Venere ed Imene al tribunale della penitenza: manuale dei confessori

By Bouvier

The Project Gutenberg EBook of Venere ed Imene al tribunale della
penitenza: manuale dei confessori, by Jean Baptiste Bouvier

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Title: Venere ed Imene al tribunale della penitenza: manuale dei confessori

Author: Jean Baptiste Bouvier

Translator: Osvaldo Gnocchi Viani

Release Date: October 23, 2005 [EBook #16920]

Language: Italian


*** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK VENERE ED IMENE AL TRIBUNALE ***




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                            VENERE ED IMENE

                                  AL

                       TRIBUNALE DELLA PENITENZA


                        MANUALE DEI CONFESSORI

                                  per
                           Monsignor BOUVIER
                            vescovo di Mans.

               Traduzione dal latino di O. Gnocchi Viani



                              U. BASTOGI
                                EDITORE
                                LIVORNO




            Ristampa anastatica dell'edizione di Roma, 1885.






                                *INDICE*


AVVERTIMENTO

   PARTE PRIMA--_Dissertazione sul VI comandamento del decalogo_

CAPO  I--Della Lussuria in genere

   » II--Delle diverse specie di lussuria consumata

_Articolo_ I--Della fornicazione

   § I--Della fornicazione semplice

   § II--Del concubinato

   § III--Della prostituzione

_Articolo_ II--Dello stupro

   » III--Del ratto

   » IV--Dell'adulterio

   » V--Dell'incesto

   » VI--Del sacrilegio

_Appendice_--Dei preti provocatori di turpitudini

CAPO III--Delle diverse specie di lussuria consumata contro natura

_Articolo_ I--Della polluzione

   § I--Della polluzione volontaria considerata in se stessa

   § II--Della polluzione volontaria considerata nella sua origine

   § III--Della polluzione notturna

   § IV--Dei movimenti disordinati

   § V--Norme dei confessori verso coloro che si dànno alla polluzione

_Articolo_ II--Della sodomia

   » III--Della bestialità

CAPO IV--Dei peccati di lussuria non consumata

_Articolo_ I--Diletti voluttuosi del pensiero

   » II--

   § I--Dei baci

   § II--Dei toccamenti impudichi

   § III--Degli sguardi impudichi

   § IV--Dell'abbigliamento delle donne

_Articolo_ III--

   § I---Dei turpiloqui

   § II--Dei libri osceni

   § III--Delle danze e dei balli

   § IV--Degli spettacoli

CAPO V--

   § I--Delle cause della lussuria

   § II--Degli effetti della lussuria

   § III--Dei rimedi della lussuria

PARTE SECONDA--_Supplemento al Trattato sul Matrimonio_

QUESTIONE I--Dell'impedimento per impotenza

_Nozioni preliminari_

QUESTIONE II--Del debito coniugale

CAPO I--Del debito coniugale chiesto e reso

_Articolo_ I--Dell'atto coniugale considerato in se stesso

   § I--Dell'accoppiamento per sola voluttà

   § II--Dell'atto coniugale compiuto per evitare l'incontinenza

_Articolo_ II--Della richiesta del debito coniugale

   § I--Di coloro che peccano mortalmente esigendo il debito coniugale

   § II--Di coloro che peccano venialmente esigendo il debito coniugale

_Articolo_ III--Del ricambio del debito coniugale

   § I--Dell'obbligo di rendere il debito coniugale

   § II--Dei motivi che dispensano dal rendere il debito coniugale

   § III--Di coloro che peccano mortalmente rendendo il debito coniugale

   § IV--Di coloro che commettono il peccato di Onan

   § V--Di coloro che peccano venialmente rendendo il debito coniugale

CAPO II--Dell'uso del matrimonio

_Articolo_ I--Quando i coniugi peccano usando del matrimonio

   » II--Dei contatti fra coniugi

CAPO III--Norme dei confessori verso le persone coniugate






                              AVVERTIMENTO


In questo libro, destinato esclusivamente ai preti e ai diaconi, noi
abbiamo tentato di raccogliere ciò che sarebbe pericoloso ignorassero i
sarcerdoti, esercenti il ministero della confessione, e ciò che non può
essere spiegato negli atti pubblici dei seminarii, nè confidato
indistintamente a giovani alunni senza peccare di indecenza. Questo
trattato si svolge intorno al VI comandamento del Decalogo e ai doveri
matrimoniali, e contiene una quantità di questioni di pratica quotidiana
che non di rado lasciano indecisi e inquieti i più dotti confessori, i
quali non le han mai finora trovate esposte e discusse con ordine e
lucidità: gli autori di teologia morale che fino ad oggi essi hanno
potuto avere fra le mani, o sono troppo rigidi, o sono incompleti e
insufficienti. Perciò abbiamo stimato far cosa utile ai giovani preti e
ai diaconi il trattare dei peccati contro la castità e dei mutui doveri
degli sposi.

Dopo aver letti molti libri di teologia su queste materie, ci proponemmo
di contenerci su una via di mezzo tra la soverchia severità e la
soverchia indulgenza. Nè agimmo in ciò a capriccio, ma abbiamo
specialmente fatto fondamento sui giudizii dei migliori autori. Perciò
chiunque non volesse sottoscrivere alle nostre sentenze, potrà
consultare altre opere, bilanciare le diverse opinioni e scegliere con
cognizione di causa quanto gli sembrerà più probabile.

Ciò che è certo, è che i nostri intendimenti sono ispirati da retto
fine; e ne chiamiamo giudici i lettori. Ci affrettiamo però a pregarli
di non accusarci di mollezza nè di voler abusare delle nostre decisioni,
de' nostri principii, delle nostre eccezioni, nè di favorire una
perniciosa rilassatezza nei costumi.

Raccomandiamo ai lettori cautela e specialmente la prudenza, che è
l'occhio di tutte le altre virtù: pesino bene con maturo giudizio motivi
e circostanze. Del resto, li supplichiamo instantemente, in nome della
verità, a indicarci gli errori, nei quali possiamo essere caduti.

Molti ci hanno espresso il desiderio di vedere questo nostro libro,
annesso alle nostre opere complete che portano il titolo _Istituzioni
teologiche_. Ma la grave ragione che ce lo fece pubblicare separato fin
dal principio, sussiste sempre per indurci a mantenere questo _Manuale_
diviso da Opere destinate a correre liberamente fra le mani di tutti i
seminaristi senza distinzione alcuna.





                              PARTE PRIMA




                             DISSERTAZIONE

                   _Sul VI Comandamento del Decalogo_


Questo lubrico argomento essendo sempre, per la nostra fragilità,
pericoloso non lo si deve studiare che per necessità, con animo
vigilante, con retto fine, e invocando la suprema assistenza di Dio.
Chiunque facesse troppo a fidanza colle proprie forze, e si gettasse
perciò in questo argomento senza discrezione e senza prudenza, non ne
uscirebbe certamente illeso, poichè dice la Scrittura (_Eccl. 3, 27_):
_Chi ama il pericolo, in esso perirà_.

Conviene invocare frequentemente il patrocinio della Vergine Santissima,
specialmente al primo insorgere delle tentazioni, e usare una
giaculatoria come la seguente:

«_O Vergine purissima, monda il mio cuore e la mia carne colla tua
santissima verginità e la tua immacolata concezione. Così sia._»

Il sesto e il nono precetto del Decalogo, espressi in testa al 20.
_dell'Esodo_, v. 14 e 17, evidentemente equivalgono, e perciò giudicammo
di trattarli sotto uno stesso titolo.

Come si proibisce, sotto il titolo di _furto_, qualsiasi usurpazione
della cosa altrui, così sotto il titolo di lussuria[1], si condanna ogni
azione ogni peccato contro la castità.

[1] Il testo latino ha _moechiam_, che letteralmente vorrebbe dire
_adulterio_, vocabolo che quì, in italiano, non possiamo usare
imperocchè il nostro _adulterio_ ha un significato speciale e
determinato, mentre il _moechia_ della lingua latina ne ha uno molto
ampio e generico, corrispondente precisamente alla nostra parola
_impudicizia_, o meglio ancora a _lussuria_. Ecco perchè adoperammo
nella traduzione quest'ultimo vocabolo. (_Nota del traduttore_).

La castità detta cosi perchè proviene dal verbo _castigare_, che indica
freno alle concupiscenze (dice S. Tomaso, 22, q. 151, art. 1), è una
virtù morale che modera i diletti venerei a seconda dei dettami della
ragione.

Essa è una virtù speciale, imperocchè ha un oggetto distinto: le è
annessa la pudicizia, che deriva dal _pudore_ la quale per un verecondo
rispetto della dignità umana rifugge talora anco da cose che potrebbero
essere lecite.

Triplice è la castità, cioè: _castità coniugale_, _castità vedovile_ e
_castità verginale_.

La castità coniugale modera l'uso del matrimonio secondo i dettami della
ragione; la castità vedovile consiste nell'astinenza da ogni atto
venereo, dopo disciolto il matrimonio; la castità verginale aggiunge
alla astinenza perfetta, l'integrità della carne. La _verginità_ dunque
può essere considerata come uno stato materiale e come una virtù. Come
stato, consiste nell'integrità della carne cioè nel non aver mai
consumato atto venereo; come virtù, è la perfetta astinenza da ogni
azione volontaria e da ogni diletto opposti alla castità, col proposito
di mantenersi sempre in questa astinenza. Lo _stato verginale_ è dunque
una cosa molto distinta dalla _virtù verginale_.

Lo stato verginale può essere rotto da atti involontarii, per esempio,
da commercio carnale violento; e una volta distrutto, non lo si può più
ristabilire, imperocchè non è più possibile far ritornare la carne nella
sua primitiva integrità.

Non si possono chiamare _vergini_ nemmeno i coniugati nè coloro che si
corruppero all'infuori del matrimonio, abbenchè sieno poscia diventati
penitenti e santi.

La _virtù verginale_ invece, lesa da un peccato che a lei e contrario ma
che però non è stato consumato, nè predisposto pel matrimonio, può
essere riparata colla remissione del peccato, o colla riassunzione del
proponimento di mantenersi per sempre in castità. E siccome la virtù non
risiede in una data condizione corporale, ma in una condizione
dell'anima, così la virtù della verginità non scompare in forza di atti
involontarii, abbenchè questi ledano la carne. Per questa ragione,
l'aureola gloriosa destinata in cielo ai vergini non potrà esser mai
conseguita da coniugi o da chi, all'infuori del matrimonio, avrà
consumato un atto carnale, quantunque costoro possano essere santi; ma
otterranno questa aureola di gloria soltanto coloro che avranno sempre
conservata la virtù della verginità, ovvero l'avranno ricuperata. Non
cessano quindi d'esser virtuosamente vergini coloro, che soggiaciono
involontariamente ad una forza, a cui si mostrarono renitenti.

Contraria alla castità è la lussuria, sia essa consumata o non
consumata, naturale o contro natura. Perciò parleremo:

1. Della lussuria in genere;

2. Delle specie di lussuria naturale consumata.

3. Delle specie di lussuria consumata contro natura;

4. Dei peccati di lussuria non consumata;

5. Delle cause, degli effetti e dei rimedii della lussuria.




                                CAPO I.

                       _Della lussuria in genere_


La lussuria--che viene dal verbo _lussare_--è così chiamata perchè la
proprietà di questo vizio è quella di indebolire e rompere le energie
dell'anima e del corpo: percìò si chiama talvolta anche _dissolutezza_;
e _dissoluti_ appellansi coloro che a questo vizio si abbandonano.
Esattamente la si definisce: _Appetito disordinato dei piaceri venerei_.

Denominansi _venerei_ questi piaceri, perchè si connettono alla
generazione, a cui presiedeva, secondo i pagani, la Dea Venere.

PROPOSIZIONE.--_La lussuria è per se stessa un peccato mortale_.

Questa proposizione viene comprovata dalla Sacra Scrittura, dal consenso
dei Santi Padri e dei teologi, e dalla ragione.

1. Sacra Scrittura: _Epist. ai Gal. 5, 19 e 21_: «É evidente che coloro
i quali compiono opere carnali, come la fornicazione, l'impurità,
l'impudicizia, la lussuria, e altre cose simili, ch'io vi esposi come or
vi espongo, non entreranno nel regno de' Cieli,»

2. Santi Padri e teologi sono unanimi nell'insegnare che il peccato
della lussuria è, per natura sua, mortale.

3. La ragione dice che i piaceri venerei furono dalla ment del Creatore
unicamente destinati alla propagazione del genere umano; quindi lo
invertire la natura è un grave disordine e perciò un peccato mortale.
Per cui _si domanda_: Se la lussuria sia per sè un peccato tanto mortale
da escludere, la _leggerezza di materia_, vale a dire se egli può
essere, per pochezza di sostanza, veniale.

R. 1. Le specie di lussuria consumata, sia naturaIe, sia contro natura,
a cui accennammo, non ammettono leggerezza di materia.

Infatti, non ripugna forse manifestamente che si possa abbandonarsi a
fornicazioni o a polluzioni volontarie, le quali non abbiano in sè che
una leggiera sostanza peccaminosa?

R. 2. Il piacere puramente organico, quello cioè che nasce naturalmente
dai nostri organi, come sarebbe, per esempio, la soddisfazione di
contemplare una bellezza, d'ascoltare una melodia, di toccare un oggetto
molle e morbido, ecc., è un piacere ben distinto dal piacere venereo, e
può benissimo essere materialmente lieve, imperocchè questo diletto non
è in sè cattivo, avendolo lo stesso Iddio annesso ai sensi per un fine
legittimo; non può dunque essere un peccato mortale, se non in ragione
del pericolo che ne potrebbe risultare insistendo in esso: ma può
benissimo darsi che in certe persone cotesto pericolo non sia affatto
grave. Così è di quei baci, che non sono che un'innocente soddisfazione
organica. Di questo parere sono _Sant'Antonino_, _Sanchez_, _Henno_,
_Comitols_, _Sylvius_, _Boudart_, _Billuart_, _Collet_ contro
_Cajetano_, _Diana_, la _Scuola di Salamanca_ e _San Liguori, l. 3, n
416, ecc._

Dunque, non pecca mortalmente quegli che si diletta soltanto nel
contemplare una bella donna, nel toccarle la morbida mano, senza altro
sentire, senza esporsi al grave pericolo di andar più in là. Ma ben di
rado va immune da peccato chi s'arresta a lungo in tali compiacenze,
ordinariamente pericolose, in ispecial modo se provenienti dal tatto.
Quegli che si arresta in tali compiacenze non può andare esente da grave
peccato, se non nel caso dl inavvertenza o di mancanza di consentimento.
Ma vi sono molte persone, siffattamente costituite, che basta loro il
menomo piacere organico volontario per essere esposti ad un grave
pericolo.

R. 3. Il piacere venereo, può essere destato direttamente o
indirettamente, per sè stesso o nella sua causa, come se alcuno compisse
un'azione dalla quale scaturisse, indipendentemente dalla sua volontà,
il piacere. Generalmente i teologi ammettono che il solo piacere,
_indirettamente_ prodotto, possa essere materialmente lieve. Per
esempio: non pecca mortalmente chi fa una cosa venialmente cattiva, od
anche lecita, dalla quale prevede che gli verranno delle involontarie
emozioni carnali, che non saprà efficacemente reprimere. In questo caso,
vuolsi che ll peccato sia veniale, non per insufficienza di materia, ma
per mancanza di assenso.

R. 4. Il piacere venereo, voluto direttamente, lo si può verificare
negli sposi e negli scapoli: negli sposi, è lecito semprechè sia
coordinato all'atto coniugale. Se poi avviene all'infuori di codesto
atto, e per opera d'uno solo dei coniugi, senza che vi sia grave
pericolo d'incontinenza, è reputato comunemente peccato veniale, perchè
si mantiene sempre in un ambiente lecito. Ma su ciò ci diffonderemo
altrove.

La questione or si riduce a sapere se il piacere venereo voluto
_direttamente_, all'infuori del matrimonio, sia lieve di materia.

Generalmente gli autori sostengono, contro _Caramuel_ e pochi altri, che
un tale piacere non è mai peccato veniele per insufficienza di materia,
e si sforzano di comprovarlo:

1. Coll'autorità di Alessandro VII, il quale nell'anno 1664 condannò la
seguente proposizione: «Si opina probabilmente che un bacio, dato per
sentire un diletto carnale da esso proveniente, escluso però il pericolo
di ulteriori brame e di polluzioni, non sia che un peccato veniale.»
Cotesta proposizione fu condannata, per il motivo che per _diletto
carnale_ si suole intendere un _diletto o piacere venereo_; non è dunque
probabile che questo piacere, per quanto sia limitato, sia solamente un
peccato veniale.

2. La ragione ci dice che noi siamo così propensi per la nostra indole
corrotta al vizio della lussuria che basta spesso una menoma causa per
produrre grandi effetti perciò data l'ipotesi di un consenso diretto al
piacere venereo, si va incontro sempre all'imminente pericolo di un
ulteriore consenso o di una polluzione; cosa che non avviene con altri
vizi. Il padre _Acquaviva_ quindi, superiore generale della Compagnia di
Gesù, proibiva, sotto pena di scomunica, a tutti i religiosi da esso
dipendenti di allontanarsi, nei loro insegnamenti dalla sentenza che
ammette non esservi nel piacere venereo leggerezza di materia.

Dunque, è peccato mortale il dilettarsi deliberatamente in qualsiasi
emozione carnale, ancorchè eccitata casualmente.




                               CAPO II.

       _Delle diverse specie della lussuria naturale consumata._


La lussuria dicesi _naturale_ allorquando non è in opposizione all'umana
natura, alla propagazione del genere umano. E' dunque _carnale_
l'accoppiamento dell'uomo colla donna, se compiuto per generare,
abbenchè avvenga senza matrimonio, e si consumi, versando il seme
dell'uomo nella vagina della donna.

Sei sono le differenti specie di questa lussuria, cioè: la fornicazione,
lo stupro, il ratto, l'incesto e il sacrilegio, di cui parleremo
distesamente.

ARTICOLO I.--_Della fornicazione_.--La fornicazione è l'accoppiamento,
mutuamente acconsentito, fra un uomo libero e una donna libera che non
sia vergine.

Noi diciamo.

1. _Fra un uomo libero_, cioè, fra un uomo, al quale non viene inibito
l'atto colpevole, nè da vincolo matrimoniale, nè di parentela, nè di
affinità, nè d'ordine sacro o di voto, ma soltanto dal precetto della
castità.

2. _E una donna libera che non sia vergine_, il che sarebbe una
fornicazione semplice, molto diversa dallo stupro, di cui fra poco
tratteremo.

8. _Mutuamente acconsentito_; e perciò la fornicazione si distingue dal
ratto.

V'hanno tre specie di fornicazione, cioè fornicazione semplice,
concubinato e prostituzione, delle quali parleremo in tre distinti
paragrafi.



                  § I.--_Della fornicazione semplice_.


La fornicazione semplice è quella che si esercita transitoriamente con
una o con più donne.

_Nicolaiti_ e i _Gnostici_, eretici impuri dei primi secoli,
appoggiandosi a ragioni diverse, proclamavano lecita la fornicazione
semplice; _Durando_, invocando il diritto naturale, la reputava soltanto
peccato veniale, che non diventava mortale, se non pel solo diritto
positivo; _Caramuel_, spingendosi piú oltre asseriva non essere essa una
cosa intrinsecamente cattiva, ma soltanto proibita dalla legge positiva.

PROPOSIZIONE.--_La fornicazione semplice é intrinsecamente cattiva ed è
peccato mortale_.

PROVA. Questa proposizione, da tutti i moralisti cristiani ammessa, è
provata dalla Sacra Srittura, dalla testimonianza dei Santi Padri,
dall'autorità dei Concilii e de' Sommi Pontefici, e dalla ragione.

1. Dalla Sacra Scrittura: Fra i molti testi che si potrebbero da noi
citare, prescegliamo i seguenti: (_I. ai Corint. 6, 9 e 10_) _Non
possederanno il regno di Dio nè i fornicatori, nè gli adoratori degli
idoli, nè gli adulteri_. Ai _Gal. 5, 19 e 21_, come sopra. Agli _Ef. 55:
sappiate che nè il fornicatore nè l'impudico non ha eredità nel regno di
Cristo e di Dio_. Il beato _Giovanni_ nell'_Apocalisse. 21, 8_, dice che
la vita futura dei fornicatori è _in uno stagno di fuoco e di zolfo_.

Non v'ha dubbio che, secondo questi testi, le impurità l'adulterio, il
culto idolatra, sono intrinsecamente cattivi, e sono peccati mortali.

2. Testimonianza dei Santi Padri: (_S. Fulgenzio, Ep. I, cap. 4_) _Non
vi può essere fornicazione senza grave peccato_. S. Crisostomo, _omel.
22. ai Corint. Quante volte avrai fornicato con male donne tante volte
ti sarai da te stesso condannato_.

3. Autorità dei Concilii e de' Sommi pontefici: _Concil. vien. Clemente,
l. 5, tit. 3, cap. 3_, condanna questa proposizione del Beghini: «Quando
non è suggerito dalla natura, è peccato mortale financo il bacio della
donna; ma quando la natura comanda e soprattutto quando la tentazione
domina, non è peccato mortale nemmeno l'atto carnale.» Il _Concil. Trid.
sess. 24, cap. 8 della riform. matr._, dichiara grave peccato il
concubinato.

_Innocenzo VI_, nel 1679, condannò la seguente proposizione di
_Caramuel_: «E' chiaro che la fornicazione non ha in se malizia alcuna,
ed è cattiva solo perchè è proibita: l'opinione contraria ci sembra in
opposizione alla ragione.»

4. La ragione poi dice: L'unione carnale è lecita se coordinata alla
generazione della prole; questo è il suo scopo; ma non basta procrear
figli, bisogna nutrirli, allevarli, istruirli, da ciò, l'obbligo
naturale nei genitori di compiere tutti quei doveri che richiedono una
lunga coabitazione. Ora, la semplice fornicazione è evidentemente
contraria a questi doveri, imperciocchè, di sua natura, è un atto
passeggiero, e non obbliga i fornicatori ad alcun vincolo di
coabitazione. Dunque la fornicazione è intrinsecamente cattiva.

Inoltre, il bene della società dipende da una retta istituzione delle
famiglie; e la retta istituzione delle famiglie suppone il matrimonio;
dunque anco la semplice fornicazione, che distrugge i diritti, i doveri
e i vantaggi matrimoniali, è, di sua natura, pessima cosa.

La fornicazione poi con persona eretica o infedele, è peccato ancor più
grave, in quanto che ridonda in obbrobrio alla vera religione.

Ma tu dirai, 1.: Dio ordinò ad Osea, _c. I. v. 2._ di prendere in moglie
una donna fornicatrice; e negli _Atti Apost. 15, 19_, la fornicazione è
proibita per la stessa ragione, che è proibito il cibo della carne delle
vittime e degli animali soffocati, e del sangue; dunque la fornicazione
non è cosa cattiva se non in virtù della legge positiva.

R. Nego la conseguenza. Infatti, 1. Dio ordinò ad Osea non già di
fornicare, ma di prendere in moglie una donna che avea fornicato, il che
è ben altra cosa. 2. La fornicazione è espressamente proibita dagli
Apostoli perchè i pagani pretendevano che fosse lecita, e nei loro
_Atti_ non dicono che essa non sia proibita dal diritto divino e
naturale: l'antica legge l'aveva già condannata più volte, 1. col sesto
comandamento del Decalogo, 2. perchè la giovane che si lasciava togliere
la sua verginità veniva lapidata _come malfattrice in Israel_ (_Deut.
22, 21,_) 3. perchè Dio aveva detto a Mosè: _Tra le figlie e figli
d'Israele non vi sieno nè meretrici nè fornicatori_ (_Deut. 23, 17_).

Tu dirai, 2. Coloro che fornicano volontariamente non fanno offesa ad
alcuno; dunque non fanno cosa cattiva in sè stessa.

R. Nego la conseguenza. La fornicazione non è già cosa cattiva perchè
rechi offesa a qualcuno, ma perchè viola un ordine istituito da Dio.

Tu obbietterai che meglio è generare colla fornicazione che non generare
affatto; e che perciò generando in questo modo, non si viola l'ordine
voluto da Dio.

R. Nego la conseguenza. Noi abbiamo già visto che secondo l'intenzione
del Creatore, non basta il procrear figli. Di più, l'esposta obbiezione
tenderebbe a provare essere lecito l'adulterio, imperocchè meglio
sarebbe allora generare figli per adulterio che non generarne punto.

Si connettono alla fornicazione la prostituzione ed il concubinato, e
perciò ne parleremo ora brevemente.



                       § II.--_Del concubinato_.


Il concubinato è il commercio fra un uomo libero e una donna libera, i
quali convivono come se fossero in matrimonio, o sotto lo stesso tetto,
o in separate abitazioni.

È certo che il concubinato, inteso così, è un peccato molto più grave
della semplice fornicazione, perchè c'è l'abituale disposizione dello
spirito a peccare e perciò è questo un caso che dev'essere nettamente
svelato nella confessione.

Il _Concilio di Trento, sess. 21, c. 8, Della rifor. mat._ decretava
gravi pene contro i concubinarii, e (nella _sess. 52, c. 14 Della
rifor._)contro i preti che si danno vergognosamente a questo vizio; ma
queste pene devono essere pronunciate con sentenza, e molte fra esse non
furono mai accettate in Francia, come, per esempio, quella della
espulsione dei concubinarii dalla città o dalla diocesi, _invocando, ove
il bisogno lo richiedesse, il braccio secolare_. Cionondimeno, questo
male è presso di noi giudicato tanto grave quanto lo è presso altri
popoli.

_Si domanda_ se il concubino può essere assolto prima che lasci la
concubina.

R. 1. Se il concubinato è stato pubblico, nè il concubino, nè la
concubina possono REGOLARMENTE essere assolti, benchè appaiano contriti,
se prima non avvenga una pubblica separazione imperocchè è necessaria
una riparazione proporzionata allo scandalo, e questa riparazione non si
può regolarmente ottenere che colla separazione.

Per ciò, parecchi autori concludono che quegli il quale è reputato
concubinario, benchè tale non sia mai stato, o abbia cessato di esserlo
da molto tempo, nondimeno è obbligato, per evitare scandalo, di
allontanare o abbandonare la donna sulla quale pesa una pessima fama.
Così _Billuart, t. 13, p. 351_.

E ciò diventa tanto più vero quando si tratta di preti, ai quali deve
importare sommamente di conservare buona fama, ed una volta che questa è
lesa; non la possono ricuperare se non rompendo immediatamente ogni
relazione colla donna sospetta.

Dissi _regolarmente_ poichè se il concubinario, benchè messo alle
strette, non possa lasciare la donna, o, lasciatala, è rimasto solo, non
abbia chi lo aiuti nelle sue necessità, allora dev'essere assolto, e
munito all'occorrenza degli ultimi sacramenti della Chiesa, semprechè
sia riconosciuto contrito, e pubblicamente prometta che, appena lo
possa, allontanerà da sè quella donna, rompendo con essa qualunque
relazione; in questo caso si ripara allo scandalo come si può,
imperocchè nessuno è tenuto all'impossibile.

A più forte ragione devono amministrarsi i sacramenti della Chiesa alla
concubina pentita della sua vita passata e fermamente deliberata di non
più peccare nell'avvenire benchè non le sia ancora possibile lasciare
l'abitazione del suo concubino, o perchè inacerbirebbe maggiormente la
propria condizione, o perchè si esporrebbe a qualche imminente pericolo,
o perchè non troverebbe altrove un rifugio.

Eccettuati questi casi, si deve sempre esigere la separazione, anche _in
extremis_; e la confessione del moribondo non può essere accolta prima
che sia stata data a Dio ed agli uomini una soddisfazione col rigetto
della concubina, ovvero coll'allontanarsene spontaneamente.

R. 2. Ma se il concubinato è occulto--cessato che sia o no il
commercio--si deve innanzi tutto consigliare la separazione, imperocchè
è impossibile, perdurando la coabitazione, di non essere indotti in
qualche pericolo. Ma siamo d'avviso che non si debba esigere la
separazione minacciando il diniego d'assoluzione, specialmente se si
prevede con ciò uno scandalo, la perdita della riputazione o qualche
altro danno.

Noi supponiamo che il proponimento di non più peccare si ritenga
sincero; e che si abbia speranza ch'esso non muti. Così _Navarrus_,
_Billuart_, _S. Liguori_, e più altri

Se poi, non ostante questo proponimento, c'è ricaduta, devesi sospendere
l'assoluzione, ed ingiungersi ordinariamente la separazione, imperocchè
in questo caso non si ritiene più probabile un proponimento
perseverante.

Ma se il commercio illecito non è cessato volontariamente, che si deve
fare?

R. 1. Se il penitente è agli estremi di vita, e detesta i suoi peccati,
dev'essere assolto e munito dei Sacramenti, sotto le condizioni espresse
più sopra nella spiegazione data alla parola _regolarmente_, senza però
essere obbligato ad una promessa davanti a testimonii.

R. 2. Se poi la morte non è imminente, il penitente che vive
segretamente in concubinato, non può essere ORDINARIAMENTE assolto se
prima non compie la separazione, senza la quale egli è sempre nella
occasione prossima di peccare, occasione che un alto precetto naturale e
divino ci inculca di fuggire. Perciò _Alessandro VII_ condannò la
seguente proposizione: «Non è obbligato il concubinario ad allontanare
la sua concubina se questa gli fosse tanto utile da abbellirgli il
_banchetto_ della vita, se senza di lei trascinerebbe una miserrima
esistenza perchè i cibi apprestatigli da altra donna non gli farebbero
pro, e perchè assai difficilmente potrebbe trovare un'altra domestica»
In questa proposizione si suppone il proponimento implicito di non
peccare: ma ciò è falso, imperocchè il pericolo esiste sempre.

Dissi _ordinariamente_, per la ragione che vi hanno dei casi nei quali
si deve impartire la assoluzione sulla sola promessa di separazione ed
anche sul solo proponimento di non peccare in seguito; cioè:

1. Se, da speciali indizii, il penitente lo si ritiene contrito, e se
egli prometta alla prima o alla seconda ammonizione, di cessare d'aver
commercio colla concubina.

2. Se dal rifiuto della assoluzione ne dovesse seguire grave scandalo o
grave infamia, come avverrebbe ad una giovane, sospettata disonesta, se
non la si vedesse più ad accostarsi alla santa Comunione o come
avverrebbe ad un prete se il non vederlo più a celebrare la messa
parrocchiale producesse scandalo fra il popolo.--In questi casi, la vera
contrizione si presume.

3. Non si deve esigere la separazione se è impossibile come quando per
esempio, una figlia od un figlio di famiglia pecca con un domestico od
una domestica della casa paterna. Quelli che si trovano in tale
condizione devono dapprima essere esperimentati colla sospensione
dell'assoluzione; e quand'essi rimovessero da sè l'occasione di colpe
prossime, o mostrassero di ritrarsi sinceramente dal peccato, si dovrà
loro accordare l'assoluzione.

4. Quando due concubinarii vivono segretamente, ovvero sono solamente
sospetti di relazione impudica, non si può pronunciare la loro
separazione senza provocate nel tempo stesso uno scandalo e infamarli
bisogna allora tentare il ravvedimento, sospendendo loro l'assoluzione,
ma concedendola poscia, se perseverano in ogni modo nei loro propositi.

Dice _Billuart_ t. 13. p. 352, che in questo caso, egli non
condannerebbe nè il penitente nè il confessore.

Nè io sarei certamente più rigoroso di lui.



                     §. III. _Della prostituzione_.


La prostituzione può essere considerata come uno stato o come un atto.
Come stato è la condizione della donna pronta per tutti, e generalmente
veniale; come atto, è l'unione carnale di un uomo con una tal donna, o
di una tal donna coll'uomo che capita.

E' certo che la prostituta pecca più gravemente che la semplice
fornicatrice od anche la concubina, tanto riguardo alla disposizione
dell'animo, quanto allo scandalo e al nocumento che si reca alla
generazione. Perciò le meretrici furono sempre considerate come la
feccia e l'obbrobrio della specie umana. Non basta dunque che una
meretrice dica al confessionale quante volte abbia fornicato, ma deve
dichiarare il suo stato di prostituta.

_Silvius_, _Billuart_ e _Dens_ ed altri teologi insegnano, come
probabile, che l'uomo, il quale usi con una meretrice, non è obbligato a
dichiarare questa circostanza, perchè, tutto considerato, tale
fornicazione non ha ai loro occhi una gravità più saliente.

Non è inutile che qui riferiamo quanto il Codice penale (_Francese_)
statuisce contro i corruttori:

«Chiunque avrà attentato ai costumi, eccitando, favorendo o facilitando
abitualmente la dissolutezza o la corruzione di giovani dell'uno o
dell'altro sesso al di sotto dell'età di 21 anni sarà punito colla
prigione da 6 mesi a 2 anni e con un'ammenda da 50 lire a 500.

«Se la prostituzione o corruzione è stata eccitata, favorita o
facilitata dai loro padri, madri, tutori o alrre persone incaricate
della loro sorveglianza, la pena sarà da 2 anni a 5 anni di prigione, e
da 300 lire a 1000 d'ammenda. (art. 334).

Inoltre, a termini del'art. 335 dello stesso Codice, se è reo il tutore,
a questi sarà tolta giudicialmente, per un tempo determinato, la tutela
ed ogni partecipazione ai Consigli di famiglia; se è reo il padre o la
madre, questi saranno privati dei diritti enumerati nel Cod. Civ. l.,
tit. IX.

_Si domanda_ se è lecito tollerare le meretrici.

R. Due sono i pareri in proposito dei teologi.

Molti dicono che la cosa è permessa affine di evitare peccati maggiori,
come sarebbero, la sodomia, la bestialità la incontinenza segreta e le
seduzioni a danno di donne oneste. «Togliete dalla società umana le
meretrici, e la libidine vi conturberà tutte le cose» dice _S. Agostino
Dell'Ord. l. 2, cap. 4, n. 12_ (t. I, p. 335) Egualmente opina _S.
Tomaso, Opusc. 20, l. 4, c. 24_, ed altri autori non pochi.

Molti altri invece sostengono opinione opposta, asseverando che per
esperienza si verifica che la tolleranza delle meretrici è occasione di
rovina a molti giovani, eccitando in essi gli ardori della libidine; e
così i peccati di lussuria, piuttosto che diradarsi, si moltiplicano.
Vedi su ciò _Concina. t. 15, p. 238, e S. Liguori, l. 3, n. 434_.

Benchè quest'ultima opinione non sembri la più probabile, noi siamo
pertanto di parere che devono essere assolti i pubblici amministratori
che in buona fede si domandano se è veramente possibile il non tollerare
questo male. Nel dubbio, non spetta ai confessori il decidere su ciò che
devono fare coloro a cui è commessa la trattazione di pubblici e
difficili affari come sarebbero i giudici, i magistrati, i comandanti
d'escrcito, re, ministri, ecc.

Nel Trattato dei Contratti, _t. 6, p. 316, IV ediz._ alla parola
_Locazione_, si discute se sia permesso appigionare locale alle
meretrici.

ARTICOLO II.--_Dello stupro_.--Generalmente si chiama stupro ogni
commercio carnale illecito. Perciò nel _lib. Levit, 21, 9_ e nel _n. 5,
13_ si qualificano con tal nome tanto l'unione carnale illecita d'una
figlia d'un sacerdote[2] quanto l'adulterio. Se poi l'unione avviene per
violenza, allora è per noi, un caso riservato, come riferisce _Euchir.
p. 7_, e nel foro civile va soggetto alla pena della reclusione.

[2] Come ognun sa, ai tempi ai quali si riferiscono i Libri citati, i
sacerdoti si ammogliavano, e potevano quindi aver leggittimamente dei
figli.

Art. 332 Cod. pen. (_Francese_). «Chiunque avrà commesso il crimine di
stupro o sarà colpevole di qualsiasi altro attentato al pudore,
consumato o tentato con violenza, contro individui dell'uno o
dell'altro sesso sarà punito colla reclusione.

«Se il crimine è stato commesso sulla persona d'un fanciullo al disotto
dell'età di 15 anni compiti, il colpevole subirà la pena dei lavori
forzati a tempo.»

Art. 353. «La pena sarà quella dei lavori forzati a vita, se i colpevoli
appartengono alla categoria di coloro che hanno autorità sulla persona
contro la quale hanno commesso l'attentato; se sono i suoi istitutori o
i suoi servitori salariati; o se essi sono funzionari pubblici, o
ministri d'un culto; o se il colpevole, chiunque sia, è stato aiutato
nel suo crimine da una o più persone.»

Lo stupro--considerato come una colpa particolare--è da molti definito
come una _violenza_; e, meglio, da altri come _illecita deflorazione
d'una vergine_.

Per _vergine_ qui non s'intende già una persona che non peccò mai contro
la castità, ma bensì una persona che conservò l'interezza della carne,
cioè, conservò intatto il segno materiale della verginità. Tutti sanno
quanta sia l'importanza che universalmente si dà alla integrità della
carne.

Egli è certo che la _violenta deflorazione d'una vergine_, sia per
l'oltraggio che si fa alla castità, sia per la grave malizia e
ingiustizia ch'essa implica, deve necessariamente essere precisata nella
confessione. Qual è infatti la giovane onesta che non preferirebbe
perdere una grossa somma di danaro, piuttosto che essere stuprata?

Se mai accadesse che un uomo fosse a forza sverginato da femmine
perdute, ciò pure sarebbe uno stupro o qualche cosa simile, e dovrebbe
essere con precisione dichiarato al confessionale. Ma siccome questo
caso è appena appena possibile, così parleremo del solo stupro d'una
fanciulla.

Col vocabolo _violenza_ non si allude soltanto alla forza fisica, ma
benanco alla forza morale, come il timore, la frode, le preghiere
importune, le grandi promesse, le blandizie, i contatti voluttuosi, e
tutto quanto secondo il giudizio d'un uomo astuto, può far cadere una
giovane inesperta in peccato.

I teologi hanno disparate opinioni sul quesito «se lo stupro d'una
vergine, liberamente consenziente a lasciarsi deflorare, sia uno
speciale peccato di lussuria, distinto dalla semplice fornicazione.»
_Soto_, _Sanchez_, _Lessius_, _S. Liquori_ e parecchi altri dicono di
no: essi asseriscono che è un peccato di fornicazione, specificato in
causa del disonore che ne deriva, e delle angoscie dei parenti, delle
risse, dell'odio, dello scandalo ch'esso può partorire.

I più però fra i teologi, e tra questi _S. Tommaso_, _S. Bonaventura_,
_Sylvius_, _Collet_, _Billuart_ e _Dens_, dicono che questa
fornicazione, a parer loro, contiene una malizia che si oppone alla
castità in un modo tutto distinto e speciale; e comprovano il loro
giudizio così:

1. Essa reca ingiuria ai parenti della fanciulla, l'incolumità della
quale era affidata alla loro custodia;

2. La giovane evidentemente si espone al pericolo di non far più un
conveniente matrimonio, e pecca perciò contro la prudenza;

3. «Ella si mette sulla strada della prostituzione, dalla quale potevala
tener lontana il timore di perdere il distintivo materiale della
verginità;» sono parole di _San Tommaso, l. 2, q. 154, art. 6_;

4. I peccati si specificano contrapponendoli alle virtù contrarie; ora,
la verginità è una virtù tutta speciale, ed è un bene annesso
specialmente a codesta virtù la incolumità della carne: dunque, ecc.,
ecc.

Queste ultime ragioni non possono essere distrutte nè dal consenso della
giovane, nè dal consenso dei di lei parenti; il che demolisce ogni
ragione di fondamento nei sostenitori dell'altra opinione, che è basata
sopra questo assioma: _Non s'ingiuria chi sa e vuole_. Ma è però allora
necessario che ci sia in chi _sa e vuole_ la facoltà di rinunciare a un
qualche cosa: ora, una zitella non ha menomamente la facoltà di fare una
rinuncia contraria alla propria verginità. D'altra parte, il peccato del
quale si tratta non si specifica già per l'ingiuria o l'ingiustizia che
ne risulta, ma bensì per un disordine tutto particolare, cioè, che si
oppone alla virtù in un modo tutto proprio.

Dunque lo stupro, ancorchè volontario, è uno speciale peccato di
lussuria che sta da sè. Ed avendo il _Conc. Trid. sess. 14, can. 7_
definito essere necessario, per diritto divino, dichiarare al
confessionale _le circostanze che mutano specie al peccato_, sorge qui
quest'altra questione di pratica giornaliera, cioè, se coloro i quali
sono colpevoli di stupro volontario, sia di fatto, sia col desiderio, o
pel piacere, sieno tenuti di manifestare la circostanza della verginità.
Generalmente i teologi affermano essere ciò necessario come conseguenza
del principio ammesso.

«Nonpertanto--dice _Sylvius, t. 13, p. 835_--l'opinione contraria non
manca di probabilità, e perciò non reputiamo da condannarsi coloro che
non chiedono, ad una giovane penitente, se essa sia vergine o
deflorata.»

_Billuart_, e con esso, _t. 13, p. 357_, _Wiggers_, _Boudart_ e
_Daelman_, sostengono che la circostanza della verginità nello stupro
volontario non aggiunge una speciale malizia alla fornicazione, ma è
solamente una malizia veniale, che non è quindi necessario di svelare
nella confessione. Infatti se questa malizia fosse, di sua natura,
mortale, a più forte ragione sarebbe tale in questo caso in cui--come
dice _S. Tommaso_--la perdita dell'imene della verginità mette la
giovane sulla via della prostituzione, e reca grave offesa ai suoi
parenti. Ma la fanciulla non sembra, per questo solo fatto, messa in
prossimo pericolo di prostituirsi; e se, ignari e consapevoli i parenti,
essa acconsente liberamente al suo sverginamento, nessuna ingiuria vi ha
in ciò per essi.

Inoltre se la malizia dello stupro volontario fosse semipre mortale la
ragazza, accusando se stessa di godimenti venerei, sarebbe tenuta di
dichiarare se fosse o no vergine, in guisa che, nel caso di un peccato
puramente intimo e forse dubbio, ella dovesse in qualche modo fare una
confessione generale. Similmente, l'uomo che desidera il godimento di
una donna, è obbligato di dichiarare s'egli la giudicava vergine o
deflorata. Se poi il penitente o la penitente non si spiegassero
spontaneamente su di ciò, allora dovrebbe incombere l'obbligo al
confessore di interrogarneli; ma siccome ciò è molto increscioso, così i
più fra i confessori respingono questa pratica.

Di più, gli autori generalmente insegnano che la circostanza della
verginità in un uomo che volontariamente si fa stuprare, non aggiunge
malizia mortale alla semplice fornicazione. Nè la differenza fra la
perdita volontaria della verginità nella donna o nell'uomo sembra tanto
rilevante da essere peccato mortale lo sverginamento in un caso, e
nell'altro no.

_Billuart, t. 13, p. 360_, assevera che prima di abbracciare questa
opinione, si trovò in serii imbrogli e diede ad altri non poche molestie
interrogando i penitenti su questi casi, e raramente ne riuscì
soddisfatto.

Io stesso confesso che nei primi anni del mio sacerdozio mi avvenne la
stessa cosa e non una volta sola. Perciò prudentemente ora mi astengo
dal movere codeste invereconde domande, quante volte mi sembrano
importune, e ciò per le seguenti ragioni:

1. Per la probabilità della opinione or ora esposta;

2. Per la difficoltà di uniformarsi ad altra opinione;

3. Pel timore di scandolezzare i penitenti e di ispirare loro avversione
contro il tribunale della penitenza;

4. Per la buona fede nella quale sono i fedeli circa l'obbligo di
dichiarare la circostanza di cui si tratta. D'altronde, per volere la
pienezza della confessione non si è obbligati ad esporsi a tali
inconvenienti.

ARTICOLO III.--_Del ratto_.--Il ratto, in generale, è il forzare una
persona qualunque, ovvero i suoi parenti, allo scopo di saziare su di
essa una libidine. Questa definizione si adatta egualmente al ratto per
violenza e al ratto per seduzione, ed è in conformità alle nozioni che
dell'uno e dell'altro abbiam dato nel nostro _Trattato sul
matrimonio_[3]

[3] La seconda parte di questo volume è precisamente il supplemento del
Trattato, al quale qui allude l'Autore. (_Nota del traduttore_)

Noi diciamo: 1. Non tenendo qui conto della circostanza del
trasferimento da un luogo ad un altro (che generalmente i teologi
richiedono) imperocchè una donna può essere forzata nel luogo stesso ove
si trova, diciamo che la _forza_, che si può anche dir _violenza_, può
essere _fisica_ (e questa ognuno la capisce) e può essere _morale_, cioè
se fatta ad una minorenne incutendo un timore assolutamente o
relativamente grave, o con importune preghiere o con blandizie o
incitamenti alla sensualità.

La fornicazione con una minorenne consenziente all'insaputa de' suoi
genitori, e senza che vi sia trasferimento da un luogo ad un altro, non
è propriamente un ratto, perchè qui non esiste violenza: ma è un
oltraggio ai parenti, a cui era affidata la custodia della castità della
loro figlia.

Noi abbiam detto: 2.° _una persona qualunque_, imperocchè ogni essere
umano sia vergine o no, sia libero o coniugato, sia laico o consacrato a
Dio, sia maschio o femmina, può essere oggetto di ratto.

Similmente, quegli che usasse violenza alla sua fidanzata, o, essendo
minorenne, la sottrasse, senza il volere de' suoi parenti, sarebbe un
vero ratto, perocchè l'essere fidanzati non conferisce nessun diritto a
far ciò.

Abbiam detto: 3.° _o i suoi parenti_; e con queste parole si allude al
ratto per seduzione, come esponemmo nel _Trattato sul matrimonio_.

Abbiam detto: 4.° _allo scopo di saziare una libidine_, e non allo scopo
di arrivare al matrimonio. Del ratto, considerato sotto quest'ultimo
aspetto, abbiamo parlato altrove.

Il ratto, così definito, è una specie distinta di lussuria, e deve
essere spiegato al confessore, imperocchè questo peccato, oltre che
essere un male contrario alla castità, è anche una grave ingiuria verso
la persona a cui si fa violenza.

Esso differisce dall'adulterio, perchè viola la giustizia in un modo ben
diverso da quello con cui la viola l'adulterio. E' egualmente un grave
peccato contro la giustizia il deflorare una giovane dormiente o
ubbriaca; non è questo un ratto, ma è una frode: dicasi pure così, anche
della violazione carnale, non violenta, d'una persona non avente l'uso
della ragione, oppure che non sa che ciò sia peccato. Dunque, il ratto
ha in sè una malignità speciale, e per questo è un peccato speciale
contro la castità.

Secondo il _Conc. Trid. sess. 24, cap. 6, Della rif. mat._, i rapitori e
chi li aiuta, incorrono istantaneamente nella scomunica se il ratto è
_violento_; ma no, se il ratto e per seduzione. Questa scomunica vige in
Francia.

Il rapitore d'altronde è obbligato per diritto naturale di condurre la
giovane in luogo sicuro, se essa lo vuole; o di dotarla decentemente, e
di dare inoltre una conveniente soddisfazione ai di lei parenti.

In mancanza del rapitore, coloro che cooperarono efficacemente al ratto
sono obbligati, per quanto è possibile, a riparare interamente alla
ingiustizia, sia verso la giovane, sia verso i di lei parenti.

_Si domanda_ ciò che far deve una donna, oppressa dalla forza, affine di
non peccare innanzi a Dio.

R. 1. Deve, _internamente_, non acconsentire al piacere venereo,
qualunque sia la violenza _esterna_ che su lei si compie: se no,
peccherebbe mortalmente.

2. Ella deve difendersi con tutte le sue forze, colle mani, coi piedi,
colle unghie, coi denti, o con qualunque altro strumento, in guisa però
di non uccidere nè di mutilare gravemente l'aggressore, perchè la vita e
i principali membri del corpo valgono in questo caso più dell'onore, che
nella donna qui non è infine che soltanto materialmente offeso. Molti
altri però affermano il contrario, appoggiati a ragioni esposte nelle
_Instituzioni_ della nostra teologia, _t. 5, p. 392, quarta ediz._

3. Se ella spera di poter essere soccorsa, deve gridare e invocare
l'opera altrui, imperocchè se ella non resiste esteriormente il più che
può, parrebbe ch'essa acconsentisse. E meglio sarebbe mille volte
morire, piuttosto che piegare di fronte a questo pericolo.

Una giovane, ridotta a queste strette, temendo di poter acconsentire al
piacere delle sensazioni veneree, deve gridare, anche con evidente
pericolo della propria vita, ed in allora ella sarà una martire della
castità. Così pensano generalmente gli autori, contro il parere di pochi
_probabilisti_.

Ma, escluso il pericolo prossimo dell'assentimento, generalmente si
ritiene che la giovane non deve gridare, se gridando mette in evidente
pericolo la vita e la fama, perchè la vita e la fama sono in questo caso
beni d'un ordine più elevato. Ma che cotesto pericolo non esista è quasi
impossibile, come disse _Billuart, t. 13, pag. 368_.

ARTICOLO IV.--_Dell'adulterio_.--«_Adulterio, come indica lo stesso
nome, è l'uso del talamo altrui_» dice _San Tommaso, 22, q. 154, art.
8_. L'adulterio può essere compiuto in tre modi, cioè:

1. Fra un marito ed una donna libera;

2. Fra uno scapolo e una moglie;

3. Fra un marito e una moglie altrui.

L'adulterio, in tutti tre i casi, è un peccato speciale di lussuria, e
gravissimo, come insegnano la Sacra Scrittura, i Santi Padri, la pratica
della Chiesa, il consenso dei popoli e la ragione.

1. La Sacra Scrittura: _Deut. 22, 23_. «Se un uomo avrà giaciuto colla
moglie d'altri, entrambi, cioè l'adultero e l'adultera, sieno messi a
morte, e si tolga in Israel questo scandalo.» Nei precedenti versetti
biblici, nei quali si tratta della semplice fornicazione, che è pure
dichiarata una cosa cattiva, non si minaccia una sì grave pena. In molti
altri luoghi della Scrittura mostransi i fornicatori e gli adulteri come
peccatori speciali e degni di gravissime pene; _v. 9, I. ai Cor. 6, 9_:
«Sappiatelo bene; nè i fornicatori......... nè gli adulteri.........
possederanno il regno di Dio.»

2. I Santi Padri sono unanimi nell'insegnare, essere l'adulterio un
grave peccato, ben distinto dagli altri peccati di lussuria.

3. Pratica ecclesiastica: La Chiesa decretando le pene canoniche,
statuiva doversi esse imporre assai più gravi agli adulteri, che ai
semplici fornicatori.

4. Consenso dei popoli: la storia d'ogni nazione attesta che l'adulterio
fu sempre e dovunque ritenuto un grande peccato, differente dalla
semplice fornicazione.

Così giudicarono i più celebri legislatori, come Solone presso i Greci,
Romolo presso i Romani, e gli autori del nostro Codice penale
(_Francese_), i quali all'art. 337 decretarono:

«La donna convinta d'adulterio subirà la pena della prigione per tre
mesi, al meno, e due anni al più.» Il complice della donna subirà la
stessa pena con la multa inoltre da 100 lire a 200.

Art. 324 Cod. Pen. «L'omicidio commesso dallo sposo sulla sposa, o da
questa su quello, non è scusabile, se la vita dello sposo o della sposa
che perpetrò l'omicidio non è stata messa in pericolo nel momento stesso
in cui avvenne l'omicidio.

«Nondimeno, nel caso d'adulterio, l'omicidio commesso dallo sposo sulla
sposa, come anche sul complice, nel momento in cui egli li sorprende in
flagrante delitto nella abitazione coniugale, è scusabile.»

Peraltro, l'art. 326 condanna l'uccisore alla pena del carcere da uno a
cinque anni.

5. Finalmente, secondo i dettami della ragione, l'adulterio, oltre la
malizia annessa alla fornicazione, ne implica un'altra e ben grave,
cioè, l'infrazione della fede coniugale, il turbamento portato nella
famiglie, e pérciò un,enorme ingiustizia.

Ne consegue che, se un marito si accoppia con una donna libera, compiesi
uno speciale e grave peccato di lussuria, ma è ben più grave se si
compie da uno scapolo con una donna maritata, imperocchè qui vi ha il
pericolo di introdurre dei falsi eredi nella famiglia altrui; ma è ancor
molto più grave, se compiesi fra un marito e una moglie d' altri, per la
ragione che questo è un doppio adulterio. Tutte queste circostanze
devono dunque essere disvelate in confessione.

_Si domanda_ se una moglie la quale, consenziente il marito, si dà ad un
altro, sia rea d'adulterio.

R. Alcuni _probabilisti_ dissero di no, o almeno sostennero non essere
necessario di dichiarare al confessore la circostanza dell'adulterio. Ma
si noti che _Innocenzo XI_ condannò la seguente proposizione: «Il
commercio carnale con una donna maritata, consenziente il marito, non è
adulterio, perciò basta dire al confessore che si è fornicato.»

Questa decisione pontificia è basata su una ragione evidente, imperocchè
il marito, per la forza stessa del contratto e per la ragione del
matrimonio, ha il diritto di usare della moglie in relazione alla
procreazione della prole, e non può quindi cederla, nè prestarla, nè
noleggiarla ad altri senza peccare contro la natura stessa del
matrimonio; il suo consenso dunque nulla toglie alla malizia
dell'adulterio: precisamente come il prete, che non può validamente
rinunciare al privilegio canonico che pronuncia la scomunica contro gli
ingiusti percuotitori dei sacerdoti, appunto perchè tale privilegio è
insito al carattere sacerdotale.

In questo caso però si ritiene che il marito abbia rinunciato alla
reintegrazione a lui dovuta e alla riparazione dell'offesa. Il commercio
carnale con una persona fidanzata ad un'altra, o d'una persona fidanzata
con una persona libera; non è propriamente un adulterio, perchè qui non
esiste violazione di talamo altrui; è però uno speciale peccato
d'ingiustizia da doversi determinare in confessione, in riguardo al
vincolo iniziato dalla promessa di nozze.

ARTICOLO V.--_Dell'incesto_.--L'incesto è il commercio carnale,
nonmatrimoniale, fra consanguinei ed affini, in gradi proibiti.

Non v'ha dubbio che ai genitori è dovuto un naturale rispetto come pure
alle persone che con essi hanno vincoli di consanguineità o di affinità.
Per ciò l'accoppiamento illecito fra essi è doppiamente cattivo,
primieramente perchè è contrario alla castità, e in secondo luogo perchè
viola il rispetto dovuto a consanguinei o ad affini. Questo peccato fu
sempre ritenuto come un genere speciale di lussuria, e gravissimo. Nel
_Levit, 20_, è punito colla pena di morte. _San Paolo, I, ai Corint, 5,
1_, dice: «Vociferasi fra di voi fornicazione, e di tale fornicazione
quale si rinviene presso i Pagani, come è quella di giacere colla moglie
del proprio padre.» Ecco la ragione per cui questo genere di unioni
carnali sono aborrite assai più che la semplice fornicazione.

Disputano i teologi se gli incesti sieno tutti d'una specie o no; molti
opinano essere essi di specie diverse imperciocchè nell'unione carnale
fra consanguinei v'ha una malizia speciale che non si rinviene nel
commercio venereo fra affini. L'accoppiamento, per esempio, colla
propria madre o colla propria figlia è ben diverso da l'incesto fra
parenti consanguinei o affini d'altri gradi più remoti. Così _Concina,
t. 15, p. 282_, il quale dice che questa opinione è la più comune e la
più probabile.

Cionondimeno a noi sembra più probabile e più comune l'altra opinione,
imperocchè ogni incesto è contrario alla virtù, cioè, al rispetto dovuto
ai parenti: possono quindi diversificare per maggiore o minore gravezza,
ma non per speciale malizia: tutti gli incesti quindi sono della
medesima specie.

Checchè si pensi teoricamente di codesta controversia, è certo che corre
l'obbligo di dichiarare in confessione, se l'incesto avvenne fra affini
o consanguinei, in linea retta o collaterale, ed in quale grado; senza
di che la peccaminosità di questo atto non sarebbe sufficientemente
chiarita. Infatti, chi può credere che il commercio venereo colla madre,
colla sorella, ecc., sia abbastanza qualificato colla generale
denominazione di _incesto_? Devono essere ben determinati i gradi di
parentela, nei quali non è permesso il matrimonio.

Nonpertanto, parecchi teologi pensano con ragione, non doversi
sollecitare il penitente a svelare i gradi più remoti delle linee
collaterali, come per esempio, il terzo e quarto grado di consanguineità
o affinità, imperocchè questa circostanza non si ritiene mortalmente
aggravata.

Vi sono poi gli incesti fra gradi proibiti di parentela spirituale o
legale; e non solo differiscono specialmente fra loro, ma diversificano
eziandio dall'incesto fra consanguinei e affini; la loro difformità e
evidente. L'incesto nella cognizione spirituale è un oltraggio al
sacramento del battesimo o a quello della cresima, mentre l'incesto
nella parentela legale non ha che una mera somiglianza con
quell'oltraggio ai genitori che si rinviene nell'incesto fra gradi
proibiti di consanguineità o affinità. Si equipara all'incesto
l'accoppiamento carnale fra persone che per impedimento di onestà
pubblica non possono congiungersi in matrimonio.

Alcuni vogliono che il peccato carnale d'un confessore colla sua
penitente si identifichi all'incesto, altri ciò negano. Ma qualunque sia
in proposito il giudizio, è certo che questa circostanza è molto
aggravante e che è necessario perciò dichiararla in confessione,
sopratutto se il confessore abbia sedotto una giovane (od anche un
giovane) amministrando il Sacramento: è questo un orrendo delitto contro
il proprio sacro ufficio. Ma un peccato ancor più grave e più
oltraggioso alla giustizia egli commetterebbe, se traesse in peccato una
sua parrocchiana, della quale gli fosse affidata la cura e la salute
dell'anima. Una tale azione è così mostruosa nell'ordine morale delle
cose, che, non solo è paragonabile al parricidio, ma lo supera.

Un tutore che corrompesse la sua pupilla, commetterebbe una specie
d'incesto, e avrebbe l'obbligo di specificare il caso in confessione.

Finaimente partecipano all'incesto tutti gli atti venerei fra persone
dello stesso sesso, collegate da consanguineità, affinità o in altro
modo; e le circostanze d'un tale commercio carnale devono essere
dichiarate.

Qui giova notare che l'incesto consumato, sia in primo, sia in secondo
grado di consanguineità e affinità, è un caso, per la nostra diocesi,
_riservato_, come consta dall'_Enckirid p. 7_. Di più egli produce
affinità.

ARTICOLO VI.--_Del sacrilegio_.--Il sacrilegio, in quanto si riferisce a
lussuria, è la violazione d'una cosa sacra con atto carnale. Non c'è
dubbio: esso è una specie distinta di lussuria, perocchè oltre un
peccato contro la castità, ne contiene evidentemente un altro contro il
rispetto dovuto a Dio.

Per _cosa sacra_ s'intende una persona a Dio consacrata, un luogo
destinato al culto divino, ed altri oggetti specialmente santificati.

1. _Una persona a Dio consacrata_: si consacra una persona a Dio con un
voto solenne emesso in una professione religiosa, col ricevimento
dell'ordine sacro, o col semplice voto di castità. Quegli dunque che si
è così consacrato a Dio, si fa reo di sacrilegio ogniqualvolta,
esternamente o internamente, commette un peccato contro la castità:
dicasi lo stesso di chi pecca con una persona sacra, ovvero desidera di
possederla. Se poi entrambl sono persone sacre, il sacrilegio è doppio,
perchè si viola doppiamente il dovece religioso.

I teologi non sono punto unanimi sulla questione, se ci sacerdote che ha
fatto anche _solenne_ professione religiosa, commetta doppio peccato di
sacrilegio, delinquendo lontro la castità. Molti negano, e dicono che
questo religioso viola bensì due voti, ma aventi ciascuno uno stesso
scopo, e perciò egli non verrebbe a peccare che contro una sola virtù.
Altri non pochi invece affermano che, a seconda appunto di quei voti,
egli è obbligato a conservare la castità tanto pel voto solenne quanto
per le prescrizioni della Chiesa: Per ciò, se lede con qualche peccato
questa virtù, viola contemporaneamente la duplice sua obbigazione e per
conseguenza commette doppio peccato. Ciascuna di queste opinioni è
probabile: dunque si adotti in pratica quella che sembra meno incerta.

Quegli che ha riconfermato più volte il suo voto di castità, o che ha
aggiunto un voto semplice a un voto solenne, non commette, violando, un
peccato multiplo, imperocchè l'obbligazione è una sola. Nonpertanto,
quegli che emise voto solenne, non si accusa sufficientemente, dicendo
di aver fatto voto di castità; per la ragione che la circostanza della
_solennità_ del voto, se non muta specie al peccato, l'aggrava però
notevolmente. Tale è l'opinione probabile di molti teologi.

Quegli che, direttamente o indirettamente, per esempio, col consiglio,
colla persuasione, coi discorsi lascivi o coi perversi esempî induce una
persona consacrata a Dio a peccare contro la castità, si fa reo di
sacrilegio, benchè con questa persona egli non compia atto di libidine.
La commessa violazione del voto viene imputata ad esso, che
scandalosamente la provocò: così _Dens, t. 4, p. 418_.

Se poi una persona sacra fosse la causa per cui una persona libera si è
macchiata con peccato di lussuria, essa sarebbe rea di scandalo, ma non
di sacrilegio, imperocchè fece voto della propria e non dell'altrui
castità. Così _Billuart_, _Dens_, _ecc._

2. _Luogo destinato al culto divino_, che dicesi _luogo sacro_. Per
_luogo sacro_ s'intende quel luogo che per autorità pubblica è destinato
ai divini uffici o alla sepoltura dei fedeli, come sono le chiese e i
cimiteri benedetti.

In questa designazione si comprendono, tutto l'interno delle chiese,
come cappelle, confessionali, tribune, ecc., ma non le parti esterne,
come le mura, il tetto, le gradinate d'ingresso, i campanili se sono
separati dalle chiese o dai cimiteri, e il coro dei frati se è pure
separato dalla chiesa: ordinariamente si fa una eccezione per le
sagrestie, benchè qualcuno sia di diversa opinione.

Disputano i teologi se gli oratorii debbansi o no annoverare fra i
luoghi sacri. Se essi sono pubblicamente destinati alla celebrazione dei
divini uffici, se i fedeli al suono delle campane o in altro modo
chiamati vi convengono indistintamente, o se non appartengono a privati
cittadini, il caso non sembra presentare difficoltà alcuna: devono
essere reputati sacri. Così pensano generalmente gli Autori da noi
consultati. Altri ancora professano che gli oratorii privati non devono
essere annoverati fra i luoghi sacri, perchè:

1. Non sono compresi nella denominazione di _chiese_;

2. Non godono dei privilegi ecclesiastici;

3. La sola volontà dei loro proprietarî può convertirli ad usi profani.

Cionondimeno, non è facile certamente il concepire come un atto venereo
compiuto in uno di questi luoghi non implichi una maliziosità speciale;
e noi siamo del parere di _Concina, l. 15, p. 287_, che una tale
circostanza debba essere confessata.

Non devono ritenersi luoghi sacri, relativamente al sacrilegio, di cui
or parliamo, altri luoghi benedetti, ma non destinati alla celebrazione
degli uffici o alla sepoltura dei fedeli, come abitazioni, monasteri,
certi oratorii, ecc.

Ogni atto venereo compiuto volontariamente in luogo sacro, anche in modo
occulto, implica la malizia del sacrilegio, perchè, giusta il comune
parere degli uomini, è un atto irreverente verso il luogo e quindi verso
Dio.

Sarebbe egualmente profanato il luogo da un atto di libidine noto al
pubblico, e consumato emettendo l'umore seminale, ancorchè lo sperma non
sia caduto sul pavimento del luogo sacro: _Decret. tit. 68, c. 3, e
della Consacr. tit. I, c. 20_. Ciò che in questo caso dà luogo alla
profanazione non è la pubblicità del sito, ma la notorietà che da essa
pubblicità deriva e che obbliga a tenersi lontani da quel luogo fino a
che non sia purificato. _Billuart, t. 13, p. 404_.

Molti dicono che gli sguardi, i baci, le parole oscene, i contatti
impudichi in un luogo sacro, ancorchè non v'abbia pericolo di
polluzione, implicano la malizia del sacrilegio[4], tanto pel rispetto
dovuto a Dio, quanto pel pericolo di polluzione, che può sempre sorgere.
Altri però negano ciò, appoggiati a questo assioma: _Le cose odiose
devono interpretarsi in senso restrittivo_; del resto, giustamente
parlando, è la sola effusione dello sperma che profana un luogo sacro

[4] Ciò ammesso, non si dovrebbero veder più chiese aperte, se si
volessero davvero impedire in esse le quotidiane _profanazioni_ e i
continui _sacrilegii d'amore_. Non c'è chiesa che non sia profanata;
bisognerebbe chiuderle tutte per purificarle: ma appena aperte, si
sarebbe da capo. «Gli itaiiani s'innamorano in chiesa» diceva Guerrazzi.
(_Nota del traduttore_).

Questa stessa controversia, che s'agita fra dottori, persuade che la
circostanza del luogo sacro deve essere rivelata in confessione,
specialmente se gli atti venerei fossero enormemente turpi, come
sarebbero quelli di mostrare in luogo sacro o di toccare le parti
sessuali del corpo.

Quasi tutti i teologi affermano che questi atti contengono la malizia
del sacrilegio se sono tali da esporre a prossimo pericolo di
polluzione, imperocchè la legge ecclesiastica, proibendo la polluzione
in luogo sacro, proibisce eziandio di esporsi al pericolo prossimo di
tale ignominia: ora è certo che atti tanto turpi, e volontarii,
espongono evidentemente a tale pericolo: dunque, ecc.

Tutti gli Autori però sono d'accordo in ciò, che i peccati meramente
interni contro la castità non portano con se una speciale peccaminosità
per la circostanza del luogo sacro, a meno che la persona non abbia la
volontà di consumarli nel luogo stesso: esclusa questa volontà, non si
reca più grave oltraggio al luogo sacro. Così _Dins, t. 4 p. 261_.

L'accoppiamento carnale, ancorchè leggittimo, fra sposi, in luogo sacro,
e senza che vi fosse necessità alcuna, implica la malizia del
sacrilegio; così i Dottori, giusta _tit. 68, c. 3_. Se poi questo
accoppiamento avviene in luogo sacro per sola necessità, per esempio, se
marito e moglie fossero rinchiusi dentro un luogo sacro come prigionieri
in caso di guerra, e se, non accoppiandosi, fossero minacciati dal
pericolo della incontinenza, molti negano che il luogo resti profanato
e che i coniugi pecchino, imperocchè la Chiesa non può in tali
circostanze proibire un atto che in fine per sè stesso è lecito.

Ma i più--e noi con essi--affermano che l'accoppiamento matrimoniale è,
in questo caso, illecito e sacrilego, perchè è impossibile che vi sia
tale una necessità che possa indurre la Chiesa a trasgredire alla
severità della sua legge, legge istituita per onorare Dio. Del resto
ognuno, colla preghiera, col digiuno e con altri espedienti, può sedare
gli stimoli della carne, come sarebbe obbligato a sedarli se, per
esempio, il suo coniuge fosse assente, o infermo, o morto. Non si deve
accettare in pratica che questa sola opinione. Vedi _Billuart, t. 13, p.
406_ e _S. Lig. t. 3, n. 458_.

3. Per _cose sacre_ intendonsi quegli oggetti, che non sono nè persone
nè luoghi sacri, ma che sono consacrati al culto divino, come gli
ornamenti e i vasi sacri. E' certo che è un orribile sacrilegio abusare
di queste cose per compiere atti turpi, per esempio, servirsi falsamente
e con intendimenti lascivi dell'acqua benedetta, dell'olio santo o della
sacra Eucaristia.

Alcuni teologi asseriscono che un sacerdote che porta con sè la divina
Eucaristia non commette sacrilegio, se internamente o esternamente pecca
contro la castità, semprechè non ci sia disprezzo al Sacramento stesso.
Ma molti alrri dicono essere esso reo di sacrilegio, perchè colle cose
sante bisogna comportarsi santamente; e in questo caso il sacerdote si
comporta verso il Santo dei Santi non santamente ma orribilmente.

Egualmente, il prete che amministra i Sacramenti, che celebra la messa,
o coperto dei sacri indumenti sta per celebrarla, ovvero sta scendendo
dall'altare, e si abbandona volontariamente aila polluzione o si diletta
con altri piaceri venerei, è colpevole di doppio sacrilegio. _San
Liquori, l. 3, n. 463_.

_P. Concina_ va più in là e sostiene, contro molti teologi, che quegli
il quale porta con sè reliquie di Santi si fa reo di sacrilegio se
esternamente o internamente pecca contro la castità, imperocchè--egli
prosegue--si tratti di reliquie o di sacra Eucaristia, la ragione è
sempre la stessa, colla sola differenza che un sacrilegio sarà più
grave dell'altro.

Parecchi opinano altresì che il peccato della carne contenga la
peccaminosità del sacrilegio se vi ha la circostanza del giorno
domenicale o feriale. Ma molti altri negano questa specie di sacrilegio
oppure dicono ch'essa non è mortale, e che perciò non è necessario di
determinarla in confessione, pel motivo che il precetto della
santificazione del giorno domenicale non è veramente violato da atti di
quella natura.





                              APPENDICE

                 DEI PRETI PROVOCATORI DI TURPITUDINI.


Tutti coloro che amano la gloria del Signore e che hanno a cuore l'onore
della Chiesa devono essere compresi d'angoscia udendo che v'hanno preti,
e, quel che è più, sacerdoti vincolati al servizio dell'altare, che si
avvoltolano indegnamente nel fango;--che celebrano altissimi misteri,
che tengono nelle loro mani l'Agnello immacolato, mentro sono ebbri
d'ardori lascivi e si insozzano di turpissime macchie; che, preposti
alla salvezza delle anime, le uccidono invece, convertendo il divino
ministero ad essi affidato in istromento di perdizione. Chi è quegli
che, vedendo tanto abbominio nei luoghi sacri, non inorridirà, e non
tenterà con tutte le sue forze di estirparlo?

Molti Sommi Pontefici ordinarono che i penitenti denunciassero agli
Inquisitori o ai Vescovi locali quei confessori che avessero tentato di
sedurli a cose disoneste: così Paolo IV, 16 aprile 1561 Pio IV, 6 aprile
1564; Clemente VIII, 3 dicembre 1592; e Paolo V, 1608, pei regni di
Spagna, Portogallo, ecc., ecc.

Gregorio XV, colla sua _Costituzione_ del giorno 30 agosto 1622, ampiò
queste disposizioni e le estese a tutti quanti i fedeli in Cristo; egli
ordinò doversi denunciare quei sacerdoti che, sia al confessionale, sia
in altro luogo destinato per ascoltare i penitenti, attendendo alla
confessione, o fingendo di attendere ad essa, eccitassero a cose turpi,
tenessero discorsi lascivi; ecc., ecc. Ed ordinò eziandio che i
confessori avvertissero i penitenti di questo loro obbligo di denuncia.

Alessandro VII decretò, nel giorno 8 luglio 1630, che il penitente è
obbligato a denunciare, anche senza avere premesso un fraterno
rimprovero o altra ammonizione, e nel giorno 24 settembre 1655 condannò
due proposizioni che contenevano insegnamenti a ciò opposti.

La sacra Congregazione del santo Ufficio rispose nello stesso senso,
negli anni 1707 e 1727.

Infine Benedetto XIV nella Costituzione _Il Sacramento della penitenza_,
1 giugno 1741, statuì;

1. Doversi denunciare, e punire secondo le circostanze, tutti coloro
che, nella confessione, o col pretesto della confessione, tenessero
discorsi lascivi, o eccitassero a turpitudini con parole, con segni, con
movimenti; con contatti, con scritti o con letture.

Doversi avvertire i sacerdoti incaricati di ascoltare le confessioni,
ch'essi sono obbligati ad esigere dai loro penitenti la denuncia di
coloro che in qualsiasi modo li avessero eccitati a cose turpi.

3. Egli vieta di denunciare, o di procurare di far denunciare da altri,
come colpevoli, dei confessori innocenti; e se questa esecranda
malvagità avvenisse, decretò che fesse un caso riservato a sè e ai suoi
successori, a meno che non vi fosse pericolo imminente di morte.

4. Dichiara che i sacerdoti che si fossero macchiati di cotesto nefando
delitto non potrebbero assolvere, nemmeno in tempo di giubileo, i loro
complici, eccettuato il caso di morte imminente e di mancanza d'altro
sacerdote; e se osassero di farlo, incorrerebbero nella scomunica
maggiore, riservata alla Sede Apostolica.

Queste varie _Costituzioni pontificie_ non furono mai pubblicate in
Francia; perciò esse strettamente non obbligano, a meno che non ci
fossero in contrario speciali statuti diocesani.

Nella nostra diocesi, un sacerdote complice di un peccato contro la
castità commesso pubblicamente o di un'unione carnale, o di contatti
impudichi, o di baci libidinosi non può mai assolvere da cotesti peccati
il suo complice, eccettuato il caso di pericolo di morte imminente, o di
non poter moralmente chiamare un altro prete approvato. Quegli che
assolvesse contro questo divieto, rimarrebbe immediatamente sospeso e
l'assoluzione data sarebbe nulla.

S'egli avesse soltanto internamente peccato, o se il penitente non
pvesse acconsentito alle sue libidini, non perderrebbe per ciò il
ministero della giurisdizione, ma sarebbe però conveniente ch'egli più
non ascoltasse quel penitente, affine di evitare il pericolo. Egli poi
non potrebbe assolvere un peccato di lussuria a cui avesse preso parte,
prima d'essere sacerdote.

Questo enorme peccato però non è riservato ed è di competenza degli
altri confessori approvati ad ascoltare indistintamente le confessioni;
per ciò possono essi assolvere tanto il prete complice, quanto il
sacrilego, che sieno bene disposti.

_Si domanda_ se sia dovere naturale denunciare il sacerdote corrotto o
il corruttore.

R. Bisogna intanto andar molto cauti a prestar fede a quelle donne che
inconsideratamente accusano sacerdoti al tribunale della penitenza,
imperocchè più volte se ne son viste calunniare atrocemente dei preti
innocenti per invidia, per odio, per gelosia, o per altro perverso
motivo. Si deve dunque pesare prima con maturo esame le circostanze
riguardanti la persona, l'accusa, e il preteso delitto ed occorre
vietare che il complice si abbocchi con questo confessore.

Ma se, tutto pesato sulla bilancia del santuario, risulta che il
sacerdote è reo, si deve esaminare se si tratta di colpe di antica data,
una o più volte commesse e già espiate, ovvero se si tratta d'un
abitudine a commettere questo genere di peccato o ad eccitarlo in altri
o d'una qualsiasi altra colpa che mostri un uomo di perduti costumi. Nel
primo caso, non è obbligatoria la denuncia perchè si suppone, e
ragionevolmente si presume, che più non esista il male, nè sia per
rinnovarsi; nè v'ha d'altronde ragione sufficiente per ledere la
riputazione di un sacerdote.

La difficoltà sta nel sapere se nel secondo caso, esista l'obbligo
naturale di fare la denuncia.

PROPOSIZIONE.--_Quegli il quale sa che un sacerdote, un prete qualunque,
vive in modo vergognoso, o eccita altri a cose turpi è obbligato dalla
legge naturale a denunziarlo al vescovo o al vicario generale_.

PROVA--Tutti i teologi insegnano trattando della corruzione che un
delitto segreto deve essere denunciati al superiore, sia per correggere
il colpevole, sia per stornare un male che minaccia il pubblico e i
privati: così devono denunciarsi, anche senza previa ammonizione, gli
eretici che spargono l'errore, i ladri, i masnadieri, i traditori della
patria, gli avvelenatori, i farmacisti che vendono a chiunque sostanze
velenose, i falsificatori di monete, i corruttori di giovani e di
ragazze, i congiurati a dar morte a qualcuno, ecc., ecc. Ora non c'è
dubbio che un prete il quale commette queste enormi ignominie cagiona a
sè stesso rovina, alle anime perdizione, e alla religione discredito.

Per queste ragioni, la Chiesa, prima dell'ordinazione, annuncia ai
fedeli astanti, a nome del Pontefice, che «se alcuno ha qualche cosa
contro gli _ordinandi_ si mostri e--con Dio e per Dio parli con tutta
fiducia.» (_Pont. Rom._)

E' per ciò che in molte diocesi, il nome dei giovani che devono avere
l'ordine sacro si pronuncia pubblicamente durante la solennità della
messa, come si fa coi bandi matrimoniali, e ciascuno che conoscesse
qualche impedimento all'ordinazione è obbligato a rivelarlo; dunque a
più forte ragione, coloro i quali sanno che un sacerdote o un prete
qualunque vive in modo vergognoso, o si fa eccitatore di cose turpi,
devono parlare. Questa dottrina è espressamente insegnata da _S.
Tommaso, nella 4 sent. tit. 19, q. 2, art. 3_, ove dice: «Se poi questo
peccato tocca altri, deve essere denunziato al prelato, affinchè esso
metta in guardia il suo gregge.»

_Pontas_, al vocabolo _denunciare, caso 5_, insegna la stessa cosa,
benchè al vocabolo _confessore caso 7_, non risolva con eguale
precisione un caso simile.

Si può obbiettare: 1. Che i superiori ecclesiastici, ordinariamente, non
possono togliere il sacro ministero a un sacerdote così denunciato; 2.
Che una tale denuncia rende odiosa la confessione; 3. Ch'essa espone i
complici al pericolo dell'infamia e del vituperio; 4. Che tanto ripugna
questa rivelazione ai complici, ch'essi spesso preferiscono di non
accostarsi ai sacramenti della Chiesa. Perciò, tale denuncia non può
essere prescritta che con molta prudenza.

R. alla 1. obbiezione. Nego la conseguenza Benchè un sacerdote così
denunciato non posssa essere subitamente rimosso dal ministero sacro,
per le mormorazioni, gli scandali ed altri mali che ne verrebbero, non
è, per questo, inutile una tale denuncia. Avvertiti i superiori, lo
sorvegliano, o lo fanno sorvegliare; lo interpellano, lo ammoniscono, lo
esortano e gli ingiungono di fuggire ogni occasione di peccato e di
allontanare l'oggetto dello scandalo: lo traslocano, e non gli
conferiscono l'avanzamento che potrebbegli essere destinato. Se poi egli
perdura nella sua depravazione, raccolgono nuove informazioni, e
finalmente lo cacciano ignominiosamente dal santuario come se fosse una
peste.

Alla 2. obbiezione. Nego la premessa: infatti, chiunque attentamente
riflette a ciò che si deve pensare, davanti a Dio, d'un sacerdote
corrotto e corruttore, tosto giudicherà essere egli un demone piuttosto
che un ministro di Cristo e ch'egli vive più per perdere che per salvare
le anime; e facilmente comprenderà che è obbligo naturale il
denunciarlo, come si denuncerebbero i ladri e i masnadieri, a benefizio
del prossimo. L'obbligo di denunciare i ladri e i masnadieri non rende
certamente odiosa la confessione; egualmente non può essere resa odiosa
dalla denuncia contro pravi sacerdoti.

Alla 3. obbiezione. Nego la premessa. La confessione può esser fatta
tanto cautamente da non mettere in pubblico il complice. Ordinariamente
si fa così:--Se il penitente può scrivere deve mettere il puro nome del
denunziato su una scheda; indi consegni la scheda ben chiusa al
confessore, il confessore la trasmette al vescovo o al vicario generale
con una lettera nella quale espone il fatto, dichiara quale sia il suo
parere circa la sincerità del denunciatore, badando però di non
manifestare il nome del denunciatore al superiore. Egli stesso poi non
deve preoccuparsi di sapere il nome del sacerdote corrotto

Se la persona non sa scrivere, la si deve esortare affinchè,--munita
d'una lettera del confessore, attestante la di lui sincerità,--si rechi
presso il superiore e ad esso sveli la verità, senza farsi conoscere, se
così desidera.

Se questa persona stima molto imbarazzante questo modo di denunciare,
può allora designare al confessore il sacerdote impudico, dandogli
licenza di denunciarlo.

Vi ha un altro modo di denunciare il reo al superiore; il complice che
non sa scrivere, può, con un pretesto qualunque, rivolgersi a persona
che sa scrivere, affinchè, gli metta in iscritto il nome del tale
sacerdote, dicendo per esempio, che qualcuno glielo richiese. Chiuso e
sigillato lo scritto lo rimetterà al confessore.

Il colpevole, redarguito dal superiore, rimprovererà fortemente al
complice o alla complice di averlo denunciato!. ma ciò non e un gran
male. Non è forse male peggiore il tollerare un prete corrotto?

Alla 4. obbiezione. Nego la premessa, imperocchè molti colle ragioni,
colle preghiere, colle esortazioni, col mostrar loro l'interesse e la
salvezza della religione delle anime, si lasciano indurre a rivelare le
turpitudini dei sacerdoti. D'altronde, se l'obbiezione reggesse,
bisognerebbe dire che erano ben sciocchi i Pontefici che ordinavano tali
denuncie.

Il confessore, che adempie rettamente il suo incarico deve in questi
casi deplorabili, procurare con prudente modo che la denuncia avvenga, o
sospendendo o negando l'assoluzione. Se poi accade che un penitente non
si possa persuadere con ragione alcuna ch'eglì è obbligato a rivelare,
noi pensiamo doversi esso finalmente assolvere, quando però giudichiamo
prudentemente ch'egli è in buona fede: non assolvendo in questo caso il
penitente si priverebbe esso dei sacramenti, e non si otterrebbe la
denuncia del perverso corruttore. Meglio è dunque che il confessore, pur
sollecitando il penitente a far la denuncia non gli dica però, ch'esso
vi è obbligato sotto pena di peccato mortale.

Lo stesso obbligo di far conoscere un sacerdote corrotto l'hanno le
mogli e le ragazze ch'egli eccitò a cose vergognose, e tutti coloro che
ebbero notizia di coteste infamie per altro mezzo che non sia stato
quello della confessione.

Similmente, per le stesse ragioni, devesi denunciare quel sacerdote, o
quel prete qualunque, il quale, per delitti ignoti ai superiori, abbia
recato o fosse per recare grave nocumento alla religione o alla salute
delle anime.




                               CAPO III.

      _Delle diverse specie di lussuria consumata contro natura._


La lussuria consumata, contro natura, è l'emissione del l'umore
seminale, in modo non consentaneo alla generazione, avvenga poi esso
all'infuori dell'accoppiamento carnale, ovvero nell'accoppiamento
stesso. Tre sono le specie di codesta lussuria, cioè: la polluzione, la
sodomia e la bestialità.

ARTICOLO I.--_Della polluzione_.--La polluzione che chiamasi anche
incontinenza secreta, o mollezza[5], è l'emissione del seme umano,
all'infuori d'ogni accoppiamento carnale.

[5] Il testo latino ha _mollities_ vocabolo che, in italiano, sarebbe
forse meglio tradurre colle parole _sensualità semi-libidine_, ma che od
ogni modo non renderebbero mai esattamente il significato della
_polluzione_ come non lo rendono affatto nè _mollezza_ nè _incontinenza
secreta_.

Il seme umano è un umore vischioso, destinato dal Creatore alle
generazioni e alla conservazione della specie: differisce essenzialmente
dall'orina' la quale è una secrezione degli alimenti, che si emette, a
sollievo della natura, come gli escrementi.

La polluzione si divide in:

1. Semplice e qualificata;

2. Volontaria e involontaria;

3. Volontaria in sè stessa, e volontaria nella sua origine.

La polluzione _semplice_ è quella a cui non si aggiunge una estranea
malizia: vale a dire, è quella di chi, obbligato a nessun vincolo
personale con altri, si abbandona al piacere venereo unicamente con sè
stesso.

La polluzione dicesi _qualificata_ quando, oltre la sua propria
malizia, un'altra ve se ne aggiunge, o da parte d'un oggetto a cui si
pensa, o da parte di chi è passivo nella polluzione, o da parte di chi è
agente.

1. La polluzione acquista la peccaminosità dell'adulterio, dello
incesto, dello stupro, del sacrilegio, della bestialità o della sodomia
sè, nel compierla si pensa ad una donna maritata, ad una parente ecc.,
ecc. Così quegli che desiderando la Beata Vergine, si abbandonasse alla
polluzione davanti alla sua statua od immagine, commetterebbe un
orribile sacrilegio.

2. La stessa peccaminosità acquista se chi è l'oggetto passivo della
polluzione è una persona coniugata, ovvero consacrata a Dio col voto o
coll'Ordine sacro.

3. Egualmente, se chi opera la polluzione, è per esempio, un religioso o
altro sacerdote.

Tutte queste circostanze è necessario rivelare in confessione, perchè
fanno cambiare la specie del peccato.

La polluzione _volontaria_ è quella che si compie in modo diretto o di
cui si cerca volontariamente la causa. È _involontaria_, se avvenga
senza la cooperazione della volontà, sia vegliando, sia dormendo.

Siccome la polluzione affatto involontaria non può essere un peccato noi
qui non ne parleremo se non in quanto può aver relazione a un peccato.

Perciò noi tratteremo:

1. Della polluzione volontaria, in sè stessa;

2. Della polluzione volontaria, nella sua origine;

3. Della polluzione notturna;

4. Dei movimenti sregolati;

5. Norme del confessore verso coloro che hanno l'abitudine di darsi alla
polluzione.



           §. 1. _Della polluzione volontaria in sè stessa_.


Molti _probabilisti_ negarono seguendo _Caramuel_, che la polluzione
fosse per diritto naturale proibita, imperocchè la emissione del seme
umano puossi paragonare ad una emissione di sangue, di latte, di orina e
di sudore, e per conseguenza, se non la proibisce la legge positiva
divina, lecito sarebbe e necessario il compierla ogni qualvolta la
natura lo richiedesse. Nessun teologo però è di questo parere.

PROPOSIZIONE.--_La polluzione, considerata in sè stessa è un peccato
contro natura_.

Questa proposizione è provata dalla Sacra Scrittura, dalla autorità di
Innocenzo XI, dal consenso dei teologi e dalla ragione.

1. Sacra Scrittura: _I. ai Corint. 6. 9_. «Sappiate che nè i
fornicatori, nè gli adoratori d'idoli, nè gli adulteri, nè _i
segretamente incontinenti_, nè i sodomisti possederanno il regno di
Dio.» _Ai Gal, 6. 19_; «È certo che coloro i quali, come dissi e ripeto,
si abbandonano a cose carnali, cioè alla fornicazione, all'impurità,
alla impudicizia, alla lussuria e cose simili, non entreranno nel regno
di Dio.

Colle parole _segretamente incontinenti_ intendesi alludere a coloro che
volontariamente si fanno, o si fanno fare da altri delle polluzioni
manuali: questa vergogna va certamente collocata a livello delle
impurità e delle impudicizie, l'Apostolo dichiarando, che questi peccati
escludono dal regno dei Cieli, non li presenta solo come trasgressioni
al diritto positivo, ma evidentemente come cose che deturpano la natura.

2. Innocenzo XI condannava, il 2 marzo 1679, la seguente proposizione di
_Caramuel_: «La polluzione manuale non è vietata dal diritto naturale, e
se Dio non la proibisse, spesso essa sarebbe conveniente e qualche volta
obbligatoria.»

3. La ragione: E' certo che fu nella mente del Creatore che la
destinazione dell'umore spermatico e d'ognì atto venereo fosse quella di
provocare e perpetuare la specie umana. Se si permettesse la polluzione
per una volta, non si saprebbe capire la ragione, per cui non si potesse
permettere ulteriormente: è appunto per questo che non si può
permetterla mai. Di più il piacere annesso alla polluzione volontaria
espone al pericolo di contrarne l'abitudine; e noi dimostreremo che è
un'abitudine questa gravemente colpevole imperocchè conduce a mali
enormi: la polluzione dunque, che avviene all'infuori del naturale
accoppiamento, è manifestamente contro natura; lo riconobbero gli
stessi Pagani, come appare dalle seguenti parole di Marziale, _Epig.
42_: «_Credimi, la stessa natura t'insegna il vero, o Ponticio; ciò che
tu perdi colla polluzione manuale, è un uomo_.»

Devesi quindi concludere, non essere mai lecito eccitare direttamente la
polluzione, nemmeno collo scopo di conservare la salute e la vita;
imperocchè non è egualmente lecito il fornicare, collo stesso scopo. Il
paragone col sangue, col latte, coll'orina e col sudore, addotto da
_Caramuel_ non regge, imperocchè la destinazione di questi umori è ben
diversa da quella dell'umore spermatico. Nè giova dire che è talora
permesso cavar sangue dalle vene, o tagliar un membro del corpo ed anche
i vasi dello sperma, imperciocchè il sangue e i membri sono parti del
corpo, subordinate alla salute dell'individuo, e perciò, per salvarlo,
possono benissimo essere lese; ma il seme umano non fu creato per la
sanità del corpo, ma per la propagazione della specie. Non si va
incontro ad alcun pericolo con una cavata di sangue o coll'amputazione
d'un membro: ma non è così colla polluzione.



         §. _II Della polluzione volontaria nella sua origine_.


Si suole distinguere due cause di polluzione, una prossima, e l'altra
remota.

La causa prossima è quella che porta per se stessa alla polluzione, come
il palpeggiare le proprie o le altrui parti genitali il contemplarle, il
parlare d'oscenità o amori, il volgere in mente turpi immagini, ecc.,
ecc.

E' causa remota quella che meno direttamente spinge alla polluzione,
come sarebbe il bere e il mangiare smoderato, lo studio delle questioni
veneree, l'ascoltare i peccati al confessionale[6] ecc., ecc.

[6] Preziosa concessione in bocca d'un vescovo: il Sacro Tribunale della
Penitenza si schiera imperturbabilmente fra le cause delle polluzioni
veneree. Che onore!

Queste cause possono essere lecite, venialmente cattive o mortalmente
cattive: così, possono sedurre alla polluzione in modo prossimo o in
modo remoto.

Egli è certo: 1° che quegli il quale volontariamente, anche per un
istante, si abbandona al piacere della polluzione, sia pure senza un
dato intendimento e per sola causa accidentale, pecca mortalmente:
nessuno negherà ciò; 2° che pecca pure mortalmente quegli che dà motivo
prossimo, diretto, alla polluzione, come sarebbe, per esempio, toccando
o rimirando libidinosamente le proprie o le altrui parti vergognose in
modo che sembri si voglia la polluzione, ancorchè ad eccitar questa
veramente non si miri. Anche questo è evidente.

Esaminiamo ora se la polluzione prodotta da causa lecita, o solo
venialmente cattiva, sia peccato e quale peccato.

1. Fare un'azione lecita in se stessa, ma senza necessità o utilità, e
che si prevede ch'essa ecciterà una polluzione, è peccato mortale,
perchè si coopera efficacemente ad un risultato mortale, senza alcuna
ragione scusante.

2. Quegli che per vantaggio proprio o d'altrui fa una azione in sè
lecita ma che, per ragione di sue particolari disposizioni, ha una
prossima influenza sulla polluzione, pecca mortalmente, semprechè esso
sia esposto a dare il suo consenso ad un pericolo prossimo di essa,
imperocchè nessuno nega che l'esporsi a tale pericolo sia peccato
mortale, a meno che ci sia la scusa di una grave necessità.

3. Se poi urge una grave necessità, e il fine a cui si tende è buono,
non v'è peccato, imperocchè è permesso, per grave causa, fare la
polluzione in guisa che ne conseguano due effetti, uno buono e l'altro
no, e che si dia tutto il proprio assenso al primo, negandolo all'altro.
Così un chirurgo, il quale guarda o tocca le parti genitali d'una donna,
sia per curarne una infermità o per agevolare un parto, si espone certo
all'occasione d'una polluzione, ma esso perciò non pecca, purchè non vi
presti consenso alcuno, contuttochè si esponga ad un prossimo pericolo
di acconsentirvi.

4. Non pecca colui il quale, per sua o per altrui utilità, fa una
azione, dalla quale prevede che ne può seguire una polluzione, alla
quale però egli non si mette nel pericolo prossimo di acconsentire,
perchè si suppone ch'egli non provi nè secondi il male che ne può
venire. Così _S. Tommaso_ e in generale i teologi.

E' permesso di studiare le cose veneree, per un fine onesto; di
ascoltare le confessioni delle donne: di conversare con esse utilmente e
onestamente; di far loro visite; di abbracciarle decentemente come se
fossero parenti; di cavalcare; di usare moderatamente delle bibite
riscaldanti, prescritte dalla salute; servire gli infermi; metterli nei
bagni; esercitare la chirurgia, ecc., benchè si preveda che ne possa
seguire polluzione; ma non ci si deve pensare se non col fermo proposito
di non acconsentirvi e colla fondata speranza di perseverare in questo
proposito.

Se però, per nessuna utilità o ben lieve, ci fossero da compiere azioni
influenti sulla polluzione, bisogna astenersene; se no, si commetterebbe
peccato veniale o mortale, a seconda della gravita o leggerezza della
polluzione che si provocherebbe. Per esempio: se l'uso del caffè,
dell'acquavite, del vino puro, ecc. non suggerito dalla salute come
ordinariamente lo è, eccita in te polluzione, devi astenerti da esso,
sotto pena di peccato veniale se l'eccitamento è soltanto probabile, e
di peccato mortale se, per qualche causa a te particolare, l'eccitamento
è diretto e l'effetto quasi moralmente certo.

5. È peccato mortale fare un'azione venialmente cattiva, la quale
influisca in modo prossimo sulla polluzione: ciò risulta da quanto or si
dirà. Se alcuno, per ragioni di sua particolare debolezza, è solito
provare polluzione guardando voluttuosamente una donna in qualche parte
sensuale del corpo; o toccandole una mano; premendole le dita;
conversando con lei; abbracciandola onestamente, ma senza una ragione;
assistendo a balli, ecc., deve astenersi da tutti codesti atti sotto
pena di peccato mortale.

6. Se dei peccati veniali in materia di lussuria, e a più forte ragione
in altra materia, influiscono sulla polluzione soltanto remotamente,
come, per esempio, se negli atti or ora esposti essa non avvenga che di
rado, la castità non si trova che venialmente lesa. Quanto al sapere se
essa sarebbe mortalmente violata, o nella polluzione in sè stessa, o
nella causa della polluzione medesima, si può rispondere con una
duplice negazione: non nel primo caso, quando si suppone mancare
qualsiasi assenso _attuale_; non nel secondo caso dell'ipotesi, se la
causa è lieve, e quindi soltanto lievemente influisce sulla polluzione.
Così pensano, con _S. Tommaso_, molti teologi contro pochi.

7. Un peccato mortale, diverso dalla lussuria, come, per esempio, l'ira,
l'ubriachezza, che solo remotamente influisce sulla polluzione, non si
considera che come un peccato veniale di lussuria, perchè l'influenza
non dovendosi qui riferire che alla ragione, non può che supporsi essere
una influenza lieve. Così _S. Lig., l. 3, n. 484_, e molti altri dopo di
esso.

Evidentemente si dovrebbe dire il contrario, se questo peccato, per
speciali circostanze annesse, per esempio la sua frequenza, lo si
giudicasse influire sulla polluzione in modo prossimo.



                  § III.--_Della polluzione notturna_.


Per polluzione notturna s'intende quella soltanto che avviene nel sonno.
Se il sonno è imperfetto, la polluzione può essere semi-volontaria, e
non ne conseguirebbe che un peccato veniale. Se poi il sonno è perfetto,
la polluzione non è in modo alcuno volontaria, e non ne deriva peccato:
non potrebbe essere peccaminosa se non nella sua origine.

E' certo che quegli il quale predispone una cosa colla intenzione che da
essa derivi una polluzione durante il sonno, per esempio, giacendo in
letto in un dato modo, coprendosi ben bene, palpeggiandosi, ecc., pecca
mortalmente.

Eccettuati questi casi, si deve esaminare quale sia la causa della
polluzione notturna e come essa influisca sulla polluzione stessa.

Triplice è la causa secondo _S. Tommaso, 22, q. 154, art. 5_, ed altri
teologi: corporale, spirituale intrinseca e spirituale estrinseca.

I. Cause corporali sono:

1. La sovrabbondanza di materia seminale, della quale la natura, troppo
gravata, si scarica colla emissione spontanea;

2. Le immagini della fantasia provenienti dalla stessa sovrabbondanza di
materia seminale, o da altra disposizione di corpo;

3. L'intemperanza nel bere e nel mangiare, o le qualità eccitanti dei
cibi e delle bevande;

4. I motivi che sciolgono il seme, come, per esempio, l'equitazione, la
vista di cose lascive, o il pensare ad esse nella veglia;

5. Un certo prudore di umori, un sangue molto caldo, i nervi irritabili,
i palpeggiamenti nei sogni, la morbidezza del letto, ecc.;

6. La debolezza degli organi, che può nascere da un difetto di
costruzione, o dalla contratta abitudine alla polluzione; debolezza che
frequentemente provoca uno spargimento di seme che spesso reca grave
nocumento alla salute.

II. La causa spirituale intrinseca, che _S. Tommaso_ chiama _animale_,
perchè risiede nell'anima, è il pensiero, prima del sonno, di cose
lascive; e vi si comprendono i desideri, le protratte fantasie
voluttuose, i cattivi discorsi, il frequentar donne, l'assistere a
spettacoli e a balli, la lettura di libri osceni, ecc.

III. La causa spirituale estrinseca è opera del Demonio, il
quale--secondo _S. Tommaso_ e tutti gli altri dottori--illudendo la
immaginazione e commovendo gli spiriti genitali, eccita la polluzione.
Questo genere di polluzioni, quando provengono da causa estranea alla
volontà, e se vi manca il consenso _attuale_, non si possono imputare a
peccato.

Similmente non sono peccati le polluzioni che avvengono nel sonno per
naturale sovrabbondanza di umore simile, per debolezza di organi, per
disposizione nervosa, o per il non soddisfacimento d'un'abitudine,
semprechè non nascano con deliberato proposito e non sieno perciò in
alcun modo acconsentite.

Nelle altre polluzioni è da esaminare se la loro origine sia lecita, se
venialmente o mortalmente cattiva, se prossimamente o remotamente
influente su di esso: per ciò si giudicherà prudentemente se vi sia
peccato e quale peccato sia. Se una cosa, benchè lecita, influisca
prossimamente sulla polluzione, non basta la sua utilità, ma richiedesi
la necessità, affinchè possa la cosa essere scusata: ove poi l'influenza
sia remota, basta una semplice scusa ragionevole.

_Si domanda_: 1. Cosa deve fare chi, svegliandosi, si avvede di aver
compiuta una polluzione.

R. Deve elevare la mente a Dio, invocarlo, fare il segno della santa
croce, non compiere cosa alcuna che provochi in seguito l'emissione del
seme, rinunciare ad ogni voluttuoso diletto: così operando, può stare
colla coscienza tranquilla: ma egli però non è obbligato a far
resistenza all'impeto della natura, qualora ei senta che nei vasi
spermatici la secrezione dell'umore è già avvenuta; in questo caso è una
necessità che l'emissione, subito o no, abbia luogo, altrimenti il seme,
già uscito dai reni, si corromperebbe internamente a detrimento della
salute.

_Si domanda_: 2. Se sia permesso compiacersi della polluzione non
colpevole, in quanto essa è di sollievo alla natura, o desiderarla sotto
questo rispetto.

R. Generalmente i dottori insegnano essere lecito compiacersi dei buoni
effetti della polluzione involontaria, sia avvenuta nel sonno, sia nella
veglia, perchè sotto questo riguardo, essa non dà un risultato cattivo.
E un maggior numero di dottori e con maggiori probabilità insegnano
essere lecito per le stesse ragioni, compiacersi di un tale effetto, che
la polluzione deve produrre.

Ma è lecito compiacersi della polluzione, volontariamente compiuta o da
compiersi, considerandola come un sollievo della natura? Molti
affermano, e dicono che da nessuna legge essa è proibita: così _S.
Tommaso, in 4, Sent. tit. 9, q. I, art. I_, dice: «Se la polluzione si
gradisce come una scarica o un sollievo della natura, non credesi che
sia peccato.» Si avverta che non dice _se si gradisce l'effetto della
polluzione_ ma _se si gradisce solo la polluzione_. Questa opinione
sembra a noi molto probabile in teoria, ma molto pericolosa in pratica,
e non è quindi a tollerarsi.

_Si domanda_: 3. Che si deve dire del gocciolìo!

R. Il gocciolìo è una lenta emissione di seme imperfetto o di consimile
umore vischioso, senza che vi siano movimenti gravi di concupiscenza. Se
ha luogo senza piacere venereo, come se proviene da debolezza d'organi o
dal diletto di un prurito insopportabile, lo si deve considerare come si
considera l'emissione del sudore: così dicono _Cajetanus_ e i teologi in
generale. Ma se avviene volontariamente e copiosamente, o con una
notevole commozione degli spiriti genitali, è peccato mortale, perchè
implica il pericolo prossimo della polluzione. Così _Sanchez_, _S.
Liquori_, ecc. Se poi avviene in modica quantità, senza piacere e senza
commozione notevole dello spirito, o non è peccato, se la causa risiede
nella ragione e nella utilità, o, tutt'al più, è peccato veniale. Ciò è
conseguenza di quanto abbiam detto della polluzione indirettamente
voluta.

_Si domanda_: 4. Se sia permesso, per opera di medicamenti prescritti
dai medici, sciogliere ed espellere il seme morboso, già sciolto dai
reni, e perciò implicante pericolo di vera polluzione.

R. Generalmente i dottori lo affermano, purchè ciò tenda solo a
provvedere alla salute, e la polluzione non sia direttamente eccitata,
nè desiderata, nè che vi si acconsenta allorchè avviene all'infuori del
desiderio, e infine che il seme sia veramente diventato morboso. Così
_Sanchez_, _Layman_, _S. Liquori_, ecc., contro _P. Concina_,
_Bonacina_, _La Croix_, _De Lugo_, e molti altri.



                  § IV.--_Dei movimenti disordinati_.


Questi movimenti sono certe commozioni delle parti genitali che più o
meno dispongono alla polluzione. Possono essere gravi o lievi: sono
gravi se inducono un pericolo prossimo di polluzione; lievi, se il
contrario.

E' peccato mortale il compiacersi volontariamente in questi movimenti,
ancorchè sieno lievi e nati involontariamente, imperocchè v'ha qui un
piacere venereo che probabilmente non implica _leggerezza di materia_,
ed induce nel grave pericolo di andare più oltre. A più forte ragione
sarebbe peccato mortale l'eccitarli deliberatamente Vanno poi immuni da
peccato, se essi non dipendono dalla volontà nè in se stessi, nè nella
loro causa, come spesso avviene, e se non vi si acconsente menomamente.
Ove poi la causa di essi sia stata deliberatamente predisposta, bisogna
considerarli come polluzione indirettamente voluta, con questa
differenza, che la polluzione è sempre una cosa grave, mentre i
movimenti possono essere talmente leggeri e così lontani dal pericolo di
polluzione, da doversi considerare come piccoli peccati, poco curandosi
altresì della loro origine, purchè questa sia onesta.

Or si domanda specialmente, cosa si debba fare quando tali movimenti
nascono senza colpa.

E' certo, come già dicemmo, che non si può acconsentire volontariamente
ad essi se non peccando mortalmente. Ciononpertanto, non conviene
opporre ad essi una forte resistenza, imperocchè in allora lo stesso
ritegno infiamma la fantasia e per relazione simpatica, eccita
maggiormente gli spiriti genitali. La cosa più sicura è dunque quella
d'invocare con calma Iddio, pregare la Beata Vergine, l'Angelo custode,
il proprio patrono egli altri santi, fuggire gli oggetti pericolosi,
distogliere tranquillamente il pensiero da idee oscene e portarlo su
altre cose, applicarsi seriamente ad affari diversi e in ispecial modo a
quelli che maggiormente distraggono.

_Si domanda_ se il rimanere indifferente ai movimenti di concupiscenza
nati involontariamente, nè approvandoli, nè disapprovandoli, sia peccato
e quale peccato.

R. 1. Tutti ritengono che tale indifferenza è almeno un peccato veniale,
perchè il pensiero sarebbe obbligato di provare della ripugnanza pei
movimenti disordinati della concupiscenza.

2. _Sanchez_, _S. Liguori, l. 5, n, 6_, e molti altri dicono che questo
peccato, escluso il pericolo prossimo di polluzione, è solamente
veniale, perchè--dicono--i movimenti disordinati devono essere respinti
per la ragione che è a tenersi inducano alla polluzione o sveglino il
consenso della volontà al piacere venereo Ora, se pericolo non esiste od
è remoto, l'obbligo d'evitarlo non è grave: ma essi affermano che, sotto
pena di peccato mortale, c'è l'obbligo di resistere positivamente non
foss'altro per senso di rincrescimento, se vi ha pericolo prossimo o di
cadere nella polluzione o di acconsentire al piacere venereo.

Altri generalmente insegnano che la indifferenza da un lato congiunta
d'altro canto con una piena attenzione a questi movimenti disordinati,
benchè sieno lievi, è peccato mortale, tanto per la loro disordinatezza,
quanto pel pericolo che vi ha di acconsentirvi. Così _Valentia_,
_Lessius_, _Vasquez_, _Concina_, _Billuart_, e nella pratica _Habert_,
_Collet_, _P. Antoine_, _Dens_, ecc.

E' cosa pericolosa il trasgredire in pratica questa sentenza, benchè il
parere contrario, considerato teoreticamente non manchi di probabilità:
richiedesi dunque che un positivo rincrescimento, almeno virtuale
risieda nel pensiero, verso questi movimenti disordinati, sorti
all'infuori della volontà,

Questo rincrescimento si ha come sufficiente, quando la volontà opponesi
con fermo proposito al piacere venereo, disdegna i movimenti voluttuosi
e si rivolge ad altro.

Quanto or s'è detto, non lo intendiamo detto per coloro che scrupolosi
per un nonnulla, sono troppo solleciti a tormentare la propria
coscienza, affannosamente scrutando se abbiano o no prestato un
consenso, molto più che, così operando, non fanno che esporsi
viemaggiormente agli stimoli della carne e perpetuarne quasi la loro
efficacia: abbiano costoro il fermo proposito di vivere sempre
castamente, sdegnino i movimenti disordinati e non si preoccupino
menomamente delle regole che soglionsi seguire negli esami di coscienza
e nella confessione; l'esperienza prova essere questo il mezzo più
sicuro e più breve per liberarsi da scrupoli mal fondati.



§ V.--_Norme dei confessori verso coloro che si danno alla polluzione_.


Non vi ha vizio più nocivo, sotto qualunque aspetto, ai giovani, e
specialmente se maschi, di quello della polluzione, imperocchè, presi da
questa prava consuetudine, indurano lo spirito, inebetiscono,
dispregiano la virtù, disdegnano la religione; la loro indole diventa
malinconiosa, incapace di energia, inetta a qualsiasi proposito tenace;
le forze del corpo mancano, gravi infermità sopravvengono, si appalesa
una caducità prematura, e spesso si muore di morte vergognosa.

Gli spaventosi effetti della _masturbazione_, descritti da _Ippocrate_,
ce li riferisce _Buchanan, t. 4, p. 567_: «Questa malattia nasce dal
midollo spinale; essa colpisce i giovani sposi ed i libidinosi; non
hanno febbre, e, benchè mangino bene, dimagrano e si consumano; par loro
di sentire come un formicolìo scendere dalla testa lungo la spina
dorsale. Ogniqualvolta essi emettono gli escrementi ed orinano, perdono
abbondantemente un umore seminale acquoso; sono inetti alla generazione;
spesso, nei loro sogni, sono intenti all'atto venereo; le passeggiate,
specialmente lungo le strade faticose, li scalmanano, li prostrano, e
procacciano ad essi pesantezza di capo e susurrii nelle orecchie; infine
una febbre acuta termina i loro giorni.»

Egualmente _Aretes_, medico greco, vivente al tempo di Trajano, dice,
_l. 2, c. I_; «I giovani, dediti a questo vizio, vanno soggetti alle
malattie e alle infermità dei vecchi; diventano pallidi, lascivi,
cupidi, sfibrati, pigri, stupidi, ed anche imbecilli; il loro corpo
s'incurva, le loro gambe più non li reggono; sono malcontenti di tutto,
inabili a tutto, e molti cadono nella paralisia.»

Questi giudizii fondamentali, tramandatici da medici antichi, sono
ammessi pure da tutti i medici più recenti, e vengono confermati da
un'infinità di fatti, di cui noi ne riferiremo alcuni.

_Hoffman_, celebre professore di medicina in una università della
Germania, nel suo Trattato _Delle malattie provenienti dall'abuso dei
piaceri dell'amore_, riferisce «che un giovane di 18 anni, il quale
amoreggiava carnalmente con una fantesca, fu colto tutto ad un tratto da
debolezza e da fremito generale in tutti i suoi membri; aveva il viso
rosso e i polsi debolissimi. In brev'ora si riuscì a toglierlo a questo
stato, ma egli restò sempre afflitto da un languore generale.»

Tissot, _Dell'onanismo, p. 33_, così descrive un giovane, pel quale fu
richiesta la sua cura:

«La prima volta ch'io vidi questo disgraziato, ne fui spaventato.

«Sentii più che mai allora la necessità di dimostrare ai giovani
l'orrendo precipizio nel quale volontariamente si gettano,
abbandonandosi a questo vizio vergognoso.

«L. D*, orologiaio, fu savio e prosperoso fino all'età di 17 anni. A
quest'epoca si abbandonò alla masturbazione, ch'egli replicava
consecutivamente perfino 3 volte; l'emissione del seme era sempre
preceduta e accompagnata da un leggero offuscamento del pensiero e da un
movimento convulsivo nei muscoli estensori della testa, i quali la
tiravano indietro, mentre che il suo collo gonfiavasi straordinariamente

«Non era ancora trascorso un anno, ch'egli cominciò a sentire una grande
debolezza dopo ogni polluzione; la sua immaginazione, tutta in balìa a
queste oscenità, non era più capace d'altre idee; e la rinnovazione dei
suoi atti colpevoli divenne ogni giorno più frequente, fino a che si
trovò in uno stato che faceva temere che morisse.

«Troppo tardi egli se ne impensierì; il male era già andato troppo
oltre, ed egli non poteva più essere guarito; le parti genitali eransi
fatte così irritabili e così deboli che, anche senza l'azione sua
personale, i vasi spermatici vuotavansi da sè. La menoma irritazione
provoca all'istante il più completo eretismo, il quale era
immediatamente seguito da un'emissione di seme, ciò che aumentava
quotidianamente la sua debolezza.

«L'organo ch'egli, sulle prime, non provava che durante la polluzione, e
che cessava con essa, divenne abituale, e ne era preso spesso senza
alcuna causa apparente, in modo sì violento che, durante l'accesso, che
talora durava 15 ore e non mai meno di 8, provava in tutta la parte
posteriore del collo dei dolori così forti, che ordinariamente gli
strappavano non dei gridi, ma degli urli; e in questo frattempo non gli
era possibile mandar giù per bocca alcunchè di liquido o di solido.

«La sua voce era diventata rauca; la respirazione, impedita; le forze
gli mancarono totalmente.

«Obbligato a rinunciare alla sua professione, inetto a tutto, oppresso
dalla miseria, languì, quasi senza soccorso alcuno, per qualche mese:
povero disgraziato! tanto più da compiangere, in quanto che, un resto di
memoria (che non tardò però a svanire) era ancor là per rammentargli
continuamente le cause del suo malore, accrescendolo con tutto l'orrore
dei rimorsi!

«Informato del suo essere, mi recai presso di lui; più che un individuo
vivente, trovai un cadavere sdraiato su un pagliariccio, magro, pallido,
sudicio, puzzolente, quasi incapace d'ogni movimento: spesso gli colava
dal naso un sangue smorto e acquoso; e continuamente gli usciva dalla
bocca una bava. Colto da diarrea, egli emetteva gli escrementi in letto,
senza addarsene. Lo spargimento dell'umore seminale era continuo; i suoi
occhi caccolosi, torbidi e spenti, non avevano più la facoltà di girare;
il polso era estremamente debole, ma pronto e frequente; la
respirazione, molto imbarazzata; la magrezza, estrema, eccettuati i
piedi, i quali cominciavano a diventare tumidi, molli e seriosi.

«Il disordine dello spirito non era minore: non aveva più idee, più
memoria; inetto a leggere due frasi; senza riflessione, senza
inquietudine sulla sua sorte; non aveva altra sensazione che quella del
dolore, la quale lo assaliva penosamente, ogni tre giorni almeno. Era un
essere molto al di sotto del bruto, ed offriva in sè uno spettacolo, di
cui è difficile immaginare tutto l'orrore. Molto a stento si poteva
riconoscere ch'egli una volta aveva appartenuto alla specie umana...
Morì dopo poche settimane (giugno 1757) col corpo ch'era tutto un tumore
molle e sieroso.»

E Buchan, _t. 2, p. 202_, dice: «La maggior parte dei giovani che si
dànno alle donne e al vizio vergognoso della masturbazione, non vi
rinunciano ordinariamente se non quando le forze ad essi più non lo
permettono, ma allora la malattia è già diventata incurabile. Io ho
visto di ciò un esempio eloquente in un giovane di 22 anni, il quale,
malgrado i consigli di savie persone, e di persone che pareva
esercitassero maggior autorità su di lui, perdurò costantemente nella
mala abitudine, e vi si abbandonava perfino in quel tempo nel quale i
medici lo sottoponevano ad una cura per guarirlo dalla malattia. Egli
morì miseramente, senza che gli si sia potuto procurare un sollievo.»

I confessori dunque devono colle cure più sollecite tentare di prevenire
questa pessima abitudine o di svellerla in coloro ch'essi stimano
l'abbiano già contrata. Si guardino bene però, interrogando i giovani, e
spcialmenmte le fanciulle, di non maliziare imprudentemente la loro
immaginazione e di non essere causa, come spesso avviene,[7] di lussuria
nei penitenti. Meglio sarebbe esporsi al pericolo di non ottenere una
confessione intera, che contaminare delle anime od offenderla a scapito
della religione.

[7] Si noti bene questo: _come spesso avviene_, confessato da un
Monsignore.

Per scoprire, senza pericolo, se vi abbia polluzione, giova procedere in
questo modo: interrogare dapprima il penitente sui pensieri, sui
discorsi lascivi, sulle nudità al cospetto di altre persone, sui
toccamenti compiuti sopra se stessi o sopra altri, ovvero compiuti da
altri su noi con nostro assenso. Se il penitente non è ancor giunto alla
pubertà, non dev'essere interrogato intorno alla polluzione, imperocchè
è probabile ch'egli non la conosca, a meno che la di lui corruzione non
appaia manifesta da evidenti indizî. Se egli è poi pubere, ed abbia
avuto contatti impudichi con altre persone, specialment se questo
avevano più anni di lui, ovvero se abbia giaciuto in letto con esse, è
moralmente certo che avvenne spargimento di seme, ed è facile capire che
ci fu polluzione. Non pertanto, il confessore può domandare, senza
commetere imprudenza: «Avete voi provato dei movimenti nel corpo (o
nella carne?) e un piacere giocondo nelle vostre parti segrete e una
cessazione di quei movimenti appena cessato il piacere?» Se il penitente
risponde affermativamente, è ragionevole l'ammettere che ci fu
polluzione, imperocchè la vivacità di quei movimenti, congiunta a quel
dato piacere, indica chiaramente che ci fu effusione di seme.

Nei maschi, l'effusione è sempre esterna: ma nelle femmine, se è
vero--come sembra probabile--ch'esse non abbiano sperma, la polluzione
si effettuerebbe in altro modo. Per causa di movimenti disordinati, si
verifica spesso nelle donne un flusso interno e ben raramente esterno,
di una specie di umore mucoso, che facilmente si spiega riflettendo che
esse provano una sensazione vivamente voluttuosa. Peccano mortalmente le
donne che eccitano in sè questo flusso o questi movimenti venerei,
oppure volontariamente se ne compiacciono. Ma il confessore, saputi con
discrezione da una penitente questi movimenti e contatti libidinosi,
deve cautamente astenersi da ulteriori interrogazioni offensive al
pudore.

Se si ascolta un maschio che abbia fatto delle oscenità con altri più in
età di lui, siccome è probabilissimo ch'egli li abbia visti ad emettere
l'umore seminale, così e permesso chiedergli se abbia provato qualche
cosa di simile anch'esso.

Alla polluzione chiaramente verificata bisogna applicare convenienti
rimedi: fisici e morali. I rimedi fisici possono essere utili per
guarire dalle pulluzioni volontarie e involontarie; essi consistono in
una grande temperanza, in un riguardoso metodo di vita, nell'astinenza
da alimenti calorosi e da liquori molto spiritosi, nel far uso di acqua
e di latte, giacere su letto non soffice e dormirvi poco, immergersi in
bagni freddi, ed altri rimedi che i medici sogliono suggerire, ma che
però raramente sono efficaci. I rimedi morali sono specialmente, il
fuggire gli oggetti che sogliono indurre nella mente idee lascive, il
vegliare sopra sè stessi; padroneggiare i sensi; mortificare la carne;
meditare sui mali che provengono dall'abitudine delle polluzioni;
pensare alla morte, al giudizio di Dio, all'inferno, all'eternità;
fuggire l'ozio, la taciturnità, la solitudine; pregare e frequentare
confessori, ecc., ecc.

I confessori possono anche prudentemente consigliare ai giovani molto
corrotti la lettura di llbri, scritti su tale argomento da medici, come,
per esempio, l'_Onanismo_ del _Tissot_, e meglio ancora l'opuscolo del
_Doussin-Dubreoil_, intitolato: _Pericoli dell'Onanismo_: quest'ultimo
libro può essere indicato, come rimedio, ai giovani corrotti, senza
pericolo alcuno.

L'esecranda abitudine della _masturbazione_, se è inveterata fa
veramente disperare i confessori; ed è infatti assai difficile il
giudicare prudentemente se possano o debbano essere ammessi al
sacramento della Penitenza e della Eucaristia quei penitenti che si
danno in balìa a questo vizio: è a temersi finalmente che, trattandoli
severamente, non si accostino più ai sacramenti e si facciano peggiori:
trattandoli d'altra parte con soverchia indulgenza, potrebbero
addormentarsi placidamente nel fango di cotesto vizio. E' necessario per
ciò usare somma prudenza e gran zelo, affinchè questi infelici penitenti
s'accostino di frequente al sacro tribunale della penitenza per esempio,
ogni settimana, si dolgano delle colpe commesse, e rinnovino sovente il
buon proposito di non più peccare.

Bisogna star bene attenti se le ricadute avvengono: 1° per malizia,
trascuranza o difetto di volontà; 2° ovvero per infermità o violenza di
tentazione. Nel primo caso, si deve differire l'assoluzione fino che
appaia una vera emenda; nel secondo, questi disgraziati penitenti,
lottanti contro una tirannica libidine, e veramente contriti, devonsi
soccorrere ammettendoli alla grazia dell'assoluzione e della sacra
Eucaristia.

Con queste norme si diminuiranno a poco a poco le ricadute e si
cancellerà l'abitudine. Diversamente, un soverchio rigore li
allontanerebbe dai sacramenti, li getterebbe nel baratro della
corruzione, e non splenderebbe più speranza alcuna di emendamento.
Perciò sarebbe cosa eccessiva e spesso pericolosa una sospensione dei
sacramenti per due mesi, senza una nuova ricaduta, come vogliono
_Juenin_, _Collet_ e pochi altri.--_S. Liquori, t. 6, n. 463_ e molti
altri dopo di lui pensano che la sospensione anche di un solo mese è
troppo lunga, e che per ciò l'assoluzione in questi casi non deve essere
differita oltre gli otto, i dieci o, al sommo, i quindici giorni,
semprechè v'abbiano segni di vero pentimento. Non si può tuttavia
determinare, come norma generale, il tempo della dilazione: dipenderà
dalla prudenza del confessore accorciarlo o allungarlo secondo che
stimerà più conveniente alla correzione del penitente. Si avverta bene
però, che quei poveri peccatori che desiderano sinceramente di
salvarsi, non devono essere messi a fascio cogli induriti nella colpa,
nè gettati nella disperazione da una intempestiva severità: a ciò devono
star bene attenti i confessori e agire con somma prudenza.

Talvolta devesi consigliare il matrimonio a coloro che possono
contrarlo, essendo esso l'unico rimedio, o almeno il più efficace.

Si deve procedere poi colla massima cautela quando si ha a fare con
giovani che stanno per far voto di perpetua continenza. Coloro che sono
ingolfati nel vizio della polluzione abbandonandovisi di frequente,
ordinariamente prometterebbero di darsi alla castità emettendo un voto
spensierato, non maturato, imprudente; essi devono per ciò essere
dissuasi dalla professione religiosa e molto più dallo stato clericale,
a meno che non dieno segni straordinari di conversione, e colla lunga
prova di molti anni dimostrino fermezza di proposito ed offrano pegno di
perseveranza.

ARTICOLO II.--_Della sodomia_.--Quella mostruosa nequizia, che prende il
nome dagli abitanti della città di Sodoma, è così definita da _S.
Tommaso, 2, 2, q. 154, art. II_: _Accoppiamento carnale, usando
indebitamente del sesso, come fra uomo e uomo, fra donna e donna_.

La enormezza di questa iniquità è potente:

1. Per l'orrore che eccita universalmente;

2. Per la sua deformità, vera e manifesta;

3. Per le punizioni inaudite, inflitte da Dio alle cinque città
insozzate da questa contaminazione (_Gen., cap. 19_);

4. Per l'epistola di _S. Paolo ai Romani, l. 18 e seg._, che dice,
essere stati dati in balìa i Pagani a passioni ignominiose, ad azioni
sconvenienti, a brame ardenti, tra femmine e femmine, tra maschi e
maschi, in punizione della loro superbia;

5. Per le gravi pene decretate nel Diritto canonico, e specialmente
nella bolla _Horrendum illud scelus_ di Pio V contro i preti sodomi;

6. Per lo zelo veemente con cui tutti i santi Padri della Chiesa
inveirono contro questo delitto.--_S. Ciro, nell'omelia 14, epist. ai
Rom._, fulmina i sodomiti colla sua eloquenza, e prova essere essi assai
più bruti dei cani.

Non importa sapere ove avvenga il contatto venereo fra maschi o fra
femmine, se cioè nelle parti davanti o nelle parti di dietro, o in
qualsiasi altro posto del corpo, imperocchè la peccaminosità della
sodomia consiste nella voglia di usare indebitamente del sesso, e,
generalmente, è compiuta, per esempio, coll'applicazione della propria
parte genitale al corpo di persona di eguale sesso, _giacendo assieme
come se si trattasse di far un accoppiamento carnale_. Perciò non si
reputa sodomia, perchè non vi sarebbe concubito, la semplice
applicazione delle mani, dei piedi o della bocca alla parte genitale
dell'altro, benchè avvenge la polluzione nell'una e nell'altra persona.

La sodomia implica la malizia che è nell'adulterio, nell'incesto, nel
sacrilegio, secondo che i sodomiti sieno coniugi, consanguinei, affini,
o consacrati a Dio.

Non pochi teologi dicono che il penitente è tenuto a dichiarare se
nell'atto della sodomia è stato attivo o passivo, perchè altro è
lasciarsi volontariamente sodomitare, altro è prender parte attiva alla
sodomia in altrui.

Nel caso poi dell'uomo, passivo--e della donna, attiva, lo invertimento
della natura sarebbe ancor più grave.

Molti autori però, con maggior probabilità, negano essere necessaria la
dichiarazione di queste particolarità essendo sufficentemente indicata
la qualità del peccato dalla semplice confessione del fatto. Così pensa
puranco il _P. Concina_, non sospetto di soverchia indulgenza.

Siccome in questa materia è convenientissimo evitare le questioni
superflue, così noi ci asteniamo sempre da simili interrogazioni.

V'ha una specie di sodomia, che può accadere anche fra persone di sesso
diverso, quando il commercio carnale avviene all'infuori
dell'accoppiamento delle parti genitali, per esempio, quando si mettono
in opera la parte deretana, la bocca, le mammelle, le coscie, ecc.
Benchè questo genere d'infamia non sia punito egualmente come la sodomia
propriamente detta, è certo ch'esso è sempre una grande ignominia contro
natura.

Nella nostra diocesi entrambe codeste sodomie, ancorchè non consumate,
ma solo tentate con qualche atto che condurrebbe ad esse, è un caso
riservato.

ARTICOLO III.--_Della Bestialità_.--La bestialità è l'unione carnale con
un essere che non è della specie umana. Così _S. Tommaso_. Esso è un
gravissimo peccato, secondo il _Levit. 20, 15 e 16_, che dice: «Chiunque
si accoppierà carnalmente con un giumento o con una pecora, sarà punito
colla morte: sarà uccisa eziandio la bestia. La donna che si sarà
accoppiata con un giumento, muoia con esso. Che il loro sangue ricada
sul loro capo.»

Questo nefando delitto, essendo, secondo le regole della ragione, assai
più esiziale di quanti altri sono peccati contro la castità, è reputato
gravissimo ed è da tutti abborrito. Un tempo le leggi civili
condannavano alle fiamme assieme alla bestia colui che non si vergognava
di perpetrare tanta nequizia. Oggi, il colpevole di questo o di
consimile delitto, perpetrato in pubblico, verrebbe condannato alla pena
del carcere e ad una multa pecuniaria.

La diversa specie e il diverso sesso degli animali non mutano la natura
del peccato, imperocchè la malvagità di esso risiede nel disordine
contro natura. Non è quindi necessario enunciare in confessione la
specie, il sesso o altre qualità della bestia, ma soltanto se il delitto
fu consumato colla effusione del seme, ovvero se fu solo tentato. In
qualunque modo, è questo, nella nostra diocesi, un caso riservato.

Tutti i teologi parlano dell'unione con il Demonio in forma d'uomo, di
donna o di animale, ovvero raffigurato semplicemente nella
immaginazione, e dicono essere consimile tale peccato al peccato della
bestialità, e siccome esso implica una malizia particolare, deve questa
essere confessata; la malizia è qui _una superstizione consistente in un
patto con il Demonio_. In questa nefandezza rinvengonsi necessariamente
due specie di malizia, una contro la castità, l'altra contro la
religione. E' chiaro poi, che se un atto sodomitico si compie col
Demonio sotto la forma apparente d'uomo, è questa una terza specie dello
stesso peccato. Se il Demonio si presenta sotto l'aspetto d'una
consanguinea o di una donna maritata, vi ha incesto o adulterio; se
invece sotto l'aspetto di un animale, vi ha bestialità.

L'orrore che ispira un fatto incredibile, quale è quello del
congiungimento carnale col cadavere di una donna, ci costringe a
chiedere in quale categoria di peccati si deve porre tale
congiungimento.

Alcuni vogliono riporlo fra i peccati di bestialità, altri fra quelli di
fornicazione, ed altri finalmente fra i peccati di polluzione. E' tanto
orribile questo delitto che, messa in disparte la questione speculativa,
a noi sembra chiaro che la circostanza della donna morta devesi
necessariamente dichiarare in confessione, come devesi dichiarare se
questa donna, in vita, era una consanguinea, un'affine, una donna
maritata, o una professante voto religioso.




                                CAPO IV.

               _Dei peccatori di lussuria non consumata._


E' lussuria non consumata quella che non va fino alla emissione
dell'umore seminale. E' lussuria non consumata: i pensieri voluttuosi; i
baci, i contatti e gli sguardi impudichi; gli abbigliamenti femminili,
le pitture e le sculture che sono indecenti; i discorsi e i libri
osceni; le danze, i balli e gli spettacoli.

Di queste cose tratteremo brevemente dal punto di vista pratico.

ARTICOLO I.--_Diletti voluttuosi del pensiero_.--Sotto questo titolo
comprendonsi tutti i pensieri cattivi in fatto di lussuria, cioè,
desiderî, compiacenze e voluttà della immaginazione.

Il desiderio lussurioso è un atto della volontà che accenna ad un'azione
cattiva, per esempio, alla fornicazione, o che cerca veramente di
compierla, e allora il desiderio si chiama _efficace_. Il desiderio è
invece _inefficace_ quando, pensando al conseguimento di una data cosa,
si dice fra sè, per esempio: «Io vorrei fornicare con quella tal
persona», sapendo che ciò è impossibile. Il desiderio dunque riguarda
sempre il futuro.

La compiacenza lussuriosa al contrario riguarda sempre il passato, ed è
la soddisfazione nel ricordare una cattiva azione, come, per esempio, il
compiacersi ricordando cattivi discorsi o un congiungimento carnale.
Della stessa specie è il rincrescimento di non aver fatto, in una data
occasione, una cosa cattiva, per esempio, sedotta una ragazza, allorchè
si viene a sapere che sarebbe stato facile il sedurla.

La voluttà immaginativa[8] (pensieri voluttuosi è il libero
compiacimento in una cosa cattiva che il pensiero s'immagina reale,
senza però che vi sia il desiderio di effettuarla; per esempio, allorchè
colla immaginazione si finge di fornicare; e senza aver l'intenzione di
compiere realmente l'atto, ci compiaciamo, con libero assenso, nella sua
apparente illusione.

[8] Il testo latino ha _delectatio morosa_, che, essendo un termine
tecnico della Teologia morale, si suole anche tradurre in italiano
letteralmente colle parole _dilettazione morosa_. Noi in testa al
presente articolo, lo traducemmo colle parole: _Diletti voluttuosi del
pensiero_.

Questa _dilettazione_ dicesi _morosa_[9], non per la durata reale del
compiacimento, poichè basta un unico istante per consumare internamente
ll peccato, ma perchè il pensiero si sofferma e riposa su qualla idea,
che si sa essere peccato.

[9] Da _mora_ che vuoi dire _indugio_: da ciò, il termine legale,
_essere in mora_. (_Nota del traduttore_).

Ciò detto:

1. E' certo che il desiderio d'una cosa cattiva é peccato della stessa
indole e della stessa specie della cosa che si desidera, perchè la
volontà è la sede del peccato; e dove esiste desiderio di conseguire una
cosa cattiva, la volontà è piena.

Da ció consegue che questo peccato si specifica considerandone
l'oggetto. Le qualità dell'oggetto dasiderato e le sue circostanze che
mutano la specie del peccato, o lo aggravano senza mutarnè la specie,
devonsi dichiarare in confessione; per esempio, l'aver desiderato una
consanguinea o una affine è una circostanza da dichiararsi unitamente al
grado della consanguineità o della affinità, ancorchè, per un'astrazìone
dèlla mente, si sia desiderato l'abbracciamento carnale senza badare al
vincolo dl consanguineità o di affinità, imperocchè la malizia
dell'incesto non può essere, per astrazione, separata dall'oggetto ma la
cosa sarebbe altrimenti, se il penitente ignorasse la circostanza della
consanguineità o dell'affinità.

Non basta dunque che il penitente dica in generale d'aver avuto cattivi
desideri, d'aver desiderato cose impure: egli deve specificare ciò che
ha desiderato, cioè se desiderò l'accoppiamento carnale, o dei semplici
contatti o il solo atto di guardare, con una persona in genere, e di
qual sesso, ovvero, se con una determinata persona, libera, o in qualche
modo vincolata, ecc.

2. Non è meno certo che il libero compiacimento della volontà sopra un
atto di lussuria di già avvenuto, implica la malizia contenuta nell'atto
stesso, imperocchè la volontà abbraccia l'intero oggetto rivestito di
tutte le sue circoetanze, e perciò si presenta rivestita di tutta la
malizia. Dicasi lo stesso,--ed è evidente,--se alcuno si duole di non
aver fatto cosa cattiva in un'occasione passata.

3. È egualmente certo essere peccato mortale il libero compiacersi della
mente in una cosa venerea che la immaginazione si figura come reale. In
questo caso, la cosa è mortalmente cattiva. e quegli che con libero
consenso aderisce ad essa, per esempio, figurandosi di fornicare
realmente contraviene per ciò stesso alla legge di Dio.

Nel libro _Della Sap., l. 3._ leggesi: «I pensieri cattivi separavo da
Dio;» e nei _Proverbii, 4, 23_: «Poni ogni cura a conservare intatto il
tuo cuore.»

Molti autori dicono che la _dilettazione morosa_ non si qualifica per
l'oggstto esteriore, ma per l'oggetto raffigurato nella mente; ed in ciò
differisce dal _desiderio_. La ragione di questa differenza è, che il
_desiderio_ mira l'oggetto reale e trae con sè necessariamente tutte le
note malizie ad esso inerenti, indipendentemente da qualsiasi
particolare astrazione, mentre la semplice _dilettazione_ risiede nel
semplice oggetto immaginato. Perciò, quegli che volontariamente si
diletta nel pensiero dell'abbracciamento carnale con una donna maritata,
consanguinea, affine, o monaca considerandola però semplicemente come
femmina, e non altro, probabilmente non cade nella peccaminosità
dell'adulterio, dell'incesto o del sacrilegio. Così _C. De Luogo_,
_Bonacina_, _Layman_ ed altri non pochi citati da _S. Liquori, l, 5 n.
15_, il quale dice essere questa opinione assai probabile.
Ciononpertanto, molti altri asseriscono essere più probabile l'opinione
opposta, imperocchè ad essi non sembra fondata l'esposta differenza fra
il _desiderio_ e la _semplice dilettazione_, e dicono che questa, come
quello, abbraccia tutto l'oggetto non ostante le astrazioni che può aver
fatto la mente. Così _S. Antonino_, _Cajetanos_, _Lessius_, _Sanchez_
_Suarez_, _Sylvius_, _P. Antoine_, _Collet_, _Dens_, ecc.

Entrambe le opinioni sona probabili, la seconda o è più sicura, ma è
spesso difficile ottenere dai penitentl la confessione delle circostanze
annesse all'oggetto pensato; allora i confessori prudenti, appoggiati
alla prima opinione, devono astenersi da importune domande.

4. Quegli che s'avvede di dilettarsi in una cosa venerea, presente alla
sua immaginaz.one, e la tollera con indifferenza, probabilmente pecca
mortalmente, abbenchè non provi movimenti disordinati, imperocchè
aderisce in un certo modo alla cosa cattiva, o almeno si espone al grave
pericolo di aderirvi. Tale è, pratica, l'opinione di tutti i teologi.

5. Giova notare la rilevante differenza che corre fra _il pensiero di
una cosa cattiva_ e _la dilettazione in una cosa cattiva_. Ci
spiegheremo con un paragone: quegli che volontariamente _si diletta_, si
compiace d'un omicidio che a sua immaginazione gli presenta come
affettivo, certo pecca mortalmente. Ma quegli che _semplicemente pensa_
o parla d'un omicidio perpetrato o da perpetrarsi da altri non pecca
perciò. Dicasi lo stesso circa le cose impudiche: la _semplice idea_ di
questo o quel piacere impudico, non è peccato in sè, come non è peccato
il riflettere ad esso; il ricordarlo, prevederlo. Se fosse altrimenti, i
medici, i teologi, i eonfessori, i predicatori, che su questa materia
studiano o scrivono, parlano o discutono, necessarimente peccherebbero:
il che nessuno ammette.

Vi ha però questa differenza fra il pensiero d'un omicidio o d'altra
consimile cosa cattiva e il pensiero d'una cosa impudica, che, cioè,
quest'ultimo è sempre pericoloso in causa della nostra naturale
concupiscenza; non è così dell'altro, perchè in noi non esiste una
naturale propensione verso di esso. Per ciò, è peccato veniale, o
mortale secondo il pericolo, l'immaginare cose oscene, a meno che ciò
non sia scusato da qualche fine onesto.

È ancora da notarsi la differenza che corre tra il _sentire_ la
dilettazione, e lo _acconsentire_ ad essa. Il _sentire_ è spesso una
necessità, e può essere quindi non peccaminoso, ma l'_acconsentire_
dipende sempre dalla volontà. Una cosa è ben diversa dall'altra.

Molti, confondendo assieme _senso_ o _consenso_, _pensiero_ d'una cosa
cattiva e _dilettazione_ in una cosa cattiva, disordinano le loro idee e
tormentansi cogli scrupoli. Essi devono su ciò istruirsi ben bene,
affine di togliersi dalle tenebre della confusione e dalle ambascie.

Quegli che prediligono sinceramente la castità posson star certi ch'essi
non hanno acconsentito a moto alcuno di concupiscenza ogniqualvolta la
loro mente vi si arrestò soltanto nella confusione delle idee o nella
incertezza, imperocchè se vi avessero veramente acconsentito, avrebbero
avvertito in se stessi un cambiamento di proposito e l'avrebbero
ritenuto nella memoria.

Quegli invece che hanno la perniciosa consuetudine di abbandonarsi alla
libidine, ove dubitino di avere o no acconsentito ad essa, devono
persuadersi di avervi acconsentito perchè se si fossero opposti alla
loro inclinazione naturale, avrebbero presenti alla memoria gli sforzi
fatti; e siccome i peccati di lussuria moltiplicansi straordinariamente
in breve tempo, possono ragionevolmente dire col profeta penitente: «Le
mie iniquità sono diventate padrone di me.... esse sono più numerose dei
capegli della mia testa». _Solm. 39, 13_.

_Si domanda_ se sia permessa ai fidanzati e ai vedovi di dilettarsi nel
pensiero degli abbracciamenti carnali futuri, o passati.

R. 1. I fidanzati e i vedovi non peccano pensando al diletto annesso
agli abbracciamenti, nè prevedendolo nel futuro, nè rammemorandolo come
cosa passata, imperocchè è evidente che questo pensiero non è la vera
_dilettatazione_ in una cosa venerea. Se c'è peccato, esso sta nel
pericolo di commetterlo, andando più oltre: e il pericolo c'è sempre.

R. 2. Se i fidanzati o i vedovi acconsentano alla _dilettazione_
carnale, che sorge prevedendo il futuro accoppiamento, o rammentando gli
accoppiamenti passati, peccano mortalmente, imperocchè si figurino il
congiungimento venereo come effettivo e vi si dilettano
volontariamente. Ora, l'atto carnale raffigurato come reale è, per essi
che non sono coniugi, una fornicazione.

R. 3. Il conjuge che si diletta, in assensa dell'altro coniuge,
figurandosi l'atto matrimoniale come effettivo, probabilmente pecca
mortalmente, in ispecial modo se i suoi spiriti genitali si commovono
grandemente, non già perchè acconsenta ad una cosa in sè stessa
proibita, ma perchè si espone per solito al grave pericolo della
polluzione. Se poi egli si compiace liberamente nel pensiero
dell'accoppiamento futuro o passato, senza incorrere nel pericolo della
polluzione, molti teologi dicono ch'esso pecca soltanto venialmente.
Così _Sanchez_, _Bonacina_, _Lessïus_, _Cajetano_, _La Croix_, _Suarez_,
_S. Liquori_.

Molti altri sostengono, moralmente parlando, che vi ha sempre peccato
mortale, tanto pel pericolo, quanto per la disordinata commozione degli
spiriti genitali, che non può essere qui connestata da fine legittima.
Così _Navarrus_, _Azor_, _Vasquez_, _Layman_, _Nenno_, _P. Antoine_,
_Collet_, _ecc._

Devonsi redarguire quindi i conjugi che così _si dilettano_, ed
esortarli ad abbracciare il partito più sicuro. Non si devono però
trattare con troppa severità, nè importunarli con domande odiose.

ARTICOLO II.--_Dei baci, dei toccameti, degli sguardi impudichi e
dell'abbigliamento delle donne_.--E' da notarsi innanzi tutto che qui
non si tratta dei baci, dei toccamenti, ecc., ecc., fra conjugi, ma
soltanto fra persone libere: dei conjugi parleremo altrove.



                           § I.--_Dei baci_.


I. I baci in parti oneste, come sulla mano o sulla guancia non sono, per
indole loro, cose cattive, ancorchè fra persone di diverso sesso. Questa
è la costante opinione degli uomini, comprovata dalla pratica
universale.

Da ciò: 1° I baci che solitamente si danno tra fanciulli, incapaci di
libidini, non implicano male alcuno; 2° I baci delle madri, delle
nutrici, ecc., ch'esse danno ai loro fanciulli o ai fanciulli a loro
affidati non si imputano a peccato; 3° Egualmente dei baci che, almeno
ordinariamente, altre persone danno a fanciulli di tenera età, sieno
maschi o femmine.

II. I baci, ancorchè onesti, dati o ricevuti per motivo di libidine, fra
persone dello stesso sesso o di sesso diverso, sono peccati mortali.

I baci in parti inusitate del corpo, per esempio, sul petto, sulle
mammelle; o, come usano i colombi, introducendo la lingua nella altrui
bocca, stimansi fatti con intendimenti libidinosi, o almeno inducono nel
grave pericolo della libidine, e perciò non vanno esenti da peccato
mortale.

III. E' certo che i baci, anche se onesti, che inducono nel prossimo
pericolo di polluzione o di veementi commozioni di libidine, sono da
reputarsi peccati mortali, a meno che non esista una grave ragione per
darli ad altri o per permetterli sopra sè stesso, imperocchè l'esporsi a
quel pericolo, senza necessità, è peccato mortale.

IV. Al contrario, è certo che gli onesti baci, soliti a darsi, senza
morale pericolo di libidine, in segno di urbanità, di benevolenza,
d'amicizia, per esempio, partendo o ritornando, non sono in modo alcuno
peccati: così si pensa dovunque.

Egualmente non si può dire pei religiosi o pei monaci, nè pei preti
secolari, i quali non possono ordinariamente scambiar baci con persone
di sesso diverso senza una certa tal quale indecenza e senza generare
scandalo ed offendere la religione.

V. I baci in sè stessi onesti, fatti come comporta l'uso comune, ma per
leggerezza o per giuoco, senza grave pericolo di libidine, non sono più
di un peccato veniale: essendo supposti onesti, non possono essere cosa
cattiva: la loro peccaminosità sta in ragione del pericolo di libidine,
ma nel caso nostro si suppone che questo pericolo sia pressochè nullo.

Da ciò consegue:

1. Quegli che chiede in matrimonio una giovane e che, per esempio, alla
partenza e all'arrivo, l'abbraccia onestamente, senza pericolo di
emozioni libidinose, o almeno senza pericolo di acconsentirvi, non si
può accusare di peccato mortale. E molto meno pecca quegli che ha una
ragione per coonestare questo atto, per esempio, il timore fondato di
apparire troppo scrupoloso o strano, o di essere deriso o di diventare
il ludibrio d'altri.

2. Per questa ragione è scusata quella ragazza che non può esimersi da
onesti amplessi senza esporsi alla derisione o senza spiacere al giovane
che la chiede in isposa.

3. Non devono essere troppo facilmente accusati di grave peccato i
giovani d'ambo i sessi, che in certi giuochi si abbracciano
vicendevolmente con decenza e senza pravo intendimento: si devono però
prudentemente stornare da questo genere di giuochi, per il pericolo che
sovente vi è annesso: ma importa alla loro salvezza di non incolparli,
così alla leggera, di peccato mortale.



                   § II.--_Dei toccamenti impudichi_.


1. Io qui alludo al toccare sè stessi o altri con intendimenti
libidinosi: in questo caso c'è peccato mortale.

2. Se questi contatti avvengono per pura necessità, per esempio, per
curare delle infermità non sono in modo alcuno peccati, benchè commovano
gli spiriti genitali, o eccitino polluzione, semprechè non vi sia il
consenso della volontà; ciò è chiarito da quanto si è detto circa la
polluzione.

3. Se, all'infuori d'una legittima causa, toccansi in modo veramente
lascivo altre persone dell'uno o dell'altro sesso, non si va esenti da
peccato mortale, in forza dell'evidente pericolo di emozioni veneree e
di polluzione, in cui s'incorre.

Così devonsi giudicare i toccamenti sulle parti genitali o intorno ad
esse; egualmente, se si pone la mano, voluttuosamente, sulle mammelle
d'una donna, ancorchè siano coperte dalla veste, perchè, per simpatia,
esiste grave pericolo di emozione venerea e di polluzione. Se poi
toccansi soltanto leggermente le vesti d'una donna, credesi non vi sia
peccato mortale, imperochè cotesto atto non è tale da svegliare
direttamente la lussuria.

_La Croix, l. 3, n. 902_, crede probabile che non commettano peccato
mortale le fantesche che toccano le parti genitali dei fanciulli
vestendoli, a meno che esse non facciano ciò con deliberato diletto.
Non penso però che si possano scusare se fanno ciò senza necessità,
perchè qui vi ha pericolo per se stesse e pericolo pei fanciuli, che
cominciano a diventar grandicelli, e specialmente se sono maschi.
Sorveglino i genitori con somma cura le fantesche di perduti costumi, le
quali spesso insegnano malizie ai teneri fanciulli.

4. Non v'ha dubbio che mortalmente peccherebbe quella donna che anche
senza passione di libidine, permettesse che la si toccasse nelle parti
genitali, o vicino ad esse, o nelle mammelle, imperocchè evidentemente
si esporrebbe a pericolo venereo e certo prenderebbe parte alla libidine
altrui è perciò tenuta a respingere subito chi la tocca, rimproverarlo,
percuoterlo, allontanare con forza le di lui mani, fuggire, o gridare se
potesse mai aver speranza di soccorso.--_Billuart, t. 31, p. 478_.

5. Il dilettarsi toccando SENZA RAGIONE, le parti veneree è peccato
veniale o mortale a seconda del pericolo che si corre soffermandosi in
questo atto: il pericolo non è euguale per tutti: molti si commovono
anche per un leggerissimo fatto sensuale e corrono il pericolo prossimo
d'una polluzione; altri invece sembrano di legno e sasso, e non sono
perciò obbligati ad avere tante precauzioni come coloro che sono
sensibilissimi ai piaceri venerei.

Dissi _senza ragione_, imperocchè non sono peccaminosi questi toccamenti
se si compiono per un motivo ragionevole e senza prava intenzione, per
esempio, per pulirsi o per calmare un pizzicore.

Ben più, purchè non v'abbia pericolo di consenso, è lecito toccare se
stesso, anche prevedendo commozione venerea o polluzione, d'altronde
involontaria, se esiste un grave motivo, per esempio, per curare
un'infermità, o, a detta di molti, per calmare un intollerabile prurito,
come sovente avviene alle donne. Vedi _S. Liguori, l. 3. n. 419_.

6. Non si reputano peccati mortali i contatti fatti, per leggerezza o
giuocando, sulle parti genitali d'altra persona dell'uno e dell'altro
sesso, senza che vi sia grave pericolo, di libidine; qui tutta la
malizia risiede nel pericolo, e noi supponiamo che in questo caso il
pericolo sia leggiero. Perciò, lo stringere la mano d'una donna,
premere le sue dita, toccarle leggermente il collo o le spalle, porre il
piede sopra il suo piede, ecc. non è peccato mortale, a meno che, a
motivo della personale gracilità dell'uno o dell'altra, non esista grave
pericolo di libidine.

Al contrario, il giovine che fa sedere una ragazza sulle sue ginocchia e
ve la trattiene, o abbracciandola la preme su se stesso ordinariamente
commette peccato mortale, e la donna non va immune dallo stesso peccato,
se volontariamente a tutto ciò acconsente.

L'esperienza prova abbastanza che atti di questo genere, anche fra
persone del medesimo sesso, generano sovente il grave pericolo di
abbandonarsi a cose oscene: cotesti atti devono quindi essere fuggiti o
prevenuti; e non devono con facilità essere considerati come peccati non
mortali, specialmente quando provengono da passione sensuale.

Questi e consimili atti non sono peccati mortali fra impuberi, perchè
non v'ha in essi pericolo di Polluzione. Pure devonsi i giovani tener
prudentemente lontani da questo genere di spassi, perchè non è mai
troppo presto ch'essi apprenderanno le regole della decenza, e in questa
materia é bene sieno cautamente messi in condizione di non commettere
neanche dei peccati veniali.

7. Il toccare libidinosamente le parti genitali dei bruti è peccato
mortale che appartiene alla bestialità: è pure peccato mortale il
palpeggiarle per curiosità, per giuoco, per leggerezza fino a farne
versare l'umore spermatico, e ciò non tanto per la dispersione del seme
della bestia, quanto perchè tale azione eccita violentemente la libidine
in chi tocca la bestia stessa. Così _S. Liguori, l, 3, n. 420_.
_Collet_, _Billuart_, e molti altri, contro _Diana_ e _Sanchez_, il
quale ultimo ha poscia modificato la sua opinione.

Secondo _La Croix_, _Sanchez_, e _S. Liguori_ non sarebbe peccato
mortale il toccar le parti genitali d'una bestia senza intenzioni
libidinose, sempre che non avvenga perdita di seme; _Concina_, _Collet_,
e _Billuart_, ecc. affermano l'opposto e sostengono che questa azione è
gravemente pericolosa.

Colui dunque che predilige la castità deve astenersi da questi atti; e i
confessori devono comportarsi con molta prudenza verso coloro che
peccano su questa materia, affine di non conturbarli senza frutto o con
pericolo.

Quelli che sono da necessità obligati ad aiutare nei loro accoppiamenti
gli animali domestici, come i cavalli, i tori e i porci, non peccano,
benchè sorgano in essi dei movimenti libidinosi, ai quali però essi non
acconsentano. E' questa opinione universale.



                   § III.--_Degli sguardi impudichi_.


L'esperienza dimostra che la vista influisce meno sulla lussuria che il
tatto: nullameno non si può negare essere gli sguardi impudichi
spessissimo un peccato mortale o veniale secondo l'intenzione, il
consenso, o il pericolo:

1. E' certo--ed è evidente--che certi sguardi, benchè in se stessi
onesti, sono peccati mortali quando avvengono accompagnati da prava
intenzione.

2. Sarà pure un peccato mortale se il guardare impudico eccita i moti
della cuncupiscenza e si presta ad essi assenso.

III. Se, senza necessità o una rilevante utilità, guardansi
_deliberatamente_ le parti veneree o le parti ad esse vicine d'una
_persona più grande_, di sesso diverso, anche senza passione libidinosa,
si pecca mortalmente, imperciocchè questi sguardi eccitano moralmente i
movimenti lussuriosi ed anche la polluzione.

Ho detto: 1. _deliberatamente_, perchè il cadere dello sguardo sulle
parti vergognose d'una persona d'altro sesso, leggermente e per caso
senza bravo intendimento, non è peccato mortale.

Ho detto: 2. d'una _persona più grande_ perchè lo sguardo sopra
fanciulli non eccita la libidine, e non è perciò peccato mortale. Donde
le fantesche e le nutrici che così guardano i fanciulli ad esse
affidati, non peccano mortalmente, almeno che non lo facciano con
compiacenza, o con senso di libidine, o con proprio pericolo.

Similmente gli impuberi che scambievolmente guardansi nudi non peccano
mortalmente, perchè non sono essi ancora capaci di libidine;
diversamente però dovrebbe dirsi, se essi si esponessero a grave
pericolo.

IV. Quegli che si compiace rimirando le proprie parti veneree, pecca
mortalmente, perchè è impossibile che non provengano da ciò dei
movimenti di libidine: la cosa sarebbe diversa, se si guardasse per mera
curiosità e leggermente, ed in special modo se ci fosse luogo a
presumere che non si è incorsi in grave pericolo. Se poi ci fosse una
necessità od una utilità a far ciò, purchè sia escluso qualsiasi
pericolo di libidine, non ci sarebbe peccato alcuno.

E' peccato mortale il dilettarsi guardando le mammelle nude d'una donna
avvenente, perchè è insito in questi sguardi un pericolo. Ma non peccano
coloro che, senza incorrere in uno speciale pericolo, vedono le madri e
le nutrici nell'atto di allattare i loro bambini. Ciò non pertanto,
codeste donne devono prudentemente tenersi nascoste per non dare
incautamente uno scandalo ad altri e specialmente a giovani.

V. E' spesso grave peccato il fissare gli occhi sopra una bella persona
d'altro sesso, perchè una tale attenzione è piena di pericoli:
cionondimeno, se, tutto esaminato, il pericolo non sia grave, e manchi
l'intenzione lasciva, il peccato non è che veniale.

Non è necessario perciò di camminare ad occhi bassi e di non guardare
nessuno bisogna saper tenere, naturalmente e senza sforzo alcuno, una
via di mezzo.

VI. Quegli che, senza emozioni lascive e senza attenzione voluttuosa,
guarda d'una donna qualche parte nuda ma onesta, per esempio, i piedi,
le gambe, le braccia, il collo, le spalle, senza che vi sia uno speciale
pericolo, non pecca mortalmente imperocchè tali sguardi, di solito, non
eccitano gravemente la lussuria, in ispecial modo se è usanza comune il
tener nude quelle parti, come avviene fra le persone d'ambo i sessi che
d'estate lavorano assieme nei campi. Così _Sylvios_, _Billuart_, _S.
Liguori_, ecc.

VII. Il gettare gli occhi, per curiosità o per leggerezza, sulle parti
genitali di persona del medesimo sesso, come avviene fra uomini
nuotatori o donne che insieme si lavano, credesi non sia peccato, a meno
che non esista un intendimento libidinoso o uno speciale pericolo,
imperocchè in quel modo di guardare non c'è grave eccitamento di sensi.
E' chiaro che deve dirsi ll contrario se invece si guardasse con un
certo compiacimento voluttuoso del pensiero. _Così_ dicono _i citati
autori_.

I nuotatori e i bagnanti però provvedano di non esporsi nudi agli occhi
altrui e specialmente a persone di sesso diverso, se vogliono conservar
rispetto al pudore cristiano. Si lavino solitari e in luoghi appartati,
od almeno tengano sempre coperte modestamente le loro parti pudiche.

VIII. Non è peccato mortale il guardare per sola curiosità o per
leggerezza le parti genitali dei bruti e il loro accoppiarsi, imperocchè
da ciò non sorge grave pericolo.

IX. Dicasi lo stesso del guardare pitture e scolture poco decenti, che
non turbano gravemente lo spirito, come sono le immagini o le scolture
d'angeli o fanciulli nudi o quasi nudi che stanno esposte nei tempii
cristiani. Ma i Dottori accusano di peccato mortale coloro che
dilettansi guardando quadri o statue che presentano completamente nude
le parti vergognose di persone d'altro sesso e più adulte, a meno che
essi non sieno tutelati contro il pericolo dell'età fanciullesca, dalla
vecchiaia o da un temperamento insensibile. _S. Liguori, l. 3, n. 334_,
ecc.

E' da notarsi che i baci e i toccamenti si specificano dal loro oggetto,
e perciò, quando sono peccati mortali, devonsi confessare le circostanze
di persona. Non così pensano gli Autori se si tratta di sguardi; molti
però intendono di specificarli anch'essi secondo il loro oggetto; per
ciò, la cosa più sicura è quella di rivelar sempre tutte queste
circostanze. Chi oserebbe affermare, per esempio, che non si debba
confessare la circostanza di un figlio che guarda libidinosamente le
parti genitali della madre, ovvero desidera di guardarle?



                § IV.--_Dell'abbigliamento delle donne_.


Dell'abbigliamento della donne trattano _S. Tomaso; in 2, 2, q. 169,
art. 2_, _Sylvius, t. 3, p. 871_, _Pontas_, _Collet_, _Billuart_, ecc.

E' da notarsi che quest'argomento può essere considerato sotto quattro
aspetti, cioè:

1. Proteggere il corpo contro le ingiurie dell'atmosfera;

2. Coprire le parti pudibonde della natura;

3. Conservare, a seconda dei costumi del paese nativo, la decenza del
proprio stato;

4. Accrescere l'avvenenza e piacere ad altri.

Il 1° e il 2° sono necessari; il 3° è conveniente e lecito, imperocchè
la ragione stessa approva che ciascuno conservi sempre, secondo gli usi
della sua patria, la decenza del proprio stato.

Parleremo dunque dell'abbigliamento del senso come al n. 4°, e ci
occuperemo specialmente dell'abbigliamento delle donne, perchè le donne
sono sempre molto più degli uomini proclive verso questo genere di
peccati e perchè attirando colla loro toeletta gli sguardi degli uomini,
offrono ad essi occasione di spirituale rovina. Per conseguenza:

1. Una donna maritata può decentemente adornarsi colla intenzione di
piacere a suo marito; lo dice _S. Paolo, I, ai Corint. 7, 34_, con
queste parole: «La donna maritata pensi alle cose di questo mondo e a
piacere a suo marito» e con queste altre. _I, a Timot. 2, 9_: «Le donne
devono ornare il loro abbigliamento con verecondia e con sobrietà.»

Perciò possono adornarsi decentemente, a seconda del proprio stato, per
piacere ai loro mariti.

2. La ragazza o la vedova che, giusta la sua condizione, si adorna con
decenza per piacere castamente e per provare uno sposo, non pecca,
imperocchè il matrimonio è in sè stesso lecito: essa può quindi far uso
di quanto è necessario per fare un matrimonio conveniente.

3. Le donne che non hanno marito nè vogliono averlo nè sono in
condizione di averlo peccano mortalmente, come dice _S. Tomaso_, se si
adornano colla intenzione di ispirare amore negli uomini, in quanto che,
in codesto caso, sarebbe un amore non tendente al matrimonio, e per ciò
necessariamente impuro.

A più forte ragione peccherebbero mortalmente le donne che hanno marito,
le quali con tali ornamenti volessero ispirare amore in altri uomini.

Se poi così si abbigliano per leggerezza o per vanità o per parata,
generalmente non peccano mortalmente, ma solo venialmente. Così S.
_Tomaso_, _Sylvius_ e molti altri.

4. Lo imbellettarsi per nascondere qualche difetto naturale, per piacere
al marito, al fidanzato o ad un giovane col quale la donna amoreggia,
non è peccato, giusta _San Tomaso_, _S. Francesco di Sales_, _Sylvius_.
_S. Liguori_, ecc.; ma è peccato mortale se lo si fa per piacere agli
uomini senza tendere a leggittimo matrimonio: anche i S. Padri
dichiarano ciò grave peccato. E' peccato veniale IN SÉ, quando non ci
sia che vanità. Così _S: Tomaso 2, 2, q. 169, art. 2_, contrariamente al
suo seguace _Tournely, t. 6. p. 304_, e a molti altri teologi.

Dissi peccato veniale _in sè_, perchè potrebbe darsi diventasse peccato
mortale a cagione del pericolo, dello scandalo o di altre circostanze
annesse.

5. L'adornarsi con capelli altrui, come si usa adornarsi colla lana, col
lino, colle pelli degli animali, non è peccato, dice _Sylvius_, od è
soltanto veniale se questo abbigliamento e, relativamente al proprio
stato, superfluo o vanitoso. Per lo stesso motivo non è peccato o è
peccato soltanto veniale l'andare a faccia scoperta e l'arricciarsi i
capelli. Egualmente, se cotesta foggia d'abbigliarsi, quantunque fosse
nella comune usanza, pure la si adottasse con cattive intenzioni ed è in
questo senso che devono essere interpetrate le parole di _S. Paolo, I a
Timot, 2, 9_: «Non capelli arricciati, od ornati d'oro o di margherite,
non vesti preziose» e le altre di _S. Pietro, I Epist. 3, 3_.

6. E' evidente peccato mortale l'indossare le vesti di un altro sesso
con intenzioni lascive, o con grave pericolo di lussuria, o con notevole
scandalo: ma non è peccato se, escluso ogni scandalo e pericolo, si
indossano per necessità, verbigrazia, per occultarsi, o perchè non si
hanno altri vestimenti. Se invece s'indossano per gioco o per sola
leggerezza, escluso scandalo e pericolo, è soltanto un peccato veniale.
Così _Sylvius_, interpretando _S. Tomaso_, dice che il precetto del
_Deut. 22, 5_: «non indossi la donna abiti mascolini nè l'uomo vesti
femminee, imperocchè tal cosa è abbominevole in faccia a Dio» è in parte
_positivo_, e per questa ragione obbligava sotto pena di peccato mortale
gli israeliti; ma la nuova legge lo abrogò: ed è in parte _naturale_ e
sotto questo rispetto obbliga ancora, secondo le circostanze, sotto
pena di peccato mortale o veniale.

7. Per la stessa ragione devesi dire che coloro i quali fanno uso di
maschere non peccano sempre mortalmente, p. e. se ciò fanno per spasso o
per leggerezza, escluso ogni pericolo ed ogni scandalo, specialmente poi
quando non indossano vesti dell'altro sesso, ma soltanto quelle d'una
altra condizione sociale, come se un servo vestisse gli abiti da
padrone, o una domestica figurasse collo abbigliamento di signora.
Questa opinione è però contradetta da _Pontas_ e da _Collet_.

Raramente vanno immuni da peccato mortale quelli che usano strane e
singolari vesti o maschere in publici ritrovi, e ciò in causa della
indecenza, del pericolo e dello scandalo che provocano. Egualmente
dicasi di coloro che fanno professione di comporre e vendere tali vesti
e maschere destinate ai soli travestimenti. Ma non è così di coloro che
divertonsi guardando i mascherati, a meno che essi stessi non diano,
sotto qualche aspetto, uno scandalo come se fossero, per esempio, preti.

8. Mettere a nudo le poppe e coprirle con una veste così fina che esse
traspaiano, è peccato mortale, imperocchè è questo un grave incentivo
alla libidine; così _Sylvius, t. 3. p. 872_. Il denudare però
moderatamente il seno, conforme a consuetudini ammesse, e senza che ci
sia mala intenzione e pericolo, non è peccato mortale. Così _S.
Antonio_, _Sylvius_, _S. Liguori, l. 2, n. 55_, ecc.

A più forte ragione, non è di sua natura grave peccato snudare le
braccia, il collo e le spalle secondo le usanze del proprio paese,
ovvero leggermente coprirli. Ma però, a detta dei citati Autori,
ritiensi che pecchino mortalmente coloro che introducono quelle usanze.



        ARTICOLO III.--_Dei Turpiloqui, dei Libri osceni, delle
                Danze o dei Balli e degli Spettacoli_.



                        § I.--_Dei Turpiloquii_.


1. Il discorrere intorno a cose oscene non è IN SÈ assolutamente un
male, e lo prova l'esempio dei medici, dei teologi, dei confessori,
ecc. che possono parlare di queste cose senza peccare.

2. Sono peccati mortali, al contrario, tutte le parole oscene ed anche
le semplici frase ambigue dette con intenzioni lascive o con volontario
diletto carnale, o con grave pericolo di trascinare sè od altri ad
acconsentire alla lussuria. Questo peccato s'aggrava in ragione del
numero delle persone che ascoltano e alle quali nuoce. La cosa è
evidente.

Così, il parlare gravemente osceno, come il nominare le parti vergognose
dell'altro sesso, il parlare dell'accoppiamento carnale e dei modi di
questo accoppiamento, ancorchè si parli senza piacere voluttuoso, ma per
leggerezza affine di eccitare il riso, è reputato peccato mortale,
perchè tale linguaggio eccita, di sua natura, movimenti libidinosi,
_specialmente_ nelle persone (sia che parlino o che ascoltino) le quali
_non sono conjugate_ e sono ancor giovani: e ciò dice pure _S. Paolo, I
ai Corint., 15, 33_: «I cattivi discorsi corrompono i buoni costumi.» Io
dissi, _persone specialmente non conjugate_, per la ragione che
certamente i conjugi non si commoverebbero tanto facilmente essendo essi
già assuefatti agli atti venerei.

Coloro però che dicono parole oscene in presenza di persone conjugate ma
che non sono però coniugati fra loro, è ben difficile che non pecchino
mortalmente.

3. Le parole leggermente oscene e le frasi equivoche proferite per vano
sollazzo o per ischerzo non sono peccato mortale, a meno che gli astanti
non sieno tanto deboli da sentirne il pericolo. Per lo che quegli
intercalari meno onesti ehe i mietitori, i vendemmiatori, i mugnaj ed
altri operai sogliono proferire, non sono generalmente peccati mortali,
imperocchè ordinariemente commovono ben poco e chi li dice e chi li
ascolta. Così _S. Antonio_, _Sanchez_, _Lessius_, _Bonacina_, _Sylvius_,
_Billuart_, _S. Liguori_, _ecc._ Sarebbe a dirsi diversamente, se ci
fosse grave pericolo, o si desse scandalo.

4. Quegli che ascoltano cose oscene, o hanno autorità su coloro che le
proferiscono, o non l'hanno: se lo hanno, si debbono ad essi opporre per
quanto moralmente lo possono; se non l'hanno, sono obbligati ad
ammonirli, o almeno a risponder loro col silenzio; specialmente le
donne devono procurare di non sembrare che acconsentano a quelle
lubricità, imperocchè se vi acconsentissero rinfocolerebbero negli
uomini l'ardore libidinoso.

Non si deve però con facilità osseverare che peccano mortalmente coloro
che, per ridere, ascoltano turpiloquii che sono peccati mortali in chi
li proferisce, imperocchè può essere che il riso sia piuttosto provocato
dal modo con cui si dicono quelle cose, che dalle cose in sè stesse: in
questo caso, non si pecca mortalmente, a meno che non ne risulti uno
scandalo. Ma lo scandalo è facilmente provocato se coloro che, ridendo,
ascoltano questi discorsi osceni, sono religiosi, preti, o persone che
godono riputazione di virtù cristiana.

6. Quelli che esercitano autorità su altri, e soprattutto i pastori e i
confessori, devono diligentemente procurare che gl'inferiori ad essi
affidati non contraggano l'abitudine di parlare o di cantare, poco
castamente, memori delle seguenti parole di S. Paolo: «Non si parli tra
voi di fornicazione.... e d'altre impurità;... siate come santi, e
ritenete sconveniente a voi ogni turpitudine, ogni stolta parola, ogni
scurilità.» (_Ef. 5, 3 e 4_).

7. I colliqui affettuosi tra persone di sesso diverso, specialmente se
sono lunghi, sovente ripetuti, e tenuti in luoghi appartati, sono
occasioni molto pericolose e sintomi che la castità è vicina a far
naufragio: devonsi quindi cautamente evitare, benchè sia permesso il non
considerarli sempre come peccati mortali.

8. I confessori più giovani devono soprattutto procurare di non mettersi
in rapporti troppo sensibili colle fanciulle e colle spose, perchè ciò
produce frequentemente perdizione di anime e discredito alla religione:
e quando si avvedessero di qualche primo sintomo di disordinata
affezione, non temano di rintuzzarla con violenti propositi, e se ciò
non basta, confidino le loro penitenti ad altri confessori: altrimenti,
esse saranno incautamente perdute, ed assieme ad esse si perderanno pure
essi medesimi.

In nome della gloria di Dio e della loro salute eterna noi scongiuriamo
tutti i sacerdoti affinchè, ottemperando fedelmente agli statuti dei
Concilii, non tengano mai con sè giovani donne, nè vadano a visitarle,
nè parlino troppo famigliarmente con esse, e molto meno le abbraccino o
le conducano nella loro camera da letto. Oh! quanti mali provennero da
ciò, e quanto obbrobrio alla religione!!!



                       § II.--_Dei libri osceni_.


Qui non si parla de' libri eretici ed empii, ma soltanto dei libri
opposti ai buoni costumi, specialmente di quelli che volgarmente si
chiamano _Romanzi_, i quali solitamente contengono amori illeciti e
narrazioni così congegnate e disposte da poter eccitare disordinate
libidini.

1. Quelli che scrivono libri gravemente osceni peccano mortalmente,
imperocchè dànno a molti occassione di rovina spirituale, e non possono
quegli scrittori invocare ragione alcuna che li scusi.

2. Similmente è impossibile trovare una giustificazione sufficente per
coloro che fanno professione di vendere cotesti libri: peccano
mortalmente dunque quei librai che li tengono nel loro negozio, che li
espongono e li vendono al pubblico.

3. E', DI REGOLA, peccato mortale leggere libri di questa fatta, sia che
si leggono per libidine, sia per leggerezza, per curiosità, o per
ricreazione, perchè, di loro natura, commovono i sensi e conturbano la
immaginazione, ed accendono in cuore fiamme impure. Dico _di regola_,
perchè non voglio assoverare che pecchino mortalmente coloro che, per
sola curiosità, leggono tali libri, se la loro provetta età, per il loro
temperamento freddo, o per la abitudine di trattare questioni veneree,
non incorrono in grave pericolo.

4. V'hanno libri che raccontano amori leciti o illeciti, i quali non
suscitano gravemente la libidine, non commovono i sensi, non espongono a
notevole pericolo, come sono molte tragedie, commedie o altri poemi:
quelli che, senza grave pericolo per sè e senza scandalo per altri,
leggono tali libri per mera curiosità, non peccano mortalmente; se poi
ciò facciano per causa legittima, per esempio, per istruire, per
acquistare o perfezionare l'eloquenza non peccano, supposto sempre, che
non ammettano né trascurino i doveri ad essi imposti dal loro stato.
Raramente possono i preti darsi a queste letture senza peccare, perchè
facilmente negligerebbero i loro doveri, o darebbero scandalo ad altri.
La esperienza prova, non fosse altro, che, cosí facendo, essi prendono a
noia la pietá, si sentono incapaci di proseguire nelle loro opere, si
estingue in essi lo spirito della devozione e del fervore, ecc.[10].

[10] E sono questi precisamente gli effetti che produce sui
preti--specialmente se sono giovani--Lo studio ch'essi fanno sul
_Manuale dei confessori_. (_Nota del traduttore_)

Questa specie di libri, di cui a questo n. 4° si parla, sono spesso
assai più nocivi, ai fedeli di quello che se fossero interamente osceni,
imperocchè in quest'ultimo caso susciterebbero nausea. Bisogna quindi
allontanare i penitenti da coteste letture.

Coloro che scrivono questa specie di libri, benchè non sieno libri
gravemente osceni, pure peccano non di rado mortalmente perchè senza una
sufficiente ragione trascinano molti a rovina; ma credesi che così
gravemente non pecchino coloro che li vendono, imperocchè, da quanto
dicemmo, molti li possono leggere senza peccare o almeno senza peccare
mortalmente, e perciò, comperandoli, peccherebbero, tutt'al più,
venialmente. I librai poi che li tengono nei loro negozi e li vendono ai
richiedenti, possono star tranquilli; essi non peccano.

5. I padri di famiglia, i maestri di scuola, i direttori e tutti coloro
a cui sono affidate altre persone devono stornare quanto possono i loro
inferiori dalla lettura di questi Romanzi ed assuefarli invece a studii
pii, santi e gravi: questo è il solo mezzo per formare uomini eruditi,
sensati, amanti della virtù, difensori della religione e della società
idonei a dirigere la propria famiglia, e adatti, a qualunque affare.



                   § III.--_Delle danze o dei balli_.


Danze e balli sono vocaboli sinonimi, che esprimono certi modi di
divertimento o di ricreazione, noti a tutti. Ci sono tre generi di
danze: 1° fra persone dello stesso sesso, fra maschi, o fra femmine,
senza atti, gesti o parole impudiche; questo genere di danze è, non v'ha
dubbio alcuno, lecito; 2° fra persone dello stesso sesso o di sesso
diverso, con modi non onesti o con pravi intendimenti; e ciò è, senza
dubbio, da doversi biasimare da tutti; 3° fra maschi e femmine, con modi
onesti e senza pravi intendimenti; ed è su quest'ultimo genere di danze
che gli Autori non s'accordano punto.

«Gli scrittori di teologia morale--Dice _Benedetto XIV, Ist. 75_--con
unanime giudizio affermano che non commettono peccato alcuno coloro che
si danno alla danza.... Ma i S. Padri invece proclamano che le danze
nuocono perchè invitano al peccato.»

Cionompertanto i teologi moralisti e i S. Padri con ciò non si
contraddicono, per la ragione che i primi parlano delle danze guardate
solo _in sè medesime_, e gli altri avvertono, principalmente che esse
ponno indurre in pericolo. Così _P. Segneri e S. Liguori, l. 3, n. 429_,
nei loro commenti a _Benedetto XIV_, ecc.

Ecco dunque sul tappeto due opinioni controverse, cioè:

1. I balli non sono, _per sè stessi_, illeciti.

2. I modi consueti di ballare sono pieni di pericoli.

Ciò premesso, è cosa di grave momento lo stabilire in pratica delle
regole di condotta per dirigere le anime.

1. È peccato mortale assistere a danze gravemente disoneste, sia per le
nudità che vi appaiono, sia pel modo di danzare, o per le parole, pei
canti, pei gesti che vi si fanno: per ciò, il ballo tedesco chiamato
_walser_ non può mai essere permesso, né generalmente i balli con
maschere o con abiti che lasciano nude le parti disoneste del corpo.

2. Coloro che, per debolezza personale, soggiaciono a grave pericolo di
lussuria nei balli, devono astenersene sotto pena di peccato mortale, a
meno che--cosa impossibile--non vi sieno costretti da urgente necessitá,
ma anche in questo caso devono non essere nel pericolo di prestarvi il
loro consenso volontario.

A questi peccatori, fino a che non si sieno emendati, o sinceramente
promettano di astenersene in seguito, devesi negare l'assoluzione.

3. Coloro che dànno scandalo, benchè danzino non disonestamente peccano
mortalmente, a meno che non sieno scusati da una necessità, se pure in
questo caso è possibile una necessità. La cosa è evidente. I monaci, i
religiosi, i preti inferiori, che danzano in publici balli, non vanno
immuni da peccato mortale, quantunque danzino castamente. Tale sembra
l'opinione di molti teologi e fra essi _Benedetto XIV_, il quale nelle
_Istit. 76_, già citate, interdice rigorosamente le danze ai sacerdoti e
ai preti, e dimostra la sua interdizione con ragionamenti e con
testimonianze.

Lo stesso Pontefice, secondo _S. Tomaso_, dice: «Se le danze si fanno da
preti e sacerdoti, fra loro, non in presenza di laici, per solo sollazzo
e leggerezza, sono peccati, ma non mortali.»

4. Non è peccato il ballare moderatamente, o l'assistere a danze oneste
per qualche necessità o per convenienze sociali, senza però che vi sia
pericolo alcuno di lussuria.

In questi casi non ci potrebbe esere peccato se non allorquanto si
offrisse occasione di far peccare altri, o di partecipare agli altrui
peccati; ma nella nostra ipotesi vi ha sufficiente ragione per
permettere una cosa che avviene all'infuori della propria volontá.

Una donna avvenente, abbigliata con decenza, non è tenuta ad astenersi
dall'andare in chiesa o ai pubblici passeggi per il pretesto che puó
essere dessa per molti una occasione di peccato. Dicasi egualmente, pei
balli onesti ed in sè stessi non pericolo per lei, se per andarvi essa
ha una ragione sufficente: il che verrà poi determinato secondo i casi
speciali: per esempio, una giovine fidanzata non potrà esimersi
dall'assistere ai balli che nella casa paterna o presso i vicini o
parenti si fanno onestamente, nè potrà ricusare l'offerta fattale di
danzare senza esporsi alla derisione o senza spiacere ai genitori o al
suo fidanzato che la invita alla danza. Essa, ballando decentemente e
con intenzioni pure, non pecca.--_S. Francesco di Sales_ così dice nella
_Introd. alla vita devota, 3 part. ch. 23_:

«Io vi parlo delle danze, o Filoteo, come i medici parlano delle varie
specie dei funghi: i migliori funghi non valgono nulla, dicono essi, ed
io vi dico egualmente dei balli migliori: non sono buoni. Cionondimeno,
se bisogna, proprio mangiare dei funghi, state attenti a che sieno molto
ben preparati. Se per qualche circostanza, che voi non potete proprio
evitare, dovete recarvi a un ballo, badate a che il ballo sia bene
preparato. Ma come deve essere egli bene preparato? Dev'essere preparato
con modestia, con decoro, e buone intenzioni.--Mangiatene pochi e di
rado (dicono i medici parlando dei funghi), perchè, quantunque ben
preparati, la loro quantità può essere un veleno.--Danzate poco e di
rado, o Filoteo, perchè, diversamente facendo, voi vi mettete nel
pericolo di appassionarvi ai balli.»

Non è fuor di luogo l'osservare che il pio Vescovo vuole che i balli si
facciano modestamente, con pure intenzioni, e di rado: e notisì che a
quei tempi, essendo i costumi molto più semplici che adesso, tali
divertimenti erano molto meno pericolosi.

5. L'assistere e il prender parte decentemente a danze oneste, senza che
vi sia grave pericolo è notevole scandalo, ma però senza che vi sia una
ragione sufficiente per giustificare la danza, è peccato, ma soltanto
veniale: che sia peccato, nessuno lo mette in dubbio; che poi sia
peccato soltanto veniale, risulta dalla stessa ipotesi proposta. I
teologi però più rigidi non ammettono quelle ipotesi, e sostengono che
in ogni ballo ove danzano promiscuamente uomini e donne c'è sempre il
pericolo grave di lussuria; nè doversi prestar fede a coloro che dicono
non provare nel ballo movimenti disordinati nè compiacenze voluttuose.
Ma non è sopra presunzioni che devono essere giudicati i penitenti, e
quando si sieno con prudenza interrogati, non devono essere creduti più
rei di quanto appare dalle stesse loro dichiarazioni, a meno che non
risulti evidentemente ch'essi si illudano ovvero che vogliono ingannare.
Se malgrado una diligente attenzione, il confessore si sarà ingannato e
concederà l'assoluzione, sarà sempre innocente davanti a Dio; ma se, al
contrario, sopra una semplice presunzione avesse respinto un penitente
ben disposto di coscienza, sarebbe colpevole di una grave ingiustizia.

Non bisogna dunque temerariamente giudicare indegni di assoluzione
degli uomini e delle donne perchè hanno danzato od assistito a danze; e
spesso non è nemmeno cosa prudente esigere da essi, sotto pena di negar
loro l'assoluzione, la promessa che non danzeranno più, né più
assisteranno a danze.

6. Nonpertanto, le danze, come soglionsi ora fare, sono sempre
pericolose; perciò i confessori, i parroci e tutti coloro a cui è
affidata la cura d'anime devono tenerne lontani, quanto più possono, i
giovani d'ambo i sessi. Non potendo impedire i balli, devono diminuirne
per quanto é possibile i pericoli annessi, esigendo, per esempio, di non
ballare in giorni di penitenza, durante i divini uffici, nei ridotti ove
convengono uomini e donne dissolute d'ogni conio, e a notte avanzata.

I sacerdoti non possono mai dare positiva approvazione a questi
sollazzi, o partecipare ad essi, o ad essi assistere; li devono anzi
continuamente disapprovare, come pericolosi almeno come poco conformi
alle virtù cristiane; ma altro è disapprovarli, altro il ricusare i
sacramenti della Chiesa indistintamente a quelli che fanno uso di questi
sollazzi.

7. Quel sacerdote che prudentemente giudica, che, usando molto rigore,
riuscirebbe a far scomparire dalla sua parrocchia i balli, può
sospendere od anche negare l'assoluzione a quelli che accorrono ai
balli, imperocchè se v'ha chi non pecca mortalmente in queste danze,
tuttavia, favorendole, o ostacolandole l'abolizione, non fanno che
apprestar lacci ad altri, e perciò, sotto questo rispetto non vanno
facilmente immuni da grave peccato.

8. Se poi nessuna speranza ci fosse di toglier di mezzo questi balli,
come bene spesso avviene, una soverchia severità nuocerebbe alla
salvezza delle anime. Infatti, molte persone pensano essere questi
sollazzi leciti, o non gravemente illeciti, e rifiutano perciò di
astenersene, sacrificando ad essi anche la confessione, la Eucarestia e
le sacre funzioni. Sciolti in allora d'ogni freno, s'ingolfano in ogni
genere di esiziali dissolutezze: e se inoltre v'ha in queste persone
ignoranza, corruzione, abitudini con uomini perduti, pregiudizi contro
la religione e i suoi ministri, allora indurano sempre più nella
perversità e non si correggono più: spesso nel matrimonio si comportano
indegnamente, scandalizzano i domestici, educano male i figli, e così
l'empietà si sviluppa, e la depravazione dei costumi aumentando ognor
più, non lascia loro via alcuna per fare il bene.

Date queste circostanze, devonsi trattare benignamente i penitenti che
assistono alle danze, stornarli da questi pericoli colla persuasione e
colle preghiere, dare ad essi salutari consigli in proposito; se mai
ricadessero, redarguirli paternamente, differire l'assoluzione; e
riconosciuti finalmente contriti, benchè non siano ancora immuni di ogni
peccato, assolverli, ammetterli alla comunione almeno alla Pasqua: in
tal modo, si provvede più efficacemente alla loro salute e si fa del
bene alla religione.

Dai suesposti principii scendono queste conseguenze che qui notiamo,
cioè:

1. Ove le danze sono in uso e reputansi lecite ovvero cose indifferenti,
non sono da proscriversi pubblicamente; è permesso tuttavia predicare
contro i peccati che soglionsi in esse commettere, facendolo però con
caste parole affine di non offendere menomamente le orecchie pudiche
dello uditorio. Conviene altresì parlare con molta cautela delle persone
che frequentano quelle riunioni o che le tengono in propria casa; non
devono perciò essere queste notate di infamia. E, prudentemente, non
devonsi mettere in pubblico tutti coloro che ballano o che ai balli
assistono, e dire che essi non sono ammessi, per questo motivo, alla
comunione pasquale

2. Il confessore non può dunque respingere indistintamente tutti coloro
che non vogliono rinunciare affatto alle danze, peraltro oneste; come
non può tutti assolverli senza differenza alcuna, Perciò, deve ben bene
pesare tutte le circostanze dei balli, circostanze di luogo, di tempo di
durata, di persone astanti, dal pericolo a cui i penitenti si espongono,
ecc. ecc.

3. Coloro che tengono pubblici balli, ove convengono giovani d'ambo i
sessi senza distinzione alcuna, come sogliono fare molti per mestiere,
non possono essere assolti; per la ragione che tali riunioni si reputano
semenzai di vizii e di corruttele; e l'esperienza lo prova. Per lo
stesso motivo, non possono essere ammessi alla assoluzione i suonatori
che presenziano i danzatori in questi balli, a meno che non promettano
di abbandonare questo loro mestiere.

4. Non devono essere trattati colla stessa severità coloro che, per
straordinari divertimenti celebrati per ordine della pubblica autorità,
o abbiano prestato la loro casa, o procurato i suonatori, o, suonando
essi stessi, abbiano assistito alle danze: e ciò perchè, se pure ne
risulta un pericolo, vi ha ragione sufficiente per ammetterlo, e per
esimere, se non da peccato veniale, certo da peccato mortale. Del resto,
i parroci e i confessori devono prudentemente dissimulare ciò che, in
questi casi, non possono impedire.

5. Io non credo poi rei di peccato mortale quelli che, soltanto qualche
volta durante l'anno, per esempio, nella epoca della messe, nei giorni
della vendemmia sogliono offrire balli alla famiglia, ai vicini, o ai
lavoratori. Li biasimerei, ma alla comunione pasquale li assolverei:
egualmente mi comporterei coi suonatori; e a più forte ragione con loro
che, senza uno speciale pericolo, avessero, in questi casi, danzato.

6. Nè vorrei rigorosamente negare l'assoluzione a tutti quelli che,
nelle pubbliche feste da ballo, danzano qualche volta. Vi possono essere
delle ragioni che scusano, non da ogni peccato, ma dal più grave, il
peccato mortale per esempio, se un giovane si esponesse, non danzando,
alla derisione dei compagni, o se una ragazza venisse sprezzata dal suo
fidanzato quando rifiutasse di danzare, per lo contrario, non ammetterci
scusa per quei suonatori che in queste pubbliche feste da ballo fanno
professione di suonare, perciocchè, senza una giustificazione
sufficente, favoriscono in molti l'occassione di peccare.

7. Credo che non si possa assolvere, nemmeno a Pasqua, quegli che
vogliono frequentare di giorno e di notte pubblici balli, perchè
espongorsi a pericolo evidente, e infatti l'esperienza ci dice che
costoro sono quasi tutti gente corrotta.

Non sarà fuor di proposito riferire qui parola per parola la decisione
che il dottissimo e sapientissimo _Tronson_, consultato da un vescovo
sulla questione dei balli, emise il 29 maggio 1684, relativamente alle
ragazze che vogliono danzare. Così egli si esprime: «1. I confessori
devono stornare, per quanto lo possono, le loro penitenti dalla danza,
soprattutto se a danzare vi sono dei giovani: 2. Devono negare ad esse
l'assoluzione, se il ballo è per esse un'occasione di peccato, sia in
causa di cattivi pensieri o d'altro, e se esse non vogliono promettere
di astenersene,: 3. Se poi il ballo non è per esse un'occasione di
peccato, e se non e in alcun modo scandoloso, stenterei molto a
condannare i confessori che dessero ad esse l'assoluzione, supposto che
il vescovo non abbia espressamente vietato di darla; 4. Siccome molto
spesso vi ha pericolo nella danza e avviene sovente che quelle ragazze
stesse a cui non è occasione di peccato, vi si affezionano, i confessori
possono dar loro per penitenza di astenersene per un tempo più o meno
breve, secondochè essi le troveranno più o meno disposte, e secondo la
necessità del caso; o rifiuterassi loro l'assoluzione, se esse non
voglion promettere di astenersene. Ad ogni modo, credo che in questi
casi sia sempre necessaria molta prudenza.»

Il pio dottore dice allo stesso vescovo che, imbattendosi egli in tali
difficoltà, soleva seguire prudentemente il consiglio che S. Agostino
dava al vescovo Aurelio, pur deplorando le gozzoviglie che in Africa
erano frequenti nei cimiteri col pretesto di celebrare col cibo e colle
bevande la memoria dei martiri: «(_Epist. 22, t. 2. p. 28_). Non è
certamente, per quanto io penso, colle asprezze, colle durezze, nè con
modi imperiosi che si ponno togliere quegli inconvenienti: ma più
coll'insegnare che col comandare, più consigliando che minacciando. È
così infatti che bisogna agire coi più: la severità non può esercitarsi
che contro ben pochi peccatori.»

_Cajetano_ e _Azor_ insegnavano che i balli non dovevansi proibire nei
giorni domenicali e festivi, perchè essi non erano infine che segni di
letizia, e perchè specialmente se fatti sotto la sorveglianza del
pubblico, non implicavano alcun pericolo; di più, perchè essi aprivano
l'adito a matrimonii, e perchè, specialmente nelle campagne, tolto
questo svago, si correva incontro a un maggior pericolo, a quello cioè
dell'oziosità, dei colliquii intimi e dei propositi insidiosi.

Più rettamente giudica _Sylvius, t. 3, p. 801_: «Non doversi inibire le
danze ai contadini, come se, ciò facendo, dovessero essi peccare
mortalmente: doversi invece con buoni consigli e colla persuasione
dissuaderli, facendo loro vedere che il più delle volte da quelle danze
nascono molti peccati, ancorchè fatte in pubblico; né è facile evitare i
falli, permettendole.» E questo è pure il sunto della nostra dottrina.

Ciò che abbiamo detto dei balli--salve le proporzioni--é a dirsi pure
dei notturni convegni, volgarmente detti _veglie o veglioni_. Tuttavia,
in questi non ci sono generalmente tutti quei pericoli che si
riscontrano invece in certi altri balli. Del resto, per giudicare
rettamente gli uni e gli altri conviene ben ponderare tutte le
circostanze; se essi hanno luogo fra parenti, fra vicini, fra amici fra
persone costumate, sono certamente assai meno pericolosi: guardiamoci
bene adunque da una soverchia indulgenza come da una soverchia severità;
atteniamoci sempre ad un giusto mezzo.



                       § IV.--_Degli spettacoli_.


Tutti ammettono che gli spettacoli non sono _per sè stessi_ un male,
perciò si videro un tempo rappresentate delle tragedie anche nei collegi
religiosi. Se le produzioni teatrali dunque non fossero invereconde, nè
atte ad accendere la libidine, si potrebbero rappresentare, e a più
forte ragione, si potrebbe assistere ad esse. Ma essendo esse
generalmente pericolose, o in sè stesse, o per le conseguenze che ne
derivano, conviene stabilire delle norme pratiche.

I. Quelli che compongono o rappresentano commedie notabilmente sconcie,
peccano assolutamente di grave peccato, in causa dello scandalo dato,
benchè da essi non voluto: così anche i teologi non sospetti di severità
come _S. Antonino_, _Silvestro_, _Angelo_, _Sanchez_, _S. Liguori_ ecc.
Nè può essere addotto, come ragione scusante, il grosso lucro che da
esse se ne ritrae, imperocchè in allora non si capirebbe più perchè non
fosse egualmente scusata la prostituzione.

II. E' pure peccato mortale incoraggiare commedie notevolmente oscene
col danaro e con gli applausi in teatro, perchè in questi casi c'è
positiva cooperazione a cose mortalmente peccaminose. Così pensa,
contrariamente a qualche teologo, _S. Liguori, l, 3. n. 427_, il quale
attesta di aver mutato parere dopo di essere stato di opinione
contraria.

III. Ordinariamente, anche chi scrive commedie e tragedie non molto
oscene o le rappresenta in teatro, pecca di peccato mortale, in causa
del pericolo annesso a queste rappresentazioni, o dello scandalo che da
esse deriva. Perciò gli attori e le attrici furono nel Concilio d'Arles
(_anno 314 can. 5_), scomunicati, e, «almeno in Francia,» vennero fin
qui considerati come infami: perciò ricusati ad essi i sacramenti della
Chiesa, anche negli estremi di vita, a meno che non promettano di
rinunciare alla loro professione.

Ho detto _almeno in Francia_ perchè in Italia, in Germania, in Polonia
ed in altri, paesi, non vengono esclusi dai sacramenti della Chiesa
coloro, uomini e donne, che prendono parte a rappresentazioni teatrali;
ma è libero ai confessori di accoglierli o respingerli a seconda della
natura della rappresentazione scenica a cui avranno partecipato.

IV. Lo assistere a scene teatrali notevolmente sconcie, è peccato
mortale in causa di pensieri libidinosi che esse suscitano. Ciò è
evidente: se poi ciò avvenga per sola curiosità o per vano sollazzo,
stimasi sia soltanto un peccato veniale purchè non v'abbia pericolo di
acconsentire alla lussuria; ma questa opinione è troppo indulgente e
deve invece reputarsi un peccato mortale, sia per la ragione dei
pericolo, dello scandalo, e della cooperazione che si presta ad
un'azione mortalmente cattiva.

V. Ma se le produzioni teatrali non sono notevolmente oscene, ne
rappresentate in modo osceno, non è peccato mortale l'assistere ad esse,
semprecchè non v'abbia uno speciale pericolo e scandalo. L'azione
dell'assistere a coteste rappresentazioni non può essere peccato
mortale, se non in quanto essa cooperi a far abbracciare la professione
d'attore: ora, il semplice assistervi--escluso lo scandalo--non è certo
un cooperare a far degli attori. Così _Sanchez_, _S. Liguori_ e in
generale i teologi stranieri.

Non ci sarebbe peccato alcuno, se una causa ragionevole di necessità, di
utilità o di convenienza sociale persuadesse qualche persona ad
assistere a spettacoli non osceni, nè gravemente pericolosi in sè,
imperocchè c'è sempre qualche sufficiente ragione di scusa là dove non
si può che molto indirettamente a far peccare altrui o, se si espone sè
medesimi in qualche pericolo, è un pericolo molto lontano.

A simili spettacoli possono assistere senza peccato:

1. Le donne maritate, purchè ciò non dispiaccia ai loro mariti;

2. I domestici e le domestiche, per servizio dei loro padroni;

3. I figli e le figlie di famiglia, se tale è la volontà dei loro
parenti;

4. I soldati e i magistrati, incaricati di vegliare al mentenimento del
buon ordine;

5. I re e i principi, affine di conciliarsi l'affetto dei loro sudditi;

6. Le persone che seguono il principe, ecc.

Tutti costoro non peccano, ma ad una condizione, cioè che assistano agli
spettacoli senza intenzioni lubriche e senza acconsentire a emozioni
voluttuose, caso mai insorgessero.

Contro gli spettacoli scrissero espressamente il _Principe De Conti_,
_Nicole_, _Bossuet_, _Desprez-De-Boissy_: li hanno pure condannati,
l'autore dell'opera intitolata: «CONTE DI VALMONT« _Tromageau_, _Pontas_
e quasi tutti i nostri teologi. Lo stesso _G. G. Rousseau_, in una lunga
ed eloquente lettera a _D'Alembert_, li biasimò fortemente. Molti altri
si potrebbero citare, come _Racine_, _Bayte_, _La Mothe_, _Presset_,
_Riccoboni_, i quali enumeravano tutti i pericoli del teatro, e, dolenti
di avervi cooperato, opinavano che gli spettacoli potevano abolirsi.

Non intendiamo certamente opporsi a tanti uomini illustri, nè vogliamo
in modo alcuno sostenere ch'essi errarono o che furono troppo rigorosi
nella loro condanna ai teatri. Diremo volentieri con _P. Alessandro (l.
40, in-8°, p. 358_) »La frequenza agli spettacoli e alle commedie è
pericolosa alla castità, e nociva in molte guise all'anima: talchè un
cristiano può appena appena assistervi senza peccare.»

Essendo gli spettacoli pericolosi, ne consegue direttamente che si deve
avere ogni cura per allontanare i cristiani, ma non ne deriva perciò che
tutti coloro i quali vi intervengono anche senza una causa scusante,
pecchino mortalmente e sieno indegni di assoluzione.

Quegli che colle parole o cogli scritti intendono provvedere alla
integrità dei costumi o difenderla, esaminino bene ciò che v'ha di
lecito e d'illecito nei divertimenti teatrali; espongano diffusamente le
circostanze dalle quali provengono conseguenze perniciose; e raccolgono
molte testimonianze di S. Padri, di Concilii e di dottori, a conferma
della verità che inculcano.

Ora stabiliamo le norme pei confessori. Per quanto è possibile dobbiamo
distinguere il peccato mortale dal veniale, imperciocchè chi è reo di
peccato mortale deve essere trattato molto diversamente da chi si è
macchiato soltanto di peccato veniale.

Io non assolverei:

1. Gli attori e le attrici, nemmeno negli estremi di vita, a meno che
non rinneghino la loro professione;

2. Gli scrittori che compongono opere piene di illeciti amori, da
rappresentarsi in teatro;

3. Quelli che direttamente cooperano alle rappresentazioni teatrali,
come le cameriere che abbigliano le attrici, e coloro che fanno
professione di vendere, noleggiare o fabbricare bastimenti destinati al
solo uso dei teatri;

4. Quelli che, assistendo alle rappresentazioni sceniche, dànno grave
scandalo, come sarebbero tutte quelle persone che godono riputazione di
cristiane virtù, a meno che non vi sieno spinte da grave necessità;

5. Quegli che, per proprie circostanze personali, si mettono in un grave
pericolo di lussuria;

6. Quelli che, senza un ragionevole motivo di scusa, intervengono con
frequenza a tali divertimenti, benchè non incorrano in grave pericolo nè
diano scandalo, imperocchè una simile abitudine non può conciliarsi
colla vita cristiana;

Assolverei, per lo contrario, e ammetterei alla comunione pasquale:

1. Quelli che ponno dare al peccato un motivo sufficiente di scusa;

2. Quelli che qualche volta soltanto, o solo in determinate citcostanze,
assistono a spettacoli in sè stessi non notabilmente disonesti,
semprecchè non vi abbia pericolo, nè scandalo;

3. Quelli che cooperano alle rappresentazioni teatrali soltanto in modo
lieve e indiretto, per esempio, facendo pulizia nel teatro, restaurando
un edificio, ecc., ecc.

Del resto, in molti paesi stranieri i confessori non negano
l'assoluzione a quei penitenti che alle produzioni teatrali, che
ordinariamente si rappresentano, vi assistono per mera curiosità o per
sollievo, e senza gravo pericolo: nè la negano egualmente a coloro che
cooperano a rappresentazioni sceniche nè direttamente nè indirettamente
oscene.

_S. Francesco di Sales_, pur confessando che gli spettacoli sono, come i
balli, pericolosi; crede non pecchino coloro che vi assistono senza
emozioni disordinate. Leggesi nella sua _Introduzione alla vita devota
(1 parte, c. 23)_: «I giuochi, i balli, i festini, le pompe, commedie
non sono, in sè stesse, cose cattive, anzi sono indifferenti, potendo
esse esser fatte tanto convenientemente quanto no, ma ad ogni modo
implicano sempre un pericolo: e il pericolo diventa tanto più grave
quanto più s'affeziona ad esse. Io dico dunque, o Filoteo, che ancorchè
sia permesso giuocare danzare, adornarsi, assistere a commedie oneste,
banchettare; nondimeno, l'affezionarsi a queste cose, è contrario alla
vita devota, e grandemente nocevole e pericoloso. Il male non istà in
esse, ma sta nell'affezione che ad esse si può portare.» E noi, nella
nostra dottrina circa i balli e gli spettacoli, non ci allontaneremo
dai principii trasmessici da un tanto pio maestro.

_Si domanda_: Che deve dirsi dei commedianti e dei loro spettacoli _?_

R. Circa i commedianti e i loro spettacoli, così scrive _S. Tomaso, 2,
2, q. 168, art. 3, al 3_: «Fra le cose utili al consorzio umano possono
collocarsi alcune lecite occupazioni. La professione di commediante,
allorchè serve a procurare un sollievo agli uomini, non è, in sè stessa,
illecita; e i commedianti non sono in istato di peccato, ogniqualvolta
usino moderatamente della loro arte, cioè, non usino parole o atti
illeciti non facciano servire l'arte a cose indebite, nè la usino in
circostanze non permesse. Da ciò segue che coloro i quali moderatamente
li retribuiscono, non peccano, imperocchè non fanno che dare una mercede
al loro lavoro. Ma quelli che sciupano in tali cose il loro avere, o
aiutano in qualche modo commedianti che rappresentano cose illecite,
peccano, imperocchè diventano fomentatori di peccato.»

A questa opinione di _S. Tomaso_, sottoscrivono altri teologi.

Ora, se la professione di commediante non è, per sè stessa, illecita, a
più forte ragione non è peccato o almeno non è mortale, assistere per
curiosità a quei divertimenti dei commedianti che, in sè stessi, non
sono osceni nè nuocciono direttamente. Dicasi lo stesso degli spettacoli
che si fanno col mezzo di animali, per esempio cavalli, ecc.

Importa nondimeno guardar bene di non dar scandalo come avverrebbe
ordinariamente se un religioso, un monaco, un prete assistesse a tali
divertimenti, specialmente in presenza di laici; ovvero se il
divertimento fosse meno che onesto, o se i commedianti o giuocatori si
esponessero a pericoli di morte, come non di rado avviene nei giuochi
equestri.




                                CAPO V.

       _Delle cause, degli effetti e dei rimedii della lussuria._



                  § I.--_Delle cause della lussuria_.


Le principali e più frequenti cause dei peccati di lussuria sono:

1. L'intemperanza nel mangiare e soprattutto nel bere. «Il vino è cosa
lussuriosa e l'ubriachezza è turbolenta chiunque si diletterà in queste
cose, non sarà saggio» (_Prov. 20, 1_); «Non inebriatevi di vino, perchè
eccita alla lussuria» (_Agli Ef. 5, 13_); «Lascivia e lussuria sono
convesse alla ghiottoneria » (_Tertull., lib, del dig._) L'esperienza
conferma quest'opinione.

2. L'oziosità che «_insegna molte cose cattive_» (_Eccl. 33, 29_); il
dormir troppo; la morbidezza o il tepore del letto; i giuochi gli
allettamenti e le delizie della vita.

3. La famigliarità fra persone di diverso sesso, anche sotto pretesto di
matrimonio; gli sguardi, i toccamenti, gli abbracci, i colloquii teneri
giusta queste parole dell'Ecclesiastico, 9, 11: «Molti diventarono
reprobi perchè s'invaghirono delle bellezze della moglie altrui, le di
cui parole infiammano come il fuoco.»

4. Le danze, le commedie ed altri spettacoli profani; le letture di
libri osceni, i romanzi, i turpiloqui, le canzoni amorose;
l'abbigliamento immodesto o lussureggiante; il frequentare le bettole:
tutte cose che come dice _Tertulliano_, «_sono indizii di una castità
morente_.»



                 § II.--_Degli effetti della lussuria_.


_S. Tomaso_, (dopo _S. Gregorio_) dà alla lussuria otto figlie, _2, 2,
q. 153, art. 5_, che sono:

Relativamente all'intelletto.

1. La _cecità di mente_, di cui lo stesso Salomone ci offrì un terribile
esempio:

2. La _sfrenatezza_, per la quale l'uomo commette sconvenienze, senza
riflettere, senza deliberare;

3. La _sconsideratezza_, la quale fa giudicare erroneamente lo scopo
che si propone o i mezzi per conseguirlo;

4. L'_incostanza_, per la quale, chi si è dato alla lussuria _vuole e
non vuole_ come il _poltrone_ (_Prov. 13, 4_), e non sa persistere
generalmente nel proposito di una vita migliore

Relativamente alla volontà, le figlie della lussuria, secondo _S.
Tomaso_, sono:

1. _Un disordinato amore di sè stesso_, in forza del quale il libidinoso
ripone il suo ultimo scopo nelle voluttà della carne, e tutti i suoi
pensieri dirige a conseguirle;

2. L'_odio a Dio_, il quale proibisce i peccati contro la castità e li
punisce con gravissime pene;

3. L'_affezione al mondo_, ove sono quelle voluttà che il lussurioso si
propone come scopo della vita;

5. _Orrore alla vita futura_, ove sa che egli non potrà godere piaceri
lascivi, ma dovrà subire invece acerbissimi dolori. Quest'orrore lo fa
disperare della felicità eterna imperocchè gli sembra impossibile ch'ei
possa rinunciare mai alle terrene voluttà. Quelli che giungono a questa
disperazione si abbandonano poi ad ogni genere di lussuria. Per ciò _S.
Paolo agli Ef. 4, 19_: «I disperati si sono dati in balía alla
impudicizia e ad impurità di ogni fatta,» e _Davide Sal. 9, 26_: « Ai
loro occhi, Dio non esiste piú: tutte le loro vie sono, in ogni tempo,
insozzate.» E' come s'egli dicesse, scrive _Syilvius t. 3, p. 821_:
«Rigettato ogni timore ed ogni rispetto a Dio, conducono una vita
impurissima.»

Oltre queste conseguenze morali, altre ve n'hanno corporali, che già
indicammo, senza contare le orribili malattie veneree (così chiamate da
_Venere_), le quali tengono sempre dietro all'abuso dei piaceri di
lussuria.



             § III.--_Dei rimedii ai peccati di lussuria_.


Innanzi tutto è necessario levar via le cause già enunciate, di cotesti
peccati.

Di più, devonsi specialmente prescrivere i seguenti rimedii.

1. La preghiera frequente e fervorosa.. «Vedendo che io non poteva in
altro modo essere continente, se non che rivolgendomi a Dio,... andai a
Lui e lo pregai.» (_Sap. 8, 21_).

2. La lettura di libri di devozione, la meditazione sulla passione di
Cristo e sui supplizi riserbati ai libidinosi nell'altra vita.
«Qualunque cosa tu imprenda a fare ricordati dell'ultimo tuo fine, e non
peccherai mai» (_Eccl. 9, 40_).

3. Non coltivare il corpo con delicatezze o con lusso. «Le iniquità di
Sodoma furono la superbia, la sovrabbondanza degli alimenti e l'ozio»
(_Ezech. 16, 49_).

4. Custodire i sensi e specialmente quello della vista. «Non guardare le
fanciulle, se non vuoi che la loro bellezza ti faccia cadere in
iscandalo.» (_Eccles._).

5. Fuggire l'ozio ed evitare con cura le tentazioni. «Chi ama il
pericolo, in esso perirà.» (_Eccles. 3. 27_). Procurino dunque i parenti
che i fanciulli di sesso diverso, sieno pure fratelli e sorelle, non
giacciano nello stesso letto, imperocchè l'esperienza ammaestra che ció
è pericoloso alla castità.

6. Mortificare la carne e digiunare, imperocchè _i contrarii si
guariscono coi contrarii_. »Non si caccia questa specie di demonii se
non colla preghiera e col digiuno.» (_Mat. 17, 20._)

7. Fare elemosine ed altre opere di carità, colle quali si impetrano da
Dio copiose grazie.

8. Accostarsi frequentemente e con devozione ai sacramenti della
Penitenza e della Eucarestia.

9. L'assiduità a mettersi al cospetto di Dio e a ricordarsi
dell'Eternità.

10. La residenza alle prime lusinghe della voluttà, dirigendo il
pensiero ad altro oggetto, e meglio, se sia un oggetto santo. «Resistete
al demonio, ed egli fuggirà.» (_Jac. 4, 7_).

11. Sentire i consigli d'un prudente confessore, e per quanto è
possibile, del proprio confessore ordinario; il quale suggerirà rimedii
proporzionati al male e idonei maggiormente a vincere le tentazioni.





                             PARTE SECONDA





                              SUPPLEMENTO

                      _Al trattato sul matrimonio_


Sono molte le questioni gravissime ad uso quotidiano, risguardanti il
matrimonio, che la prudenza comanda di non trattare in un pubblico Corso
di Teologia. I preti, tuttavia, che stanno per assumere il formidabile
incarico di dirigere le anime, non devono ignorarle, e perciò è nostra
abitudine di proporle e svolgerle ai nostri diaconi.

Codeste questioni possono generalmente ridursi a due:

1. Dell'impedimento per impotenza.

2. Del debito conjugale.




                             QUESTIONE I.

                   _Dell'impedimento per impotenza._


È questo un argomento, impudico, osceno, e spesso pericoloso: ciò che
noi, stretti dalla necessità, stiamo per dire, non dev'essere letto se
non per motivi puri e con retto scopo, affine di poter ben distinguere
lebbra da lebbra, applicare al male rimedii convenienti, dar saggi
consigli, difendere le anime dal lezzo di turpi vizii e toglierle da
esso. In questo genere di studii risiede quasi sempre qualche pericolo;
ma quelli che vi si dedicano per sola necessità, possono fiduciosamente
attendersi soccorsi divini, i quali daranno ad essi la vittoria contro
le tentazioni, devono perciò richiamarsi spesso alla mente ch'essi sono
al cospetto di Dio che scruta tutti i loro pensieri, e devono altresì
dirigere alla Vergine Beata la breve e pia orazione, che esponemmo nel
principio di questo libro.




                          NOZIONI PRELIMINARI

           _É essenziale al matrimonio la sua consumazione._


La consumazione avviene colla emissione del seme del marito nella vagina
naturale della moglie, ovvero coll'unione del marito e della moglie in
guisa che diventino una sola e medesima carne, giusta le parole della
_Genesi, 2, 24_: «E saranno due in una stessa carne.»

Quando il marito sia penetrato nella vagina della sua donna e vi abbia
versato dentro il seme, il matrimonio reputasi consumato, sia che la
moglie abbia o no emesso il suo succo venereo, cosa d'altronde che non
si può accertare, e che non è assolutamente necessaria alla fecondazione
nè alla consumazione, come molti asseverano. La impotenza dunque altro
non è se non la incapacità a consumare, nel modo suesposto, il
matrimonio.

Perciò, coloro a cui manca un testicolo solo, non sono impotenti, perchè
possono penetrare nella vagina della donna ed emettere il seme
prolifico. Egualmente, non si devono ritenere impotenti i vecchi,
ancorchè decrepiti, imperocchè si son visti degli uomini a cent'anni
procreare dei figli con donne giovanissime.

Le mogli dette _sterili_ non si possono, per questo motivo, dichiarare
impotenti, perchè ciò non ostante, potrebbero ricevere benissimo dai
mariti, che s'introducano nella loro vagina il seme spermatico, benchè
poi non lo trattengano, o per qualsiasi altra causa, non restino
fecondate. Se il seme si versa nel vaso genitale, l'atto matrimoniale è
compito, e l'impotenza non esiste punto, ancorchè, per caso, non abbia
luogo il concepimento.

Sono per lo contrario impotenti quei vecchi i quali sono così debilitati
che non possono penetrare nella vagina, e così decrepiti da non
ejaculare umore spermatico: ciò è evidente. Dicasi egualmente di chi è
privo d'entrambi i testicoli o li ha totalmente schiacciati, imperocchè
in questo caso non possono dare seme prolifico.

Distinguonsi molte specie d'impotenza, cioè, la naturale e
l'accidentale, l'assoluta e la relativa, la perpetua e la temporanea,
l'antecedente e la susseguente.

L'impotenza _naturale_ è quella che procede da causa naturale e
intrinseca, per esempio, nell'uomo, da freddezza impassibile la quale
non permette un sufficiente eretismo, ovvero da eccessivo ardore che fa
ejaculare lo sperma prima che avvenga l'accoppiamento carnale, oppure
dalla mancanza del membro virile o dei testicoli. Nella donna, un grande
ristringimento delle parti genitali, talchè sia impedito all'uomo di
penetrare nella vagina: caso che avviene di frequente.

L'impotenza _accidentale_ è quella che proviene da causa estrinseca,
cioè, da un maleficio del demonio, sia nell'uomo sia nella donna:
nell'uomo, quando il demonio gli fa intirizzire i nervi mentre sta per
compiere l'atto conjugale; nella donna, quando il demonio stesso le
ristringe la vagina o la turba nella fantasia in guisa che al marito non
è possibile l'accoppiarsi a lei, ovvero quando essa rende impossibile
l'accoppiamento perchè, mentre si sta per compierlo, un subitaneo odio
la infiamma contro il marito, e va in escandescenze.

L'impotenza _assoluta_ è quella che rende una persona impotente con
qualsiasi altra: tale è l'uomo a cui manchino entrambi i testicoli, o
che sia affatto insensibile.

L'impotenza _relativa_ è quella che verificasi con questa o quellla
persona, ma non con tutte; per esemipio, una donna può essere di vagina
troppo stretta per un uomo, e non per un altro; l'uomo può essere sotto
l'influenza di qualche personale maleficio, ovvero può sentirsi
indifferente per una giovane e non per un'altra.

L'impotenza _perpetua_ è quella che non può essere guarita col decorrere
del tempo, nè con rimedii naturali e leciti, nè colle consuete preghiere
della Chiesa, ovvero--come dicono altri--non può essere tolta che col
mezzo d'un peccato, col pericolo della morte, o con un miracolo.

L'impotenza è _temporanea_ invece se può esse tolta con qualcuno dei
detti mezzi, cioè, col decorrere del tempo, con un rimedio naturale e
lecito, o colle consuete preghiere della Chiesa.

L'impotenza chiamasi _antecedente_, se precede il matrimonio; e
_susseguente_, se viene dopo.

Ciò detto, domandasi se l'impotenza e quale impotenza sia un impedimento
_dirimente_[11] del matrimonio.

[11] Gli impedimenti _dirimenti_ chiamasi nel Diritto Canonico e nel
Codice Civile quelli che annullano il matrimonio. (_Nota del
Traduttore_).

PROPOSIZIONE. È _impedimento dirimente del matrimonio quella sola
impotenza che è antecedente, e perpetua, sia poi assoluta o relativa_.

PROVA: I. La sola impotenza antecedente; perchè ogni contratto diventa
nullo, quando non si può dare la cosa promessa, venendo a mancare in
questo caso l'oggetto del contratto stesso: quegli che è afflitto da
impotenza antecedente e perpetua, non può dare ciò che ha promesso:
promise l'accoppiamento carnale e naturale, che è scopo nel matrimonio,
ed egli, nel caso nostro, non lo può consumare.

La cosa stessa viene provata dal Diritto ecclesiastico al titolo: «Degli
insensibili e dei maleficiati» (_Decret. 1, 4, tit. 15_) e dalla _Bolla_
di Sisto V _Cum frequenter_, anno 1587.

Questo impedimento essendo nel diritto della natura non può da alcuna
autorità essere tolto con dispenza.

II. La sola impotenza antecedente e perpetua, sia assoluta o relativa, è
impedimento dirimente del matrimonio, imperocchè nè la impotenza
conseguente nè la temporanea possano annulare il matrimonio.

1. Non la impotenza conseguente, imperciocchè è cosa indubitata che,
contratto una volta validamente il matrimonio, è per sua istituzione
perpetuo;

2. Non la impotenza temporanea, perchè l'essenza del matrimonio non sta
nell'uso _attuale_ di esso; e gli sposi, promettendosi fede conjugale,
non determinano un tempo alla consumazione del matrimonio. Basta dunque
che sia possibile una consumazione avvenire, a meno che, per caso, il
consenso di uno degli sposi non dipendesse realmente dalla _immediata_
possibilità dell'atto matrimoniale.

Gli infermi e gli stessi moribondi possono validamente contrarre
matrimonio, benchè sieno incapaci all'accoppiamento _immediato_. Dicesi
lo stesso di coloro i quali, in causa di un'eccessiva ardenza di natura,
emettono il seme prima di penetrare nella vagina della donna: _Cabassut_
osserva (_lib. 3, cap. 15, n. 2_) che essi possono aver speranza che i
loro sforzi non saranno sempre inutili.

Ho detto,--_sia essa assoluta, o relativa_,--perchè il matrimonio si
contrae con una persona determinata; e se con questa persona esso non
può essere consumato, è nullo.

Benchè questo impedimento non si trovi nel Codice civile (francese), è
indubitato che i tribunali pronuncierebbero in questi casi le nullità
del matrimonio se si verificasse l'impotenza _antecedente e perpetua_.
Così fu sempre giudicato tanto nel foro civile quanto nel foro
ecclesiastico E così insegna _Delvincourt. t. I, p. 403_, difendendo in
questo senso con tutte le sue forze una Sentenza delle Corte d'Appello
di Treves, 27 gennaio 1808.--_Toullier, t. I, n. 525_ sostiene
calorosamente che questa Sentenza è contraria allo spirito del Codice; e
dichiara che una donna possa ottenere dai giudici Sentenza annullante il
matrimonio per impotenza _accidentale_ e _manifesta_ del marito; per
esempio, se fosse dimostrato ch'esso era eunuco prima del matrimonio; e
prova il suo assento coll'art. 312 Cod. Civ., nel quale si stabilisce
che il marito può non riconoscere un figlio partorito da sua moglie, se
prova ch'egli era assente all'epoca del concepimento, o che per
qualsiasi altro accidente non poteva aver contatto carnale con essa.

In quanto a noi, dobbiamo specialmente trattare di ciò che riguarda il
loro interno della coscienza, e sotto questo rispetto, non poche sono le
difficoltà che offre questa materia. Le riferiremo per ordine, e ci
studieremo di risolverle secondo le nostre forze.

_Si domanda_: I. Se un uomo e una donna, consapevoli tutti due d'essere
entrambi impotenti, possono contrarre matrimonio coll'intendimento di
prestarsi un vicendevole soccorso e di conservare una perpetua castità.

_R. Sanchez_ e molti con esso; _l. 7, disp. 97, n. 13_, affermano ciò
essere lecito, e si adoperano nella seguente maniera a provare il loro
asserto:--Quelli che contrassero matrimonio con tale impotenza, possono
abitare assieme come fratello e sorella, escluso che sia ogni pericolo
di peccato; dunque, a pari motivo, se ragionevolmente essi non temono un
tale pericolo, possono, anche colla consapevolezza della impotenza,
contrarre matrimonio coll'intendimento di aiutarsi mutuamente. Così la
Beata Vergine e S. Giuseppe contrassero un vero matrimonio colla
espressa intenzione di non usare l'accoppiamento carnale.

Ma gli altri Dottori negano generalmente che ciò sia lecito, imperocchè,
dicono, non v'ha dubbio che questo matrimonio, se non potesse mai essere
consumato, sarebbe nullo; contrarre volontariamente un matrimonio nullo,
sarebbe una vera impostura, una profanazione del sacro rito, e per
conseguenza un sacrilegio: tali connubii dunque non devono essere mai
permessi. In quanto all'esempio addotto, negano la parità di
circostanze, imperocchè il matrimonio fra la Beata Vergine e S. Giuseppe
era un matrimonio valido.

_Si domanda_: 2. Che deve farsi se non si è sicuri che l'impotenza sia
antecedente o susseguente al matrimonio?

R. Siccome noi qui non dobbiamo trattare la cosa che sotto l'aspetto del
foro interno, devesi giudicare a seconda della dichiarazione del
penitente: se il penitente dice nettamente che c'è e che ci fu sempre in
lui impotenza a compiere l'atto coniugale, devesi pronunciare la nullità
del matrimonio.

_Si domanda_: 3. Hanno facoltà gli sposi di usare l'atto conjugale, ove
consti che uno di essi è impotente? Nel foro esteriore si presume
sempre, fino a prova contraria, che l'impotenza _accidentale_ sia venuta
dopo il matrimonio.

R. Gli sposi non hanno affatto in questo caso la facoltà d'usare l'atto
conjugale, imperocchè l'impotenza è, o antecedente, o susseguente,; se è
antecedente, il matrimonio è nullo, e perciò ogni atto venereo è
vietato: se poi l'impotenza è susseguente, non è più possibile consumare
lo atto conjugale, e perciò gli sposi non devono darsi ad atti che non
possono raggiungere lo scopo della consumazione, e, come lo diremo fra
poco quando si parlerà dei toccamenti fra conjugi, peccano gravemente o
leggiermente compiendoli.

_Si domanda_: 4. Che deve fare la moglie che sa dicerto essere il marito
impotente e che ha avuto prole con un altro uomo, quando il marito,
credendosi esso il padre della prole, vuole usare l'atto conjugale?

R. Bisogna guardare bene se la moglie ritenga propria come certa nel
marito una impotenza, che d'altronde potrebbe anche essere dubbia. Ma
supponendo che l'impotenza sia certa, essa non deve prestarsi alle
voglie del marito, dovesse anche, per questa ripulsa, cagionare a sè
stessa un grave danno: assecondando, farebbe cosa intrinsecamente
cattiva. In questa spiacevole ipotesi, essa deve ammonire il marito nel
miglior modo che per lei si possa, affinchè esso si mantenga continente,
adducendo, per esempio, il pretesto ch'egli è vecchio, che ad essi basta
il figlio che hanno, che essa non ama più l'atto conjugale, ecc. ecc. E
se un giorno il marito le sembrerà pienamente persuaso di ciò, essa gli
potrà dire: «Affine di non essere vinti mai dalle tentazioni, nè
stornati dal nostro proposito, ti prego, facciamo insieme voto di
perpetua continenza.»

Una volta emesso questo voto la moglie può star sicura; essa potrà
allora respingere il marito ogni qual volta ei volesse usare delle
facoltà conjugali, e per mettersi essa al sicuro d'ogni sospetto,
addurrà il voto di continenza da entrambi emesso.

La moglie tuttavia deve sempre rammentarsi dell'obbligo ch'essa ha di
riparare al danno cagionato al marito e agli eredi avendo procreato un
figlio spurio. Di ciò abbiamo parlato anche nel trattato sulla
_Restituzione_.

_Si domanda_: 5. Che deve farsi quando non si sa bene se l'impotenza sia
_temporanea o perpetua_?

R. O si tratta di impotenza _naturale_ ed _intrinseca_, ovvero
d'impotenza proveniente da _maleficio_. Nel primo caso, a meno che non
si tratti di mancanza di parti genitali essenziali, soltanto i medici
possono giudicare sulla natura e sulla durata di questa impotenza.
Nell'uomo i segni principali di essa sono:

1. La deformità delle parti genitali, per esempio, una eccesiva
grossezza, o una singolare piccolezza della verga.

2. Una ineccitabilità di sensi, per cui non è possibile la emissione del
seme prolifico;

3. Un'avversione naturale ad ogni commercio carnale ed a qualsiasi cosa
venerea;

4. Una cattiva conformazione dei testicoli.

Nella donna, sono indicati due segni d'impotenza, cioè:

1. Una soverchia ristrettezza della vagina o un totale otturamento
all'utero;

2. Una cattiva posizione dell'utero o della matrice.

I canonisti e specialmente i vescovi devono anche giudicare della
impotenza proveniente da maleficio; essa può riconoscersi da questi
indizii:

1. Se la moglie, che d'altronde ama suo marito, non vuole ch'esso le si
accosti carnalmente, persuasa ch'egli non possa con essa compiere l'atto
conjugle;

2. Se gli sposi, benchè, s'amino a vicenda s'accendono subitamente
d'odio fra loro e inorridiscono, allorchè stanno per congiungersi
carnalmente.

3. Se al marito, che pure non è impotente con altre donne, non gli è
possibile compiere l'atto conjugale colla moglie, con tutto che essa non
sia, nè di vagina stretta nè opponga resistenza alcuna.

Checchè dicano alcuni, _l'opinione dei quali_--giusta _S. Tomaso, Supp.
9, 58, art. 2_--_procede dal germe dell'incredulità o da mancanza di
fede_, è certo che l'impotenza può provenire da maleficio: ciò ammettono
molti Concilii, quasi tutti i Rituali, e così dicono tutti i teologi. Il
Dirito canonico prescrive in questo caso le regole da seguirsi (_Decret.
caus. 33, 9, I, c. 4, e dec. l. 4. tit. 15. c. 6 e 7_). Molti autori
ecclesiastici trattano espressamente questo punto, e dimostrano questa
verità con solide ragioni: così, fra gli altri, _Thiers_, nell'opera.
_Trattato delle superstizioni_. Solo la Enciclopedia e gli scrittori
della medesima scuola combattono, deridendola, questa dottrina della
Chiesa.

Dunque se il confessore s'avvede della esistenza d'indizî che indicano
l'opera del demonio. deve consultare il vescovo o i di lui vicarii
generali. Ma deve star ben attento di non prendere le illusioni della
fantasia per opere del demonio.

_Si domanda_ 6. Che deve farsi se, fatte le indagini, esista nondimeno
il dubbio ancora circa la perpetuitá della impotenza.

R. Risulta da tutti i teologi e canonisti che la Chiesa concede in
questo caso agli sposi un triennio affine di tentare la consumazione del
matrimonio. Cosí le _Decret. l. 4, tit. 15 c. 5_ e la pratica costante
dei tribunali ecclesiastici, da Papa Celestino III almeno, in poi:
ammettesi pure questa regola nel foro interno.

I canonisti tuttavia non sono concordi sul cominciamento del triennio;
alcuni reputano che il triennio cominci dal giorno stesso della
celebrazione del matrimonio; altri dal giorno della sentenza del
giudice. La prima opinione è la più comune, ed è quella che segue la
Rota e, come chiaro appare, è la sola ammissibile nel foro interno.

Se, durante il tempo concesso per l'esperimento, avviene che per un
notevole intervallo di spazio i conjugi non possano compiere atti
venerei, sia in causa di lunga infermità o di lunga assenza, si
deve,--come credesi ordinariamente--supplire a questo tempo perduto,
imperocchè la Chiesa richiede un triennio, e in questo caso il triennio
non sarebbe completo. Non dicasi lo stesso nel caso in cui i conjugi
fossero impediti per una o due settimane soltanto, perchè questo breve
tempo deve considerarsi un nonnulla rispetto a un triennio.

Ove poi gli sposi abbiano contratto matrimonio subito dopo che uno di
essi ha raggiunta la pubertà, e non possano consumare il matrimonio, il
tempo dell'esperimento deve computarsi, non dal giorno del contratto
matrimonio, ma dal giorno della raggiunta pubertà, perchè, prima della
piena pubertà, e sempre dubbio se la impotenza provenga da causa
perpetua o piuttosto da debolezza di forze. Così _Sanchez l. 7, disp.
110, n. 10_,--_Collator d'And. Pontas_, _Collet_, ecc. L'età della
pubertà perfetta è quella di 14 anni nelle femmine e di 18 nei maschi.

Del resto, se, non ancora spirato il triennio d'esperimento, i coniugi
chiaramente si avvedono che la impotenza è perpetua, devono concludere
che il matrimonio è nullo, e sono obbligati ad astenersi tosto da ogni
atto venereo.

Non si concede alcun tempo d'esperimento a chi manca di qualche parte
del corpo essenziale all'atto coniugale, imperocchè in questo caso non
c'è più dubbio alcuno sulla nullità dello stesso.

_Si domanda_: 7. Quali sono le precauzioni che il confessore deve usare
verso i coniugi e quali i consigli ch'esso deve dare durante il tempo
dell'esperimento?

R. O la impotenza proviene da causa naturale, o da malificio: in
entrambi i casi il confessore deve usare delle precauzioni e dare dei
consigli.

I. Deve esaminare se l'impotenza, che si attribuisce ad una causa
naturale, nasca da eccesso di libidine o da altre cause sanabili, perchè
allora deve ricorrersi ai rimedii naturali, e i medici li possono
indicare e prescrivere. Molte però sono le cause naturali che
impediscono al marito l'unione carnale colla moglie e che possono essere
sormontate anche senza l'opera dei medici; per esempio, la deformità
della sposa, il fiato puzzolente, la meschinità delle vesti, la
sporcizia, l'odio, il disprezzo ecc. Sono invece forti eccitanti alla
consumazione del matrimonio, la bellezza, e tutte le qualità che rendono
amabile una donna.

Nel caso in questione, il prudente confessore deve innanzi tutto
consigliare gli sposi che, in cosa di tanto momento e che riguarda la
salute eterna d'entrambi, si comportino, durante tutto il tempo
dell'esperimento, con buona fede e con pura intenzione, senza libidini
disordinate, senza odio, senza tedio, nè disgusto, nè molestie, affine
di potere di comune accordo trovare quelle posizioni di corpo o quegli
espedienti che possono essere meglio adatti ad affettuare
l'accoppiamento carnale, o ad indurre la moglie a tenersi più pulita di
corpo, e a comparire amabile presentandosi, per esempio, al marito con
dolcezze e con ornamenti decenti; cerchi insomma--sono parole dello
stesso Apostolo--_il modo di piacere al marito_.

II. Se l'impotenza proviene da maleficio, v'hanno anco in questo caso
precauzioni da prendere, consigli da dare.

Precauzioni del confessore: 1. Non si attribuisca a maleficio ciò che
spesso proviene «da verecondia e pudore, o da eccessivo amore, o
dall'odio irritato della moglie contro il marito che la sposò contro
voglia« sono parole di _Zachia_, dottissimo medico, riferite da _Collat.
And._ nell'opera _Del Matrimonio, tit. 2. pag. 237_.

2. Si esamini bene se l'immaginazione sia viziata da pregiudizii o dai
ciechi timori. V'hanno per esempio dei contadini dei quali non sanno
darsi all'accoppiamento venereo pensando di dover vedere della carne
nuda;

3. Non neghi ostinatamente il confessore che l'impotenza provenga da
maleficio, imperocchè si potrebbe temere che la sua ostinazione
_provenisse da un germe di incredulità_.

Data questa condizione di cose, il confessore deve consigliare gli
sposi:

1. Che facciano, con cuore contrito e umiliato, una piena confessione a
Dio e al sacerdote di tutti i loro peccati;

2. Che procurino di soddisfare la divina giustizia col piangere, col
fare elemosine, col pregare, col digiunare;

3. Se questi mezzi non bastano a togliere una impotenza proveniente, in
modo certo o probabile, da maleficio, devesi ricorrere agli esorcismi ma
soltanto dopo aver interpellato il Vescovo e averne ottenuta espressa
licenza. Le preci prescritte per fare questi esorcismi non si trovano
nel nostro nuovo Rituale, ma se il Vescovo giudica doversi usare questo
rimedio, delegherà un sacerdote e procurerà di comunicargli tutte le
formule necessarie.

_Si domanda_: 8. Se la moglie è impotente per strettezza di vagina, è
obbligata a subire un taglio, qualora, a giudizio dei medici, sia quello
il solo rimedio adatto al caso?

R. 1. Tutti i teologi dichiarano che la moglie non è obbligata a
sottoporsi a questa operazione chirurgica, qualora ne possa in lei
derivare grave pericolo di morte; in questo caso l'impedimento si
ritiene come _perpetuo_. Da questa ipotesi consegue che, se l'impotenza
fosse sparita con tale operazione, malgrado il pericolo di morte, il
matrimonio sarebbe per sempre nullo, e si dovrebbe rinnovarlo prima che
gli sposi giacessero carnalmente assieme.

R. 2. Supposto che con un taglio non pericoloso fosse tolta l'impotenza,
il matrimonio rimarrebbe valido, senza bisogno di un nuovo consenso, e i
coniugi potrebbero tosto usare carnalmente assieme, imperocchè, secondo
_le Decret l. 4. tit. 15 c. 6._ l'impotenza, che può essere tolta senza
miracolo e senza pericolo di morte, non è _perpetua_, e non costituisce
perciò un impedimento _dirimente_ al matrimonio.

Ma una grave questione si eleva fra teologi, ed è se la moglie è
obbligata a sottoporsi ad una tale operazione chirurgica, allorchè è
giudicata necessaria e non pericolosa.

Molti dicono essere obbligata a subire il taglio se non è a temersi che
un leggero dolore o una leggera malattia, ma no esservi obbligata se
v'ha il pericolo di cadere in una malattia grave o di provare dolori
acerbissimi, imperocchè--soggiungono--essa promise, è vero, di prestare
il suo corpo all'atto coniugale, ma di prestarlo però nella sua
condizione attuale; nè può credersi l'abbia promesso per esporsi a grave
molestie. Il matrimonio, in questo caso, e dunque valido, perchè
l'impedimento potrebbe essere tolto con mezzi naturali e assolutamente
leciti ma la moglie è scusata sufficientemente se non intende di
prestarsi al debito coniugale.

Altri, per lo contrario, sostengono essere obbligata a subire quella
operazione, anche con acerbissimi dolori e col pericolo di contrarre una
grave malattia, purchè soltanto non sia messa in pericolo la vita; e
così ragionano.--Il matrimonio in questo caso, è valido, come risulta
dalle _Decretali_ or citate; il marito dunque non può sposare altra
donna; si condannerebbe perciò ad una perpetua continenza. Ora la moglte
deve sopportare il grave incomodo dell'operazione chirurgica affine di
sollevare il marito da una condizione di cose molestissima.

La prima di queste opinioni è quella più comunemente adottata, ed è pur
quella di _Sanchez_, _Collet_, _Billuart_, e _Dens_.

_Collet_, con alcuni altri, opinò che fosse ragione sufficiente il solo
pudore per scusare la moglie che non vuole subire quell'operazione
chirurgica benchè non pericolosa: ma più tardi cambiò parere, come egli
stesso lo attesta, appoggiandosi a queste ragioni; cioè che la sposa,
colla quale più volte il marito tentò invano di compiere l'atto venereo,
non è più veramente vergine; ch'essa deve accorgersi di apparire agli
occhi dello sposo come un oggetto molesto, in causa di quel suo difetto
corporale, e finalmente che l'ostetrica è oggi quasi dovunque esercitata
anche dai chirurghi.

Ordinariamente, non si ingiunge quel taglio sotto pena di non concedere
l'assoluzione; noi non abbiamo infatti mai letto che la Chiesa l'abbia
comandato benchè spesso sieno occorsi impedimenti di questo genere.
Perciò avvenendo questo caso, io esorto la moglie affinchè assieme al
marito si rechi da un medico o chirurgo, dotto e pio, gli sveli
candidamente il suo stato e lo richieda dell'opportuno rimedio: se il
medico o chirurgo dichiara essere necessario il taglio e non essere
pericoloso, stimolo la donna a sottomettersi a questi consigli: se poi
mi accorgo di riuscire a nulla, non ardisco andar più in là. Ma, scorso
il triennio concesso all'esperimento, si deve strettamente prescrivere
alla moglie, in qualunque ipotesi, di non permettere al marito alcuna
licenza contro la castità.

Talvolta bastano certe unzioni per allargare la vagina della donna; ciò
almeno avvenne felicemente una volta, come mi fu asseverato da testimoni
degni di fede.

Si _domanda_: 9. Se il matrimonio sia valido quando la moglie, tutto che
di vagina ristretta, pure con un altro uomo sia stata idonea al
commercio carnale.

R. Generalmente si insegna che il matrimonio è valido, imperocchè si
giudica che la impotenza non era _perpetua_: tuttavia se la moglie era,
rispetto a suo marito, tanto ristretta di vagina, ch'esso non abbia mai
potuto unirsi carnalmente ad essa per la via naturale e lecita, allora
l'impotenza dovrebbe essere considerata come _relativamente perpetua_:
in questo caso il matrimonio è nullo. Ora, è evidente che la nullità di
questo matrimonio non può essere cancellata dal commercio carnale della
moglie con un altro uomo, ma si può addivenire per mutuo consenso, ad un
nuovo contrattto di matrimonio.

_Si domanda_: 10. Che si deve dire e fare se uno degli sposi, per
maleficio, diventa idoneo con altro maleficio o con qualsiasi altro
mezzo illecito?

R. In questo caso il matrimonio è nullo, supposto che l'impedimento non
si sia potuto togliere con altri mezzi: infatti al _cap. 6 tit. 15 lib.
4. Decret._ si legge che l'impedimento, che non può essere tolto se non
mediante un peccato, reputasi _perpetuo_. Per esempio: Pietro ha sposato
Paolina, dalla quale si separa in causa d'un di lui impedimento
proveniente da maleficio: contrae un altro matrimonio con Geltrude, ma,
persistendo quel maleficio, non può nemmeno con questa accoppiarsi
carnalmente. Se questo impedimento, scorso il triennio, e persistendo
ancora, venisse poi tolto coll'opera di un altro maleficio, il secondo
matrimonio sarà nullo come lo era il primo, e, purchè non avvenga
scandalo, non è obbligato a stare nè con Paolina nè con Geltrude, ovvero
può a suo talento scegliere questa o quella. Questa decisione è
contrariata da _Pontas_, il quale, al tit. _Impedimento d'impotenza,
caso 15_, dice che non è lecito a Pietro riprendere Paolina ma deve
ritenere Geltrude.

In entrambi i casi deve essere celebrato un nuovo matrimonio, rinnovando
il mutuo consenso.

Del resto, siccome per tale impedimento oggi non può aver luogo
separazione civile, è inutile esporre qui su questo argomento le altre
questioni che un tempo si agitavano fra i dottori.

_Si domanda_. Che decisione si deve prendere se, scorso il triennio
perseverasse ancora l'impotenza?

R. Una volta nel foro esteriore, chiamati e uditi di nuovo i coniugi, si
prescriveva una ispezione sui loro corpi--se non era già stata
fatta--mediante persone idonee; e, o si giudicava _perpetua_ la
impotenza, e tosto il matrimonio si dichiarava nullo; o esisteva ancora
qualche dubbio, e, ciononostante, il matrimonio si scioglieva, affine di
non costringere il coniuge che restava danneggiato da questo stato, ad
attendere troppo a lungo e forse per sempre. Così _Sanchez_ e molti
altri da lui citati _l. 7, disp. 94, n. 12_. La ragione è che la Chiesa,
anche quando l'impotenza non era _perpetua_, annullava di sua autorità
il matrimonio, elevando una tale circostanza ad impedimento dirimente.

In entrambi le ipotesi si concedeva facoltà al conjuge non impotente di
passare ad altre nozze: all'impotente poi proibivasi un nuovo
matrimonio, a meno che non costasse che la impotenza era, di natura sua,
non _assoluta_.

Ma noi che non dobbiamo occuparci che del foro interno della coscienza,
ove consti in modo certo che la impotenza è perpetua, deve esigersi dai
conjugi che si considerino scambievolmente soltanto come fratello e
sorella, che ciascuno abbia perciò un letto separato, e che si astengano
da tutte quelle licenze che sono interdette alle persone non conjugate:
così il _cap: 5, tit. 15. lib. 4. Decretal._ Se poi i conjugi non
possono vivere in questo modo senza esporsi al pericolo di peccare, non
devono più, di fatto se non di diritto, vivere assieme, malgrado gli
inconvenienti e lo scandalo che ne ponno derivare, sempre che però
abbiano invano tentati tutti gli altri mezzi per conservarsi casti.

_Si domanda_: 12. Se gli sposi, afflitti da impotenza _perpetua_ e
ignari della nullità del loro matrimonio, che dopo il triennio si
sforzano ancora di consumare l'atto carnale, possono essere lasciati
nella loro buona fede.

R. Se constasse essere dessi in buona fede e che un avvertimento non li
farebbe ricredere, sarebbe forse conveniente il lasciarli nella loro
ignoranza, perchè in questo caso si solleverebbe un male minore, cioè,
un peccato _materiale_, per evitare un male maggiore, cioè, un peccato
_formale_. Sembra però improbabile che due saosi credano sempre in buona
fede che a loro sia lecito di tentar un atto che essi mai non compiono,
nè possono compiere. Ma può darsi che questa ignoranza li scusi, se non
interamente, tanto almeno da non essere in peccato mortale. Ad ogni
modo, noi crediamo che, generalmente, devono essere ammoniti, e sviati
dal peccato, ma tuttavia devesi ordinariamnte usare tanta prudenza da
non lasciar loro conoscere la gravezza del peccato.

_Si domanda_: 13. Che si deve fare se, sciolto il matrimonio per
impotenza, si viene a conoscere che il conjuge giudicato impotente, non
lo è più?

R. Se l'mpotenza fu tolta con mezzi illeciti, sovranaturali o gravemente
pericolosi, l'impedimento si considera come fosse un impedimento
perpetuo, e il matrimonio si giudica bene sciolto.

Se poi l'impotenza cessò con mezzi naturali, i canonisti si dividono in
due pareri: i Gallicani pretendono che il conjuge che si separò per
impotenza dell'altro, non è mai obbligato a ritornare con esso, ancorchè
questi provasse che non è più impotente: I. Perchè, se si tratta del
marito, come è il caso ordinario, è difficile provare ch'egli non sia
più impotente, imperocchè può benissimo darsi il caso ch'egli non sia il
padre dei figli che gli partorisce la moglie; 2. Perchè la Chiesa
gallicana stabilì che tale impotenza, benchè _non perpetua_, annulli il
matrimonio per il diritto positivo; 3. Perchè si presume che l'impotenza
sia stata soltanto _relativa_.

Il secondo parere, molto generalizzato, e quello di teologi stranieri, i
quali secondo _S. Tomaso, suppl. 9, 58, art. I_--insegnano che il
conjuge separato dall'altro per autorità dell'ufficio civile, o del
vescovo, e che è già passato a seconde nozze, è obbligato a ritornare
col primo conjuge, quando questi non sia più impotente: così statuirono
_Innocenzo III_, e _Onorio III_ come riferirono _le Decret. l. 4, tit.
15, cap. 5 e 6_.

Se in pratica di esse questo caso--che presso di noi è quasi
impossibile--bisogna riferirne al vescovo.

_Si domanda_: 14. Che deve dirsi dei matrimoni fra impuberi.

R. I matrimoni; fra imbuberi sono, per diritto ecclesiastico, nulli:
essi non valgono che come promesse nuziali. _Decret. l. 4, tit, 2, cap.
14_: Così è stato saggiamente stabilito, perchè a molti impuberi manca
quella piena riflessione che si richiede per darsi seriamente ad uno
stato di tanto grave momento.

Tre soli casi si accettano, in cui i matrimonii fra impuberi si
ritengono validi, cioè:

1. Quando la malizia supera l'età, cioè, se l'uomo si è reso, con atti
frequentemente ripetuti, capace di consumare l'atto coniugale prima
della pubertà: il che può avvenire, come lo attesta _S. Gerolamo_
coll'esempio del re Achaz, il quale, all'età di 12 anni, generò Ezechìa:
questo fatto è riferito nel _4. lib. dei Re c. 16, 2. et. cap. 18, 2_.

E' eguale il caso di una donna che abbia concepito a 12 anni.

2. Quando i coniugi, raggiunta la pubertà, proseseguono nella
consumazione del matrimonio antecedentemente contratto: non possono
allora essere più divisi, imperocchè si suppone in essi un rinnovamento
del mutuo consenso. _Decret. l. 4 tit. 2. cap. 10, e tit, 19 c. 4_.

3. Quando i principi e le principesse, per la pace degli Stati,
contraggono matrimonio prima della pubertà, il matrimonio è valido.
Ciononpertanto i dottori ritengono necessaria una dispensa del sommo
Pontefice, o almeno dal vescovo diocesano. _Navarrus_, _Coll. Andeg._,
_Collet_ ecc. affermano essere sufficiente quest'ultima.

Consultisi ciò che da noi si è detto nel _nostro trattato_ circa l'etá
richiesta per contrarre matrimonio.

_Si domanda_: 15. Che deve dirsi del matrimonio degli ermafroditi?

R. Gli ermafroditi (parola composta da due vocaboli greci: HERMES,
_Mercurio_ AFRODITE, _Venere_) sono così chiamati perchè ERMAFRODITE,
figlio di Mercurio e di Venere, aveva in sè entrambi i sessi. Diconsi
anche _androgini_, cioè, maschio e femmina insieme.

Se si presta fede ai cultori della storia naturale, mai esistettero
_ermafroditi_ nel vero senso della parola, imperocchè avrebbero dovuto
avere gli organi d'entrambi i sessi per fecondare come uomini e per
concepire come donne.

Ermafroditi invece non sono, generalmente, che mostri i quali, nè
fecondano, nè concepiscono, e che non possono perciò consumare
matrimonio. E' chiaro in questo caso, che essi non possono contrarre
valide nozze; e il parroco che conoscesse con certezza la loro
incapacità, è obbligato ad opporsi al loro matrimonio.

Se poi in essi prevalesse uno dei due sessi, in guisa da essere
possibile la consumazione del matrimonio, possono venir ammessi alle
nozze, sotto condizione però ch'essi promettano di non usare mai se non
del solo sesso che in essi prevale.

E' a notarsi che gli ermafroditi non possono ricevere nè gli ordini
sacri nè abbracciare una professione religiosa fino a tanto che il loro
sesso si mantiene dubbio. Così dice espressamente _Sanchez_ e molti
altri da esso citati, _l. 7, disp. 106 n. 10_.




                             QUESTIONE II.

                        _Del debito coniugale._


Questa seconda questione noi la divideremo in tre capi:

1. Del debito coniugale chiesto e reso;

2. Dell'uso del matrimonio;

3. Delle norme da eseguirsi dai confessori verso i coniugati.



            Capo I.--_Del debito coniugale, chiesto e reso_.


E' certo che i coniugi sono strettamente obbligati di serbarsi
vicendevolmente fedeli, imperocchè ne fanno solenne promessa davanti al
sacerdote, allorchè li interroga e li benedice in nome di Dio, di cui
esso e ministro. D'altronde, secondo la stessa istituzione del
matrimonio, il marito e la moglie sono due in una medesima carne;
ciascuno di essi dunque non può aver commerci carnali con altra
persona, senza recare una grave ingiuria al suo coniuge. Perciò,
qualsiasi atto venereo compiuto con persona estranea, o occasionato da
essa, come l'accoppiamento carnale, i contatti, i baci, il desiderio di
compiere questi atti, o il compiacersi volontariamente in essi, riveste
il carattere di una duplice malizia, che deve essere dichiarata al
confessionale: c'è malizia contro la castità, e c'è malizia contro la
giustizia.

Dicasi lo stesso circa quella mollezza lussuriosa che in certo qual modo
offende la fede promessa, come, per esempio, l'abusare del proprio
corpo, sul quale l'altro coniuge ha dei diritti, acquistati allo scopo
di compiere gli atti venerei.

Detto questo, dividiamo il presente Capo in tre articoli:

1. Dell'atto coniugale considerato in sè stesso;

2. Della richiesta del debito coniugale;

3. Del debito coniugale, reso.

ARTICOLO I.--_Dell'atto coniugale considerato in sé stesso_.--Noi
abbiamo provato nel _Trattato del Matrimonio L. 4 p. 119 terza edizione_
contrariamente a molti eretici, che il matrimonio considerato in sè
stesso è buono e onesto: ne risulta quindi che l'atto carnale nel
matrimonio non ha, per sè stesso, nulla di cattivo, e può essere anzi
meritorio, se è esercitato per una ragione soprannaturale, per esempio,
colla intenzione di mantenere al proprio coniuge quella fede che fu
promessa chiamando in testimonio Dio, oppure se avviene per scopo
religioso, per ottenere cioé dei figli destinati a servir fedelmente
Iddio, ovvero affine di rappresentare l'unione di Cristo colla Chiesa.

Dunque, se sopravviene in tale argomento qualche difficoltà, non può
riguardare che l'accoppiamento carnale compiuto per sola voluttà ovvero
soltanto per evitare la incontinenza.



              § I.--_Dell'accoppiamento per sola voluttà_.


L'atto coniugale compiuto per sola voluttà è peccato, ma soltanto
veniale. Che sia peccato lo prova:

1. L'autorità di _Innocenzo XI_, il quale condannò, nell'anno 1679, la
seguente proposizione: «L'atto coniugale compiuto pel solo piacere
ch'esso procura è esente da ogni colpa, o fallo, anche veniale.»

2. La Ragione: il piacere annesso al compimento dell'atto coniugale, è
il mezzo che conduce al fine, cioè alla procreazione della prole:
all'infuori di questo scopo, quel piacere diventa illecito; e a più
forte ragione è illecito l'accoppiamento se, sviato dal suo scopo, non
si compie che per voluttà. Che il peccato poi sia veniale, la Ragione
stessa così lo dimostra:--il piacere che si prova in una cosa buona non
è in se stesso cattivo, ma lo è soltanto se avviene per uno scopo che
manca di legittimità. Così è del piacere che si prova mangiando: nessuno
nega che in certi casi particolari, la mancanza d'un legittimo motivo,
per esempio, se si mangia pel solo piacere di mangiare, non sia un
peccato, ma è un peccato soltanto veniale. Così pensano _S. Agostino_,
_S. Ambrogio_, _S. Tomaso_, _S. Bonaventura_, in generale, i teologi,
contrariamente a coloro che dicono essere invece un peccato mortale.
Altri molti, per lo contrario, vogliono, con _Sanchez l. 9, disp. 11, n.
1_, che non vi sia menomamente peccato.



   § II.--_Dell'atto coniugale compiuto per evitare l'incontinenza_.


Si domanda se sia peccato e quale peccato il chiedere il debito
coniugale pel solo motivo di evitare la incontinenza. Su questo
argomento i teologi sono molto discordi, ma le loro opinioni possono
infine ridursi a due principali, che molto chiaramente sono esposte da
_Sanchez lib, 9, disp. 9_, e dal _P. Antonio, ediz. nuov, 9, 5.
dull'obbligo de' conj. tit. 4, pag. 296_.

I. Molti dicono non esservi peccato, e così provano il loro asserto:

1. Nel _I. ai Corint. 7, 2_, leggesi: «Che ciascun uomo abbia la sua
moglie; che ciascuna donna abbia il suo marito, affine di non cadere
nella fornicazione.» E l'Apostolo aggiunge, _v. 5_: «Non vogliate
sottoporvi tra voi (coniugi) ad astinenze, se non sono mutuamente
acconsentite e temporanee, come per esempio, durante il tempo dedicato
alle preghiere; e ritornate tosto a voi medesimi per timore che il
Demonio non approfitti di voi e vi tragga poi nella incontinenza: e
questo ve lo dico non per comandarvelo, ma per essere indulgente:
desidero che voi tutti siate come sono io». _S. Paolo_ qui non mette
innanzi, che la sola incontinenza, come motivo per permettere l'atto
coniugale, e non si può certo dire che l'Apostolo possa concedere la
facoltà di commettere un atto peccaminoso.

2. L'autorevole catechismo del Concilio di Trento _2. part. cap. 14, §
III_, così espone il terzo motivo per cui fu istituito il matrimonio,
dopo il fallo dei primi padri: «Quegli che conosce la propria fragilità
nè vuole affrontare le battaglie della carne, si valga del rimedio del
matrimonio affine di evitare i peccati di libidine. E' a questo
proposito che l'Apostolo scrisse: _Che ciascun uomo abbia la sua moglie
ecc. ecc. affine di non cadere nella fornicazione_».

3. Ogni giorno la Chiesa benedice matrimonii di vecchi che certamente
non possono aver prole; nè a loro essa dice che non debbano usare del
matrimonio, e che evitino in qualsiasi modo l'atto coniugale: essa crede
quindi che possano aver assieme commercio carnale affine di calmare la
concupiscenza.

4. Un atto per se stesso onesto e che si riferisce ad un fine onesto,
non può essere cattivo. Ora, l'atto coniugale è in sè stesso onesto: il
calmare la concupiscenza per evitare la incontinenza, è uno scopo pure
onesto dunque, ecc. Così _S. Antonino ed Aludanus_, _Soto_, _Silvestro_,
_S. Liguori, l. 6, n. 882_, e molti altri citati da _S. Liguori_ e da
_Sanchez l. 9, disp. 9, num. 3_.

II. Molti altri ritengono che l'atto coniugale, esercitato per
esercitare la incontinenza, è peccato veniale, imperocchè dicono:

1. Un atto che non si riferisca ad uno scopo legittimo è peccaminoso: lo
scopo dell'atto coniugale è la procreazione della prole: dunque se
cotesto atto si compie per uno scopo diverso, per esempio, per evitare
la incontinenza, diventa un atto cattivo.

2. Assecondare i movimenti della libidine, senza una causa che
sufficentemente scusi, è almeno un peccato veniale: quegli il quale usa
unicamente del matrimonio per evitare la incontinenza, asseconda i
movimenti della libidine nè ha una causa che sufficientemente lo scusi,
imperocchè vi sono altri mezzi per calmare gli stimoli della carne,
cioè, la elevazione della mente a Dio, le orazioni, i digiuni, e le
altre opere di cristiana mortificazione.

3. La incontinenza sarebbe certamente un grave peccato ma non è perciò
lecito di assecondare per un altro verso la passione della libidine.
Meglio si comprenderà la cosa con un paragone:--E' proibito ai monaci di
mangiare fuori del monastero senza il permesso del superiore: uno di
questi, per timore di essere tentato dalla gola e di cadere nella
trasgressione della Regola allorchè è fuori del convento, mangia e si
sazia nel monastero prima di uscire.--Non commette egli forse un peccato
veniale? Egualmente, quegli che esercita l'atto coniugale per evitare la
incontinenza, asseconda, benchè leggermente, la libidine, affinchè
questa, dominandola, non lo trascini in peccati più gravi: Così _S.
Agostino_, _S. Gregorio Magno_, _S. Fulgenzio_, _S. Tomaso_, _S.
Bonaventura_, _Sylvius_, _Natale Alessandro_, _Collet_, _Billuat_,
_Dens_, ecc.

A coteste ragioni così rispondono i sostenitori dell'opinione contraria:

1. Che S. Paolo non nega punto, che lo scopo proprio del matrimonio sia
la procreazione della prole; tutt'altro; ei dice anzi che il matrimonio
la suppone: le sue parole perciò devono essere prese nel senso che si
può evitare di cadere nella incontinenza anche usando il matrimonio come
mezzo di procreazione della prole.

2. Che anche il catechismo del Concilio di Trento deve essere
interpretato in questo senso.

3. Che la Chiesa non distoglie i vecchi dal contrarre matrimonio, perchè
se li distogliesse, ne verrebbero mali maggiori, come le fornicazioni, e
ed altre incontinenze.

Da ciò risulta infine che il matrimonio fu istituito per l'unione
procreatrice della prole, o per rendere il debito coniugale, che non è
che in via secondaria ch'esso può essere giudicato come un rimedio
contro la concupiscenza; per ciò non è permesso chiedere il debito
coniugale a una moglie sterile, vecchia, o incinta; nè essa stessa può
richiederlo. Del resto i sostenitori di questa opinione dicono che in
entrambi i casi il peccato sarebbe soltanto veniale, imperocchè l'atto
coniugale è per sè stesso buono, e qui non sarebbe peccaminoso se non
per la sola circostanza di non essere in relazione con uno scopo
legittimo-circostanza che non costituisce materia di peccato mortale.
Per queste ragioni essi dicono che non abusano del matrimonio quegli
sposi che compiono l'atto coniugale senza mirare ma anche senza
escludere la procreazione della prole, e che sarebbe spingerli a peccati
più gravi il volerli talora strappare da certi peccati veniali.

Dopo tutto, questa controversia è di poco momento, in pratica, pei
confessori, ma essa è, di natura sua, atta a rimuovere dal matrimonio
persone timorate: perciò è facile il comprendere queste parole
dell'Apostolo circa i coniugi: «Essi tuttavia proveranno le tribolazioni
della carne» _I. ai Corin. 7, 28_), e al _v, 8, stesso cap._ «Io dico
poi, che è buona cosa l'essere celibi o vedovi, se vi si sa persistere,
come faccio io».

I teologi insegnano anche, come molto probabile, che l'esercitare l'atto
coniugale, in parte mirando alla prole in parte mirando al piacere
venereo, è un peccato veniale imperocchè si serve in tal modo alla
libidine. Così _Sylvius l. 4, p. 663_, _Billuart_, _Dens_, _ecc._ Di
più, _Sylvius_ sostiene essere peccato veniale l'approvare e lo
acconsentire al piacere che è annesso all'atto procreatore della prole,
perchè tale piacere, sorgendo da indole corrotta, è sempre turpe, ed
oscura l'intelletto. Ma _Domenico Soto_, _Sanchez_ e altri insegnano,
come molto probabile, non essere in ciò peccato alcuno, perchè se la
natura unì all'atto carnale un senso di piacere, lo fece per favorire la
procreazione della prole, come fece per la conservazione dell'individuo
col gusto del mangiare e del bere, senza di cui queste necessarissime
funzioni sarebbero state neglette.

_Si domanda_ se sia permesso usare del matrimonio per motivo di salute.

R. È certo che non è pemesso contrarre matrimonio nè usare di esso
unicamente allo scopo di conservare o di ricuperare la salute,
imperocchè questo è uno scopo estraneo al matrimonio, e sarebbe quindi
un peccato veniale il far ciò, per la ragione che si compirebbe un atto
mancante del proprio e vero scopo.

Così _S. Tomaso supp. 9, 94, art. 5_, al 4, e in generale i teologi. Ma
non è peccato contrarre matrimonio o usare di esso mirando alla
procreazione della prole, ma nel tempo stesso, in via secondaria, e
quasi accidentale, proponendosi di dar così un sollievo alla natura e di
conservarsi sano: nulla v'ha di disordinato in tutto ciò.

ARTICOLO II.--_Della richiesta del debito conjugale_--I conjugi non sono
per se stessi obbligati a richiedere il debito conjugale, imperocchè
nessuno è obbligato ad esercitare un proprio diritto. In qualche caso
però, vi possono essi essere obbligati; cioè:

1. Se è necessario aver dei figli per prevenire gravi danni alla
religione o allo stato: ciò è evidente;

2. Se un conjuge, ordinariamente la moglie, mostra con certi indizii di
desiderare l'atto carnale che non osa per pudore di chiedere
apertamente; allora l'altro conjuge deve prevenire la richiesta: questo
però sarebbe piuttosto il caso di un compimento del debito conjugale
tacitamente richiesto, che di una reale richiesta del debito stesso.

Ma sono molti i casi in cui non è permesso chiedere il debito conjugale
senza peccare o mortalmente o venialmente. Tratteremo ora questo
argomento in due paragrafi.



§ I.--_Di coloro che peccano mortalmente esigendo il debito conjugale_.


Pecca mortalmente il conjuge che esige il debito conjugale nei seguenti
casi:

1. Se, prima o dopo il matrimonio, ha fatto voto di castità, imperocchè
in forza del proprio voto è tenuto ad astenersi da ogni atto venereo che
non sia debitamente giustificato così statuiscono le _Decret. l. 3, tit.
32, c. 12_. Ma è obbligato a rendere il debito se l'altro conjuge lo
richiede: infatti o esso fece il voto dopo aver contratto matrimonio e
allora non ha certo potuto alienare un diritto che spetta all'altro
conjuge; o fece il voto prima del matrimonio, e allora contraendo
matrimonio peccò gravemente, ma concesse però nel tempo stesso al suo
conjuge ciò che in faccia a Dio gli promise, per cui questi, CHE
IGNORAVA QUEL VOTO emesso, può accampare i suoi diritti conjugali
acquistati, e l'altro non può giustamente rifiutarsi di assecondarli.
Così tutti i teologi.

Dissi, _che ignorava quel voto_, perchè se uno degli sposi avesse
conosciuto, prima del matrimonio, il voto emesso dall'altro, si dovrebbe
credere ch'egli lo abbia approvato, e non potrebbe perciò lecitamente
richiedere il debito conjugale se non con una dispenza. Egualmente se,
durante il matrimonio uno degli sposi col consenso dell'altro facesse
voto di castità e a più forte ragione se questo voto fosse fatto da
entrambi con mutuo consenso: nessuno in questo caso, potrebbe chiedere
il debito conjugale.

In proposito _Dens, t. 7, p. 196_, decide che non è in generale,
conveniente che gli sposi, specialmente se sono giovani, si votino a
pepertua castità, perchè in tal caso _l'amore fra essi scema, il loro
vincolo spirituale si allenta, e più acre punge lo stimolo della carne:
laonde il confessore non deve nè consigliare né permettere loro tale
voto_.

Esiste dunque ordinariamente, dopo la consumazione del matrimonio, una
ragione sufficiente per domandare la dispensa da cotesti voti, affinchè
gli sposi che abitano assieme, vinti dalle tentazioni della carne, non
sieno indotti a peccare contro l'obbligo che si sono imposto.

Si noti che la dispensa del voto, emesso da un conjuge, senza saputa
dell'altro, non è un caso riservato al sommo Pontefice, imperocchè, per
massima, _le cose odiose devono essere interpetrate ristrettivamente_,
ed il solo caso riservato è quello del voto di _perfetta_ castità. Ora,
nel caso di cui si tratta, non fu votata la castità _perfetta_, perchè
resta sempre l'obbligo di rendere il debito coniugale che fosse
richiesto. Egualmente non è riservato il voto emesso prima del
matrimonio, imperocchè in virtù del susseguente matrimonio, il voto, di
perfetto, diventa imperfetto. Il vescovo può dispensare da questo voto.
Ma la cosa sarebbe diversa--e ciò è evidente--se il voto fosse emesso da
entrambi, ovvero da uno solo, ma col consenso dell'altro.

Il voto di non contrarre più matrimonio, o di prendere gli ordini sacri,
dopo aver già contratto matrimonio; e il voto di abbracciare lo stato
ecclesiastico, emesso dopo la consumazione del matrimonio, non
impediscono nè il rendere nè il chiedere il debito coniugale, e in
questi casi perciò non è necessaria dispensa alcuna, imperocchè questi
voti non vincolano se non dopo la dissoluzione del matrimonio.

E' a notarsi che il voto di castità perpetua, emesso prima o dopo il
matrimonio, e che non impedisce di rendere il debito coniugale, diventa
voto _perfetto_ morendo l'altro coniuge, e non può essere rotto se non
dal solo Pontefice, qualora si volesse contrarre un nuovo matrimonio.

Quegli che, dopo il voto di non sposare, contrae matrimonio, pecca
mortalmente, ma può, senza dispensa, rendere e chiedere il debito
coniugale. Sciolto questo matrimonio, non ne potrebbe validamente
contrarre un altro senza dispensa.

II. Il coniuge che ebbe un commercio carnale, naturale e completo, con
persona consaguinea all'altro coniuge in primo o in secondo grado, non
ha più il diritto di chiedere il debito coniugale, e pecca mortalmente
se lo esigesse, perchè egli avrebbe in questo caso stabilita col suo
coniuge una parentela _d'affinità_, affinità che è un imdimento
sopraveniente al matrimonio validamente contratto. Da questo impedimento
può dispensare il vescovo da sè o col mezzo dei suoi vicarii generali,
ovvero può dar facoltà di dispensa ai confessori.

Nella nostra diocesi, per una speciale concessione di Monsignor
_Pidoll_, tuttavia in vigore, i parrochi primarii possono dispensare
ogni diocesano da questo impedimento, ma solamente nel foro della
penitenza, impartiscano o no la sacramentale assoluzione (_Enchiridion,
p. 9._)

Questo impedimento, sopravveniente al matrimonio, essendo stato
istituito come una pena, non obbliga la parte innocente, la quale può
quindi chiedere il debito, e l'altro coniuge è tenuto a ricambiarlo. Se
poi l'incesto avesse avuto luogo anche col consenso del coniuge,
questi--come molti teologi pensano--non avrebbe più il diritto di
chiedere il debito coniugale. Ma molti altri pensano diversamente, e
dicono che questa pena non è formalmente espressa nel Diritto canonico.

E' certo che la donna, violentata, e l'uomo che pecca con donna che
ignora essere consanguinea a sua moglie, non vanno incontro ad
impedimento alcuno, perchè quì non vi è colpa; e, nell'ultimo caso,
l'incesto non è formale, essendo necessaria perciò la consapevolezza:
_Decret. l. 4, tit. 13, cap. I_: Da questo _cap. I. Decret._ si desume
che esime egualmente da impedimento l'ignoranza delle proibizioni della
Chiesa, perchè anche quì non c'è consapevolezza. Egli è tuttavia cosa
più sicura--come dice _Collet. t, 6, p. 89_.--impetrare la dispensa del
vescovo.

III. Quegli che, durante il matrimonio, battezza o tiene al fonte
battesimale la propria prole o la prole del suo coniuge, contrae
l'impedimento della parentela spirituale. Così statuisce un _Decreto,
caus. 30, 9, 1. can. ai conf._ e _le Decretali, l, 4. tit. 11 c. 2_.
Nullameno, esso è tenuto a rendere il debito al coniuge che lo richiede,
ma questi avrebbe perduto il diritto di chiederlo, qualora, consigliando
o esortando, fosse stato la causa per cui l'altro battezzò o tenne al
fonte battesimale la prole.

Se, per necessità o per assoluta ignoranza, un coniuge avesse battezzato
la sua o la prole dell'altro coniuge, non incorrerebbe in impedimento
alcuno: ciò risulta dal _cap._ citato, _lib. 4. Decret._ Vuolsi che
esista la scusa della _necessità_ rispetto al padre--dicono _Pontas_,
_Collator Andag. Collet_, ecc.--quando manca il sacerdote, abbenchè vi
possano essere dei laici, imperocchè le _cose odiose devono essere
interpretate rispettivamente_, e il Diritto ecclesiastico d'altronde non
si spiega chiaramente sul fatto della mancanza di laici. Altri non pochi
dicono che il padre non versa in una vera _necessità_, qualora sia
presente un'altra persona qualunque, sia un prete, sia un laico, sia
anche una donna, purchè sappiano battezzare. Pare che questo sia il vero
significato racchiuso nel vocabolo _necessità_; infatti cosi dice il
Rituale: «Il padre, o la madre, non deve battezzare la propria prole,
fuorchè nel caso in cui, imminente essendo la morte, non sia possibile
trovare altre persone che vengano a battezzare.» È necessario allora
appigliarsi al partito più sicuro, e chiedere la dispensa. Il parroco
primario può in questo caso, come abbiamo già detto dianzi, dispensare
nel foro della penitenza qualsiasi diocesano.

Quegli che ignora la prole ch'egli battezza o tiene al fonte battesimale
sia sua o del suo coniuge, non perde il diritto di chiedere il debito
coniugale, perchè non è reo di alcuna colpa: se poi, sapendo che la
prole è sua o del suo coniuge, ignora però la proibizione della Chiesa,
è pure probabile che non incorra perciò in alcuna pena. Questa opinione
sembra essere quella di _Dens. tit. 7, p. 262_ e di _S. Liguori, l. 6,
n. 152_. Tuttavia sarebbe cosa più sicura di ottenere in questo caso la
dispensa.

Da ciò deriva che un padre il quale, sia per ignoranza, sia per
necessità, battezza o tiene al fonte battesimale la prole legittima o
spuria, propria o d'altri, nata da donna colla quale non è ammogliato,
stabilisce con questa donna un impedimento, in forza del quale non ci
può essere tra loro matrimonio a meno che non avvenga una dispensa: e la
ragione è che la parentela spirituale, contratta fuori dal matrimonio,
non costituisce punto per sè stessa una pena.

IV. Colui che sa in modo certo che il suo matrimonio nullo, per esempio,
in causa d'un impedimento d'affinità proveniente da commercio carnale
illecito, non può nè chiedere il debito coniugale nè renderlo per
qualsiasi motivo, imperocchè commetterebbe una vera fornicazione: la
cosa e ragionevolmente chiara, ed è anche espressamente chiarita nelle
_Decretal, l. 5, tit. 39, cap. 44_.

Se poi ha contratto un matrimonio di dubbia validità, ovvero, se sorge
il dubbio, dopo averlo contratto; esso, o si avvede che questo dubbio è
privo d'ogni fondamento di ragione e allora lo deve respingere come uno
scrupolo, e può chiedere benissimo il debito coniugale; o s'accorge che
esso è appoggiato a ragioni non sprezzabili, e allora non può chiedere
il debito, se prima non è coscenziosamente certo; diversamente; egli
incorrerebbe nel pericolo di fornicare. Ma egli è tenuto a rendere il
debito al coniuge che non dubita, e lo richiede; imperocchè fra due mali
che non si possono evitare, è da scegliersi il minore; ed è certo male
minore esporsi al pericolo d'una materiale fornicazione, che a quello di
essere ingiusto contro l'altro coniuge. Queste decisioni si trovano al
_cap._ che dianzi abbiamo citato.

Qui si suppone che non esistano giusti motivi per ricusare il debito
coniugale o per sottrarvisi con sotterfugi, imperocchè nel caso invece
in cui ci fosse pericolo d'ingiustizia, non si dovrebbe rendere il
debito. Dicasi egualmente pel caso in cui gli argomenti per la nullità
del matrimonio fossero molto più serii che quelli per la validità non
sarebbe permesso rendere il debito coniugale, imperocchè si
commetterebbe senza dubbio alcuno una fornicazione. Così _Dens t. 7. p.
199_.

Se entrambi gli sposi dubitassero della validità del matrimonio, nè
l'uno nè l'altro potrebbe nè chiedere nè rendere il debito coniugale:
ciò risulta da quanto si è già detto,



           § II.--_Di coloro che peccano venialmente esigendo
                         il debito coniugale_.


I. Qualche teologo, citato da _S. Liguori l. 6, n. 91 5_,--dice,
assecondando S. Tomaso, che è peccato mortale lo accoppiarsi alla moglie
durante i mestrui, i quali sono quel flusso sanguigno che ordinariamente
si appalesa ogni mese nelle donne atte a rimaner fecondate; ed è peccato
perchè si nuoce alla prole e perchè è cosa proibita da Dio come risulta
dal _Levitico, 20, 18_; altri comunemente insegnano che è peccato,
perchè con esso si offende la scienza, ma è peccato soltanto veniale,
imperocchè l'accoppiamento carnale esercitato durante i mestrui o non
nuoce affatto o nuoce ben poco alla prole, e di più, la proibizione
espressa al _Levitico_ fu come pratica, abrogata dalla nuova Legge. Così
_S. Antonino_, _Navarrus_, _Concina_, _Pontius_, _Bonacina_,
_Paludanus_, _Caietano_, _Sylvius_, _Billuart_, _Dens_, ecc. Se poi vi
fosse una causa ragionevole che giustificasse la richiesta del debito
coniugale, per esempio, una grave tentazione, o per sfuggire alla
incontinenza, non vi sarebbe alcun peccato. Così _Navarrus_,
_Paludanus_, _la scuola di Salamanca_, _S. Liguori_.

Se però la mestruazione, che ordinariamente non va più in là di due o
tre giorni, si prolungasse e diventasse quasi continua come talvolta
accade, il marito può, senza peccare, chiedere il debito coniugale;
imperocchè sarebbe per esso assai più grave l'astenersene.

Tutti sono d'accordo che non pecca la moglie, la quale rende il debito
durante la mestruazione: ed è pure tenuta a renderlo, se il marito non
voglia ascoltare benigni avvertimenti e desistere, a meno che non sia
evidente un grave danno, come suole accadere allorchè la mestruazione è
sovrabbondante.

Ciò che si dice riguardo al tempo dei mestrui, dicasi con eguale
ragione riguardo al tempo della gravidanza e del flusso che segue il
parto. Vedi _S Liguori l. 6, 926_.

II. Chiedere il debito coniugale durante il tempo della gravidanza non è
peccato mortale, semprechè sia escluso il pericolo d'aborto; è opinione
questa comunissima fra i teologi, ed è una conseguenza di quanto abbiam
detto intorno alla «richiesta del debito coniugale per evitare la
incontinenza.» Nel caso, di cui è parola, il feto umano si trova
talmente avvolto nella matrice ch'esso non può essere toccato dal seme
dell'uomo, ed è per ciò che non è presumibile un facile aborto. Per tali
motivi, con importune interrogazioni non devonsi su questo tema
molestare i coniugi.

_Sanchez l. 9, disp. 22, n. 6_, e molti teologi da esso citati insegnano
che non vi ha colpa, nemmeno veniale, nel richiedere il debito coniugale
durante la gravidanza, imperocchè, non richiedendolo, sarebbe come
sottostare ad una quasi continua astinenza dall'atto coniugale, e il
matrimonio in allora, che fu istituito come un rimedio contro la
concupiscenza, non servirebbe che ad irritare, non a calmare la
libidine; sarebbe un inganno. Tuttavia _S. Liguori l. 6. n. 924_, con
molti altri limita questa facoltà al solo caso nel quale esista pericolo
di incontinenza.

Altri teologi invece, e non pochi, pensano che anche in questo caso il
richiedere il debito coniugale non va esente da colpa veniale,
imperocchè, essi dicono, l'atto coniugale benchè esercitato per evitare
la continenza, manca del suo corpo legittimo. È questa l'opinione dei
Padri e dei dottori sopracitati.

Quanto a noi, non tenteremo certo di definire la controversia.
Commiserando questa pericolosa condizione dei conjugi diremo soltanto
doversi essi lasciare nella loro buona fede, qualora il volerli
distogliere dalle loro abitudini li potesse spingere verso falli più
gravi.

III. San Carlo avverte i conjugi di astenersi, con mutuo assenso,
dall'uso del matrimonio, nelle feste solenni, nei giorni domenicali, nei
giorni di digiuno, e in quelli nei quali si è ricevuta o si deve
ricevere la S. Eucarestia Ciò è conforme a più statuti rituali, e, fra
gli altri, a quello di Mans, _p. 140_ Molti teologi, citati da _Sanchez
e da S. Liguori_, sostengono che il chiedere il debito conjugale nei
giorni sopraindicati e specialmente in quelli in cui si deve ricevere
la S. Eucarestia, non va immune da peccato veniale, a meno che non ci
sia una causa ragionevole che scusi, come sarebbe una grave tentazione.
Questa opinione è motivata da ciò: che i diletti della carne distruggono
grandemente il pensiero e lo rendono meno atto ad applicarsi a quelle
cose spirituali, alle quali sono consacrati quei giorni. Tuttavia,
_Benedetto XIV_, nel _Sinodo Diocesano, l. 5, c. I. n. 8_, nota che
questo, ora, non è che un consiglio, benchè un tempo la Chiesa l'avesse
prescritto sotto gravi pene.

Tutti i teologi dicono, con _S: Francesco di Sales_, (_Introd. alla Vita
Devota, 2° part. cap. 20_), che il conjuge il quale nel giorno in cui
ricevette o deve ricevere la divina Eucaristia, rende il debito
conjugale, richiesto, non pecca; e di più che è pure tenuto a renderlo,
se l'altro conjuge non vuole ascoltar preghiere perchè desista.

Quì i teologi si domandano, se colui, il quale ebbe nel sonno una
polluzione, possa ricevere la sacra Eucarestia. Essi sogliono rispondere
con S. Gregorio Magno, il quale, nella lettera al divino Agostino,
apostolo nella Gran Bretagna e riferita nel _Decreto, p. I, dist. 6, c.
1_, faceva questa distinzione:--Questa polluzione proviene o da
sovrabbondanza naturale d'umori o da infermità, e in questi casi non è
colpevole; o proviene da eccessi di gola, e allora è peccato veniale;
ovvero da pensieri precedenti, e può essere peccato mortale. Nei primi
casi, è uno scrupolo da non temersi; nel caso degli eccessi di gola, la
polluzione non impedisce che si riceva il sacramento o si celibrino i
Misteri, qualora a far ciò consigli un ragionevole motivo, per esempio,
l'essere un giorno di festa o una domenica, nell'ultimo caso,--ci dice
S. _Gregorio_--«una tale polluzione deve fare astenere in quel giorno
dalla celebrazione d'ogni sacro mistero.» Cionondimeno, se la polluzione
non è per la sua origine mortale ovvero (_trattandosi d'un sacerdote_)
se il sacerdote, realmente pentito, sia stato da essa assolto, potrà in
quel giorno celebrare, quando a ciò lo consigli qualche ragionevole
motivo.

Quegli che, accoppiandosi carnalmente nel matrimonio, desidera che dal
suo atto non nasca prole, pecca: su ciò sono d'accordo tutti i teologi,
ma sarebbe cotesto soltanto un peccato veniale, giusto l'adagio che
_finis præcepti non cadit sub præcepto_. Così _Sanchez l. 9, disp. 8, n.
10_ e molti altri. Ma v'hanno pure dei teologi, del resto pochissimi
che lo vogliono un peccato mortale.

Però, è peccato mortale, qualora l'impedimento alla fecondazione venga
opposto volontariamente.

ARTICOLO III.--_del ricambio del debito conjugale_.--Noi dovremo dire:

I. Dell'obbligo di rendere il debito conjugale;

II. Delle cause che dispensano da ricambiare il debito conjugale.

3. Di coloro che peccano mortalmente rendendo il debito coniugale.

4. Di coloro che commettono il peccato di Onan.

5. Di coloro che, rendendo il debito coniugale, peccano venialmente.



          § I.--_Dell'obbligo di rendere il debito coniugale_.


Secondo la S. Scrittura e la Ragione, è stretto obbligo in ciascun
coniuge di rendere il debito coniugale all'altro che lo chiedessse
_espressamente_ o _tacitamente_.

1. Secondo la S. Scrittura: _I. ai Corin. 7, 3_: «L'uomo renda il debito
coniugale alla moglie, e la moglie lo renda al marito: non vogliate
imporvi delle privazioni, a meno che ciò non avvenga con mutuo consenso
per adempiere agli ufficii della preghiera». Queste parole esprimono
chiaramente lo stretto obbligo.

2. Secondo la Ragione: Da ogni contratto nasce l'obbligazione naturale
di stare a quanto si è convenuto; ora precipuo oggetto del matrimonio è
la mutua prestazione del corpo per compiere ordinatamente l'atto
coniugale, perciò: chi senza legittimo motivo ricusasse l'atto
coniugale, mancherebbe gravemente ad un patto stipulato solennemente e
con giuramento, e peccherebbe mortalmente. Così tutti i teologi.

D'onde risulta: 1. E' peccato mortale il ricusare, fosse anche per una
sol volta, senza legittimo motivo, il debito carnale al coniuge che lo
chiede con insistente ragionevolezza. Ma se il richiedente con facilità
si adatta alla privazione e non incorre nel pericolo della incontinenza,
allora il ricusare alcune volte il debito coniugale, o non è peccato, o
se lo è, non è mortale.--2. Uno dei coniugi non può lungamente stare
assente quando l'altro coniuge vi si opponga a meno che non esista una
grande necessità. Diversamente, una tale assenza equivarrebbe al
rifiuto di rendere il debito coniugale, e lederebbe gravemente la
giustizia.



  § II.--_Dei motivi che dispensano dal rendere il debito coniugale_.


Come un legittimo motivo può talvolta dispensare dal restituire una
cosa, così può egualmente dispensare dal restituire il debito coniugale.
Molti sono i motivi di questo genere, cioè;

1. Se il coniuge che chiede il debito coniugale non è in sè stesso, per
esempio, se è demente, o ubbriaco, non ci è obbligo in allora di
assecondare la sua dimanda, imperocchè la sua richiesta non è un atto
ragionevole. Tuttavia, se l'uomo, malgrado questo suo stato, può ancora
consumare l'atto coniugale, la moglie può annuire alla sua domanda, e
molto più sarà tenuta ad annuire, quando ragionevolmente essa tema che
una ripulsa spingerebbe il marito alla incontinenza, o a darsi ad altra
donna, o ad uscire in bestemmie o in turpiloqui coi domestici o coi
figli. Così _Sanchez l. 9, disp. 23, n. 9_, _S. Liguori, l. 6, n. 948_,
ecc. i quali dicono che alla donna demente o furiosa non deve nè
rendersi nè chiedere il debito coniugale, perchè v'ha pericolo d'aborto:

1. E' scusato quegli che non rende il debito coniugale, allorchè,
rendendolo, correrebbe grave pericolo la sua salute: prima del debito
coniugale, c'è infatti l'esistenza e la salute. Dicasi lo stesso, se si
corresse il grave pericolo di nuocere alla prole.

Da ciò risulta: 1. non c'è obbligo di rendere il debito al marito,
affetto da morbo contagioso, per esempio da male venereo, peste, lebbra,
ecc. _Alessandro III_, però dice, che deve rendersi il debito coniugale
ad un lebbroso ma _Sanchez, l. 9, disp. 24, n. 17. S Lig. l. 6, n. 930_,
e molti altri dippoi insegnano che quelle parole si riferiscono al caso
in cui non ci fosse probabilità di incorrere nel pericolo di rimanere
ammorbato, imperocchè è repugnante l'ammettere che un coniuge debba
esporsi a tanto pericolo. Ma gli stessi autori eccettuano il caso in cui
la lebbra abbia preceduto il matrimonio e fosse nota all'altro coniuge.
Ad ogni modo, è sempre da supporsi che non vi sia un grave pericolo, per
esempio, il pericolo della morte. 2. Il coniuge ammalato, che non
potrebbe rendere il debito senza suo grave danno, ne è dispensato per
tutto il tempo della malattia; ma non è permesso di rifiutarlo adducendo
inconvenienti di gravidanza o d'educazione dei figli, o le consuete
molestie del parto, imperocchè tutte queste cose non sono che accessorii
del matrimonio.

3. Un coniuge non è tenuto a rendere il debito all'altro coniuge il
quale per causa d'adulterio perdette il diritto di chiederlo, imperocchè
non si è più obbligato ad essere fedele a chi ha rotto la fede: ma se è
egli stesso invece il reo d'adulterio, non può ricusare il debito
coniugale richiestogli, imperocchè in questo caso le offese si
compenserebbero. Ciò è cosa certa per la moglie rispetto al marito, ma
non è forse così per il marito rispetto alla moglie, perchè la donna
adultera pecca assai più gravemente pel motivo ch'essa provoca il
pericolo di introdurre nella famiglia dei falsi eredi.

Del resto, quegli che perdonò al suo coniuge l'adulterio per esempio,
rendendogli il debito coniugale dopo aver saputo l'adulterio stesso, non
può rifiutarlo. Nondimeno, l'adultero può chiedere, ma solo come un
favore, al coniuge consapevole della infedeltà, che gli conceda il
debito coniugale: se poi questo coniuge ignora affatto l'infedeltà,
l'adultero non è obbligato a rivelargliela, per la ragione che non si
può costringere chicchessia ad infliggersi una punizione.

4. Se il debito coniugale viene chiesto frequentemente, per esempio, più
volte nella stessa notte, non si è sempre obbligati a renderlo,
imperocchè ciò è contrario alla ragione, e può essere grandemente
nocevole. Deve però la moglie, per quanto può--dice _Sanchez, l. 9,
disp. 2, n. 12_,--sovvenire ai bisogni del marito allorchè questi prova
stimoli carnali veementi: lo spirito di carità vuole che essa, per
quanto può, allontani il marito dal pericolo della incontinenza.

5. La donna non è obbligata a rendere il debito coniugale durante il
flusso mestruale; o nel puerperio, a meno che ragionevolmente non tema
che il marito incorra nel pericolo della incontinenza, perciò, se le di
lei preghiere non valgono a persuaderlo di astenersi dall'atto
coniugale, deve alla fine rendergli il debito, imperocchè, altrimenti,
sarebbe a temersi il pericolo d'incontinenza, di litigii, od altri
inconvenienti. Cosi _S. Bonaventura_ e molti altri citati da _Sanchez,
l. 9, disp. 21, n. 16_.

Generalmente i teologi insegnano essere lecito rendere e chiedere il
debito coniugale nel tempo dell'allattamento perchè consta
dall'esperienza che raramente l'accoppiamento carnale guasta in questo
caso il latte. (_Sanchez, l. 9, disp. 22, n. 14, e S. Liguori, 1, 6, n.
911_).

6. Non è permesso ricusare il debito coniugale per la paura di avere
troppo numerosa prole. Gli sposi cristiani confidino in Dio _che manda
il cibo ai giumenti e ai pulcini dei corvi quando l'invocano_ (_salm.
146, 9_); benedicendo egli la fecondità, benedice bene spesso anche i
beni temporali e spirituali facendo si che fra i figli uno ne venga il
quale, dotato di particolari qualità, benefichi poi moralmente e
materialmente tutta la famiglia.

Ciononpertanto, se mancassero davvero i mezzi di allevare, secondo il
proprio stato, una numerosissima prole, _Sanchez l. 19, disp. 25, n. 3_,
e molti altri, reputano lecito il ricusare il debito coniugale,
semprechè non vi abbia pericolo d'incontinenza; ma siccome il coniuge
che nega in questo caso il debito non può mai con certezza sapere se il
conjuge che lo domanda possa incorrere nel pericolo d'incontinenza, così
il confessore deve raramente permettere che sotto questo pretesto si
neghi il debito conjugale. Egli deve sempre esigere che l'astinenza
avvenga per mutuo consenso; cionondimeno benchè si sia fatto il
proponimento di conservarsi reciprocamente in una perfetta continenza,
ciascuno degli sposi deve sempre essere disposto a rendere il debito
conjugale all'altro che lo richiedesse.

VII. La donna che, consenziente il marito, prende, per una pattuita
mercede, un fanciullo d'altri a nutrire, è scusata se non rende il
debito conjugale durante l'allattamento, imperocchè se il latte di una
donna incinta non nuoce ordinariamente alla propria prole che di esso si
alimenta, non avviene cosí se la prole che succhia quel latte è prole
d'altri. Perciò, chi affida il proprio bambino ad una balia, lo vedrà
infermarsi, quando quella balia sia incinta.



          § III. _Di coloro che peccano mortalmente, rendendo
                         il debito coniugale_.


I. Se il coniuge che domanda il debito pecca mortalmente, per esempio,
chiedendolo in un luogo pubblico o sacro, o quado vi sia pericolo
d'aborto o pericolo di nuocere alla propria o alla salute dell'altro,
ovvero quando v'abbia evidente rischio di spandere il seme fuori della
vagina della donna mentre potrebbe sfogarsi diversamente, è cosa certa
che pecca pure mortalmente l'altro conjuge che gli rende il debito,
imperocchè parteciperebbe alla stessa colpa ed assumerebbe lo stesso
carattere peccaminoso.

II. Se l'uomo è decrepito e debole tanto da non poter compiere l'atto
carnale, e non abbia speranza di poterlo compiere, peccherebbe
mortalmente esigendo il debito conjugale, perchè sarebbe cosa contro
natura; e la moglie per la stessa ragione peccherebbe mortalmente,
rendendolo. Ma se l'uomo riuscisse di quando in quando a darsi all'atto
conjugale, benchè spesso non riesca a consumarlo, la moglie può rendere
il debito e può anche aver l'obbligo di renderlo, imperocchè, nel dubbio
di un felice risultato, il marito non può privarsi del proprio diritto:
al marito stesso in questo caso è permesso chiedere il debito conjugale,
poichè può avere una ragionevole speranza di saper consumare l'atto
carnale; e se avvenga ch'egli spanda il seme fuori della vagina della
donna, si giudica essere avvenuta la cosa per accidente, ne gliela si
può imputare a peccato. Ma ove nessuna speranza egli abbia di giungere
alla consumazione dell'atto carnale, egli deve certamente astenersene
sotto pena di peccato mortale. Così _Sanchez, l. 19, disp. 17, n. 24_,
_S. Liguori, l, 6, 954, dub. 2_ e molti altri da essi citati.

III. Se uno dei conjugi, richiedendo il debito, peccasse mortalmente in
forza di una circostanza sua particolare, per esempio, perchè fece voto
di castità, o perchè si propone uno scopo cattivo,--i teologi domandano
se è permesso rendere a questo coniuge il debito. Certi teologi pensano
essere peccato mortale rendere quì il debito conjugale, a meno che la
cosa non sia scusata da un grave motivo; imperocchè, nel caso in
questione, il conjuge che domanda, non ha diritto alcuno sul corpo
dell'altro; ovvero, pel voto emesso o pel fine perverso che si propone,
il suo atto non sarebbe che un atto cattivo: l'altro conjuge può quindi
non voler assolutamente rendersi suo complice. Molti altri, per lo
contrario, dicono che l'altro conjuge, non solo potrebbe rendere il
debito coniugale, ma deve renderlo, perchè il conjuge richiedente non
perdette con un voto emesso, il suo diritto: sarà una richiesta
illecita, ma non ingiusta. Potreste voi negare un debito pecuniario a un
vostro creditore che promise di non chiedervelo, adducendo voi ch'egli
ora ve lo chiede contro la promessa fatta? No certamente. Del
pari--dicono--il coniuge che è richiesto, non può negare il debito
conjugale all'altro conjuge, malgrado il voto da questi fatto, e
malgrado il peccato mortale che esso commette, chiedendo. Così _Sanchez,
l. 9. S. Liguori_, ecc.

A me pare frattanto fuori di dubbio che il conjuge a cui, è chiesto il
debito sia obbligato, pe dovere di carità, di avvertire il chiedente e
distoglierlo dal peccato, «semprechè--dice _S. Liguori_--esso possa
ammonire senza tema di grave dissidio, di sdegno, o di incontinenza,»
inconvenienti che spesso sono a temersi. Non è più un obbligo la
correzione fraterna quando non vi ha speranza alcuna di ammenda.

Tutti i teologi asseverano che il conjuge non legato ad un voto può
lecitamente chiedere il debito conjugale, e molti ve ne hanno che lo
consigliano a chiederlo quando egli preveda che l'altro conjuge glielo
richiederebbe lui stesso: gli eviterebbe così di commettere un peccato.

IV. Risulta dal fin quì detto che il conjuge, il quale ebbe, un
commercio incestuoso con persona consanguinea all'altro conjuge in primo
o secondo grado, decade dal diritto di chiedere il debito.

Ma se, ciononstante, il chiedesse,--è obbligato l'altro a renderlo?

Egli è certo che il conjuge innocente può chiedere il debito conjugale e
l'altro è tenuto a renderlo. Perciò molti teologi in questo caso, come
nel caso precedente, lo consigliano a chiedere il debito, prevenendo
così la domanda dell'altro, il quale, chiedendo, cadrebbe in peccato.

Molti teologi citati _Sanchez, l. 9, disp. 6, n. 11_, ritengono invece
che il coniuge innocente pecca mortalmente rendendo il debito all'altro
che lo richiede, perchè asseconda una richiesta che ha peccato mortale,
e perciò fa propria l'altrui malizia.

Moltissimi altri però, e più probabilmente, insegnano con _Sanchez e S.
Liguori_ che non v'ha peccato a rendere il debito conjugale, quando non
si possa prudentemente distogliere il conjuge richiedente dal peccato di
chiederlo: lo sposo innocente, compiendo in questo caso l'atto
conjugale, fa una cosa buona in se, a cui ha un diritto, che non gli può
esser tolto dall'atto colpevole dell'altro conjuge: sia che egli chieda,
sia che egli renda, esercita un proprio diritto, e perciò non pecca,
specialmente poi se negando il ricambio del debito conjugale ne
potessero risultare inconvenienti o se non gli fosse possibile in niun
modo di distogliere l'altro conjuge dal peccato.



          § IV _Di coloro che commettono il paccato di Onan_.


Questo peccato avviene allorquando l'uomo, dopo essersi introdotto nella
vagina della donna, si ritira, affinchè il suo umore spermatico non si
versi dentro le parti genitali della donna stessa, e così non avvnga la
generazione. La denominazione di questo peccato viene da Onan,
secondogenito del patriarca Giuda, il quale, morto il fratel suo Her
senza figli, fu costretto a sposarne la vedova, di nome Thamar, affine
di continuare la parentela del fratello. «Sapendo Onan che i figli
nascituri non sarebbero considerati come suoi e porterebbero il nome del
fratello, nè ciò egli volendo, accoppiavasi, sì, colla vedova del fratel
suo, ma faceva in modo che il suo seme si versasse in terra» (_Gen. 38,
9._). Nulla è oggi più frequente di questa detestabile abitudine fra i
giovani sposi, che, non infrenati dal timore di Dio, sprezzano le parole
dell'Apostolo: «_sia il connubio, sopra ogni altro, onorevole; e il
talamo, immacolato_, (_Cbr. 13, 4_)» e vivono: «_come il cavallo e il
mulo, a cui manca la ragione_ (_Sal. 31, 9_).» Non domandando essi al
matrimonio che le sole voluttà della carne, rifuggono dai suoi doveri e
vogliono, o non aver figli, o averne solo un determinato numero; perciò
si danno turpemente e senza freno alcuno alla libidine, evitando con
arte le conseguenze dei loro accoppiamenti carnali.

1. E' certo che l'uomo il quale così opera, qualunque ne sia la causa,
pecca mortalmente, se non lo scusi la buona fede; e non può essere
assolto in confessione, se non si dolga del peccato e si proponga
sinceramente di non cader più in esso; non può essere messo in dubbio
ch'egli operi in modo enorme contro lo scopo del matrimonio. «Fu per
questo che il Signore percosse Onan, il quale commetteva un'azione
detestabile. (_Gen. 38 10_).»

2. E' certo che, per la stessa ragione, la moglie che induce il marito a
così fare, ovvero acconsente alla di lui detestabile azione, o--e ciò a
più forte ragione--essa si ritira, malgrado la volontà del marito prima
che questi le abbia versato nella vagina il seme, pecca mortalmente ed è
assolutamente indegna dell'assoluzione. Sì, non è infrequente il caso di
mogli che non permettano al marito di consumare interamente l'atto
coniugale, ovvero che, almeno, liberamente acconsentano che il marito
compia la nefanda azione d'Onan.

3. E' certo che la moglie è, almeno ordinariamente, obbligata ad
ammonire il marito e a distoglierlo, per quanto può, dal compiere quella
perversa azione: è la legge della carità che da lei lo esige.

4. E' certo che la moglie può e deve rendere il debito coniugale; se il
marito, da lei ammonito, promette di consumare perfettamente l'atto
carnale, e se, infatti, di quando in quando esso perfettamente lo
consuma: sul semplice dubbio ch'egli possa mancare al proprio dovere,
essa non può negare il debito coniugale; ma essa deve disapprovarlo
allorchè egli si ritira indebitamente della sua vagina; se no,
peccherebbe anch'essa gravemente.

Ora la difficoltà sta nel sapere, con tranquilla coscienza, se essa può
rendere il debito conjugale, ove sappia con certezza che il marito si
tirerà indietro, malgrado le sue preghiere per distornelo.

Molti teologi sostengono che la moglie in questo caso non può rendere il
debito coniugale ancorchè si esponesse ad una minaccia di morte:

1. Perchè l'atto del marito che si ritira indebitamente dalla vagina
della moglie è atto cattivo; e la moglie che a questo atto annuisce,
partecipa alla peccaminosità del marito;

2. Perchè, nella nostra ipotesi, l'uomo non chiede veramente l'atto
coniugale, ma soltanto il permesso di introdursi nella vagina della
donna per eccitare in se una polluzione;

3. Perchè, se il marito esigesse dalla moglie atti sodomitici, essa
certamente non potrebbe in modo alcuno acconsentirvi, ancorchè si
esponesse con ciò alla morte: ora, nel caso nostro, la domanda del
marito si riduce a chiedere nè più nè meno che un atto di sodomia[12],
perchè vi sarebbe esclusa la consumazione dell'atto conjugale. Cosí
_Habert, tit. 7, p. 745, Collator_ di Parigi, _t 4, p. 348_, molti
_Dottori_ della Sorbonna citati da _Collet, t. 16, p. 244, Collator
Andeg._ «Sugli Stati,» _t. 3 p. ultima, Bailly_ ecc.

[12] Qui l'autore si riferisce a quella specie, diremo così _anormale_
di sodomia, che si compie fra persone di sesso differente, imperocchè la
sodomia _normale_ sarebbe quella fra maschio e maschio, fra femmina e
femmina (_Vedi cap. III. art. II_). (_Nota del traduttore_)

Molti altri insegnano che la moglie, la quale non si oppone alla domanda
del marito e si offre a lui nel modo che è d'uso, va immune da ogni
peccato, qualora essa non dia il proprio intero assentimento all'azione
del marito quando esso si tira indietro prima del tempo, imperocchè,
cosi operando, essa fa cosa lecita ed esercita un diritto di cui il
marito non può colla sua malizia, privarla: essa non fa se non ciò che,
dato il matrimonio, può lecitamente fare. E il marito che ad essa si
accosta e s'introduce nella parte genitale di lei, non pecca già per
ciò, ma pecca soltanto perchè si ritira innanzi tempo e spande fuori
della vagina il suo seme. Dunque se la moglie non dà a quest'azione del
marito il proprio consenso, essa non partecipa al peccato del marito.
Così _Sanchez, l. 9, disp. 17, n. 3_, _Pontius, l. 10, cap. 11, n. 3_,
_Tamburinus. l. 7, cap. 3, § 5, n. 4. Sporer, p. 356. n. 490_, _Pontas_
al vocabolo «Dovere conjugale» _cap. 55_, _S. Liguori, l. 6, n. 947_.

_Roncaglius_ e _Ebel_, citati da _S. Liguori, l. 6, n. 947_, permettono
essi pure alla moglie di rendere il debito conjugale al marito che vuole
tiarsi indietro innanzi tempo, purchè essa non dia il proprio assenso al
peccato di lui: ma per scusarla d'ogni colpa essi esigono un grave
motivo.

Questa opinione a noi sembra la sola ammissibile, imperocchè noi siamo
fermamente persuasi che quì l'azione della donna non ha nulla in sè di
cattivo; perciò crediamo che il giudizio, dato da _Habert_ e dagli altri
teologi che ed esso aderiscono, sia troppo severo, e non fondato. La
moglie può dunque quand'abbia una sufficiente ragione, prestarsi
passivamente al marito: ma la ragione scusante deve essere proporzionata
alla malizia del peccato e all'effetto della cooperazione, imperocchè
non si può mettere in dubbio che la moglie in questo caso cooperi
direttamente al peccato del marito: per ciò la causa scusante vuolsi che
sia grave. Così ora pensano in generale i confessori dotti e pii, e la
stessa Sacra Penitenzieria, la quale interrogata con queste
parole:--«_Una pia moglie può ella permettere che suo marito le si
accosti, dopo che ella sa per esperienza ch'egli segue la nefanda usanza
di Onan.......... specialmente se, rifiutandosi essa, si esponga al
pericolo di sevizie, o tema che il marito vada a sfogarsi con
prostitute?_» rispose il 23 aprile 1822: «Siccome nel caso proposto la
moglie, da parte sua, nulla farebbe che fosse contro natura, faccia pure
questa cosa che è lecita; e tutto ciò che vi ha di disordinato in questo
atto si imputi alla malizia dell'uomo, il quale, invece di consumare
l'atto conjugale, si tira indietro e spande il seme fuori della vagina.
Se la moglie, dopo aver fatto le debite ammonizioni al marito, che
insiste minacciandole percosse, la morte, od altre gravi sevizie, essa
nulla ottiene, può allora, senza peccare, (come insegnano provetti
teologi) prestarsi passivamente al marito, imperocchè, in questo caso,
essa non fa che semplicemente tollerare il peccato di suo marito, ed ha
per sè gravi motivi di scusa, perchè la carità che pur l'obbliga ad
opporsi al marito, non l'obbliga però ad opporglisi esponendosi a troppo
gravi inconvenienti.»

Dunque resta stabilito che la moglie, date queste circostanze, non pecca
prestandosi al marito, semprechè però possa essere scusata da gravi
motivi. Ora, ecco i motivi che vengono considerati come gravi:

1. Se essa teme la morte, le percosse, o gravi sevizie. Ciò risulta
manifesto dai responsi della Sacra Penitenzieria e dalla Ragione.

2. Se c'è luogo a temere che il marito conduca nella casa conjugale una
concubina e viva maritalmente con essa, imperocchè una donna sensata
sopporterà piuttosto le sevizie e le percosse che vedere nella propria
casa una tresca così ingiuriosa per lei.

3. Se c'è a temere che il marito, benchè non tenga nella propria casa
una concubina, la possa però in qualche altro modo frequentare, o possa
tenere relazioni con meritrici, ci sembra che la moglie abbia quì un
motivo sufficiente di scusa, tuttochè la Sacra Penitenzieria non si sia
espressa su questo punto: è certo che un tale stato di cose riuscirebbe
assai molesto alla moglie recando con sè diverbi, dissidii, sciupìo
d'avere, scandalo, ecc.

4. La gravità di tutte queste molestie deve essere misurata a seconda
delle circostanze personali. Ciò che per uno si reputa lieve cosa, può
essere per un altro una cosa gravissima: ai litigii passeggeri, ai
dissidii ed anche alle percose non si dà gran peso presso i contadini ma
queste cose sarebbero insopportabili per una donna timida, istruita con
squisitezza, ed educata alle maniere urbane. Ora, il timore di rilevanti
dissidii, in quest'ultimo caso, sarebbe una causa sufficiente per
scusare il ricambio del debito conjugale.

5. Egualmente può rendere il debito conjugale la moglie, se essa sà con
certezza che il marito, irritato da una di lei negativa, bestemmierebbe
Dio e la religione, ingiurierebbe confessori e sacerdoti, e uscirebbe in
parole scandalose coi figli o coi domestici: volendo essa impedire un
peccato, ne provocherebbe invece altri, gravi, ed anche più gravi del
primo: a nulla di buono essa dunque riuscirebbe, e dovrebbe anche
esporsi a subire gravi molestie.

6. A più forte ragione sarebbe una scusa sufficiente il timore di
divorzio, o di separazione, o di disonore, o di grave scandalo.

7. Non è necessario che la moglie resista al marito fino al punto di
provare le sevizie, le molestie e gli altri inconvenienti summentovati,
imperocchè allora, anche rendendo o offrendo il debito conjugale, non
riuscirebbe spesso a togliere il male già esistente: d'altronde essa non
è obbligata a subire quelle molestie per impedire al marito di peccare.
Basta dunque che il timore sia ragionevole.

8. Non è essa neppure obbligata di ammonire il marito ogni volta ch'esso
le domanda il debito conjugale coll'intenzione di ritirarsi da lei prima
del tempo, quando ella sappia per esperienza che nulla ottetrebbe, deve
tuttavia, almeno qualche volta, far capire al marito ch'essa non è
contenta del suo mal fare. Si guardi però bene dal non assentire
internamente al peccato del marito o dal compiacersi segretamente in
esso, sia pel desiderio di non aver figli, o di non aver le molestie
della gravidanza, o per qualsivoglia altro motivo. Nel caso che l'atto
fecondatore dipendesse unicamente da lei, dovrebbe essere disposta,
piuttosto alla morte, che ad impedire la generazione. In tutti questi
casi è permesso alla moglie tutto ciò che le sarebbe lecito, se il
marito compisse regolarmente l'atto conjugale.

I suesposti principii sono generalmente accettati. Cionullameno v'hanno
ancora molte incertezze che nello scorso anno così esponemmo al sommo
Pontefice:

          «_Beatissimo Padre_,

     «Il vescovo di Mans, prostrato con somma reverenza ai piedi di
     Vostra Santità, vi espone umilmente ciò che segue:

     «Quasi tutti i giovani sposi non vogliono aver prole numerosa, e
     d'altronde non possono moralmente astenersi dall'atto conjugale.

     «Interrogati dai confessori sul modo con cui essi esercitano i loro
     diritti conjugali, sogliono ordinariamente ritenersi gravemente
     offesi da tali interrogazioni; ma continuano però nei loro smodati
     atti conjugali e nel tempo stesso non vogliono punto avere prole
     troppo numerosa, malgrado tutte le nostre ammonizioni.

     «Agli ammonimenti dei confessori rispondono abbandonando i
     sacramenti della Penitenza e della Eucarestia, dando in tal modo
     mali esempii ai figli, ai domestici e ad altri fedeli in Cristo. Da
     ciò consegue un lagrimevole pregiudizio alla religione.

     «Il numero di coloro che si accostano al sacro tribunale diminuisce
     dovunque di anno in anno, e specialmente pel motivo or enunciato,
     come asseverano molti parroci, cospicui per pietà, per scienza e
     per esperienza.

     «Che facevano un tempo i confessori? dicono molti. Dai matrimonii
     non nascevano allora, generalmente, più figli di quello che oggi ne
     nascano: i conjugi non erano allora più casti d'adesso, eppure non
     mancavano essi al precetto della annuale Confessione e della
     Comunione pasquale.

     «Tutti sinceramente ammettono essere massimo peccato tanto la
     infedeltà di un conjuge, quanto il provocato aborto. Or bene: non
     si riesce che a stento a persuadere qualcuno, che si è obbligati,
     sotto pena di peccato mortale, di conservarsi perffettamente casti
     nel matrimonio[13], e di correre il rischio di procreare numerosa
     prole.

[13] É bene richiamarsi alla mente la distinzione fra _castità
coniugale_, _castità vedovile_ e _castità verginale_ (_V il preambolo al
Cap. I._) Si è _casti_ nel matrimonio ogni qualvolta si subordinano gli
atti coniugali ai dettami della ragione: la _castità conjugale_ non è lo
stato verginale nella carne, ma è l'uso virtuoso del matrimonio. (_Nota
del Traduttore_).

     «Lo scrivente vescovo di Mans, prevedendo i gravi mali che da ciò
     possono scaturire, e turbato dalle incertezze, sollecito interpella
     Vostra Beatitudine sulle seguenti questioni:

     «1.° I conjugi, che usano del matrimonio in modo da impedire la
     fecondazione, commettono un atto per sè stesso mortalmente cattivo?

     «2.° Benchè quest'atto sia da aversi per sè stesso mortalmente
     cattivo, possono gli sposi, che di esso non accusano sè stessi,
     ritenersi in una tale buona fede che li renda immuni da grave
     colpa?

     «3.° È da approvarsi la condotta di quei confessori che per non
     offendere i conjugi, si astengono dall'interrogarli circa il modo
     col quale usano dei loro diritti conjugali?«

          _Risposta_,

     La sacra penitenzieria, ponderate naturalmente le proposte
     questioni, risponde alla 1.ª:

     «Allorquando tutta la disordinatezza degli atti conjugali provenga
     dalla malizia dell'uomo, il quale, invece di consumare l'atto, si
     tira indietro e spande il suo seme fuori della vagina della moglie,
     questa può, dopo le debite ammonizioni invanamente fatte e qualora
     il marito insista minacciandola di percosse o di morte, può, senza
     peccare,--come insegnano autorovoli teologi--prestarsi passivamente
     all'atto conjugale, a patto però, che in questi casi essa non
     faccia che tollerare semplicemente il peccato del marito: essa ha
     quì un grave motivo che la scusa, imperocchè la carità, che pure
     l'obbliga a far resistenza, non l'obbliga cionompertanto fino ad
     esporsi a tanto gravi molestie

     Alla 2:ª poi e alla 3.ª questione risponde: Che il confessore si
     richiami alla mente l'adagio: _le cose sante si devono trattare
     santamente_; che ponderi bene le parole di S. Alfonso de' Liguori,
     uomo dotto ed espertissimo in tali cose, il quale così dice nella
     sua _Pratica del Confessore §. 4, n.° 7_:--«Relativamente a certi
     peccati dei conjugi riguardato al debito coniugale, il confessore
     non è ordinariamente obbligato di tenerne speciale parola, nè
     conviene farne interrogazioni: a meno che non si tratti della
     moglie; per chiederle; nel modo il più modesto possibile se ella
     abbia reso il debito coniugale.... Sul resto, taccia; parli
     soltanto se sarà interrogato--e finalmente che non ometta di
     consultare attri provetti Autori.»

          «Dato in Roma, l'8 giugno 1842.»

Le suaccennate parole di S. Alfonso de' Liguori trovansi nella ediz. XI°
in 4° al § suindicato, ma non al N.° 7, ma al 41.

Notiamo dunque che la Sacra Penitenzieria: 1.° suppone che l'azione del
marito il quale fa abuso del matrimonio, è azione per sè stessa
mortalmente cattiva; 2° ammette che la norma indicata da S. Alfonso de'
Liguori è prudente, e che i confessori la possono tranquillamente
adottare.

I confessori quindi si astengono cautamente--e specialmente i più
giovani--da interrogazioni indiscrete e che recano grave molestia ai
conjugi: operino e parlino con molta prudenza, senza però ledere mai la
verità colle loro risposte, nè assolvere indebitamente il penitente
ch'essi hanno la coscienza ch'ei sia in peccato mortale; ma non sieno
però nemmeno troppo solleciti a ritenere il penitente privo di quella
buona fede che talora toglie al peccato la gravezza mortale. Ad ogni
modo, si procuri d'indurre i coniugi a vivere santamente nel matrimonio.

La moglie procuri colla forza delle blandizie, con tutti i segni
dell'amore, colle preghiere, colle esortazioni, di persuadere il marito
a compiere l'atto coniugale colle debite regole, se no, di astenersene
completamente, e vivere da cristiano. L'esperienza prova che molte mogli
sono riuscite in questo modo a persuadere i loro mariti.

_Si domanda_: 1. Se la moglie può chiedere il debito coniugale al
marito, quando ella sappia che esso ne abuserà.

R. Molti teologi rispondono affermativamente, perchè essa ne ha diritto,
e del suo diritto usa. Così _Pontius_, _Tamburinus_, _Spover_ ecc. Ma
altri e più rettamente, come risulta da quanti abbiamo detto, richiedono
un grave motivo affinchè essa possa lecitamente chiedere il debito
coniugale, perchè altrimenti offrirebbe al marito un'occasione prossima
di peccare; difficilmente poi potrà presentarsi questo motivo quando
essa può trovare altri mezzi per vincere la tentazione. Ma, dato infatti
il grave motivo, per esempio, la difficoltà di vincere la tentazione,
essa non peccherebbe affatto, imperocchè è permesso di domandare con
retto intendimento e per gravi motivi una cosa buona in sè, a quegli che
la può dare senza peccare, abbenchè questa cosa, per l'abuso che se ne
farebbe, non si possa dare senza cadere in peccato: per questa ragione è
permesso chiedere i sacramenti da un sacerdote indegno, un prestito di
un usuraio, il giuramento da un pagano, ecc. quando vi sieno per far ciò
sufficenti motivi.

_Si domanda_: 2. Se il marito possa versare il proprio seme fuori della
vagina della donna, quando, per dichiarazione dei medici, la moglie non
potesse se non con evidente pericolo di morte.

Rispondiamo, con tutti i teologi, negativamente, perchè il versare a
quel modo il proprio seme è cosa contro natura, e detestabile. Se il
pericolo della morte non è molto probabile, si consumi completamente
l'atto, se poi il pericolo è moralmente certo, bisogna astenersene
affatto. In questo caso non rimane ai coniugi altra via di salvezza che
quella della continenza: è questa una condizione lagrimevole, ma non può
essere mutata. Questi disgraziati sposi devono, se vogliono con più
facilità rimanere continenti e vivere castamente, separarsi di letto.

E' a notarsi che anche i fornicatori, gli adulteri, ecc., non possono
opporsi alla generazione col lasciar volontariamente cadere il seme
fuori della vagina della donna, perchè questa è sempre una cosa contro
natura: circostanza d'altronde da doversi dichiarare in confessione.



 § V. _Di coloro che peccano venialmente rendendo il debito coniugale_.


1. Quando l'atto coniugale è un peccato veniale da parte del coniuge che
l'ha domandato, per esempio, perchè lo domandò per sua voluttà, credesi
che vi sia colpa a concederlo, a meno che non lo scusi qualche ragione,
imperocchè altrimenti non si farebbe che somministrare materia al
peccato. Se però la domanda è fatta in modo assoluto, è questa una
ragione sufficente per giustificare il coniuge che rende il debito,
imperocchè diniegandolo, sarrebbero a temersi risse, odii, scandali,
pericoli più gravi di peccato ecc.

2. Se poi l'atto coniugale è venialmente cattivo per la cosa in sè, per
esempio, perchè, volendo pur far uso, quegli che lo domanda, delle parti
naturalmente destinate a ciò, nondimeno vuole un modo o una posizione
strana e venialmente cattiva, oppure vuole l'atto coniugale durante la
mestruazione o la gravidanza, allora non lo si deve concedere se non c'è
una ragione, essendo esso indecente. Sarebbe però una ragione
sufficiente per rendere il debito conjugale richiesto, se, diniegandolo,
avessero a temersi dei dispiaceri. Così _Sanchez, l. 9, disp. 6, n. 6_,
_S. Liguori, l. 6. n. 946_ e molti altri citati da essi, contrariamente
ad altri non pochi i quali non ammettono che l'indecenza d'un atto, per
quanto sia soltanto venialmente cattivo, possa essere cancellata da
ragione qualsiasi: la menzogna, per esempio, (dicono essi), non può
essere mai giustificata dalla necessità.

Non c'è però parità fra i due casi: la menzogna è cattiva per natura
sua, ma così non è della richiesta del debito conjugale, la quale poi,
nel caso nostro, può essere giustificata a detta di chiunque, da un
ragionevole motivo: perciò sarebbe egualmente giustificato chi rendesse
il debito conjugale richiestogli.

Dopo tutto, mi sembra più probabile l'opinione, che chi rende il debito,
in questo caso, vada immune da ogni colpa.

_Si domanda_: 1. Se le mogli che non seppero mai procreare se non figli
morti, possano ciononostante rendere o chiedere il debito coniugale.

R. _Sanchez l. 7. disp. 102, n. 8_, _S. Liguori l. 6, n. 553_ e molti
altri dicono che la moglie in questo caso non pecca nè rendendo nè
chiedendo il debito coniugale, imperocchè: 1. ella fa una cosa in sè
lecita e alla quale ha diritto, mentrechè la morte del feto avviene per
accidente e non può essere a lei imputata; 2. meglio è che possa nascere
un essere con un peccato originale, di quello che non nasca alcuno, come
procura di dimostrarlo ampiamente _Sanchez_; 3. qualche volta accade che
una donna, dopo molti aborti, partorisca felicemente.

_Sylvius_ però _t. 4, p. 718_, _Billuart t. 19, p. 396_, _Bailly_, ecc.
dicono che la moglie non può chiedere, nè rendere il debito coniugale,
quando sia moralmente certa che la prole non può nascere viva, perchè in
questo caso diventa impossibile ottenere lo scopo legittimo e proprio
del matrimonio. Questa opinione, così ristretta, ci sembra la più
probabile e la sola da adottare. Gli Autori citati non dicono che in
questo caso il peecato sia mortale, nè certo osiamo dirlo noi.

_Si domanda_: 2. Se la moglie la quale, secondo il giudizio dei medici,
non può partorire senza manifesto pericolo di morte, sia obbligata di
rendere il debito al marito, quando questi lo chieda insistentemente.

R. Noi abbiamo già provato che il marito in questo caso non può, per
qualsiasi motivo, domandare alla moglie il debito coniugale: egualmente
la moglie non può renderlo, perché essa non può disporre a sua voglia
della propria vita. Tuttavia, il peccato non è mortale se non nel caso
in cui il pericolo della morte sia evidente.




                                CAPO II.

                       _Dell'uso del matrimonio._


In questo capo esamineremo:

1. Quando i conjugi peccano usando del matrimonio;

2. Come devono essere giudicati i contatti fra conjugi.

ARTICOLO I.--_Quando i coniugi peccano usando del matrimonio_.--I.
Peccano mortalmente i coniugi, non quando il loro accoppiamento carnale
avviene all'infuori della vagina della donna, o quando si spande, fuori
della della stessa vagina e deliberatamente, l'umore spermatico; ma
altresì, quando cominciano essi l'accoppiamento carnale nelle parti
deretane colla intenzione di consumarlo poi nella vagina femminile
imperocchè qui essi ricorrono ad un mezzo che è in tutto sconveniente, e
siccome questo mezzo tende per sè stesso a far spargere il seme fuori
delle parti sessuali della donna, così esso non è, infine, se non una
sodomia. Così _Sanchez l. 9, disp. 17, n. 4_, _S. Liguori l. 6, n. 916_,
e molti altri da essi citati.

II. Secondo il parere di tutti i teologi, è un peccato mortale tanto il
chiedere quanto il rendere il debito conjugale quando si vuol adottare,
per accoppiarsi, una posizione non naturale e si incorre per ciò nel
grave pericolo che il seme caschi fuori della vagina della donna. La
ragione di ciò è evidente. Ma, escluso questo pericolo, il chiedere o il
rendere senza necessità il debito conjugale in questa maniera è soltanto
un peccato veniale, la positura non naturale dei corpi dei conjugi non
tocca l'essenza del matrimonio nè impedisce la fecondazione. Ma è
severamente da biasimare, il marito specialmente, se per sentire
maggiore voluttà, s'introduce nella vagina della moglie facendosi
volgere da lei il tergo come usano le bestie, oppure mettendosi sotto di
lei, imperocchè queste strane giaciture corporali sono spesso segni di
concupiscenza mortalmente cattiva in coloro che non si accontentano
delle posizioni ordinarie. Data però la necessità di comportarsi in
questi modi, per esempio, in causa di gravidanza, o perchè non è
possibile una positura diversa, allora non vi ha peccato, semprechè però
non ci sia il probabile pericolo di spandere il seme fuori della vagina
della donna.

III. Peccano mortalmente i coniugi che esercitano fra loro atti molto
osceni e gravemente repugnanti al naturale pudore, e specialmente se si
accoppiano carnalmente usando di una parte del loro corpo che non è
quella voluta dalla natura, per esempio, se la moglie prende in bocca il
membro virile del marito[14]............... _ecc. ecc._ imperocchè lo
stato coniugale non potrà mai in modo alcuno giustificare simili
infamie.

[14] Il testo latino ha qui una lacuna, ma l'esempio offerto dall'autore
è già abbastanza eloquente nella sua sconcezza per indovinare i lubrici
segreti mal velati dai puntini e gli _eccetera_, segreti d'altronde che
vengono voluttuosamente disvelati dalla cattedra nei seminari al
cospetto di giovani seminaristi. Che lezioni! (_Nota del Traduttore_).

IV. E' peccato mortale se i coniugi impediscono la fecondazione, per
esempio, se, come già dicemmo, l'uomo spande il seme fuori della vagina
della donna, se si oppone alla sua completa eiaculazione, se la donna
respinga da sè lo sperma del marito o tenta di respingerlo, se rimane
essa impossibile, coll'intendimento di impedire la fecondazione,
ecc.--_S. Antonio Sanchez_ e molti altri citati da _S. Liguori l. 6, n.
918_, dicono che non vi è peccato mortale se, prima di emettere il seme,
il marito, col consenso della moglie, si tira indietro, per esempio,
affinchè non nasca prole; semprechè però non vi sia nè nell'uno nè
nell'altro coniuge pericolo di polluzione. Tuttavia _Navarrus_,
_Silvestro_, _Ledesma_, _Azor_ e moltri altri credono ragionevolmente
essere peccato mortale, tanto perchè nell'uomo c'è sempre il pericolo
della polluzione, quanto perchè si opera gravemente contro natura
lasciando imperfetto l'accoppiamento carnale. Questa seconda opinione è
quella che in pratica de'vessere adottata.

V. Peccano mortalmente i conjugi se chiedono o rendono l'accoppiamento
carnale, quando v'abbia grave pericolo di aborto, abbenchè il feto non
sia ancora animato, oppure quando ne derivi notevole nocumento alla
salute della prole. Ciò risulta evidente da quanto abbiamo già detto,
imperocchè anche questa è una cosa gravemente contraria alla natura.

IV. Peccano pure mortalmente i conjugi se, nell'atto carnale del
matrimonio hanno desiderii di adulterio, vale a dire se si fingono
dinnanzi alla mente un'altra persona e voluttuosamente si dilettano
immaginandosi di avere invece commercio carnale con lei. Dicasi lo
stesso se esercitano l'atto conjugale con un fine mortalmente cattivo,
per esempio, se il marito chieda o renda il debito col desiderio che la
moglie muoja nei dolori del parto.

VII. E' peccato mortale l'accoppiamento, se si compie, fosse pur anco in
tempo di guerra, in un luogo sacro, perchè si mancherebbe alla debita
riverenza del luogo e perchè la legge della Chiesa lo proibisce: i
conjugi possono in altro modo appagare i loro bisogni.

VIII. Peccano, infine, mortalmente i conjugi se si accoppiano in
presenza d'altri dando così grave scandalo: procurino perciò che nella
loro camera nuziale non ci sia letto d'altre persone. E i poveri, e i
contadini, che ben sovente non hanno che una sola camera per dormirvi
essi, i figli, e i domestici, sieno cauti e procurino che, di
nottetempo, usando dei loro diritti conjugali, non si presti occasione
di rovina ad altri. Oh! quante domestiche, quanti fanciulli, in tenera
età, sono già di costumi corrotti, e devono la loro depravazione a
conjugi imprudenti!

ARTICOLO II.--_Dei contatti fra conjugi_.--I. Quel toccarsi per giungere
direttamente al legittimo accoppiamento, senza però che vi sia pericolo
di polluzione, è, senza alcun dubbio, lecito: questi toccamenti sono
come gli accessorii dell'accoppiamento: lecito questo, sono leciti pur
essi. Se però, abbenchè tendano all'accoppiamento, si fanno per godere
una voluttà maggiore, sono peccati veniali, perchè questo maggiore
godimento è uno scopo venialmente cattivo. Ma sarebbero però peccati
mortali se questi contatti, quantunque tendenti all'accoppiamento,
fossero repugnati alla retta ragione, come sarebbe l'applicare le parti
sessuali dell'uno a certe parti del corpo dell'altro, non convenienti:
perciò i conjugi cristiani non devono fare «come fanno i cavalli e i
muli che sono irragionevoli (_Salm 31. 11_); ma che ciascuno di voi
sappia ch'egli possiede parti sensuali per scopo di santificazione e
d'onore, non per sfogo di passioni, come usano le genti che non
conoscono Dio» (_I. ai Tessal, 4. 4._)

II. Il palparsi fra conjugi è peccato mortale quando ne risulti un
prossimo pericolo di polluzione, imperocchè la polluzione non è lecita
nè ai conjugati nè ai liberi, e non si può ammettere scusa alcuna ad
esporsi _volontariamente_ al pericolo di essa. Percui, allorquando non
espongono al pericolo di polluzione, non sono menomamente peccati gli
abbracciamenti fra conjugi ed altri contatti non osceni che soglionsi
fare fra sposi per coltivare la mutua affezione. Se questi contatti si
posson permettere fra persone non conjugate, benchè vi possa essere
qualche pericolo di polluzione, semprecchè però vi sia un motivo che li
giustifichi, a più forte ragione si possono permettere fra conjugi,
imperocchè, favorendo questi contatti la loro mutua affezione, diventano
un motivo sufficente a scusare un qualche pericolo di polluzione, se pur
esistesse.

III. Disputano discordi i Dottori sull'argomento, se i contatti
gravemente osceni fra conjugi, escluso sempre il pericolo prossimo di
polluzione, siano peccati mortali. _S. Antonio_, _Silvestro_,
_Comitolus_ e molti altri citati da _Sanchez, l. 9, disp. 44_,
asseriscono che i contatti, (come gli sguardi), di questo genere, sono
peccati se avvengono senza che vi sia un intendimento di addivenire
all'accoppiamento carnale, imperocchè in questo caso, non tendono ad
esso, anzi l'escludono, ma mirano bensì alla polluzione che è in sè
essenzialmente cattiva.

_Sanchez_ poi _l. 9, disp. 44, n. 11 e 12_, _S. Liguori l. n. 932_ ed
altri in generale, sostengono che i toccamenti, come gli sguardi, di
questa natura, escluso pur sempre il pericolo prossimo di polluzione,
non sieno dippiù di un peccato veniale, benchè non mirano all'atto
conjugale, imperocchè tali atti fra sposi non sono, di loro natura,
peccati, potendo esser benissimo compiuti lecitamente in relazione
all'accoppiamento carnale, e non diventano peccati venali se non quando
non siano in relazione a cotesto accoppiamento, e manchino perciò di un
legittimo scopo: e quando non esista grave pericolo di polluzione, non
sono mai dippiù d'un peccato veniale.

Questa seconda opinione a noi sembra la più probabile. Tuttavia devesi,
ordinariamente, in pratica biasimare sul serio i conjugi che così
operano, in special modo, se questi contatti solleticano fortemente gli
spriti veniali, imperocchè in questo caso di rado manca il pericolo
della polluzione. Così _P. Antoine_ e _Collet_.

Non si devono però ritenere rei di peccato mortale quei coniugi, che
asseverano in buona fede che, col toccarsi, i loro sensi non si
eccitano, e che non v'ha in essi probabile pericolo di polluzione
imperocchè tal cosa non è infatti rara fra sposi da lungo tempo
assuefatti agli atti venerei. Certamente noi non vorremmo condannare
quella pia moglie la quale, o per timidezza, o per tema di qualche
guajo, o per conservare la pace domestica, permette che il marito la
palpeggi, semprechè essa assicuri che questi contatti non la eccitano
libidinosamente od almeno la eccitano leggerissimamente.

I discorsi osceni fra marito e moglie non sono peccati mortali, a meno
che non inducano, nel grave pericolo della polluzione; locchè
d'altronde è ben raro. Perciò, i confessori devono non preoccuparsi
molto di tal cosa.

IV. _Sanchez, l. 9. disp 44, n. 15_ e molti citati da esso dicono che un
conjuge il quale, nell'assenza dell'altro, si tocchi o si guardi
libidinosamente, senza pericolo di polluzione, pecca soltanto
venialmente, imperocchè questi suoi atti sono atti secondari che tendono
ad un atto principale, in sè lecito, vale a dire l'accoppiamento carnale
che è il loro debito scopo, benchè ora non possano conseguirlo.

Essi sono pure d'avviso che si deve dire la stessa cosa, se questo
conjuge si figura d'essere in atto di compiere l'accoppiamento carnale e
si diletta voluttuosamente pensandovi.

Molti altri al contrario, più comunemente, per esempio, _Layman_,
_Diana_, _Sporer_, _Vasquez_, _S. Liguori_, ecc. non sospetti di
soverchia severità ritengono come probabile, che sono peccato mortale
questo genere di toccamenti, tanto perchè il conjuge non ha facoltà di
disporre del proprio corpo se non incidentalmente e in relazione
all'accoppiamento carnale, quanto perchè questo toccarsi provoca la
polluzione, e si connette poi ad un pericolo prossimo quando
soffermandovisi sopra col pensiero, si sovreccitano gli spiriti.

Devono sempre essere proibiti come mortali quando eccitano notevolmente
i sensi: se no, a noi sembrano soltanto peccati veniali.

Siccome il piacere dell'atto coniugale che si è compito o che si deve
compiere non ha che poca influenza per eccitare i sensi, noi pensiamo
che sovente non lo si debba imputare a peccato mortale. Il piacere di
una cosa lecita non può essere gravemente cattiva; ora, l'accoppiamento
carnale fra coniugi è lecito; dunque non vi è peccato mortale pensando
al piacere dell'accoppiamento compiuto o da compiersi o che s'immagina
di compiere. Perciò _S. Tomaso, «Del Male» 9, 12, art. 2 a 17_ dice:
«Siccome il congiungimento carnale non è peccato mortale fra sposi, così
l'acconsentire al pensiero voluttuoso di esso non può essere un peccato
più grave dell'acconsentire all'atto medesimo.» Vale a dire, se
l'esercitare l'atto coniugale per solo piacere è soltanto un peccato
veniale, egualmente sarà del pensare voluttuosamente ad esso. Non può
dunque essere peccato mortale se non in causa del pericolo che ne può
derivare, pericolo che si reputa presente se «il piacere s'accompagna,
non solo alla commozione degli spiriti, ma benanco al solletico e alla
voluttà della libidine,« come dice _S. Liguori, l, 6, n. 937_.

Questi sono i principali peccati coi quali si suole macchiare la santità
del matrimonio: Dio spesso li punisce, anco in questa vita,
coll'estinguere la famiglia, colla scostumatezza dei figli, colla morte
improvvisa, o con altre calamità. Molti errano quei coniugi i quali
credono che tutto a loro sia lecito nel matrimonio: perciò, con facilità
essi commettono innumerevoli peccati mortali, che poi non disvelano al
confessore, e che imputridiscono dentro di essi. A ragione
l'Augustissimo Delfino, padre di Luigi XVI, Luigi XVIII e Carlo X diceva
_che la castità coniugale era più difficile della perfetta continenza_.




                               CAPO III.

           _Norme dei confessori verso le persone coniugate._


I. I confessori devono avvertire i fidanzati,--prima del matrimonio,
s'intende,--degli obblighi cui vanno incontro, dicendo loro, per
esempio: Molti coniugi credono erroneamente che tutto sia ad essi
lecito; si comportano «come il cavallo e il mulo;» commettono molti
peccati; attirono sopra di se e loro famiglia gravi piaghe in questa
vita, e miseramente si perdono nella vita eterna: procurate dunque di
non comportarvi in questo modo, e non macchiate la santità del divino
Sacramento: sappiate che ai coniugi è solo lecito ciò che è necessario
per avere prole; ed ora non voglio dirvi di più; se qualche dubbio a voi
verrà, aprite l'animo vostro ad un confessore prudente.--

II. L'esperienza insegna che molti conjugi non confessano i peccati
commessi nell'uso del matrimonio, se non sono interrogati. Ora, il
confessore li può interrogare circa quelle cose che fra conjugi si
permettono:--Avete voi qualche cosa che vi morde la coscienza?--Se essi
dicono di nulla avere e sembrano abbastanza istrutti e timorati, non è
necessario lo insistere ulteriormente. Ma se essi sono rozzi o la loro
sincerità appare dubbia, il confessore deve insistere: chiederà ad essi
_se hanno mai negato il debito coniugale_: e se questa frase non fosse
da essi compresa, potrà dir loro: Vi siete mai rifiutati all'atto che si
fa per avere dei figli?--se rispondono d'aver rifiutato, bisogna
informarsi del motivo, e dopo questa informazione si giudicherà se v'ha
peccato o no; e se vi ha peccato, se sia mortale, o veniale.

III. Generalmente il confessore deve chiedere al penitense s'egli ha mai
fatto cose disoneste contro la santità del matrimonio: Se il penitente
confessa d'aver fatto qualche cosa, conviene far dire _da lui_ in che
consiste questa cosa, e così non s'incorre nel pericolo di insegnargli
alcunchè ch'egli ignora; ma non si deve repentinamente nè con leggerezza
incolparlo di peccato mortale.

Quanto abbiam fin qui detto su questo lubrico argomento, basta.

I parroci e i confessori devono proclamare la onestà e la santità dei
doveri coniugali; e dicano spesso col _B. Paolo_: «Che ciascuno di voi
sappia ch'egli possiede parti sensuali per scopo di santificazione e
d'onore, non per sfogo di passioni, come usano le genti che non
conoscono Dio.» Riflettendo a queste parole, gli sposi facilmente
comprenderanno in che possano aver peccato e come debbano astenersi dai
peccati, se vogliono compiere--giusta la dottrina
dell'Apostolo--castamente e santamente i doveri coniugali.

_Concina t. 21 p. 248_ dice: «I parroci apprenderanno maggior scienza
per istruire i coniugati, studiando la dottrina di _Paolo_, di quello
che ritenendo nella memoria tutte le dispute trattate da _Sanchez_,
_Diana_, _Gotius_, ed altri: Nulla ci sembra più vero di ciò: per la
qual cosa noi preghiamo i giovani confessori d'essere cauti gravi e
modesti nell'interrogare le persone coniugate, perchè facilmente possono
offenderle, e facilmente possono esporre se medesimi a gravi pericoli.



                                  FINE






                  Stampato dalla litografia f.a.r.a.p.
                     S. Giovanni in Persiceto (Bo)
                              Aprile 1974












End of the Project Gutenberg EBook of Venere ed Imene al tribunale della
penitenza: manuale dei confessori, by Jean Baptiste Bouvier

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