il commercio europeo,
dall’occupar quel Bosforo e quell’Ellesponto onde il dominerebbono.
Questa è la preponderanza che sarà sogno o realtà, secondo che saprà
ordinarsi a resistenza l’Europa incivilita. E perchè appunto una
resistenza qualunque si farà, qualche compenso si vorrà, qualche
spoglia del medesimo imperio si pretenderà pur dall’altre potenze
cristiane, un dì o l’altro del futuro prevedibile, questa sarà a noi
pure occasione buona probabilmente; ma occasione che si riduce alla
terza di quelle dette, all’occasione di una partizione di Stati.

14. Nè sorgerà probabilmente niun’altra simile. Niun’altra partizione,
niun’altra caduta, niuna gran successione non è a prevedersi in
Europa; se mai sorgesse, ella sarebbe regolata dalla presente civiltà;
sarebbe ridotta a quistione diplomatica od interna, non sarebbe grande
occasione per noi. E quindi senza rigettarne niun’altra se mai venisse,
e tenendoci anzi apparecchiati a tutte, fermiamoci a quella che ci par
la più probabile fra le favorevoli, la più favorevole fra le probabili,
la più promettitrice d’ogni maniera.




CAPO NONO.

L’EVENTUALITÀ PIÙ PROMETTITRICE

                    Es gibt keine Propheten mehr. Die Wahrsager,
                  welche unsere beschrænkte Zeit gebiert, müssen
                  sich, ob Mangel an gœttlicher Inspiration, ihre
                  Kunde aus eigener Anschauung holen; und nicht aus
                  den Linien der Hand, nicht aus den Konjuncturen der
                  Sterne kœnnen sie vorder das Schicksel der Menschen
                  weissagen, sondern aus der Kenntniss seiner jetzigen
                  Zustandes, und seiner bisherigen Geschichte.

                           _Oesterreich und dessen Zukunft_, s. 143.


1. Ed ora, d’eliminazione in eliminazione noi siamo giunti finalmente
ad una che ci pare eventualità, speranza buona. Terminata la parte
ingrata dell’assunto nostro, noi entriamo nella più lieta, ma forse più
difficile. Facile è sempre il distruggere, difficile il riedificare;
facile il dimostrare gli errori altrui, difficile il non cadere in
nuovi, e talora peggiori; facile la parte negativa, difficile la
positiva d’ogni scienza, d’ogni studio. Facile ci fu l’accennare che
non sono probabili nè desiderabili nè il regno d’Italia, nazionale
o straniero, nè le repubbliche, nè niuno ordinamento, in somma,
che non sia progresso de’ presenti; nè probabile la confederazione
stessa finch’è tra noi lo straniero. È facile il dimostrare che
l’impresa di liberarcene, durata già XIII secoli, non può nel futuro
prevedibile compiersi nè per unioni spontanee di principi, nè per
ispontanee sollevazioni di popoli, nè per chiamate nè per alleanze di
altri stranieri, senza qualche buona occasione; e che non sono tali
poi niuna conflagrazione democratica, niun tentativo di monarchia
universale, niuna successione o caduta di regni, se non una. — Ma ora,
mutato ufficio, abbiamo a dimostrare che questa è veramente occasione
e speranza buona; e qui sta la difficoltà. Abbiamo contro a noi i
nostri stessi leggitori che disponemmo al dubbio fin qui; abbiamo in
particolare tutti coloro di cui dicemmo sogni le speranze, e che saran
disposti a dir pur sogni le nostre[17]; ed abbiamo più che mai gli
uomini pratici, indisposti dalle utopie fatte e rifatte sulla divisione
dell’Imperio ottomano. Nè ci varrebbero proteste. Non può valere se non
la nostra attenzione a tenerci anche qui ne’ limiti del prevedibile. Se
così faremo, e se, fra’ primi a trattar dall’aspetto italiano l’assunto
tanto trattato altrove[18], noi riusciremo a fermarvi l’attenzione di
coloro che hanno in mano i nostri destini, l’opera presente non sarà
del tutto perduta. E se in così arduo argomento noi pure erreremo, essi
giudichino, essi ci correggano, ma ci ascoltino; ovvero anche senza
ascoltarci altrimenti, vogliano pensare essi a questa che, qualunque
sia, è pur la meno improbabile e la meno sfavorevole delle occasioni;
a questa che, mal apparecchiata o mal usata, non ci lascerebbe forse se
non il dovere del perseverare senza sperare.

2. L’eventualità di che trattiamo consta di due fatti: la caduta
dell’Imperio ottomano, e la mutazione che ne avverrà nella Cristianità.
— Ma a dimostrare la probabilità del primo, non mi par necessario nè
far una lunga storia della decadenza maomettana in generale o della
ottomana in particolare, nè dimostrare la gran differenza che è fra
tali decadenze vere e le apparenti cristiane. Le due civiltà maomettana
e cristiana si trovarono l’una e l’altra in presenza, giovane la
maomettana, vecchia già la cristiana, or sono più di mill’anni alla
battaglia Poitiers. E vittoriosa la cristiana continuò poi a sorgere e
crescere fino alla onnipotenza presente; mentre la vinta stette prima,
e decadde poi fino alla presente impotenza. Era naturale: questa non
ebbe nè avrà mai i rimedii della civiltà cristiana; non quello primario
della incorruttibile religione, non quelli che ne vengono della virtù,
della operosità rinascenti ora in tutto il corpo, ora in alcune parti
della cristianità. La decadenza ottomana o turca in particolare,
incominciò dalla presa stessa di Costantinopoli, dallo stanziamento
della gente in quella sede costante di corruzioni; e continuò colla
cacciata de’ Mori dalla Spagna, colla sconfitta di Lepanto, e a poco
a poco colle respinte da tante provincie europee ed affricane; e dura
così da IV secoli. S’adduce è vero l’esempio dell’Imperio greco, il
quale durò cadente XII secoli nella medesima Costantinopoli, per
dimostrare che l’ottomano vi può durare altrettanti. Ma l’Imperio
greco non era circondato, assalito, battuto in rovina se non da
genti piccole e più barbare che non esso; l’Imperio ottomano è ora
battuto di fuori da nazioni più grandi e molto più incivilite che
non esso; ed è travagliato addentro poi, e corroso da genti varie
che tendono a libertà e civiltà maggiori. Nè del resto è mestieri di
niuna di queste comparazioni, nelle quali è difficile tener conto di
tutte le somiglianze e differenze, e che per ciò soglion portar più
convincimento in alcune menti solitarie e meditatrici che non in quelle
degli uomini pratici. Bastano a questi oramai gli eventi quotidiani per
tener indubitabile la caduta, irremediabile l’infermità dell’Imperio
ottomano. Molti e varii rimedii furono tentati o si tentano ogni dì;
ma sempre invano. Furono eglino tentati sinceramente? Non importa. La
mala riuscita dimostra o l’inefficacia de’ rimedii, o l’insincerità
de’ rimedianti, o l’irremediabilità dell’infermo, o tutti insieme
questi malanni, e il pronostico riman lo stesso. Non è confessato negli
atti pubblici diplomatici, nè nei pubblici dibattimenti parlamentari
cristiani. È naturale, e fino a un certo punto conveniente. La civiltà
pubblica si è imposti all’incirca i medesimi doveri, che la privata.
Le nazioni cristiane stanno al letto di morte dell’Imperio ottomano
a guisa di medici, o piuttosto d’eredi, i quali non vi parlano della
morte nè del retaggio. Ma ne parla il pubblico; e tanto più quanto più
s’appressa il fine ed è più grande il retaggio. Fu una vera comedia
udire i medici-eredi dirsi via via: proviamo questo rimedio ancora,
o quest’altro; cercando ingannarsi a vicenda, per rimaner ciascuno
solo o con pochi all’ultima cura, ed alle prime spoglie. Se non
che, durando troppo la comedia, pare che se ne sieno stancati essi
stessi; e guardatisi in viso e ridendone tacitamente, lascino ora
fare il suo corso alla agonia, tenendosi convenientemente da parte, ed
apparecchiati.

3. Più sincero, più ardito, più grande d’ogni maniera fu già
Alessandro, imperator delle Russie; il quale professò vedere, non
solamente la caduta ottomana, ma le mutazioni che ne succederebbero
all’intiera Cristianità. Ne’ suoi giorni più belli, in quei giorni
sereni, quando, difesa ammirabilmente l’indipendenza della patria
sua, ammirabilmente rivendicata l’indipendenza d’Europa, avea riposta
in pace la Cristianità, egli vide subito, e primo, che ci voleva
pure una grande operosità alla Cristianità pacificata, un grande
scopo a questa operosità; e vide lo scopo dover essere l’Oriente. E
questo fu gran mente, senza dubbio; ma fu gran cuore, l’avere, esso
autocrate delle Russie, esso nipote di Caterina e pronipote di Pietro,
chiamata a parte di quel pensiero e quell’operosità russa l’intiera
Cristianità. Tuttociò è evidente ad ogni spregiudicato in quel trattato
supplementare, ch’egli Alessandro fece firmare e chiamare _della
Santa Alleanza_; non importando che coloro che il firmarono con lui
ed egli stesso poi ne mutassero le tendenze, lo scopo, l’essenza. Ma
Alessandro rientrato nella sua patria tanto meno incivilita che non
lui, Alessandro, o mutabile per natura o mutato dagli eventi, non
fu più l’Alessandro protettore della civiltà cristiana, innalzatosi
ad una intelligenza di essa cui non arrivò forse nessun principe del
tempo suo. Intanto la civiltà cristiana proseguì da sè l’opera così
ben preveduta. La proseguì per quell’intima ed invincibile operosità
che è natura sua; la proseguì e per le spinte stesse date e non potute
ritirare da Alessandro, e per le ambizioni russe un momento generose,
poi di nuovo ristrette; e la proseguì come conseguenza inevitabile
delle conquiste inglesi nell’Oriente ulteriore. Soggiogato questo
alla Cristianità, non era già possibile che ella si fermasse per via;
o piuttosto, arrivata ad una parte lontana della via, non era più
possibile che ella non tentasse aprirsi il tratto intermedio. Giunta
all’Oriente ulteriore, doveva aprirsi il citeriore, il Levante. Ed
apertoselo in varii modi, per varii aditi, vi si precipitò, ne sboccò,
ne ritornò, se li allargò; ondechè è ora una fiumana, una innondazione,
che niuna potenza umana non può fermare, niuna umana cecità negare.
— E lodiamone la Provvidenza, quanti siamo a non chiuder gli occhi
alla oramai chiara opera di Lei: la diffusione della Cristianità, che
sarà quando che sia seguita da quella del Cristianesimo. E lodino il
Cielo anche coloro che vantan nome di uomini positivi. Positivamente,
questa gran diffusione, questo quasi trasporto ad Oriente è quello che
occupa ed occuperà per molti anni e forse secoli la pace; che sazia
e sazierà l’operosità; che contenta e contenterà gl’interessi anche
materiali di tutte le nazioni europee. Calunnisi il gran movimento,
riducasi da opera provvidenziale a industriale; neghisi o riducasi il
motore, mutisi nome a chi si muove. Il risultato riman lo stesso; e noi
diciamo: _eppur si muove_.

4. Ma, i due fatti oramai certi della caduta ottomana e del movimento
cristiano all’Oriente sono eglino legittimi? Lo scrupolo si propone
per lo più da tali che non ne mostran guari poi in lor opere; da
tali che non ne hanno nel sollevare popoli contra governi, o governi
contra popoli; nel sagrificar le generazioni presenti a’ lor sogni sul
futuro od ai loro sogni dal passato; da tali che accumulando tutte le
legittimità, tutti i diritti in sè soli, se son popolo, mettono fuor
di legge i principi e chiunque dicono non popolo, se son principi,
il popolo e chiunque non è principe. Costoro compiangono, gli uni la
civiltà, gli altri la legittimità turca. Ma noi non sappiamo veder
colà nè buona civiltà, nè legittimità, per vero dire. Non buona
civiltà, chè non ci par tale nessuna oramai se non la cristiana;
non legittimità che non sappiam vedere in una dominazione rimasta
straniera, anzi d’una gente soprapposta all’altre, barbara, despotica.
E noi veggiamo anzi diritti molto probabili nelle popolazioni cristiane
di liberarsi da quella verissima tirannia; diritti e talor doveri
negli stati cristiani d’aiutarli; diritto e dovere nella civiltà e nel
Cristianesimo d’estendersi. E questi diritti e doveri, noi li veggiamo
riconosciuti da gran tempo dai teologi, da’ filosofi e dagli uomini
di stato egualmente; da’ teologi che da Gregorio VII ed Urbano II in
qua sollevarono la Cristianità non solo alle difese, ma all’offese
contro a’ Maomettani; da’ filosofi che spingono innanzi la civiltà
nostra e le debbon quindi concedere le conquiste sulle civiltà minori
ed inconvertibili; dagli uomini di stato che veggiamo avanzarsi e
fermarsi secondo le convenienze de’ propri stati, ma non finora per
nessuno di questi scrupoli. — Ancora, quanto a certo altro scrupolo
del _non intervenire_, parmi che dacchè fu posto ei non sia stato
seguito guari, se non quando tornò a conto seguirlo. Tornò a conto
negli affari interni delle nazioni cristiane: perchè fu scoperto che
queste s’assestano molto più presto e meglio senza intervenzioni; e
quindi non s’intervenne, e riuscì. Ma colla nazione turca non è il
caso; che intervenendo o no, sempre avverrà la caduta di lei; e non
intervenendo si lascerebbero cadere con essa e spegnersi le nazioni
cristiane implicate in essa. Ondechè, diritto e fatto, tutto chiama
le intervenzioni; le quali, se non sieno false, non traditrici, se
facciansi anzi apertamente e fortemente, possono dunque in molti
casi essere legittime, in molti necessarie e di stretto dovere. —
Finalmente, per torci una volta tutti gli scrupoli, si allega da
alcuni il tristo esempio della divisione di Polonia. Ma in nome della
verità, qual somma, qual total differenza! La nazione polacca era,
è nazione cristiana; è di quelle che non possono perire. E mirate il
fatto; divisa, oppressa, dispersa come nessuna mai è ella perita? O non
anzi forse progredita in virtù, in prudenza? E i suoi tre rottami non
sono eglino piaghe in corpo alle tre potenze, che se li aggiunsero? e
più a ciascuna, secondo che più vuol distruggere la indestruttibile
nazionalità? Ma chi può sognare d’una nazionalità turca risorgente
mai, quando fosse dispersa? O chi paragonare l’immanità di aver
voluto spegnere una nazione cristiana, alla necessità di lasciare
spegnersi spontaneamente una maomettana, o piuttosto al prevedere
ch’ella si spegnerà, al raccorne le spoglie quando sarà spenta? —
Perciocchè in somma tutti questi son discorsi inutili. Dei due fatti
che noi consideriamo, il primo, la caduta, non può esser nè legittimo
nè illegittimo, nè oggetto di scrupoli alla Cristianità; è fatto
estrinseco ad essa, che si compie senz’essa. Non può esser questione
se non dell’occupar l’una civiltà le regioni abbandonate dall’altra,
del raccor l’eredità lasciata vacua. E questa stessa questione
seconda è poi già decisa dal fatto. Le spoglie son già incominciate
a dividersi. Russia n’ha già raccolte parecchie, incorporandosi
le sponde settentrionali ed orientali del mar Nero, e prendendo i
tre protettorati di Moldavia, Valachia e Servia nel cuore stesso
dell’Imperio. Grecia è un’altra di tali spoglie, ed Algeri un’altra.
Altro che scrupoli! noi ne siam lungi; non n’è più tempo. Smembrato,
screditato, infiacchito uno stato non è più conservabile. La questione
è stata decisa quando s’incominciò lo smembramento; e nuovamente ad
ogni volta che si continuò. La inarrestabile civiltà cristiana la
decise; o piuttosto la Provvidenza, destinando questi popoli asiatici
come già gli americani a ritirarsi e forse spegnersi a poco a poco,
per lasciar luogo alle generazioni cristiane. E in giustizia? Ma chi
l’osa dire? Sarebbe della Provvidenza; come sarebbero state quelle
adempiute altrove. Diciamo meglio: è uno di que’ misteri che son nella
storia come in tutte le scienze umane. La civiltà progredita può bensì
addolcire i mezzi, evitar le ingiustizie particolari, salvar qualche
popolazione men restìa: ma quanto a fermare la Provvidenza o fermar sè,
che è tutt’uno, la civiltà cristiana non vuole e nol può. E se taluno
venisse a dirci ch’ella il vuole, il può, o il fa, noi risponderemmo di
nuovo: _eppur si muove_.

5. Ma lasciamo una volta i prolegomeni, vegniamo ai due fatti non
che probabili, principali: che l’Imperio ottomano cade, e che la
Cristianità sottentra e sottentrerà, quandochesia, comechesia. E
cerchiamo questo quando e questo come, il tempo e il modo. Ma del tempo
non dimentichiamo, che è il maggiore de’ secreti riservatisi dalla
Provvidenza in tutti gli eventi umani futuri. Molti sono prevedibili,
anzi certi, ma di che resta incertissimo il tempo. Quando Gregorio
VII ideò primo un’invasione della Cristianità sull’Islamismo, ei non
la potè ideare se non prevedendole un buon fine, e previde bene.
Ma s’ei previde che avverrebbe in tanti anni o secoli, ei previde
male. Quando dopo sette secoli e più, Alessandro imperatore ideò
nuovamente tale invasione, ei previde con molta più probabilità il
fine più prossimo; ma s’ei previde un’epoca vicina, ei previde pur
male; non poteva prevedere nè la propria incostanza, nè le distrazioni
proprie e delle nazioni cristiane in interessi minori, nè le alleanze
parziali e variabili che succederebbero a quella universale ideata
da lui. La descrizione di queste alleanze sarà un dì uno dei più
singolari episodii della storia diplomatica. Ora sarebbe prematura,
quando n’avessimo luogo. E basterà quindi accennare l’unione che
si mantenne alcuni anni, quasi reliquia della santa Alleanza tra
Russia, Inghilterra e Francia; e l’indipendenza della Grecia che ne
risultò, quasi arra d’acquisti futuri alla Cristianità. Poi, Russia
e Francia unite innaturalmente: e frutti tuttavia della mala unione
gli acquisti russi sul mar Nero, l’acquisto francese d’Algeri: nuove
arre. Poi Francia ed Inghilterra unite molto più naturalmente, ma
con sospetti reciproci, e maggiori, come suole, per parte della
potenza che era in minor fortuna; onde il gran rifiuto di rompere i
Dardanelli, che ritardò chi sa di quanto tempo lo scioglimento della
questione. E quindi l’unione più innaturale, più feconda di sospetti,
più infeconda di veri risultati, più breve che niun’altra, tra Russia
ed Inghilterra. E finalmente, Austria entrata in mezzo a fermar tutto,
a metter tutti d’accordo nel far nulla per ora. Ma siamo giusti, pro
come contro ai nostri avversari. Questo ritardo operato dall’Austria
fu gran beneficio alla Cristianità, al genere umano tutto intiero,
all’Italia in particolare; perchè con que’ sospetti che duravano tra
Francia ed Inghilterra, e le occupazioni indiane e cinesi di questa,
era impossibile allora quell’unione delle due con essa Austria, quel
triumvirato, onde solo può venire qualunque buono scioglimento. Ondechè
se si conceda ad un osservator solitario il classificare le azioni di
uno degli uomini di stato che ne adempiè più ne’ nostri tempi, io direi
ch’egli non ne adempisse niuna mai, le cui conseguenze sieno per essere
più durevoli o più felici, niuna quindi che meriti rimanere a lui più
gloriosa, fin ora. Così, mutate ora le posizioni, gli interessi, le
possibilità universali, e le proprie sue, ei ne adempisse ancor una, la
quale soverchierebbe in vera e durevole utilità, e perciò in gloria,
tutte le adempiute, non solamente da lui, ma da tutti gli uomini di
stato dell’età sua. Ad ogni modo quanto all’Italia, qual che abbia ad
esser il profitto che saprem trarre un giorno dalla grande occasione,
certo è che non eravam pronti in questi anni scorsi a trarne nessuno.
Ma ora, la Cristianità si trova in un intervallo di riposo tra fatti
e fatti; si trova meglio che non fu da trent’anni in qua, riunita
in una quasi alleanza, o men disunita. Quindi è momento favorevole
ad esaminar la questione. Approfittiamone anche noi, per cercare non
il tempo assoluto del termine, ma quello relativo, dico il tempo che
durerà incominciata che sia la gran mutazione. I tempi di mutazioni
o rivoluzioni sono sempre pericolosi e dolorosi; ed incominciati che
sono, quanto più si abbreviano, tanto è meglio. Ma ei si può osservare
in ogni storia e dedur da ogni ragione, che le rivoluzioni non sogliono
finire, se non quando si sono satisfatti gli interessi veri di coloro
che le incominciarono; tantochè si potrebbe dire che le brevità
delle rivoluzioni stanno in ragione diretta di questa satisfazione.
E lasciando gli esempi che s’affollerebbero qui, e venendo al fatto
nostro, facile è vedere fin d’ora: che qual che sia per essere il dì
della caduta ottomana, se le nazioni cristiane si moveranno secondo
gl’interessi universali della Cristianità, che è quanto dire gli
interessi ben intesi di ciascuna, la mutazione fatta così non avrà
bisogno di rifarsi, sarà più breve, più facile, men pericolosa e men
dolorosa; e che all’incontro, se ognuno tira dalla parte sua, senza
rispetto degli interessi altrui, e con mancante intelligenza dei
propri, la mutazione fatta non potrà non rifarsi, una, due, o molte
volte, e durerà ed occuperà male per secoli e secoli l’operosità,
i dolori della Cristianità. Noi siamo in una età, non ostanti le
grandi differenze, simile in ciò a quella quando le genti germaniche
precipitarono sull’Imperio romano. Non intesesi, non potutesi intendere
(chè non era proprio di tal civiltà), strapparono ciascuna un pezzo
della gran preda, e poi sel disputarono fra due, fra tre; e tutti i
pezzi passarono di zanna in zanna, finchè non cessò per stanchezza lo
strazio reciproco; e cessò, osservisi bene, colle divisioni naturali,
inalterabili del territorio europeo. Sarà egli tal esempio di tali
barbari imitato ora da una civiltà così progredita, come si vanta
ed è la presente? Sembra potersi sperare l’opposto. — Del resto, io
prego non mi si faccia forse più sperante, più utopista, che non sono.
Certo sarebbe desiderabile un trattato di alleanza che provvedesse
a tutti i casi. Ma questo nol dico probabile, nè forse possibile.
I casi sono troppi; e suddividendosi ciascuno in parecchi, le
combinazioni di essi diventano incalcolabili. L’accordo non può venir
da un trattato universale, ma forse da uno tra due o tre o quattro
delle potenze più similmente interessate; e intanto e ad ogni modo
dall’opinione universale de’ principi, degli uomini di stato, degli
uomini politici di tutta la Cristianità. Nè questo poi è impossibile
nelle condizioni presenti di civiltà, di pubblicità. E quindi sarebbe
molto desiderabile, che l’assunto si trattasse apertamente ne’ pubblici
parlamenti da uno di quegli uomini che, aggiungendo all’autorità
delle ragioni l’autorità del proprio nome, possono soli riunire i
loro pari in una opinione universale. Ma questo è difficile per ora,
come accennammo. L’argomento non può esser trattato pubblicamente e
convenientemente nè in tali luoghi nè da niuno di quegli uomini di
pratica ai quali noi l’abbandoneremmo volentieri. E poichè così è, e
non abbiamo a chi riferirci, ei ci è forza esaurir noi da noi anche
questa parte inevitabile del nostro assunto. Forse, contro al dir degli
isolatori d’ogni sorta, noi troveremo che gli interessi italiani non
sono altro che gl’interessi di tutti. Ma ei si può intanto asserire,
ch’essi ne dipendono almeno; che lo studio delle speranze nostre, o si
riduce a quello o s’implica in quello di quegli interessi universali.

6. È egli interesse della Cristianità che si compia la liberazione
parziale delle province ottomane passando sotto la protezione russa?
Questa è senza dubbio la prima questione da porsi; perchè s’aggira
su un fatto presente e pressante. Moldavia, Valachia e Servia son
già passate sotto a quel gran protettorato; Grecia sotto quello,
mal equilibrato da due altri[19]; ondechè già non rimangono, se non
le quattro altre provincie; Bulgaria che dicesi già apparecchiata,
Bosnia che si dispone al medesimo passaggio, Albania, e finalmente
Costantinopoli. Ma pogniamo che queste quattro non passate ancora,
passassero, grazie agli sforzi della diplomazia, come Grecia, sotto
a qualche protezione complessiva; che sarà, che diventerà questa,
daccanto o frammezzo a’ protettorati puramente russi? Che, in nome
del buon senso e dello sperimento, se non un nido, un vespaio di
difficoltà, di contese, di guerre, d’invasioni, di miserie locali, e
di miserie di tutta la Cristianità, per anni ed anni e forse secoli?
Non par possibile, che una generazione civile, forte, previdente, e che
dovrebb’essere provvida come la nostra, apparecchi tal destino alle
generazioni venture. Così si è fatto per vero dire fino a ieri, così
si fa oggi; perciocchè sono di ieri o d’oggi le ultime prepotenze russe
nella Servia, la continuazione di questo modo di protettorati semplici
o complessi. Ma non è poi possibile, che non venga dalla continuazione
stessa qualche maggior prepotenza, qualche intollerabile usurpazione,
per parte del protettore principalissimo, la quale desti finalmente
l’attenzione universale. E allora qualche alleanza si farà, qualche
modo si troverà senza dubbio di fermare, od anche di far indietreggiare
l’invasione russa. Questa è la sola che si faccia al presente; e quindi
ella pare sola probabile, sola possibile ai veggenti poco lontano.
Ma ella non può essere se non un modo transitorio, non può di niuna
maniera essere modo ultimo e definitivo della gran mutazione; ella
lascia intiera la questione di ciò in che debba accordarsi un giorno o
l’altro, a che tendere al più presto la cristianità.

7. Quest’interesse ultimo sarebb’egli che si innalzi sulle rovine
dell’Imperio ottomano un Imperio qualunque cristiano? — Ma ciò sarebbe
porre uno stato debole per novità in luogo d’uno debole per vecchiezza;
sarebbe impacciarsi della tutela di quello stato cristiano, come s’è
impacciati ora di quella del mussulmano; sarebbe un’altra mutazione
transitoria. Lo sperimento dello stato greco è conchiudente. Un
Imperio greco a Costantinopoli non sarebbe se non un ingrandimento
del regno greco presente. Nè, per passar questo da regno a imperio,
o per fondarsene uno simile avrebbonsi condizioni diverse. Le genti
state lungamente serve possono bensì ricevere la indipendenza e la
libertà, ma non la sapienza o la potenza di ben usarne. Il nuovo
stato cristiano sarebbe, or russo, or austriaco, or francese, or
inglese, come sono l’ottomano e il greco presenti; e potrebbe bene
essere quindi accresciuta la dignità, ma non la tranquillità, non il
buon ordine della Cristianità. Le stesse genti così raccolte a forza
non ne vantaggerebbero guari. Le schiatte, le religioni diverse vi
pugnerebbero tra sè; ed appoggiandosi ciascuna all’una o all’altra
delle schiatte e delle religioni europee, nutrirebbero, accrescerebbero
più che mai la propria e l’altrui confusione. Evidentemente dunque, un
nuovo Imperio greco sarebbe contrario all’interesse universale della
Cristianità. Ma non ce ne inquietiamo: più evidentemente ancora egli
sarebbe contrario all’ambizione di parecchie nazioni cristiane. Ondechè
in somma o per la ragione buona o per la cattiva, anche questo modo
di mutazione non par destinato ad effettuarsi, ed anche meno a durare;
non sarebbe in ogni caso se non un modo transitorio ancor esso. — E di
nuovo rimane intiera la quistione definitiva.

8. Un giorno o l’altro, in un modo o nell’altro sarà forza
probabilmente tornare all’idea semplice e primitiva, della partizione
intiera o poco meno che intiera dell’Imperio ottomano in provincie
delle nazioni presenti cristiane. E del resto pogniamo che si
spartisse non in provincie, ma in protettorati cristiani; la questione
riman la stessa: fra chi si spartiranno? — Ora, non sono limitrofi
all’Imperio ottomano cadente, non possono prendere parte diretta alle
spoglie europee, se non due potenze cristiane, Austria e Russia. E
quindi quando si venga all’inevitabile divisione delle provincie o
de’ protettorati, ella non potrà farsi se non tra Russia ed Austria;
tutto ciò che non diventerà in qualunque modo russo, diventerà in
qualunque modo austriaco, tutto ciò che non diventerà austriaco,
diventerà russo. Le ambiguità dureranno anni, secoli; ma cesseranno
all’ultimo, per lasciar luogo a que’ fatti semplici e naturali, che
sono come le constanti della storia. E venutosi a ciò, che le spoglie
ottomane europee diventino in qualunque modo accrescimento russo od
austriaco, io lo domando poi a qualunque uomo italiano, francese,
inglese, tedesco, spagnuolo, od anche russo spregiudicato: quale può
essere l’interesse cristiano maggiore? Che s’accresca la Russia? ovvero
l’Austria? Che s’accresca di tanto, e si porti a mezzodì ed occidente
quell’imperio così oltrepotente già, così ambizioso, così affettante
preponderanza universale, come è Russia? Ovvero che s’accresca un
imperio tanto meno potente, tanto meno (salvo in Italia) prepotente,
così poco ambizioso di conquiste, che indugia quelle stesse che le sono
inevitabili, come Austria? — Che si lascino le bocche del Danubio a
chi non ne ha nè può aver mai il corso germanico, a chi non v’ha nè può
avere interesse se non di chiuderlo? che si sottomettano al capriccio
russo, tutti i progressi commerciali della Germania? Ovvero che si
diano quelle bocche e il corso inferiore di quella gran comunicazione
germanica ed europea a chi ne ha già tutto il corso superiore, a chi ha
interesse a trarne tutto il profitto possibile per sè, e per altrui? —
Che si aggiungano per contrafforte alle chiuse del Danubio le chiuse
del mar Nero, e si faccia di questo un lago, una darsena, un _dock_
russo, dove s’esercitino e progrediscano tranquille le armate navali
di quella potenza, per iscendere in poco più d’un dì nel Mediterraneo,
e cadere in tre sul gran passaggio orientale di Alessandria e di Suez,
e in dodici o quindici su qualunque altra stazione navale greca,
austriaca, italiana, inglese, francese o spagnuola? Ovvero che,
sottoposti Bosforo e Dardanelli insieme colla costa occidentale ad
Austria, non solo si confermi l’utile che verrebbe alla Cristianità
dall’apertura del Danubio, ma si divida così il mar Nero tra due
grandi potenze, non si lasci esser lago di nessuna esclusivamente,
non occasione ed aiuto ad affettar niun imperio nel Mediterraneo? —
E, che si lascino poi tutti questi accrescimenti ad una potenza, la
quale non avrebbe se non un compenso occidentale da dare, ma che non
vuole e dichiara non volerlo dare? Ovvero che si concedano ad una, la
quale ha compensi numerosi a dare ad Ouest, a Sud-Ouest, a Nord-Ouest;
e la quale per esempi antichi e moderazione presente si deve credere
disposta a que’ cambiamenti di territorii a che ella s’adattò sempre?
— E mi si rinfacci pure, ch’io fo gli interessi italiani, desiderando
tali compensi. Certo sì, ch’io li fo. Nè scrivo di tutto ciò se non
appunto, perchè tutto ciò fa gl’interessi italiani. Ma non ne scriverei
se non li credessi insieme italiani ed universali; se non credessi
che abbiano a parer tali a qualunque sincero leggitor mio, italiano o
straniero. Certo è interesse italiano, ma è pur universale cristiano
che s’accresca Austria, Austria sola od almeno principalmente,
Austria direttamente facendo provincie sue, o almeno indirettamente
facendo protettorati suoi delle spoglie europee ottomane; perchè
non è destinazione durevole di quelle spoglie se non questa; perchè
Austria, salvaguardia e palladio d’Europa per il presente, sarà tale
molto più per l’avvenire; perchè tutte l’esitazioni, tutti i ritardi
succeduti fin qui nello scioglimento della gran questione, non sorsero
se non dallo esitare dell’Austria stessa; e perchè secondochè durerà
o cesserà quest’esitazione durerà a danno o finirà a pro di tutti la
gran rivoluzione orientale. Io son lontano dagl’Italiani pregiudicati,
gretti, odiatori ed isolanti. Ma tant’è ch’io li abbandoni del tutto.
Essi avranno da gran tempo già abbandonato me e il mio libro.

9. Ma passiamo dagli interessi generali della cristianità a quelli
particolari d’ognuna delle potenze cristiane. E prima cerchiamo se
tutto ciò che abbiam detto in favor d’Austria sia veramente interesse
austriaco? E se, quando sia, cesseranno pure le esitazioni austriache?
— Andiamo adagio. Sono due questioni differenti. Rischiariamole, se sia
possibile l’una, poi l’altra. — Che sia interesse vero dell’Austria
il trasportare la propria potenza principalmente sul Danubio, è
riconosciuto da molti e buoni, s’io non m’inganni, di quella corte,
di quella cancelleria, di quell’aristocrazia viennese, la quale non
è solamente molto nobile e molto elegante, ma molto civile, ed anche
colta; ed è riconosciuto principalmente dall’aristocrazia, e da tutta
la nazione ungarese. E fu riconosciuto da gran tempo, fu progetto
di quel principe Eugenio di Savoia, che rimane senza dubbio uno de’
maggiori uomini di stato di quella monarchia[20]. La quale ha per
natura sua di potersi mutare, ha per virtù di traslocarsi secondo i
tempi, senza gran difficoltà e senza pregiudizi. È la sola monarchia,
che non consti essenzialmente d’una nazione; che sia durata e duri,
sempre la stessa, mutando sudditi. Vi fu, vi è una monarchia austriaca,
non una nazione austriaca. Quelle popolazioni che ne portan nome, non
fanno una decima parte dei sudditi. Tedeschi Austriaci, Tedeschi non
Austriaci, Slavi Boemi, Slavi Moravi, Slavi Polacchi, Slavi Illirici,
Magiari, resti d’Unni, senza contare altri resti, formano ora quella
monarchia. E furono già in essa pure Olandesi, Francesi e Belgi.
E mirate com’ella se ne sia lasciata spogliare, o quasi spogliata
da sè senza mutar natura, ed anzi migliorandola col concentrarsi
da occidente ad oriente! Ed ora il nuovo movimento non sarebbe se
non continuazione di quelli fatti già, continuazione del movimento
orientale, continuazione della concentrazione di luoghi, di schiatte
e d’interessi. Slave sono tutte le schiatte delle provincie turche;
Moldavi, Valachi, Bulgari, Serbi, Albanesi e Bosniaci, tutti, tranne
forse i Greci della Romelia e del Fanar. E gl’interessi di tutti
questi si concentran tutti su quel Danubio, dove già sono gl’interessi
ungaresi, viennesi, austriaci propriamente detti, austriaci tedeschi e
boemi, cioè tutti quelli della monarchia austriaca presente, salve le
provincie italiane e polacche. E quindi, lasciando queste fuor della
monarchia come sono fuor degl’interessi, e concentrando l’una e gli
altri insieme sulle provincie slave danubiane, non è dubbio che ne
riuscirebbe il più bello, il più gran concentramento che siasi fatto
mai nè da quella nè da niun’altra monarchia. Il movimento slavo, quel
movimento che s’annunzia e minaccia o fa sperare da ogni parte, può
riuscire a pro d’Austria, più facilmente forse che a pro di Russia.
E lo stato che ne risulterebbe sarebbe uno de’ più omogenei, de’ più
naturali, de’ più conformati a difesa, a commercii, a conservazione
ed a progressi, che sieno in Europa o sulla terra; sarebbe non
solo l’antemurale presente di Europa, ma, se non ingannino tutte
le probabilità cristiane, sarebbe un giorno o l’altro il nodo della
Cristianità europea colla asiatica. — Sogni forse, utopie, ordinamenti
fatti sulle carte geografiche? Certo sì, se si fissi un’epoca; certo
no, se si lasci indeterminata. L’esecuzione è difficile, io lo concedo;
ma è inevitabile, io non temo affermarlo. Certo, un tal cambiamento
d’una tal monarchia non è mutar casa d’un privato. Certo, il movimento
orientale, il concentramento sul Danubio implicano abbandoni di
provincie occidentali discoste; e tali abbandoni non si farebbono
saviamente senza assicurazione di compensi. Ei bisogna tornare a ciò
che dicemmo fin da principio; gli uomini di stato austriaci hanno
doveri speciali austriaci, e presenti; e qualunque bene sia per
avvenire alla Cristianità od alla stessa Austria futura dal movimento
accennato, essi debbono attendere molto meno all’una o all’altra, che
non all’Austria presente. Austria non deve nè può abbandonare nulla
senza assicuranza dei compensi; nè questa le può forse venire da un
trattato, da un’alleanza sola; ma sì da molte e successive; da molti
e successivi fatti. Ma Austria può, deve tendere a ciò senza dubbio;
perchè se ella vi tende ella seguirà sua natura, adempirà suoi destini,
otterrà suoi progressi; perchè se non vi tende, ella si apparecchia
una lunga, una inevitabile serie di esitazioni, di contrasti e
indebolimenti; perchè ella verrà un giorno o l’altro a ciò, cui avrebbe
potuto e dovuto venir fin da principio; e perchè poi finalmente, quando
non vi si muova da sè, ella vi sarà spinta e sforzata dalle nazioni
cristiane che le stanno a spalle, da quelle che le stanno nel corpo mal
connesso, dall’intiera Cristianità, che gravita su lei, che ha bisogno,
dovere, destino di compiere essa tutta il suo movimento orientale[21].

10. E la prima e principale spinta verrà probabilmente da Germania.
Chiusa nel cuor d’Europa, con una sola piaggia marittima, e
questa povera di grandi aditi e lontanissima da ogni comunicazione
coll’Oriente, la nazione germanica non può prender parte al gran
movimento, se non spingendo innanzi Austria e Prussia in quella
direzione; cioè per parlar chiaro, Austria sulle provincie turche,
Prussia sulle polacche. — E questo è sollevare un’altra gran questione,
io lo so; e so che alcuni sorrideranno più che mai. Ma è forse il caso
d’avventurare il proverbio volgare; riderà bene chi ultimo. Perciocchè
di nuovo, non parlo di anni o lustri o nemmen secoli. Lascio il tempo
intieramente; parlo d’un futuro indeterminato, ma pur prevedibile; e ne
parlo solamente a chi non sia così _impressionabile_ al presente da non
saper mirare al futuro. Io m’ero messo in animo principiando, di non
complicare la questione italiana colla polacca, quantunque simile. Ma
che? come bugia trae bugia, così verità verità, e sincerità sincerità;
ed io m’avveggo di non poter trattare una questione compiutamente
senza l’altra. Polonia e Italia sono le due nazioni oppresse, ma non
perite, non periture; le quali si voglion quindi costituire, anzichè
non niuno stato nuovo, niun imperio greco o slavo o che che fosse;
se pur si voglia dar costituzione, ordinamento, stanziamento, pace
durevole, conservazione e progresso alla Cristianità. Polonia è molto
più giù che Italia: non ha principati nazionali come noi; non ha
solamente un quinto di provincie straniere, le ha tutte. Ma Polonia
ha una nazionalità più recentemente perduta, e, diciam tutto, molto
meglio difesa. Polonia ha ammirabili memorie recenti, ha le simpatie
e i voti di tutta la Cristianità. Non importa che sembri ora vicina
a distruzione, più lontana che mai da ogni risurrezione. Le nazioni
cristiane non possono perire; nè perì Irlanda per sette secoli d’una
oppressione che potè anche essa parer distruzione. Irlanda ne va
sorgendo a nostri dì, usando i mezzi lasciatile da una servitù che
si può dir libertà al paragone[22]; Polonia ne sorgerà fra uno, due,
sette o più secoli co’ mezzi, coll’ire di una servitù più barbara,
più compiuta, che nessuna. Ma Polonia sorgerà? se ella pure prende le
occasioni, se ella pure guarisce le proprie infermità, se abbandona
i propri pregiudizi, se dismette gl’isolamenti, e si affratella
colle nazioni cristiane, e principalmente colla sua nobil vicina
Germania. Le nazioni slave invasero già barbaramente le germaniche;
e si incastrarono, si frammischiarono l’une coll’altre. Difficile
oramai o piuttosto impossibile sarebbe il disgregarle. Fu già un regno
polacco-prussiano; forza è che sia un regno prussiano-polacco. Le
congiunzioni innaturali non durano; ma le naturali si rinnovellano.
E chi non volesse tollerar queste, sarebbe destinato a patir quelle
perpetuamente. Polonia ebbe re tedeschi, ma disgiunti, e non fu
nulla; quando abbia re tedeschi congiunti sarà tutto quel che può
essere, sarà l’altro antemurale, l’altra potenza intermediaria tra
l’Europa e l’Asia della futura Cristianità. Austria non può avanzarsi
orientalmente senza che s’avanzi Prussia; la nazione germanica spinge
a spalle l’una, a spalle l’altra. E la nazione germanica è ab antico
invincibile nelle sue spinte. Barbara, invase il mezzodì. Incivilita,
invaderà quell’oriente d’Europa che dal Baltico all’Adriatico
scarseggia di popolazioni. Anni sono, il fatto della popolazione
crescente a dismisura nell’occidente europeo fu molto ben veduto
da tutti, non economisti come economisti. E sorse uno di questi,
il Malthus, non solamente a dimostrare ciò che sapevan tutti, ma a
proporre esso, o sua scuola, un rimedio che nessuno sognava; proposero
che ciascuno non facesse se non un numero determinato di figliuoli;
e la media stabilita fu 3-1/2, o 3-1/4 se ben mi sovviene. Stoltezze!
La civiltà, cioè la Provvidenza, diede ella, dà il rimedio: le terre
vacue, che son molte sull’orbe, le colonizzazioni, il trasporto delle
popolazioni addensate tra le rare. Mezzo antichissimo per vero dire,
ed a cui pure non pensò abbastanza la scuola malthusiana, cattiva
in economia pubblica, peggiore in istoria. Da Dublino a Cadice,
a Sardegna, a Grecia, a Slesia, a Stoccolma, le popolazioni hanno
trascurato il rimedio malthusiano, hanno preso il mezzo provvidenziale.
E Germania l’ha preso come può, colle trasmigrazioni marittime; ma
non le bastano queste già, e le basteranno meno ogni dì. Trasporto
continentale le si vuole; il solo trasporto che possa bastare oramai
a’ bisogni propri e dell’Europa; un trasporto che si faccia con tutti
i mezzi dell’industrie, de’ commerci, dell’armi, dell’agricolture.
Finchè i parlamenti e gli uomini di stato scenderanno a discutere
rimedi parziali e piccoli, saranno non più che nuovi Malthusiani;
provvederanno per tre o quattro anni, per una provincia o una città;
ma ricadranno poi in quelle che chiamano crisi commerciali, crisi
agricole, crisi proletarie, crisi democratiche, e son crisi di
addensata popolazione che non ha mezzi sufficienti di diradarsi.
Aprite le valvole dell’Oriente alle popolazioni europee, questo è
ufficio vostro; è ufficio d’uomini di stato che non si contentino di
grandezze e glorie vitalizie; il resto lo faranno le popolazioni da
sè. Basta all’acque per equilibrarsi che s’aprano loro gli sbocchi; ma
se lor si tengano chiusi, esse li rompono malamente, fan danno dove
avrebbero fatto servigio. Non è utopia questa, che Germania abbia a
popolare l’oriente d’Europa; è utopia all’incontro il pensare che si
possa popolare l’oriente d’Europa fuorchè da’ Germani vicini; utopia
il credere di poter fondar stati nuovi e rari di popolazioni, là così
appresso a stati che ne sovrabbondano; utopia massima il credere che
basti niuna potenza umana a fermare il gran movimento orientale, e
peggio che mai a farne uno di direzione opposta. Può succedere che si
tenti, può succedere che s’incontrino le due onde, i due cavalloni, e
sarebbe urto e tempesta grande senza dubbio, e può succedere che vinca
una o più volte l’onda che viene d’Oriente. Ma quella d’Occidente,
l’onda condensata di cencinquanta milioni d’uomini inciviliti che han
bisogno di spandersi, non può non vincere all’ultimo l’onda rara di
cinquanta milioni sparsi, che ha bisogno di condensazioni. L’utopia
non è di quelli che prevedono la continuazione di un movimento già
principiato e progrediente; ma di quelli che sperano poter tramutare
tale e tanto movimento[23].

11. Del resto se fosse possibile che Germania non movesse Austria,
Francia moverebbe Germania. — Ma avendo a parlar di Francia in
Italia, e non potendo quindi schivar d’offendere alcuni che mi
paiono pregiudizi, or sinceri, ora no, ma sempre molto dannosi;
tanto è che mi vi opponga direttamente. Incominciarono gli odii, i
rancori, i rimprocci esagerati contro a Francia, al tempo che essa
ci tiranneggiava. Ed erano naturali e scusabili allora; è naturale
e scusabile passar il segno della giustizia, giudicando de’ propri
tiranni; e tanto più che, salve le eccezioni (notate sovente dal
Botta), i Francesi non ci mandavano allora se non la feccia di Francia,
come sogliono tutti i signori stranieri. Ma il pregiudizio avrebbe
dovuto cessare, e, per quanto è lecito dire d’un pregiudizio, avrebbe
dovuto rivolgersi altrove, quando passò altrove la signoria. Non cessò
tuttavia; e le ire compresse scoppiarono anzi allora senza rischio,
non senza viltà, nè senza adulazioni ai signori novelli. Povero
Alfieri! gli si fece prender indegna parte a tutto ciò, pubblicando
postumo, d’ogni maniera, quel _Misogallo_ ch’aveva scritto egli contra
una viva tirannia. I buoni, i retti, i generosi, cioè, che che si
dica, la pluralità degli Italiani, torsero il viso a tali eccessi;
e il pregiudizio non passò dalle corti ai popoli. Ma in breve le
dissensioni, le peritanze, le variazioni, le debolezze del nuovo
governo e del nuovo parlamento di Francia screditarono la nazione
intiera presso a molti non abbastanza sodi di mente o di coltura, per
vedere che questi eran vizi non di quella nazione in particolare,
ma d’ogni rivoluzione in generale; che eran fiotti cessanti a poco
a poco dopo la tempesta. Vennero poi quelle rivoluzioni fallite in
Italia, a cui speraronsi aiuti di Francia, e non si ottennero se non
mali consigli ed impotenti promesse di pochi rivoluzionari francesi;
e così scese il pregiudizio dalla parte cortigiana alla popolana;
e l’opinione italiana, sviata di su e di giù, si riunì quasi tutta
contro Francia. Allora fu uno scatenarsi, un apparente ragionare, e
un effettivo ingiuriare che non è finito per anche. Alzaronsi le grida
a gara da tutte bande. I letterati italiani, negletti in Francia come
in Inghilterra e talora in Germania, per la buona ragione che quanto
più si scrive liberamente in que’ paesi, tanto meno vi si attende
a ciò che si scrive altrove non liberamente; i letterati italiani,
poco informati delle altre letterature, e così dell’altre trascuranze
straniere, ma offesi dì per dì delle francesi, furono de’ primi, e
saran forse degli ultimi a gridare contra la ignoranza, o la leggerezza
francese. I classicisti sopratutti (dico, non quelli che, studiata la
maravigliosa arte antica, se ne san valere come fecero gli antichi
de’ più antichi, secondo i bisogni del proprio tempo; ma coloro che
non sanno uscir essi o vogliono almeno impedire altrui d’uscire dalla
imitazione materiale e ristretta), i classicisti esagerati, che s’eran
provati contro a un Manzoni, ed avevan sollevata l’opinione italiana
non contra lui, ma contra sè, diedersi bello e facil gioco contro gli
scrittori stranieri; e confondendo in questi l’uso e l’abuso della
indipendenza letteraria, confondendo romantici moderati ed esagerati,
tedeschi, inglesi e francesi, affettarono ed affettano un disprezzo,
un’ira speciale contro agli ultimi, più noti; senza tener conto che
quella letteratura è in tutto la più classica fra le moderne; che là
più che altrove si grida contro a quelle novità e quelle esagerazioni;
e che v’è finita o finisce quella moda contro a cui romponsi ancora
inutilmente tante lance italiane. Poi s’aggiunsero i filosofi,
giustamente sdegnati contro alla mala filosofia francese del secolo
scorso e contro alla insufficientemente corretta del secolo presente;
e s’aggiunsero i teologi, i buoni cristiani e buoni cattolici, pur
giustamente rivolti contro all’empietà degli uni, e contro alla nuova
e non retta cattolicità degli altri, ma senza avvertire che anche
tutti questi sono errori finienti, ritorni incipienti a verità. E
s’aggiunsero finalmente molti Italiani generosamente innamorati della
patria, generosamente assumenti l’impegno di difenderla contro alle
calunnie, e di restituirle il sentimento della propria nazionalità; ma
che non tennero bastante conto nè di quanto può essere accusa vera tra
le calunnie, nè di ciò che è ora la buona nazionalità; non avvertirono
esser natura delle nazioni cristiane incivilite, non gli odii, ma gli
amori, non le accuse reciproche, ma le scuse, non gli isolamenti, ma le
congiunzioni, non quell’esaltar sè ed abbassare altrui che era proprio
delle civiltà antiche, ma il pregiar ciascuna delle nazioni cristiane
secondo l’operosità sua nella Cristianità, ma l’accomunar gl’interessi,
i vanti, le cognizioni, l’operosità tutte in una sola[24]. E sarebbe
pur tempo, sarebbe pur necessario che si distruggessero tutti questi
pregiudizi. Perciocchè insomma non potendosi fare sparir dalla terra,
nè allontanar da noi questa Francia così odiata[25], sarebbe pur bene
giudicarne assennatamente, computare tranquillamente le probabilità
di lei per vedere quale abbia ad essere buona o rea, ma inevitabile
l’influenza di lei sulle probabilità italiane. Non serve dire che
non si vuol tale influenza, che non si vuol far dipendere il nostro
avvenire dall’avvenir di Francia; come se l’avvenire d’ogni nazione
cristiana non dipendesse da quel di tutte, e più delle più vicine! come
se la vicinanza di Francia fosse un fatto che si potesse tor di mezzo
con gli odii o i disprezzi! Non è più Francia l’avversaria contro a cui
si voglian rivolgere, non dico gli odii, che non si vogliono rivolger
contro nessuno, ma gli sforzi. Francia non è nè sarà più mai signora
nostra, ha interesse a scemar la signoria straniera, ad accrescere
le signorie italiane in Italia, è l’alleata nostra più naturale,
l’adiutrice principale all’occasione, e tal sarà quanto più s’assoderà.
Anche a Francia si vorrebbe applicare il bel principio, che le nazioni
cristiane non possono morire, e che debbono dunque guarire. E guardando
allor bene ed amorevolmente a Francia, si vedrebbe che la guarigione
è là molto più avanzata che non si dice da noi; e che tornando ella
a quegli abiti di civiltà e religione in che risplendette già tanto,
ella va ora prendendo quegli altri di sodezza che sono immancabili in
qualunque nazione chiamata a discutere i propri interessi. Del resto,
io non posso accennar qui tutte le guarigioni, tutti i passi fatti
là in pochi anni, e mi restringo a quelli che vi si van facendo nella
questione orientale. — Pochi anni sono, già l’accennammo, Francia fu
innaturalmente alleata russa, poi sospettosamente alleata inglese; ma
ella è ora tornata dall’uno e l’altro errore. Dal primo assolutamente;
sia merito di lei, od anzi dei disprezzi russi. Dal secondo, non forse
abbastanza, essendo Francia non già leggera, ma anzi, come Italia,
ostinata nelle antipatie nazionali. Ma Francia sembra almeno aver
ora abbandonato il pensiero di porsi essa, invece d’Inghilterra, in
quell’Egitto il quale non può aver gran valore nè per l’una nè per
l’altra parte se non come passaggio all’Oriente ulteriore; e ne ha
quindi tanto più per l’Inghilterra, quanto son più le Indie inglesi
che non i microscopici stabilimenti francesi di Borbone, Pondichéry,
Chandernagor e Mahé. Certo Inghilterra vi sarebbe perita tutta intiera,
anzichè cedere su tal questione, che è vitale per lei, e secondaria od
anzi di pura vanità per la Francia; ondechè è grandissimo progresso in
questa l’avere tralasciata la inutile ed impossibile competenza. Ed io
crederei ch’ella venga poi abbandonando a poco a poco anche quell’altro
errore dell’isolarsi, in che ella cadde testè, e di che ella diede così
l’idea a’ nostri scrittori non inventori. Perciocchè questa è vana idea
anche a Francia, quantunque tanto più potente, e che parrebbe potere
star da sè. L’isolamento può durare o piuttosto può affettarsi un anno
o due, per contentare alcuni politici popolareschi. Ma in realtà, in
mezzo a questo secolo XIX un isolamento vero non può durare nemmen due
anni; e i Francesi, pronti al tornar dall’errore come al corrervi,
son già tornati da questo pure. E pronti come sono d’intendimento,
essi intenderanno presto o già intendono, che lor vero interesse nella
questione orientale non è di avanzarvisi nè isolati, nè alleati russi,
nè forse inglesi, ma austriaci principalmente. Prima, perchè a Francia
più che a nessuno importa che non s’accresca ad occidente Russia, sua
nemica naturale ed antipatica; ondechè importa a lei aiutar Austria
a prender quanto più può, affinchè Russia prenda tanto meno. Poi,
perchè Russia non si potrà mai persuadere a dar compensi occidentali,
se non per forza, e non si potrà per forza se non col mezzo d’Austria.
Poi, perchè ne darà più facilmente Austria, che v’è avvezza da gran
tempo, e n’ha parecchi a dare a parecchie potenze intermediarie le
quali ne darebbero a Francia. Poi, perchè sarebbe vantaggio speciale
francese, che surgesse una potenza navale austriaca nel mar Nero; la
quale sarebbe seconda in quel mare e quarta nel Mediterraneo, e farebbe
tanto più difficile che quello o questo diventino mai tutto d’una. E
finalmente, perchè quell’interesse dell’independenza d’Italia che noi
cerchiamo è pur interesse di Francia; la quale è e sarà sempre la gran
potenza che raccorrà intorno a sè le minori occidentali, e che non
potendole temere emule, ha interesse a farle forti alleate. Francia
attende ora troppo poco a Italia, ma non può non vedere tosto o tardi
il suo interesse. Neghi chi vuole a Francia ogni amor disinteressato
di civiltà o di cristianesimo, ogni generosità, ogni virtù; ma non le
si neghi almeno quella prontezza d’ingegno e d’operosità che basta a
vedere e proseguire i propri interessi. Le passioni, miseri resti di
tutte le rivoluzioni, poterono turbarle la vista sì alcuni anni, ma
ella s’allontana da sue rivoluzioni, ma ella si libera da sue male
passioni, ma ella s’assoda ogni dì e si rischiara sui veri interessi
suoi, che sono gli europei ed italiani[26]. E Francia ha già avuta sua
spoglia diretta ed oltremarina dell’imperio ottomano; le altre simili
sarebbon poco men che nulla al paragone; Algeri le basta, e soverchia,
le sue ambizioni ulteriori non possono se non essere continentali. E
queste ambizioni, spingendo Italia ed Austria e Prussia ad Oriente,
sono buone all’Europa in generale, all’Italia in particolare. Gli
interessi francesi non meno che gli austriaci sono oramai gli italiani;
ma con questa differenza: che i francesi sono tali fin d’ora, mentre
gli austriaci non saran tali che quando ella si sarà mossa o per
sè o per impulso altrui. — E Italia vedrà, seguirà pur essa i veri
interessi suoi verso Francia, quando vi sia condotta o da uno di que’
grandi principi, o da uno di que’ grandi scrittori che han potenza, non
solamente d’innalzarsi sopra le opinioni volgari ma di mutarle.

12. Ma se tutto questo è interesse di Francia e di tutti, non vi
s’incontrerà ella l’opposizione d’Inghilterra? Non sorgerà ella,
la tiranna dei mari, la ambiziosa, la avara, la perfida Albione,
ad impedir secondo il solito il ben di tutti, per far monopolio di
tutto ella stessa? Singolare pregiudizio, anche questo! il quale si
congiunge in alcuni con quell’altro contra Francia, e si fa tuttavia
venire di Francia od anzi da quanto vi è in Francia di men colto e
men progredito. Poco si legge d’Inglese in Italia; e quel poco, per
la diversità di quel governo, e la peculiarità di quella lingua o
gergo parlamentare, s’intende da pochissimi. Ai quali tuttavia io me
ne rimetto, non volendo fare una nuova digressione, per persuadere
contra i giornali francesi, a’ miei compatrioti: che le conquiste
inglesi nell’Indie, simili per l’illegittimità a tutte le conquiste,
furono molto più civilmente fatte che non le portoghesi, spagnuole,
francesi ed inglesi anteriori; che furono le sole fra le moderne di
che i conquistatori abbiano avuto a rendere conto (più o men severo,
non importa) a un pubblico tribunale; che furono costantemente vietate
prima e disapprovate poi dalla compagnia mercantile dell’India, più
avida di _dividendi_ che non di conquiste; ondechè elle furono fatte
più per necessità od ambizioni private de’ governatori, che non della
nazione intiera; che si può creder quindi, che questi governatori,
tanto riaccostati alla madre patria dal passaggio per l’Egitto, non ne
potranno più far così a lor talento, o le dovranno lasciare, come si
è già veduto del Cabulistan; che la guerra della Cina non fu fatta per
avvelenare i Cinesi coll’opio, ma all’occasione dell’opio per rompere
finalmente il corso di que’ barbari usi commerciali, troppo a lungo
sofferti da tutte le nazioni cristiane, o piuttosto per l’inevitabile
irrompere d’una civiltà maggiore su una tanto minore; e che
l’abolizione della schiavitù dei negri imposta per forza dal Wilbeforce
e da altri buoni cristiani e filosofi al governo ed alla nazione
inglese, e costata un bilione, non fu nè potè esser mai speculazione
commerciale o politica; e via via. Più lungo e più difficile ancora
sarebbe capacitare i nostri dispregiatori di tutto ciò che chiamano
oltremonti ed oltremare: che questa potenza, la quale ha senza dubbio
anche essa le sue piaghe, saprà guarirsene probabilmente molto prima
che non ciascuna altra potenza delle proprie. Io lascio tutto ciò, e
vengo al medesimo argomento finale, che feci per Francia. Credasi pure
interessatissima Inghilterra; ma credasi interessata almeno secondo
quella intelligenza di civiltà che non le si può negare. — E ciò posto,
osserviamo prima quell’impulso britannico a tutti i venti, il quale,
piangane o l’invidii chi vuole, è pur certamente spettacolo pieno di
speranze a tutta la Cristianità. Ma osserviamo poi, che di tutti questi
impulsi, il principale senza paragone è all’Oriente. Là sono oltre a
cento milioni di sudditi inglesi, là la consumazione principale delle
proprie merci, là la produzione di quelle più consumate e adoperate in
Inghilterra, là gl’interessi principali del commercio, della potenza,
della gloria delle schiatte britanniche. E quindi quella necessità
dell’Imperio britannico d’aprirsi la via tanto più corta di Egitto,
e la certezza che egli serberà a qualunque costo quella via, e la
probabilità che egli se l’assicurerà ed aprirà ognor più. Questo è di
gran lunga il maggior interesse britannico nella questione turca. A
petto di questo, tutte le conquiste o i protettorati che ella potrebbe
pretendere sono un nulla; sono di quelle cose in che un ambasciadore,
un ammiraglio, od anche un console possono bene porre ambizione od
impegno, ma in che non ne pongono il governo e la nazione, ondechè
si sogliono poi abbandonare. L’Inghilterra ha più conquiste, che non
desidera; ella incomincia a sentir il peso dell’imperio suo. Ha più
regioni vacue che non ne può popolare; ha più colonie che non profitti
da esse; ha forse più posti navali che non le son necessari a mantenere
la sua prepotenza marittima, e se alcuno le ne manca, ella il prenderà
probabilmente senza scrupolo, ma lo prenderà quanto più ristretto
affinchè le costi quanto meno, come si vede aver fatto in Aden e in
varii altri ultimi acquisti. E quindi può ben essere che tra le ruine
turche ella si approprii qualche dì o l’Egitto o qualche stazione in
esso o vicina ad esso; ma non niuna altra parte notevole dell’Imperio,
non sopratutto niuna provincia europea. E questo non voler conquistar
essa, fa senza dubbio dell’Inghilterra una potenza meno impellente
alle conquiste altrui, una potenza conservatrice nella questione
turca, e tanto più quando ella è retta dai propri _conservatori_.
Ma ella suol dimenticare i riguardi, quand’è retta dalla parte
opposta; e li dimentica ogni dì più, quanto più ella s’avanza sotto
gli uni o gli altri in quella carriera di progressi, in che non suol
nessuno fermarsi ed ella non mai. Quando la caduta e la divisione
turca fosser fatti imminenti, ella non sarebbe ultima a vederli, nè
ad accettarli. Tal non fu finora ad ogni stadio della questione; la
quale, se Francia avesse corrisposto, sarebbe ora avanzata di molto
colla rottura dei Dardanelli, proposta da Inghilterra. Quando si venga
di nuovo a ciò, quando là, nel mar Nero, sia ricondotta e ridiventata
importante la contesa, allora gl’interessi britannici si troveranno
così evidentemente identici con quelli universali, che sarebbe
stolta ipotesi quella, che ella non li saprà vedere; o vedendoli, non
avanzarli; od avanzandoli, non deciderli, non tenervi il posto suo
presente di duce della Cristianità. L’Inghilterra dissoda il terreno
alla Cristianità in tutte le regioni; fa ad essa l’ufficio di quegli
abbattitori di selve e dissodatori di terreno (_pioneers_) che sgombran
la via a’ coloni americani. Ella il farà nel Levante come l’ha fatto
nell’Oriente ulteriore; e il farà per l’interesse britannico come per
il comune. È interesse particolare britannico come comune, che il mar
Nero non sia lago russo; e quindi che Austria abbia la parte maggiore
possibile di quelle marine. È interesse britannico come comune, che una
sola potenza abbia le bocche e il corso del Danubio; e che le bocche
del mar Nero sieno più o men direttamente di chi abbia utilmente le
bocche e il corso del Danubio. È interesse britannico particolare, che
Francia abbia compensi continentali, affinchè ella non ne pretenda de’
marittimi in Levante, in Siria, nell’isole imminenti all’Egitto, dove
Britannia ha diritto, dovere e volere di signoreggiare. Ed è interesse
britannico più che di niun’altra nazione cristiana, che l’Italia
diventi quanto prima nazione indipendente e nazionalizzata; perchè
Britannia, che è la nazione più progredita in industrie e commerci,
è quella che trae sempre i primi vantaggi delle nazioni nuovamente
progredite in indipendenza e nazionalità. Che se è interesse francese
che sieno nel Mediterraneo parecchie potenze navali oltre Britannia;
non è minor interesse britannico che vi sieno tali potenze oltre
Francia. Gli assennati di là come di qua hanno dismessi tutti que’
sogni del Mediterraneo lago francese o lago inglese. Ei sanno che il
Mediterraneo non fu lago mai di nessuno, se non d’Italia due volte;
una volta nell’antichità ed una nel medio evo, quando le civiltà e le
colture universali furono italiane. Ma dacchè la civiltà non può più
essere dell’una o dell’altra sola fra le nazioni cristiane, quando
ella non può aver nome nè realtà se non di civiltà cristiana, non è
più possibile che quel Mediterraneo, su cui mettono tante di quelle
nazioni, diventi mai lago esclusivo di nessuna. Fidiamocene pure a
quel senno, a quella lenta, ma continua forza progrediente, a quella
intelligenza quasi perfetta degl’interessi propri ed universali, che
è già vecchia e pur s’accresce ogni dì nella schiatta britannica. Non
è essa che abbia voluti sempre gl’indugi, che siasi impuntata nello
_statu quo_ della questione turca; ella non li volle, se non quando
vide probabili i profitti di Russia, sua rivale vera e perpetua. Veda
probabili i profitti d’Austria, alleata sua naturale e riconoscente, e
di Francia e Italia, alleate sue naturali quantunque sconoscenti: ed
accertiamoci pure ch’ella non mancherà l’occasione di assicurar loro
questi profitti. Se non fosse altro, per non lasciar durare il rischio
che diventino profitti russi.

13. La vera opponitrice agl’interessi universali, la dividitrice della
Cristianità, quella che sta sola da una parte, contra tutte le altre
nazioni cristiane, è la Russia. Un atteggiamento politico, che non è
senza apparenza di grandezza; e che ella quindi accetta tacitamente
per lo più, altamente talora. — E tuttavia anche là, se fossero intesi
bene gl’interessi particolari, ei non s’opporrebbero agli universali.
I più grandi autocrati dal principio del secolo scorso furono tre:
Pietro, Caterina, Alessandro. E Pietro fu veramente grande, rivolgendo
la sedia, le ambizioni, la vita russa ad Occidente. Era necessario per
incivilire quel popolo; senza volgersi ad Occidente, all’Europa, alla
Cristianità, Russia non poteva incivilirsi, rimaneva potenza asiatica
e barbara. Pietro ebbe così la sola che sia grandezza vera, quella che
sorge dalle condizioni ben intese e ben avanzate del proprio tempo,
quella che si potrebbe dire grandezza opportuna. Nè trascurò egli
gl’interessi orientali; ma non essendo questi maturi, sacrificolli agli
occidentali, più urgenti. — E maturato poi l’Oriente, precipitante
già l’imperio turco, Caterina vi si rivolse, opportunamente; ma con
più pompa che vera grandezza; non virilmente, come pretendeva; nè
con quella intuizione semplice femminile, che sopravanza talora le
previsioni nostre, ma che non è data guari se non alle donne semplici,
diverse da lei; non con quella fermezza di mente che vede il vero
campo di una grandezza ed abbandona gli altri; non senza distrarsi ad
Occidente, non senza dividere l’impulso e sminuzzar l’ambizione russa.
Il pensiero di Polonia nocque fin d’allora al pensiero di Turchia; la
divisione di Polonia ritardò chi sa per quante generazioni, guastò chi
sa fino a qual segno la divisione di Turchia. — Finalmente Alessandro,
mente e cuor più semplice, più largo d’assai, ma educato fra’
pericoli, tra le vicende, tra gli affetti e le tradizioni occidentali,
ebbe sì quel dì che dicemmo di grande intuizione, quel dì di grande
intelligenza degl’interessi russi e cristiani presenti, degl’interessi
orientali; ma al domani o alla sera di quel dì, si lasciò distrarre
dagl’interessi occidentali, da quella stessa Polonia la quale salvò
così una seconda volta Turchia. Non volle egli, non credette distrarsi;
credette anzi avere stanziata Polonia in una limitatissima libertà.
Come se si potesse stanziare in questa! come se una libertà limitata
non fosse una incipiente, e non chiamasse il seguito! come se, dove non
è indipendenza, la libertà potesse valere ad altro che ad acquistarla!
Alessandro pose in terreno fecondo i semi d’un frutto amaro per
lui; pose le fondamenta, e lasciò l’addentellato d’un edifizio
difficile ad abbandonarsi, impossibile a compiersi da’ successori, la
preponderanza occidentale di Russia. — Non vegniamo più giù; serbiamci
puri d’ingiurie; e non esprimiam nemmeno una indegnazione espressa da
tutti[27]. Osserviamo solamente che la distrazione, l’impedimento,
la piaga occidentale s’è più che mai accresciuta ed inasprita negli
ultimi anni. Ma non è del tutto utopia veder possibile anche là un
progresso dell’opinione pubblica che invada un dì anche quel governo,
quella corte, quella famiglia imperiale, e, perchè no? quello stesso
imperadore. Sono famose là le mutazioni subitane di politica; un
fatto patente, una felice ispirazione, un pensiero del principe,
basta là più che altrove, senza aspettare le naturali, e sopratutto
senza desiderar le scellerate mutazioni del principe, pur troppo
frequenti colà. Que’ principi sogliono essere gli uomini del loro
imperio più avanzati in civiltà; tantochè sono fino a persecuzione
gelosi di tal primato. Ma questo può in somma trarre il principe ad
uno di que’ pensieri che fanno a un tratto d’un uomo e d’una nazione
sviata un uomo e una nazione grande; che farebber là un quarto grande
autocrate, anzi il maggiore di tutti. Sarebbe, è vero, necessario
perciò il vedere, ma pare impossibile che non si vegga anche là un dì
o l’altro: che i tempi presenti ed avvenire sono differentissimi, sono
contrari a quelli di Pietro; che se era grande allora il volgersi ad
Occidente per chiamarne la civiltà, sarebbe più grande ora il volgersi
ad Oriente per portarvela; che Inghilterra e Russia sono a’ nostri
dì le due sole potenze che possono operare in grande la diffusione
orientale della civiltà cristiana, ma che questo gran destino ed
ufficio naturale della Russia non si può adempier da lei insieme con
quello innaturale della diffusione, della preponderanza occidentale;
che queste due diffusioni sono localmente impossibili a farsi insieme
o a vicenda, per essere insieme l’Oriente e l’Occidente della Russia
così distanti da non potervisi fare que’ trasporti di eserciti, di
navi, di forze e di attenzione stessa, i quali son vantaggi della
posizione centrale ne’ paesi più piccoli; che è dunque da sciegliere
inevitabilmente tra la diffusione della civiltà russa all’Oriente, e
quella della preponderanza russa ad Occidente; cioè tra un’impresa
legittima, santa, applaudita, aiutata da tutti, ed una scellerata,
empia, maledetta e contrastata da tutto il resto della Cristianità.
— Sembra un gran chè per vero dire, una impossibilità, che si fermi,
che retroceda in qualunque direzione un tale imperio. Ma retrocesse
il romano sotto Augusto da’ disegni di Cesare, sotto Adriano da que’
di Traiano, e durò secoli per queste retrocessioni. E retrocesse,
invito dapprima, adattatovisi meravigliosamente poi, l’imperio
britannico in America; e cominciò da quel dì il suo secolo di vera
preponderanza, d’incontrastabil primato. Polonia è piaga insanabile
nel corpo russo; non sette, non tredici secoli domeranno quella, più
che Irlanda o Italia. L’identità delle schiatte non è rimedio, ma
esacerbazione della piaga, mantenuta dalla differenza delle religioni,
ed incancherita oramai da ingiustizie, da crudeltà non dimenticabili.
Russia è più inferma che nol si crede, e non ha forse rimedio se
non l’amputazione del membro piagato. Russia n’è certo almeno fatta
fiacca, incapace, impotente; e il provò ad Andrinopoli sul Bosforo, a
Khiva e in Circassia, quantunque postasi a cimento non più che or d’un
imperio cadente, or della diplomazia europea, or d’un kan, or d’una
gente barbarica. I limiti fatti naturali oramai alla Russia dagli odii
reciproci, i limiti che dovrebb’essere _arcanum imperii_ il porre e
sancire sono: a Nord-Ouest, là dove più o meno incomincia Polonia;
a Sud-Ouest, là dove incomincia Ungheria, la sorella di Polonia, là
dove estendendosi Russia abbraccerebbe Ungheria ed Austria, che non
possono lasciarsi così abbracciare ed irretire. Niuno, quantunque
grande, non deve durare in imprese impossibili a compiersi, niuno,
quantunque costante, deve tardare a lasciarle volontariamente; sotto
pena di lasciarle poi per forza, con vergogna e danno. — Il dì poi che
fosse, non dico fatto, ma deliberato o solamente ammesso come possibile
il gran sacrificio, diventerebbero semplici e facili i destini di
Russia. Fermati i limiti occidentali, rimarrebbero tanto più aperti
gli orientali a duplici e triplici compensi. Perciocchè, pogniamo che
sieno or russe intieramente, non solo Polonia, ma Valachia e Servia,
che non sono pur tali di nome e forse meno di fatto. Sarebber tuttavia
più che compensate tutte queste province europee che si lasciassero,
da quelle asiatiche che si prendessero, da Sinope od anche Scutari fino
ad Erivan od all’angolo occidentale od anche all’orientale del Caspio.
Turche o persiane, queste provincie giacciono lì a’ piè di Russia, che
ha poco più a fare che abbassarsi per raccoglierle. Gli Armeno-Turchi e
gli Armeno-Persiani chiamano i Russi, soli cristiani chiamabili, soli
possibili colà. Non ostano se non due imperii impotenti, sconfitti
quando furon soli, e che ora sono appunto soli, e non possono avere
aiuti di nessuna potenza cristiana gelosa. Inghilterra non anderà mai
a ficcarsi così addentro alle terre, nè partendo dall’Indo, nè dal
fondo del golfo Persico, nè dal fondo del mar Nero. Inghilterra ha
sperimentato ultimamente essa stessa nel Cabul, e veduto sperimentare
da Russia sulla via di Khiva que’ deserti che dividono, per secoli e
secoli o forse per sempre, India da Russia. Ed Inghilterra sa che un
altro tal deserto è tra India e Persia settentrionale; ondechè gli
Inglesi sodi e informati non han guari più paura di niuna di quelle
discese russe nell’Indie che furon tema negli anni scorsi di utopie
napoleoniche e continentali. Quegli Inglesi sanno la storia dell’Indie
un po’ meglio che non la sapesse probabilmente Napoleone; e che non la
sappiano poi certamente que’ giornalisti i quali, avendo osservato che
le invasioni all’India venner tutte dall’Indo-Kutsch, dal Nord-Ouest
della penisola, ed osservando poi sulla carta che al Nord-Ouest di
quel Nord-Ouest si trova Russia, ivano profetando una discesa di
questa dalla Neva o dalla Moskova all’Indo e al Gange. Quegli Inglesi
sanno molto bene che tutte quelle invasioni vennero sì da quel primo
Nord-Ouest, ma non mai dal secondo; che vennero da genti numerose, e
grandi imperii stanziati là vicino a Cabulo Ghiznè, o tutt’al più nella
Transoxiana od in Persia, ma non mai da imperii più lontani; tantochè
nè gli antichissimi re dei regi persiani, nè Alessandro macedone, nè
Gengiskan non posero mai piè in ciò che è India, imperio britannico
presente[28]. Se verrà mai a questo qualche pericolo esterno, non
verrà da niun imperio lontano che abbia a passare mezzo mondo per
capitare poi ad uno dei due deserti prima che all’Indo superiore;
ma piuttosto da qualche imperio nuovo che sorgesse più vicino dalle
rovine turche, persiane od anche russe. Ed Inghilterra provvederebbe a
ciò senza dubbio, se venisse il caso; Inghilterra non lascerà mai più
sorgere nè risorgere niun grande imperio asiatico; e si è veduto già
che non ne vuol nemmeno niun affricano vicino all’Asia. Inghilterra
ha quindi anzi interesse che le provincie turco-asiatiche sieno tolte
dall’eventualità degli imperii asiatici vicini per essere aggiunte al
lontanissimo russo. Ma se pur non vedesse tal interesse proprio, certo
ella vedrebbe oramai con indifferenza che Russia s’estendesse fino a
mezzodì del mar Nero od anche del Caspio, che sarebbe ancora un sedici
gradi lontano dall’Indo, co’ deserti frammezzo. E se anche questa
estensione le paresse un tal qual pericolo, certo le parrebbe pericolo
minore che non l’altra estensione russa sulla sponda occidentale del
mar Nero o sul Bosforo; ondechè ella darebbe le mani a quella per
impedire e far indietreggiar questa. — Ed a Russia poi, qual differenza
immensa, totale! Le provincie occidentali, Polonia, quando anche non
fosse piaga, le provincie danubiane, quando non fossero per essere
pietra di scandalo, _casus belli_ perpetuo con Austria, il Bosforo
stesso, quando nol fosse coll’intiera Cristianità, non sarebbero
mai stromenti di vero progresso, di vera potenza interna russa; non
sarebbono mai se non istrumenti a quell’edifizio di preponderanza
occidentale che non può compiersi. All’incontro, le sponde meridionali
del mar Nero aggiunte alle settentrionali ed orientali, facendo della
metà orientale di questo un vero lago russo possibile, chiuso da
Sinope e Sebastopol, aprirebbero le bocche di tutti i fiumi russi ad un
commercio orientale perpetuo, ed indipendente dal Bosforo. E il grande
istmo del Caucaso, già russo di nome, ma che non sarà tale di fatto
mai finchè non sien russe le sponde Sud-Est del mar Nero e Sud-Ouest
del Caspio, accrescerebbe ancora questo commercio russo-asiatico. Le
sponde meridionali del Caspio per sè stesse poi, aprirebbero nuova
via, nuove comunicazioni alla Russia europea ed all’asiatica insieme.
E questo sì che può e debbe un giorno o l’altro esser tutto intiero
lago russo, senzachè nessuno lo possa impedire nè disfare mai più.
Là avrebbesi un campo inesauribile di progressi. Nè dicasi utopia,
perchè è campo così trascurato finora, perchè così lontano, perchè
russo. Cinquant’anni fa avrebbe potuto parer maggior utopia il voler
solcar coi numerosi piroscafi i laghi Ontario od Erie, il Mississipi
o il Missouri, che son pur solcati; e venti anni fa quando le strade
di ferro non parevano adattarsi se non all’interno di qualche _dock_ o
di qualche manifattura inglese, sarebbe paruta utopia, volerne far una
tra le due capitali russe, tra cui pure si fa. Certo, quando Russia
s’aggregasse tutte queste provincie asiatiche-meridionali, quando
s’aprissero tutte queste comunicazioni commerciali, il profitto primo
ne verrebbe alla Russia europea, ma a poco a poco pure all’asiatica. Nè
questa poi potrà mai progredire altrimenti. Non serve mandar guerrieri,
preti, principi e principesse, polacchi e russi, insieme con ladri
ed assassini a popolar Siberia; non serve attirarvi qualche sparso
colono. Ma chi ardirebbe fissare limiti a quelle popolazioni e a quella
civiltà, quando non più limiti, ma mezzi di esse fossero il Caspio, il
Volga e l’Ural, Astrakan, Casan ed Oremburgo?[29] Anni sono, notarono
alcuni viaggiatori che le condizioni de’ paesi ultimi settentrionali
i quali giacciono verso le bocche dell’Obi, del Jenisei e della Lena,
si muterebbero notabilmente se si corressero que’ fiumi con pochi
piroscafi a portarvi più brevemente e più regolarmente le poche merci
necessarie ai pochissimi abitatori. Ma senza concedere nè negare le
possibilità di que’ progressi estremi, chi vorrebbe dire impossibili
quelli dei paesi tanto più temperati che giacciono alle latitudini di
Vienna, Parigi o Londra? Non son queste le utopie, ma quella della
preponderanza russa occidentale; non il progresso dell’Asia, ma il
regresso dell’Europa; ed utopia massima quella di condurre insieme le
due imprese incompatibili.

14. Ma rivolgiamoci alla patria. Alla quale tornando in qualunque
maniera, anche in iscritto, sembra ritrovare una cotale assicuranza
che non si sentiva tra gli stranieri. Io non so come faccian altri che
parlano e sparlano di questi così facilmente; ma io mi sento di mal
agio in tali discorsi, non v’ho fiducia di poter essere utile lodando
nè biasimando. Ed all’incontro, per quanto piccolo uno si ritrovi
in casa, sembra pur ritrovarvi la signoria de’ propri pensieri, più
facile, più consenziente l’udienza, più intese le spiegazioni, più
diritto, più dovere di parlare, più speranze che non sien tutte parole
vane quelle che si rivolgano con sincerità ed amore ai compatriotti.
— E così, dopo molta via percorsa, dopo molti casi posti, riducendoci
ai nostri, ci pare poterli determinare molto più precisamente, e
che sieno tre soli. — 1.º O le grandi potenze cristiane, lasciando
cader l’imperio turco quando che sia, ne raccoglieran le spoglie
secondo gl’interessi universali; e la questione così sciolta porterà
naturalmente da sè l’inorientarsi d’Austria, l’abbandonar essa
l’Italia, il farci quasi dono dell’indipendenza, cioè la più bella
e più facile delle occasioni per noi. — 2.º Ovvero le grandi potenze
cristiane, pur lasciando cadere quell’Imperio, lo spartiranno tra sè
od in frazioni e stati nuovi, con, o senza protettorati, in qualunque
guisa, ma senza rispetto agl’interessi, alla spinta, alle necessità
della Cristianità; ed allora sarà un lungo fare e disfare, una
inevitabil serie di contese, di guerre, di mutazioni, la quale sarà pur
serie di occasioni all’Italia. — 3.º Ovvero (che parrà a molti il caso
più probabile, perch’è il presente) si continuerà a tener su un imperio
fattizio, una rovina, raccogliendone un dì l’uno, un dì l’altro uso,
ora una provincia o una colonia di uno stato europeo, ora uno stato
sotto tre protettori, ora sotto due, sotto uno, in varie guise, secondo
le occasioni; e la serie delle occasioni sarà quindi men buona sì,
ma più lunga che mai per l’Italia. — Quale avverrà più probabilmente
de’ tre casi? Nol sappiamo e non ce ne curiamo per ora. Uno de’
tre avverrà. La massima di tutte le utopie non è quella della pace
perpetua, ma d’una pace perpetua, che offendesse tutti gl’interessi
universali, che fermasse tutti gli andamenti della Cristianità. Una
pace buona satisfarà anche a noi; una cattiva non durerà; e qualunque
guerra grande darà occasioni, non importa quali, quante o quando
sien per essere; l’interesse, il dovere di valercene per acquistar
l’indipendenza riman lo stesso. Nel primo caso del buono ordinamento
della Cristianità, non solamente sarebbe vergogna a noi l’accettare, ma
è improbabile che ci si faccia il dono dell’indipendenza, intieramente
gratuito ed immeritato. Nel secondo e nel terzo caso delle moltiplici
occasioni, niuna di queste rimarrebbe occasione ad oziosi. Dicemmo che
Austria è quella la quale può sola spingersi innanzi per posizione,
quella che si vuole spingere per l’interesse universale; ma diciam ora
ed è chiaro per sè, che è sopratutto interesse italiano. E dicemmo che
Austria, lentissima per sè, sarà lentamente spinta da Inghilterra, e
più fortemente da Germania e da Francia. Ma diciam ora che può e deve
essere spinta principalmente da noi, più interessati che nessuno. A
Germania e Francia l’inorientarsi di Austria darebbe accrescimenti,
sfoghi commerciali o di popolazione; ma a noi darebbe il bene che
li passa tutti, l’indipendenza. E noi siamo poi in tal condizione,
che, quantunque minori che non Francia o Germania, noi possiam pur
dare ad Austria la spinta maggiore di gran lunga. Alcuni di noi siamo
la piaga maggiore che ella abbia in corpo; alcuni altri siamo i più
pericolosi vicini di lei. A noi sta farle sentire l’acerbità della
piaga, affinchè ella pensi a’ rimedii; farle sentire crescente il
pericolo della vicinanza, affinchè ella pensi al proprio trasporto.
La corona lombardo-veneta è troppo bella corona, perchè si lasci o si
muti volontariamente del tutto; un po’ d’aiuto vi si vuole; un po’ di
fatti i quali provino che il cambio non è lasciato a pieno arbitrio di
lei; che non si tratta per lei dell’alternativa di tener Po o prender
Danubio, ma di prendere o non prendere Danubio, come compenso al Po
da perdersi un dì o l’altro ad ogni modo. Austria vive alla giornata,
profittando delle occasioni per continuar come sta, perchè sta bene;
viviamo se si voglia alla giornata anche noi, ma pur valendoci delle
occasioni per mutar ciò che non istà bene per noi. Aspettiamo sì le
occasioni con longanimità, ma prendiamole poi con prontezza. Troppe
passarono già. Tredici secoli è già durata l’impresa. E i secoli son
pur preziosi a una nazione; e se è stoltezza anticiparli, è viltà il
perderli. In politica come in guerra, tutto il resto dell’arte è un
nulla rimpetto al saper cogliere il tempo. Il quale incominciò dalle
prime divisioni fatte, dalle prime spoglie raccolte dell’imperio
destinato a riordinare cadendo la Cristianità. La Provvidenza ci fu
così propizia che ritardò a nostro pro gli ultimi atti di quella
mutazione, che ci concedè nuovo respiro ad apparecchiarci. Ma se
continuassimo a rimaner disapparecchiati, disattenti, non curanti,
oziosi, allora, vergogna, danno e colpa nostra, si deciderà di noi,
senza noi, e contro a noi. I figli nostri malediranno i padri di non
aver fatto nulla, non essere stati nulla a’ dì dell’occasioni, che
non si ritroveranno più. — Ma speriamo, desideriamo, facciamo che non
avvenga così; e veggiam quindi fin d’ora come apparecchiarci alla
occasione, che non può non risorgere un dì o l’altro, e può da un
giorno all’altro.




CAPO DECIMO.

COME VI POSSONO AIUTARE I PRINCIPI ITALIANI

                    Iis quidem qui _secundum patientiam boni operis_,
                  gloriam et honorem et _incurruptionem_ quærunt.

                                           (Paul. _ad Rom._, I, 47).


1. Qui incomincia adunque la parte pratica dell’assunto nostro; quella
perciò in che mi duol più di non aver credito che d’oscuro scrittore
su coloro che tengono in mano i nostri destini; quella in che vorrei
sapere entrar meglio in lor ragioni, in lor difficoltà, le quali sono
gravissime senza dubbio. Ma ei mi par pure che sia toccata loro in
tutto una invidiabile opera. Certo, sono al mondo principi più potenti,
uomini di stato in situazioni più clamorose, che non i nostri. Ma
niuno è che abbia dinanzi a sè un’impresa così grande ed all’ultimo
così gloriosa, come quella della indipendenza patria. Passano le
conquiste d’una in altra parte, e lodate dagli uni, sogliono essere
maledette dagli altri; e le legislazioni stesse mutano progrediendo;
ondechè dubbie ed instabili sono quelle glorie de’ conquistatori e
de’ legislatori che il nostro Machiavello e tanti altri pongono in
cima all’umane. Ma le glorie de’ procacciatori e degli apparecchiatori
d’indipendenza sono le più pure, le più sante e le più benedette finchè
ella dura; e non che cessare se mai ella cessa, elle soglion ricevere
nuovo splendore dai desiderii stessi che allor ritornano di lei, e
dagli sforzi per ricuperarla. Ma non dimoriamo in esortazioni, le quali
sogliono essere inefficaci su coloro che abbiano il cuore incallito,
e inutili a coloro che l’abbiano innalzato dalla pratica de’ pubblici
affari.

2. Ed inutili a tutti sarebbero i particolari di ciò che sia da fare
quando venisse la grande occasione. Non sapendo nè quando nè come
verrà, sarebbe tutto utopia il disegnare fin d’ora confederazioni di
due o tre o tutti i principi italiani, od alleanze con gli stranieri,
e peggio che mai divisioni da patteggiare prima o dopo l’evento. Io
so che siffatti particolari sono i gioielli più cercati ne’ libri
politici, dai politici principianti e dilettanti. Ma a costoro, io
mi son già forse fermato troppo; e mi vi vorrei fermare meno che
mai in questo capitolo, che di natura sua s’indirizza agli uomini di
pratica. — Due sole avvertenze generali paiono poter farsi fin d’ora.
La prima è di quella moderazione che deve trovar luogo dappertutto,
anche in un’impresa d’indipendenza. Il grande scrittore a cui noi
facciamo sempre supplemento, e talora opposizione, aspira ad una
indipendenza così compiuta d’Italia, che comprenderebbe non solamente
la penisola e l’isole presentemente italiane, ma anche la Corsica, che
non è tale ora. E certo questa pure sarebbe desiderabile. Ma è ella
sperabile? Certo, Corsica fu Italia e vi rimangono italiane la lingua
e le schiatte; ed italiana la famiglia stessa di Napoleone. Ma questi
appunto fece la patria sua francese irrevocabilmente. È puerilità
quella questione posta in termini generali: se Napoleone fosse italiano
o francese? Veniamo sempre ai fatti, al senso comune, alla voce
universale. Napoleone fu Italiano di schiatta, di sangue, d’ingegno
naturale; ma fu Francese di educazione, d’idee, di disegni, di
interessi, di vita, di gloria; e, nè i Francesi si lasceranno spogliar
mai di questa gloria, nè i Corsi separarsene. E poi, italiane sono pure
le lingue e in gran parte le schiatte di Malta, di Fiume, di Spalatro,
di Ragusi. E vorremmo noi per questo ambire tutto ciò? Noi miseri,
che non possiamo se non da lungi ambire Venezia stessa e Milano? E
non solamente ci metteremmo contro, nella grande impresa, Francia ed
Inghilterra (quel poco!); ma, che è forse peggio, faremmo impossibile
ogni consenso, ogni adattarsi d’Austria ai compensi? pretenderemmo a
quelle coste orientali dell’Adriatico, che dan valore a quei compensi,
che son quelle che le possono far desiderar le provincie danubiane?
Queste sono generose ambizioni senza dubbio, e da piacere al volgo; ma
da far sorridere quanti uomini di pratica restin pure da noi. Ondechè
questa ci pare di quelle quistioni, che basta esporle chiaramente per
torle di mezzo.

3. Ma più importante è forse quest’altra. Quella situazione e quella
conformazione ammirabili che fecero l’Italia atta a tante e così varie
grandezze lungo i secoli, hanno pure questo grande inconveniente: che
v’è naturale e quasi irremediabile la divisione di essa in due parti
distinte: l’Italia settentrionale o val di Po sino agli Appennini, e
la meridionale al di là. La meridionale, fin da quando ella diede il
nome a tutta la penisola, fu anticamente la parte principale, quella
che diede la civiltà e la vita alla parte settentrionale, e che per
essa le fece passare a tutto il mondo antico, a tutto il moderno
e cristiano. Ma ciò è mutato da due o tre secoli in qua: da quando
la civiltà è uguale o maggiore fuori che dentro Italia. D’allora in
poi crebbe la civiltà, la importanza della parte settentrionale, e
come notammo, quella del Piemonte in particolare. Io sono, come s’è
veduto già, poco ambizioso di primati. Nè vorrei pretenderne nessuno
definitivo per l’Italia settentrionale sulla meridionale. Ma finchè
non è compiuta l’impresa d’indipendenza, due primati sono, che non
si posson tôrre all’Italia settentrionale: quello dei pericoli, e
quello poi degli accrescimenti. Quando e come che sieno per venire
le occasioni dell’impresa, questa si farà senza dubbio dalla e nella
Italia settentrionale principalmente; e il risultato necessario sarà
una riunione di essa, uno inorientarsi, un accrescersi la monarchia di
casa Savoia. Ella sola ha i compensi occidentali da dare; ella sola
si trova vicina alle province italo-straniere; ella sola può farle
diventare italiane, che è la somma dell’impresa. Tantochè è quasi dir
lo stesso impresa di indipendenza italiana, o fondazione di un gran
regno ligure-lombardo. Parma e Modena tutt’al più potrebbon prender
parte a quegli accrescimenti; ma nulla o quasi nulla Toscana, nulla
Roma, nulla Napoli. E quindi è forse il pericolo, l’ostacolo maggiore
all’unione de’ principi italiani: che i più, non prevedendo aver
parte agli acquisti, non prendano interesse nè parte all’impresa, e
dimentichino che è impresa non d’acquisti, ma d’indipendenza. — Napoli
specialmente è così lontana, che, oltre al non avere speranze di futuri
accrescimenti, ella può immaginarsi di non aver nemmeno pericoli dallo
straniero. Eppure vegniamo sempre ai fatti. Dal 1814 in qua, Piemonte,
così vicino ad ogni straniero, non soffrì se non una occupazione, e
Napoli, così lontana, ne soffrì due. E se noi risaliamo più e più su,
Piemonte soffrì sì molti passaggi, ma due sole occupazioni lunghe
e vere, nel cinquecento e a’ nostri dì, e non mai una mutazione
di dinastia; la quale anzi uscì sempre da’ pericoli accresciuta di
potenza. Napoli, all’incontro, soffrì mutazioni numerosissime e così
durevoli, che diventarono mutazioni dello stato e delle dinastie;
Longobardi, Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi, Francesi, Spagnuoli,
Austriaci, Borboni. E quindi, se si lascino le apparenze vane de’
luoghi e si guardi alla realità della storia, se anche in politica
si segua il metodo comune a tutte le scienze di giudicare dei fatti
incogniti da’ cogniti, di trar le regole dagli sperimenti, noi avremo
a dire che Napoli e Sicilia sieno quella parte d’Italia che ha più a
temere delle invasioni straniere. Nè diremo con parecchi che sia colpa
irremediabile del molle clima, delle molli schiatte. No, in nome della
patria comune; noi non accettiamo nè per essa intiera nè per niuna
parte di lei queste necessità, queste perennità, queste naturalezze
d’ozi o di vizi, smentite dalle storie. Il clima di Italia è quello de’
Romani; il clima del Regno è quello in che si fecero famosi in guerra
Siculi, Sanniti, Normanni; e se la degenerazione fu più frequente in
quella che nell’altre provincie italiane, ella è forse dovuta meno al
clima, che a quell’inganno della situazione estrema, il quale le fa
parer lontani i pericoli, e inutili le preparazioni a difesa; onde
poi le facili, le frequenti invasioni, onde le mutazioni, onde le
corruzioni, effetti prima e nuove cause poi. Ma insomma e per qualunque
ragione, delle dieci mutazioni portate dagli stranieri all’Italia, otto
o nove toccaron sempre a Napoli; ondechè quel popolo e quella dinastia
sono di gran lunga i più interessati a tener lontani quegli stranieri,
epperciò a veder compiuta l’impresa d’indipendenza; e se non avranno a
questa interesse d’accrescimento, essi v’avranno l’interesse maggiore
di conservazione e d’assicurazione. — Nè mancherà loro ultimamente
l’accrescimento stesso. Quando Italia fosse indipendente, quando
avesse satisfatta quella necessità a che ella deve attendere tutta
intiera prima che a niun’altra, sorgeranno per l’Italia quell’altre
dell’estendersi, dell’inorientarsi o immeridionarsi, che sono sentite
da tutte le nazioni cristiane. Ed allora Napoli, se avrà saputo far
bene l’ufficio di potenza seconda nell’impresa di indipendenza, sarà
chiamata all’ufficio di potenza prima nell’impresa di estensione.
Sarà a Tunisi, a Tripoli, o in qualche isola o parte di continente
orientale? Non importa; sarebbe puerilità cercarne ora. Per qualunque
scalo, in qualunque modo, Napoli è destinata a diventar l’anello di
congiunzione dell’Italia colla Cristianità orientale, ed aver quindi i
maggiori profitti ultimi; ma a condizione d’essere stata disinteressata
ne’ primi, generosamente operosa nell’acquisto fondamentale. Noi
accennammo che l’impresa d’indipendenza non vuol esser guastata da
niuna di libertà interna; ma aggiugniam qui, da niun’altra nemmeno.
Una sola conquista è in somma necessaria; la conquista delle provincie
straniere. A chiunque venga il profitto apparente, quello effettivo
sarà di tutti i principi, di tutti i popoli italiani. — E se taluno mi
dicesse che io mi scopro Piemontese parlando così, io risponderò che
poco importa pur ciò. Que’ nostri compatriotti meridionali, qualunque
difetto abbiano, non han certo quello del poco ingegno. E gli uomini
ingegnosi, non solamente soglion intendere ed apprezzar le ragioni
onde ch’elle vengano, senza tener conto della poca autorità di chi le
espone; ma non sogliono nemmeno aspettar che sieno loro esposte, le
trovano da sè. La filosofia storica è colà sul terreno suo nativo;
ed ella serve, quand’è buona, ad intendere non che il passato, pur
l’avvenire; e ad apparecchiarlo.

4. Ma Napoli e Toscana non potrebbero esse pure aver subito lor
profitti, prendendoli sulle provincie adriatiche del papa? e
queste provincie, che sono elle insomma se non un’appendice quasi
innaturalmente congiunta con Roma? E concedendo la convenienza e la
necessità che il papa per essere indipendente sia signor temporale
della sedia sua, queste provincie non son elle inutili a tale
indipendenza? e non mostrarono elle più volte già il loro desiderio di
non rimaner papaline? E quindi in un riordinamento definitivo d’Italia
non sarebbe egli desiderabile di scioglierle in qualunque modo dal
giogo ingrato? E se il papa non le vorrà sciogliere, non sarà egli
il vero e grande ostacolo di qualunque buono ordinamento futuro? come
il furono i predecessori? — Ma, rispondiam noi, se così fu, se i papi
furono o posson essere ostacolo, togliam dunque di mezzo l’ostacolo, ma
togliamolo nel modo che è più facile. E non dunque togliendo il papa,
che non si può tôrre, nè interessandolo contro al buono ordinamento;
ma anzi interessandolo ad esso, facendo che egli pure vi trovi il
vantaggio massimo ed universale dell’indipendenza, e non vi trovi
lo svantaggio particolare, materiale e per così dire palpabile della
diminuzione di stato. Se non fosse della solita ragione di brevità,
io m’impegnerei a mostrare che l’indipendenza d’Italia dovette ai papi
più beni che mali; più spinte che ostacoli, più comodi che incomodi; ma
pogniamo che, pieni di pregiudizi storici guelfi, io e i miei simili
o i dappiù di me, un Manzoni, un Troya, un Gioberti, c’inganniamo del
tutto; pogniamo che, rifatto bene il conto ai papi da Gregorio Magno a
Gregorio XVI, s’abbiano a dire essi definitivamente inconvenienti; essi
resterebbono pure inconvenienti terribilmente antichi, terribilmente
radicati da XII secoli, e che bisognerebbe quindi dire irremovibili,
e che sarebbe utopia il voler rimuovere, e che è necessità, trista o
lieta non importa, di sapervi adattare i nostri disegni. — Ancora, che
sia necessità non trista, ma lieta necessità che si congiunge con tutti
i destini più lieti, più grandi della nostra patria; che l’Italia,
prescelta a sedia del capo, a centro della cristianità, sia interessata
non solamente alla indipendenza, ma alla dignità, allo splendore, alla
potenza di quel capo; che non solamente l’albergarlo, ma il difenderlo
e glorificarlo sia il gran destino d’Italia ne’ secoli futuri, tutto
ciò è così ben esposto non solo nell’ultima, ma anche nell’altre opere
di Gioberti, e queste opere hanno e sono per aver tal popolarità (dico
il popolo de’ colti e sordi) in Italia, che sarebbe stoltezza in me il
volervi aggiungere nulla. E s’io ne detrassi anzi alcun che, se dissi
prematura la quistione della presidenza del papa in una confederazione
italiana, ed esagerata l’idea del primato così assoluto, così quasi
universale come sembra sperato dal Gioberti, io pur ammetto un primato
speciale presente e futuro d’Italia; il primato che le viene, e non le
si può tôrre, dall’essere albergatrice, circondatrice e difenditrice
della sedia pontificale. Questo primato non implica tutti gli altri,
anzi ammette che ognuno degli altri sia tenuto dall’una o l’altra
nazione cristiana. La sola differenza (se forse io non mi inganni,
ed anche egli non l’intenda così) che è qui tra Gioberti e me, è che
egli spera un primato italiano universale o quasi universale in ogni
cosa, ed io non ne spero e direi quasi non ne desidero se non uno
speciale, sperando e desiderando che ogni nazione cristiana n’abbia pur
uno speciale suo[30]. E i fatti passati mi paiono confermare questa
speranza, dei moltiplici primati. Nell’antichità i primati erano
assoluti, universali; perchè la civiltà e la coltura cadendo allora
prontamente in ogni nazione, passavano tutt’intiere dall’una all’altra.
Ma oramai, la civiltà e la coltura sono comuni a tutta la Cristianità,
il vede ognuno; civiltà e coltura si diffondono via via dall’una
all’altra nazione cristiana senza che si perdano in nessuna; e quindi i
primati si fanno via via meno assoluti, meno universali; ogni nazione
serba un brano del primato universale, serba un primato particolare
suo. Il primato italiano dalla fine del secolo XI alla fine del XV si
accostò ad universalità, perchè fu de’ primi. Ma ei si fecero via via
meno universali, e così si fanno e faranno. Forse, conservandosi quello
della potenza e delle diffusioni marittime da una nazione che il tiene
ora con tanti altri, un’altra nazione cristiana salirà al primato della
diffusione asiatica continentale, un’altra a quello della diffusione
affricana[31], un’altra a quello della produzione industriale, e chi sa
quali altre ai primati variabili delle lettere, delle scienze, delle
arti. Ma in mezzo a tutti questi primati speciali, quello d’Italia è
più assicurato che niun altro. Vorrebbe ella non tenerne conto? non
farlo valere tutto il valor suo? e di ciò che è aiuto o vantaggio suo
far impaccio? e non correre ardita tutto il destino suo? od avendone
uno bello, grande e naturale, proporsene qualunque altro fattizio,
innaturale? — L’arte del governare consistette dal principio del
mondo sempre in due parti: conservare e progredire; conservare ciò
solo, ma ciò tutto ch’è buono ed opportuno, progredire in tutto il
resto, ch’è quindi pur buono ed opportuno a mutare. Quelle nazioni
in che la Provvidenza pose due forze, l’una conservatrice, l’altra
progreditrice, furono le più grandi, le più utili al genere umano.
Le monarchie asiatiche ebbero lor forza progreditrice da principio
epperciò crebbero; ma soverchiò in esse la forza conservatrice,
epperciò, non bastando questa da sè, caddero tutte, salvo tre, che
veggiam languir moribonde; Turchia, Persia e quella Cina ch’è esemplar
massimo della conservazione pura. Ma Grecia con la sua forza dorica
conservatrice e la ionica progreditrice, e co’ suoi due centri di
Sparta ed Atene, fu la gran maestra antica di civiltà e coltura. E
tal fu Roma poi colla sua forza conservatrice aristocratica e la sua
progreditrice democratica. E tale Italia nel medio evo, colla sua
forza conservatrice ghibellina, e la sua progreditrice guelfa. Se non
che erano male adattate al loro ufficio queste due; la conservatrice
ghibellina perchè straniera, la progreditrice guelfa perchè capitanata
dai papi che erano di natura loro men progressivi che conservatori;
ondechè ben poterono essere due, tre, dieci papi progressivi finchè
ebbero ad ultimar le libertà ecclesiastiche, ma appena ottenutele
diventarono troppo conservatori come Innocenzo III durante la
minorità di Federico II, ed Alessandro III nei negoziati della tregua
di Venezia. E per ciò più che per ogni altra cosa, si arrestò il
progresso italiano, e poi cadde. Spagna non aveva forza progreditrice
intrinseca, ma solamente una occasionale, la diffusione americana; e
passata questa, decadde. Francia fu grande, finchè durò l’equilibrio
tra il suo governo monarchico conservatore e l’ingegno eminentemente
progressivo della nazione; ma quando soverchiò questo, ella prevaricò,
gettò un lampo meraviglioso, e decadde. Inghilterra straziò sè stessa
per secoli nella contesa delle due forze; ed equilibratele all’ultimo
meravigliosamente, ridottele tutte due a contendere pacificamente,
crebbero in un secolo, quasi da nulla a tutto. Ed appunto perchè la
contesa si fa ivi sotto gli occhi di tutti, tutti san vedere e dire
d’Inghilterra, che la grandezza di lei dura e durerà, secondo che vi
si saprà mantener l’equilibrio e non lasciar soverchiar nè l’una nè
l’altra forza. Ma il medesimo si può e deve dire di tutte le altre
grandezze, sieno esistenti da conservare o cadute da risollevare. E
principalmente d’Italia. Nella quale, cadute da gran tempo felicemente
le due forze ghibellina e guelfa, i due uffici di progresso e di
conservazione finiranno, se Dio voglia, con esser esercitati molto più
naturalmente; il progressivo dagli stati secolari e principalmente da
Piemonte e Napoli, e il conservatore dai papi. Non bisogna giudicare
da ciò che è momento, a ciò che è età vera nella storia. Pare a molti
che Piemonte e Napoli progrediscano lentamente, che non facciano guari
ufficio di elemento progressivo in Italia. Ma concedendo questo, a
chi la colpa? Agli stranieri, che li trattengono. Tolti i quali, non è
possibile che Piemonte, così circondato da quanto è più progressivo sul
continente, e che Napoli, che si trova in mezzo a tutto il movimento
marittimo orientale, non finiscano nel muoversi con animo tanto più
pronto quanto meno stanco. E allora gioverà quella forza conservatrice
del papa, e gioverà tanto meglio, ch’ella non può all’ultimo esser
troppo conservatrice, tratta come è fin d’ora da quella necessità sua
ecclesiastica di ammetter come figliuole egualmente tutte le nazioni
della Cristianità, in qualunque forma, da qualunque forza governate.
— E tutto ciò è futuro molto prevedibile a parer mio. Ma non vuolsi
egli ammettere? Sia pure. Allora noi ricadiamo nel presente; e la gran
necessità del presente è di non guastare con nessuna inutile difficoltà
la già difficile impresa d’indipendenza; di non cacciare fuori di
questa e non por contro questa uno de’ principi italiani più potenti
territorialmente, quello che è poi il più potente per le due autorità
unite in esso; di partire dallo _statu quo_ dell’Italia, per non
mutarvi se non ciò che è indispensabile all’impresa[32].

5. Ma lasciamo tutto ciò che sarà da fare al dì che venga l’occasione,
e passiamo a ciò che è da fare fin d’oggi per apparecchiarla e
pressarla. Sarà questa, nella parte pratica, la più pratica del nostro
discorso. Il primo degli apparecchi è senza dubbio quel dell’armi. Ciò
è chiaro agli occhi di tutti; salvi forse alcuni gretti economisti,
i quali in Italia, come altrove, si fanno difensori degli _interessi
materiali_, in che fanno bene; ma difensori esclusivi, in che fanno
male certamente. Costoro soglion guardar quasi con invidia a que’
tanti milioni adoprati intorno agli eserciti, e gridano contro a
queste che chiamano _spese improduttive_, e si fanno una dolce utopia
dei _disarmamenti_. Ma ei mi pare che incominci a passare quel gergo
delle spese improduttive, e s’ammettano oramai, anche dagli economisti
più esclusivi, le spese improduttive materialmente, ma moralmente
produttive; e che incominci pure ad abbandonarsi quell’utopia del
disarmamento, la quale è figlia o sorella di quell’altra della pace
perpetua. Ma, lasciando quanto è fuori del fatto nostro, io dico che
in Italia, al dì d’oggi, non è spesa così ben fatta, come quella che
si fa da due principi italiani per tener su due eserciti nazionali. E
non solo perchè sarebbono necessari all’occasione, che sarebbe ragione
sufficientissima quantunque lontana[33]; ma per quest’altra presente
e non meno importante, che gli eserciti sono uno de’ migliori o forse
il miglior modo di conservare ed accrescere l’operosità, d’impedire
l’ozio italiano, di salvarci da un nuovo _Seicento_. Eccettuando nelle
professioni materiali quella degli agricoltori, e nelle intellettuali
il sacerdozio (che non è professione, ma altissimo ufficio umano, e
non devesi prendere per fruire la vita terrena, ma per condur sè ed
altrui alla ulteriore); di tutte le altre professioni materiali ed
intellettuali, la militare è forse la più sana al corpo insieme ed
all’animo. Delle professioni industriali è noto che sono quasi tutte
mal sane, più o meno sedentarie, più o meno corrompitrici, o almeno
indebolitrici. E quindi alcuni anni di milizia sono il miglior rimedio
che possa essere a tali vizi corporali ed intellettuali; il solo mezzo
di scemarli nelle generazioni presenti, e d’impedirli di passare nelle
future. E quanto alle professioni della magistratura, dell’avvocatura,
dell’amministrazione pubblica, della diplomazia, delle lettere,
delle scienze e delle arti, cioè quanto alle professioni liberali od
intellettuali, tutte sono buone e necessarie senza dubbio, e tutte
possono essere e sono sovente virtuose; ma tutte esaltando l’intelletto
e tenendo in ozio il corpo, sono malsane a questo, e per questo sovente
a quello, e così in somma all’uomo intiero, all’uomo qual è quaggiù,
anima e corpo. E se taluno pur riesce a non lasciarsi effemminare ed
infiacchire da queste occupazioni sedentarie ed ombratili, è caso
raro e da lodarsi tanto più, ma è più raro che non si tramandi il
vizio alle schiatte; ondechè in somma è interesse nazionale che non
si moltiplichino tutte queste professioni oltre il bisogno. E poi,
tutte richieggono disposizioni speciali, e facoltà oltre il comune;
e coloro che le esercitano senza tali facoltà vi fan più male che
bene. E poi, anche quando si lasciassero moltiplicare oltre il bisogno
e le convenienze, elle occuperebbero pure un numero relativamente
piccolo di persone nello stato. La sola professione militare può
tenere operosi i molti e d’ingegno comune. Mirate i paesi dov’ella non
è; e senza uscir d’Italia fate il paragone co’ paesi dov’ella è. In
quelli, le capitali ed anche le cittaduzze ed i borghi sono ripieni
di una classe che si chiama alta, ma non è tale sovente se non come
le materie impure che salgono a galla ne’ liquori fermentati; una
classe di giovani oziosi e corrompitori, di vecchi oziosi e corrotti,
figliuoli cattivi, mariti peggiori e cittadini pessimi. All’incontro,
ne’ paesi dove i giovani sono occupati nell’armi, i più colti in
quelle che si chiaman dotte, e quasi tutti nell’altre, l’ozio ed il
vizio non avendo agio a moltiplicarsi nell’età e nella condizione
corruttrici, non ne scendono con tanta forza sull’altre, e vi sono in
tutto incomparabilmente più rari. E quindi, persistete voi a tor dieci,
venti o cinquanta milioni dal capitolo _guerra_ del bilancio dello
stato? Sia pure. Ma riponeteli nel capitolo _pubblica operosità_, dalla
quale dipende poi il serbar ciò che ci resta, il riacquistar ciò che
ci manca di tutte le virtù nazionali. — Esaminate dunque, correggete,
perfezionate gli ordini della milizia, togliete le spese inutili a
questa operosità; ma serbate, accrescete questa; lasciate che coloro
a’ quali non bastano gli esercizi militari, possan prendere parte
alla realità delle belle guerre di diffusione che va facendo da tutte
parti la Cristianità; e in nome dell’Italia, benedite insomma que’
principi nostri che ci serban l’armi italiane, e confortate gli altri,
quantunque piccoli, ad imitarli. Gli aiuti italiani d’ogni provincia,
quando anche non accrescesser molto il numero, la potenza materiale
degli eserciti italiani, accrescerebbero molto la loro potenza morale
al dì d’adoprarli. Ed intanto negli stati piccoli come ne’ grandi
l’esercizio dell’armi serberà più sani i corpi e gli animi di tutti,
massime nelle condizioni naturalmente inoperose. Nè dicasi forse ciò
che era vero nel secolo scorso, ma sarebbe falso a’ nostri dì: che
i militari sogliono essi stessi essere uomini di poca moralità, di
molto ozio, viziosi, corrompitori. Per poco che uno abbia atteso, non
dico alle scienze militari or così progredite e moltiplici, ma agli
esercizi stessi che si fanno in piazza nei paesi militari italiani o
non italiani, ognun sa che il mestier dell’armi è tutt’altro oramai,
anche in pace, che mestiere ozioso; e che quindi non può esser vizioso.
Io non vorrei offendere, di niuna maniera, niuna dell’altre professioni
liberali; e meno che niuna quella di scrittore che io sto facendo; ma
se proseguissi il paragone, io non potrei se non essere dell’opinione
d’alcuni vecchi della operosissima generazione or finiente, i quali
avendo avuto in sorte d’esercitar parecchie di quelle professioni
insieme od a vicenda, pretendono aver ricevuti incomparabilmente più
esempi e conforti di virtù nella militare che non in nessun’altra.

6. Del resto, tuttociò s’applica a quell’altra professione della
marineria, la quale, anche la non militare, ha tutti i vantaggi
morali, tutta la operosità della milizia terrestre, od anche più. E
quindi io non mi fermerò ad essa se non per far osservare, che è gran
danno ch’ella non sia promossa al paro della milizia nei due grandi
e militari principati italiani, ed anche meno negli altri. Forse, la
non buona direzione che fu data alle nostre marinerie fin da’ primi
anni dopo le restaurazioni, è quella che, avendole fatte quasi inutili
in così poco tempo, le fa ora trascurate. Fin da quegli anni uno de’
primi uomini di mare inglesi, che era pure uno de’ più pratici del
Mediterraneo, dava consiglio che le nostre marinerie si componessero
principalmente od unicamente di navi piccole atte a costeggiare e
correre in tutti gli angoli de’ nostri mari. E nota che non erano
allora quasi usate ancora quelle navi a vapore, e non inventate
quelle lunghe e grosse artiglierie, che hanno ultimamente dato tanto
vantaggio alla marineria numerosa e piccola sulla grossa e rara, per
la maggior parte delle operazioni navali nel Mediterraneo; e s’era
lontani dagli esempi di Beyruth e di San Giovanni d’Acri; ondechè se il
consiglio era buono allora, ei sarebbe ottimo adesso[34]. E tuttavia
ei non fu seguito nè allora nè adesso; non allora, per isfiducia,
vanità, trascuranza od amor degli usi vecchi; non adesso, perchè i
nostri erarii non sono tali da poter rifare una marineria nuova oltre
l’antica, come van facendo Inghilterra e Francia. Ma non potrebbesi
almeno trarre tutta a noi ed ampliare quella navigazione tra una parte
e l’altra della nostra penisola, la quale si fa in parte su navi e da
compagnie straniere? Non potrebbero sorgere più compagnie nazionali? O
a lor difetto i governi? Certo questa è di quelle industrie le quali si
dovrebbon tenere e dire _governative_ o _politiche_, perchè è interesse
non solamente economico, ma politico de’ governi che s’esercitino da’
nazionali; ondechè è il caso di promuoverle ed esercitarle i governi
a difetto delle compagnie. Ei non si dovrebbe perder di occhio mai a
quell’avvenir piuttosto certo che probabile, quando le operosità del
commercio, della guerra, delle diffusioni d’ogni sorta, quasi tutte le
operosità cristiane ripasseranno per il Mediterraneo, a modo del medio
evo. Nel medio evo l’Italia ne aveva il primato, quasi il monopolio. E,
poeticamente, oratoriamente, sarebbe più bello dire: riconquistiamolo;
ed altri forse il direbbe. Ma io non dico nemmeno: facciamoci eguali
a Francia od Inghilterra. Questa eguaglianza potrebbe sì ottenersi
un dì; ma ora ne siamo così lontani, che io dirò solamente; prendiamo
pure una parte minore, ma notevole e proporzionata. La gran vergogna
è non averne quasi nessuna; veder passare e ripassare nuvoli di navi
straniere intorno alle nostre marine, noi collocati così favorevolmente
in mezzo al mare che fu già tutto nostro, ed or sembra di tutti,
fuorchè di noi. Pochi anni sono, quando le navi austriache aiutavano
le inglesi sulle coste di Siria a decidere uno degli episodi più
importanti della questione orientale, italiane erano per la maggior
parte quelle navi, ed italiani que’ marinari. Ma non fu egli vergogna e
danno, che non fossero se non sotto bandiera straniera? E senza dubbio,
in uno o in altro modo, o tosto o tardi, risorgeranno guerre non
dissimili. Non risorgeranno allora navi e marinai italiani a prendervi
parte sotto bandiera italiana? Certo, se Napoli e Piemonte, emulando sè
stessi, apparecchiassero marinerie come eserciti, e gli altri principi
italiani emulassero quei due nell’una e l’altra di quelle forze
materiali, il complesso di queste sarebbe tale da pesar gravemente
nella decisione di quella gran questione cristiana; e da preponderar
poi nella speciale italiana, che ne sarà dipendenza necessaria.

7. Ma passiamo a quelle forze morali le quali all’occasione accrescono
le materiali, quasi allo infinito. In quelle è il gran vantaggio de’
principi nazionali sullo straniero. Certo i miei leggitori, certo
tutti coloro che volgono l’attenzione a queste speranze, a queste cose
italiane, certo tutti i veri Italiani anteporrebbono qualunque anche
men buono governo nazionale a qualunque anche ottimo straniero. Ma pur
troppo, e già il notammo, sono pure Italiani così avviliti, da non
desiderar se non un governo dolce e buono, qualunque sia del resto,
onde ch’ei venga. E questi avviliti sono pur troppo tante forze morali
ed anche materiali tolte all’Italia, all’occasione, e fin d’ora; e
questi sono che vorrebbonsi racquistare, affinchè sorga una vera e
grande opinione nazionale; questi che non si possono riconquistare
se non facendo i governi italiani incontrastabilmente migliori, più
desiderabili e più desiderati che non lo straniero. Niuna nazione
è, anche nella presente civiltà e coltura cristiana, che compongasi
unicamente di generosi e di colti; in tutte sono molti incapaci, molti
ineducati a quel vero amor patrio, che come tutti gli amori vive di
sacrifici; e ne sono tanto più nelle nazioni dipendenti. Non è colpa
loro non essere stati educati; perdoniamo e cerchiamo educarli quanto
sia possibile; epperciò facciamo loro invidiar le condizioni de’
sudditi italiani. — Nè questo è difficile. Io non salirò in cattedra
a voler insegnare quella scienza del buon governo, la quale non è
recondita oramai, è alla mano di qualunque uomo di sincera volontà. Io
suppongo l’una e l’altra ne’ miei leggitori, e vengo al caso speciale
nostro. — Il governo buono è facilissimo a’ principi nazionali, in
paragone ai signori stranieri, a cui è difficile naturalmente, e
può diventar impossibile. Un principe nazionale ha molti timori di
meno, che non uno straniero; e i timori sono il vero fonte d’ogni mal
governo. Tra un principe nazionale e sua nazione è molta più fiducia,
che non tra il principe straniero e la nazione non sua; e la fiducia
reciproca è il vero fonte di ogni buon governo. Un principe nazionale
non ha bisogno di comprare amici: tutti i sudditi gli sono tali
naturalmente; e se mai ha nemici, può largheggiare con essi in clemenza
e rifarseli amici, mentre lo straniero non può, o non gli serve.
Quest’è la somma di tutto quel libro del _Principe_ di Machiavello, il
quale letto o non letto, è naturalmente messo più o meno in pratica
sempre da qualunque straniero. Un principe nazionale può andar più
ardito perchè quand’anche egli erra, gli errori non gli sono imputati
dal popol suo, come sarebbono ad uno straniero. Quando eccedesse
in levar eserciti, i soldati che restano nel paese e tornan sovente
alle famiglie, vi si adattano facilmente; mentre quelli d’un principe
straniero tratti fuori e lontano, gliel perdonano difficilmente. Se
il principe nazionale eccede in levar tasse o tributi, spendendoli
ei li restituisce al paese, mentre lo straniero portandoli via
l’impoverisce. Se il principe nazionale fa scelte buone, egli contenta
tutti i sudditi; se erra, malcontenta i migliori, ma contenta pure
alcuni, ed è meno danno. Ma il principe straniero malcontenta tutti
eleggendo stranieri anche buoni; e potendo difficilmente eleggere
nazionali buoni, che non soglion servirlo, malcontenta di nuovo tutti
eleggendone de’ cattivi. Se si eccettuino quegli eccessi di tirannia,
i quali ondechè vengano sollevan tutti per vero dire, ma che si fanno
ogni dì più rari; gli arbitrii stessi di qualunque governo assoluto,
ma nazionale, offendon meno e son più rimediabili che gli arbitrii di
uno straniero. Nel primo, la vittima dell’arbitrio può trovar almeno
ne’ parenti, negli amici, ne’ compatriotti qualche difensore, e quindi
qualche giustizia almeno arbitraria; ma ne’ secondi non è nemmeno
questo rimedio, questo temperamento. Il quale è quello poi che fa dar
nomi di _paterni_ a parecchi governi nazionali; ma inapplicabile il
temperamento, inapplicabile è il nome a’ governi stranieri. E in somma
non è opera buona che non si conti le cento volte più, non errore che
non si conti le cento volte meno in un principe nazionale, che in uno
straniero; ondechè di tali differenze farebbesi facilmente un volume
speciale; e noi non ci fermerem quindi se non a due o tre delle più
importanti.

8. Un gran vantaggio de’ principi nazionali è in quella che dicemmo
somma arte del governare in tutte le età, e principalmente nella
nostra; l’arte dell’opportuno conservare ed opportuno progredire. Tale
arte non può esercitarsi bene mai da niun governo in una provincia
straniera; e v’è fittizio e falso il nome stesso di conservatori
che vi prendono alcuni. Non sogliono, non possono esservi tali, o
se sono, è danno loro. Se conservano le leggi, gli usi, le feste
pubbliche, i nomi, la lingua, qualunque cosa patria, ei fanno errore
contra sè e contra la propria conservazione; non possono conservare
sè e la nazionalità insieme, che sono cose antipatiche; non possono
essere sinceri conservatori. Ed all’incontro, qualunque cosa patria
sia conservata dal principe nazionale, è tutto vantaggio della
nazionalità; ondechè, non è dubbio, ei deve conservare quanto più può,
quanto non è utile mutare. — Peggio poi nel progredire. Al principe
straniero ogni progresso è tanto più pericoloso, quanto più è buono;
al principe nazionale è utile ogni buono. Se io scrivessi di filosofia
od anche di politica generale, mi crederei in debito di fermarmi
qui a discernere i progressi buoni, indifferenti e cattivi, cioè i
progressi veri, quelli che si credon tali e non sono nulla, e quelli
che son regressi. Ma lasciando le generalità e non parlando se non di
progressi veri, e nemmen di questi non potendo fare un’esposizione
o lista compiuta, io mi contenterò di pochi esempi. Pogniamo uno
de’ progressi che sembrano potersi fare con più parità dai principi
nazionali e dallo straniero, un progresso non più che materiale,
l’agevolamento delle vie d’ogni sorta tra l’una e l’altra parte della
penisola. L’agevolar siffatte comunicazioni materiali è un agevolar
quelle degli ingegni e de’ costumi, un riunirli, un accomunarli in
tutta la nazione. Ma la comunanza degli ingegni e de’ costumi non può
se non far sentire la comunanza degli interessi, e quindi il pregio
della nazionalità e dell’indipendenza; le quali dovendosi proseguire
dai principi italiani, ma fuggire dallo straniero, ne resulta che il
progresso, così innocuo in apparenza delle comunicazioni materiali,
è buono ai primi e nocivo ultimamente al secondo. E così di tutte
l’altre comunanze, dei commerci, delle poste, delle monete, dei pesi e
misure. E così di quelle leghe doganali che ognuno sa quanto potente
strumento di nazionalità elle sieno altrove, e che tali potrebbono
essere anche in Italia. Perciocchè in queste non sono le difficoltà
della confederazione politica, nè lo straniero le potrebbe impedire
ai principi italiani. — I governi italiani dovrebbono capacitarsi
di ciò: che quantunque di gran lunga men forti in guerra che non il
governo straniero, essi non sono tali, ma puri, finchè duri la pace,
e non si sieno legati sotto lui con una confederazione politica. In
tempo di pace, nelle condizioni presenti della repubblica cristiana, le
dipendenze indeterminate, le preponderanze non dichiarate ne’ trattati,
non sono dipendenze nè preponderanze, se non per coloro che se ne
lascian fare spauracchio. Riducasi al fatto la superiorità di potenza;
è più uomini e più danari; gran superiorità per vero dire in guerra; ma
un nulla finchè non si viene a guerra: alla quale poi non si può venire
dalla potenza prepotente, finchè la inferiore non fa che porre in
opera i diritti della sua indipendenza riconosciuta. Io vorrei vedere
qualche gran principe italiano fare per l’indipendenza ciò che fa il
famoso cittadino irlandese più veramente per la libertà che per la
indipendenza; usare i diritti, tutti i diritti propri fino all’ultimo
limite. L’impresa nostra sarebbe tanto più bella, e più universalmente
applaudita, che i diritti d’indipendenza sono più larghi e più chiari
nella repubblica europea, che non quelli di libertà nello stesso
imperio britannico; e, che de’ diritti di libertà interna si disputa
e si disputerà finchè sarà mondo, ma dell’indipendenza nazionale,
convengon tutti a lodarne la legittimità, la virtù, la santità, il
diritto e il dovere di compierla[35].

9. Un altro gran vantaggio che hanno i principi nazionali sullo
straniero è nella protezione delle colture. Perciocchè anche queste
giovano all’unione, sono forse il massimo stromento di unione in
qualunque nazione di lingua comune e stati diversi; e giovando
all’unione, giovano dunque ai principi nazionali, e nocciono agli
stranieri. Questi non dovrebbero promuover mai le lettere italiane, e
se fosse possibile non dovrebbero soffrirle; ed io mi meraviglio di
quel tanto di sofferenza che dan loro. Le lettere anche compresse,
anche attuate, censurate od evirate, non possono non mantenere e
promuovere la nazionalità. La lingua è segno, suggello principale
di essa; la storia anche nuda ne tien vive le memorie; la storia
virilmente scritta nota gli errori fatti contr’essa, e ciò che sia
da imitare, ciò che da fuggire, ciò che da soffrire per essa; la
filosofia storica mostra come nasca, come si perda, come si recuperi;
la filosofia generale ne fa veder la virtù, vi conforta la ragione
umana; la poesia, le arti vi concitano le passioni; le scienze
materiali stesse, a malgrado della loro apparente innocuità, vi
contribuiscono di molte maniere, e se non altro coll’accrescimento
della gloria nazionale. Niuna coltura è innocua agli stranieri, niuna
dunque inutile a’ principi nazionali, niuna non promovibile da essi.
— Ma per promuoverle sarebbe prima d’ogni cosa necessario rendersi
conto, e compiuto del loro stato presente. E qui è dove fan più danno
non solo i lodatori insinceri e prevaricatori, ma gli stessi sinceri
esagerati. Con queste lusinghe che ci si danno, con questi paragoni
che si fan di noi scrittori italiani con gli stranieri, e si terminano
troppo sovente a nostro onore e gloria, non si fa altro che tener nel
sonno noi scrittori da una parte, e i governi patrii dall’altra. Le
lettere del secolo XIX non han bisogno veramente di quelle protezioni,
di que’ mecenati, di quelle pensioni che eran magnificenze e miserie
dell’età de’ Medici e di Ludovico XIV. Ma le lettere presenti e future
han bisogno di facilità, e, diciam pure la vera parola, di libertà. Ed
il lodar esageratamente noi scrittori di quella che usiamo, e i governi
di quella che ci danno, è un dire che l’una e l’altra bastano, è un
impedire quel progresso dell’una e dell’altra, che gioverebbe a’ nostri
principi, e nocerebbe solamente ai nostri stranieri. Non entrerò ne’
particolari della censura preventiva e repressiva; so che l’ultima non
può essere se non ne’ governi liberi, perchè il censurar repressivo,
cioè ne’ pubblici giudizi, è un ammettere od anzi accrescere quella
pubblicità compiuta, che non può essere se non de’ governi liberi. Ma
anche nella censura preventiva sono gradi diversissimi di facilità
e libertà; e i governi nazionali possono lasciar il massimo, mentre
lo straniero non può nemmeno il minimo. Questa virtù, per esempio,
ch’io lodo della indipendenza nazionale si può certo, e mi pare si
debba lasciar lodare negli stati nazionali; ma non si può nè si debbe
tollerare dagli stranieri. Se questi fossero assennati non dovrebbero
lasciar lodare niuna virtù; perciocchè tutte, anche le più umili in
apparenza, danno forza, e la forza della nazione, sempre utile a’
governi nazionali, è sempre dannosa agli stranieri. — Del resto anche
a’ nostri dì, sono uomini di scienze e di lettere o d’arti, a cui è
indispensabile una protezione più sostanziale, che non quella della
libertà. Coloro a cui l’insegnamento o l’esercizio delle proprie
cognizioni sono professione, possono accettar siffatte protezioni
senza avvilirsi, se non le accettino con condizioni avvilitrici. E
qui pure tutto il vantaggio è de’ principi nazionali. Questi non hanno
interesse ad impor di quelle condizioni nè a professori nè a scolari;
non hanno interesse a menomare, ma ad accrescer l’insegnamento, a far
fiorire gli studi, le università, a spingerle quanto più possano a quel
grado a cui son giunte in Germania, e in altri paesi anche non liberi.
Quando i principi italiani non si lasciassero far paure inutili, non
osterebbe la piccolezza dei loro Stati e la povertà de’ loro erarii.
Non son più grandi nè più ricchi parecchi di quei principi tedeschi
presso cui splendono università numerose e potenti. E se si riducesse
a calcolo ciò che costerebber di più cinque e sei professori de’
primi della penisola, da aggiugnere a quelli di ciascun paese, ei si
vedrebbe che basterebbero e soverchierebbero quaranta o cinquantamila
lire a dare splendore sommo a qualunque delle nostre università, a
qualunque delle capitali letterarie italiane già esistenti. Nè questo
tornerebbe solamente a gloria di quel principe o di quella città.
Sarebbe gran profitto letterario, ed anche politico. Che se giova
alle lettere l’essere coltivate in parecchi luoghi, l’aver parecchi
centri, giova lor pure avere un centro principale; nè senza questo
elle risplendettero molto mai in niuna nazione. E politicamente poi,
se la potenza delle lettere non è da paragonare a quella dell’armi in
tempi di guerra, nè a quella dell’istituzioni civili in tempo di pace,
non è dubbio ch’ella è la principale dopo quelle due, che è il più
gran supplemento a tutte e due. I poveri letterati sogliono essere la
ricchezza più a buon prezzo, e nelle condizioni presenti della Italia
sarebber forse la più profittevole di tutte ad un principe italiano.
Certo, il fare è più che dire; certo, le virtù civili, politiche e
militari son dappiù che non le letterarie; ma finchè non si possono
bene esercitar quelle, son da pregiare e promuover queste pure, che
possono ridestar quelle. Un principe italiano che sapesse far di sua
capitale la capitale della coltura, darebbe un centro all’opinione
italiana; e da quel centro la moverebbe poi facilmente. Prussia ebbe
tal arte in Germania.

10. Ma tutto ciò è un nulla, rispetto agli ordini propriamente detti
del governo. Qui è il massimo fra’ grandi vantaggi de’ principi
nazionali sullo straniero. Qui i primi possono tutto, qui lo straniero
non può nulla, senza pericolo. Io non mi ricordo più chi abbia
inventato quel nome di _governi consultativi_, che è usato poi dal
Gioberti, per accennare i nostri governi, e distinguerli di qua e di là
dai veramente assoluti e dai deliberativi. Ad ogni modo è nome molto
bene inventato ed usato, se si dia non solamente ai governi italiani
presenti, ma ancora ad altri simili e stranieri e più antichi, a quasi
tutti in generale i governi cristiani europei, come uscirono di mezzo
al disordine feudale. In tutti, la potenza suprema fu temperata da
consigli più o men bene ordinati, più o meno indipendenti; e questi
furono che distinsero quasi tutte le monarchie europee e cristiane da
quasi tutti i dispotismi orientali; molto meglio, che non que’ due
principii dell’onore e del timore, troppo leggermente o forse non
sinceramente predicati dall’altronde grande Montesquieu. I governi
consultativi che rimangono in Italia, in Austria ed in Prussia, sono
più o meno reliquie di quelli che esistevano già dappertutto; benchè
quello dell’ultima sia forse anche passaggio al deliberativo. — Ma
che che s’abbia a pensare dell’opportunità e della durevolezza di
tali governi, non è dubbio ch’ei possono essere molto più buoni e più
sinceri sotto i principi nazionali, che non sotto allo straniero. Sotto
i primi, i consiglieri possono essere di buona fede, il principe li può
ascoltar con fiducia; perciocchè l’interesse degli uni e dell’altro è
quello d’un medesimo stato. Ma i consiglieri d’un principe straniero,
o sono stranieri ancor’essi ed allora hanno col principe un interesse
contrario a quello della provincia governata, in parecchie questioni
importanti, o almeno in quella importantissima dell’indipendenza;
ondechè nè sono veri consiglieri di tutto lo stato, nè temperamento
del vizio massimo delle diverse nazionalità. Ovvero ei sono nazionali
nostri, ed allora io domanderei loro: a chi attendono, a chi mirano,
a chi servono? Al principe, cui han fatto giuramento? o alla patria,
cui sono astretti senza giuramento? Alla fedeltà contratta, od alla
naturale? Come si salvano dalla doppiezza? Come dallo scrupolo, dalla
vergogna, dal delitto di tradimento, inevitabile dall’una parte o
dall’altra? E il principe crederà egli a tali consiglieri, che nol
possono consigliare se non eleggendo fra due tradimenti, che nol
consiglierebbono se fosser uomini semplici e retti? E così è che un
governo consultativo a casa propria non rimane sinceramente tale in
casa d’altri; è insincero ed assoluto in Italia. — All’incontro, i
principi nazionali possono non solo avere consigli veri, ma estenderne
l’importanza. Io so d’un principe italiano al quale, salito al trono,
furono proposte varie forme di consigli; ed egli, lasciate tutte
quelle, ne imaginò una nuova e bellissima, una che io direi la forma
più perfetta del governo consultativo, quella che più s’accosta ai
vantaggi, quali che sieno, de’ governi deliberativi. Sarebbe questa
forma novissima consistita di consiglieri perpetui e quasi centrali,
e consiglieri annui e provinciali. I quali gli uni e gli altri
sarebbero stati (certo senza pericoli) promovitori di quelle due forze
indispensabili ad ogni governo, la conservatrice e la progressiva. Ed
avrebbero poi tenuto conto opportuno degli interessi universali dello
stato e dei particolari delle provincie; molto meglio forse che non
i consigli provinciali prussiani. Dalla potenza dei quali, più o men
buona colà, Dio voglia salvar l’Italia. Chè le provincie italiane non
han bisogno d’essere disgiunte, ma unite; l’unione delle provincie
in ciascuno dei principati italiani, è l’interesse, il rimedio, la
speranza d’Italia dipendente, intanto che sien possibili le riunioni
degli stati nell’Italia indipendente.

11. Ma procediamo, e cerchiamo tutto quanto possa esser pericolo
dello straniero, epperciò vantaggio de’ principi nostri, cerchiamo
se tal potrebbe essere un governo anche più largo o deliberativo. Nè
perdiamoci tuttavia a discutere in teoria la bontà più o men grande,
o le forme diverse di questi governi, quali si trovano in parecchie
monarchie europee. Anni sono, portavasi a cielo or l’una, or l’altra
forma, e predicavasi ciascuna, quasi panacea universale, libertà
somma. Ora s’è passato all’eccesso opposto; si dispregiano da alcuni,
quasi illusorie ed insufficienti tutte. Forse non si scosterebbe dal
segno chi dicesse: essenza di que’ governi, la pubblicità; e dovunque
sia questa, essere a’ nostri dì libertà sufficiente. E quindi ai più
sperimentati, le forme varie sembrano ora meno importanti che non
parvero già; e il più importante essere il non mutarne sovente, il
fuggire le rivoluzioni. Ad ogni modo e tenendoci all’Italia, non è
dubbio, benchè non abbastanza noto, che vi sono pur troppo, molto
sparsi ancora (come erano altrove pochi anni fa) que’ desiderii
di libertà. Pur troppo dico, anche de’ desiderii moderati; perchè
io vorrei, non rimanesse luogo a niun desiderio se non a quello
d’indipendenza; perchè nelle nazioni come in ogni uomo, due desiderii
son men forti che uno, e l’uno guasta l’altro, e rimangono per lo più
ineffettuati ambedue. Pur troppo sopra tutto, se questi desiderii si
proseguano o senza o contra i principi; perchè allora sono disunioni, e
non unioni, rischi presenti per eventualità future, pericoli e vantaggi
a rovescio di quelli che cerchiano noi, pericolo a noi, vantaggio allo
straniero, regresso, e non progresso verso lo scopo grande. Di che
vidersi da poco più che venti anni in qua due esempi molto diversi:
uno men cattivo, in cui speravasi la libertà vegnente dai principi, o
tutt’al più senza i principi; ed uno peggiore, in che sperossi contra;
e tuttavia tutti e due terminarono con invasioni d’uno ed anche due
stranieri, con diminuzioni d’indipendenza. — Che le grandi mutazioni
dello stato si faccian male e con pericolo dai molti, e sia necessario
rimettersene ai pochi, anche quando non è il pericolo dello straniero,
fu saputo molto bene da quegli antichi, anche repubblicani democratici,
i quali quando avevano a mutare lo stato il mettevano in mano di
pochi o d’un solo, un Licurgo, un Solone, i decemviri, un dittatore. E
seppelo, e notollo Machiavello. E sel sapevano gl’Italiani del medio
evo, i quali pure a pochi o ad uno davan balia per le mutazioni.
Ondechè si vede che fu vera invenzione retrograda, quella moderna
delle assemblee costituenti o _convenzioni_, che ognuno vide poi a
quali e quanto lunghi turbamenti riuscissero, massime ne’ paesi dove
la impresa di libertà si complicò con quella d’indipendenza, come in
Ispagna. E quindi io non posso se non tornare a quell’esempio tanto
più bello, di che già accennai; a quegli Irlandesi i quali nella loro
impresa, comunque chiamisi e sia di libertà o d’indipendenza, si sono
fatti quasi un dittatore od un principe, e ne seguono i cenni, a lui
se ne rimettono, intorno a lui si serbano unanimi epperciò forti, con
sapienza che è insieme veramente antica e cristiana. Ciò che fa la
forza (innegabile ora, a che che ella riesca) della impresa irlandese,
è la perfetta legalità con cui si prosegue da quella nazione, da
quel dittatore uniti. Ciò che può fare la forza dell’impresa nostra è
quella simile o maggior legalità, la quale possiamo aver senz’essi.
E non dicasi che i ribelli fortunati fanno poi nuovi diritti, nuove
legalità. È vero, ma a carico d’esser fortunati. Se nol sono, e finchè
nol sono, son ribelli, han contro a sè tutti i migliori, nazionali o
stranieri. Chi, all’incontro, segue il diritto presente, la legalità,
la legittimità (tutti sinonimi) in una impresa buona ha buoni dunque il
fine e i mezzi; ha per sè la propria coscienza, la propria alacrità,
che è gran forza; ha tutti i buoni, ha la pubblica opinione, che
è forza grandissima; ha il tempo, non dipende dalla fortuna, può
aspettarla, che è la maggior delle forze in una lunga impresa. Io
non saprei augurar maggior ventura, maggior forza o virtù alla patria
mia. — Ma ridotta così ai principi la decisione del passare o no a un
governo deliberativo, sarebbe egli utile passarvi? Parliamo schietto:
anche presa dai principi può esser decisione piena di pericoli, feconda
di disunioni, distraente dall’impresa d’indipendenza, nociva dunque.
Le assemblee deliberative o parlamenti vivono delle opinioni diverse
e divise. Queste sono loro essenza. E se è così nei parlamenti vecchi,
nelle nazioni educatevi e sperimentatevi, tanto più nelle ineducate e
nuove. Francia e Spagna ne han dati esempi numerosi e terribili; senza
contar i pochi e piccoli italiani. La virtù prima di que’ governi è
la sodezza; virtù seconda, la tolleranza reciproca. Sono elle virtù
nostre? — Ma, dicesi, se nol sono, diventerebbono. Sta bene; ma
intanto? Durante l’impresa d’indipendenza, tanto più importante? —
Ma, dicesi ancora, vi si potrebbe educar la nazione nelle assemblee
consultative. Sta benissimo; ma questo apparecchio riconduce di natura
sua ad aspettar tutto dal principe; posciachè dal principe dipende, nel
principe si concentra qualunque governo consultativo, ed al principe
lascerebbe la decisione dell’opportunità e del modo di passare al
governo deliberativo. — E so che può parer noioso agli affrettati. Ma
che farvi? Sia inconveniente; è necessità. Chi non è lunganime, rinunci
alla pratica, ai pensieri stessi di politica. Chi non voglia ammettere
il tempo in qualunque calcolo, non faccia calcoli. Chi ha fretta, tenga
pure sè stesso incapace di quella libertà che desidera.

12. Ma, posta la mutazione fatta da qualche principe italiano, forte
d’animo esso, forte della fede antica e provata de’ suoi popoli,
forte degli apparecchi legislativi, e dello sperimento del governo
consultativo; e postala fatta a tempo, fatta bene, fatta felicemente;
non è dubbio che quel principe avrebbe messo mano al massimo strumento
di popolarità e di unione italiana; non è dubbio che sarebbe da quel
dì incomparabilmente accresciuto il pericolo, inasprita la piaga,
incominciata a sonar l’agonia dello straniero in Italia. Consideriamo
posatamente le conseguenze varie che glie ne verrebbero. — O non
vorrebbe egli soffrire novità, e ne farebbe lamenti, gride, negoziati,
minaccie. Ma a tuttociò sarebbe facile rispondersi dal principe
italiano allo straniero: io son sovrano quanto te, e fo quel che mi
pare a casa mia. — Se allora a tal risposta si rompessero negoziati,
si ritirassero ambasciadori di qua, si ritirerebbero ambasciadori di
là, e si vivrebbe senza. Ei s’è veduto ch’io non sono per la politica
dell’isolarsi, non credo che vi si abbia a ricorrere spontaneamente;
ma, se venga dagli altri, l’isolamento è forse meno a lamentarsi nelle
potenze piccole, già quasi isolate dalla diplomazia or corrente in
Europa. Ognuno sa d’un piccolissimo principe italiano, il quale da 13
anni in qua s’è isolato da tutta la politica europea, e non glie n’è
pur occorso nessun male. Ondechè ciò che quello fece per una ragione,
si potrebbe fare da altri per una tutto diversa, pur senza pericolo.
E ad ogni modo l’isolamento di che parliamo sarebbe tutt’altro che
compiuto, si ridurrebbe ad una o due potenze, e sarebbe compensato
dal riaccostamento ad una o due altre. E farebbesi guerra per ciò?
Non è probabile di niuna maniera. Non si fa guerra oramai con un torto
così evidente, come sarebbe quello d’una potenza che volesse impedir
un’altra, sovrana com’essa, di far da sovrana in casa propria. Contro
a tal potenza si solleverebbero tutte le opinioni di tutta Europa,
i biasimi di tutte le parti, le armi di tutte le potenze interessate
a mantener l’indipendenza italiana, almeno qual è, od anzi di tutte
le interessate a mantener la compiuta sovranità degli stati sovrani.
E se la guerra si facesse poi con tanto torto, con tanti biasimi e
tanti avversari da una parte, tanto diritto, tanti voti e tanti aiuti
probabili dall’altra, facessesi pur quando che sia; chè non sarebbe
Italiano, suddito o non suddito, il quale ricusasse morirvi e mandarvi
a morire tutti i figliuoli per il principe liberatore, nè sarebbe
dubbia la riuscita d’una tal guerra nazionale. — Ma la probabilità,
di gran lunga maggiore, è che non si farebbe; che dopo gli scritti
e i fatti diplomatici, anche lo straniero tollererebbe ciò che non
potrebbe impedire. E ciò sarebbe poi ad ogni modo il principio del
fine suo. Perciocchè, od imiterebbe o non imiterebbe la mutazione.
Ma l’imitarla sarebbe per lui pazzia; chè se i governi deliberativi
fanno troppa paura a’ principi nazionali, ei non ne possono far troppa
mai ad uno straniero. Ei non è forse se non un esempio di un governo
deliberativo durato senza grandi pericoli sotto un principe straniero;
Ungheria sotto casa d’Austria. Ma la sede di questa è così vicina,
che si può dire addentro all’Ungheria; e si aggiunge ora l’antichità
del fatto, che porta rimedio a tutto. Ma credere che durasse non
dico secoli, ma nemmen dieci anni casa d’Austria in Lombardia con un
governo deliberativo, sarebbe stoltezza che non può venir in mente
a quel governo prudentissimo, e che se venisse produrrebbe il suo
effetto naturale. La più probabile è dunque l’ultima supposizione, che
lo straniero non imiterebbe l’esempio italiano; che, vedendo di non
poter risanare, si ridurrebbe a prolungare la vita sua presso a noi. Ma
questa sarebbe breve allora, colla vicinanza d’un governo nazionale,
che tirasse a sè l’attenzione e i voti di tutti gl’Italiani, che
facesse invidiare ai sudditi stranieri quella libertà e quell’operosità
che vi sarebbero naturali; che alzasse una di quelle tribune, una di
quelle pubblicità, una di quelle opinioni universali contro a cui non
può resistere niuna grande ingiustizia, e men di tutte la massima di
tutte, la dominazione straniera. E ciò sa, ciò sente lo straniero.
Epperciò è così risoluto, così acre contro questo suo pericolo sommo;
perciò usa tutta la sua prepotenza sui principi italiani per impedir
loro di apparecchiarsi, di lasciarci sperare o parlare; perciò in
parecchi casi particolari gli astrinse di promesse. Ma siffatte
promesse non possono averli obbligati, sempre, per tutti i casi; non
possono aver distrutti gli inalienabili diritti di lor sovranità; non
possono aver ridotta questa a vassallaggio feudale, imponendole una
condizione perpetua; non possono reggere contro al diritto di piena
potenza di essi universalmente statuito e riconosciuto. Fra due diritti
o doveri ripugnanti ma egualmente riconosciuti, il massimo distrugge
il minimo. Un principe riconosciuto sovrano da un altro, non può esser
astretto a non fare nell’interno dello stato suo, nell’esercizio della
sovranità sua, ciò che creda utile al popol suo. È finita l’impostura
del sacro Imperio romano; è finita la feudalità; son finite le
graduazioni di sovranità.

13. Ma di nuovo, ed in generale, di tutto ciò che trattammo nel
presente capitolo de’ principi, lascinsi giudici i principi soli. Io
son per dire di ciò che possano gl’Italiani non principi; ma io volli
dir fin d’ora ciò che non possano e non debbano, per distinguer subito
i diritti d’ognuno, que’ diritti esistenti, da cui è dovere d’ogni uomo
retto partir sempre, e dovere più speciale degli amici di libertà,
la quale insomma non è altro che rispetto ai diritti[36]. — Per poco
che facciano i principi nostri, se facciano un passo di più che lo
straniero nella via de’ progressi veri, materiali, intellettuali, di
governo consultativo, deliberativo o che che sia, essi sono sulla buona
via, sono anzi al lor posto nella buona via. Ma quel posto all’innanzi,
quel passo di più è l’essenziale; per poco che sia in apparenza, egli
è molto, egli è tutto in conseguenza. O lo straniero si fermerà in
quella situazione inferiore, e sarà continuo svantaggio a lui, continuo
vantaggio a noi; ovvero vorrà far egli un passo ulteriore, ed allora,
purchè facendone un altro, noi serbiamo il posto, ei si può condurre
a quello che per lui è precipizio. In ciò sta tutt’intiero il pensier
mio.

Il quale, ben so che ad alcuni parrà troppo ardito, ed a molti
all’incontro troppo timido. Ma io non sono senza speranza che possa
parer moderato e giusto a coloro che, senza debolezza, doppiezza, nè
dubbiezza, sieno moderati e giusti essi stessi. E se paresse ad alcuni
che queste sarebbono state cose da dirsi sommessamente all’orecchio
di qualche principe italiano, anzichè pubblicamente, io risponderei:
che se le avessi credute cattive, io non le avrei volute dire di niuna
maniera; e se buone e da restar segrete, non le avrei dette nemmeno,
non avendo orecchio di principe a cui dirle così. Ma io credo anzi,
che questi segretumi, questi misteri politici sien cose vecchie, e
da sorriderne ai tempi presenti. Ora è il tempo delle arti aperte,
delle politiche schiette, pubbliche, forti. Tal credo questa, e perciò
l’esposi, che è poco merito. Il vero e solo merito, il merito della
fortezza, sarà di colui, nato o da nascere, che ponga in opera ciò che
è facile vedersi e dirsi, ed è oramai veduto e detto da moltissimi.
Perciocchè anche in Italia, grazie al Cielo, sta crescendo questa somma
fra le virtù politiche, la forte moderazione.




CAPO UNDECIMO.

COME VI POSSONO AIUTARE TUTTI GL’ITALIANI

                    Iis quidem qui _secundum patientiam boni operis_,
                  gloriam et honorem et _incorruptionem_ quærunt.

                                           (Paul. _ad Rom._, II, 7).


1. Noi abbiamo fatta parte grossa a’ nostri principi nell’impresa
d’indipendenza, per una buona ragione: che essi hanno una parte più che
grossa, hanno tutta la potenza de’ nostri stati. Coloro che pretendono
escludere i principi dalle speranze, dai disegni nazionali italiani,
sono come certi storici, i quali, noiati, dicono, che la storia moderna
sia stata ridotta troppo sovente a’ principi, affettano l’eccesso
opposto di scrivere quella de’ popoli soli; quasi le azioni degli uni
e degli altri si potessero disgiungere, quasi fosser fattibili due
storie distinte, quasi fosse negabile la parte maggiore della storia a
coloro che ebbero la parte maggiore dell’opere. Ma costoro poi, o non
tengono la promessa e fanno storie poco dissimili da tutte l’altre,
ovvero le fanno così spoglie di fatti, così piene di generalità che non
sono più storie, e ritraggono peggio che mai la vita de’ popoli stessi.
E come la vita passata, così è poi la vita futura di questi; non vi
si possono considerar soli i principi, nè soli i popoli in qualunque
luogo ove sia principe; ma men che mai dove, piaccia o non piaccia,
sia bene o male, il fatto onde è forza partire, il fatto presente è,
che i principi hanno tutta la potenza. — Nè perciò resta piccola la
parte di tutti gli altri. Non ci è pericolo; non resta piccola per
questa medesima ragione, che le azioni de’ principi, appena passano
dal disegno al fatto, diventano azioni della nazione; che se i popoli
non possono nulla senza i principi, i principi non posson nulla senza
i popoli, non sono principi se non perchè fanno operar popoli; che è
una corrispondenza, una vicenda, un circolo or vizioso, or virtuoso,
ma continuo di opinioni, di azioni dagli uni agli altri, il quale non
si può interrompere per niun disprezzo, niun pregiudizio di qua, niuno
di là. In qualunque stato, ogni uomo ha pure in fatto e in diritto
una qualunque operosità. La quale se si volga a buon fine, ma oltre ai
propri diritti, oltre alla propria natura, guasta il fine, fa più mal
che bene, produce contrasti e disunioni. Se poi si volga da ciascuno,
secondo buon diritto, a buon fine, diventa operosità buona di tutti,
diventa operosità, moto, forza nazionale irresistibile. L’Italia ha
per le mani un’impresa indubitabilmente giusta nel fine; aggiungiamovi
una indubitabil giustizia di mezzi, e non dubitiamo allora della
buona riuscita. Le due giustizie unite sogliono ottener questa dalla
Providenza più sovente che non si crede anche negli affari privati,
ma più sovente, ed io crederei sempre, nelle imprese di molti, nelle
imprese nazionali.

2. La operosità, la vita d’ogni uomo sarà considerata da noi o come
pubblica, o come sacerdotale, o come letteraria, o come privata.

3. La vita pubblica italiana si riduce a quella de’ ministri o
consiglieri maggiori o minori dei principi. Da noi il principe
essendo lo stato, non vi possono essere servitori dell’uno e servitori
dell’altro. È bene o male? Così è; e chi vuol far la distinzione, fa
sogni e non realtà, e guasta tutto. Ei sono alcuni che, prendendo nelle
gazzette di fuori quelle gelosie, que’ disprezzi che i consiglieri
della nazione (cioè gli oratori dei parlamenti) muovono contro ai
consiglieri della corona, le applicano poi a’ consiglieri che qui
sono necessariamente della corona e dello stato e della nazione
tutt’insieme. E quindi viene una affettazione d’indipendenza personale,
una condanna dell’ambizione governativa, che può stare in que’ paesi
dove si può servire politicamente la nazione senza il principe; ma che
è molto risibile e dannosa dove, non potendosi far tal distinzione
in realtà, tutto quello che è di buono e di bello nel desiderio di
servir lo stato può essere nel desiderio di servire il principe. Quella
sì, che è idea straniera da non prendersi, nel caso nostro. Hai tu,
credi tu avere indipendente, generoso, forte animo in te? Servi il
principe, o lo stato, o la nazione, come vorrai dire, che è tutt’uno.
Non s’adonta altrove nessuno di servire la nazione. Non è ragione di
adontarsene qui. Non è onta, fuorchè nel modo, qui come là; e qui come
là vi può essere, vi è indipendenza. Qui come là questa vuole essere
duplice: indipendenza dagli errori del popolo e da quelli del principe;
e la sola differenza è che là è forse più difficile l’una, qui l’altra.
Ma ad un animo veramente indipendente, importan poco le varietà di
difficoltà; ei sa vincere l’una e l’altra o le due insieme del paro. —
Niun principe, per assoluto che egli sia, non può saper nè fare tutto
da sè; e quindi niuno nega aver consiglieri e ministri. La differenza
tra il principe assoluto e il principe in governo consultativo, e il
principe in governo deliberativo, è che il primo prende consigli senza
niuna regola da chi gli capita in mente ogni volta, il secondo da
consiglieri ordinati ed eletti da sè, il terzo da questi consiglieri
propri, e da altri ordinati ed eletti dal popolo. E la differenza è
grande senza dubbio, perchè i consigli dati dagli eletti dal popolo
diventano poco men che obblighi al principe ed a’ consiglieri di lui.
Ma in somma quanto più un principe è assoluto, tanti più uffici sono
raccolti nei consiglieri di lui; e così tanti più doveri. Essi da una
parte soli esecutori, soli interpreti, sola coscienza delle volontà
del principe, che rappresenta qui la volontà nazionale; e dall’altra,
essi soli interpreti de’ bisogni, de’ desiderii della nazione appresso
alla volontà del principe. Essi, se non sola, certo la più breve
via della pubblica opinione; essi, soli oratori nazionali. Essi,
solo anello di quell’unione tra principi e popolo, la quale, utile e
desiderabile dappertutto, è indispensabile ad una nazione che stia
in presenza d’uno straniero, e più ad una che intenda liberarsene.
— Del resto, detto così della importanza e dignità de’ servitori de’
nostri principi, contro all’opinione di coloro che non si contentano
di giudicarne le azioni, ma ne dispregiano stoltissimamente l’ufficio,
perchè non risplende come in altri paesi pubblicamente (mancanza di
incoraggiamenti, che accresce anzi il merito di coloro che sappiano
esser buoni così); io non mi fermerò a ciò che possano eglino fare
in particolare, per la indipendenza. Prima, perchè naturalmente essi
possono, ciascuno nel proprio ufficio, tutto ciò che dicemmo potersi
dai principi, ch’essi servono ed informano in tutto. Poi quanto ai
particolari ulteriori, perchè, oltre all’essere questi infiniti e fuor
di luogo qui, essi non sarebbero probabilmente attesi da coloro a cui
si rivolgessero. I ministri, talora i maggiori, ma più i minori ed i
minimi soglion esser gelosi di tali particolari, che sono opera loro,
molto più che non sogliano i principi delle opere loro più grandi. I
principi, avvezzi a farsi dar cooperazioni e consigli da alcuni, non
si offendono che sien lor dati da altri; come se n’offendon coloro
che, quanto più scendono, tanto più sono avvezzi a far tutto l’ufficio
proprio da sè. E i principi hanno più pratica, più amore a quei grandi
interessi di che parliamo; i quali all’incontro sono talor disprezzati
da coloro che sogliono versar tutta la vita tra le minuzie, e le
chiamano soli affari del mondo. E i principi, posti sopra a tutte
le condizioni de’ loro sudditi, non hanno interesse poi a mantenere
viva quella distinzione, che è gloria, diletto e talor sicurezza di
alcuni uomini di piccoli affari, la distinzione tra la pratica e la
teorica, tra la potenza e la scienza, tra la capacità di operare e
quella di pensare. — Nè saremo noi così illiberali. Noi ammettiamo con
piacere che parecchi Italiani sanno innalzarsi dal merito di semplici
amministratori a quello di veri uomini di stato, dalla pratica vagante
degli affari pubblici ad ogni buono ed alto scopo di essi, dalle
preoccupazioni quotidiane a quelle cure del futuro, che sono comuni
oramai a principi, uomini di stato ed anche scrittori di qualche polso,
o piuttosto a tutte le persone educate e generose. Ed a questi veri
uomini di stato italiani si rivolgono, dopo i principi, le nostre
maggiori speranze; a questi i nostri detti, i nostri desiderii di
saperli persuadere.

4. Ma passiamo da coloro che servono i principi nazionali, a quelli
che sono così infelici da servire lo straniero. De’ maggiori fra’ quali
già dicemmo non esser possibile nè che il principe abbia fede in essi,
nè che essi la serbino insieme al principe e alla patria. Qui è tutto
a rovescio che negli stati italiani, dove i doveri non fanno se non
uno, e chi serve bene al principe serve bene allo stato, all’Italia
intiera. Qui son due doveri diversi, opposti, inconciliabili. Chi si
voglia mettere a tal conciliazione vi perderà o la pace o la integrità
di sua coscienza; vivrà combattendola, finchè non l’abbia fatta tacere;
miserando dapprima, più miserando in appresso. — Ma io crederei che
sia molto diverso il caso de’ ministri minori, di tutti quelli a cui il
piccolo impiego è professione importante ad essi, ma non alla patria.
Questi non fan guari nè bene nè male, seguendo una professione che non
ha potenza sui destini della patria, ma tutt’al più su una provincia;
la quale è poi interesse della patria sia bene amministrata, si serbi
quanto più prospera per il dì che diventerà provincia italiana. —
Nè tal distinzione è nuova o mia. Quando l’immortal Pio VII, il più
forte Italiano de’ tempi suoi, fu indegnamente spogliato de’ suoi
stati, uno dei ministri dello spogliatore pregava uno dei ministri
dello spogliato di voler continuar nel suo ufficio importantissimo
nello stato. E tacerò il nome del primo, ma dirò del secondo, che
fu monsignor Lante, allora tesoriere. Il quale, rigettando quella
brutta continuazione nell’ufficio: «E che», diceva l’altro, «che sono
queste rinunzie, queste congiure, questi ordini del papa di lasciar
gli uffici? Certo ei provvede male al popolo suo. Oggi voi, monsignor
tesoriere, a rinunziare; saran domani i vostri primi capi d’ufficio;
doman l’altro i secondi; e via via, così sarà abbandonato il tesoro,
saranno mal governate le pubbliche entrate da noi mal pratici, non
apparecchiati a supplirvi». E monsignor Lante: «Il santo padre non ha
dati siffatti ordini; non a me, che non ne ho mestieri per sapere che
non posso nè debbo servir voi, non agli impiegati minori, dei quali
l’impiego è professione e vitto, e che continueranno». Ed insistendo
l’altro tra minaccia e celia a dire: «Ma voi vogliamo, voi sopra tutti,
monsignore; e chi non ubbidisce a noi... voi sapete...» (E voleva
accennar Fenestrelle o l’altre fortezze di Francia, ove si conducevano
i resistenti). — «Io», riprendeva il Lante sorridendo, «son pronto.
Partendomi di casa per venir da voi, feci ogni mio apparecchio. Ho
giù il legno». E così lasciò il celiatore celiato, e non ne fu fatto
altro. — Ancora e tanto più, è a fare la medesima riflessione pei
militari italiani serventi lo straniero: gli uni levati a forza, che
sono moltissimi, gli altri volontari, che son pochi. Ma de’ primi
il voler dire che non dovrebbero servire, tanto sarebbe come dire
che dovrebbero resistere alla levata, come dire che facessero uno
di quei sollevamenti che dicemmo quasi sempre illeciti e dannosi,
ed ora certamente inopportuni. Oltrechè sarebbe pur gran danno che
un terzo delle popolazioni italiane, che una delle più belligere si
disavvezzasse di nuovo dall’armi, e non si trovasse apparecchiata
il dì quando potrà diventar debito ed opportuno che tutta Italia in
sull’armi dica allo straniero: o con voi o contra voi, secondo che
volete diventar amici o rimaner avversari della patria nostra. E quindi
mi paiono da lodar gli stessi volontari; e da desiderare che fossero
più numerosi, massimamente in quelle classi di persone che quando non
militano sogliono poltrire. Noi dicemmo già con piena sincerità, e
così ridiciamo qui, che in ogni altra cosa che l’Italia, sono identici
gl’interessi italiani ed austriaci, che fuor d’Italia sono alleati
naturali Austria ed Italia. Tutte le guerre che avrà a fare Austria a
settentrione ed oriente saranno guerre italiane. Il maggior servigio
che si possa fare all’Italia, è di far vittoriosa, conquistatrice
l’Austria in quelle parti. Salvo l’arciduca Carlo vivente, quasi
tutti i grandi capitani di casa d’Austria furono italiani; Alessandro
Farnese, Spinola, Piccolomini, Montecuccoli, e sopra tutti il principe
Eugenio di Savoia. Così ne nascesse uno tale a far trionfare Austria
sul Baltico e sul mar Nero! Così tutta la gioventù italiana aiutasse
Austria a tali conquiste; chè avrebbe avanzata di tanto quella
dell’indipendenza nostra, e col mostrarsene ella degna, e coll’averne
preparato il prezzo. Nè vorrebbesi tale intenzione tenere vilmente
segreta; ma professarsi pubblicamente, onoratamente, militarmente.
Verrebb’egli poscia il gran dì? o quello che ne sarebbe vigilia, d’una
guerra contro a un principe italiano? Non sarebbe nemmen mestieri di
seguir l’esempio (pur lodato) d’Austria e Baviera e Sassonia quando
si rivolsero dall’uno all’altro campo, sul campo stesso di guerra o
di battaglia. Basterebbe quella resistenza passiva, più conveniente
all’onor militare: il posare l’armi senza rivolgerle, le demissioni, se
si concedessero; ovvero il rimaner prigioni, che non è se non disgrazia
volgare in qualunque guerra. Ma lo straniero non verrebbe a ciò
probabilmente. Il grande impaccio di esso quando s’appressino i tempi,
sarà il corpo d’esercito italiano, tanto più grande quello, quanto più
grande esercitato questo.

5. È vera fortuna mia che il libro del Gioberti mi dispensi dal parlar
compiutamente dell’operosità sacerdotale. I sacerdoti sono anche
più gelosi delle cose proprie, che non i principi e i ministri de’
principi. Ed a ragione. La vita, i pensieri, le leggi del sacerdozio
sono un mondo da sè, tutto diverso dal secolare; quasi un mondo
intermediario tra terra e cielo. Chi non ha vivuto e non vive in
quello ne discorre male; ondechè i sacerdoti non han fiducia se non
ne’ sacerdoti. Ad essi è utile specialmente il libro del Gioberti. E
così tutti gli altri di lui, e così quelli pure dell’avversario di
lui, il Rosmini. Tutti e due hanno ridesta nel sacerdozio italiano
quell’operosità del pensiero, che è forse più necessaria in quella
altissima, che non in niun’altra delle condizioni umane; tutti e due
hanno sentita e fatta sentire quella necessità, che il sacerdozio
cattolico accresca la propria coltura quanto più ad esso ritorna
l’opinione universale; tutti e due hanno collocato il sacerdozio
italiano, forse al primo, certo ad uno de’ primi posti, in questa
buona e gran via. Io non so s’io mi inganni; ma io non vedo guari che
due Inglesi, il Wiseman e il Lingard, che possano in promovimento di
coltura star a petto dei due Italiani. E quindi io non so trattenermi
dal ripetere, ancor che fosse a rischio di dispiacere e al Gioberti
e al Rosmini: quando vedremo darsi la mano da due tali cristiani, due
cattolici, due sacerdoti, due Italiani? Certo le divisioni sono utili
talora, come uno dei mezzi usati dalla Provvidenza a far risorgere
ogni buona operosità. Ma non son elle tutte le divisioni e massime
le ecclesiastiche, quelle di che pur è detto, guai a chi le desti? Nè
cercherò io profano, chi abbia destata od a chi tocchi finir questa, nè
se si possa. Ma ei mi par di poter dire, che sarebbe bello a qualunque
dei due; e, riducendomi al mio assunto italiano, che sarebbe bello e
buono specialmente per l’Italia, a cui tutte le divisioni nuove son
dannose, tutte le buone riunioni necessarie. — Ad ogni modo tutti
e due ci dimostrano che sarebbe gran danno, se si escludessero gli
ecclesiastici dalla discussione delle cose temporali, e si riducessero
alle spirituali, come vorrebbero alcuni. Nè ciò è possibile. Dov’è il
limite tra l’une e l’altre? Chi lo porrebbe? Chi n’ha autorità sulla
terra? Il capo degli ecclesiastici e della Chiesa può bene dir di
questo o quello che ha passato i limiti dell’ufficio, della dignità
sua, in ogni caso particolare. Ma è impossibile determinare que’ limiti
esattamente, per tutti i casi. Il medio evo ne disputò e combattè
secoli intieri; la civiltà progredita lascia più latitudine in questa
come in altre cose, e non s’oppone se non all’usurpazioni evidenti.
E le ecclesiastiche poi sono a temer ora men che mai. Il chiasso
che si fa di qualunque menoma sorga qua o là, basterebbe a provare
la impossibilità che se ne faccian delle grandi; ondechè il temerne
gravemente oramai, non è da conoscitori della presente civiltà, ma da
rimasti addietro in tal cognizione, ed in emulazioni, odii e paure. E
così pure il desiderarne. Alcuni sono, dentro e fuori d’Italia, che
chiamano sulla cattedra di Gregorio XVI un Gregorio VII. Ma ei non
vedranno mai più, nè uno tale, nè un Alessandro III, nè gl’Innocenzi,
nè un Giulio II. La differenza de’ tempi è troppa, anche contando da
quest’ultimo. Dal quale in poi, oltre le nuove eresie, sorsero tutte
le civiltà oltramontane ed oltramarine europee e non europee. Finito
è il tempo della tutela temporale della Cristianità; ella è uscita
de’ minori, ella governa i suoi affari temporali da sè; e se ne farà
forse tanto più docile alla tutela spirituale. A’ nostri stessi dì è
avvenuto un fatto importante e non avvertito abbastanza. Pio VII sarà
grande nella storia dei papi non solamente per il fatto immortale
della sua resistenza, ma per la causa ultima di essa: il rifiuto da
lui fatto a Napoleone di entrare nella lega contro Inghilterra. Con
tal rifiuto e coi patimenti sofferti per esso, Pio VII abdicò in gran
parte quell’ingerenza negli affari politici della Cristianità, in
che risplendettero pur tanti de’ suoi predecessori. Non rinnegolli,
ma fece diverso, secondo i tempi; diè un esempio, incominciò una età
novella per il papato; non rese impossibili, ma difficili, ma rare
quell’ingerenze; e rese impossibile sopratutto, se già non era, il
farsi essi papi, capi d’imprese politiche, temporali, ed in particolare
di quell’impresa d’indipendenza in che fallirono quantunque grandi i
papi stessi del medio evo. — Nè è a lamentare o a tentare vanamente di
mutare quel fatto oramai adempiuto. Lasciamo e il papa e il sacerdozio
tutt’intiero a quegli alti e numerosi uffici più o meno spirituali,
che chiamano la loro opera a’ nostri dì. Essi hanno a compiere la
sconfitta (incominciata da altri) d’ogni anticristiana filosofia, hanno
a vincere i vincitori del secolo XVIII; hanno a rivolgersi, non più
inutilmente contro a’ materialisti o sensisti di quel secolo, nè forse
contro agli incerti e vergognantisi panteisti del nostro, ma contro a
quei razionalisti che sono il vero pericolo, il pericolo preveduto già
ed or ultimo. Ed hanno così quella magnifica opera della riunione de’
dissidenti al cattolicismo, la quale sembra apparecchiarsi in tanti
modi diversi secondo i luoghi; là cogli studi teologici e il ritorno
all’autorità, là con gli studi storici e il ritorno all’unità, là con
la povertà, e là con le persecuzioni ben sofferte; dappertutto con
le controversie, con le predicazioni opportune. Ed in ciò abbiamo un
bell’esempio italiano, se sia vera la notizia di numerose conversioni
fatte dai sacerdoti rosminiani in Inghilterra; tanto più bello
che là sono le più prossime speranze, le maggiori importanze delle
conversioni. Perciocchè hanno i sacerdoti cattolici dinanzi a sè
quell’altra anche più ampia opera della conversione degl’infedeli;
quell’opera in che da secoli pareva non rimaner a’ missionari altro
profitto a trarre se non quello del proprio martirio, e di poche
conversioni individuali; ma a che la civiltà cristiana ha aperte tante
vie nuove, agevolate tante antiche, e in che il massimo di tutti
i passi sarebbe fatto quando con vantaggio reciproco si riunissero
o almeno s’aiutassero l’Inghilterra e il Cattolicismo. — Ma tutte
queste sono opere, occupazioni che gli ecclesiastici nostri hanno in
comune cogli stranieri. Opera poi particolarmente italiana, e ben che
indirettamente, pur molto utile alla impresa d’indipendenza, sarebbe ed
anzi è quella di tutti i nostri ecclesiastici, i quali o coll’esempio
o colle parole accrescano l’esercizio di qualunque virtù della nostra
nazione. Io sono per dire frappoco della importanza delle virtù
private, e per porle sopra qualunque degli stromenti d’indipendenza.
So anch’io che le predicazioni degli ecclesiastici debbono avere scopo
più alto che non questa stessa, più alto che non tutta la vita terrena
degli uomini o delle nazioni; ma le virtù conducenti ai due scopi sono
le medesime, e chi le promuove serve insieme all’uno ed all’altro.
Il maggior ausiliare del liberatore irlandese, è il padre Matthews,
predicatore, non di politica, non di libertà nè d’indipendenza, ma
di privata _temperanza_, di astinenza da’ liquori inebbrianti. Colà
que’ meditatori ed operatori veramente grandi della grande impresa
nazionale intesero bene la gran forza motrice essere la virtù, la gran
debolezza essere il vizio; e attaccarono il vizio nazionale. Da noi non
è quello; ma ne son altri e non pochi. Gli ecclesiastici sono meglio
che niun altro in situazione di saper quali sieno, di studiarli, di
perseguirli, di correggerli; gli ecclesiastici sono i più efficaci
maestri di morale; sono maestri della morale più perfetta che sia stata
o possa esser mai. Lasciamoli, preghiamoli di far ciò, liberamente,
largamente, con reciproca fiducia, senza paure, senza troppe
distrazioni; essi avran fatto più per la indipendenza, avran fatta
opera più nazionale e più ecclesiastica, che non se avessero combattuto
come i frati spagnuoli, o negoziato e governato come gli Alberoni, i
Fleury, i Mazarini o i Richelieu de’ secoli scorsi, o cercato dominar
tutto come i grandi papi del medio evo. Ogni età ha i modi suoi; la
nostra ha quello che noi lodammo già, di far ognuno l’officio suo,
di operar ciascuno nel cerchio della propria operosità. — Del resto,
s’io avessi a dire qual condizione d’uomini in Italia paiami adempier
meglio gli uffici, la operosità sua speciale e presente, quale esser
più apparecchiata per l’occasioni, io non dubiterei di rispondere, gli
ecclesiastici; e rammenterei la fortezza mostrata da essi dal 1808 al
1814. Certo niuna provincia, niun ceto d’uomini italiani, non furono
allora così forti come questi preti, non tenuti da tanto. Ed io so di
taluno a cui, giovanissimo allora, tale spettacolo, tal sorpresa, tal
paragone, tali ammirazioni e vergogne furon semi di quelle opinioni
papaline o guelfe o come che si voglian dire, onde egli fu poi accusato
da molti, ma in che ei si confermò sempre, quanto più venne studiando e
ripensando.

6. Ed ora, venendo a noi altri letterati, ei mi pare sopratutto
necessario guardarci da quella esagerazione della propria importanza,
nella quale cadono sovente non solo gli uomini di piccola pratica,
ma quelli pure di piccola teorica. L’innamorarsi esclusivamente del
proprio mestiere, è vizio di tutti gli uomini di mente miope, i quali
non veggono se non ciò che hanno molto vicino. Si dice che le lettere
son creatrici delle idee, le quali creano i fatti; maestre degli
uomini, duci dell’opinione, onnipotenti nelle società. Ma io non so
se elle abbiano avute mai tutte queste potenze; se non sieno stati
per lo più all’incontro i fatti, quelli che fecer sorgere le idee;
la società, le opinioni, quelle che guidarono le lettere; gli uomini
operanti, veri maestri o almeno signori degli scriventi; e la verità è
che s’avvicendarono continuamente le potenze degli uni e degli altri. —
E si suol dir poi, che la potenza delle lettere s’è accresciuta nella
nostra età, per la moltiplicazione degli scrittori e degli scritti.
Ma gli scritti sono come tutte l’altre merci, che moltiplicandosi
s’inviliscono. La facilità di scrivere, di stampare senza spesa o con
profitto, ha fatti diventare scrittori molti, che avean poca o niuna
facoltà naturale di scrivere, molti che non l’hanno accresciuta cogli
studi, molti che non elaborando lor produzioni, non usano tutta quella
che hanno, o non meditandole, l’usan male; e quindi la merce, già
invilita per troppa quantità, s’invilì di nuovo per mala qualità. Il
vero è, che si fanno ogni dì più rari, quinci quegli ampii e studiati
lavori letterari che furono frequenti nei due o tre secoli scorsi; e
quindi più ancora quella universale attenzione che si soleva concedere
loro. Sminuzzati si sono a’ nostri dì i grossi libri, i lunghi studi,
le grandi riputazioni. Nè tuttavia vorrei troppo lamentarmene, come
fanno alcuni; o compatir la intiera società di questo accrescersi il
numero, e diminuirsi il credito degli scrittori. Io crederei che la
società vi abbia forse guadagnate più numerose verità; che queste, più
discusse, si sien fatte più chiare; che la coltura latamente sparsa
sia da preferire alla coltura più altamente insegnata; che sia la più
assurda e la più tirannica a voler restaurare, l’aristocrazia delle
lettere; e che insomma sia accresciuta la potenza della coltura in
generale, e sopratutto della buona coltura. Ad ogni modo, non è dubbio,
resta scemata la potenza di ciascuno scrittore, di ciascun scritto in
particolare; a guisa appunto che in un esercito tutto vittorioso, non
conta guari niun guerriero privato, quantunque prode, il quale avrebbe
contato molto in uno nuovo o sconfitto. — Ma questa potenza degli
scrittori è scemata poi, e va scemando, più che altrove, in Italia;
e scemerà ogni dì più, finchè dureranno le condizioni presenti. Gli
scrittori italiani non hanno solamente a vincere gli emuli, diventati
più numerosi; hanno a vincer emuli posti in condizione più vantaggiosa.
Chi scrive colla paura delle censure, chi è sforzato a calcolare,
a misurare, a lisciar ogni frase o parola per farla, come si dice,
_passare_, chi ammorbidisce le proprie idee, non potrà mai emular
felicemente gli scrittori che scrivono schietto senza tanti riguardi.
Non serve dire agli Italiani: leggete italiano, leggeteci noi, non
ricorrete agli stranieri; gli Italiani ricorreranno sempre agli
stranieri; più chiari, più facili, più piacevoli, più utili a leggersi,
finchè più liberi. Noi ammettemmo già, parlando dei principi nostri,
che una censura preventiva è forse necessità politica dei loro governi.
Ma è ad ogni modo infelicità, impotenza letteraria, la quale è giusto
notare dove si parla di ciò che possano o non possano gli scrittori
italiani. Veggiamo il fatto com’è, una volta. Studio precipuo degli
stranieri è porger chiaro, limpido il loro pensiero. Studio precipuo
degl’Italiani scriventi in Italia è velarlo più o meno. Ne’ primi
anni del secolo, restaurate le censure sotto Napoleone e i successori
(e restaurate con severità tanto maggiore, che i tempi parevan
più pericolosi), coloro che avrebbon voluto scrivere, sdegnarono
adattarsi, e non iscrissero o scrisser pochissimo. Poi verso il quarto
del secolo, si girò, come succede, intorno all’ostacolo che non si
potea vincere; ognuno cercò adattarsi, si usò l’artifizio contro alla
forza. Gli scriventi s’accorsero che ci era modo di dir molto, anche
colla censura. Le pieghevolezze della parola sono infinite. A un nome
particolare rigettato si sostituì uno generale, un sinonimo accettato;
a una idea compiuta, una in germe; ad una precisa, una involta; ad una
chiara, una annuvolata. Si fece conto sulla intelligenza del discreto
leggitore, si sperò che questi intenderebbe. E così avvenne per lo
più; l’acutezza italiana, l’identità degli interessi, la universalità
di molte opinioni fecero nascere uno stile adattato, convenzionale,
quasi un gergo, tra scrittori e leggitori. Artifizio illecito senza
dubbio se ad esprimere cose illecite, e lecito pure se a lecite. Ma
l’artifizio anche lecito è sempre infelicità. Non è bella se non la
parola compiuta e limpida. Talora, ingannando il censore, s’inganna
il leggitore; talora vien meno tra l’uno e l’altro la consueta
intelligenza del gergo; e da tutto questo adattarsi, nasce una
letteratura adattata, oscura, men bella, men utile, e talora nociva;
si trattano più i generi nei quali si può parlare apparentemente
d’una cosa, e realmente d’un’altra, i generi oscuri; la confusione de’
pensieri, la insincerità di espressioni diventano vizi della parola, e
minaccian diventare delle azioni nazionali. Gl’Italiani che scrivono
e stampano fuori sono i soli che possano uscir di tali difficoltà,
correggerci di tali vizi, rivendicarci da tali pericoli, da tali
vergogne, fondare una letteratura italiana esterna e non adattata,
all’incontro dell’adattata; far per la patria nostra altrettanto o
forse più che non gli stranieri per le loro. Così sappiano valersi di
tal potenza e valersene con quella moderazione ch’è dovere tanto più
stretto ai più liberi; così lavorare essi almeno con quell’alacrità
che non s’ha se non isfogando tutte le proprie facoltà; così non
dimenticar la patria antica per le nazioni che sono nobili e generose
ospiti a tanti di essi[37]. — Ma Dio mi liberi dallo scoraggiar nemmeno
coloro che scrivono e stampano in patria. Non volli se non toglier di
mezzo qui come altrove, quelle false speranze, le quali non adempiute
lasciano poi, alla prova, il male incoraggiato più scoraggiato che mai.
Io temo sia avvenuto a parecchi de’ nostri scrittori anche dei primi,
anche di quelli le opere di cui ebbero maggior potenza in Italia, che
comparato tal effetto colle fatiche fatte, colle difficoltà sofferte,
quest’effetto parve loro poco al paragone e si lasciaron quindi
cader di mano la penna, la quale avrebbe pur potuto esser utilissima
ancora alla patria. Nè sarebbe forse avvenuto tal danno, se fin dal
principiare avessero ben preveduta la pochezza di questo effetto. I
nostri più alti ingegni scriventi tra lo svantaggio delle condizioni
d’Italia, si trovan nel caso degli scrittori stranieri di secondo o
terz’ordine; i quali sanno bene di non potere acquistarsi gloria, nè
produrre effetti pari a quelli d’un Byron, d’un Walter-Scott, d’un
Goëthe, d’un Alfieri o d’un Chateaubriand, ma che perseverano ciò non
di meno; o perchè par loro pregiabile anche una buona riputazione in
mancanza di una gran gloria, o meglio perchè par loro dovere adoperare
ognuno a pro della patria le facoltà quali che sieno, ricevute dalla
Provvidenza. E così i nostri. Non possono eglino scrivere chiaramente,
limpidamente, con parole proprie? scrivano oscuro. Non possono scrivere
liberi? scrivano impacciati. Non possono scriver tutto? scrivano la
metà, il quarto, ciò che lor si conceda. Dei tre precetti di scrivere
la verità, nulla se non la verità, tutta la verità, i due primi
si posson seguir sempre, anche da noi; e seguiamo il terzo quanto
possiamo. Il pietoso Iddio in cielo, e i nostri compatriotti in terra
ci terran conto un dì di questa vita così angustiata, così tormentata,
così ricca d’interni strazii, così povera di esterni compensi com’è
la vita dello scrittore italiano. Tolti uno o due fra noi scriventi al
presente in Italia, noi tutti gli altri avremo probabilmente presso i
posteri, come abbiamo presso gli stranieri, poco merito di lettere; ma
forse ci si concederà tanto più merito di virtù. E poi, non importa ciò
che ci si conceda, purchè adempiamo anche noi il nostro ufficio verso
la patria.

7. Di gran lunga più felice vita vivon da noi gli scienziati, gli
artisti, tutti coloro che adoprano lor facoltà in materie lontane dalla
politica, dalla storia e dalla filosofia. Questi si trovano più o meno
nelle medesime condizioni addentro come fuori d’Italia; e se essi pure
hanno a patire della moltiplicità degli emuli, non patiscono almeno
di niuna condizione particolarmente italiana. E tutti questi possono
giovare alla patria, forse più che non credono. Prima colla loro gloria
personale, la quale sempre ritorna alla patria, e di che le sarà tenuto
conto al gran dì, quando i destini di lei dipenderanno da tutto insieme
il rispetto ch’ella avrà saputo acquistarsi. Noi vedemmo Grecia aver
dovuta la indipendenza sua, in gran parte, alla propria gloria antica,
alla gratitudine delle nazioni che riconoscono da lei una civiltà, una
coltura, quantunque lontane di tanti secoli, quantunque spente. È forse
vergogna per la nostra età, che siasi tenuto conto di quella gloria
antica, più che non della qualità di cristiani ai Greci presenti. Ma ad
ogni modo le medesime nazioni europee avrebbero pure un altro simile
e più vicino debito a pagare all’Italia; il debito della civiltà e
della coltura moderne e cristiane. Nè il negano, che che si dica da
molti di noi. Negano le esagerazioni che ne facciamo; negano i falsi
e piccoli primati che pretendiamo sovente oltre al vero e grande che
avemmo; negano sopratutto la continuazione presente o probabile futura.
Noi siamo verso di esse come i benefattori ricordanti ed esageranti i
propri benefizi, o come i nobili ricordanti ed esageranti la propria
nobiltà, che ne fan venir noia a ciascuno. Non predichiamo i benefizi
e la nobiltà nostra, e questa e quelli ci saran più facilmente
riconosciuti; non vituperiamo nelle nazioni sorelle le educate da’
nostri maggiori; non ci mostriam sopra tutto troppo degeneri da questi,
e verrà dì che raccoglieremo anche noi i frutti della gloria italiana
e della gratitudine straniera. — Del resto, anche direttamente, tutte
l’arti, tutte le scienze possono giovare alla patria, avanzarla verso
i destini futuri. Perciocchè tutte possono servire a quelle virtù,
che serviranno a que’ destini. Io non so se non volendo estendermi,
saprò far capire il mio pensiero. Ma ei mi pare che sia pure una musica
virtuosa ed una no, e così una pittura, una scoltura, e direi per fino
una architettura. Della musica non può esser dubbio. Esprimendo essa
gli affetti, i sentimenti dell’animo, ella può esprimere i virtuosi
e i viziosi; ed è quindi virtuosa se fa piacere i primi, dispiacere i
secondi, viziosa se alletta tutto all’incontro; nè più nè meno che la
poesia, o le lettere. E così pure la pittura e la scoltura. Da alcuni
anni in qua si sono venuti scegliendo soggetti patrii più vicini a
noi che non gli antichi greci e romani. Ma sarebbe da fare anche più
sovente che non si fa e da’ committenti e dagli artisti. E sarebbe
poi da progredire nella scelta di tali soggetti. Non basta venirci
ritraendo qualche fatto del medio evo, insigne per le vesti, i rasi,
i velluti o l’armi che vi si introducano. Dovrebbonsi scegliere fatti
insigni per virtù, insigni per quelle principalmente dell’unione e
dell’indipendenza, insigni non solamente per la provincia, ma per
tutta la patria, tutta la nazione. Certo si troverebbero in que’ XIII
secoli che durò finora la impresa, in quello principalmente da Gregorio
VII alla pace di Costanza, che dicemmo il più bello della storia
italiana. Lettere, scienze, arti, tutte le colture dovrebbero cercare
quanto possa ricordare, lodare, far risorgere e progredire, esaltare
e scoppiare le due virtù, dell’unione e dell’indipendenza; dovrebbero
farle entrare per tutti i sensi negli animi italiani, per tutti i sensi
importunarne gli stranieri.

8. Ma ei v’è più. Ciò sta in mano non solamente di tutti coloro
che hanno una operosità, una vita eccezionale, principi, uomini di
stato, sacerdoti, scrittori, scienziati od artisti, ma di ciascuno
anche privato italiano. Qui è dove desidererei ingegno ed autorità
da persuadere, non più alcuni, ma tutti i compatrioti miei. Qui li
conforterei a contarsi, qui a conchiudere che una nazione di venti e
più milioni d’uomini è invincibile, se unanime e virtuosa. Unanimità e
virtù sono i due desiderati dell’indipendenza. Virtù senza unanimità;
unanimità senza virtù non servirebbono. — E l’unanimità è più avanzata
che non si crede. Noi disdegnammo i varii sogni italiani, perchè son da
disdegnare finchè ne resterà un’ombra; ma li dicemmo, secondo credemmo
e crediamo, sogni di pochi, sogni vicini a svanire, anche senz’opera
nostra o di altri scrittori, anche lasciando fare il semplice senso
comune italiano ridesto dagli ultimi sperimenti. E svaniti i sogni
resterà necessariamente la verità nuda ed una, l’unanimità. La quale
non è impedita nemmeno dalla divisione territoriale d’Italia. Due
terzi di questa sono indipendenti abbastanza perchè vi sien nati e
cresciuti l’idea, l’amore, il desiderio, la volontà dell’indipendenza
compiuta; perchè si persuada ogni suddito di principe italiano che
non sarà compiuta per essi e lor principi se non quando sarà comune a
tutti i sudditi dello straniero; perchè ognuno vi professi apertamente,
altamente tale opinione; perchè propagandola, tramandandola intorno
e dopo sè, ella penetri ne’ consigli dei principi e ne’ principi; se
già non l’abbian questi dalla propria natura generosa. — E quanto alle
province straniere, lodiamo pure i fratelli nostri. Uomini e donne,
vecchi e giovani, colti o solamente educati vi sono anche più unanimi
che non i sudditi de’ principi italiani. È naturale; provan da vicino
ed addosso, non alcune, ma tutte quelle spine della dipendenza che son
martirii a qualunque animo colto ed educato, e che passano da questi
poi a farsi sentire agli incolti ed ineducati. Segno, fatto, protesta
di quell’unanimità è colà il tenersi discosti quasi tutti dal governo,
dalla corte straniera, da quella famiglia imperiale, quantunque stimata
come sovrana a casa sua, quantunque ammirata come famiglia privata
dappertutto; discosti tutti e ciascuno da tutti e ciascuno di quegli
stranieri, quantunque pregevoli personalmente. Segni, fatti e proteste
sono, le antipatie a quella nazione germanica, che per la sua natural
bontà, per la sua pacatezza, per il suo intelligente amore dell’arti
sarebbe la più simpatica, sarebbe sorella dell’italiana: e segni,
fatti, proteste sono tutte quelle rinunzie ad ogni operosità pubblica
e militare, che dolgon certo a que’ nostri compatrioti, naturalmente
operosi, e che, se sono, com’io le credo, esagerate, provano tanto più
l’abborrimento della dipendenza. Tuttociò in Lombardia. Ma dicono,
non sia altrettanto nella vicina Venezia. Sarebbe egli vero che un
popolo, indipendente già per mill’anni, abbia in meno di cinquanta
imparata la dipendenza? Se è, sarebbe gran prova della corruzione di
quell’antico governo che avrebbe infracidito a tal segno que’ popoli;
sarebbe gran ragione di non lamentarne la caduta; di volgersi dal
passato ad un migliore e tutto diverso avvenire. Ma noi non crediamo
a tale avvilimento di niun popolo italiano; non crediamo in ogni
caso che possa durare così, in mezzo all’unanimità italiana, vicino
alla stupenda protesta lombarda. — E queste proteste poi, questa
unanimità hanno in sè ben altra efficacia che non le società segrete,
le congiure, o i sollevamenti. Le società segrete si vincono colle
pulizie, le congiure co’ supplizi, i sollevamenti colla forza; ma qual
forza, quali supplizi, quali pulizie bastano a vincere una resistenza
passiva, unanime, quotidiana, in tutti i luoghi pubblici o privati,
di ogni nazionale che dica ad ogni straniero: «Voi siete persone di
conto, stimate, amate, felici nelle vostre case, nel vostro paese; voi
siete qui e sarete in perpetuo rigettati dalla società, lasciati soli
tra voi, mostrati a dito, disprezzati più che esecrati; come ciechi e
servili esecutori d’una flagrante ingiustizia, di una che è stoltezza
nell’interesse stesso del vostro padrone?» Nè io son solo ad ammirare
siffatte proteste. Le ammirano Italia, Europa tutta. Le ammirano, e
stupiscono forse che non abbiano prodotto ancora maggior effetto.

9. E perchè nol producono? perchè si tiene così poco conto di questa
unanimità? Perchè appunto ella non basta senza la virtù. Le nazioni
sono tra sè come gli uomini, i quali non tengon conto delle proteste
nè delle minacce se non dei forti, degli operosi, de’ virtuosi. Non è
verace quella distinzione di Montesquieu, che la virtù sia necessità,
principio delle repubbliche sole; se così fosse, questa sarebbe la sola
forma buona e possibile in ultimo di governare. Ma il vero è, che tutte
le nazioni, sotto qualunque forma governate, han bisogno di virtù; che
la virtù è principio di ogni buon governo alle nazioni indipendenti,
principio d’indipendenza alle dipendenti; ondechè ella è necessaria a
queste sopra tutte. E non è vero poi, come dicono Montesquieu e tanti
altri, che sien due virtù, la pubblica e la privata; sono due forme,
o meglio due applicazioni della medesima virtù. La virtù pubblica non
si può esercitare se non da pochi in qual siasi nazione, da pochissimi
nelle non libere, da più pochi ancora nelle dipendenti; e non si suole
esercitar poi quasi da nessuno nelle sue parti difficili, quando sono
facili i tempi. Ma la virtù privata è accessibile a tutti, sotto
tutti i governi, in tutti i tempi, e più ne’ facili e tranquilli.
La virtù nazionale si compone delle due sorta di virtù, pubbliche
e private; ondechè può essere una nazione che non possa avere quasi
nessuna virtù pubblica, ma che avendone molte private abbia una somma
di virtù nazionali maggiore che non altre dove sieno più delle prime;
e la somma, comechè fatta, delle virtù nazionali, è quella all’ultimo
che impone altrui ammirazione o paura, secondo le occorrenze. In
Italia, a’ tempi nostri, le virtù pubbliche non possono se non esser
rare; quindi tanta più necessità di accrescere, di moltiplicare le
private, se vogliamo una somma vantaggiosa, un totale che imponga.
E quindi debb’essere l’oggetto più importante, non dirò di questi
nostri pensieri, poveri, pochi, ed approssimantisi a lor fine, ma di
tutti quelli di qualunque buon Italiano: cercare se sieno o no queste
virtù private in Italia; e se non sieno, come si possono procacciar
da ciascuno co’ propri mezzi; colle leggi, se è principe od uomo di
stato; colle predicazioni, se sacerdote; colle produzioni dell’ingegno,
se è uomo di coltura; ma sopra ogni cosa coll’esempio, che è il mezzo
più efficace, e che sta in mano di qualunque privato. Ma qui è, che
s’io dirò intiero il pensier mio, sarò chiamato moralizzante, austero,
pedante, uom di mal umore, bacchettone, o (col modo di dire di Botta)
cappuccino, o che so io? E peggio che tutto ciò, sarò detto forse non
amator della patria, se veggo e confesso i vizi di lei. So anch’io
che il chiuder gli occhi ai vizi, il non veder se non le virtù e le
bellezze è il più facil modo di farsi amare. Ma da chi? Da quella
qualità di persone a cui Dante coll’autorità propria e la rozzezza
de’ tempi osava paragonare pur troppo l’Italia; ma a cui non crederei
giusto oramai il paragonarla, ondechè spero ella non brami essere amata
così. E poi, se questo è il più facile modo di farsi amare, non è il
buono d’amare, non è amar l’amata più che sè, amar sè in lei e per lei;
non è amor vero e virile di niuna maniera. Nè così amarono Dante o gli
altri due, Alfieri e Parini; ed io, incapace d’imitarli nell’ingegno,
vorrei imitarli almeno nell’amore. — E dico dunque, che non è oramai la
unanimità, non sono le opinioni, non quanto dipenda dall’ingegno, non
i consigli, non forse i duci all’opera quelli che manchino all’Italia;
manca, se non assolutamente, certo comparativamente, la virtù severa,
forte e sufficiente. Io dico che ella ci manca in paragone di altre
nazioni cristiane contemporanee nostre; forse d’Inghilterra quantunque
non cattolica, forse di Francia quantunque uscente di rivoluzione,
forse di Germania stessa signora nostra, che è il gran danno. Io
non mi porrò a ragguagliare e discuter fatti, che sarebbe da non
finire. Ma non mi si venga a dire con finto scandalo e pervertitrice
compunzione che non possono essere più virtuose di noi, nè virtuose
di niuna maniera quelle nazioni eretiche o quella rivoluzionaria. Le
nazioni eretiche sono eretiche ne’ dogmi o in qualche punto di morale,
ma hanno in somma quasi tutto quel tesoro di moralità cristiana che
è principio di ogni virtù, di ogni civiltà, d’ogni coltura e d’ogni
progresso. E quanto alle rivoluzioni, io dico che sono immorali le
nazioni che v’entrano, o che dan retta a chi ve le vuol fare entrare,
non quelle che ne sanno uscire. Ed io n’appello poi a tutti quegli
Italiani che conoscono quelle tre nazioni straniere, non per avervi
viaggiato correndo, ma per avervi esulato o vivuto di qualunque maniera
lungamente, posatamente, nelle capitali, nelle provincie e tra le
famiglie. I quali, mal grado il desiderio della patria lor negata, ci
narrarono e narrano con santa invidia la moralità, la unione di quelle
famiglie, la severità, la operosità, la fortezza di quei costumi.
E n’appello poi per il confronto coll’Italia, a quegli stranieri
che scrivono di noi; e non già a quelli che ci scrivon contro, anzi
a quanti son più per noi, e si mostrano più innamorati di noi; un
Goëthe, una Staël, un Byron, un Lamartine ed altri tali. I quali, come
ne sono eglino innamorati di questa che chiaman terra _degli ulivi
e degli aranci_? di questo bel cielo, delle belle donne, delle molli
aure d’Italia? Ne sono innamorati, la lodano appunto, vergogna! quasi
regione apparecchiata a’ loro riposi quando sono stanchi de’ loro
gravi pensieri settentrionali; quasi luogo da piaceri e sollazzi, quasi
giardino, passeggio, o che so io, pubblico a chicchessia. E talora ei
ci lodan pure per vero dire del nostro ingegno facile, vario, mutabile,
rivestente nuove forme; ed han ragione. Ma delle virtù nostre, chi ne
parla? chi non ne tace? anche fra questi nostri innamorati? E il tacer
della virtù esaltando l’ingegno, che altro è se non o la più perfida
delle calunnie, o la più mordente dell’accuse? Ma è accusa pur troppo
verosimile, quando si fa da chi gode le bellezze e le piacevolezze
della mal lodata, quando questa accetta vergognosamente tali lodi,
quando se ne compiace, sfuggendo ella stessa l’ingrato assunto della
virtù. Nè ciò fa, tutta la patria nostra, per vero dire. Ma il fanno
per lei i piaggiatori di lei, che, allargandosi su tutti gli altri
pregi nostri, non trovano talor a fare un periodo di lor panegirici
sulle nostre forti e virili virtù. Che più, che più? La stessa lingua
nostra se n’è guastata! e virtuoso fu chiamato da’ nostri classici
Cesare Borgia; virtuoso, l’Aretino; e virtuose chiamiamo anche oggi,
non più le madri di famiglia o le vergini italiane, ma quelle che
servono sulle scene a’ diletti nostri e d’Europa. — Ma lasciamo i
paragoni. Purchè abbiamo una virtù sufficiente! diranno parecchi, e
direi pur io. Ma sufficiente a che? A vivere di giorno in giorno per
le bisogne nostre presenti, in pace e tranquillità, senza curarci
dell’avvenire? Certo abbiamo virtù sufficiente a ciò. Ma se tal sia de’
miei leggitori che consenta meco nella probabilità o solamente nella
possibilità di un progresso qualunque della patria, e sopratutto del
progresso d’indipendenza, a questo io domanderò: abbiamo noi virtù
sufficienti all’occasione, quandochesia che ella venga? Le avremmo
noi se venisse domani? Saremmo noi apparecchiati dalla severità di
nostra vita privata, alla severità di quella vita pubblica che allora
incomincierebbe? Alla continua, alla faticosa, alla dura operosità? ai
sagrifici delle superflue, delle necessarie sostanze? a quello della
persona? Ed a que’ sacrifici morali, tanto più ardui che non tutti
questi? Di nuovo n’appello a’ sinceri e buoni. Non dunque a quelli
che scusano le mollezze col clima, i turpi amori coll’ozio, l’ozio
colla servitù, la servitù colla forza ch’ei chiamano maggiore; non
a quelli che piangono i carnovali, le maschere, i casini di Venezia
o d’altre città, quasi istituzioni nazionali perdute, i piaceri, le
spensieratezze del secolo scorso, e i cavalier serventi, quai esempi
de’ maggiori. Con tutti questi non ci cale d’intenderci mai. Ma
rivolgendoci per parlar di virtù a coloro che abbiano almeno, come
noi, desiderio di virtù, questi conforteremo a quella verità che è
primo principio di virtù; a volere quindi guardare e vedere quali virtù
ci manchino, in quali noi siamo superati dagli stranieri, quali ci
abbisognino a diventare nazione stimata, rispettata, ed all’occasione
temuta. Se dopo tali riscontri sinceramente fatti, si trovi che noi
siamo, come io temo veramente, superati, non ci diam pace, emuliamoli,
travagliamo noi stessi, finchè siamo almeno lor pari in virtù, chè
senza tal parità, non avremo mai parità d’indipendenza. E se, come
desiderio, io m’ingannassi, se non avessimo bisogno d’emulare gli
stranieri, tanto meglio! emuliamo, superiamo allora noi stessi. —
Accresciamo ad ogni modo le nostre virtù. Elle non saranno mai troppe
per l’impresa che abbiamo alle mani, non massimamente per il gran dì
del compierla.

10. Ma sia pur vero, dicono alcuni, che la virtù produrrebbe
indipendenza; intanto la dipendenza produce vizio, il quale mantiene
dipendenza. — Costoro hanno ragione; questo è il circolo vizioso ond’è
difficile uscire. Negli stessi stati italiani l’operosità nazionale
è compressa dalla dipendenza indiretta; ma è incomparabilmente più
dalla diretta nelle provincie straniere. Là sono da compatire senza
dubbio que’ giovani a cui non è possibile nè bella niuna operosità
pubblica, a cui è così ingrata qualunque militare, così impedita
qualunque letteraria. Ma ei sono da compatire, non da scusare nemmen
là, se si abbandonano. Qualche operosità rimane ad essi pure; una
principalmente, quella a cui sono chiamati tutti, che non si può
togliere a nessuno, l’operosità della vita privata, della famiglia. Qui
sta il punto, qui il rimedio. La famiglia a chi la accetta come fonte
di operosità, è fonte quasi inesauribile. Al giovane la cura, l’aiuto,
l’osservanza verso i parenti, allo sposo il primo amor della donna,
i primi passi dei figliuoli; all’adulto l’educazione, le speranze,
i timori e il retaggio di essi; all’invecchiante tutte queste cure
moltiplicate e complicate; al vecchio il tesoro delle memorie; ed ecco
occupazioni più che bastanti non solamente a fuggir ozi e vizi, ma
ad esercitare virtù; quelle virtù, dico, le quali chi l’abbia serbate
entro le mura domestiche può esser chiamato un dì ad esercitarle anche
moribondo a pro della patria, o che tramanderà almeno incolumi ai
nepoti. Quasi tutti possono aver tal campo di operosità, se spoglino
vanità, pregiudizio, pretensioni. Nè ai pochi cui manchi o non basti,
mancherebbe quella che è supplemento e rimedio a tutto nella civiltà
cristiana, l’operosità della carità. — In somma, il gran circolo
vizioso si vuol rompere in qualche maniera da tutti se vogliamo servire
alle speranze nazionali. E non ci sono se non due modi di romperlo; od
acquistando prima l’indipendenza per venire da essa poi alla virtù, od
acquistando prima questa per venir a quella. Ma il primo modo non istà
in noi, il secondo sì. Afforziamoci a questo virilmente, resistiamo a
quell’arti corruttrici ch’io non credo scientemente usate se non forse
da alcuni vili subalterni, ma che s’usano senza rendersene conto anche
da’ maggiori e migliori stranieri; resistiamo a quell’arti con cui ci
si profonde l’ozio, la spensieratezza, la facile, l’inutil vita, la
nullità. Qui sia guerra aperta tra gli stranieri e noi; gli stranieri
corrompano, noi resistiamo. Non è grado di corruzione onde non si
possa guarire. Diciamo una ultima volta col nostro gran compatriota: LE
NAZIONI CRISTIANE POSSONO AMMALARE, NON MORIRE. — Uno straniero, non
de’ nostri molli innamorati, ma de’ nostri amici severi, un’illustre
Tedesco settentrionale, trovandosi una sera fra parecchi non del tutto
indegni Italiani, e conversando con amore delle condizioni, della virtù
e delle speranze d’Italia, mordeva pure amaramente i men buoni costumi
d’una delle province soggette allo straniero. Sorgevano gl’Italiani
a compatire, a scusar i fratelli, ad accusarne i corruttori. «Avete
ragione» rispondeva quegli con sua freddezza e sua pronuncia tedesca;
«avete ragione; ma una nazione che non vuol lasciarsi corrompere, non
si lascia corrompere». — Ed insistendo noi, e citando fatti e nomi,
e gli esuli là ripatriati, a cui fu raccomandato _divertirsi_; e i
giovani che presentandosi con un manoscritto alla censura ricevetter
risposta, esser peccato che uomini di famiglia e di speranze si
perdessero in letteratura; ed altri non dissimili fatti: «Avete
ragione», riprendeva il duro Tedesco: «ma una nazione che non vuol
lasciarsi corrompere, non si lascia corrompere». — Ed infiammandosi
la disputa e venendosi alle grida e al domandare: «Come si fa? chi ci
può? che ne sarà?» — «Avete ragione, avete ragione», ripigliava colui,
e nol potemmo trar mai di sua costanza tedesca, «avete ragione, ma UNA
NAZIONE CHE NON VUOL LASCIARSI CORROMPERE, NON SI LASCIA CORROMPERE».
— Così è. Ed una nazione che non si lasci corrompere, fa tal atto che è
già virtù, che è già apparecchio all’indipendenza.

11. Ma non sarebbe compiuto nè verace il nostro discorrere della
virtù privata italiana, se dopo aver detto che ella è impari pur
troppo a parecchie straniere, ed alle speranze nazionali, noi non
dicessimo, che ella è pure notevolmente progredita dai secoli ultimi
al presente. — Noi osservammo altrove, che dal principio del secolo
scorso è chiaro un progresso di tutte le condizioni d’Italia, il
quale continuò poi e continua indubitabilmente a’ nostri dì. Ma fra
tutte l’altre, la condizione morale è certamente la più progredita.
E ciò parmi da osservare non solamente a vana lode, ma a conforto
della nazione in generale, ed a quello in particolare de’ nostri
governanti. Perciocchè, capacitandosi essi d’aver intorno e dietro
sè una nazione progredita e progrediente in virtù, essi ne potranno
andar tanto più arditi ad adoprar tal nazione, a cimentar tal virtù.
Ei vi ha un libro, non buono, non forte, non puro in virtù, per vero
dire, ma pur consolante in sommo grado a qualunque italiano. Son due
volumi d’appunti fatti dal Baretti (Italiano come ognun sa, dimorante
in Londra nella seconda metà del secolo scorso) contra un viaggiatore
e scrittore inglese, molto severo o forse impertinente verso l’Italia.
Ed è a vedere nel Baretti quel generoso, ma smoderato impegno di
difendere le cose nostre, che è diventato così volgare a’ nostri dì.
Il Baretti mordentissimo in patria, come ognun pur sa, si faceva, se
non adulatore, avvocato generale d’Italia fuori patria. E tuttavia pur
difendendoci così, pur volendo far le scuse nostre in ogni cosa, egli
si lascia sfuggire o piuttosto profonde le confessioni de’ nostri ozi
e vizi in tal modo, da vergognarcene per quell’età così vicina, ma da
consolarcene per la nostra, che si vede tutta mutata. Bisogna vedere,
ora scusate ora no, ma in somma confessate, le impertinenze signorili,
le tolleranze popolari di que’ tempi: le corruzioni non solamente delle
classi infime, locandieri, doganieri, gondolieri e via via, ma delle
medie, dell’alte e delle sante stesse; e la vita scioperata di tutti
quanti, principalmente in Venezia; e la mollezza dei costumi e delle
vesti, e i travestimenti, e quel bamboleggiar di ninfe e pastori che
era, per vero dire, universale allora anche fuori d’Italia, ma che in
Italia erasi costituito nell’Accademia dell’Arcadia, e nelle numerose
_colonie_ di lei. Ed è a vedere il Baretti, l’autor già della _Frusta
letteraria_, scusare e lodar tutto ciò, e fare quelle lunghe liste
di pretesi illustri Italiani, che non servono nè a mettere quei nomi
nella memoria degli stranieri, nè a serbarli in quella de’ posteri,
ma talor solamente a farne ridere i concittadini. Ancora, potrebbero
esser prova della leggerezza insieme dell’età e dell’autore, quelle
lodi dell’ingegno italiano che egli trae dall’abilità del giocar a
carte ed a tarocchi; e quelle poi della sapienza politica dei Romani
contemporanei suoi, ch’egli pone sopra qualunque altra; e quelle del
commercio italiano comparato in isperanze al francese ed inglese; e
quelle delle razze de’ nostri buoi, nostri cavalli, e nostri asini,
e via via; ridicolezze, puerilità, illusioni, inganni, pazzie, ora a
noi evidenti. Ma la più curiosa difesa e la più vergognosa confessione
è quella de’ cicisbei e delle cicisbee, i quali, se i miei giovani
leggitori nol sapessero, furon coloro che si chiamarono poi _il
cavalier servente e la dama_, poi abbreviatamente il cavaliere o il
servente e la donna, poi l’amico e l’amica; cioè per parlar chiaro
l’adulterio sfacciato, pubblico, regolarizzato dall’usanza. Qui
s’allarga, qui si compiace lo scusatore; dà l’etimologia della bella
parola; vanta l’origine antica dalla cavalleria e dalla filosofia,
spiega, ingentilisce, innalza l’usanza ad amor platonico, immateriale,
o che so io. Ed era pur surto già, ed aveva scritto il Parini; ed egli
il Baretti cita lui e la immortal satira di lui! Tanto, per dar lodi
immeritate, si sogliono trascurar le meritate! Tanto questa buona
intenzione dello scusare acceca su’ progressi già incominciati; fa
rimaner indietro de’ propri tempi anche coloro che sono per natura
e furono altrove scrittori progredenti, virili e severi! — Ad ogni
modo tutti questi usi, ozi e vizi di settanta anni fa (il libro è del
1769), sono pur così diversi da’ nostri, che paiono discosti di secoli
e secoli, e che non possono nemmeno più esser soggetti di sdegni,
ma di risa. Notevole sopra tutto è la differenza dei costumi delle
famiglie, delle donne italiane. Certo sono anche ora, e saran sempre
donne e famiglie scostumate, in Italia e dappertutto. Ma n’è scemato il
numero, scemata la sfacciataggine; che sono due miglioramenti, grandi
ciascuno per sè, e prove l’un dell’altro. L’usanza, la moda era allora
l’adulterio, il vero o almeno il finto; il vizio o l’affettazione
del vizio; l’ozio, la mollezza, ad ogni modo; ed eccezione era la
costumatezza, eccezione rarissima la costumatezza professata. Or tutto
all’incontro; la virtù e il vizio han ripreso ciascuno loro luogo
naturale; regola e moda è la virtù, eccezione il vizio; si professa
quella, si cela questo. È vero che da alcuni ostinati ammiratori del
buon tempo antico, tutto ciò si chiama peggioramento ed ipocrisia. E
tra l’ipocrisia della virtù e l’ipocrisia del vizio io non saprei,
per vero dire, qual sia peggiore o minore per l’ipocrita; ma per
la società, ma come segno di pubblica moralità, certo è migliore
l’ipocrisia della virtù; la quale mostra almeno che la virtù è più
pregiata, più in autorità, più vantaggiosa ad affettarsi che non il
vizio. Io non cercherò qual parte abbiano avuta gli stranieri in
questo sommo progresso italiano; se le invettive di Napoleone non
v’abbiano forse operato più che non quelle dello stesso Parini; se
forse non v’abbiano potuto anche più il ridicolo, e più i disturbi
recati in questi quasi matrimoni dagli stessi scostumati stranieri;
e se pur vi potessero le lettere, gli stessi romanzi stranieri, non
nemici certamente di ogni mal costume, ma nemici incompatibili di
questo; ovvero se più la civiltà, le leggi mutate, la distruzione
delle primogeniture, il numero scemato de’ celibi e cadetti, e
le operosità cresciute, principalmente ne’ principati italiani.
Forse tutte queste cause insieme hanno cooperato alla mutazione;
ma la mutazione, il progresso è certo, evidente a tutti. Le donne
italiane amano od affettano amare i mariti; amano od affettano amare
i figliuoli; attendono all’educazione di questi, al governo della
famiglia, a’ lavori femminili, alla casa, quel santuario di lor virtù.
E perchè come vizio fa vizio, così virtù fa virtù, l’educazione delle
fanciulle, che non si soleva nè si poteva fare in case disoneste,
or si può e si suol fare in casa dalle madri; e se per isventura
non si può, si fa pur meglio ne’ conservatorii e ne’ monasteri, di
gran lunga migliorati; e dove che facciasi, si rivolge allo scopo di
allevar donne di famiglia, anzichè di mondo, o, come si diceva, di
_talento_ od _eleganti_. In tutto, le donne italiane sembrano esser
progredite più che non gli uomini, tantochè se continuano, sarà di
esse il vanto di aver risollevati questi a lor dignità ed operosità.
Certo, odo dire di una e parecchie città italiane dove molti giovani
son ridotti a lasciar le case, le conversazioni di lor donne, troppo
superiori ad essi per esser loro piacevoli; a cercarsi donne più pari
ad essi. E di ciò pure piangono i piagnoni, ed alcuni altri a cui par
minore il vizio se sia ingentilito, o come dicono in buona società.
Ma a me pare che non sia mai a dir buona società quella in cui si
professin vizi; che essendo condizione umana che sempre sorgano virtù
e vizi, sia molto bene che si separino i due campi, che faccian vita
diversa, che sia esiliato questo da quello. E se continuino così,
non dubitino le donne italiane di riavere in breve reduci e degni di
esse quegli uomini stessi a cui non manca forse per esser lor pari
se non d’aver trovata pari operosità. — Perciocchè, siamo giusti;
questo è più difficile agli uomini, che non alle donne. Basta ad
esse la operosità della famiglia; non sempre agli uomini; anzi tanto
meno quanto più ne lasciano alle donne. Ma queste gioveranno forse a
quelli con gli esempi e i conforti e la stessa moda. E il vero è, che
colla moda femminile del governo della famiglia, incomincia per gli
uomini quella del governo delle sostanze private. Lo sciuparle, il non
attendervi, il rimettersene a segretari è passato di moda; non par più
vezzo nè obbligo signorile. Ora si curano le campagne, s’abbelliscono
le ville, si accumulano nelle case que’ comodi, quelle pulitezze,
quelle eleganze che chiamansi con voce straniera, ma bellissima ed
anche italiana, di _conforti_. La quale è eleganza non che sana, ma
quasi virtuosa, è minimo grado di operosità, ma pure operosità; tanto
migliore, che di natura sua vuol essere continua. E vi s’aggiungono
quell’altre mode ed eleganze degli esercizi della persona, e sopratutto
del cavalcare, dell’allevar cavalli e delle corse; a cui i nostri
puristi di nazionalità fanno il mal viso, perchè le dicono eleganze
straniere, ma che sono italiane antichissime, passate fuori già come
tante altre ed ivi progredite, ed indi tornate, e che non è vergogna
riprendere o prendere, come che sia. La vergogna sarebbe di non
prenderle intiere, in quanto hanno di migliore; il guidar per esempio i
tiri a quattro o a sei comodamente, invece del cavalcare; il cavalcar
tranquillo, a diporto, in vece del virile e difficile, invece del
domar cavalli, o montarli alle caccie, alle _corse al campanile_, e via
via. Il Baretti vanta le caccie alle reti, ai _roccoli_; io vanterei
anzi tutte, quelle che si fan coll’armi e sui cavalli; le quali se
per la diversa natura de’ paesi non son possibili tutte le medesime
che altrove, come quelle della volpe e del cervo o del capriolo, ne
son altre proprie all’Italia e che sarebbe bello mettere alla moda,
come quelle dei cignali nelle nostre macchie, e de’ camosci e degli
stambecchi e degli orsi stessi nelle nostre Alpi. Le quali poi furono
troppo cantate forse come difesa, ma certo son bellezza peculiare di
nostra Italia, e potrebbero essere palestra di variissime operosità
alla gioventù italiana. Certo è vergogna che, così vicine a noi,
così nostre, elle sieno tentate, superate, corse, studiate, descritte
d’ogni maniera da tutti, salvo che da noi. Non è forse un Italiano che
abbia vanto d’una di quelle prime ascensioni sulle somme Alpi, che si
notano quasi a modo delle scoperte transatlantiche o polari. In quelle
stesse liste annue dell’ascensioni al Monbianco che si van facendo
così numerose, raro è che tra gli Inglesi, Russi o Svedesi si trovi
(come pur trovossi in quest’anno) un nome italiano. Questi son viaggi
in che all’allettamento, all’esercizio della operosità, s’aggiungono
l’allettamento e l’esercizio del pericolo; e che brevi e facili del
resto ai giovani ed arditi, non possono essere impediti loro nè dalle
loro occupazioni abituali, nè da scarsezza di fortuna, nè da gelosia
de’ governi. — Ma è egli poi vero che sieno loro impediti i viaggi
più lontani? Che duri nelle province straniere quella proibizione di
uscir dall’imperio, che sarebbe per questo una così candida confessione
di non voler esser paragonato con altri paesi più inciviliti? una
confessione da doversi lasciare ai barbari? Ad ogni modo, non è fatta
niuna tal proibizione da principi italiani; ed i sudditi loro hanno
ed esercitano l’operosità del viaggiare, non solamente in Europa,
ma in tutto il globo. E se ai vecchi il viaggiare è sovente ozio o
inganno d’ozio, ai giovani e ardenti ad imparare è operosità e nuova
educazione. Alcuni ne sono, per vero dire, che tornan da’ paesi più
colti e più operosi del mondo, dicendoci che vi si sono noiati. Lo
credo anch’io; non ci è maggior noia che parer noioso, che l’essere
sfaccendato tra gente affaccendatissima. Ma vi tornino buoni, se non
altro, a desiderare operosità, e ne saran contentati da quelle medesime
genti che trovan tempo a tutto, fuorchè alla noia. Io mi meraviglio
di nuovo, che non facciasi una qualità di viaggi che pur avrebbero il
doppio allettamento dell’operosità e de’ pericoli; dico il viaggiare o
piuttosto il guerreggiar volontario ne’ paesi dove sono le belle guerre
di conquiste cristiane. Questo sì che sarebbe un diretto apparecchiarsi
a quell’altre guerre, onde sorgeranno le migliori speranze nostre. Noi
abbiamo una di tali guerre tutt’all’incontro d’Italia; ed è colà men
bello che altrove, che si veggano volontari di tutti i paesi cristiani
e lontani, e non del nostro, così vicino. — Ma io non finirei, se
volessi dire di tutte le operosità che in questa operosissima età si
parano innanzi a qualunque privato anche italiano; e che abbracciate
già da parecchi (lodevolissimi in tal precedenza), si può sperare
sieno a poco a poco abbracciate da molti, e secondo le condizioni di
ciascuno, finalmente da tutti. Hannosi tutte quelle società ed imprese
pubbliche, le quali, se non accrescono sempre la fortuna de’ socii,
accrescono almeno il capitale, il progresso della patria, ondechè
dovrebbero essere speculazioni de’ ricchi principalmente. Io non
parlo dei commerci propriamente detti, perchè questi, come le arti
e gli studi liberali, sono operosità speciali, più che non comuni
a tutte le persone private, di che parliamo qui. — Ma mi rivolgo a
lodare e benedire ultimamente quella che noi chiamammo già operosità
supplementare di tutte l’altre, e che chiameremo qui operosità antica
e nazionale italiana, l’operosità della carità. Io crederei che non
sia modo o forma di essa, fiorente a’ nostri dì, della quale non si
trovino principii in qualche istituzione italiana antichissima. Ondechè
io mi meraviglio che i reclamatori perpetui delle priorità italiane,
non si sien data ancora la pena di cercare quei principii nelle
memorie di nostra patria. Ed io, che tengo poco conto de’ principii
non progrediti, il terrei pure di questi; perchè appunto non furono
semplici nè improduttivi principii, ma progrediron molto nel medio
evo, e lasciarono esempi e modelli poco superati. Ma quello di che è
da rallegrarci più è il veder continuati e moltiplicati ora siffatti
progressi dall’un capo all’altro d’Italia. Questa è operosità buona
a tutto ed a tutti; buona come operosità cristiana, il che è saputo
da chicchessia, ma buona pure come operosità pubblica, e buona come
privata. Come operosità pubblica, la carità è scioglimento ultimo forse
di quei grandi problemi economici, del massimo accomunamento delle
sostanze, del massimo ravvicinamento delle condizioni estreme, di una
quasi legge agraria del mondo cristiano. Ed in Italia particolarmente,
oltre al vanto del continuar l’opera de’ maggiori, la carità ha il
gran merito di essere la virtù più riunitrice di natura sua, vincolo
di tutte le qualità di persone, di tutte le opinioni. Principi,
grandi e popolo, ricchi, mediocri e poveri, uomini, donne, vecchi,
fanciulli, sani, infermi, sacerdoti e secolari, tutto si riunisce
nell’esercizio della carità, e talora in una sola casa di carità. Là si
apparecchia quanto è sano ed utile alla patria; popolazione salvata,
educazione allargata, generazioni apparecchiate, moralità serbata o
corretta, ordine, obbedienza, regolarità, amore. Nulla di cattivo,
nulla almeno di peggiorato non ne suole uscire. E come operosità
privata poi, la carità è il modo più certo e più in mano a ciascun
privato di far bene alla patria ed a sè, tutto insieme; è il modo di
tener vive in sè più virtù, più virili virtù; è operosità del corpo,
dell’ingegno e di tutto l’animo; è fatica, pericolo, sacrificio. Hai
tu un’altra operosità speciale, obbligatoria dalla tua condizione? Sei
tu principe, uomo di stato, sacerdote, professore, artista, artefice,
commerciante, padre, madre o figliuol di famiglia, occupato ne’ tuoi
doveri dati da Dio? Segui quelli prima; prima i doveri imposti dalla
Provvidenza, poi gli scelti da te. Se no, saresti appunto come coloro
che fan mendica la famiglia per arricchire un ospedale. E tanto più
che, anche nell’esercizio de’ tuoi doveri, puoi, anzi devi esercitare
la medesima carità. Ma non hai tu operosità pubblica, nè speciale, nè
privata? Ovvero non ne hai tu una bastante a riempiere la vita tua,
a farti fuggir gli ozi? E vuoi tu salvar te e i tuoi, e quanti più
puoi, l’intiera patria dalla corruzione? e così giovarle quant’è in
te in un modo sicuro? Fa allora ciò che fecero tanti nostri maggiori,
ciò che fanno tanti nostri contemporanei; datti alla carità, e lascia
dire; tu ti sarai dato alla patria. E lascia che altri si scusi degli
ozi, accusando la patria, i principi, i tempi, gli stranieri. Niuno di
questi, nemmeno gli ultimi, non ti posson rapire il gran supplemento
a tutte le operosità; non ti posson rapire questo esercizio delle
due virtù, di che più abbisogna ed abbisognerà ogni patria, ma più la
nostra sempre e più finchè si apparecchia all’impresa, e più che mai
quando venga l’occasione: le due virtù, dell’operosità e de’ sacrifici.

12. Ma stando già in sul finire, io temo mi si domandi forse chi son
io che tanto predico virtù? qual diritto, qual missione ho a ciò? e
se ho io tal virtù? Ed io risponderò prima, che poco importa chi io
mi sia; che la mia missione, io la tengo dal mio amore alla patria,
il quale inspira a me a dir ciò che sarà da altri chiamato austerità,
come ispira altrui a dir ciò che chiamo io adulazione; e poi che se
queste mie si chiaman prediche, io reclamo il diritto e dovere di dire
con ogni predicatore: guardate a quel che dico, e non a quel che fo,
io vi parlai di virtù, non di mie virtù, e quelle studio e desidero in
generale, appunto perchè sento il bisogno di farle mie. — E se mi si
dicesse poi ch’io ho percorsa e fatto percorrer gran via, per riuscir
a cose, non che private, volgari, alla virtù dei padri e delle madri
di famiglia, de’ _fratelli ignorantelli_ o delle _suore di carità_, io
risponderei che noi abbiam percorsa gran via per riuscire a ciò: che
ogni virtù pubblica e privata è indispensabil mezzo a raggiungere lo
scopo altissimo dell’indipendenza, a rivolgere i sogni in isperanze,
e le speranze in realità. — E se mi si dicesse finalmente, che la
somma di quanto io seppi proporre non è altro che rassegnazione, virtù
dei miseri e deboli, io risponderei che la somma di quanto propongo
è appunto la rassegnazione, virtù degli infelici, ma forti; quella
rassegnazione che non è rinuncia, ma nuova direzione d’operosità,
quella che è volontaria accettazione di quanto non si può virtuosamente
mutare, per progredir tanto più alacri a tutto ciò che si può e si
deve virtuosamente mutare[38]. — Di che poi, e di tutto lo scritto fin
qui, fo il sunto in due parole: un solo scopo, L’INDIPENDENZA; un solo
mezzo, LA VIRTÙ.




CAPO DUODECIMO.

BREVE STORIA DEL PROGRESSO ITALIANO

                    L’azione incivilitrice dell’Evangelio è tuttavia
                  ne’ suoi principii.

                               (GIOBERTI, _Del Buono_, Avvert., XX).


1. Ora è finito il mio libro, quale mi proposi di scriverlo,
rispettando, quanto più potessi, senza tradire i miei pensieri, quella
esagerata opinione di nazionalità che parmi molto sparsa nella patria
nostra. Ogni opinione patria mi sembra rispettabile fino a questo
segno, che chi crede doverla combattere, il faccia, come figliuolo,
colla speranza d’ingannarsi sugli errori de’ genitori; col desiderio
almeno di trovarne le scuse. Ma in una nazione che non ha nazionalità
compiuta, è poi particolarmente scusabile qualunque esagerazione
del sentimento di nazionalità. Quindi, volendo dire delle speranze
d’Italia, io m’attenni a quelle speciali di lei; e se talvolta per
necessità io toccai pure alle straniere, io m’affrettai di rivarcar
l’Alpi, e porle quasi fra noi e l’universo mondo; e se talvolta non
potei evitare la parola e l’idea di progresso cristiano universale, io
mi affrettai, mio malgrado, a lasciarla. — Ma il mio libro è finito;
e non so trattenermi dal pensare che sien pur molti Italiani d’animo
più largo e veramente liberale; i quali, anche tra le condizioni men
liete della patria, sappiano vedere e fruire le condizioni lietissime
della Cristianità, e trar da esse volontieri nuove e maggiori speranze.
Questa virtù del sapere nella minor ventura, od anche tra le sventure
proprie, rallegrarsi allo spettacolo delle fortune altrui, è una
delle più necessarie virtù private senza dubbio; è quella che dà
forza a qualunque sventurato di adempiere i doveri e gli affetti a lui
restanti. E così è delle nazioni. Ad esse come agli uomini l’invidia
è colpa; l’invidia è pervertimento del dolore, destinato a migliorare,
non a guastare; l’invidia è ultimo grado della miseria. Ed alle nazioni
più che non agli uomini il saper partecipare alle letizie altrui è
talor fonte di letizie novelle; perchè non si rinnovella la vita negli
uomini, ma sì nelle nazioni. — A coloro adunque fra’ miei compatrioti
che sien capaci di questa virtù io rivolgo il presente supplemento o
complemento del mio libro; rivolgo quest’altre poche pagine per chiarir
quell’idea del progresso universale, la quale è oramai inevitabile
a chiunque attenda ad una delle tre scienze che trattano dei destini
umani, la storia, la politica e la filosofia. Giusta o fallace, buona
o cattiva, utile od inutile, quest’idea preoccupa gran parte della
nostra generazione. Non sarà quindi tempo perduto quello adoprato in
chiarircene ciascuno. — E non sarà perduto particolarmente per niun
Italiano. Siamo sinceri. Molte, forse tutte le speranze speciali
fin qui proposte a’ nostri compatrioti, scendono da quella somma,
che progredisca la Cristianità in mezzo al genere umano, l’Italia in
mezzo alla Cristianità. Se fosse fallace la speranza somma, sarebbe
fallace la nostra speciale. Se è verace quella all’incontro, non
importerebbe ch’io mi fossi ingannato sulle minori od eventuali;
invece d’una occasione venuta meno, ne sorgerebbero parecchie altre.
Il progresso cristiano è il fonte di tutte. E val dunque la pena di
risalire ad esso. — Ma, naturalmente, non può essere se non brevissimo
questo supplemento a breve libro; e non può pretendere quindi nè a
persuadere gli invecchiati in opinioni contrarie, nè ad insegnar le
nostre a coloro che vi sien nuovi del tutto. Ei non può essere se
non reminiscenza, o, tutt’al più, ordinamento d’idee già concepite;
discorso tra consenzienti o poco dissenzienti.

2. L’idea del progresso del genere umano non è nuova. Io crederei che
sia surta in mente a molti, ogni volta che surse una gran nazione, un
grande imperio, un gran conquistatore; a cui gli adulatori dissero
probabilmente, incominciar quindi una nuova era di riunione e di
felicità universale. Così, senza cercarne altri esempi, avvenne
a’ tempi di Augusto; la famosa egloga di Virgilio ed altre simili
adulazioni ne sono chiari documenti. — E tutte queste si trovarono, per
vero dire, fallaci profezie. Ma altre se ne fecero già tutto diverse;
e non a niun conquistatore, a niun imperio, a niuna nazione da poeti
o panegiristi, ma alla Cristianità primitiva da’ santi Padri, dagli
apologisti, dagli apostoli e da san Paolo principalmente, anzi dal
divino autore del Cristianesimo; e risalendo più su da’ profeti, dai
salmisti e dagli scrittori sacri fino alla Genesi, i quali congiunsero
colla promessa del Redentore, la promessa d’una nuova luce, d’una nuova
via, d’una nuova verità, d’una nuova unione di tutto il genere umano.
Confusa in coloro che non avevano se non i lumi della ragione o delle
tradizioni mal serbate, più chiara in coloro che erano rischiarati
dalla rivelazione, l’idea d’un progresso universale futuro è ad
ogni modo antica quanto il mondo; l’idea precisa d’un progresso già
incominciato e futuro è antica quanto la Cristianità.

3. I filosofi del secolo scorso, a cui ella si suole attribuire,
non fecero se non nominarla e determinarla. Bene o male? Qui è grave
questione. — Vedendo il progresso vero e grande che facevasi a lor
tempo in tutte le scienze materiali, sperarono e promisero farne fare
essi uno simile nelle spirituali, annunciarono un progresso universale
presente e futuro; e quindi a poco a poco innamorandosi, come succede,
della propria idea, e retrocedendo al passato, protestarono che tal
progresso era già antico, antichissimo, coevo col mondo, perpetuo,
connaturale al genere umano. L’uomo fu definito animal progressivo;
progressiva la ragione, la natura umana per sè; quanto fu, quant’è
o sarà buono nel genere umano, effetto di tal virtù progreditrice;
quanto è cattivo, eccezione. — Una difficoltà rimaneva: gli storici
avean notato sempre, gli uomini pratici e politici osservavano ogni dì
nazioni salenti, nazioni scendenti in fortuna e virtù; e gli storici
universali e i filosofi avevano anzi osservati periodi di tempi in che
parve retrocedere non solamente una o più nazioni, ma il genere umano
tutt’intiero; e ciò avrebbe distrutta fin dalle fondamenta la nuova
e lieta idea del progresso perpetuo. Ma non si arrestarono perciò i
filosofanti; non potendo co’ fatti nè quindi co’ ragionamenti, ei si
salvarono con un paragone; paragonarono il progresso umano a quello
d’una spirale che ad ogni giro sembra retrocedere e pure avanza; e
con questo, senza chiarire se i regressi umani sieno stati apparenti
o no, e quanti e quali, tennero satisfatti sè stessi e distrutta la
difficoltà. — Un’altra, per vero dire, ne sorse. In quell’idea del
progresso perpetuo fin dal principio, era implicata l’idea che il
Cristianesimo, quell’innegabilmente sommo de’ progressi umani, non
fosse se non un progresso umano, naturale; che quindi fosse possibile,
probabile, certo, imminente un altro progresso simile e per conseguenza
maggiore il quale poi fosse la filosofia. E questa era, per vero dire,
gran difficoltà per li sinceri cristiani, i quali non ammettono nè che
il Cristianesimo sia un progresso naturale, nè che ne possa succedere
uno superiore. Ma nè perciò si arrestarono que’ filosofi. Posta
evidente la caduta del Cristianesimo, e disprezzando poi e commiserando
tutti coloro che non la vedevano, non tennero di questi, cioè di tutti
i cristiani, niun conto; separarono in questa come in altre questioni i
due campi della religione e della filosofia; dismessero le discussioni
sul passato, sull’intiera storia del genere umano; la dichiararono
inesplicabile, la lasciarono inesplicata; e rifuggirono al futuro,
facile sempre a spiegare, malleabile a conformare per tutti coloro che
non si prendon cura di farlo concordar col passato.

4. Ma a costoro, il tempo suol dar pronte e solenni smentite; e diedene
una tale a’ nostri dì. Quel futuro così mal preveduto da’ filosofi
delle ultime generazioni è diventato presente nostro; e noi veggiamo il
Cristianesimo più fiorente che mai. E quindi men che mai, noi cristiani
studiosi di filosofia, di storia o di politica, non accettiam nessuno
di siffatti compatimenti, non abbiam bisogno nè di separare i campi
della filosofia e della religione, della ragione e della rivelazione,
nè di rimettercene al futuro incerto; bastaci il passato e il presente,
la storia, qual l’abbiamo, compiuta dal principio del mondo fino a
noi. — Per noi questa si divide in due sole parti principali, due
serie d’eventi spartite da uno massimo, la venuta del Redentore.
Per noi la serie antica è regrediente; la cristiana è progrediente.
Per noi il progresso presente del genere umano è evidente e certo;
ma non incomincia dal principio del mondo, non dal primo uomo, non
naturalmente; incomincia soltanto col Cristianesimo, dalla venuta del
Redentore, dalla ultima gran rivelazione, e così soprannaturalmente.
E per noi in somma il Cristianesimo, fu, è, non solamente progresso
massimo, ma causa del progresso; e non progredì egli stesso in sua
intima virtù, la quale dovette essere e fu perfetta fin da principio,
poichè divina; ma progredì negli effetti di quella virtù, in tutti gli
effetti umani suoi, fece progredire tutti gli uomini in che si diffuse,
la società cristiana, la Cristianità. Tutto ciò fino a noi, certamente;
tutto ciò molto probabilmente in tutto il futuro a noi prevedibile;
rinunciando noi per il futuro lontano a sapere quanto non ce n’è
rivelato; e così a quasi tutto, salvo che la chiesa cristiana durerà in
qualunque condizione, quanto il genere umano. — E veggiam ora le prove
sommarie di tutto ciò.

5. Le prove del regresso del genere umano fino al mezzo de’ tempi sono
a noi evidenti da tutti insieme i libri sacri e profani. I primi (che
sono solo chiaro, solo tollerabile documento per li tre o quattro primi
millennii fino a Ciro), ci ritraggono il genere umano due volte surto
da una famiglia, due volte incipiente dall’adorazione del Dio vero
ed unico e dalla vita semplice patriarcale, e due volte scostatosi
dalla verità e dalla virtù, due volte caduto in que’ politeismi e
in quell’idolatrie moltiplici e corruttrici, che si son fatte quasi
inconcepibili a noi oramai. — Nè contraddicono le stesse storie
profane; se non sieno interpretate, come pur troppo si fa talora, con
quella pedanteria, con quella scienza affettata ed ignoranza effettiva,
che non lascia libera la mente a niun concepimento di realtà. Fuori
d’una cronaca cinese, il _Shu-King_, ed una di Cashmir, io non conosco
libro profano anteriore ad Erodoto, che meriti nome di storico, che non
sia assurdamente mitico e poetico. E questi due libri, non discordi
in nulla dalla narrazione biblica, ma poveri poi nell’altre notizie,
non sono noti se non, il primo da men d’un secolo, il secondo da una
decina d’anni. Tutti gli altri storici, compreso Erodoto, che han
nome d’antichi, non ci ritraggono se non gli ultimi sei secoli, fra i
quaranta o cinquanta della storia antica; e questi sei sono quelli di
quell’arti e quelle lettere greco-romane, le quali furono apice delle
antiche. Quindi l’illusione. Dico, l’illusione di coloro che attendendo
a quell’arti e quelle lettere, e non sapendo vedere più in là nè
più su, quando veggono un progresso di coltura, lo dicon progresso
di civiltà, e dimenticando poi i due maggiori bisogni, i due più
essenziali progressi umani, quelli della verità e della virtù, danno
ai due altri minori il nome di progresso universale del genere umano,
o con parola propria loro _umanitario_. Se questa non è pedanteria,
cioè preoccupazione, anzi restrizione e studio incompiutissimo della
propria scienza, io non so che cosa sia. Non s’avrebbe se non a
studiar meglio tutti quegli storici antichi, così facili del resto e
piacevoli per l’arte ammirabile colla quale scrissero, e congiungere
lo studio de’ poeti e de’ filosofi e di tutti gli altri scrittori non
meno ammirabili di quell’età, per vedere: 1.º Che tutti quanti, ma più
i più alti d’antichità e d’ingegno, Erodoto e Platone sopra tutti, e
poi Senofonte, Livio, Cicerone, Tacito, e poi tutti in corpo i poeti
della età colta antica, ricordarono continuamente non una sola, ma
parecchie età anteriori e migliori, e in capo a tutte una età dell’oro,
cioè un’età di pensieri e costumi semplici, di vita patriarcale, e
d’adorazione unica. 2.º Che tutti, ma principalmente i filosofi, e
sopratutti Platone, non fecero già quella distinzione dei due campi
della filosofia e della religione, che è novissima de’ nostri dì;
ma cercarono anzi come potevano co’ lumi uniti della loro ragione
potentissima ed avanzatissima, e delle loro tradizioni all’incontro
perdutissime, le reliquie di quelle credenze e que’ costumi primitivi
che volevano restituire. 3.º E che in somma, non pedanti, non
preoccupati essi dallo splendore della loro coltura ed anche meno della
loro civiltà, confessarono, professarono, proclamarono vivere in una
età corrotta e retrograda, ed aspirarono (quantunque invano, come si
vide in breve) a quello che sarebbe stato progresso primo incipiente
da essi. Non è colpa loro se i moderni, non credendo alle loro stesse
parole, lodandoli di ciò di che non lodavano sè stessi, e commentatori
simili a tanti altri, aggiungendo ciò che non era nei testi, fecero
una storia antica in veste moderna, ad uso delle moderne opinioni, e
contraddicente a tutte l’antiche; nè se poi alcuni scrittori di storie
moderne, aggiungendo alla stretta scienza la stretta imitazione,
ingioiellarono le narrazioni dei tempi nostri con que’ piangistei sulla
decadenza del genere umano, i quali erano gravi di spontanea verità
negli storici antichi, ma sono in essi risibile e bugiarda copiatura.

6. Ma lasciamo la storia antica; e della moderna stessa non prendiamo
se non ciò che sia necessario al nostro assunto. — La storia della
Cristianità è per noi nè più nè meno, che storia del progresso; lo
comprende tutto, vi è compresa tutta; le due sono contemporanee,
parallele, identiche. Pare a molti impossibile a provarsi, lo so; pare
che in parecchi secoli, in quelli specialmente detti della barbarie,
sia impossibile a scorgersi un progresso qualunque. Ma se qui pure noi
lascerem da banda, noi scrittori o leggitori, ogni preoccupazione del
nostro mestiero di letteratura, se ci sapremo innalzare a considerare
come prime necessità, prime condizioni, primi scopi della vita in ogni
uomo e nel genere umano la verità e la virtù, non ci sarà difficile
scorgere il progresso del genere umano nel progresso della Cristianità,
e questo poi lungo tutti i secoli cristiani, anche in quelli detti
oscuri o barbari. — Considerata la questione nella sua generalità, nel
suo complesso, dal suo principio a noi, nel suo risultato presente,
ella non può essere, io non credo che sia, dubbiosa a nessuno. Non
dubita nessuno che sia ora progredita la Cristianità, non dubita
nessuno che la Cristianità sia sola delle grandi società umane,
progrediente oggidì; non dubita nessuno che sieno o stazionarie od
anzi in regresso le società maomettane, le bramaniche, le buddiste,
la cinese, e i resti delle altre idolatre. Gran prova sommaria per
vero dire, e che basterebbe a dimostrare la virtù progressiva insita
esclusivamente nella Cristianità; gran presunzione che questa abbia
dovuto progredir continuamente. Ma lascisi pure, come troppo breve,
tal prova; noi non fuggiam l’esame consecutivo de’ varii secoli, e
non abbiamo altro rincrescimento se non di non potere scender qui ai
più minuti particolari, i quali dimostrerebbero sempre più la nostra
proposizione.

7. Le divisioni sono nella storia, come nell’altre scienze,
molto importanti, dipendono dal concepimento giusto e complessivo
nell’autore, e il producono nel leggitore. Ma, perchè parecchi
concepimenti giusti di qualunque scienza possono essere nella mente
umana, che non arriva al concepimento infinito, perciò parecchie
divisioni possono esser buone, perciò qualunque divisione è sempre più
o meno arbitraria. Dopo tal protesta su tutte le divisioni, pongo qui
questa della storia del Progresso Cristiano. — Età I.ª dalla nascita
del Redentore alla distruzione dell’Imperio romano (anni 1-476); età
della coltura e civiltà antica cadente, e delle cristiane sorgenti;
età intermediaria tra il mondo antico e il rinnovato. — Età II.ª dalla
distruzione dell’Imperio romano fino a Gregorio VII (anni 476-1073);
età che si potrebbe forse dividere in due, prima e dopo Carlomagno;
ma che noi comprendiamo in una sola, per chiamarla Età del Primato
Germanico. — Età III.ª da Gregorio VII al gran rimescolamento degli
stranieri in Italia (anni 1073-1494); età incontrastabile di Primato
Italiano. — Età IV.ª da quel rimescolamento della Cristianità fino a
noi; la quale, per non suddividere troppo secondo i primati più brevi
che succedettero, noi chiameremo Età de’ varii Primati Cristiani. —
Come si vede, noi accettiamo dal Gioberti il nome e l’idea d’un Primato
tenuto finora da una nazione cristiana sull’altre; ma scostandocene
in ciò che crediamo non sia stato tenuto da una sola sempre, ma sia
passato dall’una all’altra parecchie volte. Delle idee dei grandi
pensatori, sempre si serba molto da coloro che vi contraddicono non per
ismania di novità, ma per istudio di verità.

8. Nella I.ª età (dall’anno 1 al 476) non ha guari bisogno di
dimostrazione il progresso cristiano in mezzo alla decadenza
greco-romana. Qui si trovarono in presenza i due mondi, l’antico e
il nuovo; qui furono contemporanee, qui spiccarono al paragone le
due serie d’eventi, regredienti gli uni, progredienti gli altri;
qui precipitarono del paro i due moti contrari. — All’anno 1.º la
coltura antica era al suo apice; l’antica civiltà ci si credeva; e la
religione, non quella del volgo per vero dire, ma quella de’ filosofi
e di tutti i colti, si sforzava di risalire alla semplicità ed unità
abbandonata da molti secoli. All’anno 476 poi la coltura aulica erasi
spenta già tutta da sè, a poco a poco, per vizio, per impotenza
propria; la civiltà, qualunque fosse stata, era passata per tutti
gli eccessi della tirannia imperiale, ed era giunta al disordine più
compiuto che sia stato mai; e quella religione filosofica, la quale
si era potuta credere tanto più vicina al trionfo, che era sulla via
della verità in mezzo agli errori universali, la religione filosofica
non era tuttavia progredita per quella via; non era stata capace di
farvi entrare nè l’Imperio, nè una provincia, nè una città, nè una
condizione, nè una società d’uomini qualunque; non era stata capace
di formare società di quei pochi filosofi; non nemmeno di riconoscere
la religione, la società veramente filosofica, veramente risalente ad
unità, che le sorgeva daccanto. — E la società cristiana all’incontro,
incominciata da pochi uomini del più disprezzato volgo nella più
disprezzata fra le provincie romane; dimorata pochi anni in quella e
nelle provincie greche circondanti; portata in breve a Roma ed ivi
subito propagatasi a segno da trar l’attenzione e le persecuzioni
imperiali; e propagatasi quindi tutto all’intorno, a malgrado di quelle
persecuzioni, a malgrado della guerra mossale da tutta la filosofia,
da tutta la cultura, a malgrado della guerra ch’ella moveva a tutti
i costumi del tempo, e, non come tutti gli altri progressi secondando
l’opinione e secondatane, ma a malgrado di essa; tanto crebbe, tanto
potè in tre secoli, da salir sul trono imperiale e diventare religione
dello Stato, da creare un gran principio di coltura propria, di propria
civiltà, da porsi in somma essa sola in luogo di tutta la società
greco-romana. — E questa era stata, per vero dire, la più splendida,
la più progredita fra le antiche; ma ne rimanevan pur altre, fra
cui due grandi, l’indiana e la cinese. E tutte due, chiamisi caso o
disposizione della Provvidenza, tutte due trovaronsi appunto intorno
al medesimo anno 1.º al loro sommo, tutte due quasi nel medesimo
fiore che la società occidentale greco-romana; anzi in quella medesima
condizione di filosofie ricercanti la religione primitiva. E tutte e
due dimostrarono a lor modo la medesima impotenza; e la dimostrarono
tanto più, quanto più diversamente. Non decaddero, o decadder poco;
rimasero stazionarie; stazionarie allora; stazionarie poi fra molte
vicende, lungo molti secoli, fin presso a noi che le veggiamo cadere.
E stazionarie rimasero allor pure le reliquie della società e della
religione antichissima de’ Persiani o de’ Magi; stazionarie le
società e le religioni varie e moltiplici di barbari settentrionali
e meridionali, Germani, Scandinavi, Finni, Sciti, Tartari, Arabi,
Affricani; e stazionarie come si trovarono poi le società e religioni
americane. Certo non sarebbe mestieri venir più giù nella storia
della Cristianità; basterebbe fermarci a questa prima età di lei per
dimostrare 1.º che è in lei infusa una virtù del progresso; 2.º che
non è infusa in nessun’altra società umana; 3.º che è dunque infusa in
lei, non per natura umana, ma da fuori, soprannaturale. — E l’accenno a
scanso di ogni scandalo; certo di tal soprannaturalità sono altre prove
che la filosofia della storia; ma la filosofia della storia, come tutte
l’altre filosofie, ha e dà la prova sua, e deve darla; la grande idea
del progresso cristiano non sarebbe compiuta senza quella dell’origine
soprannaturale di esso.

9. Ma lasciata l’età della chiesa primitiva, or perseguitata, or
trionfante, l’età degli apostoli, dei primi apologisti e de’ santi
Padri, della quale non può essere nè è contrastato il progresso;
entriamo in quella seconda, della barbarie, che è il campo eletto
da’ negatori di esso. — Dal 476 al 1073 sono sei secoli, ne’ quali
tu non trovi un grande scrittore, non un grande artista, non una
scienza, non una coltura fiorente. Nè io disputerò facendo liste di
grandi uomini ignoti; non solamente ammetto, ma propugno io stesso
quella oscurità; quella barbarie di coltura. E ammetto e propugno
la contemporanea barbarie di civiltà. — Ma che perciò? Ritorniamo a
ciò un altra volta: viviamo noi quaggiù per iscrivere o dipingere,
od anche governare ed essere governati? Ovvero, non si scrive egli e
dipinge, e promuove le colture, tutte, e non si governa egli e non si
è governati, per viver buoni, per la virtù? Qual è la somma (io do il
problema ai filosofi non teologi o puri, non meno che a’ nostri), qual
è la somma, la risultante delle vite di qualunque generazione, quando
lascia luogo alla successiva? La somma de’ libri e de’ quadri e delle
leggi, ovvero quella delle virtù? E se, come io credo, non solamente
tutti i filosofi, ma tutti gli uomini di senso comune convengano in
ciò, che la somma, lo scopo delle vite umane sia la virtù; certo, una
età che sia progredita in virtù si dovrà dire progredita in generale,
quand’anche non sien progrediti tutti quegli accessorii od amminicoli
di virtù. Ora, così appunto avvenne, che questa età, caduta di coltura
e civiltà, progredì in virtù; che al difetto di que’ soliti e minori
amminicoli supplì e soverchiò quello maggiore del Cristianesimo; che
continuando a decadere o rimanendo stazionarie la coltura e la civiltà,
continuò a progredire in somma totale la Cristianità. — L’Imperio
romano diventando cristiano era senza dubbio progredito in virtù o
piuttosto aveva corretto molti vizi suoi. Ma questi erano stati così
estremi, che anche scemati rimanevano grandissimi, così grandi che
abbondano le testimonianze dei sudditi imperiali desideranti passare
sotto i barbari invasori. I quali poi erano poveri di virtù, ricchi
di vizi pur essi; di che pure abbondano le testimonianze. E il fatto
sta che, viziosissime le due società civili le quali si rimescolarono
a quel tempo, non era virtù se non nella società religiosa, nella
Cristianità; e che il solo che potesse essere progresso di virtù, era
dunque il progresso di essa. Il quale poi è innegabile. Progredì la
Cristianità in diffusione, dall’interno dell’Imperio, dov’era stata
rinchiusa (salve poche eccezioni), tutt’allo intorno, ma principalmente
nelle schiatte germaniche, invaditrici od invase. Come? non sarebbe
stato progresso questo accedere d’una grande e numerosissima nazione
da’ culti di Odino, di Teuth e di Erta e da’ sacrifici umani, al
culto del Dio Uno, al sacrificio di Gesù Cristo? Ma, ei si conta pur
per progresso l’antico accedere de’ Romani alle arti ed alle lettere
greche! I due casi sono simili: i vincitori romani preser dai vinti le
colture greche, i vincitori germanici preser la religione cristiana.
Chi prese più? Di nuovo, io do la questione a’ filosofi purissimi.
Nè credo che osi uno negare che presero più gli ultimi; che fu
maggiore, e, per dire a modo di quelli, più _umanitario_ progresso,
il germanico. E se uno l’osasse, io l’inviterei a guardare ai due
risultati, la corruzione romana dall’arti greche, l’incivilimento
germanico dal Cristianesimo. Quest’età fu destinata all’incristianirsi,
all’incivilirsi, al progredire delle genti germaniche; il progresso
germanico fu il grande ufficio di quest’età; e quest’età tutt’insieme
fu quindi età di Primato Germanico, prima e dopo Carlomagno, da
Odoacre a Gregorio VII. — Uno de’ più illustri e degli ultimi filosofi
della scuola pura, Hegel, nella sua filosofia storica dataci postuma,
chiama Età Germanica, Mondo Germanico tutte quante le età della storia
cristiana. Esagerazione anche questa! ma in cui pure è un nocciolo
di verità. Non fu mai mondo germanico, nè come li chiama il medesimo
Hegel, Mondo Orientale, Mondo Greco, Mondo Romano. Ma primeggiarono fra
le antiche già, e fra le cristiane poi alcune nazioni indubitabilmente;
con questa essenzial differenza, che i primati antichi riuscirono tutti
a cadute, i primati cristiani a progressi e della nazione primeggiante
e delle primeggiate. Questa parmi la realtà della storia contro alle
due esagerazioni simili, del primato germanico e dell’italiano.
Nè l’un nè l’altro non durarono lungo tutte le età cristiane; nè
l’un nè l’altro nè nessuno non fu nè potè essere destinato a durar
sempre, in una società destinata ad essere universale, cattolica,
cristiana. — Ma il primato germanico ne’ sei secoli di che parliamo
è incontrastabile. Primeggiarono i Germani coll’armi, primeggiarono
stanziando ne’ governi, nelle case, nei campi de’ vinti, propagandosi
nelle schiatte, nelle generazioni; e primeggiarono forse nella coltura
(così povera del resto a quell’età, che quasi non conta) e certo nella
operosità universale, che era grande dappertutto, e in che furono essi
grandissimi. Ed il primato germanico fu il primo in tempo fra’ primati
cristiani; e fu il più lungo, durò dai primi stanziamenti di quelle
genti in mezzo alla Cristianità d’intorno alla metà del secolo V, fino
alla cessazione della tirannia degli imperadori germanici sulla Chiesa
romana, e per essa su tutta la Chiesa, cioè fino a Gregorio VII, dopo
la metà del secolo XI, sei secoli in tutto. Il tentativo, l’imperio
di Carlomagno non fu, se si consideri bene, se non un evento di quel
primato, il più grande per vero dire; quello per cui ei si volle, ma
non si potè fare perpetuo; quello per cui si divide la barbarie, in
barbarie propriamente detta, e barbarie feudale; barbarie germaniche
tutte e due ad ogni modo.

10. Nè il progresso di diffusione fu il solo fatto dalla Cristianità
in quell’età; un altro non meno importante e non abbastanza avvertito
fu pur fatto da lei contemporaneamente: un progresso di riunione. La
Cristianità dell’Imperio romano, sia la primitiva e soffrente, sia
più quella poi trionfante, era stata divisa da innumerevoli eresie.
Quella moltiplicazione di errori che, annunciata così arditamente da
Bossuet due secoli fa, noi osserviamo così indubitabilmente effettuata
a’ nostri dì, fu già pari e quasi identica al secolo V; tanto che
non è forse un’eresia presente che non potesse, volendo, prendere il
nome d’una di quelle antiche. E (magnifico augurio per vero dire!)
tutte queste cessarono, si spensero da sè, nel corso del secolo VI;
ricominciò in questo l’unione di tutta la cristianità, che durò poi
senza grandi eccezioni non solamente lungo tutta l’età barbara, ma
lungo tutta la seguente. Sarebb’egli a farne onore alla semplicità, al
buon senso della schiatta germanica primeggiante? Io crederei che sì;
e che questo sia poi buon augurio a quella stessa schiatta, sviata sì
più che l’altre da tre secoli in qua, ma che dagli intensi e sinceri
suoi studi storici sembra essere ricondotta all’imitazione de’ suoi
maggiori. — Ad ogni modo, è indubitabile questo progresso di riunione
nella Cristianità dell’età barbara o germanica.

11. Ma un altro grand’evento successe intanto sui limiti della
Cristianità (non succedendo niun altro tale più in là, durando colà
più o meno stazionarie le religioni, le civiltà, le colture indiane
e cinesi, e l’altre minori); sorse il Maomettismo. — Fu progresso
o regresso questo? Certo fece perdere alla Cristianità non poche
provincie, alcune asiatiche, tutte l’affricane, e quasi tutte le
iberiche; e quindi nuovo argomento a coloro che vogliono vedere
regressi in questa età. Ma prima, questa diminuzione di sudditi
meridionali fu più che compensata alla Cristianità dall’accrescimento
che dicemmo nelle schiatte settentrionali. E poi questo stesso
Maomettismo, il quale si può considerare e si considera da parecchi
quasi non più che una setta, un’eresia semirazionalista cristiana;
questo Maomettismo non fu forse gran regresso dalle incerte e miste
religioni arabiche, e fu poi certamente un progresso vero dovunque
sottentrò alle idolatrie moltiplici e vagabonde, cioè nei tre quarti
dell’immenso territorio su cui s’estese. Se per esempio si consideri
il Teismo maomettano nelle sue conquiste indiane, nella sua guerra
contro quell’idolatrie che si potrebbero dire le più perfette perchè
appunto le più inoltrate nel proprio principio della moltiplicità;
certo egli è a considerare come un ravvicinamento alla verità, come
un miglioramento. E così dove ei distrusse od asservì il Magismo
persiano, e i Feticismi delle genti vaganti asiatiche od affricane. —
Noi non possiamo sapere ancora, quali saranno le vie della Provvidenza
nelle future ampliazioni della Cristianità e del Cristianesimo che
sembrano annunziarsi da tutte le parti; nè se si convertiranno, ovvero
si perderanno, come in America, le schiatte non cristiane in mezzo
alle cristiane; nè se, succedendo larghe e nazionali conversioni,
elle succederanno dalla religione maomettana più che dall’altre. Ma
considerando questa in sè e ne’ suoi primi secoli non è negabile, non è
negato, ed è anzi esagerato da parecchi il fatto che ella fu e produsse
progresso. — La storia dell’Islamismo è un magnifico assunto, il
quale non è maturo per quella sorte di storici che pretendono narrare
tutto, ambiscono erudizioni recondite, veggono tutta l’importanza
nei documenti inediti, e che direbbono quindi impossibile una storia
maomettana senza compulsar di nuovo gli archivi di Simanca, ed aver
aperti quelli di Costantinopoli, e ritrovar quelli di Bagdad, di
Brussa, di Ghiznè, di Bokara o di Samarcanda. Ma a coloro che, senza
disprezzare i fatti e le rettificazioni minute, non danno grande
importanza se non a’ grandi fatti, e credono che la storia sia oramai
più saputa che intesa e volgarizzata, e attendono perciò a spiegarla e
diffonderla; a costoro basterebbon certo i fatti maomettani noti, per
comporne una storia e direi quasi un poema vario, piacevole, utile,
ed oramai compiuto. Incominciando da Maometto e l’egira, intorno al
seicento, e venendo fino a noi, sono dodici secoli in tutto; quattro
di gioventù e d’ingrandimento, quattro di stazione o compensi tra
il perduto e il nuovo conquistato, e quattro oramai di decadenza;
tre età meravigliosamente corrispondenti alle tre cristiane da noi
poste, quantunque diversissime ne’ due andamenti. Ma basti a noi
l’osservar qui, che la prima di quelle età maomettane, l’età della
gioventù, delle conquiste dilatate di qua fino ed oltre i Pirenei,
di là fino ed oltre all’Indo, l’età d’un incivilimento poco minor
del cristiano contemporaneo, d’una coltura forse superiore, fu dunque
un’età di progresso incontrastabile per tutte quelle immense regioni;
e che quindi questo progresso maomettano, si consideri o no come
conseguenza del cristiano, entra ad ogni modo nel conto del progresso
universale di questa età. In tutto, gli storici che vogliono abbassar
il Cristianesimo, che vogliono dare la virtù progreditrice alla natura,
alla ragione umana, alla filosofia, al Maomettismo, a checchessia,
purchè non al Cristianesimo, non sapendo dei XIX secoli nostri trovarne
altri in cui il progresso cristiano sia stato così piccolo come in
questi sei, s’impuntano, si compiacciono in questi, per dimostrarvi la
quasi nullità della coltura e della civiltà cristiana, e la superiorità
della maomettana. Noi all’incontro veggiamo nella Cristianità di questi
sei secoli, prima due chiari, due grandi progressi, uno di diffusione
nelle schiatte germaniche, ed uno di riunione nella chiesa cattolica.
Poi, potendo forse reclamare tutto il progresso maomettano, come
fatto che non sarebbe succeduto senza il Cristianesimo, e perciò come
conseguenza di esso, noi non insistiamo tuttavia in tal pretensione;
e scegliamo anzi di considerar il maomettano come ultimo progresso
tentato fuori della Cristianità, come uno simile agli antichi, ed
a guisa di quelli incapace di durare o progredire ulteriormente,
destinato a mostrare la incapacità di tutti fuori della Cristianità.
Ma, dei due modi di vedere, noi lasciamo volontieri la scelta a
ciascuno: tutti due risultano a gloria esclusiva del progresso
cristiano.

12. E passando quindi alla III.ª delle età che ponemmo da Gregorio
VII (1072) alla fine del secolo XV, e che chiamammo età del Primato
Italiano, noi saremo più brevi, e perchè già abbiam toccato di tale
età scorrendo le vicende della nostra indipendenza, e perchè poi sono
notissimi e conceduti da tutti e il gran progresso di questa età, e
il primato tenutovi dall’Italia. Perciocchè io credo che in questo
convengano non solamente i miei compatrioti, ma anche gli stranieri;
men gelosi, men bugiardi e meno ignoranti che non si dicono da
alcuni di noi. Gli stranieri non ci negano se non le esagerazioni, il
prolungamento, la perennità del nostro primato; ma il primato vero de’
quattro secoli e più, io non saprei straniero colto che ce lo neghi;
e parecchi di essi resergli anzi l’ossequio più reale che sia, e che
pur troppo non sapemmo o potemmo rendergli noi, quello di studiare e
descrivere quei tempi, quelle cose, quegli uomini nostri. Chi ci diede
la storia delle repubbliche italiane? chi le vite distese di Silvestro
II, di Gregorio VII, di Innocenzo III, di Cola di Rienzi, del Poggio,
di Lorenzo de’ Medici, di Colombo, di Leon X e di Raffaello? Le quali
se non ci contentano del tutto, sono pure ciascuna o la migliore, o la
sola opera che abbiamo su ciascuno di questi assunti; e provano ad ogni
modo il rispetto, la riconoscenza di quegli stranieri per quell’età
nostra, che studiarono tanto. Quella stessa impresa della lega di
Lombardia la quale è vanto e dovrebb’essere studio precipuo nostro,
chi la studiò più? Noi vincitori od anzi i Tedeschi vinti nostri quella
volta? Certo le opere del Raumer, del Voigt, del Kortüm e del Leo non
hanno satisfatto al grande e nazionale assunto; ma certo pure non ne
fu fatto nè tentato altretanto, non ne fu tentato nulla in Italia.
Un Francese dedicò già gravissimi studi al Petrarca; ed un Francese,
parecchi Tedeschi ed un Americano vivente ne dedicano de’ più gravi
a Dante. Certo tutti questi non sono disprezzi di stranieri contra
noi. Nè furonvi, alla grande età nostra, disprezzi d’Italiani contra
stranieri. Que’ nostri maggiori, che eran duci della civiltà pubblica
universale, e che fecero già una parola sola di essa e della civiltà
privata o personale (notevole e bella povertà della lingua nostra!),
non che predicare invidiuzze od isolamenti, predicavano e praticavano
unione, larghezza, liberalità universale. Pier Lombardo, Lanfranco,
sant’Anselmo, Ildebrando, Alessandro III, san Tommaso, Dante, Petrarca
e Boccaccio, i più grandi della nostra grande età, tutti impararono,
o insegnarono, o rifuggirono presso a quegli stranieri. Cinquecento
anni fa e più oltre, gl’Italiani riconoscevano una sola ed universal
civiltà cristiana; ed era ciò naturale; la conducevan essi. Or la
riconoscono gli altri, fattisi nuovi duci; e riconoscono insieme
il ducato o primato nostro antico. Noi soli, negando i progressi
e i primati succeduti, neghiamo parte di nostre glorie, neghiam le
conseguenze dell’opera de’ nostri maggiori. — Io non saprei guari niun
contradittore del nostro primato del medio evo, se non gli esageratori
del primato maomettano. Nacque questa esagerazione nel secolo scorso da
coloro che dicemmo aver voluto torre ogni gloria, ma sopra tutte quella
del progresso, alla Cristianità. Dissero e dicono che la resurrezione
della coltura cristiana nel secolo XI, l’architettura così detta
gotica, la poesia provenzale, e le scienze matematiche sopra tutto,
furon dovute alla coltura maomettana. Ma della architettura, ei bisogna
non aver veduto nè i monumenti nè i disegni, per poter confondere o
creder venuti l’un dall’altro i due stili gotico e moresco; e tutti
gli studi moderni concorrono poi a dimostrare normanna o sassone o
longobarda e ad ogni modo germanica l’origine di quell’architettura
gotica, od anche meglio la lenta trasformazione dell’architettura
ultima romana. Quanto alla poesia provenzale, noi concederemo che,
derivando dalle due spagnuole, catalana e castigliana, ella derivasse
dalla moresca indirettamente. E così concederemo la terza e più certa
derivazione delle scienze matematiche; cioè (esclusa forse l’astronomia
poca, o guasta dall’astrologia maomettana e cristiana di quel tempo) la
numerazione decimale e i segni algebraici. Ma fatte tali concessioni,
è a dire di queste due colture straniere nella Cristianità ciò che
delle tre grandi invenzioni pure straniere, pur importate durante
questa età; la bussola, la polvere da guerra, e la stampa. Tutte e
tre furono probabilmente importazioni fatte a poco a poco dalla Cina
nell’Oriente indiano, nel Levante maomettano, nella Cristianità; o, se
mai furono invenzioni nostre, furono invenzioni che erano state fatte
fuori molto prima. Ma che? Qui risplende la capacità progreditrice
della Cristianità, la incapacità di tutte l’altre civiltà o colture non
cristiane. Tutte queste invenzioni, e così la poesia, così le scienze
matematiche, erano antiche di secoli e secoli in quelle colture non
cristiane, eran passate dall’una all’altra; e tuttavia nè nelle loro
culle, nè nel corso delle loro migrazioni non avean trovato campo
buono a crescervi, fiorirvi e fruttificarvi, finchè non giunsero sul
campo cristiano! Che vuol dir ciò, in nome della verità? Che? Se non
ch’erano inopportuni, naturalmente infecondi, mal apparecchiati tutti
que’ campi? solo fecondo, ed apparecchiato il cristiano? dove e le tre
invenzioni e la poesia crebbero rapidissimamente appena nate durante
il primato italiano; e le scienze matematiche più lentamente sì, ma
pur in pochi secoli, rispetto a quelli che eran durate stazionarie
altrove. Noi lasciamo a’ filosofi la questione del come o perchè, la
questione della connessione che è tra la verità universale o religiosa,
e le verità o le scoperte particolari e materiali che ne paiono
indipendenti. Ma sfidiamo storici e filosofi a negare il fatto e la
importanza del fatto: che queste tre invenzioni massime e con esse poi
parecchie altre (come le chimiche) di poco minori, possedute prima,
possedute secoli e millennii[39] dall’altre colture, non fruttificarono
se non quando per importazione o reinvenzione diventarono cristiane.
E ciò posto, lasciam pure attribuire a Maomettani, Indiani o Cinesi
quanto si voglia. Quanto più se ne dia loro, tanto più sarà vergogna
della loro incapacità, vanto della nostra capacità di progresso. La
quale si dimostrò, si svolse in tanti modi, sotto tante forme poi,
libertà civile, arti governative, carità, eloquenza, poesia, storia,
musica, pittura, scoltura, architettura, teologia, economia pubblica,
arte militare, commerci, navigazioni, scoperte terrestri e marittime,
durante tutta quest’età del primato italiano; che il volerne dar le
prove sarebbe inutile opera da retore, e il volerne dar la descrizione,
assunto di una lunga storia tutt’intiera. Ci sarà ella data anche
questa da qualche straniero?

13. Ora, venendo all’età che dicemmo IV.ª, dal principio del secolo
XVI in poi, un grande evento, una gran questione ci si affaccia:
qual parte abbia avuta nel progresso cristiano, quella separazione
che fu chiamata Riforma della Chiesa. Ei ci pare che una parte molto
troppo larga le sia stata fatta dagli amici, e quasi conceduta da
molti nemici di lei. Errore, per vero dire, non insueto e ne’ politici
contemporanei e negli storici speciali di ogni grande evento; i quali,
preoccupandosene unicamente, ne esagerano l’importanza, e lo dicono
non mai veduto, non da vedersi più, principio di nuova età, causa
universale di quanto avviene, di quanto avverrà; ond’è poi principale
ufficio della storia universale, restituir l’importanze giuste ad ogni
evento, comparandolo con quelli dell’altre età, e richiamando ad esame
gli effetti esagerati dalle speranze e dalle paure contemporanee. Della
riforma, noi accennammo già, che ella fu poco più che rinnovazione di
tutte le eresie primitive della Chiesa, alle quali ella non aggiunse
nulla guari se non l’inimicizia al papa, e gli argomenti tratti dalle
condizioni mutate della coltura. Ma lasciando tal comparazione, che
sarebbe lunga a proseguire, ed a cui saremmo insufficienti noi, ci
contenteremo di osservare le esagerazioni degli effetti della riforma.
Gli amici la dissero termine del medio evo, emancipazione della ragione
umana, madre d’ogni libertà di coscienza, da cui disser figliata la
libertà civile, da cui ogni civiltà, ogni coltura, ogni progresso
presente. E i nemici, non so s’io dica troppo incauti o troppo
impauriti, od anzi, come succede, incauti e impauriti insieme, i nemici
della riforma, le concedettero troppo sovente tutte queste importanze,
tutte queste figliazioni; si contentarono di mutar loro i nomi da buoni
a cattivi, e di porre invece di emancipazione e libertà, ribellione e
licenza. Ma il vero è che non sono storiche tutte queste figliazioni
nè sotto l’un nome nè sotto l’altro. La ragione non aveva bisogno nè
d’essere emancipata nè di ribellarsi al secolo XVI, dopo i quattro
della coltura italiana, dopo un san Tommaso, un Dante e un Machiavello,
per non dir di tanti altri. Nè la libertà o la licenza civile avevan
bisogno di essere figliate dalla libertà o dalla licenza di coscienza,
non avevano a nascere nè l’una nè l’altra, eran vecchie già tutte
e due di quei quattro secoli medesimi nei comuni, nelle repubbliche
italiane. La riforma fu senza dubbio ribellione e licenza religiosa,
ribellione dall’originaria autorità stabilita nella Chiesa, licenza
della ragione umana; ma fu non più che una delle tante ribellioni e
licenze che avvennero ed avverran forse; non principio di nuova età,
non fine di medio evo, nè di oscurità nè di barbarie, le quali eran
finite a poco a poco sin dal secolo XI, se non altrove, certo in
Italia. Io non so che cosa s’abbiano in mente tutti questi discorritori
di storia, i quali dimenticano così tanti fatti, tanti effetti di
quattro tali secoli. Non così alcuni eletti contemporanei, Erasmo e
Tommaso Moro[40] principalmente; i quali giudicarono fin d’allora la
riforma per quello che fu veramente, per quello ch’è ora più chiaro e
sarà senza dubbio ogni dì più; non ispinta e aiuto, e tanto meno causa
o madre di niun gran progresso; ma distrazione, impiccio, fermata,
ritardamento di esso in tutte le nazioni dove allignò e potè. — La
Germania, dove la riforma potè più, non entrò allora, nè per due
altri secoli, nel progresso universale; non fiorì in niuna di quelle
colture ch’ella, una delle due vicine e l’antica signora d’Italia,
n’avrebbe potuto riportare più facilmente che niun’altra nazione.
In lettere parve fuori d’Europa, fuori della coltura universale. In
arti ricadde dallo splendore che parevale promesso allora da Alberto
Durero ed Holbein, in una nuova oscurità. In quelle sole scienze le
quali son sempre le più indipendenti dalle condizioni nazionali, nelle
sole scienze matematiche sorsero due Tedeschi, Keplero e Leibnizio,
ad emulare il grande Italiano e il grande Inglese. Ma la vera e gran
coltura germanica non sorse se non quando, corso un lungo secolo di
divisioni e guerre religiose, ed un altro di riposi e nullità, furono
cessati quello zelo e quella grettezza di spiriti, quella inimicizia
a tutti gli antecedenti cristiani, quell’avversione quasi iconoclasta
all’arti, tutti quegli odii, e, per chiamarle col loro nome, tutte
quelle illiberalità che la riforma suscitò e nodrì, rinfacciandole
alla cattolicità. E forse a chi ben consideri e compari, nemmeno il
sommo fiore presente delle colture germaniche non sembrerà pari a
quelli che furon sommi in ciascuna dell’altre nazioni cristiane; e
questa inferiorità sembrerà da attribuirsi alla inferiorità religiosa
di lei, e non rimediabile se non quando sarà rimediata la causa. — E
così della nazione britannica, che fu seconda nel calor della riforma.
Certo a chi ben consideri la storia di lei, parrà chiaro che dovette
esservi ritardato ogni progresso e dalle tirannie neroniane di Arrigo
VIII, e dalle tiberiane d’Elisabetta, e dalle vanità teologiche di
Giacomo I, e da tutte insieme quelle guerre civili fino al 1688 che
vennero dalla riforma. Nè osteranno gli stessi grandissimi nomi di
Shakespear, di Milton, di Newton, o le forme così avanzate ora di
quella civiltà. Perciocchè di que’ tre grandi, due furono negletti
e poco meno che sconosciuti in patria per gran tempo, e il terzo,
quantunque lodatissimo, non vi ebbe grande schiera di emuli o seguaci
contemporanei; ondechè essi, se niuno mai, si hanno a dire ingegni
solitari ed eccezionali; e il fatto sta che il gran fiore, l’apice,
l’universalità, il primato della coltura britannica non avvenne se
non più tardi, a’ nostri dì, quando furono cessati pur là lo zelo,
l’ispirazione, la illiberalità della riforma. E quanto alla civiltà,
ella pure non incominciò a fiorir là se non dal 1688; e se ella vi
crebbe d’allora in poi a quella potenza che ognuno le riconosce al
presente, non è dubbio pure che i vizi rimanenti in lei, e massime
i tre principali (la carità pubblica mal costituita, la proprietà
territoriale tiranneggiante, e le ingiustizie accumulate sull’Irlanda),
sono funeste reliquie della riforma: ma: ondechè anche là ei si dee
credere che quella nazione sia stata ritardata già nel suo fiore, e
non sia per risplendere in tutto quello a lei possibile se non quando
abbia sgombrate quelle reliquie, abbia ricalcati tutti i passi mal
fatti sotto la mala guida. — Finalmente, Francia, che fu terza in calor
di riforma, fu pur terza in disturbi di coltura e civiltà. Al secolo
XVI ella era una delle nazioni più frammiste all’italiana, era di
quelle che ne riportarono più spoglie di coltura e civiltà; aveva uno
de’ principi più amici di queste, più progressisti che non sieno stati
mai, Francesco I; e questi, e i suoi successori, e Caterina de’ Medici,
nuora di lui, trassero in Francia più artisti e letterati italiani che
non ne andassero in tutto il rimanente della Cristianità. E tuttavia lo
splendore della coltura e della civiltà non incominciarono in Francia
se non sotto Ludovico XVI; impedite che furono anche là un secolo e
più dalle preoccupazioni e dalle guerre della riforma. — Io non so, nè
mi curo verificare, se io dica qui cose nuove, ovvero già avvertite
da altri e solamente poco note; ma verrà tempo che il progresso
degli studi storici le farà volgari. Non è possibile che resti sempre
inavvertito questo gran fatto: che dal principio del secolo XVI fino a
noi, le tre nazioni che progredirono più, ed ottennero i tre primati
del progresso cristiano, gli ottennero appunto nell’ordine inverso a
quello che ebbero nella riforma, e così prima Spagna, pura di essa, poi
Francia, poi Inghilterra. Incontrastabil prova, che ella non fu aiuto a
progresso; prova, parmi, che fu impedimento.

14. Ad ogni modo, l’ordine de’ primati tenuti dalle nazioni cristiane
in questi tre secoli fino a noi, fu quello. — Il primato iberico è
incontrastabile dalla metà del secolo XVI alla metà del XVII. Spagna
e Portogallo furono le prime a prenderci i primati delle lettere
e dell’arti. Ma elle preserci ben altro; preserci tutt’intiero il
commercio orientale, quel commercio che è sempre il massimo dell’orbe;
e preserci quello spirito che non so com’io chiami di venture o di
scoperte o meglio di propagazioni cristiane, in che noi pure eravamo
stati primi tre secoli addietro, e saremmo rimasti allora, se non
avessimo disprezzato il maggior uomo di quel progresso, il nostro
Colombo. Ma eran passati per l’Italia i tempi di tener conto degli
uomini grandi suoi, passato il tempo di adoprar la propria virtù. Ed
era passata questa all’Iberia, esercitatavi e cresciutavi negli otto
secoli della sua impresa d’indipendenza. Il fatto ci è, non solamente
dimostrato, ma particolarmente narrato, e quasi messo in iscena dalla
storia, più epica e più drammatica qui che non possa essere niun dramma
o poema. Perciocchè ei fu all’assedio di Granata e dinanzi a Ferdinando
d’Aragona ed Isabella di Castiglia, all’ultimo atto, e dinanzi ai due
protagonisti del dramma precedente d’indipendenza e riunione iberica,
che si presentò Colombo, il grande Italiano disprezzato in patria, a
propor loro l’America, il gran campo della futura operosità, del futuro
primato. E l’accettarono Ferdinando ed Isabella, da Colombo. E tutti
e tre lo tramandarono poi quasi compito a Carlo V, Tedesco d’origine e
d’educazione, ma Spagnuolo poi d’operosità e d’abiti e di cooperatori
lungo tutta sua vita. Chè Spagnuoli furono i suoi guerrieri e ministri
principali (salvo uno o due italiani), que’ suoi Palatini quasi simili
e forse più reali che non quelli di Carlomagno. E Spagnuolo si professò
egli; e vide in Ispagna, che lasciò al figliuolo, egli Augusto al
suo Tiberio, l’importanza della sua successione. Ed a Filippo II,
senza dubbio (perchè la natura del principe è quasi tutto in un regno
assoluto, e più in uno grande) si deve attribuire la prima decadenza
del primato iberico, la perdita delle Fiandre, il dismetter le imprese
contro a’ Maomettani, Turchi e Barberi, quantunque vinti, il non
chiamare a niuna operosità, il fare o lasciar poltrire e infracidire le
province italiane, la grettezza, i sospetti, le precauzioni, le spie,
i supplizi posti in vece della larga ed operosa tirannia del padre. Ma
molto pure di quella decadenza deve attribuirsi alla natura stessa di
quel primato iberico, il quale era fondato e mantenuto principalmente
dalle conquiste, dalle colonie transatlantiche. Le colonie, quando
sono grandi, hanno questo inconveniente, di esaurire l’operosità della
madre patria, chiamando a sè quanti uomini sono naturalmente arditi
e venturieri. Peggio poi, quando, come in Ispagna, queste colonie
arricchiscono facilmente e in pochi anni i venturieri; perciocchè
allora esse esauriscono l’operosità di questi stessi, rimandando in
patria oziosi e viziosi quelli che ne erano usciti tutto diversi.
E peggio ancora quando alle colonie lontane s’aggiungono paesi di
conquista vicini; come furono a Spagna quelli di Napoli e Milano; i
quali corrompono anche più facilmente più numerosi ministri, grandi
e piccoli, tutta quella caterva d’impiegati stranieri che vengono
a ingrassare, viziare e viziarsi. E insomma tra il tiranneggiare e
il poltrire dei tristi successori di Carlo V, e la corruzione delle
colonie americane e de’ governi italiani, il primato spagnuolo, che
aveva raccolto in sè tutto l’iberico, precipitò il termine suo, e durò
appena 100 anni.

15. Sottentrò Francia non immeritamente, non senza causa nemmen essa.
Perciocchè essa pure s’era apparecchiata al primato, come già Italia
e Spagna, con una lunga e felice guerra d’indipendenza. Vinta la
quale sotto Carlo VII, e riunitasi sotto Ludovico XI, ella trovossi
sotto Carlo VIII, Ludovico XII e Francesco I molto bene apparecchiata
ad accedere ad ogni progresso trovato in Italia; e v’accesse
subito e lo svolse poi, quando, come accennammo, furono cessati
in lei gl’impedimenti delle divisioni religiose e della grettezza
riformatrice. Fatti cessare questi da Arrigo IV, sgombratane ogni
reliquia da Ludovico XIII e Richelieu, Ludovico XIV colse finalmente i
frutti di tutte le unioni nazionali. E allora incominciò quel primato
francese, che vorrebbesi invano negare o menomare. Coloro che ciò
tentano, sogliono disputare della grandezza personale di quel principe;
e giudicandolo poi, or secondo la inalterabile severità cristiana, or
secondo la progredita severità della pubblica opinione, hanno facil
trionfo per vero dire. Ma prima per giudicare della grandezza d’un
principe, ei si vorrebbe comparare sempre ai principi dell’età sua;
ed io crederei che così facendo, Ludovico XIV se n’accrescerebbe più
che mai. E poi, nemmen Leon X, nè Lorenzo de’ Medici, nè Augusto, nè
Pericle non furono uomini incolpevoli; nè produssero essi le grandezze
de’ secoli a cui pur diedero il nome; e tutti, come Ludovico XIV in
Francia, così quelli in Firenze e Roma e Grecia, nascendo a’ tempi di
raccoglier le frutte, seppero coglierle e non mancare a’ loro tempi,
che è pur virtù non volgare. Ma lasciando la persona di Ludovico XIV,
e venendo al primato francese incominciato sotto lui e durato fino
a’ nostri dì, io crederei che il negarlo taluni sia meno effetto
d’ignoranza che non di quella sorta di vendetta, o, come si suol
dire, reazione, solita farsi contro a tutte le dominazioni ne’ primi
tempi dopo ch’elle son finite, e da coloro che ne sono usciti. Ma,
corso qualc’altro tempo e surte nuove generazioni, suol ritornare poi
quella moderazione di giudizio che non è nè servilità nè reazione.
Tornata quella, giudicherà probabilmente ognuno, il primato francese
essere consistito molto meno in grandi diffusioni, simili alle ultime
spagnuole, che non in un progresso di tutte le scienze di guerra e di
pace, un progresso somigliante al penultimo italiano. Nell’arte del
governo incominciò o crebbe almeno sotto Ludovico XIV quell’ordine
centrale e quella divisione di ministeri non secondo le provincie, ma
secondo le materie governative, che si sparsero poi e sono universali
ora in Europa; e che criticate più o men giustamente ne’ loro eccessi,
sono pure per ogni dove un certissimo progresso. Nell’arti belliche
Condè, Turenna, Lucemburgo e Vauban, per lasciar gli altri, inventarono
e praticarono quella tattica e quella strategica le quali, superate
o no da’ loro emuli Eugenio e Malborough, durarono fino a Federico
e Napoleone. Nelle sole scienze naturali e matematiche, Francia, a
malgrado del suo Descartes e del suo Fermat, rimase inferiore, non
produsse per allora progressi da compararsi a quelli fatti in Italia,
Germania ed Inghilterra, da Galileo, Keplero, Leibnizio e Newton. Ma
questo non fu se non un indugio; e quell’inferiorità fu compensata poi
da que’ Lavoisier, Laplace, Cuvier e tanti altri che risplendettero
nell’ultima generazione del primato francese. Quanto alla letteratura
francese, chiamisi primato o dominazione o tirannia quello che si
sopportò già con tanta servilità da tutta Europa per 150 anni, egli
è confermato dalle grida stesse che si muovono contro, da quelle
tardive proteste, da quelle oramai inutili esortazioni che si fanno a
liberarcene. S’accusa ora quella letteratura d’essere stata ella stessa
servile imitazione dagli antichi; e s’accusa insieme d’aver ritratto
troppo i tempi, la nazione, la corte, i principi suoi. Ma l’una accusa
distrugge l’altra; e fa vedere che l’imitazione classica francese (dico
quella fatta da’ buoni al tempo di Ludovico XIV principalmente) non fu
servile, fu ciò che l’imitazione romana antica, e l’italiana del buon
tempo, ciò che dovrebbe essere sempre ogni imitazione classica o non
classica, imitazione adattata a’ propri tempi, alla propria lingua,
alla propria patria. E quanto alla filosofia poi, se, rimosso ogni
zelo di nazione o di scuola, si consideri che i filosofi antichi non
furono forse grandissimi, se non perchè meditarono e scrissero al lume
naturale di lor ragione in tempi e luoghi dove quello soprannaturale
della tradizione e della rivelazione era inferiore ed oscuratissimo; e
che all’incontro ai filosofi moderni, meditanti, e scriventi in mezzo
alla luce della tradizione restituita e della rivelazione accresciuta,
non fu, non è, nè sarà conceduto mai più uno splendore uguale (perchè
qual più vuole innalzarsi in filosofia, o incontra il campo della
teologia, ed ha nome poi di teologo più che di filosofo, ovvero, per
tenersene fuori, si svia irremediabilmente); se, dico, si consideri
questa menomata condizione della filosofia in mezzo alla Cristianità,
forse che quel gran filosofo storico di Bossuet, e quegli altri
metafisici Descartes e Malebranche, sembreranno nella loro semplicità e
ritenutezza più vicini a verità, che non molti lor successori francesi
scozzesi e tedeschi. E quindi forse, diciamolo passando, questo sarà il
merito della scuola italiana presente, ricondurre la filosofia a quella
modestia che sola le si addice in seno al Cristianesimo; così sappiano
i maestri non distrarsi da quell’alto ufficio loro, non perdersi in
analisi non necessarie oramai, e produr quelle sintesi potenti, di che
si mostraron essi capaci più volte, e che sole asseriscono la capacità
ultima di qualunque scuola. — Ad ogni modo, questo fu il grande
inciampo del primato francese: che i successori di que’ primi filosofi
ritenuti, facendosi via via più arditi, infelicemente logizzando a modo
de’ più infelici dialettici del medio evo, arrivarono a poco a poco
dall’analisi del pensiero ad una stolta analisi dello spirito umano;
ed inevitabilmente poi, ovvero alla circoscrizione e materializzazione
di esso, al materialismo; ovvero all’infinito estendimento di esso,
al farlo onnipotente e quasi Iddio, al razionismo o razionalismo. E
quindi, effetto o causa non so, od anzi effetto e causa a vicenda,
l’altro pervertimento dei costumi; quella corruzione mal elegante
nella corte di Ludovico XIV, dissoluta in quelle del Reggente e di
Ludovico XV, e che passò quindi alla città, alle provincie, a tutti
i ceti della nazione. Allora, spoglia di verità e virtù, fu perduta
Francia e cadde in quegli eccessi che ognun sa, in quella perdizione
di civiltà e coltura che certo fu delle massime in che sia caduta mai
niuna nazione cristiana. — Ma questo è quasi privilegio di Francia,
dovuto alla prontezza degli ingegni suoi, o piuttosto a quella virtù
dell’operosità ch’ella non perdette mai fra tante perdizioni: che gli
errori, prontissimi a spargervisi, son prontissimi a correggervisi.
E così dopo un dieci anni o poco più, la civiltà e la religione vi
furono ravviate da Napoleone, le lettere cristiane da Chateaubriand,
le cristiane scienze da Cuvier; un triumvirato per vero dire, che, a
malgrado gli errori di quei grandi, rimarrà immortale nelle storie, non
solamente nel progresso francese, ma dell’universale cristiano. E così
ravviato, il primato francese risplendette di un nuovo ed ultimo lampo.
Dopo aver primeggiato colla coltura, primeggiò Francia coll’armi. Ma
durata poco in tal fortuna, ritornò ella poi ed ora sta negli antichi
limiti; forte della memoria dell’antiche e nuove glorie; guarita di
molti errori, ed accresciuta in civiltà, restituentesi in coltura,
in filosofia, in religione; non più prima per vero dire, a malgrado
del vanto che le ne danno taluni per abito, ma non seconda se non ad
una sola altra nazione, tutt’al più. Così si salvi essa pure da tali
pretensioni retrospettive a quel primato, a cui non è probabile risalga
ella, più che niuna nazione che l’ha perduto! Così sottentri in lei la
pretensione a quella parità che è destino probabile delle maggiori e
più virtuose nazioni cristiane! E così voglia Iddio, pietoso per essa e
per noi! Perciocchè, posta come ella è, in mezzo a Spagna, Inghilterra,
Germania e Italia, le altre quattro grandi nazioni della Cristianità,
non è nazione le cui sorti buone o cattive si facciano sentir più a
tutti, sia ch’ella primeggi, sia che soggiaccia o pareggi.

16. Ed ora, giunti ai tempi che viviamo, noi faremo per la storia
generale del progresso cristiano una questione simile a quella che
facemmo per la storia particolare italiana: quali sono, come s’hanno
a nominare questi tempi? semplice continuazione dell’età precedente?
età di progresso simile, o poco diverso? ovvero età diversa, novella,
età di _transizione, Era umanitaria_ come la chiamano alcuni, or
vantandola, or esecrandola? — Ma confesserollo: io non ho capite mai
queste due denominazioni, le quali mi paiono dettate dalla solita
preoccupazione magnificatrice delle cose presenti, dimenticatrice
delle passate. Qui è dove ci potrà forse giovare l’aver raccolte in
poco spazio e quasi comprese in una idea, le vicende di molte età; la
sola salvaguardia dall’esagerazioni è la comparazione. Della quale chi
si giovi vedrà facilmente: che tutte le età di che abbiano discorso
sono state età intermediarie tra una di minore ed una di maggior
progresso, età dunque di transizioni nè più nè meno che la presente;
ondechè tal nome non può distinguere nessuna età, od anzi non significa
nulla, essendo inevitabilmente ogni età, età di transizione tra una
che precedette, ed una che seguirà. E quanto all’altro nome d’Era
umanitaria, se si voglia dire che questa nostra è età in che diventano
più universali gli interessi di ogni nazione e si confondono in quello
del genere umano, ciò è vero, ciò è certo, ciò non sarà negato da
noi. Ma se si voglia dire che questo sia fatto, o principio di fatto
nuovo, progresso in senso diverso da’ precedenti, altro in somma che
continuazione del progresso cristiano di XVIII secoli; noi negheremmo,
per vero dire, tal novità; noi sapremmo immaginare quale possa
essere, come venire questo progresso diverso, non sapremmo indovinare
niuna significazione a quel nome di progresso umanitario diverso
dal passato e cristiano. E vi ha più. Noi, tanto credenti e speranti
nel progresso presente, non sappiam tuttavia vederlo maggiore che i
passati, se non come è sempre naturalmente maggiore degli anteriori
ogni progresso ulteriore; non veggiamo che i passi facentisi ora,
sieno più grandi che quelli fatti parecchie altre volte. Certo è grande
il progresso di propagazione che si fa ora in Asia e s’incomincia in
Affrica dalla Cristianità; ma sarebbe lungo a disputare e difficile
a determinare, se più grande che il progresso simile fatto sotto il
primato iberico e in quella medesima Asia, e di più nelle due Americhe.
Certo sarebbe gran rivoluzione, gran progresso quello che sembra
apparecchiarsi al commercio, nel mutargli le vie dai due gran capi
d’Affrica e America ai passaggi di Suez e di Panama; ma è difficile
a determinare se sarebbe mutazione e progresso maggiore che quello il
quale si fece tutt’all’incontro, dal Mediterraneo a quelle due grandi
circumnavigazioni. Certo è grande il progresso delle scienze, delle
lettere e della pubblicità ai nostri dì; ma resta molto disputabile se
non più grande quello che si fece nel mezzo secolo della invenzione
e propagazione della stampa. E certo poi è grande il progresso della
età presente in tornare dalle false filosofie, e sarà più grande
se le distrugga, e più grande se distrugga le eresie, e grandissimo
se distrugga l’erede di tutte le filosofie false e dell’eresie, il
razionalismo; ma quando ciò facesse, non perciò l’età nostra o niuna
futura sarebbe a comparare mai a quell’età, mezzo dei tempi, nella
quale furono fatte cadere d’un colpo non alcune, ma tutte le false e
tutte le insufficienti filosofie dell’antichità; d’un colpo non alcune
eresie, ma tutte le false religioni. — Sappiam comparare se vogliam
giudicare; se vogliamo non esser noi giudicati fanciulli da coloro che,
quanto più noi progrediamo, tanto più saran essi progrediti.

17. E così dunque comparando e giudicando, ei ci parrà che l’età
comprendente il tempo presente e il futuro vicino è prevedibile, sia
per essere nè meno nè più che un’età di continuato progresso cristiano,
età o porzione d’età simile a quella che dicemmo del primato iberico
e del francese, età o porzione d’età che si potrà chiamare molto
probabilmente del primato britannico. — Perciocchè dolga ad alcuni
Francesi, dolga a Spagnuoli od Italiani o Tedeschi, detronati dai
primati, dolga ai pretendenti nuovi o a chicchessia, sono fatti chiari
a qualunque sincero e mediocremente informato: 1.º Che ora, al finir
dell’anno 1843, la nazione che comprende Inghilterra, Scozia ed Irlanda
e noi chiamiamo non propriamente, ma abbreviatamente britannica,
è prima delle nazioni cristiane nell’opera delle conquiste della
Cristianità, bella e grande essendo senza dubbio, ma non comparabile
fin ora, la parte che vi prende Francia nell’Affrica; e non bella nè
grande la parte che vi prende Russia, sviata dall’Asia. 2.º Che la
nazione britannica è prima delle presenti, in quella propagazione della
propria schiatta, e così di una di quelle schiatte cristiane, le quali
(giudicando da tutti gli esempi anteriori, e da quello massimamente
dell’America) sembrano destinate a succedere a tutte l’altre, a
popolar tutto l’orbe, ad essere il terribil mezzo della Provvidenza
alla propagazione del Cristianesimo. 3.º Che la nazione britannica
è ora prima in quella propagazione di commerci, la quale è mezzo a
quell’altre due più importanti. 4.º Che ella è prima in tutte quelle
operosità industriali, in tutte quelle applicazioni scientifiche,
in tutti insomma que’ progressi materiali che sono mezzi al mezzo
commerciale, e per esso alle due grandi propagazioni; e che perciò,
a malgrado di tanti stolti disprezzi, sono e saranno l’occupazione,
l’oggetto di operosità, la via di molti nobili intelletti presenti e
futuri. — Se tutto ciò non si voglia chiamar primato, io non so quale
possa o potrà esser chiamato mai. Non quello germanico, che non fu
guari se non propagazione e prepotenza della propria schiatta fra le
cristiane; non l’italiano, che fu pari o più grande del britannico
presente in colture, in industrie, in commerci, ma molto minore e quasi
nullo in conquiste per la Cristianità, ed in propagazione di schiatte
cristiane; non l’iberico, che fu grande in queste propagazioni, ma
non in tutte le colture; non il francese, che fu all’incontro e di
nuovo, come l’italiano, grande nelle colture, ma poco potente nelle
propagazioni. — È buono o cattivo, giusto od ingiusto, utile o dannoso
il primato britannico? Sono questioni diverse dalla questione del
fatto, e poco meno che vane. Nè le facemmo per gli altri primati; o
piuttosto noi ne prendemmo gli scioglimenti dalla Provvidenza e dagli
effetti adempiuti, ed in ciascuno di questi riconoscemmo le vie di
Lei. Confidiamo pure in Lei per gli effetti del primato britannico
presente; e lasciamo ai nepoti la descrizione che ne potran fare essi
soli. — E così lasciam loro le due altre quistioni se questo primato
sarà durevole, e se sarà ultimo. Della durata, noi non possiamo
guari scorgere se non che ella dipenderà probabilmente dal saper la
nazione britannica vincere non tanto le difficoltà esterne, come le
interne, quelle tre grandi piaghe del pauperismo, della prepotenza
aristocratica, e della prepotenza inglese in Irlanda; che il gran
rimedio alle tre, ed a quest’ultima principalmente, sarebbe senza
dubbio il ritorno alla cattolicità, a cui sembra tendere la nazione
tutt’intiera; e che quando fosse compiuta od avanzata tale opera,
quando alle missioni infruttuose degli acattolici succedessero
le fruttuose cattoliche, allora solamente si potrebbe sperare
quell’incristianirsi dell’Asia, il quale solo sarebbe avanzamento
definitivo colà della civiltà cristiana, conferma e guarentigia forse
dell’imperio britannico in quelle regioni. Del resto, nulla d’umano
dura perpetuo quaggiù; e gl’inglesi più colti, più dotti in istorie
ed in pratica che nessun altro, sanno molto bene che il loro imperio
asiatico, da cui dipende il loro primato, non durerà sempre; e tal
professione si trova, se non nei documenti governativi, certo in
molti degli innumerevoli libri di storie e di descrizioni indiane,
che dimostrano la pubblica opinione. La quale professa sì volere e
dover tener quell’imperio e quel primato quanto più si possa, e trarne
intanto il maggior profitto in tributi e commerci; ma tende a far più
legittimi, men gravosi ai popoli questi profitti; e prevede un tempo
in che rimarrà forse profitto solo la propagazione delle schiatte
e del nome e della civiltà britannica, e tien conto di tal profitto
come grande anche ai nepoti, a quel modo che tien gloria ed utilità
britannica presente l’imperio-anglo-americano, quantunque diviso. E
questo è senza dubbio, alto e veramente liberale e cristiano modo di
considerare il presente e il futuro, l’operosità, la virtù, i doveri
e il destino delle nazioni cristiane. Una nazione in cui tale opinione
è, se non universale, certo pubblica e frequente, non ha forse bisogno
di altro per asserire il proprio primato; e può ben lasciare a’ nepoti
le questioni della durata di esso; ferma essa nella coscienza o almeno
nel desiderio di ben usarlo finchè durerà[41]. — E noi ci metteremo
anche meno poi in quell’altre questioni di più lontano scioglimento, se
qualche altra nazione succederà alla britannica nel primato cristiano,
se il riacquisterà alcuna delle nazioni che già l’ebbero, o s’ei
passerà ad alcun’altra dell’antico o del nuovo continente, ovvero
se dal vedersi men chiari, meno assoluti, men durevoli quanto più si
succedono i primati, si possa argomentare, che essi vengono cessando
e cesseranno quasi assolutamente per l’avvenire, e che così sorgerà
più o meno tardi una età novella in che le nazioni cristiane non
proseguano più se non quella parità, che si può fin d’ora giudicare la
più utile a tutti, la più utile forse a ciascuna, la sola giusta, la
sola legittima, la sola compiutamente cristiana. — Certo, a chi ha fede
nel progresso, a chi partendo dal presente, ne scorge immanchevole uno
ulteriore nel corso de’ secoli, niuna speranza può parer troppa. Ma noi
lasciamo queste e l’altre simili, le quali appartengono a quel futuro
lontano che continuiamo a chiamare imprevedibile; e ci contenteremo
di dar un ultimo sguardo a quel progresso presente, che congiunge le
men discoste speranze dell’universa cristianità con quelle particolari
della patria nostra.




CAPO DECIMOTERZO.

IL PROGRESSO CRISTIANO PRESENTE ED ACCRESCIMENTO CHE NE VIENE A TUTTE
LE SPERANZE ITALIANE

                    _Lo que ha de ser, no puede faltar_. — C’est là
                  un fatalisme particulier à l’Espagne, un fatalisme
                  religieux qui repugne aux lâchetés Épicuriennes,
                  comme aux stériles vertus du Stoïcisme.

                                    DURIEU, _Revue des deux Mondes_,
                                           15 _juin_ 1844, _p_. 972.


1. Noi nol celammo già, ma gli opponenti cel fan ripetere
deliberatamente qui: Se le Speranze che noi venimmo esponendo della
patria nostra fossero isolate, se noi sperassimo un progresso di virtù
e d’opinione nel popolo nostro, un progresso d’unione tra popolo e
principi, un progresso di territorio ad uno o parecchi principati,
un progresso d’indipendenza a tutta l’Italia, senza sperarne altri
simili o maggiori dell’universa cristianità; tutte quelle Speranze
nostre ci parrebbero mal sode a noi stessi; noi ci sottoporremmo
satisfatti al giudicio di coloro che le dissero più virtuose forse,
ma non meno vane che le rigettate da noi, sogni nuovi posti invece
di sogni vecchi. Ma qui sta, diciamo noi, la differenza; qui, se si
voglia, la sola, ma qui, il pretendiamo, la total differenza; che le
speranze da noi rigettate sono appunto contrarie, che le presentate
da noi sono concordi, col progresso universale della Cristianità. — E
quindi è che, svolta oramai la serie di questo per li XIX secoli suoi,
noi ci fermiamo a cercare posatamente, partitamente, qual sia esso
a’ nostri dì; e quali poi le prove, gli accrescimenti che ne vengono
alle Speranze italiane. Se oltrepassando qui il nostro primo disegno,
noi cadrem forse in alcune ripetizioni, noi ne rigettiam la colpa sui
disperanti. — I quali, non abbiam fiducia per vero dire di persuader
tutti; non quelli certamente che invecchiati in lor disperanze ed
adattatavi da gran tempo lor vita, non vorranno disturbarne i resti per
le nostre o per niune ragioni. Ma molti sono pure che non hanno ancora
adattata lor vita; molti giovani che cercano adattarla alle speranze
della patria, che cercano quindi candidamente, spregiudicatamente quali
sieno più probabili, cercan vivere, cercan morire per l’adempimento,
od anche per l’avanzamento di queste. Ed a tali giovani, alla vera
e sincera giovane Italia de’ nostri dì, noi rivolgiamo, non senza
fiducia, il nostro discorso. — Ad ogni modo, noi prendiamo a dimostrare
qui 1.º che la Cristianità presente è in progresso di dilatazione,
2.º che è in progresso di unione, 3.º in progresso di civiltà, 4.º
in progresso di coltura, 5.º in progresso di virtù; e che ciascuno
di questi progressi accresce le speranze italiane, ne fa, non che
probabili, ma in un modo o in un altro, una volta o l’altra, e per
quanto possa qualunque cosa umana, certi gli adempimenti.

2. Io dico che la Cristianità presente è ora evidentemente in PROGRESSO
DI DILATAZIONE. — Tutta l’Europa senza eccezioni, tutta l’America
con così poche che già non contano e finiscono, sono cristiane; ed
in esse, e qua e là nel resto dell’orbe, cristiani sono da dugento
milioni d’uomini, tra il quarto e il quinto del genere umano. Ed
ora (ei fu già osservato da altri) non istà all’incontro niun’altra
società religiosa comprendente un numero così grande d’uomini; non
la Bramanica, che comprende solamente una parte degli Indiani; non
la Buddica, che comprende l’altra parte degli Indiani, ed una di
Cinesi; non l’antico Teismo, che dura nell’altra parte di questi. Ma
noi aggiugniamo poi, che, fatta in tal modo la comparazione delle
forze cristiane colle non cristiane, ella è molto incerta e poco
significante. Ogni calcolo di forze umane non può esser giusto, se vi
si tenga conto solamente del numero delle anime, se non si tenga pure
dell’impulso che le muove; le forze umane, come le materiali, constano
di due elementi, la massa e la velocità. Ed introdotto quest’elemento
della velocità, dell’impulso, la comparazione delle forze cristiane
con ciascuna delle acristiane non rimarrebbe dubbio per vero dire. Ma
noi andiamo più in là; noi accettiamo e provochiamo una comparazione
più svantaggiosa: la comparazione delle Cristianità con tutto il resto
del mondo; la comparazione delle forze dei 200 milioni di cristiani,
con quelle degli 800 che concederemo de’ non cristiani. Quest’è la
divisione del genere umano che incominciò al dì che incominciò la
Cristianità; al dì che erano contro l’universo mondo 70 cristiani
o poco più. — E così instituito il paragone, diciamo che que’ 70
essendo diventati 200 milioni in XVIII secoli, è molto probabile che
questi diventin mille milioni in pochi secoli; diciamo che la massa
de’ 200 milioni moltiplicata per l’impulso presente cristiano è una
forza che ci par molto grande, ma che noi lascerem supporre mediocre,
o piccola, o piccolissima; perciocchè ad ogni modo ella sarà sempre
maggiore che non la forza la quale, constando della massa degli 800
milioni acristiani, moltiplicata per la velocità zero dell’impulso loro
presente, risulta quindi zero ad ogni modo. — E che poi sieno zero al
dì d’oggi tutti gl’impulsi religiosi non cristiani, io non credo che
ne possa dubitare nessuno, il quale v’attenda pur un momento. Lasciamo
le religioni anticamente cadute, guardiamo sole le superstiti. Io
crederei che il Teismo Cinese sia antico quanto il mondo postdiluviano;
che fosse simile, fosse parte del teismo primitivo, prima buono, in
breve sviato; e si propagasse quindi colle genti primitive, e durasse
presso le cinesi forse meno sviato, forse quasi solo, lunghi secoli
certamente, intorno a 2,500 anni. Ma ad ogni modo il suo trionfo, il
suo imperio esclusivo cessava già intorno al secolo VI prima di nostra
era; e d’allora in poi fu combattuto, fu ristretto, fu alterato dal
Tao-teismo, dal Buddismo antico, dal Shamanismo successivo; ondechè è
ridotto oramai a non molti in quell’imperio, e quell’imperio è il più
misto di religioni, od anzi, al dir di tutti, il più privo di religione
che sia al mondo; ondechè in somma l’impulso, la forza di quel teismo
si vede cessata da ventiquattro secoli oramai. — Ed io crederei che il
Bramanismo primitivo sia parimente antico, parimente originario dal
Teismo; ma sviatosene più prontamente, ei si costituì ad ogni modo
qual è nei Vedi duemila anni incirca prima di G. C. E fiorì, ebbe
un primo periodo di propagazione, un primo impulso fino intorno al
medesimo secolo VI avanti G. C. Ma allora ebbe ad emulo il Buddismo,
e ne fu vinto in parte fino ai primi secoli dopo G. C.; e il rivinse
poi, ed ebbe così un secondo periodo di vittoria, un secondo impulso
indubitabilmente. Ma questo durò molto meno che il primo; e intorno
all’anno 1000 il Bramanismo fu assalito e vinto dal Maomettismo, e durò
schiavo di esso dapprima, schiavo poscia ed ora della Cristianità;
ondechè in somma sono otto secoli ch’egli è schiavo, otto secoli che
è cessato ogni impulso suo. — Ed io crederei che anche il buddismo
primitivo fosse quasi contemporaneo alle prime genti postdiluviane.
Ma checchesia di tal opinione, certo è che il buddismo, vincitor del
Bramanismo, non risale nemmen esso oltre al secolo VI avanti G. C.;
che il Buddismo Lamaico è posteriore di parecchi secoli a questa nostra
era; che l’impulso e la propagazione di lui cessarono all’incirca alla
medesima epoca ed allo stesso modo che l’impulso bramanico, per le
vittorie orientali del Maomettismo; cioè da’ medesimi otto secoli. —
E l’impulso, la propagazione di questo poi, durò (non disputiamo nè
distinguiamo qui, e concediamo quanto si possa pretendere) durò presso
a mille anni, dall’Egira fino all’assedio di Vienna. Ma da due secoli
in qua, non solamente ogni impulso suo è cessato, non solamente è
chiara a tutti la sua decadenza, ma la sua caduta a precipizio; perdè
la signoria dell’Indie, perdè molte provincie asiatiche ed europee
conquistategli dalla Russia, fu cacciato intieramente di Valachia,
Moldavia e Servia, perdè Grecia ed Algeri; ondechè la cessazione del
suo impulso, quantunque molto meno antica, è più evidente a ciascuno,
che non quelle stesse del Teismo Cinese, o del Bramanismo e del
Buddismo. — Ed ora supponiamo (ciò che tuttavia è assurdo) che si
congiungessero tutti questi acristiani e di più tutti gli altri del
mondo contra i cristiani, gli 800 milioni d’uomini senza impulso contra
i 200 milioni più o meno impulsi, la vittoria, il risultato ultimo
non resterebbe dubbio; non è possibile che questi non finiscano per
vincere, conquistare ed asservire o spegner quelli, in un modo o in
un altro, quandochesia. — Ma questo impulso cristiano poi non è vero
che sia piccolo; è grandissimo, è patente da tutte le parti, su tutti
i limiti della Cristianità. Tre secoli fa ella incominciò a spandersi
in Occidente; ed ora è finito quell’impulso per una buona ragione,
perchè è finito il terreno da conquistare, sono conquistate o spente
tutte quelle schiatte d’uomini. Ora è la vicenda dell’Oriente e del
Mezzodì; e ad Oriente è conquistato da un secolo un imperio intiero, il
vero imperio di mezzo dell’Asia, tutte le Indie: ed indi raggiando, la
Cristianità, condotta dall’Inghilterra, domina più o meno già su tutta
l’Asia meridionale; mentre Russia regna su tutta la settentrionale;
e s’incontrano le due preponderanze nell’Asia centrale, ondechè non
è libera della preponderanza cristiana niuna terra asiatica, se non
la Cina e il Giappone, o forse già questo solo. E l’Affrica è da gran
tempo cinta da una corona d’isole e di porti continentali cristiani,
ed è ora intaccata gravemente nell’Algeria, ed è ultimamente assalita
a Marocco; e la lontana Oceania è invasa nelle sue isole maggiori
e minori tutta quanta oramai. È egli probabile, non dico che dia
indietro, ma che si fermi tal impulso, tal progresso di dilatazione, il
quale dura vittorioso così da tre secoli, crebbe e cresce fino a ieri
ed oggi? O non anzi, che cresciuto si acceleri; e che fra altrettanti
o meno secoli diventin cristiani o almen soggetti a’ cristiani
quei rimasugli di terre e di schiatte non cristiane? No, no; non è
profetare, non è se non umano od anzi volgarissimo prevedere questo,
che fra pochi secoli non rimarranno sul globo se non iscemate e sparse,
e suddite nostre, e nascondentisi ne’ deserti le genti acristiane; a
quel modo che poco dopo i tre primi secoli rimanevano sparsi e nascosti
ne’ _pagi_ più oscuri que’ pochi idolatri dell’Imperio romano, che
ne preser nome di pagani. — Al secolo scorso, nel calor della smania
anticristiana si accusava il Cristianesimo di essere propagandista;
ed alcuni cristiani erano così semplici da volerlo scusare di tale
imputazione. Ma questa era pur giusta; e fu sempre ed è ora più che mai
provata dal fatto. Propagandista si mostra il Cristianesimo da tutte
parti; propagandista fu lungo tutti i secoli suoi; propagandista fin
dal nascere suo, per istituzione, per la natura sua soprannaturale.
Il Cristianesimo non è altro che propagazione; è verità, epperciò
si propaga. E se noi scrivessimo qui di teologia o filosofia, noi
invertiremmo l’argomento, e diremmo: si propaga solo e dappertutto, ei
debbe essere dunque verità. Ma noi scriviamo di storia e politica; e
notiamo solamente il fatto: si propaga in tutto l’orbe.

3. Ed ora scendiamo da queste evidenti certezze generali alle
speranze italiane. — Noi dimorammo già non poco tratto a dimostrare
la probabilità che cada l’Imperio ottomano, sedia principale del
Maomettismo, e che, cadendo, lasci luogo alle nazioni cristiane. Ma
ora, considerata nel suo impulso presente, in quello dei tre ultimi
o, per dir meglio, dei XVIII secoli suoi la cristianità; la questione
turca s’impicciolisce a tal segno da non parer più degna forse
nemmeno dello studio che vi ponemmo; da parere non più che parte della
certezza della propagazione universale cristiana. Quell’Imperio è ad
uno dei limiti dell’Europa, della madre patria della Cristianità,
della sedia ov’ella è compressa, ristretta, confinata contro tutti
i bisogni presenti suoi, contro a tutti i suoi destini futuri; è
al limite orientale, verso a dove si volge l’impulso presente di
lei; è sulla via, primo sulla via ond’ella ha a passare; ed è non
solamente imperio stazionario, ma cadente, ma già scemato, ma già
incominciato a spartirsi tra la Cristianità. Se dunque non mutino
tutte le proprietà, tutti gli andamenti di lei, se non cessi a un
tratto tutto l’impulso cristiano, contro tutti i fatti precedenti,
senza ragione presente, senza annunzi, senza cenni, senza probabilità
nè possibilità avvenire, se non si volgano a rovescio i secoli e il
genere umano, quell’imperio è destinato a finir di cadere, a lasciarci
luogo, a darci spazio. — Se fosse possibile che la Cristianità non
passasse per quella via, ella passerebbe per qualunque altra; e la
propagazione sarebbe la medesima; e medesimi sarebbero all’incirca i
risultati per la Cristianità in generale, per l’Italia in particolare.
Supponiamo che la Cristianità non passi per la sua via naturale, da
Occidente ad Oriente, che incominci dal Mezzodì, dall’Oriente, dal
Settentrione; supponiamo (improbabilissimo) che l’Imperio turco duri
come già l’Imperio greco a Costantinopoli, intanto che Inghilterra
e Russia lo spoglierebbero delle sue provincie asiatiche. Ma un dì o
l’altro ei sarebbe spogliato pure delle sue provincie europee, pur di
Costantinopoli. E allora, risorgerebbero le medesime eventualità, le
medesime occasioni, i medesimi tre casi di spartimento che ponemmo.
Ridico che non è possibile che avvenga tal ritardo; ma poniamolo,
non è che ritardo; e sempre si verrebbe a’ tre casi già considerati.
Di qua non s’esce; qualche nazione cristiana passerà o sorgerà,
un dì o l’altro, nelle provincie europee dell’Imperio turco; ed,
o vi passerà l’Austria, o vi passerà la Russia, che sono le due
sole potenze limitrofe; o sorgeranno stati nuovi delle popolazioni
cristiane che vi si trovano or rare e serve. Ma nel 1.º caso (il più
conveniente, dicemmo e confermiamo, a tutta la Cristianità) l’Austria
s’accrescerà a segno da non poter nè essa conservare, nè esser sofferta
di conservare le sue provincie occidentali straniere; e queste non
possono se non ridiventar italiane, compiere finalmente la nostra
indipendenza, in qualunque modo. Nel 2.º caso, se la Russia fosse
quella che sottentrasse all’Imperio turco, ciò sarebbe segno, sarebbe
effetto d’una decadenza, d’un ozio, d’un avvilimento, d’una nullità
dell’Austria molto peggiori che non le presenti stesse; e ciò sarebbe
occasione, ciò speranza, grandissima oltre ogni altra, all’Italia.
Quella viltà, quella nullità esterne sarebbero pur interne; sarebbero
scioglimento di quell’imperio; sarebbero sorgimento d’indipendenza
nuova e compiuta agli Ungaresi, ai Boemi, a tutti gli Slavi. E non
sarebbero all’Italia? Non è probabile. L’indipendenza è desiderata
dalle popolazioni austro-lombarde, più che non dall’austro-ungaresi,
od austro-slave; e queste non hanno principi connazionali vicini, da
aiutar quell’indipendenza, da approfittarne. Certo sì: lo scioglimento
dell’Imperio austriaco sarebbe l’occasione la più propizia per
l’Italia; e se i nostri desiderii fossero italiani gretti, non
italo-europei od anzi italo-cristiani, noi non desidereremmo mai altra
occasione. E finalmente il 3.º caso, che sorgessero stati cristiani
dalle provincie turche, non può succedere forse, se non col medesimo od
un poco minore avvilimento dell’Austria, e di più, con uno simile della
Russia; e ad ogni modo dall’instabilità, dalla debolezza, dalle dispute
interne ed esterne di questi stati nuovi sorgerebbero tali e tanti
turbamenti in tutta la Cristianità, che sarebbero non più un’occasione,
ma una lunga serie di occasioni favorevoli alla indipendenza d’Italia.
— Ma si vuol egli fare un 4.º caso? uno composto de’ tre primi? il
caso che qualche cosa sia presa dall’Austria, qualche cosa da Russia,
qualche cosa da stati nuovi indipendenti? Sia pure: in tal caso
le nostre occasioni sarebbero pur composte delle tre occasioni, le
nostre speranze delle tre speranze particolari; noi avremmo occasioni
e speranze dall’inorientarsi d’Austria, e dall’avvilimento di essa,
e da’ turbamenti che nascerebbero. — Ovvero ancora, vuol egli farsi
un 5.º caso? che tutto ciò avvenga a poco a poco, pacificamente,
diplomaticamente? Sia pure anche ciò; ma sorgerebbero almeno occasioni
diplomatiche, speranze quindi da’ nostri principi che possono e debbono
entrare in tali diplomazie, speranze dai nostri popoli che vi possono
incorare, spingere i nostri principi. Perciocchè, già s’intende, che
tutto ciò non succederebbe se mancassimo noi stessi a noi, all’Europa,
alla Cristianità. Già s’intende, che non è speranza a chi non prenda
le occasioni, a chi non s’aiuti quando Dio l’aiuta. Non è che un
caso contro a noi: il caso che poi rimaniamo oziosi nell’occasione.
Ma questo stesso, grazie a Dio, non è probabile. Noi non siamo in un
seicento. Noi valiamo più che al principio del secolo XVIII. E allora
bastò l’occasione della successione di Spagna per rialzar l’Italia. Ben
altra successione ci si apparecchia; e noi siamo di gran lunga meglio
apparecchiati a valercene. No, non è sogno questo; sogno è quello de’
disperanti; ed alla moltiplicazione di essi si riduce il solo caso che
abbiamo contra noi. Deh non date lor retta, o miei compatrioti.

4. Ma andiamo innanzi; passiamo ad altri progressi della cristianità,
ad altri accrescimenti di speranze nostre. — La Cristianità è in
PROGRESSO D’UNIONE. Comparisi quella che è ora, con quella che era, o
tre secoli fa, al principio della riforma, ovvero due, al costituirsi
di essa, ovvero uno, al suo lasciar luogo alla filosofia del secolo
XVIII, ovvero al principio del secolo presente, ovvero dieci anni
fa, come si voglia, come paia più svantaggioso al tempo presente.
Non importa; riman favorevole qualunque di questi paragoni. — E non è
bisogno di spiegare che quand’uno, quantunque piccolo, di noi cattolici
parla di riunione, ei non intende altro se non il riaccostamento degli
altri a noi; noi non ammettiamo se non una verità in teoria, una chiesa
in istoria ed in pratica. Ma questa chiesa nostra è quella appunto che
veggiamo, ora più che mai, in progresso di dilatazione, a detrimento
continuo di tutte l’altre parti della Cristianità. Facciamo anche qui
arditamente la divisione de’ due campi; mettiamoci anche qui, noi da
una parte, e tutti gli altri dall’altra. Sarà paragone pieno di letizia
e speranza, qui più che mai; qui abbiam per noi i due coefficienti
della forza, la massa e l’impulso. De’ duecento milioni di Cristiani,
cento all’incirca son cattolici; tutti gli altri, divisi in parti
innumerevoli, arrivano appena insieme all’altra metà; ogni parte è una
frazione piccola; è peggio, è una quantità indeterminata, variabile di
dì in dì. — Ma prendiamoli pur tutt’insieme; tutta intiera la riforma,
come se facesse corpo; ella non ha più impulso, noi l’abbiam conservato
e rinnovato. Da trecent’anni e più ch’ella sorse, ella progredì
poco più di cinquanta[42], ma poniamo cento; e rimase stazionaria,
pogniam cento altri; certo poi da cento in qua, quel suo dividersi,
ridividersi, disordinarsi, discostituirsi, sminuzzarsi, prova che
non ha più impulso, che non è più essa, non è più riforma; nè quasi
eresia, nè quasi Cristianesimo; che ella è regredita a quel dubbio del
Cristianesimo, a quel razionalismo, il quale sotto varie forme e varii
nomi, ma sotto quello sopratutti di Arianismo fu antichissimo sì, ma
quasi spento per un intervallo di mille anni. Giunta a tal condizione
la riforma, è egli sperabile per lei, temibile per noi, ch’ella
ricalchi le vie sue, che si riordini e ricostituisca per progredire di
nuovo? Che faccia ciò che non ha fatto essa mai, ciò che non fecero
le eresie primitive? O non anzi, che succeda a lei ciò che a quelle?
che si spenga, si perda a poco a poco, insensibilmente, da sè? E tanto
più, che ella non pretende più a propagarsi nella Cristianità; che ella
ci ha lasciato il vizio stesso, o virtù del propagandismo, che ella
si vanta di non averlo, che ella l’ha cancellato da’ suoi dogmi. — E
noi, all’incontro, l’abbiam serbato; e siam tornati a più arditezza
nel professarlo. Non parlo dell’uno e dell’altro caso speciale; non
entro in dispute nè particolari di teologia. Ma sono campo della
storia oramai quella liberazione dall’antica servitù religiosa di
sette milioni d’irlandesi ed uno d’Inglesi, che vedemmo inaugurarsi
or son poc’anni, e vedremo compiersi probabilmente fra pochi altri; e
il riaccostarsi della scuola teologica _puseista_ e di altre inglesi
e germaniche; e il progresso di quegli studi storici germanici e
francesi, che non possono non ricondurre alla sola chiesa che sia
storica, alla sola che non presenti l’intervallo dei mill’anni. La
storia universale bene studiata non può non fare ciascuno cristiano;
bastando il paragone di tutte l’altre religioni antiche o nuove a
dare un infinito vantaggio al Cristianesimo. Ma la storia moderna
non può non fare ciascuno cattolico; dando un vantaggio simile alla
chiesa cattolica su tutte le altre[43]. E sono campo della storia,
sono progressi cattolici tutti que’ progressi della filosofia che
la conducono a riconoscere la propria insufficienza nel capire, e
più nel diffondere e più nel ridurre in pratica universale le grandi
verità che ella contempla; ed a riconoscere quindi la necessità, e
quindi la realità della rivelazione, e quindi della conservazione e
continuazione di essa in una chiesa, la cattolicità, il cattolicismo.
Qui pure, le generalità della filosofia conducono al Cristianesimo,
le particolarità al cattolicismo. — Certo rimase e forse rimarrà
il gran residuo della riforma, anzi di tutte le eresie, il gran
residuo della filosofia del secolo XVIII, anzi di tutte le grette e
incompiute filosofie antiche o moderne, la filosofia escludente la
contemplazione del soprannaturale, la filosofia razionalista; certo
questa è e forse sarà gran tempo e forse sempre l’avversaria vera
del cattolicismo; certo ella è da combattersi molto più che non quel
materialismo e quel panteismo duranti in pochi, rinnegati da questi
stessi. Ma il razionalismo stesso può combattersi oramai da’ nostri,
come da vittoriosi, con alacrità, senza timore; il razionalismo non è
per natura sua se non filosofia, non fu nè può essere religione mai,
non credenza popolare nè molto sparsa, non culto, non fede, non amore,
non fiducia compiuta nel Creatore, che sono pure qualità intime della
natura umana; non è nemmeno satisfazione compiuta alla ragione: non
può essere opinione nè dei pochi sommi, nè dei molti piccoli; non è nè
sarà mai se non errore di pochissimi intermedii. Ne’ quali duri più
o meno tempo, egli è ad ogni modo ultimo stadio di tutto ciò che si
scosta dalla cattolicità; comprenderà in breve quanto non è cattolico
nella cristianità; ondechè, riducendosi a questi necessariamente
pochi il campo opposto, si accrescerà il nostro di altrettanto. — Del
resto, io non profeto, non parlo di una riunione pronunciata, d’un
ritorno dichiarato de’ dissidenti, lascio nelle incertezze del futuro
imprevedibile la forma, la quantità, la compiutezza delle conversioni.
Ma questo veggo ed affermo con tutti (con gli stessi dissidenti sinceri
e colti), che la dissidenza o riforma è in disordine e in regresso; che
è in regresso ogni filosofia acristiana, in progresso ogni cristiana;
che la cattolicità è in progresso; ch’è quindi in progresso d’unione la
Cristianità tutt’intiera. Un fatto solo è all’incontro; una disunione
sola è crescente; quella della Russia, o per dir meglio del governo, o
forse solamente dell’autocrata russo. Ponga, chi vuole, tal regresso
al paragone di tutti i progressi. Io non so se non compiangerlo, ma
contarlo per piccolo, e probabilmente di poca durata.

5. Ed anche qui da questo progresso d’unione cristiana sorgono begli
accrescimenti di speranze italiane. Unendosi la Cristianità nella
cattolicità, ella non può unirsi se non intorno al centro di questa;
ed essendo tal centro, d’instituzione sua, italiano, non può se non
accrescerne l’interesse universale per quell’indipendenza d’Italia
che è così necessaria all’indipendenza del centro, del capo della
Cattolicità; e tale interesse universale accresciuto non può se non
accrescere gli amici, far più sinceri, più efficaci gli aiuti, scemare,
scoraggiare gli avversari e le resistenze a quella indipendenza. — E
vegniam pure ai particolari. Tre grandi potenze sono nella cattolicità,
Francia, Spagna, Austria. Francia è la massima; Francia fu la
istitutrice del dominio temporale dei papi sotto i Carolingi; Francia
fu più o meno il sostegno loro contro agli imperatori germanici fino
a Filippo il Bello; e Francia fu poi lor rivale per vero dire, od anzi
lor tiranna per un secolo e più, grazie alle emulazioni per il dominio
d’Italia; ma Francia fu di nuovo lor protettrice più o men buona, ma
sola contro alla preponderanza di Carlo V e delle due case d’Austria
spagnuola e tedesca lungo il seicento; Francia la distruggitrice di
tal prepotenza, e così la restauratrice d’indipendenza della Santa
Sede nel secolo XVIII; e Francia fu poscia e colle sue opinioni
e coll’armi la principal nemica di quella Sedia per vero dire; ma
quell’opinione e quell’armi le son tutt’altro che nemiche oramai; e
senza voler nè lodar nè scusare l’ultima mossa di quell’armi in Italia,
di che tanto si scandalezzano alcuni, elle paiono a me, e credo pur
ad altri devoti della Santa Sede, essere state molto meno antipapali
che antiaustriache, e men dannose al papa che a tutti i nemici di
lui. Ad ogni modo Francia, non più ostile al papa, è ridiventata di
natura sua la potenza maggiore, epperciò, politicamente, la potenza
duce della Cattolicità; serba in questa il primato suo. Del quale
poi, lungi dal far disprezzo o scherno come al secolo scorso, ella si
rifà gloria e potenza; e l’esercita molto volontieri e apertamente,
dentro e fuori d’Europa; e l’esercita ogni dì più, quanto più ella
s’assoda; tantochè un suo ministro protestante, perchè è uom sodo e
progressivo, è quello fra tutti il quale lo esercita più apertamente.
— E Francia sarà in ciò aiutata ogni dì più da Spagna, pur riassodata,
pur riaccostata alla Santa Sedia. Bisogna conoscere quella nazione
così intimamente cattolica, per capire come le alleanze inglesi, che vi
dovrebbero essere favorite da tante gratitudini e da tanti interessi,
vi sieno pur sempre brevi e mal ferme, per la sola dissidenza od
anzi avversione religiosa; e come, all’incontro, vi si torni sempre
all’alleanza francese, che ha pur contro a sè tanti interessi e tante
memorie, per ciò solo che non ha quel vizio intrinseco, e che è rifugio
dall’antipatica alleanza inglese. E ad ogni modo ogni progresso
spagnuolo è progresso cattolico, progresso papalino, progresso da
diventar utile un dì o l’altro all’Italia[44]. — Ma Austria fu ed è
buona cattolica, eppur non fu guari papalina mai, e men che mai da
Giuseppe II in qua. Molti lo dicono; e parecchi ne la lodano, e si
trovò un Italiano il quale ci confortò ad imitare l’Austria in ciò,
anzi ad accostarci all’Austria per ciò; il quale ci volle far credere
che l’essere essa antipapalina riscatta tutti gl’inconvenienti,
tutti i difettucci che potrebbe aver per noi la dominazione di
essa. Ma chi gli diè retta? Lasciamo in pace i morti dimenticati;
e tanto più uno che errò senza malizia. E passiamo ad osservare che
l’antipapalismo austriaco va cessando come tutti gli altri; che il
progresso dell’opinione cattolica riconduce anche l’Austria a maggior
rispetto, a maggior interesse verso la Santa Sede; che se fosser
possibili a lei quegli antichi disegni di dominazione universale della
penisola, ella non li adempirebbe forse per quel rispetto; che ella
rigetterà certo tutte le stoltezze, non sue, dei neo-ghibellini; e
che in tutte le eventualità future, ella s’accosterà probabilmente a
qualunque disegno si faccia dall’altre potenze cattoliche ad onore e
pro della Santa Sedia. E non mi si faccia dir poi che Austria ci darà
l’indipendenza, si ritrarrà d’Italia per amore alla Santa Sedia; chè io
non dico questo, anzi dico che l’Austria non si ritrarrà mai per amor
di nessuno se non di sè stessa, e farà in ciò come fan tutti. Ma dico
che se l’Austria vedrà l’interesse suo vero, che è di portar altrove
la sua potenza, ella lo farà in modo che non ne scapiti la potenza,
la dignità del papa; e che intanto nè Austria, nè Francia, nè Spagna,
nè l’altre potenze che sono e saran cattoliche non aderiranno a niun
altro detrimento di esso; e dico che tal fatto, e la persuasione di
tal fatto, debb’essere ed è una causa d’unione, epperciò una nuova
fortuna una nuova speranza all’Italia. — E dico poi che questa, anche
da sè, anche indipendentemente d’ogni paura od influenza straniera,
anche per interno effetto del progresso cattolico, anderà smettendo
nell’avvenire tutte quelle opinioni, e quei tentativi antipapalini che
guastarono da secoli e secoli, fino a ieri od oggi la nostra impresa
d’indipendenza. — Pochi mesi sono, io m’interrompeva in quest’ultime
pagine per deplorare uno di tali tentativi; ma corso quel poco tempo,
il tentativo è già finito. E deh nota ciò, ti piaccia o dispiaccia, o
leggitore italiano. Un venti e più anni fa una sollevazione di quelle
medesime provincie fu impedita da una grande invasione austriaca;
rimedio all’antica. Un dieci anni fa un’altra sollevazione vi fu in
parte repressa da una invasione austriaca minore, in parte impedita da
una contro-invasione francese; rimedio già nuovo e che si potrebbe dir
di transizione. L’anno scorso una terza sollevazione succede; e non
fa più bisogno nè di grande nè di piccola invasione austriaca, nè di
contro-invasione francese; l’opinione nazionale assodata la riduce a
nulla da sè, fa che bastano poche armi, le armi del papa, a spegnerla
del tutto; rimedio novissimo, e almeno nazionale. E quindi, io vo
incontro a tutto ciò che mi si apporrà qui; vo incontro alle risposte
che mi si faranno a ciò che dico e non dico; e chiamo progresso e
grandissimo progresso siffatto assodamento dell’opinione italiana.
— E spero che si accrescerà ancora. Io dissi già, doversi lasciare
ai principi italiani la decisione delle mutazioni da farsi ne’ loro
governi; e quindi al papa, che è uno di questi principi. Ma aggiungo
qui, che il governo di lui è il più difficile a mutare, è quello
ove le mutazioni fatte per forza trarrebbero intervenzioni o forse
invasioni dell’universa cattolicità; e che è quindi gran fortuna, non
si facciano così, e ne cessino i tentativi; e che cessando, elle si
faranno più facilmente, da chi solo le può fare utilmente, che sarà
nuova fortuna. E mi si rimproveri pure di non entrare in particolari;
io non entrerovvi qui più che altrove; e v’entrerei anche meno. Chè le
costituzioni mi paion già puerili a far così, _a priori_, da lungi,
sulla carta e non sul terreno, anche per li principati secolari e
volgari; ma per quel principato eccezionale, unico in sua specie, e
duplice in sua natura come è il papato, io riderei di me stesso se
mi vi arrischiassi. Del resto, la unione crescente della cristianità,
raccogliendo nel centro più opinioni, più aiuti, più consigli di tutti
i cattolici, non può se non servire al progresso del governo temporale
del papa; non può se non accrescere anche questa grande speranza
italiana.

6. E quindi siam condotti molto naturalmente a considerare il terzo
progresso della Cristianità, il PROGRESSO DI CIVILTÀ. I passi fatti in
essa sono quelli che si sogliono riconoscere con minore unanimità da’
contemporanei, perchè non si posson fare senza distruggere privilegi
ed ingiustizie; senza far passare dall’une alle altre mani, o almeno
senza allargar parecchi diritti civili; senza che rimangano malcontenti
molti di coloro che furono spogliati, molti a cui pare spogliazione
l’allargamento de’ loro diritti, e molti a cui non paiono acquisto
i diritti che hanno in comune cogli antichi possessori; la numerosa
caterva degli illiberali. La ricognizione de’ progressi civili non
si suol fare se non quando, cessata la generazione degli spogliati
e degli spogliatori, e sentito poi universalmente il beneficio della
più larga ripartizione; e questa ricognizione è allora suggello dei
progressi avvenuti, gran progresso ella stessa. — Ora, io crederei che
non siamo discosti da questo; che sia incominciato il giudizio de’
posteri sulle mutazioni fatte nella civiltà cristiana dal principio
nel nostro secolo; che già non si neghi loro il nome di progressi, se
non forse da coloro a cui ripugna, in odio degli autori, men l’idea,
che non la parola. Ed alcuni di questi sogliono torle quella macchia
o correggerla, chiamando _ben intesi_ i progressi riconosciuti da
loro. A me parve migliore e più determinata correzione, chiamar
_cristiani_ tali progressi che veggiamo estendersi più o meno su tutta
la Cristianità, e non estendersi se non sulla Cristianità; ma se più
piaccia dirli ben intesi od anche più timidamente, miglioramenti,
ordinamenti o che si voglia, sia pure; purchè si riconoscano come
beneficii della Provvidenza alla Cristianità de’ nostri tempi, come
arra di continuazione probabile ai tempi prossimi venturi. — Ma poveri
uomini di stato, poveri uomini di studio, poveri cristiani vogliono
essere coloro che non professino tal gratitudine per lo sgombramento
fattosi quasi dappertutto degli ultimi resti di quella feudalità che
fu resto ella stessa degli antichi e gentili diritti di conquista,
che non fu mai sistema od ordine, ma mancanza d’ogni ordine, che fu
la più mal costituita fra le aristocrazie; aristocrazia nemica al
principe ed al popolo, stato nello stato, felicità ed operosità di
pochi a spese di molti, eccezione anticivile ed anticristiana, e non
più. E poveri uomini di stato o di studio, poveri cristiani vogliono
essere coloro che non professino gratitudine per l’allargamento
e l’agguagliamento de’ diritti civili a tutte le condizioni dei
cittadini; per la semplificazione e l’ordinamento in codici delle
leggi di quasi tutti gli stati; per quell’abolizione della schiavitù
la quale fu proseguita dalla Cristianità fin dalla prima età sua, ma
non fu avanzata mai come alla nostra; per l’abolizione di tutti quegli
usi che nelle successioni, nelle fortune di mare, nella punizione
dei delitti, separavano l’una dall’altra le nazioni cristiane; e per
la diminuzione di quelle gelosie commerciali che le separavano anche
più, ed erano quasi guerre continuate in tempi di pace; e così poi per
tutti que’ commerci allargati e tutte quelle comunicazioni materiali ed
intellettuali agevolate, che fanno più che mai quasi una repubblica,
uno stato degli stati, una società non solamente religiosa, ma civile
dell’intiera Cristianità. E poveri uomini di stato e di studio voglion
esser coloro i quali non riconoscano un immenso progresso civile, in
quel progresso della carità, che è universale ne’ paesi cristiani,
ma sopratutti ne’ cattolici presenti; e che dicemmo già, e (con gran
rincrescimento di non poterci estendere in prove) confermiamo, esser
massimo possibile scioglimento delle ultime, delle vere e sublimi
questioni della pubblica economia. E finalmente, poveri uomini di
stato e di studio e poveri cristiani voglion esser coloro i quali
non riconoscano il beneficio di quel riaccostamento delle parti, che
noi, nati nel secolo scorso, abbiam veduto avvenire durante il corso
di nostra vita. Erano nell’ultimo decennio di quel secolo divise
le nazioni tutte della Cristianità in due parti, non che diverse,
assolutamente avverse, in due campi, non che ostili, mortalmente
nemici; repubblicani gli uni, regii o realisti gli altri, quelli
chiamavan questi tiranni e vili servi, e come tali li trattavano;
e questi chiamavano e trattavano quelli come scellerati, ribelli e
ladroni. Ora all’incontro pochi, sparsi, non influenti, non istimati
e cessanti, sono coloro che usino tuttavia que’ nomi, che serbino
in cuore quegli odii invecchiati. Pochi sono, che che si dica, gli
assoluti repubblicani, pochi gli assoluti realisti, nel cuor d’Europa
e della civiltà cristiana. Le differenze tra le parti son diventate
piccole al paragone; son mezze tinte rispetto ai colori urtanti di
cinquanta anni fa. In Inghilterra, Francia e Spagna e parte di Germania
dove son governi deliberativi, già non si parteggia se non tra il
più o meno conservare o progredire nella libertà ivi definita; e nel
resto d’Europa non si parteggia se non tra chi vuol governi più o men
consultativi, e chi deliberativi; ondechè in somma sono dappertutto
e indubitabilmente riaccostate le parti. E se questo non si dica
progresso o miglioramento di civiltà, io non so più veramente che sia
civiltà o miglioramento.

7. E da tal progresso universale, è venuto, viene e verrà
immanchevolmente un progresso importante italiano. Ei s’ha un bel
dire da’ parteggianti estremi di qua e di là, e talor pure da alcuni
intermedii, che non bisogna prender nulla dagli stranieri, nulla
dall’opinione fuor di patria, nulla da oltremonti ed oltremare. Le
parti, le opinioni patrie lascian dire, e continuano a prendere, e
prender molto. Nè questa è novità; ei fu così dal principio del mondo;
ed io conforterei questi gravi politici e scrittori a studiar su ciò un
po’ più di storia; a studiarla non ne’ compendiuzzi, ma ne’ monumenti
originali e contemporanei ad ogni età antica ed antichissima. E
vedrebbono che, a malgrado delle comunicazioni poco frequenti, od anzi
perchè queste comunicazioni furono fin d’allora molto più frequenti
che non si dice, le forme de’ governi, le civiltà furono pur molto
più simili, e furon dunque molto più prese che non si crede, da un
paese all’altro; che all’origine fu universale un cotal governo misto
naturalmente di regno, aristocrazia e democrazia, il quale durò poi
nelle genti germaniche fino a Cesare e Tacito, che lo descrissero; che
dopo questo fu sparso in tutta l’Asia quel governo che si suol chiamare
de’ grandi despoti orientali, e fu più propriamente di re grandi
imperianti sui piccoli, il governo dei Re de’ Re, dei Melek-malachim,
dei Shahin-sha, dei Kakan, dei Maharadja; che fu al medesimo tempo
o poco dopo universale nell’Europa meridionale Grecia, Italia, e
forse Iberia e Gallia, il governo delle repubblichette federative;
che furono soggette poi Asia ed Europa insieme sotto un solo imperio;
e che, caduto questo, fu universale il governo dei regni barbarici,
alla tedesca, di nuovo misto dei tre elementi primitivi; ed universale
poi la feudalità od usurpazione aristocratica; universale poi (salva
l’Italia) la riunione de’ re e de’ popoli contro a quell’aristocrazia;
universali quindi i regni consultativi, cadenti in assoluti; ed
universale ai nostri dì il sollevamento estremo contro a questi, e
finalmente il ritorno moderato a’ regni consultativi e deliberativi.
— E si crederebbe tener l’Italia isolata da queste universalità? Ai
nostri dì? Ma non è possibile quando fosse bene; non sarebbe bene
quando fosse possibile. L’Italia non è isolata nè isolabile; non è
per la natura sua, colle sue frontiere, che non la dividono da due
grandi nazioni progredienti, colle sue marine, che la riaccostano a
tutte l’altre; e tal sarà men che mai, ora che l’universa Cristianità
si porta nel Mediterraneo. È bene o male? Così è. Ma non è poi male
certamente, posciachè le opinioni europee si son moderate, non è male
che noi siam ridotti a prendere tal moderazione. Io credo che l’Italia
sia ancora il paese dove rimangono più repubblicani; è bene grande
che noi prendiamo dal resto della Cristianità europea le opinioni
antirepubblicane. L’Italia è, tranne Russia, il paese dove sono meno
ordinati i governi a consultativi o deliberativi; è bene che si prenda
l’uno o l’altro ordinamento. L’Italia è il paese dove le due parti
sono per anco più discoste; è bene grande che prendiam di fuori il
riaccostamento. Quando i repubblicani nostri sieno diventati non più
che partigiani dei governi deliberativi, e gli assolutisti non più che
partigiani del governo consultativo, le dissensioni saranno diventate
molto meno acerbe, la divisione meno larga; le parti meno ostili; e le
unioni tra principi o popoli, tra governanti e governati, tra nobili
e plebei, tra stato e stato molto più avanzate. Prendiam pure di fuori
gli esempi d’unioni; non possiam prender nulla di migliore in generale,
nulla di più necessario in particolare all’Italia. E confortiamoci pur
del pensiero che non è possibile che noi prendiamo. L’utopia, il sogno
non è, nemmen qui, la partecipazione nostra futura a’ progressi della
civiltà cristiana; è che noi possiam tenercene isolati; o che il possa
chicchessia.

8. Ancora, la Cristianità è in PROGRESSO DI COLTURA. — E ciò pure
è negato da parecchi. Innocentissimi alcuni, per vero dire; i quali
in qualche angolo della Cristianità, da quello del loro studio o del
loro giornale, a cui non penetrano i frutti della coltura universale,
giudicano di questa da ciò che li circonda e che solo veggono;
ondechè, anche giudicandone sinceramente, ne giudicano per ignoranza
insufficientemente. Lasciamo costoro nella loro innocua impotenza; i
loro piagnistei non possono guari far danno, se non appunto intorno
a quegli angoli, dove non abbiam agio ad andarli cercare. — Ma altri
sono, i quali pur vedendo ed ammirando i progressi della coltura
cristiana, si meravigliano e si dolgono che non sorga di mezzo ad essa
niuno di que’ grandi ingegni i quali risplendettero già nelle passate
età; che la coltura più sparsa, sia quasi meno alta; ondechè dubitano
se abbiano o no a dirla progredita. Questo è dubbio molto più grave,
e che può sorgere non solo negli ingegni ben informati, ma forse
tanto più ne’ più alti, portati dalla loro altezza a non tener conto
se non dei loro pari. Ma a questi pure ci sembra aver già risposto
in parte, dove dicemmo: che la diffusione stessa della coltura, la
moltiplicazione degli scrittori, degli artisti e degli scienziati,
e l’agevolamento delle pubblicazioni, sieno quelli che lasciano men
comparire ciascun autore, ciascuna opera. E noi anderemo più oltre
qui: confesseremo che i progressi precedenti di tutte le colture sono
quelli che impediscono i presenti. Nè le lettere, nè le arti, nè le
scienze umane non hanno campi infiniti; molto limitati sono tutti
all’incontro; e quanto più è stato coltivato ciascuno, tanto meno ne
resta a coltivare. Nelle lettere, quando una lingua ha avuti da due
o tre grandi epici, due o tre grandi tragici o lirici, od oratori,
egli è molto difficile che sorgano altri eguali. Se imitano que’
primi, è lor difficile non cader nelle stentatezze dell’imitazione;
se cercano scostarsene, nelle affettazioni della novità. E quindi
si cerca quel rimedio di imitare gli stranieri; che sembra salvare,
ma non salva sempre dalle due difficoltà, e v’aggiugne quella di
adattare alla patria pensieri ed imagini che non sono intesi da lei.
E così nell’arti. Ei fu molto più facile esser buon pittore o buono
scultore, ma forse molto più difficile esser grande dopo Raffaello
o Michel Angelo. E quindi è, che anche i più ardenti nelle speranze
del progresso universale, ne sogliono escludere le lettere e le
arti; riconoscendo che giunte a una cotal altezza, elle non possono
innalzarsi più, elle ricadono necessariamente per risalire poi.
Ma io crederei che siasi per arrivare alla medesima conchiusione,
anche rispetto a quelle scienze materiali e spirituali che furono
dette campo di progresso indefinito. Certo nelle materiali, dopo i
grandi inventori vengono gli applicatori delle invenzioni; i quali
appunto stanno ai primi, come gli imitatori in letteratura ai grandi
ed originali scrittori. E quindi dopo due secoli d’un progresso
scientifico che non fu veduto mai l’uguale, dopo que’ sommi inventori,
Galileo, Newton, Leibnizio, Herschel, Lavoisier, Volta, e Cuvier,
venne l’età degli applicatori; grandi e poco minori che gli inventori,
i primi; ma via via minori quelli che seguono in questo campo, esso
pure non infinito, esso pure preoccupato. Quanto poi a quelle scienze
che hanno per oggetto o l’uomo materia e spirito, ovvero lo spirito
solo, politica, economia, storia e filosofia; elle sono, in che i
progressi anteriori impediscono forse più gli ulteriori. Tutte queste
scienze più o meno spirituali partecipano a un tempo alla incapacità
delle scienze materiali, ed a quella delle lettere; perchè procedendo
talora per invenzione, è inevitabile che dopo gl’inventori vengano
gli applicatori; e procedendo pure per esposizione letteraria, è
inevitabile che dopo i grandi ed originali scrittori vengano gli
imitatori. Ondechè in somma, nelle lettere, e nelle arti, e nelle
scienze materiali, e nelle miste, e nelle spirituali, noi sembriamo
giunti a quella età degli imitatori ed applicatori, che non può
se non parere inferiore a quella degli scrittori spontanei e degli
inventori. — Ma conceduto od anzi professato tutto ciò, ei non parmi
che sia per ciò a dir men progrediente la nostra età o quella che
prevediamo vicina. Due sono i progressi della coltura; è progresso in
lei l’innalzarsi, ma è pur progresso il dilatarsi. Non istanchiamoci
di tornare a ciò: che le lettere non sono fatte per i letterati, nè
le arti per gli artisti, nè le scienze per gli scienziati; ma quelli
e questi per il pubblico, per l’universale, per il genere umano. E il
genere umano approfitta forse più dell’estesa che dell’alta coltura;
o piuttosto, approfitta di tutte e due a vicenda; ha bisogno che
s’innalzino, ma pur che s’estendano le idee; e il più grand’uomo del
mondo, venuto all’età dell’estensione non farà se non estenderle,
perchè i grandi sono appunto quelli che fanno ciò che è fattibile,
ciò che giova più alla loro età. Il voler restringere la grandezza
agli inventori, il voler far privilegio od aristocrazia della coltura
fu ed è pretensione di alcuni; ma è la più stolta delle pretensioni,
è quella molto ben derisa col nome di pedanteria. I veri dotti non
hanno scopo nè piacere di lor dottrina se non l’utile universale.
Certo è un piacer solitario nell’imparare, nello scoprire, nello
scrivere stesso; ma non dura tal piacere, se non colla speranza di
comunicarlo altrui e di farlo diventar utilità; ed io non so se si
direbbe più pazzo o più cattivo colui che chiudesse in sè il frutto
dei propri studi. L’incertezza di quest’utilità è quella che più
tormenta qualunque buono e sincero studioso; è quella che gli pone in
mano la penna, e glie la fa cadere a vicenda; come la certezza o la
speranza d’aver diffusa qualche verità, è la sola degna ricompensa
di lui. Non abbassiamo noi stessi il mestiero; non ne facciamo una
speculazione di gloria o vanità, poco migliore che quella de’ danari;
e, non solamente consoliamoci, ma rallegriamoci che i nostri nomi
sieno oscurati fra molti pari o maggiori. Spogliamoci d’ogni invidia,
e confesseremo facilmente i progressi altrui, e quindi il progresso
universale. — E quindi confesseremo novelle universali speranze. Come
dopo l’età di spontaneità e d’invenzione è venuta quella di imitazione
e d’applicazioni, così dopo questa tornerà una di quelle probabilmente.
Ei si sono già avuti parecchi esempi parziali di siffatti ritorni.
Due ne furono dati dall’Italia; quando dopo l’imitatore quattrocento,
sorse il cinquecento, di nuovo inventore; e quando dopo il seicento
sorse il settecento, dico il settecento perdentesi nell’ottocento,
l’età di Parini, Alfieri, Lagrangia, Volta, Canova e Manzoni. Ed
Inghilterra pure, dopo l’età degli imitatori francesi, ebbe l’età di
Byron e Scott. Nè è improbabile, quandochesia, un simile rinnovamento
delle lettere cristiane tutte intiere. È appena incominciata la
liberazione di esse dalla vana imitazione antica; e se, come quasi
ogni liberazione al suo principio, questa fu licenza, già si ritorna
dall’esagerazioni, e se rimarranno opportunamente cristiane le lettere
della Cristianità. Ancora, la comunicazione reciproca delle varie
letterature nazionali, e lo spandersi di tutte in nuove regioni, e
l’arricchirsi esse quindi di nuove immagini e nuovi fatti, sembrano
dover produrre un accomunamento e una moltiplicazione d’idee, che sarà
ricchezza e novità delle lettere e dell’arti future. Ancora, benchè
sia più difficile a prevedere il futuro delle scienze materiali, non è
improbabile nemmeno in esse, che, esauste le applicazioni, moltiplicati
i fatti e gli sperimenti, sorga qualche nuovo ingegno, ricco di
quella facoltà sintetica che è somma delle scientifiche, a raccorre
insieme i fatti ed a creare alcuna di quelle teorie le quali sogliono
disprezzarsi dagli ingegni minori, ma essere scopo de’ maggiori. Qui
come altrove non è se non il volgo che dica non rimaner nulla o poco a
fare; non è se non il volgo a cui la difficoltà di capire tutto ciò che
è fatto tolga la facoltà e il desiderio di far più. Qui come altrove
i grandi ingegni si fanno scala dal fatto al fattibile; ed io odo
alcuni di essi aspirare a quella teoria della materia imponderabile,
la quale se sarà data al genere umano, incomincierà una nuova Età
scientifica pari a qualunque delle maggiori. Ad ogni modo già certo e
incominciato è il progresso di tutte quelle scienze che noi chiamammo
spirituali miste, e spirituali pure. In tutte queste il più grande
de’ progressi è la moderazione, è il vedere i propri limiti, il
restringersi in essi; è il non tentar l’inarrivabile, l’infinito,
l’assoluto. E questo progresso si va facendo incontrastabilmente. Non
ha guari si cercava l’ottimo de’ governi, la forma unica di libertà;
or si viene da tutti i pratici e sapienti a riconoscere una varietà
troppo grande nelle condizioni nazionali, perchè non sia utile pure
una varietà nelle forme de’ governi; ed è messo in cima del grande
e cristiano governare piuttosto l’estendere la libertà, che non il
tendere ad una quantità o qualità determinata di essa; piuttosto il
conservare e progredir bene insieme, che il progredir sempre, o solo,
o netto. Pocanzi gli economisti davan le ricchezze come scopo di loro
scienza; e chi le vedeva nella terra sola, chi nel solo commercio, chi
nell’industria, chi meglio nel lavoro. Ma or meglio ancora, si viene
a prendere per iscopo delle ricchezze e di ogni operosità, il buon
costume, la virtù. E gli storici (non dico i parolai, che proseguon
l’arte, non la scienza) pretendevano a una quasi indipendenza della
scienza loro da tutte l’altre, pretendevano a trovar nelle azioni
umane le cause e il fine di esse, isolavano il genere umano dal mondo
superiore, il riponevano (quasi rinnegando Copernico e Galileo) al
centro dell’universo, od anzi (rinnegando Cristo e la Provvidenza)
facevano dell’uomo un essere indipendente, una non-creatura, quasi un
Dio; e chi ne faceva poi un Dio stolto, andante a caso, senza ragione,
e chi peggio, un Dio sempre ragionante nelle azioni sue. Ora poi,
già si ritorna a riammettere una Provvidenza, una Cristianità, una
direzione superiore alla terrena; or la storia si va rifacendo sorella
dell’altre scienze spirituali, della filosofia cristiana. E questa
finalmente, è risorta a quella sua moderazione nativa che sta appunto
nel riconoscere nel mondo un ordine di fatti soprannaturali, nello
spirito un ordine d’idee inarrivabili alla ragione pura, arrivabili
alla ragione illuminata dalle comunicazioni con Dio, dalla rivelazione.
Questo progresso sommo della filosofia è tutto contrario a quello
annunciato da lei pocanzi, a quel progresso che doveva consistere
nel por sè in luogo della rivelazione, nell’eliminar i fatti, le idee
soprannaturali. E il fallimento di queste speranze è quello appunto
che conduce, e, come par che Dio voglia, condurrà ogni dì più alla
restaurazione della vera filosofia. Già una volta, all’ultima delle età
antiche, la filosofia pura d’ogni soprannaturalità dimostrò la propria
insufficienza; in Grecia e Roma, nell’India, nella Cina; e la dimostrò
tanto più, che erano pur grandi i filosofi greco-romani, indiani o
cinesi. Ora un’altra volta, quella medesima pura e razional filosofia
prova e dimostra la propria insufficienza; e la dimostra tanto più, che
grandi pure furono gli ultimi filosofi francesi, inglesi e tedeschi.
Dopo due tali prove (perciocchè anche l’ultima par finita, e confessata
oramai col silenzio di molti filosofi puri, e col ritorno di altri alla
filosofia soprannaturale), dopo due tali prove sembra impossibile che
il ritorno principiato alla vera filosofia non prosegua ed acceleri
il corso suo. I nostri due gran filosofi, Rosmini e Gioberti, non
hanno solamente, come credono alcuni, mantenuta sana la filosofia
nazionale; hanno innalzata la filosofia universale a ciò che è oramai
il sommo ufficio di lei, a ritrovare i nessi tra la ragione pura e la
rivelazione. Schelling, il gran filosofo tedesco, si rivolse a ritrovar
più o men bene altri di questi nessi, che sono infiniti. E Cousin, il
gran ravviatore della filosofia in Francia, accennò già quello che è il
più chiaro, il più stretto, il più fermo de’ nessi, il nesso storico; e
compierà egli forse un dì la magnifica opera sua a pro della filosofia
universale, o se non la compierà, ella non può tardare ad essere
compiuta da alcuno de’ suoi scolari o seguaci o successori. — Ad ogni
modo e di nuovo, se questo, qual è già, non si vuol dire progresso e
cristianissimo progresso, ei bisogna inventar parole nuove e rinnegar
le antiche più unanimemente intese in lingua italiana e in qualunque
altra.

9. Ed a questi progressi universali della coltura partecipa e
parteciperà certamente l’Italia. La partecipazione reciproca,
l’accomunamento delle colture, è fatto anch’esso più antico che non
si crede. Ma, ei raddoppiò di forza poi, al dì che fu inventata la
stampa; niuno è che il debba saper meglio che gl’Italiani, i quali
ebbero fino a quel dì e perdettero d’allora in poi quel primato che
era quasi monopolio di tutte le colture. Da quattro secoli le colture
s’accomunarono così, che or corre in esse molto minor differenza tra
l’una e l’altra nazione cristiana europea od anche americana, che non
corresse tra l’una e l’altra provincia, o talor tra l’una e l’altra
città italiana del medio evo; corre meno differenza tra la coltura
presente di Parigi e New-York, che non corresse tra Milano e Torino.
Eppure io crederei che quest’effetto della stampa, venutosi accrescendo
per i quattro secoli passati, s’accrescerà ancora negli avvenire. Non
fu fatta ai nostri dì, per vero dire, niuna invenzione ulteriore che
possa parere così grande o aver tanto nome come quella della stampa;
ma ne furono fatte parecchie piccole, che tutte insieme valgono una
grande. Il torchio a macchina e che stampa doppio, la stereotipia,
la politipia, la fabbricazione agevolata della carta, oltre poi alle
leggi ed ai trattati della proprietà letteraria, oltre a’ trasporti
accelerati ed agevolati, fanno e faranno i libri molto più volgari
che non fosse fatto quattro secoli fa dalla grande invenzione. — E,
a malgrado di ciò, vorrebbesi da alcuni mantenere isolate le colture
nazionali! E si ha fiducia nelle linee doganali e nelle critiche per
escludere le colture straniere! Ma questi sì che son sogni in qualunque
paese d’Europa si facciano, e, più che altrove, nell’Italia, così
aperta a tante introduzioni. Noi il dicemmo, l’industria letteraria
è soggetta alle medesime leggi che ogni altra; e quanto più si scema
la qualità e la quantità di questa produzione nazionale, tanto più
si moltiplicano le domande di produzioni straniere; e moltiplicate
che sono tali domande, ei si ha un bel chiuder le vie, e raddoppiar i
posti o le linee doganali, le produzioni molto domandate trovan sempre
aditi tra posto e posto, ed attraverso a quante linee si voglian porre.
Peggio poi avviene a que’ censori dilettanti che vorrebbono escludere
le imitazioni straniere col logoro strumento di lor critica letteraria.
Questi, non avendo a lor servigio impedimenti materiali, non fanno
assolutamente nulla colle loro esortazioni contrarie all’andamento
universale; fanno così nulla, che t’accade di veder continuamente,
non dico il compagno o l’amico di uno di tali censori, ma esso stesso
il censor dilettante, colui che grida come critico, come giornalista
contro all’introduzioni, essere poi grande introduttore di modi e
idee straniere nelle sue prose o poesie; e, che più è, far prose
e poesie lodate; e, che è più, a ragione lodate, appunto per ciò.
Deh che non si mettono in pace costoro? Perchè non s’adattano a ciò
che, sia fortuna o sventura, è invincibile? A ciò che ha vinti essi
stessi? Perchè non volgono l’ingegno dalle inutilissime generalità,
a quelle che sarebbero utili distinzioni? Dal vituperare in corpo
le cose straniere al distinguere ciò che vi sia da imitare, ciò che
da fuggire? Perciocchè le lettere straniere sono come le nazionali
nostre, le moderne come l’antiche, le romantiche come le classiche;
vi è da imitare e da fuggire in tutte; e i buoni ed utili critici son
quelli che prendon la fatica di tutto ciò distinguere, non quelli che
facilmente e pigramente gridano in corpo contro questo o quel genere
o quel paese, o quell’età. — Del resto questa grettezza è particolare
di noi letterati. Gli scienziati non l’hanno; danno e prendon fuori,
senza conto reciproco. E gli artisti stessi, quegli artisti italiani
che avrebbon forse tanta più ragione di non prender nulla di fuori,
gli artisti nostri essi pure danno e prendono senza conto. Sarebb’egli
che gli scienziati e gli artisti nostri si sentano meno inferiori?
Certo, chi tanto fugge i paragoni mostra temerli. E ben so che mi si
dirà qui, dovere le lettere di natura loro rimaner più nazionali che
non le scienze e l’arti. Ed io aderirò fino a un certo punto a tal
sentenza. Assomigliando alle scienze, tutte quelle parti delle lettere
che s’aggirano su qualche parte di scienza, la storia, la filosofia,
la politica, l’economia pubblica, le quali debbon dare e prendere esse
pure non meno fuori, che in patria; concederò che quelle le quali si
soglion chiamar propriamente belle lettere, le poesie, i romanzi e le
orazioni, debbano serbar più nazionalità, più specialità, più di quello
che con parola nuova si suol chiamar color locale. È naturale: lo stile
e la lingua fanno il merito principale di queste composizioni; e le
lingue debbono tenersi pure, rimaner differenti l’una dall’altra anche
in mezzo all’accomunamento delle colture. Ma primamente, ridotta a ciò,
ridotta alla lingua, alle parole, l’esclusione delle cose straniere,
ella rimarrebbe men difficile e men dannosa senza dubbio. Ma poi, è
egli ben certo che anche nella lingua non sia niun progresso, niun
esempio buono a prender di fuori? Che, per esempio, quel modo così
semplice di costruir la frase naturalmente, senza inversioni, senza
periodoni, il quale è seguito oramai universalmente in tre lingue,
l’inglese, la francese e la spagnuola, e che incomincia ad accettarsi
anche nella tedesca, non possa, non debba forse accettarsi da tutte,
e principalmente dalla nostra? Ma io mi fermo; chè non ho luogo di
entrare in particolari; di spiegare come quella costruzione, sola
naturale, non sia contro al detto da molti, noiosa mai; come essendo
sola logica, ella sia destinata a passare in tutte le letterature dove
si voglia pur logizzare; come, essendo sola chiara, ella sia destinata
a passare dovunque si possa e voglia parlar chiaro; come il Botta, che
tanto loda le inversioni e i periodoni, ne faccia pochissimi, e come
pochi ne facessero i nostri trecentisti. E ben so di scandalezzare
i nostri puristi di lingua e nazionalità, con tali proposizioni non
ispiegate; ma io scandalizzerei forse più se le spiegassi. E ad ogni
modo il mio intento qui non fu se non d’accennare che nella lingua
stessa e nelle opere di bella letteratura, e più nelle lettere più
scientifiche, e più nelle scienze propriamente dette, e nell’arti, e
in tutte insomma le colture, ei si darà e prenderà ogni dì più dagli
uni agli altri; e così si riunirà, si rinforzerà e si dilaterà quella
che è già detta da gran tempo repubblica letteraria della universa
Cristianità, nella quale entrerà pur ella la patria nostra. — Nè (siamo
sinceri od anzi umili noi altri letterati), nè questo è il progresso di
lei sul quale si fondino le maggiori nostre speranze. Ma anche questo
vi può conferire. L’entrar meglio nella repubblica delle lettere, può
aiutarci a tener meglio il nostro luogo nella repubblica delle nazioni
cristiane.

10. Ma di ben altra importanza è l’ultimo dei progressi della
Cristianità che noi abbiam presi ad esaminare; IL PROGRESSO DI VIRTÙ.
— E questo è, per vero dire, il più negato fra tutti, dai disperanti
e piagnoni del secolo nostro. Concedono essi sovente i progressi
materiali, e concedono talor tutti quelli della coltura od anche della
civiltà, e dell’unione o della dilatazione della Cristianità; ma si
tengon fermi a negare che ella sia progredita in virtù; asseriscono
che questa è uguale in tutti i secoli[45], od anche peggio, che è
cadente, caduta nel secolo nostro, destinata a cadere ulteriormente
ne’ secoli futuri. Che anzi; alcuni sono, che di tal questione,
tutta storica o politica, pretendono fare una questione religiosa;
e, mal imitando l’eloquenza dei pulpiti e delle cattedre cristiane,
affettano di piangere o tuonare essi pure contro al secolo ed al mondo,
e si profferiscon così, non chiamati, ad aiutare i predicatori veri
della nostra chiesa. Ma questa è una grande illusione, od una grande
arroganza e un grande abuso; corre tra i predicatori ecclesiastici, e
questi secolari dilettanti, una grandissima, una radical differenza.
I predicatori veri, i chiamati e mandati, hanno dinanzi a sè
continuamente un’idea, anzi un modello reale e divino di virtù; al
quale essi han missione di far riaccostar gli uomini perpetuamente,
al quale gli uomini non arriveranno mai, al quale dunque essi hanno ed
avranno perpetuamente ragione, diritto e dovere di sgridar gli uomini
di non accostarsi più e più; ragione, diritto e dovere di riprendere
il secolo qualunque sia, e il mondo perpetuamente. Ma il caso è tutto
diverso per que’ moralisti o filosofi o storici o politici od oratori
o discorritori profani, i quali, instituendo il paragone degli uomini
presenti, non col modello divino inarrivabile, ma solamente con gli
uomini di altri secoli, non han ragione nè diritto di dirli peggiori
o migliori se non confrontando conscienziosamente e scientemente
(perciocchè la scienza diventa dovere nelle discussioni scientifiche),
confrontando dico, i fatti umani de’ diversi secoli, tra sè. Benchè,
anche prima d’istituir qualsivoglia confronto, questi e qualsiasi
cristiano han ragione di credere ed asserire che il Cristianesimo,
instituito per ben degli uomini, deve pure, non può non aver prodotto,
sopra ogni altro, il progresso di virtù. Tutti gli altri progressi,
di coltura, di civiltà, di unione, di dilatazione del Cristianesimo,
sono un nulla, non avrebbono servito a nulla senza questo; non possono
avere avuto nella mente divina altro scopo che questo, del progresso
di virtù. Sappiamo innalzarci una volta, e non lasciamo che l’eccesso
del rispetto ci impedisca di guardare alle verità conceduteci, ci
impedisca di sentire tutta la gratitudine che dobbiamo al divin
fondatore del Cristianesimo; interniamoci anche noi uomini di quaggiù
in quell’idea divina che è forse chiara agli spiriti superiori, ma
che è anche a noi conceduta. A che avrebbon servito dagli apostoli
fino ai presenti i predicatori veri, sacri, e mandati, se non avessero
prodotto d’allora in poi il solo frutto degno di lor missione, il
frutto di virtù? Il frutto stesso di verità sarebbe stato inutile
senza il frutto di virtù; nè col lume naturale della nostra ragione,
nè molto meno con quello soprannaturale della rivelazione, noi non
possiamo concepire un Dio che si fosse contentato di spandere tra
gli uomini una verità sterile, improduttiva di virtù. Lascino dunque
costoro la questione religiosa, la quale troppo facilmente si scioglie
contra essi; e riducendola poi a storica, prendansi la poca fatica
di aprir qualche storia, qualche raccolta di fatti. — E quindi, io
li conforterei prima ad aprire alcune di quelle descrizioni che sono
numerose a’ nostri dì, delle nazioni acristiane, e non dico delle più
barbare o selvagge, ma delle asiatiche più incivilite, Turchia, Persia,
India o Cina. Ivi, oltre alle innegabili decadenze, alle imminenti
cadute di quegli imperi, di quelle civiltà e di quelle religioni, essi
vedranno tali particolari di costumi e vizi d’ogni sorta da farli a un
tratto rivolgersi, se pur sien cristiani, a benedir la Provvidenza di
essere nati cristiani; da farli prostrare, se sien umili cristiani,
a benedirla di non trovarsi in mezzo a tali pericoli; da persuaderli
una volta dell’immensa differenza che è tra la virtù cristiana e non
cristiana, e quindi dell’innegabil progresso fatto fare agli uomini da
questa. Ma non basta loro e vogliono essi particolari? Aprano qualunque
libro un po’ particolarizzato di storie o memorie di qualunque
nazione cristiana, nell’età barbare, o in quella della feudalità, o
in quella di Carlo V o di Ludovico XIV, o di Ludovico XV, di Federigo
e Catterina; e paragonino di nuovo que’ costumi, que’ vizi, quegli
scandali coll’età presente; e ne risulterà di nuovo in ogni sincero
la medesima persuasione. E finalmente, se sono della generazione de’
vecchi, si ricordino, e se son giovani, credano a noi od alle numerose
memorie de’ nostri coetanei; e vedranno quali innegabili progressi
di virtù siensi fatti, all’età nostra stessa: in Francia dai costumi
pubblici e privati del Direttorio o dell’Imperio a quelli della
Restaurazione e della Rivoluzione del 1830; in Inghilterra dal principe
e la principessa di Galles a Vittoria Regina; in Ispagna da Carolina e
il Principe della Pace a quanti vi si vide anche in mezzo agli ultimi
pervertitori turbamenti; e così poi in Portogallo, in Italia, in
Prussia, in Austria, in tutta Germania, e fino in Russia. Tutti questi
son fatti chiari, a cui sopravviviamo noi testimoni a migliaia; son
fatti che fanno evidente la menzogna, l’error colpevole per volontà
o per ignoranza di coloro che vituperano i costumi, la virtù del
secolo nostro in paragone degli altri. — Certo questa non è perfetta;
nè tal sarà quella di niun secolo mai, certo sono e saran passioni
sempre, e colpe e delitti; certo i governi n’avranno a punir sempre;
e certo i veri predicatori avranno a predicar sempre contro essi, ma
mente contro alle nostre rimembranze, mente alla storia di tutti i
secoli, mente al paragone della virtù cristiana con tutte l’altre, ed
oserei dire che mente all’istituzione stessa del Cristianesimo, chi
nega al Cristianesimo l’efficacia della virtù, alla Cristianità il
progresso di virtù. — Ed anche qui vorrei avere spazio da estendermi;
vorrei poter comparare le esagerate virtù antiche colle presenti;
vorrei rispondere a coloro che si scandalezzano del lusso presente,
quasi avesse a far nulla con quello degli antichi; a coloro che non
capiscono quale immensa differenza sia surta tra i due dall’abolizione
della schiavitù e dalla introduzione della carità. Vorrei premunire i
leggitori contro a quella esagerazione, men cattolica che protestante,
la quale per ricondurci agli usi, alle discipline della chiesa
primitiva, deprime troppo gli usi, le discipline, i costumi della
chiesa e di tutto il secolo presente. Vorrei premunire contra altri
simili confronti che si fanno col secolo XIII, o coll’XI, o con non so
quali altri del medio evo, i quali, dicesi, ebber più santi; quasi le
virtù eroiche di que’ santi non provassero appunto che era necessario
l’eroismo per mantenersi allora nelle virtù, fatte tanto più facili
ai dì nostri. Ma parecchi di questi assunti toccano appunto a quelle
scienze ecclesiastiche di che io mi tengo lontano, per non cader ne’
vizi e negli errori di que’ predicatori dilettanti i quali presero o
si fecero dare il nome assurdo di neocattolici. E del resto, tutto ciò
sarebbe di tale importanza da sforzarci non che ad uno, ma a parecchi
trattati speciali. Ondechè, contentandoci della proposizione generale,
che crediamo non sia dubbia a niuno assennato e sincero cristiano,
aver il Cristianesimo fatto progredire ed essere per far progredire la
Cristianità in virtù, noi passiamo a considerare l’accrescimento ultimo
e massimo che ne viene a tutte le speranze italiane.

11. E portiamoci, a un tratto, in mezzo al punto essenziale della
questione. Il vizio essenziale della patria nostra è l’ozio; l’ozio,
a cui siamo invitati dal dolce clima, dal bel paese nostro; a cui
fummo avvezzi più o meno da tre secoli; in cui siamo mantenuti dalla
natura de’ nostri governi, che non chiamano il comune degli uomini a
niuna deliberazione; a cui siamo sforzati dall’oppressione straniera,
che c’impedisce tante operosità incompatibili colla dipendenza.
L’ozio, il beato far niente, od anzi (come udii riprendere sè stesso
un uom di stato italiano) il _beatissimo far niente_; la massima
(che fu d’un altro, il quale sarebbe stato grande fuor d’Italia),
la massima che _il mondo va da sè_, sono il gran vizio italiano.
Popolani piccoli, popolani _grassi_, commercianti, nobili o grandi,
uomini di stato e di chiesa, e principi, quasi tutti cadono più o
meno in questo vizio. Non è vizio nativo, naturale, posciachè noi
fummo la nazione più operosa del mondo; ma è oramai vizio vecchio,
nazionale. Non è ozio del seicento, perciocchè già da un secolo e mezzo
ne andiamo uscendo un poco; ma è grande ozio tuttavia, al paragone
della operosità contemporanea del resto della Cristianità. Non è
ozio all’Orientale, ma è ozio ancora anticristiano. — Ma la grande
operosità altrui è quella appunto che ci debbe dare speranze. Qui men
che altrove non servono isolamenti e dogane; l’operosità cristiana
c’invaderà (s’intende se l’aiutiamo) sempre più. Gli stranieri ci
venner già oppressori o corruttori, o l’uno e l’altro insieme. E di
tali ci restano in seno molti pur troppo; e di tali ce ne arrivan
talora. Ma sappiam distinguer da questi, tutti coloro che ci recano, il
rimedio a tutte le corruzioni, le loro operosità; scienziati, artisti,
commercianti, uomini di mare e militari, tutti quelli specialmente
che ci dan l’esempio e la spinta in mezzo al nostro Mediterraneo, e
verso quell’Oriente, onde ci ha a ritornare riaccresciuta la nostra
operosità. Apriam pure le porte a siffatti stranieri; concediam loro
quell’ospitalità italiana, già troppo facilmente conceduta agli oziosi
e corruttori, già troppo male lodata da costoro. Facciamo a casa
nostra ciò che fanno essi alle loro; non accettiam guari altre lettere
di raccomandazione o d’introduzione se non il merito di ciascuno, il
capitale d’opere o almen d’idee ch’ei viene aggiugnere alle nostre. —
E non contentiamoci poi di accogliere e lodar tali ospiti. Aiutiamoli
ed imitiamoli. — Epperciò non solamente accresciamo l’operosità nostra,
ma volgiamola nella sola direzione che sia buona oramai; in quella del
progresso cristiano. Questo aiutiamo; di questo aiutiamoci; epperciò
sappiam vederlo, confessarlo, professarlo ed anche nominarlo. I nomi,
le parole anche esse sono doni di Dio; e il rinnegare quelle che sono
universalmente accettate in ogni secolo è, se non colpa, gran pericolo;
è quasi rinnovamento della confusione babelica, è diminuzione delle
idee acquistate dalla propria generazione. E quindi parvemi accettare
quella di progresso; senza badare agli abusi fatti di essa, come di
tante altre scientifiche, politiche ed anche religiose, le quali non si
rigettarono perciò. Ma m’inganno io forse? E la parola progresso è ella
più abusata che ben usata, più da rigettarsi che da accettarsi, non
corretta, non determinata abbastanza dicendo cristiano quel progresso?
Trovisi qualunque altra da uno di que’ tanti che son vaghi di novelle
nomenclature, e le prendono o danno per invenzioni; trovisi qualunque
altra per esprimere la serie di memorie, di fatti presenti e di
speranze che noi abbiam comprese sotto il nome di progresso cristiano.
Ma questa serie è importante il nominarla, e più il confessarla e
professarla colle opere, coll’intiera vita. È importante a’ principi,
uomini di stato, scrittori, scienziati, artisti ed anche privati di
qualsiasi nazione; perchè quanto operano ed opereranno in tal senso
dell’operosità universale rimarrà, aiutato da questa, a gloria loro,
e, che è più, ad utile del genere umano; quanto operano ed opereranno
in senso contrario sparirà, sarà nullo, o non rimarrà se non più o men
compatito, come sprecamento di opere fuor delle vie della Provvidenza.
— Ma più che ad ogni uomo è importante ad ogni nazione; perchè ogni
uomo può sì esser virtuoso, seguendo quei semplici precetti che son
compresi in qualunque dottrina cristiana, senza rendersi conto della
alta mira, anche terrena, di essi; ma a congiungere le operosità, le
virtù personali in nazionali, sono necessari uno scopo materialmente
visibile, una via largamente aperta; il quale e la quale poi non
possono essere oramai se non lo scopo e la via della cristiana
operosità. Questa fu sempre la principale, ma ora è la sola sull’orbe,
non lascia luogo a nessun’altra; fuor di questa non è salvezza, nemmen
terrena; qualunque nazione non entri in questa, non vi prenda l’ufficio
suo, non ne troverà altro; cadrà in inoperosità, in vizi, sventure e
vergogne. E badivisi bene poi; ogni nazione ha dalla natura, dalla
situazione sua, di necessità, l’ufficio suo nella Cristianità. Son
passate o presso a passare le età de’ primati comprendenti quasi tutte
le operosità, de’ primati onnipotenti ed onnioperanti. Incomincia o
sta per incominciare l’età, che ogni nazione cristiana potrà e varrà
secondo il proprio ufficio, non primeggerà se non nel cerchio di esso,
lasciando primeggiare ogni altra nel suo; e l’ufficio, il primato
parziale di ciascuna si fa più chiaro, ogni dì. La nazione britannica
può più ch’ogni altra, e primeggia su quasi tutti i limiti della
Cristianità, in diffusione di territori, di schiatte, di commerci, di
civiltà cristiane. La nazione francese può e primeggia in diffusione
religiosa e civile al limite affricano, e in diffusione di colture
nell’interno della Cristianità. La nazione germanica può e primeggia
nell’ufficio di distruggere tutte le reliquie de’ primati universali,
s’accosta in industrie alla britannica, in civiltà alla britannica
e francese, le supera in liberalità di commerci, le agguaglia o
supera in intensità di studi; ha forse ufficio di ricondurre essa a
quell’unione religiosa da lei distrutta or son tre secoli; e non può
se non essa aver l’ufficio d’inorientare il territorio europeo della
Cristianità. La russa non può se non essa aver l’ufficio d’inorientarla
ulteriormente; avrebbe quello di ripopolar di cristiani tante regioni
già fiorenti, or deserte in temperatissimi climi, e quello di popolare
le settentrionali estreme. Ed a Polonia, a Grecia, a Spagna pure,
si faranno chiari i propri uffici, quando escano, la prima da quella
dipendenza assoluta che non ne lascia adempier nessuno, e la seconda e
la terza da que’ noviziati d’indipendenza e libertà, che li lasciano
adempiere male. E così tutti gli stati americani, pur novizi; e così
quanti altri cristiani sorgessero. A tutti, o quando entrano nella
gran società, o quando rientrano nella grande operosità, è forse
inevitabile un tempo di noviziato; ondechè la grand’arte agli entranti
o rientranti è abbreviare il noviziato, entrare o rientrar pronti
ed alacri nell’operosità, nell’ufficio. — E così sia a noi, o miei
compatrioti principalmente; sia arte e virtù nostra, il rientrar pronti
ed alacri nell’operosità, nel progresso universale; epperciò vedere,
riconoscere, accettare ed adempiere i nostri uffici in essa; tutti gli
uffici nostri, non meno e non più. I quali, mutate le età, non sono
nè possono esser più nè di riunire il mondo occidentale, riunito da
XIX secoli, nè di far sorgere la civiltà e la coltura cristiana, surte
da IX; non sono nè posson essere di restaurar il primo nè il secondo
primato nostro, nè d’instaurarne niuno simile, assoluto, universale.
Ma sono pur belli e grandi, e da contentare qualunque ambizione
nazionale gli uffici a che possiamo e dobbiam pretendere tuttavia.
Noi possiamo primeggiare in quell’arti liberali che sono uno dei più
bei fiori della civiltà e della coltura, e nelle quali non sorse mai
nazione, non la greca stessa, pari a noi, e in alcune delle quali noi
serbiamo oggi ancora, perduti gli altri, il primato. Noi possiamo
forse primeggiare di nuovo, ma possiam certo pareggiar chicchessia
in quelle lettere a cui strumento abbiamo una delle più belle lingue
che sieno state mai. E noi possiamo primeggiare o pareggiare in
quelle scienze in cui primeggiò primo fra’ moderni Galileo, ed in cui
Lagrangia e Volta pareggiarono testè i più grandi. E noi potremmo e
dovremmo non rimaner secondi a nessuno in quelle industrie, in quei
commerci in che primeggiammo già finchè lor vie furono per il nostro
Mediterraneo, in che scademmo per non aver seguite le vie mutate, ma in
che dobbiamo poter di nuovo, or che si riconducono quelle tutto intorno
alle nostre costiere, tutt’attraverso alle nostre acque. E possiamo
e dobbiamo poi primeggiare in quell’ufficio massimo di circondar noi
immediati la sede centrale della Cristianità, di difenderla, di tenerla
e farla compiutamente indipendente. Quest’è il principale ufficio
nostro (svelato, dichiarato, fatto incontrastabile in tutte l’opere
del Gioberti); quest’è l’ufficio il quale, piaccia o dispiaccia,
paia piccolo o grande, accettisi ringraziando o rassegnandosi, è
incontrastabile, è naturale, è costituzionale a noi, dura e durerà
quanto la Cristianità; l’ufficio per cui adempiere i migliori dei
nostri padri spesero il sangue di generazioni e generazioni; per cui
non dovremmo negar noi il nostro, se non che noi avremo a spendervi
probabilmente meno sangue che virtù. — Ma sangue o virtù, noi
dobbiamo spendere quanto è nostro nell’adempimento di questi uffici
nostri, epperciò di quell’indipendenza che n’è indispensabil mezzo.
In età barbare od uscenti di barbarie, poteva bastare l’indipendenza
incompiuta, col desiderio di compierla. Ma in età progredite, non serve
se non la compiutissima; perchè l’altre nazioni che l’han compiuta
ci soverchiano con ciò in modo da umiliarci, se non opprimerci, e
che agli umiliati non meno che agli oppressi non può restar capacità
di adempiere bene niun ufficio. Le arti non possono sollevarsi, le
lettere non possono esistere, le scienze stesse patiscono; i commerci
non si svolgono per gli umiliati dalla dipendenza, in mezzo alla quale
è poi del tutto impossibile adempier l’ufficio di ben circondare la
sede centrale della Cristianità. L’indipendenza è un dovere a tutte
le nazioni senza dubbio; ma all’altre è uno di quei doveri verso
sè stesse, nel cui adempimento non ha ad entrar altri a giudicare
e meno ad operare. Ma a noi è dovere non solo verso noi, ma verso
l’universa Cristianità, cioè, ormai verso l’intiero genere umano; od
anzi dover più che umano, verso il divin fondatore e mantenitore della
Cristianità. Stima degli uomini, aiuti di Dio, non si ottengono, se non
adempiendo ciascuno, uomo o nazione, il proprio dovere. Fu così sempre;
ma or tanto più quanto più progredisce il genere umano; perchè quanto
più progredisce in esso ciascuno, tanto più ha bisogno per adempiere
il dover proprio, che ciascun altro adempia il suo. Non adempiremo
noi il nostro o per ignoranza o per negligenza, per non sapere o per
non voler riconoscere le condizioni universali della Cristianità?
Allora (io lo protestai già, e non vi fu atteso dai disperanti, a cui
giovava affiggermi il ridicolo predicato di speranzoso), allora, io
lo protestai e lo riprotesto, tutte le speranze che io sono venuto
moderatamente svolgendo, e tanto più quelle più magnifiche presentate
da altri, e quante altre sieno state o possano esserci presentate mai,
saranno vane. Sprecando in operosità dipendenti o troncate, od in vane,
od in ree, i doni fatti da Dio larghissimamente all’Italia, continuando
sogni, _mutando lato_ nel letto d’infermità, nel gran circolo vizioso
in che giacciamo da secoli, farem non più che mutar dipendenze e
sventure e vergogne; e dipendenze, sventure e vergogne ci terranno
afferrati nell’ozio, l’ozio ne’ vizi, ed ozi e vizi ci apparecchieranno
nuovi ferri. Adempiremo noi, o almeno proseguiremo noi, o solamente
incomincieremo noi a proseguire i nostri doveri nella Cristianità?
Allora, mentre cadranno da sè tutte le vane, tutte le ree speranze,
cresceranno d’altrettanto tutte le buone. Tutte le occasioni perdute
da’ maggiori non ci sgomenteranno più, quando ci paia naturale che si
perdessero nella barbarie o nella mezza civiltà o nella corruzione,
ma naturale che non si perdano più in mezzo alla civiltà presente. La
grande occasione della caduta e della divisione dell’imperio ottomano,
che ci parve probabile e buona studiandola in sè, ci parrà tanto più
probabile e più buona considerandola come uno degli eventi necessari
all’avanzamento della Cristianità. Se mancasse quell’occasione, noi
vedremo immanchevole qualche altra simile ed equivalente. Se si facesse
aspettare oltre ogni giusta previsione, non perciò dimenticheremo o
guasteremo l’impresa nostra precipitandola. Gli aiuti esterni, già a
ragione temuti, si temeranno meno venendo dalla Cristianità progredita,
a noi progrediti. Le unioni interne tra principi e principi, principe
e popolo, grandi e piccoli, tutte le unioni italiane, già così
rare e corte, si faranno più frequenti e più durevoli in mezzo alla
progredita Italia. E la virtù, quel sommo o solo mezzo che dicemmo
all’indipendenza, la virtù nostra ci sarà agevolata dagli esempi e
conforti altrui, quando li sappiamo accettare; in vece di cercar esempi
e consolazioni ai vizi dal paragone dei vizi. — Noi compendiamo già il
discorso nostro sulle speranze speciali della patria, proferendo un
solo scopo, l’indipendenza; un solo mezzo la virtù. Ma ampliate ora
le osservazioni nostre all’intiera Cristianità, ed accresciuteci le
speranze dalle crescenti condizioni di lei, aggiugniam pure arditi: che
l’indipendenza arrivata ci si farà mezzo a virtù ulteriori. Siffatto
circolo virtuoso è immanchevole, non meno che il vizioso opposto.
Così voglia il pietoso Iddio dar forza all’Italia d’uscir da questo,
per rientrare in quello finalmente; forza di cercar virtù come mezzo
necessario d’indipendenza, indipendenza come mezzo necessario di virtù.


CONCHIUSIONE

Io ho posta e cercata sciogliere nel presente libro la sola questione:
QUALI ABBIANO AD ESSERE LE SPERANZE D’ITALIA. Ora un’altra, il
riconosco, una forse di più concitante interesse, sarebbe a porre
e sciorre; QUANTO GRANDI POSSANO ESSERE QUESTE SPERANZE. Ma tale
scioglimento sarebbe, a parer mio, molto più difficile e molto meno
importante. — Sarebbe più difficile, perchè a determinare la quantità
delle speranze, ci si vorrebbe prima poter determinare la quantità
delle virtù nazionali, proporzionali essendo sempre le due. Chi dice
speranze, dice probabilità, non certezze; dice fatti eventuali, non
adempiuti; dice potere, non volere; dice cause, e non effetti; vuol
ispirare il sentimento delle cause presenti, affinchè producano effetti
avvenire. E quindi s’intende da sè (tranne da coloro che, per non
intendere, mutan senso alle parole d’uno scrittore, o peggio, mutano,
combattendolo, le idee di lui), s’intende da sè che il passaggio d’una
causa presente ad effetto avvenire, dipende poi da ciò che i filosofi
direbbero attuazione o virtù efficace, e noi dicemmo più semplicemente
virtù. E s’intende da sè che questa, or progrediente, può continuare
ad accrescersi, può fermarsi e può retrocedere, e s’intende da sè
che ciò dipende poi principalmente da que’ pochi uomini i quali si
trovan ora duci della nazione, duci de’ fatti nostri, duci delle
nostre speranze; que’ pochissimi il cui sommo privilegio è che le loro
virtù personali valgano per migliaia e centinaia di migliaia, nella
somma totale delle virtù nazionali. E queste virtù personali sono,
non che difficili, impossibili a conoscersi, a valutarsi da niun uomo
al mondo; sono anch’esse uno de’ segreti della Provvidenza. Tal uomo
che pareva aver in serbo grandi virtù non ne produce poi una mai,
tal altro non pareva averne nemmeno il germe, e dà frutti inaspettati
all’occasione, e tal fa nascere egli stesso le occasioni, spinto com’è
da quella virtù ch’era in lui, nascosta a tutti, salvo a Dio ed a
lui, o nascosta talora ad esso stesso. Ma, grazie a Dio, tutto questo
calcolo della quantità delle speranze, della quantità delle virtù
nazionali e personali, non è poi importante, non è almeno se non a’
timidi ed oziosi. Questi soli han bisogno per entrare in una buona
impresa, di sapere quanta sia la probabilità della riuscita, quanto
lunga la via; i codardi chiedono al mattino della battaglia il calcolo
delle probabilità della vittoria. I forti e costanti non soglion
chiedere quanto fortemente nè quanto a lungo, ma come e dove abbiano
a combattere, non han bisogno se non di sapere in qual posto, per qual
via, a quale scopo; e sperano poi, ed operano, e combattono, e soffrono
ivi fino al fine della giornata, lasciando a Dio gli adempimenti. —
Facciam ciascuno l’ufficio nostro, a nostro posto, fino all’ultimo
di nostra potenza; lasciamo alla Provvidenza l’ufficio suo. Anche in
condizioni peggiori, con probabilità, con isperanze minori che non le
nostre, un caso, un uomo, risollevarono sovente le nazioni cadute, ma
avviate a virtù. — Od anzi, un caso, un uomo non mancarono loro mai.
— Od anzi, non vi sono casi al mondo; una Provvidenza regna, e regnò
quaggiù in tutti i secoli della lunga vita del genere umano, e quella
Provvidenza non ha, non può avere altro scopo quaggiù se non la virtù;
non mancò mai ad aiutarvi chi vi s’aiuti, promise anche un angelo a
salvar un giusto, e non negherà un uomo, un’occasione a salvar una
nazione virtuosa; non negherà il grande strumento d’operosità e virtù,
ad una nazione che voglia veramente entrare a far l’ufficio, tutto
l’ufficio suo nella Cristianità.




APPENDICE.

SE E COME SIA SPERABILE UNA LEGA DOGANALE IN ITALIA


1. L’idea d’una lega doganale italiana si è certo presentata molte
volte alla mente non solo degli uomini di stato, ma di quanti
commercianti e viaggiatori italiani o stranieri sentono ogni dì i danni
materiali del nostro sminuzzamento. E probabilmente molti di questi
ultimi accusano i primi di negligenza o d’incapacità, perchè non fanno
ciò che si vede così felicemente fatto altrove. Ma il vero è, che se
è talor questione difficile a sciogliere, quella dell’accessione di un
semplice stato germanico alla lega già esistente colà e fiorente; molto
più difficile è quella della costituzione di qualunque nuova lega, e
difficilissima poi per le sue complicazioni quella d’una lega italiana.
Ne fu trattato da non pochi scrittori[46]. Ma perchè gli stranieri
non possono preveder tutte quelle complicazioni, e i nazionali non ne
possono discorrere, ei non fu forse distinto finora sufficientemente
tra le varie leghe immaginabili, quali sieno possibili, quali
desiderabili, nè come desiderabili. Per intendersi bisogna distinguere.
Ciò tento fare, brevemente, secondo le convenienze di questo libro,
epperciò supponendo nei miei leggitori, non solamente la cognizione
delle scienze economiche in generale, ma quella in particolare del
fatto e de’ risultati della lega doganale germanica. Lasciamo i grossi
libri a coloro che voglion rimuovere il secolo dalle sue vie; chi
accetta queste, può esser breve, riducendosi a cercare come entrarvi,
come seguirle più opportunamente in ciascuna opportunità.

2. Due casi s’affacciano nel primo mirare alla questione. La lega
italiana potrebbe esser fatta, o tra i principati italiani soli, o
comprendendovi l’Austria. Ma questa può comprendervisi per le provincie
italiane sole, ovvero per tutto l’Imperio. E, considerato poi che in
quest’Imperio austriaco è surta la questione dell’entrar esso nella
lega doganale germanica, sorge il nuovo caso che l’Imperio austriaco
acceda con tutta questa alla italiana. Ondechè sono in tutto quattro
casi, quattro modi immaginabili; cioè, procedendo dal più lato a’ più
stretti:

I.º Una lega germanico-italica;

II.º Una lega austro-italica;

III.º Una lega compiutamente italica;

IV.º Una lega de’ soli principati italiani.

3. La I.ª, la lega germanico-italica sarebbe, per vero dire, magnifica
idea, magnifica combinazione. Tutta la media Europa collegata
insieme. Un moderatore tra l’Occidente e l’Oriente contrappesanti.
Inghilterra, Francia e Spagna tendono ad unirsi con o senza una gran
lega occidentale; non prossima per certo, ma non impossibile forse un
dì o l’altro. Ma anche senza tener conto di siffatta eventualità, anche
senza uscir del presente, non è dubbio che i grandi e veri interessi
commerciali dell’Europa media, dal Baltico al Mediterraneo, sono molto
simili; e che sarebbero quindi ben promossi da quest’unione economica
di tutte le popolazioni comprese tra i due mari. Queste unioni
economiche son talora più profittevoli che le stesse comunicazioni
materiali; le producono, o vi suppliscono. A coloro poi che sieno
entrati nell’idee del nostro libro, questa riunione di tutta Italia
con tutta Germania parrà anche più importante; la questione, od anzi
tutte le questioni orientali si scioglierebbero molto più facilmente,
se queste due nazioni si potessero intendere come due uomini. Ei s’è
usato ed abusato di quell’espressione, del _sollevarsi le nazioni
come un uomo_. Non si potrebb’ella mettere in uso pur quest’altra,
_d’intendersi come due uomini?_ In ciò non sarebbe da temere, non
possibile niun abuso. E quanto all’Italia in particolare, non è
mestieri dire che la lega germanico-italica sarebbe desiderabile.
La preponderanza austriaca vi sarebbe compensata dalla prussiana;
l’interesse italiano dell’inorientar Austria, sarebbe rinforzato
dall’interesse germanico dell’inorientar Austria e Prussia; la spinta
italiana dalla spinta germanica; la molle operosità nostra da quella
fortissima; le lontane speranze italiane da tutte le più prossime
germaniche. — Tutto ciò è vero e certo. Ma pur ciò all’incontro:
che per ora e gran tempo le nazioni in generale non s’intendono
come due uomini; che qui in particolare bisognerebbe supporre di
animo larghissimo e previdentissimo, supporre spregiudicati sugli
interessucci passeggeri, ma presenti, tutti i principi, tutti gli
uomini di stato tedeschi e italiani, cioè una trentina di principi,
alcune centinaia di ministri, e consiglieri o deputati a’ parlamenti.
Non dico nel futuro imprevedibile, ma non volendo parlar mai se non del
prevedibile, tale accordo si può arditamente pronunciare impossibile.
Oltrechè, ei sarebbe forse a dubitare che Prussia promuova mai
sinceramente niuna accessione alla lega germanica cui presiede ella,
d’un’altra grande potenza, la quale le torrebbe quella presidenza. Non
ci inganniamo diplomaticamente, noi non diplomatici. La presidenza o
precedenza o preponderanza doganale è a Prussia potente strumento di
preponderanza politica; ed ella rinuncierà a questa difficilmente.
Tuttavia, quella potenza è così sinceramente progressiva, così
intelligente de’ suoi veri interessi presenti, e così previdente
de’ futuri universali, che non è impossibile ch’ella rinunciasse
alla propria situazione vantaggiosa particolarmente in Germania, per
prenderne una forse più vantaggiosa generalmente in Europa. Ma tal
non è l’Austria; la quale rinuncierebbe certo difficilmente alla sua
preponderanza politica in Italia, ammettendo il contrappeso della
Prussia. Ciò che giova ed è desiderabile a noi, sarebbe, a parer
mio, desiderabile pur all’Austria, se intendesse bene, compiutamente,
grandemente gl’interessi suoi; ma ella non li intende così: è fatto
attuale e probabile per gran tempo. Ondechè in somma a questa lega
doganale germanico-italica sono tali difficoltà che parrà chiara a
ciascuno la conchiusione: essere essa molto desiderabile sì, ma molto
improbabile.

4. Caso II.º; la lega austro-italica ossia dei principati italiani
e di tutto l’imperio austriaco. Se noi attendiamo a ciò, che fra le
pubblicazioni citate in capo a quest’appendice, tutte quelle fatte
in paesi e da persone più o meno dipendenti dall’Austria, promuovono
questa lega di tutta Italia con tutto l’Imperio austriaco, ei parrà
confermato a ciascuno il fatto, per sè stesso altronde probabile, che
tal lega sarebbe desiderata dall’Austria. E noi non siamo di quelli
che vogliam conchiudere a un tratto: se è desiderata dall’Austria,
non è desiderabile da noi. Noi torniamo sempre a ciò, che i veri
interessi futuri dell’Austria e dell’Italia sono identici. Ma di
nuovo e sempre; il male è, che per ora, e probabilmente per a lungo,
l’Austria non li intende così. Ella è, più che noi, che li separa, che
li contrappone; ma in somma, finchè è così, noi non possiamo promuovere
gl’interessi di lei, intesi tutt’all’incontro de’ nostri. — Pogniamo
fatta la lega austro-italica, che ne avverrebbe ora, economicamente,
politicamente? Economicamente, noi ci uniremmo al sistema austriaco
vecchio, proibitivo, protettorale; noi ci separeremmo dal sistema più
largo, men protettorale, più liberale, che viene e verrà promosso
dalla lega germanica principalmente, dall’Inghilterra a poco a
poco, e dalla Francia probabilmente. Se Austria volesse entrare in
questo, ella entrerebbe nella lega germanica, ella promoverebbe la
lega germanico-italica, e non la austro-italica; ondechè, finch’ella
promuove questa sola, è probabile ch’ella non vuol entrare nel
sistema largo, solo conveniente all’Italia. Noi torneremo frappoco
alla necessità di questa larghezza. Ma è facile ad intendersi
fin di qua sommariamente: che l’Italia entra ora in una nuova età
commerciale; che, ricondotto il commercio orientale nel Mediterraneo,
ella può e deve riprendere gran parte a quel commercio, se non vi
ponga ostacoli ella stessa; che non ha nemmeno bisogno qui, nè di
grand’arte, nè di grande operosità; che per lei più che per nessuno
l’economia politica si ridurrà al lasciar fare e lasciar passare;
ma che se ella s’aggiungesse a un sistema economico proibitivo, o
solamente protettivo, o di preferenze, contra Francia ed Inghilterra,
le due nazioni più passanti e ripassanti per le sue acque, l’Italia
troncherebbe da sè tutte le sue migliori speranze commerciali; cadrebbe
non solamente nel fallo di trascurare le occasioni, ma in quello di
opporsi ad esse; non sarebbe solamente neghittosa, ma avversaria de’
propri interessi, a pro de’ propri avversari. Napoli e tutta la parte
meridionale della penisola, e le due isole Sardegna e Sicilia, vi
perderebbero evidentemente; siccome quelle che per la loro situazione
sono prime e principalmente destinate a’ profitti di quel nuovo
passaggio del commercio orientale. Ma la parte settentrionale della
penisola, o almeno la parte nord-ouest, il Piemonte vi perderebbe per
altre ragioni forse più. Finora il Piemonte fu disgiunto da Francia,
da un muro commerciale, per così dire, ferreo; era pregiudizio
politico ed economico insieme. Ma, non è forse paese al mondo in che
i pregiudizi cadendo lentamente, cadano all’ultimo più certamente;
e v’è incominciato a cadere questo del muro commerciale. Un primo
trattato è stato fatto testè tra Piemonte e Francia, ed alcuni
cenni fanno da credere che si potrà estendere quandochesia; e senza
entrare qui nel merito, nè de’ trattati di commercio in generale,
nè di questo in particolare, questo è senza dubbio principio ed
arra di più larghe comunicazioni, cioè, a parer di tutti oramai i
migliori economisti, di miglioramenti commerciali. A’ quali tutti
dovrebbe dunque rinunciar l’Italia occidentale, rientrando nel sistema
vecchio, facendosi economicamente austriaca. Nè le stesse provincie
orientali o lombardo-venete ne vantaggerebbero. Noi ci riferiamo pur
qui a ciò che crediamo aver dimostrato altrove; tutti i veri e buoni
interessi futuri austriaci sono sul Danubio e non sul Po; ondechè
quanto più s’intenderanno in Austria gl’interessi austriaci, quanto
più progrediranno quell’imperio, que’ popoli, quegli uomini di stato,
quella corte e cancelleria, tanto più sempre sarà sagrificato il Po al
Danubio. Qui il fallo fatto una volta non avrebbe nemmeno il rimedio
che è a tutti gli altri; non che scemare, accrescerebbesi il danno in
ragione del progresso avvenire. — E politicamente poi? I leggitori
informati delle cause, delle vicende e degli effetti di quella lega
doganale germanica, che è finor solo esempio di tali istituzioni, sanno
il grande accrescimento di preponderanza politica venutone a Prussia,
che si trova potenza principale in quella lega. Vorremmo noi procacciar
simile situazione, simile preponderanza all’Austria? Io credo che
niun principe, niun uomo di stato, niun uomo pensante e senziente in
Italia abbia tal desiderio; e che se qualche Italiano pur si trovò a
promuover la lega austro-italica ei fu per un’illusione fattasi troppo
semplicemente, per vero dire, a sè stesso: che non fosse per succedere
in Italia ciò che successe così evidentemente altrove. Ma speriamo
che i molti, i più, o tutti si atterranno a quel modo più naturale di
ragionare, il quale argomenta da simili cause a simili effetti, dal
passato all’avvenire, dai fatti alle probabilità; e che quando fra
cento di queste, ne fosse una sola di accrescere la dipendenza degli
stati italiani, quand’anche invece di vantaggi commerciali probabili
dalla lega austro-italica, basterebbe quell’uno pericolo a farla
rigettare. Gli stati, le persone morali non hanno doveri dissimili
dalle individuali; e se ad ogni uomo è dovere (ed all’ultimo utile) il
rigettar qualunque vantaggio di fortuna acquistato con una viltà, tal è
pure agli stati, alle nazioni[47]. — E conchiudiamo, sperando assenso
unanime italiano, la lega austro-italica sarebbe, quanto a difficoltà
esterna, fattibilissima; ma ella non è desiderabile, è assolutamente
rigettabile da tutti i princi italiani.

5. Caso III.º: lega italica compiuta, ossia de’ principati italiani
e delle provincie austro-italiche. — Questa può essere desiderabile
o no per noi, secondo che ne’ particolari ella si scosterebbe
o s’accosterebbe alla precedente. Chiaro è: se l’unione delle
provincie austro-italiche co’ principati italiani fosse solamente un
nome, una finzione; e se la separazione tra quelle provincie e le
germanico-austriache fosse un’altra finzione o si riducesse ad una
linea doganale di più tra l’une e l’altre; e se quell’unione implicasse
come nel caso precedente, accettazione per noi del sistema economico
austriaco, antiquato e stretto, tal unione non sarebbe desiderabile da
noi nè economicamente nè politicamente. Non economicamente, traendoci
a’ medesimi falli, alle medesime rinuncie di speranze che denunciammo
testè; non politicamente, perchè questi falli ci trarrebbono a
separazione anche politica dalle altre nazioni europee, ed a maggior
unione (che sarebbe maggior dipendenza) colla potenza già troppo
signora nostra. — Se all’incontro i negoziati che s’intavolassero per
la lega italica, e il trattato che ne risultasse fossero tali di far
entrar le provincie austro-italiche in quella larga economia politica
italiana da cui dipendono tutte le nostre speranze commerciali; se così
le provincie austro-italiche si educassero ad una futura unione anche
politica con gli stati italiani, non è dubbio che tal lega sarebbe
non solamente molto, ma la più desiderabile di tutte per l’intiera
Italia; sarebbe arra dataci dall’Austria, del suo rivolgersi dalla
mala politica sua occidentale a quella nuova e buona orientale, la
quale ci farebbe a un tratto da avversari amici ed alleati naturali. —
Ma non c’inganniamo; niun fatto, niun principio di fatto, niun cenno
è di tal rivolgimento; e quanto più la lega esclusivamente italica
s’accosterebbe a buona per noi, tanto più è improbabile ch’ella fosse
accettata dall’Austria presente; quanto più qualunque lega italica
sarebbe proposta od accettata dall’Austria, tanto più probabilmente
ella sarebbe dannosa all’Italia. — E quindi di questa lega comprendente
i principati italiani e le provincie austro-italiche, ei ci pare,
senza fermarvici altrimenti, poter conchiudere: che ben fatta, ella
sarebbe senza dubbio la più desiderabile, ma è la più improbabile; e
che mal fatta, non sarebbe desiderabile; ovvero più brevemente, che la
probabilità vi sta in ragione inversa della bontà.

6. E veniam dunque alla IV.ª ed ultima delle leghe accennate, a quella
de’ principati italiani soli fra sè. — E di essa diciam subito, che
difficilissima in apparenza, ella non è tale in realtà; se non si tenga
forse per irrealtà, impossibilità, supposizione assurda, quella che i
principi italiani abbiano il volgar coraggio di non veder pericolo dove
non è. Io direi anzi che sarebbe ingiustizia non isperar tal coraggio
da due o tre di questi principi; i quali unendosi potrebbon fare il
nocciolo, a cui si unirebbon gli altri, come avvenne in Germania. Qui è
luogo da ridere: che in tempo e per le opere di pace i principi piccoli
son potenti (grazie alle condizioni della presente civiltà cristiana)
quanto i più grandi. Siami lecito recar un esempio che mi par quadrare
al caso. In quegli anni che seguirono la restaurazione di Ferdinando
VII di Spagna, e che la nazione spagnuola, insuperbita della recente
difesa, e credendo aver essa liberata l’Europa, anzichè essere stata
liberata da nessuno, trattava verso l’altre nazioni grandi o piccole
con una superbia che è rimasta famosa nella diplomazia, trovossi
un giovane diplomatico incaricato colà degli affari di una potenza
italiana. Ed avvenendogli d’incontrare difficoltà, e non potersi far
render giustizia negli affari commerciali che sorgevano ogni dì,
zelante siccome novizio ch’egli era, ei se ne veniva rammaricando
con un altro diplomatico sperimentatissimo in quella corte, e che
degnamente rappresentava colà una delle principali potenze europee.
Ma questi «Che volete? fate come fo io. Prendete pazienza». — «E
che?» ripigliava il novizio. «Vi avverrebbono essi anche a voi di
questi incontri?» — E l’altro «Certo sì; ogni dì; a me, ed a tutti,
quanto a voi». — «Ma come lo soffrite voi, rappresentanti di grandi
potenze, che potreste d’un cenno annientar questa superbia spagnuola?»
— «Noi?» ripigliava l’assennato e sperimentato. «Nol possiam noi più
che voi. Noi abbiamo più navi, più armi, più eserciti, e forse più
coraggio che non costoro, è vero; ma finchè non si viene all’usar
tutto ciò, finchè non ci è guerra, e in tutti gli affari di che non
si vuole nè può fare un caso di guerra, una potenza piccola vale
una grande, Spagna, qual è ridotta quanto noi fiorentissimi, e voi
quanto noi verso essa. Questi Spagnuoli non sono stolti, sanno ciò,
sanno di poter quanto noi in tutto ciò che non è caso di guerra, ed
usano ed abusano di questa situazione di pace, sempre favorevole ai
piccoli». — E il diplomatico novizio se ne capacitò tanto più, ch’era
massima buona a riportar a casa; e ne conchiuse fin d’allora: che i
principi piccoli italiani possono molto più che non si suol credere,
in tempo di pace; e tanto più poi, che non solamente per le cose
dappoco, ma nemmeno per le dappiù, non torna conto all’Austria il
romper guerra. — E difatti, facciamo il caso (minore, ma simile ad un
altro posto già nel testo del libro) che due o tre principi italiani
consentissero un bel dì nella opportunità d’una lega doganale, e
che tenendo giusto conto degli immensi interessi meridionali, e dei
minori, ma pur grandi settentrionali, facessero cedere questi a quelli
(all’incontro di ciò che vedemmo doversi fare nell’impresa eventuale
dell’indipendenza), e che convenissero i due o tre nelle condizioni
principali, e che accedendovi gli altri più o meno, una lega doganale
qualunque si conchiudesse e firmasse; io lo chiedo a’ più prudenti od
anche timidi, che ne avverrebbe o duranti le trattative o conchiuso il
trattato? Molto probabilmente, il confesso, che Austria s’opporrebbe.
Ma di nuovo, che vorrebbe dire, che sarebbe questa opposizione di
lei? Che darebbe note, od anche farebbe proteste, od anche (benchè
non è probabile) che interromperebbe le relazioni diplomatiche, e più
probabilmente che chiuderebbe più che mai suoi limiti, aggraverebbe
suoi dazi, separerebbe dalla restante Italia le sue provincie italiane.
Ma tutto ciò, nemmen questa separazione, non sarebbe gran danno
economico nè politico; e quando fosse, sarebbe largamente compensato
dai vantaggi economici e politici della lega. E quanto a guerra, le
sarebbe impossibile; o, se mai, le sarebbe immanchevolmente funesto.
Se i principi italiani proseguissero tranquillamente il fatto loro, nè
Austria, nè nessuno non potrebbe nè impedir loro d’adempiere l’ideato,
nè far loro disfare il già fatto. E non vi si vorrebbe nemmen segreto;
alla faccia di tutta Europa si vorrebbe provare una volta se sieno
o no indipendenti secondo i trattati questi principi italiani: alla
faccia d’Europa tutta, e coll’aiuto di mezza, si vorrebbe rivendicare
ciò che ce ne fosse imprudentemente negato. Le seccature, i disturbi,
le cattive ragioni, le minacce, non son pericoli; son parole, e nulla
più. E se n’avrebbono in abbondanza senza dubbio, ma non altro;
ondechè, in somma, a far la lega che diciamo, ci si vorrebbe men
coraggio, che operosità, meno uscir di timori, che di pigrizia. — E
ne varrebbe la fatica per li grandi vantaggi che ne risulterebbono.
Politicamente, una lega doganale non val per certo una politica, e
tanto meno una confederazione stabile. Ma ella varrebbe molto più
che non tutti insieme quei mezzi vantati di unire e nazionalizzare
nostra nazione; più che non i trattati tipografici, e i congressi
scientifici, e i comizi agricoli e via via; che son pur unioni buone,
ma minori. Lo sperimento di Germania è evidente; e quest’evidenza è
quella appunto che farebbe quindi l’opposizione dell’Austria, e quinci
il merito de’ principi italiani di non lasciarsene spaventare. E il
medesimo sperimento fa evidente l’utilità economica. L’Italia si trova
in condizioni simili alla Germania; sminuzzata anch’essa in parecchi
Stati, intermediaria tra l’Oriente e l’Occidente, con interessi
provinciali non tanto simili da nuocersi colla concorrenza, non
tanto diversi da non potersi accordare; ondechè non è dubbio che una
lega simile fatta con principii similmente larghi, produrrebbe senza
dubbio simili effetti, simili vantaggi. Se non che anzi la situazione
dell’Italia in mezzo al Mediterraneo, cioè alla via probabile di tutto
il gran commercio avvenire, è molto più felice che non quella della
Germania; ondechè si potrebbono prevedere risultati anche maggiori. E
conchiudiam pure: che, dato solamente nei principi il coraggio bastante
a non veder pericolo dove non è, la lega de’ principati italiani
sarebbe possibile e vantaggiosa tutt’insieme.

7. Ricapitoliamo dunque il paragone delle quattro leghe:

La germanico-italica sarebbe forse la più desiderabile, ma è la più
difficile di tutte ad effettuarsi;

La austro-italica sarebbe la più facile, ma non è desiderabile, non è
accettabile assolutamente da niuno stato italiano;

La italica compiuta, non sarebbe facile se desiderabile, non
desiderabile se facile; ondechè insomma, nelle condizioni presenti, non
è desiderabile nè facile;

La sola lega de’ soli stati italiani (impossibile in apparenza a’
paurosi od inoperosi) è di fatto possibile e desiderabile.

E lascio trar la conchiusione a ciascuno; che la trarrà buona, in
ragione inversa della propria paura e pigrizia.

8. Eppure qualche cosa è da fare. Lasciando la questione politica e
riducendoci all’economia, apparirà evidente a ciascuno la necessità
d’una lega doganale italiana, e d’una fatta su larghi principii
commerciali, e d’una fatta prontamente. — E prima, è principio,
dogma economico universalmente accettato, che quando molte nazioni
vicine entrano in un gran progresso commerciale, quella che rimane
stazionaria cade nel danno di retrocedere, non solo comparativamente,
ma positivamente. Se questo principio avesse bisogno di dimostrazione,
la storia nostra ce la darebbe. Al sorgere del secolo XVI il commercio
italiano era ancora il principale di tutti; ma Portogallo e Spagna,
poi Inghilterra, Olanda e Francia essendosi aperte nuove vie e nuovi
mercati, l’Italia, che non seppe prendervi parte, non solamente
decadde dalla sua condizione relativa, ma dalla sua positiva, da quasi
tutta la sua navigazione, da quasi tutte le sue industrie, e, se non
decadde, rimase stazionaria nella sua agricoltura. — Ora, a’ nostri
dì, non solamente molte nazioni europee hanno un’operosità commerciale
superiore all’italiana, ma hanno ogni probabilità di accrescerla
tuttavia; Inghilterra con essersi procacciati nuovi mercati alla Cina
e nell’Oceania, e con essersi aperta la nuova via del Mediterraneo e
dell’Egitto a tutti gli immensi mercati suoi orientali nuovi o vecchi;
Francia col suo muoversi alacramente a que’ mercati ed a questa via;
Olanda per il progresso continuante nelle sue colonie cinesi, e perchè
pur si approfitterà della Cina e del Mediterraneo; Germania colla
sua lega e con sua liberalità commerciale; e forse in breve Spagna,
se, uscendo da sua mala operosità politica, entrerà (come succede)
con pari ardore in una nuova operosità commerciale, valendosi della
medesima nuova via del Mediterraneo. È evidente: tutti han progredito
o minacciano progredire. Se non progrediamo noi pure, ci avverrà una
seconda volta di peggiorare nelle nostre condizioni relative; e quindi
secondo ogni probabilità anche nelle positive; qual che sia la nostra
operosità presente noi perderemo anche questa, tutta o in gran parte.
— E come poi possiam noi progredire? Certo, non conquistando anche noi
grandi colonie, chè non n’abbiam forza; non aprendoci nuovi mercati
orientali, dove saranno non solo ultimi, ma sconosciutissimi; non
isperando competere co’ nostri prodotti industriali, troppo rimasti
indietro, nè co’ nostri agricoli, troppo scarsi e cari al paragone.
Noi non abbiamo speranza buona di progressi commerciali, se non dalla
nostra mirabile situazione in mezzo a quel Mediterraneo, attraverso
a cui s’è ricondotta, senza fatica nè merito nostro, la via del
commercio universale. Per noi han lavorato, e lavorano tutti questi
che riconducono il commercio europeo-asiatico (il massimo de’ commerci
del mondo), nel nostro mare. Chi va e chi viene ci passa in vista,
solca nostre acque, tocca o vede i nostri porti. — Ma non c’inganniamo;
veggiamo i vantaggi di questa nostra situazione quali sono, nè più nè
meno. Essi non ci possono venire se non dalla vicinanza, che può fare i
nostri prodotti più facili a spacciare in Oriente, i prodotti orientali
più facili a spacciar da noi, e i porti nostri, scali o depositi a
chi va e viene; vantaggi dunque di esportazioni, di importazioni,
di scali. Ma fra questi tre, il vantaggio solo dell’esportazioni si
potrebbe forse serbare da’ paesi piccoli e disgiunti della nostra
Italia; i due altri dell’importazioni e degli scali non si possono nè
serbare nè accrescere se non invitando co’ mercati grossi e con gli
approdi facili; i quali poi nè gli uni nè gli altri non possono essere
se non in paesi grandi, ovvero in piccoli congiunti da una lega. Agli
stranieri niun porto nostro non è mercato nè scalo necessario, non è
se non facoltativo, e non sarà adoprato se non sarà mercato grosso e
approdo facile; ed ai nazionali stessi, cui i porti nostri son mercati
e approdi necessari, essi non saran buoni se non colle medesime
condizioni. Finchè Otranto o Napoli non saranno se non mercati del
Regno, finchè Ancona o Civitavecchia non saranno se non degli stati
del papa, Livorno di Toscana, Genova del Piemonte, niuna spedizione
grossa si farà mai da o per Otranto, Napoli, Ancona, Civitavecchia,
Livorno o Genova. Ma se ognuna di queste potesse essere mercato,
deposito, transito di tutta o molta Italia, certo vi moltiplicherebbe
l’invito, l’approdo e per le navi straniere e per le nazionali; e
moltiplicherebbero quindi, non solo le industrie, i commerci propri
de’ luoghi di scalo o di transito, ma per effetto immanchevole,
tutte le produzioni dell’industria e dell’agricoltura nazionale. Il
fermarsi nelle prove di ciò sarebbe non altro che pedanteria, sarebbe
ripetizione inutile di ciò che è saputo da qualunque mediocremente
informato delle scienze e de’ fatti della pubblica economia[48].

9. Ne è dubbio a questi informati: che la legge dovrebbe esser fatta su
principii commerciali larghissimi. — Ognun sa che i vantaggi della lega
doganale germanica furono effetto, meno forse del fatto stesso della
lega, che non della larghezza de’ principii su cui ella sorse e crebbe.
Non solamente in Germania, ma in Inghilterra, in Francia, in Italia, e
dappertutto, la scienza è unanime nel tener come dogma quella larghezza
o liberalità. I pratici soli se ne scostano; e non già, negando que’
principii, ma solamente la possibilità di questa o quella applicazione;
non combattendo i dogmi, ma introducendo eccezioni. Nè sarebbe forse
difficile mostrare la vanità di quasi tutte queste eccezioni in tutti
i paesi dove si van facendo. Ma riduciamoci all’Italia e veggiamo
se l’apertura de’ nostri porti, l’abolizione de’ dazi protettori,
le larghezze commerciali nocerebbero o gioverebbero alle nostre
navigazioni, alle nostre industrie, alle nostre agricolture.

I.º Contro alla libera navigazione, ei si suol citar quell’atto di
navigazione inglese che, escludendo o svantaggiando le straniere,
dicesi aver promosso la nazionale. Ma in questa citazione ei mi
par che sia un cumulo d’errori gli uni sugli altri. Perciocchè
non è provato che quell’atto restrittivo sia stato quello che fece
crescere la navigazione nazionale; questa crebbe per la situazione
dell’Inghilterra, intermedia a molte nuove vie, a molti nuovi mercati
aperti nel 1500; come è intermedia ora la situazione dell’Italia alle
vie riaperte ora. Poi, la nostra navigazione non è in su suoi principii
com’era allora l’inglese; è anzi decadente o almeno stazionaria; non
si tratta di insegnarci a costrur navi o a condurle, ma a costrurle e
condurle al par degli emuli, a che anzi ci può giovar l’emulazione, ci
debbono nuocere i privilegi. E finalmente e principalmente, Inghilterra
ha ora abbandonate queste strettezze; e ci insegna così, non a
prenderle, ma appunto ad abbandonarle; Inghilterra conosce l’età nostra
commerciale; noi dobbiam seguire non gli usi che lascia, ma quelli che
prende. Quando finirem noi di prendere gli abiti fuor d’uso agli altri?
— Ma lasciando gli esempi bene o mal citati, ci si permetta porre
a dirittura una alternativa conchiudente. Ovvero le nuove facilità
accresceranno effettivamente il numero delle navi straniere sulle
marine italiane; ovvero no. Se no, le condizioni delle navi italiane
rimarran le stesse che sono ora, quanto a concorrenza; ed elle si
miglioreranno inoltre di tutte le facilità di che non si saran voluti
valere quegli stranieri. Se all’incontro se ne varranno gli stranieri
ed accresceranno la navigazione sulle nostre marine; così pure ce ne
potremo valer noi, ma con tutto il vantaggio (immenso, come sa chiunque
abbia per poco atteso a questi studi) che ha sempre la navigazione
piccola ma vicina, breve, ripetuta, e moltiplice, il cabotaggio e il
quasi cabotaggio, sulla navigazione grande, ma lunga e rara. Apransi i
porti italiani; chi se n’approfitterà più? Certo non le navi in corso
lontano, e massime non quelle che abbiano approdi propri; certo le navi
italiane che han tempo a far tre viaggi, mentre l’altre uno, ed a cui
gli approdi nostri sono gli unici e naturali. — Ora, mentre scriviamo,
non è forse gran porto italiano dove non sia qualche navigazione
straniera più privilegiata in qualche rispetto, che non qualche altra
navigazione italiana. È vergogna, è danno grave. Ma, vergogna e danno
maggiore, il governo di Roma propose già di equiparare alla propria
le navigazioni di tutti quegli altri stati italiani che volessero
corrispondere con simile liberalità; ed a tal liberal proposizione non
corrispose finora niuno stato italiano!

II.º Quanto alle industrie, quali sono, in nome della verità, quelle
che si vogliono proteggere colle chiusure o colle strette aperture? Le
industrie del cotone, o de’ ferri, o delle canape, o dei lini, o delle
sete, o di che? Non n’è una ora (anno 1843) che superi le straniere,
che abbia primato su’ mercati europei od ultra-europei. Le stesse
seterie di Genova, di Firenze e di Torino, già famose, sono un nulla
ora su que’ mercati; e quanto all’altre, ei si può dire, relativamente
parlando, che non esistono. Non servono esposizioni pubbliche,
non medaglie d’incoraggiamento, non statistiche comparative degli
accrescimenti annui. Fate statistiche comparative con le produzioni
inglesi, germaniche ed anche francesi, e tirate le conseguenze vere,
sinceramente, senza voler trovare ciò che non è, per adulare principi
di qua, o popoli di là; e vedrete che bello avvenire industriale
s’apparecchi all’Italia? Tanto brutto, tanto nullo, che basterebbe tal
nullità a conchiudere: facciamo tutto a rovescio di quel che facemmo
finora; noi non potremmo fare se non meglio; poichè le chiusure ci
portarono qui, apriamo per Dio una volta per provare; peggio di ciò
che è, o ci si apparecchia, non potrà esser mai. — Benchè anzi molto
miglioramento si potrebbe sperare quando i principi italiani, colti
come sono i più (che non parrà adulazione), applicassero francamente,
tutti o quasi tutti d’accordo, quel gran principio del lasciar fare
e lasciar passare, a cui niuna nazione si trova forse apparecchiata
quanto l’Italia. La pochezza delle industrie esistenti scemerebbe il
danno inevitabile della concorrenza ammessa. E poi, noi abbiamo avuta
più volte l’occasione di osservarlo: l’ingegno italiano è sopratutti
meraviglioso in varietà, in adattamenti. Varierà, s’adatterà anche in
ciò. Cadranno le industrie men potenti, men naturali; ma sorgeranno le
naturalmente più potenti. Se gli uomini di stato che si occuperanno
in ciò, pretenderanno a un calcolo minuto di tutte le importazioni
od esportazioni, utili a concedersi per le industrie italiane ad una
ad una, ei vi perderanno probabilmente l’ingegno e la fatica, come
avvenne a tanti altri; ma se se ne rimetteranno all’ingegno vecchio
ed all’operosità nuovamente eccitata degli Italiani, ei ci è novanta
per cento di probabilità, che questa, compressa com’è in tante altre
parti, si precipiterà tutta nel nuovo sbocco, e vi farà miracoli.
Possibile che noi, produttori di tante sete, non arriviamo ad operarle
quanto i Francesi e i Tedeschi? Possibile che nell’operare i cotoni
egiziani così vicini non abbiam parità con coloro che li tessono in
mezzo al continente europeo? Perciocchè mal si dice che la natura ci
ha negate tali competenze, negandoci il carbon fossile, epperciò le
macchine a vapore. Sono elle messe in opera tutte l’acque italiane?
Non confondiamo; l’acque non valgono il vapore per le strade a vapore;
ma per le industrie non locomotrici, le acque che, fatte cadere una
volta opportunamente, cadon sempre, valgon più che non il vapore; e
finchè rimane in Italia un fiume o un rivo non usato nella sua caduta,
non abbiam occasione di accusar la Provvidenza, nè di affettare una
rassegnazione, la quale non è in somma se non pigrizia. Non è il
carbone che ci manchi, ma l’operosità; e all’operosità non manca
se non la competenza; la competenza dico, che farà danno ai pigri
senza dubbio, ma profitterà agli operosi, che sono quelli soli onde
si può approfittar la nazione. Se ne capacitino gl’Italiani tutti,
ma sopratutti i principi: i nemici della loro gloria, del loro pro,
della loro potenza, sono i pigri, i gaudenti, tutta quella genia degli
ostinati nel far nulla, degli invidiatori ed impeditori di chiunque
fa. Quando alcuni o molti di costoro scapitassero all’operosità altrui,
poco male; il mal de’ tristi risulta sempre dal ben de’ buoni, e non si
vuol fermar questo per quello.

III.º Del resto dicono alcuni che le industrie italiane sono e saran
per l’avvenire sempre un nulla rimpetto all’agricoltura. Io nol
crederei; ma pogniamo che così sia, che le speranze materiali italiane
debbano venir unicamente dalla agricoltura. Ad ogni modo queste
speranze si accrescerebbono incalcolabilmente per una lega doganale
che si facesse su principii larghi. Grani, risi, canapi, lini, olii,
vini, pascoli e sete sono i principali prodotti agricoli nostri. Ma
questi tutti (salvo i pascoli) sono prodotti pure di tutti i paesi
circondanti il Mediterraneo; e prodotti che si può preveder forse
si moltiplicheranno, quali in un paese, quali in altro, a segno da
diventar là più a vil prezzo che in Italia. Niun metodo nuovo, niune
società agricole, niuni incoraggiamenti governativi, non possono
impedir tal danno. Tutti questi sono rimedi piccoli microscopici.
Niun rimedio grande può essere, se non, o la chiusura assoluta, che
lasci i mercati nostri esclusivamente a’ nostri prodotti, o l’assoluta
apertura, che li equilibri agli stranieri, che, facendo abbandonare
le produzioni svantaggiose, promova d’altrettanto le vantaggiose. Ma
il primo di questi due rimedi grandi è difficile, forse impossibile
ad applicarsi, ognuno il sa, in un paese così vario, così sulla via
universale, così facile al commercio illegale com’è l’Italia; e poi non
servirebbe se non a dar vantaggio su’ mercati nazionali, e crescerebbe
lo svantaggio sugli stranieri. Ondechè il secondo rimedio, l’apertura,
che equilibra tutte le produzioni, ed accresce le più naturali, è solo
proficuo e possibile all’ultimo; epperciò tant’è volgervisi quanto
prima. Non sono i metodi di colture quelli che si debban mutare, ma
le colture stesse; i metodi nostri son buoni da secoli e secoli, e
poco o quasi nulla v’è d’aggiungere; ma le colture si debbono mutar
di secolo in secolo secondo le condizioni nuove, e quest’è che non
abbiam fatto, e dobbiam fare. Noi eccettuammo testè i pascoli da quelle
colture italiane che hanno a temer competenze. E difatti, se si giri
tutt’intorno al Mediterraneo, ei non si troverà forse regione che sia
comparabile per essi a tutta l’Italia settentrionale e a molte parti
della meridionale. E quindi ei si può prevedere: che quelle regioni non
arriveranno forse mai, e certo non per grandissimo tempo a competer
con noi per li pascoli, e perciò per li bestiami e i latticinii: che
quindi, quanto più la competenza scemerà la produzione de’ grani, tanto
compenso e forse vantaggio noi potrem trovare nella produzione de’
pascoli, de’ bestiami, de’ latticini: che accrescendosi la abitazione,
e quindi il lusso dell’altre coste del Mediterraneo, s’accrescerà la
richiesta di questi nostri prodotti; e tanto più che son prodotti di
natura loro cercati sempre ne’ luoghi più vicini; e quindi in ultimo,
che l’Italia è destinata ad accrescere molto, immensamente, questa
produzione sua, a rivolgere in pascoli tutte le terre sue che ne sien
capaci, a valersi per ciò di tutti i suoi corsi d’acqua e di tutti
i lavori accumulativi da parecchie generazioni, e ad accrescerli di
gran lunga, che è in somma un avvenire speciale suo e fecondissimo
di operosità e ricchezze d’ogni sorta. — Questa è la nostra speranza
agricola principale senza dubbio. Ma non è la sola. I nostri risi pure
sono fin ora senza competenza nelle ragioni circum-mediterranee, i
nostri oli han sostenuto fin qui, o poco meno, tutte le competenze;
e se i nostri vini non lo sostengono, la potrebbero sostenere quando
s’introducessero perfezionamenti ed incoraggiamenti in questa
industria, che n’è forse sola capace fra le nostre. Anche questi
prodotti si accresceranno probabilmente, per la vicinanza nostra a
tutte quelle immense regioni che sono in progresso probabile. Qui più
che altrove i progressi altrui aiutano e quasi sforzano i nostri. La
nostra pigrizia sola li potrebbe impedire. Non sarebbe se non nel
caso che non volessimo produr noi quanto ci domanderà ogni dì più
tutt’all’intorno, che le domande si rivolgerebbero altrove, e forse
per sempre. Se noi ci ostiniamo a voler produr grani come nel mezzodì
della Russia, od in Barberia, o in Egitto, a confondere (come fanno
troppi agricoltori, amministratori ed economisti) l’agricoltura in
generale con la coltura de’ grani; se in un’età di comunicazioni
infinite ci ostiniamo a voler produr tutto, o a tener più necessaria
la produzione de’ grani; se sagrifichiamo a questa le produzioni
che ci daran ricchezze da comprarne, armi e navi da procacciarcene
sempre, allora questa vecchia preferenza ci farà mancar l’occasione,
e l’Italia non solo scaderà una seconda volta dai suoi commerci, ma
scaderà dalla sua agricoltura, che sarà ultimo danno materiale. — E
il danno materiale porterà seco quelli morali anche maggiori, della
inoperosità e de’ vizi che l’accompagnan sempre. Ne’ secoli scorsi
l’operosità non cessò quasi, se non nelle così dette classi alte, o
tutt’al più nell’industriali; l’agricoltura, progredita lungo i grandi
secoli italiani e serbatasi lungo i piccoli, salvò l’operosità in una
gran parte della nazione. Ma guai se, cessando anche in questa parte,
tutta la nazione nostra cadesse mai in inoperosità, a’ tempi appunto
che i popoli circondanti, od anzi tutti i cristiani, accrescono la loro
operosità. Allora sarebbe colma la misura de’ nostri danni; allora non
servirebbero se non quegli estremi rimedii, che la Provvidenza permette
bensì, ma che debb’essere studio d’ogni buon evitar sempre, quanto più
sia possibile, in ogni cosa.

10. Epperciò qualunque cosa si voglia e possa fare, facciasi quanto
prima. Qui non è solamente necessità; è urgenza. In questi anni
dintorno alla metà del secolo XIX, forse in questi pochi che restano
del quinto decennio di esso, si deciderà il nostro avvenire commerciale
industriale ed agricola, per secoli e secoli. Questi sono gli anni
climaterici dell’economia pubblica di tutte le nazioni europee,
ma più dell’Italiana. Li trascureremo noi? Il commercio universale
prenderà altre abitudini; ed ognun sa, quanto le abitudini commerciali
sieno poi difficili a mutarsi. Ci varremo noi all’incontro di questa
nuova e grande e forse ultima occasione dataci dalla Provvidenza?
Di questa nostra magnifica situazione in mezzo al Mediterraneo?
Di questo nostro trovarci prima nazione europea sulla via riaperta
all’Oriente? E, parliam chiaro, ce ne varrem noi più largamente, più
arditamente che non le altre nazioni circum-mediterranee? Faremo noi
i nostri sbocchi, i nostri approdi, più facili che gli altri? Allora
le nazioni più lontane che non hanno scali nel Mediterraneo, Olanda,
Germania, Svezia, America, se ne varranno molto; e se ne varranno talor
anche quelle stesse che v’hanno scali o coste, Inghilterra, Francia
e Spagna, se sappiam precederle in quelle liberalità. E prese allora
quelle abitudini, elle continueranno poi anche quando Inghilterra
e Francia e Spagna entrassero in quella via dove noi le avremmo
precedute. Ma capacitiamocene bene; qui si tratta di una corsa; qui
d’arrivar primi; qui di prendere il solo vantaggio che ci rimanga a
prendere. Altre nazioni hanno altri vantaggi, altre precedenze, più
navi, più industrie, più mercati; noi non li possiam tôrre ad esse;
non possiam prendere se non ciò che non han saputo esse finora: le
liberalità de’ commerci. — Io fo tutt’uno in somma, fo una sola ipotesi
della lega doganale italiana, e della liberalità e della prontezza
di essa. La liberalità senza lega, o la lega senza liberalità, o la
lega e la liberalità senza prontezza, non gioverebbero. Pogniamo che
Napoli (la meglio situata) entrasse sola nella liberalità; questa non
darebbe mercato grosso senza la lega, la nave straniera o nazionale
approdata ne’ porti napoletani dovrebbe spacciar tutto il suo carico
nel Regno, o portarlo via in altri porti italiani, dove nuovi dazi,
nuove leggi l’aspetterebbero. Ingannata, non tornerebbe quella, nè
altra; non s’avrebbero grandi approdi, nè gran commercio di niuna
maniera. Ed all’incontro poniamo fatta la lega, ma non liberalmente,
non servirebbe a nulla; le abitudini straniere ed anche nazionali
continuerebbero a pro de’ più liberali. E pogniamo in ultimo fatta la
lega, e fatta liberalmente, ma quando (fra pochi anni probabilmente)
saran venute le altre nazioni circum-mediterranee a quella liberalità;
allora di nuovo non servirà a nulla. Preceduti, non arriveremo mai
più. — Il so anch’io, che è dogma di buona economia politica, far
a poco a poco le novità. Ma è pur dogma di buona economia politica,
che vi sono eccezioni a tutti i dogmi. E qui è il caso d’eccezione
al dogma dell’_a poco a poco_. Il nuovo commercio ultra-orientale,
e il cinese sono in sui lor principii; ma fra dieci anni al più essi
avran prese probabilmente tutte le loro abitudini. La via d’Egitto è
in sui suoi principii; ma fra dieci anni ella avrà prese forse tutte
le sue agevolezze. Questi pochi anni in che si stanzieranno quelle
abitudini e quelle agevolezze, sono gli irremediabili. Passati questi,
non ci sarà nulla a fare, nulla a sperare più, per l’accrescimento
de’ nostri commerci, nostre industrie e nostre agricolture; cioè per
le nostre grandi operosità nazionali. Altro che primati, o nemmen
parità! Se non vi provvediamo a tempo, noi siamo forse per cadere in
una inferiorità non mai veduta; inferiorità a tutti gli altri, che son
sulle mosse d’una non mai veduta operosità; inferiorità a noi stessi,
che non avemmo mai una occasione così bella a prendere, così brutta
a perdere. Ma Dio ci salvi da ogni infausta previsione! Dio spiri
forza ne’ petti in cui sta salvar la generazione presente italiana dai
disprezzi, dall’esecrazione de’ nipoti. A che servirebbe che adulassimo
o tacessimo noi? Costoro sogliono essere inesorabili poi; e tanto più
nel giudicar di ciò che fu alterato o taciuto da’ contemporanei.




NUOVA APPENDICE.

A MOLTE CRITICHE UNA RISPOSTA: FATTI NUOVI.


1. Il volgo e i naturalisti antichi credevano a certe serpi, che
col guardo affascinate tirasser giù tra’ raggiri di loro annella e a
poco a poco in lor bocca, gli uccelli che le guardavano imprudenti e
reluttanti dal nido. Questa favola è rigettata dalla scienza moderna,
ma può servire a un paragone. Non dissimili mi paiono la polemica
personale e gli scrittori, i quali, quantunque avversi, si lasciano
trarre al fascino di essa. E poco mancò che mi vi lasciassi trarre io
pure, quantunque avversissimo.

2. Il presente libro, primo da parecchi o molti anni che sia surto
d’Italia a discorrere apertamente di politica italiana, primo che
l’abbia rivolta tutta intiera allo scopo dell’indipendenza, doveva
suscitare e suscitò fin dall’apparire non poche critiche. Ma io dissi
già brevemente di quelle che precedettero la seconda edizione; qui
dirò più brevemente di quelle che seguirono da dieci mesi in qua.
Continuarono a venirmene da destra e da sinistra. Ma le prime a voce,
in opera, senza pubblicazioni, nè pubblicità. I destri (dico d’Italia)
sdegnano l’opinione, e ciò che la fa; sdegnano gli scritti altrui
e lo scrivere essi; son conseguenti. E conseguenti sono i sinistri,
quando scrivono il più che possono. — Ma in Italia, proibito più o meno
severamente ed efficacemente il libruccio dappertutto, ei non potè,
naturalmente, esser criticato, nè menzionato, nè annunciato da niun
giornale. Due soli scrittori, ch’io sappia, ne fecero cenno pubblico
in Toscana, citandone onorevolmente alcuni squarci a proposito di
strade ferrate; e due altri poi fecero altrove il medesimo al medesimo
proposito in lor relazioni d’ufficio, non pubbliche. Nè io saprei
dire quale dei due mi sia più incoraggiante pensiero; d’aver potuto
servire così o all’opinione pubblica, o ai governi della patria nostra;
motrice quella o aiutatrice massima, effettuatori questi necessari, di
qualunque buona impresa italiana. — In Germania, parecchi giornali,
mi fu detto, raccomandarono il mio scritto a quella grande e lenta,
ma sempre progrediente ed a noi preziosa opinione pubblica. Ma io
ne vidi uno solo; e perchè egli mi propose molto cortesemente due
questioni supplementari, cercai scioglierle in due lettere pubblicate
sotto il titolo _Della fusione delle schiatte in Italia_. Ed un
illustre scrittor di colà diede poi un sunto onorevole ed amichevole
del libro mio, nel suo libro sulle condizioni presenti d’Italia. —
Dall’Inghilterra non ho notizia, che d’un articolo della rivista più
antica e più grave fra le _Tories_, la quale mi assalì con pensieri e
frasi che mi paiono, per vero dire, molto diverse da quella opinione,
e ad ogni modo coll’allegazione d’un fatto inesatto; ed io le risposi
per rettificare una volta di più quel fatto a me importante[49]. —
E finalmente, poche lodi pubbliche, e parecchi attacchi mi venner
di Francia; alcuni da Francesi propriamente detti, i più da nostri
compatrioti. Nè celerò che in tali attacchi mi fu amara, oltre a
ciò che mi ero aspettato o preparato, una cosa: che si continuasse
talora a travisare le opinioni mie. Già s’era fatto, ma s’insistè;
e ciò mi dolse tanto più, che più mi duole essere travisato presso
a quegli stranieri, i quali non prenderan probabilmente la fatica di
confrontare le opinioni allegate con quelle che io scrissi; e tanto
più che quel paese è pur quello la cui opinione, la cui politica
mi parve più importante a noi fra tutte le straniere; e quello poi,
a cui dopo la patria io sono personalmente più stretto, quello che
fu a me pure largo di ospitalità da 47 anni oramai, quello che fu a
me pur rifugio nell’esiglio, quello della mia più dolce e più sacra
memoria, quello di molti preziosi affetti privati che mi vi rimangono.
E quindi parevami l’occasione da dover rispondere, protestare; e
più volte presi la penna a ciò; ma ne fui ad ogni volta trattenuto
dagli amici di qua o di colà in varii modi. Ho io fatto bene o male
di arrendermivi, di non insistere? Certo mi pena ancora, per me, di
lasciarmi giudicare colà su quei rendiconti; per la patria, di lasciar
cadere colà la discussione sulle cose italiane. Io aveva sperato che
questa discussione politica incominciata da un Italiano di fuori,
proseguita da un Italiano d’addentro, con serietà, con sincerità, con
moderazione (o almen lo spero), fosse continuata di nuovo da fuori al
medesimo modo, e continuata colà con più vantaggio; e che continuandosi
così, potesse uscire o dalle speranze massime del Gioberti, o dalle già
minori mie, o se mai da altre minori ancora, una politica nazionale
italiana; una di quelle politiche che non è dato a nessuno, e a me
certo men che a niun altro, di fondar solo; ma una di quelle politiche
che, fondate dalla discussione sull’opinione dei più di una nazione, e
non discordantemente dall’opinione della civiltà universale cristiana,
non possono a meno di non condurre una nazione qualunque; a tutti i
suoi qualunque sieno, più o men buoni destini. Disgraziatamente, non
fu così; e dopo pochissime discussioni d’opinioni (di che ringrazio
sinceramente), la polemica si ridusse ad appormi opinioni non mie, e
sarebbesi così ridotta per me a protestare: io non ho detto questo o
quest’altro. E questa non sarebbe più stata polemica utile, buona a
nulla; e fatta tra Italiani, dinanzi a stranieri, e «In Francia, dove
in pregio è cortesia,» sarebbe probabilmente stata nociva[50]. E quindi
in tutto non so se io abbia fatto bene a farne il sacrificio, o se io
n’abbia fatto uno utile alla patria; ma mi perdoni ella d’aggiugnere
che credo averne fatto uno non lieve.

3. Ad ogni modo, tra tutti questi attacchi prodigiati di fuori al
presente libro, e la pubblicazione impeditane addentro a tal segno
da non potersi più quasi dir pubblicazione[51], 3000 esemplari o poco
meno ne corsero di mano in mano e in un anno sul suolo italiano; qui
dov’è in somma il corpo, la gran pluralità di miei compatriotti, la
vera, la grande opinione italiana. Quindi (per non parlare di alcune
simpatie a me preziose, ma che espressemi in modo privato o meno
esplicito, io non debbo, miseria patria palesare ulteriormente) quindi
quel poco incoraggiamento che può venire in Italia ad uno scrittore
sincero; e quindi poi l’occasione della presente edizione terza. Ma
quindi pure un nuovo dubbio in me: se avessi in questa ad aggiugnere
nuove note, come feci nella seconda, ai due intenti 1.º di rispondere
alle nuove critiche; 2.º di accennare i nuovi fatti surti a conferma
delle speranze accennate. Ma quanto alle risposte, non so se io mi
sia lasciato persuadere di nuovo dalla mia pigrizia, ma in somma mi
persuasi: che il rispondere a tutti i nuovi criticanti avrebbe fatto
oramai di questo libretto un volumaccio tempestato di note, e quasi di
un commento perpetuo, a modo d’un libro d’erudizione; che il rispondere
ad alcuni solamente, avrebbe fatto dire che tralasciavo i più forti
opponenti; che del resto, alle poche critiche vere, ai principii
diversi io aveva risposto già o primitivamente nel testo, o nelle note
alla seconda edizione, le quali serbo in questa, ondechè le risposte
nuove sarebbero state ripetizioni; e che finalmente le proteste di non
aver detto questo o quest’altro, se potevano aver qualche vantaggio
dinanzi a un pubblico che non mi conosce, e non ha od ha poco il mio
libro in mano, elle sarebbero inutilissime in Italia, dove il libro
è volgare oramai, e massime a coloro che, tenendo appunto il libro in
mano, possono vedervi da sè ciò che v’è o non v’è[52]. All’incontro,
quanto alle conferme, a’ fatti nuovi avvenuti da dieci mesi in
qua, essi mi parvero di tale importanza da non poterne discorrere
adeguatamente in note, e da star meglio collocati qui in calce tutti
insieme. E quindi in somma lasciai testo e note come nella seconda
edizione, riducendomi alla sola presente aggiunta de’ fatti nuovi. — I
quali, per vero dire, se io non m’inganni sovr’essi, se sieno per parer
tali altrui come paiono a me, serviranno di risposta sommaria, e la
migliore che possa essere alle critiche sincere. Certo, se in così poco
tempo, e, pur troppo, con così poca opera nostra, le nostre speranze
si sono tuttavia accresciute veramente e notevolmente; ei bisogna pur
dire che sia nell’andamento universale di questa civiltà cristiana
in cui viviamo, una spinta irresistibile la quale arrivi fino a noi;
ei bisogna dire che le speranze tratte dalla certezza di quel gran
movimento, non sieno sogni; ei bisogna dire che gl’Italiani speranti
abbiano, in generale, ragione contro ai disperanti d’ogni luogo o
qualità. E poco importerebbe allora a me, nulla, alla patria, che io,
sperante particolare, abbia più o men bene esposte quelle speranze.
Torniamo oramai, e sotto rinnovati auspici, al modo nostro; lasciamo le
persone, la polemica, le cose dette; andiamo avanti, colla patria; ed
anzi, se ci riesca, spingiamola avanti.

4. Del resto, è vero che il tempo, il gran giudice delle politiche
proposte ed anche delle effettuate, è lento al solito a pronunciare
il giudicio suo; e che quindi può parere presunzione il pretendere
che l’abbia pronunciato così prontamente. Ma, altronde, il tempo
nostro, non c’inganniamo, è tempo di operosità esaltata, accelerata.
Perchè non vi son guerre grandi, non rivoluzioni, quasi nemmeno più
parti estreme, contese aspre o pericolose; perciò pare ad alcuni
disattenti che noi siamo in un tempo pigro, ozioso, quasi d’aspetto.
Ma il fatto sta, che l’opera del nostro tempo è appunto tanto più
pronta, più efficace, che ella è men contrastata. Di due persone che
vadano, l’una correndo, ma sovente fermata e fatta dar indietro dagli
opponenti sulla via, e l’altra stampando i passi giusti, contati, con
pochi contrasti, e così sempre all’innanzi, la seconda fa più via,
arriva più lungi, naturalmente. E il nostro secolo, nel suo primo
terzo si può assomigliare a quella prima persona, d’allora in poi alla
seconda. E se continua così, quali speranze, quali disperazioni non
s’apparecchiano per la gran metà del secolo ancor restante? Speranze a
coloro che prenderan parte al moto; disperazioni a coloro che vorranno
pazzamente contrastargli, o stoltamente tenersene discosti? È detto,
è fatto, più che a mezzo già nella minor metà: il secolo XIX non sarà
solamente, è già secolo di progressi, grandi in sè, grandi al paragone
de’ precedenti: se non sorge qualche ritorno proporzionatamente grande
all’indietro, che non è probabile di niuna maniera, sarà secolo
grandissimo, sarà, è già era di molti fatti nuovi a tutto il mondo
futuro. Altro che secolo di transazioni, di dubitazioni, di mediocrità,
come dicevano taluni! La transizione è finita, le dubitazioni si
mutano in certezze, la mediocrità rimane a quegli uomini, alti o
bassi, così mediocri da non prender parte alle grandezze che lor
si svolgono all’intorno. Ma volete voi ridurvi a’ fatti presenti,
compiuti? Sia pure. Da un dodici o quindici anni in qua, l’Europa, la
cristianità camminò forse più che ne’ trenta precedenti; ogni anno vale
ora secoli. E così è che, in un anno ed anche meno, poteron sorger
fatti confermanti le previsioni, così poterono udirsi giudizi già
pronunciati dal tempo. — Del resto, i soli operosi di fatti o almeno
di pensieri, capiscono il tempo operoso, accettano i giudizi di lui;
gli oziosi non li odono nemmeno, o se li odono, non li intendono, ed
anche intendendoli, li ricusano come troppo incomodi; e quindi noi
lascierem questi; e co’ primi soli esamineremo, trascurando parecchi
eventi minori, due fatti nuovi italiani, e due o tre stranieri. E per
non far un altro libro appiccicato al primo, saremo più brevi che mai.
Gli operosi che ci abbian letti fin qui e si degnino continuare, ci
capiranno in poche parole. Gli oziosi non ci capirebbono in molte,
e non saranno arrivati fin qui. Il mio libro, il mio stile non
son molli, nè forse facili, lo so. Ma chi m’insegna il modo di dir
mollemente, facilmente, di tante cose, nuove ancora in nostra lingua?
La novità produce moltiplicità; la moltiplicità, brevità; e la brevità
inevitabilmente oscurità, o almeno difficoltà. Lo stile politico
moderno, è, esso stesso, da formare in Italia. Nè ho la pretensione
di formarlo io. In ciò, come nel resto, desidero essere, non che
accompagnato, superato; ed è certamente molto facile. Ma finchè son
lasciato solo o poco meno, io imploro questa scusa della solitudine.
Chi parla solo, suol parlar tronco, ruvido od anche rozzo. Mi serva
di scusa appresso ai compatrioti; i quali non vorrei prendessero per
frutto d’impertinente negligenza ciò che è all’incontro di felice od
infelice, ma perdurante lavoro.

5. Il I.º FATTO NUOVO italiano da notare è negativo. È, che da un anno
in qua cessarono i moti, anzi le minacce di moti (diciam la parola
usuale) rivoluzionari. Così continuò a decrescere la serie decrescente
notata nel testo più volte.

Nel 1.º decennio del secolo: continuazione della rivoluzione massima e
pessima incominciata nel secolo scorso: servitù straniera.

Nel 2.º decennio: rivoluzione minore e migliore; si passa di sotto
alla servitù assoluta ad una servitù minore, a semplice preponderanza
straniera.

Nel 3.º decennio (incominciando dal secondo semestre 1820): prove di
rivoluzioni nazionali, poche e povere in sè, grandi al paragone delle
seguenti.

Nel 4.º decennio: prove minori.

Nel 5.º, ove siamo: prove minime.

E noi possiam quindi indurre una speranza che si continui così;
che l’ingegno sempre risorgente, che l’operosità indestruttibile
italiana si rivolgano da queste prove (buone o cattive, non ne
rifarem questione, certo infelici) alla prova nuova e migliore, delle
mutazioni a poco a poco, de’ miglioramenti universali, dell’unione
tra l’opinion nazionale e il poter de’ governi, della creazione d’una
politica, d’una operosità universale. Se continua siffatto rivolgimento
dell’operosità sprecata ad operosità efficace, è impossibile ch’ei non
produca l’effetto suo. Egli invaderà le amministrazioni, i consigli, i
ministeri de’ principi, anche più oziosi e lenti; e gli operosi, invece
d’ostacoli ed ostilità, troveranno aiuti. E principi e popoli, divisi
già in operosità contrarie, troveranno l’operosità comune, che è il più
grande, anzi il solo buono fra gli stromenti di unione.

6. II.º FATTO NUOVO. L’operosità comune è incominciata. Negativamente
e positivamente. Negativamente quel disegno di lega doganale dei
principati italiani colla provincia straniera, che preoccupava pubblico
e governi italiani un anno fa, è caduto. La lega de’ principati soli
continua sì ad esser difficile, a parere impossibile. Ma il tempo
giudicherà di tale impossibilità; ed è un gran passo intanto, che
paia più impossibile la lega colla provincia straniera, quale è[53].
— Positivamente poi, pubblico e governi italiani si sono destati,
finalmente, al desiderio, al bisogno, al fatto delle strade ferrate.
Gran danno che sia un po’ tardi! maggiore, che ci sia venuto dallo
straniero. Ma meglio tardi che mai, ed onde che ci venga, il bene. E
questo fatto serve già di suggello a ciò che dicemmo sovente; che lo
straniero stesso sarà sforzato a farci del bene, a prepararci le vie,
la via sino al fine, allo scopo. E questo fatto, questo progresso è
immenso. 1.º Egli torrà di mezzo, probabilissimamente (io m’avventuro
forse; ma più penso, più confido) i tentativi di rivoluzioni. Quali
potranno riuscire, quando potranno i principi in poche ore mandar
milizie, portarsi di lor persona sul punto sollevato o minacciante?
quando si potranno aiutare essi a vicenda, senza chiamata di
stranieri? Od anzi qual tentativo o minaccia seria si farà, quando le
popolazioni non sieno più inoperose, oziose, tormentate da quel non
saper che fare del proprio ingegno ed animo, il quale nella condizione
presente della società, è il gran motore delle rivoluzioni? 2.º Ed
all’incontro, le strade ferrate, cioè le comunicazioni agevolate,
accelerate, moltiplicate non possono non conferir molto, tutto, alla
formazione della politica nazionale, dico la politica di principi e
popoli, popolo grande e piccolo insieme, tutta la nazione. Relazioni
frequenti, opinione universale, politica nazionale: sinonimi. Questa
politica si formerà a poco a poco, allora che si provin comuni gli
interessi materiali, gli intellettuali. Lo straniero porrà ostacoli?
Saranno incitamenti al desiderio d’indipendenza. Continuerà a dar aiuto
a queste comunicazioni di merci, di mode, di usi, di costumi, d’idee?
Saranno aiuti a comunanze, e le comunanze aiuti a indipendenza. Nè mi
si dica che io sono imprudente, che rivelo pericoli allo straniero.
Egli li vede, ma li vede doppi, e non può uscir dall’ambage. 3.º E
quindi non disputeremo qui, quali sieno utili di tali comunicazioni
nuove. Tutte sono utili più o meno.

Prime forse, quelle che uniscano le capitali, le sedi de’ principati, i
centri d’operosità e d’idee italiane, i centri d’idee, or più, or meno
diverse, da riaccostare.

Seconde, quelle che uniscano i grandi approdi nostri coll’interno o
coll’estero; e così Genova con Torino, Francia e Svizzera occidentale;
Genova con Torino e Svizzera orientale; Genova con Milano e Germania;
Livorno con Firenze; Adriatico con Firenze; Ancona e Civitavecchia con
Roma; Napoli ed Otranto coll’interno del Regno.

Terze, tutte quante le comunicazioni terziarie tra quelle primarie e
secondarie.

Ed io voleva dire più a lungo di tutte queste. Ma molti ne dicono;
ed è un bene, un progresso pur questo, che i nostri governi ne lascin
più o meno dire. Pochi anni fa, una cosa qualunque, anche materiale,
che fosse caduta sotto l’opera o il solo pensiero de’ governi nostri,
era vietata alla discussione pubblica; or questa si soffre e talor si
eccita. Quindi tra le infinite cose da dire, ne scelgo una non o men
detta; tra tante strade ferrate di che si parla molto e bene, parlerò
io di una sola, che comprenderebbe tutte le prime e gran parte delle
seconde sopra accennate, e ne accrescerebbe l’importanza di gran lunga.
— Se il principe italiano dell’Italia settentrionale, e il principe
italiano dell’Italia meridionale s’intendessero (e non v’è nessuno al
mondo che possa impedirli d’intendersi) a fare, il primo la strada
che forando l’Alpi mettesse da Torino a Francia, e il secondo la
strada che varcando o forando l’ultimo Appennino mettesse da Napoli
ad Otranto, queste due strade sarebbero i due sommi capi di quella che
riunendo tutte le capitali italiane percorrerebbe tutta la longitudine
della longitudinale penisola nostra; e tutta questa strada insieme
libererebbe i principati italiani d’ogni loro dipendenza commerciale
germanica, e farebbe poi dell’Italia la via più lunga in terra, più
breve in tutto, tra l’Occidente d’Europa e l’Asia intiera. Molto
probabilmente questa strada torrebbe di mezzo ogni altra concorrenza,
rimarrebbe la migliore, la preferita per quella comunicazione,
che fu, che sarà sempre la massima di tutte sul nostro pianeta. Le
comunicazioni per terra, per istrade ferrate, si preferiscono già,
e, perfezionandosi, si preferiranno sempre più alle comunicazioni
per mare; le quali per quanto si perfezionino mai, rimarran sempre
soggette ed alcune fortune di mare. Guardate la carta; la via diritta
tra Londra e Suez attraversa la penisola nostra da Susa ad Otranto.
Da Otranto non riman più Golfo di Lione, non Adriatico da navigare;
non riman più che il Jonio, un mar solo, che è gran vantaggio a non
correre due fortune, due incertezze. Questa via farebbe guadagnare su
quella di Marsiglia una giornata forse, la sicurezza certo. Chi può
dubitare che il commercio e i due governi di Francia e Inghilterra, i
quali pagano così caro la sicurezza e il tempo, ne approfitteranno? —
Ma volete voi creder pure che rimarran preferite le vie per Marsiglia
o Venezia o Trieste per li loro corrieri? Ammettiamolo, benchè io
nol creda. Ma rimarrà quella fila, quella folla di ufficiali pubblici
francesi ed inglesi che faranno il passaggio in Levante ed Oriente,
e poi quell’altra fila o folla di viaggiatori scientifici, letterari
ed oziosi, che ne faranno, come si dice, il giro, e che facendo quel
passaggio o quel giro preferiranno senza niun dubbio far per via il
passaggio o il giro d’Italia. E questa folla, già grande oggidì, già
pur importante che non si pensa, s’accrescerà così certamente, ad uno
o più doppi. Io mi meraviglio (se forse non m’inganno per ignoranza)
che non siasi fatto un computo, facilissimo, dell’importanza di quella
folla presente, e della presumibile in avvenire. Poniamo che vengano
da 40,000 stranieri all’anno in Italia[54]. Poniam che la media
del soggiorno di tutti sia sei mesi, anzi solamente 180 giorni. E
poniam finalmente che spendano (voglio porre sempre poco) 10 lire al
giorno. Saranno 10 × 180 × 40,000 = 72,000,000. E notate ciò: questi
sono settantadue milioni quasi netti portati in Italia, guadagnati
dall’Italia. Siano pur servitori di piazza, facchini, postiglioni,
vetturini, locandieri che ne guadagnino il più; ma tutti questi si
provvedono da agricoltori, fruttaiuoli, fabbricanti e mercanti d’ogni
sorta. E poi vi guadagnano direttamente tutti questi fabbricanti
e mercanti, e i banchieri, e i padroni di case, e gli artisti, in
somma chiunque lavora e guadagna nella penisola. E questi settantadue
milioni, ripeto, sono guadagno quasi netto[55]; ed equivalgono perciò
a quello che in qualunque altro commercio sarebbe solamente guadagno
definitivo, risultato ultimo di esso, dopo dedotti i consumi proprii
e i profitti stranieri. Ora poniamo (per por sempre tutto contro
al calcolo nostro) che il guadagno netto degli altri commerci sia
di dieci per cento, che un commercio sia il cento per dieci del suo
guadagno netto; resta chiaro, che il guadagno datoci dagli stranieri
viaggianti in Italia equivale a quello di qualunque altro commercio
che fosse stimato a 720 milioni. Ei non s’è forse badato abbastanza
a questo computo; il quale spiega, come siasi così poco impoverita la
così oziosa, così poco produttrice Italia. Noi viviamo del benefizio
del Cielo, e dell’opera de’ nostri maggiori[56]. Essi lavorarono per
noi; noi raccogliamo ancor le frutte seminate da essi. I lor monumenti,
le opere di lor mani e lor ingegni ci fanno vivere. Noi siamo come
i nobili degeneri, che mangiano e bevono sul reddito dei capitali
messi insieme da’ maggiori. Sappiamo almeno non far come quelli, che
trascurano perfino di migliorare que’ redditi, secondo le opportunità
dei tempi. — Poca fatica ci vuole a raddoppiarli, triplicarli, od anche
più. Chi può prevedere il totale degli stranieri i quali passerebbono,
girerebbero e soggiornerebbero in Italia, quando agli allettamenti del
nostro cielo, di nostre campagne, di nostre città, di nostri monumenti,
di nostre memorie, s’aggiugnesse quello d’essere il nostro suolo la via
più breve tra tutta l’Europa Occidentale e l’Asia, tra le due nazioni
più operose del pianeta, e il maggior campo di lor operosità? Io credo
esagerare in meno, portando il guadagno nostro probabile in tal caso
sotto al triplo del guadagno presente, a incirca 200 milioni all’anno,
equivalenti al guadagno d’un commercio di due bilioni[57]. Tanto
che questo solo guadagno nostro eguaglierebbe quello delle nazioni
più produttrici o più commercianti! Tanto che io non m’inquieterei
che d’un solo inconveniente, della facilità di tal guadagno, e così
dell’allettamento all’ozio che ne verrebbe ai nipoti! Ma incominciamo
con essere operosi noi, e non inquietiamoci troppo dei nipoti; li
avremo incamminati pure essi. Incamminiamo l’operosità; l’operosità
saprà trovare nuove vie. Elle sono infinite. — Che le comunicazioni
a vapore, strade e navi combinate insieme, sieno per mutare forma
al mondo incivilito, ed anche poi al non incivilito; che ne abbiano
a sorgere condizioni, relazioni nuove a tutte le nazioni; è oramai
un assioma non più scientifico, ma volgare in tutta la cristianità.
Saremmo noi soli a non vederlo? o se il veggiamo, a non farlo entrar
nella politica, nella pratica nostra? O se v’entra, a non dargli tutta
quella efficacia, tutti quegli svolgimenti di che è capace, e che
gli si danno altrove? Se così fosse, allora sì che sarebbe convinta
d’incapacità la nazione nostra, o chi per essa; ed alla faccia di tutte
l’altre nazioni incivilite, libere, men libere, od anche serve, e tra
la servitù trovanti pur modo a questa almeno fra le grandi operosità.
Alla fine del secolo, od anche prima, i gradi di civiltà delle nazioni
diverse si segneranno probabilmente sulla scala di proporzione delle
popolazioni ai miriametri di strade accelerate che esse possederanno.
— Materialità, diranno alcuni! E materialità risponderemo noi! Ma
materialità come quella d’un corpo sano e ben disposto, il quale serve
all’animo, all’intelligenza, ed anche alla virtù.

7. III.º FATTO NUOVO. Ora usciamo d’Italia, e veggiamo se quelle
speranze che notammo, or fa un anno, e furono derise, in versi e in
prosa da alcuni nostri compatrioti ed anche amici (non meno rimastici
amici perciò), sieno pur di quei sogni che si dileguano coll’andare
del tempo e della realità. Io parlo della speranza che ci viene,
come fu detto, da Turchi, o per parlar sul serio dalle inevitabili
mutazioni di quell’imperio, di tutta la civiltà Maomettana. — Questa
civiltà è una, è solidaria più o meno, dall’Indo all’Atlantico.
Nel qual grande spazio, tre imperii maomettani sono od erano: il
Persiano, il Turco e Marocco. Vero è che questo era da gran tempo
più supposto, che effettivo; ma appunto in quest’anno, ne’ pochi
mesi scorsi, apparve, fu dichiarata a tutti la supposizione. Io
notava già timidamente: ecco Francia postasi in contatto, entrata in
relazioni sforzate con Marocco. Mal detto, mal preveduto, timidità
mia, esitazione ne’ miei proprii principii! Con un grado ulterior
di fiducia, io avrei detto fin d’allora: Francia entra a buttar giù
l’imperio di Marocco, a far comparir quel sogno, quella bugia. Ad ogni
modo, così fu. Una battaglia, due bombardamenti marittimi, bastarono
a dileguare lo spauracchio di que’ vincitori di D. Sebastiano, di
quella gloria antica, di quel deserto, di quelle nubi di cavalieri,
di quell’imperatore. Quell’imperio giace lì, preda disputabile forse
tra Francia, Inghilterra, od altri; preda insomma a’ Cristiani,
quando che sia che s’accordino in prenderlo; come i due altri imperii
di Turchia e Persia. I tre, tutto l’islamismo, giacciono ora nella
medesima condizione; sopravvivon per grazia della cristianità; grazia
momentanea, fatta loro fino a che ella non abbia tempo od ozio a
rivolgervisi, finchè pensa ed opera in altro, finchè non le giova
ritirar la grazia, finchè a tutti o molti, od anche a due o ad uno
de’ forti popoli cristiani non venga una necessità, una occasione,
un piacere, un capriccio di levarsi l’incomodo. — E già è minacciata
un’altra parte, già l’istmo di Suez è un incomodo. Chi può credere che
rimarrà gran tempo, mal aperto com’è? Che quando sieno moltiplicate,
agevolate le comunicazioni in tutta Europa e tutto il Mediterraneo di
qua, nell’Indie, e tra l’India e la Cina, e tra l’India e Suez al di
là, l’istmo di Suez rimanga a lungo, quasi un’interruzione, abbandonato
alle comunicazioni patriarcali sui cameli? Ma, mentre io scrivo,
o prima che il mio scritto diventi stampa, sarà forse incamminato
il progresso primo; e i cameli saran per diventare locomitivi, e
in breve le locomitive accresceranno il tragitto, e il tragitto
accresciuto domanderà un canale, e il canale sforzerà a guarentigie, e
le guarentigie a nuovi gradi di preponderanze, dominazioni o dominii
cristiani. — Ancora, da una terza parte, Grecia s’educa ogni dì
(più o men lentamente) a costituzione, a libertà, a pubblicità, ad
operosità; Grecia, già quasi tutto russa, si fa or russo-inglese, or
russo-francese; finirà con essere anglo-francese in diplomazia, e greca
solamente, ma compiutamente in interessi, in parole, in opere. Gli
_Status quo_ son buoni per alcuni anni, o lustri. Ma secoli? Chi il
può pensare? Chi può credere che resti per secoli un milione di Greci
liberi daccanto a quattro o cinque milioni di Greci schiavi, senza
che quelli chiamino questi a libertà? Sono sogni buoni tutt’al più per
qualche novizio di diplomazia, tutto ancora rispettoso ai protocolli;
ma non per chi rammenti la storia de’ protocolli moderni od antichi,
da quelli di Londra risalendo su fino a quelli per cui Atene e Sparta
riconobbero la dipendenza sotto al gran re delle città grecopersiane;
quelle medesime città, le quali elle aiutarono tuttavia in breve a
liberarsi, a vendicarsi, a distruggere il gran re. Ei s’ha un bel dire;
ma la storia, sovente mal intesa, serve pure talvolta; quando se ne
ragioni tenendo conto della natura umana, immutabile in condizioni
simili. Una nazione nuova e libera, ficcata in fianco a un imperio
vecchio ed assoluto, non può non tendere a distruggerlo. Una nazione
libera che ha fratelli schiavi, non può non tentar di liberarli. Sol
che l’Europa lasciasse fare a Grecia, Grecia basterebbe probabilmente
alla caduta dell’Imperio ottomano. E se l’Europa vi porrà le mani, la
caduta sarà forse più lenta, ma tanto più certa e più a profitto di
tutti, o di molti, e per nostro, se non teniam noi nostre mani alla
cintola. — E tanto più, che oltre queste nuove spinte interne o vicine,
una o due altre van pur incalzando da più lontano.

8. IV.º FATTO NUOVO, ma dubbio, e così posto qui solamente per
memoria. Pochi mesi sono noi dicevamo impossibile che l’Europa in
generale, che la nazione Germanica in particolare ed in vangardia, non
s’inorientino un giorno o l’altro in qualche modo; e che l’inorientarsi
di Germania non sia inorientarsi d’Austria e Prussia. Ma, un gran
dubbio ci rimaneva; come faranno a inorientarsi quelle due potenze
assolute, fra que’ popoli slavi che mostrano tante voglie di libertà?
Delle tre potenze assolute, Russia, Prussia ed Austria, Russia è la
più forte, la più operosa e la più omogenea agli Slavi orientali;
ondechè, finchè le tre non adoprano se non mezzi pari, mezzi da
potenze assolute, tutto il vantaggio è dell’ambizione russa. Quindi
alle due altre non resta se non una speranza: adoprar mezzi diversi,
mezzi di libertà; non hanno che la libertà da opporre all’omogeneità
di lingua e di religione. Ma questa libertà, nè l’Austria nè Prussia
non parevano, pochi mesi sono, volerla offerire, adoprare. Delle due,
Austria pareva quasi la meno discosta da tal mezzo; Austria dico, che
è pure Ungheria. Ma ecco che, quando meno vi ci aspettavamo (almen noi
altri Italiani, mal informati sempre d’ogni cosa straniera, e massime
settentrionale), ecco, dico, rumori, parole che annunciano più o meno
di libertà politica in Prussia, in quella parte di Germania che è duce
di Germania. Saran false, quest’altra volta, siffatte voci? Sia allora
per non detto. — Ma sarebbon elle vere? Oh, allora io credo che ei si
vorrà esser ciechi, e volontariamente ed assolutamente ciechi per non
vedere che questa pure sarà una gran mutazione per tutti gli affari
d’Europa, ma principalmente per quelli d’Oriente. Prussia assoluta, o
mezzo libera solamente, non ha nulla ad offerire a quelle popolazioni
slave, che sono oltre ogni cosa al mondo vaghe, o se si voglia pazze,
di libertà. Prussia assoluta non ha di che trarre quelle popolazioni
dalla Russia a sè. Può dir loro tutt’al più: non ho Siberia ove
mandarvi. Tra Russia slava e Prussia tedesca, e ambe non libere, la
scelta degli Slavi sarebbe sempre per Russia slava. All’incontro, se
e quando sia libera Prussia, se e quando la scelta sia per gli Slavi,
tra l’essere Slavi, servi di Slavi, ovvero Slavi liberi con Tedeschi,
io non credo poter ingannarmi, benchè scrivente da lungi, benchè
straniero, benchè non informato, dicendo che la scelta degli Slavi non
rimarrà dubbia un momento. E so che la scelta di una nazione serva e
dispersa non conta molto da principio, o in un’occasione, in un tempo
determinato. Ma so pure, che alla lunga, ed a tempo determinato, la
scelta di tutta una nazione pazza di libertà, non è, non può essere
nulla. E massime in questo secolo; e massime quando quel voto d’una
nazione, gloriosamente caduta, consuoni con quello della universa
cristianità, simpatizzante; e massime quando questa troverebbe il
suo utile a tal mutazione. Io non fo se non tornar al mio dir primo
delle precedenti edizioni, ma vi torno con isperanze confermate: il
buon ordinamento e la potenza ulteriore della Cristianità dipendono
dall’ordinamento reciproco, dalla fusione progrediente delle due
grandi schiatte centrali, germanica e slava. — La schiatta, o come
si dice ora, il mondo slavo si divide in tre parti: Slavi germanici,
Slavi russi, Slavi turchi. Questi tendono a sciogliersi della signoria
turca. Rimarran essi indipendenti, o s’accosteranno ad una delle due
signorie, russa o germanica? Se si attenda a’ fatti prossimi passati
si crederà che diventeran Russi; se alle voci, alle tendenze presenti
si crederà che diventeranno indipendenti; ma se a’ grandi insegnamenti
della storia antichissima, antica, moderna ed alle grandi previsioni
avvenire ed agli stessi destini asiatici, incivilitori, cristiani
dell’Imperio russo, si argomenterà che è più naturale insieme e più
desiderabile qualche fusione nuova delle due grandi schiatte germanica
e slava[58]. — E lascio poi un altro grande effetto che verrebbe da
questa mutazione prussiana; effetto sul resto di Germania; effetto
forse su Austria stessa; effetto sulle relazioni del governo di lei
con le provincie sue, colle stesse provincie italiane. Chi può dire ove
giungerà tal effetto? O se s’avrà a dir felice od infelice? Felice per
quelle provincie italo-austriache immediatamente? Infelice perchè ne
sarebbero italo-austriache per sempre o almen per secoli? Per ora non
v’è pericolo, è vero. Ma col tempo? chi può giurare, che come furono
introdotte da quegli stranieri parecchie novità, non sarà introdotta
anche questa? E allora?

9. V.º FATTO NUOVO; e questo adempiuto, indubitabile a parer mio;
l’unione confermata delle due politiche francese ed inglese. Pochi
mesi sono, erano flagranti una occasione grande e due minori di
disunione; il Marocco, Taíti, e il diritto di visita. Ora delle
tre la 1.ª e la 2.ª son composte, e la 3.ª si compone. Ma separiam
primamente le due ultime, noi che non abbiamo a farne questioni di
ministeri o d’opposizioni; noi osservatori stranieri e disinteressati
in que’ risultati personali, benchè poi interessantissimi come tutta
la cristianità progrediente, più interessati che niun altri come
Italiani, all’unione dei due popoli duci di quel progresso. Agli occhi
nostri, quelle due questioni minori od altre simili, non fecero, non
faranno mai guari pericolare l’unione, non faranno se non tutt’al
più mutar ministeri di qua e di là; ed ora nel 1845, di tutti i
ministeri probabili o possibili, francesi od inglesi, non è uno che
voglia veramente distruggere o menomare l’unione, non ne è uno il cui
desiderio, la cui gloria non sia, o non sia per essere, di accrescerla.
Uno di questi giorni, il nuovo presidente degli Stati-Uniti diceva
con magnificenza; esser salito esso al maggior carico che sia sulla
terra. Ma, se mi si faccia lecito dire, io crederei che le due
maggiori potenze sulla terra sieno alla nostra età quelle dei due
uomini i quali abbiano fra le mani la direzione dei due popoli inglese
e francese. Tenendo conto del numero e dell’impulso, queste due
potenze sono le maggiori del globo; ed unite, soverchiano forse tutte
l’altre insieme; e non è se non divise che possono trovar contrapeso,
controstacolo, tra sè. Ed ora, credete voi, o compatrioti, che gli
uomini i quali si trovano in sì alta potenza, in sì gran facilità di
raddoppiarla, non sentano, non capiscano tal magnifica situazione? Ma
se non la sentissero, non vi sarebbero probabilmente arrivati, tra
tanti concorrenti che se n’ispirano; e sentendola, non è probabile
che vogliano guastarla di tanto, ridurla a metà per niuna causa men
grande. Nè tal grandezza è men sentita da coloro che l’invidiano e
fanno quelle opposizioni, le quali montano a dire: togliti di lì che
mi vi metta io. Essi (anche quelli che son men creduti tali) vi si
vorrebber mettere per fare il medesimo, od anche più, nel medesimo
senso; i più prudenti per evitare meglio, a creder loro, i pericoli
di disunione; i più arditi per troncarli forse d’un tratto, facendo
assumere insieme alle due nazioni qualche grande scopo di comune
operosità. Io udii già lamentare, compatire la situazione di que’
ministri combattenti colà per que’ sommi luoghi della potenza umana; da
alcuni politici od anche letterati di altri paesi. Ma costoro misuravan
coloro alla loro spanna, alle facoltà o forse solamente all’abito di
lor minute ambizioni; mentre per ambizioni personali, ma ingrandite
dal gran campo, od anche (perchè calunniar sempre la natura umana?),
od anche per ambizioni patrie più generose, tutti quegli uomini di
stato sentono e professano il piacere, la gloria di combattere per le
due somme tra le potenze umane, il piacere, la gloria principalmente
di tenerle unite. — Ma (insisteran forse i politici minori), ma se gli
uomini di stato francesi ed inglesi son per l’unione, le due nazioni
sono, od una almeno è per la disunione, per la rinnovazione delle
antiche rivalità. Illusione anche questa, a parer mio! La rivalità tra
quelle due nazioni non è, come ci dicevano le gazzette dell’Imperio,
nè immemoriale, nè incessabile, nè naturale. Antichissimamente per li
quattro o cinque mila anni primi del genere umano non esistette; anzi
le due nazioni sursero delle medesime schiatte, celtiche, cimbriche,
teutoniche. Non è tra Inghilterra e Francia niuna di quelle situazioni
reciproche le quali fanno le inimicizie naturali, perpetue; come tra le
genti dell’Asia settentrionali e la Cina, tra quelle dell’Asia centrale
e l’Indie, tra qualunque signor dell’Asia occidentale e l’Egitto,
e tra le nazioni germaniche e l’Italia, le quattro seconde sempre
facilmente invase ed assoggettate dalle quattro prime. La più antica
grande invasione, e nimicizia e rivalità che si sappia tra Inghilterra
e Francia, venne da questa a quella da Normani del 1066. E, nota ciò,
il peggior frutto della conquista ricadde in breve su’ conquistatori,
riconquistati in gran parte. E allora sì fu bella, fu ragionevole e
giusta la rivalità, magnifica la difesa di Francia, che durò tre secoli
e più, e finì colla cacciata ultima dello straniero. Poscia, dalla metà
del secolo XV fino alla metà del XVII succedette un secondo periodo di
rivalità, è pur vero; ma rivalità non più ragionevole, non più avente
niuno scopo grande e bello, prolungazione, reminiscenza della rivalità
passata, rivalità di vicinato tutt’al più; prolungazioni, rivalità da
medio evo, da età male uscite ancora di barbarie. E successe poscia,
dalla metà del secolo XVII al principio del XIX fino al 1815, un terzo
periodo di rivalità più reale, una rivalità d’interessi, ciò che gli
antichi chiamavano una guerra d’imperio, ciò che or direi di primato.
E il primato rimase in ultimo all’Inghilterra, e questo inasprisce
Francia, per vero dire. Ma, prima, non inasprisce Inghilterra, a cui
poca generosità si vuole per non serbar rancori; ed è già molto, quando
tra due disputanti, uno voglia cessar di disputare. E poi, quanto a
Francia stessa, chi crederà da senno, che una nazione così avanzata
nella cognizione e nel proseguimento de’ propri interessi, com’è
ora Francia, sia per fare quell’errore da medio evo, di continuare
la rivalità, in qualunque modo terminata, ma senza scopo oramai?
Perciocchè il primato inglese, qualunque egli sia altrove, non è
europeo, non offende nè onore, nè interessi, nè speranze francesi sul
Continente, ed anzi le può e dee promuovere; e fuor d’Europa poi, negli
spazi de’ mari, il primato inglese è giunto a segno da non potersi
estendere, da dover limitarsi da sè, da dover ammettere per interesse
proprio altre potenze, ed ammette Francia, come l’ha dimostrato testè
nell’Oceania e nella Cina. Ondechè in somma, nel nostro secolo XIX,
in mezzo alla nostra civiltà, e nella situazione che vi tengono con
profitto e gloria ed orgoglio reciproco Francia ed Inghilterra, non è
probabile che si dividano e si guerreggin le due per niuna ragione che
di grandi interessi; e niun tale interesse, niun gran _casus belli_ è
al presente o si può preveder tra le due, se non fosse forse l’imperio
del Mediterraneo.

10. Ma egli è appunto per questo, che fu un gran fatto, un gran
progresso il trionfo su Marocco ottenuto da Francia, tollerato da
Inghilterra. Quel trionfo è conferma, ultimazione della conquista
dell’Algeria; e la conquista ultimata dell’Algeria è divisione
irremediabile dell’imperio del Mediterraneo tra Francia ed Inghilterra;
è limite posto anche qui al primato dell’ultima. Un anno fa si
poteva credere che questa non tollererebbe tal limite postole dalla
rivale antica, tal divisione di sì bell’imperio. Ora non è possibile
dubitarne, è fatto compiuto, non è possibile credere che Inghilterra
l’abbia veduto e voglia tornarne indietro, nè ora nè poi, finchè durerà
quella sua mirabil saviezza di stato, che non le è negata oramai se
non da’ meno informati di infimo grado. Inghilterra non è così stolta
da volere oramai contrastare ad una parità da lei acconsentita, quando
poteva impedirla; Francia, assodata ed assodatesi, non così stolta da
non soddisfarsene. E Francia ed Inghilterra terranno insieme volentieri
il primato del Mediterraneo, perchè elle non hanno solamente intenzione
e poter di serbarlo, ma di svolgerlo; e che a svolgerlo, elle sentono,
elle sanno di dover rimaner unite; e che in tale svolgimento elle
sentono, elle sanno essere le maggiori speranze loro. Così sapessimo
noi che ivi pure sono le nostre! Così si lasciassero da tutti noi tutti
i pregiudizi contro quelle due nazioni d’oltremonte e d’oltremare,
nella cui opera unita è il principio d’ogni nostro buon avvenire!
Così i nostri uomini di stato volgessero là la nostra politica, i
nostri scrittori la pubblica opinione! Oh un po’ esser giovane e
forte e dedicar alla prima o almeno alla seconda di quell’opere,
la vita italiana! — Un magnifico libro sarebbe da fare e intitolare
IL MEDITERRANEO. Nell’antichità mitologica il Mediterraneo tirreno,
fenicio, pelasgo ed ellenico; nell’antichità storica il Mediterraneo
romano; nell’età de’ Barbari il Mediterraneo greco ed arabo; nel
medio evo dal 1000 od anche prima fino al 1500, il Mediterraneo per la
seconda o terza volta lago Italiano; dal 1500, dalla scoperta del giro
d’Affrica e dell’America, il Mediterraneo scaduto, quasi insolcato,
impoverito, ridotto a cabottaggi e piraterie, quasi inutile, fino al
1814 od anche al 1821; dal 1821, dal grido d’indipendenza levato in
Grecia, e traente a sè l’attenzione, le simpatie, le armi, le navi,
l’operosità, le nuove invenzioni, la potenza delle nazioni cristiane,
il Mediterraneo risalente a sua importanza naturale, quell’importanza
che non può indietreggiare, che non può non accrescersi di dì in dì e
chi sa fino a qual segno? E questo segno, questo avvenire sarebbe pur
bello a prevedere, e ben prevedendo, a preparare per quanto possibile.
A niuno più che a un Italiano si converrebbe tale opera di scritto;
niuna nazione più che l’Italia ha interesse a quell’avvenire; ha
interesse che le due potenze primarie intendano i loro interessi veri,
non lottanti, e li svolgano concordemente; Inghilterra nel Mediterraneo
orientale principalmente, ond’è il suo passaggio al suo grand’imperio;
Francia in quella metà occidentale dove ella imperia di qua e di là,
oramai indistruttibilmente; e tutte due insieme, poi opponendosi
all’avanzamento della sola potenza che può far pericolare tutti i
destini del Mediterraneo, dirigendo e determinando tutte le mutazioni
inevitabili de’ popoli ripuarii orientali, da cui que’ destini
dipendono in somma. Certo, Francia ed Inghilterra non han lezioni di
politica a prender da noi! Noi così piccoli oramai, noi al paragone
così poveri di operosità, di potenza, di esperienza, di riputazione
politica. Ma, noi siamo più che nessuni sul luogo, noi in mezzo a
quel campo marittimo de’ primati altrui. E noi non siamo tuttavia
senza qualche ingegno naturale che possa vedere e dire se si lascia
dire; siffatto ingegno è la sola facoltà che ci resti; e forse egli
acquisterebbe qualche attenzione, quando studiasse gl’interessi propri,
così identici con gli altrui. Perocchè in somma, sia io pure accusato
dagli uni come troppo speranzoso, dagli altri come sacrificante
le speranze del primato italiano, io non mi rimarrò dal notarlo e
protestarne: tutte le speranze italiane mi sembrano oramai confermarsi
ed unirsi in questa unione delle due potenze più grandi, più
incivilite, più progredienti, e così primeggianti nel Mediterraneo. — E
v’ha più. Un’ultima speranza mi sembra compresa in quella: la speranza
che una terza potenza del Mediterraneo, che l’Austria, s’aggiunga
un giorno o l’altro ad Inghilterra sua vecchia alleata, a Francia,
più nuova. Il dì che si segnasse la triplice alleanza noi potremmo
diventar alleati commerciali od anche politici dell’Austria stessa. Ma
intanto o a difetto della alleanza triplice, perchè non accostarci alla
duplice? commercialmente e politicamente, per adesso subito, e massime
per l’avvenire qualunque alleanza nostra con quelle due potenze ci
varrebbe tanto e più che non qualunque lega doganale tra noi. Mentre
approfitteremmo di quell’unione, noi la stringeremmo coll’accedervi.
E notate come ciò concordi con ciò che accennammo dell’avvenir
possibile delle strade ferrate. Tutto concorda in un avvenire operoso.
L’essenziale è l’entrarvi; e francamente, alacremente[59].

11. Ed ora, accennati questi quattro o cinque fatti nuovi, e
abbandonandone le conseguenze ulteriori a chi legga e pensi, e passando
a conchiudere, mi si conceda servirmi perciò di due parole italiane
d’un mio critico francese, le quali mi vengono molto in acconcio.
Questo scrittore, avverso a quasi tutte le mie opinioni, ma pur
cortese, e che mi fece l’onor di combattermi dopo Manzoni e Pellico, e
con Rosmini, Gioberti e Troya,

    «Sì ch’io fui sesto tra cotanto senno»;

questo eloquente professore riprova tutte quelle speranze italiane
ch’egli chiama cancelleresche, e termina poi una concitata esortazione
agli Italiani, con queste parole in lingua nostra: _ci vuole il ferro_.
Ma queste parole, mi perdoni egli, son troppo indeterminate, troppo
oscure, troppo abusate, o almeno troppo abusabili tra noi. Certo in
bocca di lui, quel ferro non può voler dire se non un nobil ferro, la
spada, od anzi le spade italiane, nazionali, levantisi, raccoglientisi
un dì o l’altro, all’occasione, contro allo straniero. Ma queste
spade io pur le lodai, od anzi, di esse sole lodai esplicitamente
due soli de’ nostri principi; e vi confortai gli altri, e tutta la
nazione, come a speranza, a ragione ultima delle nazioni; ondechè
egli, mostrando opporsi a me o andar più oltre, parrebbe chiamar altri
ferri, men nobili, che non fu certamente intenzione di lui. Meglio
dunque disse già delle nostre speranze politiche un valoroso amico
mio: che elle stanno pur bene, ma ci vorranno un dì o l’altro _grandi
sciabolate_. Qui almeno, non è equivoco il ferro, qui l’objezione è più
determinata, meglio formulata. Ma ad essa pure rispondo primamente:
che appunto a far dar grandi ed utili e numerose e concordanti
sciabolate all’occasione, tendono gli scritti, tendono le buone e
sincere discussioni, tendono le politiche nazionali dove sono. —
Ma poi, da un anno in qua, dopo i quattro o cinque fatti nuovi, ei
parmi che un gran cambiamento sia avvenuto; che si sieno allontanate
le occasioni, scemate le speranze dell’armi; che siensi accresciute
all’incontro di gran lunga le speranze della politica di pace. È
bene o male, guadagno o perdita per noi? Chi lo sa, chi lo può dire
fuorchè la Provvidenza, la quale sola sa quel che sarebbe stato, se
fosse ciò che non è? Per noi, son tempo sprecato queste supposizioni
del passato. Supponiam piuttosto il futuro, i casi probabili di esso.
Il futuro è un mare che ad ogni modo forza è solcare; e che giova
studiare per avere i casi a seconda. — Le probabilità di guerra hanno,
dal 1830 in qua, seguito il medesimo andamento che le probabilità di
rivoluzioni; sono venute scemando via via: grandi ne’ primi anni, e
poi sostanti; poi rinnovatesi nel 1840, ma minori; poi rinnovatesi
nel 1844, ma anche minori; ed ora dopo quelle tre prove minori che
mai. Sarò io accusato di predir la pace perpetua? Certo sì, posciachè
ne fui accusato già, a malgrado le mie proteste raddoppiate, che è
inutile quindi triplicare. Dirò dunque semplicemente, che io non credo
all’abolizione della guerra; ma che credo, prima ad una minor frequenza
di essa, come avvenne sempre ai tempi di gran civiltà; e poi, ad una
quasi trasformazione di essa, come sempre dopo le grandi invenzioni,
la polvere, la stampa, ed or il vapore. E la trasformazione farà, come
le precedenti, le guerre sempre più corte e grosse (come già prevedeva
Machiavelli), e perciò più terribili, epperciò di nuovo più rare. E
ciò non vuol dire di non apparecchiarvici; anzi di apparecchiarvici
tanto più. Ma vuol dire insieme, di non veder tutti noi leggermente,
quasi giovinotti al primo dì che cingon le sciabole, speranze di guerra
tutto dì; vuol dire di attendere quindi tanto più alle speranze di
pace, di raccoglierci intorno a queste, queste studiare, di queste
far profitto, queste svolgere agli ultimi termini loro. E questo in
somma è ciò che si chiama formarsi una politica nazionale; quest’è che
fecero sempre, e fanno ora le nazioni più civili; quest’è, mi scusino
coloro a cui appartiene, quest’è che non fa, che non mostra voler fare,
nè intendere, la nostra nazione. Noi andiamo via facendo progressi
particolari, parziali, ed io li notai senza esagerazione, spero nè
detrazione. Ma questi progressi sono sconnessi fin ora, non formano,
non accennano una politica nazionale ferma, franca, soda, forte; e
quest’è, che lamento per la patria italiana tutt’intiera, per ciascuno
de’ principati di lei, popoli e principi, non disgiunti da me mai. —
M’inganno io su quella probabilità di pace non perpetua ma durevole?
Verrà ella pronta qualche guerra a troncare le quistioni inevitabili
oramai allo svolgimento della civiltà cristiana universale? Quella
guerra andrà a profitto delle nazioni che avranno apparecchiate non
solamente l’armi, ma le politiche guidatrici? Ovvero quelle questioni
saranno elle sciolte dalla politica? Allora tanto più ci sarà, ci è
necessario averne anche noi una nazionale. E in un modo o nell’altro,
in pace o in guerra, ci è necessario, pressante costituir tal politica:
Questa è l’opera, questo il lavoro del dì d’oggi, ogni dì ha il suo.

12. Il volgo è il più sapiente, e il più ignorante insieme de’
politici. Ha un barlume di certe verità che potrebbe insegnare a’
maggiori uomini di stato; ma sovente, invece di svolgerle, egli le
avvolge così, che ne fa errori manifesti. Il volgo antico e nuovo
parlò sempre di politiche nazionali, politica romana antica, politica
romana dei papi, politiche inglese, russa, austriaca, prussiana,
francese de’ nostri dì. Fin lì sta bene; vi furono, vi sono politiche
nazionali importantissime; il volgo l’indovina. Ma egli pensa talora,
che queste sieno profondità, oscurità, arcani inventati, tramandati,
serbati da pochi quasi iniziati; mentre elle sono tutt’all’opposto;
sono, dove sono, prodotto, espressione dell’opinione universale,
pubblica, volgare. E così il volgo calunnia sè stesso o i volghi pari
suoi; non sa vedere la propria parte nelle politiche nazionali; se
n’esclude mal a proposito. E volgo sono alcuni politici, che credono,
o voglion far credere a questi arcani. E volgo alcuni storici, che
cercano esclusivamente, chi fondasse le arcane politiche nazionali, e
da chi si serbassero. La politica dell’imperio di Roma si attribuisce
fino a Romolo, o Numa; la politica de’ papi a Gregorio VII, ad
Innocenzo III, a Bonifazio VIII od a Giulio II; la politica francese
si attribuì gran tempo a Richelieu, poi ad una infelice regina, poi a
questo o quell’altro uomo della rivoluzione, e via via; la politica
inglese, già a Guglielmo III, poi a Pitt; la russa a Catterina,
l’austriaca a Kaunitz già, come ora al successore di lui. E tutti
questi contribuirono certo a tutte queste politiche nazionali. Ma dove
furono o sono politiche nazionali, elle son frutto non d’una testa,
ma di molte, non di un pensiero, ma d’infiniti, non di un giorno,
ma di secoli; sono nè più nè meno che L’INTELLIGENZA UNIVERSALE
DEGLI _interessi universali_; la quale fu che, chiunque si trovi al
regno, a’ ministeri, al governo si promuovono pur sempre i medesimi
interessi. Ma questa intelligenza universale, non è poi nè facile, nè
frequente. Vi sono nazioni che non l’hanno avuta per secoli e secoli;
distratte le une da lor male passioni interne; altre dall’esterne,
altre impedite da cattive costituzioni, altre fatte del tutto incapaci
dalla servitù. La formazione d’una politica nazionale buona, è un
prodotto raro di molte circostanze felici, ma principalmente della
possibilità di discussione. Qualunque forma prenda questa, ella serve;
più o meno, senza dubbio, secondo che è più pubblica, più libera;
ma servono anche le forme meno buone a difetto delle migliori. Che
cosa principalmente fece l’Inghilterra riuscire a bene, al proprio
pro, al proprio accrescimento, sopra ogni nazione nemica od alleata,
nella lunga guerra universale dal 1792 al 1815? l’aver avuta fin
dal principio una politica nazionale, già figlia vecchia della
discussione; l’averla continuata, migliorata lung’anni per mezzo della
pubblica discussione. Perciocchè di questa, Inghilterra aveva allora
la privativa; in Francia non n’era, se non or l’abuso, ora l’ombra;
altrove, nemmen questa. Inghilterra sola discuteva, e sceglieva la sua
politica; e qualunque avesse scelta, anche men buona, la proseguiva ed
avanzava poi con costanza, con unanimità o poco meno, con ispirito ed
operosità nazionale; questo vantaggio almeno le rimaneva. Le politiche
discusse, diventate nazionali, hanno questi tre vantaggi; l’uno
probabile d’esser migliori; i due altri certi, di esser più costanti
e meglio propugnate. Ed in Inghilterra godete de’ tre vantaggi, se
non esclusivamente, ma con pochi, di nuovo dopo il 1815, per più anni.
Ora son comuni a molti, e si vanno accomunando ad altri. Dove, come in
Prussia, la politica nazionale non si discute finora ne’ Parlamenti,
ella si discute almeno ne’ libri, che certo è meno, ma è pure alcun
che. E Prussia (dico il governo, il principato stesso di Prussia) sente
il desiderio, il bisogno di afforzare questo suo strumento d’azione,
questo aiuto ad una gran politica nazionale; non è altra maggior
ragione alle voci presenti, a’ fatti che s’apparecchiano colà. Ma
fin d’ora, dalla Vistola in qua, l’Italia è la sola nazione che non
discuta la propria politica, la sola non incamminata a formarsene una
nazionale. Ed ammirate di nuovo la sapienza del volgo, delle lingue,
di tutti insieme. Fra mezzo a tutte quelle espressioni che sono in
tutte le bocche, di politica inglese, francese, russa, prussiana,
austriaca, non s’ode, non si dice, da nessuno, _Politica italiana_.
Famosa (bene o male?) or son pochi secoli, essa non esiste più nemmen
nelle lingue. E i principi si lagnano d’aver popoli politicamente mal
educati! E i popoli d’aver principi poco politici! Lo credo anch’io.
Nè principi, quando fosser Napoleoni, nè popoli, quando fossero pari
al popolo romano antico ed all’inglese moderno, non possono farsi nè
restar politici senza discussione. Il popolo romano nol restò, toltagli
quella; Napoleone nol restò, abolitala. Se i principi voglion popoli
educati, che li capiscano e li secondino quando fan bene, che sieno lor
grati quando l’han fatto o incominciato, concedan loro l’educarsi, il
discutere. Non credono eglino concedere la discussione più efficace,
più autorevole, deliberativa? Concedan la consultativa almeno; o la
letteraria almeno almeno. E voi, popoli italiani, volete voi principi
che pur vi capiscano, vi guidino, operosamente, politicamente? Invece
di scostarvi da essi, invece di fremere, parlate loro, a stampa, per
iscritto, a voce, e con gli applausi, e i silenzi, in ogni modo, ad
ogni ora. — La politica nazionale, difficile a formarsi dappertutto,
più difficile dove vi è poca discussione, e difficilissima dove sia
una nazione divisa. Tutte queste difficoltà non si posson vincere che a
forza di perseveranza, di operosità, di amore; a forza di: I. Formarsi
ciascuno la sua politica personale; sincera, spoglia di vili e di amare
passioni, spoglia di amareggianti memorie, non intesa che al futuro
della patria: II. Studiare questo futuro, sugli esperimenti datici
dalla storia sì, ma sopratutto sulle condizioni presenti e crescenti
delle nazioni circondanti, su quelle della cristianità tutt’intiera:
III. Questa politica, che così concepita e studiata non può non
riuscir moderata, procurar di darla ciascuno ai vicini, agli amici,
ai piccoli, ma sopratutto ai potenti, più potenti e potentissimi:
IV. E per ciò fare, a ciò riuscire, dismettere non che le ostilità,
ma i modi ostili, i minaccevoli, i pedanti; assumer modi amorevoli,
o meglio amorevolezza, amore: V. Non adular principi, ma non popoli:
VI. E questa politica schietta, virtuosa, moderata, scriverla, se si
ha facoltà: VII. Pubblicarla, se si ha possibilità: VIII. E dettala,
o scrittala, o pubblicatala il meglio che sappia e possa ciascuno,
perdonare, dimenticare non solamente i dissenzienti, che è facile, ma
i malevoli, gli sprezzatori, i derisori, gli storpiatori delle nostre
parole, che è più difficile, ma che è pur necessario a non prolungare
o moltiplicar divisioni. — Così facendo non uno o due, ma molti,
e ciascuno secondo il poter suo, faremo il più che sia fattibile,
adesso, per la patria; faremo a poco a poco una politica nazionale,
penetrante nell’opera di que’ governanti, che s’arruolan pure, non
possono non arruolarsi ne’ governati. La politica che io sono venuto
esponendo lungo tutto il libro mio, e svolgendo ulteriormente qui,
non par ella buona? Se ne proponga, se ne svolga un’altra, e un’altra,
sinceramente, seriamente, sufficientemente, finchè la patria n’abbia
scelta una, abbia incominciato a metterla in opera. Ma una buona
politica italiana, così messa in opera, ei è oramai indispensabile ad
ogni caso, lieto o tristo, in cui sia avvolta la patria; indispensabile
a mantenere ed accrescere la nostra prosperità materiale, le arti,
gli apparecchi di pace, finchè dura la pace, i ferri, i legittimi, i
pubblici ferri al dì della guerra; indispensabile, cadano i Turchi o
non cadano, a qualunque occasione, qualunque vento, qualunque tempo.
— Non sapremo noi all’incontro fermarci in una politica nazionale?
Allora non ci serviranno memorie, vanti, nobiltà, primati antichi; non
l’indestruttibile ingegno italiano; non l’arti di pace promosse, non
l’armi stesse apparecchiate, non la stessa libertà quando l’avessimo.
Ricordate ciò che fece Polonia d’una libertà non politicamente
ordinata, d’una libertà senza politica! Senza questa, senza un’opinione
pubblica formata, i principi continueranno a lagnarsi dei popoli,
i popoli dei principi, i nobili dei plebei, i plebei de’ nobili,
i secolari degli ecclesiastici, gli ecclesiastici de’ secolari, i
Toscani, i Romani, i Napoletani, i Lombardi, i Piemontesi gli uni
degli altri, gli Italiani di dentro di quei di fuori, quei di fuori di
que’ d’addentro, e tutti gli Italiani degli stranieri, e gli stranieri
degl’Italiani, a vicenda, alla ventura. Ed alla ventura s’anderà —
come s’andò gran tempo — non a perdizione, che è impossibile oramai a
niuna nazione cristiana — ma in continuazione di quella mediocrità così
vecchia da noi, che sembra esserci diventata normale. — Oh Italiani noi
mediocri!

  15 Aprile 1845.


  FINE




INDICE


  Pag.
    5   — DEDICA PRIMA.
    7   — DEDICA SECONDA.
   19   — OCCASIONE DI QUESTO SCRITTO.
            1. Il Gioberti. 2. Il libro del _Primato morale e civile_
          _d’Italia_. 3. Primati mal predicati dai piaggiatori. 4. Il
          Gioberti tutto diverso da costoro. 5. Ciò che sia il mio
          libro rispetto a quello. 6. Necessità d’intenderci e
          discutere in Italia.

   27   — CAPO I. L’ordinamento politico presente dell’Italia non
            è buono.
            1. Non può esser tale, non essendo indipendente. 2. È
          provato soprabbondantemente anche per li principati
          italiani. 3. Esempio. 4. Convengono in ciò gli stessi
          uomini di stato stranieri.

   32   — CAPO II. Di quattro ordinamenti sperati — e prima del regno
            d’Italia.
            1. Si sospende la discussione del come rimuovere il vizio
          manifesto. 2. Si procede ad esaminare i sogni fattine,
          e prima quello di un regno d’Italia. 3. Prove moderne,
          che fu sogno. 4. Prove storiche. 5. Prove dalla
          costituzione materiale della penisola. 6. Prova da un fatto
          speciale.

   39   — CAPO III. Di un regno d’Italia austriaco.
            1. È modificazione del sogno precedente. 2. È sogno
          neo-ghibellino. 3. I Neo-Guelfi migliori che i
          Neo-Ghibellini; ma non valgon nulla nè gli uni nè gli
          altri.

   43   — CAPO IV. Delle repubblichette.
            1. Fu sogno degli utopisti di Botta, ed altri simili. 2.
          È sogno di restaurazioni antistoriche. 3. E non
          desiderabili. 4. Ed impossibili ad effettuarsi.

   48   — CAPO V. Della confederazione degli Stati presenti.
            1. Sola buona mutazione è il progredir dalle cose
          presenti alle future; 2. proposta dal Gioberti primo. 3.
          La confederazione è l’ordinamento alla natura ed alla
          storia d’Italia. 4. E fu pur proposta dal Gioberti. 5. Ma
          due vizi sono nella proposizione di lui. Uno è
          d’esuberanza. 6. Ed è quello di propor la presidenza del
          papa. 7. Uno è di deficienza, e si riserba al capo
          seguente.

   58   — CAPO VI. La confederazione è impossibile finchè una gran
            parte d’Italia è provincia straniera.
            1. La potenza straniera ficcata in Italia rende
          impossibile qualunque equilibrio in essa. 2. E qualunque
          confederazione. 3. Sia che vi si comprenda quella potenza.
          4. Sia che no. 5. All’incontro, sarebbe bell’e fatta se non
          avessimo più lo straniero.

   64   — CAPO VII. Breve storia dell’impresa d’indipendenza,
           proseguita sempre, non compiuta mai per XIII secoli.
            1. Or si riprende la questione del come rimuovere
          l’ostacolo straniero. 2. Epperciò si accenna la storia
          della nostra impresa d’indipendenza. 3. Nell’Italia antica,
          fino alla caduta dell’Imperio. 4. Fino a Carlomagno. 5.
          Fino al secolo XI. 6. Lungo questo secolo. 7. Nel gran
          secolo da Gregorio VII alla pace di Costanza. 8. Da
          questa a Carlo d’Angiò. 9. Da questo al ritorno de’ papi
          da Avignone. 10. Da questo a Carlo VIII. 11. Da questo
          alla pace di Cateau-Cambresis. 12. Nel lungo seicento.
          13. Nel secolo XVIII. 14. Dal 1789 al 1814. 15. Condizione
          presente.

  103   — CAPO VIII. Eventualità future dell’impresa.
            1. Doppia tolleranza domandata a’ leggitori. 2. Il futuro
          imprevedibile. 3. Il prevedibile. 4. Frasi solite in tali
          materie. 5. Quattro casi o speranze. 6. Speranza I., dai
          principi italiani. 7. e 8. Speranza II., da una
          sollevazione nazionale. 9. Speranza III., da una chiamata
          di stranieri. 10. Speranza IV., dalle occasioni. 11. Le
          quali sono tre principali. 12. Di una conflagrazione
          democratica, che è improbabile. 13. Di un tentativo di
          monarchia universale, pur improbabile. 14. E di una
          partizione di Stati, che è probabile.

  127   — CAPO IX. L’eventualità più promettitrice.
            1. Eliminate le speranze che ci paion vane, noi accediamo
          a quelle che ci paion buone. 2. Certezza dei due fatti,
          della caduta dell’Imperio ottomano, e delle mutazioni
          che ne avverranno. 3. Veduti bene da Alessandro imperatore.
          4. Obiezioni, scrupoli. 5. Incerti sono il tempo e
          il modo in che s’adempiranno. 6. Ma certo, non può essere
          interesse della Cristianità che s’adempiano sotto il
          protettorato russo. 7. Nè colla creazione d’un nuovo
          imperio cristiano. 8. È interesse che la maggior parte
          delle provincie turco-europee passi in qualsiasi forma ad
          Austria. 9. È interesse d’Austria. 10. E di Germania tutta.
          11. E di Francia. 12. E di Inghilterra. 13. E di Russia
          stessa. 14. Ma naturalmente e sopratutto d’Italia.

  182   — CAPO X. Come vi possano aiutare i principi italiani.
            1. Qui incomincia la parte pratica del libro. 2. Epperciò
          si tace di ciò che sarebbe a fare al dì troppo lontano;
          si avverte solamente di non ambir acquisti fuor
          della penisola. 3. E di non ambirli tutti nemmen dentro.
          4. E nessuno a spese del papa. 5. Apparecchi che si posson
          subito; e prima l’armi de’ principati italiani. 6. E lor
          marinerie. 7. E lor governi interni. 8. E il conservare e
          progredir opportuni. 9. E le colture. 10. E gli ordini
          consultativi. 11. e 12. Ed anche i deliberativi. 13. Ma
          dell’operabile da’ principi lascinsi giudici i principi.

  224   — CAPO XI. Come vi possano aiutar tutti gli Italiani.
            1. Cooperazione necessaria de’ principi e de’ popoli. 2.
          Le quattro operosità, o vite italiane, che considereremo.
          3. La vita pubblica ne’ principati. 4. E nella provincia
          straniera. 5. La vita sacerdotale. 6. e 7. La vita
          letteraria. 8. e 9. La vita privata. 10. Una grave
          obiezione, e risposta. 11. Le virtù private crescenti in
          Italia. 12. Obiezioni minori; e sunto del fin qui detto.

  273   — CAPO XII. Breve storia del progresso cristiano.
            1. Questo studio è complemento necessario al libro. 2.
          Antichità dell’idea del progresso. 3. Come la svolgessero
          i filosofi del secolo XVIII. 4. Come la intendano
          i filosofi
          cristiani. 5. Cenno del regresso (non in coltura, ma forse
          in civiltà, certo in religione e in virtù) del genere umano
          prima di G. C. 6. Cenno e prova generale del progresso
          cristiano. 7. Le quattro età del progresso cristiano. 8.
          Età I., intermediaria tra il mondo antico e il cristiano
          (anni 1-476). 9. e 10. Età II., del primato germanico
          (anni 476-1073). 11. Progresso laterale o dipendente,
          dell’Islamismo. 12. Età III., o del primato italiano (anni
          1073-1494) 13. Età IV., o de’ primati varianti (anni
          1494-1814) Questione se la riforma abbia promosso o
          ritardato il progresso cristiano. 14. Primato iberico. 15.
          Primato francese. 16. Il tempo presente; non si debbe
          chiamare _Età di transizione, Era umanitaria_. 17. E
          porzione dell’età de’ primati varianti; è tempo del primato
          britannico.

  319   — CAPO XIII. Il progresso cristiano presente, ed
            accrescimento che ne viene a tutte le speranze italiane.
            1. Tutti i progressi della cristianità accrescono le
          speranze italiane. 2. e 3. Progresso di dilatazione. 4. e
          5. Progresso di unione. 6. e 7. Progresso di civiltà. 8. e
          9. Progresso di coltura. 10. e 11. Progresso di virtù. 12.
          CONCHIUSIONE: la qualità e la quantità delle speranze.

  375   — APPENDICE. Se e come sia sperabile una lega doganale in
            Italia.
            1. Stato presente della questione. 2. Le quattro leghe
          immaginabili. 3. I. Lega germanico-italica. 4. II. Lega
          austro-italica. 5. III. Lega italica compiuta. 6. IV. Lega
          dei soli principati italiani. 7. Recapitolazione. 8.
          Eppure, qualche cosa è da fare. 9. Ma liberalmente. 10. E
          prontamente.

  405   — NUOVA APPENDICE. A molte critiche una risposta:
           fatti nuovi.
            1. La polemica. 2. Quella fattami. 3. Quella che son
          per fare. 4. I giudizi del tempo. 5., 6., 7., 8., 9., 10.
          Quattro o cinque fatti nuovi. 11., 12. Conclusione:
          Guerra, e pace; politica nazionale.




NOTE:


[1] _M.r Guizot has, in one of his admirable pamphlets, happily and
justly described M.r Lainé, as «an honest and liberal man discouraged
by the revolution.» This description at the time when M.r Dumont’s
Memoirs were written_ (_an_. 1799), _would have applied to almost
every honest and liberal man in Europe; and would beyond all doubt have
applied to M.r Dumont himself_ (Macaulay’s Essays. Paris, Baudry, 1843,
p. 183).

[2] _It is a fine and true saying of Bacon: that reading makes a full
man, talking a ready man, and writing an exact man_ (Macaulay’s Essays.
Paris, Baudry, 1843, p. 378).

[3] Num. XIV, 21, 32.

[4] Num. XX, 12.

[5] Il fecondo Gioberti ha pocanzi pubblicato un nuovo volume _del
Buono_. E in esso parlando _del Primato_, egli lo dice «un’opera
indirizzata a nudar le piaghe della mia infelice patria e a proporre i
rimedi». Pag. LXXXV.

[6] Alcuni moti, alcune voci sorte da pochi mesi che scrissi ciò
paiono ad alcuni dar maggior importanza ai sogni neo-ghibellini. Io,
deplorando tali novità, non so dare loro tale importanza; epperciò non
muto nè allargo ciò che mi venne detto dapprima.

                                           Nota della prima edizione.

A malgrado quanto precede contro alla resurrezione delle due parti
neo-ghibellina e neo-guelfa, uno scrittore della _Revue des deux
mondes_, 15 _mai_ 1844, pagine 678, 679, mi fa esclamare a proposito
di una confederazione italiana che comprendesse il principe straniero:
«_Ce serait renouveler le saint Empire en Italie; ce serait de la
folie. S’il y a des neo-gibelins, je serai néo-guelfe_»; tutto ciò,
_sic_, virgolato, quasi fossero parole mie riferite testualmente.
Eppure, io ricercai invano nel testo mio; e concedendo che la prima
frase è implicata in altre mie (principalmente CAPO VI, § 3), io nego
aver detto mai, voler esser neo-guelfo in niun caso. Anzi quant’è
sopra esprime disapprovazione, respinta, disprezzo delle due parti,
o piuttosto dei due nomi vani di neo-ghibellini e neo-guelfi; anche
di questi, per li quali dico che combatterei come meno cattivi e se
facesser parte; ma i quali dunque io dichiaro cattive e non facenti
parte. Quindi se quello scrittore degni attendere un po’ seriamente
al libro mio, o almeno a un capitolo, o almeno alle frasi da cui egli
trae la sua citazione virgolata, ei troverà naturale ch’io respinga
la ridicola qualità di _le plus noble et le plus chevaleresque des
Guelfes_; — come poi la supposizione ch’io abbia scritto _au point
de vue_ di qualsiasi corte. Io avrei creduto che la dedica e la
prefazione, nelle quali narrai l’origine del mio scritto, e parecchi,
anzi molti passi di esso, e il nome mio apertamente postovi, ed anzi
l’intiero libro, scritto se non altro con ispontaneità d’opinioni
e di stile, farebbon chiara a chicchessia la spontaneità, anzi
l’indipendenza del mio _point de vue_. Il punto di vista in che mi
posi e tenni non è quello di nessuna corte, anzi nemmeno di nessun
principato particolare italiano, ma di tutti; perchè lo credo il solo
punto di vista italiano contro al punto di vista straniero. — Del
resto continuin altri Italiani a dare agli stranieri il non bello
spettacolo delle supposizioni ingenerose contro a chiunque fa o scrive
qualche cosa in Italia. Io non iscenderò mai, se Dio mi sorregga,
nel campo, facile, delle recriminazioni. — E nemmeno in quello del
suddividere e moltiplicare le parti in Italia. Io non veggo con quello
scrittore quattro parti: liberali, assolutisti, ghibellini e guelfi;
nè altrettali con altri. Più guardo e studio, più veggo due sole parti
essere grandi ed importanti in Italia (come sono due soli grandi punti
di vista, due soli grandi interessi nella sua politica; come due sole
specie di territori nella sua geografia, territori italiani e territori
stranieri, principati indipendenti e provincia dipendente); dico che
sono due soli grandi parti, la nazionale e la straniera; quella di
coloro che disperano dell’indipendenza e s’adattano alla dipendenza;
e quella di coloro che sperano e promuovono la liberazione. E chiamo
poi, secondo natura ed etimologia, liberale chiunque si vuol liberare
in qualunque modo; non veggo nei modi diversi, se non diversità interne
della gran parte consenziente nel gran principio; e tutto il libro mio
(prima e seconda edizione) non è se non discussione di famiglia tra
tali consenzienti. Tutti gli altri sono per me _profanum vulgus, et
arceo_.

                                         Nota della seconda edizione.

[7] Vedi il sogno particolare di lui, un governo tribunizio, in
fine della _Storia dal 1789 al 1814_. Al quale, quantunque di tanto
scrittore, non volli fermarmi, siccome quello che non passò, ch’io
sappia, da sogno privato a pubblico, di molti, e nemmen di parecchi.

[8] Ultimamente, mentre io scriveva così d’Arnaldo, uno dei primi
ingegni d’Italia pubblicava una tragedia con documenti, nella quale
ei tentava ridestar interesse per quel capo-popolo romano. Forse
l’interesse sarebbe riuscito più poetico, se si fosse fatto il
protagonista vittima solamente dell’accordo tra un principe italiano
e lo straniero; senza rifarlo eretico nella tragedia, dopo averlo
difeso dall’eresia nella vita preposta. Ma questo stesso interesse
poetico sarebbe egli stato storico? Certo i documenti allegati (e
notissimi) confermano che Arnaldo fu sollevator de’popolani romani
contra il papa, al momento che popolo e papa avrebber dovuto riunirsi
co’ Lombardi alla difesa dell’indipendenza; che Arnaldo fu causa o
almen occasione (non iscusa) al papa di riunirsi all’imperatore; che fu
dunque disturbator di quella difesa, e ritardatore di quanto fu fatto
pochi anni appresso da’ Lombardi con un altro papa. Senza Arnaldo la
immortal confederazione di Pontida sarebbesi forse fatta, la vittoria
ultima di Legnano sarebbesi conseguita parecchi anni prima e meglio;
la gloriosissima guerra lombarda sarebbe stata più grossa e più corta,
più gloriosa, più italiana, più efficace. Non basta recar documenti,
bisogna interpretarli; i documenti non sono storia per sè; la storia,
come ogni scienza, è interpretazione de’ fatti. — La quale poi pur
troppo si può fare, con sincerità ed eguale amor patrio, diversamente;
ondechè parmi a lasciare quell’accusa di _moda straniera_, d’imitazione
da’ Francesi e Tedeschi, che l’autore fa a noi, dissenzienti da
lui. Noi potremmo ribatter l’accusa, e dire che, se noi seguiamo la
moda straniera del secolo presente, egli segue la moda straniera ed
invecchiata del secolo scorso; che un Manzoni, un Pellico, un Rosmini,
un Cantù, un Gioberti, ed altri forse hanno fatta italiana la moda
nostra da un vent’anni, cioè prima che fosse straniera; che gli scritti
di tutti questi (e spero anche questo mio) palesano almeno un lungo e
indigeno studio delle cose patrie; e che del resto straniera più d’ogni
altra, e straniera volgare, è la moda d’accusarsi di stranierume tra
dissenzienti sulle cose patrie. Gli alti ingegni in tutti i tempi,
di tutti i paesi, e gl’Italiani principalmente, fecero proprio sempre
quanto trovaron buono fuori di patria; e gl’ingegni buoni dissenzienti
van pur gridando: «pace, pace, pace». E noi teniamo fra’ più degni
d’accettare e ribatter tal grido l’illustre autore dell’Arnaldo.

[9] Ho introdotta qui nel testo una giusta correzione fattami dal mio
traduttore in francese (_Paris, Didot_, 1844). E da una statistica
del 1839 da lui recata (_ivi_, p. 92), e da altri dati più recenti
partecipatimi gentilmente da uno scrittore italiano di queste cose,
traggo poi il seguente specchio approssimativo della popolazione di
varii stati italiani, nel quale trascuro (come mi par si debba) le
cinque ultime cifre, e così le poche migliaia d’abitanti di Monaco
e San Marino; ed ometto le popolazioni italiane della Corsica, della
Svizzera, del Tirolo, delle provincie Illiriche, e delle Isole Jonie.

  _Principati italiani._

  Regno delle Due Sicilie       8,000,000
  Regno di Casa Savoia          5,000,000
  Stati del papa                2,700,000
  Toscana, compresa Lucca       1,700,000
  Parma                           500,000
  Modena                          400,000
                               ——————————
                      Totale   18,300,000

  _Provincia straniera._

  Regno Lombardo Veneto         4,700,000
                               ——————————
  Totale generale              23,000,000

                                         Nota della seconda edizione.

[10] _Del Primato_, ec., t. II, p. 337.

[11] Vedasi la storia scritta dal cardinal Pallavicini, e recentemente
pubblicata, di papa Alessandro VII.

[12] Io mi sono udito e veduto criticar qui e altrove per non aver
parlato degli errori particolari di questo o quello o di tutti i
principi italiani. Ed io mi sono pur udito generosamente difendere
coll’osservazione sommaria: che ad ogni modo da trenta o quarant’anni
in qua nessuno scrisse così liberamente ed apertamente in Italia. Ed
io ringrazio di vero cuore questi generosi di tale osservazione, e me
ne vanto. Ma non posso in coscienza usurparla qui in iscusa; perchè in
coscienza sento o almeno spero che, quand’anche avessi scritto fuori,
e fuoruscito od esule o fatto straniero, io avrei scritto al medesimo
modo, senza entrare più di quello che ho fatto in quegli errori o
colpe: e

I. Perchè ciò non entrava nell’assunto, nel cerchio, nel titolo
del libro mio, che è delle Speranze, e non dei timori o dei malanni
d’Italia; che non è storia o raccolta di fatti presenti, ma congetture
di fatti avvenire.

II. Perchè quanto più liberamente io scrissi, tanto meno volli cedere a
quel vizio o prurito d’uscir dal proposito, e ficcar critiche fuor del
proposito, che mi par solamente perdonabile ai libri scritti a dispetto
delle censure.

III. Perchè questi errori o colpe, quali che sieno, possono bensì
mutare l’epoca d’adempimento, ma non le conchiusioni generali dalle
speranze da me presentate; non fanno per esempio che questo nostro
secolo XIX somigli o tenda a un nuovo _Seicento_; non fanno che non
siasi ripreso il progresso del secolo XVIII; non fanno che non bisogni
dunque spignere, pressar questo, ed aiutarvi i principi nostri.

IV. Perchè, se avessi scelto fra quegli errori o colpe, e avessi
rammentate quelle d’un principe tralasciando quelle d’un altro, ciò non
sarebbemi paruto nè bello nè giusto.

V. Perchè, se le avessi messe tutte, ei mi si sarebbe potuto rispondere
troppo facilmente coll’osservazione, che queste colpe de’ governanti
procedono talora da altre de’ governati, e che questi vi ebbero sovente
l’iniziativa.

VI. E perchè dunque, ed insomma, e principalmente questo modo di
scrivere o dentro o fuori, o dove che sia, m’avrebbe fatto servire
a quelle recriminazioni, a quell’ire reciproche, a quelle divisioni
le quali fu, e sarà scopo mio tor di mezzo, o almeno scemare, a
tutta possa mia, finch’io scriva o parli. — Io volli andar avanti, o
almeno mutar modi; n’ebbi, n’ho la pretensione, il confesso; questi
rifrugamenti di torti reciproci m’avrebbon ricacciato nel modo
retrogrado, o almeno vecchio. Io non mi vi lasciai trarre; ne ringrazio
Iddio. Non mi vi lascerò, ne lo prego. Ognuno a modo suo. Facciano
altri ciò che non voglio far io.

                                         Nota della seconda edizione.

[13] Tal fu il caso della sollevazione degli Spagnuoli contra Napoleone
nel 1808; l’invasione perfida e nuova sollevò gli animi di tutti. Ma
sarebbe stoltezza sperare che un’invasione antichissimamente adempiuta,
e lungamente tollerata, producesse a un tratto il medesimo scandalo, le
medesime ire, il medesimo accordo.

                                         Nota della seconda edizione.

[14] Vedi la recente e bellissima _Storia de’ Vespri Siciliani_
dell’Amari; benchè questi abbia forse passato il segno, non in
propugnare meglio che i predecessori l’importanza della sollevazione,
ma in iscemare i fatti della quasi inutile sì, ma certa e grande o
almen larga congiura. Ed io lo noto, perchè quanto più larga fu questa,
tanto più urgente rimane l’insegnamento della inutilità di lei. — Su
quella poi della Svizzera io accennerei a’ leggitori non tanto Müller,
Zschokke o niun altro storico, come Schiller nell’immortale _Guglielmo
Tell_. Questa sì che è poesia, storia, politica, filosofia, tutto
insieme.

[15] Non paia semplice vanto se noterò qua e là alcune conferme date
dai fatti alle opinioni mie, ne’ pochi mesi dacchè le scrissi e le
stampai. — La destituzione di lord Ellemborough pronunciata con esempio
raro (od unico?) dalla _Corte dei direttori della compagnia delle
Indie_, senza partecipazione dell’_ufficio di Controllo_, in seguito
delle conquiste, giudicate inutili del Sind e di Gwalior, è splendido
commento a quanto sopra.

                                         Nota della seconda edizione.

[16] Il traduttor mio (Paris, Didot, 1844) mi permetta di protestar
qui contro alla interpretazione data da lui alla frase qui sopra.
Egli traduce _la classe démocratique, classe distincte, haineuse,
usurpatrice, incendiaire_; e così aggiungendo, e massime ripetendo la
parola _classe_, egli estende al tutto, ciò che io intesi dite, e mi
pare aver detto evidentemente, della parte cattiva della democrazia.
Chi facesse tale aggiunta in qualunque frase simile, chi per esempio
traducesse _gli Angeli ribelli_, con _la classe degli Angeli, classe
ribelle_ rovescierebbe, come si vede, ogni senso. — E quindi cade da
sè la postilla fattami. Io ammetto come democrazie, così aristocrazie
distinte, odianti, usurpanti, conflagranti. Ma io parlava qui della
sola conflagrazione democratica, perchè sola temuta o sperata ai
nostri dì; ed io credeva del resto essermi fatto conoscere abbastanza,
anche in questo libretto, per non cader nel sospetto d’aver voluto
stoltamente ingiuriare niuna classe intiera della società. — Ad ogni
modo la frase non è ella abbastanza chiara? Si muti così: _quella
democrazia, propriamente detta, che vuol rimaner distinta, odiante_,
ec.

                                         Nota della seconda edizione.

[17] Così mi avvenne; la mia speranza sull’_eventualità più
promettitrice_ mi fu rimproverata come sogno dagli uni non senza
amarezza, e li lascio; da altri non senza sale e lepidezza, e ne fo
partecipi i leggitori. Anche in materia grave può aver luogo la celia.
Ecco dunque un

EPIGRAMMA.

    Italia mia, non è, s’io scorgo il vero,
      Di chi t’offende il difensor men fero,
      Grida il Gioberti, che tu se’ una rapa
      Se tutta non ti dai in braccio al papa.
      E il Baldo grida: dai Tedeschi lurchi
      Liberar non ti possono che i Turchi.

Forse il Gioberti ed io potremmo dire di non aver detto precisamente
così. Ma per celia non mi par cattiva; e chi si mettesse a rispondere
alle interpretazioni stirate anche sul serio, non la finirebbe mai più.
Sappiam donare _hanc veniam_, senza domandarla a vicenda per noi.

                                         Nota della seconda edizione.

[18] Vedi G. B. Marocchetti, _Indépendance de l’Italie. Paris_, 1830,
— che è ristampa ed ampliazione d’un altro scritto pubblicato fin dal
1826. L’autore mi par cadere nel solito vizio de’ particolari troppo
minuti: ma, tolti questi e parecchie differenze di opinioni generali,
io ho la fortuna d’incontrarmi sovente con questo scritto, che non
conoscevo quando scrissi io.

[19] Qui più che altrove, poche settimane corse dacchè lo scriveva,
recarono mutazioni importanti. — E vorrebbesi pure supporre che non si
mutasse più! — Qual è utopia? il supporre una subitanea immobilità in
mezzo a un moto continuante fin ora; o il prevedere e discuter il moto
probabile?

                                           Nota della prima edizione.

E pochi altri mesi corsi recarono mutazioni anche più importanti.
L’essere passata definitivamente Grecia a un governo deliberativo,
nazionale e pubblico, è fatto fecondo di conseguenze; non solamente
perchè ridurrà forse il protettorato da triplice a duplice, ma perchè
ad ogni modo la libertà e la pubblicità son pessime vicine ad ogni
dominazione straniera.

                                         Nota della seconda edizione.

[20] Citiamo un’altra autorità, un politico meno puro, ma non meno
previdente che il principe Eugenio. Quando Napoleone dopo Ulma ed
Austerlitz ebbe in mano i destini dell’Austria, Talleyrand, ancora
ministro degli affari esteri e consigliero principale di lui, gli
consigliò di spogliarla sì delle province italiane ed anche di altre
occidentali; ma «_après avoir dépouillé l’Autriche sur un point,
il l’agrandissait sur un autre, et lui donnait des compensations
territoriales proportionnées à ses pertes.... Où étaient placées
ces compensations? Dans la valée même du Danube, qui est le grand
fleuve autrichien. Elles consistaient dans la Valachie, la Moldavie,
la Bessarabie, et la partie la plus septentrionale de la Bulgarie.
— Par là, disait-il, les Allemands seront pour toujours exclus de
l’Italie, et les guerres que leurs prétentions sur ce beau pays avaient
entretenues pendant tant de siècles, se trouveraient à jamais éteintes;
l’Autriche possédant tout le cours du Danube, et une partie des côtes
de la mer Noire, serait voisine de la Russie et dès lors sa rivale,
serait éloignée de la France et dès lors son alliée,.... les Russes,
comprimés dans leurs déserts, porteraient leur inquiétude et leurs
efforts vers le midi de l’Asie_». (_Notices et Mémoires historiques
par M.r Mignet_. Paris, 1843, tome I, pag. 129, 130). — E l’idea di
Talleyrand fu in parte l’idea di Napoleone senza dubbio: è provato
dall’occupazione militare, e senza riunione a niuno Stato, delle
provincie Illiriche, che egli destinava ultimamente ed evidentemente
all’Austria. Quali ostacoli impedirono allora l’eseguimento? I due
medesimi che l’impediscono ora, e l’impediranno forse alcun tempo,
ma non sempre. Il fatto che le provincie danubiane non erano nè sono
disponibili; che erano e sono in mano del Turco, e ne’ desiderii del
Russo. Ma l’interesse universale della Cristianità rimuoverà il primo
ostacolo per forza, e il secondo per persuasione o per forza, come
che sia, quando che sia. «_Le grand mérite de M. de Talleyrand fut de
prévoir un peu plutôt ce que tout le monde devait vouloir un peu plus
tard_». (_Ibid._, pag. 159). — «_Il y a quelqu’un_, diceva egli, _qui a
plus d’esprit que Voltaire, plus d’esprit que Bonaparte, plus d’esprit
que chacun des Directeurs, que chacun des ministres passés, présents et
à venir: c’est tout le monde_». (_Ibidem_, pag. 135).

                                         Nota della seconda edizione.

[21] Mentre io scrivea così dell’Austria sono uscite alla luce due
opere importanti, e che confermano in molte parti le mie opinioni;
benchè nè l’una nè l’altra non entrino nella questione orientale, che
è pur la più essenziale a quella potenza. — _Des finances et du crédit
public de l’Autriche, de sa dette, de ses ressources financières,
et de son système d’impositions avec quelques rapprochements entre
ce pays, la Prusse et la France, par M. L. Tegoborski, conseiller
privé au service de S. M. l’empereur de Russie, auteur de l’ouvrage
sur l’instruction publique en Autriche. Paris,_ 1843, 2 _vol. in_ 8.
— _Oesterreich und ihre Zukunft. Amburg_, 1843; breve libretto, già
tradotto in francese, e che è importante, anche per provare la spinta
che viene ad Austria da Germania.

[22] Veggansi gli altri passi dove parlo dell’Irlanda per non
interpretare con taluno ch’io desideri o creda nemmen desiderata dagli
Irlandesi, la separazione di lei.

                                         Nota della seconda edizione.

[23] Io aveva incominciata qui un’appendice sul futuro della nazione
slava, su quello che ne’ discorsi politici presenti si suol chiamare
il mondo, il movimento slavo. Ed a quest’aggiunta fui provocato pure
dal mio traduttore. Ma che? accintomi all’opera, nemmeno qui tal
provocazione non mi parve opportuna. E, in chi prende a trattare un
argomento, un primo pensiero, una misura, un tutto, che si suol di
rado oltrepassare o rompere convenientemente. — Quando parlo di cose
italiane, io ho, confesserollo, se non qualche autorità presso ai miei
compatrioti, ma almen qualche fiducia in me stesso, e l’appoggio a
venti anni di studi solitari e sinceri sulla storia di Italia. Studi
non interrotti se non una volta per forza, e da cui sorsero, a cui
si riferirono, cui confermarono quanti altri feci di altre storie.
Ma nè autorità nè fiducia io mi sentirei parlando di cose altrui;
parlando a, e di una nazione la quale ha scrittori come il Mickiewicz
ed altri, liberi, generosi e numerosi. — Io veggo per vero dire,
dall’autocrate russo fino agli aristocrati boemi ed ai democrati
polacchi, tutti prevedere, annunciare, sperare o temere il movimento
slavo; e credo perciò che qualche tal movimento si farà; ma credo che
complicandosi con quello di tutta l’Europa occidentale e della nazione
tedesca in particolare verso l’Oriente, ne sorgano per la nazione
slava in generale, e per la polacca in particolare, probabilità tutte
diverse dall’italiane: credo insomma che le probabilità slave sieno
che s’unirà una gran parte di quella nazione colla tedesca, mentre le
nostre sono che ce ne separeremo. Queste probabilità slave sono elle
men belle? l’indipendenza che ne risulterebbe sarebb’ella men compiuta
che l’italiana? sarebbe immeritato da quella nobile, generosa, operosa
nazione. E tuttavia, se fossero veramente probabilità, sopra esse
dovrebbero fondarsi le speranze slave; perciocchè chi dice speranze,
dice desiderii di probabile adempimento. — Ma di nuovo come osar uno
straniero discutere tali interessi, proporre tali speranze diminuite
a stranieri stimatissimi? Ingrato e forse inutile ufficio, io lo
provo, è scemar le speranze, anche a compatrioti, anche ad una parte
de’ compatrioti; ma più ingrato e più inutile sarebbe rivolgendosi
a stranieri. — Teniamci dunque stretti al nostro assunto italiano, e
facciam solamente aggiunta di questa osservazione: che in qualunque
modo si prosegua, si adempia e si complichi coll’inorientarsi d’Europa
il movimento slavo, ei sarà all’Italia occasione nuova, od accrescerà
l’occasione della caduta turca; ch’egli accresce dunque le nostre
speranze.

                                         Nota della seconda edizione.

[24] Qui il mio traduttore, postillandomi, dice: _nous ne voyons
véritablement pas sur quels témoignages l’auteur pourrait appuyer
l’assertion d’une si forte inimitié entre les deux pays_. — Ed io
rispondo, che non ho parlato di niuna tale inimicizia tra i due paesi;
che quanto a Francia io non credo che ella pur vi pensi, ond’io neppur
pensai a parlarne; e quanto a Italia io parlai di pregiudizi e non
di nimicizie nazionali. E non so se altrui, ma a me par grande la
differenza delle due parole, non credendo che la nazione italiana
sia tutta composta di uomini pregiudicati. — Che esista poi, pur
troppo, tal pregiudicio antifrancese in Italia, ei mi è non solamente
testimoniato, ma provato: 1. dal mio postillatore, il quale narra che
un nostro grande scrittore suole esclamare in mezzo alla penisola.
_La haine pour la France! pour cette France illustrée par tant de
génie et par tant de vertus! d’où sont sorties tant de vérités et tant
d’exemples! pour cette France que l’on ne peut voir sans éprouver
cette affection qui ressemble à l’amour de la patrie, et que l’on
ne peut quitter sans qu’au souvenir de l’avoir habitée il ne se mêle
quelque chose de mélancolique et de profond, qui tient des impressions
de l’exil!_ Certo tutto ciò prova almeno che l’illustre italiano
qui citato vede, com’io, i pregiudizi di molti nostri compatrioti, e
com’io pure, li combatte. 2. da non pochi squarci molto diversi, se non
opposti, di un altro nostro scrittore (altronde grande anch’esso), il
Gioberti. 3. e da innumerevoli squarci di molti piccoli e piccolissimi,
dei quali è più bello tacere. — I pregiudizi vi sono pur troppo; e
non bisogna negarli, ma combatterli: giova più agli Italiani, e ciò è
l’essenziale; e credo che piaccia anche più ai Francesi, i quali han
troppo ingegno per non vederli, e non prevedere che cesseranno alla
prima occasione vera.

                                         Nota della seconda edizione.

[25] Qui fu tradotto inesattamente _odiata_ con _odieuse_.

                                         Nota della seconda edizione.

[26] Continuo a notare i fatti nuovi avvenuti in pochi mesi da che
scrissi. S’è inasprita in Francia la disputa tra una parte del clero e
l’università. Ma, già sono surti non pochi cenni che fanno sperare una
soda soluzione di quelle gravi difficoltà. A’ paurosi un venticello par
tempesta.

[27] Qui pure ho ad accennare un’opera pubblicata mentre scrivo, _La
Russie en 1839, par le marquis de Custine. Paris_, 1843; quattro volumi
in 8.

[28] Nuovo commento a tutto ciò: ultimamente i giornali francesi
minacciano una gran confederazione russo-asiatica. E i giornali inglesi
ne tacciono o sorridono. Come di cosa non vera, o non importante? — In
ogni caso, Russia e Inghilterra s’accozzerebbero nel mar Nero, prima
che nelle gole del Kiber o sulle sponde dell’Indo, certamente. E ne
sarebbero molto appressate quelle occasioni che paiono così lontane ad
alcuni Italiani.

                                         Nota della seconda edizione.

[29] Si può vedere nel libro testè citato, quanto fattizia e
probabilmente temporaria capitale sia Pietroburgo. Mosca crebbe e
cresce d’importanza dal 1812 in poi. Odessa è surta in questo secolo.
Ma quando Russia si rivolgesse a’ suoi destini orientali, è probabile
che ella stanzierebbe il nerbo di sua potenza in quel triangolo tra
Mosca, Astrakan e Asof (la Tana del medio evo), onde ella dominerebbe i
veri mari, i veri fiumi, i veri commerci moscoviti.

[30] Il Gioberti ha dichiarato accostarsi all’opinione mia (ma non mi
sembra intieramente) in una sua lettera alla _Revue des deux Mondes_. —
_Bruxelles_, 19 _mai_ 1844.

                                         Nota della seconda edizione.

[31] Conferma recentissima: Francia è tratta a nuova guerra, nuovi
negoziati, nuove relazioni con Marocco.

                                         Nota della seconda edizione.

[32] Questo paragrafo di non fondar niuna speranza italiana sulla
diminuzione degli stati del papa, fu, s’io non m’inganno, il più
criticato direttamente o indirettamente di tutto il libro mio. Ma più
lo ripiglio ad esaminare, men trovo a scemarne, più ad aggiungervi.
Potrei chiamar l’attenzione de’ miei leggitori su quell’opinione
cristiana e cattolica che si ridesta in tutta la civiltà presente; —
sulla probabilità quindi che qualunque cosa si facesse contro al capo
del Cattolicismo, urterebbe, solleverebbe contro a sè quell’opinione
universale della Cristianità; di che abbiam tanto bisogno in
qualunque impresa d’indipendenza italiana; — sulla probabilità
di urtare, di sollevar pur così contra questa, forse la massima,
probabilmente almeno una gran parte, e certo poi una parte qualunque
dell’opinioni, delle cooperazioni italiane; — sulla utilità, sulla
necessità di non guastare un’impresa santa con nulla che sia o paia
men santo, un’impresa legittima con nulla d’illegittimo, un’impresa
nazionale con una provinciale; — sulla probabilità, sulla certezza
che i principi e i popoli italiani, i papi e i papalini come gli
altri, liberati che fossero dallo straniero, converrebbero più
facilmente, più pacificamente, più opportunamente ne’ propri interessi
reciproci od anzi comuni, od anzi identici; — e intanto ad ogni modo
sull’opportunità, sulla necessità, sul dovere che incombe a ciascuna
provincia, a ciascuna popolazione italiana di sacrificarsi, se sia
il caso, se sia d’uopo al ben di tutti, al bene sommo per tutti,
all’indipendenza. — E mi si conceda ripetere il grido antico italiano,
con un’aggiunta: pace, pace, pace, tra noi.

                                         Nota della seconda edizione.

[33] I derisori e disperanti non han forse badato a ciò: che questi
due eserciti italiani sommano ad oltre 200,000 uomini: e che 200,000
uomini sono pure una bella somma d’esercito in tutti i paesi in tutti
i tempi; e che fra essi, i 100,000 che si troverebbero naturalmente in
prima linea in qualunque guerra d’indipendenza, sono appunto di quelli
del cui valore non dubitò la storia mai, nè dubita l’opinione presente;
che la seconda linea sarebbe di quelli dei quali (parliamo schietto)
si dubitò per vero dire, ma i quali appunto perciò sono forse i più
ardenti; e che dopo queste due prime linee, ne sarebber pure una terza
ed una quarta de’ principati minori, e de’ provinciali dello straniero.

                                         Nota della seconda edizione.

[34] All’autorità del vecchio ammiraglio inglese, si può aggiunger ora
quella recentissima d’un giovane contrammiraglio francese, il duca di
Joinville, nella memoria _Sur les forces navales de la France_.

                                         Nota della seconda edizione.

[35] Vedi l’appendice in calce all’opera.

[36] Dell’idee di libertà qui esposte io ebbi a soffrire due critiche,
secondo al solito contrarie, dalle due parti opposte. — Dall’una fui
biasimato d’aver presentate tali idee, quasi elle sieno pericolose a
que’ principi italiani ch’io pur desidero aiutare, quasi ridestanti
que’ turbamenti ch’io pur desidero tor di mezzo, quasi almeno
riscaldanti (per servirmi d’una frase udita) i giovani e gli inesperti.
Ma io rispondo in poche parole, che i giovani e gl’inesperti trovano ed
assorbiscono tali idee, a malgrado tutte le censure e le proibizioni,
in ben altri libri che il mio; e ve le trovano ben altrimenti promosse
ed esagerate; onde tanto è, od anzi è bene, che le trovino pur una
volta moderate dalle due riserve da me fatte, del _sottoporre ogni
speranza di libertà a quella d’indipendenza_, e perciò di _lasciar
gli adempimenti di libertà a giudicio de’ principi_. — Ed appunto di
queste due riserve io fui biasimato dall’altra parte. Ma quanto alla
prima sarebbe vano volerla difendere ulteriormente qui: perciocchè
ella è principio, corpo e fine di tutto il libro mio, e proposta fin
dal titolo nell’epigrafe; e da chi non l’ammetta io m’era già separato
implicitamente fin dal primo paragrafo del primo capitolo della prima
edizione, e mi separai in questa poi anche più chiaramente nella nota
al § 3, capo 3; e mi separo soprabbondantemente e per sempre qui. —
Resta dunque ch’io difenda ulteriormente la sola riserva seconda,
contro a coloro che, posponendo meco la libertà all’indipendenza,
pensano pur meco che la libertà può condurre all’indipendenza;
ma diversamente da me pensano, che ella dovrebbesi o potrebbesi
procacciare anche a malgrado de’ principi. Ed a questi consenzienti
meco nel gran principio, a questi non più divisi nello scopo, ma
solamente sui mezzi delle buone speranze italiane, io mi rivolgo, non
senza fiducia, per supplicarli di ben considerare: 1.º Che la libertà
così acquistata servirebbe male all’impresa d’indipendenza; perchè
lascerebbe semi, anzi frutti di divisione tra principi e popoli;
lascerebbe quelle gravi e lunghe diffidenze reciproche, quelle contese
che sono consuete in ogni libertà nuova ed acquistata per forza;
lascerebbe preoccupazioni di cose presenti, immediate, appassionanti,
le quali farebbero posporre o dimenticare l’impresa d’indipendenza,
e ne scemerebber l’impeto e la forza, se pur si facesse; — 2.º poi e
principalmente, che ora, qui, non si tratta di libertà acquistate,
ma tutt’al più acquistabili; non di divisioni che rimarrebbero
dopo l’acquisto fatto per forza, ma di quelle molto maggiori che
sorgerebbero immanchevolmente e per natura stessa di tal acquisto per
forza. Perciocchè qui sta il punto, tutto il punto di difficoltà: i
cospiratori, le società segrete, considerano sempre i lor disegni come
«cosa fatta che capo ha»; non considerano che prima d’esser cosa fatta
e d’aver capo o realità, ei s’ha a passare per tutti i pericoli, non
dico i personali, ma della patria, a cui non è forse lecito a nessuno,
non è certamente a chi non vi ha ufficio, esporre la patria, quando
ella ha per le mani il gran dovere a compiere dell’indipendenza. —
Insomma io ridico ai principi: Deh pensate e provvedete voi a quella
libertà che, data, sarebbe forse strumento massimo; io dico ai
popoli: Non isprecate pensieri, e meno fatti, in quella libertà che,
presa, e peggio nel prendersi da voi, sarebbe impedimento massimo
all’indipendenza. Ed io rigrido pace, pace, pace, tra noi.

                                         Nota della seconda edizione.

[37] Anche di questa _letteratura esterna_, che è specialità italiana
già antica, ma più che mai splendida a’ nostri dì, io intendevo fare
un’appendice. Ma è materia così ricca, che non ho tempo a colorire
il mio disegno nella presente edizione. Suppliscano pochi cenni.
— Più largo e magnifico assunto sarebbe una _Storia degl’Italiani
fuor d’Italia_. Oltre ai crociati e ai missionari, che abbiam
comuni coll’altre nazioni, niuna diede agli stranieri un così grande
scopritore di terre incognite come Colombo; niuna poi tanti capitani
e ministri quanti furono gl’Italiani. Ma quest’assunto così allargato
servirebbe più alla gloria passata, che all’utilità presente della
patria nostra. Non c’inganniamo: lo spirito di nazionalità s’è destato
e ingelosito presso a tutte le nazioni, e più nelle più libere, in tal
modo che sono e saranno ogni dì più rari gli esempi de’ grandi capitani
o grandi uomini di stato stranieri in qualunque nazione. Io vorrei che
fossero molti Italiani così giunti a potenza presso agli stranieri;
perchè io non dubito che essi volgerebbero sempre quella potenza a
pro della patria, e che al gran dì imiterebbero l’esempio di quel
Capo-d’Istria, il quale non solamente la rivolse così, ma l’abbandonò
poi per andar a combattere sulla breccia aperta nel suo paese. Ma il
ripeto, i tempi son mutati e si mutano; e queste imitazioni si fanno
impossibili. — E tutto all’incontro è poi delle colture. Queste tendono
ad accomunarsi in tutta la cristianità; ondechè di qualunque paese sia
un grande scrittore di scienze o lettere, od un grande artista, egli è
facilmente adottato dovunque; ed entrando nella coltura straniera, non
esce dalla nazionale sua, e potendo fuori, continua a potere in patria.
Quindi (anche lasciando l’arti, e restringendo il tema alle lettere ed
alle scienze, che si posson comprendere sotto il nome di Letteratura)
un trattato storico e pratico della Letteratura italiana esterna
sarebbe tema ricco non solamente di esempi antichi, ma di applicazioni
presenti e future. — Potrebbe la parte storica incominciare fin dal
primo risorger delle lettere, da Carlomagno; e con quel Paolo Diacono,
Longobardo prigione in corte di lui, il quale scrisse forse colà quella
storia che è unico monumento di fatti di sua nazione. E s’interrompe od
oscura per vero dire la letteratura italiana esterna, come l’interna,
come tutte l’altre, verso il fine del secolo IX e lungo tutto il X. Ma
risorge di nuovo colla letteratura italiana interna e coll’universale
verso la metà del secolo XI; e, come queste, così quella non cessa più
di allora in poi. Nell’ultima metà del secolo XI e nel XII, studiarono,
od insegnarono, o scrissero, o in somma fiorirono più o meno, fuor
d’Italia, Gregorio VII, Lanfranco, Pier Lombardo, S. Anselmo d’Aosta.
Nel secolo XIII S. Tommaso e S. Bonaventura. Nel secolo XIV Dante e
Boccaccio per poco tempo, Petrarca per quasi tutta la vita sua. Nel
XV Cristina del Pisano, il Poggio e parecchi minori. Nel XVI Amerigo,
Davila, Alciato. Nel XVII Montecuccoli, Marino, e quelli che furono per
vero dire oscuri a’ tempi loro, e si risuscitano ora a troppo onore,
ma che insomma furono scrittori italiani esterni, i Socini, Diodati,
Telesio, Radicati, Olimpio Morata, Celio Secondo Curione ed altri tali.
Ma sorge a vero splendore la letteratura italiana esterna nel secolo
XVIII, e vi si potrebbe noverare forse Alfieri, e si debbono certamente
Lagrangia, Denina, Baretti, l’ab. Guasco, Algarotti, Metastasio,
Galliani, Goldoni, per non iscendere a Casanova e Cagliostro. E
continua poi incontrastabilmente e s’accresce quello splendore nel
secolo nostro per opera di Botta, Foscolo e Pecchio, e de’ viventi
Amari, Arrivabene, Berchet, Calleri, Collegno, Ferraris, Gioberti,
Gorresio, Libri, Mamiani, Rossetti, Rossi, Ugoni, e d’alcuni altri,
a cui si potrebbero aggiugner coloro che come Colletta, scrissero
addentro, ma furono pubblicati fuori. E certo di tali scrittori e loro
opere consta una letteratura _sui generis_, qual non è posseduta da
niuna altra nazione antica e moderna. — E quindi, lasciando la storia
e i vanti, e venendo all’utile presente e futuro, quindi sorge una
speranza, e se non si guasti, io direi una delle maggiori speranze
nostre. Che non potranno tutti questi Italiani scriventi di fuori, se
sapientemente e virtuosamente studiando quegli esempi antichi, sappiano
ben discernere quelli da imitare e quelli da fuggire; se, smentendo ciò
che ne disse Machiavello, vogliano o sappiano, quantunque di fuori,
conoscere lor paese qual è, qual mutossi dopo ch’essi lo lasciarono;
se, ricordando gli amori, dimenticando gli odii lasciati in patria,
uniti essi tra sè, uniti co’ fratelli rimasti addentro, si faccian
centro d’una opinione italiana libera e moderata, forte e costante? E
non pochi sono de’ nominati e non nominati che adempiono, a lor possa,
siffatti uffici verso la patria. Ma non sarebber forse possibili più
unioni, più aiuti, più tolleranze reciproche? E quindi più operosità
comune, più efficacia? E ciò che poterono altri nobili fuorusciti,
i Polacchi sopratutti, convenire in pubblicazioni periodiche, alzar
cattedre di lettere e storie nazionali, non sarebbe egli possibile
a quella famiglia di fuorusciti italiani la cui nobiltà supera in
antichità e gloria tutte l’altre simili senza dubbio? — Ma io mi fermo
per forza. E lasciando e pregando si lascin sospetti, io rivolgo verso
colà pure, e per quanto io possa valere, il grido mio, il grido antico:
pace, pace, pace, tra noi.

                                         Nota della seconda edizione.

[38] Io non m’ingannai prevedendo l’accusa e rispondendovi
preventivamente. In un articolo della _Revue des deux mondes_ 1.r
_juillet_ 1844, _p._ 133, dopo aver lodata tutta la parte del libro
mio che annulla speranze, lo scrittore prosegue: _Jusque là tout va
bien, et M.r Balbo a raison; mais lorsque, après avoir fait table
rase des idées des autres, il produit les siennes, le publiciste sensé
cède sa place à l’utopiste. L’A. des Esp. d’It. base_ TOUS _ses plans
sur_ UNE _éventualité_ (lo scrittore s’inganna qui su quanto dissi
in parecchi luoghi); _il prévoit la chûte de l’empire Ottoman, il
le_ DÉPÈCE _à sa guise_ (s’inganna di nuovo), _et donnant le Danube
à l’Autriche, il lui enlève le Pô avec le_ CONSENTEMENT (s’inganna
più che mai) _de toutes les puissances Européennes. Cela fait, M.r
B. prend la Lombardie dans sa main; il l’offre à la Savoie, et voilà
un royaume Lombardo-Ligurien_ (concedo, ricusando solamente il merito
d’invenzione, la quale è antica). _Mais quand les Russes seront-ils à
Costantinople?_ (Questa è grossa! È l’opposto di tutte le mie speranze
italiane, cristiane, universali. Lo scrittore sembra non aver letto il
mio libro). _C’est le secret de l’avenir. M.r B. ne le connoit pas; il
conseille seulement aux Italiens de se tenir prêts à tout événement_
(e n’indico a mia possa i modi); _quoiqu’il soit possible que l’heure
attendue ne sonne que pour les générations futures. Cela n’est guère
encourageant_ (la realità non è tale pur troppo per noi; ma è molto
meno, lodar i capitoli che tolgono speranze, e pronunciar utopia tutti
quelli che ne accennano, senza accennarne niun’altra poi; onde verrebbe
la conchiusione che non v’è speranza): _et en conscience, le livre da
M.r B. au lieu de s’appeller Des Espérances, devrait s’appeller De la
résignation de l’Italie_. — In coscienza la rassegnazion del «progredir
alacri a tutto ciò che si può e si deve virtuosamente mutare», è
rassegnazione che chicchessia può confessar senza vergogna, ed io la
confesso.

Del resto vedi nel medesimo fascicolo ciò che è molto ben detto
di quella ch’io chiamai solamente l’eventualità più promettitrice.
_Si l’Espagne avait conservé quelque chose de son génie primitif,
si l’anarchie qui la dévore n’avait arrêté chez elle ce mouvement
d’expansion qui fit sa gloire en d’autres temps, elle aurait à
remplir au Maroc une oeuvre analogue à celle que nous exécutons si
laborieusement en Algérie. Dans cette dissolution universelle du
monde musulman, qui frappe aujourd’hui tous les yeux, sa part et
sa mission sont indiquées et la force des choses l’amenera à s’y
devouer, lorsqu’elle sera rentrée au nombre des nations régulièrement
constituées, et dès qu’elle aura pris possession de son avenir_
(_ibi_, p. 146). Questo è quasi _verbatim_ ciò che io dissi dell’avenir
d’Italia; è la miglior risposta ch’io possa fare all’accusa di utopia.
— Ma come si fa egli che quella _Revue_ così ben informata e grave
sulle cose di Spagna (vedi varii articoli dei signori Lavergne e
Durieu), sia poi così sovente diversa sulle cose d’Italia?

                                         Nota della seconda edizione.

[39] Vedi per l’antichità dell’ago calamitato risalente a 2,000 anni
avanti G. C., l’ultima opera dell’Humboldt sull’Asia; e per la chimica
la storia di quella scienza del Dumas; e per le matematiche quella del
Libri.

[40] Vedi la vita dell’ultimo nella raccolta del Lardner.

[41] Una nuova opera è uscita alla luce sulle Indie Inglesi, la quale
come in lingua francese sarà probabilmente letta in Italia molto più
che non le numerosissime inglesi sul medesimo assunto: _L’Inde Anglaise
par le C. Edouard de Warren. Paris_, 1844, 2 vol. _in_-8. Ed a difetto
di quelle, io conforterei i miei compatrioti a leggere questa; io
vorrei portar in qualunque modo la loro attenzione all’Oriente. Ma
mi si conceda notare: che quanto è cristiano, liberale, generoso in
quest’opera francese, fu già più o men bene detto da parecchi Inglesi,
principalmente dai Whigs della _Edimburg Review_; e che il progetto
militare di conquista russa, il quale termina l’opera, mi pare uno de’
più strani e più incredibili frutti di quel pregiudizio anti-inglese
risorto pur troppo e non cessato in Francia dal 1840 in qua. Del resto
i leggitori vi troverebbono numerose conferme di fatti da me allegati:
la assoluta incapacità delle missioni protestanti; la capacità
piccola ora, ma che crescerebbe se non fosse compressa, delle missioni
cattoliche; la diminuzione forse inevitabile delle schiatte native,
etc., etc.

                                         Nota della seconda edizione.

[42] Io trovo a questo mio calcolo storico una così notevole conferma
in uno scrittore protestante, che non so trattenermi dal notarla. _In
fifty years from the day in which Luther publicly renounced communion
with the Church of Rome, and burned the bull of Leo before the gates
of Witemberg, Protestantism attained its highest ascendancy — an
ascendancy, which soon lost, and which it never regained_. — Macaulay’s
Essays Paris, Baudry, 1845, p. 405. — E vedi poi, pp. 415 e 250, la
conferma delle molte speranze cattoliche, delle nulle protestanti.

[43] Mi par notevole questo fatto: non vi fu forse fra’ protestanti
niun grande storico zelante protestante; all’incontro, parecchi storici
protestanti si fecero cattolici: W. Schlegel, Stolberg, ed ultimamente
Hurter, etc.

[44] Vedasi _Situation politique et littéraire de l’Espagne_ nella
_Revue des deux Mondes_, 15 _juin_ 1844; ed un articolo di poco
anteriore sulla poesia spagnuola moderna.

[45] Io stesso, in non so quale degli scritti miei, caddi in questa
prima proposizione; la quale, ripensando, or dichiaro erronea ed
antistorica.

[46] Vedi _Letture popolari_. Torino, 12 dicembre 1840. — La Nourrais
et Bères: _L’association des Douanes Allemandes, son passé, son
avenir_. Paris, 1841. — Petitti: _Considerazioni sulla Lega Doganale
Germanica_, nel Giornale Agrario Toscano, n.º 61, A. II.º, Unione
Italiana. — Petitti: _Delle associazioni Doganali fra varii stati_;
letto all’Accademia de’ Georgofili in dicembre 1841. Firenze, 1842, §
II.º, Unione Italica. — _Allgemeine Zeitung_, 23 april, 2 junius 1842.
— _Annali universali di statistica_; marzo e novembre 1843, articoli
di L. Serristori; settembre e ottobre 1843, articoli di L. Serristori;
settembre e ottobre 1843, articoli di Gaetano Recolci. — Portula,
_Dizionario di diritto e di economia commerciale_.

[47] Desidero andar incontro alle false applicazioni che si facessero
de’ principii, ch’io son costretto a porre troppo brevemente talora.
Non vorrei, s’applicasse quant’è sopra, contro alle strade di ferro.
Queste sono agevolamenti di comunicazione come le leghe doganali; ma
non portan seco (quando anche si facciano tra i principati italiani
e la provincia straniera) i due pericoli di quelle; non l’economico,
nè il politico. — Non l’economico, perchè non ci farebbero entrare
nelle strettezze del sistema austriaco; non il politico, perchè non
le darebbero preponderanze, ci lascerebbero nella condizione relativa
presente; o se mai, darebbero preponderanza a noi, complesso di
principati, preponderanti in territorio e popolazione. Le comunicazioni
agevolate che non portan seco danno speciale, anderanno sempre a
pro della nazionalità italiana. — E così abbiansi i nostri voti e la
nostra gratitudine quanti principi e ministri e capitalisti promovano
o promoveranno queste imprese veramente nazionali. Così veggiamo la
penisola solcata in lungo ed in largo da quante _linee_ sieno o si
faccian possibili nello stato presente o futuro della scienza; così
prima d’ogni altre noi veggiamo riunite Genova e Torino, e quella
diventar porto di questa, e questa quasi avanzarsi di tanto nella
penisola; e pur riunite Torino, Milano e Venezia, e Torino, Parma,
Modena e la Romagna! E così Firenze e Livorno; Firenze, Roma, Napoli
e al di là; e riuniti se sia possibile in uno o più luoghi i due mari
italiani! Tutte e qualunque di queste riunioni materiali, aiuterebbero
a quelle intellettuali e morali; le quali ne riprodurrebbero a vicenda
altre nuove materiali. — Ma mi si conceda aggiugnere, non è forse paese
in Europa, dove il commercio presente possa meno supplire esso solo a
tali opere; dove queste abbiano più necessità dell’intervenzioni de’
principi; e dove questi poi sieno per trarne più profitto diretto ed
indiretto. Negli altri paesi le strade ferrate sono strumenti necessari
alle prosperità commerciali esistenti; in Italia elle sono strumenti
necessari a far risorgere tal prosperità, e sarebbero di soprapiù
strumenti politici a tutte le buone riunioni. Non può rimaner dubbio a
chi v’attenda: parecchi principati italiani sono, a cui l’uno od anche
il due o il tre per cento perduto in apparenza, sarebbero cento ed
anche dugento o mille riguadagnati od in contanti, od in potenza.

                                         Nota della seconda edizione.

[48] Io non conosco se non un’operetta stampata a Livorno su
quest’assunto, pur così importante, degli interessi italiani nel
commercio orientale. Tanto più ragione di lodarla; e confortare
l’autore a migliorarla ed estenderla.

                                         Nota della seconda edizione.

[49]

                                            Torino, 19 febbraio 1845.

  _Signore_,

Nella corrispondenza estera della vostra Rivista (gennaio 1845, p.
526) io trovo sul mio libro _Delle Speranze d’Italia_ le seguenti
parole: «La prima circostanza da osservare rispetto alla pubblicazione
del libro del signor Balbo è che _esso non è proibito nei dominii del
re di Sardegna_.» — Lo scrittore fu mal informato. Il libro _Delle
Speranze_ fu e rimane proibito qui fino a questo punto, che non si
vende pubblicamente, non s’annunzia, non si dà se non a chi ne fa
richiesta per iscritto, o come si dice qui _sotto cautela_. In una
parola, il mio libro si tollera qui, come i fatti stessi recati dal
vostro corrispondente provano che è o fu tollerato in Toscana; come fu
ivi tollerato il libro del Niccolini. E come questi colà, così io pure
son lasciato vivere tranquillo qui.

Tutti coloro che conoscono la mia posizione sociale, ed, oso dire,
il mio carattere personale, sanno ch’io non son guari uomo a cui
si comandi od ispiri un libro. E tuttavia se un principe italiano
avesse comandato un tal libro com’è il mio, io l’avrei scritto
molto volentieri; ma avrei professato di così scriverlo; e parecchi
milioni d’italiani si sarebbero, credo, rallegrati che un principe
italiano avesse così professato egli stesso, voler preparare il giorno
dell’indipendenza, e nel modo da me accennato, camminando nelle vie
del progresso universale, e camminandovi sempre all’innanzi dello
straniero, e non temendo camminarvi fino alla politica libertà. Ma pur
troppo non fu così; il mio libro non fu nè comandato nè ispirato, ma
solamente tollerato. — Bensì, il mio è il primo libro di politica seria
e presente che dal 1814 in qua siasi scritto sul suolo d’Italia, da uno
scrittore continuante a vivervi. Ed io non so se ciò torni a qualche
lode per lo scrittore tollerato, ma certo torna a quella del principe
tolleratore.

Del resto nel mio libro io non proposi all’Italia nè quello nè nessun
altro principe a «Capitano delle Speranze di Lei». Nè, io o niuno
scrittore per quanto maggiore di me, avremmo tale autorità. Sola
l’opinione universale potrebbe far tal proposizione o dichiarazione;
e le farà, io non ne dubito, a gloria immortale di qualsivoglia de’
nostri principi s’avanzi mai primo ed arditamente sulle vie ch’io
accennai, ma che tutti veggono. — Ma io anderò qui più in là che nel
mio libro; io confesso desiderare, che tal sia, tal s’avanzi oltre agli
altri il mio principe; e perchè egli è principe mio, e perchè egli è
meglio collocato a ciò che nessun altro. Ed a compiere tal desiderio,
io verserei volentieri, non che le mie povere e talor male interpretate
parole, ma tutto il sangue mio, ma tutto quello de’ sei figliuoli miei.

Signore, il mio libro, di cui a mal grado le difficoltà di su e di
giù, sono sparsi ormai presso a 3000 esemplari in Italia, non potè
essere nè criticato nè menzionato ne’ giornali italiani. Al di fuori,
parecchi miei compatrioti colà viventi mi assalirono vivamente, men per
ciò che io dissi, che per ciò che io non dissi, ed anche per ciò ch’io
dissi tutt’all’opposto. Io ringrazio delle prime critiche; la franca e
leal discussione è utile alla patria nostra; e fu uno de’ miei scopi
eccitarla. Alle altre avrei forse risposto già, per farne apparir le
inesattezze, ne’ medesimi giornali; se non fosse che alcuni di questi
non ne valevan la pena, ed altri hanno il mal uso di non accettar
discussione sugli articoli da essi inseriti. Ma la vostra rivista è
grave ed importante in tutta Europa; e gli usi e l’onor britannico mi
fanno sperare che non vorrete ricusare questa mia risposta, la quale
non può trovare luogo in nessuna pubblicazione della mia patria.

E con tal fiducia ho l’onore di protestarmi

                                      Vostro obbligatissimo servitore

                                                    C.e CESARE BALBO.

La presente risposta fu inserita nel fascicolo immediato (aprile 1845)
di _Quarterly Review_.

[50] Del resto: «On a beau dérober les principes que j’ai établis, en
ayant l’air de les combattre: tous les faux semblants ne servent de
rien; suivre des règles posées par un autre, jusqu’à les compromettre
par une application outrée, ce n’est point les inventer» (Cousin, _Des
Pensées de Pascal_. Paris, 1844, p. 11).

[51] S’ingannerebbe chi applicasse a’ tempi nostri il detto vecchio,
che le proibizioni aiutano lo spaccio d’un libro. Anche ciò è mutato.
Quando le pubblicazioni non si facevano se non ponendo in vendita
un libro nella botteguccia d’un solo libraio, o talor muricciolaio,
senza annunzi o con pochi, l’allettamento innegabile delle proibizioni
poteva agguagliare o superar quello vegnente da tale ristretta offerta.
Ma ora che s’è perfezionato di tanto l’artifizio di queste offerte,
cogli annunzi ne’ giornali, ne’ cataloghi, sulle coperte de’ libri,
e sui cartelli e cartelloni d’ogni sorta, gli allettamenti così
procacciati superano di gran lunga quello delle proibizioni. Vedansi
sull’importanza degli annunzi, le liti mosse in Francia dagli autori
agli editori, per isforzarli ad usare, secondo i patti o il costume,
questo gran mezzo di spaccio. E quindi io stimo (e sarà poi detta
vanità mia in causa propria) che lo spaccio d’un libro proibito, ma
non annunciato, possa essere così le cinque o sei volte minore di ciò
che sarebbe stato se si fossero usati que’ mezzi. — Ma non si ingannino
quindi troppo candidamente le censure sulla propria efficacia. Possono
colle proibizioni di diminuir lo spaccio d’un dato libro; ma prima
non ne diminuiscon guari la cognizione; perchè in tal caso ogni
compratore impresta il suo esemplare a quattro o cinque altre persone
per l’appunto. E poi le censure accrescono così e sovente esagerano
l’importanza, l’autorità del libro proibito. Ed impediscono che capiti
alle mani di molti buoni; i quali se il libro è buono, son pur quelli
che ne approfitterebber più, perchè i troppo dissenzienti da un libro
non ne approfittan mai; e se il libro è cattivo, son quelli che gli
risponderebbon meglio per iscritto od a voce. E poi a voler giudicar
l’effetto delle proibizioni non su un libro determinato, ma su tutti
insieme, ei bisogna tener conto di quell’assioma economico, che, in
fatto di merci proibite, sempre il contrabbando fa entrare le qualità
più fine; perchè a far entrar queste il pericolo è uguale, mentre
il profitto è molto maggiore. E in fatto di libri proibiti, ognun sa
che cosa sieno le qualità più fine. — Del resto, dicesi che parecchi
alti e gravi sudditi austriaci abbian fatti ricorsi al loro governo
per ottener rimessioni dalla severità delle censure. Speriamo sieno
ascoltati benignamente. — Ma, ho io detto, speriamo? E non debb’egli
anzi dirsi timore, quello che ci venga anche questo miglioramento o
addolcimento dal signore straniero? E non gli sarà tolta, chiaramente,
incontrastabilmente tolta, tal precedenza almeno da alcuno de’ nostri
principi?

[52] Noterò una sola di queste alterazioni delle mie parole; per
l’importanza che ha forse una osservazione ivi aggiunta — Io dissi
al Capo IV, § 1, «che il sogno delle repubblichette _fu od apparve_
sogno de’ sollevati Romagnoli del 1830, de’ congiurati con essi, e di
quelli che chiamaronsi _Giovine Italia_». Ora uno scrittore (_Revue
Indépendante_, juin, 1844, p. 567), dice: «M. Balbo _affirme_ que ce
rêve fut celui des insurgés de la Romagne en 1830, et de ceux qui ont
fait partie de la Jeune Italie». — Come ognun vede, l’alterazione è un
po’ forte; dir _fu od apparve_ è tutt’altro che _affermare_. Ma andiamo
avanti. Lo scrittore prende a dire: «Ce qu’elle (_la Giovine Italia_)
voulait alors, ce qu’elle veut aujourd’hui c’est l’indépendance et
l’unité italienne reposant sur la liberté et l’égalité pour tous. Son
rêve, puisque M. Balbo l’appelle ainsi, serait de voir l’Italie non
fédérée, mais une, n’ayant ni barrières ni _États distincts_; étant
enfin ce que sont aujourd’hui la France, l’Espagne, et la Belgique».
— È egli così? in tal caso non fo che rimandare questi miei infelici,
e pur troppo sempre sognanti compatrioti miei dal Capo IV al Capo II,
dalle osservazioni sulle repubblichette, a quelle sul regno unico; pur
riconfortandoli a lasciar questi o quegli altri sogni del paro, ed a
volgere essi pure la loro migliorata operosità allo scopo effettivo
(arrivabile a parer mio) del progresso universale e della indipendenza
d’Italia.

[53] Nell’_Appendice I.ª_, su queste leghe, io toccai a un punto
d’economia ed agronomia italiana, che mi pare importante; alla
opportunità di estendere la coltura de’ pascoli, anche a diminuzione
di quella delle biade. Tal proposizione scandalezzò alcuni teorici
ed alcuni pratici. E di essa pure è uscita o almeno annunziata una
notevole conferma. Vedi ne’ rendiconti dell’Accademia delle Scienze di
Parigi le ricerche storiche e pratiche del signor Dezeimeris. Sarebbe
desiderabile una pronta traduzione di tale opera appena pubblicata.

[54] Dicesi che quasi altrettanti forestieri sieno talora in Roma sola
per la settimana santa. È vero che gran parte di questi sono nazionali,
forestieri, e non istranieri. Ma, ponendo il medesimo numero per
l’Italia intiera, parmi (a difetto di più esatte notizie) vi abbia ad
essere più che compenso.

[55] Il Say (_Écon. polit._, liv. I, ch. XX (4. Éd.), T. I, p.
315) sembra d’opinione contraria. Ma si legga attentamente e non
servilmente, e si vedrà da quella disquisizione stessa: 1. che
dal totale del capitale innegabilmente portato e speso in un paese
qualunque dagli stranieri, è a dedurre solamente il consumo fatto
da essi; 2. che in questo stesso consumo non è da contare il consumo
del lavoro nazionale pagato da essi, il quale non si sarebbe prodotto
senza essi (massime in Italia); 3. che non v’è a contare nemmeno il
consumo di parecchi prodotti materiali rozzi, i quali parimenti non
si sarebbero prodotti senza gli stranieri; 4. che quindi il consumo
a dedursi dal capitale portato e speso, si riduce a consumo di poche
e rozze tra le materie che paiono e si soglion dir consumate; 5. e
che insomma è calcolarlo alto, il porlo in media a un 8 o 10 milioni
in tutto. — I quali poi io non deduco dal calcolo mio totale perchè
li credo più che compensati dall’altre cifre, tenute tutte basse.
Ma chi li voglia dedurre, riduca i 72 milioni a 60; e rimarranno
grandi tuttavia i risultati. — Del resto sarebbe un trattato intiero
e speciale a far su ciò. E dal Davanzati e Botero o forse dal
Pandolfini fino al recentissimo Scialoja, l’Italia fu ed è pur patria
dell’Economia politica bene e liberalmente scritta. Così vogliano gli
scrittori di essa prendere ad esaminare, ed applicare la questione qui
accennata, importantissima certamente per la patria comune.

[56] Due capitali innegabili e pur non ammessi (almeno il primo)
da parecchi economisti. Anche fuor d’Italia, a Hières, all’isola di
Whigt, a quella di Madera, ec., l’aria sana e dolce trae stranieri o
forestieri, che producon guadagni. L’aria buona può dunque essere, è un
capitale; morto in molti luoghi sì, ma produttivo in parecchi.

[57] Che è, se non m’inganno, all’incirca il totale del Commercio
estero francese, l’esportazione ed importazione insieme, nell’anno
1844.

[58] Io mi scosto così del tutto da una serie di articoli inseriti
nella _Revue des deux mondes_ sul risorgimento del così detto mondo
slavo. Io l’avverto per gli ammiratori di quella riputatissima
raccolta; affinchè forse non mi rispondano con mandarmi ad essa. Bene o
male, io rispondo qui già agli argomenti là usati.

[59] Mentre rivedevo la presente appendice, un nuovo fatto avvenne,
che, quantunque letterario, non è pur senza importanza per noi; la
pubblicazione della _Storia del Consolato e dell’Imperio_. La quale,
per bello e gran libro che sia, non è nel resto d’Europa e in Francia
stessa se non un libro di più, fra moltissimi: ma in Italia, tra
la povertà di libri nostrali, e la varietà degli stranieri, da cui
risulta tanto vagar delle nostre opinioni, l’apparizione d’un libro
così impazientemente aspettato, così universalmente già letto, e,
parlando in generale, così sodo e moderato, non può avere una vera
ed utile importanza. — La storia precedente del medesimo scrittore ne
ebbe già una contraria, in Italia come in Francia e dappertutto. Quella
indifferenza ai grandi delitti politici, quella maniera dì presentarli
come necessari, epperciò o più o meno scusabili o non delitti, spingeva
a imitazioni, peggiori in Italia, che in qualunque altro luogo. Ora
l’autore ha felicemente mutato modo; è tornato a quello di tutti i
grandi storici antichi o nuovi, a quel modo che usa la storia non
solamente _ad narrandum_, ma anche _ad probandum_, al modo di giudicare
narrando. Qui l’autore giudica il suo eroe continuamente. Non sempre
bene, a parer mio, ma il giudica; e il giudicio di lui esercita il
giudicio politico de’ leggitori, che è un gran bene, dappertutto,
ma principalmente in Italia, dove sono così poche occasioni a tal
esercizio. L’autore (fin da’ tre volumi or pubblicati) giudicò bene e
in parecchi luoghi l’errore di Napoleone di non aver tenuto bastante
conto dell’opinione, della libertà del popolo conquistatore o francese.
Ma ciò non basta; sarebbesi dovuto notare anche l’error secondo (e che
diventò poi forse sommo per le conseguenze) di non aver tenuto bastante
conto de’ popoli conquistati; errore incominciato a farsi verso
l’Italia fino dalla Consulta di Lione, e da quelle male ripartizioni
delle provincie italiane, che dividevano peggio che mai, non formavano
nè educavano un popolo italiano; errore ripetuto poi ed aggravato verso
Germania, e Spagna, e Polonia. E al dì delle sventure, Napoleone ebbe
Spagna e Germania contro a lui, Polonia incapace di nulla per lui,
Italia incapace insieme e indifferente a lui. E questa indifferenza
non si suol notare tra le cause della caduta di Napoleone; non si suol
notare Italia mai per nulla nelle grandi mutazioni d’Europa. Eppure,
se l’opinione d’Italia fosse stata per Napoleone, nè Murat avrebbe
immaginato di rivolgergliesi contro, nè Beaurharnais avrebbe fatto sì
incerta quantunque sì nobil difesa; e la guerra vivamente nodrita in
Italia avrebbe forse impedita o trattenuta la invasione in Francia; e
ad ogni modo, uno Stato di più, un secondo regno sarebbe probabilmente
rimasto a’ Napoleonidi in Italia, e due tali regni rimastivi sarebbero
probabilmente stati durevoli. — Tutto ciò, veduto senza dubbio da ogni
Italiano, sarà, se continua al medesimo modo, rimproverabile da essi
alla _Storia del Consolato e dell’Imperio_. Ma qual libro moderno tien
conto sufficiente di noi? E a chi la colpa? E ad ogni modo, lasciata
la parte italiana, o forse altre straniere, resta sempre un grand’utile
a trarre dagli esempi di operosità di quell’uomo e quel tempo; e dalla
sodezza, dalla moderazione, dalla dottrina, dalle particolarità delle
narrazioni e delle discussioni dell’autore.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK DELLE SPERANZE D'ITALIA ***


    

Updated editions will replace the previous one—the old editions will
be renamed.

Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright
law means that no one owns a United States copyright in these works,
so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United
States without permission and without paying copyright
royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part
of this license, apply to copying and distributing Project
Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™
concept and trademark. Project Gutenberg is a registered trademark,
and may not be used if you charge for an eBook, except by following
the terms of the trademark license, including paying royalties for use
of the Project Gutenberg trademark. If you do not charge anything for
copies of this eBook, complying with the trademark license is very
easy. You may use this eBook for nearly any purpose such as creation
of derivative works, reports, performances and research. Project
Gutenberg eBooks may be modified and printed and given away—you may
do practically ANYTHING in the United States with eBooks not protected
by U.S. copyright law. Redistribution is subject to the trademark
license, especially commercial redistribution.


START: FULL LICENSE

THE FULL PROJECT GUTENBERG LICENSE

PLEASE READ THIS BEFORE YOU DISTRIBUTE OR USE THIS WORK

To protect the Project Gutenberg™ mission of promoting the free
distribution of electronic works, by using or distributing this work
(or any other work associated in any way with the phrase “Project
Gutenberg”), you agree to comply with all the terms of the Full
Project Gutenberg™ License available with this file or online at
www.gutenberg.org/license.

Section 1. General Terms of Use and Redistributing Project Gutenberg™
electronic works

1.A. By reading or using any part of this Project Gutenberg™
electronic work, you indicate that you have read, understand, agree to
and accept all the terms of this license and intellectual property
(trademark/copyright) agreement. If you do not agree to abide by all
the terms of this agreement, you must cease using and return or
destroy all copies of Project Gutenberg™ electronic works in your
possession. If you paid a fee for obtaining a copy of or access to a
Project Gutenberg™ electronic work and you do not agree to be bound
by the terms of this agreement, you may obtain a refund from the person
or entity to whom you paid the fee as set forth in paragraph 1.E.8.

1.B. “Project Gutenberg” is a registered trademark. It may only be
used on or associated in any way with an electronic work by people who
agree to be bound by the terms of this agreement. There are a few
things that you can do with most Project Gutenberg™ electronic works
even without complying with the full terms of this agreement. See
paragraph 1.C below. There are a lot of things you can do with Project
Gutenberg™ electronic works if you follow the terms of this
agreement and help preserve free future access to Project Gutenberg™
electronic works. See paragraph 1.E below.

1.C. The Project Gutenberg Literary Archive Foundation (“the
Foundation” or PGLAF), owns a compilation copyright in the collection
of Project Gutenberg™ electronic works. Nearly all the individual
works in the collection are in the public domain in the United
States. If an individual work is unprotected by copyright law in the
United States and you are located in the United States, we do not
claim a right to prevent you from copying, distributing, performing,
displaying or creating derivative works based on the work as long as
all references to Project Gutenberg are removed. Of course, we hope
that you will support the Project Gutenberg™ mission of promoting
free access to electronic works by freely sharing Project Gutenberg™
works in compliance with the terms of this agreement for keeping the
Project Gutenberg™ name associated with the work. You can easily
comply with the terms of this agreement by keeping this work in the
same format with its attached full Project Gutenberg™ License when
you share it without charge with others.

1.D. The copyright laws of the place where you are located also govern
what you can do with this work. Copyright laws in most countries are
in a constant state of change. If you are outside the United States,
check the laws of your country in addition to the terms of this
agreement before downloading, copying, displaying, performing,
distributing or creating derivative works based on this work or any
other Project Gutenberg™ work. The Foundation makes no
representations concerning the copyright status of any work in any
country other than the United States.

1.E. Unless you have removed all references to Project Gutenberg:

1.E.1. The following sentence, with active links to, or other
immediate access to, the full Project Gutenberg™ License must appear
prominently whenever any copy of a Project Gutenberg™ work (any work
on which the phrase “Project Gutenberg” appears, or with which the
phrase “Project Gutenberg” is associated) is accessed, displayed,
performed, viewed, copied or distributed:

    This eBook is for the use of anyone anywhere in the United States and most
    other parts of the world at no cost and with almost no restrictions
    whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms
    of the Project Gutenberg License included with this eBook or online
    at www.gutenberg.org. If you
    are not located in the United States, you will have to check the laws
    of the country where you are located before using this eBook.
  
1.E.2. If an individual Project Gutenberg™ electronic work is
derived from texts not protected by U.S. copyright law (does not
contain a notice indicating that it is posted with permission of the
copyright holder), the work can be copied and distributed to anyone in
the United States without paying any fees or charges. If you are
redistributing or providing access to a work with the phrase “Project
Gutenberg” associated with or appearing on the work, you must comply
either with the requirements of paragraphs 1.E.1 through 1.E.7 or
obtain permission for the use of the work and the Project Gutenberg™
trademark as set forth in paragraphs 1.E.8 or 1.E.9.

1.E.3. If an individual Project Gutenberg™ electronic work is posted
with the permission of the copyright holder, your use and distribution
must comply with both paragraphs 1.E.1 through 1.E.7 and any
additional terms imposed by the copyright holder. Additional terms
will be linked to the Project Gutenberg™ License for all works
posted with the permission of the copyright holder found at the
beginning of this work.

1.E.4. Do not unlink or detach or remove the full Project Gutenberg™
License terms from this work, or any files containing a part of this
work or any other work associated with Project Gutenberg™.

1.E.5. Do not copy, display, perform, distribute or redistribute this
electronic work, or any part of this electronic work, without
prominently displaying the sentence set forth in paragraph 1.E.1 with
active links or immediate access to the full terms of the Project
Gutenberg™ License.

1.E.6. You may convert to and distribute this work in any binary,
compressed, marked up, nonproprietary or proprietary form, including
any word processing or hypertext form. However, if you provide access
to or distribute copies of a Project Gutenberg™ work in a format
other than “Plain Vanilla ASCII” or other format used in the official
version posted on the official Project Gutenberg™ website
(www.gutenberg.org), you must, at no additional cost, fee or expense
to the user, provide a copy, a means of exporting a copy, or a means
of obtaining a copy upon request, of the work in its original “Plain
Vanilla ASCII” or other form. Any alternate format must include the
full Project Gutenberg™ License as specified in paragraph 1.E.1.

1.E.7. Do not charge a fee for access to, viewing, displaying,
performing, copying or distributing any Project Gutenberg™ works
unless you comply with paragraph 1.E.8 or 1.E.9.

1.E.8. You may charge a reasonable fee for copies of or providing
access to or distributing Project Gutenberg™ electronic works
provided that:

    • You pay a royalty fee of 20% of the gross profits you derive from
        the use of Project Gutenberg™ works calculated using the method
        you already use to calculate your applicable taxes. The fee is owed
        to the owner of the Project Gutenberg™ trademark, but he has
        agreed to donate royalties under this paragraph to the Project
        Gutenberg Literary Archive Foundation. Royalty payments must be paid
        within 60 days following each date on which you prepare (or are
        legally required to prepare) your periodic tax returns. Royalty
        payments should be clearly marked as such and sent to the Project
        Gutenberg Literary Archive Foundation at the address specified in
        Section 4, “Information about donations to the Project Gutenberg
        Literary Archive Foundation.”
    
    • You provide a full refund of any money paid by a user who notifies
        you in writing (or by e-mail) within 30 days of receipt that s/he
        does not agree to the terms of the full Project Gutenberg™
        License. You must require such a user to return or destroy all
        copies of the works possessed in a physical medium and discontinue
        all use of and all access to other copies of Project Gutenberg™
        works.
    
    • You provide, in accordance with paragraph 1.F.3, a full refund of
        any money paid for a work or a replacement copy, if a defect in the
        electronic work is discovered and reported to you within 90 days of
        receipt of the work.
    
    • You comply with all other terms of this agreement for free
        distribution of Project Gutenberg™ works.
    

1.E.9. If you wish to charge a fee or distribute a Project
Gutenberg™ electronic work or group of works on different terms than
are set forth in this agreement, you must obtain permission in writing
from the Project Gutenberg Literary Archive Foundation, the manager of
the Project Gutenberg™ trademark. Contact the Foundation as set
forth in Section 3 below.

1.F.

1.F.1. Project Gutenberg volunteers and employees expend considerable
effort to identify, do copyright research on, transcribe and proofread
works not protected by U.S. copyright law in creating the Project
Gutenberg™ collection. Despite these efforts, Project Gutenberg™
electronic works, and the medium on which they may be stored, may
contain “Defects,” such as, but not limited to, incomplete, inaccurate
or corrupt data, transcription errors, a copyright or other
intellectual property infringement, a defective or damaged disk or
other medium, a computer virus, or computer codes that damage or
cannot be read by your equipment.

1.F.2. LIMITED WARRANTY, DISCLAIMER OF DAMAGES - Except for the “Right
of Replacement or Refund” described in paragraph 1.F.3, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation, the owner of the Project
Gutenberg™ trademark, and any other party distributing a Project
Gutenberg™ electronic work under this agreement, disclaim all
liability to you for damages, costs and expenses, including legal
fees. YOU AGREE THAT YOU HAVE NO REMEDIES FOR NEGLIGENCE, STRICT
LIABILITY, BREACH OF WARRANTY OR BREACH OF CONTRACT EXCEPT THOSE
PROVIDED IN PARAGRAPH 1.F.3. YOU AGREE THAT THE FOUNDATION, THE
TRADEMARK OWNER, AND ANY DISTRIBUTOR UNDER THIS AGREEMENT WILL NOT BE
LIABLE TO YOU FOR ACTUAL, DIRECT, INDIRECT, CONSEQUENTIAL, PUNITIVE OR
INCIDENTAL DAMAGES EVEN IF YOU GIVE NOTICE OF THE POSSIBILITY OF SUCH
DAMAGE.

1.F.3. LIMITED RIGHT OF REPLACEMENT OR REFUND - If you discover a
defect in this electronic work within 90 days of receiving it, you can
receive a refund of the money (if any) you paid for it by sending a
written explanation to the person you received the work from. If you
received the work on a physical medium, you must return the medium
with your written explanation. The person or entity that provided you
with the defective work may elect to provide a replacement copy in
lieu of a refund. If you received the work electronically, the person
or entity providing it to you may choose to give you a second
opportunity to receive the work electronically in lieu of a refund. If
the second copy is also defective, you may demand a refund in writing
without further opportunities to fix the problem.

1.F.4. Except for the limited right of replacement or refund set forth
in paragraph 1.F.3, this work is provided to you ‘AS-IS’, WITH NO
OTHER WARRANTIES OF ANY KIND, EXPRESS OR IMPLIED, INCLUDING BUT NOT
LIMITED TO WARRANTIES OF MERCHANTABILITY OR FITNESS FOR ANY PURPOSE.

1.F.5. Some states do not allow disclaimers of certain implied
warranties or the exclusion or limitation of certain types of
damages. If any disclaimer or limitation set forth in this agreement
violates the law of the state applicable to this agreement, the
agreement shall be interpreted to make the maximum disclaimer or
limitation permitted by the applicable state law. The invalidity or
unenforceability of any provision of this agreement shall not void the
remaining provisions.

1.F.6. INDEMNITY - You agree to indemnify and hold the Foundation, the
trademark owner, any agent or employee of the Foundation, anyone
providing copies of Project Gutenberg™ electronic works in
accordance with this agreement, and any volunteers associated with the
production, promotion and distribution of Project Gutenberg™
electronic works, harmless from all liability, costs and expenses,
including legal fees, that arise directly or indirectly from any of
the following which you do or cause to occur: (a) distribution of this
or any Project Gutenberg™ work, (b) alteration, modification, or
additions or deletions to any Project Gutenberg™ work, and (c) any
Defect you cause.

Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg™

Project Gutenberg™ is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of
computers including obsolete, old, middle-aged and new computers. It
exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations
from people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s
goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will
remain freely available for generations to come. In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg™ and future
generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see
Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org.

Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification
number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by
U.S. federal laws and your state’s laws.

The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West,
Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up
to date contact information can be found at the Foundation’s website
and official page at www.gutenberg.org/contact

Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread
public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine-readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment. Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States. Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements. We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance. To SEND
DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state
visit www.gutenberg.org/donate.

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg web pages for current donation
methods and addresses. Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations. To
donate, please visit: www.gutenberg.org/donate.

Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works

Professor Michael S. Hart was the originator of the Project
Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be
freely shared with anyone. For forty years, he produced and
distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of
volunteer support.

Project Gutenberg™ eBooks are often created from several printed
editions, all of which are confirmed as not protected by copyright in
the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not
necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper
edition.

Most people start at our website which has the main PG search
facility: www.gutenberg.org.

This website includes information about Project Gutenberg™,
including how to make donations to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation, how to help produce our new eBooks, and how to
subscribe to our email newsletter to hear about new eBooks.