The Project Gutenberg eBook of Pompei This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Pompei Author: C. Augusto Vecchj Release date: August 8, 2025 [eBook #76652] Language: Italian Original publication: Firenze: Le Monnier, 1868 Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK POMPEI *** C. AUGUSTO VECCHJ. POMPEI. SECONDA EDIZIONE, RIVEDUTA E AMPLIATA DALL’AUTORE. FIRENZE. SUCCESSORI LE MONNIER. 1868. Proprietà letteraria. [Illustrazione: DIS MANIBUS POMPEIANORUM] DUE PAROLE SU QUESTA SECONDA EDIZIONE. È nel mondo una nobile e poetica scienza, la quale risveglia i morti — strappa dalle loro ossa i secolari lenzuoli — gli aiuta ad escir dai sepolcri — e, rimpolpati e rifatti, gli veste graziosamente dei loro pepli, delle loro tuniche, delle loro stole, delle loro clamidi leggere. Nè ancor paga, cotesta fata benefica raccoglie nel vasto carnaio una infinità di oggetti svariati e belli, coperti dalla polvere dell’obblio, e gli restituisce a quelli che un giorno li maneggiarono. Quindi, sorretta dal suo fine criterio e dai consigli di una illustre sorella, rifà vivi uomini e cose dinanzi alla riscossa e curiosa fantasia. Le due parenti — l’Archeologia e la Storia — a me soccorsero nell’arduo tentativo di questo nuovo genere di letteratura italiana che per la seconda volta offro ai lettori. Le iscrizioni graffite e i ruderi eloquenti operarono il resto. Le varie epoche dei racconti sono istoriche. Istorici i nomi di quei che parlano e agiscono, possibilmente e quasi sempre collocati sulla scena che loro fu propria. Molte frasi ch’escono da quelle bocche le deciferai sulle pareti, mute per dieciotto secoli. Ho abitato, dì e notte, per cinque mesi continovi la città dei morti. Ed i morti risposero alle mie premurose e studiate evocazioni. Al pari degli antichi artisti di sangue pelasgo-italiota non lavorai pei ricchi o per piacere ai potenti, sì, pel Dio unico, per la Libertà, per la Patria. _Di Pompei, ai 25 marzo 1865_ C. AUG. VECCHJ. I TEMPLI. SCENE RELIGIOSE IN POMPEI. =Anni di Roma 673 — Anni avanti il Cristo 81.= AL MINISTRO DEI CULTI IN ITALIA GIUSEPPE PISANELLI. I. La notte volge alla metà del suo corso. Erano gli ultimi giorni di febbraio. Soffiava lo scirocco, uno di quei venti caldi ed umidi che sopraccaricano il corpo di fatica e l’anima di eccitazione. — Sul firmamento non una stella. — Al basso udivasi il fragore monotono e cupo che fa il mare agitato rompendosi con impeto sugli scogli e sui ciottoli rotondati. Anche la terra sembrava sprofondata nella tristezza temporanea di quelle regioni scosse e rimbalzanti sovente dai gassi sotterranei dell’igne eterno. — Genti meno preoccupate di quelle cui si parava dinanzi un simile quadro non avrebbero potuto non esserne impensierite. Due uomini camminavano l’uno accanto dell’altro. Non parlavano. Esciti dalla porta occidentale che menava ad Herculanum, costeggiarono le mura a dritta sulla via per cui si andava a Sarnus, senza traversare Pompei. E non le lasciarono che nello avviarsi per una strada male incassata che menava sulla collina. In una rivolta, uno di essi battè il ferro sur un pezzo di silice, bruciò un poco di amianto inzolfato sull’esca ed accese una lanterna di bronzo senza coperchio. Egli era vestito di una trabea di porpora con fasce di scarlatto. — I capelli già grigi lasciavano scoperta la sua energica fronte, illuminata da un occhio solo. Ma quell’unico, e le labbra sottili, e il naso aquilino, e la fredda impassibilità del viso accentuato, facevano chiara, in un destro osservatore, la furberia della mente e la impudenza del cuore. — L’altro era un uomo in sui cinquant’anni: di quegli esseri dalle gote infossate e di colore olivastro, dallo sguardo ora spento, ora eccitato, a seconda della passione unica che or desta consolazioni, ora dubbi, ora timori. Aveva sul capo un piccolo berretto di lana bianca, ed uno scuro mantello coprivagli la persona. Poco sensibile al disonore e alla infamia, tutti i mezzi gli erano sembrati onesti per formarsi un peculio e riscattare la sua libertà: prostituzione, ladronecci, complicità alle abbominazioni del padrone, usure. Egli chiamavasi Pothus. — Ma siccome era stato schiavo di M. Plazio, rimase pur schiavo dell’uso, che voleva il nome dello antico padrone precedesse il suo proprio. Laonde nel sigillo con cui marcava ogni sua cosa era scritto: PLATIUS POTHVS. — Esercitava la mercatura. Vendeva stoffe che faceva venire di Taranto e dall’Oriente. Egli riceveva merci dalle città commercianti della Campania, e specialmente da Nola, da Acerra e da Nocera, e le spediva lontano. — Ora a lui premeva, pria di spedire un grosso carico in Egitto, saperne la fortuna, interrogandone un aruspice. Erasi pertanto indirizzato a Taranis, e questi gli aveva indicato l’ora ed il luogo nel _pomærium_, sopra un posto elevato, per cercare gli auspicii. Cotesta geldra d’impostori non apparteneva a nessun collegio dei sacerdoti latini, nè ad alcuna gerarchia religiosa. La impudenza gli aveva cacciati innanzi. La stupidezza gli aveva accolti. Lo interesse pauroso li carezzava. — Essi avevano doppie funzioni: predicevano lo avvenire studiando gli avvenimenti anteriori od i fenomeni, o ne chiedevano la rivelazione alle viscere delle vittime. Oltre a ciò spandevano nel volgo le novelle più strane ed incredibili... e forse per ciò credute. Furono gli aruspici che inventarono i sacrifizi umani — e la frottola delle pioggie di latte, di sangue e di mattoni cotti — e le statue degli Dei che sudavano — e le lagrime sgorgate dagli occhi di Vesta — e le case cangianti di posto — e un lupo che sguaina una daga — e un bue che parla — e i galli divenuti galline e le galline galli — e il cielo macchiato di sangue — e la luna triplice nel firmamento — e il sole apparso di notte — e le torce ardenti traversanti lo spazio — ed altre fandonie da mercato a queste simiglianti. — Essi venivano dall’Etruria ed erano ricerchi come quelli che sapevano l’arte della osservazione, della interpretazione e della congiurazione. E il popolo li pagava e li teneva grassi e gaudenti. — Ma quando incontravansi e si narravano a vicenda le cose occorse e la bestialità del popolo che credeva alle loro menzogne, e la doppiezza dei magistrati che fingevano di prestar fede alle loro predizioni, e la ipocrisia dei generali che facevan loro sparare i polli per sapere pria di rompere sull’inimico le sorti della battaglia, e’ si sbellicavano dalle risa e scherzavano sull’Olimpo che essi ed i sacerdoti di ogni culto avevano popolato colle incarnazioni di tutti i bisogni della terra, e propiziavano alla umana paura che non si stancherebbe mai di offerire il grosso contingente alla malizia degl’impostori — cangino pur essi il nome col succedersi dei secoli. I due erano giunti là dove volevano. Sotto i loro piedi posava il sobborgo Felice colla doppia fila di sepolcreti. — Taranis fece sedere lo affrancato sopra una pietra colla faccia rivolta al mare — cioè a mezzodì — ed egli rimase in piedi a sinistra colla testa coperta. L’impostore diresse una preghiera agli dei che insultava cogli atti, si girò verso l’Oriente e col _lituus_ — piccolo bastone senza nodi, dalla punta ricurva — divise il cielo in diverse regioni — che addimandavansi _templa_ nel gergo di quei ghiottoni — e fissò un punto lontano dove l’occhio giungeva. — Quindi, passato il bastone augurale nella mano manca, posò la destra sul capo del liberto di Plazio, sempre velato. — E, — _Jupiter pater, si est fas_, se il destino permette che cotesto Plazio Pothus, di cui tocco la testa, abbia fortuna nel commercio che imprende, invia a noi segni certi della tua volontà _inter eos fines quos feci_, nei templi che ho tracciato nell’orizzonte. — Nel firmamento alcun segno. — Lo scirocco aveva annuvolato il cielo, e perciò nessuna stella brillava per poter dire a quel gianfrullone nello scoprirgli gli occhi: — Guarda! In quell’astro sta il lieto destino che il padre della natura ti annuncia per mezzo del suo umile servo. — Ambidue stettero alcun tempo nella più completa immobilità. Quindi l’aruspice brontolò, crollando il capo: — Nulla!... Almeno avessimo portato gli _oscines_ od i _præpetes_, gli uccelli che dicono col volo, col becco o col canto. A domani..... o, se vuoi, ora, in tua casa. — Andiamo — ripetè l’altro, levandosi e gittando un grosso sospiro: — E sapremo dai polli quello che il sommo Giove non volle annunciarci. — Discesero. — Passarono a fianco di una tomba isolata; e, — Sono Taranis, di Volaterra, in Etruria. — E mostrò il lituo al soldato che, escito dalla _ædicula_ a diritta presso la porta della città, veniva loro incontro per sapere chi fossero. Entrati nella via Domizia, si fermarono in faccia alla cisterna pubblica, destinata a supplire alle fontane quando per soverchio di siccità l’acqua mancasse. E salito l’opposto margine, entrarono nella casa, costruita sulle antiche mura e declinantesi per via di terrazzi sino al mare. Traversarono l’atrio, discesero una scala, ed eccoli in una stanza inferiore illuminata da due lampade di bronzo. Uno schiavo vegliante aveva ricevuto un ordine. — La voce stridente dei polli, sorpresi nel sonno, chiarì quale ei si fosse. — La gabbia fu posata sul mosaico. Il prete etrusco le pose dinanzi l’_offa pultis_, sminuzzando la pasta nella mangiatoia. Da principio i gallinacei parea rifiutassero la offerta. — Erano impauriti, agitati e guardavano i lumi. Ma quando si avvidero del perchè erano stati svegliati, si gettarono furiosi su quei pezzi di carne, di farina e di cacio, facendo tripudio. — _Pascuntur_. — Lieto augurio. — _Tripudium solistimum_. Le ali si aprono con giubilo. Tu ottenesti lieto presagio..... Ma se tu vuoi l’_animalis hostia_, io son pronto a leggere la predizione sulla vittima immolata. — Consenti a pagare la offerta agli Dei? — L’altro estrasse dal seno una borsa di pelle e l’aperse. E l’aruspice — che dalla fisonomia, dalle parole e dagli atti potrebbe facilmente parere un nostro contemporaneo — gittatovi sopra l’avido sguardo e la mano, contò. — Cinquanta.... centoventi e cinque — cento venticinque danari — _Medium sestertium_. — Sta bene. — Gli è quel che ci vuole per allontanare il _prodigium_, cioè lo avvenimento sinistro. — E tratto un coltello vittimario, tolse la vita ad un pollo e lo sparò. Strappò dal corpo il cuor palpitante, il fegato, il polmone ed il fiele; e postili sulla tavola, disse: — Ecco dinanzi ai tuoi occhi _pars inimici et pars familiaris_ — quella che concerne coloro che possono contrariare i tuoi commerci e quella che te risguarda.... — Oh! il fegato ha due lobi. — È eccellente presagio. — Anzi, vedi, si ripiega in dentro a partire dal basso della fibra. Ciò vuol dinotare grandezza e felicità. — Il cuore spande sangue vermiglio. Il grasso è sulla punta dei visceri — Le vene, nè livide, nè tese. — Fa partire le navi; chè i venti lor saranno propizi. — Pothus a quei nunci rideva convulsivamente e stringeva i pugni quasi vi avesse afferrato i grossi lucri predetti da quell’impostore. Il quale, tracannato d’un fiato un grosso calice di _merum vetus_ che il mercante volle mescergli da una piccola anfora, strinse la mano al gaglioffo, e, salito al piano superiore, partì. I sacerdoti non mai satolli, collo esagerare il sentimento religioso — che è uno istinto della umanità — o collo intenderlo malamente, spinsero i timorati a passar la giornata in preghiere ed in sacrifici per ottenere che i loro figliuoli loro sopravvivessero — _superstites essent_. — Onde questi furono chiamati superstiziosi; e quelli decaddero prima dalla stima dei filosofi e poi dalla credulità del popolo che leggeva nei loro vizi la inutile loro missione, nelle loro parole la mala fede, nei loro atti il mendacio. Da principio la vittima offerta era intera bruciata sull’ara del nume; ed il mele ed i vini squisiti crepitavano sulle brage. — Ma i ghiottoni e gli avari cominciarono a farsi casuisti. E pensarono che — gl’Iddii respirando solamente l’odore delle vittime — bastava farne rosolar dalle fiamme la testa ed i piedi — _pars Deorum_ — e serbare le parti delicate e carnose al festino dei loro triclini, le quali chiamarono _polluctum_ dal verbo _pollucere_ che significa consacrare. Più tardi — incoraggiati dalla stupidezza degli uomini che guardavano e non vedevano — propagarono la novella, aver ottenuto da Giove che la parte degli Dei sarebbero le ossa. E le carni devolute ai sacerdoti. — E quando erano esuberanti, le mandarono ai questori del tesoro che le facevano vendere a profitto dello erario. Fattisi ricchi e delicati, non vollero più insudiciarsi nel sangue come beccai, e tolsero a loro servigio i _popes_, vittimari che compirono la loro bisogna. E una parte del _polluctum_ la dispensarono alle amiche devote — che ai nostri tempi vestono da monache o in abito pinzochero — e l’altra più grossolana ai loro sacrestani che la vendevano ai tavernai. Avanti di uccidere l’animale, il sacerdote gli gittava sul capo un pizzico di farina mescolata col sale. — Se la bestia non si ritraeva impaurita, dichiaravasi acconcia al sacrificio. — Comprendesi facilmente che la spaventavano se la fosse magra e non di loro gusto. — La ceremonia dicevasi _immolatio_ da _mola_, la pietra conforme con cui macinavasi il grano, il più stimabile dei beni. Ed il sale impiegavasi nel rito come simbolo della purezza dell’anima. Le libazioni le facevano col vino di una vigna potata. — E pur domandavano all’offerente se il fulmine fosse mai caduto nella cantina od un uomo appiccatosi sul ramo di un albero vicino. Il primo omaggio di vino o d’incenso era propiziato a Giano, il portiere del cielo, affinchè facesse giungere la preghiera a quello fra gli Dei che volevasi invocare. Il vino si versava con un simpulo a goccia a goccia sul fuoco; e l’olio ad onde perchè ardesse senza far puzzo. Gl’Iddii maggiori erano dodici. — Giove, il re dell’Olimpo, cui sacrificavasi il bue bianco o maculato. — Giunone, sorella e moglie sua, cui s’immolava una vacca. — A Minerva lo stesso animale. E a queste sole vittime si doravano le corna. — Vesta, la Deessa del fuoco eterno, dovevasi contentare del sacrificio bene involontario che sei donne le facevano della loro verginità; sterile come la natura del fuoco che alimentavano continuo sull’ara; il quale era emanazione celeste, perchè ogni anno alle calende di marzo lo si faceva accendere dal sole col mezzo di un vaso metallico concavo, di forma conica rettangola. Quelle misere erano le guardiane degli Dei particolari del popolo romano e sopratutto del Palladio, da cui dipendevano le sorti liete della grande Repubblica. — A Cerere, Dea delle biade, si uccideva una scrofa, perchè distruggitrice delle mietiture. — Nettuno, Dio del mare — Apollo, della musica, della poesia e della medicina — e Marte, della guerra, erano i soli cui potesse offerirsi un toro bianco. — A Venere, la Iddia dell’amore e della bellezza, si davano colombe. — Mercurio, Dio della eloquenza e del commercio, prendeva tutto. — Diana, Dea della caccia e delle Foreste, facevasi contenta col dono di una cerva. — Plutone, lo affummicato rettore del Tartaro, chiedeva capri, becchi e tori neri. — Queste dodici divinità erano chiamate consentes, perchè formavano il consiglio supremo del Fato, potenza costituzionale dai poteri limitati e corretti dalle varie passioni umane che s’indiavano attorno al suo trono temuto. Lo appetito viene mangiando. — Laonde gli uomini antichi non si tennero beati e soddisfatti di un re e del suo ministero. Vollero altresì il corpo legislativo, composto dapprima dagli Dei scelti, come Saturno, che rappresentò il tempo; — Giano, l’annata; Rea, la Deessa della terra; — Bacco, il Dio del vino; — Vulcano, del fuoco; — Febo, dell’astro vivificatore; — la Luna, la patrona degli amanti; — e il Genio, che presiedeva alle opere degli umani. — Quindi spedirono al parlamento i piccoli Dii, cioè: i semones, gli uomini deificati — Ercole; Castore e Polluce; Enea; Romolo; Pane; Fauno; Silvano; Palete, Iddia del gregge; Vertunno, delle stagioni; Pomona, dei giardini e dei prati; Flora, dei fiori; Termine, dei termini; Robigo, della ruggine; Fascino, dei sortilegi; Averrunco, che allontana le calamità; Vacuna, patrona degl’infingardi e del riposo; Laverna, dei ladri; Mefite, del puzzo; Cloacina, dei luoghi immondi; Imene, del matrimonio. — Tutte le ninfe dei boschi, delle fontane, delle montagne, dei fiumi, del mare partirono anch’esse. Nè i giudici dello inferno le lasciarono andar sole; e tanto più che le videro accompagnate dalla Pietà, dal Pudore, dalla Fede, e.... dalla Speranza. La Febbre corse lor dietro. — E le madri impaurite pei cari figliuoli, elessero, senza bisogno di ballottaggio, Vitunno che ministra ad essi il soffio della vita; — Sentino, che dà il sentimento; — Presa e Postverta, che gli mette in buona postura nell’utero; — Ops li soccorre; — Vaticano loro apre la bocca e li fa vagire; — Rumina che gl’inspira a suggere il latte dal seno materno; — Potina gli consiglia a bere; — Educa, a mangiare; — Cunina veglia presso la culla; — Ageronia è attenta a tutti i loro movimenti. — Nè questi bastando al genio affettuoso delle madri, esse ne nominarono altri per acclamazione. E furono Juventas che accompagna il figliuolo già grande; — Barbato, che gli adorna il mento di peli; — Stimula, che il punzecchia di desiderii; — Volupia, necessaria alla generazione; — Numeria, gli dà la scienza dei numeri; — Camena, gl’insegna il canto; — Strenua, lo rende un eroe; — Consus, gl’inspira nobili consigli; — e Jugatinus presiede al suo matrimonio. Quando i sacerdoti si avvidero che il Fato — inviolabile — non parlava; — e il gran consiglio — responsabile — non facea motto; — e i _semones_ in nome dei loro uffici parea che convalidassero senza opposizione la scelta delle deità, fatta nei collegi elettorali degli uomini, senza votarsi il capo nei riguardi legali, ne crearono essi, di proprio moto, per alzata e seduta; e non fu cosa sulla terra di cui non mandassero il rappresentante negli stalli del parlamento celeste. — I gloriosi avi nostri carezzarono quelle sacre fandonie, perchè necessarie ad infrenare il popolo ignorante, riottoso e spavaldo, ch’essi volevano condurre al dominio del mondo. E quando i numi fur troppi, gli divisero in _ordo et populus_, cioè in _Dii majorum gentium_ ed in _Dii minorum gentium_. — Ma venne un giorno in cui si stancarono di quella docilità dimostrata e parlarono e scrissero del Dio unico e lo confessarono morendo. — D’allora in poi, a poco a poco, i deputati delle umane sciocchezze disertarono l’olimpico Parlamento, che fu riempiuto dall’occhio incommensurabile della ragione. Le loro statue le abbiam nei Musei, nei giardini, nelle pubbliche piazze. — Un altro Olimpo pur sorse — sul calco di quello antico — meno poetico, molto ridicolo e troppo triviale. Fu popoloso in secoli d’ignoranza, in tempi di fine ipocrisia, e nei giorni lunghi della tirannia dello spirito. — Di lassù venivano i fulmini per punire i peccati degli uomini. E l’uomo afferrò quel fulmine, lo chiuse in una macchina e lo fece il fattorino dei suoi pensieri. — Di lassù venivano le febbri, il vaiuolo, gli stravasi di sangue e tutti i guasti della fragile natura umana. E l’uomo studiò la medecina e la farmacopea, inventò strumenti chirurgici, ed i morbi furono domati. — Di lassù venivano i venti furiosi che inabissavano le navi o le mandavano erranti a genio dei loro soffi. E l’uomo inventò la bussola ed un meccanismo che rende inutile lo sforzo dei venti contrari. — Gl’idoli sono tutti già esciti, anche una volta, dall’Olimpo della ragione. Alcuni vennero nei Musei a far compagnia ai predecessori. Altri rimangono ancora sugli altari, vergognosi e raumiliati nel vedere il riso intelligente che destano e la nessuna pietà di chi gli coltiva. Ei sanno pur troppo che omai seggono sulle ruine. Ora la descrizione di una cerimonia solenne in Pompei. Il Flamine-Diale è sul peristilio del tempio di Giove. Ha la testa coperta di un elmo bianco, sormontato da un breve cono allungato e cinto da un fiocco di lana, che simboleggia il fulmine nel nume. Veste la toga pretesta e va di pari coi grandi magistrati. — Non vi ha un nodo sulle sue vesti che la sacerdotessa sua moglie filò di lana, tessè e cucì. La calzatura fu tagliata dalla pelle di un animale ucciso. Sul dito gli splende un anello a giorno ed unito. La consorte gli è presso e lo assiste. Sacerdoti minori lo attorniano. I duumviri, gli edili, i decurioni, i cavalieri salgono la gradinata del tempio. Nel Foro è il popolo; e, separate dagli uomini — perchè nulla si opponga alla decenza ed alla gravità della pia cerimonia — sono le donne adorne delle loro vesti bianche e sfarzose. Non canti di allegrezza, ma accenti di sdegno. — Non rendimenti di grazie, ma suppliche levate al cielo perchè venga allontanato dalla città di Pompei un crudele disastro, una tremenda sciagura. Un coro di fanciulli e di vergini cantano in note lamentevoli l’inno del dolore. — Alcuni soldati e centurioni sono appoggiati ai piedistalli; e, senza parola, rimangono impassibili spettatori di quella scena. Gli è che da tempo Pompædio Silo aveva inalberato lo stendardo della rivolta nella Marsica; e — tranne Aiserninum e Lucera — tutte le città adriache e tirrene avevano fatto eco a quel grido di guerra. Roma invero stancava la Italia. Per estendere la sua potenza, ne esauriva le ricchezze, ne toglieva i soldati e gli dava compagni d’armi ai cittadini romani, accordando loro l’unica eguaglianza in faccia alla morte. Corfinium, piccola terra tra il monte Corno e la Maiella, fu decretata città capitale degl’Italioti. Capua in un versante degli Appennini, Asculum Picenum nell’altro, tenevano acceso il fuoco sacro della libertà e dello affrancamento dall’Urbe. Si combatteva da parecchi mesi e vincevasi. — Ma Silla aveva preso Stabia per assalto, ne trucidava i difensori e metteva in fiamme le case e i monumenti. I Pompeiani vedevano quello strazio dalle loro mura; lo reputarono presagio della sorte che gli attendeva; decisero animosamente di difendersi, ed intanto di placare l’ira celeste con una espiazione solenne, offerendo sacrifizi a Giove, agli Dei maggiori e alle divinità inferiori e recitando preghiere, dette _obsecrationes_. Sotto la gradinata del tempio sono due buoi di manto bianchissimo; sette vacche ed un toro, grassi tanto che stentano a muoversi. Hanno le corna dorate, la fronte incoronata di fiori, ed il corpo cinto da una stola terminante con una frangia. — Un vittimario, nudo sino alla cintura, e coperti i fianchi da una stoffa di porpora, era presso ogni bestia, tenendola con una corda che le stringeva il muso e colla sinistra sosteneva un martello rotondo e a lungo manico che appoggiava sulla spalla. Taluno impugnava la scure invece del martello. Dietro di essi erano i _cultrarii_ ed i _popes_, aventi appeso alla cintura un grosso astuccio guarnito di parecchi coltelli. Alcuni fanciulli tenevano un vaso di bronzo con acqua lustrale e nell’altra mano un aspersorio come una coda di cavallo con manico ornato. Altri, una cassetta quadrata, piena di farina e di sale, per la consacrazione delle vittime. Vi erano anche i suonatori di flauto. Il Flamine si avanza e discende. — I vicini lo seguono. Dopo i magistrati vengono i collegi sacerdotali. — Essi erano coronati di rami di quercia. La processione — cui prende parte il popolo tutto — percorre le grandi vie della città e va verso le XII torri per sempre più animare i soldati che sono sopra le mura. Quindi il numeroso corteo — compiuto il giro — si approssima al tempio dalla diritta via della fontana di Mercurio. — I buoi erano già sul peristilio. — Vi ascesero i sacerdoti ed i magistrati. Gli altri taciti e pensierosi ristanno. Sotto quel portico elevasi lo altare dei sacrifizi: chè non immolavasi mai nello interno dei templi. Ghirlande di verbena cingono l’ara. Il Flamine si avanza. — Prende lo incenso dall’_acerra_ ov’era chiuso; lo spande sul _præfericulum_ e ne volge il fumo alla statua del re dell’Olimpo. — Quindi liba il vino in onore di Giano. Seguìto dai sacerdoti, entra nel tempio e saluta Giove portando la mano destra alla bocca. Voltosi a manca, fa lo stesso saluto alla porta. Quando gli altri lo ebbero imitato tutti si assisero nella cella e — racchiuso il capo nel lembo della toga per evitare distrazioni — ognuno prega a voce bassa o mentalmente. — Dopo alcuni momenti, il Flamine si leva, esce dalla edicola e grida alla folla adunata. — _Favete linguis._ — Raccomandato così il silenzio all’assemblea, si appressa allo altare, si purifica le mani coll’acqua contenuta in un vaso senza piede, detto _futilis_, e le asciuga con un tessuto di bianco lino. Allora i popi si accostarono colle vittime. — Ei le asperse di quell’acqua; gittò sulle loro teste farina e sale; e disse loro: — Sia addoppiato il valor vostro, perchè possiate, o buoi, essere accetti ai sommi iddii. — Impolverò lo altare di farina e di sale; così, i coltelli sacrificatori. — Spinse quindi leggermente la lama di uno di essi dalla fronte alla coda. Tagliò un ciuffo dei più lunghi peli tra le corna di un bue, lo gittò sulle fiamme, e disse, libando altro vino: — Sii aumentato per questo vino nuovo. — _Macte hoc vino inferio esto._ — E a ciascuna consacrazione di animale pronunciava il nome di Dio o della Deessa a cui faceva la oblazione. Così, offerì due buoi a Giove; due vacche a Giunone; due a Minerva, due alla Iddia della Salute pubblica; una alla Felicità; ed un toro all’esercito che difendeva il paese. — Quindi, voltosi al simulacro: — O sommo Giove, magnanimo e grande, se tu difendi questo tuo popolo devoto, se tu ispiri coraggio nei suoi difensori, se tu disperdi il pericolo che noi tutti circonda, in nome dei collegi sacerdotali qui uniti, noi ti votiamo due buoi dalle corna dorate. — Ed alla celeste sorella e consorte. — O Giunone, regina, accetta anche tu la preghiera rivolta al signor dell’Olimpo. Allora ti offriremo due vacche dalle corna dorate. — Così alle altre Iddie. Compiuto il rituale, un vittimario a lui si accosta e dice: — Posso? — E avendone ricevuto l’ordine, scaglia violentemente un colpo di martello sulla fronte del bue. Questo vacilla sui piedi e cade. — Gli accoltellatori lo ghermiscono per le corna e gli cacciano l’acuta lama nel cuore. Il sangue sgorga nella patere di bronzo, gorgoglia e fuma. Il Flamine ne raccoglie con una patella e lo gitta sullo altare dei sacrifizi. — I _jecurarii_ aprono il ventre della vittima, e poi che gli auguri hanno trovato in perfetto stato le viscere, la scuoiano, la spezzano, e mettono in un solo paniere le gambe ed il cuore che, impolverati di farina d’orzo, presentano al Flamine. Le fiamme sacre accolgono la parte del Dio e la consumano. Come quel bue, così vengono uccisi, sparati e divisi il toro e le vacche. — E nell’atto i suonatori di flauto non cessano di far echeggiar l’aere dei loro fischi acuti e discordanti. Il Flamine-Diale terminò la cerimonia con una invocazione a Vesta e disse agli assistenti: — _I licet._ — Voi potete ritirarvi. — Allora un sacerdote di Venere se gli accostò e lo richiese: — Noi versiamo in grave periglio. La escita dalle mura è impossibile. E dove ritirarsi? Se Silla entra qui..... e vita e tesori. Tu i cui capelli e le cui unghie son sacre, non avrai la persona rispettata da quei crudeli. Tu che hai la porta della casa ornata di lauri; e se un uom di delitti vi penetra, si è obbligati scioglierlo dalle catene e gittarle dallo impluvio nella strada. Tu che impedisci uno schiavo sia fustigato, se giunge ad abbracciare le tue ginocchia,.... di’, credi tu alla influenza di Giove nello allontanamento dei mali che ci minacciano? Il Flamine guardò fiso il compagno, e veramente non sapea che rispondere. Era la prima volta che una simile interrogazione veniva innanzi alla sua mente, in faccia al grave e certo pericolo. Egli era tal uomo, cui un misterioso sentimento di adorazione fa vedere in un paesaggio, ove avanza con passo distratto, un tempio che lo ritiene; il cui orecchio risuona d’ignoti rumori; sorta di musica spirituale che innonda l’anima di gioia segreta e l’apparecchia a consolanti apparizioni. Il suo cuore appetiva la pace: ma sentiva il morso del dubbio nella liturgia che amministrava. Il mondo futuro lo intravedeva in una nube caliginosa ed oscura; ed avrebbe assai volentieri fatto sommessione a colui che lo avesse posto sur una via semplice e certa che nel fondo ha la statua della fede trionfante. — Ma se non Giove, e chi? — Un sorriso ironico e doloroso sfiorò sulle labbra di Anchario, il vecchio ministro nel tempio di Venere. Da molti anni e lunghi egli seguiva i sogni di una fede impossibile con pratiche misteriose. Le bizzarre confidenze tra la Iddia seduttrice e la carne sedotta erano le invenzioni furbe della sua mente. Finchè la gioventù e la forza lo tennero, lo interesse, il lieto vivere e le grossolane delizie arrestarono la coscienza del vero sulle sue labbra impudiche. Quando le cose vive partirono da lui sulle ali larghe e fugaci, ei si vide sprofondato nel vuoto e deposto sur una landa arida e nuda. Siccome Vulcano, era caduto dall’empireo nella pozzanghera di una fede zoppa e sciancata. — Lo arcano ch’è nei cieli consola la mia tristezza e si fa mio custode da che mi vidi spostato dal mio antico sostegno. — Giove, Giunone, Venere, Marte sono i sacri luoghi comuni della vita, e gli sfato. — Un Dio solo è lassù che la realtà non offende. — — Ma credi tu che a noi pensi e provvegga alla nostra salvezza? Il canuto pose la mano sul petto e rispose: — Io comincio a credere che in noi esista e ci faccia arbitri delle nostre sorti. — Quando il popolo romano volle, vinse; e non gli Dei combatterono per lui. — Quando tu, schiavo delle abitudini sociali di questi tempi, vuoi escire dall’audace immoralità che ne circonda, sprigiona lo accento eroico del cuore e vincerai ogni disperata ventura. — Fida in me. — La morte mi fa già i suoi segni e può rendermi libero da un istante all’altro. Allorchè i nostri soldati e la gioventù popolana combatteranno sulle mura..... e i Sanniti ci aiutino..... saremo salvi dalla sventura che ci soprasta. — — E gli Dei? — — Gli Dei — sgombere le tenebre del nembo ruinoso — gli rivedrai impassibili sui loro stalli di marmo, innanzi le lampade votive e tra i vortici del fumo delle pelli bruciate. — I due Flamini si divisero. Il più vecchio pareva avesse sedato le agitazioni del cuore. — Il più giovane si avviò verso la sua casa costernato e dolente. — Incontrò il popolo che raumiliato dallo infortunio correva dall’un tempio nell’altro per offerir voti e preci agli Iddii salvatori. E lo salutavano riverenti, ponendo la mano destra alla bocca e baciandogli il lembo della toga. Un solo sentimento tutti occupava — la processione espiatrice. — Drappelli di giovanetti di ambedue i sessi — _patrimi e matrimi_, perchè nati di sangue equestre con padri e madri viventi — di forme bellissime, schierati in ordine e coronati di fiori, cantavano inni sacri. E i magistrati gli seguivano come lui avevano pur dianzi seguito. — Ma quella turba la vedeva come fantasmi. Le realtà della vita — preoccupato com’era — pareano lontane lontane dal suo corpo angosciato. Egli abitava in una delle ultime case della via che ha la fontana dalla testa di Mercurio nel mezzo. Quando udì dalle mura una voce cui molte rispondono: — Soldati, all’armi!.... Ecco Silla colle legioni..... sangue sannita e greco vi scorre nelle vene. Venere Fisica vi protegga! — Difendete gli altari, le vostre donne, i vostri figli..... l’onore del nome. — Ma le legioni romane non attaccavano la città. — La cavalleria foraggiava nelle campagne vicine allo Anfiteatro e sollevava un nembo di polvere sotto le zampe dei cavalli. — E un altro grido ben presto scoppia dai petti agitati: — È Cluvenzio, il generale dei Sanniti che giunge. — Marte gli arrida. — Viva Vitelia, madre alla patria e ai suoi difensori! — Silla si sentì insultato dallo ardir di Cluvenzio. E rapidamente move innanzi al nemico. Questo riceve l’urto poderoso e lo respinge con perdita. I Pompeiani escono dalla porta occidentale e da quella di Sarnus. Il generale romano che aveva rinculato verso il padule — ove tempo innanzi Cassinio rischiò di essere sconfitto da Spartaco, — raccoglie i suoi e li caccia alla riscossa. Il combattimento fu lungo e ostinato. Cluvenzio dovette piegare e ritirarsi. E lo indomani, avendo ricevuto un soccorso di Galli, profittava della lezione di audacia offertagli da Silla e ritornava sul campo ove aveva lasciato i suoi morti. Ma il suo competitore era tetragono in faccia al destino. Lo accoglie, lo preme nei fianchi, lo mira vacillante, lo siegue, lo raggiunge presso Nola, sfascia le sue ordinanze e lo uccide. Felicemente per Pompei, Silla volea il consolato nell’Urbe. Nè ebbe l’agio di soffermarsi per castigare i Pompeiani e i loro torpidi numi. Lo ardente pensiero lo spingeva a Roma per reprimervi la rivolta che vi aveva eccitato il tribuno P. Sulpicio, alla istigazione di Mario, suo emulo. Laonde condusse le sue legioni nel paese degli Irpini e nel Sannio, devastò Capua e non vi lasciò gente viva che la necessaria per la cultura delle terre. Spedì Publio Silla, suo nipote, a Pompei e lo pose a capo delle tre coorti di veterani, come corpo di osservazione. Ordinò che il municipio si convertisse in colonia militare — il che impediva che la magistratura potesse trattare alleanze politiche e private senza il permesso di Roma — ed impose un tributo in uomini ed in pecunia. La colonia s’ebbe due nomi: quello di _Veneria_, desunto dalla divinità protettrice della città; e l’altro di _Cornelia_, ritolto dalla illustre famiglia, cui egli apparteneva. I Pompeiani accettarono. — Non vollero però concedere i diritti di cittadinanza ai soldati a piedi e a cavallo che formavano le tre coorti. — Il nipote inalberò. — Accaddero risse, turbolenze, disordini. — Publio venne richiamato; fu difeso da Cicerone. Quindi assoluto. — Ma i coloni militari dovettero abitare fuori della città nella parte occidentale. Si costruì per essi un sobborgo che ebbe nome di _Pagus Felix_ e li comandò il valoroso generale Ninnio Mulo, di cui Silla aveva stima ben meritata. Cotesti avvenimenti erano giunti in buon punto per una classe di sacerdoti, i meglio austeri nelle forme, i più destri nel maneggio della cosa religiosa. Erano i ministri di un culto — e più che di un culto — di una setta misteriosa sorta sulle sponde del Nilo, da Orfeo trasportata in Eleusis e dai Greci introdotta in Pompei. Esercitavano le cerimonie comuni e vi aggiungevano pie frodi ed oracoli meditati dalla dottrina e dalla prudenza, e maniere gravi e gentili che incutevano soggezione e rispetto. Nel tempio — uno dei più completi e dei più ricchi che fossero in Pompei — era una edicola isolata — non lungi dallo altare dei sacrifizi — coperta al di fuori di eleganti bassirilievi di stucco, rappresentanti Marte e Venere, Mercurio e una ninfa, delfini, genii ed amori con sacerdotesse e donne che pregano. Al di dentro era la scala per cui si scendeva in una cripta, ove gl’iniziati ai misteri — pria di subire le loro prove fisiche e morali — toglievano il bagno di purificazione. Dietro il santuario stava la grande sala alla quale cinque porte ad arco concedeano lo accesso. Colà penetravano i soli iniziati che accomunavano le loro preci, le loro esortazioni, i loro canti e le loro processioni solenni. Pitture squisite ne decoravano le pareti. E tutte eran simboli di cose strane ed ignote. Sopra il santuario — sollevato dal suolo e disposto nel fondo del peribolo, circuito da un portico di colonne doriche — posava la statua della iddia, di bianco marmo, dagli occhi, dalle ciglia e dai capelli rossi, dal peplo indorato; il cui corpo ignudo era coperto da un velo finissimo — collantesi sulle membra — e di una leggera tinta di porpora. Nella mano dritta stringeva un sistro di bronzo, e coll’altra, distesa lungo la coscia, tenea la chiave regolatrice delle inondazioni del Nilo, simbolo dell’abbondanza e della fertilità. Quella Iddia avea nome Iside — cioè — chi fu, chi è, chi sarà. Nessun mortale osò levare il velo che copria le sue forme. — Il solo Apuleio nè parlò a modo di enimma quando scrisse: — «Mi accostai ai limiti della morte. Calpestando co’ piedi la soglia di Proserpina, ritornai a traverso ogni elemento. Nel mezzo della notte parvemi che il sole splendesse di viva luce. E mi trovai in presenza degli Dei supremi ed infimi e gli adorai da presso.» — Sembra che i misteri isiaci fossero di tre gradi — la purificazione allo ingresso della tomba — il giudizio dei morti e la dottrina di una vita futura — la contemplazione del lume eterno nell’essenziale e nell’universale. — Gl’iniziati subivano quattro piccole prove e tre grandi. Il sublime segreto doveva essere la virtù e la saggezza che colla ipocrisia seduceva i profani, col volgo ingannato domava la forza brutale e tendeva al dominio della terra colla redenzione dello spirito umano. L’oracolo della Iddia aveva tardato a rispondere. Finalmente aveva detto: — «Il popolo compirà la sua missione di giustizia e di carità. E la città sarà salva. Si presti fede alle mie parole.» — Lo aspetto dei sacerdoti non avea nulla di timido e d’incerto. I loro occhi neri, brillanti sopra i candidi lini che li coprivano maestosamente, ispiravano una tranquillità profonda che afferrava la coscienza degli accorsi in folla nel tempio. E quando giunse il nuncio che il paese era salvo e le bocche entusiaste lo ripeterono in ogni canto, i doni alla egizia deità furono ricchi e copiosi. E il credito dei suoi sacerdoti crebbe a cento doppi. Dissipate le paure, il popolo — semi-osco, semi-etrusco, semi-greco, semi-latino, tutto meridionale — si diè alla più grande allegrezza. E i Luperchi — i Flamini del dio Pane — una gliene prestarono delle più bizzarre e delle più originali. Sui clivi del Vesvius erano caverne grigiastre, di cui le antiche eruzioni di lava — che non eran più nella memoria degli uomini — avevano formato le volte ruvide e spugnose. Quivi essi abitavano. Erano sozzi, selvaggi, brutali, inintelligenti, e vivevano ignudi in ogni stagione, ed erano in venerazione presso i campagnuoli, perchè nunciavano i cangiamenti della temperatura, guarivano gli animali e predicevano i buoni ricolti e i rovesci di pioggia. I villici — omai salvi dalle scorrerie degli amici e degli inimici — corsero ad essi e li trovarono russanti nei loro spechi sul fieno. Entrarono in un rustico tempio formato da quattro alberi forcuti e coperto da una tettoia di radiche nere di lupini. Il loro dio Pane era una mostruosità fatta di legno coll’accetta. Gl’immolarono una capra ed un cane. Si tinsero del loro sangue caldo la fronte. Si unsero il sudicio corpo col grasso delle due bestie. Ne cucinarono sui tizzoni le carni e ne mangiarono a furia con feroci smorfie di gioia. — Terminato il sacrificio espiatorio, tagliarono le pelli ancor sanguinose e di alcuni pezzi si cinsero i fianchi e di alcuni brandelli fecero fruste per allontanare i curiosi sul loro passaggio. Così corsero a slascio pei campi e nelle vicinanze di Pompei. Urlavano inni in una lingua ignota e frustavano, correndo, quanti incontravano. Le donne particolarmente si facevano loro innanzi per aver parte di quella flagellazione; avvegnachè in quei tempi credessero come la staffilata di un Luperco avesse la virtù di cangiare in prolifica una donna sterile. Siccome ai nostri tempi pur credono la stessa virtù nel cordone che cinge i lombi non casti di un frataccio da zoccoli e da cappuccio. — Più d’uno però che si permise una brutta distrazione, vacillante e vagellante, se ne andò anzi tempo _ad canes_. — I devoti ch’esercitarono quella pratica liturgica sui crani e sulle costole di quei bipedi senza ragione, scavarono una fossa sotto un albero da frutto e gli fecero utili mal loro grado. In quel giorno di abbandonata gioia non si guardava sottilmente alle cose. Ognuno occupavasi a suo modo delle proprie devozioni. — E nel vero, eravi di che. I preti — oltre i parecchi fani, fatti erigere sontuosamente dai decurioni col denaro del popolo — oltre i _Dii patellarii_, ch’erano i Lari delle case, adorati alle calende, agl’idi, alle none, nei dì di festa ed anche ogni giorno — avevano ispirato le genti bietolone — che formano la maggioranza nell’umanità — ad erigere altari agli Dei pubblici, agli Dei ignoti — pel comodo della plebe, pei bisogni degli stranieri — sulle crocivie. — Gli è perciò che furono chiamati Lari Compitali da _compita_, crocicchi. — Cosa fatta capo ha. — Napoli, Palermo, e le città minori dell’ostro avevano pure in questi giorni i loro Compitali sur ogni strada, sotto la forma di donne o di uomini lividi e sanguinosi. I loro padri abbatterono furiosamente la idolatria e fecero calce delle statue di Giove e di Marte; e con quelle di Venere e di Mercurio fusero campane. I loro figli ristabilirono l’antica fede. Ma, avendo perduto la nozione del bello, adorarono le mostruosità, e, non ha molto, accendevano i lumi ed appendevano gingilli d’oro e di argento su quanto di più brutto ed osceno veniva fuori dallo scalpello di un Lupercale. Consultato il divo Apollo sui sacrifizi da offerirsi ai Lari Compitali, il feroce prete — che trovossi alla instituzione di quel culto — rispose per lui — _caput pro capite_. — Allora Tarquinio pose sui piccoli altari capi mozzi di miseri bambini. Giunio Bruto, dopo la cacciata di quel tiranno, tradusse meglio l’oracolo ed offerì teste di aglio e di papaveri. Più tardi gli fecero lieti dei primi fiori delle stagioni. — In Pompei eravene uno presso la fontana del Lupo, più in su della bottega del lattaio, che ha per insegna una capra di terra cotta. Era dedicato al padre dell’Olimpo. Gli altri Lari — protettori dei quatrivi e delle strade — si dicevano figliuoli a Mercurio e prodotti dalla ninfa Lara. E i loro altari — oltre allo aver banchi di riposo pei viandanti — servivano altresì di asilo ai rei perseguitati. Laonde Plauto narra nella Mostellaria come Tranione temendo di ricevere da Teuropide i colpi che aveva sì ben meritati, si assise sul Compitale dinanzi la casa di lui. E Properzio canta _Triviae lumina ferre Deae_, di Cinzia che correva a portar lampade sugli altari di Diana Trivia. Il selciato aveva perduto le sue tristezze. — Nell’odissea di quel giorno faceva le parti dell’Oceano. — Salti, gridi, rumori per tutto. Ogni _impedimenta_ diveniva tribuna. Ogni Compitale, teatro. E gridavano: — Trionfo, trionfo! Marte e Venere Fisica ci salvarono! Giano aprì la porta dell’Olimpo e fece escirne gli Dei soccorritori. O Lari, accordateci pace e protezione. Onore ad Iside e ai suoi sacerdoti. Trionfo e gloria agli Dei immortali! — E lungo le vie, e nelle _pistrinae_, e nelle _popinae_ — dovunque era scolpito, od in terra cotta, il simbolo del Dio degli orti — le facili e proterve fanciulle intessevano corone di rose e di frutti e le inchiodavano come cornice intorno a quel segno della forza muscolare, dell’abbondanza, della ricchezza della natura. Ed un uomo opulento, — M. Epidio Prisco, poco più innanzi della fontana di Venere, gli sacrificò un asinello, le cui carni servirono la sera al banchettare gioioso degli schiavi in una taverna. Intanto l’angiolo delle ore estreme, raccolte le sue ali sanguigne, correva con passi frettolosi sul campo della offesa e della difesa. Alle grida della battaglia erano succeduti flebili lamenti — appello lontano ai loro cari di quei feriti che la Morte pietosa baciava sulla bocca per soffocarvi il dolore. — La terra era spogliata di ogni suo riso. Il sole cadeva. L’ombra uniforme spargevasi su tutto. — Membra mozze — carni stracciate — sangue aggrumito e nero. — E sopra la faccia della penisola, il pensiero degli Italioti — oltraggiato, ma non defunto — attendendo per secoli l’ora della grande vittoria. Epidio Rufo Italico — il figliuolo di Prisco — fu trasportato nella casa paterna — quella dal lungo podio sporgente, sormontato da una ringhiera di ferro che dalle estremità menava alla porta mercè le due gradinate a rivolta. Acte gittò un grido e semispenta lo strinse al suo cuore. Egli premè convulso gli occhi e le pallide guance di quell’afflitta, girò lo sguardo intorno alla camera piena di memorie, di tenerezze e di singhiozzi, ov’erano il padre, la sposa, la felicità dei suoi giovani anni. E stringendo colla mano il petto piagato, prosciolse le membra. — Aveva dato lo eterno vale al padre in lagrime, alla sposa svenuta, alla felicità morta! LA CAMPAGNA. SCENE DELLA VITA RUSTICA. =Anni di Roma 695 — Anni avanti il Cristo 59.= A GIUSEPPE GARIBALDI. II. Re Gige reputavasi lo avventurato tra i mortali — Per meglio assicurare la sua fede, interrogò l’oracolo di Delfo. Nè dubitava di una lieta risposta. — Di’ il nome del più felice fra gli uomini. — — Due nomi; non uno — Fedio ed Aglao. — Piccato nel vivo, mandò attorno i suoi consiglieri. Spedì messaggi per ogni dove, affine di rintracciare quegli ignoti individui che nel paese nessuno conoscea nè di persona, nè di nomèa. Dopo molte ricerche il re venne a sapere, che Fedio era morto, difendendo dai prepotenti il sacro suolo della sua patria; e che Aglao ancor viveva in Arcadia, coltivando colle sue mani un povero campicello, lasciatogli dai suoi padri. L’oracolo volle significare a quel re, la felicità non essere chiusa nei forzieri d’oro, nella corona gemmata, nelle braccia di una donna amica e nel numero grande degli adulatori alla fortuna, — sibbene, nello esercizio dei doveri di un cittadino, quali sono precipuamente, servire il proprio paese e coltivare il suo campo. Se in Roma fosse il culto del vero Iddio, e si compiacesse rispondere oracoli, ed un re gli chiedesse il nome del più felice tra tutti gli umani, risponderebbe: — Giuseppe Garibaldi! — Ebbene! — I nostri avi gloriosi vivevano la sua vita in Caprera. Compiuto lo ufficio di consolo, di senatore, di duumviro, di decurione, di pretore, di edile, di questore, di tribuno di soldati, correvano ai piaceri della vita campestre; circondati da uomini laboriosi e contenti, vedeano coronate le modeste fatiche da una ricompensa sicura; godevano la tranquillità e la pace in seno di una famiglia felice; sfatavano le brighe che traggono seco notti affannose; studiavano ad un tempo la natura e le arti; e terminavano la loro carriera, o nel bacio degli affettuosi figliuoli, o cogli occhi irradiati dalla vittoria sul campo di battaglia della repubblica. Due uomini montarono a cavallo — salendo sur un sasso elevato sull’orlo della via, come di aiuto — allo escire della porta di Herculanum, in Pompei. L’uno era giovane e l’altro nella piena maturità. — E siccome il cielo annuvolato minacciava la pioggia, eransi avvolti in una veste di pelle detta _scortea_ e sul capo avevano il _petasus_, berretto a larghe ali. — Di qua e di là della via erano vigne, olivi, pioppi, ciliegi, mandorli e fichi. Lo aspetto di una ricca cultura e del fertilissimo territorio offeriva uno spettacolo maraviglioso. — Sì. — Ho deciso. — Quei coloni non mi vanno. Gli è vero che tutto è a loro rischio e pericolo. Ma per fornirmi delle legna convenute, mi tagliano il bosco che io stesso piantai. I primi frutti raramente li portano in casa. E i denari del fitto a centellini. — Il lustro scade. Siamo presso alle calende di marzo. E ritoglierò la terra per conto proprio. — Credo, anche lo agente che tu mandavi sul luogo per raccogliere le parti di frutti convenute, ti fosse mal fido. — Gli è che ognun tira l’acqua al suo prato. — Ben dici. — Ma gli schiavi — razza incurante e onerosa — che colà impiegherò, converrà sorvegliarli. Al mio vicino lasciarono deperire il gregge; e i buoi e le vacche ed i muli li affittavano a chi loro li chiedeva. Per abito, quei pigri coltivano male, lasciano rubare le uve, o le rubano per sè. E sul registro segnano minori quantità di grano raccolto e più semenza di quella impiegata. — Come regolare la cosa? Di uso se ne seminano da quattro a cinque _modii_ per jugero, secondo la bontà del terreno. E il ricolto è diverso se si semina in autunno o all’appressare del verno; se in un tempo umido, od in tempo secco; e secondo la pioggia abbondante o la neve. — Le visite le faremo frequenti — _Frons occipitio prior est_. — È proverbio trito. L’occhio dello schiavo non può valer quello del padrone. — E perciò leggeva l’altro dì nel trattato di Agricoltura di Magone, il cartaginese: _Qui agrum parabit domum vendat_. — — _Est modus in rebus._ — Senza abbandonare la città, e i propri uffici pur doverosi, e la educazione dei figliuoli, si può allontanare il grappolo guasto dal sano e non permettere che la incuria — a conti fatti — costi più della debita oculatezza. Imperocchè, siavi un adagio non meno vero dello accennato poc’anzi, il quale dice: _Laboriosior est negligentia quam diligentia_. — I cavalli si posero al trotto. — Un aquazzone irruento per pochi istanti calmò ben presto la nuvola di polvere che le zampe ferrate agitavano. Rimessisi al passo, il più anziano proseguì: — Dio Pluvio, invece di offenderci, ci giovò. Ed è tutto un beneficio di lui su queste terre, composte di pomici infrante e di ceneri, vomitate in tempi remotissimi dal vecchio Vesvius. — In continovo accordo col dio di Delo, noi abbiamo fertili e prosperosi i campi di ogni bene e di ogni delizia....... Non credere già, o mio Lucio, ch’io voglia condannarmi, o condannarti a viaggi troppo frequenti ai raggi della canicola. Farò la scelta di un onesto _villicus_ che il buon vecchio Coecilio Casella mi proporrà; e cotesto schiavo dirigerà in capo, sotto i miei consigli ed i tuoi, i rustici lavori. Mi ha pur promesso un valente _promus_ per la fattura dei vini. Quelli avuti sinora sono dolciumi che guastano lo stomaco. — Voglio del buon falerno che a dieci e a quindici anni consoli. — E del surrentino, adatto ai convalescenti. — E di quello di Cales, leggero e profumato. — Ed il cecubo secco, generoso e confortante. E quello eccellente di Setin, il quale possiede le più notevoli qualità digestive. — Ve’, padre, la bella casa che sorge ridente sul pendìo del colle — Non parmi vi sieno colonne, nè portici. — Oh! Una sola statua. — Sì, figliuolo mio. Una sola — quella della Libertà, dallo sguardo aperto, dalle braccia robuste, dalla prestanza di tutte le forme. — La situazione che tu ammirasti attira l’attenzione; e la vastità dei campi allo intorno annuncia la ricchezza di chi li possiede; e l’un delubro rivela i nobili pensieri del cittadino che presso dimora. — È Casella il suo nome, il vecchio amico che tu non conosci, perchè non abita più la città. Egli fu _Meddixtutticus_, il primo dei magistrati municipali quand’io era pur giovanetto. Era stato _suffectus_, succedaneo al comandante gli eserciti ai tempi che furono. Quindi egli stesso ordinò le battaglie a difesa ed a gloria del nome sannita. Ha l’animo austero che conservò la impronta dei tempi. — Comprendo io bene un vecchio generale che si toglie dallo sguardo del popolo di altra età e che pure è costretto a rispettare; che si sottrae dalla folla dei clienti importuni; e coltivi nel suo pacifico ritiro; e si circondi di una numerosa famiglia di schiavi — ricordo vivo del potere già esercitato. — Ma il repubblicano del mattino sarà il Tarquinio della sera su quanti lo attorniano. — Poichè siamo presso il viale che ver lui mena, andiamo. Voglio, senza risponderti, che tu lo conosca e lo giudichi. — Una strada ascendente, attelata da pioppi italici e da una siepe di albospino, aprivasi da un cancello di legno, presso il quale da un lato era una camera per l’_ostiarius_ e dall’altro un simile fabbricato in _opus recticulatum_ — ossia muratura a scacchi di tufo, riquadrata negli angoli da mattoni sopraposti — che aveva la iscrizione a grossi caratteri rossi CAVE CANEM e sotto, la stia, dove abitava lo incatenato ed abbaiante molosso. Per essa i due si avviarono al galoppo. — Giunti presso il simulacro della Iddia colà venerata, smontarono ed il maturo diè ordine allo schiavo accorso di menare i cavalli nella stalla, mentr’essi sarebbero iti a sorprendere il suo padrone. Nelle diverse aiuole piene dei fiori della stagione erano viole, mandorli a fior doppio, rose di Preneste e giacinti. Più oltre era un largo bacino, circondato da zolle erbose e pieno di acque limpidissime, incanalate da una sorgente lontana. Dai verzieri coronati di bosso si andava verso il bosco e si scendea nell’orto. — Colaggiù, curvato dagli anni e dalla specie di lavoro che allor lo occupava, era Coecilio Casella, presso il quale i due sopraggiunti movevano. Al rumore dei passi sulle sabbie crepitanti, il vecchio levossi; e riconosciuto lo amico, corsegli incontro e abbracciollo. — O mio Vestorio Tucca, salve — _Si tu vales, et ego valeo._ — Raccoglieva baccelli pel mio desinare. — _Gratulor tibi prius. Deinde ad me convertar._ — Questi che mi accompagna è Lucio, il figliuol mio, il quale arde del desio di conoscerti. — Quel canuto baciò sulla gota il giovanetto; e, presolo per la mano, lo invitò col padre a sedere sur un banco di pietra. — Voi camminaste. — Io fatigai. — Ognuno acquistò il diritto di riposarsi..... quantunque per la mia età quel diritto io il tema invece di bramarlo. — Questi alberi che ci adombrano colle foglie nascenti, io gli piantai e gl’innestai di mia mano. — Vedi giù, davanti la _fructuaria_, dov’è quella fabbrica disposta intorno ad una corte? I miei giovani schiavi fanno buche presso gli alberi di olivo per seppellirvi ritagli di pelli, piedi e corna di animali — possente concime che si forma e mette tre anni a consumarsi. Ebbene! Essi raddoppiano di zelo allo aspetto di me vecchio, che divido i loro sudori e le loro cure. — Qui, nè tiranno, nè schiavi. Laonde lo stato di quei miseri più sopportabile. — Ah! tu sei sempre degno d’impero, perchè sapesti servire! — Il tuo figliuolo osserva, con vagante e smanioso sguardo, le varie culture della mia villa. — Giacchè il sole ci volge i suoi tepidi raggi, permetti che a lui — non indifferente — mostri le occupazioni mie e dei miei servi, ed i risultati che ne otteniamo. — Grazie, o mio, della somma bontà che ti muove. — Ho molto caro che Lucio apprenda da tanto esempio — non la cultura dei campi soltanto — sibbene la virtù del tuo carattere antico. — Qui sopra, o amici, è un colle, bene esposto all’oriente, ove cresce un vigneto delle specie migliori. — Non tutte erano nostrane. — Ora sì, mercè le mie cure. — Andiamo a vederle. — Sbottonano già. — E lo adusto vecchio, appoggiandosi al braccio di Lucio, seguitò: — La vite annosa si piace appoggiarsi su giovane olmo. — E anch’io così. — Però, ti prego, non affrettare i tuoi passi, com’io non allenterò i miei. Cercheremo riescirci gradevoli, quantunque Lucina non assistesse lo stesso giorno al parto delle nostre madri. — Faremo bugiardo il proverbio che dice: _Pares cum paribus facillime congregantur_. Mira! Cotesta strada larga che noi ascendiamo appellasi _cardinal_ con parola etrusca, perchè taglia il terreno dall’ostro al settentrione, verso i poli del mondo. Le vie traversali si chiamano _decumanus_. — E sono sì larghe, perchè i carri non abbiano difficile il passo in tempo della vendemmia. — Laonde, lo aspetto intero di una vigna si presenta distribuito in regolari quadrati, detti _hortus_, cioè giardino. — Ciascun gode di una divisione siffatta — il padrone che sa le piante egualmente esposte al sole ed al vento e con facilità può sorvegliarle — ed i servi, che veggono ad ogni colpo di vanga accelerarsi il termine del proprio còmpito. — Ogni _hortus_ contiene cento cinquanta viti ed è largo un mezzo jugero quadrato. Le propagini si attelano in _quincunx_ e traversalmente alla ascensione del terreno, a fine di mantenere le terre ed impedire alle pioggie ruinose di cacciarle tutte nel piano. Alcuni fanno crescere la vigna sui pioppi come nella Campania; altri sulle canne come in Arpinum; altri su pali tenuti insieme da corde di crine, come in Brundusium; altri sugli olmi come nella Emilia; altri su brevi pali, come presso i Maruccini e i Peligni; altri aggioga i tralci tra un albero e un altro, come presso i Piceni e i Galli-Cisalpini; altri la lascia sdraiata per terra, come nell’isola Pandataria, ma di tal modo mangiano il suo frutto le volpi, i ratti e i coltivatori assai più che il padrone. — Io, come vedi, uso la forca, che è quel palo fisso nella terra perpendicolarmente, su cui posano in traverso altre pertiche che la vite abbraccia coi suoi viticchi. Così godo di due vantaggi in una volta — il terreno caldo e secco è riparato dai raggi ardenti del sole — ed i grappoli maturano meglio e fruiscono di una ventilazione salubre. Gli Etruschi tagliavano la vigna nel marzo. E gli Osci, padri nostri, l’appresero a fare nel dominio dei primi. I Latini la lasciavano libera e ne ottenevano un liquor fermentato che inacidiva ben presto. Re Numa, per costringere il suo popolo a praticare il buon sistema, dichiarò in una legge come ogni libazione fatta con vino prodotto da vite non potata fosse orribile sacrilegio. — Agl’idi di maggio io faccio spampinare poco innanzi la fioritura. E rinnovo la operazione — qui che fa caldo — quando il grappolo è formato. E i miei servi vangano e concimano il vigneto due volte l’anno al levarsi delle Pleiadi — quando tolgono i primi pampini e rimboccano il ceppo con letame paglioso e un po’ di sale — e allora che i racemi imbiondano e anneriscono. — Una volta, o Casella, due curiose specie di uva, che la industria ti aveva additato, qui mi mostrasti. — Ne mangiai e ne ho lieto ricordo. — Sii cortese nel farne motto al mio Lucio, che è tutt’orecchi per ascoltarti. — Tutto l’_hortus_ superiore, ch’è di prospetto, è composto di tali viti che danno il buon da mangiare. — Ecco come io mi vi adoperai. Presi quattro ramicelli di diverse specie, delle qualità migliori. Li ligai forte e li cacciai in un tubo di terra cotta, lasciando due soli bottoni fuori. Quindi, in una fossa, ricoperta di letame. — Corsi due o tre anni, quando mi avvidi che i ramicelli eransi collimati insieme e formavano un solo stelo, ruppi il tubo in cui era chiuso, lo piantai nella terra ed i grappoli che ne colsi a suo tempo offerirono chicchi di sapore e di colore svariato. Operai anche nel modo seguente. — Spaccai una margotta nel mezzo in tutta la sua lunghezza. Ne trassi il midollo. — Collimate le due parti, le legai strette senza offenderne i getti. La piantai nella terra letaminata e l’annaffiai spesso. Ed il frutto che ne mangiai non produsse mai acini. Coteste operazioni sono divertimenti, o Lucio, e non entrano nell’ordine della cultura. La specie buona s’innesta — ecco il modo di propagarla, e trarne pro. Ora ti nominerò le migliori qualità ch’io posseggo. L’_amminea_, i cui grani sono coperti di fine lanugine. È della stessa specie la _gemina_, perchè i grappoli fioriscono a due a due. — La vite di Nomentum è molto feconda. Ve n’ha di due sorta. Una la chiamano _rubelliana_, perchè il suo legno è rossastro dentro. E l’altra _feciniana_, perchè il suo vino dà sedimento copioso. Ho una moscatella; che pur dicono uva _apia_, perchè ricerca con amore da quegl’insetti che ce la rendono nel verno col loro mele odoroso. Un’altra uva dicesi _uncialis_ dal peso dei suoi grossi chicchi. Nel recinto che qui vedete ne coltivo più di ottanta specie svariate, che riunite nel tino danno squisitissime qualità di vino. — Che più? Nominartene una per una fa lungo il discorso ed inutile. Sarebbe lo stesso dirti il nome di ciascun granello di sabbia agiti Favonio. Ti basti che ne ho di Chio, di Thasos, di Spagna, della Rhezia, di Sicilia e del paese degli Allobrogi. — Ora, ridammi il braccio e scendiamo a vedere l’oliveto. — Lucio era incantato della semplicità di quel vecchio illustre e della bonarietà che spiravano le sue parole. — Si sentiva superbo di essergli al fianco e pensava quanti in Pompei gl’invidierebbero una tanta fortuna. — Tu, o Vestorio, avrai detto al tuo figlio come quegli alberi cui ci avviciniamo ed ai quali i Greci attribuirono una origine celeste, fossero stati qui da essi portati. — In Italia non v’erano. Anzi, nell’anno di Roma 505, una libra di olio valeva dodici assi. Ed oggi ce ne danno dieci per un asse. — V’è chi ha scritto, vi è pur chi dice che quelli che piantano ulivi non ne veggano il frutto. — Errore! — Ecco, siam giunti. — Vedete i grossi alberi! E tutti da me piantati. — Antestio, gli ulivi che piantammo gli ultimi, da quanti anni messi sotterra? — — Mio buon padrone, nell’anno del tremuoto........ ed in cui partorì la mia figliuola. Giunti al quarto mese della germinazione, sono cinque anni. — — Vedete, amici, sono cinque anni, e già compensano le nostre sollecitudini! — Antestio, togli un ramicello delle tre qualità migliori commestibili. — Vo’ che le osserviate da presso..... Questa dalla foglia larga ed argentea al di sotto viene di Spagna e perciò ai suoi grossi frutti diamo il nome di _orchites_. — Dapprima li ponghiamo in un bagno caustico, composto di acqua stillata dalla calce e dalla cenere. Tratto tratto si esaminano tagliandone la polpa col coltello. Appena si scorge il punto che il ranno è arrivato a mordere, le olive si tolgono e si lavano con acqua pura. Indi si tornano a maturare nella salamoia, formando sopra uno strato di steli e di fiori spezzati di finocchio salvatico. — Queste dalle bacche più larghe le chiamiamo _pausiane_; esse pure formano la delizia della nostra tavola nello inverno. L’ultimo ramicello appartiene ad Emerita, terra della Lusitania. I suoi frutti sono grossi e polputi. — Non abbisognano di salamoia. Basta esporli durante le fredde notti del decembre e del gennaio all’aquilone e divengono dopo una decade dolci come uve passe. — Poi, voltosi al monte, riprese: — Vesvius — creatore di questa deliziosa contrada e che talvolta, quasi schiacciasse col suo peso i Titani, freme e traballa — oltre le pomici, la pozzolana e quelle spugne rossastre di cui ci serviamo per fabbricare muri leggieri e soffitte, pare ci abbia pur dato una pietra dura quanto il granito. Me ne servii per molti lavori qui. — Or, sopra i crepacci della roccia eransi piantati di per sè alcuni caprifichi salvatichi, i quali portavano le loro frutta con maturità anticipata. Allora io piantai dinanzi fichi di qualità migliori. Perdona, o giovanetto, la parlantina di un vecchio che la vanità ha sorpreso sul declinare della vita. I miei coetanei sono lodatori di antiche cose. — Nè io son libero di quel difetto, se difetto è. — Ma lodo pure le nuove, perchè sono presso la natura che si rinnuova pur sempre. — Là a diritta ho una piantagione di peri. Mi danno frutta squisite. Ho la _decimia_ — la _dolabella_, che ha lungo il picciuolo — la _laurina_, il cui aroma somiglia a quello della corona degli eroi — la _nardina_, che ha l’odore del nardo — la _superba_, che chiamasi così per antifrasi, essendo la più piccina della specie — la _libralia_, che vien colta dopo i primi geli — la _veneria_, dedicata alla Iddia che a me sorrise e a te sorride benevola, detta così per la forma elegante e pei suoi vivaci colori. — I cotogni che miri in fondo, dai rami ricurvi dal peso che l’anno scorso patirono per la quantità dei suoi frutti pesanti, gli ho piantati per adornare gli altari dei domestici Iddii e per la loro fragranza. — Là, a sinistra, su quel terreno più fresco e più pingue, sono alberi di mele che sbocciano già le loro tenere foglie. Ve’ la primaticcia, che apre la fila. Poi la _sceptia_, che devesi ad un mio liberto. — Le più ricercate sono le _appiolae_ — le _claudiae_ — le _manliae_ — le _gestiae_ — tutte coi nomi di quei che le fecero primi conoscere. — Furono uomini egregi del vecchio Lazio e del Sannio; i quali, dopo avere condotto i soldati della repubblica sul sentiero della gloria immortale, tornarono come me alla onesta quiete dei campi d’ond’erano partiti. — Nessun piange o muore per queste loro conquiste. — Esse sono tutte ed a tutti benefiche. — E la pubblica riconoscenza gli nomina e gli nominerà quantunque volte gli uomini ricorderanno i loro frutti squisiti, fintanto che i padri trasmetteranno ai figli le due nobili lingue della libertà e della civiltà. — Il vecchio Casella, di curvo che era, sollevò baldo il suo capo canuto, e due cicatrici mostrò sulla fronte e sul collo. — Il giovane fu commosso da quello aspetto dopo quelle parole e strinse la mano al padre suo. Tre diverse fasi di sole erano in presenza — l’alba — il mezzodì — ed il tramonto. Ma tutte si coloravano di una tinta splendida ed ardente. — Lucio, dominato dalla fiera inspirazione dell’onore e della gloria, era grande, magro e un po’ stretto di spalle. Bruno e dai capelli naturalmente arricciati, aveva un fuoco negli occhi che rivelava gli entusiasmi del cuore. — Vestorio; di media statura e tarchiato e forte, aveva seguito la carriera delle armi ed era poeta come un valente uomo dev’essere; imperocchè il medesimo slancio solleva di terra — per trasportarle con ala possente verso un nume misterioso ed ignoto — la mente coraggiosa e la mente inspirata. Nei tempi di pace adempiva alla pubblica funzione di questore, che la elezione del popolo gli aveva dato. — Coecilio era un uomo di una forte razza, di cui non abbiamo che un solo modello ai dì nostri. Nè grande, nè piccolo di persona. Grave negli atti e nelle parole. Pari sempre alle varie venture della vita. E tutto lo aspetto raggiante di un velato e mesto sorriso che nessun pericolo, per tremendo che fosse, avrebbe avuto la forza di spogliarne il suo labbro. — La emozione di quei tre era come lo ardore profondo di un sentimento che appena facevasi sospettare al di fuori — Il vecchio fu il primo a parlare e disse, rivolto agli amici: — Visitammo abbastanza i piedi degli alberi, i miei sono stanchi. — Forse i vostri, no. — Pure, per tutti stimo conveniente il riposo. — Gli altri assentirono con un cenno del capo. Ed avviandosi verso l’abitazione, traversarono la parte ove si coltivavano i legumi. — Qui sono le piante nominali di famiglie illustri e che sempre più ci richiamano alla memoria la origine d’onde venimmo. I Pisoni derivarono da un coltivatore di piselli. — I Lentuli, di lenticchie. — I Fabi, di fave. — La cura dell’orto fu cura di uomini sommi che le istorie ricordano. — Qui, di fuori, non sono che gli asparagi che riportai di Ravenna. — Ah! pur vo’ mostrarti il luogo d’onde io traggo gli aromi. — Costì sono seminati il _libisticus_, che tien luogo della mirra — il _cominus_, la cui semente fragrante piace tanto ai colombi — la _nepitella_, il cui sapore mordente condisce le vivande. — Ma, andiamo a rifocillare lo stomaco, che ne ha bisogno. — Il triclinio di quell’uomo virtuoso era semplice come la sua persona. — La camera bianca di calce. Tre larghe finestre vi facevano penetrare il dolce tepore della stagione. Il sole era raggiante. La natura tutta chiusa in un suo pensiero di amore. — Dopo aversi lavato le mani e propinato agli Dei domestici della patria, si assisero attorno al desco, su cui fumava un pezzo di montone arrosto. Pane saporito, latte, mele, frutta ed erbaggi. — Il vino era mesciuto in coppe di terra di Nola, ornate di belle pitture. — Gli uccelli cantavano i loro inni sugli alberi vicini. Dopo una seconda abluzione si levarono dal desco. Ed andarono verso una stanza, ove trovarono il _librarius_, lo schiavo che tenea conto dei papiri e trascriveva quelli che Casella facea venir di Herculanum e di Cuma a prestito dai suoi amici. La camera era sopra un terrazzo elevato e la luce veniva dentro da spiragli praticati sul tetto e coperti da vetri. Tutto allo intorno era un armadio. E dentro, distesi su lunghe tavole, posavano le leggi, i plebisciti, i decreti dei magistrati e gli editti meglio importanti. Venivano quindi gl’istorici, i filosofi, gli agronomi. — Ieri piovve e ben tardi rasserenò. Laonde qui venni, cacciato dai campi. Pamphilo — questo giovane greco, che ora copia le opere di Catone — mi fece lettura per più ore del libro. — Io non saprò mai imitare quel saggio. — Vestorio si fe’ tosto a richiedergli: — Stupisco della tua severità. — Dinne a noi le cagioni. — — Catone studiò forte la economia e la volse all’eccesso. — In verità, i risparmi oculati dei cittadini fanno fiorente uno Stato. Ma non bisogna spingerli allo estremo. — Nè avaro — nè dissipatore. — Rammentati, o Lucio, che anche gli eroi sono soggetti a fallire. E i grandi uomini debbono continuo studiarsi, onde evitare che i loro errori non mangino la grossa parte dei benefici effetti delle immense loro virtù. — Immagina, Vestorio. Egli prescrive di menomare il cibo agli schiavi quando i fichi maturano e di niegare ad essi la distribuzione del frumento, quando pei campi e sulle siepi sono bacche che sappiano in alcun modo surrogarlo. — E raccomanda d’inviarli, quando sonosi fatti vecchi, al mercato, per non avere a dare alimento ad uomini inutili. — Ora comprendi ch’io non posso imitarlo. — Io ne ho alcuni, pieni di giorni al pari di me e sono tutti affrancati. — E, di abito, soglio ritardare di pochi anni — a seconda della loro laboriosità — la tonsura dei capelli e il dono del berretto frigio. — Ed oggi tu, magistrato, procederai legalmente allo affrancamento dei meritevoli. — Pamphilo, tu sai quali sono. Invitali a radersi le chiome e ad attenderci sotto il delubro della Dea. — Nobile amico! — Ecco le mie gioie e i miei teatri; lontano dal fracasso del mondo. — Lo attendere fu corto. Le grida di gioia ed un inno greco, cantato da giovani donne, annunciò ch’essi potevano discendere. Il primo ad essere fatto liberto fu Pamphilo. Coecilio gl’impose la destra sul capo e pronunciò: — Io voglio che questo uomo sia libero e goda dei diritti di cittadino. — Vestorio, poichè l’altro tolse la mano, gli toccò tre volte la testa con una baccetta. Allora, il padrone lo prese pel braccio, lo fece girar sui talloni e gli diè un piccolo schiaffo. — Ora sei libero. E possa giovarti la libertà che ti rendo per quanto ti fu grave la condizione in cui io ti conobbi. — Il giovane piangendo abbracciò il suo generoso signore. E questi a lui sussurrò brevi parole all’orecchio. — Quindi la stessa funzione fu praticata a favore di Sica, di Castricio, di Precilio, di Egypta, di Mustella, di Thalna e di Cerellia. La _vindicta_ era compiuta, allorchè Vestorio ebbe scritto i loro nomi sur una tavola incerata. Chiamavasi così, perchè Vindicio fu il primo schiavo cui in Roma venne conceduta la libertà per aver con generosa denuncia salvato le sorti della repubblica. — Ed allo schiavo si facea fare un giro sopra se stesso, per indicargli che quindi innanzi poteva andare dove meglio gli talentasse. Però tutti aggiungevano al loro nome quello dello antico signore e rimanevano aggregati in certo tal modo alla famiglia, divenendone clienti. Non potevano sposare nè la sorella, nè la figlia, nè la vedova di quegli che li aveva affrancati e si distinguevano dai cittadini nati liberi col coprire la testa del frigio berretto. Nelle pubbliche magistrature essi e i loro discendenti potevano aspirare soltanto al grado di maestri dei quatrivi e dei paghi, o di edili del popolo. Coecili Pamphilo, liberto di Casella, aveva portato un papiro. Ed il vecchio, svoltolo, disse a Vestorio: — Ecco il testamento nel quale ho instituito il mio erede universale. — Privo di famiglia, non voglio che i miei beni sieno venduti alle grida. — Alconte, mio schiavo, tu che per tanti anni mi accompagnasti nella vita fortunosa che insieme menammo, sii tu il mio _hæres necessarius_ e, per cotesto atto, libero. — Una gioia singolare circolò nelle vene degli adunati. Tutti baciavano il lembo della veste del vecchio. Ed egli, con dolce sorriso, assaporava la loro felicità nuova, come quel padre non ricco il quale coi suoi risparmi ha raccolto danaro bastante per mandare al ballo le proprie figliuole, vestite di seta. — Ora, ognuno torni alle proprie occupazioni. — I tre amici rimasero soli. — Ma dire le soavi emozioni sentite da Lucio durante la festa della Libertà, è impossibile. — Ed era ancora assopito in quei dolci pensieri, quando la mano di Coecilio lo scosse. — Ti ho mostrato il giardino e il pomario. Debbo ora condurti nel podere che dà il buono da nutricare questa mia numerosa famiglia. — Si avviarono a sinistra. — Per amministrare un campo a dovere occorrono tre cose — acqua — pascoli — e bosco. — Del bosco ho quanto basti. — Dell’acqua poco. — Dei pascoli a sufficienza pel mio bestiame. — Per vivere felice in campagna ne occorrono tre altre — purezza di aria — fertilità di terreno — e buon vicinato. — L’aria è balsamica — Il suolo è fecondo — I miei vicini siete voi, o Vestorio; e Lucio Tucca. — I due amici lo abbracciarono con affetto. — Io vergogno della vastità di questo podere. — Sono quattrocento iugeri di terreno. — Cincinnato possedeva un orto, e vi piantava cipolle quando vennero a nunciargli il popolo averlo nominato a suo dittatore. — Caio Fabrizio era padrone di sei iugeri di terra. — Curio Dentato, di sette — ... In verità l’onta mia rimanesi inosservata, quando molti altri posseggono assai di più. — Camminavano per campi pieni di graminacee e di rape salvatiche in fiore. — Noi calpestiamo ora il terreno che fruttò l’anno scorso. Lo farò arare a suo tempo, poi che abbia posato. Il terreno che colaggiù verdeggia mi darà nel mese di Cerere quel prezioso ricolto per cui si fa lieta la razza umana. — Andiamo là, ove Strobilo lavora coi buoi.... mirate i suoi solchi diritti!.... Bene... veramente bene! — .... Ehi! Strobilo, ti felicito.... Eguali tutti! Oh! non può dirsi che il bravo boaro _delira_! — Tu non esci dalla linea. — Lo aratore fu coi buoi presso il padrone. Gli volse e poi li fece posare per prender fiato; e colla destra teneva le redini e colla sinistra appoggiossi sullo stimolo di cui si serviva per eccitare gli animali al lavoro. — Io son lieto di poter appagare coll’opera mia l’ottimo dei padroni. — Hai altro a dirmi? — — Vanne, o Strobilo... e che Saturno ti aiuti! — Proseguendo oltre, si trovarono nell’aia e poi in faccia alla dimora dei coltivatori. Il _villicus_ fu primo a presentarsi. Gli altri erano tutti in movimento al nuncio che Coecilio era venuto da quella parte. I bambini, che ignorano le teorie dei riguardi e che amano chi li ama, usi alla di lui naturale bontà, gli corsero incontro gioiosi e gareggiarono per afferrargli le mani. — Egli li carezzò dolcemente; e poi: — Ebbene? Caro Cilindro, come va la bisogna? — Va! — Gli Dei ci concedono pioggia e sole. — Ho fatto seminare i fagioli e prospereranno. — Accompagnaci, se ti piace, nelle dipendenze della casa. — Vedi, Lucio, nella _equilia_ di contro erano molti cavalli una volta. Come belli i miei compagni nelle battaglie! Erano delle migliori razze d’Italia. E ricordo con piacere Signifer, Deceratus, Murrhinus e Pontifex, i due ultimi feriti insieme con me. — Ora non risponderebbero allo scopo. Preferisco i buoi e le vacche ai cavalli. — Andiamo a vederli. — Entrarono nella _bubilia_. — Ho molta cura del bestiame io. Mira che grandezza e che forza! — Ma così belli davvero! — Vestorio, ho corso il mondo cogli eserciti e in nessun luogo gli trovai belli ed adatti per la loro forza al lavoro come nel Lazio. E gli feci venire dal paese dei Volsci. — Che nobili corna! — Di simili buoi dovette far uso Annibale per impaurire di notte i Romani e scompigliarli nel loro campo. Nelle piccole corna dei buoi nostrani non avrebbe potuto legar grossi fasci di frasche. — Bene rifletti, o Lucio. — Non potetti per difetto di posto costruir qui la stalla d’inverno e quella di estate. — Ma questa è in tali condizioni da farne a meno. — Io non li lego. Una specie di giogo li frena e non vieta loro verun comodo movimento. Tra l’uno e l’altro v’è spazio bastevole perchè il bovaro possa girare loro intorno, allorchè, sdraiati, ruminano. — Cilindro, fa aprire l’_ovilia et caprilia_. — Tengo cotesti animali pur esposti al mezzodì come i buoi, per allontanare il loro puzzo dalla casa dei coltivatori — che è in faccia — e perchè sieno alla loro portata. — L’uomo non libero è pigro. Eh! Bisogna venire a patti colla loro pigrizia! — La soffitta di quel locale era più bassa, acciò il calore meglio vi si concentri. L’ovile aveva un pavimento di mattoni. — E fra il parco delle pecore e delle capre era uno spazio, coperto di una lettiera abbondante di ramicelli di felce, su cui posavano le già pronte a partorire. — Vedete pecore di buona razza. — L’ho migliorata, incrociandola con quella di Taranto. — E ne ho lana copiosa e più bella. — Nelle _harae_ dei maiali non vi farò entrare. — Sì, nel _gallinarium_. — Mirate i bei galli! Vi faccio per mezzo di un tubo penetrare un po’ di fumo; avvegnachè pei polli sia gradevole e salutare. — Colà in fondo è il _teporarium_ pei conigli che i miei coltivatori mangiano. E il _chenoboscium_, ove le anitre e le oche mangiano e prendono bagni. Quel muro alto che vedete lo feci rizzare per due usi — a riparo del favonio — ed alla moltiplicazione delle lumache. — È il _cocleare_. — Sul ruvido intonaco è il muschio che le attira ed io ne faccio delizia della mia mensa. — Costì, sotto al _gallinarium_, è lo _ergastolum_. Allorchè io compero gli schiavi non li trovo quali io gli vorrei. E Cilindro deve piegarli. Or quando i miei modi ed i suoi non bastano allo intento, conviene cacciarli in quel sotterraneo che riceve aria e luce dalle alte e strette finestre che vedete. — Non li visiteremo perchè sono bricconi. Ma.... diverranno buoni come gli altri che abbiamo insieme affrancato. — Una donna in sui trent’anni, tarchiata e di buon aspetto, si fa innanzi a Coecilio, lo saluta e gli stringe la mano. Era la _villica_, la moglie di Cilindro, ambedue liberti, agli ordini e al servizio del marito suo, sobria, casta, non superstiziosa, ed avente cura alle none ed agli idi di ciascun mese — siccome pure alle feste prescritte — di appendere corone ad Epona, la Dea protettrice del bestiame e di volgere preghiere per tutti al Lare domestico. — Abbi gli Dei propizi, o buona Gymnasia. — Vi è da fare, eh? — Il lavoro nudre, o padrone. E col tuo esempio l’uom si migliora. — Che la Parca perda la forbice il giorno in cui si rammenta che Coecilio Casella nacque e vive. — Accetto lo augurio buono. — Abbi cura delle vesti dei miei schiavi. E che i bambini sieno puliti. — Ve’, quello dai grandi occhi e il paffutello che mi ha preso la mano. Ambidue hanno il viso sudicio. — Sono la disperazione delle loro madri. Sempre nel fango, che sembran oche. — Ho notato molti crani di asino confitti nei pali qua e là. — È per congiurarne la mortalità, forse? — No, o mio Lucio. — Preservano i campi da influenze maligne. Ma, son troppe; hai ragione! — Che tu fossi divenuta superstiziosa, o Gymnasia?..... Amo la moralità negli schiavi. Ma non voglio che luperchi schifosi, che aruspici ladri, che indovini bugiardi, che maghe vagabonde vengano qui a mettere ubbie nelle vostre teste. — La credulità istupidisce. La ignoranza mangia i risparmi. Il bisogno del denaro mena al delitto. — .... Ed io non voglio punire al possibile! — Intendi? — Cilindro diè una occhiataccia alla moglie. La quale, confusa dal rimprovero, si fece rossa e curvò la testa. — _Peream male si_..... — Basta, o Cilindro. Non vedi? La divenne taciturna come una statua. — Sai il mio costume, o padrone — _sequere potius quam ducere funem_. — Ma Gymnasia farà ch’io mi cangi e la fune la tirerò. — Qui mai più ribaldi, intendi? Gl’inghiotta Cocito questi ladri delle campagne. — Via! O buona, drizza su il capo e menaci alla cucina. — È la sede della tua magistratura e non vi sarà a ridire colà. — Era una vasta camera, a soffitto alto e bene imbiancata. Il focolare aprivasi largo e con un banco circolare di muro per riscaldarvi gli schiavi nelle giornate fredde del verno e per asciugarvi negli acquazzoni estivi. Sulle pareti erano pentoli e tegami e tripodi di ferro e vassoi di bronzo. — Sopra il pavimento di lapilli impastati con calce e battuti lungo la parete sollevavansi spessi appoggi di mattoni murati, sui quali sedevano grossi caldai nettissimi e _calati_ di piombo per conservare acqua da bere e al servizio della cucina. Una porta laterale menava ai bagni degli agricoltori, i quali solevano farvisi netti nei dì festivi e più spesso le loro donne e i bambini. Sopra i bagni era l’_apotheca_, ove chiudevasi il vino nuovo, perchè esposto al fumo maturava più agevolmente. — Bene, Gymnasia. Sono contento di te. Perdona il rimprovero che ti feci. _Oculus in agro fertilissimus._ — Or dove dormono i tuoi schiavi, Coecilio? — Amo, o Vestorio, nel tuo Lucio la curiosità che addottrina. — Qui, sopra la cucina e le stalle. — I bovari e i pastori, nelle _bubiliæ_, perchè sieno vigili custodi del mio bestiame. — Credeva di averti mostrate le loro cellule coi loro numeri sopra, per eccitare la emulazione e fare ognuno testimonio della incuria dell’altro. — La corte, colla fontana nel mezzo e, sotto, la cisterna per la conservazione delle acque piovane, è chiusa dall’_horreum_, magazzino ove sono in serbo gli aratri, gl’istrumenti di ferro ed i _tympana_, carri a ruote piene senza raggi, destinati al trasporto dei pesanti prodotti dell’agro. — Qui, tutto vedemmo che meglio importava. — Torciamo ora i passi verso la mia dimora, e di là alla _fructuaria_, dove convengono tutti i ricolti. — Addio, amici. Gli Dei vi concedano tanti beni, quanti occorrono al vostro vantaggio. — Alcune lepri correvano lungo i campi, e si rinselvavano nel bosco. Le pernici squittivano accenti di amore. In un recinto di reti gli agnelli spoppati apprendevano a nudrirsi dell’erbe tenerelle che il tepore primaverile in quelle felici contrade facea germogliare. E mentre le talpe minavano sordamente la terra, i passeri, le allodole, i pettirossi e le cingallegre modulavano gentili armonie. La strada, dov’essi passavano, seguiti da Cilindro, offeriva ai loro sguardi uno spettacolo visto e rivisto e pur sempre nuovo. Il terreno discendeva in anfiteatro sino alla riva, abbellito da gruppi di alberi, da fichi spinosi e da case variopinte, che colle loro terrazze e coi loro portici parea sorridessero a quel cielo olimpico. L’occhio abbracciava in una volta il mare senza limite, il golfo di Stabia, le coste abrupte di Sorrento, l’isola di Capreas, la lunga sponda di Posilipo, la vaghissima Neapolis, lo artistico e nobile Herculanum e il vecchio Vesvius, fucina degli spessi tremuoti e più tardi operatore di distruzione e di morte. — Quei luoghi d’incanto avevano una espressione di tutta dolcezza; e, come la musica, spandevano pei nervi un fluido, padre d’idee passionate e triste. Coecilio arrestossi e levando la mano. — O Campania, giardino d’Italia! E tu, fiore del mondo, Pompei! — Parlando su cotesto argomento giunsero dove erano diretti i loro passi. — Il fabbricato aveva in mezzo una corte. — Ciascuna parte era addetta al suo uso particolare. A diritta era il _torcular_, il molino delle olive e il pressoio per estrarne l’olio. A lato era la _cella olearia_. A sinistra aprivasi la _cella vinaria_, il cui pavimento di marmo inclinavasi verso un bacino che riceveva il mosto dei tini scoppiati per la forza della fermentazione. — Una grande vasca — _calcatorium_ — serviva alla pestatura delle uve. Era sollevato sur uno zoccolo di quattro gradini e due bacini profondi ricevevano il mosto che poi si versava nei _dolia_ — tini panciuti di terra cotta — posati lungo i muri. Presso i torchi, in fondo, levavasi la caldaia, dove il mosto convertivasi in vino cotto. — Poi, nelle anfore conservavasi nella cantina, luogo chiuso e quasi oscuro, munito di qualche spiraglio verso il settentrione. Sopra era il _penus_ — il luogo ove si conservavano i commestibili — e l’_oporotheca_, dove si serbavano le frutte in particolare. Nel primo, le fave raccolte, i piselli, le olive edule, le zucche, le uova fresche, i meloni ed altre cose simiglianti. — Nell’altro, i fichi, le mele, le pere, e via dicendo. Quivi il suolo, le pareti e la volta erano di marmo per intrattenervi vie meglio la frescura. Il granaio chiudeva la corte coi suoi magazzini a volta e sollevati dal suolo. Il pavimento era formato di lapillo, di calce e di sabbia impastati col sedimento dai vasi da olio novello e non salato. Quando era battuto ed asciugato, vi si spalmava anche dell’olio buono ed il fondaco diveniva eccellente, e mai i sorci, i calabroni od altri animali nocivi vi penetravano. — Tu mi chiedesti un _promus_, o Vestorio. — E ti darò Mustella che ama una tua liberta chiamata Pyrgo; talchè sarà felicissimo nel tuo podere. E pur mi chiedesti un _villicus_ valente. — E ti darò Castriccio che il mio Cilindro istruì. È per sposarsi con Cerellia, una delle schiave che tu stamane legalizzasti liberta. — Noi, mio Lucio, correggiamo un uso dei repubblicani di Roma. Quando quel gran popolo conquistò la Italia e la Grecia, si appropriò il territorio dei vinti. — Se era coltivato, i triumviri addetti all’amministrazione della nuova colonia o lo vendevano o lo affittavano. Se il popolo aveva seriamente resistito, la terra si dava agl’incanti; e quegli cui rimaneva pagava alla repubblica il decimo del prodotto che ne ritirava. La quale tendeva a moltiplicare ovunque la popolazione agricola che le forniva i più bravi soldati, i più duri alle fatiche e non pensavano al male. Ma moltiplicandosi le guerre — e gli uomini liberi, tutti a difesa delle aquile, — la cultura dei vasti dominii fu giuocoforza affidarla agli schiavi, ch’erano le popolazioni soggette. Tu hai osservato con quanta carità io li tratti. — Non tutti così!.... E gl’italici si solleveranno i primi. I Romani forse li domeranno col ferro o scenderanno a patti.... Verrà giorno però in cui il lusso, la mollezza e i vizi disegneranno la curva della caducità di un gran popolo. I campi popolati tutti di schiavi oppressi saranno teatro a macelli e ad incendii. I crocefissi inchioderanno i loro crocefissori... Oh! non permettano gli Dei tanta ruina. — Il sole illuminava dei suoi ultimi fuochi le cose. Pei due Pompeiani era tempo di ritirarsi. Ringraziato l’ospite illustre del cortese accoglimento e della cessione dei propri coltivatori, Vestorio Tucca e Lucio tolsero da lui commiato e lo baciarono sulla gota. Poi che li vide a cavallo, Coecilio Casella fece loro un atto benevolo colla mano e disse: — Il tragitto alla tua casa è breve, o amico. — Ma in viaggio un giovane allegro e caro, come il tuo figliuolo, vale un _cisium_ leggero per un pedestre stanco e trafelato. — IL FORO. LA ELEZIONE DEI MAGISTRATI IN POMPEI. =Anni di Roma 705 — Anni avanti il Cristo 49.= A GIUSEPPE FIORELLI. III. Il cielo era azzurro e radiante — come spesso — sull’ampio e vaghissimo cratere partenopeo; una tinta che non è altrove; che infiamma e fa pensare; che soffia sull’anima gli slanci passionati e le eroiche rassegnazioni. — Il golfo era circondato da colline verdeggianti sino al promontorio di Minerva e da un antico vulcano, detto Vesvius, le cui lave vedevansi lungo la strada che da Pompei sulla riva del mare menava in Oplonte, Retina ed Herculanum, o sulla via Popilia che guidava a Nola, o sulla terza che, traversando il copioso Sarno e dividendosi in due, metteva a Nocera ed a Stabia. — Bella per le sue rive incantate su cui i poeti favoleggiavano le sirene, ricca pel suo fiume navigabile, avente l’occhio sur una fertile pianura, e l’altro sulla collina gremita di case variopinte, la città-emporio — detta perciò dai Greci ΠΟΜΠΕΙΟΝ — era posizione militare, posto commerciale e luogo di delizie in una volta. I pittori venivano a cercarvi le loro inspirazioni — i poeti, i segni sensibili delle armonie della natura — i filosofi, le felicità profonde nello stracciare un per uno i troppi veli parati dinanzi al genio dell’uomo — i timidi, gli stanchi, gli uomini di pecunia, il luogo riposato e tranquillo ove appena giungeva l’eco degli avvenimenti fragorosi del mondo — i ricchi giovani, le più splendide illusioni, i sorrisi delle labbra divine, gli sguardi vellutati che vi passano il cuore e le parole dorate dalla intelligenza o profumate dal candore che quella sola regione poteva ancora offerire, patronata siccom’ell’era da Venere Fisica e da Iside misteriosa. Correva l’anno di Roma 705. Erano le calende di maggio. Il quadrante solare e la clessidra di acqua — questa surrogante l’altro nei tempi oscuri o nebulosi — deposti nei pubblici luoghi, designavano già la quarta ora, corsa dopo il _diluculum_, parola colla quale indicavasi la punta del giorno. — Malgrado però quelle acconce invenzioni di cui Roma seppe godere sol cinque secoli dopo la sua fondazione, lo _accensus_ — ufficiale subalterno dei _duumviri_ — urlava a piena gola sui canti delle vie la misura del tempo che il sole e l’acqua notavano, per meglio aiutare alla intelligenza dei forestieri e della gente minuta della città e della campagna. Sino dal mattino — aperti i cancelli di legno sullo sbocco delle otto strade che mettevano nel Foro — il vasto recinto era un va e vieni di fitto popolo di tutte le classi e di varie favelle. Oltre che i meridionali hanno la tradizionale abitudine di viver meglio fuori che dentro le proprie dimore — oltre che quel vasto edifizio solevasi costruire di preferenza presso il porto nelle città marittime o nel luogo più elevato e centrale in quelle dentro terra — siccome il sito favorito dei ritrovi, dei commerci e delle riunioni di tutti i pubblici affari — in quel giorno la Colonia Veneria Cornelia di Pompei era chiamata alla elezione diretta dei suoi magistrati. Sur ogni muro esterno delle case e specialmente sugli angoli dei quatrivi, erano inscrizioni a grandi lettere di color rosso, mercè le quali i devoti, i riconoscenti per ricevuti favori, i clienti, i parassiti e i liberti sollecitavano il pubblico voto a pro dei loro propri candidati. Per cui leggevansi elogi tributati a nomi di cittadini e biasimo ai più sconosciuti od immeritevoli dell’alto ufficio. La politica dei padroni del mondo divise i paesi conquistati in città latine, in città federate, in prefetture ed in colonie. — Erano libere, ma nella dipendenza di Roma. Laonde non potevano stringere alleanza tra esse, nè politica, nè privata, senza prima ottenerne il permesso. — La Italia si divideva in dodici provincie indipendenti con leggi, con usi più o meno simili a quelli che reggevano la grande metropoli; e dal golfo di Taranto distendevasi sino al Rubicone, piccolo fiume che sbocca nell’Adriatico. — E nel Mediterraneo giungeva sino a Luna, città che gli Etruschi avevano fondato là dove il fiume Magra si gitta nel mare. — La potente repubblica privava della libertà i popoli manchevoli alla fede dei suoi trattati. — Se recidivi, gli deportavano tutti fuori del loro paese. — O ne distruggevano la città. — O confiscavano una parte del loro territorio. — Tutte le dodici provincie erano più o meno colonie militari, cioè deposito di un corpo di fanti e di cavalli in permanente osservazione; e dovevano pagare un tributo in uomini ed in danaro. — E come puniva le aperte rivolte, così ricompensava le tacite fedeltà. — E la colonia di Pompei era pur _municipium_. Aveva, cioè, ricevuto il _munus_, il donativo tutto speciale dei diritti di cittadinanza romana. — Onde la sua costituzione era pari a quella dell’Urbe, che divideva i suoi abitanti in tre ordini — senato — cavalieri — e popolo. La magistratura municipale di Pompei rassegnavasi in un edile — nei duumviri che rendevano altresì la giustizia — nel pretore — nel censore — nel questore, gerente del reddito pubblico — nel patrono della città — nei maestri dei subborghi e dei trivi — ed in cento decurioni — quelli che in Roma chiamavansi senatori — i quali — decimando i coloni — formavano il pubblico Consiglio. La forma del Foro — che fu l’_agora_ già costruita dai Greci — era un parallelogrammo molto allungato. Un pavimento regolare di bianco travertino, su cui sorgevano tutto all’intorno colonne d’ordine dorico di svelte ed eleganti proporzioni, che sostenevano un porticato di due piani. — Lungo l’area erano piedistalli rivestiti di marmo pario o colorato, che presentavano in piedi le statue — votate in vita o dopo morte — dei cittadini illustri per le loro virtù o per lo esercizio di gradi eminenti. — Sur altri quattro erano statue equestri ed una quadriga. — Sull’una estremità — quella che prospetta il mare — si elevava un arco di trionfo. — E più su, due altri piedistalli con statue. — Statue di marmo coronavano altresì il tetto del porticato del Foro. — E nel fondo stava il maestoso edificio — alla cui sommità giungevasi per una gradinata interna di marmo — il quale era in un tempo l’_ærarium_ ed il tempio sacro a Giove ed al figlio Esculapio. Siccome la costruzione di parecchi metri sollevavasi dal suolo, il piano superiore lo avevano dedicato al principe dell’Olimpo, ed il sottano a deposito della pubblica pecunia. Otto strade diverse menavano al Foro. — Quelle dei due lati del tempio. — L’altra che veniva dal crocicchio del Lupo. — Una dal canto del Pecile — luogo riparato dal vento e dal sole, sacro al passeggio, dalle pareti adorne di pitture sui fasti gloriosi della Colonia — metteva nell’Araiostylo, l’ambulatorio sotto il portico a lato del tempio di Venere. — Una veniva dalla marina ed immettevasi nel parallelogrammo tra il suddetto fano, sacro alla Iddia della plastica bellezza, patrona della città, e la _Basilica_. — Un’altra questa isolava dalle case particolari. — Una imboccava nel porticato costeggiando a diritta la scuola pubblica — ed un’altra ascendeva verso quel punto rilevato sulla via detta dell’Abbondanza, per la immagine di cotesta divinità spicciante acqua nel fonte di quel quatrivio. — Passavano per là quei che entravano in Pompei dalla porta di Stabia. — Ogni sbocco di quelle vie aveva gradini e pilastri in piedi — _impedimenta_ — e pietre ovali massiccie rilevate dal selciato — in uso pur queste in tutte le altre strade della città, a comodo degli abitanti, onde traversassero a piede asciutto nei casi di grandi acquazzoni — per impedire il passo alle vetture e ai cavalli e non aggiungere lo strepito delle cose al rumor delle voci. E nel vero, molta gente togata alla romana era colà e parlava a bocca sfrenata, aggiungendo energicamente il gesto ad ogni detto. — Sotto il portico gironzavano, arrestandosi tratto tratto i _fæneratores_ — lepra dei tempi che tante leggi non potettero mai sanar per intero — i quali usavano i loro brevi capitali, o ne improntavano da altri per poi prestarli al grosso agio del cinque per cento al mese. La famosa ritirata della plebe al Monte-Sacro, quindi sul Gianicolo, ebbe origine dal rifiuto dell’abolizione dei debiti enormi, creati dall’avarizia dei prestatori. — Una legge recente aveva ordinato che i cambiatori di moneta — riconosciuti per tali — fossero nel Foro e dessero a prestito il denaro con usura semissuale — cioè, del sei per cento all’anno. Non mancavano però gli usurai di accalappiare qualche ignorante e i forestieri, in un giorno di tanta folla. Erano rizzate sotto i portici le _tabulæ auctionariæ_, coll’enumerazione scritta dei beni mobili ed immobili da vendersi in tale ora alla pubblica licitazione. E i _præcones_ gridavano i meriti di una casa, di un terreno, o dei mobili di legno, di bronzo o di più fine metallo. — Altrove erano botteghe posticce, ove si vedevano intorno ai venditori rotoli di cordami e pacchi di vele. — O tuniche e mantelli di grosso saio con cappuccio, per gente di campagna e per marinai. — O vasi di terra, fabbricati nella vicina Nola, di ogni dimensione, di ogni ornato, di ogni prezzo. — O lucerne, licnoferi, nassiterni, bombille e vasi unguentari. — O calzari di ogni stoffa e di ogni foggia. — O Dei penati, e voti di terra cotta o di bronzo. — O astragoli e pallottole di piombo ed altri giocattoli per bambini. — E tutti gridavano — e tutti urlavano, vantando la bontà delle loro merci e la mitezza dei prezzi. — V’erano persino i ristoratori ambulanti, offrenti vini caldi ed acque melate. — E fra i venditori di cialde, di nastri, di calzari, di stoffe di Tyro e di Tarentum, di pelli conciate, si aggirava il misero Verna, maestro di scuola, che con voce supplichevole e monotona, raccomandava a colui che sarebbe stato eletto edile sè ed i propri discepoli. Sotto il portico laterale al tempio di Venere Fisica, in una icona quadrata, erano costrutte di tufo le pubbliche misure di capacità di varie grandezze, affidate, per decreto dei decurioni, ai duumviri Clodio Flacco e Arelliano Caledo. Procedendo più oltre, penetravasi nella _Basilica_ — uno degli edifizi meglio notevoli del Foro — ove i duumviri rendevano la giustizia. Di prospetto al tempio di Giove Tonante erano le tre _Curiæ_, luoghi sacri, ov’erano depositate le scritture dei pubblici archivi. Sull’altro lato del Foro, Eumachia, figlia di Lucio, sacerdotessa pubblica, in nome suo e di Numistro Frontone, suo figliuolo, aveva costruito di proprio il magnifico monumento del _Chalcidicum_, della cripta e del portico interno della _Concordia_, ch’era in un tempo un tribunale per gli affari di commercio ed un luogo riparato dalle intemperie e dallo strepito della vita pubblica per la trattazione di essi. — I _fullones_ — che avevano altrove il loro opificio — grati alla munifica sacerdotessa, le votarono una statua di marmo nell’abside interno. — Il muro laterale esterno della cripta, riccamente ornato di cornici, di frontoni e suddiviso in tutta la sua lunghezza di pilastri, simulanti porte, era l’_album_, ove si pingevano a grandi caratteri rossi o neri le inscrizioni di pubblico interesse, che risguardavano le vendite, gli affitti, le feste, gli spettacoli. — Difatti vi si leggeva lo annuncio che una compagnia di gladiatori avrebbe pugnato in Pompei l’ultimo giorno di maggio. — E con un altro tutti gli orefici invocavano Gaio Cuspio Pansa, edile. — E il maestro di scuola, Valentino, coi suoi discepoli, raccomandava con uno sproposito di lingua — che non procacciava meriti al saper suo — Sabinio o Rufo, come edili, degnissimi della repubblica. — Ed un Osco dava nella sua lingua — ch’era pure una delle favelle del paese, sendo stati i Sanniti i suoi primi abitanti — lo indirizzo della sua locanda pubblica ai viaggiatori, colle enumerazioni delle comodità che offeriva. Andando anche più in su, si trovava il fano dedicato a Mercurio. — Quindi il _senaculum_, luogo destinato alle assemblee dei decurioni. — Ed in fondo erano le _tabernæ argentariæ_, fondachi dove operavano i loro commerci i cambiatori di moneta, gli orefici e gli scultori nel bronzo. Ai lati del tempio di Giove si elevavano due eleganti archi a trionfo, eretti ad incliti cittadini per le loro virtù. Ascendevasi al sacrario massimo per una doppia gradinata, presso due larghi piedestalli ornati di statue equestri. Dal _pulpitum_ — piattaforma spaziosa d’onde i magistrati e gli arringatori concionavano al popolo — si saliva su più larghi gradini al porticato del tempio, sostenuto da dodici colonne di ordine corintio, rivestite di bianco stucco. E sedici colonne eguali, di ordine ionico composito — aventi le sue volute sulla diagonale, sopportate elegantemente da foglie di acanto — sostenevano nello interno un altro colonnato corintio su cui chiudevasi il tetto. La statua gigantesca del nume drizzavasi dinanzi le tre camere a volta, nel fondo della cella, belle di pittura architettonica, nelle quali tenevansi gli archivisti degli atti di deposito erariale. E su tutta la superficie del bianco mosaico — in mezzo e nello intercolunnio — si aprivano larghi spiragli per dar aria ed alcuna poca luce allo edificio sottano, ove era custodita la pubblica pecunia. La folla erasi fatta vie più spessa. — Le matrone — cioè le donne sposate colla _confarreatio_ e non colla semplice _cœmptio_, per cui queste divenivano soggette dello sposo ed in una continua tutela, e dalla cui razza non si sceglievano flamini nè vestali — ripeto — le matrone, a cui tutti avevano ceduto il passo lunghesso le vie, salivano prime sul terrazzo coperto sopra il portico del Foro per le due scale disposte alle estremità delle _Curiæ_. Esse vestivano la _stola_, cioè la lunga vesta di lana bianca che cuopre la metà dei piedi. E si avviluppavano in un ampio mantello detto _palla_, che non permetteva lo aspetto della persona. Una truppa di liberte e di schiave lor faceva corona e largo al tempo stesso. Esse, in grazia del gesto animato con cui accompagnavano la breve parola, si permettevano tutto al più lo innocente civettismo di mostrare la bella mano dalle dita affilate e piene di gemme. — Le altre donne più giovani — e perciò più eleganti e più libere — che dopo esse salivano, portavano sopra l’acconciatura del capo finissimi veli, coi quali artificiosamente e per metà celavano ai desiosi sguardi degli ammiratori il loro viso ovale dal tipo greco. Ricchi i tessuti delle vesti e di ogni tinta. Ma la porpora primeggiava tra tutte. — Mutabili nelle loro idee, erano pure svariate le fogge del loro vestire. Alcune si coprivano colla _regilla_, la quale era una grande tunica dritta. O colla _impluviata_, una specie di toga femminea di forma quadrata come l’impluvio di una casa. O col _basilicus_ o coll’_exoticus_, manti reali o stranieri, colle frange o coi meandri d’oro. O colla tunica _intusiata, calthula, patagiata, crocotula, plumatile_, questa sparsa di ricami d’oro leggerissimi al pari delle piume. — Una di esse, nel porre il breve piede sulla scala, ebbe cura con tal movimento di disegnare i rotondi contorni della leggiadra persona. Una bionda, per mostrare il suo petto bianco come la neve, si volse dalla parte d’onde spirava il vento, perchè zeffiro soffiando sul suo _linteolum cæsicium_, le scoprisse la spalla sinistra ed una parte del braccio, tornito dagli amori. — E una bruna vanerella, vestita di una _mendicula_ molto scollata, lasciava ammirare un suo neo sull’omero di alabastro. Tutte avevano collato sul loro volto pieno di grazie piccoli pezzi di pellicola nerastra, di forma rotonda o di mezza luna — nei di artificio coi quali pretendevano dare maggiore rilievo alle loro naturali attrattive. E presso che tutte — di bruni capelli — si ostinavano per moda di averli cangiati in biondi ardenti, in dorati od in tinta cinerea. E cotesto ottenevanlo col farsi ungere le chiome dalle loro _ciniflones_ — addette a siffatto mestiere — con una pomata composta di ragia, di aceto e di olio di lentisco, che imbiondiva i capelli in una sola notte. — Non eravene una che non avesse sulle orecchie due e sino tre pendenti d’oro, di pietre preziose e di perle. — Cotesti gingilli così combinati erano detti _crotales_; perocchè nello urtarsi formavano un suono, atto a destar l’attenzione e a far doppio il loro civettismo. — Alcuna passava dall’una mano nell’altra alcune piccole palle di cristallo di monte e di ambra gialla — le prime per tener fresca la palma, e le altre per profumarle soavemente. Altre stringevano i polsi per entro braccialetti d’oro a forma di serpi, che pesavano da due a tre chilogrammi. Giovani — e ben più ridicoli per la loro raffinata ricercatezza — avevano molte di quelle leggere donne accompagnate dalle loro case o dai bagni fin là. Anch’essi avevano profumati od arricciati con arte i capelli. — Ed il mento rasato. — E mani, e braccia, e gambe monde di pelo dalla pietra pomice. — E chiusi entro le ricche pieghe di una larga tunica di porpora. Od avvolti in un bruno _lacerna_, veste militare che l’abitudine delle guerre civili aveva messo in uso ed in moda. Di alcuno tra essi poteasi dir con Orazio, _ad unguem factus homo_, cioè, azzimato sino alla perfezione. Ai quattro canti del Foro alcuni _viatores_ — che già avevano per tutte le strade avvisato come l’assemblea popolare fosse per aprirsi — suonarono le loro trombe. E poi, l’un dopo l’altro gridarono che i decurioni andassero al loro posto, e quelli i quali avevano diritto di dare il suffragio apparecchiassero le loro tessere. Allora, uomini dalle larghe toghe preteste, orlate da una striscia di porpora, dalle laticlave e dai bianchi stivaletti, ascesero i gradini del tempio e si assisero sulle sedie curuli. Altri — al cui passaggio ognuno deferente faceva inchino col capo — nel traversare il parallelogrammo salutava con benigno ed orgoglioso sorriso quelli che tra i suoi conoscenti distingueva tra i gruppi. — A quanti egli e i suoi somiglianti avevano in quel giorno pagato un piccolo debito, ed il desinare nelle _popinæ_, e la tessera del teatro! Intanto, un giovane accorso rapidamente dalla via della fontana del Lupo, sparse una novella, la quale venne da molte bocche bentosto riprodotta, ed offerì nuovo soggetto all’animato disordine, alla febbrile parola, al gesto impetuoso di quel popolo meridionale. Di fatti, i curiosi — che si erano spinti fin sotto l’acquedotto dalle due fontane che simulava il secondo arco trionfale dopo quello a sinistra a lato del tempio — videro un vecchio circondato da gran numero di clienti, portare la mano destra alla bocca e contornare un po’ il suo corpo da diritta a manca dinanzi il grazioso tempio della Fortuna, edificato dai suoi sur un’area di loro pertinenza. — Avendo riconosciuto nella folla due militari, strinse gli occhi affettuosamente e chiamogli: — _Læti victores._ — I suoi bianchi capelli erano lucidi e ben pettinati. — La toga gli scendeva sino a terra. — La pretesta era bruna ed il corpo ed il capo copriva colla _penula_, mantello di viaggio e dei tempi di lutto. — Era una grande semplicità nella sua persona. Il volto, sovente gaio e sfiorante in epigrammi nel facile consorzio, si aprì a mesto sorriso alla vista dei _salutatores_ che in frotta se gli fecero intorno. — E taluno il chiese del suo mal d’occhi. — Ed altri su ciò che stava scrivendo. — Ed un terzo, da quando era giunto di Roma. — Ed uno più intrinseco gli domandò le novelle di Tulliola amata e di Quinto, suo fratello. — E molti delle importanti notizie dell’Urbe. Egli prese il mento colla sua mano sinistra — suo gesto di abitudine — e mostrando Dolabella, suo genero, e sè stesso in _toga atrata_: — L’anima fuggitiva di quella soave creatura ci disse lo eterno vale dopo averci fatto dono di un suo figliuolo. Anch’esso disertò la trista dimora degli uomini, ov’era inconsolato il pianto. Ma il lugubre annoso cipresso starà, quantunque più non senta i profumi della giovane rosa. — E ad un più vicino: — Ti è grato l’animo mio. — Attico mi ha diretto Asclepiades, un famoso _oftalmicus_ della Grecia, che riprova ogni medicina e mi guarisce con lozioni di acqua fredda. — E ad un altro: — Scrivo sur un argomento che il dolor mi ha fornito — _De consolatione._ — Ieri, a notte tarda, giunsi nella mia suburbana, accompagnatovi dalle lettere consolatrici di M. Bruto, di Servio Sulpicio, di Lucio Lucceio e di Caio Cesare. — E a molti in atto di aver pubbliche novelle: — Alcuni deputati di Laodicea vennero ad implorare la libertà della loro patria. — E noi, per la nostra?... Il dittatore mi colma di gentilezze e par che tema che io qualcosa desideri. — Arte dei nuovi! — E più di colui, che intende cancellare dai nostri ricordi il valico recente e audacissimo sul Rubicone. — Cui Numidio Canca — uno dei vecchi militari da lui pur dianzi salutato: — E perchè ti confini tu nel tuo Tusculum ed or qui, sì che nell’Urbe s’ignora se sii ancor tra i viventi? — — E vuoi tu, nobile avanzo dei ferri catilinari, che io non rinunci alla pubblica cosa quando questa più non esiste? Quando la libertà la dicono pacificata e le nostre vecchie instituzioni le chiamano moderande, da sorreggersi e persin migliorate?.... La gloria è in interdetto. — La eloquenza — voi il sapete — è una fiamma che abbisogna di alimento per ardere di moto per eccitarsi. — E Dolabella: — E la Repubblica tranquilla, la Repubblica dell’ordine dice che noi gittavamo tutti gli errori nel cuor fecondo delle masse per quella maledetta ambizione di popolarità. — Laonde fazioni e lotte continue tra il patriziato e il popolo minuto. — La voce di un giovane allor sorse a dire: — Lo editto dittatorio che ha rilegato nel tempio di Marte-Vendicatore il dibattimento delle cause pubbliche, ha tolto il fermento, la licenza, la dissennatezza omai generale. — La eloquenza, no, non è morta. Essa vive e scintilla per fare il bene, procede pel sostegno dei sani principii e trionferà dei pessimi cittadini. — Che! Son fatte mute le labbra sublimi che inabissarono Catilina, Verre ed Antonio, surti per rovesciare a talento le sorti della Patria e del Mondo? — Lo elogio espresso dal giovine retore Consinio Mestrio, quantunque meritato, sommamente piacque a colui si quale era diretto. — Onde rispose: — La mia età mi condanna al triste privilegio di dire: — Ho vissuto. — Ma... o tirone, quello che tu chiami licenza, io la chiamo libertà.... — E pur dai Rostri tu l’accusasti compagna delle sedizioni, ribelle, arrogante, parricida. — E noi giovani comprendemmo come le pietre sieno fatte per selciare le vie e non per abbarrarle, e le daghe per difendere il Campidoglio e non per abbatterlo. — Allora dal crocchio emerse la testa di un canuto, sulla cui fronte ogni dolore lasciato avea la sua ruga, e — Parmi non la santa libertà tu rimpianga, ben la rivalità di un uomo possente, cui tu apristi la strada al salire. — — Basta, o amici. Ragioni non mancano. Pur mangerebbero il tempo alle pubbliche elezioni della Colonia. — M. Clodio Pulcro venga a suo libito nella mia Pompeiana, ove mi piaccio ed è il solo luogo oramai ove io sia pienamente contento. — Là parleremo. — E sì dicendo ruppe il cerchio dinnanzi coll’atto benevolo della mano. E fattosi nel Foro, ascese anch’egli la gradinata del tempio. Un suo liberto che pur era venuto con lui di Roma, un tal Suculo — che negli spazi smisurati aveva veduto abbassare il volo alle chimere della lunga sua vita — accostossi ad un affrancato di sua conoscenza e gli disse colla palma tesa verso l’orecchio: — Oh! Un po’ di umiltà sposata a tanto ingegno! Se un raggio di sole gli avesse almeno scaldato il cuore! — Terenzia — la buona padrona che mi diede la libertà — fu da lui reietta e presto dimenticata. — Tulliola — che aveva i suoi tratti e le sue nobili frasi congiunte ad una grande anima, ch’egli diceva adorare — morta appena ed obliata. — Ora, a 58 anni, ha sposato Publilia, giovane, bella e ricca, colla cui dote ha pagato i molti suoi debiti. — Tu mi conoscesti schiavo di Hortensio, nella villa di quel gran ciarlone, in Bauli. Preso di matta passione pei suoi _piscinarii_, ammalò quando lesse il decreto del dittatore che vietava si gittassero più oltre gli schiavi ad ingrassar le murene. Ei soleva parlar con dispregio di M. Lucullo — il fratello del vincitore di Mithridate — perchè non aveva nei suoi vivai il quartiere di estate per i suoi pesci favoriti. — Per cotal gente noi valghiamo meno di un’ostrica di Lucrino o di Brundusium. E Crasso, l’uomo censoriale, lo illustre, il grave uomo di Stato, quegli che ama tanto la Repubblica, e nol vid’io porre una collana di perle e gli orecchini d’oro ad una murena? — Udii ben io Domizio, il suo collega nella Censura, rimproverargli tale sciocchezza in pieno Senato, ed egli testimoniarla senza rossore, vantandosene come di nobile atto di pietà di cuore. — Per Castore e Polluce! V’ha dei giorni in cui, vedendo girare le verghe e cadere sul corpo dei miei poveri compagni in casa di Aricio Scauro — quegli che mi comperò dallo antico padrone — la rivolta mi sembra quasi un dovere. — E quando io mi chiudo nel mio povero giaciglio la sera, io m’inginocchio dinanzi una Iddia che mi sta nel fondo del cuore e le canto un inno tacitamente, siccome Spartaco lo urlò coi coltello da beccaio nello anfiteatro Campano. — Ah! — — Tu vai tropp’oltre, fratello. Rammenta che se è vietato gittar gli uomini ai pesci, non la è così per le fauci dei leoni, delle tigri, degli orsi. — Sommessione e pazienza. — E si separarono. Rincarirò sul già detto da quelli schiavi. Era in Roma un Figellio, poeta assai caro a Cesare e ad Augusto. Ei cantava d’improvviso una serie lunga di versi su qualunque argomento. E siccome, non sole parole, ma concetti, ognuno ne maravigliava; e dalla maraviglia il favore. Nasceva di gente Iliese, rintanata sulle più aspre montagne della Sardinia. Ribelle ai Romani, nobilmente testarda, combattuta d’ordine del Senato, carpita dai suoi nidi di aquila e venduta ne’ pubblici mercati. Solo Nerone, a sedici anni, sposata Ottavia, difese gl’Iliesi, origine della casa Giulia, perchè di seme troiano, da Ænea colà trasportato. Figellio era un liberto. Aveva il padre, i congiunti, i nati nei suoi monti combattuti, morti, martoriati, venduti, dispersi. O perchè Cicerone l’odiava?... Schiccherava versi d’incanto e tutti ne lo lodavano. Ed egli, poetastro stentato, non di vena, n’era geloso e non sapeva frenarsi. Uno Scauro, iniquo pretore, ito in Sardinia colle sacca vuote, le riportava nell’Urbe gravi di argento e di pietre preziose. Cicerone orò per lui. Aveva bene accusato Verre per missione avutane dai Siculi. Cangiato il nome, il soggetto era lo stesso. Ma egli spese la sua splendida eloquenza contro i Sardi derubati e immiseriti, perchè Scauro fu il primo a complirlo e fecegli udire il sonito dei nummi d’oro, di cui lo sciupone aveva tanto bisogno. E ritorse il dritto. E raddrizzò lo storto. Erasi allora allora partito dall’Urbe, e i suoi rancori, i suoi desiderii, le sue speranze attribuiva alla società pur dianzi lasciata. Pensava che il suo malcontento avrebbe prodotto la rivoluzione. In ogni baruffa vedea la rivolta. Credeva pianto della patria il pianto del suo cuore. E i suoi vecchi colleghi, tutti tormentati dalle sue smanie. E s’ingannava. L’uomo politico, cacciato in bando da una fazione avversa, guarda il presente e lo avvenire a traverso un prisma fallace. Il tempo accresce le vanità della mente e aduna fiamma nel cuore. L’esule esagera i meriti suoi. La impazienza gli fa accettare qualunque consorzio. I riuniti per la medesima causa ragionano intorno a ciò ch’essi erano, intorno a ciò ch’essi sarebbero; e s’incitano contro il comune nemico; e si pascono di vittorie e di vendette; e maturano imprese di passione, non di criterio, che i non tormentati dai medesimi sentimenti — tutto che amici loro — giudicano disperate, insane e di successo infelice. Silla avea detto che in Cesare erano molti Marii. Nelle sue imprese era cauto, di sguardo lungo ed audace. Trionfava a miracolo. Acquetava con spettacoli, con desinari fastosi, con giuochi, con larghezze. Abbelliva la città. Ampliava lo impero. I soldati erano suoi. Deponeva agevolmente odii e nimicizie. I ricchi, le donne, il popolo, tutti per lui. Il dado era gettato. Cesare aveva vinto. Or l’Arpinate farneticava; ed eccitatore di animi, sentiva bene nel profondo la vanità dei propositi suoi. Infrattanto il vecchio M. Tullio Cicerone, riconosciuto od atteso, ebbe le mani strette con grande espansione da tutti ch’erano pel peristilio del tempio. Parecchi lo baciarono sulle due gote, segno di affetto che i Romani prodigavano ai loro amici. — Fattasi un po’ di calma, Alleio Lucio Libella, col suo collega nel duumvirato Munazio Fausto, si presentò alla faccia del popolo adunato per ritogliere gli auspicii; osservò il volo di un aquila a cui gli aruspici diedero la libertà; una vittima venne immolata sullo altare interno del nume, e i sacerdoti dichiararono che i padri potevano deliberare. I duumviri, il pretore, il questore, i magistri dei sobborghi e dei trivii, e i decurioni andarono l’un dopo l’altro ad offrir al Dio vino ed incenso, e la seduta fu aperta. I primi sedettero sulle sedie curuli del centro. Lo edile ed il questore più al basso ai lati del _pulpitum_. — Gli altri sedevano alla rinfusa sotto il colonnato. — E nelle parti laterali, sotto le statue equestri, erano gli _actuarii_, scribi e schiavi pubblici, incaricati di raccogliere i discorsi mercè alcune note od abbreviazioni che con brevi tratti di stilo rappresentavano molte parole. — Salute ai tre ordini della Colonia. Gli Dei le siano propizi. — Quindi i duumviri indicarono allo edile e al questore che potevano dar còmpito della loro amministrazione. Aufidio Mamusa cominciò dal leggere un disegno di senato-consulto, ordinando preci nei templi per cinque giorni e la immolazione di cento vittime sugli altari, per calmare la collera celeste che tratto tratto manifestavasi nel territorio della Colonia con dannosi tremuoti. — La legge passava _per discessionem_, cioè, senza discutersi e per acclamazione. — Quindi parlò delle nuove terme costruite nel fondo della via dell’Abbondanza, cui erasi aggiunto anche la palestra dei giuochi ginnastici della gioventù, una biblioteca, una sala da giuoco ed una di profumeria. — E lo edile seguiva: — Il mio collega Cascellio Testa, questore, prese gran cura nella fattura di cotesto edificio — non solo bisogno — ma lustro della nostra Colonia. Come Catone e Fabio Massimo egli ha regolato la temperatura dei getti di acqua calda. I condotti portano pure le onde dai larghi depositi del Sarno e le si rinnovellano continuo. Una imposta più grave converrà votare per.... Una voce potente tuonò dai portici ed interruppe lo edile. — I ricchi hanno i loro _balinea_ domestici, corredati di ogni femminea ricercatezza. Al popolo bastano le terme dove toglieva i suoi bagni Scipione l’Africano. Quel terrore dei Cartaginesi bagnava in povero luogo il suo corpo affaticato dai lavori dell’agricoltura; che il grand’uomo piacevasi coltivar _more antiquo_ il piccolo predio colle sue mani gloriose. — Ora, pavimenti istoriati per poco venerabili piedi! Soffitte dorate e a rilievi sopra capi senza cervello! — Stanze da giuoco e da unguenti! — Mascherate ridicole! — Ai bei tempi che non son più, i nostri padri sitivano di guerra e di gloria. — Poveri eroi del vecchio Sannio! Ora passa un nipote degenere sul margine della via, e vi sembra che là sia piantato un giardino. — Ingiusta è la tua rampogna, Appio Crispo. Altri e diversi i tempi da te mentovati. Una volta il popolo lavava le braccia e le gambe allorchè i lavori, cui era addetto, quelle membra particolarmente gl’insudiciavano. L’abluzione della intera persona non avea luogo che ogni novenio, nell’epoca dei mercati. — Ora trovi tu male ch’ei si lavi ogni dì? Che prenda il bagno caldo? Che preferisca le pure linfe alle torbide? Che le sale ove l’occhio ei riposa siano adorne dalle arti del bello e i pavimenti abbiano musaici invece di pallidi mattoni? — Anche i ricchi si contentavano di una giornaliera abluzione. Ora passano la loro vita nel bagno. Per Ercole! E la sera, dopo averne presi otto a vapore, fanno pietà a vederli. Hanno a mala pena la forza di star ritti e di risponder col gesto se sono salutati. — Vuoi che anche la plebe si mummifichi al pari di essi? Vuoi ch’essa apprenda a tergere collo strigilo i suoi profumi invece che i suoi sudori? — Un mormorio di grida indistinte udissi in ogni parte del Foro. Allora il questore levossi in piedi e cominciò a ragionare. Ma le interpellazioni violente, partendo da vari gruppi sotto i portici, coprirono il timbro della sua voce. Aveva un bello affannarsi nel dire: — Pace, pace! — Nessuno gli dava retta, e tutti ad una volta, con gran lusso di gesti, dicevano: — È contro la plebe. — No. È per lei che ha fabbricato le Terme. — Plutone lo inforchi! — Come? Forzarci a prendere i bagni ogni dì? Converrebbe essere censuari, o non aver famiglia da nudrire! — Sappiate almeno, prima di bociar tanto, contro qual cosa facciate il vostro richiamo. — Le Terme, come il Tempio, come la Basilica, come il Teatro, sono lustro e vanto di una città. — Io trovo che nel _baptisterium_, dove andai a prendere il bagno freddo in comune, tutte le delicature enumerate non vi erano. — Bestia! — Se fossi entrato nell’_apodyterium_, nella sala a dritta, ove si depongono le vesti, avresti notato il fastigio degli ornati che non sono nel tempio. — E bene sta. — La plebe è sovrana, finchè i vizi di Rema non l’avranno venduta — o finchè i suoi propri non dicano il suo prezzo all’uomo che ha l’occhio dell’aquila. Abbia anch’essa il suo _frigidarium_, il suo _tepidarium_, il suo _sudatorium_ e il suo _eleotesium_ per spargersi di profumi sul corpo estenuato dalle fatiche. — E con una voce stentorea, addensandola nelle palme chiuse in arco, proseguiva: — Parli lo illustre Cascellio. — I duumviri ristabiliscano il silenzio. — Gli araldi dopo vari tentativi potettero ottenere un po’ di calma. Allora il questore: — Appio Crispo mi permetterà ciò che mai non seppi rifiutare ad alcuno nella mia non breve vita di magistrato. Potrei dirgli com’egli mal collochi la sua demofilìa. — Chè, val meglio far gustare ai diseredati dalla fortuna i comodi della vita domestica, onde averli discreti, costumati, tranquilli, di quello che averli selvaggi e brutali. — A mente posata tutti mi daranno ragione e plaudiranno a questo prodotto della nostra amministrazione. — Or noi prendiamo a nostro carico la eccedenza della spesa sulla somma che ci venne allogata. — Ed io pagherò di proprio il mantenimento delle pubbliche nuove Terme, acciò non dia ragione ad elevare le tasse sulle colonne e sulle terre, o di lasciarlo a carico del pubblico tesoro. — Secondato da un mormorio favorevole dell’assemblea, il questore tornò alla sua sedia curale. Ma tutti i decurioni lasciarono le loro e si fecero a stringerlo, a lodarlo, e taluni anche a baciarlo. La discussione venne continuata pro o contro lo assunto, ognuno terminando il suo discorso colle parole: — _De ea re ita censeo._ — Oppure — _Assentior._ — Oppure — _Assentior et hoc amplius censeo._ — Non levandosi alcuna voce sulle altre questioni dell’amministrazione municipale, furono tacitamente adottati per buoni i temperamenti ritolti dall’autorità. — Non così quando Mamusa venne a trattare della costruzione delle vie interne e delle pretorie, nonchè delle vicinali, che menavano a piccole borgate e ad oppidi o li traversavano. Un decurione, breve della persona, dagli occhi piccini ma divoranti come quelli del tigre, valoroso soldato sotto Silla, il gran capitano, chiese se gli desse facoltà di parlare. Dotato di una grande originalità di carattere e d’immenso coraggio — perciò amico fedele al vero e a tutta la sua parentela — di cuore elevato, mia soffrente gli entusiasmi del momento, credeva che la parola fosse per correggere gli errori, per togliere le cose dalle mani incapaci, e per far sorgere di terra bisogni acquetati, universalmente riconosciuti. Tale era Ninnio Mulo, il quale discesa la gradinata si apprestava ad arringare sul pulpito. — Tu vuoi, o popolo, ch’io dica la verità, non è vero?... Ho la mano memore di colpi di daga, ma la lingua non seppe dir mai fiori retorici. — Fui marinaio — Sono soldato — Do quel che ho — Ebbene! quegli egregi che seggono dietro di me non fanno il loro dovere. — Sarebbe stato bene tu non li avessi mai eletti. Ma farai meglio di non li eleggere più. O popolo! Cotesto ingombro di schiavi di ogni terra del mondo ti degrada, ti dà i suoi vizi. E omai domandi di esser nudrito e distratto coi giuochi dello anfiteatro. — Scorgendo qual sia il mezzo di piacerti, erigono bagni di lusso, rizzano per sè e pei liberti sepolcreti maestosi che giammai ebbe un salvatore della Repubblica in campo, e con ingenti spese fanno venire dalle scuole di Capua e di Ravenna compagnie gladiatorie e di Roma bestie feroci. I tuoi padri sarebbero stati loro grati per le opere di utilità pubblica, compiute a gloria di tutti. I porti, le vie interne, le strade consolari; ecco i lavori degni della tua maestà, o popolo. Giulio Cesare non ha speso pei bagni, egli — ma per la riparazione della via Appia. Guarda or le tue strade urbane — osservane i _margines_ sbocconcellati, mancanti, alti, bassi, irregolari. — Per iddio Marte! Non sono molte sere ebbi a snoccolarmi un piede sulla via ove sono le fontane del Toro e di Sileno — Par greto di fiume. — E volgendosi indietro rosso come bragia: — Ti fa vergogna, o Mamusa! — Poi continuando: — Presso la fontana della testa di Venere, sulla via che mena alla porta di Stabia, ebbi a raccogliere un povero vecchio che aveva perduto lo equilibrio su quei solchi di pietra — e tutto sanguinoso nel capo, votava i magistrati alle furie di Averno. — Onta e danno! Ho detto abbastanza.... Pure aggiungo che la strada per Oplonte ad Herculanum è impraticabile, e le carra vi s’impaltenano nel verno a non poterne uscir fuori che a stento. — Strade e... scuole... Anche queste fanno pietà! Una plebe più istruita e meno profumata fa gli affari della Repubblica. — Quando Ninnio — terminato il discorso che il nobile cuor gli dettava — si volse alla sua sedia curule, trovò Cicerone che colle aperte braccia lo accolse e gli disse: — Salve, amico. Bene dicesti! — Nel Foro molte le voci plaudenti. Scarse sul peristilio del tempio. Aufidio Mamusa che avrebbe voluto essere rieletto, non volle rimanere sotto il peso di tanta censura. — E rispose: — L’onorato cittadino che tutti amiamo e stimiamo, equo sempre nei suoi giudizi, volle esser ingiusto oggi con noi. La via suburbana dei sepolcri, che appellasi _Domitia_ e che mena a Neapolis, fu rifatta dai magistrati che ci precedettero nell’arduo incarico. Il suo stato è eccellente. Solo negli acquazzoni estivi le terre di alluvione la ingombrano, ed abbiam cura di farla netta dal fango in ogni circostanza. — Dal tempio della Fortuna sino al crocicchio della fontana del Toro facemmo selciar di bel nuovo la via colle pietre del monte Vesvio, e la superficie dei margini fu composta di ciottoli spianati e murati a livello. Computata la spesa di quel tratto, avremmo a poco a poco restaurato il resto sino al quatrivio e subito messo mano a riparare la strada veramente ruinosa che dalle mura sbocca fuor della porta di Stabia _ad cisiarios_. Se il suffragio popolare continuerà a farci onore, le mie parole diverranno fatti. Allor sorse un uomo dal corpo tarchiato e breve, dallo aspetto infantile, dalla parola facile e petulante. Volea parer grave — e non lo era. — Volea essere austero — e non gli era possibile. — Volea sembrare decente — e tutto glielo vietava! — Egli apparteneva a quella falange di ambiziosi — leviti dei culti riconosciuti — predella agli audaci che salgono — difesa a compenso di chi teme e spera — uomini che impongono ordine e non danno sicurezza al partito che a sè lo chiama. — Ei cominciò: — Ninnio per fermo vince battaglie — e sè stesso non vince. — Regge a meraviglia le sue coorti ed è la spada di Marte quando a capo dei veterani si scaglia in mezzo ai nemici. — Ma conosce egli le difficoltà di una amministrazione civile? — Oh quanto il dire è diverso dal fare! — Io fui già _curator viarum_, o meglio appartenni al quatuorvirato dei _viocures_, come il popolo gli appella. Mi si permetta pertanto di dire col sublime oratore che oggi onora la nostra assemblea: _cedant arma togae_. — Per istabilire una strada si comincia dallo aprire un fossato sino al terreno solido. — Livellato il fondo lo si cuopre di uno strato spesso di fina sabbia. — Allora la costruzione ha principio collo _statumen_, che è il fondamento, composto di larghe pietre e piatte, riunite da un cemento durissimo — col _rudus_, che è una zavorra di sassi, di mattoni, di tegole rotte e di calce — col _nucleus_ che è uno strato di sabbia e di calce e che ben livellato forma il nocciolo della strada — colla _summa crusta_, o il _summum dorsum_, formati da grandi poligoni irregolari di silice o di pietra vulcanica; quasi dura quanto il ferro. Cotesti lavori chieggono tempo e danaro. Date denaro e tempo agli egregi magistrati, che ora è un anno voi nominaste; e le strade e le scuole e tutte le nobili instituzioni della Colonia risorgeranno. Le ultime guerre civili nocquero ad esse. Allorchè i partiti si disputavano lo imperio, e il Governo era nei campi di battaglia, e la pecunia pubblica veniva assorbita dai soldati, tutte le civili magistrature decaddero. — Una nuova êra è risorta. Già in Roma alcuni senatori hanno preso il còmpito di dar riparo alle vie abbandonate da quindici anni. E il dittatore medesimo ha assunto la ricostruzione della strada Flaminia, che mena dall’Urbe ad Ariminum. — Gli attuali magistrati io li dichiaro degni della Repubblica, ed al popolo raccomando la loro rielezione. — A quei detti Ninnio sorge con impeto, e tutto rosso per la collera, grida dal pulpito ov’è corso: — No, cittadini — _Oro ut non faciatis._ — Una certa agitazione in senso diverso occupò allor l’assemblea. I clienti si slanciavano nei gruppi per patronare i suffragi pei loro candidati, dicevano il loro elogio, parlavano della loro condotta passata e della malleveria per lo avvenire, citavano testimoni e garanti, o il personaggio sotto i cui ordini avevano portato le armi, o quegli presso il quale erano stati questori. E taluna volta aggiungevano verità o calunnie sulla nascita e sui costumi del competitore che osava presentarsi candidato della magistratura a fronte del proprio degnissimo. In fra tanto i duumviri interrogarono i decurioni un per uno colla formola: — _Dic quid censes_ — per sapere se la discussione dovesse esser finita, o passare immediatamente ai voti. — Venne accettata la seconda proposta. — Allora furono fatte suonar le trombe per intimare il silenzio e un duumviro gridò dal pulpito, invitando il popolo a ritirarsi: — _Si vobis videtur, discedite_ — e lesse ad alta voce il senato-consulto ordinario, il quale ratifica anticipatamente la scelta dei magistrati futuri del popolo. Ed aggiunse la nota di quelli le cui funzioni scadevano in tal giorno ed i nomi degli altri, raccolti dalle rogazioni inscritte in rossi caratteri sui canti delle vie. Quindi: — _Quod bonum, faustum, felixque sit_ — cioè, che tutto questo avvenga per il bene, la felicità e la prosperità pubblica. E si ritirò col collega e cogli altri magistrati da quel posto sino allora occupato, e cogli altri magistrati discese la gradinata del tempio, quasi per confondersi colla folla. — Gli era un mostrare di bel nuovo le loro persone ai cittadini riuniti ed un testimoniare che si ritiravano in un canto per lasciare una maggiore libertà di voto alla coscienza del popolo. Nell’atto dodici littori coi loro fasci armati di scuri escirono dal _Senaculum_ e vennero a porsi in mezzo all’area del Foro insieme cogli araldi, i quali deposero sopra una predella un alto paniere cilindrico, detto _cista_, dove i cittadini avrebbero gittato i loro voti. I littori abbassarono rispettosamente i fasci dinanzi l’assemblea in segno di omaggio alla sovranità del popolo. In un luogo designato si distribuivano ai cittadini tre tessere di bussolo. Una portava incise le due lettere V. R., cioè _uti rogas_, che indicava l’accettazione delle leggi come erano state richieste. L’altra portava la sola lettera A. cioè _antiquo_, che voleva dire, il rifiuto delle leggi proposte. La terza era bianca di cera e su di essa si scrivevano i nomi dei magistrati cui ognuno dava il suffragio. — E colà più vive erano le passioni dei partiti. Gli amici andavano, venivano, correvano dalle centurie dei cavalieri a quelle del popolo — e sugli occhi dei votanti leggevano la indifferenza, la incertezza od il partito preso — e seminavano la calunnia — e reiteravano le promesse — e proclamavano il loro candidato _bonum virum_ — o _verecundissimum_ — o _dignum reipublicæ_ — o _ædilem optimum_. — E i giovani — sempre i più bollenti — mettevano in siffatte sollicitazioni lo ardore, lo zelo, il fuoco, della loro età e correvano a riferire ai loro favoriti tutto che poteva interessarli. Le guerre civili avevano spezzato le nobili tradizioni dei popolani diritti. — La confusione e la inerzia — i bisogni sureccitati e il desiderio dei facili guadagni — le immoralità che avevano scoperto il debole della corazza e sapevano dove spingere la loro punta — tutto questo aveva fatto del popolo una mandra di pecore, le quali vanno dove veggono andare gli animali della loro specie. Quando una centuria ebbe scritto i suoi nomi, essa aprì il varco tra le colonne del portico e gittò ostensibilmente le tessere di legno nella _cista_. Gli addetti alla ricognizione dei suffragi — i _rogatores_ — colle braccia nude sino alle ascelle, ritiravano le tavole e, dopo averne volto la superficie bianca verso il popolo, le leggevano a chiara voce. — Altri, preposti _ad dirimenda suffragia_, le separavano, le contavano e marcavano sur una loro grande tessera un punto per ciascuna legge o per ciascun nome di candidato. — Conosciuto il voto di ogni centuria, un suo araldo — il _praeco_ — ne proclamava il risultato. — E si udivano battute di mano, o segni di disapprovazione, a seconda delle opinioni degli uomini. Le donne dall’alto del terrazzo agitavano anch’esse le braccia bellissime nello udire il trionfo dei prediletti dal loro cuore. Mentre quel fatto importante occupava il popolo nella piazza, Ninnio traeva M. Tullio Cicerone in un angolo interno del tempio e dicevagli: — Ascoltami, o grande cittadino. — Il rovescio della pubblica cosa mi morde potentemente il cuore. — Talvolta il dolore pieno di maturità è sì forte, ch’io sento l’arma del suicidio corrermi per le mani, quasi io mi fossi un uomo senza energia e senza fede. — Tale altra una disperazione piena di gioventù mi offre il rifugio migliore contro i disgusti e le tristezze dei miei pensieri. — Io soffro una di quelle febbri che logorano la cosa immortale — quando esse vengono per accenderla o per consumarla. — E stringendogli forte le mani, riprese: — Ho due nobili parenti — la Patria e la Libertà che a vicenda e simultaneamente io sento madri delle sole virtù che i disinganni non uccidono mai. — E come te vidi trionfanti quando aveva i piedi nel sangue e la testa avvolta nella polvere riscossa del campo di battaglia, così ora mi appaiono avvilite, prostrate e presto uccise nella visione del mio dolore. — Vuoi tu salvarle dalle mani parricide di colui che ha assorbito il dominio del mondo e che spossa lo aiuto delle leggi, travolgendole con pratiche da moneta? — — _De illo quem penes est omnis potestas?_ Comprendo il tuo dolore e lo sento. Con lui la giustizia e i diritti sono violati. Spesso lo udii ripetere i versi di Euripide. — «Se si ha a violar la giustizia, ciò si debbe fare per cagione di dominio. Nelle altre cose si debbe aver rispetto alla pietà inverso la patria.» — La legge è il suo Capriccio. Gli è perciò ch’io mi son ritirato di Roma. La Curia ed il Foro, vani nomi. Mi duole esser nato troppo tardi e sorpreso — pria di compiere il viaggio della mia vita — dalla notte profonda in cui brancola la pubblica cosa. Ammiro Catone. Ma dipenderà sempre da me lo imitarlo quando vorrò. Solo mio studio è procacciare che una tal fine non mi si faccia come a lui necessaria. — — Che parli di morte? — Diamola a chi la merita. — Qui sono tre coorti di veterani — uomini provati sui campi decorosi di nobili cicatrici, tenuti in conto dalle altre milizie e non ancora corrosi dall’oro del tiranno. — Me, le coorti e questo paese io ti consegno. — Accetti? — Cicerone si strofinava il mento colla mano sinistra. Dopo una breve pausa rispondeva: — Rifletti, o egregio. Tre coorti che sono? Ed anche fossero dieci, e più, che sarebbero? E quali le preparazioni per un sì grave avvenimento? Quell’uomo è potente di genio e di prestigio. Non è albero che crolli. E se giungi a tagliarlo, ripullula. — Tali i segni del tempo! — Ho lettere colle quali uomini ignoti mi ringraziano per aver ottenuto col mio suffragio — così credono! — il titolo di re. La tirannia si corona di falsi senati-consulti. — E i padri coscritti hanno tutto obliato. — Son fango! — — E Bruto e Cassio.... — Vieni domani a trovarmi. — Intanto penserò. — Voglia Iddio non fare sterile la lotta contro le leggi implacabili che qui distrussero la Libertà. — Ma il grande ingegno presumente e vano di Cicerone non era adatto alla rigenerazione di un popolo. La calda immaginazione che lampeggiava sui Rostri e nel Senato gl’impediva di ben conoscere gli uomini e le cose. — Era anche onesto e il suo animo rifuggiva da quei patti che le rivoluzioni impongono per aggiungere il trionfo. Tornato in villa, prese il bagno, si chiuse nella biblioteca e riflettè lunga pezza sulle cose dettegli da Ninnio. — Lo esempio dei saggi di Atene e di Siracusa il consigliò a liberamente vivere senza urtare nell’orgoglio dei prepotenti e senza punto umiliare il proprio carattere. Pianse la sua patria amaramente — come si piange la morte di un unigenito — e decise di consolarsene, dandosi allo studio e ai lavori letterari che stimava non poter essere affatto inutili ai suoi concittadini. — Pria di coricarsi, scrisse ad Attico sulle proposte ardite fattegli da Ninnio e gli rivelò la risoluzione presa di andarsene _ante lucem_ a Cuma, per evitare inutili e perigliosi accordi. — Grande ingegno! Non grande uomo! Lo scrutinio dei voti era terminato. — Si suonarono le trombe per richiamare l’attenzione pubblica. Uno dei _rogatores_ salì sur un piano centrale elevato e proclamò quello che gli scribi avrebbero poi notato nelle _tabulæ publicæ_ insieme colle particolarità e col risultato della elezione. Per la qual cosa, nel 705 della fondazione di Roma, vennero eletti a magistrati in Pompei, sedenti Consoli nell’Urbe C. Claudio Marcello e L. Cornelio Lentulo: M · BLATTIVS · M · FILIVS M · CERRINIVS · M · FILIVS M · SEPVLLIVS C · CORNELIVS · RVFVS M · SALVIVS · EPAPHRA P · ROGIVS · VARVS · P · FILIVS M · TITIVS · PLVTVS · LIBERTVS M · STRONNIVS · LIBERTVS La clessidra notava la settima ora. — La folla si disperse per tutte le direzioni della città e di fuori. Gli eletti, riunitisi, procedettero verso il tempio; e di là, uno in nome dei colleghi ringraziò il popolo dei suoi suffragi e promise quello che ogni magistrato promette e non tiene. Quindi si ritrassero nello interno per sacrificare agli Dei. Intanto la novella della elezione era corsa rapidamente. — Le case dei nuovi brulicavano di clienti, di parassiti e di supplicanti. — Festoni di lauro inghirlandavano le porte. — Corone di fiori circondavano le immagini dei maggiori o dei patroni della famiglia. — Innanzi la casa di Cerrinio v’era distribuzione di pane e di vino. — Vedi plebaglia che si nudre della propria venalità! — — E il corruttore là dentro, nell’oro e nella porpora! — Coteste parole si ricambiavano Crispo e Ninnio, soffermandosi un poco sul margine opposto, nella via dell’Abbondanza. LA STRADA. SCENE DIURNE IN POMPEI. =Anni di Roma 767 — Anni del Cristo 14.= A GIULIA, EMILIA E MARIA DINO A MARIA HACKE. IV. — Ho udito un gran caribo stamane. — Suonano il campanello a rompere i timpani! — Di’. — Sono molti i _visitatores_? — Come al solito, padrone. — Troppi. — _Ingentem undam!_ — Temerario! — Tu non devi giudicarli. — Solo dirmi se sono _primæ aut secundæ admissionis_. — Di ambedue. — L’_ostiarius_ ne ha picchiato qualcuno colla sua verga. — Un ortolano tra gli altri con un mazzo di bei carciofi voleva introdursi _a prima luce_, per forza in cucina. — — Non una parola. — Tu saresti com’egli è, se non qui. — Portami un’acqua melata e aromatica. — Apparecchia il tutto per le abluzioni. — Disponi la _vestis domestica_... — È buona la temperatura? — Il sole indora coi suoi primi raggi i monti Lettuari e il nostro Vesvius, sacro al padre dei Numi. — Vanne. — Poi che il liberto escì facendo ricadere sull’apertura del _cubiculum_ una spessa stoffa di Tyro, il padrone si tolse ignudo dalle coperte di lana e di pelli di talpa — colle quali era avvolto nel suo letticciuolo a rilievi di avorio su piedi di bronzo. — Ed asperse di acqua le membra partitamente. Chiuso in un’ampia veste di lana bianca che gli scendea sopra i piedi, pose nell’anulare il cerchio di ferro — antica ricompensa della virtù guerriera — e adattò alle braccia i _calbeos_ di bronzo, pari a quelli che portavano i militi distinti pel loro valore. — Il servo rientrò e gli offerse fin una tazza di cristallo la bevanda richiesta. Ei la sorbì a piccoli sorsi, facendo scoppiettare le labbra. E rivoltosi al liberto: — Ecco la vera essenza della gioia umana, o Crisanto. — Ciò non aveva nei campi ove ho lasciato il mio sangue. Se può gustarsi qualche cosa di migliore, io voglio che me lo dicano. — Marco Olconio Rufo, figlio di Marco — duumviro incaricato per la quinta volta di rendere la giustizia, tribuno dei soldati nominato dal popolo, uomo a cui i pompeiani avevano eretto una statua nel Foro, a compenso delle molte liberalità sue e specialmente per aver fatto costruire dal suo liberto, lo architetto Martorio Primo, un tribunale presso l’_Ecatonstylon_, il gran teatro, una cripta e il muro laterale del tempio di Venere Fisica per formare lo ambulatorio nel portico dell’Agora antica — era un generale ritiratosi dall’azione per riposare la sua vigorosa vecchiezza negli agi della casa avita e presso il patrimonio della famiglia. L’alta statura, il grave incesso, la memoria dei fatti compiuti incutevano rispetto. Il suo profilo largamente delineato accusava una certa durezza procacciatagli dall’abito del comando che non vuol repliche. Il viso aveva bronzato dalle intemperie dell’aria. E quando i neri e copiosi sopraccigli si aggrinzavano sui suoi occhi aggrottati, ai suoi servi parea vedere quel cumulo di nubi oscure da cui scoppia la folgore. L’affluenza dei clienti era grande. — Ve n’erano sulla strada. E nel vestibolo e nell’atrio secondo la loro condizione. — Nessuno mormorava. Tutti facevano prova di pazienza la più intrepida, malgrado lo sguardo sdegnoso e venale dell’ostiario e i titoli di cani e di piaggiatori ch’egli distribuiva ai miseri che pur faceano di tutto per ingrazionirselo e renderselo benevolo. Alcuni eransi levati di notte per attendere presso la porta di Olconio i primi fuochi del giorno. Nè avevano avuto il tempo di farsi radere. Erano appena coperti sull’epidermide della toga di rigore, per far presto ad onorare il patrono in faccia al pubblico e per darsi l’aria di essere cittadini di un certo ordine agli occhi del cerbero brontolone. Il popolano indossava il _plebeius amictus_, la così detta _pullata_, ch’era una tunica corta, di color bruno, senza maniche e discendente poco più oltre della metà delle coscie. — Il patrono è egli desto? — È egli di gaio umore? — Fugli propizio Morfeo? — Via canaglia! Ho anche a rendervi conto di quello che fa il mio signore? Indietro. O vi sguinzaglio il molosso! — Sii più umano. — Prendi questo denaro. — Calmati. — Vedi, non sono indiscreto io come il _pomarius_ che poc’anzi scacciasti per la sua audacia. — Ma egli era anche più audace. Perchè, entrato dopo aver unto le dure ferramenta dell’uscio, nel dispetto de’ suoi compagni rimasti al di fuori, faceva già cenni col capo al cubiculario che vide passar nel _cavaedium_, il quale non gli diè retta, e poi al _nomenclator_, servo non meno insolente, che aveva il còmpito di prender nota dei nomi e delle qualità delle persone venute a complire il padrone e di soffiargliele all’orecchio a misura che a lui si presentavano. Ma questi, nell’atto che moveva verso lui, fu richiamato indietro da un liberto, il quale lo avvertiva come il generale fosse per passare nel tablino. Di fatto, ecco gli amici che gli vanno incontro e gli stringono la destra, e gli chieggono della salute e gli augurano un giorno felice. Egli li chiama a nome; loro dimostra una certa familiarità; s’informa delle cagioni che a lui li guidarono; dice che farà per essi ciò che si fa pei propri figliuoli; promette colla sua influenza di raddrizzare i torti che loro vennero fatti; di assumerne le difese contro i loro accusatori o di procurare ad essi quella tranquillità di cui avevano bisogno negli affari pubblici o privati. — I clienti da parte loro a lui rivelano le proprie cose. — E lo pregano d’influire al matrimonio d’una figliuola con un ricco suo amico. — Ed aggiungere un regalo al suo corredo. — E ad aiutarlo di pecunia per rizzare su la casa screpolata e guasta dal terremoto. — E a proteggerlo per aggiungere la magistratura cui aspira. — Ed a farlo nominar augure pei servizi prestati da molti anni nel decurionato. — Ed a procurargli l’area gratuita nella necropoli sulla Via Popilia che menava a Nola, ove voleva erigere un sepolcro per sè e pei suoi. La Clientela fu una nobile instituzione creata da Romolo per unire in istretto legame i patrizi ai plebei. Questi dovevano scegliere i loro _patres_ perchè gli proteggessero. Essi avevano il debito di soccorrere ai _colentes_ che gli onoravano. Nè potevano mutuamente accusarsi dinanzi i tribunali. Nè testimoniar contro l’altro. Nè farsi inimici mai. Ed ove cotesto accadesse e ne fosse constatata la infrazione, il reo avea il capo mozzo come vittima sacra a Plutone. Una legge siffatta e tenuta in rispetto per parecchi secoli strinse in vincoli di famiglia il popolo quirite. Le famiglie patrizie si onorarono di un gran numero di clienti e li perpetuavano nella loro discendenza come una tradizione. Ognuno si faceva superbo nell’aumentarlo. E i ricchi e potenti erano fieri nel rendere buoni uffici. E i bisognevoli temevano di abusarne chiedendoli. E tutti fecero consistere la felicità nel buono, nell’onesto, nella parte produttrice della virtù. Ma l’ampiezza soverchia di Roma logorò a poco a poco i legami della vecchia famiglia e non si sentì più l’obbligo rispettivo dei doveri tra i protettori e i protetti. Per riallacciare i rallentati ricambi, i necessitosi di aiuto ricorsero all’adulazione, alle viltà, alle bassezze. E i superbi e i vogliosi di cortigianerie, alle _sportulae_ ed al _panariolum_, viveri di mediocre qualità che il patrono facea pubblicamente distribuire sul vestibolo della sua casa alla folla affamata che vi si stipava. Alcuni invece di vettovaglie davano danaro; tanto da procurare a quella geldra raumiliata i sandali, una tunica usata, un poco di fuoco per riscaldarsi, un po’ d’olio per rischiarare il tugurio e una coperta per avvolgervisi nell’inverno. E quelli, di rimando, lor davano i titoli i più esagerati, fin quello di _rex_, quantunque proscritto insiem coi Tarquini. — Era la _Eccellenza_ e la _Uscenza_ che i popoli meridiani d’Italia appresero nei tristi tempi dei Vicerè e dei Borboni, con cui per vecchia consuetudine ancor si salutano — ridendone dentro — malgrado lo espresso decreto del più accetto tra i dittatori e del più nobile tra gli uomini — il generale Garibaldi. Così in Pompei, ove gli usi di Roma erano penetrati colla conquista. — Olconio e i suoi eguali in dovizie, in virtù ed in potenza, volendo ricevere i propri amici e beneficarli, doveva pur ricevere la vile plebaglia dei chiedoni, dei sopraccarichi di famiglia, dei postulatori d’impieghi — senza voglia di lavorare — e degli accattoni, pronti alla menzogna e al mal fare. — Erano cittadini — avevano diritto al suffragio nelle elezioni alle magistrature annuali. Dunque era necessario aprir la porta e far entrare quelli che pur dianzi _ibi fucum faciebant_ — cioè — che colà imitavano il ronzìo delle vespe. Il diritto di clientela non era ristretto alle sole persone. — Le colonie, le città conquistate, le alleate nazioni e i re barbari imitarono gl’individui e scelsero i loro patroni nell’Urbe, il _caput mundi_. Così Cicerone patronava i Campani. — Fabio Sanga, gli Allobrogi. — Catone, l’isola di Cipro ed il reame di Cappadocia. — Marcello, la Sicilia. — Un patronato siffatto era bello, onorevole, lusinghiero — il più nobile, il più caro privilegio — quello di fare il bene, di acquetare i dolori dei popoli, di riparare ai lor danni. — Anche i deputati al Parlamento italiano potrebbero talvolta suffragare ai più cari interessi di qualche provincia, o far cange le sorti di sventurate famiglie, se i ministri — od i loro subordinati — non si opponessero troppo spesso ai giusti loro richiami. Olconio avea già spacciato gli affari col suo piccolo cerchio di amici o di clienti che facevan parte della _prima admissio_. La educazione dei tempi chiedeva che quelli della _secunda_ aspettassero il suo comodo. Rientrò quando a lui parve nella camera e dopo qualche tempo ne esciva vestito col suo abito da Foro. Preceduto dai primi, riceveva i saluti e i piati e i desiderii dei secondi. E poi, da essi seguìto e aiutato dal nomenclatore, parlò affabilmente ai miseri ed abbietti che gli venivano presentati, dava il buongiorno a tutti; qualcheduno, che sapeva influente nei trivi, baciava; qualche altro accoglieva con una stretta di mano; ed il resto salutava gravemente.... duramente quasi. — Dinanzi la porta era una lettiga, portata sulle spalle da sei schiavi. Vi si chiude. I più fedeli clienti, di un certo ordine, lo accompagnano intorno. — Gli altri lo seguitano formando una coorte. — Hanno lasciato però i loro nomi al nomenclatore, per ricevere più tardi le beneficenze del munifico _rex_. Il corteggio va verso il Foro. — Parecchi se ne incontrano sul posto. — Quivi discende. — Ed entra nelle Curie. — E si apre l’adito nella Basilica. — E penetra nel Calcidico. — E va sino al Senacolo. — E per ogni dove la sua parola è ascoltata, i duumviri acconsentono, gli edili promettono, il questore non niega. Persino i sacerdoti — gente per abito arrogante ed egoista — palesano una deferenza ai suoi desiderii. Siccom’egli, gli altri. — Dalla terza alla sesta ora del giorno — cioè dalle otto del mattino a mezzodì — tutta Pompei è in faccende. — I tribunali rendono la giustizia. — I banchieri lavorano nei loro fondachi argentari. — I magistrati sono in funzioni. — Gli artigiani martellano, scolpiscono, dipingono, cuciono, gridano il nome delle cose che vendono. — I preti inventano frottole e le danno come oracoli in nome degli Dei, cui dicono di essere ministri. — I fannulloni vanno nel pubblico bagno. — I villici trasportano le derrate dei campi per venderle ai tavernai, ai _cauponatores_, ai cittadini che ne abbisognano, ai fornai; o pur le consegnano ai fattori del padroni che le fanno vendere nelle due botteghe che si aprono ai lati della porta della casa. — I naviganti e i mercatori si occupano dei loro commerci nel porto, nel deposito delle merci venute dal mare e nel portico del tempio della Concordia. — Gli agenti del pubblico tesoro riscuotono dai rivenduglioli il centesimo del prezzo delle cose vendute, le esaminano, verificano il peso del pane e rifiutano dal mercato tutto ciò che lor paia di pessima qualità. — Gli scribi li seguono per far processo verbale all’occorrenza sulla pubblica via. Poco più in su della taverna di Fortunato, sulla via Domizia, un cittadino arrestavasi presso l’angolo della bottega del farmacista e si appresta a compiere un atto nè decente, nè pulito. Uno che passa, lo picchia sulla spalla e gli dice: — Ehi! _Quid agis, dulcissime?... Non est hic locus._ Non hai occhi per vedere la pittura sul muro? — Quegli si ricompose e si disse straniero. Allora l’altro gli aggiunse in greco che i due serpenti a lato di un modio ripieno di frutti e i geni domestici dipinti sul muro, significavano — oltre molte cose — che quel posto chiedeva rispetto. V’erano barili segati. V’erano anfore rotte in ogni quatrivio per lo affar suo. E gli additava quei mobili poco discosto col dito. Il forestiero si arrese al monito e ringraziò. — Gli è che in Pompei, per impedire a chiunque lo sbarazzarsi in ogni loco della soprabbondanza del fluido che dentro lo tormentava — oltre aver instituito latrine pubbliche nei posti i più frequentati — ed una amplissima ve n’ha a lato della prigione nel Foro — collocavano in ogni crocicchio anfore o barili per accostarvi le immonde aspersioni. E per guarentirne i luoghi sacri e le passeggiate faceano dipingere quei serpenti ch’erano pur simbolo di Esculapio e d’Igea. Furono i tavernai ed i rivenduglioli che inventarono cotesto rimedio per ispaventare i fanciulli che insudiciavano gli angoli esterni delle loro botteghe. Alcuni aggiungevano al simbolico spauracchio una inscrizione apposita. — E i sacerdoti con esse invocavano sul capo dei rei la collera dei dodici grandi Iddii e particolarmente di Giove e di Diana, i quali non avrebbero risparmiato la gente grossolana che obliasse ai piedi di un tempio com’essa non avesse un’anfora od una botte dinanzi. — Il serpe che divora una pigna era adunque come la croce nera sui canti di Napoli. — Laonde Persio dice nella Satira prima: _Pinge duos angues; pueri, sacer est locus; extra_ _Mejite._ Per tutto è frastuono di voci. — I rivenditori di cose crude o cotte non si contentano dell’_oculiferium_, cioè della merce che spacciano posta in mostra. Nè di un quadro di terra cotta in rilievo incastrato sul muro esterno della bottega. Nè di un dipinto allo encausto, rappresentante il nume a cui è devoto, o una giostra di gladiatori, od un combattimento di cui egli abbia o no fatto parte, o lo aspetto di qualche strana figura che richiami l’attenzione di chi passa. — Nè li suffraga lo spander legumi, prosciutti, meloni, cataste di cipolle, di cavoli e di altre cose sul margine e fin sulla via ad abbarrarla. — No. — Essi debbono urlare i pregi della loro merce e il nome della regione d’onde provengono e la mitezza dei prezzi. — E i venditori di vino dispongono anche al di fuori botticelli ed anfore, legati per tema dei ladruncoli, ed urlano presso la porta, agitando un ramo di edera. — I beccai infilzano le carni a vista di tutti; a lato di quelle di capra sospendono rami di mirto per indicare che le provengono da una prateria di montagna, dove cresce quello arbusto; e gridano alla loro volta. — Nè stanno cheti i venditori ambulanti di pesci di mare e dei delicatissimi del Sarno. — Nè quelli stazionari che vendono carni cotte, bodini, salsicce, lardo, formaggi. — Tutti parlano a voce alta. — Tutti gesticolano furiosamente. — Tutti hanno argomenti sempre pronti per arrestare la curiosità dei passanti sulla loro via. E chi non dee far le spese per la sua casa, pure è forzato di far sosta, perchè un monello vuol vendergli per forza una ricotta entro un piccolo imbuto di vimini; — od una bambina, un cestino di ginestre ripieno di more o di frutti del gelso nero; — od una graziosa fanciulla, dagli occhi neri e procaccianti, mazzolini di giacinti, di rose di Poestum o di pervinche azzurre. A tanto baccano onesto, conviene aggiungerne uno nè bello, nè decoroso. — I marinai erano abituati a bever la _posca_ delle milizie lungo il viaggio di mare; cioè, una miscela di acqua e di aceto per acquetare la sete. — Una volta a terra, popolano le taverne — e ne escono cantori discordanti di canzoni bacchiche ed erotiche. — I villici che hanno intascato danaro nel _sinus_ della loro tunica, fanno stazioni lungo le vie là dove veggono agitarsi il ramo dell’edera, e ne vengono fuori bisticciandosi o cantando, a saltelloni correndo da un margine all’altro; e inforcato l’asino od il cavallo, con male articolate ingiurie trebbiano di vergate la misera bestia che deve pur trasportare un animalaccio più bruto di loro ai domestici lari. Un’altra immondezza delle vie era la mendicità di mestiere. Presso i bagni, sulle gradinate dei templi, ai piedi delle tombe, presso la porta delle _popinæ_ vedevi questi ladri del sentimento e della commiserazione tendere la mano, qual lamentando un naufragio che di ricco che era lo aveva reso povero. — Un asse, per carità, nobile patrizio. — Io ne diedi degli assi ai tempi lieti. — Eolo e Nettuno mi hanno ruinato. — Onore agli Dei, quantunque avversi. — Qual si ferisce o pur fascia la gamba in maniera da parerlo, e piagnucola e si dice morente per febbre e per fame: — Abbi pietà di un infelice, o tu che passi. — Era un _saccarius_. Mi cadde un peso addosso e mi ha ruinato. Per lo affetto dei tuoi figliuoli, pei mani dei tuoi nobili avi, un asse al povero facchino da grano che non può più lavorare e che presto morrà. — V’erano altresì alcuni speculatori, i quali datisi al culto di quella sirena, che si chiama la infingardaggine, e pur vogliosi di viver bene, offerivano alla lenta e sudicia Iddia lo incenso delle immoralità. Assoldavano alcuni storpi di Neapolis, di Herculanum, di Capua, di Poestum, e gli sguinzagliavano il mattino come cani famelici per le vie della città. Chi recitava la parte di soldato mutilato per la gloria e la salute della Repubblica. — Quale era stato prigioniero di Silla nella distruzione di Stabia; e riparatosi sotto i vessilli di Cluvenzio, generale Sannita, fu ferito gravemente alla battaglia di Nola; e mostrava una profonda cicatrice sull’occipite e ne accusava una più larga sul petto coperto. — Chi diceva sommesso essere un gallo schiavo, fuggito da uno spietato padrone nell’Urbe e chiedeva uno _stips_ — la più piccola moneta di rame che esistesse. — E la sera lo speculatore lor dava convenio fuor delle mura in luogo appartato, e si facea render conto da quei vagabondi delle somme raccolte. — E perchè così poco, o malandrino? — E tu, brigante, non avrai pianto abbastanza. — To’, una pedata. — Domani sera, se non porti di più, ti apprenderò io a piangere la tua sventura davvero. — Vile storpiato; ti farò passar per le verghe; così saprai meglio modulare al pianto la voce. — E tutti studiate i modi ingegnosi di questo gobbo di Baiae che ha saputo ingannare anche me, stamane presso il tempio di Romolo, non riconoscendolo. — Tieni, o camello. — Oltre ciò che ti spetta, anche un denaro di buon peso per te. — Vanne a scialare in una _popina_ per conto mio. — Sono passati diciotto secoli e la tradizione rimane ancor verde. Vi ha tal gente in Napoli che lautamente vive di una siffatta speculazione ladra ed infame. Il cattolicesimo vi presta la sua mano sacrilega. — Sozzi frati colla bisaccia sul collo; sozzi preti con un bussolo che scuotono nelle botteghe nel nome santo di Dio; sozza bordaglia, coperta di un sacco, cinto da una corda sui lombi, chiede danaro e l’ottiene a pro di turpi speculatori e per cause non vere. — E quel buon popolo — il migliore d’Italia per pronta intelligenza, per docilità di carattere, per esuberanza di cuore — su ricchissimo suolo, vegeta sudicio, lacero ed infingardo. — Demoralizzato dai preti, commette opere inique e crudeli. — Abbuiato dalla paura, dimentica il domani della vita e sciupa il sopravanzo dei suoi guadagni nello inutile tentativo di spegnere il sacro incendio del purgatorio cattolico, apostolico, romano. Lo _accensus_ grida per le vie popolose il segno del quadrante solare. — È l’ora sesta. — L’astro maggiore indica il mezzodì. — L’uso, e — più che l’uso — il clima, impongono la cessazione di ogni fatica. Le porte delle botteghe si chiudono. I patroni congedano i loro clienti. Qualche usuraio ancor cerca per le strade una qualche vittima. La plebaglia torna nelle sue case col beneficio che i _nomenclatores_ hanno a lei distribuito. — Ognuno desina, e mangia che può. — I ricchi e gli sfaccendati si gittano quindi sul letto per dormirvi qualche ore. Alle otto i più diligenti si levano per riprendere il filo degli affari. Ma alle nove — cioè, tre ore dopo il mezzodì — nessun pensa ad altro che a ricrearsi o a far panciolle. Lungo il canale del Sarno era uno spianato, convenio di tutti i monelli della città. Le bambine, assise al rezzo dei pioppi, giuocano cogli astragoli che gittano in aria col dosso della mano e, addoppiandoli, li riprendono nella palma. — I ragazzi si lanciano a vicenda il pallone, detto _follis_, lo raccattano e lo ripercuotono. — Altri, su terreno più duro, fanno girare una trottola, che chiamasi _turbo_, e a furia di sferzate le imprimono rigiri irregolari; quindi impalatala sulla mano destra, ve la tengono sin che si fermi. — I più piccini corrono a cavallo sur una canna. — O col fango costruiscono casucce; — o formandone un orciuolo, producono un rumore, scaraventandolo con impeto per terra; — o giuocano a pari e caffo; o lanciano in aria un asse, scommettendo se nel cadere presenterà la testa di Giano o la prua del trireme — _capita aut navis_. — I perdenti offerivano il polpaccio della gamba; e gli altri che avevan vinto, vi applicavano un colpo a mano spianata; e perchè nessuno ne desse uno di più per frode, il punito minacciava di una labbrata chiunque si presentasse. — I più grandi tentavano di far cadere una noce dentro il collo di un’anfora, conficcata in determinata distanza; o colpivano con una noce un cumulo di altre tre sormontate di una quarta, e la guadagnava chi faceva cadere il castello. — Fra gli adulti, ve n’era chi lanciava colla fionda una pietra a seicento passi entro un fagotto di paglia sospeso ad un albero; oppur unti di olio si esercitavano alla lotta come gli atleti; o infintisi soldati, marciavano com’essi, armati di corti bastoni; o simulando un tribunale e un delitto, si accusava un incriminato, lo si difendeva, si udivano i testimoni, o si assolveva o si condannava colla gravità dei magistrati. — Correvano, sudavano, urlavano. E stanchi, si gittavano nel canale per nettarsi dalla polvere o per nuotare. — I giovani di venti anni andavano fuori della porta di Nola e là giuocavano al disco, ch’era di bronzo o di marmo. Lo afferravano colla palma stringendolo con quattro dita, e lo cingevano con una correggia allacciata con nodo scorsoio nel polso. Dopo averlo fatto girare attorno al capo, facevano piccoli passi frettolosi sin presso un segno solcato per terra; e tenendo il braccio sinistro sul destro ginocchio e inclinando la persona in avanti, lanciavano il disco; questo, fischiando, fendeva l’aria e arrestavasi quando la forza dello slancio lo abbandonava. Il rivale discobolo tentava di superarlo, e vinceva la scommessa colui che lo spingea più lontano. Siffatti divertimenti erano a tutti comuni, al figliuoli dei parenti agiati siccome a quelli che esercitavano un’arte quale si fosse. E Ottaviano Augusto, quando, al cessare delle guerre civili, cessò dallo esercitarsi romanamente nel Campo Marzio a cavallo ed in armi, si diè per suo esercizio al giuoco della palla piccola e grossa. O per prendere un poco di esalamento, or pescava coll’amo, or giuocava ai dadi, or trastullavasi coi bimbi nei giuocolini adatti alla loro età, purchè fossero aggraziati, vivaci, linguacciuti, chiassoni. Talvolta, per esercizio ginnastico, inforcava il cavallo e lo faceva andare di trotto e a saltelloni, o lo spingeva a slascio lungo lo spazio. E allora vestiva alla leggera, avvolgendosi in un gabbano, detto _sestertium_, od in mantelletto di cavalleria, nominato _lodicola_. — Nei tempi anteriori erasi visto Mario, già vecchio e vincitore dei Cimbri, discendere nel campo di Marte dell’Urbe e gareggiare coi giovani negli esercizi della milizia. E Pompeo saltare coi più agili e correre coi più destri. E Catone giuocare alle bocce cogli amici suoi, come il generale Garibaldi in Caprera coi propri compagni d’arme. Poichè ho parlato delle varie età dei giuocatori, i pazienti che leggono questi miei studi sull’antico mi permettino una breve digressione dal racconto. Non sarà inutile. I nostri avi indicavano la età degli individui della forma delle vesti. I fanciulli indossavano la toga pretesta e la lasciavano nell’adolescenza, cioè a dire, alla età di quindici anni. La vita di un uomo, divisa in cinque periodi, distinguevasi in _pueritia_, in _adolescentia_, in _juventute_, in _maturitate_, e in _senectute_. Gli adolescenti nello acquistare i diritti di cittadino, indossavano la toga virile, di lana bianca e non più orlata dalla striscia di porpora, come la consolare che essi avevano portato fin da bambini. I quali — era mente di quei savi — dovevano essere rispettati quanto i primi magistrati della Repubblica. — Toccava al padre o al parente più prossimo il rivestire il fanciullo di quella veste. La funzione era solenne e facevasi in pubblico, sia nella città, sia in paese straniero. Vi erano invitati tutti i parenti. — In sull’alba, il giovanetto che aveva dormito vestito colla regilla, in segno di buon presagio, lasciava la sua _bulta_, e l’appendeva al collo dei Lari domestici. Quindi tutti accompagnavano lo affrancato dalla infanzia nel tempio, ove si facean sacrifizi ed offerta agli Dei nell’atto che gittavasi sulle sue spalle la toga pura. Lo stesso corteggio lo seguiva nel Foro, come per presentarlo al popolo che da quel dì dovea contarlo per uno dei suoi membri. Cotesta solennità compivasi una volta l’anno il XVI delle calende di aprile — a’ 17 di marzo — giorno in cui si celebravano le feste liberali, o di Bacco. Pompei — siccome tutte le città nel dominio della Repubblica romana — era in tal giorno gremita di gente. In ogni crocicchio erano assise vecchie donne, coronate di edera, aventi sulle loro gambe un paniere di paste coperte di bianco mele ch’esse offerivano, lodandone la dolcezza e il buon gusto, a chi passava. Ad ogni scambiare di strada vedevansi giovanetti sorridenti, da tenere occhiate all’abito nuovo, da tempo ambito e sognato; e i genitori e gli amici, anche lietissimi di quella fanciullesca ambizione. — E vi era di che. — Il quindicenne diveniva cittadino libero, e sceglieva la propria carriera. Se l’avvocheria, il padre lo presentava il dì poi al migliore oratore, perchè glielo addottrinasse. — Se la disciplina delle armi, lo affidava ad un amico, governatore di una provincia, perchè gl’insegnasse a difendere la patria, non come soldato — non avendo ancor prestato giuramento — ma come _contubernalis_, cioè aggregato. — O lo raccomandava ad un Senatore in Roma, o ad un decurione nelle colonie e nelle provincie, acciò assistesse alle assemblee ed acquistasse la scienza governativa. L’adolescenza finiva all’età di trent’anni. — La gioventù a quella di quarantacinque. — La maturità a sessanta. — Oltre quel periodo era la vecchiezza grave ed assennata. — E qui chiudo la parentesi. Infrattanto che i giovani e i minori fanciulli si divertivano presso il porto e sulla via Popilia, altri erano nelle scuole ad apprendervi a leggere, a scrivere, a contare. — Quanti scappellotti! Quante nerbate sulle palme delle mani! Quanti colpi di staffile sulle parti carnose! Quante stiracchiature di orecchie! — E tutto ciò per inspirare alla tenera età lo amore al lavoro e l’applicazione allo studio! Anche per tale riguardo in tempi diversi simiglianti procedimenti. — I preti ch’educarono la mia generazione fecero di tutto perchè abborrissimo lo studio. — Iddio perdoni ai morti, come già mortifica i vivi! In Pompei si parlavano le tre lingue — la sannita — la greca — la latina. — Le prime erano di uso domestico. L’ultima s’insegnava. E per la differenza dei caratteri, conveniva chiarirne la forma ed i suoni. Sur una tavola erano essi incavati; per modo che il bambino, passando su quei segni alfabetici il dito e lo stile, cominciava per distinguerne la immagine, la indicava colla voce e la tracciava poi colla mano. Collo accoppiamento delle lettere finivano per leggere. Col pigiare una punta su tavolette di cera, si perfezionavano nel copiare i _præscripta_, ch’erano esemplari di bella forma di lettere. I meglio avanzati in età studiavano la grammatica. Quindi leggevano Omero e i migliori poeti latini e le arringhe di Ortensio e di Cicerone. — Talvolta avevano il còmpito d’impararne squarci a memoria e di scriverne. — Tale altra di esercitarsi in una specie di parafrasi, che addimandavasi _chria_, la qual cosa consisteva nello ampliare e commentare una parola sentenziosa od un fatto memorabile. Questi esercizi i discenti li portavano in casa, per mostrarli ai parenti. L’acqua aveva appena marcato l’ora nella clessidra, che un grido di gioia rintronò nella scuola del Foro. I monelli si levarono in piedi e corsero all’uscio. Il peggio ardito, in quel momento di disordine, scagliò la tavola incerata che aveva per mano sulla testa del maestro. — Tutti fuori e a slascio, facendo un grande baccano. Il misero vecchio, _minumi pretii_, perchè col suo salario aveva appena di che sostentare la vita, seguì lo indisciplinato, gridando. Si avvenne col padre che saliva per la via dell’Abbondanza. — Mira la cattiveria del tuo figliuolo tristissimo. Mi ruppe la cute, qui, nell’orecchio. — Forse, o Verna, tu l’hai picchiato ed egli si vendicò. — Riconosco il mio sangue. — Son certo che, presa persona, nessuno saprà impunemente ingiuriarlo. — E tu così parli?.... Ah! meglio maneggiare il remo che consumare i miei poveri giorni per gente sì ingrata. — Tornò nella scuola brontolando e si fasciò il capo e l’orecchio pesto con una benda di tela oliata, che parea una lanterna. Era la decima ora, cioè le quattro dopo il mezzodì. E i rintocchi fragorosi di un martello su largo cerchio di bronzo sospeso ad un chiodo nel muro, si facevano udir di lontano presso il tempio della Fortuna e nel fondo della via dell’Abbondanza. — _Discus crepuebat._ — Ciò indicava che i bagni pubblici erano aperti. — E le botteghe di consumo chiudevansi. — E i cittadini laboriosi e quelli di medio censo ed i ricchi s’incamminavano verso le Terme. Gli è che, nel mentre i raggi del sole perdevano un po’ della loro forza, e diveniva piacevol cosa il riposarsi dalle fatiche o dalle noie della giornata, i nettatori delle strade entravano dai subburbi coi carri per togliere le immondezze, il fango, la polvere i rottami dinanzi le case in costruzione, i concimi delle stalle e gli erbaggi che i rivenduglioli avevano gittato fuori della soglia. Un decreto degli edili avea pur fissato quell’ora per introdurre sui muli le legna, i mattoni, la calce e i pezzi di marmo, affinchè potessero circolare senza incomodo per la maggior parte dei cittadini. Sì le prime Terme come le più grandi ov’era la _palestra_ — vasto paralellogrammo dedicato alla ginnastica per lo spigliamento delle membra nei giovani — erano già piene di gente. — Mosaici sui pavimenti. Stucchi coloriti sulle volte. Mobili di bronzo e bacini di marmo. Inservienti al bisogno. — In faccia al porticato di colonne scannellate era il _baptisterium_, ove ognun che voleva si gittava ignudo e sudato nel bagno freddo in comune. — Quello dei bagni poco lungi del Foro era rotondo, ristretto e sotto una cupola, d’onde veniva la luce. Nella prima stanza sotto il colonnato lasciavansi le vesti e di là entravasi in una sala spaziosa, riccamente ornata, ove pur potevasi togliere il bagno freddo dalla gente che preferiva prenderlo al coperto. Lungo le pareti sono sedili per agio di quelli che accompagnano i bagnanti e conversano con essi od attendono il loro turno. — Nella sala che apresi a manca è il _tepidarium_, il cui pavimento e le cui pareti tramandano un dolce calorico, proveniente dal _laconinum_, il fornello dei bagni. — Quivi erano larghi bacini di marmo e sedili di bronzo per asciugarsi o riposarsi allorchè si usciva estenuati dal _sudatorium_, sala delle bagnature a vapore. Il quale, escendo a nuvoli che si spandano da per tutto nell’apposita sala, va verso la volta di forma emisferica, a lavori di stucco scannellato, e discende pei regoli successivi lungo le pareti. L’apertura praticata sul sommo della soffitta era chiusa da uno scudo di bronzo, e col mezzo di una catena potevasi aprire come una valvola, nel caso che il calore del caldario divenisse troppo eccessivo. Quelli che si facevano colà dentro, ansimavano, davano in singhiozzi, respiravano appena. L’aria infuocata e la grande umidità non danno requie ad alcuna parte del corpo. — Scuote, opprime, stanca, accascia, prostra le forze. — Val quanto trovarsi nel focolare di un incendio. — E non so come i Romani non abbiano scritto nelle dodici tavole l’applicazione della condanna ad esser bagnato vivo su quei tristi che intendevano correggere invece di uccidere. L’_eleotesium_ era il luogo ove si tengono i profumi e gli unguenti campani. — In altre piccole stanze posavano bagni di marmo per le donne di età grave o per uomini difettosi della persona che non amavano mostrarsi avvizziti e deformi al pubblico sguardo. Ma dal povero plebeo coperto della sua _pullata_ ai magistrati che indossavano la pretesta, dagli illustri cittadini agli uomini di piccole fortune, nessuno sdegnava i pubblici bagni. Unica distinzione era che il ricco veniva preceduto dai suoi schiavi e seguito dai clienti. Ed il plebeo entrava solo. Le genti agiate frequentavano le Terme per moda, per accidia, per curiosità e per trovarvi conoscenti ed amici, onde invitarli a cena, al giuoco dei dadi e ad un’orgia. — I derelitti dalla fortuna, per raccapezzarvi — chiedendolo — un qualche asse. — E le donne per stare in esercizio di pettegolezzi, per narrare ed udire la cronaca scandalosa della città, per osservare da vicino le forme decantate di una bella e trovarvi alcun che da ridire, e..... per filare un intrigo amoroso su quel terreno neutrale, ove la folla sapeva celarlo nei ripieghi dell’uso e della prescrizione medicale. Nelle due Terme le donne avevano un bagno a parte ed entravano per uscio diverso da quello degli uomini. — Sur una delle porte della Palestra, nel vicolo, era scritto: _Mulieres_. Non molti gl’inservienti. — Un guardiano del bagno — un _fornicator_, cioè, quegli che poneva il combustibile nella fornace — e parecchi schiavi, condannati ai lavori pubblici per delitti. — Questi hanno nome secondo lo ufficio. Addimandavansi _capsarii_ quelli che serbavano chiuse in una cassetta le vesti di un bagnante e ne traevano mercede. — _Aliptae_ o _unctores_, i profumatori cogli unguenti. — _Alipili_, gli spelatori col mezzo di una pomata, o colla pietra pomice. — _Tractatores_, i frizionanti nel bagno a vapore. — Per siffatti servigi le donne conducevano con sè le loro schiave. — Ahimè! Come sono stanco. Spero nel tepidario riprendere un po’ di forza per poi goder meglio i piaceri della mensa. — O, non si direbbe che Publio Ametistio abbia fatto oggi sforzi prodigiosi per passar la giornata? — Tu hai, o Statilio, del toro, e le forme ed il nome. Nè sai compatire ad un gracilino par mio che desinò tre volte e vomitò due. La bella Iddia vi mette anche del suo. E se la dura a lungo, è miracolo. — Taglia la corda e resterai libero. — Ed un altro aggiunse, cacciandosi nel bacino pieno d’acqua fumante: — Facile a dirsi. _Quisquis amat venit_, dice il poeta. E a sedurre Ametistio ci vuol meno che far cadere un pettorosso nella pania. — O tu, Atimeto. Guazza un po’ meno..... e pensa che hai misurato l’amico colla tua spanna. — Se potessi dir qui una novella..... Ma nol debbo, _quia lupus est in fabula_. — Hilaro Sulla, or narrala e ci piacerà. — Atimeto versò sul curioso Statilio acqua a manciate e profittò del rumore per dire usassero prudenza; — avvegnachè non il lupo fosse presente al racconto di una sua debolezza di cuore; ma un altro animale che aveva di che allontanare ogni fascino. E coll’occhio lo designò. — Era un uomo adiposo che soffiava nel bacino di contro come un ippopotamo. Orafo, arricchito dal mestiere, aveva comperato dal padrone la sua libertà. E più erasi fatto danaroso colle usure a carico dei giovani spensierati. — Zozzo, liberto di Popidio Ampliato, verso la cinquantina, aveva domandato ad una bella giovane se voleva essere la donna sua. La non rispose nè si nè no. Ma il terrore d’istinto — che, bruttissimo era e guasto dal vaiuolo — egli lo interpretò come eccesso di gioia. — La vittima venne trascinata sullo altare, coperta di bei monili e di collane di perle. — Pare che anch’essa lo ricambiasse di una bella corona. E non era di rose..... Almeno così diceva la mala lingua di Sulla nel bagno. Quei giovani passarono nel sudatorio e si distesero sopra lettucci di riposo, dove alcuni giovanetti, appena vestiti, cominciarono a strofinarli con spugne finissime. — Quindi a mani piene pigiavano le loro carni, li ravvoltolarono per ogni verso e fecero che tutte le articolazioni scricchiolassero. — Da prima ridevano e scherzavano. Poi caddero in una prostrazione come per grande stanchezza. — Quel _malaxare articulos_ era per fermo una operazione dolorosa, quando i frizionatori non fossero dotati di una certa abilità e destrezza. Allora questi diedero di mano agli strigili — ch’erano di avorio o di argento, adorni di bei graffiti, la cui forma somiglia a quella di una falce concava che possa applicarsi alla rotondità delle membra — e staccarono dalla dermide tutte le ineguaglianze e le impurità che la traspirazione vi aveva adunato. Trasportati di nuovo dond’erano venuti, gli epilatori li spelarono con un unguento fatto con semi di salcio nero e con egual dose di litargirio. — E i profumieri li unsero di distrutto di porco con elleboro bianco. — Aspersi poi di olio di nardo e di megalio, furono asciugati con stoffe di lana finissima. — Vennero in ultimo avviluppati in una _coccina gausapa_ — specie di grande toga scarlatta, vellosa al di dentro — e deposto ognun di que’ giovani entro una lettiga coperta, furono ricondotti in casa loro. — Nel congedarsi, Publio Ametistio ebbe a dura prova la forza di dire, sbadigliando: — O, chi verrà alla _comissatio_ meco?..... Prometto _mirabilia!_ — Verremo! — Statilio Tauro, nel porre il piede nella sua sedia chiusa, voltosi agli amici, lor disse: — Parlare consigli di saviezza a quel caro epicureo è lo stesso che raccontare una storia ad un asino sordo. — Valete. — Intanto che quei giovani infemminiti prendevano il loro bagno caldissimo che gli slombava, i popolani si procacciavano un sudore abbondante e senza spesa nella palestra. Gli uni — ignudi nati — si esercitavano nella lotta; e ciascuno procacciava con sgambetti di cacciare il compagno per le terre. — Altri bilanciavano le loro braccia, avendo nei pugni pezzi di piombo. — Altri, giuocavano alla palla. — Ed altri ancora, colle mani legate sul dorso, prendevano colla bocca anelli per terra e si rialzavano. E fra i più destri, uno inginocchiato, rovesciavasi indietro sino a mordersi il tallone dei piedi. Quindi si tuffavan tutti nell’acqua gioiosamente, con grandi risa e con più alto baccano. Il bagno addetto alle donne è più quieto. Ma il bisbiglio dei vari tuoni delle voci è anche più discordante. — In una epoca ed in un paese, ove le vesti dinotavano la condizione di quelle che le indossano, la nudità assoluta delle persone stabiliva una eguaglianza, una democrazia, di cui ognuna traeva suo pro per la libertà propria. — O che hai, Rufilla, che sei costì tanto cheta. Da che siamo nel bacino non sferrasti pur anco una parola. — Mia cara Aglaia, sto ammirando le carni flosce della mia padrona, sulle quali sarebbero così bene applicati i colpi di verghe che mi fece dar non ha molto. — Ne ho ancor le lividure alle reni. — Mira che pelle. — Toccherà a me domani il renderla bianca di carnagione, nelle parti visibili, colla cerussa di Rodi. — Buon per lei che un’altra l’asciuga. — Io la pizzicherei di dispetto. — E non hai tu altra sorgente di collera contro di lei?..... Il mio padrone, ch’è il maggiordomo nella casa di Bleso, disse alla moglie aver inteso come il marito della tua signora volesse affrancarti perchè..... sei bruna e piacente. — Rufilla sorrise e replicò a bassa voce: — Ho rotto pace con molte illusioni, io. — Pur sono ancora in civettismo colla speranza. Chi sa? Finora alla Iddia bendata non vidi mai il viso. — Ed in vero non saprei dirti ciò che meglio io desideri. — Tu parli come gli aruspici. Pure ti ho inteso. — Venere ti sorrida! — Quando le due schiave si levarono di là per asciugarsi, altre due parlavano greco nell’atto che le donne loro affibbiavano addosso le vesti. Sembra che quella lingua esse ignorassero. — Dì! — È egli vero, o Lelia, che tu ti mariti? Piacerebbemi. — È un dabbene quel tuo promesso. — Sia la dolce Iddia propizia ed entrambi! — La giovanetta cui fu volta la domanda era diciottenne, dalla persona delicata, dal viso pallido, dalle linee rotonde, soavi e fine. Una leggera lanugine le adombrava l’orlo superiore della bocca. — Sorrise. — E da quelle fila di perle escì cotesta risposta: — Minucia, grazie ai tuoi voti. — Presto. — Altrimenti la vita mi parrebbe insopportabile. — Quinto Muzio io l’amo e spesso lo sogno con ardente follia. — Una sera mi ha baciato. — E, fatta sola nella mia stanza, io ne ho pianto e tremava tutta. — Chè, il bacio di un uomo non è come il tuo, sai?..... Oh! qual bacio! — Era qualche cosa di bruciante e di leggero che mi penetrò come il soffio di una carezza nel cuore. — E stringendosi forte mutualmente le mani, partirono. Una donna, già completamente vestita, fe’ cenno colla mano ad un’altra di appressarsi. — Esce ora colla sua figlia. — La vedesti nel bagno? Brutta e manchevole..... E che sa trovarvi egli di bello?..... Io lui desidero e voglio. Intendi? — Gli diè forse a bere un filtro amoroso, colei? — Mia nobile padrona, una sola droga ne apparecchia uno infallibile: — Amate e sarete amati. — Cotesto è lo avviso della esperienza. — La umiliazione t’irrita. — Cancellane le tracce. — Lo visiterò domani e — credimi — ti porterò domani il suo cuore. — Torna a vedermi.... nel tempio. — Farò offerte alla Dea protettrice. — Intanto questa borsa a te per testimoniarti che Giulia sa essere riconoscente e generosa. — Quando la _lena_ escì dalla sala, rimasta sola nel corridoio, la ricca donna pensò: — Io prendo una ben dura lezione, e i miei Giunoni sanno a quali prove io vo incontro. — In un momento di disgusto lasciai l’uomo al quale io mi era donata. — M’invaghii perdutamente di Gneo Melissa. S’egli compenserà il mio grande e miracoloso amore, apparterrò ad un padrone le cui esigenze aumenteranno sempre. — Accetto la condizione in cui lo alato Dio mi gittò. Sono doviziosa tanto da pagare i suoi capricci e da allacciare con catene d’oro il suo cuore. — Ben lungi dal chiedere per la mia passione quello che follemente desidero, un eterno obblio per Numanzia, una parola affettuosa per me. — O Venere potente! O Venere santa! O delizia dell’Olimpo e della terra, fa’ che quell’uomo mi paghi di amore e dissipi le miserie di questo mio cuor lacerato! — Povera donna, a trentacinque anni! Quel piccino fra tutti gl’Iddii, passando un giorno dinanzi la sua ricca dimora, usò un tratto della sua eterna malizia e sorridendo le scoccò lo strale. Lo indomani fu essa contenta? Lo ignoro! So questo solo. — Era nata in Pompei col nome di Giulia Felice, figlia di Spurio. — La sua casa conteneva grandi ricchezze in oggetti d’arte di marmo, d’oro e di argento. Eravi un sacrario con divinità egizie ed un magnifico tripode di bronzo cogli attributi del dio di Lampsaco. LA BASILICA. UNA CONDANNA A MORTE. =Anni di Roma 770 — Anni del Cristo 17.= A LEOPOLDO TARANTINI. V. In Pompei la gente per bene ristoravasi quattro volte per giorno. Il _jentaculum_, nel saltar giù dal letticciuolo, consisteva in una fetta di pane bagnata nel vino — od in pane e cacio — o nel solo vino ove era stato infuso per tutta notte un bastone di finocchio aromatico detto _silum_, per cui questi addimandavano _silatum_ il loro asciolvere — od in una bevanda dolce e profumata da sciacquare la bocca e toglierle il tanfo della digestione. — Verso la sesta ora — mezzodì — cominciava il _prandium_, cibo di sostegno sino alla sera. Chiamavasi ancora _merenda_, da _meridies_; oppure _prandiculum_, tanto la gente costumata contentavasi di poco. — Un po’ di pane — qualche pasta calda di forno — o del _liquamen_ di vino stracotto, detto _sapa_, o di emulsioni di ciliege, di mele apie o di cotogne, addolciate col favo. — La _cœna_ sì, che era copiosa. Prendevasi _supremo sole_, cioè al declinare del giorno, quando le faccende pubbliche o le particolari erano terminate, verso la decima ora, cioè alle nostre quattro di sera. — Solo i giovani scioperati mangiavano in sull’ora ottava, cioè alle due dopo il mezzodì. E lo facevano più volte col recere e col rimangiare; e poi toglievano il bagno caldissimo per debilitarsi ad aver fame per la _comissatio_, specie di orgia cui Bacco e Venere presiedevano e che si prolungava lungo la notte. A lato dei Lari compitali sulla via non lungi dal Foro, ov’è la fontana dalla testa del Leone, parecchi giovani si fermano e picchiano ad una porta. L’ostiario apre, chiede i nomi e lor dà passaggio sul _prothyrum_ di bianco mosaico su cui sono rappresentati con neri dadi due lottatori afferratisi. — Erano attesi. — Dal peristilio entrano nel triclinio, ove altri gli accoglie e gli bacia. — Il padrone del luogo gli computa e dice: — _Septem convivium. Novem convicium._ — Una gaia risata festeggiò quel motto spiritoso. Avvegnachè, avesse detto come sette a desco avrebbero composto un’allegra brigata. Ma trovandosi in nove, la riunione la sarebbe stata chiassona. — Ed era ciò che chiedeva. Per le disposizioni e pei mobili di quelle stanze, i convitati non dovevano essere numerosi. E il buon genere dei tempi imponeva che non eccedessero le Muse e non fossero da meno delle Grazie. +-------------------------------------------------+ | | | | | | | III | VI | V | IV | VII | | | | | | | |---------|-----------------------------|---------| | | | | | II | | VIII | | | | | |---------| |---------| | | | | | I | | IX | | | | | +---------+ +---------+ Compite le abluzioni e le altre formalità di uso, il padre del festino — _cœnae pater_ — indirizzò una breve prece agli Dei e a suon di flauto fece le debite libazioni di vino. Quindi distribuì i convitati sul triclinio nell’ordine seguente. — Sul posto V del _summus lectus_ ei si sdraiò appoggiandosi al gomito sinistro. Indicò a Psiche di allungarsi sui cuscini del IV, ed invitava P. Ametistio ad assidersi sul luogo consolare VI. Sul letto di sinistra si disposero Calliopa, Suavis ed Issa su III, II e I. E sul _lectus imus_ si adagiarono M. Porcio, Scapido e Metrodoro nel VII, VIII e IX; questi ultimi erano _umbrae_, cioè non da lui invitati. Il vuoto era riempito da una larga tavola di marmo, ove si disponevano i _riton_ e le tazze e le scodelle per le vivande. Dietro ognuno era un servo, _succintus puer_, la cui attenzione era desta dalla scoppiettio delle dita. Gli uomini e le donne ricevettero sul capo corone di edera, di rose, di viole e di fiori di zafferano. Altre più larghe erano poste ad armacollo. Sui capelli furono sparse essenze di nardo, di balano e di altre sostanze odorose. Credevasi che quel verde, quei fiori, quei profumi, aprendo i pori, facessero facilmente evaporare i fumi del vino greco ed indigeno. Le vivande erano apportate sopra un _ferculum_, grande vassoio di argento che copriva tutta la tavola. Allorchè il padrone volea che fosse servita la _mensa secunda_, facea scoppiettare il pollice coll’indice, e i servi ubbidivano. Così pure per empire i _riton_ coi ciati, specie di misura con cui si prendeva il liquido e si versava nel calice che lo invitato stendeva. Cucchiai erano sul desco e piccini di fine argento. Vi erano coltelli. E pur cannelli di penna d’oca o fuscellini aguzzi di lentisco per iscalzarsi i denti. Ma gli alimenti solidi, di pesce e di carne li prendevano colle dita, salvo a lavarle nel _trullum_, catino che lo schiavo sopportava, ed asciugarle colla _mappa_ che ognuno recava da sè. — Avevano inventate tante raffinatezze di lusso, meglio che di uso, e non avevano pensato a distendere una tovaglia sul desco, a fornire gl’invitati di tovagliuoli e a fabbricar le forchette con cui infilzare le vivande. Dopo aver mangiato e bevuto, ribevvero ancora. Era l’uso di non levarsi dai soffici cuscini senza prima salutare le donne che sedevano accanto. Quei begli umori erano discreti. I più perdevano la ragione. Ma nessuno poteva esimersi dalla regola, abbandonatamente accettata, la quale prescriveva, _Omnis amica numeratur ab adfuso Falerno_. Laonde il _pater cœnae_, volto alla Psiche sua colla tazza ricolma: — _Cor cordium, nomen tuum bibo._ — E tranne lei, tutti appressarono sei volte le labbra al bicchiere, ingoiandone i sorsi. Quindi Ametistio: — Alla cugina di Venere.... Al fascino dei tuoi sguardi, o Calliopa.... Io bevo ogni lettera del tuo nome armonioso. — Metrodoro aveva Suavis sul corno opposto del triclinio. E lei guardandolo amorosamente, — _Sex cyathos_ per te, o maga del cuore. — Scapido, appena sdraiatosi, aveva notato le copiose trecce della fanciulla che il re del convito, od il caso, gli aveva disposto di fronte. A forza di vederla, si prese ad amarla. E siccome egli non era fatto per dispiacere ad alcuna, anch’egli a lei piacque. Veramente Porcio era il suo amante. Ma quando lo amore s’infiltrava nel cuore greco-latino, ogni cosa doveva cedere — e ancor cede! — pregiudizi, interesse, doveri. Scapido bevve quattro sorsi al suo nome. E Porcio, pur morsicato dalla vanità nel vedere gli sguardi e i sorrisi di lei, acuti come un dardo, leggeri come il soffio e fragili come la virtù, rivolti spesso alla persona a lui daccanto, bevve e intero il nome della passionata pompeiana. Però, brontolando, non si ristette dal dire: — _Alii adnutat, alii adnietat, alium amat et me tenet._ Aveva torto. Le donne di tal conio usarono sempre ad uno far segni, con altri occhieggiare. E se taluno amano, tengono altri per le unghie. I servi partirono. Rimasti soli, parlarono su quel tema, inesauribile come la musica — perchè anch’esso è la musica delle anime — che addimandasi amore. Ed una felicità di una nuova specie ed ignota gl’innondò tutti. Pareva temessero che qualcuno sarebbe venuto a rapir loro quella serie di ore beate che nessun certo lor disputava. La rapidità piena del piacere svanisce come un minuto e stanca. Ma poi torna secolo, carico di ricordi festosi e delle delizie di un istante — e tanto più nei momenti in cui si è colpiti dal dardo di un grande dolore. Calliopa, dopo aver guardato per qualche tempo Ametistio, tornò a lui; e, sedutasi sulle sue ginocchia gli mormorò: — Mi ami, Publio? — Sì, cara; come il mare la sponda. — Infido! — E appoggiando il gomito sulla sua spalla, velò la faccia. La misera! — Sulla veste sottile di Laïs essa avea ricamato coi fili d’oro la ingenua serenità dell’anima e quella freschezza e quella limpidità di sguardo che ammalia e seduce. Quando la donna si sente così penetrata dai raggi di un celeste amore, acquista immediatamente un non so che di dignitoso e di augusto, che spinge gli umani a ringraziarne gli Dei. Essa intravide d’un tratto dove i suoi nobili sentimenti la spingevano e pur discerse come la mano amica le mancasse nello avviarsi verso la landa ignota dei suoi destini. Fidanzata della miseria, o fidanzata del dolore, sapeva il paese d’ond’era venuta e giurò dentro di non vi tornare mai più. — E mentre essa pensava, ed anche Ametistio pensava. — Ma l’una pianse e l’altro rise. — E si ricambiarono un bacio ov’era chiusa un’antitesi dolorosa. — Chi giuoca alle tessere?... Su, poltroni! O crederò che Bacco vi abbia fuorviato... E tu, Publio, scostati da Calliopa, che da qualche tempo medita disegni sinistri sulla tua pace. — Quegli si svincolò ridendo dalle sue braccia, e: — Giammai fui felice coi dadi. — Immagina ora che mi strappi con violenza di Pafo. — La bella Iddia si vendicherà! — Il giuoco delle tessere consisteva in cotesto. — Tre piccoli cubi di avorio si mettevano entro un cornetto, detto _phimus_; si agitavano colla mano e si versavano sur una tavola scavata che chiamavasi _alveolus_. Ogni cubo portava sulle sei facce una serie di punti, cominciando da • e aumentandosi successivamente su ciascuna superficie, per unità sino a [Illustrazione: sei puntini] — Le tre facce, che i dadi mostravano, decidevano del punto. — Allorchè i tre cubi presentavano ••• il giuocatore perdeva; avvegnachè, egli avesse fatto il colpo del cane. Quando invece le superficie tutte offerivano il [Illustrazione: sei puntini], egli vinceva la scommessa, avendo fatto il colpo di Venere. Lo amico giuocò per il primo, e i cubi dissero due, cinque, sei. — Giuocò Ametistio e presentò i tre assi. — Aveva perduto. — Lo vedi?... Il colpo del cane! — Giù cinquanta denari. — Accetto. Si scuotono i dadi e si mostra il colpo di Venere. — Si scuotono anche una volta e tornano i tre assi. — Hai perduto. — Altri cinquanta? — Altri cento. — Ah! sei proprio infelice! Ho vinto. — Vedremo. — Non potrebbe Venere aiutarmi? — Ametistio agita forte il _phimus_ e ne escono uno, uno e tre. — È una vera fatalità! — Séguiti il giuoco? — Sì; e scommetto un _nummus aureus_. — Intanto Porcio e Scapido, assisi presso una tavola, divisa in quadrati alternativamente bianchi e neri giuocavano ai _lutrunculi_, una specie dei nostri scacchi. Palamede aveva inventato quel divertimento nel campo dei Greci per distrarre nobilmente sotto la tenda i re confederati che assediavano Troia. — Ognuno attelava dinanzi a sè alcuni pezzi di vetro bianchi per l’uno, neri per l’altro. E col dito, spingevali innanzi come soldati di un esercito, a piedi e a cavallo, muniti di torri e guidati dai capi, entusiasmati dalla regina e retti dal re. La buona tattica consisteva nel sorprendere tra due pezzi il pezzo di vetro dello avversario e così acquistare il diritto di farlo prigione e toglierlo dal campo di battaglia. Suavis e Psiche si divertivano coi _tali_, ch’erano ossi di astragolo di montone. Quelli avevamo la loro forma ma erano di argento. — Tu hai una destrezza rara, o Psiche. — Quantunque volte io mi provi a raccattarli tutti e quattro, si sparpagliano in aria, e perdo. Se il vuoi, io ti darò un tessuto di nodi complicati e te li darò a sbrogliare. — Apparecchialo. — So già la tua perizia nello allacciare i cuori. Non pensi ad Æliano che si muore di amore per te? Non ha molto il vidi in teatro ed ei si strugge nel labirinto ove tu lo chiudesti. — Gli gioverà lo starvi. — Venere mi diè la missione di vendicarla. — Cattiva!... Non la Iddia... te, per la tua leggerezza. — O se l’è una mosca!... Lascialo pur nella ragna!.... Provati ora a disciogliere questo nodo di Gordio. — Metrodoro, che aveva assistito alle evoluzioni che Porcio e Scapido aveano eseguito col loro esercito di vetro, si fermò dietro la sedia della bionda Suavis. Psiche si provava a sciogliere lo intricato gomitolo e non riesciva. — Levati gli occhi, disse: — Il conterraneo di Alessandro potrà sbrogliarlo, non io. — Che pensi? — Io penso che Metrodoro non s’abbia a provarvi. Non dev’egli apprenderne il segreto. Giammai costruirò un labirinto per lui. Ei venne a me ed io lo tengo. — Il Tartaro m’ingoi, s’io mai lo caccio dal cuore ove egli scrisse il suo nome. — E spingendo il capo indietro, levò la faccia sorridente di amore. — Il greco curvò la sua e le loro labbra s’incontrarono. — Undici volte perdente! — Sei volte il colpo del cane! — Che è questo mai? — Calliopa, togliti di qui, se ti piace. — Hai la faccia sì seria, e gli occhi sì lucidi, che temo mi affascini. — La bella fanciulla posò la mano sulla spalla di Ametistio, si fece rossa e poi pallida, e lo guardò di quello sguardo con cui la madre fissa il figliuolo. — Uno sterile sdegno; lo imbarazzo dell’anima; la tenerezza profonda; una incantevole illusione ben tosto fugata dal fantasma della brutta regione in cui per parecchi mesi aveva vissuto; ecco le parole che dissero quello sguardo innamorato. — Ametistio non lo notò. — Aveva altre cure che lo occupavano. — E la misera andò a celar le sue lacrime in un canto della camera — pioggia impetuosa che distruggeva i fiori ed il verde di una forte passione. Scapido e Porcio s’erano tolti dal giuoco e, stirandosi le braccia, si appressarono alla tavola dove la sorte capricciosa imponeva ai dadi le sue fantasie. Le donne anch’esse composero il cerchio. — Togliti, Metrodoro, di costì. — L’amico dirà che gli nuoci. — Danno e sventura! — Una ruina sull’altra! — Uno, sei, due. Ah! Venere! Ti frangerei volentieri le costole con una mazza. — In verità, io rinuncio alle tessere e mi ritiro. — Quanto perdi, o Ametistio! — Chiedine, o Psiche, a quel fortunato. — Issa prese sul deschetto il breve bussolo incerato e, fatta l’addizione delle cifre, pronunciò: — Sei mila dugento cinquanta denari. — Psiche, si può dir del tuo amico, come di Fabio, il temporeggiante, _romanus sedendo vincit_. E viva lui! — Publio Ametistio — giovane, orfano, già ricco, scialacquatore — apparteneva a quella categoria di uomini amati e maladetti dal fato — stelle filanti nell’atmosfera della vita, che splendono di vivo lume per poco; che impallidiscono al passar di una nube; e scompaiono nella pace della natura, quando tutto irraggia, canta ed ama intorno ad essi. — I piccoli e i grandi avvenimenti della esistenza gli aveva assaporati tutti. Pur questa volta l’urto che la ruota della Fortuna gli aveva dato passando, gli cagionava un fremito dentro che gli rendeva malato il cuore. — Non ostante, scosse lo altero capo per coronare di un falso sorriso la necessità, e disse: — L’ora è tarda. — Valete, amici. — A domani. — A domani, Publio; e quando vorrai. — Ricordati che l’amicizia è la catena più forte delle nostre affezioni. — Allora si fece innanzi Calliopa e prendendogli la mano distratta con un guardo che dicea molte cose, gli aggiunse: — No... Vi è una catena anche più forte e tenace... l’amore! — A tutti sia propizio Morfeo. — Così mutuamente tutti si salutarono. — E, accompagnati o soli, reddirono alle loro dimore. Ametistio aveva molto giuocato, e perduto, e pagato. Aveva pur molto speso per giovanili follie e poco omai più gli restava del censo avito. Avrebbe dovuto arrestarsi e dar ordine alle sue cose. Lo amor proprio, la vanità lo spinsero oltre. — E in quella sera ei si vide giunto sull’orlo dello abisso, e la via del regresso era scomparsa. Quando pose il piede sulla gradinata della strada dell’Abbondanza, un sudor freddo gl’imperlava la fronte, le gambe gli vacillarono e si appoggiò ad uno degli _impedimenta_ di sasso. Ma si rimise ben tosto e continuò. — Continuò con passo regolare e sicuro, col corpo diritto, colla testa immobile, cogli occhi fissi, come una statua che avesse l’uso delle sue gambe. — Entrò in casa sua, si fece nel suo cubiculo e si gittò sul letticciuolo vestito com’era. L’anima, ripiegata violentemente sopra sè stessa e compressa per ore dallo sforzo della volontà, riprendendo i suoi diritti e distendendosi disordinatamente per tutta la persona, si rifece padrona dei suoi dolorosi pensieri. E alla luce della lampada vide tremolare sulle pareti ombre leggere e fugaci e ripresentantisi. Erano i suoi ricordi or lieti, or tristi. — Era la idea dolorosa del domani. — Ma un’altra immagine passò a traverso la sua mente febbrile che limò l’acuta preoccupazione colla speranza; e, tranquillato a metà, chiuse gli occhi e distese le membra spossate. La impotenza generale dei sensi rabbonacciò lo spirito agitato. Le sue idee navigavano pur sempre nel caos. Ma gli sembrava, nelle tenebre, in fondo, lontano, di vedere un porto consolatore ove avrebbero trovato un approdo. Immobile, nè dormente, nè desto, quel crepuscolo della propria intelligenza leniva in certo tal modo la prostrazione fisica e morale nelle cui braccia lo aveva gittato il pensiero della vergogna e la idea di mancare — malgrado suo — allo impegno che il giuoco gli avea fatto contrarre. A poco a poco aggiornò nella sua mente. — Il passato aveva preso il di sopra. — Festini — bagni — viaggi — ed amori. — Adorati fantasimi tornarono ad impadronirsi dei suoi pensieri. — Cuma, Neapolis, Capua, Tarentum, Brundusium, Roma le vide popolate di creature graziose, di desiderii appagati, di spettacoli goduti. Sentì voci gentili ripetergli frasi già udite. Un braccio appoggiarsi delicatamente sul suo e stringerla con un tremito soave. Ripensò ad un mazzo di fiori ricambiato da un bacio. Ad una ciocca di capelli bruni che aveva sfiorato la sua gota. Ad una immagine divina, fremente di piacere sotto le sue carezze. Ad un banco, in uno xisto, su cui, lungi di ogni sguardo, erasi assiso presso una idoleggiata, sotto un odoroso cespo di caprifolio. Ad una brigata di amici che pur dianzi accoglievalo e gli facea festa. A Calliopa, di cui avea letto nel cuore lo affetto secreto, folle, insensato. — E domani? — Cotesta parola, come tarlo rodente, lo svegliava dai sogni e lo trascinava ai piedi di una triste realtà. — Oh! Si allontani la idea! Troverò danaro. — Pagherò. — Indi, vita nuova. — Un buon matrimonio... la pace e.... l’onore sino alla morte. — E chiuse gli occhi colle dita, per forza, e cacciò lontano ogni pensiero. Volse la testa sul cuscino, chiamò il sonno... Ma l’anima vegliava e lo facea dimenare sul letto quasi fosse un fascio di spini. — Oh! la crudele espiazione! L’Erebo ha minori tormenti! — E che feci io che gli altri non fanno? — Essi dormono! — Ed io mi torturo! Sì mi torturo... e soffro senza speranza... Forse troverò un _fœnerator_... Che! Tutti ladri! — Gli subisco da un pezzo! Mi fecero il loro schiavo... mi composero questo crudele destino!... Ma, non ne fui l’autore io medesimo? La vita mi è a carico... E se io la troncassi, aiutando la parca insonnita?... — Si levò di letto. — Aveva lo aspetto livido, sconvolto. — Si appressò ad una cassetta di ebano e ne trasse uno stile. Lo esamina con cura, ne prova la punta acuta e sottile sull’unghia del pollice, lo adatta tra le due costole sul cuore..... è per pigiarlo dentro colle due mani e..... si arresta. — E l’onore?... E il mio nome?... E merito io la fine di Socrate e di Catone?... E che direbbero di me morto i miei creditori... e l’ultimo, se io usassi la prerogativa di un uomo libero che si sottrae dalle angosce dell’animo?... Giù il ferro di cui non son degno! — E lo cacciò sul mosaico della stanza. — Levò la mano in alto e, voltosi verso lo _impluvium_, ov’erano sotto il portico le statue di stucco dei suoi maggiori, seguiva: — Date venia all’ultimo della vostra stirpe, o miei. — Voi serviste leggi che io non debbo, nè voglio, mai offendere. — A meno che Giove non mi dissenni, nè morti, nè viventi eleveranno contro me la loro voce di spregio. Bocche severe mi dissero leggero, depravato, sciupone. — Meritai la sentenza! Cercherò danaro. — Me ne daranno quei tristi ch’io contribuii ad arricchire! — Quindi darò piena ospitalità alla saggezza. — Siffatte idee lo racconsolarono. — Di chiaro giorno escì. — Corse nel Foro. — Callicles, l’usuraio, disse non aver sesterzi disponibili. — Toctucio, il liberto ladro che facea commercio di giovanetti greci di ambo i sessi, rispose avere in casa un capitale morto che pur mangiava e non poter disporre di un solo quadrante. — Cancer, il sudicio ed insaziabile affrancato, lamentò il terremoto che gli aveva screpolato le molte botteghe che affittava e maladì ai _tignarii_ e _cœmentarii_ di Teanum che nelle travature e nelle ricostruzioni gli assorbivano il peculio deposto nell’_horreum_ — il magazzino pubblico, ove i cittadini deponevano la moneta e gli oggetti preziosi sotto la salvaguardia dello Stato. — Il solo Gurges — la cui avidità gli avea dato quel meritato soprannome — consentì a trattare, chiese la cifra e promise una risposta fra tre giorni. — Ma, richiamato quel contentissimo indietro, gli aggiunse: — Il _fœnus_ però sarà centesimale, cioè, mi darai due assi per cento ogni mese. — Va? — Accetto. — E a quai patti non avrebbe consentito Publio Ametistio per escire onorato dalla voragine ov’era caduto? — Stanco, ma rinfrescato dalla speranza, attese. — Dormì. — Riparò le forze perdute. — Per distrazione — non per amore — ricercò la compagnia di Calliopa. — Povero, cuore riannobilitato dal raggio nuovo di una sensazione profonda! Intanto Gurges aveva parlato con Alfio, degno collega suo. E questi: — Mercurio ti aiuti! Il suo patrimonio lo fuse in bagordi, in vini squisiti, in bagni, in profumi.... e in usure. Chiedine a Scapzio e a Matinio, cui Cicerone tagliò le unghie a Salamina. Gli è proprio un _hilarus nepos_. — Se gli aurei nummi ti vennero a noia, danne.... Allora torneremo a chiamarti col nome di tuo padre! — — Basta. — Quand’anche lo segassi — secondo il prescritto delle XII Tavole, — di quel corpicino estenuato dai vizi non mi verrebbe gran parte. — Corsi i tre giorni, alla decima ora di sera Ametistio cercò di Gurges nel Foro. — In casa non era. — Visitò parecchi luoghi. — Domandò ad alcuno di quella geldra ove fosse. — Frugò inutilmente ogni canto. — Alla fine trovollo nel porto. — E tra il timore e la speranza: — Ebbene? — Per Ercole! Non si dirà mai che i miei denari, con tanto sudore acquistati, passino come un papavero in un formicaio. — Tu credesti il tuo censo immortale. — _Magister improbus!_ — Lo dasti alle sciupate? Fa’ che le sciupate tel rendano! — A quelle parole Ametistio sentì mancarsi il cuore. — Crollava intero lo edificio delle sue speranze. Un sudor freddo gli diacciò la fronte. E, voltosi all’usuraio che con passo frettoloso si allontanava, lo salutò con tale rampogna: — Ti colga la peste, _furcifer_. — Era annientato. — Il crepuscolo copriva colle prime ombre le cose. Si avviò sbalordito verso la città. — Passò sotto l’arco della porta della Marina. Si assise sui gradini del magazzino della Dogana e appoggiò la fronte bruciante sulla parete. Le idee tornarono nella sua mente con tutta la loro chiarezza. D’un tratto si leva e cammina frettoloso. Si arresta sul piano e poi va innanzi, agitando le braccia come un insensato e parlando inarticolate parole. Si ferma di nuovo dinanzi il tempio di Venere Fisica. L’uscio è aperto ed egli entra. — Qual disegno lo spinge? — Nessuno. — S’inoltra e poggia il capo sull’ara. Per tutto è silenzio. Nessun rumore. Nessun mormorìo attorno di lui. Alza gli occhi e mira la statua di marmo della bellissima Iddia, cui tanto danaro le sue scioperatezze aveano sacrificato. Una lampada votiva illumina la edicola. Ametistio ripensò alle parole di Gurges — che le sciupate aveano a rendergli quello che alle sciupate egli avea dato. Si guardò attorno, ascese la scala di marmo a grandi passi, afferra la lampada d’oro e fugge. Ma il coperchio — rotta la cerniera dall’urto — si stacca e ruzzola per la gradinata. Un sacerdote, che andava a chiudere la porta del tempio, ode il rumore, vede un’ombra che passa, il lume spento innanzi il delubro, immagina la profanazione, corre e grida al ladro, al sacrilego, all’empio. Lo ingresso nel Foro era chiuso. Laonde il misero corre per la via d’ond’era venuto. — Alcuni che bevevano in un _thermopolium_ si affacciano sulla strada. — Due marinai ed un soldato vengono dalla porta della Marina. — Non vi è scampo per lui. Una idea lo prende e la esegue. — Lancia con quanta forza gli ministra la disperazione il ricco oggetto che avea fra le mani al di là di un alto muro, il quale serviva di sostegno al terrapieno per la edificazione di un tempio ad Augusto. Il sacerdote lo arresta e al primo cittadino che vede, dice: — _Licet te antestari?_ — Avendogli risposto affermativamente, ei gli toccò il basso della orecchia, supponendosi allora che quella fosse la sede della memoria. Gli accorsi si accrescono. — Il misero è svenuto nelle loro braccia. — Altri sacerdoti giungono colle torce. Ed una luce livida rischiara la persona di quel caduto. — Uno lo riconosce e dice: — Publio! il ricco giovane che abita nella via dov’è la fontana di Medusa!... Oh! non è possibile! — Dov’è l’oggetto involato cui i sacerdoti accennano? Tutti si scostano. — Quei dalle torce accese le volgono per ogni verso e nulla trovano. — Allora il soldato si accosta all’orecchio di un marinaio suo amico, e gli susurra: — O che il flamine abbia preso la lampada, e poi voglia averne una di ferro col sangue delle vene di quello sventurato? Altri soldati ed altri curiosi vennero su quel posto. — Ametistio aprì gli occhi tutto smarrito. — Vide la gente. — Si rimise sui piedi e toccandosi la fronte riarsa, balbettò: — Ove sono?... Oh! il terribile sogno! — Dove hai celato la lampada tu? — Quale lampada? — Quella che tu involasti a Venere sacra. — Ah! Gurges lo ha detto. — Pietà di me. — Uccidetemi e sarete pietosi.... La lampada.... — Ebbene?... La lampada? — _Venus diobolaris_ l’ha presa. — La venderà a Gurges, o a Cancer.... E quelle mignatte vomiteranno il mio sangue nella tua bocca, o flamine impudico.... mignatta del popolo. — Bestemmia lo infame. — Trascinatelo al pretore. — Un centurione aprì la folla, la interrogò, vide il giovane di nuovo svenuto e ordinò si chiamassero due schiavi pubblici con una lettiga per condurlo presso il magistrato. — Rendi la lampada, o sacrilego. — La vendetta della Iddia piomberà sul tuo capo.... — L’uomo coperto di ferro distese con autorità la mano sullo incolpato e disse. — Pace, o sacerdoti. — Comprendo il delitto e ne sento l’orrore. — Ma il giovane parlò poc’anzi in delirio. — Ora è svenuto od è morto. I magistrati sentenzieranno. — Giunta la lettiga, vi fu adagiato Ametistio, venne aperto il passaggio nel Foro e il trasportarono per quella via. — I sacerdoti, i curiosi, gli sfaccendati, i perditempo, le bigotte rimasero su quel posto per lunga ora ad esclamare, a non credere, ad accusare e colle lanterne a scoprire dove il reo avesse nascosto la lampada rubata. Ma la lampada non si trovò. Il pretore cui presentarono lo incolpato, appena potè riconoscerlo agli occhi sbarrati, alla faccia livida, alla persona affranta. — Udito il reato di cui Ametistio era accusato, siccome questo implicava la pena della _maxima capitis diminutio_, cioè la sottrazione di una testa al consorzio dei cittadini e alla libertà, dovette ordinare fosse menato nella pubblica prigione. A dritta dello ingresso del Foro dalla viuzza dietro le Terme e dal trivio della fontana del Lupo, era il posto dedicato alla carcerazione preventiva. Una piccola e stretta porta di quercia vi dava accesso. Un pernio di ferro nel centro la faceva aprire a metà. Grosse spranghe confitte nelle spallette di pietra la facevano immobile al di fuori. Due scalini mettono in una stanza umida e oscura, non ricevendo aria e luce che da un piccolo tubo superiore alla porta; e due altri fanno ascendere ad una seconda, stretta e lunga come la prima. — Le pareti sono lisce e composte di larghe pietre di taglio, aggiunte senza cemento. — Così le soffitte. E la costruzione è sì solida da non offerire ad un rinchiuso veruna speranza di fuga. Nulla di peggio orribile di quelle due fosse.... Colà sur un po’ di paglia venne gittato Ametistio. Il quale, fuori di senno e quasi immemore delle cose avvenute, potette dormire sino al dimani. La novella corse ben presto per le bocche di tutti in Pompei. — I suoi amici ne rimasero sprofondati. — Calliopa cadde come corpo esanime; chè, il dolore che non ha refrigerio di lacrime uccide o quasi. — Il vincitore alle tessere e quanti furono del numero della sua ultima festa, credettero o falso il delitto o nato di subita follia. Laonde deliberarono di farsene essi gli accusatori pubblici — _auctores causæ_ — per impedire che altri si presentasse e non col loro cuore. Ma il giudice della questione, il quale senza essere magistrato aveva pure tutte le attribuzioni di un _quæsitor_, cioè presidente — non volle che lo incriminato ottenesse dai suoi fidi una persecuzione fiacca, incompleta per calcolo onde sicurargli la impunità. Accettò meglio l’atto di accusa prodotto da Stazio Rufo e dai suoi _custodes_, Vatinio Svezzio e Caio Pedio — sorta di accusatori in secondo, sia chiamati dal primo come aiuto ai suoi ordini; sia, suo malgrado, per chiarire la di lui condotta, per sorvegliarlo e costringerlo ad una franca accusa. — L’atto diceva così: «Vivente Tiberio imperatore, e sedenti consoli C. Cecilio Rufo e L. Pomponio Flacco Grecino, agli VIII degli idi di aprile — dinanzi i questori Velario Grato e Vibrio Saturnino — Stazio Rufo coi suoi custodi, dichiaro Publio Ametistio reo di furto di oggetto sacro e dimanda che secondo le leggi venga condannato alla interdizione dell’acqua e del fuoco.» Il quesitore mandò il libello all’accusato, perchè apparecchiasse la sua difesa pel giorno di poi. Lo indomani un araldo, salito sul pulpito della Basilica — dopo aver suonato la tromba, ripetè l’atto di accusa, scritto precedentemente dagli autori della causa. — Quindi colla stessa formalità lo chiarì dal pulpito del tempio di Giove e dinanzi la porta dello accusato. I giudizi sui reati pei quali era prescritta la condanna nel capo erano dapprima riserbati ai comizi. Occorsi alcuni casi, creduti al disopra della intelligenza del popolo, o della sua istruzione, si cominciò a consultare i decurioni, ch’erano una emanazione popolare. Quindi si pensò di creare un corpo giudiziario permanente, scelto tra i cittadini i quali pel loro grado sociale o pel loro censo fossero nella condizione di occuparsi dei pubblici negozi senza alcun danno. Il popolo — approvando siffatto accordo — serbò per sè i giudizi sulle cause di alto tradimento e la revisione delle sentenze sui condannati che a lui si appellassero come a sovrano. La Basilica è aperta. — Una folla numerosa occupa il portico e l’atrio. — Le donne e i curiosi sono sul terrazzo del Foro e dei tempio di Venere. I più vicini odono. — I più lontani veggono. Ma il vedere vale quanto lo udire; avvegnachè gli oratori, accompagnando le loro parole con gesti espressivi e giusti, traducessero a maraviglia il detto coll’atto. I duumviri sono sulle sedie curuli. — Gli accusatori sul pulpito. — Indietro, a dritta ed a sinistra seggono ottanta uno giudici. — Sotto la ringhiera, lo araldo e gli scribi. — Una barriera mobile di legno chiude il tribunale. — E dentro è l’accusato in mezzo ai suoi difensori, fra i quali uno è il _patronus_, cioè l’oratore e gli altri sono _advocati_, cioè i chiamati per la loro scienza nel diritto e per la loro perizia nelle cose giudiziarie. Quando gli scribi ebbero dispensate parecchie copie della lista dei giudici agli assistenti per chiarire come veruno che non fosse registrato nell’Albo giudiziario usurpava illegalmente siffatto ufficio, i duumviri fecero prestare giuramento agli ottanta uno cittadini che avrebbero giudicato secondo le leggi. — E tutti, chiamati per nome, risposero: — _Juro ex mei animi sententia._ — I magistrati non giurarono perchè essi in tale circostanza si limitavano a dirigere i dibattimenti, a proclamare il risultato dei voti ed a pronunciare l’applicazione della legge. Si cominciò dalla audizione dei testimoni. Ognuno di questi giurò pel sommo Giove — _cujus nomine_ — dice Cicerone nell’arringa a difesa di Milone — _majores nostri vinctam testimoniorum fidem esse voluerunt_ — di dire la verità. Il primo chiamato fu Venerio Epafrodite — il sacerdote del tempio che vide il fuggente e il raggiunse. — Disse della lampada involata dalla edicola e del solo coperchio trovato ai piedi dello altare, dei lucignoli unti raccattati lo indomani uno sulla via corsa dallo accusato e l’altro tra le pieghe della sua toga. — Ymnus — il venditore d’idromele e di acque aromatiche nel _thermopolium_, dinanzi il quale quel che correva venne arrestato — narrò le grida del sacerdote e il passo concitato del giovane, che da uno che prendeva ristori nella sua bottega udì chiamarsi Publio e aver casa nella via della fontana di Medusa. — Pupo — il marinaio che venne su dalla porta della città, ripetè le stesse cose ed aggiunse aver veduto lo incriminato svenuto e poi udito dalla sua bocca parole sconnesse, o da ubriaco o da pazzo. — Il centurione Eleno Missilus chiarì quello che avea visto, cioè, il misero giovane ch’ei stimò morto tra le braccia di chi il sosteneva. Aver udito parlare di una lampada rubata. Pur quella lampada non essersi rinvenuta, nè sul posto, nè sui luoghi vicini. Stazio Rufo cominciò allora l’accusa. — Dipinse la depravazione dello incolpato. Le ricche imbandigioni e gli apparecchi della gola aver sciupato e guasto il suo censo avito. Altri scialacqui, di cui è onesto il tacere; e l’amplissima villa, non più sua; e i tanti schiavi di tante lingue; e i bronzi e le pitture di miracolo; e il vestir di seta come le donne, averlo gittato nelle braccia degli usurai, divoratori anch’essi del suo patrimonio. — Coteste le cagioni dell’ultima colpa. E potrebb’egli sconfessarla? — No! — Il patrono difensore nello udire il monosillabo accusatore del suo cliente: — Rufo, tu obblii il saggio costume degli avi, i quali si espressero sempre dubbiosamente in giustizia. — Come puoi tu asserire le cose intime che narri? — Vedesti tu — coi propri occhi tuoi — il furto sacro commesso? — E dimentichi tu per ventura come le tue arrischiate parole sappiano strappare un amico da braccia amiche, privare lo Stato di un cittadino ed egli stesso diminuire? — Pace, o Caio Calvenzio. Qui non si trattano piacevolezze. Tu non vorrai scendere a giuochi retorici. — Fatti. Non altro che fatti. — A tutti è chiara la vita del tuo cliente. — Egli avea debiti. — Chiese danaro. — Nessun usurario volle dargliene. — Entra nel tempio di Venere e ruba. Ruba accecato dalla disperazione. — E la lampada ov’è? — Non sii formalista, Calvenzio. — La sua tunica e la toga sono unte. Un lucignolo sulla persona.... Egli stesso non smentisce il reato. — Ecco quello che io credo..... e i nostri avi anch’essi in simile caso si sarebbero espressi così. — Ho detto. — Rispondi, se il puoi, sulla innocenza di lui. — Cotesti fatti — se sono fatti, ed io gli nego — non avrebbero potuta rifar la fortuna di Publio. Poteva vendere la sua casa, e i suoi bronzi, e le ricche suppellettili, e gli ori e gli argenti, e le gemme, e gli schiavi; ed avrebbe pagato i suoi debiti cui tu accenni ed io ignoro. In verità una lampada del peso di III libre e once II e del valore di 40,800 sesterzi, non può solleticare la cupidigia di un giovane agiato e spendente come tu dici. — Adora sorse l’amico presso cui Ametistio passò l’ultima sera gioiosa giuocando — il quale, dimentico del danaro scommesso e vinto, erasi fatto insieme con Metrodoro uno degli _advocati_, non avendo potuto essere gli _auctores causæ_ — e col viso acceso dalla indignazione, proferì: — E la lampada, per Polluce! E dov’è cotesta lampada? — Abbiamo un sacerdote interessato che accusa. — Abbiamo un incriminato che non si difende. — E l’oggetto del reato scomparso! — O Venere lo ha nascosto agli occhi dei suoi.... sacerdoti, o volò di per sè, come il divo Romolo, nell’empireo presso la Iddia! — Metrodoro era afflittissimo. Teneva la mano dell’amico chiusa nelle sue. E spesso a voce bassa parlavagli nell’orecchio. — Ma non ne aveva nessuna confortante risposta. — Ebbene! siccome s’intesero i testimoni, si ascolti ora il supposto reo. S’egli ripeterà ciò che disse agli astanti e poi al pretore, l’accusa non avrà altra cosa da aggiungere. — Un movimento di attenzione si produsse allora nell’assemblea. — I più lontani si sollevarono sulla punta dei piedi. Uno dei duumviri disse: — Parli or l’accusato e si scolpi. — — La lampada disparve dal tempio.... Vili ed ipocriti i sacerdoti.... A Venere non importa che l’olio bruci. Ha il sole che illumina il cielo, la terra e i pianeti.... — Ei bestemmia! — Epafrodite impostore!... Nel vostro collegio, quando siete satolli e il vino v’inebria, ridete fra voi degli Dei e degli uomini. — Una donna che fu vostra, ed anche mia, lo udiva e mel disse.... — I colombi di argento e i melagrani d’oro — che anche la mia stupidezza vi ha confidato, come voti alla Iddia — e non gli vendete voi fuori di qui?... La lampada.... valea pur essa i miei danari.... e partì. — E dov’è ora quel prezioso tra i sacri arredi? — Non la trovaste?... Bene sta!... Lo inferno v’inghiotta, o pubblici ladri!... Quella lampada non rischiarerà più le vostre soppiatte libidini sacerdotali.... — A me, che ti accuso, rispondi semplice e sincero. I giuochi di parole, di mente smarrita non ti gioveranno. E se lo interrogatorio non valse a strapparti dal labbro la verità, potrebbe ben la tortura.... — Come! insolente; osi tu proporre la prova dei servi ai duumviri sul mio misero cliente? Il dolore e lo spasimo depongono il falso sempre. — Ma la tortura è permessa sur ogni cittadino per causa di congiure e di sacrilegio. — E qui sacrilegio è negli atti e nelle avventate parole. — Metrodoro si stacca vivamente dalle braccia di Publio, e parla: — Uno accusa. — L’altro non dice. — La tortura? Sia! La subisca prima Epafrodite e quindi il cliente. — Così, se il vero sta nei tendini distesi e nelle carni lacerate, vedremo. — E se il mio amico risulta innocente, avrò il libito di chiedere ai magistrati di far marcare sulla fronte del prete calunniatore K, la stimmate che avrà meritato. I membri di tutti i collegi sacerdotali muggirono di rabbia a quelle parole oltraggiose. — Parecchi giudici ne furono inorriditi. — La plebaglia ruppe in alti clamori. La tempesta fu sì violenta che lo araldo ebbe ordine di suonare la tromba e di annunciare che i testimoni avevano detto, e la udienza era levata. Lo indomani del giorno d’intervallo tra un’accusa e l’altra, gli autori della causa ripetettero l’_anquisitio_, cioè la pena richiesta al delitto. Corsi anche due giorni, gli accusatori fecero affiggere nel Foro l’_irrogatio_, cioè uno scritto in cui palesavano la pena che il crimine sembrava meritasse, ed accusarono per l’ultima volta lo incriminato, invitando i giudici a pronunciare la sentenza. — Nelle due comparizioni si procedè alle accuse e alle difese, come nella prima. — Ametistio non volle difendersi. — I sacerdoti — non solo nei loro covacci di empietà e di frode — ma nelle taverne e nei trivi cercarono di persuadere il popolo ad impedire che lo scellerato sacrilego sfuggisse alla giusta vendetta dei numi. — Sempre gli stessi, assetati d’oro e di sangue! — Sempre tributari agli Dei delle atroci loro passioni, chiamandoli vendicativi ed autori dei pubblici disastri. — Coi giudici usarono altri mezzi — danari a iosa, e per sopra ciò _noctes mulierum atque adolescentulorum nobilium introductiones nonnullis judicibus pro mercedis cumulo fuerunt_. Non traduco tali immondezze. In quel giorno tutte le taverne, le botteghe, persino le terme furono chiuse. — Qualche scriba aveva venduto il suo posto e rimaneva in piedi. — Lo araldo intimò il silenzio, si fece lo appello dei giudici e gli autori della causa parlarono per due ore, tempo che la legge loro accordava. Caio Calvenzio replicò solo e apparecchiò lo uditorio ad intenderlo col tossire, collo scricchiolare delle dita, con sospiri e con tristi sguardi or volti al cliente, ora ai giudici, ora al popolo riunito. Parve agitato da una violenta emozione e la voce tremavagli nella gola. — Quando ebbe pronunciato: _dixi_, lo araldo gridò dall’alto: _dixerunt_, e i duumviri offerirono allo accusato ed agli accusatori il diritto che la legge Pompea loro accordava, di rifiutare per giudici quelli che loro non andassero a verso. Di ottanta uno ne rimasero cinquanta uno. — A cotesti vennero distribuite tavolette di bossolo coperte di uno strato di cera e ciascuno sopra scrisse la iniziale del voto che la propria coscienza o il turpe maneggio sacerdotale dettavagli. A voleva dire _Absolvo_ — C _Condemno_ — N L _Non liquet_ — ciò non è chiaro nella mia mente, se lo incriminato sia innocente, o colpevole. Ognuno gittò la propria tavoletta in un’urna, levando la toga per scoprire il braccio e serbando l’iniziale scritta dalla parte della palma della mano. — Il misero Ametistio venne condotto per una scala nella prigione ch’era al disotto della tribuna. — Fatto lo scrutinio dei voti, gli scribi ne diedero il risultato ai duumviri. Tre giudici opinarono per una più ampia informazione. Dieci negarono il crimine. Trentotto lo accertarono. Allora i duumviri spogliaronsi della toga pretesta in segno di lutto; ed uno di essi, con aspetto triste e solenne, disse nel silenzio dell’assemblea: — Sembra che Publio Ametistio meriti di essere punito. E a noi piace interdirgli l’acqua, l’aria ed il fuoco. — E sia crocefisso. — E nell’atto che uno degli scribi leggeva la stessa sentenza dallo spiraglio superiore del carcere a quei che doveva farsi _inanimatus_, nella sua qualità di _servus pœnæ_, l’altro dei duumviri dicea alla gente stipata: — _I licet._ — Così tutti, a poco a poco, vociferando, gesticolando, alcuni gioiosi, altri addolorati, escirono dalla Basilica e si disseminarono pel Foro. — Metrodoro, innanzi la prima Curia, arrestò due dei giudici, mettendosi con violenza nel mezzo di essi. — Sapete voi perchè tanto apparato di milizia nei tre accessi del tribunale e fuori?... Non per evitar turbolenze, no. — Per arrestare i _manticularii_ che vi sbarazzassero destramente della moneta che questa notte guadagnaste con tanto onore: — Uomini da conio.... e insanguinati! — Ed un altro, nella via della fontana del Leone, mirando camminare a lui dinanzi un sacerdote d’Iside, tolse di peso un’anfora spezzata piena di calce e la cacciò quasi elmetto di flamine sul capo di lui. — Tizzone d’Averno, imbiancati se puoi! — Finchè quel briccone potè levarsi la mala cuffia di testa e nettar gli occhi e la barba, il poco riverente cittadino era scomparso. Intanto Publio Ametistio aveva ascoltato la sua sentenza con un coraggio e quasi direi con un orgoglio di razza che dava una smentita alla poco gagliarda persona sua. — La morte sulla croce! — La sua vita, tutta di piaceri, non ve lo aveva preparato. — E lo sguardo della folla! — E lo scherno della plebaglia! — Le idee ed i nomi amici gli si arruffavano nella mente e lo racconsolavano dello spasimo morale che allora pativa e della morte crudele cui andava incontro. — Nell’atto entrano due feroci uomini nella prigione. Uno gli lega le mani dietro con una corda. L’altro gli appende al petto una tavola che chiarisce il suo nome e il delitto. Fuori sono soldati che lo attendono. Molta gente pur v’è — e in ispecie donne con bambini sul braccio o lattanti, curiose di vederlo una volta e di assistere alla sua crocefissione. — Una giovane lo guarda, gli lancia un bacio e dice: — Oh! se gli è bello, e piacente! Lo avrei amato! Se fossi una Vestale.... — gli è impossibile lo sperarlo, perchè non si torna indietro mai.... colla mia presenza avrei potuto dirgli — _sii libero_.... — e poi più alle fiamme del cuore che a quello dello altare. — Quando ti farai cheta, sguaiata? — Quando mi darai a bere del vino. — E cavato uno spillone dalle nerissime trecce, scrisse sulla parete: — _Suavis, vinaria, valde sitit. Rogo vos valde sitiat._ — Traversando il Foro, gli amici che la sventura gli avea risparmiato e i suoi poveri schiavi, i primi gli baciarono convulsivamente gli occhi e la bocca, gli altri i piedi, e disperati li lasciarono. — Ametistio sentì dentro tutto, uno strazio e camminò innanzi. Lungo la via dell’Abbondanza e quella della fontana di Venere, fissava le genti che il riguardavano, smemorato. Vedea doppio e triplo. — Fuori della porta di Stabia la comitiva si fermò _ad cisiarios_, colà dove si affittavano i veicoli; e venne consegnato al carnefice, a cui le leggi censoriali niegavano la luce e l’aria che si respirava in Pompei. Spogliato delle sue vesti, fu gittato sur una croce di pioppo. Due gli tennero le mani distese con una corda. — E il carnefice le inchiodò. — Poi gli distesero i due piedi riuniti. — E il carnefice li inchiodò. — Il poveretto soffriva acuti dolori. Ma non dicea verbo. — Quindi i tre giustizieri levarono di peso la croce e la conficcarono, per la estremità dove penzolava la testa, in una buca di sasso, assestandola con due cunei. La plebaglia — avida di quegli spettacoli — rimase sul posto sino a sera. Alle prime ombre partì. — I littori di guardia rimasero seduti presso un fuoco di frasche ed un’anfora di vino. Dopo un’ora, una donna si trascinò colà barcollando. Al chiarore rossastro vide lo inchiodato a capo in giù e corse a lui. — Ametistio! Mi ascolti? — Mi vedi? — Calliopa... un bacio... ecco la morte.... Io ti.... atten... — Espio tutto sulla tua bocca e muoio! — Fu l’ultimo accento di una doppia agonia. — La mattina i soldati si provarono a rialzare la donna prostrata che colle braccia stringeva la croce. — Era morta! — Fecero una buca e la seppellirono. E poi ch’ebbero pigiata la terra sul cadavere: — La credi moglie del crocefisso colei? — No! — La donna dallo anello non muore di amor disperato! — LA NECROPOLI. SCENE DI FUNERALI. =Anni di Roma 779 — Anni del Cristo 26.= A J. C. HACKE VAN MYNDEN. VI. — La tua tragedia, o Sirio Crixsio, non posso accettarla. L’ho letta — piacerebbe in Herculanum... lo credo — qui, ne dubito forte. — Le lettere non vi sono in molto onore come nella tua grande città. — La tua commedia, o Delio, non è adatta alla circostanza. — Se si trattasse di festeggiare un duumvirato, eh!... Ma noi piangiamo la perdita di un dabbene, i cui pari non nascono ogni dì. — Andate. — Ci rivedremo in altra occasione. — E voltosi ad un uom vecchio e tarchiato: — Salve, _operarum theatralium dux_. Tu puoi acconciar tutto a dovere. Mi occorrono tre _taurocentas_ e tre _succursores pontarios_. — Le coppie dei tori le ho già provviste. La giostra nel Foro. — Oltre la venazione vorrei dare lo spettacolo dei _pugiles catervarios_ insieme coi _pyctas_, secondo il costume greco. Vi sia musica e pantomima. — Tu penserai a provveder le macchine, il vestiario, i giostratori e tutto. — Quanto alla spesa — tu mi conosci — non vi sarà a ridire. — Agisci con zelo. — La famiglia è ricca e generosa. E vuol fare obliare «lo assedio di Troia» che tu preparasti nel gran teatro pei funerali di Munazio Fausto — lo arricchito dal mare — cui Nevoleja Tyche diè quella testimonianza di amor coniugale. — Compresi, Eumenes. La famiglia di Flacco non avrà a dolersi di me. Ma ier l’altro io vidi il brav’uomo passeggiar nel Pecile. — Vi entrai per parlar collo edile — ed egli mi strinse la mano e mi chiese del figliuol mio che — come sai — vive nell’Urbe. — Eumenes nello udir lo elogio del suo padrone, valido e sano due giorni innanzi, sentì tremolare negli occhi le lacrime. Le asciugò col _sudarium_ che aveva chiuso nelle pieghe della tunica, e con voce velata rispose: — Tornò in casa pieno di salute. Dopo la cena si dolse del mal di capo e andò a coricarsi. Il _clinicus_ Stertinio lo visitò lo indomani, prescrisse i suoi _placita_ che io feci comprare dal vicino _seplasiarius_; e malgrado il medico il consigliasse a rimanersi nel letto, od almeno in camera, volle uscire e andar nella Curia. — Colà svenne e fu qui riportato in lettiga. Non parlava. Aveva storta la bocca, gli occhi sbarrati e la faccia accesa. — Vengono due medici e gli tastano i polsi, uno di qua, l’altro di là. — Quei mercanti della salute furono in questo solo di accordo — che il sangue fosse ito con impeto a cacciarglisi nel cervello. — Ma per rimediare a quel guasto Stertinio indicava il bagno freddo e Archagathas un bagno caldissimo ai piedi con farina di senape. Allora si bisticciarono, chiamandosi _vespillones_, spoglia-cadaveri, e peggio. I figliuoli — per non aver rimorsi più tardi — usarono interpolatamente i due rimedi. Il bagno ai piedi parve lo rianimasse un poco. — Coi segni prima e poi collo stilo sulla cera quel degnissimo di vita affrancò dodici schiavi, si tolse gli anelli e dandoli a Lelio lo designò suo erede. Il misero ebbe appena il tempo di collar le sue labbra sulla bocca del vecchio e riceverne il suo ultimo sospiro. Lydia era svenuta nelle braccia delle liberte. — Aterio Flacco era vissuto. — Consolati, Eumenes. — Il figlio somiglierà a suo padre. — Sì, o Filone. È il suo ritratto e dentro e fuori. E il vedrem presto degno della pubblica cosa. — Ma giacchè tanto spendemmo per quei due becchini — chiesero ed ottennero dugento denari! — vorrei che il padrone facesse incidere nella epigrafe: _ignorantia medicorum periit_. — Postuma è la sentenza, o fedele. — Non si fischia quando s’inghiotte. — Sta’ sano. — Eumenes era un uomo della seconda gioventù. — Tratti regolari e belli, velati da una espressione di dolce melanconia. — Neri e ricciuti capelli gli adombravano il viso. — Spessi sopraccigli celavano i suoi occhi lucenti, e vi si leggeva l’audacia che inspira la forza fisica, la contentezza del proprio stato e una certa tinta di arroganza insolente mista a bontà di carattere che acquistano tutti i servi i quali invecchiano nella casa del loro padrone. — Era Messenio, e fu comprato fanciullo da Flacco. Passò per tutti i gradi della domesticità. — Dapprima _succinctus puer_ nel triclinio. Quindi _structor_, quegli che apparecchiava il desco e acconciava le vivande in un ordine simmetrico e studiato; e poi _scissor_ e così abile, ch’egli sapeva scalzare un’oca pulitamente e sì presto da vederla intera e tagliata in un attimo. La sua fedeltà e continenza lo fece salire in fiducia e divenne _promuscondus_, lo ispettore della cantina. — Allorchè venne assunto allo ufficio di _tricliniarcha_ Flacco lo affrancò, e qual maggiordomo fu il primo fra tutti i familiari della casa. Per lo addolorato liberto era giorno di grandi faccende quel giorno. Allorchè Lelio chiuse gli occhi a suo padre e andò a piangere nella sua camera nelle braccia della sorella, egli dovette correre per dichiarare la morte del suo padrone e prevenire i _libitinarii_ per lo apparecchio delle esequie. Cotesti ministri della Dea luttuosa, avevano nel tempio quanto era necessario per la triste cerimonia — portatori — guardie — piagnenti — vasi di vetro, di alabastro, di bronzo, di terra per chiuder le ceneri — legni resinosi — unguenti — tutto — a seconda del grado della persona morta e della magnificenza della famiglia. Per questo pagavasi una somma convenuta — _arbitrium_ — e si gettava in un’urna la moneta che serviva di registro dei morti nell’anno. — Combinata la spesa, Eumenes tornò in casa coi _pollinctores_ che dovevano lavare con acqua calda il cadavere, aromatizzarlo di cinnamomo, di mirra e di nardo, acconciare la faccia del morto, infarinarla col _pollen_ e colorirla come da vivo. Fecero però prima la _conclamatio_ per quattro volte, chiamandolo a nome presso le orecchie, e suonarono le buccine due volte, onde accertarsi se quell’apparente tranquillità fosse riposo, o sonno eterno. Compiuta l’opera libitinaria, il cadavere venne esposto sur un letto solenne, colla faccia scoperta, vestito di bianca toga, nell’atrio, coi piedi volti verso la strada. — Siccome aveva in gioventù raccattato nel porto un fanciullo che annegava, fu messa sulla sua testa una corona di quercia _ob civem servatum_. — Sul _prothyrum_ era un’ara, ove ardevano profumi. — Dinanzi all’uscio, un grosso ramo di cipresso. — E attorno alla bara i custodi con altri rami per discacciare le mosche. Sette giorni durò la esposizione. — I profumi e gl’incensi bastavano a dura prova ad attutire il puzzo della materia corrotta. — L’ottavo in sull’alba, un araldo percorse le vie, i crocicchi ed il Foro. E gridava: — _Aterius Flaccus ollus leto datus est._ — Queglino cui convenisse di assistere ai funerali, _jam tempus est_. — Si celebreranno giuochi; e il ministro della dea Libitina avrà un apparitore e dei littori. — Qualche ora dopo, la strada e la casa si empivano di gente. — Tutti vestivano la _penula_ invece della toga che non indossavasi nei funerali. Una _præfica_, armonizzò colla lira una _nenia_, cioè un poemetto funebre in lode del morto. Quando la cantilena ebbe fine, Lelio e tre dei suoi parenti più prossimi, vestiti di bruna pretesta, caricarono il letto funebre sulle loro spalle. E benchè il sole splendesse sull’orizzonte, il convoglio s’incamminò fra torchi accesi di cera e di stoppa impegolata. Un _designator_, andava innanzi coi littori dalla nera tunica. E dietro sfilavano suonatori di _tubæ_, cori di satiri danzanti un comico ballo chiamato _sicinna_, e la truppa degli schiavi affrancati con Eumenes alla loro testa, tutti col capo coperto dal berretto frigio della libertà. Immediatamente seguiva il corpo del defunto cogli amici, coi parenti, in tunica nera e senza anelli. Dietro di essi, a distanza di parecchi passi, era Lydia colle vesti in disordine, coi capelli sparsi, in lacrime e gittando tratto tratto gridi di dolore. L’accompagnavano alcune amiche devote che nel settenio non l’avevano lasciata mai sola. Tutte — come la grande afflitta — erano coperte dal _ricinium_, piccolo mantello bruno. Quindi camminava una prefica che colla pantomima dell’angoscia che non sentiva dava il tuono dei gemiti alle serve della famiglia ed alle loro figliuole. — Chiudevano il corteggio altre prefiche divise in due drappelli, di cui le prime piangevano percuotendosi il seno e strappandosi i capelli e le altre cantavano inni ed omei. E ad istanti cangiavano ufficio, cantando le prime e piangendo le ultime. Salito il cadavere sul pulpito del tempio di Giove, il letto fu innalzato di dietro talmente perchè il popolo riunito il vedesse. E Lelio pronunciò un discorso, in cui unì agli elogi del padre le principali azioni della sua vita. Talvolta il misero giovane si arrestava per piangere. Allora una musica flebile rimpiazzava le sue parole. E si udì per la piazza ai singhiozzi della figliuola ed al pianto degli affrancati unirsi qualche voce lamentosa di persone riconoscenti. Nello escire dal Foro la pompa funebre voltò dinanzi al tempio della Fortuna e più in su prese la via Domizia per escir fuori della porta di Herculanum. Avvegnachè nel sobborgo Felice fosse la tomba della famiglia. Nell’_Ustrinum_ sorgeva il rogo composto, a modo di un’ara, di legna secche di elce, di frassino e di pino, decorato di ghirlande di fiori. Negl’interstizi erano pezzi di pece, perchè aiutassero alla combustione. Distesovi sopra un lenzuolo di amianto, i libitinari vi collocarono il cadavere, cui erano stati prima aperti gli occhi dal figliuolo onde vedessero il cielo, e introdotto tra i denti un triente — circa due centesimi di lira — per pagare il tragitto al nauta infernale. — Quindi Lelio e Lydia, baciandolo sulla bocca per l’ultima volta, avevano gridato con una voce piena di lagrime: — _Salve aeternum, aeternumque vale_. — Noi ti seguiremo, o padre, nell’ordine che la natura ci assegnerà. — Allora tutti fecero il giro del rogo, gittandovi sopra ogni maniera di ultime offerte — oli profumati — balsami — incenso — mirra — cinnamomo — nardo — e la figliuola una ciocca de’ suoi biondi capelli. — Chiuso il lenzuolo, l’_ustor_ presentò le due torce accese a Lelio ed a Lydia. Essi le presero. E, copertisi gli occhi col lembo della veste e volte le spalle — per provare il ribrezzo sentito nel distruggere quelle amate reliquie — appiccarono il fuoco al rogo. — Ben presto un turbine di fumo elevasi in aria. — E pianti, e gemiti, e singhiozzi, e canti funebri, e suono di trombe con essi. — Colui che aveva presentato le torcie vegliava sulle fiamme e le attizzava. — Appena la catasta di legna la divenne cenere e bragia, l’_ustor_ inforcò il lenzuolo pei nodi e lo depose in terra. Lo aperse. E i parenti, inginocchiatisi, cercarono con cura le ossa che il fuoco non avea calcinato e lavatele con vino vecchio e latte e poi asciugatele con veli di lino, le chiusero in un’urna di alabastro orientale insieme a foglie di rose e ad aromati. Ivi pure scossero la cenere chiusa nel lapideo lenzuolo. Allora il _designator_, che avea già cambiato il ramo di cipresso con un ramo di lauro, fece tre volte il giro intorno ai ragunati per la trista cerimonia, li purificò con una aspersione di acqua pura; quindi gli congedò colla parola, — _I licet_. — Il nono giorno le ceneri vennero deposte nella tomba della famiglia, la quale trovavasi dietro l’ustrino. Lelio aprì colla chiave la porta di marmo che girò fischiando sui suoi cardini di bronzo. Si curvò, discese tre scalini e depose nella nicchia in faccia a sè la ricca urna che aveva nelle mani. — Levato il coperchio, gittò dentro un anello d’oro con una pietra su cui era incisa una cerva — il _symbolus_ del padre morto. — Volse mestamente gli occhi allo intorno e sulla predella vide l’urna di marmo colle ceneri di sua madre; di vetro, con quelle di una sorella; e di terra rossa, adorna di bei rilievi, che racchiudea le reliquie di un fratello morto anzi tempo. Sospirò ed escì. L’ultimo atto dei funerali era compiuto. E lo fu a suono di trombe, dette _sitinae_, dal timbro grave e melanconico. Tornato in casa, trovò i parenti e gli amici riuniti a banchetto. Nessuna bocca potè sfiorare gai propositi. Le menti erano afflitte e preoccupate e tutte miravano un solo spettro. Già da due mesi — sendo morti Germanico in Syria e Druso in Roma — Tiberio imperatore erasi chiuso in Capreas, stanza recondita e di molto comodo alle sue paure e alle sue crudeli sporcizie. Dodici anni prima, accompagnando nella Campania Cesare Augusto — marito di sua madre Livia Drusilla e suo padre adottivo — aveva visto l’isola assai bella e dilettevole, cinta di rupi scoscese ed altissime ed accessibile sul mare profondo da una sola banda e ristretta. Era vecchio, dal corpo brutto, sottile, lungo, chinato e calvo. Aveva il viso chiazzato di margini e di spesse stianze e piastrelli. Era stomacato dello abbietto Senato ch’egli spesso svillaneggiava in greco — «o gente nata a servire» — plaudendo lui distruggitore delle pubbliche libertà. Odiava sua madre che non volea socia al dominio, e discacciare non la potea perchè per le sue moine Augusto lo aveva preferito a Germanico, nipote della sorella Ottavia. Checchè ne fosse, era partito dall’Urbe con poca corte, per lo più di greci, amando ragionare in tale idioma. Il pretesto fu il sacrare il Campidoglio di Capua e il tempio di Augusto in Nola. Lo infinito restitutore di antichi ordini colà guadagnossi i sopranomi di Biberio Caldio Merone e di Caprineo. I suoi desinari duravano non ore, ma giorni interi e serviti da fanciulle di corpo vago ed ignudo. Premiati i maestri di disonesti sollazzi. Ai più alti uffizi i beoni, i corrotti, gli autori di libri lascivi e di pitture libidinose. Chiamava suoi piscicoli i bambini coi quali bagnavasi, sendo incitamento la loro innocente modestia. In più nefande camere, rizzate qua e là nell’isola erano i ministri di quanto in esse si può. Ed altri ministri lettigavano per la contrada in cerca di vittime alla sua sporca e focosa lussuria. Ma avaro nello spendere, moderò negli altri lo sciupo nei giuochi e nelle feste, e scemò le provisioni agli istrioni ed agli accoltellanti. Pur, se illimitato il castigo ai prevaricatori, illimitate le vie per deludere la pena ed ovviare il castigo. E tratto tratto vedeva e puniva. E spegneva i riottosi e ne ghermiva gli averi. E la plebe diceva nel vedere i ricchi puniti: — Cesare coi suoi occhi raccolti vede di notte all’oscuro. Gli altri, di giorno, per lui. — Intanto il Foro rumoreggiava dei giuochi che il fasto della famiglia in corruccio faceva eseguire, perchè la memoria del padre fosse più durevole nel cuore del popolo. L’uso era rischioso, irreflessivo ed audace, nè poteva esser vinto sì di leggieri. Tori furiosi corrono a capo ricurvo nella lizza. — I bestiari, scalzi e vestiti appena di una corta ed ampia tunica senza maniche, gli attendono, evitano con destrezza l’urto delle loro corna, li feriscono colla punta di un giavellotto; e quando li veggono arrestarsi confusi, e sbalorditi raschiare colla zampa il selciato, si presentano loro dinanzi squassando una stoffa di color chermisino. I soccorritori, agili anch’essi e quasi nudi, corrono dietro i tori frementi e con alte grida gli aizzano contro i loro avversari e gli pungono con una lunga asta, armata nella sua estremità di un ferro acuminato. La bestia nel parossismo del suo furore si slancia, crede di sbuzzare il nemico e non trova infilzato alle corna che un cencio che gli annuvola la vista. Allora altre punzecchiature di dietro; altre sfide dinanzi. E urli dalla galleria ed oltre lo steccato di legno che circonda l’arena. — Però che il popolo in quelle venazioni non vedea più la idea pietosa che la faceva offerire, ma solo lo amor del piacere e lo spirito di turbolenza che il mena. Per poco che un taurocenta, nel salvarsi da una cornata, faccia un passo falso e cada, escono tali fischi da quelle gole, sino a ghiacciare di spavento e di confusione le bestie. Se poi queste ristanno malgrado i colpi di lancia dei succursori puntari, le grida, le imprecazioni, le minaccie scoppiano contro di esse. Il pugilato succedette alla corsa dei tori. — Frigidus e Vitulus — rotti agli esercizi violenti e al regime austero della loro professione di atleti — discendono nel parallelogrammo. — Hulvio e Tetrix — non meno rinomati dei primi — si mostrano anch’essi. E siccome erano stati altra volta in Pompei, sono applauditi calorosamente. — Una coppia verso il tempio. — Un’altra verso le curie, perchè tutti veggano. — Gli atleti gettano via dalle spalle un ampio mantello e fanno mostra di larghe membra, di braccia nervose, di ossa gigantesche. Hanno rasi i capelli, tranne sulla sommità della testa, adorna di un grosso ciuffo, quasi a garanzia dei colpi che possono ricevere sur una parte così sensibile e delicata. — Alcuni schiavi allacciano dalla prima falange della dita sino all’avambraccio un paio di cèsti perfettamente eguali, formati di sette striscie di cuoio di toro ancor velloso e guarniti di piastre di ferro o di piombo. Appena armati, si assicurano sui loro piedi e levano le braccia in aria per saggiare se i cèsti sono bene aggiustati. — Dato il segno, le due coppie gettano la testa indietro e presentano i cèsti allo avversario. Le mani s’incrociano e il combattimento incomincia. Frigidus è più leggero; meglio agile; lo soccorre la gioventù. Vitulus è più provetto e più forte; ma le sue ginocchia non sono ferme ed ha grosso il respiro. — Hulvio è membruto e saldo sui suoi larghi fianchi. — E Tetrix non è da meno di lui. — I colpi d’ambi i lati dello steccato si avvicendano; e, o rompono l’aria, o rimbombano sui petti. Si guardano, si studiano, si minacciano, si evitano, si stancano. — Il sudore copioso prima imperla e poi riga la epidermide di quei giganti. — Frigidus vuol porre un termine alle lotta e impetuoso si getta in avanti colle braccia levate e scaglia due colpi simultanei. Vitulus — che cercava un accesso or a dritta, or a sinistra per colpire con profitto l’emulo suo — rincula con prestezza; e l’altro, non sostenuto dalla resistenza, trascinato dal proprio peso, cade boccone sul lastricato. Urli e fischi scoppiano di ogni lato. — Altri plaudisce alla destrezza di Vitulus. — Ma il caduto si solleva con impeto e rinnova gli attacchi. Hulvio anch’esso vuol compiere rapidamente il proprio trionfo; e digrignando i denti, si precipita sullo avversario e gli assesta colpi spessi e di lieve portata. Tetrix nota quella furia e la trae a suo vantaggio. — Para la minaccia, o la evita col gittarsi di fianco, o fugge. L’altro prende allor più coraggio e irrompe più furioso che mai. Tetrix si volge, finge un colpo di lato e gliene squadra uno terribile sulla faccia che lo atterra sbalordito e fuori di sè. Il sangue spicca a rivi dal viso lacerato e pesto. Frigidus e Vitulus grondano di sudore ed ansimano come due mantici. — Di comune accordo si fermano e vanno ad aiutare il compagno che trascinano via col capo penzoloni sulle spalle. — Per Castore e Polluce, sono valenti atleti! Come lo chiamano il ferito? — Lo ignoro, Comio. Mi pare di averlo visto a Capua, un anno fa, nello anfiteatro. E anche là — se ben lo rammento — buscò una scellerata botta sul fianco. — Eh! Se naufragò anche altra volta, or accusa a torto Nettuno. — Io preferisco il mio mestiere al suo. — Che ne pensi, o Mola? — Certo val meglio far bollire le carni che far pestare le proprie. — _Archimagiri_ di buone case come noi non hanno ad invidiare un Flamine, — Eppure!... — Già ti penti della tua sorte? — Mai no. — Talvolta però che veggo gladiatori ed atleti balzare nel Circo e applauditi.... Tal’altra che miro le donne correre loro appresso come le mosche al mele.... Che la dea Fornax mi perdoni!... Ma di siffatte delizie a noi cuochi non arrivano mai! — A ognuno la sua. Consolati! Lo stomaco e la borsa — se consultati — ti darebbero torto. — Ma cosa accade là in faccia a noi? — Un gran baccano difatti accadeva di contro. Alcuni uomini gesticolavano furiosi. — Che è. — Che non è. — Le donne supplicavano, ma non riuscivano a calmarli. Alla fine si vide un soldato dibattersi tra quella stiaccia, tolto di peso e cacciato fuori con pochissimo garbo. Un triario — giunto tardi — non aveva trovato posto tra gli assegnati ai suoi pari. Ed allora per godere dello spettacolo, erasi fatto strada là dov’era il popolo. Un ardire siffatto aveva eccitato il sentimento plebeo della dignità sovrana, e lo intruso venne scacciato dal posto che avea tentato usurpare. — Orestilla, vedi com’è tronfio e pettoruto quel bruno che si fa largo là, tra la gente. — Pavone antipatico! — Colui dalla tunica di porpora?... È uggioso anche a me, Pothusa. — Nol vidi mai prima d’ora. — Debb’essere straniero. — Che farà egli in Pompei? — Eh! Continuerà il suo mestiere! — Maraviglio del magistrato che fa entrar simil gente nella nostra città. — Callityche — ch’era presso alle due giovinette, l’una _calamistra_, arricciatrice di chiome donnesche, l’altra _vestifica_, che tagliava le vesti e le cuciva — voll’essere del pettegolezzo ed aggiunse: — Mi pare sia del mio sangue. — Ho la casa da affittare... Io gliela cederei. — Uno ch’era servo in una _diversoria_ fuori la porta della Marina, felice di poter offerire informazioni esatte, entra a dire: — Tre giorni fa approdava nel porto. — Dormì e mangiò nello albergo. Lo indomani il padrone, ch’è meticoloso, gli chiese il pagamento della cena e del letto; ed egli aprì la borsa — e cen’eran dentro dei bianchi e dei gialli! — pagò e — forse stizzito dalla scortesia — partì. Spese due denari e tre quadranti, e a me diede due assi. Un altro avrebbe pagato un solo denaro.... e avrebbe detto le sue. — Nummi e denari? — Dev’essere molto ricco allora! — Me n’ha l’aria. — E quegli che portò via la sua cassa, mi disse ch’era ben grave. — Orestilla guardò la sua amica, e: — La verità entra in casa, parlando — Eh! per la gioconda Iddia! Ha un bello aspetto quel forestiero! — Guardato meglio, guadagna. — Poichè spende grosso, sia il bene arrivato. — Scommetto che quando lo incontrerete per via — oh! gli è un greco di certo! — gli lancerete tenere occhiate per farvelo amico! — Attenti. — Ecco i lottatori ch’entrano in scena. — Bei giovani! Paiono fatti al torno. — Erano quattro. — Sono ignudi dalla testa ai piedi. — Ma si potrebbero dire vestiti di grigio, perchè unti di olio e di cera e coperti da una cenere fine che trovavasi in Puteoli. Quella specie di pomata dava scioltezza alle membra, turava i pori, e facendo aspra la pelle, rendeva più facile il ghermirsi. La lotta è per cominciare. I giovani si apparecchiano col corpo proteso dinanzi, col capo insaccato nelle spalle, colle braccia a cerchio. — Artoces è un pompeiano. Io scommetto per lui dieci denari. — Che ne dici, Rutilio, accetti? — Sì, Cocceo. Io quindici per Dama. Mi pare sia meglio piantato sulle sue gambe. — Sai tu, Munazio, come si chiami quel lottatore che ha le forme di Ercole, costaggiù? Io tengo per lui quaranta sesterzi. — Povero Sandiliano, li perderai e sono troppi. — Lo dicono Aphrocides. Tu sbuchi un pozzo nel momento che ho sete. — Mira, farò il colpo di Venere come alle tessere — Triplo sei. — Lydo mi darà vittoria. — Basta! — È convenuto tra noi. — Oh! Eccoli alle prese. — Durante quel dialogo i lottatori si erano osservati, si accostavano e miravano al modo come si attaccherebbero. Parvero decisi. Si ghermiscono mutuamente per le braccia, si danno delle scosse, si spingono, e si tirano con tanta violenza che — nel silenzio degli spettatori — si odono le ossa delle spalle e delle reni che scricchiolano. Lo scopo finale della lotta è il gittar per le terre lo avversario. Non colpi. — Non pugni. — Sono proibiti. — Convien dunque fare degli sforzi di tendini e di muscoli, prendendo piede contro piede, fronte contro fronte, quasi fossero due capri o tori, per ottenere lo intento. I conati eguali. Pari le forze dei quattro campioni. L’ansia degli scommettitori è estrema. — E se le donne non fanno mercato delle loro aspirazioni, dentro però scelgono il loro campione, e a lui augurano la vittoria e trepidano per lui. — Decimilla, che bel giovane quel biondo dai capelli inanellati, eh? Non mi par convenevole mostrare in pubblico quegli uomini ignudi!... Pure che petti! che gambe!... Quel mio pare un Apollo. — Vorrei così formato il marito che Jugatinus — il dolce Iddio — vorrà destinarmi. — Io sono per quel bruno, Cœsia. — I biondi non mi piacciono punto. Quantunque volte io oda novelle d’infedeltà, sempre nel fondo vi è l’uomo dagli occhi azzurri — la tinta del cielo, del mare, dell’aria — le cose più mal fide ch’io mi conosca.... E poi è bruno il mio Anteros. — Sai? Il mio promesso che ha bottega di stoffe per vesti, dinanzi la fontana del Toro. — Avrai un bel prospetto per fuorviare l’occhio maligno. — Ed Anteros un soggetto di meditazione non molto piacevole. — Ma guarda il tuo biondo, Cœsia. — Per Ercole! Cangia lo attacco. — Queste parole dicevale Alleia alle compagne, a voce bassa e ridendo.... Difatti Lydo avea preso risolutamente pel collo Aphrocides e lo stringeva come un nodo scorsoio. L’altro non piega di una linea e lo abbranca alla sua volta. — Quindi si stringono e son petto a petto. Le loro gambe si allacciano e l’un cerca di far piegare all’altro il ginocchio perchè cada. Ma Aphrocides diè una scossa violenta e si staccò, scivolando come una murena dalle strette di Lydo. — Che dici, Munazio, di quella prova? È un Anteo che ritocca la terra coi piedi. — Per Giove tonante! Ne convengo. Si tirò da un cattivo passo. — Il tuo Dama suda, o Rutilio, ed ansima come un cavallo bolzo. — Aggiungo sei denari alla sua caduta. — Gli tengo, impavido Cocceo. Il tuo patriotismo ti onora. Non so se il destino sarà pel nostro pompeiano. — Vedi! Si sono separati. Vanno a tuffarsi nelle casse piene di polvere. — Per Cocito! Gocciolano come usciti da un _calidarium_. — Rieccoli tutti grigi. — E la lotta si rinnovava. — Dama, rifatto dalla piccola tregua, si slancia primo e accaviglia la sua gamba sotto il ginocchio destro dello avversario. Questi piega, non regge e cade. L’altro, posandogli il piede sul petto, gli dice di arrendersi vinto. Ma Artoces gli distende per tutta risposta una solenne pedata sotto il mento e si rialza come spinto da una molla nell’atto che il primo va a gambe in aria. Un fremito di gioia prendeva il cuore del popolo. Il pompeiano avea vinto. E tutti accalcandosi spingevano fuori le braccia e gridavano: — Bravo Artoces! Bel colpo! Viva l’onore di Pompei! — Che ne dici Rutilio? — Aspetto che il mio cada due volte per dar la palma al tuo. — Intanto Lydo, che gli applausi per altri han renduto spavaldo, si gitta sull’emulo come un leone e lo afferra per le gambe. L’altro, vista le mala parata, si abbassa e lo preme di tutto il suo peso, perchè quegli non lo sollevi di terra. Aphrocides valeva quanto un bue, e rizzarlo era impossibile. Allora lo lascia e ambedue corrono. In una rivolta il giovane biondo lo sorprende di dietro, gli cinge il collo, gli caccia un ginocchio sui reni e lo distende sul selciato. E prima che sappia sollevarsi, lo avvinghia colle braccia, dà un urlo, lo innalza con supremo sforzo fin sopra il capo e lo gitta ai suoi piedi. Gli scommettitori e le donne sono in grande agitazione. Sono gridi che non si odono che nei paesi meridionali, dove si nasce, si vive, si muore per entusiasmo e per gloria. Scuotevano in aria le toghe e spargevano fiori e corone di alloro. Pareva che la patria in pericolo fosse salva e che Lydo l’avesse salvata. Anche Artoces avea vinto. Caddero ambedue abbracciati per terra. Ma Dama sendo di sotto non potette sciogliersi e l’altro si sollevò puntandogli il piede sulla pancia e salutando col braccio teso il popolo sovrano. — Uno schiavo vestito di tunica azzurra entrò nella lizza ed offerse ai due vincitori una palma e una corona di foglie di lauro indorate. — Cœsia, sognerai di quel biondo tu questa notte. — Rutilio, non avesti fortuna e men duole. Giuoca alle tessere e prenderai la rivincita. — Non schernirmi, Cocceo. — Ecco io ti pago. Ma possono accader molte cose tra la bocca ed il pezzo di pane. — Ad un’altra volta. — Scherza pur, Decimilla. — Lydo è bello e grazioso. Intanto alcuni bambini gironzavano sotto il portico del Foro e sul piano superiore, offerendo a chi volesse comprarne mandorle verdi, castagne e fichi secchi, lupini e ceci abbrustolati. Avevano pure idromele e vino dolce per chi ne chiedesse. Lo spettacolo offerto al popolo da Lelio Flacco non era finito. Partiti i lottatori, entrarono i musicisti i quali si attelarono ai due lati dei portici. Dopo di essi comparvero gl’istrioni, di quelli noti sotto il nome di Pantomimi, che significava — imitatori di tutto. — E nel vero, essi senza dir verbo e aiutandosi con gesti e posture plastiche e sostenuti dal suono di un flauto particolare, detto _dactylica_, faceano comprendere agli occhi quello che difficilmente si può narrare colla parola. Le loro mani parlavano, le loro dita avevano una lingua ed erano eloquenti senza aprire la bocca. Nè si aiutavano col soccorso della fisonomia; chè le loro maschere erano colla bocca naturale — non come i comici e i tragici, che le avevano sbarrate, larghe e con un orlo sporgente semicircolare, per servire di portavoce agli attori nei circhi e nei teatri immensi in pien’aria. — Avevano bisogno di usarne una per ogni carattere che rappresentavano, siccome gli odierni le vesti, in _saltatio_, cioè, il gesto, accompagnato dal flauto e talvolta dalla fistola, e dal cembalo, bastava per rappresentare drammi completi, tragici e comici. Le principali situazioni venivano indicate dai monologhi che i cantanti recitavano nell’atto che i pantomimi esprimevano. In quel giorno venne rappresentato l’Eunuco di Terenzio. Il soggetto era questo: Un soldato per nome Thrason aveva con sè una giovanetta che credevasi sorella di Thaïs; ma ei lo ignorava; e, ito in Atene, ne fece dono a lei. — Nell’atto, Phedria, amante di Thaïs, avendo comperato un eunuco, le ne fa dono e parte per la campagna, perchè le ha promesso di cedere il suo posto al soldato durante due giorni. Un giovanetto, fratello di Phedria, che si è innamorato perdutamente della fanciulla avuta in dono da Thaïs, siegue il consiglio del suo schiavo Parmenon, si veste da eunuco, penetra nella stanza della fanciulla senza sospetto e l’ha. Un fratello di lei costringe il giovane a sposarla. E Thrason ottiene da Phedria ch’ei sia secondo presso Thaïs. Erano le delizie sceniche degli avi nostri. — I retrogradi ed i preti che piagnucolano sulle immoralità del nostro teatro — se sapessero — potrebbero consolarsi. Tutte le circostanze della favola furono espresse. — E le grida della serva di Thaïs contro il vero eunuco, creduto lo autore del danno. — E i mali trattamenti che gli fa patir Phedria. E l’ultimo patto, fra questi e il soldato. — Il popolo provò gran piacere a codesto spettacolo. In modo che quando l’istrione, il quale faceva la parte di Phedria, espresse coi gesti la fine obbligata di tutti i drammi: — E voi applaudite! — i picchi delle mani, le grida, gli urli fecero echeggiare tutti i canti del Foro e dei luoghi vicini. — E la riconoscenza ricordò a molti il nome di Aterio Flacco, defunto, e di Lelio, il suo generoso figliuolo. — Nè mancarono vivi plausi a Filone; l’ordinatore di quei magnifici giuochi. Lo indomani dovevano farsi i _denicales_, cioè le purificazioni dei parenti e degli schiavi, sì nella casa del morto, come nelle case di quelli che avevano tolta la loro parte nei funerali del loro amico e del loro patrono. — Lelio la fece nella sua dimora. Così gli altri nella loro. — Spazzò il pavimento con una granata di verbena. Pose un braciere nell’atrio, gittò un po’ di zolfo sui carboni ardenti, e prendendo per la mano la sorella e seguìto da tutta la famiglia, fece parecchi giri intorno a quella fumigazione. — Quel giorno diviene feriale per essa e nessuno lavora. E tal’era il rispetto degli antichi ai doveri verso i vissuti, che nessuno della parentela poteva essere citato dinanzi i tribunali dal dì della morte sino a quello della purificazione. Il nono giorno dicevasi _novendiale_, e si andava a banchettare sopra la pietra, per cui _silicernium_. La qual cena fu poi chiamata _ferale_, o _parentale_ del _silicernium_. In Pompei, questo triclinio dove asciolvevasi dopo il periodo del dolore il più intenso, è un ricinto quadrato, circondato di pareti dipinte con poca eleganza, presentanti in mezzo a cornici ippogrifi, cervi, pavoni e cigni. In fondo e ai lati sono finti usci con piante di felce a colori. Letti inclinati verso l’esterno, come tutti i triclini estivi, cuoprono l’area. Nel mezzo è un parallelogrammo, destinato a servire di desco. E dinanzi una piccola ara circolare sulla quale facevansi le libazioni ai Numi e agli Dei d’Averno, o posavasi l’urna colle ceneri lacrimate cui si propiziava. Gli amici quivi condussero Lelio Flacco e i parenti e i clienti. Neri cuscini cuoprivano i letti di muro. Mangiarono ostriche e patelle e brindarono all’ombra dello amico perduto dinanzi agli occhi della carne, ma non disertato dalla mente di chi lo aveva conosciuto. Nello escire dal _silicernium_ al tramontare del sole, la comitiva racconsolata imbattevasi nel mortorio di una donna di mediocre condizione ed in quello dei poveri. — Gli uomini sanno di essere eguali in faccia alla morte. Ma il fasto e la vanità gli fa smemorati. La famiglia di colei, che in quell’ora passava cadavere nel sobborgo Felice, non aveva invitato il popolo; perchè nè giuochi da offrire, nè festini a dare. — I parenti sì. — Fu eretto un letto funebre modesto. — Dieci musicisti precedevano il corteggio. — Ma non si fermò nel Foro. — Avi da lodare non erano. Le virtù da raccomandare, cotanto oscure e fuori delle abitudini, che valea meglio tacerle. — E poi le si narravano presto. — _Domum mansit — lanam fecit._ — I resti della defunta erano però attorniati da fiaccole accese. Il che indicava lo antico costume di far simili funzioni di notte, affinchè i magistrati e i sacerdoti non ne fossero stati profanati dallo aspetto. Laonde, il nome di funerali da _funale_, torcia di stoppa incatramata. — I ricchi passarono oltre alla vecchia consuetudine per potere in pieno giorno testimoniare il loro fasto e le loro ricchezze. Il rogo, apparecchiato in pieno selciato in faccia all’_ustrinum_, era basso, piccino e bastevole appena alla combustione del corpo. Vedevasi pure una modesta urna di terra cotta, preparata allo scopo. — Non profumi. Non libazioni. Non offerte. — Quindi, nè combattimenti sanguinosi per piacere ai Mani. Nè spettacoli di lotte, di pugni, di calci, di gesti. — Le Ombre degli antenati — poichè questi gli hanno tutti — dovevano esser discrete e contentarsi di una coperta sanguigna, del colore della porpora e non veder altro. I sacerdoti antichi dicevano — «Spendete; e le Ombre amate godranno nei Campi-Elisi delle ricchezze che avrete profuso nel loro mortorio!» — E i sacerdoti moderni pur dicono — «Spendete; e allor suoneremo campane, canteremo, borbotteremo in latino e tratteremo con Dio come fosse un giudice borbonico; e a furia di danari dati a noi, noi costringeremo lui a riconoscere in un’anima ribalda una onesta.» — Tutti così. — E sempre così! Arso il cadavere, la pietà del marito raccolse le ossa che avevano resistito all’azione del fuoco. E chiusele nell’urna la seppellì in una fossa. E sopra pose una _columella_, rotondata a guisa di una testa con due trecce dietro. — E sul dinanzi, ch’era liscio, leggevasi: MARONILLAE L. ATIMETI ANNIS. LVI. I cadaveri dei poveri erano stati fermati più in su, quasi rimpetto la ricca casa dalle colonne di mosaico nella interna fontana. Cotesti _fricti ciceris et nucis emptores_, siccome vivevano in incognito, così pure incogniti partivano dal mondo. Nessun ramo di cipresso sulla porta della casa ov’erano morti. Là dove spiravano rimanevano distesi tre giorni. E poi il becchino li adagiava in una _sandapila_, dopo aver infilzato con mal garbo nelle loro braccia una toga di apparenza che ad uno ad uno finiva per coprir tutti. — E tre dei suoi compagni, detti _vespillones_, li barellavano al posto dopo il tramonto. Colà presso è il forno, dove li cacciavano per forza, ripiegandoli. Un po’ di pece surrogava i profumi e le essenze Campane. E quando la mortalità era grande, allora componevano una catasta di legna in un luogo appartato e sopra ponevano i cadaveri in fila — quelli delle donne sotto, perchè credevano racchiudessero maggior calorico e s’infiammassero meglio. — Avevano anche un’altra ubbia. Pretendevano sapere, nel Tartaro non esservi _popinæ_. — Per conseguenza Caronte non aver bisogno di oboli. Allora, gli toglievano il fastidio di chiederne qual mercede al tragitto. Ed avevano cura di aprir la bocca ai morti e di ritirarne la moneta. I soli cadaveri a non esser arsi erano quelli dei condannati a morte, o delle persone uccise dalla folgore, o dei bambini spenti avanti la dentizione. I primi erano abbandonati ai corvi. Gli altri venivano sepolti. Il lutto era un obbligo morale. L’uso però costringeva le donne a prenderlo; gli uomini no. In ogni caso non durava oltre l’anno. E siccome si pretendeva che le morti premature profanassero una casa, così le esequie funeste si compivano a notte tarda, senza invito, senza esposizione e senza pompa. Ogni cittadino morendo perdeva la proprietà sulle sue cose. Una sola le leggi gliene lasciavano — il possesso della sua tomba. — E per me’ ricordare quel diritto che non ha altro difensore che la fede pubblica, alcuni volevano che il sasso che li copriva il testificasse. E le lettere iniziali sur alcuni sepolcri H. M. H. N. S. — _Hoc Monumentum Hæredem Non Sequitur_, volea dire: Cotesto monumento non appartiene allo erede. I Mani avevano-dimora nelle tornile; per cui tutte erano loro dedicate. — _Diis Manibus sacrum._ — Il loro culto era generale, siccome incalcolabile il loro numero che la morte annualmente accresceva. — Due feste tendevano a placarli. Una agl’idi di febbraio, detta _feralis_. — L’altra a’ III degl’idi di maggio. — Gli Dei dello Stige non aveano sacerdoti, e perciò erano ben lungi dall’avidità degli altri e si faceano lieti di semplici corone di fiori, di qualche frutto, di un pizzico di sale, di una fetta di pane inzuppata nel vino, e di un mazzolino di viole. Quelle dette _lemurales_ erano più curiose. A mezzanotte, quando tutto tace allo intorno, i devoti levavansi di letto e a piedi nudi — facendo schioppare col pollice il medio di ciascuna mano, per allontanar l’ombra leggera che loro venisse incontro — andavano silenziosi ad una fontana per purificarsi le mani tre volte. Voltisi quindi e prese dalla bocca alcune fave nere, gittavanle indietro, e dicevano: — T’invio queste fave e con esse riscatto me ed i miei. — Allora l’ombra invisibile ai loro occhi credevano raccogliesse le loro fave e partisse. — Si rilavavano le mani, battevano dei tonfi su vasi di bronzo, scongiuravano l’ombra perchè se ne andasse, dicendo per nove volte: — Mani paterni, escite! — Sembra che Romolo instituisse quella festa di espiazione per rabbonacciare i Mani di Remo ch’ei supponeva errassero irosi sulle rive dello Stige. E i Latini credevano che le anime di quelli i quali erano morti di morte violenta non fossero ammesse nei regni bui che dopo il periodo di anni che avrebbero abitato nei loro corpi sulla terra. Lasciai libero Eumenes perchè facesse i suoi conti. — Egli ebbe a bisticciarsi coi libitinari per le spese dei funerali. — Pretendevano — offendendo lo _arbitrium_ già fatto — esser pagati in ragione della fortuna del morto. Quei preti ne udirono di dure verità. — Ma che importava ad essi? Avrebbero presi anche i ceffoni e.... parata l’altra guancia, purchè i denari venissero. — I conti coll’onesto ed abile Filone furono presto fatti. — Costarono un orrore quelle feste nel Foro! — Ma come splendide e bene ordinate! Se ne parlò per più mesi in Pompei e nei paesi vicini. — Vi fu un po’ di litigio coi beccai per la valutazione della _visceratio_ — la distribuzione delle carni crude alla plebe. — Eumenes non sapea dire quali le Arpie più rapaci, quelle che avean ricevuto o quelle che aveano venduto. Ritiratosi nella sua camera, posò la lucerna sul candelabro, chiuse la testa tra le mani e stette così qualche tempo. — Non vederlo.... non udirlo più! — Nel suo sguardo soave, e dolce come il mattino è pieno di misteri come la notte, trovava un sorriso, ch’io salutava con tutte le voci del cuore.... Ah! mio buon padrone, la tua morte — che non avea sospettato mai potesse arrivare — sarà un’ombra, una oscurità; una desolazione profonda sulla regione terrestre della mia vita.... .... Salve, ombra diletta, che per questa casa ti aggiri. — I tuoi cari figli ch’io vidi nascere — come tu mi conoscesti bambino — i tuoi figli io gli amerò a doppio nel nome tuo! — Queste parole erano il vale eterno che il cuore di Eumenes espresse alla memoria di Aterio Flacco. I TEATRI. SCENE DI DISTRAZIONE. =Anni di Roma 812 — Anni del Cristo 59.= A MIEI FIGLI, VITTORIO E LIONELLO. VII. _M. Herennius Epidianus Sextilio suo._ _Romæ._ _Apud me est ut volo. — Male, mehercle, de Popidio nostro._ — Sì! — Un grande cambiamento si è operato nelle sue lettere e nella sua maniera di essere. — Vengono rare e sconnesse. — Che è egli mai? — Tu sai come teneramente ami ambedue. — E più penso e meno comprendo lo scritto sibillino. Qual cosa potette cagionare in Popidio una tale rivoluzione?... Qui, notai, sullo scorcio del mese in cui ci separammo, il suo spirito malato, un po’ guasto. Sperai guarisse nel riposo della provincia. Egli ha carattere sì dolce; sì collegantesi; sì pronto al ritorno! — Dimmi se il male è profondo. — E, se hai bisogno di aiuto, io verrò. _Multum vos amo. Valete._ _C. Sextilius Ampliatus Herennio suo._ _Pompeis._ _Si vales, bene est._ Tu mi chiedi con premura le novelle di Popidio nostro. Ei trascina miseramente la vita. Empie i modii colle sue sciocchezze. Sono giovane anch’io, e qualcuna ne permetto anche a lui. — Ma tu vuoi te ne citi?... Per Ercole! Sono nello imbarazzo, perchè poche quelle che a lui gracile e delicato non nocciano. Le gite lunghe e a cavallo ed a slascio lo uccidono. — Ed egli corre. — Le cene prolungate lo sfibrano. — Ed egli crapula. — E fosse pur lieto dello amore di Plilia!. Mai no! — È farfalla che si agita e fa i suoi giri intorno alle faci, sinchè — bruciate le ali — cada... Bello, elegante, culto, dovizioso, nobile cuore, ei distrugge la vita, sospinto al Tartaro dalla noia che mai lo lascia, non in mezzo ai divertimenti che meglio desiderava, non nelle braccia di Venere, il cui cinto non lo sa ritenere. Tu ambedue conosci. — Crescemmo insieme. — C’istruimmo insieme in Athenas. — Fummo insieme nell’Urbe. — Ah! Non vi avesse mai posto il piede! Costì fu colto dal male che lo divora. In cotesta fogna, splendida di marmi, di porpora e di oro, apprese ad adorare la Luna e a detestare il Sole.... E qui, quando si leva spossato dalle tremule coltrici, sbadiglia, ad imitar Cerbero che latra, e chiede chi lo distragga e lo faccia ridere. — Nè gli adulatori mancano. Sono nell’Atrio i parassiti e gl’istrioni che lo elogiano e lo ammirano. — Talvolta egli piacesi delle loro arti, dei loro salti, delle loro pantomime, delle loro viltà — Talaltra, la noia lo riguadagna e — o gli caccia brutalmente — o li manda al _tricliniarcha_ perchè sfami il loro _ventrem iratum_. — Tu la conosci cotesta plebe — razza infame di cui l’Urbe abbonda e che qui scese a praticare il turpe mestiere. — _Capti sunt nidore culinæ._ Quell’odore gli attira. — E si credono pari ai Numi quando possono _gallina tergere palatum_. — Questi i suoi clienti, i suoi _salutatores_, i quali lo accompagnano di portico in portico, dalle Terme in via della Fortuna alle Terme sulla via alla porta di Stabia. — E si bagna e si ribagna. E dalla Palestra va all’Apoditerio; dal Tepidario al Calidario; dal Sudatorio all’Eleotesio. — Ne esce slombato. — Misero! Ha appena la forza di dire, fatti — in — là, ad uno schiavo briaco. Mi chiama uom da sermoni. Ed io lo prego per me; per te e per lo affetto di Plilia che ora è in Neapolis. _Vale._ _Plilia Sextilio suo._ _Bays._ _Apud Pliliam recte est._ Una lettera giuntami or ora mi ha impaurito.... — Popidio non pare già un uomo; _sed litus et aer et solitudo mera_. Ne sono afflittissima. — Ho qui i miei cari parenti che mi ritengono. — Altrimenti fosse, sarei volata a Pompei. — Il suo male è la noia. Ad essa sacrifica e liba come a una Iddia. I miei greci mai furono così! Eppure, i vostri latini ne dicono tante ad ingiuria! Parlai con Acutilio tuo, cui mi raccomandasti in Neapolis. _Ex omnibus molestiis et laboribus uno illo conquiesco._ — Ma Popidio mi sta fitto dentro. Attendo la mia sorella Myrrhina con ansia. — Intanto _mater mea magnos articulorum dolores habet_. — Siegue le prescrizioni di Charmis, _stagna refusa_, e guarirà presto. Ma io sono sulle spine per amore di quel caro che soffre. — _Cura, amabo te, Popidium nostrum. — Ei nos_ συννοσεῖν _videmur._ Erano consoli in Roma C. Vipsanio Aproniano e L. Fonteio Capitone. Reggeva a suo modo le cose del mondo Nerone imperatore! Giulio Cesare per usurpare il dominio aveva con ogni mala arte corrotto l’anime dei Romani. Ma già il terreno era preparato dalle grandi vittorie le quali avevano infiltrato nelle vene del popolo quirite il lento veleno del lusso colla smania dei capolavori nelle arti e della opulenza. Sembrava che ognuno dicesse: — Arricchiamoci e poi ci rammenteremo della prisca virtù. — Nel mentovarsi un uomo dabbene, incontanente chiedevasi: — È ricco? — Quanti schiavi possiede? Quante le migliaia di iugeri di terra? La sua mensa è delicata? Ha piscine e vivai? — Quando sapevasi ch’era ricco, il prender conto dei suoi costumi pareva inutile pleonasmo. L’oro — la tariffa della probità! — E più l’uom possedeva, e più degnissimo era di stima e di onori. C. Crispo Sallustio, uomo di coscienza assai elastica, che belle cose scriveva e brutte cose faceva — laonde venne cacciato da Cesare dal governo della Numidia per le concussioni e le ruberie operatevi — scrisse al pacificatore delle romane libertà nobili parole contro la invalsa passione delle ricchezze, seria e tremenda minaccia alla società ed allo imperio. — E sì, ch’ei predicava di esempio! Ed a chi! «Il maggior beneficio tu possa fare alla patria, ai cittadini, a te stesso, ai nostri figli — a tutto il mondo — è lo spegnere la sete dell’oro o diminuirla almeno per quanto lo permettino le circostanze. Altrimenti, in pace od in guerra, gli è impossibile ordinare gli affari pubblici e privati; avvegnachè, là ove la sete delle dovizie è penetrata non sieno più instituzioni, non arti utili, noto più genio che sappia resistere. — L’anima — tosto o tardi — debbe anch’essa soccombere. Ovunque le ricchezze sono in auge, tutti i veri beni avviliti, la buona fede, la probità, il pudore, il casto vivere. Però che un solo cammino meni alla virtù, ed è stretto, aspro e difficile. Mentre ciascun corre allo accaparramento della pecunia per la strada che vuole. — E molte ve n’ha di buone e di triste.» Presa Siracusa, i capolavori di quella ricca città andarono nell’Urbe. — Conquistata l’Asia, i triremi caricarono tutto il lusso dell’Oriente, e gli diedero diritto di cittadinanza in Italia. — Vinta l’Acaia, si rivoltò ogni cosa, e il buon costume antico smarrì la sua via. La caduta di Cartagine diè l’ultimo crollo, e le larghe e molteplici braccia strinsero quanto potettero e vollero. Tutti, abbassati, aspettavano che il principe comandasse senza darsi pensiero. Tutti, avviliti — e i più illustri per nome — correvano con calca al servire, al piaggiare il despota e chi per lui. Lo amor si comprava. Il successo nelle battaglie, la magistratura, il senato, si comperavano. Ogni cosa si otteneva coi nummi d’oro. E il furore febrile di averne giunse al segno per la servitù inghiottita, che qualche dura cosetta fu fatta per forza; le altre quiete e ricerche. Cicerone — autore anch’egli del danno e sua vittima — sciupatore per vanità in ville sontuose ed in viaggi continovi e di fasto, pur contrario ai prodighi de’ suoi tempi — scriveva: «Gli scialacquii irriflettuti si tirano dietro le rapine. Uomini impoveriti dallo spendere — _alienis bonis manus afferre coguntur_ — si veggono forzati di allungare la mano ladra sui beni altrui.» Quel _coguntur_ pinge l’epoca perversa. — Il rapinare erasi fatto necessità. — Bisognava esser ricchi a qualunque costo. Lo impero voleva così. E i già liberi, fatti schiavi, rimossa ogni infinta virtù, non curanti tema o vergogna, aprirono il varco alle nascose lussurie, s’infradiciarono in scelleraggini ed in sporcizie. Chi volea fuggire i mali soprastanti o i presenti, svenavasi. Chi inghiottiva il partito pessimo, gloriava; e coi maggiori brutto adulatore facevasi; coi minori, arrogante; e fastidioso coi pari. La gioventù si tuffava nelle libidini e perdeva i polsi. — Le cetere, le belle e facili donne, il vino, in onore. — I patrizi, istrioni. — Lo imperatore, di voce chioccia, cantante in casa nei giuochi giovenali, quando primavolta fu raso. — E nelle feste, matrone sui gradi come ai trionfi, usate alle allegrezze, in faccia a sciupate ignude con gesti e dimenari impudichi. — Cotesta la Roma e la Italia dei tempi!!! Popidio Celsino era un giovane di venticinque anni. Di statura mezzana, sottile e ben fatto della persona, pallido, magro, di uno aspetto quasi femmineo illuminato da grandi occhi neri, aveva la voce di un suono dolce e penetrante che andava dritto al cuor delle donne e le rendeva pensose. Cantava greche canzoni come non altri. Agilissimo, educato al maneggio delle armi, a lanciare il giavellotto con vigore e con garbo, a manovrare la fionda con abilità e giustezza di tiro, a cacciare una freccia in un bersaglio indicato, a domare corsieri e a saltarvi sopra a diritta o a sinistra di slancio, danzava come un ginnasta, ed era difficile che la danzante con lui, teneramente guardata, sapesse fuggire dalle sue maglie. E quando, tornato di Roma, nei ludi del Foro, per le feste augurali degli eletti duumviri, aveva voluto provarsi a discendere quasi nudo allo attacco dei tori; la sua perizia nello evitare con un movimento di fianco le corna dello animale furioso e nel ferirlo mentre quello irrompeva nel vuoto, era sì bella e graziosa che gli spettatori frenetici gli gittavano dal terrazzo corone di alloro, e le fanciulle sentivano menomare il loro pudore e maledicevano alla resistenza usata a qualche suo ladro sguardo. Così, sulle prime. Poi anneghittì; e la noia lo punse del suo spino velenoso. I vecchi che ricordavano i tempi di Augusto, avevano trovato nelle ricchezze un mezzo qualunque che dava sfogo alla loro ambizione. Il popolo di allora riceveva il pane cotidiano delle sue vergogne e nulla poteva più dare. Laonde, i ricchi giovani, che pur dentro sentivano una energia da spiegare, si stancavano di una opulenza che si esauriva nelle labili gioie e nelle sfrenatezze del cubicolo e del triclinio e, sbadiglianti, senza desiderii, lodavano la sera, perchè corsa e si auguravano un domani diverso. Ma quello sorgeva il medesimo, _idem et semper idem_. E cercavano, cercavano qualcosa di nuovo pei loro appetiti guasti. E ne arricchivano lo inventore o chi lo forniva. E ogni snaturalezza, pagata, coperta di porpora e di oro. — Lo amore di donna? — Trita cosa! — Il matrimonio? — Anticaglia! — Nefandi accoppiamenti sì, perchè la nefandigia era illecita e nuova. Il misero Popidio viaggiò; e quantunque volte arrestavasi, nel trar fuori del sacco le vesti di ricambio, smucciava la noia con esse. Esciva di casa — ne abitava una magnifica dietro la Basilica, quella che ha nel pavimento dell’atrio pezzi irregolari, di tutte forme e di marmi diversi chiusi nell’_opus signinum_ — per sfuggire la sua persecutrice. Ed appena giunto nel Foro o sulla soglia della casa di C. Sestilio Ampliato, tornavasene indietro ed entrava nella magione vicina — che pur era la sua — augurandovisi una distrazione. Talvolta faceva porre il freno ad uno dei suoi cavalli e appariva come freccia scoccata sulla via della porta di Sarnus, ov’erano i suoi poderi e la sua villa maestosa. Parea corresse a spegnere uno incendio, o i piedi del suo destriero portassero la salute di una famiglia, di una città. Giunge trafelato e in sudore. I servi gli sono intorno. Tutto ansimante va nello xisto, si gitta sur un triclinio campestre coperto da una pergola in faccia alla bella piscina, e là mangia assiso, su vasi di argilla, un pasto semplice e frugale frettolosamente apparecchiato. Caduto nel sonno, gli schiavi lo adagiano sul letto. Quivi oblia la noia e la disperazione che la vuota opulenza cagiona. Ma, una volta desto, i due sproni gli si conficcano ai fianchi. Inforca di nuovo il cavallo e rieccolo in Pompei coi capelli sparsi, col sudore sulle guance, colle narici aperte come quelle del suo corsiero. — E in sull’uscio?... Sull’uscio è la statua immobile che lo aveva seguito, che lo seguiva per tutto e che pur lo attendeva.... la Noia.... che il Governo imperiale vi aveva rizzato e... inchiodato, dopo aver messo in pezzi il santo simulacro della Libertà. Misero Popidio! Malato di languore nell’anima, impotente a dissipar la tristezza ed obblioso che dovunque egli andasse, sempre seco la trasportava. Il suo cuore era passato per la trafila di molti amori. Ma nessuno lo aveva fermato. — Nessuno aveva saputo congiungerlo. — Venuta Plilia di Grecia, questa lo avvinghiò meglio delle altre... Era straniera... Parlava altra lingua... Prestavasi meglio alla curiosità... Possedeva artificii d’amore... E poi... era una bella mostra del tipo ateniese. Plilia contava i venti anni. Era piccina e ben fatta. L’ovale della sua faccia, senza menda, aveva una tinta piacevolmente bruna. I sopraccigli formavano un solo arco sulla fronte ampia ed altera. L’orlo del labbro soprano era adombrato da una leggera lanugine che imprimeva sulla bocca un sorriso voluttuoso e aggradevole. Gli occhi grandi e neri, a forma di mandorle, brillavano malgrado che la lunghezza delle ciglia ricurve ne temperasse il fuoco. Un neo sulla gota sinistra, la bianchezza canina dei denti, il gaio conversare sur ogni proposito, la risposta pronta ed ardita su piacevolezze scabrose la facevano amata e ricerca da tutti. Essa era una etera. — Cioè, una fanciulla libera; filosofante coi chiari filosofi; artista cogli scultori e coi pittori in grido; letterata cogli oratori i meglio famosi; sempre nella luna di mele dello amore; permettentesi, ma non donantesi; in balìa di quella passione accettata dagli Dei e non dagli uomini tutti — quantunque così deliziosa, così bruciante; — un giorno spettro sinistro agli occhi di donne gelose; e l’altro ospite gentile e grazioso di un peristilio. Dopo la risposta di Sestilio, essa non tardò molto a venire in Pompei. Un servo si fece all’uscio della camera di Popidio e ne tirava la spessa cortina di Tyro. — Un raggio di sole penetrò nel cubiculo. — Per lo inferno! Che luce! Abbi Venere irata, o Milphio. — Come? Mi desti ora appunto che avea preso sonno? — Padrone! È Plilia che è giunta e chiede vederti. — Ma, di’.... nel tuo paese..... e non dormono la notte? — La notte sì. — Ora è alto il sole. Da un’ora già varcò la metà del suo corso. — E pur qual silenzio! Pompei zittisce adunque come l’anima mia?.... Ah!.... Va. Chiedi a Plilia il favore di attendermi.... E apparecchia, se vuoi, il bagno. — Un altro più lungo sbadiglio. — Trasse le braccia in alto, stirandole. Discese lentamente dal letto di cedro, intarsiato di tartaruga; posò i piedi su ricco tappeto; li pose nei sandali; si gittò sulle spalle una _gausapa_ cremisina, vellosa al di dentro, e cominciò a camminare per la stanza, ora celeremente, ora a passi misurati. — E Plilia che vuole? Aveva un po’ di tregua da che è in Neapolis. — Torna qui ad agitarmi. — Vuol sempre sia desto.... Non ha mai posa costei!.... Ma che, l’amo io?... Io?... E non posso amar più. Oh! Il potessi!... Plilia è proprio un serpentello che mi avvolge nelle sue spire. Ed è serpentello che piace... e che io riscaldo sul mio povero cuore, che batte i battiti di una vita incresciosa... — Ah! Popidio!... Caro!... Siimi indulgente! Ma io ardeva di rivederti... e non attesi... — Fanciulla amata... _dulcissima rer_... — Ma i baci ch’essa gli diede sulla bocca niegarono il varco alla compiuta parola. — M’impaurì la lettera che mi raggiunse a Baiæ. Ma.... la mia madre era soffrente.... la mia sorella Myrrhina doveva arrivare e la lasciai là.... E qui corsi per riabbracciarti. — E curvò la sua bella testa sul petto di lui, pur cogli occhi guardandolo amorosamente. La donna è per sè stessa un animaluccio seducente, grazioso e benigno. — Plilia poi era per sopra ciò un fiore vivace e profumato, sorto nella solitudine dell’anima sua. Onde, preso da quell’olezzo di gioventù e di bellezza, la baciò e ribaciò sulla fronte e sugli occhi. Gli pareva di sentire un nuovo moto nelle sue vene. Una novella energia picchiava tonfi sul suo cuore sfibrato, quasi dicesse: — Aprimi, ed io resto. — Il fatto è che Popidio in tal momento pensava e diceva alto: — Infine, sono come gli altri, io. — Sestilio mi sgrida, mi rimprovera.... Ma, ha torto. — Mi annoio. — Ecco tutto. — Provo e riprovo e non riesco.... Pure, io saprei difenderti, o mia. Saprei morire per difenderti. — Ho l’anima fiacca spesso... è vero. — Destala, o Plilia.... E l’avrai amante, ingenua..... Non feci mai male ad alcuno, io. — Lo so. — Tu sei buono, o soave amore. E puoi guarire della malattia dolorosa quando che vuoi.... E per sanare bisogna che tu colmi il vuoto che hai dentro.... E una donna.... se saprà fare, lo riempirà.... e se tu la lascerai fare. — Ora gli è al poeta ch’io parlo. — L’uomo non è felice e sano se il poetico entusiasmo nol rende contento di sè medesimo.... Oh! Ecco Sestilio!..... Vieni, o amico. — Seguita tu i miei ragionari. — Dobbiamo persuadere questo caro ad essere felice. — Ora lo sono. — Durerò? No, se voi mi lasciate. — Voi due mi siete ben necessari. Senza te, o Plilia, le tenebre mi attorniano e la psiche va errando e cade. Talvolta anche Sestilio sa togliermi di dosso la _impluviata_ di piombo — la noia — la quale, come la camicia del centauro, mi brucia. — Con voi rimarrò giulivo; nella villa, studierò i papiri greci di Phylodemo. — Come te, _deliciola mea_, filosoferò sulla ricchezza, dichiarandola una povertà regolata sui bisogni della natura. E non stimando necessario il superfluo, ci contenteremo di ciò che basta. — Con te, o Sestilio, l’anima diverrà lo strumento della mia gloria. Non dubiterò più.... Io mi sentiva nato per qualche ragione al mondo.... e non per la usura dei miei nervi e per una inutile morte..... No.... V’ha una parola nella tua lingua, o Plilia, che m’inspira una tenerezza feroce. V’ha una parola nella mia, al cui sacro mistero io dedicherei volentieri tutte le grandi gioie dei sensi, tutti i grandi dolori della vita. — Eλευθερία — _Patria_ sono un teatro su cui il misero amico vostro avrebbe recitato con nobili emozioni la parte sua! — Ma tu appartieni a te medesimo. — No, o Sestilio.... La fresca alba della libertà ov’è mai? — La luce che vivifica, che depura, che sorride all’anima di un romano e di un greco è scomparsa dalle nostre contrade! — Le tenebre sono spesse e fredde.... E quando la mia cosa immortale s’interroga, ode un rumor di catene, vede il ghigno dello imbestiato signore del mondo e cerca smaniosa uno asilo e nol trova. — Questo pauroso ha fatto della terra una carcere. — È omai delitto il mentovare le parole della mia mente!... Talvolta, un tuo sorriso, o Plilia, dorato dalla intelligenza e profumato dalla bontà, mi solleva dal peso insopportabile del mio sogno penoso. — E il tuo affetto sincero, o amico, mi strappa dalla battaglia senza tregua di questa mia misera vita, dove.... — l’ho a dire?... — mi sento in catene e non domo, come Spartaco, di Tessaglia. — Ma, voi partite.... E la dolorosa noia ritorna e.... lentamente mi caccia nel cuore la punta uncinata che dentro rode. — Tu dicesti.... una donna! — Ah! passò quello istante in cui la nozza per me sarebbe stata una cosa sensata ed onesta. — Quando io vidi la gelosia strozzata ai piedi dei miei pensieri; quando la mia ragione non trovò più parole di lamento e di richieste indiscrete per torturare la donna amata, compresi ch’essa può avere un passato legittimo nel pellegrinaggio della vita e lo rispettai. — Allora tu, etera, fosti la sorgente di qualche mia gioia. — Ma, associarti ai miei destini?.... Mai! — Popidio non commette atti iniqui! — I despoti della mia patria non tormenteranno il mio seme. — Viviamo in tempi in cui i figli feriscono nel ventre le madri e dicono ad Aniceto, liberto: — «Oggi, da te lo impero. Corri con arditissimi e fa’ lo effetto.» — Ieri una lira accordata valeva più della spada di Scipione. Domani lo applaudire alla voce fessa del despota darà lucrosi incarichi. Ogni dì, i poetuzzi che rabberciano gli stentati suoi versi sono onorati di bisellii e di corone, come già il divino Virgilio... Il popolo ha fatto il callo sur ogni obbrobrio.... Ecco le ragioni dei miei disordini, del mio correre a slascio, dei miei lunghi e crudeli riposi. — Condizione crudele! — _Prorsus, ut dicis, ita sentio._ — Ma tu troppo presto appressasti al cuore la vampa per incenerirlo. Ingrossasti la testa per atrofiare il corpo. — Chiamasti lo avvoltoio perchè si cibasse del tuo fegato! — Discaccia le cure che ti tormentano. Vivi e consolati dello amor nostro. — Popidio si assise sul letto. I due lo imitarono. Le belle guance di Plilia furono lentamente rigate da due grosse lacrime. — Ed egli prese le mani degli amici suoi, e, tutto commosso: — Miseri! Soffrite per me! — E mi compiangete! — Era così infelice a non dirvelo per lo addietro. — Gli Dei!... Oh!... Io ne venero un solo! — Le donne!.... Io non amo che te! — Gli amici!.... Disprezzo i viventi e mi stringo a Sestilio.... Ho il turbine qui! V’ha sorrisi che paiono da vino. — V’ha tormenti eziandio da dannato. — Pietà di me! — _Utinam illum diem videam, quum vobis agam gratias, quod me vivere coegistis!_ — Su questo, Milphio entra nella stanza e dice: — Padrone, il bagno è apparecchiato. — Verrò. — Voi andate nello xisto, nella biblioteca, ove meglio. Voi siete altri me, qui. — Plilia, un bacio. — Oh! io mi sento innovato! — Si cacciò nel bacino di porfido e vi si distese. — Chiuse gli occhi. — E in quella specie di veglia gli parve di esser libero di una catena con cui il suo spirito era stato sino allora legato. Ciò che dentro pria lo affliggeva, sparito. Sentivasi pronto ad una felicità — non la intesa e praticata dalla saggezza convenzionale — quella che dà godimenti veri, meritati, segreti e di un ordine proprio. — Da una piega della cortina, che abbarrava l’uscio, sino al bacino scendeva diritto un filo di raggio solare — solco luminoso composto di quanto v’ha nell’acqua, nell’aria, nella terra e che pur trovasi in date proporzioni negli animali, nelle piante, nei sassi. — I suoi pensieri ascesero per quella via sino a Dio, e ritornarono gioiosi a lui su quella dorata atmosfera. — Mai, come quel giorno! — Si levò, si vestì della _synthesis_, aiutato da Milphio, ed escì azzimato incontro agli amici. — Plilia e Sestilio, andate nelle vostre camere. — Vi troverete la _vestis cœnatoria_. — Vi attendo nel triclinio. — È l’ora decima. — Nel sommo letto si pose Popidio, nello inferiore l’amico, nell’altro la etera. — Dopo la libazione, i giovanetti schiavi li coronarono di fiori e giuncarono di rose il musaico. La ricchezza del _pater cœnæ_ esigeva che la _comissatio_ fosse _recta_, cioè composta di tre imbandigioni. Laonde nel primo vassoio di argento furono portate uova, lattughe, olive, fichi e mangiari delicati e leggeri per aguzzar lo appetito. Nel secondo, stufati di varie sorti ed un arrosto di vitello. Nel terzo, confetture, mele d’Hymetto con semi di papavero bianco tostati, paste, e poi altri frutti entro cestelli di giunchi intrecciati, di argento. — In ultimo, dopo la lavatura delle mani e della bocca, vennero distribuiti i profumi per togliere di dosso l’odore delle vivande. La gaiezza dei commensali erasi irradiata sui _pueri_ che servivano e sul bravo e fedele Hegio, il _tricliniarcha_. E tutti cogli occhi e coll’assiduità del servizio ne ringraziavano Plilia, la bella ateniese, operatrice del miracolo. Anche la luna illuminò quella regione vivente e dianzi sì desolata. — Andarono a godere del suo pallido raggio sull’orlo dello xisto che prospettava sul mare. — Gli amanti avevano le mani congiunte. Il misero dallo abisso, aiutato dalle ali dello amore, era risalito sugli spazi i più luminosi delle regioni felici. Gli è che Plilia, strettasi al suo cuore, gli susurrava tratto tratto all’orecchio parole che gli uomini tutti non sanno ricambiarsi tra loro. — Sestilio abbracciò i due avventurati e partì. Essi restarono. Per qualche istante nessuno parlò. Quindi: — Io ti appartengo, o Plilia. Un legame mi unisce a te, potente, indistruttibile, eterno. — Quali le nostre labbra, così le anime negli Elisi. Dammi la tua mano. — Come bella! — Questo anello d’oro serbalo nel dito finchè tu non perda la memoria di chi molto ti amò. — Si fidanzarono. — E fu spontaneo e gradito quell’atto, perchè compiuto tra essi, senza sospetti, siccome gli atti abituali della loro tenerezza. La donna gli coronò il collo delle sue braccia e così rientrarono nella casa; e di là, nella prossima, messa a disposizione di Plilia. — Ore di felicità! — Silenzio gradito! — Solitudine sacra! — In quel sepolcro era chiuso il supremo contento di due cuori degni di batter l’un presso all’altro i segni della vita e delle sue brevi delizie. — Così per tempo, Halisca, che vuoi? — La mia padrona è levata, o Sanga. — Il tuo si leva. — Ambi chieggono si appresti il bagno. — Ma, se appena la clessidra marca l’ora ottava del mattino! — Vita nuova! — E qual genere di bagno? — Tiepido. — Rammenta che gli unguenti per Plilia debbono sitire di nardo. — _Hoc age._ — Corro. — Intanto Popidio sentivasi felice. E nello augurare alla maga che lo aveva innovato un giorno lieto, dicevale: — Dalle tue grazie infantili io prendo una forza di carattere che mi stupisce. — Debbo a te un sentimento di cui non mi credea più capace. — Ecco, tu cammini.... tu mi guardi.... ed io comprendo il mistero ch’è tra il figliuolo e la madre. — E se parli e sorridi, io provo una emozione soave che non so ridire. — Allora le mie labbra sorrideranno sempre per te. — E nel vero, Plilia meritava un tanto affetto. — Essa non aveva diviso continuo le sensazioni che or facea nascere. Ma la simpatia, uno accordo nervoso tra i due, la omogeneità dei pensieri, la reciproca bellezza della mente e della persona, facevano sì ch’uno nell’altro riguardasse il suo cielo. Preso il bagno, asciolsero. — Quindi deliberarono di andarsene in villa. Allorchè tutto fu pronto, escirono; e, traversato il Foro e la via Domizia, trovarono presso la porta di Herculanum un carro a quattro ruote. Plilia si distese sur un cuscino di seta colmo di soffici piume di cigno, appoggiando il corpo sul braccio sinistro. Halisca — la _pedissequa_ — aprì tele distese su sottili bastoni alla estremità di una canna delle Indie, e con questa _umbella_ la riparava dal sole. Essa avea nelle mani una specie di palma, fatta di penne di pavone, per discacciare le mosche importune. Popidio, in piedi, prese le redini e diresse i quattro rapidi corsieri africani sulla via costeggiante le mura che menava a Sarnus. La villa era grande e maestosa. — Aprivasi per una specie di arco trionfale che serviva di porta e continuava per un viale ascendente, limitato da alberi di platano e da muri. Una larga serie di gradini di marmo menava all’uscio della casa, la quale — di due piani, senza finestre al di fuori, e coronata da un’alta torre rotonda — si componeva di un atrio spazioso, di un portico sostenuto da colonne di stucco, ed in mezzo, sopra lo impluvio, un tritone di marmo mandava un getto d’acqua da una conchiglia che aveva nella bocca. Intorno erano camere da letto dipinte da greci pennelli. Oltre il peristilio vedevasi uno xisto assai grande con quattro palme nel fondo per dar ombra agli alveari e riposo alle api dopo il loro gironzare sui fiori. Presso quegli alberi erano il timo dell’Attica, la melissa, l’asfodelo, il citiso, la maggiorana, i giacinti, l’iride, lo zafferano, il narciso. E poi rose di Preneste, viole di Tusculum, papaveri, rosmarino, basilico, lentisco, bocche di leone, gigli dal calice di vario colore, altre rose di Mileto rossissime, di Eraclea, e quelle bianche di Alabanda. — Da un lato dello xisto era il triclinio. — E al di là per una via serpeggiante a traverso alberi da frutto e vigneti, dinanzi vasta piscina, era sotto la pergola un triclinio in piena aria, rispondente alle fantasie dei villeggianti. Plilia — al rezzo di quegli alberi, e presso i cespi dei gigli — splendida di freschezza — pareva un rosaio che alla rivolta d’un viale solitario sorprende quasi fosse un’apparizione di fate. — Oh! i felici!.... Popidio nel dolce asilo dimenticava le sozzure di Roma — le infami mostruosità imperiali — il vergognoso zittire di Seneca — le piaggerie adulatrici di Peto Trasea, corrette poi colla morte — gl’imbratti del patriziato — le basse vigliaccherie dei suoi conterranei. — Spesso entravano nel bosco fitto, ov’era uno stretto spazio scemo di alberi, e sotto una quercia annosa uno scoglio. Come la grotta marina di Caprea nei dì sereni e di sole è azzurra; così quel posto era verde del velo magico della speranza. — Colà o Plilia o Popidio leggeva Omero, Virgilio e cominciavano nei riposi le discussioni erudite sulle bellezze del poema di quei cantori sovrani. O recitavano a memoria le odi di Orazio e di Anacreonte. — E si baciavano, e ridevano di quelle licenze puerili che i due poeti bacchici si permettevano. Laonde Plilia diceva: — _Pipere qui abundat, oleribus miscet piper._ — E qual pepe! ve n’ha a condire tutti i cavoli di Sicilia, o mia. — Per lo iddio Fidio! Gli era un vecchio di assai scarso pudore — servo di Cupido, figlio della Notte e dell’Erebo — non di Amore, nato di Venere pompeiana. — Io poi credo _amabat linea extrema_: e più per gli altri che per sè. — Talvolta rivangavano con orgoglio un passato glorioso alle due patrie e ragionavano degli antichi legnaggi, della potenza di carattere, della saggezza mai sorpassata e delle nobili arti. E la sapienza la individualizzavano sui remoti e sui contemporanei, o la criticavano. — Grande e poderoso ingegno quello di Cesare. Ma i meriti pel laminatoio. I vizi pieni e di corsa. — Augusto potè gareggiare con lui che fu tra i maggiori eloquenti del suo tempo. Pur, se chiaro e corrente nel dire e magnifico nel fare, ben corrotto e corruttore, come dei principi è l’uso. — Malvagi tutti! Tiberio sovrano nell’arte del pesar le parole. Vivi concetti e soavi apposta. Occhio e dimora dolorosa sul vero. Fretta crudele nella ferocia. Disonesto poi.... — Oh! l’ostica sua disonestà non inghiotto nè sputo. — E Caligola? Quali nobili parenti! E quanto vario il figliuolo! Calzarino d’infamie ove il mondo doveva mettere il piè. Matto.... e peggiore per non attendere; di quelli che per non aspettare il dolce fico colla gocciola, lo schiantano dal ramo col lattificio. Malgrado la grande spensieratezza, attivo molto al bel dire. Ma la bestialità glie ne tolse la forza. — Claudio poi, se diceva pensato, era eloquente. Ed emulo di Cadmo fenicio, di Cecrope ateniese, di Palamede argivo, di Damarato corintio e di Evandro arcadio, Cesare si piacque aggiungere tre lettere — tentativo di grafico perfezionamento. — Ma il duo digamma eolico a rovescio, e l’antisigma, e l’iota modificato durarono quanto il suo dominio e li vedi ancor nei decreti suoi per le corti e pei templi. — Sciagurato! Lo pagò bene Aloto, un degli eunuchi, che facea la credenza per sicurar le vivande dal tossico, omai masserizia di Stato. La trista Agrippina strappò il testamento ed antepose il suo figlio al figliastro Britannico — forse correttivo a doppio disastro. — E cotesto istrione — suo dono — sviato ad arte da Seneca verso il dipignere, lo intaglio ed il canto, parla imboccato le dicerie già composte dal falso e lezioso ingegno del suo maestro. E omai rotto a tutto, uccisa la madre incestuosa e randagia, a Seneca promette e terrà. Schifosi mostri! — Omai, i buoni e i tristi spacciati sono. Lo ammazzatore è per via. I più acuti porgano pure il collo, offrano le vene al cerusico ed apprestino il rogo. — Quel che tu dici or mi rammenta Petronio, maestro in morbidezza e dei più intimi nelle delizie industriose di Cesare. Tigellino ne provò invidia e per calunnia lo fe’ reo di maestà. Tutto risi e piaceri, non seppe tôrsi la vita, poi che ritenuto in Cuma. Fattesi segare le vene, le tappò, poi le sciolse e le ritappò a sua posta per sentir leggere versi piacevoli. Non potendo battere Tigellino — causa del danno — fe’ trebbiare gli schiavi. E pria di quietarsi nel sonno estremo cui si sentiva dannato, mandò a Nerone scritte a mo’ di testamento le sue ribalderie con tutte le disoneste fogge. E sigillò la pergamena e ruppe lo anello. Cesare vi trovò le sue notturne invenzioni con Silia, da lei ripetute a Petronio e, indignato, la confinò. — Tutto è omai spiantato e guasto. — Per qual via escirem noi? — Ecco le mie braccia a siepe del buio sentiero, o Popidio. Ti sia patria il mio cuore. Il tuo è uno altare per me! — E que’ miei avevano ragione nella diversa sentenza. Consolante invero lo affetto. Ma l’atroce agonia d’ogni dì? E le crudeltà in altrui? E le beffe dei barbari? Ogni santità, profanata. Gli scogli marini d’Italia, asilo, e luogo di morte per fame. La nobiltà e le dovizie, peccati gravi. La virtù, certa ruina. Anche il silenzio riguardoso, delitto. La vita sicura, quella delle spie e dei ladri. Anzi alle spie, quasi spoglie opimi, consolati e sacerdozi. Ma, per contrapposto a tanti adulteri dell’anima, eroiche morti come in antico; mogli seguaci dei mariti scacciati, schiavi e liberti fedeli ai tormenti, amici difenditori — comodo _sellisternium_, non più per gl’iddii incuranti gli atroci mali del popolo, sì per posarvi la immagine serena del crocefisso da Ponzio Pilato, procuratore. Alcune volte cavalcavano per la villa e fuori. — Od in una biga, essa menava i cavalli. — O, postisi in una barca sul lago, aiutati dalla vela e dal timone, si faceano condurre a genio del vento. — Era una vita d’incanto! — Le vere visioni quaggiù sono gli aspetti di varietà e di luce che appaiono sulle fronti delle persone amate. E Popidio e Plilia non videro che i raggi dello amore, i fiori della felicità e il verde della speranza. Un giorno venne una lettera alla giovane ateniese. — Aveva talmente dimenticato la esistenza al di fuori della villa vastissima e dei poderi, che fu stupita come qualcuno potesse scriverle. — L’aprì — e si fece pensosa e turbata. — Mirrhyna l’avvisava che la madre peggiorava, e volea rivederla. — La novella diè doppia ferita al suo cuore. Si levò pallida, e in uno slancio di tenerezza e di angoscia offerse la lettera allo amico suo e lo abbracciò. Popidio per qualche istante non potè leggere. Prevedeva un disastro. — Quando chiarì la cosa, si levò, e abbracciando la donna amata, disse: — _Suavis_, ho avuto così stretto il cuore testè, che or non sembrami amaro ciò che ti dico. — Parti... Va presso la madre... E se il credi... se non ti costerà sacrificio, ritorna a chi ti ama assai più che la vita. — Sempre desolanti cose fra noi: — Separazione crudele! — Che diverrai tu nell’assenza? — E sì dicendo pose le sue dita delicate come un velo sulla faccia e singhiozzò, innalzando spesso convulsivamente il capo e le spalle. — Egli le assettò sulla testa il _ricam_ — velo lungo e quadrato con frange, di porpora — che coprì colle pieghe ample il _cincticulum_ — la corta tunica bianca senza maniche — la strinse al petto più volte, l’aiutò a salire sul carro e la vide partire per Neapolis in compagnia di Halisca. Ed egli, saltando sur un cisio elegante, corse verso Pompei. La luce era partita. — Le tenebre erano tornate. — Desolato nel giorno. Vegliante la notte. — Inspirazione — slancio — volontà — desiderii — tutto con lei. — Idolo caro della mia fantasia! Creatura amata! Quasi sangue delle mie vene! O favilla di quel fuoco misterioso che Dio dà e ritoglie. Vieni a me presto, o io mi muoio. — Sestilio venne a consolarlo, e lo aiutò a dar pieno corso al suo dolore, parlando di lei e del suo pronto ritorno. Intanto per offerire distrazione propose di andare al teatro. — La speranza di ricrearsi rese accetto il partito. L’_Odeum_ era un teatro coperto — a lato del tragico — che Quinzio Valgo e Marco Porcio, duumviri, avevano fatto edificare e collaudato. Serviva agli spettacoli musicali, alle rappresentazioni drammatiche e ai concorsi poetici. Potea contenere mille cinquecento spettatori. Circoscritto in uno spazio rettangolare, la metà infima soltanto prende la forma di un completo emiciclo. La superiore, tra i gradini circolari interrotti su ciascuna estremità. I posti riservati — i quattro primi gradini, cui dava accesso la orchestra — erano l’_ima cavea_. Poi veniva il _balteus_ che serviva di spalliera ai magistrati, ai cavalieri, a quelli assisi sul quarto gradino. La seconda _cavea_ divisa da sei scale e composta di diecisette ordini di sedili di pietra, era riservata al popolo che vi penetrava dai vomitori. Sulle tessere di avorio, contornate da un serpe che morde la coda, era scritto CAV · I · GRAD · IV · ANDRIA · TERENTII · Ne presero due ed andarono al loro posto. Si erano già nunciati i nomi degli attori e le parti loro affidate. Si era detto il prologo, in cui lo autore confessa il suo plagio a Menandro e lo scusa, dichiarando valer meglio una buona imitazione che una mediocre creazione. Il subbietto era cotesto: — Pamphilo ha sedotto Glycera, creduta sorella di una sciupata di Andria. — I segni divengono patenti. Ma il seduttore la consola col prometterle nozze, quantunque il padre lo abbia fidanzato alla figlia di Chremes. Ma questi, sapendo gli amori del figliuol suo, simula apparecchi di nozze per iscandagliare i pensieri di lui. Pamphilo ode i consigli di Davo e non fa resistenza. Ma Chremes, veduto il neonato, non vuol aver più per genero quel seduttore. — Un incidente stranissimo disvela come Glycera sia figliuola di Chremes. — Allora dà questa a Pamphilo, e l’altra che eragli fidanzata, la sposa a Charino. Facili i versi — ben condotto lo intreccio — lo scioglimento felice. — Di due commedie di Menandro — l’_Andria_ e la _Perinzia_ — lo affrancato di Scipione fece questa una, spigolandone tutto il buono. — Pur quando Davo disse agli spettatori. « — Non attendete che gli attori escano..... Gli accordi, il contratto, tutto che rimane a farsi, si compirà là dentro..... Voi applaudite.» — Popidio non ne poteva più. — Sestilio, nello escire — perchè lo amico così voleva — facendo lo elogio delle commedie di Terenzio; sempre vere e delicate e senza ciniche licenze, gli chiese la sua opinione. L’altro — che aveva l’anima vagante — rispose, egli preferir Plauto per la somma vivacità del dialogo. — Lo africano averlo fatto dormire. — Preferendo l’azione, sarai più lieto nel grande teatro. — — Sia, — Tu, mio Mentore e senno, da che Plilia è lontana! Nello escire dal piccolo entrarono nel grande. Le tessere privilegiate diedero loro lo ingresso in un corridoio a volta che li menò ai posti sopra la orchestra. — Erano di avorio e portavano da una parte lo incavo di un edificio teatrale e dall’altro le cifre che seguono VI. ΑΙΣΧΥΛΟΥ · IB · Avevano posto sul sesto gradino della _cavea_ riservata. Altri corridoi, pure a vôlta, passando sotto la gradinata, guidavano al primo claustro e alla _media cavea_; una scala poi al di fuori del teatro faceva giungere direttamente alla _summa cavea_ ed al culmine dello edificio pel servizio del _velarium_. — Sulla parte opposta elevavasi una torre quadrata e rotonda al didentro, serbatoio di acqua piovana, la quale, profumata da essenze, era sparsa come una nebbia per tubi capillari di piombo sugli spettatori nei calori estivi. — Nel centro della orchestra elevavasi la _thymele_, o piccolo altare su cui sacrificavasi a Bacco al cominciare dello spettacolo. La scena fissa presentava tre porte, le _hospitales_ e l’_aula regia_. — Fra queste porte nelle due nicchie posavano le statue di Nerone e di Agrippina. Si recitava la tragedia _I sette contro Tebe_, la quale veniva chiamata il parto di Marte. Ma se il Dio della guerra aveva sovente inspirato lo autore dei _Persi_ di _Agamennone_, dei _Coefori_, del _Prometeo_, delle _Supplichevoli_ e delle _Eumenidi_, certo ei non ebbe minori obblighi a quello del vino. Gli attori sono sulla scena. — Gli adunati, tutt’orecchi in udirli. — Popidio, noiato, trovava i flauti fuor di tuono, le maschere degli attori logore, le voci non abbastanza forti per essere intese. — Che l’architetto Martorio Primo non avesse nozione nel costruire il teatro di quei grandi vasi di bronzo, i quali portano la voce dall’una all’altra estremità della sala? Tu rammenti che li vedemmo in Athenas, in Milo, in Argo e in Sicyone. — Rammento. Qui costumasi il flauto perchè sostiene la voce, la chiama se travia, e serve a dare la intuonazione al nuovo attore che entra. — Qui si costuma quanto vi ha di più odioso per me. Mira Volumnio, il decurione, che fa! Oh! io non reggo a siffatte scempiaggini! — Si levò e andò via. — Quel suo vicino aveva tratto un colombo dal seno e dopo avergli legato una tavoletta scritta nel piede, lo faceva volare. Altri lo imitarono. — Erano corrieri domestici che i mariti e gli amanti inviavano alle donne loro. — Sestilio raggiunse l’amico sulla via di Stabia. — Tu che da per tutto ti aduggi, oh! certo non ti annoierai nello Anfiteatro. — La folla che corre da quella parte mi rammenta il grande spettacolo offerto da Livineio Regolo. — — Io tornerei volentieri alle mie case..... — No. Vieni, Popidio, e la maschia scena ti distrarrà. — L. Livineio Regolo, di famiglia plebea — nato di Lucio prefetto di Roma — era stato quatuorviro monetale ai tempi di Cesare. Ferito dalla stessa scure che aveva decapitata la repubblica, amico di Cicerone e di Bruto, amareggiato dall’ozio febbrile che legano le rivoluzioni morte, cospirò per la causa a lui sacra. Senatore, Augusto tiranno volle che venisse raso dal senato. — Invano stracciò le vesti per mostrare le onorate cicatrici. — Invano parlò de’ suoi meriti. Fu raso. — Cacciato in esilio in Pompei, per ingraziarsi il popolo si fece editore di ludi gladiatori e belluari, cioè, di orsi e di cinghiali. Lo edificio destinato ai sanguinosi combattimenti degli uomini e delle belve era la riunione di due teatri, siccome il greco nome Αμφιθέατρον, che i Romani gl’imposero, il dice. Le due orchestre ne formavano la elittica arena. La quale in Pompei era scavata di man d’uomo tanto al disotto del livello del suolo per quanto le mura si elevavano al di sopra. Costruito nella parte meridionale della città presso le mura che guardavano Stabia, l’architettura esterna di pietra vesuviana non presenta verun ornamento. Nello ingresso del grande vomitorio settentrionale su due nicchie posavano le statue di Cuspio Pansa duumviro, padre e figliuolo; ed a sinistra sul selciato di lava che discende, sono pietre bucate entro le quali era fissa una barriera di legno, perchè gli addetti al servizio e al mantenimento dell’ordine non fossero schiacciati dalla folla irrompente. Di là si andava ad un cripto-portico circolare interno, che per via di scalinate metteva ai gradini. Questi erano divisi in tre piani — _summa — media — ima cavea_. — Sopra le vôlte delle due ultime è una serie di arcate che metteva in una galleria che dava accesso alle scale per escir fuori. Il primo _deambulacrum_ era coperto. L’altro no. — L’arena era circondata da un _podium_, alto quasi due metri, difeso da un cancello di ferro a protezione degli spettatori. Esso è ornato di pitture che presentano combattimenti di tigri contro orsi, di un cervio contro una leonessa, di un orso contro un toro. V’ha pure una scena gladiatoria, e si vede un _lanista_ dar consigli a quelli che debbono accoltellarsi, nell’atto che altri due assisi aspettano la stessa lezione e che un musicista saggia le note della sua tromba ricurva, atta a dar lena ai gladiatori. La prima _cavea_ ha cinque gradini. Ma nelle due grandi parti dello Anfiteatro è un vasto spazio, chiuso da un breve muro di appoggio che scende perpendicolare al _podium_, e non ha che quattro comodi scalini. Gli era il posto riservato alle vestali, ai magistrati ed a quelli che avevano l’onore del bisellio. — Nel centro del podio occidentale apresi una piccola porta di quercia, il _catabolus_, per cui escivano le bestie feroci, chiuse nei covacci sotto la gradinata. — Il sole d’Italia, volgendo all’occaso, illumina vivamente la scena. E il monte Vesvius sta muto testimonio della gioia crudele del popolo e della coraggiosa rassegnazione degli accoltellanti, pronti alla morte per dar piacere agli schiavi di Nerone che omai dei gloriosi padri non avevano più che le vesti ed il nome. Quando i due amici arrivarono allo Anfiteatro, questo era pieno per modo che sarebbe stato impossibile il trovarvi luogo, se un littore — riconoscendo in Sestilio il figliuolo del duumviro non gli avesse condotti — attraversando le file con autorità — in due posti rimasti ancor vuoti. Già compivano il giro dell’arena cinque coppie di giovani di alta statura e di membra robuste. Alcuni erano schiavi e costretti al carnaio. — Altri volontari, e si votavano alla trista professione per cupidigia, per sete di fama, per disperazione accagionata dai politici rovesci. Un uomo attempato che li avea sotto la sua disciplina — il _lanista_ Cneo Mezio Felice — gli chiamò a nome ed in ragione della forza e della destrezza a lui note, gli accoppiò, armandoli di gladi taglienti ed aguzzi. Il loro contegno, di giulivo che era, d’improvviso fu cangio. Ed Harpax guardò con occhio minaccioso l’emulo suo Philoxeno. — Ed Antioco, il dace Proculo. — E Thytridi, il gallo Lycon. — Ed Hanthrax, il bruno Polinice. — E Dromon, Poenulo il cartaginese. — Ora inoltravansi. Or ritraevansi, evitando con arte le percosse ed i tagli. — Thytridi fu il primo a ferir gravemente sul braccio lo avversario. Invano egli diede uno sguardo pietoso allo intorno. Chè, il popolo con urlo di belva, levando il pollice, gridava: — _Habet._ — Lo ha preso!... Lo ha preso! — Allora il misero porse il collo al compagno che glielo segò. — Nell’atto, Proculo, facendo un salto di fianco per isfuggire il colpo che Antioco gli aveva assestato, mirando come fosse col corpo piegato innanzi e scoperto, gl’immerge il gladio nel cuore. — Gli schiavi cogli uncini trassero i cadaveri in una specie di fossa destinata a ricevere le spoglie degli uccisi. Harpax e Philoxeno, destri e vigorosi entrambi, si sforzavano indarno in falsi attacchi e in sorprese; si avventavano, indietreggiavano, si ferivano, ma senza farsi gran male. Ed il popolo plaudiva alle percosse che credea decisive e pur plaudiva all’altro che aveva saputo schivarle. Alla fine Harpax afferra la spada a due mani e si precipita sullo avversario. — Lo scudo ne rimane spezzato e il colosso cade disteso per le terre. Philoxeno, che ha ferito il braccio sinistro dal fiero colpo, gli è sopra e gli punge col coltello la gola. — Le donne s’impietosiscono di quel caduto che la sventura colpiva ed alzano la palma, gridando: — _Non habet!_ — Sia salvo! — Allora quegli ch’era già presto a far da carnefice al compagno — il quale era forse suo amico — gitta la spada, si curva, solleva di terra lo sciagurato e lo consegna fuor dell’arena ai destinati a medicar le ferite, per conservarlo ad altri cimenti. Dromon e Poenulo si corrono dietro per l’arena. Grondano sangue e sudore. Si arrestano. — Si guardano con occhi di tigre e si avventano. — E l’un l’altro ferisce, aprendosi nel fianco e nella coscia due piaghe profonde. — Sono anch’essi perdonati e vanno via. Entrano sulla scena Curzio, Charino, Ballion, Prisciano e Curculio. Sono ignudi, o quasi, e armati di coltello e di lancia. Dal _Catabolus_ escono orsi e cinghiali. — Da una porta, due tori. — Ad una correggia di cuoio che gli cinge nei fianchi è legata una corda che stringe il collare di due molossi. Due pigri bufali erano siffattamente allacciati a due lupi. Gli urli delle bestie feroci e le grida dei bestiari intronano l’aere. — La dea Libitina oggi sarà satolla, o Popidio. — Stragi e omicidi, ecco i trastulli dei tempi! — Per cotal gente l’arena è il patibolo. — Vita di delitti. — Morte spregevole. — Ecco perchè non destano nel cuore alcuna pietà. — E lo sanno. — E ne fanno soggetto di beffe. — _Sanguis venalis!_ — Ora, colui — di cui la statua equestre è sull’arco a trionfo — si è fatto lanista, ed ha i suoi accoltellanti _postulatitii_, sempre pronti a combattere e a morire pei suoi gusti e alla richiesta della plebaglia. E gli nudre della _gladiatoria sagina_, perchè quella forte razione di carne gli faccia meglio vigorosi ed abbiano maggior sangue da spandere. — Ma tu vedesti nell’Urbe i figli di razze illustri scendere nella lizza per guadagnarvi il plauso — che omai è serbato alle sole vergogne — e il frusto di quattromila denari per anno. — Gli udii pur anche prestar giuramento _uri, vinciri, verberari, ferroque necari_. — E, gl’infilzi Plutone col suo tridente! meritano bene il fuoco, le catene, le verghe. — La morte di spada è troppo nobile per essi. — Pur mira quel Thytridi che incurante è appoggiato al muro del podio. L’ho veduto in parecchi ludi e credo sia già scampato da sessanta vittorie. — Ha il cuoio ben duro, o Sestilio, eh? — Parmi! — E in Capua ve n’ha pur molti che, ricevuta dallo edile la palma della vittoria e appesa al loro fianco la spada di legno, passeggiano sciolti dai doveri della loro professione. Ed uno ne vidi che in una solennità avea sul capo la _lemnisca_, la corona di fiori intrecciata da bende. È l’onore più grande cui possano aspirare. — Intanto che i due amici parlavano, ed altri parlavano. Quale battaglia! Il rumore di chi combatteva, il cozzo delle armi, le grida degli sbuzzati e dei moribondi, il mugghiar delle bestie morsicate e morsicanti, il sangue che spargevasi nell’arena, producevano nel pubblico una quasi ebbrezza che non si può descrivere. Pareva che gli spettatori ardessero di combattere; perchè si spenzolavano dai loro posti, ed urlavano come belve, e gesticolavano come briachi. D’un tratto altri attori entrano nella scena — due leoni di Africa — un tigre delle Indie — una pantera pomellata. — Guardano allo intorno coi loro occhi di fiamma, strisciano lungo il podio, si fermano, si ripiegano, battono il suolo colla loro coda nervosa, passano e ripassano la lingua irsuta e assetata sui loro denti aguzzi. Il tigre si slancia sopra un cinghiale. Il leone azzanna un bufalo sulla giogaia. La pantera in meno che non si dice ha sbranato un molosso ed un lupo. L’altro leone — quantunque ferito di lancia nel ventre — strazia colle unghie e colle zanne Charino. — Gemiti soffocanti. Grida di dolore. Ruggiti di belve. Scricchiolio di ossa sotto i denti. Il tigre e uno dei leoni escono dalla mischia ringhiando e satolli. Ed errano per l’arena, portando nella bocca sanguinosa informi brandelli di carne. Sotto il gradino dove sedevano Popidio e Sestilio era uno in sui venti anni che avea a sè vicino una giovane della stessa età. La vide animarsi degli entusiasmi della giornata. Gli piacque il suo naso sottile sur una bocca di corallo. Gli piacquero quei suoi occhi estatici, selvaggi ed azzurri adombrati dalle chiome bionde, increspate e copiose. A furia di guardarla sottecchi, s’innamorò delle belle linee piene, svelte e proporzionate di quella leggiadra persona. La vide parlare sovente con un uomo che sedevale a lato, e dentro ne ingelosì. Non sapea dire s’ei le fosse fratello, marito, amante. Più volte volle rivolgerle la parola per appurarlo. Borbottò qualche frase. — Ma, o ch’essa avesse l’attenzione altrove, o il fracasso di sotto e di sopra impedisse lo intendere, gli parve non aver raggiunto lo scopo. Ecco ch’ella si leva in piedi e col suo corpo rotondo si appressa troppo a lui. La sentì callipiga e vi posò su la mano convulsa, con una ansietà voluttuosa. — La pompeiana gittò un grido e si ritrasse volgendo allo sconosciuto lo sguardo irritato. Il vicino le domandò cosa avesse. E saputolo, colla faccia che assume un geloso che non ama la divisione nei beni da lui goduti, apostrofò il giovane: — Chi fa ciò che non deve, vuole più che non dovrebbe! Insolente! — Chi ti fa or censore dei fatti miei? — Giù le mani e la lingua, o le mozzo! — Intendi? È la mia donna costei. — Ah! la tua donna?... Sta bene! — Nessun uomo in Pompei te l’avrebbe tocca, finchè tu lo avessi permesso. — Oh! Sì?... — Credimi, per Ercole! Sei un uomo ingegnoso. Ora la tua custodia muove tutti alle prese. — Il pompeiano non seppe patire il villano insulto. Brandì uno stile che avea sotto la tunica, ritrasse colla sinistra la moglie, e vibrò un colpo sul petto del giovane a nascondergli la lama nel cuore sino al pugno. Il ferito gittò un grido gorgogliante, prosciolse le membra e cadde morto sulle gambe di Popidio. Uno a poca distanza, ch’erasi rivolto alle parole della contesa, disse, levando le braccia: — È Anicato che han morto! A me, voi da Nocera! — Erano molti gli accorsi di quel paese alla festa. — Ognuno dal seggio su cui si trovava, accorreva furioso, e pestando confusamente gli assisi e i tranquilli, iva bociando: — Morte ai pompeiani! Gli Dei ci aiutino. — Ed anche questi infellonirono alla lor volta. — E i più forti che non avevano armi alle mani, ghermivano i Nocerini e gli scaraventavano alle fiere. E gli altri alle coltella. — Sangue nell’arena. — Sangue sui gradini. — La confusione era immensa. Intanto un uomo insatanassato vien barcollando tra i caduti e i fuggiaschi. S’imbatte con Popidio, lo teme avverso, lo ferisce, e va innanzi. Questi cade nelle braccia dello amico. Trattolo a stento tra quella calca, di peso, nel _deambulacrum_, lo posa per le terre e se gl’inginocchia vicino. La ferita ricevuta nel petto era mortale. — Plilia!... o mia Plilia!... mai più... — E prese la mano di Sestilio e l’appose sulla piaga per arrestare la emorragia che gli toglieva le forze. — A Plilia tutto che mi appartiene. Una delle mie case... a te... in memoria mia... O Plilia, ultimo amore e forte amore! — Prendi questo _symbolus_ che racchiude la gemma... la testa di Bruto... guarentisca le mie volontà estreme. — Affranca i due servi ancor schiavi... — Iniquo il coltello che ti uccide, o amato Popidio! — No!... Mi aiuta ad escire da questa immonda cloaca dello impero, ove io era in ritardo. Veggo già i vasti orizzonti della vita nuova.... Vi rimaneva — credilo — per lei... per te... Sento che le estremità si raffreddano... La vista s’indebolisce... non veggo più... Un bacio e l’ultimo... O Libertà... Italia!... Era morto! Dei Nocerini fu fatto empio macello. — Armi — sassi — unghie — tutto usato per la vendetta dalle due genti. Ma vinse la plebe pompeiana che aveva la festa in casa. Rari quelli che potessero fuggire o appiattarsi finchè il furore scemasse. E i feriti, e gli storpiati, e il pianto dei padri e dei figliuoli corsero nell’Urbe per chiedere vendetta a Cesare. Il principe rimise la causa al Senato. — E il Senato ai consoli. — E Vipsanio e Fonteio la ritornarono ai padri. — I quali vietarono ai pompeiani lo aprir ludi gladiatori nello Anfiteatro per dieci anni. Disfecero le compagnie degli accoltellanti fatte fuori legge e sbandirono Livineio Regolo e i primi rissanti dalle terre d’Italia. _C. Sextilius Ampliatus Acutilio suo._ _Pompeis._ _Maximis et miserrimis rebus perturbatus sum._ — Popidio nostro non è più. — Il coltello di un Nocerino lo uccise nello Anfiteatro. — Non so dirti quanto ho sofferto e soffro. — Il suo a Plilia, unica consolazione della sua vita. — Or, conviene ella sappia la tremenda novella. A me manca il cuore di scriverle. Agisci a modo, ed evita a me il doppio danno. _Quid futurum sit, nescio. — Vale._ _Plilia Sextilio suo._ _Neapolis._ _Ego tamdiu requiesco, quamdiu ad te scribo._ Oh! il grande, lo invincibile dolore per la morte di un essere amato!..... O Popidio...., Popidio del cuor mio!... Misero! Sentisti tutte le sofferenze del fuoco che non si spegne... tutte le morsicature del verme che non muore!... Sono stata per tre dì senza vita esterna, ma pensando... e a lui che non vedrò più. — Vieni, qui, o Sestilio, e piangeremo insieme. Vieni, e potrò sopravvivere allo amico mio morto. — LA STRADA. SCENE NOTTURNE IN POMPEI. =Anni di Roma 825 — Anni del Cristo 72.= A GIUSEPPE LAVRIA. VIII. Il giorno finiva — e il quadro che offrivasi agli occhi dei riguardanti potea dirsi il più splendido che la fantasia di un poeta sappia mai immaginare. Il sole dechinando celavasi dietro nuvole grandiose e bizzarre, tinte di sangue. I suoi ultimi raggi infuocati baciavano le onde quete del golfo ed indoravano le isole — formanti lo asserraglio del Cratere — dall’Atheneum — il promontorio di Minerva — al capo Miseno. Il mare immenso, confuso il suo limite coll’orizzonte e scintillante ai riflessi di quella viva luce, sembrava la fornace in cui i Titani facessero la fusione e la miscela dei loro metalli. Vedeansi da lungi bianche vele prendere il colore di quella zona candente ed accennare al porto, formato dal fiume Sarno là dove sboccava nel mare, tra i paduli pompeiani e le saline di Ercole, dinanzi lo scoglio da cui toglievano il nome. Le vie della città cominciano per poco a farsi solitarie e chete. Una fanciulla esce canterellando da una casa di gente doviziosa e s’incammina verso la porta che mena all’oppido di Sarnus. Oltre il _pomærium_ è un bosco ove una sorgente di acqua limpidissima aveva riputazione di contenere proprietà salutari. Alla padrona era venuto il capriccio di berne e la schiava obbediva. Un sentieruolo guidava tra due verdi prati alla fontana, che gli alberi cuoprivano d’ombra e le coppie amorose degli uccelli inneggiavano. — I sogni compongono le idee di una mente giovanile, siccome le violette e le margherite sorridono tra il fil verde delle erbe e danno tenere occhiate a chi passa. Corista le ricambiava a quei fiori e deposta l’anfora, ricominciò il suo canto distratta, ne colse un mazzolino e lo pose tra i capelli e l’orecchio. Levatasi ed alzati gli occhi, vide presso il fonte, appoggiato al tronco di un pioppo, un giovane vestito di una tunica di colore oscuro, dagli occhi azzurri, dalla barba nascente e dalla copiosa capigliatura bionda, i cui riflessi così bene si maritavano a quelli dei verdi rami che si curvavano sulle acque. Altre volte aveva veduto quel giovine nel tempio di Venere e nello Anfiteatro, ed aveva dovuto chinar le sue luci dinanzi allo infiammato sguardo di lui. Molti pensieri arruffati le fecero tremante il cuore e arrestossi. Ma il giovane, indovinandola, con voce soave le disse: — I miei presentimenti non mi avevano ingannato. — Iside m’inspirava che in questo luogo sì bello avrei trovato felicità. — Ed io sono grandemente lieto di qui vederti, o fanciulla, e di poterti parlare. — E quale interesse ti spinge verso una povera figliuola di Corinto che i propri parenti hanno venduto? — Quello che il piccolo Iddio alato mette nel sangue degli uomini dell’arte mia allo aspetto del bello. Quando primavolta ti vidi, mi sembrasti apparizione di cielo. — Ed ebbi sempre da quel giorno la mente piena di te. — E nella casa di Scauro ho dipinto una Venere che tutto ritrae dalla soave immagine tua. — Lusinghieri i tuoi detti. — Dallo accento non sembri di queste contrade. Quale il tuo nome? Ove nascesti? — Olympio. — Di Athenas. — Di poveri parenti. — Qui venni chiamato dalla fama per le pitture decorative. E pingo sulle pareti xysti, foreste, colline, case di piacere ove si giunge a traverso un lago, piscine, gente che va in battello, che caccia, che vendemmia, e paesaggi fantastici con animali e con alberi. Pingo pur torri colle cime verdeggianti di edere e di lauri; pergole sotto le quali gironzano fagiani, pavoni e pernici; viali di bosso e gruppi di mirto tarentino; e tra le aiuole di fiori, fontane dalle forme capricciose e bizzarre, adorne di conchiglie e di maschere di marmo; portici con ricchi mosaici e con cortine azzurre per guarentire dai raggi del sole; tempietti ascosi tra gli oleandri della Laconia e le rose di Preneste; sedili sormontati da un orologio solare sulla punta di un dirupo; statue di filosofi, delle muse, delle iddie e di Priapo — interprete, stimolo, dolcezza, delizia di questa razza orgogliosa arricchitasi colle spoglie del nostro misero paese. — Qui Olympio si strinse colla mano la fronte, quasi volesse premervi un pensiero affannoso; quindi, rasserenatosi alquanto, continovò: — Vedi, o Corista. Un quadro non finito ha per me un indescrivibile incanto. Lo artefice gode nella inquietezza a nelle pennellate che creano la composizione.... Ed io or mi pasco di una gioia secreta nel dirti che ti amo, nel mirare questo abbozzato dipinto, che io non già, ma tu puoi terminare. — E godo..... E temo..... — La fanciulla si fece rossa di bragia e, tendendogli la mano: — Sii il benvenuto nel mio cuore, o Olympio. — Tu non vorrai farne il tuo trastullo, spero. — Vivo in umile stato presso la moglie di Pacuvio Bleso. La mia padrona Aquilia mi ama. — Serba questi fiori del bosco per memoria mia. — Grazie, o amore. — Sempre qui, sul mio petto. — E nell’atto che Corista appressò l’anfora al fonte per empierla, il giovane artefice le baciò amorosamente la tempia. Ed insieme s’incamminarono verso la vicina porta della città. Un soldato colle gambe in croce si appoggiava al pilo. Altri quattro stavano ritti o seduti presso la stanza di guardia sotto l’arco. Poi che i due giovani furono passati, la sentinella fece un gesto col mento teso ai compagni. — Rata ne accenna che è una vestale. — Per Ercole! — La non farebbe spegnere il foco sacro per la faccia tagliuzzata del povero Sammanara. — Lieto compenso e cinquanta colpi di verghe, o Kinnamo. Il suo incesso, i suoi lineamenti mi ricordano una mia ventura nelle Gallie. Grazie, o Mnemosine, del dono tuo! — Incontro ai due amanti veniva barcollando un avvinazzato. Era scalzo ed aveva la tunica lacerata. — Appena li discerse, cominciò ad urlare con voci smozzicate: — Là! Donde venite? — Hai fave o lupini cotti? Ah! Rapisti la mia Sabina tu! Ridalla al misero Bibulo che la piange perduta. — Ti darò in cambio un’olla con porri e testa di montone. — Ah! non intendi? _Damnese bibimus, puer?_ Ti apprenderò il latino io! — E brandendo un nodoso bastone sul quale appoggiavasi, si piantò loro dinanzi. — Corista, impaurita, si strinse alla persona del suo protettore. — Il quale, afferrata la mazza nella punta, la scosse sì forte che il beone andò per le terre lungo disteso. — Ah! tu Vuoi ch’io riscaldi la punta del gladio nella tua iugulare?.... I piedi!... Chi mi tiene pei piedi! Aiuto! Feci le prime armi con Cesare.... Rispetto al cittadino romano..... — Gli amanti, affrettato il passo, furono ben presto sul margine presso la porta della casa di Bleso. — Salve, o divina creatura. — E il tuo nome? — Non tel dissi? — Corista. — Quando ti rivedrò? — Presto. — E un bacio sui tuoi begli occhi. — Vale. — E l’una entrò nel vestibolo. — E l’altro seguì la sua strada. — Sulla rivolta, ecco che s’imbatte con cinque o sei giovanastri, quali coperto il capo di un pileo, quali di un galero di lana, che ridevano, parlavano alto e parevano esciti anch’essi da una cena inaffiata oltre misura. Sghignazzando entrarono in una taverna vinaria, ove per solito vendevasi vino annacquato. E per tale oltraggio fatto al figliuolo di Giove e di Semele, ruppero i calici e le anfore del povero _ænopolus_ e tirarono innanzi. — E vista mal ferma la porta di una bottega di _salsamentarius_, la ruppero e sparsero per le terre i pezzi di maiale affumicato e cotto. Così pure dispersero i budini di un povero _botularius_, che corse dal piano superiore, ma troppo tardi, per salvar le sue robe dal mal governo di quei beoni. Dinanzi il tempio di Romolo s’imbatteva con alcuni, seguiti da schiavi e da liberti, schiaranti la via con torce o con lanterne di bronzo, rotonde e chiuse coi vetri. — Gli è che al tramonto, detto vesper, erano succedute le prime ombre, che addimandavansi _crepusculus_; quindi era giunta l’ora dell’accensione delle lampade, _prima fax_; una delle otto suddivisioni delle quattro veglie che costituivano la notte romana. — Lungo tutte le vie vedevansi luccicare tizzoni ardenti, lanterne di sottili foglie di corno, di tela oliata e di pelle di vescica. Era raccolta una eletta brigata di amici nella casa di Pacuvio Bleso. — Arricchito dal traffico colla Grecia e coll’Asia, aveva speso migliaia di sesterzi per abbellire il suo nido. La porta di quercia, ornata nelle fasciature di _bullæ_ — grossi chiodi di bronzo — aprendosi, mostrava nel _prothyrum_ — un magnifico mosaico di piccoli cubi di marmo bianco su cui campeggiava in nero un timone da triremi incrociato con un caduceo. — A dritta e a manca erano la cella del molosso, custode rabbioso colle zanne e colla voce; — e quella dell’_ostiarius_ — il portiere — che, armato di lunga verga, chiedeva il nome dei visitatori. Ascendendo pel piccolo corridoio, un uscio interno apriva l’adito sur una bella corte quadrata, adorna di colonne doriche di stucco bianco e tinte in rosso verso la base; le quali formavano un elegante portico, comodo per l’ombra e per le comunicazioni interne. — Chiamavasi _atrium_, perchè cotesta disposizione architettonica la fu inventata in Hatria, repubblica primigenia della nostra nobile Italia, sedente sul mare, tra gl’Interamni e i Picenti. — Davasi il nome di _impluvium_ al bacino di marmo di Luni nel cui centro zampillava la fontana, e a tutta la corte quello di _cavædium_. — Nell’angolo era il _puteal_, margella di marmo, depositario dei fulmini di Giove, luogo di devote espiazioni nei tempi etruschi, e più tardi margine del pozzo da cui si traeva l’acqua pluviatile dalla cisterna. Dall’atrio si entrava nel _tablinum_, ov’erano gli archivi della famiglia. E nel _triclinium_, stanza due volte più lunga che larga, ricca di pitture; di colonne variopinte; di mosaici litostrati; di statue dorate sopportanti lampade per la notte; di letti triclinari di bronzo, a meandri di argento incrostato nel metallo, e coperti di soffici cuscini di piume, chiusi in una stoffa di lana a ricami d’oro. Eravi pure l’_abacus_, mobile di bronzo, situato presso la parete centrale, in faccia ai triclini, sui quali i Pompeiani si sdraiavano a metà nel banchettare, appoggiando il corpo sul gomito sinistro. L’abaco, nei giorni di festino, sopportava vasi preziosi di vetro e di argento, adorni di rilievi col nome del padrone e colla cifra del peso; non che patere e coppe di cristallo, di vari colori. Il ricco mobile abbellivasi di fasciature e di placche di bronzo cesellato, aventi nel centro maschere sceniche rilievate di argento; e sopra, statuette di rinomati artefici greci. I corridoi laterali, chiamati _fauces_, menavano alla cucina, agli alloggiamenti degli schiavi e dei liberti, ed al piano superiore, ove abitava la famiglia. In fondo dell’atrio aprivasi un portico più lungo che largo, detto _peristylium_, che uno spesso cortinaggio di porpora riparava dai raggi del sole e dalle intemperie. Quivi maggiore la magnificenza e la raffinatezza del lusso. Fra ciascheduna colonna è una statua di marmo. — Le pareti sono rivestite su tutta la loro altezza di tavole di rosso o di giallo antico. Le colonne del portico sono di stucco, simulanti l’oltremare, con leggerissime venature di piriti di ferro. Il pavimento rappresenta un labirinto in mosaico, fasciato da un meandro greco. La soffitta è divisa in compartimenti di legno col corniciame dorato. Nel centro del porticato le cortine sollevate aprono gli sguardi sullo xysto, giardino pieno di verzura e di fiori, che ha pur lauri e rose dipinti sulle sue mura, con uccelli svolazzanti o fenicopteri posati sulle loro gambe altissime. Sul lato occidentale del peristilio, un corridoio — avente sulla parete di prospetto una icone pei Dei Penati — metteva a diritta nelle due camere del bagno, ed a sinistra nello appartamento delle donne, ove queste abitualmente si tengono durante il giorno per lavorare o per ricevere le loro amiche. Coteste sale si addimandavano _æci_, e sono dipinte a bizzarra architettura, con quadri rappresentanti Lucrezia che fila, e Penelope che tesse, ed Achille con Deidamia, e Venere nascente dalle spume marine, e Diana cacciatrice, tra uno zoccolo di fondo nero con busti di donne a coda di delfini, o di uomini terminanti con ornati capricciosi; ed un fregio di fondo pur nero, su cui sono fogliami sviluppati in volute con fiori, dal cui calice esce tutta la parte anteriore di un leone, di un orso, di un elefante. Mediante una scala di legno si saliva ad un piano superiore, ove solevasi intrattenere i bambini colle loro nudrici. Sul lato della casa era una stanzuccia con armadi contenenti i papiri. — Su quello della strada, il muro sopportava un terrazzo pensile, detto _solarium_, lungo quanto l’_æcus_, con larghe finestre guernite di vetri, per garanzia del freddo invernale, e di tele trasparenti per velare il sole di estate. Sul piano terreno dell’atrio, come su quello soprano, aprivansi le _cubicula_, stanze da dormire, più o meno adorne, secondo le persone cui erano destinate; e sull’angolo, nello incavo praticato nella parete dalla parte del capo, posava il piccolo letto di _citrum_, specie di cipresso salvatico di Mauritania, di soave odor resinoso, o di terebinto, o di ebano, o di noce, o di quercia, i più ricchi sostenuti da piedi di bronzo e gli altri di ferro. I cuscini erano di piume di cigno, o di lana, ed avevano superiormente coperte di grosso panno o di pelli di talpa ricucite. Dimore simili a questa di Bleso per vastità, per eleganza, per magnificenza erano molte nella città di Pompei. Quella di Olconio Prisco. Quella di Pansa. Quella di Sallustio. Quella di Cornelio Rufo. Quella di Aulo Allazio. Quella suburbana di Tullio Cicerone, e del ricco negoziante greco Agatocles. Quella di Mevio Apulo, ov’era il fauno danzante in mezzo allo impluvio ed il celebre mosaico rappresentante la battaglia di Alessandro il Macedone contro Dario persiano. — Ognuna di esse è spaziosa quanto il podere solcato dallo aratro di Cincinnato. E la casa del console Valerio Poplicola — il quale s’ebbe tal soprannome dal popolo, perchè dopo la cacciata dei re tolse le scuri dai fasci dei littori, ed i medesimi fasci di verghe faceva deporre ai piedi della plebe allorchè si aprivano le assemblee — poteva comodamente essere edificata entro lo impluvio pur dianzi descritto. E la dimora di quel Catone — che non meno illustrò Utica colla sua morte, che Roma per la sua nascita — era esigua quanto i bisogni che quel savio si permetteva. — Cotesti esempi risplendevano in antico. L’aquila romana non aveva spinto ancora il suo volo glorioso su tutte le contrade dell’universo. Il Senato non accolto i re supplichevoli sulla porta del Campidoglio. Nè i generali della Repubblica distribuito i regni ai loro clienti. — Nei remoti tempi la riputazione della virtù imponeva un sacro rispetto alla piccola dimora di un grande cittadino. Nei tempi di cui discorro, il lusso della casa dava fama al padrone, e si era riveriti per la fastosa ospitalità, per la magnificenza degli arredi, pei sontuosi triclini, per le colonne dei cortili, per le pitture delle camere, e pei marmi preziosi e rari che coprivano le pareti ed i pavimenti. Pacuvio Bleso era un uomo in sui quarant’anni. Un giorno, preso dalla malinconia, decise di ammogliarsi. — Diede allora un vale alle gioiose e procaccevoli avventure, e si sacrò intero ad Aquilia, donna dallo spirito fecondo e svariato. Era della famiglia Rufa, e nel vederla ciascuno diceva: «Io la preferisco ad ogni bella.» La sua persona era il velo trasparente di un’anima pura e soave. Buona cogl’inferiori, benevola cogli eguali, le sue amiche non l’avevano mai disertata, come colei che non sapeva urtare nelle individuali vanità, causa di veri dolori nelle donnesche coscienze. Se nelle intimità avvenivano involontari disgusti, un suo sorriso, un suo sguardo, una parola gentile toglieva il peso da ogni cuore e diradava ogni nube. In quella sera una dolce armonia, un cinguettìo di voci, una splendida illuminazione escivano dal peristilio, le cui cortine erano aperte dal lato del giardino giuncato di fiori. L’allegra brigata erasi aggruppata e disposta con leggi intelligenti. Numilla, figliuola di Osculo, aveva nel disegno e nella espressione dei suoi lineamenti, quel tipo di greca bellezza, che le statue a noi tramandarono. Il naso formante una linea colla sua fronte; gli occhi che aprivano sotto i lunghi cigli neri le loro profondità di colore azzurro; il collo svelto, l’aitante persona, le tornite proporzioni palesate dalle graziose muovenze delle membra, facevano di lei la più avvenente fanciulla che fosse nella Colonia. Il padre suo, facoltoso, augure e da poco assunto al sacerdozio, l’amava quanto le sue pupille ed intendeva maritarla ad un cavaliere romano nell’Urbe. Domna, la figliuola di Agatocles e di Ulissia, abitanti nel sobborgo Felice, era del festoso ritrovo. La giovanetta, bruna di carnagione, un po’ paffutella, e soltanto leggiadra per la sua freschezza. Eravi Arrunzia, moglie del questore Vinicio Oveo. Sedeva a lei da presso Charmis, il famigerato medico di Massilia dei Focesi, il quale le parlava in greco, non dovendo un distinto della sua professione parlare altra lingua, quantunque sapesse che la sua interlocutrice fosse romana ed ignara. Stranezza della moda, la quale costringeva ad aver fede in uomini ed in cose — costosi ambedue — e per sopra ciò inintelligibili! Nè vi mancava una delle migliori amiche di Aquilia, la innocente, la buona Lollia Valeria, un flore profumato dalla virtù. Non era bella, ma aggradevole. La bocca grande, le labbra grosse. I denti regolari, bianchissimi. Lo sguardo attraente, inesprimibile a traverso la frangia dei suoi lunghi cigli. Avea sedici anni quando la doventò sposa ad Anneo Nella Ceriale, uom grave, duro e romanamente marito. Laonde s’ella sentiva il sole nella testa, negli occhi, nel cuore, egli il freddo calcolo, le ambizioni municipali e i momentanei capricci. — Erano corse dicerie su cotesta disparata unione. Gli è che un giorno la giovanetta si avvide che la sua grazia, l’olezzo dell’anima sua, i cantici affettuosi della sua mente erano accolti con svagato sorriso e non assaporati. La povera delusa pianse, si nascose e disperata chiedeva la morte. Ma una situazione nuova venne d’un tratto a sorreggere la idealità del primo istante delle sue nozze. Un pegno doloroso, gradito potea consolarla e riallacciare i legami che la sua dignità di donna offesa le aveva fatto rompere e che stimava rotti per sempre. Già Pollutia, di L. Cornelio Orfito, era passata col vagabondo suo cuore ad altre ebbrezze. Nella solitudine di una valle presso Sorrentum erale nata Flavilla, lo anello di unione tra lei e il divagato Ceriale. La emozione nuova e nervosa aveva vinto lo egoista. Lollia, augurandosi una trasformazione duratura per lo avvenire, consentì a riedere in Pompei. E mostrandosi pubblicamente lieta, i pettegolezzi stanchi si erano acquetati per lo alimento esaurito. La giovane Corista suonava per intanto l’arpa nello xysto, sposando la vibrazione delle corde all’armonia della voce. Essa cantava un inno all’Amore, nello idioma natìo; e la musica, e il dolce accento, e la inflessione vocale, tradendo lo ardore secreto dell’anima sua, innondava di delizio quel luogo, sino a rapire il pensiero e a deporlo incantevolmente nelle valli amene della Tessaglia, e nei sacri boschi di mirti e di aranci in Pafo. Pochi, e ad intervalli, badavano alla bella schiava. La quale parea cantasse per proprio diletto, e lasciava correre agili dita sulle corde, come avrebbe fatto correre i piedi sur un prato verdeggiante. Più degli altri Numilla — allorchè nessuno la interrogava — sembrava viaggiasse cogli occhi nelle regioni ideali dell’armonia. Essa piacevasi di quest’arte che già s’insegnava come complemento di accurata educazione, da che Silla avevala nobilitata in Roma collo esercizio del canto. La immaginazione, prigioniera delle altrui volontà — appena sente chiasso e tumulto — rivoluzionaria d’istinto — riprende la sua indipendenza e il suo isolamento, si seppellisce nei propri capricci, vola sulle ali dorate di un sogno, o si raccoglie in un pensiero delizioso; e i suoi accenti ricordano i luoghi secreti e cari ove si è vissuto la vita di un affetto, ed aprono allo sguardo dell’anima le raggianti dimore che la lusinghiera speranza apparecchia dopo il sonno della materia. — La bellissima pompeiana era in mezzo a fantasmi tristi e graziosi evocati dal proprio cuore, e il suo sguardo fisso e profondo or volgevasi alla schiava gentile, or alla padrona del luogo. La quale, leggendo nel pensiero quello che le labbra non ancora dicevano, si curvò verso di lei, le prese amorosamente la mano e le disse: — Numilla, la sorte della misera schiava è un errore del fato. Hai ragione. Convien ripararlo. La delicatezza dei tuoi sentimenti l’ha fatta libera. — Corista, fletti il ginocchio dinanzi alla tua liberatrice ed amala come sempre mi amasti, o povera figlia di Corinto. — La nobile giovanetta — nello udire così delicatamente tradotto il suo secreto pensiero — sentì più profondo il fuoco di quel sentimento in cui bruciano le anime martirizzate dalla sventura, e pianse. E più fu commossa nel sentir lacrime e baci bagnar le sue mani. Era la bella greca ch’erasi gittata alle sue ginocchia e spandeva a riprese le sue carezze or sulla padrona or sulla sua amica, ripetendo nelle due lingue: — _Libertas!_ Ἐλευθερία! _Libertas!_ Ἐλευθερία! — Quindi, levandosi e volgendo la testa indietro, incrociava le mani sul petto ansimante e diceva: — O Dei della mia patria! Quante felicità in un sol giorno! — Gli astanti furono più o meno scossi di quella scena a seconda dei loro caratteri. Charmis però più di tutti, malgrado le abitudini austere della sua educazione, che gl’imponevano le reticenze del cuore. Laonde, appressatosi alla signora del luogo, aggiunse alle parole degli altri — ch’erano meglio frasi che sentimenti: — Grazie per lei, per tutti, per me alla grande generosità del tuo nobile atto. — In fra tanto che tali emozioni accadevano nello interno, eranvene e di più vive anche al di fuori. Olympio, in preda a quei pensieri che indìano un’anima — ed in particolar modo quella di un artista — era appoggiato colle spalle ad un muro rimpetto ed avea fra le dita una rosa, la immagine apparente della persona amata. Si tolse dal capo una corona contesta di erbe odorose e di fiori di granato, l’appese con un chiodo presso la porta della casa di Pacuvio e tratto uno stile, graffì queste parole sullo intonaco: — Corista. — _Vale, mea sava. — Fac me ames._ — Indi si allontanò. — E sentì nel suo petto quelle cose viventi, sublimi e sacre ai cuori che le racchiudono — e troppo spesso vacue, ridicole e misere alle menti profane, verso le quali sono trasportate dal giuoco indiscreto del fato. Aveva scambiato pochi passi, quando sentì dietro di sè un confuso rumore di voci. — Si volse e vide una luce rossastra sul tetto della casa pur dianzi lasciata. E l’_ostiarius_ suonare una campana ed urlare: — Il fuoco! Il fuoco! Chi passa ne avverta la coorte! Sia prevenuto il prefetto dei vigili! È la casa di Bleso che brucia! — Olympio corse anch’egli gridando a tutta gola come un forsennato. — Quanti incontrava erano presi dalla stessa smania. — Ed ecco accorrere dal posto vicino alle Terme una frotta di affrancati, condotti dai loro tribuni. — Avevano nelle mani i _pubblici siphi_; le scale; le secchie; le spugne e gli stracci legati sulla estremità di lunghe aste; le accette e i graffi di ferro annodati sulle punte di grosse corde. Cotesta gente penetrò nella casa alla rinfusa con Olympio. — Lo incendio, sorto nella cucina, lambiva colle sue lingue di fiamma la soffitta dell’_œcus_. — Le donne e i fanciulli piangevano. — Gli schiavi domestici — invece di occuparsi di quel sinistro — usavano le scuri per abbattere gli usci che racchiudevano le provviste. — Olmasio — il _tricliniarcha_ fedele già affrancato dal suo padrone per la sua virtù — armato di un nerbo di bue, faceva piovere una grandine di colpi sulle braccia e sulle teste di quei ribaldi e di altri ancora venuti di fuori per profittare di quel disordine ed esercitare impunemente le loro rapine. Le grida di dolore, le cose cadute, lo agitarsi confuso di chi fuggiva impicciavano potentemente i soccorsi e gl’intelligenti lavori comandati dai tribuni. — Ma il prefetto dei vigili, Martorio Primo, architetto della città, e lo edile Q. Postumio Proco, accorsi cogli operai, coi _saccarii_ — i facchini da grano — e coi propri liberti, spensero ben presto il focolare dello incendio, senza aver bisogno di abbattere il terrazzo pensile ed una casuccia vicina — come altri già proponeva — a fine d’impedire che il flagello si distendesse più oltre nella città. Olympio, penetrando cogli altri nella casa minacciata, corse per le stanze come un limiero per togliere dal pericolo la fanciulla che amava. E la trova tra le braccia di Cillica — la figliuola del tricliniarca — ambedue impaurite e bianche, quasi statue di marmo. — Il riflesso della fiamma parea coronasse di un’aureola raggiante le loro capigliature. — Vieni! Salvati, Corista. — E la prese per mano. — E la condusse verso la strada. — E sì dolce era la scambievole loro emozione, che camminarono, egli senza dir altro, essa senza rendersi conto di quel che faceva. — Colà giunti: — Vedi, o amore, quello che avea graffito per te. — Al lume delle vampe essa lesse, si strinse al petto dell’amico del cuor suo e mormorò nella vertigine dei sentimenti diversi: — Io sono liberta... La buona padrona,... ed una giovane, bella come Venere pudica,.... cancellarono con atto generoso i destini della mia vita. — Oh! I Giunoni sieno ad esse propizi. E i Geni allontanino ogni disastro dalla casa di Bleso. — Correndo in cerca di te, vidi il danno non grave. Il fuoco sarà presto spento. Non così quello che mi brucia il sangue di un amore impetuoso, esclusivo, che ha preso possesso di tutto me stesso. — Anch’ella ardeva di quella fiamma. Ma non lasciò fuggire una sola gocciola della lava che bolliva nel suo cervello. — Era stata molto infelice. — La emozione nel sentirsi restituita d’un tratto la vita dell’anima e la vita del cuore, che la crudeltà dei parenti le aveva niegato, la soffocava. Grosse lacrime le sgorgavano dagli occhi e le bagnavano il viso. — E l’altro: — Celeste creatura! — Musa dell’arte mia! — Nati di uno stesso sangue, l’altrui pietà fece eguali le nostre condizioni. — Come te io sentiva il vuoto nei luoghi profondi. Come te or li sento colmati da un sentimento che nega il patto allo spazio. — Consenti tu a chiamarmi... fratello? — La giovanetta lo guardò fiso, gli fe’ cerchio colle sue braccia e, soffusa di subito rossore, balbettò con voce lenta e indistinta: — Sposo mio!... — Lo amante, coll’anima innondata di gioia, prese colle due mani il capo, ch’essa aveva nascosto sul petto di lui, e lo cuoprì di un bacio di fuoco. Le vere nozze — quelle dell’anima, cui Dio assiste — erano compiute. Il rituale della legge al domani. Olympio e Corista si separarono. La signora della casa e le persone ch’erano venute la sera per visitarla, accompagnarono questa presso una famiglia amica. Lungo la via, lamentando lo accaduto ed offrendo consolazioni, ognuno stringeva sotto la tunica un arnese di argento o di avorio, atto ad allontanare il fascino ed a distruggerlo. Intanto Pacuvio, oltre i pensieri che lo tenevano inquieto, e gli ordini che dava ai suoi servi per lo sgombero delle suppellettili dalle camere minacciate, aveva il sopracapo di vedersi attorniato dai proprietari delle case vicine, i quali erano corsi a computarne il prezzo con lui nel caso che le fossero incendiate. E due vecchi liberti, arricchiti dalle usure — Cancer e Toctucio — ne addoppiavano lo esagerato valore, per poi trarne il loro pro, comperando di proprio, o dividendo coi padroni il grande lucro che avevan saputo ritrarne, mercè loro, dall’altrui sventura. — Cotesta iniqua speculazione era stata inventata di corto da Crasso, il censore, lo amico di Bruto e di Cicerone, che pur dicevasi amico alla libertà e alle antiche instituzioni della gloriosa Repubblica Romana. Erasi fatta l’ora del _conticinium_. Laonde, ai tanti rumori confusi e a quel grido disordinato che aveva empito l’aere sino a quel punto, avrebbe dovuto succedere un po’ di silenzio. Ma in una città meridionale lo strepito notturno affievolisce; si tace in qualche strada; pure onninamente non cessa. — In una storta viuzza, le cui case avevano sull’uscio lanterne di terra cotta di forme bizzarre, erano donne assise, o sghignazzanti in piedi e bisticciandosi a proposito di nulla, poco vestite da un leggero velo di Coa, e qualcuna anche sdegnosa di quello incomodo velo. — Erano le sentinelle avanzate della Venere Pompeiana. — Continuando più in giù, traversata la strada della fontana, il cui bacino è arrotondato, presso una _cauponula_ — locanda di poca importanza — era un soldato allor allor arrivato dall’Urbe, il quale cercava di metter pace fra tre male femmine che coi capelli discinti, e gli occhi sbarrati, e le voci alte e roche se lo disputavano a vicenda con graffi e villane ingiurie. — Vibio Restituto, che aveva fatto lungo cammino e intendeva riposarsi e — dalla iscrizione lasciata sulla parete della camera dove dormì, — pareva preso di fedeltà per la urbana sua, perduta la pazienza, disse a Clodio — commilite e compagno di viaggio che erasi tratto in disparte — una breve parola. Lo effetto fu prodigioso. Una secchia d’acqua versata su quelle furie le rese chete d’un tratto e lontane. Nelle vie vicine erano ubbriachi che misuravano il selciato coi loro piedi vacillanti, e si appoggiavano sur un bastone resinoso già spento, o colle mani aperte, sui muri. — Uno diceva: — _Ego monere te possum, Miccio. Corrigere non possum._ — Quante volte dissi allo stomaco: — Per Ercole! Finirai per bruciarmelo il povero cervello!... E come ho a reggere io che sono _tractator_ nelle Terme al calore del _sudatorium_, massando e frizionando i bagnanti? Ahimè di me! — — Ohe! Miccio. — E di che gracidi? Veramente non è cotesta la tua strada... _Nemo flammis ustus amare potest._ — Un altro, urtando in una di quelle pietre ovali — ponti di passaggio nei grandi rovesci di pioggia — diè una capata solenne sul sasso. — Alcuni mossero ad aiutarlo; chè il vino fa caritatevole e pietoso il cuore. — Ma più si provavano a rialzar quel tapino, grondante sangue dalla fronte rotta e dal naso pesto, e più il ricacciavano per le terre, cadendovi tutti insieme. — Ah! _Venus scratia!_ Credeva di aver afferrato il tuo crine biondo... Ed urtai nel martello della porta del tempio. — Indietro, o beoni... Lasciatemi tranquillo con lei. — Non lungi di quella strada cessava il frastuono delle voci lamentevoli ed irose. Due, sommessi parlavano. — Una vecchia ed un giovane. — Di’, sei tu quello che ha graffito sul muro il monito della Iddia pompeiana? — Fui. — _Odisti tu nigras puellas?_ — Mai no. Io le amerò sempre. — Tiche ebbe pietà dei tuoi ardori. — Va sotto il _solarium_. — Chiama a nome la mia padrona ed essa ti scenderà con un filo la chiave dell’uscio. — Gli Dei ti sieno propizi! — Il giovane accorse desioso. — Guardò in alto sul terrazzo sporgente. Un lume pallido e poi più acceso illuminò i vetri. — Egli mormorò il nome della donna bruna e salace che da parecchi giorni seguiva per tutto. — La finestra si aprì. — La chiave discese. Aiutandosi col dito, trovò la toppa. — Diè due giri e una spinta... Un molosso senza abbaiare lo addenta e, agitando la testa, gli straccia la tunica, l’afferra e la straccia ancora e lo tiene. Un vecchio aizza il cane colla voce e con un bastone trebbia il mal capitato. Il quale grida, e prega e fa sforzi violenti per fuggire. Ma il cane lo azzanna per un piede. — Il marito geloso picchia come sopra un sacco di lana. — E Tiche di sopra sorride. Perciocchè, egli avesse graffito sul muro le seguenti parole: _Candida me docuit nigras odisse puellas._ _Oderis, sed iteras. Ego non invitus amabo._ _Scripsit Venus physica pompeiana._ Quando quei crudeli lo abbandonarono, lo scalzo di un piede e zoppicante, corse verso la crocevia dalla fontana colla testa di Giunone. Più in giù, alcuni ch’erano fermi dinanzi una casa dell’angolo, udendolo lamentarsi, gliene chiesero la cagione. — Il misero giovane — che aveva nome Virgula ed era padrone del _mycopolium_, nella via di Mercurio, ove vendeva gli aromi in uso pei sacrifici e pei funerali — stava per rispondere forse una menzogna, quando vide escire dal prossimo usciolino alcune donne curiose dei fatti suoi, imbellettate, vestite di toga maschile ed aventi sul capo tosato una _picta mitra_. — Ebbe orrore del luogo e della compagnia che il duro fato gli avea procacciato. Quantunque fosse pesto e ferito in più parti della persona, rifiutò le offerte d’idromele e di vino caldo da Svezzio, — quegli che aveva restituito lo albergo dello Elefante. — E partì, appoggiandosi al braccio di Phœbo, unguentario di sua conoscenza e cliente assiduo di quei luoghi, il quale lo avrebbe accompagnato a casa, non lungi dalla propria. L’ora del _concubitum_ — che i nostri padri chiamavano anche _intempestum_, per indicare che il sonno fa intempestiva ogni occupazione — era l’ora di veglia involontaria per alcuni uomini destinati a fabbricare il pane ed a cuocerlo per la comodità dei cittadini. Cotesti infelici obbligati al lavoro durante la notte, non avevano intero il giorno feriale mai. Abbrutiti dallo eccesso del loro còmpito, e dalla miseria; — coperti di cenci e lividi di frustate; — colle pupille sanguigne dalla veglia e dal fumo del forno; — piccoli, magri e rasi nel capo perchè i capelli non cadessero nelle impastate farine; — pallidi e fatti anche più pallidi dalla farina di cui erano coperti, parevano meglio spettri che uomini vivi. — E siccome per lo più erano schiavi fuggitivi — e ne avevano il marchio di fuoco sulla fronte — il padrone gli facea lavorare coi piedi chiusi da anelli di ferro riuniti da breve catena. Nelle _pistrinæ_ — così chiamate perchè sino all’anno 580 di Roma ogni famiglia pestava il grano nei mortai in casa, e le donne fabbricavano il pane — v’erano le _molæ jumentariæ_ e le _molæ manuariæ_ — cioè — molini girati dalle bestie o dagli uomini. Nell’isola di Sardegna sono in uso anche oggidì come ai tempi di cui queste carte. — Nel centro di un atrio tetrastile, a giusta distanza, erano grosse pietre cilindriche, simili a coni tronchi, riunite nella parte più stretta. — Le pietre, porose e di colore grigio-nerastro, riposavano su una breve base circolare. — La parte del cono fissa addimandavasi _meta molendaria_ ed era congiunta alla base. La parte mobile del cono superiore, detta _catillus_, aveva un’armatura di legno fissa presso lo addentellato libero nella pietra; ed era congegnata in modo, da sostenere il catillo e da farlo girare, dando al grano il passaggio graduato per macinarlo, e far cadere la farina nel bacino circolare. La quale era divisa nelle sue qualità da stacci di crine di cavallo di varia finezza. — In una camera erano tavole orlate di pietra, ove si amalgamava la pasta col lievito salato, che aveva il peso di ettogrammi 2.17 per ogni _modius_ di farina. A diritta delle macine trovavasi il forno. Sotto, il cinerario. — A lato, un’anfora spezzata, contenente il buono da impolverare la pala, perchè infornando, il pane non vi si attaccasse. — Sopra l’arco della bocca, fatto di mattoni, solevasene porre uno come chiave, rappresentante un _phallus_; e spesso vi ponevano la iscrizione, _Hic habitat felicitas_. — Presso una parete laterale dell’atrio aprivasi un pozzo. — E siccome l’uomo fu, è, e sarà sempre un ente pieno di stupidezze, di pregiudizi e di strane paure, consigliato dagli interessati sacerdoti, il panettiere riconobbe nella deessa _Fornax_ la patrona del suo mestiere. E le fece un altarino sul muro e le offerì pane di fior fiore, acquatico, partico e picentino col mezzo dei suoi ministri impostori e scrocconi, i quali lo mangiavamo per lei. Quei miseri operai, cospersi di sudore, noiati dalle mosche, resi quasi ciechi dal fumo, estenuati dalla fatica, emunti dai sacerdoti, erano di notte assediati dal rifiuto dei trivi che lor vendeva lo amore per un pugno di grano. — Gli è perciò che quelle donne erano distinte col nome dispregevole di _alicariæ_. — Eppure! Quanti miseri schiavi saranno stati debitori a quelle derelitte creature di un obblìo ben fuggevole! Il quale, spegnendo per poco il tarlo della disperazione, dava loro la forza di traversare gli spazi immensi sulle ali che il solo amore — o ciò che a lui più somiglia — sa aggiungere! Molte strade eransi fatte deserte. Non tutte. — Tratto tratto udivasi sul selciato il rumore dei sandali col tallone ferrato di qualcuno che passava. — Erano i _popes_, i sacrificatori vittimari, — altra emanazione del sacerdozio — i quali andavano di celato a vendere ai tavernai la parte dei buoi e dei montoni, offerti dai credenti agli altari dei Numi, ch’erano di troppo pel triclinio del tempio. — Onde quei luoghi si chiamavano _popinæ_ ed erano le botteghe di ristoro dei villici e degli artigiani ordinari durante il giorno; e dei gladiatori, dei soldati e degli schiavi lungo la notte. — Oltre le carni cotte vi si vendevano lupini ravvivati nell’acqua salata; fave con cipolle e lardo; ceci fritti; cavoli crudi a fette, conditi coll’aceto; polenta; salcicce con aglio. — Tutte cose masticabili con pane di farina d’orzo e di frumento detto _panis plebeius_. Un pranzo od una cena costava due assi — dodici centesimi della nostra moneta. — Gli alimenti cuocevan sempre ed in pubblico. — I banchi che sostenevano i fornelli — sui quali erano incastrate tre pignatte di terra — vedonsi anche oggi rivestiti di marmi di varia specie e colore. Sulla loro estremità è un piccolo gradino che serviva ad esporre i commestibili e a tenervi i vasi e le coppe. Una tavola di pietra, sulla quale si spezzavano o si dividevano le porzioni, aveva i pesi ed una bilancia. Il padrone del luogo era spesso un _lanista_ invecchiato o imbozzito, e perciò non più adatto ai giuochi gladiatorii. Laonde selvaggio, brutale, vestito di un _subligaculum_ — mutande di tela — o di una tunica lacera e sporca. Una donna — detta _focaria_ — facea la cucina. Ed un’altra serviva gli ospiti, sovente ladri, assassini, beccamorti e schiavi fuggiti dai loro padroni. Quella che forma l’angolo sulla via e sul vicolo di Mercurio era la più frequentata, perchè essendo presso il Foro e la dimora dei ricchi, chiamava a sè facilmente i servi che li trasportavano in lettiga e li accompagnavano con lanterne alle loro orgie e li andavano a riprendere all’alba ubriachi. Nel fondo della taverna sono due porte che danno accesso alle stanze di ristoro. Grossolane pitture bruttano le pareti. Alcune presentano oscenità. Un quadro accenna a due uomini che traggono il vino da un grande otre di pelle che è sopra un carro a quattro ruote, da cui sono stati sciolti i due muli. Uno mesce a un soldato; e sotto è graffita la iscrizione seguente: _Da fridam pusillum_ — cioè — dammi un po’ d’acqua fredda. — Altri giuocano ai dadi e cioncano. — Altri ancora mangiano presso un desco con due sciupate, il capo coperto dal _cucullus_, cappuccio soprapposto alla loro mitra. Festoni di salcicce e di frutti sono sospesi al soffitto di quel dipinto triclinio. Tali le decorazioni del luogo. Tale la immonda brigata. — Un beccaio provavasi a rilevare un sacerdote di Cibele caduto sopra i suoi cembali produttivi. — Per poco in piedi. Poi per le terre ambedue. — Un gladiatore mostra le nervose sue membra e brinda a Bacco che il rese forte e invincibile nei ludi; e promette, nei prossimi, di ferire Tigris, il numida, e mozzargli il capo, quantunque sia un buon compagno e l’arteria del suo cuore. — La serva del luogo depone un _crater_ sulla tavola e col _cyathus_ misura il vino che mesce nei _majores calices_. — Il feroce l’afferra per la vita, e con un ruggito gioviale la bacia sulla gota. La vipera si volge e gli dà un potente ceffone che fece ridere gli avvinazzati. — Brava, Saïs. — Giù, un altro! — Tu puoi sbarbarmi, strapparmi i capelli e mi piacerà per lo amore dei tuoi begli occhi. — Tò; un altro bacio! — E a te un’altra labbrata, Scilex. — Ah! così?... Ebbene! All’ammenda! Ti coricherai bruco e ti leverai crisalide. — Miracolo di Marte! — E il membruto la tolse di peso, quantunque la si dimenasse, e la portò in un’altra stanza. — Nessuno badò alle sue grida. — Sopraggiungono due donne. — Una suona una specie di flauto a due canne, detto _sarranae_. — L’altra accompagna colle naccare i passi di una danza lasciva. La truppa servile si leva, e salta e canta una turpe canzone. Il prete di Cibele — pestato in un piede — si alza sonnacchioso, raccatta i cembali, si contorce e sgambetta cogli altri. Al rumore, tre che passavano per la via, entrano. Sono Tigris, Cappadox e Syro, accoltellanti. — Escono dalla stanza Saïs e Scilex. — La femmina offesa giammai perdona. — Ond’essa, a vendetta, rivela allo amante numida le millanterie del compagno. Un subito rossore infiamma la fronte dello insultato. Era un gigante, bruno di carnagione e dagli occhi di iena. Si morse il labbro inferiore, e col pugno teso: — Cane rognoso! Mi rubi lo amore e vuoi anche la vita? O Romano, prendi or cotesto dal figliuol del deserto! — Il pugno distesogli sul petto fece traballare il gladiatore avvinato. Dalla parete che lo avea sostenuto, si cacciò innanzi a capo ricurvo. — Ma tutti gli furono addosso e il ritennero. — Ha insultato un libero cittadino. — Lasciatemi. — Gli anni pesano al barbaro. — Lo manderò a Caronte, senza l’asse pel suo tragitto. — Qui, di piè fermo. — E non vedete che la riflessione il consiglia a morir di vecchiaia? — Tulnes — il padrone della tavernaccia — scorgendo che la cosa prendeva il mal verso, avvertì che i galli già salutavano i primi albori. — Riscosse il prezzo del ristoro da ognuno, salvo dal sacerdote che russava, poi che il fecero smettere dal ballo, sotto la tavola. E mise tutti fuor dell’uscio. — Chi per una via. Chi per un’altra. — I _lecticarii_ s’incamminarono a coppie verso le dimore, dove la sera avevano trasportato i padroni. Le ore notturne di questi somigliavano a capello a quelle dei loro schiavi. Avevano crapulato — e oscenamente cantato — e portato sulle spalle le loro amanti — e cioncato con esse — e caduti erano privi di forza, in poco decenti posture, sui cuscini dei triclini. — Era un’onta della natura umana il vedere come una grande prosperità avesse degradato quel gentil seme latino e trascinatolo allo studio raffinato delle male e vergognose opere! Nell’_aphrodisium_ di C. Sallustio non udivasi che il monotono russare dei nove briachi di vino e di vizi. — Lo schiavo incaricato di vegliarli, tirò le cortine del triclinio e vi fe’ penetrare i chiarori dell’alba. — Alcune lampade sui loro alti candelabri erano spente o fumigavano. — Altre ancor mandavano una fioca luce. Il pavimento di marmo e di mosaico era sparso di veli cincignati, di corone di rose, di rottami di cristallo e di anfore e di larghe macchie di cecubo. La _comissatio_ era stata copiosa. Herma spinse col labbro inferiore il soprano in atto di chi dispregia. — Crollò il capo e poi disse: — Oh!.... Ecco i padroni del mondo.... Povera patria mia!.... _Dî vos eradicent!_ — VENVS PHYSICA. SCENE DEL CUORE. =Anni di Roma 826 — Anni del Cristo 73.= A ME. IX. Sulla via Domizia, in faccia alla dimora del _chirurgus_ Hemos, reputato per le sue operazioni conservatrici, sedeva una casa fabbricata sulle antiche mura della città, le quali per decreto dei decurioni erano state concedute ai mercatanti greci e di altre nazioni per rizzarvi fondachi a terrazzo in faccia al grande canale del Sarno, e su di essi le dimore per le loro famiglie. — Il popolo del vecchio Latium, ed in progresso i popoli che, confederati o domati, combatterono e conquistarono per lui, consumavano, non producevano. Il bronzo, l’argento e l’oro carpiti ai vinti, mercè il formidabile pilo, servivano al ricambio dell’avorio, dell’ambra, delle tazze di vetro, della porpora, delle pietre incise, delle perle, delle vesti di lana finissima e di seta, delle belle schiave, dei vaghi e procaccevoli cinedi, dei piaceri offerti dai cuochi, dai mimi, dai gladiatori, dai citaristi e dei conforti prestati dagli astrologi, dai sacerdoti e da altri consimili ciurmatori. Il Quirite si fece aggressore per non essere conquistato. Educato ed educante alla forza del corpo ed alla vigoria dell’animo, dichiarò sino dai primi tempi il lavoro essere faccenda da prigionieri e da schiavi; e sola, unica professione degna dell’uomo libero macinare il grano e maciullare gli uomini. Fido alla origine, elevò templi a Giove ladro — _Jovi prædatori_. — In Etruria fecero spade e lance cogli assi di bronzo, fecero calce colle statue di marmo. In Capua, in Cuma, in Poseidonia arsero gli artistici monumenti. In Tarentum, in Syracosion, in Corinthum quei ruvidi soldati giuocavano ai dadi sui dipinti dei grandi maestri. E quando i signori dell’Urbe cominciarono a riflettere che le statue e le opere di pennello della Magna-Grecia valevano ben qualche cosa, Lucio Mummio, uno dei loro tribuni di militi, disse al nauta incaricato di trasportare per mare quei capi d’opera a Roma. — Bada. Se tu gli affondi, e tu gli rimpiazzi. — I Romani di quei tempi avevano per calendario un chiodo che martellavano ogni anno con pompa religiosa sul muro del tempio di Giove nei primordi del settembre. Il giorno avea tre periodi. Una libra di bronzo fusa in una forma grossolana bastava ai bisogni della loro civiltà. La industria era affidata agli schiavi, e persino i poeti escivano da quella classe disprezzata e reietta. — Tetragoni sui campi di battaglia, sentivano un orrore istintivo pel mare e l’arsione delle navi era la prima condizione di pace coi vinti. Anche Ottaviano-Augusto, quantunque avesse vinto in Actium, confessava di avere uno spavento invincibile dell’acqua. Un editto contemporaneo alle prime lotte colla rivale Cartagine diceva quel popolo di mercatanti pria vinti e poi schiavi. I Romani non si sarebbero mai abbassati al mestiere dei vili e dei menzogneri. Or il commercio così disonorato dai vincitori e le inutilità dei forti cuori divenute primo bisogno della vita civile, trassero la navi cariche dalle sponde lontane, e su di esse i trafficanti e gli artisti. I quali, ricomprata coi risparmi e colle usure la propria libertà, e arricchitisi ben presto, dall’Urbe si sparsero, dovunque le opportunità ed i facili guadagni gli richiamassero. Ne vennero anche presso la nostra gente in Pompei, dove i Sanniti e i Romani, per uno spirito di ripugnanza alle idee d’ordine e di pacifiche imprese, fattisi i pensionari del mondo, mai supponevano che l’oro sì facile a spendersi finirebbe per non più riprodursi. La casa sulla via Domizia era spaziosa e dall’alto si godeva lo aspetto di un magnifico orizzonte — il largo canale colle circolanti triremi — e sulla pianura, lungo la bella costiera, Oplonti, Retina, Herculanum, Tegianum, Taurania, Cosa — e sul mare Capreas, la _sellaria_ gigantesca destinata da Tiberio alle proprie turpitudini; Prochyta, detta da Giovenale la porta di Baiæ; Pitecusa, cui soprasta l’Epomeo, monte di forma bizzarra, tremulo ed ignivomo un tempo, in voce di schiacciare col suo peso il titano Tifeo. L’atrio, coperto da una larga tettoia rettangola, circondava il _compluvium_, a lato del quale era un _puteal_, scannellato, di pietra calcarea. Le pareti allo intorno si abbellivano di pitture — una cicogna passeggiante tra le ninfee di uno stagno — una nave di cui i nauti ammainavano le vele — un prato con lepri saltellanti — un poeta che legge versi ad una fanciulla, con un _locumentum_ ai piedi, ove erano chiusi i papiri. — Cotesti dipinti erano separati da quadrucci di maniera, grotteschi, di caricatura, detti _grylli_, eseguiti da Peireico, messi in uso quasi generale da lui, e gli erano pagati più cari che non le opere dei migliori artisti. Il pavimento era in _opus signinum_, incrostato di piccoli cubi neri che tratto tratto, senza simetria rinserravano pezzi di marmo di tutte forme e colori. Sur un angolo a sinistra posava inchiodata da un pernio una cassa di legno, foderata di rame, cerchiata di ferro, guarnita di due serrature e di numerosi ornamenti di bronzo. Nel fondo aprivasi un _tablinum_ dal bianco musaico, dalle ricche pitture e dai due lettucci laterali di cedro di Mauritania, coperti da cuscini di piume. Gl’Italo-greci pingevano sulle pareti coi colori cementati coll’olio e colla cera punica per difendere le tinte delicate dall’azione dell’aria e della umidità. Lo encausto si usava di tre modi — al cestro sull’avorio — colla cera colorita — colla cera liquefatta al fuoco. — Quest’ultima maniera faceva il dipinto più durevole. I freschi meglio pregiati si pingevano sur un intonaco chiuso entro una cornice di legno che fissavasi sulla parete e poteva ritogliervisi quando si voleva. I Pompeiani a cagione dei frequenti tremuoti solevano prendere siffatta precauzione. Collocavano altrove le predilette loro dipinture e al cessare del disastro le ricollocavano al posto. Quivi erano — Meleagro, figliuolo del re dei Caledonii, che si accinge a dar la caccia al cinghiale; ed Atalanta, vergine bella e fortissima, della cui gagliardia l’altro s’innamorò, — e le nozze di Zefiro che scende voluttuoso e si appressa alla vaghissima ed addormentata Clori, il simbolo di tutta la vegetazione. — Dalla parte dell’atrio una spessa stoffa di Tyro divisa in due _cortinæ_ ne chiudeva lo aspetto. Sul lato opposto le innalzate tende davano accesso ad uno xysto quadrato con ambulatorio allo intorno, posante sur un cripto-portico, rischiarato al di sotto da quattro spiragli a cono che sollevavansi sull’arca tra i pelargoni e le rose di Præneste. I giardini di tal fatta erano chiamati _horti pensiles_. Cotesta casa, rispondente nelle sue varie partizioni a tutti i comodi di un’agiata famiglia, apparteneva a Demophilo, di Rhodum, che da dodici anni aveva fissato la sua stanza in Pompei. Numerosi erano i suoi schiavi e spesso approdavano nel porto le sue navi cariche di merci. Traeva dall’Africa le lane e i profumi; dalla Spagna, la cera, il mele, i metalli; dalla Gallia, gli olii ed i vini; dalla Grecia, gli oggetti di arte e di gusto; dalle rive del Ponto i cuoi e le pelli; dalla Sardegna e dalla Sicilia, i grani. E tutte queste cose spediva nelle città interne per suffragare alle abitudini dei ricchi, alle ricerche degli effeminati, alle distribuzioni pubbliche dei magistrati e del governo centrale del mondo, obbligato a soccorrere le miriadi dei venturieri, dei vagabondi e delle popolazioni infingarde, abbrutite dal dispotismo, affamate di viveri ed assetate di profumi e di spettacoli. E quantunque Sallustio avesse detto che i Romani _pecuniam omnibus modis vexant_, cioè, che tormentavano l’oro di ogni maniera; e Cicerone nel suo libro dei Doveri; _Ne quidquam ingenuum potest habere officina? Mercatura, si tenuis est, sordida putanda est; sin autem magna et copiosa, multa undique apportans, non est admodum vituperanda. Nihil enim proficiunt mercatores, nisi admodum mentiantur._ — cioè: — Che può uscir di onesto da una bottega? Il commercio è sordida cosa se tenue; è un mestiere tutto al più tollerabile se coltivato in grande, e per approvigionare il paese. I mercatori non profittano senza molto mentire. — Pure il nostro rodiano verecondo, caritatevole ed onesto, coi suoi modi franchi e leali aveva inspirato la devozione nei clienti e negl’infimi, la stima negli eguali, ed ogni maniera di onoranza nelle genti d’imperio e nei ricchi del paese. E tutto questo Demophilo sapea meritare. Nato in un’isola, il suo istinto viaggiatore e avventuroso lo aveva sospinto a slanciarsi nello spazio schiuso dinanzi i suoi sguardi. Apparteneva a quella razza ardita che scoprì e popolò i nuovi continenti; che disputò alle altre nazioni i marosi del mare, come i Romani disputavano le montagne, le pianure e le valli ai popoli che le coltivavano e non sapeano difenderle. Da giovanetto avea navigato. E la contemplazione del vasto orizzonte, e l’abitudine della immensità, e il perpetuo movimento delle onde lo avevano fatto religioso, libero, intrepido, ospitaliero, silenzioso come la solitudine, poetico come le notti, affabile come le stelle che guidano i naviganti al porto desiderato. Alto della persona, di lineamenti regolari e piacenti, un poco curvo dai pensieri e dai pericoli che aveva bravato, il suo portamento, il breve sorriso, lo sguardo dicevano la tenerezza del cuore, la fantasia inquieta della mente e le rassegnazioni della nobile anima sua. Trattava colla vita come in molti casi aveva già trattato colla morte, con una inalterabile dolcezza. Le gravi cure delle dovizie, i semplici doveri della famiglia, lo esercizio delle severe virtù, il contatto colla miseria che il circondava, la pratica gli avevano mangiato a lento morso un po’ di poesia, un po’ di corriva bontà, un po’ di grazia. Ma quello ch’era rimasto non erasi fatto lo egoismo che spesso va a nozze colla superbia. Era meglio un sentimento melanconico, che talvolta la gaiezza di un fanciullo derugava e la fede sanava. Passeggiando sotto il portico dello impluvio, chiuso nei suoi pensieri, un uomo entra, stende la destra sulle labbra, _a facie_ — ciò che die’ origine al verbo _adorare_ — e dice: — _Ave._ — Demophilo pone la mano sul cuore e poi offerendola al sopravenuto, risponde: — Anche tu abbi il giorno lieto, C. Helvio Babinio. Quale novella a me ti mena? Hai mercati a propormi? — No, amico. — Una cessione piuttosto. — Melissæa, quando tu qui prendesti fissa dimora, aveva sette anni. Alle none di aprile ne contò diecinove. I nostri Digesti indicano la età acconcia al matrimonio allo uscire dalla infanzia — XIV anni pei giovani — XII anni per le donzelle. — So che tu l’ami come la pupilla degli occhi tuoi. So che a lei duole staccarsi dalle tue braccia, escire dalla casa paterna. Finora, cotesta la cagione dei rifiuti. — Avranno a durar sempre? — Demophilo sentì la idea sicura e rapida prendergli il cuore. Pur dominandosi, forzò lo increscioso spettro a rientrare nell’ombra, ed aggiunse con ansia affannosa: — Non io. La mia figliuola deciderà.... Quale il nome di colui che aspira a coteste nozze? — — Cneo Vibio, lo edile... — Oh! non temere. I tuoi abiatici non gli vedrai _ambigena animalia_. Nè saran detti _musimones, umbri, canes ex venatico et gregario_, quasi fossero bastardi, o figliuoli di un cavallo e di un’asina, o nati di un cane da caccia e di una cagna di pecoraio. — No. — Quel magistrato ne ha scritto allo Imperatore, e gli è giunto il permesso speciale _ne turpis maritus vixisset cum coniuge barbara_. E a te procacciava il decreto che ti accorda il diritto di cittadino romano. — Un dono con una mano! Un rapimento coll’altra! Sia! — Melissæa, o Babinio, è una di quelle creature che di umano hanno solo lo inviluppo, ancor tutto pieno di celesti profumi, tutto raggiante di lume divino. È il mio consiglio, il mio tesoro... la vita.... — E qui premette colla mano il petto quasi frenasse i moti dentro. E seguiva: — Le grazie coronarono la sua ragione. Ama le arti, i lavori donneschi ed i giuochi del pensiero. Se Vibio è accettato — ed io ciò terrei a grande onore — di gran cuore _despondebo filiam meam_. La interrogherò per sapere se il suo cuor parli a favore di lui. — Oh! Non dubitarne. Io credo che le mela e i fiori di granato — messaggeri della bella e gioconda iddia — abbiano dato giuliva risposta a qualche vaso di Nola. — O Babinio indovinava, o il sapeva. Vibio aveva notato la gentile persona nella necropoli, nei teatri, nei templi. A poco a poco erasene perdutamente invaghito. E tanto più che la nudrice di lei un giorno gli disse i rari pregi che più e più l’abbellivano. E saputo da essa come la fosse nata alle none del quarto mese — ch’ebbe nome da _aperire_, avvegnachè allora la terra apra il seme alla generazione — le aveva mandato un vaso fittile dipinto degno dell’artefice e del donatore. — Un genio alato, avente sul capo una corona di fiori, versa una libazione sulla fiamma che brucia sur un piccolo altare. Sotto era un’ape, e accanto si leggeva graffito καλή. La destinazione era chiaramente espressa dalla libazione che indicava il dì natalizio e dagli aggettivi di _bella_ e di _soave_ dati alla pecchia che in greco diceasi _melissa_. Essa aveva risposto con mandare una corona di modeste viole avvizzite e portata da lei nella vigilia — mele morsicate, perchè in ogni tempo e presso tutti i popoli il pomo fu accetto messaggero di amore — e _rosæ vexatæ_, ch’erano il vero incanto dello amor ricambiato. Marziale in un distico diretto al calore del cuor suo, si esprime così: _Intactas quare mittis mihi, Polla, coronas?_ _A te vexatas malo tenere rosas._ «Perchè mandarmi, o Polla, fresche corone? Preferisco le rose appassite sul corpo tuo.» — Se così, meglio — χαίρε — Vado a far scaricare una grossa nave caudicaria in cui ho vino, lardo, fave, schiavi ed acque distillate dell’Asia. Gli affari sono il lievito del mio peculio. — _Quidquid tu tangis crescit tanquam favus._ Nettuno ti affidò il suo tridente, e tu comandi ad Eolo di soffiare a tuo senno sulle vele delle tue triremi. — Credi a me. _Assem habeas, asse valeas._ Ne hai? Ne avrai. — Giammai però io vidi effigiata sul conio della moneta d’oro la faccia sorridente della gioia intima e di una vita senza rimorsi. — _Vale._ — E si separarono. Intanto che coteste cose si erano pensate e dette tra i due interlocutori, gli edili C. Vibio e Q. Poppæo, nominati dal popolo a procacciargli i voti, l’annona e le feste solenni, erano in un vasto locale presso il porto ad assistere alla distribuzione dei grani fatta da una corporazione di misuratori. I littori, poggiando le mani sui fasci, pendevano dal cenno dei magistrati. Una guardia di liberti custodiva le porte dello edificio, facevano entrare i soli che avessero una tavoluccia di ligustro, chiamata _tessera frumenti_, e picchiavano gl’intrusi che non vi avessero diritto. Nei tempi primordiali della potenza di Roma l’ense e lo aratro provvidero alla sussistenza del popolo. Quando il gladio rimase solo nelle mani dei forti, le provincie italiche, sottomesse al suo impero alimentarono le braccia di quei superbi che ormai sentivano il dovere unico della conquista del mondo. E la Sardegna fu chiamata _nutrium plebis romanæ_. E la Sicilia _cellam penariam reipublicæ_, e _fidissimum Annonæ subsidium_. Ma venne un’epoca in cui le frumentarie di Roma che esportarono i loro grani nei più lontani paesi, dovettero chiedere anch’esse un alimento vergognoso al loro fertilissimo suolo. Il Governo ne procacciò dalla Gallia, dal Chersoneso-Taurico, dall’isola di Cipro, dalla Beozia, dalle Baleari, dalla Spagna, dall’Egitto e dall’Africa. Il Mediterraneo divenne il vero lago romano, facile via dai paesi frugiferi lontani. Si creò il Prefetto dell’Annona, magistrato importante che veniva subito dopo i Consoli. Era suo còmpito mantener l’abbondanza nell’Urbe. Pompeo ne fu investito per cinque anni; ebbe quindici luogotenenti scelti tra i senatori; ed al còmpito immenso aggiunse un potere immenso che gli permetteva disporre a libito del pubblico tesoro, di muovere eserciti, di armare navigli, e di essere nelle provincie il sopra ciò dei governatori medesimi. I grani si prendevano per contribuzioni o per compra. Si tenevano in serbo nei paesi frumentari e a seconda del bisogno una flotta speciale, detta _sacra_, li trasportava pel Tevere inferiore alle falde del monte Aventino, ov’era un porto che addimandavasi _Navalia_. Una magistratura così potente non poteva piacere all’ombrosa monarchia repubblicana dei Cesari. E questi istituirono gli Edili nelle Colonie e i Pretori Cereali nell’Urbe. Nelle prime erano gli eletti del popolo. In Roma lo imperatore gli sceglieva tra i patrizi a lui più devoti. Allorchè Caio Sempronio Gracco salì al tribunato propose una legge, mercè la quale il grano sarebbe stato distribuito al popolo in ricambio di un _triens_ — circa quattro centesimi di lira — per ogni modio, mentre al Governo costava un denaro, cioè settantotto centesimi. Cotesta legge, basata sulla eguaglianza, era iniqua nell’applicazione, perchè demoralizzava le masse e ruinava il Tesoro. Ho letto su parecchie pietre funebri del tempo, PERCEPIT FRUMENTUM, volendo gli eredi del quivi sepolto attestare con orgoglio com’egli avesse fruito della più bella prerogativa del cittadino romano, l’essere stato nudrito a spese dello erario pubblico. Un altro tribuno, Marco Ottavio, l’abolì e vi sostituiva la nuova che ammetteva alle distribuzioni dell’Annona i soli necessitosi. Al cominciar della guerra sociale, Livio Druso ravvivò la legge Sempronia che fu in seguito modificata dalla legge Terenzia-Cassia. Clodio Pulcro limitò con una nuova legge le liberalità frumentarie ai soli plebei proletari, e tolse un’arma affilata dalle mani degli ambiziosi che in un popolo affamato avevano sempre una milizia pronta allo insorgere e ai delitti. Gli è perciò che dopo una grande carestia, Augusto ridusse a dugentomila il numero degli ammessi all’Annona e donò dodici _frumentationes_ — una distribuzione per mese — di proprio. Così in Pompei. — Sotto il portico del Foro i gratificati andavano a far constatare il loro diritto e ricevevano l’ordine di distribuzione in una _tesserula_, su cui era notato il giorno da presentarsi. Gli Edili facevano misurare a quel portatore cinque modii di grano. I quali pesavano in media centocinque libbre e per conseguenza ne producevano almeno ben centotrenta di pane. Il pane cotidiano era adunque del peso di quattro libbre e quattro once, ossia diecisette once per bocca, supponendo una famiglia composta di tre individui. Cui aggiunti i lupini, i ceci, i legumi che si avevano per poco; e le sportule e il _panariolum_ che i patroni facevano dare pieni di carni e di pesci di mediocre qualità, sul vestibolo delle loro case, alla folla affamata, questa sì che poteva vivere; ma l’abbiettezza cresceva e la corruzione ancor peggio. Cneo Vibio è avvertito che una donna al di fuori chiede parlargli. Esce e vede Eulamia, la nudrice nella casa di Demophilo, che lo avvisa come la sua padrona lo attenda nel tempio di Venere. La buona ed affettuosa vecchia era contenta; non capiva in sè dalla gioia. E nello andar via per raggiungere la sua figliuola di latte, parlava tra i denti frasi inarticolate, accompagnandole con sorrisi e gesti che significavano forse lo avvenire festoso cui essa credeva. Anche Vibio corse all’aperto. E risaliva dal porto alla città scuotendo dall’anima la melanconia sospettosa che invischia i pensieri di chi ama potentemente e teme. Lungo il tragitto, tutti lo salutavano. Egli però alcuno non vide. Nè anche il selciato pareagli più quello che con passi indifferenti tante volte aveva calcato. Tutto prendeva un’anima. Tutto si trasformava al suo sguardo. Perchè dietro quelle mura che cingevano il tempio e fra quelle colonne di stucco era la donna che sola a lui donna sembrava, eravi il cuore per cui notte e dì il suo pur palpitava. Nel varcare la soglia, ei la vide seduta sur un banco sotto il portico a sinistra. Nell’atto che vèr lei corse, essa levossi. E in tutta la sua gentile persona era una gaiezza serena, luminosa, infantile come la speranza, rischiarata dal suo sguardo azzurro e profondo. — Ebbene, ζωη και ψυκη, dolcissimo amore, qual nuova?... Che rispose tuo padre a Babinio?.... E tu, richiesta, che a lui?... Ei, cittadino romano,... tu mia eguale.... sai?... — La bellissima fanciulla distese la piccola mano affilata e bianca che risplendette come una perla sulla mano bruna di Vibio. Quindi: — Tutto so, o mio... Il padre lieto, e io lieta.... Ciò venni a dirti.... Oh! I nostri cuori sono le due ali che sollevano un’anima sola sino al trono di Venere Urania che a noi arride propizia. — Quella soave creatura era tale da avvinghiare immediatamente un cuore, e più e più quello che allor batteva dinanzi a lei i segni della vita e della felicità piena. Ella era in una età in cui le impressioni sono vertigini. Aveva biondi i capelli — non di quel colore rossastro od ardente che venne alla moda dopo il conquisto delle rive del Reno e che procurò ricco mercato a chi portò in Roma, in Capua, in Herculanum, in Pompei le capigliature dorate delle donne dei Catti, dei Sicambri e dei Germani. — Le sue chiome erano un’aureola che rivelava inquietanti delizie alle bocche che vi si sarebbero posate. I suoi occhi cilestri, da cui veniva un così dolce lume e tanta soavità di sguardo, erano carichi di carezze, di amplessi, di baci. Il naso piccolo e un po’ sollevato aveva un sorriso come l’hanno le labbra; ed anche queste, spiranti nella breve curva la innocenza e il candore; ed il collo svelto ed alabastrino; e la persona spigliata; e le proporzioni delle statue di Fidia; e la grazia decente dello incesso trasportavano l’anima nelle regioni armoniose dove si obliano tutte le amarezze della vita. Pompei era invero la città del mondo in cui la grande divinità pagana — che ogni culto posteriore non seppe mai disertare — era adorata con entusiasmo maggiore. Vibio anch’esso nella età prima aveva sacrificato alla onnipotente iddia. Ma la sua sviluppata intelligenza e il suo fine criterio avevano calmato le irrequiete smanie e dettogli che pur erano nella vita migliori problemi da sciogliere. La religione antica l’ebbe tra i suoi miscredenti. Le sensazioni del cuore gli aprirono un più largo orizzonte. Studiò i principii della fede novella. Sfatò ciò che gli parve vaporosa illusione e fanatismo di neofiti. Pur l’uomo per lui rimase uomo, e di tutti gli dei compose un solo dio — dio clemente, misericordioso, benefattore. Or, un giorno lo amore — il quale non ha poi nel turcasso quei dardi avvelenati che i poeti melanconici vi hanno immaginato — usò una delle sue solite ribalderie, e fece passare dinanzi i suoi sguardi la bella ed innocente Melissæa. Stimava molto Demophilo. Ed ei carezzò quel suo fiore bellamente sbocciato nella solitudine della sua mente. A poco a poco una passione profonda germogliò in quel cuore meridionale. Essa divenne il suo dio. Essa, la sua Venere celeste. — Giovanezza — beltà — grazia infantile. — Tutto il fascino di un amore che non costava nulla alla virtù. — E poi egli amava la donna per intuizione, e il matrimonio per istinto. Melissæa era bionda, ed il bruno eragli odioso. — E nel vero cosa è il bruno? È l’ombra. È la negazione della luce. È una tinta, e nessun colore. Venere era bionda. È biondo l’oro. La fanciullezza e ciò che scintilla e che allegra son biondi. — La rivide tra i fiori dello xysto. La seguì una sera nel Pago Felice come si segue febbrilmente il filo di un sogno dorato. E assaporando un dolce avvenire; ebbe orrore della tenebra che il circondava. Un violento slancio dell’anima interrompeva l’ordine del tempo e gli mostrava le ore ancora velate della sua esistenza. Un giorno nell’Odeon cadde dalle mani di Melissæa una rosa di Pœstum, bella ed odorosa come il suo cuore. Ei la raccolse e la chiuse nelle pieghe della sua veste. L’atto non isfuggì alla fanciulla, e i loro occhi dissero a vicenda come in tal momento il nodo della vita allacciasse due disparati destini. Cneo Vibio, alto della persona, di piacevole aspetto, non pativa tristezza di cuore. Quelle del cervello non le aveva conosciute mai. E nei suoi occhi scintillava una dolce magia, un certo lume sorridente — dono del fato, o dono degli atti, che attira le anime piacevolmente e trasforma i casi che occorrono in nuvole leggere. — E per dir tutto, era nella età felice per gli uomini pubblici e per gli artisti, in cui il sole della vita rischiara il sommo dell’uomo — la fronte — siccome in quella ora del giorno illumina di luce più concentrata ed attraente l’alta cima dei monti. — Tu sei la mia iddia, o soave amore. Felice il mio tetto che ti avrà padrona e signora. Vedi! Non è gocciola del mio sangue che non mi parli di te. Non una idea delle mia mente che non irraggi della passione che mi arde.... Dicono che un dio nascesse — imperante Ottaviano Augusto — in un povero presepe in Galilea. E che le stelle il sapessero. E che le foreste il salutassero. Ebbene! Quanto or mi circonda è ai piedi dello amor ch’io ti giuro. — Le parole che tu mi dici, e che dentro io bacio e ribacio segretamente, sono le perle della corona che il tuo cuore pose sulla mia testa, e che mi rende fiera e felice. Io guardo gli altri con un’aria di regina... il titolo che la tua mente mi diede. — E lo avrai sempre, o amante e presto sposa. Quest’ora beata non dovrebbe volare. Afferriamone le ali, che sono i ricordi. Più tardi li premeremo sui nostri cuori come la mano purissima che a me porgi, patto di felicità durevole oltre la tomba. — _Vale_, o mio. Gli dei della patria ti sieno propizi. — Ed ambedue, colla espressione della gioia sul volto, ripresero la via delle loro case. C. Helvio Babinio trovò lo amico consapevole e nella gioia maggiore. Combinarono che la domanda si farebbe per lettera, e che un’assemblea di parenti e di fedeli andrebbe ad offerirla a Demophilo e fisserebbe gli articoli del contratto sopra le _tabellæ legitimæ_, quelle tavolette che essi avrebbero poi suggellato coi loro _symboli_, come marchio di guarentigia. I Digesti riconoscevano _justum matrimonium_ la unione legale composta in tre diverse maniere. La prima dicevasi _usus_ — per abitudine o per prescrizione — allorchè una donna col consenso dei suoi parenti conviveva con un uomo per un anno intero _matrimonii causa_. E se questi non fosse assente per tre notti da lei, essa diveniva la sposa legittima e dicevasi _usu capta fuit_. Ma se avveniva il _trinoctium_, la prescrizione era interrotta, la donna era dichiarata libera perchè _usurpatio est usucapionis interruptio_. — L’altra addimandavasi _confarreatio_, cioè consacrazione, allorchè il diale di Giove benediceva al matrimonio, in presenza almeno di dieci testimoni, prendendo il frumento dalle mani della sposa — _far_ — impastandolo coll’acqua piovana e formandone una focaccia, cotta sotto le ceneri dello altare. Quel _panis farreus_ o _farreum libum_ era assaggiato dal sacerdote, lo divideva tra gli sposi, esprimendo con questo sacro e comun cibo come omai tutto dovesse essere mutuo fra essi, amaritudini e gioie. Le libazioni si facevano di vino melato e di latte. S’immolava quindi un montone, avendo cura di gittar via il fiele della vittima, a significare che ogni agrezza dovesse essere bandita nel coniugio. Siffatta specie di unioni era però principalmente in uso fra i ministri degli dei, sì perchè gl’ipocriti non ammettevano innovazioni nei costumi antichi — rotta una maglia, ei dicevano e dicono in tutte le lingue, addio rete per accalappiare i gianfrulli — sì perchè era la sola unione che sapesse dare alle mogli loro il diritto di esser socii al loro ministerio e di partecipare ai profittevoli riti. Dicevasi _defarreatio_ il divorzio. Se il marito moriva senza figliuoli e senza far testamento, la donna ereditava i suoi beni quasi propria figlia. Altrimenti coi nati suoi prendeva parte in eguale divisione. Nel caso di mancanze, il marito la giudicava in presenza dei parenti di lei. Se condannata dalle leggi, veniva pubblicamente abbandonata al castigo della famiglia. I nati da siffatta unione potevano essere scelti flamini di Giove e vestali. Ed erano detti _patrimi_ i bambini che avessero vivente il solo padre, e _matrimi_ quelli che la madre soltanto. Ed assumeva il nome di _pater patrimus_ quel cittadino che avesse contentamento di figli durante la vita del proprio genitore. — La _coemptio_ era una maniera di unirsi per reciproco contratto. L’uomo e la donna si presentavano al magistrato insieme con cinque testimoni, cittadini romani e puberi e il pesatore delle monete che assisteva a tutte le vendite — il _libripens_. — Essi ricambiavano un asse — sei centesimi di lira — e lo _speratus_ diceva alla sua _sperata_: — _An mihi mater familias esse velis?_ — _Me velle._ — La donna faceva all’uomo una simile domanda; la _venditio_ era compita. La _sponsa_ acquistava sul suo sposo i diritti di figlia, e quegli tenevale luogo di padre. Laonde cominciava a chiamarsi per esempio HERENNIA EPIDIANI — SABINA BIBULI — DELPHIA AGATHEMERI. E riconoscendo il marito per padrone, chiamavalo _dominus_. Se aveva un patrimonio oltre la dote, quei _bona paraphernalia_ li rimetteva al suo signore. Ma questi erano poca cosa nei primi tempi; poichè il senato all’orfana di Scipione Africano diede per dote undici mila assi di rame, pari a L. 852.50 di nostra moneta. La sposa talvolta _in usum suum reservabat_ una porzione della dote ed uno schiavo — _servus receptitius_, sul quale lo sposo perdeva la potestà. Oltre questo matrimonio plebeo — _pro emptione_ — che poi divenne la unione generalmente in uso — un padrone coniugato poteva avere la _concubina_, cioè la donna da lui amata, la donna di mezzo matrimonio che le leggi riconoscevano. Però, a mal suo grado, essa aveva il libito di sposare un altro, ove cotesto le convenisse. — Gli schiavi si univano per promessa reciproca, detta _contubernium_. I liberti chiamavano _pellam_ la donna che con essi viveva. E le congiunte per _confarreatio_ erano dette _matronæ_. Quelle per _coemptio_ si gloriavano di essere _matres familias_. È festa nella casa di Demophilo. Cneo Vibio e gli amici vi sono convenuti alla prima ora del giorno che rende gli sponsali migliori e più favorevoli. Il duumviro _jure dicundo_ L. Giulio Pontico presiede all’atto solenne. Uno scriba redige il contratto. Il padre concede alla sua cara figliuola la dote di _decies centena_, cioè, un milione di _sestertia_ — pari a L. 193,749 — da pagarsi in tre periodi, il primo dei quali avrebbe luogo il giorno del matrimonio. Demophilo aveva fatto inoltre un ricco presente a Melissæa di vesti, di pietre incise e di monili d’oro. Già da lungo tempo gli auguri avevano cessato di combattere la volontà degli uomini in nome della divinità. Quegli impostori non erano più curati da alcuno. Ma, sfacciati e impudichi, non mancavano di far gli auspicii per conoscere la volontà suprema, allorchè trattavasi di ricchi sponsali. E Thelestis si presentò, facendo smorfie ed inchini e dicendo avere il giorno innanzi sacrificato al cielo e alla terra — come ai primi sposi; — ed a Minerva, la iddia della verginità; ed a Giunone propizia ai casti connubi. Egli aveva veduto nel cielo i segni favorevoli. E poichè nessuno ne lo consultava, stimavasi fortunato nel poterli nunciare. Gli era un di quei luridi frati dei tempi nostri che la melonaggine dei ricchi peccatori e delle vecchie adultere ingrassa insieme col popolo ignorante e supino. Quale la differenza tra gli antichi e i moderni? Questi borbottano finanche le stesse frasi latine. — Demophilo in tanta domestica gioia, voleva dargli il buon da scialare. Vibio non lo permise, e il fe’ cacciar via dai littori. Allora Giulio Pontico chiese all’herus della casa se consentiva _despondere filiam suam_. L’altro, annuendo ai voti per quelle nozze, aggiunse: — _Quæ dii bene vertant._ — E il primo gravemente riprese: — _Sponsalia et nuptiæ_ non si contraggono che col libero assentimento delle due parti. Ed una fanciulla può resistere alla paterna volontà nel caso che il padre le offra a suo sperato, e sposo un uomo notato d’infamia o che meni una riprovevole vita.... Hai tu, o Melissæa, a muover lamento di tal fatta?... Poichè non rispondi, e non ti rifiuti alle nozze, è segno che tu consenti. — E richiese partitamente ad ambedue: — _An spondes?_ — E quei felici replicarono colla favella del cuore: — _Spondeo_. — Era la formula della stipulazione che tutti fissavano sulla pergamena col loro suggello. Vibio trasse dalla sua veste un anello d’oro massiccio, ottangolare, traforato a giorno con sottile artificio che nel mezzo di una linea ovale aveva cotesta leggenda in greco: ΑΦΡΟΔ ΓΕΝΕΤ ΔΟΣ Melissæa accettò quella garanzia del suo amore, quel segno che moralmente li faceva un essere solo; e subito lo pose nel dito mignolo della mano destra, perchè credevasi che vi fosse un nervo corrispondente da quel dito al cuore. Quel semplice dono dovea sempre precedere il matrimonio. Convenne fissare il giorno delle nozze. Il calendario romano aveva segnato col nero i dì infausti — le calende — le none — gl’idi — quelli che immediatamente li seguivano — i parentali che ricordavano i funerali paterni — e in generale tutto il mese di maggio. Bisognava adunque far correre tutto quel mese e la metà del seguente, ch’era dichiarata l’epoca più felice. — Nello intervallo gli _sponsi_ potevano _infirmare sponsalia_, cioè rompere i fatti accordi collo scrivere coteste parole: _Conditione tua non utor_. Era il _repudium_ che annullava ogni promessa. Ma Vibio e Melissæa non sarebbero stati capaci di dir quella frase. Il loro sguardo ed il loro sorriso favellavano le promesse immortali; avvegnachè il vecchio monarca di questo mondo, ricciuto, rosso per belletto e azzimato, padre alla menzogna ed allo egoismo, non li avesse mai ammaliati e sedotti. La sposa trasse dal seno una piccola _bombilia_ di cristallo di roccia, piena di essenza odorosa e la offerse al re del suo cuore. Ei l’annusò e fe’ un cenno cogli occhi. Erano uno. Poteva ringraziare sè stesso? Aveva sentito su pel cervello le carezze senza rimorsi delle ninfe espansive racchiuse nel prezioso dono della sua gentile regina. Tutti escirono con lui. — Mio caro collega, se ogni fanciulla somigliasse a quella alla quale tu desti la fede, lo imperatore non avrebbe bisogno di promulgar leggi per costringere la gente togata a menar moglie. — Giulio Pontico, ben dici. Ma tu hai tre sorelle che rassembrano le cugine di Venere e di Minerva. Nè occorrono editti per toglierle dallo stato smanioso della nubilità. E so che non passeranno lunghi mesi e saranno le spose. Hanno parenti raccomandati dalla virtù. E la tua famiglia è tale a fornir ricche doti. — Lo penso. E ciò mi toccava il cuore quando pronunciava le parole formali. Vedi! lo amor di famiglia nel cuore delle fanciulle è come una gocciola. Scuotila e cade.... Dev’essere così!! — Manio Acilio, soffermandosi alquanto dinanzi la bottega del farmacista — occupante uno degli angoli della insula triangolare della via Domizia — disse con voce bassa a Quinto Lepta — suo socio nella testimonianza degli sponsali — in modo che chi camminava non lo sentisse: — Parlano a maraviglia, l’uno perchè non ha sorelle, e l’altro perchè il padre riccamente le dota. Certo, grossi partiti non mancheranno. Or si negozia nel menar moglie come per la compera di una casa, di un podere, o di due cavalli africani. I _sestertia_ sono le principali, anzi le sole virtù che si cercano in una donna. — Guai.... oh! guai per colui che le sposa ricche. _Dotata regit virum._ Il loro orgoglio, le loro esigenze sono una catena pesante a tirare. Vespasiano come dà il grano alle famiglie, dovrebbe pur dar le doti. Allora l’amore matrimoniale riprenderebbe il disopra, e la cospirazione della saviezza celibataria cesserebbe, e tutti tornerebbero egualmente a pagare cotesta patriotica gabella. Ma gli è avaro ed ingordo. Compera e rivende. Nè si vergogna di far pagare i magistrati a chi li chiede e le assoluzioni ai ricchi colpevoli. De’ rapaci proconsoli fa uso di spugna; risecchi gli manda ai migliori uffizi perchè si bagnino bene e — quando ripieni — gli strizza a suo pro. — Che! Tu a torto lo ingiuri. Dovette angariare i popoli per necessità. Dovette punire i ladri per dovere. Fatto imperatore e trovato il fisco e lo erario povero e vòto, volle ridurre la repubblica nello stato di prima e fare che la rimanesse in piedi. E dei denari ingiustamente presi fece ottimo uso. Non sostentò i bisognosi cittadini consolari, dando loro un annua provvigione? Non rifece le mura e gli edifizi di molte città, guaste dal tremuoto e dalle arsioni? E qui ne hai la prova. — Sia che vuolsi. Eh! non basta. Saria d’uopo che il pontefice massimo — sì buono e pio come tu pensi — ottenesse almeno da Venere fisica il favore speciale e perpetuo per le genti latine che tutte le giovanette fossero belle. Allora sì che lo Stato avrebbe ragione di confiscare le successioni devolute ai celibi ostinati. — Bando agli scherzi. Nel disordine generale dei costumi e delle abitudini il carico di una moglie può patirlo un cavaliere che abbia spogliato una provincia come Verre, o tratto un re vinto dietro il suo carro trionfale, od empito la sua casa e le sue ville di schiavi. Le donne si contentavano un giorno dei profumi campani. Ora se non vengono dalle Indie, li gittano schifate alle loro liberte, e conviene surrogarli con quelli che — a parola di chi gli spaccia — furono trasportati in Italia malgrado la collera di Nettuno, gli artigli dei dragoni alati e le zanne delle bestie feroci. — E i diamanti? E le perle? E le gemme incise? E gli anelli che cingono tutte le articolazioni delle mani, e che si cambiano in ogni giorno della settimana? — E sì! Tiberio se n’ebbe a scandalizzare, e di Capreas ne scrisse al Senato. Ora la seta tessuta nell’India, sfilata e ritessuta col lino e colla lana nell’isola di Cos, _ventus textilis, nebula_, e così trasparente, che se non stretta al corpo con mille pieghe, mostrerebbe la dermide a traverso, la sfatano. Vogliono _vestis holoserica bombycina_, tutta filata dal verme. — Oh! in quanto a me son lieto di facili e poco spendiosi amori. La bella iddia gli sostenga, ed Iside gli aiuti. Sai? Sulle corna dei buoi cattivi sogliono legare fascetti di paglia per avvertire chi passa a non accostarsi.... — Intendo. Nelle fanciulle inquiete e vogliose del nodo erculeo vedi il fieno sui corni.... O, lascia ch’io saluti Pontico e Vibio che sulla rivolta tendono al Foro. Io vado da Quinto Poppæo pei suffragi. — Ai passi frettolosi, gli altri si fermarono, i magistrati si volsero, e tutti si strinsero amicalmente le mani e si salutarono. Quale per una via, quale per un’altra. Ma Lepta, camminando sul margine laterale del tempio alla Fortuna Augusta, e ripensando ai lieti amori di Acilio, inaccessibili alle cure ed al carico della famiglia, considerò valer meglio per lui il visitare la donna del cuor suo che mendicare i voti dallo edile per le prossime elezioni. Alla vanità il domani. Discese la lunga strada, voltò in quella Deciale che mena alla porta di Stabia, torse i passi a sinistra e si volse a diritta verso la porta di Nola. Quella parte della città era un laberinto di sentieruoli stretti, colle mura delle case puntellate; e sotto, tegole rotte e marmi spezzati, sparsi sulle corti e persino sui tetti degl’impluvii. Le dimore dei ricchi erano intatte od ancora nelle mani degli artefici. Tratto tratto parecchie case colle aderenti botteghe escivano bianche e ristorate dalle concomitanti ruine. Qua e là, alcune donne, dagli occhi neri, espressivi, e dalle bocche fine e graziose, frenando i loro vivaci bambini seminudi, si facevano sugli usci e sorridendo mestamente a lui che passava, dicevano: — Sii il benvenuto in questi luoghi desolati. La tua gravità, la tua eccellenza abbia pietà delle nostre disgrazie. Se sei uomo di pubblico affare — le tue sembianze dicono che tu il sia — ripara a tanta miseria. Le volte crollarono. Le mura hanno lesioni. Se piove, l’acqua c’infradicia. Gli è come dormir sulla via. Fa’ che non s’invidino i morti sotto le macerie. Venere ti sia propizia, o nobile pompeiano. — Per un cuore innamorato le parole delle donne colpite dalla sventura sono come le lacrime voluttuose che caddero dalle chiome della iddia di Pafo al subito uscire dal mare. Le prime inteneriscono. Le altre fecero sbocciare le rose sotto i piedi divini. I suoi pensieri inebriati dal profumo di una donna lo trassero ad atti di carità che in altra circostanza avrebbe negato. Sciolse i nodi della _manticula_ e tanti assi e tanti denari vi trovò, tanti ne diede. Disse non esser egli magistrato. — Sperarlo. — Ma amico degli amministratori della Colonia. Sapere che dall’Urbe sarebbero venuti soccorsi e provvidenze. Le povere famiglie si racconsolarono. Gli Oschi — i primi abitatori di questa contrada — sapeano per tradizione come il monte soprastante al golfo avesse bruciato da tempi immemorabili. E perciò lo chiamarono _Vesbius_, che valea quanto dire _fuoco estinto_. L’ultimo suo incendio però era ignoto ad ogni poesia. Solo supponevasi che in tale circostanza fosse stato colmato il vasto e lungo golfo che per lo stretto dell’antica Marcina si congiungeva al mare di Salernum, dando così origine alla immensa pianura di Nola, di Nuceria e di Sarnus. Corsero secoli, e il monte si cinse per ogni lato di fertili campi, di verdi pampini, il cui frutto generoso empiva del suo succo le anfore. Sui pianori, sul pendìo delle sue amene colline erano sontuose ville coi terrazzi, colle torri per godere lontane vedute, coi giardini creati dagli schiavi _topiarii_, adorni di statue, cinti da piante fronzute e verdeggianti ed intersecati da ruscelli e da laghi. Un giorno, ai tempi della congiura di Catilina, Marco Herennio, decurione di Pompei, cadde morto nel Foro, colpito dal fulmine. Il cielo era sereno. Il sole, raggiante. Cicerone compose su quel fatto strano due pessimi versi ridicoleggiati da Crispo Sallustio. E nessuno seppe indagare la causa di quel fatale avvenimento. In vero, la folgore dovette provenire dal soverchio elettricismo adunatosi nel monte. Nell’anno 803 di Roma — pari al 50 dell’êra nostra — i tremuoti cominciarono ad affliggere la Campania. E nel 63 — due lustri prima dei casi che narro in coteste pagine — la scossa del suolo fu terribile, continovata e fatale. Nerone imperatore trovavasi nel teatro di Neapolis, canterellando colla chioccia voce un’aria sua favorita. In lui potè più l’arte mal coltivata che la vigliaccheria d’istinto. E quantunque il _visorium_ pieno zeppo di spettatori ed il _proscenium_ traballassero, non volle imitare quelli che escivano a furia, finchè non ebbe terminato il suo trillo. Erano le none di febbraio, cioè il dì cinque di quel mese, quando le città e gli oppidi sedenti sulle rive, che formano col loro incurvamento il ridente cratere partenopeo, furono maltrattati dal violento flagello. Una parte di Herculanum venne distrutta; un’altra screpolata e guasta. La colonia di Nuceria, se non rovinata, malconcia. Neapolis soffrì perdite piuttosto particolari che pubbliche. Molte case di campagna risentirono scosse senza gravi effetti. Stabia ed Oplonti ruinarono. Pompei fu devastata. Le statue del Foro caddero dai loro piedistalli. La morìa degli abitanti sommò a parecchie migliaia. Un gregge di seicento pecore fu schiacciato sotto le macìe. E i campi vicini si videro funestati da gente errante priva di conoscenza e di sensi. La misera città rimase per qualche giorni deserta. Quindi risorse a poco a poco più bella dalle rovine. Alcune case si ampliarono; giunsero decoratori di ogni parte; il commercio straniero rifiorì più che mai. La pietà dei congiunti surrogò le cornici e le tavole di marmo agli ornamenti di tufo, o di stucco dei sepolcreti. Il bigottismo di Nonnio Popidio Celsino fece ricostruire di proprio il tempio d’Iside. I devoti ripararono il portico del Fano di Venere protettrice, cangiandone l’ordine in un corintio di fantasia; il fregio dorico fu ricoperto di stucco; una statua nuova rimpiazzò la spezzata; e nuove pitture dai vivi colori, rappresentanti paesaggi, ville sontuose — come l’Isola Bella sul Lago Verbano — interni con figure alle quali l’artista die’ teste d’uomini a corpi di fanciulli — riabbellirono le pareti del porticato. I duumviri Sepunio Sandiliano ed Herennio Epidiano sul lato della gradinata che mena alla edicola fecero collocare a loro spese una colonna ionica di cipollino sormontata da un quadrante solare. Il tempio greco nel Foro _Hecatonstylon_, il più puro degli edifici pubblici in Pompei, venne completamente restaurato dai commercianti e dedicato a Nettuno, il dio che favoriva i loro grossi guadagni. Le Terme furono riparate per le prime dai munifici cittadini. Ed il tremuoto avendo assai danneggiato il tempio di Giove e il colonnato del Foro, i duumviri ordinarono che le colonne doriche del portico ch’erano di tufo si ricostruissero di pietra calcarea, e pur di travertino si selciasse il parallelogrammo dell’area. Le statue che decoravano i piedestalli furono provvisoriamente serbate in un vasto pubblico edificio. Nel periodo di quasi tre lustri molte erano state le novità incresciose e consolanti nel mondo romano. Laodicea, grossa città dell’Asia, erasi rovinata per tremuoti, al pari di Pompei e di Herculanum, e di proprio rifatta. Puteoli, terra antica, rinomata da Nerone, poi che colonia. In Tarentum ed in Anctium, posti a guardia vecchi soldati per ripopolarle coi lor maritaggi, furono diserte da quei raccogliticci, insofferenti di famigliari cure. Nerone, stanco di Ottavia, aveva sposato la concubina Poppæa, sposa ad Ottone, che amandola, mal suo grado glie la concesse. Ma l’ira del popolo lo incitò ad un ripiego. E chiamato a sè Aniceto: — Tu mi campasti dalla madre insidiatrice. Fammi minore servigio. Levami dinnanzi la odiata moglie. Nè mani. Nè ferro. Testimonia averlati goduta. — Il dirotto in mal fare confessò il vitupero. N’ebbe a premio dovizie e confino in Sardinia. E la casta donna, lacrimosa più che per mille morti, partì per la Pandataria. Aveva venti anni. E colà i soldati le segarono le vene. Nell’816 nacque dalle nuove nozze una figlia in Anctium, e questa dopo quattro mesi morì. Furono chiamate Auguste ambedue. E le pazzie pei natali e pel lutto, sì di Cesare che del senato, furono fatali ai dignitosi ed onesti. Egli, per consolarsi, cantava vestito da Apollo, o da femmina. E forzava gli applausi. E cominciò i mangiari in pubblico. Fra due colli era il lago di Agrippa; e sulle acque fe’ costruire un tavolato, mobile, ove pose il convito, tirato da triremi, commesso d’oro e di avorio. Remavano cinedi, maestri in libidine. Erano tende rizzate sulle rive con matrone e sciupate ignude. Cessata la imbandigione e venuta la notte, i boschetti e le case dei colli risuonarono di canti; e i falò illuminarono la scena. Aocchiato uno stallone in quella mandra vituperata, lo volle marito. E Pitagora fu lo sposo di Cesare per le ceremonie di uso. E lo imperatore del mondo coprì il capo di velo giallo. Udì gli augurii. Si decretò la dote. E i torchi scacciarono le tenebre attorno il letto geniale. Per frode del principe Roma bruciò. Fra il monte Palatino ed il Celio le botteghe piene di merci furono esca alle case. La vecchia viuzza, i torti quatrivi, preda alle fiamme sui colli e sul piano. Grande la morìa. Ma gli scampati ricoverò nei palagi e nei templi. Fece venir masserizie da Ostia e rinvilì il prezzo del grano. Rifece il palazzo imperiale, di miracolo, per opera degli architetti Severo e Celere, con selve allo intorno, laghi e bellezze sopra natura. E surse l’Urbe nuova. E non più a vanvera come era dapprima. Ma larghe strade con traverse fatte a misura, con più larghe piazze. E per distrarre le ire popolari contro lo autor dello incendio — ignoto a veruno — furono stranamente puniti quali rei del delitto i palesi credenti alle parole del Cristo; i quali ne’ tormenti altri molti ne nominarono; — i preti avranno santificato anche questi? — e tutti furono uccisi in modo vario e spietato, quali nemici al genere umano. Una vasta congiura minacciò i giorni del mostro imperiale. Spillata la cosa e fatta certa, Caio Pisone, e i suoi amici, e gli affidati, e gl’insofferenti l’onta del nome romano empirono l’Urbe di mortori e il Campidoglio di vittime. — Una sera, tornato dal teatro, ove aveva cantato i suoi versi e chiesto in ginocchio, a mani giunte, le battute ed i plausi dal popolo, Nerone, crucciatosi con Poppæa, le die’ un calcio nel ventre pregno e la uccise. Ne fu dolente a suo modo. E salito in ringhiera, ne lodò alla folla le belle membra, non la virtù. — Tempeste e pestilenza desolarono Italia. Ma il signore del mondo era più grave di ogni malanno. E un bel dì i pretoriani stanchi lo abbandonarono solo nel palagio. Ond’egli impaurito fuggiva; e sentendosi inseguito, si appiatta dietro il muro di un orto, cerca trafiggersi, ma al grande omicida delle migliaia manca il cuore di spingere il ferro nelle viscere. Epafrodito, scrittor di memoriali, lo aiuta a morire. E il citaredo non lamenta lo impero, sì l’arte che in lui perde il migliore tra i suoi cultori. L’allegrezza nell’universale fu grande. La plebe coi cappelli in testa andò a zonzo per la città quasi di schiava fatta libera. Livio Ocellare, di Fondi, che poi si chiamò Sergio Sulpizio Galba, settuagenario e gottoso, proclamato imperatore da Vindice e dai suoi legionari, venne d’Iberia in Roma non molto gradito dal popolo, perchè vecchio, rigido, modesto, schiavo dei liberti, stretto di mano e brutto; nè accetto ai pretoriani, alle neroniane largizioni avvezzi, i quali più amavano i vizi che le virtù dei principi. Adottò a figliuolo e nominò Cesare Pisone Frugi Liciniano, giovane nobile e valoroso. E presentandolo alla folla e alle milizie, disse secco secco: — _Vir virum legit_ — cioè, con alquanta boria, espresse come un prode eleggesse un prode. E non parlò di donativo, nè di feste, nè di spettacoli, nè di baldorie. Quelle sue grinze accompagnate da tanto rigore antico non erano più di stagione. Ma Silvio Othone — compagno negli stravizi al morto principe, marito di Poppæa Sabina ceduta ed amata, sì che Nerone geloso l’ebbe a sbandire dall’Urbe e un distico famoso sentenziò Othone adultero della propria consorte — comperò l’animo dei soldati colla promessa di riserbare per sè quella pecunia che da essi fossegli conceduta. E tre dì poi dalla proclamazione di Pisone, questi e Galba morirono scannati nel Foro presso la voragine, ove M. Curzio erasi gittato in antico col cavallo ed in armi. La plebe corrotta, non capendo in sè dalla gioia, il salutò col nome di Nerone. E le prime epistole ai governatori delle provincie le sottoscrisse con siffatto cognome aggiunto al proprio. Ma già Aulo Vitellio — l’uom dalle prodighe cure — era proclamato imperatore dallo esercito di Germania. Othone se gli offre compagno e genero. Nemico egli era alle guerre civili e punto sanguinario. Pure dovette ire incontro coi suoi alle genti che Vitellio mandava innanzi. Fabio Valente coll’aquila della quinta legione per le Alpi Cozie; Cecina colla ventunesima pei monti pennini. Le due osti si azzuffarono. Scaramucciano in Cremona, in Brescello; ma la giornata fu grande presso Bebriaco in favore di Vitellio. Othone poteva ritentare la prova atroce, lacrimevole, dubbia coll’arrischiata virtù dei suoi. Non volle. Giudicassero di lui i secoli. Bevve acqua fresca. Tenne aperto l’uscio della casa. Dormì placidamente tutta notte. E in sull’alba ridesto, tastò la punta di due pugnali, ne scelse uno e se lo infilzò sul cuore. Fu arso e sotterrato incontanente dalla pietà dei soldati presso a Veliternum. Dopo 95 giorni d’impero morì a 37 anni, con fama di virtù, di molti vizi, e di aver promosso la morte di Galba, non per sete di signoria, ma per restituire la libertà perduta ai Romani. Il nuovo era uomo di ventre. Fu a vitupero chiamato lo Spintria, quando cogli altri giovani s’intrattenne nella corte di Tiberio in Capreas. E ligio a Caligola, a Claudio e a Nerone, ottenne magistrature e consolati, e da Galba il comando della Germania inferiore. Era sua gloria la gozzoviglia, e compartiva i suoi pasti in asciolvere, desinare, cenare e pusignare. E imponeva ai grandi di convitarlo. Ed ogni apparecchio non costava meno di cinquanta mila denari. È famosa la cena imbanditagli, dal fratello il dì del suo ingresso nell’Urbe. Vi consacrò un piatto, — il quale per la smisurata ampiezza ei chiamò lo scudo di Minerva — ov’erano mescolati fegati di scaro, cervella di fagiano, lingue di psittaci, latte di murene. E vi furono consumati duemila pesci elettissimi e settemila uccelli. Nè men fu crudele che ghiotto. I possibilmente rivali, avvelenati, ed alcun di sua mano. I creditori e gli usurai suoi, uccisi alla sua presenza per pascer l’occhio — ei diceva — ed esser certo di averli saldati. Dopo otto mesi di tale imperio gli eserciti della Mesia, della Schiavonia, quel di Giudea e di Sorìa si ribellarono, obbligando la fede a Flavio Vespasiano. Vitellio ne impaurì. Tentò un’abdicazione a pro di ogni scelta, e comperò la salute da Flavio Sabino e dai suoi Reatini. A tradimento condottili al Campidoglio, gli arse nel tempio di Giove, nell’atto ch’ei banchettava nel prossimo palazzo di Tiberio. Approssimantisi le coorti, mandò loro innanzi le vestali per chiamar pace. Intanto fuggì per la campagna in compagnia del cuoco e del suo pistore. E tornato in casa sulla voce della vita consentitagli, abbandonato da tutti, rubacchiò in furia un po’ di oro, lo chiuse in una cintola e si fortificò nella stanza dell’ostiario. Colà lo trovò l’antiguardo e, lui piagnucolante trascinarono con una cavezza alla gola e, mezzo ignudo, giù per la Via Sacra, tra i dileggi della plebaglia che gli gittava sulla persona sterco e fango e lo chiamava incendiario e lecca-piatti. Finalmente, lancettato, pizzicato, urtato, ferito di lancia e di gladio, cadde morto a piè delle scale Gemonie. E trascinatala con un uncino, quella cosa sozza la scaraventarono nel Tevere. Come le materie da incendio accrescono le arsioni, così il nuncio della sua morte infellonì vie peggio la plebe. Le vie piene di cadaveri. I templi, di sangue. Per la scusa di trar fuori i nascosti, rovistati i palagi, frugati i ripostigli. E chi si opponeva ai soldati, ucciso. E la canaglia morta di fame, sfondava, bruciava, e gavazzava nell’insolente disordine, nello spietato carnaio. Il senato decretò a Vespasiano gli onori usati ai principi, e chiamò il nuovo imperatore Consolo insieme con Tito. L’altro figliuolo, Domiziano, fece pretore con podestà consolare. Flavio scrisse con modestia di sè, con magnificenza della repubblica. L’Urbe per le frequenti arsioni e rovine — ristorata un po’ da Nerone — era sformata, e guasta. Laonde, Flavio ordinò che i padroni dell’area vuota non edificando, chi volesse la riempisse di casamenti. Egli restituì il Campidoglio, e fu il primo a portar via sulle spalle corbellate di calcinacci, di cui ingombro era il luogo. E vi rifece tremila tavole di rame — già logore e quasi fuse dal fuoco — sui modelli e sulle scritture antiche di quelle. Non che uno inventario delle cose pubbliche dai tempi remoti, nel quale si contenevano le deliberazioni del senato, i plebisciti, le confederazioni pattovite, e i privilegi conceduti a chiunque, dall’evo romuleo sino allora. Rizzò il tempio della Pace sulla piazza; lo anfiteatro, secondo il modello ideato da Augusto; e il monumento al divo Claudio, incominciato da Agrippina e disfatto dal suo figliuolo parricida. Ridusse l’ordine dei cavalieri e dei senatori allo splendore antico e gli portò al solito numero, radendone le persone vili ed ignobili, e posti ne’ loro stalli uomini dabbene d’Italia e di fuori. Ed, occorse aspre parole tra un senatore ed un cavaliere, sentenziò, brutta cosa fare atto d’ingiuria ad uom del senato; ma rispondere ingiuriosamente a quelle ingiurie essere cosa lecita e civile. Mai dissimulò la bassezza dei suoi natali. Permise a tutti la libertà del dire, e fu tollerante verso chi malediceva di lui. Obliò di gran cuore le offese; nè temette le inimicizie o tolse via la usanza di far cercare coloro che venivano a salutarlo, se essi avesser armi nascoste, costume durato fin dai tempi della guerra civile. Si palesò però avaro ed ingordo. Addoppiò i tributi e si die’ a negozi da vergogna, quando anche fosse stato uomo privato. E’ pare che cotal difetto lo avesse di natura come quelli che arricchiscono dopo umiliante povertà e lunga. Laonde un vecchio bifolco — che a lui chiedeva lo affrancamento ed egli rifiutoglielo senza denari — rampognò lo imperatore col dirgli: — «La volpe muta il pelo e non il costume.» — Malgrado ciò, largamente pagò i maestri di retorica greci e latini, formò la sua corte di uomini dotti ed eccellenti nelle lettere e nelle arti, restituì i giuochi e le recitazioni antiche, premiò poeti, tragedi e citaristi. E in Falacrine, suo luogo natale, lasciò la casa che prima vi era, per soddisfare ai suoi occhi e ricordarsi con modesto orgoglio dell’antica dimora. Quinto Lepta, ancora commosso dalle miserie del popolo, entrò in una casa piena di melodia. Dal fondo, presso lo xysto, uscivano da una cetra i sospiri di un’anima stanca dalle ricerche delle gioie terrestri, gli accordi di una tristezza passionata, gli accenti di un amor combattuto, tempesta che ancor tramanda i profumi delle rose e delle viole sbattute ed infrante. A lato dell’uscio chiuso, ad altezza d’uomo era un foro rotondo coperto da un vetro. Da quel buco vedevasi per di dietro una donna assisa, in su i trent’anni, evocando il coro de’ suoi pensieri colle sue dita di sibilla. — O divina creatura! La donna appartiene allo amore come l’erba dei prati allo armento. Byrrhia con quei capelli accesi dai sensuali ardori, con quello aspetto di grappolo indorato dal sole, mi brucia l’anima e il corpo. — E senz’altro, rotto il filo ai pensieri che gli si arruffavano, spinse la porta ed entrò. La donna, nel volgersi, emise un raggio luminoso dai suoi occhi vivaci e neri, velati da una nube di tenerezza e da un mesto sorriso. Le loro bocche s’incontrarono. — _Suavia et iterum suavia._ Io sono lieta che tu mi desideri con ardore. — Sì, altri baci ancora, o dolcissima tra le cose. Io te desidero ed amo.... La celeste armonia mi penetrò nel profondo. — Era un’ode di Sapho di una singolare potenza, disordinata come la passione, lamentosa come il dolore. Misera! Quanto soffrì. La sola Morte colle sue dita affilate può medicare una ferita pari alla sua... Ma tu non mi spingerai allo scoglio d’Ercole per chiedere l’oblio ai gorghi del mare. — _Unum habeo solatium in te_, o Byrrhia. Arrida ad entrambi la bella dea Pompeiana. — E arriderà! Ha spesso i miei doni e le mie preci ferventi. Oh! Abbracciami, Quinto. Il tuo affetto è la pietra che ricuopre il mio cuore. Ebbene! sii custode di questo sepolcro ove riposa la innamorata anima mia, e nessuno saprà penetrarvi. — La stanzuccia, ove i due felici si trovavano soli, aveva sulle pareti gioconde pitture, per terra un tappeto discreto, una _cathedra_ — specie di lettuccio di legno dorato e coperto di un materasso purpureo di piume — un tavolino leggero con sopra due vasi di _mourrhina_, e dallo xysto vi entrava il profumo dei fiori che riscuote come la musica, ed ammalia come lo sguardo. Le più fredde virtù si sarebbero fuse sotto quei raggi d’oro della eleganza e dello amore. La indolenza è una felicità. E la felicità è orizzontale. Lachesis poteva rompere lo stame di quelle due vite. Esse avrebbero veduto nel Tartaro con occhio eterno le prospettive magiche di quei novissimi istanti! O Amore! giocondissimo iddio, tu non puoi rendere la creatura continuamente felice col medesimo oggetto, a dispetto di ogni promessa e malgrado le più seducenti speranze. Bambino, non prendi persona, nè invecchi. Muori e rinasci. Da secoli infiniti le tue vampe si allumano e si spengono nel cuore istesso. E se vi hanno anime le quali bruciano senza farsi mai cange, esse usurpano il tuo nome, o Amore, e calunniano la tua nobile ed infedele esistenza. Sono caparbi — indifferenti — rosi dalla noia — impigriti dalle abitudini — dimezzati dal disgusto. — Sono ipocriti od imbecilli, che natura diseredava.... ed io li so, ed ognun che mi legge li nomina della sua mente. Nella _fauces_ presso l’atrio di quella casa erano seduti per le terre Chresto e Methe Cominiæs, due schiavi, l’uno di dieciotto, l’altra di sedici anni. Giuocavano cogli astragoli. Gli gittavano in aria sul dorso della mano a uno, a due, a tre, a quattro, a cinque e li raccoglievano sulla palma. Bisognava esser destri e prestarvi attenzione. La fanciulla vinceva. — Chresto badava più ai di lei occhi che ai _tari_. — Tu fai sempre il colpo del carro, o il colpo dello avvoltoio. Di’, a che pensi così distratto? — Penso.... penso al nostro padrone Aulo Vezio, il quale mangiava le sue allegre cene sui piatti della bilancia di Temi ed ora Byrrhia le digerisce per lui. — Vuoi che intisichisca per dolore? — Mai no. La sua disonestà non la inghiotto nè sputo. Ma cacciare il chiodo sì presto nel muro! — Per ribadir l’altro.... Gli è perciò che tu.... Il giovinetto drizzò lo sguardo nuovamente sul viso pallido, sulle linee delicate e fine, su tutta la persona appetitosa che avea dinanzi, e quello sguardo acuto impedì che la frase si terminasse. Ma ei la compì, pronunciando per sè medesimo: — Perchè non mi promette una serie di giorni felici!... La donna qui è tra la terra ed il cielo. La poesia la esalta lassù nelle nubi. Chi passa la ghermisce e l’ha.... _Res fragilis!_ O spettro di Vezio, quali corone tu aduni in questi giorni nell’urna delle tue ceneri! — Chi deve.... prometterti felicità, o Chresto? — Chi?... Una fanciulla che da parecchie notti mi vieta il sonno e che forse si destina ad uomo che val meno di me. Apparterrà ad un imbecille, all’_atriensis_, allo _structor_, che apparecchia il desco, od al _coquus_, quello animalaccio venuto di Sicilia, il quale ruba la riputazione che gli danno.... Ed io l’amo e la merito, per Ercole! — Nel mentre, o Chresto, tu ristai melanconico e dubbioso dinanzi all’_ostium_, non ti avvedi che la desiderata ritira i _pessuli_ dall’uscio ed attende che tu lo spinga!... Io sono nella luna di mele del tuo e mio primo amore e provo in ascoltarti e in vederti delizie ineffabili. — È egli vero? Vuoi tu essere la mia _contubernalis_? — Ma che chieggo io a Venere sacra dal dì in cui venisti sul mio sentiero? — Vieni tra le mie braccia, _lux mea_. Non essa oggi la sola felice. Anche noi! — Salirono al piano superiore ed assaporarono l’ora presente coll’audacia di chi non teme i tradimenti dello avvenire ed obliarono le tristezze cuocenti del giorno svanito. — La felicità è di gaio umore; non può star chiusa; è meridionale; esce di casa e va via ciarlando. Gli è perciò che dieciotto secoli più tardi, interrogando i muri della mia offesa Pompei, vi lessi cotesto graffito indiscreto. _Methe Cominiæs, Atellana, amat Chrestum corde. Sit utreisque Venus Pompeiana propitia. Et semper concordes veivant._ Presso queste anime piacevolmente innamorate — che dedicavano il loro tempo alla iddia sorridente e gioconda — altre erano in Pompei allegre e chiassone, il cui punto di riunione, pria delle Terme, erano le _tonstrinæ_, luoghi di perdi-giorni, di novellieri e di ricchi fannulloni. Siccome i Greci avevano il costume di tagliarsi i capelli e di farsi radere, di Sicilia cotesta moda risalì il littorale peninsulare e nel 454 di Roma l’uso divenne quasi comune nel mondo all’Urbe soggetto. Nella età di quarant’anni Scipione Africano si fe’ radere tutti i giorni, e non fu persona distinta in Italia che in seguito non lo imitasse. In Pompei la industria dei tonsores fu dapprima in pien’aria finchè contarono tra i loro clienti i marinai e la plebe. Allorchè la comoda usanza venne adottata dalla grande maggioranza dei Quiriti, tornando indietro nobilitata, richiese eleganti botteghe e stanzucce appartate nei migliori quartieri della città; graziosi musaici e grandi specchi; _camini portatiles, foculi, ignitabula, escharæ_, cioè bracieri di varie forme per riscaldarvi i _calamistri_; piccoli rasoi, adatti allo scopo, detti _novacula_; larghe e brevi cesoie che addimandavansi _axiciæ_; e sottili mollette, nominate _volsellæ_. Avvegnachè, in quelle botteghe uno potesse _barbam ponere_, se volea farsi radere, o _tondere forfice_, se preferiva corti i capelli; o _pillos vellere_, se piacevasi di quella effeminata abitudine di farsi carpire i peli colle pinzette sul mento, sotto le ascelle e in altre parti della persona. Alcune schiave — _ustriculæ_ — erano addette a cotesto ufficio. Altre dette — _tonstrices_ — spargevano sul mento una specie di pomata che avea nome _psilothrum_ o _dropax_; oppure lo imbrattavano con certa pasta veneta, o resina calda; che Giovenale chiama _calidi fascia visci_ e quindi coi _novacula_, estratti dalla _theca_ ricurva, mondavano la epidermide. I più delicati e schizzignosi si nettavano il corpo dai peli col farli bruciare dalla fiamma di un guscio di noce, e poi vi facean passar sopra la pietra pomice. La _tonstrina_ dinanzi la Palestra delle Terme, dipendente dalla casa di Olconio Prisco, aveva due botteghe sul margine della via dalle fontane di Pallade e dell’Abbondanza, e una stanza di retro. Era affollata. Vi erano giovani che avevano fatto arricciare i loro capelli coi ferri caldi e si miravano nello specchio per osservare se gli anelli fossero tutti eguali. Altri erano _inter pectinem speculumque occupati_. Altri _uno digito caput scalpebant_. Un giovane che veniva dal Foro, si appressa al primo uscio e s’imbatte con un cinquantenne che ne esciva ringiovanito per la patina esterna. E scherzando gli dice: — _Dispeream!_ Philomuso, se potea riconoscerti. Ti aveva incontrato cigno stamane nella _salutatio_ presso Pansa ed or ti ravviso corvo. Ah! Ah!... Credi tu d’ingannare Proserpina? La fuligginosa iddia ti strapperà la maschera. _Cave!_ — Seguo la moda che in Roma trionfa. Sembra che la canizie debba essere abolita. Ed io l’abolisco. — Ma, avviso per avviso, o Mathone. E tu non giuocare con Glaucia presso il gladio di suo marito tribuno. — _Cave!_ — E che ho io a temere? — La pena degli adolescenti. — Oh! Il taglio è vietato or dalle leggi. — È forse permesso quel che tu fai? — E anch’io un avviso, se lo consenti. Non appressare la face d’amore alla lucerna fumosa di Clancia, la vedova di dugento mariti. — Buschi nomèa di avaro e nol sei. — — Rientro nella vita comune e seguo il tuo esempio. _Vale._ — Philomuso andò via, e Mathone entrò nella _tonstrina_. Uno che si era fatto radere ed allora si faceva arricciare i capelli, ricurvo sotto l’azione del calamistro, dice: — Salve, o amico. Che diceati la sciupata di quel buontempone? — Vuoi parlare della sua amante, o Tongilio? — No, della sua lingua che taglia e fende. — _Nugæ._ Astonio lo ha ringiovanito che sembra un risorto. Mio padre il conobbe biondo. O perchè il festi nero, o Astonio miracoloso? — È la tinta in favore per gli uomini. Per le donne il rosso ardente. Vedesti Levina di Bleso, per la festa delle _Palilies_, alle none di aprile? Per lo anniversario della fondazione di Roma essa adottò il nuovo colore. Durante il giuoco troiano — che il giovane Ascanio creò in Alba a ricordo della patria distrutta — i cavalieri che si avanzavano nel Foro in ordine di battaglia non miravano che a lei bellissima e, pel color dei capelli, innovata. Le donne ne ingelosirono e la imitarono. Nei teatri e nei templi omai non vedi che chiome ardenti. — Torneranno brune al cader della moda. Vacerra — un ch’era nella bottega — già sbarbato e terso, si leva dal seggio ed aggiunge: — Levina è una Venere mendace, e senza aiuti commette adulterio. — Lucio Adirano sorge anch’egli e dice: — Cotesto forse quando frequentava i bagni di Stabia e i paesani. Ma, Penelope a Baiæ nell’anno decorso, ti accerto che Elena ne esciva. — E qual nume operava il prodigio? Per Ercole! Non parea pompeiana e civile. — Il divo Apollo si piacque discendere nella tunica di Mario Venicio, e Cupido addoppiò lo splendore delle sue faci. Lo amico nostro passò lo inverno con lei in Neapolis. Ora sono qui, ed essa brucia alle vampe del suo cuore. — _Ita me bene ament numina excripta_ che ho dipinti nell’atrio della mia casa e che veggono le buone e le villane mie azioni! Davvero che men compiaccio e correggo il mio errore. — E il marito? — Cosconio Classico _strabo est, pætus et ocella_. Con siffatti malanni negli occhi si veggono le paglie nelle altrui case e non le travi nella propria. E poi in gioventù ne die’ ad usura. Or glie ne rendono. — Mathone, ecco Cneo Apro ch’esce dalla stanza. Se vuoi farti azzimare, entra. — Il giovane seguì il consiglio del _tonsor_. La cameruccia era piccina, ma elegantissima. Sopra una tavola di legno nero e dorato nelle cornici erano capsule di vetro, bombyli, bilbini, paropsidi, unguentari, ambici e tazze piene di quelle paste, di quelle resine, di quelle pomate, di quelle polveri, atte a sbarbarsi, a tingersi il pelo, a far liscia la pelle e ad imbellettarla. Una fanciulla ventenne — coperta da una tunica senza maniche che giungeva sino ai ginocchi e avente sul capo ricciuto un berretto frigio le cui alette scendeano bellamente sulle spalle e sul petto — lo attendeva sorridente e graziosa. Era una delle _tonstrices_. Pria di sedersi il giovane — dopo averla attentamente mirata — le disse: — Non di qui. — Giunta di fresco? — Quale il tuo nome? — _Mica vocor._ — Siracusana. — Da due anni. — Ben ti chiamarono pagliucola d’oro. Splendi come raggio di sole. Or fammi degno di colei per cui arde il mio sangue. — Eccomi. — Ambidue sembrate.... la unione preziosa del cinnamo e del nardo. La felice miscela del massico col melo d’Egitto. Venere dispensa a te i suoi favori. Il tempo passi e.... e non si accorga di lei. — La conosci? — Mi è nota. Tutto si sa qui. — Poni i piedi sul _suppedaneum_. — La _novacula_ ti par bene affilata? — Risuona. Ma scorre sulla dermide a maraviglia. — Ti vidi entrare un dì nella _tonstrina_ di Glaphyro. E ne provai fugace dolore. E la notte successiva la passai vegliando. — Perchè? — Val meglio patire una operazione dal chirurgo Hemos che farsi radere da Glaphyro e dai suoi Poserio, Spicolo e Chœria. Pei cinici e per gli stoici, eh! sono adatti. Le facce stimmatizzate del paese non appartengono già a vecchi atleti, nè a mariti di donne gelose. No. Ma subirono sfregi dalla mano scellerata di Chœria. E Prometeo ridomanderebbe a Giove il becco dello avvoltoio se Glaphyro accennasse di carezzarlo coi suoi rasoi di bronzo. — Veh! che or mi dirai che le capre serbano il fiocco di peli per tema di lui... o di lei! — Gelosia di mestiere! — Ti accerto che Baccara — or mia compagna — lasciò la bottega, sulla via di Mercurio, per l’orrore del sangue. — Io temeva per te una soppiatta vendetta! — Di lui? — Di lui.... e di Nata. Ti ripeto, noi sappiam tutto qui. — Il giovane si volse e la guardò fiso. La fanciulla siracusana sostenne lo sguardo. — Parli tu cogli aruspici? Nata, di Cornelio Rufo, è bella sì, di vivaci occhi, di portamento leggiadro, di lusinghiero accento: ma è donna di marmo. A contatto, la crederesti assente. Io l’amai da forsennato.... E l’amo ancora.... Non essa me. — Ti amo di vertigine per mesi. Alcune teorie del dovere le calmarono il cuore. Ti ama pur di memoria e di gelosia per sè, non per te. Capricciosa donna!... Tortura, non tortore!... — Ma come tu sai sì recondite cose? — I miei, di Egitto in Corinto e di là a Syracosion. Leggo nelle stelle e negli occhi — altre stelle che rifrangono il lume dentro e dicono alla nostra gente ascosi arcani. Ne vuoi esempio?... A Glaucia piace il tuo nome e il trionfo sulla tua fresca età. È leggiadra, nol nego. Ma.... piacevolmente si vendica in te del brutto tribuno, il quale è sì magro che par minacci rientrare un dì o l’altro per sempre d’onde la prima volta escì fuori. — La mano di Mica era tremante. La voce tremava. Lucio Mathone respirò nel vederla posar la _novacula_. Si asciugò la faccia, sedette di nuovo per farsi ungere i ricciuti capelli e soggiunse: — Calmati, o soave. Non temerò vendette di ferro, poichè a te mi affido. Tu sarai la mia tonstrice per sempre. — Sì.... Ma abbandona Glaucia, che non ti merita, al suo diafano marito. Lascia pure a Cornelio Rufo, _ancilloriolus_, le vendette tue sulla fredda e calcolatrice Nata. Un altro cuore si appoggi su quello di Lucio, e la dea pompeiana gli sarà propizia. — Mathone si levò, prese colle due mani la testa della fanciulla siracusana e le baciò gli occhi ripetutamente. Erano umidi e luccicavano come pianeti. Mica lo abbracciò con ardore e dentro era convulsa. Si separarono colla promessa di rivedersi la sera. E, ribaciandosi anche una volta, dissero in coro quella parola spensierata ch’è sulle labbra di tutti, sì breve, sì fuggevole, sì mal fida: — Sempre. — Allorchè Lucio rientrò nelle sale verdi, dove poc’anzi avea lasciato i suoi amici, questi non v’erano più. Altri gli avevano surrogati. Quinzio Volcano e Postumio Afra lo salutarono tra l’onda fumosa che i caldi _calamistri_ sprigionavano dai loro capelli. Ateio Capito a lui mestamente sorrise. Misizio Cotilo e Claudio Pudente narravano aneddoti di famiglie che eccitavano le risa della briosa brigata. Antonio Saturnino diceva i pregi di due bei cavalli africani che avea comperato, i quali anteponeva alla coppia di schiavi sicambri, di recente acquistati da Capito nel mercato di Herculanum nella occasione del _Regifugium_, alle none di febbraio, per cui si solennizzavano nei grandi centri del vasto impero la cacciata dei Tarquini e lo affrancamento del popolo romano. Fabullo Nucerio vantava la bellezza e le grazie di Phlogis e di Chione, tonstrici della bottega della via Jovia di Antioco. Astonio con molto rispetto celebrò le sue Mica, Marmerion e Nicidion, abilissime nel mestiere e di gentile aspetto. Nell’atto si udì uno strepito nella via che troncò ogni discorso. Nella Palestra di contro _discus crepuebat_. Era il segno che le botteghe dovevano chiudersi, e le terme si aprivano al popolo. I lavori della giornata erano finiti. I giovani pagarono Astonio delle sue eleganti fatiche e partirono. Alcuni entrarono nel pubblico edificio, ove la folla già conveniva. Ateio Capito, accompagnato dal bellissimo Lucio, andò per la via delle fontane di Pallade e dell’Abbondanza verso il Foro, dove si separarono. E Mathone piegò a manca e l’altro a diritta per reddire nelle loro case. L’ultimo avea la morte nel cuore. E appena solo, mormorò dolorosamente: — Il più giovane dei miei giovani affetti, la fresca alba del mio mattino, il lume che schiarava la mia fantasia è partito.... ritorna nell’Urbe. Essa qui resta amaro e pur delizioso ricordo — un idilio che ancor commuove il cuore. Ne cerco macchinalmente la mano colla mia e la ritraggo a me vuota. Fui lo schiavo di molte maghe. Ma l’ultima.... Aveva fatto di questo asilo un Eliso.... Oh! le splendide illusioni! fugate come le foglie secche del bosco! — Queste parole, a se stesso, in una stanza buia e riccamente addobbata della casa ch’è di contro alle Terme presso il Foro e proprio innanzi allo ingresso praticato dalle donne. Era disteso sur un lettuccio, prostrato, avvilito. Sentiva nel profondo il fremito dei pensieri alati che corrono ardenti, che volano verso quelli che si amano e che poi tornano monchi, desolati e soli. Era passato a traverso di tutte le gioie, di tutti i disgusti, di tutti i disinganni, di tutte le tristezze, di tutti i peccati del mondo. Il mistero aveva gittato ogni velo alla sua presenza. L’anima era giù nello abisso. Molti nel suo caso in Roma si segavano le vene, o si facevano uccidere da un liberto. Levossi, scoppiettò colle dita, uscì dal cubicolo, e s’avviò verso il triclinio, ove bene spesso aveva fatto gioiosi mangiari. Due giovanetti biondi e cincinnati, i più belli che fossero in Pompei, Belder e Hado, vestiti succintamente di un tessuto di lino egizio, apportarono entro ricco paniere frutti gustosi — pane e idromele — un’anfora di vino di Chio ed un vaso di argento d’onde esciva il vapore della acqua bollente. Due piccole tazze dorate erano sul desco. In una mescevasi il _merum vetus_ e nell’altra più larga e profonda l’acqua che riscaldasse il vino. Archigenes, giovane medico in voga, prescriveva — giusta il dettato di Heraclide di Tarentum — e raccomandava l’uso del vino caldo mangiando i fichi. Ateio Capito si trovò solo su quei cuscini, premuti altra volta da figure animate e graziose. Un raggio di sole pallido e tristo guizzando tra le foglie degli aranci e tra i cespi di rose dello xysto, entrava sul limitare della stanza e rischiarava pareti abbellite da squisite pitture. — Leda che presenta a Tindaro i suoi figli Castore, Polluce ed Elena in un nido — Amore che si lagna colla madre del disprezzo di Diana — Teseo che abbandona Arianna. — Mangiò e bevve sbadatamente. Ombre invisibili lo circondavano e seguivano i suoi movimenti distratti coi loro lunghi sguardi. Si ritolse di quivi smanioso. Offerse frutti ai penati nella edicola in fondo al giardino e andò a ricacciarsi sul letto. Avea le vertigini. Nulla amava in tal momento...... neppure la donna — malgrado che sì seducente fosse e che avesse voluto di proprio moto partire — Nikopolis, la bella greca, aveva trastullato la sua mente — vi aveva lasciato un vuoto — ma non si era impadronita del suo cuore. Hado leva la tenda spessa di panno e con accento gutturale sicambro pronuncia: — Padrone, una giovane donna manda a te questa epistola. — Ateio ruppe il filo che legava il rotolato papiro, staccò il nodo col suggello di cera; e lesse: «_Chrysis A. Capito suo._ «So le tue cure. Verrò. _Deos obsecro ut te conservent._» Nella corsa state erasi imbattuto in Baiæ con una etera sedicenne, di una rara bellezza. — Bruna. — I capelli come ala di corvo coi riflessi turchini. — Ciglia nere e lunghe. — Naso profilato e formante una linea retta dalla fronte alla base — Ovale divino. — Sorrideva come altre mai. — E parlava coi suoi labruzzi di corallo con una volubilità, con una grazia da incanto. — Nè grande, nè piccola. — Un bello ideale di donna, di quell’essere incompreso ed incomprensibile; Angiolo decaduto, sulla cui fronte sembra che Iddio lasciasse piovere un raggio della sua divinità, e il cui sangue conserva sempre i ricordi dell’Eden perduto insieme col fomite dell’antica smania curiosa. Nata ai piedi di un vulcano, ne aveva le furie, il calore, la bellezza e il mistero. Da essa potevasi attendere tutto. Gioie di paradiso, annegazione completa, disperazione da dannato. — Venere me la manda, e pare la faccia prendere dal malizioso suo figlio. Chrysis è _oro che si vende per oro_. E Nikopolis cosa era? Lo ardore dei sensi velato da un ingenuo civettismo che pur valea aurei nummi. La _bastarna_ che la porta nell’Urbe non soffra nè la pioggia nè il vento; e le mule che la trascinano non la ribaltino per via. Rifabbricando sui ruderi i ricordi estivi, ricompongo i miei giorni felici. — Sì, _suavissima mea_, vieni e ti amerò. — Levossi di letto, stirò le braccia, sbadigliò e riprese; — Sciocco che io era. Stava soffiando una burrasca in un simpulo. Tutte eguali! Diverse soltanto dalla voce e dello incarnato! Essa verrà, e colle dita di rosa raggiusterà il mio rotto cuore e lo renderà sensitivo e profumato. Stravaganza insensata l’ostinarsi negli affetti sentiti e di altri tempi! I miei padri colla virtù della mente e delle braccia conquistarono il mondo. Quirino lo disse, e noi cel godiamo. È il diritto degli eredi. L’uomo antico è spogliato. La pellicola vetere cadde; e chi la conserva, la infradicia nella carcere Mamertina o soffre la grande o la piccola diminuzione del capo — la morte — o l’esilio. — Venga Chrysis e sdimenticherò la noia e quel ridicolo rammarico per l’assenza dell’Ateniese, pessima cicuta che già scorreva col sangue nelle mie vene. Farei vergogna al mio nome e al gentil seme latino che regge l’orbe a capo della nostra possente repubblica. — Gli attenti lettori di questi miei studi di risurrezione non taccino di anacronismo le ultime parole di Ateio Capito. Quel degradato Quirite visse e morì credendosi repubblicano. Non dobbiamo attribuire agli antichi le distinzioni delle nostre parti politiche. È lo stesso sproposito dello scultore che pose la _lorica_, il _sagum_ militare, la _solea_ coi _vincula_ che legavano i sandali sulle gambe di Scipione l’Africano alle statue equestri dei due Ferdinandi della casa Borbone, e la _toga pura_ colla _tunica_ a quella in piedi di Leopoldo di Lorena. Nel mondo romano non potevasi fare una distinzione tra repubblica e monarchia, perchè l’una era la forma dell’altra. Quando Giulio Cesare ammodernò il reggimento, dicendo che era necessario tranquillizzare i cittadini col moderare la pubblica cosa e porre un freno alla licenza e alla dissennatezza omai generale, le istituzioni rimasero, e nulla fu cangio. Il potere era stato spesso nelle mani di un solo. E i troppi avevano plaudito alla dittatura. Sì, che sursero sentenze a suo pro. — _Nulla regni societas. — Insociabile est regnum. — Nulla fides regni sociis._ — E allorchè succedaneamente un solo governò lo impero della repubblica, nessuno si die’ a lamentarlo perchè pareva acconcio che un sì vasto dominio avesse ad essere retto da un solo capo. Tacito — il giustissimo e severo giudice delle peccata dei suoi tempi — apre il libro quarto dei suoi annali con queste parole: _Caio Asinio, Caio Antistio Coss. nonus Tiberio annus erat compositæ Reipublicæ florentis domus_ — cioè — Sendo Consoli Caio Asinio e Caio Antistio, volgea per Tiberio il nono anno di racchetata repubblica e di fiorente famiglia. — Al tempo di cui narro gli avvenimenti in Pompei nessuno pensava a rovesciare la forma del governo. Ma tutti avrebbero amato di non trepidare sulla cara vita e sulle acquisite fortune. Trasea, Tacito, Persio, i fieri patrizi, i filosofi malcontenti aveano lamentato i vecchi costumi di Roma e gli antichi usi politici non incompatibili collo impero. Chiedevano che il principe non nominasse i senatori, nè li radesse a capriccio od a seconda della mala sua voglia. Nè salisse i liberti ai primi gradi del governo. Laonde i virtuosi e i pochi onesti non alla Repubblica erano devoti, ma alla cosa pubblica. — Odo rumore di voce. È dessa. Viene. — Ed Ateio non s’ingannava. Trasse a sè la cortina e Chrysis gli apparve dinanzi come una visione mattinale. — Eccomi a te, _dulcissime animæ meæ_. — E gli cadde tra le braccia. L’altro la baciò sul viso e colle due mani quasi la cinse. Era un’ape; e infantile, sorridente e appassionata nell’atto stesso. L’uomo ebbe baci di ricambio e sentì un filtro soave penetrare lentamente per tutte le parti del suo essere. Era così noiato poc’anzi. Allora, qual cambiamento! — Sono venuta a guarirti. Ti porto un miracoloso amore sul quale, o ingrato, non sapevi contare. Eppure io so che soffiavi nei lunghi flauti, affannandoti per una donna il cui cuore paga i devoti alle calende della sua patria. Credilo. Ti ostinavi a porre il basto sulla schiena di un bove. — E chi è colui che vestì la _toga prætexta_ per le funzioni di edile senza aver bisogno dei miei suffragi? — Epidico Rufo, il tuo amico _a teneris annis_. — Può crepar gli occhi alla cornacchia, poichè ha lo sguardo che va sì lontano. Ciò che v’ha di vero è cotesto. Io ti amo, o Chrysis. E ti dovrò le grazie maggiori se per qualche giorni — per quanto tempo ti parrà — mi farai qui menare la vita che vivevamo in Baiæ, quella vita che lascia corredo di sogni per la età a venire. Prometti? — Lo giuro per la gentile patrona della nostra Colonia. — Mira! Tu se’ giunta in tempo. Il sole cade. Farò venire Epidico e Cæsonio. Con essi le amanti loro. Va nello xysto ad intesserti la corona di rose. Poi ceneremo lietamente e lungamente. Thespio, il tricliniarcha, ti aprirà i cubicoli qui, o sopra e sceglierai. Se temi i tremuoti, meglio stare a terreno. Comunque tu opini, io sarò presso di te. E morire tra le tue braccia, o Chrysis, è un desiarsi in grembo a Venere celeste. — La fanciulla di Neapolis non era una vestale. Nè per quella vita claustrata avea vocazioni. Le frasi di amore l’erano ben familiari. Ma dette così — e da lui — le fecero uno strano effetto. Grosse lacrime le velarono le pupille. Impallidì. Masticò per qualche istanti il proprio silenzio. Gli prese la testa fra le mani. Vi pigiò su le labbra convulse e andò via. Quelle lacrime, quel pallore, quel bacio valevano bene un lungo discorso. Ateio si lavò; si profumò; vestì la _synthesis_ che Nerone fece adottare col proprio esempio; la strinse ai fianchi col _cingulum_ di seta, le cui estremità pendenti servivano di _crumena_ da riporvi il danaro; vi appese il _sudarium_; pose ai piedi le _phæcasiæ_, specie di calzatura posta in moda recente dai Greci; adattò al collo una _catenula_ composta di anelli d’oro; ed aperta la _dactylotheca_, trasse da quello astuccio alcuni cerchi di diamanti, di rubino e di sardonica che aggiunse al _symbolus_ che serviva di sicurtà ai suoi contratti. E così andò incontro agli amici nel peristilio e di là al luogo della festevole _comissatio_. Cotesto scioperato era assai giovane. Ventitrè anni. E velava di esagerato scetticismo l’albospino fiorito della età sua per dinotare come le illusioni le avesse cacciate lontano. Schiavo del piacere, credeva in esso il solo sovrano possibile, mai esautorato, della umana stirpe. Talvolta, in mezzo alle orgie — donde nascea la follia, lo epigramma, il cozzo dei bicchieri e il tumultuar delle voci — s’isolava in un capriccio, si racchiudeva in un sogno, volava ad un pensiero che lo togliea dalla crapula ove gli altri si degradavano. E ciò lo rendea caro alla fanciulla napolitana la quale lo avrebbe voluto sempre così. Allora si sentivano di una carne, di uno spirito solo; e le delicatezze più sacre erano quelle che si ricambiavano. In quella sera egli le prese furtivamente la mano e la baciò con un rispetto che lo rendeva felice. Tra i fumi del vino che invadevano i cervelli e gli scabrosi parlari, Ateio si curvò verso l’orecchio di Chrysis e le disse sommessamente: — Sai comprendermi tu? Io ti amo di tutta l’anima mia.... come se non avessi amato giammai.... come non pensai fin qui che avrei amato alcuna donna nella vita. — Oh! non parlarmi così, luce di sole...... Da qualche tempo ti guardo e non mi sembri più umano. — E che rispondi a questo grido del cuore? — Mi abbia Venere irata se la passione m’inganna... Ma io perdutamente ti riamo. — Che io viva, o ch’io muoia, io rivaleggio coi numi. — La bella fanciulla aveva avuto il suo amante improvvisato in Baiæ, offertole dal capriccio dei passi. E pur d’improvviso la era apparsa ad Ateio quando men l’attendeva. Abitavano ambidue la contrada poco acconcia al viver casto e pudico. Avevano appartenuto al capriccio, di cui il nome ed il viso potevano cambiarsi, ma le esigenze sì per lei, come per lui non cambiavano mai. Amarezze sdegnose, inique collere, sterili gelosie i miei padri non le conobbero. Rispettavano il passato come sacro mistero. Ora lo affetto bollente erasi fatto sangue impetuoso e carne trionfante. — I beoni vedevano triplo. Le donne avevano il volto acceso e stralunato. — E nessuno di essi notò quando il _pater convivii_ e la sua amante si levarono dal _textile stragulum_ per andar via. Essi corsero a celarsi nello Eliso della voluttà e dello amore. La luna risplende in Pompei come non vidi mai altrove. Sembra ch’essa corra amorosa per ogni via in cerca del bello Endimione, di cui tanti i dipinti sulle pareti degli atrii e dei cubicoli. In quella sera navigava per l’aere azzurro nella sua pienezza. Belder era appoggiato al muro sul margine della strada. Pensava alle sue verdi lande popolate di buoi. Alla indipendenza della sua razza indomabile. Alla obbrobriosa sua schiavitù. Egli, libero già come l’usignuolo delle sue native foreste, ora abbandonato dai suoi rapitori poichè il vendettero, disperava di più rivedere i ruvidi altari, le funebri collinette di sabbia sotto le quali posavano calcinate dal fuoco le ossa dei padri e i ripari di terra dietro cui si erano trincerati i Kanine-faten per difendere dalla ingorda prepotenza dei Romani i nati del proprio sangue e le pelli — letto, veste, coperta, difesa, lusso della loro esordiente civiltà.... E sospirava! Alto e ben fatto della persona, ventenne, biondi capelli inanellati gli cadeano sulle spalle — poichè era _acersecomes_, cioè, intonso — e una leggera lanuggine gli adombrava il labbro ed il mento. Aveva uno di quegli ingenui sorrisi che sembrano tutto comprendere; e tale era lo sguardo racchiuso nella sua glauca pupilla, a ricordare i disegni capricciosi delle torbe accese nella capanna ov’era nato, in cui da bambino pareagli notare i gigli dei laghi, i cespi fioriti delle eriche e i gruppi dei pini agitati dal vento e guizzanti come onde oscure di fumo nella spessa ed umida atmosfera. Un gruppo di giovanette escì parlando e gesticolando e ridendo dalla porta delle Terme. Erano le liberte e le schiave di C. Cuspio Pansa che rientravano dopo il bagno dirimpetto, nella casa vicina. Una delle fanciulle vide più in giù a diritta il sicambro. La luna lo illuminava tutto. E con una grazia quasi infantile, che le parole non sanno dipingere, corse a lui ed aperto gli disse: — Da che ti vidi mi sembrasti Adone. E quando ricordo il bacio che in Milo la madre mi dava al destarmi, desidero ardentemente che tu mel dia in questa terra straniera. Vuoi tu riscaldarmi l’anima con tanto bene? Senti tu gli affetti siccome noi li sentiamo? — Il giovane distese la sinistra sul capo di lei, le volse la faccia verso la luna ed aggiunse: — Sei bella, quantunque le Nornen — le sorelle del Fato — ti abbiano abbronzato la pelle ed acceso il fuoco negli occhi. Wodan — il terribile iddio — bacia le stelle negli spazi del cielo. Io bacerò la tua bocca. Ma io non amo mettere da parte l’anima mia nelle felicità dei miei sensi. — Phanisco gli fissò gli occhi addosso con una espressione di soave languore. Lo sguardo fiero e più la parola austera del selvaggio figliuolo dei boschi la penetrarono. — Qui, nei nostri cuori una comunione eterna di gioie, di pensieri, di pene. Vuoi tu amarmi? Puoi tu cementare la unione divina di due cose immortali che si confondono? — — Dammi la mano — Freya ti spinse ver me per alleviar le mie pene... Quando avrai bisogno di un uomo che si faccia uccidere per salvarti, non correre lungi, io sarò qui. — La donna, nervosa e passionata, debole e pure dominatrice, si slanciò nelle sue braccia senza rispondere. Trionfava dell’uomo che da parecchi mesi spesso incontrava e subito amò. Era il papiro su cui voleva scrivere la pagina gentile della sua vita. L’avarizia non potette mai appressare le labbra livide sulla sua fronte. Nè i doni, nè i rigori di Pansa valsero a vincere l’ostinato rifiuto. Le sensazioni deliziose che ora provava erano la sua ricompensa. Fra i due giovani nati in sì diverse contrade — l’una bagnata dalle nebbie, l’altra calcinata dal sole — che forse incontrandosi per la prima volta si erano ritrovati — seguì per qualche tempo un dialogo che chi legge ricorderà senza che io il dica. Nel separarsi si promisero un più discreto ritrovo. Diana è patrona agli amanti circospetti e pudichi. Ma, se inverecondi, gli svela. — Oh! l’oro fluttuante sul capo tuo! Quante volte sognai di carezzarlo colle mie mani! — _Geif my een zun. Faruel._ — Phanisco gli accordò di gran cuore il bacio che l’atto delle labbra protese — e non la frase sicambra — le parve volesse significare e andò via. Ambedue, rientrati nelle dimore dei loro padroni, si coricarono sui velli di montone che servivano loro di letto. Non una parola, non un sospiro, per tema che l’ospite divino, penetrato nel cuore, offeso da distrazioni, fuggisse. Cneo Vibio aveva voluto disporre e rinnovare lo aspetto interno della casa pel ricevimento della sua sperata. I migliori pittori vennero a decorarla coi loro pennelli. Ordinò vasi fittili in Nola. I bronzi, nel paese. I trapezoidi e le statue di marmo, in Herculanum. Si lavorava. Gli artisti davano l’ultima mano alle pitture. Gli schiavi avevano lustrato col piombo i pavimenti. I fonditori consegnavano i candelabri; il letto nuziale e le _sellæ jugatæ_, con quel meandro che noi chiamiamo _greco_ e i Romani dicevano _lacunar_ ed i Greci φάτνωμα, da φάτνη, alveolo, specie d’intarsia di argento sopra una fascia di rame sul bronzo; le lampade; gli arnesi molteplici al servizio delle imbandigioni e dei delicati mangiari. Nel tablino — il cui piano era di mosaico bianco inquadrato da un filetto nero; e le pareti, dipinte da Alectryon, rappresentavano le muse Talia, Euterpe e Melpomene, gruppi di baccanti e di fauni, Ganimede rapito dall’aquila di Giove, la collera di Achille, Ulisse che con una gherminella gli rivela i maschi istinti, e il mendicante re d’Ithaca che chiede soccorso ad Eumeo — erano stati deposti sui banchi e sul mosaico i vasi, le tazze di vetro egizio scolpito, una statua di bronzo ed una di marmo. L’uscio di strada era aperto. Uomini eleganti, o svagati che occupavano il loro tempo nel girandolare, nel domandare e nel ricambiarsi le novellucce del giorno, nel ber fresco o condito in ogni termopolio, nel rilevare i vizi e le ridicolaggini dei particolari — tutte cose nate dalla attività dello spirito e dalla oziosaggine della vita — scorgono colà dentro il padrone della casa ed entrano, siccom’erano già entrati in ogni bottega di profumiere e di orificeria per far compre per sè o per le loro amanti. Alleio Nigidio fu il primo a salutare e a stringer la mano allo edile ch’era loro venuto incontro nel _prothyrum_. — I tuoi dioscuri sono bellissimi, o Vibio. Chi gli ha dipinti? — Poseidonio.... — Ehi!... vien qua per udir la critica sul tuo lavoro. — Mi pare però ch’egli abbia reso questo ingresso uno dei più splendidi di Pompei. — Il pittore che stava dando gli ultimi tocchi nell’atrio ad una Venere celeste coronata, vestita di azzurro con stelle d’oro e appoggiantesi sur un timone di nave, presso il quale Amore è in piedi sur un piedistallo, si fece innanzi sorridente e sicuro. Aveva un berretto frigio sul capo. Una tunica rossa sulla persona. La fronte alta. La barba grigia. Il naso breve e ammassato. Gli occhi rotondi, scrutatori, memori, pieni d’immagini e di scoperte ingegnose. Quella sua figura parlante affascinò i curiosi in sull’uscio. — Ho seguito la tradizione di Apollodoro. Polluce, immortale, figliuolo di Giove. Castore, generato la notte di poi da Pindaro, mortale. Il consorzio di un novilunio, pria di vedere la luce, teneramente gli affratellò. E quando il geloso Ida rese vedova la rapita Ilaira, e quei solenni domatori di cavalli divennero costellazioni.... — Tu credesti acconcia cosa il ritrarre i due nati di Leda allo ingresso della casa del nostro edile, come curatori e patroni delle sue prossime felicità. Bene facesti nel presentarli in atto di camminar lentamente, reggendo ciascuno pel freno il cavallo. — Nobile e divina movenza! — Così Giunio Semplice. Ma a Milio Maio non piaceva che i due affettuosissimi procedessero sulle opposte pareti a rovescio. Simiglianti di volto, di persona, di arnesi, d’intendimenti, avrebber dovuto, secondo lui, camminar di concerto. Laonde, il pittore a lui replicò: — Siccome Giove permise che l’un rinascesse ogni semestre per consolare il gemello immortale, così l’una stella sorge e l’altra tramonta; ed io diedi all’uno la direzione opposta dell’altro. — E quel pileo costellato il ponesti sui ricciuti loro capi per dinotarli nati di un uovo? — Plozio Svellio potrebbe non ingannarsi. Luciano pur dice così. Ma io credo con Festo Pompeo che il pileo fosse dato a Castore e a Polluce perchè spartani, i quali avevano il costume di combattere pileati. E la clamide la posi sugli omeri _insidentem_, come Aliano il decise. Ed _ambo hastile gerunt_, siccome Stazio ha notato. Non trascurai veruna particolarità. — Il capannello erasi accresciuto. E tra gli altri, fattasi innanzi Laconies, una schiava addetta alla tessitura delle tele, volle anch’essa dire il suo verbo. — E al ver ti apponi. Orazio dice nelle satire, _Castor gaudet equis, ovo prognatus eodem_ _Pugnis_.... Dunque se Castore fu detto _equorum domitor_ e distinto nei giuochi delle corse, Polluce si palesò valente pugillatore e patrono agli atleti: — Al duro accento ti riconosco spartana. E mal comprendo come tu abbia sì presto obbliato i tuoi conterranei, i quali mai si dipartono dai loro cavalli, doppia forza al guerriero. E ti aggiungerò qualmente la voce della tradizione faccia Giunone donatrice ai Dioscuri di generosi destrieri; laonde sempre, o sopra, od a lato di essi, ritraggonsi sui bassorilievi, sulle medaglie, sulle gemme, sui vasi e sul marmo. Se non vuoi ammettermi queste ragioni, concedi ad un pittore il seguir la legge della euritmìa, e torna al tuo mestiere di Aracne. — Risero gli amici alla confusione di Laconies che andò via borbottando. Ma prese a difenderla Vibio. — In una città qual’è la nostra, a poche miglia di Herculanum, presso Neapolis e Nola, non lungi da Baiæ e da Cuma, ove ad ogni piè sospinto si rizzano dal suolo edifici eleganti; ove di statue son prodighi il Foro, i teatri ed i templi; ove l’occhio di tutti viene educato al vero ed al bello ideale; ove i portici delle case private si animano e parlano agli occhi di chi attento riguarda; ove la vita, dopo il breve lavoro manovale, si passa in letture, o in racconti, od in poetiche rapsodie, non è maraviglia che anche la mia povera schiava abbia potuto emettere il suo giudizio e non aver torto. Nell’Urbe il Campidoglio si abbella di Dioscuri colossali a lato dei loro cavalli. E ricordo i versi del poeta che pur dice: _Puerosque Ledæ,_ _Hunc equis, illum superare pugnis_ _Nobilem_.... Ma, udite il tafferuglio delle mie genti nel tablino! Mirano e sentenziano. Andiamo a vedere il Meleagro, la Baccante, la Venere celeste ed un Marte, or or condotti dal nostro valente Poseidonio. Quindi esamineremo i dipinti di Atheneo, di Charicles e di Astynoos. — E di fatto, non eran chete le gazze. Rhodope e Primigenia avevano per le mani due specchi; il disco del primo, di argento, era sostenuto da una figura ignuda che ha elevato le mani e poggia i piedi sopra una tartaruga; il secondo aveva un capriccioso manico ricurvo, terminante con una testa d’oca, quasi per appenderlo; ed il disco era afferrato dalla bocca di un ariete che colle prolungate corna pur lo fermava. — Mercurio, nipote di Atlante, sostiene convenevolmente la immagine di una donna, ch’è il pernio del mondo. La testuggine, simbolo del facondo dio, indica il voto che la bellezza sia lenta a sparire. Ma le serpi, le ali, la borsa perchè qui obliati? — Chiedi stranezze, o Rhodope. Le corna sì, in questo che ho nelle mani, sono di troppo.... Oh! Mira il bel vaso che fa Lochiades opponente da Batracho. Quel giovane che ha l’asfodelo nel pugno è in vero manchevole nella persona. — Sì, quel torso non fa onore al pennello di Echeclos. Potea risparmiarsi di graffiarvi καλος. La giovanetta nuda è meglio trattata. Le linee s’intrecciano armoniose, con grazia e con eleganza d’invenzione. — Di’ sino a domani. Ma il Nolano sa quello che fa. E chiudi la bocca dinanzi l’altro fittile che presenta la leggiadra donna che ha nella destra lo scettro della bellezza, e porge colla manca una coppa piena di gioielli a quel giovane che accetta il dono e ne toglie di sorpresa una grossa perla. Gli è il simbolo delle nozze di Vibio. La perla del dolore. Il premio alla virtù.... Oh! lui beato! — Veh! Epogato il bel vase di bronzo dal solo manico che finisce con due colli d’oca e dalle foglie di acanto che accompagnano i tre piedi con gentili incisioni. — Ricorda, o Polydemo, i bei versi di Virgilio: _Et nobis idem Alcimedon duo pocula fecit,_ _Et molli circum est ansas amplexus acantho;_ _Orpheaque in medio posuit_...... — E vedi nel manico la testina di Orfeo che da Alcimedonte fu posta nel mezzo del vaso cennato dal Mantovano. Meglio interessante questa diota col gruppo formato dal puttino alato e dal tigre sui due manichi. — _Butu Batta!_ Cotesti κακαβοι, o come qui gli chiamano, _akena_, faranno brontolare il _coquus_ Elesiade di Messana. Più eleganti le _sartagines_ da friggere, le _pelves_ da cuocervi dentro le carni e le _patellæ_, quelle tegghie da pesce. Eccolo che viene, o Lucidea. Scommetto approverà lo _ahenum_, di forma elegante, che ha il manico del coperchio simulante un delfino. — V’ingannate, o Abacino, o Issa, o Hagyo e Certa. I cacabi da appendere o da poggiare sui tripodi gli amo meglio semplici e senza ornamenti. La dea Fornax nè sa qualcosa quando gli schiavi gli nettano. Le casseruole le avrei volute fornite di bei manichi — una testa di lepre — un capo d’aglio — un ariete. — V’è solo il buco per appenderli. La patella per cuocer le uova a riverbero nei loro gusci onora l’artefice. Cotesta sì, è una sorpresa, e debb’essere Mutraio Quirinale, il fabbro che ha bottega sulla via Domizia. Liberò alla sua salute stasera dal vinaio Spiritus. E poi, come tutto è bene stagnato nello interno, secondo il recente sistema dei Galli Biturigi, sì che pare inargentato come pria si faceva. — E che dici, o sapiente manipolatore, di quella fornacella di ferro, contenente il vaso per le opere tue? — Non la lodava, o Certa, perchè _pars maxima in ea_. Ne dissi il congegno a Saturnio, il puteolano; ho assistito alla sua fattura, e me ne servirò per tenervi calde le salse con pochissimo fuoco, chiuso com’è di ogni parte. Ma i tre manichi ch’egli vi aggiunse, uno pel coperchio e gli altri per trasportar la fornace ove piaccia — quelle statuette di donne giacenti — sono proprio una maraviglia. — Berrai anche per lui, o Elesiade, eh? — E berrò triplo, o Abacino, se tu mi secondi. — E berrò decuplo come Anacreonte, se Certa non disdegna il contatto delle mie labbra e l’autocrazia sulle vampe del mio cuore. — Salve, o imperatrice dei cacabi! — Eh! dicesse da senno.... accetterei. — Due ragionavano tra loro in mezzo agli sguaiati parlari. E miravano due statue di perfetto lavoro. Quella di bronzo posava sur un globo guarnito dalla fascia zodiacale. Era da collocarsi nello impluvio, dinanzi lo ingresso della casa. L’altra di marmo aveva un occhio di bronzo nelle reni per collocarla sospesa in aria tra le tettoie della seconda corte e sopra lo xysto. Erano veramente due capi d’opera. — Mira, o Aurelio Postumio. Le chiome cadenti sugli omeri, il seno ricolmo, il peplo che dal capo va giù in lunghe pieghe, la rotondità delle forme la testimonierebbero donna, se l’artista l’avesse tutta coperta. La destra rialzata sulla spalla per rilevare l’unica veste e il flabello che stringe colla sinistra sono pur muliebri atteggiamenti. Quel figliuolo di Mercurio e di Venere nel cui corpo la passionata Salmace si compenetrò, servì all’allegoria di cui sono scuole perpetue le antiche iniziazioni. — Come, o Vepinio, l’ermafrodismo non è dunque nella natura, e le son favole quelle che troviamo nei papiri? — Sono e non sono. Ma la statua che Vibio commise allo artista ercolanese dice tutt’altra cosa. Cotesto accozzamento delle parti maschili e delle forme femminee che posa i piedi sul globo terrestre è il genio della natura che s’immedesima nei due sessi. — Che ammirate di bello? — Ammiravamo, o Giunio Semplice, l’allegoria ch’è in quella statua di bronzo e.... Vibio, tu fosti servito a dovere. Il Fauno, il Narciso, il Sileno, il Bacco, ed altre poche scolture in Pompei possono gareggiare in siffatto confronto. Ti costa molto? — Aurei nummi! — Bene spesi!... E lo stesso artista fe’ pure la statuetta di marmo? — Mai no. — Una è di Apollonio, figlio di Archias. L’altra è di Suliodes, lo ateniese. Rappresenta l’anima umana che allargando mollemente le braccia e spingendo lo intero corpo vaghissimo nello spazio, cerca, ricerca, urta, cade, si risolleva e vola nelle ondulanti spire dell’aria. — O maraviglia! — E perchè nel destro polso la sottile armilla? — Un uomo ch’era stato ad udire colle braccia in croce dietro le spalle, e tutt’occhi guardava la statua posta sur un tappeto di lana per terra, non potè a meno di dire: — È il legame della psiche immortale col suo velo corporeo quaggiù. — Bravo! è un uom di genio costui! — Merita del vino _diffusum consule capillato_. — No. Se ne avessi sarebbe dolciume. Darò a Peloro di quello _mecum natum consule antiquo_. — Io rimango estatico, o Giunio, dinanzi quella scultura. La rivedrò messa al posto. Come la gioventù diffondesi per tutte le membra, e colla gioventù la bellezza! — La correzione del disegno, o Vepinio, la grazia dello atteggiamento sono un insieme che rapisce ed incanta. — Nell’atto entravano per l’uscio di strada Hermio e Macerio. Erano due schiavi dello edile. Uno richiamò la di lui attenzione su due briglie che avea per le mani — una semplice — una più adorna. — Erano di bronzo. — Mira, o padrone. Questa a sinistra non la desidero. Nessun ornamento. Lo artefice però ha aggiunto al _prostomis_ la bella catena, la _psellion_, per sedurmi. Sfibbierò l’altra e la ficcherò pei due anelletti laterali, ne’ quali va il freno, e la passerò sotto il labbro inferiore del tuo nobile africano, perchè non apra la bocca. Consenti? — Tu hai gusto, vecchio Hermio. La equilia è il tuo regno e disponine a modo tuo. — È buono il signor nostro. Sappiano tutti gli dei ascoltare i miei voti. — Comperai anche un _prometopides_, da porsi sul fronte del cavallo. È di bronzo, intarsiato di argento con bella maestria. Mira! In mezzo havvi un dischetto ove appariscono in basso rilievo due uomini seminudi che si tengono per mano, pigiando le uve sotto una pergola. — E tu, Macerio, che rechi? — Una lanterna, o padrone. La luce fumosa della fune impegolata, nottetempo ti offende. — I due sostegni sono di metallo a getto. Per dar passaggio alla luce interna ho preferito il corno, sottile più del vetro e più forte. La comperai da Tiburzio Cato; nè ho a dir altro. — Sono contento dell’opera vostra. Andate. — Quei giovani s’intrattennero anche alcun tempo collo edile, ragionando di arte, aspirandone per la retina degli occhi e traspirandone per ogni poro. E chi non era artista in Pompei? Scuole, siccome noi or le intendiamo, non esistevano. Ma tutto e tutti ne fornivano continuo i modelli, dalla natura animata alla natura palpitante. I pesci nel mare, le triremi sul Sarno, i begli alberi carichi di frutta sul piano, le case di campagna sul versante del Vesvio, i monumenti nella città, i bambini ignudi, le donne non molto coperte — di belle linee fornite e di facile consorzio — il culto professato largamente alla iddia del cuore dalla pubertà sino al possibile, ecco gli educatori allo sguardo per la scienza della forma, per la leggiadria delle movenze, per la magia dei colori, per l’armonia dei gruppi. Io veggo graffite sui muri caricature delineate col sentimento dell’arte. Nello ambulatorio addetto alla famiglia degli accoltellanti erano immagini di giostre, di uccisioni e di cacce che nessun soldato oggi saprebbe segnare colla baionetta. I mosaici presentano una varietà di disegni ed uno accoppiamento di marmi ammirevole. Non un quadro copia di un altro. Se raffigurante lo stesso soggetto, diversa la posizione delle figure. E ve ne ha di quella che Raffaello e Michelangelo avrebbero testimoniato co’ loro nomi. Io credo che ai monelli — dopo aver macinato i colori e visto il metodo di adoperarli — prendesse sovente la fantasia dello imbratto e riescissero. E incoraggiati e plauditi, continovassero. Quell’_anch’io son pittore_ debb’essere di antica data. Ed è certo di origine italiota dai secoli lontani. Gli amici si salutarono e si strinsero le mani. — Quando le nozze? — — Appena, o miei, avrò posto in assetto queste domestiche cose.... Nei giorni fausti del quinto mese. — Fra poco. — — Augurii lieti, felici. — Tutti partirono. Andarono di concerto sino all’arco a trionfo. Quindi ognun prese il suo cammino, quale verso il Foro, quale alle sue case. Un d’essi, Marco Porcio, avviossi colà d’onde esciva la luce che irraggiava in quei giorni il suo cuore. E camminando diceva a sè stesso con quel gesto animato dei meridionali. — La mia chimera è svelta come Diana cacciatrice. La donna breve, più che uno sproposito, è una inavvedutezza di Vitunno che dà il soffio della vita ai mortali. L’amo bianca, perchè il giglio è bianco. I poeti per velare gli orrori della pelle bruna la dicono dorata dai baci del sole. Quell’oro è rame brunito; è una epidermide di assi. Ho qualche sospetto però sul colore dei suoi capelli. Ma così qual’è, anima e corpo sono un invidiabile possesso. — Cennia Augusta — della famiglia Procula — che l’occupava sì da veder lei in ogni cosa nella quale imbattevasi, lo riamava; ma di quello affetto di donna giovane e svagata che vien dopo la idolatria di sè stessa. Quanta giovinezza! Quali occhi! Oh! come purissimi i suoi contorni! Tre anni innanzi, in aprile, aveva compito dodici anni. E se lo spirito avea progredito, anche la natura aveva sviluppato su di lei le sue forme svariate. Già nella notte un ribollimento del sangue aveva sollevato i suoi sensi nel calore del riposo ed operata una gradevole epurazione che avevala agitata e commossa tutta. E nel maggio, la natura fiorì in lei d’un tratto e senza sforzo, siccome una rosa vivace e fresca che sbocci al bacio possente dei raggi di un sole di primavera. Non poteva uom vederla senza sentirsene punto dentro. In quell’ora la era discesa dal letto di avorio per andare nel domestico bagno. Quivi: _Effulgent camerae, vario fastigia vitro_ _In species animosque nitent:_ E la giovane etèra baloccavasi nel tino di bronzo, lucido e terso come oro, e udiva la cronaca scandolosa del giorno che Feda, la sua venerea, le andava narrando, intanto che la _flabellifera_ le teneva lontane le mosche dal capo. Dopo un lungo cicaleccio su molti svariati propositi, Giulia interruppe: — Oh! Tutto concedo ad Horania di M. Alleio Sirico. — Il lusso di cui non abbisogno — lo amore che mi circonda — gli affetti di Porcio dipendenti dal mio sorriso — le di lei ville sontuose in Capreas e sul Vesbio — tutto — tranne quella _crotocula_ dal colore di zafferano, tanto ora in moda.... Ahimè!.... Tamno; il mercante nella via Popidiana che mena alla porta di Nola, mi assicura non averne più di tal tinta. — — Eh!... l’avrà. E vorrà fartela pagar nummi d’oro. Phrygia — la tua nudrice — udì lo sproloquio che Tamno facea con Ebelana e con Lusia al proposito di quella stoffa egizia. Certo, par cosa maravigliosa. Sai?... Egli riceve dal paese che crea ogni portento tessuti bianchi, ma apparecchiati da industri artefici in Tyro. Gli tuffa nella caldaia ove bolle un mordente, e le stoffe impregnate escono fuori di colore diverso, cui nè l’uso impallidisce, nè l’acqua della fullonica lava. — — In verità, di quella tinta io non vidi mai alcuna veste. E la voglio. E l’avrò. — Odesi un leggero rumore di passi sul molle tappeto della stanza vicina. Una mano solleva la portiera. Ed ecco due giovani e belle schiave, vestite di lunghe tuniche bianche, le quali penetrano nel misterioso asilo di Venere e delle Grazie. — Marco Porcio, o padrona, è venuto e chiede vederti. — — Mercurio, o Feda, a me propizio lo manda. Sacrificherò a quel divino nel mio larario. — E sì dicendo si sollevò dal tino. E dal suo bellissimo e ignudo corpo discese a goccioloni, come pioggia di perle, l’acqua profumata da asiatiche essenze. Le schiave denudaronsi anch’esse le braccia e il petto rigonfio per essere più libere nei loro movimenti. E carezzarono con minuziosa cura la dermide delicata della padrona mercè sottili spugne tinte di porpora. E presi gli strigili di avorio, con essi mollemente la tersero. E la nettarono colle pomici. E la dipelarono col _lutum venetum_ — miscela di terra di Cypras e di aceto. — E l’asciugarono a modo colle pelli del petto dei cigni. Quando in seguito la Cennia fu innondata di aromi i meglio preziosi dell’Assiria e dell’India, chiuse la seducente persona in una di quelle tuniche di lana che Varrone chiamava stoffe di vetro per la somma loro leggerezza: calzò i piedini in eleganti _soleæ_ scarlatte, adorne di ricami d’oro e di granati. E appoggiata sulle spalle delle schiave, si trascinò in una stanza bene illuminata, dove le donne di quella tempra _dum comuntur, dum moliuntur_ spendevano un anno di vita. Finchè durarono le prime cure nessun occhio indiscreto potè penetrare in quello asilo, come se quivi si fossero celebrati i misteri della Buona Iddia. Fra lo _speculum_ di argento e la persona è sulla tavola tutto un _mundus muliebris_ — spilloni, stili, lime per le unghie, spazzolini pei denti, pennelli pel liscio, mollette per strappare i peli del mento, vasi di avorio, di alabastro, di argento, di vetro, di terra di Nola, di murrhina, contenenti i cosmetici i più svariati e le essenze preziose. — Vi erano le pomate di Cosmos, e di Marcelliano. E i profumi d’Iris di Corinthum. E gli olii estratti dalle rose di Pæstum, di Præneste, dallo zafferano di Rhodum, dalla maggiorana di Cos. Nè tra gli aromi mancava quello delle mandorle amare di Mendes; e del cinnamomo che costava venticinque denari la fiala; e il così detto _regalis_, perchè composto pei re dei Parti, il quale odore era il più stimato e ricerco per la ragione che gli era il peggio costoso degli altri. Dopo avere annerito i sopracigli e le palpebre con uno spillo esposto alla fiaccola della lucerna e rosate le gote col belletto — sì che gli sguardi doventassero vivaci e lo incarnato attraente — una nuova schiava, Hellen, sparse sulle chiome di Cennia un’acqua il cui secreto era dovuto ai Germani, il popolo suo. Quei capelli, poc’anzi neri come ala di corvo, presero presto lo splendore dell’oro, ardente qual fuoco. Dappoi che Nerone avea celebrato coi suoi pessimi versi il biondo arrischiato della sua consorte Poppæa — cui egli diè il nome di saccinum, fossile combustibile, bituminoso di un giallo rossiccio come il giacinto — le eleganti avevano sdegnato le nere capigliature che ornavano la fronte delle figliuole del popolo italiota e, o si adattavano sul capo i capelli tessuti delle bianche donne nate sulle rive del Reno, o li tingevano del colore dell’ambra per non parere creature volgari. Allorchè la _coma_ fu _calamistrata et crispata calido ferro_, e gli aghi crinali la tennero in quell’ordine di anelli che la moda imponeva, lo amante poteva entrare ed assistere al compimento dell’acconciatura. I veli del mistero non avevano altro a coprire dinanzi al suo sguardo. — Venere physica e Mercurio abbiano lo altare giuncato di fiori. Poi sacrificherò io in secreto alle divinità favorite. Intendi, o venerea? Ora, introduci qui il giovane Porcio.... Prima però dammi la _calthula_.... eccola là... quella leggera, azzurra, che si accorda coi miei capelli ora biondi. Mi avvilupperò in essa per quanto occorra. — Marco venne accolto con una di quelle frasi che danno al colloquio della prima ora lo incanto e la dolcezza della intimità profonda. Cennia gli stese la piccola mano, gemmata in ogni falange, che l’altro passionatamente baciò. Non so se i pochi lettori, che le cure nazionali e le depauperate fortune mi economizzano, abbiano mai riflettuto al rapporto misterioso che esiste tra la mano e la bocca di una donna amata. Parmi che in quelle dita, su quelle labbra arda una qualche fiamma che bruci il sangue. Sono i due punti da cui scaturisce il filtro che crea le grandi ubriachezze del mondo. Erano soli e senza alcun sospetto. Non io narrerò la conversazione del cuore ch’ebbero insieme. Un profumo divino era racchiuso in ogni loro pensiero. Un mistico fiore fu colto, assaporato, goduto. Quando il dialogo — interrotto talvolta da eloquenti silenzi e riattaccato da frasi velate che dicono tutte le cose della terrà e del cielo — ebbe fine, la donna dominata da una idea cardinale che l’agitava da tempo, discese dallo empireo dei sensi e così prese a dire: — Io sono ciò che hai voluto.... Mi sento tua. E ne son lieta.... Sì, tu mi fai la donna felice quaggiù. Ma.... — Che manca a Cennia Augusta, l’amica dell’anima mia? — Ho il bene supremo con te.... Avrei Venere irata se mi dolessi. Mi ami e mi dài continove prove di affetto. Ma una goccia di pioggia turbinosa mi è caduta sul cuore. E i dragoni, le arpie, le chimere, tutti i mostri di Acheronte non m’impaurano come il pensiero che da qualche istante mi assedia. — Allora lo amante ansioso si levò dalla _cathedra_; e abbracciandola, cercò consolarla: — Se tu mi ami riamata, qual fuoco incendia le ali della tua psiche divina?... Tu guardi confusa sulle tue mani?... Sei stanca delle gemme incise da Phrygillo, da Tamyro, da Apollonide, da Tryphone, da Dioscoride? Preferisci ornar le tue dita di smeraldi, di granati, di ametiste, di niccoli lavorati da Aquilas, da Quintillo, da Rufo, i migliori tra gli artefici del giorno? Dillo ed avrai.... — No, caro ed amato Porcio. — Tu arrossi confusa? Ah! comprendo ciò che da me ti divide. Rivedesti nell’Odeon Q. Pompeo Amethysto che un giorno sospirava ai tuoi piedi. Ha un fascino il suo sguardo. Parecchie donne mi han detto che i suoi occhi dimoiano più facilmente le reticenze del cuore, di quello che il sole la neve. — Tu evochi periglioso ricordo. Che la memoria solletica più furiosamente dell’atto. E lo invisibile dà una scossa dolorosa e di tutte delizie alla fibra delicata di certi cuori... Ma, non temere. Non è l’ombra che viene ad assalirmi.... Bene, una cosa reale. — E lo chiuse tra le sue braccia e lo baciò colle labbra smaniose. E poi, mirandolo fisso per meglio immedesimarselo — era sentimento? era artificio? chi comprese mai il vero sullo sguardo delle anime innamorate? — proseguì: — Se io ti oblio, o Marco, che Venere mi oblii. Il mio amore per te è la saviezza del cuore. Io mi voto a te con tutta la tenerezza della creatura composta di nervi e di sangue. — Ma dunque, parla. Che è mai? — Perdona. Noi — fragili cose — siamo l’orgoglio, la curiosità, il capriccio, lo interesse vanitoso del sesso più forte. Una _crotocula_ io vidi del colore ora in moda. Tamno l’ha venduta ad Horania, donna del tuo amico Sirico. — Ma Tamno altre ne avrà. — No. Sol’una ed è quella. Lungo è il tragitto da Tyro. Breve dall’Urbe. Toglimi da questa malattia del cuore. Ed avrai tra le tue braccia la donna scherzosa come un epigramma e passionata come una elegia. Vuoi? — Il sole ha mille aspetti commoventi, e tu sei come il sole, o mia. Mi facesti tremare pur dianzi. Or mi sollevi dal profondo ove la fantasia incerta non trovava la strada per tornar su. Sì, o amore, sarai consolata. — Chi descrive il sorriso di Cennia Augusta a quei detti? Non io. Sulla sua faccia splendeva qualche cosa di fuggitivo, d’indistinto, di misterioso che fornisce nuovi alimenti alle vampe che allumano il nostro sangue. Quegli che sa le grazie della donna, e che passò la sua gioventù a contemplarla, e che apprese a vivere contemplandola, comprenderà e delineerà il sorriso di quella bellissima creatura appagata. — Lo giuro a Venere sacra, e l’avrai. — Partì. E quel giuramento della volontà fu un di quei pochi che il vento mal fido non osò portar via. Horania — la giovane donna invidiata pel possesso della _crotocula_ — era allora in una sua villa sul versante meridionale del Vesbio. La strada che vi conduceva — praticabile dai cavalli e non da alcun carro — era abbellita di alberi e di fiori, e di utili culture. Le quali venivano qua e là interrotte da enormi massi grigiastri che facevano pensare ai combattimenti misteriosi tra esseri di una forza sopraumana ed altri la cui natura il senso religioso tentava spiegare. Su quei massi non una pianta; qualche arido stelo sulle crepacce. Pareva la preda offerta agli ardori divoranti del sole. La casa era grande e di forme svariate. Torri — porticati a colonne — piscine elittiche — atrii con camere da letto, sale, bagni, e fauci che il tutto riuniva, esponendo ad un cielo di zaffiro le sue mura bianche ed incontaminate. Il padrone di quel luogo sontuoso era assente. Sirico — che in città possedeva la casa prossima alle Terme, dal triclinio il più ricco di pitture che sia in Pompei, dal protiro che saluta il lucro quale la divinità del suo cuore, e che sul muro di contro aveva fatto pingere ad encausto i serpi simbolici contro il mal’occhio colla iscrizione: HOTIOSIS LOCUS HIC NON EST PROCEDE MORATOR — era un uomo di speculazioni arrischiate che i costumi depravati ammettevano. Provvedeva di cinedi e di fanciulle i fastosi del paese e di fuori, e faceva mercato di schiavi da lui comperati in Europa e nell’Asia. Da due mesi trattenevasi nell’Urbe a cagione del suo turpe commercio. Horania era stata a sedici anni da lui acquistata in Pale, dell’isola di Cephallenia che con Ithaca prospetta il promontorio greco dell’Acarnania. Più che quarantenne, avevane fatto la compagna della sua esistenza; impadronendosi di una giovane vita — non del suo cuore — e sommettendola ai suoi capricci. Il lusso, i vini delicati, i ricchi mobili, le più ricche vesti, i monili d’oro, le gemme, le perle, il codazzo dei servi, la casa di città e di campagna sono lo accessorio della felicità per l’anima giovanile della donna; ma non la felicità piena. Laonde la si era incaricata un giorno di secondar la fortuna, la quale talvolta tradiva il commerciante nei traffici suoi. Giovinezza e bellezza non sono di frequente sinonimi. Vi ha donne, non giovani, bellissime. Vi ha giovani incompiutamente belle. Se il volto è appassito, il corpo è un fiore sul gambo. Se il viso è fiorente, la persona non è ancor ritondata. La donna dai venticinque ai trenta anni è la vera madre della grazia, della bontà per tutti, delizie ch’essa rivela cogli occhi ricchi di pietà, di gentilezza e di amore. Ed Horania era, quale io la veggo nei miei pensieri, di una bellezza antica. Con un elmo greco sulla testa e il torace coperto da squame d’oro avrebbe raffigurato Minerva in quei tempi della carne glorificata e dei divini ardori. Le sue narici mobili e graziose posavano sur una bocca rosea, umida e sempre aperta al sorriso. Quando parlava pareva un uccello. Quando taceva sembrava un fiore. Due grandi occhi, del colore delle viole mammole, si disegnavano sotto una fronte diritta, adorna di capelli abbondanti, che in onde oscure le s’inanellavano sulle spalle, ritenuti da una rete di fili d’oro. I piedi, le braccia, le mani impensierivano i cultori dell’arte imitatrice. Da tutta la persona snella e leggiadra venivano allo sguardo emanazioni sottili, invisibili di fascino e di voluttà. Un giorno Catullo Messalino, tornando da una ispezione alla colonia dei veterani, la incontrò colle sue schiave in una via solitaria del monte. L’uomo e la donna si guardarono a vicenda. Ed ambedue compresero dai battiti del cuore lo arcano che la natura compone nel sangue e rivela quando che sia. Il giovane centurione era siculo. Aveva l’anima di fuoco. E la pelle che coprìa le sue carni era pure bronzata dai raggi del sole natìo. Non era bello di quel tipo che Phidias, Gorgias, Pithagora di Rhegium, Patroclo di Crotone, Hypatodoro e Aristomede di Thebes avevano fissato con linee convenzionali. Di statura mediocre. Di forme proporzionate. Un misto di tristezza e di grande energia. Se sul campo contrastato avesse avuto la fortuna a rovescio e i militi fuggenti, come Arrio Secondo avrebbe strappato l’aquila dalle mani del vessillifero e, gittatala in mezzo alle falangi nemiche, detto cogli occhi: — Io corro al pericolo in nome di Roma eterna. Seguitemi e riprendete la gloriosa insegna! — Molti uomini, presi dal fulmine di quegli occhi, sarebbero tornati i vincitori del campo. Nessuna donna — almeno per un istante — avrebbe potuto restarsi muta allo appello. Quei due esseri si amarono e ardentemente si amarono. Messalino passava alcune ore deliziose della sua giornata con lei. Sulle di lei labbra gli sembravano più belle le parole della lingua natale. Le frasi si dipingevano di un candor virginale e di certe delicatezze che pareano innocenza. Egli coglieva per essa le più belle rose e i più bei frutti del luogo. Ed Horania, sdraiata ai suoi piedi sur una pelle di tigre, accennando alle ridenti piagge di Surrentum, di Capreas e di Pithecusa che chiudevano il cratere partenopeo, addolciava la vita di poetici pensieri, sollevati dalla immagine estatica ed amante che aveva dinanzi. Una subita e terribile fatalità poteva troncare il filo di quei sogni dai quali quegli spensierati si faceano cullare. La passione è il vino delle grandi ebbrezze, o è l’acqua di Lete — vino ed acqua che hanno la potenza di annuvolare i cervelli. — Amore! tu mi hai ritolto da una vita di noie e di secreti lamenti e mi portasti sulle tue braccia in paesi ignorati. Ciò che tu m’inspiri lo sapeva io pria di vederti? I tuoi baci sono profumati come il mele d’Hymetto. Il tuo amplesso mi ha creato il cuore. — Sirico.... Oh! Sirico non era da tanto! — Messalino si rammentò di un uso antico della sicula gente che meglio avrebbe risposto allo incantesimo di quelle parole. Prese dalla corona di rose che a lei cingeva le tempia un bottone rossissimo di Mileto che parea fior di granato. Lo sfogliò in una coppa di murrhina ripiena di falerno e la vuotò in onore di lei e della sua idoleggiata bellezza. Questa era la vita che furtivamente, o per caso infinto, o per meditato convenio menavano da due mesi quelle creature felici sotto il cielo ardente della Campania e nella invocazione di Venere protettrice. Le ore lietissime sono siffattamente fugaci da eludere il taglio dello scalpello, il graffito della penna, il plagio del colorito. Lo spettro, che è cosa morta, non può riprodurre la scena del cuore, che è cosa viva. Non posso però ritrarmi dal pingere la sofferenza che straccia e dilania le viscere di quegli amanti sorpresi nel grembo di una svagata sicurtà. Catullo Messalino, attraversato un bosco di lauri, entra in uno xysto, penetra nell’æcus e si ferma. Quale inno cantavano i begli occhi neri e radianti dello eroico centurione? Era un’ode. I ricordi, la speranza, la gioia illuminavano gli sguardi ricercatori. Ma Horania non vi è. Esce e nel sollevare la cortina che abbuiava la luce di una camera, la donna dell’anima sua si leva dal lettuccio e gittandosi nelle sue braccia, pallida ed in lacrime, chiude il viso sul collo di lui. — Domani.... forse oggi.... egli qui! — Siffatto caso, sì preveduto, e tante volte meditato, parve ad ambedue una inattesa sventura. Messalino non rispose e più ardentemente la baciò. Quindi: — Horania.... egli venga e trovi vuoto il cubicolo tuo.... Abbandona queste equivoche dovizie, sparse di lacrime e sporche di fango.... Vieni meco.... Dovunque sarò e tu sarai.... Posso omai vivere senza te?... E non morresti tu lontana dal leone del cuor tuo? — La donna era così sprofondata nel suo cupo dolore, che lo udiva trasognata e levava gli occhi lucidi al cielo quasi per incontrarvi una idea consolatrice. Ma vi sono momenti nella vita in cui le illusioni fanno paura a sè stesse e non osano entrare nelle menti desolate dalle passioni, poi che la innocenza le ha disertate per sempre. E comunque una idea di affetto le fosse discesa dal cielo o venuta su dal cuore, la bellissima greca l’avrebbe sfatata. Il centurione era lo avvenire incerto, l’uomo del gladio, il padrone del braccio, la lotta dello indomani, la vita dei continovi pericoli. Sirico era il focolare domestico senza dignità, senza stima nè amore, sì. Ma il focolare che riscalda, che ha il domani. Era la carezza del lusso, l’abbondanza dei profumi. Era la età matura sui cuscini di porpora e sul rispetto degli schiavi prostrati. Era la prosa della Danae abituata alle visite metalliche di Giove che allontanava da sè la poesia dei ricordi i quali si facevano ognor più velati. Gittò un sospiro profondo, lo strinse forte al suo petto, lo baciò furiosamente e poi parlò. — Tu sei il bene supremo. Tu sei la esistenza.... La mia sarà omai breve, lo so. Ma.... la mia vita non poteva confondersi colla tua. Separiamoci. Il Fato vuole così. Allontanati prima ch’ei giunga. — Il siciliano comprese. Ma l’amava. Ed ogni suo nume era in lei. La guardò fiso per qualche istanti. La baciò sulla bocca, sulla fronte, sugli occhi e sì febbrilmente da dar vita con quei baci di fuoco a una morta. E partì. Partì. E lo xysto, ed il lago, e la fontana, e gli alberi e la foresta di lauri ebbero i suoi sguardi sfiduciati e il vale estremo. Se lo imperatore lo avesse chiamato a combattere, il suo braccio avrebbe commesso miracoli di virtù in tale istante. Desiderava in tanto dolore la morte utile agli altri — refrigerio al suo cuore — la morte eroica del centurione romano sotto lo sguardo dei Dioscuri protettori. Corse al mare e si cacciò nelle onde agitate e spumanti. Nuotò per un’ora onde raccattare un po’ di distrazione e qualche stanchezza. Ma il sangue bolliva, i nervi erano tesi. — Inforcò un cavallo e di corsa verso Neapolis. Ma, non appena giuntovi, indietro a slascio, attratto dalla memoria di lei. — Si racchiuse nel suo cubicolo e passò la notte in ismanie e mordendo le coltri. Oh! i disegni della sua mente delira! — I seguaci di Romolo, le Sabine!... Senza quel ratto l’Urbe non sarebbe sorta potente.... E qual Sabina la Horania mia! Mia?... D’altri.... non mia! Di mio non ho che il dolore di averla perduta.... la memoria di un limitato possesso!... Ecco, io mi slancio alla testa dei miei veterani, brucio, ruino la casa del mio rivale e rubo la donna, la sola nata agli occhi del mio cuor travagliato. — Cotesto vano trionfo di un istante inebbriava per poco il suo cervello che ardeva. Ma le leggi del dovere cui era abituato lo tranquillavano ben presto e gli facevano disprezzare le stravaganti avventure che pur dianzi lo avevano solleticato. Barcollante tra pensieri diversi, uno alla perfino seppe accettarne. E corso al tribuno dei militi, che aveva il comando delle tre coorti di stazione nell’agro pompeiano, chiese ed ottenne il permesso di andare nell’Urbe col pretesto di faccende a lui care. Io scrivo sulle agitazioni di un povero spirito, immerso in un pelago d’idee tumultuose quali esse sono, non quali la convenzione adottata sui tempi eroici a noi le trasmise nelle pagine istoriche e nei monumenti. L’uomo nato di donna è sempre uomo. La vita pubblica e il campo di battaglia possono trasumanarlo; e in questo istante solenne il cuore si divinizza, la frase diviene sublime e l’atto non è più cosa mortale. Or uno schiavo entra nell’atrio e chiede di M. Catullo Messaline. Questi esce, svolge una pergamena che gli vien pôrta: e, — «Sono ancor sola e libera. E brucio di amore. Vieni.» — Corse allo invito e rientrò nella felicità come se riprendesse il filo di un sogno beato dopo breve vegliare. Ore piene! Ore deliziose! Ore che qualche lettore ricorderà. A notte tarda riprese la via del ritorno. Era più consolato. Sentiva ancor sulle labbra il fremito delle labbra non sue. Sentiva quasi sul petto il contatto di lei. Quando, giunto presso un burrone profondo, vide nella oscurità escire un’ombra da un masso di lava e venirgli incontro in atto di minaccia. Dai battiti del cuore di quel fantasma comprese chi fosse. Sirico avea tutto saputo da uno schiavo fedele. Volea vendicarsi. E aveva in mano il coltello da ciò. La sfida mortale. Il luogo scelto era adatto. La lama aguzza aduna il poco chiarore dell’aria e scintilla in alto nelle tenebre. Messalino dà indietro, sguaina il brando e ferisce con impeto. Un urlo disperato e il tonfo di un corpo pesante che precipita a sbalzi in fondo al burrone compirono la tragedia. Tornò sui suoi passi e destò la giovane addormentata. — L’ho ucciso. — Or mi appartieni. — Ma è sangue oltraggiato quello che hai sparso! — Egli uccideva me. Vieni. Mi salvo e ti salvo. — Ricoverarono nell’Urbe un delitto di più. Delitto?... Eh! baie!... Gli era il prodotto di un funesto amore dell’anima umana, fiore sanguigno sbocciato in tempi assai diversi dai nostri, cresciuto nella esaltazione, anaffiato dalla gelosia, colto dalla minaccia e che sentiva lo aroma di una natura aspra e gagliarda.... Uomini di tal tempra non permettevano a piedi stranieri di calpestare con insulto la sacra terra dov’erano nati! Coteste parole servano a Messalino di scusa presso coloro che coi _se_ e coi _ma_ si addormentano placidamente ogni sera sulla coltrice delle nazionali vergogne! Siccome gli sguardi, esistono nei lessici di tutte le lingue parole di doppia vitalità — quella del cuore d’onde escono — quella del cuore che le riceve. — E spesso in una di esse si annicchia la genesi di una battaglia, la trasformazione di una esistenza, il rifugio di una grande speranza, una resurrezione piena di dolcezza. Herculanilla era la rarissima tra quelle creature che i poeti covano nella mente come la più intima, la più cara, la più completa espressione della grazia, del candore, della intelligenza, della beltà. Il suo merito supremo consisteva nell’esser lei, non altra che lei. Nè i pennelli, nè la penna possono fare il suo ritratto. La donna immensamente amata non si tratteggia, non ha chi le somigli, è quella! Così Herculanilla era incisa e scolpita nel cuore di Lucio Vitelio Hycca, colla sua capigliatura ardente e impregnata di amorosa elettricità, colla sua voce fine, carezzevole, colorata, col suo pudico sorriso che diceva promesse e la unione del cuore. Egli aveva combattuto in Giudea; e, nella ostinata e rabbiosa difesa del tempio in Jerusalem, aveva avuto la fronte solcata dal gladio e il petto scalfitto da un colpo di lancia. Il primo allo assalto. Il primo a penetrare colà dentro. Avrebbe dovuto ricevere la _corona aurea vallaris_, o _castrensis_, perchè quello era un baluardo del campo nemico. Gli fu data invece la _corona muralis_, perchè si volle considerare il muro del tempio come il muro di una città. E Flavio Vespasiano imperatore la offeriva a lui ferito e disteso in faccia alle legioni vittoriose. E quando egli andava a’ teatri, nel Pecile, nella Basilica, nelle Curie, in ogni pubblico spettacolo, il suo posto era dopo quello dei magistrati; e i decurioni in segno di rispetto si levavano in piedi. Aveva in quei giorni arringato a pro di Septumio Clycone, giovane amante, il quale — non gradito qual genero da T. Uliteo Satanio, prefetto dei vigili, ed insultato pubblicamente da un di lui liberto — erasi obbliato sino a batterlo con grave _injuria_ sulla persona. La rottura di un braccio indicava l’ammenda di trecento assi o libre di rame. Lo eroe del dramma era un giovane ben noto. La eroina era Vereia — nome che in Osco volea dire repubblica, forma di reggimento sempre cara ai Pompeiani — che parea volesse morirne di dolore, mentr’egli minacciava di uccidersi sul di lei cadavere. La cronachetta era corsa nella bocca di ognuno. Il bisticcio colpevole. — Lo amore infelice. — La potenza della parola che aveva tutti commosso nella Basilica, sino ad ottenere dal padre irritato che l’accusa cessasse pel _dijudicium intra parietes_. — Gli sponsali accaduti. — Era siffatto trionfo da annuvolare la mente del debolissimo sesso, il quale per sopraciò non sa reggere e s’intenerisce alla vista di un uomo generoso, crismato dal valore e coronato dalla vittoria. Vitelio narrava di cotesto suo recente trionfo nella casa di Alphinio Secondo. Herculanilla, la sua figliuola, parlando, lo interrogava cogli occhi inspirati da segrete intenzioni. E il valente soldato fu ferito anche una volta nel cuore. Impigliato nel glutine dello entusiasmo ideale, comprese; ed ambedue si amarono sin da quel giorno. E se la fanciulla dopo pochi mesi pensava che la vita spesa senza vederlo, nè udirlo, non era vita vissuta per lei, egli non sapeva comprendere a che servissero le ore non irradiate dallo sguardo adorato di quella Venere terrena, cugina alla Iddia. Quanti sutterfugi! Quali lotte! Quanti andirivieni! Quali scuse per un ritrovo; per una visita; per allontanare un importuno; per celare ad un indiscreto un prezioso istante della vita; ed esser soli; e goder soli di quello scoppio di felicità che invade due cuori amanti; e dirsi l’un l’altro quella parola che non invecchia mai col consumo dei secoli e sarà ripetuta sino allo istante supremo in cui per lo esaurimento del calorico terrestre il mondo cesserà dal germogliare e morrà. Un giorno che il piacere spensierato, la innocenza sorridente, la bellezza di bianco vestita irruppe nella camera ove Vitelio attendevela per secreto messaggio, egli gravemente le disse: — Herculanilla! Amore! Soavità della mia vita! Noi siamo dannati a separarci. — Come!.... E da chi? — Dal dovere. La mia legione, l’_antiqua_ ritorna in Galilea. _Evocatus sum._ Non son sacerdote. Non son magistrato. _Beneficium non habeo_ dai decurioni e dal popolo, quella dispensa che mi darebbe legittima esenzione dallo esercito. — _Heu, me misera!_ Amore degli occhi miei, mi abbandoni così? — Non piangere! _Vexilla sublata sunt in Capitolium_, il rosso per la evocazione dei fanti, lo azzurro pei cavalli. Tito gli chiede ed io ho già detto il mio sacramento. — Herculanilla gitta un piccolo grido, si copre il viso e piange a dirotto. Vi sono dolori di privilegio che abbelliscono. E quelle lacrime amare, che tremano come gioielli sulle ciglia, divinizzano la donna idolatrata. — Lascia ch’io beva quelle stille di pianto. Consolati. Tornerò. E sarai mia... E allora, teco per sempre! — Rispetta il mio dolore. Sarà compagno della mia corsa felicità. Sarà il mio custode nella tua assenza.... E se tu morissi? — E se io morissi!... Non dilaniare il tuo cuore con tristi presagi. Io sono _centurio primipilus_, e porterò l’aquila della legione. Perciò, col consolo e coi tribuni. Roma vincerà i suoi ribelli, ed io tornerò al tuo fianco a narrarti il secondo trionfo dei nostri sul più testardo e feroce dei popoli domi. — Va, nuovo Promoteo. Ubriacato dalla gloria, che tu non possa sentire lo strazio del tuo fegato roso dal vulture crudele! Oh! la immensa giornata di lacrime e di angoscia del mio cuor vedovato! — Tra le mie braccia, o soave delizia di questo istante. — E sollevatala di peso, se la premette sul cuore semisvenuta. E la baciò a furia, febbrilmente, senza dir verbo. Il dire distrae. E l’anima era piena di lei e del suo crudo destino. Ma d’un tratto si staccò di forza e bruscamente partì. Una voce, dolce come una carezza e lamentosa come un vale estremo, piangeva in un angolo della stanza e mormorava: — Lucio.... a me anche una volta.... poi alla tua Patria! — Tornò. E le due teste si collarono per un istante come fossero una sola. E quel luogo pieno di tanto amore rimase pieno di lutto, di singhiozzi e di amare memorie. Il grande spettacolo della guerra calma ed acqueta le fantasticaggini della mente e a poco a poco il soverchio calore del cuore. Chiuso nei nuovi suoi obblighi, Vitelio vi trovò il migliore dei rifugi contro tutti i disgusti e le tristezze dell’animo. La ferita ben presto marginò. Tratto tratto la divina credulità delle grandi passioni lo spingeva dall’Asia in Europa per riassaporare le felici ore godute e il ricambio delle affettuose cure. E colle preoccupazioni di ciascun giorno i viaggi dello spirito si fecero meno frequenti. Quando la morte è attiva e militante, e colla falce delle battaglie miete sul campo desolato, e distende sotterra l’uomo pria ch’egli abbia consunto l’opera sua, quello spettacolo riconcentra l’anima svagata e la fissa al suo grave compito. I Giudei che stimavano la forza ostile non superabile, fecero il gran giuro e fermarono morire prima che sostenere la schiavitù della patria. In Tarichea, non più pane per le donne, non più pei figliuoli; e già tutti, d’una voglia sola, sacrati alla morte. Un rogo s’innalza. Vi ha chi tronca la vita e chi gitta con mano libera ancora i cadaveri sulla catasta. E ciascheduno attendendo lo istante di ardervi colle persone più caramente dilette, grida: — Meglio morire che veder morto il nido natio! La morte non è un morire; ma gli è un vivere col Dio di Moises e dei profeti. — Ed Herculanilla in lacrime attendeva sempre nel suo amore immortale il ritorno di Lucio Vitelio Hycca vittorioso e fedele. XVII EIDIBVS JVNI. Era giorno fasto. Lungo l’anno venivano deposte in un vicolo chiuso presso il tempio di Vesta le ceneri del fuoco sacro che si ritiravano dallo altare. La porta di quel chiassuolo, detto _janua stercoraria_, si apriva dal pontefice Massimo e le ceneri erano gittate nel Sarno. Quel giorno rispondeva a’ dì quindici giugno del nostro calendario, fissato già per le nozze religiose di Cneo Vibio e di Melissæa. Gran folla era nella via Domizia. L’atrio, pieno di amici delle due famiglie che univano il loro sangue. Ve n’erano di prima e di seconda ammessione. E qua e là i clienti e gli affrancati in faccende. Ma il grande affare trattavasi nella camera della sposa. Le _cosmetes_, le _ciniflones_, le _calamistæ_, le _psecæ_, le _vestificæ_, cioè le schiave che pettinavano, che acconciavano i capelli e vi soffiavano su una polvere che ne faceva risaltare il colore; che li arricciavano co’ ferri caldi; che davano l’ultimo assetto alla pettinatura; e le sarte che vestivano la giovanetta erano tutte attorno di lei. Escita appena dal bagno e asciugata, Scaphion gittò sul bellissimo ignudo corpo il _supparum_ di lino egizio, ch’era pur detto _sindon_, o _vestis byssina_, simile per la forma ad una camicia, senza maniche e sparata sul petto; e chiusi i piccoli piedi nei _calcei purpurei_. Sur una tavola era la _narthekia_, il mobile più prezioso allo assetto delle donne. Era una scatola di legno odoroso, guarnita di cornici e di fasce di avorio in rilievo. Conteneva unguentari di cristallo scolpito; fibule d’oro; piccoli arnesi di argento per le unghie, per le orecchie e pei denti; fiale di sardonica; e vasettini di alabastro, contenenti essenze profumate venute di Antiochia e di Alessandria. Fabricio ci ha serbato i nomi di venticinque di esse; nomi nuovi e svariati di raffinamenti e modificazioni impercettibili, con cui i mercanti spacciavano gli stessi odori che avevano tutti per base la radice di un arbusto chiamato _costum_, o le foglie aromatiche dello _spicanardus_. Melissæa è seduta. Delphia tiene a lei dinanzi uno specchio di argento lucidissimo, di forma rotonda, chiuso in una cornice dorata, di quelli che si fabbricavano in Brundusium. Nape la pettina, _rutilabat comam_, la profumava, _crispabat calido ferro_, adattava i ricci onde la fronte apparisse bassa, giusta la esigenza della moda romana, e intrecciava a quei suoi capelli d’oro fili di perle, di pietre preziose e le _crinales vitiæ_, cioè fasce e nastri di vario colore. Erotia e Scapha animarono una discussione importante. L’una dicea che i capelli della sposa conveniva separarli col ferro di una lancia intrisa nel sangue di un gladiatore morto nello Anfiteatro. E poi dividerli in sei trecce a foggia di quelle delle Vestali. L’altra — e Nape era con lei — non volea saperne della lancia. Coraggiosi figliuoli sarebbero sempre nati da così nobile seme. E piuttosto che separare i capelli in sull’occipite in sei ciocche, valea meglio, così arricciati ed ondulosi com’erano, racchiuderli nel _reticulum auratum_ e farli cadere copiosi sulle spalle. Avrebbero dato maggior risalto alla sua testa divina. — La mia padrona non abbisogna che si pettini a tuo senno per essere ancor degna di alimentare il sacro fuoco. Tu sì che commetteresti sacrilegio se ti facessi foggiare in tal guisa. — Impudica! Pria di dirmi insolenze, avresti dovuto non confidare alcuna cosa ad Eulalia ed alla tua memoria. — Sibili come una serpe. Scapha sa — e tu non lo ignori — che la lancia che hai costì nelle mani non è gladiatoria nè mai fu bagnata di umano sangue. Bando alle ciurmerie. — Via. Chetatevi. Perchè Erotia non si affligga in questo giorno felice, dividete i capelli col ferro della lancia. Involgi, o Nape, le chiome nella leggera vesica. Poni sul capo la corona di verbene, che io stessa ho raccolto e tessuto, e ricuoprila col _luteum flammeum qui debebit me nubere viro meo_. — Così fu fatto. Le posero nel foro delle orecchie pendenti d’oro, simulanti foglie di edera, ed una face accesa la cui estremità finiva in una perla. Quei pendenti, l’uno distaccato dall’altro, si chiamavano _crotalia_, perchè risuonavano urtandosi. — E la face dinotava le fiamme del cuore. E l’edera lo attaccamento della sposa all’uomo suo. Cypassis, la bruna schiava di Memphis — che aveva un affetto particolare per la sua gentile padrona — volle incaricarsi dello affare il meglio importante; e tanto più che facea contrasto colla fosca sua carnagione. Aggiustato il capo, affibbiati gli ori e il _segmentum_, stretta la persona nello _strophium_, essa la vestì della _tunica recta_, tutta bianca, amplissima, ornata di bende. E la cinse col _cingulum laneum_, sostenuto dal _nodus Herculeus_, che il marito avrebbe poi sciolto. Gli è perciò che diceasi _zonam solvere_ per esprimere l’ultimo grado di domestichezza tra l’uomo e la donna. Melissæa, meglio che ordinare, permise che le affettuose sue schiave acconciassero sulla sua persona le vesti nuziali che accrescerebbero di tanto la sua naturale avvenenza. La mente era presa da una involontaria inquietudine. Sentiva dentro la commozione nuova che fa provare la vicinanza di un gran cambiamento, per quanto esso si creda felice. Amava suo padre. N’era teneramente riamata. Sorgevano altri doveri. Passava dal certo allo ignoto. Si distaccava da una sollecitudine devota, andava in braccio ad una sollecitudine più intima e confidenziale. E quando le sue amiche, Giulia, Emilia e Maria, le sorelle del duumviro Pontico, entrarono per avvertirla che il Flamine-Diale era già nel sacrarium della casa; e lo sposo, e i dieci testimoni, e gli amici, e i parenti l’attendevano per la sacra ceremonia, essa si gittò tremante al collo di quelle sue fide compagne e pianse. Le lacrime sono contagiose. E più, perchè destavano nelle sopravvenute un certo tal qual turbamento, di cui sarebbero anch’esse colpite fra non molto per la circostanza medesima. Melissæa apparisce nell’atrio. Il vestibolo è aperto ai curiosi, ed il portico, il peristilio, lo xysto sono gremiti di gente. Gli sposi siedono sur una _sella jugata_, coperta di una pelle di pecora. Il sacerdote di Giove prende la mano destra della giovanetta e la pone nella mano destra di Vibio e pronuncia: — _Hanc tibi in manum do._ — Con altre parole sacramentali e solenni dichiara che la donna dovrà partecipare ai beni del coniuge suo siccome ad ogni altra santa cosa. Liba a Giunone. Compie la _confarreatio_. E fa che la sposa ponga nel dito mignolo dell’uomo il cerchio d’oro formato da una verghetta incrociata, terminante in due piccoli globi, riuniti da una fune cui era sopraposto un rubino dalla immagine di Ercole in rilievo, chiusa in una cornice d’oro. Era la antico nodo che prima fu cingolo alla persona, poi monile al collo, armilla al polso della sposa ed anello al dito degli sposi. Vibio, commosso, le prese con ambe le mani la fronte e la baciò. E amorosamente guardandola, le disse: — Un dio è in te, o Melissæa..... Qual dio? Lo ignoro. Ma, vi è un dio! — E cavato dalle pieghe della tunica uno _spinther_, ossia cerchio d’oro, aperto e terminante in due teste di serpe, lo adattò sullo avambraccio di lei. Eravi sopra scritto: SPERATA. PACTA. SPONSA. NUPTA. Nello uscir del sacrario le due famiglie e i testimoni entrarono negli _æci_ per occuparsi del primo pagamento della dote fissata. La folla andò via lentamente di casa per soffermarsi sulla via. Demophilo, presa per la mano Melissæa, l’accompagnò sino al _prothyrum_. Quivi alcuni giovani la presero sulle braccia come per costringerla ad abbandonare per forza le paterne dimore ed incontrar con dolore lo allontanamento delle persone legate con lei dallo affetto e dalle abitudini. Cotesta finta violenza richiamava alla memoria il ratto delle donne sabine. Vibio aveva mandato cinque dei suoi liberti presso la casa degli Edili per accendervi le torce nuziali che doveano precedere la processione. Essi tornati, il corteo si pose in cammino. Tre fanciulli vestiti di pretesta si presentarono. Uno andò innanzi, squassando un ramo di albospino acceso per ovviare il mal’occhio. Gli altri due condussero la sposa per le mani. Dietro era una schiava colla conocchia guarnita di lana ed un fuso. E con lei, un giovanetto, detto _camillus_, che in un cesto di vimini portava i _crepundia_, i giuocherelli, le pupazzole con cui Melissæa erasi baloccata. Venivano poi quattro statue sorrette sulle stanghe dorate da sedici schiavi. — Iugatino, il dio che aggioga; — Domiduco, che presiede alla processione nuziale verso la casa dello sposo; — Domicio, che introduce la sposa nella nuova dimora; — Manturna, mercè la cui protezione essa soggiornerà sino alla morte col marito suo. — Poi venivano lo sposo, i testimoni, gli amici e la folla. E questa, accompagnando la voce al suono delle _sarranæ_, cioè alle armonie di un doppio flauto lungo e breve, cantava un inno a Talassio, uno dei banditi accorso al richiamo di Romolo, che rubando la sua sabina, ebbe con essa lunga e fortunata unione. Giunta la sposa sul margine della via di Mercurio, dinanzi la porta principale della casa nuziale — tutta adorna di ghirlande di mortella e di rose, e parata di una stoffa di lana bianca — Melissæa vi appese alcune bende unte di grasso di lupo, onde allontanare i sortilegi, soggetto di terrore per quella razza d’uomini che pur di nulla temeva. — E la folla cantava l’inno a Talassio. Vibio allor si fece sul margine; e fingendo ignorare il nome della fanciulla biancovestita, le chiese: — _Quis es?_ — _Ubi tu Caius, ibi ego Caia._ — Cioè a dire: — dove tu sei signore e padre di famiglia, ed io sarò signora e madre. — Avvegnachè fosse di suo diritto il dichiarargli ch’essa contava vivere secolui con patto di eguaglianza e pur compirebbe esattamente i doveri di moglie e di massaia, ad esempio della nuora di Tarquinio, Caia Cæcilia Tanaquilla che lasciò nome di un’abile lanifica e di una virtuosa sposa. Due bambini le fecero toccare la torcia accesa e l’acqua, per significarle che quind’innanzi avrebbe comune col marito la vita, cioè, l’acqua ed il fuoco. L’uscio si aprì. E Giulia, Emilia e Maria la sollevarono di terra e la deposero mollemente nell’atrio, senza che i suoi piedi toccassero la soglia. Questa era sacra a Vesta; e sarebbe stata una profanazione e un funesto presagio, se colei che avea rinunciato agli attributi della dea — tutela ai grandi destini del mondo romano — l’avesse toccata coi piedi. Nell’atrio era distesa una pelle di montone dai lunghi velli. Su di essa le amiche la posarono, quasi per ricordarle le sue prossime occupazioni. E Vibio le presentò colla sinistra le chiavi della casa raccolte in un medesimo anello e coll’altra una patera di argento con alcuni nummi d’oro, premio alla sua compiacenza. Quindi i due felici gittavano l’uno manciate di noci, l’altra i suoi _crepundia_, per testimoniare com’essi da quel momento davano bando alle futilità, e non si sarebbero occupati che delle gravi cure della famiglia. Per solennizzare la festa Vibio offerse una sontuosa _cœna nuptialis_ ai parenti, agli amici ed agli altri invitati. Gli schiavi tirarono le cortine del _tablinum_. La lunga pergola ed il giardino erano illuminati. Tutti mossero; e volgendo a diritta, entrarono nel triclinio, decorato di marmi africani e orientali, rossi, gialli e sanguigni, con bella architettura innestati da fasce di alabastro egiziano. Invece dei tre letti, eravene uno solo semi-circolare ed oblungo, rispondente alla forma della stanza assai vasta. La illuminazione era splendida. Il _convivium_ anche più. Giovani schiave riccamente vestite, giovani succinti, liberti e curiosi erano sotto le colonne della pergola, tutt’occhi allo spettacolo che pel loro divertimento si stava apparecchiando. Dal _posticum_ — ch’è nella viuzza parallela a quella spaziosa dalla fontana di Mercurio — era entrata nello xysto una truppa di orchestredi, giocolieri che di Creta mostraronsi in Atene, e di Syracosion si propagarono nelle nostre contrade. Ippoclide onorò la cibistesi, allorchè per ottenere la figliuola di Clistene in isposa, pose in mostra la sua destrezza, imitando il giro della ruota della Fortuna, e così rendersi benevola la iddia capricciosa. Ed al padre sdegnato che a lui rifiutava il possesso della nata di lui, lo ateniese die’ la famosa risposta: — Οὐ φροντίς Ἱπποκλεὶδη — È l’unico pensiero d’Ippoclide — che passò tra i Greci in proverbio. In Pompei chiamavano quelle acrobate coi nomi di _cernuatores_ e _petauristæ_. Erano belle giovanette di Gnathia e di Rubi, condotte da un uomo che traeva pro della loro bravura, egli suonando le _sarranæ_ ed un fanciullo la cetra. Allorchè fu distesa per terra una tavola ov’erano a determinate distanze confitti tre gladii, una di esse, cacciata giù la _lacerna_ — specie di largo mantello col _cucullus_ col quale erasi coperta — mostrossi nuda, avendo soltanto i capelli tenuti in freno da una benda ed i fianchi cinti da un grembiule, fascia che i greci chiamavano περὶζωμα e i latini _subligaculum_. Aveva le armille ai polsi e la periscelide sul destro malleolo. Colle mani aperte, gittatasi a capo rovescio, rimase per poco colle gambe in aria; quindi si capovolse sulle spade con mirabile prestezza, senza rimanerne offesa. Dopo parecchie prove, l’_editor_ collocò in fine della tavola, in alto, un cerchio entro il quale erano pur confitti altri pugnali; e la taumatopia colla medesima destrezza capitombolò sui gladii, penetrò colle gambe nel cerchio e piegando il corpo come un verde fuscello, saltò fuori sui piedi ed illesa. — _Terror et metus nudis insultant gladiis._ — — Nè il terror, nè il timore saltano con lei, o Grumio. La cibistetere si volge con spigliata sicurezza come i pesci rossi saettano a capo in giù nel vivaio del mio padrone in Puteoli. — Maraviglia! Non ha molto, o Syra, vidi delfini guizzare sulle onde del nostro cratere e rituffarsi con movimenti meno leggiadri e punto pericolosi. — Oh! mira quest’altra, Dorippe. L’_editor_ siede, suonando i flauti. La scleropecta è in piedi sulle sue ginocchia.... afferra colle mani la spalliera.... si lancia in aria e volgendosi su se medesima, a lui poggia i piedi nudi sul capo. — Oh! Curiosa cosa! Mira il cagnolino che ne prese il posto. E drizzasi sulle zampe deretane. — Apparecchiano una tavola, o Loto. O, cosa è?... Ah! Una patera piena di vino e due aranci.... Ecco la più bella che salta. — Cotesto sì, o Elpinike, io non vidi mai. Come! Nessun tremolìo sul deschetto! Nessuna gocciola del liquido fuori del vaso! E gli aranci afferrati, lanciati in aria e raccolti nelle aperte palme ora che è in piedi sul suolo! In _Pæstum_, per le feste di Nettuno, erano abilissimi taumaturghi. Ma Cneo Vibio soltanto sa offerire simiglianti difficili giuochi. — Il giovanetto Loto aveva col braccio sul collo stretto a sè la persona della sua interlocutrice. E le baciò la tempia amorosamente. Carion ch’era loro da presso, vide l’atto ed aggiunse: — Caldi vi avviticchiate come la pianta di Bacco. Bada! È una vergogna in Pompei _non continere libidinem suam_. Fratello, sarò costretto a chiamarti, _Canis_. — Loto era per rispondere alla ingiuria, quantunque detta col sorriso sul labbro. Ma un altro spettacolo richiamò la sua attenzione. Un’altra fanciulla, coperta dalle anassiridi listate di rosso e di nero — come le maglie strette dei nostri giuocolieri — camminando sulle mani, ricevette da un bambino sulle piante dei piedi un bicchiere di terra detto _cyathus_, ed un’anfora _figlina_ e breve, sulla cui pancia era il _pittacium_ in pergamena colla scritta, _Setinum annorum decem_. Destramente dalla diota mescè il vino nella _lingula_ e con un movimento rapido delle reni trovossi sulle sue gambe, avendo in una mano l’anfora e appressando alle labbra il bicchiere che aveva raccolto. E nel vuoto, neanche una gocciola venne rovesciata per terra. — Per Ercole! — _Piper, non fœmina._ — Ormai per la munificenza di questi sposi ci abitueremo alle cose impossibili. E non maraviglierò se un dì o l’altro vedrò grugnirmi attorno i porci belli e cotti. — Oh! questo sì che è un giuoco, o Curculio. Ben altro di quello offertoci nel corso inverno da Pilonino Rufo, coi suoi gladiatori pezzenti e decrepiti che cadeano ad un soffio. Meno vili quelli esposti alle fiere. — E il combattimento a piedi a lume di fiaccole? Per Giove tonante, parean pollastrelli. L’uno snello come un gatto di marmo. L’altro _loripes_, coi piedi torti, come te, o Camurio. Il terzo, il quarto, il quinto che si finsero feriti per cessare dalla fraudolenta commedia. — Oh! La bella cibistetere che è quella che viene! E ben fece a velare le parti ghiotte che Postverta ad essa compose. Che Volupia si accordi con Morfeo ed ambedue me la conducano in sogno. Pel Panteon riunito! Mi crederei di più che Vespasiano imperatore. — Nell’atto che Phosphoro cacciava al vento così inutili esclamazioni, la bellissima ignuda — chè il velo nulla copriva — postasi coi piedi in aria e poggiantesi per terra sui gomiti e sulle braccia distese, infilzò l’arco con due frecce nel grosso dito del piede sinistro, incoccò un giavellotto e mirò il bersaglio colla testa rilevata. Il piccolo citarista si era posto a dieci passi di distanza e con ambe le mani tenea sul suo capo ricciuto una tavoletta imbiancata avente un segno rosso nel mezzo. La _petaurista_ strinse la corda colle dita del piede destro, la tirò a sè e vibrò il colpo. La saetta erasi conficcata nel centro. — Gli applausi, il picchiar delle mani, le frenesie furono vivissime. La fanciulla venne baciata, abbracciata, brancicata. Il rientrare dei convitati nel tablino ruppe il filo alla meridionale baldoria. E tutti a gridare colle braccia alte: — Vivano gli sposi! Vesta pianga, ma Venere rida! — Caddero le cortine di Tyro d’ambe la fauci della stanza, e due donne maritate che aveano sulle chiome una corona di bianche rose, profittarono di quello istante di confusione per condurre Melissæa al letto nuziale. La camera da ciò era a lato del triclinio ed in fondo allo xysto, adorna di maschere bacchiche e di un quadro che rappresenta Giove presso la vacca Io, e di un altro che mostra Adone affaticato al reddir della caccia, attorniato da amorini e da ninfe. Il toro geniale splendeva di oro e di porpora. Il Genio — la divinità del coniugio — _quia genitos tuebatur_ — sacrando il letto, questo venne chiamato _talamus genialis_. Ghirlande di mirto, disposte con vago artifizio, gli danno le apparenze di un trono, degno di accogliere la dea eterna del cuore. Le gravi pronube spogliano colle loro mani la sposa, la pongono a letto e si ritirano dopo averle dato gli avvertimenti che la loro esperienza giudicava opportuni. Nel tablino si beve. Sotto la pergola si beve. Nello xysto si beve. Nell’atrio si beve. Da per tutto si beve. Il falerno, il massico, il caleno, il cæcubo, il surrentino, il lesbio, il mamertino, il mæonio empie le _ampullæ_, i _cyathi_, i _calices_, i _pocula_, i _tortiles_ e sono bentosto vuotati, dopo aver propinato colle parole, — _Bene illis — Bene mihi — Bene vobis._ — Bacco aveva usurpato di un tratto un incenso che non doveva bruciare per lui. Eravi però chi non avea lasciato il culto di Venere nell’oblio. E quando i libatori si accorsero che lo sposo gli avea disertati, gridarono a coro: — _Talassius! Talassius!_ Allora, un concerto di flauti accompagnò le voci dei giovani e delle fanciulle che cantarono nel cavedio l’inno che segue. Biondo figliuol di Venere, Nume dei casti amori, Tu che di mirto e d’edera Il crine in ciel t’infiori, Signor dell’Elicona, Odi la tua canzona, E scendi in queste arene, Scendi, invocato Imene. Di Melissæa e di Vibio Sorridi ai primi amplessi. Ricco di lieti auspicii, Stendi il tuo vel sovr’essi. Sull’ali del mistero Siati il pudor foriero E scendi in queste arene, Scendi, invocato Imene. Voi, pudibonde vergini, Cui simil gaudio attende, Voi ricingete il talamo Di profumate bende. Turbar di amor gli arcani Non osino i profani, Oggi che in queste arene Scende invocato Imene. Ed ei già vien! — Già pronuba Venere a lui si accoppia. Già la cortina mistica Cela l’ansante coppia. Spenta ogni face sia.... Cessi ogni melodia.... Insino al dì che viene Solo qui regni Imene. Cotesto Imeneo era stato in tempi remoti un giovane di Argos, il quale avea reso alla loro patria le fanciulle di Athenes rubate dai pirati. Qual premio al suo valore ottenne a sposa una delle captive che amava teneramente riamato. E da quell’epoca i Greci e i Latini, da essi inciviliti, deificando il giovane zelante e dabbene come celeste progenie, non contrattavano matrimonio senza rammentare il suo nome nei canti nuziali. Al cessare delle note armoniose i parenti e gli amici libarono anche una volta. E ripeterono a coro, — _Talassius! Talassius!_ — Era tempo di dare alcuna requie ai congiunti dalle nozze. I magistrati e gli amici riaccompagnarono Demophilo alla sua dimora. Il quale pria di partirsi dal luogo ove lasciava la metà del suo cuore, volgendo gli occhi al cielo disse nella sua lingua: — Θυμαρην βιοτας ολβον εχοιεν αει. — Godano essi sempre una soddisfacente felicità di vita. — Gli altri, chi di qua, chi di là tornarono alle case loro. Ma i convitati della sera erano i convitati dello indomani. Nei _repotia_ si beveva di nuovo alla felicità degli sposi. — E si bevve e si cantò. E Melissæa, appoggiata familiarmente alla spalla di Vibio, ricevette dai parenti, dagli amici doni e congratulazioni che nel tumulto inevitabile e nello scivolar via dalla folla bene a proposito, non avevano potuto offerire la sera innanzi. Solitudine e amore!... Una strada aperta, di soavi ombre, che mena alla felicità. Oh! Come leggero, vivo, misterioso, divino lo affetto che innonda l’anima, quando la graziosa persona è da presso, vi consola, vi esalta, vi indìa! La non è già della vostra carne. No! — Essa è la parte più delicata, più pura della cosa immortale che freme in voi. È il pensiero che parla. È lo sguardo che sa. — La primavera ha i suoi fiori. Il giorno, la luce. L’aurora, la rugiada. La donna ha i profumi che aduna o che spande sullo eletto dal suo poetico cuore. — Alcuni lamentano il dialogo dei primi parenti sotto l’albero della vita, e la cacciata inesorabile dall’Eden, e il frutto amaro della ingordigia — la morte. — Essi s’ingannano! La esistenza beata è in questo esiglio eterno — ma con lei che sente e porta nel seno i sublimi e ricambiati amori della umanità. IL CATACLISMA. SCENE DEL NOVISSIMO GIORNO. =Anni di Roma 832 — Anni del Cristo 79.= AL VECCHIO VESVIUS. X. La vasta pianura che da Cuma e da Capua — le antiche e grandi città della Campania — distendendosi verso levante, abbraccia e circonda il cratere partenopeo, era il loco ove i Greci, venuti dalla Macedonia e dalla Tessaglia, credettero che, come nelle loro contrade, anche quivi i giganti avessero combattuta la fiera battaglia contro gli Dei. E quei campi dissero Flegrei, da φλὲγω — ardo — per le tracce dello zolfo e delle lave sparse su quel terreno. Gli è certo che Ercole, visitando il bel paese sorriso da tutti i numi celesti e vedendolo corso e devastato da uomini di fiero e selvaggio costume, avrà voluto purgarnelo per incivilirlo. E l’atto benemerito per le genti salve, e la fondazione di una città che tolse il nome da lui, e le altre opere verso il mare aperto intorno il lago d’Averno, coronarono di una poesia maravigliosa il vincente semideo, i mostri vinti da lui ed i campi, teatro delle sue gesta. Su di essi elevavasi un monte isolato dai tempi primordiali. Era cinto di fertili campagne, e verdeggiava da lungi per le erbe e per gli alberi, tranne in sul culmine che sembrava coperto di cenere, di sassi fuliginosi ed arsi dal fuoco. Malagevole era lo ascendervi. Una e difficile l’angusta strada su quelle scorie tra rupi, caverne e punte aguzze sporgenti al di fuori. Nel 682 di Roma Spartaco, dopo aver fatto un carnaio nello Anfiteatro di Capua, riparava su quelle balze con sessantaquattro dei suoi compagni nella rivolta. Ma seguito d’appresso e accerchiato da Clodio Glabro alla testa di tremila soldati, pensò di tessere corde coi tralci delle viti salvatiche di lambrusco, le legò forte alle rocce e se ne servì di scala per discendere coi suoi sino alla pianura. Il pretore che lo aveva fatto rinculare in uno spazio ristretto, di una sola escita, di cui i suoi soldati tenevano la chiave, non credette ai suoi occhi quando quell’audacissimo lo assalì con tanto vigore da disfare il grosso delle sue ordinanze e porre in iscompiglio il campo. Tale era il Vesvio nel primo anno del regno di Tito imperatore, allorchè — come scrisse Stazio — piacque al sommo Giove strappare dal profondo le sue viscere, sollevarle sino al cielo e scaraventarle lontano sur alcune sventurate città. Era il nono giorno delle calende di decembre — 23 novembre dell’anno 79 di nostra êra. Il canto dei galli annunciava l’aurora. I molossi abbaiavano nello udire lo strèpito de’ passi sui margini delle vie. I salutatori, i chiedoni, i saccari, i rivenduglioli ambulanti, i mercanti delle botteghe, i viaggiatori che partono, i littori, gli schiavi animano il selciato. I gladiatori escono con reti e panieri dal loro quartiere e, accompagnati dal lanista C. Aelio Astragalo, vanno a far provvista di viveri per la famiglia. Tutti gli artigiani sono in moto verso il loro destino. E in breve ora, quale mura ed intonaca le pareti già apparecchiate dal cemento sparso a striscie come spini di pesce, quale sfilza una per una le tavole dallo incavo longitudinale della soglia di pietra della bottega e le pone in un canto perchè non lo imbarazzino nelle trattazioni degli affari, quale apre il suo _thermopolium_ e canta o getta briosi frizzi ed inviti a chi passa. — Il venditore di pani e di piccole focacce, dopo avere attelato la sua merce a spicchi una sull’altra; e, spiegando i panieri sull’_oculiferium_, mostrando il _pollen_ del suo fior di farina; gli _speustici_, stiacciate cotte sotto le ceneri; gli _ortolagani_ composti col vino, col pepe, col latte e coll’olio; gli _ostrearii_, che si mangiavano coll’ostriche, e i pani disegnati a quadrelli, conditi di anici, di cacio e di grasso, grida — esagerandoli — i meriti dei suoi prodotti. — Il carraio espone sulla porta il _cisium_ che costruisce e la _traha_ senza ruote che mena su e giù nel selciato dinanzi il villico che la contratta, mentre i suoi operai lavorano attorno ad un _birotum_ per ultimarlo. Parecchie carriuole — dette _unarota_ — sono ammonticchiate nel fondo. — I _fullones_, cioè, i lavandai e gli smacchiatori, spandono le loro umide stoffe sulla via a certi bastoni sostenuti da travicelli sporgenti sul muro; e così, nell’atto che richiamano l’attenzione di chi passa sulla loro industria, usano di uno spazio che pure al pubblico è riserbato. Gli edili avevano un bel difendere la libertà delle strade, dei trivi e dei portici con piccole e gravi ammende a quel popolo accaparratore di ogni spazio che il proprio non fosse. Lo interno della bottega o della casa pareva uggioso ad ognuno. Tutti erano lieti quando potevano starsene al lavoro sull’uscio, sul margine, alla luce. La parola _via publica_ veniva interpretata alla lettera. E purchè lo ingombro dei due margini lasciasse libero sulla strada l’adito ad un carro, nessuno potea venir condannato per offesa alla legge. E ove non fossero cadute gocciole di acqua dalle preteste, dalle toghe e dalle vesti donnesche, certo quella mostra variopinta abbelliva la doppia via di Mercurio e la parallela al di dietro, dove i fulloni avevano il loro laboratorio. Era quella la meglio importante tra le industrie pompeiane. Nel 354 i due consoli C. Flaminio e L. Æmilio, reggendo un popolo che vestiva di lana e dormiva ignudo tra coperte di lana, avevano decretato il modo di trattare e di tergere quelle stoffe. E prescrissero, si laverebbero i panni con terra di Sardinia disciolta; indi si affumigherebbero collo zolfo, e poi si purgherebbero con terra cimolia di buon colore. Avvegnachè questa ravvivasse le tinte sbiadite dallo zolfo. E per le vesti bianche, dopo inzolfate, dissero convenevole la terra chiamata sasso, la quale però era dannosa alle colorite. I magistrati — i quali, creati dal popolo per occuparsi dei suoi affari, rientravano in casa al cadere del sole, allorchè i pubblici lavori cessavano — preceduti dai littori vanno gravemente ai loro uffici. Alcuni uomini — vestiti di una tunica stretta senza maniche, di colore oscuro, detta _exomis_, o _diphthera_, col _cucullus_ per coprire il capo in caso di pioggia e continovare il lavoro — procedono dal vico storto in una strada a perpendicolo su quella che mena alla porta di Stabia. Avevano sulla spalla una lunga e stretta lamina di acciaio, senza denti, terminato con due manichi di legno. E nella mano un sacchetto di sabbia di Etiopia. Erano segatori di marmo che andavano a ridurre in lastre per impiallacciature e per pavimenti le tavole di serpentino, di fior di persico, di alabastro egizio, e di verde antico che attendevano l’opera loro nella prossima casa. Ed altra gente dalle sembianze pallide e triste che or si fermano presso i ragionatori, or guardano dalla parte opposta ove l’orecchio tendeva, si veggono in sui canti, per entro i templi, nel Foro. Erano le spie di Roma, adoperate la prima volta da Cicerone ai tempi catilinari; mantenute da Cesare; moltiplicate da Tiberio, da Nerone e dai pessimi che vennero poi, a tutela delle imperiali paure. Razza perversa che disponeva della vita e delle sostanze dei cittadini e viveva lautamente a carico degli alti e dei bassi timori. Sulle mani, invece dei chiodi portavano anelli da cavaliere; e sul collo in luogo del nodo scorsoio splendeva il medaglione di onore. Il cielo era nuvoloso e fosco. E quantunque albeggiasse appena, il calore era eccessivo e l’aria grave e affannosa. Una donna viene da un vicolo per attinger acqua alla fontana del quatrivio dell’Aquila che ghermisce una lepre. Vi trova un suo conoscente che beve al cannello. — Abbi lontano dal capo la collera di Bacco, o Venerio. I _meditrinalia_ — le feste del vin nuovo come rimedio utile alla salute — corrono dal primo allo undecimo delle calende di ottobre. Non lo rammenti?... Il bianco di Surrentum è confortevole a venticinque anni. Cotesto novellino del Sarno ti guasterà lo stomaco. — L’ho bello e guasto, o Tataia, dal molto berne e dal gran sudare che fo. Mira! Abbiamo il fuoco nell’aria. Mai il calore di questo anno. E le fontane gocciolano, non fluiscono. Gli _ænopoles_ mi brinerebbero i lucri. — Davvero! Eppure da due lune cadono frequenti e copiose pioggie. Che il fiume siasi prosciugato alla foce? — Una donna, che avea la _taverna vinaria_ dietro la fontana, si approssima a quei due ed aggiunge: — Quasi. Cominciò a mancare da tre dì. Ed ora vien giù a centellini. E siccome un beone di vin cotto alla mirra mi accusò di aver aperto nel mio cuore uno spaccio di bibite calde, io mandai alla fontana più in su per averne acqua fresca; e dopo lungo attendere n’ebbi. Ma la fu attinta dalla pubblica cisterna, colà presso, dove due littori vegliano dì e notte per la custodia e la distribuzione di quell’acqua piovana. — L’anno del terremoto — se tel rammenti, o Fortunata — avvenne pure così. Le acque diminuirono. — Il _seplasiarius_, che aveva la sua farmacia poco discosto, viene anch’egli a verificare il misero stato della fontana. E Fortunata a lui: — L’arte della Seplasia che dà credito alle erbe amarissime e alle pillole disgustose, trae anche Flavio Fimbria alle manchevoli linfe. O, che il tuo pozzo è turato? — Peggio. Dapprima diminuì la sorgente. E la rimasta ha un sensibile grado di calore ed un gusto acidulo e disgustoso al palato. — Che! Non ve n’ha più costì? — Tataia gli addita il cannello di ferro che sgocciola a mala pena, e s’incammina ver la pubblica cisterna. Quivi era un pettegolezzo, un accapigliarsi, un bere a furia, tumulto che i littori acquetavano a dura prova. Ognuno il primo a gittare giù il secchio. E le donne le peggio ardite e linguacciute. — Sii _formosa, decens, dives, fecunda_, o Pannikide. Concedimi il tuo posto. Se tardo — e sono qui da un’ora — la mia crudele padrona mi farà dare dieci vergate sulle spalle. — _Esto beata_, Heracla. Ma le busse che ti risparmio, le busco per me; Lisistrata di Neptunale è una gorgona. — Fuori la intrusa. Io vengo poi. O bel littore, fa rispettare la tua autorità e il mio diritto. — Vedi chi parla di dritto! Januaria, di padre incerto e che ha securo amante nella casa dov’abita. — Frena quella linguaccia di serpe. O mi forzerai, Melitta, a darti lo aggettivo che i tuoi casti ardori nelle _popinæ_ ti meritarono, quello di lurida _pellax_ — .... e anche peggio, di _porna_. — Che ho a rispondere ad una donna _cujus ne spiritus purus est_? — Allora Ianuaria più infuria e con voce maggiore e con gesti vibrati si slancia verso uno dei littori che per calmare quel tafferuglio, distendeva la mano onde separare le due litigiose e quelli che già prendevano partito. — Ah! Vuoi anche tu ch’io mi muoia di sete, o difensore di male femmine? Fai bene a darle compenso, poichè con donne di garbo tu pugnar più non puoi. — Le tue chiacchiere, o sguaiata, sono più inutili di _vitrea fracta et somniorum interpretamenta_. Inutili discordie! Ognuno avrà l’acqua a suo tempo senza motti villani e senza che abbiate a comperarvi un _galerum_ e porvelo come un elmo di chiome sul capo invece dei capelli che vorreste strapparvi. — Ha ragione Nupeo. Si quieti la tentigine di queste piche parlanti e la destrezza prevalga. — Così Nilodoro. Il quale, schiavo di un tintore presso la fontana dalla testa di Giunone, era venuto alla cisterna per compiacere alle voglie della leggiadra padrona che coll’audacia dello sguardo spiegava la segreta sua simpatia, eloquente però nei soppiatti incontri. Allora uno scoppio di risa ed un battere di mani. Anche le trecchiere dissimularono lo sdegno con finta ilarità. Ma le voci e gli alterchi ricominciarono ben presto a logorar la pazienza ai littori addetti a quel disgustoso ufficio. Per quanto ognuno il vedesse, nessuno sapeva spiegarsi cotesta deficienza di acqua nel Sarno, cotesto ringoiamento delle sorgenti nella terra e quel sapore acidulo e puzzolente nelle acque che rimanevano ancora nei pozzi. Due uomini passano per quella strada. Sono Solonas, il mattonaio ed Elio Gemino, il carradore. Si arrestano, ridono ed infilzano molte parole su quelle femmine che qua e là scorrevano, arrovellandosi. — _Picæ pulvinares._ Gazze da mercato. Le trovi sempre pessime lingue e a gridare di piena notte che è mezzodì. — Manca l’acqua? Vi è il vino! Bacco ne spremette molto l’altro anno. Ce ne darà copiosamente anche in questo. — Ma la baccante non è massaia. Ed io stimo la _eupatria qui providet omnia_. E poi cotesta stranezza non è a prendersi a gabbo, o Salonas. È nelle cantine un certo aere maligno che uccide gli animali che dentro penetrano. Due gatti del mio vicino, là sotto le mura che guardano verso Nuceria, furono trovati morti. — E due facchini di Polibio, nel penetrare nel fondachi di quel ricco, presso il porto, prima ebbero spente le lampade e poi caddero stecchiti. Un altro che andava a soccorrerli, nel curvarsi sentì mancare il respiro e le idee vacillare. Escì fuori in tempo e potè riaversi sulla scala, alitando l’aria al di fuori. I cadaveri furono tratti su cogli uncini e non avevano un graffio sulla persona. Dunque la dea Mephite tolse loro il respiro. — Ben dici, o Epietetos. Strano paese divenne il nostro da che Marco Herennio, decurione, venne a sol diffuso, a cielo sereno colpito dal fulmine nel Foro. — Dove di presente tu pingi? — In una casa, quasi in fondo della strada che ha la fontana dal bacino arrotondato, presso il bello Edone, vinaio. Sai? Dove talvolta, o Pistosxenos, ti ho visto bere di tarda sera con Floro e Frutto, festevoli compagni, allorchè ti eri sbarazzato del carico di figulina che avevi portato da Nola. — I quattro continuano a scendere per la via consolare. — Veh! qual processione votiva! Come se fosse il sedicesimo delle calende di aprile, all’epoca delle _liberalia_, per le feste di Bacco, nell’assunzione della toga virile. Oh! il calore è eccessivo.... Guarda i due batavi di Capito come soffiano in sull’uscio! Il nostro clima ad essi deve parere l’alito di un forno acceso. — E che dici di quel succoso che ti passava vicino? La felicità lo die’ a balia presso la Fortuna. E se suda, ha ben molte tuniche da cambiare. È Clodio Alypo, liberto di Calvisio; il quale, comperati i montoni a Tarentum, dopo il tremuoto e la gran morìa delle bestie, e ridottili in mandra, divenne mercante di lane e di proprio ha sei tintorie. Dicono possegga i suoi ottocento talenti. E in sua casa la borra dei suoi origlieri è tinta di porpora e di scarlatto. Sul suo desco _apros gautupatos, opera pistoria_ e vini squisiti. — Come! Mangia i cinghiali cotti nella loro pelle? Allora gli spiriti incubi gli diedero il loro cappello perchè trovasse il tesoro. — Egli felice che non suda al tornio facendo vasi ed orciuoli! — Nè cuocendo mattoni al pari di me. — Oh! parlaste a proposito degli effetti del caldo. Ho la gola arsiccia. Entriamo nella _taberna vinaria_, e beviamo del buono aromatizzato che spegne la sete. — Savio il consiglio di Gemino. Il vino generoso e melato e mirrino, se supplisce ai panni nel verno, ingagliarda e sostiene il corpo in estate. — Sì, se nol fai salire al cervello ad ondate; imperocchè allora vacilli e cadi. — Io per me amo più i termopolii che la fullonica. _Aqua dentes habet, et cor nostrum quotidie liquescit._ Ma quando ho un _pultarium_, di quello che ha la _schedula_ sulla pancia e non si vergogna come le donne di dire la sua età, le squadro a tutti io. E Pistosxenos lo sa, il buon compagnone. — Concediam libero il dire al figliuolo di Semele, lo allegratore degli uomini.... Ohe! Bubbio. Abbi Venere ritrosa se mai facesti galileo il vino che ti chiediamo. Del _calenum_.... e di quel _dominicum_, il vino che bevono i padroni di casa; e non sia concinnato con pepe o con erbe aromatiche. Non son del gusto di Gemino io. — O Epictetos, tu devi andare al lavoro, rammentalo, e il pennello delira, se lo stomaco bolle. E la vedova di Alessandro Citus.... — Oh! per Ercole! Valeria Eupraxia non applicherà le sue labbra sulle mie per fiutare il _cadus Aliphanis_ che mia madre aiutata mi compose nel petto. Erano gli uomini che ai tempi dei re baciavano le mogli sulla bocca — e il dilettoso costume perdura — per conoscere dal loro alito s’esse avevano bevuto del vino. — Attento... Il vinaio mesce. E Solonas brinda. — _Mihi, Tibi.... Vobis!_ Ah! Gli è pur buono.... Arianna tutto obbliava quando trovò un tal conforto dell’animo.... Ehi! Athicto Sinna, non passar oltre senza bere con noi. O che hai con quel viso da funerale? — _Mulier, mulvinum genus._ È un nibbio. Non conviene usar bene con alcuna, perchè gli è come gittare il bene in un pozzo. Se giovane, è lo abbandono di se stessa, è la noia, la solitudine, lo ideale che arde nel suo cuore di una vampa bugiarda. Se matura, è un carcere, un imbarazzo. — Sentenzia come Cicerone da vivo. — È amaro ricordo. Addolcialo con questo _vetustate edentulum_. Tradito a ponente, volgiti a levante. — Conosci, o Gemino, il nome di quel tristo suo disinganno? — Sì, Solonas lo diceva ora all’orecchio di Pistosxenos. La giovane Kallisto, figlia di Narcissio Moscho, presso le proprietà degli eredi di Giulia Felice. — Veramente bella, grassoccia, al punto. La vidi di sera nel tempio di Venere; e la sua veste bianca si staccava dalla semi-oscurità come raggio di luna. — Athicto, non piangere. Bevi piuttosto. — Lascia ch’io mi beva le lacrime. L’amava come non aveva amato mai. Diceva appartenermi intera, senza riserva. _Semper et ubique_. — — Ed ecco le parole cui tu non dovevi fare a fidanza. È lo stesso che attendersi inerzia da una farfalla. Ma non dubitare. Andrà lontano. Troverà la fiaccola che le arderà le ali. — E che fa egli costì contro il muro? — Poichè l’oro mi si fe’ piombo fra mano, scrivo con Ovidio: Quisquis amat veniat. Veneri volo frangere costas Fustibus et lumbis debilitare bene. Sermo est illa mihi tenerum pertundere pectus, . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Quos ego non possem caput illud frangere fuste. — La donna, amico, è come la coda del vitello, _retroversus crescit_. Appicca quindinnanzi il voto a ogni immagine, e sarai vendicato. — Ma io l’amo e non posso. E così passerà la mia vita. — Epictetos si appressa all’orecchio di Pistosxenos e susurra: — Dì.... parla da senno Athicto.... e così.... in Pompei? — Anch’io vi pensava su..., e comincio a temere che Plutone abbia respirato troppo vicino a quel suo delicato cervello. — Orsù, fratelli, l’ultima alzata di gomito. E beviamo alla tua pace, o Sinna. E perchè ne profitti, ricordati che lo amore è la sfinge, la quale divora chiunque la interroga. Quegli amici seguitarono la via e volsero pel vico storto, piegarono a sinistra presso la fonte del quatrivio, e discesero in giù. Un _vale_ incrociato; ed ognuno pei fatti suoi. Il pittore Castresio, cui avevano dato il soprannome di κάλος, era già al lavoro. Sulle pareti del _cavædium_, tinte in nero, dipingeva baccanti abbracciate o sostenute da fauni festosi e danzanti. Erano i devoti seguaci del giocondo iddio che prometteva per non spinoso calle i piaceri di una vita beata. A’ suoi piedi era la tavolozza di granito egizio, posta sopra un braciere. I suoi rotondi incavi contenevano i colori di cui allora servivasi. Cosenzio abbelliva una scala. Vetidio, un _œcus_. Succidio Epitinka, lo xysto. Damisio restaurava un cubicolo. Poche altre pennellate, e tutto il lavoro sarebbe compito. Cantavano canzoni del loro paese. Lo amico che vide entrare Pistosxenos, scherzosamente il garrisce: — Ti dai bel tempo, per tutte le muse eh? Hai ragione. L’aria è sì grave che spossa i nervi e le facoltà dell’occhio. E qui cantiamo come cicale di Rhegium. Ma indovino chi ti trattenne. _Colubra restem non parit._ Di serpi non si fanno corde, e tu saresti capace _resecare ungues_ allo avvoltoio che vola. — A che miri con questo dir da sibilla? — Penso che tu, _iterum et feliciter_, ti trattieni sotto coltri non tue e non ti fai sorprendere dal geloso. Bada! Cornelio Vitale or’è più di un anno _dispensatorem suum ad bestias dedit_. I duumviri glie lo accordarono ad esempio. Vetidio entra a dire: — Misero! Qual colpa in lui, se forzato a fare? Qual colpa in lei, s’egli bruttissimo? — Eh! legge di taglione! Finire straziato dal toro! _amasiuncule mi_, smetti o ci capiti. — Dipingi qui e non in casa. Farai fortuna. Valeria Eupraxia ha ammirato il tuo Narcisso e la tua Danae col Perseo salvato nelle braccia. E parlò _libentissime_ di te e del valor tuo a Memore Istacidio, il sacerdote di Mercurio e di Maia. Pare voglia ridipingere il tempio e dare a te quel lavoro. Mio padre mel dicea sempre; _Literæ thesaurum est; et artificium nunquam moritur._ — Ti so grado, o bel Castresio, del sermone e delle liete novelle. Con siffatti stimoli vado a compire il lavoro. Ma non Klimenes me rattenne come tu ti piacesti pensare. Ma è disordine e sgomento nella città per l’acqua che manca. Ed Ælio Gemino, il carraio, con altri buontemponi mi trassero alla taverna. Dopo un’ora le pitture erano ultimate per tutto. Nel cavedio mancava il _podium_, cioè lo zoccolo. Ma Castresio lo segnò, perchè, i _cementarii_ sapessero il punto dove avrebbero incastrato le tavole di marmo di Luna. Ed in punto, ecco Edone, il vicino vinaio che così tutti rimbecca: — Come! Quando lo scirocco pesa talmente a soffocare il respiro e si suda solo pensando, e voi, beoni che mi sapete alla distanza della voce, vi state costì ansimanti qual mantice e non chiedete soccorso a chi ha tal merce che rinfranca ed allieta? — Ti sieno propizi gli dei, o bellissimo Edone. Possa tu versarmi il vino sul capo se io manco al tuo invito. E non solo ceci e lupini; ma un po’ di _scriblita frigida_, di quella torta eccellente di ieri, se pur te ne avanza. Condita col mele caldo, berremo come Anacreonte, e tu sarai lieto di noi. — Se tu paghi lo scotto, o bel Castresio, permetti al tuo Pistosxenos di aggiungere il cacio molle e rape con senape. Consenti? — Costui mi vuol Trimalcione. E sia! V’ha tra noi Succidio e Damisio che nell’atto chiederanno fegato nei bacini, busecca di bue ed uova pileate. Non somigliano punto a Vetidio, del quale ebbi a scrivere ieri sul muro; _Ubi perna cocta est, si convivæ apponitur non gustat pernam, ligit ollam aut caccabum._ — No, saremo discreti. Non dubitarne. Ove mai tu imbandissi un prosciutto cotto, lo mangeremo tutto, e sii certo che non leccheremo l’unto della pignatta. — E Pistosxenos, preso uno spillo, graffì sulla nera parete la sentenza che segue: — _Invicte Castresi, habeas propiteas deas tuas tres. Ite et qui leges, calos Edone, valeat qui legerit_. Cotesto è il voto pel nostro caro anfitrione. Ma più che Giunone e Minerva io so che Venere lo prese per gli occhi. E ad essa il pomo. — In fede di Edone, gli è un suo devoto e dei più passionati. E gli bisogna mangiar caldo e ber freddo. Or permettete ch’io pur graffisca qualcosa a mia volta? — Eccoti lo spillo e scrivi. Il vinaio pensò e poi stese la mano sulla parete. — _Edone dicit. Assibus hic bibitur dipondium. Si dederis meliora, bibes conditus. Si dederis mina I, XL urna bib_.... — Orsù, a me lo spillo e traccerò il mio nome a conferma. E graffì, — _Calos Castresi_. — Oh! Andiamo. Venere è losca. Perciò più bella. Diverrebbe irata se più qui tardassimo. E imbruttirebbe. Allora tutti gli dei contro di noi, ed avremmo pane pei nostri denti. E gli allegri pittori seguirono Edone nella sua _taberna vinaria._ Per le vie sono mercanti di carne che portano sur un _cesticillus_ pezzi di trippe e di fegato, ed urlano i meriti della loro merce a buon mercato. E _dendrophores,_ che tagliano, spaccano, segano e portano il legname da ardere a chi vuol comprarlo. E carbonai che spingono innanzi i loro asini pazienti e carichi, che a posta loro dirigono, ed arrestano per la coda. E venditori di fuscellini inzolfati che cercano di ricambiare coi rottami di vetri e con tibie di bue già mangiato. E ciechi che suonano nei flauti per buscare la vita. E saltimbanchi che imitano i giuochi del Circo. E prestigidatori. E robusti uomini che sollevano fanciulli sulla testa e sulle braccia, d’onde ricadono in piedi per le terre senza farsi alcun male. E uccellatori che si fanno ubbidire dai piccioni o dalle passere ad ogni loro cenno. Havvene uno finanche che presenta al suo cerchio di curiosi e di sfaccendati un bel ciuco, dalla testa maestosa e dalle orecchie ancor più, il quale indovina per un _triens_ quale del crocchio sia il meglio amato, il peggio infingardo, il più.... mariuolo. E le grosse risa quantunque volte la culta plebe e gl’incliti gladiatori credono che lo indovino abbia colto nel segno. Uno che passava dà una occhiata di spregio alla folla, vi scorge un conoscente, lo tocca piacevolmente sulla spalla e gli dice: — Che fai costì ritto, o C. Vibrio Saturnino! Studi per trovare un nuovo Dio in quell’asino addottrinato? — La parola dello epicureo è sempre mordace. Credo, o mio Caio Nivillio, che tu sedotto da pochi anni dalla falsa dottrina, l’abiurerai pel nessuno interesse di sostenerla. — Non è cotesto il luogo da tali ragionamenti. Vien meco nel Foro triangolare. Sederemo nella _exedra_, e correggerò le tue false idee sulla filosofia del grand’uomo di Gargettium, la saggezza e il luminare dell’Attica e quasi l’idolo degli Ateniesi. — Un cielo caliginoso ma con estive temperie; strade piene di popolo gaio e incurante; la eterna bellezza di una contrada che dalle prime ore del mondo sembra voglia rivelare agli uomini un grande secreto, tutto cotesto impressionava i due amici sempre pronti, siccome meridionali, ad ogni specie di emozioni. Nel passare sulla cantonata dinanzi la bottega del musaicista, Nivillio salutò Morultronio, intento al lavoro di genio e di pazienza. Era la copia di un musaico già fatto in una casa dinanzi le Terme del Foro, operato con minute pietre e scelte pastiglie di vetro. — Bravo! Rinnuovi lo stesso genio bacchico di altra volta? Chi lo desidera? — C. Calvenzio Quieto. Tu sai che ama il bere. E vuole che nel triclinio io collochi Acrato, l’antica personificazione del _vinum merum_. — La sua coscienza val meglio di mille testimoni. _Vale_. — _Valete_. — Giunti presso il tempio di Nettuno e sedutisi, Nivillio cominciò: — Mira. Non uso preamboli. Vi hanno cose che emergono come le verità dai pozzi, perchè sono gli ospiti invisibili delle nostre coscienze. Una voce autorevole, avvezza a scrutinare i misteri, vibra; i veli cadono; e le menti si aprono alla luce di un nuovo orizzonte. Epicuro meditò e scoprì che la natura si compose _ab æterno_ e si completò a seconda della necessità in tutte le parti dello universo. La ignoranza degli uomini creò gli dei invisibili a tranquillità delle loro visibili paure e gl’identificò negli uomini chiari degli evi anteriori, quasi per iscusa delle proprie debolezze e passioni. I legislatori persuasero le società alla credenza di siffatte menzogne. I tiranni le imposero per consacrare le loro inique malvagità. — Così affermava Nivillio ai suoi tempi. Ed io dico nei miei come la religione sia una passione della umana natura, che assume il colorito dell’epoca, dei costumi, delle leggi, delle contrarietà, del clima, della maggiore o minore intelligenza degl’individui. I quali, dopo aver nutricato quella passione di futilità, di paure, di ferocia, di avarizia, di libidini e di egoismo la esprimono fuori del cuore immedesimata delle virtù e dei difetti del loro carattere peculiare. Laonde, ai tempi andati come nei nostri potevasi e si può essere religiosissimi idolatri, israeliti, cristiani, islamiti, bramini, cattolici, anche papisti,... e vivere vita lussuriosa, palesarsi usurai, ubbriacarsi, macchiarsi di sangue, ordinare macelli d’uomini, parlare di pietà, temere Iddio ed offerirsi alla storia sotto il nome di David, di Elagabalo, di Filippo II, di Luigi XI, di Cromvello, di Borgia, di Calvino e dei Borbonidi. Le temperie dell’aria, il calore del sangue, le ragioni di Stato sono elementi acconci a sanare di molte rotture ed a lenire qualche rimorso. Nè giovano riforme a rimedio di epoche rilasciate. Chè una religione troppo assottigliata dallo staccio della ragione cessa di essere una fede. Ed una fede imposta senza il consentimento della ragione è una cieca stupidezza ed una solenne bestialità. Or ecco come C. Vibrio Saturnino rispondeva alle sentenze del suo compaesano C. Nivillio, lo epicureo: — Ma Epicuro disse si onorassero gli Dei a cagione della eccellente loro natura. — Lo disse, ma non lo credette. Poichè pur disse com’egli non attendesse alcun bene, nè temesse verun male da essi. Di fatti, non gridarono pei crocicchi i perversi suoi oppositori ch’egli rovesciava colle sue dottrine la osservanza agli dei? Nè voleva il culto mercenario? E se dicea si onorasse e si rispettasse ciò che è grande e perfetto, non era cotesto un temperare le sue arditezze con un giro di frasi che lo salvavano dalla morte? La ragione parlava per la sua bocca. Ai secoli la sentenza! — Ma chi calmerà i rimorsi dell’uomo colpevole? Chi darà la forza alle virtù ignorate di continovare quando tutti i falli nascosti saranno scusabili ed impuniti? Le vostre dottrine limitano la esistenza ai brevi istanti di questa vita. E al di là l’uomo decoroso di virtù avrà la stessa sorte dello scellerato e dell’empio? Ah! io sarei veramente addolorato se avessi a perdere la fiducia in un soggiorno di delizie o di pene dopo la morte. — Se tu togliessi per te il fastidio di pensare, proveresti lo stesso rammarico che senti allorchè ti desti il mattino dopo un sogno felice. — Ma se tu dissipi cotesto sogno, non togli tu allo infelice le soavità che sospendevano i suoi mali? — No. Il mio maestro elevò l’anima e fortificò la ragione. E insegnò che il vero coraggio sta nello affidarsi alla necessità.... In Jerusalem una setta perversa, quella dei Farisei, si sbracciò per accusare un filosofo di Galilea appo i Romani. E lo calunniarono dinanzi le leggi. E lo resero odioso al popolo. E gavazzarono allorchè lo videro sospeso sulla croce dei ladri e degli assassini. Pure quel crocefisso — lo udii anche dai circoncisi che sono qui — predicava una fede che a tutti doveva piacere: «Ogni uomo nato di donna è figliuolo di Dio onnipossente — Ognuno per conseguenza è eguale all’altro in faccia alla bontà divina.» Ed il pernio della sua dottrina era conchiuso in cotesta formola: «Non fare altrui quello che non vorresti che a te facessero.» Ebbene! Gli stoici, che sono i Farisei del panteismo, dicono di Epicuro le abbominazioni delle maladizioni perchè professò che la felicità dell’uomo consiste nel piacere.... — E ti par questa la teoria di una sana morale? — Nel piacere che risulta dalla pratica delle virtù. E nessuno tra i tuoi brontoloni potette mai accusare nè Epicuro, nè i suoi adepti di sensuali pecche. Il popolo invece vede voi nè casti, nè temperanti, nè frugali. — Ci sa religiosissimi. — Ipocriti, frequentate i templi. Crapulosi, aiutate alla crapula dei sacerdoti e gli satollate di ricchezze e di prestigio. Se magistrati, vendete la giustizia. Se privati, cittadini, ponete allo incanto la bilancia di Temi. I legami sociali voi li rompete ognidì. I rimorsi nel cuor vostro assumono le sembianze di pregiudizi infantili; e gli dissipate coll’offerire una melagrana a Venere, un montone a Giunone, un voto a Giove, un’anfora di vino antico al dio Bacco. Arricchite colle usure?... Che monta! Una parte al flamine di Mercurio, lo incenso al comodo nume, il resto per voi. E vi beccate il nome di _boni viri_, di _verecundi_, di _religiosi_, di _integri_, di _innocui_, di _frugi_, di _omni bono meriti_, di _dignissimi Reipublicæ_. — Non tutti così.... In ogni modo val meglio aspirare a leggi pure, solide, di facile esercizio e consolanti, di quello che ad una sterile virtù stabilita dalla opinione mobile degli uomini. E ve n’ha già di parecchi sistemi. E ne diviene imbarazzante la scelta. — Ma quando la morale — che tu riconosci per tale al pari di me — non può più accordarsi con una religione malsana che corrompe i costumi e che riverisce ed incensa iddii ingiusti, dissoluti e crudeli, e non val meglio negare la loro esistenza piuttosto che degradarsi dinanzi a quei rivenduglioli di antiche frottole che di soppiatto si smascellano dalle risa della vostra melonaggine?... Ah! Voi siete gli empi davvero!... — Io penso che tu rammenti come nella nostra prima gioventù, presi ambedue da una grande simpatia l’uno per l’altro, risolvemmo di consultare la iddia Iside sulle sorti che ci attendevano. Me la curiostà spingeva, a ver dire. Te una credulità superstiziosa. Andammo nel tempio. Affidammo al jerofante le due pergamene rotolate che contenevano le nostre domande e attendemmo prostrati a’ piè della edicola. Un sacerdote triste, pallido, abbattuto, cinto il capo di bende e di una corona di alloro, allumò sullo altare un fascetto di erbe aromatiche, masticò alcune foglie della corona, gittò questa nel fuoco insieme con una pugnata di farina d’orzo e annusò a piene narici le crepitanti fiamme. Quell’uomo lo dicono stretto al celibato; e le frizioni di cicuta par lo accomodino egregiamente ad osservare una strana legge contraria alla natura. Assistito da due sacerdoti che aveano nelle mani gli attributi del Sole e della Luna, passarono dietro la edicola. — Rammento, o Nivillio, che due altri ci purificarono coll’acqua santa nell’atto che i vittimari scannavano i due vitelli bianchi di Surrentum che noi avevamo offerto alla iddia per renderla a noi propizia. — Io tutto vidi, o credulo amico. E allorchè chiesi la ragione perchè al tuo vitello fecero mangiare la farina che gli presentavano; e perchè pittarono acqua fredda sulle aperte viscere del mio — il quale d’immobile ch’era divenuto, agitossi — nessuno di quegl’impostori rispose. Avvegnachè più le cose sieno inesplicabili e dure a ingoiarsi, più inspirano fede al volgo bietolone e ignorante. Un soave odore si sparse a noi d’intorno. Tu lo credesti prodigio. A me parve grossolano abuso della mia ragione. D’un tratto dietro il nume vedemmo sorgere una nube di fumo olezzante. E poi una voce cupa gutturale pronunciare parole sconnesse, ignote alcune, altre di nostra lingua — che non avevano senso veruno. Eh! era giovane allora e il mendicare un responso alla Iddia, se mi fece oltraggio alla mente, pur mi parlò di pericoli ch’era follia lo sfidare. Socrate morì di veleno. Diogene fu salvo della sua miscredenza per la nomea di strano filosofo. Tacqui. E siccome ambedue, senza dircelo, avevamo chiesto se avremmo patito il dolore di sopravvivere allo amico del cuore, il sacerdote portò a noi in una sola pergamena il responso deciferato. Qual’era che tu morresti colpito dalla folgore, ed io strangolato. Baie! — Tu stracciasti, o profano, l’oracolo, e mal te ne coglierà. — Morrò. Sei immortale tu forse?... Ho meditato lunghi anni su quella scempiaggine della mia gioventù; e nel segreto sentii gli orrori cagionati ai popoli e agl’individui dalle pitonesse, dai misteri di Cerere, dalle soperchierie di Delphi, dai responsi degl’ipocriti sacerdoti e dagli oracoli degli egiziani che vendono le loro frottole in nome d’Iside, qui. Una parola dettata da quei corrotti e mai satolli del proprio egoismo, suscitò guerre sanguinose in antico, portò desolazioni in una repubblica, ridusse in cattività gli abitanti di un intero paese, creò lo eccidio di una famiglia, troncò la vita di una creatura innocente. Giacchè mentovai i ciurmadori del tempio di Delphi, vo’ ricordarti quello che fecero al popolo di Cyrra, nella Phocide, correndo la LXXIII Olimpiade, quattro anni dopo che Euripides, il grande tragedo della Grecia, nacque in Athenæ. Gli abitanti di Cyrra, nel seno Crissæo, possessori della valle che si stende dal monte Cirphis al Parnaso, imponevano balzelli sui greci che sbarcavano nel loro porto per andare a consultare in Delphi il vantato oracolo. Ma nuocevano alla turpe officina. E l’oracolo, richiesto, rispose che i colpevoli meritavano il supplizio, cioè, che ogni cittadino di Cyrra dovesse esser perseguitato di giorno e di notte come cane idrofobo; si saccheggiasse il paese; e le donne stuprate; e i bambini ridotti a schiavitù. Parecchie nazioni si levarono in armi. La città fu rasa, il porto colmato, gli abitanti morti od in ferri, e i ricchi campi sacrati al tempio di Delphi. Una colonna fu rizzata sulla vasta pianura a ricordo del fatto. E col sangue delle migliaia di vittime eravi scritto: _Chiunque osi rompere cotesto giuramento sia esecrato agli occhi di Apollo e delle altre divinità di Delphi. Che le loro terre non portino più frutto. Che le loro donne e i loro greggi producano mostri. Che perano nei combattimenti. Che falliscano in ogni loro impresa. Che la loro razza si spenga. Che per tutto il periodo della loro vita Apollo e le altre deità di Delphi rigettino con orrore i loro voti e i loro sacrificii._ Questi i tuoi sacerdoti, avari, ingordi, mendaci, ladri, impudichi, arpie, mai satolle di dominio e di sangue. E l’empia sentenza correrà tradotta in ogni lingua nei secoli avvenire. — Lo ammetto, ed ammetto altresì i vizi e le passioni umane identificate nei Numi. Ma se noi pervenissimo a purificare il culto delle superstizioni accumulate dai secoli, saprebbero gli Epicurei rendere omaggio alla Divinità rinnovata? — Sei pure il dabben’uomo, o Vibrio Saturnino. Tu infradici i numi nel brago e poi gli correggi e gli lavi nel ranno a posta tua. Dunque, o buoni, o pessimi, sono l’opera delle vostre mani. Provami un po’ meglio la loro esistenza. Guarentiscimi con testimonianze irrefragabili ch’essi prendono cura di noi, ed io mi prosternerò ai loro altari. — Sei tu che devi provarmi la loro nullità. Perchè sei tu che zappi le fondamenta ad un domma che i popoli osservano per lungo periodo di secoli. Ma un monumento che attesti la esistenza dei Numi pur vi è, e tu il vedi e il calpesti. Il sole, le stelle, la terra, l’organismo dei corpi, la differenza degli esseri, il petalo dei fiori, la polvere dorata delle farfalle, lo istinto degli animali, la nostra ragione. La natura sin dallo aprile è stata in un rapido movimento finqui. Ora si acconcia al riposo. Dunque vi è un primo motore. Cotesta azione è soggetta ad un ordine costante. Questo ordine esige una intelligenza suprema. Qui la mia mente si arresta. Se tu, o Nivillio, procedi innanzi, io dubiterò della mia esistenza e della tua. — Coteste prove non arrestarono mai i filosofi sulla via della ragione. — Voi siete presumenti. — Noi siamo ragionevoli. E pensiamo colla nostra testa piuttosto che per quella di Aristotile e di Numa Pompilio. Leggi Timeo di Locrum, Anassagora, Platone, Pythagora, Antisthene, Epicuro, Socrate; e verrai facilmente alla soluzione del misterioso problema: «Molte sono le divinità adorate dagli uomini. Ma la natura ne indica una sola. Tutti hanno considerato lo universo come uno esercito mosso dal genio del suo generale, o come una vasta monarchia, in cui la pienezza dello imperio risiede nel principe.» Se Dio fosse, lo insetto, la lucertola, il rospo, il lombrico, il coccodrillo, la talpa, l’erba che non è albero, la scimmia che non è uomo, non dovrebbero lagnarsi delle imperfezioni loro prodigate? Ma son essi cogli altri i componenti del tutto e i perpetuatori del tutto, e non havvi ragione a lamento. — Tu mi persuadi ed io fuggo. Oh! la illusione dei Campi-Elisi! _Vale._ — Ho speso fruttuosamente la mia giornata. _Faustum, felicemque._ — Intanto che i filosofi si avviavano alle loro case ed una parte di popolo vagava per le sue faccende o si trastullava, le donne e i bigotti muovevano verso i templi alle preci votive a cui li invitavano i magistrati. Le stranezze che occorrevano erano insolite cose. Il maraviglioso mena al maraviglioso. La paura e la impotenza legano la credulità al carro dello ignoto cui si chieggono favori, aiuti, riparo e conforti. E tutti i superstiziosi e gli sgomentati corsero ai sacerdoti per offerir loro _ex-voto_, monili, pecunia e commestibili onde pregassero i numi a far cessare le minacce misteriose o patenti che pesavano sulla pubblica coscienza dei Pompeiani. I fani di Giove, di Mercurio, di Venere e dell’Augusteum, di Esculapio, di Cerere, di Nettuno e di altri iddii si affollarono di gente. E più quello d’Iside, deità di non remota instituzione e di moda. Grato Arrio, Amphio Serapa, Puccio Chilo, Messio Inventus, Merulino, Nimphiodoto Caprasio e gli altri loro consorti in ipocrisie accettarono la mèsse che la ignoranza impensierita loro forniva; ed ognuno — secondo il rituale del proprio culto — sacrificò, libò ed orò il meglio che seppe. Perchè, a ver dire, un po’ di spavento aveva pur scosso quei pubblici ladri e profittevoli ingannatori. Persino dalla parte più ignobile della città, verso il Sarno, accorsero gli ebrei, negozianti e schiavi venuti dalla loro distrutta città. Non avendo più tempio, nè potendo creare in terra straniera il loro _sanhedrin_, cercavano in tanto pericolo il dio unico dove poteva discendere, richiamatovi dagli incensi e dalle preghiere. Eliachim Verpa, il ricco mercatante, ne ritenne ben pochi e furono quelli tra i quali spandeva la buona novella e col loro mezzo faceva proseliti e propugnava di soppiatto negli schiavi la notizia della redenzione. Sur un’ampia via che dal Foro, traversando quella che mena alla porta di Stabia, conduce direttamente allo Anfiteatro, è a sinistra una casa, il cui uscio apresi subito dopo un terrazzo lungo quanto l’abitazione precedente, guarnito di una balaustrata di ferro. Numerosi cittadini, solleciti liberti, procuratori officiosi, chiedoni di ogni genere sono sul selciato, assaltano l’uscio, empiono l’atrio. La diversità delle vesti, le varie persone che parlano di affari che la mobile fisonomia traduce a chi finamente le osserva, la magnifica architettura dello edificio sono indizi che colà dentro dimori un uomo di alta considerazione. Ed una voce ecco che l’indica. Nessuno degli annunciatori ha parlato. Laonde, tutti gli occhi si volgono sorridenti ad una gabbia di legno dorato sospesa ad una verga di ferro che traversa lo impluvio. La voce ripete il suo verso e dice: — _Svedius Clemens, sanctissimus judex._ — Era uno Ψίττακός verde, dal capo giallo e dalla coda rossa, cui avevano dato il nome di Catina, ch’erano le sole tre sillabe che pronunciasse pria che i servi altre glie ne apprendessero. Alle parole di quell’uccello, credutele escite dalla bocca del _nomenclator_, la calca si fece più innanzi nell’atrio. — Isocriso Fortunato, qual cura qui ti conduce? Fatti in qua ed eviterai di aver pesti i piedi. — Sì, o Claudio Espedito, meglio è serbar sane le costole e non esser dei primi.... E poi è un’afa che uccide. Qualcuno di quei solleciti, là nella schiaccia, perderà il respiro. Mira L. Pullio Mactoriano, corso in tanta fretta da non avere ancora allacciato le corregge dei calzari. — E che dici di M. Epidio Sabino che pur sbadiglia ed ha la cispa negli occhi. La vanità gli vieta il sonno. E si fa spingere qui grosso e rubicondo per sollecitare dal sommo giudice imperiale la ratifica dei suffragi del vicinato per le prossime elezioni. _Habebimus ædilem trium cannearum!_ — Qual vita! Nei tempi antichi, pria che Silla legasse le ruote del nostro carro municipale, eh! amministrare il paese era un fatto onorevole ed onorato. Ma ora.... l’ombra e nulla più! Il magistrato è servo dei capricci dell’Urbe.... Ne avemmo di mostri a patire!... Vespasiano non ebbe nè grandi vizi, nè grandi virtù. Era alquanto dozzinale e plebeo, e di parole licenziose e brutte. Di lui, vecchio, massiccio, colle membra annodate e sode, e colla faccia rappresa che parea che ponzasse, innamorò Petronia, poi che fu morta la Cenide sua. La fe’ passare nel bagno, e ordinò al dispensatore di darle dugencinquanta nummi d’oro. Or, questi domandandogli in qual modo quella partita si avesse ad acconciar nei suoi conti, rispose: «Metti a uscita Vespasiano, di cui le donne invaghiscono.» Il figliuol suo, Tito, lo amore e la delizia dell’uman genere, per ora.... Durerà? — Eh!... Amministrando lo impero insieme col padre, fu poco civile e molto crudele. Rammenta tra gli altri, Aulo Cecinna, uom consolare, pria convitato a cena e poi fuor del triclinio per suo ordine pugnalato. Si disse di una congiura di militi apparecchiatagli contro e che il pericolo lo forzasse. Le leggi erano. Poteva por mano ad esse ed evitare il biasimo grande. — E quel suo mangiare e bere cogli amici e familiari i peggio vituperosi e disutili? E la folla di giovanetti sbarbati, dotti nella danza ed in libidinose posture? E gli amori colla regina Berenice? E il mercato di uffizi? E il riceverne mance e premi?... Vero è che, ottenuto il principato, si palesò uomo diverso. E non si mostrò al pubblico, ove tutta Roma plaudiva i suoi giovani e graziosi istrioni. E mandò fuori dell’Urbe l’amata e piangente regina. Nè tolse più cosa alcuna ai cittadini. E consacrò lo anfiteatro, e nelle Terme edificate colà presso ordinò con bellissimo apparecchio il magnifico spettacolo dei gladiatori. Parmi dunque, o Espedito, ch’ei.... — Farà prospera la repubblica, se non lo guastano colle adulazioni e colle abbiettezze.... o non lo uccidono. — Veh! lo sguardo sdegnoso e venale dei portinai come trasceglie nella folla dei clienti che gli assediano quelli che per pecunia faranno passare i primi! La venalità è il pessimo veleno che omai filtra per tutto. — Non mi hai ancor detto che ti mena da Svedio. — Quando ei fu inviato da Cesare nella nostra Colonia, io era in Lutezia dei Parisi. Un mio vicino di campagna prese per sè la parte di terreno che mi veniva restituita, ed ora vo’ chiedergli giustizia senza aver che fare con quei sollecitatori che vendono a sì caro prezzo le loro parole. — Cotesto insigne giureconsulto, per nome Tito Svedio Clemente, tribuno, era stato nel vero inviato in Pompei da Flavio Vespasiano per delimitare i confini del territorio della Repubblica Romana, occupato nel Pago Felice-Augusto dalle tre coorti dei veterani. Da che Silla gli dispose qui come corpo di osservazione, quegli uomini arroganti e spavaldi, perchè armati, commisero insolenze contro i cittadini. Avvegnachè, sentendosi essi il principale sostegno della politica dittatoriale, stimavano che gli altri fossero di un ordine inferiore. Divennero i tiranni della città. Commisero violenze e brutalità di ogni maniera. Il selciato pompeiano fu insanguinato. Publio, loro generale, pretendeva che i suoi soldati venissero riconosciuti come i liberi cittadini della Colonia. I magistrati, gelosi dei popolani privilegi, fermamente si opposero a quella imperiosa volontà; e ricorsero al senato nell’Urbe. Cicerone, pauroso di Silla, difese il nipote, quantunque in cuor suo lo accusasse. E Publio assoluto. E surrogato da Ninnio Mulo. E i veterani ebbero un vasto terreno, in proprio, da coltivarsi e da trasmettersi ai figli. Nella distribuzione dei campi furono però usurpate le proprietà dei cittadini. Laonde, litigi, ingiurie, busse e macelli. Bastava muovere doglianza contro un soldato, per veder sorgere la centuria e colle centurie le coorti, onde chiedere riparo col gladio al coltello. Svedio compose le liti insorte e i decurioni elevarono la sua statua sur un piedestallo, proprio sul posto dei diritti acquetati e riconosciuti, presso la strada dopo lo emiciclo di Mamia e sull’angolo della via che menava alla villa di Cicerone. La iscrizione diceva: EX AVCTORITATE IMP · CAESARIS VESPASIANI AVG· LOCA PVBLICA A PRIVATIS POSSESSA T. SVEDIVS CLEMENS TRIBVNVS CAVSIS COGNITIS ET MENSVRIS FACTIS REI PVBLICAE POMPEIANORVM RESTITVIT. Un subito moto, come onde di mare che si seguono e si accavalcano, dinotò l’apparizione del magistrato imperiale nell’atrio. E la turba degli ossequiosi si spinse verso quella parte. Erano i _salutatores_ che volevano solo complirlo. E i _deductores_ che intendevano accompagnarlo se mai fosse escito. E gli _assectatores_ che in pubblico desideravano farsi vedere al suo fianco. Di mediana statura, vigoroso, solido, dalle braccia e dalle gambe scultorie, sotto quella fronte larga e possente si disegnavano due occhi neri e fermi, di cui era difficile sostenere lo sguardo. La sua fisonomia aperta e ruvida palesava la energia del carattere. Lo aspetto complessivo della persona lo testimoniava. E quel suo aspetto spirava un’adusta vecchiezza, quella beltà non più materiale, che è il canto dell’anima dopo la vittoria riportata sui sensi. Il tablino, ove si mostrò ai clienti, era ornato di pitture bellissime. Sulla parete sinistra, tra’ lavori architettonici, vedesi ancora un Ermafrodito itifallico sedente, il quale colla manca acciuffa la barba di Sileno che è dietro le sue spalle, e colla destra si scuopre la persona. Una baccante ha nelle mani una coppa ed un tirso. Tutto il fondo del quadro è turchino, sormontato da un cortinaggio rosso con frange, i cui lembi d’ambo i lati scendono bellamente sopra lo zoccolo. Svedio si presentò portando la mano dritta alla bocca e curvando il corpo a sinistra. Offerì quindi la destra ai più vicini che il nomenclatore gli presentava. Chiese della salute di tutti. Lamentò il caldo insolito, soffogante; ed il tanfo che sorgea dalle cantine e dai pozzi a far recere i mulattieri. Ascoltò le ragioni d’Isocriso Fortunato e chiese documenti per giudicarle. Si assise e terse il sudore della faccia. Rivolse la parola alle persone che riconosceva nella folla. Ed accolse benignamente le petizioni che gli venivano offerte. Cessato quel còmpito, e notando nel fondo dell’atrio la folla compatta degli accattoni, che invilivano la cosa immortale per provvedere senza fatica e coll’abbiettezza del limosinare ai loro giornalieri bisogni, aggrottando le ciglia gridò con voce sonora: — Quei famelici clienti, quei chiedoni di _sportulæ_ non vo’ vederli io qui. Vadano all’Annona. Cesare mi mandava a rendere la giustizia sui piati straordinari e non a provvedere i fannulloni e gli stomachi vuoti. — Ed accigliato rientrava nelle interne stanze. Svedio aveva ragione. Il cuore umano non era più quello. Le contese civili col corredo del livore e della ferocia. La guerra servile col legittimo spregio all’autorità. La rivolta sociale collo inutile carnaio e col rammarico della ingiusta disfatta. La idea riscossa da quegli avvenimenti non pienamente acquetata. L’oblio che ferisce e dentro rode. Le perdite patite. Le ambizioni in trionfo. Lo intrigo in auge. Le schifose brutture imperiali. Il piacere dei sensi abbeverato di sangue e di lacrime. L’adorazione della libertà defunta. Ed un idolo sconosciuto ancora, ma pur fremente nella coscienza degli uomini. Tutte queste cose — cagioni ed effetti di molti mali senza rimedio — avevano prodotto un ibridume vergognoso — i parassiti, i pedanti, gli epuloni, le sciupate, i poetastri, i buffoni, gl’ignavi e i viventi di pubbliche e di private limosine. — Le dimore dei ricchi erano ogni mattina in sull’alba assiepate da gente stracciata che trascinava seco figliuoli sparuti, sudici e seminudi e persino donne languenti e prossime al parto. Le sante delicatezze dell’anima erano tutte morte... Ma non si erano consumate sulla croce del Golgota. E verrebbe il giorno in cui sarebbero risorte per far cangio lo aspetto delle generazioni a venire. Gl’inquieti escirono dalla casa del giustiziere imperiale col ghigno sul labbro, colle maledizioni nel loro pensiero. — Kale, ho inteso parlare degl’infortuni di Ulisse ch’errò per venti anni lungi dall’isola natale. Ben di lui più infelice, io mi smarrii qui dove nacqui e d’onde mai partirò. — Non so trovare, o Priscilla, un’acqua abbastanza sporca per gittarla sul viso di quell’impuro egoista! Briccone! Egli ha i suoi redditi. E non pensa che noi non ne abbiamo. Ogni cosa aumenta di prezzo. Ieri, Scapula, con cui lamentava lo accresciuto valor del suo lardo, mi mostrò i pesi di piombo, sui quali era in rilievo ALVMVR-CAVE. Magistrati cani! — Lo udiste, eh! lo uccellaccio di cattivo augurio! Quali occhi di gufo. Già, per noi poveretti non vi è che la croce! Cotesti ricchi sono tutti pirati e non risparmiano alcuno. — Tu poi non puoi lagnarti, o Thessalo. In una casa il pesce. In un’altra un po’ di pecunia. E per sopra ciò hai così acconci i denti come le mani. — Sì, non mi reputo tra i grandi infelici. E prego sempre Laverna che mi offra il destro di esercitar le mie dita. — Ho udito ragionare da Spetillo, or or tornato dall’Urbe, come Cesare sia affettuoso e benefico a non lasciare alcuno partirsi da lui senza beneficio, od alcuna speranza. E soler dire: mai nessuno debb’essere del principe malcontento. E una sera cenando, risovvenendosi non aver fatto servigio ad alcuno, dicesse malinconoso agli amici, come quel giorno fosse un giorno perduto. Eh! Qual differenza tra lui e questi che qui lo adombra! — Odo rumor di voci di gente riunita dietro le Terme. E suon di flauti con esse. Andiamo, Papyria, e inganneremo la fame cibando gli sguardi. — Molti pur vanno da quella parte. Corriamo. — Nè si erano ingannati. Al di sopra, al di sotto ed in faccia alla caupona di Svezzio, dalla insegna dello Elefante, era grande la folla, chiamatavi dal piacere dello spettacolo. Sur un triangolo avevano posato un canapo e distesolo sur un altro simigliante a dieci passi di distanza; un uomo con un grosso chiodo lo assicurava tra le commessure del selciato. Altri uomini in figura di Fauni mostravansi coperti di anassiridi verdi, rosse, gialle e turchine. Un tirso nella mano, una pelle di capro sul braccio, un fiocco di crini in arco sull’osso sacro. Una voce grida; — Abbastanza suonarono le tube, i flauti ed i cembali. Che tardate? Il circo è pronto. Gli spettatori sono impazienti. — E le spettatrici? Ohe, Phæbo, sei tu che proibisci alle tue clienti di mostrarsi sul davanzale del _solarium_? — O che tu dici, Hypsæo. Non son le mie schiave. — Ma un funambulo è già sulla corda. Ha il corpo vestito di rosso e le chiome, la coda e la lira gialla. Con una gamba piegata ed un’altra distesa suona con ambe le mani la cetra, tenendo tutto il peso del corpo poggiato sulla punta del piede destro e sulla estremità del tallone sinistro. Guai se spianasse il piè sulla corda. I fischi lo assordirebbero. Debbono reggersi in equilibrio sulla punta o sul tallone. — Sante vestali, al verone. Bene! Vivano i _rorarii_ della truppa leggera. — Eccoci. — Fuori gli _adcensi_. Voi siete i _triarii_ della riserva. Oh! Le belle affrancate del piacere! Dite: Salve, o Libertà! — Il terrazzo sporgente sulla doppia via erasi a poco a poco guarnito di donne. Erano le Veneri plebee, le degradate che pagavano caro le infamie della loro vita. Giudicate indegne di protezione, non hanno tutori, e perciò non possono compiere verun atto legale. E acciocchè ognuno le riconosca, hanno rasi i capelli, coperti da una _picta mitra_ a diversi colori ed indossano la toga maschile. Erano o affrancate, o straniere, taluna bella di forme, tale altra bella per la vivacità dello ingegno, sino a maritare la voce agli accordi della lira, e a spiegare le loro grazie nelle danze le più seducenti. Dilettavano gli ozi dei marinari, dei poetastri — che sotto infinti nomi cantavano i loro vezzi — e dei gladiatori. Un altro funambulo è sulla corda tesa. Questi è tutto verde. Salta e poi, stendendo ambe le braccia, si curva per mostrare ch’ei sa mantener lo equilibrio della persona in quella difficile postura. Gli gittano un _rhyton_, cioè, un bicchiere a forma di corno, che tiene sollevato nella destra e versa il vino in un cratere a due manichi che ha nella sinistra, abbassandola di modo che lo sprillo del liquido con arduo giuoco gli faccia arco sopra la testa. Quel bicchiere, detto anche _fluens_, dal rapido scorrere del vino, valeva a ricordare come di corna forate fossero i primi bicchieri nei rozzi banchetti degli uomini che cominciarono a coltivare le nostre contrade. — A che più guardi, o Epeo, alla corda, o alle corde che ti allacciano i sensi? Quella bruna procace, la terza a diritta, che ti guarda e sorride, scrisse un suo vanto sulla parete. Vincitore nello Anfiteatro, tu da lei fosti vinto. VICTRIX VICTORIS. CONTICVERE. — _Ita me bene amet_, non era dessa il mio dolce mele, il piacer di mia vita. Sticho mi rubò la mia Fimie, quella che poggia le belle braccia sulla balaustra. Oh! Per Antippe non darei nè anche il _ciccum_, la pelle bianca che cuopre gli acini di questa melagrana. — Altri danzanti si succedono sul canapo. Saltano col tirso. Suonano le tibie od eseguono con destrezza giuochi di simil fatta. E la gente lo applaudisce e paga piccola moneta allo editore di quel popolare sollazzo. — _Cape hoc flabellum_, Eris. Rinfrescati la faccia con esso e scaccia le mosche villane. — Lo accetto, Annio Lucifero. Ma tu non guardare in alto; perchè opereresti follie indegne della tua età e dei capelli bianchi. — _Deos compreco_ perchè ti tolgano questa pazza gelosia dal cuore.... Però, quella fanciulla lassù, che ride e sghignazza sguaiatamente, è bella. — Non mi chiamare _febris querquera, aut tussis_. Ma, se non stesse in quel posto, anche tu, Kleopatra, _salubritas mea_, siffatta la troveresti. — La moglie a questi detti si inorcò più che per natura nol fosse. Lo trasse a sè per andar via e die’ in questa espressione di spregio. — _Butu batta!_ Trista razza d’uomo. Valea meglio affogarsi che darmiti sposa! — Partirono brontolando e gesticolando. Desiderava la cosa impossibile, la fedeltà a tutta prova in Pompei. — Dimmi, o bella Armonia, mi lascerai seder sullo altare, presso di te, che ammiro ed amo? — E chi può negarti, o bel Sosio, quello che tu chiedi con tanta modestia? Entra, o alimento del cuore, ed espierò i miei torti nelle tue braccia. — Sosio ha troppo bevuto, o Lycio. Sieguilo. Noi dobbiamo profittare di questo filo di vento propizio e partire per Rhegium. — Oh! il mio giocondo compagno tornerà presto. Ma, poichè il vuoi, entrerò anch’io nel tempio e ne lo trarrò fuori. — Come il corvo, voli al fiuto della carogna. Bada! In fede di Autolyco, se non vieni presto, farò disegnare sulle vostre spalle il nome che le madri vi diedero. — Un altro funambulo, con anassiride turchina, è sulla punta dei piedi; e danza e suona ad un tempo le tibie. Il popolo plaudisce. Le donne del verone si abbandonano ai loro lazzi abituali e parlano a voce alta e chiassona delle solo cose che loro son familiari. Quando di un tratto s’ode un rumor sotterraneo, come di un carro ruotato il quale strepitosamente corresse tra le fondamenta della città. Poi, uno scoppio terribile. Era la settima ora; cioè, il tocco dopo il mezzodì. Le mura delle case traballano. Alcune crepitano. Altre ruinano. Le pietre del selciato si sollevano in più luoghi. Il funambulo cade dalla corda, batte la tempia e muore. Tutti fuggono, urlano, piangono, incespicano, corrono smarriti senza saper dove. I muggiti della natura continuano, e un denso e nero fumo, a foggia di pino mostruoso, si leva dal Vesvio che gorgoglia, rugge e lancia folgori al cielo. Grossi basalti infuocati briccolano sulle strade, sui tetti. I colpiti muoiono. Le cose inerti si spezzano, sbalzano, si sfasciano e prorompono al piano con ripetuto fracasso. La gente impaurita scappa ove può. Ecco altro nembo furioso. Una gragnuola di piccole pietre porose, leggiere, infuocate oscura l’aria, cade e saltella sur uno spazio immenso. Gli usci si chiudono. Le travi che non reggono il peso che sui tetti si aduna, crollano e schiacciano gli uomini riparati e le cose. Oh! i gemiti, la disperazione, le grida, le smanie, lo smarrimento del popolo! Ed il turbine continova. E le orride detonazioni continovano. Ed i fulmini saettano l’aria. E vivi baleni tentano di penetrare la oscurità, la tingono per poco di luce corusca, poi la tenebra si addensa e tutto chiude allo sguardo. Qua e là nelle vie, uomini audaci, rischiarandosi colle torce impegolate, procedono come possono sul nuovo suolo composto dalle pomici infrante. I passi si ricambiano a stento; chè, il piede infossa, si seppellisce tra i lapilli che scalfiscono e bruciano la pelle. I cani anch’essi cercano da tanta confusione uno scampo. I buoi, le capre, gli asini dei _pistores_ si affannano ad escire illesi dal tremendo flagello e col loro correre disordinato impediscono la fuga alle genti, le pestano e le feriscono. Un fulmine solca l’aere tenebrosa ed illumina una scena di dolore. Presso le Terme, due framezzano gli ultimi gemiti coi baci. Un uomo col capo coperto è seduto sulle pomici che innondano il suolo di una bottega. Stringe al petto e tiene sulle gambe una giovane donna. Le sue labbra si posano sulla fronte pallida della ferita a morte che sanguina per le membra offese. I di lei occhi hanno lo sguardo estatico, incurante le sofferenze della carne. L’uno, sembrava fare e l’altra ricevere la confidenza estrema di quel segreto che è il fomite di tutte le grandi tristezze e di tutte le grandi speranze del cuor giovanile. Parea che l’uno dicesse: — Il mio cuore sul tuo, o adorata. Giammai uniti quaggiù. O _mors amoris_, nel tuo grembo la pace delle mie ossa contristate. — E l’altra coll’occhio fisso, quasi invetrato, parea ripetesse: — Una sola speme. Fu vana. Muoio almeno fra le tue braccia. — E la morente esalò in un bacio l’anima sua e sorrise. Ed il giovane si curvò, prosciolse le membra e cadde riverso sul corpo di lei. Erano morti, l’una di ferite, l’altro di schianto. E le pietre pomici piovevano sempre. Una bianca colomba errava alitando per l’aere caliginoso e nero. Offesa dalle pomici, grida, si asconde in un’apertura fatta dal tremuoto, vola, cade sbattuta sul suolo e, rialzata dal disio, sorvola e vola sempre. Alla fine si posa sur un antefisso di un impluvio, guarda smaniosa allo intorno, emette un grido di piacer passionato e si caccia nella buca di un muro. Altri gridi brevi, febbrili rispondono al suo. È coi figli. Si accoccola su di essi, gli bacia col becco, li ricuopre colle sue ali e dolcemente li garrisce.... Povera madre! Ebbe almeno il conforto di morire coi nati dalle sue uova! In un luogo remoto, al di là dell’atrio, presso un piccolo xysto, sono appoggiati alle pareti di una stanza da lavoro trapezoidi finiti, e abbozzati e massi di marmo: e qua e là, per le terre, o sui cavalletti, grossi pali di ferro per levar pietre e volgerle a talento, varie seghe — una ancor conficcata nel solco operato sul sasso — martelli, mazzuole, lime e scalpelli con compassi retti e ricurvi. La casa è spaziosa, a due piani, che una scala di legno accomuna. Il silenzio delle voci è per tutto. Chi vi abitava, chi vi martellava, chi vi segava, chi digrossava i ruvidi pezzi di tufo e di marmo, al primo tremendo scoppio, seguito dalla commozione del suolo, fuggiva esterrefatto per far salva la vita a lui cara. Un uomo solo vi era rimasto impassibile e tetragono in tanta ruina di pubbliche cose. Suliodes ha il martello in una mano. Ha lo scalpello nell’altra. È dinanzi a una statua di marmo, nuda, di artistica bellezza, di un ideale ammirevole, coi segni impressi della voluttà e dello amore. Breve della persona, ha il volto greco cui la grandezza romana aggiugne qualcosa di suo. Gli occhi ha neri, grandi, estatici. I capelli crespi e ondulati si rizzano sull’ampia fronte. — L’aria si oscura. Sul selciato della via battono tonfi le pietre ardenti. Sulla terra soffice dello xysto si affondano e si ammonticano. Ed egli che sino dalla prima sua gioventù era stato reputato un vile, uno schiavo; egli che passava i suoi giorni evocando dal paese delle ombre, collo accento della fantasia degna di Orfeo, le Veneri, le Baccanti, le Muse, il divo Apollo e Mercurio, e le ninfe dei boschi e delle fontane; in quello istante di supremo disastro, egli contemplava l’ultima opera sua e non sapea distaccarsene. Nobile artista! L’ora sublime degli affetti è quella della separazione; chè, nello abbandonare l’oggetto amato l’uom parte pregno degli effluvi di un eroico amore. E Suliodes, preveggendo il danno estremo, gittò le braccia al collo della sua statua e proruppe: — Tu sei la donna dei miei pensieri. Sei la nata del mio cuore d’artista.... Che io muoia! E tu resta! Resta intatto, o marmo, a testimoniare ch’io ti diedi i palpiti della vita. — Ah!... — Fu un grido straziante. Aprì le braccia e cadde stramazzone sul suolo, rigandolo di una larga striscia di sangue. Il soffitto, spezzato e affondato dai basalti se gli rovesciò addosso, spaccandogli il cranio e spezzandogli le membra. E la statua cadde sopra il suo osceno cadavere. Suliodes era tal’uomo dall’anima semplice, diritta, sensibilissima, febbrile, smaniosa, martirizzata, non appagata mai, collo istinto di tutti i segreti della vita. Macilento, dalle gote infossate, le precoci rughe dicevano com’egli dentro soffrisse di quel male logorante che il volgo degli uomini non intende, nè scusa, di cui non si muore e che dà la esistenza eterna, quella del genio. La statua nello impluvio della casa di Cneo Vibio, raffigurante la psiche umana, era sua. I trapezoidi in quella di Cornelio Rufo, pur suoi. Da un anno lo schiavo aveva ricomprato dallo avaro padrone Aulo Castricio Scauro la sua libertà.... Il nobile artista era morto!... E le pietre pomici piovevano sempre! Sulla via che a diritta declina alla porta di Stabia e seguitandola mette alla porta di Nola, i carri tratti dai buoi, dai cavalli, dai muli, da man d’uomo s’incrociano con gente che fugge per diversioni svariate. Sopra una tavola alcuni trasportano una donna scolorata colle braccia pendenti, grondante sangue. Un’altra donna più giovane la segue ed è seguita da due piccoli figli attaccati colle manine alle vesti di lei e piangono ed urlano che è tutto uno strazio. Un uomo arresta i portatori di quel corpo esanime, si gitta sul selciato ingombro di rottami e di pietre e singhiozza. — Mentre ei piange la madre ed obblia sè, la moglie e i suoi nati, lasciamolo al suo dolore e fuggiamo. — Bene dici, o Volusio. E tanto più che ci pagò la mercede. — E ratti si dileguarono. I margini si fanno sempre più ingombri di feriti e di morti. I gelosi delle loro robe preziose e più care; quei che nel disordine delle idee non fuggirono presto dalle case che crollano, colpiti dai sassi e da un muro che, perduto lo equilibrio ruina, hanno rotto le membra o franto il cranio sulla soglia che pur dianzi era il pensiero della loro salute. E quasi non bastasse lo immenso orrore, coi danni irreparabili che veniva adunando, schiavi abbrutiti e nefarii — i quali, disonestamente trattati, non avevano alcuna nozione di ciò che onesto e verecondo fosse — afferravano bestialmente la occasione che loro forniva la irritata natura, per derubare, per uccidere e per dare ampio sfogo alle loro infami libidini. Uno si fa largo col coltello tra i denti, spoglia il vicino, ferisce e corre. Quale ruba una gentile ed innocente vergine dalle braccia dei propri parenti e, bestemmiando parole di dileggio e da trivio, sen fugge. Terrore. Emozioni. Grida di schianto. Brevi e disperate zuffe. Dolori che uccidono. Sguardi che imprecano. Ansietà impossibili a dirsi. Eroismo di amore. Brutalità da dannati. Ecco la multiplice scena offerta sulla lunga via che dallo sbocco della consolare, passando a lato del tempio della Fortuna-Augusta, menava alla porta. La quale gli Oschi costruirono di tufo, scolpendo sulla chiave dell’arco la protoma di Venere, l’affettuosa iddia che in quel giorno — al pari dei santi patroni, cui le bigotte, irriflessive, superstiziose, timorate e bietolone coscienze sogliono rivolgersi nei dì del pericolo colle novene e coi voti — non seppe difendere la città che in lei avea piena fede. Apro Aulio Rufo — quegli i cui pilastri dell’uscio presentano i bei capitelli con una baccante e due piccoli putti in alto rilievo — aveva tratto per tempo, sui cocchi, nelle lettighe ed a piedi Celsa, Heria, Ada; e il giovanetto Cerio, ed il piccolo Valente, e la bellissima nelle sue grazie infantili, la Cumbennia, natagli da tre anni, l’olezzo del cuor suo, alla quale avea dato il nome della tribù antica cui era ascritta la sua doviziosa famiglia. Ma il cisiario Diofante invade con una ruota il margine e rovescia. Fallox e Nasso che seguono nella quasi oscurità il primo carro, pestano i caduti colle zampe de’ loro cavalli. I quali, impauriti dalle grida di dolore, sferzati da chi gli menava e sospinti dalla gente che fuggiva, inalberano rompono i ritegni, spezzano il timone, urtano, schiacciano e fuggono a furia sul declivio della via suburbana. Ada muore mentovando la madre. Celsa, che ha rotta la spina dorsale pel solco che suvvi fece una ruota, si volse al suono dell’amata voce, fruga amorosamente cogli occhi la tenebre e spira. Oh! i funebri pensieri dei rimasti per terra, feriti e senza soccorso! Tutti invocano la morte; perchè la morte sola ha un sorriso per essi!... E la viene, colorata di sangue ed infuocata delle fiamme del Vesbio. Il misero Rufo marito e padre, accorre fra quei morti e morenti, istupidito dall’ambascia. Un’unica speranza.... la salvezza della bambina che aveva stretta al suo petto. Parole dissennate escono dalla sua bocca.... Fugge e lascia coi cari estinti le collane, i pendenti, le perle, le monete d’oro, le patere, le tazze, i vasi di argento, tutto che in fretta aveva potuto rammassar nella fuga.... Dove morirono?!... Un cisiario, per nome Felicissimo, ed un altro, Erosala, sferzano maladettamente i loro cavalli. Vengono dalla via di Mercurio ed avanzano malgrado gl’inciampi. Molta gente erasi riparata sotto le volte della porta di Stabia. I cavalli e le ruote traversano quell’ostacolo vivente e passano oltre. Vibio e Melissæa tengono abbracciati in sul carro i due loro bambini, di sei anni e di quattro. Nel successivo sono due liberti con ciò che di più prezioso si potette adunare nei sacchi. Giungono in faccia allo scoglio di Ercole, sulle saline, dove Cassinio poco mancò non fosse sorpreso da Spartaco nel bagno. Colà gemiti, urli, parole da lacerare il cuore. Un padre che, fuggendo, avea smarrita la sua cara figliuola ed era tornato indietro due volte per rintracciarla ed erasi quivi ridotto per far salva almeno la sua vita, piangeva, si stracciava le vesti e parlava, — O natura, forza imperiosa del sangue, ridammi viva la nata dalle mie vene. E cuoprivasi il capo, si cacciava per terra e piangeva. Un altro che aveva ritirato la moglie di sotto una parete ch’eralesi rovinata addosso e sulle spalle l’aveva trasportata fin là — discaricandola ed adagiandola mollemente sul suolo, disperato ed in lacrime le diceva, — Pannixis, ti sposai da due mesi, sei lo amor mio, svegliati. Non mi abbandonare. Senti i miei baci? Vedi le mie carezze?... Qua... una face... O iniquo Giove! Scaglia su di me le tue folgori! Morta!... Morta!... Povera donna mia!... Qual nuovo Sinis, qual novello Procuste, pose in brandelli le tue misere carni! _Heu me!_ Che sono divenute le grazie del tuo viso e quegli occhi che splendevano come le stelle? _Exanimis jaces!_... Almeno, nume crudele, infame, fa’ ch’io la segua sulle onde di Styge e a traverso il torrente infiammato del Tartaro!... Che! Neppur le bestemmie ti muovono?... Ti proclamo inutile in questa ora estrema! — Cessa dal tuo dir forsennato, o Salvio Curzio. — Ahi sei qui, _machinator fraudis_? Disertasti l’ara di Mercurio e di Maia, o Memore Istacidio? Non gioirai a lungo dei dolori degli uomini. Giù nei gorghi del mare e con me. E lo ghermì per le reni, lo sollevò di peso, lo trasse nelle onde. Il sacerdote si dimenava, lo mordea sulla spalla, gridava lo aiutassero. In tanta confusione un solo si mosse. Fu Felice Helvio, il suo collega nelle imposture. — Anche tu, scellerato. Riderà Minosse in vedervi. Il mare si aperse e si chiuse gorgogliante e spumoso. La natura li cancellò ben presto dal numero dei viventi. Una face apparisce sulle onde. È una barca che si avvicina. Due uomini ne discendono, approdano, chiamano ad alta voce e procedono. I due bambini vanno loro incontro; essi li portano via. Cneo Vibio prende la cara donna nelle sue braccia, entra nelle onde, la consegna nelle mani smaniose, convulse di Demophilo e la vede in piedi tra i figli. È per salir dentro, quando un rumore immenso s’ode lungo la spiaggia da Stabia ad Herculanum. Il mare si ritira furiosamente e ribolle. Vibio e la barca sono sbalzati lontano. La barca sbattuta dalle onde, galleggia. Vibio... non è più. Il soffio di Dio erasi ritirato dalla sua bocca e lo aveva lasciato livido ed inerte cadavere. Poco di poi, cessato il grandinar delle pietre, ecco un rovescio immenso di pioggia sul suolo. Le acque del Sarno e delle sorgenti dei pozzi, assorbite nei giorni innanzi dalle materie candenti ch’eransi sviluppate nel Vesvio, avevano servito di alimento al fuoco e, convertitesi in vapore, datogli la forza di scaraventare in aria i basalti, le grosse pietre e le pomici addenti. Ora, aspirando dai sotterranei meati le onde saline, le rigettava a torrenti sui sottoposti piani, compiva la ruina delle case e livellava i lapilli poco innanzi caduti. Al cessare della forza aspirante, il mare tornò impetuosamente a mordere le sponde. E tanti erano i fuggiaschi nelle Saline, tanti abbracciò nelle sue spire spumose e li trasse con sè negli abissi. Demophilo, coi servi e colle ricchezze scampate, tornò indietro, malgrado i grandi pericoli, colà dove tutti speravano con ansia trovarvi Vibio, la doppia vita di Melissæa, la vita di quel cuore da cui tante dolcezze eransi rovesciate su dì lei cuore amoroso. Inutili ricerche! Ogni esistenza era scomparsa sul suolo lavato dalle onde furiose. La misera pianse, si strappò i capelli e pensò ove mai avrebbe portato le amare sue lacrime... Ma, tutto si cancella nel mondo, anche la esistenza ideale che è l’ultima requie della speranza! Tutto si raffredda, anche il pensiero.... E ciò che or or parea vivo, forse è già morto! Nella strada che rade il fianco del tempio della Fortuna ha lo ingresso principale una casa sontuosa cui tre altre vie rendono isolata. La grandine dei basalti ha sfondato il suo tetto, crepacciato i suoi muri, crollato le sue pareti. Le lamine di piombo conficcate con chiodi di ferro spessissimi su di esse — per allontanar dallo intonaco sparsovi sopra la umidità della recente costruzione — pendono schiantate e rotte. Nei vasti atrii, nello xysto fiorito e pesto, nei peristilii corrono creature umane esterrefatte, a tastoni, urlando, piangendo e cadendo. La soffitta del tablino poggiante su rosse colonne erasi sprofondata sul più prezioso monumento dell’arte antica, il mosaico, rappresentante la grande battaglia di Arbelle, in cui Alessandro, a capo dei suoi cavalieri, si slancia verso il vinto Dario per farlo prigione. La terra, scuotendosi e sollevandosi, crepacciava i pavimenti di marmo, gonfiava i mosaici e le opere signine che tanta fatica avevano costato ai nobili artisti, miseri schiavi. Le pomici tutto ricuoprono.... anche una bella fanciulla, la piccola Irimilla, che atterrita e dissennata correva spinta dal genio della morte a salvarsi tra le fredde sue braccia. Il padre Mevio Apulo che la seguia per salvarla, stramazzato a terra da una colonna, perdette anch’egli colla vita le molte ricchezze che lo esteso commercio dei vini gli avea procurato. Al cominciar dello inesplicabile disastro egli avea detto a Caio, il suo figliuol primogenito. — Va’ colla tua giovane sposa! Va’, corri e non volgerti indietro. I fulmini rischiaran la via. Profitta di quel lume di Averno per riconoscere e sfuggire lo estremo pericolo. — Abbracciami! O io salvo gli averi e ti raggiungo. O là... negli Elisi! — I due amanti e sposi, convulsivamante stretti l’un l’altro, correndo a riprese sul nuovo suolo delle vie formato dai basalti, dai lapilli di pomice e dai muri caduti, livellato dalle ceneri fangose per l’acqua bollente, molti ne videro dannati dal feroce loro destino impaltenarsi, cadere, escire dalle profonde pozzanghere e ricadere anche una volta feriti, trafelati e presi per non sorgere mai più. Essi potettero giungere sino alla spiaggia, sostenuti dalla forza che lo spavento ministra e che addoppia lo amore. Nella oscurità si cacciano in una barca apprestata per lo edile M. Epidio Sabino dal liberto Hedysio, e fatti salvi dallo equivoco, col cuor sollevato si allontanarono dalla riva di tutti i dolori e di tante morti svariate. Allo scroscio delle folgori, al fulgore delle fiamme, al fracasso dei muri cadenti, le urla strazianti di un popolo e il ricordo dei cari lasciati non commuove più il loro cuore. La terra diviene per quei fuggitivi una visione svanita. Il solo mare ribollente, agitato risponde ai loro attoniti sguardi. Gli è che fra il cielo ottenebrato dalle ceneri, invisibile come il fato, e i flutti oscuri e tumultuosi una potenza unica, lo amor ricambiato ed egoista, aveva loro accavigliato l’anima a non permetterle più le sensazioni al di fuori. Intanto nel gineceo delle donne, Mesionia, la moglie di Alleio, adunava gli oggetti preziosi ch’erano nelle camere. Braccialetti d’oro, fibbie, anelli, orecchini venivano da lei chiusi in fretta in una tunica. Alcune schiave, urtandosi, piangendo, gesticolando e pallide dallo spavento, trasportavano vasi di bronzo, tazze di argento e pitture di pareti; e incontrandosi lasciavano coteste cose per terra, piangevano, si abbracciavano, svenivano. Una bambina ed un giovanetto, curvi sul pavimento, ponevano in un cesto di vimini i loro _crepundia_, la bambola, un piccolo specchio di argento e una statuetta della Speranza. Creature infelici, non commoveste la natura col vano augurio! Un vecchio servo, Amiantho, togliea sulle braccia un’ara di marmo portatile colla iscrizione osca [Illustrazione: lettere osche] — Flousai, cioè Flora — che doveva essere la dea protettrice della sua sventurata padrona, — Tutti morirono. E lutto lasciarono! Dirimpetto la entrata principale dello anfiteatro era un triclinio, dove solea darsi ai gladiatori un pubblico pasto, detto libero. Colà presso era un ricinto murato che accoglieva gli accoltellanti per vestirsi e per attender lo istante di scendere nell’arena. Quivi l’_editor_ portava le vesti, le armi, le reti per fornirne ai _secutores, retiarii, mirmillones, samnites, hoplomachi, dimachæri, essedarii, andabatæ, fiscales, subdilitii, catervarii, meridiani, postulatitii, laquearii_. Cotesti i nomi che distinguevano nella loro fatale professione i miseri operai dei trastulli romani. — Nei due luoghi, alcuni ragionavano, cioncavano e ridevano allorchè accadde il grande scoppio, nunciator del disastro. Trulla e Naso erano giovani cui la passione della libertà caduta avea ritolto lo amor della vita. Ambedue da qualche anni, in epoca diversa, eransi ascritti alla famiglia del lanista C. Aellio Astragalo. E giurando _uri, vinciri, verberari, ferroque necari_, ricevevano il salario _auctoramentum_, perchè volontari e non _ad gladium_, oppure _ad ludum damnati_. Lo esercizio della ferocia parea che lor facesse obliare i gravi pensieri del proprio cuore. E gli austeri ardori dello isolamento e del pericolo sembrava che tranquillassero la loro fantasia ferita. Uno era _laquearius_. E toccando familiarmente, con certa spavalderia, la corda dal nodo scorsoio che gli cingea la persona, provava la immorale felicità di dar morte allo infelice avversario che il capriccio del lanista avrebbegli dato nello steccato. Vestiva una tunica corta di colore scarlatto. L’altro apparteneva alla categoria dei cavalieri e vestito di maglia — _clausis oculis andabatarum more pugnabat_ — e rischiava la vita, o uccideva senza vedere il suo bendato competitore. I discorsi furono dimezzati, e per la prima volta quegli audaci fuggirono dinanzi il pericolo. Vaccula, il dapifero, e tre dei suoi schiavi corsero anch’essi smarriti verso lo anfiteatro. Uno fu ucciso da un basalto presso lo ingresso sotto la statua di C. Cuspio Pansa pontefice. Gli altri si cacciarono alla rinfusa nei corridoi; allo infuori di uno che nella furia e nella oscurità discese nell’arena e cadde nell’_euripo_ — canale pieno di acqua scavato attorno il _podium_, pur cinto di un _ferreus clathrus_ — le due difese che gli spettatori avessero dalle irruzioni disperate delle bestie feroci. Sull’orlo di quel parapetto si veggono in Pompei i buchi dove erano conficcati i graticci di ferro che Plinio chiamò reti per la forma che presentavano. Nel catabolo erano due leoni. Uno, ruggendo cupamente si accovacciò aspirando l’aria umida nell’angolo della cella. L’altro fuggì rompendo le sbarre del carcere; urtò Trulla; lo azzannò e lo stracciò colle unghie come un impedimento alla fuga ed uscì fuori per morir soffocato dalla mefite non molto lontano. Vaccula accese una lampada e con essa schiarò alquanto le tenebre. Gli altri si raccolsero attorno di lui. Pareano fantasime o quei malati che vedi errare nel paese delle febbri. Alcuni piangevano. Alcuni bestemmiavano il nome degli dei. Naso intravide la sua sorte con segreta rassegnazione. A quei cui il sangue rivela alcuna delle grandezze della vita, il pericolo delle battaglie, le sofferenze del dolore, le tristezze del carcere, lo aspetto della morte offrono splendidi e misteriosi orizzonti che le nature volgari non veggono. Afferrò animoso la nuova situazione quale gli dei glie la componevano. Si assise per terra lungi dagli altri; chiuse il capo nel _sagum_; gittò ai piedi un pezzo di catena d’oro, un anello ed alcune monete; si appoggiò colle spalle al muro del _vomitorium_; ed attese nella pienezza delle sue facoltà la visita dell’amica che aveva sempre creduto la venisse a lui armata di gladio.... La non tardò molto a venire. E le giovanili ambizioni, e le vanità della forza muscolare, e le irrequietezze del cuore, e i giorni di piena felicità, e le gioie grossolane dei sensi, e le aspirazioni di una gloria migliore, ed i palpiti della libertà, tutto fu consumato in un istante in quell’oscuro calvario di ben altri e più cuocenti dolori. Nella via Domizia, sulla linea dirimpetto alla casa di C. Giulio Polybio, era la dimora dèi chirurgo Hemos, allievo di Bucchio di Tanagre, interprete in Cos della dottrina del grande Hippocrate. Il quale quivi era nato nel primo anno della quarta Olimpiade, e quivi fondò la sua celebre scuola. Questo nobile rampollo degli Asclepiadi — famiglia conservatrice per secoli delle teorie del sommo Esculapio — profittando delle discussioni dei filosofi che si occupavano del sistema generale della natura e della esperienza dei suoi — e più di quella del suo padre Heraclide — sulle vicissitudini patite dal corpo umano, concepì la splendida idea che fissa un’epoca alla istoria del genio — rischiarare la esperienza col ragionamento — rettificare la teoria eolia pratica — considerare i diversi fenomeni presentali dall’organismo animale nei suoi rapporti di malattia e di salute — L’arte siffattamente elevata alla dignità di scienza, camminò di piè fermo sulla nuova via che un alto ingegno le aveva dischiuso. E tre scuole si aprirono ben presto, in Rhodum, in Cnidum, in Cos. Lo spasimo venne curato secondo le regole confermate dalle numerose guarigioni e le tre scuole si allietarono di molte eccellenti scoperte. Non lo amor del guadagno, nè il desio di celebrità avevano condotto Hemos dalla Grecia in Pompei. Demophilo ve lo invitava. Il sollievo dei malati ve lo facea rimanere. Creatore di una nuova scuola conservatrice, registrava i risultati della esperienza propria e degli altri, dettava i doveri di un medico e notava con pari franchezza le guarigioni e le morti. Una volta accadde che a lui portassero sur una scala un _tignarius_ che, caduto nel restauro delle mura presso la porta di Herculanum, aveva ricevuto parecchi sassi sulla persona. Il sofferente era tramortito. I _lecticarii_ non seppero rispondere alle sue domande. Ed egli non si avvide che gli era mestieri ricorrere al trapano. Funesti segni lo avvertirono dell’oblio. Dopo quindici dì fece la operazione. Ma il muratore morì lo indomani. Ed egli, il sommo maestro, confessò pubblicamente il suo fallo. Imperocchè, superiore ad un fallace amor proprio, volle che anche gli errori servissero di lezione. Sono corsi parecchi secoli e cotesta sincerità in luogo di accrescersi, è di troppo diminuita nei curatori delle malattie umane. La casa aprivasi sullo impluvio ed in fondo era lo xysto. Ai lati, lunghe camere abbellite di graziose pitture, ed una di straordinaria grandezza e schiarata da parecchie finestre. Era la sala anatomica e la scuola. Un letto di quercia in pendìo è nel mezzo. Sopra il letto è un cadavere. Ai piedi del cadavere sul pavimento è un vaso di terra per accogliere i liquidi che potrebbero scolare dal letto che finisce come una gronda. A lato del cadavere sta in piedi Hemos parlante ai discepoli, tutt’occhi ed orecchi in udirlo. Quel saggio ha le linee regolari di una statua, illuminate da uno sguardo che un misterioso splendore anima ed avviva. La fronte è calva e i capelli imbiancano. È piccolo di persona, un po’ stanca, quasi emaciata. Di sobrie parole, ha il gesto concitato e di slancio, perchè ricco di sensibilità meravigliosa. Quelli che lo veggono grave allo esterno malamente lo giudicano. Le sensazioni delicate e profonde del cuor suo sono come quelle piante energiche e sottili che si veggono sospese agli scogli, a picco sul mare, nell’isola ove nacque. I venti impetuosi che spirano dal golfo Ceramicus le agitano in tutti i sensi nelle tempeste di autunno, e d’inverno; ma non valgono a sradicarle dove germogliano. — La vita è breve e l’arte che noi esercitammo domanda lunghi studi e vocazione decisa. — Giudizio sano. Pronto discernimento. Carattere pien di fermezza e di dolcezza insieme. Amore alle cose oneste e al lavoro. E se l’anima s’intenerisce sui mali della umanità, certo che chiunque fra voi n’è dotato si passionerà per un’arte che insegna a guarirli.... Operate — e non vi stancate mai di operare — col taglio sul cadavere. Percorrete il cerchio delle scienze. La fisica dice la influenza dei climi su questa bene ordinata matassa di muscoli, di nervi, di vene, di fibre. E fatti dotti, viaggiate, osservate la situazione dei luoghi, le variazioni dell’aria, le acque che si bevono. Gli alimenti di cui il popolo si nudre, tutte le cause che guastano lo assetto della economia animale. — E toccando colla mano il cadavere, seguitò: — Le brevi e ricise massime scolpite nella nostra memoria guidano ma non illuminano abbastanza. Conviene applicare i principii generali ai casi particolari e interrogare la natura per non ingannarsi. E — ciò che è più difficile — attendere la sua risposta. Di celato io feci portare qui da un vespillone il cadavere di uno schiavo. Il pregiudizio non vorrebbe che quale è coperto dalle ombre della morte giovi al soccorso della vita in pericolo. Le leggi si oppongono. Ma le leggi permettono il macello dei sani nelle battaglie. E il pregiudizio applaude al carnaio nello anfiteatro.... La scienza è sovrana. E se ha doveri, ha pure i suoi diritti. E preso il coltello di rame temprato — lo _scalpellum_ dei latini, lo σμιλιον dei greci — lo appuntò con tutta sicurezza sul disteso cadavere nella parte destra laterale del torace, là ove le costole ossee si articolano colle cartilaginee. Ma, infisso lo strumento, fermossi di un tratto come per arrestare una idea ch’eraglisi affacciata alla mente. E levando in alto il coltello con un gesto atto ad imprimere con maggior forza i suoi detti negli ascoltanti continovò: — L’uomo di cui qui vedete i laceri avanzi era nato in Coronea nella Boeotia, condotto schiavo in Pompei e venduto a C. Pumidio Dipilo. Ora che con ribrezzo ne mirate le spoglie, mi avveggo com’egli differisca da noi, uomini vivi e liberi. Ma, allorchè quegli occhi opachi fulgevano, e quelle smorte labbra articolavano parole di vita, e quelle mani assottigliate e nodose erano validi strumenti per effettuare le idee, io non vedeva lo schiavo in quell’uomo. No!... Elette le forme. Vivace ed acuto lo intelletto. Impetuoso lo ardir giovanile. Nobile l’anima. E di squisito e commovente sentire il cuor suo!... Ben più libero ei mi sembrava di Sirico che lo aveva venduto e di C. Pumidio Dipilo, ricco di pecunia e d’immagini avite, che lo aveva comprato. Crixsos era il nome dello infelice. Io, famigliare di Caio, ebbi campo di studiare le fasi corporee e morali di questo estinto. Col _liber_ di quella pianta palustre di Syracosion, il quale rotolato si chiama _volumen_ — invenzione dovuta ad Eumenes di Pergamus — egli scriveva i βύβλος dei miei trattati sulla salute, i διφθερα che voi meditate. L’arte del pennello era pure la sua. E varie case in Pompei sono abbellite dai suoi colori. Amò perdutamente Sfinge, la schiava di Calepio Secario, di cui si fece il _contubernalis_, e ne fu amato con eguale ardore. Dopo poco però i favori di Venere assottigliarono lo stame delle due esistenze. La giovanotta morì di arsione. Egli, consunto e accasciato dal dolore di tanta perdita. Eccolo qui disteso dalla Phtysi o Phtoe, che fa pallido, debole, tossicoloso, emaciato. E volti gli occhi ai discepoli, dopo aver rimirato il cadavere: — Ora, uditemi attentamente.... I mali spiriti del mondo esterno sovente investono il nostro corpo, e suscitano una lotta coi loro poteri distruttori, cui la medicatrice natura si oppone coi suoi conati salutari. Allora l’uomo che sente in sè cotesto certame si fa tristo; e il terapeuta chiamalo egroto. Se la natura medicatrice ha tanta forza da affrontare la maligna natura e la respinge, lo egroto risana e si rassecura. Ma se l’impeto distruttore prevalse, la materia del corpo nostro più o meno lentamente si guasta, i pori si allargano, la contestura delle viscere si corrode e sopraggiunge la morte a dar l’ultimo crollo alla ruinosa economia. Allorchè siffatti guasti si stanno operando, il paziente è assalito da un calore urente che lo divora dentro e gli produce l’ambascia, lo anelito, che io chiamo _dispnea_, la prostrazione e la colliquazione. Or mirate come a tal penosissimo sentire corrisponda la spaventosa trasformazione del corpo. Ciò detto, si approssimava al letto e accennava col tatto le parti del cadavere di cui faceva menzione. — Mirate! — I muscoli impiccioliti e tabidi. Le unghie adunche. Rugoso il polpaccio. Le narici acuminate e gracili. Incavati gli occhi dentro le scatole ossee. Le labbra sottili che stringonsi ai denti. Prominente la mandibola. Sul petto voi potete contare le costole. Nello addome scorgete una cavità che va sino alla spina. Qui, sulle spalle, le scapole elevate e nude che paiono ali di uccello. Le nocche articolari delle ginocchia tanto prominenti da sembrare la estremità di una mazza.... Voi inorridite, o miei? Ma voi dovete pugnare contro la morte e conoscere la fisonomia della orribile Iddia in tutti i particolari suoi atteggiamenti. Altrimenti, come combatterla e vincerla?... Appressati, Albucio.... Che?... Turi il naso colle dita?... E sputi sul terreno come un profano?... Così non faceva Hippocrate, il padre nostro. Ed io vidi Buccino, da giovanetto, in Cos, rivoltolare colle mani gl’intestini di un morto che tale un sito fastidioso tramandavano da far recere parecchi tironi.... Ma tu sei bianco come un cadavere.... Ebbene! Vien qua, Menomaco. Tu sei più provetto cultor di Esculapio ch’egli non sia. Sostieni il braccio destro di questa materia inerte, perchè io possa col coltello aprire la cassa delle nobili viscere. Il discepolo senza ripugnanza ubbidisce. Ed Hemos con due tagli regolari nel torace ed uno per traverso alla estremità delle costole ove ha principio lo addome, lo apre, ne squarcia le pleure e, rovesciandone il coperchio sopra la faccia, riprese: — Ah! Il prevedea. I polmoni disuguali, rattratti, maculati qua di rosso, là di nero, su di olivastro.... Ecco la phtoe polmonare. Ecco il guasto di una lotta per quanto lunga, altrettanto straziante. Voi, Parato, Aquano, Faventino, Marcello, Paquio, Callisto e.... tu pure o Albucio,... vedete lo interno dei bronchi e della trachea che ho aperto. La empiema, o la purulenza, ha quasi ostruito questi condotti che portano ai polmoni e dai polmoni al cuore l’aria vitale refrigerante. Quindi, il cuore che qui è rosso e più grosso del mio pugno non essendo temprato da bastevole frigorico, tanto calore emanava nei visceri nobili e specialmente nei polmoni, da distruggerli quasi e ridurli alla forma che in voi desta ribrezzo.... Marcello interrompe: — Ma il cuore, o maestro, come sviluppa il vitale calore sì necessario alla esistenza? Gli è l’organo da cui hanno scaturigine i nostri affetti, le nostre passioni. Dunque gli affetti e le passioni avrebbero una qualche simiglianza al calore che ci anima? — Ben parli, o giovane sacerdote della umanità. Gli amori, le ardenze passionate commuovono le fibre di quest’organo che sta fra i polmoni. Quindi è che tu lo senti battere entro te stesso. E più tu desideri, più vibrati sono i colpi di questo martello. Le vibrazioni producono calore siccome il ferro percosso sulla incudine del fabbro. E il calore quindi regola la vita.... Questo schiavo amò potentemente. Il suo povero cuore picchiò forte e generò grande calore. I polmoni ne rimasero offesi. L’aria non valse a temperarne l’arsione ed il misero.... La parola della scienza fu tronca da uno scoppio terribile che mandò in minuzzoli i vetri della finestra e fece vacillare le pareti ed il suolo. Gli occhi dei discepoli fissarono esterrefatti quelli del terapeuta, e quai prigionieri dietro le sbarre facevano segni passionati e di grande sgomento. Il tonfo dei sassi sullo impluvio persuase alcuni ad escire da quella specie di letargo pauroso e correre allo aperto. Al traballare successivo e continovato della terra gli altri più provetti, che pure avevano le abitudini dei dolori e delle sciagure umane, a due, a tre volsero i talloni alla camera ov’era lo spettacolo della morte distesa, senza riflettere che anche fuori Libitina mieteva in vario modo le esistenze, come il villico colla falce l’erba dei prati. Ed Hemos?... Hemos sentì qualcosa di strano infiltrarsi e correre per tutta la sua persona. Le gocciole di sudore cadevano dalla sua fronte, la quale aveva preso la pallidezza del marmo. Nella mente incerta volava uno sciame di figure alate che, urtandosi a furia, gli scendevano dal cervello nel cuore. Un supremo sforzo... e la psiche immortale aveva atterrato nella lotta la carne peritura che geme, e piange, e si agita convulsa nella strettoia delle avversità e del dolore. — È l’ultimo giorno! E il novissimo istante! Da parecchi dì gli strani fenomeni che occorrevano e lo affannoso mutismo degli animali bruti mi facevano prevedere il danno di questa contrada. Sale una scala di legno, traversa le _cœnacula_, si fa sul terrazzo sfondato in un angolo da un basalto e vede il Vesvio ardente ed eruttante in mezzo a turbini di fumo sassi e cose che di travi accesi aveano sembianza. Chiude il capo tra le mani e pacatamente discende. Ridottosi di nuovo nella sala anatomica, rimane alquanto pensieroso. E poi mormora: — Urli disperati al di fuori. Il silenzio qui. I servi disertarono là casa. Ed io resto come un milite a guardia di una pubblica ruina. Rassegnato alla volontà degli Dei, attenderò con calma l’ora del mio passaggio. Abbellii l’anima di ornamenti suoi propri, la giustizia, la temperanza, la carità, la famiglia intera della virtù. Non feci male ad alcuno. Sento la loro voce che mi chiama e mi avvio. L’aria erasi fatta soffocante ed oscura. La mefite serpeggiava sol suolo. Hemos chiuse il capo nella toga e si adagiò sul mosaico. — _Fata vocant, conditque natantia lumina somnus_.... Qui, sul letto drizzato nelle tenebre. Esculapio, Hippocrate, Galeno.... io vi raggiungo..... Per qualche istanti parea che due cadaveri fossero in quella sala, l’uno ignudo, l’altro coperto. Ma un piccolo moto convulso, succeduto da un lungo sospiro, pareggiò ambedue all’occhio dello invisibile. Hemos era morto! Allorchè nel 1771 si sgomberarono i lapilli e le ceneri ammonticchiate in quella camera, vi si rinvenne sparso sul pavimento quanto l’arte chirurgica aveva inventato a sollievo della misera umanità. Vi erano le _cocurbitulæ_, ventose di metallo a foggia di ampolle con quattro buchi che si turavano colla creta e poi si sturavano perchè lo strumento si staccasse della epidermide. E l’ordigno per saldare le vene del capo. E gli scalpelli escisori a guisa di piccole punte di lancia e nell’altra estremità il _malleum_ per rompere le ossa. E le _spatulæ_ di varie forme. E gli specilli concavi da un lato e dall’altro come un’oliva. E un catetero forato colla sua mobile guaina. Ed un _unco_ per estrarre il feto già morto. Ed infiniti ami ed aghi chirurgici. E le _forfices dentariæ_, come le nostre tanaglie. E i _circines_, le _volsellæ_ e le tente urinarie ricurve. E le lancette di rame temprato assai duro. E le siringhe auricolarie, le seghe, i coltelli da taglio. Altri strumenti pur v’erano di uso e di nomi ignoti, racchiusi entro astucci di bronzo, di bosso e di avorio. E lo _speculum_, e le _ligulæ_ e il _pareuniterium_ pur troppo noti. Nel vicolo poco discosto s’odono molte voci rauche, confuse e concitate in una volta. È Tito Atullio, il fabbricante dei _camini portatiles_, dei _foculi_, degl’_ignitabula_, delle _escharæ_ di bronzo — tanto in uso nelle Terme e nelle case degli agiati in Pompei — il quale riunito alla madre, alla sorella, al figliuolo Istacinio ed ai servi, nello escire ha perduto la moglie. I parenti ristanno nella oscurità e nella pioggia dei lapilli, curando le cose di pregio salvate — quattro orecchini d’oro, una collana, dei braccialetti, molte monete. — Il bambino ha una lucerna di bronzo che la bufera subito spense. Dopo molto errare presso le mura, eccolo ei torna, avendo tra le braccia Cœsia Prima, la cui bellezza era il sogno di un artista. Una capigliatura aerea e dorata si distaccava in anelli sul suo collo di cigno. Le rose delle ardenti voluttà eransi schiacciate sulle sue labbra. Ora sono pallide come i gigli e si fa trascinar dal marito come cosa morta. Procedono innanzi a stento... si arrestano.... piangono.... cadono.... e, tutti stretti, abbracciati, muoiono. E le pietre pomici piovevano sempre! Morto Popidio Celsino, la eredità di Plilia fu venduta, ed essa colla sorella tornossene in Grecia, dove da lento morbo consunta morì. La casa venne compera da Flavio Ceppysiodoro, liberto di Flavio Licinio Romano, arricchito dal commercio dei marmi. Avendo vissuto a contatto di tre diverse civiltà — molto in Egitto, un po’ nell’Urbe ed in Sycion ov’era nato, e per sopra ciò schiavo — aveva elevato a religione la teoria del tornaconto; e il re del suo Olimpo per lui era Mercurio che per sua propria devozione aveva mandato a nozze colla Malafede e faceva adultero coll’Astuzia, colla Menzogna e colla Viltà. A cotesti soli iddei egli dava incensi ed onori. Gli altri numi ei li lasciava tutti alla gente sciocca e gocciolona che non s’intendeva di affari. Per gli uomini arricchiti, di tal conio, la virtù in quei tempi era la virtù in questi che corrono — vano nome. — I nummi rappresentavano molte cose manchevoli, necessarie e richieste. Come oggi!... Aveva sposato da alcuni anni Perennia, la figliuola di un’altro liberto ricchissimo, suo coetaneo, il quale era morto per un’apoplessia che lo colse nelle braccia di una donna. Un terapeuta corse in suo aiuto. Ma il brav’uomo era già nel Tartaro, attendendo che i _pollinctores_ gli lavassero e gli profumassero il cadavere e facendo voti che i _vespillones_ non gli togliessero di bocca la moneta per pagare il navicellaio Caronte. Come sempre, senza mercede non si passava in quel mondo che anche oggi si spera e si dice migliore. Perennia era giovane e bella. Nè amava. Nè stimava il marito. Ma, molle e licenziosa, lo conduceva a suo modo. La sua faccia agl’indifferenti non diceva verbo e pareva una Sfinge. I giovani a modo però e che a lei piacessero vi leggevano quello che nel verno, appoggiati i piedi sugli alari di un camino, noi vediamo sui capricciosi disegni delle fiamme e del fumo. Val quanto dire ciò ch’essi volevano e desideravano. Nel secondo atrio adorno di bel pavimento a musaico e che ha un recipiente rettangolare nel mezzo per raccorvi l’acqua piovana del tetto, sono molte donne che tessono e filano con quella rilasciatezza con cui lavorano le genti comprate, cui i rimproveri e lo staffile sono incitamento alle opere. Ed il caldo soverchio sin dalle prime ore del giorno — quell’afa sì straordinaria, in tal mese autunnale — avrebbe loro fornito le proprietà sonnifere del papavero, se non avessero dato alcun riposo alle mani e molta libertà alle ali del pensiero. Una sola aveva un viso misterioso. E, poggiati i gomiti sulle ginocchia, lo sosteneva sulle palme aperte delle mani. Clysma, nata in un paese dell’Asia, era poco loquace per abito, e parea che, prestando l’orecchio alle armonie della sua mente, si confortasse della schiavitù e della durezza di quello stato con consolanti e fatidiche apparizioni. Perennia che dormiva in una stanza vicina ruppe con un grande urlo il cicaleccio delle sue schiave. Alcune accorrono nel cubicolo. Poco stante essa giunge pallida in volto, si asside e si terge il sudor della fronte. E tutte ansiose a domandarle che fosse. — Ah! Io feci un sogno tremendo. E mi destai affannosa e fradicia tutta. — E Scaura, e Maronia, e Giulia, ed Angipta, ed Auga, e Tanablea le ripetevano la domanda. — Pareami di essere in un paese pieno di strepito e di lamenti. Era in Pompei? Non so dirlo. Ma nessuno io scorgeva intorno di me. Volti gli occhi in aria vidi Nemesi irata lanciar sulla terra gruppi di serpi lividi e schifosi. Tento uscir dallo xysto e riparare in casa, quando odo un urlo straziante.... e inorridita veggo il piccolo Cæsariano coi capelli irti sulla fronte correre a me e precipitarmisi nel grembo. Un di quegli aspidi lo mordea sulla nuca e le sue spire strette al collo glielo serravano a soffocarlo. Pallida, tremante, fuori di me dallo spavento, mi provo a discioglierlo da quel laccio. Ma.... le forze mi mancano, le dita s’irrigidiscono, grido.... alfine mi desto. — Terribile sogno! Clysma? Esci dai tuoi abituali silenzi.... Soccorri alla nostra padrona colla tua prescienza e la calma. — Maronia.... E che dirò? Voci giulive non mi esciranno dal labbro. È il sogno men chiuso che Perennia abbia mai fatto. — E Scaura; — Orsù. Toglici dall’ambascia. Apri gli arcani del sogno. — La Egiziana allora guardò tutte in viso una per una, e si levò dalla postura in cui erasi per ore tenuta. E per quella facoltà dello spirito la quale nelle sofferenze morali, fa che la creatura dai nervi sensibilissimi presagisca gli avvenimenti o, nella esaltazione del cervello, li vegga svolgere in luoghi discosti, Clysma continovò: — Osiris, lo sposo della sorella Isis.... Typhon, suo fratello, lo è di Nephtis. Questi ha trovato la corona fraterna sul letto nuziale presso la moglie addormentata e stanca... Mirate lo scoppio della gelosia!... Le acque invece di fecondare distruggeranno. Le terre aride colmeranno le terre piene di vita e di germinazione. La nimphæa nelumbo impallidisce e muore su suo verde stelo.... La felicità morta! Le dovizie morte! Lo amor morto!... Tutto morrà in questa contrada che ha dilaniato a lento morso i miei verdi anni e il mio misero cuore!... Amset, Hapi, Satmouf, Mamses — i geni di Amenthi — non accoglieranno col natrum le nostre viscere nel loro grembo. L’orecchio di Retiset è già chiuso ai vostri lamenti.... Apparecchiatevi. Apparecchiamoci tutti. — Io ti farò battere _usque ad necem_, o nera maliarda. È l’acre vendetta della vile anima tua che a te suggerisce.... — Nè padroni. Nè schiavi. Tutti eguali innanzi all’ira di Typhon. Le sue collere tu le hai vedute. Esse si spanderanno su te.... Era l’agonia che ti troncava i polsi e ti vietava di salvar Cæsariano.... Dì! Non vedesti il monte nel sogno?... No?.... E pure dal monte Typhon verrà. — Ciò detto, Clysma tornò a sedere per terra, appoggiando le guancie sulle sue mani. E le altre più impaurite che mai. E Perennia divenne livida come se l’alito della morte le avesse sfiorato la fronte. Ma, cambiata idea, replicò: — Io ti ho comprato _gypsatis pedibus et auribus perforatis_; ed eri una _vernacula_ nata in casa di un cittadino romano in Babylon. Ti feci istruire _in artibus ingenuis_ e fosti _pædagoga_ del mio Cæsariano. Eri considerata la Perennipora qui. Così tu ricambi la bontà del mio cuore? — Accorciando lo stame della mia vita tu non allunghi il tuo. Io tel ripeto... Typhon si agita per febbre ardente nel monte. Credi tu che le tue verghe solcanti il mio corpo possano fare ch’egli non ne esca fuori? E pensi che se tu dicessi al pretore: — _Hanc fœminam liberam esse volo jure Quiritum._ — cotesta affrancazione salverebbe la città dall’ultimo esterminio? — Oh! Questa schiava coi suoi delirii m’insulta. Chiudetela nello ergastolo, e questa sera deciderò della sua sorte. — Presumente!.... Non sarai in tempo fra un’ora. Un’ora?... Ecco. Trema la terra... Ah!... Lo scoppio! Tutte balzarono qua e là, tenendosi alle vacillanti pareti. L’orribile scroscio rintronò nei cuori già preparati dalla paura. La gragnuola delle pietre incomincia. Un tetto è sfondato. Cæsariano ferito nel collo corre barcollante e piangendo in cerca della madre e la giunge. Auga, Maronia entrano nelle stanze e raccolgono anelli, armille e monili d’oro, utensili di argento e una copia grande di monete. Riedono presso la padrona e la persuadono alla fuga. Ma dove e come? La pioggia delle pomici ha oscurato l’aria e ricuopre il suolo. Tentano a tastoni, a lato del tablino, di penetrare pel piccolo uscio nel sotterraneo e salvarsi dal triclinio a terreno per la pianura. Scambiati pochi passi un’aria pestilenziale e non respirabile ne le caccia indietro. — Salvaci, o tu, che lo puoi. Le dovizie di mio marito per te!... Affida alle braccia del tuo Dio questo frutto almeno delle mie viscere. — E stringeva al petto il bambino e lo baciava coll’amor passionato di una madre. E stendendolo a Clysma, cadde stramazzoni, sui lapilli, affogata dalla mefite. E tutte caddero morte nell’atto stesso. E le pietre pomici piovevano sempre! Sino dal giorno innanzi Tito Plasilio Aliano, figliuolo dello affrancato Timagène era tornato dal _Pontus Euxinus_, sur una delle navi paterne. Disceso e abbracciata la famiglia e tutti gli amici che ben presto gli furono d’intorno, die’ ordine di scaricare la _caudicaria_ che aveva guidato nel porto. Il dì poi chi passava trovavalo laggiù e gli stringeva la mano e festosamente lo baciava. Era un bravo uomo, tutto inteso all’ora presente e felice nei ghirigori della vita. L’anima sua e le cose esterne nel vagabondar che faceva mai trovavano il chiodo fastidioso della fermata. Nomade nel deserto dei mari, le sue corse erano come i raggi del sole i quali splendono per tutti; e non sentiva gli accessi melanconici della poesia solitaria, figliuola allo egoismo. Giunto laddove gli affari del traffico paterno il menavano, vendeva, cambiava, comperava. Ed intanto provvedevasi di uno alloggio e di un’anima che non fosse tirannica, permettentesi senza donarsi. Talvolta erano doni di Numi. Tale altra merci lucrose. Sempre passeggere felicità, incarnate e colorite da un vivido sangue; il quale, al pari del liquore dei grappoli d’uva, forniva ebbrezze subitanee ed accessibili a tutti. Giovanetto e col padre erasi dato al mestiere del nauta. Aveva visto molte contrade, e il suo intelletto erasi sviluppato al contatto dei diversi popoli che avea bazzicato. Sapeva la storia dei Greci, suoi compatrioti di origine. Conosceva i loro usi, i loro spettacoli. Erasi maravigliato dei monumenti del vecchio Egitto e delle pitture di vivi colori — mezzo decorativo, recondita storia. — Tende — Armenti — Deserti — Vaste solitudini — Città incivilite. E il lago immenso detto il _Palus Maeotis_. E Panticapea, dalla cui altezza scorgevasi la imboccatura dello stretto del Bosforo Cimmerio che congiunge il lago al _Pontus Euxinus_. Begli anni vaganti e bene spesi, perchè proficui al suo commercio e allo addottrinamento del cuore. Tornato in paese, gli pareva ringiovanire. Emozioni, sorrisi, riposo. E quelle maghe graziose dello spirito, che aleggiano attorno e dicono il dolce incanto a chi ritorna dopo una non breve assenza nel loco natio. — Sii il ben giunto, o Plasilio, nella nostra città. Che io ti abbracci e mi gratuli teco della fiorente sanità che gli Dei ti conservano. — Sei sempre il mio amico, o Porcinio Rodio, fin da quando Verna ci forzava ad apprendere a furia di nerbate. Sia pace ai suoi Mani. Ma aveva il braccio assai grave. Che fai costì nel porto? — Seppi il tuo arrivo ieri nell’Odeon dagli amici Umbricio Bifurco e Karminio Hyccario. E venni a vederti, poichè immaginai come nelle tue case fosse vano il trovarti. D’onde vieni?... — Dalla costa orientale del Chersoneso Taurico. — Quali le merci trasportate qui? — Molta parte del carico è il frumento che gli schiavi e i saccari ammonticano dinanzi il magazzino, là in fondo. Or che la Sardinia e la Sicilia ne fanno desiderare, stimai affare migliore comperarne nella Tauride che ne produce in abbondanza. La terra, solcata appena dallo aratro, ne dà trenta per uno. E l’affluenza da qualche anno è siffatta che hanno aperto di recente in Theodosia un porto capace di almen cento navi. Giunio Sequestro, il pompeiano, e lo ateniese Hyphidamas sono andati a Panticapea. Il grano quivi è più caro. Ma lo caricano subito senza attendere il turno, e per una nuova legge non vi si paga diritto nè di entrata nè di escita. — Anche di quel porto dicono maraviglie. — E a ragione. E l’arsenale? E il castro? E la città? E le case dei particolari? E le taberne? E le fabbriche? Tutto grande quello che qui è piccino. Al ricordo le mie sensazioni si ravvivano e.... — E più se rammenti le creature che furono parte animata delle tue felicità, eh? — Eh!... Gli è pur così.... E molte volte io chieggo a me stesso se il lago Maeotis non sia il più vasto dei mari e Panticapea la più bella e vaga ed ospitaliera città dello universo. — A trent’anni... e sempre eguale come a diciotto quando lo spettacolo del mare t’inteneriva sino alle lacrime. — T’inganni, o Porcinio. Così fosse?... Il molto vedere ha strozzato la sorpresa innanzi i miei occhi e di tal guisa svanirono i molti piaceri di cui essa è la madre. La esperienza a poco a poco si è rivestita delle spoglie che appartennero alle sensazioni defunte e rimango quasi insensibile a ciò che una volta m’illuminava tutto. — Il solo Ponto opera però il miracolo! — Vorrei veder te in faccia a quello immenso bacino, circondato quasi per ogni dove da montagne che più o meno si sollevano dalle sue rive ed in cui quaranta fiumi versano le loro acque, provenienti dall’Asia e dalla Europa. La sua lunghezza è di undici mila stadi. La sua maggiore ampiezza, di tremila e trecento. Differenti nazioni sono disseminate sui margini suoi, di diversa lingua, di varia origine, di più svariati costumi. Vi siedono città fondate da quei di Mileto, di Megara, di Athenes. A levante è la Colchide, celebre pel viaggio degli Argonauti. — Dicono che nel verno Eolo vi abbia il suo trono. — Grande verità! Gli è perciò che prevedendo le nebbie le quali oscurano la sua superficie, io drizzai la prora al ritorno. Hannovi nel verno terribili tempeste e naufragi numerosi. Ma quai pesci eccellenti! E quanta abbondanza! Il fango e le sostanze vegetali che i fiumi vi scaricano gl’ingrossano e gl’ingrassano. Si vive sulle sue coste a ruba. Immagina! Un bue di prima qualità pel nutrimento dei rematori te lo danno per ottanta dramme. Un montone per sedici. Un agnello per due. Un manovale costa per giorno tre oboli. Vi ho comperato mantelli di lana per venti dramme e delle scarpe per sei. — Verrò da te ad approvigionarmi al bisogno. Per ora la temperatura non lo richiede, e cotesta è una grande stranezza del nostro clima in questo anno. — E sì, che anch’io ieri nello imboccar nel cratere me ne avvidi e ne stupii forte. Ænonao, il protosaccario di mio padre, ha chiesto doppia razione di _posca_ per ognuno dei facchini da scarico. — Nè basta, o padrone. Ci pare di aver lo stomaco di ferro rovente. Più se ne beve e maggiore è la sete. — Era Cantrio che ripassava dopo aver gittato il suo sacco sul cumulo. — Lavorate animosi e ne avrete.... Ehi! Santapila, tu che vai carico verso il fondaco, di’ ad Ænoao che addoppi il buono che con tanta facilità traspirate. Ma in tre dì voglio sgombera la nave per caricarla d’olio in Capreas. — Presumente! Parlava di avvenire in una città condannata e sopra un selciato, mobile e vacillante quanto la tolda della sua nave! I due amici si trassero di là e per la porta della Marina si avviarono verso Pompei. Dinanzi la nicchia di Minerva sotto l’arco, incontrarono Hera Nevia, Appia Callista e Terzia Turpedia, giovanette in preda a febbri d’artificio che lo amore condanna e le cui fiamme sono incerte ed effimere. Erano seguite da Abiginio Albulato, da Sesto Eppio, da Afrenio Helvino, giovani sfaccendati che uccidevano la noia logorante delle dodici ore luminose nella tonstrina, nei termopoli, nelle Terme e le altre dodici nelle orgie. Un ricambio di sorrisi. Strette di mano cordiali, ed innanzi. Giunti presso la Basilica, il suolo traballa, le mura crepitano, le colonne piegano in volta. E poi un rumor sotterraneo. Quindi lo scoppio sul Vesbio. Corrono barcollanti nel Foro. Una colonna di fumo. Una grandine di sassi. Si cacciano a precipizio sotto il portico e fuggono.... Fuggono. E lo spavento cammina loro dinanzi colla testa imprecante agli Dei. E sono abbracciati dalla morte che gli attendeva come certa sua preda. Agato Vaio — il quale reggeva una _Caupona_ nella via Domizia, che Giulio Polybio, il mercante di grani e duumviro, fattosi suo collega, avevalo aiutato ad edificare — escì di casa difendendo il capo dalle pomici con un cesto di vimini, corse forsennatamente verso il _Ponderarium_ — officina del pubblico peso, che ora direbbesi Dogana — urtò in un ciuco che la stranezza degli avvenimenti lasciava indeciso nella fuga e che le voci interne del capriccio e..... dell’asineria — spesso ascoltate dalle sue lunghe orecchie — lasciavano allora impensierito ed immoto, lo gittò disperato da un canto e per una porta di contro discese a saltelloni nel porto. Colà può afferrare una barca, vi si caccia dentro e voga in salvo. — Era stato meglio _Cauponius_ che _Caupo_ in altri tempi; cioè, arnese di osteria piuttosto che reggitore e padrone. Allora faceva versi. E quelli _exodia_, specie di farse oscene, atte a dissipare in teatro le impressioni tristi della tragedia, cui succedevano. Erane adunque _actor et auctor_. E conservava i diritti di cittadino. E potea servire nello esercito, — due prerogative che non godevano gli attori seri i quali recitavano le commedie di Nevio, di Plauto, di Cœcilio, di Afranio, di Terenzio. Ma tanto le _fabellæ atellanæ_ come il _carmen togatum_ — od incontrassero plausi o fischiate — non gli facevano afferrare le chiome della Fortuna. Laonde Agato erasi dato a più profittevole esercizio..... Eh! La più bella Musa dell’Olympo non sa nudrire il suo povero amante. Conviene far propria — secondo il gusto — una di quelle nove fanciulle e risguardarla come una ganza. Esso non possono dare altro che ore di compiacenza, fumi di gloria, nebbie di vanità, pecunia mai..... almeno in Italia, dove la supina ignoranza delle plebi non le conosce, nè stima. Il sole è alla metà del suo corso. Una brigata di uomini in gran parte canuti seggono in una sala decorata di bei dipinti, tra i quali rifulge la splendida pagina murale che presenta lo episodio poetico di Virgilio, il _pio_ Ænea che parte di Cartagine a furia di remi e lascia sulla riva Didone costernata ed in lacrime fra i suoi attoniti cortigiani. Intorno sono raffigurati il crotalo, il sisifo, la tromba, i flauti, le tibie pari e lo scabillo, quello istrumento pneumatico, come i nostri organi, che i tibicini suonavano coi pedali di legno o di ferro per accordare i tuoni dello strumento da fato. Sono per la stanza supellettili di bronzo e di vetro elegantissime con un vaso di alabastro di graziosa forma. E nel mezzo è una tavola di porfido con suvvi una piccola statua, simulante un giovane appoggiato sul dio Termine. Il più provetto, Nicia di Mileto, continova la discussione che animava gli occhi ed il gesto dei convenuti: — No! Non ammetto con Hedilo che il divino poeta, dalla fantasia facile e la meglio feconda, siasi servito per costruire i suoi versi di una lingua strana e bizzarra. Mi sembra più naturale il pensiero ch’egli abbia voluto fare suo pro della lingua volgare dei tempi suoi. E nel vero. Dugento anni pria che nascesse, i Jonii condotti da Neleo vennero a stabilirsi sulle coste dell’Asia-Minore. Ma con essi erano i Tebani, quei della Focide e di altri paesi della Grecia. I loro idiomi misti a quelli degli Eolii dovettero formare la lingua nuova, parlata, di cui Homero si servì. I dialetti, limitati ad alcune città, presero un carattere distinto in progresso. Ma la stessa varietà testimoniava l’antica confusione. Le medesime lettere anche ai dì nostri non hanno forse in più luoghi pronuncia diversa? E quante le parole che in Athenes indicano un significato ed un altro presso un popolo che variamente le termina? Homero, aiutato dallo strano suo genio, spigolò il buono di tutti i dialetti e creò la lingua monumentale che noi parliamo. — E gli è cotesto ch’io non ammetto. La poesia era assai coltivata dai lirici dei tempi suoi. La lingua era già abbondante e piena d’immagini. Due grandi avvenimenti, la guerra di Thebes e quella di Troas esercitavano gl’ingegni. E di ogni parte i rapsodi colla lira annunciavano al popolo le gesta dei loro antichi guerrieri. Rhiano anch’egli divideva tale opinione e aggiungeva: — Ed Orpheo? E Lino e Museo? Ed altri, le cui opere andarono smarrite? Ed Hesiodo, il suo contemporaneo, che in uno stile pieno di soavità e di armonia descrisse la genealogia degli Dei, i lavori campestri ed altri interessanti argomenti? Homero trovò dunque la lingua e l’arte già adulte. Trovò un emulo altresì. Ma s’ei primeggiò, non posso per questo consentire che Nicia lo proclami genio creatore. — Parlerete ambedue sino alla restituzione della libertà popolare in Grecia ed in Italia, vantando Orpheo, Lino ed Hesiodo, ed io crederò che la Iliade e la Odissea sieno la disperazione dei poeti che furono, che sono e che saranno. Cosa fece il divino Homero? Nello assedio decennale scelse uno episodio — Achille si crede insultato da Agamennone per la ritolta amante e si ritira nei suoi accampamenti. I Troiani, incuorati, escono dalle mura; e più volte vittoriosi, appiccano lo incendio alle navi nemiche. Patroclo, lo amasio di Achille, si veste delle sue armi, combatte e muore per le mani di Hettore. L’offeso ritorna colle armi nel campo, vendica lo amato cadavere e cede, per riscatto, a Priamo le spoglie del prode figliuolo che ha trascinato più volte dietro il suo carro intorno alle mura nemiche a ludibrio. — Era una storia. Per abbellirla finse che l’Olympo parteggiasse pei due popoli duellanti. E perchè il racconto poetico assumesse interesse maggiore, usò artificio non usato dianzi, e i suoi eroi parlarono ed agirono. — Nel decennale viaggio di Ulisse adoperò gli stessi spedienti per ottenere un eguale successo. — Il figliuolo Telemaco dopo un lungo attendere, si parte da Ithaca per interrogare Nestore e Menelao sulle sorti del padre. Gente ingorda dissipa i suoi beni. I Proci aspiravano alle nozze della madre desolata. Nel punto Ulisse partiva dall’isola di Calipso e approdava naufrago in un’isola presso alla sua. Chi ve lo accolse ospitale volle udir di sua bocca i maravigliosi eventi, i mali sofferti. Ed in premio, avendo ottenuto soccorsi, parte per Ithaca, arripa, si fa riconoscere e si vendica dei propri nemici. — Cotesto poema pare opera senile. Il vegliardo ripete il già detto su Troas arsa e distrutta; fa mostra di maggiori cognizioni geografiche; dà caratteri più miti ai suoi personaggi; ed in tutto il dramma circola un tiepido calore pari a quello del sole al tramonto. Tutti avevano udito la dotta e pur semplice analisi che Leonida di Tarentum, avea fatto dei due poemi. Alexis, di Thurium, plaudendolo aggiunse: — Tacesti sulle nobili sentenze che chiare risultano dai due poemi, e che Homero lasciò alle meditazioni del suo secolo che pure ad altro tendeva. — I popoli sono sempre la vittima delle contese di chi gli guida. — La prudenza e il coraggio trionfano tosto o tardi dei maggiori ostacoli. — Uomo sublime! Un vecchio presso la tavola, il quale appoggiava il bianco capo sulla palma della mano diritta, il poeta Xenocrate, di Locrum, pieno di entusiasmo prese a dire: — E il genio dell’uomo sublime parlò al genio del grande legislatore! Lycurgo copiò i due poemi e persuase gl’istrioni a declamarne i frammenti nei teatri. Solone ordinò a quei rapsodi di non distaccarne i brani a talento; ma riuniti, che l’uno seguisse il racconto dove l’altro aveva finito. Ma siccome la purezza del testo venivasi alterando sulle bocche ignoranti dei ripetitori, Pisistrato ed Hipparco — padre e figliuolo tiranni in Athenes — aiutati da abili grammatici, ripurgarono dalle errata i due quadri istorici della Grecia e li fecero cantare alla festa delle Panathenee, processione votiva a Minerva, e poi alla memoria di Harmodio e di Aristogitone, regicidi. Io proclamo con Nicia, di Mileto, Homero non solo creatore della lingua, ma eziandio della greca nazionalità. Noi tutto dobbiamo a quell’uomo divino. Leggi — Gloria — Costumi. L’ammirazione è in ogni cuore. Il suo nome in ogni mente. La sua immagine da per tutto. Se vi furono città contendentisi l’onore di avergli dato la culla, quante le città che gli sacrarono un tempio? Eschilo, Sophocle, Archiloco, Herodoto, Demosthene, Platone seminarono i loro scritti dei fiori raccolti nello inesauribile giardino del balio a noi tutti. E da quelle cantiche sublimi Phidias e il pittore Euphranor attinsero il tipo che degnamente rappresentasse le fattezze maestose di Giove Olympico. Homero era cieco. E doveva esserlo! il suo sguardo assorbito dalla luce divina della poesia, che splendevagli nella mente e nel cuore, disdegnava il lume del sole, luce più debole, gran cosa per gli altri. — Xenocrate col mentovare il primo fra tutti gli Dei, mi fa col volo della mente percorrere i cieli, avendo a guida il grande poeta. Mirate Venere col cinto da cui scaturiscono gl’impazienti desiri, i fuochi dello amore, le seducenti grazie e lo incantesimo degli occhi e della parola. E Pallade alla cui egida sono sospesi i terrori, la discordia, la violenza e la spaventosa testa della Gorgona. Nettuno è tra gli onnipossenti; ma gli occorre un tridente per iscuotere la terra. E se dopo la corsa fantastica del cielo, torno a ricalpestarla, chi vi trovo? Achille, Aiace e Diomede; i peggio temibili tra i Greci eroi. Ma l’ultimo si ritira, rincula dinanzi l’oste troiana. Aiace non cede che dopo averla fatta indietreggiare più volte. Achille si mostra e il nemico dispare. — Così Sosicles, il poeta siracusano. Ora ad Hedilo parve di dovere interloquire per cancellare le tracce dei suoi paradossi. — Platone disse non essere dignitoso il dolore di Achille, nè quello di Priamo, allorchè il primo si rotola sulla polvere per la morte di Patroclo e l’altro si umilia per ottenere il cadavere del figlio. Ma, quale dignità può mai spegnere il sentimento?... Io lodo Homero di aver imitato la natura che colloca la debolezza presso la forza, e lo abisso a lato della sublimità. Lo lodo altresì per avermi palesato il migliore dei padri nel più possente dei re e lo amico tenerissimo nello audacissimo fra gli eroi.... Cotesti ed altri pregi però non scusano il poeta se spesso riposa e talvolta sonnecchia. È vero che quando si desta scaglia i fulmini al pari di Giove.... Ma _quandoque dormitat_.... — E gli Dei non dormono essi? — Gli Dei furono uomini. Pindaro il disse. E non possono dominare la nostra illuminata coscienza. Un ente supremo esiste, e a lui inchiniamo in secreto. Quelli a cui si volgono i voli della plebe umana.... Un rumor sordo, cupo, terribile chiuse la parola autorevole sulla bocca del vecchio Nicia, di Mileto. Tutti si levarono in piedi, e le scosse del suolo li balzarono in terra insieme coi mobili della stanza. Si rizzarono sbalorditi e contusi ed escirono. Una grandine di sassi. Poi cenere e lapilli da oscurare ogni luce.... Quindi.... la morte.... Alle prime ore del mattino Acilio Heliodoro, incontrando i suoi amici nella _tonstrina_ di Glaphyro, gli aveva invitati al _prandium_ in casa sua ch’era sulla via ampia e prolungata dell’Abbondanza, le quale, solcando parecchi crocicchi, finiva presso lo Anfiteatro. Era un giovane di origine greca e di nascita pompeiana. Suo padre, arricchitosi nel commercio colle pie frodi che il traffico allor permettea, dopo aver maritata la figlia con Anniceris, suo amico, il rinomato vasaio in Rubi, aveva creduto lasciarlo libero dispensiero delle accumulate dovizie alla età di trent’anni, affogandosi nel mare un dì che vi prendeva i suoi bagni. Menava la vita paesana in tutta la sua purezza; la quale, pari a quella dei destrieri nei prati, consisteva nel mangiare, dormire, riprodursi, aspirar l’aria, sbadigliare e volgere gli occhi dolcemente qua e là in busca di cavalle e di erba migliore. La sua casa era doppia — per sè e per gli ospiti di fuori — e quella abitata da lui, sontuosa. Belle pitture sulle pareti — Ulisse che presenta in Scyros allo infemminito Achille le armi e lo ravvisa pel celato figliuol di Peleo. — La frode di Giove che mutato in cigno stringe nella spatula la lingua di Leda e la pone sul nudo e bellissimo seno. E Amore, che è il faccendiero del luogo, il quale sostenendo in una cassetta diversi attrezzi muliebri, ride sottecchi ed accenna con aria furba al Nume trasformato in uccello. — La più ricca stanza era quella del triclinio che prendeva luce dalla porta e da un finestrino aperto nello xysto. Da un lato alberi e fiori. Dall’altro il soave rumore di una fontana zampillante. — Oggi non sarai sola, o Nossis. Verranno i miei amici a distrarti, Acrio Heleno, Lucio Modiano e Narceo Flacco. — Acilio — come tu vedi — tutto che pieno di tenerezze terrestri, ama le distrazioni del tuo nobile cuore per poterti esprimere tratto tratto e senza annoiarti le novelle dello amor suo. La persona cui erano dirette quelle parole, sedicenne, snella e spigliata, parea nata fatta per seguire i moti ardenti e graziosi di un poledro africano. Era un’amazzone tranne nei voti. Sulla sua faccia leggevi fierezza, intelligenza, risoluzione, generosità mista ad un piglio che nulla avea del virile. Una malattia aveva punito leggermente il suo volto bucherellandolo di minuto vaiuolo. Ma i suoi grandi occhi neri e i sorrisi che da essi balenavano faceano dimenticare il fuorviamento della natura, che un giorno colla febbre del sangue le avea maculato la faccia. Era di Locrum ed apparteneva alla tribù delle etère che offeriva un amabile contingente alla libera e grande tribù dei celibatari. — La donna ha un fiero istinto che le fa respingere la innocenza. Lo so. Meglio il serpe che ammalia e stringe nelle sue potenti spire di quello che il bianco giglio odoroso. Ma vi è una razza d’uomini, ricercatori di voluttà, idoli impuri, i quali credono in ogni donna il loro trastullo, sognano avventure, le realizzano e di ciò fanno tardo argomento di risa e di sprezzo. Oh! Venere gli punisce! Essi terminano la vita col confessare la onesta fede al coniugio, e gli Egisti maliziosi ridono di quel riso che fa cadere le stelle sulla terra. — Eccoli che vengono. Sono e non sono quali tu gli dipingi....... Qui, amici.... nel tablino. Malgrado il caldo oppressivo della giornata, un po’ d’aria vi circola e aiuta al respiro. — Una tavola è nel mezzo della stanza sopra un musaico di scelti e variopinti marmi. Sul deschetto è un vaso di murrhina con entrovi un fascio di ordinati fiori. Ed altri fiori sono nei vasi nolani attelati alle pareti, che coi loro vivi colori e il soave olezzo cantano l’inno misterioso della natura. La luce è abilmente disposta. Le cortine di Tyro sono abbassate dal lato del mezzodì. Quella clemente e dolce che viene dall’altra parte, accorda all’ombra una ospitalità generosa, di cui la donna, per giovanetta che sia, non sa mai dolersi. Ricambiati i mattinali saluti, ognuno aggiunse a quel tema le variazioni che la originalità dei caratteri sapeva fornire. Narceo Flacco primeggiava nei paradossi; ma gli escivano così naturalmente di bocca, che volontieri erano uditi e sovente ricerchi. Di uno in un altro discorso, siccome suole accadere, Aerio Heleno aveva mentovato il loro amico comune Agathemaro Vezzio, di recente morto nelle strette di Bovianum Vetus in un conflitto coi banditi, ribelli alle leggi. — Sì, morto inosservato e lungi da noi. Eh! il sangue umano presto dissecca. E gli estinti rimangono vivi nel cuor delle madri e degli amici. Una donna avrebbe dovuto piangerlo però.... La sposava! — Chi? — Nympha, della famiglia Nomentana. Io le recai un suo anello ed ebbi anche il mandato di dirle quelle parole sacre che lasciano — od almeno si spera che lascino — qualcosa di proprio nei cuori in cui era chiusa tutta la propria terrestre felicità. — Ed essa? — Eh! Pianse un poco... e poi gli occhi rossi li lasciò agli schiavi che attizzano il fuoco nel _laconicum_ delle Terme. — Penso che non a tutte le donne tu accordi una tanta indifferenza di cuore. La unità non è numero. — Nossis disse quelle parole con un certo cipiglio che valeva un rimprovero. Ed era per levarsi dalla sedia, quando l’altro riprese: — Rimanti, ten prego e non ti offenda la mia sentenza. Tu hai nei begli occhi fantasime che non ingannano e tenerezze caparbie che sfidano le tenzoni di amore. Ma comunemente io non vidi negli amanti che un’ora sola sublime, quella in cui i cuori prendono congedo tra loro. Gli affetti eroici non li ho mai incontrati. Venere un me ne accordi, ed io mi vi dedicherò intero. Non feci mai saggio della mia costanza. E pure vi ho fede come se fossi nato ai tempi del misero P. Ametistio, il crocefisso, mentre ebbi vita sedente Nerone imperatore, dopo l’abolizione dei ludi gladiatorii nello Anfiteatro. — Siffatta fede ti onora. Merita ed avrai la tua ricompensa. — E voltasi ad Acilio lo guardò con tanto entusiasmo e fiducia che questi sentì i propri affetti rinfrescati da un sentimento novello. E gli disse: — L’ora del pranzo è accennata dalla clessidra. Andiamo. — E tutti mossero verso il triclinio. Questo era splendido di pitture, di tappeti, di mobili e di vasi di argento. In mezzo era la _mensa delphica_ colle imbandigioni. Si coronarono di rose. Ma non si coricarono sui letti, e sedettero secondo il costume dei Greci. Ad ognuno, dopo che si ebbe lavate le mani, venne offerta la _mappa_, orlata come una laticlava di una frangia di porpora. Qual differenza dalla parca e sobria mensa degli antichi senatori di Roma! Curio faceva cuocere i suoi _oluscula_ — i legumi dell’orto — coltivati da lui, sul suo umile focolare. Altravolta si conservava preziosamente il lombo salato del porco per celebrare un dì natalizio; e si offeriva ai parenti una fetta di lardo con un po’ di carne fresca, se mai fosse stata immolata una vittima. E a siffatto festino vedevasi arrivare, colla zappa sulla spalla, un parente illustre per tre volte console, o imperatore di accampamenti, o dittatore, il quale in quel giorno abbandonava più presto del solito il rude lavoro sul monte. Nell’epoca dei Fabi, del severo Catone, degli Scauri, dell’onesto Fabricio, allorquando lo austero Salinatore facea tremare il suo collega censore sulla sedia curule, nessuno aveva pensato ove nuotassero le tartarughe, il cui dorso gaio e levigato avrebbe fatto più splendidi i letti dei discendenti di Enea. Tale la casa. Tali i mobili. Tali gli alimenti. Da bastare alla vita, e non al lusso ed alle morbidezze. E quando quei ruvidi eroi — stranieri ancora alle arti della Grecia — dopo il sacco di una città, si trovavano per le mani una coppa cesellata di argento, la rompevano per fondere una _phalera_ da bardarne il cavallo delle battaglie, od una lupa a ricordo della mansuefatta dal Destino, che allattò i gemini quirini sotto la rupe. Lo argento splendeva allora soltanto sulle armi dominatrici. Le fave, i ceci, il farro, la carne e i pesci arrosto, i frutti freschi o quelli che nel verno avevano perduto la crudezza del loro succo componevano il desinare, scodellato ed offerto su piatti di terra bituminosa. E vivevano lunghi anni, e non mentivano alle leggi della dignità umana. E col pilo e col gladio assoggettavano il mondo noto. E gli ospiti erano accolti francamente, con abbandono, di pieno cuore, come Evandro accolse Hercole, lo eroe di Tiryntho, seme divino, _contingens sanguine cœlum_. Compiuto lo asciolvere fatto coi cibi i meglio squisiti, e mangiate le _mustacea_, paste condite di aromi che servivano a correggere dopo il pasto le crudezze dello stomaco, Acrio Heleno propose il giuoco dei _griphi_, cioè, problemi soliti a sciogliersi a tavola. Chi non riesciva a deciferarli, pagava un’ammenda. E Nossis disse: — Indovina, o Narceo, la rete ch’io t’offero. _Io sono grandissima nascendo. Sono pur grande invecchiando. Sono però piccolissima nel vigor della età._ — L’altro pensò, chiuse gli occhi, apri la bocca per dire... quindi risolutamente rispose: — L’ombra. — Indovinasti. A te, Modiano. _Qual nome dài tu alle due sorelle che non cessano di generarsi a vicenda?_ — Anch’egli pensò, masticò parole non articolate, si diè per vinto e pagò. — Nulla di più facile per chi lo sa: la giornata e la notte. — Ora te, o Nossis. Mi auguro che tu lo sciolga. _Vi sono tre animali in terra, nel mare, nel cielo._ Puoi dirne i nomi? — Più presto di quel che non pensi, o Heliodero. — Il cane. Il serpe. L’orsa. — Sei pago? — Lucio Modiano, ch’era stato perdente, voleva porre gli altri nella stessa condizione e disegnò fare il giuoco delle lettere, delle sillabe, delle parole. Erano detti _logogriphi_ perchè reti formate coi versi che si dovevano recitare al nuncio della prima lettera, o di un motto che racchiudevano, o terminanti con una sillaba che veniva indicata. Astrusaggini venute di Grecia nelle nostre contrade. Tutti vi si provarono. Nessuno riescì. E l’afa essendo omai grave, escirono allo aperto nello xysto. Erano pure radiosi come la speranza. E l’ora presente inesorabile, pareva la dovesse esser madre di ore innumeri, liete, felici.... E quegli istanti erano gli ultimi! Passioni, dovizie, ingegno, bellezza, schiacciate e sepolte come le vanità della vita. E le convulsioni della natura affogarono e coprirono la casa di Acilio, racchiudendovi brevi ma disperate agonie. I sacerdoti d’Iside banchettavano nell’ora in cui il disastro aveva principio. Si radunarono tutti nella sala dalle cinque arcate che è dietro la edicola della Iddia, dove si celebravano i misteri, e i soli iniziati penetravano: Nymphiodoto Caprasio persuase gli altri a non fuggire e a rinfrancare i cuori. Egli si prostrò dinanzi il delubro ed orò come se i devoti fossero nel tempio e il vedessero. E le pietre pomici piovevano sempre. Allorchè quel furbo si avvide che i lapilli si livellavano cogli ultimi gradini e le esalazioni di zolfo gli eccitavano la gola, indignato proruppe: — Tu vedi lo scompiglio, tu senti le preghiere dei tuoi, e le tue labbra rimangono immobili? La tua bocca di marmo parli, e questo nembo micidiale di Averno rientrerà negli abissi. E i pietosi incensi bruciati sul tuo altare. E le vittime sacrificate. E le offerte dei devoti tuoi. E il sacrificio della nostra castità..... sino alla rivolta della natura..... Dunque tra la tua statua e la faccia di Bathyllo, il pantomimo, non vi ha differenza?.... _Non movent divos preces?_ Tutto è mendacio, fuor che l’antro tenebroso da cui sorgono infuocate le pietre del Vesvio? Io incisi le mie scelleratezze sul falso e per tua colpa, o iddia. — Due orecchie umane, fatte di stucco, erano sui lati della nicchia, per dare ad intendere plasticamente alle turbe ignoranti e bietolone come le loro preci, mediante ricche offerte, fossero intese dai numi. Il prete ipocrita, levando gli occhi, vide quei simboli della credulità meridionale e di subito sdegno inalberò. Dato di piglio ad un sistro di bronzo, pose in bricioli un orecchio. Un fulmine solcò la spessa atmosfera e fece sgomento quel profanatore delle stesse cose di cui sino allora avea tratto profitto. I ricoverati nella sala postica corsero a salti in cucina; e siccome le soffitte delle stanze soprane erano cadute, si accoccolarono sulla scala che ad esse saliva. La mefite quivi gli colse e gli uccise di disperata agonia. Nymphiodoto riparò ansimante nella camera vicina al refettorio. Ma siccome dal tempio veniva un veemente ed insoffribile calore — con un fumo vibrato ed invisibile con tenue odore di zolfo, ma più di ammoniaca, di nitro e di vitriolo che affannava istantaneamente il respiro — egli cercò di chiuder l’uscio come meglio; e, presa una barra di ferro, si die’ a rompere la parete ch’era di mattoni e di spume vulcaniche. Quel disperato non avea scampo. Pria di porre il termine alla rottura, la mefite lo prese alla gola e lo stese cadavere come i compagni. Nel tempio di Giove pativa una quasi eguale offesa il flamine diale. Ultimo ad escire, perchè carico degli _ex-voto_ di oro e di argento, una delle colonne corintie del vestibolo scardinata dal tremuoto cadde e lo schiacciò sotto il suo peso. Quella incarnazione dell’orgoglio e della soperchieria veniva affranta a cagione del solo interesse avaro ed egoista che avealo inspirato nella vita. Sur uno dei piedistalli, a livello del _pulpitum_, dal lato opposto, la statua erasi spezzata e caduta al suolo. Una creatura vivente vi sedeva in suo luogo. Aveva le gambe penzoloni, il capo coperto dal _sagum_, per guarentirlo dalle pomici cadenti; e le braccia al petto. Al rumore della colonna, all’urlo soffocato del flamine, l’uomo innalzò il panno dagli occhi e si volse. — _Dehisce tellus. Recipe illum, dirum chaos!_ È giorno di grande giustizia cotesto. Tutti morti!... E chi meritava vita qui?... Quando nello Anfiteatro fui ferito sulla spalla da un colpo di gladio, quattro donne soltanto porsero la mano aperta e gridarono: _Non habet_. I miei occhi le fissarono e le loro soavi immagini mi si dipinsero nel cuore. Wodan le farà salve. Le Ondine sosterranno la nave che porterà lontano le loro lacrime per la terra dei ricordi perduta...... Lo abbietto gladiatore non vedrà più i nativi suoi boschi e la bionda razza che li abita..... Povero popolo di Herman!... Giù, Vesbius... inghiotti, straripa, incendia, ruina. Racchiuderai fango in un ampio sepolcro! Pesi la terra sull’empia stirpe latina che, mai sazia, ha assorbito le libertà del mondo. Oerda, Werdandi, Schott, Neva, le sorelle del Fato, stanno sul monte.... Io le sento... E mi vendicano. Ora, posso anch’io morire.... O foreste di pini! O Astara, che vi spiri dentro l’alito della primavera! O Freya, dea dello amore! O Wali ed Oller, miei buoni compagni nella infanzia! O Scada, mia madre! O Norna e Rinda, sorelle mie! Gefion prende commiato da voi e per sempre. — Questo Gefion era un germano della famiglia gladiatoria in Pompei. Preso da fanciullo tra i prigionieri di guerra, lo chiamarono Libero i suoi piacevoli consorti. Era stato otto volte vincitore nei ludi. Forte ed impavido, addestrato alla professione degli _artifices decollandi_, aveva risguardata la vita come cosa fuggevole, misteriosa ed incerta. Or le grazie della morte le conosce soltanto colui che passa i suoi giorni a contemplarla. Ed era divenuta l’amica dalle cui mani attendeva la sua libertà. In quell’ora di rivelazione inattesa, in cui tutti fuggivano il bacio delle sue labbra gelate, egli scelse invece il luogo dei suoi accoppiamenti con lei. Non avea più dinanzi Itatago Vale, od Anarto Viridea, od Apsoto Jutto, od Amonio Scava, o Sceunio Sitio, o Aptoneto Macula, od Epeo, o Sticho che gli avessero detto, _gladium gladio copulemus_. No. L’apparizione divina eragli venuta incontro nel Foro e gli aveva parlato al cuore le dolci parole: — Eccomi. Apparecchiati. Quello che cercavi e che ti adora, tra poco ti abbraccerà. — Il bisogno fatale di quell’anima assetata fu compiuto. Lo architrave dei tempio cadde, e il suo corpo divenne osceno cadavere. Il Vesbio continova le sue collere. E nel mezzo del fumo e nei lati dello stelo del pino serpeggiano saette che s’incrociano e scoppiano con orribile strepito. Quindi dallo infiammato monte sboccano fiamme in forma di travi e di grosse onde tempestose. E poi, guizzi come di artifiziati fuochi rapidamente scorrenti e senza scoppio. Ed altri che si allungano e pria di dileguarsi rintronano l’aere. Ed altri ancora che scendono al basso e radono il suolo e bruciano gli alberi e le case ed uccidono uomini ed animali che coi loro passi ricercano la vita omai minacciata per ogni dove. Cotesto avvenne alla misera Eutichia presso il postico della casa di Sallustio. Scorgendo come la infernale bufera non si arresti, per escir di quella agonia, dice ai tre schiavi — cui il timore riflessivo aveva impedito di seguire i compagni postisi in salvo insieme col padrone — di aiutarla a discendere dal muro e a scampare. Aveva chiuso nella sua _palla_, colla quale cuoprivasi il capo, e le spalle, uno _speculum_ di argento, tre anelli, alcune paia di orecchini, una collana di catene d’oro e cinque braccialetti dello stesso metallo. E serbava in una borsa trentadue monete e un suggello col nome suo. Scambiati pochi passi, mancava ai quattro infelici il respiro e cadevano morti. Contemporaneamente nella casa di Agatocles, ricco negoziante greco, abitante nel pago Augusto-Felice, un liberto ed una schiava erano nell’_æcus cyzicenes_, che interrompeva l’ambulatorio sotto il portico che circondava il grande xysto quadrato ed aveva lo sguardo sul maraviglioso cratere partenopeo. L’uno cacciava in fretta in una borsa di pelle ventitre monete di bronzo alla effigie di Galba. L’altra gittava in un paniere di vimini una moneta d’oro di Nerone, quarantatre denari di argento, quattro orecchini a spigo d’aglio ed una cornalina incisa. Nel correre fuori si sentirono opprimere il respiro, si appoggiarono alla parete e caddero. Nè diversa sorte aveva avuto l’altra schiava, corsa dispesatamente in fondo del portico a diritta ed entrata nel gabinetto di riposo che fa fronte al larario sulla opposta parte. Aveva un braccialetto di bronzo ed al dito lo anello d’argento del suo _contubernalis_. Misera! Non ebbe il tempo che di baciare quel caro pegno di fede e spirare. Ulissia — la moglie del padrone di quella casa — avea sperato salvarsi dal tremendo flagello, ricoverandosi nel crypto-portico, ch’era la _cella vinaria_, la quale contornava sotterraneamente lo xysto per la lunghezza dei tre portici soprani. Fra ciascun pilastro, a fior di terra, aprivansi spiragli dalla forma d’imbuti. Larghe provvisioni erano adunate in un canto ed atte a sicurare la esistenza per qualche giorni. Di anfore piene di vino ve ne aveva dovizia. Stimando il disastro passeggero come l’altro di sedici anni innanzi, Ulissia conducea seco giù per la scala la sua figlia Domna, gli altri bambini minori con dodici liberte. Giunte verso la metà della crypta, un vapore ardente e soffogante entra per gli spiragli da dentro. Un grido solo escì da quei petti affannosi. E tutti a precipitarsi verso la porta per la quale erano entrati. Troppo tardi. Un alito pestifero veniva pur dalla scala. Si fermano. Si aggruppano. Si stringono convulsivamente insieme, quasi chiedendosi l’un l’altro soccorso. E d’istinto, avendo compreso essere quello lo istante estremo della vita, ognuno si velò il capo colla veste in atto rassegnato e decente. Così furono rinvenuti quegli infelici diecisette secoli più tardi, allorchè si cominciò a strappare il funebre lenzuolo dal cadavere pompeiano. Sulle persone e per le terre erano gemme, monete, uno stupendo candelabro, i resti di un _mundus muliebris_, un pettine di legno, braccialetti d’oro, spilli ed anelli. La cenere fine del Vesbio, penetrando per gli spiragli, copriva quei morti addossatisi al muro. L’acqua impregnò di umidità e di sali quella cenere. La quale indurì cogli anni e conservò le parti molli fino a che i secoli queste ridussero in polvere. Lo ammasso delle ceneri, fattosi tufo e attaccatosi al muro, era divenuto nel 1763 la forma di tutte le cose vive che aveva racchiuso Ma i poco zelanti scavatori — uomini di stipendio, non di scienza — accoppiarono il cataclisma della ignoranza al cataclisma della natura. E ruppero bestialmente le ceneri indurate. E le posero in frantumi per estrarre di quel fango le gemme e i monili preziosi. E trasportarono nel Museo trionfalmente una collana di filograna d’oro, avente nel mezzo una piastra d’onde pendono catenelle terminate da foglie di vigna, un bel braccialetto formato da due corni di abbondanza, riuniti da una testa di leone, e due orecchini. Cotesti oggetti d’arte avevano più e più abbellito la bella persona di Domna, di cui la cenere conservò per secoli l’ovale del viso, la forma del seno, delle spalle e delle braccia; non che la stoffa leggera — di _ventus textilis_ o di _nebula_, come Petronio e Tibullo chiamarono quel tessuto dell’isola di Cos. — Collocarono infine entro una cassa di cristallo la forma di una mammella, il cranio e qualche osso e qualche pezzo di tessuto nella cenere tufacea. Agatocles dovette aver l’anima vendereccia in un cuor duro ed egoista. Non pensò alla famiglia quel mercante greco. Egli non cura che la sua vita e le proprie ricchezze. Laonde, seguendo la schiava che andò a morire nel gabinetto di riposo, volse a sinistra e si fermò dinanzi all’uscio del portico occidentale che aprivasi verso i campi ed il mare. Ma quivi lo attendeva Venere-Libitina, dalle dita affilate e forti. Le due chiavi dell’uscio gli caddero dalla mano, dove splendeva un anello formato da un serpe a due teste, un _amphisbene_. Provò uno stringimento alle fauci, la vista si oscurò, le gambe vacillarono e ruinò per le terre. Il liberto che avealo seguito, carico di vasi d’argento e di una grande quantità di monete imperiali e consolari chiuse in un sacco di tela, prosciolse anch’egli le membra e si distese sul pavimento. Una bella lanterna di bronzo rischiarò la breve loro agonia. Nove altri scheletri furono rinvenuti fuori della casa nella direzione del mare. Ed altri sopra un’aia non molto lungi dalla fine del subborgo. Forse erano anche i servi della famiglia di Agatocles. Perennio Nimpherois, il padrone del _thermopolium_ dinanzi la locanda di Albino — al quale Augusto avea conceduto quel luogo come _mansio_, cioè stazione di posta per aver subito le novelle di ciò che avveniva nelle provincie ed Albino medesimo con tre soldati, coi forestieri che aveva in casa, corsero affannosamente verso la porta vicina ad Herculanum, malgrado la pioggia di acqua bollente. Lo astato è nell’edicola, appoggiato al pilo e respirando a mala pena. Col gladio ha rotto il muro nel fondo per aver aria più pura. Uno dei soldati gli dice correndo: — Bithinico, salvati. Il mondo finisce. — Eh! Il mondo finisce. Ma l’Urbe rimane. — Passa una donna che ha un bambino lattante nelle braccia ed uno per la mano. Corre dissennata, urlando, fuori di sè. Si ferma, asciuga colle mani convulse il volto al figliuolo e lo bacia, lo ribacia e lo bacia ancora. Oh! le parole di conforto, dette cogli occhi, ma non espresse dal labbro! La sua vita è concentrata, è tutta là. — Il soldato s’impietosisce e dice: — Donna, ripara qui dentro, al sicuro. Riposata, partirai quando cesserà questa pioggia di Averno. — La mia vita non curo. — I figli! I figli! Oh! non me li uccidete, o dei spietati!... Tulliolo, non lamentare i tuoi piedini piagati. Altri pochi passi e sarem giunti. — _Miserere, mater._ — La gola mi si stringe. — Soccorrimi. — La infelice donna lo imbraccia in furia e corre, cogli occhi ch’escono dall’orbita. Corre a sbalzi. Corre. Giunta presso l’_ustrinum_, non può più ire innanzi. La mefite invadeva la strada. Aveva ucciso i fuggenti che la precedevano. Si assise sui lapilli. Appressò la bocca alle bocche dei suoi bambini..... Avevano vissuto! Bithinico non tardò molto a raggiungerli sulle rive di Lete. Nella casa di Vibio i servi partirono a precipizio dopo la fuga dei padroni, ognuno portando seco ciò che potette. Morirono qua e là nelle vie suburbane. Una donna greca, che la chiamavano Milphidippa per le sue lunghe ciglia, va presso il forziere di legno, guarnito di fasce di rame e di maschere di bronzo, lo apre e vede dentro quarantacinque nummi d’oro, cinque denari, un piccolo busto della Fortuna.... ma il respiro le manca.... sente sulle tempia lo stringimento di una tenaglia, corre nel vicino cubicolo, cade supina sul letto e muore. Danista è già sulla soglia del _posticum_. Avara per istinto, non ha perduto il suo tempo. Un aruspice le aveva predetto pochi dì innanzi che una grande fortuna attendevala. — Egli mi disse: «Escirai grave da una piccola porta ed entrerai in una maestosa con seguito di molta gente.» Convien prepararsi. — E girando per le stanze vuote di abitatori, cacciò in un sacco di tela ciò che trovava, cinque anelli d’oro, cinque pietre incise, molte monete di argento e di bronzo, la _bombilia_ di cristallo di roccia che Melissæa avea dato allo sposo il giorno in cui egli le die’ la sua fede, e due orecchini in forma di bilancia. Va per escire col piede diritto, il sinistro essendo di cattivo augurio. E la Parca si rammenta in quello istante di lei ed appressa le forbice allo stame della sua vita. Si appoggia illanguidita alla spalletta dell’usciolo. Le gambe flettono. Il lume degli occhi si oscura e sviene. Nel 1829 gli scavatori trovarono dispersi attorno al suo scheletro gli oggetti della ghiotta vanità che occuparono gli ultimi istanti di quella misera schiava. E la pioggia continova sempre ruinosa e scottante. Nella estremità della viuzza dei _Dii majorum gentium_ che il poeta Ennio racchiuse, nominandoli, in due versi, _Iuno, Vesta, Ceres, Diana, Minerva, Venus, Mars,_ _Mercurius, Jovi, Neptunus, Volcanus, Apollo,_ colà, dove presso la fontana del Vitello si andava allo _Ecatonstylon_ e ai teatri, odonsi gridi, singhiozzi e parole imperiose. Nella casa è un correre, un disordine, una confusione grande. Alcune donne coi bambini sono in fondo al vastissimo giardino e s’inginocchiano, piangono sotto la volta del _lararium_, sostenuta da due colonne di stucco. Un’altra donna bellissima si è riparata in una stanzuccia presso il tablino, illuminata da una lampada posta in una nicchia di marmo bianco. Il suolo traballa. Sembra si sollevi e ricada. — Jucunda corre ad una larga finestra che dava nel giardino. Ma lo sportello è chiuso e nell’orgasmo da cui è presa non le riesce di aprirla. Allora si volge affannosa ad un occhio di marmo bianco che è a lato sull’angolo. Con un pugno ne rompe disperatamente il vetro e grida con quanta voce lo spavento pur le risparmia: — Suilimea! Hilaria! Mima! Sema! E tu, Thalamo!... Qua i miei bambini! A me! A me!... Ah! gli dei son pure spietati! L’atrio corintio, sostenuto da pilastri adorni da elegante meandri, e posante sur un _pluteus_ di appoggio, è crollato a metà sulle pomici piovute. Nel pericolo della vita, essa esce coi capelli disciolti e colla _palla_ trascinata. Muove verso il giardino. Tra la fitta oscurità urta, cade sui lapilli, si solleva furiosa, chiama i figli per nome, gli afferra convulsa, prende nelle braccia il piccolo Licinio e per la mano Animula. — Iphygenia e Nymphio, coperti da Calepio e da Euporo, la seguono. — L. Saginio Valga ha in fretta adunato nella toga una quantità di nummi di oro, di anelli, di orecchini, di perle, di cucchiai d’argento con altri oggetti preziosi. Vien loro incontro e grida che è tempo di salvarsi. Salgono nella casa addetta ai forestieri — ogni ricco pompeiano ne aveva una attigua, comunicante, da ciò. — Saginio fa sforzi rabbiosi per aprir l’uscio dal quale si scende nella strada che mena colla rivolta al Foro, presso il fonte della Gorgone. Urta, spinge e l’apre. Ma nell’atto, un pezzo di muro crolla e ruina sopra Euporo e Calepio, i quali vengono schiacciati sul _sigma_, triclinio semicircolare di estate, ch’era nel mezzo dell’atrio. La madre si volge, gitta un urlo straziante, mira i nati dalle sue viscere sepolti sotto le macerie e sviene. — Sema e Thalamo fuggono verso il Foro, spinti dal desio della vita. — Il marito raccoglie di peso la moglie fuori dei sensi e collo aiuto di Mima, di Hilaria e di Suilimea trae i dolci pegni dello amor suo verso l’abitazione deserta di povera gente ch’era di contro. Sotto la cucina aprivasi un sotterraneo con un pozzo profondo. Un largo _clathrus_ abbarrato da steli incrociati di ferro, all’altezza del petto dava luce all’antrone dal margine soprastante. Colà riposarono gl’infelici. — Si abbracciavano. Si chiamavano a nome disperatamente. E baciavano piangendo i due bambini ancor vivi, pallidi, esterrefatti. Miseri!...... Anche pochi istanti.... e raggiunsero Nymphio ed Iphygenia sulla via dolorosa che quelli prima avevano percorso. Intanto da una casa presso le mura scendono correndo per la via dalla fontana di Mercurio cinque persone. Thylliano Januario sorregge nei passi incerti Sogellia Fausta che, dentro impietrita, non piange, non grida, e si fa guidare come inerte cosa. Gallione e Stallio camminano innanzi colle faci accese. Gli segue Philonio Casto, il fratello di lei. Giunti in faccia alla _popina_, quelli che precedono sono arrestati da due cavalli e da un mulo, esciti alla impazzata dai _carceres_, forse poco lungi di là. Gli animali attratti dal lume s’imbrogliano con essi. Ad evitarli, entrano in una piccola abitazione contigua alla taverna. Si rannicchiano in una camera vuota ed attendono che il flagello mai sospettato finisca. Ma le soffitte delle stanze, sopracariche di basalti e di pomici, si piegano e cadono. Thylliano si curva in arco sulla moglie diletta per salvarla dalle offese dei sassi. Nella fuga aveva raccolto braccialetti, anelli d’oro e monete di diversi metalli. E gl’infelici tutto perdettero insiem colla vita. Poco discosto, nella via che in quei giorni selciavasi sotto le mura, un uomo e un cavallo avevano trovato rifugio in un largo stanzone. L’uomo erasi provveduto di pane. La terra si scuote. I muri si fendono. Un pezzo perde lo equilibrio e si rovescia sopra quell’infelice. Cavallo e cavaliere, sepolti dalle macerie. In una casa presso il Foro — poco lungi dalla scuola ove il successore di Verna pubblicamente istruiva i fanciulli di ambedue i sessi — si ode un fracasso di tetti e di mura che cadono. Le macerie impediscono la via della uscita. Il fuoco si è appigliato alle travi nella cucina e i turbini del fumo rotondeggiano nell’aria. Le case allo intorno ruinano del pari. — Una donna, scampata già, corre verso le Curie disperatamente ed accenna coi passi al porto vicino. — Dentro è rimasto un uomo più che quarantenne. I suoi pensieri erano elevati. I suoi sentimenti generosi. Dentro il suo cranio volgevasi uno strano dramma che lo faceva serio, grave, pensoso. Il mistero ei lo vedeva per tutto, sugli occhi della donna, sui rami fronzuti degli alberi, sui riflessi delle acque, sulle stelle scintillanti, sulle molecole che formano i macigni. E giammai aveva potuto assidersi lungo la sponda del mare senza sentir nel profondo uno incanto che lo attirava e lo riteneva forzatamente a contemplare il succedersi dei marosi che spumavano all’urto e si spandevano in laminette e in meandri bianchi, ricamati sullo azzurro. Non fu mai lo sperato, nè il marito di una donna. Non aveva parenti. Non liberti nè schiavi. Una sola donna — quella cui lo spavento avea posto ai piedi le ali — gli forniva i sobri alimenti che Pythagora, lo illustre filosofo di Croton, aveva prescritto coi saggi consigli e coll’uso. Crasso Frugi era in piedi presso un trapezoide nel _cavædium_ e con una mano si velava la fronte. L’altra la posava sul marmo ov’erano sparsi venzette nummi d’oro, cinquantuno denari e due maniglie d’oro di femminile ornamento. Ai suoi piedi è una giovanetta vestita di bianco. Era quella la sola creatura che con lui vivesse in una certa dimestichezza e con ricambio di affetti. Avevala un dì raccattata fanciulla e piangente sulla soglia di una stanza isolata, nella via di Dafne — lurido albergo di prezzolati amori — entro cui era distesa sur un letto di muro una povera donna morta.... Era la figliuola di quella estinta? Lo aveva supposto; ma non mai domandato. Vasto lo edificio ch’egli abitava, di fresco ricostruito e con bei musaici signini. Solo in tanto fastigio? Gli è che sin dalla prima età erasi palesemente ammogliato con una divina che chiede grande spazio a chi l’ama e con lei si congiunge. I poeti la chiamano fantasia. I filosofi, idea. Gl’imbecilli, follia. Ed io, la saviezza della mente e del cuore. Era la scienza della giustizia, della verità, della luce. La fanciulla raccolta erasi fatta col prendere persona l’armonia della sua vita e irradiava sopra di lui uno splendore particolare. I di lei occhi neri, aprendo sotto fini ed eleganti sopracigli le loro arcane profondità, erano pieni di quello incanto che sgorga dallo sguardo umido della donna. L’avevano chiamata Sapho nascendo.... Eh!... Pari alla donna illustre così nomata aveva nel cuore tracce di amaritudini e di dolori in germe che la sua mente scrutatrice non sapeva deciferare. La sua origine scrupolosamente celata era rimasta un’enimma. — Cosa è lo universo?... L’ordine. Cosa la morte?... La eguaglianza. Uniti nel mondo da un sentimento purissimo, punto egoista, quello dell’amicizia, come un solo essere ci presenteremo alla Divinità... Sapho... creatura innocente offertami dal cuore sui miei passi vaganti, noi dormiremo insieme in questo sepolcro che il Vesbio ricolma colle sue pomici. La giovanetta sollevò gli sguardi paurosi e pur soavi sull’uomo tutto di bianco vestito, che a lei parlava come in un’estasi; gli afferrò la mano che allor pendeva lungo la tunica e febbrilmente la baciò. E la desolata a lui: — Oh! Gli Dei!... Pietosi, perchè non mi lasciano morir sola!... Ma il nostro avello non sarà guarnito di foglie di mirto, di ulivo e di pioppo, come Pythagora, il taumaturgo, il divino, prescrive. — Rari gli uomini! il loro numero appena eguale a quello delle porte di Thebes, o delle bocche del fiume che feconda l’Egitto. Qui crescevano uomini non più utili al mondo, e gli Dei affogano gli animali dai quali ricevevano offesa. In verità, i giorni furono contati e l’ora fatale appressa. Apparecchiamoci da forti all’ultimo istante. — Sei tu che lo dici, o padre. Son pronta. — Lo dico e lo sento. Rientriamo in noi stessi e rimproveriamoci i falli di commessione e di ommessione. E cantiamo tacitamente un inno in onor degli Dei..... Nè lacrime, nè singhiozzi nella sventura! — Sì, nè tema, nè debolezza nel supremo pericolo. Come i discepoli di lui perirono in Croton, noi pure saremo divorati dalle fiamme medesime.... Ma... la mia gioventù è grande, o padre! — Sorgi, diletta figliuola del cuore. Prendi forza a ben morire dal calor del mio sangue.... Le leggi della vita sono violate... Il bacio estremo.... e il segno che ci distingue e ci unisce... E l’una nelle braccia dell’altro, tenendosi per la mano, entrarono nel sonno eterno. Ed il Vesbio coi suoi candidi lapilli compose il sudario sui loro cadaveri. Pythagora avea concepito un grande disegno — quello di una vasta congrega di uomini, esistente sempre, e sempre depositaria di scienze e di costumi, la quale sarebbe l’organo di verità e di virtù, quando la umanità fosse in istato di sentir l’una e di comprendere l’altra. Gli urli disperati avvicendano il mugghio ripetuto della natura che freme. Quelli che ripararono nei primi piani e non furono macellati dalle pietre, dalle travi e dalle tegole cadute, nè arsi dal fuoco, nè schiacciati dalle soffitte, nè asfissiati dalle mefite, corrono nella oscurità per ogni verso. Una fanciulla piange, si dispera, scambia i passi, si arresta, non sa dove dirigersi. Viene dalla via di Stabia. Quivi perdette di vista la sua fuggente famiglia. Entra nell’atrio di Cornelio Rufo. La casa arde. Il ferro si torceva masticato dalle fiamme. Sprofonda il tetto. Essa si salva. La Palestra nelle Terme è chiusa. Le botteghe più in su sono chiuse. Urta nella fontana dalla testa di Pallade. Avanza ancora e trova un uscio aperto. La casa era in riparazione. Mura squallide e non dipinte. In fondo i lampi frequenti le mostrano uno xysto. A manca è un _aecus_ che i _tignarii_ avevano poche ore fa disertato. Solida è la volta. La misera fanciulla si asside sur un mucchio di sabbia e piange lacrime dirotte. — I fulmini di Giove si spengono nel nostro sangue. _Heu me!_ La città in fiamme. Il popolo che spira sotto i rottami e nel fuoco. E i miei cari?... Morti!... Ed io sola qui! Che sarà di me! Venere aiutami. Oh! La iddia a me soccorre.... Polla ti raggiunge, o Siliginio, se pure anche tu sei tra gli estinti. Ah!... — La misera era caduta distesa sulla sabbia col capo penzolone, riverso. Aveva le mani incrociate e parea che dormisse. Forse la morte le fu propizia. Che avrebbe fatto nel mondo, povera e sola? Nata da gente _lare incerto_; la quale, obbligata a prendere in fitto le camerucce che abitava, tenuta nella categoria — che, pur numerosa era e dispregiata — degl’_inquilini_ e vivente giorno per giorno e di pensieri vagabondi e mal fidi, unico sollievo per Polla era la vita del cuore. Grazie alle illusioni dei primi affetti, Siliginio, fullone, era per lei, tredicenne, quella tenerezza senza limite con cui essa desiderava essere amata. Sotto un albero di ulivo ei le rivelò il suo pensiero. Ed essa sentì come un filtro soave le addolcisse il sangue e le invadesse la ragione. Uniti, popolavano una solitudine, ove i loro occhi vedevano sorgere di terra fiori incantevoli e profumati.... Povere anime, pure, tranquille, serene, divine nelle loro speranze! Povere anime, dove ne andaste?... E la pioggia cadeva ruinosa e bollente. Un uomo pareva non la curasse. Discesi dalle _hibernacula_, camere poste al di sopra del forno, dove il misero aveva per sette mesi lavorato _præferratus ad molas_, esciva dal _pistrinum_ della via che menava alla porta di Nola, nudo, trascinante una catena col piede sinistro e coi capelli rasi da un solo lato. Nè grande, nè piccolo; quantunque la mobilità della persona impedisse di definirlo. I suoi pensieri ondulavano. E così egli ondulava. Brandiva colla destra un tridente insanguinato e tratto tratto lo piegava per terra e lo pigiava, lo pigiava ancora cogli occhi stralunati e feroci. Quindi, ridendo sgangheratamente, procedeva innanzi. Incurante le scottature della dermide, si fermò, si drizzò sulla punta dei piedi come per seguire il volo della sua povera mente e poi pianse a dirotto. — Gylo! Misero. Sei vendicato! Ma Nea è morta.... Lo infame Numisio mi schiantò il cuore dal petto rubandola ai miei amplessi. O mio sospiro! Avevi un termopolio nel cuore.... Ma l’ho cacciato ben io nel _pistrinum usque ad necem_ e l’ho strigliato d’importanza con questa _scutica de pene taurino_.... La sua donna, Eitixia, voleva difenderlo. Dovetti persuadere anche lei. E se mai li libererò dal penoso lavoro, _ego pro eis molam_!... O Nea! Ora ch’essi girano le macine, tu sei libera e infiorerai la mia vita di polline. Eccola...: Viene.... Ha i capelli annodati in spessi ricci che le coronano il capo leggiadro. Oh! i grandi occhi neri.... quasi dardi spuntati dalla mansuetudine dell’anima sua!... La terra balla. Ballano le case. — Il Vesbio fa boati ed illumina con faci la mia festa nuziale. Gli amici — quelli che soffrirono finqui — verranno a posare il gomito nel mio triclinio. Ah! Sono innanzi la mia magione. ...... Entriamo! — Ed il misero penetrò in una bottega della via Jovia e cadde rifinito sulle pomici che la ingombravano. Era rosso, tumefatto, scottato dal capo ai piedi. — Nel respiro affannoso borbottava male articolate parole e tra esse spesso mentovava Nea, il farnetico della sua mente smarrita, l’unico lume di quel povero cuore.... Ecco, ei ride, dà in un tremito convulso, si rotola sulla china che avevano formato i lapilli, e le ondate di pioggia lo spingono, lo affogano, lo stracciano e lo cuoprono. Gli uomini erano stati crudeli con Gylo. La natura pietosa spense il tarlo della memoria che a lento morso rodeva la sua ragione fuorviata e malsana. La famiglia gladiatoria non fugge. Nel momento del flagello inatteso molti erano nel vasto parallelogrammo, specie di chiostro circondato da portici, sostenuti da ventidue colonne in un senso e da diecisette nell’altro. Facevano gli esercizi nell’area. Il lanista nel mezzo. Gli allievi, dirozzati dai più provetti, _doctores tyronum_, armati di una spada di legno, si schermivano vivamente contro piuoli profondati sul terreno. La _gladiatoria sagina_ bolliva nel vasto caldaio per rendere con quel cibo sostanzioso più forti e più sanguigni quei poveri giovani. Le armi sono chiuse nel piano superiore e le chiavi le tengono i magistrati. I littori sono di guardia per tenere nell’obbedienza quella gente degradata che spende il suo coraggio avvilito al trastullo del popolo, e — passata la fuggevole ebbrezza — a molto mal loro grado. Seneca narra come un condannato a quel brutto mestiere, privo ancor d’armi e pur bramando meglio morire che discendere nell’arena, si cacciasse un bastone nella gola sino ad esserne soffocato. Così salvava l’onore. Sessantatrè ripararono dalla grandine infuocata nelle camere soprane. E quivi morirono. Quattro erano nella prigione a terreno, cui nessuno pensò ad aiutare. I loro piedi, chiusi nei ceppi di ferro, gli obbligava di stare assisi sulla nuda terra, o supini. Destino terribile e ben più triste che la morte dello anfiteatro. Nella parte commerciale della casa di Pansa — il cittadino illustre incaricato da Vespasiano a presiedere ai pubblici ludi ed a far rispettata la legge Petronia, impedire cioè ai cavalieri ed ai senatori di degradarsi nell’arena, o di farvi discendere di arbitrio schiavi non condannati da un formale giudizio — infamia posta in uso da Giulio Cesare nel 708 di Roma, epoca del suo quadruplo trionfo e continuata più tardi nei funerali della sua figliuola — in quella parte che aprivasi sulla via Domizia e nel chiassuolo dinanzi la osteria di Fortunata, era un _pistrinum_ colla bottega di spaccio e colle camere addette all’abitazione del _siliginarius_. Quivi un liberto facea macinare il grano del padrone, impastare la _siligo_ e cuocere il pane. Egli, il _pistor_, ne dava conto al _dispensator_, specie di tesoriere contabile che registrava in alcuni libri, detti _ephemerides_ le entrate e le spese, minorando la cifra delle prime ed accrescendo quella delle seconde; rispettando però la _merces insularis_, perchè quel prodotto degli affitti delle case potea agevolmente rivelare il larcinio. Cuspio Tubero, liberto di Pansa, aveva sulla parete della bottega, ove vendeva le varietà del pane e della farina, una pittura che rappresentava il serpente simbolico — la divinità custode contro il mal occhio — e sotto, un mattone sul quale ardeva sempre la lampada. Di contro al serpe sporgeva dallo intonaco una croce nera, il segno riverito dai nuovi affrancatori dello spirito umano, perchè su quella forca dei ladri e degli schiavi era stato inchiodato il Galileo, apostolo della redenzione, rivelatore del grande secreto, di quella parola che è suprema e definitiva iniziazione umana e consolatrice delle anime oppresse. Nel forno, i miseri schiavi incensavano ad altro simbolo dei materiali godimenti. Era una immagine phallica, in rilievo, colorata in rosso e sotto vi avevano scritto la leggenda — _Hic habitat felicitas_ — Stranezze dei tempi! Gl’idolatri erano fuggiti. La superstizione — cioè, il vuoto — avea messo le ali ai piedi di tutti. Nello istante del pericolo il culto religioso diveniva dannosa ipocrisia, di cui ognun si affrancava. Grato Arrio, Messio Inventus, Menophilo Ancario, L. Celio Doripo, Hyalisso Eppio Primo, Amphio Serapa, Agatho, Perennio Merulino, N. Paccio Chilo, Quinto Pompeo, sacerdoti di Giove, di Venere, di Mercurio, di Esculapio, di Cerere, di Quirino, di Giunone, erano fuggiti dalle botteghe oscene dei loro mendacii profanatori. Il monte ardeva. La terra traballava commossa. Il mare ritiravasi dalle sponde. Il sole non luceva più. E i mercanti di una fede ipocrita e ladra, i quali avevano la impudenza per principio, il sangue e le lacrime per mezzo, i godimenti e l’alterigia per fine, disertarono gli altari pericolosi, portando con sè i preziosi redditi che le coscienze sedotte avevano cumulato nei templi. Ma, non uno potè riparare in loco sicuro. Quale per via fu derubato ed ucciso; quale ebbe il cranio infranto; quale fu sepolto per metà dai lapilli che lo scottavano, e nessuno volle arrestarsi per aiutarlo ad escir dalle pomici che il propaginavano. Quale fu garrito con disumano dileggio: — Chiama i tuoi numi, o _scelerum artifex_, che vengano ad aiutarti. O che? Sono muti o sordi per te? — Ed un altro: — Chiama la donna che tu mi hai profanata, non me. Ora soffri la sete di Tantalo, gli sforzi rabbiosi di Sisipho, e la ruota d’Issione. — Ed un altro, — Ti baciai una volta la mano sanguinosa, o impudico. Espia ora i tuoi falli, o furfante, ministro di Giove, parricida ed infame. — E la pioggia cadeva ruinosa e bollente. Così morirono tutti nel penoso viaggio che lo istinto della conservazione loro imponeva Ma Tubero non si mosse per escire. Chiuse colle tavole sovrapposte la bottega, accese la lampada e si prostrò dinanzi la croce. Potea farlo senza pericolo, senza sospetto, senza taccia di ridicolo in quell’ora estrema. Quel segno, conforto segreto del suo cuore, non diceva alla mente misteriosi ed impossibili natali, spropositi aritmetici, resurrezioni favolose, abbrutimento della umanità, signoria di arbitrio sulle cose del mondo. Quel simbolo della croce parlava una grande parola alle anime offese viventi e nasciture nei secoli. — Bevvi il sangue rappreso di un giusto. Sentii le scosse convulse dei suoi tendini lacerati. Udii l’ultimo grido del suo gran cuore: _Eli, Eli, lamma sabacthani!_ Maledissi alle zolle che alimentarono le mie radici. — Non era adunque un pugno di cemento allineato sulla parete. Era il ricordo delle torture patite dall’uomo che in nome del Dio unico aveva annunciato ai popoli la Libertà, l’aveva professata colla voce e cogli atti, e colle gocciole escite dalle sue vene avea scritto: «Io muoio per tutti. E questo sangue sia lavacro alle umane stirpi sino alla consumazione del tempo.» Tubero levò il capo raumiliato e pieno di lacrime. Aveva recitato un inno senza dir verbo. Aveva adorato Dio senza idolatria. Aveva intraveduto lo infinito, la potenza arcana da cui dipendiamo. E quel fiore della fede esciva odoroso dalle ruine di una città, siccome più tardi avrebbe germogliato sulle ruine di un mondo panteista, che anche una volta deve morire e — giovi sperarlo — per sempre. Pochi istanti dipoi, e la mefite penetrò colà dentro. Uno sguardo d’ineffabile melanconia. Un sorriso di trionfante fiducia... Tubero era morto.... E al di fuori la pioggia cadeva ruinosa e bollente. Alla fine ristette. Dopo alcune ore di tremenda agonia e d’indicibili strazi il funesto fenomeno si tranquillò, si tacque. La terra non oscillava. Il Vesvio più non fremeva. Calma, silenzio e tenebre. Allora i riparati nelle parti più alte delle case escirono dalle crepacciate mura e dai tetti infranti ed aperti. E gittatisi sullo strato dei lapilli che alzavasi per parecchie braccia sul selciato, cominciarono a correre a precipizio verso le porte colla speranza di salvarsi a Nuceria od a Stabia, o verso la piaggia marina. Ma, molti infelici rimasero per via fracassati dalle pietre fuor di equilibrio che cadevano loro addosso, od asfissiati dalla mefite che sprigionavasi dal suolo fumante. Nella via di Dafne, un uomo alto della persona è già in piedi. Stende le braccia e vi accoglie la sua figliuola undicenne. La depone sulle pomici inzuppate e livellate dalle acque e leva di nuovo le mani per aiutare la moglie a discendere. Si cuoprono il capo, si avvolgono il manto attorno il braccio sinistro ed il corpo per essere più liberi nella corsa. L’uomo raccoglie una borsa di pelle ove avea chiuso un po’ di danaro, un anello e gli orecchini d’oro, dà un bacio sulla fronte scolorata della figliuola, chiamandola, — _Salve, o dulce pignus._ — e s’incammina. Era in su i cinquant’anni. Grossi baffi ombreggiavano il suo labbro superiore. I _femoralia_ cuoprivangli le cosce e le gambe. Aveva nel mignolo della destra lo anello di ferro delle sue nozze. Sotto i sandali allacciati erano chiodi per fare la _solea_ più forte. Quel suo piglio risoluto e marziale lo fa supporre uno dei veterani coloni, venuto dal Pago Felice al mercato colla sua famigliuola. Anche la moglie ha un anello di ferro. Scambiano pochi passi. Avanzano sulla crocevia e cadono. L’uomo, supino. Le donne, a quattro braccia di distanza, incrociando le gambe insieme e a traverso della strada. La madre solleva una mano increspata dall’agonia e si sdraia sul fianco destro. La figliuola cade a sinistra ed appoggia mollemente il capo sulle due mani ed alza la gamba ed il piede nell’ultimo moto dei tendini. Più in giù, verso le Terme una matrona cammina arditamente. Anch’essa forse si gittò da un tetto sulla via. Aveva chiuso in un manto due vasi di argento, alcune chiavi, novantuno monete, orecchini, fibule ed altre minute cose. La mefite a lei tolse il respiro e cadde sul gomito sinistro col capo appoggiato a diritta e colle gambe e le braccia contratte dall’agonia. Orribili sofferenze le sue! Siccome un liquido che bolle entro un caldaio pel soverchio del calore sollevasi rigoglioso verso gli orli, e gl’invade, e gl’innonda, e gli supera; così una infuocata materia cominciò a rifluire da tutte le parti del Vesvio e rovesciò ruinosamente sulle sue spalle, pari a larga fiumana. Frequenti baleni con terribili detonazioni squarciavano le fitte tenebre. Ed un nembo di cenere cominciò a cader sullo spazio. E sopra il golfo correva verso Capreas un nuvolo denso per entro il quale vedeasi tratto tratto una gran fiamma in tutta la sua lunghezza. La quale, ora chiarissima, ora rossa di sangue, lanciava fuori fiammelle in varie lingue e figure, ondeggiando, balenando, tuonando, e vibrando fulmini al cielo. Succede una terribile scossa. La terra si fende. E da quello squarcio escono fiamme e fumo. E l’orlo si allarga, s’innalza, si colma e prorompe. In alcune parti putrido fango esce dal suolo aperto. E le ceneri piovono fitte, oscure, impalpabili e continove. Nella notte, in due tremendi scrosci parve che il globo crollasse dalle sue basi. Era il Vesvio che scompariva tra i fulmini e il grandinar dei macigni; e alle falde del vecchio monte spaccato ed inghiottito sorgeva in poco tempo una nuova fucina di sassi, di pomici e di lava che ricostruivano il Vesuvio ardente dove ora si trova. E il gorgoglio cupo, continovo, profondo commoveva in tempesta le acque del cratere partenopeo. Allorchè scoppiò la grande eruzione ed il fumo assunse la forma di un pino colossale sull’orizzonte, Plinio, che comandava la flotta romana in Miseno, giaceva nel letto e studiava. Avvertitone dalla sorella e dal nipote, si levò e salì sur un terrazzo elevato per osservar meglio il prodigio. Dotto uomo, curò esaminar da vicino la strana catastrofe. Una nave leggera è già pronta. Esce di casa colle tavolette nelle mani, s’imbarca, quando i _classiarii_, cioè i soldati della flotta che erano in Retina, vengono a pregarlo gli salvi dal grande pericolo. Ciò che prima era in lui curiosità di scienziato, divenne dovere di capitano. Fa che le quadriremi si apprestino e parte verso tutti i borghi della costa onde dar loro soccorso. Nello accostarsi a Pompei — ove il pericolo gli parve maggiore — le ceneri calde erano più spesse. Il mare rifluiva dalle sponde le quali erano inaccessibili pei pezzi interi di montagna di cui erano coperte. Il piloto il consigliava di tornare indietro. Cui Plinio rispose, — _Fortes fortuna juvat. Pomponianum pete._ — Or questo Pomponiano era il comandante delle triremi che stanziavano in Stabia. E forte impaurito del cataclisma, avea fatto trasportare i suoi mobili sulle navi ed attendeva un vento meno contrario per levare le ancore. Plinio lo accosta, lo abbracciagli fa cuore. E per me’ riescire allo scopo, ordina gli apparecchino un bagno. E presolo, cena colle apparenze della gaiezza abituale. I fuochi del monte illuminavano il triclinio. Gli astanti tremavano, credendo al finimondo. — Rassicuratevi, amici. Quelle grandi fiamme vengono dalle amene ville che disertate dagli abitatori bruciano, perchè senza soccorso. — Quindi si sdraia sul letto e dorme un sonno profondo. Ma, finalmente la corte che dava accesso alla sua camera si empie sì fattamente di cenere e di pomici che gli avrebbero vietato la uscita se più avesse tardato. Lo destano. Esce. E raggiunge Pomponiano e gli altri che aveano vegliato. Tengono consiglio. Le frequenti scosse del suolo scardinavano la casa dalle fondamenta. Fuori, la pioggia dei sassi, quantunque leggeri e disseccati dal fuoco, era a temersi. Bilanciati i due pericoli, fu deciso di rimanere nella rasa campagna. Tutti escono dalla casa. Cuoprono il capo di guanciali, tenuti fermi sul mento con legami. Albeggiava. Ma, nel posto ov’erano continuava la notte profonda e la più scura di tutte le notti, schiarata solo da un gran numero di fiaccole e da altri lumi. Si stimò prudente lo accostarsi alla riva per esaminare da presso il mare. Le onde erano furiose ed agitate dal vento contrario. Plinio chiese dell’acqua e bevve due volte. Fece distendere un tappeto per terra e vi si assise. Le fiamme si accrebbero. E l’odore di zolfo, annunciando il loro avvicinarsi, fece che tutti se la dessero a gambe. L’uomo dotto avrebbe voluto studiare quello sconvolgimento della natura. Non lo potè fare. Ordinò a due servi il sollevassero; chè, obeso era di corpo ed asmatico. Ricambia qualche passi. Ma, non può correre. Gli esorta dunque a partire e salvarsi. Egli si curva e muore. Una nube di zolfo circondandolo, lo avea soffocato. E la cenere copiosa, sottile ed oscura cadeva sempre. Molti pompeiani si erano salvati dirigendo i passi in sul primo scoppiar del flagello verso il porto e le sue adiacenze. Quando le acque assorbite dalla forza dell’igne che saliva dal centro della terra prosciugarono le sponde, ed il mare rifluì impetuosamente lontano, le triremi e le piccole barche si curvarono sui fianchi nell’arena. Ognuno incoraggiato dall’altro corse sul canale a piede asciutto e come meglio potè, si cacciò sulle navi. Oh! la confusione di quello istante! L’uomo nei grandi pericoli è egoista. Vi furono padri che disputarono ai figli la corda per salir su! Vi furono madri coi lattanti sul braccio che niegarono aiuto ai più adulti per salvare l’ultimo nato dalle loro viscere! E vecchi cadenti rifiutati! E amanti sbracciarsi per far salva la idoleggiata dal loro cuore colla perdita dei propri parenti! E donne stendere un remo e tirar su con forza non pria creduta lo eroe dei cari entusiasmi, il sorriso delle gioie più intime! A ciascuno pareva di avere innanzi a sè alcuni secoli a vivere e ne accaparrava le delizie ed i redditi. Eh!... Dei secoli avevano sulla persona e sulle vesti la polvere che in forma di sottilissima cenere pioveva, pioveva sempre! Ecco il mare respinto che torna impetuosamente nei suoi dominii. I marosi urtano, spingono tutto che trovano sulla loro via, uomini e cose. La folla ancor sul canale annega e si straccia sotto le carene irrompenti. Alcune barche si sfasciano. E le onde feroci nel loro riflusso trascinano confusamente la facile preda. — La ferocia del mare è una verità! È la passione alle prese colle sue vittime. Vedi montagne mobili e colline di acqua che si urtano insieme e si spezzano con alto fracasso. Ora i cavalloni spumosi e fosforeggianti levavano i triremi, i rottami e i cadaveri sull’erta di un’Alpe. Ora scaraventavano tutto per la china nella valle profonda. Ora nello ascendere accadeva uno scontro; e tra gli spruzzi e le ondate sonore, il misero schifo affondava nello abisso e la più grossa nave trovava la via dello scampo. E dentro?... Oh! Dentro poi, musica e agrume di vomiti, membra infrante ed uomini balzati nelle onde, grida di marinai e pianti miaulati di donne, sordi urli del vento, muggiti, fischi, spettacolo di morte! Alcuni che si avviavano al porto, alla vista di quello esterminio rischiarato dalle grandi fiamme del monte, se ne ritrassero impauriti e corsero a salvarsi sulla collina ove si costruiva un tempio dedicato ad Augusto. Il vecchio Svedio era nel numero. I servi, i clienti, gli adulatori nello istante del supremo pericolo lo avevano lasciato solo. Adiposo e grave, aiutato da qualche passante superò gli ostacoli sulla larga via delle fontane di Pallade e dell’Abbondanza. Riprese fiato sotto la volta della porta della Marina. E poi, in su cogli altri. Pensava fra sè che i suoi giorni erano contati e che ben presto il suo cuore cesserebbe di tormentarlo. Si assise dietro un muro sul capitello di una colonna ed attese i decreti del Fato. Corsi alcuni momenti, gli accenti desolati di una fanciulla lo volsero alla parte d’onde venivano. La chiamò e la invitò a sedergli accanto. — O chiunque tu sia, ho paura.... Tieni, dammi la promessa di non farmi morir sola. I miei, morti, o salvati. Era con essi.... e disparvero. — E piangeva e singhiozzava disperatamente. — Infelice! Non morrai. Dove io andrò, e tu verrai, o misera. — Ma nell’Erebo no, sai? I miei genitori dicevano che colà vi è qualche cosa migliore della vita. Ma... in questo istante supremo in cui lo spirito trionfa, il sangue mi dice di non andare, la gioventù mi ritiene.... la partenza dal mondo mi sembra sinistra.... E poi colà abitano i numi.... crudeli... spietati. — Gli dei ti ascoltano ed avranno pietà di una innocente. Io ebbi aspirazioni diverse da quelle che or provo. Ora io desidero semplicemente, sinceramente di vivere per aiutarti. Cessa dal piangere i tuoi. Tu diverrai la mia figliuola, la consolazione del vecchio Svedio nell’Urbe, se.... Uno scroscio immenso gli troncò le affettuose parole sul labbro. La bambina si chiuse nelle sue braccia e mormorò sull’ampio suo petto: — Ecco, ecco la morte.... colla sua falce assetata!.... O madre mia! — Quei che t’amano.... o che ti amarono ti raggiungeranno.... o ci accoglieranno negli Elisi. — Un’onda di cenere li circondò, li coprì, li tolse dallo sguardo dei fulmini che solcavano l’aria. E il dialogo di due cuori, l’uno sconosciuto e l’altro illustre, fu rotto per sempre. Poco discosto dal gran giustiziero avea trovato mezz’ora innanzi rifugio Quinto Lepta, lo antico amante di Byrrhia, la vedova consolata del duumviro Aulo Vezio. Appoggialo al muro laterale della Basilica, teneva stretta sul petto una donna cui baciava convulsivamente la fronte e i capelli. Tra i dolci nomi ch’ei proferiva nel suo dolore udivasi mormorare Amaredia.... E Byrrhia? La soave creatura aveva vissuto la stagion delle rose, ed un giorno partì per riabbracciare nel Tartaro l’ombra tradita del coniuge suo. — Le tristezze dell’animo non duravano a lungo in Pompei. Lepta era in su i quarant’anni. E contemplando con una tal quale curiosità in uno _speculum_ di argento brunito quel personaggio misterioso ed ignoto per ciascuno di noi che addimandasi sè stesso, vide alcune rughe ed alcuni fili d’argento che facevano ingiuria alle nere sue chiome. Lo amore è la fede. Conveniva legar l’uno e l’altra e non perderli. Diede ai suoi occhi quella serie di espressioni animate, desiose, attente cui la psiche risponde. E Amaredia, della famiglia Rufa, ignara della scienza della vita, si avviluppò di quella passione ch’era una _stola_ per lei, e lo sposò. Erano allora illuminati dal languido chiarore della prima luna.... Quella luce serena doveva ben presto offuscarsi! Dopo alcune ore passate in trepidanti smanie, in imminenti pericoli, in cui i dolci ricordi si arruffavano colle incertezze dello avvenire, Lepta potè trarre in salvo la donna, per cui sentiva cara la vita. Ma da una varietà di sciagura era caduto in un’altra. Ambedue coi piedi sepolti nei lapilli e coperti a metà dalle ceneri che cadevano loro sul capo, attendevano in un estremo bacio la morte. — _Tecum vivere amen. Tecum obeam libens._ E la bella dai capelli non lucidi e dalle pallide gote accorse allo invito. Ed il raggio dello amore immortale gl’irradiò coll’aureola dei martiri. Il ridestarsi del vulcano dal sopore dei lunghi secoli, compiendo l’ultima rovina della mia gentile Pompei, accomunò le istesse sorti agli oppidi, ai borghi e alla grande artistica città di Herculanum che componevano una graziosa ghirlanda ai piedi del Vesvio. Da per tutto il suolo traballò come baccante briaco. I sopravvissuti si salvarono per mare verso Surrentum, Capreas, Neapolis e Misenum. Il maggior numero che prese le vie di terra, le trovò aperte ed eruttanti putrido fango; od interrotte in tutte le direzioni dai torrenti di acqua assorbita e vomitata dal monte e da alti incendii e da vastissime fiamme che in molti punti del vulcano splendevano. E tutti morirono. Herculanum restò sepolto sino al tetto dei secondi piani dei suoi nobili edifizi da un cumulo di acqua e di ceneri, or divenuto tufo assai duro, e poi, per una assai maggiore altezza dalla pioggia ulteriore delle ceneri, dei sassi e delle pomici sciolte. Plinio il giovane, nipote dello ammiraglio, ch’era rimasto colla madre in Misenum per ordine dello zio, descrisse a Cornelio Tacito ciò che avveniva nel luogo ov’era, il dì poi della catastrofe. Cotesto frammento di lettera s’innesta di per sè sulle pagine precedenti. «.... Era la prima ora del giorno, e ancor non appariva che un debole chiarore, pari al crepuscolo. Allora le case furono disordinate da sì forti scosse che non fu più sicuro lo stare in un luogo per verità scoperto, ma molto stretto. Risolvemmo di lasciar l’oppido; il popolo spaventato ci siegue in folla, ci attornia, ci spinge. E scambiando la paura in prudenza, ciascuno modella la propria sicurezza su quella degli altri. Esciti dallo abitato, ci fermiamo. E là, nuovi prodigi, nuovi sgomenti. I veicoli che avevamo con noi erano ad ogni istante agitati, quantunque in rasa campagna; e non si poteva neppure collo aiuto di grosse pietre fermarli nel posto. Il mare, parea, si rovesciasse sopra sè stesso, come fosse cacciato via dalla sponda dal moto della terra. E nel vero, la riva erasi fatta più larga, e sulle sabbie erano diversi pesci rimasti a secco. D’altro lato, una nugola nera ed orribile, squarciata da fuochi che si slanciavano serpeggiando, mettea fuori lunghi razzi simili a lampi, ma di questi più grandi. Nell’atto un amico di mio zio, venuto allora allora di Spagna, tornò per la seconda volta ad insistere: » — Se il fratel vostro, se il vostro zio è ancor vivo, si augura al certo che voi vi salviate. Se gli è morto, volle che a lui sopravviviate. Che più attendete? Perchè non scampate? — »Noi gli rispondemmo; » — Non possiamo pensare alla nostra salute finchè saremo mal certi della sorte di Plinio. — » Lo Spagnuolo senza ritardo cercò lo scampo in una fuga precipitata. Quasi subito la nube cade a terra e cuopre il mare. Ci nasconde l’isola di Capreas che avviluppava e ci fa perdere di vista il promontorio di Misenum. Mia madre mi prega, mi scongiura, mi ordina di salvarmi come che sia. Io il posso alla mia età. Non essa, carica d’anni com’è e grave di forme. La morrebbe contenta se non mi fosse cagione di morte. Or io le dichiaro che non v’ha salute per me senza lei. Le prendo la mano e la forzo ad accompagnarmi. Lo fa con pena e si rimprovera di ritardare i miei passi. La cenere ci cadeva addosso quantunque in piccola quantità. Volgo il capo e veggo dietro di noi uno spesso fumo che ci segue e si spande sulla terra come un torrente. Dico a mia madre: » — Finchè luce, lasciamo la grande strada per tema che la folla inseguente non ci soffoghi nelle tenebre. — »A mala pena eravamci scostati, la oscurità divenne sì fitta, come non già in una notte fosca e senza luna, ma in una camera ove tutte le lampade fossero spente. Non avresti udito che lamenti di donne, gemiti di fanciulli, grida di uomini. L’uno chiamava il padre. L’altro il figliuolo. L’altro, la donna sua. E non si riconoscevano che dalle voci. Quale deplorava la sua disgrazia. Quale, la sorte dei suoi parenti. Ve n’erano persino a cui il timor della morte faceva invocare la morte. Molti imploravano il soccorso degli dei. E molti credevano non ve ne avesse più. E quella l’ultima ed eterna notte in cui il mondo sarebbe sepolto. Eranvene altresì di quelli che aumentavano il timore ragionevole e giusto con paure immaginarie e chimeriche. E dicevano che in Misenum questo è caduto e quello arde. E lo sgomento dava peso alle loro menzogne. » Apparve alla fine un bagliore che annunciava — non il giorno — ma lo approssimarsi del fuoco che ci minacciava; si arrestò pertanto lungi da noi. Reddiva la oscurità e la pioggia di cenere ricomincia più forte e più spessa. Eravamo ridotti a levarci di tempo in tempo e scuotere le vesti; senza ciò ci avrebbe coperti e inghiottiti. Posso menar vanto che in mezzo a tali pericoli, non dissi verbo, non mostrai debolezza. Era sostenuto da quella consolazione poco ragionevole — quantunque abituale nell’uomo — il credere che tutto lo universo perisse con me. Finalmente lo spesso e nero vapore si dissipò, e a poco a poco si perdette come fumo o come nuvola. E poi apparve il giorno ed anche il sole, giallognolo però come in una ecclissi. » Tutto ci parve cangio. E nulla era se non coperto sotto monti di cenere come di verno sotto la neve. Torniamo a Misenum. Ciascuno vi si aggiusta come può. E noi vi passiamo una notte tra il timore e la speranza — lo spavento però usurpando la parte maggiore. — Imperocchè il tremuoto continovava sempre. Non si vedevano che genti impaurite coltivare il proprio sgomento e quello degli altri, con sinistri presagi. Non ci venne mai però il pensiero di ritirarci finchè non avessimo avuto le novelle dello zio, malgrado che fossimo ancora in attenzione di un pericolo così tremendo, visto sì da vicino.» La catastrofe durò tre giorni. La cenere corse largo spazio. Si legge fosse volata in Africa. Certo, i Romani l’ebbero sui sette colli e temettero il disordine nei pianeti; cioè, che il sole cadesse sulla terra per spegnersi; e la terra salisse nel vuoto per incendiarsi. Quando la natura si acquetò, ed il mare si fece più calmo, e il disco raggiante potè mostrare il suo eterno sorriso a queste desolate contrade, Pomponiano tornò su quel posto ove il suo capitano era morto. Plinio era disteso sul tappeto in attitudine d’uom che dormisse. Gli scampati da Pompei tornarono sul suolo della terra natia. Ma, come diversa da quella che era! Una grave mora di lapilli e di cenere! Una collina grigiastra d’onde tratto tratto sorgeva una colonna infranta, un capitello, un muro sporgente e senza forma.... i segni di un cimitero immenso!... Morte! Morte parziale però, e meglio una nascita che una morte. Il passaggio di larva a crisalide, un seguito di metamorfosi al servizio della vita generale. Rapidità. Fissità. Eternità. Il fil verde sotto le nevi cadute. — Oh! le lacrime! Oh! gli omei di quei miseri! Indarno cercavano su quel piano le dimore ov’erano nati, ove giacevano sepolti i cari congiunti, ov’erano celati gli oggetti più preziosi e più cari. Alcuni disperati grattavano le pomici colle unghie, sperando calmare lo schianto dell’anima nel riveder le sembianze morte, quale dei figli, qual dell’amante. E nella impotenza si carpivano i capelli, si dilaniavano il volto, si stracciavano le vesti. Miseri! ahi, miseri! I più ricchi, calmata la prima passione, vennero con schiavi compri a praticare alcuni pozzi, sostenuti da tavole puntellate, per riavere i loro marmi, le loro statue, le loro gemme, i loro denari. Cotesto fatto creò una industria di disseppellitori, i quali rubarono quanto trovarono. Ed in una casa in riparazione nell’atto del cataclisma, piena di marmi pregevoli da collocarsi, aggiunsero persin lo epigramma, scrivendo colla punta ΔΟΥΜΜΟC ΠΕΡΤΟΥCΑ presso l’uscio, dopo averla forata per ogni verso. Quel mestiero da talpe fu proficuo a parecchi; chè, ogni casa fu visitata; e particolarmente quelle delle agiate famiglie e le botteghe, ove supponevasi fosse rimasto il peculio. E fu ad altri letale. I ladri isolati, chiusi dalle facili frane dei lapilli, perdettero il respiro e la vita ed il sepolcro servì loro di carcere. Tito Vespasiano trasse per sorte dal numero dei cittadini consolari i procuratori per dar ordine agli inconvenienti occorsi e con molta pecunia soccorrere le popolazioni del littorale, prive delle loro case e dei loro campi. Nella mente di Cesare era il pensiero di sgomberare lo abitato e di ricostruirlo come in antico; ed i beni di quelli ch’erano stati oppressi dallo straordinario incendio e dal più straordinario seppellimento — dei quali non si ritrovassero gli eredi legittimi — fossero assegnati al rifacimento delle cose guaste e delle genti afflitte. Ma, i dignitarii, esaminati i luoghi sotto il vulcano che potea un dì o l’altro ricominciar la catastrofe, stimarono che la ingente spesa la sarebbe perduta. Lo imperatore non vi pensò su più che tanto. Le erbe ben presto germinarono sulla collina che copriva Pompei. Le vigne e gli alberi ne usurparono il posto a contrasto. Sursero sopra le case dei villici. Ai secoli successero i secoli. E le generazioni perdettero per sino il ricordo che il suolo dal loro aratro solcato era il coperchio di una nobile tomba. L’uomo è fatto così. Facilmente è distratto ed oblia. Aveva dieciotto anni quando venni la prima volta a visitare la dissepolta città. Vi tornai più tardi per Garibaldi e con Garibaldi. Il suo aspetto ebbe sempre per me qualche cosa di attraente, di fuggevole, di misterioso che attizza potentemente le fiamme del cuore. A furia di contemplare con riverente affetto le dirute cose io finii per disvelare secreti che i molti non vedono. E qui provo rivelazioni inattese e faccio conoscenze gradite che tanto piacciono all’anima mia. Dopo il discoprimento di Pompei molte parole furono dette sopra il suo funebre lenzuolo e sulle rotte e vaghe sue membra. La fredda temperie del sepolcro le ha tutte diacciate. Le pagine che ho scritto conserveranno forse un po’ di calore nello amato cadavere. Io raccolsi il sangue delle ferite ond’essa morì. Feci tesoro dei suoi aneliti estremi. Afferrai la parte taciuta della sua vita, e l’ho rivelata ai pietosi che gitteranno lo sguardo su queste povere carte. FINE. INDICE DEL VOLUME. DUE PAROLE SU QUESTA SECONDA EDIZIONE Pag. 1 I. I TEMPLI. Scene religiose in Pompei. — (Anni di Roma 673. — Anni avanti il Cristo 84) 3 II. LA CAMPAGNA. Scene della vita rustica. (Anni di Roma 695. — Anni avanti il Cristo 59) 25 III. IL FORO. La elezione dei Magistrati in Pompei. — (Anni di Roma 705. — Anni avanti il Cristo 49) 47 IV. LA STRADA. Scene diurne in Pompei. — (Anni di Roma 767. — Anni del Cristo 44) 75 V. LA BASILICA. Una condanna a morte. — (Anni di Roma 770. — Anni del Cristo 17) 99 VI. LA NECROPOLI. Scene di funerali. — (Anni di Roma 779. — Anni del Cristo 26) 125 VII. I TEATRI. Scene di distrazione. — (Anni di Roma 812. — Anni del Cristo 59) 147 VIII. LA STRADA. Scene notturne in Pompei. — (Anni di Roma 825. — Anni del Cristo 72) 177 IX. VENVS PHYSICA. Scene del cuore. — (Anni di Roma 826. — Anni del Cristo 73) 201 X. IL CATACLISMA. Scene del novissimo giorno. — (Anni di Roma 832. — Anni del Cristo 79) 281 Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK POMPEI *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. 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