Pompei

By Candido Augusto Vecchi

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Title: Pompei

Author: C. Augusto Vecchj

Release date: August 8, 2025 [eBook #76652]

Language: Italian

Original publication: Firenze: Le Monnier, 1868

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK POMPEI ***


                           C. AUGUSTO VECCHJ.


                                POMPEI.


                           SECONDA EDIZIONE,
                    RIVEDUTA E AMPLIATA DALL’AUTORE.



                                FIRENZE.
                         SUCCESSORI LE MONNIER.
                                 1868.




                         Proprietà letteraria.




   [Illustrazione: DIS MANIBUS POMPEIANORUM]




DUE PAROLE SU QUESTA SECONDA EDIZIONE.


È nel mondo una nobile e poetica scienza, la quale risveglia i morti
— strappa dalle loro ossa i secolari lenzuoli — gli aiuta ad escir
dai sepolcri — e, rimpolpati e rifatti, gli veste graziosamente dei
loro pepli, delle loro tuniche, delle loro stole, delle loro clamidi
leggere. Nè ancor paga, cotesta fata benefica raccoglie nel vasto
carnaio una infinità di oggetti svariati e belli, coperti dalla polvere
dell’obblio, e gli restituisce a quelli che un giorno li maneggiarono.
Quindi, sorretta dal suo fine criterio e dai consigli di una illustre
sorella, rifà vivi uomini e cose dinanzi alla riscossa e curiosa
fantasia.

Le due parenti — l’Archeologia e la Storia — a me soccorsero nell’arduo
tentativo di questo nuovo genere di letteratura italiana che per la
seconda volta offro ai lettori. Le iscrizioni graffite e i ruderi
eloquenti operarono il resto.

Le varie epoche dei racconti sono istoriche. Istorici i nomi di quei
che parlano e agiscono, possibilmente e quasi sempre collocati sulla
scena che loro fu propria. Molte frasi ch’escono da quelle bocche le
deciferai sulle pareti, mute per dieciotto secoli.

Ho abitato, dì e notte, per cinque mesi continovi la città dei morti.
Ed i morti risposero alle mie premurose e studiate evocazioni.

Al pari degli antichi artisti di sangue pelasgo-italiota non lavorai
pei ricchi o per piacere ai potenti, sì, pel Dio unico, per la Libertà,
per la Patria.

  _Di Pompei, ai 25 marzo 1865_

                                                      C. AUG. VECCHJ.




I TEMPLI.

SCENE RELIGIOSE IN POMPEI.

=Anni di Roma 673 — Anni avanti il Cristo 81.=


                    AL MINISTRO DEI CULTI IN ITALIA

                          GIUSEPPE PISANELLI.

                                   I.


La notte volge alla metà del suo corso. Erano gli ultimi giorni di
febbraio. Soffiava lo scirocco, uno di quei venti caldi ed umidi che
sopraccaricano il corpo di fatica e l’anima di eccitazione. — Sul
firmamento non una stella. — Al basso udivasi il fragore monotono e
cupo che fa il mare agitato rompendosi con impeto sugli scogli e sui
ciottoli rotondati. Anche la terra sembrava sprofondata nella tristezza
temporanea di quelle regioni scosse e rimbalzanti sovente dai gassi
sotterranei dell’igne eterno. — Genti meno preoccupate di quelle cui
si parava dinanzi un simile quadro non avrebbero potuto non esserne
impensierite.

Due uomini camminavano l’uno accanto dell’altro. Non parlavano. Esciti
dalla porta occidentale che menava ad Herculanum, costeggiarono le
mura a dritta sulla via per cui si andava a Sarnus, senza traversare
Pompei. E non le lasciarono che nello avviarsi per una strada male
incassata che menava sulla collina. In una rivolta, uno di essi battè
il ferro sur un pezzo di silice, bruciò un poco di amianto inzolfato
sull’esca ed accese una lanterna di bronzo senza coperchio. Egli era
vestito di una trabea di porpora con fasce di scarlatto. — I capelli
già grigi lasciavano scoperta la sua energica fronte, illuminata da un
occhio solo. Ma quell’unico, e le labbra sottili, e il naso aquilino,
e la fredda impassibilità del viso accentuato, facevano chiara, in un
destro osservatore, la furberia della mente e la impudenza del cuore.
— L’altro era un uomo in sui cinquant’anni: di quegli esseri dalle
gote infossate e di colore olivastro, dallo sguardo ora spento, ora
eccitato, a seconda della passione unica che or desta consolazioni,
ora dubbi, ora timori. Aveva sul capo un piccolo berretto di lana
bianca, ed uno scuro mantello coprivagli la persona. Poco sensibile
al disonore e alla infamia, tutti i mezzi gli erano sembrati onesti
per formarsi un peculio e riscattare la sua libertà: prostituzione,
ladronecci, complicità alle abbominazioni del padrone, usure. Egli
chiamavasi Pothus. — Ma siccome era stato schiavo di M. Plazio,
rimase pur schiavo dell’uso, che voleva il nome dello antico padrone
precedesse il suo proprio. Laonde nel sigillo con cui marcava ogni sua
cosa era scritto: PLATIUS POTHVS. — Esercitava la mercatura. Vendeva
stoffe che faceva venire di Taranto e dall’Oriente. Egli riceveva merci
dalle città commercianti della Campania, e specialmente da Nola, da
Acerra e da Nocera, e le spediva lontano. — Ora a lui premeva, pria di
spedire un grosso carico in Egitto, saperne la fortuna, interrogandone
un aruspice. Erasi pertanto indirizzato a Taranis, e questi gli aveva
indicato l’ora ed il luogo nel _pomærium_, sopra un posto elevato, per
cercare gli auspicii.

Cotesta geldra d’impostori non apparteneva a nessun collegio dei
sacerdoti latini, nè ad alcuna gerarchia religiosa. La impudenza gli
aveva cacciati innanzi. La stupidezza gli aveva accolti. Lo interesse
pauroso li carezzava. — Essi avevano doppie funzioni: predicevano
lo avvenire studiando gli avvenimenti anteriori od i fenomeni, o ne
chiedevano la rivelazione alle viscere delle vittime. Oltre a ciò
spandevano nel volgo le novelle più strane ed incredibili... e forse
per ciò credute. Furono gli aruspici che inventarono i sacrifizi
umani — e la frottola delle pioggie di latte, di sangue e di mattoni
cotti — e le statue degli Dei che sudavano — e le lagrime sgorgate
dagli occhi di Vesta — e le case cangianti di posto — e un lupo che
sguaina una daga — e un bue che parla — e i galli divenuti galline
e le galline galli — e il cielo macchiato di sangue — e la luna
triplice nel firmamento — e il sole apparso di notte — e le torce
ardenti traversanti lo spazio — ed altre fandonie da mercato a queste
simiglianti. — Essi venivano dall’Etruria ed erano ricerchi come quelli
che sapevano l’arte della osservazione, della interpretazione e della
congiurazione.

E il popolo li pagava e li teneva grassi e gaudenti. — Ma quando
incontravansi e si narravano a vicenda le cose occorse e la bestialità
del popolo che credeva alle loro menzogne, e la doppiezza dei
magistrati che fingevano di prestar fede alle loro predizioni, e la
ipocrisia dei generali che facevan loro sparare i polli per sapere pria
di rompere sull’inimico le sorti della battaglia, e’ si sbellicavano
dalle risa e scherzavano sull’Olimpo che essi ed i sacerdoti di ogni
culto avevano popolato colle incarnazioni di tutti i bisogni della
terra, e propiziavano alla umana paura che non si stancherebbe mai di
offerire il grosso contingente alla malizia degl’impostori — cangino
pur essi il nome col succedersi dei secoli.

I due erano giunti là dove volevano. Sotto i loro piedi posava il
sobborgo Felice colla doppia fila di sepolcreti. — Taranis fece sedere
lo affrancato sopra una pietra colla faccia rivolta al mare — cioè
a mezzodì — ed egli rimase in piedi a sinistra colla testa coperta.
L’impostore diresse una preghiera agli dei che insultava cogli atti, si
girò verso l’Oriente e col _lituus_ — piccolo bastone senza nodi, dalla
punta ricurva — divise il cielo in diverse regioni — che addimandavansi
_templa_ nel gergo di quei ghiottoni — e fissò un punto lontano dove
l’occhio giungeva. — Quindi, passato il bastone augurale nella mano
manca, posò la destra sul capo del liberto di Plazio, sempre velato. —
E,

— _Jupiter pater, si est fas_, se il destino permette che cotesto
Plazio Pothus, di cui tocco la testa, abbia fortuna nel commercio che
imprende, invia a noi segni certi della tua volontà _inter eos fines
quos feci_, nei templi che ho tracciato nell’orizzonte. —

Nel firmamento alcun segno. — Lo scirocco aveva annuvolato il cielo, e
perciò nessuna stella brillava per poter dire a quel gianfrullone nello
scoprirgli gli occhi:

— Guarda! In quell’astro sta il lieto destino che il padre della natura
ti annuncia per mezzo del suo umile servo. —

Ambidue stettero alcun tempo nella più completa immobilità. Quindi
l’aruspice brontolò, crollando il capo:

— Nulla!... Almeno avessimo portato gli _oscines_ od i _præpetes_, gli
uccelli che dicono col volo, col becco o col canto. A domani..... o, se
vuoi, ora, in tua casa.

— Andiamo —

ripetè l’altro, levandosi e gittando un grosso sospiro:

— E sapremo dai polli quello che il sommo Giove non volle
annunciarci. —

Discesero. — Passarono a fianco di una tomba isolata; e,

— Sono Taranis, di Volaterra, in Etruria. —

E mostrò il lituo al soldato che, escito dalla _ædicula_ a diritta
presso la porta della città, veniva loro incontro per sapere chi
fossero.

Entrati nella via Domizia, si fermarono in faccia alla cisterna
pubblica, destinata a supplire alle fontane quando per soverchio di
siccità l’acqua mancasse.

E salito l’opposto margine, entrarono nella casa, costruita sulle
antiche mura e declinantesi per via di terrazzi sino al mare.
Traversarono l’atrio, discesero una scala, ed eccoli in una stanza
inferiore illuminata da due lampade di bronzo. Uno schiavo vegliante
aveva ricevuto un ordine. — La voce stridente dei polli, sorpresi nel
sonno, chiarì quale ei si fosse. — La gabbia fu posata sul mosaico. Il
prete etrusco le pose dinanzi l’_offa pultis_, sminuzzando la pasta
nella mangiatoia. Da principio i gallinacei parea rifiutassero la
offerta. — Erano impauriti, agitati e guardavano i lumi. Ma quando si
avvidero del perchè erano stati svegliati, si gettarono furiosi su quei
pezzi di carne, di farina e di cacio, facendo tripudio.

— _Pascuntur_. — Lieto augurio. — _Tripudium solistimum_. Le ali si
aprono con giubilo. Tu ottenesti lieto presagio..... Ma se tu vuoi
l’_animalis hostia_, io son pronto a leggere la predizione sulla
vittima immolata. — Consenti a pagare la offerta agli Dei? —

L’altro estrasse dal seno una borsa di pelle e l’aperse. E l’aruspice
— che dalla fisonomia, dalle parole e dagli atti potrebbe facilmente
parere un nostro contemporaneo — gittatovi sopra l’avido sguardo e la
mano, contò.

— Cinquanta.... centoventi e cinque — cento venticinque danari
— _Medium sestertium_. — Sta bene. — Gli è quel che ci vuole per
allontanare il _prodigium_, cioè lo avvenimento sinistro. —

E tratto un coltello vittimario, tolse la vita ad un pollo e lo sparò.
Strappò dal corpo il cuor palpitante, il fegato, il polmone ed il
fiele; e postili sulla tavola, disse:

— Ecco dinanzi ai tuoi occhi _pars inimici et pars familiaris_ —
quella che concerne coloro che possono contrariare i tuoi commerci e
quella che te risguarda.... — Oh! il fegato ha due lobi. — È eccellente
presagio. — Anzi, vedi, si ripiega in dentro a partire dal basso della
fibra. Ciò vuol dinotare grandezza e felicità. — Il cuore spande sangue
vermiglio. Il grasso è sulla punta dei visceri — Le vene, nè livide, nè
tese. — Fa partire le navi; chè i venti lor saranno propizi. —

Pothus a quei nunci rideva convulsivamente e stringeva i pugni quasi vi
avesse afferrato i grossi lucri predetti da quell’impostore. Il quale,
tracannato d’un fiato un grosso calice di _merum vetus_ che il mercante
volle mescergli da una piccola anfora, strinse la mano al gaglioffo, e,
salito al piano superiore, partì.

I sacerdoti non mai satolli, collo esagerare il sentimento religioso
— che è uno istinto della umanità — o collo intenderlo malamente,
spinsero i timorati a passar la giornata in preghiere ed in sacrifici
per ottenere che i loro figliuoli loro sopravvivessero — _superstites
essent_. — Onde questi furono chiamati superstiziosi; e quelli
decaddero prima dalla stima dei filosofi e poi dalla credulità del
popolo che leggeva nei loro vizi la inutile loro missione, nelle
loro parole la mala fede, nei loro atti il mendacio. Da principio
la vittima offerta era intera bruciata sull’ara del nume; ed il
mele ed i vini squisiti crepitavano sulle brage. — Ma i ghiottoni e
gli avari cominciarono a farsi casuisti. E pensarono che — gl’Iddii
respirando solamente l’odore delle vittime — bastava farne rosolar
dalle fiamme la testa ed i piedi — _pars Deorum_ — e serbare le parti
delicate e carnose al festino dei loro triclini, le quali chiamarono
_polluctum_ dal verbo _pollucere_ che significa consacrare. Più tardi
— incoraggiati dalla stupidezza degli uomini che guardavano e non
vedevano — propagarono la novella, aver ottenuto da Giove che la parte
degli Dei sarebbero le ossa. E le carni devolute ai sacerdoti. — E
quando erano esuberanti, le mandarono ai questori del tesoro che le
facevano vendere a profitto dello erario. Fattisi ricchi e delicati,
non vollero più insudiciarsi nel sangue come beccai, e tolsero a loro
servigio i _popes_, vittimari che compirono la loro bisogna. E una
parte del _polluctum_ la dispensarono alle amiche devote — che ai
nostri tempi vestono da monache o in abito pinzochero — e l’altra più
grossolana ai loro sacrestani che la vendevano ai tavernai.

Avanti di uccidere l’animale, il sacerdote gli gittava sul capo un
pizzico di farina mescolata col sale. — Se la bestia non si ritraeva
impaurita, dichiaravasi acconcia al sacrificio. — Comprendesi
facilmente che la spaventavano se la fosse magra e non di loro gusto.
— La ceremonia dicevasi _immolatio_ da _mola_, la pietra conforme
con cui macinavasi il grano, il più stimabile dei beni. Ed il sale
impiegavasi nel rito come simbolo della purezza dell’anima. Le
libazioni le facevano col vino di una vigna potata. — E pur domandavano
all’offerente se il fulmine fosse mai caduto nella cantina od un uomo
appiccatosi sul ramo di un albero vicino.

Il primo omaggio di vino o d’incenso era propiziato a Giano, il
portiere del cielo, affinchè facesse giungere la preghiera a quello
fra gli Dei che volevasi invocare. Il vino si versava con un simpulo
a goccia a goccia sul fuoco; e l’olio ad onde perchè ardesse senza far
puzzo.

Gl’Iddii maggiori erano dodici. — Giove, il re dell’Olimpo, cui
sacrificavasi il bue bianco o maculato. — Giunone, sorella e moglie
sua, cui s’immolava una vacca. — A Minerva lo stesso animale. E a
queste sole vittime si doravano le corna. — Vesta, la Deessa del fuoco
eterno, dovevasi contentare del sacrificio bene involontario che sei
donne le facevano della loro verginità; sterile come la natura del
fuoco che alimentavano continuo sull’ara; il quale era emanazione
celeste, perchè ogni anno alle calende di marzo lo si faceva accendere
dal sole col mezzo di un vaso metallico concavo, di forma conica
rettangola. Quelle misere erano le guardiane degli Dei particolari del
popolo romano e sopratutto del Palladio, da cui dipendevano le sorti
liete della grande Repubblica. — A Cerere, Dea delle biade, si uccideva
una scrofa, perchè distruggitrice delle mietiture. — Nettuno, Dio del
mare — Apollo, della musica, della poesia e della medicina — e Marte,
della guerra, erano i soli cui potesse offerirsi un toro bianco. —
A Venere, la Iddia dell’amore e della bellezza, si davano colombe. —
Mercurio, Dio della eloquenza e del commercio, prendeva tutto. — Diana,
Dea della caccia e delle Foreste, facevasi contenta col dono di una
cerva. — Plutone, lo affummicato rettore del Tartaro, chiedeva capri,
becchi e tori neri. — Queste dodici divinità erano chiamate consentes,
perchè formavano il consiglio supremo del Fato, potenza costituzionale
dai poteri limitati e corretti dalle varie passioni umane che
s’indiavano attorno al suo trono temuto.

Lo appetito viene mangiando. — Laonde gli uomini antichi non si
tennero beati e soddisfatti di un re e del suo ministero. Vollero
altresì il corpo legislativo, composto dapprima dagli Dei scelti,
come Saturno, che rappresentò il tempo; — Giano, l’annata; Rea, la
Deessa della terra; — Bacco, il Dio del vino; — Vulcano, del fuoco; —
Febo, dell’astro vivificatore; — la Luna, la patrona degli amanti; —
e il Genio, che presiedeva alle opere degli umani. — Quindi spedirono
al parlamento i piccoli Dii, cioè: i semones, gli uomini deificati —
Ercole; Castore e Polluce; Enea; Romolo; Pane; Fauno; Silvano; Palete,
Iddia del gregge; Vertunno, delle stagioni; Pomona, dei giardini e dei
prati; Flora, dei fiori; Termine, dei termini; Robigo, della ruggine;
Fascino, dei sortilegi; Averrunco, che allontana le calamità; Vacuna,
patrona degl’infingardi e del riposo; Laverna, dei ladri; Mefite, del
puzzo; Cloacina, dei luoghi immondi; Imene, del matrimonio. — Tutte
le ninfe dei boschi, delle fontane, delle montagne, dei fiumi, del
mare partirono anch’esse. Nè i giudici dello inferno le lasciarono
andar sole; e tanto più che le videro accompagnate dalla Pietà, dal
Pudore, dalla Fede, e.... dalla Speranza. La Febbre corse lor dietro.
— E le madri impaurite pei cari figliuoli, elessero, senza bisogno
di ballottaggio, Vitunno che ministra ad essi il soffio della vita;
— Sentino, che dà il sentimento; — Presa e Postverta, che gli mette
in buona postura nell’utero; — Ops li soccorre; — Vaticano loro apre
la bocca e li fa vagire; — Rumina che gl’inspira a suggere il latte
dal seno materno; — Potina gli consiglia a bere; — Educa, a mangiare;
— Cunina veglia presso la culla; — Ageronia è attenta a tutti i loro
movimenti. — Nè questi bastando al genio affettuoso delle madri, esse
ne nominarono altri per acclamazione. E furono Juventas che accompagna
il figliuolo già grande; — Barbato, che gli adorna il mento di peli;
— Stimula, che il punzecchia di desiderii; — Volupia, necessaria
alla generazione; — Numeria, gli dà la scienza dei numeri; — Camena,
gl’insegna il canto; — Strenua, lo rende un eroe; — Consus, gl’inspira
nobili consigli; — e Jugatinus presiede al suo matrimonio.

Quando i sacerdoti si avvidero che il Fato — inviolabile — non parlava;
— e il gran consiglio — responsabile — non facea motto; — e i _semones_
in nome dei loro uffici parea che convalidassero senza opposizione la
scelta delle deità, fatta nei collegi elettorali degli uomini, senza
votarsi il capo nei riguardi legali, ne crearono essi, di proprio moto,
per alzata e seduta; e non fu cosa sulla terra di cui non mandassero
il rappresentante negli stalli del parlamento celeste. — I gloriosi
avi nostri carezzarono quelle sacre fandonie, perchè necessarie ad
infrenare il popolo ignorante, riottoso e spavaldo, ch’essi volevano
condurre al dominio del mondo. E quando i numi fur troppi, gli divisero
in _ordo et populus_, cioè in _Dii majorum gentium_ ed in _Dii minorum
gentium_. — Ma venne un giorno in cui si stancarono di quella docilità
dimostrata e parlarono e scrissero del Dio unico e lo confessarono
morendo. — D’allora in poi, a poco a poco, i deputati delle umane
sciocchezze disertarono l’olimpico Parlamento, che fu riempiuto
dall’occhio incommensurabile della ragione. Le loro statue le abbiam
nei Musei, nei giardini, nelle pubbliche piazze. — Un altro Olimpo pur
sorse — sul calco di quello antico — meno poetico, molto ridicolo e
troppo triviale. Fu popoloso in secoli d’ignoranza, in tempi di fine
ipocrisia, e nei giorni lunghi della tirannia dello spirito. — Di lassù
venivano i fulmini per punire i peccati degli uomini. E l’uomo afferrò
quel fulmine, lo chiuse in una macchina e lo fece il fattorino dei suoi
pensieri. — Di lassù venivano le febbri, il vaiuolo, gli stravasi di
sangue e tutti i guasti della fragile natura umana. E l’uomo studiò
la medecina e la farmacopea, inventò strumenti chirurgici, ed i morbi
furono domati. — Di lassù venivano i venti furiosi che inabissavano
le navi o le mandavano erranti a genio dei loro soffi. E l’uomo
inventò la bussola ed un meccanismo che rende inutile lo sforzo dei
venti contrari. — Gl’idoli sono tutti già esciti, anche una volta,
dall’Olimpo della ragione. Alcuni vennero nei Musei a far compagnia
ai predecessori. Altri rimangono ancora sugli altari, vergognosi e
raumiliati nel vedere il riso intelligente che destano e la nessuna
pietà di chi gli coltiva. Ei sanno pur troppo che omai seggono sulle
ruine.

Ora la descrizione di una cerimonia solenne in Pompei.

Il Flamine-Diale è sul peristilio del tempio di Giove. Ha la testa
coperta di un elmo bianco, sormontato da un breve cono allungato e
cinto da un fiocco di lana, che simboleggia il fulmine nel nume. Veste
la toga pretesta e va di pari coi grandi magistrati. — Non vi ha un
nodo sulle sue vesti che la sacerdotessa sua moglie filò di lana, tessè
e cucì. La calzatura fu tagliata dalla pelle di un animale ucciso. Sul
dito gli splende un anello a giorno ed unito. La consorte gli è presso
e lo assiste. Sacerdoti minori lo attorniano.

I duumviri, gli edili, i decurioni, i cavalieri salgono la gradinata
del tempio. Nel Foro è il popolo; e, separate dagli uomini — perchè
nulla si opponga alla decenza ed alla gravità della pia cerimonia —
sono le donne adorne delle loro vesti bianche e sfarzose.

Non canti di allegrezza, ma accenti di sdegno. — Non rendimenti di
grazie, ma suppliche levate al cielo perchè venga allontanato dalla
città di Pompei un crudele disastro, una tremenda sciagura. Un coro di
fanciulli e di vergini cantano in note lamentevoli l’inno del dolore.
— Alcuni soldati e centurioni sono appoggiati ai piedistalli; e, senza
parola, rimangono impassibili spettatori di quella scena.

Gli è che da tempo Pompædio Silo aveva inalberato lo stendardo della
rivolta nella Marsica; e — tranne Aiserninum e Lucera — tutte le città
adriache e tirrene avevano fatto eco a quel grido di guerra. Roma
invero stancava la Italia. Per estendere la sua potenza, ne esauriva
le ricchezze, ne toglieva i soldati e gli dava compagni d’armi ai
cittadini romani, accordando loro l’unica eguaglianza in faccia alla
morte. Corfinium, piccola terra tra il monte Corno e la Maiella, fu
decretata città capitale degl’Italioti. Capua in un versante degli
Appennini, Asculum Picenum nell’altro, tenevano acceso il fuoco
sacro della libertà e dello affrancamento dall’Urbe. Si combatteva da
parecchi mesi e vincevasi. — Ma Silla aveva preso Stabia per assalto,
ne trucidava i difensori e metteva in fiamme le case e i monumenti.
I Pompeiani vedevano quello strazio dalle loro mura; lo reputarono
presagio della sorte che gli attendeva; decisero animosamente di
difendersi, ed intanto di placare l’ira celeste con una espiazione
solenne, offerendo sacrifizi a Giove, agli Dei maggiori e alle divinità
inferiori e recitando preghiere, dette _obsecrationes_.

Sotto la gradinata del tempio sono due buoi di manto bianchissimo;
sette vacche ed un toro, grassi tanto che stentano a muoversi. Hanno
le corna dorate, la fronte incoronata di fiori, ed il corpo cinto da
una stola terminante con una frangia. — Un vittimario, nudo sino alla
cintura, e coperti i fianchi da una stoffa di porpora, era presso
ogni bestia, tenendola con una corda che le stringeva il muso e colla
sinistra sosteneva un martello rotondo e a lungo manico che appoggiava
sulla spalla. Taluno impugnava la scure invece del martello.

Dietro di essi erano i _cultrarii_ ed i _popes_, aventi appeso alla
cintura un grosso astuccio guarnito di parecchi coltelli. Alcuni
fanciulli tenevano un vaso di bronzo con acqua lustrale e nell’altra
mano un aspersorio come una coda di cavallo con manico ornato. Altri,
una cassetta quadrata, piena di farina e di sale, per la consacrazione
delle vittime. Vi erano anche i suonatori di flauto.

Il Flamine si avanza e discende. — I vicini lo seguono. Dopo i
magistrati vengono i collegi sacerdotali. — Essi erano coronati di rami
di quercia.

La processione — cui prende parte il popolo tutto — percorre le grandi
vie della città e va verso le XII torri per sempre più animare i
soldati che sono sopra le mura. Quindi il numeroso corteo — compiuto
il giro — si approssima al tempio dalla diritta via della fontana di
Mercurio. — I buoi erano già sul peristilio. — Vi ascesero i sacerdoti
ed i magistrati. Gli altri taciti e pensierosi ristanno.

Sotto quel portico elevasi lo altare dei sacrifizi: chè non immolavasi
mai nello interno dei templi. Ghirlande di verbena cingono l’ara. Il
Flamine si avanza. — Prende lo incenso dall’_acerra_ ov’era chiuso;
lo spande sul _præfericulum_ e ne volge il fumo alla statua del re
dell’Olimpo. — Quindi liba il vino in onore di Giano.

Seguìto dai sacerdoti, entra nel tempio e saluta Giove portando la mano
destra alla bocca. Voltosi a manca, fa lo stesso saluto alla porta.
Quando gli altri lo ebbero imitato tutti si assisero nella cella e —
racchiuso il capo nel lembo della toga per evitare distrazioni — ognuno
prega a voce bassa o mentalmente. — Dopo alcuni momenti, il Flamine si
leva, esce dalla edicola e grida alla folla adunata.

— _Favete linguis._ —

Raccomandato così il silenzio all’assemblea, si appressa allo altare,
si purifica le mani coll’acqua contenuta in un vaso senza piede, detto
_futilis_, e le asciuga con un tessuto di bianco lino. Allora i popi si
accostarono colle vittime. — Ei le asperse di quell’acqua; gittò sulle
loro teste farina e sale; e disse loro:

— Sia addoppiato il valor vostro, perchè possiate, o buoi, essere
accetti ai sommi iddii. —

Impolverò lo altare di farina e di sale; così, i coltelli
sacrificatori. — Spinse quindi leggermente la lama di uno di essi dalla
fronte alla coda. Tagliò un ciuffo dei più lunghi peli tra le corna di
un bue, lo gittò sulle fiamme, e disse, libando altro vino:

— Sii aumentato per questo vino nuovo. — _Macte hoc vino inferio
esto._ —

E a ciascuna consacrazione di animale pronunciava il nome di Dio o
della Deessa a cui faceva la oblazione. Così, offerì due buoi a Giove;
due vacche a Giunone; due a Minerva, due alla Iddia della Salute
pubblica; una alla Felicità; ed un toro all’esercito che difendeva il
paese. — Quindi, voltosi al simulacro:

— O sommo Giove, magnanimo e grande, se tu difendi questo tuo popolo
devoto, se tu ispiri coraggio nei suoi difensori, se tu disperdi il
pericolo che noi tutti circonda, in nome dei collegi sacerdotali qui
uniti, noi ti votiamo due buoi dalle corna dorate. —

Ed alla celeste sorella e consorte.

— O Giunone, regina, accetta anche tu la preghiera rivolta al signor
dell’Olimpo. Allora ti offriremo due vacche dalle corna dorate. —

Così alle altre Iddie.

Compiuto il rituale, un vittimario a lui si accosta e dice:

— Posso? —

E avendone ricevuto l’ordine, scaglia violentemente un colpo di
martello sulla fronte del bue. Questo vacilla sui piedi e cade. — Gli
accoltellatori lo ghermiscono per le corna e gli cacciano l’acuta lama
nel cuore. Il sangue sgorga nella patere di bronzo, gorgoglia e fuma.
Il Flamine ne raccoglie con una patella e lo gitta sullo altare dei
sacrifizi. — I _jecurarii_ aprono il ventre della vittima, e poi che
gli auguri hanno trovato in perfetto stato le viscere, la scuoiano,
la spezzano, e mettono in un solo paniere le gambe ed il cuore che,
impolverati di farina d’orzo, presentano al Flamine. Le fiamme sacre
accolgono la parte del Dio e la consumano.

Come quel bue, così vengono uccisi, sparati e divisi il toro e
le vacche. — E nell’atto i suonatori di flauto non cessano di far
echeggiar l’aere dei loro fischi acuti e discordanti.

Il Flamine-Diale terminò la cerimonia con una invocazione a Vesta e
disse agli assistenti:

— _I licet._ — Voi potete ritirarvi. —

Allora un sacerdote di Venere se gli accostò e lo richiese:

— Noi versiamo in grave periglio. La escita dalle mura è impossibile.
E dove ritirarsi? Se Silla entra qui..... e vita e tesori. Tu i cui
capelli e le cui unghie son sacre, non avrai la persona rispettata da
quei crudeli. Tu che hai la porta della casa ornata di lauri; e se un
uom di delitti vi penetra, si è obbligati scioglierlo dalle catene e
gittarle dallo impluvio nella strada. Tu che impedisci uno schiavo
sia fustigato, se giunge ad abbracciare le tue ginocchia,.... di’,
credi tu alla influenza di Giove nello allontanamento dei mali che ci
minacciano?

Il Flamine guardò fiso il compagno, e veramente non sapea che
rispondere. Era la prima volta che una simile interrogazione veniva
innanzi alla sua mente, in faccia al grave e certo pericolo. Egli era
tal uomo, cui un misterioso sentimento di adorazione fa vedere in un
paesaggio, ove avanza con passo distratto, un tempio che lo ritiene;
il cui orecchio risuona d’ignoti rumori; sorta di musica spirituale
che innonda l’anima di gioia segreta e l’apparecchia a consolanti
apparizioni. Il suo cuore appetiva la pace: ma sentiva il morso del
dubbio nella liturgia che amministrava. Il mondo futuro lo intravedeva
in una nube caliginosa ed oscura; ed avrebbe assai volentieri fatto
sommessione a colui che lo avesse posto sur una via semplice e certa
che nel fondo ha la statua della fede trionfante.

— Ma se non Giove, e chi? —

Un sorriso ironico e doloroso sfiorò sulle labbra di Anchario, il
vecchio ministro nel tempio di Venere. Da molti anni e lunghi egli
seguiva i sogni di una fede impossibile con pratiche misteriose. Le
bizzarre confidenze tra la Iddia seduttrice e la carne sedotta erano
le invenzioni furbe della sua mente. Finchè la gioventù e la forza
lo tennero, lo interesse, il lieto vivere e le grossolane delizie
arrestarono la coscienza del vero sulle sue labbra impudiche. Quando
le cose vive partirono da lui sulle ali larghe e fugaci, ei si vide
sprofondato nel vuoto e deposto sur una landa arida e nuda. Siccome
Vulcano, era caduto dall’empireo nella pozzanghera di una fede zoppa e
sciancata.

— Lo arcano ch’è nei cieli consola la mia tristezza e si fa mio custode
da che mi vidi spostato dal mio antico sostegno. — Giove, Giunone,
Venere, Marte sono i sacri luoghi comuni della vita, e gli sfato. — Un
Dio solo è lassù che la realtà non offende. —

— Ma credi tu che a noi pensi e provvegga alla nostra salvezza?

Il canuto pose la mano sul petto e rispose:

— Io comincio a credere che in noi esista e ci faccia arbitri delle
nostre sorti. — Quando il popolo romano volle, vinse; e non gli Dei
combatterono per lui. — Quando tu, schiavo delle abitudini sociali
di questi tempi, vuoi escire dall’audace immoralità che ne circonda,
sprigiona lo accento eroico del cuore e vincerai ogni disperata
ventura. — Fida in me. — La morte mi fa già i suoi segni e può rendermi
libero da un istante all’altro. Allorchè i nostri soldati e la gioventù
popolana combatteranno sulle mura..... e i Sanniti ci aiutino.....
saremo salvi dalla sventura che ci soprasta. —

— E gli Dei? —

— Gli Dei — sgombere le tenebre del nembo ruinoso — gli rivedrai
impassibili sui loro stalli di marmo, innanzi le lampade votive e tra i
vortici del fumo delle pelli bruciate. —

I due Flamini si divisero. Il più vecchio pareva avesse sedato le
agitazioni del cuore. — Il più giovane si avviò verso la sua casa
costernato e dolente. — Incontrò il popolo che raumiliato dallo
infortunio correva dall’un tempio nell’altro per offerir voti e preci
agli Iddii salvatori. E lo salutavano riverenti, ponendo la mano destra
alla bocca e baciandogli il lembo della toga. Un solo sentimento tutti
occupava — la processione espiatrice. — Drappelli di giovanetti di
ambedue i sessi — _patrimi e matrimi_, perchè nati di sangue equestre
con padri e madri viventi — di forme bellissime, schierati in ordine e
coronati di fiori, cantavano inni sacri. E i magistrati gli seguivano
come lui avevano pur dianzi seguito. — Ma quella turba la vedeva come
fantasmi. Le realtà della vita — preoccupato com’era — pareano lontane
lontane dal suo corpo angosciato.

Egli abitava in una delle ultime case della via che ha la fontana dalla
testa di Mercurio nel mezzo. Quando udì dalle mura una voce cui molte
rispondono:

— Soldati, all’armi!.... Ecco Silla colle legioni..... sangue sannita e
greco vi scorre nelle vene. Venere Fisica vi protegga! — Difendete gli
altari, le vostre donne, i vostri figli..... l’onore del nome. —

Ma le legioni romane non attaccavano la città. — La cavalleria
foraggiava nelle campagne vicine allo Anfiteatro e sollevava un nembo
di polvere sotto le zampe dei cavalli. — E un altro grido ben presto
scoppia dai petti agitati:

— È Cluvenzio, il generale dei Sanniti che giunge. — Marte gli arrida.
— Viva Vitelia, madre alla patria e ai suoi difensori! —

Silla si sentì insultato dallo ardir di Cluvenzio. E rapidamente move
innanzi al nemico. Questo riceve l’urto poderoso e lo respinge con
perdita. I Pompeiani escono dalla porta occidentale e da quella di
Sarnus. Il generale romano che aveva rinculato verso il padule — ove
tempo innanzi Cassinio rischiò di essere sconfitto da Spartaco, —
raccoglie i suoi e li caccia alla riscossa. Il combattimento fu lungo
e ostinato. Cluvenzio dovette piegare e ritirarsi. E lo indomani,
avendo ricevuto un soccorso di Galli, profittava della lezione di
audacia offertagli da Silla e ritornava sul campo ove aveva lasciato i
suoi morti. Ma il suo competitore era tetragono in faccia al destino.
Lo accoglie, lo preme nei fianchi, lo mira vacillante, lo siegue, lo
raggiunge presso Nola, sfascia le sue ordinanze e lo uccide.

Felicemente per Pompei, Silla volea il consolato nell’Urbe. Nè ebbe
l’agio di soffermarsi per castigare i Pompeiani e i loro torpidi numi.
Lo ardente pensiero lo spingeva a Roma per reprimervi la rivolta che
vi aveva eccitato il tribuno P. Sulpicio, alla istigazione di Mario,
suo emulo. Laonde condusse le sue legioni nel paese degli Irpini e nel
Sannio, devastò Capua e non vi lasciò gente viva che la necessaria per
la cultura delle terre. Spedì Publio Silla, suo nipote, a Pompei e lo
pose a capo delle tre coorti di veterani, come corpo di osservazione.
Ordinò che il municipio si convertisse in colonia militare — il che
impediva che la magistratura potesse trattare alleanze politiche e
private senza il permesso di Roma — ed impose un tributo in uomini ed
in pecunia. La colonia s’ebbe due nomi: quello di _Veneria_, desunto
dalla divinità protettrice della città; e l’altro di _Cornelia_,
ritolto dalla illustre famiglia, cui egli apparteneva. I Pompeiani
accettarono. — Non vollero però concedere i diritti di cittadinanza ai
soldati a piedi e a cavallo che formavano le tre coorti. — Il nipote
inalberò. — Accaddero risse, turbolenze, disordini. — Publio venne
richiamato; fu difeso da Cicerone. Quindi assoluto. — Ma i coloni
militari dovettero abitare fuori della città nella parte occidentale.
Si costruì per essi un sobborgo che ebbe nome di _Pagus Felix_ e li
comandò il valoroso generale Ninnio Mulo, di cui Silla aveva stima ben
meritata.

Cotesti avvenimenti erano giunti in buon punto per una classe di
sacerdoti, i meglio austeri nelle forme, i più destri nel maneggio
della cosa religiosa. Erano i ministri di un culto — e più che di un
culto — di una setta misteriosa sorta sulle sponde del Nilo, da Orfeo
trasportata in Eleusis e dai Greci introdotta in Pompei. Esercitavano
le cerimonie comuni e vi aggiungevano pie frodi ed oracoli meditati
dalla dottrina e dalla prudenza, e maniere gravi e gentili che
incutevano soggezione e rispetto.

Nel tempio — uno dei più completi e dei più ricchi che fossero
in Pompei — era una edicola isolata — non lungi dallo altare dei
sacrifizi — coperta al di fuori di eleganti bassirilievi di stucco,
rappresentanti Marte e Venere, Mercurio e una ninfa, delfini, genii
ed amori con sacerdotesse e donne che pregano. Al di dentro era la
scala per cui si scendeva in una cripta, ove gl’iniziati ai misteri
— pria di subire le loro prove fisiche e morali — toglievano il bagno
di purificazione. Dietro il santuario stava la grande sala alla quale
cinque porte ad arco concedeano lo accesso. Colà penetravano i soli
iniziati che accomunavano le loro preci, le loro esortazioni, i loro
canti e le loro processioni solenni. Pitture squisite ne decoravano le
pareti. E tutte eran simboli di cose strane ed ignote.

Sopra il santuario — sollevato dal suolo e disposto nel fondo del
peribolo, circuito da un portico di colonne doriche — posava la statua
della iddia, di bianco marmo, dagli occhi, dalle ciglia e dai capelli
rossi, dal peplo indorato; il cui corpo ignudo era coperto da un
velo finissimo — collantesi sulle membra — e di una leggera tinta di
porpora. Nella mano dritta stringeva un sistro di bronzo, e coll’altra,
distesa lungo la coscia, tenea la chiave regolatrice delle inondazioni
del Nilo, simbolo dell’abbondanza e della fertilità.

Quella Iddia avea nome Iside — cioè — chi fu, chi è, chi sarà. Nessun
mortale osò levare il velo che copria le sue forme. — Il solo Apuleio
nè parlò a modo di enimma quando scrisse: — «Mi accostai ai limiti
della morte. Calpestando co’ piedi la soglia di Proserpina, ritornai
a traverso ogni elemento. Nel mezzo della notte parvemi che il sole
splendesse di viva luce. E mi trovai in presenza degli Dei supremi ed
infimi e gli adorai da presso.» — Sembra che i misteri isiaci fossero
di tre gradi — la purificazione allo ingresso della tomba — il giudizio
dei morti e la dottrina di una vita futura — la contemplazione del
lume eterno nell’essenziale e nell’universale. — Gl’iniziati subivano
quattro piccole prove e tre grandi. Il sublime segreto doveva essere la
virtù e la saggezza che colla ipocrisia seduceva i profani, col volgo
ingannato domava la forza brutale e tendeva al dominio della terra
colla redenzione dello spirito umano.

L’oracolo della Iddia aveva tardato a rispondere. Finalmente aveva
detto:

— «Il popolo compirà la sua missione di giustizia e di carità. E la
città sarà salva. Si presti fede alle mie parole.» —

Lo aspetto dei sacerdoti non avea nulla di timido e d’incerto. I
loro occhi neri, brillanti sopra i candidi lini che li coprivano
maestosamente, ispiravano una tranquillità profonda che afferrava la
coscienza degli accorsi in folla nel tempio. E quando giunse il nuncio
che il paese era salvo e le bocche entusiaste lo ripeterono in ogni
canto, i doni alla egizia deità furono ricchi e copiosi. E il credito
dei suoi sacerdoti crebbe a cento doppi.

Dissipate le paure, il popolo — semi-osco, semi-etrusco, semi-greco,
semi-latino, tutto meridionale — si diè alla più grande allegrezza. E
i Luperchi — i Flamini del dio Pane — una gliene prestarono delle più
bizzarre e delle più originali.

Sui clivi del Vesvius erano caverne grigiastre, di cui le antiche
eruzioni di lava — che non eran più nella memoria degli uomini —
avevano formato le volte ruvide e spugnose. Quivi essi abitavano.
Erano sozzi, selvaggi, brutali, inintelligenti, e vivevano ignudi in
ogni stagione, ed erano in venerazione presso i campagnuoli, perchè
nunciavano i cangiamenti della temperatura, guarivano gli animali e
predicevano i buoni ricolti e i rovesci di pioggia. I villici — omai
salvi dalle scorrerie degli amici e degli inimici — corsero ad essi
e li trovarono russanti nei loro spechi sul fieno. Entrarono in un
rustico tempio formato da quattro alberi forcuti e coperto da una
tettoia di radiche nere di lupini. Il loro dio Pane era una mostruosità
fatta di legno coll’accetta. Gl’immolarono una capra ed un cane. Si
tinsero del loro sangue caldo la fronte. Si unsero il sudicio corpo
col grasso delle due bestie. Ne cucinarono sui tizzoni le carni e
ne mangiarono a furia con feroci smorfie di gioia. — Terminato il
sacrificio espiatorio, tagliarono le pelli ancor sanguinose e di alcuni
pezzi si cinsero i fianchi e di alcuni brandelli fecero fruste per
allontanare i curiosi sul loro passaggio. Così corsero a slascio pei
campi e nelle vicinanze di Pompei. Urlavano inni in una lingua ignota
e frustavano, correndo, quanti incontravano. Le donne particolarmente
si facevano loro innanzi per aver parte di quella flagellazione;
avvegnachè in quei tempi credessero come la staffilata di un Luperco
avesse la virtù di cangiare in prolifica una donna sterile. Siccome ai
nostri tempi pur credono la stessa virtù nel cordone che cinge i lombi
non casti di un frataccio da zoccoli e da cappuccio. — Più d’uno però
che si permise una brutta distrazione, vacillante e vagellante, se ne
andò anzi tempo _ad canes_. — I devoti ch’esercitarono quella pratica
liturgica sui crani e sulle costole di quei bipedi senza ragione,
scavarono una fossa sotto un albero da frutto e gli fecero utili mal
loro grado.

In quel giorno di abbandonata gioia non si guardava sottilmente alle
cose. Ognuno occupavasi a suo modo delle proprie devozioni. — E nel
vero, eravi di che. I preti — oltre i parecchi fani, fatti erigere
sontuosamente dai decurioni col denaro del popolo — oltre i _Dii
patellarii_, ch’erano i Lari delle case, adorati alle calende, agl’idi,
alle none, nei dì di festa ed anche ogni giorno — avevano ispirato le
genti bietolone — che formano la maggioranza nell’umanità — ad erigere
altari agli Dei pubblici, agli Dei ignoti — pel comodo della plebe,
pei bisogni degli stranieri — sulle crocivie. — Gli è perciò che furono
chiamati Lari Compitali da _compita_, crocicchi. — Cosa fatta capo ha.
— Napoli, Palermo, e le città minori dell’ostro avevano pure in questi
giorni i loro Compitali sur ogni strada, sotto la forma di donne o di
uomini lividi e sanguinosi. I loro padri abbatterono furiosamente la
idolatria e fecero calce delle statue di Giove e di Marte; e con quelle
di Venere e di Mercurio fusero campane. I loro figli ristabilirono
l’antica fede. Ma, avendo perduto la nozione del bello, adorarono
le mostruosità, e, non ha molto, accendevano i lumi ed appendevano
gingilli d’oro e di argento su quanto di più brutto ed osceno veniva
fuori dallo scalpello di un Lupercale.

Consultato il divo Apollo sui sacrifizi da offerirsi ai Lari Compitali,
il feroce prete — che trovossi alla instituzione di quel culto —
rispose per lui — _caput pro capite_. — Allora Tarquinio pose sui
piccoli altari capi mozzi di miseri bambini. Giunio Bruto, dopo la
cacciata di quel tiranno, tradusse meglio l’oracolo ed offerì teste di
aglio e di papaveri. Più tardi gli fecero lieti dei primi fiori delle
stagioni. — In Pompei eravene uno presso la fontana del Lupo, più in su
della bottega del lattaio, che ha per insegna una capra di terra cotta.
Era dedicato al padre dell’Olimpo. Gli altri Lari — protettori dei
quatrivi e delle strade — si dicevano figliuoli a Mercurio e prodotti
dalla ninfa Lara. E i loro altari — oltre allo aver banchi di riposo
pei viandanti — servivano altresì di asilo ai rei perseguitati. Laonde
Plauto narra nella Mostellaria come Tranione temendo di ricevere da
Teuropide i colpi che aveva sì ben meritati, si assise sul Compitale
dinanzi la casa di lui. E Properzio canta _Triviae lumina ferre Deae_,
di Cinzia che correva a portar lampade sugli altari di Diana Trivia.

Il selciato aveva perduto le sue tristezze. — Nell’odissea di quel
giorno faceva le parti dell’Oceano. — Salti, gridi, rumori per
tutto. Ogni _impedimenta_ diveniva tribuna. Ogni Compitale, teatro. E
gridavano:

— Trionfo, trionfo! Marte e Venere Fisica ci salvarono! Giano aprì
la porta dell’Olimpo e fece escirne gli Dei soccorritori. O Lari,
accordateci pace e protezione. Onore ad Iside e ai suoi sacerdoti.
Trionfo e gloria agli Dei immortali! —

E lungo le vie, e nelle _pistrinae_, e nelle _popinae_ — dovunque
era scolpito, od in terra cotta, il simbolo del Dio degli orti — le
facili e proterve fanciulle intessevano corone di rose e di frutti e le
inchiodavano come cornice intorno a quel segno della forza muscolare,
dell’abbondanza, della ricchezza della natura. Ed un uomo opulento,
— M. Epidio Prisco, poco più innanzi della fontana di Venere, gli
sacrificò un asinello, le cui carni servirono la sera al banchettare
gioioso degli schiavi in una taverna.

Intanto l’angiolo delle ore estreme, raccolte le sue ali sanguigne,
correva con passi frettolosi sul campo della offesa e della difesa.
Alle grida della battaglia erano succeduti flebili lamenti — appello
lontano ai loro cari di quei feriti che la Morte pietosa baciava sulla
bocca per soffocarvi il dolore. — La terra era spogliata di ogni suo
riso. Il sole cadeva. L’ombra uniforme spargevasi su tutto. — Membra
mozze — carni stracciate — sangue aggrumito e nero. — E sopra la
faccia della penisola, il pensiero degli Italioti — oltraggiato, ma non
defunto — attendendo per secoli l’ora della grande vittoria.

Epidio Rufo Italico — il figliuolo di Prisco — fu trasportato nella
casa paterna — quella dal lungo podio sporgente, sormontato da una
ringhiera di ferro che dalle estremità menava alla porta mercè le
due gradinate a rivolta. Acte gittò un grido e semispenta lo strinse
al suo cuore. Egli premè convulso gli occhi e le pallide guance di
quell’afflitta, girò lo sguardo intorno alla camera piena di memorie,
di tenerezze e di singhiozzi, ov’erano il padre, la sposa, la felicità
dei suoi giovani anni. E stringendo colla mano il petto piagato,
prosciolse le membra. — Aveva dato lo eterno vale al padre in lagrime,
alla sposa svenuta, alla felicità morta!




LA CAMPAGNA.

SCENE DELLA VITA RUSTICA.

=Anni di Roma 695 — Anni avanti il Cristo 59.=


                         A GIUSEPPE GARIBALDI.

                                  II.


Re Gige reputavasi lo avventurato tra i mortali — Per meglio assicurare
la sua fede, interrogò l’oracolo di Delfo. Nè dubitava di una lieta
risposta.

— Di’ il nome del più felice fra gli uomini. —

— Due nomi; non uno — Fedio ed Aglao. —

Piccato nel vivo, mandò attorno i suoi consiglieri. Spedì messaggi per
ogni dove, affine di rintracciare quegli ignoti individui che nel paese
nessuno conoscea nè di persona, nè di nomèa. Dopo molte ricerche il re
venne a sapere, che Fedio era morto, difendendo dai prepotenti il sacro
suolo della sua patria; e che Aglao ancor viveva in Arcadia, coltivando
colle sue mani un povero campicello, lasciatogli dai suoi padri.

L’oracolo volle significare a quel re, la felicità non essere chiusa
nei forzieri d’oro, nella corona gemmata, nelle braccia di una donna
amica e nel numero grande degli adulatori alla fortuna, — sibbene,
nello esercizio dei doveri di un cittadino, quali sono precipuamente,
servire il proprio paese e coltivare il suo campo.

Se in Roma fosse il culto del vero Iddio, e si compiacesse rispondere
oracoli, ed un re gli chiedesse il nome del più felice tra tutti gli
umani, risponderebbe:

— Giuseppe Garibaldi! —

Ebbene! — I nostri avi gloriosi vivevano la sua vita in Caprera.
Compiuto lo ufficio di consolo, di senatore, di duumviro, di decurione,
di pretore, di edile, di questore, di tribuno di soldati, correvano
ai piaceri della vita campestre; circondati da uomini laboriosi e
contenti, vedeano coronate le modeste fatiche da una ricompensa sicura;
godevano la tranquillità e la pace in seno di una famiglia felice;
sfatavano le brighe che traggono seco notti affannose; studiavano ad un
tempo la natura e le arti; e terminavano la loro carriera, o nel bacio
degli affettuosi figliuoli, o cogli occhi irradiati dalla vittoria sul
campo di battaglia della repubblica.

Due uomini montarono a cavallo — salendo sur un sasso elevato sull’orlo
della via, come di aiuto — allo escire della porta di Herculanum, in
Pompei. L’uno era giovane e l’altro nella piena maturità. — E siccome
il cielo annuvolato minacciava la pioggia, eransi avvolti in una veste
di pelle detta _scortea_ e sul capo avevano il _petasus_, berretto a
larghe ali. — Di qua e di là della via erano vigne, olivi, pioppi,
ciliegi, mandorli e fichi. Lo aspetto di una ricca cultura e del
fertilissimo territorio offeriva uno spettacolo maraviglioso.

— Sì. — Ho deciso. — Quei coloni non mi vanno. Gli è vero che tutto è
a loro rischio e pericolo. Ma per fornirmi delle legna convenute, mi
tagliano il bosco che io stesso piantai. I primi frutti raramente li
portano in casa. E i denari del fitto a centellini. — Il lustro scade.
Siamo presso alle calende di marzo. E ritoglierò la terra per conto
proprio.

— Credo, anche lo agente che tu mandavi sul luogo per raccogliere le
parti di frutti convenute, ti fosse mal fido. — Gli è che ognun tira
l’acqua al suo prato. —

Ben dici. — Ma gli schiavi — razza incurante e onerosa — che colà
impiegherò, converrà sorvegliarli. Al mio vicino lasciarono deperire
il gregge; e i buoi e le vacche ed i muli li affittavano a chi loro li
chiedeva. Per abito, quei pigri coltivano male, lasciano rubare le uve,
o le rubano per sè. E sul registro segnano minori quantità di grano
raccolto e più semenza di quella impiegata. — Come regolare la cosa?
Di uso se ne seminano da quattro a cinque _modii_ per jugero, secondo
la bontà del terreno. E il ricolto è diverso se si semina in autunno
o all’appressare del verno; se in un tempo umido, od in tempo secco; e
secondo la pioggia abbondante o la neve.

— Le visite le faremo frequenti — _Frons occipitio prior est_. —
È proverbio trito. L’occhio dello schiavo non può valer quello del
padrone. — E perciò leggeva l’altro dì nel trattato di Agricoltura di
Magone, il cartaginese: _Qui agrum parabit domum vendat_. —

— _Est modus in rebus._ — Senza abbandonare la città, e i propri uffici
pur doverosi, e la educazione dei figliuoli, si può allontanare il
grappolo guasto dal sano e non permettere che la incuria — a conti
fatti — costi più della debita oculatezza. Imperocchè, siavi un adagio
non meno vero dello accennato poc’anzi, il quale dice: _Laboriosior est
negligentia quam diligentia_. —

I cavalli si posero al trotto. — Un aquazzone irruento per pochi
istanti calmò ben presto la nuvola di polvere che le zampe ferrate
agitavano. Rimessisi al passo, il più anziano proseguì:

— Dio Pluvio, invece di offenderci, ci giovò. Ed è tutto un beneficio
di lui su queste terre, composte di pomici infrante e di ceneri,
vomitate in tempi remotissimi dal vecchio Vesvius. — In continovo
accordo col dio di Delo, noi abbiamo fertili e prosperosi i campi di
ogni bene e di ogni delizia....... Non credere già, o mio Lucio, ch’io
voglia condannarmi, o condannarti a viaggi troppo frequenti ai raggi
della canicola. Farò la scelta di un onesto _villicus_ che il buon
vecchio Coecilio Casella mi proporrà; e cotesto schiavo dirigerà in
capo, sotto i miei consigli ed i tuoi, i rustici lavori. Mi ha pur
promesso un valente _promus_ per la fattura dei vini. Quelli avuti
sinora sono dolciumi che guastano lo stomaco. — Voglio del buon falerno
che a dieci e a quindici anni consoli. — E del surrentino, adatto ai
convalescenti. — E di quello di Cales, leggero e profumato. — Ed il
cecubo secco, generoso e confortante. E quello eccellente di Setin, il
quale possiede le più notevoli qualità digestive.

— Ve’, padre, la bella casa che sorge ridente sul pendìo del colle —
Non parmi vi sieno colonne, nè portici. — Oh! Una sola statua.

— Sì, figliuolo mio. Una sola — quella della Libertà, dallo sguardo
aperto, dalle braccia robuste, dalla prestanza di tutte le forme. — La
situazione che tu ammirasti attira l’attenzione; e la vastità dei campi
allo intorno annuncia la ricchezza di chi li possiede; e l’un delubro
rivela i nobili pensieri del cittadino che presso dimora. — È Casella
il suo nome, il vecchio amico che tu non conosci, perchè non abita più
la città. Egli fu _Meddixtutticus_, il primo dei magistrati municipali
quand’io era pur giovanetto. Era stato _suffectus_, succedaneo al
comandante gli eserciti ai tempi che furono. Quindi egli stesso ordinò
le battaglie a difesa ed a gloria del nome sannita. Ha l’animo austero
che conservò la impronta dei tempi.

— Comprendo io bene un vecchio generale che si toglie dallo sguardo
del popolo di altra età e che pure è costretto a rispettare; che si
sottrae dalla folla dei clienti importuni; e coltivi nel suo pacifico
ritiro; e si circondi di una numerosa famiglia di schiavi — ricordo
vivo del potere già esercitato. — Ma il repubblicano del mattino sarà
il Tarquinio della sera su quanti lo attorniano.

— Poichè siamo presso il viale che ver lui mena, andiamo. Voglio, senza
risponderti, che tu lo conosca e lo giudichi. —

Una strada ascendente, attelata da pioppi italici e da una siepe di
albospino, aprivasi da un cancello di legno, presso il quale da un
lato era una camera per l’_ostiarius_ e dall’altro un simile fabbricato
in _opus recticulatum_ — ossia muratura a scacchi di tufo, riquadrata
negli angoli da mattoni sopraposti — che aveva la iscrizione a grossi
caratteri rossi

                               CAVE CANEM

e sotto, la stia, dove abitava lo incatenato ed abbaiante molosso.

Per essa i due si avviarono al galoppo. — Giunti presso il simulacro
della Iddia colà venerata, smontarono ed il maturo diè ordine allo
schiavo accorso di menare i cavalli nella stalla, mentr’essi sarebbero
iti a sorprendere il suo padrone.

Nelle diverse aiuole piene dei fiori della stagione erano viole,
mandorli a fior doppio, rose di Preneste e giacinti. Più oltre era un
largo bacino, circondato da zolle erbose e pieno di acque limpidissime,
incanalate da una sorgente lontana. Dai verzieri coronati di bosso
si andava verso il bosco e si scendea nell’orto. — Colaggiù, curvato
dagli anni e dalla specie di lavoro che allor lo occupava, era Coecilio
Casella, presso il quale i due sopraggiunti movevano. Al rumore dei
passi sulle sabbie crepitanti, il vecchio levossi; e riconosciuto lo
amico, corsegli incontro e abbracciollo.

— O mio Vestorio Tucca, salve — _Si tu vales, et ego valeo._ —
Raccoglieva baccelli pel mio desinare.

— _Gratulor tibi prius. Deinde ad me convertar._ — Questi che mi
accompagna è Lucio, il figliuol mio, il quale arde del desio di
conoscerti. —

Quel canuto baciò sulla gota il giovanetto; e, presolo per la mano, lo
invitò col padre a sedere sur un banco di pietra.

— Voi camminaste. — Io fatigai. — Ognuno acquistò il diritto di
riposarsi..... quantunque per la mia età quel diritto io il tema
invece di bramarlo. — Questi alberi che ci adombrano colle foglie
nascenti, io gli piantai e gl’innestai di mia mano. — Vedi giù,
davanti la _fructuaria_, dov’è quella fabbrica disposta intorno ad
una corte? I miei giovani schiavi fanno buche presso gli alberi di
olivo per seppellirvi ritagli di pelli, piedi e corna di animali —
possente concime che si forma e mette tre anni a consumarsi. Ebbene!
Essi raddoppiano di zelo allo aspetto di me vecchio, che divido i loro
sudori e le loro cure. — Qui, nè tiranno, nè schiavi. Laonde lo stato
di quei miseri più sopportabile.

— Ah! tu sei sempre degno d’impero, perchè sapesti servire!

— Il tuo figliuolo osserva, con vagante e smanioso sguardo, le varie
culture della mia villa. — Giacchè il sole ci volge i suoi tepidi
raggi, permetti che a lui — non indifferente — mostri le occupazioni
mie e dei miei servi, ed i risultati che ne otteniamo.

— Grazie, o mio, della somma bontà che ti muove. — Ho molto caro che
Lucio apprenda da tanto esempio — non la cultura dei campi soltanto —
sibbene la virtù del tuo carattere antico.

— Qui sopra, o amici, è un colle, bene esposto all’oriente, ove cresce
un vigneto delle specie migliori. — Non tutte erano nostrane. — Ora sì,
mercè le mie cure. — Andiamo a vederle. — Sbottonano già. —

E lo adusto vecchio, appoggiandosi al braccio di Lucio, seguitò:

— La vite annosa si piace appoggiarsi su giovane olmo. — E anch’io
così. — Però, ti prego, non affrettare i tuoi passi, com’io non
allenterò i miei. Cercheremo riescirci gradevoli, quantunque Lucina
non assistesse lo stesso giorno al parto delle nostre madri. —
Faremo bugiardo il proverbio che dice: _Pares cum paribus facillime
congregantur_.

Mira! Cotesta strada larga che noi ascendiamo appellasi _cardinal_ con
parola etrusca, perchè taglia il terreno dall’ostro al settentrione,
verso i poli del mondo. Le vie traversali si chiamano _decumanus_. — E
sono sì larghe, perchè i carri non abbiano difficile il passo in tempo
della vendemmia. — Laonde, lo aspetto intero di una vigna si presenta
distribuito in regolari quadrati, detti _hortus_, cioè giardino. —
Ciascun gode di una divisione siffatta — il padrone che sa le piante
egualmente esposte al sole ed al vento e con facilità può sorvegliarle
— ed i servi, che veggono ad ogni colpo di vanga accelerarsi il termine
del proprio còmpito. — Ogni _hortus_ contiene cento cinquanta viti ed è
largo un mezzo jugero quadrato. Le propagini si attelano in _quincunx_
e traversalmente alla ascensione del terreno, a fine di mantenere le
terre ed impedire alle pioggie ruinose di cacciarle tutte nel piano.
Alcuni fanno crescere la vigna sui pioppi come nella Campania; altri
sulle canne come in Arpinum; altri su pali tenuti insieme da corde di
crine, come in Brundusium; altri sugli olmi come nella Emilia; altri su
brevi pali, come presso i Maruccini e i Peligni; altri aggioga i tralci
tra un albero e un altro, come presso i Piceni e i Galli-Cisalpini;
altri la lascia sdraiata per terra, come nell’isola Pandataria, ma di
tal modo mangiano il suo frutto le volpi, i ratti e i coltivatori assai
più che il padrone. — Io, come vedi, uso la forca, che è quel palo
fisso nella terra perpendicolarmente, su cui posano in traverso altre
pertiche che la vite abbraccia coi suoi viticchi. Così godo di due
vantaggi in una volta — il terreno caldo e secco è riparato dai raggi
ardenti del sole — ed i grappoli maturano meglio e fruiscono di una
ventilazione salubre.

Gli Etruschi tagliavano la vigna nel marzo. E gli Osci, padri nostri,
l’appresero a fare nel dominio dei primi. I Latini la lasciavano libera
e ne ottenevano un liquor fermentato che inacidiva ben presto. Re Numa,
per costringere il suo popolo a praticare il buon sistema, dichiarò
in una legge come ogni libazione fatta con vino prodotto da vite
non potata fosse orribile sacrilegio. — Agl’idi di maggio io faccio
spampinare poco innanzi la fioritura. E rinnovo la operazione — qui
che fa caldo — quando il grappolo è formato. E i miei servi vangano e
concimano il vigneto due volte l’anno al levarsi delle Pleiadi — quando
tolgono i primi pampini e rimboccano il ceppo con letame paglioso e un
po’ di sale — e allora che i racemi imbiondano e anneriscono.

— Una volta, o Casella, due curiose specie di uva, che la industria ti
aveva additato, qui mi mostrasti. — Ne mangiai e ne ho lieto ricordo.
— Sii cortese nel farne motto al mio Lucio, che è tutt’orecchi per
ascoltarti.

— Tutto l’_hortus_ superiore, ch’è di prospetto, è composto di tali
viti che danno il buon da mangiare. — Ecco come io mi vi adoperai.
Presi quattro ramicelli di diverse specie, delle qualità migliori. Li
ligai forte e li cacciai in un tubo di terra cotta, lasciando due soli
bottoni fuori. Quindi, in una fossa, ricoperta di letame. — Corsi due
o tre anni, quando mi avvidi che i ramicelli eransi collimati insieme
e formavano un solo stelo, ruppi il tubo in cui era chiuso, lo piantai
nella terra ed i grappoli che ne colsi a suo tempo offerirono chicchi
di sapore e di colore svariato.

Operai anche nel modo seguente. — Spaccai una margotta nel mezzo
in tutta la sua lunghezza. Ne trassi il midollo. — Collimate le due
parti, le legai strette senza offenderne i getti. La piantai nella
terra letaminata e l’annaffiai spesso. Ed il frutto che ne mangiai non
produsse mai acini.

Coteste operazioni sono divertimenti, o Lucio, e non entrano
nell’ordine della cultura. La specie buona s’innesta — ecco il modo
di propagarla, e trarne pro. Ora ti nominerò le migliori qualità ch’io
posseggo.

L’_amminea_, i cui grani sono coperti di fine lanugine. È della
stessa specie la _gemina_, perchè i grappoli fioriscono a due a due.
— La vite di Nomentum è molto feconda. Ve n’ha di due sorta. Una
la chiamano _rubelliana_, perchè il suo legno è rossastro dentro.
E l’altra _feciniana_, perchè il suo vino dà sedimento copioso. Ho
una moscatella; che pur dicono uva _apia_, perchè ricerca con amore
da quegl’insetti che ce la rendono nel verno col loro mele odoroso.
Un’altra uva dicesi _uncialis_ dal peso dei suoi grossi chicchi. Nel
recinto che qui vedete ne coltivo più di ottanta specie svariate,
che riunite nel tino danno squisitissime qualità di vino. — Che più?
Nominartene una per una fa lungo il discorso ed inutile. Sarebbe lo
stesso dirti il nome di ciascun granello di sabbia agiti Favonio. Ti
basti che ne ho di Chio, di Thasos, di Spagna, della Rhezia, di Sicilia
e del paese degli Allobrogi. — Ora, ridammi il braccio e scendiamo a
vedere l’oliveto. —

Lucio era incantato della semplicità di quel vecchio illustre e della
bonarietà che spiravano le sue parole. — Si sentiva superbo di essergli
al fianco e pensava quanti in Pompei gl’invidierebbero una tanta
fortuna.

— Tu, o Vestorio, avrai detto al tuo figlio come quegli alberi cui
ci avviciniamo ed ai quali i Greci attribuirono una origine celeste,
fossero stati qui da essi portati. — In Italia non v’erano. Anzi,
nell’anno di Roma 505, una libra di olio valeva dodici assi. Ed oggi
ce ne danno dieci per un asse. — V’è chi ha scritto, vi è pur chi dice
che quelli che piantano ulivi non ne veggano il frutto. — Errore! —
Ecco, siam giunti. — Vedete i grossi alberi! E tutti da me piantati.
— Antestio, gli ulivi che piantammo gli ultimi, da quanti anni messi
sotterra? —

— Mio buon padrone, nell’anno del tremuoto........ ed in cui partorì
la mia figliuola. Giunti al quarto mese della germinazione, sono cinque
anni. —

— Vedete, amici, sono cinque anni, e già compensano le nostre
sollecitudini! — Antestio, togli un ramicello delle tre qualità
migliori commestibili. — Vo’ che le osserviate da presso..... Questa
dalla foglia larga ed argentea al di sotto viene di Spagna e perciò
ai suoi grossi frutti diamo il nome di _orchites_. — Dapprima li
ponghiamo in un bagno caustico, composto di acqua stillata dalla calce
e dalla cenere. Tratto tratto si esaminano tagliandone la polpa col
coltello. Appena si scorge il punto che il ranno è arrivato a mordere,
le olive si tolgono e si lavano con acqua pura. Indi si tornano a
maturare nella salamoia, formando sopra uno strato di steli e di fiori
spezzati di finocchio salvatico. — Queste dalle bacche più larghe le
chiamiamo _pausiane_; esse pure formano la delizia della nostra tavola
nello inverno. L’ultimo ramicello appartiene ad Emerita, terra della
Lusitania. I suoi frutti sono grossi e polputi. — Non abbisognano
di salamoia. Basta esporli durante le fredde notti del decembre e
del gennaio all’aquilone e divengono dopo una decade dolci come uve
passe. —

Poi, voltosi al monte, riprese:

— Vesvius — creatore di questa deliziosa contrada e che talvolta,
quasi schiacciasse col suo peso i Titani, freme e traballa — oltre le
pomici, la pozzolana e quelle spugne rossastre di cui ci serviamo per
fabbricare muri leggieri e soffitte, pare ci abbia pur dato una pietra
dura quanto il granito. Me ne servii per molti lavori qui. — Or, sopra
i crepacci della roccia eransi piantati di per sè alcuni caprifichi
salvatichi, i quali portavano le loro frutta con maturità anticipata.
Allora io piantai dinanzi fichi di qualità migliori.

Perdona, o giovanetto, la parlantina di un vecchio che la vanità ha
sorpreso sul declinare della vita. I miei coetanei sono lodatori di
antiche cose. — Nè io son libero di quel difetto, se difetto è. — Ma
lodo pure le nuove, perchè sono presso la natura che si rinnuova pur
sempre. — Là a diritta ho una piantagione di peri. Mi danno frutta
squisite. Ho la _decimia_ — la _dolabella_, che ha lungo il picciuolo
— la _laurina_, il cui aroma somiglia a quello della corona degli
eroi — la _nardina_, che ha l’odore del nardo — la _superba_, che
chiamasi così per antifrasi, essendo la più piccina della specie — la
_libralia_, che vien colta dopo i primi geli — la _veneria_, dedicata
alla Iddia che a me sorrise e a te sorride benevola, detta così per la
forma elegante e pei suoi vivaci colori. — I cotogni che miri in fondo,
dai rami ricurvi dal peso che l’anno scorso patirono per la quantità
dei suoi frutti pesanti, gli ho piantati per adornare gli altari dei
domestici Iddii e per la loro fragranza. — Là, a sinistra, su quel
terreno più fresco e più pingue, sono alberi di mele che sbocciano
già le loro tenere foglie. Ve’ la primaticcia, che apre la fila. Poi
la _sceptia_, che devesi ad un mio liberto. — Le più ricercate sono
le _appiolae_ — le _claudiae_ — le _manliae_ — le _gestiae_ — tutte
coi nomi di quei che le fecero primi conoscere. — Furono uomini egregi
del vecchio Lazio e del Sannio; i quali, dopo avere condotto i soldati
della repubblica sul sentiero della gloria immortale, tornarono come
me alla onesta quiete dei campi d’ond’erano partiti. — Nessun piange
o muore per queste loro conquiste. — Esse sono tutte ed a tutti
benefiche. — E la pubblica riconoscenza gli nomina e gli nominerà
quantunque volte gli uomini ricorderanno i loro frutti squisiti,
fintanto che i padri trasmetteranno ai figli le due nobili lingue della
libertà e della civiltà. —

Il vecchio Casella, di curvo che era, sollevò baldo il suo capo
canuto, e due cicatrici mostrò sulla fronte e sul collo. — Il giovane
fu commosso da quello aspetto dopo quelle parole e strinse la mano al
padre suo. Tre diverse fasi di sole erano in presenza — l’alba — il
mezzodì — ed il tramonto. Ma tutte si coloravano di una tinta splendida
ed ardente. — Lucio, dominato dalla fiera inspirazione dell’onore e
della gloria, era grande, magro e un po’ stretto di spalle. Bruno e
dai capelli naturalmente arricciati, aveva un fuoco negli occhi che
rivelava gli entusiasmi del cuore. — Vestorio; di media statura e
tarchiato e forte, aveva seguito la carriera delle armi ed era poeta
come un valente uomo dev’essere; imperocchè il medesimo slancio solleva
di terra — per trasportarle con ala possente verso un nume misterioso
ed ignoto — la mente coraggiosa e la mente inspirata. Nei tempi di
pace adempiva alla pubblica funzione di questore, che la elezione del
popolo gli aveva dato. — Coecilio era un uomo di una forte razza, di
cui non abbiamo che un solo modello ai dì nostri. Nè grande, nè piccolo
di persona. Grave negli atti e nelle parole. Pari sempre alle varie
venture della vita. E tutto lo aspetto raggiante di un velato e mesto
sorriso che nessun pericolo, per tremendo che fosse, avrebbe avuto la
forza di spogliarne il suo labbro. — La emozione di quei tre era come
lo ardore profondo di un sentimento che appena facevasi sospettare
al di fuori — Il vecchio fu il primo a parlare e disse, rivolto agli
amici:

— Visitammo abbastanza i piedi degli alberi, i miei sono stanchi.
— Forse i vostri, no. — Pure, per tutti stimo conveniente il
riposo. —

Gli altri assentirono con un cenno del capo. Ed avviandosi verso
l’abitazione, traversarono la parte ove si coltivavano i legumi.

— Qui sono le piante nominali di famiglie illustri e che sempre più ci
richiamano alla memoria la origine d’onde venimmo. I Pisoni derivarono
da un coltivatore di piselli. — I Lentuli, di lenticchie. — I Fabi,
di fave. — La cura dell’orto fu cura di uomini sommi che le istorie
ricordano. — Qui, di fuori, non sono che gli asparagi che riportai di
Ravenna. — Ah! pur vo’ mostrarti il luogo d’onde io traggo gli aromi.
— Costì sono seminati il _libisticus_, che tien luogo della mirra —
il _cominus_, la cui semente fragrante piace tanto ai colombi — la
_nepitella_, il cui sapore mordente condisce le vivande. — Ma, andiamo
a rifocillare lo stomaco, che ne ha bisogno. —

Il triclinio di quell’uomo virtuoso era semplice come la sua persona.
— La camera bianca di calce. Tre larghe finestre vi facevano penetrare
il dolce tepore della stagione. Il sole era raggiante. La natura tutta
chiusa in un suo pensiero di amore. — Dopo aversi lavato le mani e
propinato agli Dei domestici della patria, si assisero attorno al
desco, su cui fumava un pezzo di montone arrosto. Pane saporito, latte,
mele, frutta ed erbaggi. — Il vino era mesciuto in coppe di terra di
Nola, ornate di belle pitture. — Gli uccelli cantavano i loro inni
sugli alberi vicini.

Dopo una seconda abluzione si levarono dal desco. Ed andarono verso una
stanza, ove trovarono il _librarius_, lo schiavo che tenea conto dei
papiri e trascriveva quelli che Casella facea venir di Herculanum e di
Cuma a prestito dai suoi amici. La camera era sopra un terrazzo elevato
e la luce veniva dentro da spiragli praticati sul tetto e coperti da
vetri. Tutto allo intorno era un armadio. E dentro, distesi su lunghe
tavole, posavano le leggi, i plebisciti, i decreti dei magistrati e gli
editti meglio importanti. Venivano quindi gl’istorici, i filosofi, gli
agronomi.

— Ieri piovve e ben tardi rasserenò. Laonde qui venni, cacciato dai
campi. Pamphilo — questo giovane greco, che ora copia le opere di
Catone — mi fece lettura per più ore del libro. — Io non saprò mai
imitare quel saggio. —

Vestorio si fe’ tosto a richiedergli:

— Stupisco della tua severità. — Dinne a noi le cagioni. —

— Catone studiò forte la economia e la volse all’eccesso. — In
verità, i risparmi oculati dei cittadini fanno fiorente uno Stato.
Ma non bisogna spingerli allo estremo. — Nè avaro — nè dissipatore.
— Rammentati, o Lucio, che anche gli eroi sono soggetti a fallire.
E i grandi uomini debbono continuo studiarsi, onde evitare che i
loro errori non mangino la grossa parte dei benefici effetti delle
immense loro virtù. — Immagina, Vestorio. Egli prescrive di menomare
il cibo agli schiavi quando i fichi maturano e di niegare ad essi la
distribuzione del frumento, quando pei campi e sulle siepi sono bacche
che sappiano in alcun modo surrogarlo. — E raccomanda d’inviarli,
quando sonosi fatti vecchi, al mercato, per non avere a dare alimento
ad uomini inutili. — Ora comprendi ch’io non posso imitarlo. — Io ne
ho alcuni, pieni di giorni al pari di me e sono tutti affrancati. —
E, di abito, soglio ritardare di pochi anni — a seconda della loro
laboriosità — la tonsura dei capelli e il dono del berretto frigio. —
Ed oggi tu, magistrato, procederai legalmente allo affrancamento dei
meritevoli. — Pamphilo, tu sai quali sono. Invitali a radersi le chiome
e ad attenderci sotto il delubro della Dea.

— Nobile amico!

— Ecco le mie gioie e i miei teatri; lontano dal fracasso del
mondo. —

Lo attendere fu corto. Le grida di gioia ed un inno greco, cantato da
giovani donne, annunciò ch’essi potevano discendere.

Il primo ad essere fatto liberto fu Pamphilo. Coecilio gl’impose la
destra sul capo e pronunciò:

— Io voglio che questo uomo sia libero e goda dei diritti di
cittadino. —

Vestorio, poichè l’altro tolse la mano, gli toccò tre volte la testa
con una baccetta. Allora, il padrone lo prese pel braccio, lo fece
girar sui talloni e gli diè un piccolo schiaffo.

— Ora sei libero. E possa giovarti la libertà che ti rendo per quanto
ti fu grave la condizione in cui io ti conobbi. —

Il giovane piangendo abbracciò il suo generoso signore. E questi a
lui sussurrò brevi parole all’orecchio. — Quindi la stessa funzione fu
praticata a favore di Sica, di Castricio, di Precilio, di Egypta, di
Mustella, di Thalna e di Cerellia.

La _vindicta_ era compiuta, allorchè Vestorio ebbe scritto i loro nomi
sur una tavola incerata. Chiamavasi così, perchè Vindicio fu il primo
schiavo cui in Roma venne conceduta la libertà per aver con generosa
denuncia salvato le sorti della repubblica. — Ed allo schiavo si facea
fare un giro sopra se stesso, per indicargli che quindi innanzi poteva
andare dove meglio gli talentasse. Però tutti aggiungevano al loro
nome quello dello antico signore e rimanevano aggregati in certo tal
modo alla famiglia, divenendone clienti. Non potevano sposare nè la
sorella, nè la figlia, nè la vedova di quegli che li aveva affrancati
e si distinguevano dai cittadini nati liberi col coprire la testa del
frigio berretto. Nelle pubbliche magistrature essi e i loro discendenti
potevano aspirare soltanto al grado di maestri dei quatrivi e dei
paghi, o di edili del popolo.

Coecili Pamphilo, liberto di Casella, aveva portato un papiro. Ed il
vecchio, svoltolo, disse a Vestorio:

— Ecco il testamento nel quale ho instituito il mio erede universale. —
Privo di famiglia, non voglio che i miei beni sieno venduti alle grida.
— Alconte, mio schiavo, tu che per tanti anni mi accompagnasti nella
vita fortunosa che insieme menammo, sii tu il mio _hæres necessarius_
e, per cotesto atto, libero. —

Una gioia singolare circolò nelle vene degli adunati. Tutti baciavano
il lembo della veste del vecchio. Ed egli, con dolce sorriso,
assaporava la loro felicità nuova, come quel padre non ricco il quale
coi suoi risparmi ha raccolto danaro bastante per mandare al ballo le
proprie figliuole, vestite di seta.

— Ora, ognuno torni alle proprie occupazioni. —

I tre amici rimasero soli. — Ma dire le soavi emozioni sentite da Lucio
durante la festa della Libertà, è impossibile. — Ed era ancora assopito
in quei dolci pensieri, quando la mano di Coecilio lo scosse.

— Ti ho mostrato il giardino e il pomario. Debbo ora condurti
nel podere che dà il buono da nutricare questa mia numerosa
famiglia. —

Si avviarono a sinistra.

— Per amministrare un campo a dovere occorrono tre cose — acqua —
pascoli — e bosco. — Del bosco ho quanto basti. — Dell’acqua poco.
— Dei pascoli a sufficienza pel mio bestiame. — Per vivere felice
in campagna ne occorrono tre altre — purezza di aria — fertilità di
terreno — e buon vicinato. — L’aria è balsamica — Il suolo è fecondo —
I miei vicini siete voi, o Vestorio; e Lucio Tucca. —

I due amici lo abbracciarono con affetto.

— Io vergogno della vastità di questo podere. — Sono quattrocento
iugeri di terreno. — Cincinnato possedeva un orto, e vi piantava
cipolle quando vennero a nunciargli il popolo averlo nominato a suo
dittatore. — Caio Fabrizio era padrone di sei iugeri di terra. — Curio
Dentato, di sette — ... In verità l’onta mia rimanesi inosservata,
quando molti altri posseggono assai di più. —

Camminavano per campi pieni di graminacee e di rape salvatiche in fiore.

— Noi calpestiamo ora il terreno che fruttò l’anno scorso. Lo farò
arare a suo tempo, poi che abbia posato. Il terreno che colaggiù
verdeggia mi darà nel mese di Cerere quel prezioso ricolto per cui si
fa lieta la razza umana. — Andiamo là, ove Strobilo lavora coi buoi....
mirate i suoi solchi diritti!.... Bene... veramente bene! — .... Ehi!
Strobilo, ti felicito.... Eguali tutti! Oh! non può dirsi che il bravo
boaro _delira_! — Tu non esci dalla linea. —

Lo aratore fu coi buoi presso il padrone. Gli volse e poi li fece
posare per prender fiato; e colla destra teneva le redini e colla
sinistra appoggiossi sullo stimolo di cui si serviva per eccitare gli
animali al lavoro.

— Io son lieto di poter appagare coll’opera mia l’ottimo dei padroni. —
Hai altro a dirmi? —

— Vanne, o Strobilo... e che Saturno ti aiuti! —

Proseguendo oltre, si trovarono nell’aia e poi in faccia alla dimora
dei coltivatori. Il _villicus_ fu primo a presentarsi. Gli altri erano
tutti in movimento al nuncio che Coecilio era venuto da quella parte.
I bambini, che ignorano le teorie dei riguardi e che amano chi li
ama, usi alla di lui naturale bontà, gli corsero incontro gioiosi e
gareggiarono per afferrargli le mani. — Egli li carezzò dolcemente; e
poi:

— Ebbene? Caro Cilindro, come va la bisogna?

— Va! — Gli Dei ci concedono pioggia e sole. — Ho fatto seminare i
fagioli e prospereranno.

— Accompagnaci, se ti piace, nelle dipendenze della casa. — Vedi,
Lucio, nella _equilia_ di contro erano molti cavalli una volta. Come
belli i miei compagni nelle battaglie! Erano delle migliori razze
d’Italia. E ricordo con piacere Signifer, Deceratus, Murrhinus e
Pontifex, i due ultimi feriti insieme con me. — Ora non risponderebbero
allo scopo. Preferisco i buoi e le vacche ai cavalli. — Andiamo a
vederli. —

Entrarono nella _bubilia_.

— Ho molta cura del bestiame io. Mira che grandezza e che forza!

— Ma così belli davvero!

— Vestorio, ho corso il mondo cogli eserciti e in nessun luogo gli
trovai belli ed adatti per la loro forza al lavoro come nel Lazio. E
gli feci venire dal paese dei Volsci. — Che nobili corna!

— Di simili buoi dovette far uso Annibale per impaurire di notte i
Romani e scompigliarli nel loro campo. Nelle piccole corna dei buoi
nostrani non avrebbe potuto legar grossi fasci di frasche.

— Bene rifletti, o Lucio. — Non potetti per difetto di posto costruir
qui la stalla d’inverno e quella di estate. — Ma questa è in tali
condizioni da farne a meno. — Io non li lego. Una specie di giogo li
frena e non vieta loro verun comodo movimento. Tra l’uno e l’altro v’è
spazio bastevole perchè il bovaro possa girare loro intorno, allorchè,
sdraiati, ruminano. — Cilindro, fa aprire l’_ovilia et caprilia_.
— Tengo cotesti animali pur esposti al mezzodì come i buoi, per
allontanare il loro puzzo dalla casa dei coltivatori — che è in faccia
— e perchè sieno alla loro portata. — L’uomo non libero è pigro. Eh!
Bisogna venire a patti colla loro pigrizia! —

La soffitta di quel locale era più bassa, acciò il calore meglio vi
si concentri. L’ovile aveva un pavimento di mattoni. — E fra il parco
delle pecore e delle capre era uno spazio, coperto di una lettiera
abbondante di ramicelli di felce, su cui posavano le già pronte a
partorire.

— Vedete pecore di buona razza. — L’ho migliorata, incrociandola
con quella di Taranto. — E ne ho lana copiosa e più bella. — Nelle
_harae_ dei maiali non vi farò entrare. — Sì, nel _gallinarium_. —
Mirate i bei galli! Vi faccio per mezzo di un tubo penetrare un po’ di
fumo; avvegnachè pei polli sia gradevole e salutare. — Colà in fondo
è il _teporarium_ pei conigli che i miei coltivatori mangiano. E il
_chenoboscium_, ove le anitre e le oche mangiano e prendono bagni.
Quel muro alto che vedete lo feci rizzare per due usi — a riparo del
favonio — ed alla moltiplicazione delle lumache. — È il _cocleare_. —
Sul ruvido intonaco è il muschio che le attira ed io ne faccio delizia
della mia mensa. — Costì, sotto al _gallinarium_, è lo _ergastolum_.
Allorchè io compero gli schiavi non li trovo quali io gli vorrei. E
Cilindro deve piegarli. Or quando i miei modi ed i suoi non bastano
allo intento, conviene cacciarli in quel sotterraneo che riceve aria
e luce dalle alte e strette finestre che vedete. — Non li visiteremo
perchè sono bricconi. Ma.... diverranno buoni come gli altri che
abbiamo insieme affrancato. —

Una donna in sui trent’anni, tarchiata e di buon aspetto, si fa innanzi
a Coecilio, lo saluta e gli stringe la mano. Era la _villica_, la
moglie di Cilindro, ambedue liberti, agli ordini e al servizio del
marito suo, sobria, casta, non superstiziosa, ed avente cura alle none
ed agli idi di ciascun mese — siccome pure alle feste prescritte — di
appendere corone ad Epona, la Dea protettrice del bestiame e di volgere
preghiere per tutti al Lare domestico.

— Abbi gli Dei propizi, o buona Gymnasia. — Vi è da fare, eh?

— Il lavoro nudre, o padrone. E col tuo esempio l’uom si migliora. —
Che la Parca perda la forbice il giorno in cui si rammenta che Coecilio
Casella nacque e vive.

— Accetto lo augurio buono. — Abbi cura delle vesti dei miei schiavi.
E che i bambini sieno puliti. — Ve’, quello dai grandi occhi e il
paffutello che mi ha preso la mano. Ambidue hanno il viso sudicio.

— Sono la disperazione delle loro madri. Sempre nel fango, che sembran
oche.

— Ho notato molti crani di asino confitti nei pali qua e là. — È per
congiurarne la mortalità, forse?

— No, o mio Lucio. — Preservano i campi da influenze maligne. Ma, son
troppe; hai ragione!

— Che tu fossi divenuta superstiziosa, o Gymnasia?..... Amo la moralità
negli schiavi. Ma non voglio che luperchi schifosi, che aruspici ladri,
che indovini bugiardi, che maghe vagabonde vengano qui a mettere ubbie
nelle vostre teste. — La credulità istupidisce. La ignoranza mangia
i risparmi. Il bisogno del denaro mena al delitto. — .... Ed io non
voglio punire al possibile! — Intendi? —

Cilindro diè una occhiataccia alla moglie. La quale, confusa dal
rimprovero, si fece rossa e curvò la testa.

— _Peream male si_.....

— Basta, o Cilindro. Non vedi? La divenne taciturna come una statua.

— Sai il mio costume, o padrone — _sequere potius quam ducere funem_.
— Ma Gymnasia farà ch’io mi cangi e la fune la tirerò. — Qui mai più
ribaldi, intendi? Gl’inghiotta Cocito questi ladri delle campagne.

— Via! O buona, drizza su il capo e menaci alla cucina. — È la sede
della tua magistratura e non vi sarà a ridire colà. —

Era una vasta camera, a soffitto alto e bene imbiancata. Il focolare
aprivasi largo e con un banco circolare di muro per riscaldarvi
gli schiavi nelle giornate fredde del verno e per asciugarvi negli
acquazzoni estivi. Sulle pareti erano pentoli e tegami e tripodi di
ferro e vassoi di bronzo. — Sopra il pavimento di lapilli impastati
con calce e battuti lungo la parete sollevavansi spessi appoggi di
mattoni murati, sui quali sedevano grossi caldai nettissimi e _calati_
di piombo per conservare acqua da bere e al servizio della cucina.
Una porta laterale menava ai bagni degli agricoltori, i quali solevano
farvisi netti nei dì festivi e più spesso le loro donne e i bambini.
Sopra i bagni era l’_apotheca_, ove chiudevasi il vino nuovo, perchè
esposto al fumo maturava più agevolmente.

— Bene, Gymnasia. Sono contento di te. Perdona il rimprovero che ti
feci. _Oculus in agro fertilissimus._

— Or dove dormono i tuoi schiavi, Coecilio?

— Amo, o Vestorio, nel tuo Lucio la curiosità che addottrina. —
Qui, sopra la cucina e le stalle. — I bovari e i pastori, nelle
_bubiliæ_, perchè sieno vigili custodi del mio bestiame. — Credeva di
averti mostrate le loro cellule coi loro numeri sopra, per eccitare
la emulazione e fare ognuno testimonio della incuria dell’altro.
— La corte, colla fontana nel mezzo e, sotto, la cisterna per la
conservazione delle acque piovane, è chiusa dall’_horreum_, magazzino
ove sono in serbo gli aratri, gl’istrumenti di ferro ed i _tympana_,
carri a ruote piene senza raggi, destinati al trasporto dei pesanti
prodotti dell’agro. — Qui, tutto vedemmo che meglio importava. —
Torciamo ora i passi verso la mia dimora, e di là alla _fructuaria_,
dove convengono tutti i ricolti. — Addio, amici. Gli Dei vi concedano
tanti beni, quanti occorrono al vostro vantaggio. —

Alcune lepri correvano lungo i campi, e si rinselvavano nel bosco.
Le pernici squittivano accenti di amore. In un recinto di reti gli
agnelli spoppati apprendevano a nudrirsi dell’erbe tenerelle che il
tepore primaverile in quelle felici contrade facea germogliare. E
mentre le talpe minavano sordamente la terra, i passeri, le allodole,
i pettirossi e le cingallegre modulavano gentili armonie. La strada,
dov’essi passavano, seguiti da Cilindro, offeriva ai loro sguardi uno
spettacolo visto e rivisto e pur sempre nuovo. Il terreno discendeva
in anfiteatro sino alla riva, abbellito da gruppi di alberi, da
fichi spinosi e da case variopinte, che colle loro terrazze e coi
loro portici parea sorridessero a quel cielo olimpico. L’occhio
abbracciava in una volta il mare senza limite, il golfo di Stabia,
le coste abrupte di Sorrento, l’isola di Capreas, la lunga sponda di
Posilipo, la vaghissima Neapolis, lo artistico e nobile Herculanum e il
vecchio Vesvius, fucina degli spessi tremuoti e più tardi operatore di
distruzione e di morte. — Quei luoghi d’incanto avevano una espressione
di tutta dolcezza; e, come la musica, spandevano pei nervi un fluido,
padre d’idee passionate e triste. Coecilio arrestossi e levando la
mano.

— O Campania, giardino d’Italia! E tu, fiore del mondo, Pompei! —

Parlando su cotesto argomento giunsero dove erano diretti i loro passi.
— Il fabbricato aveva in mezzo una corte. — Ciascuna parte era addetta
al suo uso particolare. A diritta era il _torcular_, il molino delle
olive e il pressoio per estrarne l’olio. A lato era la _cella olearia_.
A sinistra aprivasi la _cella vinaria_, il cui pavimento di marmo
inclinavasi verso un bacino che riceveva il mosto dei tini scoppiati
per la forza della fermentazione. — Una grande vasca — _calcatorium_
— serviva alla pestatura delle uve. Era sollevato sur uno zoccolo di
quattro gradini e due bacini profondi ricevevano il mosto che poi si
versava nei _dolia_ — tini panciuti di terra cotta — posati lungo i
muri. Presso i torchi, in fondo, levavasi la caldaia, dove il mosto
convertivasi in vino cotto. — Poi, nelle anfore conservavasi nella
cantina, luogo chiuso e quasi oscuro, munito di qualche spiraglio verso
il settentrione.

Sopra era il _penus_ — il luogo ove si conservavano i commestibili
— e l’_oporotheca_, dove si serbavano le frutte in particolare. Nel
primo, le fave raccolte, i piselli, le olive edule, le zucche, le uova
fresche, i meloni ed altre cose simiglianti. — Nell’altro, i fichi,
le mele, le pere, e via dicendo. Quivi il suolo, le pareti e la volta
erano di marmo per intrattenervi vie meglio la frescura.

Il granaio chiudeva la corte coi suoi magazzini a volta e sollevati
dal suolo. Il pavimento era formato di lapillo, di calce e di sabbia
impastati col sedimento dai vasi da olio novello e non salato. Quando
era battuto ed asciugato, vi si spalmava anche dell’olio buono ed
il fondaco diveniva eccellente, e mai i sorci, i calabroni od altri
animali nocivi vi penetravano.

— Tu mi chiedesti un _promus_, o Vestorio. — E ti darò Mustella che ama
una tua liberta chiamata Pyrgo; talchè sarà felicissimo nel tuo podere.
E pur mi chiedesti un _villicus_ valente. — E ti darò Castriccio che il
mio Cilindro istruì. È per sposarsi con Cerellia, una delle schiave che
tu stamane legalizzasti liberta. — Noi, mio Lucio, correggiamo un uso
dei repubblicani di Roma. Quando quel gran popolo conquistò la Italia
e la Grecia, si appropriò il territorio dei vinti. — Se era coltivato,
i triumviri addetti all’amministrazione della nuova colonia o lo
vendevano o lo affittavano. Se il popolo aveva seriamente resistito, la
terra si dava agl’incanti; e quegli cui rimaneva pagava alla repubblica
il decimo del prodotto che ne ritirava. La quale tendeva a moltiplicare
ovunque la popolazione agricola che le forniva i più bravi soldati, i
più duri alle fatiche e non pensavano al male. Ma moltiplicandosi le
guerre — e gli uomini liberi, tutti a difesa delle aquile, — la cultura
dei vasti dominii fu giuocoforza affidarla agli schiavi, ch’erano le
popolazioni soggette. Tu hai osservato con quanta carità io li tratti.
— Non tutti così!.... E gl’italici si solleveranno i primi. I Romani
forse li domeranno col ferro o scenderanno a patti.... Verrà giorno
però in cui il lusso, la mollezza e i vizi disegneranno la curva della
caducità di un gran popolo. I campi popolati tutti di schiavi oppressi
saranno teatro a macelli e ad incendii. I crocefissi inchioderanno i
loro crocefissori... Oh! non permettano gli Dei tanta ruina. —

Il sole illuminava dei suoi ultimi fuochi le cose. Pei due Pompeiani
era tempo di ritirarsi. Ringraziato l’ospite illustre del cortese
accoglimento e della cessione dei propri coltivatori, Vestorio Tucca e
Lucio tolsero da lui commiato e lo baciarono sulla gota.

Poi che li vide a cavallo, Coecilio Casella fece loro un atto benevolo
colla mano e disse:

— Il tragitto alla tua casa è breve, o amico. — Ma in viaggio un
giovane allegro e caro, come il tuo figliuolo, vale un _cisium_ leggero
per un pedestre stanco e trafelato. —




IL FORO.

LA ELEZIONE DEI MAGISTRATI IN POMPEI.

=Anni di Roma 705 — Anni avanti il Cristo 49.=


                          A GIUSEPPE FIORELLI.

                                  III.


Il cielo era azzurro e radiante — come spesso — sull’ampio e vaghissimo
cratere partenopeo; una tinta che non è altrove; che infiamma e fa
pensare; che soffia sull’anima gli slanci passionati e le eroiche
rassegnazioni. — Il golfo era circondato da colline verdeggianti sino
al promontorio di Minerva e da un antico vulcano, detto Vesvius, le cui
lave vedevansi lungo la strada che da Pompei sulla riva del mare menava
in Oplonte, Retina ed Herculanum, o sulla via Popilia che guidava a
Nola, o sulla terza che, traversando il copioso Sarno e dividendosi in
due, metteva a Nocera ed a Stabia. — Bella per le sue rive incantate su
cui i poeti favoleggiavano le sirene, ricca pel suo fiume navigabile,
avente l’occhio sur una fertile pianura, e l’altro sulla collina
gremita di case variopinte, la città-emporio — detta perciò dai Greci
ΠΟΜΠΕΙΟΝ — era posizione militare, posto commerciale e luogo di delizie
in una volta. I pittori venivano a cercarvi le loro inspirazioni — i
poeti, i segni sensibili delle armonie della natura — i filosofi, le
felicità profonde nello stracciare un per uno i troppi veli parati
dinanzi al genio dell’uomo — i timidi, gli stanchi, gli uomini di
pecunia, il luogo riposato e tranquillo ove appena giungeva l’eco degli
avvenimenti fragorosi del mondo — i ricchi giovani, le più splendide
illusioni, i sorrisi delle labbra divine, gli sguardi vellutati che
vi passano il cuore e le parole dorate dalla intelligenza o profumate
dal candore che quella sola regione poteva ancora offerire, patronata
siccom’ell’era da Venere Fisica e da Iside misteriosa.

Correva l’anno di Roma 705.

Erano le calende di maggio.

Il quadrante solare e la clessidra di acqua — questa surrogante
l’altro nei tempi oscuri o nebulosi — deposti nei pubblici luoghi,
designavano già la quarta ora, corsa dopo il _diluculum_, parola
colla quale indicavasi la punta del giorno. — Malgrado però quelle
acconce invenzioni di cui Roma seppe godere sol cinque secoli dopo la
sua fondazione, lo _accensus_ — ufficiale subalterno dei _duumviri_ —
urlava a piena gola sui canti delle vie la misura del tempo che il sole
e l’acqua notavano, per meglio aiutare alla intelligenza dei forestieri
e della gente minuta della città e della campagna.

Sino dal mattino — aperti i cancelli di legno sullo sbocco delle otto
strade che mettevano nel Foro — il vasto recinto era un va e vieni
di fitto popolo di tutte le classi e di varie favelle. Oltre che i
meridionali hanno la tradizionale abitudine di viver meglio fuori
che dentro le proprie dimore — oltre che quel vasto edifizio solevasi
costruire di preferenza presso il porto nelle città marittime o nel
luogo più elevato e centrale in quelle dentro terra — siccome il sito
favorito dei ritrovi, dei commerci e delle riunioni di tutti i pubblici
affari — in quel giorno la Colonia Veneria Cornelia di Pompei era
chiamata alla elezione diretta dei suoi magistrati.

Sur ogni muro esterno delle case e specialmente sugli angoli dei
quatrivi, erano inscrizioni a grandi lettere di color rosso, mercè
le quali i devoti, i riconoscenti per ricevuti favori, i clienti,
i parassiti e i liberti sollecitavano il pubblico voto a pro dei
loro propri candidati. Per cui leggevansi elogi tributati a nomi
di cittadini e biasimo ai più sconosciuti od immeritevoli dell’alto
ufficio.

La politica dei padroni del mondo divise i paesi conquistati in città
latine, in città federate, in prefetture ed in colonie. — Erano libere,
ma nella dipendenza di Roma. Laonde non potevano stringere alleanza
tra esse, nè politica, nè privata, senza prima ottenerne il permesso.
— La Italia si divideva in dodici provincie indipendenti con leggi,
con usi più o meno simili a quelli che reggevano la grande metropoli;
e dal golfo di Taranto distendevasi sino al Rubicone, piccolo fiume che
sbocca nell’Adriatico. — E nel Mediterraneo giungeva sino a Luna, città
che gli Etruschi avevano fondato là dove il fiume Magra si gitta nel
mare. — La potente repubblica privava della libertà i popoli manchevoli
alla fede dei suoi trattati. — Se recidivi, gli deportavano tutti
fuori del loro paese. — O ne distruggevano la città. — O confiscavano
una parte del loro territorio. — Tutte le dodici provincie erano più o
meno colonie militari, cioè deposito di un corpo di fanti e di cavalli
in permanente osservazione; e dovevano pagare un tributo in uomini
ed in danaro. — E come puniva le aperte rivolte, così ricompensava le
tacite fedeltà. — E la colonia di Pompei era pur _municipium_. Aveva,
cioè, ricevuto il _munus_, il donativo tutto speciale dei diritti di
cittadinanza romana. — Onde la sua costituzione era pari a quella
dell’Urbe, che divideva i suoi abitanti in tre ordini — senato —
cavalieri — e popolo. La magistratura municipale di Pompei rassegnavasi
in un edile — nei duumviri che rendevano altresì la giustizia — nel
pretore — nel censore — nel questore, gerente del reddito pubblico —
nel patrono della città — nei maestri dei subborghi e dei trivi — ed in
cento decurioni — quelli che in Roma chiamavansi senatori — i quali —
decimando i coloni — formavano il pubblico Consiglio.

La forma del Foro — che fu l’_agora_ già costruita dai Greci — era
un parallelogrammo molto allungato. Un pavimento regolare di bianco
travertino, su cui sorgevano tutto all’intorno colonne d’ordine dorico
di svelte ed eleganti proporzioni, che sostenevano un porticato di
due piani. — Lungo l’area erano piedistalli rivestiti di marmo pario o
colorato, che presentavano in piedi le statue — votate in vita o dopo
morte — dei cittadini illustri per le loro virtù o per lo esercizio
di gradi eminenti. — Sur altri quattro erano statue equestri ed una
quadriga. — Sull’una estremità — quella che prospetta il mare — si
elevava un arco di trionfo. — E più su, due altri piedistalli con
statue. — Statue di marmo coronavano altresì il tetto del porticato
del Foro. — E nel fondo stava il maestoso edificio — alla cui sommità
giungevasi per una gradinata interna di marmo — il quale era in un
tempo l’_ærarium_ ed il tempio sacro a Giove ed al figlio Esculapio.
Siccome la costruzione di parecchi metri sollevavasi dal suolo, il
piano superiore lo avevano dedicato al principe dell’Olimpo, ed il
sottano a deposito della pubblica pecunia.

Otto strade diverse menavano al Foro. — Quelle dei due lati del tempio.
— L’altra che veniva dal crocicchio del Lupo. — Una dal canto del
Pecile — luogo riparato dal vento e dal sole, sacro al passeggio, dalle
pareti adorne di pitture sui fasti gloriosi della Colonia — metteva
nell’Araiostylo, l’ambulatorio sotto il portico a lato del tempio di
Venere. — Una veniva dalla marina ed immettevasi nel parallelogrammo
tra il suddetto fano, sacro alla Iddia della plastica bellezza, patrona
della città, e la _Basilica_. — Un’altra questa isolava dalle case
particolari. — Una imboccava nel porticato costeggiando a diritta
la scuola pubblica — ed un’altra ascendeva verso quel punto rilevato
sulla via detta dell’Abbondanza, per la immagine di cotesta divinità
spicciante acqua nel fonte di quel quatrivio. — Passavano per là quei
che entravano in Pompei dalla porta di Stabia. — Ogni sbocco di quelle
vie aveva gradini e pilastri in piedi — _impedimenta_ — e pietre ovali
massiccie rilevate dal selciato — in uso pur queste in tutte le altre
strade della città, a comodo degli abitanti, onde traversassero a piede
asciutto nei casi di grandi acquazzoni — per impedire il passo alle
vetture e ai cavalli e non aggiungere lo strepito delle cose al rumor
delle voci.

E nel vero, molta gente togata alla romana era colà e parlava a bocca
sfrenata, aggiungendo energicamente il gesto ad ogni detto. — Sotto
il portico gironzavano, arrestandosi tratto tratto i _fæneratores_ —
lepra dei tempi che tante leggi non potettero mai sanar per intero —
i quali usavano i loro brevi capitali, o ne improntavano da altri per
poi prestarli al grosso agio del cinque per cento al mese. La famosa
ritirata della plebe al Monte-Sacro, quindi sul Gianicolo, ebbe origine
dal rifiuto dell’abolizione dei debiti enormi, creati dall’avarizia
dei prestatori. — Una legge recente aveva ordinato che i cambiatori di
moneta — riconosciuti per tali — fossero nel Foro e dessero a prestito
il denaro con usura semissuale — cioè, del sei per cento all’anno.
Non mancavano però gli usurai di accalappiare qualche ignorante e i
forestieri, in un giorno di tanta folla. Erano rizzate sotto i portici
le _tabulæ auctionariæ_, coll’enumerazione scritta dei beni mobili
ed immobili da vendersi in tale ora alla pubblica licitazione. E i
_præcones_ gridavano i meriti di una casa, di un terreno, o dei mobili
di legno, di bronzo o di più fine metallo. — Altrove erano botteghe
posticce, ove si vedevano intorno ai venditori rotoli di cordami e
pacchi di vele. — O tuniche e mantelli di grosso saio con cappuccio,
per gente di campagna e per marinai. — O vasi di terra, fabbricati
nella vicina Nola, di ogni dimensione, di ogni ornato, di ogni prezzo.
— O lucerne, licnoferi, nassiterni, bombille e vasi unguentari. —
O calzari di ogni stoffa e di ogni foggia. — O Dei penati, e voti
di terra cotta o di bronzo. — O astragoli e pallottole di piombo ed
altri giocattoli per bambini. — E tutti gridavano — e tutti urlavano,
vantando la bontà delle loro merci e la mitezza dei prezzi. — V’erano
persino i ristoratori ambulanti, offrenti vini caldi ed acque melate. —
E fra i venditori di cialde, di nastri, di calzari, di stoffe di Tyro e
di Tarentum, di pelli conciate, si aggirava il misero Verna, maestro di
scuola, che con voce supplichevole e monotona, raccomandava a colui che
sarebbe stato eletto edile sè ed i propri discepoli.

Sotto il portico laterale al tempio di Venere Fisica, in una icona
quadrata, erano costrutte di tufo le pubbliche misure di capacità
di varie grandezze, affidate, per decreto dei decurioni, ai duumviri
Clodio Flacco e Arelliano Caledo.

Procedendo più oltre, penetravasi nella _Basilica_ — uno degli edifizi
meglio notevoli del Foro — ove i duumviri rendevano la giustizia.

Di prospetto al tempio di Giove Tonante erano le tre _Curiæ_, luoghi
sacri, ov’erano depositate le scritture dei pubblici archivi.

Sull’altro lato del Foro, Eumachia, figlia di Lucio, sacerdotessa
pubblica, in nome suo e di Numistro Frontone, suo figliuolo, aveva
costruito di proprio il magnifico monumento del _Chalcidicum_, della
cripta e del portico interno della _Concordia_, ch’era in un tempo
un tribunale per gli affari di commercio ed un luogo riparato dalle
intemperie e dallo strepito della vita pubblica per la trattazione di
essi. — I _fullones_ — che avevano altrove il loro opificio — grati
alla munifica sacerdotessa, le votarono una statua di marmo nell’abside
interno. — Il muro laterale esterno della cripta, riccamente ornato di
cornici, di frontoni e suddiviso in tutta la sua lunghezza di pilastri,
simulanti porte, era l’_album_, ove si pingevano a grandi caratteri
rossi o neri le inscrizioni di pubblico interesse, che risguardavano
le vendite, gli affitti, le feste, gli spettacoli. — Difatti vi si
leggeva lo annuncio che una compagnia di gladiatori avrebbe pugnato
in Pompei l’ultimo giorno di maggio. — E con un altro tutti gli
orefici invocavano Gaio Cuspio Pansa, edile. — E il maestro di scuola,
Valentino, coi suoi discepoli, raccomandava con uno sproposito di
lingua — che non procacciava meriti al saper suo — Sabinio o Rufo,
come edili, degnissimi della repubblica. — Ed un Osco dava nella sua
lingua — ch’era pure una delle favelle del paese, sendo stati i Sanniti
i suoi primi abitanti — lo indirizzo della sua locanda pubblica ai
viaggiatori, colle enumerazioni delle comodità che offeriva.

Andando anche più in su, si trovava il fano dedicato a Mercurio. —
Quindi il _senaculum_, luogo destinato alle assemblee dei decurioni.
— Ed in fondo erano le _tabernæ argentariæ_, fondachi dove operavano
i loro commerci i cambiatori di moneta, gli orefici e gli scultori nel
bronzo.

Ai lati del tempio di Giove si elevavano due eleganti archi a trionfo,
eretti ad incliti cittadini per le loro virtù.

Ascendevasi al sacrario massimo per una doppia gradinata, presso
due larghi piedestalli ornati di statue equestri. Dal _pulpitum_ —
piattaforma spaziosa d’onde i magistrati e gli arringatori concionavano
al popolo — si saliva su più larghi gradini al porticato del tempio,
sostenuto da dodici colonne di ordine corintio, rivestite di bianco
stucco. E sedici colonne eguali, di ordine ionico composito — aventi
le sue volute sulla diagonale, sopportate elegantemente da foglie
di acanto — sostenevano nello interno un altro colonnato corintio
su cui chiudevasi il tetto. La statua gigantesca del nume drizzavasi
dinanzi le tre camere a volta, nel fondo della cella, belle di pittura
architettonica, nelle quali tenevansi gli archivisti degli atti di
deposito erariale. E su tutta la superficie del bianco mosaico — in
mezzo e nello intercolunnio — si aprivano larghi spiragli per dar
aria ed alcuna poca luce allo edificio sottano, ove era custodita la
pubblica pecunia.

La folla erasi fatta vie più spessa. — Le matrone — cioè le donne
sposate colla _confarreatio_ e non colla semplice _cœmptio_, per cui
queste divenivano soggette dello sposo ed in una continua tutela, e
dalla cui razza non si sceglievano flamini nè vestali — ripeto — le
matrone, a cui tutti avevano ceduto il passo lunghesso le vie, salivano
prime sul terrazzo coperto sopra il portico del Foro per le due scale
disposte alle estremità delle _Curiæ_. Esse vestivano la _stola_,
cioè la lunga vesta di lana bianca che cuopre la metà dei piedi. E si
avviluppavano in un ampio mantello detto _palla_, che non permetteva lo
aspetto della persona. Una truppa di liberte e di schiave lor faceva
corona e largo al tempo stesso. Esse, in grazia del gesto animato con
cui accompagnavano la breve parola, si permettevano tutto al più lo
innocente civettismo di mostrare la bella mano dalle dita affilate e
piene di gemme. — Le altre donne più giovani — e perciò più eleganti
e più libere — che dopo esse salivano, portavano sopra l’acconciatura
del capo finissimi veli, coi quali artificiosamente e per metà celavano
ai desiosi sguardi degli ammiratori il loro viso ovale dal tipo greco.
Ricchi i tessuti delle vesti e di ogni tinta. Ma la porpora primeggiava
tra tutte. — Mutabili nelle loro idee, erano pure svariate le fogge
del loro vestire. Alcune si coprivano colla _regilla_, la quale era una
grande tunica dritta. O colla _impluviata_, una specie di toga femminea
di forma quadrata come l’impluvio di una casa. O col _basilicus_ o
coll’_exoticus_, manti reali o stranieri, colle frange o coi meandri
d’oro. O colla tunica _intusiata, calthula, patagiata, crocotula,
plumatile_, questa sparsa di ricami d’oro leggerissimi al pari delle
piume. — Una di esse, nel porre il breve piede sulla scala, ebbe cura
con tal movimento di disegnare i rotondi contorni della leggiadra
persona. Una bionda, per mostrare il suo petto bianco come la neve, si
volse dalla parte d’onde spirava il vento, perchè zeffiro soffiando sul
suo _linteolum cæsicium_, le scoprisse la spalla sinistra ed una parte
del braccio, tornito dagli amori. — E una bruna vanerella, vestita di
una _mendicula_ molto scollata, lasciava ammirare un suo neo sull’omero
di alabastro. Tutte avevano collato sul loro volto pieno di grazie
piccoli pezzi di pellicola nerastra, di forma rotonda o di mezza luna
— nei di artificio coi quali pretendevano dare maggiore rilievo alle
loro naturali attrattive. E presso che tutte — di bruni capelli — si
ostinavano per moda di averli cangiati in biondi ardenti, in dorati
od in tinta cinerea. E cotesto ottenevanlo col farsi ungere le chiome
dalle loro _ciniflones_ — addette a siffatto mestiere — con una pomata
composta di ragia, di aceto e di olio di lentisco, che imbiondiva
i capelli in una sola notte. — Non eravene una che non avesse sulle
orecchie due e sino tre pendenti d’oro, di pietre preziose e di perle.
— Cotesti gingilli così combinati erano detti _crotales_; perocchè
nello urtarsi formavano un suono, atto a destar l’attenzione e a far
doppio il loro civettismo. — Alcuna passava dall’una mano nell’altra
alcune piccole palle di cristallo di monte e di ambra gialla — le prime
per tener fresca la palma, e le altre per profumarle soavemente. Altre
stringevano i polsi per entro braccialetti d’oro a forma di serpi, che
pesavano da due a tre chilogrammi.

Giovani — e ben più ridicoli per la loro raffinata ricercatezza —
avevano molte di quelle leggere donne accompagnate dalle loro case o
dai bagni fin là. Anch’essi avevano profumati od arricciati con arte
i capelli. — Ed il mento rasato. — E mani, e braccia, e gambe monde
di pelo dalla pietra pomice. — E chiusi entro le ricche pieghe di
una larga tunica di porpora. Od avvolti in un bruno _lacerna_, veste
militare che l’abitudine delle guerre civili aveva messo in uso ed
in moda. Di alcuno tra essi poteasi dir con Orazio, _ad unguem factus
homo_, cioè, azzimato sino alla perfezione.

Ai quattro canti del Foro alcuni _viatores_ — che già avevano per
tutte le strade avvisato come l’assemblea popolare fosse per aprirsi
— suonarono le loro trombe. E poi, l’un dopo l’altro gridarono che i
decurioni andassero al loro posto, e quelli i quali avevano diritto di
dare il suffragio apparecchiassero le loro tessere.

Allora, uomini dalle larghe toghe preteste, orlate da una striscia
di porpora, dalle laticlave e dai bianchi stivaletti, ascesero i
gradini del tempio e si assisero sulle sedie curuli. Altri — al cui
passaggio ognuno deferente faceva inchino col capo — nel traversare il
parallelogrammo salutava con benigno ed orgoglioso sorriso quelli che
tra i suoi conoscenti distingueva tra i gruppi. — A quanti egli e i
suoi somiglianti avevano in quel giorno pagato un piccolo debito, ed il
desinare nelle _popinæ_, e la tessera del teatro!

Intanto, un giovane accorso rapidamente dalla via della fontana del
Lupo, sparse una novella, la quale venne da molte bocche bentosto
riprodotta, ed offerì nuovo soggetto all’animato disordine, alla
febbrile parola, al gesto impetuoso di quel popolo meridionale. Di
fatti, i curiosi — che si erano spinti fin sotto l’acquedotto dalle
due fontane che simulava il secondo arco trionfale dopo quello a
sinistra a lato del tempio — videro un vecchio circondato da gran
numero di clienti, portare la mano destra alla bocca e contornare
un po’ il suo corpo da diritta a manca dinanzi il grazioso tempio
della Fortuna, edificato dai suoi sur un’area di loro pertinenza.
— Avendo riconosciuto nella folla due militari, strinse gli occhi
affettuosamente e chiamogli:

— _Læti victores._ —

I suoi bianchi capelli erano lucidi e ben pettinati. — La toga gli
scendeva sino a terra. — La pretesta era bruna ed il corpo ed il capo
copriva colla _penula_, mantello di viaggio e dei tempi di lutto. —
Era una grande semplicità nella sua persona. Il volto, sovente gaio e
sfiorante in epigrammi nel facile consorzio, si aprì a mesto sorriso
alla vista dei _salutatores_ che in frotta se gli fecero intorno. —
E taluno il chiese del suo mal d’occhi. — Ed altri su ciò che stava
scrivendo. — Ed un terzo, da quando era giunto di Roma. — Ed uno più
intrinseco gli domandò le novelle di Tulliola amata e di Quinto, suo
fratello. — E molti delle importanti notizie dell’Urbe.

Egli prese il mento colla sua mano sinistra — suo gesto di abitudine —
e mostrando Dolabella, suo genero, e sè stesso in _toga atrata_:

— L’anima fuggitiva di quella soave creatura ci disse lo eterno vale
dopo averci fatto dono di un suo figliuolo. Anch’esso disertò la
trista dimora degli uomini, ov’era inconsolato il pianto. Ma il lugubre
annoso cipresso starà, quantunque più non senta i profumi della giovane
rosa. —

E ad un più vicino:

— Ti è grato l’animo mio. — Attico mi ha diretto Asclepiades, un famoso
_oftalmicus_ della Grecia, che riprova ogni medicina e mi guarisce con
lozioni di acqua fredda. —

E ad un altro:

— Scrivo sur un argomento che il dolor mi ha fornito — _De
consolatione._ — Ieri, a notte tarda, giunsi nella mia suburbana,
accompagnatovi dalle lettere consolatrici di M. Bruto, di Servio
Sulpicio, di Lucio Lucceio e di Caio Cesare. —

E a molti in atto di aver pubbliche novelle:

— Alcuni deputati di Laodicea vennero ad implorare la libertà della
loro patria. — E noi, per la nostra?... Il dittatore mi colma di
gentilezze e par che tema che io qualcosa desideri. — Arte dei nuovi!
— E più di colui, che intende cancellare dai nostri ricordi il valico
recente e audacissimo sul Rubicone. —

Cui Numidio Canca — uno dei vecchi militari da lui pur dianzi salutato:

— E perchè ti confini tu nel tuo Tusculum ed or qui, sì che nell’Urbe
s’ignora se sii ancor tra i viventi? —

— E vuoi tu, nobile avanzo dei ferri catilinari, che io non rinunci
alla pubblica cosa quando questa più non esiste? Quando la libertà
la dicono pacificata e le nostre vecchie instituzioni le chiamano
moderande, da sorreggersi e persin migliorate?.... La gloria è in
interdetto. — La eloquenza — voi il sapete — è una fiamma che abbisogna
di alimento per ardere di moto per eccitarsi. —

E Dolabella:

— E la Repubblica tranquilla, la Repubblica dell’ordine dice che noi
gittavamo tutti gli errori nel cuor fecondo delle masse per quella
maledetta ambizione di popolarità. — Laonde fazioni e lotte continue
tra il patriziato e il popolo minuto. —

La voce di un giovane allor sorse a dire:

— Lo editto dittatorio che ha rilegato nel tempio di Marte-Vendicatore
il dibattimento delle cause pubbliche, ha tolto il fermento, la
licenza, la dissennatezza omai generale. — La eloquenza, no, non è
morta. Essa vive e scintilla per fare il bene, procede pel sostegno dei
sani principii e trionferà dei pessimi cittadini. — Che! Son fatte mute
le labbra sublimi che inabissarono Catilina, Verre ed Antonio, surti
per rovesciare a talento le sorti della Patria e del Mondo? —

Lo elogio espresso dal giovine retore Consinio Mestrio, quantunque
meritato, sommamente piacque a colui si quale era diretto. — Onde
rispose:

— La mia età mi condanna al triste privilegio di dire: — Ho vissuto. —
Ma... o tirone, quello che tu chiami licenza, io la chiamo libertà....

— E pur dai Rostri tu l’accusasti compagna delle sedizioni, ribelle,
arrogante, parricida. — E noi giovani comprendemmo come le pietre
sieno fatte per selciare le vie e non per abbarrarle, e le daghe per
difendere il Campidoglio e non per abbatterlo. —

Allora dal crocchio emerse la testa di un canuto, sulla cui fronte ogni
dolore lasciato avea la sua ruga, e

— Parmi non la santa libertà tu rimpianga, ben la rivalità di un uomo
possente, cui tu apristi la strada al salire. —

— Basta, o amici. Ragioni non mancano. Pur mangerebbero il tempo alle
pubbliche elezioni della Colonia. — M. Clodio Pulcro venga a suo libito
nella mia Pompeiana, ove mi piaccio ed è il solo luogo oramai ove io
sia pienamente contento. — Là parleremo. —

E sì dicendo ruppe il cerchio dinnanzi coll’atto benevolo della mano. E
fattosi nel Foro, ascese anch’egli la gradinata del tempio.

Un suo liberto che pur era venuto con lui di Roma, un tal Suculo — che
negli spazi smisurati aveva veduto abbassare il volo alle chimere della
lunga sua vita — accostossi ad un affrancato di sua conoscenza e gli
disse colla palma tesa verso l’orecchio:

— Oh! Un po’ di umiltà sposata a tanto ingegno! Se un raggio di sole
gli avesse almeno scaldato il cuore! — Terenzia — la buona padrona
che mi diede la libertà — fu da lui reietta e presto dimenticata. —
Tulliola — che aveva i suoi tratti e le sue nobili frasi congiunte ad
una grande anima, ch’egli diceva adorare — morta appena ed obliata. —
Ora, a 58 anni, ha sposato Publilia, giovane, bella e ricca, colla cui
dote ha pagato i molti suoi debiti.

— Tu mi conoscesti schiavo di Hortensio, nella villa di quel gran
ciarlone, in Bauli. Preso di matta passione pei suoi _piscinarii_,
ammalò quando lesse il decreto del dittatore che vietava si gittassero
più oltre gli schiavi ad ingrassar le murene. Ei soleva parlar con
dispregio di M. Lucullo — il fratello del vincitore di Mithridate —
perchè non aveva nei suoi vivai il quartiere di estate per i suoi pesci
favoriti. — Per cotal gente noi valghiamo meno di un’ostrica di Lucrino
o di Brundusium. E Crasso, l’uomo censoriale, lo illustre, il grave
uomo di Stato, quegli che ama tanto la Repubblica, e nol vid’io porre
una collana di perle e gli orecchini d’oro ad una murena?

— Udii ben io Domizio, il suo collega nella Censura, rimproverargli
tale sciocchezza in pieno Senato, ed egli testimoniarla senza rossore,
vantandosene come di nobile atto di pietà di cuore.

— Per Castore e Polluce! V’ha dei giorni in cui, vedendo girare le
verghe e cadere sul corpo dei miei poveri compagni in casa di Aricio
Scauro — quegli che mi comperò dallo antico padrone — la rivolta
mi sembra quasi un dovere. — E quando io mi chiudo nel mio povero
giaciglio la sera, io m’inginocchio dinanzi una Iddia che mi sta nel
fondo del cuore e le canto un inno tacitamente, siccome Spartaco lo
urlò coi coltello da beccaio nello anfiteatro Campano. — Ah! —

— Tu vai tropp’oltre, fratello. Rammenta che se è vietato gittar gli
uomini ai pesci, non la è così per le fauci dei leoni, delle tigri,
degli orsi. — Sommessione e pazienza. —

E si separarono.

Rincarirò sul già detto da quelli schiavi. Era in Roma un Figellio,
poeta assai caro a Cesare e ad Augusto. Ei cantava d’improvviso una
serie lunga di versi su qualunque argomento. E siccome, non sole
parole, ma concetti, ognuno ne maravigliava; e dalla maraviglia il
favore. Nasceva di gente Iliese, rintanata sulle più aspre montagne
della Sardinia. Ribelle ai Romani, nobilmente testarda, combattuta
d’ordine del Senato, carpita dai suoi nidi di aquila e venduta ne’
pubblici mercati. Solo Nerone, a sedici anni, sposata Ottavia, difese
gl’Iliesi, origine della casa Giulia, perchè di seme troiano, da Ænea
colà trasportato. Figellio era un liberto. Aveva il padre, i congiunti,
i nati nei suoi monti combattuti, morti, martoriati, venduti, dispersi.
O perchè Cicerone l’odiava?... Schiccherava versi d’incanto e tutti ne
lo lodavano. Ed egli, poetastro stentato, non di vena, n’era geloso e
non sapeva frenarsi.

Uno Scauro, iniquo pretore, ito in Sardinia colle sacca vuote, le
riportava nell’Urbe gravi di argento e di pietre preziose. Cicerone orò
per lui. Aveva bene accusato Verre per missione avutane dai Siculi.
Cangiato il nome, il soggetto era lo stesso. Ma egli spese la sua
splendida eloquenza contro i Sardi derubati e immiseriti, perchè Scauro
fu il primo a complirlo e fecegli udire il sonito dei nummi d’oro, di
cui lo sciupone aveva tanto bisogno. E ritorse il dritto. E raddrizzò
lo storto.

Erasi allora allora partito dall’Urbe, e i suoi rancori, i suoi
desiderii, le sue speranze attribuiva alla società pur dianzi lasciata.
Pensava che il suo malcontento avrebbe prodotto la rivoluzione. In ogni
baruffa vedea la rivolta. Credeva pianto della patria il pianto del suo
cuore. E i suoi vecchi colleghi, tutti tormentati dalle sue smanie. E
s’ingannava.

L’uomo politico, cacciato in bando da una fazione avversa, guarda il
presente e lo avvenire a traverso un prisma fallace. Il tempo accresce
le vanità della mente e aduna fiamma nel cuore. L’esule esagera i
meriti suoi. La impazienza gli fa accettare qualunque consorzio. I
riuniti per la medesima causa ragionano intorno a ciò ch’essi erano,
intorno a ciò ch’essi sarebbero; e s’incitano contro il comune nemico;
e si pascono di vittorie e di vendette; e maturano imprese di passione,
non di criterio, che i non tormentati dai medesimi sentimenti — tutto
che amici loro — giudicano disperate, insane e di successo infelice.

Silla avea detto che in Cesare erano molti Marii. Nelle sue imprese
era cauto, di sguardo lungo ed audace. Trionfava a miracolo. Acquetava
con spettacoli, con desinari fastosi, con giuochi, con larghezze.
Abbelliva la città. Ampliava lo impero. I soldati erano suoi. Deponeva
agevolmente odii e nimicizie. I ricchi, le donne, il popolo, tutti
per lui. Il dado era gettato. Cesare aveva vinto. Or l’Arpinate
farneticava; ed eccitatore di animi, sentiva bene nel profondo la
vanità dei propositi suoi.

Infrattanto il vecchio M. Tullio Cicerone, riconosciuto od atteso, ebbe
le mani strette con grande espansione da tutti ch’erano pel peristilio
del tempio. Parecchi lo baciarono sulle due gote, segno di affetto
che i Romani prodigavano ai loro amici. — Fattasi un po’ di calma,
Alleio Lucio Libella, col suo collega nel duumvirato Munazio Fausto, si
presentò alla faccia del popolo adunato per ritogliere gli auspicii;
osservò il volo di un aquila a cui gli aruspici diedero la libertà;
una vittima venne immolata sullo altare interno del nume, e i sacerdoti
dichiararono che i padri potevano deliberare. I duumviri, il pretore,
il questore, i magistri dei sobborghi e dei trivii, e i decurioni
andarono l’un dopo l’altro ad offrir al Dio vino ed incenso, e la
seduta fu aperta.

I primi sedettero sulle sedie curuli del centro. Lo edile ed il
questore più al basso ai lati del _pulpitum_. — Gli altri sedevano alla
rinfusa sotto il colonnato. — E nelle parti laterali, sotto le statue
equestri, erano gli _actuarii_, scribi e schiavi pubblici, incaricati
di raccogliere i discorsi mercè alcune note od abbreviazioni che con
brevi tratti di stilo rappresentavano molte parole.

— Salute ai tre ordini della Colonia. Gli Dei le siano propizi. —

Quindi i duumviri indicarono allo edile e al questore che potevano dar
còmpito della loro amministrazione.

Aufidio Mamusa cominciò dal leggere un disegno di senato-consulto,
ordinando preci nei templi per cinque giorni e la immolazione di cento
vittime sugli altari, per calmare la collera celeste che tratto tratto
manifestavasi nel territorio della Colonia con dannosi tremuoti. —
La legge passava _per discessionem_, cioè, senza discutersi e per
acclamazione. — Quindi parlò delle nuove terme costruite nel fondo
della via dell’Abbondanza, cui erasi aggiunto anche la palestra dei
giuochi ginnastici della gioventù, una biblioteca, una sala da giuoco
ed una di profumeria. — E lo edile seguiva:

— Il mio collega Cascellio Testa, questore, prese gran cura nella
fattura di cotesto edificio — non solo bisogno — ma lustro della nostra
Colonia. Come Catone e Fabio Massimo egli ha regolato la temperatura
dei getti di acqua calda. I condotti portano pure le onde dai larghi
depositi del Sarno e le si rinnovellano continuo. Una imposta più grave
converrà votare per....

Una voce potente tuonò dai portici ed interruppe lo edile.

— I ricchi hanno i loro _balinea_ domestici, corredati di ogni femminea
ricercatezza. Al popolo bastano le terme dove toglieva i suoi bagni
Scipione l’Africano. Quel terrore dei Cartaginesi bagnava in povero
luogo il suo corpo affaticato dai lavori dell’agricoltura; che il
grand’uomo piacevasi coltivar _more antiquo_ il piccolo predio colle
sue mani gloriose. — Ora, pavimenti istoriati per poco venerabili
piedi! Soffitte dorate e a rilievi sopra capi senza cervello! — Stanze
da giuoco e da unguenti! — Mascherate ridicole! — Ai bei tempi che non
son più, i nostri padri sitivano di guerra e di gloria. — Poveri eroi
del vecchio Sannio! Ora passa un nipote degenere sul margine della via,
e vi sembra che là sia piantato un giardino.

— Ingiusta è la tua rampogna, Appio Crispo. Altri e diversi i tempi
da te mentovati. Una volta il popolo lavava le braccia e le gambe
allorchè i lavori, cui era addetto, quelle membra particolarmente
gl’insudiciavano. L’abluzione della intera persona non avea luogo che
ogni novenio, nell’epoca dei mercati. — Ora trovi tu male ch’ei si lavi
ogni dì? Che prenda il bagno caldo? Che preferisca le pure linfe alle
torbide? Che le sale ove l’occhio ei riposa siano adorne dalle arti del
bello e i pavimenti abbiano musaici invece di pallidi mattoni?

— Anche i ricchi si contentavano di una giornaliera abluzione. Ora
passano la loro vita nel bagno. Per Ercole! E la sera, dopo averne
presi otto a vapore, fanno pietà a vederli. Hanno a mala pena la forza
di star ritti e di risponder col gesto se sono salutati. — Vuoi che
anche la plebe si mummifichi al pari di essi? Vuoi ch’essa apprenda a
tergere collo strigilo i suoi profumi invece che i suoi sudori? —

Un mormorio di grida indistinte udissi in ogni parte del Foro.
Allora il questore levossi in piedi e cominciò a ragionare. Ma le
interpellazioni violente, partendo da vari gruppi sotto i portici,
coprirono il timbro della sua voce. Aveva un bello affannarsi nel dire:

— Pace, pace! —

Nessuno gli dava retta, e tutti ad una volta, con gran lusso di gesti,
dicevano:

— È contro la plebe.

— No. È per lei che ha fabbricato le Terme.

— Plutone lo inforchi! — Come? Forzarci a prendere i bagni ogni dì?
Converrebbe essere censuari, o non aver famiglia da nudrire!

— Sappiate almeno, prima di bociar tanto, contro qual cosa facciate il
vostro richiamo. — Le Terme, come il Tempio, come la Basilica, come il
Teatro, sono lustro e vanto di una città.

— Io trovo che nel _baptisterium_, dove andai a prendere il bagno
freddo in comune, tutte le delicature enumerate non vi erano.

— Bestia! — Se fossi entrato nell’_apodyterium_, nella sala a dritta,
ove si depongono le vesti, avresti notato il fastigio degli ornati che
non sono nel tempio.

— E bene sta. — La plebe è sovrana, finchè i vizi di Rema non l’avranno
venduta — o finchè i suoi propri non dicano il suo prezzo all’uomo che
ha l’occhio dell’aquila. Abbia anch’essa il suo _frigidarium_, il suo
_tepidarium_, il suo _sudatorium_ e il suo _eleotesium_ per spargersi
di profumi sul corpo estenuato dalle fatiche. —

E con una voce stentorea, addensandola nelle palme chiuse in arco,
proseguiva:

— Parli lo illustre Cascellio. — I duumviri ristabiliscano il
silenzio. —

Gli araldi dopo vari tentativi potettero ottenere un po’ di calma.
Allora il questore:

— Appio Crispo mi permetterà ciò che mai non seppi rifiutare ad alcuno
nella mia non breve vita di magistrato. Potrei dirgli com’egli mal
collochi la sua demofilìa. — Chè, val meglio far gustare ai diseredati
dalla fortuna i comodi della vita domestica, onde averli discreti,
costumati, tranquilli, di quello che averli selvaggi e brutali. — A
mente posata tutti mi daranno ragione e plaudiranno a questo prodotto
della nostra amministrazione. — Or noi prendiamo a nostro carico
la eccedenza della spesa sulla somma che ci venne allogata. — Ed io
pagherò di proprio il mantenimento delle pubbliche nuove Terme, acciò
non dia ragione ad elevare le tasse sulle colonne e sulle terre, o di
lasciarlo a carico del pubblico tesoro. —

Secondato da un mormorio favorevole dell’assemblea, il questore
tornò alla sua sedia curale. Ma tutti i decurioni lasciarono le loro
e si fecero a stringerlo, a lodarlo, e taluni anche a baciarlo. La
discussione venne continuata pro o contro lo assunto, ognuno terminando
il suo discorso colle parole:

— _De ea re ita censeo._ — Oppure — _Assentior._ — Oppure — _Assentior
et hoc amplius censeo._ —

Non levandosi alcuna voce sulle altre questioni dell’amministrazione
municipale, furono tacitamente adottati per buoni i temperamenti
ritolti dall’autorità. — Non così quando Mamusa venne a trattare
della costruzione delle vie interne e delle pretorie, nonchè delle
vicinali, che menavano a piccole borgate e ad oppidi o li traversavano.
Un decurione, breve della persona, dagli occhi piccini ma divoranti
come quelli del tigre, valoroso soldato sotto Silla, il gran
capitano, chiese se gli desse facoltà di parlare. Dotato di una grande
originalità di carattere e d’immenso coraggio — perciò amico fedele al
vero e a tutta la sua parentela — di cuore elevato, mia soffrente gli
entusiasmi del momento, credeva che la parola fosse per correggere gli
errori, per togliere le cose dalle mani incapaci, e per far sorgere di
terra bisogni acquetati, universalmente riconosciuti. Tale era Ninnio
Mulo, il quale discesa la gradinata si apprestava ad arringare sul
pulpito.

— Tu vuoi, o popolo, ch’io dica la verità, non è vero?... Ho la mano
memore di colpi di daga, ma la lingua non seppe dir mai fiori retorici.
— Fui marinaio — Sono soldato — Do quel che ho — Ebbene! quegli egregi
che seggono dietro di me non fanno il loro dovere. — Sarebbe stato bene
tu non li avessi mai eletti. Ma farai meglio di non li eleggere più. O
popolo! Cotesto ingombro di schiavi di ogni terra del mondo ti degrada,
ti dà i suoi vizi. E omai domandi di esser nudrito e distratto coi
giuochi dello anfiteatro. — Scorgendo qual sia il mezzo di piacerti,
erigono bagni di lusso, rizzano per sè e pei liberti sepolcreti
maestosi che giammai ebbe un salvatore della Repubblica in campo, e con
ingenti spese fanno venire dalle scuole di Capua e di Ravenna compagnie
gladiatorie e di Roma bestie feroci. I tuoi padri sarebbero stati loro
grati per le opere di utilità pubblica, compiute a gloria di tutti. I
porti, le vie interne, le strade consolari; ecco i lavori degni della
tua maestà, o popolo. Giulio Cesare non ha speso pei bagni, egli — ma
per la riparazione della via Appia.

Guarda or le tue strade urbane — osservane i _margines_ sbocconcellati,
mancanti, alti, bassi, irregolari. — Per iddio Marte! Non sono molte
sere ebbi a snoccolarmi un piede sulla via ove sono le fontane del Toro
e di Sileno — Par greto di fiume. —

E volgendosi indietro rosso come bragia:

— Ti fa vergogna, o Mamusa! —

Poi continuando:

— Presso la fontana della testa di Venere, sulla via che mena alla
porta di Stabia, ebbi a raccogliere un povero vecchio che aveva perduto
lo equilibrio su quei solchi di pietra — e tutto sanguinoso nel capo,
votava i magistrati alle furie di Averno. — Onta e danno! Ho detto
abbastanza.... Pure aggiungo che la strada per Oplonte ad Herculanum
è impraticabile, e le carra vi s’impaltenano nel verno a non poterne
uscir fuori che a stento. — Strade e... scuole... Anche queste fanno
pietà! Una plebe più istruita e meno profumata fa gli affari della
Repubblica. —

Quando Ninnio — terminato il discorso che il nobile cuor gli dettava —
si volse alla sua sedia curule, trovò Cicerone che colle aperte braccia
lo accolse e gli disse:

— Salve, amico. Bene dicesti! —

Nel Foro molte le voci plaudenti. Scarse sul peristilio del tempio.

Aufidio Mamusa che avrebbe voluto essere rieletto, non volle rimanere
sotto il peso di tanta censura. — E rispose:

— L’onorato cittadino che tutti amiamo e stimiamo, equo sempre nei
suoi giudizi, volle esser ingiusto oggi con noi. La via suburbana
dei sepolcri, che appellasi _Domitia_ e che mena a Neapolis, fu
rifatta dai magistrati che ci precedettero nell’arduo incarico. Il
suo stato è eccellente. Solo negli acquazzoni estivi le terre di
alluvione la ingombrano, ed abbiam cura di farla netta dal fango in
ogni circostanza. — Dal tempio della Fortuna sino al crocicchio della
fontana del Toro facemmo selciar di bel nuovo la via colle pietre
del monte Vesvio, e la superficie dei margini fu composta di ciottoli
spianati e murati a livello. Computata la spesa di quel tratto, avremmo
a poco a poco restaurato il resto sino al quatrivio e subito messo mano
a riparare la strada veramente ruinosa che dalle mura sbocca fuor della
porta di Stabia _ad cisiarios_. Se il suffragio popolare continuerà a
farci onore, le mie parole diverranno fatti.

Allor sorse un uomo dal corpo tarchiato e breve, dallo aspetto
infantile, dalla parola facile e petulante. Volea parer grave — e
non lo era. — Volea essere austero — e non gli era possibile. — Volea
sembrare decente — e tutto glielo vietava! — Egli apparteneva a quella
falange di ambiziosi — leviti dei culti riconosciuti — predella agli
audaci che salgono — difesa a compenso di chi teme e spera — uomini che
impongono ordine e non danno sicurezza al partito che a sè lo chiama. —
Ei cominciò:

— Ninnio per fermo vince battaglie — e sè stesso non vince. — Regge
a meraviglia le sue coorti ed è la spada di Marte quando a capo dei
veterani si scaglia in mezzo ai nemici. — Ma conosce egli le difficoltà
di una amministrazione civile? — Oh quanto il dire è diverso dal fare!
— Io fui già _curator viarum_, o meglio appartenni al quatuorvirato
dei _viocures_, come il popolo gli appella. Mi si permetta pertanto
di dire col sublime oratore che oggi onora la nostra assemblea:
_cedant arma togae_. — Per istabilire una strada si comincia dallo
aprire un fossato sino al terreno solido. — Livellato il fondo lo si
cuopre di uno strato spesso di fina sabbia. — Allora la costruzione ha
principio collo _statumen_, che è il fondamento, composto di larghe
pietre e piatte, riunite da un cemento durissimo — col _rudus_, che
è una zavorra di sassi, di mattoni, di tegole rotte e di calce — col
_nucleus_ che è uno strato di sabbia e di calce e che ben livellato
forma il nocciolo della strada — colla _summa crusta_, o il _summum
dorsum_, formati da grandi poligoni irregolari di silice o di pietra
vulcanica; quasi dura quanto il ferro. Cotesti lavori chieggono tempo e
danaro. Date denaro e tempo agli egregi magistrati, che ora è un anno
voi nominaste; e le strade e le scuole e tutte le nobili instituzioni
della Colonia risorgeranno. Le ultime guerre civili nocquero ad esse.
Allorchè i partiti si disputavano lo imperio, e il Governo era nei
campi di battaglia, e la pecunia pubblica veniva assorbita dai soldati,
tutte le civili magistrature decaddero. — Una nuova êra è risorta. Già
in Roma alcuni senatori hanno preso il còmpito di dar riparo alle vie
abbandonate da quindici anni. E il dittatore medesimo ha assunto la
ricostruzione della strada Flaminia, che mena dall’Urbe ad Ariminum.
— Gli attuali magistrati io li dichiaro degni della Repubblica, ed al
popolo raccomando la loro rielezione. —

A quei detti Ninnio sorge con impeto, e tutto rosso per la collera,
grida dal pulpito ov’è corso:

— No, cittadini — _Oro ut non faciatis._ —

Una certa agitazione in senso diverso occupò allor l’assemblea. I
clienti si slanciavano nei gruppi per patronare i suffragi pei loro
candidati, dicevano il loro elogio, parlavano della loro condotta
passata e della malleveria per lo avvenire, citavano testimoni e
garanti, o il personaggio sotto i cui ordini avevano portato le
armi, o quegli presso il quale erano stati questori. E taluna volta
aggiungevano verità o calunnie sulla nascita e sui costumi del
competitore che osava presentarsi candidato della magistratura a fronte
del proprio degnissimo.

In fra tanto i duumviri interrogarono i decurioni un per uno colla
formola:

— _Dic quid censes_ —

per sapere se la discussione dovesse esser finita, o passare
immediatamente ai voti. — Venne accettata la seconda proposta. — Allora
furono fatte suonar le trombe per intimare il silenzio e un duumviro
gridò dal pulpito, invitando il popolo a ritirarsi:

— _Si vobis videtur, discedite_ —

e lesse ad alta voce il senato-consulto ordinario, il quale ratifica
anticipatamente la scelta dei magistrati futuri del popolo. Ed aggiunse
la nota di quelli le cui funzioni scadevano in tal giorno ed i nomi
degli altri, raccolti dalle rogazioni inscritte in rossi caratteri sui
canti delle vie. Quindi:

— _Quod bonum, faustum, felixque sit_ —

cioè, che tutto questo avvenga per il bene, la felicità e la prosperità
pubblica. E si ritirò col collega e cogli altri magistrati da quel
posto sino allora occupato, e cogli altri magistrati discese la
gradinata del tempio, quasi per confondersi colla folla. — Gli era
un mostrare di bel nuovo le loro persone ai cittadini riuniti ed un
testimoniare che si ritiravano in un canto per lasciare una maggiore
libertà di voto alla coscienza del popolo.

Nell’atto dodici littori coi loro fasci armati di scuri escirono dal
_Senaculum_ e vennero a porsi in mezzo all’area del Foro insieme cogli
araldi, i quali deposero sopra una predella un alto paniere cilindrico,
detto _cista_, dove i cittadini avrebbero gittato i loro voti. I
littori abbassarono rispettosamente i fasci dinanzi l’assemblea in
segno di omaggio alla sovranità del popolo.

In un luogo designato si distribuivano ai cittadini tre tessere di
bussolo. Una portava incise le due lettere V. R., cioè _uti rogas_,
che indicava l’accettazione delle leggi come erano state richieste.
L’altra portava la sola lettera A. cioè _antiquo_, che voleva dire,
il rifiuto delle leggi proposte. La terza era bianca di cera e su di
essa si scrivevano i nomi dei magistrati cui ognuno dava il suffragio.
— E colà più vive erano le passioni dei partiti. Gli amici andavano,
venivano, correvano dalle centurie dei cavalieri a quelle del popolo —
e sugli occhi dei votanti leggevano la indifferenza, la incertezza od
il partito preso — e seminavano la calunnia — e reiteravano le promesse
— e proclamavano il loro candidato _bonum virum_ — o _verecundissimum_
— o _dignum reipublicæ_ — o _ædilem optimum_. — E i giovani — sempre i
più bollenti — mettevano in siffatte sollicitazioni lo ardore, lo zelo,
il fuoco, della loro età e correvano a riferire ai loro favoriti tutto
che poteva interessarli.

Le guerre civili avevano spezzato le nobili tradizioni dei popolani
diritti. — La confusione e la inerzia — i bisogni sureccitati e il
desiderio dei facili guadagni — le immoralità che avevano scoperto il
debole della corazza e sapevano dove spingere la loro punta — tutto
questo aveva fatto del popolo una mandra di pecore, le quali vanno dove
veggono andare gli animali della loro specie.

Quando una centuria ebbe scritto i suoi nomi, essa aprì il varco tra le
colonne del portico e gittò ostensibilmente le tessere di legno nella
_cista_. Gli addetti alla ricognizione dei suffragi — i _rogatores_
— colle braccia nude sino alle ascelle, ritiravano le tavole e, dopo
averne volto la superficie bianca verso il popolo, le leggevano a
chiara voce. — Altri, preposti _ad dirimenda suffragia_, le separavano,
le contavano e marcavano sur una loro grande tessera un punto per
ciascuna legge o per ciascun nome di candidato. — Conosciuto il voto
di ogni centuria, un suo araldo — il _praeco_ — ne proclamava il
risultato. — E si udivano battute di mano, o segni di disapprovazione,
a seconda delle opinioni degli uomini. Le donne dall’alto del terrazzo
agitavano anch’esse le braccia bellissime nello udire il trionfo dei
prediletti dal loro cuore.

Mentre quel fatto importante occupava il popolo nella piazza, Ninnio
traeva M. Tullio Cicerone in un angolo interno del tempio e dicevagli:

— Ascoltami, o grande cittadino. — Il rovescio della pubblica cosa mi
morde potentemente il cuore. — Talvolta il dolore pieno di maturità
è sì forte, ch’io sento l’arma del suicidio corrermi per le mani,
quasi io mi fossi un uomo senza energia e senza fede. — Tale altra una
disperazione piena di gioventù mi offre il rifugio migliore contro i
disgusti e le tristezze dei miei pensieri. — Io soffro una di quelle
febbri che logorano la cosa immortale — quando esse vengono per
accenderla o per consumarla. —

E stringendogli forte le mani, riprese:

— Ho due nobili parenti — la Patria e la Libertà che a vicenda e
simultaneamente io sento madri delle sole virtù che i disinganni
non uccidono mai. — E come te vidi trionfanti quando aveva i piedi
nel sangue e la testa avvolta nella polvere riscossa del campo di
battaglia, così ora mi appaiono avvilite, prostrate e presto uccise
nella visione del mio dolore. — Vuoi tu salvarle dalle mani parricide
di colui che ha assorbito il dominio del mondo e che spossa lo aiuto
delle leggi, travolgendole con pratiche da moneta? —

— _De illo quem penes est omnis potestas?_ Comprendo il tuo dolore e lo
sento. Con lui la giustizia e i diritti sono violati. Spesso lo udii
ripetere i versi di Euripide. — «Se si ha a violar la giustizia, ciò
si debbe fare per cagione di dominio. Nelle altre cose si debbe aver
rispetto alla pietà inverso la patria.» — La legge è il suo Capriccio.
Gli è perciò ch’io mi son ritirato di Roma. La Curia ed il Foro, vani
nomi. Mi duole esser nato troppo tardi e sorpreso — pria di compiere
il viaggio della mia vita — dalla notte profonda in cui brancola la
pubblica cosa. Ammiro Catone. Ma dipenderà sempre da me lo imitarlo
quando vorrò. Solo mio studio è procacciare che una tal fine non mi si
faccia come a lui necessaria. —

— Che parli di morte? — Diamola a chi la merita. — Qui sono tre
coorti di veterani — uomini provati sui campi decorosi di nobili
cicatrici, tenuti in conto dalle altre milizie e non ancora corrosi
dall’oro del tiranno. — Me, le coorti e questo paese io ti consegno. —
Accetti? —

Cicerone si strofinava il mento colla mano sinistra. Dopo una breve
pausa rispondeva:

— Rifletti, o egregio. Tre coorti che sono? Ed anche fossero dieci,
e più, che sarebbero? E quali le preparazioni per un sì grave
avvenimento? Quell’uomo è potente di genio e di prestigio. Non è
albero che crolli. E se giungi a tagliarlo, ripullula. — Tali i segni
del tempo! — Ho lettere colle quali uomini ignoti mi ringraziano per
aver ottenuto col mio suffragio — così credono! — il titolo di re.
La tirannia si corona di falsi senati-consulti. — E i padri coscritti
hanno tutto obliato. — Son fango! —

— E Bruto e Cassio....

— Vieni domani a trovarmi. — Intanto penserò. — Voglia Iddio non fare
sterile la lotta contro le leggi implacabili che qui distrussero la
Libertà. —

Ma il grande ingegno presumente e vano di Cicerone non era adatto alla
rigenerazione di un popolo. La calda immaginazione che lampeggiava
sui Rostri e nel Senato gl’impediva di ben conoscere gli uomini e le
cose. — Era anche onesto e il suo animo rifuggiva da quei patti che
le rivoluzioni impongono per aggiungere il trionfo. Tornato in villa,
prese il bagno, si chiuse nella biblioteca e riflettè lunga pezza sulle
cose dettegli da Ninnio. — Lo esempio dei saggi di Atene e di Siracusa
il consigliò a liberamente vivere senza urtare nell’orgoglio dei
prepotenti e senza punto umiliare il proprio carattere. Pianse la sua
patria amaramente — come si piange la morte di un unigenito — e decise
di consolarsene, dandosi allo studio e ai lavori letterari che stimava
non poter essere affatto inutili ai suoi concittadini. — Pria di
coricarsi, scrisse ad Attico sulle proposte ardite fattegli da Ninnio
e gli rivelò la risoluzione presa di andarsene _ante lucem_ a Cuma,
per evitare inutili e perigliosi accordi. — Grande ingegno! Non grande
uomo!

Lo scrutinio dei voti era terminato. — Si suonarono le trombe per
richiamare l’attenzione pubblica. Uno dei _rogatores_ salì sur un piano
centrale elevato e proclamò quello che gli scribi avrebbero poi notato
nelle _tabulæ publicæ_ insieme colle particolarità e col risultato
della elezione. Per la qual cosa, nel 705 della fondazione di Roma,
vennero eletti a magistrati in Pompei, sedenti Consoli nell’Urbe C.
Claudio Marcello e L. Cornelio Lentulo:

  M · BLATTIVS · M · FILIVS
  M · CERRINIVS · M · FILIVS
  M · SEPVLLIVS
  C · CORNELIVS · RVFVS
  M · SALVIVS · EPAPHRA
  P · ROGIVS · VARVS · P · FILIVS
  M · TITIVS · PLVTVS · LIBERTVS
  M · STRONNIVS · LIBERTVS

La clessidra notava la settima ora. — La folla si disperse per tutte le
direzioni della città e di fuori. Gli eletti, riunitisi, procedettero
verso il tempio; e di là, uno in nome dei colleghi ringraziò il popolo
dei suoi suffragi e promise quello che ogni magistrato promette e non
tiene. Quindi si ritrassero nello interno per sacrificare agli Dei.

Intanto la novella della elezione era corsa rapidamente. — Le case dei
nuovi brulicavano di clienti, di parassiti e di supplicanti. — Festoni
di lauro inghirlandavano le porte. — Corone di fiori circondavano le
immagini dei maggiori o dei patroni della famiglia. — Innanzi la casa
di Cerrinio v’era distribuzione di pane e di vino.

— Vedi plebaglia che si nudre della propria venalità! —

— E il corruttore là dentro, nell’oro e nella porpora! —

Coteste parole si ricambiavano Crispo e Ninnio, soffermandosi un poco
sul margine opposto, nella via dell’Abbondanza.




LA STRADA.

SCENE DIURNE IN POMPEI.

=Anni di Roma 767 — Anni del Cristo 14.=


                     A GIULIA, EMILIA E MARIA DINO

                             A MARIA HACKE.

                                  IV.


— Ho udito un gran caribo stamane. — Suonano il campanello a rompere i
timpani! — Di’. — Sono molti i _visitatores_?

— Come al solito, padrone. — Troppi. — _Ingentem undam!_

— Temerario! — Tu non devi giudicarli. — Solo dirmi se sono _primæ aut
secundæ admissionis_.

— Di ambedue. — L’_ostiarius_ ne ha picchiato qualcuno colla sua
verga. — Un ortolano tra gli altri con un mazzo di bei carciofi voleva
introdursi _a prima luce_, per forza in cucina. —

— Non una parola. — Tu saresti com’egli è, se non qui. — Portami
un’acqua melata e aromatica. — Apparecchia il tutto per le abluzioni. —
Disponi la _vestis domestica_... — È buona la temperatura?

— Il sole indora coi suoi primi raggi i monti Lettuari e il nostro
Vesvius, sacro al padre dei Numi.

— Vanne. —

Poi che il liberto escì facendo ricadere sull’apertura del _cubiculum_
una spessa stoffa di Tyro, il padrone si tolse ignudo dalle coperte di
lana e di pelli di talpa — colle quali era avvolto nel suo letticciuolo
a rilievi di avorio su piedi di bronzo. — Ed asperse di acqua le
membra partitamente. Chiuso in un’ampia veste di lana bianca che gli
scendea sopra i piedi, pose nell’anulare il cerchio di ferro — antica
ricompensa della virtù guerriera — e adattò alle braccia i _calbeos_ di
bronzo, pari a quelli che portavano i militi distinti pel loro valore.
— Il servo rientrò e gli offerse fin una tazza di cristallo la bevanda
richiesta. Ei la sorbì a piccoli sorsi, facendo scoppiettare le labbra.
E rivoltosi al liberto:

— Ecco la vera essenza della gioia umana, o Crisanto. — Ciò non aveva
nei campi ove ho lasciato il mio sangue. Se può gustarsi qualche cosa
di migliore, io voglio che me lo dicano. —

Marco Olconio Rufo, figlio di Marco — duumviro incaricato per la
quinta volta di rendere la giustizia, tribuno dei soldati nominato dal
popolo, uomo a cui i pompeiani avevano eretto una statua nel Foro,
a compenso delle molte liberalità sue e specialmente per aver fatto
costruire dal suo liberto, lo architetto Martorio Primo, un tribunale
presso l’_Ecatonstylon_, il gran teatro, una cripta e il muro laterale
del tempio di Venere Fisica per formare lo ambulatorio nel portico
dell’Agora antica — era un generale ritiratosi dall’azione per riposare
la sua vigorosa vecchiezza negli agi della casa avita e presso il
patrimonio della famiglia. L’alta statura, il grave incesso, la memoria
dei fatti compiuti incutevano rispetto. Il suo profilo largamente
delineato accusava una certa durezza procacciatagli dall’abito del
comando che non vuol repliche. Il viso aveva bronzato dalle intemperie
dell’aria. E quando i neri e copiosi sopraccigli si aggrinzavano sui
suoi occhi aggrottati, ai suoi servi parea vedere quel cumulo di nubi
oscure da cui scoppia la folgore.

L’affluenza dei clienti era grande. — Ve n’erano sulla strada. E
nel vestibolo e nell’atrio secondo la loro condizione. — Nessuno
mormorava. Tutti facevano prova di pazienza la più intrepida, malgrado
lo sguardo sdegnoso e venale dell’ostiario e i titoli di cani e di
piaggiatori ch’egli distribuiva ai miseri che pur faceano di tutto
per ingrazionirselo e renderselo benevolo. Alcuni eransi levati di
notte per attendere presso la porta di Olconio i primi fuochi del
giorno. Nè avevano avuto il tempo di farsi radere. Erano appena coperti
sull’epidermide della toga di rigore, per far presto ad onorare il
patrono in faccia al pubblico e per darsi l’aria di essere cittadini
di un certo ordine agli occhi del cerbero brontolone. Il popolano
indossava il _plebeius amictus_, la così detta _pullata_, ch’era una
tunica corta, di color bruno, senza maniche e discendente poco più
oltre della metà delle coscie.

— Il patrono è egli desto? — È egli di gaio umore? — Fugli propizio
Morfeo?

— Via canaglia! Ho anche a rendervi conto di quello che fa il mio
signore? Indietro. O vi sguinzaglio il molosso!

— Sii più umano. — Prendi questo denaro. — Calmati. — Vedi, non sono
indiscreto io come il _pomarius_ che poc’anzi scacciasti per la sua
audacia. —

Ma egli era anche più audace. Perchè, entrato dopo aver unto le dure
ferramenta dell’uscio, nel dispetto de’ suoi compagni rimasti al di
fuori, faceva già cenni col capo al cubiculario che vide passar nel
_cavaedium_, il quale non gli diè retta, e poi al _nomenclator_,
servo non meno insolente, che aveva il còmpito di prender nota dei
nomi e delle qualità delle persone venute a complire il padrone e
di soffiargliele all’orecchio a misura che a lui si presentavano. Ma
questi, nell’atto che moveva verso lui, fu richiamato indietro da un
liberto, il quale lo avvertiva come il generale fosse per passare
nel tablino. Di fatto, ecco gli amici che gli vanno incontro e gli
stringono la destra, e gli chieggono della salute e gli augurano
un giorno felice. Egli li chiama a nome; loro dimostra una certa
familiarità; s’informa delle cagioni che a lui li guidarono; dice che
farà per essi ciò che si fa pei propri figliuoli; promette colla sua
influenza di raddrizzare i torti che loro vennero fatti; di assumerne
le difese contro i loro accusatori o di procurare ad essi quella
tranquillità di cui avevano bisogno negli affari pubblici o privati. —
I clienti da parte loro a lui rivelano le proprie cose. — E lo pregano
d’influire al matrimonio d’una figliuola con un ricco suo amico. — Ed
aggiungere un regalo al suo corredo. — E ad aiutarlo di pecunia per
rizzare su la casa screpolata e guasta dal terremoto. — E a proteggerlo
per aggiungere la magistratura cui aspira. — Ed a farlo nominar augure
pei servizi prestati da molti anni nel decurionato. — Ed a procurargli
l’area gratuita nella necropoli sulla Via Popilia che menava a Nola,
ove voleva erigere un sepolcro per sè e pei suoi.

La Clientela fu una nobile instituzione creata da Romolo per unire in
istretto legame i patrizi ai plebei. Questi dovevano scegliere i loro
_patres_ perchè gli proteggessero. Essi avevano il debito di soccorrere
ai _colentes_ che gli onoravano. Nè potevano mutuamente accusarsi
dinanzi i tribunali. Nè testimoniar contro l’altro. Nè farsi inimici
mai. Ed ove cotesto accadesse e ne fosse constatata la infrazione,
il reo avea il capo mozzo come vittima sacra a Plutone. Una legge
siffatta e tenuta in rispetto per parecchi secoli strinse in vincoli
di famiglia il popolo quirite. Le famiglie patrizie si onorarono di un
gran numero di clienti e li perpetuavano nella loro discendenza come
una tradizione. Ognuno si faceva superbo nell’aumentarlo. E i ricchi e
potenti erano fieri nel rendere buoni uffici. E i bisognevoli temevano
di abusarne chiedendoli. E tutti fecero consistere la felicità nel
buono, nell’onesto, nella parte produttrice della virtù.

Ma l’ampiezza soverchia di Roma logorò a poco a poco i legami della
vecchia famiglia e non si sentì più l’obbligo rispettivo dei doveri
tra i protettori e i protetti. Per riallacciare i rallentati ricambi,
i necessitosi di aiuto ricorsero all’adulazione, alle viltà, alle
bassezze. E i superbi e i vogliosi di cortigianerie, alle _sportulae_
ed al _panariolum_, viveri di mediocre qualità che il patrono facea
pubblicamente distribuire sul vestibolo della sua casa alla folla
affamata che vi si stipava. Alcuni invece di vettovaglie davano danaro;
tanto da procurare a quella geldra raumiliata i sandali, una tunica
usata, un poco di fuoco per riscaldarsi, un po’ d’olio per rischiarare
il tugurio e una coperta per avvolgervisi nell’inverno. E quelli, di
rimando, lor davano i titoli i più esagerati, fin quello di _rex_,
quantunque proscritto insiem coi Tarquini. — Era la _Eccellenza_ e la
_Uscenza_ che i popoli meridiani d’Italia appresero nei tristi tempi
dei Vicerè e dei Borboni, con cui per vecchia consuetudine ancor si
salutano — ridendone dentro — malgrado lo espresso decreto del più
accetto tra i dittatori e del più nobile tra gli uomini — il generale
Garibaldi.

Così in Pompei, ove gli usi di Roma erano penetrati colla conquista.
— Olconio e i suoi eguali in dovizie, in virtù ed in potenza, volendo
ricevere i propri amici e beneficarli, doveva pur ricevere la vile
plebaglia dei chiedoni, dei sopraccarichi di famiglia, dei postulatori
d’impieghi — senza voglia di lavorare — e degli accattoni, pronti
alla menzogna e al mal fare. — Erano cittadini — avevano diritto
al suffragio nelle elezioni alle magistrature annuali. Dunque era
necessario aprir la porta e far entrare quelli che pur dianzi _ibi
fucum faciebant_ — cioè — che colà imitavano il ronzìo delle vespe.

Il diritto di clientela non era ristretto alle sole persone. — Le
colonie, le città conquistate, le alleate nazioni e i re barbari
imitarono gl’individui e scelsero i loro patroni nell’Urbe, il
_caput mundi_. Così Cicerone patronava i Campani. — Fabio Sanga, gli
Allobrogi. — Catone, l’isola di Cipro ed il reame di Cappadocia. —
Marcello, la Sicilia. — Un patronato siffatto era bello, onorevole,
lusinghiero — il più nobile, il più caro privilegio — quello di fare
il bene, di acquetare i dolori dei popoli, di riparare ai lor danni. —
Anche i deputati al Parlamento italiano potrebbero talvolta suffragare
ai più cari interessi di qualche provincia, o far cange le sorti di
sventurate famiglie, se i ministri — od i loro subordinati — non si
opponessero troppo spesso ai giusti loro richiami.

Olconio avea già spacciato gli affari col suo piccolo cerchio di amici
o di clienti che facevan parte della _prima admissio_. La educazione
dei tempi chiedeva che quelli della _secunda_ aspettassero il suo
comodo. Rientrò quando a lui parve nella camera e dopo qualche tempo
ne esciva vestito col suo abito da Foro. Preceduto dai primi, riceveva
i saluti e i piati e i desiderii dei secondi. E poi, da essi seguìto e
aiutato dal nomenclatore, parlò affabilmente ai miseri ed abbietti che
gli venivano presentati, dava il buongiorno a tutti; qualcheduno, che
sapeva influente nei trivi, baciava; qualche altro accoglieva con una
stretta di mano; ed il resto salutava gravemente.... duramente quasi. —
Dinanzi la porta era una lettiga, portata sulle spalle da sei schiavi.
Vi si chiude. I più fedeli clienti, di un certo ordine, lo accompagnano
intorno. — Gli altri lo seguitano formando una coorte. — Hanno lasciato
però i loro nomi al nomenclatore, per ricevere più tardi le beneficenze
del munifico _rex_.

Il corteggio va verso il Foro. — Parecchi se ne incontrano sul posto.
— Quivi discende. — Ed entra nelle Curie. — E si apre l’adito nella
Basilica. — E penetra nel Calcidico. — E va sino al Senacolo. — E per
ogni dove la sua parola è ascoltata, i duumviri acconsentono, gli edili
promettono, il questore non niega. Persino i sacerdoti — gente per
abito arrogante ed egoista — palesano una deferenza ai suoi desiderii.

Siccom’egli, gli altri. — Dalla terza alla sesta ora del giorno —
cioè dalle otto del mattino a mezzodì — tutta Pompei è in faccende.
— I tribunali rendono la giustizia. — I banchieri lavorano nei loro
fondachi argentari. — I magistrati sono in funzioni. — Gli artigiani
martellano, scolpiscono, dipingono, cuciono, gridano il nome delle cose
che vendono. — I preti inventano frottole e le danno come oracoli in
nome degli Dei, cui dicono di essere ministri. — I fannulloni vanno
nel pubblico bagno. — I villici trasportano le derrate dei campi
per venderle ai tavernai, ai _cauponatores_, ai cittadini che ne
abbisognano, ai fornai; o pur le consegnano ai fattori del padroni che
le fanno vendere nelle due botteghe che si aprono ai lati della porta
della casa. — I naviganti e i mercatori si occupano dei loro commerci
nel porto, nel deposito delle merci venute dal mare e nel portico del
tempio della Concordia. — Gli agenti del pubblico tesoro riscuotono dai
rivenduglioli il centesimo del prezzo delle cose vendute, le esaminano,
verificano il peso del pane e rifiutano dal mercato tutto ciò che
lor paia di pessima qualità. — Gli scribi li seguono per far processo
verbale all’occorrenza sulla pubblica via.

Poco più in su della taverna di Fortunato, sulla via Domizia, un
cittadino arrestavasi presso l’angolo della bottega del farmacista e
si appresta a compiere un atto nè decente, nè pulito. Uno che passa, lo
picchia sulla spalla e gli dice:

— Ehi! _Quid agis, dulcissime?... Non est hic locus._ Non hai occhi per
vedere la pittura sul muro? —

Quegli si ricompose e si disse straniero. Allora l’altro gli aggiunse
in greco che i due serpenti a lato di un modio ripieno di frutti e i
geni domestici dipinti sul muro, significavano — oltre molte cose — che
quel posto chiedeva rispetto. V’erano barili segati. V’erano anfore
rotte in ogni quatrivio per lo affar suo. E gli additava quei mobili
poco discosto col dito. Il forestiero si arrese al monito e ringraziò.
— Gli è che in Pompei, per impedire a chiunque lo sbarazzarsi in ogni
loco della soprabbondanza del fluido che dentro lo tormentava — oltre
aver instituito latrine pubbliche nei posti i più frequentati — ed
una amplissima ve n’ha a lato della prigione nel Foro — collocavano in
ogni crocicchio anfore o barili per accostarvi le immonde aspersioni. E
per guarentirne i luoghi sacri e le passeggiate faceano dipingere quei
serpenti ch’erano pur simbolo di Esculapio e d’Igea. Furono i tavernai
ed i rivenduglioli che inventarono cotesto rimedio per ispaventare i
fanciulli che insudiciavano gli angoli esterni delle loro botteghe.
Alcuni aggiungevano al simbolico spauracchio una inscrizione apposita.
— E i sacerdoti con esse invocavano sul capo dei rei la collera dei
dodici grandi Iddii e particolarmente di Giove e di Diana, i quali
non avrebbero risparmiato la gente grossolana che obliasse ai piedi
di un tempio com’essa non avesse un’anfora od una botte dinanzi. — Il
serpe che divora una pigna era adunque come la croce nera sui canti di
Napoli. — Laonde Persio dice nella Satira prima:

    _Pinge duos angues; pueri, sacer est locus; extra_
    _Mejite._

Per tutto è frastuono di voci. — I rivenditori di cose crude o cotte
non si contentano dell’_oculiferium_, cioè della merce che spacciano
posta in mostra. Nè di un quadro di terra cotta in rilievo incastrato
sul muro esterno della bottega. Nè di un dipinto allo encausto,
rappresentante il nume a cui è devoto, o una giostra di gladiatori,
od un combattimento di cui egli abbia o no fatto parte, o lo aspetto
di qualche strana figura che richiami l’attenzione di chi passa. — Nè
li suffraga lo spander legumi, prosciutti, meloni, cataste di cipolle,
di cavoli e di altre cose sul margine e fin sulla via ad abbarrarla.
— No. — Essi debbono urlare i pregi della loro merce e il nome della
regione d’onde provengono e la mitezza dei prezzi. — E i venditori di
vino dispongono anche al di fuori botticelli ed anfore, legati per
tema dei ladruncoli, ed urlano presso la porta, agitando un ramo di
edera. — I beccai infilzano le carni a vista di tutti; a lato di quelle
di capra sospendono rami di mirto per indicare che le provengono da
una prateria di montagna, dove cresce quello arbusto; e gridano alla
loro volta. — Nè stanno cheti i venditori ambulanti di pesci di mare e
dei delicatissimi del Sarno. — Nè quelli stazionari che vendono carni
cotte, bodini, salsicce, lardo, formaggi. — Tutti parlano a voce alta.
— Tutti gesticolano furiosamente. — Tutti hanno argomenti sempre pronti
per arrestare la curiosità dei passanti sulla loro via.

E chi non dee far le spese per la sua casa, pure è forzato di far
sosta, perchè un monello vuol vendergli per forza una ricotta entro
un piccolo imbuto di vimini; — od una bambina, un cestino di ginestre
ripieno di more o di frutti del gelso nero; — od una graziosa
fanciulla, dagli occhi neri e procaccianti, mazzolini di giacinti, di
rose di Poestum o di pervinche azzurre.

A tanto baccano onesto, conviene aggiungerne uno nè bello, nè decoroso.
— I marinai erano abituati a bever la _posca_ delle milizie lungo il
viaggio di mare; cioè, una miscela di acqua e di aceto per acquetare la
sete. — Una volta a terra, popolano le taverne — e ne escono cantori
discordanti di canzoni bacchiche ed erotiche. — I villici che hanno
intascato danaro nel _sinus_ della loro tunica, fanno stazioni lungo
le vie là dove veggono agitarsi il ramo dell’edera, e ne vengono
fuori bisticciandosi o cantando, a saltelloni correndo da un margine
all’altro; e inforcato l’asino od il cavallo, con male articolate
ingiurie trebbiano di vergate la misera bestia che deve pur trasportare
un animalaccio più bruto di loro ai domestici lari.

Un’altra immondezza delle vie era la mendicità di mestiere. Presso
i bagni, sulle gradinate dei templi, ai piedi delle tombe, presso
la porta delle _popinæ_ vedevi questi ladri del sentimento e della
commiserazione tendere la mano, qual lamentando un naufragio che di
ricco che era lo aveva reso povero.

— Un asse, per carità, nobile patrizio. — Io ne diedi degli assi ai
tempi lieti. — Eolo e Nettuno mi hanno ruinato. — Onore agli Dei,
quantunque avversi. —

Qual si ferisce o pur fascia la gamba in maniera da parerlo, e
piagnucola e si dice morente per febbre e per fame:

— Abbi pietà di un infelice, o tu che passi. — Era un _saccarius_.
Mi cadde un peso addosso e mi ha ruinato. Per lo affetto dei tuoi
figliuoli, pei mani dei tuoi nobili avi, un asse al povero facchino da
grano che non può più lavorare e che presto morrà. —

V’erano altresì alcuni speculatori, i quali datisi al culto di quella
sirena, che si chiama la infingardaggine, e pur vogliosi di viver bene,
offerivano alla lenta e sudicia Iddia lo incenso delle immoralità.
Assoldavano alcuni storpi di Neapolis, di Herculanum, di Capua, di
Poestum, e gli sguinzagliavano il mattino come cani famelici per le
vie della città. Chi recitava la parte di soldato mutilato per la
gloria e la salute della Repubblica. — Quale era stato prigioniero di
Silla nella distruzione di Stabia; e riparatosi sotto i vessilli di
Cluvenzio, generale Sannita, fu ferito gravemente alla battaglia di
Nola; e mostrava una profonda cicatrice sull’occipite e ne accusava
una più larga sul petto coperto. — Chi diceva sommesso essere un gallo
schiavo, fuggito da uno spietato padrone nell’Urbe e chiedeva uno
_stips_ — la più piccola moneta di rame che esistesse. — E la sera lo
speculatore lor dava convenio fuor delle mura in luogo appartato, e si
facea render conto da quei vagabondi delle somme raccolte.

— E perchè così poco, o malandrino?

— E tu, brigante, non avrai pianto abbastanza. — To’, una pedata. —
Domani sera, se non porti di più, ti apprenderò io a piangere la tua
sventura davvero.

— Vile storpiato; ti farò passar per le verghe; così saprai meglio
modulare al pianto la voce.

— E tutti studiate i modi ingegnosi di questo gobbo di Baiae che ha
saputo ingannare anche me, stamane presso il tempio di Romolo, non
riconoscendolo. — Tieni, o camello. — Oltre ciò che ti spetta, anche
un denaro di buon peso per te. — Vanne a scialare in una _popina_ per
conto mio. —

Sono passati diciotto secoli e la tradizione rimane ancor verde. Vi ha
tal gente in Napoli che lautamente vive di una siffatta speculazione
ladra ed infame. Il cattolicesimo vi presta la sua mano sacrilega. —
Sozzi frati colla bisaccia sul collo; sozzi preti con un bussolo che
scuotono nelle botteghe nel nome santo di Dio; sozza bordaglia, coperta
di un sacco, cinto da una corda sui lombi, chiede danaro e l’ottiene
a pro di turpi speculatori e per cause non vere. — E quel buon popolo
— il migliore d’Italia per pronta intelligenza, per docilità di
carattere, per esuberanza di cuore — su ricchissimo suolo, vegeta
sudicio, lacero ed infingardo. — Demoralizzato dai preti, commette
opere inique e crudeli. — Abbuiato dalla paura, dimentica il domani
della vita e sciupa il sopravanzo dei suoi guadagni nello inutile
tentativo di spegnere il sacro incendio del purgatorio cattolico,
apostolico, romano.

Lo _accensus_ grida per le vie popolose il segno del quadrante solare.
— È l’ora sesta. — L’astro maggiore indica il mezzodì. — L’uso, e — più
che l’uso — il clima, impongono la cessazione di ogni fatica. Le porte
delle botteghe si chiudono. I patroni congedano i loro clienti. Qualche
usuraio ancor cerca per le strade una qualche vittima. La plebaglia
torna nelle sue case col beneficio che i _nomenclatores_ hanno a
lei distribuito. — Ognuno desina, e mangia che può. — I ricchi e gli
sfaccendati si gittano quindi sul letto per dormirvi qualche ore. Alle
otto i più diligenti si levano per riprendere il filo degli affari. Ma
alle nove — cioè, tre ore dopo il mezzodì — nessun pensa ad altro che a
ricrearsi o a far panciolle.

Lungo il canale del Sarno era uno spianato, convenio di tutti i monelli
della città. Le bambine, assise al rezzo dei pioppi, giuocano cogli
astragoli che gittano in aria col dosso della mano e, addoppiandoli,
li riprendono nella palma. — I ragazzi si lanciano a vicenda il
pallone, detto _follis_, lo raccattano e lo ripercuotono. — Altri, su
terreno più duro, fanno girare una trottola, che chiamasi _turbo_, e
a furia di sferzate le imprimono rigiri irregolari; quindi impalatala
sulla mano destra, ve la tengono sin che si fermi. — I più piccini
corrono a cavallo sur una canna. — O col fango costruiscono casucce;
— o formandone un orciuolo, producono un rumore, scaraventandolo con
impeto per terra; — o giuocano a pari e caffo; o lanciano in aria
un asse, scommettendo se nel cadere presenterà la testa di Giano o
la prua del trireme — _capita aut navis_. — I perdenti offerivano il
polpaccio della gamba; e gli altri che avevan vinto, vi applicavano
un colpo a mano spianata; e perchè nessuno ne desse uno di più per
frode, il punito minacciava di una labbrata chiunque si presentasse.
— I più grandi tentavano di far cadere una noce dentro il collo di
un’anfora, conficcata in determinata distanza; o colpivano con una
noce un cumulo di altre tre sormontate di una quarta, e la guadagnava
chi faceva cadere il castello. — Fra gli adulti, ve n’era chi lanciava
colla fionda una pietra a seicento passi entro un fagotto di paglia
sospeso ad un albero; oppur unti di olio si esercitavano alla lotta
come gli atleti; o infintisi soldati, marciavano com’essi, armati di
corti bastoni; o simulando un tribunale e un delitto, si accusava un
incriminato, lo si difendeva, si udivano i testimoni, o si assolveva
o si condannava colla gravità dei magistrati. — Correvano, sudavano,
urlavano. E stanchi, si gittavano nel canale per nettarsi dalla polvere
o per nuotare. — I giovani di venti anni andavano fuori della porta
di Nola e là giuocavano al disco, ch’era di bronzo o di marmo. Lo
afferravano colla palma stringendolo con quattro dita, e lo cingevano
con una correggia allacciata con nodo scorsoio nel polso. Dopo averlo
fatto girare attorno al capo, facevano piccoli passi frettolosi sin
presso un segno solcato per terra; e tenendo il braccio sinistro sul
destro ginocchio e inclinando la persona in avanti, lanciavano il
disco; questo, fischiando, fendeva l’aria e arrestavasi quando la forza
dello slancio lo abbandonava. Il rivale discobolo tentava di superarlo,
e vinceva la scommessa colui che lo spingea più lontano.

Siffatti divertimenti erano a tutti comuni, al figliuoli dei parenti
agiati siccome a quelli che esercitavano un’arte quale si fosse. E
Ottaviano Augusto, quando, al cessare delle guerre civili, cessò dallo
esercitarsi romanamente nel Campo Marzio a cavallo ed in armi, si
diè per suo esercizio al giuoco della palla piccola e grossa. O per
prendere un poco di esalamento, or pescava coll’amo, or giuocava ai
dadi, or trastullavasi coi bimbi nei giuocolini adatti alla loro età,
purchè fossero aggraziati, vivaci, linguacciuti, chiassoni. Talvolta,
per esercizio ginnastico, inforcava il cavallo e lo faceva andare
di trotto e a saltelloni, o lo spingeva a slascio lungo lo spazio.
E allora vestiva alla leggera, avvolgendosi in un gabbano, detto
_sestertium_, od in mantelletto di cavalleria, nominato _lodicola_.
— Nei tempi anteriori erasi visto Mario, già vecchio e vincitore
dei Cimbri, discendere nel campo di Marte dell’Urbe e gareggiare coi
giovani negli esercizi della milizia. E Pompeo saltare coi più agili e
correre coi più destri. E Catone giuocare alle bocce cogli amici suoi,
come il generale Garibaldi in Caprera coi propri compagni d’arme.

Poichè ho parlato delle varie età dei giuocatori, i pazienti che
leggono questi miei studi sull’antico mi permettino una breve
digressione dal racconto. Non sarà inutile.

I nostri avi indicavano la età degli individui della forma delle
vesti. I fanciulli indossavano la toga pretesta e la lasciavano
nell’adolescenza, cioè a dire, alla età di quindici anni. La vita di
un uomo, divisa in cinque periodi, distinguevasi in _pueritia_, in
_adolescentia_, in _juventute_, in _maturitate_, e in _senectute_.
Gli adolescenti nello acquistare i diritti di cittadino, indossavano
la toga virile, di lana bianca e non più orlata dalla striscia di
porpora, come la consolare che essi avevano portato fin da bambini.
I quali — era mente di quei savi — dovevano essere rispettati quanto
i primi magistrati della Repubblica. — Toccava al padre o al parente
più prossimo il rivestire il fanciullo di quella veste. La funzione
era solenne e facevasi in pubblico, sia nella città, sia in paese
straniero. Vi erano invitati tutti i parenti. — In sull’alba, il
giovanetto che aveva dormito vestito colla regilla, in segno di buon
presagio, lasciava la sua _bulta_, e l’appendeva al collo dei Lari
domestici. Quindi tutti accompagnavano lo affrancato dalla infanzia
nel tempio, ove si facean sacrifizi ed offerta agli Dei nell’atto che
gittavasi sulle sue spalle la toga pura. Lo stesso corteggio lo seguiva
nel Foro, come per presentarlo al popolo che da quel dì dovea contarlo
per uno dei suoi membri.

Cotesta solennità compivasi una volta l’anno il XVI delle calende
di aprile — a’ 17 di marzo — giorno in cui si celebravano le feste
liberali, o di Bacco. Pompei — siccome tutte le città nel dominio
della Repubblica romana — era in tal giorno gremita di gente. In
ogni crocicchio erano assise vecchie donne, coronate di edera, aventi
sulle loro gambe un paniere di paste coperte di bianco mele ch’esse
offerivano, lodandone la dolcezza e il buon gusto, a chi passava. Ad
ogni scambiare di strada vedevansi giovanetti sorridenti, da tenere
occhiate all’abito nuovo, da tempo ambito e sognato; e i genitori e
gli amici, anche lietissimi di quella fanciullesca ambizione. — E vi
era di che. — Il quindicenne diveniva cittadino libero, e sceglieva la
propria carriera. Se l’avvocheria, il padre lo presentava il dì poi al
migliore oratore, perchè glielo addottrinasse. — Se la disciplina delle
armi, lo affidava ad un amico, governatore di una provincia, perchè
gl’insegnasse a difendere la patria, non come soldato — non avendo
ancor prestato giuramento — ma come _contubernalis_, cioè aggregato.
— O lo raccomandava ad un Senatore in Roma, o ad un decurione
nelle colonie e nelle provincie, acciò assistesse alle assemblee ed
acquistasse la scienza governativa.

L’adolescenza finiva all’età di trent’anni. — La gioventù a quella di
quarantacinque. — La maturità a sessanta. — Oltre quel periodo era la
vecchiezza grave ed assennata. — E qui chiudo la parentesi.

Infrattanto che i giovani e i minori fanciulli si divertivano presso il
porto e sulla via Popilia, altri erano nelle scuole ad apprendervi a
leggere, a scrivere, a contare. — Quanti scappellotti! Quante nerbate
sulle palme delle mani! Quanti colpi di staffile sulle parti carnose!
Quante stiracchiature di orecchie! — E tutto ciò per inspirare alla
tenera età lo amore al lavoro e l’applicazione allo studio! Anche per
tale riguardo in tempi diversi simiglianti procedimenti. — I preti
ch’educarono la mia generazione fecero di tutto perchè abborrissimo lo
studio. — Iddio perdoni ai morti, come già mortifica i vivi!

In Pompei si parlavano le tre lingue — la sannita — la greca — la
latina. — Le prime erano di uso domestico. L’ultima s’insegnava. E
per la differenza dei caratteri, conveniva chiarirne la forma ed i
suoni. Sur una tavola erano essi incavati; per modo che il bambino,
passando su quei segni alfabetici il dito e lo stile, cominciava per
distinguerne la immagine, la indicava colla voce e la tracciava poi
colla mano. Collo accoppiamento delle lettere finivano per leggere. Col
pigiare una punta su tavolette di cera, si perfezionavano nel copiare i
_præscripta_, ch’erano esemplari di bella forma di lettere.

I meglio avanzati in età studiavano la grammatica. Quindi leggevano
Omero e i migliori poeti latini e le arringhe di Ortensio e di
Cicerone. — Talvolta avevano il còmpito d’impararne squarci a memoria e
di scriverne. — Tale altra di esercitarsi in una specie di parafrasi,
che addimandavasi _chria_, la qual cosa consisteva nello ampliare
e commentare una parola sentenziosa od un fatto memorabile. Questi
esercizi i discenti li portavano in casa, per mostrarli ai parenti.

L’acqua aveva appena marcato l’ora nella clessidra, che un grido di
gioia rintronò nella scuola del Foro. I monelli si levarono in piedi
e corsero all’uscio. Il peggio ardito, in quel momento di disordine,
scagliò la tavola incerata che aveva per mano sulla testa del maestro.
— Tutti fuori e a slascio, facendo un grande baccano. Il misero
vecchio, _minumi pretii_, perchè col suo salario aveva appena di che
sostentare la vita, seguì lo indisciplinato, gridando. Si avvenne col
padre che saliva per la via dell’Abbondanza.

— Mira la cattiveria del tuo figliuolo tristissimo. Mi ruppe la cute,
qui, nell’orecchio.

— Forse, o Verna, tu l’hai picchiato ed egli si vendicò. — Riconosco il
mio sangue. — Son certo che, presa persona, nessuno saprà impunemente
ingiuriarlo.

— E tu così parli?.... Ah! meglio maneggiare il remo che consumare i
miei poveri giorni per gente sì ingrata. —

Tornò nella scuola brontolando e si fasciò il capo e l’orecchio pesto
con una benda di tela oliata, che parea una lanterna.

Era la decima ora, cioè le quattro dopo il mezzodì. E i rintocchi
fragorosi di un martello su largo cerchio di bronzo sospeso ad un
chiodo nel muro, si facevano udir di lontano presso il tempio della
Fortuna e nel fondo della via dell’Abbondanza. — _Discus crepuebat._
— Ciò indicava che i bagni pubblici erano aperti. — E le botteghe
di consumo chiudevansi. — E i cittadini laboriosi e quelli di medio
censo ed i ricchi s’incamminavano verso le Terme. Gli è che, nel
mentre i raggi del sole perdevano un po’ della loro forza, e diveniva
piacevol cosa il riposarsi dalle fatiche o dalle noie della giornata,
i nettatori delle strade entravano dai subburbi coi carri per togliere
le immondezze, il fango, la polvere i rottami dinanzi le case in
costruzione, i concimi delle stalle e gli erbaggi che i rivenduglioli
avevano gittato fuori della soglia. Un decreto degli edili avea pur
fissato quell’ora per introdurre sui muli le legna, i mattoni, la calce
e i pezzi di marmo, affinchè potessero circolare senza incomodo per la
maggior parte dei cittadini.

Sì le prime Terme come le più grandi ov’era la _palestra_ — vasto
paralellogrammo dedicato alla ginnastica per lo spigliamento delle
membra nei giovani — erano già piene di gente. — Mosaici sui pavimenti.
Stucchi coloriti sulle volte. Mobili di bronzo e bacini di marmo.
Inservienti al bisogno. — In faccia al porticato di colonne scannellate
era il _baptisterium_, ove ognun che voleva si gittava ignudo e sudato
nel bagno freddo in comune. — Quello dei bagni poco lungi del Foro era
rotondo, ristretto e sotto una cupola, d’onde veniva la luce. Nella
prima stanza sotto il colonnato lasciavansi le vesti e di là entravasi
in una sala spaziosa, riccamente ornata, ove pur potevasi togliere il
bagno freddo dalla gente che preferiva prenderlo al coperto. Lungo le
pareti sono sedili per agio di quelli che accompagnano i bagnanti e
conversano con essi od attendono il loro turno. — Nella sala che apresi
a manca è il _tepidarium_, il cui pavimento e le cui pareti tramandano
un dolce calorico, proveniente dal _laconinum_, il fornello dei bagni.
— Quivi erano larghi bacini di marmo e sedili di bronzo per asciugarsi
o riposarsi allorchè si usciva estenuati dal _sudatorium_, sala delle
bagnature a vapore. Il quale, escendo a nuvoli che si spandano da per
tutto nell’apposita sala, va verso la volta di forma emisferica, a
lavori di stucco scannellato, e discende pei regoli successivi lungo
le pareti. L’apertura praticata sul sommo della soffitta era chiusa da
uno scudo di bronzo, e col mezzo di una catena potevasi aprire come
una valvola, nel caso che il calore del caldario divenisse troppo
eccessivo. Quelli che si facevano colà dentro, ansimavano, davano in
singhiozzi, respiravano appena. L’aria infuocata e la grande umidità
non danno requie ad alcuna parte del corpo. — Scuote, opprime, stanca,
accascia, prostra le forze. — Val quanto trovarsi nel focolare di un
incendio. — E non so come i Romani non abbiano scritto nelle dodici
tavole l’applicazione della condanna ad esser bagnato vivo su quei
tristi che intendevano correggere invece di uccidere.

L’_eleotesium_ era il luogo ove si tengono i profumi e gli unguenti
campani. — In altre piccole stanze posavano bagni di marmo per le
donne di età grave o per uomini difettosi della persona che non amavano
mostrarsi avvizziti e deformi al pubblico sguardo. Ma dal povero plebeo
coperto della sua _pullata_ ai magistrati che indossavano la pretesta,
dagli illustri cittadini agli uomini di piccole fortune, nessuno
sdegnava i pubblici bagni. Unica distinzione era che il ricco veniva
preceduto dai suoi schiavi e seguito dai clienti. Ed il plebeo entrava
solo.

Le genti agiate frequentavano le Terme per moda, per accidia, per
curiosità e per trovarvi conoscenti ed amici, onde invitarli a cena,
al giuoco dei dadi e ad un’orgia. — I derelitti dalla fortuna, per
raccapezzarvi — chiedendolo — un qualche asse. — E le donne per
stare in esercizio di pettegolezzi, per narrare ed udire la cronaca
scandalosa della città, per osservare da vicino le forme decantate di
una bella e trovarvi alcun che da ridire, e..... per filare un intrigo
amoroso su quel terreno neutrale, ove la folla sapeva celarlo nei
ripieghi dell’uso e della prescrizione medicale. Nelle due Terme le
donne avevano un bagno a parte ed entravano per uscio diverso da quello
degli uomini. — Sur una delle porte della Palestra, nel vicolo, era
scritto: _Mulieres_.

Non molti gl’inservienti. — Un guardiano del bagno — un _fornicator_,
cioè, quegli che poneva il combustibile nella fornace — e parecchi
schiavi, condannati ai lavori pubblici per delitti. — Questi hanno
nome secondo lo ufficio. Addimandavansi _capsarii_ quelli che serbavano
chiuse in una cassetta le vesti di un bagnante e ne traevano mercede.
— _Aliptae_ o _unctores_, i profumatori cogli unguenti. — _Alipili_,
gli spelatori col mezzo di una pomata, o colla pietra pomice. —
_Tractatores_, i frizionanti nel bagno a vapore. — Per siffatti servigi
le donne conducevano con sè le loro schiave.

— Ahimè! Come sono stanco. Spero nel tepidario riprendere un po’ di
forza per poi goder meglio i piaceri della mensa.

— O, non si direbbe che Publio Ametistio abbia fatto oggi sforzi
prodigiosi per passar la giornata?

— Tu hai, o Statilio, del toro, e le forme ed il nome. Nè sai compatire
ad un gracilino par mio che desinò tre volte e vomitò due. La bella
Iddia vi mette anche del suo. E se la dura a lungo, è miracolo.

— Taglia la corda e resterai libero. —

Ed un altro aggiunse, cacciandosi nel bacino pieno d’acqua fumante:

— Facile a dirsi. _Quisquis amat venit_, dice il poeta. E a sedurre
Ametistio ci vuol meno che far cadere un pettorosso nella pania.

— O tu, Atimeto. Guazza un po’ meno..... e pensa che hai misurato
l’amico colla tua spanna. — Se potessi dir qui una novella..... Ma nol
debbo, _quia lupus est in fabula_.

— Hilaro Sulla, or narrala e ci piacerà. —

Atimeto versò sul curioso Statilio acqua a manciate e profittò del
rumore per dire usassero prudenza; — avvegnachè non il lupo fosse
presente al racconto di una sua debolezza di cuore; ma un altro animale
che aveva di che allontanare ogni fascino. E coll’occhio lo designò.
— Era un uomo adiposo che soffiava nel bacino di contro come un
ippopotamo. Orafo, arricchito dal mestiere, aveva comperato dal padrone
la sua libertà. E più erasi fatto danaroso colle usure a carico dei
giovani spensierati. — Zozzo, liberto di Popidio Ampliato, verso la
cinquantina, aveva domandato ad una bella giovane se voleva essere la
donna sua. La non rispose nè si nè no. Ma il terrore d’istinto — che,
bruttissimo era e guasto dal vaiuolo — egli lo interpretò come eccesso
di gioia. — La vittima venne trascinata sullo altare, coperta di bei
monili e di collane di perle. — Pare che anch’essa lo ricambiasse di
una bella corona. E non era di rose..... Almeno così diceva la mala
lingua di Sulla nel bagno.

Quei giovani passarono nel sudatorio e si distesero sopra lettucci
di riposo, dove alcuni giovanetti, appena vestiti, cominciarono a
strofinarli con spugne finissime. — Quindi a mani piene pigiavano le
loro carni, li ravvoltolarono per ogni verso e fecero che tutte le
articolazioni scricchiolassero. — Da prima ridevano e scherzavano.
Poi caddero in una prostrazione come per grande stanchezza. — Quel
_malaxare articulos_ era per fermo una operazione dolorosa, quando
i frizionatori non fossero dotati di una certa abilità e destrezza.
Allora questi diedero di mano agli strigili — ch’erano di avorio o
di argento, adorni di bei graffiti, la cui forma somiglia a quella di
una falce concava che possa applicarsi alla rotondità delle membra —
e staccarono dalla dermide tutte le ineguaglianze e le impurità che la
traspirazione vi aveva adunato.

Trasportati di nuovo dond’erano venuti, gli epilatori li spelarono
con un unguento fatto con semi di salcio nero e con egual dose di
litargirio. — E i profumieri li unsero di distrutto di porco con
elleboro bianco. — Aspersi poi di olio di nardo e di megalio, furono
asciugati con stoffe di lana finissima. — Vennero in ultimo avviluppati
in una _coccina gausapa_ — specie di grande toga scarlatta, vellosa al
di dentro — e deposto ognun di que’ giovani entro una lettiga coperta,
furono ricondotti in casa loro. — Nel congedarsi, Publio Ametistio ebbe
a dura prova la forza di dire, sbadigliando:

— O, chi verrà alla _comissatio_ meco?..... Prometto _mirabilia!_

— Verremo! —

Statilio Tauro, nel porre il piede nella sua sedia chiusa, voltosi agli
amici, lor disse:

— Parlare consigli di saviezza a quel caro epicureo è lo stesso che
raccontare una storia ad un asino sordo. — Valete. —

Intanto che quei giovani infemminiti prendevano il loro bagno
caldissimo che gli slombava, i popolani si procacciavano un sudore
abbondante e senza spesa nella palestra. Gli uni — ignudi nati —
si esercitavano nella lotta; e ciascuno procacciava con sgambetti
di cacciare il compagno per le terre. — Altri bilanciavano le loro
braccia, avendo nei pugni pezzi di piombo. — Altri, giuocavano alla
palla. — Ed altri ancora, colle mani legate sul dorso, prendevano
colla bocca anelli per terra e si rialzavano. E fra i più destri, uno
inginocchiato, rovesciavasi indietro sino a mordersi il tallone dei
piedi. Quindi si tuffavan tutti nell’acqua gioiosamente, con grandi
risa e con più alto baccano.

Il bagno addetto alle donne è più quieto. Ma il bisbiglio dei vari
tuoni delle voci è anche più discordante. — In una epoca ed in
un paese, ove le vesti dinotavano la condizione di quelle che le
indossano, la nudità assoluta delle persone stabiliva una eguaglianza,
una democrazia, di cui ognuna traeva suo pro per la libertà propria.

— O che hai, Rufilla, che sei costì tanto cheta. Da che siamo nel
bacino non sferrasti pur anco una parola.

— Mia cara Aglaia, sto ammirando le carni flosce della mia padrona,
sulle quali sarebbero così bene applicati i colpi di verghe che mi
fece dar non ha molto. — Ne ho ancor le lividure alle reni. — Mira che
pelle. — Toccherà a me domani il renderla bianca di carnagione, nelle
parti visibili, colla cerussa di Rodi. — Buon per lei che un’altra
l’asciuga. — Io la pizzicherei di dispetto.

— E non hai tu altra sorgente di collera contro di lei?..... Il mio
padrone, ch’è il maggiordomo nella casa di Bleso, disse alla moglie
aver inteso come il marito della tua signora volesse affrancarti
perchè..... sei bruna e piacente. —

Rufilla sorrise e replicò a bassa voce:

— Ho rotto pace con molte illusioni, io. — Pur sono ancora in
civettismo colla speranza. Chi sa? Finora alla Iddia bendata non vidi
mai il viso. — Ed in vero non saprei dirti ciò che meglio io desideri.

— Tu parli come gli aruspici. Pure ti ho inteso. — Venere ti
sorrida! —

Quando le due schiave si levarono di là per asciugarsi, altre due
parlavano greco nell’atto che le donne loro affibbiavano addosso le
vesti. Sembra che quella lingua esse ignorassero.

— Dì! — È egli vero, o Lelia, che tu ti mariti? Piacerebbemi. —
È un dabbene quel tuo promesso. — Sia la dolce Iddia propizia ed
entrambi! —

La giovanetta cui fu volta la domanda era diciottenne, dalla persona
delicata, dal viso pallido, dalle linee rotonde, soavi e fine. Una
leggera lanugine le adombrava l’orlo superiore della bocca. — Sorrise.
— E da quelle fila di perle escì cotesta risposta:

— Minucia, grazie ai tuoi voti. — Presto. — Altrimenti la vita mi
parrebbe insopportabile. — Quinto Muzio io l’amo e spesso lo sogno con
ardente follia. — Una sera mi ha baciato. — E, fatta sola nella mia
stanza, io ne ho pianto e tremava tutta. — Chè, il bacio di un uomo
non è come il tuo, sai?..... Oh! qual bacio! — Era qualche cosa di
bruciante e di leggero che mi penetrò come il soffio di una carezza nel
cuore. —

E stringendosi forte mutualmente le mani, partirono.

Una donna, già completamente vestita, fe’ cenno colla mano ad un’altra
di appressarsi.

— Esce ora colla sua figlia. — La vedesti nel bagno? Brutta e
manchevole..... E che sa trovarvi egli di bello?..... Io lui desidero e
voglio. Intendi? — Gli diè forse a bere un filtro amoroso, colei?

— Mia nobile padrona, una sola droga ne apparecchia uno infallibile:
— Amate e sarete amati. — Cotesto è lo avviso della esperienza. — La
umiliazione t’irrita. — Cancellane le tracce. — Lo visiterò domani e —
credimi — ti porterò domani il suo cuore.

— Torna a vedermi.... nel tempio. — Farò offerte alla Dea protettrice.
— Intanto questa borsa a te per testimoniarti che Giulia sa essere
riconoscente e generosa. —

Quando la _lena_ escì dalla sala, rimasta sola nel corridoio, la ricca
donna pensò:

— Io prendo una ben dura lezione, e i miei Giunoni sanno a quali prove
io vo incontro. — In un momento di disgusto lasciai l’uomo al quale
io mi era donata. — M’invaghii perdutamente di Gneo Melissa. S’egli
compenserà il mio grande e miracoloso amore, apparterrò ad un padrone
le cui esigenze aumenteranno sempre. — Accetto la condizione in cui lo
alato Dio mi gittò. Sono doviziosa tanto da pagare i suoi capricci e da
allacciare con catene d’oro il suo cuore. — Ben lungi dal chiedere per
la mia passione quello che follemente desidero, un eterno obblio per
Numanzia, una parola affettuosa per me. — O Venere potente! O Venere
santa! O delizia dell’Olimpo e della terra, fa’ che quell’uomo mi paghi
di amore e dissipi le miserie di questo mio cuor lacerato! —

Povera donna, a trentacinque anni! Quel piccino fra tutti gl’Iddii,
passando un giorno dinanzi la sua ricca dimora, usò un tratto della sua
eterna malizia e sorridendo le scoccò lo strale.

Lo indomani fu essa contenta? Lo ignoro! So questo solo. — Era nata
in Pompei col nome di Giulia Felice, figlia di Spurio. — La sua casa
conteneva grandi ricchezze in oggetti d’arte di marmo, d’oro e di
argento. Eravi un sacrario con divinità egizie ed un magnifico tripode
di bronzo cogli attributi del dio di Lampsaco.




LA BASILICA.

UNA CONDANNA A MORTE.

=Anni di Roma 770 — Anni del Cristo 17.=


                         A LEOPOLDO TARANTINI.

                                   V.


In Pompei la gente per bene ristoravasi quattro volte per giorno. Il
_jentaculum_, nel saltar giù dal letticciuolo, consisteva in una fetta
di pane bagnata nel vino — od in pane e cacio — o nel solo vino ove era
stato infuso per tutta notte un bastone di finocchio aromatico detto
_silum_, per cui questi addimandavano _silatum_ il loro asciolvere
— od in una bevanda dolce e profumata da sciacquare la bocca e
toglierle il tanfo della digestione. — Verso la sesta ora — mezzodì —
cominciava il _prandium_, cibo di sostegno sino alla sera. Chiamavasi
ancora _merenda_, da _meridies_; oppure _prandiculum_, tanto la gente
costumata contentavasi di poco. — Un po’ di pane — qualche pasta calda
di forno — o del _liquamen_ di vino stracotto, detto _sapa_, o di
emulsioni di ciliege, di mele apie o di cotogne, addolciate col favo.
— La _cœna_ sì, che era copiosa. Prendevasi _supremo sole_, cioè al
declinare del giorno, quando le faccende pubbliche o le particolari
erano terminate, verso la decima ora, cioè alle nostre quattro di
sera. — Solo i giovani scioperati mangiavano in sull’ora ottava, cioè
alle due dopo il mezzodì. E lo facevano più volte col recere e col
rimangiare; e poi toglievano il bagno caldissimo per debilitarsi ad
aver fame per la _comissatio_, specie di orgia cui Bacco e Venere
presiedevano e che si prolungava lungo la notte.

A lato dei Lari compitali sulla via non lungi dal Foro, ov’è la
fontana dalla testa del Leone, parecchi giovani si fermano e picchiano
ad una porta. L’ostiario apre, chiede i nomi e lor dà passaggio sul
_prothyrum_ di bianco mosaico su cui sono rappresentati con neri dadi
due lottatori afferratisi. — Erano attesi. — Dal peristilio entrano nel
triclinio, ove altri gli accoglie e gli bacia. — Il padrone del luogo
gli computa e dice:

— _Septem convivium. Novem convicium._ —

Una gaia risata festeggiò quel motto spiritoso. Avvegnachè, avesse
detto come sette a desco avrebbero composto un’allegra brigata. Ma
trovandosi in nove, la riunione la sarebbe stata chiassona. — Ed era
ciò che chiedeva. Per le disposizioni e pei mobili di quelle stanze,
i convitati non dovevano essere numerosi. E il buon genere dei tempi
imponeva che non eccedessero le Muse e non fossero da meno delle
Grazie.

  +-------------------------------------------------+
  |         |         |         |         |         |
  |   III   |   VI    |    V    |    IV   |   VII   |
  |         |         |         |         |         |
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  |         |                             |         |
  |    II   |                             |  VIII   |
  |         |                             |         |
  |---------|                             |---------|
  |         |                             |         |
  |    I    |                             |   IX    |
  |         |                             |         |
  +---------+                             +---------+

Compite le abluzioni e le altre formalità di uso, il padre del festino
— _cœnae pater_ — indirizzò una breve prece agli Dei e a suon di flauto
fece le debite libazioni di vino. Quindi distribuì i convitati sul
triclinio nell’ordine seguente. — Sul posto V del _summus lectus_ ei si
sdraiò appoggiandosi al gomito sinistro. Indicò a Psiche di allungarsi
sui cuscini del IV, ed invitava P. Ametistio ad assidersi sul luogo
consolare VI. Sul letto di sinistra si disposero Calliopa, Suavis
ed Issa su III, II e I. E sul _lectus imus_ si adagiarono M. Porcio,
Scapido e Metrodoro nel VII, VIII e IX; questi ultimi erano _umbrae_,
cioè non da lui invitati.

Il vuoto era riempito da una larga tavola di marmo, ove si disponevano
i _riton_ e le tazze e le scodelle per le vivande. Dietro ognuno era un
servo, _succintus puer_, la cui attenzione era desta dalla scoppiettio
delle dita.

Gli uomini e le donne ricevettero sul capo corone di edera, di rose,
di viole e di fiori di zafferano. Altre più larghe erano poste ad
armacollo. Sui capelli furono sparse essenze di nardo, di balano e
di altre sostanze odorose. Credevasi che quel verde, quei fiori, quei
profumi, aprendo i pori, facessero facilmente evaporare i fumi del vino
greco ed indigeno.

Le vivande erano apportate sopra un _ferculum_, grande vassoio di
argento che copriva tutta la tavola. Allorchè il padrone volea che
fosse servita la _mensa secunda_, facea scoppiettare il pollice
coll’indice, e i servi ubbidivano. Così pure per empire i _riton_ coi
ciati, specie di misura con cui si prendeva il liquido e si versava nel
calice che lo invitato stendeva. Cucchiai erano sul desco e piccini
di fine argento. Vi erano coltelli. E pur cannelli di penna d’oca o
fuscellini aguzzi di lentisco per iscalzarsi i denti. Ma gli alimenti
solidi, di pesce e di carne li prendevano colle dita, salvo a lavarle
nel _trullum_, catino che lo schiavo sopportava, ed asciugarle colla
_mappa_ che ognuno recava da sè. — Avevano inventate tante raffinatezze
di lusso, meglio che di uso, e non avevano pensato a distendere una
tovaglia sul desco, a fornire gl’invitati di tovagliuoli e a fabbricar
le forchette con cui infilzare le vivande.

Dopo aver mangiato e bevuto, ribevvero ancora. Era l’uso di non levarsi
dai soffici cuscini senza prima salutare le donne che sedevano accanto.
Quei begli umori erano discreti. I più perdevano la ragione. Ma nessuno
poteva esimersi dalla regola, abbandonatamente accettata, la quale
prescriveva, _Omnis amica numeratur ab adfuso Falerno_.

Laonde il _pater cœnae_, volto alla Psiche sua colla tazza ricolma:

— _Cor cordium, nomen tuum bibo._ —

E tranne lei, tutti appressarono sei volte le labbra al bicchiere,
ingoiandone i sorsi. Quindi Ametistio:

— Alla cugina di Venere.... Al fascino dei tuoi sguardi, o Calliopa....
Io bevo ogni lettera del tuo nome armonioso. —

Metrodoro aveva Suavis sul corno opposto del triclinio. E lei
guardandolo amorosamente,

— _Sex cyathos_ per te, o maga del cuore. —

Scapido, appena sdraiatosi, aveva notato le copiose trecce della
fanciulla che il re del convito, od il caso, gli aveva disposto di
fronte. A forza di vederla, si prese ad amarla. E siccome egli non era
fatto per dispiacere ad alcuna, anch’egli a lei piacque. Veramente
Porcio era il suo amante. Ma quando lo amore s’infiltrava nel cuore
greco-latino, ogni cosa doveva cedere — e ancor cede! — pregiudizi,
interesse, doveri. Scapido bevve quattro sorsi al suo nome. E Porcio,
pur morsicato dalla vanità nel vedere gli sguardi e i sorrisi di lei,
acuti come un dardo, leggeri come il soffio e fragili come la virtù,
rivolti spesso alla persona a lui daccanto, bevve e intero il nome
della passionata pompeiana. Però, brontolando, non si ristette dal
dire:

— _Alii adnutat, alii adnietat, alium amat et me tenet._

Aveva torto. Le donne di tal conio usarono sempre ad uno far segni, con
altri occhieggiare. E se taluno amano, tengono altri per le unghie.

I servi partirono.

Rimasti soli, parlarono su quel tema, inesauribile come la musica —
perchè anch’esso è la musica delle anime — che addimandasi amore. Ed
una felicità di una nuova specie ed ignota gl’innondò tutti. Pareva
temessero che qualcuno sarebbe venuto a rapir loro quella serie di ore
beate che nessun certo lor disputava. La rapidità piena del piacere
svanisce come un minuto e stanca. Ma poi torna secolo, carico di
ricordi festosi e delle delizie di un istante — e tanto più nei momenti
in cui si è colpiti dal dardo di un grande dolore.

Calliopa, dopo aver guardato per qualche tempo Ametistio, tornò a lui;
e, sedutasi sulle sue ginocchia gli mormorò:

— Mi ami, Publio?

— Sì, cara; come il mare la sponda.

— Infido! —

E appoggiando il gomito sulla sua spalla, velò la faccia. La misera!
— Sulla veste sottile di Laïs essa avea ricamato coi fili d’oro la
ingenua serenità dell’anima e quella freschezza e quella limpidità di
sguardo che ammalia e seduce. Quando la donna si sente così penetrata
dai raggi di un celeste amore, acquista immediatamente un non so che
di dignitoso e di augusto, che spinge gli umani a ringraziarne gli Dei.
Essa intravide d’un tratto dove i suoi nobili sentimenti la spingevano
e pur discerse come la mano amica le mancasse nello avviarsi verso la
landa ignota dei suoi destini. Fidanzata della miseria, o fidanzata
del dolore, sapeva il paese d’ond’era venuta e giurò dentro di non vi
tornare mai più. — E mentre essa pensava, ed anche Ametistio pensava.
— Ma l’una pianse e l’altro rise. — E si ricambiarono un bacio ov’era
chiusa un’antitesi dolorosa.

— Chi giuoca alle tessere?... Su, poltroni! O crederò che Bacco vi
abbia fuorviato... E tu, Publio, scostati da Calliopa, che da qualche
tempo medita disegni sinistri sulla tua pace. —

Quegli si svincolò ridendo dalle sue braccia, e:

— Giammai fui felice coi dadi. — Immagina ora che mi strappi con
violenza di Pafo. — La bella Iddia si vendicherà! —

Il giuoco delle tessere consisteva in cotesto. — Tre piccoli cubi di
avorio si mettevano entro un cornetto, detto _phimus_; si agitavano
colla mano e si versavano sur una tavola scavata che chiamavasi
_alveolus_. Ogni cubo portava sulle sei facce una serie di punti,
cominciando da • e aumentandosi successivamente su ciascuna superficie,
per unità sino a [Illustrazione: sei puntini] — Le tre facce, che
i dadi mostravano, decidevano del punto. — Allorchè i tre cubi
presentavano ••• il giuocatore perdeva; avvegnachè, egli avesse fatto
il colpo del cane. Quando invece le superficie tutte offerivano il
[Illustrazione: sei puntini], egli vinceva la scommessa, avendo fatto
il colpo di Venere.

Lo amico giuocò per il primo, e i cubi dissero due, cinque, sei. —
Giuocò Ametistio e presentò i tre assi. — Aveva perduto.

— Lo vedi?... Il colpo del cane! — Giù cinquanta denari.

— Accetto.

Si scuotono i dadi e si mostra il colpo di Venere. — Si scuotono anche
una volta e tornano i tre assi.

— Hai perduto. — Altri cinquanta?

— Altri cento.

— Ah! sei proprio infelice! Ho vinto.

— Vedremo. — Non potrebbe Venere aiutarmi? —

Ametistio agita forte il _phimus_ e ne escono uno, uno e tre.

— È una vera fatalità! — Séguiti il giuoco?

— Sì; e scommetto un _nummus aureus_. —

Intanto Porcio e Scapido, assisi presso una tavola, divisa in quadrati
alternativamente bianchi e neri giuocavano ai _lutrunculi_, una
specie dei nostri scacchi. Palamede aveva inventato quel divertimento
nel campo dei Greci per distrarre nobilmente sotto la tenda i re
confederati che assediavano Troia. — Ognuno attelava dinanzi a sè
alcuni pezzi di vetro bianchi per l’uno, neri per l’altro. E col dito,
spingevali innanzi come soldati di un esercito, a piedi e a cavallo,
muniti di torri e guidati dai capi, entusiasmati dalla regina e retti
dal re. La buona tattica consisteva nel sorprendere tra due pezzi il
pezzo di vetro dello avversario e così acquistare il diritto di farlo
prigione e toglierlo dal campo di battaglia.

Suavis e Psiche si divertivano coi _tali_, ch’erano ossi di astragolo
di montone. Quelli avevamo la loro forma ma erano di argento.

— Tu hai una destrezza rara, o Psiche. — Quantunque volte io mi provi
a raccattarli tutti e quattro, si sparpagliano in aria, e perdo.
Se il vuoi, io ti darò un tessuto di nodi complicati e te li darò a
sbrogliare.

— Apparecchialo. — So già la tua perizia nello allacciare i cuori. Non
pensi ad Æliano che si muore di amore per te? Non ha molto il vidi in
teatro ed ei si strugge nel labirinto ove tu lo chiudesti.

— Gli gioverà lo starvi. — Venere mi diè la missione di vendicarla.

— Cattiva!... Non la Iddia... te, per la tua leggerezza.

— O se l’è una mosca!... Lascialo pur nella ragna!.... Provati ora a
disciogliere questo nodo di Gordio. —

Metrodoro, che aveva assistito alle evoluzioni che Porcio e Scapido
aveano eseguito col loro esercito di vetro, si fermò dietro la sedia
della bionda Suavis. Psiche si provava a sciogliere lo intricato
gomitolo e non riesciva. — Levati gli occhi, disse:

— Il conterraneo di Alessandro potrà sbrogliarlo, non io. — Che pensi?

— Io penso che Metrodoro non s’abbia a provarvi. Non dev’egli
apprenderne il segreto. Giammai costruirò un labirinto per lui. Ei
venne a me ed io lo tengo.

— Il Tartaro m’ingoi, s’io mai lo caccio dal cuore ove egli scrisse il
suo nome. —

E spingendo il capo indietro, levò la faccia sorridente di amore. — Il
greco curvò la sua e le loro labbra s’incontrarono.

— Undici volte perdente! — Sei volte il colpo del cane! — Che è questo
mai? — Calliopa, togliti di qui, se ti piace. — Hai la faccia sì seria,
e gli occhi sì lucidi, che temo mi affascini. —

La bella fanciulla posò la mano sulla spalla di Ametistio, si fece
rossa e poi pallida, e lo guardò di quello sguardo con cui la madre
fissa il figliuolo. — Uno sterile sdegno; lo imbarazzo dell’anima;
la tenerezza profonda; una incantevole illusione ben tosto fugata dal
fantasma della brutta regione in cui per parecchi mesi aveva vissuto;
ecco le parole che dissero quello sguardo innamorato. — Ametistio non
lo notò. — Aveva altre cure che lo occupavano. — E la misera andò a
celar le sue lacrime in un canto della camera — pioggia impetuosa che
distruggeva i fiori ed il verde di una forte passione.

Scapido e Porcio s’erano tolti dal giuoco e, stirandosi le braccia, si
appressarono alla tavola dove la sorte capricciosa imponeva ai dadi le
sue fantasie. Le donne anch’esse composero il cerchio.

— Togliti, Metrodoro, di costì. — L’amico dirà che gli nuoci.

— Danno e sventura! — Una ruina sull’altra! — Uno, sei, due. Ah!
Venere! Ti frangerei volentieri le costole con una mazza. — In verità,
io rinuncio alle tessere e mi ritiro.

— Quanto perdi, o Ametistio!

— Chiedine, o Psiche, a quel fortunato. —

Issa prese sul deschetto il breve bussolo incerato e, fatta l’addizione
delle cifre, pronunciò:

— Sei mila dugento cinquanta denari. — Psiche, si può dir del tuo
amico, come di Fabio, il temporeggiante, _romanus sedendo vincit_. E
viva lui! —

Publio Ametistio — giovane, orfano, già ricco, scialacquatore —
apparteneva a quella categoria di uomini amati e maladetti dal fato —
stelle filanti nell’atmosfera della vita, che splendono di vivo lume
per poco; che impallidiscono al passar di una nube; e scompaiono nella
pace della natura, quando tutto irraggia, canta ed ama intorno ad essi.
— I piccoli e i grandi avvenimenti della esistenza gli aveva assaporati
tutti. Pur questa volta l’urto che la ruota della Fortuna gli aveva
dato passando, gli cagionava un fremito dentro che gli rendeva malato
il cuore. — Non ostante, scosse lo altero capo per coronare di un falso
sorriso la necessità, e disse:

— L’ora è tarda. — Valete, amici. — A domani.

— A domani, Publio; e quando vorrai. — Ricordati che l’amicizia è la
catena più forte delle nostre affezioni. —

Allora si fece innanzi Calliopa e prendendogli la mano distratta con un
guardo che dicea molte cose, gli aggiunse:

— No... Vi è una catena anche più forte e tenace... l’amore!

— A tutti sia propizio Morfeo. —

Così mutuamente tutti si salutarono. — E, accompagnati o soli,
reddirono alle loro dimore.

Ametistio aveva molto giuocato, e perduto, e pagato. Aveva pur molto
speso per giovanili follie e poco omai più gli restava del censo avito.
Avrebbe dovuto arrestarsi e dar ordine alle sue cose. Lo amor proprio,
la vanità lo spinsero oltre. — E in quella sera ei si vide giunto
sull’orlo dello abisso, e la via del regresso era scomparsa. Quando
pose il piede sulla gradinata della strada dell’Abbondanza, un sudor
freddo gl’imperlava la fronte, le gambe gli vacillarono e si appoggiò
ad uno degli _impedimenta_ di sasso. Ma si rimise ben tosto e continuò.
— Continuò con passo regolare e sicuro, col corpo diritto, colla testa
immobile, cogli occhi fissi, come una statua che avesse l’uso delle
sue gambe. — Entrò in casa sua, si fece nel suo cubiculo e si gittò sul
letticciuolo vestito com’era.

L’anima, ripiegata violentemente sopra sè stessa e compressa per ore
dallo sforzo della volontà, riprendendo i suoi diritti e distendendosi
disordinatamente per tutta la persona, si rifece padrona dei suoi
dolorosi pensieri. E alla luce della lampada vide tremolare sulle
pareti ombre leggere e fugaci e ripresentantisi. Erano i suoi ricordi
or lieti, or tristi. — Era la idea dolorosa del domani. — Ma un’altra
immagine passò a traverso la sua mente febbrile che limò l’acuta
preoccupazione colla speranza; e, tranquillato a metà, chiuse gli occhi
e distese le membra spossate.

La impotenza generale dei sensi rabbonacciò lo spirito agitato. Le sue
idee navigavano pur sempre nel caos. Ma gli sembrava, nelle tenebre, in
fondo, lontano, di vedere un porto consolatore ove avrebbero trovato
un approdo. Immobile, nè dormente, nè desto, quel crepuscolo della
propria intelligenza leniva in certo tal modo la prostrazione fisica e
morale nelle cui braccia lo aveva gittato il pensiero della vergogna
e la idea di mancare — malgrado suo — allo impegno che il giuoco gli
avea fatto contrarre. A poco a poco aggiornò nella sua mente. — Il
passato aveva preso il di sopra. — Festini — bagni — viaggi — ed amori.
— Adorati fantasimi tornarono ad impadronirsi dei suoi pensieri. —
Cuma, Neapolis, Capua, Tarentum, Brundusium, Roma le vide popolate
di creature graziose, di desiderii appagati, di spettacoli goduti.
Sentì voci gentili ripetergli frasi già udite. Un braccio appoggiarsi
delicatamente sul suo e stringerla con un tremito soave. Ripensò ad
un mazzo di fiori ricambiato da un bacio. Ad una ciocca di capelli
bruni che aveva sfiorato la sua gota. Ad una immagine divina, fremente
di piacere sotto le sue carezze. Ad un banco, in uno xisto, su cui,
lungi di ogni sguardo, erasi assiso presso una idoleggiata, sotto un
odoroso cespo di caprifolio. Ad una brigata di amici che pur dianzi
accoglievalo e gli facea festa. A Calliopa, di cui avea letto nel cuore
lo affetto secreto, folle, insensato.

— E domani? —

Cotesta parola, come tarlo rodente, lo svegliava dai sogni e lo
trascinava ai piedi di una triste realtà.

— Oh! Si allontani la idea! Troverò danaro. — Pagherò. — Indi,
vita nuova. — Un buon matrimonio... la pace e.... l’onore sino alla
morte. —

E chiuse gli occhi colle dita, per forza, e cacciò lontano ogni
pensiero. Volse la testa sul cuscino, chiamò il sonno... Ma l’anima
vegliava e lo facea dimenare sul letto quasi fosse un fascio di spini.

— Oh! la crudele espiazione! L’Erebo ha minori tormenti! — E che feci
io che gli altri non fanno? — Essi dormono! — Ed io mi torturo! Sì mi
torturo... e soffro senza speranza... Forse troverò un _fœnerator_...
Che! Tutti ladri! — Gli subisco da un pezzo! Mi fecero il loro
schiavo... mi composero questo crudele destino!... Ma, non ne fui
l’autore io medesimo? La vita mi è a carico... E se io la troncassi,
aiutando la parca insonnita?... —

Si levò di letto. — Aveva lo aspetto livido, sconvolto. — Si appressò
ad una cassetta di ebano e ne trasse uno stile. Lo esamina con cura,
ne prova la punta acuta e sottile sull’unghia del pollice, lo adatta
tra le due costole sul cuore..... è per pigiarlo dentro colle due mani
e..... si arresta.

— E l’onore?... E il mio nome?... E merito io la fine di Socrate e di
Catone?... E che direbbero di me morto i miei creditori... e l’ultimo,
se io usassi la prerogativa di un uomo libero che si sottrae dalle
angosce dell’animo?... Giù il ferro di cui non son degno! —

E lo cacciò sul mosaico della stanza. — Levò la mano in alto e, voltosi
verso lo _impluvium_, ov’erano sotto il portico le statue di stucco dei
suoi maggiori, seguiva:

— Date venia all’ultimo della vostra stirpe, o miei. — Voi serviste
leggi che io non debbo, nè voglio, mai offendere. — A meno che Giove
non mi dissenni, nè morti, nè viventi eleveranno contro me la loro voce
di spregio. Bocche severe mi dissero leggero, depravato, sciupone.
— Meritai la sentenza! Cercherò danaro. — Me ne daranno quei tristi
ch’io contribuii ad arricchire! — Quindi darò piena ospitalità alla
saggezza. —

Siffatte idee lo racconsolarono. — Di chiaro giorno escì. — Corse nel
Foro. — Callicles, l’usuraio, disse non aver sesterzi disponibili. —
Toctucio, il liberto ladro che facea commercio di giovanetti greci di
ambo i sessi, rispose avere in casa un capitale morto che pur mangiava
e non poter disporre di un solo quadrante. — Cancer, il sudicio ed
insaziabile affrancato, lamentò il terremoto che gli aveva screpolato
le molte botteghe che affittava e maladì ai _tignarii_ e _cœmentarii_
di Teanum che nelle travature e nelle ricostruzioni gli assorbivano il
peculio deposto nell’_horreum_ — il magazzino pubblico, ove i cittadini
deponevano la moneta e gli oggetti preziosi sotto la salvaguardia dello
Stato. — Il solo Gurges — la cui avidità gli avea dato quel meritato
soprannome — consentì a trattare, chiese la cifra e promise una
risposta fra tre giorni. — Ma, richiamato quel contentissimo indietro,
gli aggiunse:

— Il _fœnus_ però sarà centesimale, cioè, mi darai due assi per cento
ogni mese. — Va?

— Accetto. —

E a quai patti non avrebbe consentito Publio Ametistio per escire
onorato dalla voragine ov’era caduto? — Stanco, ma rinfrescato dalla
speranza, attese. — Dormì. — Riparò le forze perdute. — Per distrazione
— non per amore — ricercò la compagnia di Calliopa. — Povero, cuore
riannobilitato dal raggio nuovo di una sensazione profonda!

Intanto Gurges aveva parlato con Alfio, degno collega suo. E questi:

— Mercurio ti aiuti! Il suo patrimonio lo fuse in bagordi, in vini
squisiti, in bagni, in profumi.... e in usure. Chiedine a Scapzio e a
Matinio, cui Cicerone tagliò le unghie a Salamina. Gli è proprio un
_hilarus nepos_. — Se gli aurei nummi ti vennero a noia, danne....
Allora torneremo a chiamarti col nome di tuo padre! —

— Basta. — Quand’anche lo segassi — secondo il prescritto delle XII
Tavole, — di quel corpicino estenuato dai vizi non mi verrebbe gran
parte. —

Corsi i tre giorni, alla decima ora di sera Ametistio cercò di Gurges
nel Foro. — In casa non era. — Visitò parecchi luoghi. — Domandò ad
alcuno di quella geldra ove fosse. — Frugò inutilmente ogni canto. —
Alla fine trovollo nel porto. — E tra il timore e la speranza:

— Ebbene?

— Per Ercole! Non si dirà mai che i miei denari, con tanto sudore
acquistati, passino come un papavero in un formicaio. — Tu credesti il
tuo censo immortale. — _Magister improbus!_ — Lo dasti alle sciupate?
Fa’ che le sciupate tel rendano! —

A quelle parole Ametistio sentì mancarsi il cuore. — Crollava intero lo
edificio delle sue speranze. Un sudor freddo gli diacciò la fronte. E,
voltosi all’usuraio che con passo frettoloso si allontanava, lo salutò
con tale rampogna:

— Ti colga la peste, _furcifer_. —

Era annientato. — Il crepuscolo copriva colle prime ombre le cose. Si
avviò sbalordito verso la città. — Passò sotto l’arco della porta della
Marina. Si assise sui gradini del magazzino della Dogana e appoggiò
la fronte bruciante sulla parete. Le idee tornarono nella sua mente
con tutta la loro chiarezza. D’un tratto si leva e cammina frettoloso.
Si arresta sul piano e poi va innanzi, agitando le braccia come un
insensato e parlando inarticolate parole. Si ferma di nuovo dinanzi il
tempio di Venere Fisica. L’uscio è aperto ed egli entra. — Qual disegno
lo spinge? — Nessuno. — S’inoltra e poggia il capo sull’ara. Per tutto
è silenzio. Nessun rumore. Nessun mormorìo attorno di lui. Alza gli
occhi e mira la statua di marmo della bellissima Iddia, cui tanto
danaro le sue scioperatezze aveano sacrificato. Una lampada votiva
illumina la edicola. Ametistio ripensò alle parole di Gurges — che le
sciupate aveano a rendergli quello che alle sciupate egli avea dato.
Si guardò attorno, ascese la scala di marmo a grandi passi, afferra la
lampada d’oro e fugge.

Ma il coperchio — rotta la cerniera dall’urto — si stacca e ruzzola
per la gradinata. Un sacerdote, che andava a chiudere la porta del
tempio, ode il rumore, vede un’ombra che passa, il lume spento innanzi
il delubro, immagina la profanazione, corre e grida al ladro, al
sacrilego, all’empio.

Lo ingresso nel Foro era chiuso. Laonde il misero corre per la via
d’ond’era venuto. — Alcuni che bevevano in un _thermopolium_ si
affacciano sulla strada. — Due marinai ed un soldato vengono dalla
porta della Marina. — Non vi è scampo per lui. Una idea lo prende e la
esegue. — Lancia con quanta forza gli ministra la disperazione il ricco
oggetto che avea fra le mani al di là di un alto muro, il quale serviva
di sostegno al terrapieno per la edificazione di un tempio ad Augusto.

Il sacerdote lo arresta e al primo cittadino che vede, dice:

— _Licet te antestari?_ —

Avendogli risposto affermativamente, ei gli toccò il basso della
orecchia, supponendosi allora che quella fosse la sede della memoria.

Gli accorsi si accrescono. — Il misero è svenuto nelle loro braccia. —
Altri sacerdoti giungono colle torce. Ed una luce livida rischiara la
persona di quel caduto. — Uno lo riconosce e dice:

— Publio! il ricco giovane che abita nella via dov’è la fontana di
Medusa!... Oh! non è possibile!

— Dov’è l’oggetto involato cui i sacerdoti accennano?

Tutti si scostano. — Quei dalle torce accese le volgono per ogni verso
e nulla trovano. — Allora il soldato si accosta all’orecchio di un
marinaio suo amico, e gli susurra:

— O che il flamine abbia preso la lampada, e poi voglia averne una di
ferro col sangue delle vene di quello sventurato?

Altri soldati ed altri curiosi vennero su quel posto. — Ametistio aprì
gli occhi tutto smarrito. — Vide la gente. — Si rimise sui piedi e
toccandosi la fronte riarsa, balbettò:

— Ove sono?... Oh! il terribile sogno!

— Dove hai celato la lampada tu?

— Quale lampada?

— Quella che tu involasti a Venere sacra.

— Ah! Gurges lo ha detto. — Pietà di me. — Uccidetemi e sarete
pietosi.... La lampada....

— Ebbene?... La lampada?

— _Venus diobolaris_ l’ha presa. — La venderà a Gurges, o a Cancer....
E quelle mignatte vomiteranno il mio sangue nella tua bocca, o flamine
impudico.... mignatta del popolo.

— Bestemmia lo infame. — Trascinatelo al pretore. —

Un centurione aprì la folla, la interrogò, vide il giovane di nuovo
svenuto e ordinò si chiamassero due schiavi pubblici con una lettiga
per condurlo presso il magistrato.

— Rendi la lampada, o sacrilego. — La vendetta della Iddia piomberà sul
tuo capo.... —

L’uomo coperto di ferro distese con autorità la mano sullo incolpato e
disse.

— Pace, o sacerdoti. — Comprendo il delitto e ne sento l’orrore. — Ma
il giovane parlò poc’anzi in delirio. — Ora è svenuto od è morto. I
magistrati sentenzieranno. —

Giunta la lettiga, vi fu adagiato Ametistio, venne aperto il passaggio
nel Foro e il trasportarono per quella via. — I sacerdoti, i curiosi,
gli sfaccendati, i perditempo, le bigotte rimasero su quel posto per
lunga ora ad esclamare, a non credere, ad accusare e colle lanterne a
scoprire dove il reo avesse nascosto la lampada rubata. Ma la lampada
non si trovò.

Il pretore cui presentarono lo incolpato, appena potè riconoscerlo agli
occhi sbarrati, alla faccia livida, alla persona affranta. — Udito il
reato di cui Ametistio era accusato, siccome questo implicava la pena
della _maxima capitis diminutio_, cioè la sottrazione di una testa al
consorzio dei cittadini e alla libertà, dovette ordinare fosse menato
nella pubblica prigione.

A dritta dello ingresso del Foro dalla viuzza dietro le Terme e dal
trivio della fontana del Lupo, era il posto dedicato alla carcerazione
preventiva. Una piccola e stretta porta di quercia vi dava accesso. Un
pernio di ferro nel centro la faceva aprire a metà. Grosse spranghe
confitte nelle spallette di pietra la facevano immobile al di fuori.
Due scalini mettono in una stanza umida e oscura, non ricevendo
aria e luce che da un piccolo tubo superiore alla porta; e due altri
fanno ascendere ad una seconda, stretta e lunga come la prima. — Le
pareti sono lisce e composte di larghe pietre di taglio, aggiunte
senza cemento. — Così le soffitte. E la costruzione è sì solida da
non offerire ad un rinchiuso veruna speranza di fuga. Nulla di peggio
orribile di quelle due fosse....

Colà sur un po’ di paglia venne gittato Ametistio. Il quale, fuori di
senno e quasi immemore delle cose avvenute, potette dormire sino al
dimani.

La novella corse ben presto per le bocche di tutti in Pompei. — I suoi
amici ne rimasero sprofondati. — Calliopa cadde come corpo esanime;
chè, il dolore che non ha refrigerio di lacrime uccide o quasi. — Il
vincitore alle tessere e quanti furono del numero della sua ultima
festa, credettero o falso il delitto o nato di subita follia. Laonde
deliberarono di farsene essi gli accusatori pubblici — _auctores causæ_
— per impedire che altri si presentasse e non col loro cuore. Ma il
giudice della questione, il quale senza essere magistrato aveva pure
tutte le attribuzioni di un _quæsitor_, cioè presidente — non volle
che lo incriminato ottenesse dai suoi fidi una persecuzione fiacca,
incompleta per calcolo onde sicurargli la impunità. Accettò meglio
l’atto di accusa prodotto da Stazio Rufo e dai suoi _custodes_, Vatinio
Svezzio e Caio Pedio — sorta di accusatori in secondo, sia chiamati dal
primo come aiuto ai suoi ordini; sia, suo malgrado, per chiarire la di
lui condotta, per sorvegliarlo e costringerlo ad una franca accusa. —
L’atto diceva così:

«Vivente Tiberio imperatore, e sedenti consoli C. Cecilio Rufo e L.
Pomponio Flacco Grecino, agli VIII degli idi di aprile — dinanzi i
questori Velario Grato e Vibrio Saturnino — Stazio Rufo coi suoi
custodi, dichiaro Publio Ametistio reo di furto di oggetto sacro
e dimanda che secondo le leggi venga condannato alla interdizione
dell’acqua e del fuoco.»

Il quesitore mandò il libello all’accusato, perchè apparecchiasse la
sua difesa pel giorno di poi.

Lo indomani un araldo, salito sul pulpito della Basilica — dopo aver
suonato la tromba, ripetè l’atto di accusa, scritto precedentemente
dagli autori della causa. — Quindi colla stessa formalità lo chiarì dal
pulpito del tempio di Giove e dinanzi la porta dello accusato.

I giudizi sui reati pei quali era prescritta la condanna nel capo
erano dapprima riserbati ai comizi. Occorsi alcuni casi, creduti al
disopra della intelligenza del popolo, o della sua istruzione, si
cominciò a consultare i decurioni, ch’erano una emanazione popolare.
Quindi si pensò di creare un corpo giudiziario permanente, scelto tra
i cittadini i quali pel loro grado sociale o pel loro censo fossero
nella condizione di occuparsi dei pubblici negozi senza alcun danno.
Il popolo — approvando siffatto accordo — serbò per sè i giudizi sulle
cause di alto tradimento e la revisione delle sentenze sui condannati
che a lui si appellassero come a sovrano.

La Basilica è aperta. — Una folla numerosa occupa il portico e l’atrio.
— Le donne e i curiosi sono sul terrazzo del Foro e dei tempio di
Venere. I più vicini odono. — I più lontani veggono. Ma il vedere vale
quanto lo udire; avvegnachè gli oratori, accompagnando le loro parole
con gesti espressivi e giusti, traducessero a maraviglia il detto
coll’atto.

I duumviri sono sulle sedie curuli. — Gli accusatori sul pulpito.
— Indietro, a dritta ed a sinistra seggono ottanta uno giudici. —
Sotto la ringhiera, lo araldo e gli scribi. — Una barriera mobile di
legno chiude il tribunale. — E dentro è l’accusato in mezzo ai suoi
difensori, fra i quali uno è il _patronus_, cioè l’oratore e gli altri
sono _advocati_, cioè i chiamati per la loro scienza nel diritto e per
la loro perizia nelle cose giudiziarie.

Quando gli scribi ebbero dispensate parecchie copie della lista
dei giudici agli assistenti per chiarire come veruno che non fosse
registrato nell’Albo giudiziario usurpava illegalmente siffatto
ufficio, i duumviri fecero prestare giuramento agli ottanta uno
cittadini che avrebbero giudicato secondo le leggi. — E tutti, chiamati
per nome, risposero:

— _Juro ex mei animi sententia._ —

I magistrati non giurarono perchè essi in tale circostanza si
limitavano a dirigere i dibattimenti, a proclamare il risultato dei
voti ed a pronunciare l’applicazione della legge.

Si cominciò dalla audizione dei testimoni. Ognuno di questi giurò pel
sommo Giove — _cujus nomine_ — dice Cicerone nell’arringa a difesa di
Milone — _majores nostri vinctam testimoniorum fidem esse voluerunt_
— di dire la verità. Il primo chiamato fu Venerio Epafrodite — il
sacerdote del tempio che vide il fuggente e il raggiunse. — Disse della
lampada involata dalla edicola e del solo coperchio trovato ai piedi
dello altare, dei lucignoli unti raccattati lo indomani uno sulla via
corsa dallo accusato e l’altro tra le pieghe della sua toga. — Ymnus
— il venditore d’idromele e di acque aromatiche nel _thermopolium_,
dinanzi il quale quel che correva venne arrestato — narrò le grida del
sacerdote e il passo concitato del giovane, che da uno che prendeva
ristori nella sua bottega udì chiamarsi Publio e aver casa nella
via della fontana di Medusa. — Pupo — il marinaio che venne su dalla
porta della città, ripetè le stesse cose ed aggiunse aver veduto lo
incriminato svenuto e poi udito dalla sua bocca parole sconnesse, o da
ubriaco o da pazzo. — Il centurione Eleno Missilus chiarì quello che
avea visto, cioè, il misero giovane ch’ei stimò morto tra le braccia di
chi il sosteneva. Aver udito parlare di una lampada rubata. Pur quella
lampada non essersi rinvenuta, nè sul posto, nè sui luoghi vicini.

Stazio Rufo cominciò allora l’accusa. — Dipinse la depravazione dello
incolpato. Le ricche imbandigioni e gli apparecchi della gola aver
sciupato e guasto il suo censo avito. Altri scialacqui, di cui è onesto
il tacere; e l’amplissima villa, non più sua; e i tanti schiavi di
tante lingue; e i bronzi e le pitture di miracolo; e il vestir di seta
come le donne, averlo gittato nelle braccia degli usurai, divoratori
anch’essi del suo patrimonio. — Coteste le cagioni dell’ultima colpa. E
potrebb’egli sconfessarla?

— No! —

Il patrono difensore nello udire il monosillabo accusatore del suo
cliente:

— Rufo, tu obblii il saggio costume degli avi, i quali si espressero
sempre dubbiosamente in giustizia. — Come puoi tu asserire le cose
intime che narri? — Vedesti tu — coi propri occhi tuoi — il furto sacro
commesso? — E dimentichi tu per ventura come le tue arrischiate parole
sappiano strappare un amico da braccia amiche, privare lo Stato di un
cittadino ed egli stesso diminuire?

— Pace, o Caio Calvenzio. Qui non si trattano piacevolezze. Tu non
vorrai scendere a giuochi retorici. — Fatti. Non altro che fatti. — A
tutti è chiara la vita del tuo cliente. — Egli avea debiti. — Chiese
danaro. — Nessun usurario volle dargliene. — Entra nel tempio di Venere
e ruba. Ruba accecato dalla disperazione.

— E la lampada ov’è?

— Non sii formalista, Calvenzio. — La sua tunica e la toga sono unte.
Un lucignolo sulla persona.... Egli stesso non smentisce il reato. —
Ecco quello che io credo..... e i nostri avi anch’essi in simile caso
si sarebbero espressi così. — Ho detto. — Rispondi, se il puoi, sulla
innocenza di lui.

— Cotesti fatti — se sono fatti, ed io gli nego — non avrebbero
potuta rifar la fortuna di Publio. Poteva vendere la sua casa, e i
suoi bronzi, e le ricche suppellettili, e gli ori e gli argenti, e le
gemme, e gli schiavi; ed avrebbe pagato i suoi debiti cui tu accenni
ed io ignoro. In verità una lampada del peso di III libre e once II e
del valore di 40,800 sesterzi, non può solleticare la cupidigia di un
giovane agiato e spendente come tu dici. —

Adora sorse l’amico presso cui Ametistio passò l’ultima sera gioiosa
giuocando — il quale, dimentico del danaro scommesso e vinto, erasi
fatto insieme con Metrodoro uno degli _advocati_, non avendo potuto
essere gli _auctores causæ_ — e col viso acceso dalla indignazione,
proferì:

— E la lampada, per Polluce! E dov’è cotesta lampada? — Abbiamo un
sacerdote interessato che accusa. — Abbiamo un incriminato che non si
difende. — E l’oggetto del reato scomparso! — O Venere lo ha nascosto
agli occhi dei suoi.... sacerdoti, o volò di per sè, come il divo
Romolo, nell’empireo presso la Iddia! —

Metrodoro era afflittissimo. Teneva la mano dell’amico chiusa nelle
sue. E spesso a voce bassa parlavagli nell’orecchio. — Ma non ne aveva
nessuna confortante risposta.

— Ebbene! siccome s’intesero i testimoni, si ascolti ora il supposto
reo. S’egli ripeterà ciò che disse agli astanti e poi al pretore,
l’accusa non avrà altra cosa da aggiungere. —

Un movimento di attenzione si produsse allora nell’assemblea. — I più
lontani si sollevarono sulla punta dei piedi. Uno dei duumviri disse:

— Parli or l’accusato e si scolpi. —

— La lampada disparve dal tempio.... Vili ed ipocriti i sacerdoti.... A
Venere non importa che l’olio bruci. Ha il sole che illumina il cielo,
la terra e i pianeti....

— Ei bestemmia!

— Epafrodite impostore!... Nel vostro collegio, quando siete satolli
e il vino v’inebria, ridete fra voi degli Dei e degli uomini. —
Una donna che fu vostra, ed anche mia, lo udiva e mel disse.... — I
colombi di argento e i melagrani d’oro — che anche la mia stupidezza
vi ha confidato, come voti alla Iddia — e non gli vendete voi fuori di
qui?... La lampada.... valea pur essa i miei danari.... e partì.

— E dov’è ora quel prezioso tra i sacri arredi?

— Non la trovaste?... Bene sta!... Lo inferno v’inghiotta, o pubblici
ladri!... Quella lampada non rischiarerà più le vostre soppiatte
libidini sacerdotali....

— A me, che ti accuso, rispondi semplice e sincero. I giuochi di
parole, di mente smarrita non ti gioveranno. E se lo interrogatorio non
valse a strapparti dal labbro la verità, potrebbe ben la tortura....

— Come! insolente; osi tu proporre la prova dei servi ai duumviri sul
mio misero cliente? Il dolore e lo spasimo depongono il falso sempre.

— Ma la tortura è permessa sur ogni cittadino per causa di congiure
e di sacrilegio. — E qui sacrilegio è negli atti e nelle avventate
parole. —

Metrodoro si stacca vivamente dalle braccia di Publio, e parla:

— Uno accusa. — L’altro non dice. — La tortura? Sia! La subisca prima
Epafrodite e quindi il cliente. — Così, se il vero sta nei tendini
distesi e nelle carni lacerate, vedremo. — E se il mio amico risulta
innocente, avrò il libito di chiedere ai magistrati di far marcare
sulla fronte del prete calunniatore K, la stimmate che avrà meritato.

I membri di tutti i collegi sacerdotali muggirono di rabbia a quelle
parole oltraggiose. — Parecchi giudici ne furono inorriditi. — La
plebaglia ruppe in alti clamori. La tempesta fu sì violenta che lo
araldo ebbe ordine di suonare la tromba e di annunciare che i testimoni
avevano detto, e la udienza era levata.

Lo indomani del giorno d’intervallo tra un’accusa e l’altra, gli
autori della causa ripetettero l’_anquisitio_, cioè la pena richiesta
al delitto. Corsi anche due giorni, gli accusatori fecero affiggere
nel Foro l’_irrogatio_, cioè uno scritto in cui palesavano la pena
che il crimine sembrava meritasse, ed accusarono per l’ultima volta
lo incriminato, invitando i giudici a pronunciare la sentenza. —
Nelle due comparizioni si procedè alle accuse e alle difese, come
nella prima. — Ametistio non volle difendersi. — I sacerdoti — non
solo nei loro covacci di empietà e di frode — ma nelle taverne e nei
trivi cercarono di persuadere il popolo ad impedire che lo scellerato
sacrilego sfuggisse alla giusta vendetta dei numi. — Sempre gli stessi,
assetati d’oro e di sangue! — Sempre tributari agli Dei delle atroci
loro passioni, chiamandoli vendicativi ed autori dei pubblici disastri.
— Coi giudici usarono altri mezzi — danari a iosa, e per sopra ciò
_noctes mulierum atque adolescentulorum nobilium introductiones
nonnullis judicibus pro mercedis cumulo fuerunt_. Non traduco tali
immondezze.

In quel giorno tutte le taverne, le botteghe, persino le terme furono
chiuse. — Qualche scriba aveva venduto il suo posto e rimaneva in
piedi. — Lo araldo intimò il silenzio, si fece lo appello dei giudici e
gli autori della causa parlarono per due ore, tempo che la legge loro
accordava. Caio Calvenzio replicò solo e apparecchiò lo uditorio ad
intenderlo col tossire, collo scricchiolare delle dita, con sospiri e
con tristi sguardi or volti al cliente, ora ai giudici, ora al popolo
riunito. Parve agitato da una violenta emozione e la voce tremavagli
nella gola. — Quando ebbe pronunciato: _dixi_, lo araldo gridò
dall’alto: _dixerunt_, e i duumviri offerirono allo accusato ed agli
accusatori il diritto che la legge Pompea loro accordava, di rifiutare
per giudici quelli che loro non andassero a verso. Di ottanta uno ne
rimasero cinquanta uno. — A cotesti vennero distribuite tavolette
di bossolo coperte di uno strato di cera e ciascuno sopra scrisse
la iniziale del voto che la propria coscienza o il turpe maneggio
sacerdotale dettavagli. A voleva dire _Absolvo_ — C _Condemno_ — N L
_Non liquet_ — ciò non è chiaro nella mia mente, se lo incriminato sia
innocente, o colpevole. Ognuno gittò la propria tavoletta in un’urna,
levando la toga per scoprire il braccio e serbando l’iniziale scritta
dalla parte della palma della mano. — Il misero Ametistio venne
condotto per una scala nella prigione ch’era al disotto della tribuna.
— Fatto lo scrutinio dei voti, gli scribi ne diedero il risultato ai
duumviri. Tre giudici opinarono per una più ampia informazione. Dieci
negarono il crimine. Trentotto lo accertarono.

Allora i duumviri spogliaronsi della toga pretesta in segno di lutto;
ed uno di essi, con aspetto triste e solenne, disse nel silenzio
dell’assemblea:

— Sembra che Publio Ametistio meriti di essere punito. E a noi piace
interdirgli l’acqua, l’aria ed il fuoco. — E sia crocefisso. —

E nell’atto che uno degli scribi leggeva la stessa sentenza dallo
spiraglio superiore del carcere a quei che doveva farsi _inanimatus_,
nella sua qualità di _servus pœnæ_, l’altro dei duumviri dicea alla
gente stipata:

— _I licet._ —

Così tutti, a poco a poco, vociferando, gesticolando, alcuni gioiosi,
altri addolorati, escirono dalla Basilica e si disseminarono pel
Foro. — Metrodoro, innanzi la prima Curia, arrestò due dei giudici,
mettendosi con violenza nel mezzo di essi.

— Sapete voi perchè tanto apparato di milizia nei tre accessi del
tribunale e fuori?... Non per evitar turbolenze, no. — Per arrestare
i _manticularii_ che vi sbarazzassero destramente della moneta che
questa notte guadagnaste con tanto onore: — Uomini da conio.... e
insanguinati! —

Ed un altro, nella via della fontana del Leone, mirando camminare a lui
dinanzi un sacerdote d’Iside, tolse di peso un’anfora spezzata piena di
calce e la cacciò quasi elmetto di flamine sul capo di lui.

— Tizzone d’Averno, imbiancati se puoi! —

Finchè quel briccone potè levarsi la mala cuffia di testa e nettar gli
occhi e la barba, il poco riverente cittadino era scomparso.

Intanto Publio Ametistio aveva ascoltato la sua sentenza con un
coraggio e quasi direi con un orgoglio di razza che dava una smentita
alla poco gagliarda persona sua. — La morte sulla croce! — La sua
vita, tutta di piaceri, non ve lo aveva preparato. — E lo sguardo della
folla! — E lo scherno della plebaglia! — Le idee ed i nomi amici gli si
arruffavano nella mente e lo racconsolavano dello spasimo morale che
allora pativa e della morte crudele cui andava incontro. — Nell’atto
entrano due feroci uomini nella prigione. Uno gli lega le mani dietro
con una corda. L’altro gli appende al petto una tavola che chiarisce
il suo nome e il delitto. Fuori sono soldati che lo attendono. Molta
gente pur v’è — e in ispecie donne con bambini sul braccio o lattanti,
curiose di vederlo una volta e di assistere alla sua crocefissione. —
Una giovane lo guarda, gli lancia un bacio e dice:

— Oh! se gli è bello, e piacente! Lo avrei amato! Se fossi una
Vestale.... — gli è impossibile lo sperarlo, perchè non si torna
indietro mai.... colla mia presenza avrei potuto dirgli — _sii
libero_.... — e poi più alle fiamme del cuore che a quello dello
altare.

— Quando ti farai cheta, sguaiata?

— Quando mi darai a bere del vino. —

E cavato uno spillone dalle nerissime trecce, scrisse sulla parete:

— _Suavis, vinaria, valde sitit. Rogo vos valde sitiat._ —

Traversando il Foro, gli amici che la sventura gli avea risparmiato e
i suoi poveri schiavi, i primi gli baciarono convulsivamente gli occhi
e la bocca, gli altri i piedi, e disperati li lasciarono. — Ametistio
sentì dentro tutto, uno strazio e camminò innanzi.

Lungo la via dell’Abbondanza e quella della fontana di Venere, fissava
le genti che il riguardavano, smemorato. Vedea doppio e triplo. — Fuori
della porta di Stabia la comitiva si fermò _ad cisiarios_, colà dove si
affittavano i veicoli; e venne consegnato al carnefice, a cui le leggi
censoriali niegavano la luce e l’aria che si respirava in Pompei.

Spogliato delle sue vesti, fu gittato sur una croce di pioppo. Due gli
tennero le mani distese con una corda. — E il carnefice le inchiodò. —
Poi gli distesero i due piedi riuniti. — E il carnefice li inchiodò.
— Il poveretto soffriva acuti dolori. Ma non dicea verbo. — Quindi i
tre giustizieri levarono di peso la croce e la conficcarono, per la
estremità dove penzolava la testa, in una buca di sasso, assestandola
con due cunei.

La plebaglia — avida di quegli spettacoli — rimase sul posto sino a
sera. Alle prime ombre partì. — I littori di guardia rimasero seduti
presso un fuoco di frasche ed un’anfora di vino.

Dopo un’ora, una donna si trascinò colà barcollando. Al chiarore
rossastro vide lo inchiodato a capo in giù e corse a lui.

— Ametistio! Mi ascolti? — Mi vedi?

— Calliopa... un bacio... ecco la morte.... Io ti.... atten...

— Espio tutto sulla tua bocca e muoio! —

Fu l’ultimo accento di una doppia agonia. — La mattina i soldati si
provarono a rialzare la donna prostrata che colle braccia stringeva
la croce. — Era morta! — Fecero una buca e la seppellirono. E poi
ch’ebbero pigiata la terra sul cadavere:

— La credi moglie del crocefisso colei?

— No! — La donna dallo anello non muore di amor disperato! —




LA NECROPOLI.

SCENE DI FUNERALI.

=Anni di Roma 779 — Anni del Cristo 26.=


                       A J. C. HACKE VAN MYNDEN.

                                  VI.


— La tua tragedia, o Sirio Crixsio, non posso accettarla. L’ho letta
— piacerebbe in Herculanum... lo credo — qui, ne dubito forte. — Le
lettere non vi sono in molto onore come nella tua grande città. — La
tua commedia, o Delio, non è adatta alla circostanza. — Se si trattasse
di festeggiare un duumvirato, eh!... Ma noi piangiamo la perdita di un
dabbene, i cui pari non nascono ogni dì. — Andate. — Ci rivedremo in
altra occasione. —

E voltosi ad un uom vecchio e tarchiato:

— Salve, _operarum theatralium dux_. Tu puoi acconciar tutto a dovere.
Mi occorrono tre _taurocentas_ e tre _succursores pontarios_. — Le
coppie dei tori le ho già provviste. La giostra nel Foro. — Oltre la
venazione vorrei dare lo spettacolo dei _pugiles catervarios_ insieme
coi _pyctas_, secondo il costume greco. Vi sia musica e pantomima. — Tu
penserai a provveder le macchine, il vestiario, i giostratori e tutto.
— Quanto alla spesa — tu mi conosci — non vi sarà a ridire. — Agisci
con zelo. — La famiglia è ricca e generosa. E vuol fare obliare «lo
assedio di Troia» che tu preparasti nel gran teatro pei funerali di
Munazio Fausto — lo arricchito dal mare — cui Nevoleja Tyche diè quella
testimonianza di amor coniugale.

— Compresi, Eumenes. La famiglia di Flacco non avrà a dolersi di me.
Ma ier l’altro io vidi il brav’uomo passeggiar nel Pecile. — Vi entrai
per parlar collo edile — ed egli mi strinse la mano e mi chiese del
figliuol mio che — come sai — vive nell’Urbe. —

Eumenes nello udir lo elogio del suo padrone, valido e sano due
giorni innanzi, sentì tremolare negli occhi le lacrime. Le asciugò
col _sudarium_ che aveva chiuso nelle pieghe della tunica, e con voce
velata rispose:

— Tornò in casa pieno di salute. Dopo la cena si dolse del mal
di capo e andò a coricarsi. Il _clinicus_ Stertinio lo visitò lo
indomani, prescrisse i suoi _placita_ che io feci comprare dal vicino
_seplasiarius_; e malgrado il medico il consigliasse a rimanersi nel
letto, od almeno in camera, volle uscire e andar nella Curia. — Colà
svenne e fu qui riportato in lettiga. Non parlava. Aveva storta la
bocca, gli occhi sbarrati e la faccia accesa. — Vengono due medici e
gli tastano i polsi, uno di qua, l’altro di là. — Quei mercanti della
salute furono in questo solo di accordo — che il sangue fosse ito con
impeto a cacciarglisi nel cervello. — Ma per rimediare a quel guasto
Stertinio indicava il bagno freddo e Archagathas un bagno caldissimo
ai piedi con farina di senape. Allora si bisticciarono, chiamandosi
_vespillones_, spoglia-cadaveri, e peggio. I figliuoli — per non aver
rimorsi più tardi — usarono interpolatamente i due rimedi. Il bagno
ai piedi parve lo rianimasse un poco. — Coi segni prima e poi collo
stilo sulla cera quel degnissimo di vita affrancò dodici schiavi, si
tolse gli anelli e dandoli a Lelio lo designò suo erede. Il misero
ebbe appena il tempo di collar le sue labbra sulla bocca del vecchio e
riceverne il suo ultimo sospiro. Lydia era svenuta nelle braccia delle
liberte. — Aterio Flacco era vissuto.

— Consolati, Eumenes. — Il figlio somiglierà a suo padre.

— Sì, o Filone. È il suo ritratto e dentro e fuori. E il vedrem presto
degno della pubblica cosa. — Ma giacchè tanto spendemmo per quei
due becchini — chiesero ed ottennero dugento denari! — vorrei che il
padrone facesse incidere nella epigrafe: _ignorantia medicorum periit_.

— Postuma è la sentenza, o fedele. — Non si fischia quando s’inghiotte.
— Sta’ sano. —

Eumenes era un uomo della seconda gioventù. — Tratti regolari e belli,
velati da una espressione di dolce melanconia. — Neri e ricciuti
capelli gli adombravano il viso. — Spessi sopraccigli celavano i suoi
occhi lucenti, e vi si leggeva l’audacia che inspira la forza fisica,
la contentezza del proprio stato e una certa tinta di arroganza
insolente mista a bontà di carattere che acquistano tutti i servi
i quali invecchiano nella casa del loro padrone. — Era Messenio,
e fu comprato fanciullo da Flacco. Passò per tutti i gradi della
domesticità. — Dapprima _succinctus puer_ nel triclinio. Quindi
_structor_, quegli che apparecchiava il desco e acconciava le vivande
in un ordine simmetrico e studiato; e poi _scissor_ e così abile,
ch’egli sapeva scalzare un’oca pulitamente e sì presto da vederla
intera e tagliata in un attimo. La sua fedeltà e continenza lo fece
salire in fiducia e divenne _promuscondus_, lo ispettore della cantina.
— Allorchè venne assunto allo ufficio di _tricliniarcha_ Flacco lo
affrancò, e qual maggiordomo fu il primo fra tutti i familiari della
casa.

Per lo addolorato liberto era giorno di grandi faccende quel giorno.
Allorchè Lelio chiuse gli occhi a suo padre e andò a piangere nella
sua camera nelle braccia della sorella, egli dovette correre per
dichiarare la morte del suo padrone e prevenire i _libitinarii_ per
lo apparecchio delle esequie. Cotesti ministri della Dea luttuosa,
avevano nel tempio quanto era necessario per la triste cerimonia —
portatori — guardie — piagnenti — vasi di vetro, di alabastro, di
bronzo, di terra per chiuder le ceneri — legni resinosi — unguenti —
tutto — a seconda del grado della persona morta e della magnificenza
della famiglia. Per questo pagavasi una somma convenuta — _arbitrium_
— e si gettava in un’urna la moneta che serviva di registro dei
morti nell’anno. — Combinata la spesa, Eumenes tornò in casa coi
_pollinctores_ che dovevano lavare con acqua calda il cadavere,
aromatizzarlo di cinnamomo, di mirra e di nardo, acconciare la faccia
del morto, infarinarla col _pollen_ e colorirla come da vivo. Fecero
però prima la _conclamatio_ per quattro volte, chiamandolo a nome
presso le orecchie, e suonarono le buccine due volte, onde accertarsi
se quell’apparente tranquillità fosse riposo, o sonno eterno. Compiuta
l’opera libitinaria, il cadavere venne esposto sur un letto solenne,
colla faccia scoperta, vestito di bianca toga, nell’atrio, coi piedi
volti verso la strada. — Siccome aveva in gioventù raccattato nel
porto un fanciullo che annegava, fu messa sulla sua testa una corona di
quercia _ob civem servatum_. — Sul _prothyrum_ era un’ara, ove ardevano
profumi. — Dinanzi all’uscio, un grosso ramo di cipresso. — E attorno
alla bara i custodi con altri rami per discacciare le mosche.

Sette giorni durò la esposizione. — I profumi e gl’incensi bastavano
a dura prova ad attutire il puzzo della materia corrotta. — L’ottavo
in sull’alba, un araldo percorse le vie, i crocicchi ed il Foro. E
gridava:

— _Aterius Flaccus ollus leto datus est._ — Queglino cui convenisse di
assistere ai funerali, _jam tempus est_. — Si celebreranno giuochi; e
il ministro della dea Libitina avrà un apparitore e dei littori. —

Qualche ora dopo, la strada e la casa si empivano di gente. — Tutti
vestivano la _penula_ invece della toga che non indossavasi nei
funerali.

Una _præfica_, armonizzò colla lira una _nenia_, cioè un poemetto
funebre in lode del morto. Quando la cantilena ebbe fine, Lelio e tre
dei suoi parenti più prossimi, vestiti di bruna pretesta, caricarono
il letto funebre sulle loro spalle. E benchè il sole splendesse
sull’orizzonte, il convoglio s’incamminò fra torchi accesi di cera
e di stoppa impegolata. Un _designator_, andava innanzi coi littori
dalla nera tunica. E dietro sfilavano suonatori di _tubæ_, cori di
satiri danzanti un comico ballo chiamato _sicinna_, e la truppa degli
schiavi affrancati con Eumenes alla loro testa, tutti col capo coperto
dal berretto frigio della libertà. Immediatamente seguiva il corpo
del defunto cogli amici, coi parenti, in tunica nera e senza anelli.
Dietro di essi, a distanza di parecchi passi, era Lydia colle vesti
in disordine, coi capelli sparsi, in lacrime e gittando tratto tratto
gridi di dolore. L’accompagnavano alcune amiche devote che nel settenio
non l’avevano lasciata mai sola. Tutte — come la grande afflitta —
erano coperte dal _ricinium_, piccolo mantello bruno. Quindi camminava
una prefica che colla pantomima dell’angoscia che non sentiva dava il
tuono dei gemiti alle serve della famiglia ed alle loro figliuole. —
Chiudevano il corteggio altre prefiche divise in due drappelli, di cui
le prime piangevano percuotendosi il seno e strappandosi i capelli e le
altre cantavano inni ed omei. E ad istanti cangiavano ufficio, cantando
le prime e piangendo le ultime.

Salito il cadavere sul pulpito del tempio di Giove, il letto fu
innalzato di dietro talmente perchè il popolo riunito il vedesse.
E Lelio pronunciò un discorso, in cui unì agli elogi del padre le
principali azioni della sua vita. Talvolta il misero giovane si
arrestava per piangere. Allora una musica flebile rimpiazzava le
sue parole. E si udì per la piazza ai singhiozzi della figliuola ed
al pianto degli affrancati unirsi qualche voce lamentosa di persone
riconoscenti.

Nello escire dal Foro la pompa funebre voltò dinanzi al tempio della
Fortuna e più in su prese la via Domizia per escir fuori della porta
di Herculanum. Avvegnachè nel sobborgo Felice fosse la tomba della
famiglia.

Nell’_Ustrinum_ sorgeva il rogo composto, a modo di un’ara, di legna
secche di elce, di frassino e di pino, decorato di ghirlande di
fiori. Negl’interstizi erano pezzi di pece, perchè aiutassero alla
combustione. Distesovi sopra un lenzuolo di amianto, i libitinari
vi collocarono il cadavere, cui erano stati prima aperti gli occhi
dal figliuolo onde vedessero il cielo, e introdotto tra i denti un
triente — circa due centesimi di lira — per pagare il tragitto al nauta
infernale. — Quindi Lelio e Lydia, baciandolo sulla bocca per l’ultima
volta, avevano gridato con una voce piena di lagrime:

— _Salve aeternum, aeternumque vale_. — Noi ti seguiremo, o padre,
nell’ordine che la natura ci assegnerà. —

Allora tutti fecero il giro del rogo, gittandovi sopra ogni maniera di
ultime offerte — oli profumati — balsami — incenso — mirra — cinnamomo
— nardo — e la figliuola una ciocca de’ suoi biondi capelli. — Chiuso
il lenzuolo, l’_ustor_ presentò le due torce accese a Lelio ed a Lydia.
Essi le presero. E, copertisi gli occhi col lembo della veste e volte
le spalle — per provare il ribrezzo sentito nel distruggere quelle
amate reliquie — appiccarono il fuoco al rogo. — Ben presto un turbine
di fumo elevasi in aria. — E pianti, e gemiti, e singhiozzi, e canti
funebri, e suono di trombe con essi. — Colui che aveva presentato le
torcie vegliava sulle fiamme e le attizzava. — Appena la catasta di
legna la divenne cenere e bragia, l’_ustor_ inforcò il lenzuolo pei
nodi e lo depose in terra. Lo aperse. E i parenti, inginocchiatisi,
cercarono con cura le ossa che il fuoco non avea calcinato e lavatele
con vino vecchio e latte e poi asciugatele con veli di lino, le
chiusero in un’urna di alabastro orientale insieme a foglie di rose e
ad aromati. Ivi pure scossero la cenere chiusa nel lapideo lenzuolo.
Allora il _designator_, che avea già cambiato il ramo di cipresso con
un ramo di lauro, fece tre volte il giro intorno ai ragunati per la
trista cerimonia, li purificò con una aspersione di acqua pura; quindi
gli congedò colla parola,

— _I licet_. —

Il nono giorno le ceneri vennero deposte nella tomba della famiglia, la
quale trovavasi dietro l’ustrino. Lelio aprì colla chiave la porta di
marmo che girò fischiando sui suoi cardini di bronzo. Si curvò, discese
tre scalini e depose nella nicchia in faccia a sè la ricca urna che
aveva nelle mani. — Levato il coperchio, gittò dentro un anello d’oro
con una pietra su cui era incisa una cerva — il _symbolus_ del padre
morto. — Volse mestamente gli occhi allo intorno e sulla predella vide
l’urna di marmo colle ceneri di sua madre; di vetro, con quelle di una
sorella; e di terra rossa, adorna di bei rilievi, che racchiudea le
reliquie di un fratello morto anzi tempo. Sospirò ed escì. L’ultimo
atto dei funerali era compiuto. E lo fu a suono di trombe, dette
_sitinae_, dal timbro grave e melanconico.

Tornato in casa, trovò i parenti e gli amici riuniti a banchetto.
Nessuna bocca potè sfiorare gai propositi. Le menti erano afflitte e
preoccupate e tutte miravano un solo spettro.

Già da due mesi — sendo morti Germanico in Syria e Druso in Roma —
Tiberio imperatore erasi chiuso in Capreas, stanza recondita e di molto
comodo alle sue paure e alle sue crudeli sporcizie. Dodici anni prima,
accompagnando nella Campania Cesare Augusto — marito di sua madre
Livia Drusilla e suo padre adottivo — aveva visto l’isola assai bella
e dilettevole, cinta di rupi scoscese ed altissime ed accessibile sul
mare profondo da una sola banda e ristretta. Era vecchio, dal corpo
brutto, sottile, lungo, chinato e calvo. Aveva il viso chiazzato di
margini e di spesse stianze e piastrelli. Era stomacato dello abbietto
Senato ch’egli spesso svillaneggiava in greco — «o gente nata a
servire» — plaudendo lui distruggitore delle pubbliche libertà. Odiava
sua madre che non volea socia al dominio, e discacciare non la potea
perchè per le sue moine Augusto lo aveva preferito a Germanico, nipote
della sorella Ottavia. Checchè ne fosse, era partito dall’Urbe con
poca corte, per lo più di greci, amando ragionare in tale idioma. Il
pretesto fu il sacrare il Campidoglio di Capua e il tempio di Augusto
in Nola. Lo infinito restitutore di antichi ordini colà guadagnossi
i sopranomi di Biberio Caldio Merone e di Caprineo. I suoi desinari
duravano non ore, ma giorni interi e serviti da fanciulle di corpo
vago ed ignudo. Premiati i maestri di disonesti sollazzi. Ai più alti
uffizi i beoni, i corrotti, gli autori di libri lascivi e di pitture
libidinose. Chiamava suoi piscicoli i bambini coi quali bagnavasi,
sendo incitamento la loro innocente modestia. In più nefande camere,
rizzate qua e là nell’isola erano i ministri di quanto in esse si può.
Ed altri ministri lettigavano per la contrada in cerca di vittime alla
sua sporca e focosa lussuria.

Ma avaro nello spendere, moderò negli altri lo sciupo nei giuochi e
nelle feste, e scemò le provisioni agli istrioni ed agli accoltellanti.
Pur, se illimitato il castigo ai prevaricatori, illimitate le vie
per deludere la pena ed ovviare il castigo. E tratto tratto vedeva
e puniva. E spegneva i riottosi e ne ghermiva gli averi. E la plebe
diceva nel vedere i ricchi puniti:

— Cesare coi suoi occhi raccolti vede di notte all’oscuro. Gli altri,
di giorno, per lui. —

Intanto il Foro rumoreggiava dei giuochi che il fasto della famiglia
in corruccio faceva eseguire, perchè la memoria del padre fosse più
durevole nel cuore del popolo. L’uso era rischioso, irreflessivo ed
audace, nè poteva esser vinto sì di leggieri.

Tori furiosi corrono a capo ricurvo nella lizza. — I bestiari, scalzi
e vestiti appena di una corta ed ampia tunica senza maniche, gli
attendono, evitano con destrezza l’urto delle loro corna, li feriscono
colla punta di un giavellotto; e quando li veggono arrestarsi confusi,
e sbalorditi raschiare colla zampa il selciato, si presentano loro
dinanzi squassando una stoffa di color chermisino. I soccorritori,
agili anch’essi e quasi nudi, corrono dietro i tori frementi e con alte
grida gli aizzano contro i loro avversari e gli pungono con una lunga
asta, armata nella sua estremità di un ferro acuminato. La bestia nel
parossismo del suo furore si slancia, crede di sbuzzare il nemico e non
trova infilzato alle corna che un cencio che gli annuvola la vista.
Allora altre punzecchiature di dietro; altre sfide dinanzi. E urli
dalla galleria ed oltre lo steccato di legno che circonda l’arena. —
Però che il popolo in quelle venazioni non vedea più la idea pietosa
che la faceva offerire, ma solo lo amor del piacere e lo spirito di
turbolenza che il mena. Per poco che un taurocenta, nel salvarsi da
una cornata, faccia un passo falso e cada, escono tali fischi da quelle
gole, sino a ghiacciare di spavento e di confusione le bestie. Se poi
queste ristanno malgrado i colpi di lancia dei succursori puntari, le
grida, le imprecazioni, le minaccie scoppiano contro di esse.

Il pugilato succedette alla corsa dei tori. — Frigidus e Vitulus —
rotti agli esercizi violenti e al regime austero della loro professione
di atleti — discendono nel parallelogrammo. — Hulvio e Tetrix — non
meno rinomati dei primi — si mostrano anch’essi. E siccome erano stati
altra volta in Pompei, sono applauditi calorosamente. — Una coppia
verso il tempio. — Un’altra verso le curie, perchè tutti veggano. —
Gli atleti gettano via dalle spalle un ampio mantello e fanno mostra
di larghe membra, di braccia nervose, di ossa gigantesche. Hanno rasi i
capelli, tranne sulla sommità della testa, adorna di un grosso ciuffo,
quasi a garanzia dei colpi che possono ricevere sur una parte così
sensibile e delicata. — Alcuni schiavi allacciano dalla prima falange
della dita sino all’avambraccio un paio di cèsti perfettamente eguali,
formati di sette striscie di cuoio di toro ancor velloso e guarniti di
piastre di ferro o di piombo.

Appena armati, si assicurano sui loro piedi e levano le braccia in
aria per saggiare se i cèsti sono bene aggiustati. — Dato il segno,
le due coppie gettano la testa indietro e presentano i cèsti allo
avversario. Le mani s’incrociano e il combattimento incomincia.
Frigidus è più leggero; meglio agile; lo soccorre la gioventù. Vitulus
è più provetto e più forte; ma le sue ginocchia non sono ferme ed
ha grosso il respiro. — Hulvio è membruto e saldo sui suoi larghi
fianchi. — E Tetrix non è da meno di lui. — I colpi d’ambi i lati dello
steccato si avvicendano; e, o rompono l’aria, o rimbombano sui petti.
Si guardano, si studiano, si minacciano, si evitano, si stancano. — Il
sudore copioso prima imperla e poi riga la epidermide di quei giganti.
— Frigidus vuol porre un termine alle lotta e impetuoso si getta in
avanti colle braccia levate e scaglia due colpi simultanei. Vitulus
— che cercava un accesso or a dritta, or a sinistra per colpire con
profitto l’emulo suo — rincula con prestezza; e l’altro, non sostenuto
dalla resistenza, trascinato dal proprio peso, cade boccone sul
lastricato.

Urli e fischi scoppiano di ogni lato. — Altri plaudisce alla destrezza
di Vitulus. — Ma il caduto si solleva con impeto e rinnova gli
attacchi.

Hulvio anch’esso vuol compiere rapidamente il proprio trionfo; e
digrignando i denti, si precipita sullo avversario e gli assesta colpi
spessi e di lieve portata. Tetrix nota quella furia e la trae a suo
vantaggio. — Para la minaccia, o la evita col gittarsi di fianco, o
fugge. L’altro prende allor più coraggio e irrompe più furioso che mai.
Tetrix si volge, finge un colpo di lato e gliene squadra uno terribile
sulla faccia che lo atterra sbalordito e fuori di sè. Il sangue spicca
a rivi dal viso lacerato e pesto.

Frigidus e Vitulus grondano di sudore ed ansimano come due mantici.
— Di comune accordo si fermano e vanno ad aiutare il compagno che
trascinano via col capo penzoloni sulle spalle.

— Per Castore e Polluce, sono valenti atleti! Come lo chiamano il
ferito?

— Lo ignoro, Comio. Mi pare di averlo visto a Capua, un anno fa, nello
anfiteatro. E anche là — se ben lo rammento — buscò una scellerata
botta sul fianco.

— Eh! Se naufragò anche altra volta, or accusa a torto Nettuno. — Io
preferisco il mio mestiere al suo. — Che ne pensi, o Mola?

— Certo val meglio far bollire le carni che far pestare le proprie. —
_Archimagiri_ di buone case come noi non hanno ad invidiare un Flamine,
— Eppure!...

— Già ti penti della tua sorte?

— Mai no. — Talvolta però che veggo gladiatori ed atleti balzare
nel Circo e applauditi.... Tal’altra che miro le donne correre loro
appresso come le mosche al mele.... Che la dea Fornax mi perdoni!... Ma
di siffatte delizie a noi cuochi non arrivano mai!

— A ognuno la sua. Consolati! Lo stomaco e la borsa — se consultati —
ti darebbero torto. — Ma cosa accade là in faccia a noi? —

Un gran baccano difatti accadeva di contro. Alcuni uomini gesticolavano
furiosi. — Che è. — Che non è. — Le donne supplicavano, ma non
riuscivano a calmarli. Alla fine si vide un soldato dibattersi tra
quella stiaccia, tolto di peso e cacciato fuori con pochissimo garbo.
Un triario — giunto tardi — non aveva trovato posto tra gli assegnati
ai suoi pari. Ed allora per godere dello spettacolo, erasi fatto strada
là dov’era il popolo. Un ardire siffatto aveva eccitato il sentimento
plebeo della dignità sovrana, e lo intruso venne scacciato dal posto
che avea tentato usurpare.

— Orestilla, vedi com’è tronfio e pettoruto quel bruno che si fa largo
là, tra la gente. — Pavone antipatico!

— Colui dalla tunica di porpora?... È uggioso anche a me, Pothusa. —
Nol vidi mai prima d’ora.

— Debb’essere straniero. — Che farà egli in Pompei?

— Eh! Continuerà il suo mestiere! — Maraviglio del magistrato che fa
entrar simil gente nella nostra città. —

Callityche — ch’era presso alle due giovinette, l’una _calamistra_,
arricciatrice di chiome donnesche, l’altra _vestifica_, che tagliava le
vesti e le cuciva — voll’essere del pettegolezzo ed aggiunse:

— Mi pare sia del mio sangue. — Ho la casa da affittare... Io gliela
cederei. —

Uno ch’era servo in una _diversoria_ fuori la porta della Marina,
felice di poter offerire informazioni esatte, entra a dire:

— Tre giorni fa approdava nel porto. — Dormì e mangiò nello albergo.
Lo indomani il padrone, ch’è meticoloso, gli chiese il pagamento della
cena e del letto; ed egli aprì la borsa — e cen’eran dentro dei bianchi
e dei gialli! — pagò e — forse stizzito dalla scortesia — partì. Spese
due denari e tre quadranti, e a me diede due assi. Un altro avrebbe
pagato un solo denaro.... e avrebbe detto le sue.

— Nummi e denari?

— Dev’essere molto ricco allora!

— Me n’ha l’aria. — E quegli che portò via la sua cassa, mi disse
ch’era ben grave. —

Orestilla guardò la sua amica, e:

— La verità entra in casa, parlando — Eh! per la gioconda Iddia! Ha un
bello aspetto quel forestiero! — Guardato meglio, guadagna.

— Poichè spende grosso, sia il bene arrivato.

— Scommetto che quando lo incontrerete per via — oh! gli è un greco di
certo! — gli lancerete tenere occhiate per farvelo amico! — Attenti.
— Ecco i lottatori ch’entrano in scena. — Bei giovani! Paiono fatti al
torno. —

Erano quattro. — Sono ignudi dalla testa ai piedi. — Ma si potrebbero
dire vestiti di grigio, perchè unti di olio e di cera e coperti da
una cenere fine che trovavasi in Puteoli. Quella specie di pomata
dava scioltezza alle membra, turava i pori, e facendo aspra la pelle,
rendeva più facile il ghermirsi.

La lotta è per cominciare. I giovani si apparecchiano col corpo proteso
dinanzi, col capo insaccato nelle spalle, colle braccia a cerchio.

— Artoces è un pompeiano. Io scommetto per lui dieci denari. — Che ne
dici, Rutilio, accetti?

— Sì, Cocceo. Io quindici per Dama. Mi pare sia meglio piantato sulle
sue gambe.

— Sai tu, Munazio, come si chiami quel lottatore che ha le forme di
Ercole, costaggiù? Io tengo per lui quaranta sesterzi.

— Povero Sandiliano, li perderai e sono troppi. — Lo dicono Aphrocides.
Tu sbuchi un pozzo nel momento che ho sete. — Mira, farò il colpo di
Venere come alle tessere — Triplo sei. — Lydo mi darà vittoria.

— Basta! — È convenuto tra noi. — Oh! Eccoli alle prese. —

Durante quel dialogo i lottatori si erano osservati, si accostavano
e miravano al modo come si attaccherebbero. Parvero decisi. Si
ghermiscono mutuamente per le braccia, si danno delle scosse,
si spingono, e si tirano con tanta violenza che — nel silenzio
degli spettatori — si odono le ossa delle spalle e delle reni che
scricchiolano. Lo scopo finale della lotta è il gittar per le terre
lo avversario. Non colpi. — Non pugni. — Sono proibiti. — Convien
dunque fare degli sforzi di tendini e di muscoli, prendendo piede
contro piede, fronte contro fronte, quasi fossero due capri o tori,
per ottenere lo intento. I conati eguali. Pari le forze dei quattro
campioni. L’ansia degli scommettitori è estrema. — E se le donne non
fanno mercato delle loro aspirazioni, dentro però scelgono il loro
campione, e a lui augurano la vittoria e trepidano per lui.

— Decimilla, che bel giovane quel biondo dai capelli inanellati, eh?
Non mi par convenevole mostrare in pubblico quegli uomini ignudi!...
Pure che petti! che gambe!... Quel mio pare un Apollo. — Vorrei così
formato il marito che Jugatinus — il dolce Iddio — vorrà destinarmi.

— Io sono per quel bruno, Cœsia. — I biondi non mi piacciono punto.
Quantunque volte io oda novelle d’infedeltà, sempre nel fondo vi è
l’uomo dagli occhi azzurri — la tinta del cielo, del mare, dell’aria —
le cose più mal fide ch’io mi conosca.... E poi è bruno il mio Anteros.
— Sai? Il mio promesso che ha bottega di stoffe per vesti, dinanzi la
fontana del Toro.

— Avrai un bel prospetto per fuorviare l’occhio maligno.

— Ed Anteros un soggetto di meditazione non molto piacevole. — Ma
guarda il tuo biondo, Cœsia. — Per Ercole! Cangia lo attacco. —

Queste parole dicevale Alleia alle compagne, a voce bassa e ridendo....
Difatti Lydo avea preso risolutamente pel collo Aphrocides e lo
stringeva come un nodo scorsoio. L’altro non piega di una linea e lo
abbranca alla sua volta. — Quindi si stringono e son petto a petto.
Le loro gambe si allacciano e l’un cerca di far piegare all’altro
il ginocchio perchè cada. Ma Aphrocides diè una scossa violenta e si
staccò, scivolando come una murena dalle strette di Lydo.

— Che dici, Munazio, di quella prova? È un Anteo che ritocca la terra
coi piedi.

— Per Giove tonante! Ne convengo. Si tirò da un cattivo passo. — Il tuo
Dama suda, o Rutilio, ed ansima come un cavallo bolzo. — Aggiungo sei
denari alla sua caduta.

— Gli tengo, impavido Cocceo. Il tuo patriotismo ti onora. Non so se
il destino sarà pel nostro pompeiano. — Vedi! Si sono separati. Vanno
a tuffarsi nelle casse piene di polvere. — Per Cocito! Gocciolano come
usciti da un _calidarium_. —

Rieccoli tutti grigi. — E la lotta si rinnovava. — Dama, rifatto dalla
piccola tregua, si slancia primo e accaviglia la sua gamba sotto il
ginocchio destro dello avversario. Questi piega, non regge e cade.
L’altro, posandogli il piede sul petto, gli dice di arrendersi vinto.
Ma Artoces gli distende per tutta risposta una solenne pedata sotto il
mento e si rialza come spinto da una molla nell’atto che il primo va a
gambe in aria.

Un fremito di gioia prendeva il cuore del popolo. Il pompeiano avea
vinto. E tutti accalcandosi spingevano fuori le braccia e gridavano:

— Bravo Artoces! Bel colpo! Viva l’onore di Pompei!

— Che ne dici Rutilio?

— Aspetto che il mio cada due volte per dar la palma al tuo. —

Intanto Lydo, che gli applausi per altri han renduto spavaldo, si gitta
sull’emulo come un leone e lo afferra per le gambe. L’altro, vista le
mala parata, si abbassa e lo preme di tutto il suo peso, perchè quegli
non lo sollevi di terra. Aphrocides valeva quanto un bue, e rizzarlo
era impossibile. Allora lo lascia e ambedue corrono. In una rivolta il
giovane biondo lo sorprende di dietro, gli cinge il collo, gli caccia
un ginocchio sui reni e lo distende sul selciato. E prima che sappia
sollevarsi, lo avvinghia colle braccia, dà un urlo, lo innalza con
supremo sforzo fin sopra il capo e lo gitta ai suoi piedi.

Gli scommettitori e le donne sono in grande agitazione. Sono gridi
che non si odono che nei paesi meridionali, dove si nasce, si vive,
si muore per entusiasmo e per gloria. Scuotevano in aria le toghe e
spargevano fiori e corone di alloro. Pareva che la patria in pericolo
fosse salva e che Lydo l’avesse salvata.

Anche Artoces avea vinto. Caddero ambedue abbracciati per terra. Ma
Dama sendo di sotto non potette sciogliersi e l’altro si sollevò
puntandogli il piede sulla pancia e salutando col braccio teso il
popolo sovrano. — Uno schiavo vestito di tunica azzurra entrò nella
lizza ed offerse ai due vincitori una palma e una corona di foglie di
lauro indorate.

— Cœsia, sognerai di quel biondo tu questa notte.

— Rutilio, non avesti fortuna e men duole. Giuoca alle tessere e
prenderai la rivincita.

— Non schernirmi, Cocceo. — Ecco io ti pago. Ma possono accader molte
cose tra la bocca ed il pezzo di pane. — Ad un’altra volta.

— Scherza pur, Decimilla. — Lydo è bello e grazioso.

Intanto alcuni bambini gironzavano sotto il portico del Foro e sul
piano superiore, offerendo a chi volesse comprarne mandorle verdi,
castagne e fichi secchi, lupini e ceci abbrustolati. Avevano pure
idromele e vino dolce per chi ne chiedesse.

Lo spettacolo offerto al popolo da Lelio Flacco non era finito. Partiti
i lottatori, entrarono i musicisti i quali si attelarono ai due lati
dei portici. Dopo di essi comparvero gl’istrioni, di quelli noti sotto
il nome di Pantomimi, che significava — imitatori di tutto. — E nel
vero, essi senza dir verbo e aiutandosi con gesti e posture plastiche
e sostenuti dal suono di un flauto particolare, detto _dactylica_,
faceano comprendere agli occhi quello che difficilmente si può narrare
colla parola.

Le loro mani parlavano, le loro dita avevano una lingua ed erano
eloquenti senza aprire la bocca. Nè si aiutavano col soccorso della
fisonomia; chè le loro maschere erano colla bocca naturale — non
come i comici e i tragici, che le avevano sbarrate, larghe e con un
orlo sporgente semicircolare, per servire di portavoce agli attori
nei circhi e nei teatri immensi in pien’aria. — Avevano bisogno di
usarne una per ogni carattere che rappresentavano, siccome gli odierni
le vesti, in _saltatio_, cioè, il gesto, accompagnato dal flauto e
talvolta dalla fistola, e dal cembalo, bastava per rappresentare drammi
completi, tragici e comici. Le principali situazioni venivano indicate
dai monologhi che i cantanti recitavano nell’atto che i pantomimi
esprimevano.

In quel giorno venne rappresentato l’Eunuco di Terenzio. Il soggetto
era questo:

Un soldato per nome Thrason aveva con sè una giovanetta che credevasi
sorella di Thaïs; ma ei lo ignorava; e, ito in Atene, ne fece dono a
lei. — Nell’atto, Phedria, amante di Thaïs, avendo comperato un eunuco,
le ne fa dono e parte per la campagna, perchè le ha promesso di cedere
il suo posto al soldato durante due giorni. Un giovanetto, fratello di
Phedria, che si è innamorato perdutamente della fanciulla avuta in dono
da Thaïs, siegue il consiglio del suo schiavo Parmenon, si veste da
eunuco, penetra nella stanza della fanciulla senza sospetto e l’ha. Un
fratello di lei costringe il giovane a sposarla. E Thrason ottiene da
Phedria ch’ei sia secondo presso Thaïs.

Erano le delizie sceniche degli avi nostri. — I retrogradi ed i preti
che piagnucolano sulle immoralità del nostro teatro — se sapessero —
potrebbero consolarsi.

Tutte le circostanze della favola furono espresse. — E le grida della
serva di Thaïs contro il vero eunuco, creduto lo autore del danno.
— E i mali trattamenti che gli fa patir Phedria. E l’ultimo patto,
fra questi e il soldato. — Il popolo provò gran piacere a codesto
spettacolo. In modo che quando l’istrione, il quale faceva la parte di
Phedria, espresse coi gesti la fine obbligata di tutti i drammi:

— E voi applaudite! —

i picchi delle mani, le grida, gli urli fecero echeggiare tutti i canti
del Foro e dei luoghi vicini. — E la riconoscenza ricordò a molti il
nome di Aterio Flacco, defunto, e di Lelio, il suo generoso figliuolo.
— Nè mancarono vivi plausi a Filone; l’ordinatore di quei magnifici
giuochi.

Lo indomani dovevano farsi i _denicales_, cioè le purificazioni dei
parenti e degli schiavi, sì nella casa del morto, come nelle case di
quelli che avevano tolta la loro parte nei funerali del loro amico e
del loro patrono. — Lelio la fece nella sua dimora. Così gli altri
nella loro. — Spazzò il pavimento con una granata di verbena. Pose
un braciere nell’atrio, gittò un po’ di zolfo sui carboni ardenti, e
prendendo per la mano la sorella e seguìto da tutta la famiglia, fece
parecchi giri intorno a quella fumigazione. — Quel giorno diviene
feriale per essa e nessuno lavora. E tal’era il rispetto degli antichi
ai doveri verso i vissuti, che nessuno della parentela poteva essere
citato dinanzi i tribunali dal dì della morte sino a quello della
purificazione.

Il nono giorno dicevasi _novendiale_, e si andava a banchettare
sopra la pietra, per cui _silicernium_. La qual cena fu poi chiamata
_ferale_, o _parentale_ del _silicernium_. In Pompei, questo triclinio
dove asciolvevasi dopo il periodo del dolore il più intenso, è un
ricinto quadrato, circondato di pareti dipinte con poca eleganza,
presentanti in mezzo a cornici ippogrifi, cervi, pavoni e cigni. In
fondo e ai lati sono finti usci con piante di felce a colori. Letti
inclinati verso l’esterno, come tutti i triclini estivi, cuoprono
l’area. Nel mezzo è un parallelogrammo, destinato a servire di desco. E
dinanzi una piccola ara circolare sulla quale facevansi le libazioni ai
Numi e agli Dei d’Averno, o posavasi l’urna colle ceneri lacrimate cui
si propiziava.

Gli amici quivi condussero Lelio Flacco e i parenti e i clienti. Neri
cuscini cuoprivano i letti di muro. Mangiarono ostriche e patelle
e brindarono all’ombra dello amico perduto dinanzi agli occhi della
carne, ma non disertato dalla mente di chi lo aveva conosciuto.

Nello escire dal _silicernium_ al tramontare del sole, la comitiva
racconsolata imbattevasi nel mortorio di una donna di mediocre
condizione ed in quello dei poveri. — Gli uomini sanno di essere eguali
in faccia alla morte. Ma il fasto e la vanità gli fa smemorati.

La famiglia di colei, che in quell’ora passava cadavere nel sobborgo
Felice, non aveva invitato il popolo; perchè nè giuochi da offrire, nè
festini a dare. — I parenti sì. — Fu eretto un letto funebre modesto.
— Dieci musicisti precedevano il corteggio. — Ma non si fermò nel
Foro. — Avi da lodare non erano. Le virtù da raccomandare, cotanto
oscure e fuori delle abitudini, che valea meglio tacerle. — E poi le
si narravano presto. — _Domum mansit — lanam fecit._ — I resti della
defunta erano però attorniati da fiaccole accese. Il che indicava lo
antico costume di far simili funzioni di notte, affinchè i magistrati
e i sacerdoti non ne fossero stati profanati dallo aspetto. Laonde, il
nome di funerali da _funale_, torcia di stoppa incatramata. — I ricchi
passarono oltre alla vecchia consuetudine per potere in pieno giorno
testimoniare il loro fasto e le loro ricchezze.

Il rogo, apparecchiato in pieno selciato in faccia all’_ustrinum_,
era basso, piccino e bastevole appena alla combustione del corpo.
Vedevasi pure una modesta urna di terra cotta, preparata allo scopo.
— Non profumi. Non libazioni. Non offerte. — Quindi, nè combattimenti
sanguinosi per piacere ai Mani. Nè spettacoli di lotte, di pugni, di
calci, di gesti. — Le Ombre degli antenati — poichè questi gli hanno
tutti — dovevano esser discrete e contentarsi di una coperta sanguigna,
del colore della porpora e non veder altro.

I sacerdoti antichi dicevano — «Spendete; e le Ombre amate godranno
nei Campi-Elisi delle ricchezze che avrete profuso nel loro
mortorio!» —

E i sacerdoti moderni pur dicono — «Spendete; e allor suoneremo
campane, canteremo, borbotteremo in latino e tratteremo con Dio
come fosse un giudice borbonico; e a furia di danari dati a noi, noi
costringeremo lui a riconoscere in un’anima ribalda una onesta.» —

Tutti così. — E sempre così!

Arso il cadavere, la pietà del marito raccolse le ossa che avevano
resistito all’azione del fuoco. E chiusele nell’urna la seppellì in una
fossa. E sopra pose una _columella_, rotondata a guisa di una testa con
due trecce dietro. — E sul dinanzi, ch’era liscio, leggevasi:

                               MARONILLAE
                               L. ATIMETI
                              ANNIS. LVI.

I cadaveri dei poveri erano stati fermati più in su, quasi rimpetto
la ricca casa dalle colonne di mosaico nella interna fontana. Cotesti
_fricti ciceris et nucis emptores_, siccome vivevano in incognito,
così pure incogniti partivano dal mondo. Nessun ramo di cipresso sulla
porta della casa ov’erano morti. Là dove spiravano rimanevano distesi
tre giorni. E poi il becchino li adagiava in una _sandapila_, dopo aver
infilzato con mal garbo nelle loro braccia una toga di apparenza che
ad uno ad uno finiva per coprir tutti. — E tre dei suoi compagni, detti
_vespillones_, li barellavano al posto dopo il tramonto. Colà presso è
il forno, dove li cacciavano per forza, ripiegandoli. Un po’ di pece
surrogava i profumi e le essenze Campane. E quando la mortalità era
grande, allora componevano una catasta di legna in un luogo appartato
e sopra ponevano i cadaveri in fila — quelli delle donne sotto, perchè
credevano racchiudessero maggior calorico e s’infiammassero meglio.
— Avevano anche un’altra ubbia. Pretendevano sapere, nel Tartaro
non esservi _popinæ_. — Per conseguenza Caronte non aver bisogno di
oboli. Allora, gli toglievano il fastidio di chiederne qual mercede al
tragitto. Ed avevano cura di aprir la bocca ai morti e di ritirarne la
moneta.

I soli cadaveri a non esser arsi erano quelli dei condannati a morte,
o delle persone uccise dalla folgore, o dei bambini spenti avanti la
dentizione. I primi erano abbandonati ai corvi. Gli altri venivano
sepolti.

Il lutto era un obbligo morale. L’uso però costringeva le donne a
prenderlo; gli uomini no. In ogni caso non durava oltre l’anno. E
siccome si pretendeva che le morti premature profanassero una casa,
così le esequie funeste si compivano a notte tarda, senza invito, senza
esposizione e senza pompa.

Ogni cittadino morendo perdeva la proprietà sulle sue cose. Una sola
le leggi gliene lasciavano — il possesso della sua tomba. — E per me’
ricordare quel diritto che non ha altro difensore che la fede pubblica,
alcuni volevano che il sasso che li copriva il testificasse. E le
lettere iniziali sur alcuni sepolcri H. M. H. N. S. — _Hoc Monumentum
Hæredem Non Sequitur_, volea dire: Cotesto monumento non appartiene
allo erede.

I Mani avevano-dimora nelle tornile; per cui tutte erano loro dedicate.
— _Diis Manibus sacrum._ — Il loro culto era generale, siccome
incalcolabile il loro numero che la morte annualmente accresceva.
— Due feste tendevano a placarli. Una agl’idi di febbraio, detta
_feralis_. — L’altra a’ III degl’idi di maggio. — Gli Dei dello Stige
non aveano sacerdoti, e perciò erano ben lungi dall’avidità degli altri
e si faceano lieti di semplici corone di fiori, di qualche frutto,
di un pizzico di sale, di una fetta di pane inzuppata nel vino, e di
un mazzolino di viole. Quelle dette _lemurales_ erano più curiose.
A mezzanotte, quando tutto tace allo intorno, i devoti levavansi di
letto e a piedi nudi — facendo schioppare col pollice il medio di
ciascuna mano, per allontanar l’ombra leggera che loro venisse incontro
— andavano silenziosi ad una fontana per purificarsi le mani tre
volte. Voltisi quindi e prese dalla bocca alcune fave nere, gittavanle
indietro, e dicevano:

— T’invio queste fave e con esse riscatto me ed i miei. —

Allora l’ombra invisibile ai loro occhi credevano raccogliesse le loro
fave e partisse. — Si rilavavano le mani, battevano dei tonfi su vasi
di bronzo, scongiuravano l’ombra perchè se ne andasse, dicendo per nove
volte:

— Mani paterni, escite! —

Sembra che Romolo instituisse quella festa di espiazione per
rabbonacciare i Mani di Remo ch’ei supponeva errassero irosi sulle rive
dello Stige. E i Latini credevano che le anime di quelli i quali erano
morti di morte violenta non fossero ammesse nei regni bui che dopo il
periodo di anni che avrebbero abitato nei loro corpi sulla terra.

Lasciai libero Eumenes perchè facesse i suoi conti. — Egli ebbe a
bisticciarsi coi libitinari per le spese dei funerali. — Pretendevano
— offendendo lo _arbitrium_ già fatto — esser pagati in ragione della
fortuna del morto. Quei preti ne udirono di dure verità. — Ma che
importava ad essi? Avrebbero presi anche i ceffoni e.... parata l’altra
guancia, purchè i denari venissero. — I conti coll’onesto ed abile
Filone furono presto fatti. — Costarono un orrore quelle feste nel
Foro! — Ma come splendide e bene ordinate! Se ne parlò per più mesi
in Pompei e nei paesi vicini. — Vi fu un po’ di litigio coi beccai per
la valutazione della _visceratio_ — la distribuzione delle carni crude
alla plebe. — Eumenes non sapea dire quali le Arpie più rapaci, quelle
che avean ricevuto o quelle che aveano venduto.

Ritiratosi nella sua camera, posò la lucerna sul candelabro, chiuse la
testa tra le mani e stette così qualche tempo.

— Non vederlo.... non udirlo più! — Nel suo sguardo soave, e dolce come
il mattino è pieno di misteri come la notte, trovava un sorriso, ch’io
salutava con tutte le voci del cuore.... Ah! mio buon padrone, la tua
morte — che non avea sospettato mai potesse arrivare — sarà un’ombra,
una oscurità; una desolazione profonda sulla regione terrestre della
mia vita....

.... Salve, ombra diletta, che per questa casa ti aggiri. — I tuoi cari
figli ch’io vidi nascere — come tu mi conoscesti bambino — i tuoi figli
io gli amerò a doppio nel nome tuo! —

Queste parole erano il vale eterno che il cuore di Eumenes espresse
alla memoria di Aterio Flacco.




I TEATRI.

SCENE DI DISTRAZIONE.

=Anni di Roma 812 — Anni del Cristo 59.=


                         A MIEI FIGLI, VITTORIO
                              E LIONELLO.

                                  VII.


  _M. Herennius Epidianus Sextilio suo._

                                                              _Romæ._

_Apud me est ut volo. — Male, mehercle, de Popidio nostro._ — Sì!
— Un grande cambiamento si è operato nelle sue lettere e nella sua
maniera di essere. — Vengono rare e sconnesse. — Che è egli mai? —
Tu sai come teneramente ami ambedue. — E più penso e meno comprendo
lo scritto sibillino. Qual cosa potette cagionare in Popidio una tale
rivoluzione?... Qui, notai, sullo scorcio del mese in cui ci separammo,
il suo spirito malato, un po’ guasto. Sperai guarisse nel riposo della
provincia. Egli ha carattere sì dolce; sì collegantesi; sì pronto al
ritorno! — Dimmi se il male è profondo. — E, se hai bisogno di aiuto,
io verrò. _Multum vos amo. Valete._

  _C. Sextilius Ampliatus Herennio suo._

                                                           _Pompeis._

_Si vales, bene est._ Tu mi chiedi con premura le novelle di Popidio
nostro. Ei trascina miseramente la vita. Empie i modii colle sue
sciocchezze. Sono giovane anch’io, e qualcuna ne permetto anche a lui.
— Ma tu vuoi te ne citi?... Per Ercole! Sono nello imbarazzo, perchè
poche quelle che a lui gracile e delicato non nocciano.

Le gite lunghe e a cavallo ed a slascio lo uccidono. — Ed egli corre.
— Le cene prolungate lo sfibrano. — Ed egli crapula. — E fosse pur
lieto dello amore di Plilia!. Mai no! — È farfalla che si agita e
fa i suoi giri intorno alle faci, sinchè — bruciate le ali — cada...
Bello, elegante, culto, dovizioso, nobile cuore, ei distrugge la vita,
sospinto al Tartaro dalla noia che mai lo lascia, non in mezzo ai
divertimenti che meglio desiderava, non nelle braccia di Venere, il cui
cinto non lo sa ritenere.

Tu ambedue conosci. — Crescemmo insieme. — C’istruimmo insieme in
Athenas. — Fummo insieme nell’Urbe. — Ah! Non vi avesse mai posto
il piede! Costì fu colto dal male che lo divora. In cotesta fogna,
splendida di marmi, di porpora e di oro, apprese ad adorare la
Luna e a detestare il Sole.... E qui, quando si leva spossato dalle
tremule coltrici, sbadiglia, ad imitar Cerbero che latra, e chiede
chi lo distragga e lo faccia ridere. — Nè gli adulatori mancano. Sono
nell’Atrio i parassiti e gl’istrioni che lo elogiano e lo ammirano.
— Talvolta egli piacesi delle loro arti, dei loro salti, delle loro
pantomime, delle loro viltà — Talaltra, la noia lo riguadagna e — o gli
caccia brutalmente — o li manda al _tricliniarcha_ perchè sfami il loro
_ventrem iratum_. — Tu la conosci cotesta plebe — razza infame di cui
l’Urbe abbonda e che qui scese a praticare il turpe mestiere. — _Capti
sunt nidore culinæ._ Quell’odore gli attira. — E si credono pari ai
Numi quando possono _gallina tergere palatum_. — Questi i suoi clienti,
i suoi _salutatores_, i quali lo accompagnano di portico in portico,
dalle Terme in via della Fortuna alle Terme sulla via alla porta di
Stabia. — E si bagna e si ribagna. E dalla Palestra va all’Apoditerio;
dal Tepidario al Calidario; dal Sudatorio all’Eleotesio. — Ne esce
slombato. — Misero! Ha appena la forza di dire, fatti — in — là, ad uno
schiavo briaco.

Mi chiama uom da sermoni. Ed io lo prego per me; per te e per lo
affetto di Plilia che ora è in Neapolis. _Vale._

  _Plilia Sextilio suo._

                                                              _Bays._

_Apud Pliliam recte est._ Una lettera giuntami or ora mi ha
impaurito.... — Popidio non pare già un uomo; _sed litus et aer et
solitudo mera_. Ne sono afflittissima. — Ho qui i miei cari parenti che
mi ritengono. — Altrimenti fosse, sarei volata a Pompei. — Il suo male
è la noia. Ad essa sacrifica e liba come a una Iddia.

I miei greci mai furono così! Eppure, i vostri latini ne dicono tante
ad ingiuria!

Parlai con Acutilio tuo, cui mi raccomandasti in Neapolis. _Ex omnibus
molestiis et laboribus uno illo conquiesco._ — Ma Popidio mi sta fitto
dentro. Attendo la mia sorella Myrrhina con ansia. — Intanto _mater mea
magnos articulorum dolores habet_. — Siegue le prescrizioni di Charmis,
_stagna refusa_, e guarirà presto. Ma io sono sulle spine per amore di
quel caro che soffre. — _Cura, amabo te, Popidium nostrum. — Ei nos_
συννοσεῖν _videmur._


Erano consoli in Roma C. Vipsanio Aproniano e L. Fonteio Capitone.
Reggeva a suo modo le cose del mondo Nerone imperatore!

Giulio Cesare per usurpare il dominio aveva con ogni mala arte corrotto
l’anime dei Romani. Ma già il terreno era preparato dalle grandi
vittorie le quali avevano infiltrato nelle vene del popolo quirite il
lento veleno del lusso colla smania dei capolavori nelle arti e della
opulenza. Sembrava che ognuno dicesse:

— Arricchiamoci e poi ci rammenteremo della prisca virtù. —

Nel mentovarsi un uomo dabbene, incontanente chiedevasi:

— È ricco? — Quanti schiavi possiede? Quante le migliaia di iugeri di
terra? La sua mensa è delicata? Ha piscine e vivai? —

Quando sapevasi ch’era ricco, il prender conto dei suoi costumi pareva
inutile pleonasmo. L’oro — la tariffa della probità! — E più l’uom
possedeva, e più degnissimo era di stima e di onori.

C. Crispo Sallustio, uomo di coscienza assai elastica, che belle
cose scriveva e brutte cose faceva — laonde venne cacciato da Cesare
dal governo della Numidia per le concussioni e le ruberie operatevi
— scrisse al pacificatore delle romane libertà nobili parole contro
la invalsa passione delle ricchezze, seria e tremenda minaccia alla
società ed allo imperio. — E sì, ch’ei predicava di esempio! Ed a chi!

«Il maggior beneficio tu possa fare alla patria, ai cittadini, a te
stesso, ai nostri figli — a tutto il mondo — è lo spegnere la sete
dell’oro o diminuirla almeno per quanto lo permettino le circostanze.
Altrimenti, in pace od in guerra, gli è impossibile ordinare gli
affari pubblici e privati; avvegnachè, là ove la sete delle dovizie è
penetrata non sieno più instituzioni, non arti utili, noto più genio
che sappia resistere. — L’anima — tosto o tardi — debbe anch’essa
soccombere. Ovunque le ricchezze sono in auge, tutti i veri beni
avviliti, la buona fede, la probità, il pudore, il casto vivere. Però
che un solo cammino meni alla virtù, ed è stretto, aspro e difficile.
Mentre ciascun corre allo accaparramento della pecunia per la strada
che vuole. — E molte ve n’ha di buone e di triste.»

Presa Siracusa, i capolavori di quella ricca città andarono nell’Urbe.
— Conquistata l’Asia, i triremi caricarono tutto il lusso dell’Oriente,
e gli diedero diritto di cittadinanza in Italia. — Vinta l’Acaia, si
rivoltò ogni cosa, e il buon costume antico smarrì la sua via. La
caduta di Cartagine diè l’ultimo crollo, e le larghe e molteplici
braccia strinsero quanto potettero e vollero. Tutti, abbassati,
aspettavano che il principe comandasse senza darsi pensiero. Tutti,
avviliti — e i più illustri per nome — correvano con calca al servire,
al piaggiare il despota e chi per lui. Lo amor si comprava. Il successo
nelle battaglie, la magistratura, il senato, si comperavano. Ogni cosa
si otteneva coi nummi d’oro. E il furore febrile di averne giunse al
segno per la servitù inghiottita, che qualche dura cosetta fu fatta per
forza; le altre quiete e ricerche.

Cicerone — autore anch’egli del danno e sua vittima — sciupatore
per vanità in ville sontuose ed in viaggi continovi e di fasto, pur
contrario ai prodighi de’ suoi tempi — scriveva:

«Gli scialacquii irriflettuti si tirano dietro le rapine. Uomini
impoveriti dallo spendere — _alienis bonis manus afferre coguntur_ — si
veggono forzati di allungare la mano ladra sui beni altrui.»

Quel _coguntur_ pinge l’epoca perversa. — Il rapinare erasi fatto
necessità. — Bisognava esser ricchi a qualunque costo. Lo impero voleva
così. E i già liberi, fatti schiavi, rimossa ogni infinta virtù, non
curanti tema o vergogna, aprirono il varco alle nascose lussurie,
s’infradiciarono in scelleraggini ed in sporcizie. Chi volea fuggire i
mali soprastanti o i presenti, svenavasi. Chi inghiottiva il partito
pessimo, gloriava; e coi maggiori brutto adulatore facevasi; coi
minori, arrogante; e fastidioso coi pari. La gioventù si tuffava nelle
libidini e perdeva i polsi. — Le cetere, le belle e facili donne,
il vino, in onore. — I patrizi, istrioni. — Lo imperatore, di voce
chioccia, cantante in casa nei giuochi giovenali, quando primavolta fu
raso. — E nelle feste, matrone sui gradi come ai trionfi, usate alle
allegrezze, in faccia a sciupate ignude con gesti e dimenari impudichi.
— Cotesta la Roma e la Italia dei tempi!!!

Popidio Celsino era un giovane di venticinque anni. Di statura mezzana,
sottile e ben fatto della persona, pallido, magro, di uno aspetto quasi
femmineo illuminato da grandi occhi neri, aveva la voce di un suono
dolce e penetrante che andava dritto al cuor delle donne e le rendeva
pensose. Cantava greche canzoni come non altri. Agilissimo, educato al
maneggio delle armi, a lanciare il giavellotto con vigore e con garbo,
a manovrare la fionda con abilità e giustezza di tiro, a cacciare
una freccia in un bersaglio indicato, a domare corsieri e a saltarvi
sopra a diritta o a sinistra di slancio, danzava come un ginnasta, ed
era difficile che la danzante con lui, teneramente guardata, sapesse
fuggire dalle sue maglie. E quando, tornato di Roma, nei ludi del Foro,
per le feste augurali degli eletti duumviri, aveva voluto provarsi
a discendere quasi nudo allo attacco dei tori; la sua perizia nello
evitare con un movimento di fianco le corna dello animale furioso e nel
ferirlo mentre quello irrompeva nel vuoto, era sì bella e graziosa che
gli spettatori frenetici gli gittavano dal terrazzo corone di alloro,
e le fanciulle sentivano menomare il loro pudore e maledicevano alla
resistenza usata a qualche suo ladro sguardo.

Così, sulle prime. Poi anneghittì; e la noia lo punse del suo spino
velenoso.

I vecchi che ricordavano i tempi di Augusto, avevano trovato nelle
ricchezze un mezzo qualunque che dava sfogo alla loro ambizione. Il
popolo di allora riceveva il pane cotidiano delle sue vergogne e nulla
poteva più dare. Laonde, i ricchi giovani, che pur dentro sentivano
una energia da spiegare, si stancavano di una opulenza che si esauriva
nelle labili gioie e nelle sfrenatezze del cubicolo e del triclinio
e, sbadiglianti, senza desiderii, lodavano la sera, perchè corsa e si
auguravano un domani diverso. Ma quello sorgeva il medesimo, _idem
et semper idem_. E cercavano, cercavano qualcosa di nuovo pei loro
appetiti guasti. E ne arricchivano lo inventore o chi lo forniva. E
ogni snaturalezza, pagata, coperta di porpora e di oro. — Lo amore
di donna? — Trita cosa! — Il matrimonio? — Anticaglia! — Nefandi
accoppiamenti sì, perchè la nefandigia era illecita e nuova.

Il misero Popidio viaggiò; e quantunque volte arrestavasi, nel trar
fuori del sacco le vesti di ricambio, smucciava la noia con esse.
Esciva di casa — ne abitava una magnifica dietro la Basilica, quella
che ha nel pavimento dell’atrio pezzi irregolari, di tutte forme e
di marmi diversi chiusi nell’_opus signinum_ — per sfuggire la sua
persecutrice. Ed appena giunto nel Foro o sulla soglia della casa di C.
Sestilio Ampliato, tornavasene indietro ed entrava nella magione vicina
— che pur era la sua — augurandovisi una distrazione. Talvolta faceva
porre il freno ad uno dei suoi cavalli e appariva come freccia scoccata
sulla via della porta di Sarnus, ov’erano i suoi poderi e la sua villa
maestosa. Parea corresse a spegnere uno incendio, o i piedi del suo
destriero portassero la salute di una famiglia, di una città. Giunge
trafelato e in sudore. I servi gli sono intorno. Tutto ansimante va
nello xisto, si gitta sur un triclinio campestre coperto da una pergola
in faccia alla bella piscina, e là mangia assiso, su vasi di argilla,
un pasto semplice e frugale frettolosamente apparecchiato. Caduto nel
sonno, gli schiavi lo adagiano sul letto. Quivi oblia la noia e la
disperazione che la vuota opulenza cagiona. Ma, una volta desto, i
due sproni gli si conficcano ai fianchi. Inforca di nuovo il cavallo e
rieccolo in Pompei coi capelli sparsi, col sudore sulle guance, colle
narici aperte come quelle del suo corsiero. — E in sull’uscio?...
Sull’uscio è la statua immobile che lo aveva seguito, che lo seguiva
per tutto e che pur lo attendeva.... la Noia.... che il Governo
imperiale vi aveva rizzato e... inchiodato, dopo aver messo in pezzi il
santo simulacro della Libertà.

Misero Popidio! Malato di languore nell’anima, impotente a dissipar
la tristezza ed obblioso che dovunque egli andasse, sempre seco la
trasportava.

Il suo cuore era passato per la trafila di molti amori. Ma nessuno lo
aveva fermato. — Nessuno aveva saputo congiungerlo. — Venuta Plilia
di Grecia, questa lo avvinghiò meglio delle altre... Era straniera...
Parlava altra lingua... Prestavasi meglio alla curiosità... Possedeva
artificii d’amore... E poi... era una bella mostra del tipo ateniese.

Plilia contava i venti anni. Era piccina e ben fatta. L’ovale della sua
faccia, senza menda, aveva una tinta piacevolmente bruna. I sopraccigli
formavano un solo arco sulla fronte ampia ed altera. L’orlo del labbro
soprano era adombrato da una leggera lanugine che imprimeva sulla bocca
un sorriso voluttuoso e aggradevole. Gli occhi grandi e neri, a forma
di mandorle, brillavano malgrado che la lunghezza delle ciglia ricurve
ne temperasse il fuoco. Un neo sulla gota sinistra, la bianchezza
canina dei denti, il gaio conversare sur ogni proposito, la risposta
pronta ed ardita su piacevolezze scabrose la facevano amata e ricerca
da tutti.

Essa era una etera. — Cioè, una fanciulla libera; filosofante coi
chiari filosofi; artista cogli scultori e coi pittori in grido;
letterata cogli oratori i meglio famosi; sempre nella luna di mele
dello amore; permettentesi, ma non donantesi; in balìa di quella
passione accettata dagli Dei e non dagli uomini tutti — quantunque così
deliziosa, così bruciante; — un giorno spettro sinistro agli occhi di
donne gelose; e l’altro ospite gentile e grazioso di un peristilio.

Dopo la risposta di Sestilio, essa non tardò molto a venire in Pompei.
Un servo si fece all’uscio della camera di Popidio e ne tirava la
spessa cortina di Tyro. — Un raggio di sole penetrò nel cubiculo.

— Per lo inferno! Che luce! Abbi Venere irata, o Milphio. — Come? Mi
desti ora appunto che avea preso sonno?

— Padrone! È Plilia che è giunta e chiede vederti.

— Ma, di’.... nel tuo paese..... e non dormono la notte?

— La notte sì. — Ora è alto il sole. Da un’ora già varcò la metà del
suo corso.

— E pur qual silenzio! Pompei zittisce adunque come l’anima mia?....
Ah!.... Va. Chiedi a Plilia il favore di attendermi.... E apparecchia,
se vuoi, il bagno. —

Un altro più lungo sbadiglio. — Trasse le braccia in alto, stirandole.
Discese lentamente dal letto di cedro, intarsiato di tartaruga; posò i
piedi su ricco tappeto; li pose nei sandali; si gittò sulle spalle una
_gausapa_ cremisina, vellosa al di dentro, e cominciò a camminare per
la stanza, ora celeremente, ora a passi misurati.

— E Plilia che vuole? Aveva un po’ di tregua da che è in Neapolis.
— Torna qui ad agitarmi. — Vuol sempre sia desto.... Non ha mai posa
costei!.... Ma che, l’amo io?... Io?... E non posso amar più. Oh! Il
potessi!... Plilia è proprio un serpentello che mi avvolge nelle sue
spire. Ed è serpentello che piace... e che io riscaldo sul mio povero
cuore, che batte i battiti di una vita incresciosa...

— Ah! Popidio!... Caro!... Siimi indulgente! Ma io ardeva di
rivederti... e non attesi...

— Fanciulla amata... _dulcissima rer_... —

Ma i baci ch’essa gli diede sulla bocca niegarono il varco alla
compiuta parola.

— M’impaurì la lettera che mi raggiunse a Baiæ. Ma.... la mia madre
era soffrente.... la mia sorella Myrrhina doveva arrivare e la lasciai
là.... E qui corsi per riabbracciarti. —

E curvò la sua bella testa sul petto di lui, pur cogli occhi
guardandolo amorosamente.

La donna è per sè stessa un animaluccio seducente, grazioso e benigno.
— Plilia poi era per sopra ciò un fiore vivace e profumato, sorto nella
solitudine dell’anima sua. Onde, preso da quell’olezzo di gioventù e
di bellezza, la baciò e ribaciò sulla fronte e sugli occhi. Gli pareva
di sentire un nuovo moto nelle sue vene. Una novella energia picchiava
tonfi sul suo cuore sfibrato, quasi dicesse:

— Aprimi, ed io resto. —

Il fatto è che Popidio in tal momento pensava e diceva alto:

— Infine, sono come gli altri, io. — Sestilio mi sgrida, mi
rimprovera.... Ma, ha torto. — Mi annoio. — Ecco tutto. — Provo e
riprovo e non riesco.... Pure, io saprei difenderti, o mia. Saprei
morire per difenderti. — Ho l’anima fiacca spesso... è vero. — Destala,
o Plilia.... E l’avrai amante, ingenua..... Non feci mai male ad
alcuno, io.

— Lo so. — Tu sei buono, o soave amore. E puoi guarire della malattia
dolorosa quando che vuoi.... E per sanare bisogna che tu colmi il vuoto
che hai dentro.... E una donna.... se saprà fare, lo riempirà.... e
se tu la lascerai fare. — Ora gli è al poeta ch’io parlo. — L’uomo
non è felice e sano se il poetico entusiasmo nol rende contento di sè
medesimo.... Oh! Ecco Sestilio!..... Vieni, o amico. — Seguita tu i
miei ragionari. — Dobbiamo persuadere questo caro ad essere felice.

— Ora lo sono. — Durerò? No, se voi mi lasciate. — Voi due mi siete ben
necessari. Senza te, o Plilia, le tenebre mi attorniano e la psiche
va errando e cade. Talvolta anche Sestilio sa togliermi di dosso
la _impluviata_ di piombo — la noia — la quale, come la camicia del
centauro, mi brucia. — Con voi rimarrò giulivo; nella villa, studierò
i papiri greci di Phylodemo. — Come te, _deliciola mea_, filosoferò
sulla ricchezza, dichiarandola una povertà regolata sui bisogni della
natura. E non stimando necessario il superfluo, ci contenteremo di
ciò che basta. — Con te, o Sestilio, l’anima diverrà lo strumento
della mia gloria. Non dubiterò più.... Io mi sentiva nato per qualche
ragione al mondo.... e non per la usura dei miei nervi e per una
inutile morte..... No.... V’ha una parola nella tua lingua, o Plilia,
che m’inspira una tenerezza feroce. V’ha una parola nella mia, al cui
sacro mistero io dedicherei volentieri tutte le grandi gioie dei sensi,
tutti i grandi dolori della vita. — Eλευθερία — _Patria_ sono un teatro
su cui il misero amico vostro avrebbe recitato con nobili emozioni la
parte sua!

— Ma tu appartieni a te medesimo.

— No, o Sestilio.... La fresca alba della libertà ov’è mai? — La luce
che vivifica, che depura, che sorride all’anima di un romano e di un
greco è scomparsa dalle nostre contrade! — Le tenebre sono spesse e
fredde.... E quando la mia cosa immortale s’interroga, ode un rumor
di catene, vede il ghigno dello imbestiato signore del mondo e cerca
smaniosa uno asilo e nol trova. — Questo pauroso ha fatto della
terra una carcere. — È omai delitto il mentovare le parole della mia
mente!... Talvolta, un tuo sorriso, o Plilia, dorato dalla intelligenza
e profumato dalla bontà, mi solleva dal peso insopportabile del mio
sogno penoso. — E il tuo affetto sincero, o amico, mi strappa dalla
battaglia senza tregua di questa mia misera vita, dove.... — l’ho a
dire?... — mi sento in catene e non domo, come Spartaco, di Tessaglia.
— Ma, voi partite.... E la dolorosa noia ritorna e.... lentamente mi
caccia nel cuore la punta uncinata che dentro rode. — Tu dicesti....
una donna! — Ah! passò quello istante in cui la nozza per me sarebbe
stata una cosa sensata ed onesta. — Quando io vidi la gelosia strozzata
ai piedi dei miei pensieri; quando la mia ragione non trovò più parole
di lamento e di richieste indiscrete per torturare la donna amata,
compresi ch’essa può avere un passato legittimo nel pellegrinaggio
della vita e lo rispettai. — Allora tu, etera, fosti la sorgente
di qualche mia gioia. — Ma, associarti ai miei destini?.... Mai! —
Popidio non commette atti iniqui! — I despoti della mia patria non
tormenteranno il mio seme. — Viviamo in tempi in cui i figli feriscono
nel ventre le madri e dicono ad Aniceto, liberto:

— «Oggi, da te lo impero. Corri con arditissimi e fa’ lo effetto.»

— Ieri una lira accordata valeva più della spada di Scipione. Domani
lo applaudire alla voce fessa del despota darà lucrosi incarichi. Ogni
dì, i poetuzzi che rabberciano gli stentati suoi versi sono onorati di
bisellii e di corone, come già il divino Virgilio... Il popolo ha fatto
il callo sur ogni obbrobrio.... Ecco le ragioni dei miei disordini, del
mio correre a slascio, dei miei lunghi e crudeli riposi.

— Condizione crudele! — _Prorsus, ut dicis, ita sentio._ — Ma tu troppo
presto appressasti al cuore la vampa per incenerirlo. Ingrossasti
la testa per atrofiare il corpo. — Chiamasti lo avvoltoio perchè si
cibasse del tuo fegato!

— Discaccia le cure che ti tormentano. Vivi e consolati dello amor
nostro. —

Popidio si assise sul letto. I due lo imitarono. Le belle guance di
Plilia furono lentamente rigate da due grosse lacrime. — Ed egli prese
le mani degli amici suoi, e, tutto commosso:

— Miseri! Soffrite per me! — E mi compiangete! — Era così infelice
a non dirvelo per lo addietro. — Gli Dei!... Oh!... Io ne venero un
solo! — Le donne!.... Io non amo che te! — Gli amici!.... Disprezzo
i viventi e mi stringo a Sestilio.... Ho il turbine qui! V’ha sorrisi
che paiono da vino. — V’ha tormenti eziandio da dannato. — Pietà di me!
— _Utinam illum diem videam, quum vobis agam gratias, quod me vivere
coegistis!_ —

Su questo, Milphio entra nella stanza e dice:

— Padrone, il bagno è apparecchiato.

— Verrò. — Voi andate nello xisto, nella biblioteca, ove meglio.
Voi siete altri me, qui. — Plilia, un bacio. — Oh! io mi sento
innovato! —

Si cacciò nel bacino di porfido e vi si distese. — Chiuse gli occhi. —
E in quella specie di veglia gli parve di esser libero di una catena
con cui il suo spirito era stato sino allora legato. Ciò che dentro
pria lo affliggeva, sparito. Sentivasi pronto ad una felicità — non
la intesa e praticata dalla saggezza convenzionale — quella che dà
godimenti veri, meritati, segreti e di un ordine proprio. — Da una
piega della cortina, che abbarrava l’uscio, sino al bacino scendeva
diritto un filo di raggio solare — solco luminoso composto di quanto
v’ha nell’acqua, nell’aria, nella terra e che pur trovasi in date
proporzioni negli animali, nelle piante, nei sassi. — I suoi pensieri
ascesero per quella via sino a Dio, e ritornarono gioiosi a lui su
quella dorata atmosfera. — Mai, come quel giorno! — Si levò, si vestì
della _synthesis_, aiutato da Milphio, ed escì azzimato incontro agli
amici.

— Plilia e Sestilio, andate nelle vostre camere. — Vi troverete
la _vestis cœnatoria_. — Vi attendo nel triclinio. — È l’ora
decima. —

Nel sommo letto si pose Popidio, nello inferiore l’amico, nell’altro la
etera. — Dopo la libazione, i giovanetti schiavi li coronarono di fiori
e giuncarono di rose il musaico. La ricchezza del _pater cœnæ_ esigeva
che la _comissatio_ fosse _recta_, cioè composta di tre imbandigioni.
Laonde nel primo vassoio di argento furono portate uova, lattughe,
olive, fichi e mangiari delicati e leggeri per aguzzar lo appetito. Nel
secondo, stufati di varie sorti ed un arrosto di vitello. Nel terzo,
confetture, mele d’Hymetto con semi di papavero bianco tostati, paste,
e poi altri frutti entro cestelli di giunchi intrecciati, di argento.
— In ultimo, dopo la lavatura delle mani e della bocca, vennero
distribuiti i profumi per togliere di dosso l’odore delle vivande.

La gaiezza dei commensali erasi irradiata sui _pueri_ che servivano
e sul bravo e fedele Hegio, il _tricliniarcha_. E tutti cogli occhi e
coll’assiduità del servizio ne ringraziavano Plilia, la bella ateniese,
operatrice del miracolo.

Anche la luna illuminò quella regione vivente e dianzi sì desolata.
— Andarono a godere del suo pallido raggio sull’orlo dello xisto che
prospettava sul mare. — Gli amanti avevano le mani congiunte. Il misero
dallo abisso, aiutato dalle ali dello amore, era risalito sugli spazi
i più luminosi delle regioni felici. Gli è che Plilia, strettasi al
suo cuore, gli susurrava tratto tratto all’orecchio parole che gli
uomini tutti non sanno ricambiarsi tra loro. — Sestilio abbracciò i due
avventurati e partì.

Essi restarono. Per qualche istante nessuno parlò. Quindi:

— Io ti appartengo, o Plilia. Un legame mi unisce a te, potente,
indistruttibile, eterno. — Quali le nostre labbra, così le anime negli
Elisi. Dammi la tua mano. — Come bella! — Questo anello d’oro serbalo
nel dito finchè tu non perda la memoria di chi molto ti amò. —

Si fidanzarono. — E fu spontaneo e gradito quell’atto, perchè
compiuto tra essi, senza sospetti, siccome gli atti abituali della
loro tenerezza. La donna gli coronò il collo delle sue braccia e così
rientrarono nella casa; e di là, nella prossima, messa a disposizione
di Plilia. — Ore di felicità! — Silenzio gradito! — Solitudine sacra!
— In quel sepolcro era chiuso il supremo contento di due cuori degni
di batter l’un presso all’altro i segni della vita e delle sue brevi
delizie.

— Così per tempo, Halisca, che vuoi?

— La mia padrona è levata, o Sanga. — Il tuo si leva. — Ambi chieggono
si appresti il bagno.

— Ma, se appena la clessidra marca l’ora ottava del mattino!

— Vita nuova!

— E qual genere di bagno?

— Tiepido. — Rammenta che gli unguenti per Plilia debbono sitire di
nardo. — _Hoc age._

— Corro. —

Intanto Popidio sentivasi felice. E nello augurare alla maga che lo
aveva innovato un giorno lieto, dicevale:

— Dalle tue grazie infantili io prendo una forza di carattere che mi
stupisce. — Debbo a te un sentimento di cui non mi credea più capace.
— Ecco, tu cammini.... tu mi guardi.... ed io comprendo il mistero
ch’è tra il figliuolo e la madre. — E se parli e sorridi, io provo una
emozione soave che non so ridire.

— Allora le mie labbra sorrideranno sempre per te. —

E nel vero, Plilia meritava un tanto affetto. — Essa non aveva diviso
continuo le sensazioni che or facea nascere. Ma la simpatia, uno
accordo nervoso tra i due, la omogeneità dei pensieri, la reciproca
bellezza della mente e della persona, facevano sì ch’uno nell’altro
riguardasse il suo cielo.

Preso il bagno, asciolsero. — Quindi deliberarono di andarsene in
villa. Allorchè tutto fu pronto, escirono; e, traversato il Foro e la
via Domizia, trovarono presso la porta di Herculanum un carro a quattro
ruote. Plilia si distese sur un cuscino di seta colmo di soffici piume
di cigno, appoggiando il corpo sul braccio sinistro. Halisca — la
_pedissequa_ — aprì tele distese su sottili bastoni alla estremità di
una canna delle Indie, e con questa _umbella_ la riparava dal sole.
Essa avea nelle mani una specie di palma, fatta di penne di pavone, per
discacciare le mosche importune. Popidio, in piedi, prese le redini e
diresse i quattro rapidi corsieri africani sulla via costeggiante le
mura che menava a Sarnus.

La villa era grande e maestosa. — Aprivasi per una specie di arco
trionfale che serviva di porta e continuava per un viale ascendente,
limitato da alberi di platano e da muri. Una larga serie di gradini
di marmo menava all’uscio della casa, la quale — di due piani,
senza finestre al di fuori, e coronata da un’alta torre rotonda — si
componeva di un atrio spazioso, di un portico sostenuto da colonne di
stucco, ed in mezzo, sopra lo impluvio, un tritone di marmo mandava un
getto d’acqua da una conchiglia che aveva nella bocca. Intorno erano
camere da letto dipinte da greci pennelli. Oltre il peristilio vedevasi
uno xisto assai grande con quattro palme nel fondo per dar ombra agli
alveari e riposo alle api dopo il loro gironzare sui fiori. Presso
quegli alberi erano il timo dell’Attica, la melissa, l’asfodelo, il
citiso, la maggiorana, i giacinti, l’iride, lo zafferano, il narciso. E
poi rose di Preneste, viole di Tusculum, papaveri, rosmarino, basilico,
lentisco, bocche di leone, gigli dal calice di vario colore, altre
rose di Mileto rossissime, di Eraclea, e quelle bianche di Alabanda.
— Da un lato dello xisto era il triclinio. — E al di là per una via
serpeggiante a traverso alberi da frutto e vigneti, dinanzi vasta
piscina, era sotto la pergola un triclinio in piena aria, rispondente
alle fantasie dei villeggianti.

Plilia — al rezzo di quegli alberi, e presso i cespi dei gigli —
splendida di freschezza — pareva un rosaio che alla rivolta d’un
viale solitario sorprende quasi fosse un’apparizione di fate. —
Oh! i felici!.... Popidio nel dolce asilo dimenticava le sozzure di
Roma — le infami mostruosità imperiali — il vergognoso zittire di
Seneca — le piaggerie adulatrici di Peto Trasea, corrette poi colla
morte — gl’imbratti del patriziato — le basse vigliaccherie dei suoi
conterranei. — Spesso entravano nel bosco fitto, ov’era uno stretto
spazio scemo di alberi, e sotto una quercia annosa uno scoglio.
Come la grotta marina di Caprea nei dì sereni e di sole è azzurra;
così quel posto era verde del velo magico della speranza. — Colà o
Plilia o Popidio leggeva Omero, Virgilio e cominciavano nei riposi
le discussioni erudite sulle bellezze del poema di quei cantori
sovrani. O recitavano a memoria le odi di Orazio e di Anacreonte. —
E si baciavano, e ridevano di quelle licenze puerili che i due poeti
bacchici si permettevano. Laonde Plilia diceva:

— _Pipere qui abundat, oleribus miscet piper._

— E qual pepe! ve n’ha a condire tutti i cavoli di Sicilia, o mia.

— Per lo iddio Fidio! Gli era un vecchio di assai scarso pudore — servo
di Cupido, figlio della Notte e dell’Erebo — non di Amore, nato di
Venere pompeiana.

— Io poi credo _amabat linea extrema_: e più per gli altri che per
sè. —

Talvolta rivangavano con orgoglio un passato glorioso alle due patrie
e ragionavano degli antichi legnaggi, della potenza di carattere,
della saggezza mai sorpassata e delle nobili arti. E la sapienza la
individualizzavano sui remoti e sui contemporanei, o la criticavano.

— Grande e poderoso ingegno quello di Cesare. Ma i meriti pel
laminatoio. I vizi pieni e di corsa.

— Augusto potè gareggiare con lui che fu tra i maggiori eloquenti del
suo tempo. Pur, se chiaro e corrente nel dire e magnifico nel fare, ben
corrotto e corruttore, come dei principi è l’uso.

— Malvagi tutti! Tiberio sovrano nell’arte del pesar le parole. Vivi
concetti e soavi apposta. Occhio e dimora dolorosa sul vero. Fretta
crudele nella ferocia. Disonesto poi....

— Oh! l’ostica sua disonestà non inghiotto nè sputo.

— E Caligola? Quali nobili parenti! E quanto vario il figliuolo!
Calzarino d’infamie ove il mondo doveva mettere il piè. Matto.... e
peggiore per non attendere; di quelli che per non aspettare il dolce
fico colla gocciola, lo schiantano dal ramo col lattificio. Malgrado la
grande spensieratezza, attivo molto al bel dire. Ma la bestialità glie
ne tolse la forza.

— Claudio poi, se diceva pensato, era eloquente. Ed emulo di Cadmo
fenicio, di Cecrope ateniese, di Palamede argivo, di Damarato corintio
e di Evandro arcadio, Cesare si piacque aggiungere tre lettere —
tentativo di grafico perfezionamento. — Ma il duo digamma eolico a
rovescio, e l’antisigma, e l’iota modificato durarono quanto il suo
dominio e li vedi ancor nei decreti suoi per le corti e pei templi.

— Sciagurato! Lo pagò bene Aloto, un degli eunuchi, che facea la
credenza per sicurar le vivande dal tossico, omai masserizia di Stato.
La trista Agrippina strappò il testamento ed antepose il suo figlio al
figliastro Britannico — forse correttivo a doppio disastro.

— E cotesto istrione — suo dono — sviato ad arte da Seneca verso il
dipignere, lo intaglio ed il canto, parla imboccato le dicerie già
composte dal falso e lezioso ingegno del suo maestro. E omai rotto
a tutto, uccisa la madre incestuosa e randagia, a Seneca promette e
terrà. Schifosi mostri!

— Omai, i buoni e i tristi spacciati sono. Lo ammazzatore è per via.
I più acuti porgano pure il collo, offrano le vene al cerusico ed
apprestino il rogo.

— Quel che tu dici or mi rammenta Petronio, maestro in morbidezza e
dei più intimi nelle delizie industriose di Cesare. Tigellino ne provò
invidia e per calunnia lo fe’ reo di maestà. Tutto risi e piaceri, non
seppe tôrsi la vita, poi che ritenuto in Cuma. Fattesi segare le vene,
le tappò, poi le sciolse e le ritappò a sua posta per sentir leggere
versi piacevoli. Non potendo battere Tigellino — causa del danno —
fe’ trebbiare gli schiavi. E pria di quietarsi nel sonno estremo cui
si sentiva dannato, mandò a Nerone scritte a mo’ di testamento le sue
ribalderie con tutte le disoneste fogge. E sigillò la pergamena e ruppe
lo anello. Cesare vi trovò le sue notturne invenzioni con Silia, da lei
ripetute a Petronio e, indignato, la confinò.

— Tutto è omai spiantato e guasto.

— Per qual via escirem noi?

— Ecco le mie braccia a siepe del buio sentiero, o Popidio. Ti sia
patria il mio cuore. Il tuo è uno altare per me! —

E que’ miei avevano ragione nella diversa sentenza. Consolante invero
lo affetto. Ma l’atroce agonia d’ogni dì? E le crudeltà in altrui?
E le beffe dei barbari? Ogni santità, profanata. Gli scogli marini
d’Italia, asilo, e luogo di morte per fame. La nobiltà e le dovizie,
peccati gravi. La virtù, certa ruina. Anche il silenzio riguardoso,
delitto. La vita sicura, quella delle spie e dei ladri. Anzi alle spie,
quasi spoglie opimi, consolati e sacerdozi. Ma, per contrapposto a
tanti adulteri dell’anima, eroiche morti come in antico; mogli seguaci
dei mariti scacciati, schiavi e liberti fedeli ai tormenti, amici
difenditori — comodo _sellisternium_, non più per gl’iddii incuranti
gli atroci mali del popolo, sì per posarvi la immagine serena del
crocefisso da Ponzio Pilato, procuratore.

Alcune volte cavalcavano per la villa e fuori. — Od in una biga, essa
menava i cavalli. — O, postisi in una barca sul lago, aiutati dalla
vela e dal timone, si faceano condurre a genio del vento. — Era una
vita d’incanto! — Le vere visioni quaggiù sono gli aspetti di varietà
e di luce che appaiono sulle fronti delle persone amate. E Popidio e
Plilia non videro che i raggi dello amore, i fiori della felicità e il
verde della speranza.

Un giorno venne una lettera alla giovane ateniese. — Aveva talmente
dimenticato la esistenza al di fuori della villa vastissima e dei
poderi, che fu stupita come qualcuno potesse scriverle. — L’aprì — e si
fece pensosa e turbata. — Mirrhyna l’avvisava che la madre peggiorava,
e volea rivederla. — La novella diè doppia ferita al suo cuore. Si levò
pallida, e in uno slancio di tenerezza e di angoscia offerse la lettera
allo amico suo e lo abbracciò.

Popidio per qualche istante non potè leggere. Prevedeva un disastro. —
Quando chiarì la cosa, si levò, e abbracciando la donna amata, disse:

— _Suavis_, ho avuto così stretto il cuore testè, che or non sembrami
amaro ciò che ti dico. — Parti... Va presso la madre... E se il
credi... se non ti costerà sacrificio, ritorna a chi ti ama assai più
che la vita.

— Sempre desolanti cose fra noi: — Separazione crudele! — Che diverrai
tu nell’assenza? —

E sì dicendo pose le sue dita delicate come un velo sulla faccia e
singhiozzò, innalzando spesso convulsivamente il capo e le spalle.
— Egli le assettò sulla testa il _ricam_ — velo lungo e quadrato con
frange, di porpora — che coprì colle pieghe ample il _cincticulum_ —
la corta tunica bianca senza maniche — la strinse al petto più volte,
l’aiutò a salire sul carro e la vide partire per Neapolis in compagnia
di Halisca. Ed egli, saltando sur un cisio elegante, corse verso
Pompei.

La luce era partita. — Le tenebre erano tornate. — Desolato nel giorno.
Vegliante la notte. — Inspirazione — slancio — volontà — desiderii —
tutto con lei.

— Idolo caro della mia fantasia! Creatura amata! Quasi sangue delle mie
vene! O favilla di quel fuoco misterioso che Dio dà e ritoglie. Vieni a
me presto, o io mi muoio. —

Sestilio venne a consolarlo, e lo aiutò a dar pieno corso al suo
dolore, parlando di lei e del suo pronto ritorno. Intanto per offerire
distrazione propose di andare al teatro. — La speranza di ricrearsi
rese accetto il partito.

L’_Odeum_ era un teatro coperto — a lato del tragico — che Quinzio
Valgo e Marco Porcio, duumviri, avevano fatto edificare e collaudato.
Serviva agli spettacoli musicali, alle rappresentazioni drammatiche
e ai concorsi poetici. Potea contenere mille cinquecento spettatori.
Circoscritto in uno spazio rettangolare, la metà infima soltanto
prende la forma di un completo emiciclo. La superiore, tra i gradini
circolari interrotti su ciascuna estremità. I posti riservati — i
quattro primi gradini, cui dava accesso la orchestra — erano l’_ima
cavea_. Poi veniva il _balteus_ che serviva di spalliera ai magistrati,
ai cavalieri, a quelli assisi sul quarto gradino. La seconda _cavea_
divisa da sei scale e composta di diecisette ordini di sedili di
pietra, era riservata al popolo che vi penetrava dai vomitori.

Sulle tessere di avorio, contornate da un serpe che morde la coda, era
scritto CAV · I · GRAD · IV · ANDRIA · TERENTII · Ne presero due ed
andarono al loro posto. Si erano già nunciati i nomi degli attori e le
parti loro affidate. Si era detto il prologo, in cui lo autore confessa
il suo plagio a Menandro e lo scusa, dichiarando valer meglio una buona
imitazione che una mediocre creazione. Il subbietto era cotesto:

— Pamphilo ha sedotto Glycera, creduta sorella di una sciupata di
Andria. — I segni divengono patenti. Ma il seduttore la consola col
prometterle nozze, quantunque il padre lo abbia fidanzato alla figlia
di Chremes. Ma questi, sapendo gli amori del figliuol suo, simula
apparecchi di nozze per iscandagliare i pensieri di lui. Pamphilo ode
i consigli di Davo e non fa resistenza. Ma Chremes, veduto il neonato,
non vuol aver più per genero quel seduttore. — Un incidente stranissimo
disvela come Glycera sia figliuola di Chremes. — Allora dà questa a
Pamphilo, e l’altra che eragli fidanzata, la sposa a Charino.

Facili i versi — ben condotto lo intreccio — lo scioglimento felice.
— Di due commedie di Menandro — l’_Andria_ e la _Perinzia_ — lo
affrancato di Scipione fece questa una, spigolandone tutto il buono. —
Pur quando Davo disse agli spettatori.

« — Non attendete che gli attori escano..... Gli accordi, il
contratto, tutto che rimane a farsi, si compirà là dentro..... Voi
applaudite.» —

Popidio non ne poteva più. — Sestilio, nello escire — perchè lo amico
così voleva — facendo lo elogio delle commedie di Terenzio; sempre vere
e delicate e senza ciniche licenze, gli chiese la sua opinione. L’altro
— che aveva l’anima vagante — rispose, egli preferir Plauto per la
somma vivacità del dialogo. — Lo africano averlo fatto dormire.

— Preferendo l’azione, sarai più lieto nel grande teatro. —

— Sia, — Tu, mio Mentore e senno, da che Plilia è lontana!

Nello escire dal piccolo entrarono nel grande. Le tessere privilegiate
diedero loro lo ingresso in un corridoio a volta che li menò ai posti
sopra la orchestra. — Erano di avorio e portavano da una parte lo
incavo di un edificio teatrale e dall’altro le cifre che seguono
VI. ΑΙΣΧΥΛΟΥ · IB · Avevano posto sul sesto gradino della _cavea_
riservata. Altri corridoi, pure a vôlta, passando sotto la gradinata,
guidavano al primo claustro e alla _media cavea_; una scala poi al di
fuori del teatro faceva giungere direttamente alla _summa cavea_ ed
al culmine dello edificio pel servizio del _velarium_. — Sulla parte
opposta elevavasi una torre quadrata e rotonda al didentro, serbatoio
di acqua piovana, la quale, profumata da essenze, era sparsa come una
nebbia per tubi capillari di piombo sugli spettatori nei calori estivi.
— Nel centro della orchestra elevavasi la _thymele_, o piccolo altare
su cui sacrificavasi a Bacco al cominciare dello spettacolo.

La scena fissa presentava tre porte, le _hospitales_ e l’_aula regia_.
— Fra queste porte nelle due nicchie posavano le statue di Nerone e di
Agrippina.

Si recitava la tragedia _I sette contro Tebe_, la quale veniva chiamata
il parto di Marte. Ma se il Dio della guerra aveva sovente inspirato
lo autore dei _Persi_ di _Agamennone_, dei _Coefori_, del _Prometeo_,
delle _Supplichevoli_ e delle _Eumenidi_, certo ei non ebbe minori
obblighi a quello del vino.

Gli attori sono sulla scena. — Gli adunati, tutt’orecchi in udirli.
— Popidio, noiato, trovava i flauti fuor di tuono, le maschere degli
attori logore, le voci non abbastanza forti per essere intese.

— Che l’architetto Martorio Primo non avesse nozione nel costruire il
teatro di quei grandi vasi di bronzo, i quali portano la voce dall’una
all’altra estremità della sala? Tu rammenti che li vedemmo in Athenas,
in Milo, in Argo e in Sicyone.

— Rammento. Qui costumasi il flauto perchè sostiene la voce, la chiama
se travia, e serve a dare la intuonazione al nuovo attore che entra.

— Qui si costuma quanto vi ha di più odioso per me. Mira Volumnio, il
decurione, che fa! Oh! io non reggo a siffatte scempiaggini! —

Si levò e andò via. — Quel suo vicino aveva tratto un colombo dal
seno e dopo avergli legato una tavoletta scritta nel piede, lo faceva
volare. Altri lo imitarono. — Erano corrieri domestici che i mariti
e gli amanti inviavano alle donne loro. — Sestilio raggiunse l’amico
sulla via di Stabia.

— Tu che da per tutto ti aduggi, oh! certo non ti annoierai nello
Anfiteatro. — La folla che corre da quella parte mi rammenta il grande
spettacolo offerto da Livineio Regolo. —

— Io tornerei volentieri alle mie case.....

— No. Vieni, Popidio, e la maschia scena ti distrarrà. —

L. Livineio Regolo, di famiglia plebea — nato di Lucio prefetto di
Roma — era stato quatuorviro monetale ai tempi di Cesare. Ferito dalla
stessa scure che aveva decapitata la repubblica, amico di Cicerone e di
Bruto, amareggiato dall’ozio febbrile che legano le rivoluzioni morte,
cospirò per la causa a lui sacra. Senatore, Augusto tiranno volle che
venisse raso dal senato. — Invano stracciò le vesti per mostrare le
onorate cicatrici. — Invano parlò de’ suoi meriti. Fu raso. — Cacciato
in esilio in Pompei, per ingraziarsi il popolo si fece editore di ludi
gladiatori e belluari, cioè, di orsi e di cinghiali.

Lo edificio destinato ai sanguinosi combattimenti degli uomini e delle
belve era la riunione di due teatri, siccome il greco nome Αμφιθέατρον,
che i Romani gl’imposero, il dice. Le due orchestre ne formavano la
elittica arena. La quale in Pompei era scavata di man d’uomo tanto al
disotto del livello del suolo per quanto le mura si elevavano al di
sopra. Costruito nella parte meridionale della città presso le mura
che guardavano Stabia, l’architettura esterna di pietra vesuviana
non presenta verun ornamento. Nello ingresso del grande vomitorio
settentrionale su due nicchie posavano le statue di Cuspio Pansa
duumviro, padre e figliuolo; ed a sinistra sul selciato di lava che
discende, sono pietre bucate entro le quali era fissa una barriera di
legno, perchè gli addetti al servizio e al mantenimento dell’ordine
non fossero schiacciati dalla folla irrompente. Di là si andava ad un
cripto-portico circolare interno, che per via di scalinate metteva
ai gradini. Questi erano divisi in tre piani — _summa — media — ima
cavea_. — Sopra le vôlte delle due ultime è una serie di arcate che
metteva in una galleria che dava accesso alle scale per escir fuori. Il
primo _deambulacrum_ era coperto. L’altro no. — L’arena era circondata
da un _podium_, alto quasi due metri, difeso da un cancello di ferro
a protezione degli spettatori. Esso è ornato di pitture che presentano
combattimenti di tigri contro orsi, di un cervio contro una leonessa,
di un orso contro un toro. V’ha pure una scena gladiatoria, e si vede
un _lanista_ dar consigli a quelli che debbono accoltellarsi, nell’atto
che altri due assisi aspettano la stessa lezione e che un musicista
saggia le note della sua tromba ricurva, atta a dar lena ai gladiatori.

La prima _cavea_ ha cinque gradini. Ma nelle due grandi parti dello
Anfiteatro è un vasto spazio, chiuso da un breve muro di appoggio che
scende perpendicolare al _podium_, e non ha che quattro comodi scalini.
Gli era il posto riservato alle vestali, ai magistrati ed a quelli
che avevano l’onore del bisellio. — Nel centro del podio occidentale
apresi una piccola porta di quercia, il _catabolus_, per cui escivano
le bestie feroci, chiuse nei covacci sotto la gradinata. — Il sole
d’Italia, volgendo all’occaso, illumina vivamente la scena. E il monte
Vesvius sta muto testimonio della gioia crudele del popolo e della
coraggiosa rassegnazione degli accoltellanti, pronti alla morte per dar
piacere agli schiavi di Nerone che omai dei gloriosi padri non avevano
più che le vesti ed il nome.

Quando i due amici arrivarono allo Anfiteatro, questo era pieno per
modo che sarebbe stato impossibile il trovarvi luogo, se un littore
— riconoscendo in Sestilio il figliuolo del duumviro non gli avesse
condotti — attraversando le file con autorità — in due posti rimasti
ancor vuoti. Già compivano il giro dell’arena cinque coppie di giovani
di alta statura e di membra robuste. Alcuni erano schiavi e costretti
al carnaio. — Altri volontari, e si votavano alla trista professione
per cupidigia, per sete di fama, per disperazione accagionata dai
politici rovesci. Un uomo attempato che li avea sotto la sua disciplina
— il _lanista_ Cneo Mezio Felice — gli chiamò a nome ed in ragione
della forza e della destrezza a lui note, gli accoppiò, armandoli
di gladi taglienti ed aguzzi. Il loro contegno, di giulivo che era,
d’improvviso fu cangio. Ed Harpax guardò con occhio minaccioso l’emulo
suo Philoxeno. — Ed Antioco, il dace Proculo. — E Thytridi, il gallo
Lycon. — Ed Hanthrax, il bruno Polinice. — E Dromon, Poenulo il
cartaginese. — Ora inoltravansi. Or ritraevansi, evitando con arte le
percosse ed i tagli. — Thytridi fu il primo a ferir gravemente sul
braccio lo avversario. Invano egli diede uno sguardo pietoso allo
intorno. Chè, il popolo con urlo di belva, levando il pollice, gridava:

— _Habet._ — Lo ha preso!... Lo ha preso! —

Allora il misero porse il collo al compagno che glielo segò. —
Nell’atto, Proculo, facendo un salto di fianco per isfuggire il colpo
che Antioco gli aveva assestato, mirando come fosse col corpo piegato
innanzi e scoperto, gl’immerge il gladio nel cuore. — Gli schiavi
cogli uncini trassero i cadaveri in una specie di fossa destinata a
ricevere le spoglie degli uccisi. Harpax e Philoxeno, destri e vigorosi
entrambi, si sforzavano indarno in falsi attacchi e in sorprese; si
avventavano, indietreggiavano, si ferivano, ma senza farsi gran male.
Ed il popolo plaudiva alle percosse che credea decisive e pur plaudiva
all’altro che aveva saputo schivarle. Alla fine Harpax afferra la
spada a due mani e si precipita sullo avversario. — Lo scudo ne rimane
spezzato e il colosso cade disteso per le terre. Philoxeno, che ha
ferito il braccio sinistro dal fiero colpo, gli è sopra e gli punge
col coltello la gola. — Le donne s’impietosiscono di quel caduto che la
sventura colpiva ed alzano la palma, gridando:

— _Non habet!_ — Sia salvo! —

Allora quegli ch’era già presto a far da carnefice al compagno — il
quale era forse suo amico — gitta la spada, si curva, solleva di terra
lo sciagurato e lo consegna fuor dell’arena ai destinati a medicar le
ferite, per conservarlo ad altri cimenti.

Dromon e Poenulo si corrono dietro per l’arena. Grondano sangue e
sudore. Si arrestano. — Si guardano con occhi di tigre e si avventano.
— E l’un l’altro ferisce, aprendosi nel fianco e nella coscia due
piaghe profonde. — Sono anch’essi perdonati e vanno via.

Entrano sulla scena Curzio, Charino, Ballion, Prisciano e Curculio.
Sono ignudi, o quasi, e armati di coltello e di lancia. Dal _Catabolus_
escono orsi e cinghiali. — Da una porta, due tori. — Ad una correggia
di cuoio che gli cinge nei fianchi è legata una corda che stringe il
collare di due molossi. Due pigri bufali erano siffattamente allacciati
a due lupi. Gli urli delle bestie feroci e le grida dei bestiari
intronano l’aere.

— La dea Libitina oggi sarà satolla, o Popidio.

— Stragi e omicidi, ecco i trastulli dei tempi!

— Per cotal gente l’arena è il patibolo. — Vita di delitti. — Morte
spregevole.

— Ecco perchè non destano nel cuore alcuna pietà. — E lo sanno. — E ne
fanno soggetto di beffe. — _Sanguis venalis!_

— Ora, colui — di cui la statua equestre è sull’arco a trionfo — si
è fatto lanista, ed ha i suoi accoltellanti _postulatitii_, sempre
pronti a combattere e a morire pei suoi gusti e alla richiesta della
plebaglia. E gli nudre della _gladiatoria sagina_, perchè quella forte
razione di carne gli faccia meglio vigorosi ed abbiano maggior sangue
da spandere.

— Ma tu vedesti nell’Urbe i figli di razze illustri scendere nella
lizza per guadagnarvi il plauso — che omai è serbato alle sole vergogne
— e il frusto di quattromila denari per anno.

— Gli udii pur anche prestar giuramento _uri, vinciri, verberari,
ferroque necari_. — E, gl’infilzi Plutone col suo tridente! meritano
bene il fuoco, le catene, le verghe. — La morte di spada è troppo
nobile per essi.

— Pur mira quel Thytridi che incurante è appoggiato al muro del podio.
L’ho veduto in parecchi ludi e credo sia già scampato da sessanta
vittorie. — Ha il cuoio ben duro, o Sestilio, eh?

— Parmi! — E in Capua ve n’ha pur molti che, ricevuta dallo edile
la palma della vittoria e appesa al loro fianco la spada di legno,
passeggiano sciolti dai doveri della loro professione. Ed uno ne vidi
che in una solennità avea sul capo la _lemnisca_, la corona di fiori
intrecciata da bende. È l’onore più grande cui possano aspirare. —

Intanto che i due amici parlavano, ed altri parlavano. Quale
battaglia! Il rumore di chi combatteva, il cozzo delle armi, le grida
degli sbuzzati e dei moribondi, il mugghiar delle bestie morsicate
e morsicanti, il sangue che spargevasi nell’arena, producevano nel
pubblico una quasi ebbrezza che non si può descrivere. Pareva che gli
spettatori ardessero di combattere; perchè si spenzolavano dai loro
posti, ed urlavano come belve, e gesticolavano come briachi.

D’un tratto altri attori entrano nella scena — due leoni di Africa —
un tigre delle Indie — una pantera pomellata. — Guardano allo intorno
coi loro occhi di fiamma, strisciano lungo il podio, si fermano,
si ripiegano, battono il suolo colla loro coda nervosa, passano
e ripassano la lingua irsuta e assetata sui loro denti aguzzi. Il
tigre si slancia sopra un cinghiale. Il leone azzanna un bufalo sulla
giogaia. La pantera in meno che non si dice ha sbranato un molosso
ed un lupo. L’altro leone — quantunque ferito di lancia nel ventre —
strazia colle unghie e colle zanne Charino. — Gemiti soffocanti. Grida
di dolore. Ruggiti di belve. Scricchiolio di ossa sotto i denti. Il
tigre e uno dei leoni escono dalla mischia ringhiando e satolli. Ed
errano per l’arena, portando nella bocca sanguinosa informi brandelli
di carne.

Sotto il gradino dove sedevano Popidio e Sestilio era uno in sui
venti anni che avea a sè vicino una giovane della stessa età. La
vide animarsi degli entusiasmi della giornata. Gli piacque il suo
naso sottile sur una bocca di corallo. Gli piacquero quei suoi occhi
estatici, selvaggi ed azzurri adombrati dalle chiome bionde, increspate
e copiose. A furia di guardarla sottecchi, s’innamorò delle belle linee
piene, svelte e proporzionate di quella leggiadra persona. La vide
parlare sovente con un uomo che sedevale a lato, e dentro ne ingelosì.
Non sapea dire s’ei le fosse fratello, marito, amante. Più volte volle
rivolgerle la parola per appurarlo. Borbottò qualche frase. — Ma, o
ch’essa avesse l’attenzione altrove, o il fracasso di sotto e di sopra
impedisse lo intendere, gli parve non aver raggiunto lo scopo. Ecco
ch’ella si leva in piedi e col suo corpo rotondo si appressa troppo a
lui. La sentì callipiga e vi posò su la mano convulsa, con una ansietà
voluttuosa. — La pompeiana gittò un grido e si ritrasse volgendo allo
sconosciuto lo sguardo irritato. Il vicino le domandò cosa avesse. E
saputolo, colla faccia che assume un geloso che non ama la divisione
nei beni da lui goduti, apostrofò il giovane:

— Chi fa ciò che non deve, vuole più che non dovrebbe! Insolente!

— Chi ti fa or censore dei fatti miei?

— Giù le mani e la lingua, o le mozzo! — Intendi? È la mia donna costei.

— Ah! la tua donna?... Sta bene! — Nessun uomo in Pompei te l’avrebbe
tocca, finchè tu lo avessi permesso.

— Oh! Sì?...

— Credimi, per Ercole! Sei un uomo ingegnoso. Ora la tua custodia muove
tutti alle prese. —

Il pompeiano non seppe patire il villano insulto. Brandì uno stile che
avea sotto la tunica, ritrasse colla sinistra la moglie, e vibrò un
colpo sul petto del giovane a nascondergli la lama nel cuore sino al
pugno. Il ferito gittò un grido gorgogliante, prosciolse le membra e
cadde morto sulle gambe di Popidio.

Uno a poca distanza, ch’erasi rivolto alle parole della contesa, disse,
levando le braccia:

— È Anicato che han morto! A me, voi da Nocera! —

Erano molti gli accorsi di quel paese alla festa. — Ognuno dal seggio
su cui si trovava, accorreva furioso, e pestando confusamente gli
assisi e i tranquilli, iva bociando:

— Morte ai pompeiani! Gli Dei ci aiutino. —

Ed anche questi infellonirono alla lor volta. — E i più forti che non
avevano armi alle mani, ghermivano i Nocerini e gli scaraventavano alle
fiere. E gli altri alle coltella. — Sangue nell’arena. — Sangue sui
gradini. — La confusione era immensa.

Intanto un uomo insatanassato vien barcollando tra i caduti e i
fuggiaschi.

S’imbatte con Popidio, lo teme avverso, lo ferisce, e va innanzi.
Questi cade nelle braccia dello amico. Trattolo a stento tra quella
calca, di peso, nel _deambulacrum_, lo posa per le terre e se
gl’inginocchia vicino. La ferita ricevuta nel petto era mortale.

— Plilia!... o mia Plilia!... mai più... —

E prese la mano di Sestilio e l’appose sulla piaga per arrestare la
emorragia che gli toglieva le forze.

— A Plilia tutto che mi appartiene. Una delle mie case... a te... in
memoria mia... O Plilia, ultimo amore e forte amore! — Prendi questo
_symbolus_ che racchiude la gemma... la testa di Bruto... guarentisca
le mie volontà estreme. — Affranca i due servi ancor schiavi...

— Iniquo il coltello che ti uccide, o amato Popidio!

— No!... Mi aiuta ad escire da questa immonda cloaca dello impero, ove
io era in ritardo. Veggo già i vasti orizzonti della vita nuova.... Vi
rimaneva — credilo — per lei... per te... Sento che le estremità si
raffreddano... La vista s’indebolisce... non veggo più... Un bacio e
l’ultimo... O Libertà... Italia!...

Era morto!

Dei Nocerini fu fatto empio macello. — Armi — sassi — unghie — tutto
usato per la vendetta dalle due genti. Ma vinse la plebe pompeiana che
aveva la festa in casa. Rari quelli che potessero fuggire o appiattarsi
finchè il furore scemasse. E i feriti, e gli storpiati, e il pianto dei
padri e dei figliuoli corsero nell’Urbe per chiedere vendetta a Cesare.
Il principe rimise la causa al Senato. — E il Senato ai consoli. —
E Vipsanio e Fonteio la ritornarono ai padri. — I quali vietarono
ai pompeiani lo aprir ludi gladiatori nello Anfiteatro per dieci
anni. Disfecero le compagnie degli accoltellanti fatte fuori legge e
sbandirono Livineio Regolo e i primi rissanti dalle terre d’Italia.

  _C. Sextilius Ampliatus Acutilio suo._

                                                           _Pompeis._

_Maximis et miserrimis rebus perturbatus sum._ — Popidio nostro non
è più. — Il coltello di un Nocerino lo uccise nello Anfiteatro. —
Non so dirti quanto ho sofferto e soffro. — Il suo a Plilia, unica
consolazione della sua vita. — Or, conviene ella sappia la tremenda
novella. A me manca il cuore di scriverle. Agisci a modo, ed evita a me
il doppio danno. _Quid futurum sit, nescio. — Vale._

  _Plilia Sextilio suo._

                                                          _Neapolis._

_Ego tamdiu requiesco, quamdiu ad te scribo._ Oh! il grande, lo
invincibile dolore per la morte di un essere amato!..... O Popidio....,
Popidio del cuor mio!... Misero! Sentisti tutte le sofferenze del fuoco
che non si spegne... tutte le morsicature del verme che non muore!...
Sono stata per tre dì senza vita esterna, ma pensando... e a lui che
non vedrò più. — Vieni, qui, o Sestilio, e piangeremo insieme. Vieni, e
potrò sopravvivere allo amico mio morto. —




LA STRADA.

SCENE NOTTURNE IN POMPEI.

=Anni di Roma 825 — Anni del Cristo 72.=


                           A GIUSEPPE LAVRIA.

                                 VIII.


Il giorno finiva — e il quadro che offrivasi agli occhi dei riguardanti
potea dirsi il più splendido che la fantasia di un poeta sappia mai
immaginare. Il sole dechinando celavasi dietro nuvole grandiose e
bizzarre, tinte di sangue. I suoi ultimi raggi infuocati baciavano le
onde quete del golfo ed indoravano le isole — formanti lo asserraglio
del Cratere — dall’Atheneum — il promontorio di Minerva — al capo
Miseno. Il mare immenso, confuso il suo limite coll’orizzonte e
scintillante ai riflessi di quella viva luce, sembrava la fornace
in cui i Titani facessero la fusione e la miscela dei loro metalli.
Vedeansi da lungi bianche vele prendere il colore di quella zona
candente ed accennare al porto, formato dal fiume Sarno là dove
sboccava nel mare, tra i paduli pompeiani e le saline di Ercole,
dinanzi lo scoglio da cui toglievano il nome.

Le vie della città cominciano per poco a farsi solitarie e chete.
Una fanciulla esce canterellando da una casa di gente doviziosa e
s’incammina verso la porta che mena all’oppido di Sarnus. Oltre il
_pomærium_ è un bosco ove una sorgente di acqua limpidissima aveva
riputazione di contenere proprietà salutari. Alla padrona era venuto il
capriccio di berne e la schiava obbediva. Un sentieruolo guidava tra
due verdi prati alla fontana, che gli alberi cuoprivano d’ombra e le
coppie amorose degli uccelli inneggiavano. — I sogni compongono le idee
di una mente giovanile, siccome le violette e le margherite sorridono
tra il fil verde delle erbe e danno tenere occhiate a chi passa.
Corista le ricambiava a quei fiori e deposta l’anfora, ricominciò il
suo canto distratta, ne colse un mazzolino e lo pose tra i capelli
e l’orecchio. Levatasi ed alzati gli occhi, vide presso il fonte,
appoggiato al tronco di un pioppo, un giovane vestito di una tunica
di colore oscuro, dagli occhi azzurri, dalla barba nascente e dalla
copiosa capigliatura bionda, i cui riflessi così bene si maritavano a
quelli dei verdi rami che si curvavano sulle acque. Altre volte aveva
veduto quel giovine nel tempio di Venere e nello Anfiteatro, ed aveva
dovuto chinar le sue luci dinanzi allo infiammato sguardo di lui. Molti
pensieri arruffati le fecero tremante il cuore e arrestossi. Ma il
giovane, indovinandola, con voce soave le disse:

— I miei presentimenti non mi avevano ingannato. — Iside m’inspirava
che in questo luogo sì bello avrei trovato felicità. — Ed io sono
grandemente lieto di qui vederti, o fanciulla, e di poterti parlare.

— E quale interesse ti spinge verso una povera figliuola di Corinto che
i propri parenti hanno venduto?

— Quello che il piccolo Iddio alato mette nel sangue degli uomini
dell’arte mia allo aspetto del bello. Quando primavolta ti vidi, mi
sembrasti apparizione di cielo. — Ed ebbi sempre da quel giorno la
mente piena di te. — E nella casa di Scauro ho dipinto una Venere che
tutto ritrae dalla soave immagine tua.

— Lusinghieri i tuoi detti. — Dallo accento non sembri di queste
contrade. Quale il tuo nome? Ove nascesti?

— Olympio. — Di Athenas. — Di poveri parenti. — Qui venni chiamato
dalla fama per le pitture decorative. E pingo sulle pareti xysti,
foreste, colline, case di piacere ove si giunge a traverso un lago,
piscine, gente che va in battello, che caccia, che vendemmia, e
paesaggi fantastici con animali e con alberi. Pingo pur torri colle
cime verdeggianti di edere e di lauri; pergole sotto le quali gironzano
fagiani, pavoni e pernici; viali di bosso e gruppi di mirto tarentino;
e tra le aiuole di fiori, fontane dalle forme capricciose e bizzarre,
adorne di conchiglie e di maschere di marmo; portici con ricchi mosaici
e con cortine azzurre per guarentire dai raggi del sole; tempietti
ascosi tra gli oleandri della Laconia e le rose di Preneste; sedili
sormontati da un orologio solare sulla punta di un dirupo; statue di
filosofi, delle muse, delle iddie e di Priapo — interprete, stimolo,
dolcezza, delizia di questa razza orgogliosa arricchitasi colle spoglie
del nostro misero paese. —

Qui Olympio si strinse colla mano la fronte, quasi volesse premervi un
pensiero affannoso; quindi, rasserenatosi alquanto, continovò:

— Vedi, o Corista. Un quadro non finito ha per me un indescrivibile
incanto. Lo artefice gode nella inquietezza a nelle pennellate che
creano la composizione.... Ed io or mi pasco di una gioia secreta nel
dirti che ti amo, nel mirare questo abbozzato dipinto, che io non già,
ma tu puoi terminare. — E godo..... E temo..... —

La fanciulla si fece rossa di bragia e, tendendogli la mano:

— Sii il benvenuto nel mio cuore, o Olympio. — Tu non vorrai farne il
tuo trastullo, spero. — Vivo in umile stato presso la moglie di Pacuvio
Bleso. La mia padrona Aquilia mi ama. — Serba questi fiori del bosco
per memoria mia.

— Grazie, o amore. — Sempre qui, sul mio petto. —

E nell’atto che Corista appressò l’anfora al fonte per empierla,
il giovane artefice le baciò amorosamente la tempia. Ed insieme
s’incamminarono verso la vicina porta della città.

Un soldato colle gambe in croce si appoggiava al pilo. Altri quattro
stavano ritti o seduti presso la stanza di guardia sotto l’arco. Poi
che i due giovani furono passati, la sentinella fece un gesto col mento
teso ai compagni.

— Rata ne accenna che è una vestale.

— Per Ercole! — La non farebbe spegnere il foco sacro per la faccia
tagliuzzata del povero Sammanara.

— Lieto compenso e cinquanta colpi di verghe, o Kinnamo. Il suo
incesso, i suoi lineamenti mi ricordano una mia ventura nelle Gallie.
Grazie, o Mnemosine, del dono tuo! —

Incontro ai due amanti veniva barcollando un avvinazzato. Era scalzo ed
aveva la tunica lacerata. — Appena li discerse, cominciò ad urlare con
voci smozzicate:

— Là! Donde venite? — Hai fave o lupini cotti? Ah! Rapisti la mia
Sabina tu! Ridalla al misero Bibulo che la piange perduta. — Ti darò
in cambio un’olla con porri e testa di montone. — Ah! non intendi?
_Damnese bibimus, puer?_ Ti apprenderò il latino io! —

E brandendo un nodoso bastone sul quale appoggiavasi, si piantò
loro dinanzi. — Corista, impaurita, si strinse alla persona del suo
protettore. — Il quale, afferrata la mazza nella punta, la scosse sì
forte che il beone andò per le terre lungo disteso.

— Ah! tu Vuoi ch’io riscaldi la punta del gladio nella tua
iugulare?.... I piedi!... Chi mi tiene pei piedi! Aiuto! Feci le prime
armi con Cesare.... Rispetto al cittadino romano..... —

Gli amanti, affrettato il passo, furono ben presto sul margine presso
la porta della casa di Bleso.

— Salve, o divina creatura. — E il tuo nome?

— Non tel dissi? — Corista. — Quando ti rivedrò?

— Presto. — E un bacio sui tuoi begli occhi. — Vale. —

E l’una entrò nel vestibolo. — E l’altro seguì la sua strada. —
Sulla rivolta, ecco che s’imbatte con cinque o sei giovanastri, quali
coperto il capo di un pileo, quali di un galero di lana, che ridevano,
parlavano alto e parevano esciti anch’essi da una cena inaffiata oltre
misura. Sghignazzando entrarono in una taverna vinaria, ove per solito
vendevasi vino annacquato. E per tale oltraggio fatto al figliuolo di
Giove e di Semele, ruppero i calici e le anfore del povero _ænopolus_
e tirarono innanzi. — E vista mal ferma la porta di una bottega
di _salsamentarius_, la ruppero e sparsero per le terre i pezzi di
maiale affumicato e cotto. Così pure dispersero i budini di un povero
_botularius_, che corse dal piano superiore, ma troppo tardi, per
salvar le sue robe dal mal governo di quei beoni.

Dinanzi il tempio di Romolo s’imbatteva con alcuni, seguiti da schiavi
e da liberti, schiaranti la via con torce o con lanterne di bronzo,
rotonde e chiuse coi vetri. — Gli è che al tramonto, detto vesper,
erano succedute le prime ombre, che addimandavansi _crepusculus_;
quindi era giunta l’ora dell’accensione delle lampade, _prima fax_;
una delle otto suddivisioni delle quattro veglie che costituivano la
notte romana. — Lungo tutte le vie vedevansi luccicare tizzoni ardenti,
lanterne di sottili foglie di corno, di tela oliata e di pelle di
vescica.

Era raccolta una eletta brigata di amici nella casa di Pacuvio Bleso. —
Arricchito dal traffico colla Grecia e coll’Asia, aveva speso migliaia
di sesterzi per abbellire il suo nido. La porta di quercia, ornata
nelle fasciature di _bullæ_ — grossi chiodi di bronzo — aprendosi,
mostrava nel _prothyrum_ — un magnifico mosaico di piccoli cubi di
marmo bianco su cui campeggiava in nero un timone da triremi incrociato
con un caduceo. — A dritta e a manca erano la cella del molosso,
custode rabbioso colle zanne e colla voce; — e quella dell’_ostiarius_
— il portiere — che, armato di lunga verga, chiedeva il nome dei
visitatori. Ascendendo pel piccolo corridoio, un uscio interno apriva
l’adito sur una bella corte quadrata, adorna di colonne doriche di
stucco bianco e tinte in rosso verso la base; le quali formavano un
elegante portico, comodo per l’ombra e per le comunicazioni interne. —
Chiamavasi _atrium_, perchè cotesta disposizione architettonica la fu
inventata in Hatria, repubblica primigenia della nostra nobile Italia,
sedente sul mare, tra gl’Interamni e i Picenti. — Davasi il nome di
_impluvium_ al bacino di marmo di Luni nel cui centro zampillava la
fontana, e a tutta la corte quello di _cavædium_. — Nell’angolo era il
_puteal_, margella di marmo, depositario dei fulmini di Giove, luogo di
devote espiazioni nei tempi etruschi, e più tardi margine del pozzo da
cui si traeva l’acqua pluviatile dalla cisterna.

Dall’atrio si entrava nel _tablinum_, ov’erano gli archivi della
famiglia. E nel _triclinium_, stanza due volte più lunga che larga,
ricca di pitture; di colonne variopinte; di mosaici litostrati; di
statue dorate sopportanti lampade per la notte; di letti triclinari
di bronzo, a meandri di argento incrostato nel metallo, e coperti di
soffici cuscini di piume, chiusi in una stoffa di lana a ricami d’oro.
Eravi pure l’_abacus_, mobile di bronzo, situato presso la parete
centrale, in faccia ai triclini, sui quali i Pompeiani si sdraiavano
a metà nel banchettare, appoggiando il corpo sul gomito sinistro.
L’abaco, nei giorni di festino, sopportava vasi preziosi di vetro e di
argento, adorni di rilievi col nome del padrone e colla cifra del peso;
non che patere e coppe di cristallo, di vari colori. Il ricco mobile
abbellivasi di fasciature e di placche di bronzo cesellato, aventi nel
centro maschere sceniche rilievate di argento; e sopra, statuette di
rinomati artefici greci.

I corridoi laterali, chiamati _fauces_, menavano alla cucina, agli
alloggiamenti degli schiavi e dei liberti, ed al piano superiore, ove
abitava la famiglia.

In fondo dell’atrio aprivasi un portico più lungo che largo, detto
_peristylium_, che uno spesso cortinaggio di porpora riparava dai
raggi del sole e dalle intemperie. Quivi maggiore la magnificenza e la
raffinatezza del lusso. Fra ciascheduna colonna è una statua di marmo.
— Le pareti sono rivestite su tutta la loro altezza di tavole di rosso
o di giallo antico. Le colonne del portico sono di stucco, simulanti
l’oltremare, con leggerissime venature di piriti di ferro. Il pavimento
rappresenta un labirinto in mosaico, fasciato da un meandro greco.
La soffitta è divisa in compartimenti di legno col corniciame dorato.
Nel centro del porticato le cortine sollevate aprono gli sguardi sullo
xysto, giardino pieno di verzura e di fiori, che ha pur lauri e rose
dipinti sulle sue mura, con uccelli svolazzanti o fenicopteri posati
sulle loro gambe altissime.

Sul lato occidentale del peristilio, un corridoio — avente sulla parete
di prospetto una icone pei Dei Penati — metteva a diritta nelle due
camere del bagno, ed a sinistra nello appartamento delle donne, ove
queste abitualmente si tengono durante il giorno per lavorare o per
ricevere le loro amiche. Coteste sale si addimandavano _æci_, e sono
dipinte a bizzarra architettura, con quadri rappresentanti Lucrezia
che fila, e Penelope che tesse, ed Achille con Deidamia, e Venere
nascente dalle spume marine, e Diana cacciatrice, tra uno zoccolo di
fondo nero con busti di donne a coda di delfini, o di uomini terminanti
con ornati capricciosi; ed un fregio di fondo pur nero, su cui sono
fogliami sviluppati in volute con fiori, dal cui calice esce tutta
la parte anteriore di un leone, di un orso, di un elefante. Mediante
una scala di legno si saliva ad un piano superiore, ove solevasi
intrattenere i bambini colle loro nudrici. Sul lato della casa era una
stanzuccia con armadi contenenti i papiri. — Su quello della strada,
il muro sopportava un terrazzo pensile, detto _solarium_, lungo quanto
l’_æcus_, con larghe finestre guernite di vetri, per garanzia del
freddo invernale, e di tele trasparenti per velare il sole di estate.

Sul piano terreno dell’atrio, come su quello soprano, aprivansi le
_cubicula_, stanze da dormire, più o meno adorne, secondo le persone
cui erano destinate; e sull’angolo, nello incavo praticato nella parete
dalla parte del capo, posava il piccolo letto di _citrum_, specie
di cipresso salvatico di Mauritania, di soave odor resinoso, o di
terebinto, o di ebano, o di noce, o di quercia, i più ricchi sostenuti
da piedi di bronzo e gli altri di ferro. I cuscini erano di piume di
cigno, o di lana, ed avevano superiormente coperte di grosso panno o di
pelli di talpa ricucite.

Dimore simili a questa di Bleso per vastità, per eleganza, per
magnificenza erano molte nella città di Pompei. Quella di Olconio
Prisco. Quella di Pansa. Quella di Sallustio. Quella di Cornelio
Rufo. Quella di Aulo Allazio. Quella suburbana di Tullio Cicerone, e
del ricco negoziante greco Agatocles. Quella di Mevio Apulo, ov’era
il fauno danzante in mezzo allo impluvio ed il celebre mosaico
rappresentante la battaglia di Alessandro il Macedone contro Dario
persiano. — Ognuna di esse è spaziosa quanto il podere solcato dallo
aratro di Cincinnato. E la casa del console Valerio Poplicola — il
quale s’ebbe tal soprannome dal popolo, perchè dopo la cacciata dei
re tolse le scuri dai fasci dei littori, ed i medesimi fasci di verghe
faceva deporre ai piedi della plebe allorchè si aprivano le assemblee
— poteva comodamente essere edificata entro lo impluvio pur dianzi
descritto. E la dimora di quel Catone — che non meno illustrò Utica
colla sua morte, che Roma per la sua nascita — era esigua quanto i
bisogni che quel savio si permetteva. — Cotesti esempi risplendevano
in antico. L’aquila romana non aveva spinto ancora il suo volo
glorioso su tutte le contrade dell’universo. Il Senato non accolto
i re supplichevoli sulla porta del Campidoglio. Nè i generali della
Repubblica distribuito i regni ai loro clienti. — Nei remoti tempi la
riputazione della virtù imponeva un sacro rispetto alla piccola dimora
di un grande cittadino. Nei tempi di cui discorro, il lusso della casa
dava fama al padrone, e si era riveriti per la fastosa ospitalità, per
la magnificenza degli arredi, pei sontuosi triclini, per le colonne dei
cortili, per le pitture delle camere, e pei marmi preziosi e rari che
coprivano le pareti ed i pavimenti.

Pacuvio Bleso era un uomo in sui quarant’anni. Un giorno, preso dalla
malinconia, decise di ammogliarsi. — Diede allora un vale alle gioiose
e procaccevoli avventure, e si sacrò intero ad Aquilia, donna dallo
spirito fecondo e svariato. Era della famiglia Rufa, e nel vederla
ciascuno diceva: «Io la preferisco ad ogni bella.» La sua persona era
il velo trasparente di un’anima pura e soave. Buona cogl’inferiori,
benevola cogli eguali, le sue amiche non l’avevano mai disertata,
come colei che non sapeva urtare nelle individuali vanità, causa di
veri dolori nelle donnesche coscienze. Se nelle intimità avvenivano
involontari disgusti, un suo sorriso, un suo sguardo, una parola
gentile toglieva il peso da ogni cuore e diradava ogni nube.

In quella sera una dolce armonia, un cinguettìo di voci, una splendida
illuminazione escivano dal peristilio, le cui cortine erano aperte dal
lato del giardino giuncato di fiori. L’allegra brigata erasi aggruppata
e disposta con leggi intelligenti. Numilla, figliuola di Osculo, aveva
nel disegno e nella espressione dei suoi lineamenti, quel tipo di greca
bellezza, che le statue a noi tramandarono. Il naso formante una linea
colla sua fronte; gli occhi che aprivano sotto i lunghi cigli neri le
loro profondità di colore azzurro; il collo svelto, l’aitante persona,
le tornite proporzioni palesate dalle graziose muovenze delle membra,
facevano di lei la più avvenente fanciulla che fosse nella Colonia.
Il padre suo, facoltoso, augure e da poco assunto al sacerdozio,
l’amava quanto le sue pupille ed intendeva maritarla ad un cavaliere
romano nell’Urbe. Domna, la figliuola di Agatocles e di Ulissia,
abitanti nel sobborgo Felice, era del festoso ritrovo. La giovanetta,
bruna di carnagione, un po’ paffutella, e soltanto leggiadra per la
sua freschezza. Eravi Arrunzia, moglie del questore Vinicio Oveo.
Sedeva a lei da presso Charmis, il famigerato medico di Massilia dei
Focesi, il quale le parlava in greco, non dovendo un distinto della
sua professione parlare altra lingua, quantunque sapesse che la sua
interlocutrice fosse romana ed ignara. Stranezza della moda, la quale
costringeva ad aver fede in uomini ed in cose — costosi ambedue — e
per sopra ciò inintelligibili! Nè vi mancava una delle migliori amiche
di Aquilia, la innocente, la buona Lollia Valeria, un flore profumato
dalla virtù. Non era bella, ma aggradevole. La bocca grande, le
labbra grosse. I denti regolari, bianchissimi. Lo sguardo attraente,
inesprimibile a traverso la frangia dei suoi lunghi cigli. Avea sedici
anni quando la doventò sposa ad Anneo Nella Ceriale, uom grave, duro
e romanamente marito. Laonde s’ella sentiva il sole nella testa, negli
occhi, nel cuore, egli il freddo calcolo, le ambizioni municipali e i
momentanei capricci. — Erano corse dicerie su cotesta disparata unione.
Gli è che un giorno la giovanetta si avvide che la sua grazia, l’olezzo
dell’anima sua, i cantici affettuosi della sua mente erano accolti con
svagato sorriso e non assaporati. La povera delusa pianse, si nascose
e disperata chiedeva la morte. Ma una situazione nuova venne d’un
tratto a sorreggere la idealità del primo istante delle sue nozze. Un
pegno doloroso, gradito potea consolarla e riallacciare i legami che
la sua dignità di donna offesa le aveva fatto rompere e che stimava
rotti per sempre. Già Pollutia, di L. Cornelio Orfito, era passata col
vagabondo suo cuore ad altre ebbrezze. Nella solitudine di una valle
presso Sorrentum erale nata Flavilla, lo anello di unione tra lei e il
divagato Ceriale. La emozione nuova e nervosa aveva vinto lo egoista.
Lollia, augurandosi una trasformazione duratura per lo avvenire,
consentì a riedere in Pompei. E mostrandosi pubblicamente lieta, i
pettegolezzi stanchi si erano acquetati per lo alimento esaurito.

La giovane Corista suonava per intanto l’arpa nello xysto, sposando
la vibrazione delle corde all’armonia della voce. Essa cantava un
inno all’Amore, nello idioma natìo; e la musica, e il dolce accento,
e la inflessione vocale, tradendo lo ardore secreto dell’anima sua,
innondava di delizio quel luogo, sino a rapire il pensiero e a deporlo
incantevolmente nelle valli amene della Tessaglia, e nei sacri boschi
di mirti e di aranci in Pafo. Pochi, e ad intervalli, badavano alla
bella schiava. La quale parea cantasse per proprio diletto, e lasciava
correre agili dita sulle corde, come avrebbe fatto correre i piedi
sur un prato verdeggiante. Più degli altri Numilla — allorchè nessuno
la interrogava — sembrava viaggiasse cogli occhi nelle regioni ideali
dell’armonia. Essa piacevasi di quest’arte che già s’insegnava come
complemento di accurata educazione, da che Silla avevala nobilitata in
Roma collo esercizio del canto.

La immaginazione, prigioniera delle altrui volontà — appena sente
chiasso e tumulto — rivoluzionaria d’istinto — riprende la sua
indipendenza e il suo isolamento, si seppellisce nei propri capricci,
vola sulle ali dorate di un sogno, o si raccoglie in un pensiero
delizioso; e i suoi accenti ricordano i luoghi secreti e cari ove si
è vissuto la vita di un affetto, ed aprono allo sguardo dell’anima le
raggianti dimore che la lusinghiera speranza apparecchia dopo il sonno
della materia. — La bellissima pompeiana era in mezzo a fantasmi tristi
e graziosi evocati dal proprio cuore, e il suo sguardo fisso e profondo
or volgevasi alla schiava gentile, or alla padrona del luogo. La quale,
leggendo nel pensiero quello che le labbra non ancora dicevano, si
curvò verso di lei, le prese amorosamente la mano e le disse:

— Numilla, la sorte della misera schiava è un errore del fato. Hai
ragione. Convien ripararlo. La delicatezza dei tuoi sentimenti
l’ha fatta libera. — Corista, fletti il ginocchio dinanzi alla
tua liberatrice ed amala come sempre mi amasti, o povera figlia di
Corinto. —

La nobile giovanetta — nello udire così delicatamente tradotto il suo
secreto pensiero — sentì più profondo il fuoco di quel sentimento in
cui bruciano le anime martirizzate dalla sventura, e pianse. E più fu
commossa nel sentir lacrime e baci bagnar le sue mani. Era la bella
greca ch’erasi gittata alle sue ginocchia e spandeva a riprese le
sue carezze or sulla padrona or sulla sua amica, ripetendo nelle due
lingue:

— _Libertas!_ Ἐλευθερία! _Libertas!_ Ἐλευθερία! —

Quindi, levandosi e volgendo la testa indietro, incrociava le mani sul
petto ansimante e diceva:

— O Dei della mia patria! Quante felicità in un sol giorno! —

Gli astanti furono più o meno scossi di quella scena a seconda dei loro
caratteri. Charmis però più di tutti, malgrado le abitudini austere
della sua educazione, che gl’imponevano le reticenze del cuore. Laonde,
appressatosi alla signora del luogo, aggiunse alle parole degli altri —
ch’erano meglio frasi che sentimenti:

— Grazie per lei, per tutti, per me alla grande generosità del tuo
nobile atto. —

In fra tanto che tali emozioni accadevano nello interno, eranvene e
di più vive anche al di fuori. Olympio, in preda a quei pensieri che
indìano un’anima — ed in particolar modo quella di un artista — era
appoggiato colle spalle ad un muro rimpetto ed avea fra le dita una
rosa, la immagine apparente della persona amata. Si tolse dal capo una
corona contesta di erbe odorose e di fiori di granato, l’appese con un
chiodo presso la porta della casa di Pacuvio e tratto uno stile, graffì
queste parole sullo intonaco:

— Corista. — _Vale, mea sava. — Fac me ames._ —

Indi si allontanò. — E sentì nel suo petto quelle cose viventi, sublimi
e sacre ai cuori che le racchiudono — e troppo spesso vacue, ridicole
e misere alle menti profane, verso le quali sono trasportate dal giuoco
indiscreto del fato.

Aveva scambiato pochi passi, quando sentì dietro di sè un confuso
rumore di voci. — Si volse e vide una luce rossastra sul tetto della
casa pur dianzi lasciata. E l’_ostiarius_ suonare una campana ed
urlare:

— Il fuoco! Il fuoco! Chi passa ne avverta la coorte! Sia prevenuto il
prefetto dei vigili! È la casa di Bleso che brucia! —

Olympio corse anch’egli gridando a tutta gola come un forsennato. —
Quanti incontrava erano presi dalla stessa smania. — Ed ecco accorrere
dal posto vicino alle Terme una frotta di affrancati, condotti dai
loro tribuni. — Avevano nelle mani i _pubblici siphi_; le scale; le
secchie; le spugne e gli stracci legati sulla estremità di lunghe
aste; le accette e i graffi di ferro annodati sulle punte di grosse
corde. Cotesta gente penetrò nella casa alla rinfusa con Olympio. —
Lo incendio, sorto nella cucina, lambiva colle sue lingue di fiamma
la soffitta dell’_œcus_. — Le donne e i fanciulli piangevano. — Gli
schiavi domestici — invece di occuparsi di quel sinistro — usavano le
scuri per abbattere gli usci che racchiudevano le provviste. — Olmasio
— il _tricliniarcha_ fedele già affrancato dal suo padrone per la sua
virtù — armato di un nerbo di bue, faceva piovere una grandine di colpi
sulle braccia e sulle teste di quei ribaldi e di altri ancora venuti
di fuori per profittare di quel disordine ed esercitare impunemente le
loro rapine. Le grida di dolore, le cose cadute, lo agitarsi confuso
di chi fuggiva impicciavano potentemente i soccorsi e gl’intelligenti
lavori comandati dai tribuni. — Ma il prefetto dei vigili, Martorio
Primo, architetto della città, e lo edile Q. Postumio Proco, accorsi
cogli operai, coi _saccarii_ — i facchini da grano — e coi propri
liberti, spensero ben presto il focolare dello incendio, senza aver
bisogno di abbattere il terrazzo pensile ed una casuccia vicina — come
altri già proponeva — a fine d’impedire che il flagello si distendesse
più oltre nella città.

Olympio, penetrando cogli altri nella casa minacciata, corse per
le stanze come un limiero per togliere dal pericolo la fanciulla
che amava. E la trova tra le braccia di Cillica — la figliuola del
tricliniarca — ambedue impaurite e bianche, quasi statue di marmo. — Il
riflesso della fiamma parea coronasse di un’aureola raggiante le loro
capigliature.

— Vieni! Salvati, Corista. —

E la prese per mano. — E la condusse verso la strada. — E sì dolce era
la scambievole loro emozione, che camminarono, egli senza dir altro,
essa senza rendersi conto di quel che faceva. — Colà giunti:

— Vedi, o amore, quello che avea graffito per te. —

Al lume delle vampe essa lesse, si strinse al petto dell’amico del cuor
suo e mormorò nella vertigine dei sentimenti diversi:

— Io sono liberta... La buona padrona,... ed una giovane, bella come
Venere pudica,.... cancellarono con atto generoso i destini della mia
vita.

— Oh! I Giunoni sieno ad esse propizi. E i Geni allontanino ogni
disastro dalla casa di Bleso. — Correndo in cerca di te, vidi il danno
non grave. Il fuoco sarà presto spento. Non così quello che mi brucia
il sangue di un amore impetuoso, esclusivo, che ha preso possesso di
tutto me stesso. —

Anch’ella ardeva di quella fiamma. Ma non lasciò fuggire una sola
gocciola della lava che bolliva nel suo cervello. — Era stata molto
infelice. — La emozione nel sentirsi restituita d’un tratto la vita
dell’anima e la vita del cuore, che la crudeltà dei parenti le aveva
niegato, la soffocava. Grosse lacrime le sgorgavano dagli occhi e le
bagnavano il viso. — E l’altro:

— Celeste creatura! — Musa dell’arte mia! — Nati di uno stesso sangue,
l’altrui pietà fece eguali le nostre condizioni. — Come te io sentiva
il vuoto nei luoghi profondi. Come te or li sento colmati da un
sentimento che nega il patto allo spazio. — Consenti tu a chiamarmi...
fratello? —

La giovanetta lo guardò fiso, gli fe’ cerchio colle sue braccia e,
soffusa di subito rossore, balbettò con voce lenta e indistinta:

— Sposo mio!... —

Lo amante, coll’anima innondata di gioia, prese colle due mani il
capo, ch’essa aveva nascosto sul petto di lui, e lo cuoprì di un bacio
di fuoco. Le vere nozze — quelle dell’anima, cui Dio assiste — erano
compiute. Il rituale della legge al domani.

Olympio e Corista si separarono.

La signora della casa e le persone ch’erano venute la sera per
visitarla, accompagnarono questa presso una famiglia amica. Lungo la
via, lamentando lo accaduto ed offrendo consolazioni, ognuno stringeva
sotto la tunica un arnese di argento o di avorio, atto ad allontanare
il fascino ed a distruggerlo.

Intanto Pacuvio, oltre i pensieri che lo tenevano inquieto, e gli
ordini che dava ai suoi servi per lo sgombero delle suppellettili
dalle camere minacciate, aveva il sopracapo di vedersi attorniato
dai proprietari delle case vicine, i quali erano corsi a computarne
il prezzo con lui nel caso che le fossero incendiate. E due vecchi
liberti, arricchiti dalle usure — Cancer e Toctucio — ne addoppiavano
lo esagerato valore, per poi trarne il loro pro, comperando di proprio,
o dividendo coi padroni il grande lucro che avevan saputo ritrarne,
mercè loro, dall’altrui sventura. — Cotesta iniqua speculazione era
stata inventata di corto da Crasso, il censore, lo amico di Bruto
e di Cicerone, che pur dicevasi amico alla libertà e alle antiche
instituzioni della gloriosa Repubblica Romana.

Erasi fatta l’ora del _conticinium_. Laonde, ai tanti rumori confusi
e a quel grido disordinato che aveva empito l’aere sino a quel
punto, avrebbe dovuto succedere un po’ di silenzio. Ma in una città
meridionale lo strepito notturno affievolisce; si tace in qualche
strada; pure onninamente non cessa. — In una storta viuzza, le cui case
avevano sull’uscio lanterne di terra cotta di forme bizzarre, erano
donne assise, o sghignazzanti in piedi e bisticciandosi a proposito
di nulla, poco vestite da un leggero velo di Coa, e qualcuna anche
sdegnosa di quello incomodo velo. — Erano le sentinelle avanzate della
Venere Pompeiana. — Continuando più in giù, traversata la strada
della fontana, il cui bacino è arrotondato, presso una _cauponula_
— locanda di poca importanza — era un soldato allor allor arrivato
dall’Urbe, il quale cercava di metter pace fra tre male femmine che
coi capelli discinti, e gli occhi sbarrati, e le voci alte e roche
se lo disputavano a vicenda con graffi e villane ingiurie. — Vibio
Restituto, che aveva fatto lungo cammino e intendeva riposarsi e —
dalla iscrizione lasciata sulla parete della camera dove dormì, —
pareva preso di fedeltà per la urbana sua, perduta la pazienza, disse a
Clodio — commilite e compagno di viaggio che erasi tratto in disparte —
una breve parola. Lo effetto fu prodigioso. Una secchia d’acqua versata
su quelle furie le rese chete d’un tratto e lontane.

Nelle vie vicine erano ubbriachi che misuravano il selciato coi loro
piedi vacillanti, e si appoggiavano sur un bastone resinoso già spento,
o colle mani aperte, sui muri. — Uno diceva:

— _Ego monere te possum, Miccio. Corrigere non possum._ — Quante volte
dissi allo stomaco: — Per Ercole! Finirai per bruciarmelo il povero
cervello!... E come ho a reggere io che sono _tractator_ nelle Terme
al calore del _sudatorium_, massando e frizionando i bagnanti? Ahimè di
me! —

— Ohe! Miccio. — E di che gracidi? Veramente non è cotesta la tua
strada... _Nemo flammis ustus amare potest._ —

Un altro, urtando in una di quelle pietre ovali — ponti di passaggio
nei grandi rovesci di pioggia — diè una capata solenne sul sasso. —
Alcuni mossero ad aiutarlo; chè il vino fa caritatevole e pietoso il
cuore. — Ma più si provavano a rialzar quel tapino, grondante sangue
dalla fronte rotta e dal naso pesto, e più il ricacciavano per le
terre, cadendovi tutti insieme.

— Ah! _Venus scratia!_ Credeva di aver afferrato il tuo crine biondo...
Ed urtai nel martello della porta del tempio. — Indietro, o beoni...
Lasciatemi tranquillo con lei. —

Non lungi di quella strada cessava il frastuono delle voci lamentevoli
ed irose. Due, sommessi parlavano. — Una vecchia ed un giovane.

— Di’, sei tu quello che ha graffito sul muro il monito della Iddia
pompeiana?

— Fui.

— _Odisti tu nigras puellas?_

— Mai no. Io le amerò sempre.

— Tiche ebbe pietà dei tuoi ardori. — Va sotto il _solarium_. —
Chiama a nome la mia padrona ed essa ti scenderà con un filo la chiave
dell’uscio. — Gli Dei ti sieno propizi! —

Il giovane accorse desioso. — Guardò in alto sul terrazzo sporgente. Un
lume pallido e poi più acceso illuminò i vetri. — Egli mormorò il nome
della donna bruna e salace che da parecchi giorni seguiva per tutto. —
La finestra si aprì. — La chiave discese. Aiutandosi col dito, trovò la
toppa. — Diè due giri e una spinta...

Un molosso senza abbaiare lo addenta e, agitando la testa, gli straccia
la tunica, l’afferra e la straccia ancora e lo tiene. Un vecchio aizza
il cane colla voce e con un bastone trebbia il mal capitato. Il quale
grida, e prega e fa sforzi violenti per fuggire. Ma il cane lo azzanna
per un piede. — Il marito geloso picchia come sopra un sacco di lana. —
E Tiche di sopra sorride. Perciocchè, egli avesse graffito sul muro le
seguenti parole:

    _Candida me docuit nigras odisse puellas._
    _Oderis, sed iteras. Ego non invitus amabo._
    _Scripsit Venus physica pompeiana._

Quando quei crudeli lo abbandonarono, lo scalzo di un piede e
zoppicante, corse verso la crocevia dalla fontana colla testa
di Giunone. Più in giù, alcuni ch’erano fermi dinanzi una casa
dell’angolo, udendolo lamentarsi, gliene chiesero la cagione.
— Il misero giovane — che aveva nome Virgula ed era padrone del
_mycopolium_, nella via di Mercurio, ove vendeva gli aromi in uso pei
sacrifici e pei funerali — stava per rispondere forse una menzogna,
quando vide escire dal prossimo usciolino alcune donne curiose dei
fatti suoi, imbellettate, vestite di toga maschile ed aventi sul capo
tosato una _picta mitra_. — Ebbe orrore del luogo e della compagnia
che il duro fato gli avea procacciato. Quantunque fosse pesto e ferito
in più parti della persona, rifiutò le offerte d’idromele e di vino
caldo da Svezzio, — quegli che aveva restituito lo albergo dello
Elefante. — E partì, appoggiandosi al braccio di Phœbo, unguentario di
sua conoscenza e cliente assiduo di quei luoghi, il quale lo avrebbe
accompagnato a casa, non lungi dalla propria.

L’ora del _concubitum_ — che i nostri padri chiamavano anche
_intempestum_, per indicare che il sonno fa intempestiva ogni
occupazione — era l’ora di veglia involontaria per alcuni uomini
destinati a fabbricare il pane ed a cuocerlo per la comodità dei
cittadini. Cotesti infelici obbligati al lavoro durante la notte, non
avevano intero il giorno feriale mai. Abbrutiti dallo eccesso del loro
còmpito, e dalla miseria; — coperti di cenci e lividi di frustate; —
colle pupille sanguigne dalla veglia e dal fumo del forno; — piccoli,
magri e rasi nel capo perchè i capelli non cadessero nelle impastate
farine; — pallidi e fatti anche più pallidi dalla farina di cui erano
coperti, parevano meglio spettri che uomini vivi. — E siccome per lo
più erano schiavi fuggitivi — e ne avevano il marchio di fuoco sulla
fronte — il padrone gli facea lavorare coi piedi chiusi da anelli di
ferro riuniti da breve catena.

Nelle _pistrinæ_ — così chiamate perchè sino all’anno 580 di Roma ogni
famiglia pestava il grano nei mortai in casa, e le donne fabbricavano
il pane — v’erano le _molæ jumentariæ_ e le _molæ manuariæ_ — cioè
— molini girati dalle bestie o dagli uomini. Nell’isola di Sardegna
sono in uso anche oggidì come ai tempi di cui queste carte. — Nel
centro di un atrio tetrastile, a giusta distanza, erano grosse pietre
cilindriche, simili a coni tronchi, riunite nella parte più stretta.
— Le pietre, porose e di colore grigio-nerastro, riposavano su una
breve base circolare. — La parte del cono fissa addimandavasi _meta
molendaria_ ed era congiunta alla base. La parte mobile del cono
superiore, detta _catillus_, aveva un’armatura di legno fissa presso
lo addentellato libero nella pietra; ed era congegnata in modo, da
sostenere il catillo e da farlo girare, dando al grano il passaggio
graduato per macinarlo, e far cadere la farina nel bacino circolare.
La quale era divisa nelle sue qualità da stacci di crine di cavallo di
varia finezza. — In una camera erano tavole orlate di pietra, ove si
amalgamava la pasta col lievito salato, che aveva il peso di ettogrammi
2.17 per ogni _modius_ di farina.

A diritta delle macine trovavasi il forno. Sotto, il cinerario. —
A lato, un’anfora spezzata, contenente il buono da impolverare la
pala, perchè infornando, il pane non vi si attaccasse. — Sopra l’arco
della bocca, fatto di mattoni, solevasene porre uno come chiave,
rappresentante un _phallus_; e spesso vi ponevano la iscrizione, _Hic
habitat felicitas_. — Presso una parete laterale dell’atrio aprivasi
un pozzo. — E siccome l’uomo fu, è, e sarà sempre un ente pieno
di stupidezze, di pregiudizi e di strane paure, consigliato dagli
interessati sacerdoti, il panettiere riconobbe nella deessa _Fornax_ la
patrona del suo mestiere. E le fece un altarino sul muro e le offerì
pane di fior fiore, acquatico, partico e picentino col mezzo dei suoi
ministri impostori e scrocconi, i quali lo mangiavamo per lei.

Quei miseri operai, cospersi di sudore, noiati dalle mosche, resi quasi
ciechi dal fumo, estenuati dalla fatica, emunti dai sacerdoti, erano di
notte assediati dal rifiuto dei trivi che lor vendeva lo amore per un
pugno di grano. — Gli è perciò che quelle donne erano distinte col nome
dispregevole di _alicariæ_. — Eppure! Quanti miseri schiavi saranno
stati debitori a quelle derelitte creature di un obblìo ben fuggevole!
Il quale, spegnendo per poco il tarlo della disperazione, dava loro la
forza di traversare gli spazi immensi sulle ali che il solo amore — o
ciò che a lui più somiglia — sa aggiungere!

Molte strade eransi fatte deserte. Non tutte. — Tratto tratto udivasi
sul selciato il rumore dei sandali col tallone ferrato di qualcuno
che passava. — Erano i _popes_, i sacrificatori vittimari, — altra
emanazione del sacerdozio — i quali andavano di celato a vendere ai
tavernai la parte dei buoi e dei montoni, offerti dai credenti agli
altari dei Numi, ch’erano di troppo pel triclinio del tempio. — Onde
quei luoghi si chiamavano _popinæ_ ed erano le botteghe di ristoro dei
villici e degli artigiani ordinari durante il giorno; e dei gladiatori,
dei soldati e degli schiavi lungo la notte. — Oltre le carni cotte vi
si vendevano lupini ravvivati nell’acqua salata; fave con cipolle e
lardo; ceci fritti; cavoli crudi a fette, conditi coll’aceto; polenta;
salcicce con aglio. — Tutte cose masticabili con pane di farina d’orzo
e di frumento detto _panis plebeius_. Un pranzo od una cena costava due
assi — dodici centesimi della nostra moneta. — Gli alimenti cuocevan
sempre ed in pubblico. — I banchi che sostenevano i fornelli — sui
quali erano incastrate tre pignatte di terra — vedonsi anche oggi
rivestiti di marmi di varia specie e colore. Sulla loro estremità è
un piccolo gradino che serviva ad esporre i commestibili e a tenervi i
vasi e le coppe. Una tavola di pietra, sulla quale si spezzavano o si
dividevano le porzioni, aveva i pesi ed una bilancia. Il padrone del
luogo era spesso un _lanista_ invecchiato o imbozzito, e perciò non più
adatto ai giuochi gladiatorii. Laonde selvaggio, brutale, vestito di
un _subligaculum_ — mutande di tela — o di una tunica lacera e sporca.
Una donna — detta _focaria_ — facea la cucina. Ed un’altra serviva gli
ospiti, sovente ladri, assassini, beccamorti e schiavi fuggiti dai loro
padroni.

Quella che forma l’angolo sulla via e sul vicolo di Mercurio era la
più frequentata, perchè essendo presso il Foro e la dimora dei ricchi,
chiamava a sè facilmente i servi che li trasportavano in lettiga e li
accompagnavano con lanterne alle loro orgie e li andavano a riprendere
all’alba ubriachi. Nel fondo della taverna sono due porte che danno
accesso alle stanze di ristoro. Grossolane pitture bruttano le pareti.
Alcune presentano oscenità. Un quadro accenna a due uomini che traggono
il vino da un grande otre di pelle che è sopra un carro a quattro
ruote, da cui sono stati sciolti i due muli. Uno mesce a un soldato; e
sotto è graffita la iscrizione seguente: _Da fridam pusillum_ — cioè
— dammi un po’ d’acqua fredda. — Altri giuocano ai dadi e cioncano.
— Altri ancora mangiano presso un desco con due sciupate, il capo
coperto dal _cucullus_, cappuccio soprapposto alla loro mitra. Festoni
di salcicce e di frutti sono sospesi al soffitto di quel dipinto
triclinio.

Tali le decorazioni del luogo. Tale la immonda brigata. — Un beccaio
provavasi a rilevare un sacerdote di Cibele caduto sopra i suoi
cembali produttivi. — Per poco in piedi. Poi per le terre ambedue.
— Un gladiatore mostra le nervose sue membra e brinda a Bacco che il
rese forte e invincibile nei ludi; e promette, nei prossimi, di ferire
Tigris, il numida, e mozzargli il capo, quantunque sia un buon compagno
e l’arteria del suo cuore. — La serva del luogo depone un _crater_
sulla tavola e col _cyathus_ misura il vino che mesce nei _majores
calices_. — Il feroce l’afferra per la vita, e con un ruggito gioviale
la bacia sulla gota. La vipera si volge e gli dà un potente ceffone che
fece ridere gli avvinazzati.

— Brava, Saïs. — Giù, un altro! — Tu puoi sbarbarmi, strapparmi i
capelli e mi piacerà per lo amore dei tuoi begli occhi. — Tò; un altro
bacio!

— E a te un’altra labbrata, Scilex.

— Ah! così?... Ebbene! All’ammenda! Ti coricherai bruco e ti leverai
crisalide. — Miracolo di Marte! —

E il membruto la tolse di peso, quantunque la si dimenasse, e la portò
in un’altra stanza. — Nessuno badò alle sue grida. — Sopraggiungono
due donne. — Una suona una specie di flauto a due canne, detto
_sarranae_. — L’altra accompagna colle naccare i passi di una danza
lasciva. La truppa servile si leva, e salta e canta una turpe canzone.
Il prete di Cibele — pestato in un piede — si alza sonnacchioso,
raccatta i cembali, si contorce e sgambetta cogli altri. Al rumore,
tre che passavano per la via, entrano. Sono Tigris, Cappadox e Syro,
accoltellanti. — Escono dalla stanza Saïs e Scilex. — La femmina offesa
giammai perdona. — Ond’essa, a vendetta, rivela allo amante numida le
millanterie del compagno. Un subito rossore infiamma la fronte dello
insultato. Era un gigante, bruno di carnagione e dagli occhi di iena.
Si morse il labbro inferiore, e col pugno teso:

— Cane rognoso! Mi rubi lo amore e vuoi anche la vita? O Romano, prendi
or cotesto dal figliuol del deserto! —

Il pugno distesogli sul petto fece traballare il gladiatore avvinato.
Dalla parete che lo avea sostenuto, si cacciò innanzi a capo ricurvo. —
Ma tutti gli furono addosso e il ritennero.

— Ha insultato un libero cittadino. — Lasciatemi. — Gli anni pesano al
barbaro. — Lo manderò a Caronte, senza l’asse pel suo tragitto.

— Qui, di piè fermo. — E non vedete che la riflessione il consiglia a
morir di vecchiaia? —

Tulnes — il padrone della tavernaccia — scorgendo che la cosa prendeva
il mal verso, avvertì che i galli già salutavano i primi albori. —
Riscosse il prezzo del ristoro da ognuno, salvo dal sacerdote che
russava, poi che il fecero smettere dal ballo, sotto la tavola. E
mise tutti fuor dell’uscio. — Chi per una via. Chi per un’altra. — I
_lecticarii_ s’incamminarono a coppie verso le dimore, dove la sera
avevano trasportato i padroni.

Le ore notturne di questi somigliavano a capello a quelle dei loro
schiavi. Avevano crapulato — e oscenamente cantato — e portato sulle
spalle le loro amanti — e cioncato con esse — e caduti erano privi
di forza, in poco decenti posture, sui cuscini dei triclini. — Era
un’onta della natura umana il vedere come una grande prosperità avesse
degradato quel gentil seme latino e trascinatolo allo studio raffinato
delle male e vergognose opere!

Nell’_aphrodisium_ di C. Sallustio non udivasi che il monotono
russare dei nove briachi di vino e di vizi. — Lo schiavo incaricato di
vegliarli, tirò le cortine del triclinio e vi fe’ penetrare i chiarori
dell’alba. — Alcune lampade sui loro alti candelabri erano spente o
fumigavano. — Altre ancor mandavano una fioca luce. Il pavimento di
marmo e di mosaico era sparso di veli cincignati, di corone di rose,
di rottami di cristallo e di anfore e di larghe macchie di cecubo. La
_comissatio_ era stata copiosa.

Herma spinse col labbro inferiore il soprano in atto di chi dispregia.
— Crollò il capo e poi disse:

— Oh!.... Ecco i padroni del mondo.... Povera patria mia!.... _Dî vos
eradicent!_ —




VENVS PHYSICA.

SCENE DEL CUORE.

=Anni di Roma 826 — Anni del Cristo 73.=


                                 A ME.

                                  IX.


Sulla via Domizia, in faccia alla dimora del _chirurgus_ Hemos,
reputato per le sue operazioni conservatrici, sedeva una casa
fabbricata sulle antiche mura della città, le quali per decreto dei
decurioni erano state concedute ai mercatanti greci e di altre nazioni
per rizzarvi fondachi a terrazzo in faccia al grande canale del
Sarno, e su di essi le dimore per le loro famiglie. — Il popolo del
vecchio Latium, ed in progresso i popoli che, confederati o domati,
combatterono e conquistarono per lui, consumavano, non producevano. Il
bronzo, l’argento e l’oro carpiti ai vinti, mercè il formidabile pilo,
servivano al ricambio dell’avorio, dell’ambra, delle tazze di vetro,
della porpora, delle pietre incise, delle perle, delle vesti di lana
finissima e di seta, delle belle schiave, dei vaghi e procaccevoli
cinedi, dei piaceri offerti dai cuochi, dai mimi, dai gladiatori, dai
citaristi e dei conforti prestati dagli astrologi, dai sacerdoti e
da altri consimili ciurmatori. Il Quirite si fece aggressore per non
essere conquistato. Educato ed educante alla forza del corpo ed alla
vigoria dell’animo, dichiarò sino dai primi tempi il lavoro essere
faccenda da prigionieri e da schiavi; e sola, unica professione degna
dell’uomo libero macinare il grano e maciullare gli uomini. Fido alla
origine, elevò templi a Giove ladro — _Jovi prædatori_. — In Etruria
fecero spade e lance cogli assi di bronzo, fecero calce colle statue di
marmo. In Capua, in Cuma, in Poseidonia arsero gli artistici monumenti.
In Tarentum, in Syracosion, in Corinthum quei ruvidi soldati giuocavano
ai dadi sui dipinti dei grandi maestri. E quando i signori dell’Urbe
cominciarono a riflettere che le statue e le opere di pennello della
Magna-Grecia valevano ben qualche cosa, Lucio Mummio, uno dei loro
tribuni di militi, disse al nauta incaricato di trasportare per mare
quei capi d’opera a Roma.

— Bada. Se tu gli affondi, e tu gli rimpiazzi. —

I Romani di quei tempi avevano per calendario un chiodo che
martellavano ogni anno con pompa religiosa sul muro del tempio di
Giove nei primordi del settembre. Il giorno avea tre periodi. Una
libra di bronzo fusa in una forma grossolana bastava ai bisogni della
loro civiltà. La industria era affidata agli schiavi, e persino i
poeti escivano da quella classe disprezzata e reietta. — Tetragoni
sui campi di battaglia, sentivano un orrore istintivo pel mare e
l’arsione delle navi era la prima condizione di pace coi vinti. Anche
Ottaviano-Augusto, quantunque avesse vinto in Actium, confessava di
avere uno spavento invincibile dell’acqua. Un editto contemporaneo alle
prime lotte colla rivale Cartagine diceva quel popolo di mercatanti
pria vinti e poi schiavi. I Romani non si sarebbero mai abbassati al
mestiere dei vili e dei menzogneri.

Or il commercio così disonorato dai vincitori e le inutilità dei
forti cuori divenute primo bisogno della vita civile, trassero la navi
cariche dalle sponde lontane, e su di esse i trafficanti e gli artisti.
I quali, ricomprata coi risparmi e colle usure la propria libertà, e
arricchitisi ben presto, dall’Urbe si sparsero, dovunque le opportunità
ed i facili guadagni gli richiamassero. Ne vennero anche presso la
nostra gente in Pompei, dove i Sanniti e i Romani, per uno spirito
di ripugnanza alle idee d’ordine e di pacifiche imprese, fattisi i
pensionari del mondo, mai supponevano che l’oro sì facile a spendersi
finirebbe per non più riprodursi.

La casa sulla via Domizia era spaziosa e dall’alto si godeva lo aspetto
di un magnifico orizzonte — il largo canale colle circolanti triremi —
e sulla pianura, lungo la bella costiera, Oplonti, Retina, Herculanum,
Tegianum, Taurania, Cosa — e sul mare Capreas, la _sellaria_ gigantesca
destinata da Tiberio alle proprie turpitudini; Prochyta, detta da
Giovenale la porta di Baiæ; Pitecusa, cui soprasta l’Epomeo, monte di
forma bizzarra, tremulo ed ignivomo un tempo, in voce di schiacciare
col suo peso il titano Tifeo.

L’atrio, coperto da una larga tettoia rettangola, circondava il
_compluvium_, a lato del quale era un _puteal_, scannellato, di pietra
calcarea. Le pareti allo intorno si abbellivano di pitture — una
cicogna passeggiante tra le ninfee di uno stagno — una nave di cui i
nauti ammainavano le vele — un prato con lepri saltellanti — un poeta
che legge versi ad una fanciulla, con un _locumentum_ ai piedi, ove
erano chiusi i papiri. — Cotesti dipinti erano separati da quadrucci
di maniera, grotteschi, di caricatura, detti _grylli_, eseguiti da
Peireico, messi in uso quasi generale da lui, e gli erano pagati più
cari che non le opere dei migliori artisti.

Il pavimento era in _opus signinum_, incrostato di piccoli cubi neri
che tratto tratto, senza simetria rinserravano pezzi di marmo di tutte
forme e colori. Sur un angolo a sinistra posava inchiodata da un pernio
una cassa di legno, foderata di rame, cerchiata di ferro, guarnita di
due serrature e di numerosi ornamenti di bronzo. Nel fondo aprivasi
un _tablinum_ dal bianco musaico, dalle ricche pitture e dai due
lettucci laterali di cedro di Mauritania, coperti da cuscini di piume.
Gl’Italo-greci pingevano sulle pareti coi colori cementati coll’olio
e colla cera punica per difendere le tinte delicate dall’azione
dell’aria e della umidità. Lo encausto si usava di tre modi — al
cestro sull’avorio — colla cera colorita — colla cera liquefatta al
fuoco. — Quest’ultima maniera faceva il dipinto più durevole. I freschi
meglio pregiati si pingevano sur un intonaco chiuso entro una cornice
di legno che fissavasi sulla parete e poteva ritogliervisi quando si
voleva. I Pompeiani a cagione dei frequenti tremuoti solevano prendere
siffatta precauzione. Collocavano altrove le predilette loro dipinture
e al cessare del disastro le ricollocavano al posto. Quivi erano —
Meleagro, figliuolo del re dei Caledonii, che si accinge a dar la
caccia al cinghiale; ed Atalanta, vergine bella e fortissima, della
cui gagliardia l’altro s’innamorò, — e le nozze di Zefiro che scende
voluttuoso e si appressa alla vaghissima ed addormentata Clori, il
simbolo di tutta la vegetazione. — Dalla parte dell’atrio una spessa
stoffa di Tyro divisa in due _cortinæ_ ne chiudeva lo aspetto. Sul lato
opposto le innalzate tende davano accesso ad uno xysto quadrato con
ambulatorio allo intorno, posante sur un cripto-portico, rischiarato
al di sotto da quattro spiragli a cono che sollevavansi sull’arca tra i
pelargoni e le rose di Præneste. I giardini di tal fatta erano chiamati
_horti pensiles_.

Cotesta casa, rispondente nelle sue varie partizioni a tutti i comodi
di un’agiata famiglia, apparteneva a Demophilo, di Rhodum, che da
dodici anni aveva fissato la sua stanza in Pompei. Numerosi erano i
suoi schiavi e spesso approdavano nel porto le sue navi cariche di
merci. Traeva dall’Africa le lane e i profumi; dalla Spagna, la cera,
il mele, i metalli; dalla Gallia, gli olii ed i vini; dalla Grecia, gli
oggetti di arte e di gusto; dalle rive del Ponto i cuoi e le pelli;
dalla Sardegna e dalla Sicilia, i grani. E tutte queste cose spediva
nelle città interne per suffragare alle abitudini dei ricchi, alle
ricerche degli effeminati, alle distribuzioni pubbliche dei magistrati
e del governo centrale del mondo, obbligato a soccorrere le miriadi dei
venturieri, dei vagabondi e delle popolazioni infingarde, abbrutite dal
dispotismo, affamate di viveri ed assetate di profumi e di spettacoli.
E quantunque Sallustio avesse detto che i Romani _pecuniam omnibus
modis vexant_, cioè, che tormentavano l’oro di ogni maniera; e Cicerone
nel suo libro dei Doveri; _Ne quidquam ingenuum potest habere officina?
Mercatura, si tenuis est, sordida putanda est; sin autem magna et
copiosa, multa undique apportans, non est admodum vituperanda. Nihil
enim proficiunt mercatores, nisi admodum mentiantur._ — cioè: — Che
può uscir di onesto da una bottega? Il commercio è sordida cosa se
tenue; è un mestiere tutto al più tollerabile se coltivato in grande,
e per approvigionare il paese. I mercatori non profittano senza molto
mentire. — Pure il nostro rodiano verecondo, caritatevole ed onesto,
coi suoi modi franchi e leali aveva inspirato la devozione nei clienti
e negl’infimi, la stima negli eguali, ed ogni maniera di onoranza nelle
genti d’imperio e nei ricchi del paese.

E tutto questo Demophilo sapea meritare. Nato in un’isola, il suo
istinto viaggiatore e avventuroso lo aveva sospinto a slanciarsi nello
spazio schiuso dinanzi i suoi sguardi. Apparteneva a quella razza
ardita che scoprì e popolò i nuovi continenti; che disputò alle altre
nazioni i marosi del mare, come i Romani disputavano le montagne,
le pianure e le valli ai popoli che le coltivavano e non sapeano
difenderle. Da giovanetto avea navigato. E la contemplazione del vasto
orizzonte, e l’abitudine della immensità, e il perpetuo movimento
delle onde lo avevano fatto religioso, libero, intrepido, ospitaliero,
silenzioso come la solitudine, poetico come le notti, affabile come le
stelle che guidano i naviganti al porto desiderato.

Alto della persona, di lineamenti regolari e piacenti, un poco curvo
dai pensieri e dai pericoli che aveva bravato, il suo portamento, il
breve sorriso, lo sguardo dicevano la tenerezza del cuore, la fantasia
inquieta della mente e le rassegnazioni della nobile anima sua.
Trattava colla vita come in molti casi aveva già trattato colla morte,
con una inalterabile dolcezza. Le gravi cure delle dovizie, i semplici
doveri della famiglia, lo esercizio delle severe virtù, il contatto
colla miseria che il circondava, la pratica gli avevano mangiato
a lento morso un po’ di poesia, un po’ di corriva bontà, un po’ di
grazia. Ma quello ch’era rimasto non erasi fatto lo egoismo che spesso
va a nozze colla superbia. Era meglio un sentimento melanconico, che
talvolta la gaiezza di un fanciullo derugava e la fede sanava.

Passeggiando sotto il portico dello impluvio, chiuso nei suoi pensieri,
un uomo entra, stende la destra sulle labbra, _a facie_ — ciò che die’
origine al verbo _adorare_ — e dice:

— _Ave._ —

Demophilo pone la mano sul cuore e poi offerendola al sopravenuto,
risponde:

— Anche tu abbi il giorno lieto, C. Helvio Babinio. Quale novella a me
ti mena? Hai mercati a propormi?

— No, amico. — Una cessione piuttosto. — Melissæa, quando tu qui
prendesti fissa dimora, aveva sette anni. Alle none di aprile ne contò
diecinove. I nostri Digesti indicano la età acconcia al matrimonio
allo uscire dalla infanzia — XIV anni pei giovani — XII anni per
le donzelle. — So che tu l’ami come la pupilla degli occhi tuoi.
So che a lei duole staccarsi dalle tue braccia, escire dalla casa
paterna. Finora, cotesta la cagione dei rifiuti. — Avranno a durar
sempre? —

Demophilo sentì la idea sicura e rapida prendergli il cuore. Pur
dominandosi, forzò lo increscioso spettro a rientrare nell’ombra, ed
aggiunse con ansia affannosa:

— Non io. La mia figliuola deciderà.... Quale il nome di colui che
aspira a coteste nozze? —

— Cneo Vibio, lo edile... — Oh! non temere. I tuoi abiatici non gli
vedrai _ambigena animalia_. Nè saran detti _musimones, umbri, canes
ex venatico et gregario_, quasi fossero bastardi, o figliuoli di un
cavallo e di un’asina, o nati di un cane da caccia e di una cagna di
pecoraio. — No. — Quel magistrato ne ha scritto allo Imperatore, e gli
è giunto il permesso speciale _ne turpis maritus vixisset cum coniuge
barbara_. E a te procacciava il decreto che ti accorda il diritto di
cittadino romano.

— Un dono con una mano! Un rapimento coll’altra! Sia! — Melissæa, o
Babinio, è una di quelle creature che di umano hanno solo lo inviluppo,
ancor tutto pieno di celesti profumi, tutto raggiante di lume divino. È
il mio consiglio, il mio tesoro... la vita.... —

E qui premette colla mano il petto quasi frenasse i moti dentro. E
seguiva:

— Le grazie coronarono la sua ragione. Ama le arti, i lavori donneschi
ed i giuochi del pensiero. Se Vibio è accettato — ed io ciò terrei a
grande onore — di gran cuore _despondebo filiam meam_. La interrogherò
per sapere se il suo cuor parli a favore di lui.

— Oh! Non dubitarne. Io credo che le mela e i fiori di granato —
messaggeri della bella e gioconda iddia — abbiano dato giuliva risposta
a qualche vaso di Nola. —

O Babinio indovinava, o il sapeva. Vibio aveva notato la gentile
persona nella necropoli, nei teatri, nei templi. A poco a poco erasene
perdutamente invaghito. E tanto più che la nudrice di lei un giorno gli
disse i rari pregi che più e più l’abbellivano. E saputo da essa come
la fosse nata alle none del quarto mese — ch’ebbe nome da _aperire_,
avvegnachè allora la terra apra il seme alla generazione — le aveva
mandato un vaso fittile dipinto degno dell’artefice e del donatore.
— Un genio alato, avente sul capo una corona di fiori, versa una
libazione sulla fiamma che brucia sur un piccolo altare. Sotto era
un’ape, e accanto si leggeva graffito καλή.

La destinazione era chiaramente espressa dalla libazione che indicava
il dì natalizio e dagli aggettivi di _bella_ e di _soave_ dati alla
pecchia che in greco diceasi _melissa_. Essa aveva risposto con mandare
una corona di modeste viole avvizzite e portata da lei nella vigilia —
mele morsicate, perchè in ogni tempo e presso tutti i popoli il pomo fu
accetto messaggero di amore — e _rosæ vexatæ_, ch’erano il vero incanto
dello amor ricambiato. Marziale in un distico diretto al calore del
cuor suo, si esprime così:

    _Intactas quare mittis mihi, Polla, coronas?_
    _A te vexatas malo tenere rosas._

«Perchè mandarmi, o Polla, fresche corone? Preferisco le rose appassite
sul corpo tuo.»

— Se così, meglio — χαίρε — Vado a far scaricare una grossa nave
caudicaria in cui ho vino, lardo, fave, schiavi ed acque distillate
dell’Asia. Gli affari sono il lievito del mio peculio.

— _Quidquid tu tangis crescit tanquam favus._ Nettuno ti affidò il suo
tridente, e tu comandi ad Eolo di soffiare a tuo senno sulle vele delle
tue triremi.

— Credi a me. _Assem habeas, asse valeas._ Ne hai? Ne avrai. —
Giammai però io vidi effigiata sul conio della moneta d’oro la faccia
sorridente della gioia intima e di una vita senza rimorsi.

— _Vale._ —

E si separarono.

Intanto che coteste cose si erano pensate e dette tra i due
interlocutori, gli edili C. Vibio e Q. Poppæo, nominati dal popolo a
procacciargli i voti, l’annona e le feste solenni, erano in un vasto
locale presso il porto ad assistere alla distribuzione dei grani fatta
da una corporazione di misuratori. I littori, poggiando le mani sui
fasci, pendevano dal cenno dei magistrati. Una guardia di liberti
custodiva le porte dello edificio, facevano entrare i soli che avessero
una tavoluccia di ligustro, chiamata _tessera frumenti_, e picchiavano
gl’intrusi che non vi avessero diritto.

Nei tempi primordiali della potenza di Roma l’ense e lo aratro
provvidero alla sussistenza del popolo. Quando il gladio rimase
solo nelle mani dei forti, le provincie italiche, sottomesse al suo
impero alimentarono le braccia di quei superbi che ormai sentivano
il dovere unico della conquista del mondo. E la Sardegna fu chiamata
_nutrium plebis romanæ_. E la Sicilia _cellam penariam reipublicæ_, e
_fidissimum Annonæ subsidium_. Ma venne un’epoca in cui le frumentarie
di Roma che esportarono i loro grani nei più lontani paesi, dovettero
chiedere anch’esse un alimento vergognoso al loro fertilissimo
suolo. Il Governo ne procacciò dalla Gallia, dal Chersoneso-Taurico,
dall’isola di Cipro, dalla Beozia, dalle Baleari, dalla Spagna,
dall’Egitto e dall’Africa. Il Mediterraneo divenne il vero lago
romano, facile via dai paesi frugiferi lontani. Si creò il Prefetto
dell’Annona, magistrato importante che veniva subito dopo i Consoli.
Era suo còmpito mantener l’abbondanza nell’Urbe. Pompeo ne fu investito
per cinque anni; ebbe quindici luogotenenti scelti tra i senatori;
ed al còmpito immenso aggiunse un potere immenso che gli permetteva
disporre a libito del pubblico tesoro, di muovere eserciti, di armare
navigli, e di essere nelle provincie il sopra ciò dei governatori
medesimi. I grani si prendevano per contribuzioni o per compra. Si
tenevano in serbo nei paesi frumentari e a seconda del bisogno una
flotta speciale, detta _sacra_, li trasportava pel Tevere inferiore
alle falde del monte Aventino, ov’era un porto che addimandavasi
_Navalia_.

Una magistratura così potente non poteva piacere all’ombrosa monarchia
repubblicana dei Cesari. E questi istituirono gli Edili nelle Colonie
e i Pretori Cereali nell’Urbe. Nelle prime erano gli eletti del popolo.
In Roma lo imperatore gli sceglieva tra i patrizi a lui più devoti.

Allorchè Caio Sempronio Gracco salì al tribunato propose una legge,
mercè la quale il grano sarebbe stato distribuito al popolo in ricambio
di un _triens_ — circa quattro centesimi di lira — per ogni modio,
mentre al Governo costava un denaro, cioè settantotto centesimi.
Cotesta legge, basata sulla eguaglianza, era iniqua nell’applicazione,
perchè demoralizzava le masse e ruinava il Tesoro. Ho letto su
parecchie pietre funebri del tempo, PERCEPIT FRUMENTUM, volendo gli
eredi del quivi sepolto attestare con orgoglio com’egli avesse fruito
della più bella prerogativa del cittadino romano, l’essere stato
nudrito a spese dello erario pubblico. Un altro tribuno, Marco Ottavio,
l’abolì e vi sostituiva la nuova che ammetteva alle distribuzioni
dell’Annona i soli necessitosi. Al cominciar della guerra sociale,
Livio Druso ravvivò la legge Sempronia che fu in seguito modificata
dalla legge Terenzia-Cassia. Clodio Pulcro limitò con una nuova legge
le liberalità frumentarie ai soli plebei proletari, e tolse un’arma
affilata dalle mani degli ambiziosi che in un popolo affamato avevano
sempre una milizia pronta allo insorgere e ai delitti. Gli è perciò che
dopo una grande carestia, Augusto ridusse a dugentomila il numero degli
ammessi all’Annona e donò dodici _frumentationes_ — una distribuzione
per mese — di proprio.

Così in Pompei. — Sotto il portico del Foro i gratificati andavano a
far constatare il loro diritto e ricevevano l’ordine di distribuzione
in una _tesserula_, su cui era notato il giorno da presentarsi. Gli
Edili facevano misurare a quel portatore cinque modii di grano. I quali
pesavano in media centocinque libbre e per conseguenza ne producevano
almeno ben centotrenta di pane. Il pane cotidiano era adunque del peso
di quattro libbre e quattro once, ossia diecisette once per bocca,
supponendo una famiglia composta di tre individui. Cui aggiunti i
lupini, i ceci, i legumi che si avevano per poco; e le sportule e il
_panariolum_ che i patroni facevano dare pieni di carni e di pesci di
mediocre qualità, sul vestibolo delle loro case, alla folla affamata,
questa sì che poteva vivere; ma l’abbiettezza cresceva e la corruzione
ancor peggio.

Cneo Vibio è avvertito che una donna al di fuori chiede parlargli. Esce
e vede Eulamia, la nudrice nella casa di Demophilo, che lo avvisa come
la sua padrona lo attenda nel tempio di Venere. La buona ed affettuosa
vecchia era contenta; non capiva in sè dalla gioia. E nello andar via
per raggiungere la sua figliuola di latte, parlava tra i denti frasi
inarticolate, accompagnandole con sorrisi e gesti che significavano
forse lo avvenire festoso cui essa credeva.

Anche Vibio corse all’aperto. E risaliva dal porto alla città scuotendo
dall’anima la melanconia sospettosa che invischia i pensieri di chi ama
potentemente e teme. Lungo il tragitto, tutti lo salutavano. Egli però
alcuno non vide. Nè anche il selciato pareagli più quello che con passi
indifferenti tante volte aveva calcato. Tutto prendeva un’anima. Tutto
si trasformava al suo sguardo. Perchè dietro quelle mura che cingevano
il tempio e fra quelle colonne di stucco era la donna che sola a lui
donna sembrava, eravi il cuore per cui notte e dì il suo pur palpitava.

Nel varcare la soglia, ei la vide seduta sur un banco sotto il portico
a sinistra. Nell’atto che vèr lei corse, essa levossi. E in tutta la
sua gentile persona era una gaiezza serena, luminosa, infantile come la
speranza, rischiarata dal suo sguardo azzurro e profondo.

— Ebbene, ζωη και ψυκη, dolcissimo amore, qual nuova?... Che rispose
tuo padre a Babinio?.... E tu, richiesta, che a lui?... Ei, cittadino
romano,... tu mia eguale.... sai?... —

La bellissima fanciulla distese la piccola mano affilata e bianca che
risplendette come una perla sulla mano bruna di Vibio. Quindi:

— Tutto so, o mio... Il padre lieto, e io lieta.... Ciò venni a
dirti.... Oh! I nostri cuori sono le due ali che sollevano un’anima
sola sino al trono di Venere Urania che a noi arride propizia. —

Quella soave creatura era tale da avvinghiare immediatamente un cuore,
e più e più quello che allor batteva dinanzi a lei i segni della vita
e della felicità piena. Ella era in una età in cui le impressioni sono
vertigini. Aveva biondi i capelli — non di quel colore rossastro od
ardente che venne alla moda dopo il conquisto delle rive del Reno e
che procurò ricco mercato a chi portò in Roma, in Capua, in Herculanum,
in Pompei le capigliature dorate delle donne dei Catti, dei Sicambri e
dei Germani. — Le sue chiome erano un’aureola che rivelava inquietanti
delizie alle bocche che vi si sarebbero posate. I suoi occhi cilestri,
da cui veniva un così dolce lume e tanta soavità di sguardo, erano
carichi di carezze, di amplessi, di baci. Il naso piccolo e un po’
sollevato aveva un sorriso come l’hanno le labbra; ed anche queste,
spiranti nella breve curva la innocenza e il candore; ed il collo
svelto ed alabastrino; e la persona spigliata; e le proporzioni delle
statue di Fidia; e la grazia decente dello incesso trasportavano
l’anima nelle regioni armoniose dove si obliano tutte le amarezze della
vita.

Pompei era invero la città del mondo in cui la grande divinità pagana
— che ogni culto posteriore non seppe mai disertare — era adorata con
entusiasmo maggiore. Vibio anch’esso nella età prima aveva sacrificato
alla onnipotente iddia. Ma la sua sviluppata intelligenza e il suo
fine criterio avevano calmato le irrequiete smanie e dettogli che pur
erano nella vita migliori problemi da sciogliere. La religione antica
l’ebbe tra i suoi miscredenti. Le sensazioni del cuore gli aprirono un
più largo orizzonte. Studiò i principii della fede novella. Sfatò ciò
che gli parve vaporosa illusione e fanatismo di neofiti. Pur l’uomo per
lui rimase uomo, e di tutti gli dei compose un solo dio — dio clemente,
misericordioso, benefattore.

Or, un giorno lo amore — il quale non ha poi nel turcasso quei dardi
avvelenati che i poeti melanconici vi hanno immaginato — usò una delle
sue solite ribalderie, e fece passare dinanzi i suoi sguardi la bella
ed innocente Melissæa. Stimava molto Demophilo. Ed ei carezzò quel suo
fiore bellamente sbocciato nella solitudine della sua mente. A poco a
poco una passione profonda germogliò in quel cuore meridionale. Essa
divenne il suo dio. Essa, la sua Venere celeste. — Giovanezza — beltà
— grazia infantile. — Tutto il fascino di un amore che non costava
nulla alla virtù. — E poi egli amava la donna per intuizione, e il
matrimonio per istinto. Melissæa era bionda, ed il bruno eragli odioso.
— E nel vero cosa è il bruno? È l’ombra. È la negazione della luce.
È una tinta, e nessun colore. Venere era bionda. È biondo l’oro. La
fanciullezza e ciò che scintilla e che allegra son biondi. — La rivide
tra i fiori dello xysto. La seguì una sera nel Pago Felice come si
segue febbrilmente il filo di un sogno dorato. E assaporando un dolce
avvenire; ebbe orrore della tenebra che il circondava. Un violento
slancio dell’anima interrompeva l’ordine del tempo e gli mostrava
le ore ancora velate della sua esistenza. Un giorno nell’Odeon cadde
dalle mani di Melissæa una rosa di Pœstum, bella ed odorosa come il suo
cuore. Ei la raccolse e la chiuse nelle pieghe della sua veste. L’atto
non isfuggì alla fanciulla, e i loro occhi dissero a vicenda come in
tal momento il nodo della vita allacciasse due disparati destini.

Cneo Vibio, alto della persona, di piacevole aspetto, non pativa
tristezza di cuore. Quelle del cervello non le aveva conosciute mai.
E nei suoi occhi scintillava una dolce magia, un certo lume sorridente
— dono del fato, o dono degli atti, che attira le anime piacevolmente
e trasforma i casi che occorrono in nuvole leggere. — E per dir tutto,
era nella età felice per gli uomini pubblici e per gli artisti, in cui
il sole della vita rischiara il sommo dell’uomo — la fronte — siccome
in quella ora del giorno illumina di luce più concentrata ed attraente
l’alta cima dei monti.

— Tu sei la mia iddia, o soave amore. Felice il mio tetto che ti avrà
padrona e signora. Vedi! Non è gocciola del mio sangue che non mi parli
di te. Non una idea delle mia mente che non irraggi della passione che
mi arde.... Dicono che un dio nascesse — imperante Ottaviano Augusto —
in un povero presepe in Galilea. E che le stelle il sapessero. E che le
foreste il salutassero. Ebbene! Quanto or mi circonda è ai piedi dello
amor ch’io ti giuro.

— Le parole che tu mi dici, e che dentro io bacio e ribacio
segretamente, sono le perle della corona che il tuo cuore pose sulla
mia testa, e che mi rende fiera e felice. Io guardo gli altri con
un’aria di regina... il titolo che la tua mente mi diede.

— E lo avrai sempre, o amante e presto sposa. Quest’ora beata non
dovrebbe volare. Afferriamone le ali, che sono i ricordi. Più tardi li
premeremo sui nostri cuori come la mano purissima che a me porgi, patto
di felicità durevole oltre la tomba.

— _Vale_, o mio. Gli dei della patria ti sieno propizi. —

Ed ambedue, colla espressione della gioia sul volto, ripresero la via
delle loro case.

C. Helvio Babinio trovò lo amico consapevole e nella gioia maggiore.
Combinarono che la domanda si farebbe per lettera, e che un’assemblea
di parenti e di fedeli andrebbe ad offerirla a Demophilo e fisserebbe
gli articoli del contratto sopra le _tabellæ legitimæ_, quelle
tavolette che essi avrebbero poi suggellato coi loro _symboli_, come
marchio di guarentigia.

I Digesti riconoscevano _justum matrimonium_ la unione legale composta
in tre diverse maniere. La prima dicevasi _usus_ — per abitudine o
per prescrizione — allorchè una donna col consenso dei suoi parenti
conviveva con un uomo per un anno intero _matrimonii causa_. E se
questi non fosse assente per tre notti da lei, essa diveniva la sposa
legittima e dicevasi _usu capta fuit_. Ma se avveniva il _trinoctium_,
la prescrizione era interrotta, la donna era dichiarata libera perchè
_usurpatio est usucapionis interruptio_. — L’altra addimandavasi
_confarreatio_, cioè consacrazione, allorchè il diale di Giove
benediceva al matrimonio, in presenza almeno di dieci testimoni,
prendendo il frumento dalle mani della sposa — _far_ — impastandolo
coll’acqua piovana e formandone una focaccia, cotta sotto le ceneri
dello altare. Quel _panis farreus_ o _farreum libum_ era assaggiato
dal sacerdote, lo divideva tra gli sposi, esprimendo con questo sacro e
comun cibo come omai tutto dovesse essere mutuo fra essi, amaritudini e
gioie. Le libazioni si facevano di vino melato e di latte. S’immolava
quindi un montone, avendo cura di gittar via il fiele della vittima,
a significare che ogni agrezza dovesse essere bandita nel coniugio.
Siffatta specie di unioni era però principalmente in uso fra i ministri
degli dei, sì perchè gl’ipocriti non ammettevano innovazioni nei
costumi antichi — rotta una maglia, ei dicevano e dicono in tutte le
lingue, addio rete per accalappiare i gianfrulli — sì perchè era la
sola unione che sapesse dare alle mogli loro il diritto di esser socii
al loro ministerio e di partecipare ai profittevoli riti. Dicevasi
_defarreatio_ il divorzio. Se il marito moriva senza figliuoli e
senza far testamento, la donna ereditava i suoi beni quasi propria
figlia. Altrimenti coi nati suoi prendeva parte in eguale divisione.
Nel caso di mancanze, il marito la giudicava in presenza dei parenti
di lei. Se condannata dalle leggi, veniva pubblicamente abbandonata
al castigo della famiglia. I nati da siffatta unione potevano essere
scelti flamini di Giove e vestali. Ed erano detti _patrimi_ i bambini
che avessero vivente il solo padre, e _matrimi_ quelli che la madre
soltanto. Ed assumeva il nome di _pater patrimus_ quel cittadino che
avesse contentamento di figli durante la vita del proprio genitore. —
La _coemptio_ era una maniera di unirsi per reciproco contratto. L’uomo
e la donna si presentavano al magistrato insieme con cinque testimoni,
cittadini romani e puberi e il pesatore delle monete che assisteva a
tutte le vendite — il _libripens_. — Essi ricambiavano un asse — sei
centesimi di lira — e lo _speratus_ diceva alla sua _sperata_:

— _An mihi mater familias esse velis?_

— _Me velle._ —

La donna faceva all’uomo una simile domanda; la _venditio_ era compita.
La _sponsa_ acquistava sul suo sposo i diritti di figlia, e quegli
tenevale luogo di padre. Laonde cominciava a chiamarsi per esempio
HERENNIA EPIDIANI — SABINA BIBULI — DELPHIA AGATHEMERI. E riconoscendo
il marito per padrone, chiamavalo _dominus_. Se aveva un patrimonio
oltre la dote, quei _bona paraphernalia_ li rimetteva al suo signore.
Ma questi erano poca cosa nei primi tempi; poichè il senato all’orfana
di Scipione Africano diede per dote undici mila assi di rame, pari a L.
852.50 di nostra moneta.

La sposa talvolta _in usum suum reservabat_ una porzione della dote
ed uno schiavo — _servus receptitius_, sul quale lo sposo perdeva la
potestà.

Oltre questo matrimonio plebeo — _pro emptione_ — che poi divenne
la unione generalmente in uso — un padrone coniugato poteva avere la
_concubina_, cioè la donna da lui amata, la donna di mezzo matrimonio
che le leggi riconoscevano. Però, a mal suo grado, essa aveva il
libito di sposare un altro, ove cotesto le convenisse. — Gli schiavi
si univano per promessa reciproca, detta _contubernium_. I liberti
chiamavano _pellam_ la donna che con essi viveva. E le congiunte
per _confarreatio_ erano dette _matronæ_. Quelle per _coemptio_ si
gloriavano di essere _matres familias_.

È festa nella casa di Demophilo. Cneo Vibio e gli amici vi sono
convenuti alla prima ora del giorno che rende gli sponsali migliori e
più favorevoli. Il duumviro _jure dicundo_ L. Giulio Pontico presiede
all’atto solenne. Uno scriba redige il contratto. Il padre concede alla
sua cara figliuola la dote di _decies centena_, cioè, un milione di
_sestertia_ — pari a L. 193,749 — da pagarsi in tre periodi, il primo
dei quali avrebbe luogo il giorno del matrimonio. Demophilo aveva fatto
inoltre un ricco presente a Melissæa di vesti, di pietre incise e di
monili d’oro.

Già da lungo tempo gli auguri avevano cessato di combattere la volontà
degli uomini in nome della divinità. Quegli impostori non erano più
curati da alcuno. Ma, sfacciati e impudichi, non mancavano di far
gli auspicii per conoscere la volontà suprema, allorchè trattavasi di
ricchi sponsali. E Thelestis si presentò, facendo smorfie ed inchini
e dicendo avere il giorno innanzi sacrificato al cielo e alla terra
— come ai primi sposi; — ed a Minerva, la iddia della verginità; ed a
Giunone propizia ai casti connubi. Egli aveva veduto nel cielo i segni
favorevoli. E poichè nessuno ne lo consultava, stimavasi fortunato nel
poterli nunciare. Gli era un di quei luridi frati dei tempi nostri
che la melonaggine dei ricchi peccatori e delle vecchie adultere
ingrassa insieme col popolo ignorante e supino. Quale la differenza
tra gli antichi e i moderni? Questi borbottano finanche le stesse frasi
latine. — Demophilo in tanta domestica gioia, voleva dargli il buon da
scialare. Vibio non lo permise, e il fe’ cacciar via dai littori.

Allora Giulio Pontico chiese all’herus della casa se consentiva
_despondere filiam suam_. L’altro, annuendo ai voti per quelle nozze,
aggiunse:

— _Quæ dii bene vertant._ —

E il primo gravemente riprese:

— _Sponsalia et nuptiæ_ non si contraggono che col libero assentimento
delle due parti. Ed una fanciulla può resistere alla paterna volontà
nel caso che il padre le offra a suo sperato, e sposo un uomo notato
d’infamia o che meni una riprovevole vita.... Hai tu, o Melissæa, a
muover lamento di tal fatta?... Poichè non rispondi, e non ti rifiuti
alle nozze, è segno che tu consenti. —

E richiese partitamente ad ambedue:

— _An spondes?_ —

E quei felici replicarono colla favella del cuore:

— _Spondeo_. —

Era la formula della stipulazione che tutti fissavano sulla pergamena
col loro suggello. Vibio trasse dalla sua veste un anello d’oro
massiccio, ottangolare, traforato a giorno con sottile artificio che
nel mezzo di una linea ovale aveva cotesta leggenda in greco:

                                 ΑΦΡΟΔ
                                 ΓΕΝΕΤ
                                  ΔΟΣ

Melissæa accettò quella garanzia del suo amore, quel segno che
moralmente li faceva un essere solo; e subito lo pose nel dito
mignolo della mano destra, perchè credevasi che vi fosse un nervo
corrispondente da quel dito al cuore. Quel semplice dono dovea sempre
precedere il matrimonio.

Convenne fissare il giorno delle nozze. Il calendario romano aveva
segnato col nero i dì infausti — le calende — le none — gl’idi —
quelli che immediatamente li seguivano — i parentali che ricordavano
i funerali paterni — e in generale tutto il mese di maggio. Bisognava
adunque far correre tutto quel mese e la metà del seguente, ch’era
dichiarata l’epoca più felice. — Nello intervallo gli _sponsi_ potevano
_infirmare sponsalia_, cioè rompere i fatti accordi collo scrivere
coteste parole: _Conditione tua non utor_. Era il _repudium_ che
annullava ogni promessa. Ma Vibio e Melissæa non sarebbero stati capaci
di dir quella frase. Il loro sguardo ed il loro sorriso favellavano
le promesse immortali; avvegnachè il vecchio monarca di questo mondo,
ricciuto, rosso per belletto e azzimato, padre alla menzogna ed allo
egoismo, non li avesse mai ammaliati e sedotti. La sposa trasse dal
seno una piccola _bombilia_ di cristallo di roccia, piena di essenza
odorosa e la offerse al re del suo cuore. Ei l’annusò e fe’ un cenno
cogli occhi. Erano uno. Poteva ringraziare sè stesso? Aveva sentito su
pel cervello le carezze senza rimorsi delle ninfe espansive racchiuse
nel prezioso dono della sua gentile regina. Tutti escirono con lui.

— Mio caro collega, se ogni fanciulla somigliasse a quella alla quale
tu desti la fede, lo imperatore non avrebbe bisogno di promulgar leggi
per costringere la gente togata a menar moglie.

— Giulio Pontico, ben dici. Ma tu hai tre sorelle che rassembrano le
cugine di Venere e di Minerva. Nè occorrono editti per toglierle dallo
stato smanioso della nubilità. E so che non passeranno lunghi mesi
e saranno le spose. Hanno parenti raccomandati dalla virtù. E la tua
famiglia è tale a fornir ricche doti.

— Lo penso. E ciò mi toccava il cuore quando pronunciava le parole
formali. Vedi! lo amor di famiglia nel cuore delle fanciulle è come una
gocciola. Scuotila e cade.... Dev’essere così!! —

Manio Acilio, soffermandosi alquanto dinanzi la bottega del farmacista
— occupante uno degli angoli della insula triangolare della via Domizia
— disse con voce bassa a Quinto Lepta — suo socio nella testimonianza
degli sponsali — in modo che chi camminava non lo sentisse:

— Parlano a maraviglia, l’uno perchè non ha sorelle, e l’altro perchè
il padre riccamente le dota. Certo, grossi partiti non mancheranno.
Or si negozia nel menar moglie come per la compera di una casa, di un
podere, o di due cavalli africani. I _sestertia_ sono le principali,
anzi le sole virtù che si cercano in una donna.

— Guai.... oh! guai per colui che le sposa ricche. _Dotata regit
virum._ Il loro orgoglio, le loro esigenze sono una catena pesante
a tirare. Vespasiano come dà il grano alle famiglie, dovrebbe pur
dar le doti. Allora l’amore matrimoniale riprenderebbe il disopra,
e la cospirazione della saviezza celibataria cesserebbe, e tutti
tornerebbero egualmente a pagare cotesta patriotica gabella. Ma gli
è avaro ed ingordo. Compera e rivende. Nè si vergogna di far pagare i
magistrati a chi li chiede e le assoluzioni ai ricchi colpevoli. De’
rapaci proconsoli fa uso di spugna; risecchi gli manda ai migliori
uffizi perchè si bagnino bene e — quando ripieni — gli strizza a suo
pro.

— Che! Tu a torto lo ingiuri. Dovette angariare i popoli per necessità.
Dovette punire i ladri per dovere. Fatto imperatore e trovato il fisco
e lo erario povero e vòto, volle ridurre la repubblica nello stato
di prima e fare che la rimanesse in piedi. E dei denari ingiustamente
presi fece ottimo uso. Non sostentò i bisognosi cittadini consolari,
dando loro un annua provvigione? Non rifece le mura e gli edifizi
di molte città, guaste dal tremuoto e dalle arsioni? E qui ne hai la
prova.

— Sia che vuolsi. Eh! non basta. Saria d’uopo che il pontefice massimo
— sì buono e pio come tu pensi — ottenesse almeno da Venere fisica il
favore speciale e perpetuo per le genti latine che tutte le giovanette
fossero belle. Allora sì che lo Stato avrebbe ragione di confiscare le
successioni devolute ai celibi ostinati.

— Bando agli scherzi. Nel disordine generale dei costumi e delle
abitudini il carico di una moglie può patirlo un cavaliere che abbia
spogliato una provincia come Verre, o tratto un re vinto dietro il
suo carro trionfale, od empito la sua casa e le sue ville di schiavi.
Le donne si contentavano un giorno dei profumi campani. Ora se non
vengono dalle Indie, li gittano schifate alle loro liberte, e conviene
surrogarli con quelli che — a parola di chi gli spaccia — furono
trasportati in Italia malgrado la collera di Nettuno, gli artigli dei
dragoni alati e le zanne delle bestie feroci.

— E i diamanti? E le perle? E le gemme incise? E gli anelli che cingono
tutte le articolazioni delle mani, e che si cambiano in ogni giorno
della settimana?

— E sì! Tiberio se n’ebbe a scandalizzare, e di Capreas ne scrisse al
Senato. Ora la seta tessuta nell’India, sfilata e ritessuta col lino
e colla lana nell’isola di Cos, _ventus textilis, nebula_, e così
trasparente, che se non stretta al corpo con mille pieghe, mostrerebbe
la dermide a traverso, la sfatano. Vogliono _vestis holoserica
bombycina_, tutta filata dal verme.

— Oh! in quanto a me son lieto di facili e poco spendiosi amori. La
bella iddia gli sostenga, ed Iside gli aiuti. Sai? Sulle corna dei buoi
cattivi sogliono legare fascetti di paglia per avvertire chi passa a
non accostarsi....

— Intendo. Nelle fanciulle inquiete e vogliose del nodo erculeo vedi
il fieno sui corni.... O, lascia ch’io saluti Pontico e Vibio che sulla
rivolta tendono al Foro. Io vado da Quinto Poppæo pei suffragi. —

Ai passi frettolosi, gli altri si fermarono, i magistrati si volsero,
e tutti si strinsero amicalmente le mani e si salutarono. Quale per una
via, quale per un’altra.

Ma Lepta, camminando sul margine laterale del tempio alla Fortuna
Augusta, e ripensando ai lieti amori di Acilio, inaccessibili alle cure
ed al carico della famiglia, considerò valer meglio per lui il visitare
la donna del cuor suo che mendicare i voti dallo edile per le prossime
elezioni. Alla vanità il domani. Discese la lunga strada, voltò in
quella Deciale che mena alla porta di Stabia, torse i passi a sinistra
e si volse a diritta verso la porta di Nola. Quella parte della
città era un laberinto di sentieruoli stretti, colle mura delle case
puntellate; e sotto, tegole rotte e marmi spezzati, sparsi sulle corti
e persino sui tetti degl’impluvii. Le dimore dei ricchi erano intatte
od ancora nelle mani degli artefici. Tratto tratto parecchie case
colle aderenti botteghe escivano bianche e ristorate dalle concomitanti
ruine. Qua e là, alcune donne, dagli occhi neri, espressivi, e dalle
bocche fine e graziose, frenando i loro vivaci bambini seminudi,
si facevano sugli usci e sorridendo mestamente a lui che passava,
dicevano:

— Sii il benvenuto in questi luoghi desolati. La tua gravità, la
tua eccellenza abbia pietà delle nostre disgrazie. Se sei uomo di
pubblico affare — le tue sembianze dicono che tu il sia — ripara a
tanta miseria. Le volte crollarono. Le mura hanno lesioni. Se piove,
l’acqua c’infradicia. Gli è come dormir sulla via. Fa’ che non
s’invidino i morti sotto le macerie. Venere ti sia propizia, o nobile
pompeiano. —

Per un cuore innamorato le parole delle donne colpite dalla sventura
sono come le lacrime voluttuose che caddero dalle chiome della iddia di
Pafo al subito uscire dal mare. Le prime inteneriscono. Le altre fecero
sbocciare le rose sotto i piedi divini. I suoi pensieri inebriati
dal profumo di una donna lo trassero ad atti di carità che in altra
circostanza avrebbe negato. Sciolse i nodi della _manticula_ e tanti
assi e tanti denari vi trovò, tanti ne diede. Disse non esser egli
magistrato. — Sperarlo. — Ma amico degli amministratori della Colonia.
Sapere che dall’Urbe sarebbero venuti soccorsi e provvidenze. Le povere
famiglie si racconsolarono.

Gli Oschi — i primi abitatori di questa contrada — sapeano per
tradizione come il monte soprastante al golfo avesse bruciato da tempi
immemorabili. E perciò lo chiamarono _Vesbius_, che valea quanto dire
_fuoco estinto_. L’ultimo suo incendio però era ignoto ad ogni poesia.
Solo supponevasi che in tale circostanza fosse stato colmato il vasto
e lungo golfo che per lo stretto dell’antica Marcina si congiungeva
al mare di Salernum, dando così origine alla immensa pianura di Nola,
di Nuceria e di Sarnus. Corsero secoli, e il monte si cinse per ogni
lato di fertili campi, di verdi pampini, il cui frutto generoso empiva
del suo succo le anfore. Sui pianori, sul pendìo delle sue amene
colline erano sontuose ville coi terrazzi, colle torri per godere
lontane vedute, coi giardini creati dagli schiavi _topiarii_, adorni
di statue, cinti da piante fronzute e verdeggianti ed intersecati da
ruscelli e da laghi. Un giorno, ai tempi della congiura di Catilina,
Marco Herennio, decurione di Pompei, cadde morto nel Foro, colpito dal
fulmine. Il cielo era sereno. Il sole, raggiante. Cicerone compose su
quel fatto strano due pessimi versi ridicoleggiati da Crispo Sallustio.
E nessuno seppe indagare la causa di quel fatale avvenimento. In vero,
la folgore dovette provenire dal soverchio elettricismo adunatosi
nel monte. Nell’anno 803 di Roma — pari al 50 dell’êra nostra — i
tremuoti cominciarono ad affliggere la Campania. E nel 63 — due lustri
prima dei casi che narro in coteste pagine — la scossa del suolo fu
terribile, continovata e fatale. Nerone imperatore trovavasi nel teatro
di Neapolis, canterellando colla chioccia voce un’aria sua favorita.
In lui potè più l’arte mal coltivata che la vigliaccheria d’istinto. E
quantunque il _visorium_ pieno zeppo di spettatori ed il _proscenium_
traballassero, non volle imitare quelli che escivano a furia, finchè
non ebbe terminato il suo trillo. Erano le none di febbraio, cioè il
dì cinque di quel mese, quando le città e gli oppidi sedenti sulle
rive, che formano col loro incurvamento il ridente cratere partenopeo,
furono maltrattati dal violento flagello. Una parte di Herculanum venne
distrutta; un’altra screpolata e guasta. La colonia di Nuceria, se
non rovinata, malconcia. Neapolis soffrì perdite piuttosto particolari
che pubbliche. Molte case di campagna risentirono scosse senza gravi
effetti. Stabia ed Oplonti ruinarono. Pompei fu devastata. Le statue
del Foro caddero dai loro piedistalli. La morìa degli abitanti sommò a
parecchie migliaia. Un gregge di seicento pecore fu schiacciato sotto
le macìe. E i campi vicini si videro funestati da gente errante priva
di conoscenza e di sensi. La misera città rimase per qualche giorni
deserta. Quindi risorse a poco a poco più bella dalle rovine. Alcune
case si ampliarono; giunsero decoratori di ogni parte; il commercio
straniero rifiorì più che mai. La pietà dei congiunti surrogò le
cornici e le tavole di marmo agli ornamenti di tufo, o di stucco dei
sepolcreti. Il bigottismo di Nonnio Popidio Celsino fece ricostruire
di proprio il tempio d’Iside. I devoti ripararono il portico del Fano
di Venere protettrice, cangiandone l’ordine in un corintio di fantasia;
il fregio dorico fu ricoperto di stucco; una statua nuova rimpiazzò la
spezzata; e nuove pitture dai vivi colori, rappresentanti paesaggi,
ville sontuose — come l’Isola Bella sul Lago Verbano — interni con
figure alle quali l’artista die’ teste d’uomini a corpi di fanciulli —
riabbellirono le pareti del porticato. I duumviri Sepunio Sandiliano ed
Herennio Epidiano sul lato della gradinata che mena alla edicola fecero
collocare a loro spese una colonna ionica di cipollino sormontata da
un quadrante solare. Il tempio greco nel Foro _Hecatonstylon_, il più
puro degli edifici pubblici in Pompei, venne completamente restaurato
dai commercianti e dedicato a Nettuno, il dio che favoriva i loro
grossi guadagni. Le Terme furono riparate per le prime dai munifici
cittadini. Ed il tremuoto avendo assai danneggiato il tempio di Giove e
il colonnato del Foro, i duumviri ordinarono che le colonne doriche del
portico ch’erano di tufo si ricostruissero di pietra calcarea, e pur
di travertino si selciasse il parallelogrammo dell’area. Le statue che
decoravano i piedestalli furono provvisoriamente serbate in un vasto
pubblico edificio.

Nel periodo di quasi tre lustri molte erano state le novità incresciose
e consolanti nel mondo romano. Laodicea, grossa città dell’Asia, erasi
rovinata per tremuoti, al pari di Pompei e di Herculanum, e di proprio
rifatta. Puteoli, terra antica, rinomata da Nerone, poi che colonia. In
Tarentum ed in Anctium, posti a guardia vecchi soldati per ripopolarle
coi lor maritaggi, furono diserte da quei raccogliticci, insofferenti
di famigliari cure. Nerone, stanco di Ottavia, aveva sposato la
concubina Poppæa, sposa ad Ottone, che amandola, mal suo grado glie la
concesse. Ma l’ira del popolo lo incitò ad un ripiego. E chiamato a sè
Aniceto:

— Tu mi campasti dalla madre insidiatrice. Fammi minore servigio.
Levami dinnanzi la odiata moglie. Nè mani. Nè ferro. Testimonia
averlati goduta. —

Il dirotto in mal fare confessò il vitupero. N’ebbe a premio dovizie
e confino in Sardinia. E la casta donna, lacrimosa più che per mille
morti, partì per la Pandataria. Aveva venti anni. E colà i soldati
le segarono le vene. Nell’816 nacque dalle nuove nozze una figlia in
Anctium, e questa dopo quattro mesi morì. Furono chiamate Auguste
ambedue. E le pazzie pei natali e pel lutto, sì di Cesare che del
senato, furono fatali ai dignitosi ed onesti. Egli, per consolarsi,
cantava vestito da Apollo, o da femmina. E forzava gli applausi. E
cominciò i mangiari in pubblico. Fra due colli era il lago di Agrippa;
e sulle acque fe’ costruire un tavolato, mobile, ove pose il convito,
tirato da triremi, commesso d’oro e di avorio. Remavano cinedi, maestri
in libidine. Erano tende rizzate sulle rive con matrone e sciupate
ignude. Cessata la imbandigione e venuta la notte, i boschetti e le
case dei colli risuonarono di canti; e i falò illuminarono la scena.
Aocchiato uno stallone in quella mandra vituperata, lo volle marito. E
Pitagora fu lo sposo di Cesare per le ceremonie di uso. E lo imperatore
del mondo coprì il capo di velo giallo. Udì gli augurii. Si decretò
la dote. E i torchi scacciarono le tenebre attorno il letto geniale.
Per frode del principe Roma bruciò. Fra il monte Palatino ed il Celio
le botteghe piene di merci furono esca alle case. La vecchia viuzza,
i torti quatrivi, preda alle fiamme sui colli e sul piano. Grande la
morìa. Ma gli scampati ricoverò nei palagi e nei templi. Fece venir
masserizie da Ostia e rinvilì il prezzo del grano. Rifece il palazzo
imperiale, di miracolo, per opera degli architetti Severo e Celere,
con selve allo intorno, laghi e bellezze sopra natura. E surse l’Urbe
nuova. E non più a vanvera come era dapprima. Ma larghe strade con
traverse fatte a misura, con più larghe piazze. E per distrarre le
ire popolari contro lo autor dello incendio — ignoto a veruno — furono
stranamente puniti quali rei del delitto i palesi credenti alle parole
del Cristo; i quali ne’ tormenti altri molti ne nominarono; — i preti
avranno santificato anche questi? — e tutti furono uccisi in modo vario
e spietato, quali nemici al genere umano.

Una vasta congiura minacciò i giorni del mostro imperiale. Spillata
la cosa e fatta certa, Caio Pisone, e i suoi amici, e gli affidati,
e gl’insofferenti l’onta del nome romano empirono l’Urbe di mortori
e il Campidoglio di vittime. — Una sera, tornato dal teatro, ove
aveva cantato i suoi versi e chiesto in ginocchio, a mani giunte,
le battute ed i plausi dal popolo, Nerone, crucciatosi con Poppæa,
le die’ un calcio nel ventre pregno e la uccise. Ne fu dolente a suo
modo. E salito in ringhiera, ne lodò alla folla le belle membra, non
la virtù. — Tempeste e pestilenza desolarono Italia. Ma il signore
del mondo era più grave di ogni malanno. E un bel dì i pretoriani
stanchi lo abbandonarono solo nel palagio. Ond’egli impaurito fuggiva;
e sentendosi inseguito, si appiatta dietro il muro di un orto, cerca
trafiggersi, ma al grande omicida delle migliaia manca il cuore di
spingere il ferro nelle viscere. Epafrodito, scrittor di memoriali, lo
aiuta a morire. E il citaredo non lamenta lo impero, sì l’arte che in
lui perde il migliore tra i suoi cultori.

L’allegrezza nell’universale fu grande. La plebe coi cappelli in testa
andò a zonzo per la città quasi di schiava fatta libera.

Livio Ocellare, di Fondi, che poi si chiamò Sergio Sulpizio Galba,
settuagenario e gottoso, proclamato imperatore da Vindice e dai suoi
legionari, venne d’Iberia in Roma non molto gradito dal popolo,
perchè vecchio, rigido, modesto, schiavo dei liberti, stretto di
mano e brutto; nè accetto ai pretoriani, alle neroniane largizioni
avvezzi, i quali più amavano i vizi che le virtù dei principi. Adottò
a figliuolo e nominò Cesare Pisone Frugi Liciniano, giovane nobile
e valoroso. E presentandolo alla folla e alle milizie, disse secco
secco: — _Vir virum legit_ — cioè, con alquanta boria, espresse come
un prode eleggesse un prode. E non parlò di donativo, nè di feste, nè
di spettacoli, nè di baldorie. Quelle sue grinze accompagnate da tanto
rigore antico non erano più di stagione.

Ma Silvio Othone — compagno negli stravizi al morto principe, marito di
Poppæa Sabina ceduta ed amata, sì che Nerone geloso l’ebbe a sbandire
dall’Urbe e un distico famoso sentenziò Othone adultero della propria
consorte — comperò l’animo dei soldati colla promessa di riserbare per
sè quella pecunia che da essi fossegli conceduta. E tre dì poi dalla
proclamazione di Pisone, questi e Galba morirono scannati nel Foro
presso la voragine, ove M. Curzio erasi gittato in antico col cavallo
ed in armi.

La plebe corrotta, non capendo in sè dalla gioia, il salutò col nome
di Nerone. E le prime epistole ai governatori delle provincie le
sottoscrisse con siffatto cognome aggiunto al proprio. Ma già Aulo
Vitellio — l’uom dalle prodighe cure — era proclamato imperatore
dallo esercito di Germania. Othone se gli offre compagno e genero.
Nemico egli era alle guerre civili e punto sanguinario. Pure dovette
ire incontro coi suoi alle genti che Vitellio mandava innanzi. Fabio
Valente coll’aquila della quinta legione per le Alpi Cozie; Cecina
colla ventunesima pei monti pennini. Le due osti si azzuffarono.
Scaramucciano in Cremona, in Brescello; ma la giornata fu grande
presso Bebriaco in favore di Vitellio. Othone poteva ritentare la prova
atroce, lacrimevole, dubbia coll’arrischiata virtù dei suoi. Non volle.
Giudicassero di lui i secoli. Bevve acqua fresca. Tenne aperto l’uscio
della casa. Dormì placidamente tutta notte. E in sull’alba ridesto,
tastò la punta di due pugnali, ne scelse uno e se lo infilzò sul cuore.
Fu arso e sotterrato incontanente dalla pietà dei soldati presso a
Veliternum. Dopo 95 giorni d’impero morì a 37 anni, con fama di virtù,
di molti vizi, e di aver promosso la morte di Galba, non per sete di
signoria, ma per restituire la libertà perduta ai Romani.

Il nuovo era uomo di ventre. Fu a vitupero chiamato lo Spintria,
quando cogli altri giovani s’intrattenne nella corte di Tiberio in
Capreas. E ligio a Caligola, a Claudio e a Nerone, ottenne magistrature
e consolati, e da Galba il comando della Germania inferiore. Era
sua gloria la gozzoviglia, e compartiva i suoi pasti in asciolvere,
desinare, cenare e pusignare. E imponeva ai grandi di convitarlo. Ed
ogni apparecchio non costava meno di cinquanta mila denari. È famosa
la cena imbanditagli, dal fratello il dì del suo ingresso nell’Urbe.
Vi consacrò un piatto, — il quale per la smisurata ampiezza ei chiamò
lo scudo di Minerva — ov’erano mescolati fegati di scaro, cervella di
fagiano, lingue di psittaci, latte di murene. E vi furono consumati
duemila pesci elettissimi e settemila uccelli. Nè men fu crudele che
ghiotto. I possibilmente rivali, avvelenati, ed alcun di sua mano.
I creditori e gli usurai suoi, uccisi alla sua presenza per pascer
l’occhio — ei diceva — ed esser certo di averli saldati.

Dopo otto mesi di tale imperio gli eserciti della Mesia, della
Schiavonia, quel di Giudea e di Sorìa si ribellarono, obbligando la
fede a Flavio Vespasiano. Vitellio ne impaurì. Tentò un’abdicazione
a pro di ogni scelta, e comperò la salute da Flavio Sabino e dai suoi
Reatini. A tradimento condottili al Campidoglio, gli arse nel tempio
di Giove, nell’atto ch’ei banchettava nel prossimo palazzo di Tiberio.
Approssimantisi le coorti, mandò loro innanzi le vestali per chiamar
pace. Intanto fuggì per la campagna in compagnia del cuoco e del
suo pistore. E tornato in casa sulla voce della vita consentitagli,
abbandonato da tutti, rubacchiò in furia un po’ di oro, lo chiuse
in una cintola e si fortificò nella stanza dell’ostiario. Colà lo
trovò l’antiguardo e, lui piagnucolante trascinarono con una cavezza
alla gola e, mezzo ignudo, giù per la Via Sacra, tra i dileggi della
plebaglia che gli gittava sulla persona sterco e fango e lo chiamava
incendiario e lecca-piatti. Finalmente, lancettato, pizzicato, urtato,
ferito di lancia e di gladio, cadde morto a piè delle scale Gemonie.
E trascinatala con un uncino, quella cosa sozza la scaraventarono nel
Tevere.

Come le materie da incendio accrescono le arsioni, così il nuncio
della sua morte infellonì vie peggio la plebe. Le vie piene di
cadaveri. I templi, di sangue. Per la scusa di trar fuori i nascosti,
rovistati i palagi, frugati i ripostigli. E chi si opponeva ai soldati,
ucciso. E la canaglia morta di fame, sfondava, bruciava, e gavazzava
nell’insolente disordine, nello spietato carnaio.

Il senato decretò a Vespasiano gli onori usati ai principi, e chiamò
il nuovo imperatore Consolo insieme con Tito. L’altro figliuolo,
Domiziano, fece pretore con podestà consolare. Flavio scrisse con
modestia di sè, con magnificenza della repubblica.

L’Urbe per le frequenti arsioni e rovine — ristorata un po’ da Nerone —
era sformata, e guasta. Laonde, Flavio ordinò che i padroni dell’area
vuota non edificando, chi volesse la riempisse di casamenti. Egli
restituì il Campidoglio, e fu il primo a portar via sulle spalle
corbellate di calcinacci, di cui ingombro era il luogo. E vi rifece
tremila tavole di rame — già logore e quasi fuse dal fuoco — sui
modelli e sulle scritture antiche di quelle. Non che uno inventario
delle cose pubbliche dai tempi remoti, nel quale si contenevano le
deliberazioni del senato, i plebisciti, le confederazioni pattovite, e
i privilegi conceduti a chiunque, dall’evo romuleo sino allora. Rizzò
il tempio della Pace sulla piazza; lo anfiteatro, secondo il modello
ideato da Augusto; e il monumento al divo Claudio, incominciato da
Agrippina e disfatto dal suo figliuolo parricida. Ridusse l’ordine dei
cavalieri e dei senatori allo splendore antico e gli portò al solito
numero, radendone le persone vili ed ignobili, e posti ne’ loro stalli
uomini dabbene d’Italia e di fuori. Ed, occorse aspre parole tra un
senatore ed un cavaliere, sentenziò, brutta cosa fare atto d’ingiuria
ad uom del senato; ma rispondere ingiuriosamente a quelle ingiurie
essere cosa lecita e civile.

Mai dissimulò la bassezza dei suoi natali. Permise a tutti la libertà
del dire, e fu tollerante verso chi malediceva di lui. Obliò di gran
cuore le offese; nè temette le inimicizie o tolse via la usanza di far
cercare coloro che venivano a salutarlo, se essi avesser armi nascoste,
costume durato fin dai tempi della guerra civile.

Si palesò però avaro ed ingordo. Addoppiò i tributi e si die’ a
negozi da vergogna, quando anche fosse stato uomo privato. E’ pare
che cotal difetto lo avesse di natura come quelli che arricchiscono
dopo umiliante povertà e lunga. Laonde un vecchio bifolco — che a lui
chiedeva lo affrancamento ed egli rifiutoglielo senza denari — rampognò
lo imperatore col dirgli:

— «La volpe muta il pelo e non il costume.» —

Malgrado ciò, largamente pagò i maestri di retorica greci e latini,
formò la sua corte di uomini dotti ed eccellenti nelle lettere e
nelle arti, restituì i giuochi e le recitazioni antiche, premiò poeti,
tragedi e citaristi.

E in Falacrine, suo luogo natale, lasciò la casa che prima vi era, per
soddisfare ai suoi occhi e ricordarsi con modesto orgoglio dell’antica
dimora.

Quinto Lepta, ancora commosso dalle miserie del popolo, entrò in
una casa piena di melodia. Dal fondo, presso lo xysto, uscivano da
una cetra i sospiri di un’anima stanca dalle ricerche delle gioie
terrestri, gli accordi di una tristezza passionata, gli accenti di un
amor combattuto, tempesta che ancor tramanda i profumi delle rose e
delle viole sbattute ed infrante. A lato dell’uscio chiuso, ad altezza
d’uomo era un foro rotondo coperto da un vetro. Da quel buco vedevasi
per di dietro una donna assisa, in su i trent’anni, evocando il coro
de’ suoi pensieri colle sue dita di sibilla.

— O divina creatura! La donna appartiene allo amore come l’erba dei
prati allo armento. Byrrhia con quei capelli accesi dai sensuali
ardori, con quello aspetto di grappolo indorato dal sole, mi brucia
l’anima e il corpo. —

E senz’altro, rotto il filo ai pensieri che gli si arruffavano, spinse
la porta ed entrò. La donna, nel volgersi, emise un raggio luminoso dai
suoi occhi vivaci e neri, velati da una nube di tenerezza e da un mesto
sorriso. Le loro bocche s’incontrarono.

— _Suavia et iterum suavia._ Io sono lieta che tu mi desideri con
ardore.

— Sì, altri baci ancora, o dolcissima tra le cose. Io te desidero ed
amo.... La celeste armonia mi penetrò nel profondo.

— Era un’ode di Sapho di una singolare potenza, disordinata come la
passione, lamentosa come il dolore. Misera! Quanto soffrì. La sola
Morte colle sue dita affilate può medicare una ferita pari alla sua...
Ma tu non mi spingerai allo scoglio d’Ercole per chiedere l’oblio ai
gorghi del mare.

— _Unum habeo solatium in te_, o Byrrhia. Arrida ad entrambi la bella
dea Pompeiana.

— E arriderà! Ha spesso i miei doni e le mie preci ferventi. Oh!
Abbracciami, Quinto. Il tuo affetto è la pietra che ricuopre il mio
cuore. Ebbene! sii custode di questo sepolcro ove riposa la innamorata
anima mia, e nessuno saprà penetrarvi. —

La stanzuccia, ove i due felici si trovavano soli, aveva sulle pareti
gioconde pitture, per terra un tappeto discreto, una _cathedra_ —
specie di lettuccio di legno dorato e coperto di un materasso purpureo
di piume — un tavolino leggero con sopra due vasi di _mourrhina_,
e dallo xysto vi entrava il profumo dei fiori che riscuote come la
musica, ed ammalia come lo sguardo. Le più fredde virtù si sarebbero
fuse sotto quei raggi d’oro della eleganza e dello amore.

La indolenza è una felicità. E la felicità è orizzontale.

Lachesis poteva rompere lo stame di quelle due vite. Esse avrebbero
veduto nel Tartaro con occhio eterno le prospettive magiche di quei
novissimi istanti!

O Amore! giocondissimo iddio, tu non puoi rendere la creatura
continuamente felice col medesimo oggetto, a dispetto di ogni promessa
e malgrado le più seducenti speranze. Bambino, non prendi persona, nè
invecchi. Muori e rinasci. Da secoli infiniti le tue vampe si allumano
e si spengono nel cuore istesso. E se vi hanno anime le quali bruciano
senza farsi mai cange, esse usurpano il tuo nome, o Amore, e calunniano
la tua nobile ed infedele esistenza. Sono caparbi — indifferenti — rosi
dalla noia — impigriti dalle abitudini — dimezzati dal disgusto. — Sono
ipocriti od imbecilli, che natura diseredava.... ed io li so, ed ognun
che mi legge li nomina della sua mente.

Nella _fauces_ presso l’atrio di quella casa erano seduti per le
terre Chresto e Methe Cominiæs, due schiavi, l’uno di dieciotto,
l’altra di sedici anni. Giuocavano cogli astragoli. Gli gittavano in
aria sul dorso della mano a uno, a due, a tre, a quattro, a cinque
e li raccoglievano sulla palma. Bisognava esser destri e prestarvi
attenzione. La fanciulla vinceva. — Chresto badava più ai di lei occhi
che ai _tari_.

— Tu fai sempre il colpo del carro, o il colpo dello avvoltoio. Di’, a
che pensi così distratto?

— Penso.... penso al nostro padrone Aulo Vezio, il quale mangiava le
sue allegre cene sui piatti della bilancia di Temi ed ora Byrrhia le
digerisce per lui.

— Vuoi che intisichisca per dolore?

— Mai no. La sua disonestà non la inghiotto nè sputo. Ma cacciare il
chiodo sì presto nel muro!

— Per ribadir l’altro.... Gli è perciò che tu....

Il giovinetto drizzò lo sguardo nuovamente sul viso pallido, sulle
linee delicate e fine, su tutta la persona appetitosa che avea dinanzi,
e quello sguardo acuto impedì che la frase si terminasse. Ma ei la
compì, pronunciando per sè medesimo:

— Perchè non mi promette una serie di giorni felici!... La donna qui
è tra la terra ed il cielo. La poesia la esalta lassù nelle nubi. Chi
passa la ghermisce e l’ha.... _Res fragilis!_ O spettro di Vezio, quali
corone tu aduni in questi giorni nell’urna delle tue ceneri!

— Chi deve.... prometterti felicità, o Chresto?

— Chi?... Una fanciulla che da parecchie notti mi vieta il sonno e
che forse si destina ad uomo che val meno di me. Apparterrà ad un
imbecille, all’_atriensis_, allo _structor_, che apparecchia il desco,
od al _coquus_, quello animalaccio venuto di Sicilia, il quale ruba la
riputazione che gli danno.... Ed io l’amo e la merito, per Ercole!

— Nel mentre, o Chresto, tu ristai melanconico e dubbioso dinanzi
all’_ostium_, non ti avvedi che la desiderata ritira i _pessuli_
dall’uscio ed attende che tu lo spinga!... Io sono nella luna di mele
del tuo e mio primo amore e provo in ascoltarti e in vederti delizie
ineffabili.

— È egli vero? Vuoi tu essere la mia _contubernalis_?

— Ma che chieggo io a Venere sacra dal dì in cui venisti sul mio
sentiero?

— Vieni tra le mie braccia, _lux mea_. Non essa oggi la sola felice.
Anche noi! —

Salirono al piano superiore ed assaporarono l’ora presente coll’audacia
di chi non teme i tradimenti dello avvenire ed obliarono le tristezze
cuocenti del giorno svanito. — La felicità è di gaio umore; non può
star chiusa; è meridionale; esce di casa e va via ciarlando. Gli è
perciò che dieciotto secoli più tardi, interrogando i muri della mia
offesa Pompei, vi lessi cotesto graffito indiscreto.

_Methe Cominiæs, Atellana, amat Chrestum corde. Sit utreisque Venus
Pompeiana propitia. Et semper concordes veivant._

Presso queste anime piacevolmente innamorate — che dedicavano il
loro tempo alla iddia sorridente e gioconda — altre erano in Pompei
allegre e chiassone, il cui punto di riunione, pria delle Terme,
erano le _tonstrinæ_, luoghi di perdi-giorni, di novellieri e di
ricchi fannulloni. Siccome i Greci avevano il costume di tagliarsi i
capelli e di farsi radere, di Sicilia cotesta moda risalì il littorale
peninsulare e nel 454 di Roma l’uso divenne quasi comune nel mondo
all’Urbe soggetto. Nella età di quarant’anni Scipione Africano si
fe’ radere tutti i giorni, e non fu persona distinta in Italia che
in seguito non lo imitasse. In Pompei la industria dei tonsores fu
dapprima in pien’aria finchè contarono tra i loro clienti i marinai
e la plebe. Allorchè la comoda usanza venne adottata dalla grande
maggioranza dei Quiriti, tornando indietro nobilitata, richiese
eleganti botteghe e stanzucce appartate nei migliori quartieri della
città; graziosi musaici e grandi specchi; _camini portatiles, foculi,
ignitabula, escharæ_, cioè bracieri di varie forme per riscaldarvi
i _calamistri_; piccoli rasoi, adatti allo scopo, detti _novacula_;
larghe e brevi cesoie che addimandavansi _axiciæ_; e sottili mollette,
nominate _volsellæ_. Avvegnachè, in quelle botteghe uno potesse _barbam
ponere_, se volea farsi radere, o _tondere forfice_, se preferiva
corti i capelli; o _pillos vellere_, se piacevasi di quella effeminata
abitudine di farsi carpire i peli colle pinzette sul mento, sotto le
ascelle e in altre parti della persona. Alcune schiave — _ustriculæ_
— erano addette a cotesto ufficio. Altre dette — _tonstrices_ —
spargevano sul mento una specie di pomata che avea nome _psilothrum_
o _dropax_; oppure lo imbrattavano con certa pasta veneta, o resina
calda; che Giovenale chiama _calidi fascia visci_ e quindi coi
_novacula_, estratti dalla _theca_ ricurva, mondavano la epidermide. I
più delicati e schizzignosi si nettavano il corpo dai peli col farli
bruciare dalla fiamma di un guscio di noce, e poi vi facean passar
sopra la pietra pomice.

La _tonstrina_ dinanzi la Palestra delle Terme, dipendente dalla casa
di Olconio Prisco, aveva due botteghe sul margine della via dalle
fontane di Pallade e dell’Abbondanza, e una stanza di retro. Era
affollata. Vi erano giovani che avevano fatto arricciare i loro capelli
coi ferri caldi e si miravano nello specchio per osservare se gli
anelli fossero tutti eguali. Altri erano _inter pectinem speculumque
occupati_. Altri _uno digito caput scalpebant_.

Un giovane che veniva dal Foro, si appressa al primo uscio e s’imbatte
con un cinquantenne che ne esciva ringiovanito per la patina esterna. E
scherzando gli dice:

— _Dispeream!_ Philomuso, se potea riconoscerti. Ti aveva incontrato
cigno stamane nella _salutatio_ presso Pansa ed or ti ravviso corvo.
Ah! Ah!... Credi tu d’ingannare Proserpina? La fuligginosa iddia ti
strapperà la maschera. _Cave!_

— Seguo la moda che in Roma trionfa. Sembra che la canizie debba essere
abolita. Ed io l’abolisco. — Ma, avviso per avviso, o Mathone. E tu non
giuocare con Glaucia presso il gladio di suo marito tribuno. — _Cave!_

— E che ho io a temere?

— La pena degli adolescenti.

— Oh! Il taglio è vietato or dalle leggi.

— È forse permesso quel che tu fai?

— E anch’io un avviso, se lo consenti. Non appressare la face d’amore
alla lucerna fumosa di Clancia, la vedova di dugento mariti. — Buschi
nomèa di avaro e nol sei. —

— Rientro nella vita comune e seguo il tuo esempio. _Vale._ —

Philomuso andò via, e Mathone entrò nella _tonstrina_. Uno che si era
fatto radere ed allora si faceva arricciare i capelli, ricurvo sotto
l’azione del calamistro, dice:

— Salve, o amico. Che diceati la sciupata di quel buontempone?

— Vuoi parlare della sua amante, o Tongilio?

— No, della sua lingua che taglia e fende.

— _Nugæ._ Astonio lo ha ringiovanito che sembra un risorto. Mio padre
il conobbe biondo. O perchè il festi nero, o Astonio miracoloso?

— È la tinta in favore per gli uomini. Per le donne il rosso ardente.
Vedesti Levina di Bleso, per la festa delle _Palilies_, alle none
di aprile? Per lo anniversario della fondazione di Roma essa adottò
il nuovo colore. Durante il giuoco troiano — che il giovane Ascanio
creò in Alba a ricordo della patria distrutta — i cavalieri che si
avanzavano nel Foro in ordine di battaglia non miravano che a lei
bellissima e, pel color dei capelli, innovata. Le donne ne ingelosirono
e la imitarono. Nei teatri e nei templi omai non vedi che chiome
ardenti. — Torneranno brune al cader della moda.

Vacerra — un ch’era nella bottega — già sbarbato e terso, si leva dal
seggio ed aggiunge:

— Levina è una Venere mendace, e senza aiuti commette adulterio. —

Lucio Adirano sorge anch’egli e dice:

— Cotesto forse quando frequentava i bagni di Stabia e i paesani. Ma,
Penelope a Baiæ nell’anno decorso, ti accerto che Elena ne esciva.

— E qual nume operava il prodigio? Per Ercole! Non parea pompeiana e
civile.

— Il divo Apollo si piacque discendere nella tunica di Mario Venicio, e
Cupido addoppiò lo splendore delle sue faci. Lo amico nostro passò lo
inverno con lei in Neapolis. Ora sono qui, ed essa brucia alle vampe
del suo cuore.

— _Ita me bene ament numina excripta_ che ho dipinti nell’atrio della
mia casa e che veggono le buone e le villane mie azioni! Davvero che
men compiaccio e correggo il mio errore. — E il marito?

— Cosconio Classico _strabo est, pætus et ocella_. Con siffatti malanni
negli occhi si veggono le paglie nelle altrui case e non le travi nella
propria. E poi in gioventù ne die’ ad usura. Or glie ne rendono.

— Mathone, ecco Cneo Apro ch’esce dalla stanza. Se vuoi farti azzimare,
entra. —

Il giovane seguì il consiglio del _tonsor_. La cameruccia era piccina,
ma elegantissima. Sopra una tavola di legno nero e dorato nelle cornici
erano capsule di vetro, bombyli, bilbini, paropsidi, unguentari, ambici
e tazze piene di quelle paste, di quelle resine, di quelle pomate, di
quelle polveri, atte a sbarbarsi, a tingersi il pelo, a far liscia la
pelle e ad imbellettarla.

Una fanciulla ventenne — coperta da una tunica senza maniche che
giungeva sino ai ginocchi e avente sul capo ricciuto un berretto
frigio le cui alette scendeano bellamente sulle spalle e sul petto — lo
attendeva sorridente e graziosa. Era una delle _tonstrices_.

Pria di sedersi il giovane — dopo averla attentamente mirata — le disse:

— Non di qui. — Giunta di fresco? — Quale il tuo nome?

— _Mica vocor._ — Siracusana. — Da due anni.

— Ben ti chiamarono pagliucola d’oro. Splendi come raggio di sole. Or
fammi degno di colei per cui arde il mio sangue.

— Eccomi. — Ambidue sembrate.... la unione preziosa del cinnamo e del
nardo. La felice miscela del massico col melo d’Egitto. Venere dispensa
a te i suoi favori. Il tempo passi e.... e non si accorga di lei.

— La conosci?

— Mi è nota. Tutto si sa qui. — Poni i piedi sul _suppedaneum_. — La
_novacula_ ti par bene affilata?

— Risuona. Ma scorre sulla dermide a maraviglia.

— Ti vidi entrare un dì nella _tonstrina_ di Glaphyro. E ne provai
fugace dolore. E la notte successiva la passai vegliando.

— Perchè?

— Val meglio patire una operazione dal chirurgo Hemos che farsi
radere da Glaphyro e dai suoi Poserio, Spicolo e Chœria. Pei cinici
e per gli stoici, eh! sono adatti. Le facce stimmatizzate del paese
non appartengono già a vecchi atleti, nè a mariti di donne gelose.
No. Ma subirono sfregi dalla mano scellerata di Chœria. E Prometeo
ridomanderebbe a Giove il becco dello avvoltoio se Glaphyro accennasse
di carezzarlo coi suoi rasoi di bronzo.

— Veh! che or mi dirai che le capre serbano il fiocco di peli per tema
di lui... o di lei! — Gelosia di mestiere!

— Ti accerto che Baccara — or mia compagna — lasciò la bottega, sulla
via di Mercurio, per l’orrore del sangue. — Io temeva per te una
soppiatta vendetta!

— Di lui?

— Di lui.... e di Nata. Ti ripeto, noi sappiam tutto qui. —

Il giovane si volse e la guardò fiso. La fanciulla siracusana sostenne
lo sguardo.

— Parli tu cogli aruspici? Nata, di Cornelio Rufo, è bella sì, di
vivaci occhi, di portamento leggiadro, di lusinghiero accento: ma
è donna di marmo. A contatto, la crederesti assente. Io l’amai da
forsennato.... E l’amo ancora.... Non essa me.

— Ti amo di vertigine per mesi. Alcune teorie del dovere le calmarono
il cuore. Ti ama pur di memoria e di gelosia per sè, non per te.
Capricciosa donna!... Tortura, non tortore!...

— Ma come tu sai sì recondite cose?

— I miei, di Egitto in Corinto e di là a Syracosion. Leggo nelle stelle
e negli occhi — altre stelle che rifrangono il lume dentro e dicono
alla nostra gente ascosi arcani. Ne vuoi esempio?... A Glaucia piace
il tuo nome e il trionfo sulla tua fresca età. È leggiadra, nol nego.
Ma.... piacevolmente si vendica in te del brutto tribuno, il quale è
sì magro che par minacci rientrare un dì o l’altro per sempre d’onde la
prima volta escì fuori. —

La mano di Mica era tremante. La voce tremava. Lucio Mathone respirò
nel vederla posar la _novacula_. Si asciugò la faccia, sedette di nuovo
per farsi ungere i ricciuti capelli e soggiunse:

— Calmati, o soave. Non temerò vendette di ferro, poichè a te mi
affido. Tu sarai la mia tonstrice per sempre.

— Sì.... Ma abbandona Glaucia, che non ti merita, al suo diafano
marito. Lascia pure a Cornelio Rufo, _ancilloriolus_, le vendette tue
sulla fredda e calcolatrice Nata. Un altro cuore si appoggi su quello
di Lucio, e la dea pompeiana gli sarà propizia. —

Mathone si levò, prese colle due mani la testa della fanciulla
siracusana e le baciò gli occhi ripetutamente. Erano umidi e
luccicavano come pianeti. Mica lo abbracciò con ardore e dentro
era convulsa. Si separarono colla promessa di rivedersi la sera. E,
ribaciandosi anche una volta, dissero in coro quella parola spensierata
ch’è sulle labbra di tutti, sì breve, sì fuggevole, sì mal fida:

— Sempre. —

Allorchè Lucio rientrò nelle sale verdi, dove poc’anzi avea lasciato
i suoi amici, questi non v’erano più. Altri gli avevano surrogati.
Quinzio Volcano e Postumio Afra lo salutarono tra l’onda fumosa che
i caldi _calamistri_ sprigionavano dai loro capelli. Ateio Capito a
lui mestamente sorrise. Misizio Cotilo e Claudio Pudente narravano
aneddoti di famiglie che eccitavano le risa della briosa brigata.
Antonio Saturnino diceva i pregi di due bei cavalli africani che avea
comperato, i quali anteponeva alla coppia di schiavi sicambri, di
recente acquistati da Capito nel mercato di Herculanum nella occasione
del _Regifugium_, alle none di febbraio, per cui si solennizzavano
nei grandi centri del vasto impero la cacciata dei Tarquini e lo
affrancamento del popolo romano. Fabullo Nucerio vantava la bellezza
e le grazie di Phlogis e di Chione, tonstrici della bottega della
via Jovia di Antioco. Astonio con molto rispetto celebrò le sue Mica,
Marmerion e Nicidion, abilissime nel mestiere e di gentile aspetto.
Nell’atto si udì uno strepito nella via che troncò ogni discorso. Nella
Palestra di contro _discus crepuebat_. Era il segno che le botteghe
dovevano chiudersi, e le terme si aprivano al popolo. I lavori della
giornata erano finiti.

I giovani pagarono Astonio delle sue eleganti fatiche e partirono.
Alcuni entrarono nel pubblico edificio, ove la folla già conveniva.
Ateio Capito, accompagnato dal bellissimo Lucio, andò per la via delle
fontane di Pallade e dell’Abbondanza verso il Foro, dove si separarono.
E Mathone piegò a manca e l’altro a diritta per reddire nelle loro
case. L’ultimo avea la morte nel cuore. E appena solo, mormorò
dolorosamente:

— Il più giovane dei miei giovani affetti, la fresca alba del mio
mattino, il lume che schiarava la mia fantasia è partito.... ritorna
nell’Urbe. Essa qui resta amaro e pur delizioso ricordo — un idilio che
ancor commuove il cuore. Ne cerco macchinalmente la mano colla mia e
la ritraggo a me vuota. Fui lo schiavo di molte maghe. Ma l’ultima....
Aveva fatto di questo asilo un Eliso.... Oh! le splendide illusioni!
fugate come le foglie secche del bosco! —

Queste parole, a se stesso, in una stanza buia e riccamente addobbata
della casa ch’è di contro alle Terme presso il Foro e proprio innanzi
allo ingresso praticato dalle donne.

Era disteso sur un lettuccio, prostrato, avvilito. Sentiva nel profondo
il fremito dei pensieri alati che corrono ardenti, che volano verso
quelli che si amano e che poi tornano monchi, desolati e soli. Era
passato a traverso di tutte le gioie, di tutti i disgusti, di tutti i
disinganni, di tutte le tristezze, di tutti i peccati del mondo. Il
mistero aveva gittato ogni velo alla sua presenza. L’anima era giù
nello abisso. Molti nel suo caso in Roma si segavano le vene, o si
facevano uccidere da un liberto. Levossi, scoppiettò colle dita, uscì
dal cubicolo, e s’avviò verso il triclinio, ove bene spesso aveva fatto
gioiosi mangiari. Due giovanetti biondi e cincinnati, i più belli che
fossero in Pompei, Belder e Hado, vestiti succintamente di un tessuto
di lino egizio, apportarono entro ricco paniere frutti gustosi — pane
e idromele — un’anfora di vino di Chio ed un vaso di argento d’onde
esciva il vapore della acqua bollente. Due piccole tazze dorate erano
sul desco. In una mescevasi il _merum vetus_ e nell’altra più larga e
profonda l’acqua che riscaldasse il vino. Archigenes, giovane medico
in voga, prescriveva — giusta il dettato di Heraclide di Tarentum — e
raccomandava l’uso del vino caldo mangiando i fichi.

Ateio Capito si trovò solo su quei cuscini, premuti altra volta da
figure animate e graziose. Un raggio di sole pallido e tristo guizzando
tra le foglie degli aranci e tra i cespi di rose dello xysto, entrava
sul limitare della stanza e rischiarava pareti abbellite da squisite
pitture. — Leda che presenta a Tindaro i suoi figli Castore, Polluce
ed Elena in un nido — Amore che si lagna colla madre del disprezzo di
Diana — Teseo che abbandona Arianna. — Mangiò e bevve sbadatamente.
Ombre invisibili lo circondavano e seguivano i suoi movimenti distratti
coi loro lunghi sguardi.

Si ritolse di quivi smanioso. Offerse frutti ai penati nella edicola in
fondo al giardino e andò a ricacciarsi sul letto. Avea le vertigini.
Nulla amava in tal momento...... neppure la donna — malgrado che
sì seducente fosse e che avesse voluto di proprio moto partire —
Nikopolis, la bella greca, aveva trastullato la sua mente — vi aveva
lasciato un vuoto — ma non si era impadronita del suo cuore.

Hado leva la tenda spessa di panno e con accento gutturale sicambro
pronuncia:

— Padrone, una giovane donna manda a te questa epistola. —

Ateio ruppe il filo che legava il rotolato papiro, staccò il nodo col
suggello di cera; e lesse:

«_Chrysis A. Capito suo._

«So le tue cure. Verrò. _Deos obsecro ut te conservent._»

Nella corsa state erasi imbattuto in Baiæ con una etera sedicenne, di
una rara bellezza. — Bruna. — I capelli come ala di corvo coi riflessi
turchini. — Ciglia nere e lunghe. — Naso profilato e formante una linea
retta dalla fronte alla base — Ovale divino. — Sorrideva come altre
mai. — E parlava coi suoi labruzzi di corallo con una volubilità, con
una grazia da incanto. — Nè grande, nè piccola. — Un bello ideale di
donna, di quell’essere incompreso ed incomprensibile; Angiolo decaduto,
sulla cui fronte sembra che Iddio lasciasse piovere un raggio della sua
divinità, e il cui sangue conserva sempre i ricordi dell’Eden perduto
insieme col fomite dell’antica smania curiosa. Nata ai piedi di un
vulcano, ne aveva le furie, il calore, la bellezza e il mistero. Da
essa potevasi attendere tutto. Gioie di paradiso, annegazione completa,
disperazione da dannato.

— Venere me la manda, e pare la faccia prendere dal malizioso suo
figlio. Chrysis è _oro che si vende per oro_. E Nikopolis cosa era? Lo
ardore dei sensi velato da un ingenuo civettismo che pur valea aurei
nummi. La _bastarna_ che la porta nell’Urbe non soffra nè la pioggia
nè il vento; e le mule che la trascinano non la ribaltino per via.
Rifabbricando sui ruderi i ricordi estivi, ricompongo i miei giorni
felici. — Sì, _suavissima mea_, vieni e ti amerò. —

Levossi di letto, stirò le braccia, sbadigliò e riprese;

— Sciocco che io era. Stava soffiando una burrasca in un simpulo.
Tutte eguali! Diverse soltanto dalla voce e dello incarnato! Essa
verrà, e colle dita di rosa raggiusterà il mio rotto cuore e lo renderà
sensitivo e profumato. Stravaganza insensata l’ostinarsi negli affetti
sentiti e di altri tempi! I miei padri colla virtù della mente e delle
braccia conquistarono il mondo. Quirino lo disse, e noi cel godiamo.
È il diritto degli eredi. L’uomo antico è spogliato. La pellicola
vetere cadde; e chi la conserva, la infradicia nella carcere Mamertina
o soffre la grande o la piccola diminuzione del capo — la morte —
o l’esilio. — Venga Chrysis e sdimenticherò la noia e quel ridicolo
rammarico per l’assenza dell’Ateniese, pessima cicuta che già scorreva
col sangue nelle mie vene. Farei vergogna al mio nome e al gentil seme
latino che regge l’orbe a capo della nostra possente repubblica. —

Gli attenti lettori di questi miei studi di risurrezione non taccino
di anacronismo le ultime parole di Ateio Capito. Quel degradato
Quirite visse e morì credendosi repubblicano. Non dobbiamo attribuire
agli antichi le distinzioni delle nostre parti politiche. È lo stesso
sproposito dello scultore che pose la _lorica_, il _sagum_ militare,
la _solea_ coi _vincula_ che legavano i sandali sulle gambe di
Scipione l’Africano alle statue equestri dei due Ferdinandi della casa
Borbone, e la _toga pura_ colla _tunica_ a quella in piedi di Leopoldo
di Lorena. Nel mondo romano non potevasi fare una distinzione tra
repubblica e monarchia, perchè l’una era la forma dell’altra. Quando
Giulio Cesare ammodernò il reggimento, dicendo che era necessario
tranquillizzare i cittadini col moderare la pubblica cosa e porre un
freno alla licenza e alla dissennatezza omai generale, le istituzioni
rimasero, e nulla fu cangio. Il potere era stato spesso nelle mani di
un solo. E i troppi avevano plaudito alla dittatura. Sì, che sursero
sentenze a suo pro. — _Nulla regni societas. — Insociabile est regnum.
— Nulla fides regni sociis._ — E allorchè succedaneamente un solo
governò lo impero della repubblica, nessuno si die’ a lamentarlo perchè
pareva acconcio che un sì vasto dominio avesse ad essere retto da un
solo capo. Tacito — il giustissimo e severo giudice delle peccata dei
suoi tempi — apre il libro quarto dei suoi annali con queste parole:
_Caio Asinio, Caio Antistio Coss. nonus Tiberio annus erat compositæ
Reipublicæ florentis domus_ — cioè — Sendo Consoli Caio Asinio e Caio
Antistio, volgea per Tiberio il nono anno di racchetata repubblica e di
fiorente famiglia. —

Al tempo di cui narro gli avvenimenti in Pompei nessuno pensava a
rovesciare la forma del governo. Ma tutti avrebbero amato di non
trepidare sulla cara vita e sulle acquisite fortune. Trasea, Tacito,
Persio, i fieri patrizi, i filosofi malcontenti aveano lamentato i
vecchi costumi di Roma e gli antichi usi politici non incompatibili
collo impero. Chiedevano che il principe non nominasse i senatori, nè
li radesse a capriccio od a seconda della mala sua voglia. Nè salisse i
liberti ai primi gradi del governo. Laonde i virtuosi e i pochi onesti
non alla Repubblica erano devoti, ma alla cosa pubblica.

— Odo rumore di voce. È dessa. Viene. —

Ed Ateio non s’ingannava. Trasse a sè la cortina e Chrysis gli apparve
dinanzi come una visione mattinale.

— Eccomi a te, _dulcissime animæ meæ_. —

E gli cadde tra le braccia. L’altro la baciò sul viso e colle due mani
quasi la cinse. Era un’ape; e infantile, sorridente e appassionata
nell’atto stesso. L’uomo ebbe baci di ricambio e sentì un filtro soave
penetrare lentamente per tutte le parti del suo essere. Era così noiato
poc’anzi. Allora, qual cambiamento!

— Sono venuta a guarirti. Ti porto un miracoloso amore sul quale,
o ingrato, non sapevi contare. Eppure io so che soffiavi nei lunghi
flauti, affannandoti per una donna il cui cuore paga i devoti alle
calende della sua patria. Credilo. Ti ostinavi a porre il basto sulla
schiena di un bove.

— E chi è colui che vestì la _toga prætexta_ per le funzioni di edile
senza aver bisogno dei miei suffragi?

— Epidico Rufo, il tuo amico _a teneris annis_.

— Può crepar gli occhi alla cornacchia, poichè ha lo sguardo che va sì
lontano. Ciò che v’ha di vero è cotesto. Io ti amo, o Chrysis. E ti
dovrò le grazie maggiori se per qualche giorni — per quanto tempo ti
parrà — mi farai qui menare la vita che vivevamo in Baiæ, quella vita
che lascia corredo di sogni per la età a venire. Prometti?

— Lo giuro per la gentile patrona della nostra Colonia.

— Mira! Tu se’ giunta in tempo. Il sole cade. Farò venire Epidico e
Cæsonio. Con essi le amanti loro. Va nello xysto ad intesserti la
corona di rose. Poi ceneremo lietamente e lungamente. Thespio, il
tricliniarcha, ti aprirà i cubicoli qui, o sopra e sceglierai. Se temi
i tremuoti, meglio stare a terreno. Comunque tu opini, io sarò presso
di te. E morire tra le tue braccia, o Chrysis, è un desiarsi in grembo
a Venere celeste. —

La fanciulla di Neapolis non era una vestale. Nè per quella vita
claustrata avea vocazioni. Le frasi di amore l’erano ben familiari. Ma
dette così — e da lui — le fecero uno strano effetto. Grosse lacrime
le velarono le pupille. Impallidì. Masticò per qualche istanti il
proprio silenzio. Gli prese la testa fra le mani. Vi pigiò su le labbra
convulse e andò via. Quelle lacrime, quel pallore, quel bacio valevano
bene un lungo discorso.

Ateio si lavò; si profumò; vestì la _synthesis_ che Nerone fece
adottare col proprio esempio; la strinse ai fianchi col _cingulum_ di
seta, le cui estremità pendenti servivano di _crumena_ da riporvi il
danaro; vi appese il _sudarium_; pose ai piedi le _phæcasiæ_, specie
di calzatura posta in moda recente dai Greci; adattò al collo una
_catenula_ composta di anelli d’oro; ed aperta la _dactylotheca_,
trasse da quello astuccio alcuni cerchi di diamanti, di rubino e di
sardonica che aggiunse al _symbolus_ che serviva di sicurtà ai suoi
contratti. E così andò incontro agli amici nel peristilio e di là al
luogo della festevole _comissatio_.

Cotesto scioperato era assai giovane. Ventitrè anni. E velava di
esagerato scetticismo l’albospino fiorito della età sua per dinotare
come le illusioni le avesse cacciate lontano. Schiavo del piacere,
credeva in esso il solo sovrano possibile, mai esautorato, della umana
stirpe. Talvolta, in mezzo alle orgie — donde nascea la follia, lo
epigramma, il cozzo dei bicchieri e il tumultuar delle voci — s’isolava
in un capriccio, si racchiudeva in un sogno, volava ad un pensiero che
lo togliea dalla crapula ove gli altri si degradavano. E ciò lo rendea
caro alla fanciulla napolitana la quale lo avrebbe voluto sempre così.
Allora si sentivano di una carne, di uno spirito solo; e le delicatezze
più sacre erano quelle che si ricambiavano. In quella sera egli le
prese furtivamente la mano e la baciò con un rispetto che lo rendeva
felice.

Tra i fumi del vino che invadevano i cervelli e gli scabrosi parlari,
Ateio si curvò verso l’orecchio di Chrysis e le disse sommessamente:

— Sai comprendermi tu? Io ti amo di tutta l’anima mia.... come se non
avessi amato giammai.... come non pensai fin qui che avrei amato alcuna
donna nella vita.

— Oh! non parlarmi così, luce di sole...... Da qualche tempo ti guardo
e non mi sembri più umano.

— E che rispondi a questo grido del cuore?

— Mi abbia Venere irata se la passione m’inganna... Ma io perdutamente
ti riamo.

— Che io viva, o ch’io muoia, io rivaleggio coi numi. —

La bella fanciulla aveva avuto il suo amante improvvisato in Baiæ,
offertole dal capriccio dei passi. E pur d’improvviso la era apparsa
ad Ateio quando men l’attendeva. Abitavano ambidue la contrada poco
acconcia al viver casto e pudico. Avevano appartenuto al capriccio,
di cui il nome ed il viso potevano cambiarsi, ma le esigenze sì
per lei, come per lui non cambiavano mai. Amarezze sdegnose, inique
collere, sterili gelosie i miei padri non le conobbero. Rispettavano il
passato come sacro mistero. Ora lo affetto bollente erasi fatto sangue
impetuoso e carne trionfante. — I beoni vedevano triplo. Le donne
avevano il volto acceso e stralunato. — E nessuno di essi notò quando
il _pater convivii_ e la sua amante si levarono dal _textile stragulum_
per andar via. Essi corsero a celarsi nello Eliso della voluttà e dello
amore.

La luna risplende in Pompei come non vidi mai altrove. Sembra ch’essa
corra amorosa per ogni via in cerca del bello Endimione, di cui tanti
i dipinti sulle pareti degli atrii e dei cubicoli. In quella sera
navigava per l’aere azzurro nella sua pienezza.

Belder era appoggiato al muro sul margine della strada. Pensava alle
sue verdi lande popolate di buoi. Alla indipendenza della sua razza
indomabile. Alla obbrobriosa sua schiavitù. Egli, libero già come
l’usignuolo delle sue native foreste, ora abbandonato dai suoi rapitori
poichè il vendettero, disperava di più rivedere i ruvidi altari,
le funebri collinette di sabbia sotto le quali posavano calcinate
dal fuoco le ossa dei padri e i ripari di terra dietro cui si erano
trincerati i Kanine-faten per difendere dalla ingorda prepotenza dei
Romani i nati del proprio sangue e le pelli — letto, veste, coperta,
difesa, lusso della loro esordiente civiltà.... E sospirava!

Alto e ben fatto della persona, ventenne, biondi capelli inanellati
gli cadeano sulle spalle — poichè era _acersecomes_, cioè, intonso — e
una leggera lanuggine gli adombrava il labbro ed il mento. Aveva uno
di quegli ingenui sorrisi che sembrano tutto comprendere; e tale era
lo sguardo racchiuso nella sua glauca pupilla, a ricordare i disegni
capricciosi delle torbe accese nella capanna ov’era nato, in cui da
bambino pareagli notare i gigli dei laghi, i cespi fioriti delle eriche
e i gruppi dei pini agitati dal vento e guizzanti come onde oscure di
fumo nella spessa ed umida atmosfera.

Un gruppo di giovanette escì parlando e gesticolando e ridendo dalla
porta delle Terme. Erano le liberte e le schiave di C. Cuspio Pansa
che rientravano dopo il bagno dirimpetto, nella casa vicina. Una delle
fanciulle vide più in giù a diritta il sicambro. La luna lo illuminava
tutto. E con una grazia quasi infantile, che le parole non sanno
dipingere, corse a lui ed aperto gli disse:

— Da che ti vidi mi sembrasti Adone. E quando ricordo il bacio che in
Milo la madre mi dava al destarmi, desidero ardentemente che tu mel dia
in questa terra straniera. Vuoi tu riscaldarmi l’anima con tanto bene?
Senti tu gli affetti siccome noi li sentiamo? —

Il giovane distese la sinistra sul capo di lei, le volse la faccia
verso la luna ed aggiunse:

— Sei bella, quantunque le Nornen — le sorelle del Fato — ti abbiano
abbronzato la pelle ed acceso il fuoco negli occhi. Wodan — il
terribile iddio — bacia le stelle negli spazi del cielo. Io bacerò la
tua bocca. Ma io non amo mettere da parte l’anima mia nelle felicità
dei miei sensi. —

Phanisco gli fissò gli occhi addosso con una espressione di soave
languore. Lo sguardo fiero e più la parola austera del selvaggio
figliuolo dei boschi la penetrarono.

— Qui, nei nostri cuori una comunione eterna di gioie, di pensieri, di
pene. Vuoi tu amarmi? Puoi tu cementare la unione divina di due cose
immortali che si confondono? —

— Dammi la mano — Freya ti spinse ver me per alleviar le mie pene...
Quando avrai bisogno di un uomo che si faccia uccidere per salvarti,
non correre lungi, io sarò qui. —

La donna, nervosa e passionata, debole e pure dominatrice, si slanciò
nelle sue braccia senza rispondere. Trionfava dell’uomo che da parecchi
mesi spesso incontrava e subito amò. Era il papiro su cui voleva
scrivere la pagina gentile della sua vita. L’avarizia non potette mai
appressare le labbra livide sulla sua fronte. Nè i doni, nè i rigori di
Pansa valsero a vincere l’ostinato rifiuto. Le sensazioni deliziose che
ora provava erano la sua ricompensa.

Fra i due giovani nati in sì diverse contrade — l’una bagnata dalle
nebbie, l’altra calcinata dal sole — che forse incontrandosi per la
prima volta si erano ritrovati — seguì per qualche tempo un dialogo che
chi legge ricorderà senza che io il dica. Nel separarsi si promisero
un più discreto ritrovo. Diana è patrona agli amanti circospetti e
pudichi. Ma, se inverecondi, gli svela.

— Oh! l’oro fluttuante sul capo tuo! Quante volte sognai di carezzarlo
colle mie mani!

— _Geif my een zun. Faruel._ —

Phanisco gli accordò di gran cuore il bacio che l’atto delle labbra
protese — e non la frase sicambra — le parve volesse significare e andò
via. Ambedue, rientrati nelle dimore dei loro padroni, si coricarono
sui velli di montone che servivano loro di letto. Non una parola, non
un sospiro, per tema che l’ospite divino, penetrato nel cuore, offeso
da distrazioni, fuggisse.

Cneo Vibio aveva voluto disporre e rinnovare lo aspetto interno della
casa pel ricevimento della sua sperata. I migliori pittori vennero a
decorarla coi loro pennelli. Ordinò vasi fittili in Nola. I bronzi, nel
paese. I trapezoidi e le statue di marmo, in Herculanum.

Si lavorava. Gli artisti davano l’ultima mano alle pitture. Gli schiavi
avevano lustrato col piombo i pavimenti. I fonditori consegnavano i
candelabri; il letto nuziale e le _sellæ jugatæ_, con quel meandro che
noi chiamiamo _greco_ e i Romani dicevano _lacunar_ ed i Greci φάτνωμα,
da φάτνη, alveolo, specie d’intarsia di argento sopra una fascia di
rame sul bronzo; le lampade; gli arnesi molteplici al servizio delle
imbandigioni e dei delicati mangiari. Nel tablino — il cui piano era
di mosaico bianco inquadrato da un filetto nero; e le pareti, dipinte
da Alectryon, rappresentavano le muse Talia, Euterpe e Melpomene,
gruppi di baccanti e di fauni, Ganimede rapito dall’aquila di Giove, la
collera di Achille, Ulisse che con una gherminella gli rivela i maschi
istinti, e il mendicante re d’Ithaca che chiede soccorso ad Eumeo —
erano stati deposti sui banchi e sul mosaico i vasi, le tazze di vetro
egizio scolpito, una statua di bronzo ed una di marmo.

L’uscio di strada era aperto. Uomini eleganti, o svagati che occupavano
il loro tempo nel girandolare, nel domandare e nel ricambiarsi le
novellucce del giorno, nel ber fresco o condito in ogni termopolio, nel
rilevare i vizi e le ridicolaggini dei particolari — tutte cose nate
dalla attività dello spirito e dalla oziosaggine della vita — scorgono
colà dentro il padrone della casa ed entrano, siccom’erano già entrati
in ogni bottega di profumiere e di orificeria per far compre per sè o
per le loro amanti.

Alleio Nigidio fu il primo a salutare e a stringer la mano allo edile
ch’era loro venuto incontro nel _prothyrum_.

— I tuoi dioscuri sono bellissimi, o Vibio. Chi gli ha dipinti?

— Poseidonio.... — Ehi!... vien qua per udir la critica sul tuo lavoro.
— Mi pare però ch’egli abbia reso questo ingresso uno dei più splendidi
di Pompei. —

Il pittore che stava dando gli ultimi tocchi nell’atrio ad una Venere
celeste coronata, vestita di azzurro con stelle d’oro e appoggiantesi
sur un timone di nave, presso il quale Amore è in piedi sur un
piedistallo, si fece innanzi sorridente e sicuro. Aveva un berretto
frigio sul capo. Una tunica rossa sulla persona. La fronte alta. La
barba grigia. Il naso breve e ammassato. Gli occhi rotondi, scrutatori,
memori, pieni d’immagini e di scoperte ingegnose. Quella sua figura
parlante affascinò i curiosi in sull’uscio.

— Ho seguito la tradizione di Apollodoro. Polluce, immortale, figliuolo
di Giove. Castore, generato la notte di poi da Pindaro, mortale. Il
consorzio di un novilunio, pria di vedere la luce, teneramente gli
affratellò. E quando il geloso Ida rese vedova la rapita Ilaira, e quei
solenni domatori di cavalli divennero costellazioni....

— Tu credesti acconcia cosa il ritrarre i due nati di Leda allo
ingresso della casa del nostro edile, come curatori e patroni delle
sue prossime felicità. Bene facesti nel presentarli in atto di camminar
lentamente, reggendo ciascuno pel freno il cavallo. — Nobile e divina
movenza! —

Così Giunio Semplice. Ma a Milio Maio non piaceva che i due
affettuosissimi procedessero sulle opposte pareti a rovescio.
Simiglianti di volto, di persona, di arnesi, d’intendimenti, avrebber
dovuto, secondo lui, camminar di concerto. Laonde, il pittore a lui
replicò:

— Siccome Giove permise che l’un rinascesse ogni semestre per consolare
il gemello immortale, così l’una stella sorge e l’altra tramonta; ed io
diedi all’uno la direzione opposta dell’altro.

— E quel pileo costellato il ponesti sui ricciuti loro capi per
dinotarli nati di un uovo?

— Plozio Svellio potrebbe non ingannarsi. Luciano pur dice così. Ma io
credo con Festo Pompeo che il pileo fosse dato a Castore e a Polluce
perchè spartani, i quali avevano il costume di combattere pileati. E
la clamide la posi sugli omeri _insidentem_, come Aliano il decise. Ed
_ambo hastile gerunt_, siccome Stazio ha notato. Non trascurai veruna
particolarità. —

Il capannello erasi accresciuto. E tra gli altri, fattasi innanzi
Laconies, una schiava addetta alla tessitura delle tele, volle
anch’essa dire il suo verbo.

— E al ver ti apponi. Orazio dice nelle satire,

    _Castor gaudet equis, ovo prognatus eodem_
    _Pugnis_....

Dunque se Castore fu detto _equorum domitor_ e distinto nei giuochi
delle corse, Polluce si palesò valente pugillatore e patrono agli
atleti:

— Al duro accento ti riconosco spartana. E mal comprendo come tu abbia
sì presto obbliato i tuoi conterranei, i quali mai si dipartono dai
loro cavalli, doppia forza al guerriero. E ti aggiungerò qualmente la
voce della tradizione faccia Giunone donatrice ai Dioscuri di generosi
destrieri; laonde sempre, o sopra, od a lato di essi, ritraggonsi sui
bassorilievi, sulle medaglie, sulle gemme, sui vasi e sul marmo. Se
non vuoi ammettermi queste ragioni, concedi ad un pittore il seguir la
legge della euritmìa, e torna al tuo mestiere di Aracne. —

Risero gli amici alla confusione di Laconies che andò via borbottando.
Ma prese a difenderla Vibio.

— In una città qual’è la nostra, a poche miglia di Herculanum, presso
Neapolis e Nola, non lungi da Baiæ e da Cuma, ove ad ogni piè sospinto
si rizzano dal suolo edifici eleganti; ove di statue son prodighi il
Foro, i teatri ed i templi; ove l’occhio di tutti viene educato al
vero ed al bello ideale; ove i portici delle case private si animano e
parlano agli occhi di chi attento riguarda; ove la vita, dopo il breve
lavoro manovale, si passa in letture, o in racconti, od in poetiche
rapsodie, non è maraviglia che anche la mia povera schiava abbia potuto
emettere il suo giudizio e non aver torto. Nell’Urbe il Campidoglio
si abbella di Dioscuri colossali a lato dei loro cavalli. E ricordo i
versi del poeta che pur dice:

                       _Puerosque Ledæ,_
    _Hunc equis, illum superare pugnis_
    _Nobilem_....

Ma, udite il tafferuglio delle mie genti nel tablino! Mirano e
sentenziano. Andiamo a vedere il Meleagro, la Baccante, la Venere
celeste ed un Marte, or or condotti dal nostro valente Poseidonio.
Quindi esamineremo i dipinti di Atheneo, di Charicles e di
Astynoos. —

E di fatto, non eran chete le gazze. Rhodope e Primigenia avevano per
le mani due specchi; il disco del primo, di argento, era sostenuto da
una figura ignuda che ha elevato le mani e poggia i piedi sopra una
tartaruga; il secondo aveva un capriccioso manico ricurvo, terminante
con una testa d’oca, quasi per appenderlo; ed il disco era afferrato
dalla bocca di un ariete che colle prolungate corna pur lo fermava.

— Mercurio, nipote di Atlante, sostiene convenevolmente la immagine di
una donna, ch’è il pernio del mondo. La testuggine, simbolo del facondo
dio, indica il voto che la bellezza sia lenta a sparire. Ma le serpi,
le ali, la borsa perchè qui obliati?

— Chiedi stranezze, o Rhodope. Le corna sì, in questo che ho nelle
mani, sono di troppo.... Oh! Mira il bel vaso che fa Lochiades
opponente da Batracho. Quel giovane che ha l’asfodelo nel pugno è in
vero manchevole nella persona.

— Sì, quel torso non fa onore al pennello di Echeclos. Potea
risparmiarsi di graffiarvi καλος. La giovanetta nuda è meglio
trattata. Le linee s’intrecciano armoniose, con grazia e con eleganza
d’invenzione.

— Di’ sino a domani. Ma il Nolano sa quello che fa. E chiudi la bocca
dinanzi l’altro fittile che presenta la leggiadra donna che ha nella
destra lo scettro della bellezza, e porge colla manca una coppa piena
di gioielli a quel giovane che accetta il dono e ne toglie di sorpresa
una grossa perla. Gli è il simbolo delle nozze di Vibio. La perla del
dolore. Il premio alla virtù.... Oh! lui beato!

— Veh! Epogato il bel vase di bronzo dal solo manico che finisce con
due colli d’oca e dalle foglie di acanto che accompagnano i tre piedi
con gentili incisioni.

— Ricorda, o Polydemo, i bei versi di Virgilio:

    _Et nobis idem Alcimedon duo pocula fecit,_
    _Et molli circum est ansas amplexus acantho;_
    _Orpheaque in medio posuit_......

— E vedi nel manico la testina di Orfeo che da Alcimedonte fu posta nel
mezzo del vaso cennato dal Mantovano. Meglio interessante questa diota
col gruppo formato dal puttino alato e dal tigre sui due manichi.

— _Butu Batta!_ Cotesti κακαβοι, o come qui gli chiamano, _akena_,
faranno brontolare il _coquus_ Elesiade di Messana. Più eleganti le
_sartagines_ da friggere, le _pelves_ da cuocervi dentro le carni e
le _patellæ_, quelle tegghie da pesce. Eccolo che viene, o Lucidea.
Scommetto approverà lo _ahenum_, di forma elegante, che ha il manico
del coperchio simulante un delfino.

— V’ingannate, o Abacino, o Issa, o Hagyo e Certa. I cacabi da
appendere o da poggiare sui tripodi gli amo meglio semplici e senza
ornamenti. La dea Fornax nè sa qualcosa quando gli schiavi gli
nettano. Le casseruole le avrei volute fornite di bei manichi — una
testa di lepre — un capo d’aglio — un ariete. — V’è solo il buco per
appenderli. La patella per cuocer le uova a riverbero nei loro gusci
onora l’artefice. Cotesta sì, è una sorpresa, e debb’essere Mutraio
Quirinale, il fabbro che ha bottega sulla via Domizia. Liberò alla sua
salute stasera dal vinaio Spiritus. E poi, come tutto è bene stagnato
nello interno, secondo il recente sistema dei Galli Biturigi, sì che
pare inargentato come pria si faceva.

— E che dici, o sapiente manipolatore, di quella fornacella di ferro,
contenente il vaso per le opere tue?

— Non la lodava, o Certa, perchè _pars maxima in ea_. Ne dissi il
congegno a Saturnio, il puteolano; ho assistito alla sua fattura, e
me ne servirò per tenervi calde le salse con pochissimo fuoco, chiuso
com’è di ogni parte. Ma i tre manichi ch’egli vi aggiunse, uno pel
coperchio e gli altri per trasportar la fornace ove piaccia — quelle
statuette di donne giacenti — sono proprio una maraviglia.

— Berrai anche per lui, o Elesiade, eh?

— E berrò triplo, o Abacino, se tu mi secondi. — E berrò decuplo
come Anacreonte, se Certa non disdegna il contatto delle mie labbra e
l’autocrazia sulle vampe del mio cuore.

— Salve, o imperatrice dei cacabi!

— Eh! dicesse da senno.... accetterei. —

Due ragionavano tra loro in mezzo agli sguaiati parlari. E miravano
due statue di perfetto lavoro. Quella di bronzo posava sur un globo
guarnito dalla fascia zodiacale. Era da collocarsi nello impluvio,
dinanzi lo ingresso della casa. L’altra di marmo aveva un occhio di
bronzo nelle reni per collocarla sospesa in aria tra le tettoie della
seconda corte e sopra lo xysto. Erano veramente due capi d’opera.

— Mira, o Aurelio Postumio. Le chiome cadenti sugli omeri, il seno
ricolmo, il peplo che dal capo va giù in lunghe pieghe, la rotondità
delle forme la testimonierebbero donna, se l’artista l’avesse tutta
coperta. La destra rialzata sulla spalla per rilevare l’unica veste e
il flabello che stringe colla sinistra sono pur muliebri atteggiamenti.
Quel figliuolo di Mercurio e di Venere nel cui corpo la passionata
Salmace si compenetrò, servì all’allegoria di cui sono scuole perpetue
le antiche iniziazioni.

— Come, o Vepinio, l’ermafrodismo non è dunque nella natura, e le son
favole quelle che troviamo nei papiri?

— Sono e non sono. Ma la statua che Vibio commise allo artista
ercolanese dice tutt’altra cosa. Cotesto accozzamento delle parti
maschili e delle forme femminee che posa i piedi sul globo terrestre è
il genio della natura che s’immedesima nei due sessi.

— Che ammirate di bello?

— Ammiravamo, o Giunio Semplice, l’allegoria ch’è in quella statua di
bronzo e.... Vibio, tu fosti servito a dovere. Il Fauno, il Narciso, il
Sileno, il Bacco, ed altre poche scolture in Pompei possono gareggiare
in siffatto confronto. Ti costa molto?

— Aurei nummi!

— Bene spesi!... E lo stesso artista fe’ pure la statuetta di marmo?

— Mai no. — Una è di Apollonio, figlio di Archias. L’altra è di
Suliodes, lo ateniese. Rappresenta l’anima umana che allargando
mollemente le braccia e spingendo lo intero corpo vaghissimo nello
spazio, cerca, ricerca, urta, cade, si risolleva e vola nelle ondulanti
spire dell’aria.

— O maraviglia!

— E perchè nel destro polso la sottile armilla? —

Un uomo ch’era stato ad udire colle braccia in croce dietro le spalle,
e tutt’occhi guardava la statua posta sur un tappeto di lana per terra,
non potè a meno di dire:

— È il legame della psiche immortale col suo velo corporeo quaggiù.

— Bravo! è un uom di genio costui!

— Merita del vino _diffusum consule capillato_.

— No. Se ne avessi sarebbe dolciume. Darò a Peloro di quello _mecum
natum consule antiquo_.

— Io rimango estatico, o Giunio, dinanzi quella scultura. La rivedrò
messa al posto. Come la gioventù diffondesi per tutte le membra, e
colla gioventù la bellezza!

— La correzione del disegno, o Vepinio, la grazia dello atteggiamento
sono un insieme che rapisce ed incanta. —

Nell’atto entravano per l’uscio di strada Hermio e Macerio. Erano due
schiavi dello edile. Uno richiamò la di lui attenzione su due briglie
che avea per le mani — una semplice — una più adorna. — Erano di
bronzo.

— Mira, o padrone. Questa a sinistra non la desidero. Nessun ornamento.
Lo artefice però ha aggiunto al _prostomis_ la bella catena, la
_psellion_, per sedurmi. Sfibbierò l’altra e la ficcherò pei due
anelletti laterali, ne’ quali va il freno, e la passerò sotto il labbro
inferiore del tuo nobile africano, perchè non apra la bocca. Consenti?

— Tu hai gusto, vecchio Hermio. La equilia è il tuo regno e disponine a
modo tuo.

— È buono il signor nostro. Sappiano tutti gli dei ascoltare i miei
voti. — Comperai anche un _prometopides_, da porsi sul fronte del
cavallo. È di bronzo, intarsiato di argento con bella maestria. Mira!
In mezzo havvi un dischetto ove appariscono in basso rilievo due uomini
seminudi che si tengono per mano, pigiando le uve sotto una pergola.

— E tu, Macerio, che rechi?

— Una lanterna, o padrone. La luce fumosa della fune impegolata,
nottetempo ti offende. — I due sostegni sono di metallo a getto. Per
dar passaggio alla luce interna ho preferito il corno, sottile più del
vetro e più forte. La comperai da Tiburzio Cato; nè ho a dir altro.

— Sono contento dell’opera vostra. Andate. —

Quei giovani s’intrattennero anche alcun tempo collo edile, ragionando
di arte, aspirandone per la retina degli occhi e traspirandone per ogni
poro.

E chi non era artista in Pompei? Scuole, siccome noi or le intendiamo,
non esistevano. Ma tutto e tutti ne fornivano continuo i modelli, dalla
natura animata alla natura palpitante. I pesci nel mare, le triremi
sul Sarno, i begli alberi carichi di frutta sul piano, le case di
campagna sul versante del Vesvio, i monumenti nella città, i bambini
ignudi, le donne non molto coperte — di belle linee fornite e di facile
consorzio — il culto professato largamente alla iddia del cuore dalla
pubertà sino al possibile, ecco gli educatori allo sguardo per la
scienza della forma, per la leggiadria delle movenze, per la magia dei
colori, per l’armonia dei gruppi. Io veggo graffite sui muri caricature
delineate col sentimento dell’arte. Nello ambulatorio addetto alla
famiglia degli accoltellanti erano immagini di giostre, di uccisioni
e di cacce che nessun soldato oggi saprebbe segnare colla baionetta. I
mosaici presentano una varietà di disegni ed uno accoppiamento di marmi
ammirevole. Non un quadro copia di un altro. Se raffigurante lo stesso
soggetto, diversa la posizione delle figure. E ve ne ha di quella che
Raffaello e Michelangelo avrebbero testimoniato co’ loro nomi.

Io credo che ai monelli — dopo aver macinato i colori e visto il
metodo di adoperarli — prendesse sovente la fantasia dello imbratto e
riescissero. E incoraggiati e plauditi, continovassero. Quell’_anch’io
son pittore_ debb’essere di antica data. Ed è certo di origine italiota
dai secoli lontani.

Gli amici si salutarono e si strinsero le mani.

— Quando le nozze? —

— Appena, o miei, avrò posto in assetto queste domestiche cose.... Nei
giorni fausti del quinto mese. — Fra poco. —

— Augurii lieti, felici. —

Tutti partirono. Andarono di concerto sino all’arco a trionfo. Quindi
ognun prese il suo cammino, quale verso il Foro, quale alle sue case.
Un d’essi, Marco Porcio, avviossi colà d’onde esciva la luce che
irraggiava in quei giorni il suo cuore. E camminando diceva a sè stesso
con quel gesto animato dei meridionali.

— La mia chimera è svelta come Diana cacciatrice. La donna breve, più
che uno sproposito, è una inavvedutezza di Vitunno che dà il soffio
della vita ai mortali. L’amo bianca, perchè il giglio è bianco. I poeti
per velare gli orrori della pelle bruna la dicono dorata dai baci del
sole. Quell’oro è rame brunito; è una epidermide di assi. Ho qualche
sospetto però sul colore dei suoi capelli. Ma così qual’è, anima e
corpo sono un invidiabile possesso. —

Cennia Augusta — della famiglia Procula — che l’occupava sì da veder
lei in ogni cosa nella quale imbattevasi, lo riamava; ma di quello
affetto di donna giovane e svagata che vien dopo la idolatria di sè
stessa. Quanta giovinezza! Quali occhi! Oh! come purissimi i suoi
contorni! Tre anni innanzi, in aprile, aveva compito dodici anni. E
se lo spirito avea progredito, anche la natura aveva sviluppato su
di lei le sue forme svariate. Già nella notte un ribollimento del
sangue aveva sollevato i suoi sensi nel calore del riposo ed operata
una gradevole epurazione che avevala agitata e commossa tutta. E nel
maggio, la natura fiorì in lei d’un tratto e senza sforzo, siccome una
rosa vivace e fresca che sbocci al bacio possente dei raggi di un sole
di primavera. Non poteva uom vederla senza sentirsene punto dentro. In
quell’ora la era discesa dal letto di avorio per andare nel domestico
bagno. Quivi:

    _Effulgent camerae, vario fastigia vitro_
    _In species animosque nitent:_

E la giovane etèra baloccavasi nel tino di bronzo, lucido e terso come
oro, e udiva la cronaca scandolosa del giorno che Feda, la sua venerea,
le andava narrando, intanto che la _flabellifera_ le teneva lontane le
mosche dal capo. Dopo un lungo cicaleccio su molti svariati propositi,
Giulia interruppe:

— Oh! Tutto concedo ad Horania di M. Alleio Sirico. — Il lusso di
cui non abbisogno — lo amore che mi circonda — gli affetti di Porcio
dipendenti dal mio sorriso — le di lei ville sontuose in Capreas e sul
Vesbio — tutto — tranne quella _crotocula_ dal colore di zafferano,
tanto ora in moda.... Ahimè!.... Tamno; il mercante nella via Popidiana
che mena alla porta di Nola, mi assicura non averne più di tal
tinta. —

— Eh!... l’avrà. E vorrà fartela pagar nummi d’oro. Phrygia — la tua
nudrice — udì lo sproloquio che Tamno facea con Ebelana e con Lusia
al proposito di quella stoffa egizia. Certo, par cosa maravigliosa.
Sai?... Egli riceve dal paese che crea ogni portento tessuti bianchi,
ma apparecchiati da industri artefici in Tyro. Gli tuffa nella
caldaia ove bolle un mordente, e le stoffe impregnate escono fuori di
colore diverso, cui nè l’uso impallidisce, nè l’acqua della fullonica
lava. —

— In verità, di quella tinta io non vidi mai alcuna veste. E la voglio.
E l’avrò. —

Odesi un leggero rumore di passi sul molle tappeto della stanza vicina.
Una mano solleva la portiera. Ed ecco due giovani e belle schiave,
vestite di lunghe tuniche bianche, le quali penetrano nel misterioso
asilo di Venere e delle Grazie.

— Marco Porcio, o padrona, è venuto e chiede vederti. —

— Mercurio, o Feda, a me propizio lo manda. Sacrificherò a quel divino
nel mio larario. —

E sì dicendo si sollevò dal tino. E dal suo bellissimo e ignudo corpo
discese a goccioloni, come pioggia di perle, l’acqua profumata da
asiatiche essenze. Le schiave denudaronsi anch’esse le braccia e il
petto rigonfio per essere più libere nei loro movimenti. E carezzarono
con minuziosa cura la dermide delicata della padrona mercè sottili
spugne tinte di porpora. E presi gli strigili di avorio, con essi
mollemente la tersero. E la nettarono colle pomici. E la dipelarono
col _lutum venetum_ — miscela di terra di Cypras e di aceto. — E
l’asciugarono a modo colle pelli del petto dei cigni.

Quando in seguito la Cennia fu innondata di aromi i meglio preziosi
dell’Assiria e dell’India, chiuse la seducente persona in una di quelle
tuniche di lana che Varrone chiamava stoffe di vetro per la somma loro
leggerezza: calzò i piedini in eleganti _soleæ_ scarlatte, adorne di
ricami d’oro e di granati. E appoggiata sulle spalle delle schiave, si
trascinò in una stanza bene illuminata, dove le donne di quella tempra
_dum comuntur, dum moliuntur_ spendevano un anno di vita.

Finchè durarono le prime cure nessun occhio indiscreto potè penetrare
in quello asilo, come se quivi si fossero celebrati i misteri della
Buona Iddia. Fra lo _speculum_ di argento e la persona è sulla tavola
tutto un _mundus muliebris_ — spilloni, stili, lime per le unghie,
spazzolini pei denti, pennelli pel liscio, mollette per strappare i
peli del mento, vasi di avorio, di alabastro, di argento, di vetro, di
terra di Nola, di murrhina, contenenti i cosmetici i più svariati e le
essenze preziose. — Vi erano le pomate di Cosmos, e di Marcelliano.
E i profumi d’Iris di Corinthum. E gli olii estratti dalle rose di
Pæstum, di Præneste, dallo zafferano di Rhodum, dalla maggiorana di
Cos. Nè tra gli aromi mancava quello delle mandorle amare di Mendes; e
del cinnamomo che costava venticinque denari la fiala; e il così detto
_regalis_, perchè composto pei re dei Parti, il quale odore era il più
stimato e ricerco per la ragione che gli era il peggio costoso degli
altri.

Dopo avere annerito i sopracigli e le palpebre con uno spillo esposto
alla fiaccola della lucerna e rosate le gote col belletto — sì che
gli sguardi doventassero vivaci e lo incarnato attraente — una nuova
schiava, Hellen, sparse sulle chiome di Cennia un’acqua il cui secreto
era dovuto ai Germani, il popolo suo. Quei capelli, poc’anzi neri
come ala di corvo, presero presto lo splendore dell’oro, ardente qual
fuoco. Dappoi che Nerone avea celebrato coi suoi pessimi versi il
biondo arrischiato della sua consorte Poppæa — cui egli diè il nome
di saccinum, fossile combustibile, bituminoso di un giallo rossiccio
come il giacinto — le eleganti avevano sdegnato le nere capigliature
che ornavano la fronte delle figliuole del popolo italiota e, o si
adattavano sul capo i capelli tessuti delle bianche donne nate sulle
rive del Reno, o li tingevano del colore dell’ambra per non parere
creature volgari.

Allorchè la _coma_ fu _calamistrata et crispata calido ferro_, e gli
aghi crinali la tennero in quell’ordine di anelli che la moda imponeva,
lo amante poteva entrare ed assistere al compimento dell’acconciatura.
I veli del mistero non avevano altro a coprire dinanzi al suo sguardo.

— Venere physica e Mercurio abbiano lo altare giuncato di fiori.
Poi sacrificherò io in secreto alle divinità favorite. Intendi, o
venerea? Ora, introduci qui il giovane Porcio.... Prima però dammi la
_calthula_.... eccola là... quella leggera, azzurra, che si accorda
coi miei capelli ora biondi. Mi avvilupperò in essa per quanto
occorra. —

Marco venne accolto con una di quelle frasi che danno al colloquio
della prima ora lo incanto e la dolcezza della intimità profonda.
Cennia gli stese la piccola mano, gemmata in ogni falange, che l’altro
passionatamente baciò. Non so se i pochi lettori, che le cure nazionali
e le depauperate fortune mi economizzano, abbiano mai riflettuto al
rapporto misterioso che esiste tra la mano e la bocca di una donna
amata. Parmi che in quelle dita, su quelle labbra arda una qualche
fiamma che bruci il sangue. Sono i due punti da cui scaturisce il
filtro che crea le grandi ubriachezze del mondo.

Erano soli e senza alcun sospetto. Non io narrerò la conversazione
del cuore ch’ebbero insieme. Un profumo divino era racchiuso in ogni
loro pensiero. Un mistico fiore fu colto, assaporato, goduto. Quando
il dialogo — interrotto talvolta da eloquenti silenzi e riattaccato da
frasi velate che dicono tutte le cose della terrà e del cielo — ebbe
fine, la donna dominata da una idea cardinale che l’agitava da tempo,
discese dallo empireo dei sensi e così prese a dire:

— Io sono ciò che hai voluto.... Mi sento tua. E ne son lieta.... Sì,
tu mi fai la donna felice quaggiù. Ma....

— Che manca a Cennia Augusta, l’amica dell’anima mia?

— Ho il bene supremo con te.... Avrei Venere irata se mi dolessi.
Mi ami e mi dài continove prove di affetto. Ma una goccia di pioggia
turbinosa mi è caduta sul cuore. E i dragoni, le arpie, le chimere,
tutti i mostri di Acheronte non m’impaurano come il pensiero che da
qualche istante mi assedia. —

Allora lo amante ansioso si levò dalla _cathedra_; e abbracciandola,
cercò consolarla:

— Se tu mi ami riamata, qual fuoco incendia le ali della tua psiche
divina?... Tu guardi confusa sulle tue mani?... Sei stanca delle
gemme incise da Phrygillo, da Tamyro, da Apollonide, da Tryphone, da
Dioscoride? Preferisci ornar le tue dita di smeraldi, di granati, di
ametiste, di niccoli lavorati da Aquilas, da Quintillo, da Rufo, i
migliori tra gli artefici del giorno? Dillo ed avrai....

— No, caro ed amato Porcio.

— Tu arrossi confusa? Ah! comprendo ciò che da me ti divide. Rivedesti
nell’Odeon Q. Pompeo Amethysto che un giorno sospirava ai tuoi piedi.
Ha un fascino il suo sguardo. Parecchie donne mi han detto che i suoi
occhi dimoiano più facilmente le reticenze del cuore, di quello che il
sole la neve.

— Tu evochi periglioso ricordo. Che la memoria solletica più
furiosamente dell’atto. E lo invisibile dà una scossa dolorosa e di
tutte delizie alla fibra delicata di certi cuori... Ma, non temere. Non
è l’ombra che viene ad assalirmi.... Bene, una cosa reale. —

E lo chiuse tra le sue braccia e lo baciò colle labbra smaniose. E
poi, mirandolo fisso per meglio immedesimarselo — era sentimento?
era artificio? chi comprese mai il vero sullo sguardo delle anime
innamorate? — proseguì:

— Se io ti oblio, o Marco, che Venere mi oblii. Il mio amore per te
è la saviezza del cuore. Io mi voto a te con tutta la tenerezza della
creatura composta di nervi e di sangue.

— Ma dunque, parla. Che è mai?

— Perdona. Noi — fragili cose — siamo l’orgoglio, la curiosità, il
capriccio, lo interesse vanitoso del sesso più forte. Una _crotocula_
io vidi del colore ora in moda. Tamno l’ha venduta ad Horania, donna
del tuo amico Sirico.

— Ma Tamno altre ne avrà.

— No. Sol’una ed è quella. Lungo è il tragitto da Tyro. Breve
dall’Urbe. Toglimi da questa malattia del cuore. Ed avrai tra le tue
braccia la donna scherzosa come un epigramma e passionata come una
elegia. Vuoi?

— Il sole ha mille aspetti commoventi, e tu sei come il sole, o mia. Mi
facesti tremare pur dianzi. Or mi sollevi dal profondo ove la fantasia
incerta non trovava la strada per tornar su. Sì, o amore, sarai
consolata. —

Chi descrive il sorriso di Cennia Augusta a quei detti? Non io.
Sulla sua faccia splendeva qualche cosa di fuggitivo, d’indistinto,
di misterioso che fornisce nuovi alimenti alle vampe che allumano il
nostro sangue. Quegli che sa le grazie della donna, e che passò la
sua gioventù a contemplarla, e che apprese a vivere contemplandola,
comprenderà e delineerà il sorriso di quella bellissima creatura
appagata.

— Lo giuro a Venere sacra, e l’avrai. —

Partì. E quel giuramento della volontà fu un di quei pochi che il vento
mal fido non osò portar via.

Horania — la giovane donna invidiata pel possesso della _crotocula_
— era allora in una sua villa sul versante meridionale del Vesbio. La
strada che vi conduceva — praticabile dai cavalli e non da alcun carro
— era abbellita di alberi e di fiori, e di utili culture. Le quali
venivano qua e là interrotte da enormi massi grigiastri che facevano
pensare ai combattimenti misteriosi tra esseri di una forza sopraumana
ed altri la cui natura il senso religioso tentava spiegare. Su quei
massi non una pianta; qualche arido stelo sulle crepacce. Pareva la
preda offerta agli ardori divoranti del sole. La casa era grande e
di forme svariate. Torri — porticati a colonne — piscine elittiche —
atrii con camere da letto, sale, bagni, e fauci che il tutto riuniva,
esponendo ad un cielo di zaffiro le sue mura bianche ed incontaminate.

Il padrone di quel luogo sontuoso era assente. Sirico — che in città
possedeva la casa prossima alle Terme, dal triclinio il più ricco
di pitture che sia in Pompei, dal protiro che saluta il lucro quale
la divinità del suo cuore, e che sul muro di contro aveva fatto
pingere ad encausto i serpi simbolici contro il mal’occhio colla
iscrizione: HOTIOSIS LOCUS HIC NON EST PROCEDE MORATOR — era un uomo
di speculazioni arrischiate che i costumi depravati ammettevano.
Provvedeva di cinedi e di fanciulle i fastosi del paese e di fuori,
e faceva mercato di schiavi da lui comperati in Europa e nell’Asia.
Da due mesi trattenevasi nell’Urbe a cagione del suo turpe commercio.
Horania era stata a sedici anni da lui acquistata in Pale, dell’isola
di Cephallenia che con Ithaca prospetta il promontorio greco
dell’Acarnania. Più che quarantenne, avevane fatto la compagna della
sua esistenza; impadronendosi di una giovane vita — non del suo cuore —
e sommettendola ai suoi capricci. Il lusso, i vini delicati, i ricchi
mobili, le più ricche vesti, i monili d’oro, le gemme, le perle, il
codazzo dei servi, la casa di città e di campagna sono lo accessorio
della felicità per l’anima giovanile della donna; ma non la felicità
piena. Laonde la si era incaricata un giorno di secondar la fortuna, la
quale talvolta tradiva il commerciante nei traffici suoi.

Giovinezza e bellezza non sono di frequente sinonimi. Vi ha donne, non
giovani, bellissime. Vi ha giovani incompiutamente belle. Se il volto
è appassito, il corpo è un fiore sul gambo. Se il viso è fiorente, la
persona non è ancor ritondata. La donna dai venticinque ai trenta anni
è la vera madre della grazia, della bontà per tutti, delizie ch’essa
rivela cogli occhi ricchi di pietà, di gentilezza e di amore.

Ed Horania era, quale io la veggo nei miei pensieri, di una bellezza
antica. Con un elmo greco sulla testa e il torace coperto da squame
d’oro avrebbe raffigurato Minerva in quei tempi della carne glorificata
e dei divini ardori. Le sue narici mobili e graziose posavano sur una
bocca rosea, umida e sempre aperta al sorriso. Quando parlava pareva un
uccello. Quando taceva sembrava un fiore. Due grandi occhi, del colore
delle viole mammole, si disegnavano sotto una fronte diritta, adorna
di capelli abbondanti, che in onde oscure le s’inanellavano sulle
spalle, ritenuti da una rete di fili d’oro. I piedi, le braccia, le
mani impensierivano i cultori dell’arte imitatrice. Da tutta la persona
snella e leggiadra venivano allo sguardo emanazioni sottili, invisibili
di fascino e di voluttà.

Un giorno Catullo Messalino, tornando da una ispezione alla colonia dei
veterani, la incontrò colle sue schiave in una via solitaria del monte.
L’uomo e la donna si guardarono a vicenda. Ed ambedue compresero dai
battiti del cuore lo arcano che la natura compone nel sangue e rivela
quando che sia.

Il giovane centurione era siculo. Aveva l’anima di fuoco. E la pelle
che coprìa le sue carni era pure bronzata dai raggi del sole natìo.
Non era bello di quel tipo che Phidias, Gorgias, Pithagora di Rhegium,
Patroclo di Crotone, Hypatodoro e Aristomede di Thebes avevano fissato
con linee convenzionali. Di statura mediocre. Di forme proporzionate.
Un misto di tristezza e di grande energia. Se sul campo contrastato
avesse avuto la fortuna a rovescio e i militi fuggenti, come Arrio
Secondo avrebbe strappato l’aquila dalle mani del vessillifero e,
gittatala in mezzo alle falangi nemiche, detto cogli occhi:

— Io corro al pericolo in nome di Roma eterna. Seguitemi e riprendete
la gloriosa insegna! —

Molti uomini, presi dal fulmine di quegli occhi, sarebbero tornati i
vincitori del campo. Nessuna donna — almeno per un istante — avrebbe
potuto restarsi muta allo appello.

Quei due esseri si amarono e ardentemente si amarono. Messalino passava
alcune ore deliziose della sua giornata con lei. Sulle di lei labbra
gli sembravano più belle le parole della lingua natale. Le frasi si
dipingevano di un candor virginale e di certe delicatezze che pareano
innocenza. Egli coglieva per essa le più belle rose e i più bei frutti
del luogo. Ed Horania, sdraiata ai suoi piedi sur una pelle di tigre,
accennando alle ridenti piagge di Surrentum, di Capreas e di Pithecusa
che chiudevano il cratere partenopeo, addolciava la vita di poetici
pensieri, sollevati dalla immagine estatica ed amante che aveva
dinanzi. Una subita e terribile fatalità poteva troncare il filo di
quei sogni dai quali quegli spensierati si faceano cullare.

La passione è il vino delle grandi ebbrezze, o è l’acqua di Lete — vino
ed acqua che hanno la potenza di annuvolare i cervelli.

— Amore! tu mi hai ritolto da una vita di noie e di secreti lamenti e
mi portasti sulle tue braccia in paesi ignorati. Ciò che tu m’inspiri
lo sapeva io pria di vederti? I tuoi baci sono profumati come il mele
d’Hymetto. Il tuo amplesso mi ha creato il cuore. — Sirico.... Oh!
Sirico non era da tanto! —

Messalino si rammentò di un uso antico della sicula gente che meglio
avrebbe risposto allo incantesimo di quelle parole. Prese dalla corona
di rose che a lei cingeva le tempia un bottone rossissimo di Mileto che
parea fior di granato. Lo sfogliò in una coppa di murrhina ripiena di
falerno e la vuotò in onore di lei e della sua idoleggiata bellezza.

Questa era la vita che furtivamente, o per caso infinto, o per meditato
convenio menavano da due mesi quelle creature felici sotto il cielo
ardente della Campania e nella invocazione di Venere protettrice. Le
ore lietissime sono siffattamente fugaci da eludere il taglio dello
scalpello, il graffito della penna, il plagio del colorito. Lo spettro,
che è cosa morta, non può riprodurre la scena del cuore, che è cosa
viva. Non posso però ritrarmi dal pingere la sofferenza che straccia e
dilania le viscere di quegli amanti sorpresi nel grembo di una svagata
sicurtà.

Catullo Messalino, attraversato un bosco di lauri, entra in uno xysto,
penetra nell’æcus e si ferma. Quale inno cantavano i begli occhi neri e
radianti dello eroico centurione? Era un’ode. I ricordi, la speranza,
la gioia illuminavano gli sguardi ricercatori. Ma Horania non vi è.
Esce e nel sollevare la cortina che abbuiava la luce di una camera,
la donna dell’anima sua si leva dal lettuccio e gittandosi nelle sue
braccia, pallida ed in lacrime, chiude il viso sul collo di lui.

— Domani.... forse oggi.... egli qui! —

Siffatto caso, sì preveduto, e tante volte meditato, parve ad ambedue
una inattesa sventura. Messalino non rispose e più ardentemente la
baciò. Quindi:

— Horania.... egli venga e trovi vuoto il cubicolo tuo.... Abbandona
queste equivoche dovizie, sparse di lacrime e sporche di fango....
Vieni meco.... Dovunque sarò e tu sarai.... Posso omai vivere senza
te?... E non morresti tu lontana dal leone del cuor tuo? —

La donna era così sprofondata nel suo cupo dolore, che lo udiva
trasognata e levava gli occhi lucidi al cielo quasi per incontrarvi una
idea consolatrice. Ma vi sono momenti nella vita in cui le illusioni
fanno paura a sè stesse e non osano entrare nelle menti desolate dalle
passioni, poi che la innocenza le ha disertate per sempre. E comunque
una idea di affetto le fosse discesa dal cielo o venuta su dal cuore,
la bellissima greca l’avrebbe sfatata. Il centurione era lo avvenire
incerto, l’uomo del gladio, il padrone del braccio, la lotta dello
indomani, la vita dei continovi pericoli. Sirico era il focolare
domestico senza dignità, senza stima nè amore, sì. Ma il focolare che
riscalda, che ha il domani. Era la carezza del lusso, l’abbondanza
dei profumi. Era la età matura sui cuscini di porpora e sul rispetto
degli schiavi prostrati. Era la prosa della Danae abituata alle visite
metalliche di Giove che allontanava da sè la poesia dei ricordi i quali
si facevano ognor più velati. Gittò un sospiro profondo, lo strinse
forte al suo petto, lo baciò furiosamente e poi parlò.

— Tu sei il bene supremo. Tu sei la esistenza.... La mia sarà omai
breve, lo so. Ma.... la mia vita non poteva confondersi colla tua.
Separiamoci. Il Fato vuole così. Allontanati prima ch’ei giunga. —

Il siciliano comprese. Ma l’amava. Ed ogni suo nume era in lei. La
guardò fiso per qualche istanti. La baciò sulla bocca, sulla fronte,
sugli occhi e sì febbrilmente da dar vita con quei baci di fuoco a una
morta. E partì.

Partì. E lo xysto, ed il lago, e la fontana, e gli alberi e la foresta
di lauri ebbero i suoi sguardi sfiduciati e il vale estremo. Se lo
imperatore lo avesse chiamato a combattere, il suo braccio avrebbe
commesso miracoli di virtù in tale istante. Desiderava in tanto dolore
la morte utile agli altri — refrigerio al suo cuore — la morte eroica
del centurione romano sotto lo sguardo dei Dioscuri protettori.

Corse al mare e si cacciò nelle onde agitate e spumanti. Nuotò per
un’ora onde raccattare un po’ di distrazione e qualche stanchezza. Ma
il sangue bolliva, i nervi erano tesi. — Inforcò un cavallo e di corsa
verso Neapolis. Ma, non appena giuntovi, indietro a slascio, attratto
dalla memoria di lei. — Si racchiuse nel suo cubicolo e passò la notte
in ismanie e mordendo le coltri. Oh! i disegni della sua mente delira!

— I seguaci di Romolo, le Sabine!... Senza quel ratto l’Urbe non
sarebbe sorta potente.... E qual Sabina la Horania mia! Mia?...
D’altri.... non mia! Di mio non ho che il dolore di averla perduta....
la memoria di un limitato possesso!... Ecco, io mi slancio alla testa
dei miei veterani, brucio, ruino la casa del mio rivale e rubo la
donna, la sola nata agli occhi del mio cuor travagliato. —

Cotesto vano trionfo di un istante inebbriava per poco il suo cervello
che ardeva. Ma le leggi del dovere cui era abituato lo tranquillavano
ben presto e gli facevano disprezzare le stravaganti avventure che pur
dianzi lo avevano solleticato.

Barcollante tra pensieri diversi, uno alla perfino seppe accettarne. E
corso al tribuno dei militi, che aveva il comando delle tre coorti di
stazione nell’agro pompeiano, chiese ed ottenne il permesso di andare
nell’Urbe col pretesto di faccende a lui care.

Io scrivo sulle agitazioni di un povero spirito, immerso in un pelago
d’idee tumultuose quali esse sono, non quali la convenzione adottata
sui tempi eroici a noi le trasmise nelle pagine istoriche e nei
monumenti. L’uomo nato di donna è sempre uomo. La vita pubblica e il
campo di battaglia possono trasumanarlo; e in questo istante solenne
il cuore si divinizza, la frase diviene sublime e l’atto non è più cosa
mortale.

Or uno schiavo entra nell’atrio e chiede di M. Catullo Messaline.
Questi esce, svolge una pergamena che gli vien pôrta: e,

— «Sono ancor sola e libera. E brucio di amore. Vieni.» —

Corse allo invito e rientrò nella felicità come se riprendesse il filo
di un sogno beato dopo breve vegliare.

Ore piene! Ore deliziose! Ore che qualche lettore ricorderà.

A notte tarda riprese la via del ritorno. Era più consolato. Sentiva
ancor sulle labbra il fremito delle labbra non sue. Sentiva quasi sul
petto il contatto di lei. Quando, giunto presso un burrone profondo,
vide nella oscurità escire un’ombra da un masso di lava e venirgli
incontro in atto di minaccia. Dai battiti del cuore di quel fantasma
comprese chi fosse.

Sirico avea tutto saputo da uno schiavo fedele. Volea vendicarsi. E
aveva in mano il coltello da ciò. La sfida mortale. Il luogo scelto era
adatto.

La lama aguzza aduna il poco chiarore dell’aria e scintilla in alto
nelle tenebre. Messalino dà indietro, sguaina il brando e ferisce con
impeto. Un urlo disperato e il tonfo di un corpo pesante che precipita
a sbalzi in fondo al burrone compirono la tragedia.

Tornò sui suoi passi e destò la giovane addormentata.

— L’ho ucciso. — Or mi appartieni.

— Ma è sangue oltraggiato quello che hai sparso!

— Egli uccideva me. Vieni. Mi salvo e ti salvo. —

Ricoverarono nell’Urbe un delitto di più.

Delitto?... Eh! baie!... Gli era il prodotto di un funesto amore
dell’anima umana, fiore sanguigno sbocciato in tempi assai diversi
dai nostri, cresciuto nella esaltazione, anaffiato dalla gelosia,
colto dalla minaccia e che sentiva lo aroma di una natura aspra e
gagliarda.... Uomini di tal tempra non permettevano a piedi stranieri
di calpestare con insulto la sacra terra dov’erano nati! Coteste parole
servano a Messalino di scusa presso coloro che coi _se_ e coi _ma_
si addormentano placidamente ogni sera sulla coltrice delle nazionali
vergogne!

Siccome gli sguardi, esistono nei lessici di tutte le lingue parole
di doppia vitalità — quella del cuore d’onde escono — quella del cuore
che le riceve. — E spesso in una di esse si annicchia la genesi di una
battaglia, la trasformazione di una esistenza, il rifugio di una grande
speranza, una resurrezione piena di dolcezza.

Herculanilla era la rarissima tra quelle creature che i poeti
covano nella mente come la più intima, la più cara, la più completa
espressione della grazia, del candore, della intelligenza, della
beltà. Il suo merito supremo consisteva nell’esser lei, non altra
che lei. Nè i pennelli, nè la penna possono fare il suo ritratto. La
donna immensamente amata non si tratteggia, non ha chi le somigli,
è quella! Così Herculanilla era incisa e scolpita nel cuore di
Lucio Vitelio Hycca, colla sua capigliatura ardente e impregnata di
amorosa elettricità, colla sua voce fine, carezzevole, colorata, col
suo pudico sorriso che diceva promesse e la unione del cuore. Egli
aveva combattuto in Giudea; e, nella ostinata e rabbiosa difesa del
tempio in Jerusalem, aveva avuto la fronte solcata dal gladio e il
petto scalfitto da un colpo di lancia. Il primo allo assalto. Il
primo a penetrare colà dentro. Avrebbe dovuto ricevere la _corona
aurea vallaris_, o _castrensis_, perchè quello era un baluardo del
campo nemico. Gli fu data invece la _corona muralis_, perchè si volle
considerare il muro del tempio come il muro di una città. E Flavio
Vespasiano imperatore la offeriva a lui ferito e disteso in faccia
alle legioni vittoriose. E quando egli andava a’ teatri, nel Pecile,
nella Basilica, nelle Curie, in ogni pubblico spettacolo, il suo posto
era dopo quello dei magistrati; e i decurioni in segno di rispetto si
levavano in piedi.

Aveva in quei giorni arringato a pro di Septumio Clycone, giovane
amante, il quale — non gradito qual genero da T. Uliteo Satanio,
prefetto dei vigili, ed insultato pubblicamente da un di lui liberto —
erasi obbliato sino a batterlo con grave _injuria_ sulla persona. La
rottura di un braccio indicava l’ammenda di trecento assi o libre di
rame. Lo eroe del dramma era un giovane ben noto. La eroina era Vereia
— nome che in Osco volea dire repubblica, forma di reggimento sempre
cara ai Pompeiani — che parea volesse morirne di dolore, mentr’egli
minacciava di uccidersi sul di lei cadavere. La cronachetta era corsa
nella bocca di ognuno. Il bisticcio colpevole. — Lo amore infelice. —
La potenza della parola che aveva tutti commosso nella Basilica, sino
ad ottenere dal padre irritato che l’accusa cessasse pel _dijudicium
intra parietes_. — Gli sponsali accaduti. — Era siffatto trionfo da
annuvolare la mente del debolissimo sesso, il quale per sopraciò non
sa reggere e s’intenerisce alla vista di un uomo generoso, crismato dal
valore e coronato dalla vittoria.

Vitelio narrava di cotesto suo recente trionfo nella casa di Alphinio
Secondo. Herculanilla, la sua figliuola, parlando, lo interrogava cogli
occhi inspirati da segrete intenzioni. E il valente soldato fu ferito
anche una volta nel cuore. Impigliato nel glutine dello entusiasmo
ideale, comprese; ed ambedue si amarono sin da quel giorno. E se la
fanciulla dopo pochi mesi pensava che la vita spesa senza vederlo, nè
udirlo, non era vita vissuta per lei, egli non sapeva comprendere a che
servissero le ore non irradiate dallo sguardo adorato di quella Venere
terrena, cugina alla Iddia.

Quanti sutterfugi! Quali lotte! Quanti andirivieni! Quali scuse per un
ritrovo; per una visita; per allontanare un importuno; per celare ad un
indiscreto un prezioso istante della vita; ed esser soli; e goder soli
di quello scoppio di felicità che invade due cuori amanti; e dirsi l’un
l’altro quella parola che non invecchia mai col consumo dei secoli e
sarà ripetuta sino allo istante supremo in cui per lo esaurimento del
calorico terrestre il mondo cesserà dal germogliare e morrà.

Un giorno che il piacere spensierato, la innocenza sorridente, la
bellezza di bianco vestita irruppe nella camera ove Vitelio attendevela
per secreto messaggio, egli gravemente le disse:

— Herculanilla! Amore! Soavità della mia vita! Noi siamo dannati a
separarci.

— Come!.... E da chi?

— Dal dovere. La mia legione, l’_antiqua_ ritorna in Galilea. _Evocatus
sum._ Non son sacerdote. Non son magistrato. _Beneficium non habeo_
dai decurioni e dal popolo, quella dispensa che mi darebbe legittima
esenzione dallo esercito.

— _Heu, me misera!_ Amore degli occhi miei, mi abbandoni così?

— Non piangere! _Vexilla sublata sunt in Capitolium_, il rosso per la
evocazione dei fanti, lo azzurro pei cavalli. Tito gli chiede ed io ho
già detto il mio sacramento. —

Herculanilla gitta un piccolo grido, si copre il viso e piange a
dirotto. Vi sono dolori di privilegio che abbelliscono. E quelle
lacrime amare, che tremano come gioielli sulle ciglia, divinizzano la
donna idolatrata.

— Lascia ch’io beva quelle stille di pianto. Consolati. Tornerò. E
sarai mia... E allora, teco per sempre!

— Rispetta il mio dolore. Sarà compagno della mia corsa felicità. Sarà
il mio custode nella tua assenza.... E se tu morissi?

— E se io morissi!... Non dilaniare il tuo cuore con tristi presagi. Io
sono _centurio primipilus_, e porterò l’aquila della legione. Perciò,
col consolo e coi tribuni. Roma vincerà i suoi ribelli, ed io tornerò
al tuo fianco a narrarti il secondo trionfo dei nostri sul più testardo
e feroce dei popoli domi.

— Va, nuovo Promoteo. Ubriacato dalla gloria, che tu non possa sentire
lo strazio del tuo fegato roso dal vulture crudele! Oh! la immensa
giornata di lacrime e di angoscia del mio cuor vedovato!

— Tra le mie braccia, o soave delizia di questo istante. —

E sollevatala di peso, se la premette sul cuore semisvenuta.

E la baciò a furia, febbrilmente, senza dir verbo. Il dire distrae.
E l’anima era piena di lei e del suo crudo destino. Ma d’un tratto si
staccò di forza e bruscamente partì. Una voce, dolce come una carezza
e lamentosa come un vale estremo, piangeva in un angolo della stanza e
mormorava:

— Lucio.... a me anche una volta.... poi alla tua Patria! —

Tornò. E le due teste si collarono per un istante come fossero una
sola. E quel luogo pieno di tanto amore rimase pieno di lutto, di
singhiozzi e di amare memorie.

Il grande spettacolo della guerra calma ed acqueta le fantasticaggini
della mente e a poco a poco il soverchio calore del cuore. Chiuso nei
nuovi suoi obblighi, Vitelio vi trovò il migliore dei rifugi contro
tutti i disgusti e le tristezze dell’animo. La ferita ben presto
marginò. Tratto tratto la divina credulità delle grandi passioni lo
spingeva dall’Asia in Europa per riassaporare le felici ore godute e
il ricambio delle affettuose cure. E colle preoccupazioni di ciascun
giorno i viaggi dello spirito si fecero meno frequenti. Quando la
morte è attiva e militante, e colla falce delle battaglie miete sul
campo desolato, e distende sotterra l’uomo pria ch’egli abbia consunto
l’opera sua, quello spettacolo riconcentra l’anima svagata e la fissa
al suo grave compito. I Giudei che stimavano la forza ostile non
superabile, fecero il gran giuro e fermarono morire prima che sostenere
la schiavitù della patria. In Tarichea, non più pane per le donne, non
più pei figliuoli; e già tutti, d’una voglia sola, sacrati alla morte.
Un rogo s’innalza. Vi ha chi tronca la vita e chi gitta con mano libera
ancora i cadaveri sulla catasta. E ciascheduno attendendo lo istante di
ardervi colle persone più caramente dilette, grida:

— Meglio morire che veder morto il nido natio! La morte non è un
morire; ma gli è un vivere col Dio di Moises e dei profeti. —

Ed Herculanilla in lacrime attendeva sempre nel suo amore immortale il
ritorno di Lucio Vitelio Hycca vittorioso e fedele.

XVII EIDIBVS JVNI. Era giorno fasto. Lungo l’anno venivano deposte in
un vicolo chiuso presso il tempio di Vesta le ceneri del fuoco sacro
che si ritiravano dallo altare. La porta di quel chiassuolo, detto
_janua stercoraria_, si apriva dal pontefice Massimo e le ceneri erano
gittate nel Sarno. Quel giorno rispondeva a’ dì quindici giugno del
nostro calendario, fissato già per le nozze religiose di Cneo Vibio e
di Melissæa.

Gran folla era nella via Domizia. L’atrio, pieno di amici delle due
famiglie che univano il loro sangue. Ve n’erano di prima e di seconda
ammessione. E qua e là i clienti e gli affrancati in faccende.

Ma il grande affare trattavasi nella camera della sposa. Le _cosmetes_,
le _ciniflones_, le _calamistæ_, le _psecæ_, le _vestificæ_, cioè le
schiave che pettinavano, che acconciavano i capelli e vi soffiavano
su una polvere che ne faceva risaltare il colore; che li arricciavano
co’ ferri caldi; che davano l’ultimo assetto alla pettinatura; e le
sarte che vestivano la giovanetta erano tutte attorno di lei. Escita
appena dal bagno e asciugata, Scaphion gittò sul bellissimo ignudo
corpo il _supparum_ di lino egizio, ch’era pur detto _sindon_, o
_vestis byssina_, simile per la forma ad una camicia, senza maniche
e sparata sul petto; e chiusi i piccoli piedi nei _calcei purpurei_.
Sur una tavola era la _narthekia_, il mobile più prezioso allo assetto
delle donne. Era una scatola di legno odoroso, guarnita di cornici e di
fasce di avorio in rilievo. Conteneva unguentari di cristallo scolpito;
fibule d’oro; piccoli arnesi di argento per le unghie, per le orecchie
e pei denti; fiale di sardonica; e vasettini di alabastro, contenenti
essenze profumate venute di Antiochia e di Alessandria. Fabricio
ci ha serbato i nomi di venticinque di esse; nomi nuovi e svariati
di raffinamenti e modificazioni impercettibili, con cui i mercanti
spacciavano gli stessi odori che avevano tutti per base la radice di un
arbusto chiamato _costum_, o le foglie aromatiche dello _spicanardus_.

Melissæa è seduta. Delphia tiene a lei dinanzi uno specchio di argento
lucidissimo, di forma rotonda, chiuso in una cornice dorata, di
quelli che si fabbricavano in Brundusium. Nape la pettina, _rutilabat
comam_, la profumava, _crispabat calido ferro_, adattava i ricci onde
la fronte apparisse bassa, giusta la esigenza della moda romana, e
intrecciava a quei suoi capelli d’oro fili di perle, di pietre preziose
e le _crinales vitiæ_, cioè fasce e nastri di vario colore. Erotia e
Scapha animarono una discussione importante. L’una dicea che i capelli
della sposa conveniva separarli col ferro di una lancia intrisa nel
sangue di un gladiatore morto nello Anfiteatro. E poi dividerli in
sei trecce a foggia di quelle delle Vestali. L’altra — e Nape era con
lei — non volea saperne della lancia. Coraggiosi figliuoli sarebbero
sempre nati da così nobile seme. E piuttosto che separare i capelli in
sull’occipite in sei ciocche, valea meglio, così arricciati ed ondulosi
com’erano, racchiuderli nel _reticulum auratum_ e farli cadere copiosi
sulle spalle. Avrebbero dato maggior risalto alla sua testa divina.

— La mia padrona non abbisogna che si pettini a tuo senno per essere
ancor degna di alimentare il sacro fuoco. Tu sì che commetteresti
sacrilegio se ti facessi foggiare in tal guisa.

— Impudica! Pria di dirmi insolenze, avresti dovuto non confidare
alcuna cosa ad Eulalia ed alla tua memoria.

— Sibili come una serpe. Scapha sa — e tu non lo ignori — che la lancia
che hai costì nelle mani non è gladiatoria nè mai fu bagnata di umano
sangue. Bando alle ciurmerie.

— Via. Chetatevi. Perchè Erotia non si affligga in questo giorno
felice, dividete i capelli col ferro della lancia. Involgi, o Nape, le
chiome nella leggera vesica. Poni sul capo la corona di verbene, che
io stessa ho raccolto e tessuto, e ricuoprila col _luteum flammeum qui
debebit me nubere viro meo_. —

Così fu fatto. Le posero nel foro delle orecchie pendenti d’oro,
simulanti foglie di edera, ed una face accesa la cui estremità finiva
in una perla. Quei pendenti, l’uno distaccato dall’altro, si chiamavano
_crotalia_, perchè risuonavano urtandosi. — E la face dinotava le
fiamme del cuore. E l’edera lo attaccamento della sposa all’uomo suo.

Cypassis, la bruna schiava di Memphis — che aveva un affetto
particolare per la sua gentile padrona — volle incaricarsi dello
affare il meglio importante; e tanto più che facea contrasto colla
fosca sua carnagione. Aggiustato il capo, affibbiati gli ori e il
_segmentum_, stretta la persona nello _strophium_, essa la vestì della
_tunica recta_, tutta bianca, amplissima, ornata di bende. E la cinse
col _cingulum laneum_, sostenuto dal _nodus Herculeus_, che il marito
avrebbe poi sciolto. Gli è perciò che diceasi _zonam solvere_ per
esprimere l’ultimo grado di domestichezza tra l’uomo e la donna.

Melissæa, meglio che ordinare, permise che le affettuose sue schiave
acconciassero sulla sua persona le vesti nuziali che accrescerebbero
di tanto la sua naturale avvenenza. La mente era presa da una
involontaria inquietudine. Sentiva dentro la commozione nuova che
fa provare la vicinanza di un gran cambiamento, per quanto esso si
creda felice. Amava suo padre. N’era teneramente riamata. Sorgevano
altri doveri. Passava dal certo allo ignoto. Si distaccava da una
sollecitudine devota, andava in braccio ad una sollecitudine più
intima e confidenziale. E quando le sue amiche, Giulia, Emilia e
Maria, le sorelle del duumviro Pontico, entrarono per avvertirla che
il Flamine-Diale era già nel sacrarium della casa; e lo sposo, e i
dieci testimoni, e gli amici, e i parenti l’attendevano per la sacra
ceremonia, essa si gittò tremante al collo di quelle sue fide compagne
e pianse. Le lacrime sono contagiose. E più, perchè destavano nelle
sopravvenute un certo tal qual turbamento, di cui sarebbero anch’esse
colpite fra non molto per la circostanza medesima.

Melissæa apparisce nell’atrio. Il vestibolo è aperto ai curiosi, ed il
portico, il peristilio, lo xysto sono gremiti di gente.

Gli sposi siedono sur una _sella jugata_, coperta di una pelle di
pecora. Il sacerdote di Giove prende la mano destra della giovanetta e
la pone nella mano destra di Vibio e pronuncia:

— _Hanc tibi in manum do._ —

Con altre parole sacramentali e solenni dichiara che la donna dovrà
partecipare ai beni del coniuge suo siccome ad ogni altra santa cosa.
Liba a Giunone. Compie la _confarreatio_. E fa che la sposa ponga
nel dito mignolo dell’uomo il cerchio d’oro formato da una verghetta
incrociata, terminante in due piccoli globi, riuniti da una fune cui
era sopraposto un rubino dalla immagine di Ercole in rilievo, chiusa
in una cornice d’oro. Era la antico nodo che prima fu cingolo alla
persona, poi monile al collo, armilla al polso della sposa ed anello al
dito degli sposi.

Vibio, commosso, le prese con ambe le mani la fronte e la baciò. E
amorosamente guardandola, le disse:

— Un dio è in te, o Melissæa..... Qual dio? Lo ignoro. Ma, vi è un
dio! —

E cavato dalle pieghe della tunica uno _spinther_, ossia cerchio d’oro,
aperto e terminante in due teste di serpe, lo adattò sullo avambraccio
di lei. Eravi sopra scritto: SPERATA. PACTA. SPONSA. NUPTA.

Nello uscir del sacrario le due famiglie e i testimoni entrarono negli
_æci_ per occuparsi del primo pagamento della dote fissata. La folla
andò via lentamente di casa per soffermarsi sulla via.

Demophilo, presa per la mano Melissæa, l’accompagnò sino al
_prothyrum_. Quivi alcuni giovani la presero sulle braccia come per
costringerla ad abbandonare per forza le paterne dimore ed incontrar
con dolore lo allontanamento delle persone legate con lei dallo affetto
e dalle abitudini. Cotesta finta violenza richiamava alla memoria il
ratto delle donne sabine. Vibio aveva mandato cinque dei suoi liberti
presso la casa degli Edili per accendervi le torce nuziali che doveano
precedere la processione. Essi tornati, il corteo si pose in cammino.
Tre fanciulli vestiti di pretesta si presentarono. Uno andò innanzi,
squassando un ramo di albospino acceso per ovviare il mal’occhio.
Gli altri due condussero la sposa per le mani. Dietro era una schiava
colla conocchia guarnita di lana ed un fuso. E con lei, un giovanetto,
detto _camillus_, che in un cesto di vimini portava i _crepundia_, i
giuocherelli, le pupazzole con cui Melissæa erasi baloccata. Venivano
poi quattro statue sorrette sulle stanghe dorate da sedici schiavi. —
Iugatino, il dio che aggioga; — Domiduco, che presiede alla processione
nuziale verso la casa dello sposo; — Domicio, che introduce la
sposa nella nuova dimora; — Manturna, mercè la cui protezione essa
soggiornerà sino alla morte col marito suo. — Poi venivano lo sposo,
i testimoni, gli amici e la folla. E questa, accompagnando la voce al
suono delle _sarranæ_, cioè alle armonie di un doppio flauto lungo e
breve, cantava un inno a Talassio, uno dei banditi accorso al richiamo
di Romolo, che rubando la sua sabina, ebbe con essa lunga e fortunata
unione.

Giunta la sposa sul margine della via di Mercurio, dinanzi la porta
principale della casa nuziale — tutta adorna di ghirlande di mortella
e di rose, e parata di una stoffa di lana bianca — Melissæa vi appese
alcune bende unte di grasso di lupo, onde allontanare i sortilegi,
soggetto di terrore per quella razza d’uomini che pur di nulla temeva.
— E la folla cantava l’inno a Talassio.

Vibio allor si fece sul margine; e fingendo ignorare il nome della
fanciulla biancovestita, le chiese:

— _Quis es?_

— _Ubi tu Caius, ibi ego Caia._ —

Cioè a dire: — dove tu sei signore e padre di famiglia, ed io sarò
signora e madre. — Avvegnachè fosse di suo diritto il dichiarargli
ch’essa contava vivere secolui con patto di eguaglianza e pur
compirebbe esattamente i doveri di moglie e di massaia, ad esempio
della nuora di Tarquinio, Caia Cæcilia Tanaquilla che lasciò nome
di un’abile lanifica e di una virtuosa sposa. Due bambini le fecero
toccare la torcia accesa e l’acqua, per significarle che quind’innanzi
avrebbe comune col marito la vita, cioè, l’acqua ed il fuoco.

L’uscio si aprì. E Giulia, Emilia e Maria la sollevarono di terra e la
deposero mollemente nell’atrio, senza che i suoi piedi toccassero la
soglia. Questa era sacra a Vesta; e sarebbe stata una profanazione e
un funesto presagio, se colei che avea rinunciato agli attributi della
dea — tutela ai grandi destini del mondo romano — l’avesse toccata coi
piedi.

Nell’atrio era distesa una pelle di montone dai lunghi velli. Su
di essa le amiche la posarono, quasi per ricordarle le sue prossime
occupazioni. E Vibio le presentò colla sinistra le chiavi della casa
raccolte in un medesimo anello e coll’altra una patera di argento con
alcuni nummi d’oro, premio alla sua compiacenza. Quindi i due felici
gittavano l’uno manciate di noci, l’altra i suoi _crepundia_, per
testimoniare com’essi da quel momento davano bando alle futilità, e non
si sarebbero occupati che delle gravi cure della famiglia.

Per solennizzare la festa Vibio offerse una sontuosa _cœna nuptialis_
ai parenti, agli amici ed agli altri invitati. Gli schiavi tirarono
le cortine del _tablinum_. La lunga pergola ed il giardino erano
illuminati. Tutti mossero; e volgendo a diritta, entrarono nel
triclinio, decorato di marmi africani e orientali, rossi, gialli e
sanguigni, con bella architettura innestati da fasce di alabastro
egiziano. Invece dei tre letti, eravene uno solo semi-circolare
ed oblungo, rispondente alla forma della stanza assai vasta. La
illuminazione era splendida. Il _convivium_ anche più. Giovani schiave
riccamente vestite, giovani succinti, liberti e curiosi erano sotto
le colonne della pergola, tutt’occhi allo spettacolo che pel loro
divertimento si stava apparecchiando.

Dal _posticum_ — ch’è nella viuzza parallela a quella spaziosa
dalla fontana di Mercurio — era entrata nello xysto una truppa di
orchestredi, giocolieri che di Creta mostraronsi in Atene, e di
Syracosion si propagarono nelle nostre contrade. Ippoclide onorò la
cibistesi, allorchè per ottenere la figliuola di Clistene in isposa,
pose in mostra la sua destrezza, imitando il giro della ruota della
Fortuna, e così rendersi benevola la iddia capricciosa. Ed al padre
sdegnato che a lui rifiutava il possesso della nata di lui, lo ateniese
die’ la famosa risposta: — Οὐ φροντίς Ἱπποκλεὶδη — È l’unico pensiero
d’Ippoclide — che passò tra i Greci in proverbio. In Pompei chiamavano
quelle acrobate coi nomi di _cernuatores_ e _petauristæ_. Erano belle
giovanette di Gnathia e di Rubi, condotte da un uomo che traeva pro
della loro bravura, egli suonando le _sarranæ_ ed un fanciullo la
cetra. Allorchè fu distesa per terra una tavola ov’erano a determinate
distanze confitti tre gladii, una di esse, cacciata giù la _lacerna_
— specie di largo mantello col _cucullus_ col quale erasi coperta —
mostrossi nuda, avendo soltanto i capelli tenuti in freno da una benda
ed i fianchi cinti da un grembiule, fascia che i greci chiamavano
περὶζωμα e i latini _subligaculum_. Aveva le armille ai polsi e la
periscelide sul destro malleolo. Colle mani aperte, gittatasi a capo
rovescio, rimase per poco colle gambe in aria; quindi si capovolse
sulle spade con mirabile prestezza, senza rimanerne offesa. Dopo
parecchie prove, l’_editor_ collocò in fine della tavola, in alto,
un cerchio entro il quale erano pur confitti altri pugnali; e la
taumatopia colla medesima destrezza capitombolò sui gladii, penetrò
colle gambe nel cerchio e piegando il corpo come un verde fuscello,
saltò fuori sui piedi ed illesa.

— _Terror et metus nudis insultant gladiis._ —

— Nè il terror, nè il timore saltano con lei, o Grumio. La cibistetere
si volge con spigliata sicurezza come i pesci rossi saettano a capo in
giù nel vivaio del mio padrone in Puteoli.

— Maraviglia! Non ha molto, o Syra, vidi delfini guizzare sulle onde
del nostro cratere e rituffarsi con movimenti meno leggiadri e punto
pericolosi.

— Oh! mira quest’altra, Dorippe. L’_editor_ siede, suonando i flauti.
La scleropecta è in piedi sulle sue ginocchia.... afferra colle mani
la spalliera.... si lancia in aria e volgendosi su se medesima, a lui
poggia i piedi nudi sul capo.

— Oh! Curiosa cosa! Mira il cagnolino che ne prese il posto. E drizzasi
sulle zampe deretane.

— Apparecchiano una tavola, o Loto. O, cosa è?... Ah! Una patera piena
di vino e due aranci.... Ecco la più bella che salta.

— Cotesto sì, o Elpinike, io non vidi mai. Come! Nessun tremolìo sul
deschetto! Nessuna gocciola del liquido fuori del vaso! E gli aranci
afferrati, lanciati in aria e raccolti nelle aperte palme ora che è in
piedi sul suolo! In _Pæstum_, per le feste di Nettuno, erano abilissimi
taumaturghi. Ma Cneo Vibio soltanto sa offerire simiglianti difficili
giuochi. —

Il giovanetto Loto aveva col braccio sul collo stretto a sè la persona
della sua interlocutrice. E le baciò la tempia amorosamente.

Carion ch’era loro da presso, vide l’atto ed aggiunse:

— Caldi vi avviticchiate come la pianta di Bacco. Bada! È una vergogna
in Pompei _non continere libidinem suam_. Fratello, sarò costretto a
chiamarti, _Canis_. —

Loto era per rispondere alla ingiuria, quantunque detta col sorriso
sul labbro. Ma un altro spettacolo richiamò la sua attenzione. Un’altra
fanciulla, coperta dalle anassiridi listate di rosso e di nero — come
le maglie strette dei nostri giuocolieri — camminando sulle mani,
ricevette da un bambino sulle piante dei piedi un bicchiere di terra
detto _cyathus_, ed un’anfora _figlina_ e breve, sulla cui pancia
era il _pittacium_ in pergamena colla scritta, _Setinum annorum
decem_. Destramente dalla diota mescè il vino nella _lingula_ e con
un movimento rapido delle reni trovossi sulle sue gambe, avendo in
una mano l’anfora e appressando alle labbra il bicchiere che aveva
raccolto. E nel vuoto, neanche una gocciola venne rovesciata per terra.

— Per Ercole! — _Piper, non fœmina._ — Ormai per la munificenza di
questi sposi ci abitueremo alle cose impossibili. E non maraviglierò se
un dì o l’altro vedrò grugnirmi attorno i porci belli e cotti.

— Oh! questo sì che è un giuoco, o Curculio. Ben altro di quello
offertoci nel corso inverno da Pilonino Rufo, coi suoi gladiatori
pezzenti e decrepiti che cadeano ad un soffio. Meno vili quelli esposti
alle fiere.

— E il combattimento a piedi a lume di fiaccole? Per Giove tonante,
parean pollastrelli. L’uno snello come un gatto di marmo. L’altro
_loripes_, coi piedi torti, come te, o Camurio. Il terzo, il quarto, il
quinto che si finsero feriti per cessare dalla fraudolenta commedia.

— Oh! La bella cibistetere che è quella che viene! E ben fece a velare
le parti ghiotte che Postverta ad essa compose. Che Volupia si accordi
con Morfeo ed ambedue me la conducano in sogno. Pel Panteon riunito! Mi
crederei di più che Vespasiano imperatore. —

Nell’atto che Phosphoro cacciava al vento così inutili esclamazioni,
la bellissima ignuda — chè il velo nulla copriva — postasi coi piedi
in aria e poggiantesi per terra sui gomiti e sulle braccia distese,
infilzò l’arco con due frecce nel grosso dito del piede sinistro,
incoccò un giavellotto e mirò il bersaglio colla testa rilevata. Il
piccolo citarista si era posto a dieci passi di distanza e con ambe
le mani tenea sul suo capo ricciuto una tavoletta imbiancata avente un
segno rosso nel mezzo. La _petaurista_ strinse la corda colle dita del
piede destro, la tirò a sè e vibrò il colpo. La saetta erasi conficcata
nel centro. — Gli applausi, il picchiar delle mani, le frenesie furono
vivissime. La fanciulla venne baciata, abbracciata, brancicata.

Il rientrare dei convitati nel tablino ruppe il filo alla meridionale
baldoria. E tutti a gridare colle braccia alte:

— Vivano gli sposi! Vesta pianga, ma Venere rida! —

Caddero le cortine di Tyro d’ambe la fauci della stanza, e due
donne maritate che aveano sulle chiome una corona di bianche rose,
profittarono di quello istante di confusione per condurre Melissæa al
letto nuziale. La camera da ciò era a lato del triclinio ed in fondo
allo xysto, adorna di maschere bacchiche e di un quadro che rappresenta
Giove presso la vacca Io, e di un altro che mostra Adone affaticato al
reddir della caccia, attorniato da amorini e da ninfe. Il toro geniale
splendeva di oro e di porpora. Il Genio — la divinità del coniugio
— _quia genitos tuebatur_ — sacrando il letto, questo venne chiamato
_talamus genialis_. Ghirlande di mirto, disposte con vago artifizio,
gli danno le apparenze di un trono, degno di accogliere la dea eterna
del cuore. Le gravi pronube spogliano colle loro mani la sposa, la
pongono a letto e si ritirano dopo averle dato gli avvertimenti che la
loro esperienza giudicava opportuni.

Nel tablino si beve. Sotto la pergola si beve. Nello xysto si beve.
Nell’atrio si beve. Da per tutto si beve. Il falerno, il massico, il
caleno, il cæcubo, il surrentino, il lesbio, il mamertino, il mæonio
empie le _ampullæ_, i _cyathi_, i _calices_, i _pocula_, i _tortiles_ e
sono bentosto vuotati, dopo aver propinato colle parole,

— _Bene illis — Bene mihi — Bene vobis._ —

Bacco aveva usurpato di un tratto un incenso che non doveva bruciare
per lui. Eravi però chi non avea lasciato il culto di Venere
nell’oblio. E quando i libatori si accorsero che lo sposo gli avea
disertati, gridarono a coro:

— _Talassius! Talassius!_

Allora, un concerto di flauti accompagnò le voci dei giovani e delle
fanciulle che cantarono nel cavedio l’inno che segue.

    Biondo figliuol di Venere,
      Nume dei casti amori,
      Tu che di mirto e d’edera
      Il crine in ciel t’infiori,
      Signor dell’Elicona,
      Odi la tua canzona,
      E scendi in queste arene,
      Scendi, invocato Imene.
    Di Melissæa e di Vibio
      Sorridi ai primi amplessi.
      Ricco di lieti auspicii,
      Stendi il tuo vel sovr’essi.
      Sull’ali del mistero
      Siati il pudor foriero
      E scendi in queste arene,
      Scendi, invocato Imene.
    Voi, pudibonde vergini,
      Cui simil gaudio attende,
      Voi ricingete il talamo
      Di profumate bende.
      Turbar di amor gli arcani
      Non osino i profani,
      Oggi che in queste arene
      Scende invocato Imene.
    Ed ei già vien! — Già pronuba
      Venere a lui si accoppia.
      Già la cortina mistica
      Cela l’ansante coppia.
      Spenta ogni face sia....
      Cessi ogni melodia....
      Insino al dì che viene
      Solo qui regni Imene.

Cotesto Imeneo era stato in tempi remoti un giovane di Argos, il
quale avea reso alla loro patria le fanciulle di Athenes rubate dai
pirati. Qual premio al suo valore ottenne a sposa una delle captive
che amava teneramente riamato. E da quell’epoca i Greci e i Latini, da
essi inciviliti, deificando il giovane zelante e dabbene come celeste
progenie, non contrattavano matrimonio senza rammentare il suo nome nei
canti nuziali.

Al cessare delle note armoniose i parenti e gli amici libarono anche
una volta. E ripeterono a coro,

— _Talassius! Talassius!_ —

Era tempo di dare alcuna requie ai congiunti dalle nozze. I magistrati
e gli amici riaccompagnarono Demophilo alla sua dimora. Il quale pria
di partirsi dal luogo ove lasciava la metà del suo cuore, volgendo gli
occhi al cielo disse nella sua lingua:

    — Θυμαρην βιοτας ολβον εχοιεν αει.

— Godano essi sempre una soddisfacente felicità di vita. —

Gli altri, chi di qua, chi di là tornarono alle case loro.

Ma i convitati della sera erano i convitati dello indomani. Nei
_repotia_ si beveva di nuovo alla felicità degli sposi. — E si bevve e
si cantò. E Melissæa, appoggiata familiarmente alla spalla di Vibio,
ricevette dai parenti, dagli amici doni e congratulazioni che nel
tumulto inevitabile e nello scivolar via dalla folla bene a proposito,
non avevano potuto offerire la sera innanzi.

Solitudine e amore!... Una strada aperta, di soavi ombre, che mena alla
felicità. Oh! Come leggero, vivo, misterioso, divino lo affetto che
innonda l’anima, quando la graziosa persona è da presso, vi consola,
vi esalta, vi indìa! La non è già della vostra carne. No! — Essa è la
parte più delicata, più pura della cosa immortale che freme in voi. È
il pensiero che parla. È lo sguardo che sa. — La primavera ha i suoi
fiori. Il giorno, la luce. L’aurora, la rugiada. La donna ha i profumi
che aduna o che spande sullo eletto dal suo poetico cuore. — Alcuni
lamentano il dialogo dei primi parenti sotto l’albero della vita, e la
cacciata inesorabile dall’Eden, e il frutto amaro della ingordigia —
la morte. — Essi s’ingannano! La esistenza beata è in questo esiglio
eterno — ma con lei che sente e porta nel seno i sublimi e ricambiati
amori della umanità.




IL CATACLISMA.

SCENE DEL NOVISSIMO GIORNO.

=Anni di Roma 832 — Anni del Cristo 79.=


                          AL VECCHIO VESVIUS.

                                   X.


La vasta pianura che da Cuma e da Capua — le antiche e grandi città
della Campania — distendendosi verso levante, abbraccia e circonda il
cratere partenopeo, era il loco ove i Greci, venuti dalla Macedonia e
dalla Tessaglia, credettero che, come nelle loro contrade, anche quivi
i giganti avessero combattuta la fiera battaglia contro gli Dei. E quei
campi dissero Flegrei, da φλὲγω — ardo — per le tracce dello zolfo e
delle lave sparse su quel terreno. Gli è certo che Ercole, visitando il
bel paese sorriso da tutti i numi celesti e vedendolo corso e devastato
da uomini di fiero e selvaggio costume, avrà voluto purgarnelo per
incivilirlo. E l’atto benemerito per le genti salve, e la fondazione
di una città che tolse il nome da lui, e le altre opere verso il mare
aperto intorno il lago d’Averno, coronarono di una poesia maravigliosa
il vincente semideo, i mostri vinti da lui ed i campi, teatro delle sue
gesta. Su di essi elevavasi un monte isolato dai tempi primordiali. Era
cinto di fertili campagne, e verdeggiava da lungi per le erbe e per
gli alberi, tranne in sul culmine che sembrava coperto di cenere, di
sassi fuliginosi ed arsi dal fuoco. Malagevole era lo ascendervi. Una
e difficile l’angusta strada su quelle scorie tra rupi, caverne e punte
aguzze sporgenti al di fuori. Nel 682 di Roma Spartaco, dopo aver fatto
un carnaio nello Anfiteatro di Capua, riparava su quelle balze con
sessantaquattro dei suoi compagni nella rivolta. Ma seguito d’appresso
e accerchiato da Clodio Glabro alla testa di tremila soldati, pensò di
tessere corde coi tralci delle viti salvatiche di lambrusco, le legò
forte alle rocce e se ne servì di scala per discendere coi suoi sino
alla pianura. Il pretore che lo aveva fatto rinculare in uno spazio
ristretto, di una sola escita, di cui i suoi soldati tenevano la
chiave, non credette ai suoi occhi quando quell’audacissimo lo assalì
con tanto vigore da disfare il grosso delle sue ordinanze e porre in
iscompiglio il campo.

Tale era il Vesvio nel primo anno del regno di Tito imperatore,
allorchè — come scrisse Stazio — piacque al sommo Giove strappare
dal profondo le sue viscere, sollevarle sino al cielo e scaraventarle
lontano sur alcune sventurate città.

Era il nono giorno delle calende di decembre — 23 novembre dell’anno 79
di nostra êra.

Il canto dei galli annunciava l’aurora. I molossi abbaiavano nello
udire lo strèpito de’ passi sui margini delle vie. I salutatori,
i chiedoni, i saccari, i rivenduglioli ambulanti, i mercanti delle
botteghe, i viaggiatori che partono, i littori, gli schiavi animano
il selciato. I gladiatori escono con reti e panieri dal loro quartiere
e, accompagnati dal lanista C. Aelio Astragalo, vanno a far provvista
di viveri per la famiglia. Tutti gli artigiani sono in moto verso il
loro destino. E in breve ora, quale mura ed intonaca le pareti già
apparecchiate dal cemento sparso a striscie come spini di pesce, quale
sfilza una per una le tavole dallo incavo longitudinale della soglia di
pietra della bottega e le pone in un canto perchè non lo imbarazzino
nelle trattazioni degli affari, quale apre il suo _thermopolium_ e
canta o getta briosi frizzi ed inviti a chi passa. — Il venditore di
pani e di piccole focacce, dopo avere attelato la sua merce a spicchi
una sull’altra; e, spiegando i panieri sull’_oculiferium_, mostrando
il _pollen_ del suo fior di farina; gli _speustici_, stiacciate cotte
sotto le ceneri; gli _ortolagani_ composti col vino, col pepe, col
latte e coll’olio; gli _ostrearii_, che si mangiavano coll’ostriche, e
i pani disegnati a quadrelli, conditi di anici, di cacio e di grasso,
grida — esagerandoli — i meriti dei suoi prodotti. — Il carraio espone
sulla porta il _cisium_ che costruisce e la _traha_ senza ruote che
mena su e giù nel selciato dinanzi il villico che la contratta, mentre
i suoi operai lavorano attorno ad un _birotum_ per ultimarlo. Parecchie
carriuole — dette _unarota_ — sono ammonticchiate nel fondo. — I
_fullones_, cioè, i lavandai e gli smacchiatori, spandono le loro umide
stoffe sulla via a certi bastoni sostenuti da travicelli sporgenti sul
muro; e così, nell’atto che richiamano l’attenzione di chi passa sulla
loro industria, usano di uno spazio che pure al pubblico è riserbato.
Gli edili avevano un bel difendere la libertà delle strade, dei trivi
e dei portici con piccole e gravi ammende a quel popolo accaparratore
di ogni spazio che il proprio non fosse. Lo interno della bottega o
della casa pareva uggioso ad ognuno. Tutti erano lieti quando potevano
starsene al lavoro sull’uscio, sul margine, alla luce. La parola _via
publica_ veniva interpretata alla lettera. E purchè lo ingombro dei
due margini lasciasse libero sulla strada l’adito ad un carro, nessuno
potea venir condannato per offesa alla legge. E ove non fossero cadute
gocciole di acqua dalle preteste, dalle toghe e dalle vesti donnesche,
certo quella mostra variopinta abbelliva la doppia via di Mercurio e
la parallela al di dietro, dove i fulloni avevano il loro laboratorio.
Era quella la meglio importante tra le industrie pompeiane. Nel 354 i
due consoli C. Flaminio e L. Æmilio, reggendo un popolo che vestiva di
lana e dormiva ignudo tra coperte di lana, avevano decretato il modo
di trattare e di tergere quelle stoffe. E prescrissero, si laverebbero
i panni con terra di Sardinia disciolta; indi si affumigherebbero
collo zolfo, e poi si purgherebbero con terra cimolia di buon colore.
Avvegnachè questa ravvivasse le tinte sbiadite dallo zolfo. E per le
vesti bianche, dopo inzolfate, dissero convenevole la terra chiamata
sasso, la quale però era dannosa alle colorite.

I magistrati — i quali, creati dal popolo per occuparsi dei suoi
affari, rientravano in casa al cadere del sole, allorchè i pubblici
lavori cessavano — preceduti dai littori vanno gravemente ai loro
uffici. Alcuni uomini — vestiti di una tunica stretta senza maniche,
di colore oscuro, detta _exomis_, o _diphthera_, col _cucullus_ per
coprire il capo in caso di pioggia e continovare il lavoro — procedono
dal vico storto in una strada a perpendicolo su quella che mena alla
porta di Stabia. Avevano sulla spalla una lunga e stretta lamina di
acciaio, senza denti, terminato con due manichi di legno. E nella mano
un sacchetto di sabbia di Etiopia. Erano segatori di marmo che andavano
a ridurre in lastre per impiallacciature e per pavimenti le tavole di
serpentino, di fior di persico, di alabastro egizio, e di verde antico
che attendevano l’opera loro nella prossima casa. Ed altra gente dalle
sembianze pallide e triste che or si fermano presso i ragionatori, or
guardano dalla parte opposta ove l’orecchio tendeva, si veggono in sui
canti, per entro i templi, nel Foro. Erano le spie di Roma, adoperate
la prima volta da Cicerone ai tempi catilinari; mantenute da Cesare;
moltiplicate da Tiberio, da Nerone e dai pessimi che vennero poi, a
tutela delle imperiali paure. Razza perversa che disponeva della vita
e delle sostanze dei cittadini e viveva lautamente a carico degli alti
e dei bassi timori. Sulle mani, invece dei chiodi portavano anelli
da cavaliere; e sul collo in luogo del nodo scorsoio splendeva il
medaglione di onore.

Il cielo era nuvoloso e fosco. E quantunque albeggiasse appena, il
calore era eccessivo e l’aria grave e affannosa.

Una donna viene da un vicolo per attinger acqua alla fontana del
quatrivio dell’Aquila che ghermisce una lepre. Vi trova un suo
conoscente che beve al cannello.

— Abbi lontano dal capo la collera di Bacco, o Venerio. I
_meditrinalia_ — le feste del vin nuovo come rimedio utile alla salute
— corrono dal primo allo undecimo delle calende di ottobre. Non lo
rammenti?... Il bianco di Surrentum è confortevole a venticinque anni.
Cotesto novellino del Sarno ti guasterà lo stomaco.

— L’ho bello e guasto, o Tataia, dal molto berne e dal gran sudare che
fo. Mira! Abbiamo il fuoco nell’aria. Mai il calore di questo anno. E
le fontane gocciolano, non fluiscono. Gli _ænopoles_ mi brinerebbero i
lucri.

— Davvero! Eppure da due lune cadono frequenti e copiose pioggie. Che
il fiume siasi prosciugato alla foce? —

Una donna, che avea la _taverna vinaria_ dietro la fontana, si
approssima a quei due ed aggiunge:

— Quasi. Cominciò a mancare da tre dì. Ed ora vien giù a centellini.
E siccome un beone di vin cotto alla mirra mi accusò di aver aperto
nel mio cuore uno spaccio di bibite calde, io mandai alla fontana più
in su per averne acqua fresca; e dopo lungo attendere n’ebbi. Ma la fu
attinta dalla pubblica cisterna, colà presso, dove due littori vegliano
dì e notte per la custodia e la distribuzione di quell’acqua piovana.

— L’anno del terremoto — se tel rammenti, o Fortunata — avvenne pure
così. Le acque diminuirono. —

Il _seplasiarius_, che aveva la sua farmacia poco discosto, viene
anch’egli a verificare il misero stato della fontana. E Fortunata a
lui:

— L’arte della Seplasia che dà credito alle erbe amarissime e alle
pillole disgustose, trae anche Flavio Fimbria alle manchevoli linfe. O,
che il tuo pozzo è turato?

— Peggio. Dapprima diminuì la sorgente. E la rimasta ha un sensibile
grado di calore ed un gusto acidulo e disgustoso al palato. — Che! Non
ve n’ha più costì? —

Tataia gli addita il cannello di ferro che sgocciola a mala pena, e
s’incammina ver la pubblica cisterna. Quivi era un pettegolezzo, un
accapigliarsi, un bere a furia, tumulto che i littori acquetavano a
dura prova. Ognuno il primo a gittare giù il secchio. E le donne le
peggio ardite e linguacciute.

— Sii _formosa, decens, dives, fecunda_, o Pannikide. Concedimi il tuo
posto. Se tardo — e sono qui da un’ora — la mia crudele padrona mi farà
dare dieci vergate sulle spalle.

— _Esto beata_, Heracla. Ma le busse che ti risparmio, le busco per me;
Lisistrata di Neptunale è una gorgona.

— Fuori la intrusa. Io vengo poi. O bel littore, fa rispettare la tua
autorità e il mio diritto.

— Vedi chi parla di dritto! Januaria, di padre incerto e che ha securo
amante nella casa dov’abita.

— Frena quella linguaccia di serpe. O mi forzerai, Melitta, a darti lo
aggettivo che i tuoi casti ardori nelle _popinæ_ ti meritarono, quello
di lurida _pellax_ — .... e anche peggio, di _porna_.

— Che ho a rispondere ad una donna _cujus ne spiritus purus est_? —

Allora Ianuaria più infuria e con voce maggiore e con gesti vibrati
si slancia verso uno dei littori che per calmare quel tafferuglio,
distendeva la mano onde separare le due litigiose e quelli che già
prendevano partito.

— Ah! Vuoi anche tu ch’io mi muoia di sete, o difensore di male
femmine? Fai bene a darle compenso, poichè con donne di garbo tu pugnar
più non puoi.

— Le tue chiacchiere, o sguaiata, sono più inutili di _vitrea fracta
et somniorum interpretamenta_. Inutili discordie! Ognuno avrà l’acqua
a suo tempo senza motti villani e senza che abbiate a comperarvi un
_galerum_ e porvelo come un elmo di chiome sul capo invece dei capelli
che vorreste strapparvi.

— Ha ragione Nupeo. Si quieti la tentigine di queste piche parlanti e
la destrezza prevalga. —

Così Nilodoro. Il quale, schiavo di un tintore presso la fontana dalla
testa di Giunone, era venuto alla cisterna per compiacere alle voglie
della leggiadra padrona che coll’audacia dello sguardo spiegava la
segreta sua simpatia, eloquente però nei soppiatti incontri. Allora
uno scoppio di risa ed un battere di mani. Anche le trecchiere
dissimularono lo sdegno con finta ilarità. Ma le voci e gli alterchi
ricominciarono ben presto a logorar la pazienza ai littori addetti a
quel disgustoso ufficio.

Per quanto ognuno il vedesse, nessuno sapeva spiegarsi cotesta
deficienza di acqua nel Sarno, cotesto ringoiamento delle sorgenti
nella terra e quel sapore acidulo e puzzolente nelle acque che
rimanevano ancora nei pozzi.

Due uomini passano per quella strada. Sono Solonas, il mattonaio ed
Elio Gemino, il carradore. Si arrestano, ridono ed infilzano molte
parole su quelle femmine che qua e là scorrevano, arrovellandosi.

— _Picæ pulvinares._ Gazze da mercato. Le trovi sempre pessime lingue e
a gridare di piena notte che è mezzodì. — Manca l’acqua? Vi è il vino!
Bacco ne spremette molto l’altro anno. Ce ne darà copiosamente anche in
questo.

— Ma la baccante non è massaia. Ed io stimo la _eupatria qui providet
omnia_. E poi cotesta stranezza non è a prendersi a gabbo, o Salonas. È
nelle cantine un certo aere maligno che uccide gli animali che dentro
penetrano. Due gatti del mio vicino, là sotto le mura che guardano
verso Nuceria, furono trovati morti.

— E due facchini di Polibio, nel penetrare nel fondachi di quel
ricco, presso il porto, prima ebbero spente le lampade e poi caddero
stecchiti. Un altro che andava a soccorrerli, nel curvarsi sentì
mancare il respiro e le idee vacillare. Escì fuori in tempo e potè
riaversi sulla scala, alitando l’aria al di fuori. I cadaveri furono
tratti su cogli uncini e non avevano un graffio sulla persona. Dunque
la dea Mephite tolse loro il respiro.

— Ben dici, o Epietetos. Strano paese divenne il nostro da che Marco
Herennio, decurione, venne a sol diffuso, a cielo sereno colpito dal
fulmine nel Foro. — Dove di presente tu pingi?

— In una casa, quasi in fondo della strada che ha la fontana dal
bacino arrotondato, presso il bello Edone, vinaio. Sai? Dove talvolta,
o Pistosxenos, ti ho visto bere di tarda sera con Floro e Frutto,
festevoli compagni, allorchè ti eri sbarazzato del carico di figulina
che avevi portato da Nola. —

I quattro continuano a scendere per la via consolare.

— Veh! qual processione votiva! Come se fosse il sedicesimo delle
calende di aprile, all’epoca delle _liberalia_, per le feste di Bacco,
nell’assunzione della toga virile. Oh! il calore è eccessivo.... Guarda
i due batavi di Capito come soffiano in sull’uscio! Il nostro clima ad
essi deve parere l’alito di un forno acceso.

— E che dici di quel succoso che ti passava vicino? La felicità lo die’
a balia presso la Fortuna. E se suda, ha ben molte tuniche da cambiare.
È Clodio Alypo, liberto di Calvisio; il quale, comperati i montoni a
Tarentum, dopo il tremuoto e la gran morìa delle bestie, e ridottili
in mandra, divenne mercante di lane e di proprio ha sei tintorie.
Dicono possegga i suoi ottocento talenti. E in sua casa la borra dei
suoi origlieri è tinta di porpora e di scarlatto. Sul suo desco _apros
gautupatos, opera pistoria_ e vini squisiti.

— Come! Mangia i cinghiali cotti nella loro pelle? Allora gli spiriti
incubi gli diedero il loro cappello perchè trovasse il tesoro.

— Egli felice che non suda al tornio facendo vasi ed orciuoli!

— Nè cuocendo mattoni al pari di me.

— Oh! parlaste a proposito degli effetti del caldo. Ho la gola
arsiccia. Entriamo nella _taberna vinaria_, e beviamo del buono
aromatizzato che spegne la sete.

— Savio il consiglio di Gemino. Il vino generoso e melato e mirrino,
se supplisce ai panni nel verno, ingagliarda e sostiene il corpo in
estate.

— Sì, se nol fai salire al cervello ad ondate; imperocchè allora
vacilli e cadi.

— Io per me amo più i termopolii che la fullonica. _Aqua dentes habet,
et cor nostrum quotidie liquescit._ Ma quando ho un _pultarium_, di
quello che ha la _schedula_ sulla pancia e non si vergogna come le
donne di dire la sua età, le squadro a tutti io. E Pistosxenos lo sa,
il buon compagnone.

— Concediam libero il dire al figliuolo di Semele, lo allegratore degli
uomini.... Ohe! Bubbio. Abbi Venere ritrosa se mai facesti galileo il
vino che ti chiediamo. Del _calenum_.... e di quel _dominicum_, il vino
che bevono i padroni di casa; e non sia concinnato con pepe o con erbe
aromatiche. Non son del gusto di Gemino io.

— O Epictetos, tu devi andare al lavoro, rammentalo, e il pennello
delira, se lo stomaco bolle. E la vedova di Alessandro Citus....

— Oh! per Ercole! Valeria Eupraxia non applicherà le sue labbra sulle
mie per fiutare il _cadus Aliphanis_ che mia madre aiutata mi compose
nel petto. Erano gli uomini che ai tempi dei re baciavano le mogli
sulla bocca — e il dilettoso costume perdura — per conoscere dal loro
alito s’esse avevano bevuto del vino. — Attento... Il vinaio mesce. E
Solonas brinda.

— _Mihi, Tibi.... Vobis!_ Ah! Gli è pur buono.... Arianna tutto
obbliava quando trovò un tal conforto dell’animo.... Ehi! Athicto
Sinna, non passar oltre senza bere con noi. O che hai con quel viso da
funerale?

— _Mulier, mulvinum genus._ È un nibbio. Non conviene usar bene con
alcuna, perchè gli è come gittare il bene in un pozzo. Se giovane,
è lo abbandono di se stessa, è la noia, la solitudine, lo ideale che
arde nel suo cuore di una vampa bugiarda. Se matura, è un carcere, un
imbarazzo.

— Sentenzia come Cicerone da vivo. — È amaro ricordo. Addolcialo con
questo _vetustate edentulum_. Tradito a ponente, volgiti a levante.

— Conosci, o Gemino, il nome di quel tristo suo disinganno?

— Sì, Solonas lo diceva ora all’orecchio di Pistosxenos. La giovane
Kallisto, figlia di Narcissio Moscho, presso le proprietà degli eredi
di Giulia Felice.

— Veramente bella, grassoccia, al punto. La vidi di sera nel tempio
di Venere; e la sua veste bianca si staccava dalla semi-oscurità come
raggio di luna.

— Athicto, non piangere. Bevi piuttosto.

— Lascia ch’io mi beva le lacrime. L’amava come non aveva amato mai.
Diceva appartenermi intera, senza riserva. _Semper et ubique_. —

— Ed ecco le parole cui tu non dovevi fare a fidanza. È lo stesso che
attendersi inerzia da una farfalla. Ma non dubitare. Andrà lontano.
Troverà la fiaccola che le arderà le ali.

— E che fa egli costì contro il muro?

— Poichè l’oro mi si fe’ piombo fra mano, scrivo con Ovidio:

    Quisquis amat veniat. Veneri volo frangere costas
      Fustibus et lumbis debilitare bene.
    Sermo est illa mihi tenerum pertundere pectus,
      . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    Quos ego non possem caput illud frangere fuste.

— La donna, amico, è come la coda del vitello, _retroversus crescit_.
Appicca quindinnanzi il voto a ogni immagine, e sarai vendicato.

— Ma io l’amo e non posso. E così passerà la mia vita. —

Epictetos si appressa all’orecchio di Pistosxenos e susurra:

— Dì.... parla da senno Athicto.... e così.... in Pompei?

— Anch’io vi pensava su..., e comincio a temere che Plutone abbia
respirato troppo vicino a quel suo delicato cervello.

— Orsù, fratelli, l’ultima alzata di gomito. E beviamo alla tua pace,
o Sinna. E perchè ne profitti, ricordati che lo amore è la sfinge, la
quale divora chiunque la interroga.

Quegli amici seguitarono la via e volsero pel vico storto, piegarono a
sinistra presso la fonte del quatrivio, e discesero in giù. Un _vale_
incrociato; ed ognuno pei fatti suoi.

Il pittore Castresio, cui avevano dato il soprannome di κάλος, era
già al lavoro. Sulle pareti del _cavædium_, tinte in nero, dipingeva
baccanti abbracciate o sostenute da fauni festosi e danzanti. Erano i
devoti seguaci del giocondo iddio che prometteva per non spinoso calle
i piaceri di una vita beata. A’ suoi piedi era la tavolozza di granito
egizio, posta sopra un braciere. I suoi rotondi incavi contenevano i
colori di cui allora servivasi. Cosenzio abbelliva una scala. Vetidio,
un _œcus_. Succidio Epitinka, lo xysto. Damisio restaurava un cubicolo.
Poche altre pennellate, e tutto il lavoro sarebbe compito. Cantavano
canzoni del loro paese. Lo amico che vide entrare Pistosxenos,
scherzosamente il garrisce:

— Ti dai bel tempo, per tutte le muse eh? Hai ragione. L’aria è sì
grave che spossa i nervi e le facoltà dell’occhio. E qui cantiamo come
cicale di Rhegium. Ma indovino chi ti trattenne. _Colubra restem non
parit._ Di serpi non si fanno corde, e tu saresti capace _resecare
ungues_ allo avvoltoio che vola.

— A che miri con questo dir da sibilla?

— Penso che tu, _iterum et feliciter_, ti trattieni sotto coltri non
tue e non ti fai sorprendere dal geloso. Bada! Cornelio Vitale or’è più
di un anno _dispensatorem suum ad bestias dedit_. I duumviri glie lo
accordarono ad esempio.

Vetidio entra a dire:

— Misero! Qual colpa in lui, se forzato a fare? Qual colpa in lei,
s’egli bruttissimo?

— Eh! legge di taglione! Finire straziato dal toro! _amasiuncule mi_,
smetti o ci capiti. — Dipingi qui e non in casa. Farai fortuna. Valeria
Eupraxia ha ammirato il tuo Narcisso e la tua Danae col Perseo salvato
nelle braccia. E parlò _libentissime_ di te e del valor tuo a Memore
Istacidio, il sacerdote di Mercurio e di Maia. Pare voglia ridipingere
il tempio e dare a te quel lavoro. Mio padre mel dicea sempre; _Literæ
thesaurum est; et artificium nunquam moritur._

— Ti so grado, o bel Castresio, del sermone e delle liete novelle. Con
siffatti stimoli vado a compire il lavoro. Ma non Klimenes me rattenne
come tu ti piacesti pensare. Ma è disordine e sgomento nella città per
l’acqua che manca. Ed Ælio Gemino, il carraio, con altri buontemponi mi
trassero alla taverna.

Dopo un’ora le pitture erano ultimate per tutto. Nel cavedio mancava
il _podium_, cioè lo zoccolo. Ma Castresio lo segnò, perchè, i
_cementarii_ sapessero il punto dove avrebbero incastrato le tavole di
marmo di Luna. Ed in punto, ecco Edone, il vicino vinaio che così tutti
rimbecca:

— Come! Quando lo scirocco pesa talmente a soffocare il respiro e si
suda solo pensando, e voi, beoni che mi sapete alla distanza della
voce, vi state costì ansimanti qual mantice e non chiedete soccorso a
chi ha tal merce che rinfranca ed allieta?

— Ti sieno propizi gli dei, o bellissimo Edone. Possa tu versarmi il
vino sul capo se io manco al tuo invito. E non solo ceci e lupini; ma
un po’ di _scriblita frigida_, di quella torta eccellente di ieri, se
pur te ne avanza. Condita col mele caldo, berremo come Anacreonte, e tu
sarai lieto di noi.

— Se tu paghi lo scotto, o bel Castresio, permetti al tuo Pistosxenos
di aggiungere il cacio molle e rape con senape. Consenti?

— Costui mi vuol Trimalcione. E sia! V’ha tra noi Succidio e Damisio
che nell’atto chiederanno fegato nei bacini, busecca di bue ed uova
pileate. Non somigliano punto a Vetidio, del quale ebbi a scrivere ieri
sul muro; _Ubi perna cocta est, si convivæ apponitur non gustat pernam,
ligit ollam aut caccabum._

— No, saremo discreti. Non dubitarne. Ove mai tu imbandissi un
prosciutto cotto, lo mangeremo tutto, e sii certo che non leccheremo
l’unto della pignatta. —

E Pistosxenos, preso uno spillo, graffì sulla nera parete la sentenza
che segue:

— _Invicte Castresi, habeas propiteas deas tuas tres. Ite et qui leges,
calos Edone, valeat qui legerit_. Cotesto è il voto pel nostro caro
anfitrione. Ma più che Giunone e Minerva io so che Venere lo prese per
gli occhi. E ad essa il pomo.

— In fede di Edone, gli è un suo devoto e dei più passionati. E gli
bisogna mangiar caldo e ber freddo. Or permettete ch’io pur graffisca
qualcosa a mia volta?

— Eccoti lo spillo e scrivi.

Il vinaio pensò e poi stese la mano sulla parete.

— _Edone dicit. Assibus hic bibitur dipondium. Si dederis meliora,
bibes conditus. Si dederis mina I, XL urna bib_....

— Orsù, a me lo spillo e traccerò il mio nome a conferma.

E graffì,

— _Calos Castresi_.

— Oh! Andiamo. Venere è losca. Perciò più bella. Diverrebbe irata se
più qui tardassimo. E imbruttirebbe. Allora tutti gli dei contro di
noi, ed avremmo pane pei nostri denti.

E gli allegri pittori seguirono Edone nella sua _taberna vinaria._

Per le vie sono mercanti di carne che portano sur un _cesticillus_
pezzi di trippe e di fegato, ed urlano i meriti della loro merce a buon
mercato.

E _dendrophores,_ che tagliano, spaccano, segano e portano il legname
da ardere a chi vuol comprarlo. E carbonai che spingono innanzi i loro
asini pazienti e carichi, che a posta loro dirigono, ed arrestano per
la coda. E venditori di fuscellini inzolfati che cercano di ricambiare
coi rottami di vetri e con tibie di bue già mangiato. E ciechi che
suonano nei flauti per buscare la vita. E saltimbanchi che imitano i
giuochi del Circo. E prestigidatori. E robusti uomini che sollevano
fanciulli sulla testa e sulle braccia, d’onde ricadono in piedi per le
terre senza farsi alcun male. E uccellatori che si fanno ubbidire dai
piccioni o dalle passere ad ogni loro cenno. Havvene uno finanche che
presenta al suo cerchio di curiosi e di sfaccendati un bel ciuco, dalla
testa maestosa e dalle orecchie ancor più, il quale indovina per un
_triens_ quale del crocchio sia il meglio amato, il peggio infingardo,
il più.... mariuolo. E le grosse risa quantunque volte la culta plebe e
gl’incliti gladiatori credono che lo indovino abbia colto nel segno.

Uno che passava dà una occhiata di spregio alla folla, vi scorge un
conoscente, lo tocca piacevolmente sulla spalla e gli dice:

— Che fai costì ritto, o C. Vibrio Saturnino! Studi per trovare un
nuovo Dio in quell’asino addottrinato?

— La parola dello epicureo è sempre mordace. Credo, o mio Caio
Nivillio, che tu sedotto da pochi anni dalla falsa dottrina,
l’abiurerai pel nessuno interesse di sostenerla.

— Non è cotesto il luogo da tali ragionamenti. Vien meco nel Foro
triangolare. Sederemo nella _exedra_, e correggerò le tue false idee
sulla filosofia del grand’uomo di Gargettium, la saggezza e il luminare
dell’Attica e quasi l’idolo degli Ateniesi. —

Un cielo caliginoso ma con estive temperie; strade piene di popolo gaio
e incurante; la eterna bellezza di una contrada che dalle prime ore
del mondo sembra voglia rivelare agli uomini un grande secreto, tutto
cotesto impressionava i due amici sempre pronti, siccome meridionali,
ad ogni specie di emozioni.

Nel passare sulla cantonata dinanzi la bottega del musaicista, Nivillio
salutò Morultronio, intento al lavoro di genio e di pazienza. Era la
copia di un musaico già fatto in una casa dinanzi le Terme del Foro,
operato con minute pietre e scelte pastiglie di vetro.

— Bravo! Rinnuovi lo stesso genio bacchico di altra volta? Chi lo
desidera?

— C. Calvenzio Quieto. Tu sai che ama il bere. E vuole che nel
triclinio io collochi Acrato, l’antica personificazione del _vinum
merum_.

— La sua coscienza val meglio di mille testimoni. _Vale_.

— _Valete_. —

Giunti presso il tempio di Nettuno e sedutisi, Nivillio cominciò:

— Mira. Non uso preamboli. Vi hanno cose che emergono come le verità
dai pozzi, perchè sono gli ospiti invisibili delle nostre coscienze.
Una voce autorevole, avvezza a scrutinare i misteri, vibra; i veli
cadono; e le menti si aprono alla luce di un nuovo orizzonte. Epicuro
meditò e scoprì che la natura si compose _ab æterno_ e si completò a
seconda della necessità in tutte le parti dello universo. La ignoranza
degli uomini creò gli dei invisibili a tranquillità delle loro visibili
paure e gl’identificò negli uomini chiari degli evi anteriori, quasi
per iscusa delle proprie debolezze e passioni. I legislatori persuasero
le società alla credenza di siffatte menzogne. I tiranni le imposero
per consacrare le loro inique malvagità. —

Così affermava Nivillio ai suoi tempi. Ed io dico nei miei come la
religione sia una passione della umana natura, che assume il colorito
dell’epoca, dei costumi, delle leggi, delle contrarietà, del clima,
della maggiore o minore intelligenza degl’individui. I quali, dopo
aver nutricato quella passione di futilità, di paure, di ferocia,
di avarizia, di libidini e di egoismo la esprimono fuori del cuore
immedesimata delle virtù e dei difetti del loro carattere peculiare.
Laonde, ai tempi andati come nei nostri potevasi e si può essere
religiosissimi idolatri, israeliti, cristiani, islamiti, bramini,
cattolici, anche papisti,... e vivere vita lussuriosa, palesarsi
usurai, ubbriacarsi, macchiarsi di sangue, ordinare macelli d’uomini,
parlare di pietà, temere Iddio ed offerirsi alla storia sotto il nome
di David, di Elagabalo, di Filippo II, di Luigi XI, di Cromvello, di
Borgia, di Calvino e dei Borbonidi. Le temperie dell’aria, il calore
del sangue, le ragioni di Stato sono elementi acconci a sanare di molte
rotture ed a lenire qualche rimorso. Nè giovano riforme a rimedio di
epoche rilasciate. Chè una religione troppo assottigliata dallo staccio
della ragione cessa di essere una fede. Ed una fede imposta senza
il consentimento della ragione è una cieca stupidezza ed una solenne
bestialità.

Or ecco come C. Vibrio Saturnino rispondeva alle sentenze del suo
compaesano C. Nivillio, lo epicureo:

— Ma Epicuro disse si onorassero gli Dei a cagione della eccellente
loro natura.

— Lo disse, ma non lo credette. Poichè pur disse com’egli non
attendesse alcun bene, nè temesse verun male da essi. Di fatti, non
gridarono pei crocicchi i perversi suoi oppositori ch’egli rovesciava
colle sue dottrine la osservanza agli dei? Nè voleva il culto
mercenario? E se dicea si onorasse e si rispettasse ciò che è grande
e perfetto, non era cotesto un temperare le sue arditezze con un giro
di frasi che lo salvavano dalla morte? La ragione parlava per la sua
bocca. Ai secoli la sentenza!

— Ma chi calmerà i rimorsi dell’uomo colpevole? Chi darà la forza alle
virtù ignorate di continovare quando tutti i falli nascosti saranno
scusabili ed impuniti? Le vostre dottrine limitano la esistenza ai
brevi istanti di questa vita. E al di là l’uomo decoroso di virtù avrà
la stessa sorte dello scellerato e dell’empio? Ah! io sarei veramente
addolorato se avessi a perdere la fiducia in un soggiorno di delizie o
di pene dopo la morte.

— Se tu togliessi per te il fastidio di pensare, proveresti lo stesso
rammarico che senti allorchè ti desti il mattino dopo un sogno felice.

— Ma se tu dissipi cotesto sogno, non togli tu allo infelice le soavità
che sospendevano i suoi mali?

— No. Il mio maestro elevò l’anima e fortificò la ragione. E insegnò
che il vero coraggio sta nello affidarsi alla necessità.... In
Jerusalem una setta perversa, quella dei Farisei, si sbracciò per
accusare un filosofo di Galilea appo i Romani. E lo calunniarono
dinanzi le leggi. E lo resero odioso al popolo. E gavazzarono allorchè
lo videro sospeso sulla croce dei ladri e degli assassini. Pure quel
crocefisso — lo udii anche dai circoncisi che sono qui — predicava una
fede che a tutti doveva piacere: «Ogni uomo nato di donna è figliuolo
di Dio onnipossente — Ognuno per conseguenza è eguale all’altro
in faccia alla bontà divina.» Ed il pernio della sua dottrina era
conchiuso in cotesta formola: «Non fare altrui quello che non vorresti
che a te facessero.» Ebbene! Gli stoici, che sono i Farisei del
panteismo, dicono di Epicuro le abbominazioni delle maladizioni perchè
professò che la felicità dell’uomo consiste nel piacere....

— E ti par questa la teoria di una sana morale?

— Nel piacere che risulta dalla pratica delle virtù. E nessuno tra i
tuoi brontoloni potette mai accusare nè Epicuro, nè i suoi adepti di
sensuali pecche. Il popolo invece vede voi nè casti, nè temperanti, nè
frugali.

— Ci sa religiosissimi.

— Ipocriti, frequentate i templi. Crapulosi, aiutate alla crapula dei
sacerdoti e gli satollate di ricchezze e di prestigio. Se magistrati,
vendete la giustizia. Se privati, cittadini, ponete allo incanto la
bilancia di Temi. I legami sociali voi li rompete ognidì. I rimorsi
nel cuor vostro assumono le sembianze di pregiudizi infantili; e gli
dissipate coll’offerire una melagrana a Venere, un montone a Giunone,
un voto a Giove, un’anfora di vino antico al dio Bacco. Arricchite
colle usure?... Che monta! Una parte al flamine di Mercurio, lo incenso
al comodo nume, il resto per voi. E vi beccate il nome di _boni viri_,
di _verecundi_, di _religiosi_, di _integri_, di _innocui_, di _frugi_,
di _omni bono meriti_, di _dignissimi Reipublicæ_.

— Non tutti così.... In ogni modo val meglio aspirare a leggi pure,
solide, di facile esercizio e consolanti, di quello che ad una sterile
virtù stabilita dalla opinione mobile degli uomini. E ve n’ha già di
parecchi sistemi. E ne diviene imbarazzante la scelta.

— Ma quando la morale — che tu riconosci per tale al pari di me — non
può più accordarsi con una religione malsana che corrompe i costumi e
che riverisce ed incensa iddii ingiusti, dissoluti e crudeli, e non val
meglio negare la loro esistenza piuttosto che degradarsi dinanzi a quei
rivenduglioli di antiche frottole che di soppiatto si smascellano dalle
risa della vostra melonaggine?... Ah! Voi siete gli empi davvero!...

— Io penso che tu rammenti come nella nostra prima gioventù, presi
ambedue da una grande simpatia l’uno per l’altro, risolvemmo di
consultare la iddia Iside sulle sorti che ci attendevano. Me la
curiostà spingeva, a ver dire. Te una credulità superstiziosa. Andammo
nel tempio. Affidammo al jerofante le due pergamene rotolate che
contenevano le nostre domande e attendemmo prostrati a’ piè della
edicola. Un sacerdote triste, pallido, abbattuto, cinto il capo di
bende e di una corona di alloro, allumò sullo altare un fascetto di
erbe aromatiche, masticò alcune foglie della corona, gittò questa nel
fuoco insieme con una pugnata di farina d’orzo e annusò a piene narici
le crepitanti fiamme. Quell’uomo lo dicono stretto al celibato; e le
frizioni di cicuta par lo accomodino egregiamente ad osservare una
strana legge contraria alla natura. Assistito da due sacerdoti che
aveano nelle mani gli attributi del Sole e della Luna, passarono dietro
la edicola.

— Rammento, o Nivillio, che due altri ci purificarono coll’acqua santa
nell’atto che i vittimari scannavano i due vitelli bianchi di Surrentum
che noi avevamo offerto alla iddia per renderla a noi propizia.

— Io tutto vidi, o credulo amico. E allorchè chiesi la ragione perchè
al tuo vitello fecero mangiare la farina che gli presentavano; e
perchè pittarono acqua fredda sulle aperte viscere del mio — il quale
d’immobile ch’era divenuto, agitossi — nessuno di quegl’impostori
rispose. Avvegnachè più le cose sieno inesplicabili e dure a ingoiarsi,
più inspirano fede al volgo bietolone e ignorante. Un soave odore si
sparse a noi d’intorno. Tu lo credesti prodigio. A me parve grossolano
abuso della mia ragione. D’un tratto dietro il nume vedemmo sorgere
una nube di fumo olezzante. E poi una voce cupa gutturale pronunciare
parole sconnesse, ignote alcune, altre di nostra lingua — che non
avevano senso veruno. Eh! era giovane allora e il mendicare un responso
alla Iddia, se mi fece oltraggio alla mente, pur mi parlò di pericoli
ch’era follia lo sfidare. Socrate morì di veleno. Diogene fu salvo
della sua miscredenza per la nomea di strano filosofo. Tacqui. E
siccome ambedue, senza dircelo, avevamo chiesto se avremmo patito il
dolore di sopravvivere allo amico del cuore, il sacerdote portò a noi
in una sola pergamena il responso deciferato. Qual’era che tu morresti
colpito dalla folgore, ed io strangolato. Baie!

— Tu stracciasti, o profano, l’oracolo, e mal te ne coglierà.

— Morrò. Sei immortale tu forse?... Ho meditato lunghi anni su quella
scempiaggine della mia gioventù; e nel segreto sentii gli orrori
cagionati ai popoli e agl’individui dalle pitonesse, dai misteri
di Cerere, dalle soperchierie di Delphi, dai responsi degl’ipocriti
sacerdoti e dagli oracoli degli egiziani che vendono le loro frottole
in nome d’Iside, qui. Una parola dettata da quei corrotti e mai
satolli del proprio egoismo, suscitò guerre sanguinose in antico,
portò desolazioni in una repubblica, ridusse in cattività gli abitanti
di un intero paese, creò lo eccidio di una famiglia, troncò la vita
di una creatura innocente. Giacchè mentovai i ciurmadori del tempio
di Delphi, vo’ ricordarti quello che fecero al popolo di Cyrra, nella
Phocide, correndo la LXXIII Olimpiade, quattro anni dopo che Euripides,
il grande tragedo della Grecia, nacque in Athenæ. Gli abitanti di
Cyrra, nel seno Crissæo, possessori della valle che si stende dal monte
Cirphis al Parnaso, imponevano balzelli sui greci che sbarcavano nel
loro porto per andare a consultare in Delphi il vantato oracolo. Ma
nuocevano alla turpe officina. E l’oracolo, richiesto, rispose che i
colpevoli meritavano il supplizio, cioè, che ogni cittadino di Cyrra
dovesse esser perseguitato di giorno e di notte come cane idrofobo;
si saccheggiasse il paese; e le donne stuprate; e i bambini ridotti a
schiavitù. Parecchie nazioni si levarono in armi. La città fu rasa,
il porto colmato, gli abitanti morti od in ferri, e i ricchi campi
sacrati al tempio di Delphi. Una colonna fu rizzata sulla vasta pianura
a ricordo del fatto. E col sangue delle migliaia di vittime eravi
scritto: _Chiunque osi rompere cotesto giuramento sia esecrato agli
occhi di Apollo e delle altre divinità di Delphi. Che le loro terre non
portino più frutto. Che le loro donne e i loro greggi producano mostri.
Che perano nei combattimenti. Che falliscano in ogni loro impresa.
Che la loro razza si spenga. Che per tutto il periodo della loro vita
Apollo e le altre deità di Delphi rigettino con orrore i loro voti e
i loro sacrificii._ Questi i tuoi sacerdoti, avari, ingordi, mendaci,
ladri, impudichi, arpie, mai satolle di dominio e di sangue. E l’empia
sentenza correrà tradotta in ogni lingua nei secoli avvenire.

— Lo ammetto, ed ammetto altresì i vizi e le passioni umane
identificate nei Numi. Ma se noi pervenissimo a purificare il culto
delle superstizioni accumulate dai secoli, saprebbero gli Epicurei
rendere omaggio alla Divinità rinnovata?

— Sei pure il dabben’uomo, o Vibrio Saturnino. Tu infradici i numi nel
brago e poi gli correggi e gli lavi nel ranno a posta tua. Dunque,
o buoni, o pessimi, sono l’opera delle vostre mani. Provami un po’
meglio la loro esistenza. Guarentiscimi con testimonianze irrefragabili
ch’essi prendono cura di noi, ed io mi prosternerò ai loro altari.

— Sei tu che devi provarmi la loro nullità. Perchè sei tu che zappi
le fondamenta ad un domma che i popoli osservano per lungo periodo di
secoli. Ma un monumento che attesti la esistenza dei Numi pur vi è,
e tu il vedi e il calpesti. Il sole, le stelle, la terra, l’organismo
dei corpi, la differenza degli esseri, il petalo dei fiori, la polvere
dorata delle farfalle, lo istinto degli animali, la nostra ragione.
La natura sin dallo aprile è stata in un rapido movimento finqui. Ora
si acconcia al riposo. Dunque vi è un primo motore. Cotesta azione è
soggetta ad un ordine costante. Questo ordine esige una intelligenza
suprema. Qui la mia mente si arresta. Se tu, o Nivillio, procedi
innanzi, io dubiterò della mia esistenza e della tua.

— Coteste prove non arrestarono mai i filosofi sulla via della ragione.

— Voi siete presumenti.

— Noi siamo ragionevoli. E pensiamo colla nostra testa piuttosto che
per quella di Aristotile e di Numa Pompilio. Leggi Timeo di Locrum,
Anassagora, Platone, Pythagora, Antisthene, Epicuro, Socrate; e verrai
facilmente alla soluzione del misterioso problema: «Molte sono le
divinità adorate dagli uomini. Ma la natura ne indica una sola. Tutti
hanno considerato lo universo come uno esercito mosso dal genio del suo
generale, o come una vasta monarchia, in cui la pienezza dello imperio
risiede nel principe.» Se Dio fosse, lo insetto, la lucertola, il
rospo, il lombrico, il coccodrillo, la talpa, l’erba che non è albero,
la scimmia che non è uomo, non dovrebbero lagnarsi delle imperfezioni
loro prodigate? Ma son essi cogli altri i componenti del tutto e i
perpetuatori del tutto, e non havvi ragione a lamento.

— Tu mi persuadi ed io fuggo. Oh! la illusione dei Campi-Elisi! _Vale._

— Ho speso fruttuosamente la mia giornata. _Faustum, felicemque._ —

Intanto che i filosofi si avviavano alle loro case ed una parte di
popolo vagava per le sue faccende o si trastullava, le donne e i
bigotti muovevano verso i templi alle preci votive a cui li invitavano
i magistrati. Le stranezze che occorrevano erano insolite cose. Il
maraviglioso mena al maraviglioso. La paura e la impotenza legano
la credulità al carro dello ignoto cui si chieggono favori, aiuti,
riparo e conforti. E tutti i superstiziosi e gli sgomentati corsero ai
sacerdoti per offerir loro _ex-voto_, monili, pecunia e commestibili
onde pregassero i numi a far cessare le minacce misteriose o patenti
che pesavano sulla pubblica coscienza dei Pompeiani. I fani di Giove,
di Mercurio, di Venere e dell’Augusteum, di Esculapio, di Cerere, di
Nettuno e di altri iddii si affollarono di gente. E più quello d’Iside,
deità di non remota instituzione e di moda. Grato Arrio, Amphio Serapa,
Puccio Chilo, Messio Inventus, Merulino, Nimphiodoto Caprasio e gli
altri loro consorti in ipocrisie accettarono la mèsse che la ignoranza
impensierita loro forniva; ed ognuno — secondo il rituale del proprio
culto — sacrificò, libò ed orò il meglio che seppe. Perchè, a ver dire,
un po’ di spavento aveva pur scosso quei pubblici ladri e profittevoli
ingannatori. Persino dalla parte più ignobile della città, verso il
Sarno, accorsero gli ebrei, negozianti e schiavi venuti dalla loro
distrutta città. Non avendo più tempio, nè potendo creare in terra
straniera il loro _sanhedrin_, cercavano in tanto pericolo il dio unico
dove poteva discendere, richiamatovi dagli incensi e dalle preghiere.
Eliachim Verpa, il ricco mercatante, ne ritenne ben pochi e furono
quelli tra i quali spandeva la buona novella e col loro mezzo faceva
proseliti e propugnava di soppiatto negli schiavi la notizia della
redenzione.

Sur un’ampia via che dal Foro, traversando quella che mena alla
porta di Stabia, conduce direttamente allo Anfiteatro, è a sinistra
una casa, il cui uscio apresi subito dopo un terrazzo lungo quanto
l’abitazione precedente, guarnito di una balaustrata di ferro. Numerosi
cittadini, solleciti liberti, procuratori officiosi, chiedoni di
ogni genere sono sul selciato, assaltano l’uscio, empiono l’atrio.
La diversità delle vesti, le varie persone che parlano di affari che
la mobile fisonomia traduce a chi finamente le osserva, la magnifica
architettura dello edificio sono indizi che colà dentro dimori un uomo
di alta considerazione. Ed una voce ecco che l’indica. Nessuno degli
annunciatori ha parlato. Laonde, tutti gli occhi si volgono sorridenti
ad una gabbia di legno dorato sospesa ad una verga di ferro che
traversa lo impluvio. La voce ripete il suo verso e dice:

— _Svedius Clemens, sanctissimus judex._ —

Era uno Ψίττακός verde, dal capo giallo e dalla coda rossa, cui avevano
dato il nome di Catina, ch’erano le sole tre sillabe che pronunciasse
pria che i servi altre glie ne apprendessero. Alle parole di
quell’uccello, credutele escite dalla bocca del _nomenclator_, la calca
si fece più innanzi nell’atrio.

— Isocriso Fortunato, qual cura qui ti conduce? Fatti in qua ed
eviterai di aver pesti i piedi.

— Sì, o Claudio Espedito, meglio è serbar sane le costole e non esser
dei primi.... E poi è un’afa che uccide. Qualcuno di quei solleciti, là
nella schiaccia, perderà il respiro. Mira L. Pullio Mactoriano, corso
in tanta fretta da non avere ancora allacciato le corregge dei calzari.

— E che dici di M. Epidio Sabino che pur sbadiglia ed ha la cispa negli
occhi. La vanità gli vieta il sonno. E si fa spingere qui grosso e
rubicondo per sollecitare dal sommo giudice imperiale la ratifica dei
suffragi del vicinato per le prossime elezioni. _Habebimus ædilem trium
cannearum!_

— Qual vita! Nei tempi antichi, pria che Silla legasse le ruote
del nostro carro municipale, eh! amministrare il paese era un fatto
onorevole ed onorato. Ma ora.... l’ombra e nulla più! Il magistrato
è servo dei capricci dell’Urbe.... Ne avemmo di mostri a patire!...
Vespasiano non ebbe nè grandi vizi, nè grandi virtù. Era alquanto
dozzinale e plebeo, e di parole licenziose e brutte. Di lui, vecchio,
massiccio, colle membra annodate e sode, e colla faccia rappresa che
parea che ponzasse, innamorò Petronia, poi che fu morta la Cenide
sua. La fe’ passare nel bagno, e ordinò al dispensatore di darle
dugencinquanta nummi d’oro. Or, questi domandandogli in qual modo
quella partita si avesse ad acconciar nei suoi conti, rispose: «Metti
a uscita Vespasiano, di cui le donne invaghiscono.» Il figliuol suo,
Tito, lo amore e la delizia dell’uman genere, per ora.... Durerà?

— Eh!... Amministrando lo impero insieme col padre, fu poco civile e
molto crudele. Rammenta tra gli altri, Aulo Cecinna, uom consolare,
pria convitato a cena e poi fuor del triclinio per suo ordine
pugnalato. Si disse di una congiura di militi apparecchiatagli contro e
che il pericolo lo forzasse. Le leggi erano. Poteva por mano ad esse ed
evitare il biasimo grande.

— E quel suo mangiare e bere cogli amici e familiari i peggio
vituperosi e disutili? E la folla di giovanetti sbarbati, dotti nella
danza ed in libidinose posture? E gli amori colla regina Berenice? E
il mercato di uffizi? E il riceverne mance e premi?... Vero è che,
ottenuto il principato, si palesò uomo diverso. E non si mostrò al
pubblico, ove tutta Roma plaudiva i suoi giovani e graziosi istrioni.
E mandò fuori dell’Urbe l’amata e piangente regina. Nè tolse più cosa
alcuna ai cittadini. E consacrò lo anfiteatro, e nelle Terme edificate
colà presso ordinò con bellissimo apparecchio il magnifico spettacolo
dei gladiatori. Parmi dunque, o Espedito, ch’ei....

— Farà prospera la repubblica, se non lo guastano colle adulazioni e
colle abbiettezze.... o non lo uccidono. — Veh! lo sguardo sdegnoso
e venale dei portinai come trasceglie nella folla dei clienti che gli
assediano quelli che per pecunia faranno passare i primi! La venalità
è il pessimo veleno che omai filtra per tutto. — Non mi hai ancor detto
che ti mena da Svedio.

— Quando ei fu inviato da Cesare nella nostra Colonia, io era in
Lutezia dei Parisi. Un mio vicino di campagna prese per sè la parte di
terreno che mi veniva restituita, ed ora vo’ chiedergli giustizia senza
aver che fare con quei sollecitatori che vendono a sì caro prezzo le
loro parole. —

Cotesto insigne giureconsulto, per nome Tito Svedio Clemente,
tribuno, era stato nel vero inviato in Pompei da Flavio Vespasiano per
delimitare i confini del territorio della Repubblica Romana, occupato
nel Pago Felice-Augusto dalle tre coorti dei veterani. Da che Silla
gli dispose qui come corpo di osservazione, quegli uomini arroganti
e spavaldi, perchè armati, commisero insolenze contro i cittadini.
Avvegnachè, sentendosi essi il principale sostegno della politica
dittatoriale, stimavano che gli altri fossero di un ordine inferiore.
Divennero i tiranni della città. Commisero violenze e brutalità di ogni
maniera. Il selciato pompeiano fu insanguinato. Publio, loro generale,
pretendeva che i suoi soldati venissero riconosciuti come i liberi
cittadini della Colonia. I magistrati, gelosi dei popolani privilegi,
fermamente si opposero a quella imperiosa volontà; e ricorsero al
senato nell’Urbe. Cicerone, pauroso di Silla, difese il nipote,
quantunque in cuor suo lo accusasse. E Publio assoluto. E surrogato
da Ninnio Mulo. E i veterani ebbero un vasto terreno, in proprio, da
coltivarsi e da trasmettersi ai figli. Nella distribuzione dei campi
furono però usurpate le proprietà dei cittadini. Laonde, litigi,
ingiurie, busse e macelli. Bastava muovere doglianza contro un soldato,
per veder sorgere la centuria e colle centurie le coorti, onde chiedere
riparo col gladio al coltello. Svedio compose le liti insorte e i
decurioni elevarono la sua statua sur un piedestallo, proprio sul posto
dei diritti acquetati e riconosciuti, presso la strada dopo lo emiciclo
di Mamia e sull’angolo della via che menava alla villa di Cicerone.

La iscrizione diceva:

                             EX AVCTORITATE
                             IMP · CAESARIS
                            VESPASIANI AVG·
                        LOCA PVBLICA A PRIVATIS
                      POSSESSA T. SVEDIVS CLEMENS
                      TRIBVNVS CAVSIS COGNITIS ET
                          MENSVRIS FACTIS REI
                         PVBLICAE POMPEIANORVM
                               RESTITVIT.

Un subito moto, come onde di mare che si seguono e si accavalcano,
dinotò l’apparizione del magistrato imperiale nell’atrio. E la turba
degli ossequiosi si spinse verso quella parte. Erano i _salutatores_
che volevano solo complirlo. E i _deductores_ che intendevano
accompagnarlo se mai fosse escito. E gli _assectatores_ che in pubblico
desideravano farsi vedere al suo fianco.

Di mediana statura, vigoroso, solido, dalle braccia e dalle gambe
scultorie, sotto quella fronte larga e possente si disegnavano due
occhi neri e fermi, di cui era difficile sostenere lo sguardo. La sua
fisonomia aperta e ruvida palesava la energia del carattere. Lo aspetto
complessivo della persona lo testimoniava.

E quel suo aspetto spirava un’adusta vecchiezza, quella beltà non più
materiale, che è il canto dell’anima dopo la vittoria riportata sui
sensi.

Il tablino, ove si mostrò ai clienti, era ornato di pitture bellissime.
Sulla parete sinistra, tra’ lavori architettonici, vedesi ancora un
Ermafrodito itifallico sedente, il quale colla manca acciuffa la barba
di Sileno che è dietro le sue spalle, e colla destra si scuopre la
persona. Una baccante ha nelle mani una coppa ed un tirso. Tutto il
fondo del quadro è turchino, sormontato da un cortinaggio rosso con
frange, i cui lembi d’ambo i lati scendono bellamente sopra lo zoccolo.

Svedio si presentò portando la mano dritta alla bocca e curvando
il corpo a sinistra. Offerì quindi la destra ai più vicini che il
nomenclatore gli presentava. Chiese della salute di tutti. Lamentò
il caldo insolito, soffogante; ed il tanfo che sorgea dalle cantine
e dai pozzi a far recere i mulattieri. Ascoltò le ragioni d’Isocriso
Fortunato e chiese documenti per giudicarle. Si assise e terse il
sudore della faccia. Rivolse la parola alle persone che riconosceva
nella folla. Ed accolse benignamente le petizioni che gli venivano
offerte. Cessato quel còmpito, e notando nel fondo dell’atrio la
folla compatta degli accattoni, che invilivano la cosa immortale per
provvedere senza fatica e coll’abbiettezza del limosinare ai loro
giornalieri bisogni, aggrottando le ciglia gridò con voce sonora:

— Quei famelici clienti, quei chiedoni di _sportulæ_ non vo’ vederli
io qui. Vadano all’Annona. Cesare mi mandava a rendere la giustizia
sui piati straordinari e non a provvedere i fannulloni e gli stomachi
vuoti. —

Ed accigliato rientrava nelle interne stanze.

Svedio aveva ragione. Il cuore umano non era più quello. Le contese
civili col corredo del livore e della ferocia. La guerra servile
col legittimo spregio all’autorità. La rivolta sociale collo inutile
carnaio e col rammarico della ingiusta disfatta. La idea riscossa da
quegli avvenimenti non pienamente acquetata. L’oblio che ferisce e
dentro rode. Le perdite patite. Le ambizioni in trionfo. Lo intrigo in
auge. Le schifose brutture imperiali. Il piacere dei sensi abbeverato
di sangue e di lacrime. L’adorazione della libertà defunta. Ed un idolo
sconosciuto ancora, ma pur fremente nella coscienza degli uomini. Tutte
queste cose — cagioni ed effetti di molti mali senza rimedio — avevano
prodotto un ibridume vergognoso — i parassiti, i pedanti, gli epuloni,
le sciupate, i poetastri, i buffoni, gl’ignavi e i viventi di pubbliche
e di private limosine. — Le dimore dei ricchi erano ogni mattina in
sull’alba assiepate da gente stracciata che trascinava seco figliuoli
sparuti, sudici e seminudi e persino donne languenti e prossime al
parto. Le sante delicatezze dell’anima erano tutte morte... Ma non si
erano consumate sulla croce del Golgota. E verrebbe il giorno in cui
sarebbero risorte per far cangio lo aspetto delle generazioni a venire.

Gl’inquieti escirono dalla casa del giustiziere imperiale col ghigno
sul labbro, colle maledizioni nel loro pensiero.

— Kale, ho inteso parlare degl’infortuni di Ulisse ch’errò per venti
anni lungi dall’isola natale. Ben di lui più infelice, io mi smarrii
qui dove nacqui e d’onde mai partirò.

— Non so trovare, o Priscilla, un’acqua abbastanza sporca per gittarla
sul viso di quell’impuro egoista! Briccone! Egli ha i suoi redditi.
E non pensa che noi non ne abbiamo. Ogni cosa aumenta di prezzo.
Ieri, Scapula, con cui lamentava lo accresciuto valor del suo lardo,
mi mostrò i pesi di piombo, sui quali era in rilievo ALVMVR-CAVE.
Magistrati cani!

— Lo udiste, eh! lo uccellaccio di cattivo augurio! Quali occhi di
gufo. Già, per noi poveretti non vi è che la croce! Cotesti ricchi sono
tutti pirati e non risparmiano alcuno.

— Tu poi non puoi lagnarti, o Thessalo. In una casa il pesce. In
un’altra un po’ di pecunia. E per sopra ciò hai così acconci i denti
come le mani.

— Sì, non mi reputo tra i grandi infelici. E prego sempre Laverna che
mi offra il destro di esercitar le mie dita.

— Ho udito ragionare da Spetillo, or or tornato dall’Urbe, come Cesare
sia affettuoso e benefico a non lasciare alcuno partirsi da lui senza
beneficio, od alcuna speranza. E soler dire: mai nessuno debb’essere
del principe malcontento. E una sera cenando, risovvenendosi non aver
fatto servigio ad alcuno, dicesse malinconoso agli amici, come quel
giorno fosse un giorno perduto. Eh! Qual differenza tra lui e questi
che qui lo adombra!

— Odo rumor di voci di gente riunita dietro le Terme. E suon di flauti
con esse. Andiamo, Papyria, e inganneremo la fame cibando gli sguardi.

— Molti pur vanno da quella parte. Corriamo. —

Nè si erano ingannati. Al di sopra, al di sotto ed in faccia alla
caupona di Svezzio, dalla insegna dello Elefante, era grande la folla,
chiamatavi dal piacere dello spettacolo. Sur un triangolo avevano
posato un canapo e distesolo sur un altro simigliante a dieci passi di
distanza; un uomo con un grosso chiodo lo assicurava tra le commessure
del selciato. Altri uomini in figura di Fauni mostravansi coperti di
anassiridi verdi, rosse, gialle e turchine. Un tirso nella mano, una
pelle di capro sul braccio, un fiocco di crini in arco sull’osso sacro.

Una voce grida;

— Abbastanza suonarono le tube, i flauti ed i cembali. Che tardate? Il
circo è pronto. Gli spettatori sono impazienti.

— E le spettatrici? Ohe, Phæbo, sei tu che proibisci alle tue clienti
di mostrarsi sul davanzale del _solarium_?

— O che tu dici, Hypsæo. Non son le mie schiave. —

Ma un funambulo è già sulla corda. Ha il corpo vestito di rosso e le
chiome, la coda e la lira gialla. Con una gamba piegata ed un’altra
distesa suona con ambe le mani la cetra, tenendo tutto il peso del
corpo poggiato sulla punta del piede destro e sulla estremità del
tallone sinistro. Guai se spianasse il piè sulla corda. I fischi
lo assordirebbero. Debbono reggersi in equilibrio sulla punta o sul
tallone.

— Sante vestali, al verone. Bene! Vivano i _rorarii_ della truppa
leggera.

— Eccoci.

— Fuori gli _adcensi_. Voi siete i _triarii_ della riserva. Oh! Le
belle affrancate del piacere! Dite: Salve, o Libertà! —

Il terrazzo sporgente sulla doppia via erasi a poco a poco guarnito
di donne. Erano le Veneri plebee, le degradate che pagavano caro le
infamie della loro vita. Giudicate indegne di protezione, non hanno
tutori, e perciò non possono compiere verun atto legale. E acciocchè
ognuno le riconosca, hanno rasi i capelli, coperti da una _picta mitra_
a diversi colori ed indossano la toga maschile. Erano o affrancate,
o straniere, taluna bella di forme, tale altra bella per la vivacità
dello ingegno, sino a maritare la voce agli accordi della lira, e a
spiegare le loro grazie nelle danze le più seducenti. Dilettavano gli
ozi dei marinari, dei poetastri — che sotto infinti nomi cantavano i
loro vezzi — e dei gladiatori.

Un altro funambulo è sulla corda tesa. Questi è tutto verde. Salta e
poi, stendendo ambe le braccia, si curva per mostrare ch’ei sa mantener
lo equilibrio della persona in quella difficile postura. Gli gittano
un _rhyton_, cioè, un bicchiere a forma di corno, che tiene sollevato
nella destra e versa il vino in un cratere a due manichi che ha nella
sinistra, abbassandola di modo che lo sprillo del liquido con arduo
giuoco gli faccia arco sopra la testa. Quel bicchiere, detto anche
_fluens_, dal rapido scorrere del vino, valeva a ricordare come di
corna forate fossero i primi bicchieri nei rozzi banchetti degli uomini
che cominciarono a coltivare le nostre contrade.

— A che più guardi, o Epeo, alla corda, o alle corde che ti allacciano
i sensi? Quella bruna procace, la terza a diritta, che ti guarda e
sorride, scrisse un suo vanto sulla parete. Vincitore nello Anfiteatro,
tu da lei fosti vinto. VICTRIX VICTORIS. CONTICVERE.

— _Ita me bene amet_, non era dessa il mio dolce mele, il piacer di mia
vita. Sticho mi rubò la mia Fimie, quella che poggia le belle braccia
sulla balaustra. Oh! Per Antippe non darei nè anche il _ciccum_, la
pelle bianca che cuopre gli acini di questa melagrana. —

Altri danzanti si succedono sul canapo. Saltano col tirso. Suonano le
tibie od eseguono con destrezza giuochi di simil fatta. E la gente
lo applaudisce e paga piccola moneta allo editore di quel popolare
sollazzo.

— _Cape hoc flabellum_, Eris. Rinfrescati la faccia con esso e scaccia
le mosche villane.

— Lo accetto, Annio Lucifero. Ma tu non guardare in alto; perchè
opereresti follie indegne della tua età e dei capelli bianchi.

— _Deos compreco_ perchè ti tolgano questa pazza gelosia dal cuore....
Però, quella fanciulla lassù, che ride e sghignazza sguaiatamente, è
bella.

— Non mi chiamare _febris querquera, aut tussis_. Ma, se non stesse
in quel posto, anche tu, Kleopatra, _salubritas mea_, siffatta la
troveresti. —

La moglie a questi detti si inorcò più che per natura nol fosse. Lo
trasse a sè per andar via e die’ in questa espressione di spregio.

— _Butu batta!_ Trista razza d’uomo. Valea meglio affogarsi che darmiti
sposa! —

Partirono brontolando e gesticolando. Desiderava la cosa impossibile,
la fedeltà a tutta prova in Pompei.

— Dimmi, o bella Armonia, mi lascerai seder sullo altare, presso di te,
che ammiro ed amo?

— E chi può negarti, o bel Sosio, quello che tu chiedi con tanta
modestia? Entra, o alimento del cuore, ed espierò i miei torti nelle
tue braccia.

— Sosio ha troppo bevuto, o Lycio. Sieguilo. Noi dobbiamo profittare di
questo filo di vento propizio e partire per Rhegium.

— Oh! il mio giocondo compagno tornerà presto. Ma, poichè il vuoi,
entrerò anch’io nel tempio e ne lo trarrò fuori.

— Come il corvo, voli al fiuto della carogna. Bada! In fede di
Autolyco, se non vieni presto, farò disegnare sulle vostre spalle il
nome che le madri vi diedero. —

Un altro funambulo, con anassiride turchina, è sulla punta dei piedi; e
danza e suona ad un tempo le tibie. Il popolo plaudisce. Le donne del
verone si abbandonano ai loro lazzi abituali e parlano a voce alta e
chiassona delle solo cose che loro son familiari.

Quando di un tratto s’ode un rumor sotterraneo, come di un carro
ruotato il quale strepitosamente corresse tra le fondamenta della
città. Poi, uno scoppio terribile.

Era la settima ora; cioè, il tocco dopo il mezzodì.

Le mura delle case traballano. Alcune crepitano. Altre ruinano.
Le pietre del selciato si sollevano in più luoghi. Il funambulo
cade dalla corda, batte la tempia e muore. Tutti fuggono, urlano,
piangono, incespicano, corrono smarriti senza saper dove. I muggiti
della natura continuano, e un denso e nero fumo, a foggia di pino
mostruoso, si leva dal Vesvio che gorgoglia, rugge e lancia folgori al
cielo. Grossi basalti infuocati briccolano sulle strade, sui tetti. I
colpiti muoiono. Le cose inerti si spezzano, sbalzano, si sfasciano e
prorompono al piano con ripetuto fracasso. La gente impaurita scappa
ove può.

Ecco altro nembo furioso. Una gragnuola di piccole pietre porose,
leggiere, infuocate oscura l’aria, cade e saltella sur uno spazio
immenso. Gli usci si chiudono. Le travi che non reggono il peso che sui
tetti si aduna, crollano e schiacciano gli uomini riparati e le cose.

Oh! i gemiti, la disperazione, le grida, le smanie, lo smarrimento del
popolo! Ed il turbine continova. E le orride detonazioni continovano.
Ed i fulmini saettano l’aria. E vivi baleni tentano di penetrare
la oscurità, la tingono per poco di luce corusca, poi la tenebra si
addensa e tutto chiude allo sguardo.

Qua e là nelle vie, uomini audaci, rischiarandosi colle torce
impegolate, procedono come possono sul nuovo suolo composto dalle
pomici infrante. I passi si ricambiano a stento; chè, il piede infossa,
si seppellisce tra i lapilli che scalfiscono e bruciano la pelle. I
cani anch’essi cercano da tanta confusione uno scampo. I buoi, le
capre, gli asini dei _pistores_ si affannano ad escire illesi dal
tremendo flagello e col loro correre disordinato impediscono la fuga
alle genti, le pestano e le feriscono.

Un fulmine solca l’aere tenebrosa ed illumina una scena di dolore.
Presso le Terme, due framezzano gli ultimi gemiti coi baci. Un uomo
col capo coperto è seduto sulle pomici che innondano il suolo di una
bottega. Stringe al petto e tiene sulle gambe una giovane donna. Le sue
labbra si posano sulla fronte pallida della ferita a morte che sanguina
per le membra offese. I di lei occhi hanno lo sguardo estatico,
incurante le sofferenze della carne. L’uno, sembrava fare e l’altra
ricevere la confidenza estrema di quel segreto che è il fomite di tutte
le grandi tristezze e di tutte le grandi speranze del cuor giovanile.
Parea che l’uno dicesse:

— Il mio cuore sul tuo, o adorata. Giammai uniti quaggiù. O _mors
amoris_, nel tuo grembo la pace delle mie ossa contristate. —

E l’altra coll’occhio fisso, quasi invetrato, parea ripetesse:

— Una sola speme. Fu vana. Muoio almeno fra le tue braccia. —

E la morente esalò in un bacio l’anima sua e sorrise. Ed il giovane
si curvò, prosciolse le membra e cadde riverso sul corpo di lei. Erano
morti, l’una di ferite, l’altro di schianto.

E le pietre pomici piovevano sempre.

Una bianca colomba errava alitando per l’aere caliginoso e nero. Offesa
dalle pomici, grida, si asconde in un’apertura fatta dal tremuoto,
vola, cade sbattuta sul suolo e, rialzata dal disio, sorvola e vola
sempre. Alla fine si posa sur un antefisso di un impluvio, guarda
smaniosa allo intorno, emette un grido di piacer passionato e si caccia
nella buca di un muro. Altri gridi brevi, febbrili rispondono al suo.
È coi figli. Si accoccola su di essi, gli bacia col becco, li ricuopre
colle sue ali e dolcemente li garrisce.... Povera madre! Ebbe almeno il
conforto di morire coi nati dalle sue uova!

In un luogo remoto, al di là dell’atrio, presso un piccolo xysto,
sono appoggiati alle pareti di una stanza da lavoro trapezoidi
finiti, e abbozzati e massi di marmo: e qua e là, per le terre, o
sui cavalletti, grossi pali di ferro per levar pietre e volgerle a
talento, varie seghe — una ancor conficcata nel solco operato sul sasso
— martelli, mazzuole, lime e scalpelli con compassi retti e ricurvi.
La casa è spaziosa, a due piani, che una scala di legno accomuna. Il
silenzio delle voci è per tutto. Chi vi abitava, chi vi martellava,
chi vi segava, chi digrossava i ruvidi pezzi di tufo e di marmo, al
primo tremendo scoppio, seguito dalla commozione del suolo, fuggiva
esterrefatto per far salva la vita a lui cara. Un uomo solo vi era
rimasto impassibile e tetragono in tanta ruina di pubbliche cose.
Suliodes ha il martello in una mano. Ha lo scalpello nell’altra. È
dinanzi a una statua di marmo, nuda, di artistica bellezza, di un
ideale ammirevole, coi segni impressi della voluttà e dello amore.
Breve della persona, ha il volto greco cui la grandezza romana aggiugne
qualcosa di suo. Gli occhi ha neri, grandi, estatici. I capelli crespi
e ondulati si rizzano sull’ampia fronte. — L’aria si oscura. Sul
selciato della via battono tonfi le pietre ardenti. Sulla terra soffice
dello xysto si affondano e si ammonticano. Ed egli che sino dalla
prima sua gioventù era stato reputato un vile, uno schiavo; egli che
passava i suoi giorni evocando dal paese delle ombre, collo accento
della fantasia degna di Orfeo, le Veneri, le Baccanti, le Muse, il divo
Apollo e Mercurio, e le ninfe dei boschi e delle fontane; in quello
istante di supremo disastro, egli contemplava l’ultima opera sua e non
sapea distaccarsene. Nobile artista!

L’ora sublime degli affetti è quella della separazione; chè, nello
abbandonare l’oggetto amato l’uom parte pregno degli effluvi di un
eroico amore. E Suliodes, preveggendo il danno estremo, gittò le
braccia al collo della sua statua e proruppe:

— Tu sei la donna dei miei pensieri. Sei la nata del mio cuore
d’artista.... Che io muoia! E tu resta! Resta intatto, o marmo, a
testimoniare ch’io ti diedi i palpiti della vita. — Ah!... —

Fu un grido straziante. Aprì le braccia e cadde stramazzone sul suolo,
rigandolo di una larga striscia di sangue. Il soffitto, spezzato e
affondato dai basalti se gli rovesciò addosso, spaccandogli il cranio e
spezzandogli le membra. E la statua cadde sopra il suo osceno cadavere.

Suliodes era tal’uomo dall’anima semplice, diritta, sensibilissima,
febbrile, smaniosa, martirizzata, non appagata mai, collo istinto di
tutti i segreti della vita. Macilento, dalle gote infossate, le precoci
rughe dicevano com’egli dentro soffrisse di quel male logorante che il
volgo degli uomini non intende, nè scusa, di cui non si muore e che dà
la esistenza eterna, quella del genio. La statua nello impluvio della
casa di Cneo Vibio, raffigurante la psiche umana, era sua. I trapezoidi
in quella di Cornelio Rufo, pur suoi. Da un anno lo schiavo aveva
ricomprato dallo avaro padrone Aulo Castricio Scauro la sua libertà....
Il nobile artista era morto!...

E le pietre pomici piovevano sempre!

Sulla via che a diritta declina alla porta di Stabia e seguitandola
mette alla porta di Nola, i carri tratti dai buoi, dai cavalli, dai
muli, da man d’uomo s’incrociano con gente che fugge per diversioni
svariate. Sopra una tavola alcuni trasportano una donna scolorata colle
braccia pendenti, grondante sangue. Un’altra donna più giovane la segue
ed è seguita da due piccoli figli attaccati colle manine alle vesti
di lei e piangono ed urlano che è tutto uno strazio. Un uomo arresta
i portatori di quel corpo esanime, si gitta sul selciato ingombro di
rottami e di pietre e singhiozza.

— Mentre ei piange la madre ed obblia sè, la moglie e i suoi nati,
lasciamolo al suo dolore e fuggiamo.

— Bene dici, o Volusio. E tanto più che ci pagò la mercede. —

E ratti si dileguarono.

I margini si fanno sempre più ingombri di feriti e di morti. I
gelosi delle loro robe preziose e più care; quei che nel disordine
delle idee non fuggirono presto dalle case che crollano, colpiti dai
sassi e da un muro che, perduto lo equilibrio ruina, hanno rotto le
membra o franto il cranio sulla soglia che pur dianzi era il pensiero
della loro salute. E quasi non bastasse lo immenso orrore, coi danni
irreparabili che veniva adunando, schiavi abbrutiti e nefarii — i
quali, disonestamente trattati, non avevano alcuna nozione di ciò che
onesto e verecondo fosse — afferravano bestialmente la occasione che
loro forniva la irritata natura, per derubare, per uccidere e per dare
ampio sfogo alle loro infami libidini. Uno si fa largo col coltello
tra i denti, spoglia il vicino, ferisce e corre. Quale ruba una gentile
ed innocente vergine dalle braccia dei propri parenti e, bestemmiando
parole di dileggio e da trivio, sen fugge. Terrore. Emozioni. Grida di
schianto. Brevi e disperate zuffe. Dolori che uccidono. Sguardi che
imprecano. Ansietà impossibili a dirsi. Eroismo di amore. Brutalità
da dannati. Ecco la multiplice scena offerta sulla lunga via che
dallo sbocco della consolare, passando a lato del tempio della
Fortuna-Augusta, menava alla porta. La quale gli Oschi costruirono
di tufo, scolpendo sulla chiave dell’arco la protoma di Venere,
l’affettuosa iddia che in quel giorno — al pari dei santi patroni, cui
le bigotte, irriflessive, superstiziose, timorate e bietolone coscienze
sogliono rivolgersi nei dì del pericolo colle novene e coi voti — non
seppe difendere la città che in lei avea piena fede.

Apro Aulio Rufo — quegli i cui pilastri dell’uscio presentano i bei
capitelli con una baccante e due piccoli putti in alto rilievo — aveva
tratto per tempo, sui cocchi, nelle lettighe ed a piedi Celsa, Heria,
Ada; e il giovanetto Cerio, ed il piccolo Valente, e la bellissima
nelle sue grazie infantili, la Cumbennia, natagli da tre anni, l’olezzo
del cuor suo, alla quale avea dato il nome della tribù antica cui era
ascritta la sua doviziosa famiglia. Ma il cisiario Diofante invade con
una ruota il margine e rovescia. Fallox e Nasso che seguono nella quasi
oscurità il primo carro, pestano i caduti colle zampe de’ loro cavalli.
I quali, impauriti dalle grida di dolore, sferzati da chi gli menava
e sospinti dalla gente che fuggiva, inalberano rompono i ritegni,
spezzano il timone, urtano, schiacciano e fuggono a furia sul declivio
della via suburbana. Ada muore mentovando la madre. Celsa, che ha rotta
la spina dorsale pel solco che suvvi fece una ruota, si volse al suono
dell’amata voce, fruga amorosamente cogli occhi la tenebre e spira.

Oh! i funebri pensieri dei rimasti per terra, feriti e senza soccorso!
Tutti invocano la morte; perchè la morte sola ha un sorriso per
essi!... E la viene, colorata di sangue ed infuocata delle fiamme del
Vesbio.

Il misero Rufo marito e padre, accorre fra quei morti e morenti,
istupidito dall’ambascia. Un’unica speranza.... la salvezza della
bambina che aveva stretta al suo petto. Parole dissennate escono
dalla sua bocca.... Fugge e lascia coi cari estinti le collane, i
pendenti, le perle, le monete d’oro, le patere, le tazze, i vasi di
argento, tutto che in fretta aveva potuto rammassar nella fuga.... Dove
morirono?!...

Un cisiario, per nome Felicissimo, ed un altro, Erosala, sferzano
maladettamente i loro cavalli. Vengono dalla via di Mercurio ed
avanzano malgrado gl’inciampi. Molta gente erasi riparata sotto
le volte della porta di Stabia. I cavalli e le ruote traversano
quell’ostacolo vivente e passano oltre. Vibio e Melissæa tengono
abbracciati in sul carro i due loro bambini, di sei anni e di quattro.
Nel successivo sono due liberti con ciò che di più prezioso si potette
adunare nei sacchi. Giungono in faccia allo scoglio di Ercole, sulle
saline, dove Cassinio poco mancò non fosse sorpreso da Spartaco nel
bagno. Colà gemiti, urli, parole da lacerare il cuore.

Un padre che, fuggendo, avea smarrita la sua cara figliuola ed era
tornato indietro due volte per rintracciarla ed erasi quivi ridotto
per far salva almeno la sua vita, piangeva, si stracciava le vesti e
parlava,

— O natura, forza imperiosa del sangue, ridammi viva la nata dalle mie
vene.

E cuoprivasi il capo, si cacciava per terra e piangeva.

Un altro che aveva ritirato la moglie di sotto una parete ch’eralesi
rovinata addosso e sulle spalle l’aveva trasportata fin là —
discaricandola ed adagiandola mollemente sul suolo, disperato ed in
lacrime le diceva,

— Pannixis, ti sposai da due mesi, sei lo amor mio, svegliati. Non mi
abbandonare. Senti i miei baci? Vedi le mie carezze?... Qua... una
face... O iniquo Giove! Scaglia su di me le tue folgori! Morta!...
Morta!... Povera donna mia!... Qual nuovo Sinis, qual novello Procuste,
pose in brandelli le tue misere carni! _Heu me!_ Che sono divenute
le grazie del tuo viso e quegli occhi che splendevano come le stelle?
_Exanimis jaces!_... Almeno, nume crudele, infame, fa’ ch’io la segua
sulle onde di Styge e a traverso il torrente infiammato del Tartaro!...
Che! Neppur le bestemmie ti muovono?... Ti proclamo inutile in questa
ora estrema!

— Cessa dal tuo dir forsennato, o Salvio Curzio.

— Ahi sei qui, _machinator fraudis_? Disertasti l’ara di Mercurio e di
Maia, o Memore Istacidio? Non gioirai a lungo dei dolori degli uomini.
Giù nei gorghi del mare e con me.

E lo ghermì per le reni, lo sollevò di peso, lo trasse nelle onde. Il
sacerdote si dimenava, lo mordea sulla spalla, gridava lo aiutassero.
In tanta confusione un solo si mosse. Fu Felice Helvio, il suo collega
nelle imposture.

— Anche tu, scellerato. Riderà Minosse in vedervi.

Il mare si aperse e si chiuse gorgogliante e spumoso. La natura li
cancellò ben presto dal numero dei viventi.

Una face apparisce sulle onde. È una barca che si avvicina. Due uomini
ne discendono, approdano, chiamano ad alta voce e procedono. I due
bambini vanno loro incontro; essi li portano via. Cneo Vibio prende
la cara donna nelle sue braccia, entra nelle onde, la consegna nelle
mani smaniose, convulse di Demophilo e la vede in piedi tra i figli.
È per salir dentro, quando un rumore immenso s’ode lungo la spiaggia
da Stabia ad Herculanum. Il mare si ritira furiosamente e ribolle.
Vibio e la barca sono sbalzati lontano. La barca sbattuta dalle onde,
galleggia. Vibio... non è più. Il soffio di Dio erasi ritirato dalla
sua bocca e lo aveva lasciato livido ed inerte cadavere.

Poco di poi, cessato il grandinar delle pietre, ecco un rovescio
immenso di pioggia sul suolo. Le acque del Sarno e delle sorgenti
dei pozzi, assorbite nei giorni innanzi dalle materie candenti
ch’eransi sviluppate nel Vesvio, avevano servito di alimento al
fuoco e, convertitesi in vapore, datogli la forza di scaraventare in
aria i basalti, le grosse pietre e le pomici addenti. Ora, aspirando
dai sotterranei meati le onde saline, le rigettava a torrenti sui
sottoposti piani, compiva la ruina delle case e livellava i lapilli
poco innanzi caduti. Al cessare della forza aspirante, il mare tornò
impetuosamente a mordere le sponde. E tanti erano i fuggiaschi nelle
Saline, tanti abbracciò nelle sue spire spumose e li trasse con sè
negli abissi.

Demophilo, coi servi e colle ricchezze scampate, tornò indietro,
malgrado i grandi pericoli, colà dove tutti speravano con ansia
trovarvi Vibio, la doppia vita di Melissæa, la vita di quel cuore da
cui tante dolcezze eransi rovesciate su dì lei cuore amoroso. Inutili
ricerche! Ogni esistenza era scomparsa sul suolo lavato dalle onde
furiose. La misera pianse, si strappò i capelli e pensò ove mai avrebbe
portato le amare sue lacrime... Ma, tutto si cancella nel mondo, anche
la esistenza ideale che è l’ultima requie della speranza! Tutto si
raffredda, anche il pensiero.... E ciò che or or parea vivo, forse è
già morto!

Nella strada che rade il fianco del tempio della Fortuna ha lo ingresso
principale una casa sontuosa cui tre altre vie rendono isolata. La
grandine dei basalti ha sfondato il suo tetto, crepacciato i suoi muri,
crollato le sue pareti. Le lamine di piombo conficcate con chiodi di
ferro spessissimi su di esse — per allontanar dallo intonaco sparsovi
sopra la umidità della recente costruzione — pendono schiantate e
rotte. Nei vasti atrii, nello xysto fiorito e pesto, nei peristilii
corrono creature umane esterrefatte, a tastoni, urlando, piangendo
e cadendo. La soffitta del tablino poggiante su rosse colonne erasi
sprofondata sul più prezioso monumento dell’arte antica, il mosaico,
rappresentante la grande battaglia di Arbelle, in cui Alessandro, a
capo dei suoi cavalieri, si slancia verso il vinto Dario per farlo
prigione. La terra, scuotendosi e sollevandosi, crepacciava i pavimenti
di marmo, gonfiava i mosaici e le opere signine che tanta fatica
avevano costato ai nobili artisti, miseri schiavi. Le pomici tutto
ricuoprono.... anche una bella fanciulla, la piccola Irimilla, che
atterrita e dissennata correva spinta dal genio della morte a salvarsi
tra le fredde sue braccia. Il padre Mevio Apulo che la seguia per
salvarla, stramazzato a terra da una colonna, perdette anch’egli colla
vita le molte ricchezze che lo esteso commercio dei vini gli avea
procurato. Al cominciar dello inesplicabile disastro egli avea detto a
Caio, il suo figliuol primogenito.

— Va’ colla tua giovane sposa! Va’, corri e non volgerti indietro.
I fulmini rischiaran la via. Profitta di quel lume di Averno per
riconoscere e sfuggire lo estremo pericolo. — Abbracciami! O io salvo
gli averi e ti raggiungo. O là... negli Elisi! —

I due amanti e sposi, convulsivamante stretti l’un l’altro, correndo a
riprese sul nuovo suolo delle vie formato dai basalti, dai lapilli di
pomice e dai muri caduti, livellato dalle ceneri fangose per l’acqua
bollente, molti ne videro dannati dal feroce loro destino impaltenarsi,
cadere, escire dalle profonde pozzanghere e ricadere anche una volta
feriti, trafelati e presi per non sorgere mai più. Essi potettero
giungere sino alla spiaggia, sostenuti dalla forza che lo spavento
ministra e che addoppia lo amore. Nella oscurità si cacciano in una
barca apprestata per lo edile M. Epidio Sabino dal liberto Hedysio, e
fatti salvi dallo equivoco, col cuor sollevato si allontanarono dalla
riva di tutti i dolori e di tante morti svariate. Allo scroscio delle
folgori, al fulgore delle fiamme, al fracasso dei muri cadenti, le urla
strazianti di un popolo e il ricordo dei cari lasciati non commuove più
il loro cuore. La terra diviene per quei fuggitivi una visione svanita.
Il solo mare ribollente, agitato risponde ai loro attoniti sguardi. Gli
è che fra il cielo ottenebrato dalle ceneri, invisibile come il fato,
e i flutti oscuri e tumultuosi una potenza unica, lo amor ricambiato
ed egoista, aveva loro accavigliato l’anima a non permetterle più le
sensazioni al di fuori.

Intanto nel gineceo delle donne, Mesionia, la moglie di Alleio,
adunava gli oggetti preziosi ch’erano nelle camere. Braccialetti
d’oro, fibbie, anelli, orecchini venivano da lei chiusi in fretta
in una tunica. Alcune schiave, urtandosi, piangendo, gesticolando
e pallide dallo spavento, trasportavano vasi di bronzo, tazze di
argento e pitture di pareti; e incontrandosi lasciavano coteste cose
per terra, piangevano, si abbracciavano, svenivano. Una bambina ed un
giovanetto, curvi sul pavimento, ponevano in un cesto di vimini i loro
_crepundia_, la bambola, un piccolo specchio di argento e una statuetta
della Speranza. Creature infelici, non commoveste la natura col vano
augurio! Un vecchio servo, Amiantho, togliea sulle braccia un’ara di
marmo portatile colla iscrizione osca [Illustrazione: lettere osche]
— Flousai, cioè Flora — che doveva essere la dea protettrice della sua
sventurata padrona, — Tutti morirono. E lutto lasciarono!

Dirimpetto la entrata principale dello anfiteatro era un triclinio,
dove solea darsi ai gladiatori un pubblico pasto, detto libero.
Colà presso era un ricinto murato che accoglieva gli accoltellanti
per vestirsi e per attender lo istante di scendere nell’arena.
Quivi l’_editor_ portava le vesti, le armi, le reti per fornirne ai
_secutores, retiarii, mirmillones, samnites, hoplomachi, dimachæri,
essedarii, andabatæ, fiscales, subdilitii, catervarii, meridiani,
postulatitii, laquearii_. Cotesti i nomi che distinguevano nella loro
fatale professione i miseri operai dei trastulli romani. — Nei due
luoghi, alcuni ragionavano, cioncavano e ridevano allorchè accadde il
grande scoppio, nunciator del disastro.

Trulla e Naso erano giovani cui la passione della libertà caduta avea
ritolto lo amor della vita. Ambedue da qualche anni, in epoca diversa,
eransi ascritti alla famiglia del lanista C. Aellio Astragalo. E
giurando _uri, vinciri, verberari, ferroque necari_, ricevevano il
salario _auctoramentum_, perchè volontari e non _ad gladium_, oppure
_ad ludum damnati_. Lo esercizio della ferocia parea che lor facesse
obliare i gravi pensieri del proprio cuore. E gli austeri ardori dello
isolamento e del pericolo sembrava che tranquillassero la loro fantasia
ferita. Uno era _laquearius_. E toccando familiarmente, con certa
spavalderia, la corda dal nodo scorsoio che gli cingea la persona,
provava la immorale felicità di dar morte allo infelice avversario che
il capriccio del lanista avrebbegli dato nello steccato. Vestiva una
tunica corta di colore scarlatto. L’altro apparteneva alla categoria
dei cavalieri e vestito di maglia — _clausis oculis andabatarum more
pugnabat_ — e rischiava la vita, o uccideva senza vedere il suo bendato
competitore.

I discorsi furono dimezzati, e per la prima volta quegli audaci
fuggirono dinanzi il pericolo. Vaccula, il dapifero, e tre dei suoi
schiavi corsero anch’essi smarriti verso lo anfiteatro. Uno fu ucciso
da un basalto presso lo ingresso sotto la statua di C. Cuspio Pansa
pontefice. Gli altri si cacciarono alla rinfusa nei corridoi; allo
infuori di uno che nella furia e nella oscurità discese nell’arena
e cadde nell’_euripo_ — canale pieno di acqua scavato attorno il
_podium_, pur cinto di un _ferreus clathrus_ — le due difese che gli
spettatori avessero dalle irruzioni disperate delle bestie feroci.
Sull’orlo di quel parapetto si veggono in Pompei i buchi dove erano
conficcati i graticci di ferro che Plinio chiamò reti per la forma che
presentavano.

Nel catabolo erano due leoni. Uno, ruggendo cupamente si accovacciò
aspirando l’aria umida nell’angolo della cella. L’altro fuggì rompendo
le sbarre del carcere; urtò Trulla; lo azzannò e lo stracciò colle
unghie come un impedimento alla fuga ed uscì fuori per morir soffocato
dalla mefite non molto lontano.

Vaccula accese una lampada e con essa schiarò alquanto le tenebre.
Gli altri si raccolsero attorno di lui. Pareano fantasime o quei
malati che vedi errare nel paese delle febbri. Alcuni piangevano.
Alcuni bestemmiavano il nome degli dei. Naso intravide la sua sorte
con segreta rassegnazione. A quei cui il sangue rivela alcuna delle
grandezze della vita, il pericolo delle battaglie, le sofferenze
del dolore, le tristezze del carcere, lo aspetto della morte offrono
splendidi e misteriosi orizzonti che le nature volgari non veggono.
Afferrò animoso la nuova situazione quale gli dei glie la componevano.
Si assise per terra lungi dagli altri; chiuse il capo nel _sagum_;
gittò ai piedi un pezzo di catena d’oro, un anello ed alcune monete;
si appoggiò colle spalle al muro del _vomitorium_; ed attese nella
pienezza delle sue facoltà la visita dell’amica che aveva sempre
creduto la venisse a lui armata di gladio.... La non tardò molto a
venire. E le giovanili ambizioni, e le vanità della forza muscolare, e
le irrequietezze del cuore, e i giorni di piena felicità, e le gioie
grossolane dei sensi, e le aspirazioni di una gloria migliore, ed i
palpiti della libertà, tutto fu consumato in un istante in quell’oscuro
calvario di ben altri e più cuocenti dolori.

Nella via Domizia, sulla linea dirimpetto alla casa di C. Giulio
Polybio, era la dimora dèi chirurgo Hemos, allievo di Bucchio di
Tanagre, interprete in Cos della dottrina del grande Hippocrate. Il
quale quivi era nato nel primo anno della quarta Olimpiade, e quivi
fondò la sua celebre scuola. Questo nobile rampollo degli Asclepiadi
— famiglia conservatrice per secoli delle teorie del sommo Esculapio
— profittando delle discussioni dei filosofi che si occupavano del
sistema generale della natura e della esperienza dei suoi — e più
di quella del suo padre Heraclide — sulle vicissitudini patite dal
corpo umano, concepì la splendida idea che fissa un’epoca alla istoria
del genio — rischiarare la esperienza col ragionamento — rettificare
la teoria eolia pratica — considerare i diversi fenomeni presentali
dall’organismo animale nei suoi rapporti di malattia e di salute —
L’arte siffattamente elevata alla dignità di scienza, camminò di piè
fermo sulla nuova via che un alto ingegno le aveva dischiuso. E tre
scuole si aprirono ben presto, in Rhodum, in Cnidum, in Cos. Lo spasimo
venne curato secondo le regole confermate dalle numerose guarigioni e
le tre scuole si allietarono di molte eccellenti scoperte.

Non lo amor del guadagno, nè il desio di celebrità avevano condotto
Hemos dalla Grecia in Pompei. Demophilo ve lo invitava. Il sollievo
dei malati ve lo facea rimanere. Creatore di una nuova scuola
conservatrice, registrava i risultati della esperienza propria e degli
altri, dettava i doveri di un medico e notava con pari franchezza le
guarigioni e le morti. Una volta accadde che a lui portassero sur una
scala un _tignarius_ che, caduto nel restauro delle mura presso la
porta di Herculanum, aveva ricevuto parecchi sassi sulla persona. Il
sofferente era tramortito. I _lecticarii_ non seppero rispondere alle
sue domande. Ed egli non si avvide che gli era mestieri ricorrere al
trapano. Funesti segni lo avvertirono dell’oblio. Dopo quindici dì
fece la operazione. Ma il muratore morì lo indomani. Ed egli, il sommo
maestro, confessò pubblicamente il suo fallo. Imperocchè, superiore
ad un fallace amor proprio, volle che anche gli errori servissero di
lezione. Sono corsi parecchi secoli e cotesta sincerità in luogo di
accrescersi, è di troppo diminuita nei curatori delle malattie umane.

La casa aprivasi sullo impluvio ed in fondo era lo xysto. Ai lati,
lunghe camere abbellite di graziose pitture, ed una di straordinaria
grandezza e schiarata da parecchie finestre. Era la sala anatomica e la
scuola.

Un letto di quercia in pendìo è nel mezzo. Sopra il letto è un
cadavere. Ai piedi del cadavere sul pavimento è un vaso di terra per
accogliere i liquidi che potrebbero scolare dal letto che finisce
come una gronda. A lato del cadavere sta in piedi Hemos parlante ai
discepoli, tutt’occhi ed orecchi in udirlo.

Quel saggio ha le linee regolari di una statua, illuminate da uno
sguardo che un misterioso splendore anima ed avviva. La fronte è calva
e i capelli imbiancano. È piccolo di persona, un po’ stanca, quasi
emaciata. Di sobrie parole, ha il gesto concitato e di slancio, perchè
ricco di sensibilità meravigliosa. Quelli che lo veggono grave allo
esterno malamente lo giudicano. Le sensazioni delicate e profonde del
cuor suo sono come quelle piante energiche e sottili che si veggono
sospese agli scogli, a picco sul mare, nell’isola ove nacque. I venti
impetuosi che spirano dal golfo Ceramicus le agitano in tutti i sensi
nelle tempeste di autunno, e d’inverno; ma non valgono a sradicarle
dove germogliano.

— La vita è breve e l’arte che noi esercitammo domanda lunghi studi e
vocazione decisa. — Giudizio sano. Pronto discernimento. Carattere pien
di fermezza e di dolcezza insieme. Amore alle cose oneste e al lavoro.
E se l’anima s’intenerisce sui mali della umanità, certo che chiunque
fra voi n’è dotato si passionerà per un’arte che insegna a guarirli....
Operate — e non vi stancate mai di operare — col taglio sul cadavere.
Percorrete il cerchio delle scienze. La fisica dice la influenza dei
climi su questa bene ordinata matassa di muscoli, di nervi, di vene,
di fibre. E fatti dotti, viaggiate, osservate la situazione dei luoghi,
le variazioni dell’aria, le acque che si bevono. Gli alimenti di cui il
popolo si nudre, tutte le cause che guastano lo assetto della economia
animale. —

E toccando colla mano il cadavere, seguitò:

— Le brevi e ricise massime scolpite nella nostra memoria guidano ma
non illuminano abbastanza. Conviene applicare i principii generali
ai casi particolari e interrogare la natura per non ingannarsi. E
— ciò che è più difficile — attendere la sua risposta. Di celato
io feci portare qui da un vespillone il cadavere di uno schiavo. Il
pregiudizio non vorrebbe che quale è coperto dalle ombre della morte
giovi al soccorso della vita in pericolo. Le leggi si oppongono. Ma le
leggi permettono il macello dei sani nelle battaglie. E il pregiudizio
applaude al carnaio nello anfiteatro.... La scienza è sovrana. E se ha
doveri, ha pure i suoi diritti.

E preso il coltello di rame temprato — lo _scalpellum_ dei latini, lo
σμιλιον dei greci — lo appuntò con tutta sicurezza sul disteso cadavere
nella parte destra laterale del torace, là ove le costole ossee si
articolano colle cartilaginee. Ma, infisso lo strumento, fermossi di un
tratto come per arrestare una idea ch’eraglisi affacciata alla mente. E
levando in alto il coltello con un gesto atto ad imprimere con maggior
forza i suoi detti negli ascoltanti continovò:

— L’uomo di cui qui vedete i laceri avanzi era nato in Coronea nella
Boeotia, condotto schiavo in Pompei e venduto a C. Pumidio Dipilo. Ora
che con ribrezzo ne mirate le spoglie, mi avveggo com’egli differisca
da noi, uomini vivi e liberi. Ma, allorchè quegli occhi opachi
fulgevano, e quelle smorte labbra articolavano parole di vita, e quelle
mani assottigliate e nodose erano validi strumenti per effettuare le
idee, io non vedeva lo schiavo in quell’uomo. No!... Elette le forme.
Vivace ed acuto lo intelletto. Impetuoso lo ardir giovanile. Nobile
l’anima. E di squisito e commovente sentire il cuor suo!... Ben più
libero ei mi sembrava di Sirico che lo aveva venduto e di C. Pumidio
Dipilo, ricco di pecunia e d’immagini avite, che lo aveva comprato.
Crixsos era il nome dello infelice. Io, famigliare di Caio, ebbi
campo di studiare le fasi corporee e morali di questo estinto. Col
_liber_ di quella pianta palustre di Syracosion, il quale rotolato si
chiama _volumen_ — invenzione dovuta ad Eumenes di Pergamus — egli
scriveva i βύβλος dei miei trattati sulla salute, i διφθερα che voi
meditate. L’arte del pennello era pure la sua. E varie case in Pompei
sono abbellite dai suoi colori. Amò perdutamente Sfinge, la schiava
di Calepio Secario, di cui si fece il _contubernalis_, e ne fu amato
con eguale ardore. Dopo poco però i favori di Venere assottigliarono
lo stame delle due esistenze. La giovanotta morì di arsione. Egli,
consunto e accasciato dal dolore di tanta perdita. Eccolo qui disteso
dalla Phtysi o Phtoe, che fa pallido, debole, tossicoloso, emaciato.

E volti gli occhi ai discepoli, dopo aver rimirato il cadavere:

— Ora, uditemi attentamente.... I mali spiriti del mondo esterno
sovente investono il nostro corpo, e suscitano una lotta coi loro
poteri distruttori, cui la medicatrice natura si oppone coi suoi
conati salutari. Allora l’uomo che sente in sè cotesto certame si fa
tristo; e il terapeuta chiamalo egroto. Se la natura medicatrice ha
tanta forza da affrontare la maligna natura e la respinge, lo egroto
risana e si rassecura. Ma se l’impeto distruttore prevalse, la materia
del corpo nostro più o meno lentamente si guasta, i pori si allargano,
la contestura delle viscere si corrode e sopraggiunge la morte a dar
l’ultimo crollo alla ruinosa economia. Allorchè siffatti guasti si
stanno operando, il paziente è assalito da un calore urente che lo
divora dentro e gli produce l’ambascia, lo anelito, che io chiamo
_dispnea_, la prostrazione e la colliquazione. Or mirate come a tal
penosissimo sentire corrisponda la spaventosa trasformazione del corpo.

Ciò detto, si approssimava al letto e accennava col tatto le parti del
cadavere di cui faceva menzione.

— Mirate! — I muscoli impiccioliti e tabidi. Le unghie adunche. Rugoso
il polpaccio. Le narici acuminate e gracili. Incavati gli occhi dentro
le scatole ossee. Le labbra sottili che stringonsi ai denti. Prominente
la mandibola. Sul petto voi potete contare le costole. Nello addome
scorgete una cavità che va sino alla spina. Qui, sulle spalle, le
scapole elevate e nude che paiono ali di uccello. Le nocche articolari
delle ginocchia tanto prominenti da sembrare la estremità di una
mazza.... Voi inorridite, o miei? Ma voi dovete pugnare contro la morte
e conoscere la fisonomia della orribile Iddia in tutti i particolari
suoi atteggiamenti. Altrimenti, come combatterla e vincerla?...
Appressati, Albucio.... Che?... Turi il naso colle dita?... E sputi
sul terreno come un profano?... Così non faceva Hippocrate, il padre
nostro. Ed io vidi Buccino, da giovanetto, in Cos, rivoltolare colle
mani gl’intestini di un morto che tale un sito fastidioso tramandavano
da far recere parecchi tironi.... Ma tu sei bianco come un cadavere....
Ebbene! Vien qua, Menomaco. Tu sei più provetto cultor di Esculapio
ch’egli non sia. Sostieni il braccio destro di questa materia inerte,
perchè io possa col coltello aprire la cassa delle nobili viscere.

Il discepolo senza ripugnanza ubbidisce. Ed Hemos con due tagli
regolari nel torace ed uno per traverso alla estremità delle costole
ove ha principio lo addome, lo apre, ne squarcia le pleure e,
rovesciandone il coperchio sopra la faccia, riprese:

— Ah! Il prevedea. I polmoni disuguali, rattratti, maculati qua di
rosso, là di nero, su di olivastro.... Ecco la phtoe polmonare. Ecco
il guasto di una lotta per quanto lunga, altrettanto straziante.
Voi, Parato, Aquano, Faventino, Marcello, Paquio, Callisto e....
tu pure o Albucio,... vedete lo interno dei bronchi e della trachea
che ho aperto. La empiema, o la purulenza, ha quasi ostruito questi
condotti che portano ai polmoni e dai polmoni al cuore l’aria vitale
refrigerante. Quindi, il cuore che qui è rosso e più grosso del mio
pugno non essendo temprato da bastevole frigorico, tanto calore emanava
nei visceri nobili e specialmente nei polmoni, da distruggerli quasi e
ridurli alla forma che in voi desta ribrezzo....

Marcello interrompe:

— Ma il cuore, o maestro, come sviluppa il vitale calore sì necessario
alla esistenza? Gli è l’organo da cui hanno scaturigine i nostri
affetti, le nostre passioni. Dunque gli affetti e le passioni avrebbero
una qualche simiglianza al calore che ci anima?

— Ben parli, o giovane sacerdote della umanità. Gli amori, le ardenze
passionate commuovono le fibre di quest’organo che sta fra i polmoni.
Quindi è che tu lo senti battere entro te stesso. E più tu desideri,
più vibrati sono i colpi di questo martello. Le vibrazioni producono
calore siccome il ferro percosso sulla incudine del fabbro. E il
calore quindi regola la vita.... Questo schiavo amò potentemente.
Il suo povero cuore picchiò forte e generò grande calore. I polmoni
ne rimasero offesi. L’aria non valse a temperarne l’arsione ed il
misero....

La parola della scienza fu tronca da uno scoppio terribile che mandò
in minuzzoli i vetri della finestra e fece vacillare le pareti ed
il suolo. Gli occhi dei discepoli fissarono esterrefatti quelli
del terapeuta, e quai prigionieri dietro le sbarre facevano segni
passionati e di grande sgomento. Il tonfo dei sassi sullo impluvio
persuase alcuni ad escire da quella specie di letargo pauroso e correre
allo aperto. Al traballare successivo e continovato della terra gli
altri più provetti, che pure avevano le abitudini dei dolori e delle
sciagure umane, a due, a tre volsero i talloni alla camera ov’era
lo spettacolo della morte distesa, senza riflettere che anche fuori
Libitina mieteva in vario modo le esistenze, come il villico colla
falce l’erba dei prati.

Ed Hemos?... Hemos sentì qualcosa di strano infiltrarsi e correre
per tutta la sua persona. Le gocciole di sudore cadevano dalla sua
fronte, la quale aveva preso la pallidezza del marmo. Nella mente
incerta volava uno sciame di figure alate che, urtandosi a furia, gli
scendevano dal cervello nel cuore. Un supremo sforzo... e la psiche
immortale aveva atterrato nella lotta la carne peritura che geme,
e piange, e si agita convulsa nella strettoia delle avversità e del
dolore.

— È l’ultimo giorno! E il novissimo istante! Da parecchi dì gli strani
fenomeni che occorrevano e lo affannoso mutismo degli animali bruti mi
facevano prevedere il danno di questa contrada.

Sale una scala di legno, traversa le _cœnacula_, si fa sul terrazzo
sfondato in un angolo da un basalto e vede il Vesvio ardente ed
eruttante in mezzo a turbini di fumo sassi e cose che di travi accesi
aveano sembianza. Chiude il capo tra le mani e pacatamente discende.
Ridottosi di nuovo nella sala anatomica, rimane alquanto pensieroso. E
poi mormora:

— Urli disperati al di fuori. Il silenzio qui. I servi disertarono
là casa. Ed io resto come un milite a guardia di una pubblica ruina.
Rassegnato alla volontà degli Dei, attenderò con calma l’ora del mio
passaggio. Abbellii l’anima di ornamenti suoi propri, la giustizia, la
temperanza, la carità, la famiglia intera della virtù. Non feci male ad
alcuno. Sento la loro voce che mi chiama e mi avvio.

L’aria erasi fatta soffocante ed oscura. La mefite serpeggiava sol
suolo. Hemos chiuse il capo nella toga e si adagiò sul mosaico.

— _Fata vocant, conditque natantia lumina somnus_.... Qui, sul letto
drizzato nelle tenebre. Esculapio, Hippocrate, Galeno.... io vi
raggiungo.....

Per qualche istanti parea che due cadaveri fossero in quella sala,
l’uno ignudo, l’altro coperto. Ma un piccolo moto convulso, succeduto
da un lungo sospiro, pareggiò ambedue all’occhio dello invisibile.
Hemos era morto!

Allorchè nel 1771 si sgomberarono i lapilli e le ceneri ammonticchiate
in quella camera, vi si rinvenne sparso sul pavimento quanto l’arte
chirurgica aveva inventato a sollievo della misera umanità. Vi erano le
_cocurbitulæ_, ventose di metallo a foggia di ampolle con quattro buchi
che si turavano colla creta e poi si sturavano perchè lo strumento si
staccasse della epidermide. E l’ordigno per saldare le vene del capo. E
gli scalpelli escisori a guisa di piccole punte di lancia e nell’altra
estremità il _malleum_ per rompere le ossa. E le _spatulæ_ di varie
forme. E gli specilli concavi da un lato e dall’altro come un’oliva. E
un catetero forato colla sua mobile guaina. Ed un _unco_ per estrarre
il feto già morto. Ed infiniti ami ed aghi chirurgici. E le _forfices
dentariæ_, come le nostre tanaglie. E i _circines_, le _volsellæ_ e
le tente urinarie ricurve. E le lancette di rame temprato assai duro.
E le siringhe auricolarie, le seghe, i coltelli da taglio. Altri
strumenti pur v’erano di uso e di nomi ignoti, racchiusi entro astucci
di bronzo, di bosso e di avorio. E lo _speculum_, e le _ligulæ_ e il
_pareuniterium_ pur troppo noti.

Nel vicolo poco discosto s’odono molte voci rauche, confuse e concitate
in una volta. È Tito Atullio, il fabbricante dei _camini portatiles_,
dei _foculi_, degl’_ignitabula_, delle _escharæ_ di bronzo — tanto
in uso nelle Terme e nelle case degli agiati in Pompei — il quale
riunito alla madre, alla sorella, al figliuolo Istacinio ed ai servi,
nello escire ha perduto la moglie. I parenti ristanno nella oscurità
e nella pioggia dei lapilli, curando le cose di pregio salvate —
quattro orecchini d’oro, una collana, dei braccialetti, molte monete.
— Il bambino ha una lucerna di bronzo che la bufera subito spense.
Dopo molto errare presso le mura, eccolo ei torna, avendo tra le
braccia Cœsia Prima, la cui bellezza era il sogno di un artista. Una
capigliatura aerea e dorata si distaccava in anelli sul suo collo
di cigno. Le rose delle ardenti voluttà eransi schiacciate sulle sue
labbra. Ora sono pallide come i gigli e si fa trascinar dal marito come
cosa morta. Procedono innanzi a stento... si arrestano.... piangono....
cadono.... e, tutti stretti, abbracciati, muoiono.

E le pietre pomici piovevano sempre!

Morto Popidio Celsino, la eredità di Plilia fu venduta, ed essa colla
sorella tornossene in Grecia, dove da lento morbo consunta morì. La
casa venne compera da Flavio Ceppysiodoro, liberto di Flavio Licinio
Romano, arricchito dal commercio dei marmi. Avendo vissuto a contatto
di tre diverse civiltà — molto in Egitto, un po’ nell’Urbe ed in Sycion
ov’era nato, e per sopra ciò schiavo — aveva elevato a religione la
teoria del tornaconto; e il re del suo Olimpo per lui era Mercurio che
per sua propria devozione aveva mandato a nozze colla Malafede e faceva
adultero coll’Astuzia, colla Menzogna e colla Viltà. A cotesti soli
iddei egli dava incensi ed onori. Gli altri numi ei li lasciava tutti
alla gente sciocca e gocciolona che non s’intendeva di affari. Per gli
uomini arricchiti, di tal conio, la virtù in quei tempi era la virtù
in questi che corrono — vano nome. — I nummi rappresentavano molte cose
manchevoli, necessarie e richieste. Come oggi!...

Aveva sposato da alcuni anni Perennia, la figliuola di un’altro liberto
ricchissimo, suo coetaneo, il quale era morto per un’apoplessia che
lo colse nelle braccia di una donna. Un terapeuta corse in suo aiuto.
Ma il brav’uomo era già nel Tartaro, attendendo che i _pollinctores_
gli lavassero e gli profumassero il cadavere e facendo voti che i
_vespillones_ non gli togliessero di bocca la moneta per pagare il
navicellaio Caronte. Come sempre, senza mercede non si passava in quel
mondo che anche oggi si spera e si dice migliore.

Perennia era giovane e bella. Nè amava. Nè stimava il marito. Ma, molle
e licenziosa, lo conduceva a suo modo. La sua faccia agl’indifferenti
non diceva verbo e pareva una Sfinge. I giovani a modo però e che a lei
piacessero vi leggevano quello che nel verno, appoggiati i piedi sugli
alari di un camino, noi vediamo sui capricciosi disegni delle fiamme e
del fumo. Val quanto dire ciò ch’essi volevano e desideravano.

Nel secondo atrio adorno di bel pavimento a musaico e che ha un
recipiente rettangolare nel mezzo per raccorvi l’acqua piovana del
tetto, sono molte donne che tessono e filano con quella rilasciatezza
con cui lavorano le genti comprate, cui i rimproveri e lo staffile
sono incitamento alle opere. Ed il caldo soverchio sin dalle prime
ore del giorno — quell’afa sì straordinaria, in tal mese autunnale
— avrebbe loro fornito le proprietà sonnifere del papavero, se non
avessero dato alcun riposo alle mani e molta libertà alle ali del
pensiero. Una sola aveva un viso misterioso. E, poggiati i gomiti sulle
ginocchia, lo sosteneva sulle palme aperte delle mani. Clysma, nata in
un paese dell’Asia, era poco loquace per abito, e parea che, prestando
l’orecchio alle armonie della sua mente, si confortasse della schiavitù
e della durezza di quello stato con consolanti e fatidiche apparizioni.

Perennia che dormiva in una stanza vicina ruppe con un grande urlo
il cicaleccio delle sue schiave. Alcune accorrono nel cubicolo. Poco
stante essa giunge pallida in volto, si asside e si terge il sudor
della fronte. E tutte ansiose a domandarle che fosse.

— Ah! Io feci un sogno tremendo. E mi destai affannosa e fradicia
tutta. —

E Scaura, e Maronia, e Giulia, ed Angipta, ed Auga, e Tanablea le
ripetevano la domanda.

— Pareami di essere in un paese pieno di strepito e di lamenti. Era in
Pompei? Non so dirlo. Ma nessuno io scorgeva intorno di me. Volti gli
occhi in aria vidi Nemesi irata lanciar sulla terra gruppi di serpi
lividi e schifosi. Tento uscir dallo xysto e riparare in casa, quando
odo un urlo straziante.... e inorridita veggo il piccolo Cæsariano coi
capelli irti sulla fronte correre a me e precipitarmisi nel grembo. Un
di quegli aspidi lo mordea sulla nuca e le sue spire strette al collo
glielo serravano a soffocarlo. Pallida, tremante, fuori di me dallo
spavento, mi provo a discioglierlo da quel laccio. Ma.... le forze mi
mancano, le dita s’irrigidiscono, grido.... alfine mi desto.

— Terribile sogno! Clysma? Esci dai tuoi abituali silenzi.... Soccorri
alla nostra padrona colla tua prescienza e la calma.

— Maronia.... E che dirò? Voci giulive non mi esciranno dal labbro. È
il sogno men chiuso che Perennia abbia mai fatto. —

E Scaura;

— Orsù. Toglici dall’ambascia. Apri gli arcani del sogno. —

La Egiziana allora guardò tutte in viso una per una, e si levò dalla
postura in cui erasi per ore tenuta. E per quella facoltà dello
spirito la quale nelle sofferenze morali, fa che la creatura dai nervi
sensibilissimi presagisca gli avvenimenti o, nella esaltazione del
cervello, li vegga svolgere in luoghi discosti, Clysma continovò:

— Osiris, lo sposo della sorella Isis.... Typhon, suo fratello, lo è
di Nephtis. Questi ha trovato la corona fraterna sul letto nuziale
presso la moglie addormentata e stanca... Mirate lo scoppio della
gelosia!... Le acque invece di fecondare distruggeranno. Le terre
aride colmeranno le terre piene di vita e di germinazione. La nimphæa
nelumbo impallidisce e muore su suo verde stelo.... La felicità morta!
Le dovizie morte! Lo amor morto!... Tutto morrà in questa contrada che
ha dilaniato a lento morso i miei verdi anni e il mio misero cuore!...
Amset, Hapi, Satmouf, Mamses — i geni di Amenthi — non accoglieranno
col natrum le nostre viscere nel loro grembo. L’orecchio di Retiset
è già chiuso ai vostri lamenti.... Apparecchiatevi. Apparecchiamoci
tutti.

— Io ti farò battere _usque ad necem_, o nera maliarda. È l’acre
vendetta della vile anima tua che a te suggerisce....

— Nè padroni. Nè schiavi. Tutti eguali innanzi all’ira di Typhon.
Le sue collere tu le hai vedute. Esse si spanderanno su te.... Era
l’agonia che ti troncava i polsi e ti vietava di salvar Cæsariano....
Dì! Non vedesti il monte nel sogno?... No?.... E pure dal monte Typhon
verrà. —

Ciò detto, Clysma tornò a sedere per terra, appoggiando le guancie
sulle sue mani. E le altre più impaurite che mai. E Perennia divenne
livida come se l’alito della morte le avesse sfiorato la fronte. Ma,
cambiata idea, replicò:

— Io ti ho comprato _gypsatis pedibus et auribus perforatis_; ed eri
una _vernacula_ nata in casa di un cittadino romano in Babylon. Ti feci
istruire _in artibus ingenuis_ e fosti _pædagoga_ del mio Cæsariano.
Eri considerata la Perennipora qui. Così tu ricambi la bontà del mio
cuore?

— Accorciando lo stame della mia vita tu non allunghi il tuo. Io tel
ripeto... Typhon si agita per febbre ardente nel monte. Credi tu che
le tue verghe solcanti il mio corpo possano fare ch’egli non ne esca
fuori? E pensi che se tu dicessi al pretore:

    — _Hanc fœminam liberam esse volo jure Quiritum._ —

cotesta affrancazione salverebbe la città dall’ultimo esterminio?

— Oh! Questa schiava coi suoi delirii m’insulta. Chiudetela nello
ergastolo, e questa sera deciderò della sua sorte.

— Presumente!.... Non sarai in tempo fra un’ora. Un’ora?... Ecco. Trema
la terra... Ah!... Lo scoppio!

Tutte balzarono qua e là, tenendosi alle vacillanti pareti. L’orribile
scroscio rintronò nei cuori già preparati dalla paura. La gragnuola
delle pietre incomincia. Un tetto è sfondato. Cæsariano ferito nel
collo corre barcollante e piangendo in cerca della madre e la giunge.
Auga, Maronia entrano nelle stanze e raccolgono anelli, armille e
monili d’oro, utensili di argento e una copia grande di monete. Riedono
presso la padrona e la persuadono alla fuga.

Ma dove e come? La pioggia delle pomici ha oscurato l’aria e ricuopre
il suolo. Tentano a tastoni, a lato del tablino, di penetrare pel
piccolo uscio nel sotterraneo e salvarsi dal triclinio a terreno per la
pianura. Scambiati pochi passi un’aria pestilenziale e non respirabile
ne le caccia indietro.

— Salvaci, o tu, che lo puoi. Le dovizie di mio marito per te!...
Affida alle braccia del tuo Dio questo frutto almeno delle mie
viscere. —

E stringeva al petto il bambino e lo baciava coll’amor passionato di
una madre. E stendendolo a Clysma, cadde stramazzoni, sui lapilli,
affogata dalla mefite. E tutte caddero morte nell’atto stesso.

E le pietre pomici piovevano sempre!

Sino dal giorno innanzi Tito Plasilio Aliano, figliuolo dello
affrancato Timagène era tornato dal _Pontus Euxinus_, sur una delle
navi paterne. Disceso e abbracciata la famiglia e tutti gli amici
che ben presto gli furono d’intorno, die’ ordine di scaricare la
_caudicaria_ che aveva guidato nel porto. Il dì poi chi passava
trovavalo laggiù e gli stringeva la mano e festosamente lo baciava.
Era un bravo uomo, tutto inteso all’ora presente e felice nei ghirigori
della vita. L’anima sua e le cose esterne nel vagabondar che faceva mai
trovavano il chiodo fastidioso della fermata. Nomade nel deserto dei
mari, le sue corse erano come i raggi del sole i quali splendono per
tutti; e non sentiva gli accessi melanconici della poesia solitaria,
figliuola allo egoismo. Giunto laddove gli affari del traffico paterno
il menavano, vendeva, cambiava, comperava. Ed intanto provvedevasi
di uno alloggio e di un’anima che non fosse tirannica, permettentesi
senza donarsi. Talvolta erano doni di Numi. Tale altra merci lucrose.
Sempre passeggere felicità, incarnate e colorite da un vivido sangue;
il quale, al pari del liquore dei grappoli d’uva, forniva ebbrezze
subitanee ed accessibili a tutti.

Giovanetto e col padre erasi dato al mestiere del nauta. Aveva visto
molte contrade, e il suo intelletto erasi sviluppato al contatto dei
diversi popoli che avea bazzicato. Sapeva la storia dei Greci, suoi
compatrioti di origine. Conosceva i loro usi, i loro spettacoli.
Erasi maravigliato dei monumenti del vecchio Egitto e delle pitture di
vivi colori — mezzo decorativo, recondita storia. — Tende — Armenti
— Deserti — Vaste solitudini — Città incivilite. E il lago immenso
detto il _Palus Maeotis_. E Panticapea, dalla cui altezza scorgevasi la
imboccatura dello stretto del Bosforo Cimmerio che congiunge il lago al
_Pontus Euxinus_.

Begli anni vaganti e bene spesi, perchè proficui al suo commercio
e allo addottrinamento del cuore. Tornato in paese, gli pareva
ringiovanire. Emozioni, sorrisi, riposo. E quelle maghe graziose dello
spirito, che aleggiano attorno e dicono il dolce incanto a chi ritorna
dopo una non breve assenza nel loco natio.

— Sii il ben giunto, o Plasilio, nella nostra città. Che io ti abbracci
e mi gratuli teco della fiorente sanità che gli Dei ti conservano.

— Sei sempre il mio amico, o Porcinio Rodio, fin da quando Verna ci
forzava ad apprendere a furia di nerbate. Sia pace ai suoi Mani. Ma
aveva il braccio assai grave. Che fai costì nel porto?

— Seppi il tuo arrivo ieri nell’Odeon dagli amici Umbricio Bifurco e
Karminio Hyccario. E venni a vederti, poichè immaginai come nelle tue
case fosse vano il trovarti. D’onde vieni?...

— Dalla costa orientale del Chersoneso Taurico.

— Quali le merci trasportate qui?

— Molta parte del carico è il frumento che gli schiavi e i saccari
ammonticano dinanzi il magazzino, là in fondo. Or che la Sardinia e la
Sicilia ne fanno desiderare, stimai affare migliore comperarne nella
Tauride che ne produce in abbondanza. La terra, solcata appena dallo
aratro, ne dà trenta per uno. E l’affluenza da qualche anno è siffatta
che hanno aperto di recente in Theodosia un porto capace di almen cento
navi. Giunio Sequestro, il pompeiano, e lo ateniese Hyphidamas sono
andati a Panticapea. Il grano quivi è più caro. Ma lo caricano subito
senza attendere il turno, e per una nuova legge non vi si paga diritto
nè di entrata nè di escita.

— Anche di quel porto dicono maraviglie.

— E a ragione. E l’arsenale? E il castro? E la città? E le case dei
particolari? E le taberne? E le fabbriche? Tutto grande quello che qui
è piccino. Al ricordo le mie sensazioni si ravvivano e....

— E più se rammenti le creature che furono parte animata delle tue
felicità, eh?

— Eh!... Gli è pur così.... E molte volte io chieggo a me stesso se il
lago Maeotis non sia il più vasto dei mari e Panticapea la più bella e
vaga ed ospitaliera città dello universo.

— A trent’anni... e sempre eguale come a diciotto quando lo spettacolo
del mare t’inteneriva sino alle lacrime.

— T’inganni, o Porcinio. Così fosse?... Il molto vedere ha strozzato la
sorpresa innanzi i miei occhi e di tal guisa svanirono i molti piaceri
di cui essa è la madre. La esperienza a poco a poco si è rivestita
delle spoglie che appartennero alle sensazioni defunte e rimango quasi
insensibile a ciò che una volta m’illuminava tutto.

— Il solo Ponto opera però il miracolo!

— Vorrei veder te in faccia a quello immenso bacino, circondato quasi
per ogni dove da montagne che più o meno si sollevano dalle sue rive
ed in cui quaranta fiumi versano le loro acque, provenienti dall’Asia e
dalla Europa. La sua lunghezza è di undici mila stadi. La sua maggiore
ampiezza, di tremila e trecento. Differenti nazioni sono disseminate
sui margini suoi, di diversa lingua, di varia origine, di più svariati
costumi. Vi siedono città fondate da quei di Mileto, di Megara, di
Athenes. A levante è la Colchide, celebre pel viaggio degli Argonauti.

— Dicono che nel verno Eolo vi abbia il suo trono.

— Grande verità! Gli è perciò che prevedendo le nebbie le quali
oscurano la sua superficie, io drizzai la prora al ritorno. Hannovi nel
verno terribili tempeste e naufragi numerosi. Ma quai pesci eccellenti!
E quanta abbondanza! Il fango e le sostanze vegetali che i fiumi vi
scaricano gl’ingrossano e gl’ingrassano. Si vive sulle sue coste a
ruba. Immagina! Un bue di prima qualità pel nutrimento dei rematori te
lo danno per ottanta dramme. Un montone per sedici. Un agnello per due.
Un manovale costa per giorno tre oboli. Vi ho comperato mantelli di
lana per venti dramme e delle scarpe per sei.

— Verrò da te ad approvigionarmi al bisogno. Per ora la temperatura
non lo richiede, e cotesta è una grande stranezza del nostro clima in
questo anno.

— E sì, che anch’io ieri nello imboccar nel cratere me ne avvidi e ne
stupii forte. Ænonao, il protosaccario di mio padre, ha chiesto doppia
razione di _posca_ per ognuno dei facchini da scarico.

— Nè basta, o padrone. Ci pare di aver lo stomaco di ferro rovente. Più
se ne beve e maggiore è la sete. —

Era Cantrio che ripassava dopo aver gittato il suo sacco sul cumulo.

— Lavorate animosi e ne avrete.... Ehi! Santapila, tu che vai carico
verso il fondaco, di’ ad Ænoao che addoppi il buono che con tanta
facilità traspirate. Ma in tre dì voglio sgombera la nave per caricarla
d’olio in Capreas. —

Presumente! Parlava di avvenire in una città condannata e sopra un
selciato, mobile e vacillante quanto la tolda della sua nave!

I due amici si trassero di là e per la porta della Marina si avviarono
verso Pompei. Dinanzi la nicchia di Minerva sotto l’arco, incontrarono
Hera Nevia, Appia Callista e Terzia Turpedia, giovanette in preda
a febbri d’artificio che lo amore condanna e le cui fiamme sono
incerte ed effimere. Erano seguite da Abiginio Albulato, da Sesto
Eppio, da Afrenio Helvino, giovani sfaccendati che uccidevano la noia
logorante delle dodici ore luminose nella tonstrina, nei termopoli,
nelle Terme e le altre dodici nelle orgie. Un ricambio di sorrisi.
Strette di mano cordiali, ed innanzi. Giunti presso la Basilica,
il suolo traballa, le mura crepitano, le colonne piegano in volta.
E poi un rumor sotterraneo. Quindi lo scoppio sul Vesbio. Corrono
barcollanti nel Foro. Una colonna di fumo. Una grandine di sassi. Si
cacciano a precipizio sotto il portico e fuggono.... Fuggono. E lo
spavento cammina loro dinanzi colla testa imprecante agli Dei. E sono
abbracciati dalla morte che gli attendeva come certa sua preda.

Agato Vaio — il quale reggeva una _Caupona_ nella via Domizia, che
Giulio Polybio, il mercante di grani e duumviro, fattosi suo collega,
avevalo aiutato ad edificare — escì di casa difendendo il capo
dalle pomici con un cesto di vimini, corse forsennatamente verso il
_Ponderarium_ — officina del pubblico peso, che ora direbbesi Dogana —
urtò in un ciuco che la stranezza degli avvenimenti lasciava indeciso
nella fuga e che le voci interne del capriccio e..... dell’asineria
— spesso ascoltate dalle sue lunghe orecchie — lasciavano allora
impensierito ed immoto, lo gittò disperato da un canto e per una porta
di contro discese a saltelloni nel porto. Colà può afferrare una barca,
vi si caccia dentro e voga in salvo. — Era stato meglio _Cauponius_
che _Caupo_ in altri tempi; cioè, arnese di osteria piuttosto che
reggitore e padrone. Allora faceva versi. E quelli _exodia_, specie
di farse oscene, atte a dissipare in teatro le impressioni tristi
della tragedia, cui succedevano. Erane adunque _actor et auctor_. E
conservava i diritti di cittadino. E potea servire nello esercito, —
due prerogative che non godevano gli attori seri i quali recitavano le
commedie di Nevio, di Plauto, di Cœcilio, di Afranio, di Terenzio. Ma
tanto le _fabellæ atellanæ_ come il _carmen togatum_ — od incontrassero
plausi o fischiate — non gli facevano afferrare le chiome della
Fortuna. Laonde Agato erasi dato a più profittevole esercizio.....
Eh! La più bella Musa dell’Olympo non sa nudrire il suo povero amante.
Conviene far propria — secondo il gusto — una di quelle nove fanciulle
e risguardarla come una ganza. Esso non possono dare altro che ore di
compiacenza, fumi di gloria, nebbie di vanità, pecunia mai..... almeno
in Italia, dove la supina ignoranza delle plebi non le conosce, nè
stima.

Il sole è alla metà del suo corso. Una brigata di uomini in gran
parte canuti seggono in una sala decorata di bei dipinti, tra i quali
rifulge la splendida pagina murale che presenta lo episodio poetico
di Virgilio, il _pio_ Ænea che parte di Cartagine a furia di remi e
lascia sulla riva Didone costernata ed in lacrime fra i suoi attoniti
cortigiani. Intorno sono raffigurati il crotalo, il sisifo, la tromba,
i flauti, le tibie pari e lo scabillo, quello istrumento pneumatico,
come i nostri organi, che i tibicini suonavano coi pedali di legno o
di ferro per accordare i tuoni dello strumento da fato. Sono per la
stanza supellettili di bronzo e di vetro elegantissime con un vaso
di alabastro di graziosa forma. E nel mezzo è una tavola di porfido
con suvvi una piccola statua, simulante un giovane appoggiato sul dio
Termine. Il più provetto, Nicia di Mileto, continova la discussione che
animava gli occhi ed il gesto dei convenuti:

— No! Non ammetto con Hedilo che il divino poeta, dalla fantasia facile
e la meglio feconda, siasi servito per costruire i suoi versi di una
lingua strana e bizzarra. Mi sembra più naturale il pensiero ch’egli
abbia voluto fare suo pro della lingua volgare dei tempi suoi. E nel
vero. Dugento anni pria che nascesse, i Jonii condotti da Neleo vennero
a stabilirsi sulle coste dell’Asia-Minore. Ma con essi erano i Tebani,
quei della Focide e di altri paesi della Grecia. I loro idiomi misti
a quelli degli Eolii dovettero formare la lingua nuova, parlata, di
cui Homero si servì. I dialetti, limitati ad alcune città, presero un
carattere distinto in progresso. Ma la stessa varietà testimoniava
l’antica confusione. Le medesime lettere anche ai dì nostri non
hanno forse in più luoghi pronuncia diversa? E quante le parole che
in Athenes indicano un significato ed un altro presso un popolo che
variamente le termina? Homero, aiutato dallo strano suo genio, spigolò
il buono di tutti i dialetti e creò la lingua monumentale che noi
parliamo.

— E gli è cotesto ch’io non ammetto. La poesia era assai coltivata
dai lirici dei tempi suoi. La lingua era già abbondante e piena
d’immagini. Due grandi avvenimenti, la guerra di Thebes e quella di
Troas esercitavano gl’ingegni. E di ogni parte i rapsodi colla lira
annunciavano al popolo le gesta dei loro antichi guerrieri.

Rhiano anch’egli divideva tale opinione e aggiungeva:

— Ed Orpheo? E Lino e Museo? Ed altri, le cui opere andarono smarrite?
Ed Hesiodo, il suo contemporaneo, che in uno stile pieno di soavità
e di armonia descrisse la genealogia degli Dei, i lavori campestri ed
altri interessanti argomenti? Homero trovò dunque la lingua e l’arte
già adulte. Trovò un emulo altresì. Ma s’ei primeggiò, non posso per
questo consentire che Nicia lo proclami genio creatore.

— Parlerete ambedue sino alla restituzione della libertà popolare
in Grecia ed in Italia, vantando Orpheo, Lino ed Hesiodo, ed io
crederò che la Iliade e la Odissea sieno la disperazione dei poeti
che furono, che sono e che saranno. Cosa fece il divino Homero? Nello
assedio decennale scelse uno episodio — Achille si crede insultato da
Agamennone per la ritolta amante e si ritira nei suoi accampamenti.
I Troiani, incuorati, escono dalle mura; e più volte vittoriosi,
appiccano lo incendio alle navi nemiche. Patroclo, lo amasio di
Achille, si veste delle sue armi, combatte e muore per le mani di
Hettore. L’offeso ritorna colle armi nel campo, vendica lo amato
cadavere e cede, per riscatto, a Priamo le spoglie del prode figliuolo
che ha trascinato più volte dietro il suo carro intorno alle mura
nemiche a ludibrio. — Era una storia. Per abbellirla finse che l’Olympo
parteggiasse pei due popoli duellanti. E perchè il racconto poetico
assumesse interesse maggiore, usò artificio non usato dianzi, e i suoi
eroi parlarono ed agirono. — Nel decennale viaggio di Ulisse adoperò
gli stessi spedienti per ottenere un eguale successo. — Il figliuolo
Telemaco dopo un lungo attendere, si parte da Ithaca per interrogare
Nestore e Menelao sulle sorti del padre. Gente ingorda dissipa i suoi
beni. I Proci aspiravano alle nozze della madre desolata. Nel punto
Ulisse partiva dall’isola di Calipso e approdava naufrago in un’isola
presso alla sua. Chi ve lo accolse ospitale volle udir di sua bocca i
maravigliosi eventi, i mali sofferti. Ed in premio, avendo ottenuto
soccorsi, parte per Ithaca, arripa, si fa riconoscere e si vendica
dei propri nemici. — Cotesto poema pare opera senile. Il vegliardo
ripete il già detto su Troas arsa e distrutta; fa mostra di maggiori
cognizioni geografiche; dà caratteri più miti ai suoi personaggi; ed
in tutto il dramma circola un tiepido calore pari a quello del sole al
tramonto.

Tutti avevano udito la dotta e pur semplice analisi che Leonida di
Tarentum, avea fatto dei due poemi. Alexis, di Thurium, plaudendolo
aggiunse:

— Tacesti sulle nobili sentenze che chiare risultano dai due poemi, e
che Homero lasciò alle meditazioni del suo secolo che pure ad altro
tendeva. — I popoli sono sempre la vittima delle contese di chi gli
guida. — La prudenza e il coraggio trionfano tosto o tardi dei maggiori
ostacoli. — Uomo sublime!

Un vecchio presso la tavola, il quale appoggiava il bianco capo sulla
palma della mano diritta, il poeta Xenocrate, di Locrum, pieno di
entusiasmo prese a dire:

— E il genio dell’uomo sublime parlò al genio del grande legislatore!
Lycurgo copiò i due poemi e persuase gl’istrioni a declamarne i
frammenti nei teatri. Solone ordinò a quei rapsodi di non distaccarne
i brani a talento; ma riuniti, che l’uno seguisse il racconto dove
l’altro aveva finito. Ma siccome la purezza del testo venivasi
alterando sulle bocche ignoranti dei ripetitori, Pisistrato ed Hipparco
— padre e figliuolo tiranni in Athenes — aiutati da abili grammatici,
ripurgarono dalle errata i due quadri istorici della Grecia e li
fecero cantare alla festa delle Panathenee, processione votiva a
Minerva, e poi alla memoria di Harmodio e di Aristogitone, regicidi. Io
proclamo con Nicia, di Mileto, Homero non solo creatore della lingua,
ma eziandio della greca nazionalità. Noi tutto dobbiamo a quell’uomo
divino. Leggi — Gloria — Costumi. L’ammirazione è in ogni cuore. Il
suo nome in ogni mente. La sua immagine da per tutto. Se vi furono
città contendentisi l’onore di avergli dato la culla, quante le città
che gli sacrarono un tempio? Eschilo, Sophocle, Archiloco, Herodoto,
Demosthene, Platone seminarono i loro scritti dei fiori raccolti nello
inesauribile giardino del balio a noi tutti. E da quelle cantiche
sublimi Phidias e il pittore Euphranor attinsero il tipo che degnamente
rappresentasse le fattezze maestose di Giove Olympico. Homero era
cieco. E doveva esserlo! il suo sguardo assorbito dalla luce divina
della poesia, che splendevagli nella mente e nel cuore, disdegnava il
lume del sole, luce più debole, gran cosa per gli altri.

— Xenocrate col mentovare il primo fra tutti gli Dei, mi fa col volo
della mente percorrere i cieli, avendo a guida il grande poeta. Mirate
Venere col cinto da cui scaturiscono gl’impazienti desiri, i fuochi
dello amore, le seducenti grazie e lo incantesimo degli occhi e della
parola. E Pallade alla cui egida sono sospesi i terrori, la discordia,
la violenza e la spaventosa testa della Gorgona. Nettuno è tra gli
onnipossenti; ma gli occorre un tridente per iscuotere la terra. E
se dopo la corsa fantastica del cielo, torno a ricalpestarla, chi vi
trovo? Achille, Aiace e Diomede; i peggio temibili tra i Greci eroi.
Ma l’ultimo si ritira, rincula dinanzi l’oste troiana. Aiace non cede
che dopo averla fatta indietreggiare più volte. Achille si mostra e il
nemico dispare. —

Così Sosicles, il poeta siracusano. Ora ad Hedilo parve di dovere
interloquire per cancellare le tracce dei suoi paradossi.

— Platone disse non essere dignitoso il dolore di Achille, nè quello
di Priamo, allorchè il primo si rotola sulla polvere per la morte di
Patroclo e l’altro si umilia per ottenere il cadavere del figlio. Ma,
quale dignità può mai spegnere il sentimento?... Io lodo Homero di
aver imitato la natura che colloca la debolezza presso la forza, e
lo abisso a lato della sublimità. Lo lodo altresì per avermi palesato
il migliore dei padri nel più possente dei re e lo amico tenerissimo
nello audacissimo fra gli eroi.... Cotesti ed altri pregi però non
scusano il poeta se spesso riposa e talvolta sonnecchia. È vero che
quando si desta scaglia i fulmini al pari di Giove.... Ma _quandoque
dormitat_....

— E gli Dei non dormono essi?

— Gli Dei furono uomini. Pindaro il disse. E non possono dominare la
nostra illuminata coscienza. Un ente supremo esiste, e a lui inchiniamo
in secreto. Quelli a cui si volgono i voli della plebe umana....

Un rumor sordo, cupo, terribile chiuse la parola autorevole sulla bocca
del vecchio Nicia, di Mileto. Tutti si levarono in piedi, e le scosse
del suolo li balzarono in terra insieme coi mobili della stanza. Si
rizzarono sbalorditi e contusi ed escirono. Una grandine di sassi. Poi
cenere e lapilli da oscurare ogni luce.... Quindi.... la morte....

Alle prime ore del mattino Acilio Heliodoro, incontrando i suoi amici
nella _tonstrina_ di Glaphyro, gli aveva invitati al _prandium_ in
casa sua ch’era sulla via ampia e prolungata dell’Abbondanza, le
quale, solcando parecchi crocicchi, finiva presso lo Anfiteatro.
Era un giovane di origine greca e di nascita pompeiana. Suo padre,
arricchitosi nel commercio colle pie frodi che il traffico allor
permettea, dopo aver maritata la figlia con Anniceris, suo amico, il
rinomato vasaio in Rubi, aveva creduto lasciarlo libero dispensiero
delle accumulate dovizie alla età di trent’anni, affogandosi nel
mare un dì che vi prendeva i suoi bagni. Menava la vita paesana
in tutta la sua purezza; la quale, pari a quella dei destrieri nei
prati, consisteva nel mangiare, dormire, riprodursi, aspirar l’aria,
sbadigliare e volgere gli occhi dolcemente qua e là in busca di cavalle
e di erba migliore. La sua casa era doppia — per sè e per gli ospiti di
fuori — e quella abitata da lui, sontuosa. Belle pitture sulle pareti
— Ulisse che presenta in Scyros allo infemminito Achille le armi e lo
ravvisa pel celato figliuol di Peleo. — La frode di Giove che mutato
in cigno stringe nella spatula la lingua di Leda e la pone sul nudo
e bellissimo seno. E Amore, che è il faccendiero del luogo, il quale
sostenendo in una cassetta diversi attrezzi muliebri, ride sottecchi ed
accenna con aria furba al Nume trasformato in uccello. — La più ricca
stanza era quella del triclinio che prendeva luce dalla porta e da un
finestrino aperto nello xysto. Da un lato alberi e fiori. Dall’altro il
soave rumore di una fontana zampillante.

— Oggi non sarai sola, o Nossis. Verranno i miei amici a distrarti,
Acrio Heleno, Lucio Modiano e Narceo Flacco. — Acilio — come tu vedi
— tutto che pieno di tenerezze terrestri, ama le distrazioni del tuo
nobile cuore per poterti esprimere tratto tratto e senza annoiarti le
novelle dello amor suo.

La persona cui erano dirette quelle parole, sedicenne, snella e
spigliata, parea nata fatta per seguire i moti ardenti e graziosi di
un poledro africano. Era un’amazzone tranne nei voti. Sulla sua faccia
leggevi fierezza, intelligenza, risoluzione, generosità mista ad un
piglio che nulla avea del virile. Una malattia aveva punito leggermente
il suo volto bucherellandolo di minuto vaiuolo. Ma i suoi grandi
occhi neri e i sorrisi che da essi balenavano faceano dimenticare il
fuorviamento della natura, che un giorno colla febbre del sangue le
avea maculato la faccia. Era di Locrum ed apparteneva alla tribù delle
etère che offeriva un amabile contingente alla libera e grande tribù
dei celibatari.

— La donna ha un fiero istinto che le fa respingere la innocenza.
Lo so. Meglio il serpe che ammalia e stringe nelle sue potenti spire
di quello che il bianco giglio odoroso. Ma vi è una razza d’uomini,
ricercatori di voluttà, idoli impuri, i quali credono in ogni donna il
loro trastullo, sognano avventure, le realizzano e di ciò fanno tardo
argomento di risa e di sprezzo. Oh! Venere gli punisce! Essi terminano
la vita col confessare la onesta fede al coniugio, e gli Egisti
maliziosi ridono di quel riso che fa cadere le stelle sulla terra.

— Eccoli che vengono. Sono e non sono quali tu gli dipingi....... Qui,
amici.... nel tablino. Malgrado il caldo oppressivo della giornata, un
po’ d’aria vi circola e aiuta al respiro. —

Una tavola è nel mezzo della stanza sopra un musaico di scelti e
variopinti marmi. Sul deschetto è un vaso di murrhina con entrovi un
fascio di ordinati fiori. Ed altri fiori sono nei vasi nolani attelati
alle pareti, che coi loro vivi colori e il soave olezzo cantano l’inno
misterioso della natura. La luce è abilmente disposta. Le cortine di
Tyro sono abbassate dal lato del mezzodì. Quella clemente e dolce che
viene dall’altra parte, accorda all’ombra una ospitalità generosa, di
cui la donna, per giovanetta che sia, non sa mai dolersi.

Ricambiati i mattinali saluti, ognuno aggiunse a quel tema le
variazioni che la originalità dei caratteri sapeva fornire. Narceo
Flacco primeggiava nei paradossi; ma gli escivano così naturalmente
di bocca, che volontieri erano uditi e sovente ricerchi. Di uno in un
altro discorso, siccome suole accadere, Aerio Heleno aveva mentovato il
loro amico comune Agathemaro Vezzio, di recente morto nelle strette di
Bovianum Vetus in un conflitto coi banditi, ribelli alle leggi.

— Sì, morto inosservato e lungi da noi. Eh! il sangue umano presto
dissecca. E gli estinti rimangono vivi nel cuor delle madri e degli
amici. Una donna avrebbe dovuto piangerlo però.... La sposava!

— Chi?

— Nympha, della famiglia Nomentana. Io le recai un suo anello ed ebbi
anche il mandato di dirle quelle parole sacre che lasciano — od almeno
si spera che lascino — qualcosa di proprio nei cuori in cui era chiusa
tutta la propria terrestre felicità.

— Ed essa?

— Eh! Pianse un poco... e poi gli occhi rossi li lasciò agli schiavi
che attizzano il fuoco nel _laconicum_ delle Terme.

— Penso che non a tutte le donne tu accordi una tanta indifferenza di
cuore. La unità non è numero. —

Nossis disse quelle parole con un certo cipiglio che valeva un
rimprovero. Ed era per levarsi dalla sedia, quando l’altro riprese:

— Rimanti, ten prego e non ti offenda la mia sentenza. Tu hai nei begli
occhi fantasime che non ingannano e tenerezze caparbie che sfidano le
tenzoni di amore. Ma comunemente io non vidi negli amanti che un’ora
sola sublime, quella in cui i cuori prendono congedo tra loro. Gli
affetti eroici non li ho mai incontrati. Venere un me ne accordi, ed
io mi vi dedicherò intero. Non feci mai saggio della mia costanza. E
pure vi ho fede come se fossi nato ai tempi del misero P. Ametistio,
il crocefisso, mentre ebbi vita sedente Nerone imperatore, dopo
l’abolizione dei ludi gladiatorii nello Anfiteatro.

— Siffatta fede ti onora. Merita ed avrai la tua ricompensa. —

E voltasi ad Acilio lo guardò con tanto entusiasmo e fiducia che questi
sentì i propri affetti rinfrescati da un sentimento novello. E gli
disse:

— L’ora del pranzo è accennata dalla clessidra. Andiamo. —

E tutti mossero verso il triclinio.

Questo era splendido di pitture, di tappeti, di mobili e di vasi
di argento. In mezzo era la _mensa delphica_ colle imbandigioni. Si
coronarono di rose. Ma non si coricarono sui letti, e sedettero secondo
il costume dei Greci. Ad ognuno, dopo che si ebbe lavate le mani,
venne offerta la _mappa_, orlata come una laticlava di una frangia di
porpora.

Qual differenza dalla parca e sobria mensa degli antichi senatori di
Roma! Curio faceva cuocere i suoi _oluscula_ — i legumi dell’orto —
coltivati da lui, sul suo umile focolare. Altravolta si conservava
preziosamente il lombo salato del porco per celebrare un dì natalizio;
e si offeriva ai parenti una fetta di lardo con un po’ di carne
fresca, se mai fosse stata immolata una vittima. E a siffatto festino
vedevasi arrivare, colla zappa sulla spalla, un parente illustre
per tre volte console, o imperatore di accampamenti, o dittatore, il
quale in quel giorno abbandonava più presto del solito il rude lavoro
sul monte. Nell’epoca dei Fabi, del severo Catone, degli Scauri,
dell’onesto Fabricio, allorquando lo austero Salinatore facea tremare
il suo collega censore sulla sedia curule, nessuno aveva pensato ove
nuotassero le tartarughe, il cui dorso gaio e levigato avrebbe fatto
più splendidi i letti dei discendenti di Enea. Tale la casa. Tali i
mobili. Tali gli alimenti. Da bastare alla vita, e non al lusso ed alle
morbidezze. E quando quei ruvidi eroi — stranieri ancora alle arti
della Grecia — dopo il sacco di una città, si trovavano per le mani
una coppa cesellata di argento, la rompevano per fondere una _phalera_
da bardarne il cavallo delle battaglie, od una lupa a ricordo della
mansuefatta dal Destino, che allattò i gemini quirini sotto la rupe. Lo
argento splendeva allora soltanto sulle armi dominatrici. Le fave, i
ceci, il farro, la carne e i pesci arrosto, i frutti freschi o quelli
che nel verno avevano perduto la crudezza del loro succo componevano
il desinare, scodellato ed offerto su piatti di terra bituminosa. E
vivevano lunghi anni, e non mentivano alle leggi della dignità umana.
E col pilo e col gladio assoggettavano il mondo noto. E gli ospiti
erano accolti francamente, con abbandono, di pieno cuore, come Evandro
accolse Hercole, lo eroe di Tiryntho, seme divino, _contingens sanguine
cœlum_.

Compiuto lo asciolvere fatto coi cibi i meglio squisiti, e mangiate
le _mustacea_, paste condite di aromi che servivano a correggere dopo
il pasto le crudezze dello stomaco, Acrio Heleno propose il giuoco
dei _griphi_, cioè, problemi soliti a sciogliersi a tavola. Chi non
riesciva a deciferarli, pagava un’ammenda.

E Nossis disse:

— Indovina, o Narceo, la rete ch’io t’offero. _Io sono grandissima
nascendo. Sono pur grande invecchiando. Sono però piccolissima nel
vigor della età._ —

L’altro pensò, chiuse gli occhi, apri la bocca per dire... quindi
risolutamente rispose:

— L’ombra.

— Indovinasti. A te, Modiano. _Qual nome dài tu alle due sorelle che
non cessano di generarsi a vicenda?_ —

Anch’egli pensò, masticò parole non articolate, si diè per vinto e pagò.

— Nulla di più facile per chi lo sa: la giornata e la notte.

— Ora te, o Nossis. Mi auguro che tu lo sciolga. _Vi sono tre animali
in terra, nel mare, nel cielo._ Puoi dirne i nomi?

— Più presto di quel che non pensi, o Heliodero. — Il cane. Il serpe.
L’orsa. — Sei pago? —

Lucio Modiano, ch’era stato perdente, voleva porre gli altri nella
stessa condizione e disegnò fare il giuoco delle lettere, delle
sillabe, delle parole. Erano detti _logogriphi_ perchè reti formate
coi versi che si dovevano recitare al nuncio della prima lettera, o
di un motto che racchiudevano, o terminanti con una sillaba che veniva
indicata. Astrusaggini venute di Grecia nelle nostre contrade.

Tutti vi si provarono. Nessuno riescì. E l’afa essendo omai grave,
escirono allo aperto nello xysto. Erano pure radiosi come la speranza.
E l’ora presente inesorabile, pareva la dovesse esser madre di
ore innumeri, liete, felici.... E quegli istanti erano gli ultimi!
Passioni, dovizie, ingegno, bellezza, schiacciate e sepolte come le
vanità della vita. E le convulsioni della natura affogarono e coprirono
la casa di Acilio, racchiudendovi brevi ma disperate agonie.

I sacerdoti d’Iside banchettavano nell’ora in cui il disastro aveva
principio. Si radunarono tutti nella sala dalle cinque arcate che è
dietro la edicola della Iddia, dove si celebravano i misteri, e i soli
iniziati penetravano: Nymphiodoto Caprasio persuase gli altri a non
fuggire e a rinfrancare i cuori. Egli si prostrò dinanzi il delubro ed
orò come se i devoti fossero nel tempio e il vedessero.

E le pietre pomici piovevano sempre.

Allorchè quel furbo si avvide che i lapilli si livellavano cogli ultimi
gradini e le esalazioni di zolfo gli eccitavano la gola, indignato
proruppe:

— Tu vedi lo scompiglio, tu senti le preghiere dei tuoi, e le tue
labbra rimangono immobili? La tua bocca di marmo parli, e questo
nembo micidiale di Averno rientrerà negli abissi. E i pietosi incensi
bruciati sul tuo altare. E le vittime sacrificate. E le offerte dei
devoti tuoi. E il sacrificio della nostra castità..... sino alla
rivolta della natura..... Dunque tra la tua statua e la faccia di
Bathyllo, il pantomimo, non vi ha differenza?.... _Non movent divos
preces?_ Tutto è mendacio, fuor che l’antro tenebroso da cui sorgono
infuocate le pietre del Vesvio? Io incisi le mie scelleratezze sul
falso e per tua colpa, o iddia. —

Due orecchie umane, fatte di stucco, erano sui lati della nicchia, per
dare ad intendere plasticamente alle turbe ignoranti e bietolone come
le loro preci, mediante ricche offerte, fossero intese dai numi.

Il prete ipocrita, levando gli occhi, vide quei simboli della credulità
meridionale e di subito sdegno inalberò. Dato di piglio ad un sistro
di bronzo, pose in bricioli un orecchio. Un fulmine solcò la spessa
atmosfera e fece sgomento quel profanatore delle stesse cose di cui
sino allora avea tratto profitto. I ricoverati nella sala postica
corsero a salti in cucina; e siccome le soffitte delle stanze soprane
erano cadute, si accoccolarono sulla scala che ad esse saliva. La
mefite quivi gli colse e gli uccise di disperata agonia. Nymphiodoto
riparò ansimante nella camera vicina al refettorio. Ma siccome dal
tempio veniva un veemente ed insoffribile calore — con un fumo vibrato
ed invisibile con tenue odore di zolfo, ma più di ammoniaca, di nitro
e di vitriolo che affannava istantaneamente il respiro — egli cercò
di chiuder l’uscio come meglio; e, presa una barra di ferro, si die’
a rompere la parete ch’era di mattoni e di spume vulcaniche. Quel
disperato non avea scampo. Pria di porre il termine alla rottura, la
mefite lo prese alla gola e lo stese cadavere come i compagni.

Nel tempio di Giove pativa una quasi eguale offesa il flamine diale.
Ultimo ad escire, perchè carico degli _ex-voto_ di oro e di argento,
una delle colonne corintie del vestibolo scardinata dal tremuoto cadde
e lo schiacciò sotto il suo peso. Quella incarnazione dell’orgoglio e
della soperchieria veniva affranta a cagione del solo interesse avaro
ed egoista che avealo inspirato nella vita.

Sur uno dei piedistalli, a livello del _pulpitum_, dal lato opposto, la
statua erasi spezzata e caduta al suolo. Una creatura vivente vi sedeva
in suo luogo. Aveva le gambe penzoloni, il capo coperto dal _sagum_,
per guarentirlo dalle pomici cadenti; e le braccia al petto. Al rumore
della colonna, all’urlo soffocato del flamine, l’uomo innalzò il panno
dagli occhi e si volse.

— _Dehisce tellus. Recipe illum, dirum chaos!_ È giorno di grande
giustizia cotesto. Tutti morti!... E chi meritava vita qui?... Quando
nello Anfiteatro fui ferito sulla spalla da un colpo di gladio, quattro
donne soltanto porsero la mano aperta e gridarono: _Non habet_. I miei
occhi le fissarono e le loro soavi immagini mi si dipinsero nel cuore.
Wodan le farà salve. Le Ondine sosterranno la nave che porterà lontano
le loro lacrime per la terra dei ricordi perduta...... Lo abbietto
gladiatore non vedrà più i nativi suoi boschi e la bionda razza che
li abita..... Povero popolo di Herman!... Giù, Vesbius... inghiotti,
straripa, incendia, ruina. Racchiuderai fango in un ampio sepolcro!
Pesi la terra sull’empia stirpe latina che, mai sazia, ha assorbito le
libertà del mondo. Oerda, Werdandi, Schott, Neva, le sorelle del Fato,
stanno sul monte.... Io le sento... E mi vendicano. Ora, posso anch’io
morire.... O foreste di pini! O Astara, che vi spiri dentro l’alito
della primavera! O Freya, dea dello amore! O Wali ed Oller, miei buoni
compagni nella infanzia! O Scada, mia madre! O Norna e Rinda, sorelle
mie! Gefion prende commiato da voi e per sempre. —

Questo Gefion era un germano della famiglia gladiatoria in Pompei.
Preso da fanciullo tra i prigionieri di guerra, lo chiamarono Libero i
suoi piacevoli consorti. Era stato otto volte vincitore nei ludi. Forte
ed impavido, addestrato alla professione degli _artifices decollandi_,
aveva risguardata la vita come cosa fuggevole, misteriosa ed incerta.
Or le grazie della morte le conosce soltanto colui che passa i suoi
giorni a contemplarla. Ed era divenuta l’amica dalle cui mani attendeva
la sua libertà. In quell’ora di rivelazione inattesa, in cui tutti
fuggivano il bacio delle sue labbra gelate, egli scelse invece il luogo
dei suoi accoppiamenti con lei. Non avea più dinanzi Itatago Vale, od
Anarto Viridea, od Apsoto Jutto, od Amonio Scava, o Sceunio Sitio, o
Aptoneto Macula, od Epeo, o Sticho che gli avessero detto, _gladium
gladio copulemus_. No. L’apparizione divina eragli venuta incontro nel
Foro e gli aveva parlato al cuore le dolci parole:

— Eccomi. Apparecchiati. Quello che cercavi e che ti adora, tra poco ti
abbraccerà. —

Il bisogno fatale di quell’anima assetata fu compiuto. Lo architrave
dei tempio cadde, e il suo corpo divenne osceno cadavere.

Il Vesbio continova le sue collere. E nel mezzo del fumo e nei lati
dello stelo del pino serpeggiano saette che s’incrociano e scoppiano
con orribile strepito. Quindi dallo infiammato monte sboccano fiamme
in forma di travi e di grosse onde tempestose. E poi, guizzi come di
artifiziati fuochi rapidamente scorrenti e senza scoppio. Ed altri che
si allungano e pria di dileguarsi rintronano l’aere. Ed altri ancora
che scendono al basso e radono il suolo e bruciano gli alberi e le case
ed uccidono uomini ed animali che coi loro passi ricercano la vita omai
minacciata per ogni dove.

Cotesto avvenne alla misera Eutichia presso il postico della casa di
Sallustio. Scorgendo come la infernale bufera non si arresti, per escir
di quella agonia, dice ai tre schiavi — cui il timore riflessivo aveva
impedito di seguire i compagni postisi in salvo insieme col padrone —
di aiutarla a discendere dal muro e a scampare. Aveva chiuso nella sua
_palla_, colla quale cuoprivasi il capo, e le spalle, uno _speculum_ di
argento, tre anelli, alcune paia di orecchini, una collana di catene
d’oro e cinque braccialetti dello stesso metallo. E serbava in una
borsa trentadue monete e un suggello col nome suo. Scambiati pochi
passi, mancava ai quattro infelici il respiro e cadevano morti.

Contemporaneamente nella casa di Agatocles, ricco negoziante greco,
abitante nel pago Augusto-Felice, un liberto ed una schiava erano
nell’_æcus cyzicenes_, che interrompeva l’ambulatorio sotto il
portico che circondava il grande xysto quadrato ed aveva lo sguardo
sul maraviglioso cratere partenopeo. L’uno cacciava in fretta in
una borsa di pelle ventitre monete di bronzo alla effigie di Galba.
L’altra gittava in un paniere di vimini una moneta d’oro di Nerone,
quarantatre denari di argento, quattro orecchini a spigo d’aglio ed una
cornalina incisa. Nel correre fuori si sentirono opprimere il respiro,
si appoggiarono alla parete e caddero. Nè diversa sorte aveva avuto
l’altra schiava, corsa dispesatamente in fondo del portico a diritta
ed entrata nel gabinetto di riposo che fa fronte al larario sulla
opposta parte. Aveva un braccialetto di bronzo ed al dito lo anello
d’argento del suo _contubernalis_. Misera! Non ebbe il tempo che di
baciare quel caro pegno di fede e spirare. Ulissia — la moglie del
padrone di quella casa — avea sperato salvarsi dal tremendo flagello,
ricoverandosi nel crypto-portico, ch’era la _cella vinaria_, la quale
contornava sotterraneamente lo xysto per la lunghezza dei tre portici
soprani. Fra ciascun pilastro, a fior di terra, aprivansi spiragli
dalla forma d’imbuti. Larghe provvisioni erano adunate in un canto ed
atte a sicurare la esistenza per qualche giorni. Di anfore piene di
vino ve ne aveva dovizia. Stimando il disastro passeggero come l’altro
di sedici anni innanzi, Ulissia conducea seco giù per la scala la
sua figlia Domna, gli altri bambini minori con dodici liberte. Giunte
verso la metà della crypta, un vapore ardente e soffogante entra per
gli spiragli da dentro. Un grido solo escì da quei petti affannosi.
E tutti a precipitarsi verso la porta per la quale erano entrati.
Troppo tardi. Un alito pestifero veniva pur dalla scala. Si fermano.
Si aggruppano. Si stringono convulsivamente insieme, quasi chiedendosi
l’un l’altro soccorso. E d’istinto, avendo compreso essere quello lo
istante estremo della vita, ognuno si velò il capo colla veste in atto
rassegnato e decente. Così furono rinvenuti quegli infelici diecisette
secoli più tardi, allorchè si cominciò a strappare il funebre lenzuolo
dal cadavere pompeiano. Sulle persone e per le terre erano gemme,
monete, uno stupendo candelabro, i resti di un _mundus muliebris_, un
pettine di legno, braccialetti d’oro, spilli ed anelli. La cenere fine
del Vesbio, penetrando per gli spiragli, copriva quei morti addossatisi
al muro. L’acqua impregnò di umidità e di sali quella cenere. La
quale indurì cogli anni e conservò le parti molli fino a che i secoli
queste ridussero in polvere. Lo ammasso delle ceneri, fattosi tufo
e attaccatosi al muro, era divenuto nel 1763 la forma di tutte le
cose vive che aveva racchiuso Ma i poco zelanti scavatori — uomini di
stipendio, non di scienza — accoppiarono il cataclisma della ignoranza
al cataclisma della natura. E ruppero bestialmente le ceneri indurate.
E le posero in frantumi per estrarre di quel fango le gemme e i monili
preziosi. E trasportarono nel Museo trionfalmente una collana di
filograna d’oro, avente nel mezzo una piastra d’onde pendono catenelle
terminate da foglie di vigna, un bel braccialetto formato da due corni
di abbondanza, riuniti da una testa di leone, e due orecchini. Cotesti
oggetti d’arte avevano più e più abbellito la bella persona di Domna,
di cui la cenere conservò per secoli l’ovale del viso, la forma del
seno, delle spalle e delle braccia; non che la stoffa leggera — di
_ventus textilis_ o di _nebula_, come Petronio e Tibullo chiamarono
quel tessuto dell’isola di Cos. — Collocarono infine entro una cassa di
cristallo la forma di una mammella, il cranio e qualche osso e qualche
pezzo di tessuto nella cenere tufacea.

Agatocles dovette aver l’anima vendereccia in un cuor duro ed egoista.
Non pensò alla famiglia quel mercante greco. Egli non cura che la sua
vita e le proprie ricchezze. Laonde, seguendo la schiava che andò a
morire nel gabinetto di riposo, volse a sinistra e si fermò dinanzi
all’uscio del portico occidentale che aprivasi verso i campi ed il
mare. Ma quivi lo attendeva Venere-Libitina, dalle dita affilate e
forti. Le due chiavi dell’uscio gli caddero dalla mano, dove splendeva
un anello formato da un serpe a due teste, un _amphisbene_. Provò
uno stringimento alle fauci, la vista si oscurò, le gambe vacillarono
e ruinò per le terre. Il liberto che avealo seguito, carico di vasi
d’argento e di una grande quantità di monete imperiali e consolari
chiuse in un sacco di tela, prosciolse anch’egli le membra e si distese
sul pavimento. Una bella lanterna di bronzo rischiarò la breve loro
agonia.

Nove altri scheletri furono rinvenuti fuori della casa nella direzione
del mare. Ed altri sopra un’aia non molto lungi dalla fine del
subborgo. Forse erano anche i servi della famiglia di Agatocles.

Perennio Nimpherois, il padrone del _thermopolium_ dinanzi la locanda
di Albino — al quale Augusto avea conceduto quel luogo come _mansio_,
cioè stazione di posta per aver subito le novelle di ciò che avveniva
nelle provincie ed Albino medesimo con tre soldati, coi forestieri
che aveva in casa, corsero affannosamente verso la porta vicina
ad Herculanum, malgrado la pioggia di acqua bollente. Lo astato è
nell’edicola, appoggiato al pilo e respirando a mala pena. Col gladio
ha rotto il muro nel fondo per aver aria più pura. Uno dei soldati gli
dice correndo:

— Bithinico, salvati. Il mondo finisce.

— Eh! Il mondo finisce. Ma l’Urbe rimane. —

Passa una donna che ha un bambino lattante nelle braccia ed uno per la
mano. Corre dissennata, urlando, fuori di sè. Si ferma, asciuga colle
mani convulse il volto al figliuolo e lo bacia, lo ribacia e lo bacia
ancora. Oh! le parole di conforto, dette cogli occhi, ma non espresse
dal labbro! La sua vita è concentrata, è tutta là. — Il soldato
s’impietosisce e dice:

— Donna, ripara qui dentro, al sicuro. Riposata, partirai quando
cesserà questa pioggia di Averno.

— La mia vita non curo. — I figli! I figli! Oh! non me li uccidete, o
dei spietati!... Tulliolo, non lamentare i tuoi piedini piagati. Altri
pochi passi e sarem giunti.

— _Miserere, mater._ — La gola mi si stringe. — Soccorrimi. —

La infelice donna lo imbraccia in furia e corre, cogli occhi ch’escono
dall’orbita. Corre a sbalzi. Corre. Giunta presso l’_ustrinum_, non può
più ire innanzi. La mefite invadeva la strada. Aveva ucciso i fuggenti
che la precedevano. Si assise sui lapilli. Appressò la bocca alle
bocche dei suoi bambini..... Avevano vissuto! Bithinico non tardò molto
a raggiungerli sulle rive di Lete.

Nella casa di Vibio i servi partirono a precipizio dopo la fuga dei
padroni, ognuno portando seco ciò che potette. Morirono qua e là nelle
vie suburbane. Una donna greca, che la chiamavano Milphidippa per le
sue lunghe ciglia, va presso il forziere di legno, guarnito di fasce
di rame e di maschere di bronzo, lo apre e vede dentro quarantacinque
nummi d’oro, cinque denari, un piccolo busto della Fortuna.... ma
il respiro le manca.... sente sulle tempia lo stringimento di una
tenaglia, corre nel vicino cubicolo, cade supina sul letto e muore.
Danista è già sulla soglia del _posticum_. Avara per istinto, non ha
perduto il suo tempo. Un aruspice le aveva predetto pochi dì innanzi
che una grande fortuna attendevala.

— Egli mi disse: «Escirai grave da una piccola porta ed entrerai in una
maestosa con seguito di molta gente.» Convien prepararsi. —

E girando per le stanze vuote di abitatori, cacciò in un sacco di tela
ciò che trovava, cinque anelli d’oro, cinque pietre incise, molte
monete di argento e di bronzo, la _bombilia_ di cristallo di roccia
che Melissæa avea dato allo sposo il giorno in cui egli le die’ la
sua fede, e due orecchini in forma di bilancia. Va per escire col
piede diritto, il sinistro essendo di cattivo augurio. E la Parca si
rammenta in quello istante di lei ed appressa le forbice allo stame
della sua vita. Si appoggia illanguidita alla spalletta dell’usciolo.
Le gambe flettono. Il lume degli occhi si oscura e sviene. Nel 1829
gli scavatori trovarono dispersi attorno al suo scheletro gli oggetti
della ghiotta vanità che occuparono gli ultimi istanti di quella misera
schiava.

E la pioggia continova sempre ruinosa e scottante.

Nella estremità della viuzza dei _Dii majorum gentium_ che il poeta
Ennio racchiuse, nominandoli, in due versi,

    _Iuno, Vesta, Ceres, Diana, Minerva, Venus, Mars,_
    _Mercurius, Jovi, Neptunus, Volcanus, Apollo,_

colà, dove presso la fontana del Vitello si andava allo _Ecatonstylon_
e ai teatri, odonsi gridi, singhiozzi e parole imperiose. Nella
casa è un correre, un disordine, una confusione grande. Alcune donne
coi bambini sono in fondo al vastissimo giardino e s’inginocchiano,
piangono sotto la volta del _lararium_, sostenuta da due colonne di
stucco. Un’altra donna bellissima si è riparata in una stanzuccia
presso il tablino, illuminata da una lampada posta in una nicchia di
marmo bianco. Il suolo traballa. Sembra si sollevi e ricada. — Jucunda
corre ad una larga finestra che dava nel giardino. Ma lo sportello
è chiuso e nell’orgasmo da cui è presa non le riesce di aprirla.
Allora si volge affannosa ad un occhio di marmo bianco che è a lato
sull’angolo. Con un pugno ne rompe disperatamente il vetro e grida con
quanta voce lo spavento pur le risparmia:

— Suilimea! Hilaria! Mima! Sema! E tu, Thalamo!... Qua i miei bambini!
A me! A me!... Ah! gli dei son pure spietati!

L’atrio corintio, sostenuto da pilastri adorni da elegante meandri, e
posante sur un _pluteus_ di appoggio, è crollato a metà sulle pomici
piovute. Nel pericolo della vita, essa esce coi capelli disciolti
e colla _palla_ trascinata. Muove verso il giardino. Tra la fitta
oscurità urta, cade sui lapilli, si solleva furiosa, chiama i figli
per nome, gli afferra convulsa, prende nelle braccia il piccolo Licinio
e per la mano Animula. — Iphygenia e Nymphio, coperti da Calepio e da
Euporo, la seguono. — L. Saginio Valga ha in fretta adunato nella toga
una quantità di nummi di oro, di anelli, di orecchini, di perle, di
cucchiai d’argento con altri oggetti preziosi. Vien loro incontro e
grida che è tempo di salvarsi.

Salgono nella casa addetta ai forestieri — ogni ricco pompeiano ne
aveva una attigua, comunicante, da ciò. — Saginio fa sforzi rabbiosi
per aprir l’uscio dal quale si scende nella strada che mena colla
rivolta al Foro, presso il fonte della Gorgone. Urta, spinge e l’apre.
Ma nell’atto, un pezzo di muro crolla e ruina sopra Euporo e Calepio,
i quali vengono schiacciati sul _sigma_, triclinio semicircolare di
estate, ch’era nel mezzo dell’atrio. La madre si volge, gitta un urlo
straziante, mira i nati dalle sue viscere sepolti sotto le macerie e
sviene. — Sema e Thalamo fuggono verso il Foro, spinti dal desio della
vita. — Il marito raccoglie di peso la moglie fuori dei sensi e collo
aiuto di Mima, di Hilaria e di Suilimea trae i dolci pegni dello amor
suo verso l’abitazione deserta di povera gente ch’era di contro. Sotto
la cucina aprivasi un sotterraneo con un pozzo profondo. Un largo
_clathrus_ abbarrato da steli incrociati di ferro, all’altezza del
petto dava luce all’antrone dal margine soprastante. Colà riposarono
gl’infelici. — Si abbracciavano. Si chiamavano a nome disperatamente.
E baciavano piangendo i due bambini ancor vivi, pallidi, esterrefatti.
Miseri!...... Anche pochi istanti.... e raggiunsero Nymphio ed
Iphygenia sulla via dolorosa che quelli prima avevano percorso.

Intanto da una casa presso le mura scendono correndo per la via dalla
fontana di Mercurio cinque persone. Thylliano Januario sorregge nei
passi incerti Sogellia Fausta che, dentro impietrita, non piange, non
grida, e si fa guidare come inerte cosa. Gallione e Stallio camminano
innanzi colle faci accese. Gli segue Philonio Casto, il fratello
di lei. Giunti in faccia alla _popina_, quelli che precedono sono
arrestati da due cavalli e da un mulo, esciti alla impazzata dai
_carceres_, forse poco lungi di là. Gli animali attratti dal lume
s’imbrogliano con essi. Ad evitarli, entrano in una piccola abitazione
contigua alla taverna. Si rannicchiano in una camera vuota ed attendono
che il flagello mai sospettato finisca. Ma le soffitte delle stanze,
sopracariche di basalti e di pomici, si piegano e cadono. Thylliano
si curva in arco sulla moglie diletta per salvarla dalle offese dei
sassi. Nella fuga aveva raccolto braccialetti, anelli d’oro e monete di
diversi metalli. E gl’infelici tutto perdettero insiem colla vita.

Poco discosto, nella via che in quei giorni selciavasi sotto le mura,
un uomo e un cavallo avevano trovato rifugio in un largo stanzone.
L’uomo erasi provveduto di pane. La terra si scuote. I muri si fendono.
Un pezzo perde lo equilibrio e si rovescia sopra quell’infelice.
Cavallo e cavaliere, sepolti dalle macerie.

In una casa presso il Foro — poco lungi dalla scuola ove il successore
di Verna pubblicamente istruiva i fanciulli di ambedue i sessi — si
ode un fracasso di tetti e di mura che cadono. Le macerie impediscono
la via della uscita. Il fuoco si è appigliato alle travi nella cucina
e i turbini del fumo rotondeggiano nell’aria. Le case allo intorno
ruinano del pari. — Una donna, scampata già, corre verso le Curie
disperatamente ed accenna coi passi al porto vicino. — Dentro è rimasto
un uomo più che quarantenne. I suoi pensieri erano elevati. I suoi
sentimenti generosi. Dentro il suo cranio volgevasi uno strano dramma
che lo faceva serio, grave, pensoso. Il mistero ei lo vedeva per tutto,
sugli occhi della donna, sui rami fronzuti degli alberi, sui riflessi
delle acque, sulle stelle scintillanti, sulle molecole che formano
i macigni. E giammai aveva potuto assidersi lungo la sponda del mare
senza sentir nel profondo uno incanto che lo attirava e lo riteneva
forzatamente a contemplare il succedersi dei marosi che spumavano
all’urto e si spandevano in laminette e in meandri bianchi, ricamati
sullo azzurro. Non fu mai lo sperato, nè il marito di una donna. Non
aveva parenti. Non liberti nè schiavi. Una sola donna — quella cui lo
spavento avea posto ai piedi le ali — gli forniva i sobri alimenti che
Pythagora, lo illustre filosofo di Croton, aveva prescritto coi saggi
consigli e coll’uso.

Crasso Frugi era in piedi presso un trapezoide nel _cavædium_ e con
una mano si velava la fronte. L’altra la posava sul marmo ov’erano
sparsi venzette nummi d’oro, cinquantuno denari e due maniglie d’oro
di femminile ornamento. Ai suoi piedi è una giovanetta vestita di
bianco. Era quella la sola creatura che con lui vivesse in una certa
dimestichezza e con ricambio di affetti. Avevala un dì raccattata
fanciulla e piangente sulla soglia di una stanza isolata, nella via di
Dafne — lurido albergo di prezzolati amori — entro cui era distesa sur
un letto di muro una povera donna morta.... Era la figliuola di quella
estinta? Lo aveva supposto; ma non mai domandato.

Vasto lo edificio ch’egli abitava, di fresco ricostruito e con bei
musaici signini. Solo in tanto fastigio? Gli è che sin dalla prima età
erasi palesemente ammogliato con una divina che chiede grande spazio
a chi l’ama e con lei si congiunge. I poeti la chiamano fantasia. I
filosofi, idea. Gl’imbecilli, follia. Ed io, la saviezza della mente e
del cuore. Era la scienza della giustizia, della verità, della luce.

La fanciulla raccolta erasi fatta col prendere persona l’armonia della
sua vita e irradiava sopra di lui uno splendore particolare. I di lei
occhi neri, aprendo sotto fini ed eleganti sopracigli le loro arcane
profondità, erano pieni di quello incanto che sgorga dallo sguardo
umido della donna. L’avevano chiamata Sapho nascendo.... Eh!... Pari
alla donna illustre così nomata aveva nel cuore tracce di amaritudini e
di dolori in germe che la sua mente scrutatrice non sapeva deciferare.
La sua origine scrupolosamente celata era rimasta un’enimma.

— Cosa è lo universo?... L’ordine. Cosa la morte?... La eguaglianza.
Uniti nel mondo da un sentimento purissimo, punto egoista, quello
dell’amicizia, come un solo essere ci presenteremo alla Divinità...
Sapho... creatura innocente offertami dal cuore sui miei passi vaganti,
noi dormiremo insieme in questo sepolcro che il Vesbio ricolma colle
sue pomici.

La giovanetta sollevò gli sguardi paurosi e pur soavi sull’uomo tutto
di bianco vestito, che a lei parlava come in un’estasi; gli afferrò la
mano che allor pendeva lungo la tunica e febbrilmente la baciò. E la
desolata a lui:

— Oh! Gli Dei!... Pietosi, perchè non mi lasciano morir sola!... Ma
il nostro avello non sarà guarnito di foglie di mirto, di ulivo e di
pioppo, come Pythagora, il taumaturgo, il divino, prescrive.

— Rari gli uomini! il loro numero appena eguale a quello delle porte di
Thebes, o delle bocche del fiume che feconda l’Egitto. Qui crescevano
uomini non più utili al mondo, e gli Dei affogano gli animali dai quali
ricevevano offesa. In verità, i giorni furono contati e l’ora fatale
appressa. Apparecchiamoci da forti all’ultimo istante.

— Sei tu che lo dici, o padre. Son pronta.

— Lo dico e lo sento. Rientriamo in noi stessi e rimproveriamoci i
falli di commessione e di ommessione. E cantiamo tacitamente un inno in
onor degli Dei..... Nè lacrime, nè singhiozzi nella sventura!

— Sì, nè tema, nè debolezza nel supremo pericolo. Come i discepoli
di lui perirono in Croton, noi pure saremo divorati dalle fiamme
medesime.... Ma... la mia gioventù è grande, o padre!

— Sorgi, diletta figliuola del cuore. Prendi forza a ben morire dal
calor del mio sangue.... Le leggi della vita sono violate... Il bacio
estremo.... e il segno che ci distingue e ci unisce...

E l’una nelle braccia dell’altro, tenendosi per la mano, entrarono nel
sonno eterno. Ed il Vesbio coi suoi candidi lapilli compose il sudario
sui loro cadaveri.

Pythagora avea concepito un grande disegno — quello di una vasta
congrega di uomini, esistente sempre, e sempre depositaria di scienze
e di costumi, la quale sarebbe l’organo di verità e di virtù, quando la
umanità fosse in istato di sentir l’una e di comprendere l’altra.

Gli urli disperati avvicendano il mugghio ripetuto della natura che
freme. Quelli che ripararono nei primi piani e non furono macellati
dalle pietre, dalle travi e dalle tegole cadute, nè arsi dal fuoco, nè
schiacciati dalle soffitte, nè asfissiati dalle mefite, corrono nella
oscurità per ogni verso. Una fanciulla piange, si dispera, scambia i
passi, si arresta, non sa dove dirigersi. Viene dalla via di Stabia.
Quivi perdette di vista la sua fuggente famiglia. Entra nell’atrio
di Cornelio Rufo. La casa arde. Il ferro si torceva masticato dalle
fiamme. Sprofonda il tetto. Essa si salva. La Palestra nelle Terme è
chiusa. Le botteghe più in su sono chiuse. Urta nella fontana dalla
testa di Pallade. Avanza ancora e trova un uscio aperto.

La casa era in riparazione. Mura squallide e non dipinte. In fondo
i lampi frequenti le mostrano uno xysto. A manca è un _aecus_ che i
_tignarii_ avevano poche ore fa disertato. Solida è la volta. La misera
fanciulla si asside sur un mucchio di sabbia e piange lacrime dirotte.

— I fulmini di Giove si spengono nel nostro sangue. _Heu me!_ La città
in fiamme. Il popolo che spira sotto i rottami e nel fuoco. E i miei
cari?... Morti!... Ed io sola qui! Che sarà di me! Venere aiutami. Oh!
La iddia a me soccorre.... Polla ti raggiunge, o Siliginio, se pure
anche tu sei tra gli estinti. Ah!... —

La misera era caduta distesa sulla sabbia col capo penzolone, riverso.
Aveva le mani incrociate e parea che dormisse. Forse la morte le
fu propizia. Che avrebbe fatto nel mondo, povera e sola? Nata da
gente _lare incerto_; la quale, obbligata a prendere in fitto le
camerucce che abitava, tenuta nella categoria — che, pur numerosa
era e dispregiata — degl’_inquilini_ e vivente giorno per giorno e di
pensieri vagabondi e mal fidi, unico sollievo per Polla era la vita del
cuore. Grazie alle illusioni dei primi affetti, Siliginio, fullone,
era per lei, tredicenne, quella tenerezza senza limite con cui essa
desiderava essere amata. Sotto un albero di ulivo ei le rivelò il suo
pensiero. Ed essa sentì come un filtro soave le addolcisse il sangue
e le invadesse la ragione. Uniti, popolavano una solitudine, ove i
loro occhi vedevano sorgere di terra fiori incantevoli e profumati....
Povere anime, pure, tranquille, serene, divine nelle loro speranze!
Povere anime, dove ne andaste?...

E la pioggia cadeva ruinosa e bollente.

Un uomo pareva non la curasse. Discesi dalle _hibernacula_, camere
poste al di sopra del forno, dove il misero aveva per sette mesi
lavorato _præferratus ad molas_, esciva dal _pistrinum_ della via
che menava alla porta di Nola, nudo, trascinante una catena col piede
sinistro e coi capelli rasi da un solo lato. Nè grande, nè piccolo;
quantunque la mobilità della persona impedisse di definirlo. I suoi
pensieri ondulavano. E così egli ondulava. Brandiva colla destra
un tridente insanguinato e tratto tratto lo piegava per terra e lo
pigiava, lo pigiava ancora cogli occhi stralunati e feroci. Quindi,
ridendo sgangheratamente, procedeva innanzi. Incurante le scottature
della dermide, si fermò, si drizzò sulla punta dei piedi come per
seguire il volo della sua povera mente e poi pianse a dirotto.

— Gylo! Misero. Sei vendicato! Ma Nea è morta.... Lo infame Numisio
mi schiantò il cuore dal petto rubandola ai miei amplessi. O mio
sospiro! Avevi un termopolio nel cuore.... Ma l’ho cacciato ben io nel
_pistrinum usque ad necem_ e l’ho strigliato d’importanza con questa
_scutica de pene taurino_.... La sua donna, Eitixia, voleva difenderlo.
Dovetti persuadere anche lei. E se mai li libererò dal penoso lavoro,
_ego pro eis molam_!... O Nea! Ora ch’essi girano le macine, tu sei
libera e infiorerai la mia vita di polline. Eccola...: Viene.... Ha i
capelli annodati in spessi ricci che le coronano il capo leggiadro.
Oh! i grandi occhi neri.... quasi dardi spuntati dalla mansuetudine
dell’anima sua!... La terra balla. Ballano le case. — Il Vesbio fa
boati ed illumina con faci la mia festa nuziale. Gli amici — quelli che
soffrirono finqui — verranno a posare il gomito nel mio triclinio. Ah!
Sono innanzi la mia magione. ...... Entriamo! —

Ed il misero penetrò in una bottega della via Jovia e cadde rifinito
sulle pomici che la ingombravano. Era rosso, tumefatto, scottato dal
capo ai piedi. — Nel respiro affannoso borbottava male articolate
parole e tra esse spesso mentovava Nea, il farnetico della sua mente
smarrita, l’unico lume di quel povero cuore.... Ecco, ei ride, dà in un
tremito convulso, si rotola sulla china che avevano formato i lapilli,
e le ondate di pioggia lo spingono, lo affogano, lo stracciano e lo
cuoprono. Gli uomini erano stati crudeli con Gylo. La natura pietosa
spense il tarlo della memoria che a lento morso rodeva la sua ragione
fuorviata e malsana.

La famiglia gladiatoria non fugge. Nel momento del flagello inatteso
molti erano nel vasto parallelogrammo, specie di chiostro circondato
da portici, sostenuti da ventidue colonne in un senso e da diecisette
nell’altro. Facevano gli esercizi nell’area. Il lanista nel mezzo.
Gli allievi, dirozzati dai più provetti, _doctores tyronum_, armati di
una spada di legno, si schermivano vivamente contro piuoli profondati
sul terreno. La _gladiatoria sagina_ bolliva nel vasto caldaio per
rendere con quel cibo sostanzioso più forti e più sanguigni quei poveri
giovani. Le armi sono chiuse nel piano superiore e le chiavi le tengono
i magistrati. I littori sono di guardia per tenere nell’obbedienza
quella gente degradata che spende il suo coraggio avvilito al trastullo
del popolo, e — passata la fuggevole ebbrezza — a molto mal loro grado.
Seneca narra come un condannato a quel brutto mestiere, privo ancor
d’armi e pur bramando meglio morire che discendere nell’arena, si
cacciasse un bastone nella gola sino ad esserne soffocato. Così salvava
l’onore.

Sessantatrè ripararono dalla grandine infuocata nelle camere soprane.
E quivi morirono. Quattro erano nella prigione a terreno, cui nessuno
pensò ad aiutare. I loro piedi, chiusi nei ceppi di ferro, gli
obbligava di stare assisi sulla nuda terra, o supini. Destino terribile
e ben più triste che la morte dello anfiteatro.

Nella parte commerciale della casa di Pansa — il cittadino illustre
incaricato da Vespasiano a presiedere ai pubblici ludi ed a far
rispettata la legge Petronia, impedire cioè ai cavalieri ed ai senatori
di degradarsi nell’arena, o di farvi discendere di arbitrio schiavi
non condannati da un formale giudizio — infamia posta in uso da Giulio
Cesare nel 708 di Roma, epoca del suo quadruplo trionfo e continuata
più tardi nei funerali della sua figliuola — in quella parte che
aprivasi sulla via Domizia e nel chiassuolo dinanzi la osteria di
Fortunata, era un _pistrinum_ colla bottega di spaccio e colle camere
addette all’abitazione del _siliginarius_. Quivi un liberto facea
macinare il grano del padrone, impastare la _siligo_ e cuocere il
pane. Egli, il _pistor_, ne dava conto al _dispensator_, specie di
tesoriere contabile che registrava in alcuni libri, detti _ephemerides_
le entrate e le spese, minorando la cifra delle prime ed accrescendo
quella delle seconde; rispettando però la _merces insularis_, perchè
quel prodotto degli affitti delle case potea agevolmente rivelare il
larcinio. Cuspio Tubero, liberto di Pansa, aveva sulla parete della
bottega, ove vendeva le varietà del pane e della farina, una pittura
che rappresentava il serpente simbolico — la divinità custode contro il
mal occhio — e sotto, un mattone sul quale ardeva sempre la lampada.
Di contro al serpe sporgeva dallo intonaco una croce nera, il segno
riverito dai nuovi affrancatori dello spirito umano, perchè su quella
forca dei ladri e degli schiavi era stato inchiodato il Galileo,
apostolo della redenzione, rivelatore del grande secreto, di quella
parola che è suprema e definitiva iniziazione umana e consolatrice
delle anime oppresse. Nel forno, i miseri schiavi incensavano ad altro
simbolo dei materiali godimenti. Era una immagine phallica, in rilievo,
colorata in rosso e sotto vi avevano scritto la leggenda — _Hic habitat
felicitas_ — Stranezze dei tempi!

Gl’idolatri erano fuggiti. La superstizione — cioè, il vuoto — avea
messo le ali ai piedi di tutti. Nello istante del pericolo il culto
religioso diveniva dannosa ipocrisia, di cui ognun si affrancava. Grato
Arrio, Messio Inventus, Menophilo Ancario, L. Celio Doripo, Hyalisso
Eppio Primo, Amphio Serapa, Agatho, Perennio Merulino, N. Paccio
Chilo, Quinto Pompeo, sacerdoti di Giove, di Venere, di Mercurio, di
Esculapio, di Cerere, di Quirino, di Giunone, erano fuggiti dalle
botteghe oscene dei loro mendacii profanatori. Il monte ardeva. La
terra traballava commossa. Il mare ritiravasi dalle sponde. Il sole
non luceva più. E i mercanti di una fede ipocrita e ladra, i quali
avevano la impudenza per principio, il sangue e le lacrime per mezzo,
i godimenti e l’alterigia per fine, disertarono gli altari pericolosi,
portando con sè i preziosi redditi che le coscienze sedotte avevano
cumulato nei templi. Ma, non uno potè riparare in loco sicuro. Quale
per via fu derubato ed ucciso; quale ebbe il cranio infranto; quale
fu sepolto per metà dai lapilli che lo scottavano, e nessuno volle
arrestarsi per aiutarlo ad escir dalle pomici che il propaginavano.
Quale fu garrito con disumano dileggio:

— Chiama i tuoi numi, o _scelerum artifex_, che vengano ad aiutarti. O
che? Sono muti o sordi per te? —

Ed un altro:

— Chiama la donna che tu mi hai profanata, non me. Ora soffri
la sete di Tantalo, gli sforzi rabbiosi di Sisipho, e la ruota
d’Issione. —

Ed un altro,

— Ti baciai una volta la mano sanguinosa, o impudico. Espia ora i tuoi
falli, o furfante, ministro di Giove, parricida ed infame. —

E la pioggia cadeva ruinosa e bollente.

Così morirono tutti nel penoso viaggio che lo istinto della
conservazione loro imponeva

Ma Tubero non si mosse per escire. Chiuse colle tavole sovrapposte la
bottega, accese la lampada e si prostrò dinanzi la croce. Potea farlo
senza pericolo, senza sospetto, senza taccia di ridicolo in quell’ora
estrema. Quel segno, conforto segreto del suo cuore, non diceva
alla mente misteriosi ed impossibili natali, spropositi aritmetici,
resurrezioni favolose, abbrutimento della umanità, signoria di arbitrio
sulle cose del mondo. Quel simbolo della croce parlava una grande
parola alle anime offese viventi e nasciture nei secoli.

— Bevvi il sangue rappreso di un giusto. Sentii le scosse convulse dei
suoi tendini lacerati. Udii l’ultimo grido del suo gran cuore: _Eli,
Eli, lamma sabacthani!_ Maledissi alle zolle che alimentarono le mie
radici. —

Non era adunque un pugno di cemento allineato sulla parete. Era il
ricordo delle torture patite dall’uomo che in nome del Dio unico aveva
annunciato ai popoli la Libertà, l’aveva professata colla voce e cogli
atti, e colle gocciole escite dalle sue vene avea scritto:

«Io muoio per tutti. E questo sangue sia lavacro alle umane stirpi sino
alla consumazione del tempo.»

Tubero levò il capo raumiliato e pieno di lacrime. Aveva recitato
un inno senza dir verbo. Aveva adorato Dio senza idolatria. Aveva
intraveduto lo infinito, la potenza arcana da cui dipendiamo. E quel
fiore della fede esciva odoroso dalle ruine di una città, siccome più
tardi avrebbe germogliato sulle ruine di un mondo panteista, che anche
una volta deve morire e — giovi sperarlo — per sempre.

Pochi istanti dipoi, e la mefite penetrò colà dentro. Uno sguardo
d’ineffabile melanconia. Un sorriso di trionfante fiducia... Tubero era
morto....

E al di fuori la pioggia cadeva ruinosa e bollente.

Alla fine ristette. Dopo alcune ore di tremenda agonia e d’indicibili
strazi il funesto fenomeno si tranquillò, si tacque. La terra non
oscillava. Il Vesvio più non fremeva. Calma, silenzio e tenebre. Allora
i riparati nelle parti più alte delle case escirono dalle crepacciate
mura e dai tetti infranti ed aperti. E gittatisi sullo strato dei
lapilli che alzavasi per parecchie braccia sul selciato, cominciarono
a correre a precipizio verso le porte colla speranza di salvarsi a
Nuceria od a Stabia, o verso la piaggia marina. Ma, molti infelici
rimasero per via fracassati dalle pietre fuor di equilibrio che
cadevano loro addosso, od asfissiati dalla mefite che sprigionavasi dal
suolo fumante.

Nella via di Dafne, un uomo alto della persona è già in piedi. Stende
le braccia e vi accoglie la sua figliuola undicenne. La depone sulle
pomici inzuppate e livellate dalle acque e leva di nuovo le mani per
aiutare la moglie a discendere. Si cuoprono il capo, si avvolgono il
manto attorno il braccio sinistro ed il corpo per essere più liberi
nella corsa. L’uomo raccoglie una borsa di pelle ove avea chiuso un po’
di danaro, un anello e gli orecchini d’oro, dà un bacio sulla fronte
scolorata della figliuola, chiamandola,

— _Salve, o dulce pignus._ —

e s’incammina. Era in su i cinquant’anni. Grossi baffi ombreggiavano il
suo labbro superiore. I _femoralia_ cuoprivangli le cosce e le gambe.
Aveva nel mignolo della destra lo anello di ferro delle sue nozze.
Sotto i sandali allacciati erano chiodi per fare la _solea_ più forte.
Quel suo piglio risoluto e marziale lo fa supporre uno dei veterani
coloni, venuto dal Pago Felice al mercato colla sua famigliuola. Anche
la moglie ha un anello di ferro. Scambiano pochi passi. Avanzano sulla
crocevia e cadono. L’uomo, supino. Le donne, a quattro braccia di
distanza, incrociando le gambe insieme e a traverso della strada. La
madre solleva una mano increspata dall’agonia e si sdraia sul fianco
destro. La figliuola cade a sinistra ed appoggia mollemente il capo
sulle due mani ed alza la gamba ed il piede nell’ultimo moto dei
tendini.

Più in giù, verso le Terme una matrona cammina arditamente. Anch’essa
forse si gittò da un tetto sulla via. Aveva chiuso in un manto due
vasi di argento, alcune chiavi, novantuno monete, orecchini, fibule ed
altre minute cose. La mefite a lei tolse il respiro e cadde sul gomito
sinistro col capo appoggiato a diritta e colle gambe e le braccia
contratte dall’agonia. Orribili sofferenze le sue!

Siccome un liquido che bolle entro un caldaio pel soverchio del calore
sollevasi rigoglioso verso gli orli, e gl’invade, e gl’innonda, e gli
supera; così una infuocata materia cominciò a rifluire da tutte le
parti del Vesvio e rovesciò ruinosamente sulle sue spalle, pari a larga
fiumana. Frequenti baleni con terribili detonazioni squarciavano le
fitte tenebre. Ed un nembo di cenere cominciò a cader sullo spazio. E
sopra il golfo correva verso Capreas un nuvolo denso per entro il quale
vedeasi tratto tratto una gran fiamma in tutta la sua lunghezza. La
quale, ora chiarissima, ora rossa di sangue, lanciava fuori fiammelle
in varie lingue e figure, ondeggiando, balenando, tuonando, e vibrando
fulmini al cielo. Succede una terribile scossa. La terra si fende. E da
quello squarcio escono fiamme e fumo. E l’orlo si allarga, s’innalza,
si colma e prorompe. In alcune parti putrido fango esce dal suolo
aperto.

E le ceneri piovono fitte, oscure, impalpabili e continove.

Nella notte, in due tremendi scrosci parve che il globo crollasse dalle
sue basi. Era il Vesvio che scompariva tra i fulmini e il grandinar
dei macigni; e alle falde del vecchio monte spaccato ed inghiottito
sorgeva in poco tempo una nuova fucina di sassi, di pomici e di lava
che ricostruivano il Vesuvio ardente dove ora si trova. E il gorgoglio
cupo, continovo, profondo commoveva in tempesta le acque del cratere
partenopeo.

Allorchè scoppiò la grande eruzione ed il fumo assunse la forma di un
pino colossale sull’orizzonte, Plinio, che comandava la flotta romana
in Miseno, giaceva nel letto e studiava. Avvertitone dalla sorella e
dal nipote, si levò e salì sur un terrazzo elevato per osservar meglio
il prodigio. Dotto uomo, curò esaminar da vicino la strana catastrofe.
Una nave leggera è già pronta. Esce di casa colle tavolette nelle mani,
s’imbarca, quando i _classiarii_, cioè i soldati della flotta che erano
in Retina, vengono a pregarlo gli salvi dal grande pericolo. Ciò che
prima era in lui curiosità di scienziato, divenne dovere di capitano.
Fa che le quadriremi si apprestino e parte verso tutti i borghi della
costa onde dar loro soccorso. Nello accostarsi a Pompei — ove il
pericolo gli parve maggiore — le ceneri calde erano più spesse. Il mare
rifluiva dalle sponde le quali erano inaccessibili pei pezzi interi
di montagna di cui erano coperte. Il piloto il consigliava di tornare
indietro. Cui Plinio rispose,

— _Fortes fortuna juvat. Pomponianum pete._ —

Or questo Pomponiano era il comandante delle triremi che stanziavano in
Stabia. E forte impaurito del cataclisma, avea fatto trasportare i suoi
mobili sulle navi ed attendeva un vento meno contrario per levare le
ancore. Plinio lo accosta, lo abbracciagli fa cuore. E per me’ riescire
allo scopo, ordina gli apparecchino un bagno. E presolo, cena colle
apparenze della gaiezza abituale. I fuochi del monte illuminavano il
triclinio. Gli astanti tremavano, credendo al finimondo.

— Rassicuratevi, amici. Quelle grandi fiamme vengono dalle amene ville
che disertate dagli abitatori bruciano, perchè senza soccorso. —

Quindi si sdraia sul letto e dorme un sonno profondo. Ma, finalmente
la corte che dava accesso alla sua camera si empie sì fattamente di
cenere e di pomici che gli avrebbero vietato la uscita se più avesse
tardato. Lo destano. Esce. E raggiunge Pomponiano e gli altri che
aveano vegliato. Tengono consiglio. Le frequenti scosse del suolo
scardinavano la casa dalle fondamenta. Fuori, la pioggia dei sassi,
quantunque leggeri e disseccati dal fuoco, era a temersi. Bilanciati i
due pericoli, fu deciso di rimanere nella rasa campagna.

Tutti escono dalla casa. Cuoprono il capo di guanciali, tenuti fermi
sul mento con legami. Albeggiava. Ma, nel posto ov’erano continuava
la notte profonda e la più scura di tutte le notti, schiarata solo
da un gran numero di fiaccole e da altri lumi. Si stimò prudente lo
accostarsi alla riva per esaminare da presso il mare. Le onde erano
furiose ed agitate dal vento contrario.

Plinio chiese dell’acqua e bevve due volte. Fece distendere un tappeto
per terra e vi si assise. Le fiamme si accrebbero. E l’odore di zolfo,
annunciando il loro avvicinarsi, fece che tutti se la dessero a gambe.
L’uomo dotto avrebbe voluto studiare quello sconvolgimento della
natura. Non lo potè fare. Ordinò a due servi il sollevassero; chè,
obeso era di corpo ed asmatico. Ricambia qualche passi. Ma, non può
correre. Gli esorta dunque a partire e salvarsi. Egli si curva e muore.
Una nube di zolfo circondandolo, lo avea soffocato.

E la cenere copiosa, sottile ed oscura cadeva sempre.

Molti pompeiani si erano salvati dirigendo i passi in sul primo
scoppiar del flagello verso il porto e le sue adiacenze. Quando le
acque assorbite dalla forza dell’igne che saliva dal centro della terra
prosciugarono le sponde, ed il mare rifluì impetuosamente lontano, le
triremi e le piccole barche si curvarono sui fianchi nell’arena. Ognuno
incoraggiato dall’altro corse sul canale a piede asciutto e come meglio
potè, si cacciò sulle navi. Oh! la confusione di quello istante! L’uomo
nei grandi pericoli è egoista. Vi furono padri che disputarono ai
figli la corda per salir su! Vi furono madri coi lattanti sul braccio
che niegarono aiuto ai più adulti per salvare l’ultimo nato dalle loro
viscere! E vecchi cadenti rifiutati! E amanti sbracciarsi per far salva
la idoleggiata dal loro cuore colla perdita dei propri parenti! E donne
stendere un remo e tirar su con forza non pria creduta lo eroe dei cari
entusiasmi, il sorriso delle gioie più intime! A ciascuno pareva di
avere innanzi a sè alcuni secoli a vivere e ne accaparrava le delizie
ed i redditi. Eh!... Dei secoli avevano sulla persona e sulle vesti la
polvere che in forma di sottilissima cenere pioveva, pioveva sempre!

Ecco il mare respinto che torna impetuosamente nei suoi dominii. I
marosi urtano, spingono tutto che trovano sulla loro via, uomini e
cose. La folla ancor sul canale annega e si straccia sotto le carene
irrompenti. Alcune barche si sfasciano. E le onde feroci nel loro
riflusso trascinano confusamente la facile preda. — La ferocia del mare
è una verità! È la passione alle prese colle sue vittime. Vedi montagne
mobili e colline di acqua che si urtano insieme e si spezzano con alto
fracasso. Ora i cavalloni spumosi e fosforeggianti levavano i triremi,
i rottami e i cadaveri sull’erta di un’Alpe. Ora scaraventavano tutto
per la china nella valle profonda. Ora nello ascendere accadeva uno
scontro; e tra gli spruzzi e le ondate sonore, il misero schifo
affondava nello abisso e la più grossa nave trovava la via dello
scampo. E dentro?... Oh! Dentro poi, musica e agrume di vomiti, membra
infrante ed uomini balzati nelle onde, grida di marinai e pianti
miaulati di donne, sordi urli del vento, muggiti, fischi, spettacolo di
morte!

Alcuni che si avviavano al porto, alla vista di quello esterminio
rischiarato dalle grandi fiamme del monte, se ne ritrassero impauriti e
corsero a salvarsi sulla collina ove si costruiva un tempio dedicato ad
Augusto.

Il vecchio Svedio era nel numero. I servi, i clienti, gli adulatori
nello istante del supremo pericolo lo avevano lasciato solo. Adiposo
e grave, aiutato da qualche passante superò gli ostacoli sulla larga
via delle fontane di Pallade e dell’Abbondanza. Riprese fiato sotto
la volta della porta della Marina. E poi, in su cogli altri. Pensava
fra sè che i suoi giorni erano contati e che ben presto il suo cuore
cesserebbe di tormentarlo. Si assise dietro un muro sul capitello
di una colonna ed attese i decreti del Fato. Corsi alcuni momenti,
gli accenti desolati di una fanciulla lo volsero alla parte d’onde
venivano. La chiamò e la invitò a sedergli accanto.

— O chiunque tu sia, ho paura.... Tieni, dammi la promessa di non
farmi morir sola. I miei, morti, o salvati. Era con essi.... e
disparvero. —

E piangeva e singhiozzava disperatamente.

— Infelice! Non morrai. Dove io andrò, e tu verrai, o misera.

— Ma nell’Erebo no, sai? I miei genitori dicevano che colà vi è qualche
cosa migliore della vita. Ma... in questo istante supremo in cui
lo spirito trionfa, il sangue mi dice di non andare, la gioventù mi
ritiene.... la partenza dal mondo mi sembra sinistra.... E poi colà
abitano i numi.... crudeli... spietati.

— Gli dei ti ascoltano ed avranno pietà di una innocente. Io
ebbi aspirazioni diverse da quelle che or provo. Ora io desidero
semplicemente, sinceramente di vivere per aiutarti. Cessa dal piangere
i tuoi. Tu diverrai la mia figliuola, la consolazione del vecchio
Svedio nell’Urbe, se....

Uno scroscio immenso gli troncò le affettuose parole sul labbro. La
bambina si chiuse nelle sue braccia e mormorò sull’ampio suo petto:

— Ecco, ecco la morte.... colla sua falce assetata!.... O madre mia!

— Quei che t’amano.... o che ti amarono ti raggiungeranno.... o ci
accoglieranno negli Elisi. —

Un’onda di cenere li circondò, li coprì, li tolse dallo sguardo
dei fulmini che solcavano l’aria. E il dialogo di due cuori, l’uno
sconosciuto e l’altro illustre, fu rotto per sempre.

Poco discosto dal gran giustiziero avea trovato mezz’ora innanzi
rifugio Quinto Lepta, lo antico amante di Byrrhia, la vedova consolata
del duumviro Aulo Vezio. Appoggialo al muro laterale della Basilica,
teneva stretta sul petto una donna cui baciava convulsivamente la
fronte e i capelli. Tra i dolci nomi ch’ei proferiva nel suo dolore
udivasi mormorare Amaredia.... E Byrrhia? La soave creatura aveva
vissuto la stagion delle rose, ed un giorno partì per riabbracciare
nel Tartaro l’ombra tradita del coniuge suo. — Le tristezze dell’animo
non duravano a lungo in Pompei. Lepta era in su i quarant’anni. E
contemplando con una tal quale curiosità in uno _speculum_ di argento
brunito quel personaggio misterioso ed ignoto per ciascuno di noi che
addimandasi sè stesso, vide alcune rughe ed alcuni fili d’argento che
facevano ingiuria alle nere sue chiome. Lo amore è la fede. Conveniva
legar l’uno e l’altra e non perderli. Diede ai suoi occhi quella serie
di espressioni animate, desiose, attente cui la psiche risponde. E
Amaredia, della famiglia Rufa, ignara della scienza della vita, si
avviluppò di quella passione ch’era una _stola_ per lei, e lo sposò.
Erano allora illuminati dal languido chiarore della prima luna....
Quella luce serena doveva ben presto offuscarsi! Dopo alcune ore
passate in trepidanti smanie, in imminenti pericoli, in cui i dolci
ricordi si arruffavano colle incertezze dello avvenire, Lepta potè
trarre in salvo la donna, per cui sentiva cara la vita. Ma da una
varietà di sciagura era caduto in un’altra. Ambedue coi piedi sepolti
nei lapilli e coperti a metà dalle ceneri che cadevano loro sul capo,
attendevano in un estremo bacio la morte.

— _Tecum vivere amen. Tecum obeam libens._

E la bella dai capelli non lucidi e dalle pallide gote accorse allo
invito. Ed il raggio dello amore immortale gl’irradiò coll’aureola dei
martiri.

Il ridestarsi del vulcano dal sopore dei lunghi secoli, compiendo
l’ultima rovina della mia gentile Pompei, accomunò le istesse sorti
agli oppidi, ai borghi e alla grande artistica città di Herculanum che
componevano una graziosa ghirlanda ai piedi del Vesvio. Da per tutto il
suolo traballò come baccante briaco. I sopravvissuti si salvarono per
mare verso Surrentum, Capreas, Neapolis e Misenum. Il maggior numero
che prese le vie di terra, le trovò aperte ed eruttanti putrido fango;
od interrotte in tutte le direzioni dai torrenti di acqua assorbita
e vomitata dal monte e da alti incendii e da vastissime fiamme che in
molti punti del vulcano splendevano. E tutti morirono. Herculanum restò
sepolto sino al tetto dei secondi piani dei suoi nobili edifizi da un
cumulo di acqua e di ceneri, or divenuto tufo assai duro, e poi, per
una assai maggiore altezza dalla pioggia ulteriore delle ceneri, dei
sassi e delle pomici sciolte.

Plinio il giovane, nipote dello ammiraglio, ch’era rimasto colla
madre in Misenum per ordine dello zio, descrisse a Cornelio Tacito
ciò che avveniva nel luogo ov’era, il dì poi della catastrofe. Cotesto
frammento di lettera s’innesta di per sè sulle pagine precedenti.

«.... Era la prima ora del giorno, e ancor non appariva che un debole
chiarore, pari al crepuscolo. Allora le case furono disordinate
da sì forti scosse che non fu più sicuro lo stare in un luogo per
verità scoperto, ma molto stretto. Risolvemmo di lasciar l’oppido;
il popolo spaventato ci siegue in folla, ci attornia, ci spinge. E
scambiando la paura in prudenza, ciascuno modella la propria sicurezza
su quella degli altri. Esciti dallo abitato, ci fermiamo. E là, nuovi
prodigi, nuovi sgomenti. I veicoli che avevamo con noi erano ad ogni
istante agitati, quantunque in rasa campagna; e non si poteva neppure
collo aiuto di grosse pietre fermarli nel posto. Il mare, parea, si
rovesciasse sopra sè stesso, come fosse cacciato via dalla sponda dal
moto della terra. E nel vero, la riva erasi fatta più larga, e sulle
sabbie erano diversi pesci rimasti a secco. D’altro lato, una nugola
nera ed orribile, squarciata da fuochi che si slanciavano serpeggiando,
mettea fuori lunghi razzi simili a lampi, ma di questi più grandi.
Nell’atto un amico di mio zio, venuto allora allora di Spagna, tornò
per la seconda volta ad insistere:

» — Se il fratel vostro, se il vostro zio è ancor vivo, si augura
al certo che voi vi salviate. Se gli è morto, volle che a lui
sopravviviate. Che più attendete? Perchè non scampate? —

»Noi gli rispondemmo;

» — Non possiamo pensare alla nostra salute finchè saremo mal certi
della sorte di Plinio. —

» Lo Spagnuolo senza ritardo cercò lo scampo in una fuga precipitata.
Quasi subito la nube cade a terra e cuopre il mare. Ci nasconde l’isola
di Capreas che avviluppava e ci fa perdere di vista il promontorio di
Misenum. Mia madre mi prega, mi scongiura, mi ordina di salvarmi come
che sia. Io il posso alla mia età. Non essa, carica d’anni com’è e
grave di forme. La morrebbe contenta se non mi fosse cagione di morte.
Or io le dichiaro che non v’ha salute per me senza lei. Le prendo
la mano e la forzo ad accompagnarmi. Lo fa con pena e si rimprovera
di ritardare i miei passi. La cenere ci cadeva addosso quantunque in
piccola quantità. Volgo il capo e veggo dietro di noi uno spesso fumo
che ci segue e si spande sulla terra come un torrente. Dico a mia
madre:

» — Finchè luce, lasciamo la grande strada per tema che la folla
inseguente non ci soffoghi nelle tenebre. —

»A mala pena eravamci scostati, la oscurità divenne sì fitta, come
non già in una notte fosca e senza luna, ma in una camera ove tutte
le lampade fossero spente. Non avresti udito che lamenti di donne,
gemiti di fanciulli, grida di uomini. L’uno chiamava il padre. L’altro
il figliuolo. L’altro, la donna sua. E non si riconoscevano che dalle
voci. Quale deplorava la sua disgrazia. Quale, la sorte dei suoi
parenti. Ve n’erano persino a cui il timor della morte faceva invocare
la morte. Molti imploravano il soccorso degli dei. E molti credevano
non ve ne avesse più. E quella l’ultima ed eterna notte in cui il mondo
sarebbe sepolto. Eranvene altresì di quelli che aumentavano il timore
ragionevole e giusto con paure immaginarie e chimeriche. E dicevano che
in Misenum questo è caduto e quello arde. E lo sgomento dava peso alle
loro menzogne.

» Apparve alla fine un bagliore che annunciava — non il giorno — ma lo
approssimarsi del fuoco che ci minacciava; si arrestò pertanto lungi da
noi. Reddiva la oscurità e la pioggia di cenere ricomincia più forte e
più spessa. Eravamo ridotti a levarci di tempo in tempo e scuotere le
vesti; senza ciò ci avrebbe coperti e inghiottiti. Posso menar vanto
che in mezzo a tali pericoli, non dissi verbo, non mostrai debolezza.
Era sostenuto da quella consolazione poco ragionevole — quantunque
abituale nell’uomo — il credere che tutto lo universo perisse con
me. Finalmente lo spesso e nero vapore si dissipò, e a poco a poco si
perdette come fumo o come nuvola. E poi apparve il giorno ed anche il
sole, giallognolo però come in una ecclissi.

» Tutto ci parve cangio. E nulla era se non coperto sotto monti di
cenere come di verno sotto la neve. Torniamo a Misenum. Ciascuno vi
si aggiusta come può. E noi vi passiamo una notte tra il timore e la
speranza — lo spavento però usurpando la parte maggiore. — Imperocchè
il tremuoto continovava sempre. Non si vedevano che genti impaurite
coltivare il proprio sgomento e quello degli altri, con sinistri
presagi. Non ci venne mai però il pensiero di ritirarci finchè non
avessimo avuto le novelle dello zio, malgrado che fossimo ancora in
attenzione di un pericolo così tremendo, visto sì da vicino.»

La catastrofe durò tre giorni. La cenere corse largo spazio. Si legge
fosse volata in Africa. Certo, i Romani l’ebbero sui sette colli e
temettero il disordine nei pianeti; cioè, che il sole cadesse sulla
terra per spegnersi; e la terra salisse nel vuoto per incendiarsi.
Quando la natura si acquetò, ed il mare si fece più calmo, e il
disco raggiante potè mostrare il suo eterno sorriso a queste desolate
contrade, Pomponiano tornò su quel posto ove il suo capitano era morto.
Plinio era disteso sul tappeto in attitudine d’uom che dormisse.

Gli scampati da Pompei tornarono sul suolo della terra natia. Ma, come
diversa da quella che era! Una grave mora di lapilli e di cenere!
Una collina grigiastra d’onde tratto tratto sorgeva una colonna
infranta, un capitello, un muro sporgente e senza forma.... i segni
di un cimitero immenso!... Morte! Morte parziale però, e meglio una
nascita che una morte. Il passaggio di larva a crisalide, un seguito
di metamorfosi al servizio della vita generale. Rapidità. Fissità.
Eternità. Il fil verde sotto le nevi cadute. — Oh! le lacrime! Oh! gli
omei di quei miseri! Indarno cercavano su quel piano le dimore ov’erano
nati, ove giacevano sepolti i cari congiunti, ov’erano celati gli
oggetti più preziosi e più cari. Alcuni disperati grattavano le pomici
colle unghie, sperando calmare lo schianto dell’anima nel riveder le
sembianze morte, quale dei figli, qual dell’amante. E nella impotenza
si carpivano i capelli, si dilaniavano il volto, si stracciavano le
vesti. Miseri! ahi, miseri!

I più ricchi, calmata la prima passione, vennero con schiavi compri a
praticare alcuni pozzi, sostenuti da tavole puntellate, per riavere
i loro marmi, le loro statue, le loro gemme, i loro denari. Cotesto
fatto creò una industria di disseppellitori, i quali rubarono quanto
trovarono. Ed in una casa in riparazione nell’atto del cataclisma,
piena di marmi pregevoli da collocarsi, aggiunsero persin lo epigramma,
scrivendo colla punta ΔΟΥΜΜΟC ΠΕΡΤΟΥCΑ presso l’uscio, dopo averla
forata per ogni verso. Quel mestiero da talpe fu proficuo a parecchi;
chè, ogni casa fu visitata; e particolarmente quelle delle agiate
famiglie e le botteghe, ove supponevasi fosse rimasto il peculio. E
fu ad altri letale. I ladri isolati, chiusi dalle facili frane dei
lapilli, perdettero il respiro e la vita ed il sepolcro servì loro di
carcere.

Tito Vespasiano trasse per sorte dal numero dei cittadini consolari
i procuratori per dar ordine agli inconvenienti occorsi e con molta
pecunia soccorrere le popolazioni del littorale, prive delle loro
case e dei loro campi. Nella mente di Cesare era il pensiero di
sgomberare lo abitato e di ricostruirlo come in antico; ed i beni di
quelli ch’erano stati oppressi dallo straordinario incendio e dal più
straordinario seppellimento — dei quali non si ritrovassero gli eredi
legittimi — fossero assegnati al rifacimento delle cose guaste e delle
genti afflitte. Ma, i dignitarii, esaminati i luoghi sotto il vulcano
che potea un dì o l’altro ricominciar la catastrofe, stimarono che la
ingente spesa la sarebbe perduta. Lo imperatore non vi pensò su più che
tanto. Le erbe ben presto germinarono sulla collina che copriva Pompei.
Le vigne e gli alberi ne usurparono il posto a contrasto. Sursero sopra
le case dei villici. Ai secoli successero i secoli. E le generazioni
perdettero per sino il ricordo che il suolo dal loro aratro solcato era
il coperchio di una nobile tomba.

L’uomo è fatto così. Facilmente è distratto ed oblia.

Aveva dieciotto anni quando venni la prima volta a visitare la
dissepolta città. Vi tornai più tardi per Garibaldi e con Garibaldi. Il
suo aspetto ebbe sempre per me qualche cosa di attraente, di fuggevole,
di misterioso che attizza potentemente le fiamme del cuore. A furia di
contemplare con riverente affetto le dirute cose io finii per disvelare
secreti che i molti non vedono. E qui provo rivelazioni inattese e
faccio conoscenze gradite che tanto piacciono all’anima mia.

Dopo il discoprimento di Pompei molte parole furono dette sopra il
suo funebre lenzuolo e sulle rotte e vaghe sue membra. La fredda
temperie del sepolcro le ha tutte diacciate. Le pagine che ho scritto
conserveranno forse un po’ di calore nello amato cadavere. Io raccolsi
il sangue delle ferite ond’essa morì. Feci tesoro dei suoi aneliti
estremi. Afferrai la parte taciuta della sua vita, e l’ho rivelata ai
pietosi che gitteranno lo sguardo su queste povere carte.


  FINE.




INDICE DEL VOLUME.


  DUE PAROLE SU QUESTA SECONDA EDIZIONE                        Pag. 1

     I. I TEMPLI. Scene religiose in Pompei. — (Anni di Roma
          673. — Anni avanti il Cristo 84)                          3
    II. LA CAMPAGNA. Scene della vita rustica. (Anni di Roma
          695. — Anni avanti il Cristo 59)                         25
   III. IL FORO. La elezione dei Magistrati in Pompei. — (Anni
          di Roma 705. — Anni avanti il Cristo 49)                 47
    IV. LA STRADA. Scene diurne in Pompei. — (Anni di Roma
          767. — Anni del Cristo 44)                               75
     V. LA BASILICA. Una condanna a morte. — (Anni di Roma
          770. — Anni del Cristo 17)                               99
    VI. LA NECROPOLI. Scene di funerali. — (Anni di Roma 779.
          — Anni del Cristo 26)                                   125
   VII. I TEATRI. Scene di distrazione. — (Anni di Roma 812.
          — Anni del Cristo 59)                                   147
  VIII. LA STRADA. Scene notturne in Pompei. — (Anni di Roma
          825. — Anni del Cristo 72)                              177
    IX. VENVS PHYSICA. Scene del cuore. — (Anni di Roma 826.
          — Anni del Cristo 73)                                   201
     X. IL CATACLISMA. Scene del novissimo giorno. — (Anni di
          Roma 832. — Anni del Cristo 79)                         281





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK POMPEI ***


    

Updated editions will replace the previous one—the old editions will
be renamed.

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